Fenice d'argento

di L0g1c1ta
(/viewuser.php?uid=458485)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** PrImO CaPiToLo ***
Capitolo 2: *** SeCoNdO cApItOlO ***
Capitolo 3: *** TeRzO cApItOlO ***
Capitolo 4: *** QuArTo CaPiToLo ***
Capitolo 5: *** QuInTo CaPiToLo ***
Capitolo 6: *** SeStO cApItOlO ***
Capitolo 7: *** SeTtImO cApItOlO ***
Capitolo 8: *** OtTaVo CaPiToLo ***
Capitolo 9: *** NoNo CaPiToLo ***
Capitolo 10: *** DeCiMo CaPiToLo ***
Capitolo 11: *** UnDiCeSiMo CaPiToLo ***
Capitolo 12: *** DoDiCeSiMo CaPiToLo ***
Capitolo 13: *** TrEdIcEsImO cApItOlO ***
Capitolo 14: *** QuAtToRdIcEsImO cApItOlO ***
Capitolo 15: *** QuInDiCeSiMo CaPiToLo ***
Capitolo 16: *** SeDiCeSiMo CaPiToLo ***
Capitolo 17: *** DiCiOtTeSiMo CaPiToLo ***
Capitolo 18: *** DiCiAsSeTtEsImO cApItOlO ***
Capitolo 19: *** DiCiAnNoVeSiMo CaPiToLo ***
Capitolo 20: *** VeNtEsImO cApItOlO ***
Capitolo 21: *** VeNtUnEsImO cApItOlO ***
Capitolo 22: *** EpIlOgO ***



Capitolo 1
*** PrImO CaPiToLo ***


Polonia si sente incredibilmente pigro e riposato. Come una di quelle mattine in cui non riesci assolutamente ad alzarti dal letto, anche se non hai più intenzione di dormire. Si sente sereno e calmo, non ha intenzione di aprire gli occhi. Non ricorda dove stia dormendo o come ci sia arrivato sotto quelle coperte calde. Sa solo che non ha intenzione nemmeno di saperlo o immaginarlo.

È in uno spazio fra sogni e realtà. Ma la prima viene frantumata da un suono e la seconda sta venendo a galla nella mente del biondo.

Un piccolo ed indispettito cip cip gli sussurra poco lontano dalla sua testa. Nonostante sia disturbato, Polonia non vuole ancora svegliarsi. Si muove un po’ tra le coperte ed ignora il suono. Ma questo sembra non voler cessare. Il cip cip continua a sibilare nelle orecchie del polacco, questa volta più vicino. Polonia sospira con irritazione, prende un lembo della coperta e la porta fin oltre la testa.

Sente uno zampettio leggero sulla trapunta, ad un palmo dalla sua testa. Il suono smette. L’esserino continua a saltellare vicino alla sua mano, con cui afferra il lembo della coperta. L’irritante, ma infantile, cip cip continua a suonare nelle orecchie di Polonia.

Sente un beccuccio picchiettare sulla sua mano, con insistenza e con altri cip cip. A Polonia comincia veramente ad irritare quel suono e quel beccuccio. Fa dei suoni incomprensibili e, con la mano, cerca di allontanare l’esserino che gli ha fatto visita. Non ci riesce, quel piccoletto non si fa nemmeno sfiorare dalla mano del polacco.

Allora Polonia apre gli occhi, assonnati e un po’ arrabbiati. Fa uno sbuffo d’impazienza che subito ritira, non appena vede il suo piccolo ospite. È un pulcino rosso scuro, grassoccio, con alcune piume nere e uno sguardo autorevole. Polonia smuove la coperta dalla sua testa, interessato da quel piccolino. Il pulcino continua a pigolare e a sbattere le alucce, come se tentasse di spiccare il volo, oppure di attirare la sua attenzione. Polonia, intenerito, mostra un sorriso e gli porge una mano.

“Uh… Czesc” l’uccellino, calmato per aver avuto attenzioni, fissa il palmo aperto, incuriosito. Infine, ci sfrega contro il beccuccio e lo picchietta un po’, giocandoci. Polonia sbuffa una piccola risata e riesce a sentire sulle dita le piume morbide dell’uccellino. Gli occhietti neri e lucidi sono interessati ai suoi, verdi.

Smuovendo un po’ le piume arruffate, il pulcino zampetta sulla coperta bianca, fino ad arrivare ad un palmo dal naso di Polonia. Il biondo deve incrociare gli occhi per guardarlo. Il pulcino strofina le piume sul suo naso, facendolo starnutire. Il piccolo fa un saltino all’indietro, spaventato, con un acuto cip di protesta. Polonia ride, divertito dalla sua reazione.

Il pulcino, però, non sembra intenzionato ad arrendersi e continua ad avvicinarsi ma, questa volta, ai capelli dorati. Le piume fanno un po’ di solletico all’orecchio di Polonia, mentre il piccolino afferra una ciocca col beccuccio. Non la tira, sente la sua compostezza col becco e la lascia andare. Continua la sua avanzata verso il folto dei capelli, accucciandosi fra l’orecchio e il collo. Polonia, volendo avere la fiducia del piccolo e non volendolo far scappare via con un movimento brusco, non si muove. Si rende conto dopo un po’ di tempo che il pulcino si sia addormentato lì e, quindi, lo lascia nel suo nido fatto dei suoi capelli. Si addormenta subito dopo, troppo stanco.

Il pulcino lo sveglia molte volte e pretende sempre di avere la sua attenzione, ottenendola sempre. Polonia non sa se è giorno o notte, o se il pulcino lo sveglia durante il giorno o in un’ora particolare. Sa solo che per lui non è un dispiacere questo nuovo amico, anche se desidera tante attenzioni. Polonia conta venti volte in cui il pulcino lo sveglia e pensa che sia diventato molto più fiducioso nella sua presenza. Il piccolino non si spaventa se lo accarezza. Se fa un fischio, il pulcino alza la testa e zampetta verso la sua bocca, la picchietta e ci sfrega le piume.

“Sai, credo che dovrei darti un nome” dice la ventunesima volta in cui il piccoletto lo sveglia. Il pulcino lo fissa per qualche secondo, strabuzza le piume, le scompiglia e ritorna a concentrarsi sui suoi capelli. Sembrano piacergli tanto, nota Polonia. Vuole un nome non troppo usato, non stupido o imbarazzante, ma nemmeno semplice o fraintendibile. Di sicuro Liet lo avrebbe aiutato meglio di come stia cercando di fare lui stesso. Ci aveva già pensato su alla settima ridestata. Ci aveva riflettuto e pensa che un nome con la T, lettera a suo parere molto seria e pronunciata, sia perfetta per il pulcino. Pensa anche a Liet e al suo paese. Ricorda che un giorno avevano parlato dei tanti nomi comuni dei loro paesi e uno in particolare gli era piaciuto molto, sebbene molto posato.

“Credo che Toris ti starebbe benissimo” afferma dolcemente, vedendo il piccolino in cerca di protezione sotto i suoi capelli. Polonia abbozza un sorriso.

“Buonanotte, Toris” e si addormenta.

Viene svegliato di nuovo da Toris, il quale, questa volta, diventa molto più capriccioso. Polonia apre gli occhi e nota che il piccolo sta afferrando col beccuccio una sua ciocca e la strattona con urgenza. Polonia si sveglia del tutto, richiamato pressantemente da Toris con tanti cip cip. Il biondo nota che il pulcino è molto lontano da lui, quasi non lo vede oltre la coperta, ma sente chiaramente il richiamo molto urgente. Polonia, un po’ intontito, si spaventa. Che stia chiedendo aiuto?

“Aspetta, piccolo!” esclama, diventato più allarmato per i cinguettii di protesta. Con fatica si rimette in piedi, sentendo con le ginocchia la coperta molto dura. Si alza e cammina a fatica verso Toris. Non è in pericolo e nemmeno sta chiedendo aiuto. Si trova semplicemente fuori dalla coperta e sbatte le alucce, come se tentasse di raggiungere l’altezza del polacco, inutilmente. Polonia gli porge le mani a coppa e Toris saltella dentro i palmi aperti. Il biondo lo porta alla sua altezza.

“Ah, stai bene. Credevo che fossi, tipo, in pericolo” ride divertito. Il pulcino non lo è affatto e protesta sbattendo le alucce e pigolando offeso. Polonia smette di ridere e si osserva, per la prima volta, attorno. Rimane perplesso. Non vede altro che giallo antico, quasi marrone. Ai suoi piedi, vede ciò che dovrebbe essere la Germania. Legge chiaramente Berlino sotto i suoi piedi. Si guarda ancora attorno e nota altre Nazioni, città, luoghi geografici europei. Ha i piedi sopra una gigantesca cartina.

Si volta per vedere dove aveva dormito per tutto quel tempo. Non è nemmeno un letto: solo un grande lenzuolo dove si è aggrovigliato. Rimane deluso da questa scoperta. Toris pigola e richiama la sua attenzione. Il pulcino, avendo gli occhi su di lui, sfrega il beccuccio contro il suo petto e si sfila una piccola piuma nera. Questa prende fuoco, impressionando il polacco e svanisce. Polonia nota il paesaggio attorno a lui modificare drasticamente. Lentamente, vede il bianco attorno a lui prendere delle forme di palazzi, come se fossero fatti di carta, per poi colorarsi e mostrarsi come delle vere costruzioni.

Toris attira ancora la sua attenzione saltellando nei suoi palmi e cinguettando. Il pulcino si volta di fronte a loro e continua a fissare il paesaggio, mostrando le piume della schiena a Polonia. Il biondo segue lo sguardo del pulcino e nota delle figure poco lontane. Il polacco si avvicina, interessato, fino ad avere di fronte agli occhi la grande schiena di Russia. Sa che è lui. Lo riconosce dall’uniforme da generale sovietico, dalla sciarpa e dalle grandi mani sporche di sangue, che tenta inutilmente di nascondere. Gli è famigliare quel sangue. Il russo sospira, con un sorriso sulle labbra nascoste dalla sciarpa.

“Sono mortificato per quest’incidente, ammetto che non era nemmeno nei miei piani” Prussia, disprezzando il gigante, sbuffa.

“Ti sei anche scusato a sufficienza, russo. Ti concediamo la metà del territorio, ma che non riaccada più, se deve riaccadere di nuovo” dice, sprezzante. Germania affianco a lui sospira, sperando un miglioramento nell’atteggiamento del fratello. Polonia lancia uno sguardo a Toris, accucciato tra le sue mani. Non capisce cosa stia guardando. Russia si abbassa la sciarpa e mostra le labbra sottili.

“Ovviamente no, certo che no: è stato solo un incidente. Piuttosto, mi farebbe piacere sapere che fine farà il corpo” Polonia trattiene il respiro. Germania si massaggia le palpebre, non volendo toccare un argomento così spinoso.

“Non lo abbiamo ancora deciso” Prussia annuisce affianco a lui.

“Potremo anche lasciarlo lì. Tanto i territori non muoiono insieme a lui” viene subito dopo fulminato da Germania, offeso per le sue parole ironiche. Russia ignora il prussiano.

“Se non vi dispiace, preferirei portarlo io con me” i due aggrottano la fronte, perplessi.

“Fino a Mosca?” Russia annuisce. Prussia sbuffa una risata.

“E che ci farai con lui?” il russo allarga il sorriso.

“Questo non dovrebbe interessarti, Prussia” risponde prontamente, con una luce malsana negli occhi violacei. Germania deglutisce, abbastanza intimorito.

“Beh, io non ho niente in contrario. West?”

“Nemmeno io. Spero che lo tratterrai con riguardo” Russia si aggiusta il berretto, bianco come la sua uniforme, sulla testa.

“Ovviamente. Le mie scuse, dovrei partire fra pochi minuti” i due fratelli, non avendo altro da aggiungere, si congedano con un saluto e spariscono. Russia si avvia a camminare per una direzione ignota. Polonia, preso alla sprovvista per questo cambio di programma, inizia a rincorrerlo. Russia, svoltando per le vie di Berlino, si ferma di fronte ad una macchina nera coi vetri anch’essi scuri.

Il russo sta per aprire il portello principale, ma esita un secondo. Apre, invece, un secondo portello e resta ad ammirare il suo piccolo passeggero sdraiato di schiena sui sedili di pelle. Polonia non mostra alcun sentimento alla vista del suo corpo imbrattato di sangue e terra. Non fiata quando Russia prende il posto del conducente e guida la sua vettura lontano da lui e da Toris. Il pulcino si volta verso il polacco, strabuzzando gli occhietti lucidi.

“Ah, mi hai portato qui per farmi vedere che sono morto?” il pulcino sembra comprendere e fissa Polonia come per cercare di immaginare il suo stato d’animo. Il polacco sorride triste.

“Questo già lo sapevo, Toris” il pulcino non sembra per niente sorpreso di queste parole. Il paesaggio attorno a loro ritorna al suo aspetto cartaceo e svanisce del tutto in mezzo al bianco. I piedi di Polonia toccano la città di Berlino. Sono ritornati indietro, alla cartina giallo antico. Il polacco guarda il pulcino, triste.

“Cosa facciamo ora?” Toris zampetta sulle sue mani. Le sue zampette artigliate pigiano sui suoi palmi, come per prendere la rincorsa e cade giù. Con le alucce prova a volare o a fluttuare per non farsi male, non riuscendoci. Cade col pancino all’ingiù. Polonia, un po’ preoccupato, si china per soccorrerlo. Il pulcino pigola per protestare e si rimette sulle sue zampette. Scroscia le piume e saltella verso una nuova meta.

Polonia lo segue. Superano la Germania, il suo giaciglio che prende il posto della Polonia, i Paesi Baltici e toccano le terre russe. Il pulcino si ferma esattamente sopra Mosca: un gigantesco puntino che il pulcino riesce a coprire quasi completamente con il suo corpicino grassottello. Polonia, inespressivo ma triste, lo segue. Il pulcino afferra un’altra piuma, rossa, molto più grande della precedente, da sotto la sua ala e questa prende fuoco. Polonia chiude gli occhi e attende il suo prossimo viaggio.

 

 

 

 

 

 

“15 settembre 1939, cade la resistenza polacca. Le armate tedesche hanno già penetrato la linea di Vistola fino a iniziare i primi bombardamenti sulla città di Varsavia. La scorsa settimana sono state aperte le strade con i carri armati dell’esercito tedesco. Si contano trecentoventotto tonnellate di esplosivi già sganciati dalla flotta aerea della Luftwaffe. Il popolo polacco è ora sepolto…” il resto non riuscì più a leggere: Lituania cadde in ginocchio, pelle e occhi bianchi. Lo sforzo per rimanere in piedi era nullo: il corpo non riuscì a contenere tutte quelle sensazioni.

Lettonia ed Estonia lo obbligarono a restare a letto fino a quando Russia non fosse ritornato con le novità. Lituania soffriva, si dimenava e protestava. I due fratelli lo chiusero a chiave, fino a quando non riuscì ad avere un po’ di calma in cuore.

Aspettò il ritorno di Russia col cuore in gola e le braccia tremanti. Non volle vedere la luce del sole, troppo impegnato a sperare che non lo avessero ucciso. L’ansia era traboccata dal suo cuore, non riusciva a fermare le braccia e le gambe tremanti dai brividi di angoscia. Si sentì male, anche il suo corpo traboccava di terrore. Voleva che stesse bene, che non gli fosse accaduto nulla di orribile, che non fosse morto.

Guardava il soffitto della sua stanza con occhi lucidi. Piangeva ogni ora. Le mani congiunte e instabili erano rivolte al cielo, in segno di preghiera. Non era mai stato molto religioso, ma non riuscì a fare nient’altro di utile. Si mise in ginocchio di fronte al suo letto. Le labbra scosse che baciavano le mani giunte, come per riuscire a confortarsi. Pregò. Pregò per Polonia. Implorò chiunque dal cielo in modo da poterlo salvare dal mostro di Germania e Russia. Non migliorò il suo stato d’animo, ma, per la fatica con cui il cuore pulsava, si addormentò.

Sognò loro due, com’erano un tempo: liberi. Sognò la partita a scacchi, il giorno in cui si erano seduti sul prato della reggia di Varsavia a raccontarsi storie. Sognò le varie volte in cui lo stuzzicava vestendosi da ragazza, i loro soprannomi, Liet e Polska. Sognò le varie guerre combattute insieme. Sognò la guerra perduta, il suo paese in mano a Russia e i suoi sogni fasulli.

Una mattina scura si svegliò: Russia era tornato. Estonia e Lettonia, obbligati da loro stessi, lo salutarono all’ingresso, con falsi sorrisi. Lituania dimenticò gli obblighi. Chiese in fretta ciò che era accaduto. Dov’è Polonia?, chiese. Russia fece schiudere un sorriso. Polonia è venuto a trovarci, resterà qui, con noi, per sempre, rispose, gentilmente, guardando e gustando il sorriso rassicurato di Lituania.

Il suo cuore iniziò a sbattere violentemente contro il petto, come un uccellino in cerca di libertà dalla sua piccola gabbia, non appena Russia lo accompagnò di fronte alla macchina da dove poco prima era uscito. Indicò, con un sorriso, l’ultimo sportello. A Lituania si abbozzò un sorriso quando, attraverso il vetro scuro, intravide la sagoma distesa sulla schiena di Polonia. Il cuore di Lituania, quando Russia aprì lo sportello, cadde sullo stomaco.

I capelli di Polonia erano ramati dal sangue e dalla terra, così come la sua uniforme strappata e la mantella lacerata. La pelle, salva dal rosso, era bianca come la pancia di un pesce. Gli occhi fissavano il tettuccio dell’automobile, spalancati, di un verde divenuto paludoso e spoglio. I due Baltici vedendo il polacco, si tapparono la bocca, sentendo l’odore insopportabile di ferro. Lituania non tentò nemmeno di voltarsi per chiedere spiegazioni a Russia, non vi era alcun bisogno.

Gli tremavano le pupille e il cuore tentava in tutti i modi di stracciare la pelle del petto. Russia, dietro di lui, fece avvicinare le labbra al suo orecchio. Sai, somiglia molto alla sua bandiera: bianca e rossa. Certo che gli stanno molto bene questi due colori!, gli sussurrò. Le sue dita grandi e forti sfiorarono le palpebre di Polska e le abbassarono con forza, come se avesse voluto strappargliele lentamente.

Lituania a malapena udì gli ordini dolci di Russia ad Estonia e Lettonia sullo spostare il cadavere dalla macchina, che ricadde in ginocchio dopo giorni di terrori, lacrime e preghiere e iniziò a gemere; fino a quando i due Baltici portarono via quel che rimaneva di Polonia e da lì in poi iniziò a piangere, odiando Russia quando, indifferente al suo dolore, gli ordinò di pulire l’interno della macchina.

Polonia fantasma, seduto sul sedile dov’era il suo corpo, strabuzzò gli occhi, incredulo, di fronte al pianto del suo amico. Toris, seduto sulla sua spalla, pigolò, strappò un’altra piuma dal suo petto e questa prese fuoco. Sparirono entrambi.

Passarono diversi giorni, ma Lituania non cessava di piangere e gemere per la perdita dell’amico. Estonia e Lettonia non poterono far altro che sostituirlo per due giorni nelle sue faccende, mentre passava le giornate a spezzarsi le ossa contro il muro e le notti a sognare gli occhi scavati nel sangue di Polska.

 

 

 

 

 

Così passò quasi una settimana e i due Baltici, stanchi e tormentati dalla visione del fratello sofferente, lo obbligarono a ritornare in camicia e cravatta e a continuare a servire Russia.

Ha appena finito di vestirsi. Lettonia ed Estonia, con sguardi nascosti, lo invitano ad uscire fuori dalla sua prigione. Uscito, con le spalle curve, ricorda i suoi compiti. Li svolge, il più efficientemente possibile, come fa ogni giorno: lavare i panni di tutti i componenti della casa, stenderli, stirarli e poggiarli nelle rispettive camere in quella casa gigantesca.

Mentre poggia i suoi panni e quelli dei fratelli nei cassetti, Estonia gli chiede di aiutarlo a pulire il pavimento della hall, visto che da solo non ci sarebbe riuscito prima di cena. Lituania, sospirando stancamente, prende la seconda scopa e comincia a spazzare il pavimento bianco e oro. Estonia gli lancia delle occhiate preoccupate, ma non apre mai bocca. L’unica volta in cui parla, Estonia lo ringraziò per l’aiuto e si eclissò verso le altre camere. Lituania non fa caso ai suoi occhi preoccupati e si dirige verso la sua stanza che condivide con i due fratelli. Si addormenta quasi subito.

Non ebbe il tempo di sognare nulla di concreto, che Lettonia lo sveglia, incredulo ed ansimante, chiedendogli perché non è andato subito a cenare.

Lituania, pallido, gli risponde che non ha fame e ritorna a dormire. Lettonia corre verso la stanza da pranzo e si siede di fronte ad Estonia, all’estremità inversa della tavola, lontano dai tre veri padroni di casa. Russia, non vedendo Lituania, chiede al ragazzino dove sia il fratello. Lettonia, sbigottito per la sorpresa, risponde. Bielorussia ed Ucraina ignorano la risposta e continuano a mangiare.

Russia inclina leggermente la testa, perplesso. Ma poi ricorda il perché del comportamento di Lituania, avendolo dimenticato. Continua a mangiare, non pensandoci più.

 

 

 

 

Passa un altro giorno, Lituania non sente la fame e non sogna nulla, solo un vuoto scroscio di vento autunnale sulle sue orecchie.

Si alza dal letto, più sciupato del giorno prima e senza lacrime. Si veste goffamente, qualche ora, prima che i fratelli si sveglino alla solita ora. Ignora il sole mentre sorge e pensa di iniziare a lavorare anche a quell’ora. Tanto non sarebbe stato in grado di riaddormentarsi.

Finito di vestirsi, esce fuori dalla stanza e si reca nella cucina vuota. La malinconia di quel silenzio è assillante. Dalla cantina prende le pietanze e inizia a cucinare. Si rende conto che la sua mano è molto più lenta a tagliare il pane e a girare il mestolo. Beh, almeno mi sono svegliato presto oggi: non sarà un problema la mia lentezza, pensa tristemente. Non ha idea di quanto tempo abbia impiegato per cucinare, ma di sicuro fu più del doppio di quanto impiegasse nei giorni addietro.

Usa come orologio il sole: se quando si era svegliato stava sorgendo, ora invece è abbastanza alto. Deve aver impiegato delle ore. Osserva con così tanta foga il paesaggio spento fuori che finisce per osservarsi dal vetro della finestra. I suoi capelli sono scompigliati, la pelle pallida e gli occhi sono spenti e tristi. Cerca un elastico nella giacca e si lega i capelli, come faceva un tempo, ricordandosi di non essersi pettinato quella mattina.

La casa è ancora silenziosa e senza vita.

Prende la colazione e la posiziona nei rispettivi posti a sedere: a capo tavola per Russia, alla destra Bielorussia e a sinistra Ucraina. Dall’altra parte della lunga tavola, lontano dai tre fratelli sovietici vi erano i Baltici: a destra Estonia, a sinistra Lettonia e lui a capo tavola, sacrificato, con gli occhi di Russia di fronte a lui.

A lavoro finito, fissa la stanza senza darne troppa attenzione. Vuole pensare a qualsiasi cosa, bella o brutta che sia, ma che non sia Polska o i suoi occhi sbarrati buttati negli ultimi posti dell’automobile nera. Purtroppo, non ci riesce.

Polonia, nonostante tutto, nonostante sia stato un po’ egoista, nonostante sia stato testardo, nonostante sia stato eccentrico e anche un po’ menefreghista, si rendeva conto solo in pochi momenti, come quello, che sia stato il suo migliore amico.

Non era poi così tanto egoista, in realtà. Nel periodo durante il quale si trovava nella corte di Varsavia, aveva spesso sentito dire che Polska fosse un ragazzo molto solo e per questo motivo era individualista ed egocentrico, con chiunque, indipendentemente. Erano parole vere. Polska era egoista, ma aveva abbandonato la sua natura man a mano che si cominciavano a frequentare. Nei mesi e mesi trascorsi con lui, stava cambiando.

Era diventato molto più aperto, ma solo con lui, il suo unico amico. Era diventato eccentrico, ma perché lo era sempre stato. Faceva qualsiasi cosa al contrario, vedeva le cose diversamente da come le vedeva lui e chiunque altro che non fosse Polska. Ma per questo trovava il tutto molto più emozionante ed interessante. Aveva sempre avuto questa natura, ma l’aveva nascosta a chiunque in quella corte, tranne che a lui.

Era testardo come un branco di muli. Anche se stava facendo una cosa totalmente sbagliata, continuava a farla, fino alla fine, con fedeltà. Non era un codardo. Un giorno, nei suoi rari momenti di serietà, gli disse:“I polacchi non sventolano bandierine bianche come, tipo, un branco di italiani. Preferirei morire in battaglia, piuttosto che sottomettermi a qualcuno che non sia me stesso”. Gli aveva sorriso e lanciato uno sguardo carico di fierezza.

Era qualsiasi cosa, Polska. Ma non era cattivo o fastidioso.

Si rende conto di aver pensato soltanto a cose negative su Polonia. Sospira, vergognandosi un po’ di quel che aveva pensato del suo vecchio amico.

“Ah, Lituania, finalmente ti vedo in forma!” esclama dietro di sé Russia, ad occhi chiusi e con un sorriso. Lituania esita un po’, prima di voltarsi. Russia ha detto di averlo trovato in forma, ma, ora che l’osserva molto più attentamente, quasi cambia idea. Ma tiene ancora per sé il sorriso. Lituania non lo ricambia.

“Allora, ti sei ripreso?” chiede, assottigliando le palpebre, senza smettere di ridere a fior di labbra. Lituania non impiega molto a comprendere il messaggio celato di Russia. Non apre bocca, semplicemente annuisce. A Russia non interessano i veri pensieri del prossimo. Vuole solo ascoltare ciò che desidera sentire. Ma, questa volta, non rimane indifferente.

“Mi scusi, signor Russia, potrei andare a fare le mie faccende?” chiede il lituano, senza alcun tono di voce. Russia abbassa le palpebre, ancor più perplesso.

“Certo” risponde, ma si rende conto del piatto pieno di Lituania a fondo tavola “Non vuoi prima fare colazione?”

“No, non ho fame” risponde e, prima che Russia possa aggiungere qualcosa, esce dalla stanza. Anche solo la presenza del russo gli ha fatto stridere lo stomaco.

L’idea di dover mangiare alla stessa tavola con quel gigante, lo disgusta.

Pensa di prendere gli arnesi per pulire i corridoi. Ha l’impressione che le stanze siano molto più piccole di come ricordava. Ignora la sensazione insolita e continua la sua camminata, imperterrito.

A metà corridoio vede un tavolino con un telefono nero poggiato sopra. Si ferma un attimo, esitando. Guarda l’orologio a pendolo di fronte al tavolino: le nove e dieci. Polska dev’essere già sveglio, pensa, Forse potrei chiamarlo. Si avvicina all’oggetto e prende la cornetta. Inizia a digitare i primi tre numeri girando la levetta.

Dopo qualche secondo di esitazione, si rende conto di quel che sta facendo. Lancia la cornetta, come se si fosse reso conto di avere per le mani una creatura disgustosa. Quella dondola velocemente sotto al tavolo, al ritmo del pendolo di fronte ad esso. Lituania fissa l’oscillare della cornetta. In un attimo realizza pienamente ciò che stava tentando di fare.

Ride, rendendosi conto di quanto fosse stato stupido.

Piange, rendendosi conto di quanto ciò sia triste.

Il dondolio smette. Lituania continua a ridere. Le lacrime scorrono sulle sue guance, gli pizzicano il mento e scendono per la gola.

Estonia e Lettonia passano di fianco a lui. Lo vedono piangere e ridere, ma a Lituania non importa di loro, pensa ancora a quanto fosse stato stupido a voler telefonare un morto. Lettonia vorrebbe avvicinarsi per chiedergli se stia bene. Estonia lo ferma, lo prende per le spalle e lo trascina fino alla fine del corridoio, come se volesse scappare dalla sua tristezza.

Lituania per tutto il giorno non fa altro che pensare all’accaduto, piangendo e ridendo, anche durante i suoi compiti.

Ma quando il lituano, quella sera, immerge la testa nel cuscino, le risate svaniscono. Solo lacrime salate e ricordi di Polska.

Dopo la sua separazione dal polacco, quasi tutti i giorni si telefonavano e, se non era possibile, usavano la posta. Polonia non aveva problemi: poteva chiamarlo anche a notte fonda, a Prussia e ad Austria le loro telefonate non interessavano. Lui era circondato da muri con occhi ed orecchie. Russia era geloso della loro amicizia.

Il russo voleva una famiglia unita, nell’Unione Sovietica. Voleva che il centro di tutta la casa, il fulcro di ogni cosa, il capofamiglia, fosse lui. Lui solo. Russia non sopportava il fatto che Lituania avesse qualcun altro con cui parlare che non fosse parte della sua famiglia. Prendeva le lettere e le bruciava, di fronte a Lituania. Mentre parlavano al telefono, sentiva le loro conversazioni dietro ad un muro, come un assassino in attesa di un passo falso della sua vittima. In parte soffriva: significava che Lituania non lo ritenesse degno di un buon capofamiglia. Lo faceva soffrire la loro amicizia. Quindi spegneva la corrente, ma quando la riaccendeva vedeva di nuovo il moro parlare col polacco. Questa cosa lo faceva star male.

Quando Prussia venne a casa sua per chiedergli di poter invadere e distruggere la Polonia, prese la palla al balzo. Voleva la distruzione di Polonia, con tutto il suo cuore. La sua morte sarebbe stata liberatoria per chiunque in quella casa. Bisognava solo aspettare che Lituania avesse potuto accettarla e, così, farlo indirizzare sulla retta via.

Semplice.

Bisognava solo aspettare.

Ma Lituania, quella notte, non dimenticò.

 

 

 

 

 

 

“Liet…! Liet! Hey, ti svegli o no?!”

Il lituano aprì le palpebre, trovando sopra la sua pancia e a mezzo centimetro dal naso un polacco imbronciato. Molto imbronciato.

“Cioè, ti avevo detto di restare tipo sveglio stanotte. Potresti almeno farmi un favore!” continuò a lagnarsi, iniziando ad allontanarsi, giusto un pochettino, dalla faccia dell’amico. Il lituano cominciò a svegliarsi, sfregandosi le dita sulle palpebre. Il polacco era ancora a braccia conserte.

“Ma… ma che dici, Polska?” quello sbuffò ancora.

“Questa sera, tipo, ti avevo detto di restare sveglio fino a quando le guardie non se ne sarebbero andate. Così, per uscire fuori, tipo!” esclamò, a voce bassa, per non far svegliare qualcuno. Dopo qualche secondo per rifletterci su, ricordò che quella sera, durante la cena, Polska gli aveva detto qualcosa riguardo ad una cosa totalmente sensazionale che doveva, tipo, vedere anche lui.

“Ah… ma dicevi veramente?” chiese, sbadigliando. Polska, in risposta, buttò le braccia all’indietro e si abbandonò sulla schiena. I capelli biondo grano caddero all’indietro, fuori dal letto.

“Cioè, tu non mi ascolti mai. Ma non fa niente, tipo, non devi perdertelo!” detto questo, cadde all’indietro, giù dal letto e corse verso l’armadio. Dopo qualche secondo di attesa e di borbottii “Tipo, prima i pantaloni erano qui…” uscì fuori con i suoi indumenti di tutti i giorni: pantaloni alla spagnola rossi, maglia di cotone a maniche lunghe e larghe bianca decorata al petto con delle rose rosse e un fiocco del medesimo colore, infine degli stivali lunghi da caccia. Era un vestiario molto patriottico, niente da dire. Liet, se avesse dovuto ricordare Polska in un modo particolare, lo avrebbe fatto con quei vestiti addosso.

Lituania continuò a sbadigliare. Mentre il polacco si metteva gli stivali, lanciò un’occhiata tra l’incredulo e l’irritato verso l’amico, ancora addormentato.

“Liiiiiiiet!” si lamentò, sempre a bassa voce. Il lituano lo guardò storto.

“Polska, no, voglio dormire, sono già nel letto” disse, infagottandosi nelle coperte. Non udì nulla come risposta, sentì solo uno scalpitare di stivali e un braccio che lo strattonò fuori dal letto, senza le coperte. Polska ghignò, soddisfatto.

“Bene, ora sei fuori dal letto. Tipo, vestiti! Subito!” mentre Lituania si rimetteva in piedi, più assonnato che mai, Polska si era di nuovo gettato alla ricerca dei vestiti nel gigantesco armadio di quercia. Un secondo dopo, Polonia ritornò nel mondo degli assonnati lituani e lanciò sul letto che condividevano, di fianco a Liet, dei vestiti: pantaloni di pelle, stivali da caccia come quelli dell’amico, giacca celeste con dei ricami blu e un gilet scuro. Lituania aveva poca voglia di fare qualsiasi cosa, ma Polonia non era dello stesso avviso.

“Che c’è? Vuoi, tipo, che ti vesta io, come una cameriera?” chiese scherzoso. Liet decise di accontentarlo: Polska era testardo peggio di una mandria di muli. Si vestì con lo sguardo impaziente di Polonia addosso. Non ebbe nemmeno finito di sistemarsi, che il polacco lo afferrò per il polso e lo strattonò fuori dalla stanza, occhieggiando in cerca di passaggi senza guardie.

“Ma… ma dove stiamo andando?” chiese, sussurrando, mentre Polska si comportava alla pari di una spia in missione in territorio nemico. Lui gli ammiccò, sorridente.

“Mica te lo dico! È, tipo, una sorpresa!”

Ci volle più tempo del previsto per uscire fuori dal castello, pieno fino a scoppiare di guardie. Gli chiese, durante il tragitto, perché facesse tanto il sospettoso: era lui il padrone del castello, mica un assassino in fuga! Polonia rispose che la regina non ammetteva delle uscite di notte per colpa delle foreste piene di lupi, diceva lei. Ma era tutto falso, soggiunse il polacco. Lituania, nonostante ciò, tremava di paura. Infatti, arrivati di fronte alla foresta, Liet perse coraggio.

“Dai, ci sono tipo io, non ti faccio mangiare da nessuno, giuro!” gli ci volle poco per acconsentire e di riprendere per mano l’amico. Polska era la Polonia, era quella foresta, non lo avrebbe lasciato solo. Si fidava di lui.

Continuarono il tragitto. Il polacco andava sempre in quelle foreste che per il lituano erano degli specchi l’uno uguale all’altro. Erano grandi e possenti, sperdute nel verde e piene di rami e foglie, tanto da non poter vedere il cielo. Una volta Polonia lo aveva convinto ad andarci. Avevano passato tutta la giornata a perdersi in quel labirinto verde, mangiando mirtilli. A Polska era venuta la lingua e le labbra blu, tante ne aveva mangiate. Si erano divertiti.

Ora quella foresta sembrava un luogo stregato, senza luce né vita. Non credeva nelle streghe o nei folletti malvagi, ma aveva paura dei lupi: la storia della regina lo aveva preso tanto. Polska era veloce come un cerbiatto che saltellava da un ramo ad una roccia. Sembrava conoscere la strada a memoria. Questa cosa lo rese perplesso.

“Ma come fai a conoscere la strada? Non ci vedo niente, io” infatti inciampò un’altra volta in una pianta, ma non cadde a terra. Polonia, imperterrito, continuò la sua camminata saltellante e con le braccia all’infuori come un uccellino che tenta di spiccare il volo.

“Non hai mai avuto, tipo, la sensazione di conoscere il tuo paese palmo per palmo e di conoscerne gli odori e i profumi, nonostante tu non li abbia mai sentiti? Non hai mai visto, tipo, una tua foresta o un tuo ruscello per la prima volta, ma dirti ‘Hey, ma qui ci sono già stato!’?” Liet scosse la testa, pensando soltanto che aveva sonno e anche un po’ di freddo.

“Non credo che esista una cosa del genere, Polska” disse, abbozzando un sorriso, rendendosi conto della serietà del ragazzo soltanto dopo un po’. Da questo punto di vista non sapeva mai cosa pensava Polonia. Poteva per un secondo essere scherzoso, e poi serio, in un lampo. Il polacco saltò su una pietra. A malapena riusciva a riconoscere la schiena di Polska, figuriamoci il resto di quel labirinto di alberi.

“Secondo me è possibile. Te lo voglio dire: in questa foresta ci sono andato, tipo, quattro volte in vita mia” qui Liet sussultò “Ma sento di andare nella direzione giusta. È difficile da spiegare, ma è come, tipo, se la foresta mi dica dove andare e lo dica solo a me perché questi alberi sono parte di me, della mia nazione, del mio cuore. Per questo la foresta mi dice dove andare: ogni cosa qui fa parte di me, io faccio parte di lei e così, tipo… Ah, eccoci!” detto questo il polacco si lanciò in una corsa di fronte a sé.

Lituania ebbe un colpo, ma inseguì di corsa l’amico. Non voleva perdersi. Inciampò in un ramo e cadde a terra, sopra a del muschio. Ritornato in piedi, aveva perso di vista Polska. Ebbe un attacco di panico e iniziò una corsa contro il vento.

“Polska!” urlò.

“Liet, di qua!” rispose di fronte a sé l’amico. Continuò a correre, forte, col cuore nella gola e il panico nello stomaco.

“Polska, dove sei!?” si fermò, col l’ansia nelle orecchie.

“Di qua, Liet!” lo invitò una figura alla sua destra, sopra ad un grosso ceppo. Riconobbe dei pantaloni rossi. Rincorse la figura, fino alla cima di una collina. Il cuore continuò a pompare il panico, finché trovò il polacco, ansimante e con lo sguardo spensierato. Con un ultimo sforzo, appoggiò una mano sulla sua spalla sinistra. Aveva il fiato corto.

“Sei impazzito!? Mi hai…” un colpo di tosse “…fatto venire un infarto!” continuò a respirare affannosamente. Polska si voltò lentamente, ancora con sguardo estasiato. Senza avvertimenti lanciò un urlo da battaglia e si buttò addosso al lituano, facendolo cadere a terra, provando ad immobilizzarlo, ridendo come un pazzo.

“Ma che fai!? Sei…?!” s’interruppe udendo in lontananza un ululato sinistro ed inequivocabile. Non voleva fare il fifone, ma non voleva nemmeno morire per colpa dei lupi. Cercò di alzarsi, ma Polska glielo impedì.

“Tranquillo, è, tipo, il loro segnale. Fra poco ci siamo” Liet aveva gli occhi fuori dalle orbite.

“Ma non voglio morire!” piagnucolò.

“No! Non ci faranno del male: dicono agli altri del loro branco di non avvicinarsi alla nostra collina. Hanno, tipo, troppa paura” alle orecchie del moro, quello sembrava una presa in giro.

“St-stai scherzando…?” no, Polska era serissimo, anzi, si adagiò meglio sull’erba scura e piena di rugiada, fissando il cielo, in attesa. Quell’attesa era durata anche troppo per il lituano.

“Polska, ti prego, torniamo al castello, andiamo a dormire…” il polacco voltò la faccia corrucciata, offeso.

“Fra poco, tipo, inizia tutto!” dice, estasiato, chiudendo le palpebre.

Trzy… dwa… jeden!” il biondo, all’ultimo spalancò le iridi.

Come se gli fosse dato un vero segnale, dal cielo sfrecciò una scintilla bianca. Liet ebbe uno spasmo improvviso del corpo. Polska alzò lentamente le braccia e fece schioccare le dita. Altre due scintille bianche illuminarono il cielo. Lituania, disteso vicino all’amico, lo vide, per ultimo, tenere steso in aria un pugno e poi aprirlo di scatto. Una gigantesca esplosione di luci bianche illuminò gli occhi azzurri del lituano. Sembrava una battaglia: diverse scintille combattevano le une contro le altre, da destra verso sinistra, scontrandosi, toccandosi, picchiandosi fra loro. Il bianco illuminava il cielo, la foresta silenziosa sotto di loro, gli occhi increduli di Lituania e gli entusiasmati di Polonia.

La battaglia nei cieli susseguì imperterrita di loro, piccole nazioni. Le scintille creavano turbini come delle piccole navi incastrate in bizzarri mulinelli. Altre luci s’incastrarono nei vortici e s’impigliarono fra loro. Continuavano le loro acrobazie tra di loro, scontrandosi ed esplodendo al contatto coi loro fratelli.

Durante la battaglia, Liet si voltò meravigliato verso un Polska molto felice.

“S-sei un mago!” l’amico, in risposta, rise di cuore.

“No, solo ascolto bene: tipo, anche questo cielo è della mia nazione, è polacco, fa parte di me. Anche il cielo mi ha detto che ci sarebbe stato questo spettacolo. È stato, tipo, simpatico a suggerirmi di portarti qui” per un attimo Lituania ci credette, guardando i lampi bianchi tra i mulinelli d’aria.

“Vorrei… vorrei saperlo fare anch’io. Sarebbe fantastico riuscire ad ascoltare i boschi di casa mia” disse fra sé e sé, ma Polska, ovviamente, lo ascoltò.

“Hey questo non è niente per il mio migliore amico!” a Lituania si fermò il cuore. Si voltò di nuovo verso il polacco. Le luci bianche gli accarezzavano i capelli color grano e la pelle bianca.

“M-migliore amico…?”

“Certo! A te, tipo, sta bene?” chiese, sorridendo. Lituania, ancora meravigliato dallo spettacolo e dalla dichiarazione, annuì, più e più volte.

Passarono la notte a guardare la battaglia di luci. La mattina dopo, molto tardi, vennero ritrovati dalle guardie della regina, dormienti sull’erba. Ci vollero delle settimane a Polska per convincere la sovrana che una cosa del genere non l’avrebbe fatta mai più.

“Tanto se ricapita, usciamo fuori dalla finestra!”

 

 

 

 

 

 

 

Si sveglia con gli occhi stanchi e appannati. Alzando la testa, vede Estonia mentre si aggiusta gli occhiali. L’occhialuto, dal vetro dello specchio, lo vede.

“Buongiorno” dice, serioso e abbastanza preoccupato. Lo nota dai piccoli scatti che fa mentre si aggiusta i capelli.

“Ciao” risponde, assonnato, non ricordandosi del sogno. La preoccupazione di Estonia è più che evidente.

“Sarà meglio muoversi: Ucraina è venuta qui per dirci di svegliarci. Russia è preoccupato: è tardi” lancia uno sguardo veloce al pendolo di fianco alla scrivania: le dieci meno un quarto. Lituania si sveglia completamente e si veste più in fretta possibile.

Raggiungono la sala da pranzo, con i restanti componenti dell’Unione. Arrivati, vengono notati. Il primo è Russia, sorridente, abbassa la tazza di tè.

“Buongiorno, dormito bene?” chiede, ingenuamente, come se fossero amici. Estonia scatta sull’attenti, nervoso.

“Mi scusi, signor Russia. Avremmo dovuto…” il capofamiglia alza una mano, in segno di negazione.

“Nessun problema, avete già svolto tutti i vostri compiti ieri, mi ero solo preoccupato per il vostro ritardo” dice questo, fermando gli occhi con un po’ troppa insistenza su Lituania. Riprende il sorriso “Su, mangiate! Ucraina è una bravissima cuoca, dopotutto” sorride dolcemente alla sorella maggiore. La più grande arrossisce, colpendo fraternamente il russo, come a convincerlo del contrario. Bielorussia alza lo sguardo brevemente, solo per adocchiare un’occhiata gelosa verso il fratello. I due Baltici si siedono ai loro posti, vicino ad un Lettonia impegnato nel sgranocchiare una frittella di patate.

Seduto a capotavola, Lituania si rende conto di non aver mangiato per più di due giorni. Il profumo delle frittelle lo risveglia, insieme all’odore di marmellata di ciliegie nere. Gli viene l’acquolina in bocca. Estonia aveva già infilzato con la forchetta tre frittelle alla volta, con sguardo affamato. Russia, Bielorussia e Ucraina parlano fra di loro, felici. I Baltici sono in silenzio, non hanno mai nulla da dirsi.

Ora Lettonia si è concentrato sul suo tè. Avvicina il cucchiaio allo zucchero e lo immerge nella coppetta. Lituania lo osserva silenziosamente, iniziando a mangiare una quarta frittella spalmata di marmellata di fragole. Si sente molto meglio e non pensa a Polska. Si sente in pace, per una volta dopo tutti quei giorni. Lettonia alza il cucchiaio completamente pieno di zucchero e, lentamente, lo avvicina alla tazza. Per sbaglio fa un movimento brusco e ne getta una striscia sul tavolo.

“…!” cerca di trovare una soluzione veloce al suo pasticcio. Estonia sospira. Lituania continua ad osservare i granelli bianchi sulla tavola scura. Lettonia, accidentalmente, ha formato con lo zucchero una sorta di striscia orizzontale che sfuma col nero del tavolo. Sembra quasi una luce in un cielo nero. Lituania strabuzza gli occhi, ricordando ciò che aveva sognato.

 

“S-sei un mago!”

 

La forchetta cade dalle sue dita e tocca il piatto, producendo uno tonfo acuto. Il suo stomaco inizia a protestare e a stringersi su sé stesso.

 

“Questa sera, tipo, ti avevo detto di restare sveglio fino a quando le guardie non se ne sarebbero andate. Così, per uscire fuori, tipo!”

 

Si afferra la pancia, piega la testa verso il piatto e geme, sofferente. Fa troppo male. Fa male, tanto male.

Estonia e Lettonia notano la faccia pallida del fratello.

“L-Lituania, cos’hai?” chiede Estonia, sinceramente preoccupato.

Il cuore sta per esplodere.

 

“Hey questo non è niente per il mio migliore amico!”

“M-migliore amico…?”

“Certo! A te, tipo, sta bene?”

 

Si preme una mano sulla bocca. Le labbra sputano saliva. L’altra mano è ancora agguantata sullo stomaco, implorandogli di fermare le sue lamentele. I due Baltici alzano le sopracciglia, impallidiscono. Estonia si alza in piedi. Gli tende una mano.

“Lituania, oddio, stai bene?” chiede di fretta, avvicinandosi ancor di più al moro. Non fa in tempo a sfiorarlo che Lituania ha un sobbalzo e un rivolo di saliva acerba scende dal suo guanto. Anche i tre dall’altro capo della tavola hanno notato lo strano comportamento del lituano. Lettonia sussulta.

“Lituania…” un altro scoppio di saliva dalla sua bocca. Incredibilmente, Ucraina corre verso di loro.

“Caro, vieni, veloce” lo afferra per le spalle e lo costringe in piedi. Riesce a reggersi sulle gambe, la saliva diventa acerba e senza sapore. La donna lo trascina in cucina e lo mette a sedere su una cassa di fragole. Non fa in tempo ad accomodarsi che Ucraina trova un vecchio secchio e lo getta, agitata, di fronte al viso di Lituania. Glielo sorregge.

“Vomita, caro, sputa” e lo fa. Anzi, rivolta tutto il suo stomaco là dentro. Rigurgita tutta la colazione, le frittelle, la marmellata e il delizioso tè nero con le ciliegie. Sputa gli ultimi avanzi rimasti tra i denti. Respira affannosamente. La donna gli sfila lentamente i guanti sporchi e gli infila nel lavabo là vicino. Gli accarezza la schiena, comprensiva. Tutto il cibo che gli aveva riempito la pancia ora è un miscuglio di saliva e poltiglia.

“Cielo, lo sapevo che avrei dovuto aggiungere poco zucchero! Mi dispiace tanto, caro…”

Si copre gli occhi con le mani, gemendo. La donna non capisce, ma non è importante.

Comincia a piangere, ricordando i particolari di quel sogno.

 

 

 

 

 

Da quel giorno non si ristabilisce mai del tutto.

Si sente incredibilmente triste, col cuore pesante come un macigno. Il corpo continua a reagire, ma stancamente, senza alcuna voglia di muoversi. Si sente a pezzi. Si rende conto, per la prima volta, dopo tutte quelle settimane, che Polska gli manca.

Gli riaffiorano altri ricordi del polacco. Forse erano anche negativi, ma gli mancano, con tutto il suo cuore. Gli erano sempre mancati, in realtà. Ma prima aveva sempre sperato di poter riviverli. Ora non c’è alcuna speranza di essere libero.

Mentre spolvera il comodino della stanza di Russia, si chiede dove possano essere i resti di Polska.

In effetti, ricorda, non aveva mai chiesto a nessuno dove fosse il suo cadavere. Ha un veloce ricordo degli occhi sbarrati dell’amico. Deglutisce e continua il suo lavoro, passando al cassettone. La stanza di Russia è in ordine già di sé, non c’è quasi alcun bisogno di spolverare nulla. Anche nei cassetti, sulla scrivania, per terra, tutto completamente in ordine, come se non ci abitasse nessuno in quella stanza. Ma quel giorno, Russia gli ha chiesto di mettere in ordine la sua stanza. Infatti lo osserva, con sguardo infantile, sbarrando con la sua gigantesca statura l’unica via d’uscita di quella stanza, come se tema che il lituano possa scappare. Lituania si alza da terra non appena finisce di spolverare anche la libreria.

“È tutto?” chiede con occhi stanchi. Non ha la forza di aggiunge alle sue parole ‘signore’. È da tempo che non riesce a chiamare in qualche modo Russia.

“No, hai dimenticato il baule. Là in fondo, Lituania” indica un grosso baule lontano dalla porta d’uscita. Lituania lo osserva distaccato, ricordandosi solo in quel momento di non averlo nemmeno notato. Annuisce, ancor più stanco e si avvicina nella zona più buia di quella cella. Il baule al tatto è sporco, dev’essere molto più sudicio di quel che sembra. Avvicina ad esso lo straccio e comincia a passarlo sul legno. Russia, senza essersene accorto, si è avvicinato a lui e gli tiene ferma la spalla, con delicatezza, come se avesse paura di rompere qualche osso.

“Lituania, credo sia meglio iniziare dall’interno. È un vero disastro…” afferma, come se si vergognasse lui stesso del suo baule. Lituania con la coda dell’occhio vede il sorriso del russo allargarsi di più. In quel mentre, ha una brutta sensazione. Sente la stanza chiudersi su sé stessa, imprigionandolo insieme al mostro dietro di lui. Vista l’esitazione del ragazzo, Russia, con una lentezza allarmante, comincia ad alzare con l’indice le chiusure, come se fosse un forziere piratesco pieno di tesori. Lituania ha un brivido lungo la schiena. Russia si sposta di lato, permettendo alla luce di toccare quel punto della stanza.

“Prego” dice, abbozzando un sorriso zuccheroso. Il lituano esita ancora, desiderando di correre fuori dalla stanza, velocemente, colto da una fitta di terrore. Alza il coperchio del baule, di scatto, volendo chiudere quell’atmosfera disturbante. La luce entra dentro al baule. I suoi occhi ritornarono in vita, ma non in meglio. Russia si avvicina, gigante, affianco a lui.

“Il sangue si è rappreso, ma continua a scorrere. Ha macchiato tutto il baule…” dice tristemente, come se il corpo di Polska fosse un’ingombrante cesta di panni sporchi.

Si stringe con le ginocchia al petto, il corpo. È ancora sporco di terra e liquido scarlatto, non l’ha nemmeno pulito. Una mano è gettata sulla spalla, l’altra al volto. Gli occhi si sono spalancati di nuovo, fissano la parete di legno scuro del baule come se fosse una creatura immonda. Il cuore di Lituania si accascia sullo stomaco, ricevuto il colpo.

Non ce la fa più. Non vuole più ricordare Polska, se vederlo e ricordarlo significa stare così male. Avrebbe voluto non vederlo dopo così tanto tempo e in quello stato. Lo stomaco si irrigidisce sentendo l’odore di sangue penetrare nelle narici. La mano di Russia si accanisce sulle palpebre del polacco, sbuffando.

“Si riaprono sempre, sembra che non voglia dormire” dice, imbronciandosi un po’, come se Polska fosse un bambino disubbidiente. Lituania sente il cuore scoppiare, batte troppo forte.

“Non l’avete fatto veramente…” sussurra con voce inclinata. Sta per piangere, i suoi occhi sono zuppi e umidi. Non può fargli così male. Non può non importargli di un povero soldato morto in guerra.

“Non so di cosa tu stia parlando” sorride caldamente. Il suo sorriso gli fa girare la testa. Volta rudemente il corpo a pancia in su. Il lituano geme per quel movimento brusco. Non può continuare a fargli del male anche da morto. Russia si china vicino a lui. Anche in ginocchio è un gigante in suo confronto.

“Questo baule è sporco, Lituania, devi pulirlo” dice, come se Polska sia trasparente. Si sente male, sente la saliva acre e senza sapore. Continua a gemere. Per Russia questo non è importante. Continua il suo lavoro imperterrito, come se stesse spostando una bambola dal suo lettuccio. Toglie i bottoni, gli strappa, mentre il lituano implora coi gemiti di smettere di importunare il povero polacco. Aveva visto molte facce di Russia e non avrebbe mai voluto vedere questa. Anche la maglia zuppa di rosso sotto la divisa viene rudemente fatta a pezzi, mostrando la carne rossa e scura. Gli occhi di Lituania si scuotono.

“È peggio di quel che pensavo. Sai, sono un disastro nelle pulizie” dice, mortificato. Non è vero, questa stanza è dannatamente pulita, ruggisce una vocina nella testa del ragazzo, molto più coraggiosa del restante subconscio tremante e sconvolto. Russia ispeziona ancor più attentamente la carne scoperta, come se non fosse niente di più che un fagotto di stracci. Abbassa la testa di lato, con sguardo amareggiato, come se stia parlando di qualsiasi cosa, tranne di quel che stanno guardando. 

“Non ci potevo credere che sarebbe rimasto in piedi fino alla fine. Polonia è stato molto stupido a voler tornare a Varsavia per salvare la capitale” il corpo di Lituania sobbalza. Le mani di Russia iniziano a sfiorare il collo del polacco, scendendo verso il petto “Eravamo circa quarantamila, Germania e Prussia inclusi, contro poco più di settecento soldati polacchi” il labbro di Lituania trema “Avevamo bombardieri, carri armati, aerei da guerra… Loro soltanto un kalashnikov per squadra e dei cavalli” la sua risata gioviale si percuote nelle sue orecchie. Lituania vuole andare via. Vuole uscire da quella stanza buia e piena di sangue. Vuole che quella stanza non lo soffochi. Vuole soltanto che Russia chiuda la bocca e tenga le mani lontano dal petto stracciato di Polska. Trema, nemmeno se ne accorge.

“Io e i miei soldati eravamo arrivati negli ultimi giorni. Dovevamo sgombrare le città e rinchiudere i civili. Ero a Varsavia. Era distrutta, bombardata e morta. Non c’era un gatto nelle strade. L’ho trovato tra dei cocci di vetro. Era ridotto ad uno straccio” un’altra risata calda e bollente “Non ci siamo detti molto. Non si voleva arrendere. Aveva anche detto qualcosa… ah! Ora ricordo: ‘Preferisco morire in piedi, piuttosto che piegare la testa di fronte a te’” Lituania ha un altro spasmo.

 

“Preferirei morire in battaglia, piuttosto che sottomettermi a qualcuno che non sia me stesso”

 

Ricorda il suo sorriso e come gli aveva ammiccato. Ricorda che gli aveva riso per la faccia stranita che aveva in quel momento. Aveva riso con lui. Delle lacrime bruciano sulle guance del lituano. Russia lo nota, ma lo ignora, o forse vorrebbe che piangesse. Le sue mani si fermano tra le macchie rosse e nere del petto.

“Era una bella risposta, ma non ero lì per parlare con lui. Ho dato l’ordine di sparare e i miei uomini l’hanno colpito qui…” le mani allargano una ferita sul fianco sinistro, particolarmente sanguinolenta. Lituania lascia un gemito sconvolto. Le dita giocano all’interno della ferita come in una tasca, fino ad afferrare un piccolo proiettile. Lo mostra al lituano, felice come un bambino che trova il suo regalo di Natale. Getta quell’oggettino sporco ed umido nel suo grembo. Gli occhi di Russia sembrano più luminosi.

“Poi qui… qui… qui… qui… e anche qui…” dice, facendo lo stesso, amaro e straziante procedimento. Infila le dita nelle lesioni, strappa pezzi di carne, fa fuoriuscire il sangue come cascate rosse. Ogni proiettile, poi, cade in grembo al ragazzo. Lituania poggia una mano sulla bocca. Le lacrime sfregano la pelle del collo. Bruciano come il suo cuore.

“Non voleva cadere. Restava ancora in piedi e mi guardava sofferente” dice, come se raccontasse una vecchia guerra passata e noiosa “Allora mi sono ricordato che per uccidere una Nazione, bisogna essere una Nazione. Che cosa stupida, me n’ero completamente dimenticato!” osserva le sue dita luride di sangue, senza un vero e proprio pensiero su di esse. Lituania si chiede se per tutti quei giorni, quelle settimane, Polska sia stato dentro quello spazio stretto ed ingombrante. Vedere le costole fuoriuscire dal petto gli fa credere di si “Allora ho preso in mano una pistola…” con la mano imita il gesto di una pistola che punta al piccolo petto del lituano. Per la prima volta i loro occhi s’incrociano. Russia ha lo sguardo vuoto, concentrato sulla narrazione “e… Boom...! Polonia è morto. Più o meno come te” sorride.

Lituania respira affannosamente, come se avesse ricevuto per davvero un colpo di pistola al petto. È incredulo. La mano cerca qualcosa su cui appoggiarsi, anche in ginocchio ha paura di cadere. L’unica cosa che trova è lo stesso baule umido e scuro. I suoi occhi lentamente si voltano dal sorriso di Russia a ciò su cui si sta appoggiando. Gli trema il labbro, altre lacrime gli scorrono sulle guance: il baule ha sputato e continua a sputare sangue rossiccio. Volta la mano, per osservarla meglio. Si, è sangue e ne è pieno anche sulla sua mano. Il cuore sta per scoppiargli nella gola. Russia ritorna in piedi.

“Comunque, non voglio più darti fastidio. Lo sposto subito, così potrai continuare il tuo lavoro” le sue gigantesche mani afferrano le costole spaccate di Polska. Lituania si volta di scatto.

“D-Dove lo porta…?” chiede, col fiato corto. Russia tira fuori il corpo. Non gli risponde. Afferra la mantella stracciata del polacco e inizia a trascinarlo fuori dalla stanza. La testa di Polska cade all’indietro, si vede il pomo d’Adamo sporgere. Lascia una scia di sangue rappreso sul pavimento. Lituania chiede spiegazioni con lo sguardo. Russia non risponde ancora. Si rimette goffamente in piedi. Un ricordo lontano gli fa spalancare gli occhi.

 

“…tutte queste morti sono state veramente fatte da Russia…?”

“Si, Lettonia, purtroppo si…”

“Ah… Chissà quanti cadaveri… Ma che fine hanno fatto, poi, secondo voi?”

“Io… non lo so, forse li hanno lasciati lì, a marcire. O li hanno buttati nelle foreste. La Russia è gigantesca, no?”

“No, Lituania. So che fine hanno fatto… è una cosa brutta, però. Per quanto ho capito, i cosacchi russi avevano trasportato lontano tutti i cadaveri e li avevano portati nelle macellerie. Alla fine sono stati scuoiati e la carne è stata venduta ai paesi asiatici. Non si erano accorti di nulla, tanto…”

“…”

“Eh?! No, dai, secondo me non è vero!”

“Già. Russia non può permettere una cosa del genere nella sua Nazione!”

“…ne siete certi?”

 

Uno spillo d’argento si conficca nel suo cuore. Non sa nemmeno come si sente, sa solo che vuole impedire qualsiasi cosa voglia fare Russia con quel corpo. Corre fuori dalla stanza buia e raggiunge a metà corridoio il russo, molto più sereno di lui. Il corpo ha continuato a lasciare dietro di sé tracce di sangue. Si para di fronte a Russia. Dopo tanto tempo, ha paura di lui.

“Dove lo sta portando?” chiede con una voce più sicura della prima. Il gigante inclina la testa, alzando le spalle.

“Questo non dovrebbe interessarti, Lituania” marca il suo nome come se fosse una bestemmia. Il suo sorriso si allarga, interessato e sorpreso dell’atteggiamento del suo servitore. Continua a camminare, portandosi dietro il corpo. La stoffa della divisa sporca graffia il pavimento bianco e dorato. Lituania cerca di fermarlo.

“La prego, si fermi! Almeno gli troviamo un posto dove portarlo!” gli tremano le mani, scosse da pesanti brividi di paura. Russia fissa Lituania come farebbe un bambino annoiato.

“Lituania, smettila, torna a svolgere i tuoi compiti” sorride, come per confortarlo, come se volesse vedere il lituano ai suoi piedi.

Si, Russia è geloso. È la Nazione più potente al mondo. Vuole tutto e tutti inginocchiati di fronte a sé. Ma vuole anche una famiglia che un tempo aveva, ma che poi ha perduto col passare dei secoli. L’ha ritrovata, ma sente come se l’avesse perduta. C’era un tempo in cui definiva la sua poverissima vita, quella insieme alle sorelle, un periodo felice. Povero, ma felice. Era felice di vivere con le sue sorelle, il piccolo Russia. Le amava. Erano la sua famiglia e lo sono anche ora. Ma, ora che è diventato una potente Nazione, vuole di più. È stata una fortuna costruire l’Unione Sovietica, così come è stata una fortuna avere in casa, oltre a loro tre fratelli, anche i Baltici.

Non sono ancora una famiglia forte e unita, ma sono già in sei e questo, per il momento, basta. Lituania è il suo preferito. Lui è diverso. Aveva una speranza, un sogno, dei desideri, non come i suoi fratelli che chinano la testa appena lo vedono avvicinarsi a loro. I due Baltici già non avevano altro a cui pensare che all’Unione Sovietica, ma non Lituania. L’aveva sentito nelle varie conversazioni al telefono: lui e Polonia sognavano di tornare ai vecchi tempi, volevano costruire una casa, anche piccola, per loro due, per vivere liberi e felici, come lo sono stati un tempo.

Russia soffriva e voleva Lituania.

Lituania soffriva, ma aveva una speranza: Polonia. Avrebbero potuto scappare e vivere lontani da lì e da chiunque. Potevano stare insieme, soltanto il polacco e il lituano.

A Russia questa cosa non piaceva.

Lituania era suo, Polonia non doveva nemmeno parlargli.

Polonia era sempre felice e questa felicità la trasmetteva a Lituania.

Russia piangeva di nascosto, perché ciò che desiderava si allontanava sempre di più.

Russia voleva Lituania, ma Lituania voleva Polonia. Per questo l’ha ucciso, lui stesso.

Prussia e Germania volevano che sopravvivesse, volevano il suo territorio, non un cadavere bucato dai proiettili. Russia gli aveva detto che quello è stato un incidente, che non voleva farlo veramente. Ha mentito e i due fratelli non hanno indagato, presi per il futuro, per le nuove conquiste.

Lituania non aveva più Polonia e soffriva, ma Russia era tranquillo, lo avrebbe dimenticato subito.

Ma le settimane, i mesi passavano e Lituania non dimenticava.

Aveva spento l’unico sole del ragazzo e ora lui stava lentamente morendo.

Russia era felice, convinto che il suo obbiettivo si sarebbe avverato.

Ma Lituania era triste e Russia non voleva più aspettare.

Per questo gli ha mostrato il suo sole. Gli ha mostrato quanto sia stato stupido e patetico, il suo amico. Spera che Lituania lo capisca. Spera che il ragazzo possa capire che i morti non possono più tornare in vita.

Lituania, però, non capisce e Russia sta per arrabbiarsi. Si butta in ginocchio, di fronte a lui, con la testa che tocca il pavimento. Il russo è più che sorpreso.

“La prego, vi scongiuro… Lo dia a me. Sotterriamolo, facciamogli una croce” singhiozza “Lei… lei è ortodosso, ma lui no… io sono cattolico… So come fare un funerale cattolico… Per favore… Farò qualsiasi cosa desidera…” continua a piangere. Il russo rimane in silenzio, ancor più che interessato. Gli muore il sorriso. Lituania alza la testa da terra con uno scatto. Gli occhi rossi sono affogati nelle lacrime.

“Gliene prego! Farò ogni cosa vogliate! Le…” un’altra scossa “…darò tutto quello che vuole!” altre lacrime e Russia è insensibile. Si avvicina al lituano, trascinando ancora il polacco.

“Ma cosa dici, Lituania?” un pizzico di speranza accende la mente del ragazzo “Tu sei mio. Stai già facendo tutto quello che voglio e mi stai già dando tutto quello che desidero” dice, amorevolmente, come farebbe una madre per rincuorare il proprio bambino. Il cuore di Lituania si sbriciola in tanti piccoli pezzettini. Non si è mai sentito più in gabbia di così.

L’aveva sempre saputo, sin da quando entrò nell’Unione Sovietica: lui era in una gabbia dorata, un uccellino intrappolato e abusato dal suo padroncino capriccioso. L’aveva sempre saputo, ma ora questa certezza gli è più chiara. È come se per tutto quel tempo avesse avuto sopra gli occhi un velo, grazie al quale riusciva a vedere l’ambiente che lo circondava e capiva ciò che stava accadendo intorno a sé, ma non riusciva a vederlo perfettamente. Ora quel velo è scomparso, ora il lituano vede quel mondo molto più chiaramente di come facesse prima. Il velo è sparito e Lituania vede bene, ma vorrebbe ritornare cieco.

Russia ha continuato la sua camminata lungo il corridoio, ignorandolo. Lituania non lo vuole accettare, non vuole essere un cardellino in gabbia. Non vuole morire lì dentro. Non vuole che Polska muoia così com’è morto lui. Per questo urla e si getta sul corpo dell’amico. Col suo peso vuole fermare il gigante. Ma Russia è molto forte, troppo forte e lo trascina ugualmente.

Lituania urla e stringe a sé Polonia. Non vuole che lo tocchi, non vuole che lo trascini in quel modo bruto, come se non valesse nulla. Per questo afferra il bottone della mantella e lo strappa.

Il cadavere e Lituania non sono più trascinati da Russia. Lituania stringe a sé la testa e il petto di Polska, come una madre che protegge il suo bambino. Lo avvolge tra le sue braccia, schiaccia le sue costole rotte e si sporca del suo sangue, ma almeno Russia non lo sta toccando. Il gigante lo fissa annoiato. Ignora le sue urla e prova a staccarlo dai resti del polacco, invano. Lui urla e chiede aiuto, invoca Dio, cosa che non ha mai fatto in vita sua, supplica di non toccarlo. Russia non lo ascolta e passa alle maniere forti.

Dalle altre stanze si sente ogni cosa, ogni urlo, ogni pianto. Bielorussia e Ucraina si trovano dall’altra parte della casa, cucinano, non sentono nulla. Estonia e Lettonia si affacciano sul corridoio e rimangono increduli. Russia, nel cercare di staccare il lituano dal cadavere, lo strattona violentemente per la spalla, quasi sul punto di romperla. Ma le urla non cessano, non sono di dolore, ma di supplica. I due Baltici vedono il cadavere, sono impietriti. Russia, nonostante tutto, non vuole far del male a Lituania. Più calmo di chiunque altro, si volta verso i due ragazzini.

“Estonia, Lettonia, vi dispiacerebbe aiutarmi?” chiede, come un’innocente richiesta. I due Baltici si voltano, turbati, verso il fratello. Anche lui volta il viso, verso i due fratellini, tenendo Polska fra le braccia.

“Vi prego, aiutatemi!” supplica, tra le lacrime e gli occhi rossi. Estonia è sbigottito, Lettonia abbassa le sopracciglia. Russia comincia ad innervosirsi. Si volta di nuovo, con un cipiglio irritato.

“Estonia, Lettonia, aiutatemi, ora!” non ci riflettono nemmeno un secondo.

I due Baltici si gettano sul fratello e con forza provano a strattonarlo via da Polonia. Il lituano urla e sferra pugni ai due, impazzito per la paura e la rabbia. Non vuole separarsi da Polska. Al terzo strattone, i due Baltici si ritrovano il fratello urlante fra le braccia. Russia, indifferente per la confusione creata da lui stesso e dalle urla di Lituania, volge un sorriso mortificato ai due.

“Mi spiace di aver sporcato il pavimento, avete lavorato così tanto…” Lituania cerca di avventarsi sul cadavere, ma invano “Oggi siete liberi, ragazzi. Mi spiace aver rovinato il vostro lavoro. Ci penserò io, più tardi” i due increduli cuciono sulle labbra un sorriso, mentre il fratello maggiore chiede, ora arrabbiato, di essere liberato. Piange e supplica di lasciarlo andare, ora tra le lacrime.

“Si, signor Russia!” esclamano in coro, cercando di vincere quella prova di coraggio. Perdono entrambi.

Trascinano Lituania nella loro stanza, che tocca quello stesso corridoio. Appena entrati, chiudono la porta a chiave. Estonia la nasconde, Lituania non sa dove, non l’ha visto. Lettonia prende un ceffone involontario dal fratello impazzito. Cade e sbatte la testa. Si fa male, ma non pensa a lui. Lituania sembra una bestia arrabbiata e sofferente. Si avventa sul secondo fratello e lo prende per il collo, con una forza immonda.

“Fammi uscire! Fammi uscire, Estonia!” urla, stringe più forte la presa, come se volesse ucciderlo per davvero, uno dei suoi falsi fratelli, che non l’hanno mai aiutato, mai. Per una volta aveva creduto in loro, ma aveva sbagliato. Non vuole più comprendere, vuole solo uscire da lì. E vedere Polska.

“L-Lituania, fai male. Lituania, basta!” piange anche lui, terrorizzato più di lui che di Russia. Lituania non vuole più avere compassione.

“Dammi la chiave! Dammela!”

“Non posso, Lituania…”

“Fammi uscire! Polska…!” Lituania, in realtà, non è cattivo. Non è un mostro, non vuole fare davvero del male. È solo un ragazzo e vuole solo uscire da lì. Quindi, lascia Estonia e si mette in ginocchio, con le mani giunte, come se stesse invocando un angelo.

“Estonia, ti supplico. Devo fermalo. Polska morirà” gli occhi di Estonia tremano per l’incredulità e, probabilmente, anche per la paura. Lituania gli afferra la manica della giacca blu, gli occhi azzurri si scontrano con i suoi blu.

“Ti prego, Estonia. Ti… ti prego” stringe ancora di più la manica, come se cercasse un minimo di amore fraterno con quel gesto “Fammi uscire, Estonia. Per favore…!” il volto di Estonia si fa ancora più scuro, combattuto tra la pietà e la futura ira di Russia nel caso volesse accontentare il lituano. Le mani del moro tremano, gli occhi gonfi.

“Ti prego…!” non l’avrebbe aiutato, mai.

Un secondo velo cade dagli occhi di Lituania. Sapeva che i Baltici fossero dei falsi fratelli. Non erano mai stati uniti, nemmeno lui ha mai dato fede ai due fratelli. Avevano avuto una fratellanza forzata all’interno di quella casa. Nei primi tempi erano uniti di fronte all’ira imprevedibile di Russia. Se qualcuno di loro soffriva, anche gli altri ne prendevano la piccola parte. Ma loro erano dei falsi fratelli, man a mano si erano separati. Se qualcuno veniva spezzato in due, gli altri due tiravano un sospiro di sollievo. Si ricordò delle innumerevoli volte in cui aveva fatto da scudo ai due Baltici, sperando di avere qualcosa in cambio da loro. Riceveva solo più colpi e frustate.

Soprattutto in quegli anni ne prendeva ancor di più da Russia. Era diventato il suo preferito, il suo giocattolo più amato. Non ridevano di lui, ma quando il padrone di casa si sfogava con Lituania e non con loro, erano felici e rilassati: per alcuni giorni Russia non si sarebbe arrabbiato con nessuno di loro.

Lituania era diventato il giocattolo di Russia e Lettonia ed Estonia erano calmi e tranquilli, non erano loro le vittime.

Lituania soffriva, ma non pensava ai due fratelli: aveva Polonia, a lui importava di lui.

Ma ora Lituania non ha nessuno e chiede aiuto ai due fratelli.

Estonia e Lettonia non sanno come aiutarlo e non fanno nulla.

Lituania piange e rinuncia, Estonia si rilassa.

Ma Lettonia è piccolo e anche lui vuole un fratello. Anche lui la pensa come Lituania. Ora non vuole un fratello. Vuole solo che Lituania stia meglio. Gli fa male vederlo così, il più forte dei tre, così infelice e distrutto. Lettonia si avvicina, piange con Lituania. Lo abbraccia da dietro, mortificato.

“Mi dispiace!” dice al fratello. Lituania non lo sente.

Caccia la testa all’indietro e lancia un urlo di disperazione, come un lupo che ulula per la morte dei propri cuccioli.

Piange Lituania, perché ha perso il suo migliore amico, il suo sole, e la sua speranza di fuggire da quella prigione dorata.

Piange Lettonia, perché spera di avere dei fratelli, ma nemmeno i suoi lo vogliono.

Piange Estonia, perché non sa cosa fare. Perché non vorrebbe più vedere Lituania in quello stato. Perché, per una volta, vorrebbe che Lituania condividesse il suo dolore con loro. Per questo lo abbraccia anche lui, per questo gli accarezza i capelli, cercando di calmarlo.

Polonia fantasma guarda quella scena, muto, occhi sbarrati e tremanti, bocca semiaperta. È incredulo, spaventato e atterrito. Vorrebbe abbracciare anche lui Liet. Toris, sulla sua spalla, guarda la scena, serio e taciturno.

Lituania si svuota dalle lacrime e il suo cuore si spezza in due.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** SeCoNdO cApItOlO ***


Polonia, incredulo, trema.

Trema così forte che anche le gambe cedono al peso e cade in ginocchio. Toris, per lo spavento, cinguetta di protesta, arrabbiato. Polonia dimentica come fermare i suoi tremiti e, semplicemente, lascia andare il suo corpo. Quello non se lo sarebbe mai aspettato. Liet… ridotto in quello stato. Era uno scherzo…? Quasi vuole convincersi che, si, quello era uno scherzo. Uno stupido scherzetto creato da chissà chi per fare chissà cosa. Vorrebbe ridere, dire che, si, è stato divertente. Ma ora basta. Liet… perché stava così male per lui? Toris, non se n’era accorto, ma poco prima della sua caduta ha aperto le ali e ora riesce a fluttuare a qualche centimetro da terra. Riesce a rimanere in aria alla sua altezza. Ha uno sguardo arrabbiato, ancora indispettito per la caduta.

“E’… è uno scherzo?” il pulcino smette di fissarlo furioso e ricambia i suoi occhi, serio e pacato. Quegli occhietti neri non gli piacciono. Toris si avvicina, volando, ancora un po’ a lui. Osserva il suo occhio verde, sconvolto, piccolo e terrorizzato. Per Liet lui era così importante? Tanto da piangere e disperarsi per giorni e giorni? Quanto tempo è passato dalla sua morte? Quelle immagini erano così reali e disperate… No, Polska, sussurra una vocina ironica dentro di sé, col diavolo che quello era uno scherzo.

“Toris… quello è accaduto veramente?” il pulcino continua a fissare il suo occhio, concentrato. Polonia lo prende per un si. Non capisce come sia accaduto quello. Si chiede come sia riuscito a vedere quelle cose. Come se fosse un fantasma, o qualcosa del genere. In effetti, Polonia ricorda la sua morte. La ricorda così bene che avrebbe potuto sognarla esattamente com’era altre cento volte. Però gli viene un dubbio.

“Toris, tu cosa sei? Chi sei?” il pulcino smette di volare e si poggia sulle sue ginocchia. Non fa niente né dice qualcosa. Questo, però, è stupido: un pulcino non può parlare. Polska ha molte domande e non può rispondere da sé. Pensa che quelle cose, probabilmente, da morto ora sono possibili. Strane, ma possibili. Forse possibili solo per una Nazione defunta.

È ancora perplesso dal comportamento di Liet e dal perché si sia ridotto in quello stato. Pensa che Lituania non dovrebbe disperarsi tanto per un idiota come lui. Tanto meglio usare quelle lacrime per piangere Russia che lui, un deficiente che non è stato nemmeno capace di proteggere quel poco di terreno che era la sua nazione. In effetti, ricorda, è morto dopo nemmeno un mese di assedio. Ridicolo, veramente. Meglio dimenticarsi di lui, piuttosto che piangerlo, pensa. Toris, alle sue ginocchia, pretende di avere attenzioni e le chiede cinguettando e saltellando sulle sue piccole zampette. Polonia si asciuga le lacrime non ancora sgorgate.

“Che facciamo ora, Toris?” il piccoletto scende dalle sue ginocchia e si accuccia sul grande punto sulla cartina, che è Mosca. Lo fissa a testa alta, orgoglioso.

“Torniamo indietro? Per quanto tempo resteremo lì?” Toris, in risposta, si gonfia le piume e abbassa le zampette sulla capitale. Polonia comprende.

“Per molto più tempo? Andremo ancora da Liet?” chiede, poco convinto. Ripensandoci meglio, non vorrebbe andare da lui. Preferisce non vederlo e autoconvincersi che a Lituania lui non è mai piaciuto e che non ha mai desiderato stare in sua compagnia. Vorrebbe convincersi che, in realtà, Liet non sta così male per la sua morte. Sta bene, è soltanto un periodo, un piccolo lutto, poi passerà e ritornerà a sorridere, come prima. Come ha sempre fatto insieme a lui. Vorrebbe non essere mai stato importante per Liet.

Toris cinguetta, non ritenendosi sufficientemente considerato. Polska, triste, sorride. Sarebbe stato più tempo con Liet, ma per quanto? Spera non troppo tempo. Forse pochi giorni, anche meno, vorrebbe. Osserva il pulcino che si stacca una piuma grande, troppo grande.

Polska deglutisce, sentendosi male senza aver nemmeno sfiorato le mura della casa di Russia.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

DIARIO DI LETTONIA

 

È passato molto tempo dall’ultima volta che ho scritto in questo quadernino, ma credo che in questi giorni lo farò più di prima. Non so con chi parlare, quindi credo sia il caso.

Sono cambiate molte cose e sono cambiate così in fretta da non saper da dove cominciare. Forse è meglio partire da quel che succede qua fuori.

Da quando Germania e Prussia hanno distrutto la Polonia, tutti dicono che quello che sta succedendo è una vera e propria guerra. Per me tutto è così lontano da non capirci un granché. In questa casa avere un giornale è difficile per noi Baltici.

Per quanto ho capito, Germania e Prussia hanno fatto un sacco di casini. Tutti hanno pensato che avrebbero preso i territori perduti e allora se ne sarebbero stati buoni, ma non è stato così. Quei due sono impazziti. Hanno stretto alleanza con Italia e Giappone e sono riusciti ad invadere e prendere Francia. Ho sentito che hanno chiamato quest’alleanza “Asse”.

Quei due si sono montati la testa e hanno invaso Inghilterra. In quel casino che hanno combinato non ci ho capito molto, non ho letto i giornali, né sentito la radio o chiesto alle sorelle di Russia, ma ho capito che hanno bombardato Londra, come se niente fosse. Quasi non ci credo che sono riusciti a fare una cosa del genere ad Inghilterra.

Giusto oggi ho trovato Ucraina con un giornale, era euforica. Ce lo siamo letti insieme. Ieri Inghilterra è riuscito a contrastare gli aerei tedeschi e ha vinto questa grande battaglia che stavano facendo praticamente sul suo cuore. Ha vinto e, credo, sta bene. Ne sono felice, forse così Germania potrà starsene fermo e calmo e così, forse, ritornerà tutto come prima, senza questa stupida guerra.

Però, qui dentro, non credo che tutto ritornerà come prima. Ho già scritto come si è sentito male Lituania per quel che è successo a Polonia e a come è stato ridotto il suo cadavere. In quei giorni Russia ha dato il peggio di sé. Secondo me voleva dimostrare qualcosa a Lituania, ma non so bene cosa. Forse voleva che la smettesse di pensare sempre a Polonia e di chiamarlo ogni giorno. Io non ci trovavo nulla di male, Estonia non la pensava così e anche lui diceva a Lituania che doveva smetterla, ma lui non l’ha mai fatto. Ripeto, per me non c’era nulla di male nel chiamarlo o nel parlargli ogni tanto. Lituania lavorava comunque, finiva tutte le faccende e poi andava al telefono per chiamarlo.

Niente di terribile, eppure per Russia non era così. Ora che ci penso, forse era geloso. Forse voleva che Lituania potesse abbassare la testa come noi. Forse è per questo che lui lo picchiava sempre, quasi ogni settimana. Tremavo sempre quando lo faceva. Ora si è un po’ calmato, ma siamo sempre con gli occhi attenti per vedere se Russia non se ne esce fuori di testa come faceva prima.

Cioè, lo facciamo io ed Estonia, ma a Lituania sembra non importare. Abbassa la testa e annuisce, non parla proprio. È cambiato tantissimo. Non lo riconosciamo per niente. Sembra un pezzo di ghiaccio: ha gli occhi freddi e scuri e sembra più sciupato e stanco di prima. È come se dopo quel giorno, quello quando lo abbiamo visto abbracciato al cadavere di Polonia, avesse dimenticato come si sorride. In realtà, non fa nemmeno niente di strano o diverso. Si alza, mangia quello che vuole, inizia a lavorare con noi, finiamo la sera, mangia ancora e subito a dormire.

Di sicuro qualcosa dentro di lui si è rotto e non so se si riparerà più. Ne ho parlato con Estonia. Lui mi dice di lasciarlo stare. Sta passando un lutto, quindi è normale che sia triste, soprattutto se abitiamo tutti con l’assassino del morto. La cosa è peggiorata anche perché non parla quasi mai e ignora Russia che lo fissa sempre, manco fosse un animaletto strano. È normale, dice Estonia, poi se ne farà una ragione e gli passerà.

Secondo me non è così semplice. È già passato molto tempo e Lituania è sempre così: triste ed insensibile. Secondo me non gli passerà mai se non si farà qualcosa. Alcune volte, quando sono sotto le coperte, lo guardo un po’ e mi fa paura e pietà. Mi fa tanta pena, ma non so come aiutarlo. Tante volte penso che sarebbe meglio se una sera ci sediamo tutti sul letto e ne parliamo un po’ di questa cosa, ma non per questa fratellanza o quel che è, ma perché vorrei capire cosa sta pensando Lituania. Sembra sempre con la testa in un altro mondo, forse pensa a Polonia e a tutto quello che gli è successo.

So che certe cose non cambiano mai, ma spero che questa cosa possa cambiare. Anche solo il fatto che non ci parli mi fa sentire male. Mi sento in colpa. Russia non si sfoga su di lui, ma è come se lo facesse. Lo guarda sempre, con quello sguardo cattivo, come se si aspettasse qualcosa da lui.

Io ho paura per Lituania e lo dico per davvero.

Mi sono stufato di pensare sempre a Russia e a me stesso. Mi sento tanto, tipo una cattiva persona. Ora che ho scritto tutte queste cose e le rileggo, mi sento ancora più male. Forse uno di questi giorni mi avvicino a Lituania e lo abbraccio, anche solo per vedere come reagisce. Vorrei farlo stare meglio e non mi viene in mente nient’altro da fare che questo. Mi fa star male vederlo così morto.

Ora Russia lo chiama sempre, vuole sempre che stia vicino a lui. Né io né Estonia ci capiamo molto di quel che sta succedendo. Continuo a credere che Russia sia geloso di Polonia e voglia che Lituania pensi solo a lui, ma Lituania non pensa a niente e quindi lui è arrabbiato, ma non lo fa notare. Quindi per questo cerca una reazione o qualcosa di simile da lui. E mica se la vuole perdere una cosa del genere.

Ecco, è di nuovo accaduto. È entrato Russia nella nostra stanza (si, lo so, è sera, sono le otto e abbiamo finito i nostri lavori, ma l’ha fatto!) e ha chiesto di aiutarlo a mettere in ordine delle carte nel suo studio perché, dice lui, deve lavorare fino a tardi con dei documenti. Qualcosa che riguarda Germania e Prussia, secondo me. Estonia si è fatto avanti e ha detto che faceva lui, ma Russia ha risposto di no e ha chiesto a Lituania.

Sia io che Estonia siamo rimasti pietrificati. Ok, è vero che Russia sta occhieggiando da mesi Lituania, ma non gli aveva mai chiesto direttamente di stare vicino a lui. Ha anche aggiunto che Lituania avrebbe dovuto stare sveglio fino a tarda notte con lui, per preparargli qualcosa da mangiare e cose simili, perché di sicuro finisce tardi. Ora Lituania ha seguito Russia nel suo studio e io ed Estonia non siamo tranquilli, per niente.

Qui gatta ci cova.

Ho paura.

Spero che non gli capiti nulla.

 

 

 

 

 

 

Non si è mai sentito così in trappola in vita sua.

I muri lo osservano. I tavoli lo squadrano. I pavimenti lo fissano. Persino le stanze, per stringerlo e per fargli del male si schiacciano su sé stesse e lo soffocano. Il suo corpo è un macigno pesantissimo che deve portare per forza. Non è solo Polska il problema, lo è ogni cosa in quel luogo, soprattutto gli abitanti di quella casa.

Morirò qui dentro, pensa spesso.

Accadde quel giorno non molto lontano, quando Russia lo aveva portato nella sua stanza e gli aveva mostrato i resti di Polska. Quando i suoi stessi fratelli lo rinchiusero nella loro stanza, aveva pianto, urlato, pregato di uscire e poi aveva smesso. In quel mentre aveva avuto una consapevolezza, chiara e precisa. Fu come uscire fuori alla luce del sole, dopo aver vagato per anni in una caverna buia. Tutto era chiaro. In realtà, ogni cosa era chiara anche prima di scappare dalla caverna buia e scura. Lo sapeva, lo capiva, ma non l’aveva assimilato per bene. Non l’aveva capito o semplicemente non aveva afferrato bene il concetto di quella casa infernale.

Era un prigioniero. Un cardellino intrappolato, costretto a stare nella sua gabbietta per l’eternità, senza mai vedere uno spiraglio di luce.

Aveva capito ogni cosa dopo quel giorno e ancora ora non può credere che non ci fosse arrivato prima, dopo tutti quegli anni al servizio di Russia.

Non era più una persona, una Nazione, un essere umano con sentimenti e sensazioni. Era un giocattolo in mano ad un bambino capriccioso. Era una marionetta umana tra le mani di Russia e questa consapevolezza lo uccide ogni giorno.

Inizialmente pensò di cercare di non vedere. Pensò che dopo un po’ sarebbe di nuovo ritornato cieco, impegnato in altre faccende e pensando a tutt’altro. Si sbagliava. Anzi, servire Russia, stare in quella casa, dividere un gigantesco letto insieme a dei falsi fratelli, gli fa ricordare ancor di più quanto sia incredibilmente solo. E avere tra i pensieri quella consapevolezza lo fa sentire ancora più in gabbia. Lituania sognava la libertà, sperava di poterla riavere insieme a Polska, l’unico con cui riusciva a sentire quella sensazione di felicità assoluta che ti percuote e ti accarezza la pelle. Ora quella luce di speranza si è dissolta completamente. Ora Lituania si trova in un baratro buio e in catene con un carceriere crudele e cattivo.

Quindi rifletteva, ogni singolo minuto, su come fuggire dalla sua prigione. Pensava di scappare, alzarsi la mattina presto, anche prima dell’alba, prendere le sue cose e un po’ di cibo e fuggire per le foreste russe, fino a toccare e raggiungere la Lituania, casa sua. Poteva funzionare, se lui fosse stato umano. Non aveva un peso sulle spalle. Lui non è un umano, libero, fragile, ma capace. Lui è una Nazione. Non deve pensare solo a sé stesso, ma anche alla sua terra. Era solo uno specchio umano che rifletteva un intero paese. Se fosse scappato, Russia lo avrebbe preso e se non lo avesse fatto si sarebbe vendicato. E come vendicarsi meglio se non strappando il cordone invisibile che lo lega con la sua terra? Russia sarebbe andato in Lituania, a casa sua, e l’avrebbe distrutta mattone dopo mattone, albero dopo albero, fino a che di lui non rimaneva che una banale imitazione dei resti di Polonia. Russia sarebbe stato pronto ad uccidere per avere il controllo su di lui, e Lituania lo sapeva e lo sa bene.

Non poteva scappare, né migliorare la sua situazione. Era in trappola, più di prima e senza una speranza.

I giorni, le settimane e i mesi passavano e la sensazione di trovarsi in una gabbia dorata era sempre più assillante. Non aveva nemmeno una persona con cui parlare o confidarsi. Lui stesso doveva raccogliere e cercare di ricostruire i pezzi del suo cuore spezzato. Ma non riusciva a ripararlo. Non aveva la forza nemmeno di fare questo. Si sentiva vuoto ogni giorno, ogni ora, ogni secondo.

Se il giorno era faticoso, la notte era la peggiore. Senza nient’altro da fare o pensare, Lituania si perde nei suoi ricordi. Ricorda i vecchi giorni passati con Polska, ogni momento felice, meno felice, triste o drammatico. Come quando ci fu la spartizione della Polonia. Polska dovette spezzare la sua carne in tre parti per Austria, Prussia e Russia. Si sentiva peggio di Liet, ma si confidavano al telefono e ne parlavano fra di loro. Non potevi nascondere niente a Polska. Capiva ogni cosa, riusciva a prendere i tuoi pensieri ingarbugliati e districarli in un batter d’occhio. Erano in periodi difficili, ma erano felici e sereni. Avevano un sogno, una speranza.

Lituania vuole quei ricordi indietro. Vuole riavere indietro Polska e rivivere tutti quei giorni felici e tristi. Talvolta si sente così male che desidera non averli mai vissuti. Vorrebbe odiare Polska per averlo lasciato con questo vuoto e vorrebbe picchiare quel che rimane di lui, per averlo abbandonato in quel modo. Poi si ricorda di quanto sia patetico, allora chiude gli occhi per dormire, ma sogna di nuovo Polska e la libertà e allora la mattina prima dell’alba piange come solo un prigioniero può fare.

Non ha via d’uscita e non la trova in nessun posto. Anche prima non l’aveva, ma combatteva per resistere. Aveva qualcuno per cui combattere, quel qualcuno ne offriva parecchie, di ragioni, e il dolore lo dimenticava. Ora è una bambola vuota e senza espressione e non sa per cosa vivere.

Per la sua Nazione? No, non è così patriottico ed altruista per pensare alla sua terra. Guardandola dall’alto di una qualsiasi cartina, la trova piccola, stupida ed insignificante. Non le dà nulla. Sperava che lo riempisse, ma si sente vuoto ogni giorno che passa.

Quando serve Russia, quando lo vede bere alcool, pensa di provare a dimenticare o a scappare dalla realtà. Guarda la vodka come un affamato guarda una tavola imbandita. Vorrebbe berla, tutta una bottiglia, anche di più. È sempre stato debolissimo all’alcool, vorrebbe vedere il suo cervello autodistruggersi e dimenticare, anche solo per poche ore. Fa così male che vorrebbe farsi lui stesso del male. Vorrebbe quasi provare ad obbligare Russia di fargli così male da venire quasi ucciso, come faceva un tempo. All’epoca soffriva, ma ora quasi lo vorrebbe con tutto il suo cuore. Anche il dolore potrebbe fargli dimenticare. Ma non accade nulla da mesi. Russia, anzi, lo fa sentire ancora peggio guardandolo come se fosse una bambola vecchia e malandata. Si sente ancora più depresso. Qualche volta alza lo sguardo nell’ufficio di Russia e incrocia con gli occhi le vecchie armi che usava in guerra. Vorrebbe essere abbastanza alto per arrivare a toccarle. Ma poi si ricorda che non gli è concesso né la vodka, né entrare nell’ufficio di Russia. Per questo si sente ancora più male e vuoto. È incredibile come la morte di Polska abbia lasciato questo marchio così vivo sulla sua pelle.

Non sorride più, forse l’ha dimenticato. Non parla mai, se non un servile ‘si, signore’ o ‘certo, signore’ o, peggio ‘qualsiasi cosa volete, signore’. Signore… Russia è mai stato signore con Lituania? No, Russia è qualsiasi cosa, tranne che un signore e mai lo sarà, se non con le sue sorelle, ma loro devono essere degli angeli per avere questa fortuna e Lituania è soltanto un giocattolo. Lituania, piccola Nazione insignificante, suo servitore nell’Unione Sovietica, non avrà mai il privilegio di essere meno che il suo fantoccio di carne umana.

“Lituania, attento o mi investirai!” dice, scherzoso, il gigante di fronte a sé, prima di aprire la porta del suo invalicabile studio e chiuderla dietro di loro. Lituania non può far altro che seguirlo, bianco e freddo. Nessuno può entrare nell’ufficio di Russia senza avere il suo permesso. Lui stesso ci è entrato solo un paio di volte durante la sua prigionia nell’Unione Sovietica. Di solito è Estonia ad aiutarlo con i documenti. Russia si fa spazio tra quella montagna di documenti e fogli buttati sulla scrivania.

“Non sarà facile, ma sono certo che in due ce la faremo. Allora…” inizia a cercare in mezzo a tutte quelle stampe “…bisogna riordinare e prendere i vari volumi di milizie russe e straniere, per eventuali necessità… Ah, Lituania, qui abbiamo i documenti che devi riordinare, io partirò da questi”

Prende i mano i vari fogli. A malapena gli legge. Riguardano i vari bombardamenti avvenuti a Londra durante i mesi precedenti e la quantità di aerei utilizzati dall’esercito tedesco. Inizia subito. Prende i documenti e li riordina. Il lavoro si fa sempre più lungo, fino a toccare la mezzanotte. Mezzanotte e non hanno ancora finito. Almeno su questo Russia è stato sincero. L’aveva notato ormai: il gigante lo ha osservato indagatore per tutte quelle ore e non accenna a lasciare gli occhi dal suo pupazzetto preferito. Lituania si sente ancor più in trappola. Vorrebbe sbattere la testa contro la scrivania, fino a quando non si sentirà così male da non sentirne la felicità.

“Molto bene, anche gli armamenti tedeschi sono andati. Lituania, per cortesia, potresti prepararmi dell’altro tè e qualcosa da mangiare? Fai anche qualcosa per te, dobbiamo continuare il lavoro e sembri già stanco” scherza, nascondendo il sorriso sotto la sciarpa. Lituania non lo ricambia, così come non ha mai ricambiato alcun sorriso dopo quel che è successo a Polska. Semplicemente, china il capo e raccoglie i resti del pasto di mezzanotte di Russia.

Si avvia verso l’uscita dello studio, badando a non inciampare col vassoio d’argento in mano. Un luccichio argentato lo costringe a voltare la testa verso il muro di fianco a lui. Inizialmente non lo vede. Sul muro è appesa la bandiera dell’Unione Sovietica, rossa e sporca del sangue delle loro terre. Al di sotto della bandiera ce ne sono altre: Russia, Bielorussia, Ucraina, Lettonia, Estonia e la sua, rossa come il coraggio dei suoi uomini, verde come le sue foreste e gialla i mille campi di grano delle sue terre. Nota, però un’anomalia: c’è un’altra bandiera insieme alle loro. Una bianca bandiera tagliata a metà di rosso svetta in mezzo a quel groviglio di stendardi. È in bella mostra, come per vantarsi di essere lì, insieme ad altri paesi, legata, anzi, piantata al muro. Dalla bocca dello stomaco di Lituania scatta una scintilla di fuoco che raggiunge il cervello. Quindi, Polska non è nient’altro che un trofeo da appendere al muro?

Polonia fantasma vede lo stesso, accanto a Lituania. Sente le sue stesse sensazioni. Vorrebbe esplodere per la vergogna. Si sente esattamente come ha pensato Liet: un trofeo da appendere al muro, una nuova carcassa per abbellire la terra bagnata di rosso di Russia. Sente lo stomaco contorcersi, il cuore scoppiare. Dalla gola esce fuori un ringhio di rabbia, i pugni prendono un lembo della sua divisa militare, quasi sul punto di strapparla. Si sente un cip cip vicino al suo orecchio. Polonia non lo sente, le orecchie appannate. Si volta verso Lituania, occhi rossi come il sangue, lo stesso che macchiava il suo corpo.

“Liet, uccidilo” gli sussurra, un grammo di rabbia finisce sulle orecchie del lituano. Nessuna risposta, nessuna reazione. Questa è come una scintilla su un candelotto di dinamite nel cuore del polacco. Fa dei passi pesanti e si mostra di fronte a Lituania, ancora cieco per la vista della bandiera, incapace di vedere il suo fantasma.

“Liet, è un ordine: uccidilo” Lituania continua a fissare la bandiera, una fiammella rossa brucia anche nei suoi occhi blu. Polonia non lo nota. Liet non lo ha mai deluso, non gli ha mai disubbidito, dopotutto. Perché ora esita? Lui era ed è un principe, Lituania il suo cavaliere. Un cavaliere deve ubbidire al suo sovrano. Questo è ciò che crede ancora Polonia. Toris, preoccupato, svolazza sulla testa del biondo e gli afferra una ciocca dorata, tirandola, nel tentativo di farlo retrocedere. Polonia si irrita e, senza nemmeno volerlo per davvero, dà un pugno al piccolino. Toris sbatte contro il muro, con un cinguettio di dolore. Il pigolio continua, implorando di essere ascoltato ed aiutato. Polonia dimentica che anche lui è un suo amico e si concentra di nuovo su Liet.

Afferra per le spalle il moro, ferocemente, come se volesse strattonarlo. Entrambi hanno il cuore in subbuglio. Una scarica elettrica percuote Polonia, ma lui non la sente nemmeno. Ha gli occhi all’infuori, furibondo, disgustato, usato, ferito e voglioso di vendetta. Vede in Lituania lo strumento grazie al quale può riuscire nel suo intento. Lo desidera così tanto che lo urla in faccia al lituano. Toris cinguetta frenetico, di paura.

“Lituania, il tuo principe ti sta ordinando. Uccidilo, Lituania, ubbidiscimi!” una seconda scarica elettrica percuote, questa volta, il moro.

“Lituania, stai bene?” chiede, ingenuamente, Russia.

Uno scatto. Una scintilla e un fuoco brucia e inghiotte il cuore del lituano. Lituania fa un verso sprezzante.

Tu credi che io stia bene?” chiede, disgustato, voltandosi verso il suo burattinaio, con occhi infuocati. Non c’è più il blu del suo cielo, solo rosso di un incendio nelle foreste lituane.

Getta a terra il vassoio d’argento, come se non valesse nulla. Con un balzo raggiunge e prende la bandiera polacca, con un bastone d’argento talmente affilato da parere una lancia. Rotola la bandiera bianca e rossa attorno al bastone. Russia vorrebbe dire qualcosa, ma fa in tempo. Lituania ricorda i vecchi tempi, quando c’erano le lance al posto dei fucili. Non prende nemmeno la mira, usa la sua forza, chiusa per anni e mai liberata, come lui.

La punta dell’argento trafigge la gola di Russia, tagliando in due la sciarpa bianca e candida. Il gigante si dimena in una pozza di sangue formata ai suoi piedi. Cade sulla schiena e si agita nel rosso come un pesciolino in cerca di acqua. E’ ridicolo e patetico e Lituania, arrabbiato, riprende la falsa lancia, la strappa dalla gola del mostro. Lo trafigge ora agli occhi, ora al cuore, ora alla bocca, lo disgusta talmente tanto che non vuole nemmeno ascoltare le sue urla da maiale. Gode, Lituania, gode come mai ha goduto della sofferenza di qualcuno. Continua a macchiarsi di sangue. Schizza per terra, tra i muri e macchia il corpo del lituano.

Russia smette di agitarsi, muore, come un bastardo. Lituania non è soddisfatto. Apre la grande vetrata, con una forza immonda, prende il cadavere del russo e lo butta giù. La testa si spacca, toccate le scale d’ingresso della prigione. Il corpo ruzzola giù per le alte scale, lascia sangue dietro di sé, tanto sangue. Il suo rotolare si ferma nei giardini dello stesso Russia. Russia ama i fiori, ne vuole tantissimi, soprattutto i girasoli, in ogni angolo della casa. Se avesse dovuto morire, lo avrebbe voluto fare in un campo di girasoli. Nemmeno il suo desiderio si realizza. Il corpo ruzzola in una parte del giardino dove il russo aveva sempre cercato di far crescere qualcosa, invano. Nemmeno le erbacce gli avrebbero fatto compagnia.

Lituania guarda il suo operato e cade in ginocchio, nella pozza di sangue del suo marionettista deceduto. La bandiera polacca cade dalle sue mani e si srotola sul pavimento. Si macchia, la metà bianca, di un rosso vivo e forte. Lituania alza gli occhi al cielo, pieni di lacrime, congiunge le mani come in una preghiera, ridendo. Polska è stato vendicato, il suo fantasma potrà dormire in pace, per sempre.

“Lituania, ti senti bene?”

Un attimo, un battito di ciglia. Il cuore di Lituania sbatte contro il petto, incredulo quanto lui stesso. Gli occhi si voltano intorno a lui: la stanza non è rossa, ma immacolata, la bandiera polacca è ancora sul muro, Russia è ancora vivo. Incredibile. Respira ed inspira così velocemente da sentirsi il fiato sul collo e l’aria mancare. Sembrava tutto incredibilmente vero e bellissimo. Ci avrebbe giurato che fosse stato tutto vero e che si fosse liberato della sua disperazione. È confuso, ancora scosso dalla sua fantasia che ha galoppato tra la sua sete di vendetta e la sua infelicità.

È stato falso, ma bellissimo. Ma anche pericoloso. Polonia fantasma, tra le braccia di Lituania, ha visto ogni cosa. Respira affannosamente, lasciando la presa, tremante. Si rende conto di aver sbagliato troppo tardi. Vede Toris per terra, tremante e pigolante di paura. Lo prende tra le mani, gli accarezza le piume arruffate e gli sussurra parole di scusa. Non voleva fargli davvero del male. Ma il pulcino sembra molto più preoccupato per Lituania. Si volta, terrorizzato, verso i due vivi. Polonia si allontana verso il secondo muro, terrorizzato anch’egli.

Lituania si volta lentamente verso Russia, ancora scosso, non del tutto cosciente. È stato come uscire dal proprio corpo e poi ritornarci, sputato là dentro, velocemente e senza capire come fosse accaduto.

La sua confusione si tramuta in paura, quando si volta verso Russia, seduto composto alla scrivania. Aveva dimenticato da mesi cosa significa aver paura di qualcuno che vive insieme a te, nella stessa casa. Aveva dimenticato cosa significasse avere il cuore galoppante in gola per il terrore di essere ucciso o maltrattato. Russia, in quel momento, lo sta terrorizzando. Anche solo il fatto che non stia facendo nulla, è assillante e pericoloso. Il suo sorriso da bambino è sparito. Lituania non riesce a decifrare quell’espressione e il fatto di non riuscirci, lo spaventa ancora di più. Si rende conto di non aver mai visto uno sguardo del genere nel viso di Russia.

Il ticchettio del pendolo in mezzo a quel silenzio è terribile e famigliare. Russia lo guarda così intensamente e in modo così serio da passargli tutte le emozioni, le sue emozioni, che Lituania non riesce assolutamente a decifrare. È tutto così incredibilmente orribile e familiare. Troppo familiare. Sembra quasi l’inizio di una storia dell’orrore, una storia che Lituania conosceva, ma che aveva dimenticato. Però, ora ricorda cosa significa avere un carceriere senza pietà. Sente di nuovo i muri stringersi su sé stessi, come una morsa maligna e claustrofobica. Lituania comprende di essere terrorizzato quando sente i ticchettii delle posate e delle tazze sul vassoio d’argento che ha fra le mani, scontrandosi e toccandosi fra loro, in una danza al ritmo della sua paura.

Russia non si muove, lo fanno i suoi occhi, verso il muro dove è incominciato tutto. Lituania non sa cosa stia guardando e spera di non saperlo mai. Non dura molto, una manciata di secondi, che sembrano secoli e millenni lasciati alle spalle. Russia rivolge di nuovo gli occhi verso i suoi. Sente il cuore urlargli di scappare, andare via, mandare tutto al diavolo. Russia socchiude le spire violacee, bollenti come una rabbia repressa da settimane e mesi.

“Vorresti usarla contro di me?” un battito manca nel petto di Lituania.

Cosa intende dire? Gli occhi azzurri si voltano lentamente di nuovo verso la parete. Si accorge che l’argento del bastone della bandiera polacca brilla come una striscia di luce in mezzo al nero del cielo, di cui la punta acuminata ne è la testa. Lituania volta di nuovo gli occhi verso Russia.

Non è possibile, non può averlo capito così in fretta, non può farlo, pensa ingenuamente il lituano, sperando del contrario, nonostante entrambi sappiano di sapere la verità. Gli occhi di Lituania non hanno cambiato espressione, così come quegli di Russia, eppure il lituano sente chiaramente delle gocce di sudore tranciargli la fronte e le guance. Il cuore, dalla gola, si sposta verso le orecchie, urlando, piangendo ed implorando di scappare. Russia sa e non fraintende. Dopotutto, i pazzi son desti.

“Non mi hai risposto” il cuore nelle orecchie del moro si cheta, stranamente calmo. Lituania riceve il colpo, senza protestare, con la testa leggera come un palloncino. Non risponde. Si volta, prova ad aprire la porta, molto più terrorizzato di come dimostra il suo volto apatico. Sente una grande mano, pesante, che ferma la sua. Russia raggiunge la maniglia della porta prima di lui. Lituania sente una morsa stritolargli il cuore, quando vede la stessa mano da gigante girare la chiave della porta, serrarla e nascondendola chissà dove. Il lituano rimane semplicemente lì, fermo, con il vassoio ancora in mano.

“Non mi hai ancora risposto, Lituania” dice Russia, riacquistando calma e la sua solita voce da bambino. I muscoli di Lituania si irrigidiscono come un blocco di ghiaccio. Le palpebre non possono più concentrarsi sul vassoio: Russia gliel’ha sfilato dalle mani e riposto sulla scrivania. Vuole essere calmissimo e, forse, ci sta riuscendo, ma con l’ansia di avere un mostro alle spalle. Il profumo di Russia lo avvolge completamente.

“Non so di cosa stia parlando, signore” i brividi lungo la schiena si chetano quando Russia gli poggia le grosse mani sulle spalle, fermandoli. Sospira, dietro di lui.

“Non ti conviene prenderti gioco di me più di quanto tu lo stia facendo ora” Lituania sente il cuore impazzire. Le mani di Russia, dalle spalle, si sono spostate una al braccio, l’altra ai capelli, giocando con le sue ciocche e col bottone della giacca. Le sue dita sfiorano e carezzano i polpastrelli di Lituania.

“Sai, se avessi usato quello sguardo in battaglia, non saresti finito in questa situazione” un altro colpo al cuore. I muscoli del moro si scongelano, diventando pastafrolla. Lo stomaco si contorce. Nel petto ha un treno in corsa. La guerra contro Russia. Polska e lui tra la neve, sconfitti. Russia lo cattura e lo porta via. Polska viene portato via da Prussia ed Austria. Brutti ricordi, troppi. Lituania chiude gli occhi, aspettando di ricevere un colpo. Niente, solo Russia che ride, una risata calda che lo soffoca.

“Cosa credi che dovrei farne di te?” dice, attorcigliando una ciocca mora tra l’indice “Mi ero dimenticato di punirti, tanto tempo fa…” Lituania getta nello stomaco un groppo di saliva secca e fredda.

“Q-Quando?” la mano scende verso l’orecchio, accarezzandone i bordi.

“Non te lo ricordi? Prussia era venuto a casa nostra e mi aveva chiesto l’invasione della Polonia” gli occhi di Lituania hanno dei brividi di paura, ricordando “Tu eri dietro la porta, Lituania…” un altro battito manca all’appello nel petto di Lituania.

Si, era dietro quella porta, aveva sentito ogni cosa. Doveva solo portare del tè e servire l’ospite. Non aveva potuto farne a meno. Aveva ascoltato la conversazione e aveva sussultato al ‘si’ di Russia. Aveva dato il vassoio ad Estonia ed era scappato al telefono per avvertire Polska. Non gli aveva creduto. Forse, se avesse insistito abbastanza, forse le cose sarebbero cambiate. Forse Polska sarebbe ancora vivo, forse Varsavia non sarebbe caduta. Forse non sarebbe scoppiata quella guerra che tutti temono.

Come avesse fatto Russia a sapere una cosa del genere, perché avesse ritardato così tanto la sua punizione, non riusciva a capirlo e il fatto di non riuscire a comprenderlo, lo terrorizza ancor di più. Più è ritardata la pena, più sarà straziante il dolore. Così funziona la mente di Russia. Lituania non ha niente da dire in sua difesa. È inutile contrastare Russia. Come si può andare contro la Nazione più grande e potente del mondo?

Malgrado ciò, il cuore di Lituania vuole scappare. Lo desidera così tanto che riesce ad ordinare al corpo di fare uno scatto in avanti. Ma Russia riesce ad afferrarlo in tempo per una manica verde scura. Lituania viene strattonato all’indietro, ma sbatte contro il muro dove le bandiere vengono sfoggiate con orgoglio. Colpisce pesantemente la parete, facendosi male ad una spalla. La bandiera lituana cade sotto di lui, prima di sprofondare lui stesso contro il muro, con la sua bandiera a fargli da mantello.

Russia viene trascinato dietro di lui. Sarebbe sbattuto addosso a Lituania, se non si fosse fermato in tempo artigliando la parete. Ma questo secondo colpo fa cadere la bandiera rossa dell’Unione Sovietica che, leggiadra, si adagia sulle spalle di Russia. Gli occhi di Lituania riprendono vita, dopo mesi di apatia. Nonostante la bandiera rossa si cali anche sulla testa di Russia, Lituania riesce a vedere i suoi occhi tristi e dispiaciuti.

“Perché mi costringi a farti del male?” la voce si è avvilita. È triste e profonda, ma dolce come quella di un angelo. Lituania si sente schiacciato e morto. Non sa come e non può scappare da nessuna parte. Russia sembra ancora più grande e pericoloso con la bandiera dell’Unione sulle spalle. Ha ancora gli occhi abbattuti.

“Perché ti fai del male, Lituania? Perché mi costringi a farti questo?” chiede, come se volesse una vera e propria risposta. Russia non vuole mai risposte, preferisce cercarle da solo, anche se sono sbagliate. Lituania, anche se così non fosse, non sa che dire. Russia chiede tante cose. Chiede perché esistano le guerre, perché la sua terra è sporca di sangue, perché muoiono i suoi fiori, nonostante li tratti come dei figli. Lituania vorrebbe morire, come i girasoli di Russia. Il gigante ad un palmo dal suo corpo, muove una mano verso la sua gamba e lo fa trascinare sotto di lui. Ora è per davvero in trappola. La bandiera lituana lo ha ancora seguito, nonostante questo brusco movimento.

“Povero piccolo Lituania… Povero piccolo bambino…” mormora Russia, più a sé stesso che a lui. Lentamente una grossa mano si adagia sul volto del moro, coprendolo totalmente. Lituania sente il suo veloce respiro  ingarbugliato nelle falangi. Il petto si alza e si abbassa velocemente, prova ad urlare, ma dalla mano non si sente nulla: Russia gli sta aprendo i bottoni della giacca ed è passato a strappare quegli della camicia.

Lascia il suo petto scoperto. Il tocco di Russia è freddo e gelido. Ma Russia è sempre stato freddo, anche le sue mani lo sono, come se tutti i ghiacciai e la neve della Madre Russia fossero rinchiusi in un solo corpo umano. Gli accarezza la pancia, delicato. Lituania sussulta e vorrebbe scappare e urlare, ma nemmeno ciò gli è concesso.

Le dita di Russia si concentrano in un punto sotto le sue costole e lì iniziano a scavare nella carne. Lituania si agita e si contorce, ma non riesce a muoversi: Russia è così grande da avergli bloccato anche le braccia e il busto. Inizia a piangere mentre la mano continua a scavare. È una trivella all’interno della sua carne. Sente la disperazione toccargli il cervello, per la sua incapacità di muoversi. Ha paura, tanta paura.

Ad un certo punto il suo corpo ha uno spasmo e smette sia di piangere che di tremare. Ogni cellula di sé stesso si pietrifica e rimane incatenata alla realtà di ciò che sta succedendo. Russia è riuscito a scavare nella carne, fino alle costole. La sua mano gigantesca sfiora una parte in particolare: le sue dita giocano e sfiorano la pelle e i muscoli del suo cuore. Mentre batte forte dentro di sé, Lituania avverte chiaramente i polpastrelli del gigante accarezzare il suo piccolo cuoricino. Non lo crede possibile. Rimane fermo, con gli occhi sbarrati, riuscendo solo ad ascoltare ciò che sta accadendo nel proprio corpo. È entrato nel panico, tanto da non riuscire nemmeno a muoversi. Russia china la testa verso di lui, posando le labbra vicino all’orecchio. Non vede il suo viso, per colpa della sua mano piantata in viso, ma sente chiaramente il suo profumo entrargli nelle narici.

“Non lo senti? Io ho la tua vita in mano” è la frase più crudele che Lituania abbia mai sentito. Le ciocche ghiacciate di Russia carezzano quelle fradice di sudore del lituano. Lituania non sa nemmeno se vuole scappare, troppo scioccato per fare qualcosa, anche per pensare. La mano nel suo petto scivola fuori dalla sua carne, lasciando dietro di sé un gelido addio. Lituania è ancora sconvolto, avendo sentito con le proprie orecchie la verità detta dal suo carceriere.

Non vuole più scappare, vuole andare via, ma non in quel modo. Vorrebbe rivedere Polska, dirgli quanto è stato idiota per non averlo ascoltato, chiedergli perdono per averlo abbandonato e abbracciarlo come faceva un tempo. Vorrebbe che la sua Nazione sparisca e che nessuno la voglia più ricordare. Gli darebbe la pace, quella sensazione. Vorrebbe che Russia non fosse così sadico nell’uccidere qualcuno, che lo facesse in fretta, senza dolore. Lui potrebbe, ma non lo fa. Avrebbe potuto stringere il suo cuore così forte da non sentire più l’aria nei polmoni. Ma non si può fare questo, se sei una Nazione. L’unico modo per morire è che un’altra Nazione invada la tua e la distrugga, fino a che non ci saranno nemmeno i nomi delle città, fino a quando non scompaia totalmente dalle carte geografiche. Questo Lituania lo sa, ma vuole che ciò non sia possibile.

La mano di Russia, quella sul suo volto, stringe forte fino ad avvertire un distinto crack e un gemito dalla bocca di Lituania. Un rivolo di sangue scende dal viso del moro, fino ad accarezzargli il lobo dell’orecchio.

Polonia fantasma sente poco sangue nel suo corpo, come se ne stesse fluendo fuori un intero fiume. Il cuore è pesante e le gambe molli. Gli occhi si fanno bianchi, la testa cala all’indietro. Sviene, cade a pancia in su.

Toris, volando vicino a lui, pigola terrorizzato.

“Povero, piccolo, ingenuo bambino…” sussurra Russia, dolcemente. Il bordo della bandiera dell’Unione Sovietica, con il simbolo dorato, bacia la goccia di sangue scesa sul suo orecchio.

Lituania vorrebbe che facesse il più male possibile, abbastanza per non pensare a nient’altro.

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** TeRzO cApItOlO ***


Lituania vuole morire. Lo desidera molto, troppo. Si sente spaccato in due, non solo nel fisico. Ha freddo, è buio. Non sa dove sia e poco gli importa. Russia viene lì sempre, non sa dire quando e quanto. Sente la schiena rotta e grondante di sangue. Non vuole più vedere Russia. Vuole che lo abbandoni lì e lo dimentichi, per sempre. Vuole sentire la vita scorrergli via. Com’è morire? Dev’essere bello, se tutti se ne vanno, prima o dopo. Proprio come i suoi re. Proprio come i suoi soldati. Proprio come Polska.

È buio. Fa freddo. È legato.

Non sa cosa siano: corde, lacci o stracci aggrovigliati? Non lo sa. I suoi sensi sono troppo deboli per sentirli. Ha le braccia legate dietro la schiena, sanguinanti e spezzate. Le ossa protestano ed escono fuori dalla carne. Fa male, ogni secondo, il suo corpo. Vorrebbe sbarazzarsene e andare via. Ogni luogo è il paradiso, in confronto a quello.

È buio. Fa freddo. È legato. La testa gira.

Anche il cervello è buio e freddo. È come se ci fosse una poltiglia nella sua testa. Non riesce a controllare i suoi tremiti, né a chiudere la bocca che sputa saliva acre. Il naso è pieno di bile e gocciola lungo la bocca. È fastidioso. Vorrebbe tagliarselo, sentire sangue caldo, al posto di bile ghiacciata. Si sentirebbe meglio. Si sentirebbe felice.

È buio. Fa freddo. È legato. La testa gira. Il sangue scotta.

Sarà incredibile, ma il suo sangue brucia nel suo corpo. Ha una caldaia nel cuore, brucia la sua carne e protesta nelle sue vene. È dispettoso, il sangue. Protesta, taglia, scorre come un fiume bollente e raggiunge il cuore, pazzo e instabile. Il sangue è diventato suo nemico. Lo preme anche alla testa. È assillante, desidera uscire dal suo corpo. Liberarsi di lui. Ecco, si, anche il suo stesso sangue lo odia. Si sente male e caldo. Vorrebbe strusciarsi contro i chiodi e vederlo scorrere, libero, fino a non sentirne più nemmeno una goccia. Si sente in gabbia.

È buio. Fa freddo. È legato. La testa gira. Il sangue scotta. La porta cigola.

Russia è tornato. Ovunque si volti, non c’è luce. Se c’è luce, allora lui torna. Comincia ad odiarla, la luce. Sarebbe bello se ci fosse solo il buio, il nero, il nulla. Lituania geme di dolore, sentendo delle mani giganti sulle sue spalle, rosse dalle mazzate e per la carne scoperta. Una mano esita e copre i suoi occhi. Stringe troppo forte. Fa male. Dalla gola escono dei singhiozzi di dolore. Russia non vuole mai che lo guardi in faccia, per questo stringe forte e gli fa ancora più male. Vorrebbe quasi che Lituania sia cieco.

“Sei ancora malato… stai ancora male…” inizia Russia, triste, un bambino tradito dai genitori. Lituania ascolta, ma non sente. Le spalle scricchiolano, la pelle protesta e urla come il sangue. Ha paura, non sa cosa voglia ancora. La seconda mano di Russia carezza i suoi capelli. La porta viene sbarrata dietro di lui. Ora c’è il buio. Il cuore sbatte contro il petto nudo e rosso. Vuole tante cose, ma non può averle. Si sente in trappola, chiuso in una scatola. Si abbandona alle carezze di Russia. Dopotutto, anche il più debole tra i prigionieri desidera anche solo un po’ di affetto. Sente la fronte bollente, ma non se ne cura. Vuole morire, anche di malattia, se possibile. Le mani di Russia sono sempre più dolci.

“Perché mi costringi a farti del male? Perché, Lituania…?” farnetica, chiede le stesse domande, cerca risposte dove non ce ne sono. Questo fa Russia, ogni giorno. Lituania non sa e non vuole risponde. Il non poter rispondere a quelle domande lo fa impazzire. Forse è già impazzito, più di Russia. Non riesce a rispondere, può solo lamentarsi con gemiti di dolore: la mano del russo si fa più aggressiva. Un’aggressività chiusa da anni ed anni.

“Mi odi così tanto…?” chiede le stesse cose, le stesse domande, riceve le stesse risposte. Lituania può solo scuotere la testa, un vano tentativo di dire una bugia. Odia Russia, ma non vorrebbe ucciderlo. Ucciderlo significa vedere sangue e il sangue vuol dire rivedere gli occhi scavati di Polonia, verdi e scuri. Russia si rimette in piedi, respira a fatica.

“Non è vero. Ti ho deluso molto. Ho deluso tutti, per questo mi odi…” continua a parlare, la sua voce è lontana, ma Lituania sente le lacrime nelle sue parole. Russia piange, guarda Lituania e si rende conto di aver sbagliato tutto. Ha sbagliato anche di averlo portato laggiù, in mezzo al nulla, a morire di freddo. Vorrebbe ritornare indietro e non uccidere Polonia. Vorrebbe essere molto più buono e…non fargli più male, non trattarlo più come un prigioniero, come un gioco. Essere un buon padre, amico, fratello. Vorrebbe tante cose e non può averle. E’ andato troppo avanti per tornare indietro. Ora Lituania piange, singhiozza, il collo spezzato in avanti.

“…Russia…”

“Sono un mostro…” tira su il naso, le lacrime scorrono sotto la sciarpa bianca “Questo dev’essere l’Inferno per te, Lituania” continua a vaneggiare, non controllando le lacrime “…dopotutto, gli angeli stanno in Paradiso, no?” non prova nemmeno a ridere, quella non era una battuta.

“Russia… fammi uscire…” supplica tra i singhiozzi, il piccolo angelo senza ali. Russia lo guarda. Gli ha spezzato lui, le ali. E ora ne sta pagando le conseguenze, con la sua mente instabile. Un bimbo a cui è stato insegnato ad ammazzare e ad uccidere.

“…ti prego…” Lituania piange, si sente male, vuole andarsene da quel posto buio, freddo e orribile. Ma non vuole nemmeno tornare a casa di Russia. Vuole librarsi nel cielo e non tornare più. Russia tace per un attimo.

“Gli angeli senza ali non hanno alcun valore” sorride tristemente Russia, tra le lacrime e qualche goccia di vodka bevuta poco fa, per dargli coraggio “Gli angeli, anche se senza ali, sapranno perdonare, Lituania…?” chiede, senza volere una risposta.

Si avvicina, si china. Lituania sente il suo profumo. Russia sa di fiori, di girasoli, di primavera, di estate. Vorrebbe che Russia sia veramente tutte queste cose. Vorrebbe che sia abbastanza buono per ucciderlo, subito, in quel momento. Vorrebbe chiederglielo, ma non ne ha il coraggio. Dopotutto, il suicida tentenna sempre prima di uccidersi. Si abbandona a quel profumo, intriso anche nella vodka, probabilmente deve averne bevuta molta, forse ha anche una bottiglia nella giubba.

Lo abbraccia e gli stringe le spalle, si macchia del suo sangue, affonda il volto nei suoi capelli. Lituania non sa che fare, che pensare. Smette di piangere. Il ragazzo guarda il soffitto, nero, ma non riesce a concentrarsi. Ha il cuore in subbuglio. Guarda il buio e per un attimo si sente come un insetto. Piccolo, disgraziato, schiacciato, morto.

Russia comincia a slegargli le braccia. Si liberano, ma sono ancora spaccate. Per un attimo gli nasce una speranza, di uscire da lì, di fuggire, di volare via. Russia si alza e cammina nel buio. Vorrebbe seguirlo, ma non riesce ad alzarsi, anche le gambe sono spaccate. Fanno male. Si sente bloccato nel suo corpo e non può fuggire da esso. Russia ritorna, gli occhi bassi, colpevoli e lucidi. Gli tremano le mani, mentre lo benda. Lituania si dimena.

“Non guardarmi!” quell’urlo così vicino lo spaventa. Ora è ancora più buio. Russia, con poca fatica, gli mette in bocca un panno. Sa di cenere e muffa, lo disgusta. Ma non può sputarlo: Russia gli benda anche la bocca. Non può nemmeno provare a parlare ora. Geme, piange, ha paura.

“Non urlare… ti prego, non urlare…” supplica tra i singhiozzi, Russia. Lituania non ci riesce. Nemmeno la libertà di urlare di paura gli è concessa. Non ha il diritto di parlare. Prova a mettersi in piedi. Il sangue continua a bollire, ad urlare. Sa che non può fuggire, ma ci prova. Russia lo colpisce, forte. Cade sulle ginocchia, nere per i colpi. Fanno più male di quel che credeva. Ora è terrorizzato. Russia fa dei passi pesanti, come se volesse spaccare anche il pavimento, oltre a lui.

“Cosa stai facendo, Lituania? Vuoi scappare? Volare via…?” l’ultima frase sembra averlo ucciso. Ora piange per davvero, sente i suoi singhiozzi, i suoi gemiti e la rabbia nella voce. Lituania, però, riesce a pensare solo che ha paura. Non ha mai visto Russia piangere e non vuole sapere cosa gli accadrà. Sente le mani giganti cercare qualcosa nella giubba, afferra qualsiasi cosa abbia preso da lì. Sente degli ingurgiti, molti ingurgiti. Alla fine, con la gola in fiamme, Russia tossisce freneticamente. Forse ha veramente portato con sé una bottiglia. I suoi passi traballano, non riescono a tenere il suo pesante corpo. Lituania trema, geme, quando Russia beve non è mai un bene. Fa ancora più male questa consapevolezza.

“Tu… tu vuoi volare via, angelo…?” chiede, senza più lacrime, con una voce diversa da quella che ha ascoltato fino ad ora “Vuoi… vuoi?” sembrava voler aggiungere qualcosa che solo Russia sa. Quel: Vuoi raggiungere il tuo amico? rimane nella sua gola, senza uscire fuori. Oggi non vuole far ricordare a Lituania dove sia Polonia. Vuole ricordargli dove si trova e chi è lui, la Nazione più grande del mondo. Nessuno fugge da lui, nemmeno gli angeli.

“Vuoi volare via, angelo?” chiede ancora, con la vodka in gola, nello stomaco e nella mente straziata. Lituania vorrebbe, vorrebbe volare via. Morire. Vuole vedere Polska e rivivere i vecchi giorni insieme. Vuole essere libero di scappare. Vuole essere libero di morire. Russia si getta su di lui. Lituania scalcia, prova ad urlare. Il suono viene inghiottito dallo straccio che ha in bocca. Le gambe sono spezzate, le braccia rotte. Non riesce nemmeno a difendersi.

Non sa cosa abbia Russia in mano, ma con quello taglia la sua pelle. La schiena viene percossa. Lo sdraia a pancia in giù, con le ferite ancora vive e la carne rossa scoperta dal giorno prima. Continua a fargli del male, Russia. Vedere il suo sangue lo fa sentire felice. Se gli strappa le ali, l’angelo non può volare più, no? Dovrà restare per forza con lui, ma non potrà mai amarlo, volergli bene. Russia lo sa, ma vuole ancora illudersi, così come si è illuso per anni ed anni. Così come pensava che la morte di Polonia avrebbe dato i suoi frutti.

Russia sente la pelle aprirsi, come stoffa. Getta il coltello, per lui è inutile ora. Afferra i lembi della carne, ne affonda le dita e tira, tira, fino a squarciarli, fino a toccare e spaccare le ossa delle spalle, dove ci sono le ali. Ignora il pianto di Lituania, ignora le sue suppliche, vuole solo che resti con lui, per prendere la sua libertà e giocarci fra le mani. Avere la sua fiducia e il suo cuore. Ma lo sa, dentro di sé, che questo non potrà mai averlo.

Per questo smette. Per questo si accascia vicino al suo piccolo giocattolo. Per questo piange e si vergogna. Per questo si dimena del pavimento pieno di sangue, come un verme nel pantano. Lituania continua a piangere, il dolore non passa, anche le sue spalle non si muovono più, distrutte anch’esse. Ora è completamente prigioniero, anche nel suo corpo. Russia, ad un certo punto, ride. Ride come solo un pazzo senza amore potrebbe fare. Lituania ascolta la sua voce da bambino trasformarsi in gracchiante e profonda, come quella di una bestia. Russia lo stringe a sé, due animali sporchi di sangue.

“Ora… ora non potrai più scappare. Ti ho strappato via le ali… vedi? Sarai mio per sempre, angelo” e continua a ridere, mentre alla risata si aggiungono anche le lacrime. Lituania sente di impazzire, non solo dal dolore. Trema, senza sangue in corpo, chiedendo in silenzio di perdonarlo, qualsiasi peccato abbia commesso per finire in quell’Inferno. Per un attimo Lituania crede veramente di aver avuto le ali e di aver avuto la possibilità di scappare, di volare via dalla sua gabbia. Per un attimo ci crede e per questo piange insieme al suo carceriere.

Per questo vorrebbe morire. Una vita del genere non è degna di essere vissuta.

 

 

 

 

 

Nie!!!” urla Polonia, con tutto il fiato che ha, nonostante ne abbia sprecato moltissimo in quei giorni. Ha la gola in fiamme, squarciata e sul punto di aprirsi in due. Gli escono urla secche e sgraziate. È un animale imprigionato in un’altra realtà.

Ha urlato, supplicato, pianto per essere visto, guardato in faccia, ascoltato. Si rende conto solo ora di essere invisibile. Da giorni segue Liet. Lo guarda dimenarsi nel suo sangue, in quella stanza dov’è stato rinchiuso. Lo vede disperarsi, lo sente piangere. Guarda Russia mentre lo sta praticamente tenendo in vita con un filo. Ma non riesce ad odiarlo, pensa più a Liet.

Liet, perché soffri così tanto per colpa mia?

Si mette le mani tra i capelli dorati. Gli tira, straziato dentro, come se volesse tagliarsi la testa in due. Pesa molto, la testa. È un’incudine di pensieri e disperazione. Vorrebbe staccarsela, fa troppo male. La tira all’indietro, continua a tirarla. La sfregia con i guanti della divisa, che lo strazio è troppo grande per lui.

Russia se ne va, decide di tornare a casa, per immergersi tra la vodka e le lacrime, più di quanto abbia fatto con Lituania. Traballa fuori nella neve, continua a piangere. Polonia fa lo stesso. Gli bruciano le lacrime negli occhi. Sono cascate di lava sulle sue guance. Cade in ginocchio, gattona vicino a Liet che, nel frattempo, si è stretto in bozzolo di carne e liquido rosso. Piange ancora e lo farà per tutta la notte. Polonia sporge due dita verso il moro. Queste attraversano la testa del ragazzo, come se fossero fatte d’aria. È anche incorporeo, oltre che invisibile. Questo è una pugnalata al cuore. È una gabbia stretta e soffocante.

“Liet, non mi senti…?” sussurra singhiozzando il polacco.

Non lo potrà mai fare, dice con gli occhi Toris, accucciato tra le travi sconnesse del pavimento, severo coi suoi occhi scuri. La gabbia si stringe ancor di più. Polonia si sdraia vicino all’amico, le labbra quasi toccano l’orecchio stracciato.

“Liet, sono io…” sussurra, un vano tentativo “Sono Polska. Sono qui per te. Non ti ho abbandonato… Liet, mi senti…?” supplica, con gli occhi rossi. Lituania continua a piangere. Si rannicchia ancor di più su sé stesso, in quella pozza di sangue. Ora è disperazione. È un cuore spaccato in due. Polonia soffre. Soffre perché è colpa sua e perché è cattivo. Lo è stato con Liet e non sa cosa fare. Vorrebbe stringerlo al petto, accarezzargli la testa, portarlo fuori di lì, scappare lontani, dove non c’è la guerra e dove possono vivere insieme, senza Russia, senza nessuno. Ma non lo si può fare: lui è morto, non c’è più, e Lituania sta soffrendo per un peccato che lui ha commesso. Sente una vena ingrossarsi, lì, vicino al cuore. Si gonfia e struscia sulla carne.

Ti voglio bene…” non sussurra più, vuole essere ascoltato.

“Io ti voglio bene, Liet. Ti voglio tanto bene…! Ti prego, ascoltami…! Sono qui, vicino a te! Liet, non piangere: sono qui…! Non sono andato via, sono qui, vicino a te! Guardami, Liet, guardami!”

Altre lacrime, altro sangue sul pavimento e tra le assi sconnesse. Altri cuori spaccati, altri sussurri inutili, altre grida, altra sofferenza.

Altra speranza infondata.

Lituania, ore dopo, smette di piangere e si addormenta, cullato dal dolore sulle spalle spezzate. Ha il corpo irrigidito su sé stesso, incurante della carne aperta che tira. Ha ancora il bavaglio e la benda sugli occhi. E’ solo una bambola con sentimenti e sensazioni. Non riesce a muoversi: il corpo è una cella troppo piccola per lui. Si lascia trasportare dal sonno. Il cuore è la sua ninnananna, che batte prima forte poi dolcemente. La sua musica lo calma e lo addormenta.

Polonia ha gli occhi rossi. Ha smesso di piangere e guarda il soffitto buio, senza più lacrime e quieto, quasi spento. La gola non ha smesso di sfogarsi fino ad ora. La sente cruda e scomposta, non prova ad aprire bocca: la mascella gli fa male e la lingua è secca. I capelli cadono all’indietro. Sono sempre biondi e puliti, nonostante il sangue per terra. A fatica, i suoi occhi si tengono aperti, stanchi e affaticati. Toris, piccolo e grassottello, svolazza vicino a lui fino a poggiarsi sulla sua pancia, dove ha posato la sua mano. Struscia le piume sulle nocche bianche, cerca di attirare l’attenzione e la ottiene. Polonia non si muove, ha perso tutte le sue energie.

“Liet sta morendo” afferma al nulla, la voce gracchiante per le urla di poco fa, la mascella dura. È un’affermazione che ha avuto sin da subito, sin dal primo giorno che Russia lo portò lì.

“Per colpa mia Liet sta morendo” un’altra affermazione al nulla. Toris, sulla sua pancia, attende un suo movimento. Guarda le labbra bianche di Polonia, interessato dal suono strano della sua voce martoriata.

“Ma è sempre stato così” continua, parlando con nulla “Liet è sempre stato molto buono con me. Io non ho mai fatto niente di buono per lui” la mano, quella gettata sul pavimento sporco, si poggia lentamente sulle palpebre stanche del ragazzo. Non ha più lacrime, ma ha paura che ne sgorgano altre “Io non gli ho fatto altro che male. Sono cattivo, Toris” il pulcino si sposta sul petto del biondo, avendo sentito il suo nome “Sono cattivo e inutile” singhiozza, qualche lacrime esce, timida, dagli occhi del polacco “Non ho mai fatto nulla di bello per Liet. Lui è sempre stato buono, io sono sempre stato cattivo” un altro singhiozzo lo percuote. Toris fa un saltello, spaventato per quel movimento improvviso “Russia ha ragione: lui è un angelo. Però gli angeli non stanno con le persone cattive come me. Perché continua a piangere per me?” un gemito straziato “Dovrebbe dimenticarmi…” ritorna il pianto e le lacrime. Toris rimane semplicemente lì, piegando la testa di lato e lisciandosi le piume.

Il pianto smette quasi subito. Dopotutto, senza lacrime, non è possibile piangere. Polonia rimane in silenzio per qualche minuto. Ascolta il respiro irregolare di Lituania, straiato vicino a lui. Continua ad ascoltare e ad osservare il soffitto scuro, in silenzio.

“Vorrei che si sentisse meglio, Toris” l’uccellino, sentito di nuovo il suo nome, alza la testolina di scatto “Vorrei abbracciarlo, fortissimo. Vorrei, tipo, accarezzargli i capelli: quando io sto male, mi piace che mi carezzino la testa. Vorrei… non essere invisibile, Toris” l’uccellino saltella giù dal petto del polacco. Le zampette toccano i capelli abbandonati sul pavimento. Sfrega col beccuccio un punto sensibile tra l’orecchio e la radice dei capelli. Continua questo sfregare, imperterrito, usando anche le piume della guanciotta. Per Polonia questo è un solletico, ma non riesce a ridere, non ne ha le forze. Ma apprezza il gesto.

Il pulcino si solleva in aria e svolazza sul corpo angosciato del lituano. Afferra delle piume dal suo collo e ne strappa due. Le lascia svolazzare per poi cadere sulla testa di Lituania. Ritorna a volare sulla testa di Polonia. Si poggia sulla radice dei capelli biondi, sulla fronte. Si aggrappa forte con le unghiette. Strappa altre due piume e le poggia delicatamente sulla fronte di Polonia.

Il polacco sente un bruciore sulla fronte che si quieta subito. Vede luce, la stanza sembra perdere colore ed appallottolarsi su sé stessa, come se fosse carta bianca. Anche il pavimento diventa di carta. È fragile e si rompe sotto la schiena di Polonia che precipita giù nel bianco.

Toris lo raggiunge, calmo, in picchiata. Il suo corpicino grassoccio diventa snello, le ali grandi, le piume ricrescono, lo sguardo severo diventa elegante.

Toris, da pulcino, è diventato una specie di falcone.

 

 

 

 

Lituania si sveglia. Un venticello sfiora il suo orecchio e un sole caldo gli fa aprire le palpebre. Si tira la schiena, stranamente, senza sangue o lacerazioni. Mentre controlla meglio cosa sia accaduto alle sue spalle, si guarda attorno. È un campo di grano, lungo, immenso, infinito, che si estende oltre la sua vista e il cielo chiaro e bollente. Non capisce.

Si alza in piedi, anche il fatto di poterlo fare gli sembra strano. Le spighe di grano gli accarezzano i polpastrelli illesi. Sente i capelli morbidi e puliti. Dov’è il sangue? Dov’è Russia? La stanza dov’era segregato è sparita? Perché non è ferito? Trova strano che sia guarito e che si sia ritrovato in quel posto senza essersene accorto. Si guarda attorno, solo campi di grano e colline gialle.

Decide di esplorare quel luogo. Cammina e cammina, riflette e non ci riesce. Semplicemente si lascia trasportare da quello strano avvenimento. Non ha voglia di farsi domande e di cercare risposte. Vuole solo guardarsi attorno e, se ci riesce, trovare qualcosa di interessante in questo nuovo paesaggio.

Riesce a superare due colline, con poca fatica. È piacevole questa passeggiata, anche se si sente un po’ confuso. Anche se monotono, tutto quel giallo gli piace. È famigliare e gradevole, due aggettivi giusti per tutti quegli anni di bianca neve e foreste nere. Il caldo si poggia sulle sue spalle guarite. È molto più confortevole dell’inverno russo, gli piace. Il vento non è freddo e nemmeno dispettoso, che cerca di strapparti la pelle a morsi. È solo un vento estivo, un vero vento estivo che vorrebbe accarezzarti e stringerti, come in un abbraccio. Qualsiasi cosa di questo posto è piacevole.

Supera un’altra collina, c’è qualcosa di nuovo. Vede sotto di sé una grande tavola, lì in mezzo al grano schiacciato. Si avvicina, interessato. I bordi della tavola scura sono morbidi, cerchiati e coperti da un velo bianco. Ci sono molti posti a sedere, tutti vuoti. Ciò che lo attira di più è il cibo, vario, di tanti tipi. Il suo stomaco si attorciglia su sé stesso. Da quanto tempo non mangia qualcosa? Non lo sa, sa solo che non lo fa da quando Russia lo aveva imprigionato in quella cucina fredda e buia.

Si siede a tavola, alla destra del capotavola, come faceva sempre quando era a corte. Non sa da dove cominciare. I piatti sono d’argento, così come i bicchieri e le posate. Strabuzza gli occhi, felice: c’è un piatto pieno di cepelinai, grandi come una mela, pieni di carne e formaggio e con la panna acida. Si meraviglia che ci siano, effettivamente, solo piatti lituani in quella tavola. Non si fa domande e riempie il suo piatto, affamato come non mai. Con la forchetta d’argento taglia in due il grosso gnocco, lo taglia ancora e cerca di addentarlo.

“Hey, Liet…” sente delle braccia magre e morbide cingergli le spalle. Si meraviglia: non credeva che ci fosse qualcuno oltre a lui. La voce era troppo bassa, sufficiente per comprenderla, ma insufficiente per identificarla. Osserva quelle braccia avvolte nel bianco, una delle due si è spostata sulla sua mano, con la forchetta e il boccone incastrato tra i denti. Non ha paura, né è nervoso, ma quella presenza gli fa sbattere il cuore in gola. La mano è bianca, pulita, gracile e molto piccola. Come quelle di un bambino. Polska ha le mani di un bambino, ricorda. Il cuore fa un altro balzo, lì, dentro il petto. Sente i suoi capelli dorati intrecciarsi coi suoi e il respiro calmo intessersi col suo.

“Questo sembra buonissimo. Ne prendo solo un boccone, va bene?” è un sussurro dolce, quello di Polska. Ora vede chiaramente delle ciocche dorate volare vicino ai suoi occhi, ondeggianti al vento. Le sue dita s’intrecciano con le sue e sollevano la forchetta fin alla testa del biondo. Polska mette in bocca il boccone, sente il sapore della carne e del formaggio e, lentamente, toglie i denti della forchetta dalle sue labbra. Lituania vede chiaramente una guancia bianca e un naso piccolo. Polonia sembra realizzare qualcosa e per questo stacca bruscamente le sue dita con le sue. La forchetta cade in grembo a Lituania, impassibile ed immobile.

“Scusa, era la tua forchetta, scusami…” raramente ha sentito Polska scusarsi per qualcosa e sentirlo ancora è molto strano per le sue orecchie. Lituania osserva l’argento caduto in grembo, con il cervello e il cuore in subbuglio. Lo stomaco si attorciglia su sé stesso, non per la fame. Forse non ha più fame. Le braccia di Polska, con molta timidezza ed esitazione, si stringono vicino all’ombellico. Si sfiorano e si attorcigliano, le dita. Polska dev’essere nervoso.

“Io… Non so cosa dire, Liet” inizia, ancora più imbarazzato e con dell’altra esitazione. Ha la voce inclinata, nota Lituania “Da un lato vorrei ringraziarti per non esserti dimenticato di me, ma dall’altro… ecco, penso che fosse stato meglio se l’avessi fatto, Liet” la sua voce è ora un sussurro dietro la sua nuca. Lituania non risponde, ha gli occhi concentrati sulle dita bianche di Polska attorno alla sua pancia. Il biondo prende un forte respiro.

“Avresti sofferto di meno. Sarebbe stato, tipo, che io muoio, tu ti saresti dimenticato di me dopo una settimana o due e… basta. Non avresti sofferto così tanto per un’imbecille come me” dietro la nuca sente il soffio di una risata, tristissima.

“Ma credimi, Liet: non ti ho mai voluto così tanto bene come ora. Io…” un altro respiro pesante “…io ti voglio bene, Liet. Mi sei mancato tantissimo, anche se ero vicinissimo a te. Non…” un altro respiro, più veloce e straziante “Non credevo che ti saresti sentito così male per me. Io…” esitazione e dei deglutii “…non sono niente in confronto a te. Vorrei poterti stare vicino, ancor di più, molto più di come facevo quando eravamo alla corte. Anzi, lì ho dato il peggio di me con te” un singhiozzo spaccato in due. Polska sta piangendo e Lituania non fa altro che ascoltare, ancora concentrato sulle mani del ragazzo che ora si sono strette a pugno.

“Vorrei che non fossi più solo, Liet. Vorrei ritornare in vita e darti una mano nella casa di Russia. Ti vorrei difendere da quel che ti fa, ma non… non…” un alto singhiozzo. Lituania stringe le mani bianche di Polska con le sue, anche lui trema. Ha le lacrime agli occhi.

“Vorrei tante cose, Liet, ma non posso più averle. Sono stato cattivo con te, sempre, e vorrei tornare in vita soltanto per essere buono con te. Sono un’idiota inutile e cafone… e… e ti voglio tanto bene, Liet” Polonia geme, finalmente gliel’ha detto, ma piangendo… si sente patetico “Te lo dico col cuore, Liet: ti voglio bene. Avrei voluto dirtelo molte più volte, ma pensavo solo a me perchè sono egoista e cattivo e… Riesci a capirmi?”

Lituania stringe ancora più forte le mani con quelle di Polska. Respira a fatica, le lacrime gocciolano sui suoi pantaloni, trema dalla testa ai piedi, col cuore nella gola. Vorrebbe dire tante cose, ma la gola è bloccata. Si è accartocciata e si è chiusa, non escono altro che gemiti, parole a metà, pianti sommessi. Ricorda anche che non ha mai visto Polska piangere, solo una volta, quella volta era morta la sua regina, Polska l’amava e la venerava e non aveva nessun altro se non lui. Polska si vergogna di mostrarsi così debole e ora il suo fantasma lo sta abbracciando. Alza la testa, trovando un po’ di stabilità. Si alza dalla tavola e si volta. Si, è proprio Polska, in lacrime, con lo sguardo basso e vergognoso, i capelli ondeggiano al vento e brillano d’oro. Gli è mancato, anche solo la sua figura gli è mancata.

“Ti voglio bene anch’io, Polska…” dice, con le lacrime che si liberano e le braccia attorcigliate attorno al petto, come se avesse paura che possa cadere per terra. Le unghie s’incastrano nella carne, quando Polska alza gli occhi su di lui. Le lacrime fanno rosse le sue guance e lucidi gli occhi. Gli sono mancati anche i suoi occhi, non verdi e paludosi del cadavere, ma piccoli smeraldi incastrati nel bianco. Il biondo tira su col naso. Le sopracciglia in basso e le labbra timidamente rivolte all’insù.

“…non mi abbracci?” chiede, con un filo di voce e allargando le braccia. Lituania si avvicina lentamente a lui. Ha paura che sia tutto falso, uno stupido sogno come tanti altri che ha fatto in quei mesi. Eppure sembra tutto così vero… Ci vuole credere con tutto il suo cuore, questa volta. Una mano artigliata si stacca dal suo fianco e, tremante, si avvicina alla guancia rossa ed umida di Polska. Si, è vero, è lui ed è vivo. Gli trema il labbro per questa consapevolezza.

“S-Sei tu… veramente?” il sorriso timido di Polonia diventa meno timoroso. Strizza gli occhi, brillano come veri smeraldi.

“Abbracciami, Lietuva!” e lo fa, lo abbraccia così forte che quasi teme di spezzarlo in due. Il naso vuole sentire il suo profumo, la mano i suoi capelli morbidi e dorati, l’altra mano stringe il suo corpo, come per controllare se le sue ossa siano al loro posto. Si, non sono spezzate, le vertebre sono sane e dure, non scollegate e nemmeno frantumate. Vorrebbe quasi prenderlo in braccio, tanto è felice e tanto piange. Lo fa anche Polska: sente le sue lacrime sul suo collo e tenta disperatamente di non singhiozzare e di smettere. Pensa ancora di essere un principe e un principe non piange di fronte al suo cavaliere. Lo trova buffo questo comportamento. Ma qualsiasi cosa di Polska la trova buffa.

Non hanno altro da dirsi, basta solo questo. Quando si ha un vero amico, non servono le parole per comprendersi. Lietuva e Polska non ne hanno bisogno. Continuano ad abbracciarsi, Lituania lo bacia sulla fronte, Polonia sulle guance. Vorrebbero che sia tutto vero e non dover più tornare indietro.

Dopo un po’ si ritrovano sdraiati per terra, uno affianco all’altro, molto vicini, quasi come se temessero di sparire da un momento all’altro. Lituania non riesce a smettere di accarezzare i capelli di Polonia, che si confondono col grano. Il polacco ha gli occhi rossi e si sente molto stanco, non solo per aver piano molto, il moro altrettanto. Mentre gli pettina i capelli con le dita, si meraviglia che siano così dorati e puliti. Ricorda il colore ramato del suo cadavere, sulla sua pelle e su i suoi vestiti. Era come aveva detto Russia: bianco e rosso, come la sua bandiera. Non fu solo un’osservazione crudele.

“Com’è possibile…?” chiede, di punto in bianco, Lituania. Polonia continua a guardarlo negli occhi. Non sorride, né si sforza di fare qualcosa. Capisce cosa intende dire, non c’è bisogno di aggiungere altro.

“Non lo so, Liet. In qualche modo sono qui e non vorrei più tornare indietro…” afferma, stanco e triste. Lituania non ricorda di averlo mai visto così serio o triste per così tanto tempo.

“Stai… stai bene, almeno?” Polonia annuisce dopo un po’ e non aggiunge nulla per qualche minuto. A Lituania basta questo, è semplicemente felice di averlo vicino e di sapere che sia tutto vero.

“Posso, tipo…” un sospiro “Erm… tenerti la mano?” abbassa gli occhi, imbarazzato. Lituania non pensa che bisogna vergognarsi di qualcosa. Dopotutto, lui stesso, da quando lo ha abbracciato, non fa altro che carezzare i suoi capelli. E lo fa anche ora. Annuisce con un sorriso all’amico e gli tende la mano. Il biondo, timidamente, molto timidamente, la sfiora e la tiene stretta forte, molto forte. Passa un minuto di imbarazzo per Polonia.

“Scusa è che… potrei anche non poterlo fare mai più…” sussurra, col cuore nella gola. Deglutisce, sentendo la saliva secca ed acerba in bocca. Lituania lo ascolta, vorrebbe non perdersi nemmeno una parola. Sarà strano, ma anche la sua voce gli era mancata.

“Che vuoi dire?” Polonia ha sempre avuto lo sguardo basso e continua ad averlo. Col pollice percorre le nocche rosate di Liet. La mano è morbida e senza alcun graffio, come ha voluto Toris che ora lo osserva, da lontano, sorvolando il cielo. Da lassù percorre le nuvole, leggiadro, veloce ed elegante. Lituania non lo vede, ma Polonia sente la sua presenza lì, in alto, sopra la sua testa.

“Non so per quanto tempo posso restare qui. Forse sarà l’ultima volta che ci vediamo, forse non lo sarà, forse me ne dovrò andare via, proprio ora. Non so cosa posso o non posso fare qui con te, Liet” le orecchie di Lituania affondano nelle sue parole, abbracciate e cullate dolcemente. Questi ragionamenti non lo sorprendono, aveva una consapevolezza del genere già da tempo, forse da quando si era seduto a quella tavola, forse da quando Polonia lo ha abbracciato. Ma viene comunque trascinato dalla tristezza.

“Spero che non sia l’ultima volta. Mi sei mancato tantissimo” lo dice col cuore. Polonia lo capisce, per questo sorride, per questo tiene ancora più stretta la sua mano.

“Lo spero anch’io, ma non lo decido io” guarda negli occhi il moro, con occhi lucidi “Te l’avevo detto col cuore: io ti voglio bene, Liet” sospira una risata malinconica “Avrei voluto dirtelo prima, tante volte…” Lituania lo osserva, anche lui con occhi lucidi. Il ragazzo poggia un braccio sulla schiena del biondo e lo trascina a sé. Lo abbraccia nuovamente, ricambiato da Polska. Gli lascia un bacio sulla fronte, impietosito e commosso. Anche lui avrebbe voluto dirgli tante volte che gli voleva e gli vuole bene. Non ne ha mai avuto l’opportunità e ora lo ricorda in ritardo. Il cielo diventa velocemente scuro, s’ingrossano le nuvole, ma i due ragazzi non lo notano. Non subito.

Si sente un fischio nell’aria. Polonia alza al testa di scatto: Toris sta volando in cerchio, sopra di loro, vicino alle nubi nere. Il sole è scomparso, il vento è ghiacciato, sferza e taglia. Polonia si scioglie dall’abbraccio e si alza in piedi. Si guarda attorno: non c’è più la tavola, nemmeno il grano è giallo. È scuro, quasi nero. C’è qualcosa che non va. Polonia sente un pericolo invisibile avvicinarsi a Liet. Non vuole che gli accada qualcosa.

Lituania avverte anche lui il pericolo, per questo alza il busto, occhieggiando attorno a lui. Un brivido gli percorre la schiena. Sente un vento ghiacciato scivolargli sotto i vestiti. Sulla schiena sente qualcosa aprirsi, sulla pelle. È quasi fastidioso, questa sensazione. Si sfiora la schiena, la trova bagnata. Ritira la mano e rimane sbalordito di trovarla rossa ed umida. Ricorda Russia e le coltellate dietro la schiena, le mazzate e le parole distrutte dalla vodka.

Trema, ha paura. Guarda quella mano come se non fosse la sua. Il sangue sulle dita scivola via e macchia anche i pantaloni. Più ricordi reali ritornano alla luce. Non dovrebbe trovarsi lì, in quel campo di grano. Ricorda il buio, la paura, Russia, le sue mani da gigante e il freddo di quel posto. Gli trema la mano, sente gli occhi lucidi, il cuore scoppiare. Polska gli afferra la mano, la tiene stretta nella sua, bianca e splendente. I suoi occhi s’incrociano con i suoi azzurri, ma non riesce a guardarli.

“Liet, va tutto bene, qui ci siamo solo io e te. Va tutto bene” lo dice così fermamente che vorrebbe crederci, con l’anima e il cuore, ma non ce la fa. Altri ricordi. Il nulla, la consapevolezza di non udire né sentire. Il bavaglio sporco in bocca, la testa che gira, il sangue sulla schiena. Ha paura e non vuole tornare da Russia. Polonia si getta vicino a lui. Lo abbraccia forte e invita la sua testa a nascondersi nel suo collo.

“Liet, non devi avere paura, non c’è niente di cui aver paura” lo dice con molta più convinzione. Lituania non lo sa, ma Polonia ha visto e sente la presenza di Russia, lì fuori dalla mente del ragazzo. È entrato nella stanza e Liet, ovviamente, la sente. Eppure non si sveglia.

Polonia vede, tutto ad un tratto, senza averci riflettuto prima, un via d’uscita da quel girone infernale dove Lituania è finito per sbaglio. Osserva Toris in cielo che volteggia nervoso sopra la sua testa. Polonia non sa se il suo piano possa essere un successo. Si sente solo, vedere Liet in quello stato lo ha ucciso, non vuole più vederlo così. Dicono che la morte sia la medicina migliore mai creata. Polonia sente queste parole, rimbombano nella sua testa. No, non è vero, ci dev’essere un altro modo! Non la vede, una seconda possibilità. Stringe più forte Liet. Non riesce a pensarci.

Qualcosa si rompe, sotto i piedi di Lituania, sotto il suo peso. Il terreno si è spaccato e si è creata una crepa, abbastanza grande da far cadere dentro Lituania. Polonia non riesce ad afferrarlo in tempo, che cade dentro, un tunnel infinito, coronato da buio e dagli urli di Polonia. Russia lo ha portato indietro, nel modo più violento possibile.

Lituania si sveglia, apre le palpebre e non riesce a vedere niente. Tutto è buio o sfocato, ha il cuore nelle orecchie. Ha paura. Immediatamente sente le mani di Russia sulle sue spalle. Riesce a vederlo ora: è di fronte a lui, lo tiene sollevato. Gli fa male la schiena, gocciolante di sangue. Le ferite si sono riaperte. Nella mente malata di Russia, sbattere Lituania contro i muri come se fosse un giocattolo è normale, soprattutto se, oltre alla psiche, ad essere annebbiata è anche la mente. C’è puzza di vodka, terribile ed insopportabile. Lituania si sente soffocare, anche per la confusione. Non capisce: era in Paradiso, perché ora è ricaduto all’Inferno?

Prova a liberarsi, ci riesce. Le sue braccia e le sue gambe non sono guarite, ma ancora paralizzate e spezzate. Cerca di gattonare lontano. Un fluido di nero veleno scorre nelle sue vene. Implora di scappare e di nascondersi. Lituania non può fare altro. Vede un bancone e, ingenuamente, si nasconde dentro, tremante. Si poggia le mani sulla testa, si copre il volto. Tenta di convincersi che, no, quello non è vero, è tutto falso, è solo un incubo. Sa che non è vero, sa che è spacciato. Il silenzio che segue è assillante e pericoloso. Lituania si tappa le orecchie, terrorizzato più dal silenzio che dal caos. Tenta di non piangere. La puzza di vodka si avvicina sempre più. Vede un piede di Russia avvicinarsi al suo nascondiglio. Russia dev’essere confuso, colpa dell’alcool, per questo non riesce subito a vederlo. Un pesante colpo fa tremare il bancone, sulla testa del ragazzo.

“Lituania…” strascica una voce non umana. Il ragazzo reprime un sobbalzo nell’udirla “Piccolo, dove sei…?” strascica ancora la voce confusa e spezzata dalle lacrime. Russia non vorrebbe fargli del male, ma il suo corpo e la sua mente glielo obbligano, un ritornello che deve compiere ogni volta. Un piccola vocina gli supplica di smetterla, l’angelo non può più volare e ha capito il suo sbaglio, perché continuare il martirio? Un’altra voce, più energica e disumana, grande e potente per gli anni e per l’infanzia distrutta, risponde che non c’è una vera ragione. Russia lo vuole e basta, l’istinto glielo grida. Perché dovrebbe fermarsi? Perché Polonia ha Lituania anche dopo la morte? Per quale incantesimo o per quale maledizione? Perché il polacco ha un angelo, il suo angelo, e lui invece è solo? Queste domande lo fanno arrabbiare e il non poterle rispondere lo fa piangere.

Lituania geme e ha paura. Russia lo ha trovato. Lo afferra per una gamba e cerca di trascinarlo fuori da quel buco. Il ragazzo, però, è terrorizzato e il terrore è più potente della paura. Ti spinge a fare di tutto per la tua sopravvivenza. Lituania afferra la prima cosa che ha vicino. È qualcosa in acciaio e duro, sufficiente per tenersi aggrappato. Sente le ossa spaccate delle braccia lamentarsi ed irrigidirsi. La soglia del dolore di Lituania, tuttavia, è molto alta, quindi ingoia il dolore e si tiene stretto. Lo fa, fino a che Russia non lo strattoni altre tre volte. Fino a che alla quarta non riesce a trascinarlo fuori con quel pezzo di metallo.

Russia sembra una bestia. Nell’oscurità gli brillano gli occhi di una luce violacea, crudele, arrabbiata, disperata. Lituania non riesce più a tenere in mano il pezzo di metallo, quindi lo lascia e cerca di sgattaiolare di nuovo nel suo nascondiglio, il posto più vicino dove ripararsi dalla furia del russo. Russia afferra quel pezzo di metallo staccato e colpisce Lituania.

Il sangue schizza sui muri e sul pavimento. Sente le sue urla. Continuano fino a quando la gola non ha più forza né voce. Lo colpisce ancora, ancora e ancora. Non smette. Più supplica il ragazzo, più lo colpisce. Più urla, più i colpi diventano potenti. Più piange, più spacca le sue ossa. Lituania comprende in ritardo questa cosa. La comprende quando si rende conto di voler rivedere Polonia e di voler morire. Questa volta per davvero.

Con questa consapevolezza, smette di urlare, di dimenarsi e di pregare il pazzo di non fargli del male. Russia continua a colpirlo col rubinetto della cucina. Non sente più nulla, per questo si ferma, confuso. Un animale senza vista né udito. Lituania rimane fermò lì, nel pantano. Anche lui non sente né ode nulla e, sinceramente, non gli importa.

È completamente bloccato nel suo corpo e non riesce a fare nulla, né ci prova. Rimane a fissare Russia, e quel ‘perché’ non riesce a volare via dalle sue labbra. Vorrebbe chiedergli perché gli fa questo. Perché vorrebbe ucciderlo e perché, se lo desidera, non lo fa subito. Vorrebbe sapere dove sia Polska e spera che non lo abbia visto in quello stato. Spera di no, è certo di essere una carcassa aperta e scuoiata.

Avrebbe pianto se avesse saputo la verità. Polonia dovette guardare anche questa tortura, questa punizione senza perché. Gli escono fiamme dagli occhi, nel volto scuro e nascosto fra i capelli dorati e le mani bianche. Decide che Lituania non merita questi castighi. Decide di portarlo via da Russia. Non deve nemmeno toccarlo lui, maiale. Una bestia non deve nemmeno guardare un angelo. Che muoia nella solitudine, quel cane da porci sovietico, pensa. Lituania è e sarà suo.

Avrebbe dovuto soltanto pregare Toris per un’ultima volta, un’ultima volta nei suoi sogni e, questa volta, Liet non si sarebbe più svegliato in quell’Inferno. Avrebbe avuto il Paradiso che merita, insieme a lui, com’è giusto che sia.

L’avrebbe avuto soltanto lui e si sarebbe salvato, per sempre.

 

 

 

 

 

 

Lituania sente un bisbiglio dolce vicino al suo orecchio. Apre gli occhi, si rende conto di essersi salvato una seconda volta da Russia e di essere scappato di nuovo in quel luogo misterioso, questa volta mutato dal giallo al verde. Gli piace quel colore. Affianco a lui, seduto sulle ginocchia, c’è Polska, sorridente e con un’aria pacata. Non ci fa caso, lo stomaco e il cuore si attorcigliano di nuovo.

Ricorda meglio Russia e di quel che gli ha fatto. Non vuole più tornare indietro. Polska lo ha salvato di nuovo. Gli occhi lacrimano, senza un vero perché. Prende le mani del biondo, veloce, e, in grembo, le bacia, più volte. Ha avuto paura del gigante bianco e non vuole altro che il suo amico. Le mani di Polonia si muovono un po’, commosse.

“Liet, non piangere…” in effetti è vero, sta piangendo, eppure non singhiozza né fa rumore, è solo molto felice di avere di nuovo la libertà. Ha un buon sapore, la libertà. Una mano bianca si libera e carezza la sua testa castana. Ricorda che Polonia non lo faceva mai, ma non ci fa caso, è scosso da quel gesto. Dopo un po’, smette di piangere, sazie le lacrime. L’amico riesce ad abbracciarlo.

“Non tornerai più laggiù. Sarai qui, quanto vuoi, va bene?” chiede, gentilmente. Lituania annuisce, asciugandosi le lacrime. Polonia fa lo stesso con le sue. Aveva pianto anche lui, di nascosto. Non vuole staccarsi da Lituania. Forse perché teme che possa andarsene come l’ultima volta. Se le cose andranno bene, allora starà con me per sempre, pensa, eccitato e felice. Si alzano in piedi, ancora con le mani strette le une alle altre. Non riescono a fare a meno di toccarsi. Forse temono che scompaiano di nuovo o che sarà davvero l’ultima volta che possono guardarsi, parlarsi, abbracciarsi, toccarsi. Anche Lituania non vorrebbe andarsene, teme anche lui che possa accadere qualcosa e tornare in quell’Inferno. Polonia si stacca dolcemente, prendendolo ora per le spalle.

“Ti va di giocare?” chiede, con un tono diverso e più allegro. Questo cambio improvviso di atteggiamento è quasi sospetto, ma nei sogni non ti chiedi nulla né vorresti delle risposte. Per questo Lituania annuisce, anche perché vorrebbe stare con Polska per più tempo possibile. Annuisce ancora, più forte di prima.

“Che ti va di fare?” Polonia indica dietro di sé. Non l’aveva notato, ma dietro di loro c’è un lago, ancora più famigliare. Lituania non si chiede niente, quel paesaggio verde e blu gli piace e questo basta. È incredulo per la bellezza di quel luogo. Polonia sembra molto più allegro.

“Andiamo a nuotare? Non lo facciamo da anni” il suo sguardo diventa supplichevole quando nota l’esitazione del moro. Lituania trova quell’ espressione semplicemente molto buffa “Dai… Andiamo, Liet!” gli esce una risata, sincera, rara in quegli anni.

“Non ho mai detto di no” Polska sembra scoppiare di gioia.

“Va bene! A chi arriva per primo!” senza aggiungere nulla, il polacco inizia a correre verso l’acqua. Lituania, d’istinto, lo insegue. Si lasciano dietro parti di vestiti e alfine si gettano entrambi in acqua, nudi. Polonia inizia già a bagnarlo e a spruzzargli contro. Non si agita né si sente preoccupato. Si lascia semplicemente andare. Dopotutto, si sta bene lì: l’acqua è calda, c’è il sole, non c’è una nuvola in cielo ed è felice di rivedere e giocare con Polska, come facevano un tempo.

Gli piace stare lì, non vorrebbe andarsene da nessun altra parte. Oltretutto, Polonia sembra molto più affettuoso di come lo ricordava…

 

 

 

 

 

Russia riapre, anzi, sfonda la porta. Si regge a malapena sulle gambe. Si tiene in piedi sorreggendosi alla porta cigolante. Si sente male e ha bevuto ancora troppa vodka. Ma non può farne a meno: non riesce a guardare Lituania se non con un piccolo aiuto.

La stanza è ancora buia, la luce è nascosta dietro le travi di legno, la cucina cade a pezzi, così come il tavolo e il pavimento di assi crepitanti. Lituania è lì dove l’aveva lasciato: sotto al bancone della cucina, sdraiato sulla schiena ancora sanguinante ed aperta, braccia abbandonate e gocce di sangue sui muri. In un piccolo momento di lucidità, si rende conto di quanto sia orribile quel che sta guardando. Entra dentro, ancora traballante. Si getta sul tavolo e, con molta fatica, si siede sulla sedia. Questa volta vuole essere calmo.

Guarda Lituania, perplesso di non vederlo muoversi o tremare per il freddo. Lo ammette lui stesso: quella stanza è terribilmente fredda. Si sente in colpa solo per questo. Lituania è ancora immobile, stracciati i vestiti, per terra, immerso nel sangue che gli fa da indumento. Russia inizia ad avere un minimo di lucidità. Si chiede per quanto tempo ancora abbia intenzione di tenere prigioniero Lituania. Si risponde che, no, non troppo tempo, solo qualche giorno e poi basta. Ha patito a sufficienza.

Non ha bevuto così tanta vodka come nelle ultime volte, ma si sente molto più sveglio. Non è arrabbiato e nemmeno trova un motivo per farlo. Metà corpo del ragazzo steso lì è avvolto nell’oscurità, sotto al bancone, quasi invisibile. Si chiede se sia stato per altri due giorni là sotto, a patire e ad aspettarlo. Si risponde di si, notando che non ci sono impronte sul sangue per terra. Oltretutto, Lituania non potrebbe ancora muoversi o trovare un motivo per farlo. Il cuore torna umano e caldo. Decide di portarlo a casa, via. Ha sofferto abbastanza, basta così.

Si avvicina, senza più troppo alcool nel sangue e si china vicino al ragazzo. Sembra dormire, pensa Russia. Lo troverebbe tenero, se Lituania non avesse tutto quel sangue sul corpo e non vedesse quella carne aperta e straziata. Riesce a poggiare una mano sulla sua pancia. Lentamente inizia a premere e a scuoterlo un po’, quel che basta per svegliare una persona. Non ha più lacrime, non ne vuole più avere. I suoi occhi sono stanchi, chiedono anche loro la parola fine a questo strazio.

“Piccolo, svegliati. Ti riporto a casa. Estonia e Lettonia ti stanno aspettando” ha detto quelle parole d’istinto, non rendendosi subito conto della poca importanza che potrebbe avere per il ragazzo l’ultima frase. Lituania non si muove, ancora fermo nel suo sangue. Russia si avvicina ancora di più. Vorrebbe guardargli il viso, ma è troppo buio. La mano inizia a fare dei movimenti circolari, quasi come se fosse una carezza.

“Piccolo, andiamo a casa. Ti preparerò del buon borscht e poi andiamo a riposarci in un bel letto caldo. Va bene?” chiede, con molta più gentilezza e calore di quel che credeva di usare. Lituania ancora non si muove. Russia è perplesso, ma non è arrabbiato. Nota che la pelle, quella salva dal rosso, è bianca. Troppo bianca, grigiastra quasi. Avvicina la testa all’oscurità, sotto al bancone.

“Lituania?” ancora nessuna risposta. Russia è ancora più perplesso e una piccola consapevolezza si sta formando nel suo cuore. Il gigante bianco inizia ad aver paura. Nota un particolare: il petto del ragazzo, sin da quando è entrato, non si è né alzato o abbassato. Trascina velocemente il ragazzo fuori dal buio. Il volto di Russia è impassibile, scavato di nero dall’oscurità e dalla paura. Lituania è molto più magro di come lo ricordava. In realtà, ricorda, per tutti quei giorni non gli ha dato mai da mangiare. Se fosse stato umano, sarebbe morto il primo giorno, per colpa delle torture. Russia gli afferra le spalle e lo scuote, nervoso.

“Lituania, ti prego, svegliati. Dobbiamo andare a casa. Fa troppo freddo…” il corpo non ha alcuna reazione. La consapevolezza nel cuore di Russia, da piccola, diventa grande. Rimane immobile per qualche minuto, con occhi sbarrati. Quella stanza è talmente silenziosa da poter udire il suo cuore martellante, implorante di altre spiegazioni.

Russia poggia dolcemente un orecchio sul petto di Lituania. Attende un battito, un segno, della vita. La attende per vari minuti ancora. Non sente niente. La testa color cenere si alza di scatto, la sciarpa si macchia del sangue del ragazzo. Si sfila velocemente un guanto. Poggia la mano sul collo e preme lievemente sulla vena più grande. Ancora nulla. Un tremito accompagna il cuore, impazzito e incapace di fermarsi. Anche il fiato è straziato e scattante.

Poggia ancora le dita, questa volta, sul polso bianco. La vena è senza sangue e senza battiti. Ora Russia ha veramente paura. La consapevolezza cresce ancora nel suo cuore. Le mani tremano nel spostarsi sulle ciocche ghiacciate. Dalla gola cercano di uscire delle sillabe spaccate, senza alcun significato né voglia di essere significate. Non vuole urlare né ci riesce. In quella posizione, Russia cerca di non far scorrere le lacrime, invano. La luce violacea dei suoi occhi macchia anche le lacrime salate.

No, Lituania non può morire, non è vero, pensa. Eppure la realtà è proprio lì, vicino a lui. E’ tanto difficile cercare di accettare l’idea di aver ucciso un angelo? Sembrerebbe di si, se a farlo è il generale di tutte le russie. Ma non vuole accettarlo. Per questo afferra il corpo del ragazzo e lo scuote, lo sbatte e lo trascina per la stanza, macchiando ancor di più di sangue il pavimento e le pareti. Ignora e scaccia via i topi che osservano Lituania, affamati. Non deve averlo nessun altro se non lui. Ha lottato tanto per avere quell’angelo, eppure tutto ciò non è servito a niente. Continua a prendere il corpo e a gettarlo contro le pareti, come se fosse una bambola.

Non vuole perderlo.

Non vuole perdere contro Polonia.

Non vuole ammettere che Polonia gli stia portando via il suo angelo.

 

 

 

 

 

“Polska, non ce la faccio più, sono stanchissimo” dice ad un tratto Lituania, galleggiando a pancia in su nell’acqua. Polonia, bianco come la neve, lentamente nuota verso l’amico. Lo osserva interessato e premuroso.

“Vuoi riposare?”

“Si, scusa, ma la schiena comincia a farmi male…” mormora, sentendo chiaramente le spalle diventare dure e rigide. Polonia ascolta quelle parole come se fossero oro. Due gemme smeraldine brillano nei suoi occhi. Toris, sulla riva, appollaiato ad un albero, osserva i due ragazzi in acqua, interessato e serioso. Polonia afferra piano per le spalle Liet.

“Ti trascino a riva, va bene?”

“Si. Grazie, Polska. Mi sento molto stanco, scusa…”

“No, no, lascia stare. Ora ti porto a riva e ci riposiamo. Ci siamo, tipo, divertiti abbastanza” Lituania non si chiede perché Polonia cerchi di soddisfarlo in tutti i modi e di non criticarlo o scherzarci su. Polonia, quello che ha sempre conosciuto, gli avrebbe dato della ragazzina frignona e lo avrebbe costretto a giocare ancora. Forse sono stati in acqua per molto più tempo di quel che credeva o forse Polska è stanco anche lui.

Polonia fa passare un braccio sotto l’ascella del lituano e con l’altro braccio si trascinano fino a riva. Lì Polska lo fa sdraiare. Lituania è felice di sentire sotto la schiena sia dell’acqua che della terra. Non riesce ad alzarsi ed è troppo stanco anche per provarci una seconda volta. Polonia si stende vicino a lui. La luce tocca la sua pelle bianca, rendendola quasi trasparente. Gli sorride, premuroso. Lituania lo trova quasi buffo.

“Ti vuoi addormentare?” chiede, piegando le ginocchia al suo petto. Il moro annuisce, cominciando a sentire la stanchezza ancor di più. Polska vede con la coda dell’occhio Toris volare verso di loro e posarsi su un tronco spezzato, a qualche metro dalla riva. Lituania non lo vede, ma Polonia ne sente la presenza forte ed elegante.

“Aspetta, metti, tipo, la testa qui: sarai più comodo” Lituania osserva con gli occhi appannati dal sonno Polonia mentre gli sposta la testa sul suo braccio bianco. Lituania, però, ha sempre pensato prima agli altri che a sé stesso. Particolarmente a Polonia.

“Polska… ti faccio del male” il biondo comincia a stringerlo a sé, con molta più possessione. Gli carezza i capelli con le dita.

“No, continua a dormire. Dormi, Liet, dormi…” Lituania osserva i suoi occhi smeraldini e pensa che anche quegli gli siano mancati, tantissimo. Pensa anche che l’acqua che lo avvolge dal petto in giù sia calda e comoda come una coperta. Non vuole muoversi, sta bene lì.

“Una cosa, Liet” gli sussurra Polska, continuando a giocare coi suoi capelli “Ti piacerebbe restare qui per sempre, con me?” questa domanda lo coglie alla sprovvista. Ma non ha bisogno di rifletterci per rispondere. Gli sorride, molto assonnato.

“Lo vorrei tantissimo, Polska”

“Dici, tipo, per davvero? Ne sei sicuro?” Lituania inspira un po’ di aria d’acqua dolce con il sussurrare delle foreste attorno ad esso.

“Non vorrei mai più tornare indietro. Qui si sta benissimo…” sussurra e, questa volta, chiude gli occhi. Dopo un po’ si addormenta, cullato dalle mani di Polska che, ricorda, non sono mai state così dolci. Li piacciono e non vorrebbe altro di più.

Polonia sorride con un po’ di malizia. Questa volta è stato Liet stesso a dirglielo, vorrebbe restare con lui e non con Russia. Ne è felice, così non deve obbligarlo a scegliere. Non deve scegliere né fare la scelta sbagliata. Forse non è del tutto giusta come soluzione, ma Polonia non ne vede altre e non vorrebbe vederne altre, in verità. Stringe Lituania ancora più a sé, con una certa malinconia nel cuore.

Sarebbe stato con lui per sempre, non avrebbe avuto altri problemi o preoccupazioni. Sarebbe stato felice con lui. Sarebbe stato molto più buono e gentile. Sarebbe stato perfetto questa volta. Non sarebbe stato più egoista e cattivo, ci sarebbe stato un nuovo lui. Sarebbe diventato qualcun altro per non vedersi più così maledettamente stupido e superficiale. E dannoso per Liet. Liet merita il meglio. Dopotutto, gli angeli stanno con gli angeli, no?

Continua ad accarezzargli i capelli, sperando che continui a dormire, Liet. Toris, preoccupato più di prima, vola vicino ai due, questa volta dietro la schiena di Lituania. Guarda Polonia, ma Polonia non lo guarda.

È troppo concentrato sull’amico per notare un scintillio incredulo negli occhi neri del volatile.

 

 

 

 

“Lituania! Lituania, svegliati, piccolo. Svegliati!” non lo ascolta, l’unico che lo ascolta è il buio della cucina. Lituania, nonostante lo abbia scosso e lo abbia gettato contro muri e oggetti, non si sveglia. È ridicola questa situazione: una Nazione non può morire, così, come se nulla fosse. Non lo crede possibile. Forse è solo uno scherzo. Ma anche questo è ridicolo: perché Lituania dovrebbe scherzare con lui? E perché non si sveglia ora, avendogli sfracassato altre ossa? Continua a credere che sia solo svenuto o che non voglia svegliarsi, il ragazzo. Gli s’ingrossa una vena, per il panico.

“Bambino, basta dormire. Basta, svegliati!” ora urla, non riuscendo a controllare la paura. Ora che ci riflette, che diranno i suoi due fratelli, Estonia e Lettonia? Russia non ne ha idea, non riesce nemmeno ad immaginarlo. Non riesce ad immaginarli piangere per Lituania, ma nemmeno rimanerne indifferenti. Aveva sempre creduto che tra Lituania e Polonia ci fosse un’amicizia fragile o falsa. Credeva che, dopo la sua morte, Lituania lo avrebbe dimenticato. Invece l’ha spezzato e ucciso. Quindi può anche aver torto sui due Baltici rimasti. Verranno spezzati anche loro. Avranno gli occhi spenti, non avranno più vita, non saranno più suoi. Lo sente, l’errore, farsi più vivo di fronte ai suoi occhi. Infatti, Lituania non si è ancora svegliato.

Sente il cuore in agitazione e le mani tremare, come se stesse ricevendo una scossa elettrica. Dalla fronte vengono sputate valanghe di sudore. Sente il naso colare e la bocca grondante di saliva. La stanza diventa improvvisamente calda, bollente ed insopportabile. Vorrebbe uscire da lì, di corsa. Ma, se andrà via, Lituania rimarrà incastrato in quel caldo atroce. Guarda il corpo, gettato contro la parete macchiata di colante liquido rosso. Il grigio della pelle del ragazzo è più che evidente. Le ossa sporgono ancor di più, ne vede le nocche della mano sporgere in senso contrario, contro il palmo e non il dorso. Anche le occhiaie sotto agli occhi sono quasi nere. Ha spezzato anche il suo corpo.

È morto, gli sputa una voce dentro di sé, è morto per colpa tua. Hai ucciso un angelo. Quest’ultimo pensiero lo fa scuotere fin dentro le membra. Il suo sguardo si abbassa alle mani, macchiate del sangue del ragazzo. Ogni cosa là dentro è rossa e sporca. Scuote la testa, non vuole ancora crederci. Lituania non si muove ancora. Anche i capelli sono macchiati di rosso, sporchi e liquidi.

Russia non vorrebbe piangere, cerca di trattenersi con tutta la sua buona volontà. È anche stupida la sua reazione: non è nemmeno la prima volta che uccide qualcuno. Tante volte è stato il boia, il tagliagole degli zar o il generale dei loro eserciti. Lituania non fa un’eccezione, pensa una vocina cattiva nella sua testa, è solo un morto come tanti, non ha molta importanza. Russia risponde di no, prontamente. Fin da quando era ragazzo aveva ucciso. Aveva ucciso demoni, umani e fantasmi senza vita. Non ha mai ucciso un angelo, mai nella sua vita. L’averlo fatto è doloroso e sbatte contro la sua coscienza.

Si stringe il petto, vorrebbe spezzarlo così come ha spezzato la schiena e le gambe di Lituania. Vorrebbe non averlo mai portato lì, vorrebbe non aver mai visto quello sguardo di fuoco verso di lui, in quella stanza. Vorrebbe che Lituania non sia mai stato un angelo e che Polonia non lo abbia mai avuto con sé. Vorrebbe tante cose e non può averle, e fa male il sapere che non può averle più.

Si trascina vicino al corpo del ragazzo, ancora sporco e freddo. Sembra calmo e sereno, di sicuro il Paradiso è molto più adatto per lui di quel posto. Russia non avrebbe mai voluto fargli del male, né spezzare la sua anima. Forse sarebbe stato meglio rifiutare la proposta di Prussia. Avrebbe potuto lasciare in vita Polonia. Tanto, ormai, il polacco aveva già vinto il cuore dell’angelo. Lo possedeva già e non poteva averlo mai più. Si avvicina al ragazzo, sovrastandolo con la sua ingombrante ombra.

E, ironia, Polonia ha vinto anche dopo la morte.

Polonia ha portato via con sé quell’angelo.

Una lacrima ribelle scappa dal suo occhio e cade sulla fronte di Lituania. Le altre sue sorelle, incoraggiate dal suo esempio, cadono anche loro, fuggendo dalla sua forza di volontà. Singhiozzi potenti lo scuotono e lo stracciano in due. Sono così forti da farlo piegare e toccare la fronte del morto con la sua. Lituania è morto e non ci crede ancora.

 

 

 

 

 

 

L’aria è così calda che Polonia, se non fosse stato coperto dall’acqua per metà, sarebbe impazzito per il sudore. Liet fa bene a dormire, non c’è niente di meglio da fare. Una piccola onda riesce a fare una breve rincorsa e riesce a toccare qualche ciocca bruna. Lituania non si accorge di nulla, troppo stanco e sereno. Polonia continua a stringerlo, si sente molto più docile degli anni precedenti. Gli è mancato così tanto Liet… Vorrebbe renderlo ancora più felice. Sente Russia protestare lassù, nel cielo, ma non c’è alcun cambiamento nell’aria. Quindi va tutto bene, Lituania vuole per davvero restare con lui. Inizia a canticchiare, quasi senza pensarci.

 

Kocham Cię Kochanie moje
Kocham Cię a Kochanie moje
To polana w leśnym gąszczu schowana
Kocham Cię Kochanie moje
Kocham Cię a Kochanie moje
To sad wiosenny rozgrzany i senny
Kocham Cię a Kochanie moje
To rozstania i powroty
I nagle dzwony dzwonią i ciało mi płonie
Kocham Cię tak

 

Lituania l’ha sentito cantare solo un’altra volta, tanti, tanti anni fa. Non ci aveva nemmeno pensato e, credendo di non essere sentito né visto da nessuno, aveva canticchiato una vecchia canzone d’amore. Liet ha cuore, anima e orecchie per tutti. Gli aveva detto che era bravo. Dovresti cantare più spesso, gli aveva detto. Polonia non aveva più cantato da quel giorno. Non sa nemmeno il perché, forse si vergognava, nonostante non avesse nulla da temere. Ora gli escono fiumi di parole dalla bocca.

 

Kocham Cię Kochanie moje
Kocham Cię a Kochanie moje
To oczy Twoje we mnie wpatrzone
Kocham Cię Kochanie moje
Kocham Cię a Kochanie moje
To tęsknota nieskończona

 

Lituania sospira di piacere. Sembra un bambino abbracciato al fratellino. Polonia gli carezza col pollice il petto nudo, senza pensarci, senza notare la mano molto più gentile del solito. Quasi se ne stupisce. Lituania era strano quando dormiva. Sembrava cercare tutto l’affetto che dava agli altri. La prima notte insieme la ricordava male. Liet gli era stato abbracciato per tutte quelle ore e, addirittura, la mattina aveva trovato la sua testa incollata al petto del principe polacco e il corpo sdraiato totalmente su di lui. Erano strani, ma piacevoli ricordi. Anche ora Liet cerca affetto: con la mano desidera la sua. Gliela concede, Lituania merita ogni cosa che desidera.

 

 Kocham Cię a Kochanie moje
To rozstania i powroty
I nagle dzwony dzwonią i ciało mi płonie
Kocham Cię tak tak tak

 

La testa del moro si muove un po’ verso le sue ciocche bionde. Aspira il loro profumo, ammaliato dalla dolcezza dei capelli biondi. Polonia a malapena si accorge che siano ancora nudi, in acqua, sulla riva. Gli spunta un sorriso. Se qualcuno ci beccasse qui, fraintendirebbe tipo tantissimo, pensa con un sorriso un po’ nervoso, ma sincero.

 

Kocham Cię Kochanie moje
Kocham Cię a Kochanie moje
To przypominanie pierwszej pieszczoty
Kocham Cię Kochanie moje
Kocham Cię a Kochanie moje
To noce z miłości bezsenne
Kocham Cię a Kochanie moje
To rozstania i powroty
I nagle dzwony dzwonią i ciało mi płonie
Kocham Cię tak tak tak tak

 

Ma è stupido un pensiero del genere: chi potrebbe mai venire lì a dargli fastidio? 

“…cosa fai, Polonia?” gli occhi si voltano di scatto. Non ha paura, ma un brivido gli è sceso sulla schiena e ha preso le gambe, scosse. Ha preso un colpo, per fortuna Liet non si è svegliato. Lituania ha sempre avuto il sonno pesante. Polonia non vede nessuno, c’è solo Toris che, fiero, si mostra dietro di loro, su un ceppo. I suoi occhi seri lo scrutano un po’ preoccupati. Polonia non si chiede nulla, da quando è diventato un fantasma nulla lo sorprende troppo.

“Se le cose vanno bene, Toris, Liet starà con noi, per sempre” l’idea, detta ad alta voce, sembra veramente buona. Polonia sente gli angoli della bocca alzarsi verso le guance. Rivolge di nuovo lo sguardo al suo amico, beato nel sonno “Non dovrà più soffrire. Sarà per sempre felice con me, non dovrà più preoccuparsi per qualcosa. Avrà, tipo…”

“Che egoista…” questa voce rude lo prende di sorpresa. Si volta di nuovo all’indietro. Si stupisce di vedere, alzato sopra al ceppo dove prima stava il volatile, un bambino. Per un attimo si vergogna di vedersi nudo a quell’improvvisa apparizione. Il piccolo, coi capelli rossi macchiati un po’ di nero e fasciato in un bianco pigiamino, lo squadra con occhi neri e severi.

“Toris…” mormora con poche forze Polonia, sinceramente stupito.

“Vorresti ucciderlo per così poco?” tutto lo stupore scema. Viene sostituito con la rabbia.

Così poco? Stai, tipo, scherzando…?” il bambino non fa una piega. Quegli occhi inflessibili e quasi crudeli non gli piacciono e, in realtà, gli fanno abbastanza soggezione. Gli tremano le spalle, ha ancora paura degli estranei, non si è ancora scrollato dal cervello questa piccola fobia. Quello è Toris, non ci sono dubbi. Eppure ha pur sempre paura di quella creatura apparsa all’improvviso di fronte ai suoi occhi. Gli occhi neri sono ancora duri.

“Stai uccidendo, Polonia, riesci a rendertene conto?” il vento comincia a soffiare più forte, tanto da gettargli negli occhi delle gocce d’acqua. Polska si sfrega gli occhi, con poca pazienza. Dà delle carezze a Liet, molto profonde, alle spalle. Il vento si placa, pericolo cessato. Polonia non stacca gli occhi da Lituania.

“Lo so, Toris. Ma è per una cosa buona” e ci crede con tutta l’anima, Polonia. Lituania non ha niente da fare o da concludere in quel mondo bianco e spaccato. La guerra non lo guarda in faccia, nemmeno la furia di Russia che, per gioco, lo sta distruggendo. Meglio non soffrire per queste cose. Gli occhi neri si scongelano dalla severità. Assumono un’altra forma, molto più irritante: la schiettezza di quel sopracciglio alzato fa crescere una fiammella di rabbia nello stomaco di Polonia.

“Uccidere è diventata una cosa buona?” gli fa da pappagallo. Polonia continua a guardare Liet, cominciando a sentire un breve cedimento.

“Si, se facendo questo lo libero da tante ingiustizie” il breve cedimento passa subito, così com’è venuto. Il bambino lo guarda con qualcosa di simile al disgusto. Anche questo fa arrabbiare Polonia.

“Non hai il diritto di portarlo qui” scende dal ceppo, lentamente fa dei passetti e lo guarda, faccia a faccia “Non puoi portare qui una vita soltanto per il tuo egoismo” una risata disprezzante nasce e cresce nella gola del biondo. Si propaga ed esce, lungo la lingua, i denti e poi fuori, all’aria aperta. Gli ci vuole poco per fermarla e per continuare a guardare Toris, molto più corrucciato di prima.

“Io sono un’egoista? Non sto facendo nulla di egoista, Toris” fa un respiro profondo, cercando di avere del tutto la calma. Questa conversazione lo sta sfinendo “Non hai visto cosa gli accade tutti i giorni? Da quando me ne sono andato, le cose non sono andate altro che male per Liet. Sta morendo giorno dopo giorno e Russia lo sta ammazzando totalmente ogni santa giornata” poca, pochissima calma “Quindi, io sarei, tipo, egoista?! Io lo sto salvando, Toris! Non vedi come sta bene? Ora lui è felice e può stare qui tutto il tempo che vuole, anche per sempre…” molla un singhiozzo. Sta per piangere e se ne vergogna moltissimo. I principi non piangono di fronte ai bambini. Il piccolo continua a guardarlo con un velo di cattiva serietà negli occhi.

“Vuole stare lui qui, oppure sei tu quello che vuole Lituania?” un battito manca nel petto del biondo. Non sa che rispondere, quindi sta zitto. Il tempo passa e la testa di Polonia si fa sempre più vuota. Sente solo il fruscio del vento avanzare nelle sue orecchie e spaccare i timpani. Sente l’acqua fare delle onde sul suo fianco e sui capelli di Liet. Non riesce a pensare e non vuole nemmeno provarci. La verità è dura da digerire.

Dietro di lui, il bambino continua a fissarlo, forte nello sguardo. Per la seconda volta se lo chiede: chi o che cos’è Toris? Perché lo ha sempre seguito per tutto quel viaggio? Perché lo sta trattenendo con Liet? Perché fa tutto questo? Non riesce a trovare le risposte e, semplicemente, non le cerca più.

Sente gli occhi bruciare nel vedere agitarsi vicino a lui Lituania.

La consapevolezza di essere stato nuovamente egoista lo uccide.

Una goccia d’acqua, salata, cade sulla sua guancia. Un’altra sua amica sbatte sulla testa bionda. Un’altra sul braccio e un’altra ancora sulla schiena. Scendono giù dal cielo, in una folle corsa. Sta piovendo, il cielo è scuro e le nuvole lo avvolgono in una soffice coperta grigia. Polonia è meravigliato e spera in qualcosa di diverso. Spera che qualcosa non stia facendo pressione sul corpo di Liet.

“…qualcuno sta piangendo…” Polonia getta lo sguardo sotto di sé: Liet si è svegliato. Le sue palpebre sono gentilmente aperte e curiose. Le due pupille azzurre guardano il cielo, lo ammirano, sentono la presenza di qualcosa di diverso e triste. Polonia ha paura, non vuole che Liet vada via, di nuovo. Lo vuole solo lui.

“Liet, torna a dormire, non è niente” sussurra, cercando di essere forte e calmo. Non ci riesce o forse Lituania non vuole per davvero dormire.

“Qualcuno sta piangendo per me” ripete con più sicurezza. Polonia, col cuore in gola, lo vede alzarsi lentamente e continuare a fissare il cielo, come se attendesse un segnale, un suono, un segno. Polonia ha paura, per questo gli afferra la mano. La stringe forte, con una nota di supplica poco nascosta.

“Liet, ti prego, torna a dormire. Resta con me” suona come una supplica e Polonia lo sa. Se ne vergogna, ma non ne può fare a meno. Lituania lo ignora, vorrebbe ascoltarlo e dormire, ma non ce la fa. Qualcuno lo sta chiamando, qualcuno lo pensa. Quella voce lo chiama e non riesce ad ignorarla. Ne è ammaliato, quasi stregato. Non sa da dove proviene. Qualcosa dentro di lui lo obbliga ad ascoltarla e a cercala. Polonia è quasi nel panico. Si alza di scatto, prende fra le mani il volto di Lituania e lo fa voltare verso il suo viso, tremante e supplichevole.

“Liet, non te ne andare… Resta con me: non avrai più paura, sarai felice. Sar… Saremo felici tutti e due…” qui, Polonia si odia, molto. Quel ‘saremo felici tutti è due’ è egoistico. Quel reale ‘Sarò felice anch’io’, sulla sua lingua, bloccato appena in tempo, lo odia. Si rende conto quanto abbia avuto ragione Toris. Si odia, si disgusta. Lituania non merita lui. Un demone disgustoso ed egoista come lui non merita un angelo puro e buono. Ma nemmeno un gigante mostruoso come Russia lo merita. Per questo vorrebbe che stia lì con lui. Se non lo farà per sé stesso, lo farà per Lituania. Sarà felice senza Russia e Polonia si aggrappa a questo pensiero.

Lituania non riesce a guardarlo in faccia, le pupille sono biglie metalliche attaccate ad una calamita, che è il cielo scuro. Per colpa della pioggia, ora sono bagnati come pulcini. Lituania sente il braccio strano e leggero. Lo alza. Di fronte ai loro occhi, le dita e le nocche di Liet si spezzano. Diventano bianche, si frammentano e volano via come pezzi di carta. Polonia sa cosa sta succedendo, non totalmente, ma lo immagina. Lancia un gemito acuto. Si aggrappa voracemente a Liet, lo stringe forte. Lituania né è meravigliato. Ma sbaglia, Polonia. Lo stringe troppo forte, così tanto da spezzarlo in due. Il corpo diventa bianco, si frammenta e vola via, in tanti pezzetti di carta. Polonia ne è sconvolto, incredulo. Ha fallito di nuovo, Lituania non è ancora suo. Toris, muto fino a quel momento, guarda i pezzi di carta che volano verso le nuvole.

“Non potresti comunque avere Lituania, Polonia” afferma con severità. Polska è troppo scosso per aprire bocca “Tu non andrai nello stesso luogo dove andrà lui…” si sentono piccoli passetti allontanarsi dalle orecchie del polacco. Polonia volta la testa di scatto. Quest’ultima frase lo agita ancor di più.

“C-Cosa vuoi dire…?” Toris non risponde, semplicemente continua ad allontanarsi, imperterrito. Polonia ha il cuore galoppante, maledetto, che brucia nella gola. Cosa significa ‘Non andrai nello stesso luogo dove andrà lui’? Una piccola e spietata paura cresce nel suo stomaco. Gorgoglia e passa subito al cuore. Cosa significa questa frase? Cosa significa?! Polonia vede il bambino mutare di nuovo in un falcone rosso e nero. Vola via, senza degnarlo di uno sguardo. Lo lascia semplicemente così, nudo, zuppo di acqua e con una paura nel cuore. Vede delle piume cadere dal cielo. Pauroso ed agitato, le raccoglie, come se fossero un’ancora di salvezza. Mentre il paesaggio muta attorno a sé, e mentre i suoi vestiti ritornano a ricucirsi sulle sue carni bianche, ha un crollo e cade sulle ginocchia. Toris è sparito, non sa dove sia.

Che cosa significa quella frase? Cosa vuol dire?

 

 

 

 

 

 

Le palpebre di Lituania sbattono, tante volte. Sono appannate, ma sane. L’ambiente è ancora buio e freddo. Sa di non essere del tutto nudo, ma ha più freddo qui che nell’acqua del lago. Si chiede tante cose. Si chiede come stia facendo a sentire il suo corpo così dolorante. Si chiede come mai la stanza abbia questa gran puzza, molto più disturbante, di ferro. Si chiede che cosa stia facendo Russia, perché schiacci la sua fronte contro la sua. È lui, senza alcun dubbio, lo riconosce, sente il freddo delle sue mani, la sua voce infantile spaccata dai singhiozzi, una sua mano da gigante sul suo petto e le sue lacrime salate che scendono dalla fronte fino ai suoi capelli. È confuso ed incredulo.

“Russia…?” nonostante la sua voce quasi roca ed incomprensibile, Russia lo sente. Sa che lo ha sentito. Smettono i singhiozzi, le lacrime non scorrono più, il silenzio ritorna nella stanza. Lituania non avverte il pericolo, ancora provato per il viaggio che ha fatto. Sulla sua fronte sente un brontolio roco, che man a mano diventa un ringhio. Russia alza lentamente la testa dalla fronte del ragazzo. Lituania, vedendo i suoi occhi, sente di nuovo il pericolo.

“Hai detto qualcosa, Lituania…?” sussurra un frammento di calma del russo. Lituania non può far altro che guardarlo negli occhi. Vorrebbe chiudere le palpebre o guardare qualcos’altro, ma non ci riesce, non ha le forze per farlo. Russia rende la mano sul suo petto una trivella che scava nella sua carne. Urla, vede schizzi nuovi di sangue tranciare la parete. Russia lo prende per le spalle, strappando la mano che ha bucato il suo stomaco. Le sue mani stringono troppo forte, lo strattona troppo velocemente. Ha le vertigini, gli gira la testa.

Lo sbatte contro qualcosa. Quel qualcosa si rompe dietro la sua schiena. Quel qualcosa che si è rotto s’incastra nella sua carne scoperta. Trapanano la sua schiena. L’affondano pesantemente, complice anche la forza con cui Russia lo sta spingendo. Ha ancora le vertigini, quindi non sente quasi nulla. Russia lo nota, per questo allontana il suo corpo e lo sbatte con più forza. Quei qualcosa s’incastrano ancora più a fondo nella sua carne e tanti altri si aggiungono nelle sue ferite scoperte. Russia lo fa strusciare contro quello che doveva essere un vecchio specchio. I cocci di vetro, tagliano la carne viva. Da rossa diventa blu e violacea. Lituania geme e trema, altro sangue tocca la parete e scorre giù in piccoli canali e fiumiciattoli rossi. Russia è fuori di sé, la voce è infantile, ma gli occhi brillano nell’oscurità.

“Ti piace scherzare con me? Ti sei divertito? È stato divertente farmi sentire così male?” afferra la sua testa e la sbatte contro i resti dello specchio. Lituania chiude gli occhi di scatto, i denti escono fuori dalle labbra. Una, due, tre, quattro, cinque volte sbatte la sua nuca contro il vetro. S’incastrano, invece, nelle sue spalle e lì restano, facendo compagnia alle scapole scoperte. Lituania si sente confuso, la testa gira, ma il dolore è assillante. Russia ritorna bestia, malato e crudele.

“Bene: anche a me è venuta voglia di scherzare!” esclama, gioioso, con un ringhio sotto la voce dolce. Lituania lo guarda negli occhi, cerca di scorgere un pizzico di umanità. La cerca con disperazione. Non la trova, Russia è tornato bestia e continua a fargli del male. Lituania dimentica i sogni, dimentica le brevi libertà concesse, dimentica Polska.

No!!!” urla, mentre riafferra il rubinetto che lui stesso ha strappato, mentre lo percuote allo stomaco, mentre gli organi si riempiono di sangue che sale per la sua gola e macchia i denti e le labbra.

No!!!” urla Polonia, ritornato indietro, stravolto e tremante. Ha peggiorato la situazione, l’ha resa da orribile ad infernale. È tutta colpa sua. Avrebbe voluto migliorare e ripagare il suo errore, invece l’ha peggiorato. Si sente cattivo, crudele, egoista, malvagio, sporco e indegno, indegno per Lituania. Toris è andato via, gli ha lasciato solo quel mucchietto di piume, troppo piccole per qualsiasi cosa, ma anche troppe per un bastardo come lui. Non è mai stato un principe, è sempre stato un bastardo menefreghista e cattivo. Ora se ne rende conto e, nel frattempo, piange ancora per Liet, che sta scontando una pena invisibile, creata da lui stesso.

Si, Lituania, si!!!” urla Russia, estasiato. Una vena è tornata a scoprirsi, vecchia e cattiva. Ha avuto paura, non ha apprezzato lo scherzo. Ha pianto e si è disperato. Aveva anche pensato di far uscire il ragazzo quel giorno stesso. No, Lituania sarebbe rimasto lì dentro ancora per un’altra settimana. Avrebbe dovuto comprare altra vodka. Avrebbe dovuto mostrare di nuovo a Lituania quanto abbia sbagliato, di nuovo.

Si compiace del sangue che sporca le labbra del ragazzo. È rosso e frizzante e a lui piace. Nei giorni precedenti ha ignorato le sue urla, ora le ascolta, come se fossero musica. Lo rendono calmo e felice. È una consapevolezza: Lituania è vivo e non ha mai ucciso un angelo. È felice di sapere ciò.

Significa che Polonia non ha vinto.

Significa che Lituania è ancora suo.

 

 

 

 

 

 

DIARIO DI LETTONIA

Ho tanta paura, ma credo che questa non sia una novità.

Quando mi sono svegliato, dopo quella sera di cui ti ho raccontato, ho visto che Lituania non c’era nel suo letto. Lì non ho fatto una piega. Credevo che si fosse addormentato da un’altra parte o che forse non aveva proprio dormito, così come Russia. Mi erano usciti di testa i particolari della sera prima.

Poi, però, mi ero reso conto che qualcosa di strano ci fosse. Io ed Estonia siamo andati a mangiare e abbiamo visto che Lituania non c’era. Non abbiamo chiesto nulla perchè Russia era con le sue sorelle e lui non vuole che gli diciamo nulla di strano di fronte a loro. Quindi siamo stati zitti per tutto il giorno. Abbiamo fatto le nostre faccende e fin lì tutto ok. Però, la sera, quando non avevo niente in testa, mi sono ricordato che Lituania non lo vedevo da tutto un giorno. Anche Estonia, andando in camera, aveva notato che Lituania era sparito.

Ne abbiamo parlato fra di noi e ci siamo ricordati del fatto di quella sera e di Russia che lo aveva portato via. La prima cosa che abbiamo pensato è che Russia lo doveva aver punito per qualcosa quella notte, ma le cose non quadravano: perché era sparito? Non ci abbiamo capito molto, ma eravamo così stanchi che ci siamo addormentati.

La mattina dopo fu come quella di prima: Lituania non c’era e Russia non faceva o diceva nulla di strano. Allora io ed Estonia ci siamo spaventati. Abbiamo anche pensato al peggio, che fosse morto o che Russia lo avesse cacciato via da casa e altre cose che non avevano né capo né coda. Quando potevamo, cercavamo di parlare con Russia, ma non ci siamo mai riusciti e ci dava così tante cose da fare che non avevamo nemmeno il tempo di sederci. Ora che sto scrivendo tutte queste cose, mi rendo conto di quanto la cosa sia stata strana.

Le cose andarono così per almeno tutta la settimana e non ci siamo mai sentiti più male di così. Avevamo tante domande e nessuna risposta. Avevamo paura anche di trovare Lituania e di vederlo peggio di come lo era nei mesi prima. Però una cosa cambiò. Non l’ho scritto, ma talvolta mi sveglio di notte per gli incubi. Niente di importante, comunque. Ero uscito dalla stanza per prendere un po’ d’acqua e guarda chi vedo fuori dalla finestra con quel freddo e a notte fonda? Russia e anche abbastanza nervoso, per come si muoveva.

Quella cosa mi ha fatto pensare un bel po’, soprattutto perché Russia usciva fuori di notte molto spesso (mi sveglio quasi ogni notte, niente di strano per me) e ritornava dopo tanto tempo, come se niente fosse. E la mattina è come ogni giorno.

Ne avevo parlato con Estonia e lui era d'accordo con me: qualsiasi cosa fosse, riguardava Lituania. Non ci abbiamo pensato molto, perché poi Russia, dopo due settimane dalla scomparsa di Lituania, ci parla e ci dice di andare a prendere dei fucili che aveva in una vecchia casa che un tempo era la sua, o cose del genere. Qui ci siamo insospettiti, intendo, tantissimo. Primo: quella casa non l’avevamo mai sentita nominare e nemmeno ci eravamo mai andati prima. Secondo: perché mandare noi fuori, quando ha le sorelle che escono sempre a comprare quel che vuole e che possono andare fino in America per lui? Ma non potevamo farci un granchè e quindi ci siamo andati.

Sarebbe difficile da scrivere… anzi, non voglio. Non ce la faccio. Finisco qui, poi credo che riuscirai a capire. E credo che se leggerò di nuovo questo diario riuscirò a capire quel che ho visto, anche senza scrivere nulla.

Sai, sto iniziando veramente a scriverti come se fossi vivo. Forse sto impazzendo. Ma non è importante. Forse dovrei darti un nome o qualcosa del genere. O forse dovrei chiamarti solo Diario e basta. Anche se Diario è assai brutto come nome, poi ci penserò…

 

 

 

 

 

 

E non c’era veramente molto da dire riguardo la scoperta che fecero i due Baltici. Non c’era niente di sbagliato in Lettonia, nel desiderare di fermare la sua narrazione. Aveva ragione: non c’era niente da dire, ma solo da guardare.

Trovarono nella casetta Lituania, incatenato al centro della grande stanza con delle cinghie di cuoio, avvinghiate a lui come una seconda pelle. Di sicuro stava lì da quando era sparito. Non c’era niente da dire riguardo il suo aspetto. Basti dire che non fu facile distinguere la pelle dalla carne. E nemmeno fu facile ricucire e disinfettare tutte le cicatrici aperte sulla schiena. Non fu nemmeno facile togliere i pezzi di vetro incastrati nelle ferite e levigate tanto da essere diventati degli spilli.

Non fu nemmeno facile tranquillizzare Lituania e convincerlo, la notte, che nessun gigante sarebbe giunto nella loro stanza per ucciderlo.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** QuArTo CaPiToLo ***


Urlo. Corpo rotto. Dita spaccate. Gabbia umana. Anima rotta. Terrore. Libertà. Dov’è libertà? Aiuto. Paura. Aiuto. Aiuto!

“Lettonia, tienigli fermi i piedi. Estonia, veloce!”

“Subito!”

Braccia bloccate. Gambe bloccate. Braccia spaccate. Gambe spaccate. Testa spaccata. Testa rotta. Sangue rosso. Bianco. Troppa luce. Troppa paura. Cuore troppo veloce. Corpo troppo debole. Guanti troppo forti. Lui troppo debole. Paura. Paura. Paura.

Spillo sulla spalla. Spillo d’argento. Spillo freddo. Spillo velenoso. Spillo levato. Spillo andato via. Brividi. Corpo stanco. Occhi stanchi. Sciarpa troppo bianca. Profumo di girasoli. Profumo di primavera. Troppa paura. Corpo troppo pesante. Cuore quasi fermo. Testa pesante. Testa spaccata. Gambe spaccate. Schiena spaccata.

Occhi chiusi.

Troppo stanchi.

Troppo deboli.

Perché mi volete fare del male?

 

 

“Lituania, stai bene?”

“…”

“Lituania, hai fame?”

“…”

“M-Ma… E-Estonia, cos’ha?”

“Lettonia, è scioccato. Lascialo dormire”

“Ma è bianco come un cencio! Ed è anche magrissimo, deve avere fame!”

“Lettonia…”

“Estonia, aiutami! Diamoli una zuppa, del pane… Abbi cuore, Estonia!”

Sta’ zitto! Lituania sta male, stagli lontano, deve riposare”

“Estonia…”

“Lettonia, non ora”

“Ma Lituania…!”

“Lettonia, vattene!”

“C-Che hai ora…?”

“Vattene, Lettonia, vattene! Non è il momento, fallo dormire!”

Estonia… perché piangi?

 

 

“Lituania, dormi, riposati”

No, non voglio morire. Russia non vuole che io dorma più. Se lo faccio, si arrabbierà e mi farà del male.

“Lituania, chiudi gli occhi e dormi un po’”

No, non voglio. Perché volete farmi del male? Cosa vi ho fatto?

“…Lituania?”

Perché sei così sorpreso, Estonia? Mi sto ribellando, dovresti punirmi, dovresti farmi del male, come fa Russia. Russia vuole farmi del male. Perché ti avvicini con così timidezza? Perché esiti e ti guardi le dita?

“…Fratello, stai bene?”

Fratello… Io non ho fratelli, non ricordo di averne mai avuti. Cosa sono i fratelli? Cos’è fratello, Estonia?

“Russia… ti ha fatto tanto male?”

Perché mi chiedi ciò che già sai? Perché non riesci a vedere come sto male? Perché non ti importa, Estonia? Sono fasciato di bianco in tutto il corpo. Solo i cadaveri vengono avvolti con così tenacia nelle bende bianche. E pare che io non faccia eccezione.

“Lituania, mi senti?”

Come potrei sentirti? Russia ha rotto tutto di me. Non ho più una schiena, delle braccia, delle gambe, nemmeno un cuore, Estonia. Un cuore! Ha rotto anche questo, il mio cuore. Non sento più nulla, le mie orecchie sono sorde, non vogliono più sentire le mie stesse urla. Non voglio più sentire nulla. Come potrei sentirti, Estonia? Spiegamelo, te ne prego. Spiegami anche perché hai gli occhi lucidi. Non è solo per il mio corpo rotto, vero?

“Lituania… non sapevo che ti mancasse così tanto Polonia…”

Mi manca il fiato, Estonia, solo il sentirlo pronunciare. Russia mi ha detto cose orribili su di lui, parlava di come l’aveva ucciso. Mentre mi sbatteva come una bambola di pezza, mi raccontava come l’aveva sparato, come ha maltrattato il suo corpo e come l’ha gettato via, chissà dove. L’unico beneficio che mi ha dato è il non sapere dove sia Polska. Raccontava queste cose con così tanta foga e passione che desideravo morire e gli chiedevo di farlo. Piangevo, Russia rideva, io mi disperavo. Faceva male, Estonia. Ero entrato all’Inferno e solo ora ne sono uscito. Non parlarne più, ti prego.

“Non pensavo che… che… che fosse così importante”

Balbetti e ti manca il fiato. Così mi deludi molto, Estonia. Significa che non mi conosci e mai mi hai conosciuto. Fa male capire questo, che non mi hai mai conosciuto. Polonia era l’unico amico che io abbia mai avuto. Non Lettonia, né tu, Estonia, nemmeno quel pazzo di Russia, ma lui, Estonia, lui. Polonia era la mia ancora di salvezza da questa casa e, ora che Russia lo ha sradicato dal fondale marino, sto andando alla deriva e morendo in mezzo alla tempesta.

“Io… io non lo sapevo, Lituania”

Cosa? Che il sangue del tuo sangue sia totalmente diverso da come lo hai mai visto fino ad ora? Io non so soltanto sorridere. Non sono un angelo, Estonia. Russia non sa che io non sono un angelo.

“Pensavo che fosse una cosa da poco, come tutto di Polonia. Io… è difficile da dirlo. Litania… Lituania… perdonami. Non l’ho fatto di proposito… Non volevo farti del male… Io ti voglio bene…

Tremi e piangi, ora queste sono lacrime vere. Non ho il coraggio di mentirti, Estonia. Non posso ripetere le tue stesse parole. Sono ancora deluso, Estonia, e non sarà questo a farmi cambiare idea su di te e su Lettonia. Ho sperato tantissimo che, forse, anche se cresciuti separatamente, potessimo volerci bene, essere una famiglia, dei fratelli. Mi sono sbagliato. Siamo troppo diversi, Estonia. Tu sei egoista, io sono troppo buono, così tanto da continuare a piangere per Polonia, anche dopo quasi un anno dalla sua morte. È orribile, Estonia, chiedimi come potrei fare a volerti bene.

“Lituania… Mi senti? Lituania… non voglio arrabbiarmi più…”

Non hai mai fatto altro che questo, Estonia. Non riuscivi mai ad essere felice, qui, in questa casa. Ti arrabbiavi e maledivi le finestre e le sedie solo per trovarti lì, solo, come tutti noi. Ti ho voluto bene dalla prima volta che ti ho visto entrare in questa gabbia. Eri così diverso da me ed io ero così eccitato di avere un fratello… Ti volevo così bene che provavo a farti sorridere. Ci riuscivo, ma tu eri e sei egoista. Prendevi e non donavi. Così rubavi anche a me la felicità e non lasciavi nulla a me, il vero proprietario. Sei un ladro e un traditore, Estonia.

È inutile che piangi e ti vergogni: so che mi odi, so che mi vorresti morto, so che un giorno i tuoi desideri saranno realizzati. So che sei falso, come lo sei stato fino ad oggi. So che Russia sta ascoltando dietro la porta. Lo so, Estonia, lo so. Quindi, ti prego, vattene via, voglio pensare a qualsiasi cosa tranne che a te o a Lettonia o al mostro di cui vedo gli occhi dallo spioncino aperto.

Ti prego, Russia, va’ via. Ho troppa paura. Non sto dormendo, vedi? Ti prego, non guardarmi più. Mi fanno paura i tuoi occhi. Ti prego, Russia, porta via Estonia e lasciami solo.

Ti prego, Russia, ti prego…

 

 

 

 

 

La mente di Lituania è a pezzi, come il suo corpo, di cui ci volle almeno una settimana per guarire, superficialmente.

La gabbia in cui è ritornato è cambiata. Da dorata, è divenuta grigiastra e sporca. Morta e paziente, pazientosa di vederlo cedere. Lo hanno gettato nella stessa cella, eppure, nota, è tutto diverso. Ha degli avversari, ci sono serpenti in questa gabbia. Serpeggiano vicino alla sua pelle sensibile, le loro scaglie lo graffiano in una pessima carezza. Hanno occhi di fuoco, chiedono maligni di cadere nell’oblio. Lituania è un guerriero disarmato gettato in un’arena buia.

È sempre allerta. Cerca di aggrapparsi alle sbarre più alte della gabbia, per non farsi toccare dai serpenti, per non farsi mordere. Il loro veleno è mortale, non vuole morire. Ma non sempre riesce a tenersi alle sbarre. Quando si ha molta stanchezza, è impossibile concentrarsi. Lituania, soprattutto in questi giorni, perde spesso la presa dalle travi e cade giù, tra i serpenti. Questi lo fissano, si avvicinano, lui tenta di scappare, spesso ci riesce e riprende la presa alle sbarre. Rimane lassù, in alto, a guardare i suoi nuovi compagni di cella.

Nonostante sia passato solo un giorno dalla fine del suo ricovero, ha deciso di lavorare. Più tempo rimaneva in quel letto, meno possibilità aveva di rimanere sveglio. Gli tremano le mani, ha i nervi a fior di pelle, ma, almeno, è sveglio e all’erta. Non ha dormito nemmeno un minuto, ma va bene, può resistere. Ora spazza le lunghe scale di casa, rigido, con la schiena dura e appena ricucita. Non ricordava che fosse così pesante e dura. È compatta come del cuoio, un macigno sulle spalle, le sue ali strappate e mai più ricucite. Gli fa ancora male, la schiena. Forse Estonia non è riuscito a togliere tutti gli aghi e i pezzi di vetro, dopotutto.

Le gambe e le braccia sono guarite in fretta. Come l’aveva ridotto Russia, se fosse stato umano, se sopravvissuto, sarebbe ritornato a camminare solo dopo minimo tre mesi. Se si è una Nazione, anche in tre giorni. La pancia, anch’essa ricucita, è intatta. Non sente più nulla. Almeno di questo è felice. Gli organi sono ritornati intatti come un tempo, per fortuna è riuscito a mettere qualcosa sotto i denti questa mattina.

Ma la schiena lo abbatte molto. Quel nuovo carico che deve portare gli fa male. È troppo pesante e lui troppo fragile per portare quel nuovo macigno. Non riesce a muoversi bene, senza sentire il peso muoversi sulle spalle e lungo la spina dorsale. Spazza ancora, cercando di concentrarsi sulla polvere che sta spostando con la scopa. Riesce a convincere le braccia a muoversi ancora, troppo provate per il sonno.

Alza le orecchie di scatto, avendo sentito qualcosa, forse una porta sbattuta. Il silenzio che ne segue è assillante, la stanza claustrofobica. Si chiude su sé stessa. Il cuore gira e rigira nel suo petto. Non ha idea dove o quale porta abbia sbattuto, era poco concentrato. Non dovrebbe deconcentrarsi, non va bene. Riflette, forse viene da sopra. Si, forse viene da sopra, per questo ha rimbalzato tanto sulle pareti, il suono!

Poggia la scopa, con una lentezza nervosa. Gli tremano le gambe, mentre si poggia al muro per lanciare una veloce occhiata oltre il corridoio. Non vuole farsi né vedere, né sentire. La mano trema convulsamente mentre si poggia sulla parete, la schiena è un blocco di cemento. Guarda, terrorizzato. Il cuore in gola, lo stomaco che protesta. Sente i denti battere tra loro, impazienti e paurosi.

Non c’è nessuno. La porta è ancora chiusa ed è impossibile che qualcuno sia entrato da lì. Il cuore ancora si getta sulle pareti della gabbia toracica, lo stomaco ferma le sue proteste di terrore, i denti si fissano tra di loro, trovata la tranquillità. Continua a fissare quel punto, cercando di convincere le iridi a calmarsi e a non ballare all’interno dell’occhio. Ha raggiunto la calma, non c’è nessuno. Un lungo, straziante, nervoso sospiro esce fuori dalle sue labbra. Non c’è nessuno. Non c’è nessuno… Si stacca lentamente dalla parete, ancora cauto.

“Lituania, buongiorno!” il cuore si ferma per un istante, preso alla sprovvista. Ritorna a sbattere subito dopo, più forte, più aggressivo, più terrorizzato. Sente lo stomaco ritornare a contorcersi, il cervello diventare una poltiglia per la paura. Si volta, è Russia, sorridente e raggiante. Lituania non capisce quest’allegria. La trova orribile. I suoi occhi sono sbarrati, puntati sul suo possibile nemico. Il sorriso di Russia gli muore sotto la sciarpa.

“Lituania…” Russia fa un passo in avanti, la schiena di Lituania scappa dal muro. Avere di nuovo il controllo della situazione, senza essere in trappola, senza la schiena dietro ad un muro, lo tranquillizza. Poco, ma lo tranquillizza. I denti sbattono tra di loro, ritornati a farsi guerra, una battaglia a chi ha più terrore. Russia sembra triste e perplesso. Gli occhi, violacei e caldi, guardano il corpicino tremante del ragazzo. Gli occhi azzurri scavati nel nero lo preoccupano.

“…c’è qualcosa che non va?” inclina la testa, sa la risposta, ma vuole sentirla con le sue orecchie. I denti di Lituania smettono di battere fra di loro e rimangono così, bloccati, senza alcun desiderio di aprirsi. Russia fa un altro passo in avanti, calmo e leggero. Lituania due all’indietro, scattanti e desiderosi di fuggire. Russia sbatte le palpebre, angosciato e fa altri passi in avanti. Lituania tiene la testa bassa, ma gli occhi alti e fermi, e imita Russia, ma facendo dei passi all’indietro.

Questo, subito, diventa una lenta fuga. Russia non vuole che scappi, vuole solo parlargli, non fa niente se Lituania parlerà male di lui. Non fa niente, non vuole arrabbiarsi e non vuole fargli del male. Vuole solo avvicinarsi un po’ a lui, guardarlo negli occhi, vedere come sta. Non ha mai potuto chiedergli se sta bene. Lituania non vuole vedere Russia. Ha paura di lui, gli ricorda i colpi, le mazzate, il sangue sulle pareti e sul pavimento, le urla e il freddo. Ha paura di tutte queste cose e non vuole Russia. Ho paura, supplicano i suoi occhi. Russia legge il messaggio e vorrebbe modificarlo in qualche modo. Vorrebbe che Lituania non lo veda come l’ha visto in quei giorni, chiuso nella sua vecchia casa d’infanzia.

“No, no… Lituania, aspetta!” non lo ascolta, anzi, più parla, più si muove, più Lituania arretra e scappa. Russia non demorde e continua a stargli dietro. Protende anche una mano in avanti, cercando di fermare il ragazzo. Cambiano i movimenti di Lituania, diventati molto più veloci e supplichevoli. La schiena e il collo si piegano per non farsi prendere.

Russia si rende conto di due cose. La prima è che non si trova di fronte a Lituania, ma ad un cardellino terrorizzato di fronte ad un falco, suo predatore. Per questo Lituania è terrorizzato. La seconda, la più terribile in quel momento, è che Lituania non si sta accorgendo di star quasi sulla cima delle scale. Il ragazzo arretra di un altro passo, toccando l’ultimo gradino. Russia ha un moto di panico in petto.

“Lituania, fermati!” getta entrambe le mani, cercando di afferrarlo in tempo. Quel movimento improvviso fa scattare gli occhi a Lituania che, invece di fermarsi, fa un brusco balzo all’indietro. Perde l’equilibrio del tallone e la schiena si frantuma sullo spigolo di uno scalino. Colpito quel punto in mezzo al corpo, il moro sente una scarica di dolore, talmente forte da fargli uscire delle lacrime, velocemente. Russia ha gli occhi sbarrati mentre vede il corpicino magro e ossuto di Lituania ruzzolare giù per le alte scale, senza fermarsi, se non fino alla fine dei gradini.

Un gemito di orrore esce fuori dalla bocca del generale, che fa sobbalzare l’intero suo corpo. Corre subito e lo raggiunge. Il corpo del ragazzo si è fermato a pancia in giù, le braccia e le gambe scomposte, la testa girata dal lato inverso al suo. La sua mole da gigante rimbalza su ogni gradino, schiacciandolo e dandosi balzi per essere più veloce.

“Lituania!” esclama, prima ancora di raggiungerlo “Piccolo, stai bene?” si getta vicino a lui e, nel modo più dolcemente possibile, fa sdraiare la sua schiena sulle sue gambe. Lituania ha gli occhi già aperti e tentennanti. Le palpebre si chiudono di scatto non appena vedono Russia. Geme di dolore e di paura. Le lacrime gli pizzicano gli occhi. Anche loro lo odiano. Russia, allarmato, fa passare il pollice e l’indice sulla sua guancia, insolitamente più rossa del resto del volto.

“Piccolo, ti sei fatto molto male?” Lituania continua a gemere: la schiena fa malissimo.

“S-Schiena…” mormora fra i singhiozzi e le prime lacrime.

Schiena, piccolo?” mormora con lui, cercando di capirlo e con una vena di panico ingrossata sulla gola. Comincia a pulsare, quella vena, blu come l’inverno che ha in corpo.

“Rotta… tutto rotto…” piange Lituania, con la schiena spezzata.

Prima era un blocco di cemento, la sua schiena. Era pesante e dura, intoccabile e sensibile. Quando ha toccato il gradino, quel macigno sulle spalle si è spaccato in mille pezzi. Come se fosse stato fatto di vetro: era infrangibile, indistruttibile, fino a quando non venne toccato là, nel mezzo, e fratturato. Lituania sente qualcosa affondare ancor di più nella carne. Forse Estonia non è riuscito a togliere tutti quei pezzi di vetro, per davvero. Di sicuro qualcuno di quei piccoli demonietti ha trivellato all’interno della carne.

Continua a piangere, sentendo i vari frammenti della sua schiena provare a ritornare al loro stato originario, senza riuscirci. Sono ancora spaccati e non riesce a ricucirli come prima. Si sente fragile ed inutile, in quel preciso istante. Vorrebbe sparire e non essere ricordato da nessuno. Si vergogna di farsi vedere così spezzato di fronte al suo predatore. Ora è caduto giù, nell’oblio, lì c’è un serpente, molto più grande degli altri. Lo guarda, affamato, e lo vuole mordere.

Russia, compreso ogni cosa, cerca di essere di nuovo buono. Sposta il corpo di Lituania in modo da non toccare la schiena, né le spalle. Lo avvolge con le sue braccia, la sua sciarpa sfiora le guance umide del ragazzo. Lo culla, come veniva cullato da bambino dalla sua sorella maggiore. Si toglie i guanti, gli poggia nelle tasche, e con le dita carezza le guance incendiate di Lituania. Attraverso quel poco di carne che possiede il ragazzo, sente il suo cuoricino. Batte molto forte, piccolo e spaventato. Vorrebbe stringerlo talmente tanto forte da non farlo più battere, il cuore, per farlo tornare calmo come prima.

“Non piangere, piccolo…” ma il lituano non riesce proprio a smettere. Non sente le carezze di Russia, nemmeno sa di essere cullato, sa solo che Russia è vicino a lui. Troppo vicino. Sa anche che ha paura e non riesce a fermare il suo cuore terrorizzato. Vorrebbe dire a Russia che non dormirà mai più, così non si arrabbierà, né gli farà del male. Sente dei passetti decisi entrare nella stanza. Il pianto si ferma subito. Lituania si trova in trappola. È caduto troppo in basso nella gabbia e ora non riesce più a ritornare su. Ci sono troppi serpenti ed è troppo buio. Russia alza lo sguardo.

“Fratello… cosa sta succedendo?” chiede Bielorussia, confusa e perplessa. Non sa che pensare, quindi, semplicemente, non pensa a niente. Guarda soltanto suo fratello mentre abbraccia il suo servitore, nulla di più. Nota, però, che sulla schiena del ragazzo si sta formando una grossa macchia rossa. Nota anche che il volto del moro è rosso e rigato di lacrime. Un falso indizio striscia sulla sua pelle. Trattiene il respiro nell’aspettare la risposta.

“Niente, Natalya, è caduto dalle scale e si è fatto male” risponde Russia, cercando di tirare su un sorriso. Bielorussia si meraviglia di sentire il suo secondo nome. I tre fratelli vivevano nella povertà e nella miseria. C’era un periodo in cui non sapevano nemmeno di essere Nazioni. Credevano di essere umani, per questo si erano dati dei nomi, prima di scoprire la loro reale ragione di vita. Era un piccolo segreto, per loro tre. Ma Ivan non aveva mai pronunciato il suo nome in presenza di qualcun altro che non fosse Katja.

Bielorussia si avvicina, più tentennante che preoccupata per Lituania. Russia deglutisce nel vedere lo stato dei capelli del ragazzo che ha fra le braccia. Ricorda, oltre al cibo, al suo prigioniero era negata anche l’acqua. Dopo le cure, i due Baltici hanno cercato di pulirlo con dei panni, ma, ovviamente, non fu sufficiente. Infatti, i capelli di Lituania sono, oltre che sporchi, anche macchiati. Vede chiaramente delle gocce secche di sangue impigliate nelle ciocche, isolando e scoprendo la pelle della cute. Deglutisce ancora, Russia. Deve per forza far passare un braccio sotto la schiena di Lituania per farlo alzare da terra insieme a lui. Ci riesce, con molta fatica per il suo cuore. Il ragazzo protesta con dei gemiti, sente un dolore sordo nel punto in cui Russia ha portato la mano. Bielorussia osserva quella macchia crescere a vista d’occhio. Un brivido la percorre, ma non lo fa notare. La confusione la rende molto debole.

“Natalya, aiutami, per favore. Dove sono le medicine?” la sorella, ancora perplessa e con un brivido di disgusto lungo la spina dorsale, esita, ma per poco.

“Nel bagno qui accanto, vieni” detto questo, prende i lembi della gonna, li solleva e corre. Non vuole far domande ora, non è il momento, l’ha capito dagli occhi di suo fratello. Russia la segue, cercando di non muovere troppo Lituania. Entrano, vengono investiti dalla luce dorata e bianca, ma non è il momento. Bielorussia afferra velocemente un grande asciugamano e lo fa stendere per terra. Russia comprende e poggia Lituania, cercando di essere il più cauto possibile. Lo stomaco di Russia si stringe su sé stesso nel notare che il corpo del ragazzo è molliccio come un lombrico. Lo sdraia a pancia in giù, mentre il ragazzo geme di dolore. Bielorussia, nel frattempo, è salita su uno sgabello e ha trovato una scatola di legno con addossata una croce rossa. Aperta, si rileva piena di boccette e bendaggi.

“Schiena… schiena…” mormora lento Lituania. I due fratelli lo ascoltano, ma solo Russia gli presta attenzione. Bielorussia è troppo impegnata a togliere il grembiule verde e la giacca gialla. Ripulisce le spalle scoperte dal sangue. Lituania lancia un gemito acuto. Bielorussia, nel contempo, ha un sobbalzo e si morde il labbro. Ha tolto il sangue, ma nota un particolare che le fa drizzare i capelli. Il corpo di Lituania, in quei giorni, è dimagrito molto, troppo. Tanto da poter scorgere le ossa una ad una. La spina dorsale è il problema: verso il mezzo è spezzata rudemente, tranciata in due e il corpo del ragazzo, ovviamente, segue quelle due parti spaccate. Le due vertebre scollegate si vedono sporgere fuori dalla schiena, come nel tentativo di strapparla ed uscire fuori. Sembra un verme tagliato in due che un bambino tenta disperatamente di ricollegare le due parti separate. Entrambi i fratelli, realizzato ciò, hanno lo stesso brivido lungo la spina dorsale. Russia, per l’ennesima volta, deglutisce.

“Natalya, non credo che servano le medicine” la sorella aspetta ordini, con la fronte colante. Ha caldo, lì dentro, si sente in trappola e sporca “Vai vicino al ragazzo, alla sua testa. Prendigli le mani, non stringere troppo forte” lei ubbidisce. Si ritrova seduta sulle ginocchia, di fronte alla testa bruna di Lituania, con le mani di porcellana strette alle sue tremanti e tagliuzzate. Russia si sposta più vicino alla schiena del ragazzo.

“Lituania, ascolta: io e Biela siamo qui per aiutarti” Lituania geme, non ritenendo vere le sue parole “Ora ti farò del male, ma durerà poco, te lo prometto” cerca di essere convincente, ma ha troppa paura e ha troppa saliva nella bocca per fare il tutto per bene. Infatti, deglutisce ancora. Lituania ha il cuore fermo nella testa, pulsa di scappare, ma non ci riuscirebbe nemmeno con tutta la sua volontà. Ha paura.

“Se senti troppo dolore, stringi forte le mani di Biela e urla quanto vuoi, non ti vergognare” si tira le maniche della giubba e, con molta esitazione, procede. Le mani ghiacciate di Russia penetrano nella poca carne che gli è rimasta e raggiungono la spina dorsale spezzata, cercando di rimetterla in sesto con la forza. Gli occhi di Lituania lacrimano per il dolore, le mani tremano e stringono forte le piccole di Bielorussia. Non vorrebbe urlare, un cavaliere non urla di fronte ad una donna. Né piange di fronte ad una dama, per questo nasconde il volto nell’asciugamano sotto di sé, vergognandosi nel profondo.

Russia collega le due parti con uno schiocco forte. Lituania non resiste. Col cuore nelle orecchie, urla, sull’asciugamano. Esce saliva dalla bocca spalancata, i denti fuori dalle labbra. Le guance, da rosse, diventano bianche, quasi cineree. Grida il suo dolore e prende vita dalla sua bocca. Il bruciore continua anche dopo il ricongiungimento della spina dorsale. Si vergogna, con tutto sé stesso. Si odia, ha toccato il fondo. Continua a lamentarsi, col cuore rotto, più della schiena.

“Ivan, si sta solidificando l’osso” fa notare Bielorussia, allungando il collo. Getta gli occhi in basso anche Russia. È vero: dopo aver collegato le due parti, ora l’osso si sta ricucendo alla sua gemella. Pare completamente risanato. Russia lascia il nodo che ha alla gola e sospira sollevato. Si guarda le mani completamente intrise nel sangue di Lituania. Per qualche ragione maledetta, lo stomaco continua ad attorcigliarsi su sé stesso. Lituania smette di gemere e passa alle lacrime, tirando spesso su il naso.

“Vuoi…” perde le parole Bielorussia “Cosa vorrai farne, ora?” dice, riferendosi a Lituania. Il ragazzo contrae il corpo e trattiene il respiro. È ritornato il terrore. Russia nota tutte queste cose e sospira. Gli dispiace solo che Natalya sia sempre molto brusca con le parole.

“Ora… ora pulisco un po’. Grazie, sorellina” le rivolge un sorriso stanco. Anche la più piccola si sente esausta, nonostante tutto. Si alza, dà un veloce bacio alla guancia del fratello e si avvia all’uscio. Ma si ferma, all’ultimo.

“Però, più tardi, voglio sapere cosa gli è successo” afferma, come se fosse una minaccia, prima di sparire e sbattere la porta dietro di sé. Russia sorride. La sorellina non intendeva lo stato del ragazzo, intendeva altro che solo il maggiore ha compreso. Alzato, nota che la pelle della schiena, senza carne, si sta risanando velocemente. Russia osserva questo processo fino a vederlo compiersi completamente. Ma le cicatrici, nere, ritornano al loro stato originale. Le sopracciglia di Russia si abbassano.

“Piccolo, ora ci laviamo un po’, sei troppo sporco” Lituania non risponde, ritornando a tremare convulsamente. Russia vorrebbe che non tremasse più. Si sente male solo per questo. Si sciacqua nel lavello le mani e si toglie la giubba. Si tira le maniche della divisa e passa a Lituania. Riesce a sfilargli le scarpe e i pantaloni grigi, fino a spogliarlo completamente.

Lituania si vergogna, si copre il volto con le mani, sia per il disagio, sia per la sensazione terribile di smarrimento e paura che sente dentro di sé. Russia lo poggia nella vasca. Immediatamente il ragazzo si chiude in un bozzolo, facendo scoprire la pelle risanata e coprendo ancora il volto. Russia, seduto sul bordo, apre l’acqua e ne esce tiepida, quasi calda. Il gigante sospira per il vapore che ne esce fuori.

“A me piace molto calda. Tu quale preferisci?” nessuna risposta. Lituania non riesce nemmeno ad aprir bocca, serrata di nuovo. Si vergogna si sé stesso, anche per la sua incapacità di parlare in questo momento. Il senso di inutilità e smarrimento cresce ancor di più. Russia non dà molta importanza al silenzio del ragazzo. In un certo senso, capisce come si sente.

“Non fa niente, allora faccio io!” esclama, allegro. Quell’allegria fa tremare ancor di più il lituano. Russia, quando gli faceva del male, era sempre allegro. Per questo trema ancor di più. Sente i colpi, il ferro sulla pancia, il sangue sulla sua bocca. Trema più forte. La bocca si prosciuga come un deserto.

La vasca è per metà piena, con acqua calda. Russia allunga una mano verso il secondo bordo e afferra un barattolo con del sapone all’interno. Prende la spugna, ci immerge il sapone dentro. Si sposta dal bordo della vasca vicino alla schiena di Lituania. Bagna un po’ la spugna di acqua e la fa passare con cautela sulla schiena rossa.

Quella mano gentile lascia Lituania col cuore nella gola. Russia era sempre gentile, quando gli faceva del male. Ha paura, gli batte forte il cuore. È un animaletto in trappola e ferito. Le sue mani si staccano dal volto e si gettano sul suo cuore. Vorrebbe che non battesse più così tanto. Sotto di sé, vede l’acqua diventare leggermente rossastra. Deglutisce, anche lo stomaco gli fa male: stringe troppo forte. Russia, tolto tutto il sangue, esita un attimo. Passa una mano sulla schiena di Lituania, senza la spugna. È una semplice carezza, un segno di affetto. Russia vorrebbe che lo capisse.

Il tremolio di Lituania smette un attimo, per poi ritornare con più convulsioni. Russia guarda la schiena di Lituania come se fosse la prima volta che la vede. Ha aperto così tante volte quelle cicatrici e quei tagli che, da rossi, sono diventati neri e scuri, violacei e brutti. Sembrano delle vesciche o dei lividi sporgenti. Russia passa una mano anche lì, sui tagli. Lituania, al contatto immediato, sobbalza, trattenendo un gemito. Russia ritira immediatamente la mano. Non si è mai sentito così triste e deluso di sé stesso. Ti ho fatto così male, Lituania?

C’è dell’esitazione nei movimenti di Russia, rimane fermo a contemplare con sguardo cupo le cicatrici del ragazzo. Non riesce a pensare bene. Si vergogna di sé stesso, moltissimo. Non ci aveva mai riflettuto prima d’ora, quanto potesse essere pressante con i suoi giochi. La realtà gettata in faccia, fredda e pungente, fa male e lo uccide. Lituania sente il corpo freddo di Russia fermo alle sue spalle. Si arriccia più in profondità verso la sua pancia, le mani si spostano sulla testa. Tremano anch’elle. Aspetta un colpo, una frustata, lì sulla schiena o in testa. Russia nota e comprende ogni cosa. Assottiglia le palpebre, le pupille violacee fremono e non stanno ferme.

“Non ti farò del male, piccolo…” dolcemente poggia le sue mani ferme su quelle piccole e tremanti. Sono scheggiate, le mani. Alcune non hanno le unghie e Russia sa il perché. Il tremito si ferma a quel contatto. I tremolii si spostano, invece, sulle ginocchia e sulle gambe. Le dita di Russia sono gentili. Passano sul dorso delle mani, sulle nocche e sulle falangi. Tante volte carezza le mani del ragazzo, un inutile tentativo di convincersi di poter cancellare i tagli che gli ha lasciato. Gli occhi violacei sono umidi.

Russia passa ai capelli. Li bagna con l’acqua e la schiuma, e massaggia. Non usa troppa forza, è calmo e cortese, non vuole far del male a Lituania. Eppure, il moro non lo capisce. Torna triste per questa rivelazione. Vede il ragazzo nascondere la testa fra le ginocchia, un’infantile tentativo di cancellare ciò che sta accadendo intorno a lui. Si sente infelice. Sciacqua i capelli bruni del ragazzo. Ora sanno di miele e menta. Gli piace quel profumo. Forse i girasoli europei hanno questo profumo, pensa. Lituania non si accorge di nulla.

“Bene, ora sei pulito. Non senti come sei profumato?” Lituania non riesce assolutamente ad aprire bocca. Con gran parte della sua volontà, annuisce freneticamente, mentendo. Non sente alcun profumo. Sente odore di ferro, molto forte. Quell’odore puzza. Ha solo l’udito, e l’udito sente solo il cuore sbattere contro le costole in un patetico tentativo di fuggire.

Russia tira il tappo, credendo in un miglioramento nel ragazzo. Guardandolo si rende conto di aver capito male e il sorriso gli muore. Mentre l’acqua scorre via, prende un grosso asciugamano e lo poggia dolcemente su Lituania. Gli carezza i capelli umidi. A quel contatto, Lituania trema con più forza. Vorrebbe che togliesse le mani da lui, che non lo toccasse più. Russia avverte il messaggio e smette. Il suo secondo sorriso muore, schiacciato dalla sciarpa e dallo sconforto. Vuole bene a Lituania, vorrebbe che anche lui lo capisse. Forse non è ancora il tempo per dirglielo, di sicuro non lo capirebbe. Ma nessuno ha mai capito Russia.

“I vestiti li porto a lavare. Vai in camera e dormi, piccolo. Riposati, non affaticarti” gli lascia un’altra carezza alla testa, prima di afferrare la giubba. È tentato di lasciargli un bacio, come fa con la sua sorellina. Non è ancora il momento, pensa, e ha ragione. Esce fuori, all’aria fredda e libera. Per una volta ama quel freddo che gli pizzica le guance.

Lituania, con ancora gli occhi fuori dalle orbite, nascosti tra le ginocchia, ricomincia a tremare. Dormire… dormire non va bene. Se dorme, allora, Russia si arrabbia e gli fa del male. Quel che ha detto Russia è sbagliato.

Per questo scuote la testa e ricomincia a piangere, capendo che il gigante bianco vuole per davvero la sua morte.

 

 

 

 

 

La sera va nella loro camera, per dormire. Non è andato a cenare, ma la pancia non protesta.

Entrato, trova subito Estonia che aiuta Lettonia ad indossare la parte superiore del pigiama, incastrata nei suoi ricci. Lettonia si volta, lo guarda preoccupato, ma non apre bocca. Estonia nemmeno lo guarda in faccia, lo guarda dallo specchio. Sembrano notare qualcosa che Lituania non riesce a vede. Hanno saputo di quel che è successo quella mattina. In qualche modo l’hanno saputo. C’è un attimo di silenzio fra di loro. Lituania rompe quell’aria morta avvicinandosi al cassetto che condividono. Mentre afferra il suo pigiama, sente silenzio alle sue spalle, dai più piccoli. Estonia sbuffa e ritorna ad aiutare Lettonia. La rabbia la sfoga sul fratellino, ma il piccolo non dice nulla.

Lituania inizia a spogliarsi, con le spalle ancora rivolte ai due Baltici. È più difficile di quel che credeva: la schiena fa comunque male. Sente le spalle sul punto di crollare, come una vecchia asse di legno. Riesce a togliersi i pantaloni, si cambia la parte di sotto. Da sopra è tutto molto più complicato. E’ come giocare a scacchi: deve tener conto di ogni mossa. Lo rende triste questa cosa. Si toglie, con una lentezza disarmante e dolorosa, la felpa. Estonia ringrazia Dio per non essersi tolto anche la canottiera: sarebbe esploso se avesse di nuovo visto quei tagli. Ho fatto del mio meglio, si discolpa dentro di sé. Lettonia rimane in silenzio, triste.

Estonia si getta nel letto, con un’insolita fretta nel togliersi gli occhiali e nel mettersi sotto le coperte. Volta la fronte verso il comodino, chiude gli occhi. Non vuole pensare ad altro. Lettonia gattona sul letto e si sdraia sotto le coperte, al centro. Getta un occhio su Estonia, ma lui non avverte il messaggio. Strizza le palpebre, assonnate ed infelici.

Lituania spegne le candele, la stanza precipita nel buio. Lettonia lo osserva. Osserva la sua camminata rigida, la sua testa perennemente piegata all’ingiù, i suoi movimenti lenti e nervosi. Sembra che abbia paura anche di noi, pensa Lettonia, ancora più triste. Il ragazzino si avvicina un po’ di più al fratello più grande, quando si sdraia pian piano sulla schiena. Vorrebbe tenergli la mano, il piccolo Lettonia.

Lituania sospira di fastidio e dolore e ritorna col busto all’insù. La schiena si rifiuta di stendersi. Sente un forte dolore lì, nel mezzo. Sente le vertebre della spina dorsale irrigidirsi e la carne attorno ad essa fiammante dal male. Decide di poggiarsi sulla pancia. Lettonia continua ad osservarlo, con la pietà che bolle ed esce fuori dai suoi occhi. Lituania lo fa soffrire soltanto a guardarlo. La pancia del maggiore si ribella a quella posizione: gli organi vengono schiacciati e compressi. Fa male anche questo. Ingoia il dolore e deglutisce. Per molto tempo rimane fermo, con gli occhi chiusi. Lettonia, credendo che il fratello si sia addormentato, chiude gli occhi anche lui e sprofonda, finalmente, in un sogno tranquillo.

Lituania, dopo poco meno di dieci minuti, pensa che non riesce a sopportare la sensazione di dormire a pancia in giù, sullo stomaco e i polmoni. Si gira e rigira, ma non trova una giusta posizione. Russia ha colpito tutto il suo corpo e ora questo protesta per il dolore. Lituania non può che dargli ragione. Si gira sulla spalla. Russia ha preso un pezzo di vetro e glielo conficca nella spalla. Si gira sul fianco. Russia, con gli scarponi, lo pesta. Ritorna a pancia in giù. Il gigante gli sorride, cattivo, prende il rubinetto e lo percuote.

“Lituania, sta’ fermo e dormi!” esclama sottovoce Estonia, innervosito fino ad ogni cellula del suo corpo. Lettonia continua a dormire, quasi contento di una notte senza incubi. Lituania sobbalza e sta fermo, immobile. Conta i secondi, al buio, nel silenzio più tragico, finché sente il respiro regolare di Estonia poco più in là. Si è addormentato anche lui. Lituania si rende conto di non riuscirci e rimane semplicemente fermo, ad ascoltare il martellare del suo cuore.

Gli viene un dubbio. C’è troppo silenzio nella loro camera. Lituania lo ascolta, incredibilmente attratto da esso. Ascolta il nulla così attentamente che nelle sue orecchie si sente un fischio di preoccupazione. Quel silenzio è innaturale. Pensa a Russia e ricorda che lui ha il potere su di loro. Pensa che potrebbe anche infiltrarsi nella loro camera e portarlo via con la forza. Il cuore inizia a galoppare nelle sue orecchie e nelle viscere dello stomaco schiacciato. Si guarda attorno, intimorito. La sua paura è tanta che, in pochi secondi, ritiene la sua ipotesi più che giusta, talmente tanto che è sorpreso che non ci abbia pensato prima.

La sua fronte lacrima sudore, così denso che dal ragazzo, in un attimo di terrore, viene scambiato per sangue. Lo stomaco di Lituania si attorciglia in uno spesso nodo. Lentamente scivola fuori dal letto e, altrettanto lentamente, si avvicina alla porta. Con falsa calma, guarda nel buco della serratura, aspettandosi di trovare Russia fuori. Vede soltanto la finestra del corridoio e, al di là, una notte senza stelle. Lituania ha comunque paura. Passano altri venti minuti a guardare nella serratura e ad ascoltare il silenzio martoriale. Per un attimo pensa di ritornare a letto. No, la paura è troppo grande. Non può crederci di aver pensato ad una cosa del genere.

Si siede a terra, ai piedi del letto, e aspetta. Aspetta qualcosa, forse qualcuno, forse Russia, forse la morte. Non lo sa nemmeno lui cosa, ma aspetta. Quell’attesa lo rende ancora più insicuro e tremante. Pensa ancora di nascondersi al caldo sotto le coperte. Gran parte del suo corpo si rifiuta. Ma non può stare solo lì ad aspettare. Si rialza e si avvicina cautamente al letto, guarda sotto di esso, sotto le tavole di legno, sotto lo scheletro del letto.

Trova ciò che cerca. Estonia aveva, diversi mesi prima, trovato un pezzo di ferro arrugginito. Probabilmente, un tempo, era un coltello, ora senza manico. L’aveva levigato molto, fino a renderlo acuminato e pungente. Ne era orgoglioso e lo nascondeva là sotto. In casi di emergenza, diceva, lo avrebbe usato. Voleva ancora illudersi che ci fosse un modo per scappare da lì.

Lituania prende quel pezzo di ferro, si siede di fronte alla porta e continua ad aspettare. Ha l’ansia nelle vene ad ogni spiffero o rumorino che sente. I due Baltici, svegliati la mattina dopo, lo trovano seduto per terra, le gambe che si abbracciano alla pancia e uno sguardo di puro terrore, nonostante non fosse accaduto nulla quella notte.

Lituania non ha dormito nemmeno per un minuto.

 

 

 

 

 

Un altro giorno passa in questo modo e Lituania, troppo spaventato, si rifiuta di dormire.

Obbliga il suo corpo a rinunciare al sonno, ricoprendolo di ricordi di Russia, dei cocci di vetro sulla sua schiena, delle bastonate e le sferzate. Alla fine il suo corpo viene mortificato a sufficienza, affinché smetta di dormire, per altre tre notti. Lituania pensa che, in questo modo, si salverà e continuerà a vivere. Ma non si chiede più una domanda fondamentale: perché continuare a vivere? Perché mortificare il suo animo in questo modo? A quale vantaggio? A quale scopo? Lituania non se lo chiede e cerca di sopravvivere. Paragona il sonno alla morte.

Al terzo giorno, la fatica comincia a torturarlo. Russia non si fa vedere da quell’episodio, ormai lontano e Lituania sta per cedere.

Lava il pavimento con lo straccio umido. Deve costringere la mano a muoversi, non lo fa più in automatico. Lituania si sta arrendendo al sonno. Continua a costringere il corpo a rimanere sveglio, ma questo inizia a ribellarsi. Il ragazzo guarda il pavimento oro e bianco. È splendente, senza una macchia. Ha fatto un buon lavoro, nonostante la sonnolenza. Ha finito, questo era l’ultimo compito. Deve solo aspettare che si asciughi e rimettere a posto il tappeto, anch’esso spolverato e pulito.

Traballante, apre le finestre. L’aria ghiacciata di settembre si schianta su di lui e lo avvolge. Fa freddo fuori, come se fosse gennaio. Lituania pensa che con un freddo del genere riuscirà a rimanere sveglio, per forza. Per questo si siede sulla poltrona, di fronte alla grande vetrata e aspetta che il pavimento si asciughi. Soltanto sedersi, per Lituania, sta diventando una tortura. Il corpo e la mente esigono il riposo. Ora sono loro a costringerlo a cedere. Lituania non riesce più a combattere, è stanco anche lui, stanco per davvero. Vorrebbe abbandonarsi per sempre e non svegliarsi mai più. Chiude gli occhi e si lascia avvolgere dal sonno.

È quasi il tramonto e il pavimento si è asciugato da ore, ormai. Ma Lituania dorme ancora, senza sogni né incubi. Dentro di sé, spera di essere morto. Avrebbe la pace. Vorrebbe raggiungere e rivedere i re che ha servito con fedeltà, come loro cavaliere. Vorrebbe rivedere il suo popolo defunto. Vorrebbe rivedere Polska, addormentato vicino a lui, nel loro letto, com’era un tempo, quando erano una Confederazione e Lituania viveva nel castello di Varsavia. Era uno dei pochi momenti in cui si sentiva in pace. Vorrebbe che il sonno si trasformasse in morte.

Non potrebbe vederlo, ma una mano bianca e splendente poggia sui suoi capelli una piuma rossa, la più lunga che possiede. Brucia, la piuma, ma non tocca i capelli castani del lituano. Un’altra piuma brucia tra le dita bianche di Polonia. Le ceneri volano e sprofondano entrambi nei sogni.

 

 

 

 

 

Le luci. La musica. I violini. Le melodie lituane. Le danze. Le persone. L’oro e l’argento nelle sale. Non sa bene come ci sia finito lì, ma non se ne cura. Questa reggia, questa sala da ballo, questi suoi abiti sfarzosi, quest’allegria frizzante della sua terra… troppa nostalgia, troppa felicità per averla ritrovata. Anche il bicchiere di champagne in mano non gli dispiace, se paragonato a tutto il resto. Respira la felicità del suo popolo nel ballo che sta vedendo di fronte a sé. Quest’allegria è contagiosa e lui è felice di esserne contagiato. Inoltre, sente la schiena robusta e sana, libera e leggera. Anche questo lo solleva molto.

La musica è frizzante e gioviale. Forse è veramente a casa sua, in Lituania. Forse è alla reggia di Vilnius e non se né accorto. Forse è scappato di nuovo da Russia senza nemmeno accorgersene. O forse si trova lì per rimanerci. Questa prospettiva della situazione gli piace. Rimanere lì, anche se non conosce bene il luogo, gli sembra un’idea, se non interessante, meravigliosa. Ma qualsiasi luogo è meraviglioso, che non sia la villa di Russia.

Si avvicina ai tavoli dove viene servito il cibo. Lì lascia il bicchiere di champagne. Non sa che farsene, tanto è felice solo con la musica e le danze. Gli viene voglia di gettarsi lì, nella folla, e di ballare. Tante persone gli passano vicine, non curandosi di lui, non prestandogli molte attenzioni, se non per constatare che, si, lì, in quel luogo, si trova anche un ragazzo e non solo adulti trasformati dalla musica in bambini. Veramente, ha voglia di ballare. Ma ha bisogno di una compagna. È la regola e, comunque, non saprebbe come danzare da solo. Forse potrebbe chiedere a quelle giovani donne sedute lì, in fondo, ad aspettare il fortunato che le chiederà la mano…

Sente due dita premere un paio di volte, leggermente, sulla sua spalla “Liet…” immediatamente si volta. Immaginava che fosse lui, lui viene sempre a salvarlo e ad aiutarlo. Rimane comunque meravigliato nel vederlo di nuovo lì, nei suoi sogni, per portarlo via da Russia e dalla casa maledetta. Lo stringe dolcemente, come se fosse di cristallo, senza troppa forza, non come l’ultima volta, nei campi di grano. È sorpreso, ma non incredulo di vedere Polska. Si staccano, Lituania è ancora sorridente.

“Polska, sei tornato di nuovo!” a Liet brillano gli occhi. Polonia annuisce, cercando di tirare un sorriso. Ci riesce, ma con molta, moltissima fatica. Questa volta, non è entrato nei suoi sogni per incontrarlo o per abbracciarlo.

Toris lo ha abbandonato, solo, in quella realtà in cui è prigioniero, in cui non può comunicare. Gli ha lasciato solo quelle piume, solo quelle, sono molto poche. Si è reso conto che non vuole essere egoista. Si è reso conto che qualsiasi intervento da parte sua non ha fatto altro che peggiorare la situazione all’interno del cuore di Liet. Si era convinto, in quella seconda settimana di torture, che avrebbe dovuto stare calmo, al suo posto di spettro, lasciando che le acque scorressero vicino a lui, senza intervenire, chiudendo gli occhi e le orecchie, se necessario.

Nella settimana di guarigione di Lituania, ha creduto di impazzire. Non riusciva a guardare Liet. Hanno distrutto anche i suoi occhi azzurri, il suo sorriso e la sua vita. Hanno distrutto tutto di Liet. Non solo Russia, tutti in quella casa erano colpevoli di omicidio, della volontà di vita di Lituania. Vedere in atto quel reato, senza far nulla, è stato impossibile per Polonia. Ha fatto un esame di coscienza per tutti quei giorni, osservando la situazione senza commentare.

Credeva di dover smettere immediatamente. Era poco meno di un morto, un morto molto fastidioso per i danni che ha creato. Non pensava che fosse più necessario il suo intervento, completamente negativo per giunta. Sia in vita che da morto non crea altro che problemi agli altri. Ma non può sopportare di vedere Lituania morire di fronte ai suoi occhi, di giorno in giorno, di notte in notte. Questa volta ha preso una decisione, dolorosa ma che deve essere svolta, per il bene di tutti.

Bisogna guardare in faccia la realtà: lui è morto, non esiste più, né nel corpo, né sulla cartina geografica. Non può più tornare indietro, il suo regno è stato distrutto e mai rinascerà più. Deve scegliere di restare lì o di andare in pace, che sia il Paradiso o l’Inferno. Questo Polonia l’ha capito, con difficoltà e pianti, ma l’ha capito. Ora è il turno di Liet. Purtroppo deve aprire gli occhi anche lui, o morirà per il dolore. Questa prospettiva è molto più terribile delle parole che vorrebbe pronunciare.

“Ti piace qui?” chiede Polonia, con le braccia dietro la schiena e la testa gentilmente piegata.

“Certamente! Questo posto è meraviglioso” gli brillano gli occhi per la felicità. Polonia si morde l’interno della guancia e deglutisce. Sarà molto più difficile di quel che pensava. Lituania guarda Polonia e si rende conto che hanno gli stessi vestiti: casacca lunga fino al ginocchio, aperta, foulard bianchi, pantaloni e giacche strette, come si addice a dei gentiluomini settecenteschi. L’unica differenza è che Polska ha la casacca verde, mentre invece lui color caffé. Lituania pensa che il verde stia molto bene a Polska. Il moro ha ancora voglia di ballare, tantissima voglia di divertirsi. Il polacco segue gli occhi di Lituania, comprende, ma si sente ancora più nervoso. Liet si volta, sgargiante.

“Ti piacerebbe ballare?” sente la musica calmarsi. È meno frizzante, ma più dolce e delicata. A Lituania piace ugualmente. Si stanno velocemente formando delle nuove coppie sulla pista da ballo. Polonia lancia un’occhiata alla sala. Il cuore diventa più pesante, non vorrebbe ingannare Liet e poi dirgli la verità su ciò che vorrebbe fare in seguito. Vorrebbe semplicemente che quel posto sparisse e che ci sia silenzio. Ecco, esatto, vuole silenzio. Tutta quella musica gli sta graffiando la coscienza e trasformando il cuore in piombo. Gli fa male tutta quella felicità che sta guardando, sia in quelle persone, sia in Liet.

“Uh…” è ancora indeciso su cosa fare. Decisamente, quella musica lo infastidisce. Non aveva la minima idea di come usare quelle piume, questo luogo deve averlo creato la fantasia di Liet. Non ricorda di essere mai stato lì e quel posto sconosciuto gli trasmette una certa angoscia. Ha ancora paura di ciò che non conosce e avere questa fobia lo delude molto. Si sente un bambino in un mondo di adulti, come lo era nella reggia di Varsavia. Come lo è ora con Liet.

“Su, dai, ci divertiamo!” è la prima volta che vede il lituano così estasiato per qualcosa. Gli sta addirittura porgendo la mano. Forse è l’atmosfera allegra della festa, forse è il palazzo lituano che non vede da decenni, segregato nella casa di Russia, senza mai vedere le sue terre e tradizioni. O forse è solo lui stesso molto nervoso. Lancia un’altra occhiata suscettibile alla pista. Nota subito un particolare che lo rende abbastanza teso.

“Erm… Liet, siamo due maschi…” Lituania ride forte. Polonia drizza la testa, ha un groppo alla gola. Forse era soltanto una sua impressione, ma la voce di Liet gli era sembrata rauca e anche abbastanza stanca.

“E dovrebbe importarci? Siamo amici e questo è il mio palazzo. Possiamo fare tutto quello che vogliamo. Non ti vergognare, non c’è niente di cui aver paura!” gli sorride con amore. Conosce bene Polska, sa della sua fobia, sa che vorrebbe sbarazzarsene, ma lo fa con fatica. Sa che quel posto nuovo lo sta facendo imbarazzare, ma non riesce a smettere di essere felice e di sorridere. Poi, il ragazzo ha solo bisogno di una piccola spinta, poi si divertirà. Pensato questo, afferra per le mani Polska e, con lo sbigottimento del biondo, lo trascina fino al centro della sala dorata. Polonia sente il cuore scoppiare per la paura.

“Non ti preoccupare, andrà tutto bene” sente il valzer entrare nella musica e nella pista “Faccio io il maschio, va bene?” chiede senza volere una reale risposta, tanto Polska è sempre stato la ragazza fra i due. La prima volta in cui fu costretto a ballare non sapeva nemmeno cosa fosse una ballata. Polonia, in un giorno, gli aveva insegnato il valzer, nella loro stanza, per ore ed ore. Fece buona impressione il giorno dopo. Polska è molto più bravo di lui a ballare, complice gli anni ed anni passati nella reggia e l’eleganza in sé per sé. Aveva l’eleganza di un principe, Polonia. Quest’eleganza gli mancava e la desiderava molto.

Polonia non apre bocca, imbarazzato e col cuore ancora più pesante. Vede la mano pallida di Liet che si accosta al suo fianco, con una dolcezza tale che lo fa sentire in colpa. Istintivamente poggia anche lui le mani su di lui, come farebbe una ragazza col suo cavaliere. Questo paragone gli fa attorcigliare lo stomaco. La musica riparte, molto più zuccherosa della precedente, quasi fiabesca. L’aggiunta del pianoforte lo fa pensare ad Austria. Austria lo trattava bene, in confronto a Prussia. Non vuole pensarci. Non scrolla gli occhi da terra, dai loro piedi, imbarazzato nel trovarsi in mezzo a tutta quella gente che non conosce. Sa che sono delle figure di carta, ma non ne può fare a meno.

“Polska, guardami! Non avere paura, ci sono io” afferma Lituania con una risata nel cuore. Polonia alza la testa, con timidezza. Pochi attimi e il suo nervosismo aumenta. Sente il suo cuore sbattere nelle orecchie, eliminando quasi del tutto la musica attorno a sé. Abbassa gli angoli della bocca e le sopracciglia. Lituania ha cambiato forma. Non è più roseo e sgargiante. E’ bianco, molto pallido, la pelle screpolata delle labbra pare sfregiata con un coltello. Gli angoli della bocca sembrano più marcati, gli danno un’aria sciupata ed esausta. Sotto agli occhi ha dei segni grigi e profondi, delle pozze di petrolio. Polonia lancia lo sguardo anche sulle sue mani. Alcune unghie mancano nelle dita tagliate e con dei piccoli lividi neri. Polonia deglutisce, sia spaventato che triste.

Nonostante ciò, continuano a ballare. Polonia si chiede come faccia Lituania ad essere così felice. La musica è strana. Il polacco lo nota solo ora e apre le orecchie. Si concentra. È cambiata di nuovo, la musica, ora la differenza è più che evidente. Il violino è stridulo, come se stesse graffiando una sola corda. Non è nemmeno della musica. È un urlo di bambino che trancia una notte senza luna. Polonia rabbrividisce, sente le spalle rigide. Lituania continua a danzare, lo guida in quel miserabile valzer di orrore.

“La musica fa paura…” mormora il biondo, con un filo di voce. Avrebbe voluto sembrare più sicuro di sé, ma la gola manca. È rigida, come il resto del corpo. I suoi movimenti perdono l’eleganza, ha troppa paura ed angoscia per muoversi. Eppure, Lituania lo guida ancora.

“Ah, si?” una risata infantile “Non sento niente di strano, Polska” afferma, deciso. In effetti, Lituania non sente niente di insolito. Forse è solo Polska che è molto nervoso. Non si lascia scoraggiare e continua il ballo, più concentrato sul buffo polacco che su quel che lo circonda.

Polonia, per sbaglio, sfiora il vestito di una donna danzante. Entrambe le coppie fanno una giravolta. Il biondo strizza gli occhi e rimane incredulo: il vestito rosso e nero della giovane donna si sta lentamente sfibrando e mutando in piccoli pezzettini di carta che svaniscono quasi immediatamente. Il ragazzo inizia a pensare, allontanando Liet da quella vista. Forse avrebbe dovuto usare due piume a testa come aveva fatto Toris, forse è per questo che Liet ha un brutto aspetto e la signora si sta trasformando in carta, fenomeno ignorato addirittura dal suo cavaliere.

Lo stridio di un urlo di donna gli paralizza il cervello: il violino ha ricominciato, più forte e crudele di prima. Maledetto e spietato. Polonia sente le orecchie frantumarsi per quel suono. Come fa Lituania a non sentire nulla? Sgrana gli occhi: le persone, non solo la donna quasi totalmente scomparsa, stanno perdendo pezzi di pelle e di vestiti che fluttuano in aria, bianchi e cartacei. Ferma i piedi, angosciato nel profondo. Non ce la fa più. Lo stomaco si attorciglia, come un serpente, fra i suoi polmoni. Gli manca l’aria. Lituania si ferma insieme a lui. Attende, ma nota lo sgomento di Polonia.

“Polska, stai bene?” chiede, più preoccupato di quel che dimostra. Polonia non sa bene che scusa inventare. Trovata.

“Si, solo che mi manca l’aria. Andiamo fuori un attimo?” Lituania cambia espressione in un attimo, è felice.

“Ma certo! Vieni” lo prende per le spalle e, mentre lo accompagna fuori, passa una mano sulla schiena dell’amico. In effetti, nota, Polonia è molto più pallido di prima. Forse sta male o gli gira la testa… Il polacco, calmato, si rilassa un po’, anche se il cuore è ancora pesante e lo stomaco striscia e si stringe su sé stesso. Alla fine, non ha nemmeno mentito, gli mancava per davvero l’aria. È sollevato dal fatto di trovarsi fuori da quella sala degli orrori. Si tranquillizza velocemente, non appena vede la luna, bianca e tonda.

Lituania porta Polska nella balconata del palazzo. Lì è molto più buio che dall’interno, ma c’è tranquillità. Non riescono nemmeno ad udire un alito di vento o uno squittire dei violini in lontananza. È il luogo più tranquillo e pacifico del palazzo, non c’è alcun dubbio. Il moro si siede sulla sottile gradinata di marmo, sotto di lui c’è il nulla, il buio. Trovarsi fra la luce e l’oscurità lo elettrizza, senza un vero e proprio motivo. Polonia, timidamente, si siede vicino a lui. Nota ciò che sta sotto di loro e rabbrividisce, intimorito. Lituania si avvicina ancor di più a lui. Il biondo è ancora pallido, ma un po’ più sveglio. Lituania è felice, sapeva che non fosse nulla, solo un po’ di paura, nulla di grave.

“Ora stai bene?” Polonia è tentato di annuire o di aprir bocca, ma non ne ha il coraggio. Guarda il suo Liet: è ridotto in cattivo stato, spossato e debole, riesce a notarlo dalla pelle e dagli occhi quasi completamente spenti. Nonostante tutto ciò, il suo amico continua a sorridere. Non capisce perché sia così felice e il fatto di dover spezzare subito quella felicità, lo uccide. Deglutisce un grumo di saliva acre ed acerba.

“Liet, non credo che dovremo stare qui. Tu… tu sei molto stanco” Lituania comprende ogni parola, ogni significato, nascosto malamente. Gli si allarga il sorriso.

“Stanco? Chi è stanco può fare… questo?” abbraccia Polska e, senza nemmeno un avvertimento per informare l’amico, lo trascina giù, nel buio.

“No, Liet!” non urla, Polonia, lo supplica con gentilezza. Cadono giù, nessuno dei due ha paura, sanno che non potranno farsi male. Non sentono le vertigini, non sentono il vento tra le orecchie, vedono attraverso il buio, com’è giusto che sia in un sogno. Lituania e Polonia cadono di schiena in un mucchietto di morbidissimo muschio verde, umido di rugiada trasparente. Un cuscino morbido e profumato. Lituania sembra splendere in quel buio, Polonia ha la mascella serrata e la lingua attaccata al palato.

Il moro si trascina sopra l’amico. La luna non ha difficoltà a filtrare tra i rami degli alberi. Tocca le loro pelli e le trasforma in perla bianca, quasi trasparente. Ma Polonia vede comunque la stanchezza negli occhi del lituano. Si poggia completamente su di lui. Ancora scherzoso e sorridente, gli bacia la fronte, con tutto l’affetto che ha in corpo. Il biondo sente una scarica che parte dalla fronte e si percuote nelle vene, fino al cuore pesante. Tutto questo, invece che confortarlo, lo innervosisce ancora di più. I suoi capelli biondi cadono all’indietro, liberi. Lituania soddisfa il desiderio di carezzarli. Il sorriso del moro si rilassa molto, come cullato dal profumo dei suoi capelli color grano.

“Ti faccio male…?” chiede, innocentemente. Ecco, è il solito Liet: pensa prima agli altri che a sé stesso. Polska non sorride, non ne ha la forza. Fa un cenno negativo col capo. Sente la testa dell’amico poggiarsi sul suo petto, quieto. Lituania si stringe al suo corpo, in parte lo abbraccia. Polonia ha i polmoni congelati e freddi, non riesce a respirare per tutta quell’ansia. Guarda la luna, si sente come lei: intrappolato in una ragnatela di rami neri e spezzettata in mille pezzi. Si sente male. Lituania non lo nota.

“Mi manchi ancora molto, Polska” sussurra, leggero. Polonia trattiene un sobbalzo, preso alla sprovvista. Riascolta nella sua testa le parole di Liet, tante, tante volte. Più le risente, più si sente male. Lituania si alza un po’, si muove ancora di più verso il suo viso. La luna è quasi scomparsa dalla sua vista, ora ha di fronte il viso dell’amico. E’ innocente e speranzoso, il suo viso. Gli occhi azzurri del lituano brillano, fanno compagnia ai pezzetti di luna sopra di loro.

“Qui si sta benissimo. Mi manca casa…” casa… la Lituania? Si, sicuramente si. La reggia di Varsavia non la considera nemmeno lui una casa “Ti voglio tanto bene, Polska” Polonia s’irrigidisce, il lituano non lo nota, troppo concentrato a trovare le parole giuste. E ad accarezzargli con l’indice il palmo della mano. Polonia sente un po’ di solletico. E una fitta al cuore. Ora quel punto fa molto male, brucia quasi. Lituania si stende meglio su di lui, poggia la testa nell’incavo del collo, aspira il suo profumo.

Polonia non si muove, continua a guardare la luna intrappolata nei rami. Si sente un fruscio nella foresta, delle foglie sbattute dal vento. Segue con gli occhi quel venticello, viziato, che strappa via dai rami qualche foglia birichina. Fluttuano vicine alla luna, le foglie, cantano e fischiano al vento. Questa foresta, anche se nera e misteriosa, lo attrae più del palazzo lituano.

Gli manca casa sua, le sue foreste verdi, le sue città toccate dal passato medioevale, il viso bianco e vispo dei bambini polacchi. Non potrà più tornare a casa. No, casa non esiste più, la Polonia non esiste più. Non ascolterà più la voce delle sue foreste. Troppe emozioni, gettate tutte insieme in una volta, tutte nel suo cuore. Gli si riempiono gli occhi di lacrime. Una di loro decide di fare un passo fuori dall’iride, coraggiosa. Viene immediatamente imitata dalle compagne, anche loro prese nella corsa verso le sue orecchie, fino ai suoi capelli. Trattiene a stenti i singhiozzi e i sussulti. Stringe forte i denti per farlo. Purtroppo gliene sfugge uno, che fa tremare violentemente tutto il suo corpo. Lituania alza la sua testa, veloce, ciò che vede lo preoccupa e lo incredula.

“Polska! Stai bene?” lo chiede con così tanto calore e amore che, invece di fermarsi, le lacrime continuano a bagnargli i capelli e i singhiozzi lo scuotono. Getta un braccio sul volto. Ha pianto troppe volte di fronte a Liet, anche se da fantasma. Ma Lietuva non gli ha mai detto che gli vuole bene, e se l’ha detto, allora l’ha fatto molto, troppo tempo fa per ricordarlo. Non ha mai sentito così forte la nostalgia di casa. Non si è mai sentito così male per aver trattato Liet come un servitore per tutto questo tempo. Un singhiozzo troppo forte fa alzare velocemente la sua schiena e gli ci vuole molto più tempo per ritornare a toccare il muschio sotto di sé.

“No, Polska, non piangere. Non c’è niente per cui piangere…” il moro scava con le dita sotto il suo braccio e gli asciuga le lacrime, commosso ed intenerito. Non ha mai visto piangere Polska per così tante volte. Polonia vorrebbe che Liet lo odiasse, sarebbe tutto molto più semplice e non si sentirebbe così male. L’amico gli sposta il braccio fermo sul volto pieno di lacrime. Coi pollici continua a togliergli le lacrime e ad accarezzargli le guance.

“Non devi piangere, Polska. Se vuoi, puoi restare qui per tutto il tempo che vuoi” gli sorride ancora. Polonia smette un attimo di singhiozzare, preso ancora una volta alla sprovvista e ricordando di nuovo il perché del suo arrivo lì, nei sogni di Lituania.

“Ma… ma… Liet, io non posso…”

“Allora starò io qui con te. Non tornerò più da Russia. Saremo solo noi due, insieme, come ai vecchi tempi” Polonia smette di piangere, ora sono rigidi gli occhi e il corpo “Ricordi quando parlavamo al telefono? Si, la tua idea mi era piaciuta molto” dice, raccogliendo le sue lacrime. Polonia affoga nei suoi occhi blu, più leggeri e vivaci.

“Q-Quale?”

“Della casa, dell’appartamento, del vivere insieme. Io pensavo ad un appartamento, tu ad una casetta. Sai, hai ragione: è meglio vivere in una casetta, è bella la campagna” ammorbidisce il sorriso “Potremo vivere qui, noi due, come un tempo. Anzi, meglio! Questa volta non ci sarà né Russia, né Prussia, né Austria. Non ci saranno guerre a separarci, non avremo un filo che ci lega ai nostri paesi. Saremo solo noi, come dei normali umani. Polska, non sarebbe meraviglioso?” gli si spezza il cuore, le lacrime rischiano di scendere di nuovo giù, questa volta verso la gola. I polmoni sono di nuovo freddi e duri. Il suo cuore è rotto. Polonia si sente rotto, Lituania vuole fare lo sbaglio che lui rischiava di fare, tempo prima.

“Liet… non si può” lo dice in un modo troppo morbido, infatti l’amico non legge fra le righe.

“No, secondo me si può” gli occhi del moro si chiudono un attimo, la testa si abbassa “Non sai cosa mi è successo in questi giorni. Tutti mi odiano, Polska” il fiato ad entrambi manca “Non voglio più Russia. Io… ho paura di lui. Insomma, ne avevo anche prima, ma ora è molto diverso. È come… come capire dopo un po’ di trovarsi di fronte ad un mostro. Russia è crudele, Polska, non lo voglio più. Ma non posso scappare da lui, è troppo forte…” Liet tira su il naso, velocemente. Ha gli occhi umidi anche lui “Lettonia ed Estonia mi odiano. Quella casa… ha qualcosa di sbagliato, quella casa. Credimi, Polska, è come essere in una gabbia e… è orribile, Polska. Mi sento male lì…” sospira, trattenendo facilmente le lacrime. Poggia per un attimo l’orecchio sul suo petto. Resta così per un po’ e sembra calmarsi molto. Polonia inghiotte un groppo salato di bile.

“Io ti credo, Liet” l’ho visto con i miei occhi, pensa. Ma non glielo dirà mai.

“Lo so…” sospira, felice, il moro. Continua a rimanere fermo, sereno. Per un attimo Polonia comprende cosa stia facendo “Sai, questa è la musica più bella che io abbia mai ascoltato…” dice, continuando a premere il suo orecchio sul suo cuore. Lituania ricorda il cadavere, il pavimento graffiato dal sangue dell’amico, Russia insensibile e crudele. Non vuole più vederlo, non vuole più avere dei falsi fratelli, non vuole più essere in gabbia. La libertà della sua terra sa di vento e di stelle. Vuole prenderla tutta e buttarcisi dentro. Polonia ha un brivido di rabbia sulla spina dorsale. Si odia per essere così debole. Ha ancora ingannato Liet e deve smetterla di farlo, ora. Si alza sui gomiti, lentamente, abbastanza per avvertire il lituano del movimento improvviso. Polonia guarda qualunque cosa dell’amico, tranne che gli occhi.

“Liet, non possiamo stare qui” Lituania, dopo un po’, decide di sedersi sulle ginocchia dell’amico.

“Che vuoi dire?” la scintilla di speranza cerca di non morire.

“Questo… questo posto, non esiste, Liet. Siamo, tipo, in un tuo sogno, in un posto inventato dalla tua testa” Lituania sospira rinfrancato. Con le palpebre abbassate, sorride.

“Lo so, ma possiamo stare qui ugualmente. L’ultima volta… c’eravamo quasi riusciti. Possiamo farcela! Io… non voglio più tornare lì… Mi manchi tu, Polska…” lo dice con tutto il cuore, questo il biondo lo sa. Si odia ancora di più per i suoi pensieri, di quando aveva desiderato la stessa cosa, ma da Liet. Ora è Lituania a chiedergli di restare e si sente frastornato. Nessuno dovrebbe desiderare di morire. Lituania è cosciente di quel che sta chiedendo e vuole restare ugualmente con Polska. Sa che sarebbe felice lì, in questo mondo incantato. Non vuole più vedere il sorriso di Russia o gli occhi curiosi di Lettonia ed Estonia. Stare lì lo rende felice, qualcosa che ha quasi dimenticato. Polonia getta uno sguardo dietro le spalle dell’amico. Vede dei leggeri filamenti bianchi strapparsi dalle cortecce e dalle foglie. È quasi ora. Si alza in piedi, con fatica. Lituania fa lo stesso. Deve avere uno sguardo molto serioso, perché Liet cambia subito espressione, preoccupato.

“…guarda” dice, semplicemente. Ma, dopotutto, Liet deve solo guardare. Con esitazione, si leva la casacca verde scura. La lascia cadere a terra. Polonia non ha il coraggio di guardare Liet in faccia, né di smettere di svestirsi. Passa al foulard e finisce per terra. Ora arriva la parte difficile. Esita ancora un po’, sospira, cerca coraggio, ne ha molto. Sbottona la camicia, bottone dopo bottone. La apre. Lituania aveva una consapevolezza, brutta e cruda, ma i suoi occhi non riescono a fare a meno di strabuzzare e la sua mano non riesce a restare al suo posto. Trema, la sua mano, e si poggia sulla sua bocca. Nel mezzo del petto del polacco, c’è un solco rossastro e sfregiato. Si vede la carne viva pulsare lì, dentro il buco color carne viva.

Lituania fa scorrere una mano sulla pancia di Polonia, cerca la sua autorizzazione. Polska annuisce tristemente. Il ragazzo fa continuare l’avanzata delle sue dita, fino a giungere al solco. Lo sfiora gentilmente. Il biondo sibila di dolore, il corpo si ribella e trema. Lituania, ora, sente il suo cuore protestare dall’incredulità e dalla paura. Alza gli occhi su Polska, turbato in ogni cellula del suo corpo.

“F-Fa molto male?” chiede, la mano si abbassa.

“Brucia come l’inferno…” risponde Polska, continuando a guardarlo con una serietà che stona con lui. Lituania non lo riconosce. Un’altra consapevolezza si fa largo nel suo cervello, ridotto ad un blocco di ghiaccio. Ha paura, Lituania. Ha paura di continuare ad ascoltare il suo migliore amico. Ha paura delle sue labbra, che si stanno lentamente riaprendo.

“Lituania, io… sono morto” sussurra la voce vuota di Polska. Lituania riceve quelle parole con una scarica di veleno in una sua vena. Viaggia lungo le arterie e il sangue, quel veleno. Brucia tutta la sua energia, mangia il suo ossigeno e la sua carne. Fa male, quel veleno. Continua a scorrere, velocemente, in una pazza corsa verso il suo cuore. È ghiacciato, è doloroso. Lituania scuote la testa, non può farne a meno. Polonia è troppo serio per essere lui. Da quando in qua lui lo chiama col suo vero nome? Perché è così triste? Polska non è mai triste. Non dev’essere vero.

“Liet, non posso più tornare…” il veleno sta raggiungendo il cuore, impazzito per la velocità e per i tremori di Lituania. Il cuore urla, grida, si sgola per la paura e la voglia di non tornare da Russia. Vuole restare con Polska, non fa niente se sia morto. Vuole che resti lì, con lui, per sempre. Se lui non può, lo può fare lui. Ma ora il paesaggio sta cambiando.

“Lietuva, i morti non possono più tornare indietro…” quest’ultima frase fa male. La foresta sta diventando bianca, si frantuma in pezzetti di carta, volano verso la luna. Anche il cielo è fatto di carta. Polonia, lo vede, ha le lacrime agli occhi, verdastri e paludosi, come il suo cadavere. Lituania spalanca le palpebre. Il peso è troppo forte, cade in ginocchio. La carta si spezza velocemente, crea un piccolo tornado che li prende e li scuote. Lituania sente i violini gracchianti, il pianoforte scordato, il valzer di dolore. Vede gli occhi e il sangue di Polska. Lo vede gettato in un baule. Lo vede trascinato via, da Russia, in un luogo a lui sconosciuto. Fa troppo male, il cuore, il petto, i polmoni.

Si sfogano, i polmoni. Grida la gola, sua sorella, nella sua disperazione. Gli occhi sbarrati, che non vogliono guardare. Troppe emozioni, troppo poco tempo, troppe memorie ammassate e dimenticate nel sogno. Lituania vede la luce, ma continua ad odiarla. Russia portava la luce in quella casetta in cui era prigioniero. Il buio era una madre dolce e materna. Vuole il buio, lo vuole, vuole Polska, vuole scappare dalla sua cella.

Ma più desidera il buio e più riceve la luce. Lituania ritorna nella realtà, con la gola strappata e gli occhi bagnati e fradici.

Polonia, semplicemente, guarda in alto, cercando di non far sgorgare le lacrime. Come al solito, non ci riesce.

 

 

 

 

 

Russia passa nel salone, per caso. Inizialmente non lo vede, troppo concentrato e fiero del buon lavoro fatto dai suoi servitori. Poi lo nota. Si avvicina, curioso, al ragazzo. Lituania si è addormentato, seduto, con la schiena dritta e la testa sul punto di cadere di lato. I capelli ondeggiano lentamente per il vento freddo dietro le sue spalle. Russia vede dei solchi grigiastri sotto agli occhi del lituano. Comprende e ne rimane ferito nell’animo. Lo guarda e lo ammira, la sua tela preferita, imbrattata di rosso, gli attrezzi e le sue mani erano i pennelli. Riesce, anche ora, a vedere la grandezza del problema e il fatto di non essere riuscito a vederlo prima lo ferisce. Anche i pazzi hanno un cuore, dopotutto.

Russia si sfila i guanti: ha sempre freddo, anche dentro casa. Li posa sul tavolo di fronte al divano. Si avvicina cautamente al ragazzo. La testa continua a pendere pericolosamente verso di lui, di lato. Russia non vuole che si svegli. Rende la sua mano gentile e dolce e la poggia sulla guancia di Lituania. Con l’altra mano, affettuosamente, chiede al suo corpo di stendersi sul divano. Il corpo di Lituania desidera solo dormire, per questo accetta le mani di Russia, dimenticando i dolori che gli hanno causato.

Poggia il capo del moro su un cuscino e adagia le gambe, più magre di come ricordava, lungo il sofà bianco. Lituania sospira nel sonno, di sollievo. Russia ci riflette un po’ su e si decide. Si sfila la giacca invernale e la stende sul corpo raffreddato di Lituania. Trema, il ragazzo. Russia chiude la finestra e, infine, si siede di fianco al suo piccolo servitore. Cerca di essere il più lento e cauto possibile. Incredibilmente, ci riesce.

Lo osserva, incantato. Sembra in pace… pensa Russia. Sorride, sollevato. Le sue dita carezzano le ciocche more del ragazzo. Il corpo di Lituania rabbrividisce per il freddo. Russia si rattrista. Non voleva arrivare fino a quel punto. Non voleva fargli del male. Voleva solo che fosse suo.

Russia voleva una famiglia. Già ne aveva una ricevuta insieme alle sue sorelle, poi i Baltici vennero ad abitare con loro. In quel periodo, Russia stava cercando di farsi perdonare da Ucraina per la guerra che ha dovuto creare per riaverla indietro e Bielorussia, per tutto il sangue che ha visto scorrere sulle sue terre, si stava chiudendo sempre più in sé stessa e Russia cercava di farle aprire il cuore. In quei giorni voleva riavere la famiglia che aveva perduto. La voleva con tutto il cuore, avrebbe fatto di tutto per riaverne una. È vero, alla fine ebbe il perdono di Ucraina e Bielorussia ritornò ad essere sé stessa, anche se più fredda di come la ricordava. Ma non era abbastanza. Non voleva che i Baltici fossero dei semplici servitori, obbligati a stare nella sua gigantesca casa. Voleva anche loro nella famiglia. Sapeva di poter fare qualsiasi cosa per avere il loro cuore in mano. E fece ogni cosa in suo potere.

Lituania sospira ancora e si sposta dolcemente sulla schiena. Russia sorride, addolcito dalla serenità del lituano. Purtroppo, gli effetti furono contrari a ciò che credeva. I fratelli si allontanavano sempre più da lui, terrorizzati. Capì quanto fossero diversi fra loro e quanto li abbiano separati i suoi giochi e la sua falsa dolcezza. Probabilmente anche i suoi interventi hanno diviso drasticamente i tre e non solo la differenza di carattere.

Russia sfiora la pelle rosata di Lituania. Vezzeggia le labbra bianche con le dita e si avvicina un po’ di più. Il petto di Lituania respira regolarmente, senza sbalzi o con troppa velocità. Russia ne è sollevato. Non ha mai desiderato spezzarlo in quel modo. Desiderava soltanto che anche Estonia, Lettonia e Lituania fossero i suoi fratelli o i suoi figli. Vuole che Lituania si senta meglio, senza preoccupazioni. Non vuole che lo guardi come i prigionieri di Ivan o gli amanti di Caterina. Vuole soltanto che venga considerato un padre o un buon fratello maggiore. Invece si è trasformato nel loro peggiore incubo.

“Ivan…” un sussurro dolce come il miele. Russia smuove la mano dalla pelle di Lituania e alza lo sguardo verso sua sorella. La piccola Bielorussia, dalla porta del corridoio, lo guarda, confusa e con un volto un po’ corrucciato.

“Che stai facendo…?” Russia lo sa: sua sorella è gelosa. Molto gelosa, dei tre Baltici. Guarda Lituania come se fosse uno scarafaggio. Anche quel giorno non ha avuto altra intenzione che indossare un altro abito se non uno di quelli che le aveva comprato lui stesso. Russia tira su un sorriso.

“Lo sai, Natalya… Non devo spiegartelo…” le sussurra, scherzoso. La piccola non apprezza la battuta. Continua a fissare il lituano, accigliata e gelosa delle attenzioni di suo fratello verso quel… coso. Si, è gelosa e vuole suo fratello solo per lei. Aveva notato che Ivan era interessato a lui, al moro, ma non sapeva il perché. Si comportava da mesi in modo strano, quel ragazzo. Non sa di Polska, né di tutto ciò che gli fece Russia. Sa soltanto che, tra i tre, è il suo preferito. Il perché è poco importante, è ugualmente gelosa. Ama suo fratello, lo stima e lo ammira. Non vuole un terzo fra loro due, a meno che non sia Katyusha. Russia nota gli occhi spenti della sorellina, le fa cenno di avvicinarsi. Lei ubbidisce, Ivan la fa sedere sulle sue ginocchia. Russia la guarda negli occhi e le pettina i capelli lunghi e argentei con le dita.

“Sei gelosa…” la sbeffeggia sussurrandole nell’orecchio queste due parole. Lei, incattivita, allontana bruscamente le labbra di Ivan dal suo orecchio. Guarda qualsiasi cosa tranne che suo fratello, ridente. La mano del russo accarezza una sua guancia, bianca come neve fresca, un po’ più amorevolmente di come ha fatto con Lituania.

“Non potrà mai prendere il tuo posto, Natalya” le guance di lei si colorano di rosso “Tu sei la mia sorellina, la mia stella, la mia zarina…” sussurra. Le bacia una mano, come faceva un tempo, salutando le Granduchesse e le Zarine. Non ci vuole molto per far calmare Natalya, già docile per essere stata paragonata ad una zarina. Russia era fedele agli zar e alle loro mogli. Era il loro generale, il loro guerriero, il loro tagliagole. Essere uguagliata ad una di loro, se non a tutte, è un grande onore per lei, soprattutto se a farlo è Russia.

“Ma allora perché…?” chiede, ancora confusa. Cos’ha quel lituano più di lei? Russia sospira. È difficile da spiegare una cosa del genere, anche alla sorella. Vorrebbe mentire, ma non sa bene come. È difficile spiegare che Lituania è un ragazzo che lo attira. È difficile spiegare com’era invidioso della sua felicità che assorbiva dalle telefonate con Polonia. È difficile spiegare che, dentro di sé, avrebbe voluto che fosse un suo amico. È difficile spiegare che, se fossero stati umani e se non fosse stato l’incubo del ragazzo, lui avrebbe desiderato tanto che… Decide di dirle quest’ultima cosa.

“Ultimamente non si sente molto bene ed è mio dovere controllare che un mio servitore abbia un’ottima salute. È talmente stanco che nemmeno riesce a svegliarsi per le chiacchiere che facciamo ” dice allegro, osservando il respiro tremolante del ragazzo. Natalya non fa una piega.

“E poi lo ammiro molto” la sorella è ancora più confusa. Osserva la sciarpa bianca del fratello e decide di aggiustargliela, mentre Ivan le dà spiegazioni.

“Perché? Non è niente e nessuno, ora” dice, dura e veritiera. È vero, Lituania ora non vale nulla. Ma questo dettaglio non gli interessa ora.

“Natalya, questo ragazzo, nonostante tutto quel che gli è successo e tutto quel che gli ho fatto…” non vuole specificare oltre “…è sempre rimasto quel che è: un cavaliere forte e tenace, più dei miei soldati. Lo ammiro anche per altri motivi, sorellina. Sono tanti per spiegarteli e, comunque, ne rideresti, se te li elencassi tutti” Natalya si mette in mezzo, abbastanza arrabbiata.

“Non lo farei mai!” esclama. Lituania si muove un po’, sospirando ancora per il buon riposo. I due fratelli lo osservano per poco, poi continuano a guardarsi negli occhi. Natalya sembra indignata dalle sue parole. Ivan si è intenerito, le sorride e questo basta alla sorella per quietarsi. Le vezzeggia l’orecchio. Natalya si calma del tutto. Decide di dirglielo, è curioso della sua futura reazione.

“Sarà strano a dirsi, ma lo considero molto. E’ un ragazzo con buoni principi, molto intelligente e di buon cuore. Se fossimo umani, mi sarebbe piaciuto…” piccola pausa di riflessione, deve pensare bene come dirlo “…sarebbe bello se ti chiedesse la mano” il volto di Natalya è di pietra, pietra che diventa rossa come una barbabietola. Il suo viso, da serio, diventa indignato e graziosamente infantile. Russia ha la tentazione di ridere.

“Ivan, hai voglia di scherzare…?” il suo sorriso, nascosto dalla sciarpa, dice il contrario “Ma lui… lui è un servitore! Non ha niente e non è niente! Non puoi volerlo…!” abbassa all’ultimo la voce, per non svegliarlo. Natalya lo osserva per qualche minuto. E’ gracile, magro e non robusto, volto infantile e non serio o da combattente, capelli lunghi come quelli di una ragazza a cui un barbaro ha strappato la chioma. Ivan non può pensare ad una cosa del genere. Il russo poggia un dito sulle sue labbra morbide.

“Dico sul serio, potresti parlarci e poi scoprire che ti interessa” no, non sta scherzando. Natalya quasi ne ha paura. Le sue sopracciglia ricadono verso il basso. Non può chiederle una cosa del genere.

“Non ci pensare nemmeno! Mai e poi mai!” reagisce in modo troppo infantile per essere lei, ma non ne può fare a meno. È la cosa più stupida che Ivan abbia mai pensato. Anzi, in verità, non può saperlo, ma a Russia gli era venuta quest’idea parlando con Ucraina. Mentre conversavano, avevano visto Lituania guardare con interesse e, con le guance in fiamme, la piccola di casa mentre leggeva un libro. A Katja era sfuggito un ‘Non sarebbero perfetti insieme, se fossero una coppia?’. Ivan ci aveva riflettuto per diversi minuti, prima di ammetterlo anch’egli. Ma Natalya non è dello stesso parere.

“Natalya, lui era un cavaliere. Aveva un re ed un’alleanza con una delle maggiori potenze d’Europa. Al tempo era un rispettabilissimo soldato e aveva un regno florido” alla sorella non sembra importare “Mentre, all’epoca, noi chiedevamo elemosina nelle strade di Mosca e avevamo una cascina come casa” qui la più piccola s’intristisce. Non le piace ricordare la sua infanzia, e quella dei fratelli. Guarda ancora il lituano e, no, non lo vuole. Vuole un guerriero, non un cavaliere. Vuole un uomo, non un ragazzo. Vuole qualcuno simile a Russia, suo fratello. Se avesse dovuto per forza avere un uomo, avrebbe dovuto essere come Ivan o migliore di lui, anche se quest’ultima sembra un’assurdità: nessuno è migliore di suo fratello. Ma non posso sposare mio fratello, pensa tristemente. Russia è sempre sorridente.

“Allora, cosa ne pensi? Ci penserai?” la sorella, sdegnata nel profondo, si alza bruscamente dalle ginocchia del maggiore. Gli occhi blu sono saette.

“Quando Mosca smetterà di esistere!” e se ne va, con il capo alzato e il fiocco svolazzante. Russia trattiene a malapena una risata tenera. No, secondo me sareste perfetti insieme, pensa.

Si volta verso Lituania che, per fortuna, ha continuato a dormire beatamente. Sorride al ragazzo dormiente. Il più piccolo respira con la bocca, ha il collo scoperto. Russia se ne accorge, vuole che non senta freddo. Lentamente prende un lembo della sua divisa e l’avvicina al mento di Lituania. Non sa bene cos’ha fatto. Forse dev’essere stato troppo brusco nei movimenti, forse ha dato un calcio a qualcosa, forse il lituano, riposato, ha semplicemente riaperto gli occhi di sua spontanea volontà.

Timidamente, si sveglia. Lituania, inizialmente è confuso, poi sbalordito, poi sgrana gli occhi. Guarda il suo riflesso terrorizzato negli occhi di Russia. Russia non sa bene cosa stia pensando, ma nota che i suoi denti stanno sbattendo fra di loro, gli occhi sbarrati, il petto si abbassa e rialza ad una velocità innaturale. Lituania è paralizzato per il terrore. Russia è troppo vicino a lui. Lo sapeva, non avrebbe dovuto dormire, se dorme muore. Lo sapeva, eppure non ne ha potuto fare a meno. Si sente stupido e debole.

Russia nota la sua paura, accenna ad un sorriso.

“No, Lituania, torna a dormire…”

Torna a dormire… No…

Strabuzza gli occhi, come se il russo gli avesse offerto di lasciarlo uccidere proprio lì, tra le sue braccia. Eppure Lituania era così calmo mentre dormiva… Russia lo guarda sconsolato. Ogni cosa è stata distrutta. È tutto finito. Lituania trema. Vuole scappare, vuole andare via, lontano da chiunque, lontano dalla morte. Vuole scomparire, vuole morire. Russia sente i tremori sotto le sue mani.

“No, Lituania, non…”

No!” esclama il lituano, rompendo il falso silenzio. Rotola e cade giù dal divano, portandosi dietro la giubba di Russia. A malapena si accorge di questo inutile particolare. Lituania, affannosamente, come se Russia stesse cercando di rincorrerlo, si rialza in piedi e, traballante, scappa fuori dalla stanza.

Russia rimane semplicemente lì, immobile, a guardare il punto dov’è sparito il ragazzo. Dopo poco, riprende la divisa, la sbatte un po’ e se la indossa, ferito dentro. Se ci fosse stato abbastanza silenzio, si sarebbe sentito un crack proveniente dal suo cuore.

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** QuInTo CaPiToLo ***


DIARIO DI LETTONIA

Più che Diario di Lettonia sta diventando il Diario di Lituania, questo qui. Ma non mi sorprendo proprio: ultimamente ne stanno accadendo tante e… No, ho cominciato male, ricomincio daccapo.

Prima di tutto ti chiedo scusa se non ti ho raccontato quel che sta succedendo qua dentro. Sarai curioso e immagino che non sia il massimo lasciarti nel comodino per più di una settimana, senza rileggerti o scriverti qualcosa. Chiedo scusa, ma, credo che ti sia già rotto di questa filastrocca. E’ accaduto di tutto in pochissimo tempo e ognuna di queste cose non è bella.

Ricordi cos’è successo a Lituania? Si, beh, non ti ho raccontato molto, ma credo che ti basti, no? No, immagino di no, ma questa volta ti scrivo tutto, giuro.

Dopo quel che è successo in quella casetta, sia io che gli altri non siamo mai stati tranquilli. Sapevamo che Russia fosse in grado di fare delle cose del genere, ma vederlo di persona è tutta un’altra cosa, soprattutto se di mezzo c’è qualcuno che conosci. Lì, si, che è tutta un’altra storia.

Estonia cercava di farmi stare tranquillo. Mi diceva che Russia era arrabbiato solo con Lituania, quindi non c’era niente da temere. È una delle cose più brutte che io abbia mai sentito da Estonia. Talvolta lo guardo e mi fa più paura di Russia e Lituania messi insieme. Ma credo che tu l’abbia già capito. Stiamo parlando di lui e non di me, tanto non mi succede molto. E poi, volevo confidarmi con te. Quindi… Scusa se ti parlo in questo modo, ma ho anche paura di raccontartele, queste cose. Ma ti ho promesso che te le dicevo.

Lituania, da quando lo abbiamo curato (non è stato per niente facile: Estonia ci ha messo delle ore per ricucirgli tutta la schiena!), non sembra mai stare tranquillo. E’ come se abbia il diavolo dietro le spalle. Si gira in continuazione per non ritrovarselo in faccia, il demonio. Non che abbia torto, però. Russia non è tanto diverso da Satana, quando s’impegna.

Però mi fa un bel po’ di pena e non dorme nemmeno. Ora che ci penso, da quando lo avevamo curato, lui non ha proprio dormito. Non capisco bene il perché: dopo un po’ la testa non ce la fa più a stare sveglia, ma si rifiuta ugualmente di dormire. Una volta l’abbiamo pure visto una mattina con il coltello di Estonia in mano, di fronte alla porta, come se stesse aspettando l’attacco da qualcuno. Fa sempre così, ogni notte. Ricordi, spesso mi sveglio per gli incubi, no? Talvolta lo vedo camminare avanti e indietro per la stanza, per non addormentarsi. E’ inquietante e orribile. Orribile perché non capiamo per quale ragione faccia così. In questi giorni non ricordo nemmeno com’è la sua voce, da tanto tempo non apre la bocca. Estonia, quando lo guarda, ritornava umano e gli chiede gentilmente cos’ha e se gli turba qualcosa. Lituania scuote sempre la testa e non risponde. Anche in questi momenti cerca di non dormire.

Ovviamente, di giorno in giorno, ha continuato a peggiorare. Gli tremano anche le mani, oltre ad essere stanco. E’ terrorizzato, probabilmente da Russia (sicuramente da Russia) e non riesce nemmeno a salire le scale senza stancarsi troppo. Anche Estonia si preoccupa, e quando Estonia si preoccupa, allora la cosa è gravissima.

Secondo me noi non sappiamo alcune cose che sono accadute in seguito. Forse Russia e Lituania si sono parlati o forse solamente Russia si è interessato a lui. Forse Estonia mi nasconde qualcosa, ecco perché non mi parla da un po’. So solo che Lituania è caduto dalle scale e si era fatto male. Solo questo. Questo perché, dopo tanti giorni, proprio ieri sera, Russia entra nella nostra stanza (eravamo solo io ed Estonia, senza Lituania) e ci chiede di chiudere la porta a chiave. Noi eravamo spaventati, non sapevamo cosa avesse in mente, ma poi l’abbiamo fatto. Russia si accomoda sul letto insieme a noi (ci stavamo mettendo i pigiami per dormire). All’inizio fa tutto lo zuccheroso e ci chiede come stavamo e cose così. Poi, però, diventa serio all’improvviso. A quel punto ci eravamo spaventati un bel po’, non si sa mai con Russia. No, no, non ci ha fatto niente, tranquillo. Ci aveva chiesto, di punto in bianco, da quanto tempo, secondo noi, Lituania non dorme.

Io ed Estonia ci siamo guardati, preoccupati, e gli abbiamo detto quel che sappiamo. Russia ci ha fatto una sorta di interrogatorio e il tema centrale era Lituania e come si sentiva dopo quel che è successo nella casetta. Estonia rispondeva e io dicevo i dettagli. È stranissimo vedere Russia serio, giuro. Sembra meno cattivo e più uomo, quando non sorride e pensa fra sé e sé.

Russia, poi, ha vuotato il sacco e ci ha detto che Lituania lo preoccupava, moltissimo. Detto da Russia, questa cosa, sembrava da perderci la testa. Ma, in questi giorni, non conosciamo bene nemmeno noi la gravità della questione. Russia ci aveva raccontato che l’aveva visto dormire, la sera prima, sul divano (secondo me ha nascosto qualcosa in questa informazione) e aveva visto quanto era terrorizzato da ogni cosa in casa. Ci ha detto che la sua situazione sembrava grave e se non si faceva qualcosa, allora Lituania sarebbe impazzito o si sarebbe fatto del male. Qui abbiamo deglutito tutti e due. Te lo ripeto: non sappiamo bene la gravità della questione e, detto così, all’improvviso, ci pareva quasi un’esagerazione.

Estonia, poi, gli chiese cosa potevamo fare noi due per farlo stare meglio. Russia, l’avevo notato solo io, ci ha guardato come per dirci ‘Scusate, ma non ne sapete voi più di me?’ mi hanno fatto star male quegli occhi. Russia ha suggerito, prima di tutto, di far dormire Lituania, in modo da farlo riposare e calmare un po’. Però, disse Estonia, che non è possibile dirgli soltanto di dormire e basta: è terrorizzato da qualsiasi cosa e non ci ascolterebbe comunque.

Russia ha frugato nella tasca della giubba e ha fatto uscire fuori un contenitore bianco. L’aveva agitato e sembrava che dentro ci fossero delle caramelle. Delle cose del genere non le avevo mai viste: sembravano proprio dei confetti bianchi. Russia ci ha detto che sono dei farmaci per dormire. L’avevano sperimentato solo in Russia e sembrava che facessero effetto. Voleva che noi li facevamo mangiare un paio a Lituania. Ci aveva detto che si potevano anche sbriciolare: l’effetto sarebbe stato lo stesso.

Ci aveva detto che, questa mattina, proprio fra poco, noi due dovremo mettere due di quelle caramelle nel cibo di Lituania, poi avrebbe dormito per ore e si sarebbe sentito meglio. Questa cosa, anche se detta da Russia, quasi mi piaceva. Non eravamo totalmente d'accordo, ma mi piace quest’idea. Vedere Lituania in quello stato, faceva sentir male anche a me. Voglio aiutarlo e ho trovato una soluzione. Sono felice.

Russia ci ha detto che le sue sorelle erano partite per i loro territori, per ragioni politiche, credo. Quindi possiamo fare di tutto questa mattina. Abbiamo accettato l’incarico e siamo andati a dormire. Di notte avevo visto Lituania. Camminava e girava su sé stesso. Canticchiava una vecchia filastrocca per bambini, nella sua lingua. E’ la cosa più inquietante e tenera che io abbia mai visto. Lì, se avevo dei dubbi su cosa fosse la cosa migliore da fare, dopo aver visto Lituania in quello stato, non avevo più incertezze. Voglio fare la cosa giusta. Lituania è rimasto sveglio per tutte queste ore, Estonia si è appena svegliato e si sta preparando.

Incrocia le dita per me!

Ah, ricordi che avrei voluto darti un nome? Forse l’ho trovato: Raivis. È un nome lettone, lo sai? Non viene usato spesso nel mio paese, ma a me piace molto. Se potessi, mi chiamerei io così. Ma, per ora, conserva questo nome per me. Va bene, Raivis?

 

 

 

 

Il ragazzino chiude Raivis, lo infila dentro il cassetto e getta i suoi piedi fuori dalla sedia. I due Baltici non lo guardano, troppo concentrati nel vestirsi. Lettonia è già pronto da tempo, abbastanza per aver scritto sul suo diario. Estonia deve solo aggiustarsi la cravatta. Lo fa, prende gli occhiali. Lituania non ha nemmeno indossato la camicia. È molto lento, nota Lettonia con tristezza. I suoi occhi vagano, sperduti, stanchi, dispersi, non sanno cosa cercare. Non si muovono nemmeno: è la testa a farlo per loro, come se fossero bloccati o incastrati. Estonia, pronto e preparato, nota anche lui gli occhi del fratello. Prende la camicia, la giacca e la cravatta di Lituania.

“Ti aiuto” dice, questa volta, senza rabbia nella voce. Ma lo stomaco brucia e si dimena. Il moro non lo nota, troppo stanco. Chiude le palpebre, esauste, mentre l’occhialuto lo aggiusta. I capelli sono spettinati, la pelle quasi grigia, il fiato lento e pesante. Eppure Estonia non si preoccupa, non vuole vedere nulla, è troppo arrabbiato per farlo. Lettonia osserva tutto, triste.

“Ecco, finito. Su, ora andiamo” dice Estonia, di fretta. Anche questo non viene notato da Lituania. Lettonia scende dalla sedia, elettrizzato e preoccupato. Escono fuori dalla stanza. Estonia sembra avere molta impazienza, quasi corre per il corridoio. Dietro c’è Lettonia, incredulo per la velocità, saltellante dietro al fratello. Lituania si guarda i piedi, li obbliga a muoversi, devono muoversi. Gli gira la testa. Sente il capo leggero e il corpo pesante. Non ha senso questa cosa, eppure riesce ad arrivare alla sala da pranzo.

Ha lo sguardo basso quando Russia li saluta, già seduto a tavola. Non vede niente. Non vede il silenzioso segnale fatto dal generale bianco ai due fratelli affianco a lui. Non vede il loro cenno d’assenso. Non capisce e non vuole capire il perché i due Baltici siano scappati in cucina, lasciandolo lì, tutto solo, obbligandolo a stare a capo tavola, con Russia di fronte a sé.

Russia non sorride oggi, quindi c’è qualcosa che non va. Ma non ci pensa affatto, troppo spaventato da un possibile attacco da parte del mostro. Russia non sembra volerlo attaccare, ma deve sempre tenere alta la concentrazione, per essere più sicuro. Il gigante, seduto, con la testa poggiata sul palmo della mano, lo osserva. È inspiegabilmente autorevole Russia. Pare una statua: non si muove, né lo fa il corpo, né gli occhi. Dopo un po’, sbatte le palpebre. Le labbra si alzano leggermente, ingentilite. Ha gli occhi lucenti, Russia, ma non pare volergli fare del male. Gli occhi violacei si chiudono, come se avessero riflettuto a sufficienza su qualcosa. Il sorriso viene abbracciato dalla sciarpa, la testa del gigante cade in basso. Lì rimane, come se fosse addormentato. Lituania ha la tentazione di alzarsi dalla sedia e di scappare.

Estonia e Lettonia fuggono nella cucina, vogliono concludere il prima possibile. Preparano velocemente delle zuppe, come ha detto Russia. Estonia pensa di tagliare anche del pane, per non dare sospetti, dice lui. Vuole che Lituania non veda, anche se non noterebbe nulla ugualmente. Lettonia sfila dalla tasca le due pillole bianche, più nervoso che eccitato questa volta. Esita molto. Estonia, col coltello che taglia le fette di pane, lo rimprovera con lo sguardo. Con le dita in bilico sopra alla pietanza, tentenna nel gettare dentro i due falsi confetti. Estonia, di fianco a lui, sbuffa.

“Che c’è ora?” chiede, irritato. Lettonia sobbalza, atterrito per il tono di voce aspro. Gli tremano le mani. Estonia sembra molto impaziente, batte le dita sul fianco della divisa, irrequieto. Lettonia è ancora indeciso.

“Che hai?” vorrebbe urlare, ma non può, lo sentirebbero. Eppure, gli brucia la gola, pretende di essere liberata. Il cuore pompa più sangue del dovuto. Gli si stanno ingrossando le vene e le arterie. Se continua così, diventerà rosso in viso. Lettonia nota questo cambio di umore e trema, pauroso. Non vuole che Estonia si arrabbi di nuovo, come sempre.

“N-No, niente. Solo che…” sospira, sentendo lo sguardo di Estonia addosso a lui, infuocato “…mi sento molto male. Mi sembra di fare qualcosa di brutto a Lituania” Estonia si toglie gli occhiali e si massaggia le palpebre chiuse. È il suo modo di convincersi che dare un pugno a Lettonia non darà nulla di buono, anche se le dita chiedono di fargli del male. Vorrebbe dargli così tanti pugni da farlo piangere. Se Russia si sente meglio quando li picchia, allora varrà anche per lui.

“Non gli stiamo facendo nulla di male, anzi, non gli facciamo altro che bene” replica, secco, l’estone. Si rimette gli occhiali sul naso e gli spinge vicino agli occhi “Non vorrai mica tirarti indietro?” chiede minaccioso. Finisce di tagliare le fette di pane e le poggia vicino alle zuppe, sui piatti piani, dove sono appoggiate. Lettonia non sente l’intimidazione e continua a tremare, con le dita in bilico sulla pietanza rossa.

“No, no, certo che no, ma…” deglutisce, il piccolo, sentendo il respiro di rabbia del fratello “Sai, nel mio paese, in questo periodo, si muore di fame…”

“Quindi…?” lo interrompe il ragazzo. La voglia di sentire fra le dita il sangue del fratellino è sempre più grande. La trattiene per poco. Si sfoga graffiando il legno del bancone. Conta le gocce d’acqua che escono dal lavello. Guarda le sue dita lacrimanti di rosso. Ci passa sopra la lingua, istintivamente. Riesce a calmarsi un po’. Il sapore del ferro lo fa sentire meglio. È freddo e pungente e ad Estonia sta bene così.

“Beh, spesso, nel mio paese, è difficile vivere in inverno, soprattutto se non hai molti soldi e nemmeno un tetto sulla testa o un fuocherello con cui riscaldarti. Ecco… Spesso, quando ad una coppia nasce un figlio, e non possono tenerlo per tutte queste cose, danno da mangiare al piccolo un’erbaccia velenosa. Il bambino muore dopo poco tempo e i genitori lo lasciano nella neve, così se ne liberano e possono continuare a sopravvivere. Si, so che non è la stessa cosa, ma mi sembra di dare a Lituania del veleno e quindi…” il cuore di Estonia ritorna ad ingrossarsi e a pompare molto più sangue del normale. Interrompe di nuovo il lettone. Afferra bruscamente le sue dita e le obbliga ad aprirsi. Le pillole cadono dentro la zuppa con un plop. Lettonia sobbalza per la sorpresa. Osserva Estonia mentre mescola freneticamente i due confetti. Li schiaccia col cucchiaio. Lettonia è sorpreso e spaventato da questa reazione. Il ragazzo continua a mescolare e a comprimere con forza ogni cosa che si trova, sfortunata, dentro la zuppa. Diventa velocemente una poltiglia. Ad entrambi disgusta, ma ormai non c’è più niente da fare. L’estone muove con così tanta forza il cucchiaio da far uscire delle grosse gocce del miscuglio rosso.

“Non stiamo facendo niente di male, Lettonia” è arrabbiato, questo Lettonia lo capisce e per questo ha paura “Stiamo facendo una buona cosa. Dopo questa, la finiremo con tutte queste pagliacciate, che durano quasi più di un anno. La finiremo di vedere Lituania così come sta” il cucchiaio si ferma, esce dalla zuppa, viene gettato bruscamente nel lavello. Lettonia sussulta e trema. La posata ha sbattuto pesantemente ed è riuscita a rimbalzare fuori, per terra, producendo dei sibili metallici. Non capisce la rabbia di Estonia e il non comprenderla lo innervosisce e lo fa allarmare.

“Non ho nient’altro da dire” l’estone prende il piatto appena rovinato e lo consegna al piccolo. Lo comprime lentamente contro il petto ansimante, come se volesse affondarlo dentro la carne. Lettonia alza con timidezza e timore gli occhi. Estonia pensa di voler di nuovo il coltello in mano, non sa il perché. Sa solo che gli occhi impauriti del ragazzino li odia. Li schifa.

“Hai capito, Lettonia?” ha una voce cattiva, Estonia. Il lettone trema, gli manca il fiato. Quest’ira repressa e mal celata è orribile e la sente forte. La rabbia di Estonia è diversa da quella di Russia: è bollente, calda e brucia. Bolle facilmente e la avverti all'istante, ti fa male subito, senza troppi giri di parole. Lettonia annuisce freneticamente, ancora tremante. Estonia sembra essersi calmato e lo aiuta a portare le zuppe in sala.

Tutti iniziano a mangiare, Lettonia ha lo stomaco rivolto come un calzino. Perde subito l’appetito. Russia, disinvolto, alza gli occhi su Estonia e chiede, serioso. L’occhialuto annuisce e ritorna a mangiare, anche lui disinvolto. Lettonia non capisce come facciano ad essere così crudeli. O forse è solo lui molto debole. Ma è sempre stato debole, quindi è per forza così.

Lituania porta alle labbra il primo sorso. Lo inghiotte, con gli occhi scavati. Il ragazzino si guarda le maniche rosse della divisa. Non ha il coraggio di guardare la sua zuppa. Lancia degli occhi su Russia, cercando di non farsi notare. Il gigante bianco non mangia: dopo un paio di bocconi si è fermato. Lettonia lo osserva mentre immerge il cucchiaio, ma fa cadere subito il contenuto all’interno del piatto, con una vena malinconica in volto.

Ha gli occhi pensierosi e tristi, Russia. Osserva il brodo nel piatto e pensa che abbia qualcosa di diverso e sgradevole. Non trova nemmeno qualcosa per cui lamentarsi di quella zuppa, ma non riesce ad inghiottirne nemmeno un boccone. Ha lo stomaco chiuso da ieri sera, da quando ha deciso di usare quelle pillole su Lituania. Sono materiale per sperimentazioni, ricorda Russia, sentendo di nuovo le parole del chimico con cui ha parlato la scorsa mattina, non ancora del tutto sicure sul corpo umano. Ma non ha trovato altre soluzioni. Lituania lo preoccupa molto. Potrebbe essere la sua  unica possibilità di riaverlo indietro, di ripararlo. Non gli importa se negli avvertimenti dello scienziato c’era paura e falsa calma. Non gli importa nemmeno se dovesse avere delle allucinazioni, come gli ha detto. Vuole ugualmente provarci.

Russia capisce di essere osservato. Incrocia brevemente i suoi occhi violacei con i cerulei di Lettonia, prima che quest’ultimo li riabbassi, spaventato. Nota che anche il piccolo non riesce a mangiare. Sembra molto preoccupato. Il lettone occhieggia Estonia e non viene ricambiato. Sembra cercare un po’ di contatto, un sostegno. Russia si stupisce nel vedere lo sguardo quasi supplichevole di Lettonia, che cerca angosciosamente un cenno, un qualche occhio interessato da parte del fratello. Estonia, finalmente, alza lo sguardo, irritato. Russia non ricorda di averlo mai visto così arrabbiato, per questo strabuzza gli occhi violacei, interessato.

L’estone continua a fissare male il piccolo Lettonia, così tanto che il ragazzino è costretto ad abbassare di nuovo la testa, deluso ed insicuro. Russia non ricorda di aver visto una cosa del genere dai due Baltici, troppo concentrato su Lituania. Forse devono aver litigato, si domanda per cosa. Per quei pochi minuti, Russia se lo chiede. Si chiede perché Lettonia sia preoccupato e tremante. Si chiede anche perché ultimamente Estonia sia sempre così scontroso ed irascibile. Gli occhi irritati dell’estone erano prepotenti e duri. Questo, allo stesso tempo, atterrisce ed interessa Russia.

Un sospiro, dall’altra parte della tavola, lo desta dai suoi pensieri. Lituania, ricorda, sospira spesso nel sonno. Alza la testa, nota le mani, non più tremanti ma pigre, lasciare lentamente il cucchiaio. Osserva con attenzione i suoi occhi: non li sforza più di aprirsi, ora si chiudono e cedono al sonno. Anche la schiena si adagia sulla sedia e la testa cade piano su una spalla. Un altro sospiro da parte del ragazzo. Anche i due Baltici hanno notato questo fenomeno e attendono ordini dal russo. Russia si alza con cautela e si avvicina con calma al ragazzo. È di fianco a lui, il respiro è regolare.

“Lituania, sei sveglio?” dolcemente scuote la sua spalla. Il moro non si muove, il respiro ancor più regolare. Un altro sospiro, il corpo si alza e ritorna sulla sedia, calmo. I due Baltici ricevono un segno di assenso: Lituania dorme. Entrambi tirano un sospiro di sollievo. E’ finita, pensano entrambi. Russia fa lo stesso, ma non lo dimostra. Semplicemente abbassa le palpebre e tira un grande respiro silenzioso.

“Ora portiamolo nella vostra stanza. Deve riposare, lo farà per ore” Estonia si aggiusta gli occhiali e fa dei passi avanti, pronto a prendere in braccio il lituano. Viene fermato da una mano di Russia. Il gigante gli sorride, in modo diverso da come ha sempre fatto. Poggia una mano sotto la schiena del ragazzo e un’altra sotto le ginocchia. Lo alza dalla sedia, lo stringe dolcemente. Ad Estonia si congela il cuore, a Lettonia i polmoni. Si scongelano subito con un cenno da parte del russo: devono seguirlo. Lo fanno, s’incamminano nel corridoio, con una pacifica lentezza.

Lituania, addormentato, muove leggermente la testa verso il petto di Russia, come nel cercare del calore. Russia comprende e sorride tristemente: non può trovare nulla di caldo da lui. Lettonia è dietro Russia, nascosto dentro la sua ombra, lo osserva stringere al petto Lituania. Lo trova strano. Russia è sempre arrabbiato e crudele con suo fratello, non vede perché dovrebbe fare una cosa del genere. Forse perché il lituano sta male, forse è per questo. Lettonia spera di no, spera che non sia solo per questo. Questa insicurezza gli fa male, ma è un male speciale, che non lo danneggia, per questo è sereno, il ragazzino.

I passi morbidi di Russia carezzano il pavimento, come se non volesse svegliare anche quest’ultimo. Lettonia vede il braccio ciondolante di Lituania, che tenta inutilmente di toccare il pavimento. Il lettone si guarda le mani, fasciate troppo nella divisa rossa. Sono rosse e paffute in confronto a quelle del fratello. Deve aver freddo, pensa Lettonia. Si sfrega d’istinto le mani. Lancia un occhio su Russia, senza alcun tremore. Pare rilassato, nota Lettonia. Non vede alcun ostacolo, quindi osa: afferra tra le sue dita la mano di Lituania.

È vero: è fredda e ossuta. Ma la stringe forte, gli trasmette tutto il calore che ha. Poggia la mano ghiacciata sulla sua guancia e la fa strusciare sulla sua pelle. Con la coda dell’occhio nota delle unghie mancanti. Dove non ci sono, la carne è rosata e graffiata. Non ci pensa, non vuole pensare a cose brutte. Semplicemente vuole che Lituania non abbia più freddo. Russia vede questo senza essere notato, sorride sotto la sciarpa, intenerito. Lettonia sente un sospiro sereno da parte del moro. Sembra felice. Si rende conto di amare a fare del bene a Lituania.

Lettonia lascia penzolare la mano e sobbalza per il dolore e la sorpresa quando Estonia lo colpisce, con le nocche, alla tempia. Il ragazzino, incredulo, si passa le dita sul punto dolente, chiedendo con lo sguardo spiegazioni. Trema nel vedere l’espressione del fratello. Abbassa subito gli occhi, Estonia è arrabbiato. Sente la sua mano afferrargli i riccioli, come se volesse strapparglieli. Lettonia trattiene i gemiti di dolore e ingoia della saliva senza sapore. Perché stia facendo questo Estonia, non lo sa, ma spera che finisca presto, come tutte le volte. Ma l’occhialuto non vuole mollare la presa e continua a fargli male. Sente delle ciocche strapparsi, dei riccioli ribellarsi ed urlare di dolore. Lettonia ingoia tutto, non vuole svegliare Lituania. Non vuole fare o dire ancora delle cose stupide.

Russia continua a camminare, dalle finestre, dal loro riflesso, vede ciò che sta succedendo. Si continua a chiedere perché i due fratelli abbiano e stiano litigato. Si chiede da quanto tempo Estonia faccia del male a Lettonia. Credeva che fosse un ragazzo pacifico, gli estoni sono un popolo mite, ne è certo. Estonia non dovrebbe essere così prepotente coi suoi fratelli. Osserva interessato e perplesso gli occhi di Estonia. Bruciano di fiamme e rabbia, dimentiche di essere blu. Si chiede dove e come sia esplosa tutta quest’ira.

Arrivano di fronte alla porta della loro stanza. Lettonia, libero dalla presa dell’estone, la apre. Entrato il russo, Lettonia si massaggia la testa, sentendo delle ciocche cedere alla radice dei capelli. Estonia è nervoso, si morde le nocche delle mani, un tentativo di togliere l’ansia e la rabbia. Respira aria salata, Estonia. I suoi polmoni protestano, non vogliono stare lì. Delle bolle di rabbia e tensione scoppiano sotto la sua pelle. Ad un certo punto muore dal caldo. Vorrebbe immergersi nella neve, fuori, al freddo. Vorrebbe picchiare qualcosa, tanto è nervoso.

Russia viene aiutato da Lettonia, che sposta le lenzuola del letto. Il russo apprezza l’aiuto, nonostante la sgridata silenziosa del fratello, che intanto si è accucciato sulla sedia vicino alla scrivania, preso dall’ansia. Lettonia anticipa Russia: sfila gli stivali a Lituania. Il gigante bianco sbottona la giacca e la camicia, anche la cravatta va via. Estonia sospira, con la gola che pizzica, tutto quel lavoro per aggiustare il moro è stato buttato all’aria.

La cintura e i pantaloni volano sulla scrivania. Lettonia corre goffamente verso il loro cassettone e afferra il pigiama blu di Lituania, appena lavato e stirato. Russia, dentro di sé, è fiero del ragazzino. Gli dispiace per Estonia. Il lettone lo aiuta anche a far indossare il pigiama al fratello. Ha le gambe troppo sottili, nota il ragazzino, dispiaciuto. Finito tutto, Russia immerge nelle coperte Lituania, fino al collo. Ha la tentazione di passargli una mano sulla testa, ma non è il momento.

“Per ora lasciamolo riposare. Deve recuperare quasi una settimana di sonno” entrambi i fratelli trattengono il fiato. Non pensavano che fosse passato tanto tempo. Russia osserva il lituano, dormiente e pacifico, com’è giusto che sia “Ora possiamo andare, deve dormire molto” quel giorno, Russia non riesce a sorride. Per niente. Non prova nemmeno a farlo. Gli riesce sempre così naturale che ora ha dimenticato di non avere una maschera a coprirgli le emozioni. Per i due Baltici, Russia è molto più uomo di quel che hanno sempre visto. Russia inizia a fare dei passi verso la porta, ma non viene seguito da nessuno.

“Mi avete senti-?” si blocca subito. Lettonia è pallido, gli occhi piccoli, tremanti e la bocca tentennante. Estonia si sporge, gli si blocca il cuore. Russia non ha bisogno di alzare la testa per vederlo.

Lituania ha gli occhi spalancati, le iridi piccole, di un blu screziato. Li osserva sgomentato e con una vena spaccata per il tradimento.

 

 

 

 

 

Sole spezzato. Mille pezzetti di sole tranciati dai rami. Alberi forti, vento leggero. Carezza la pelle, al piccolo lituano. Che tanto piccolo non è: è la sua fantasia a farlo così innocente. Di innocenza non ha più nulla, troppo spezzato dalla tristezza e dalla perdita.

Lituania è una pantera. Una tigre. Un leone. E forse anche un cervo. Ne immagina tante, Lituania. Troppo preso dal suo gioco. È bello essere bambini. La vita ti sorride, anche per una Nazione. Sei così piccolo ed insignificante che nessuno ti guarda, fingono che tu non esista sulla cartina. Ti guardano, eppure non ti vedono. Le altre Nazioni sono sempre affamate di territori grandi e possenti, non di lui, un piccolo regno sperduto, toccato solo dal mar Baltico.

Da cervo, ora è un lupo. Si appiattisce, cerca la sua preda. L’annusa, la trova tra i rami spezzati e caduti. Il lupo fiuta della carne, una nuova preda da cacciare. È preso dal gioco, il lituano. Ma forse è davvero un lupo e non se né accorto. Non è vero, ma vorrebbe che sia così.

Tra i cespugli, gattona verso la sua preda. Non sente il pericolo, la sua futura vittima. È calma e docile, seduta lì, di fronte a sé. Il lituano continua ad avvicinarsi. Il lupo desidera la carne bianca di quel cerbiatto.

Dev’essere deliziosa e saporita, deve sapere di buono. Si lecca il labbro, già ingordo solo a guardarlo. È il momento dell’assalto.

Si alza in piedi, il cacciatore. Il vento cessa e cala, avvertito il pericolo, ma solamente lui. Le fronde degli alberi cessano di fischiare. La terra è un po’ più compatta, ma comunque morbida. Il lupo è molto vicino, deve attaccare o il cerbiatto scapperà via. Fa uno scatto veloce. Guaisce felice, il lupacchiotto. Si scaraventa sulla sua preda. Riesce a prenderla, la fa cadere di fianco. La stende di pancia, potrebbe ribellarsi e scappare via.

Il cerbiatto non si muove, non sembra voler fuggire. Il lupo è felice: ha vinto, ha tanta carne bianca con cui sfamarsi. Ulula felice, guaisce soddisfatto. La pelle del cerbiatto è bianca come una perla, mai toccata né sfregiata. Il lupacchiotto l’addenta per la guancia. Non usa denti, né ne strappa un po’. Aderisce le labbra sulla pelle e le lascia un bacio. Il giovane lituano è soddisfatto: la pelle è deliziosa così com’è, non c’è bisogno di provarlo. Sa di fiori e di mirtilli, sa di buono e di vivo. È felice di questo.

Il giovane lituano lascia la presa sul cerbiatto, non può essere così rude con una creatura talmente tanto pura. Ma comunque non vuole che scappi. Fa stendere il suo petto su quello bianco. Fa strisciare i capelli scuri sul torace dell’altro. Sospira di felicità: sente un forte battito lì, incastrato sotto la carne. È ancora più felice. Vuole dare elogio a questa scoperta. Le labbra sfiorano e si fermano in più punti in quella pelle luminosa e perfetta.

Quasi teme di offendere il cerbiatto con questi gesti. Saranno di sicuro troppo passionali, per un essere sporco come lui verso una creatura perfetta come questa. Eppure vuole osare. Ha bramato tanto di sfiorare la sua carne e di sentire i battiti del suo cuore. Tanto gli era mancato il piccolo cerbiatto. Vorrebbe che non abbia timore di lui. Vorrebbe che il cuore di questa piccola creatura non si infranga sotto i suoi baci. Vorrebbe che i suoi occhi furbi non siano impregnati di lacrime.

Si ferma il lupo, la carne del cerbiatto è troppo saporita per lui. Ne ha assaggiata troppa, ora sente la pancia piena. Eppure, forse non è ancora del tutto sazio. Si getta più in là di quanto dovrebbe. Lui, essere vergognoso e impuro, tocca con le fauci la gola della piccola creatura. La assaggia tutta, sale verso il viso perlaceo. Continua ad osare. Tocca con le labbra la sua guancia, fino alla fronte e ai capelli d’oro. Ora è completamente sazio.

“Liet…” sussurra la creatura. Meraviglia, ha detto il suo nome! Questo riempie il cuore del lupo, spaccato troppe volte “…ora basta…” smette di saziarsi. Sta ancora assaggiando la sua pelle. Osa troppo, è vero, ma è molto affamato. È rimasto a digiuno per troppo tempo, senza vedere il piccolo cerbiatto. Non riesce a smettere di sfiorare la sua pelle con le labbra. È goloso del suo sapore.

“No, ora tu resti qui: staremo insieme per sempre!” ulula giocondo, il piccolo lupo. Vuole che il cerbiatto resti per sempre lì con lui. Vorrebbe giocarci, assaggiare ancora la sua pelle, stringerlo forte. L’ingordigia è un male, ma questo non è che poco: ha dovuto digiunare per mesi, senza nemmeno sapere che fine abbia fatto la carcassa della povera creatura. È stata trinciata da una bestia, quella bestia spera di non rivederla mai più. Il piccolo ha gli occhi pieni di luce, pieni di dolore.

“Liet, ora basta. Devo andare via…” scongiura il cerbiatto. Il lupo non vuole che fugga, ora è suo, non può andare da nessuna parte. Quella bestia non può più tormentarli. Ora sono liberi. Il piccolo lituano vuole solo questo. Stringe Polonia, fa alzare il suo busto insieme a quello dell’amico. Affonda il naso nei capelli di seta. Profumano di dolce, di fiori, di pizzo, di mirtilli, di un letto caldo e di un forte abbraccio. Tutte queste cose non le vuole lasciare.

“No, tu ora resti qui con me. Così saremo felici e nessuno ci darà fastidio!” continua a vaneggiare Lituania, troppo ammaliato dal profumo e dal cuore gonfio di felicità per vedere le lacrime di Polska. Polonia non voleva ingannarlo, non voleva mentirgli: lui non può restare lì. Liet lo pretende troppo. Così non potrà mai andarsene.

“Non posso, Liet…” il lituano è cocciuto come un vero lupo. Affonda ancora una volta le labbra, ora sulla spalla scoperta e infreddolita. Spera che il suo calore possa passare anche dentro la carne di Polska. Il vento ritorna a fischiare, come un ambasciatore che avverte i soldati dell’arrivo dei nemici. Le foglie, cavalieri del vento, si buttano di sotto, giostrando tra i rami. Cavaliere è anche Lituania che non vuole lasciare il suo principe, il povero Polonia morto e dimenticato da chiunque se non che dal proprio soldato.

“No, tu resterai qui con me. Finalmente saremo insieme! Resta qui, sii felice qui con me!” qualcosa si rompe dentro Polonia. Le lacrime ritornano indietro, ma ancora pronte a cadere giù. Piange troppo e se ne vergogna.

“Liet, devi lasciarmi andare!” urla, sulla pelle rosata del cavaliere. Il lituano sente la pelle bianca mutare. Avverte dell’umido sotto i suoi polpastrelli. Gettando l’occhio, non vede altro che rosso. La pelle lattea dell’amico è sporca di sangue. Si stacca Lituania, spaventato ed infelice. Il piccolo cerbiatto è stato di nuovo ferito. Il rosso sgorga e macchia le foglie sotto di loro. Il verde diventa vermiglio. Scorre sangue dal petto del principe. I capelli sono rame gocciolante. Si sono formati altri solchi, non solo al centro del petto, anche in altre parti del busto. Lacrimano fiumi scarlatti, da quelli aperti. Lituania ritorna col panico galoppante nel cuore. Ora il cuore ha smesso di ingrossarsi: è sgonfio per lo sconforto, la tristezza, la paura e l’incredulità. Ciò perché Polonia non può restare con lui. I suoi capelli si aggrappano alla pelle, umidi, gli occhi paludosi, ancora lucenti.

“Liet, lasciami andare!” troppe volte rimbomba questa voce nella mente del lituano. La terra trema e così anche il suo cuore. Lo sconforto gli strazia l’anima. Il cuore vorrebbe smettere di battere ancora, spezzato troppe volte.

 

 

 

 

 

Spalanca le palpebre, lucide e piccole.

Volta le iridi in ogni dove. Non ricorda di essere stato lì. Prima c’era della luce, ora c’è buio. Gli piace il buio, ma non questo buio. È un buio freddo di stasi. Aspetta un cedimento dal ragazzo, il buio. Questa oscurità non è docile. Vuole afferrarlo e spezzarlo, come un ramoscello sotto il piede di un ragazzino. Il petto di Lituania è la manopola incastrata di un treno in corsa. Anche le coperte lo soffocano.

Nel buio ci sono delle figure. Saranno dei mostri. Non vede i loro occhi, ma sa che lo stanno guardando. Sente i loro sguardi sul suo. Sono troppi per lui. Si sente schiacciare e comprimere per il silenzio, il buio e quest’atmosfera di attesa. Lo terrorizza il mostro più lontano, quello vicino alla porta di luce. È gigantesco, ingombra questa cella. Vede i suoi occhi, soltanto i suoi. Sono di un profondo ametista. Il viola è il colore della sfortuna e del male. Si sente in trappola.

“Lituania, stai calmo…” queste parole fanno l’effetto contrario. Il treno impazzito che è il suo sangue continua a fluire in una corsa spaventata. Si butta nel cuore, lo fa rimbalzare nel petto, lo lascia, per poi fuggire via. Ripete questo circolo tante, tante volte. Ha poca aria nei polmoni. E, quel che è peggio, i due mostri più piccoli si stanno avvicinando lentamente a lui. La stanza la sente chiudersi su sé stessa. Dal nero diventa rossa. Gocciolano i mobili, come sciolti da un improvviso calore. Anche il cuore di Lituania si sta sciogliendo e gocciolando. Vuole uscire di lì, al freddo.

Le due creature si sono avvicinate troppo. Lituania cade dal letto, ha un brivido di ansia ed elettricità che si è espanso nel suo cuore. La scossa la ricevono anche le sue gambe, libere dalla coperta soffocante. Le braccia, tremanti dalla paura e dalla voglia di fuggire, spingono il mostriciattolo più piccolo. Era troppo vicino. Il piccolo cade per terra, sbatte contro il muro. Lituania se ne approfitta, lo scavalca e cerca il freddo della porta di luce.

Gli si strozza un grido di terrore: il secondo mostro, grande quanto lui stesso, si è gettato sulle spalle e ha avvolto le braccia nere e pesanti al suo collo. Lituania sente di sprofondare, di cadere, di farsi troppo male. Eppure questo non lo frena. Si agita, disperato, ma il mostro non lo lascia andare. È insolitamente forte. Il ragazzo sente la sua viscosità, penetra nei suoi vestiti, s’immerge nella sua carne. Il sangue è disperato, cerca di sputare via questo viscidume, ma non se ne va. Lituania ha paura, non sente più il suo respiro.

Fa uno scatto veloce ed inaspettato all’indietro. La sua schiena, coperta dal mostro, sbatte pesantemente contro il muro. Sente un gemito di dolore nelle sue orecchie, ma non lo lascia ancora. Sbatte ancora all’indietro. Questa volta ha fatto un gran tonfo dietro di lui. La creatura alle sue spalle lascia la presa. Non c’è più viscidume, il cuore e il sangue combattono per cacciarlo via e ci riescono. Sono liberi, ma ancora terrorizzati.

Alza lo sguardo e le iridi piccole: la porta di luce è di fronte a lui. Si getta su di essa, veloce. La sua testa viene inondata dal bianco e dal giallo. Il calore scompare dal viso e dalle orecchie. Anche il collo è fresco e gioisce della libertà. Viene strattonato all’indietro. Un affondo di coltello nel cuore. Ritorna il caldo, ritorna nella stanza rovente. Per un attimo ritorna la stasi. Viene interrotta da una mano pesante: il mostro più grande lo fissa, occhi piccoli, terrorizzato quanto lui stesso. Trema convulsamente. L’ha afferrato per la collottola. Non vuole lasciarlo andare. Liet, devi lasciarmi andare!

Polska… Lituania vuole Polska! Lui potrà aiutarlo!

Vuole cercarlo e trovarlo, lui lo libererà, lui lo farà fuggire! Ma dov’è, Polska? Dov’è?

Si agita. Le palpebre scompaiono del tutto: i due mostri che ha sconfitto sono tornati in piedi e si stanno avvicinando a lui. Un altro urlo strozzato scappa dalla sua gola. La bocca non ha nemmeno tentato di trattenerlo. Scatta in avanti. Anche le gambe pretendono di scappare. Il cuore grida nelle sue orecchie. Chiede di fuggire. Lui vorrebbe, ma è bloccato. Il cuore graffia la carne del petto, come per struggerla per scappare, lasciando quel corpo inutile e fastidioso. Il mostro gigantesco lo trattiene ancora per la collottola con facilità, tanto da farlo disperare.

I mostri sono vicini a lui. Il secondo più grande gattona, dolorante. Il più piccolo si avvicina con cautela. Sembrano tremanti anch’elli. Lituania pensa solo a sé, ha troppo caldo e troppa paura. Scalcia ancora sul terreno, si spinge ancora più in là, sotto la luce. Ma non gli basta, vuole scappare. Vuole farlo. Una mano, d’istinto, si getta sui bottoni della camicia. Ne strappa di scatto tre, i restanti vengono sradicati dalla sua folle corsa. Le gambe saltellano sul terreno, incerte. Ma ora sono forti e scattano lontane, corrono insieme al cuore, gemelle e fedeli. Il freddo lo avvolge, questo in qualche modo lo rassicura un po’.

Lituania!” strappata quella piccola goccia di vita, distrutta completamente: i due mostri, cechi per la luce forte, lo stanno inseguendo. Lo stomaco s’irrigidisce, bolle all’interno del liquido nauseante. Ritorna dentro la gola, ma il moro lo ricaccia all’indietro. Lituania non vuole farsi prendere. Ha troppa paura. Cosa vogliono da lui? Perché vogliono fargli del male? Ma sono molto lenti, troppo per lui. Il più piccolo è inciampato. C’è solo il secondo mostro dietro di lui. Urla qualcosa, forse di fermarsi, forse di non correre. Lituania non riesce e non vuole ascoltarlo. Il mostro è, in qualche modo, diventato più veloce. Vede i suoi occhi azzurri arrabbiati ed affaticati. Lituania scongiura il cuore di fare più veloce. Questo, caldaia delle sue gambe, accetta e batte più forte.

Ma il mostro è ancora dietro di lui. Allunga un braccio, supplica di fermarsi. Lituania non lo ascolta. Vede la libertà: una finestra è aperta, un passaggio per andare via. Il ragazzo e il mostro pensano la stessa cosa. Dietro di lui sente un urlo di panico, non gli bada. Il moro scavalca la finestra e si getta. La creatura dietro di lui si blocca. Estonia vede suo fratello cadere di sotto, nel giardino rovinato di neve di Russia. Il lituano si rialza subito e continua la fuga. Estonia, ripreso dalla sorpresa, sentendosi fortunato perché si trovavano al primo piano, fa la strada più lunga, circonda la casa ed esce fuori. Anche Lettonia lo ha seguito, col cuore nella gola e il freddo nei vestiti. Russia è sparito.

Lituania esce fuori, sgattaiola attraverso il cancello e fugge. Non sa dove andare. Deve trovare Polska. Lui saprà cosa fare, saprà come liberarlo di nuovo. Il cuore ora è in tormento. I battiti accelerano dentro di sé, fanno un eco potente e distruttivo che si percuote per tutto il corpo. Nel cervello c’è solo quel battito, offuscato anche dalla paura. Le gambe, salve da quel suono di angoscia, continuano a correre tra gli alberi, sulla neve.

Ha nevicato molto quella notte, come se fosse gennaio. Ma è normale: in Russia il freddo, l’inverno, giunge in anticipo. I piedi, scalzi, sono violacei e blu. La neve ha aghi d’argento. Penetrano nella carne, nelle braccia esposte, sul collo e pungono il viso. Il cuore trova sollievo grazie a questo tempo rigido. Ma il cervello protesta: fa troppo freddo, i piedi sono ghiacciati e le lacrime solidificate nelle iridi. Questo non basta per fermare Lituania. Il fiato è corto, sta correndo troppo, ma lo ignora. Anche questo non è sufficiente.

Polska!” urla, grida, voce gracchiante, del povero, piccolo lituano “Polska! Polska!!!” urla, si lamenta la gola, rossa e scavata dagli aghi del freddo. Nel sentiero di neve si forma anche del ghiaccio. I piedi di Lituania sono troppo freddi per avvertirlo, per fermarlo o per convincerlo a non scivolare giù. Cade, bruciano il fianco e il braccio. Non deve fermarsi, se si ferma lo prenderanno e gli faranno del male. Per questo si rialza, nonostante il dolore, gli aghi di ghiaccio e la neve che inizia a cadere giù dal cielo.

I fiocchi danzano e si urtano, complice il vento cattivo e severo dell’inverno. Sono stanchi di scontrarsi, i fiocchi di neve. Vogliono abbracciare, vogliono trovare un posto dove stendersi. Sono stanchi del loro lungo viaggio. Il cielo è stato molto cattivo con loro, li ha obbligati a scendere giù e ad andare, di corsa, a posarsi sulla terra rossa di Russia. Quel viaggio lo fanno da anni, eppure non possono fare a meno di pensare che abbiano iniziato a scendere troppo in fretta. È pur sempre autunno, non ancora inverno. Neppure il Grande Generale è arrivato prima di loro, per far visita a suo figlio, nella sua terra. Quel viaggio è troppo faticoso, devono riposarsi.

Continuano la loro ascesa verso la terra rossa e nera. Appena veduta questa, iniziano a riflettere su dove posarsi. La stanchezza inizia a farsi sentire ed urtarsi fra loro è davvero doloroso. Eppure il vento birbante continua a spingerli, cattivo e briccone. Non è mai stato un buon amico, per i fiocchi di neve.

Alcuni decidono di fermarsi sui tetti delle case. Alcuni, più nostalgici, si lasciano cadere sui rami degli alberi più alti insieme ai loro fratelli: troppa nostalgia dell’aria e delle nuvole. Alcuni, più curiosi, balzano sulle finestre delle case, osservano gli umani, troppo interessati da quello strano mondo assolutamente diverso dal loro. Alcuni, più vivaci, decidono di tentare la sorte e di cadere sopra le spalle, i cappelli o i visi rossi delle persone. Sono troppo caldi gli umani, ma vogliono comunque stuzzicarli col loro freddo. Sono troppo buffi, gli umani. Non fanno altro che appallottolarsi nei vestiti ed odiare il freddo. Quanto sono strani gli uomini: odiano ciò per cui la loro terra è tanto famosa!

Gran parte dei fiocchi sono solo stanchi e vorrebbero riposare, senza badare al luogo in cui si posano. Alcuni piccini notano qualcosa di strano. Avvertono i fiocchi più grandi per indicare l’anormalità. C’è un ragazzo (che bizzarro: senza cappotto e senza maglia! Senza nemmeno le scarpe!) che corre nella foresta. Pare terrorizzato dalle sue spalle. I fiocchi guardano, interessati, ciò che possa rincorrerlo. Non vedono nulla, eppure il ragazzo continua ad avanzare rapidamente, come se avesse uno spirito (o magari un mostro) pronto a divorarlo. Il ragazzo, notano, non sembra avere alcuna direzione. È solo un pazzo che corre nel nulla, in mezzo alla neve e al ghiaccio. I fiocchi più grandi avvertono i più piccoli di ignorarlo: non serve a niente. Ma loro, sempre più curiosi, continuano a scendere, fino a raggiungere il ragazzo dai capelli scuri.

Non pare essere d’origine di quelle terre. Sembra infreddolito, con la carne esposta, blu e viola. Sembra chiamare qualcuno, ma i fiocchi non comprendono la lingua degli umani, quindi non capiscono. Sono sempre più curiosi, i piccini. Molti di loro sono già sdraiati sui capelli scuri e sulle spalle scoperte. È freddo il ragazzo, avvertono loro, potete scendere! E non se lo fanno ripetere due volte. Si gettano tutti sui capelli mori, compongono delle scie di luce su un cielo nero. Non riescono a vederlo bene i ritardatari, ma il ragazzo ha trovato una casetta rovinata, in mezzo alla foresta, e ci si è buttato dentro. I fiocchi, curiosi, osservano ciò che sta per accadere.

Lituania trema, non solo per la paura. I piedi sono ghiacciati, come le spalle. Quella casa è ancora fredda, non è cambiato nulla. Non c’è niente con cui ripararsi dal freddo. La cucina è ancora invasa di rosso, ora congelato e solido. Il silenzio è assillante, ma non lo avverte: il cervello chiede del calore, ma non lo riceve. Il cuore smette di battere troppo, stanco e provato.

“Polska!” urla il ragazzo. Dove sarà il ragazzo dai capelli di grano? Dove sono i suoi occhi di smeraldo? Delle nuvole di aria fredda escono dalla sua bocca. Il petto, anche se calmo, continua a respirare affannosamente. Gli occhi sbarrati, troppo sonno, troppa paura. Polska deve essere qui.

La paura, velocemente, smette di pressare sul cuore del lituano. Supera la cucina, non ricorda e non vuole ricordare Russia. La casetta è minuta, ci sono solo due stanze. Russia e le sue sorelle non avevano nulla, quello era ciò per cui avevano combattuto per sopravvivere. Quella casetta, ora, è solo un ammasso di legna, sperduto nella foresta di fianco a Mosca. La stanza in cui entra Lituania è piccola, polverosa, disordinata, povera. Non ha niente, questa stanza. Avrebbe dovuto essere una stanza da letto, ma non ci sono neppure dei letti. I materassi sono gettati per terra. Le coperte, sporche e gialle per gli anni, tirate ed ammassate. Alcune sono rattoppate o ricucite. Dei topi, già fuori dalle loro tane per mangiare, di fronte alla porta sbattuta, scappano dentro le fenditure del pavimento e dei muri, terrorizzati dal ragazzo che, fino a pochi giorni prima, avrebbero voluto assaggiarne le carni.

“Liet…” respira ed inspira felice, il moro. Corre verso il capo del letto. Polonia è tornato lì velocemente, con più fretta di Liet. E’ abbattuto, ha lo sguardo basso, i capelli gli coprono gli occhi. Ha usato molte piume questa volta, ne ha usate troppe. Ora non ha quasi nulla con cui comunicare con Liet. Non capisce perché il suo amico non riesca a comprendere. Vorrebbe che lo dimenticasse. Lituania non legge nulla di tutto ciò. Si getta sulle ginocchia, di fronte al suo principe. Sorride raggiante, Polska non lo ricambia.

“…tornerai qui da me?” Polonia deglutisce, non ha il coraggio di guardare in faccia il moro. Per questo tiene lo sguardo basso, colpevole, come un cagnolino appena bastonato. Si graffia le dita, l’una con l’altra. Si chiede perché tutto sia così difficile. Dalle travi sconnesse del pavimento vede degli occhietti vispi di ratti, grossi quanto dei gatti. Non che abbiano da lamentarsi per il cibo. Tanto c’è lui a sfamarli… Questo pensiero lo rende ancora più triste. Russia è stato molto crudele con lui, anche da morto. Scuote la testa, il piccolo Polonia. Gli si è bloccata la gola. Ha rabbia per ciò, odia essere così debole. Odia Liet che lo guarda con così tante aspettative.

“Non posso, Liet. Cerca di capire…” continua a guardarsi le mani. Nonostante i suoi sforzi nello sfregare, non esce nemmeno una goccia di sangue. I capelli sono un ottimo scudo per tenere lontano gli occhi intristiti di Liet. Ma nemmeno questo funziona. Le mani scheggiate del lituano, crepate le unghie e distrutte dalle percosse, desiderano congiungersi con le sue. Polonia vede i tagli ancora aperti e pensa che Russia non sia stato crudele solo con lui. Lituania nota lo sguardo scoraggiato del biondo, inclina gentilmente la testa per guardarlo meglio. I suoi occhi scavati sfiorano i verdi di Polska. Immediatamente gli serra, il polacco. Getta lo sguardo lontano dal suo. La mente di Lituania inizia a scongelarsi e a muoversi.

“Perché…?” chiede, come se fosse una supplica. Entrambi sanno che non lo è, la stanchezza ha mutato la voce del moro. È solo semplicemente curioso e turbato dalla tristezza dell’amico. Si chiede perché Polska sia così triste. Non gli piace Polska quando è triste. Vorrebbe rimediare in qualche modo. Forse, dopo che tornerà da lui, potrebbe giocare un po’ e poi…

“Guarda là sotto” interrompe bruscamente i suoi pensieri Polonia, ancora con gli occhi serrati. Dopo un po’ gli riapre, sia corrucciati che depressi. Lituania, un po’ stordito per queste parole aspre, guardia dietro l’amico. Vede di nuovo il cumulo di coperte sporche e polverose. Polonia continua a tacere, Lituania inizia a preoccuparsi. Si rialza, scattante e curioso, troppo provato dalla stanchezza per ragionare correttamente, per rendersi conto della puzza che c’è in quella stanza. Afferra i lembi delle coperte più basse e le strattona velocemente, sempre più incuriosito, molto più dei tanti fiocchi di neve che ha in testa.

Ci sono una decina di grossi topi, scuri e sporchi, che banchettano sopra della carne rossa e ancora esposta. C’è solo rosso in mezzo a quel pantano. Alcuni ratti, spaventati dall’essere stati scoperti, fuggono via, imitando i compagni sotto le travi del pavimento. Alcuni si accorgono troppo tardi di essere visti e, imbarazzati, sgattaiolano via, come se realmente si siano vergognati di trovarsi il muso sporco di rosso. Ne rimangono solo un paio, del tutto indifferenti della presenza di Lituania. Il moro osserva quella pozza rossa e non capisce cosa sia, pensa solo che quei due ratti lo disgustano.

Indietreggiando goffamente, riafferra una coperta, più piccola e simile ad un asciugamano. Guarda i due topi grassi e pelosi continuare a strappare pezzetti di carne, affamati. Con la copertina stretta su sé stessa, frusta uno dei due che, terrorizzato, scappa via, verso un buco sotto la parete. Il secondo, nonostante gli sforzi del lituano, non si decide ad andar via.

Solo ora Lituania si accorge del tanfo di ferro lì dentro. È molto più forte del suo, nella cucina. Il ragazzo, ancora scosso per la vista della carne, abbassa la copertina che ha in mano. Ha un brivido di terrore, fa un grosso balzo all’indietro. Trema anche il suo cuore: si è reso conto di aver toccato delle dita ghiacciate e fredde. Si sfrega velocemente le mani, cercando di eliminare la sensazione di panico sulle falangi. Polska, nota, si è accartocciato su sé stesso, come un pezzo di carta. Le ginocchia schiacciate sulla fronte, la divisa verde spiegazzata, la mantella serve da coperta per ripararsi dal dolore, i capelli scompigliati. Il polacco sembra molto provato ora.

Lituania si riavvicina di nuovo al cumulo di carne. Ha una consapevolezza crudele e meschina che viaggia sulla sua colonna vertebrale. Ha ancora i piedi scalzi e freddi, trema anche per questo. Il ratto continua a mangiare, ignora il ragazzo. Non gli importa, ha solo fame. Lituania si riavvicina alla mano che ha toccato. Ne sfiora i polpastrelli magri e grigi. Vede dei tagli e dei morsi su alcune falangi. Nemmeno i topi hanno avuto pietà di Polonia.

Inizia a singhiozzare, incrocia le sue dita con quelle ghiacciate del cadavere. Non vuole guardare il volto di Polonia, carcassa rossa. E’ coperto già con un altro panno. Gli basta solo contemplare la sua gola e il pomo d’Adamo che fuoriesce da esso, come una pallina incastrata in un muro. Gli basta notare i capelli dorati, crespi e sporchi, che fuoriescono da sotto la copertina. Continua a piangere, Lituania. Ha un brivido di rabbia nel cuore. Il suo stomaco è freddo, non si accartoccia né si rivolta. Sente solo che, qualsiasi cosa gli abbiano dato Russia e i suoi traditori, stia facendo effetto. Forse è per questo che non riesce a comprendere bene la realtà che lo circonda, forse è per questo che le sue emozioni sono bloccate.

Una gettata di rabbia elimina questo effetto malato. Riguarda il topo, incurante di lui, non ancora abbastanza sazio di quella carne saporita. Quel ratto non ha idea di cosa stia facendo. Lituania lascia velocemente le dita morte di Polonia e afferra, iracondo, il topo. Questo, oltraggiato, si dimena e prova a mordere il ragazzo. Il moro è abbastanza veloce. Lo scaraventa sulla finestra, la quale produce un tonfo, indignata per essere stata toccata da quell’essere disgustoso. Il ratto si rimette sulle zampette sporche di rosso. Ancora più sdegnato, gli sibila contro, mostrando i denti. Se ne va, lasciando impronte scarlatte dietro di sé.

Lituania sente di star per scoppiare. La rabbia viene sostituita dall’angoscia. Deve convincere i polmoni a cercare aria, ghiacciata e troppo fredda per loro. Ora, finalmente, sente veramente quanto faccia freddo lì dentro. Rabbrividisce, i polmoni non vogliono aspirare ed espirare aria. Polska non parla, ancora raggomitolato su sé stesso. Forse piange e non vuole farsi vedere da lui, forse si vergogna.

“Ora capisci…?” mormora una vocina dalla pallottola di tessuto verde di Polonia fantasma. È spezzata e fragile, la sua voce. Ma Lituania la sente come se fosse un urlo. Continua a singhiozzare, il moro. Le lacrime sono congelate nelle iridi, non possono uscire. Le nuvolette di freddo escono copiose dalla sua bocca. Cercano di formare delle parole, le labbra, ma non esce niente più che dei gemiti di dolore. Si è fatto male, Liet, proprio in mezzo al cuore. Ora lacrima sangue e non smette di chiedere aiuto.

“L-Lituania!” si volta di scatto, come se avesse appena avvertito una gettata di acqua fredda sulle spalle. Vuole scappare, il cuore è pieno di brividi di terrore. Troppo tardi: Estonia lo ha già immobilizzato sotto il suo peso, comprimendo le braccia. Lettonia lo raggiunge, ansimante e con le lacrime in pericolo di scorrere per le sue guance rosse dal freddo. Trema, il ragazzino, quando entra nella stanza. Non immaginava nemmeno che ci fosse un’altra stanza in quella cascina, non immaginava nemmeno che ci fosse così tanto sangue anche là dentro.

“E-Estonia…” mormora Lettonia, non riuscendo a vedere il cadavere, lì alla sua destra. Vede solo il sangue, ma altro non vede né vuole vedere. Non vede nemmeno Polonia fantasma, altrettanto ignorato dal secondo Baltico. Ma ignora anche lui i due, quindi non gli importa.

“Sta’ zitto e aiutami!” ringhia Estonia, con una nota di panico nella voce. Il fratellino afferra per un braccio il lituano. Trema, Lituania, non ha idea di cosa vogliono fargli e questo non sapere gli paralizza la coscienza.

Iniziano a trascinarlo via. Estonia è sorprendentemente più forte di come ricordava. Eppure è strano: Estonia non è mai stato forte. Anche Lettonia è determinato a tirarlo fuori da quel pattume. Il cuore di Lituania fa un sobbalzo, quando nota che i due stanno riuscendo nel loro intento. Sa dove lo vogliono portare, non sa che cosa vogliono fargli. Questo non sapere gli fa ritornare la paura. Urla, geme, scalcia, eppure non lo lasciano andare. Lituania cerca aiuto. Lo vede, Polonia fantasma è ancora appallottolato su sé stesso.

“Polska! Polska, aiutami!” il biondo non si muove, sobbalza semplicemente, sentendosi tirato in causa. I due Baltici anch’essi sobbalzano, ma per il dolore che hanno al cuore. Lituania non capisce, i suoi occhi si gettano supplichevoli sull’amico. Perché non mi aiuti?

“Polska, ti prego, salvami!” Polonia non si muove ancora. In quel guscio in cui si è raggomitolato sospira di dolore. La gola si è impigliata, le lacrime prossime ad uscire. Le sente salate e bollenti. Non vuole che escano. Non può nemmeno aiutare Liet. Ricorda un episodio: la battaglia contro Russia, avevano perso, Russia porta via Liet, Liet gli chiede aiuto, lui, stupido, non fa nulla. Ma è sempre stato una persona inutile, Polonia. Ripensando a questo episodio, si vede molto più imbecille di com’è. All’epoca pensava che avrebbe potuto riavere Liet con un’altra battaglia, troppo ottimista. Si considerava ancora una potente Nazione. Non sapeva che ci fossero Austria e Prussia con un fucile in mano. Forse nella sua testa c’è ancora quella pallottola. Liet scalcia e per poco riesce a colpire Lettonia.

“Polska, apri gli occhi! Aiutami! Polska!” un altro sospiro di dolore esce fuori dalla gola di Polonia. Questo è stato molto forte, tanto da fargli tremare ogni cellula del suo corpo. Continua a sospirare per il cuore troppo pesante e colpevole. Si rivede nella neve, con quel sorriso da bastardo in volto, mentre Liet gli implorava di aiutarlo. Troppe similitudini, sono troppe. Il labbro del biondo trema, sente della bile colare dal suo naso.

Polska!!!” con gli occhi chiusi è molto più semplice trattenere le lacrime, nota Polonia, sentendosi cattivo e crudele, come lo era stato in passato. Con la gola bloccata e la testa ancora nascosta sotto le ginocchia, scuote il capo più volte, negativamente. Le labbra si schiudono, ma riesce a ricacciare nei polmoni i pianti soffocati. Rigetta all’indietro anche la bile gocciolante. Lituania vede e non riesce a capire. Ignora la rabbia repressa di Estonia, ignora le suppliche di Lettonia. Perché, Polska, perché?!

“Perché, Polska…? Perché mi odi anche tu…?” ora piange per davvero. Pensa che Polska lo odi, è l’unica soluzione possibile. Ora cosa ha fatto per farsi odiare dal suo amico? Forse è stato troppo insistente. Forse troppo appiccicoso. Ricorda lui, lupo, e Polonia, cerbiatto, nella foresta. E se si sia offeso per la sua ingordigia e per il suo desiderio? Quest’ultima possibilità gli sembra quasi una certezza. Il biondo comincia ad odiare Lituania. Perché non capisce? Perché non ammette l’evidenza? Sarebbe tutto molto più facile. Lui non è fatto per dire la verità nuda e spietata così com’è. Ma, in realtà, lui non è fatto per fare nulla di buono.

“Perché sono morto, Liet!” un sobbalzo da parte di entrambi. Polonia ha cacciato, finalmente, fuori la testa dal suo bozzolo e ora lo guarda dispiaciuto e colpevole, con un po’ di frustrazione, troppo poca per essere notata del tutto. Lituania sente lo stomaco scongelarsi e battere forte contro la sua pancia, come se fosse il suo stesso cuore. Polonia, con un impeto di rabbia e dolore, scoperchia il suo volto nascosto dalle lenzuola, quello del corpo morto.

Lituania lo guarda. È come lo ricordava, ma più magro, più sciupato, più grigio, più rotto, più calpestato. Più distrutto e sanguineo. Russia ha maltrattato il suo cadavere, anche dopo la morte. Non è possibile essere talmente tanto crudeli con un povero ragazzo che hai visto solo poche volte in vita tua. Non può credere che esista così tanta rabbia nel suo carceriere. Eppure l’odio è nato dal nulla, dalla gelosia, dal desiderio di possesso. Polonia fantasma non riesce più a trattenere le lacrime.

“Come potrei tornare in questo corpo!? Dimmelo, Liet!” il moro urla per la disperazione. Polonia non lo odia, questo è un sollievo. Ma non può più tornare, e questa è una tortura.

I due Baltici non vedono né sentono il fantasma di Polonia. Continuano semplicemente a trascinare via Lituania, chiedendosi quando smettano gli effetti collaterali di quei falsi confetti. Intanto Lettonia ha chiuso la porta della stanza. Polonia è rimasto dentro, sente le urla di Lituania.

“Polska! Polska!” urla e geme, con la voce liquida e gracchiante. Sta urlando troppo, Liet. Il biondo si getta sul letto, di fianco al suo corpo. Da dietro la porta si sentono grida acute. È un condannato portato alla gogna. Il ragazzo osserva il suo corpo, ad una spanna da sé. È orribile, pensa. Continua a guardarlo e le lacrime si fermano.

“…Lasciatemi! Lasciatemi!” Polonia fantasma non ha più occhi lucidi. Sente il cuore in subbuglio. Il suo cadavere ha il volto violaceo. I capelli strappati, gettati nelle tane di topi tra le travi spaccate. Le palpebre sfregiate molte volte, come se Russia abbia desiderato di strapparle. Sono rossicce. Il labbro tagliato, come se fosse leporino. La gola squarciata dalla lama di un coltello. Russia ha voluto assicurarsi che lui non sarebbe più tornato. L’ha svuotato completamente dal sangue e dalla forza di vivere, quel corpo. Ma Polonia non piange, l’ha accettato: lui non tornerà più. Ormai lo sa e l’ha ammesso. Ma piange per Liet, che non l’ha ancora capito. E piange anche un po’ per lui.

È un pianto breve, non troppo lungo. Si è svuotato dal sale e dal sangue. Le mani guantate sono umide, ma non gli importa. I capelli s’incastrano nel sudore della fronte, nelle ciglia e provano ad entrare in bocca. Polonia li rimette al loro posto sbattendoli bruscamente. Anche il cuore si è svuotato dalle lacrime. Respira tranquillo, il biondo, raccoglie gran parte del controllo. Tira su il naso, con la lingua tocca le labbra, inumidendole. Si alza e scatta verso la porta. Non guarda il suo corpo, sarebbe un’altra pugnalata troppo forte per la sua anima. Fiora il legno, lo attraversa con le dita. La piuma si è bruciata del tutto, allora. Fa un grosso respiro e corre in avanti. Attraversa la porta, così come tutta la casa. Esce fuori nella neve e cammina verso la villa.

I fiocchi più piccoli, ritornati nel cielo insieme ai loro fratelli, raccontano l’accaduto misterioso. I più grandi ne sono meravigliati: che garbuglio, che mistero, che strana avventura! Sono anche loro interessati alla vicenda. Che nasconda altri segreti questo ragazzo dai capelli scuri? I più piccoli non sanno cosa rispondere, sono solo molto eccitati. Mai capitato un avvenimento del genere in vita loro! Non che la loro vita sia stata molto lunga…

Il vento ascolta anch’esso il racconto dei piccoli fiocchi di neve. Si quieta un po’, giusto per ascoltare meglio e per non allontanarsi troppo dal luogo del mistero. I piccoli fiocchi sono eccitati: voglio vedere altro! Questo luogo è più divertente di quel che credevano. I grandi, pazienti ed anch’essi divertiti, decidono di seguire anche loro i fratellini. Indicato il luogo dov’è sparito per la seconda volta il ragazzo dai capelli scuri, rimangono sbalorditi.

Un altro ragazzo entra a capo basso e con passo strascicato dentro il giardino del figlio dell’Inverno. Tutti i fiocchi sono d’accordo fra di loro. Sono l’uno l’opposto dell’altro!, esclamano, entusiasti. Inizia una piccola gara fra i piccini, decidono quante differenze trovano tra i due. Iniziano tutti, entusiasmati, ignorando gli sguardi esasperati dei loro fratelli più grandi.

Questo ragazzo è biondo, con occhi verdi, esclama un piccolo fiocco, non come l’altro, con capelli scuri e occhi blu. Tutti sono d'accordo. Guardate come cammina lento!, fa notare una piccina, sembra che si stia trascinando la croce sulle spalle! Non come l’altro, con il demonio a rincorrerlo. Questo particolare fa annuire felici tutti i fiocchi, anche i più grandi. Oh, ragazzi, i suoi occhi!, esclama un fiocco più piccolo dei suoi fratellini, sceso più in basso di quel che dovrebbe, sono tristi e scuri, come una notte senza luna! I fiocchi più grandi si avvicinano anch’essi, interessati. Guardateli meglio!, esclama un altro fiocco di neve, sono tagliati male, i suoi occhi. Questa scoperta rende tutti perplessi. Guardateli: sembrano occhi severi e cattivi. Sembrano gli occhi di un gatto!, esclama, felice. O di un demone!, esclama un altro fiocco, facendo annuire tutti di gioia. Dev’essere un ragazzo cattivo, afferma una piccolina, curiosa e credulona, non come l’altro con gli occhi d’ angelo!, finisce, diventando più piccola di com’è. Già, chissà cos’ha combinato per camminare in questo modo e in mezzo al vento maldestro, annuisce un fiocco più grande e meno saggio. Oh, sta per entrare anche lui, andiamo a vedere!, urla un fiocco birbante e sbarazzino, gettandosi già sulla divisa militare di Polonia.

Orrore, incredulità: il fiocco di neve oltrepassa il corpo del ragazzo demone. Il piccolino, incredulo, si lascia abbandonare per terra, nel fango. Quel posto lo disgusta, ma non riesce più a liberarsi. Anche i suoi fratelli, grandi e piccoli, hanno visto la scena. I più grandi e saggi notano che il ragazzo non lascia impronte né mostra alcuna ombra alle spalle. I piccini provano a tuffarsi su di lui. Uno dopo l’altro falliscono. Protestano e piangono. I fiocchi più grandi si domandano chi sia quel ragazzo. Che Padre Inverno abbia dato un posto da alloggiare a quest’anima rea?, si chiede uno di loro. Nella terra di suo figlio? Impossibile!, esclama un altro, quasi disgustato da questa domanda. E se sia davvero un demone?, si domanda un fiocco poco più giovane. I grandi ed anziani rabbrividiscono e notano che il ragazzo demone riesce ad oltrepassare la porta della villa e ad entrare all’interno. I fiocchi più piccoli si lagnano e piangono, alcuni se ne vanno indignati. I grandi ed anziani decidono di ignorare l’accaduto e di continuare il loro viaggio. Sarà dura convincere i piccini, sospirano tutti.

Polonia trascina i piedi nella grande villa di Russia. L’oro e l’argento non lo toccano né attirano la sua attenzione. Alza un po’ la testa, il cuore ancora scosso e spezzato. Si dirige nella camera dei ragazzi, sa dov’è, ci è andato mille volte, avanti e indietro nelle notti senza Toris. C’è caos fuori dalla porta: il tappeto scuro è stato maltrattato, così come il tavolino con il vaso da fiori vuoto. Per miracolo si è salvato. La porta è sigillata, ma si odono già i lamenti e le urla. Polonia rimane fuori, non entra, gli basta questo. Non vuole piangere di nuovo.

No!” un urlo diventa comprensibile. Polonia apre le orecchie, si ferma nel mezzo del corridoio e lì rimane ad ascoltare “Non voglio morire! Non voglio!” Lituania si massacra la gola. L’urlo ha troncato in due il silenzio della casa. Non è l’urlo di un essere umano, troppo pieno di angoscia e terrore. Nessun umano potrebbe avere così tanto panico e liberarlo nella voce “Non voglio morire! Non voglio morire! Non voglio…!”

“Non morirai, Lituania!” la voce di Lettonia è decisa e forte. Il polacco si meraviglia di ciò: la sua voce era sempre immersa nelle lacrime “Non ti faremo del male!”

“Lettonia, sta’ zitto!” ruggisce la voce di Estonia, spaccata in due. Polonia non la ricordava così aggressiva, anche se umida “Lituania, lo diciamo per il tuo bene, non ti vogliamo far del male. Devi solo dormire” l’occhialuto parla in modo troppo distaccato e professionale per essere solo minimamente confortante. Polonia pensa che non l’abbia fatto apposta. Semplicemente, l’estone non è mai stato in grado di rincuorare nessuno. Però il principe polacco è certo che stia tentando, anche se il risultato è misero.

“Dio, Signore, aiuto…” mormora il lituano, con un terrore statico in gola. Deglutisce il biondo, nell’ascoltare la sua voce martoriata.

“Calmo, Lituania, calmo…” Lettonia è molto più convincente, anche se la voce sta iniziando ad inclinarsi.

“Polonia, Polska, salvami, salvami…” lo chiama, la voce immersa completamente nelle lacrime e nel sudore. Polonia ha già il cuore spezzato, per questo non sente niente. Ciò che è già stato distrutto non può rovinarsi ancor di più. Ci vorrà un po’ per ripararlo, il cuore, ma ora non sente nulla. Il polacco è quasi grato di ciò.

“Polonia non è qui, Lituania” forse, in realtà, è possibile distruggere qualcosa già spezzato in due. Polonia, a queste parole, ha sentito formarsi una crepa nel suo cuore “Shh… Ora ci siamo noi qui. Nessuno ti farà del male” singhiozza la voce di Estonia, come se avesse incastrata nella gola una pallina, che non si decide di salire o scendere, intrappolata nella trachea.

“Polska… Polska…”

“Polska è in Paradiso, Lietuva” Lettonia ha la voce un po’ più coraggiosa, quasi senza lacrime. Polonia sa che ci sono, le lacrime, ma il ragazzino è riuscito a nasconderle bene. Polonia è grato al lettone. Sia per aver usato il nome autentico di Liet, sia per aver detto di essere in pace, nonostante sia lì, dietro la porta. Polonia è grato e per questo sorride “Sta bene lassù. Vuole solo che tu sia felice. Ma sta bene e ti vuole tanto bene. Vuole che anche tu sia felice” il sorriso del polacco tocca le guance, allargandosi di più. Chiude gli occhi, forse saranno i due Baltici a dare la pace al fratello.

“Si, è così!” Polonia riapre le palpebre. La voce imbranata e disperata di Estonia è falsa e, a suo parere, patetica. Continua a guardare gli arabeschi dei pavimenti, il ragazzo, senza guardargli per davvero “Ora ci siamo noi, Lituania. Se qualcuno ti farà del male, finché saremo qui con te, noi ti difenderemo” nemmeno io stesso sarei convinto da te, Estonia, pensa Polonia, tristemente. Un attimo di silenzio. L’aria si arresta e il sangue smette di fluire nei corpi. Anche Polonia è in ascolto. Sente dei fiati tremuli, delle mani che si muovono sulle lenzuola. Il pendolo nel corridoio scandisce i secondi. Un brivido di ansia percorre le orecchie di Polonia e sgattaiola dentro il padiglione auricolare, penetra nel cervello, ghiacciato e statico. Sta passando troppo tempo. Anche i due Baltici hanno lo stesso brivido. Il pendolo sbatte la grande lancetta altre dieci volte.

“…Lituania?” mormora il timido Lettonia.

Un urlo pieno di forza, diverso da quelli precedenti, strappa e si abbatte sulle pareti della stanza. Polonia lo ode e viene trapassato anche lui dalla sua onda. Liet ha lanciato un urlo da battaglia, imitando i cavalieri in guerra tra armi e dragoni. Questo però è diverso. È un grido di disprezzo. Estonia deve aver sbagliato a dire qualcosa.

“Non lo farete mai! Mai!!!” le molle del materasso scricchiolano e vengono schiacciate, le coperte sbattute. I due Baltici balzano in avanti, timorosi. Polonia fantasma volta la testa, le iridi sbarrate. Quell’urlo di dolore e rabbia non lo sentiva da secoli.

“Lituania, sta’ calmo!” singhiozza Lettonia, per il dolore. Forse il fratello l’ha colpito.

“Vuoi mi odiate! Mi volete morto!”

“Non è vero!” risponde prontamente Lettonia, coraggioso e forte, anche se dolorante. Ma la sua vocina viene assorbita da quella del lituano.

“Non mi difenderete mai! Non lo avete mai fatto!” un singhiozzo, l’urlo si dissolve, viene sostituito dal pianto “Non lo farete mai! Voi mi odiate, volete che io muoia…” un altro singhiozzo spacca l’aria della stanza e le molle del materasso “Ve ne scapperete, mi uccideranno e voi scapperete…” un altro singhiozzo, seguito subito da un gemito di dolore al cuore “…come sempre” finisce questo con un pianto nervoso. Scuote forte il petto di Lituania, questo pianto. Gemiti, pianti, molle schiacciate e percosse. Polonia sente solo questo e desidera non udire nulla. È stanco e non ha più forze per piangere. L’aveva sempre detto e l’aveva detto anche ai due Baltici, un giorno, quando aveva visto i tre fratelli insieme, per la prima volta: se io non dovessi esserci più, Liet morirebbe da solo. I due fratelli lo avevano squadrato male. Probabilmente doveva aver avuto uno sguardo molto severo, perché poi avevano subito abbassato gli occhi. O forse avevano ammesso la verità. O magari entrambe.

“No, non è vero… Questa volta no…” mormora il piccolo Lettonia. Non è convincente, anche la sua voce è spezzata. Sta piangendo anche lui. Un naso tirato, non dal ragazzino. Sente qualcosa muoversi sulle molle del pavimento. Liet ha ricominciato ad agitarsi e a provare a scappare. Un altro scatto veloce verso il letto: i due Baltici lo stanno di nuovo tenendo fermo. Si odono più pianti, in quella stanza. Polonia si sente triste.

“Estonia, non piangere…” sussurra il lettone, spera di non essersi fatto sentire da nessuno, ma non è mai stato molto prudente o delicato. L’estone piange e singhiozza. La pallina nella sua gola si blocca e non gli permette di respirare bene. Respira con affanno, con la gola rotta. Se ne sono resi conto, pensa Polonia, per la prima volta Liet glielo dice…

“Zitto, Lettonia…” dovrebbe essere minacciosa la voce, ma è solo un sussurro incapace ed umido. Polonia lo trova ancora più patetico e triste. Non gli era mai andato a genio Estonia. Si credeva il più intelligente e capace, ed era anche vero, non che ci voglia molto ad essere più intelligente di lui, ma lo dimostrava in modi assolutamente patetici. Sembrava desiderare di essere importante solo per le poche cose che è in grado di fare con la meccanica o con la nuova tecnologia. Questo Polonia lo odia e lo odiava.

“Polonia non è meglio di me, Lituania” un ringhio frustato, spezzato da un gemito “Te lo giuro…” continua il pianto spaccato dalle scosse. Polonia continua a guardare il pavimento sotto di sé come se avesse Estonia proprio lì, sotto i suoi piedi. Lo vede con le ginocchia per terra, tremante, singhiozzante, con la testa gettata verso il pavimento e gli occhiali quasi caduti dal naso. Lo vede lì, di fronte a lui e si chiede quando, di preciso, l’estone abbia desiderato di superarlo. Quando e perché vuole superare lui. In cosa? La risposta la sa, Polonia, ma non vuole pensarla.

“Polska, aiutami… aiutami… salvami…” continuano le suppliche verso il morto. Polonia non può né vuole intervenire, sarebbe troppo doloroso. Qualcosa nell’aria si spezza. È una battuta di caccia, c’era silenzio prima, ora è stato interrotto da un ramoscello spezzato. Uno dei due Baltici salta veloce sul letto, sopra Lituania. Lettonia sobbalza e si allontana, pauroso. Le molle sotto di loro protestano per il peso.

“Non ti voglio morto, Lietuva…” Estonia non ha solo la voce spezzata “Non ti voglio uccidere. Ti vogliamo bene. Non ti odiamo…” ritornano i pianti, distruggono le parole. Estonia ha sputato velocemente queste frasi, ma poi è scoppiato. Non riesce più a dire altro. I passettini di Lettonia si avvicinano di più ai due fratelli più grandi. C’è ancora silenzio scandito, questa volta, dalle scosse dei singhiozzi di Estonia. Seguiti subito dal piccolo lettone. Straziato è Lettonia, rabbioso è il pianto di Estonia. Polonia non può far altro che compatirli. Lituania non si agita più, immobile nel letto. Estonia ha i nervi fuori dalla carne, pieno di angoscia e disperazione. Non sa cosa stia facendo Liet, ma questo rompe qualcosa dentro l’estone.

Io vi odio” sussurra, serpeggia, la lingua di Lituania. Polonia sbarra le iridi, incrociate ancora tra le piastrelle dorate di Russia. Sente i battiti del suo cuore, ingenui e paurosi. Si sente piccolo ed indifeso, senza sapere il perché. Si sente in pericolo, senza capirne il motivo. Un ringhio di frustrazione esce fuori dalla gola di Estonia. Sente il materasso lamentarsi e cigolare, d’un tratto. Lettonia lancia un urlo. Polonia sente delle mani, dei pugni, l’uno sull’altro. Sente percosse e ceffoni dietro quella porta, gemiti e urla di rabbia. Nonostante ciò, non sente nulla. Forse il suo cuore è ancora rotto. O forse sa che non si faranno troppo male.

“Ripetimelo, bastardo!” abbaia Estonia, la voce velenosa, dannata e desiderosa di sangue. Polonia sospira. Lituania è più forte di te, imbecille, pensa tristemente, continuando ad immaginare la lotta di fronte ai suoi occhi, incastrata nelle piastrelle. Sente gli occhi stanchi e delusi. Estonia lo ha deluso.

“Ti odio, ti ho sempre odiato!” urla Lituania, una voce più umana e sensibile “Sei un coniglio e morirai coniglio!” un colpo ben assestato. Lituania non sembra voler combattere, non ha mai voluto farlo, ha sempre parato i colpi. Questo lo ha preso dritto alla tempia. Ha sentito le nocche di Estonia sbattere con forza sulla sua fronte, vicino ai capelli.

“…basta…basta…” mormora Lettonia, con la voce tremule e piangente. Polonia lo immagina, anche lui, tra le pieghe del pavimento lucido. Occhi rossi, guance di fuoco, mani premute sulle orecchie, tremolante come un giunco in mezzo alla tempesta. Polonia sospira sconfortato. Anche Lettonia lo ha deluso. Eppure, questa delusione fa molto più male di quella di prima. Inghiotte saliva acre ed acerba. Non vede il proprio riflesso nelle piastrelle gialle e questo lo fa tremare. Si stringe le braccia attorno al petto. Ignora gli insulti dietro quella porta, ignora i pugni e le urla. Ignora tutto, sa solo che dentro di lui c’è una guerra peggiore di quella che c’è là fuori.

“Bene!” esclama ad un certo punto Estonia “Ti odio anch’io, spero che muori in fretta!” passi profondi martellano vicino alla porta di fronte a Polonia. Il biondo si volta, ancora col dolore nel petto e le braccia attorcigliate. Ha occhi bassi, ma orecchie attente. Estonia apre la porta, con una calma malcelata. Si volta un’altra volta, crudele, con gli occhiali spaccati e la fronte graffiata “Che Polonia ti porti via!” Lituania rimane immobile mentre l’estone esce fuori e va via, con passo pesante, come se stesse scaricando la rabbia tramortendo il pavimento. Il goffo Lettonia lo segue, con gli occhi nascosti tra le maniche della divisa rossa. Spariscono tutti e due, con un tonfo secco della porta del corridoio. Ritorna il silenzio, scandito di nuovo dal pendolo.

Lituania pensa a tutto e a niente. Ha detto ciò che voleva dire, eppure si sente più vuoto che pieno. Ha spezzato ogni legame con i Baltici. Nonostante ciò, non gli importa, così come a loro non è mai importato di lui. Scende dal letto, gli fa male il petto e la fronte. Soprattutto la fronte. Muove i passi, pesanti ed inceppati, sul pavimento, ondeggiando per mettere un piede di fronte all’altro. Si sente a pezzi. Si getta in ginocchio, spossato, di fronte allo specchio.

Si toglie i capelli dalla fronte. Gli tremano le mani, più per la stanchezza che per altro. Estonia gli ha fatto un livido, graffiato. Continua ad uscire molto sangue. Scorre giù come un piccolo fiume. Taglia una parte di volto, come una torta. A Lituania non importa. Non gli importa molto, in realtà. Guarda il suo viso. Le iridi ristrette hanno cancellato l’azzurro del Mar Baltico nei suoi occhi. E’ grigia la sua pelle. Come quella di Polska, pensa d’istinto. Questo paragone quasi gli piace. Significa che sta diventando come lui. E’ una piccola amichevole solidarietà. Gli sfregi neri sotto agli occhi lo orripilano, così come lo avevano sconvolto la pelle violacea del cadavere.

Anche se coperte, Lituania vede le cicatrici sulla sua schiena, lì Russia gli ha strappato le ali di angelo e la voglia di vivere. Così come Russia ha strappato la vita di Polska. Si guarda più attentamente. Era bello prima, si considerava abbastanza carino come ragazzo. Ora è magro e malato dal profondo del cuore, spezzato e rotto come un giocattolo troppo abusato dal padroncino. Ha sempre saputo che la schiena si sarebbe spezzata sotto il giogo di Russia. Questa volta l’ha mosso così bruscamente che lo ha tagliato e spezzettato nell’anima. Si sfiora il sangue, che gocciola dalla fronte fino allo zigomo. Lo osserva, anche quello è freddo, senza vita. Si trova brutto, come non mai.

Qualcuno entra nella stanza, timido ma deciso. Polonia ha gli occhi sullo specchio. Guarda l’azzurro morto degli occhi dell’amico. Lo guarda e lo trova triste e malinconico. È come se fossero tornati indietro, nella reggia di Vilnius, con i violini maledetti. Sente la loro musica e l’associa a ciò che sta vedendo ora. Polonia è sempre bello e posato in suo confronto, anche se con sguardo colpevole e basso. Lituania lo osserva nel chinarsi dietro di lui, nell’abbracciarlo, incrociando le braccia sul suo ombellico. Nel baciargli la scapola, nell’affondare il volto tra le spalle, vergognoso. Lo osserva senza sentimento, senza una scintilla negli occhi. E’ morto più di Polska e lo vede ad occhio nudo, di un mortale.

“Non mi perdonerai vero…?” mormora, distrutto, il piccolo Polonia. Lituania non sente battiti dal proprio cuore. È morto come lui. Anche il sangue è congelato nelle vene, non vuole muoversi. Il fiato freddo e leggero, troppo per essere di un vivo.

“Avevi ragione” sussurra con voce rauca. Polonia alza gli occhi, abbattuti e supplichevoli. Il moro sente il fiato caldo dell’amico, incastrato tra i capelli e il collo. Vorrebbe che lo baciasse lì, sul collo, che lo mordesse e gli facesse del male. Vuole altro sangue su di lui, non solo sulla sua fronte. Si guarda le dita rosse attraverso lo specchio, ancora un magnete per i suoi occhi blu.

“Con un corpo così distrutto, anche se ritornerai, morirai subito dopo…” continua a sussurrare più a sé stesso che a Polonia. Il biondo nasconde le labbra sotto la spalla di Liet. Ha occhi lucidi, ma quieti, senza alcuna voglia di piangere “Non ci sei più Polska…” le dita macchiate di rosso toccano lo specchio, dove viene riflesso il polacco. I polpastrelli tranciano e ricoprono i capelli d’oro, gli occhi smeraldini, il naso piccolo. Polska non c’è più sullo specchio, ci sono solo delle linee di sangue.

Polonia non si sente sollevato. Lituania ha abbassato il braccio. Gli occhi sono ancora più scuri, il volto nero, i capelli disordinati e confusi. Non è morto più nulla dentro il lituano, non c’era nient’altro da uccidere. Ogni cosa di sé è morta, incastrata ancora nella realtà. Non cerca più la libertà, non ne ha alcuna. Si rende conto di essere in un mondo che, in questo momento, non gli appartiene. Dovrebbe essere con Polska, nel mondo dei morti, non in quello dei vivi, non in quella gabbia. Lituania non si capacita di questo capriccio del fato, pensa solo che si spegnerà completamente se continuerà a guardare le strisce di sangue sulla figura di Polonia. C’è troppo silenzio, entra nelle ossa del biondo.

Polska stringe di più a sé Liet. Vorrebbe che si abbandonasse nel suo grembo, ma il suo corpo è troppo rigido e non vuole essere consolato o liberato dalle lacrime. Lituania ha un macigno sull’anima e non desidera toglierselo. Il polacco gli lascia un altro bacio, questa volta, sul collo. Lascia le labbra per molto più tempo di prima. Poi, dolcemente, sfrega su e giù il naso, sotto la canottiera. Tocca le cicatrici nere, le sfiora, ma a Liet non sembra importare. È diventato insensibile d’animo e di volto. Polonia si ferma, i suoi sforzi sono vani. Non sa più cosa fare per accendere Lituania. Il non saperlo fare lo fa sentire male.

Un sobbalzo, piccolo ed innocente, fa muovere il petto ghiacciato del moro. Le labbra raccolgono aria, l’afferrano sazie, senza desiderarla davvero. Un momento di silenzio. Lituania inclina leggermente la testa. Un bambino di fronte ad un disegno interessante. Si tocca di nuovo la fronte rossa. Sfiora e calpesta il vetro dello specchio. Il medio e l’indice iniziano a tracciare delle strisce in mezzo alla testa del lituano. Poi si aggiungono anche l’anulare e il mignolo. Si sentono le dita sul vetro. Fanno sibilare di dolore la superficie liscia. Anche il pollice fa questo sporco lavoro.

Un angolo del labbro di Lituania si alza leggermente. La mano viene di nuovo affondata, il palmo, sulla fronte sanguinolenta. Con una lentezza allarmante, il moro getta l’intera mano sul suo viso riflesso. Con altrettanta angosciante calma sfrega e fa urlare il vetro. Il labbro spezzato di Lituania continua a salire. Le palpebre si muovono, si schiudono. Sospira il lituano, Polonia non sa per cosa. La mano si toglie dal vetro. Rivela una grossa chiazza rossa lì, che copre l’intero viso di Lituania. Polska, dietro di lui, muove leggermente la testa in avanti. La inclina verso il moro. Vede finalmente il suo volto. Qualcosa è sbagliato nel suo sorriso.

“…Liet?” sussurra. Non capisce. Sente il suo cuore morire per l’impazienza, l’attesa e l’ansia. Lituania non scrolla gli occhi dal vetro. Ha ancora quell’espressione sbagliata. Polonia scuote la testa, cercando risposte. Liet sospira, Polonia non capisce.

“Mi segui in un posto? Ti devo parlare di una cosa molto importante” si rimette in piedi, con fretta. Polonia si chiede perché abbia tanta foga.

“Riguarda noi…?” azzarda, timido. Liet lo guarda dall’interno dello specchio, come se fosse realmente lui, quel riflesso. Polonia scontra le dita fra di loro. Sente i violini spezzati, il pianoforte scordato, i balli vivaci di dolore, la musica frantumata. Ha paura, d’un tratto. Liet annuisce convinto.

“Si, riguarda noi” dice, vago. Liet non è mai vago, ricorda l’amico. Questa cosa lo inquieta. È come se tenesse un segreto. Come un bambino. Liet non è mai bambino, ricorda. Il bambino cattivo e crudele è sempre stato lui, ricorda. Anche questa cosa gli fa paura e tristezza. Lituania si volta di scatto. Polska sobbalza per la sorpresa. Il moro non ha cambiato espressione. I suoi occhi azzurri si spalancano. Sentire quegli occhi sbarrati ed immaturi sui suoi, fa male. È un male diverso, molto più vicino al terrore.

“Mi segui?” chiede, gli porge la mano. Polonia guarda quel palmo come se gli stesse offrendo una pistola carica. Lituania inclina la testa, ancora più immaturo. Polonia ha le ossa di pietra, ma è curioso. Non è una curiosità fanciullesca, come suo solito. È una curiosità più sulla sopravvivenza. E sul bene di Liet.

“Si, vengo”

Gli afferra la mano e lo trascina via dalla stanza.

Polonia ha paura, ma si lascia trascinare dall’immaturità di Liet.

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** SeStO cApItOlO ***


“…!”

“…”

“…sei tu…”

“Si, sono io”

“… sei venuto qui per vendicarti?”

 

Si sveglia affannato, il generale russo. Nonostante gli occhi impiastricciati dal sonno e le coperte avvinghiate a sé riesce a mettersi in piedi e ad uscire dalla stanza, con poca calma e tanta impazienza. Ha il passo pesante, si rigetta sul pavimento. È veloce, agitato, con tanta, tanta voglia di correre.

 

“Non sai quanto lo vorrei... Ma non posso”

“...oh. Allora perché sei qui? Cerchi qualcosa?”

“No, ma devi muoverti, in fretta!”

 

Svolta i corridoi, strugge i tappeti sotto i suoi piedi. Ha la mente sveglia, agile e vigile. È come trovarsi in guerra: si sente all’erta, col cuore gelido e la mente lucida. Ma questa volta non sadica. Deve solo cercare. Passa la camera dei Baltici. La porta è aperta, brutto segno. Tocca il muro con le dita, lo accarezza man a mano che prosegue il suo cammino. Immagina i piedi di Lituania, immagina i suoi passi stanchi. La sua depressione, il suo cuore rotto, la sua anima in pezzi.

 

“C-Cosa…? Piccolo demone, cosa vuoi da me?! Vattene tu! Vattene! Non mi toccare! Lasciami stare!”

“Russia… Russia! Ascoltami, non lo avrei mai fatto in vita mia, ma devi aiutarmi. Subito!”

 

Un altro corridoio svoltato. I passi accelerano, il fiato comincia ad abituarsi alla velocità, gli occhi guizzanti. Ha il volto di pietra, Russia. Sente la tensione dentro di sé, forte e palpabile. Ha paura, ma non se ne vergogna questa volta. Ha paura per l’anima di qualcuno. Ha paura delle ombre fuori dalle finestre. Ha paura dei fruscii, degli spifferi vicino alle sue caviglie. Ha paura dei soffitti alti e dei rumori dei suoi piedi.

 

“Russia, ti chiedo un favore. Te ne prego, una volta nella vita te lo voglio chiedere”

“…se lo faccio te ne andrai?”

“Si, subito. Non verrò mai più da te, mai più”

 

Terrore per la ricerca ancora a vuoto. Non trova ciò che sta cercando. Guarda ovunque l’occhio glielo permette. E di vista ed udito ne ha parecchio. Apre ogni camera, salone, stanzino. Non lo trova. Ogni stanza vuota è un grammo di panico che s’intensifica all’interno del suo cuore. Ha il passo ancora più pesante e i piedi più svelti. Svolta un altro corridoio, i piedi ora corrono, increduli di ciò che stanno vedendo. Non vogliono crederlo.

 

“C-cosa vuoi?”

“Devi salvarlo!”

“…chi?”

 

Lituania!” è un urlo disperato, il suo. Si rende conto di quel che ha fatto. D’istinto si serra la bocca con una mano, ricordandosi dei piccoli Baltici e delle sue sorelle. Continua a sigillare la sua bocca, ancora più chiassosa. Comincia a gemere di dolore. Là nel cuore, si è aperto una crepa. Già c’era, ma si è allargata molto più. Un coltello girato e rigirato nella stessa posizione. Con l’altra mano si prende i capelli. Gli tira e ne strappa delle ciocche, incurante del dolore. Lui vuole dolore su di sé, se lo merita.

Lituania è appeso all’alta porta del corridoio, con una cintura, la sua cintura, alla gola. Il corpo si muove leggermente. Volteggia ad una quindicina di centimetri da terra. La sedia gettata verso la finestra. Nota l’ondeggiamento del corpo. Gli nasce una speranza, ma molto piccola. Si avvicina al piccolo. La gola si serra, non riesce a respirare, gli occhi spalancati. La testa di Lituania cade verso terra, i capelli sono gettati sul volto, la bocca schiusa.

Russia è vicino al ragazzo. Gli tremano le mani, sente le lacrime sul punto di scendere giù come cascate. Non tenta nemmeno di fermarle. Questo ha fatto molto male. È la cosa più dolorosa che abbia mai provato. È certo che sia così. Non ha mai provato così tanto dolore per così tanto tempo. È la prova. È un mostro, una bestia, tanto da costringere un povero bambino a scappare, nel modo più disperato possibile. Era meglio se Lituania fosse scappato di casa, l’avrebbe potuto accettare. Avrebbe potuto ritrovarlo e riportarlo indietro. Si sarebbe arrabbiato molto, ma sarebbe stata solo rabbia, nulla di più. Questo è vero dolore. Gli paralizza i polmoni, non lo fa respirare. Lituania non lo vuole. Ma non solo questo, si voleva annullare completamente. Lituania non solo lo odia, ma ha il terrore di lui.

Russia si sente pesante, ha un macigno sulle spalle. Cadono a terra le ginocchia, si spaccano sul pavimento, vicino ai piedi del moro. Con un braccio si stringe la pancia, gonfia di angoscia. Russia sfiora con le dita i piedini da bambino del ragazzo, bianchi e cupi per il buio. Sono freddi come il marmo. Anche questo fa male. La gola e il cuore si lamentano all’insieme. Cercano di non farsi sentire, ancora terrorizzati dall’idea di farsi scoprire. Ma si sentono ugualmente troppo male per trattenersi. Anche l’altra mano si unisce allo stomaco. Si dondola sul posto, cerca di calmarsi, ma non ci riesce. Fa troppo male, è stato troppo doloroso. Per sbaglio un dito ha sfiorato un punto sensibile del piede del lituano. Le dita di questo si muovono un po’, ripristinate. La sua piccola speranza cresce, cresce come un campo di margherite in primavera.

“Oh, Cielo…” geme Russia, la speranza straripa dal suo cuore. Si alza in piedi, ignora il dolore delle ginocchia. Il cuore continua a straripare, è un fiume in piena, pieno di gioia e terrore misto in un immangiabile calderone. Tiene stretto a sé il corpo tiepido. Con una mano libera, maldestro e veloce, libera la cintura intrappolata nel funicolo della porta e così anche dalla gola del ragazzo.

Lo stende a terra, la testa e il petto fra le sue braccia. Le mani continuano a tremare, eccitate e paurose. Il collo di Lituania è un po’ più sottile, con strisce rosse e rosate che sfregiano la carne. Hanno stretto molto, le corde. Le dita maldestre provano ad accarezzare la tempia del ragazzo, ma per sbaglio la graffiano. Si odia per questo, singhiozza anche il suo corpo. Il busto e i piedi di Lituania si attorcigliano, come un insetto capovolto che tenta di ritornare in piedi. Russia nota le labbra schiuse del moro. Si aprono e si chiudono, come le labbra di un pesciolino. Raccolgono l’aria nelle guance, ma non riescono a portarla ai polmoni. La gola è ancora chiusa, non accetta aria. Il corpo continua ad agitarsi e Russia capisce che deve muoversi.

Anche lui non ha aria nei polmoni, ha la trachea bloccata per il dolore. Ma ne ha uno spiraglio e vorrebbe usarla ugualmente. Prende un grosso respiro, così la gola si riempie. China la testa e unisce le sue labbra gelide con le bollenti di Lituania. Porta tutta l’aria dei suoi polmoni a quelli chiusi del ragazzo. Continua così, molte volte. Nota che ora la gola si è liberata dalla morsa rossa e sta ritornando rosata com’era prima, senza segni. Smette quando le labbra di Lituania riescono a prendere ossigeno. Ora respira, il piccolo. È vivo e respira. E’ felice e terrorizzato allo stesso tempo. Le membra si attorcigliano fra di loro in una morsa, le lacrime sono ormai fiumi sulle sue guance. Sente gli occhi rossi pizzicare.

Lituania diventa semicosciente. Non riesce a vederlo, ha le palpebre abbassate, ma sente la sua ingombrante presenza grande e minacciosa, troppo vicina a lui. Il piccolo si agita, capisce che non riesce a muoversi e allora si lamenta e geme, disperato. Russia lo accompagna anche con la sua gola. È ritornata a serrarsi, la gola. Il cuore ritorna in subbuglio. Stringe al proprio petto il corpicino di Lituania. Poggia la sua testa nell’incavo del collo e lì si sfoga. Nessuno deve sentirlo, nessuno deve svegliarsi, nessuno deve vedere cosa ha cercato di fare il ragazzo.

“Non farlo mai più… Non farlo mai più… Non farlo mai più…” ripete come un disco rotto, il russo. Fa ancora molto male questa ferita. Continua a premere nel punto dolente, più e più volte. Lituania sente lo sfogo di Russia sulla sua pelle. Geme forte quanto lui stesso. Ritorna il terrore per il gigante. Non lo vuole così vicino e non vuole che gli mostri questa parte di sé. Russia capisce tutte queste cose. Il dolore aumenta, sente un’altra coltellata al suo cuore.

“Non farlo mai più, Lituania… Giuramelo che non lo farai mai più! Giuramelo!” ritorna per un attimo bambino, il generale. Per un attimo, un secondo, un piccolo istante, crede di poter migliorare le cose in questo modo. Vorrebbe ritornare bambino, stare con le sue sorelle, quando i problemi era facili da risolvere. Sentire le lacrime di Lituania scendere veloci fino alla gola lo fa ritornare coi piedi per terra.

Vorrebbe che Lituania stia meglio, ora, subito. Si rende conto, la sua parte adulta, che non sarà possibile, mai. Se ne rende conto e il coltello continua a girare nella crepa. Piange ancora e nasconde i suoi gemiti sulla pelle risanata di Lituania. La bacia e la copre di scongiuri. Vorrebbe che lo capisse, Santissimo Iddio Benedetto!, che gli vuole bene. Lo ama, come ama i suoi girasoli, come ama le sue sorelle, come un padre ama il suo bambino. Lo ama, lo ama con tutto sé stesso. Vederlo così lo uccide.

“Perdonami, Lituania… Perdonami…” si rende conto, pienamente, che questa è tutta opera delle sue mani. Hanno versato lo stesso sangue del ragazzo. Lo hanno abusato, sbattuto e violentato. Hanno distrutto il suo angelo. No, lui ha distrutto il suo angelo. Russia non vorrebbe nemmeno smettere. Il dolore è ancora dentro di sé e non prova a smettere. Si rende conto di dover fare qualcosa per il piccolo

angelo, prima che sia troppo tardi. Russia alza il volto, distrutto e umido. Trasale: le iridi di zaffiro sono spalancate, fredde, severe. Russia non comprende questa serietà. Il dolore, ad un certo punto, passa. Ma si è solo congelato dentro di sé, quindi c’è ancora.

“No, non ti perdonerò mai” questo dice Lituania e questo è un’altra coltellata nel cuore del gigante. Russia annuisce, continua a piangere. Lo ammette, Lituania non potrebbe mai accettare le sue preghiere. Lo ammette e lo accetta. Si chiede, in fin dei conti, come potrebbe perdonarlo, dopo tutto quel che gli ha fatto. Lo ammette, lo accetta e abbassa il capo. Continua a gemere e a gettare lacrime. Non gli importa della canna di pistola che preme sulla sua fronte. Non gli importa della sicura, nera, maligna, che scatta. Non gli importa e lo accetta. Annuisce ancora, il gigante. Merita di morire. Così Lituania sarà felice, pensa. E per questo accetta anche lo sparo. Accetta anche il buio. Tanto se lo merita. Tanto è per il bene di Lituania.

Russia si desta. Il corpo, non del tutto sveglio, si rialza sulle proprie gambe, senza aiuti o sostegni. Si volta, si agita, si muove per il suo studio. Urta gli scheletri delle bottiglie per terra, fa cadere i libri e i documenti, getta il suo corpo sulla sedia di pelle. Ma gli importa solo di Lituania, per questo non si agita troppo. È troppo sollevato di capire che è stato solo un sogno per pensare ad altro. Ma poi ricorda che è di nuovo nella sua casa e il suo angelo è ancora malato, allora ritorna il dolore.

Ritornano le lacrime.

Ritornano i gemiti.

Ritorna la consapevolezza di essere un mostro.

 

 

 

 

 

Pianto sommesso, spalle spezzate in avanti, orecchie coperte, fronte sudata, passi troppo veloci per lui. E’ tutto ciò che comprende Lettonia nell’inseguire Estonia, posato e alto in suo confronto. L’estone ha le orecchie sorde. Sente solo un fischio, irritante ed insistente. Non lo lascia andare e questa cosa lo fa arrabbiare ancora di più.

Ha una vena scoperta. La sente pulsare sotto la pelle, sulla tempia. Fa male questo pulsare. È un trapano impiccione. Estonia si massaggia quel punto. Lo affonda con le dita, cerca di farlo ritornare dov’era prima. Non ci riesce. La vena ritorna sempre a pulsare là sotto. La odia, quella vena. È dispettosa e il suo battito è insopportabile. Vorrebbe un coltello, così potrà togliersela immediatamente. Vorrebbe sentirla svuotare tutta, fino a che non avrà più alcun modo di pulsare. Quest’idea lo fa tirare un lungo e forzato respiro. No, la vena continua a martellare la parte laterale della fronte.

Dal vetro delle finestre vede il suo riflesso. L’unica cosa che nota è il rosso. Ha rosso ovunque: guance, tempie, fronte, mento, occhi. Già, ha anche occhi rossastri. Sembrano scintille di fuoco. Dimentica il colore che avevano prima. Sono sempre stati rossi, i suoi occhi. Così pensa e così si convince. Quel colore comincia a piacergli. Quel colore comincia a farlo arrabbiare. Quel colore è sangue. Il sangue è dolore. Il dolore è quello che prova. Trova ingiusto che sia solo lui a provare dolore. Trova ingiusto che sia l’unico che si senta male in quella casa. Vorrebbe che tutti avessero il suo stesso dolore, sarebbe una piccola rivincita. Ma non ha nemmeno quello. Probabilmente Lituania starà ridendo per quel che è successo. La vena sotto la carne pulsa ancora più forte. Estonia vorrebbe sinceramente un coltello.

Oltre al suo passo sperduto, c’è anche quello di Lettonia. Si chiede, con rabbia, perché lo segua. Si chiede perché pianga. Si chiede perché lui pianga sempre. Si chiede perché sia sempre così inutile. Odia Lettonia, perché non gli ha mai dato nulla. Aveva sperato tanto in lui, ma non gli ha mai restituito il favore. Lettonia piange sempre, è sempre il più fragile, colui che ha sempre bisogno della Santissima carità prima di loro due. Ma usa sempre la sua debolezza anche per non farsi toccare da nessuno. Lettonia non viene mai sfiorato da Russia, in confronto a Lituania. Ma nemmeno lui viene toccato da Russia, non come il ragazzo. Si chiede come abbia fatto Lituania a resistere per tutto questo con un parassita come Lettonia.

La sua voce la odia. È piccola, infantile, sempre piena di lacrime, sempre alla ricerca di protezione dove non c’è. Lui e Lituania non possono dargli sempre protezione. Lettonia è una zecca. Succhia tutto il sangue che hanno loro due, suoi fratelli, e vive sopra le loro disgrazie. Lettonia è codardo, non combatte mai, non usa altro che la voce e la usa sempre male. La usa per farli del male. La usa per provocare Russia. Come si può essere così idioti e dire cose così stupide al loro carceriere e torturatore? Ma Lettonia, lo sa, non è stupido. Quindi lo fa apposta. Ecco, ora ha capito, ora se ne rende conto. La vena graffia la pelle, vuole uscire, gridare e bestemmiare per il calore nel suo corpo. La riporta indietro con l’indice e il medio.

Anche ora la sua voce è piena di lacrime, la odia. Vuole avere qualcosa in mano, anche un foglio di carta. Vuole stringere e spezzare fra le dita qualcosa. Vuole avere qualcosa con cui condividere il dolore. Vuole far soffrire qualcosa. Dalla finestra, fuori, c’è il giardino di Russia, i fiori sono appassiti sotto la neve. Ci sono dei passerotti fuori, cinguettano, volano via. Estonia vede il rosso dei loro piccoli petti. I loro cuoricini battono troppo poco, secondo lui. Dovrebbero impazzire e pulsare forte, come la vena che sbatte contro la sua tempia. Vorrebbe avere un cardellino tra le mani. Ascoltare il piccolo cuore nel suo pugno. Sentire gli sbattiti d’ala e il beccuccio sibilante di paura e dolore. Avvertire le ossa delle zampette spezzarsi. Vedere le vertebre della gabbia toracica inclinarsi contro il cuoricino. Osservarlo, alla fine, gettato per terra. Vederlo soffrire e morire lentamente. Vede e sente queste cose di fronte a sé, tra le sue mani. La sua anima, colma di soddisfazione, esce un secondo dal suo corpo, libera. È una bella sensazione.

“Estonia…” l’anima ritorna nel corpo, gettata, gracchiante, ritorna tutto l’odio “…Lituania non voleva dire quelle cose. È solo molto stanco, sono sicuro che non voleva offenderti…” il cuore fa un battito più forte dei precedenti. Ha parlato di nuovo, il piccolo parassita. Estonia ferma i passi. Vede rosso ovunque. Anche il pavimento è rosso. Qualcosa è straripato e si è allagato. Sente liquido scarlatto sotto i suoi piedi. Scorre veloce, rimane statico per un attimo.

Estonia, calmo, calmati.

“Non dovreste litigare” questo tono sottomesso è irritante. La vena pulsa con più forza. Estonia ha male proprio lì “Lituania sta male, è molto stanco e confuso. Non c’è bisogno di arrabbiarsi” questa frase è una miccia crudele, che mangia la corda, fino a toccare la polvere da sparo, nel suo cervello. Estonia si rende conto solo ora di aver avuto i pugni chiusi fino a quel momento. Non riesce ad aprirli, sono bloccati. Le dita delle mani affondano ancor di più nella carne. Sente la pelle aprirsi e bruciare.

Estonia, stai calmo, non sta dicendo nulla di sbagliato.

“S-Sono certo che non voleva dire quelle cose. Ha solo bisogno di riposare. Non voleva dirti per davvero che ti odia…” uno spasmo violento, lo scuote fin all’interno delle membra. Ha gli occhi sbarrati, l’iride di fuoco s’intensifica. Sente i denti bloccati nella mascella, le labbra troppo sottili per trattenerli. Il cuore pulsa ancora in quella vena. Anche l’anima sente l’ira intensificarsi all’interno di essa.

È solo un idiota. Sta’ calmo, sta’ calmo.

“Lituania ti vuole bene, sta solo superando questo periodo difficile e lo sta facendo senza alcun aiuto, quindi è per questo che sta ancora più male” gli manca un battito, questo ha fatto male “Forse se avremmo potuto stargli accanto per più tempo, forse avremmo potuto fare qualcosa per lui…” il battito ritorna. Più forte, più aggressivo, più lacerante. Estonia sente le labbra piene di saliva. Dalla bocca esce un respiro affannato, bollente, surriscalda l’aria attorno a sé.

L’anima esce di nuovo dal corpo, lo lascia indietro, freddo, mentre questa è piena e bollente. La vede, Estonia, la propria anima. La vede in un alone vermiglio, soffocante, concentrato. La vede, Estonia, e non riesce a pensare. Sa solo che queste parole gli hanno fatto molto male. Il corpo senza anima è vuoto. L’anima scarlatta pulsa di forza, s’ingrossa, diventa un gigante, come Russia. Questa si volta, si getta su di lui. Entra subito dentro di sé. Lascia una scarica in tutto il corpo, percuotendolo. Questa forza è troppo grande, è troppo cresciuta. Si sente straripare. Ha caldo. Si sente bruciare. Le mani, le dita, le unghie prendono fuoco. Pizzicano, tremano, urlano di rabbia. La mente è soffocata dall’anima rossiccia. C’è troppo fumo, tanto, gli occhi non vedono più nulla. Il resto delle membra è semplice colla. Fa troppo caldo là dentro, per questo si scioglie tutto, ma non macchia nulla. Estonia è cieco, sordo e prende fuoco. Brucia troppo. Vorrebbe togliersi addosso tutto quel calore asfissiante. Si volta. Non ha il tempo di guardare Lettonia negli occhi. Gli tira un pugno, senza guardarlo in faccia. Il piccolo cade per terra. Trema, le lacrime agli occhi. Estonia sente male alle nocche, ma non gli importa.

“E-Estonia…?” si rende conto di odiare quella voce, quel tono piangente, quelle lacrime e quel piccolo corpicino troppo fragile per qualsiasi banalissima cosa. Anche per aiutare o difendere qualcuno. Estonia si rende conto di desiderare di non vedere più tutte queste cose. Vorrebbe che non esistesse più, questa piccola erbaccia.

L’anima s’ingrossa e rende sangue la sua coscienza. Fa uno scatto verso il piccolo che tenta di fuggire, meschino e vigliacco. Estonia è più forte, più grande e più furente. Riesce a bloccarlo, lo ferma per terra. Gli occhiali appena riparati cadono sul suo pancino tremante. Si rende conto di voler distruggere quel tremolio. Vorrebbe che non avesse niente, questo piccolo bastardo. Vorrebbe che sia vuoto, come lui. Riprende gli occhiali, li rimette in tasca. Non gli servono, tanto è già ceco. Gli tremano le mani nel fare ciò. Il lettone si sente schiacciato come un insetto. Non riesce a smettere di piangere.

“Estonia…?”

No, odio la tua voce. La odio. La odio. La odio.

“Sta’ zitto!”

Un colpo forte.

Un altro.

Un altro ancora. Nocche rosse.

“Non devi parlare mai più!”

Ti odio. Odio anche te. Lituania, mi vedi? Non odio solo te, bastardo.

“Smettila! Basta!”

“Sta’ zitto!!!”

Colpo, dopo colpo, dopo colpo. Sangue. Rosso. Gli piace il rosso.

Vedi, Lituania? Io sono forte. Non sono un coniglio. Sono forte, come te. Come Polonia. Vedi, Lituania? Io sono forte. Polonia è più debole di me. Io posso proteggerti. Sono forte. Sono ancora vivo. Polonia è morto. Ci sono io con te. Perché non lo vedi?!

“Estonia!” piange, piange, Lettonia. Gli fa male la mascella e il naso. Estonia getta una mano sul suo viso umido di rosso e lacrime. Il pollice stringe forte sotto la mascella, affonda nei tagli rossi, li apre ancor di più. Le altre dita tranciano il volto. Estonia ha il cuore fuori dalla carne. Batte forte, senza la vena sulla tempia, quietata, calma, sazia dal sangue. Piange, l’estone. Piange e si vergogna. È diventato come Russia, per questo si sente male. Lettonia vede il volto del fratello e smette di piangere. Le lacrime si bloccano d’un tratto, congelate. Vede il volto dell’occhialuto avvicinarsi al suo. Sente la confusione e il disagio addossati su di lui.

“Tu non devi più parlare. Devi tenere la bocca chiusa. Se ti sento di nuovo ti uccido, Lettonia. Ti uccido” la mano sul volto del ragazzino trema. Scorre troppo sangue là dentro e si sta surriscaldando. Lettonia si sente, ad un certo punto, libero. Qualcosa si è rotto in Estonia e capisce di aver aperto una porta dentro di lui. Però quel lucchetto era troppo pesante e il lettone non è riuscito ad aprirlo con una semplice chiave. Involontariamente ha fatto esplodere la serratura ed Estonia sente tutto il dolore di quella porta aperta. Lettonia annuisce freneticamente, senza lacrime, senza tremiti, senza alcuna volontà di fare qualcosa. Quella porta aperta ha rivelato uno sgabuzzino pieno di rancore ed odio.

Non accade nient’altro. Estonia si alza da terra, ritorna la rabbia, ma verso sé stesso. È diventato un mostro. Se ne rende conto. Non avrebbe mai fatto del male a qualcuno, se fosse stato a casa sua. Vede il volto sfregiato di Lettonia e si sente ancora più mostro. Ha altra rabbia, deve gettarla via il più in fretta possibile. Potrebbe scoppiare di nuovo se non fa qualcosa. Ma con la rabbia si è aggiunto anche il pentimento e le lacrime. Questi fermano il cuore iracondo.

Si volta, non guarda più Lettonia. Ha i passi pesanti, scuotono il pavimento, corrono sulle piastrelle. Lascia il piccolo così, ignorandolo, cercando di fingere di non aver mai visto nulla. Lettonia guarda il soffitto, senza vederlo veramente. L’unica cosa che sente è la porta che sbatte e un ruggito rabbioso fuori casa, nel giardino. Lettonia guarda il soffitto e si sente spezzato. Non ha il coraggio nemmeno di piangere. Non che abbia mai avuto molto coraggio in vita sua. Vorrebbe ricordarsi cosa gli è appena accaduto, ma non riesce a capacitarsene.

Sente il naso gocciolare verso le labbra. Passa lì la lingua. Sente un sapore ferroso che squarcia le papille gustative. Ci sono dei passi vicino a lui. Li sente, ma non vuole vederli, sa di chi sono. Si sente come in un sogno. Si vede volteggiare nel cielo e guardare il suo corpo gettato lì. Non sa nemmeno com’è la sua faccia. Dev’essere come un foglio di carta spiegazzato. Russia getta il lembo della sciarpa dietro le spalle. Si china verso la testa del ragazzino. Lettonia vede il suo volto scuro e gli occhi viola, vivaci fiammelle. Forse è arrabbiato. Per la prima volta, a Lettonia questo non importa. Con le ginocchia al petto, il russo abbassa la testa verso il più piccolo.

“Stai bene?” Lettonia schiude le labbra, non sente alcun pericolo in Russia, quindi vorrebbe parlare. Si ricorda, si blocca. Non deve parlare. Ad Estonia non farà piacere. Per questo chiude di nuovo la bocca. Annuisce, semplicemente, senza tremare. Lo sguardo di fuoco di Russia non sembra rivolto a lui, sembrano invece guardare oltre il corpicino rotto del ragazzino, attratte da altro. Per Lettonia questo è un sollievo. Il gigante fa scivolare le mani sotto le sue spalle e lo solleva. Ha aria sotto i piedi, ma per poco. Russia poggia i piedini sulle mattonelle. Stranamente, riesce a tenere l’equilibrio.

“Vieni, ti curo” dice, senza aggiungere altro. Gli prende la mano e col braccio dolce e solido, lo porta con sé. Russia non ha il sorriso, non l’ha avuto per tutta la mattina. Lettonia vede ancora fiamme violacee nelle iridi. Ciò, paradossalmente, lo fa sentire sicuro e calmo. Non riesce a ricordare i pugni di Estonia. Vede la realtà esattamente così com’è, di fronte ai suoi occhi. Vede il corridoio che percorrono, vede la luce bianca del sole sulla neve che filtra dalla finestra, sente uno squittio di grida fuori dalla casa. Vede una porta, vede che entrano in un bagno. Vede Russia che lo fa sedere sul bordo della vasca da bagno. Lo vede afferrare una scatola di legno e tirare fuori medicine e batuffoli di cotone.

Non trova strano tutto questo, è come se il cervello lo avesse accettato da sempre, che Russia possa, come uccidere, anche far guarire qualcuno. È stupido, ma gran parte di sé lo accetta. Invece, non riesce a vedere né i cerotti, né i tamponi. Vede solo gli occhi infossati e violacei del russo. Per qualche strana ragione non ha paura di loro. Russia è arrabbiato, ma fa il contrario del dolore. Si sente bene, in un certo senso. Russia è gentile e si sta prendendo cura di lui. La stessa Nazione che l’ha invaso e ha bruciato la sua bandiera. Ma, per una volta, qualcuno sembra interessarsi a lui.

Il gigante smette di curarlo, ha finito. Si rende conto di avere un batuffolo nella narice sinistra, un cerotto tra il mento e la mandibola, poi un altro sulla fronte, più grande, con un tampone addossato. In effetti, quel punto gli fa molto male. Il tempo si ferma. Lettonia si rende conto di quanto siano vicini gli occhi di Russia ai suoi. Per quel poco tempo, pensa che siano anche tristi. Il tempo ricomincia a scorrere. Russia fa un lungo ed infelice sospiro. Lettonia sente vodka nella sua gola e suoi denti. Tantissimo alcool. Questo è strano: Russia beve solo nelle occasioni speciali e alle feste.

“Estonia non può dirti quando parlare oppure no” questa frase lo attraversa come un fiumiciattolo che non lascia nulla dietro di sé. È ancora freddo, Lettonia. Russia ha paura che abbia spezzato anche lui. No, capisce che non è così. Il ragazzino incurva gentilmente le labbra verso l’alto. Gli occhi sono lucidi, ma non vogliono gettare niente sulle ciglia.

“Non fa niente, signor Russia, tanto ci sono abituato” qualcosa dentro il generale si scuote e ritorna statico, cupo “E poi, aveva ragione Estonia: io parlo troppo. Devo stare zitto più spesso” così conclude, come se quel che abbia detto sia giusto. Russia si rende conto di molte cose. Ritorna alto e grande. Porge la mano ad un Lettonia ancora sorridente. Il ragazzino non esita, afferra la grande mano e Russia lo porta lontano da lì. Chiude la porta dietro di sé, il russo. Le grida fuori si sono intensificate. Nessuno dei due comprende nemmeno una parola.

Avvicinati alla finestra, capiscono che si tratta di una lingua a loro sconosciuta. Fuori c’è Estonia. Lettonia capisce solo che sta urlando e che le sue mani sono rosse ed umide. Capisce anche che sta prendendo a pugni la parete di pietra sotto di loro. Capisce anche che ha pianto, oltre che collera, la sua voce. Lettonia lo guarda come si guarda un vecchio amico quasi dimenticato. Sono malinconia e dolore i suoi occhi. Le fiammelle nelle iridi di Russia sono spente. Non ha il coraggio di punire Estonia per quel che ha fatto al suo fratellino. Guardano, senza vedere, il povero estone. Lettonia si sente deluso. Estonia, si rende conto Russia, si sta punendo da solo.

“Secondo te perché ti ha picchiato?” ecco, Russia ha dato una parola a quel che è successo tra loro due. Lettonia non vorrebbe chiamarlo così. Suona troppo… pesante. Suona come una cosa troppo negativa. Non sente di essere stato picchiato. Estonia non sa picchiare, quindi quello non era picchiare. Ma non vuole contraddire Russia come fa sempre. Non vuole far passare dei guai ai suoi fratelli. Non vuole sentirsi colpevole come sempre, quando qualcuno di loro viene punito per colpa sua.

“Perché Estonia si sente male dato che Lituania non è ancora guarito” Russia s’incupisce, ma Lettonia non lo nota “E… anche per colpa mia” il russo getta un occhio sul più piccolo. Di solito non parla così poco, il lettone. Ha sempre la lingua lunga, ricorda. Per questo, alle volte, anche lui ha voglia di sgozzarlo. Attende altri secondi, paziente. Il ragazzino continua a non parlare. Un grido più acuto degli altri fa alzare gli occhi ad entrambi: Estonia ha iniziato a tirare calci alla pietra. L'uno e l'altro gli prestano poca attenzione, ancora più delusi.

“Cosa vuoi dire?” Lettonia sbatte le palpebre.

“S-Signore…?” ritorna un breve tremolio. Ma vedere lo sguardo del generale, sconfortato, perso oltre la finestra, lo fa calmare.

“Perché è colpa tua?” Lettonia ha un attimo di esitazione. È solo un’esitazione triste, non perché sia colto di sorpresa o perché abbia paura di questa domanda. Ritorna con gli occhi a guardare Estonia. Si sentono distratte le sue iridi, non vedono bene il fratello.

“Perché parlo sempre, signore” lo stomaco di Russia diventa duro come la pietra “Io… non ho mai la lingua al suo posto. Parlo troppo e dico sempre delle cose brutte o… cose poco simpatiche o maleducate o… cose che qualcuno non vorrebbe sentire. Mi faccio sempre male così. Ma da quando vivo qui, Lituania si è sempre messo di fronte a me” tira su il naso, non è bello raccontare una verità amara e schietta “Mi ha sempre protetto quando non tenevo la bocca chiusa. Lui si faceva del male al posto mio e si faceva punire perché non so come parlare bene e…” le gote diventano rosse, non per l’imbarazzo, le labbra cadono all’ingiù “Estonia si è sempre arrabbiato con me per questa cosa, ma non riesco mai a stare zitto” un singhiozzo timido e gracile “E’ anche molto arrabbiato con me perché sono stato io ad iniziare tutto” dei deglutii, Russia vuole che ritorni a parlare, per questo continua a guardare fuori. Eppure, le lacrime salate del ragazzino, sulle guanciotte rosse, sono una calamita troppo potente per i suoi occhi “Io parlo troppo, Lituania si fa punire al mio posto. Si fa troppo male. Poi però è morto Polonia e… le cose sono peggiorate ancora di più” un attimo di esitazione “Ma ho iniziato io tutto, perché non mi sono ancora cucito la bocca. E-Estonia ha ragione di fare così tutte le volte” quest’ultima frase dà un senso di angoscia al russo.

“Da quanto tempo Estonia ti fa male?” Lettonia chiude gli occhi e si concentra per qualche secondo, non vuole piangere. Ad Estonia non farà piacere. Ma è debole, per questo fa il contrario di quel che dovrebbe fare.

“Da… da quando abbiamo chiuso Lituania nella nostra stanza perché non lasciava andare il corpo di Polonia…” Russia riflette per pochi secondi, ricordando. Le iridi violacee si restringono, piccole. Le palpebre si allargano. Deve forzare la mascella per non farla cadere. Sente la gola secca, così come la bocca. La spina dorsale fa fatica a ritornare elastica e flessibile.

“Lettonia, è passato quasi un anno” il ragazzino deglutisce, ha troppa saliva nella bocca. Almeno le lacrime si sono fermate “E per tutto questo tempo non hai fatto niente per impedirlo?” chiede con calma, ma con fiamme negli occhi. Il lettone non le nota: ha la testa china.

“Non serve, signore, mi sta bene. Estonia ha ragione. Forse così non dirò più cose stupide…” le labbra sottili di Russia si nascondono sotto la sciarpa, incredule. Si chiede se il piccolo sappia cosa stia dicendo. Si chiede se voglia bene almeno ad una parte di sé stesso, il piccolo. Lettonia, nota, nasconde le unghie sotto le maniche della divisa. La testa, timida ed infelice, continua a cadere all’ingiù. Si tocca le manine e le sfrega forte, incurante del dolore. Russia si sente colpito, un dardo di ghiaccio nel suo stomaco. Scuote la testa, il generale. Vorrebbe rimproverarlo, ma non ne ha il coraggio.

“Lettonia, non è così…” si trova senza parole e per questo cede lo sguardo dal vetro della finestra “Avresti potuto almeno parlarmene, così ti avrei potuto aiutare” spera che Lettonia non abbia parlato per davvero prima. Infatti è così. L’essere umano ha una natura codarda, Lettonia non si ritiene assolutamente il colpevole dello stato di Lituania. Appunto, sospira, fa cadere la testa per terra. I riccioli biondo scuri coprono il viso e gli occhi. Le labbra, d’istinto, si allargano. Trema, ma non ha paura.

“No, così Estonia e Lituania si sarebbero fatti del male per colpa mia e mi sarei sentito ancora più male perché sarebbero stati picchiati, visto che io avrei parlato troppo…” un attimo di silenzio per entrambi. Lettonia sente il russo irrigidirsi vicino a sé, come una statua di marmo. Ripensa a quel che ha detto e si rende conto di aver detto altre cose brutte. D’istinto trema e la bocca ritorna arida e secca. Ritorna ad aver paura. Sente Russia sciogliersi vicino a sé. Avverte una sua mano grande e forte avvicinarsi alla testa bionda. Smette di tremare, nella bocca ritorna la saliva. Anche lo stomaco smette di agitarsi. Pensa che sia giusto, pensa che una punizione da Russia sia quel che gli mancava.

Si meraviglia di sentire qualcosa di gradevole sulla sua testa. Non sente alcun pericolo, il suo sesto senso non gli dice nulla. Il suo cuoricino si svuota di tutta la paura. La mano senza guanto di Russia è così grande da riuscire a coprire tutta la sua testa. Si meraviglia anche che Russia sia senza guanti. Lui ha sempre i guanti, anche quando li fa del male. Le dita, prima ferme, ora dolci, fanno dei movimenti circolari. Si rende conto di cosa stia facendo Russia e ne rimane incantato. Alza timidamente la testa. Russia ha uno sguardo triste, nascoste le labbra nella sciarpa, ha occhi schiusi. Un bambino abbandonato nella neve. La carezza sulla sua testa è molto malinconica, ma Lettonia comincia ad amarla. Gli riempie molto il cuore. È incredulo, ma è un’incredulità felice, emozionata. Russia abbassa la testa, non riuscendo a concentrarsi su qualcosa là fuori dalla finestra. Guarda il lettone, ma non lo vede.

“Si, hai ragione” ammette, schietto, freddo, addolorato. Lettonia ignora le urla, ora disperate, di Estonia, fuori. Si concentra sul battito cardiaco della mano di Russia. Ricorda una cosa, un ricordo non molto lontano, ma facilmente dimenticabile. Russia ripeteva a loro tre che erano una famiglia, in quella casa. Era sempre molto felice quando lo diceva a loro. I Baltici fingevano di ammetterlo e gli sorridevano, sperando di dileguarsi subito dalla stanza. Vedere gli occhi umidi di Russia è una dolce pugnalata al cuore. Allora diceva sul serio, pensa. La coltellata affonda ancor di più, cominciando a dolere. Sente la delusione strisciare nel suo stomaco. Aver deluso qualcuno è orribile, anche se si tratta di Russia.

Fuori, Estonia smette di urlare. Si è spaccato a sufficienza corpo e gola. Si accascia con la schiena al muro che aveva picchiato. Si chiude in un bozzolo e lì piange. Lettonia si rende conto di molte cose. Questa pugnalata gli fa ricordare cose atroci. Loro tre non sono mai stati una famiglia. Sono sempre stati divisi, sia per le diversità e, soprattutto, dallo schema sociale creato da queste quattro mura. Lituania era il giocattolo di Russia, il ramo più emancipato, lui il bambino che il mostro amava spezzare il cuore, un ramo un po’ più grande, ed Estonia era il suo segretario, il ramo più alto dell’albero. Fino a quel momento loro due hanno escluso Lituania, un processo tanto lento da non essersene accorto nemmeno il moro. Questa consapevolezza fa male. Inizia a singhiozzare, si sente in colpa per questo. Ha deluso tutti. Ha deluso anche sé stesso e questo fa male, molto male. Si copre il viso con le mani, si vergogna. Russia abbassa un ginocchio e lo fa toccare per terra. Ora hanno la stessa altezza.

“Qualcosa cambierà, Lettonia” questo è una bomba nel suo cuore. Le catene di autocontrollo dentro di sé sono sempre state fragili, ma ora sente di non riuscire più a rimetterle in sesto. Russia gli prende le mani. Man a mano che lo fa avvicinare a sé, le scosta dagli occhi. Le braccine sottili del lettone le poggia dietro di sé, sulla sua schiena. La testa del ragazzino viene accoccolata sulla sua spalla. Abbassa anche l’altro ginocchio e Lettonia si accascia su di lui. Piange molto, per troppo tempo, il piccolo lettone. Russia guarda il soffitto e gli carezza la testa. Le parole sarebbero veleno e non conforto. Sente il suo cuore caldo e mortificato. Vorrebbe togliersi la sciarpa per sentire il suo respiro, anche se umido e debole. Lo culla e facendo questo si sente più caldo e dolce. Ma vorrebbe comunque accompagnare coi singhiozzi Lettonia. Si sente disperato, quasi quanto il piccolo. Entrambi non sanno cosa fare, per accettare il dolore, per eliminarlo, per aiutare Estonia, per aiutare Lituania.

Smette, Lettonia, non ha più lacrime e si sente vuoto. Russia continua tuttavia ad accarezzarlo. Ricorda come ha cullato Lituania e pensa che Lettonia sia molto più caldo e morbido del fratello. Si chiede se Lituania mangi qualcosa e si domanda come faccia a restare sveglio per così tanti giorni. Si chiede anche se non sia stato lui stesso a scavargli nel cranio la fobia del sonno. Ripensa alla casetta piena di sangue, alle bastonate allo stomaco. Si rifà la domanda e si dà la risposta. Questa risposta è dolorosa.

Decide che dev’esserci un cambiamento nel ragazzo, prima che sia troppo tardi. Non vuole che uccida definitivamente il suo angelo. Lo ama troppo per continuare a vederlo morire. Stacca gentilmente Lettonia dalla sua spalla. Sfogato e vergognoso, abbassa la testa di fronte al suo padrone. Russia sorride, meno triste. Passa le dita fra i suoi boccoli. Pensa che nessuno nella sua nazione abbia dei riccioli così belli e folti. Pensa che Lettonia sia dolce e si vergogna di non averlo notato fino ad oggi.

“Lettonia, vuoi che Lituania si senta meglio?” esita un attimo il piccolo, per la vergogna sulle guance. Ma annuisce, forte e deciso. Russia cercava solo questo. Lettonia vede il suo sorriso. Non è cattivo, non è crudele. Quel viola gli piace. Quel colore caldo gli riscalda lo stomaco. In qualche modo lo fa sentire meglio. Anche i pollici tiepidi sono gentili. Apprezza che gli tolgano le lacrime dalle guance. Apprezza tutto questo. Per una volta vuole bene a Russia.

“Potresti stargli vicino, per prima cosa. Non credo che Estonia possa fare qualcosa per lui ora. Tu sei il più adatto come fratello, in questo momento. Devi convincerlo a dormire, con dolcezza, solo come riesci tu” Lettonia alza gli occhi. Ha una speranza fra le dita. Vorrebbe prenderne il filo ed iniziare a tirarla “Credi di potercela fare?” il ragazzino alza la testa. Ha preso il filo, sta iniziando a tirare. Vuole vedere cosa c’è alla fine di questo piccolo filamento. Se c’è della speranza, è pronto a cercarla. Non importa se sia Russia a chiederglielo, l’avrebbe fatto anche se non ci fosse stato il gigante bianco.

Annuisce forte, deciso, quasi combattivo. Vuole indietro Lituania e vuole indietro la calma e la pacatezza di Estonia.

Avrebbe combattuto per riaverli indietro.

Per una volta sente di lottare per qualcosa di buono.

Per una volta si sente fiero di lottare per qualcosa.

 

 

 

 

 

“Sai, ieri sera ho trovato un libro, nella biblioteca di Russia. Parlava di noi, noi Nazioni. Era un vecchio libro, con pergamene gialle al posto della carta. Mi era interessato un capitolo, un capitolo speciale, che parlava della morte”

 

Il vento è freddo e ghiacciato. Tagliente e selvaggio. Forte ed aspro. Duro e pungente. Eppure, a Lituania piace. Si lascia trasportare da quella forza immonda. Pensa al contrario, il suo cervello è sbagliato. Il vento non è freddo e ghiacciato, è caldo e bollente. Non tagliente e selvaggio, ma benigno e cauto. Non forte ed aspro, ma mite e dolce. Non è nemmeno duro e pungente, è tenero e delicato. Ha il volto puntato verso il cielo. Si sente leggero, si trova nei sogni che ha dimenticato. Le mani si liberano e si abbandonano all’indietro. Aspira a pieni polmoni quell’aria, con un sorriso felice. Lituania si sente felice.

Polonia, poco più lontano da lui, ha il volto scuro, occhi lucenti, sopracciglia cadenti, come il collo e la schiena spaccata.

 

Diceva che una Nazione oppressa o psicologicamente esausta ha il diritto di chiedere la fine della sua vita. Ma questa deve avvenire in condizioni tali che il corpo non sia più in grado di trattenere la propria anima”

 

I fiocchi di neve, aghi di dolore, mutano in gocce bollenti. Pioviccica, nella testa di Lituania. La neve, bianca e crudele, si tramuta in verde. Bellissimi campi di trifogli. Il ragazzo si chiede se ci sia qualche quadrifoglio. Se lo trovasse, lo vorrebbe regalare a Polska. Spera che lo renda felice questo gesto. Gli ammassi di neve, si tramutano in montagnole di muschio fresco. Vorrebbe gettarsi sopra, è sempre divertente farlo. Anche a Polska piace tanto, potrebbero divertirsi insieme. Si stringe il petto tra le braccia, molto forte. Gli nasce un sorriso leggero. Il vento, caldo per lui, gli fa lacrimare gli occhi. Si lascia ondeggiare dalle onde bollenti.

Lituania si sente felice. Polonia ha i polmoni congelati.

 

“Sai cosa vuol dire? Possiamo ritornare a stare insieme! Possiamo di nuovo vivere felici. Polska, non sarebbe meraviglioso?”

 

Lo vede. Polonia vede ciò che vede Liet. Vede i prati verdi, i campi di trifogli, il sole caldo, il sorriso sbagliato di Liet. Il biondo si avvicina, timoroso e curvo, accanto all’amico. Guarda di sotto, più in là, lontano, giù, oltre il tetto dove il lituano l’ha portato. Vede due fantasmi, ridenti e felici. Lituania, vicino a lui, si stringe forte, il sorriso è più ampio, negli occhi c’è acqua marina. Vede lui, più piccolo e vivace, fantasma di un principe polacco. Vede Liet, più serioso, più timido, un piccolo cavaliere lituano. Legge un libro, delicato e cauto, il moro. L’altro, più birbante e briccone, gli si avvicina di soppiatto e si getta su di lui. Il libro vola via, sul campo di trifogli. Inizia una dolce lotta, per una volta il cavaliere lituano non si arrabbia col polacco. Il piccolo Polska è un po’ più forte, atterra il moro e lo abbraccia, in cerca di attenzioni. Liet, affianco a Polska, sospira. Inclina la testa e chiude gli occhi, gonfi e tremanti.

La scena cambia. I campi di trifogli diventano mosaici d’oro e bronzo. L’aria è chiusa su sé stessa, abbondante di profumi e odori . Il cielo è scuro, stellato, senza luna, ma comunque bello. C’è un ballo, dame coi loro cavalieri, musica polacca, aria di festa. Lituania, il piccolo cavaliere, ha lo sguardo basso, quasi colpevole, le guance rosse per l’imbarazzo. Non sapeva ancora ballare. Polonia, principe polacco, lo vede. Gli prende le mani, gli sorride, i denti scintillano con l’oro dei capelli. Lo accompagna in una sala, sgombra, buia, senza alcun anima indiscreta. Lo porta lì, al centro. Sorride ancora, il piccolo polacco, gli brillano gli occhi. Il lituano, anche se timoroso, si fida. Si fida dell’amico. Polska ignora il disagio del moro, ballano insieme, ci provano, sbagliano, ma sorridono. Lituania è un pezzo di legno, non ha mai ballato in vita sua, ma non gli importa. Si divertono, ridono, sono felici. Lacrime bollenti lasciano le iridi di zaffiro di Lituania ragazzo. Lituania è felice, eppure piange. Ha una fitta lì, al cuore. Non fa male, anzi, in qualche modo gli fa bene. È un male che lo riscalda e lo rende felice.

La scena cambia ancora. Il Congresso di Vienna. Lituania lo riconosce e il sorriso gli muore, così come una parte della sua felicità. Russia non c’è, lo ha lasciato nel corridoio, ad aspettarlo. Il lituano si guarda i piedi, i suoi occhi sono persi. Un leggero bussare di fianco a lui, sulla finestra. Vede occhi di smeraldo, malinconici e speranzosi. Capelli di grano, pelle di latte. Lituania non è sorpreso. Ha già visto prima Polska, ma non ha potuto parlargli, Russia non voleva. Il moro comprende, si alza, si avvicina, cerca di aprire la finestra, ma non ci riesce. Polska capisce e sembra abbattuto. Non possono parlarsi. Già da mesi non si vedevano, ma fa comunque male.

Lituania non si arrende. Ci riesce, la finestra si apre un po’. C’è un piccolo spiraglio, troppo piccolo per uscire fuori, per sussurrare parole. Polska non vuole parole, Liet non l’aveva intuito subito. Il biondo si china e fa scivolare dentro l’apertura le sue mani, abbastanza piccole. Lituania si china anche lui, gliele porge anche lui. Si sfiorano, si toccano, si stringono. Polonia sembra felice, chiude gli occhi e poggia la testa sul vetro. Lituania è triste, chiude gli occhi e anche lui poggia la testa sopra la sua. Nonostante tutto, nonostante il vetro che li separa, sente il calore di Polska. Le mani di bambino sono calde, perlacee. Le sue sono già tagliate e fredde. Russia è già stato crudele con lui.

Entrambi staccano le teste, confortati e sereni, Lituania ha apprezzato il gesto. Polonia sobbalza, ritira i palmi, cuore in gola. Vede occhi d’ametista, capelli di cenere, sguardo di mostro. Lituania lo vede anche lui, ritorna composto, con l’anima in allarme. Russia ha occhi solo su Polonia. È un gigante, lui un piccolo pulcino. Russia, feroce, afferra il polso del suo giocattolo, lo strattona lontano. Gli occhi di Polska seguono, timidi ma coraggiosi, i due. Lituania viene sbattuto dentro la porta. Russia deve entrare, ma non lo fa. Resta lì, immobile, antica pietra di odio. Le due ametiste trapassano gli smeraldi del polacco. Non cedono, ma si sentono deboli. Russia non sorride, non si muove, non si piega. Rimane lì, osserva rigido Polska, dietro la finestra. Lui stesso spezza il contatto, si volta e se ne va. Lascia Polonia da solo, triste, sa che quello era un avvertimento a non toccare Liet. Lituania, schiavo, triste e disgustato, molla un gran sospiro.

“Già da allora gli dava fastidio…” ha qualcosa di severo e sdegnato, la voce di Liet. L’oro ritorna bianco, le gocce di pioggia si ghiacciano, il muschio muta in cumuli di neve, cadaveri per il bosco. I fantasmi di Liet mutano in aria e vento d’inverno. Polonia volta il capo verso l’amico. Ha occhi severi, sguardo incalcolabile. Il polacco non vuole comunque ascoltare nient’altro. Si sente pieno, una damigiana straripante di tristezza e di malinconia. I vecchi tempi con Liet non sono stati insignificanti ciottoli di pietra. Non vuole vedere né sentire nient’altro. Vorrebbe il bianco e il silenzio. Non vorrebbe avere paura degli occhi di Liet. Lo fissa con una domanda giacente nei polmoni, ma che non ha voglia né volontà di essere liberata.

“…gli dava fastidio che io ti cercassi” il mare tempestoso nelle iridi di Liet ritorna grigio “Non ero ancora morto all’epoca. Credevo che quel Congresso ci avrebbe liberato o che, almeno, mi portasse dalla tua parte o tu dalla mia. Volevo che fossi vicino a te. Mi mancavi” il cuore di Polonia si gonfia e allarga per tutto il petto, tanto è grande “Non mi arrendevo e Russia si arrabbiava per questo. Mi faceva tanto male, Polska. Non voleva sentire il tuo nome in casa. Non voleva che io vivessi più. Voleva che morissi qui dentro e che fossi incatenato in questa casa per sempre” forse vuole aggiungere qualcosa, ma non dice altro. Lituania ha raccontato tutto ciò come se fosse una vecchia storia irosa e stressante. Difficile da raccontare per l’odio represso in essa. Polonia ha orecchie aperte, sente tutto ciò. Gli occhi verdi tremano e si alzano, turbati. Le labbra di Lituania si arricciano verso l’alto, veloci, gli occhi ancora sbarrati e le iridi bagnate.

“Ma ora le cose cambieranno” Polonia ha le ossa congelate, bloccate sopra le tegole del tetto, imprigionate nell’aria ghiacciata d’autunno. Lituania si avvicina al bordo della tettoia. Il biondo ha un brivido di panico, per questo lo segue anche lui. Guarda in giù, il lituano. Vede bianco e grigio della pietra, non gli piace come posto, ma comunque non gli importa. Qualsiasi posto va più che bene. Sbuffa una risata, mascherata con un velo di fatica “Non sarò di nessuno, mai più. Non sarò di Russia, né di Estonia o di Lettonia. Sarò solo mio… insomma, di me stesso” inclina la testa di lato, con gli occhi sfiora la pelle perlacea di Polska. Si volta lento, ancora provato, ma felice. Sorride ancora, ingenuo e pazzo, mentre piega la gamba sinistra e fa scendere il corpo con essa. Lo sguardo incredulo, di pietra, di Polonia sembra quasi serio. Gli occhi smeraldini seguono le mani spaccate di Liet, le vede afferrare la sua, cortesi. Lituania china la testa sul dorso bianco e porge una mano al cuore.

“…oppure sarò tuo” le sopracciglia del polacco, lente, tristi, incredule, si abbassano, colpite al cuore. Un lampo, una saetta invisibile, colpisce Polonia. Fa centro, preme forte al cuore, sulla ferita ancora aperta e sanguinante. Questa saetta penetra nella carne, nel sangue, nelle vene e nelle arterie. Fa rivivere tutto il corpo: cuore, cervello, membra, ossa, diventano creta molliccia. Il biondo si scongela, ritorna caldo, bollente e debole. Il collo regge male la testa, cade all’ingiù, gli occhi s’incupiscono.

Si sente orribilmente confuso, ha vene di terrore pulsanti lungo la testa, sotto i capelli. Lituania si rialza. Con delicatezza angelica prende il volto di Polonia fra le dita. Poggia le labbra rotte sulla sua fronte bianca. Il polacco non sente nulla. Si sente bollente e debole, le orecchie sono sorde, occhi tristi. Le parole di Liet in qualche modo lo hanno rotto. Con fatica si rende conto che le labbra tagliate del moro si sono avvicinate al suo orecchio.

“…mi seguirai, vero?” Polonia ha bisogno di molti, troppi secondi per leggere ciò che ha detto Liet, nel suo cervello. Un’alta saetta, più veloce e distruttiva, si abbatte sul polacco, ma questa volta nella mente. Ritorna la compostezza, la ragione. La mente del ragazzo, da melma, ritorna alla forma originale. Anche il cuore si ricompone e si ricuce, esattamente come prima, vivo. Gli occhi di smeraldo ritornano a brillare, di panico. Sulla lingua, vicino al palato, corre e sbuffa una domanda, che pretende di essere liberata ed ascoltata. Quel ‘Cosa vuoi dire?’ rimane intrappolato tra i denti. Lituania non legge gli occhi. Ha le iridi di un bambino vivace, in cerca di attenzioni.

Polonia ha il cuore in allarme, una consapevolezza crudele sta serpeggiando sulla sua spina dorsale e a fatica cerca di raggiungere il cervello. Lituania, non se n’era accorto, gli ha di nuovo preso le mani. Un occhietto stanco si chiude, una fiacca ed esausta riproduzione di un occhiolino. Liet fa un altro passo all’indietro. Cade di sotto. Le mani di Polonia, prigioniere tra le sue, lo seguono e volano di sotto, a tre piani di altezza.

Polonia sente ogni battito, ogni supplica, ogni grido di terrore tranciare in due il corpo, ma non esce nulla di tutto ciò dalla sua bocca. Vede poche cose. Vede Liet cadere, si vede precipitare addosso a lui. Sente le vertigini urlare nelle sue orecchie, imitate dalla paura e dallo spavento. Il biondo sente la caduta, secca, senza intralci. Non si è fatto nulla, non sente dolore, ma gli occhi continuano comunque a pulsare, irrequieti. Passano diversi secondi e si accorge di essere caduto addosso a Liet, comprimendolo. Ricorda il libro, il terrore ritorna, più cattivo e tortuoso. Si rialza in piedi, traballa e respira male, singhiozzando. Vede Liet, sono caduti sopra ad un cumulo di neve. Il panico cala, il terrore non urla più, vede gli occhi dell’amico, ancora aperti, ancora vivi. Si porta una mano sulla bocca, non ha mai avuto così tanta paura come ora. Uno sbuffo, seccato, esce fuori dalle labbra di Liet.

“L’altra notte ha nevicato, giusto…” sembra un bimbo imbronciato. Polonia blocca il sospiro di sollievo: Liet è ancora malato e sbagliato. Il lituano, dopo millenni di attesa, si rimette in piedi, senza alcuna fatica. Con forti pacche, si scrolla la neve addosso a lui, anche i capelli ritornano mori, senza stelle bianche. Ha occhi corrucciati, Liet. Pare deluso, nota con orrore Polonia. Osserva i piedi scalzi, le spalle violacee dal freddo. Solo questi particolari lo fanno agitare. Non vuole che Liet stia male, non vuole che speri in qualcosa che probabilmente non sia nemmeno vero. Deglutisce, si avvicina all’amico. Vede ancora le labbra imbronciate, un bambino a cui è stato negato di giocare.

“Liet… torniamo a casa, fa troppo freddo…” il lituano non sembra averlo ascoltato, o forse non reputa molto importante ciò che ha detto. Polonia, tremante, gli porge la mano, tanto bianca da brillare di luce propria “Ti prego, Liet…” Lituania guarda quel palmo, ancora corrucciato. Una scena come questa gli pare di averla già vista. Non è il momento. Liet gli afferra, ancora deluso, la mano. Il panico svanisce del tutto dentro al biondo.

Entrano dentro casa, per il retro, nella cucina. È ora di pranzo, ma nessuno vuole mangiare. Infatti è deserta, fredda e buia. Polonia trascina l’amico verso una seconda porta, vuole che vada nella sua stanza, a dormire, che stia tranquillo e al caldo, soprattutto al caldo. I piedi di Liet diventano di ghiaccio, non vuole muoversi. Polonia si ferma anche lui. Ritorna, il cuore, pulsante, sconvolto, atterrito. Cade sullo stomaco, dolcemente, graffia la carne e le vene. A Liet ritorna il sorriso di bambino, ingenuo, estasiato, felice, sbagliato. Polonia si rende conto di aver paura. Scuote il capo, preoccupato, col cuore impazzito.

Liet non dice nulla, semplicemente sorride, più bambino di com’è.

 

 

 

 

 

Lettonia corre, corre, cerca, sbanda, corre ancora e trova.

Non si aspetta di trovare subito Lituania, lì, in cucina, a cercare qualcosa nei tiretti. Non bada a quel che sta facendo, rendendosi conto di aver poco coraggio di fare qualsiasi cosa. Si rende conto di non conoscere abbastanza suo fratello per sapere cosa fare per farlo stare meglio. La prima cosa che gli viene in mente è di parlargli. Ma non sa cosa dirgli. Non sa nemmeno come cominciare il discorso. Scarta subito l’idea, la sua conoscenza sul suo stato d’animo è troppo scarsa. Oltretutto, Lettonia è sempre stato un disastro nei dialoghi. Ricorda Estonia e si sente triste. Ma ricorda anche Russia e si sente speranzoso.

Pensa, quindi, di fare qualcosa. Gli viene in mente quel che aveva scritto a Raivis, tanto tempo fa. Pensa di andare lì ed abbracciarlo, di fingere di essere felice e di consolarlo. Pensa che sia una buona idea, anche se una parte del suo cervello gli dice di non fare cose troppo stupide. È un tira e molla nella sua testa. Vorrebbe osare, ma ha paura di sbagliare. Lituania, nel frattempo, continua a cercare e sussurra parole sconnesse.

 

“Liet… smettila, fermati…”

“Shh… tranquillo, Polska, andrà tutto bene…”

 

Lettonia spalanca la porta e si getta subito su di lui, senza che Lituania possa accorgersene in tempo.

“Lituania, eccoti qui!” dice tutto d’un fiato, stringendolo forte, troppo forte. Dalla bocca di Lituania escono fuori dei gemiti di dolore. Lettonia spalanca le iridi: ricorda le sue ferite alla schiena. Lituania lo spinge lontano. Ha occhi provati, increduli, tremoli sono le mani. Lettonia alza lo sguardo e vede un ragazzo terrorizzato. Lo guarda di sbieco, come se il piccolo avesse tentato di pugnalarlo. C’è un silenzio di ghiaccio, freddo e cupo, fra di loro. Lettonia deglutisce, si rende conto di aver sbagliato approccio. Di nuovo, dopo anni e anni. Ma non vuole arrendersi.

“Lituania, scusa. Volevo solo sapere come stavi…” mormora, con voce incrinata. Non si sente male, ma non si sente nemmeno bene, il lettone. Vuole solo che stia bene, Lituania. Il moro si riprende dallo choc iniziale. La testa di Lituania è alta, paralizzato è il collo. Solo gli occhi si abbassano all’altezza del più piccolo. Sono cupi, severi, straziati di rosso, il blu è scomparso e nascosto sotto un velo nero. Ha ancora occhi freddi, ghiacciati, il ragazzo. Lettonia abbassa lo sguardo, troppo freddo per lui, troppo diverso da come ricorda. Non sembra suo fratello, colui che lo sta guardando.

“Lituania, io… io non ti odio. Voglio che tu stia bene. Io ti voglio bene” ha un groppo alla gola, si sente male. Non ha mai detto a Lituania o ad Estonia che li vuole bene. Mai. Dirlo per la prima volta è difficile. Lituania sembra comprendere quel che dice. Gli occhi si scongelano, il velo nero svanisce e ritorna il blu. È un blu rotto, ma è pur sempre l’azzurro di Lituania. Rimane a pensarci su per un po’, perso in qualche pensiero. Lettonia è in fermento, l’attesa lo schiaccia e lo tormenta. Vorrebbe una risposta, vorrebbe sentire la sua voce, vorrebbe rivedere la vera anima di suo fratello. Lituania chiude un attimo gli occhi, quando gli riapre ha un sorriso sincero in volto. È un sorriso di bambino.

 

“Liet…”

 

Apre le braccia di fronte a sé, come un invito ad avvicinarsi. Lettonia è sorpreso ed ubbidisce, sollevato per essere stato compreso. Il bozzolo nella sua gola svanisce, il cuore è sollevato. Lettonia lo abbraccia, senza toccare troppo la schiena. Anche Lituania abbraccia il suo fratellino. Il moro, non lo vede, ha occhi persi verso altro, verso dei capelli di grano. Polonia vede ancora un sorriso, molto più fanciullesco, molto più dolce. È quasi crudele, quel sorriso. Il biondo scuote ancora la testa, non capisce e vuole capire subito. Lettonia si stacca da Lituania, sorride, lo guarda negli occhi, sinceramente lieto. Lituania gli accarezza la chioma bionda, forse un po’ goffamente per via del sonno, ma il piccolo comprende il messaggio dietro quel gesto.

“Ti voglio tanto bene, Lituania. Lo capisci?”

“Si…” annuisce forte il moro, continuando a sorridere. Lettonia, d’istinto, si alza sulle punte e lo bacia sotto al mento. È felice: Lituania sta già un po’ meglio. Il lituano giocherella con le dita minute del fratellino, ha ancora il sorriso infantile. Lettonia lo stringe un po’ più forte. Polonia sente ancora gli occhi serafici dell’amico su di lui. Scuote la testa con più forza, la paura sta per cedere il posto alla rabbia e al terrore.

 

“Cosa c’è, Liet? Cosa stai per fare?! Cos’hai in mente?!”

 

 Lettonia né vede né sente nulla, un agnellino fra le braccia di un lupo.

“Lituania, questa notte ti proteggerò io, va bene? Terrò lontani i mostri per te. Nessuno ti farà del male, capisci?” il ragazzo ci pensa su, ancora concentrato sulle mani del fratellino, ma annuisce, estasiato. Polonia ha saette negli occhi. Viaggiano veloci: Liet, Lettonia, Liet, Lettonia… Liet. Liet ha occhi scuri, gioiosi, anche un po’ pacati. Polonia continua a non capire, la rabbia sfuma del tutto, ora c’è solo terrore.

“Si…!” mormora, molto convinto. Lettonia è felice.

“Allora andiamo nella nostra stanza? Mi seguirai, vero?” Lituania annuisce più volte, sempre felice, sempre piccolo e immaturo. Il piccolo Lettonia non vede il pericolo, non vede il marcio. Polonia si chiede come faccia a non vederlo, tanto è ovvio, tanto è malato. Esce un sibilo dalla sua gola, non riesce a parlare, non riesce ad urlare. Si sente bloccato, in gabbia, di nuovo. Come nella casetta, come durante le torture di Russia. Non può fare nulla, né può farsi sentire. Il cuore batte forte, impazzito, anch’esso si trova in una gabbia troppo piccola.

“Va bene, vieni con me. Ti farò da guardia: così nessuno ti farà del male” lo prende per mano e lo accompagna verso la loro stanza. Lituania non protesta o scappa, né fa qualcosa di strano durante il tragitto. Lettonia è felice per questo. Polonia li segue, Liet lo guarda ancora. Sfiora con le dita la spalla dell’amico. Lui continua a guardarlo, forse un po’ più serio, forse più maturo, ma è ancora un bambino. Polonia scuote con più forza la spalla di Lituania. Non dice ancora nulla, il moro. Polonia si sente disperato.

 

“Liet, non vorrai fargli del male?!”

 

Queste parole, in qualche modo, scuotono il ragazzo. Il sorriso muore e le palpebre cadono leggermente, come se non comprendesse. Lituania scuote prontamente la testa, quasi indignato per il pensiero di Polska. Non farebbe mai del male a qualcuno più debole di lui, anche se si tratta di uno dei suoi falsi fratelli “No, Lettonia è un bravo bambino…” mormora, sincero. Polonia sospira rammaricato. Liet non sa mentire, per questo è calmo e si fida di lui. Ma ha ancora brividi di terrore lungo il corpo. Il cuore è ancora pazzo, dentro il petto di Polonia. Lettonia, sentito il suo nome, si volta. Gli occhi cerulei sono curiosi.

“Come, Lituania?” Liet inclina la testa, sposta gli occhi scavati verso i suoi. Chiude le palpebre, ritorna il sorriso.

“Sei un bravo bambino, Lettonia. Tanto bravo…” il più piccolo impiega un po’ più di tempo per comprendere la frase. Sbatte le ciglia, gli s’imporporano le guance. Si sente meglio, più felice. Con un cenno del capo, lo ringrazia. Anche Lituania si sente felice, pensa Lettonia. Nella pancia di Polonia c’è un serpente: serpeggia, sibila e morde. Sente il suo veleno entrare nella carne. Brucia e fa male. Si sente confuso, con una consapevolezza di morte.

Arrivati, Lettonia inizia a svestirsi. Lituania lo osserva, statico, quasi meravigliato. Il piccolo non si chiede niente, non vuole rovinare la serenità  fra i due. Tolti i vestiti, si getta sopra al lettone. Ci gattona sopra, con manine goffe. Al più grande sfugge una risata: gli ricorda un neonato. Lettonia non nota nulla e si struscia sotto le coperte. Si sdraiano entrambi dentro. Lettonia, d’istinto, si poggia a pancia in giù, come fa Lituania da diversi giorni. Gli prende la mano e la stringe forte. Sono ghiacciate, le dita di Lituania. Spera di dargli anche solo un po’ di calore. Le dita del moro si muovono tra le sue, lo ringraziano silenziosamente per il gesto.

“Dormiamo insieme?” parla come se il ragazzo fosse un bambino, con voce bassa e mielata. Russia gli ha detto di essere dolce, quindi lo farà. Anche perché vuole esserlo “Se qualcuno viene qui, lo prendo e lo sbatto fuori a pugni e a calci” lo dice con sincerità. Crede anche lui in quel che sta dicendo “Sarò molto coraggioso e ti proteggerò io” afferma con ancora più convinzione e forza. Vuole crederci anche lui, vuole essere più coraggioso e forte. Lituania sembra avere fiducia in ciò che dice, per Lettonia. Il piccolo strabuzza gli occhi: Lituania si è sporto verso di lui, ora è molto più vicino. Gli passa un braccio dietro le spalle e lo stringe al suo petto. Rimane interdetto, il più piccolo. Non si aspettava un gesto del genere. Nemmeno si aspettava il bacio sulla tempia. Si emoziona ancor di più, nessuno tra i Baltici gli ha mai mostrato troppo affetto. Abbozza un sorriso, felice anche per questo.

“Sei un bravo bambino, Lettonia…” lo dice con così tanto affetto che anche le orecchie del lettone diventano rosse. Si sente quasi in imbarazzo, ma è ancora felice. Polonia è seduto sul letto, irrequieto, con le gambe burrascose ed agitate.

“Ti voglio tanto bene, Lituania” dirlo ancora e ancora gli fa male, ma è un male positivo, perché è solo una cosa a cui non è abituato e non perché non lo pensi veramente. Lituania sembra apprezzare le parole e chiude gli occhietti scavati nella carne. Lettonia fa lo stesso, si accoccola nel suo petto. E’ freddo, ma al piccolo non importa, è pur sempre meraviglioso che Lituania si sia fidato di lui.

“Buonanotte, Lituania” sussurra, mentre sprofonda nel sonno.

“Addio, Lettonia…” sente un mormorio lontano, ma non lo ascolta, troppo assonnato, troppo preso dal sonno, dalla stanchezza. Anche dal bacio che Lituania gli lascia sulla fronte. È caldo e dolce, questo è una freccia risanatrice per il suo cuoricino.

 

 

 

 

 

“Liet! Fermati, Liet. Smettila!” è da tutto il pomeriggio che urla, Polonia. È stanco. È stanco di correre, è stanco di inseguire Liet, è stanco di stare lì, fuori, al freddo. E’ stanco di avere paura per Liet, per così tanto tempo. È stanco di corrergli dietro come un cagnolino. Anche il fisico è stanco e i polmoni bruciano e si lamentano. Il cuore protesta, sta correndo troppo. Lituania se ne accorge, si volta e lo raggiunge, ancora coi vestiti nuovi gettati sulle braccia.

“Scusami, Polska! È che… sono troppo felice. Scusami…” Polonia ha ancora il fiato corto, ma riesce a fare un segno di rinnego. Non è arrabbiato, assolutamente. Ma non capisce tutta questa fretta. Credeva che sarebbero andati nella casetta di Russia, ma stanno prendendo la strada inversa, in mezzo al bosco, al buio e al freddo. Non è come una delle sue foreste. Ha alberi neri, folti e selvaggi. La neve è una condanna, sono aghi di gelo, penetrano nella carne, anche nei polmoni e nello stomaco. Lo sente imbizzarrito, lo stomaco: pulsa e si dimena, fa male e si lamenta. La milza è una sorella viziata. Ha sollievo per essersi fermato. Lituania gli pettina i capelli con le dita, scompigliati per il vento. È perso nei fili d’oro, gli occhi stanchi carezzano la i fili aurei.

“Ora siamo abbastanza lontani. Possiamo fermarci anche qui” Polonia non fa come Liet, lo guarda negli occhi. Non riesce ad avere panico, sa solo che gli duole il cuore, batte troppo forte, si è affaticato molto. Fa respiri profondi, un vecchio metodo per eliminare la fatica. In poco tempo, ritorna caldo e concentrato. Anche Liet smette di aggiustarlo, non si era accorto ma anche la divisa si era spiegazzata. Gli occhi di Polonia cadono sull’abito nero che porta con sé. Non è ancora riuscito a chiedergli perché abbia deciso di vestirsi da festa. Semplicemente, molte cose non riesce a capire.

“Liet, perché ti vuoi vestire qua fuori? Cosa c’entrano questi vestiti?” non riesce a chiedere nient’altro, un po’ si vergogna per questo. Ma è un disagio passeggero, Liet lo distrugge tutto con una sua risata. Polonia non può fare a meno di pensare che il suo amico sembri un cadavere. La pelle del viso sembra ancora più grigia, toccata dai fiocchi di neve e dal freddo. Gli occhi sono pozze nere, petrolio sotto di essi, vene vermiglie. Lituania si stacca da Polska. Comincia ad indossare la camicia bianca. A casa si era già messo i pantaloni neri e le scarpe lucide.

“Per le occasioni speciali bisogna vestirsi bene, no?” dice, vago, infantile, con occhi luccicanti, elettrizzati. Polonia lancia gli occhi, discretamente, attorno a sé. Non c’è niente, non c’è nessuno. C’è il silenzio, strappato e maltrattato dal vento. Rabbrividisce, Polska, un pulcino gettato in un cumulo di neve. Lituania passa alla cravatta scura. Si getta i capelli all’indietro, per aiutarsi. Polonia si sente ancora più perso. Finito, indossa, alfine, la giacca nera. Se la stira addosso a sé e si lega i capelli con un elastico, anch’esso nero. Si volta, il moro, estasiato. Allarga le braccia, si vaneggia nei movimenti.

“Come sto?” gli occhi scintillanti vorrebbero, quasi pretendono un complimento. Il biondo lo guarda, confuso dall’ordine che ha preso questa situazione. È bello, Liet, pensa Polonia, è bello in un modo agghiacciante. Nota la cravatta sgualcita e le maniche spiegazzate. D’istinto si avvicina, con volto quasi indignato.

“Non sai ancora aggiustarti una cravatta da solo…” Lituania ride, è una battuta vecchia ma che non sente da anni. Lascia che l’amico lo aggiusti, che gli sistemi la cravatta, che gli aggiusti le maniche macchiate dai fiocchi bianchi. Lituania ricorda con piacere: era sempre Polska quello che lo vestiva, era sempre il più suscettibile, il più femminile, il perfezionista. Anche ora non è nient’altro che Polska, colui che ricorda, che gli manca, con cui passerà l’eternità per sempre. Sente che può farlo, stare con lui per sempre, in Paradiso. Il biondo, dopo un po’, si rende conto di quanto quello che stia facendo sia strano. Quello non dovrebbe farlo, quello non è normale. Si sente di nuovo confuso. Scioglie il broncio e ingoia l’istinto che lo aveva preso prima. Fa scivolare le mani sulle maniche. Gli occhi strabuzzano, sente qualcosa di pesante incastrato in una delle due estremità. Inclina la testa, perplesso, ma non riesce a vedere cosa sia. Gli occhi si alzano, verso i blu di Liet. Il sorriso diventa pacato. Ritorna subito bambino, con lo sbuffo di una risata.

“Ora faccio una magia” gli sussurra, ancora più vicino. Polonia cerca di non far trasparire la confusione e, lo ammette, anche la paura. Ha paura degli occhi sereni di Liet, del suo sorriso, del libro, quel maledetto ammasso di pergamene, abbandonato sotto l’albero vicino a loro. Ha paura della sua mano che gli sfiora i capelli, vicino l’orecchio. Non ha niente di confortante, quella mano. È ghiacciata, gli lascia brividi di freddo, lo terrorizza. Polonia aspetta con pazienza, con occhi di specchio, che mostrano il suo timore. Lituania lo legge e ritira lentamente la mano. L’occhio del biondo è vorace, scattante: s’imbizzarrisce nel notare un scintillio tra le dita dell’amico. La mano ritorna di fianco al proprietario, le dita reggono una lama. È il coltello di Estonia, Polonia lo riconosce. Liet glielo mostra, gioioso, giocoso.

Tadah!” esclama, facendo brillare la lama tra le pieghe di luce della luna tagliata a metà. Polonia è marmo, è ghiaccio, è pietra. Il corpo non si muove, non riesce a farlo. Al contrario, al suo interno vi è caos, urla, grida, strepiti, disperazione, paura, terrore, orrore. Orrore nel vedere Liet giocarci fra le dita, col coltello, come se fosse nulla. Polonia sente l’urlo di sgomento, il suo urlo, che s’innalza nel suo cuore, ma non riesce a raggiungere nemmeno i polmoni o la gola. Liet si tira le maniche del vestito. Gli occhi di entrambi viaggiano sulle vene del polso. Il grido riesce, finalmente, a toccare la gola, ma non la bocca, non è ancora libero.

“Visto? Non sono un disastro nei giochi, dopotutto” afferma, più calmo, più controllato, ma per poco. Sono avidi di sangue, gli occhi di Liet. Osservano con vorace ingordigia i suoi polsi. Polonia è ancora solido nel corpo, ma l’anima si strazia e si getta tra le pareti della sua carne, intrappolata e disperata. Non riesce ad uscire e per questo graffia le membra. Polonia non può farci nulla, può solo rimanere così, una falsa calma, mentre sente le unghie del suo spirito tranciare le pareti di carne, all’interno di sé. Non ha mai visto questi occhi, mai visti incastrati nel volto e tra i capelli di Liet. Polonia non riconosce Lituania.

“Oggi si festeggia, Polska: vivremo l’eternità insieme! Finalmente…!” afferma, chiude le palpebre rossastre. L’anima di Polonia, forte e disperata, strappa le pareti della sua cella e si libera. Polonia non è più marmo, né ghiaccio, né pietra: è ragazzo, è paura, è incredulità. Le iridi di smeraldo tremano, stravolte, piccole, scioccate. Liet non può volere questo, questo che vede non può essere Liet. Il brivido scende sulle gambe, le fa tremare. Anche le ginocchia vogliono urlare di orrore ed indignazione. Il tremiti si spostano verso la testa e le braccia. Le mani e le dita di Polonia desiderano muoversi. Ma non lo fanno: sono troppo sconcertate. Nessuno dovrebbe desiderare morire. Liet dovrebbe essere felice, non dovrebbe avvicinare il coltello ai suoi polsi. Ciò che vede è tutto sbagliato.

Sorde le orecchie, tremore la mascella: la lama del coltello è vicina alla vena principale. Un gemito strozzato sibila fra le labbra del polacco. Il cuore pulsa troppo forte e pretende più aria di quanto ne necessiti. Respira con affanno, il biondo, mentre osserva la lama muoversi incerta. Lituania sospira, deglutisce. Gira il coltello in un'altra angolazione, ma nulla: le sue dita sono bloccate, non vogliono muoversi. Tira un respiro più forte e disperato, si sente in trappola, senza motivo. Non è in trappola, anzi, sta per essere libero, per sempre. Gira di nuovo il coltello. Niente, le dita e la mano non vogliono muoversi. Non ne hanno il coraggio. Lituania non ne ha il coraggio. Uno sbuffo di risata viene liberato, ma soffocato dalle labbra.

“E’… più difficile di quel che pensavo” gli nasce un sorriso di autocommiserazione. Vuole la libertà, ma ha paura di averla. È semplicemente ridicolo. Ride tra sé e sé, il lituano. Polonia è bianco e instabile, nel corpo e nell’anima. Sente le ginocchia sul punto di cedere.

“Liet… non farlo” ha parole incastrate ed ammucchiate nei polmoni. Vorrebbe dirgli molte cose. Vorrebbe essere sconvolto: sente il cuore urlante nella cassa toracica. Vorrebbe essere arrabbiato: due arterie, dello stesso cuore, pompano più sangue del normale, iraconde. Vorrebbe essere indignato: uno spiffero di disgusto, troppo piccolo per avere molta importanza, striscia tra le sue costole. Vorrebbe avere almeno paura, ma non ci riesce. Ha qualcosa incastrato dentro di sé. L’incredulità è troppo forte e la paura è un masso pesante che gli blocca la lingua. Ha paura di Liet. Ha paura per Liet. Gli occhi blu si alzano, ritrovano la gioia. Veloce, scattante, la lama dal polso si sposta al collo. Polonia sobbalza, le gambe traballanti l’hanno fatto scattare sull’attenti. Lituania inclina la testa, sorride. I denti bianchi si scoprono e brillano d’argento, come la luna e il coltello.

“Se mi dai almeno una ragione, allora non mi taglio la gola, lo giuro!” strizza gli occhi, come quelli di una volpe che sa di aver ragione, di avere letteralmente il coltello dalla parte del manico. Polonia è impietrito, freddo, le gambe cessano di tremare, congelate come tutto di lui. Deve obbligare il suo corpo a muoversi, a far spostare le labbra, quel poco per formare una frase. Liet non può fare il bambino e torturarlo in questo modo.

“Smettila, questo non è un gioco” afferma con una voce patetica, ridotta ad un sussurro. Avrebbe voluto che suonasse più forte, più determinata. Lituania ritorna ragazzo. Il bambino si nasconde di nuovo e non si fa vedere, Polonia è rincuorato di ciò. Il moro incastra gli occhi rossi sulla figura del polacco. Vede e traspare tutta la serietà e la paura in lui. Il lituano ha la mente annebbiata. Il cuore deve mandare più sangue del normale lassù, nel cervello. Per questo sente il suo battito forte, terrorizzato anch’egli, ma non per paura, ma per la novità a cui andrà incontro. Vede Polonia e si chiede perché sia così restio. Deve aver paura anche lui, conclude. Ma tutto finirà, quando lo raggiungerà in Paradiso. Per questo ritorna ragazzo, per questo gli occhi di bambino svaniscono.

“Però devi pur sempre darmi una ragione” Polonia ha uno spasmo, involontario, che lo fa vacillare. Qualche fiocco di neve lo attraversa, lui non se ne accorge, troppo nervoso e messo alle strette. Ha la bocca arida, secca, la saliva scende giù per la gola e rallenta ancor di più il suo respiro, già di sé povero. Delle ciocche ribelli di Liet giocano col vento, si lasciano trasportare da esso, dimentiche del loro reale posto nella coda del lituano. Polonia non ha il coraggio di guardare negli occhi l’amico. Si sente piccolo ed insignificante. La lama del coltello brilla, gioca con i riflessi di luna. Lituania annuisce, come se avesse sentito una risposta “Esatto…” lo scatto di una lama si muove vicino al polso. Gli occhi smeraldini si alzano, irrequieti.

“Lettonia!” urla il nome, come se fosse una formula magica. Incredibilmente, come se fosse stato un vero incantesimo, Lituania ferma il coltello. Fissa le labbra dell’amico, freddo ed insensibile. A Polonia scappa un gemito “L’hai detto tu stesso: è un bravo bambino” deglutisce il nulla, Polonia, con la bocca ancora arida. Lituania è ancora freddo “Lui potrebbe aiutarti. Ora è cambiato, ora puoi dare fiducia in lui. E’ diventato buono e più coraggioso, Liet. E’ un bravissimo fratellino” dice tutto d’un fiato, ad intervalli brevi ma intensi. Si ritrova a cercare aria, con grandi boccate silenziose. Le labbra di porcellana si alzano all’insù, disperate, desiderose di una reazione dal moro. Lituania, da freddo, diventa un blocco di ghiaccio. I suoi occhi scuri trapassano i verdi di Polonia. Polska ha paura di quegli occhi. Secondi passati, altri secondi passati. Il tempo sembra fermo, non come la lama tra le dita del lituano, che si poggia sulla vena scoperta. Sembra più decisa di prima, preme forte.

“Non do la mia fiducia ad un parassita” le dita strette al coltello tremano, arrabbiate, inculcate tutte di ira che si concentra solo lì. Il resto del corpo è ancora ghiaccio, nemmeno il volto cambia espressione. Polonia si allarma: il coltello sta spingendo troppo forte, la lama sputa un fiumiciattolo rosso. Scende giù e si congiunge con la neve vicino ai piedi del lituano. Sono poche gocce, ma a Polonia pare un’intera cascata.

“No… lui non…”

“Si, Polska, lui lo è” il coltello si muove, il taglio si allarga, si forma un altro fiumiciattolo cremisi, così come si forma un altro sulla fronte del biondo, trasparente e gelido. Liet sbuffa, si è scoperta una vena di sdegno “Chi nasce parassita, muore parassita. Solo ora lo so…” un altro sospiro, il coltello addenta la carne marcia e fredda, affamato ed ingordo. Un’arteria, collegata al cuore s’ingrossa, dentro il polacco. Diventa troppo grande e continua a crescere, sul punto di scoppiare. Anche la testa sta per esplodere. È una bomba ad orologeria.

“E quel che è successo questa mattina? Come lo spieghi? Lui ti vuole bene, è per da-…” la risata che interrompe Polonia è aspra, maligna e sarcastica. Ha qualcosa di crudele, questa risata, di malato e atroce. Il cuore del biondo, così come l’arteria gonfia, si blocca. Assorbono tutto il male di questa voce straziata e ne rimangono orripilati e sconcertati. Inzuppatosi in questa melma disgustosa, straripano e si getta su tutto il corpo, la crudeltà della risata. Inghiotte ogni cosa, s’ingozza della carne del polacco, dei suoi organi. Divora anche il cervello freddo, lo rende tiepido e sordo. Anche le orecchie sono diventate sorde, rapite solamente dalla voce consumata del lituano. Smette, Lituania, non ha più risate. Anzi, ne ha ancora, ma non ne può sprecare per Lettonia. Preferisce usarle in futuro, per Polska.

“Già, proprio così. Oggi è mio fratello, ma domani ritorna sanguisuga” un’altra risata, molto più breve, lascia le labbra di Liet. Ha ancora più autocommiserazione, questa risata “Sai perché l’ha detto, Polska? Perché ha bisogno di me, in quella casa” il silenzio inghiotte la mente del polacco. Lo ascolta, ammagliato, rapito, nauseato. Gli occhi di Liet si stringono, da angelo diventa demone. Polonia ha un tremito sulla spina dorsale, non ha mai visto un demone in Liet. Mai in vita sua. Sono lucidi di astio, i due zaffiri “Lui è troppo debole per difendersi” la lama affonda ancor di più, trancia in due il polso. Polonia sussulta, trema, gli manca il fiato. Gli occhi di Liet sono concentrati su di lui, ma il biondo non riesce a guardarlo in faccia “Ha bisogno di qualcuno che possa farlo, qualcuno che possa sacrificarsi al posto suo, che le prenda per colpa della sua lingua da serpente” è un ringhio, la voce del moro. Polonia ha le iridi paralizzate sul polso, ora straripante di rosso “Ma Estonia non può difenderlo, lui è egoista, non pensa a nessun altro se non a lui. Allora ci sono io, l’unico che è riuscito a prendere in giro con la sua vocina tremolante” si forma un fiumiciattolo rosso ai loro piedi “E’ anche per colpa sua se noi tre veniamo chiamati il Trio Tremolante. Lo sai questo, Polska?” le dita grigiastre tremano, il polso si sta sgonfiando.

Il sangue fluisce veloce, bisognoso di correre al freddo. Felice, crea per sé un ruscello, rosso e nero. Le rive del fiume rosso baciano e bruciano la neve. La scioglie, desiderosa di unirsi a quel nuovo fluido vermiglio. Si lascia trasportare, la neve, ed entra dentro il sangue. Insieme si fondono e straripano, crescono, mangiano ogni cosa presente a riva. Toccano gli stivali del polacco. Gli lasciano un dolce bacio e continuano la loro avanzata. Il fiume continua a straripare, avendo troppe gocce scarlatte. Lituania respira affannosamente. Fa respiri profondi e lunghi. I piedi non riescono a reggere il peso, anche se poco. Eppure, nonostante si senta male, il moro sorride. E’ un segno positivo, dopotutto, il suo dolore. Polonia vede tutto ciò e balza in avanti. Calpesta il lago scarlatto, ma non si macchia. Sfiora il polso, quello sano, di Liet. Una vena di ansia si è ingrossata sulla sua tempia.

“Smettila, Liet!” Lituania si libera, getta la mano bianca, la intima a non avvicinarsi a lui. E’ un avvertimento brutale e disperato, Polonia lo sente e ne rimane incredulo. Il moro ringhia, un altro avvertimento.

“No, Polska” è sangue, è disperazione, è morte, la voce “Questa volta no, questa volta no…” per un attimo pare più umano. Si è sbagliato di nuovo. I denti bianchi di Lituania brillano come vero argento, i canini lunghi di un lupo, gli occhi scuri e cattivi. Polonia indietreggia, spaventato “Questa volta sarò io a vincere questo gioco!” spalanca le braccia, le gocce di sangue volano tra i fiocchi di neve, il naso gettato sulla luna, sorridente e calmo. Fluisce un fiumicello maligno anche dentro Polonia. Guarda Lituania e scuote la testa. Sa solo che ha paura “Questa volta non sarò il giocattolo di nessuno! Questa volta vinco io!” e ride, disperato, il piccolo lituano che ritorna bambino, infantile ed innocente. Traballa sulle proprie gambe, prive di vita. Il fiume ai loro piedi s’ingrossa e si muove lontano da loro. Gli occhi di zaffiro cadono all’ingiù, ritornano a sfiorare la pelle bianca di Polska “Non sei d'accordo?” e sorride, bambino e dolce.

Riapre gli occhi, scuote le palpebre stanche e le pupille esauste. Il sorriso muore, il bambino è stato ucciso. Le braccia tornano verso terra. Qualcosa si muove, dentro Lituania. Polonia ha le gambe troppo terrorizzate per accorgersene. Non prova nemmeno a farle restare calme, tanto sono impaurite. Vorrebbero scappare, se ne sono accorte anche loro: qualsiasi suo intervento, qualsiasi sua parola è maligna. Le dita pizzicano di ansia. Polonia si stringe le costole, i guanti percorsi da scariche potenti. Anche il capo è scattante. Vuole correre, vuole fuggire. Vuole chiamare aiuto. Non si accorge ancora di Liet, né dei suoi occhi che ritornano morti e tremoli. La mantella cade in avanti, ricevute troppe scosse dall’intero corpo. Anche questa desidera fuggire.

“Polska…?” è un sussurro, è di nuovo angelo, Liet. E’ il piccolo angelo che lui conosce. Scatta, la testa del biondo. Le ciocche dorate sono percosse dal vento, più forte, più arrabbiato. I zaffiri del moro sono persi, cercano e non trovano, la testa confusa e rapida. Dolore è quel che prova Lituania “Polska, dove sei?!” è fine e acuto, il suo grido. Le ginocchia cedono, questa volta. Si accascia di fronte al laghetto nero e rosso. L’abito elegante è funerario e sgualcito, i capelli pesanti per la neve, le mani grigie, senza sangue. Scorre ancora, il sangue, fuori dal polso del lituano.

“Polska…” lo chiama, lo cerca, non lo trova. Volta il capo: destra, sinistra, di fronte a sé. Polska è sparito, Polska non c’è. I suoi occhi sono uno specchio, Polonia vede le proprie iridi, smeraldine, pulsare di angoscia “Polska…!” si stringe il corpo con la mano sana, un bambino rinchiuso in una gabbia. Ha qualcosa di orribilmente famigliare ciò che sta vedendo. Lo ricorda, ricorda la neve, ricorda il piccolo Lituania, ricorda le sue lacrime, ricorda di averlo abbandonato lì, per un suo capriccio, non ricorda nemmeno quale. Si chiede perché siano ritornati indietro. Si chiede perché, in passato, sia stato così crudele. Il suo corpo si chiede perché non stia fuggendo “Polska!” un altro richiamo, un altro tuffo al cuore. Questo è un segnale di pericolo, questo è turbamento nel subconscio di Polonia. Vuole scappare, deve chiamare aiuto. Lui non può fare niente, Liet non vuole essere aiutato da lui. Indietreggia, il volto contratto in una smorfia di terrore. Battono i denti in una danza selvaggia. La piuma ha smesso di bruciare ed ora Lituania non lo vede. Si volta, fugge, i piedi sono autonomi, corrono via dalla voce dell’amico.

Polska!!!” un altro richiamo, un altro sparo nella notte. E’ una piccola lepre, Polonia, che tenta di fuggire dal proprio inseguitore. Gli stivali s’immergono nella neve. È uno sfregare tra la punta e i fiocchi bianchi. Il vento è iracondo, vuole tagliarlo in due, convincerlo a tornare indietro. Soffia in senso contrario, colpisce la sua carne. Inciampa, cade e sbatte. Ritorna in piedi, con gambe di lepre, saltellanti e veloci. Non vuole voltarsi, non vuole di nuovo incontrare gli occhi di Liet. Vuole solo allontanarsi, com’è vero che l’essere umano sia codardo. Polonia non è codardo, ma ha comunque paura di vedere quel demone in Liet. Non vuole sapere con chi abbia parlato, vuole solo che non lo tocchi più. Fugge ancora e diventa più veloce.

Paura. Mai stato così scattante e veloce. Vede il nero degli alberi, troppo diverso dal verde dei suoi boschi. I rami si gettano verso l’alto, ma alcuni cadono all’ingiù, graffiano il polacco. Vogliono fermare la sua corsa. Polonia non glielo concede: deve tornare nella villa, deve cercare aiuto. Strappano pezzi di pelle, li gettano nella neve, ghiotta della sua carne. Sono animali affamati, gli alberi, ostili e feroci. Vogliono anche il suo sangue, per questo rendono i propri rami più affilati, per questo le proprie cortecce si acuminano e lo urtano. Solo in parte ricevono quel che desiderano. Ma Polonia non può pensare a loro. Pensa solo a Liet, al sangue sui suoi polsi, al demone nel suo cuore, al desiderio di morte.

Panico. Non sente nulla, ma lo avverte chiaramente: c’è una forza oscura, più veloce di lui stesso, piccolo cerbiatto. Vuole prenderlo, vuole morderlo, vuole fargli del male. Polonia non vuole farsi prendere, non vuole farsi del male, per questo corre più forte. Sbatte contro le cortecce scure, contro i rami secchi, ma non gli importa. Quella cosa, qualsiasi cosa sia, non deve prenderlo. E deve trovare la strada. Deve raggiungere la villa. Deve chiedere aiuto. Parlando, non ha fatto altro che male. È stato dannoso, inutile. Si sente ancora inutile. Ma non è il momento. Se quel libro ha avuto ragione, se davvero una Nazione è in grado di morire, allora Liet ha solo pochi minuti di vita.

Terrore. Se ne accorge troppo tardi: non sa dove stia andando. Ferma i piedi, la presenza è dietro di sé, ma la ignora, troppo concentrato. C’è un ronzio di vespe nel suo cervello. Vorrebbe riflettere, ma non lo lascia pensare. Si volta, la presenza è sparita, ma costante. Continua ad ignorarla. Si è perso, non sa dove sia. Non sa cosa fare. Qui è anche panico, non solo terrore. Trema forte, il polacco. I piedi saltellano, desiderano continuare la fuga: quella creatura immonda lo sta ancora osservando, tra le sbarre di una gabbia. Polonia si sente in trappola, gli alberi le catene di una cella, la neve un giaciglio povero e malconcio. Si sente anche perso e si guarda attorno, dove potrebbe esserci una traccia. Non la trova, non può tornare indietro: non ha lasciato impronte, non ha idea di dove sia.

Corre ancora, la presenza oscura è più costante. Sente il suo gelo, la sua mano protendere verso il suo collo, affamata. I piedi si fermano, si rendono conto di non sapere dove andare. Ma sono ancora gonfi di panico. Vogliono ancora correre. Ma Polonia non può lasciarglielo fare. Ora inizia a pensare, ora la mente lo prende in inganno. Scorre ansia e fatica nelle vene. Gli sembra di avere una clessidra di fronte a sé. Vede la sabbia scendere lenta, straziante, indica la vita di Liet. Vede la sua vita scivolare via, rapida, come il sangue che scorreva dai suoi polsi. Vede e sente lo scorrere della sua vita. Vede anche sé stesso cadere in ginocchio: la creatura oscura lo ha preso, lo ha intrappolato. Piange, incapace, il biondo. Ricorda anche un altro particolare: ha finito le piume, non potrebbe chiedere aiuto anche se giungerebbe dentro la casa. Urla e si lamenta. La gabbia di rami si stringe più forte, lo soffoca e preme sui suoi polmoni. Getta il volto verso la luna, unico lume della notte.

“Aiuto!” è acuta, ma non patetica, la sua voce. Non vuole esserlo, anche se pensa a tutt’altro. Vuole solo salvare Liet. La vita dell’amico continua a scivolargli tra le mani. Cade e viene bruciata sotto i suoi piedi, come spazzatura. Polonia è incredulo. La vita di Liet non vale così poco. Le lacrime continuano a scorrere, veloci. Fa compassione al suo inseguitore oscuro. Quello lo lascia, si allontana e se ne va, lo lascia solo. Ritorna il freddo, non pungente, ma, in qualche modo, benefico. La clessidra è vicina allo zero, altro sangue e morte. Polonia non riesce a tornare in piedi. La foresta, anch’essa misericordiosa, smette di stringerlo in quella morsa. Lo lascia andare, gli ritorna il fiato e lo usa.

“Che qualcuno mi aiuti!” la foresta è muta, impietosita, il vento piange insieme a Polonia, grida insieme a lui, gli carezza i capelli, lo incoraggia a continuare. Magari qualcuno lo aiuterà per davvero. Polonia urla ancora, frasi sconnesse, turbate dal pianto. Il vento continua a singhiozzare, strepita nelle orecchie del biondo, ascolta il suo lamento. Polonia è disperato, sente altri frammenti di vita di Liet cadere nel nulla. Ritorna in piedi. Si volta e cerca. Non c’è nessuno, nessuno lo vuole aiutare. Polonia non capisce tutto ciò. Non si è mai sentito così in trappola, non si è mai sentito così inutile. È ancora più disperato, ancora più bisognoso di aiuto. Qualcuno deve aiutarlo. Qualcuno deve farlo.

Toris!!!” trovato! Ha trovato il nome che cercava. È stato difficile per lui, troppo orgoglioso, ma ha dovuto usarlo “Toris, aiutami!” è secca, la sua voce. Il vento, ascoltato il nome, si quieta, chiedendosi chi sia questo personaggio. La foresta è ancora più muta, versa lacrime in silenzio per il ragazzo spezzato “Toris, aiutami, ti prego!” il vento ricomincia ad urlare, indignato per non aver visto nessuno. I fiocchi di neve non lo sfregiano più. Si lasciano andare, lo sfiorano, gentili, e lo compatiscono. Tanto dolore in quella foresta non si era mai visto “Toris, te ne prego. Aiutami! È per Liet!” questo nome brucia sulla lingua del polacco “E’ per Liet! Questa volta è per lui!” il vento prende parte delle grida di Polonia e le getta in aria, in modo da farle ascoltare il più lontano possibile. Le lacrime si fermano, la clessidra sta per perdere tutta la sua sabbia “Liet sta per morire! Aiutami, Toris, ti prego!”

Occhi smeraldini, spalancati, biglie di vetro lucide e tonde. Un fischio di falco, un fischio di rimprovero, un fischio famigliare. Alza gli occhi, le braccia lasciano le costole indolenzite. Vicino, veloce, Toris si getta in picchiata. Le piume rossicce tagliano il vento, lo smorzano, acconsentono a lasciarlo passare. Il falcone lancia un altro fischio, atterra di fianco a Polonia. Sorpreso, si asciuga le lacrime. È felice, è salvo. Liet è salvo. Si avvicina zoppicante e col fiato corto. Non ricorda di aver mai sorriso con così tanto calore come in quella foresta. Ma pare che in quel luogo accadano solo novità, questa notte.

“E’ per Liet, per davvero” Toris ha occhi severi, ma pacati. Polonia lo vede muovere le ali e alzarsi da terra. Incredibilmente, i suoi artigli non graffiano la sua spalla quando si poggia su di lui. I suoi occhi neri sono ancora duri, quasi offesi. Passa il becco sul suo orecchio e lo tira un po’. Esce un’esclamazione di dolore e sdegno tra le labbra di Polonia, ma la rigetta subito nella gola: è solo un piccolo rimprovero, nulla di più. Toris è fiero ed elegante e pare che odi perdere tempo. Apre una delle sue ali e strappa una piuma, lunga e rossa, come il fiumiciattolo cremisi di Liet.

Brucia nel suo becco e scompaiono nel buio della foresta, rincuorata che il polacco abbia trovato qualcuno che lo possa aiutare.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** SeTtImO cApItOlO ***


Riapre gli occhi.

Il cielo è azzurro, ci sono poche nuvole. Dei fili d’erba lo abbracciano. Si alza in piedi. Le cortecce degli alberi si levano verso l’alto. Il vento scompiglia le loro foglie, le accarezza e ci gioca. Il lettone riconosce il luogo. Il ragazzino è a casa sua, nella sua Nazione, in Lettonia.

Corre per i boschi e le praterie. Vuole rivedere le colline, vuole rivedere le città, vuole rivedere il mare. Dimentica Russia, Estonia e Lituania. Dimentica che non dovrebbe stare lì. Dimentica la promessa fatta a Lituania. Non gli importa nemmeno, è solo troppo felice di essere ritornato a casa, dopo tanti anni al freddo.

Raggiunge un’alta collina, verde e pulita, florida per il sole estivo. Gli steli d’erba sono alti quanto lui stesso e più. Sente il suo naso solleticato da quei fusti. Ride, si diverte. Il sole lo abbraccia, caldo e forte. Non ricorda di aver mai fatto un sogno così bello. È felice di essere ritornato nel suo paese. E’ felice di essere al caldo. È felice di non vedere nemmeno un po’ di neve. È felice di non avere problemi.

Vede in lontananza una figura che cammina tra l’erba, leggiadra ed elegante. Lettonia pensa di andare da lei, vuole giocare con qualcuno. È bambino nel cuore e nell’anima. Di soppiatto si avvicina lentamente, il cielo bucherellato da steli verdi e folti. Continua a camminare pian piano, volendo fare un buon attacco a sorpresa. Riconosce la figura ad un palmo dal suo naso, anch’essa è verde dai vestiti. Scatta su di essa e tenta di farla cadere, ma quella non cede e rimane ancora fissa al terreno.

“Ti ho preso!” esclama, vittorioso. Il vento gli fa ondeggiare i riccioli biondi. La figura ha una voce. È piuttosto ruvida, la figura. Non capisce perché abbia una divisa militare. Non comprende perché ci dovrebbe essere un soldato non lettone nel suo territorio. Ma ora non gli importa, almeno è morbida e calda, la figura, anche se molto magra.

“Lettonia, cosa stai facendo…?” chiede, con voce incredula e turbata. Lettonia la riconosce, quella voce. Timidamente, alza il capo verso di essa. I suoi occhioni blu si riflettono nei suoi smeraldini. Quegli occhi non dovrebbero stare nel suo bel sogno, sono troppo… sconvolti. Lettonia lascia la presa e arretra di qualche passo. I fili d’erba sbattono contro il suo corpo. Ha avuto un colpo, gli batte forte il cuore.

“Polonia? Ma cosa…?”

“Ma che stai facendo qui?!” urla il polacco, con le iridi puntate sulle sue. Sono quasi accusatorie, quelle iridi. Le sopracciglia del lettone si abbassano, spaventate. Il vento continua a sferzarlo. I capelli di Polonia si ribellano e combattono contro l’erba alta.

“C-Cosa? Tu cosa ci fai qui? Dovresti…” Lettonia ricorda, ma poco “…essere morto” a Polonia sembra non importare quello che gli sta dicendo. Sembra del tutto agitato. Le sue mani stringono il suo petto esile, come se avessero timore che possa cadere. I capelli lunghi continuano a ribellarsi al vento. Gli occhi sbarrati e increduli. La felicità di Lettonia scompare del tutto. Vedere Polonia così angosciato fa angosciare lui stesso. In qualche modo sente tutte le sue emozioni.

“Lettonia, devi andartene da qui” dice, anzi, supplica “Liet… Lituania sta morendo, devi salvarlo!” esclama, anzi, urla. Lettonia ricorda Lituania, con non troppi particolari. Ma è poco importante ora. Non vuole tornare indietro, la sua casa gli era mancata troppa. E poi, chi è Polonia per impedirglielo? Il cuore smette di sbattere in petto.

“No, voglio restare qui! Se vuoi, puoi restare anche tu…” il polacco fa un passo in avanti, un passo pesante, come se fosse arrabbiato. Lettonia indietreggia, incredulo. Non ricorda di aver mai visto Polonia con quegli occhi sbarrati. In realtà, non ricorda nemmeno quand’è stata l’ultima volta che l’ha guardato in faccia. Ma è passato troppo tempo per aver presente qualcosa di simile. E, comunque, Lettonia è ancora immerso nel suo sogno.

“Lettonia, devi andartene via! Svegliati! Devi svegliarti!” supplica. Lettonia si preoccupa per davvero quando si rende conto che Polonia sta quasi per piangere. Forse l’ha già fatto anche prima, pensa, notando i suoi occhi rossicci. Rossicci come quegli di Lituania. Ricorda, ma non vuole andarsene, sta bene lì, lontano dal freddo e dalla neve. Non vuole andarsene. Il cielo si rabbuia, i fili d’erba sono delle verghe guidate dal vento.

“No, voglio restare qui. Forse sarà Lituania che verrà da noi…” Polonia si getta in avanti, alla sua altezza. Gli artiglia le spalle e comincia a scuoterlo. Lettonia ora è terrorizzato e anche molto perplesso. Una scarica potente e disperata percorre il più piccolo. In qualche modo sente tutte le emozioni del polacco. Sente paura, terrore, orrore. Non capisce l’orrore, ma comprende la paura. Lettonia ricorda Lituania e la sua promessa. Ora è orrore per il più piccolo. Polonia sembra molto più spaventato e bisognoso.

“Lettonia, devi svegliarti! Vai da Liet!” le sue urla sono panico di puro. Lo supplica in ginocchio. Lettonia sente quest’urlo ripetuto più volte, dentro la sua testa. Fa male, la sua testa. Fa così male che non vede più niente.

Polonia è sparito, non c’è più.

Lettonia si sveglia, il suo busto si alza prima di aver aperto gli occhi completamente. Fa dei respiri profondi, gli tremano le mani. Non è la prima volta che si sveglia in questo modo, ma è come se gli fosse accaduto per la prima volta dopo anni e anni. Si passa una mano sui capelli, molto più tranquillo di pochi secondi fa. Si sveglia del tutto. Avrebbe dovuto passare un'altra notte a camminare per la casa… Si volta al suo fianco e nota che Lituania non c’è. Tasta il posto dov’era, come per sperare che i suoi occhi lo stiano ingannando.

 

“Lettonia, devi svegliarti!”

 

Polonia gli urla nelle orecchie, ancora. Lettonia cade fuori dal letto, chiama Lituania, ma nessuno risponde. Entra nel panico. Apre la porta ed esce fuori. Chiama ancora Lituania, ma non sente nulla. Non gli importa più se qualcuno si sveglia. Non gli importa se disturberà Russia. Ha paura, tanta paura. Corre per il corridoio. Inciampa nei tappeti, rischia di scivolare giù dalle scale, come se fosse inseguito da qualcuno. Gli occhi di Polonia amplificano il suo terrore.

 

“Vai da Liet!”

 

Lettonia cerca Lituania. Lo cerca ovunque: stanza da pranzo, cucina, salotto, di nuovo la camera da letto, l’entrata, le stanze per gli ospiti, anche nelle stanze che usano di solito le sorelle di Russia. Corre per i corridoi e per le stanze, disperato. Cerca, ora urla. Dove sei Lituania?!

È disperato e sgomentato. Non capisce, per questo piange. Lituania è sparito e non viene fuori. Lo cerca anche fuori dalla casa, tra i giardini seccati di Russia, nel capanno degli attrezzi. Non lo trova. Fa due giri attorno alla casa, due giri strazianti per il suo cuore. Per lo sforzo, cade in ginocchio e continua a piangere, a pieni polmoni, incurante degli abitanti e del padrone di casa. Ha paura per Lituania.

 

 

 

 

 

Estonia odia Lituania.

Lo odia.

“Parla ancora al telefono con lui…” afferma, senza voler essere realmente ascoltato. Gli basta solo sfogarsi un po’ “…col polacco effeminato” non sa nemmeno che numero di dispregiativi ha raggiunto nel non usare quel nome. Ormai deve aver passato la trentina. O quarantina, chi lo sa? Ma non vuole nemmeno contarli, non ne vuole sapere niente. Odia anche Polonia che riesce a dare amore a Lituania più di quanto faccia lui stesso. Odia Lituania, che ascolta quel principino, senza pensare a lui. A loro. Per fortuna Lettonia è abituato ad ascoltarlo e a non aprir bocca in questi suoi dialoghi con sé stesso. Almeno fa qualcosa di utile.

“Pensa, anche durante la riunione con Prussia. Lo so, è accaduto solo ieri, ma questa cosa continua a farmi male” ma, in realtà, ad Estonia fa male tutto di Lituania. Soprattutto se, col suo nome, si aggiunge anche quello del bastardo biondo. Lettonia non dice ancora nulla, si tiene a distanza. Nemmeno si fa vedere, affianco a lui, a sbucciare le patate. Anche Estonia ha un coltello. Sfregia la pelle del tubero, come se fosse quella del fratello.

“E sai che cosa ha fatto? La spia. Esatto, una cosa proprio da lui” dice, ironico. Aveva ascoltato, l’altro giorno, dietro ad un muro, il fratello. Ogni parola rivolta al microfono era veleno per lui. Ha dato più importanza al polacco che a loro due. Odia Lituania, perché è egoista. Perché pensa a qualcuno che non vede da decenni, invece che a loro due, suoi fratelli. È un maledetto egoista e per questo Estonia è ancora più arrabbiato. Il tubero fra le sue mani vuole scivolare via, spaventato dalla forza che usano le sue dita. Lettonia è ancora muto, continua il suo lavoro, imperterrito.

“Deve aver ascoltato la riunione tra Russia e Prussia. Vogliono andare a distruggere Varsavia, per dei territori perduti… o quel che sono” poco gli interessa quel che si siano detti, l’unica cosa che brucia è solo il tradimento del lituano “E sai una cosa? E’ scappato di corsa a dirglielo, a quella carogna” strappa la buccia della patata con uno strattone “E’ scappato al telefono e gliel’ha detto! Mi ha gettato fra le mani il suo lavoro e se n’è andato da lui, a dirgli che sta per essere ucciso. E vuoi sapere un’altra cosa? Non gli ha creduto. Ha riattaccato dopo un po’ e lì è finita” Lettonia pare più lento col braccio, ma non gli importa “E sai un’altra cosa? Meglio così. Ci sarà una Nazione inutile in meno a questo mondo” un altro strattone e la pelle quasi nera del tubero cade per terra. Meglio così.

Sa che in realtà quello è un sogno. Sa quel che accadde in seguito. Sa come sta Lituania, fuori da questo breve ricordo. Estonia odia Lituania. Lo odia. Lituania lo ha imbrogliato. Gli ha fatto credere che ci sia un lato bianco in quel nero che è la casa di Russia. Lo ha convinto che, in futuro, loro tre avrebbero potuto avere l’indipendenza e scappare da lì, per tornare a casa.

Lo ha ingannato ed Estonia lo odia. Gli ha fatto credere che Lituania sia un angelo, venuto in quella casa solo per consolarli e per farli sognare. Era tutto falso. Lituania non è un angelo. E’ un essere umano come tanti, in quella villa nera. Non ha un cuore d’oro, ma un cuore fragile e delicato. La morte di Polonia lo ha spezzato in due. Lo ha odiato, Estonia, perché gli ha gettato sulle spalle il suo desiderio di scappare e di avere una vita più calda e felice. Gli ha sbattuto sulle spalle il compito di dare speranza a loro tre. Estonia non è bravo in questo, non lo è mai stato. Per questo non ha preso l’incarico dato e il non averlo fatto lo fa sentire in colpa. Ma ora è solo preso dal ricordo, di cui ricorda pochi frammenti, ma che vorrebbe che continuasse, per sfogarsi. Lettonia continua il suo lavoro, in silenzio.

“Secondo me Russia dovrebbe saperlo” getta lì, un’altra buccia di patata, altre parole rabbiose “Dovrebbe sapere che Lituania ha fatto la spia, così potrà punirlo e starà fermo al suo posto” così non penserà più a Polonia, così non si sentirà troppo male quando lo uccideranno “Sarebbe meglio per lui, si renderà conto di aver sbagliato. Non avrà niente di cui lamentarsi se lo pesterà come ogni santo giorno. Potrebbe anche abituarsi” così non s’illuderà e si sentirà meglio “Sai che ti dico? Mi sa che glielo vado a dire, prima che se ne accorga troppo tardi” così Russia non gli farà troppo male, quando lo picchierà “Sarebbe meglio per lui smettere di rispondere sempre al telefono” così accetterà la realtà così com’è, anche se brutta. Gli farebbe bene. Estonia si alza dalla sedia. Si spolvera i vestiti e si aggiusta gli occhiali “Anzi, ci vado proprio o-…”

Estonia si è voltato, ha visto la porta. Nonostante ripercorra un ricordo, rimane comunque scosso. La porta è socchiusa, buia. Luccicano degli occhi violacei, una sciarpa bianca, un guanto nero tocca lo stipite. Estonia sente il vuoto dentro di sé. Si sente freddo, congelato, i piedi gelati sul pavimento, il cuore fermo. Non riesce a riflettere, non riesce a pensare. È come una macchina lasciata per una notte al freddo. Non riesce ad accendere nulla nel suo cervello. La figura gli sorride, dolce, fa un cenno di saluto col capo. La porta si chiude. Il freddo si scongela, ma dopo qualche minuto. I piedi incastrati riescono a muoversi, cadono, inciampano per terra. Il corpo si piega, non ancora decongelato. Lo sa, pensa solo a questo. Il collo e la testa sono di pietra, non si muovono nemmeno gli occhi.

Il ricordo si sbriciola nella sua mente. Ricorda ciò che avvenne in seguito. Lituania non venne punito in quei giorni: Russia ha dovuto preparare l’attacco, non aveva tempo. Lo ha spezzato mesi dopo, quando è giunto nella loro stanza e gli aveva chiesto di aiutarlo con i documenti. Russia voleva già punirlo, voleva già fargli del male. Estonia l’aveva realizzato giorni dopo l’avvenimento. Aveva guardato Russia e aveva compreso ogni cosa. Era stato programmato già tutto, tutto era già pronto. E lo strumento che ha fatto cadere i pezzi del domino è stato lui.

Estonia si odia, perché è debole. Perché potrebbe tenere la bocca chiusa e non arrabbiarsi sempre. Perché avrebbe potuto salvare Lituania e non l’ha fatto. Non ha il coraggio nemmeno di piangere. Si sente semplicemente bloccato. Lettonia ferma il coltello. Sente i suoi movimenti alle sue spalle. Capisce che si alza e si avvicina a lui. Estonia ricorda. Ricorda che il ragazzino, in seguito, aveva pianto, sì, eppure lo aveva consolato. Ci aveva provato, almeno. Vede la sua ombra protendersi su di lui, oscurandolo. Aspetta i suoi singhiozzi, aspetta la sua rabbia gorgogliare nello stomaco. L’ombra è molto lunga, lo oscura totalmente. I passi di Lettonia sono troppo pesanti.

“Questo spiega tutto…” Estonia sobbalza, gli occhi si scuotono “Ora tutto è molto più chiaro…” questa non è la voce di Lettonia. La famigliarità e la consapevolezza di chi sia lo fa gettare nel panico. C’è silenzio, il ragazzo ode il proprio cuore. Ricorda ciò che ha detto riguardo Polonia e si sente in pericolo. Ricorda che è morto, eppure non gli pare un’illusione quella che ha udito proprio ora. Sente la stanza chiudersi su sé stessa, oscurando del tutto ogni cosa che vede. Non c’è più luce, c’è solo l’ombra di Polonia, infame e fredda. Estonia sente altri passi, sente della stoffa ruvida sfiorargli i capelli e il collo.

“Quindi, per colpa della tua lingua, Lituania è stato rinchiuso per due settimane, al freddo, in una casetta in mezzo al bosco” lo dice come se fosse una considerazione che ha fatto da tempo dell’estone, una crudeltà che bruciava sulla sua lingua da molto, molto più tempo di quel che pensa l’occhialuto. Ad Estonia manca il fiato in gola: Polonia ha iniziato a passare le dita tra i suoi capelli. Pulsa con più forza, il cuore dell’estone. Vede i movimenti della mano freddi, ritratti sull’ombra di fronte a sé. Le falangi paiono le zampette di un grosso ragno, che si muove sopra la sua testa, imperterrito dei suoi tremiti. Estonia vorrebbe drizzarsi in piedi, ma non si muove.

“Sai cos’è successo là dentro?” Estonia è pietra, è un cuore battente, è un tremore nell’anima. Ha paura di Polonia e si vergogna tanto di quel che ha detto su di lui. Ha parlato male di un morto. Si sente un miserabile, mai quanto lo sia stato nella sua vita. Le dita di Polonia viziano le ciocche dei suoi capelli. Percorrono, lente, la cute. Lasciano dietro di sé dei brividi di terrore. La gentilezza di quelle falangi lo sconvolge. Vorrebbe che non lo toccasse. Polonia è crudele, per questo continua. Dall’ombra di fronte a sé vede la sua figura abbassarsi verso il suo orecchio. Gli occhi di Estonia non riescono a smuoversi dalle ombre di fronte ai suoi occhi.

“Lituania è stato sfracellato ogni mattina e spezzato in due ogni sera” la sua voce è armoniosa e tenue. Non ha niente di maligno o crudele. Estonia ha paura dell’oro che vede scintillare vicino al suo occhio, della pelle bianca e delle labbra sottili. È scosso dall’unica frase che ha pronunciato.

“L’ho visto coi miei occhi, Estonia” il suo nome, pronunciato dal polacco, pare quasi una bestemmia. C’è più rabbia nelle sue parole “E’ stato gettato contro i muri” le dita si fermano, premono forte sulla cute. Il ragazzo sente dolore, ma non geme “È stato bastonato” le falangi stingono le ciocche bionde. Sente odio lì, incastrato nelle dita “Gli ha strappato pezzi di carne e unghie. Ha portato anche una tenaglia per levargliele” Estonia sente le ciocche implorare pietà, ma non riesce ancora a muoversi. Solo il suo corpo è pieno di tremiti. Estonia ha paura del fantasma, ha paura della sua voce. I morti non dovrebbero parlare. Continua a tremare e a sussultare, non riesce nemmeno ad alzarsi in piedi.

Un fischio percuote le sue spalle. Anche Polonia sobbalza per la sorpresa. Estonia non ha il coraggio di voltarsi. Vede, ritratta nelle ombre, la figura luminosa di un volatile. Sbatte le ali, drizza il becco, fa sussultare l’estone. Il cuore si riempie di calore. Si sente al sicuro. Qualsiasi cosa sia quell’apparizione, lo fa sentire calmo e rilassato. Un altro fischio più acuto e potente. Polonia si volta, Toris lo sta chiamando. Ha poco tempo. Sbuffa, ricordando il suo compito, ma desiderando una piccola vendetta che non potrà mai avere. Ritorna il terrore, sobbalza di nuovo, Estonia: Polonia si è ritratto di scatto in piedi e, con passo fermo e incredibilmente adulto, si ferma di fronte a lui. A faccia a faccia, con le ginocchia posate sul pavimento. Estonia, d’istinto, abbassa la testa di fronte al suo sguardo. Hanno qualcosa di raro e terribile i suoi occhi. Brillano di una rabbia ben controllata che ad Estonia ricorda quella di Russia, ma senza sorriso.

“Vorrei spaccarti totalmente la faccia, proprio ora” Estonia abbassa la testa quasi fino al proprio grembo. Vedere Polonia fa male. Vederlo arrabbiato e deluso fa ancora più male. Si sente colpevole, senza sapere con precisione per cosa. Una raffica furibonda esce dalle labbra del polacco. Tremiti di terrore, Estonia si chiude a riccio. Ha paura. Sente di nuovo la mano di Polonia sui suoi capelli. Li strattona all’indietro, forte, veloce, straccia il suo fiato in due. Estonia ritrova di nuovo gli occhi di fuoco, lo sguardo severo e maligno di principe. L’ha già visto tanto tempo fa, ma non ricorda quando. Ricorda che ha avuto paura anche all’epoca. Tremiti più forti, un gemito striscia sulla sua gola “Quando ti parlo, voglio che tu mi guardi” Estonia deglutisce, ha gli occhi intrappolati negli smeraldini di Polonia. Non potrebbe nemmeno abbassare lo sguardo: le iridi del principe sono calamite di fuoco. Estonia ha il fiato corto e il cuore nelle orecchie. Il suo petto è fermo, dimentica di respirare.

“C-Cosa vuoi?” Polonia ha gettato uno sguardo dietro il ragazzo. Toris pretende attenzioni e sbatte le ali, severo nello sguardo. Non c’è tempo. Quasi ne è dispiaciuto. Se non fosse per Liet, avrebbe già regalato il primo pugno ad Estonia dall’inizio del sogno. Meglio non pensarci, non c’è veramente tempo. Respira ed inspira, la calma ritorna e la rabbia scema. Ricorda il suo amico e il suo compito. Anche i suoi occhi sono calmi. Ricorda il sangue e l’ansia ritorna. Estonia li guarda, ma vede ancora la severità di un nobile e questo continua a terrorizzarlo. Polonia si strappa via anche questa maschera e ridiventa ragazzo. L’estone non ha più paura. Riconosce Polonia e ne vede il volto sofferente. Un brillo di meraviglia zampilla nel suo petto. Il polacco molla la presa sui suoi capelli.

“Devi salvare Lituania, subito!” da ragazzo muta in bambino, d’un colpo. Polonia sembra un piccolino supplichevole che prega il fratellone di aiutarlo per una marachella finita male. Estonia continua a riconoscere Polonia e la paura scivola via come un fiumiciattolo pieno di rifiuti. Si sente più leggero, ma l’angoscia con cui lo guarda è tale da farlo ritornare pesante e pensieroso. Si sente preoccupato per lui. Scuote la testa, non capisce.

“Cosa? Che c’entra Lituania?” le iridi smeraldine si sbloccano dal magnetismo e vagano dagli occhi blu di Estonia alle sue ginocchia. L’occhialuto ha un brivido di panico quando il polacco, ritornato con più calma e pace, gli afferra le spalle. Estonia sobbalza. Sente i tremiti di ansia del ragazzo ad un palmo da sé e la cosa lo terrorizza. Polonia è pur sempre un fantasma e lui ha pur sempre parlato male di lui.

“Lituania sta per morire” uno sparo, un botto centra in pieno petto Estonia “Devi salvarlo, prima che sia troppo tardi” l’estone guarda Polonia e si sente leggero, come se quel forte dolore al cuore lo abbia veramente ucciso. Ritorna in vita: Polonia lo ha spinto e ora sta cadendo nel nulla, nel bianco, nella carta e nell’infinito. Si sente un macigno pronto a schiantarsi contro qualcuno. Vede il panico di Polonia e lui lo assorbe tutto, terrorizzato anch’egli.

Ora!

Estonia si sveglia. I suoi polmoni pretendono l’aria che hanno trattenuto per tutto quel tempo. Esce fuori dal capannone degli attrezzi. La sua testa è ancora presa dal sonno, ancora addormentata e leggera, le ferite alle mani sono guarite in poche ore. Inciampa e si trascina fuori. La neve e il gelo lo stringono in un abbraccio troppo freddo per lui. Rabbrividisce, gli occhiali tremano sul suo naso, insieme al collo. Ritorna l’equilibrio, ritorna la consapevolezza di ciò che dovrebbe fare in quel momento. Gira fuori dalle mura della casa. L’uniforme non è per niente utile per togliere di dosso il freddo. Si sente male per questo. Estonia svolta per un altro sentiero del giardino morto. Pianto sommesso, brivido di ansia, Lettonia sta tremando lì, in mezzo alla neve. Estonia non ha tempo, non riesce a capire bene ciò che lo circonda, né lo vorrebbe fare. Sa solo che non ha tempo. Corre, si accovaccia vicino al fratellino. I suoi ricci biondi paiono quasi mori, senza vita né desiderio di vita. Estonia lo scuote.

“Lettonia, perché piangi?” Estonia lo costringe in piedi. Non c’è tempo, non c’è proprio tempo. Lettonia ha il visino rosso, le maniche troppo lunghe per lui, il moccio al naso e gli occhi umidi.

“L-Liet…!”

“C-Chi?”

“Lituania!”

“Cosa? Dov’è?!”

“Non lo so! È sparito!” Estonia ha la bocca asciutta “L’ho cercato ovunque, in tutta la casa! N-Non c’è!” esclama, infine, e ritorna a piangere. Estonia rimane muto. Lettonia continua a piangere e a lamentarsi. Non c’è tempo, non c’è proprio tempo. Ricorda Polonia e la sua ansia. Ricorda il suono della sua voce e il suo sguardo di principe. Ritorna l’umiliazione e la paura. Non c’è assolutamente tempo. L’occhialuto punta lo sguardo verso il cancello della villa.

“Il cancello è aperto” entrambi si guardano negli occhi, presi, morsi, sbranati da un brivido. Hanno lo stesso pensiero, hanno lo stesso desiderio di correre.

“Andiamo, Lettonia!” il ragazzino segue Estonia e corrono fuori, toccano e oltrepassano il cancello. D’istinto, gli occhi iniziano a vagare attorno a loro, voraci, desiderosi di indizi. Non c’è bisogno di cercare molto: Lettonia sobbalza nel vedere delle impronte, non troppo grandi, sulla neve. Fa un cenno con la manica al fratello. Estonia si aggiusta gli occhiali e getta gli occhi dove gli ha posati il più piccolo. Seguono con lo sguardo la traccia, vedono dove conduce. Deglutiscono. La foresta è nera, cupa, senza stelle e con solo metà luna. Sentono il freddo pungerli la schiena e la paura strisciare nei loro stomaci. Temono quella foresta, la odiano. Lettonia, però, rivede di nuovo Polonia tra l’erba alta della sua terra. Pensa che si odi più di quel posto cupo. Pensa che non sia giusto il suo cuore, in quel momento.

Per questo poggia un piede all’interno della neve fresca, di fianco all’orma di Lituania. Sembrano così piccoli i suoi piedi in confronto a quelli del fratello… Lettonia continua il suo passo, diventato più veloce. Corre tra gli alberi. Estonia pensa che non sia giusto nei confronti del fratello maggiore. Raggiunge, oltrepassa il lettone.

Il gelo punge, la paura striscia, loro due non sono coraggiosi, eppure non gli importa. Si chiedono solo dove sia Lituania e perché sia in pericolo.

 

 

 

 

 

Come un furfante si nasconde, il tagliagole, l’assassino, il boia, il mostro. Dietro ad un albero si cela, dietro al confine invisibile che divide la sua terra con la loro. Si rende conto, dopo un po’, che non vi è alcuna necessità nel nascondersi: non può vederlo ugualmente, troppo concentrato ad altro, il bambino. L’autunno ha tinto i suoi alberi di arancione. Presto verrà il Grande Generale a fargli visita, ma non ha voglia di prepararsi. Si sente triste. Si sente semplicemente molto infelice. Non sente il vento d’Inverno, troppo preso dallo sconforto.

Il suo piccolo angelo è felice, nella sua reale terra. Non avrebbe dovuto sradicare il suo piccolo fiore dalla propria patria. Il suo territorio, dopotutto, è troppo freddo per ospitare dei fiori lucenti come Lituania. Il grano è giallo, maturo, cresce forte. Il suo angelo ne mangiucchia dei semini, iniziando a raccoglierne dei giunchi. Vede perle bianche uscire dalle sue labbra. È roseo e bello, il piccolo fiore. Ha ali d’argento il suo cuore, vola spensierato per i campi gialli. Russia è ancora più triste. Non avrebbe dovuto farlo. Avrebbe dovuto lasciarlo crescere lì, al caldo, al sicuro.

Non sente la voce, ma l’avverte. Volta leggermente gli occhi e vede una testolina dorata, occhietti di volpe e sorriso dolce. Per un attimo anche Polonia gli pare bello. Il suo angelo lo saluta. Si avvicina, il più piccolo, lo abbraccia forte. Il suo angelo gli regala un bacio, sulla guancia. Nel cuore di Russia si forma una crepa. Non ha mai baciato Lituania in vita sua. Polonia, invece, l’ha preceduto di mille anni. Si sente inferiore a lui. Si sente sporco e cattivo. Si vergogna di sé stesso. Si chiede perché stia ancora lì a guardarli. Non dovrebbe uscire allo scoperto, non dovrebbe distruggere i loro cuori. Preferisce restare lì, dietro alla piccolissima linea di confine che separa le loro due terre. Polonia ricambia, si alza sulle punte e lascia un bacio sotto l’orecchio di Lituania. Russia pensa di voler morire.

Continua ad osservarli, continua a stare lì. Per la seconda volta, parte di lui, la più rabbiosa e malata, si chiede perché stia ancora lì. Non ha più voce, quel frammento di sé. L’ha rinchiuso in una gabbia, lontano dal proprio animo e dalla propria mente. Non vuole più ascoltarlo. Ogni parola che gli sussurra non ha creato altro che male. Russia vorrebbe soffrire, per questo resta ancora lì. Pensa che meriti lui stesso una punizione per tutto ciò che ha fatto. Lituania non è solo l’unica vittima per cui doversi penare. Pensa che la morte sia troppo gentile come castigo, per questo continua ad osservarli, infelice e depresso. Dimentica di sorridere, non ne ha le forze, né la volontà. Polonia è stato lì, sin dall’inizio del sogno. Guarda ciò che guarda Russia e sente il suo stesso dolore, anche se un po’ diverso.

“Eravate bellissimi…” sussurra, rauco, adulto, il mostro. Polonia alza leggermente gli occhi, sa che Russia l’ha visto. I due ragazzini continuano a giocare, più spensierati, più allegri. Russia sa che non sono felici grazie a lui e per questo sospira “Eravate perfetti insieme. Eppure ho voluto separarvi… non l’ho fatto solo per un ordine dei miei sovrani” un altro sospiro, Russia non riesce a parlare bene, ma non se ne vergogna “Vi vedevo sempre qui, sempre alla linea di confine. Nessuno si accorgeva di me, quindi restavo a guardare” Polonia sente un mantello di tristezza cingergli il collo che scendere sino alle caviglie. Russia inclina la testa, ancora triste “Pensavo che avrei potuto prendere il tuo posto. Pensavo che ti avrebbe dimenticato e che sarebbe diventato mio…” volevo un fratello o un figlio, per questo ho scelto Lituania, per questo ora soffre così tanto “Invece è accaduto ciò che è accaduto. Lituania sta appassendo e tu sei morto” conclude, sospira, il cuore spezzato da troppe crepe.

Lituania non è stato la sua unica delusione, eppure è quella che lo ha annullato del tutto. Sia maledetto il suo cuore troppo speranzoso! Avrebbe dovuto immaginarlo sin dal principio che un piccolo angelo come Lituania non avrebbe mai potuto amare lui. E’ stato talmente ovvio che se ne vergogna. Polonia è triste, il mantello che gli ha posato sulle spalle Russia è troppo pesante e lo fa sentire male. Aveva tante cose da dirgli, ma non riesce a pronunciarne nemmeno una. Non ne ha il coraggio. Si rende conto che Russia abbia qualcosa che nessuno ha mai visto prima in lui. Si rende conto di quanto la sua pietà sia sbagliata, ma non riesce a scrollarsela di dosso. Russia è disperato quanto lo è stato lui stesso nel voler riavere indietro Liet. Ma lui era felice, aveva delle possibilità. Russia è un’anima triste: per lui non c’è alcuna speranza. Polonia deglutisce e alza gli occhi. Russia è perso nel ricordo, nel piccolo Polska e nel suo angelo, di fronte a loro. Non cede lo sguardo, deciso a punirsi.

“Da quanto tempo, Russia…?” la sua voce è un filo di emozioni. Vorrebbe urlare, ma non ne ha le forze, troppo schiacciata dalla malinconia. Vorrebbe essere sdegnata, ma la pietà per il suo assassino taglia in due la sua gola. Vorrebbe anche essere ferma, e per fortuna ci riesce. Almeno questo privilegio gli è consentito. Gli occhi di Russia sono ancora persi nel giallo del grano e nel sorriso del suo angelo.

“Da prima che vi conosceste” a Polonia fa male il cuore “Ero un ragazzo, ero cresciuto molto in pochi anni. Lituania era ancora un bambino. Avresti dovuto vederlo: era una cosina così piccola e innocente…” sembra provato dal ricordo. Il mantello di Russia è diventato freddo, non preme più troppo forte, ma continua a fargli del male. Ma Russia è comunque più freddo. Sembra un fantasma, leggero, abbandonato al proprio destino. Polonia ha pietà e misericordia, ma vorrebbe non averne. Sarebbe tutto molto più facile, se non ne avesse.

“Perché…?” questa sola parola è un macigno incastrato per mesi nella propria gola. Polonia avrebbe voluto chiederglielo subito. Perché l’ha ucciso? Perché ha iniziato tutto questo? Perché Russia è diventato così malato? Russia sorride. È un sorriso di rassegnazione e sconforto. Quella sola parola, quella sola domanda, se l’è posta molte, troppe volte. E la risposta, dopo ricerche disperate, l’ha trovata.

“Perché sono egoista, Polonia” è un dolce veleno, quello che gli hanno iniettato queste parole “E anche perché preferisco illudermi sempre…” un sospiro più forte degli altri si leva, lascia le labbra sottili del malato “…desidero ciò che non potrò mai avere. Devo avere qualche maledizione. Forse è l’inverno che me ne ha lanciata una, probabilmente fin dalla mia nascita. Forse è per questo che nessuno mi vuole” volta il capo, il generale russo. Polonia vede i suoi occhi, brillano violetti, umidi, quasi blu, schiusi e umili. Non vede le labbra, nascoste sotto la sciarpa, eppure Polonia sa che sorride “Dopotutto, è sempre stata così la mia vita, da?” Russia inclina dolcemente la testa, si sente un bambino diventato d’un tratto adulto, reso conto di molte cose, accettato altre che non riteneva credibili o possibili. Ora Russia ha aperto gli occhi e pensa che sia meglio così. E’ il suo giusto castigo. Sospira e ritorna dritto col capo, anche se con occhi chiusi e con le labbra piegate all’insù.

Polonia vede il mondo attorno a loro diventare bianco, screpolato, tagliato con fogli di carta. Il suo doppione, insieme a quello di Liet, sono scomparsi da tempo, eppure sente la loro mancanza proprio ora, soltanto ora. Toris, sulla sua spalla, gli bacchetta con la punta del becco la tempia, cercando di farlo parlare. Polonia non ce la fa, ha la gola bloccata. Il dolce veleno nel suo cuore continua a scorrere, imperterrito.

A Russia non importa del bianco, continua a sorridere, infelice. Polonia, di fianco a lui, si chiede come faccia ad avere compassione per il suo stesso assassino.

 

Scarponi infangati nella neve corrono per il sentiero invisibile. Scalciano i rimasugli di terra, pestano le radici dei grandi alberi neri. Non hanno tempo, le impronte stanno per scomparire. I fiocchi di neve, impiccioni, cadono sopra le tracce degli stivali e cercano di nasconderle. Estonia e Lettonia sanno solo che non hanno tempo, non solo per le impronte quasi completamente bianche. Le tracce hanno proseguito per troppo tempo ormai. Temono il peggio.

 

“Potresti rompere la tua maledizione, Russia” il bianco è ai loro piedi, il paesaggio è carta da colorare per un bambino infelice. Russia si volta, i suoi occhi brillano calmi e pacati. Il viola screpolato accarezza il forte smeraldino. Prende le parole e le segue col cuore.

“Come potrei, Polonia? Questa mi perseguita da anni, per troppi secoli. Non c’è più speranza, piccolo demone” non era un dispregiativo e Polonia lo capisce. Russia lo vede semplicemente così e lo accetta. Lui stesso si definisce un demone e non solo per i suoi occhiacci.

“Salvando un’anima infelice, Russia”

 

Saltano tra i rami più bassi, strappano i cespugli di rovi. Lettonia inciampa in una radice troppo spessa, s’incastra la sua caviglia in un fosso. Lettonia è furioso con sé stesso. Non ha lacrime e non vuole gettarne alcune. Morirebbe dalla vergogna, se lo facesse. Estonia era di fronte a lui. Si accorge del fratellino e ritorna indietro. Lettonia scalcia più forte col piede, indignato di sé stesso. Estonia non è arrabbiato, ha fretta e non riesce ad arrabbiarsi. Aiuta il suo piccolo fratello. Lo libera. Lettonia è meravigliato, ma non lo ringrazia: Estonia lo fissa ansioso, lo prende per mano e continuano la corsa.

 

Russia ora è interessato. Sotto i suoi piedi sente il terreno più molliccio, più cigolante. Russia è rapito dagli occhi forti di Polonia, dal suo sguardo nobile e serio. Non ricorda di aver mai visto occhi più luciferi di questi “Chi?” chiede, il terreno cede. Cade giù, nel bianco, nella luce. Russia vede la sua sciarpa tendere verso Polonia, il suo corpo precipitare, i suoi occhi cercare dei capelli d’oro.

Il ragazzo demone urla il nome. Russia sbarra le iridi d’ametista, adulte e sagge.

 

Lituania!

I due Baltici raggiungono un grosso albero, una betulla ricoperta di neve e brina. I grossi rami si stringono verso il tronco e raggiungono l’alto del cielo. Accolgono nelle foglie e nelle punte i fiocchi di neve, lasciandoli riposare tranquilli. Ai piedi della betulla, tra le radici, sdraiato tra le radici, c’è il loro fratello. Dorme calmo, bianco è il viso. I fiocchi cadono su di lui, gli baciano le guance e la fronte, si posano sui capelli scuri. Lettonia ha il cuore fermo, abituato di nuovo al camminare e non al correre. È sollevato che il fratello stia bene.

“Eccoti! Ti abb-…!” Estonia lo afferra per la spalla. La stringe forte, ma non tanto per fargli male. Lettonia chiude di scatto gli occhi, attende un ceffone, l’istinto fa cadere la sua testa fra le spalle. Estonia non si muove. Il più piccolo riapre le palpebre e alza gli occhi sull’estone. L’occhialuto ha uno sguardo freddo, gli occhi sono di ghiaccio, la pelle tesa in un’espressione angosciata. Vede qualcosa che il più piccolo non è riuscito a vedere. Estonia vorrebbe far reagire il corpo in qualche modo, ma non ci riesce. Sente solo il suo cuore congelato, il sangue fermo nelle vene, freddo. Non riesce nemmeno a togliere la mano dalla spalla di Lettonia.

Il piccolo non vede ancora nulla, né comprende. Confuso dagli occhi del fratello, fa un passo avanti, verso Lituania. Non porta i suoi stivali, solo ora si accorge di essere senza scarpe, solo con un paio di calzini bianchi. Per la fretta non si è accorto di nulla, nemmeno di essere in pigiama. Il piede calpesta qualcosa di caldo. Non sobbalza: è solo del liquido. Fa cadere gli occhi su quel che pare una pozza, grossa, nera. Lettonia, disgustato, indietreggia e strofina il piede sulla neve, per togliersi di dosso quello schifo. Estonia, al suo fianco, è ancora fermo e freddo.

Lettonia riesce a levarsi dal piede quella cosa. La neve con cui si è asciugato è diventata rossa. Il lettone è incredulo e perplesso. Si chiede cosa diavolo sia quella cosa disgustosa. Poggia l’indice nella pozza. Il liquido, caldo, lo annusa. Non ha alcun odore, constata. Con la punta della lingua, lo assaggia. Non comprendendo bene il sapore, infila l’intera falange in bocca. Sente ferro fuso, metallo ghiacciato. Vorrebbe sputarlo, ma non ci riesce. Ingoia quel liquido, non capendo ancora. Si volta verso il maggiore, chiede spiegazioni con lo sguardo. Estonia è ancora più freddo, paralizzato nel suo corpo. Non riesce neanche ad aprir bocca.

Lettonia volta, allora, il capo verso Lituania, ancora dormiente. Si chiede perché indossi il suo completo da festa e perché sia molto più pallido di quella mattina. Gli occhi, involontariamente, cadono sulle braccia del moro. Strabuzza gli occhi, vorrebbe non capire, ma non può. Lituania ha profondi tagli su entrambe le braccia. Il manico della divisa del braccio destro sembra essere sfregiato brutalmente, il sinistro attorcigliato e comunque massacrato. Dev’essere stato molto disperato. Il cuoricino di Lettonia pulsa nelle sue orecchie. Vede i fiumiciattoli del sangue di Lituania congiungersi alla pozza che ha calpestato poco fa.

Il suo petto ha un singhiozzo. Sente il corpo pesante, i piedi incastrati nella terra, cemento armato sopra dell’acciaio freddo. Un altro singhiozzo lo percuote e sconvolge tutto il corpo, gambe incluse, liberate dalla paralisi di ghiaccio. Si trascinano, i piedi, sopra la pozza rossa. E’ ancora calda, si macchia i calzini, fino alle caviglie, anche un po’ i bordi del pigiama. A Lettonia non importa. Le ginocchia cadono di fianco a Lituania. La sua pelle è grigia, vero grigio, quello degli scarabocchi di un bambino, della cenere del camino, delle unghie dei corpi morti. Lettonia viene percosso da un altro singhiozzo. Geme, gli ha fatto male questa scossa. Le dita delle mani hanno paura di toccare la spalla di Lituania, di spingerla, anche se dolcemente. La gola va in fiamme.

“Lituania, svegliati…” il piccolo Lettonia è un ridicolo sussurro, uno stupido venticello sulle spalle. Nessuno potrebbe svegliarsi con delle mani così discrete. Ma il ragazzino è troppo provato. Tenta comunque di usare più forza “Lituania, dobbiamo andare a casa... Devi svegliarti…” Il corpo di Lituania è freddo, la pelle continua ad essere grigia. Il cuoricino di Lettonia batte forte, distrugge le sue orecchie. Le lacrime non hanno il coraggio di scorrere sulle guance rosse, non solo dal freddo. Lituania è fermo, immobile nel suo corpo. Il fratellino si sente in trappola. Non vorrebbe che sia vero. Estonia è ancora fermo, un fantoccio inespressivo che osserva la scena.

Lettonia si alza, il cuore sbatte troppo forte sulle costole e sulla gabbia toracica. Fa un male cane là dentro e fa anche troppo caldo. Scuote il corpo con più forza, ma nulla, Lituania è ancora addormentato. Il cuore è in allarme. Il ragazzino non sa cosa fare. Vi è l’Inferno dentro al suo petto: fa troppo caldo, il cuore batte troppo forte, le costole si chiudono su sé stesse, imprigionando il povero cuoricino impazzito. Le lacrime sono bollenti, il naso inizia a gocciolare. Lettonia si sente confuso da tutto quel che sta succedendo. Non sa perché Lituania non si svegli. Forse si sente male. Alza gli occhi su Estonia, cerca aiuto dal più grande. Non ne riceve alcuno. Vuole aiuto, non sa cosa fare.

“Aiuto!” è bassa, troppo bassa la sua voce “Aiutateci!” ora è molto più forte, ma gracchiante come quella di un corvaccio. È orribile l’eco che percuote la foresta nera, non più silenziosa “Aiuto!” lacrime di bambino, voce di neonato. Lettonia odia la sua voce, ma è troppo confuso e ha troppa paura per moderarla “Aiutateci! C’è qualcuno!? Aiutateci, ve ne prego!” urla molto più disperate percuotono la foresta. Lettonia sente dolore al petto, gli fa troppo male. Anche lo stomaco si stringe su sé stesso, crea una morsa troppo forte. La saliva nella sua gola è troppo dolce. Ha una forte nausea, d’un tratto. Continua comunque a chiamare aiuto, disperato e straziante.

Estonia guarisce, le sue gambe hanno il coraggio di muoversi. Sono comunque pesanti, i suoi piedi, ma riesce a circondare la pozza rossa e nera. Si avvicina ai resti del fratello. La luna tocca le sue labbra, le carezza dolce, rivela un sorriso calmo sulle labbra di Lituania. Il cuore di Estonia da tempo dimentica di dover battere, il sangue congelato nel corpo non si muove. Ai piedi del moro c’è un libro. La mente dell’occhialuto è anch’essa fredda. Estonia si sente tradito da Lituania, forse è per questo che non sente nulla. Apre le pagine segnalate con un foglietto lungo e stretto. Legge le frasi sottolineate lievemente a matita.

Lettonia ha la voce molto più gracchiante e pericolante. Non ha nemmeno più la forza di chiedere aiuto. Le lacrime sono sale sulle guance. Pizzicano e le tirano, le strappano e gli fanno altro male. La gabbia attorno al cuore si è un po’ liberata, ma stringe ancora forte. La confusione gli fa girare la testa e lo stomaco. Sente di star per vomitare. Estonia smette di leggere. Le lacrime si liberano, il corpo si scongela, il cuore ritorna a battere, forte e maledetto. La sua mente è assente, presa dal dolore. Fa troppo male quel che sta provando. Il corpo si lascia andare. Si getta di fianco al fratello, ai suoi piedi. Le mani cercano un appoggio, lo trovano nel ginocchio del corpo morto. Le falangi stringono forte, dimentiche della rabbia, del tradimento, della frustrazione. Estonia ha solo dolore e non riesce a mandarlo via. Vorrebbe sbarazzarsene, fa troppo male. Lettonia si trascina vicino a lui.

“E-Estonia, cosa sta succedendo?” la voce stridente è piegata, si ode a malapena. Il fratello, comunque, sente la confusione e l’angoscia del piccolo. Il petto di Estonia cade verso terra, deve tenerlo fermo con le braccia per non far precipitare tutto il suo dolore.

“…è morto” mormora, con più forza di quel che credeva di poter usare. Non vede Lettonia, ma sa di sentire il suo stesso dolore. È bollente e brucia l’anima di rosso. Estonia non riesce più a piangere, troppo provato anche solo per sfogarsi. Nasconde il volto nel proprio grembo, si vergogna di farsi vedere così a Lettonia. Nello stomaco del più piccolo ritorna il freddo pungente. Dura poco questo sollievo, ritorna subito il caldo e il male al cuore.

“Ma cosa dici…!?” esce vapore bollente dalla gola del lettone. C’è una caldaia dentro di sé. Questa risposta lo ha reso più confuso che mai. Non è una risposta che lo soddisfa. La confusione è troppa, il desiderio di sapere è tanto. Quella è una bugia, è certo che sia una bugia “Che significa!?” Estonia non riesce e non vuole arrabbiarsi. Dentro di sé si è sciolto tutto e macchia di sangue bollente ogni piega del corpo. Si sente rotto e infuocato.

“E’ morto, Lettonia” la gola pizzica, le lacrime cadono nella neve, la sciolgono “Non tornerà mai più…” i denti del ragazzino si scoprono, la bocca è stata caricata troppo di saliva “Lo abbiamo perso per sempre…” qui la voce di Estonia smette di funzionare e il dolore prende il sopravvento su di lui. Lettonia ha le ginocchia molli, cadono di fianco al morto. Geme, la gola pretende di liberarsi. Se potesse, urlerebbe come ha fatto prima, ma i polmoni non hanno più aria. Si accascia vicino al braccio sfregiato del moro. Stringe quell’arto a sé, vorrebbe che il freddo di quella carne possa far smettere al suo petto di dargli così tanto dolore. Invano, l’effetto è il contrario. Il caldo e il dolore lo cingono.

Il rimorso si poggia sulle spalle di Estonia, seduttrice e maligna. Lo tormenta e lo azzanna lì, al collo, vicino alla testa. Per un attimo diventa sordo di entrambi gli orecchi, tanto è potente la sua angoscia. Tanto l’ha spezzato, tanto gli fa male. Si rivede riflesso nella pozza rossa. Rivede l’ultima volta in cui ha parlato col fratello, la prima e l’ultima volta che si sono picchiati. Si odia, Estonia, con tutto il suo cuore.

 

“Bene! Ti odio anch’io, spero che muori in fretta!”

 

No, ti prego, no… Non posso avergli detto questo. Non posso avergli fatto così male. Non posso essere stato io. Io non l’avrei mai fatto, mai a Lituania. Mai… Estonia scuote la testa, non credendo nemmeno ai suoi ricordi. Il rammarico è seduttrice, continua a morderlo coi suoi canini. Lo trafigge con la sua lama ramata. Le labbra del ragazzo sono ricolme di saliva, gocciola fuori, sulla neve, fa compagnia alle lacrime.

 

“Che Polonia ti porti via!”

 

Non gliel’ho detto io… Estonia continua a piangere, piegato sulle ginocchia del fratello morto. Non avrebbe mai giurato di avergli fatto così male. Guarda i tagli sulle braccia e si chiede quante volte si sia tagliato e perché abbia voluto farsi ancora più male. Probabilmente la disperazione del moro di non poter morire è stata tale che deve averlo fatto impazzire. Taglio dopo taglio, goccia dopo goccia. Così fuggiva e bruciava tra le fiamme la vita del fratello. Estonia non può ancora credere che possa aver detto quelle parole, che possa averle pronunciate proprio quel giorno, quella mattina.

Il cuore di Lettonia, chiuso per troppo tempo nella gabbia di ossa, si è rotto. Gocciola via il sangue bollente, non più tanto caldo. La confusione, collassata troppo, ritorna verso lo zero, ritorna normale. Il dolore c’è, ma è più controllato. Le lacrime, però, non potrà mai toglierle. Estonia prova ciò che prova il fratellino, ma il rimorso non potrà mai andare via. È sempre poggiato sulle sue spalle, continua a graffiarlo e a morderlo. Non ha detto quelle parole per davvero. Non può averle nemmeno pronunciate. Ora che Lituania è un vero angelo, cosa ricorderà di lui? Lui cosa ricorderà di Lituania? Quegli ultimi momenti saranno i soli che verranno impressi nella sua mente? L’unica cosa che ricorderà di suo fratello è il non avergli mai detto che gli voleva bene? Estonia piange, il dolore passa, ma il rimorso preme ancora nel suo cervello.

Estonia alza gli occhi, leggermente. Uno scintillio d’argento fa attirare i suoi occhiali alla mano di Lituania. Ora alza la testa, colpito, gli fa male la carne tra le ossa. Quello che stringe è il suo coltello. L’arma che ha usato è sua. La mascella cade, troppa è la sorpresa e la saliva tra i denti. Apre le dita fredde del fratello, prende la lama sporca. Le sue unghie stringono, tremanti, il coltello. Osserva il sangue freddo addossato su di esso. Il cuore scoppia, infelice, provato. Si preme, leggermente, una mano proprio lì, al centro del petto. Un’altra volta è stato la pedina che ha fatto cadere la vita di Lituania. Il senso di colpa è troppo forte. Geme. Gli fa male la gola. Non ha più rabbia, ne è sgonfio ormai. Il cuore non si ripara, non ritorna come prima. Gli tremano le dita attorno al coltello. Non vede dove, ma lo scaglia lontano. La lama luccica lontano, oltre i rami, tocca la luna e non si vede più. Estonia non la vuole più vedere. Continua a piangere.

Abbassa lo sguardo dal cielo, vede un bianco diverso. La divisa di Russia è sporca, in confronto alla neve. Estonia guarda il suo padrone, ma non lo vede. Si vergogna, abbassa la testa, non solo per il disagio. Ha ancora male al cuore. Russia ha occhi statici, spenti, opachi. Guardano anche loro, vedono chiaramente. È freddo, paralizzato nel suo corpo da gigante, dentro di sé il nulla. Il cuore fermo e il sangue immobile. La neve, i fiocchi, toccano la sua pelle e non si sciolgono, troppo fredda. Il vento è calato. Estonia ha gli occhiali bagnati e appannati, non vede bene. Sa che Russia si è avvicinato a loro tre, capisce che si china, rigido, sul libro. Ancora con sguardo basso e con gemiti in gola, avverte pagine mosse, dita lente e precise. D’un tratto, il gigante ritorna calmo, si scongela, ritorna autoritario. Le guance ridivengono calde, si sciolgono i fiocchi di neve sulla pelle bianca. Il libro scompare nella giubba bianca. Una mano senza guanto tocca il mento grigiastro del piccolo angelo. Lo alza leggermente. Se potesse, Lituania vedrebbe occhi umidi.

“Piccolo, sai meglio di me che non funziona” afferma, dolce, tranquillo, ma provato. I due fratelli alzano lievemente gli occhi sulla sua grande figura. Lituania non si muove ancora. Il tempo non scorre, i fiocchi si fermano. È diventato tutto statico, freddo, eppure, in qualche modo, confortevole. Ad Estonia la presenza di Russia conforta. Il sorriso del gigante bianco si spegne, amareggiato. Gli occhi caldi e umidi. Russia getta indietro le lacrime. Un battito di ciglia, all’unisono, prende i tre. Il tempo scorre ancora. Russia, ancora calmo, si fa spazio fra Lituania ed Estonia, quest’ultimo viene gentilmente spinto via. Poggia le mani dell’angelo in grembo, riesce a tenerle ferme. Una mano dietro la schiena, un braccio sotto le gambe. Il generale alza il corpo e inizia a camminare lontano, verso una direzione già conosciuta. I due Baltici, goffi, lo seguono, tristi.

“Signore, ve ne prego di lasciarcelo seppellire, in futuro…” Russia non apre bocca. Gli scarponi affondano, crudi, nella neve. La comprimono e la forzano per lasciarlo camminare. Russia è severo anche coi propri piedi. Estonia attende la risposta, aggiustati gli occhiali sul naso, puliti subito dopo. Lettonia è stanco, pensieroso, col cuore in gola. Non hanno più paura di Russia. Sanno di poter parlare con lui. Il generale si riprende. Continua il cammino, imperterrito. Sospira un attimo, non per lo sconforto.

“Estonia, perché dovrei seppellire un vivo?” Lettonia alza gli occhi. Brillano di un azzurro vivo, ceruleo e limpido. L’anima ha un dolce sobbalzo all’interno del corpo. Si muove, tocca le pareti della sua calda gabbia, eppure è un brillo di felicità. Batte forte il cuore, deve tenerlo fermo con le mani per non farlo cedere. Le guance supplicano di aprire un sorriso. Estonia ha l’anima crepata, dentro la propria gabbia troppo fredda. Si ferma, statica, muore il brillo di panico e rabbia. È diventata anch’essa fredda e pulsante. Il sangue circola male: spacca le vene ed esce fuori, insozza la carne fredda, cerca di renderla più calda, invano.

“E’…vivo?” un altro sospiro, più caldo, esce dalle labbra di Russia “M-ma… il libro di-diceva…”

“Quel libro è una bugia, Estonia” afferma, potente, Russia, più adulto e determinato “Dev’essere l’opera di qualche contadino malato per prendersi gioco di noi Nazioni” conclude, smette, desiderando di smettere. Gli scarponi ora carezzano la neve, più docili. Gli alberi neri cominciano a scarseggiare. Lettonia riconosce il punto dove hanno iniziato a cercare Lituania. Vede in lontananza la figura del cancello. Il cuore sospira sconfortato: non vuole tornare dentro la sua prigione. Osserva con la coda dell’occhio il sentiero che porta in città, senza neve, terriccio battuto sotto al ghiaccio. Vede le luci di Mosca in lontananza. Toccano gli occhi cerulei del ragazzino, li carezzano e li abbracciano. D’un tratto si sente triste, Lettonia.

“Davvero…?” chiede il ragazzino, comunque con l’anima inquieta per il sollievo. Guarda i capelli scuri, legati, di Lituania. Quelle luci ora sono poco importanti.

“Beh, se così non fosse, di sicuro non sarei qui con voi” dice, con voce dolce, un velo di ironia nelle note tra i denti. Un piccolo ago bianco affonda gentilmente nel cuore dell’estone. Ritorna il freddo e la staticità. Estonia alza gli occhi su Russia, non ricevendo risposte e nemmeno uno sguardo. Vede solo i capelli di cenere e la sciarpa bianca muoversi all’unisono col suo corpo troppo grande. Estonia vede Russia e, in qualche modo, lo sente più vicino a lui. Eppure sente più freddo di quel che gli dà la neve. Superano il cancello. Lettonia ha ascoltato e nota gli occhi provati del fratello maggiore. Non capisce. Chiude il cancello, lo serra come fa sempre. Lancia un ultimo sguardo alle luci della capitale. Non ha desiderio di pensare alla fuga. Ripensa piuttosto a quel che sta succedendo e anche all’ultima frase di Russia.

 

“Beh, se così non fosse, di sicuro non sarei qui con voi”

 

Serra il cancello, gli occhi si spalancano, la mascella cade. Comprende.

Estonia ricorda la prima volta che mise piede nella casa di Russia. Era un po’ più basso, ricorda. Più pauroso che rabbioso. Ricorda il dolore allo stomaco, la gola che bruciava, che chiedeva disperata qualcosa da bere. Ricorda la neve che entrava dentro, più timida di lui. Ricorda i fiocchi che si posavano sulle piastrelle dell’atrio, ricorda il silenzio scandito dal grande pendolo di quercia. Ricorda di aver avuto freddo solo nel vedere i soffitti, troppo alti per lui, per chiunque. Estonia ha una grande memoria, gli sembra di rivedersi, di rivedere e risentire gli stessi istanti. Ricorda, però, che Russia era felice. Ricorda la sua voce grande ed infantile chiamare Lituania. Ricorda il volto di suo fratello, la prima volta che si videro dopo anni ed anni. Ricorda lo scintillio azzurrognolo di speranza, le guance un po’ rosse, le ciocche scure dietro alle orecchie. Ricorda l’oro splendente che toccava il camino, gli argenti vivi sfiorati dalla neve come lame di luce. Estonia sospira, quello gli manca.

Procedono nel corridoio. La casa è fredda, cupa, triste. Ha qualcosa di malinconico, questa casa. Anche Lettonia nota la stessa cosa. Al ragazzino ricorda una vecchia foto sbiadita, abbandonata tra le pagine di un libro. È qualcosa di orribilmente distrutto e trascurato quel che sta vedendo. Guarda i soffitti alti e non si sente piccolo, indifeso, pauroso. Sono dei giganti già visti e sconfitti, forse in quel momento. Estonia guarda i soffitti e si sente più grande ed imponente di loro. L’occhio di Lettonia cade sulla sciarpa di Russia e poi sulla sua figura. Si sente un po’ più alto e forte. Estonia e Lettonia rimangono perplessi nell’entrare nella stanza di Russia, ordinata e pulita. Rimangono perplessi anche nel vedere il corpo di Lituania steso sotto le coperte, tolti i vestiti. A Lettonia pulsa una vena di speranza, nel guardare gli occhi profondi del suo padrone.

“Lettonia, per favore, vai nel bagno dove ti avevo curato e portami del disinfettante, un piatto pulito, non ha importanza quale, e delle bende. Poi vai nella camera di Ucraina e cerca un ago e del filo. Fai in fretta!” ordina, senza nemmeno voltarsi. Ad Estonia ritorna a battere una piccola paura, poco vicina al cervello. Quella paura per Russia stringe dentro al suo stomaco, gli fa rivoltare tutti gli organi dentro la pancia. D’istinto abbassa la testa, ritorna la sensazione di essere piccolo.

“Sissignore” Lettonia scappa per i corridoi, senza sapere bene cosa abbia intenzione di fare il suo padrone. Ha la consapevolezza sulla punta della lingua, ma non crede che sia possibile. La vena di speranza si espande anche nel suo cuoricino. Pulsa forte ed energica, felice e spensierata. Lettonia si sente stranamente felice e al sicuro. Estonia rimane sulla soglia, teso e nervoso. Il respiro fa fatica ad uscire dal naso e deve obbligare i suoi polmoni a far entrare e uscire aria. Il cuore è un garbuglio di emozioni. Russia, alfine, nota la sua presenza.

“Non stare lì, da solo. Vieni vicino a tuo fratello” tuo fratello… Estonia rialza il capo. Anche a lui pulsa una vena, più timorosa che speranzosa. Russia non li aveva mai chiamati fratelli. Estonia, confuso ed irrequieto, si avvicina, ansioso. Il russo sta facendo scivolare via dai capelli l’elastico nero di Lituania che, nel frattempo, nota con sollievo Estonia, ha cominciato a respirare. Non esce più sangue dai tagli sulle braccia, forse ne è finito. Russia gli leva l’elastico e lo poggia con cautela sul comodino, senza sciogliere il contatto che hanno i suoi occhi col petto fragile del ragazzo. Estonia, per tutto questo tempo, si sente inutile. La vena di timore comincia a sciogliersi lentamente per lo sconforto. Russia si ricorda ancora della sua presenza.

“Estonia, siediti qui vicino a Lituania. Lo farai stare bene” Estonia, ancora perplesso, ubbidisce. Per un attimo, la vena di timore si sarebbe ingrossata di nuovo. Si sente goffo in confronto a Russia. L’occhialuto poggia gentilmente il suo peso sul materasso. Ora vede bene suo fratello. Le uniche cose che sporgono sono la testa e le braccia tagliate. Se il sinistro ha squarci precisi, il desto è una ragnatela di spacchi, di carne rossa e viva. Estonia deglutisce: quelle lacerazioni lo fanno rabbrividire. La vena di timore si sgonfia totalmente, il respiro si tranquillizza. Ripensa a quel che è accaduto questa notte e…non riesce a crederci.

Non può crederci che Lituania si sia spinto a chiedere in ginocchio la morte per uscire da quella casa. La paura viene scacciata via da una docile fiammella di rabbia. Che egoista, pensa Estonia, più arrabbiato che triste. La fiammella brucia della carne attorno alla pelle del cuore. Un lampo d’argento fa brillare una lente degli occhiali. Ha voglia di svegliare Lituania a suon di ceffoni e di chiedergli il perché. Vuole sentirlo dalle sue labbra. Vuole sentire che è colpa sua se è arrivato a quel punto, che non è solo per la morte del suo migliore amico o per le furie di Russia. Vuole trovare altre mille ragioni per sentirsi pienamente in colpa. Vuole poi uscire fuori, al freddo, e buttarsi contro le mura della villa fino a quando non sentirà le sue ossa spaccarsi in tutto il corpo. Poi vorrebbe restare lì, da solo, e piangere come non ha mai fatto per anni ed anni. Vuole sentirsi come si è sentito Lituania, avere tutte quelle emozioni nel cuore. Così, almeno, può capire come si sente suo fratello. Così potrebbe comprenderlo. Così si sentirebbe più vicino a lui e potrebbe amarlo di più. Avrebbero se non altro una cosa in comune. Russia poggia una delle sue gigantesche mani sulla fronte del ferito.

“Sta bene?” Russia è troppo concentrato sul pallore di Lituania per voltarsi verso l’estone,ma, in verità, non vorrebbe nemmeno voltarsi. Estonia vede i suoi occhi violacei e pensa che non li abbia mai visti così adulti come ora. Li piacciono. Lo riscaldano, in qualche modo. Un lembo della sciarpa cade in avanti. Russia lo ignora, continua a passare la mano sulla fronte del ferito. Pare un po’ più bianca, la pelle di Lituania. Meglio del grigio di prima.

“Si, ha poco sangue, ma sta bene” dice, neutro, senza ironia o tristezza. Non riesce a dare espressione alla voce. La sente inclinata, fredda, per niente infantile. Russia per un attimo non si riconosce. Eppure, non si preoccupa. Questo nuovo lui non gli dispiace. Estonia, stranamente, non ha più paura di lui. Il russo inizia a sfiorare col polpastrello del pollice e dell’indice la fronte ghiacciata. Lituania sospira di sollievo, avverte il freddo delle dita del gigante. Crede che sia ancora fuori, nella neve, per questo è sollevato. Estonia tira anche lui un sospiro di sollievo. Il cuore batte ancora forte, ma è decisamente più docile e confortato di prima, di quando erano nella foresta. Riesce anche a sorridere leggermente. La luce sulla lente dei suoi occhiali è più morbida e sottile.

“Si, sta bene. Ed è anche felice” vorrebbe ripeterlo altre mille e mille volte, tanto è sollevato. Lituania sta bene e non sta morendo. È una cosa bellissima. La colpa non è sua. Va tutto bene e andrà tutto bene. È felice per questo “Mi preoccupo per poc-…”

“No, non va bene” esclama, serio, Russia. Estonia sobbalza, sorpreso. Un sottile ago l’ha infilzato dietro la schiena, pungente e bollente. L’ha fatto fare un gran sobbalzo. Il materasso segue i suoi movimenti e crea delle onde d’impatto. Il cuore ritorna di ghiaccio, la luce tenue sulle lenti svanisce, ritorna il buio della stanza. Russia ritorna un gigante cattivo. Gli occhi di Russia lo trafiggono in due. Una calma distorta s’impossessa di entrambi. Estonia ricorda di avere il terrore di quel gigante bianco. Il viola che gli piaceva prima ora lo atterrisce e lo terrorizza. La lama di luce s’impossessa dei suoi occhi profondi. Estonia vede un tornado maledetto che lo afferra e lo sbatte dentro il vortice di stasi.

“Non capisco, signore” dei filamenti di sudore colano dalla fronte dell’estone. Sente caldo, di punto in bianco. Sente un pericoloso vuoto dentro di sé. Il generale non risponde, non smuove gli occhi da quelli di Estonia. Il ragazzo sente le gambe tremare, fanno altre onde sul materasso. Gli occhi del russo smettono di disturbare i suoi blu e si concentrano sul piccolo Lituania, sereno, beato però del caldo delle coperte. Russia, per un attimo, lo invidia. Pensa che Lituania dovrebbe essere sempre felice come ora, ma non per questi motivi.

“Sai perché è felice, Estonia? Perché pensava di poter scappare dalla vita e di non tornare più indietro. Pensava che avrebbe potuto essere felice in un altro posto e non qui” Estonia è statico, si sente intrappolato nel suo corpo. Il respiro smette di entrare nei polmoni, anche il cuore è in arresto. Russia sente rabbia nella propria voce, ma non pensa che dovrebbe fermarla. Sarebbe da ipocrita, sarebbe come il mostro che ha sempre conosciuto. Non vuole più vedere quel mostro, mai più. Vorrebbe però dare una lezione ad Estonia. Dopotutto, la punizione non può tardare.

“Sai cosa vuol dire, Estonia? Che lui odia stare qui con voi, in questa casa, a Mosca” con me, vorrebbe aggiungere, ma pensa che ora sia poco importante “E sai il perché? Perché l’abbiamo spezzato in due: io, tu, Lettonia e probabilmente anche le mie sorelle hanno dato un piccolo contributo” Russia ha come una rabbia repressa nella sua voce calma e dolce. Estonia non la vede, ma la sente lungo la spina dorsale ed è ghiacciata. L’ira di Estonia rabbrividisce di fronte a quella di Russia. La sua furia è gelida, congela invece di bruciare. È invisibile, strisciante, insidiosa. Non si fa sentire con gesti eclatanti, ma con fredda e calcolata inerzia, grazie a parole calde e buone, occhi pacati e docili, suppliche di perdono ignorate dalle sue vittime. Forse Russia mostra la sua rabbia dietro alla maschera di un sorriso perché, semplicemente, è la sua vera natura essere infantile e bambino. Agisce come il tagliagole che è sempre stato fin dai tempi degli zar. Diventa falsamente gentile, si avvicina piano, ti carezza e ti conforta con parole e sorrisi, attende che tu possa affidarti a lui. Poi, strappa via tutte le tue speranze di fuggire o di nasconderti. Russia applica da secoli lo stesso metodo ed i Baltici lo conoscono così bene da saperlo a memoria. La cosa peggiore è che Russia non usa sempre lo stesso sistema, ma si arricchisce creandone altri, con le stesse basi, ma con approcci diversi. I tre fratelli non sapevano mai come difendersi e, semplicemente, non lo facevano. Attendevano che accadesse e basta. Russia non lascia scappare nessuno e se te lo lascia fare è solo per allungare ancor di più il suo interesse e divertimento. Estonia impallidisce mentre Russia si alza e si avvicina a lui. Estonia ha paura: è passato molto tempo dall’ultima volta in cui Russia si è sfogato con lui. Da seduto, sul materasso morbido, Estonia si sente ancora più piccolo ed indifeso. Non potrebbe scappare nemmeno volendolo. Il cuore pompa molto più sangue del normale. Gli occhi tremano nell’incontrare quegli di Russia.

“Sai, Estonia, perché è tanto triste Lituania di stare qui? Perché siete dei pessimi fratelli, voi Baltici” il respiro di Estonia si blocca, le iridi diventano piccoli spilli: il gigante ha poggiato le grandi mani sulle sue spalle. Estonia si sente comprimere, le mani da gigante sono forti e cattivi “E sai perché siete dei pessimi fratelli? Perché Lettonia pensa solo a sé stesso, non è abituato a pensare a qualcuno che non sia lui. E tu, invece, hai sempre desiderato essere solo, Estonia? No, certo che no” chiede, sorride, finge di essere calmo. Vorrebbe urlare, ma così tutto ciò che sta facendo sarebbe vano. E poi, non vuole sfogarsi e basta “È perché sei debole, Estonia” qualcosa in ciò che ha pronunciato lo rende felice. È qualcosa di crudele e maligno, ma lo rende ugualmente allegro. Tra le labbra brilla una zuccherosa risata “Sei talmente debole da non riuscire a pensare a qualcuno che non sia tu. Ma sei così debole da non riuscire nemmeno a difenderti da solo” Russia sa quanto facciano male queste parole, per questo continua, ignora i singhiozzi del ragazzo. In un certo senso, gli fa piacere che tremi. Lo fa sentire meglio “Tutta questa debolezza è così ridicola che non vale la pena nemmeno sfiorarla” sorride, Russia, gli accarezza una guancia umida, con un’ironica coincidenza nelle sue parole e nei suoi gesti. Ha un sorriso così caldo da investire il cuore di Estonia, piegato in due per Lituania. Il ragazzo vorrebbe abbassare la testa, si vergogna come mai in vita sua. Arrossisce per la vergogna, le lacrime sporgono dalle iridi blu, il corpo trema con più forza. Si sente un insetto piccolo ed insignificante. Estonia vorrebbe dimostrargli il contrario, a costo di diventare un’interessante giocattolo per Russia. Vorrebbe sprofondare, tanto si vergogna di sé stesso, di farsi vedere così debole. Vorrebbe che Russia stia zitto. La vena di ira che cresce in lui è insignificante quanto lui stesso. Si chiede perché debba essere il suo crudele padrone a sputargli la verità in questo modo. Estonia lo sa. Russia ha in mano la sua vita. Potrebbe gettarlo via come un giocattolo rotto. Al suo padrone non importerebbe di lui: ne prenderebbe un altro più carino, più interessante. A Russia non importa di lui, potrebbe spezzargli il collo e abbandonarlo in uno sgabuzzino. Potrebbe dimenticarsi di lui e lasciarlo morire al buio e al freddo. A Russia, dopotutto, non importa di lui.

“L’angelo che ora sta dormendo in questo letto è stato molto più interessante di te, un avido cinico e debole, e del tuo secondo fratello, un piccolo ingrato che trema nei suoi patetici stivali. Anche messi assieme” il cuore del più piccolo smette di battere per un istante. Si scioglie, Estonia lo sente sciogliere, vergognoso, confuso e bisognoso di aiuto “Siete delle piccole e disgraziate formichine, tu e Lettonia. Potrei vendervi per mezza bottiglia di vodka finlandese, se lo desiderassi” lo stomaco del ragazzo s’irrigidisce e si contrae. Il cuore è pesante e duro come la pietra. Le lacrime continuano a scendere. Non riesce a fermare i singhiozzi. Si vergogna moltissimo. Russia continua a parlare, calmo per davvero questa volta, facendo dei cerchi coi pollici sulle spalle di Estonia. I gemiti dell’estone lo fanno sentire bene. Gli riempiono il cuore di pace. Gli piace vederlo così mortificato. Involontariamente allarga il sorriso. Per un attimo ritorna crudele.

“Siete talmente piccoli ed insignificanti che potrei uccidervi soltanto perché non arriva una nuova guerra con cui divertirmi. Ma sai una cosa? Non varrebbe la pena farlo, siete così privi di significato da non essere divertente nemmeno spezzarvi in due le ossa. E vuoi sapere un’altra cosa? Non vale nemmeno la pena parlare con delle formichine così piccole e fastidiose: non è né divertente né interessante” ora Estonia sta piangendo per davvero. Le lacrime sbattono la sua testa in avanti e indietro. Si sente come ha detto Russia: piccolo, cinico, egoista, patetico, insignificante. Il vuoto dentro di sé si fa ancora più cupo. Vorrebbe arrabbiarsi con Russia. Vorrebbe avere abbastanza coraggio per dargli, o almeno provare a dargli, un calcio o un pugno. Vorrebbe tante cose che non può avere. La testa di Estonia cade in avanti, troppo pesante, e le lacrime gocciolano sul pavimento, oltre le ginocchia piegate e la morbida coperta bianca. Russia gli lascia le spalle. Probabilmente si è già annoiato di lui. L’estone vorrebbe scappare da quella stanza, da chiunque e non farsi vedere da nessuno. Si sente umiliato e debole. Arrabbiato e confuso. Non capisce bene perché pianga così tanto. L’intero corpo si scuote per il pianto. Vorrebbe che il buon Dio lo fulmini, vorrebbe sparire dalla cartina geografica e non tornare più. Forse così anche Lituania sarebbe felice. Avrebbe una ragione in meno per ritentare il suicidio.

Dolci passettini veloci, di bambino. Estonia ferma il pianto, umiliato fin dentro le carni. Lettonia entra nella stanza con tutto ciò che Russia gli ha ordinato di cercare. Poggia ogni cosa sul comodino, vicino al suo padrone. Russia gli sorride, un sorriso vero, non pensava realmente tutto ciò che disse del lettone. Lettonia volta leggermente la testa. Avrebbe voluto guardare la salute di Lituania, ma le lacrime di Estonia gli bloccano le iridi. Una lontana domanda gli giunge alle orecchie, ma Estonia non riesce a sentirla, troppo preso dal tremito di pianto e dalla voglia di cambiare. Si odia.

Russia prende l’alcool col quale bagna il piattino. L’ago e il gomitolo di filo vengono inzuppati nel liquido trasparente. Il silenzio di stasi è più caldo e confortevole. Forse perché Russia non fa del male o forse perché c’è il piccolo Lettonia. Con un’insolita precisione, Russia penetra l’ago sottile tra i tagli di Lituania. Lettonia ci prova, ma distoglie lo sguardo, quel che vede gli fa troppa impressione. Nota che Lituania non sembra dar peso al dolore dell’ago nella sua pelle, sospira felice, come se quei fili nella sua carne siano piacevoli, e continua a dormire. Russia procede il suo lavoro anche sull’altro braccio, cuce la carne come morbida stoffa di bambole. Lituania è una piccola bambola da cucire e rammendare. Da riparare ed accudire.

“Puoi essere più di così, Estonia” dice il russo, continua a chiudere i tagli più profondi. Estonia alza gli occhi, sgonfi dalle lacrime e dall’umiliazione. Muore dalla tristezza e dallo sconforto. Quasi, pensa, che Lituania abbia avuto una buona idea. Dopotutto, non esiste altra via d’uscita in quella casa. Chiude le palpebre, maledicendosi per i propri pensieri.

“Lettonia, tu vuoi bene a Lituania?” il piccolo, sorpreso per la domanda e non avvertendo alcun pericolo, si mette sull’attenti. Gli occhi cerulei brillano di amore. Il ragazzino ama il sorriso adulto del generale, lo fa sentire lui stesso un adulto. Annuisce più volte, nelle vene sangue di coraggio.

“Si, signor Russia, moltissimo”

“Bene, è una buona cosa. Te lo chiedo perché devi farmi un grande favore, anche tu, Estonia” l’eco della voce del russo tocca le orecchie di Estonia, ancora umiliato, ma calmo e rasserenato “L’avete visto: Lituania sta male, molto male” l’ago purificato e scintillante affonda dolcemente nella carne, attende di poter entrare e ci sprofonda dentro, calda e rilassata “Per amor suo, stategli vicino, voletegli bene, cercate di amarlo: è importante, quando si ha un fratello” l’ago chiude una ferita, Russia tira leggermente il filo, la carne si ricongiunge con la gemella strappata e martoriata “Siate più uniti e fedeli fra di voi. Non devo spiegarvi cosa fare: arriva dal cuore, non dev’essere un obbligo a cui devo legarvi. Cercate di volervi bene fra di voi. Lettonia, prova ad essere più coraggioso” il piccolo, anche se molto scosso, annuisce. Non aveva mai sentito delle parole così dolci e vere da Russia. Anche se non glielo avesse chiesto, l’avrebbe fatto ugualmente. Aveva promesso a Lituania di essere più forte, molto più forte, e di stargli vicino. Avrebbe ucciso tutti i suoi mostri e li avrebbe cacciati via. L’aveva promesso anche a sé stesso. Non può dimenticare la morte dei suoi soldati e del suo popolo. Anche se un piccolo passo, vorrebbe farlo. Anche per sé stesso. Anche per Estonia.

“Si, signore”

“Estonia” il Baltico irrigidisce la schiena, i tremiti smettono di percuotere le spalle “Dimostramelo, Estonia, dimostramelo” dimostrami di essere interessante, legge il ragazzo negli occhi violacei “Anche se non puoi difendere nemmeno te stesso, potresti almeno provare a difendere qualcun altro” dimostramelo, Estonia, dimostrami di poter essere un fratello, vorrebbe dirgli Russia. Lettonia nota lo sguardo del padrone. E’ confuso per non aver ascoltato la conversazione tra i due. Estonia, ancora con le lacrime agli occhi, annuisce. L’umiliazione è viva dentro di sé, ma la ignora, fin troppo orgoglioso e provato. Russia, soddisfatto, annuisce lui stesso, fra sé e sé. Chiude l’ultima ferita e coi denti taglia il filo. Usa le bende e le avvolge tra le braccia ferite del lituano. Russia si alza dal letto e prende la sua giubba.

“Fino a quando Lituania non si sentirà meglio, userete questa stanza: è molto più calda e confortevole. Io vado a dormire nella camera degli ospiti, se avete bisogno di qualcosa. Buonanotte, piccoli” senza dare altre spiegazioni, il generale esce dalla stanza e chiude la porta. Lascia la chiave nella serratura. Qualche secondo di stasi passa, qualche minuto percorre la sua schiena di un freddo invernale. Si stacca dalla porta, si volta e cammina. Sospira, cerca di far passare tutta l’ansia e la paura. Cammina tra i corridoi cupi. Trova il salotto, la sua biblioteca, la sua poltrona. Ci si getta sopra. Il suo pesante corpo sprofonda leggermente nella morbida pelle. Il sollievo, trattenuto fino ad ora, lo percorre in tutto il corpo. Passa le mani aperte sul viso, in qualche modo riesce a gettare via tutta l’ansia.

Finalmente gliel’ho detto, pensa. Aveva quelle parole sulla punta della lingua da quando aveva in casa i tre Baltici. Non si pente di aver fatto scoppiare in lacrime Estonia e nemmeno di avergli raccontato la verità in un modo così crudo. Era giusto fare il primo passo, il resto passava a loro tre. Dentro di sé spera che le cose cambino e non solo in quella casa. Da tempo Germania e Prussia stanno fermi con le loro mosse, dopo i bombardamenti di Londra. Sospetta qualcosa, ma ora non gli importa.

Nel caso accadesse, sarebbe una buona occasione per i Baltici per unirsi, pensa. Ma ora non vuole più pensare ad altro: ha sonno e vuole dormire. Eppure, ricorda, la sua giubba è più pesante di quel che ricordava.

Ricorda il libro, rivede la forma impressa nel bianco della casacca. Lo fa uscire fuori, un mucchietto di pergamene intrecciate con dello spago. Decisamente, da giovane non era pratico di libri. Lo gira e rigira fra le mani. Non avrebbe dovuto rubarlo a Cina, ma il disperato è ladro nel momento del bisogno. Eppure, da ragazzo aveva sperato tanto in quelle parole… Non vuole pensarci. Nel camino scoppia del carbone ancora acceso. Una fiammella s’intreccia con la carta antica. La inghiotte, ingorda, tutta in bocca. Ancora affamata, continua a mangiare, sbrana anche i fili e la pelle della copertina. Russia assiste al banchetto delle fiamme. Continua ad osservare il fuoco nel caminetto. Ma è troppo stanco. Le palpebre sono troppo pesanti e la poltrona è troppo comoda…

Estonia e Lettonia si svestono e si adagiano dentro al letto dov’è sdraiato Lituania. Russia aveva ragione: quella stanza è calda e confortevole rispetto alla loro. Lituania sospira di sollievo, dopo che i fratelli si erano stretti vicino a lui. Entrambi non vogliono e non riescono a pensare a nulla in particolare. C’è vuoto nel maggiore, speranza nel più piccolo. Estonia vuole dimenticare tutto e vorrebbe cambiare. Avrebbe dimostrato a Russia che non è insignificante e, soprattutto, l’avrebbe di nuovo dimostrato a sé stesso e ai suoi fratelli, pensa a queste cose mentre poggia gli occhiali sul comodino. Lettonia, d’istinto, passa un braccio sopra al petto del fratello ferito. Lituania risponde con un altro sospiro felice. Anche Lettonia è felice.

“Senti, Lettonia, non so tu, ma io non voglio che succeda più una cosa del genere” afferma Estonia, serio. Lettonia è sorpreso dall’affermazione dell’estone, ma annuisce anche lui.

“Io pure. Non ci sarà una prossima volta” si stende più in profondità nelle coperte, decisamente più morbide delle loro “Questo è per Lituania. E anche per noi” afferma, solenne. Estonia è felice per queste parole. Dopo anni ed anni, vuole bene a Lettonia. Annuisce, commosso. È anche per lui. E’ anche per la sua dignità. E’ anche per suo fratello. Per i suoi fratelli.

“Buonanotte, Lettonia”

“’Notte, Estonia” il più piccolo ci pensa un po’ su. Alza il busto, raggiante, verso il maggiore dei tre, in mezzo a loro.

“’Notte, Lituania” lo bacia sulla guancia. Lituania fa un altro sospiro di sollievo, come se desiderasse un altro contatto, un altro bacio. Lettonia si sdraia e, in pochi minuti, si addormenta. Estonia rimane sveglio, a fissare il fratello. Sembra calmo, ma non è la calma che ha visto nella foresta. È… diverso. Spera che siano loro il motivo della sua felicità. Lituania sembra contento ed Estonia, inconsciamente, è felice anche lui.

“Buonanotte, Lituania” si avvicina e gli bacia l’altra guancia. È tiepida e un po’ ruvida, ma gli sta bene così. Vorrebbe che Lituania possa sentirlo. Lo renderebbe felice. Vorrebbe che sapesse del suo pentimento. Vorrebbe dirgli che gli vuole bene e che non lo odia per davvero.

Ora si che sembra tranquillo, nota Estonia, vedendo un chiaro sorriso tra le labbra del maggiore.

 

 

 

 

 

Sa che non è il Paradiso, se lo fosse non sentirebbe dolore. Né il freddo. Né il buio. Nemmeno il corpo rigido straiato chissà dove. Ma sente le mani di Polska su di lui. Le sue dita morbide carezzano il mento e il collo. Lo fa sentire al caldo e protetto. Mostra di più il collo, vuole altre carezze. Non ricorda quando ne ha ricevute l’ultima volta. Apre gli occhi. Capelli di grano. Labbra di bambola. Polska gli sembra bellissimo. D’istinto sorride. Sente le ginocchia del suo amico, dure e sottili, sotto la sua testa, ma non gli importa. Polonia è incredibilmente bravo ad accarezzarlo. Si sente molto più leggero. Potrebbe spiccare il volo come una colomba, se potesse.

“Nel libro c’era scritto anche che, se il procedimento avesse potuto avverarsi, avrei dovuto avere l’aiuto di un fantasma, di un defunto, in modo che questo avesse potuto staccare l’anima dal mio corpo e così portarmi nell’Oltretomba” Polonia continua ad accarezzarlo, ma il suo sorriso muore. Ha occhi di lince, severi e calmi, quasi calcolatori. Lituania non è abituato a vederlo sempre così teso. Ma gli piace anche questo Polska. È, in qualche modo, più comprensibile a lui. Ma gli manca comunque il suo sorriso. Gli manca quel po’ della sua follia. Afferra la sua mano, ferma sulla sua guancia. Polonia è inflessibile, ma timido con gli occhi. Lituania sorride “Perché non l’hai fatto?” Polonia stringe gentilmente la sua mano ossuta. È fredda, ma riesce a riscaldarla. Non deve nemmeno riflettere per rispondere.

“Ti amo troppo per volerti uccidere” Lituania risponde alla carezza dell’amico. Col pollice sfiora le mani di bambino, fino al polso e lì si ferma, intenerito. Schiude le labbra, escono perle bianche tra i denti.

“‘Amo’, Polska?” a Polonia piace la risata di Liet. Non la sente da anni, così vera e felice. Non si vergogna per quel che ha detto. Gli occhi diventano umidi per la gioia. Liet è guarito. Liet è di nuovo vivo.

“Se ti volessi solo bene, allora non avrei mai fatto…tipo, tutto questo per qualcuno” il corpo del lituano sobbalza per le troppe risate. I denti brillano come gemme, Polska ama i denti di Liet quando ride e sorride. Ama anche i suoi occhi blu. Ama il suo animo di angelo. E, ironia, fra poco diventerà anche lui un angelo. O un demone. Il sorriso s’incupisce, il velo di lacrime sugli occhi diventa più spesso. Gli smeraldi di Polonia brillano forti. Non vuole lasciare Liet. Non vuole… Ma deve. Lituania alza gli occhi. Vede delle piume di rubino, scure e forse anche nere. Sente il fischio di un volatile, vicino a loro. Qualcosa dentro di lui comprende. E accetta. Accetta quel che avverrà. Sospira, comunque felice di avere lì Polska.

“Ora devi andare via?” Polonia sa già che Lituania sa, eppure sobbalza. Non vuole andarsene. Ha troppa paura del futuro, di ciò che gli avverrà. Ora che sa e ha capito così tante cose di sé stesso, non vorrebbe essere giudicato e castigato per essere stato cattivo con Liet. In realtà, con chiunque. Lituania vede il velo umido degli occhi di Polska. La mano si alza, leggera, sulle guance bianche. L’indice raccoglie una lacrima splendente. Polonia segue con le dita le nocche di Liet. Stringe ancora la sua mano. Non vuole lasciarlo, anche se non ha più bisogno di lui. Annuisce, cupo. I capelli ondeggiano, s’impigliano fra le loro dita. Non vuole andare via. Anche Liet ha la lacrime nelle iridi blu. Ma sorride comunque, vuole troppo bene a Polonia.

“Andrà tutto bene, Polonia” il biondo tira su le lacrime, orgoglioso anche ora “Secondo te dove andrai?” colpito nel cuore, scagliata la freccia congelata. Polonia arriccia le labbra, sta per piangere e non vorrebbe. Anche Toris lo osserva, di fronte a loro, forte, severo. Più grande, più elegante. Lituania attente, tocca i capelli di grano, ci passa le dita “Non sei stato cattivo, Polska. Quindi andrai in Paradiso” le labbra dell’amico si arricciano ancor di più verso il basso, gli occhi schiusi e umidi. Sporgono i denti e i sospiri di tristezza. Liet non sa quanto sbagli.

“Non lo so, Liet. Non so dove andrò. Potrei anche andare in Paradiso, ma non ne sono totalmente sicuro. Forse in Purgatorio, o magari all’Inferno, dato che sono stato cattivo con te…” singhiozza la sua voce. Vede gli occhi di Toris e capisce che il tempo è poco. Sente l’aria mancare, anzi, non sente proprio nulla. Tra poco dovrà andare via. Non vedrà mai più Liet.

“Ma… non è vero. Io ho tanti bei ricordi di te, di noi” sussurra il lituano, forse molto stanco e provato per tutto ciò che gli è accaduto. Polonia si sente colpito, affonda ancor di più la freccia ghiacciata. Brillano gli occhi. Si sente meravigliato. Ma questo non sconta il suo peccato. I capelli si muovono verso il basso, sfiorano la fronte dell’amico. Lituania sente sul suo capo, vicino ai capelli, delle labbra calde, morbide, vive. Polonia profuma di mirtilli e di fragole. Sa di buono e dolce. Lentamente il contatto si spezza, come il cuore del principe. Toris è cresciuto, è quasi più grande e possente di lui. Si posa sulle sue spalle. Sbatte le ali. Solleva la piccola nazione polacca. Polonia accetta quel che gli sta accadendo, nonostante la paura, nonostante tutti i suoi peccati. Sa solo che deve sorridere.

Dopotutto, è per Liet.

 

 

 

 

 

“Almeno promettimi una cosa…”

“…?”

“Promettimi che tornerai”

“Se tu prometterai di aspettarmi”

“Lo farò”

“Per quanto riuscirai ad aspettarmi, Liet?”

 

 

 

 

 

“…per sempre…”

 

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** OtTaVo CaPiToLo ***


C’è qualcosa di nuovo in quel buio. Qualcosa di caldo, ma ugualmente ripugnante. Non ha idea di cosa sia, non riesce nemmeno a vedere quel qualcosa, sa solo che si avvicina a lui, alla sua carne, alla sua pelle. Questo qualcosa pulsa, come il cuoricino di un neonato, piccolo e veloce. Fantastica se inghiottirlo o carezzarlo. Non ha memoria, lui. Sa solo che per uno sbaglio è finito lì e quel qualcosa continua ad avvicinarsi.

Ecco, ora lo vede. È viola, non sa nemmeno come faccia a riconoscere il colore al buio. Pulsa più forte, sente il battito di quel cuoricino più vigoroso e voglioso di vivere. Di respirare. Di liberare e di prendere aria. Quel cuoricino è il suo, piccolo e debole, ma bramoso di libertà. Quella massa pulsante è ad un palmo da lui. Il battito dell’essere viola è ancora più veloce, più arrabbiato. Forse ce l’ha con lui. Forse deve avergli fatto qualcosa di male e non riesce a ricordarlo. Non ha il tempo di pensare. Quella cosa si avventa su di lui, con una spinta dei suoi battiti. È viscida, sporca, fredda, la cosa. I sensi sono morti, ascoltano e non odono. Gli occhi sono chiusi, ma si rende conto di quel che stia facendo. La massa viola scivola sotto la sua giacca, la bagna con il suo corpo pulsante. Ora lo sente, il pulsare, meno forte, ma comunque disperato. Entra sotto la pelle, senza scavare, senza imprevisti. È una grossa bolla di acqua stagnante e sudicia che insozza la sua carne, si addentra all’interno. Striscia fra le costole, la massa disgustosa, tocca e penetra nei suoi polmoni fermi. Il pulsare ritorna più potente e furibondo. È un martello sbattuto più volte nelle sue costole. Il corpo si scuote, ritornata l’energia, i sensi si attivano di nuovo, dopo tanto tempo. Quanto gli era mancata questa sensazione?

Gli occhi si spalancano, biglie di vetro rosse. Le vene dell’iride s’incrociano con la pupilla. I polmoni si risvegliano, bloccati. Sono ancora bloccati. Si sforza di mandare aria lì dentro. Inspira una boccata ghiacciata, intrisa di polvere e frammenti di terra. Quel posto nuovo sa di terra, bagnata dalla pioggia. L’aria ritorna nel proprio corpo, viene scosso pesantemente dai tremiti di aria nuova e sudicia. Si saziano, i polmoni, riempiti e pronti per tutto. La testa viene retta a fatica dal collo, dolorante e rosso, come le pupille piccole e stanche. Si getta subito al proprio grembo, la testa, incapace di stare dritta. Non ha il tempo né la voglia di perdere tempo, troppo impaziente. Fa altri respiri più profondi, più decisi. Il collo ritorna saldo, sa che può reggere il peso. Dà alla testa una leggera spinta all’indietro, riesce a guardarsi intorno.

È confuso, ma non sorpreso, tante ne ha passate in quegli anni. L’hanno chiuso in una stanza, alfine, si rende conto. Gli occhi vagano, sconfitti dalla novità, il cuore calmo e pacifico. Ricorda la sua sconfitta, ricorda i suoi peccati. Li accetta tutti e non gli importa se qualcuno li accetterà mai. Almeno, ora non gli importa. La stanza non è del tutto buia, una luce si fa spazio sotto i suoi piedi. Non c’è nient’altro da vedere: un po’ di buio, freddo, terra, polvere, grigio. Ogni cosa in questa stanzetta è grigia. Quest’altra novità lo intristisce. Sospira, infelice, senza lacrime, non ne ha e non ne vuole sprecare. Si sente semplicemente triste e, nonostante ciò, non gli importa. Non gli importa nemmeno che l’abbiano legato, braccia e gambe, ad una sedia di metallo cupo e ghiacciato. Non gli importa nemmeno di quel che c’è fuori dalla finestra, anche per il buio e le poche stelle in cielo. Non gli importa nemmeno di sapere che fine farà. Se lo merita e basta, nemmeno suo fratello gli farà cambiare idea.

Qualcosa scricchiola dietro di lui. Un istinto non suo, assolutamente non suo, gli fa abbassare il capo, impaurito. La stanza diventa, giusto per pochi secondi, giallognola. Al centro di quello schifo, di spalle al cambiamento, triste e solo, tanto solo, vede solo una grande ombra. L’ombra lo inghiotte, ritorna il buio. Solo ora, solo in un piccolo attimo, si chiede chi sia. Solo questo gli interessa, giusto un po’. Il buio ricopre di nuovo la stanza, un altro scricchiolio, un tonfo sordo. Non sobbalza, aveva previsto tutto. Ha una vaga idea di chi sia. Quel qualcuno si avvicina, sente dei passi ancora più pesanti. Giura che in tutta la sua vita ha visto soltanto un uomo così alto e robusto. Troppo alto, troppo robusto. I passi si fermano dietro di lui. Esitano un po’. Ha la certezza che sia lui: solo Russia vuole dare tutta questa paura, solo con la sua presenza, solo con un’esitazione volontaria. C’è però una cosa che non sa: lui non ha paura. Ha già accettato il suo destino.

Ancora con lo sguardo basso, sente una grande mano gettarsi sulla sua, guantata e nera. Anche i guanti di Russia sono neri. Stringono forte la presa, tartassano poco le sue dita. Gira, scuote, sbanda la sedia. Ha un capogiro, troppo veloce e scattante è stato il movimento. Non è ancora abituato alla luce: gli bruciano gli occhi. Non è più abituato nemmeno a vedere di nuovo la malata e bastarda faccia sorridente di questo slavo. In qualche modo riesce ad alzare la testa, disgustato. Lo odia ancora per ciò che gli ha fatto.

“Buonasera, Prussia” inclina la testa, chiude le palpebre, lo slavo. Il suo gigantesco corpo para la luce dietro di sé. Prussia alza anche gli occhi, un gorgoglio di nausea gli fa strizzare e serrare lo stomaco e la mandibola. Qualcosa cola dalla sua fronte, non è certo che sia sudore: il sudore non è così denso. Anche le ciglia sono impregnate nel liquido scuro, fresche per la nuova ondata di calore nel suo corpo. Il prussiano si rende conto di molte cose e si meraviglia che non se ne sia accorto prima. Decide di indossare una maschera, quella che ha sempre indossato con West in quei pochi ma intensi anni di morte. Prussia sorride, ghigna la mascella. I denti sporgono, bianchi e puri. I canini hanno voglia di mordere della pelle nivea e degli occhi viola.

“Quale onore, Russia!” è ironico, cattivo, ma comunque sconfitto. Entrambi lo sanno, entrambi lo vedono, ma solo uno di loro non vuole fingere. Russia riapre le palpebre, serie, ipnotiche. Il prussiano si scuote quando il generale muta lo sguardo, così, d’un colpo. Hanno qualcosa di magnetico, gli occhi dello slavo. Prussia non sa cosa sia, ma ne è colpito, un piccolo ago di piombo giù nello stomaco. Gocciola ancora sangue dalla sua fronte. Non ha idea di come appari, ma ne è certo: è meno magnifico del solito. La stasi di questi occhi seri è rivoltante e cruciale. Pensa che voglia vendicarsi, non si aspetta altro da lui. Dopotutto, aveva pianificato di distruggere Mosca e di costruirci sopra un lago. Prussia respira con affanno, qualcosa dentro i polmoni si raffredda e blocca il fiato. Quest’attesa è snervante e, lo ammette, anche maledettamente spaventosa.

Accade, il russo si muove. Prussia non sa cosa aspettarsi, non sa cosa vedere o fare. Aspetta quel che vorrà fargli. Non gli importa, lo accetta, come ha accettato tutto ciò che ha fatto. Gli occhi viola sembrano piuttosto stanchi. Il respiro di Russia si poggia dolcemente sulla sua gola scoperta. È freddo, eppure è la cosa più calda che riesce a sentire ora. Si concentra su questo, su questa brezza calda e fredda. A Prussia cadono le palpebre, la mascella lascia la presa dai suoi denti. Accetterà anche il dolore, sa che può farlo. Il cuore, quel poco che riesce a battere, sussulta tra le costole della carne squarciata dalle pallottole, dal fumo, dalle bombe, dalle urla di dolore di West. Per un attimo pensa a lui: non avrà più un fratello accanto a lui per proteggerlo.

Piyo Piyo!” il cuore debole, tiepido, sussulta con più forza. Riesce a far provare lo stesso sobbalzo alla mascella e al petto. Il prussiano spalanca le palpebre, il cuore sta per scoppiare, il fiato corto e troppo debole. Non può superare tutte queste cose in una sola volta. Sa che non può farlo. Eppure ci prova, prova a sopportare il dolce dolore. Il cuore batte più forte, l’emozione è troppo grande. La lingua passa, sfiora le labbra sporche. Sente la terra e il fumo dei gas nel palato, eppure non gli importa nemmeno questo. Il cuore fa fatica ad avere tutte queste emozioni. Sulla mano di Russia è poggiato il suo Gilbird. Sussultano ancora, le labbra di Prussia. Fa troppo male questa felicità. Il piccolino zampetta sulle dita involte nel nero, imprudente ed agitato. Gli fa male vedere il suo padrone così debole e rosso. Ma ogni cosa di Prussia è rossa, nemmeno i capelli d’argento si sono salvati dal sangue e dalla sporcizia.

Gli occhi spaccati rischiano di affogare nelle lacrime. Pensava che il suo piccolino fosse morto, sotto le bombe di Inghilterra, tra le ceneri degli aerei di America, sparato da un francese o mangiato da un cinese, che di carne non ce n'è più a Berlino. Spera almeno che suo fratello stia bene. Sa che è vivo, Francia gli ha giurato che non gli torceranno un capello più di quanto abbiano fatto. In qualche modo vuole crederci, anche se ha fatto del male anche a lui.

Gilbird è irrequieto, cinguetta disperato. Russia non gli impedisce di svolazzare sulla spalla del suo padrone. Non gli impedisce di beccargli leggermente una guancia, preoccupato nel profondo. Non gli impedisce nemmeno di strofinare le piumine gialle sulle sue labbra sporche. Prussia vede il suo piccolino sporcarsi del suo sangue. Vorrebbe che stia lontano, non vuole levare anche a lui la magnificenza. Ma l’egoismo è troppo forte e le lacrime salate sono troppo pesanti. Gilbird le raccoglie col becco, impregnato di rosso e nero. È ancora agitato, ma un po’ più calmo. Il cuore di Prussia batte ancora troppo forte. Pensa di svenire, sente le vertigini, sente di essere troppo felice. Sente di non essere più magnifico e soffre tanto.

“Non è stato facile, ma alla fine l’ho trovato” la voce di Russia è come un eco lontano, udito in una valle vuota. Prussia l’ascolta, ammaliato e distrutto. Le lacrime bruciano nelle sue palpebre. Osserva Russia e questa novità in lui lo rende teso. Non ha mai visto il generale così…serio. Non ammetterà mai di aver paura, ora, di lui. Russia lancia una breve occhiata alla sua sinistra. Prussia segue gli occhi, non aveva idea che ci fosse un orologio, attaccato malamente alla parete. Mezzanotte meno due. Ha un brivido di terrore lungo la spina dorsale, qualcosa ha intuito, qualcosa gli scorre, viscido, tremule lungo la schiena. Le iridi rosse diventano spilli di aghi di bronzo, pesanti più dell’argento. Vede la lancetta scattare in avanti, un minuto in meno per la mezzanotte. Quel brivido di paura diventa terrore, il cuore è troppo debole per pesare tutte queste emozioni. Guarda gli occhi di Russia, ancora taciturni, e sente di star per morire. Gilbird, sulla sua spalla, ritorna a cinguettare, calmo e tremule. Prussia ha difficoltà ad aprire la bocca.

“Sto per morire, vero…?” Russia non batte nemmeno le ciglia. Sembra una statua di marmo, fredda, insensibile, bianca. Prussia lo odia solo per questo. Deglutisce a fatica. Ora il prussiano guarda per davvero il generale. È vestito di nero, il cappotto elegante, i bottoni d’oro, le cuciture preziose. È orribilmente famigliare quel che sta vedendo. Si rivede, secoli e secoli prima. Si rivede forte e magnifico, coraggioso e tenace. Si rivede vestito elegante e raffinato: la Polonia era in mano prussiana, tagliata una gran fetta solo per lui. Rivede il corpicino gracile e rosso di Polonia nascosto sotto la neve, i suoi tremiti di freddo, i suoi vestiti stracciati, le sue ferite perennemente aperte. Rivede Austria, compassionevole e affranto, chino su quel corpo quasi morto. Gli aveva detto di lasciarlo lì, a morire, o forse di dargli il colpo di grazia, per farlo smettere di soffrire. Austria era testardo, voleva salvarlo. Prima della mezzanotte, aveva detto. Prima della mezzanotte, fuori dal vecchio territorio polacco. Prima della mezzanotte.

“Domani la Prussia smetterà di esistere sulla cartina geografica” l’eco della voce di Russia è lontano, eppure rimbomba dentro di sé “L’effettivo cambio delle carte avverrà come minimo nel ’47, ma oggi, su territorio, la Prussia non esiste più. Questo per spartizione di territori” è freddo e severo, Russia. Il prussiano lo odia ancora di più. Il generale volta lento il capo verso la finestra. La testa di Prussia, furiosa, scatta lo stesso verso il vetro, stranamente pulito. Prima non li vedeva, forse non ancora abituato alla luce delle stelle, ma ora li vede. Ci sono delle figure nell’ombra, ne conta tre. Prussia si sforza, il rancore spruzza fuori dal proprio cuore debole e provato. Ora li vede abbastanza per riconoscerli. Vede delle spalle magre e rosse, dei capelli scuri e lunghi, un paio di lenti di occhiali baciati dalla luce delle stelle. Prussia, istintivamente, odia quelle figure. Odia che Russia dia più importanza a loro che a lui, in fin di vita. Si sente preso in giro. Si rimette la maschera, arrogante e il ghigno gli imperla le labbra. Gilbird sobbalza sulle zampette nervose.

“Che guardi, russo?” Russia si volta, serio ma comunque indignato. È diventato più sensibile in questi anni, in pochi ma preziosi anni. Ha imparato molto, ha perso qualcosa di sé, ma ha guadagnato qualcos’altro che ancora non comprende e, nonostante ciò, accetta del tutto. Non sa ancora gestire le proprie emozioni, deve ancora sapersi controllare. Soprattutto se ci sono in mezzo i suoi piccoli Baltici. Guarda con la coda dell’occhio Lituania, fermo, ma leggero nel proprio corpo. Anche il suo fiore è cambiato, è ritornato a vivere. Ma Russia è comunque geloso e irritato dal ghigno crudele di Prussia.

“Che c’è? Hai il tempo di bastonarli più tardi, guarda piuttosto la mia magnificenza!” esclama, voglioso di una distrazione, di un qualcosa che non gli faccia ricordare. Quel che fa è pericoloso, ma a Prussia non importa. Prima di morire, almeno, vorrebbe prendersi una piccola rivincita. Ha paura, non vuole ricordare. Vuole dimenticare West sotto le macerie di Berlino, vuole dimenticare il sorriso di Ungheria, vuole dimenticare la prima volta che udì suonare Austria, vuole dimenticare la spaghettata che gli aveva preparato Italia, l’abbraccio sincero di Francia, i denti bianchi di Spagna quando rideva di cuore, gli insulti impacciati di Romano, il tè regalatogli da Giappone. Vorrebbe anche dimenticare di essere fratello, giusto per quei pochi minuti. Solo per pochi minuti. Sarebbe l’uomo più felice del pianeta, se dimenticasse e riuscisse a godersi gli occhi sdegnati di Russia.

“…bastonarli…” mormora con poco fiato il generale. Una fiammella maledetta si accende nel suo cuore da gigante, diventato più grande in soli quattro anni. Prussia non lo sente, in realtà non vuole sentirlo affatto. Vuole giocare, vuole sentirsi di nuovo magnifico, giusto per un solo minuto, soltanto uno. Sarebbe felice, dimenticherebbe tutto. Dimenticherebbe la prima volta che fece cavalcare West, piccolo ed impacciato, col cuore in gola solo nel sfiorare quella bestia più grande di lui. Si era sentito felice. Vedere il sorriso fanciullesco e un po’ goffo di suo fratello lo ha fatto sentire, forse, per la prima volta, veramente un magnifico fratellone. Inclina la testa, il collo si piega e si lamenta, ma lo ignora. Anche Gilbird sente il pericolo e pigola di paura. Prussia dimentica anche di avere un piccolo amico sulla sua spalla. Dimentica di essere il padrone dell’uccellino migliore del mondo.

“Dai, russo, non fare il timido e guardami negli occhi!” Russia sembra ancora provato ed indignato. La parola ‘bastonarli’ è ancora tra i suoi denti. D’un tratto odia quella parola, odia la voce gracchiante di Prussia nel pronunciare quella solo ed unico termine. Lancia un occhio fuori dalla finestra. Aveva detto ai tre Baltici di non seguirlo, di riposarsi a Mosca, ma hanno comunque voluto venire con lui. Non glielo aveva obbligato, né imposto. Avevano loro stessi deciso di seguirlo. Non avevano idea di quanto lo abbiano fatto felice. Russia si era sentito felice quando i tre gli si erano avvicinati e gli avevano domandato di andare là, nella ex Prussia, per stargli vicino. È stato felice per tutto il viaggio. Prussia non ha idea di quanto lo stia ferendo.

“Hey, mi senti? Gira quella maledetta testa e guardami!” Russia continua ad ignorarlo, le mani di Lituania sui riccioli di Lettonia sono molto più interessanti “Tsk… Non dirmi che hai deciso, d’un colpo, di fare l’uomo?” il generale volta di scatto la testa, iridi di fuoco, viola di fiamme infernali, bianca la pelle. La domanda non la pone, non ne ha bisogno, Prussia comprende e continua a mostrare il ghigno “Dai, Russia, veramente stai cominciando a fingere di avere un cuore?” le fiamme si congelano, statiche, fredde, ma comunque potenti. La mascella del gigante è bloccata. Vorrebbe aprirsi, ma non ha idea di come fare. Una vena d’ira s’ingrossa vicino al cuore.

“…fingere…?” questa volta Prussia ascolta, sente, e trova ridicolo. Mostra una risata sprezzante. Scommette che nessuno è mai stato così magnifico da sbeffeggiare la Russia in persona. Mai nessuno l’ha fatto e mai nessuno lo farà, se non lui. Questa nuova scoperta lo eccita, lo fa sentire bene, riesce a farlo dimenticare. Dimentica anche la presenza preoccupata di Gilbird sulla sua spalla strappata. Le piume gialle dell’uccellino solleticano malamente la carne scoperta e pulsante del prussiano. Prussia ride. Sa di sangue e piombo americano, la sua risata. Sa di disgusto e provocazione. Russia sa che vuole provocarlo, lo sa, eppure il suo cuore è ancora instabile e non lo comprende. Pulsa forte e protesta, bestemmia di rabbia. Questo corpo morto non ha il diritto di giudicarlo.

“Russia, giuro su tutto ciò che c’è di più sacro al mondo che mai e poi mai ho visto un bastardo come te su questa terra” ecco, l’ha detto. Chiude le palpebre, non vuole avere paura, non vuole fermarsi. Vuole ancora dimenticare e ridere. Si sente dannatamente bene “Fai sempre il bambino dolce e carino, cerchi sempre di mostrati buono e simpatico. Ma lo sappiamo tutti, anche quell’idiota di America, che di buono in te c’è n’è più o meno quanto l’altezza di quel nano baltico laggiù” la testa del prussiano fa un leggero scatto verso la finestra, verso il piccolo Lettonia. Russia rimane ancora in silenzio, ancora fermo di fronte a sé “Però sei un bravo attore, sai? Quando eravamo piccoli… Dio, ero un marmocchio, ma la testa era magnifica come oggi! Per un attimo avevo creduto che tu fossi solo un mocciosetto piagnucolone, ma poi… oh, certo che eri piagnucolone! Tanto da strozzarmi ed ammazzarmi solo per una nuotata in un laghetto ghiacciato, dove pure il Magnifico Me era caduto!” Prussia ci sta prendendo gusto, continua a sghignazzare e a ridere “Che poi questa dei Baltici è fantastica. Quando sono andato, nel ’39, a firmare il trattato di non aggressione per avere la Polonia, eri tutto allegro e felice con quei poveretti. Ma come tremavano… parevano foglioline al vento! Si capiva benissimo che ci avevi messo le mani tu, che ci avevi messo la tua firma sulle loro schiene e solo Dio sa su quante altre parti del corpo ti sei divertito. Ma tanto lo sanno anche gli Asiatici che con te ci sono solo frustate e sorrisini da riviste americane” scoppia un’altra risata, più aspra e gracchiante, più sadica e vogliosa di essere liberata. Prussia si sente liberato di un peso maledetto quanto la vista di Berlino in fiamme, cadente di fronte agli Alleati.

Sente lo sparo rimbombargli nelle casse delle orecchie. In meno di un secondo, l’impatto del proiettile contro di lui viene registrata dai suoi occhi, ora sbarrati. L’aria scheggiata dall’onda d’urto, la sedia tremante, pochi millesimi di secondi passano di fronte agli occhi del prussiano, come se fossero secoli e secoli lasciati alle spalle. Gocce grosse di sangue spruzzano fuori, si rigettano sul viso di Russia, bianco e ghiacciato, sulla sciarpa, sul cappotto nero. Gli occhi fiammeggianti, il volto scuro, le iridi sono ametiste di fuoco. La canna della pistola ad un palmo dal collo di Prussia. Gilbird fa un fischio molto acuto, incredulo, disperato. Un cardellino a cui hanno divorato i figlioletti. L’uccellino, per l’impatto, è stato gettato via dalla spalla del padrone. Russia non lo vede più, non vuole vederlo più. Sente solo i suoi cinguettii di incredula disperazione.

Le palpebre di Prussia sono scomparse, tanto gli occhi sono sbarrati, biglie di vetro rosse negli occhi. Un brivido di incredulità trafigge le sue vertebre. Sente e vede il sangue schizzare fuori dalla nuova ferita al collo. Non sente più aria nei polmoni. Quel colpo li ha bloccati per sempre. Non riesce più a respirare. Non riesce più a sorridere o a ghignare. Le palpebre decidono di socchiudersi, indignate, disgustate, accettato ciò che hanno assistito, ma comunque oltraggiate dallo sparo e dagli occhi del gigante. Prussia disgusta Russia e non trova altro a cui aggrapparsi, nient’altro che sia accettabile da ricordare.

Non sei cambiato, vorrebbe urlargli. Non riesce ad aprir bocca. Non riesce più a parlare. Non ha sangue, aria e vita. Il collo è spaccato, l’osso si è rotto, il proiettile è rimasto incastrato all’interno, separando le due vertebre. Prova di nuovo ad aspirare dell’aria. Niente. La gola è del tutto bloccata. Non è possibile fare più nulla. La testa si muove da sè, cade all’indietro, molliccia e fragile come il corpo di un verme. Aria fredda e sporca esce fuori dalle labbra del prussiano. L’ultimo respiro è anche il più doloroso. Il collo si è spaccato completamente, la testa svanisce dietro la sedia, a penzoloni, retta a malapena dalla carne del collo. Gli occhi hanno un flash veloce. Si rianimano per poco, prima di chiudersi. Austria prende per i fianchi Ungheria. La fa volteggiare. La poggia di nuovo a terra. La danza ungherese è stupenda. La musica austriaca è meravigliosa. Ungheria sorride. Austria sorride. Poca esitazione. Congiungono le labbra. Italia e Polonia, suonando al pianoforte, applaudono, estasiati. Polonia socchiude le palpebre, pare commosso. Italia abbraccia il suo fratello acquisito, commosso e felice anch’egli. Lui spia dalla finestra, dalle fronde verdi. Odio nello sguardo. Il primo bacio di Austria ed Ungheria. Le palpebre si chiudono definitivamente, l’ultimo respiro finito per sempre. Il cuore smette di battere, scoppiato. L’aria diventa gelida, d’un colpo. Gilbird, guarito dai tremiti e dalla paura, volteggia attorno al corpo rosso del padrone. Desidera risposte, desidera sapere perché Prussia non si muove più. Pigola terrorizzato.

Russia abbassa l’arma. Biglie di vetro sono gli occhi. Indietreggia, scosso per lo sparo rimbombato nelle sue orecchie. Sente il sangue di Prussia, schizzato sul suo volto, iniziare a scorrere verso al mento, sulle guance. Respira ed inspira lentamente l’aria di piombo, polvere e morte. Sa di ferro, questa stanza. Lo disgusta parecchio. Gilbird continua a svolazzare, impazzito, sopra al corpo martoriato. Prussia non potrebbe nemmeno respirare. L’orologio scocca, la lancetta brilla come una lama nel buio: mezzanotte. Russia sente le vertigini. Sente di star per vomitare. Gilbird comprende, infine. Si accuccia nel grembo di Prussia. Cinguetta lento, lacrimevole. È un canto di addio. Sa che non vedrà mai più il suo padrone. L’ha compreso, ma fa comunque male, anche se è un piccolo uccellino. Gli animali comprendono più in fretta dell’uomo.

Russia non ce la fa più. La pistola è ancora in mano sua, quasi se n’era dimenticato. La mano trema quando viene alzata sull’uccellino. Il piccoletto non nota o forse non vuole notare. Le zampette sono chine, il piumaggio vivace del giallo è sporco di nero e rosso, gli occhietti addolorati. Gilbird continua a cantare note di dolore. Spera ancora in un miracolo, spera che il suo padrone possa svegliarsi. Canta con più forza, vuole che Prussia lo ascolti. Forse poi si sveglierà e si sentirà meglio. Le piume sporche si rilassano, il capo scende. Gilbird ha un gran male al cuoricino. Gli occhi di Russia hanno uno scatto nelle iridi. Vede qualcosa. Le piume gialle e sporche divengono riccioli biondi, sporchi di rosso e grigio della cenere. Il canto diviene una supplica. Prussia diventa il corpo di un soldato. Vede la bandiera incisa nella sua uniforme: un rosso scuro tagliato a metà da una striscia bianca. Il bambino supplica ancora, un canto pieno di lacrime. Anche quella volta aveva puntato la pistola, verso il soldato. Aveva sparato. Aveva sentito l’urlo disgraziato del bambino rimbombargli nelle orecchie.

Russia si commuove. La canna della pistola scende. La mano trema con meno forza. Le falangi del gigante si poggiano sulle palpebre. Le trova già umide. È ancora legato troppo ai sentimenti. Deve rimediare, non può farsi prendere dal panico e venire maltrattato dal cuore troppo aperto. Deve dare una gabbia alle emozioni, prima che lo possano incarcerare loro stessi. Il dubbio è forte: e se i suoi bambini soffriranno per primi per il suo cuore?

Le emozioni lo prendono ancora. Quella piccola scintilla di lieve paura muta in terrore bianco e freddo. Non vuole perderli ancora, non dopo tutti questi anni di fatica. Decide che deve fare qualcosa. Le mani prendono il posto della testa. Il cappotto viene setacciato, palpato, rovinato dalle dita scosse. Trovano un coltellino. Lo afferrano e i guanti si lasciano scivolare nelle tasche. I sensi vengono guidati dal cuore. L’osso sfregiato della mano destra non sente il dolore, abituato da anni. La linea che percorre la lama è dritta: parte dall’angolo del pollice e scende giù, percorre il muscolo, continua a scendere, infrange ogni singolo osso, continua a percorrere la mano e una piccola parte del braccio.

Il cuore è soddisfatto: il taglio è ben profondo, probabilmente, sicuramente, si creerà una cicatrice. Non sente ancora dolore, ha sempre avuto una mente inflessibile, nemmeno ha avvertito il ferro dentro la sua carne. Il sangue scende a fiotti, naviga e percorre le sue dita. Le gocce, grandi e rumorose, spaccano il silenzio, s’infrangono sul pavimento. Gilbird continua a cantare, ancora triste, ancora scosso. Russia ode il suo canto come qualcosa di celeste. Ha sradicato quella piccola radice di malizia. Il corpo freddo di Prussia è invisibile a lui.

Guarda il taglio sulla sua mano e ne è gioioso. Brucia il sangue che scorre. Brucia e scotta come una fiamma demoniaca. Sorride, una vena malata risale il suo cuore. Semmai dovesse toccare uno dei suoi bambini, la mano si bloccherà per il dolore continuo. E se dovesse comunque ignorare il male asfissiante, la volta dopo sarebbe passato all’intero polso. Si sarebbe tagliato un’intera mano, affinché non dovesse più toccare i suoi figli. Il sorriso si protrae. Adulta, malata è la sua risata felice. La testa cala all’indietro, impazzita per il dolore e la felicità. Questa volta non cadrà nel male, non perderà più Lituania. Sarà solo suo e continuerà ad esserlo per sempre. Così come Lettonia ed Estonia.

Il sangue scorre ancora, sia dalla mano del russo, sia dalla gola del prussiano.

Il canto di Gilbird si ferma, troppo triste anche per lui.

 

 

 

 

 

La terra è bianca. Il cielo è bianco. Il nulla è bianco. Non c’è niente. C’è solo bianco di carta, terra morbida, cielo invisibile. Non esiste il vento lì. Non esiste il rumore. Non esiste un obbiettivo od una meta, nemmeno un desiderio da realizzare. È un mondo di carta, dopotutto, dev’essere solo colorato. Ma non esistono i colori, qui. Non esiste nulla, qui. Non esistono i pastelli, i pennarelli, la tempera o le matite. Non esistono i desideri da avverare.

Polonia l’ha capito da subito, eppure questo posto non gli dispiace. Non c’è nessuno lì, nessuno con cui giocare. Non ha mai incontrato qualcuno in quest’immenso spazio bianco. Nemmeno un’ombra o un petalo di margherita. In questo luogo non esiste qualcosa. Eppure, a Polonia, nonostante tutto, non dispiace. Inizialmente aveva pensato di visitare quel posto. Aveva almeno sperato in un cambiamento nel paesaggio, qualche nuvola, del colore, un fiore, un rametto di quercia. Nulla. Il bianco è il padrone e a Polonia non dispiace essere suo suddito. Se non viene condannato o gettato all’Inferno, allora non gli dispiace essere qui.

Pensa che sia una sorta di Purgatorio. Un noioso, ma comunque utile luogo di attesa. Polonia lo immaginava un po’ diverso. Ricorda Italia. Ricorda le storie che gli raccontava. Ricorda di un certo Dante, che aveva nominato, e di un certo viaggio fra i tre regni dell’Oltretomba. Aveva creduto di dover stare in attesa in una montagna in mezzo al mare, in chissà quale luogo della terra, per poi essere trasportato nell’alto cielo del Paradiso. Allora quel Dante di cui parlava Italia aveva torto. Ma Polonia non si sente ingannato, né tradito. Pensa che molte cose, dopotutto, loro Nazioni, non sanno e forse non sapranno mai. Pensa che anche gli umani abbiano il loro stesso cuore e cervello. Crede che abbia semplicemente fatto una semplice, forse deludente, scoperta. Il Purgatorio, forse, è un semplice spazio completamente bianco e monotono. Eppure, a Polonia non dispiace. Almeno c’è Toris con lui.

L’ha sempre seguito, sino a quell’istante, sino a questo luogo. Polonia è semplicemente felice di non essere solo. Toris vola sempre vicino a lui, ridiventato un’elegante falcone rosso. Spesso si posa sulla sua spalla, spesso passa il becco tra i suoi capelli, spesso lo punzecchia col becco. Eppure, a Polonia non dispiace. Vuole bene al suo amico, aveva sperato che avesse potuto seguirlo e così fu. Ora gli fa compagnia in quel luogo bianco ed è felice per questo. Cerca di non ricordare Liet, né Russia, nemmeno i due Baltici. Cerca di dimenticare, cerca di non pensare. In fondo non potrebbe vederli né sentirli. Non sa nemmeno da quanto tempo sia lì. Sa solo che gli piace correre nel nulla, inseguito in volo da Toris. Gli piace giocare con lui, ancora bambino nell’animo. Non è cambiato molto di lui, nonostante tutto.

Continuano il gioco di prima, talvolta Toris muta in bambino, talvolta giocano, come ora “Dimmi un numero!” esclama il polacco, a gran voce, al piccolino poco lontano da lui. Toris, imbizzarrito per il piglio infantile del compagno, rialza la testa, continuando a rincorrere il più grande e anche il più immaturo tra i due. E’ sempre corrucciato e serioso, il piccolo Toris, quando muta in bambino. Polonia crede semplicemente che sia, probabilmente, la sua vera natura, la sua vera forma. Forse, immagina, Toris non era mai stato un pulcino, poi falcone. O forse non è mai stato un bambino. Immagina che, probabilmente, Toris, in realtà, sia un angelo. Forse è veramente lui il più buono fra loro, il più saggio. Forse qualcuno, forse Dio, lo ha mandato da lui per proteggerlo. Eppure, Polonia non capisce perché sia ancora lì con lui, finito il compito. Ma, probabilmente, sono domande nelle quali non riceverà mai risposta. Toris fa un balzo, riempie i polmoni di un’aria inesistente.

“Tre!” esclama, rossi i capelli e il viso provato per la corsa inutile. Le labbra hanno i bordi gettati all’ingiù. Non lo ammetterà, ma gli piace giocare con Polonia. Nonostante sia un idiota, è comunque piacevole divertirsi con lui. Anche se, deve ammettere, bara sempre nei giochi. Il polacco non ci pensa nemmeno. Arriccia il naso, gli occhi diventati scaltri come quelli di un gatto, un sorriso furbetto. Polonia si sente sempre furbo, in confronto ad altri. Toris deve sempre ripetergli che è impossibile ingannarlo, anche se più piccolo di lui.

“Gli anni di Italia!” esclama, euforico, facendo rimbalzare l’eco della sua voce nel nulla dello spazio bianco. Toris sbuffa, le guance si stanno gonfiando. In poco tempo, la facciotta magra del bambino diviene completamente rossa. E’ la sesta volta che cerca di imbrogliarlo e si era ripromesso che, semmai avrebbe superato il dieci, lo avrebbe pizzicato con il suo becco. È pur sempre più veloce di quel babbeo di una Nazione. Polonia continua a stare a distanza, saltellando all’indietro. Non vuole ritrovare sulla spalla un falcone rosso e nero che gli tira le orecchie. Già al terzo scherzo gli aveva quasi strappato una ciocca di capelli, non vuole fare un altro errore.

“Sbagliato! Punto per me!” esulta il bambino, rivoltando le labbra fino a formare un raro sorriso. Toris non è bravo a sorridere, aveva notato tempo prima Polonia. Non è bravo per niente. Pare più una sorta di sghignazzo da gatto, da lince. I due canini, piccoli ma letali, escono fuori dalle labbra. Le labbra si assottigliano ancor di più di quel che sono, scomparendo quasi del tutto. Sotto gli occhi si formano piccole bolle di pelle, tirata troppo all’insù dalle labbra. Pare un vero e proprio ghigno di tigre, il suo. Polonia lo trova più disturbante che inquietante. Toris mostra il sorriso quando vuole sentirsi superiore. Polonia non vuole dargliela vinta.

“No, aspetta!” protrae le mani, gesticola. Il piccolo ritira il punto a suo favore, curioso “I tre moschettieri!” Toris lo guarda di sottecchi, il sorriso muore subito, non gli piace fare il suo sorriso. E non vuole nemmeno farsi fregare di nuovo dal babbeo. Le sopracciglia cadono, pericolose e tenere, sugli occhi. Fa qualcosa di simile ad un broncio scocciato, crede che voglia ingannarlo di nuovo “Esistono veramente! È un libro che mi aveva fatto leggere Francia. Parla di questi tre moschettieri del re di Francia che poi, tipo…”

“Sì, sì, va bene” fa alzare gli occhi al cielo, il piccoletto. Detesta sentire i tipo e i totalmente di Polonia. Non capisce mai come faccia ad inserire in un normale discorse quelle due inutili, ma comunque irritanti, parole. Polonia decide di proseguire il gioco, in modo da non far arrabbiare Toris “I tre porcellini!” Polonia sorride, serafico.

“I Baltici!” sussulta leggermente il corpo del biondo.

“I baci dei russi!”

“Il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo…” Polonia vede della luce negli occhietti scuri del più piccolo. Ma è un breve attimo, troppo breve “Allora?” mette un dito sotto al mento, inclina la testa. I capelli chiari cadono di lato, alcune ciocche pizzicano il naso e provano a sfiorare l’iride.

“Mmm…”

“Allora è punto per me!” grida, mostra i dentini, felice di aver vinto almeno e solo una volta. Polonia non ha fatto altro che fare numerosi punti fino ad ora, senza lasciarlo vincere nemmeno una volta e questa cosa lo faceva e lo fa arrabbiare. Polonia, peso poggiato sulle ginocchia, occhi stanchi ma quieti, annuisce più volte. Dopo quattordici partite, almeno un punto ha voluto darglielo a Toris. Solo uno, però. Ma il piccolino è pur sempre felice di aver vinto. Saltella e mostra i pugni al cielo, leggero, mordicchia il labbro inferiore, i canini piccoli all’infuori. È dolcissimo, Toris, quando è felice. Polonia non si pente di averlo fatto vincere. Fa un finto sospiro di sconforto, il polacco, e accoglie fra le braccia il piccolino. Con una forte spinta, lo issa su, sulle sue spalle. Toris è inumanamente leggero. Quanto una piuma, un batuffolo di polvere. Questa cosa incredibile per Polonia è meravigliosa. Ma quasi ogni cosa è meravigliosa, se all’interno del corpo di un bambino.

“Come vittoria, starai sulle mie spalle. Ti sta bene?” il biondo afferra i piedini del bambino. Sente il pancino morbido dietro la nuca, sotto al pigiama bianco. E’ morbido e sodo, il corpicino di Toris. Le manine si poggiano, scaltre, curiose, tra le ciocche sottili dei capelli biondi. Sono pulite e soffici, le manine. Come quelle di un neonato. In breve, il piccoletto ha creato, con la sua mole, un guscio attorno alla testa del polacco.

“Totalmente!” esclama Toris, ironico. Detesta con tutto il cuore quella parola, più dei tipo. Polonia lo sa, ma non si sforza affatto di cambiare. Lui non cambierà mai, dovesse morire una seconda volta. Non si offende, anzi, comincia a correre. A Toris piace stare sulle sue spalle, gli piace anche avere tra le dita minute i suoi capelli. Gli piace soprattutto quando inizia a correre, veloce. Talvolta lascia la presa dai suoi piedini. Gli piace mettergli un po’ di paura. Quando lo fa, Toris sussulta, il corpicino si scuote, dalla gola esce un gemito di paura, le dita si aggrappano disperate alle ciocche bionde, si stringe a riccio sulla sua testa. È troppo carino Toris, quando ha paura. Anche se, poco dopo, si trasforma in falcone e lo pizzica col becco piccolo, ma appuntito. Questa volta Polonia non è cattivo. Vuole solo sentire la risata del bambino. Vuole sentirlo urlare di felicità. Ci riesce, Toris è felice, ma lui è stanco. Talvolta capita che si stanchi così tanto. Si ferma, il bambino smette di ridere, ritorna serioso.

“Ancora, per favore!” pretende più attenzioni, il piccolo. Col tallone scoperto, dà delle leggere scosse ai polmoni del polacco, come un cavaliere col suo stallone. Il corpicino magro ondeggia sulle spalle di Polonia, pretendendo un’altra corsa, qualcos’altro di divertente. I bambini pretendono sempre molto dai loro fratelli. Il biondo ferma i piccoli piedi birichini, li avvolge completamente nei pugni. Il bambino si accorge di non poter più protestare. Toris si spazientisce, cominciando a brontolare con la gola. Polonia sente il mugugno scocciato. D’istinto sorride.

“Ora basta, Toris. Mi sono totalmente stancato!” il polacco sente lo sbuffo del bambino, riconosciuta la parola che detesta. Capisce che non avrà niente se insisterà, quindi smette di lamentarsi. Il biondo riconosce la testolina del piccolo poggiarsi addosso la sua, con la guanciotta sullo spacco dei capelli. Il corpicino bollente si stringe ancor di più a riccio. Ora Polonia ha quasi caldo. Le dita minute si spostano più in su, verso le orecchie. Polonia crede che le voglia stringere, indignato. Si sbaglia: trovano delle ciocche più lunghe e s’immergono in esse. Ha un po’ di solletico dove il piccolo sta poggiando le manine. Si morde l’interno della guancia per non ridere. A Toris non piace quando ride di lui. Ma, a dir la verità, sa più cose che detesta il piccoletto, invece che quelle che adora. Un po’ è dispiaciuto per questo. Decide di rimediare, per quel che può.

“Dimmi un numero, questa volta è senza punteggio” promette, alzando meglio la testa per svegliare il piccolo. Toris alza la guancia dai capelli biondi, poggia invece il mento in mezzo alla testa. Pare riflettere molto. Forse vuole vendicarsi, pensa Polonia. Passano alcuni secondi. Polonia si sente impaziente, più che altro. Pensa che stia perdendo troppo tempo, il piccolino, anche solo per una piccola vendetta. Sente lungo la linea della testa una pallina di deglutii nella gola di Toris.

“Quarantacinque” Polonia, sentito quel che ha detto, si scuote, quasi sdegnato per il numero. Quando Toris vuole vendicarsi, lo fa per bene. Molto bene. E il peggio è che è stato lui stesso ad incastrarsi in questo gioco. E in queste cifre assurde. Ma forse è meglio alzare bandiera bianca, anche se non lo fa mai.

“Eh? È troppo difficile, dimmene un altro!”

“Quarantacinque” ripete, insiste serioso, il piccolo. Rimane così, in silenzio, grave. Polonia non si accorge e non capisce la serietà del bambino. Il polacco comprende di non poter più uscire fuori da questo gioco. Gli brucia ancora la sconfitta. Lui non vuole mai arrendersi, nemmeno con un bambino. Per questo sospira. Comincia a pensare. Non gli ci vuole molto per capire che si tratta di un numero troppo complicato. O almeno per lui… Toris aspetta con pazienza, troppa in confronto a quella usata fino a pochi minuti fa. Polonia non avverte né sente nulla di strano. Continua a pensare che il piccolo sia ancora arrabbiato con lui. Ma anche Toris deve imparare a comprendere i ‘no’, pensa Polonia.

“…Niente. Che ti ricorda il quarantacinque?”

Quarantacinque: fine della guerra contro la Germania” i piedi di Polonia si fermano. Una bolla di tensione è esplosa, inosservata e precisa, nella sua carne. Il cuore ha un battito un po’ più prepotente di quelli precedenti. Sente un’aria fredda, ghiacciata, scivolargli sotto la divisa verde. Questa lo pizzica, lo scuote, graffia la carne tiepida. Il venticello continua a morderlo, affamato. Riesce a spingersi nella carne, colpisce le vene, le ghiaccia e ferma il sangue all’interno, non più bollente come prima. Polonia diventa un blocco di ghiaccio, le spalle paralizzate. Toris è ancora fermo sulle sue spalle, non ha intenzione di muoversi. È interessato dalla reazione del biondo. Passano pochi secondi, passano dolcemente. Polonia si scongela, il venticello smette di percuoterlo. Ha un leggero brivido in tutto il corpo, ma smette subito, liberato dalla tenaglia di ghiaccio. I passi continuano ad infrangersi nel terreno bianco, un po’ più lenti del solito.

“Ah, è già finita?” il piccolo muove la mascella, come se avesse dato un potente colpo di denti ad una fastidiosa nocciolina, incastrata fra i molari. Rimuove il mento dai capelli del polacco. Tiene la schiena dura, la flette verso l’alto, alzando il busto. Polonia sente il suo pancino dietro la testa. Fa un respiro profondo, il pancino. Il silenzio fra i due è troppo fermo e serioso per Polonia. Ha qualcosa di impassibile e strisciante, quest’attesa. Toris sembra pensare a fondo, sembra gustare le parole della Nazione come se fossero un dolce veleno. Il biondo, dal basso, sente le sue manine stringere forte delle ciocche, ma non abbastanza per fargli del male. Un sospiro più forte tocca la nuca del polacco. Deve aver detto qualcosa di sbagliato.

“Ti do un altro numero” Polonia abbassa le sopracciglia, abbastanza ansioso “Quarantasette: la Prussia cessa di esistere ufficialmente sulla cartina geografica” i piedi di Polonia sono diventati insolitamente pesanti. Una seconda bolla, più grande, più travolgente, di terrore, esplode con una forza maledetta contro il suo petto. Distrugge il cuore, già di per sé una poltiglia di carne. Continua a camminare, Polonia, eppure si sente troppo pesante anche solo per strisciare. Sente qualcosa dentro di lui inclinarsi per l’incredulità e lo sconforto. Forse qualche vertebra un po’ troppo sensibile. Gli viene in mente Prussia. Sorriso di demone, occhi infossati di rosso, risata schernitrice. Un maledetto diavolo dai capelli bianchi. E dall’egoismo sfrenato. Pensa ad Ungheria e ad Austria. Pensa che Prussia abbia perso una grande occasione per colpa del suo menefreghismo. Ripensa anche a lui stesso che, rispetto ai due sposi, non è mai importato nulla quando era stato spartito per la prima volta, nonostante sia stato anche suo territorio. Non voleva nemmeno che vivesse nel suo paese. Ha vissuto fino alla sua indipendenza a Vienna. Ha voluto bene ad Austria dopo molto, molto tempo, ma gli ha e gli vuole bene anche da morto. Lo stesso vale per Ungheria, una madre che non ha mai avuto. E anche per Italia, un fratello e amico molto dolce. In quella famiglia che si era creata con lui, Prussia non entrava né provava ad entrare dentro il quadro di questo stupendo dipinto. Pensato ciò, il passo ritorna gentile, gli occhi scocciati. Pensa anche che è stato lui stesso ad andare a casa di Russia e ad iniziare tutto. In qualche modo, Prussia è stato il primo ad ucciderlo. Per questo si sente più leggero, anche se non reputa, dentro di sé, ogni cosa pensata del tutto vera. Alza le spalle, falsamente indifferente.

“Uh…” mormora, non riuscendo ad aggiungere qualcosa di concreto. In realtà, non crede di poter dire molto riguardo a Prussia. Ferma i piedi, strabuzza gli occhi. Gli viene in mente qualcosa. Pensa che, se Prussia sia morto, allora significa… “Allora significa che Germania è stato sconfitto e che Russia ha perso…” gli viene in mente Liet e i suoi fratelli. Una vena di paura, piccola ma letale, cresce lentamente sotto la carne. Non ha nemmeno il tempo di pensare ad ogni conseguenza di quel che possa essere accaduto che il bambino apre bocca.

“No, Russia ha vinto” mormora, quasi indistintamente, il piccolo Toris. Polonia non comprende, ma ritorna a camminare, più sereno. La vena di ansia si sgonfia, ma il cuore continua a battere forte “La Germania aveva deciso di tradire la Russia e così di fare una campagna contro Mosca” un sopracciglio biondo cade sull’occhio verde di Polonia, interessato “Ma ha fallito e ha dovuto scappare di nuovo in patria. Ma questo, ovviamente, ha scatenato l’inimicizia tra Russia e Germania. Così, dopo la vittoria, Russia si è alleato con gli Alleati, in modo da distruggere e vincere contro la Germania” Polonia vorrebbe aprire bocca, ma non ne ha il tempo. Toris è sempre molto veloce ad anticiparlo “Gli Alleati sono Inghilterra, vincitore dopo la battaglia aerea di Londra, Francia, liberato dopo l’occupazione tedesca, America, alleatosi con Inghilterra, Cina, unitosi per vincere contro Giappone e, infine, Russia” Polonia continua a rimanere in silenzio. Ogni parola di Toris, in qualche modo, lo fa sentire bene. Liet è salvo, questa è l’unica cosa importante. Ma continua ad ascoltare “Poi sono accadute tante battaglie e tante altre cose troppo lunghe da raccontare… Ma la cosa importante è questa: l’Asse è stata sconfitta dagli Alleati e, per spartizione di territori, la Prussia è, ora, inesistente” Polonia trattiene un ghigno e una risata di scherno. La cosa lo fa ridere. Lui è morto per aver difeso la sua patria, Prussia è stato spartito come un’idiota. Ricorda anche che Prussia, la volta in cui sparì dalla cartina geografica, lo prendeva in giro per essere diventato una Nazione fantasma. Diceva che a lui, al Magnifico, non sarebbe mai capitata una cosa del genere. La cosa, sinceramente, lo fa ridere. Beh, peggio per lui, dice fra sé e sé. Però ha pur sempre un arcipelago di infiniti battiti nel suo cuore troppo abusato. Ha quasi paura ad aprir bocca a Toris. Paura di farlo spazientire. Si mordicchia l’interno della guancia pensando brevemente a quel che gli ha raccontato il piccoletto.

“Bene. Quindi…” sospira, deglutisce, si sente debole, inferiore, Polonia “Posso almeno sapere in che anno siamo?” il polacco aspetta una risposta dal piccolo sulle sue spalle. La testa si abbassa, sottomessa, penosa. Spesso chiedeva a Toris delle notizie su Liet. Non apriva mai bocca… o becco. Non rispondeva, o forse non poteva rispondere. Forse, semplicemente, ora che lui è morto, non dovrebbe più interessargli il mondo in cui viveva prima. Forse dovrebbe provare a dimenticare del tutto Lituania e ogni avventura vissuta con lui. Forse dovrebbe semplicemente abbandonare per un attimo il suo animo di polacco ed accettare il fatto che non potrà mai più rivedere il suo Liet. Forse dovrebbe, ma non ci riesce. Non ha un’anima abbastanza strafottente per non pensare al suo migliore amico. Spera con tutto il cuore che viva felice. Anche solo sapere questo lo può rendere muto per l’eternità. Non ha mai fatto questa domanda a Toris. Pensa che un giorno dovrebbe farla.

Cinquantadue” Polonia sobbalza leggermente, preso alla sprovvista “Siamo nel cinquantadue, sicuramente in estate” Polonia attente altre parole, anche solo sussurrate. Il cuore, ancora forte per i grandi battiti, è esasperato e voglioso di notizie. Le orecchie sono vigili per la voce bassa del bambino. Dopo pochi secondi, fa cadere l’attenzione. Un velo di malinconia cade sulle sue spalle. È ruvido, ma leggero, questo velo. Non si aspettava, in realtà, altre risposte da Toris. Ormai lo conosce, sa che non ha mai fatto nulla del genere. E mai lo farà. Ma è sempre molto speranzoso, Polonia. Cerca sempre ciò che non esiste. Toris non parla più, detto anche troppo. Il biondo sente i polmoni, gli occhi, i passi stanchi. Il petto inizia ad ingrossarsi. Dalla gola s’innalza e si libera uno sbadiglio. Lo para col dorso della mano guantata. Ritorna anche la stanchezza, quella che da un po’ lo attanaglia. Non sa che significhi, questo sfinimento. Però non può fare a meno di lasciarsi cadere in ginocchio e di far scendere il bambino.

Toris comprende, si lascia cadere all’indietro. Polonia vede la sua pelle coprirsi di piume, veloci a crescere, veloci a colorarsi di rubini e petrolio nero. Le braccia si protraggono all’indietro, riunite le dita con la mano, incurvata la schiena verso il suolo. La testa si restringe, piccola, i capelli cadono e si frammentano in pezzetti di carta trasparenti. Volano via, i frammenti di carta, diventano così piccoli da svanire completamente. Il becco cresce sulle labbra sottili, ricurvo e pungente. I piedini divengono più sottili, giallognoli, crescono artigli scuri. Gli occhi vengono tagliati a mandorla, mutano in rapaci, ma comunque eleganti e neri, quasi lucidi, coperti di stelle. Polonia non si smuove di fronte a questo spettacolo, visto tante volte, ormai abituato. Semplicemente si sdraia per terra, testa sul cuscino creato col mantello e con la sua giacca. Toris lo raggiunge, gli saltella vicino. Polonia, preso da un istinto dolce, fa passare le dita sul capo del falcone. Toris risponde piegando la testa, desideroso di attenzioni. Il polacco sbuffa una risata.

“Sai che sono un tipo strano, Toris?” il rapace riapre gli occhietti, comunque desideroso di più carezze. Polonia gliele concede “Anche se sono morto, penso solo alla mia vecchia vita. E… anche a Liet” Toris sbatte più volte gli occhi. Non risponde più alle dita gentili. Polonia smette di carezzarlo. Passa le mani ai suoi fianchi. Si stringe in un goffo abbraccio. Ne vuole tantissimi, di abbracci. Vorrebbe qualcuno che lo amasse. Gli dispiace che Toris non sia molto affettuoso o desideroso di affetto. Sa che potrebbe dargliene molto, se glielo chiedesse. Anche Liet non glieli chiedeva mai, di abbracci, ma glieli dava sempre. E Polonia era sempre felice di dargli affetto. Spera che Liet avesse capito che gli voleva bene “Secondo te sta bene?” il falcone attende per qualche secondo. Gli occhi neri vagano, schizzano veloci, sulla maglietta bianca del ragazzo. Zampetta, saltella più vicino a lui. Le palpebre, più veloci delle iridi scure, sbattono più e più volte. Scrolla leggermente le piume della coda. Lo zampettio continua anche sulla pancia di Polonia, magra e piatta. Piega le zampe sopra la maglietta, si accuccia oltre le mani del polacco, serrate ancora sui fianchi. Polonia sospira, non ricevendo risposte “Beh, non fa niente. Tanto, ora, credo che sia totalmente apposto” riesce anche a sorridere, nonostante si senta triste “Insomma, mica posso ritornare indietro, no?” il sorriso si spegne, le palpebre si chiudono. Cade subito nel sonno, troppo stanco. Quella stanchezza è strana, se ne rende conto. Ma non può fare a meno di ubbidire ad essa.

A Toris piace vedere Polonia dormire. Sembra un po’ più simpatico e dolce, quando dorme. La testa bionda cade debolmente di lato, senza scendere o precipitare giù dal cuscino improvvisato. Il rapace vede una ciocca bionda scendere sul volto rilassato del ragazzo. Lentamente, cauto, prende la ciocca bionda e, altrettanto prudente, la poggia di nuovo fra le altre ciocche, quelle in ordine. Respira fra le labbra schiuse, il ragazzo. Il falcone ha occhi lucidi. Il capo piumato cade, con lentezza, verso il centro del petto di Polonia. Dagli occhi sgorgano lacrime senza sale, dolci come il miele. Sorelle spensierate, lasciano il loro nido dagli occhi neri. Prendono un piccolo sentiero senza incidenti e cadono. Le altre lacrime, incitate dalle prime, decidono di seguire le sorelle e si calano anch’elle. Sono veloci e bollenti di miele, le lacrime. Cadono sulla maglia, la oltrepassano del tutto, non lasciano nemmeno l’umido dietro di loro, non lasciano segno della loro presenza. Cadono sulla ferita, sulla carne viva ancora aperta. La baciano ed entrano gentilmente attraverso i muscoli aperti. Li accarezzano e si lasciano scivolare all’interno, umili e calde.

Polonia non si sveglia, ma il viso si contrae in una smorfia di frustrazione e leggero dolore. Sente un pesante ed opprimente calore, proprio in fondo al cuore. La cosa stupida è che gli fa male, brucia, eppure ne desidera ancora di più. È qualcosa di masochista e malato, ma desidera quel dolore quasi quanto desidera abbracciare Liet, proprio ora.

Toris continua a lasciare lacrime, cerca di stare in equilibrio sul corpo irrequieto e dolorante di Polonia.

 

 

 

 

 

L’aria ha qualcosa di caldo e vivace. C’è un venticello frizzante di aria fresca che s’impiglia ed abbraccia i girasoli nel giardino. È vispo ed infantile, il vento fresco. È veloce e schiva con eleganza gli ostacoli impiccioni, le fronde verdi e l’erba smeraldina, eppure è malizioso coi fiori di Russia. Pare amare le teste scure e i petali gialli dei girasoli. Fa una veloce rincorsa, prende lo slancio, si getta sulle facce nere e zigzaga fra i lunghi steli, più alti e fieri del piccolo Lettonia, lì portato per accudire i girasoli.

Allo slancio del vento, il ragazzino ferma i piedi, chiude di scatto gli occhi, con una piccola fobia dell’avere della terra negli occhi, porta il cappello di paglia sul volto. Gli steli alti e rigidi danno accoglienza, si piegano dolcemente, permettono al vento di giocare con loro. Finito lo scherzo, ritornano in piedi, eretti ed imponenti. Qualche girasole è stato molto distratto: ha lasciato andare dei petali che volano via, accompagnati dalla brezza estiva. Ma sono delle piccole distrazioni, in confronto al mare giallo presente nel giardino. Lettonia scuote la testa, poggia di nuovo il cappello sul capo e ritorna al lavoro col secchio d’acqua. E’ calmo e sereno, gli piace stare lì, al sole, col profumo di rose alla destra, di fronte a sé i girasoli e alla sinistra i tulipani. Gli piace anche che Russia lo abbia ascoltato e abbia deciso di piantare i girasoli che adora. Gli piacciono i petali gialli e gli steli sottili, ma rigorosi, che seguono il sole ovunque vada. Aveva visto Russia piantare dei girasoli, ma mai così tanti. Spera che sia stato lui stesso a farglieli amare ancor di più. Si sentirebbe fiero.

Il secchio è quasi del tutto vuoto d’acqua, deve andare a riempirlo. Il vento birichino gli ha fatto di nuovo cadere il cappello. Sobbalza, vede il copricapo di paglia volare in alto. Si fa coraggio. Con un alto balzo lo riprende, con tre dita. È sollevato di esserci riuscito. Se lo poggia ancora una volta in testa e batte forte più e più volte, per aderirlo al meglio ai suoi riccioli. Bene, è fermo, anche il vento non riesce a farlo cadere. Prende il secchio e svuota le ultime gocce d’acqua. Si volta, deve andare a riempirlo. Ci sono ancora i tulipani che chiedono da bere. Ferma i passi, incuriosito. Il vento inizia a giocherellare, annoiato del cappello, sotto al copricapo, coi riccioli biondi. Fischia, parlotta nell’orecchio del ragazzino, ma lui non lo ascolta. Vede in lontananza, vicino al cancello, Estonia e Russia. Avanza qualche passo, il vento, non ancora annoiato, continua a sbeffeggiarlo. Non sente ciò che si dicono, ma vede gli occhi incuriositi e perplessi del fratello contro i seri e pacati del generale. Sembra qualcosa di importante. Veloci, gentili, gli occhiali di Estonia cadono sulla figura del fratellino. Lettonia vede la luce negli occhiali, illuminano troppo gli occhi, quasi li oscurano. Fa cenno di avvicinarsi. Lettonia, ancora più curioso, lascia il secchio e si avvicina. I due attendono con pazienza, il lettone ora è di fianco ad Estonia.

“Si, signore?” chiede calmo, senza tremiti, né nella voce, né nel corpo. Negli anni ha imparato a controllare entrambi. Anche se ora non ne ha nemmeno uno nell’animo. Lettonia ha imparato a non aver paura di Russia. Estonia fa lo stesso, molto sereno, ma la serietà nello sguardo e nel corpo non è mai sfumata. È parte di sé e non è possibile rimuovere ciò dall’estone. Russia questo l’aveva intuito subito, anni prima. Guarda il piccolo Lettonia con un po’ di tristezza nello sguardo, questa pare quasi preoccupazione. Il vento si diverte a sfiorare la lunga sciarpa di Russia, meno infantile.

Sembra riflettere molto su qualcosa, il russo “Signore, credo che Lettonia sia abbastanza maturo…” mormora altrettanto triste nella voce Estonia, cosa non vista invece dal volto, sempre severo e alto. Il vento smette di giocare con le ciocche di Lettonia, interessato anch’egli alla conversazione. Il ragazzino è ancor più perplesso e curioso, ma la curiosità si scema e si quieta nel vedere gli occhi scuri e pesanti di entrambi. Non ha paura, ma pensa al peggio. In un attimo di calma, lancia gli occhi un po’ in giro. Non c’è Lituania. Di sicuro è dentro casa, di sicuro sta riordinando qualche stanza. Russia pare annuire fra sé e sé, senza più alcuna malinconia. Lettonia ha pochi secondi, ma riesce a voltarsi. Guarda le grandi finestre: Lituania è lì, mani dietro la schiena, mento alto, una presenza forte. Lettonia è quasi spaventato, non comprende. Estonia e Russia vedono la stessa cosa, entrambi sospirano, chi per lo sconforto, chi per un pizzico di leggera prepotenza. Estonia ha spesso lievi scatti d’ira, gli anni non sono riusciti a mutare questo difetto. Il ragazzino, anche se di spalle, sente gli occhi gravi di Lituania sulla sua schiena.

“Bene, allora andiamo. Vieni anche tu, Lettonia” si volta, lentamente inizia a camminare. Estonia lo segue, mani incrociate dietro la schiena, occhiali accecati dalla luce del sole. Respiro veloce. Lettonia sente in lui più paura che rabbia, qualcosa in Estonia è cambiato. Lettonia li segue, timoroso, non ha idea di cosa aspettarsi. Il vento si calma, indeciso anch’egli se giocare ancora. Superato il cancello, Lettonia si volta. Alla finestra Lituania non si è mosso, alto e fiero. Pare un cavaliere, come l’aveva visto in passato. Qualcosa è tornato indietro nel corpo e nell’anima del lituano. È fiero e orgoglioso, eppure Lettonia teme i suoi occhi quasi quanto li temeva nei giorni in cui non dormiva, anni prima. Ma quel che vede è qualcosa di più umano, per nulla folle. È qualcosa che lo rende tranquillo, ma sente ugualmente il disagio di essere studiato da un soldato con una spada nella cinghia e uno scudo dietro le spalle. È qualcosa di opprimente e pesante… e forse anche spaventoso. Per un attimo vede un mantello di pelle, un’armatura di ferro, lancia in mano a Lituania. È solo un attimo, ma basta a Lettonia per meravigliarsi.

La foresta, quest’anno, ha dato il meglio di sé. L’aria è calda, abbastanza per gettare nell’armadio i cappotti e le giacche. Lettonia non esce fuori dalla villa da mesi, non aveva nemmeno osato alzare gli occhi oltre il cancello. Non ne aveva mai avuto desiderio. Si sorprende quindi di vedere le fronde alte e verdi. Pigne, foglie ampie delle querce, aghi di pino da altri alberi. Ricorda la foresta inondata di neve e gelo e la pozza di sangue di Lituania. Questo posto sembra un altro luogo, più fiabesco, per nulla lugubre. È meravigliato, il piccolo Lettonia. Poggia lo sguardo su dei funghetti arancioni e marroncini. Nota, senza timore, chiaramente, che si muovono: un piccolo riccio, insieme ad altri due compagni, stanno trasportando sugli aculei neri i funghetti. Zampettano laboriosi, dolci, per nulla irritati dalla loro presenza, forse già abituati. Scompaiono tutti e tre in un buco, sotto le radici di un albero. La paura di Lettonia è nulla. Sorride, trova buffi quei piccoli ricci. Estonia e Russia non hanno occhi che per un sentiero invisibile di fronte a loro. Il lettone sfiora col cappello dei rametti sottili e scuri. Una bolla di verde e cremisi è a due pollici da lui. Ferma un attimo i passi, li rallenta. Questo cespuglio gremito di lamponi è inaspettatamente più grande di lui stesso. Non ne aveva mai visto uno così.

“Lettonia, se vuoi puoi prenderne alcuni” volta leggermente il capo, Russia. Lettonia non riesce a vedere il suo sguardo, ma è ovvio che non abbia espressione. Estonia è ancora elegante, rallenta il passo. Il ragazzino non vuole farli aspettare, prende pochi lamponi, abbastanza per riempirsi il pugno. Ritornano in cammino, ancora lenti. Lettonia guarda i lamponi nelle sue mani: sono quasi rosa, tanto sono gonfi di succo. Ne addenta due alla volta. I denti si sporcano di rosso, di dolce, giusto un po’ pungente. I passi calpestano l’erba e i ciottoli di terra del sentiero invisibile. Un cuculo singhiozza il suo ‘cu cu’ sopra le loro teste. Lettonia si sente sereno. Accelera leggermente il passo, abbastanza per toccare la camicia di Estonia, ancora con lo sguardo verso il terreno.

“Ne vuoi uno?” il fratellino alza le mani, rimangono pochi lamponi. Estonia è distratto. Estonia è scuro. Estonia è pesante nei piedi e nell’anima.

“No, grazie” fa scendere le lenti degli occhiali verso i propri piedi, ancora cupo negli occhi. Lettonia riabbassa le mani, caccia in bocca i frutti. Un brivido di timore ritorna dentro le vene. Non riesce a domandarsi nulla, i tre hanno fermato il passo. Il ragazzino alza lo sguardo, gli occhi pesano, hanno assorbito paura e malinconia. Russia è il primo ad entrare nella casetta, deciso, una vena di sconforto prosciuga i suoi occhi. Estonia entra, alza lo sguardo, qualcosa blocca i suoi polmoni, non riesce a respirare. Lettonia si sente leggero, bambino e fantasma. Sente di entrare in un vecchio incubo, ma con la consapevolezza di poterne uscire di nuovo. La porta si chiude, il buio inghiotte la luce.

Russia deve averlo fatto apposta, crede Estonia, così Lettonia non potrebbe vedere il sangue schizzato in ogni angolo della cucina. Il profumo della foresta pare un lontano ricordo, morto da anni. Questo luogo puzza di metallo, di carne marcia e secca, di chiuso, di tristezza. Non avrebbe voluto rientrare lì dentro, Lettonia. Lo sguardo non riesce a posarsi su nulla, ogni cosa è nera, ogni cosa è quasi invisibile. Delle ombre calme, rinchiuse per anni in questa piccola gabbia. Lettonia si sente in gabbia, ma continua a seguire il fratello e il generale.

La stanza da letto ha un odore ancor più sgradevole, quasi nauseante. È qualcosa di dolce, un po’ pepato, forse per la puzza di terra e muschio. Dai buchi tra le pareti e nelle innumerevoli travi spaccate escono fili d’erba. Sono delle calamite piccole, ma piacevoli. Lettonia è grato che ci siano, anche se improprie per l’ambiente. I fili d’erba sono in ogni punto del pavimento e angolo della stanzetta maleodorante. Il verde distrugge il nero, lo elimina e crea luci e colori caldi. Il ragazzino si sente caldo. Le due guide oscurano il centro della stanza, troppo ingombranti per la vista del lettone.

“Lettonia, non spaventarti, guarda qui” Lettonia guarda. La vista è leggermente appannata dal buio, ma anche sul materasso ci sono fili d’erba. Ovunque ci sono i filamenti smeraldini, forse più alti e robusti. Molti, verso il centro, hanno alla punta delle foglioline, rotonde come palline di carta. Lettonia, dopo un po’, vede, comprende. Il corpo di Polonia è coperto di stracci, anche il volto, nonostante il ragazzino scorga le labbra leporine e la gola tagliata. Il sangue è diventato una crosta sulla pelle, un secondo strato di carne. Nient’altro vede, ma la grossa macchia scura sulla pancia è una fitta al cuore. Lettonia, d’istinto, si stringe lo stomaco con le braccia. L’istinto, ancora, gli impone di arretrare. Gli occhi vogliono calare e voltarsi. Si sforza di non farlo. Deglutisce un bozzolo di acre saliva: il corpo è concime per l’erba che cresce addosso alla carne scoperta e disidratata di sangue. Sulle braccia tagliate cresce ciò che pare muschio, smeraldino, spugnoso e ghiotto di carne. Lo stomaco del ragazzino si rivolta, disgustato. Ora lo sguardo cala. Ma vedere di nuovo i fili verdi è orribile. Capisce come siano cresciuti lì dentro. Si sfila il cappello di paglia, in segno di rispetto e misericordia.

“Lettonia, stai bene?” il fratello passa piano una mano fra i riccioli. È preciso anche dove tocca, Estonia. Non vuole fargli del male, vuole che si senta bene. Lettonia sente la saliva in gola troppo dolce, troppo acre, senza sapore. Russia si rimette in piedi. Vede il pallore di Lettonia e sospira. Immaginava che non fosse stata una buona idea, ma aveva pensato di avvisarlo prima, invece che troppo tardi. Si avvicina ai due, cauto nei passi. Lettonia pensa di star per vomitare. Non sente le parole di Russia, ma si lascia trasportare dalle sue braccia, decisamente più determinate delle sue. Cambio stanza, la puzza scompare quasi del tutto, ma la sensazione di vomitare è forte. Respira ed inspira profondamente quell’aria malsana, ma migliore della precedente. Si riprende subito, non era nulla di grave, è rimasto solo sorpreso di vedere Polonia dopo tanto tempo e in uno stato così pietoso. Deglutisce, alza la testa, il cappello ancora tra le mani. Gli occhi di Russia sembrano brillare in quel buio. Pensa che sia meglio dare delle spiegazioni. Ora ritiene Lettonia molto più calmo.

“Lettonia, ricordi quando Lituania era malato…?” la mano di Estonia cade, viene sostituita da una di Russia. Il pollice è lento e dolce con i capelli del ragazzino. Ancora senza guanti, Russia li porta raramente in quegli anni. Estonia ha occhi stanchi, il frammento di ira è morto nella stanza precedente, mangiato dal corpo di Polonia. Non ha il coraggio di arrabbiarsi con un cadavere coperto di muschio. Gli occhi, pacati, decidono di concentrarsi sulla cicatrice del generale. Taglia il bordo della mano e scende giù, oltre il manico della divisa. Estonia non ricorda di averla mai vista prima. Pensa che forse non l’aveva notata, forse ce l’ha da molti più anni, solo che non aveva mai visto il russo così tante volte senza guanti. Anche in estate li portava, non che facesse molto caldo. È più bianca della stessa pelle. Per un breve attimo, Estonia si chiede come se l’abbia recata.

“…si”

“E sai anche il perché della sua malattia” è un’affermazione, Lettonia lo capisce. Sembra sottintendere molto di più, questa semplice frase. Ma annuisce comunque, il piccolo lettone. Russia lo imita “Da qualche giorno stavo pensando di…” sciocca le labbra, il russo, non trovando le giuste parole per descrivere il suo piccolo desiderio. Lettonia attende con pazienza. Gli occhi pensierosi e adulti di Russia hanno qualcosa di dolce e buono e questo lo apprezza molto “…pensavo di chiudere definitivamente con tutto quel che ci è capitato” Lettonia ascolta con più attenzione. La puzza nella stanza pare svanire, così come il buio e il liquido scuro sotto ai loro piedi “Sarebbe molto più dignitoso se quel corpo riposasse in pace, non credi?” sorride scuro, Russia. Ha dimenticato anni fa come fare il suo sorriso, come sorridere naturalmente. Lettonia, fantasma di un bambino, annuisce, capendo “Così Lituania potrà sentirsi molto meglio e… forse anche Polonia, dopo tutto quel che gli è accaduto” accenna ad una risata, morta “Potremmo seppellirlo vicino al nostro giardino” il nostro giardino, sente l’eco Lettonia, emozionato e commosso. Forse sarà solo un’impressione, ma il ragazzino sente la mano di Russia un po’ più delicata, vicina al suo orecchio “Potremmo fargli un funerale, com’è giusto che sia. Ma dovremmo prepararci bene e… aiutare anche me, visto che di riti cattolici so ben poco” Russia accenna ad un’altra risata, allegra. Lettonia, senza accorgersene, alza leggermente gli angoli della bocca “Sei d’accordo con la nostra idea? Anche Estonia mi sta dando una mano” il ragazzo, nominato, non si scuote, non si muove, non ha espressione. Lettonia non deve pensare. Annuisce più volte, una voglia irrefrenabile di saltellare sul posto. È semplicemente felice.

“Ma, signore, Lituania lo sa?” Russia ha un’esitazione, la mano sulla testa del lettone scende, cade, si ricongiunge al corpo del gigante. Un battito di ciglia, Russia ritorna malinconico. Lettonia è preoccupato.

“Si, lo sa” un’altra esitazione, pare in pensiero. Non aggiunge nient’altro, senza parole. Estonia ha aria fredda nei polmoni. Sinceramente, avrebbe lasciato Polonia lì. Quello della malattia di Lituania è un capitolo ormai chiuso e morto. Dimenticato. Mai più dev’essere toccato, nemmeno sfiorato, neppure osservato, neanche per sbaglio. Per Estonia, Polonia avrebbe dovuto rimanere qui, in questa casetta spoglia, incarcerato tra gli alberi neri, la neve d’inverno e le mura cadenti. Polonia ha dato troppa sofferenza, il suo cadavere ha dato troppa disperazione. Lituania ora sta bene, tutto è finito, nulla ritornerà più indietro. Non serve sigillare quel libro, basta solo che nessuno lo guardi, basta solo nasconderlo in un cassetto e dimenticarlo, man a mano negli anni. Basta e bastava solo questo, per Estonia.

“E… cosa ne pensa?” chiede ancora Lettonia, piccolo e curioso.

“A parole sue, è d’accordo di dare sepoltura al corpo” è troppo formale il linguaggio di Russia. A parole sue… Lettonia sa che quando il generale parla in questo modo e con queste piccole parole, dice molto più. Ripensa alla presenza di Lituania alla finestra, cavaliere di postura, di occhi e di spirito. Pensa che avrebbe dovuto immaginarlo, ma non riesce a pensare ai suoi veri pensieri. Ai veri pensieri di suo fratello. Si chiede se, parlando con Russia, si sia sentito male, si sia sentito triste, depresso nel ricordare l’amico. Non ha idea. Quello di Polonia è un capitolo ormai quasi dimenticato nella sua mente. Gli sembra che tutto ciò che ora ricorda sia accaduto almeno un secolo prima, forse anche più. Il cambiamento preso da Lituania negli anni seguenti è stato così radicale da lasciarlo felice ed incredulo allo stesso tempo. Era solo contento che suo fratello fosse guarito, quello era l’unica cosa che gli importava. Russia lancia un occhio verso la porta di fianco a loro, dov’erano usciti prima. Pensa che Lettonia non possa rivedere il corpo, così, di nuovo.

“Senti, Lettonia, per prima cosa dobbiamo portare a casa Polonia, ma credo che sarebbe meglio se Lituania non lo vedesse… o, almeno, non in queste condizioni” Lettonia annuisce, è perfettamente d’accordo col russo. Anche lui avrebbe detto la stessa cosa “Quindi ora, io ed Estonia portiamo Polonia nel seminterrato, al pian terreno, così potremo lavarlo e, chissà, anche fargli indossare qualcosa di più rispettoso” Lettonia sorride, sente le lacrime agli occhi. Qualcosa gorgoglia nel suo stomaco. Il freddo lì dentro scompare, questo brontolio è caldo e confortevole. Pare una dolce carezza al pancino e Lettonia è semplicemente felice del pensiero di Russia “Nel frattempo, tu dovrai tenere lontani gli occhi di Lituania. Non è un segreto, sa che stiamo portando il suo amico a casa, ma basta comunque che non lo vedi” Lettonia deglutisce, sente un sapore salato nella gola “Cosa ne pensi? Credi di poterlo fare?” esitazione, ma solo passeggera, solo una cosa di poco conto. Gli occhi cerulei del ragazzino brillano di una luce invisibile. Annuisce ancora, emozionato. Si sente orgoglioso, si sente felice. Il gorgoglio nello stomaco è ancora più dolce e simile ad un abbraccio. Lettonia è felice di dare una mano.

Lasciata la casa, prima dei due, Lettonia corre, sa la strada. Sente di nuovo il cuculo, l’odore frizzante della foresta, il venticello birichino. Vede ancora il verde degli alberi, il cespuglio di lamponi, i ricci zampettanti a caccia di altri funghi. Si sente incredibilmente leggero e felice, non vorrebbe essere in un’altra situazione. L’anima è irrequieta, agile. Dà più velocità al corpo, forse troppo leggero per lei. Evita, lesta, i tronchi scuri e i cespugli spinosi. Ritrova la strada, rivede il cancello. Ha ali d’argento, vola spedita dentro casa. Varcata la soglia, si quieta, soddisfatta per il breve, ma emozionante volo. Ritorna nel corpo gracile di Lettonia. Ritorna a casa. Lettonia passa in stanza in stanza. Non gli serve chiamare Lituania, lo trova subito, nella loro stanza. E’ steso a pancia in su, sopra al loro letto. La luce della finestra, sopra al letto, fa brillare i suoi capelli d’ebano. Sfiora la pelle, ma non passa troppo tempo a riscaldarla, il sole. Preferisce i capelli scuri, più morbidi e tiepidi. Lettonia si ferma alla soglia, osserva per poco il fratello. Lituania si accorge di lui, ma decide di non voler muoversi. Il ragazzino, preso dall’istinto fraterno, si sfila tranquillamente le scarpe e inizia a gattonare sul letto.

“Stai bene?” Lituania né risponde, né fa cenno di aver inteso. Lettonia, con un ultimo colpo di ginocchia, riesce a sdraiarsi di fianco al fratello maggiore. Poggia la schiena sul materasso, sfiora col braccio le costole di Lituania. Il moro continua a guardare il soffitto, come se fosse in qualche modo interessante, con sguardo attento e serio. Continua a rimanere muto, congiunte le mani in grembo. Ha qualcosa di sublime, Lituania, che Lettonia non comprende, ma ammira. Lo sguardo del lituano pare trafiggere l’aria intorno a loro, tanto è fisso, concentrato su pensieri lontani. È difficile dire con certezza cosa stia pensando di preciso. L’amico defunto è ancora tra i suoi pensieri, dopo anni ed anni di sofferenza? Il fratellino, capito il silenzio, si accuccia ancor più in profondità nelle coperte e piega il capo verso il collo di Lituania. Lo sfiora, lo carezza, lo compatisce, i riccioli biondi.

Lituania continua a fissare il soffitto, cavaliere fino all’ultima goccia di sangue.

 

 

 

 

 

Dopo aver finito di cucire uno degli ultimi tagli al torace, Estonia sente bussare alla porta. Prende velocemente un panno, sporche le mani di sangue secco. Per fortuna ha quasi finito. È stata dura, non quanto cucire la schiena di Lituania, ma è stata ugualmente dura. “Avanti!” urla, troppo lontana è la porta. Il panno si sporca, diventa rosso e nero. C’era terra sul pavimento, l’ha spazzata tutta. Russia è uscito poco fa, poco prima di aver finito di aiutarlo. Ha preso la macchina ed è andato in città, per chiamare un prete e altro che possa servire. Ha deciso di essere buono con Polonia.

Estonia getta il panno, riprende ago e filo, sta per iniziare di nuovo. Mancano solo pochi tagli e poi ha finito. La porta si apre, non scricchiola, non fa alcun suono. Nessuno risponde. Pensa che Lettonia si senta male nel vedere di nuovo il cadavere. Finito l’ultimo taglio, si volta, pensa di consolarlo. Il respiro si mozza, ha un brivido lungo le spalle, ghiacciato e maledetto.

“L-Lituania!” esclama, vedendo il maggiore, inespressivo “C-Che cosa stai facendo qui?” cerca di non urlare, ma troppo è il terrore. È troppo presto, non deve vederlo ancora. Non è ancora il momento, Polonia è ancora brutto, è ancora orribile. Si sposta al centro, per coprire al meglio il tavolo, completamente occupato dal polacco morto. Ha un flash, veloce, un filamento di pensiero astratto. Lituania accasciato contro il tronco di un albero. Lituania è vestito elegante. Lituania sorride sereno, malato. Estonia grida, lancia un pugno sulla fronte del fratello. Lettonia è sanguinante, livido in volto. Estonia ha i pugni pregni di sangue. Estonia piange, non voleva fare quello a suo fratello. Non voleva fare quello ai suoi fratelli. Non voleva fare del male a Lituania. E nemmeno a Lettonia. Estonia legge un frammento del libro. Estonia sa che l’ha perso per sempre. Sa che non lo rivedrà mai più.

“Ho chiesto a Russia di poter entrare e ha detto di si” risponde, con calma innaturale, come se non vedesse nulla di insolito. Estonia è perplesso per questo. Il fratello alza le braccia, ha qualcosa di bianco tra le mani “E mi ha detto di portarti questo” sospira, quasi triste. Lo sguardo ancora inespressivo. Estonia si muove, non si para più di fronte al cadavere. Tanto ha già visto, sa che ha visto. Il biondo si avvicina, tremano i piedi, terrorizzati nel toccare terra. Si ferma, gli occhi scuri e severi di Lituania lo trafiggono, le braccia ancora in aria. Prende in mano il bianco della seta. Non sa bene cosa sia, tanto è bianco e pulito da emanare luce propria. Riconosce al tatto ciò che sembra una maglia, ma non pare una maglia. Fa scendere, senza toccare terra, quel che ha in mano. Aperto il tutto, capisce che è una vestaglia da notte. Bianca, antica, semplice, eppure ha qualcosa che lo attira. Alza gli occhi, perplesso, verso Lituania. Ancora inespressivo. L’occhialuto chiede spiegazioni con lo sguardo. Lituania è ancora serio, sospira.

“E’ per Polonia. So che i vestiti che aveva erano irrecuperabili, quindi ho trovato questo. È poco, ma è pur sempre qualcosa” ancora scuro in volto, ancora serioso. Il biondo annuisce, ha ancora briciole del vecchio spavento di prima. Si allontana, poggia sul tavolo, accanto al corpo, la vestaglia. Per un attimo si chiede se starà bene addosso a Polonia. Si chiede se uno scheletro senza sangue starà bene con un’antica vestaglia bianca e luminosa. Si chiede se qualcosa possa stare bene addosso ad un morto. Guarda Polonia e pensa che di lui non sia rimasto quasi nulla. Anche se l’ha pulito e ha cucito le lacerazioni, non sembra affatto lui. Non ha niente che ricordi un principe polacco. Prima, sporco di terra e sangue, pareva una vecchia radice di un grosso albero, ironicamente simile ad un corpo umano. Estonia si meraviglia che la morte tolga così tanto ad un ragazzo. Lituania si avvicina a lui. Il biondo non ha paura. Tanto ha visto. Ma ha comunque una piccola vena di curiosità e paura che brucia vicino ad un suo polmone. Non respira bene. Trattiene il fiato, senza accorgersene. Lituania guarda Polonia, ma è come se non lo vedesse. Estonia alza gli occhi sul fratello, quasi timoroso di una sua reazione, quasi terrorizzato nel rivedere il volto bianco e morto del fratello. Paura innaturale la sua, ma comunque futile: Lituania guarda Polonia, ma non muta espressione. Il fratello minore deglutisce, non avvertendo pericolo, ma comunque terrorizzato di essere in grado di vederne qualcuno. Sospira, cerca di darsi un contegno. Ci riesce, in parte. Mostra un debole sorriso che Lituania non vorrebbe notare.

“Non sembra proprio lui, vero…?” Lituania è inespressivo, scuro, severo, morto.

“No, affatto” così ritorna muto, così riporta il volto bianco. Estonia riabbassa lo sguardo, pensa di concentrarsi solo sulla vestaglia lucente. Forse solo lui l’ha notato, forse anche Russia, ma nulla è tornato come prima. Anni sono passati, anni sono morti dietro di loro, ma nulla è ritornato del tutto come prima. Lituania, dopo quel che accadde nella foresta nera, dopo il patto silenzioso fra lui e Russia, è cambiato. Non è un cambiamento radicale e maligno come la morte di Polonia. In realtà, Estonia non è certo se sia un mutamento positivo o negativo. Sa solo che, dopo ciò che avvenne, anni e anni fa, Lituania è cambiato. Pare un’altra persona, uno sconosciuto con cui hanno imparato a vivere. Tutti loro in questa casa credevano che, con la guarigione del ragazzo, ogni cosa si sarebbe risanata, forse mutata anche in meglio. Questa situazione di stasi, questo sconosciuto con cui vivono, è strano. Forse, semplicemente, non hanno mai conosciuto il vero Lituania e solo ora sanno chi è. O forse, molto più probabile, Lituania si è trasformato in qualcun altro. E’ sereno, senza dubbio, non infelice. È calmo e rilassato, sanno che non proverà più a scappare dalla vita. Eppure… è diverso.

Estonia raramente lo vede sorridere. È diventato molto più serioso e duro di animo. Se per Lettonia è ritornato ad essere un cavaliere virtuoso, per Estonia, e forse anche per Russia, qualcosa in Lituania si è rotto. Forse, dopo tutto quel che è accaduto, un frammento di anima di Lituania è stato bruciato. Il fuoco non restituisce mai nulla. Estonia spera che non sia così, che non abbiano ucciso il suo vero fratello. Spera che non gli abbiano strappato una sua parte felice e spensierata. Spera che non gli abbiano strappato ogni ricordo della sua vita precedente, di sicuro più felice di questa. L’anima di Lituania è in stasi, ferma e serena, ma ha qualcosa di malinconico che sia Estonia che Russia non comprendono. Estonia forse lo sa. Sa che il cammino che percorre un uomo è difficile, sa che ogni sbaglio, ogni periodo negativo crea cambiamenti nell’animo di una persona. Pensa che, semplicemente, l’anima di Lituania ha subito pesanti cambiamenti. Per fortuna è facile vivere con questo sconosciuto. Somiglia molto a Lituania, per questo non hanno problemi a parlare e dormire con lui. Ma questa persona non è comunque Lituania.

Le palpebre del lituano sbattono più volte, le sopracciglia cadono leggermente verso il basso. Qualcosa cambia nel volto del ragazzo, qualcosa rende il suo sguardo perplesso. Estonia segue i suoi occhi, non sa cosa veda di insolito. Sa che il corpo di Polonia è pieno di tagli, ma questi li ha già visti. Si chiede cosa vede. La mano del moro si muove verso il corpo, verso l’alto. Estonia vede le dita sfiorare ed afferrare, prudenti, una piantina. Le iridi blu si scuotono, dubbiose, non ricorda di aver visto quel fiore. Forse si dev’essere incastrato sotto l’ascella del polacco e lì è rimasto, strappato dal terreno. Ma, tuttavia, Estonia non capisce come abbia fatto quel fiorellino a non cadere, dato il lungo viaggio che ha percorso il cadavere. Eppure, il dente di leone è ancora lì, incastrato fra l’ascella e la carne del braccio.

Lituania, col pollice e l’indice, ancora perplesso, cerca di alzare, dolcemente, per lo stelo scuro, il fiore. È incastrato, non si muove. Il volto di Lituania cambia ancora. Diventa qualcosa di più famigliare, più terribile e agghiacciante. Lo sguardo bianco è quasi lacrimoso, occhi sbarrati, tremano leggermente, la mascella fa il meglio per rimanere sbarrata, cerca di non cadere, ma pare un’impresa difficile. Ha qualcosa di triste e orribilmente conosciuto, già visto. Lituania è stanco, non riesce a mangiare, troppe volte non ha dormito. Estonia deglutisce, sente un leggero tremito lungo le spalle, ora lo vede. Il dente di leone non può, non riesce a staccarsi dal corpo di Polonia. Le radici nere, piene di buon sangue, sprofondano sotto la carne del morto, oltre la pelle. Parte del gambo, al caldo, affonda sotto il leggero strato di pelle, s’incastra bene lì, non vuole lasciare il sangue saporito. Lituania fa un leggero strattone allo stelo. Ancora le radici sono ancorate all’ascella tiepida. Ancora non vogliono staccarsi. Estonia sente lo sguardo agghiacciante del fratello, come se guardasse, in realtà, con orrore, lui stesso.

Gli trema la mano, ma si muove veloce. Con le forbici taglia lo stelo scuro, alla radice, con precisione. Una scarica di freddo terrore lascia il suo corpo, fa cadere le sue spalle. È abbastanza sicuro di aver fatto in fretta. Meglio aver agito prima, prima che qualcosa potesse cambiare. Tornare come prima, come quel lontano inverno. Lituania ha fra le mani il dente di leone. I petali gialli, sono sporchi di rosso alla base. Eppure, passando il pollice, non sente alcuna macchia di sporco sotto la sua pelle. Il gambo continua ad essere nero, carico di succo scuro. Lituania capovolge il fiore. Dalla base tagliata inizia ad uscire del liquido rosso. Prova a fermare la ferita, ma il fiore continua a morire e a sputare il sangue del cadavere. Lituania ha saliva acre e dolciastra tra i denti. Ne ha troppa in gola, ma non riesce a deglutire. Lo stelo sputa ancora sangue, le goccioline cadono per terra, carezzano il bordo delle suole delle scarpe del moro. Lituania è tornato come prima. Estonia pensa che sia orribile. Vorrebbe rivedere lo sconosciuto di prima, non importa che non sia Lituania. Questa faccia del lituano è troppo orribile e spaventosamente famigliare. Lituania è a letto, occhi sbarrati, sopracciglia cadute, occhi lacrimevoli. Estonia gli ha aperto il cuore poco fa, ora piange e si vergogna per le parole che non è riuscito a pronunciare. Lituania geme, trema, vede occhi violacei nello spiraglio della porta. Ha paura, implora Dio di aiutarlo, di salvarlo. Non ha mai chiesto a lui di aiutarlo. Non gli ha mai chiesto di salvarlo.

“Lituania, vuoi uscire da qui o…?” cadono le parole, anche ora non sa che dire, non sa cosa aggiungere alla sua frase. Lituania ha ancora qualcosa di orribile in volto. Le palpebre sbattono più volte, di nuovo, come prima. Di nuovo cambia qualcosa nel ragazzo. Lituania svanisce dal corpo del moro, ritorna lo sconosciuto. Il volto ritorna serio, ritorna la compostezza di un cavaliere. Ritorna il ragazzo che ha visto in quegli anni, a cui non riesce a dare un nome. Scuote la testa, il ragazzo sconosciuto, pacato e virtuoso nel corpo. Estonia deglutisce, ringrazia dentro di sé la fortuna per aver finito di ricucire le ferite del polacco. Insieme si aiutano. Il moro alza il corpo di Polonia, attento alla testa e al taglio sul collo ricucito. L’occhialuto avvolge il torace e le ferite con delle bende. Sono sgonfi del sangue, i tagli, ma pensa che sia meglio avvolgerlo comunque, almeno sembrerà un po’ più in carne di quel che è ora, senza sangue, senza muscoli. Hanno quasi finito, gli fanno indossare la vestaglia: la passano sulla testa, come una bambola, come un vestito, e finiscono subito. Polonia pare forse, giusto un po’ più riconoscibile. Giusto un po’. La seta è leggera, ancora più luminosa in quel buio. Non sa chi abbia avuto l’idea di fargliela indossare, ma Estonia pensa che sia stato un pensiero molto dolce. E’ anche della sua taglia, incredibilmente, nonostante le maniche un po’ corte, poco più lunghe di metà braccio. L’importante è che, in ogni caso, Polonia abbia qualcosa di adatto per lui, per una buona cerimonia di addio. L’estone ricorda del fratello. Senza guardarlo, si aggiusta gli occhiali, ricordatosi anche dell’importanza del corpo per il moro. Deglutisce ancora. E’ felice che sia scomparsa quella parte di Lituania, ma vedere ancora lo sconosciuto è angosciante.

“Vuoi che ti lasci solo?” il suo è un sussurro, non voleva che sembrasse un sussurro. Il ragazzo, nel silenzio della stanza, sente comunque. Annuisce, più stanco che triste. Questa giornata gli ha strappato ogni briciola di forza e serenità. Dentro di sé, anche lui pensava che fosse meglio lasciare lì, nella casetta, Polonia. Non odia Polonia, non gli ha fatto nulla. Non gli dà alcuna colpa. Non crede che gli abbia fatto del male. Ma ora il suo cuore sta cercando di ripararsi, sta cercando di riparare ogni crepa creata, anche durante la guerra contro Germania. Polonia, probabilmente, sarebbe stato più al sicuro e felice lì, anche se tra delle coperte sporche. Non si reputa nemmeno molto religioso per fare un funerale. Pensa che sia una cerimonia inutile: chi è morto è morto, non serve fare una cerimonia, non serve celebrare qualcosa. Basta soltanto la serenità di coloro che conoscevano il defunto. Basta solo questo. In qualche modo, anche se non si direbbe a prima vista, rivedere Polonia, malconcio, putrefatte le carni, irriconoscibile, gli ha fatto un gran male. Questo ha fatto male. Russia credeva di fare una cosa buona e apprezza il suo gesto, ma avrebbe preferito continuare a servirlo, in silenzio.

Estonia ha lasciato la stanza, ma per Lituania è come se non fosse mai stato lì. Le palpebre si scuotono, i polmoni si riempiono di aria malsana. Il respiro lascia le labbra, si libera e vola nella stanza. Qualcosa si sblocca dentro il ragazzo. Senza nessuno, senza occhi a fissarlo, Lituania ritorna nel suo corpo. Gli occhi luminosi, ma tristi, desolati, depressi. Guardano Polonia e non lo riconoscono, non sono affatto riusciti a riconoscerlo. Il volto è suo, sa che è suo, ma qualcosa dentro di lui, un pezzo consistente di anima, gli sussurra che non è lui. Ha qualcosa di sorprendentemente diverso e Lituania non capisce bene cosa sia. Ha giurato che, entrato, quello non fosse il suo vecchio amico. Le dita sfiorano i capelli. Non sono più biondi, non hanno più un vero colore. Non sono più morbidi, non hanno più nulla di principesco. Quello non è un principe, quello non ha nulla, non pare nemmeno un corpo. E’ incredibile come la morte rende ogni persona, principe o servo, uguale. La morte ha sfigurato il suo amico e questo lo fa sentire male. Qualcosa, infatti, rende il suo respiro molto più calmo, troppo fermo, troppo carico di emozioni. Non sa nemmeno cos’abbia la sua testa, non sa cosa voglia da lui, non sa perché gli faccia così male. Non sa nemmeno che malattia abbia il suo cuore per premere così forte sullo stomaco, per farlo stare così male.

Muove le mani dentro la giacca nuova, regalata da Russia qualche giorno prima. Fiora la giacca e solo quel giorno, quello in cui l’ha portato a Mosca in un negozio di abiti maschili, solo quel giorno era ritornato Lituania. Non si aspettava un dono del genere, non si aspettava tanta gentilezza da Russia. Non si aspettava nemmeno che il proprietario li scambiasse per padre e figlio. Non si aspettava nemmeno che Russia, con una risata, annuisse e non contraddicesse il signore. L’aveva veramente trattato come un figlio. Lituania non si sentì mai così tanto meravigliato. Non si sentì mai così tanto felice, anche se scambiato per il figlio del russo. Questo ricordo lo riempie un po’, lo fa respirare di nuovo, lo tranquillizza abbastanza per prendere il mazzo di rose in mano. Quest’estate Russia li ha meravigliati, tanti fiori ha piantato. Forse l’ha fatto per il bel tempo, forse per la stagione più calda del solito, forse un po’ per loro. Qualcosa dentro Lituania spera che sia la terza ipotesi. Sarebbe un piccolo abbraccio caldo per il suo cuore. Russia l’ha visto, pochi minuti fa. Gli ha acconsentito di scendere giù, per vedere Polonia. Ha tagliato delle rose, bianche e rosse, le migliori nel suo giardino. Gli ha regalato il mazzetto e gli ha detto di donarlo a Polonia, sarebbero state solo le prime tra le tante rose che gli avrebbe regalato. Anche qui Lituania si sentì meravigliato.

Poggia le rose sul cuore dell’amico, ancora morto, ancora irriconoscibile. Qualcosa di più forte si muove dentro Lituania. I polmoni pretendono più aria, ma il respiro è lento, per questo tentenna e fa tremare il corpo. Le sorsate d’aria sono troppo potenti, scuotono le membra esauste del ragazzo. Lituania sente grosse lacrime correre sulle guance. Sente come se stesse tradendo il suo principe. Ricorda la promessa. Forse le visioni di Polonia sono state il frutto del suo desiderio di morte. Forse è stata la sua immaginazione. Sicuramente è così. Eppure sente il peso di un tradimento sulle spalle. Gli ha promesso di aspettarlo, ma quel che sta acconsentendo di fare a Russia e ai suoi fratelli lo considera peggiore di un’indifferenza da parte sua. Così non l’aspetterà mai più. Starà per sempre sotto terra e mai più tornerà a respirare, a parlargli, a ridere insieme a lui. Sta per tradirlo e questo peso è troppo opprimente per lui. Altre lacrime bruciano sulle guance, singhiozza il corpo, tramortita di tristezza è l’anima. Scuote la testa, un po’ tradito anche lui.

“Ti avrei aspettato per sempre, ma tu non vuoi tornare affatto!” i singhiozzi ora sono un pianto disperato, tanto da costringerlo a piegarsi. Non vuole poggiare le ginocchia sul pavimento, sarebbe troppo doloroso per lui, cavaliere orgoglioso. Sa che non è un vero motivo per disperarsi. Quel che ha visto, ogni cosa che ha sognato di Polonia è stata senza alcun dubbio una menzogna, inventata da lui stesso, soltanto per convincersi di tagliarsi la vita a metà. Era solo una finzione creata dal suo cervello per fargli accettare il fatto che, sì, Polonia sta bene, se lui fosse morto si sarebbe sentito bene, avrebbe potuto scappare facilmente. Ma ora è cosciente, non è più malato, ora sa e comprende ciò che è vero e ciò che è falso. Si è semplicemente mentito da solo, di sua spontanea volontà. È la verità, ma brucia più delle sue lacrime salate.

Sente un leggero tonfo sotto i suoi piedi. Si asciuga le lacrime, fa un respiro profondo. Il mazzo di rose è caduto per terra. Deve averlo poggiato male sul petto del corpo. Fa un altro respiro profondo, riesce a calmarsi del tutto ora, anche se sente la faccia appiccicosa e bollente. Si china, afferra le rose, le poggia ancora sopra al cuore. Piccoli secondi di attesa, vede dall’alto. Le rose cadono ancora per terra. Lituania, abbastanza perplesso, si china di nuovo e le riafferra. In ginocchio, lento per la stanchezza, alza lo sguardo. Ancora più perplesso, ancora più incredulo, vede qualcosa muoversi. Concentra lo sguardo. Qualcosa nel corpo si muove, vede chiaramente che qualcosa si muove. È un movimento lentissimo, quasi impercettibile, ma Lituania, stanco e provato dal dolore, vede, nota. Ogni cosa, ogni emozione muore dentro il moro. Si sente sgonfiato, si sente paralizzato dentro le proprie membra, divenute di pietra. Rialzato, mosse solo le gambe, vede altro, più sconvolgente. Una delle braccia di Polonia, voltata per essere ricucita, col palmo aperto in alto, mostra la vena principale. La carne è senza sangue, attaccata alla pelle, sgonfia di ogni cosa. Le ossa magre, ma le vene visibili. La vena del braccio sbatte all’insù. Pochissima esitazione, sbatte ancora un battito. La vena continua a pulsare, visibile, come se respirasse a fatica, come lo stesso Lituania. Lituania si sente ancora più vuoto, più paralizzato, più morto.

Russia, rientrato, sceso là sotto, vede Lituania. Vede il suo sguardo morto, le sue carni fredde. Crede male, crede solo nel peggio. Senza dire nulla lo attira a sé, costringe il suo corpo a muoversi. Lo stringe e lo abbraccia, cerca di essere più dolce possibile, spera che Lituania capisca che voglia solo il suo bene. Lituania rimane ancora una volta meravigliato. Si meraviglia che il gigante non veda ciò che vede lui. La vena pulsa ancora e Lituania continua a fissarla, morta l’anima.

Il mazzo di rose tra le sue dita cade per terra, ma nessuno si accorge di nulla.

 

 

 

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** NoNo CaPiToLo ***


Non fa freddo, ma nemmeno caldo. Non è buio, non c’è luce, non vede nemmeno le proprie dita. Mani ghiacciate, dita invisibili. Si sente senza torso, braccia, gambe, collo e testa. Non sente nulla di sé. Pensa che forse anche la propria testa stia galleggiando in questo mare d’inchiostro, dove lui è finito per sprofondarci, nel fondo, nel nulla. Non riesce a capire dove si trovi, sa solo che deve aspettare. Sa che qualcosa accadrà. Pur tuttavia, ha paura anche solo di aspettare.

“Ragazzo!” sobbalza, ha paura, molta paura. La meraviglia, la luce. Il terrore, la vergogna. Vorrebbe piangere, tanto gli è mancato, tanto ha timore di lui. Non voleva vederlo, non voleva sentire la sua voce, anche se da secoli gli era mancata “Figlio!” alza il capo, si sente un maledetto marmocchio gettato per strada, al freddo. La sensazione di trovarsi in un luogo non suo, che non conosce, per vederlo, è orribile e lo fa piegare su sé stesso. Non lo vede, troppo è il buio. Ma la sua voce è poco lontana, troppo vicina. Rimbomba fin dentro le sue viscere, la voce.

“V-Vecchio…?” mormora, si sente ancor più piccolo ed insignificante. Lui ora è insignificante di fronte a lui. Vorrebbe sprofondare direttamente all’Inferno e lì venire carcerato. Senza sentirlo, senza parlargli. Sente uno sputo trattenuto fra i denti. Riabbassa la testa, terrorizzato dalle sue future parole. Faceva così quando era furioso, le rare volte in cui si arrabbiava. Era una colpa essere in vita, quando era arrabbiato.

“Cosa significa, ragazzo? Che cosa hai fatto!?” rimbomba di nuovo nelle proprie viscere, l’urlo. Lo fa piegare, spaccata la schiena. Trema, ha paura. Non voleva veramente rivederlo. La vergogna gli fa bagnare gli occhi e tremare le spalle. Sa cosa intende dire, entrambi sanno a cosa pensano. Sanno di cosa discutono. Dopotutto, lui si trova in quel buio proprio per questo. E non avrebbe mai voluto trattare dei suoi peccati con lui.

“Io… io… io… credevo di fare la cosa giusta…” prova a spiegarsi, forse si discolpa anche un po’, probabilmente troppo. Questa non è una scusa per ciò che ha fatto. Niente potrebbe essere una scusa per ciò che ha fatto. Anche il Vecchio lo sa, sa e ne è indignato. Sente la sua collera strisciare sulle ossa della spina dorsale, un serpente pronto a morderlo. Le spalle hanno spasmi di vergogna. Il Vecchio è un serpente quand’era iroso con lui. E il suo morso era più doloroso del veleno di terrore.

“Credi che questa sia una risposta!?” il corpo riceve l’esclamazione come un proiettile d’argento, nel cuore. Le ginocchia tremano, ha ancora più paura. La vergogna e il rimpianto lo fanno piegare verso il basso. Tira su il naso, non immaginava nemmeno che gli stesse colando. Nemmeno riusciva a sentire le lacrime bollenti nelle iridi, calderoni di sale liquido. Si sente veramente patetico. Si sente così patetico da voler strisciare. Questo è un duro colpo al suo cuore.

“M-Ma… era per il paese…”

“Bestia ingrata!” sobbalza, non l’ha mai chiamato così, nemmeno quand’era veramente furibondo. La vergogna preme ancora nella sua coscienza “Maledetto ed infame disgraziato! Come hai solo potuto avere il pensiero di creare qualcosa di tanto disgustoso?! Quale maiale ti ha traviato per farti fare ciò?!” urla, queste sono vere urla di ira. Chissà da quanto tempo lo osservava, dall’alto dei Cieli. Chissà da quanto tempo è rimasto seppellito dalle sue bugie e dalle sue chiacchiere, rivolte al popolo come parole del Signore. Chissà da quanto tempo contiene dentro di sé questa collera maledetta. Tanto, si risponde. I fantasmi sanno tutto, dal Cielo si vede ogni cosa, dopotutto. Singhiozza, tutto questo gli fa male. È incorporeo, il suo corpo è sparito, ma sente ugualmente lo stomaco gridare dal dolore e il cuore piangere lacrime rosse.

“Ti prego, Vecchio, smettila… Non ti arrabbiare…” piange, veramente piange. Sono anni che non piange di fronte a qualcuno, mai l’ha fatto di fronte a lui. Si odia, si disgusta. Si sente orribile.

Taci!” fa onde pesanti e nefaste, la sua voce. Si chiude ancor di più in sé stesso. Mai vorrebbe alzare la testa ora, mai vorrebbe scontrarsi coi suoi occhi. Lacrime ancor più salate. Un cavaliere prussiano non dovrebbe mai piangere, nemmeno di fronte al suo re. Anche se quest’uomo è stato più padre che re “Come anche solo ti permetti di rispondermi?! Maledetto animale! Eri il mio sole, il nostro sole. Eri la Nazione più forte ed orgogliosa che io abbia mai visto. Ti ho tenuto con me, ti ho allevato, ti ho cresciuto io. Tante volte ti ho ritenuto il figlio che io non ho mai avuto. Mai avuto la gioia di essere il maestro della mia stessa Nazione. E tu, ora, come mi ripaghi!? Mi disonori, sputi sangue sulla nostra bandiera, sopprimi il cuore di ogni popolo, anche il proprio! Uccidi anche la nostra gente! Se fossimo ancora in vita ti taglierei una ad una le dita, o, almeno, tenterei di farlo, cane. Ti sei macchiato del sangue di milioni di uomini e donne usando come scusa il falso di ciò che ti ho insegnato! Non sei più il mio sole, sei la mia vergogna, sei il mio disonore. Non avrei voluto nemmeno vederti, dannata serpe!”

Pianto disperato. Ginocchia a terra. Singhiozzi inconsolabili. Sobbalzi del corpo. Cuore spezzato. Cervello in fiamme. Vergogna, vergogna, tanta vergogna. Il disonore e il pentimento battono sulle sue spalle. Vuole morire, vuole sparire, vuole strapparsi i capelli per il pianto isterico. Si odia. Si odia ancor di più. Non vuole che lo guardi in faccia, sprofonderebbe nel mare di inchiostro per la troppa vergogna.

“Smettila di compatirti e tirati su!” pare un ululato che squarcia il nero dell’inchiostro intorno a lui, quest’urlo. Con fatica, molta fatica, ubbidisce, l’anima infranta dagli spasmi. Non ha ancora calmato i singhiozzi “Meriteresti la punizione eterna, ragazzo, te ne rendi conto?!” fa male la sua voce. Fa male. Annuisce, molte volte, quasi si taglierebbe il collo per i sussulti della sua gola. Non vuole una punizione. Vorrebbe ricominciare tutto daccapo. Vuole rimediare all’errore che ha fatto. Altre lacrime bagnano le guance. Trema forte, mai fatto in vita sua. Mai pianto così tanto in vita sua, mai di fronte a lui. E’ dolorosa questa consapevolezza.

“Smettila, figliolo. Le lacrime ora non servono a nulla, che il Cielo ha voluto darti una possibilità da non sprecare” smettono i singhiozzi. Smettono di fluire altro miserabile pianto. Qualcosa dentro di lui, forse un frammento di anima, si stacca dalle carni e inizia a fluttuare fuori di sé, sinceramente meravigliata. Ascolta la voce del Vecchio così come ascoltava, ammirato, da bambino, il suono del suo flauto. Il sollievo e l’incredulità brillano nei suoi occhi.

“D-Davvero?” la propria voce sa di bambino, sa di incanto, sa di speranza, di felicità, di piccolo timore. Ha timore di sbagliare, di parlare male. Una sola parola potrebbe distruggere ogni cosa, lo sente da dentro.

“Si, ragazzo. Ma in questa prova ti seguirò e ti starò accanto. Non voglio altri errori. E’ la tua unica possibilità, che il tuo posto non è qui” non ha paura, qualcosa in quel che ha detto lo fa sentire sollevato, lo fa sentire protetto. Vede il buio attorno a sé prendere luce, lentamente, ma non così tanto da non notarlo. La meraviglia e lo stupore s’impossessano della sua anima. Si sente sinceramente sollevato. Batte forte il cuore, vivace nel petto. Le lacrime vorrebbero sporgere e continuare a correre verso la libertà, ma riescono a fermarsi tra le ciglia, al sicuro. Sente una pesante presa che pende ben oltre la sua spalla. D’istinto alza il braccio, accoglie il nuovo e vecchio re. Dai suoi occhi vede serietà, vede un cuore fiero che brucia di rivincita. È incredulo di ciò che vede. Il suo compagno non si risparmia ancora, non cede alla compassione per la sua patria. Ora è un padre inflessibile che vuole salvare il figlio, anche se l’ha deluso fin troppe volte.

“E ricorda: è la tua ultima possibilità di salvezza. Non sputarci sopra, ragazzo”

 

 

 

 

 

Lituania è freddo. Lituania ha la pelle grigiastra. Lituania ha l’anima morta. Il vento ghiacciato e le nuvole cineree lo toccano, eppure si considerano più calde della sua carnagione. La pelle bianca è ghiacciata al tatto, notano i soffi del vento estivo, più freddo del solito, forse contagiato dal cuore fermo del lituano. Non ha più memorie, Lituania. Come se si fosse catapultato nel giardino d’un colpo, uno stravagante ed inutile miracolo. Per un attimo, mente di bambino, crede veramente di essersi gettato lì in un batter d’occhio. Qualcosa in lui, piccolo ed infantile pensiero, immagina che sia veramente così. Perché tutto ciò è ridicolo: Lituania non ricorda quasi nulla del giorno precedente. Non ricorda nemmeno come ci sia finito in quel pezzo di terreno inutilizzato, dietro la casa, gettato all’ombra della villa nera. Non ricorda nemmeno come abbiano fatto i suoi fratelli a trovarsi ai suoi fianchi. Si chiede anche come sia possibile che, in pochi secondi, veda apparire Russia e le sue sorelle, abbracciate al fratello, poco lontano da lui.

Lituania è muto. Giura di non ricordare di aver aperto bocca quel giorno. Giura che non l’ha fatto nemmeno per mangiare.          Non ha mangiato per un intero giorno, eppure la pancia è calma. Forse più muta delle labbra del ragazzo. Non tenta nemmeno di muovere i denti, tanto sono sigillati fra di loro, stretti in un goffo abbraccio. Li lascia abbracciati, compressi, il giovane cavaliere, che lui sa che hanno bisogno di affetto, forse molto più di lui. Ma non ne è del tutto sicuro. Non è certo se voglia un abbraccio o un bacio compassionevole. Non è certo nemmeno se sia un bene che la sua bocca sia ancora completamente sigillata. Eppure resta ancora così, muto e freddo.

Lituania è sordo. Forse ha dimenticato la lingua di Russia, forse è malato e non riesce a sentire, forse le sue orecchie sono semplicemente molto timide oggi, ma non sente nulla. Il vento, ieri birichino, oggi annoiato, prova a toccare il ragazzo. Sprofonda le sue grandi mani di velluto sulla pelle bianca delle guance. Lascia la sua carezza gentile, desideroso di attenzioni, di qualcosa di interessante. Ma Lituania è ancora morto e non riesce a muoversi. La mano caritatevole del vento è nulla più di un lieve tocco di dama, dato per sbaglio, imbranata e noncurante di lui, piccolo cavaliere. Il vento, incredulo, diventa scocciato. Si fa più provocatorio, più arrogante. Sbatte le mani, più fredde, più crudeli, sul ragazzo di ghiaccio. La sua energia non è molto forte, ma è sufficiente per alzare giusto un po’ la terra e per muovere i capelli scuri. Ondeggiano tra le dita del vento, i capelli mori. S’intrecciano tra le falangi e le unghie gelide dello spirito birichino. Tornano lentamente al loro posto, forse un po’ più vicine agli occhi blu. Ancora nulla. Ancora morto. Il vento se ne va, indignato, più annoiato di qualche ora fa: Lituania è ancora morto, è ancora sordo. Non capisce ancora come sia possibile. Non capisce ancora come faccia a non sentire le parole del prete, le sue benedizioni e la sua preghiera. Non capisce molte cose, il freddo ragazzo. Ma forse è meglio non tentare più di comprenderle.

Lituania è cieco. È anche cieco, oltre che sordo e muto. È incredibile e letale come un solo avvenimento sia riuscito a farlo morire così in fretta. Sarebbe quasi meravigliato da ciò, ma non ne è capace: forse non riesce neppure a pensare. Tuttavia, non desidera avere la consapevolezza di ciò che stia accadendo. I suoi occhi sono ciechi, ma solo per ciò che scorgono attorno al proprio padrone. Vedono, gli occhi, ammaliati, catturati solo dalla pelle grigia di Polonia. Gli occhi sono magneti, il corpicino fragile dell’amico è una forza troppo potente per non prestarle le iridi, anche se scure e tagliate dalle mani del vento. Nella fossa, dentro la bara di marmo bianco, di fronte alla lapide luminosa, il piccolo principe riposa, che morto non può essere. Lituania non riesce a spiegarsi molte cose. Questo problema è molto, troppo difficile da risolvere. Ciononostante, non riesce a fare nulla: le labbra sono mute, gola chiusa, respiro lento e calmo di stasi, i soffi di un morente. Orecchie chiuse, stretti i padiglioni, bloccati e concentrati sul nulla. Occhi freddi, dovrebbero essere blu, ma il tocco del vento e l’anima smossa li fanno grigiastri. Sono attratti dalle rose bianche e rosse dentro al giaciglio del piccolo principe. Sono conquistati dai capelli di grano, forse tornati biondi e vivi, forse un’impressione del passato. Sono stregati dal dolce petto che tenta di spingere i fiori recisi, ammassati su di sé. Malgrado ciò, nonostante lo sforzo, non ci riesce: troppo pesanti, troppo debole è il suo respiro, troppa poca è la sua energia. Ma continua a catturare piccoli batuffoli di aria, nutrimento per i polmoni freddi. Gli occhi di Lituania non riescono ancora a smuoversi, a riacquistare del tutto la vista.

Lituania è un cavaliere di ghiaccio. La schiena è dritta, ferma e composta. Il capo alto, fiero, nonostante gli occhi e la pelle congelata. Le mani cadute, tenute ferme, lunghe contro i fianchi forti. Non riesce a sentire il vento, né le deboli ribellioni dei suoi capelli, più attratte dallo spirito, nemmeno riesce ad avvertire le mani dei suoi fratelli tra le sue dita. Sente la manina coraggiosa di Lettonia stringere più forte, cercando di risanare qualcosa di ancora sano. Non c’è nulla da riparare, da far guarire, ma pare che nessuno l’abbia capito. Ma a Lituania non importa che qualcuno lo comprenda.

Anche Russia ha occhi caldi, angosciati. Vede qualcosa dentro di sé, un ricordo che vorrebbe dimenticare. Ricorda i giorni in cui toccava la schiena e le braccia di Lituania. Non sapeva ancora quanto fosse importante per lui. Ricorda gli occhi straziati, poi lacrimevoli, poi deboli, infine morti. Guarivano dopo pochi giorni, i suoi occhi, ma ora il generale è preoccupato. L’occhio è fermo sulla pelle biancastra del giovane cavaliere. Il vento tenta ancora di graffiarlo, di farlo sobbalzare, invano. Russia non ha ancora paura, vuole ancora sperare che il suo piccolo angelo stia bene e starà bene. Spera che del tempo, pochissimo tempo, possa ricucire la debole ferita che ha voluto aprire, per cicatrizzarla per sempre. Non sa niente Russia. Per una volta non sa niente. Non sa nemmeno dello sguardo amaro ma tenace di Katja, forse un po’ più coraggioso. Non sa nemmeno della stretta più salda al suo braccio di Natalya, presa dalla gelosia. Vede gli occhi di suo fratello su quel cavaliere morto. Non dovrebbe guardarlo per così tanto tempo. Non capisce nemmeno lei perché gli rivolga uno sguardo così teso. La ragazza vorrebbe essere abbastanza ignorante da non domandarsi tutto ciò. Le basterebbe solo l’attenzione di suo fratello, nulla di più. Ma un piccolo lato di sé, poco più calmo, crede che debba sapere il perché di tutte queste attenzioni per un giovane freddo d’animo e di cuore. Stringe ancora il braccio del fratello, tenta di ignorare quel che sta accadendo, tutto quel che sta accadendo. Eppure non ci riesce, troppo gelosa, troppo toccata dal volto irriconoscibile di Polonia. Chiude gli occhi e sospira. Vuole solo tornare dentro casa, nella sua stanza, forse a leggere un libro. Lontana da tutto ciò che la turba. Non solo suo fratello. Ricorda Polonia, molti secoli prima. Vederlo in questo stato la fa sentire male. Non l’ammetterà mai, ma sente una piccola pressione sul cuore.

L’uomo anziano chiude la Bibbia. Inclina il capo verso tutti, smette di parlare. Ha finito, tutto è finito. Le rose sembrano incominciare a morire già da ora, seppure recise un paio d’ore fa. Abbracciano e scaldano il corpicino del piccolo principe, anch’esse incantate dalla sua pelle, dalla sua veste bianca e soffice, dai capelli lucenti. Sono affascinate troppo da Polonia per staccarsi da lui. Sono accontentate: non saranno gettate via, lontane dal loro amato bambino. Restano lì, dentro il piccolo giaciglio bianco del marmo, coprono con più audacia le braccia magre del loro piccolo amante. Amano le sue guance, forse un po’ più calde ora grazie alle loro cure. Vorrebbero toccargli le labbra di latte, loro tutte, ma non si può: troppo lontane, incastrate tutte. Sconfortate, si coricano al suo fianco, ancor più innamorate. Lituania, quercia forte e fredda, resta a guardare, nel silenzio e tra le mani del vento nei suoi capelli, maledetto ed intestardito.

Russia si china, fa il segno della croce, diverso da quello che Lituania fa di solito. Spinge, dolce, toccato, la porticina di marmo della bara. Il tonfo della chiusura tocca le orecchie di Lituania. Si scaraventa sulle labbra, le trapassa e sblocca i denti. Filtra tra i capelli, più veloce delle unghie del vento, tocca la fronte e dietro al capo. Gli occhi di Lituania si scuotono, vedono il piccolo giaciglio venire inghiottito dalla terra. Una piccola vocina sussurra, speranzosa, nell’orecchio aperto del ragazzo. Gli chiede i suoi pensieri, cosa voglia il suo cuore e la sua anima. Lituania non sa che rispondere. Continua semplicemente a guardare, con le mani strette fra quelle dei suoi fratelli.

Il giaciglio bianco scompare sotto la fredda terra e lì nessun altro ci getta sopra un occhio.

 

 

 

 

 

 

Batte le palpebre, Lituania. La memoria non vuole ancora aiutarlo. Non ricorda nemmeno questo. Non ricorda di essersi mai coricato, nel letto, nel loro letto, tra le lenzuola calde. Non ricorda nemmeno il buio, le stelle, la luna che splende dalla finestra. Né il pendolo, vecchio e brusco, che sbatte la sua lancetta innanzi ed indietro, una danza monotona e malinconicamente familiare. Se alzasse lo sguardo vedrebbe il vetro della finestra coperto di punti bianchi. Le stelle sono spesso state la sua luce nelle vecchie ed anziane notti d’incubi, quando Russia strappava la sua carne come stoffa di bambola, quando piegava la schiena ad un padrone malato. Le stelle si staccano dolcemente dal cielo. Cadono, s’infrangono veloci sul vetro del pendolo, sulla pancia e sul volto delle lancette. Vede l’orario: le undici e mezza. Non ricorda affatto di aver toccato quest’ora. Mai l’avrebbe giurato. Mai avrebbe giurato che il buio l’abbia sopraffatto senza alcun preavviso. È sinceramente incredulo di ciò.

Pensa di chiudere gli occhi, pensa per un attimo di dormire. Ma qualcosa continua a ghiacciare il suo corpo ed a maledirlo. Le palpebre sono ancora ghiacciate, le iridi puntano sulle calme lancette, come nel tentativo di stregarle, per far passare più in fretta l’orario. Odiano talmente tanto le sue iridi, stanotte, il vecchio pendolo. Veramente, Lituania si sente stanco, ma non riesce nemmeno a chiudere gli occhi. E’ innaturale. Non riesce nemmeno a chiedersi cos’abbia il suo corpo. Il motivo della maledizione di ghiaccio gettata su di lui è fin troppo chiaro, è fin troppo ovvio. Il pendolo ignora le frecce fredde e continua il suo lavoro, imperterrito, troppo concentrato per fare un solo errore. Dietro di lui, poco dietro di lui, sente dei respiri delicati e calmi. Estonia e Lettonia si devono essere addormentati già da ore, probabilmente. Sente dietro la schiena il sereno sospiro dell’estone, poco lontano dal proprio collo, stranamente al centro del letto. Non si chiede perché Estonia si sia coricato affianco a lui, non vuole chiederselo. Non vuole chiedersi nemmeno come abbia fatto a non accorgersi della sua mano, chiusa, premuta sulla sua schiena. Un’infantile gesto di pace in un animo spesso travagliato.

Qualcosa si scongela dentro al lituano. Qualcosa decide di non voler essere schiavo di questo maleficio. Il cervello pretende di essere ascoltato, di sfogarsi, di implorare di avere voce. Il ragazzo accetta, desideroso di dare ascolto ad una piccola parte di sé, divenuta bollente per il nervosismo. Anche il cuore si libera, ritorna a fare il suo dovere con molta diligenza, troppa: batte troppo forte, lo fa respirare con affanno e preoccupazione. La carne e le costole protestano per la velocità. Il suo battito è ancora più angosciante, più prepotente e supplichevole. Il suo cuoricino pulsa, quasi malato. Fa quasi male, questa prepotenza. I suoi fremiti sono ricchi di calore che si espande e travolge ogni vena, arteria, muscolo ed organo. Lituania si è velocemente scongelato, morta la dannazione di ghiaccio. Batte le palpebre, ritornate blu, le ciglia tiepide. I capelli, anch’essi liberi, cadono, finita la tensione all’interno del petto del proprio padrone. Lituania ritorna ragazzo, lo sconosciuto non ha più anima. Il gelo muore, cade nel nulla. Si sostituisce l’angoscia, i battiti pressanti nell’anima. Fa un caldo maledetto all’interno del ragazzo.

Si chiede se sia divenuto pazzo, folle e malato. Si chiede se la sua mente abbia deciso di mutare in bastarda e crudele, solo per farlo sperare invano nell’impossibile. Si chiede, invece, se siano stati i suoi occhi ad ammalarsi o ad ingannarsi. Si chiede anche se quel che ha visto sia stato veramente possibile, se tutte le sue ipotesi precedenti siano state veritiere. Ha tantissime domande e le risposte che cerca non le trova, ne è insoddisfatto. Il cuore palpita indignato per tutte queste domande, ritenendo la soluzione più che ovvia e logica: perché avrebbe dovuto mentirsi o darsi false speranze? Perché il suo cervello ha desiderato recargli uno scherzo del genere, per quale motivo? Perché mai non vuole accettare la verità che solamente i suoi occhi hanno catturato, che solo la sua anima desidera accettare? Lituania non risponde, il cervello prende parola: se quel che ha visto è vero, come mai nessuno l’ha notato? Non si reputa incredibilmente attento o particolarmente attratto da particolari così minuti, tanto da essere in grado di intravedere un miracolo del genere. E, soprattutto, controbatte il cervello, sempre sotto ipotesi, come sarebbe possibile una rinascita di questo tipo? Mai è accaduto. Lituania lo sa, si è informato anni fa, nel suo tentativo di avere una speranza. Mai un prodigio del genere ha mai lasciato la meraviglia e lo stupore di altre Nazioni. Perché mai Polonia dovrebbe rinascere e tornare a vivere?

Solo queste ultime domande fanno quietare l’animo irrequieto del lituano. Anche le palpebre, anche le iridi si calmano: non è mai accaduto, non ha mai visto nulla. La sua mente si è semplicemente ingannata da sé. Polonia è morto da anni, non può tornare in vita come se nulla fosse, come se fosse lo stesso Cristo, morto e risorto. È ridicolo. I suoi occhi devono avergli mentito, oppure si sono mentiti da soli. Solo ciò è possibile. Dev’essere accaduto perché ha rivisto il corpo di Polska dopo molto, troppo tempo. La meraviglia e l’orrore di quella vista deve averlo confuso molto. Si, dev’essere assolutamente così. Dopo qualche minuto, dopo qualche altro attimo di pausa, si convince del tutto in quel che crede. È stato tutto falso, tutto un sogno irrealizzabile. Dovrebbe piuttosto smettere di credere nel nulla. Il cervello esulta, pacato, cosciente di aver vinto una battaglia già ottenuta sin dal principio. Il cuore, ancor più incredulo ed esasperato, urla, sbatte, protesta fra le costole del ragazzo. Non riesce a credere che Lituania sia riuscito a rilassare le palpebre solo per un paio di domande, forse anche errate. È sinceramente pieno di disgusto. Lituania, tornato cavaliere, lo fa tacere.

Pensa ad Estonia, con cui a fatto pace, con cui sta cucendo un’amicizia sincera. Pensa a Lettonia, che ha imparato ad avere coraggio, ad imitarlo, in un certo senso. Pensa a Russia, che non lo vede più come un giocattolo, forse nemmeno come un servitore, che non lo ha mai toccato in quegli anni se non per abbracciarlo o per passargli una mano fra i capelli. Pensa a lui stesso, a com’era malato e folle, a come pregava un angelo di portarlo via con sé. A come tremava nel vedere l’ombra di Russia, a come la rabbia bolliva nell’incrociare gli occhiali di Estonia, a come il disgusto e la delusione lo assalivano nel sfiorare con lo sguardo i riccioli di Lettonia. Non vuole ritornare come prima, non vuole perdere tutto questo per qualcosa che forse non è neppure vero. Non vuole ritornare pazzo, non vuole distruggere tutto ciò che ha guadagnato in questi anni. Non vuole perdere quelle poche persone che ama.

Chiude, serra le palpebre, quasi irritato dall’insistenza del cuore che, orripilato, urla il suo disappunto, strepita il suo sdegno. Lituania non vuole ascoltarlo, cerca di concentrarsi, per addormentarsi. Il cuore lacrima sangue, sgonfio e addolorato. Smette di pulsare troppo forte. Ringhia contro il cervello che esulta ancora, ride della sua sconfitta. Piange ancora sangue tiepido, il povero cuore. Il ragazzo è calmo, tranquillizzato completamente. Il respiro è regolare, per nulla frettoloso o traballante. Si è assopito. Ma il cuore è pur sempre il più audace all’interno di un corpo umano. E’ sempre il più sagace, il più coraggioso, il più forte. Il più orgoglioso. Questa sconfitta fa male, molto male. Non vuole perdere contro il cervello, sempre saggio, ma comunque troppo scontato. Il cuore non è questo, il cuore non vuole perdere, per questo cerca ricordi dentro di sé. Ricordi di Polska, per far ragionare Lituania. Il ragazzo, nel frattempo, sospira tranquillo: ha ritrovato la pace. Non ha più pensieri strani, non pensa più a nulla in particolare. Vuole solo dormire, è troppo stanco. Il cuore cerca, cerca. Trova. Trova qualcosa di importante. È orgoglioso di sé stesso per la sua futura vittoria. Osserva un attimo il cervello, calmo e dormiente. Il lituano sta per addormentarsi. Può agire. Lituania non dorme ancora, può ancora tentare. Col suo avversario russante, pone a Lituania una domanda, una domanda difficile: Ricordi, Lituania?

Il cavaliere è scocciato da queste ridicole parole, per questo borbotta e si accuccia ancor di più nelle coperte bianche, irritato. Ma Lituania, sentito il suo nome, interessato a questo nuovo indovinello, curioso per questa domanda inappropriata, apre bocca. È un bambino con occhi di zaffiro, luminosi e desiderosi di sapere. Chiede cosa significhi questa domanda, cosa voglia che lui ricordi. Non ha niente da ricordare lui, niente di veramente bello. Niente che valga la pena di rimpiangere. Niente di sinceramente lieto. Chiede ancora al cuore cosa debba rimembrare e perché debba farlo proprio ora, proprio oggi che sta così bene e così in pace. Il bambino che vive in Lituania è comunque curioso, batte forte il cuoricino, il pollice tocca le labbra sottili. È ancora desideroso di sapere. Il cervello si sveglia, ma non vede pericoli: il cuore sta solo farneticando, niente di imprudente. Per questo ritorna a dormire, più che altro annoiato. Pulsa di felicità, il cuore, per aver avuto attenzioni. Sa che vincerà, sa bene che ha ragione. Sa che può far riflettere il piccolo cavaliere. Non pone domande, porta alla memoria del ragazzo un piccolo ricordo, troppo importante per essere cancellato. Sussurra le memorie di lacrime e sorrisi nelle orecchie del bambino, piccola anima interessata.

 

“Almeno promettimi una cosa…”

“…?”

“Promettimi che tornerai”

“Se tu prometterai di aspettarmi”

“Lo farò”

 

Il bambino, frammento di anima, di ricordi di spade e lance, spalanca, strascica le iridi di zaffiro. Respiro spezzato, cuore irrequieto. Brivido di emozioni lungo le spalle. Lituania si scuote, si sveglia, il corpo fa un sobbalzo potente. Il pugno di Estonia dietro la sua schiena si sposta leggermente, non lo tocca più, spinto all’indietro dallo scatto energico. Le iridi si riaprono e si dimenano tra le ciglia. Il sobbalzo è stato così potente da aver fatto svegliare il povero ed anziano cervello, poco cosciente di ciò che sta accadendo. Si agitano entrambi nello stesso corpo, come se tutto quello spazio sia diventato terribilmente piccolo ed asfissiante. Il ragazzo si sente soffocare nelle proprie carni. Lituania ha il cuore che rimbomba e batte forte nel petto robusto, in cerca di attenzioni sempre più forti. Un altro battito, più pesante, eppure molto più potente e veloce. Il cuore quasi si diverte. Trova il bambino, scioccato per i ricordi, ancora occhi sbarrati, tremuli. Il cuore si accuccia vicino al piccino. Le labbra sussurrano altri ricordi, altra disperazione e commozione.

 

“Per quanto riuscirai ad aspettarmi, Liet?”

“…per sempre…”

 

Niente sobbalzi, nemmeno dell’aria nei polmoni. Il bambino si sgretola, muore, non esiste più. Labbra schiuse, lacrime di meraviglia, lacrime salate inondano le ciglia. Sono più cariche e bollenti del suo mare scuro. Sono pesanti e morbide di sentimento e di una pace del tutto insolita a lui, del tutto inappropriata in questo momento, con questi pensieri, con questo dolore. Le gocce, amanti della libertà, cadono, corrono molto veloci, così tanto da non riuscire nemmeno a fermarle. Carezzano le guance tiepide nel loro tragitto, danno un silenzioso conforto al ragazzo. Sbattono contro il cuscino, contro le lenzuola. Lituania sente i propri occhi roventi e salmastri. La meraviglia continua a crescere, ricordando meglio ogni cosa che aveva sentito quella notte. Battono, bambine, dolci, le ciglia. L’anima si stacca delicatamente dal corpo, vogliosa di una sorsata d’aria fresca, che quel corpo è troppo carico di ansia ed incredulità troppo bollente per lei. Lituania sente il distacco. Le labbra si spalancano, raccolgono aria per i polmoni vuoti, mancato il respiro. Sente il corpo molto più leggero e cauto. Le carni sono deboli, ma leggere e caritatevoli, senza alcun dolore. Anche il cuore si è un po’ svuotato dai battiti. L’anima è bianca, trasparente, donna angelica dalle braccia di velluto. Lituania è ammaliato dalla sua presenza. La figura dell’anima sopra di sé è rilassante, lo calma. Qualcosa nei suoi occhi lo preme ad osservarla, come un cavaliere nel vedere la sua donna per la prima volta. La sua anima è agile e svelta, non può stare troppo tempo fuori dal corpo di Lituania. Madonna di dolcezza, cade come una piuma sopra al ragazzo. Sdraiata, sorella al suo corpo, poggia le labbra sopra quelle del cavaliere. D’istinto, il ragazzo schiude un po’ di più la bocca, accoglie il suo bacio. Lituania ha le palpebre pesanti, il respiro pacifico: l’anima ha labbra di seta, sapore di forza e di miele. Riesce a ritornare dentro al ragazzo, nel suo spazio, nel suo cantuccio. Si accuccia dentro e si scuote, un battito sgraziato tra le braccia di seta. Lituania ritorna in sé, ritorna ragazzo forte e gentile. Ricorda, ora ricorda. Gli occhi vagano per il buio, alla ricerca di un filo piccolo, che può percorrere e seguire. Vuole ricordi, vuole la scia di ciò che ha perso. Il suo sorriso sullo specchio. Il riflesso di Polska, macchiato del suo sangue. La reggia di Vilnius. Il bagno nel lago, le braccia amorevoli dell’amico, coperta di acqua dolce. I campi di grano, la tavola grondante di cibo, mani di bambino, pelle bianca come porcellana, occhi di smeraldo. Il suo vestito nero, elegante, la neve bollente, i campi di trifoglio, il coltello di Estonia. Il tetto della villa, il salto, la decisione, la preghiera di seguirlo. Lui, straiato, mani premurose e morbide, parole dolce e dolorose, un bacio di addio, ali di rubino, sorriso di bambino, sorriso triste. Ricorda la promessa. Ha un’altra scossa pesante, più angosciante. Per un secondo pensa al cadavere, pensa che stia cercando di respirare là sotto, con difficoltà, sotto centimetri e centimetri di terra. Starà soffocando, pensa Lituania. Il terrore e l’angoscia prendono la sua anima, la maltrattano, la violentano dentro di sé. Il terrore e la paura lo stringono fra corde e lacci di ferro.

Poggia il peso, tutto il peso, sul bacino. Fa scendere le gambe, si toglie di dosso la coperta, non più calda. L’aria è fredda, i piedi sentono il ghiaccio sotto di sé. Così, senza scarpe, senza calzini, scende dal letto. Il pugno di Estonia dietro la schiena del ragazzo si apre, indignato per essere stato abbandonato. Cammina veloce. Il cervello, del tutto sveglio, incredulo, non riesce a parlare, non riesce nemmeno ad aprir bocca tanto è sconvolto. Il cuore ride forte, sapeva di essere riuscito a vincere, sapeva che ce l’avrebbe fatta. Era ovvio che avesse ragione. Continua comunque il suo dovere: sbatte contro le costole bianche, prese da una spira incessante di orrore e paura. Lituania non è del tutto certo di quel che ha visto, di quel che sta sperando che abbia intravisto solo lui, ma deve muoversi. Il cuore non sussurra nulla, nemmeno il cervello. Un vecchio istinto lo fa correre per il corridoio, fuori dalla stanza buia, fuori da quel calore opprimente. Quella vecchia sensazione la conosce già, ma credeva di averla dimenticata. L’aveva quando ha salvato Polska da Prussia, in quella vecchia battaglia che non vuole ricordare. L’aveva quando morì Jadwiga, la sovrana di Polska. Lui sapeva di doverlo salvare, lui ha salvato Polska anche quella notte. E Polska ha salvato anche lui, molti anni fa. Non riesce a credere che tutto quel che ha visto sia stato reale. Non vuole crederci e non vuole pensarci, ha altro a cui prestare i propri pensieri.

Ha il terrore di perdere il suo amico. Oltre al cuore, anche lo stomaco si maledice con spasmi potenti. Si attorciglia su sé stesso e non si libera. Fa un male del diavolo, lo stomaco freddo, ma decide di ignorarlo. Deve continuare a correre. L’istinto è più forte del solito, più esigente di rapidità e velocità. Deve muoversi, non c’è tempo da perdere. Il cuore sfonda, spacca le costole, tanto ha battuto prepotentemente. Fanno male anche queste, ma deve ignorarle, deve ingoiare il dolore e il pianto di angoscia. Deve essere forte. Non ha tempo, non ha veramente tempo. Non vuole pensare, non vuole ricordare nulla. Non vuole pensare che la sua sia una semplice follia. Continua a correre, disperazione nelle viscere.

Polska l’ha salvato nella foresta nera. Questa volta sarà lui a salvarlo.

 

 

 

 

 

 

Chiude la porta dietro le spalle, lascia che tocchino il legno scuro, lascia anche che la mano spinga l’intero corpo in avanti, che lo faccia sbattere lievemente contro la scrivania. Piccola esitazione. Tamburella le dita, irrequiete, sui bordi chiari. La tavola è pulita: né una carta la ingombra, né una scartoffia, né dell’inchiostro, né delle penne, nemmeno un libro o un fascicolo di documenti. Solo un giornale di quella mattina è aperto sulla scrivania. Ha smesso di lavorare dalla fine della guerra, non ha più dovuto toccare una carta da quando Germania si è arreso, da quando Prussia è morto. Non ne ha avuto semplicemente bisogno. Il suo popolo deve risanarsi per la resistenza avuta quel lontano inverno, la dura politica e le varie leggi da poco applicate. Niente che lo riguardi: lui è un generale, non un politico.

Smette di far giocare le dita, decide di sedersi. D’istinto poggia il mento sopra il palmo aperto. Le unghie, dopo un attimo di smarrimento, provano a carezzare la pelle nivea. Inutile tentativo: il generale non sente alcun contatto, non sente carezze, né graffi impertinenti. Ha la mente quasi del tutto assente, gli occhi stanchi per niente assonnati, i capelli disfatti, i sospiri che sostituiscono gli sbadigli. Guarda fuori dalla finestra. Non vede nulla e nemmeno vorrebbe farlo, non solo per il buio. Le stelle sono troppo piccole, troppo innocenti, troppo bambine per sostituirsi a dei lumi. Anche lo studio è scuro, nessuna lampada o candela è stata accesa. Quando Russia pensa dimentica anche il proprio nome.

Si chiede se abbia fatto un buon lavoro, se i Baltici stiano bene ora e se stiano passando una buona notte, nonostante il funerale della sera precedente. Un altro sospiro, più esausto e scuro, non per il sonno. Si chiede se Lituania stia bene, se ora riesca a non pensare a Polonia. Se possa dimenticare l’anno della sua malattia. Il corpo di Russia è irrequieto, tanto che si sposta continuamente dalla poltrona. Come un malato che non riesce a trovare una buona posizione per dormire senza sentire l’aggravare del proprio malanno. Infame è la malattia del generale bianco, disprezza e opprime la sua coscienza. Immagina molto, il generale, chiude gli occhi e immagina Lituania. Lo immagina nel letto, irrequieto, pesante, sudato per incubi e maledizioni lanciate da quel cadavere, risvegliato dall’eterno sonno. Perché, per Russia, Polonia è un demone e, toccato nell’eternità del riposo, sdegnato ed iroso, ha gettato sul proprio amico una seconda maledizione, un più leggera della prima, forse un unico avvertimento a non toccarlo più, per non farlo destare in nessun’altra occasione dal sonno eterno. Polonia è un demone, ha maledetto il suo angelo anni fa. La sua maledizione è durata per più di un anno, quell’anno ha pianto e bevuto come un maiale, ha spezzato ossa e massacrato come un mostro. Polonia voleva che Lituania fosse suo, voleva che lo raggiungesse e lo ha preteso nel modo più doloroso possibile. Russia ha toccato il fondo quell’anno e ha giurato di non farlo mai più.

Le dita che lo graffiano si quietano, portano alla memoria qualcosa di importante. Gli occhi pacati, adulti e calmi si spostano, toccano quella stessa mano. Sfiorano e vezzeggiano il taglio lungo il pollice. Quel vecchio taglio marchiato sulla propria carne, tra la pazzia e la felicità più pura. Russia non vuole ricordare quella stanza ammuffita e sporca di terra. Lo disgusta anche solo il ricordo. Gli basta osservare quel filamento color perla, poco più bianco che spacca, taglia di netto la sua mano. Non porta più guanti da quando ha fatto il giuramento. Sono passati anni, ma questa è diventata la sua abitudine per cambiare, per non rischiare un’altra maledizione e così altra collera nella propria mente. Sente il muscolo e l’osso tirare e questo è sempre un avvertimento per lui. Un avvertimento a non sbagliare. Non può afferrare un cucchiaio se non con una lieve scarica di dolce bruciore e il ricordo di una risata folle. Non vuole più vedersi in quel modo. Spera che sia cambiato abbastanza per non poter mai più vedere il sangue dei suoi bambini sulle proprie mani. Sarebbe molto più doloroso ritornare com’era prima che rivedere Polonia. Teme le sue mani più di quanto tema una maledizione del principe polacco. Spera solo che il suo corpo non voglia avere una vendetta un po’ più salata di quella presa anni fa.

Sospira ancora, forse, questa volta, con un po’ di sonnolenza. Pensa che non possa restare sveglio per tutta la notte. Le sue sorelle si preoccuperebbero nel vederlo assonnato, la mattina dopo. Malgrado ciò, non riesce a dormire. Crede che debba leggere qualcosa: leggere ad ore così tarde lo fa addormentare facilmente. Gli occhi balzano, lenti, sulla libreria alla sua sinistra. I pesanti e grossi tomi lo fanno sospirare di rammarico. Se deve leggere qualche centinaio di pagine di letteratura russa deve almeno essere sveglio. Lo disgusta l’idea di leggere un romanzo breve di Dostoevskij solo per avere sonno. Sposta lo sguardo sulla libreria alla propria destra. Sbuffa sconfortato e abbassa lo sguardo: i suoi vecchi documenti della vecchia guerra lo hanno stufato ed irritato a sufficienza anni prima. Non vuole altra collera. Non ha mai accettato il tradimento di Germania, poco importa se fosse stato un burattino fra le mani di Prussia. E’ pur sempre irato per la sua invasione.

Occhi cupi, caduti all’ingiù, quasi nervosi, catturano un giornale lasciato lì, abbandonato. Si meraviglia che non l’abbia notato prima, anche se accartocciato all’angolo della tavola. Si allunga, lo afferra, lo apre, ricorda di non averlo nemmeno toccato. Anche senza luce, lo taglia in due e prova a leggere. Politica interna, scandali economici, vecchie favole che ha già letto ed ascoltato secoli fa. Più che sonno, Russia ha noia. È incredibile come la storia si ripeta sempre, nonostante i secoli e secoli di innovazioni e tecnologie differenti. Gli umani fanno sempre gli stessi errori e non provano mai ad imparare. Lo stesso vale per le guerre. L’ultima che ha combattuto l’ha fatto stare più male di quel che avrebbe mai immaginato. Sarà per il suo nuovo cuore più morbido o per gli avvenimenti in sé per sé, ma ogni battaglia che combatteva pregava affinché smettesse subito. Pregava e sospirava di sollievo per ogni chilometro guadagnato al giorno. Così aveva passato la guerra. E mai ne ha odiata una così tanto.

Chiude il giornale bruscamente, lascia la prima pagina in piena mostra, si è già annoiato. Non riesce a pensare a nulla, non ne ha il tempo. Il corpo si blocca. Perplessità, semplice e pura perplessità. Si aggiungono anche la curiosità e l’interesse al suo spirito. La prima pagina, non ha idea di come non l’abbia notato fino ad ora, presenta una bandiera tagliata in due: bianca in alto, rossa in basso, un’aquila argentata con una coroncina d’oro svetta al centro della metà bianca, antica e urlante di storia medioevale. La perplessità avanza sempre più nella mente del generale alla scritta, stampata a caratteri più che maiuscoli: “Miracolo rivoluzionario: la Polonia rivendica la sua bandiera”. Uno schiocco di labbra, palpebre assottigliate, inizia a leggere:

“Il bianco e il rosso sono tornati a toccare il cielo della vecchia Polonia questa tranquilla estate. Varsavia brucia la svastica e ritorna a dipingere la propria bandiera con l’aquila bianca della libertà. Molti polacchi urlano già la loro indipendenza nelle strade della capitale. Abbandonata, maltrattata, dimenticata, non si arrende e decide di ritornare al vecchio splendore. La richiesta di una nuova Polonia è già possibile per questa estate, fiorente e gioiosa per un popolo ormai desideroso di una nuova casa…”

Le palpebre di Russia, con una lentezza asfissiante, si spalancano del tutto.

“…con la Germania in decadenza, l’Inghilterra e la Francia amichevoli e la restituzione dei vecchi territori, la Polonia ritornerà nelle cartine geografiche delle scuole. Questo luglio sarà festeggiato a Varsavia come l’inizio del grande cambiamento…”

Le mani bianche tremano. Il fiato è corto. Le parole più sfocate.

“…luglio di quest’estate… ritorno meraviglioso… nazione in rinascita… bandiera bianca e rossa, senza vessillo medioevale, troppo antico per… la vittoria è per i sopravvissuti all’orrore della guerra… resuscitati dalle ceneri come fenici…”

Iridi bollenti e piccole, tremanti, terrorizzate. I denti battono fra loro, prese da una forza più forte del freddo del Generale Inverno. Le mani hanno la stessa reazione, collegate alle iridi e ai molari balzanti dentro la mascella. Il cuore fa dei sobbalzi lungo la gola, tentando di saltare fuori e di fuggire via. Il giornale cade, troppi i tremiti di terrore, incapaci di tenerlo fermo. Pochi minuti, pochi secondi e la sua coscienza si è spaccata. Guarda la porta di fronte a sé, preso dal terrore. Teme di vederlo, rinato dal buio. Ha il terrore che percuote l’anima di fremiti e guizzi. Teme di vedere la porta scricchiolante, lenta e gracchiante come una vecchia strega. Teme di vedere una mano piccola, di bambino. Dita sottili e fini. Teme di veder aprire uno spiraglio e di osservarne attraverso occhi verdi, lucenti di vendetta, giocosi. Un naso piccolo, pelle chiara, capelli d’oro. Teme di vedere sul suo volto un sorriso lungo, di gatto, di volpe, di demone. Teme che la porta si apra ancor di più e di sentirlo ridere di vittoria, per avere in mano la sua preda. Russia, d’istinto, accuccia il proprio corpo nella profondità della poltrona. Trema, come un bambino trema nel vedere un mostro uscire fuori dal proprio armadio. Russia si chiede cos’abbia fatto. Perché abbia avuto un’idea così malata e folle. Si chiede perché mai abbia deciso di seppellire Polonia proprio lì, nel suo giardino, ad un passo da casa sua. Un passo più vicino alla vendetta del piccolo demone. Gli ha strappato via il proprio cavaliere e amico, ha maltrattato il piccolo Lituania, non gliel’ha restituito quando vinse contro di lui, ricevuti molti territori, soprattutto lituani. Lui l’ha ucciso.

Sente un tonfo fuori dalla finestra, dietro al suo giardino. Russia sobbalza e trattiene il respiro. Sa che se potesse guardare fuori dalla finestra vedrebbe la lapide e la tomba di Polonia. Sa che lì sta accadendo qualcosa. Un altro tonfo, un’altra lama piantata nel cuore. Brucia la ferita di quella lama, sputa sangue. Eppure il cuore batte ancora, nonostante il dolore e la ferita. Russia ha dolore al cuore, pulsante anche nelle orecchie, quasi oscurando i tonfi e i pugni che sente là fuori. Un altro tonfo, un po’ più forte e aggressivo. La prepotenza di quel boato lo percuote nelle viscere. Ha le orecchie ipersensibili: potrebbe sentire chiaramente i passettini innocenti di un topolino se ne zampettasse uno in questo studio. Qualcosa smette, qualcosa là fuori cade. Quel qualcosa sbatte sul terreno. Una bara aperta. Il cuore sta per scoppiargli in petto, una bomba sul countdown pericolosamente vicino allo zero. Lascia spruzzi di elettricità nelle vene, morde e pietrifica le carni. Il sudore sono perle trasparenti sulla pelle. Gli occhi spilli violacei.

Passetti calmi, piccoli ed innocenti, fuori al buio del giardino. I passi sono quasi disorientati, quasi perplessi. Si fermano, sentono l’aria smorzata, sotto i muri della villa. Un corpo semovente, senza un piede in avanti all’altro. Il fiato gli manca, non riesce a pensare, nemmeno a muoversi. Non oserebbe mai alzarsi e guardare fuori dalla finestra. Ha troppa paura. Il terrore di una nuova maledizione lo prende e lo sbatte contro i ricordi dei giorni malati, anni fa. Non vuole riviverli ancora, non vuole vedere Polonia. I passi, fantasmi, senza direzione, si muovono lenti e distratti. Non riesce a capire dove si dirigano, non riesce a farlo e il non saperlo fare lo terrorizza ancor di più. Svaniscono nel vento, i passettini di bambino.

Silenzio, morte nel cuore. Russia ha una mano sulle labbra e non se n’è nemmeno accorto. Gli occhi ritornano grandi e più controllati, le palpebre sbattono addosso alle iridi fredde, rimaste trattenute per troppo tempo. Ma i tremori e i battiti non passano affatto. Timoroso, tremule le braccia, alza la testa. Non deve alzarsi per guardare fuori. Non vede bene nel buio, ma la terra sopra la bara è diversa, nota. Non è compatta. La bara è scoperta. Ancor più terrorizzato, fa cadere il corpo sopra la poltrona. Se vedesse ancora, morirebbe.

Polonia è rinato, come un angelo, come un demone. Il terrore per una punizione è sempre più vivo in lui. I demoni sono molto vendicativi. Si stringe le braccia attorno al proprio corpo, tenta di calmare i tremiti, invano. Il cuore ha ancora il terrore che lo percuote in lungo e in largo nelle viscere. Fa scorrere nei vasi sanguigni veleno ghiacciato. Una piccola parte di sé, bambina ed infantile, pensa di restare lì, nel suo studio, di rinchiudersi qui dentro e di aspettare che l’ira di Polonia si acquieti e che vada via. Smettono i tremiti. Questi pensieri li aveva quando era bambino ed i Tartari abusavano di lui e delle sue sorelle. Quando Inverno era incontrollabile. Quando gli zar lo obbligavano ad imparare a tagliare una gola nemica. Non può fare questi pensieri proprio ora. Non è più bambino. È russo e i russi sono uomini tenaci. Lo affronterà. Affronterà di persona quel demone e lo caccerà via.

Si alza dalla sedia, le gambe rigide come cemento armato. Apre il cassetto, la mano tremule, insensibile e goffa. Una vecchia pistola, carica di colpi, per le emergenze. Spera che non gli sarà utile, spera che se dovrà usarla potrà essere dannosa per un demone. La infila dentro la giubba, vicina allo spacco, per afferrarla in fretta in caso di bisogno. Ogni cellula del suo corpo implora di non muoversi, di scappare. Parte di sé, terrorizzata, ma orgogliosa, russa e leale, risponde che ha altro a cui pensare. Si chiede se Polonia sia abbastanza vendicativo da non colpirlo direttamente. Pensa che possa fare peggio che un semplice ritorno, iroso e sprezzante. Pensa a Lituania. Non crede che potrebbe mai lanciargli un’altra maledizione. I polacchi non sono così feroci da spezzare la vita dei propri amici solo per una rivincita. Pensa a Lettonia e ad Estonia. Spera che non li consideri nemmeno. Pensa a Katja e a Natalya. Ha paura, ha paura che possa toccarle. Le gambe, a malincuore, guidate da un sentimento di timore, di fratellanza, di orgoglio, camminano lungo il corridoio, fuori dallo studio. La finestra è ancora aperta. Russia scappa da essa, teme di mostrarle le spalle.

Dovesse mettersi contro l’intero Inferno, nessun demone potrà mai entrare a casa sua e maledire una delle sue sorelle. Nemmeno uno dei suoi figli.

 

 

 

 

 

 

Estonia l’ha fatto apposta. Si è coricato al centro del letto di proposito. Si è stretto alla schiena di Lituania apposta. Ha tenuto gli occhi aperti e ha sentito i respiri irregolari del fratello fino, ad ora, di proposito. Il posto di Lituania è già freddo, anche se è andato via solo da pochi minuti. Il cuore inizia già a battere forte, la gola secca. Vuole un bicchiere d’acqua, vuole anche le ossa calde del fratello vicino a lui. Lettonia, anche se non troppo lontano da lui, è freddo come una tavola. È anche troppo piccolo per dargli calore. Deglutisce a fatica, l’estone. Il cuore continua ancora a battere forte. Gli sale un’insana paura del buio. Le stelle sul vetro del pendolo sono troppo piccole per dargli sicurezza. Ha brividi di freddo, sente il corpo scuotersi contro di essi.

Chiude solo per un attimo gli occhi e il pendolo minaccia ancora con le sue lancette: mezzanotte meno un quarto. Non è così tanto miope da non riuscire a vedere l’orario. Estonia si sente piccolo ed indifeso, d’un tratto. Il cuore pretende più sangue ed ossigeno di quanto dovrebbe averne, affaticato eccessivamente per lo sforzo. Pompa ossigeno nel sangue, troppo spossato e stanco. Estonia si sente in trappola, esagerata è la sensazione di star per essere schiacciato da un titano invisibile. Teme quasi che la stanza prenda vita e lo pressi contro il letto, la scrivania, il pendolo e il cassetto. Ha paura di cose impossibili, Estonia. Vorrebbe dormire, ma non ci riesce. Lituania è solo andato a prendere un bicchiere d’acqua, cerca di calmarsi, di ripetere fra sé e sé qualcosa che, spera, sia vero. Crede con tutto il cuore che sia qualcosa di vero. Vorrebbe addormentarsi, prova a chiudere gli occhi. Il cuore gli fa troppo male nel petto. Il dolore può tener sveglio anche un moribondo, per questo Estonia non riesce a dormire. Teme che le ombre della stanza lo accoltellino, tanto si avvicinano, tanto la sua vista sta sfumando.

Un altro oscillamento del pendolo: mezzanotte meno cinque. Lituania non è andato a prendere un bicchiere d’acqua, ringhia il suo subconscio, più razionale e maligno. Il ragazzo lo sopprime, preoccupato. Si chiede perché il fratello non torni, si chiede che cosa stia facendo in tutto questo tempo. La cucina non è molto lontana dalla loro stanza, non serve nemmeno un minuto per arrivarci e tornare indietro, anche con borse o piatti in mano. Estonia ha un treno furioso nel petto, sbuffa e rende liquido il reale cuore, tanto è bollente, tanto sputa calore e fiamme. Deglutisce ancora, senza saliva. Ha una sete del diavolo. Pensa di alzarsi anche lui e di andare in cucina. È un pensiero troppo breve e trascurabile per essere anche solo ascoltato. Il braccio scivola sotto la coperta, il posto dove prima dormiva suo fratello. È ghiacciato. Il cuscino è tornato com’era prima, senza segni di testa, rotondo e pasciuto. Il cuore sta per esplodere. E’ caldo, le vene protestano per il fumo del treno. Non riuscirà a trattenere tutto questo a lungo.

Mezzanotte. Aspetta ancora, preoccupato.

Mezzanotte e cinque. Gli occhi sono fissi sulle lancette. Cercano di costringerle a non muoversi. Non devono muoversi. Non devono nemmeno poter esistere. Un granello di rabbia e frustrazione entra nell’orecchio del ragazzo, cattivo.

Mezzanotte e dieci. Il granello viene sputato fuori dal cervello di Estonia. Niente cibo per lui, niente divertimento. La mente del biondo è accaldata, molliccia, sussultante. Non vuole più essere tremolante. Ha paura. Cuore in fiamme. Lieve presagio di morte. Una lieve paura per suo fratello.

Mezzanotte ed un quarto. Con uno sforzo enorme non permette agli occhi di lacrimare: Lituania non tornerà più. È passato troppo tempo. Estonia non ha rabbia, non ha il coraggio di provarla. Bestemmia una parte del suo cervello a Russia per aver riportato alla luce il corpo di Polonia, piccola carogna. Non avrebbe dovuto. Sapeva che fosse una pessima idea. Sapeva che sarebbe riaccaduto. Lituania era strano per tutto il giorno. Non parlava, non mangiava, i suoi occhi parevano malati. Non riesce nemmeno a dare la piena colpa al generale bianco: lui stesso avrebbe potuto dire di no. Dire che non voleva quel cadavere vicino casa loro, dire che il progetto nella sua mente sarebbe di sicuro andato in fallo. Lituania non avrebbe dovuto vedere mai più Polonia. Non dopo tutto quello che hanno passato. Non dopo che Lituania si è trasformato in qualcun altro. Non dopo che la serenità stava tornando nelle coscienze di ognuno di loro. Il cuore fa troppo male. Maledice Polonia e il suo paese, prova rancore per lui. Poco, ma è comunque rancore.

Mezzanotte e venti, Lituania ancora non c’è. Il cuore e la mano sono veloci: uno pompa più forte il gas del treno nelle vene, l’altro strappa la coperta di dosso al ragazzo. Il calore nella carne è tanto da non riuscire a sentire più freddo. Suda, Estonia, ma non ha il tempo per asciugarsi la fronte. Scende dal letto. Rapidamente, con troppa velocità, si infila le scarpe. Si rifiuta di allacciarle, non ha tempo. Si alza, svelto, le molle del materasso protestano per la fatica compiuta. Una presenza ghiacciata, alle sue spalle, familiare nel vento d’inverno e la neve, gli urla di fare più veloce. Gli occhiali sono già sul suo naso. I piedi dimenticano di essere silenziosi. La porta è già aperta, dev’essere solo oltrepassata.

“Estonia?” non si blocca niente nel corpo del ragazzo. Non si smuove nulla, né ha un colpo al cuore o nell’animo. Anche la presenza alle sue spalle è indifferente alla voce di bambino. Probabilmente si aspettava che Lettonia, anche se immobile, lo vedesse “Lituania non è ancora tornato?” questo lo blocca. Questo è un colpo. Lo spettro dei ghiacci è paralizzato per i ricordi, per gli alberi scuri, per i fiocchi di neve. Il ragazzino è un’ombra scura nel lettone dei tre fratelli. Sa che lo sta guardando, sa che è preoccupato anch’egli. Sa che Estonia è troppo razionale e preciso per dargli una risposta diversa dalla verità. Ma al piccolo non dispiace, in fondo non è più un bambino. Non vuole e non deve vivere in una favola. Con una silenziosa affermazione, Lettonia scende dal letto, scattante, senza tremiti. Strappa dal cassettone due coperte e se le poggia sulle spalle. Ha freddo. Ne passa una ad Estonia. La rifiuta gentilmente: ha troppo caldo, il sudore cola dalla sua tempia. Corrono nel corridoio, sanno già dove andare, sanno già che demoni affrontare.

Il fantasma congelato, alle spalle dell’estone, calmo ma preoccupato, urla di muovere le gambe.

 

 

 

 

 

 

Le rose piangono, protestano, pregano per avere pietà e misericordia.

Lituania non ne ha alcuna. Ne strappa ognuna, nemmeno una di loro deve toccare né baciare il suo principe. Ne afferra una, bianca e candida, la getta iracondo contro la fredda terra. La rosa, piccola e disperata, piange in silenzio. Nemmeno ha abbracciato il suo amato che già glielo strappano dalle mani. Una rosa rossa, stretta alla mano del principe, più tenace e vogliosa del ragazzo, si stringe con più forza, quasi aggressiva, alle dita bianche. Guarda, disgusta, lacrime tra i petali verso lo svelto ed insensibile cavaliere. Usa più forza nella stretta. Anche le sue spine si stringono, selvagge, attorno al fianco del ragazzo biondo. Una dama non tradirebbe mai il suo amore. Lituania, ancora indifferente, l’afferra e la scaraventa lontano. Casualmente, cade vicina alla sua sorella bianca, sconfitta e piangente. Straziata e lacrimosa. Piange anche la rossa: entrambe sconfitte, entrambe morranno. Lo stesso destino è delle loro sorelle e cugine. Tutte strappate, tutte scaraventate, tutte calpestate e distrutte dal cavaliere. Nessuna dama deve toccarlo, nessuna rosa deve stringerlo a sé. È solo suo. È cavaliere, e un cavaliere mai abbandona il suo principe.

Le rose, chi abbandonata nel giaciglio ormai distrutto, chi gettata e sporca di terra, chi calpestata, piangono e si disperano: hanno perso il loro amato. Sanno che mai più il cavaliere di ghiaccio non glielo ridarà più indietro, troppo crudele ed egoista. Lo vedono rialzarsi, rapire e portare via il loro amato, leggero come un angelo. Piangono ancora, affrante.

Lituania, voltato, scappa dietro l’angolo della casa, ancora nel giardino, passetti infantili lontani dalla finestra di Russia. Svolta, vede ciò che cerca. Il seminterrato ha una seconda entrata, sempre aperta e disponibile. Lituania ci si infila dentro, col corpo stretto a sé, tiepido ed ossuto. Entrato, cuore in gola, posa la carcassa bianca sul tavolo, dove ieri lo ha visto per la prima volta dopo tanti anni. Niente luce: meno vede, meglio è. Non vuole vedere le cuciture del ragazzo. Troppo dolore gli farebbero, troppo sale avrebbe negli occhi. La sua mente non riesce a prendere più particolari, troppo svelta e sussultante. Un cavaliere non dovrebbe tremare, anche se il suo principe sta dormendo. Prende fiato, non ne ha avuto alcuno in quella pazza corsa. I piedi sono pietra congelata. Si maledice per non aver indossato delle scarpe. Sente ancora della terra sotto le unghie. Non vede la pelle di Polonia, nemmeno sa se l’ha sporcato con le sue mani sudice di fango. È certo che non l’abbia fatto. Le ha pulite, ne è certo. Il corpo è scosso da brividi, il cuore sbatte forte contro le costole. Distratto, pauroso, timoroso di una menzogna dei suoi occhi, poggia con troppa forza l’orecchio sul petto del suo principe. Si concentrata. Trattiene il fiato corto per farlo. Lo sente. Sente ciò che aveva visto. Il cuoricino debole del polacco batte irregolare, giusto quel che il sangue riesce a portare nelle vene. Sente il respiro del petto sui lobi delle orecchie. Si alza e si abbassa, poco sicuro di ciò che sta facendo, più timoroso di lui stesso. Non sa molte cose il corpicino fragile di Polonia. Non sa perché, dopo tanti anni, debba ritornare a muoversi. Sa solo che glielo è stato imposto da qualcosa di più grande. E, purtroppo, non può mancare ad un ordine del genere.

Lituania stacca, calmo, lento, l’orecchio dal petto. Le stelle non toccano e non riescono a raggiungere le loro figure. Non tentano nemmeno: troppo lontani, troppo sprofondati nell’oscurità della camera. Lituania non vuole ancora della luce. Non vuole che la sua felicità muoia. Ha fatto un buon sacrificio, anche se pesante e pericoloso. Non potrebbe più riportare il corpo nella bara, tra le rose, sotto la terra. Ha fatto troppo, ha bruciato tutti gli anni di fatica e rammendi nel suo cuore strappato. Ogni cicatrice, rattoppata in quegli anni, si riapre. Il sangue e la gioia lo affogano. Non sente più aria nei polmoni. Non vorrebbe mai e poi mai respirare più se debba per forza sentire tutto questo dolore, strazio e felicità nelle sue vene. Griderebbe, piangerebbe e sorriderebbe tutto in una sola volta. Si darebbe in fiamme, verrebbe dannato dal Signore, ma sorriderebbe comunque. Non riesce a ricucire la maschera di cavaliere che ha indossato per tutti quei mesi. Non potrebbe farlo mai più. Non vorrebbe farlo mai più. Non vuole nemmeno chiedersi come sia possibile. È un miracolo. È semplicemente un miracolo. Gli uomini non possono comprendere le scelte di Dio e mai sapranno le sue reali intenzioni o piani. Tanto meglio solo gioire e basta. Gli basterebbe solo questo. Passa le dita fra i capelli del suo principe. Sono un po’ più morbidi, crede. Spera di si, spera che non sia solo un’impressione. Sarebbe al settimo cielo solo per questo.

La luce s’irradia nella stanza. Lituania sobbalza, non ha acceso nessuna luce. Si volta, senza emozioni, morte per la sorpresa. Le scale sono ancora aperte, la botola ancora spalancata. La luce tenue dovrebbe rilassarlo, tenta di rilassarlo. Inutile. Ancora occhi sbarrati e seriosi, gola bloccata. Cerca la maschera di cavaliere. La cerca in ogni angolo del suo subconscio, ma invano. L’ha persa. L’ha lasciata sul petto, sul cuoricino debole di Polonia. Non potrebbe nemmeno voltarsi per indossarla. Non potrebbe fare nulla. Anche il suo corpo non riesce a muoversi, paralizzato in una maledizione, forse quella che l’ha accompagnato per tutto il giorno. Ha freddo, si sente congelato in ogni osso, muscolo e articolazione. Gli occhi sbigottiti di Estonia pesano su di lui. Un macigno maledettamente pesante. La confusione di Lettonia è altrettanto straziante.

“Lituania, che stai facendo?” il sussurro di Estonia gli pare quasi un urlo iracondo. Lituania, d’istinto, si porta le mani, sporche di terra, dietro la schiena. Inutilmente teme che le possano vedere. E’ terrorizzato dagli occhi di Lettonia che, incuriositi e tristi, le notano. Come se, invece che terra, ci sia sangue scarlatto e bollente sulle falangi e sotto le unghie. Come se, invece di un salvataggio, abbia appena commesso un omicidio. Come se il corpo di Polonia, appena riavuto indietro dalla terra, si sia coperto di liquido scarlatto. E lui, piuttosto che essere nuovamente felice per questa scoperta miracolosa, sia incredulo per essere stato scoperto nel suo delitto. Si vergogna, Lituania, come un ladro trovato, disperato, a rubare nella casa di due poveri bambini. La vergogna è così forte che lo fa paralizzare nel silenzio della stanza. Solo il suo cuore sente in questo momento di stasi. Ha paura, Lituania. Ricorda di aver sacrificato i suoi fratelli per il corpo quasi morto di Polonia. Continua a guardarli, ma i loro occhi non fanno abbassare il suo sguardo. Dopotutto, Lituania non è un assassino, né un ladro, né un disperato. Estonia deglutisce, più terrorizzato che furioso. Non sa nemmeno bene cosa provi.

“M-Ma cos’hai fatto?!” la gola dell’estone ha tentato di aprirsi, ma è ancora bloccata, ingabbiata nell’agitazione. Sente troppa energia nel suo corpo. Potrebbe correre fuori, al buio, per tutta la notte senza sentire nemmeno un briciolo di fatica. Dei granelli di terrore ed ira, mischiati insieme, vengono iniettati nella sua carne. Il cervello è troppo scosso per fare o dire qualcosa di sensato. Lettonia, incredulo, non dice nulla. Ha occhi solo su Polonia, quasi dimenticato sopra al tavolo. Per un attimo invidia quella carcassa morta: non c’entra niente nella confusione che avverrà. Perché sa, il piccolo Lettonia, che Estonia e Lituania hanno anime troppo diverse per comprendersi pienamente.

Estonia ha le mani tremanti, non sanno se intrecciarsi nei capelli o scagliare uno schiaffo sul fratello. Lituania ricorda il suo compito. Lituania ricorda di essere cavaliere. Ricorda il miracolo. Sente la carne scongelarsi dalla paralisi, il respiro ritornare calmo e gli occhi riprendere la pace. Non deve aver paura del dovere che gli è stato assegnato secoli e secoli prima. Lo sta semplicemente eseguendo. Lituania, cavaliere, sta proteggendo e salvando il suo principe, Polonia. È tutto normale, è tutto naturale. Non sta facendo niente di male. Ma Estonia non capisce. Vede la tranquillità di Lituania e la interpreta male. Lituania comprende che il fratello stia fraintendendo. Cerca la maschera di cavaliere. Si rende conto di averla distrutta, strappata e forse anche bruciata in parte. Non potrebbe mai indossarla, non ne sarebbe in grado. La getta. Non è più cavaliere. Lituania prende un profondo respiro, la calma lo stringe fin dentro le ossa, il cuore fermo. Sorride, pensa che così possa confortarlo.

“Estonia, sta’ calmo” la sua voce esce fuori dalle labbra, amorevole “Va tutto bene. Tutto bene…” involontariamente allarga di più il sorriso, il cuore ancor più grande e sereno. Alza le palme verso suo fratello. Vorrebbe poggiare le mani, ora pulite, sulle sue spalle. Forse stringerlo a sé per tranquillizzarlo, per non farlo tremare così tanto ed inutilmente. Estonia comprende cosa vuole fare. Indietreggia oltraggiato e ancora tremante negli occhi e nella carne. Guarda le dita di Lituania come se fossero dei coltelli seghettati, avventati su di sé in un falso abbraccio. Il cuore è travagliato da mille emozioni, nessuna benigna. Stringe i pugni, pulsanti e deboli, contro i suoi fianchi. Non vuole arrabbiarsi e picchiarlo, non vuole fare lo stesso errore che fece anni fa. Non vuole che tutto torni com’era prima. Estonia interpreta ancora male il sorriso di Lituania. Lituania è sotto la betulla, grigio e calmo. Estonia ha il sangue di suo fratello sulle nocche. Lituania, sdraiato, ha tagli sulle braccia. Lituania è sereno, senza di loro. Non vuole che ricapiti di nuovo tutto questo. Ma ugualmente non riesce a frenare l’orrore per ciò che sta vedendo. Ha paura di suo fratello e del suo sorriso. È troppo calmo. È troppo familiare e pericoloso.

“M-Ma stai scherzando?! Col diavolo che sto calmo!” trema, balbetta la voce, troppo provata. Non vuole che Lituania si avvicini così tanto a lui. Il moro comprende di star sbagliando approccio. Ferma i passi. Estonia tentenna ancora, anche se fermo. Guarda Lituania come se fosse macchiato di sangue. Lettonia, più triste che offeso, lentamente scivola lontano da loro “Ch-Che cos’hai fatto!?” indica il cadavere sfiorato dalla luce tenue. Anche il suo dito trema, anche il suo braccio traballa per la paura. Gli occhi rilassati e tranquilli del fratello lo rendono più nervoso che mai “R-Rimettilo dov’era prima! Riportalo al suo posto, per Dio!” la voce dell’occhialuto è più forte, meno tentennante. Non è aggressiva, ma è qualcosa di simile. Sia Lettonia che Lituania la odono come un urlo affogato nell’ira. È tremule, è patetica, è terrorizzata e preda dell’incredulità, la voce di Estonia. Ma perché la trattiene. Perché la paura di alzare una mano sul fratello la teme molto più del nuovo sorriso dolce di Lituania. Estonia si sente più in trappola che mai. E la sensazione di aver già visto o solo immaginato nei suoi incubi quel che sta vivendo ora è troppo angosciante.

“Estonia, ascoltami…”

“No, tu ascolti me!” questo era un urlo, senza ira, ma era comunque un urlo “Ma che hai fatto!? Questo…! Oh, Dio mio…” mormora, angosciato nel profondo. Lituania sente il panico, vivo e forte, dentro il fratello. Vede i suoi occhi umidi e vorrebbe spiegarsi. Ma Estonia ha paura ed è anche arrabbiato. Vorrebbe mostrargli il miracolo e farlo gioire così come lui lo è ora. Non riesce assolutamente a smettere di sorridere. Vorrebbe che quel che ha fatto non sia un sacrificio. Pensa e crede che non abbia abbandonato i suoi fratelli per la vita di Polonia. Vorrebbe avere tutti e tre vicini al suo cuore. Sarebbe ancora più felice se fosse possibile. Ma Estonia continua a maledirlo, a tremare, ad urlargli. Lituania apre bocca, escono poche parole, pochi sussurri calmi e sereni. Estonia li interrompe subito e continua a lamentarsi. Vorrebbe, una parte di sé, crudele ed iraconda, che Lituania non sia così sereno e che possa almeno vergognarsi di ciò che ha fatto. Sarebbe una piccola e sana sicurezza. Non vedrebbe suo fratello così come lo sta vedendo ora. Non sentirebbe il suo cuore così maledettamente ansioso e rabbioso fin all’interno delle vene e delle arterie. Vorrebbe che Polonia sia rimasto dentro la casetta e che non sia mai ritornato qui, nella loro nuova casa. Lituania vorrebbe parlare, ma Estonia non glielo concede.

Lettonia, tra urla e i sorrisi tranquilli, ha trascinato i suoi passi dall’altro capo della tavola, dove Polonia è disteso, freddo ed indifferente a ciò che sta accadendo in questa stanza. E’ deluso, confuso e triste per ciò che sta succedendo ora. Si chiede chi abbia sbagliato tra lui, Estonia e Russia. Pensa che il suo padrone sia diventato troppo buono e dolce per aver fatto qualcosa di sbagliato. Non gli dà colpa per la sua idea. Anche lui, al posto di Russia, l’avrebbe applicata, in ogni caso. Estonia non ha errato. Non ha alzato né mani né voce. Non ha mai urlato, commentato o mostrato la sua collera su Lituania. Lettonia sa che il rancore di suo fratello non si è mai spento negli anni. Ha sempre odiato Polonia e l’estone è troppo testardo per cambiare idea sul polacco. Quindi immagina che lui stesso abbia sbagliato qualcosa. Forse ha detto qualcosa di inopportuno com’era suo solito e non si è mai reso conto di quel che hanno pronunciato le sue labbra. Pensa che probabilmente sia così, perché il coraggio l’ha guadagnato ed è certo che ne abbia accumulato molto in questi anni. Dev’essere quindi stato lui la causa. Lui deve aver fatto qualcosa di sbagliato.

Estonia urla, l’angoscia è più forte. Lituania si avvicina, cerca di calmarlo. Il biondo scrolla le mani del fratello dalle spalle. Vorrebbe fare di peggio a Lituania, nota il più piccolo dei Baltici. Ma non ci riesce. L’ira è troppo quietata dal terrore per poter alzare anche solo un dito. Estonia ha ancora panico nel cuore e vorrebbe solo che Lituania sia lontano da lui. Il maggiore non riesce ancora a spiegarsi e non riesce a tranquillizzare il biondo per far chiarire il suo gesto. Lettonia ha occhi bassi e scuri, non riesce a pensare a nient’altro, disgustato di sé stesso, di nuovo. Sospira, lo sguardo basso, sul corpo di Polonia. Tra le urla di suo fratello pensa che sia molto più riconoscibile e guardabile di come ricordava. Estonia e Russia devono aver fatto un buon lavoro. Lui, invece, è rimasto scioccato solo nel vedere il cadavere. Sospira, ancor più deluso. Per un attimo invidia il corpo: non deve sentire il suo cuore, lento, e questo chiasso di voci. Si chiede come potrebbero mai fare pace Lituania ed Estonia dopo questa notte. Si chiede che reazione avrà Russia nel rivedere il cadavere nello scantinato. Nulla ritornerà mai più com’era prima, si risponde.

Lituania pare aver capito di non dover più avvicinarsi ad Estonia. Indietreggia lentamente, fa tirare un sospiro di sollievo al minore, tremiti di terrore hanno le gambe. Appena le labbra del moro si schiudono, l’occhialuto continua ad urlare. Non riesce ancora ad aprire bocca, il maggiore. Il desiderio di spiegare il miracolo è sempre più forte, ma si rende conto che Estonia non voglia conoscerlo. Non ancora, almeno. Lettonia ha ancora occhi bassi su Polonia. Lo osserva da molto, senza rendersene realmente conto. Non sa nemmeno quanto tempo sia passato da quando sono entrati qui, lui ed Estonia. Spera poco tempo, spera che il fratello la smetta di urlare. Le orecchie iniziano a fargli male. Si stringe ancor di più nelle coperte che ha addosso. Fa anche molto freddo. E’ anche molto vicino al cadavere. Ora non lo meraviglia più il suo aspetto, anche se ancora distrutto dalla terra e dalle ferite. Altre urla, Estonia non riesce ancora a calmarsi.

Il petto del cadavere si alza, veloce, un profondo respiro. Il piccolo Lettonia, istintivamente fa un balzo all’indietro, spaventato. Il cuoricino del ragazzino batte forte, sussulta per la sorpresa. Sente le gambe tremare, le spalle congelate, anche se coperte. Questo non se l’è immaginato. Non può averlo immaginato. Le orecchie diventano sorde, anche se gli schiamazzi continuano a far eco nella stanza. Nessuno si è accorto del sobbalzo del piccolo. Gli occhi, troppo tempo spalancati, diventano biglie di vetro per il freddo. Non riesce a chiedersi nemmeno cosa sia successo o come sia accaduto che il corpo, mite, lo rifà. Un secondo sospiro, forse ancor più profondo, riempie i polmoni rotti del corpo di Polonia. Con altrettanta calma, il petto si riabbassa. Lettonia ha paura di avvicinarsi a quel tavolo. Il corpo debole del ragazzino trema ancora. Il cadavere trasporta altra aria nei polmoni, la rilascia ancora.

“Estonia, ti prego, ascoltami! Fammi spiegare!”

“Va bene, fallo!”

“E’ accaduto un miracolo, Estonia. Ti giuro che è così!”

“Ma che diavolo stai dicendo?!”

“Ti dico che Polonia è vivo! Respira ancora! Non guardarmi così, Estonia, credimi! È la verità! Tu mi conosci bene, sai che dico la verità!”

“Tu sei pazzo, Lituania. Sei pazzo! Sei maledettamente pazzo!”

“No, è vero…” quattro paia di occhi, entrambi blu, si voltano verso il più piccolo dei tre Baltici. Lettonia, ancora tremante, ancora infreddolito, ancora pauroso di quel che ha appena visto, annuisce ai due. La luce della lampada, tenue, quasi arancione, fa brillare i capelli del ragazzino di un biondo lucente. Gli occhi del piccolo sussultano, il capo annuisce più volte al fratello incredulo “Guarda…” continua, singhiozza il lettone. Portano tutti lo sguardo sul corpo bianco del polacco. Aspettano, attendono insieme qualcosa. Accade quel che ha visto Lettonia. Polonia respira, il petto si rialza ancora una volta. E un’altra volta. Lituania, eccitato, sorride. Lettonia, anche se ha già visto il respiro del corpo, fa un altro passo all’indietro timoroso e sussultante. Estonia ha occhi piccoli come spilli.

Avanza, coraggioso, fino al tavolo. Il cadavere non ha mutato espressione, tranquillo e sereno. Estonia vede ancora un altro respiro. La stoffa nivea della veste si smuove a questi profondi respiri. Anche la gola sottile e ricucita s’ingrossa leggermente, permette all’aria di fluire all’interno della trachea. Estonia non ha mutato l’espressione ansiosa, gli occhi scossi. Ha comunque un dubbio. Ha comunque desiderio di essere certo di ciò che sta vedendo. D’istinto poggia le mani sul petto, le porta ad ogni angolo della maglia. Ricorda di non avere tasche, ricorda di essere solo in pigiama. Schiocca le labbra, leggermente irritato. Ha un’idea: si sfila gli occhiali, li poggia sotto al naso del corpo. Il cadavere ha fatto un altro respiro profondo, ora caccia via dal naso l’aria. Il respiro bollente tocca le lenti degli occhiali di Estonia. Si poggia sul vetro, lo appanna del tutto. Il corpo respira ancora, caccia altra aria, gli occhiali si velano di nuovo. Respira, quel corpo morto da anni respira. Estonia sente la testa girare, troppe emozioni.

“Visto che non sono pazzo?” i due fratelli più piccoli, guardinghi voltano le teste verso il maggiore. Lituania sorride, felice di essere stato compreso. Chiude le palpebre, riesce a contenere la felicità. Alla fine non ha sacrificato nessuno, ha solo guadagnato una vita in più, un cuore in più, un’altra anima da amare “Estonia, Lettonia, il Cielo finalmente mi ha ascoltato!” esclama, palpebre ancora abbassate, perle bianche e lucenti tra i denti. Lettonia smette di tremare, il cuore si quieta, le iridi si tranquillizzano, anche se ancora scosso. Estonia trema, la pelle pallida, gli occhi agitati sbattono in ogni angolo della stanza, anche se tornato calmo. Non del tutto, ma si sente calmo.

Il sorriso che vedono sul volto di Lituania non è quello che hanno visto nella foresta bianca, vicino alla pozza di sangue bollente.

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** DeCiMo CaPiToLo ***


Russia, di recente, pensa che Lettonia sia diventato grande. Un piccolo uomo. Forse anche un po’ saggio. Crede che il piccolo Baltico abbia cominciato a sviluppare una coscienza più adulta e matura. Crede che possa, un giorno, diventare un uomo molto paziente ed intelligente. Lettonia parla spesso di suo fratello con lui. Vede nei suoi occhi la luce di meraviglia e bellezza di un bambino di fronte ad un eroe. Eppure, il piccolo aggiunge spesso, che trova Lituania molto strano e diverso. Gli mormora di vederlo come un tempo, anni addietro, cavaliere forte e maestoso. Russia non ha mai visto un cavaliere nella sua terra, per questo lo ascolta con piacere.

Lettonia parla di Lituania come un bimbo dolce racconta con ammirazione e tormento del proprio idolo. Ricordando le parole, le labbra e gli occhi del piccolo, Russia vede ciò che vede ora. Vede Lituania coi ferri, i calzari, il mantello bagnato di sangue non proprio, i capelli stretti in una coda, le braccia cinte dietro la schiena, il capo alto e fiero di un guerriero. Vede i suoi occhi vivi di blu, toccati da bianche stelle, mangiate dalle iridi valorose. Eppure, come Lettonia, vede lo sguardo quasi prepotente di un giovane uomo, non più ragazzo, cresciuto con la schiena spaccata e il capo reclinato sui marmi del proprio oppressore. Vede l’ombra, ormai morta, di ciò che fu Lituania e vede ciò che è ora. Lettonia è troppo piccolo per essere riuscito a trovare le parole esatte per esprimere i suoi dubbi. Ma Russia è un uomo che ha visto molto nella sua terra e comprende comunque.

Lettonia va spesso via, lo lascia solo nel dubbio di ciò che ha udito, ma il più vuoto fra i due è il più piccolo. Russia comprende i mormorii stentati e confusi del Baltico quando, coi pensieri fissi sul ragazzino, vede Lituania. Vede ciò che gli ha detto Lettonia. Ogni parola spezzata gli sembra più chiara e vera. Russia si rende conto che il ragazzino stia crescendo. Si rende conto di ciò che avrebbe dovuto rendersene conto anni fa. Forse non l’ha nemmeno visto, impegnato nella guerra e nel sollievo di aver rivisto il proprio angelo ritornare in vita. Ricorda un vecchio capitano, anziano e morto ormai sotto la neve dell’Inverno. Gli disse che nulla ritorna mai com’era in principio. Gli disse che i cambiamenti sono fili di destino tagliati e recisi nell’arazzo che è la vita. Spezzato il filo, non potrà più ritornare solido come un tempo. Potrai fare nodi e rimpiazzarlo con altre cuciture, ma comunque sarà visibile uno sfregio, un filamento in meno nell’arazzo. Nonostante tutto, nulla potrà mai ritornare come prima. Russia ricorda le parole del vecchio capitano e si meraviglia che non l’abbia ascoltato con attenzione quel brutto inverno, coi tedeschi dietro le spalle.

Guarda Lituania, alla finestra, cavaliere di nascita e si sente più basso, più debole, più schiavo di com’era il ragazzo. Si chiede spesso se sia cresciuto, se qualcosa sia cambiato nel fisico del suo angelo. Lo vede più alto, più robusto di spalle, forse anche con braccia più forti. Ma è solo un’illusione, Lituania è un ragazzo e il suo paese non è mutato di un granello di terra, né di qualche foglia di quercia. Eppure gli pare che qualcosa sia maturato in lui. Ricorda Lettonia e comprende ancor di più le sue parole. Sente un battito di meraviglia e ammirazione dentro di sé. L’orgoglio per Lituania è forte e gli fa brillare gli occhi come gemme. Ma sente comunque che qualcosa di diverso e sbagliato sia entrato nelle vene del ragazzo.

Ricorda quando lo vedeva come un giocattolo e si chiede se non abbia rotto qualcosa dentro di lui. Il battito forte si evolve in debole e stentato. Lettonia gli mormorava anche dell’anima nuova di suo fratello e di come l’incanto e l’angoscia lo prendevano quando i suoi occhi si poggiavano su quelli del cavaliere. Ricorda le mani fredde del ragazzino, nervose, sfregianti fra di loro, non per il gelo. Ricorda l’aria di febbraio sulle gote rosse del piccolo, di come feriva la sua pelle, ma senza alcuna attenzione dal Baltico. Lettonia aveva raccontato la sua preoccupazione per il proprio fratello e lui l’aveva liquidato come se gli avesse raccontato uno scherzo infantile. Si pente di non averlo ascoltato, di non avergli dato ragione. Un padre dev’essere sempre pronto per aiutare i propri figli, ma lui non ha fatto nulla di simile.

L’ombra di pentimento non raggiunge in tempo gli occhi del generale. Lituania sta osservando qualcosa. Se prima quello era uno sguardo di sfuggita alla finestra, ora questi sono veri occhi interessati. Russia fa qualche passo, alza il capo più in alto, segue gli occhi del ragazzo. Due bambini, incuriositi dal giardino variopinto e dal massiccio cancello, allungano i colli oltre le sbarre e si voltano meravigliati, curiosi ed increduli. Russia non si sorprende, non sono i primi visitatori a poggiare gli occhi sulla sua casa. Avere una grande villa a Mosca è naturale, avere una grande villa ben oltre la periferia della capitale è incredibile. Spesso qualcuno poggia gli occhi sulla sua casa, incredulo, curioso o semplicemente noncurante. Quei due bambini non li ha mai visti prima d’ora, ma non se ne preoccupa. Spera quasi che Lettonia sia in giardino, che abbia finito di lavorare, che sia nei dintorni. Gli farebbe piacere che parlasse con i due, anche se più piccoli del Baltico. Pensa spesso che il ragazzino debba avere un amico della sua età, pensa che anche lui debba giocare e divertirsi, ed avere un compagno di giochi. Avere un amichetto non lo farebbe più preoccupare molto per i suoi fratelli.

I due piccini saltellano da una parte all’altra del cancello. Forse vorrebbero provare ad entrare di nascosto, pensa Russia, intenerito dai due. Poggiano i nasini rossi tra i ferri del cancello, comprimono le guance tra le spranghe e allungano il più possibile gli occhi, ancor più che meravigliati. Adocchiano i girasoli gialli, gioielli tra la terra bianca. Spalancano gli occhietti, ammirati e sbalorditi. Russia è anche lui fiero di quei fiori. È tentato di correre in giardino e di regalarne un paio ai due, tanto sembrano apprezzati. Lituania è ancora immobile, gli occhi fissi sui due intrusi.

Il battito confuso di ammirazione ed inquietudine cinge il corpo del generale, un’altra volta. Russia ha occhi di un uomo che ha trascorso gli anni nella neve, in cerca di oro nei fiumi ghiacciati di un terra maledetta. Un uomo con occhi svegli. Vede il filo spezzato lì, sulla schiena alta e forte di Lituania. Vede i nodi, le cuciture incerte, i filamenti strappati. Vede il lavoro di fortuna che è riuscito a fare e gli sembra assolutamente orribile. Nulla ritorna com’era prima e Russia credeva il contrario per anni, ingenuo bambino. Lituania ha occhi di lupo, severi, virtuosi ed agghiaccianti. Specchio di un’anima strappata troppe volte. I due bambini al di là del cancello vedono il cavaliere alla finestra. Vedono i suoi occhi fissi su di loro, loro sono ben più innocenti e deboli rispetto ai virtuosi del lituano. Pare un falcone che adocchia due coniglietti lì, in mezzo alla neve, troppo piccoli e lenti per il loro predatore.

Il ghiaccio negli occhi blu trafigge il corpo dei due piccini. Uno dei due abbassa il capo, intimorito. Striscia, imbarazzato ed indifeso, dietro il suo amichetto. Il secondo bambino, col naso rosso e le guance bianche, continua la prova di coraggio. Con sguardo dolcemente truce, affronta le iridi di Lituania. Il suo compagno, tremante, si stringe al più coraggioso. Il cavaliere è crudele, affonda la spada nella carne dei due piccini e il gelo li percuote come elettricità gialla e sprezzante. Anche il secondo bambino abbassa la testa, mancato il coraggio. Russia nota la famigliarità di questi gesti troppo tardi, troppo meravigliato. La testa bionda del più coraggioso, strascicata troppe volte dal vento, si nasconde dietro al cappotto colorato del piccolo compagno. Questo, incredulo per essere stato scoperto, ciuffi color cioccolata sotto la lana del cappello, trema con più forza. Il biondino, più che intimorito, afferra la manina dell’amichetto e lo trascina via, per la discesa, lontano dai loro occhi.

Lituania sa di aver vinto una battaglia già vinta. Chiude le palpebre, non prende il merito di nulla, virtù in ogni gesto ed in ogni forma. Russia lo rivede ancora più adulto, più diverso rispetto all’angelo che conosce già. L’occhio poggia di nuovo le sue spire sulle costole del cavaliere. Vede sotto i suoi vestiti segni neri di un passato non troppo lontano per essere dimenticato. Russia sente la propria anima scavare sotto la pelle del petto, per volare via, per non vedere più l’ovvio. Il generale vuole indietro il suo angelo, ma si rende conto di non poterlo riavere mai più. Si sente più pensante e triste. Qualcosa dentro il ragazzo è morto. Ciò che è morto non tornerà mai più in vita. Lituania vede i suoi occhi nel vetro appena pulito. Volta, calmo, sereno, virtuoso, il capo. Il corpo lo imita. Nessun tremito, nessun sobbalzo: da tanti anni il russo non vede queste cose nei Baltici. In qualche modo ne è felice.

“Sì, signore?” sono due parole, ma Russia sente comunque il suono morbido e rigoroso di un guerriero. Nella terra di Russia non ha mai marciato un cavaliere, mai hanno toccato i confini ghiacciati del Generale Inverno, quindi non sa dire se sia l’anima di un cavaliere o un filo spezzato nel cuore del ragazzo. Ma ne è comunque ammirato ed incredulo, Russia. Guarda un ragazzo, ma vede un uomo con la spada nella destra e lo scudo nella sinistra. Russia non ha mai visto un cavaliere, ma è certo che se dovesse vederne uno allora sarebbe come Lituania.

Inclina, paziente, la testa, Lituania. La risposta tarda, ma lui è comunque sereno, non vuole dare peso al proprio padrone. È il dolore più dolce mai provato da Russia. Qualcosa, forse un vecchio istinto quasi dimenticato, forse una consapevolezza tarda a farsi scoprire, forse semplicemente gli occhi molto fieri del cavaliere, lo fanno abbassare lo sguardo. Come se fosse più piccolo ed insignificante del ragazzo. Russia pensa che quel che stia vedendo sia orribile e meraviglioso, insieme in un abbraccio più che ridicolo per essere due opposti. Ora sente lui qualcosa spezzarsi dentro al suo cuore. Forse una vena troppo carica di tristezza è scoppiata e sta allargando un canale di sangue nel suo petto. Russia non lo sa, ma vorrebbe aver visto anni prima gli occhi di Lituania, anziché oggi, ritardo di anni. Si chiede se possa mai essere un padre per lui. Per i Baltici. Per un qualsiasi bambino.

Un altro istinto gli fa alzare il braccio rigido. Con le dita afferra e carezza la stoffa della camicia del lituano, vecchia e trascurata. Anche il ragazzo abbassa lo sguardo sulle dita bianche del padrone. Sfiora col blu, dolce e silenzioso, la cicatrice perlacea. Come il fratello, come Estonia, si chiede come abbia fatto a fregiare in quel modo il muscolo del pollice. È un pensiero ed una domanda così minuta che la dimentica subito. Russia, però, è un uomo orgoglioso. Pensa che non sia del tutto vero. Pensa che sia ingiusto che ogni cosa non possa ritornare com’era prima, forse anche in meglio. Crede che voglia il bene di Lituania quasi più delle risate del suo popolo. Un sospiro ed un sorriso nascono sulle sue labbra.

“Sai, Lituania, credo che dovremmo fare qualcosa per questi vestiti. Non ricordo quando li abbiamo cambiati” Lituania alza il capo, ma rimane in silenzio: nemmeno lui lo ricorda, nemmeno a lui è importato molto. Eppure, a Russia ora pare una cosa fondamentale. Non sa cosa voglia dimostrargli, ma ne è curioso. Le dita del generale cadono all’ingiù, il sorriso ancora aperto “Che ne dici se oggi pomeriggio andassimo in città?” il ragazzo inclina di nuovo la testa, interessato e curioso “Faremo un giro e compreremo un po’ di vestiti. La prossima volta porteremo con noi anche Lettonia ed Estonia. Che ne pensi?” è una domanda, ma Russia spera e prega di avere un’affermazione. Non pretende più da anni un o un no. Non pretende più di avere ragione. Non ne ha avuta per anni e probabilmente non ne ha per molte cose. Vuole sinceramente che il ragazzo sia felice. Lituania, in qualche modo incredulo, trattenuto con gli stessi occhi seri, annuisce. Qualcosa brilla nel blu e il generale è quasi innocentemente contento.

“Bene, dopo pranzo usciamo. Ti voglio pronto!” Lituania annuisce con più forza. Qualcos’altro brilla nei suoi occhi. Una luce più forte ed infantile, anche se col volto di cavaliere. Qualcosa nel cuore di Russia si scalda.

Quel pomeriggio, quando Lituania uscì dal camerino vestito diversamente dal solito, Russia si rese conto di amare il suo sorriso più di quanto amasse sentire le sue ossa frantumarsi sotto i suoi pugni. È il gesto più semplice e dolce del mondo, ma per Russia vale più delle lacrime e del sangue di un angelo senza ali.

Russia riapre gli occhi. Si è addormentato sulla poltrona del salotto, quasi scura dietro le ombre delle tende. Si rialza in piedi, incredulo per ciò che ha fatto, quasi tradito dal proprio corpo. Dimentica il sogno e il ricordo dietro di esso, non ha il tempo per ricordare. Teme di vedere il corpo di Polonia, eppure continua a cercarlo per la casa. Ora sa per certo che è ritornato in vita. Qualche ora prima, con tutto il coraggio in corpo, era uscito in giardino. La tomba scoperta e le rose marce sono state uno sparo al cuore.

Continua a cercare, terrorizzato dal fantasma di una persona ancora addormentata.

 

 

 

 

 

 

“E’… è veramente un miracolo! M-Ma respira veramente o me lo sto immaginando?”

“No, Lettonia, respira. Il battito è lento, ma regolare”

“Estonia, perché quella faccia? Sono felice come non mai questa notte! Guardami: potrei volare in cielo come una colomba! Non sei felice per me?”

“Si, molto…”

 

In realtà, Estonia non sapeva affatto dire come si sentisse. Avrebbe mentito e fatto il bastardo se avesse detto di essere felice: Polonia rinato, respirante e addormentato nel loro scantinato non l’ha reso per niente felice. Eppure ha mentito a Lituania. Con gli occhi fissi al soffitto, la schiena di pietra sul materasso del loro letto, le labbra ancora secche, la gola disidratata e la mente scomposta, si chiede perché abbia detto qualsiasi cosa tranne che la verità. Forse perché era troppo scioccato per ciò che ha visto quella notte, qualcosa di così irrazionale da portarlo nella più completa confusione. Forse perché non voleva continuare a seguire l’ira e a respirare di nuovo l’anima malsana e vermiglia del suo vecchio cuore spezzato. O forse perché vuole bene a Lituania. Non è certo che sia la terza, ma anche le altre due sembrano troppo scontate. Si maledice. Maledice il suo cervello. Chiude gli occhi, troppo stanco. E si addormenta subito. Il giorno dopo sarà una giornata orribile, ne è certo. E non vuole sembrare un morto proprio quel giorno.

 

“Ma… ora che cosa potremmo fare?”

“Beh, di sicuro non può stare qui per troppo tempo: fa freddo, il corpo non ha più grasso né muscoli per proteggerlo e… Oddio, non ci credo che sto pensando a queste cose! Mi… mi sembra tutto così strano…”

“Comunque, hai ragione, Estonia… Ah, Lettonia, coprilo con le tue coperte, per cortesia”

“Uh… Secondo voi dobbiamo dirlo al signor Russia, nonostante… tutto quel che è successo?”

“…”

“No”

“C-Cosa!?”

“M-Ma che diavolo dici, Lituania?!”

“Russia lo ucciderà, se scoprirà tutto questo”

 

“Ragazzi, svegliatevi, sono le sei” pare che nessuno abbia dormito veramente in quella stanza. Estonia si è addormentato solo per un paio d’ore, ma sente già l’ansia e la stanchezza premere sulle sue spalle, maledette e pesanti catene d’acciaio. Lettonia, scattante, brillo di coraggio, si alza veloce dal letto. Inizia a vestirsi, preso da una mania per la velocità. Lituania non si fa pregare: scende subito dal letto, inizia anche lui a vestirsi, frettoloso. Hanno entrambi qualcosa che Estonia non ha. L’estone li invidia per questo coraggio, questa sveltezza. Questa sicurezza. Debole, tremante, Estonia inizia a vestirsi. Pantaloni, camicia, giacca. Dubbio, tristezza, paura. Il ragazzo ha un gran male allo stomaco. Guarda i suoi fratelli, già pronti, e si chiede come facciano ad essere così sicuri di sé. Eppure non stanno per fare una sciocchezza. Guarda Lituania e pensa che sia più uomo di quanto lui non lo sia mai stato. Guarda Lettonia e pensa che stia crescendo. E che sia più coraggioso di lui. Deglutisce il nulla, non ha più saliva. Vorrebbe il loro coraggio, a costo di rubargliene ogni granello in corpo. Perché è diventato più debole di loro?

 

“C-Cosa?!”

“Lituania, sei pazzo?! Vorresti tenerlo qui per sempre?!”

“No, morirebbe comunque. Se rimane per troppo tempo lontano dal proprio paese rischia di morire. Siamo praticamente dall’altra parte del mondo per la Polonia”

“…uh?”

“Che diavolo stai dicendo?”

“Ascolta, Estonia: nel libro di Russia si parlava anche di questo. È accaduto un’altra volta, ma ad una Nazione che oggi non esiste più. Trovatasi di nuovo in un coma come questo, per farla ritornare in vita, hanno dovuto riportarla al proprio cuore. Così riuscì ad aprire gli occhi. Perciò questo funzionerà senza dubbio anche con Polonia”

“Cosa…?!”

“C-Cuore…? Che cos’è?”

“La propria capitale”

“Quindi… Varsavia?

“Esatto”

 

“Hai preso tutto?” Estonia domanda troppe volte, tutto ciò sommato con l’ansia e il terrore. Vorrebbe tagliarsi una parte di cervello. Vorrebbe non saper più pensare. Gli toglierebbe tutta la paura e il terrore dell’essere scoperti. Avere sulla coscienza le teste dei suoi fratelli è troppo per lui. Lituania ricontrolla: baule, soldi, qualche coperta, un paio di stivali per Polonia per quando si sveglierà, qualche panino, passaporti… Estonia sente la testa girare. È tutto troppo assurdo. È tutto troppo anormale, troppo diverso dalla realtà che ha vissuto in questi anni di pace. Il cuore è più pesante del suo intero corpo. Sente di star facendo lo sbaglio più grande della sua vita. Sente già la punizione dietro le proprie spalle. La schiena di Lituania è aperta, sporge la carne, mangiata dai vermi. Il suo corpo ribelle non vuole la stessa cosa anche per sé. Non vuole farsi del male. Ha un brivido lungo la schiena, in mezzo alle scapole. Sente di star per mandare tutto all’aria, di prendere la chiave di quella stanza, di chiudersi dentro, insieme a quei due pazzi dei suoi fratelli. Poi di spingere la chiave sotto la porta. Restare lì dentro fino a quando Russia noti la loro assenza e li liberi. Manderebbe al diavolo Polonia, tutto il male che il suo corpo li ha fatto, tutti i guai che ha portato. Non vuole sacrificarsi per una persona che aveva reso pazzo il proprio fratello. Non vuole dare la propria carne per Polonia. Eppure i suoi fratelli cominciano ad avviarsi fuori dalla stanza. Lituania si trascina il baule dietro di sé. Estonia non chiude a chiave la stanza. Non si muove, non apre bocca. Lascia che ciò accada. Si maledice e tira su il naso. Ha paura.

 

“No… Lituania, ti prego, non dire stupidaggini. Ti prego, Lituania, ti prego…! Oddio, Oddio… No, no… Lituania non pensarci nemmeno, non devi nemmeno pensare di fare una cosa del genere… Non dopo tutto quel che è successo! Lituania… Lituania… Fratello… Fratello, ti supplico di dirmi di no!”

“No, ci vado, Estonia. Ho deciso. Su, smettila di piangere…”

“E come diavolo faccio?! Dopo tutto quello che ti ha fatto… che ci ha fatto! Non farei mai nulla per lui, mai! Non pensarci nemmeno, Lituania. Pensa a noi. Pensa a Lettonia: vuoi che ritorni tutto com’era prima? Sai bene cosa ti è successo. Non voglio rivederti di nuovo pieno di sangue, non voglio più vederti come prima! Non voglio che Russia ritorni com’era prima! Ti prego, Lituania, ti sto supplicando!”

“Estonia…”

“Estonia, questa cosa riguarda solo me. Non posso lasciarlo morire in questo modo, lontano da casa sua. Mio Dio, Estonia… non piangere, non devi piangere…”

“Ma mi hai ascoltato?! È proprio questo quello che mi preoccupa! Non voglio più vederti in quella casetta, dopo… dopo… E non solo in quella casetta, ma anche… anche… anche… Oddio, no…”

“Estonia, non piangere…”

“Estonia, non fare così…”

“Lituania, ti prego, dimentica Polonia… torniamo a casa… si sta così bene ora che Russia è cambiato… Ti scongiuro, Fratello, non andare a Varsavia… non portarti dietro quel corpo morto… siamo così felici ora… Ti prego, Lituania…”

“…mi conosci, Estonia. Mi conosci”

“…”

“Estonia, non piangere…”

 

Il corridoio pare una marcia nel deserto ed i passi di Estonia sono sempre più pesanti. Non ha più la forza per maledire qualcuno. Per qualche ragione ha quasi dimenticato l’esistenza di Polonia. Lituania e Lettonia camminano veloci. Il più piccolo tira fuori le chiavi della macchina di Russia: non era nello studio quella notte, così è riuscito a prenderle. Estonia ha il capo rotto, spaccato, tendente verso il pavimento. Un condannato a morte. Guarda i suoi piedi. Un lampo di follia gli fa chiedere il motivo per cui non li possa rompere, spaccare, tagliare. Vorrebbe morire, solo per fermare i suoi due fratelli a questa follia. Farebbe qualsiasi cosa. Si sparerebbe ai piedi, solo per fermarli. Ogni metro tagliato dalle sue gambe è un frammento della poca sicurezza che ha ricevuto nel sonno. Lituania ha il capo alto e le spalle fiere. Si chiede perché sia così sicuro della propria pazzia. Tira ancora su il naso. Ricorda, Estonia. Ricorda la carne aperta, il vetro conficcato disgraziatamente nella schiena, le cuciture, il sangue, gli occhi morti, l’anima spezzata di suo fratello. Non vuole di nuovo tutto questo. Lettonia segue il maggiore, sicuro come il moro. Estonia scuote la testa, il cuore ancora più pesante. Lettonia sembrava crescere, sembrava più maturo.

 

“Lituania…? Ma perché vuoi aiutare Polonia?”

“…”

“Perché ho fatto un giuramento, Lettonia. Ogni cavaliere ne fa uno: servire il proprio sovrano. Polonia è stato il mio principe per molti anni e, lo sai, sono ancora un cavaliere. Non posso lasciarlo morire mentre io sto qui a mangiare e a dormire come se nulla fosse. E poi… perché voglio ancora molto bene a quest’idiota, anche se è passato un po’ di tempo da quando ero per davvero un cavaliere”

“…non è vero… Sei solo un’imbecille che si sta vendendo per una carogna!”

“Estonia, ti prego, voglio parlare io. Lituania, sei sicuro di quel che stai facendo? Il signor Russia si arrabbierà tanto e stai già facendo piangere Estonia”

“Si, ne sono”

“…”

“Allora… posso venire anch’io con te…?”

 

È stata la più velenosa freccia mai scoccata nel povero cuore di Estonia. Anche Lettonia non è cambiato per niente. È ancora un bambino, vive ancora nella fantasia di fate e folletti, di cavalieri e principi. Quei tempi sono finiti, morti e ricordati solo dai libri di storia e nelle novelle antiche. Estonia guarda al futuro, detesta il passato: nulla potrebbe mai ritornare com’era prima, soprattutto con la follia che stanno facendo ora. Ma il ragazzo continua ad essere un pezzo di legno, un giocattolo col meccanismo rotto che comunque continua a camminare, nonostante il male che facciano le molle e gli ingranaggi assemblati goffamente. Estonia, anche in giardino, vede e non vede. Vede la macchina nera coi vetri scuri aprirsi con le chiavi rubate, Lituania gettare nel portabagagli il baule e poi chiudere. Non sente le loro voci. Capisce che ora devono prendere solo il corpo e poi partire. Estonia si sente sempre più confuso da tutto ciò che sta vedendo, dalla volontà dei suoi fratelli. Eppure li segue ancora. Forse vuole assicurarsi che staranno bene. Forse dovrebbe smetterla anche lui di dire stupidaggini, di continuare a mostrare la sua rabbia per ogni cosa. Ricorda anche ciò che disse Lettonia. Non sa se considerarlo un tradimento, un’immaturità da parte del ragazzino. Però ricorda bene il litigio che avvenne in seguito, i suoi due fratelli contro di lui, calmi, lui furioso. Ricorda le urla, i tremiti d’ira, il cuore in tempesta, le lacrime amare. Non poteva farli cambiare idea. Non poteva fare nulla. Era sempre stato uno scrivano, ed uno scrivano non può nulla di fronte ad un cavaliere e al suo volere. Anche per questo è sempre stato debole. Anche per questo è diverso da Lituania. Suo fratello darebbe la sua anima per ritornare indietro fra duelli e giavellotti. Lui sarebbe felice solo di rinchiudersi in uno studio, anche vuoto. Gli basterebbe solo la pace e il silenzio. Trova anche questa disparità molto triste: come cavaliere, Lituania conosce il dovere e la virtù. Uno scrivano sa solo scrivere e fare di conto. È triste e frustrante questa nuova conoscenza. Lituania scende nello scantinato, nonostante il buio vede il piccolo principe. Lettonia riafferra le due coperte con cui l’ha coperto e le piega. I capelli mori iniziano a toccare, a sfiorare i raggi del sole. Estonia si pente di ogni cosa, ma non può fare più nulla. Ormai l’ha già detto.

 

“Allora… allora vengo anch’io con voi”

 

Così non sarete soli, avrebbe voluto aggiungere. Ha sempre desiderato avere una lingua più lunga per questo genere di cose. Ma non si può avere l’impossibile ed Estonia sente di non avere un cuore abbastanza aperto per dire una cosa così potente e forte. Ma sente di non avere molte cose nel proprio cuore. Uno scrivano ha solo una penna e dei fascicoli di carte e pergamene. Per questo sospira sconsolato. Lettonia dice qualcosa sul poggiare le coperte nel baule. Estonia non li ascolta, capo ancora basso, sguardo sui fili d’erba e sui propri piedi. Non si è mai pentito così tanto di una frase da lui pronunciata. Alza, leggero, gli occhi. Lituania porta in braccio, piccolo e bianco, Polonia. Non vede i suoi occhi, ma riconosce chiaramente le sue labbra alzate, dolci, verso le guance. Vede i denti bianchi, perle di luce, tra le labbra sottili. Estonia non crede di capire molte cose. Deglutisce ancora. Si domanda se desideri un bicchiere d’acqua prima di partire. Forse stanno per rompere qualcosa per sempre, qualcosa che avrebbe potuto durare per l’eternità. Sì, Russia li maledirà, si infurierà. Forse li farà del male. Di sicuro li troverà. Russia potrebbe trovarli anche dall’altro capo del mondo. Estonia sospira. Quel che ha detto ha detto. Non può cambiarlo. Eppure sente il rimorso e la paura gorgogliare nel suo stomaco, un veleno avvolto nel dolore.

“Allora, siamo pronti?”

“Sì… Cioè, no!”

“…Lettonia?”

Raivis! Ho dimenticato il mio diario! Lì avevo scritto anche quel che è successo ieri sera prima di andare a dormire!”

“L-Lettonia! Va bene, non è ancora successo niente. Vai a prenderlo. Non farti vedere da nessuno, se accade non sembrare strano, non pensare di star facendo nulla di diverso dal solito. Io ed Estonia portiamo Polonia in macchina, ci metteremo poco. Torna indietro e sta’ attento a Russia!”

“Sì, sarò velocissimo!”

Lettonia svanisce dietro l’angolo della casa. Estonia guarda Lituania e spera ancora che qualcuno di loro cambi idea, prima che le cose prendano il verso sbagliato.

 

 

 

 

 

Non ha dormito nemmeno per un istante, se non sul divano, giusto per pochi minuti, nemmeno per un ora. In cucina, cercando discretamente, Katja gli aveva detto di avere una faccia da malato. Anche se molto meno emotiva del solito, riuscì a comprendere l’angoscia che avesse per lui. Anche se con tante preghiere, aveva rifiutato di mangiare: la paura gli blocca lo stomaco. Conosce gli spettri e i fantasmi, tanti ne ha visti insieme al vecchio Inverno. Sa che molti di loro detestano la luce del sole quasi quanto il risveglio. Quando vide l’alba, alla finestra, penetrare dietro le tende, una briciola di coraggio in più gli si era formata vicino al cuore. Polonia, anche se vendicativo, non potrebbe toccarlo se circondato dai raggi bianchi. Si sente più tranquillo, ma comunque stanco e preoccupato. Il corpo è pur sempre riemerso dalla terra, deve ancora trovarlo, se lo troverà. O se troverà solo il fantasma di un principe morto in guerra.

Ha girato in ogni angolo della villa. È entrato, con timidezza quasi vergognosa, dentro ogni stanza e sgabuzzino. Ha trovato le sue sorelle in giro nella villa, per pochi minuti ha parlato con Natalya e in cucina c’era Katja. Dal piccolo uscio della porta ha visto il letto dei Baltici e ha contato le loro tre sagome durante la notte. Lì ha avuto più paura, lì ha temuto di vedere lo spirito bianco ed eterno di Polonia. Credeva di vederlo seduto sul materasso, illuminato dalle stelle, con una mano a pettinare i capelli mori di Lituania. Aveva quasi avuto l’impressione di vedere la sua sagoma sopra le coperte, abbracciato alla schiena dell’amico. I lunghi capelli biondi intrecciati nei mori. Il petto fragile contro le spalle robuste del lituano. Aveva sobbalzato, il cuore aveva raggiunto la gola, batteva, si dimenava nel petto troppo grande. Ma, fortunatamente, invano. Era Estonia, solo Estonia. I capelli biondi l’avevano tratto in inganno. Aveva sospirato con occhi umidi. Aveva ringraziato Dio e il Cielo. Mai stato tanto felice di rivedere i tre piccoli Baltici, stretti fra loro. Aveva richiuso la porta e continuato la ricerca. Quando il sole divenne alto, era uscito in giardino, temendo di immaginare e forse di tremare per qualcosa di falso. Vide la tomba aperta ed era scappato via, con diavolo alle spalle, come un bambino. Come lo faceva da piccolo. Vergognatosi di sé stesso, era rientrato in casa e aveva continuato le ricerche.

Apre la porta della stanza dei ragazzi. La luce del mattino entra dentro, avvolge e mangia tutta l’oscurità, in ogni angolo. La porta smette di scricchiolare, completamente aperta. Russia caccia dentro la testa. Non c’è nessuno. Un pugno, dritto alla bocca dello stomaco, gli spezza il respiro. Un brivido sulla schiena, gli occhi si dilatano. I Baltici non ci sono. Il cuore ricomincia a battere, disperato e tremore. In un secondo, un breve secondo, immagina qualsiasi cosa. Immagina Polonia, sorridente, bastando, abbracciato a Lituania, al suo cavaliere col cuore di ghiaccio. Immagina che Polonia l’abbia reso sin dal principio, prima di tutti questi anni, di nuovo il suo servitore. Ma Lituania è un cavaliere e un cavaliere non vive senza il suo signore. Per questo si è spento in questi mesi ed anni. Per questo non vive più bene. Se non si è appagati per essere servili col proprio sovrano, il cavaliere soffre quasi più per il rifiuto della propria dama. Per questo Lituania soffre, per questo ha l’anima morta. Polonia gliel’ha presa, l’ha resa sua. Polonia è ritornato principe e Lituania, fedele cavaliere, attende solo di servirlo.

Sobbalza, il ginocchio è sbattuto pesantemente contro lo spigolo della scrivania. Scosso, poggia la mano sul legno per reggersi. Si tocca la rotula, quasi del tutto intatta. Non si è fatto nulla, è troppo grande e robusto per farsi del male in questo modo. Un brivido freddo e maligno lo congela e blocca la sua spina dorsale. Teme un’altra cosa. Il cuore batte piano, reso più cauto e controllato. Sa che deve stare calmo, eppure è difficile. I fantasmi sono prepotenti e vendicano la propria morte con la morte di un secondo. Ha il terrore di vedere un piede bianco, minuto, oscillante sulla scrivania dov’è poggiato. Teme di alzare lo sguardo e di cadere in trappola. Di vedere le labbra fini arricciate, quasi maliziose, saette negli occhi e capelli di grano. Teme, Russia, ma la curiosità è più forte dell’uomo. E Russia è un uomo molto curioso. Gli occhi oscillano all’insù. Nessuno. Il cuore si blocca, quasi incredulo nel vedere la stanza vuota. Ricomincia a battere, terrorizzato per ciò che vede ora. Come se dovesse materializzarsi proprio lì, il piccolo Polonia.

Il cervello, più adulto e saggio in questi anni, ritiene che debba iniziare a ragionare con buonsenso. Ritiene che debba avere una posizione più vantaggiosa rispetto al cuore, che in queste ore ha preso troppo tempo nell’anima del gigante. Russia gli dà ragione e incomincia a ragionare. Nota il letto fatto e i pigiami nascosti sotto ai cuscini. Capisce che non possa essere accaduto nulla di violento, nulla di diverso: i tre Baltici si devono essere semplicemente svegliati prima del solito, testimone il letto e i pigiami piegati. Il cuore si quieta del tutto, ritiene l’ipotesi più che giusta. Un sospiro bollente, carico di ansie e timori, lascia le labbra di Russia. Caldo, abbandona l’aria marcia fuori dalle labbra tante volte, grande è il sollievo. Si passa una mano sul volto e fra i capelli disordinati. Il cuore deve ancora contenersi. Fa scendere la mano, quella senza cicatrice, dal suo volto. Il sollievo penetra nelle vene. Si sente confortato, ma comunque vigile: non si sa mai con i fantasmi. Non si sa mai con Polonia.

La mano, più leggera di pochi minuti fa, scende completamente dalle guance del generale. Si posa sulla scrivania, le dita s’intrecciano sotto al legno. Sente uno spazio aperto fra la tavola e il legno sottostante. Un tiretto è stato lasciato aperto. Russia, perplesso ed interessato, poggia gli occhi sulla nuova scoperta. Aggrotta le sopracciglia, apre il cassetto. Un grosso libro, con copertina scura in pelle, è stato lasciato lì. Le iridi di Russia hanno un lieve sobbalzo. Ricorda gli anni addietro. Ricorda un Lettonia più tremante, costretto nella solitudine e nella paura. Ricorda sua sorella maggiore, molto dolce, che gli regala un libro scuro. È un diario, disse lei, quando non riuscirai a parlare con qualcuno usalo per sentirti meglio. Lettonia, scettico, aveva accettato il dono.

Russia, forse, è un uomo fin troppo curioso. Sinceramente interessato, lo apre. Non legge nulla, lo sfoglia come un grande tomo. È pieno di scritte, è quasi completo: mancano solo poche pagine alla conclusione del diario. Il gigante bianco non sa se esserne felice oppure no. Sarebbe orgoglioso di Lettonia per aver accettato appieno il dono di sua sorella, ma è pur sempre un diario per compensare la solitudine. E Russia non sa se essere felice per tutte quelle pagine. Più curioso, Russia ritorna bambino. Legge le date. Fortunatamente sono quasi tutte legate ad un passato molto lontano dal presente che vivono ora. Sono date incatenate agli anni prima della guerra, quando Lituania stava male. Le date si allontanano molto le une fra le altre man a mano che i mesi passano. Anni dopo la fine della guerra e della malattia del fratello. Russia si sente un po’ più rincuorato.

Più curiosità, ancora più forte è la tentazione. Russia dimentica per un attimo Polonia, dimentica la ricerca che sta facendo dalla scorsa notte. Dimentica persino che sia un diario quello che ha fra le mani. È il diario di Lettonia, lì ha scritto di sicuro cose che non dovrebbe leggere nessun altro. Eppure, la curiosità è bambina. E anche Russia è un po’ bambino. Forse più di quanto credano ora i tre Baltici.

Curioso, sempre più curioso, decide di leggere le ultime pagine.

 

 

 

 

 

L’aria del giardino sa di bosco, di estate, di caldo, di un bacio di dama. Polonia è ancora lo spettro di una radice, senza sangue e più marroncino che bianco. Eppure Lituania lo vede diverso. Lo vede con la carnagione ghiacciata, lattea. Morbide le guance quando, felice, sorrideva. Si facevano rosse per il batticuore, le guanciotte di Polska, quando erano più piccoli, quando riusciva a farlo ridere di gusto. Lo rivede coi capelli di un oro vivo, appena raccolto dalla terra, brillante di vita e di forza. Rivede le labbra di porcellana, sottili e non tagliate. Estonia non è riuscito a fare nulla per mimetizzare il labbro quasi leporino. Lo rivede con vestiti più colorati, più sfarzosi. Lo rivede con la luce dei gioielli negli occhi smeraldini. Lo rivede col rosso di un mantello che il vento tenta di strapparglielo via, troppo invidioso della porpora e della ricchezza dell’indumento. Riapre gli occhi. Vede ciò che è in realtà il piccolo principe. Rivede la pelle macchiata, il labbro rotto, le braccia e le gambe innaturalmente magre, la veste antica e vissuta.

Immagina di nuovo e di nuovo. Non si stanca mai, tanta è forte la felicità. Non pensa ad Estonia, di fronte a lui, scuri gli occhi. Lituania, riaperte le iridi, vede ciò che avrebbe dovuto vedere sin dall’inizio. Forse non l’ha fatto per non dar fastidio al fratello, sapendo del suo odio per l’amico. Forse perché non voleva vedere lui: troppi dialoghi inutili, troppi litigi, troppo strazio. Parlare di qualcosa del genere con l’estone è sconfortante. Ma Lituania non vuole essere sconfortato da qualcuno, non vuole cambiare idea su niente. Vuole farlo. Vuole sacrificare Russia per avere Polonia. Forse è una scelta egoista e dettata solo dal cuore, ma lo vuole fare. Aveva detto la verità la scorsa notte: se il suo padrone avesse scoperto che uno dei suoi nemici sia ancora vivo, a pochi passi da casa sua, l’avrebbe ucciso. Probabilmente anche di fronte a lui stesso.

Lituania non si sente meschino nel pensare a ciò. Russia è cambiato, è diventato un buon padrone. E forse anche qualcos’altro a cui non riesce a dare un nome. È dolce, gentile, paterno con loro. Ma, prima di tutto ciò, Russia l’aveva maltrattato. L’aveva torturato per due settimane senza cibo né acqua. Aveva calpestato la sua Nazione e quella dei suoi fratelli. È cambiato, ma non si può cancellare il passato. Anni prima, prima ancora della sua malattia, Lituania credeva che Russia volesse sfogarsi su di loro. Forse perché, come grande Nazione, aveva molti pensieri e preoccupazioni. Forse per un passato che non conosce bene. Ma credeva che quel che faceva, anche alla luce del sole, anche fuori in giardino, all’aperto, per lui fosse un modo per dimenticare qualcosa. Credeva che, man a mano negli anni, ciò fosse diventato più un istinto che un’abitudine. Pensa, anche oggi, che Russia abbia lo stesso temperamento. Che può controllare con molta più facilità, ma c’è comunque. Un istinto non è possibile strappare dal proprio subconscio e questo Lituania lo sa bene. Non aveva affatto esagerato la notte prima: Polonia, anche se da morto, gli ha fatto del male. Ha fatto molto più male a lui, ma il suo male è passato da persona a persona nella loro casa. Russia ha sofferto molto del male che gli ha lasciato il polacco. Sa che se qualcuno fa del male al generale, quest’ultimo fa in modo di vendicarsi. E quale vendetta è la migliore nell’uccidere colui che ha dato tanto dolore, anche a loro tre piccoli Baltici, suoi sottoposti? Ma forse non è solo questo. Lituania non riesce ad odiare Russia, nonostante tutto quel che gli ha fatto, anche se uno sfogo. Lituania ora gli vuole bene e spera di non perderlo. Spera che possa averlo, anche insieme a Polonia. Estonia continua il cammino, passo più lento. Lituania comprende e annuisce fra sé e sé.

“Estonia, non è ancora tardi: se vuoi restare, resta qui” il minore rallenta ancor di più il passo, troppo pesante per un’anima orgogliosa come la sua. Lituania vede anche questo. La testa di Polonia si poggia, casualmente, sul suo cuore, crespi i capelli. Estonia aspetta, volta leggermente gli occhi blu. Il moro vede l’iride spenta, mare invernale, quieto ma stanco “So che non vuoi venire, ma sai che non ti darei mai alcuna colpa” il fratello ferma del tutto il passo, gli stivali pesanti. Anche le costole sono una gabbia troppo pesante per il proprio cuore. Il cadavere di Polonia viene sfiorato dalla brezza estiva “Non ti importare di cosa pensino gli altri. Pensa solo a ciò che desideri” l’occhialuto pare più duro, più insensibile. Un pezzetto di iride riesce a concentrarsi sulle dita intrecciate, minute e magre, del corpo morto del principe. La brezza si sposta sui capelli chiari. Spirito giocoso, passa le dita fra le ciocche incolori. Estonia non riesce a smettere di odiarlo. Per colpa sua accadrà un’altra rogna, qualcosa di altrettanto orribile, forse più della malattia di Lituania. Si volta, le lenti degli occhiali si concentrano sugli occhi del fratello.

“Infatti, sto facendo quello che voglio io” afferma, inespressivo, duro di sguardo. Lituania ricorda il passato, quando per la prima volta si scaraventarono pugni a vicenda. Ricorda gli occhi folli di odio, gli occhiali rotti sotto le sue nocche, il corpo più debole del fratello sopra al suo, molto più allenato ma provato per il sonno e la schiena ancora aperta. Lituania ricorda questo, ma crede che Estonia non abbia più tutte queste cose. Anche suo fratello è cambiato, ma non molto. Estonia avrebbe voluto non avere più ira nell’anima. Avrebbe voluto che, appena Lituania sarebbe stato completamente guarito, si sarebbe guarito anche lui stesso. Perché Estonia, disperato e frustrato, si vedeva anch’esso malato. Sente ancora la malattia punzecchiarlo spesso sulle spalle e nello stomaco. L’ira, la sua nuova preoccupazione, non è mai cessata di esistere. È sempre lì, è sempre forte, forse molto più equilibrata. Negli anni Estonia ha imparato a contenerla tutta dentro di sé. Granello dopo granello, è riuscito a rinchiuderla tutta in un contenitore dentro al proprio cuore, abbastanza grande da racchiudere anche altri mali. La tristezza e la delusione. La paura e la preoccupazione. Queste riempiono ancor di più il suo recipiente, più violente dell’ira. Sta straripando, sta per uscire fuori. Estonia lo sente, ma non fa nulla. Ormai è troppo tardi. Lituania tanto pensa solo a sé stesso. A Lituania non interessa di loro due.

“Estonia, non voglio che tu faccia qualcosa che tu non voglia” Lituania ha qualcosa di diverso negli occhi. Il cavaliere virtuoso è scomparso. Il contenitore del biondo smette di straripare, interessato “Voglio solo che tu sia felice delle azioni che scegli. Non voglio che tu vada contro le tue idee o contro la tua natura” Lituania poggia gli occhi sul fagotto che ha fra le braccia. Polonia è incredibilmente più leggero di come lo ricordava. Potrebbe stringerlo forte in un abbraccio, anche se lui è immobile, con la testa contro il proprio petto. Riesce a riscaldarlo questa sensazione. Non è solo un inganno della propria mente per mentirgli: Polonia è vivo ed è felice di questo e di qualsiasi cosa che stia facendo. E non vuole che suo fratello paghi le conseguenze delle scelte che fa. Rialza gli occhi. L’azzurro viene baciato dal sole, le ciglia s’impigliano fra i raggi tiepidi. Estonia rivede suo fratello, rivede il suo sorriso. Lituania interpreta male l’espressione del minore. Il contenitore inizia a prosciugarsi “Estonia, torna a casa. Fai finta di non avermi visto per tutto il giorno. Resta qui insieme a Lettonia. Russia non si arrabbierà con voi, ne sono certo. Non punisce mai chi non ha colpa. Lo faceva anche prima…”

L’abbraccio di Estonia lo prende alla sprovvista. Sente le sue braccia dietro al collo, imbranate nell’afferrarlo, per colpa di Polonia, in mezzo a loro. Sente il corpicino del principe iniziare a schiacciarsi sulla sua pancia e fra le costole del fratello. Il volto, dietro al suo collo, è tiepido, il ferro degli occhiali è ghiacciato. I capelli biondi e corti s’intrecciano, fratelli anch’essi, fra le sue ciocche more. L’abbraccio caldo dell’estone sa di carta appena stampata, di abiti nuovi, di paura. Estonia, si rende conto, di avere paura. Non per lui stesso. Il corpo del polacco è ancora stretto in mezzo a loro, accaldato troppo. Estonia si stacca. Il volto non è mutato, ma l’iride pare più leggera e vivace. Un mare più gentile e allegro, anche se serioso “Non dire stupidaggini: quel che ho detto, ho detto” si volta, i passi fermi e veloci “Andiamo” non apre più bocca. Il contenitore pieno di male è vuoto. Lituania non sa mentire, ne è certo.

Lituania pensa prima a loro che a lui stesso o a Polonia. Questo piccolo, maledetto tassello lo assillava da anni. Ora il sollievo è forte. Volta l’angolo della casa, vicino al capanno degli attrezzi, col profumo di papaveri nelle narici, dolce e forte come miele. Sorride, speranzoso, orgoglioso del fratello maggiore. Il sorriso muore, inghiottito dal terrore. I papaveri sembrano macchie di sangue ai suoi occhi tremuli. Il vento dolce che porta il loro profumo pare sonnifero per le sue carni. Il cuore batte nella sua testa. È come se vedesse tutto piano, con una lentezza asfissiante, tanto da registrare i nanosecondi e i battiti impazziti del suo cuore troppo provato. Ben oltre a loro, lontana ma comunque pericolosa, Bielorussia sta camminando. Estonia non erra, non si sbaglia: gli stivali scuri della ragazza puntano verso di loro. Anzi, verso di lui: Lituania e Polonia sono ancora dietro l’angolo, fuori dalla vista della bielorussa. Estonia, ancor più che incredulo, continua ad osservare la ragazza. No, non erra affatto: si dirige verso di loro. Il passo fermo e deciso non la fa e non potrebbe modificare la meta. Estonia arretra velocemente. Lituania, non avendo visto nulla, arriccia le sopracciglia. Estonia non parla, le labbra si muovono per non farsi sentire: Bielorussia.

Panico, terrore, cuori in gola. Polonia, addormentato, si stringe ancor di più al petto dell’amico, avvertito anch’esso il pericolo.

 

 

 

 

Russia ha appena finito di leggere.

Sgomento.

 

Lettonia, nonostante non debba farsi sentire da nessuno, corre forte nei corridoi. L’altra notte non riusciva a dormire. Pensava a tutto e a niente. Pensava a Polonia e ai suoi fratelli. A Russia e alla loro casa. La notte era molto buia e fredda, aveva un po’ di paura. Stanno per fare l’impossibile, è normale che abbia paura, ma Lettonia non vuole più avere terrore. È stanco di essere un codardo da troppi anni. Ormai non ne è quasi per niente, ma quella notte si era rannicchiato all’angolo del letto e aveva pensato a qualsiasi cosa. Pensava addirittura che Russia potesse trovare Polonia, quella notte, nello scantinato. Pensava al peggio e aveva paura, il piccolo Lettonia. Stufo per la sua mancanza di coraggio, si era alzato dal letto e aveva scritto a Raivis. Aveva scritto di Polonia, del funerale, del cadavere riemerso dalla terra e del loro futuro viaggio. Sfogato e molto più quieto, era ritornato a dormire, con un sorriso sulle labbra. Nessuno li avrebbe trovati, nemmeno Russia.

 

Incredulità.

 

Lettonia è veloce: schizza per i corridoi come una molla. Non come un ladro inseguito da una guardia, ma come un cercatore d’oro alla rincorsa dell’ultima pepita appena trascinata dalla corrente del fiume. Gli occhi svegli e maturi scattano in ogni angolo e stanzetta che incontrano. Ha scelto di fare il giro lungo, per evitare il salotto e la cucina. E, soprattutto, l’ufficio di Russia. Potrebbe librarsi in aria, tanto sono veloci i suoi piedi, tanto l’anima desideri prendere il volo. Non pensa al pericolo. Si sente al sicuro, come sotto un mantello onnipotente, fra le braccia dei propri fratelli. Non pensa, ingenuo, a ciò che potrebbe distruggere ogni cosa che, in quegli anni di strazio, hanno creato con Lituania ed Estonia. Non immagina nulla, il piccolo Lettonia, il coraggio fin troppo forte e vivo nelle sue vene. Senza pensare, senza riflettere, entra nella loro stanza.

 

Confusione.

 

Russia è dietro la porta. Si accorge di Lettonia, Lettonia non si accorge di lui. Aveva posato il diario, aperto, sulla scrivania. Non voleva credere a nessuna parola di quel che ha scritto il piccolo Baltico. Non vuole e non può credere a qualcosa del genere. Lettonia si sente protetto, ma non invincibile: vede qualcosa di strano. Prende Raivis in braccio, ma è perplesso. La scorsa notte l’aveva lasciato nel solito posto, dentro al cassetto della scrivania. Preso fra le mani il diario, si sente confuso. Russia, nascosto fra le ombre della stanza, fa un passo avanti. Lettonia lo vede. Russia diventa sordo, il cuore batte forte, sconvolto ed incredulo. Non riesce a riordinare i pensieri, il gigante. Lettonia ha il cuore in gola. L’anima, prima libera e coraggiosa, si rintana di nuovo nel corpo magro del ragazzino, terrorizzata. L’istinto è veloce, più veloce del cuore e del cervello. I passi del Baltico corrono vicini all’uscita. Eppure, anche se l’istinto lo fa muovere, immediatamente ferma le sue gambe. Non può scappare di fronte a Russia. Ha dimenticato come si fa. Il gigante, in attesa, sente il proprio cuore spaccarsi in due. Esce fuori sangue bollente, colmo di passione. Poggia una mano sul volto, tenta, cerca di ritornare ad avere la propria calma. Invano. Lettonia lo guarda in volto, guarda il suo diario, nota che è stato letto, fino all’ultima pagina. Comprende, il cuore scosso e tremore per essere stato scoperto. Tutto per colpa sua.

“S-Signore, vi posso spiegare… Io, E-Estonia e… e…” Lettonia abbassa lo sguardo, tremiti nel corpo, vecchi tremiti che avrebbe voluto eliminare per sempre. L’occhio di Russia, fra gli spazi tra le dita, brilla di un viola profondo e violento. Il generale ispira e un meccanismo, antico e morto, ritorna in vita dentro di lui. Cade la mano dal volto e anche l’altro occhio brilla, affamato di morte. Lettonia alza poco gli occhi. I tremiti smettono, paralizzati. Il ragazzino sente la stessa tensione dell’anima di Russia sul proprio piccolo corpo indifeso. E quegli occhi, fiamme d’Inferno, brillano di sangue, bruciano il suo coraggio. Lettonia ritorna tremante. Vede ciò che vedeva anni fa.

 

Tradimento.

 

Dal cuore di Russia sgorga anche sangue nero, denso del suo vecchio essere, denso ed affamato della sua vecchia natura. Il ragazzino ha paura, terrore, ricordi ritornano a galla, infami. Lettonia sente le proprie ginocchia lottare fra di loro, scontrandosi, tentando di farlo inciampare. I piedi implorano di fuggire. Il corpo troppo pesante per ubbidirgli. Lettonia sente di nuovo il vecchio e acre sapore della paura, della mortificazione, dei colpi sul proprio capo, di un padrone troppo crudele. I denti litigano e tentennano, il fiato mozzato. Le braccia hanno tremiti, ma non demordono: non voglio abbandonare Raivis. Si aggrappano al diario, disperate, all’unico riparo e compagno che hanno. Faceva sempre così, ricorda, ma non aveva un diario. Aveva Estonia e Lituania. I passi ancora troppo lenti, troppo piccoli, non come i prepotenti di Russia, che calpestano il pavimento e reclamano il corpicino minuto del Baltico coperto di sangue e lividi neri. Russia ha il cuore sgorgante di melma scura, non riesce e non desidera ritornare rosso, il sangue. Più i suoi occhi si posano su Lettonia e più lo immagina strappato degli abiti appena comprati, della pelle rosata e dei vivi riccioli biondo scuri. Il peso del tradimento schiaccia il suo grosso cuore, rovente d’ira.

“S-Signore…” è un sussurro indistinguibile, quello di Lettonia. I denti, ancor più tentennanti, si rifiutano di stare fermi, per formulare delle spiegazioni. Per impedire ciò che potrebbe accadere. Gli occhi violacei di Russia pesano come dozzine di spade taglienti puntate sul proprio capo. La sciarpa del generale si muove alle spalle del proprio padrone, come due spire di serpenti. Il coraggio accumulato in questi anni scompare, divorato del tutto dagli occhi violacei, dai passi pesanti, dal cuore scoppiettante di rabbia, dal corpo massiccio di Russia. Troppo grande ed imponente per lui, piccolo Baltico. Lettonia vorrebbe dire qualcosa, vorrebbe tentare, non più di spiegarsi, ma di chiedere perdono. La codardia rimpiazza il coraggio.

Il ragazzino non ne ha il tempo. Russia non dà mai il tempo per salvarti. La pistola, sempre nascosta nella giubba fino a quella notte, si mostra. La mano destra urla di dolore. La cicatrice sul muscolo tira e si lamenta per lo sforzo del pollice. Russia è sordo. Solo l’istinto lo comanda. Solo il sapore aspro del tradimento lo rende bestia. Gli occhi cerulei di Lettonia sono due spilli, increduli. La canna della pistola, nera, lucente al sole, lo ha paralizzato. I denti non litigano più, le ginocchia non cigolano, il cuore non ha più battiti. Come un bianco manichino, Lettonia resta fermo. Raivis diviene pesante e ruvido tra le piccole mani del Baltico. La paura scompare. La codardia viene sottomessa dal vuoto. Il piccolo Lettonia non riesce a credere a ciò che sta vedendo.

La sicura viene tolta. Il grilletto viene premuto. La canna nera s’illumina e solo in quel momento Lettonia si rende conto di ciò che sta accadendo.

 

 

 

 

 

La rosa bianca carezza la sua compagna rossa. S’abbracciano, emozionate per il loro futuro, sapendo di poter giacere con un principe. Le foglie sono vivide, emozionate, impregnate di rugiada. Giusto quella mattina sono state raccolte, le più belle e floride. Sono contente di essere state scelte proprio loro. Sanno di poter raggiungere le loro sorella, ancor più fortunate per essere state per una notte con quel bel giovane. L’emozione le prende e s’abbracciano con più forza, dimentiche di avere le spine strappate, per non rovinare la pelle del principino. Dimenticano le ferite e gli fregi, della linfa che fuoriesce dove le spine occupavano i loro fusti. Il nastro bianco e rosso le veste, pronte per incontrare il loro amore, il loro futuro amato. Bielorussia guarda le due rose che ha in mano e si chiede se stia facendo una buona cosa, se visitare Polonia sia qualcosa che dovrebbe fare anche lei.

 

“So che vi siete conosciuti, tanto tempo fa. Perché non provi ad incontrarlo? Potresti anche regalargli queste, se vuoi”

 

La sera prima non riusciva a stare immobile, nella sua stanza. Non riusciva a leggere, a cucire, a dormire. Vedere Polonia le ha fatto molto più male di quel che credeva. Non appena i suoi occhi si chiudevano vedeva della pelle grigiastra, ossa senza carne, capelli senza alcun colore, vestaglia bianca. Si chiede anche ora se il fantasma di Polonia possa già visitare la sua casa solo dopo un giorno dal seppellimento. Si chiede se l’anima del ragazzo sia in pace, nonostante l’assassino di fronte alla sua tomba. Conosce i fantasmi, meglio di suo fratello, eppure non sa cosa rispondersi.

Conosceva Polonia. L’ha conosciuto con la maschera dello stupido, con un sorriso sempre in volto e occhi furbi di gatto. E l’ha sempre odiato, quando indossava quella maschera e le stava attorno. Eppure, talvolta, riusciva a vedere qualcosa, sotto quell’ipocrisia e quel sorriso. Vedeva qualcosa che solo Lituania aveva visto. Ha visto solo uno scorcio di Polonia. Ha scorto, alzata delicatamente la maschera, della pelle fredda, labbra sottili e basse, una lacrima sotto al mento. Quando riusciva a vedere qualcosa, Polonia le toglieva le mani e l’ipocrisia copriva di nuovo il suo volto. Era un attore, Polonia, si era resa conto Bielorussia. Tuttavia, non ebbe mai il tempo né il desiderio di vedere il vero volto del principe polacco. Aveva anche lei una storia da percorrere, dei fratelli da riabbracciare. E, alla fine, dimenticò Polonia. Lo dimenticò, fino a quando non seppe della sua morte. Poi avvenne la guerra e, alla fine, lo ritrovò nel suo cortile, a casa sua e di suo fratello. Quelle due rose le aveva ignorate per tutta la notte, quelle che Ivan le aveva poggiato sul comodino, parlandole e raccontandogli i suoi incubi. Pensava che il mattino dopo le avrebbe gettate via, ma la malinconia e la vergogna l’hanno fatto ragionare, e ha deciso di far visita a quell’imbecille. Dopotutto, non era cattivo e chiunque merita di essere ricordato.

Ha tenuto il capo basso, verso le due rose, fino ad ora, ancora indecisa sulla sua futura decisione, nonostante i passi decisi verso la nuova casa del morto. Sobbalza, la ragazza. Le rose, altrettanto spaventate e timorose, smettono di abbracciarsi, scoperte nella loro felicità. Quasi imbarazzate per i loro desideri. Bielorussia fulmina Estonia, parato d’un tratto di fronte a lui. O forse, semplicemente, non l’aveva visto. Anche se per errore suo, continua ad aggrottare gli occhi, furiosa. Le iridi blu urlano di svanire, di correre via, di fuggire da lei. Eppure, nonostante l’avvertimento, l’estone è ancora di fronte a lei.

“Che vuoi? Levati” la pazienza di Bielorussia continua sempre più ad assottigliarsi, ad affusolarsi e a svanire nella fredda aria estiva. Estonia comprende tutto ciò, comprende anche che non può restare per sempre lì. Lituania e Polonia non sono più dietro di loro, eppure teme ancora che possa vederli. Il capanno degli attrezzi è abbastanza grande e sufficientemente sgombro per farli nascondere dentro. Estonia non crede che Lituania possa stare in quelle quattro mura, in piedi, con un cadavere in braccio per troppo tempo. Occhi svegli e attenti sono quelli della bielorussa: l’estone ha uno sguardo troppo teso, la pelle troppo pallida, gli angoli delle labbra sollevati troppo, inappropriate. Estonia sorride, come sorrideva a Russia anni fa, per non farsi toccare. Eppure, per il cuore fragile, le gambe altrettanto gracili, sente il volto tentennare e sudare per il timore. Bielorussia nota anche questo, quasi dimentica le rose in mano.

“B-Buongiorno, Bie-Bielorussia!” esclama, ancor più che inappropriato, volto fin troppo contento “C-Che fai qua, in giardino?” le sopracciglia si distendono, presa in contropiede. Questa domanda le fa cadere gli occhi sulle rose, intrecciate fra loro, di nuovo unite ed emozionate per il futuro. Una vena carica di ricordi, tristezza e lieve timore s’ingrossa nella gola bianca. Ricorda Polonia e si rattrista. Ricorda il fratello e una parte del suo orgoglio sta cedendo solo per il desiderio che ha riguardo le due rose. Un abbaglio fa brillare, scuri, i suoi occhi. Rialza il volto, meno minaccioso, più severo. Ricorda che Estonia non è nulla ed è sollevata: se qualcuno, uno dei suoi fratelli, la vedesse e comprendesse i suoi intenti, l’umiliazione cadrebbe sulle sue spalle. Polonia lo detesta e non è dispiaciuta che sia morto. Eppure la memoria del cadavere è ancora un pensiero vivo. Non sa bene perché abbia deciso di fare il gioco di Ivan. Forse non detesta quel principe come credeva. Forse è semplice compassione. Nonostante ciò, si ritrova ad una cinquantina di passi dalla tomba del morto. Le palpebre sbattono, la luce blu illumina le iridi, ricorda di avere di fronte Estonia.

“Niente che ti riguardi. Tu, invece, che cosa fai qui?” Estonia non mente da anni, non indossa maschere né recita da tempo. Per questo sobbalza, forse non aspettandosi nemmeno questa domanda. Ha dimenticato ogni cosa che ha imparato quando Russia era pazzo del loro sangue. Il cuore batte forte. L’occhio scatta spesso dietro di lui, alle sue spalle, sul capanno. L’iride è ritornata ingenua e bambina: crede che guardando verso Lituania possa salvarlo dalla ragazza. È piccola, ma difficile da tenere a bada, l’iride. Le labbra sono scosse ed ignoranti: credono anche loro che, sorridendo, possa imbrogliare la bielorussa. È ritornato ingenuo anche il volto teso, pallido e bagnato di sudore bollente. Il fiato corto rende il cuore più pesante e il corpo più tremante.

Le labbra si aprono, escono suoni sconnessi, mutano in parole rovinose. Estonia non ha la minima idea di cosa dire, con quale argomento aggirare la ragazza. Sa che è difficile. Sa che la sorella del suo padrone non è ingenua né stupida. Anche questa consapevolezza, agghiacciante e crudele, s’impunta sulle sue scapole. Il cuore batte con più forza, una maglia a vapore senza alcun freno. Le perle di sudore tagliano il volto bianco dell’estone. La paura lo scuote e lo fa parlare a vanvera. Teme per Lituania, che il loro piano vada in malora, che non possano più scappare ed aiutare Polonia. Non fa questo per Polonia, ma per Lituania. Suo fratello ha un desiderio impossibile, ma ha abbastanza coraggio per provare a realizzarlo. E lui non è nulla per impedirglielo, ma non è nemmeno tanto insignificante per starsene con la coda fra le gambe nella loro stanza. Estonia vuole aiutare Lituania, con tutto il suo cuore, e questo desiderio e la naturale codardia umana lo fanno scuotere come una foglia al vento. L’occhio si getta ancora alle spalle. Bielorussia nota anche ciò e il sospetto carezza la sua mente. La lingua di Estonia cerca disperatamente un freno alle sue frasi sconnesse.

“Smettila di dire scemenze!” ritorna il silenzio. Estonia ha male al petto, sbattuto troppe volte per la gabbia attorno al cuore. Le costole si dimenano per il dolore e le povere vene continuano il loro pesante lavoro, troppo sangue trasportano quest’oggi. Lo stesso colore, la diversa forza. Gli occhi di Bielorussia sono cani feroci contro le tentennanti prede blu dell’occhialuto. Sono forti, fermi, cuore brusco, le bestie assassine. Estonia ha paura, la consapevolezza di aver fallito trancia le scapole e s’impossessa dell’anima e del cuore troppo provato. La piccola speranza di poter salvare il fratello è quasi nulla, inghiottita dalle fauci dei cagnacci severi di Bielorussia. L’occhio scappa, intimorito, lancia un altro sguardo al capanno. Le labbra del ragazzo s’innalzano, più carne fresca per le iridi aggressive “Perché diavolo sorridi?” deglutii, nervosismo, cuore in gola. La bielorussa nota anche questo.

“P-Perché non dovrei sorridere? È una cosa che non dovrei fare?”

“Non il giorno dopo un funerale” il cuore di Estonia riceve quest’altro pesante, aggressivo, colpo. La gabbia toracica spruzza sangue, scossa troppo, al limite. Implora di smettere, di non essere così vicino al pericolo. Ma Estonia non può farci niente. Il sangue schizza fuori dal cuore, l’ossigeno trabocca e si libera fuori dai polmoni. La gola non si preoccupa di coglierlo, anch’essa paralizzata. I denti sono rigidi, non riescono a sussurrare nemmeno un suono. L’iride è ancora ingenua. Pretende ancora di guardarsi alle spalle. L’occhio di Bielorussia è ancor più veloce di quello di Estonia. Vede ciò che vede il biondo. Il sospetto e la curiosità si fanno prepotenti “Levati di torno” Estonia non riesce a dire nulla, a fare nulla, che la ragazza lo spinge e lo fa inciampare. Bielorussia apre la porta del capanno. Il buio si leva di fronte ai suoi occhi. Il legno scuro divora ogni pezzetto di sole. Perplessità.

Nulla di anormale. Nulla di insolito. La luce del mattino inonda lo stanzino pieno di cianfrusaglie con raggi gialli e bianchi. Eppure, nonostante l’oscurità sia del tutto svanita, non vede niente d’insolito. Nulla di potenzialmente pericoloso o strano. Entra nel capanno, alza gli stivali per non inciampare tra gli attrezzi. Affila gli occhi, stringe forte le ciglia per vedere meglio, anche negli angoli più stretti e travagliati tra le quattro mura. Nulla. Ancora nulla. Non capisce. Non si volta verso l’estone, ancora per terra, inciampato per essere stato spinto. Estonia, ancor più incredulo di lei, sollevato, riesce a nascondere un sospiro colmo di felicità. Bielorussia aguzza ancora lo sguardo, non riesce a capire. La sensazione di essere stata presa in giro l’avvolge e imporpora le sue orecchie. Si volta, l’estone è ancora sorridente, forse ironico. La ragazza assottiglia gli occhi, vorrebbe che il biondo avesse timore di lei. Invano, l’occhialuto pare brillare di luce propria.

“Che c’è, Bielorussia?” un sibilo lascia le sue labbra. Stringe forte il pugno, desideroso di spaccare gli occhiali del ragazzo. Ma si ferma, le dita carezzano i fusti verdi e le foglie ruvide. Ricorda le rose, ricorda che non deve perdere tempo. Anche se il sorriso di Estonia comincia a strappare quella poca pazienza ricevuta nel capanno vuoto. Non ha visto nulla. Ma pensa comunque che il biondo debba avere una lezione, non solo affidandosi a suo fratello.

Non avrebbe visto niente anche se avesse alzato gli occhi, troppo il buio. Fra le assi del capanno, sopra la sua testa, c’era i due che cercava. Lituania ha la schiena rigida, poggiata sul legno dell’asse. Non riesce a tirare un sospiro di sollievo. Deglutisce, la pancia troppo dura e pressata. Polonia, ignaro di tutto, ancora dormiente, poggia la testa sotto al collo dell’amico, il corpo poggiato precariamente sopra al suo. Stretto al polacco, Lituania sente fuori, al caldo, la voce di Bielorussia. Non comprende nemmeno una parola, ma basta per capire che non l’abbia visto. Con fatica, ancora schiacciato, sospira. Il corpo, forse avvertito sui suoi capelli l’aria calda di Lituania, sospira anch’esso, beato del caldo della pelle del ragazzo. La vestaglia bianca, per l’affanno della corsa, fa sporgere le sue gambe. Fa troppo freddo là dentro. Il corpo rabbrividisce, tentenna sopra al lituano. Involontariamente, la mano ossuta inizia a stringersi su sé stessa, tentando di avere più calore, che ne è affamato sin da quando era sotto la terra, coccolato dalle rose. Lituania, troppo concentrato nell’equilibrio, non nota nulla. Ha freddo anche lui, ma la pelle sottile e ghiacciata di Polonia è troppo fredda. Vuole scendere da lì. Sta per impazzire per essere schiacciato, per il freddo e per il timore di essere scoperto. Qualcuno entra, scatta dentro al capanno. Aguzza l’occhio, non potendo sospirare, deglutisce. Estonia non è mai troppo prudente quando ha paura.

“Lituania?”

“Estonia, sono qui!” sussurra, teme di vedere i capelli nivei di Bielorussia. Il fratello alza gli occhi, lo vede. Inizia ad arrampicarsi per aiutarlo. Gli occhi blu e i celesti urlano di scappare, di essere veloci. Non c’è tempo. Non c’è affatto tempo.

Bielorussia respira, inspira, respira ed inspira. Calma riavuta, ritorna a camminare. Riguarda le rose, ora con odio e disprezzo. Per colpa loro è stata presa in giro da uno dei Baltici. Lo dirà a suo fratello, subito dopo aver compiuto il suo compito. Gli stivali neri graffiano, pestano l’erba verde. Le cinture in cuoio tentennano come campanelli. La suola sbatte, ora, su della terra marcia, vergine senza erba. Appena avrà poggiato le due rose sulla tomba, immediatamente correrà da Ivan e gli dirà i suoi sospetti. Crede ancora che il Baltico nasconda qualcosa. Ricorda il volto teso e i tremiti nelle gambe. E gli occhi sul capanno. Non ha idea cosa stia nascondendo ed è curiosa di sapere cosa c’era lì dentro. Ma non è compito suo scoprirlo, dovrà farlo suo fratello. Forse per il cuore troppo orgoglioso o per la vergogna di poter essere di nuovo presa in giro. Così volta per una seconda volta l’angolo della casa. L’erba qui non cresce, nemmeno un’erbaccia macchia la terra.

L’elettricità la scuote, le iridi si paralizzano, forte il colpo. La mascella rischia di cadere. Il cuore, fermo, si agita e ritorna immobile, congelato e scioccato. Le due rose, strette fra loro, lasciano la presa le une dalle altre. La bianca, scossa, viste le sorelle abbandonate dall’amato, gettate e strappate dal giaciglio, sussulta e lacrima rugiada fredda. Il vento le tocca i petali, gioca con le foglie della sorella rossa. Questa, incredula, si lascia scuotere dal vento. Piange e si dispera, la linfa abbandona il suo gambo e la lascia quasi senza vita. Guardano le proprie compagne e sorelle, morte, uccise da un mostro, forse da un folle, che le ha strappato via il compagno. E queste, per l’orgoglio e la disperazione, si sono lasciate ammaliare dal vento ghiacciato. Questo le ha prese, le ha strappato la vita e ora sono morte e fragili tra i propri petali. Sconvolte e disperate, le due rose si lasciano cadere sulla terra sterile. Abbracciate e affrante, si lasciano alle carezze della brezza. Lasciano che il loro destino sia anche quello delle loro compagne, abbandonate dal principe. Bielorussia ha le mani tremanti e il cuore scosso. Si fa domande, si risponde forte e irosa con sé stessa per non aver fermato il Baltico. Pensa che sia stato lui, sa che sia stato lui. Pensa di correre e di fermarlo nel fare qualcosa che ancora non sa e che ancora non comprende.

Uno sparo ferma i tremiti della ragazza. Come marmo, come ghiaccio, Bielorussia è immobile. Per un attimo ha temuto che quel colpo fosse stato per lei. Ma non vede sangue, non sente dolore. È stato vicino, ma non era indirizzato a lei. Un altro sparo, un po’ meno vicino. Si volta, le iridi incontrano il muro della villa. I piedi pensano in fretta, più veloci, decidono di correre dentro casa. La curiosità e il cuore le urlano di sapere cosa stia succedendo in casa sua. La confusione e la scoperta della tomba vuota rendono i suoi passi in corsa.

Un altro sparo e la ragazza diventa un fulmine fra i corridoi della casa.

 

 

 

 

 

 

Corre, il piccolo Lettonia. Corre come non ha mai fatto per anni. Non aveva corso così forte nemmeno durante la guerra, nemmeno quando Russia era folle. Un altro sparo e l’urlo di questo s’infrange come un tuono in tutto il corridoio. Anima forte, anima codarda, lo fa correre con più disperazione. E il gigante è dietro di lui, sanguinario e forse più veloce di lui.

Raivis l’ha salvato. Il suo diario ha parato il primo colpo, con la copertina in pelle rigida e le innumerevoli pagine di sventure ed inchiostro. Poi è stata solo disperazione, è stato solo orrore e paura. E Russia che lo rincorre, anche ora, dietro di lui. Non sa come faccia ad essere più veloce del proprio aggressore, ma riesce a scappare, anche se teme i proiettili.

Un altro sparo e Lettonia corre più veloce. La mente è morta, l’istinto la sostituisce. Deve correre e scappare, prima che sia troppo tardi. Come un piccolo topolino inseguito dal proprio predatore. L’umana ragione muore in questa corsa, le parole sono solo urla e ringhi di rabbia repressa. Russia è arrabbiato e, se non si sfoga, il proprio cuore esploderà per il tormento. Il giuramento che ha fatto anni fa è solo un ricordo sbiadito e defunto. La cicatrice sulla propria mano non ha più voce, anche se la carne viene strappata e la pelle tirata dolorosamente sul grilletto premuto. Un altro sparo ancora e il legno della porta s’infrange. Piccoli pezzetti di legno e segatura si librano in aria e toccano il pavimento.

Il cuore del più piccolo pensa di non riuscire più a battere forte, teme di non riuscire più a scappare. Ha paura di abbandonarsi fra le braccia del proprio aggressore. L’istinto grida di continuare a correre, dovesse scoppiargli il cuore e la milza per la fatica. E Lettonia lo ascolta, il corpo del ragazzino implora ogni organo e goccia di sangue di riuscire a resistere, anche se poco allenati, anche se semplicemente disperati per la paura. Un altro sparo e la finestra esplode nella luce riflessa nei vetri. I frammenti, cristalli di raggi di sole, vibrano e lasciano la propria dimora. Volano fuori dalla villa, la luce mostra un arcobaleno di colori su di loro. Il piccolo corre ancora, Russia potrebbe quasi prenderlo. Ma le gambe del ragazzino sono anche furbe, sono anche intelligenti: voltano spesso i corridoi e cambiano svelte la forza nelle cosce. I muscoli cominciano a stancarsi, il fragile Lettonia sente di essere spacciato, di morire lì dentro, di non essere riuscito a scampare dall’ira del mostro. Volta di nuovo il corridoio e la mano di Russia la sente vicino ai suoi capelli.

Il fianco gracile del ragazzino sbatte contro qualcos’altro che non sia legno. Un vestito celeste s’alza e volteggia per l’impatto. L’occhio osserva, riconosce Ucraina e i suoi occhi sui suoi riccioli scuri. È un attimo, ma Lettonia continua a correre, l’occhio interessato assidua a posarsi sull’abito nuovo che indossa. La donna non riesce a voltarsi, non fa in tempo, non vede suo fratello. E lo sparo riecheggia. Lettonia non vede vetri infranti, né pezzetti di segatura. Il sangue bagna i capelli della donna, gli occhi si bloccano e muoiono. Il cuore di Lettonia sussulta, gli occhi increduli. Vermiglie ora sono le pareti, i quadri, gli arabeschi. Le labbra bianche dell’ucraina chiedono di schiudersi, forte è il dolore. Ma il cuore si ferma e i polmoni non prendono più ossigeno. Il corpo della donna dimentica il dolore e cade a terra come un corpo morto. I passi del ragazzino si fermano, ritornano umani, dimenticano l’ira di Russia, che ira non ne ha più.

Katja!!!” pare morire, Russia, tanto gli occhi sono piccoli, tanta è bianca la pelle. E il cuore in subbuglio e confuso. Lettonia lo vede fermarsi e raccogliere le spalle della sorella. Affranto, pentito, il corpo di Russia viene scosso da tremiti. Lettonia ha un cuore buono. Vorrebbe aiutare, vorrebbe salvare Ucraina. Pensa di correre verso Russia e di soccorrere sua sorella. Vede la pistola, la vede fra le dita del suo padrone. Vede di nuovo la corsa e gli occhi violacei del generale sui suoi. Vede Raivis che, se non l’avesse parato di fronte alla sua testa, allora avrebbe una pallottola in mezzo agli occhi. Pensa a questo e va contro la sua natura dolce: si volta, i piedi scattanti ed esce fuori dalla villa, ancora pauroso, temendo ancora di essere sparato.

Lettonia corre via, ma Russia resta fermo. L’istinto colmo di melma si quieta del tutto e dimentica di essere bestia. La colpa di ciò che ha fatto preme forte su di sé. Ma la confusione di come sia accaduto lo induce a ragionare. Ora lo sente. Sente la cicatrice sulla sua mano, lamentosa ed infuriata per ciò che ha fatto. Ricorda il giuramento e non crede che sia colpa di Lettonia. Vorrebbe piangere, ma la paura gli blocca le lacrime. Stringe la sorella, quasi morta fra le sue braccia. La implora di svegliarsi, di reagire, ma non si muove. Teme per lei, teme di aver fatto qualcosa di insanabile. E intanto il sangue brucia sulla guancia e le palpebre di Ucraina. I laghi scarlatti si congiungono sul pavimento. Non si fermano.

Bielorussia salta dalla finestra infranta, avendo visto tutto. Russia è sordo, ma riesce a vederla. La vede cadere in ginocchio, vicino alla maggiore. La vede spingerlo via. Gli urla di andare a fermare Lettonia e i suoi fratelli. Continua a spingerlo e lo costringe in piedi. Lei, forte ed orgogliosa, implora vendetta, implora di vendicare sua sorella. La stringe in grembo e gli occhi supplicano di correre. Russia si volta e ritorna ad avanzare rapidamente. La sua coscienza preme su di lui, sulle sue spalle e riesce a fargli lasciare la presa sulla pistola. Questa cade e non viene udita da nessuno. La cicatrice, bianca e strappata, chiede di non farlo mai più. Il colpo su sua sorella era una punizione per non aver tenuto la promessa. Sa che Lettonia non è del tutto colpevole. Il suo cuore ritorna umano. Pensa di poter fermare i tre Baltici anche senza la violenza. Vorrebbe almeno provarci.

Lettonia apre le porte e l’aria frizzante dell’estate e del sole alto lo abbraccia. Il piccolo non sente amore né calore nel caldo dei bagliori. Corre, teme ancora Russia, immagina che sia dietro di lui, a prenderlo. La macchina nera del generale è pronta a partire. Lituania poggia il corpo di Polonia sui sedili posteriori. Cerca di accucciarlo più in profondità per non farlo cadere. Il corpo, scomodo e compresso, non vuole staccarsi dal calore dell’amico. Ma non riesce più a muoversi, per questo si abbandona lì dietro, infelice. Ancora con le dita tremule, Estonia spalanca il cancello e corre verso il posto del conducente. I suoi occhiali brillano e riflettono la figura di Lettonia, ansimante, rosso in volto per la corsa. Il fratellino si getta nei sedili posteriori, cade vicino a Polonia. Non si siede, si abbandona tra gli spazi vuoti della macchina.

“Russia ci ha scoperti! Andiamo via!” sono poche sillabe, urlate con disperazione, ma i due scattano verso i posti. Estonia si getta alla guida, Lituania lo segue accanto a lui. I cuori battono forte, forse si aspettavano di essere presi. Dopotutto, non puoi nascondere niente a Russia. Estonia è nervoso. Estonia non riesce a ricordare. Tremore, nervoso, usa le chiavi e la macchina si accende. Panico, cuore in fermento, non riesce ad avviare l’automobile. Lettonia, dietro di lui, gli urla di fare in fretta. Sente lo sguardo di Lituania, ansioso, sul suo. Anche lui gli urla di fare veloce, ma non ci riesce. Troppo terrore, troppa paura. E l’ansia lo fa sbagliare. Non ricorda più come si guidi una macchina. Lettonia trema di paura, Lituania per l’emozione e l’ansia.

“Ma che fai!? Muoviti!”

“Ci sto provando!”

“Estonia, l’acceleratore, l’acceleratore!”

“Non urlate!”

“Metti in moto la macchina!”

“Sto cercando di fare più velocemente poss-…”

Estonia” i tre cuori smettono di pompare sangue. I tre fratelli guardano dove hanno sentito la voce. Anche i propri tremiti smettono di graffiare le loro carni. Vedere gli occhi violacei, brillanti come gemme, fra lo spazio del finestrino scuro. E’ un orrore troppo grande per loro. Lettonia non respira più e gli occhi rischiano di mostrare lacrime amare di sconfitta e terrore. Estonia, più vicino agli occhi, fiamme ferme sui suoi occhiali, sussulta e la gola cerca parole, ma lascia gemiti di panico. Russia vede il corpo di Polonia, vicino a Lettonia. Pensa di riuscire a fermarli, pensa di non arrabbiarsi più. Pensa di poter fare in modo che tutto ritorni come prima e che non debba perdere i suoi figli per quel che ha fatto. Pensa ingenuamente, Russia, ma spera con tutto il suo cuore in ciò che crede. Poggia la mano, quella con la cicatrice, sullo spazio aperto del finestrino “Estonia… non andare via, Estonia” i suoi occhi non hanno rabbia né rancore, eppure i tre leggono qualcosa che non esiste. L’occhialuto sente i polmoni scoppiare e le lenti cadere dal suo naso, tanto forti sono i sussulti. Ma Lituania pensa a Polonia, pensa che non debba fermarsi solo per colpa sua. Dimentica parte della sua paura, divorata dalla forza e dal coraggio. E forse anche dall’ira che aveva per Russia anni fa.

Lo stivale scuro preme su quello di Estonia, sull’acceleratore quasi dimenticato. La macchina scura romba, il motore si agita per la forza bruta del ragazzo. Estonia si scuote, i suoi occhi lasciano quelli di Russia. Le mani cadono sul volante e prende il controllo. L’auto del generale sfreccia via dalla villa, lontana dal cancello, in mezzo ai boschi vivi nel verde.

Russia dimentica l’impatto con il suo corpo e l’urto sulla sua mano, quasi dentro l’auto. I suoi occhi guardano dove sono scappati i suoi figli e non vuole credere di averli perduti per sempre. La sua mano sanguina. La cicatrice riaperta da un altro taglio brucia sotto al sangue. Goccia dopo goccia, le macchie vermiglie bagnano i fili d’erba verde, affogando la rugiada nelle proprie spire rosse e bollenti. E la mano di Russia è già zuppa di rosso, fortunatamente proprio.

 

 

 

 

 

Polonia ha ancora il fiato corto, deglutisce saliva dolce, la lingua bagna le labbra, ma il dolore non passa. Continua a carezzare il petto, dove il cuore giace, quasi fino a farsi male le punte delle dita. È l’unico metodo per alleviare il dolore, che altro non sa fare. Sbuffa seccato contro Toris che, indifferente al suo dolore, continua a stargli sulle spalle, seduto comodo “Ma dovevi proprio beccarmi qui? Fa malissimo!” il bambino, ancor più indifferente, accuccia la testolina sui suoi capelli. Polonia è tentato di correre forte, senza tenerlo per i piedini. Diverse dormite prima aveva trovato Toris sulla sua pancia a beccargli il petto sotto la maglia, proprio tra le costole. Il dolore continua, sostituisce le dita con le nocche. Un po’ si quieta, il dolore. Ma non crede che sia stata del tutto colpa del falcone. Non sentirebbe tutto questo male e, soprattutto, non sentirebbe tutto questo sotto la pelle, nella carne, forse ancora più in profondità. S’inumidisce ancora le labbra, il dolore è passato quasi del tutto.

I passi continuano a muoverlo, il bambino ancora accucciato sullo spacco fra i capelli biondi. Polonia aguzza la vista di fronte a sé. Tutto quel bianco lo confonde, quasi ha creduto di aver visto qualcosa. Quasi crede che ci sia una macchiolina scura lontana, dove lui sta marciando. Toris non parla, ma strappa la sua guancia dai capelli del polacco. Vede anche lui qualcosa, Polonia è certo che la veda anche lui. Il biondo è interessato, curioso del cambiamento. Bambino incauto, aumenta il passo, quasi corre nel bianco cartaceo di quel mondo monotono. Avvicinato, ancora più vicino, riesce a scorgere meglio la macchia scura. Strabuzza gli occhi, ancora più curioso, ancora più bambino. Ora è vicino, la macchia ora è una figura umana.

Polonia, ora sospettoso, stringe dolce i piedini di Toris, protettivo. Una divisa nera si para poco lontano da lui. Gli stivali scuri della persona non si muovono, le spalle abbattute e cadenti, la testa sorda e muta nascosta. Polonia non capisce e per questo la curiosità diventa vivo sentimento di impazienza. Lascia la presa sul bambino. Non si accorge della sua caduta dietro le proprie spalle. A malapena capisce che Toris si sia ritrasformato in volatile. Il piccolo si poggia sulla spalla del polacco. S’accuccia e il becco sfiora il lobo del suo orecchio. Così perplesso e sospettoso non aveva mai visto Toris.

I passi di Polonia avanzano, aggirano la figura. Ora vede meglio. Sulla spalla è calato un volatile, penne scure, quasi violacee. Il polacco sobbalza, mai visto un’aquila così grande e con artigli così aguzzi. Il capo dell’uccello, prima nascosto contro la fronte del proprio padrone, ora si volta. Sente le piume vermiglie di Toris fremere e scuotersi. Polonia non sa per cosa. Quest’aquila ha occhi severi, azzurri, quasi prepotenti. Il biondo sente lo stomaco rigirarsi, non sa bene per cosa. Quel volatile, dopotutto, non gli fa paura. Eppure sente qualcosa che gli impone di abbassare il capo di fronte a lui, troppo grave di sguardo.

Involontariamente indietreggia e pare che il falcone rosso sulla sua spalla abbia voluto fare lo stesso con lui, abbassato il becco e calme le piume.

Finalmente, vede i capelli della figura, innaturalmente chiari. La fronte pallida si alza, gli occhi nascosti sotto le palpebre. Respira a fatica, il pomo d’Adamo s’alza e s’abbassa, catturato ossigeno e portato ai polmoni. Gli occhi decidono di aprirsi, forse stanchi. Polonia sente una scarica di incredula meraviglia. Gli occhi rossastri di Prussia guardano in alto, si poggiano alla sua spalla, dove l’aquila lo sovrasta. Batte le palpebre, guarda il volatile negli occhi. Quest’ultimo, ancora severo, poggia per poco le sue iridi azzurre sulle sanguigne. L’uccello si volta di nuovo verso Polonia e Toris, quasi imponendo al prussiano di guardarli. Prussia guarda il polacco confuso, forse nemmeno lo riconosce, così come Polonia non riesce a riconoscerlo. Il biondo sente di nuovo una scarica di ansia e meraviglia sulle sue spalle, che sbatte anche contro il falcone rosso. Prussia pare comprendere qualcosa. Raddrizza la schiena, il capo alto, il petto voltato verso il più piccolo. Il ghigno quasi cattivo, gli occhi lucenti e i canini appuntiti contro di sé.

“Principessina!” esclama e i polmoni pretendono ancora più aria. Dentro Polonia, in un attimo, svanisce la sorpresa e l’incredulità. Si sente più vuoto, forse anche un po’ più sprezzante verso il prussiano che, avuta la sua attenzione, aggrotta le sopracciglia e rende delle fessure vermiglie i suoi occhi “Beh, che c’è?” chiude le palpebre, ha bisogno di altra aria, avuta ben poca prima “La mia magnificenza è così grande che persino da morto tu n-…” riapre le palpebre. Le sbatte più volte, aggrotta la fronte, perplesso. Polonia è sparito. Volta gli occhi alla sua sinistra, avuto un dubbio. Sussulta, sdegnato: la figura del biondino sta svanendo secondo dopo secondo, lontano da lui. Si sente umiliato ed ignorato “Hey, non ho ancora finito il mio monologo!” lo rincorre, anche se con poco ossigeno nei polmoni.

Polonia corre così forte che Toris deve volargli vicino per non cadere dalla sua spalla. Non avrebbe voluto vedere Prussia, per nessun motivo al mondo. Avrebbe preferito starsene ancora nella solitudine insieme a Toris piuttosto che vedere uno dei suoi assassini e, per di più, incredibilmente odioso.

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 11
*** UnDiCeSiMo CaPiToLo ***


Non ricorda di preciso quando il suo lavoro incominciò a diventare noioso e così dannatamente ripetitivo. Forse lo è sempre stato e non se n’è mai reso conto, ma solo ora comprende che vendere biglietti alla stazione di Mosca sia incredibilmente seccante. Deve svegliarsi alle sei del mattino, quando incominciava il suo turno, e finire alle otto di sera. Con una ridicola pausa per il pranzo di solo mezz’ora. Solo per questo piccolo grande dettaglio avrebbe rinunciato subito e avrebbe provato a trovare un altro lavoro, forse più intrigante. Avrebbe voluto anche solo provare a fare il giornalista. Peccato che questo mestiere, in questi tempi, sia piuttosto inutile. Peccato anche che suo padre facesse il controllore sin da quando era ragazzo e che non facesse altro che andare avanti e indietro per varie città dell’Unione. Almeno lui si divertiva. Invece il figlio, appena diciannovenne, già si annoiava a cambiare valute, intascare denaro e consegnare biglietti dietro ad un vetro.

Sono a malapena le otto del mattino e comincia già a pensare ad un modo per fingersi malato e, forse, tentare di restare a casa per qualche giorno. Quasi pensa di farlo, dimenticando che sia solo il suo sesto mese lavorativo. Ma pensa a suo padre e cambia immediatamente idea. Sul lavoro non si scherza, dice sempre. Ed è anche un tipo molto severo. Detesta quando lo delude. Ripensa ai suoi occhi, inclinati malamente verso il naso, quasi cattivi. Da bambino lo odiava per i suoi occhi. Rinuncia definitivamente all’idea, non ne vale la pena. Spera almeno che la pausa pranzo decida di arrivare, perché non ce la fa più. C’è più fermento del solito alla stazione e ne ignora il motivo. Vuole solo uscire da questo cabinato quasi claustrofobo, smettere di vedere persone che non conosce e andare a passeggiare per il centro, soprattutto oggi che è una bella giornata. Solo ora si accorge che nessuno più si avvicina al suo finestrino. Sospira felice, abbandonandosi sulla sedia. In pochi secondi si rilassa completamente.

“Tre biglietti per Varsavia!” il tonfo di un pugno e dei respiri profondi, sfiancati, accompagnano l’esclamazione. Sobbalza, un frammento del suo cuore raggiunge i polmoni e si blocca nella trachea. Si regge al legno dello sportello per non cadere. Con occhi ancora spalancati fa cadere lo sguardo attraverso il vetro. Si ricompone, le spalle cadono, la pelle del viso si rilassa e ritorna di un colore quasi rossastro: tre ragazzini, solo tre stupidi ragazzini che, sicuramente, hanno sbagliato giorno ed ora per venire a disturbarlo. Poggia il gomito sul legno e il pugno sulla guancia. Seccato, sospira, cerca di darsi un’aria cattiva come fa suo padre.

“Sparite, mocciosi, non ho tempo da perdere” ricorda, dopo un po’ di tempo, di non saper imitare suo padre, visto che di lui ha preso solo l’aspetto fisico e non il cuore, che non ha i suoi occhiacci crudeli e che si sta probabilmente rendendo ridicolo. Pensa che, a questo punto, vedendo le sue guance troppo grasse e il suo viso troppo buono, i tre dovrebbero essere abbastanza soddisfatti per andarsene. Errato, sono ancora lì e respirano con più affanno. Questa volta si concentra meglio. Li osserva. Due di loro non sono ragazzini, solo il più basso lo è. Gli altri due avrebbero potuto avere la sua età, forse qualche anno in meno. Non li guarda negli occhi, ma capisce che sono seri. Qualcosa trasmettono in lui, un pezzetto di anima assorbe qualcosa da loro. Capisce anche che sono spaventati. Uno di loro, quello coi capelli scuri, fa scivolare sotto al vetro tre passaporti.

“Ve ne prego, ci servono tre biglietti per Varsavia!” ansima con più energia, deve aver corso tanto. Il fiato bollente del ragazzo tocca il vetro, appannandolo. Non comprende cosa diavolo stia succedendo, ma in qualche modo gli interessa. Finalmente qualcosa di interessante. L’occhialuto volta spesso il capo alla loro destra, verso l’entrata. Dietro di loro il treno fischia, acuto, all’improvviso. Il più piccolo dei tre, agitato, sobbalza per la sorpresa. Lui non si meraviglia: ben pochi viaggiano nell’Unione, soprattutto i russi, e spesso si arriva all’età adulta senza aver mai visto un treno. La loro agitazione gli interessa, ma sa che non può chiedere nulla. Pensa solo di fare il suo lavoro, come se nulla fosse.

“Tre biglietti per dove?”

“Per Varsavia, in Polonia!” corruga la fronte, perplesso. Quella città non l’aveva mai sentita nominare. Forse una volta, quando era bambino e la guerra era alle porte. Ma gli è familiare. Si volta alla sua destra, verso la mappa di treni e stazioni russe. Il suo occhio ruota, gira, svolta per la cartina appena acquistata, nuova e colorata. Se non avesse saputo che sarebbe comparsa una nuova nazione sul giornale di ieri o alla radio, allora si sarebbe meravigliato ancor di più. Immagina già che sia il nuovo paese quel che sta cercando. Vede chiaramente la scritta Varsavia, nera, con caratteri cubitali. Si volta verso i tre.

“Dovete mostrare il permesso” gli occhi chiari del moro sembrano sobbalzare. Deglutisce, non capendo. Il piccolo vicino a lui, tremante, gli lancia uno sguardo esitante, terrorizzato. Il moro non lo coglie. L’occhialuto continua a guardare verso l’entrata della stazione, fingendo indifferenza. Passa qualche secondo di stasi.

“Quale permesso?” sospira, si aspettava una risposta del genere.

“Per viaggiare al di fuori di un paese dell’Unione Sovietica è necessario un permesso della vigilanza di Mosca per accertamenti e precauzioni” spiega ciò brevemente, com’è scritto nel libretto che ha dovuto per forza imparare a memoria per avere questo noioso lavoro. Per fortuna l’ha ripetuto miliardi di volte, sa bene cosa dire. E immagina già cosa gli chiederanno. Decide di anticiparli, vede troppa fretta nelle loro gambe e nelle loro dita, tamburellanti sul legno sotto al vetro. Comincia a seccargli tutta questa ansia “Per farlo dovreste andare in questura e attendere di riceverlo” altri deglutii, questa volta dal più piccolo dei tre che, insicuro, ha preso per mano il più grande.

“Quanto ci vorrà per averlo?”

“Almeno sei o sette mesi”

“C-Cosa?!” anche l’occhialuto sobbalza, attratto dalle loro parole. Non sa bene se dalle sue o da quelle del moro “Non possiamo aspettare sette mesi!” sospira, anche questo se l’aspettava. Per i pochi viaggiatori è sempre una seccatura avere il permesso. Ma nell’Unione funziona sempre così. Le notizie dei giornali internazionali sono perennemente mute o false, viaggiare all’infuori del proprio paese è un tormento e avere un passaporto è difficile, a meno che non si possegga una carica di grande importanza. Anche per lui è una seccatura. Da piccolo avrebbe voluto viaggiare per tutta l’Europa. Ma, come dice sempre suo padre, nella vita non trovi sempre oro. Però lui non ha mai trovato nemmeno una pepita. Ma questo non glielo dirà mai.

“Beh, allora dovreste per forza cambiare destinazione e poi, in un secondo momento, arrivare a Varsavia. Ma senza treno” l’idea, come previsto, non sembra eccitare i tre. L’occhialuto continua a sbirciare alla sua destra, ma, sentita la risposta, decide di voltarsi completamente verso il vetro. Il più piccolo prende il posto di vedetta del biondo e sguscia pian piano alla destra del gruppo, per vedere meglio. Il moro tamburella le dita con nervosismo. Sospira, passa ancora qualche secondo di stasi. Il biondo, forse più piccolo del moro, alza lo sguardo. La fretta li prende ancora.

“Dove ci consiglia di andare?” si aspettava anche questa domanda e ha già la risposta.

“Potreste prendere un treno per Minsk, in Bielorussia, ma, vista la difficoltà nel varcare le frontiere in quanto connessa completamente alla Russia, ve lo sconsiglio. Sarebbe più facile percorrere la catena Baltica e arrivare in Lituania a Vilnius così…”

“Va bene, accettiamo. Andiamo a Vilnius” lo interrompe bruscamente il moro, con le dita perennemente tamburellanti sul legno, agitate. Sospira, detesta la fretta. Controlla i passaporti, prende i contanti, consegna i biglietti. Detesta l’urgenza che gli hanno dato gli occhi dei tre. Detesta l’aria di terrore che respira. Si chiede solo ora per davvero che cosa diavolo dovrebbero fare laggiù in Polonia e perché debbano fare ogni singolo movimento di corsa. E si chiede anche perché guardino ossessivamente verso le entrate, come se inseguiti da un mostro. Questa ipotesi la prende come una certezza. Finito, si ricorda di una cosa.

“Aspettate! Quel baule lo portate nello scomparto bagagli oppure lo tenete con voi, in cabina?” ricorda di chiedere ciò vedendo il grosso baule scuro, trattenuto con forza dalla mano del moro. Si meraviglia che non l’abbia notato anche prima. Il rumore della folla dietro di loro è assillante, copre sillabe e parole. Ora la gente dietro di loro inizia a formare una fila, impaziente. Vede una coppia con un bambino, dietro ai tre ragazzi. Pensa di doversi spicciare.

“No, ce lo portiamo dietro” risponde il moro. Sbatte le palpebre, perplesso. Si sente confuso per il tono usato. Non sa se se lo sia immaginato oppure se lo abbia sentito per davvero. Il gelo della voce del ragazzo lo raggiunge come un pugno allo stomaco. Deve aver toccato un nervo scoperto, una qualche molla all’interno del moro. Da un ridicolo topolino è diventato d’un tratto un feroce lupo. Non sa che occhi siano, ma lo trafiggono e rendono muta la sua bocca. Ignora la sensazione sgradevole. Guarda i volti degli altri due e pensa che siano davvero terrorizzati da qualcosa “Quando parte il treno?”

“Fra cinque minuti circa” si scuotono, come corpi senza anima, riavuti indietro i soffi di vita. Gli occhi di lupo scompaiono, così come sono apparsi. Frettolosamente ringraziano e, letteralmente, fuggono verso le partenze dei treni col baule nero che inciampa nei loro piedi. Allunga lo sguardo verso i tre strani ragazzi, spariti tra la folla irrequieta, un branco di pesciolini, e i capostazione sbraitanti, dei marinai in mezzo ad una tempesta. Perplesso, inizia a fare delle ipotesi: o hanno fatto qualcosa o qualcuno vuole fare qualcosa a loro. O entrambe. Non ha il tempo per pensare: la coppia col bambino attira la sua attenzione e gli fa dimenticare i tre ragazzi. A tarda sera, tornato a casa, avrebbe raccontato dello strano incontro, della paura dei tre e dello strano uomo, alto come un gigante, che, con passo veloce, svoltava i piedi verso i tre, inseguendoli.

Lituania, Estonia e Lettonia corrono. La folla, senza giacche né giubbotti pensanti, cammina lenta. Pare un fiume in piena e gli uomini e le donne dei salmoni trasportati frettolosamente dalla corrente. Li spingono, li urtano, c’è un chiacchiericcio di sottofondo. Passi lenti, quasi morti, passi veloci quanto i loro. Branco di pesci tutti loro. Il fischio dei treni appena giunti a destinazione squarcia l’aria calda, bollente. Sembrano lame di spade e coltelli, i fischi. Tranciano gli stomaci e i polmoni dei tre, tanto sono acuti e fermi. Sono lance scagliate nel letto del fiume, per pescare. Continuano a correre e l’aria calda torna in loro, la folla continua a ferirli, con le pinne taglienti. Riprendono a tenersi stretti fra loro. Eppure il gelo ferma i loro polmoni. Hanno paura, non è ancora finita. Estonia indica un treno lontano, a malapena visibile tanta è la gente. Urla qualcosa. I due fratelli apprendono, anche non udendo le parole. Il fischio era di quel treno, il treno per Vilnius. Pochi minuti alla partenza.

Lituania sente il baule sobbalzare ad ogni passo che compiono. Un passo e il baule singhiozza per il dolore. Un altro passo e Lituania chiede perdono a denti stretti. Anche se leggero, è difficile da trasportare. Sia il baule che Polska, gettato là dentro. Ricorda il passato. Era restio a gettarlo lì dentro, sopra gli stivali, i panini e i vestiti di ricambio per loro. Deglutisce e continua a camminare, aiutato da Lettonia e sorretto da Estonia. Testa bassa, spalle affaticate. Sente il peso della colpa e della paura premere sulle scapole come un tarlo, un parassita sotto la pelle che mangiucchia la carne lungo la colonna vertebrale. E i ricordi bruciano ogni goccia di sangue nelle sue vene. Un baule aperto che lacrima sangue rappreso. Polonia è gettato lì dentro, sanguinante, costole rotte, occhi spalancati guardano la parete di legno come se fosse una creatura demoniaca. Polska viene trascinato nel corridoio. Urla, chiede pietà al suo padrone, invano. Chiede di lasciarglielo, di darlo a lui, di avere compassione per il soldato ucciso. Invano, ogni cosa è inutile, ogni parola ignorata. Sangue sul pavimento. Sangue rappreso. Sangue di Polska.

Lituania sale sul treno, trascina con sé il baule. Lettonia, dietro di lui, alza l’estremità e lo aiuta. È più leggero di quel che si sarebbero mai aspettati. Estonia, paziente, deglutendo, aspetta che entrino entrambi. Vede la porticina del treno piena di luce, dietro di sé il buio del nulla e un predatore silenzioso pronto a prenderlo. Lituania e Lettonia non si voltano, continuano ad avanzare nel corridoio della carrozza. Estonia procede sui primi scalini, nemmeno lui si volta. Pensa di essere già in salvo. Trasale, l’anima si agita nel corpo del Baltico, prova ad uscire e a scappare via. Sente il braccio irrigidirsi sotto la presa di una mano prepotente. Una corda di violino stride dentro di sé. La mano lo fa inciampare all’indietro. Estonia ha l’anima agitata e cade. Supera gli scalini, tocca terra. Non è caduto, la mano lo sorregge. La testa è crollata per terra, il cuore pulsa e si lamenta nelle orecchie del biondo. Sente di aver urtato con la schiena qualcosa di molto più grande e solido di lui. Il collo è scoperto, una scarica elettrica lo percorre, agitato, quando sfiora un lembo di sciarpa. Anche se morbida, l’estone l’avverte ruvida e feroce sentendo che stia strappando pezzetti di pelle, lungo la propria trachea. Non vuole voltarsi. L’ombra gigantesca sotto di sé, pericolosa, lo inghiotte. Non prova a liberarsi. Non sa se sia codardia o paura, ma non prova rimorso per sé stesso.

L’enorme ruota del treno, coi bulloni, le leve e il vapore, si muove lenta e cauta sui binari. Il fischio trancia le orecchie della folla e dei passanti, ma Estonia non sente nulla. Il cuore gli fa troppo male, le guance sono troppo rosse e spera di non piangere proprio lì, praticamente poggiato contro Russia. Si trattiene, ingoia i singhiozzi, non vuole piangere. Sarebbe troppo per lui. Non spera nemmeno in qualcosa. Il generale non si muove. Prima paziente, ora veloce, il treno fischia con più energia e le rotaie vengono avvolte dal vapore e dalle potenti ruote del gigantesco macchinario. Alza gli occhi, Estonia, e capisce di essere guardato. Lituania e Lettonia si sono accorti della sua assenza, si sono accorti che qualcosa non va, si sono accorti di Russia. Il treno è veloce, la stretta del suo padrone stringe, forse frustrato, il suo braccio con più prepotenza. Eppure non sente dolore. Non riesce a vedere gli occhi dei suoi fratelli, ma sente. Sente l’umiliazione, la paura e le loro voci. Estonia, per la prima volta, vorrebbe urlargli. Non sa che cosa, ma vorrebbe che lo ascoltassero. Loro lo fanno per lui, fedeli e preoccupati.

Estonia!!!” il treno parte e inghiotte le parole dei due fratelli, allarmati, increduli.

E gli occhi di Russia brillano di un viola quasi inumano.

 

 

 

 

 

Il cuore implora, supplica di fermarsi, di dargli tregua, di non abusare più di lui, troppo stanco. Meccanismo paziente ma troppo pressato è il suo piccolo cuoricino. I flussi di sangue hanno un ritmo troppo veloce, approfittano anch’essi della sua energia. Vene ed arterie sputano sangue e correnti di flusso vermiglio. I muscoli dell’organo si contraggono, espirano ed inspirano fiotti di ossigeno. Hanno nausea per il troppo sforzo, chiedono anch’essi pietà. Le gambe sottili hanno già di sé pochi muscoli energici e quei pochi coraggiosi si sono sfiancati troppo. Malamente reggono il corpo e la carne, le ossa e le braccia. Non ce la fanno più. Malamente cadono, come strappati della vita e dell’anima stessa. Il corpo si lascia cadere, fiacco, sfinito, quasi morto. I polmoni, pressati fino all’esaurimento, cedono ed esultano. Aprono la gola, la trachea e le narici. Pretendono aria per loro e per il cuore, affamato anch’esso di energia. Polonia è caduto sulle ginocchia, ansima in cerca d’aria, sudato ed esausto, la trachea in fiamme.

Lascia che dei passi altrettanto spossati lo raggiungano. Lascia che un corpo quasi più morto del suo cada affianco a lui. Ascolta gli ansimi di Prussia, forse con meno odio di quel che credeva di avere. Il prussiano si è lasciato cadere con la pancia gettata sulla terra bianca, le gambe scomposte, una corona di sudore sui capelli chiari. Sente i polmoni spingere forte contro le costole della gabbia toracica, contro il cuore e le vene povere di ossigeno. Si sente male, la gola è una terra infernale, le ossa rigide e deboli. Si sentiva debole anche prima. Ora si sente morire, svenire per lo sfinimento. Con fatica volta l’intero corpo sulla schiena. Il sollievo lo avvolge: i polmoni non schiacciano più le ossa. Respira con più fatica, ma si sente meglio. Vede il falcone rosso di Polonia poggiarsi sulla spalla del ragazzo, per nulla esausto. Debole, maldestro, getta la mano sopra la propria testa. Le dita incontrano e stringono fiaccamente la poca carne di Polonia. Un penoso tentativo di trattenere il ragazzo. Sbuffa, ancora indignato.

“Non ricordavo che i polacchi…” tossisce, i polmoni protestano “…corressero così forte” altra tosse, altra indignazione della gola. Le narici accolgono aria ghiacciata, troppa per loro. I polmoni ricevono la brezza gelata e la risputano facendo tossire ancora una volta il loro stanco padrone. Polonia sente malamente la mano guantata del prussiano. Immagina che sia ruvida, sudata, appiccicosa. Pesante, fastidiosa, odiosa. Non vuole la sua mano su di sé, ma non ha abbastanza forza per levarla dal proprio ginocchio. È misera, la carne attorno alle sue gambe: Prussia potrebbe stringergli l’intero polpaccio, se desiderasse. Con la coda dell’occhio vede la figura alata dell’aquila poggiarsi sulla terra immacolata, vicino al prussiano. Qualcosa in questi due personaggi fanno sgorgare e capovolgere qualcos’altro dentro al cuore debole di Polonia. Non voleva vedere nessuno. Nessuno.

“Ma perché sei qui…!?” la gola e i polmoni avrebbero voluto urlare. Hanno fatto il possibile, ma l’ossigeno era poco, la pelle della trachea troppo fragile e la lingua disidratata. È uscito fuori un granello di grido, un urlo sottile ed imbarazzante, troppo acuto ed infantile. Detesta questo grido, ma non ha potuto farne altrimenti. Prussia riprende il controllo della propria gola e del proprio cuore. Riesce a respirare con più facilità, ma deve ancora bruciare molto ossigeno. Più calmo, passa la lingua sulle labbra secche. Le dita si sollevano dalla rotula del ragazzo. A Polonia questa mano ricorda un ragno, nero e cattivo, sulla sua divisa, sulla sua coscia. Prussia sbuffa un sospiro.

“Alla fine muoiono tutti, principessina. Dopo un po’ anche il Magnifico ha dovuto tirare le cuoia” conclude, senza emozioni, secca la lingua e la mente. Non vuole ricordare nulla. Non vuole ricordare la sua vita, non vuole ricordare ciò che ha perso. Polonia, spazientito, sbuffa anch’egli. Con le unghie dell’indice e del pollice solleva in malo modo la pelle del guanto e, altrettanto sprezzante, lancia la mano lontano da sé. Toris, sulla sua spalle, scuote le piume e la testolina, preso da un leggero brivido di timore: l’aquila nera non ha mai staccato gli occhi severi su di lui e le iridi di ghiaccio addossate sulle sue piume lo riempiono di tremiti. Ha paura di quest’anima, non sa bene il perché. Anche Polonia smette di boccheggiare, tranquillizzato il fiato.

“Ma perché diavolo mi hai seguito?!” questa volta la voce ha avuto più autocontrollo e forza. È sollevato che non suoni come un latrato o come lo strillo di una ragazzina. È anche rincuorato che Prussia non abbia iniziato a dargli fastidio o a sbeffeggiarlo come faceva sempre. Immagina Prussia ancora più cattivo di come lo vedeva quando era piccolo. Quando Liet gli insegnava a difendersi con la spada e lo scudo. Quando era un principe e Prussia un comandante, nato solo per fare la guerra. Ma la Prussia è nata solo per questo: per combattere ed uccidere. E, anche se i tempi e i secoli sono cambiati, il demone sdraiato vicino a lui non è mutato affatto. I prussiani erano uno degli eserciti più forti e crudeli in Europa e l’anima affamata di sangue e potere non potrà mai lasciare il corpo di una Nazione del genere. Come Russia, come Germania. Polonia è ancora arrabbiato e non crede di poterlo mai perdonare, anche se lo vedeva spesso nella reggia di Vienna, insieme ad Ungheria ed Austria. Anche se, man a mano negli anni, sembrava divenire un po’ più umano in sua presenza, forse perché nacque Germania e Prussia stava cambiando di per sé. Ma Polonia non dimentica. Non dimenticherà mai i bombardieri su Varsavia, il panico nelle strade. La cenere grigia e maleodorante nell’aria autunnale di settembre, sulle foglie e sui ciottoli delle vie. Le fiamme infernali sulle case e le scuole. La pugnalata alle spalle da parte di Russia. Il suo ultimo respiro e occhi violacei, divertiti, che lo fissavano. Polonia non dimenticherà mai. E non perdonerà mai. Uno schiocco insistente di dita, libere dal guanto nero, trapana i timpani del biondo. Sussulta, irritato.

“Hey, hey, il Magnifico ti sta parlando!” il ragazzo, ancora più irritato, ricordate troppe cose, senza avvertire Toris, slancia il peso verso l’alto e si alza. Il falcone rosso lancia un fischio di sorpresa. Le zampe artigliate quasi lasciano la spalla, sul punto di cadere all’indietro. Gli occhietti spalancati, poi confusi, poi irritati. Polonia inizia a camminare nel bianco del nulla, lontano dall’ospite poco gradito. Toris, ancora indignato, col becco appuntito gli tira l’orlo morbido e roseo di un orecchio. Il ragazzo prova ad ignorare il dolore, con grande fatica. Un secondo sibilo del falcone rischia di farlo sobbalzare. Non vuole sembrare goffo di fronte al prussiano. Non vuole essere preso in giro per colpa di Toris. Per fortuna il volatile è attento e smette subito. Vede di nuovo il soldato prussiano, una macchiolina nera stranamente seccante. In silenzio, ora immobile, lo osserva. Prussia corre vicino al ragazzo. Struscia le mani sui fianchi e lo sghignazzo di un demone lascia le sue labbra.

“Ma sei diventato di nuovo sordo?” Polonia non risponde, testardo. Prussia sbuffa ancora una risata, meno energica, meno divertita. Comprende qualcosa di importante. La bocca cade, i denti si celano sotto i lembi delle labbra. L’occhio volta l’iride dietro di sé. Osserva il bianco, sente il battito d’ali dell’aquila sulla sua spalla. Gli artigli seghettati si poggiano cauti su di sé e il nero delle piume si rilassa contro le zampe possenti e sicure. Prussia vede quel bianco come qualcosa di freddo. Ha brividi lungo la schiena e le gambe stanche. Aghi di ghiaccio perforano il suo cuore. L’occhio si poggia, ora, sulle spalle di Polonia. I capelli biondi brillano di riflessi dorati. Sembra oro filato rubato dalla Cina. Ricorda qualcosa.

 

Austria va avanti e indietro per il corridoio, Ungheria si sfrega le mani col nervosismo di una madre preoccupata per il suo bambino, Italia ha gli occhi bassi, lui calmo e poggiato sgraziatamente sulla sedia. Quella porta spera che non si apra, che resti per sempre sigillata. Non vuole quel ragazzo vivo, non vuole che respiri. La Polonia non esiste più da quasi due settimane, non serve chiamare dottori e medici. Non importa sapere se siano austriaci o italiani, oppure ungheresi. Polonia morirà. Quel piccolo miracolo che ha fatto Austria non vale nulla. Polonia non respirerà più. Per questo è calmo e sente la sedia sulla sua schiena morbida e comoda. Non gli importa del principe, non gli importa di quel che abbia fatto Russia del suo cavaliere. Non gli importa affatto.

La porta si apre e uno degli innumerevoli dottori poggia il piede fuori dalla stanza bianca. Il camice immacolato, la barba ispida, gli occhi stanchi per le troppe ore senza sonno. È notte e nessuno riesce a dormire, nessuno ha il coraggio di farlo. Austria blocca le gambe agitate. Vorrebbe essere fermo e pacato, vorrebbe essere autorevole e rilassato, ma non ci riesce. Prussia si chiede perché Polonia lo abbia interessato così tanto, perché Ungheria abbia fatto uno scatto verso l’anziano dottore, perché Italia abbia il volto così scuro. Si chiede perché diano tanta speranza ad un morto. L’uomo li fa passare, fa entrare i tre, ansiosi. Prussia si alza, lento, sospirante, si avventura anch’egli all’interno della porta.

Le pareti sono bianche. Il pavimento è in legno, ma gli ricorda troppo il bianco, tanto è chiaro. Il ferro del letto è talmente lucido da splendere di un bianco perlaceo. Le lenzuola e il materasso brillano anch’essi di un bianco innaturalmente luminoso. In quel momento, in quell’istante, Prussia odia il bianco. Vorrebbe essere abbastanza bastardo da sputarci sopra, da allontanarsi dal letto e da andare via da quel posto. Quel bianco sa di morte e Prussia, anche se comandante di battaglie e guerre, non ci è abituato. Non in un luogo così lontano dalle campagne militari. Sente i cuori battenti di tutti e tre. Sente le mani di Ungheria, agitate, sulla sua gonna e, anche se lontane da lui, le avverte tra le sue dita, sudate e rossicce per il troppo sfregiare. Qualcosa brilla nel cuore di Prussia e sboccia come un fiore nel suo petto, prima grigio ed insensibile. Guarda gli occhi e i capelli di Ungheria ed un istinto gli ordina di stringerla forte al suo petto e di pregarle di non piangere. Ma ricorda Austria e l’odio che prova per lui è più forte del suo istinto. Non lo fa, sente che accadrà qualcosa di forte, più forte di tutti loro.

Guarda Polonia e non lo riconosce. La pelle è di un violaceo che stona contro il bianco del cuscino. Strappi e sfregi chiusi da bende e non da pelle. Il collo troppo sottile e il pomo d’Adamo fatica a salire e a scendere. La gola sembra compiere un’odissea per portare aria dolce nel corpicino troppo gracile. Anche gli occhi scuri faticano ad aprirsi. Prussia sente che tutto quel che stia vedendo sia sbagliato. Il bocciolo nel suo cuore apre piano i petali e le foglie. Qualsiasi cosa si stia formando lì, nel petto, brucia. Fa male, ma è un male diverso da quello che conosce tra il fango e il sangue dei soldati. Con fatica e stanchezza, Polonia riesce a poggiare gli occhi su Ungheria. Non è spaventato, la riconosce, prova ad alzare gli angoli della bocca, gli occhi brillano. Prussia non è certo che quello sia un sorriso, tanto è brutto e straziato. La sua amica, ansiosa e commossa, si avvicina al piccolo principe. Vede i tremiti delle sue mani e dei suoi occhi pietosi e toccati. Un altro bocciolo nasce nel cuore del comandante. Ungheria è buona, crede che sia tutto finito. Chiede al ragazzo se stia bene. Lui non dice nulla, gli angoli della bocca s’abbassano, le labbra schiuse, gli occhi lucidi e stanchi per lo sforzo.

“…sta bene?” mormora, la voce un sussurro lento, quasi una supplica mormorata a bassa voce.

“Chi, tesoro?”

“…Liet” la stanza si ghiaccia. Il bianco delle pareti è vorace, inghiotte e penetra sotto i vestiti di tutti i presenti. Ognuno di loro sente la stessa cosa, ognuno di loro prova le stesse sensazioni. E gli aghi di ghiaccio scavano, crudeli, sotto le carni, bucando i cuori pulsanti. Li ferma, li incatena in un abbraccio di morte. I volti bianchi e scuri di tutti loro sono sguardi di attesa ed esitazione per Polonia, troppo stanco per notare tutto ciò. Non è il destino indefinito del suo amico ciò che trema nell’anima di Prussia. Polonia ha chiuso gli occhi per tutti quei giorni e quelle notti di orribile attesa. Mai la bocca riuscì ad aprire, mai delle parole riuscì a pronunciare. Prussia non sa se si senta vuoto o pieno di meraviglia e compassione. Si sente malvagio, un bastardo, un uomo crudele. Guarda Ungheria. Sta per piangere, sente che piangerà. Ma è una donna forte, tanto da sorridere, anche se gli occhi pretendono di liberarsi dalle lacrime.

“Sì, amore, sì. Liet sta bene”sghignazzerebbe, in un’altra situazione. Bugiarda, le griderebbe, preso dalle risa. Il corpo quasi morto sul letto espira tutta l’aria che ha nei polmoni, come liberato di un grande peso, più grande di lui stesso. Gli angoli delle labbra tentano ancora una volta di alzarsi, più forti e decisi. Nel cuore di Prussia si spacca qualcos’altro. Questo apre una gigantesca crepa e fa schiudere il bocciolo. Apre i petali e libera nell’aria ogni suo sentimento. Quella stanza bianca puzza di carne, di sangue, di lacrime. Italia sta piangendo vicino a lui. Non si è fatto sentire, pietoso, immobile, quasi nascosto dietro Austria. Non alza gli occhi sull’austriaco, non ne ha il coraggio. Polonia inspira forte, i polmoni si riempiono di gioia.

“…gli dirai che gli voglio bene?” Prussia trattiene un sobbalzo e le labbra bianche si schiudono. Vorrebbe urlare, gridare ed implorare Dio di avere pietà di lui. Sente che è una punizione mandata dal Signore per ciò che ha fatto. Ma il desiderio viene smorto. Un’altra crepa trancia il cuore del prussiano e spacca in due i muscoli del petto. Il fiore nel suo cuore si agita e lascia il polline vaporoso in aria. Vola nella bianca stanza, la sofferenza di Prussia che non può mostrare: un vero prussiano non è debole, non può piangere, nemmeno se perde una battaglia. Nemmeno se muoiono i propri fratelli. Nemmeno se la propria amata sposa il proprio peggior nemico. Ungheria piange, le lacrime troppo pesanti. Non geme, non vuole mostrarsi debole di fronte al principino. Annuisce più volte, i capelli spettinati cadono sul volto, s’intrecciano con le scie di lacrime bollenti sulle guance.

“Sì, amore, sì, glielo dirò. Mi ha detto di dirti che ti vuole tanto bene anche lui” un’altra bugia. Prussia vuole scappare, ma i piedi sono incatenati nel legno troppo chiaro e freddo. Vorrebbe andare via e lo farebbe anche, ma il suo cuore è ancora rotto e ciò che sta vedendo è troppo nuovo, misterioso e orribile per essere ignorato. Polonia mostra ancora quella brutta copia di un sorriso, forse una riproduzione più bella e serena. Forse più sollevata e familiare. Ma dura poco. Le labbra, più lente, cadono. La pelle smette di tirare, la gola di sollevarsi ed abbassarsi. Gli occhi di brillare. Continua a guardare fisso di fronte a sé, Polonia, guarda Austria e l’aristocratico non sa se gli stia rivolgendo lo sguardo o se abbia rancore verso di lui. Austria ricambia, bianco più di quella stanza. Crede che possa riconoscerlo, che possa fargli qualcosa che nemmeno lui immagina. Sente il pentimento dell’austriaco persino all’interno delle ossa. Eppure Polonia non dice niente e continua a fissarlo. Una consapevolezza striscia sulla schiena di Prussia, questa gli fa spalancare le iridi. Il cuore si sfracella in tanti piccoli pezzettini, muore il fiore nato nel suo petto. Il medico vicino a loro prende il polso del ragazzo.

Non batte. C’è un nuovo movimento improvviso. Altri uomini in camice bianco s’avventano sul letto. Urla, esclamazioni, timore di tutti. Vengono fatti uscire fuori da un altro dottore e la porta si richiude. Anche se lontani dal disastro, sentono ancora le voci e il panico nella sconfitta. Morirà, sentono dietro alla porta. Questo viene ripetuto più volte. Il corpo di Austria trema, le mani piantate veloci, vergognose, sul volto. Come un debole, come un codardo, corre via. Prussia è indignato, lo lascia andare. Ferma Ungheria che vuole raggiungerlo. La mano intreccia le sue dita con quelle della donna. Le lacrime agli occhi, la preoccupazione e il tormento in volto non scalfiscono nulla nella mente di Prussia. Il suo sguardo la obbliga di non andarsene, di non seguire il suo falso marito, che per Prussia quell’uomo non la merita. Ungheria lo guarda e pare che il mondo si capovolga. Il comandante si sente più debole e lo sguardo severo e crudele viene stravolto da un altro, più misericordioso e dolce. Lei, dolce, se ne va, corre dietro a suo marito. Il corridoio è morto. Per la prima volta Ungheria l’ha tradito.

Corre dietro di lei. Una stanza è chiusa malamente. Sente odore di lacrime, gemiti di pianto e suppliche inconsolabili. Prussia guarda fra lo spazio aperto della porta. Austria piange, chino sulle mani, pentito di tutto ciò che ha fatto, non solo nel corridoio pochi minuti fa. Ungheria sente la stessa lama di ghiaccio che ode ora Prussia. Vede un uomo che non conosce, che prima giudicava male. Che forse odiava. Non ha mai visto Austria piangere. Prussia è incredulo. Nemmeno lui ha mai visto Austria chino sulle proprie mani, a gemere come un bambino. Mormora perdono a Polonia per il male che gli ha fatto e che forse sta continuando a fare. Prima lucido, chiede perdono alla sposa per essere visto in questo modo. Poi, col cuore spaccato, continua il pianto e i perdoni mai pronunciati. Ungheria, trasportata, benevola, accompagna col pianto anche lei il proprio marito. E lo stringe forte al seno, lei, materna e buona. Quello fu il primo passo che fecero insieme loro due, senza di lui.

Prussia torna indietro. Trova Italia, rannicchiato, nascosto contro l’angolo della stanza. Lo fa alzare e lo stringe forte a sé, che queste cose non dovrebbe vederle nessuno. Nemmeno un povero ragazzino, troppo innocente per quel mondo. Nemmeno lui stesso, abituato, anche se dovrebbe esserci abituato. Anche Italia chiede perdono, anche lui non vuole essere visto così fragile. Prussia lo stringe al petto, nasconde il suo volto nelle forti braccia. Gli mormora di non piangere più, che andrà tutto bene, che Polonia si risveglierà e starà meglio. Italia gli crede e lo abbraccia, senza lacrime, ma con occhi rossicci. Prussia si sente sporco. Pensa di star dicendo la menzogna più grande della sua vita.

Non sa di aver detto la verità. Non sa che Polonia riaprì gli occhi un’altra volta, anche se in male.

 

Il bianco di questo posto nuovo, malato, freddo ed insensibile, lo mortifica. Pare investirlo e premere contro la propria coscienza. Il falcone di Polonia non ha smesso di fissarlo fino ad ora. I suoi occhiacci neri lo scrutano malamente, autorevoli e curiosi. Rabbrividisce, Prussia e i suoi brividi si ripercuotono sull’aquila nera addossata alla sua spalla. Il vecchio pennuto lancia un’occhiata di ghiaccio al volatile più piccolo. Gli occhietti neri si sciolgono, le piume rosse prendono vita e si acquietano. Pare intimorito, il piccolo che, svelto, si volta dal lato inverso, tocca col becco acuminato i capelli biondi del principe. Polonia è dritto, fermi i passi, le braccia incrociate dietro la schiena, i capelli liberi dietro le proprie spalle. Prussia sente lo sguardo dell’aquila nera su di sé. Non deve litigare col polacco, sa che non deve farlo. E, comunque, non ha ragione per farlo. Piuttosto vorrebbe scusarsi, i sensi di colpa lo attanagliano e s’accasciano sulle proprie carni. Si rivede ancora lì, in quella stanza bianca insieme ad Ungheria e ad Austria e si sente triste.

“Polonia, io… volevo chiederti scusa per… per quel che ti è successo, insomma…” sente di aver iniziato male. Non è abituato a scusarsi, anche se, questa volta, deve per forza. Polonia arresta le gambe e nemmeno ora l’eleganza è morta dentro di sé. Prussia pensa che ora somigli molto ad Austria. Forse è per questo che, alla fine, si sono affezionati entrambi l’uno all’altro. Il falcone rosso volta piano la testa piumata e l’osserva interrogativo, eppure l’occhio serio e calcolatore rimane fra le palpebre gravi. Prussia deglutisce e sospira “So che queste cose non si dovrebbero fare. So che non avrei dovuto permettere una cosa del genere, ma, lo sai, è accaduto, e… beh…” perde le parole, si sente quasi patetico. Forse ha un po’ di rossore in volto. Polonia ha ancora lo sguardo di fronte a sé, muto. Prussia teme una sua reazione. Il vecchio pennuto, ancora sulla sua spalla, poggia gli occhi sui suoi. Prussia ne rimane rapito per un po’ e lentamente sorride piano “Vorrei che fra di noi non ci fossero conti in sospeso. Volevo… chiederti semplicemente scusa, Polonia” il falcone rosso volta ora lo sguardo sul biondo. Il polacco è ancora muto e fermo, non ricambia lo sguardo di Toris. Passano i secondi e il ragazzo sbuffa, indignato.

“Certo… dopo aver ucciso i miei soldati, distrutto Varsavia e dopo avermi eliminato dalla cartina geografica, tu mi chiedi scusa” afferma, pacato, ironico, cattivo. Ha una nota orribilmente prepotente e irata l’ultima frase. Prussia deglutisce ancora una volta. Si sente in trappola fra due fuochi, non sa bene il perché. E una piccola vena di paura s’ingrossa, piano, vicino al suo cuore. Proprio affianco alla sua anima. Il comandante non avrebbe voluto vedere Polonia, anche se morto. Avrebbe viaggiato per l’eternità nell’Inferno piuttosto che trovarsi con le spalle scoperte di fronte al polacco che lui stesso ha ucciso. Avanza, incerto, qualche passo verso il più piccolo. Polonia è ancora molto più basso e magro di lui. Da tempo non lo vedeva, non direttamente. Durante la guerra è riuscito a guardarlo in volto solo attraverso il suo cadavere sanguinante. Ha un brivido lungo la spina dorsale. Quel corpo morto, quegli occhi stagnanti e scuri, i litri di sangue addossati su ogni parte del corpo lo fanno sentire piccolo e colpevole. Prussia si sente colpevole. Polonia muove il collo, punta il mento sopra di sé, respira una grande boccata d’aria. Il prussiano non vede i suoi occhi, non vede che l’oro dei capelli e la pelle lattea “Perché?” Prussia sobbalza.

“C-Come?”

“Perché mi chiedi scusa?” Prussia rimane senza parole, confuso, messo all’angolo.

“Ecco…”

“Te lo dico io il perché” la voce prepotente di Polonia paralizza i suoi occhi cremisi. La sensazione di essere un condannato di fronte ad un giudice lo attanaglia, non gli permette di respirare. Il cuore fatica a tenere il passo coi polmoni chiusi, senza ossigeno. Polonia sembra paziente, controllato, sospira. Prussia sa che non è così, lo conosce abbastanza bene per sapere che non è così. Il biondo sospira ancora “Perché sei stato sconfitto, Prussia” gli occhi del comandante ricevono un lampo bianco di sorpresa “Perché tuo fratello è probabilmente sotto ad un cumulo di terra a far compagnia ai vermi” una palpebra sobbalza, scatta “Perché sei morto, Prussia. E perché ora ti trovi qui insieme a me. Perché non vuoi sentirti un vigliacco e non perché ti senti in colpa” ha un sobbalzo di rabbia nascosta. Prussia lo vede chiaramente, anche senza guardarlo in faccia. Polonia è sempre stato un bambino prevedibile. Eppure, ora anche lui è arrabbiato. Il ragazzo non ha il diritto di giudicare lui e suo fratello.

“Hey, questo non è vero!”

“Lo è totalmente!” deglutisce, Prussia. E, come ha detto il biondo, si sente un verme. La voce di Polonia è acuta e straziata. Non ricorda se mai l’ha visto arrabbiato. Il polacco non si arrabbia mai, preferisce nascondersi dietro a delle maschere e ingoiare il dolore. Non vuole perdere tempo ed energie in chiacchiere che forse non potrà mai vincere. Prussia non aveva bisogno delle parole di Ungheria per notarlo. Polonia ha voltato del tutto il corpo verso di lui. Il falcone sulla sua spalla è curioso e perplesso da ciò che sta accadendo. Prussia sente il proprio cuore diventare una poltiglia brutta e gommosa. Gli occhi saettanti, felini, furibondi del biondino, sanno di sale e sangue bollente “E che dovrei pensare?!” la voce ancora acuta e irosa “Tuo fratello mi ha ucciso. Russia mi ha ucciso. Tu mi hai ucciso!” il bianco attorno a loro assorbe la voce, l’ultimo urlo del polacco. Anche il corpo del comandante assorbe l’energia rossa e crudele dello strazio di Polonia. Ha brividi, non sa di cosa, lungo le scapole e dietro al collo scoperto. Il cuore per un attimo si ferma. Sospira più volte, il ragazzo. Non avrebbe voluto urlare “O-Ora spiegami come potrei accettare le tue scuse, idiota! Cioè, avrai avuto, tipo, le tue ragioni per ammazzarmi e uccidere il mio popolo…”

“Non abbiamo mai iniziato la guerra per uccidere qualcuno” un grido dentro la gola di Polonia, viene spezzato e, nullo, muore dentro i suoi polmoni. Le labbra sottili, schiuse, si serrano. Le palpebre ancora spalancate, ancora prese dai tremiti di sdegno. Come un blocco di cemento, come un’anima senza corpo, Polonia rimane tacito e statico. Prussia ha occhi irrequieti, non riescono a posarsi su quelli del ragazzo, né sulla sua divisa, né su Toris. È nervoso, nota il piccolo principe, ha paura di me, capisce. La mano guantata di nero passa, veloce, sui capelli biancastri. Indecise, le iridi pensano di puntare verso il bianco sotto di sé “Vedi, tu non sai cosa vuol dire avere l’umiliazione di aver perso la guerra più grande mai esistita al mondo” Polonia vede gli occhiacci sanguigni, prima preoccupati, ora cauti e presi dal ricordo. Non apre bocca “Non sai cosa vuol dire pagare tutti quei soldi, tanti soldi, e lasciare che Inghilterra e Francia ti strappino territori e carne dalle ossa. Forse pure lo sai, ma non sai che cosa vuol dire avere una continua crisi per più di vent’anni e… sì, costruire orologi a cucù… e venderli per due centesimi alle altre Nazioni stramaledettamente più ricche di te. Non sai nemmeno quante volte si ammalava West… Era… era uno strazio, Polonia” i tedeschi e i prussiani non sanno piangere, ricorda Polonia. Infatti, sente uno sbuffo quasi frustrato. Niente lacrime, niente rosso sulle gote. Il principe crede di capire molte cose “Poi abbiamo avuto delle buone idee, abbiamo creato armi nuove e più potenti e, alla fine, abbiamo deciso di iniziare la guerra. Per questo sono andato da Russia, per questo ti ho invaso” un altro sbuffo, la voce si fa più mite. L’aquila nera, imponente, con spalle larghe, raddrizza la testa, severa “Pensavamo di iniziare da te: eri il più piccolo, il più gracile, il più idiota…” questa volta a sbuffare è stato Polonia “…il più vicino e debole” il fiato del ragazzo si spezza “Dovevamo solo occupare la capitale, fare in modo che i politici e i soldati non potessero combatterci in futuro e averti dalla nostra parte. Volevamo creare una grande Europa, con a capo io e West, tutti insieme. Anche con Ungheria, Austria e, già, anche il piccolo Ita” una chiave d’argento apre una porticina dentro il cervello del polacco “Ma Russia deve aver avuto un motivo per… per ultimare il lavoro” Polonia si sente sgonfio di una rabbia, nemmeno del tutto nata. Sospirano insieme.

“Cioè, credevo che lo sapessi: russi e polacchi si odiano. Russia ce l’aveva ancora con me per la guerra del ’19” uno scatto e una scintilla argentea brillano negli occhi di Prussia. Il nervosismo e il pentimento cadono, vengono mostrati sotto un riso sguainato del più grande. Parte di sé non è ancora del tutto calma. Si sente ancora un verme, ancora non è stato perdonato. Lo sghignazzo ora è una risata. Ricorda molte cose di quel tempo. Ricorda che non dovrebbe ridere, ma piangere. Non c’è mai nulla di buono in una guerra. Prussia avrebbe dovuto saperlo secoli prima. Eppure solo ora se ne rende pienamente conto. Polonia, stanco, abbozza un sorriso triste. Di quel periodo non ha nessun ricordo felice. Toris piega il capo verso di lui. Non comprende. Già… Ho sempre pensato che Liet avrebbe dovuto vivere insieme a me, come nella Confederazione… pensa dentro di sé, senza sospiri, senza alcun tono di voce. Senza lacrime, senza emozioni. Prussia smette di ridere, le labbra si abbassano. Ricordano qualcosa che avrebbero voluto dimenticare.

“Diavoli, Polonia… Credimi, almeno prima di morire avrei voluto sapere che fine abbia fatto il tuo amico” Prussia si rivede nel buio della stanza. Tra la muffa e la polvere, con Gilbird sulla sua spalla. Col sangue sulla sua divisa. Aveva visto i tre Baltici, ricorda. Sforza la memoria, ricorda. Ricorda di aver visto, nell’oscurità, fuori dalla finestra, Lituania. Lo ricorda bene. Ricorda anche le risate sprezzanti contro il gigante bianco. Gilbird pigolante di paura. Lo sparo. Il collo spezzato. Deglutisce, sente la saliva e la bile dentro la trachea e con grande sforzo non si sfiora la gola. Polonia sospira, non ha bisogno di sapere come stia Liet. Involontariamente, un lieve sorriso impregna le labbra del ragazzo.

“Quindi… quindi anche tutti quanti hanno saputo quel che mi è successo…” un filo di tensione si spezza. Prussia ghigna e annuisce, i denti bianchi e appuntiti sporgono fuori dalle labbra “Come l’hanno presa Austria ed Ungheria?” Prussia si mordicchia il labbro sottile. Riflette per pochi attimi. Ricorda. In un’altra occasione avrebbe sbuffato e chiuso il discordo con un’alzata di mano. Non gli era accaduto nulla di magnifico, al contrario. Ma ora ha Polonia, occhi curiosi ed infantili, un piccolo nanerottolo che nemmeno gli raggiunge il petto. Prussia tossisce e la risata acuta fa sobbalzare il piccolo Toris, affatto abituato.

“Mi ha rincorso per tutta casa per prendermi a padellate” gli occhi di Polonia brillano come quelli di un bambino, ascoltata una storia mai sentita prima. Senza rendersene conto, iniziano a passeggiare nel bianco del nulla, cartaceo e vuoto. Il più piccolo lo guarda interrogativo, i denti indecisi se scoprirsi o meno. Prussia ritorna ad aggredire il labbro “Sono serissimo! Sapevo che gli ungheresi fossero pazzi ma… Vedi, ora di racconto: dovevo dare la notizia a Vienna, da Austria. Mi aspettavo di trovare solo lui, allora sono entrato, come sempre, nel retro, nelle cucine. E sai chi c’era lì? Ungheria, a cucinare! E lo sai un’altra cosa? Già sapeva che avevi tirato le cuoia!” esclama per ultimo Prussia, alzando la testaccia nivea e roteando gli occhi al cielo. Polonia, ancor più impaziente ed incredulo, fa scattare la fronte bianca in avanti.

“Lo sapeva già?” Prussia annuisce quasi scocciato, roteando ancora gli occhi con un cipiglio nello sguardo che ricorda guai “E che è successo, poi?”

“Ha iniziato a parlare e ad insultare il Magnifico, come al solito con ‘Ma come hai potuto farlo?’ e anche ‘Ma sei andato ubriaco in guerra?’ e alla fine è finita con ‘Ti ammazzo, maledetto prussiano!’ e così ha iniziato a rincorrermi… e dato che era in cucina, come ti ricordo, si è portata dietro una padella. Bollente…” Prussia fa strascicare verso il mento il labbro. La sua paura e il rancore del ragazzo sono morti sotto le risate di Polonia. In un’altra occasione, il comandante lo avrebbe afferrato per i capelli. Irritato, il prussiano alza il braccio, riuscendo a farlo tacere. Le risa brillano fra i denti del principe “Già. Correndo correndo siamo arrivati fino al salone. E lì c’era la Signorina Austriaca a sorseggiare tè. Ovviamente non poteva che notare la mia magnificenza e si è alzato da tavola”

“Lo sapeva anche lui?”

“Certo, se lo sapeva quella pazza di sua moglie, allora doveva saperlo anche lui”

“E che è successo?” il labbro straziato di Prussia ritorna piatto e le sopracciglia cadono. Una perla di sudore, cristallina e pura, rimembra del ricordo, scivola fluida lungo la guancia.

“Non me l’aspettavo proprio: ha preso il fucile sopra al camino e ha cominciato a spararmi” Prussia rialza gli occhi al cielo, non volendo vedere la reazione del più piccolo. Le labbra di Polonia si schiudono, fanno uscire i denti. L’eccitazione scarica scintille nel proprio cuore e il cervello prova a vedere la scena appena raccontata. Immagina Ungheria. Immagina la gonna balzante nella corsa, gli occhi di fuoco che ha già visto in passato, i capelli onde al vento e l’arma nella mano. Gli viene quasi da ridere. Immagina Austria. Lo immagina arrabbiato. Non gli è difficile, l’ha già visto furioso vivendo a casa sua. Ma non riesce assolutamente ad immaginarlo con un fucile in mano. Non ricorda di aver mai visto l’aristocratico con un’arma tra le dita. Si chiede come sia essere inseguiti dai due sposi, furiosi entrambi. Il brio della narrazione lo fa tremare di felicità. Toris, sulla sua spalla, sbatte le ali, indignato per il movimento improvviso.

“E com’è finita?”

“E come dovrebbe finire? Il Magnifico Prussia ha dovuto fare una ritirata altrettanto magnifica. Meglio non mettersi in mezzo fra moglie e marito, credimi” una nota di rimpianto giace nella voce di Prussia. Polonia, ancora eccitato, non nota nulla.

“Scommetto che Ungheria ti ha preso. Ha una mira perfetta, mica come la tua, eh” lo sguardo malandrino, quasi serpentino di Polonia viene messo a tacere dagli occhi vermigli del prussiano. Orgoglioso e superbo, alza il mento. Altre gocce di perlaceo sudore rigano la fronte e le guance.

“Ma che diavolo dici? Ovvio che me la sono cavata alla grande! Sono o non sono il migliore?” col mento alto, lo sguardo fiero, ma il sudore copioso e tremante fra le ciocche di capelli, Prussia si massaggia poco sotto il fianco. Sente ancora la natica infuocata e il ferro incandescente della padella sulla pelle e sulla spina dorsale. Per colpa sua non ha potuto sedersi per due mesi. L’ha maledetta e ha maledetto il suo inutile ed insulso marito. Anzi, ex marito. Ritorna il ghigno sulle labbra e il canino torna a brillare e a scintillare di orgoglio. Spento, smorzato, le labbra lo ricoprono: quel maledetto di un polacco ritorna a ridere di gusto.

“Cioè, col cavolo che ti credo!” e ritorna a ridere. Riguarda la scena nella sua mente. La rivede ancora una volta. E ancora una volta. Rivede Prussia correndo lungo il giardino della villa di Vienna. Lo vede in modo abnorme, comico, ridicolo. Lo sente urlare come una fanciulla terrorizzata, correre, inciampare nei rami e le radici degli alberi e venire colpito. Polonia immagina già dove, ha visto il movimento per nulla discreto del prussiano. E ride ancora più forte. Nemmeno con Toris ha mai riso così tanto dopo la sua morte. Si sente felice e forse più confortato. Prussia non gli è mai stato simpatico ma, in qualche modo, lo fa sentire più vivo, felice. A casa.

Smette, chiede altro, chiede più notizie. Prussia accetta di raccontare. Di Italia sapeva ben poco: era West quello più vicino a lui e quello con cui aveva più rapporti. Non ha potuto dargli notizie di Polonia. Ma ricorda gli occhi tristi e il dispiacere nel dover nominare in continuazione i suoi territori, poi in mano tedesca. Gli occhi scuri, il sorriso insicuro, il ricciolo al lato della testa molto più smorto. Le spalle cadenti. La testa verso il grembo. Sapeva che erano amici e non c’era bisogno per Prussia di immaginare la reazione dell’italiano. Polonia ascolta e annuisce silenziosamente. Anche per lui Italia ha sempre avuto un cuore grande e docile. E’ grato di sapere che gli sia interessato di lui, che in qualche modo gli mancasse. Prussia continua. Involontariamente, la morte del ragazzo ha creato indignazione in Europa. Persino Francia ed Inghilterra, che avevano deciso di non intervenire, erano rimasti increduli per quel che è successo. Forse avevano avuto paura di loro due, di lui e di West. Forse per questo che Francia aveva deciso di aprire il suo territorio, senza spingersi fino alla fine, senza rischiare l’inevitabile. Ma Inghilterra non era codardo, non ha mai abbassato la testa di fronte a loro. Si è spinto al massimo, ha dichiarato Francia un codardo ed è andato per la sua strada. In qualche modo ha vinto e lui è stato la loro prima vera sconfitta.

“Poi siamo cominciati sempre più a scendere. Pensavamo anche di togliere dai piedi Russia, ma vedi com’è finita, alla fine” dice, scrollando le spalle. Polonia ha ascoltato ogni parola. Ha già saputo tutto da Toris, ma raccontato da Prussia è diverso. Forse perché è più concentrato del solito sul suo racconto, forse lo vede in modo diverso da come lo vedeva alla reggia di Vienna o forse perché un barlume rossiccio brilla nelle sue iridi, ma il biondo ascolta con piacere. Prussia sembra più uomo e autoritario ora, col petto alto e i passi fermi. Ferma il racconto. Polonia alza gli occhi. Prussia non ricambia lo sguardo. Le iridi forti e vermiglie sono ferme lungo il bianco dell’infinito. Non si scrollano dall’orizzonte e non vogliono farlo. Il principe immagina che voglia dirgli qualcosa, ma si ferma, pensieroso. Toris bacchetta sulla sua tempia, piano e cauto. Voltata la testa, il falcone gli punzecchi il braccio. Polonia ubbidisce e lo alza. Il pennuto ha occhi concentrati. Si fa strada oltre il gomito del polacco ed incontra la pelle esposta. Continua a marciare, badando agli artigli acuminati ed incontrando il polso coperto dal guanto. Col becco apre le falangi incerte e le unghie s’appoggiano sulle dita più lunghe. Con l’equilibrio ristabilito, Toris lo fissa, forte nello sguardo. Polonia non è perplesso. Polonia ricorda.

 

“Sono mortificato per quest’incidente, ammetto che non era nemmeno nei miei piani”

“Ti sei anche scusato a sufficienza, russo. Ti concediamo la metà del territorio, ma che non riaccada più, se deve riaccadere di nuovo”

 

Rivede il piccolo pulcino fra le sue dita e il mondo mutare attorno a loro come carta colorata. Le strade della città macchiata di ciottoli scuri e il cielo colorato d’un azzurro quasi marino. L’aria di città e i pigolii del piccolo Toris. Vede di nuovo i tre uomini di fronte a lui. Vede la divisa sovietica di Russia e le mani imbrattate di sangue. Lo sguardo di disprezzo del prussiano e l’indignato del tedesco. Nessuno di loro due voleva la sua morte. Polonia sa di aver capito qualcosa di importante. Il falcone rosso agita le ali e, veloce, ritorna al suo posto, sulla spalla del ragazzo. Polonia pensa ancora a quel che aveva visto anni fa e crede che abbia fatto un grosso errore. Ricorda meglio: Germania e Prussia avevano fatto a cambio di ruoli durante quella guerra. Il minore guidava l’esercito, il maggiore la politica interna. Ricorda di averlo sentito da Inghilterra e Francia, quando erano venuti a casa sua per avvertirlo. Non aveva creduto nemmeno a loro. Ora ricorda meglio: Germania lo aveva invaso. Ricorda di averlo visto, così come aveva visto Russia nei suoi ultimi attimi di vita. Ma Prussia non c’era, probabilmente a Berlino. Proprio questo, accanto a lui, passa una mano fra i capelli, sospirando in cerca di parole.

“Senti, Polonia… Te lo ripeto: non volevamo uccidere nessuno, nemmeno te” le parole s’impiastricciano, poco abituate, fra la lingua e le labbra. Polonia alza gli occhi, così come fa Toris. Un angolo del labbro s’alza commosso verso l’alto. Trova Prussia patetico e ridicolo. E forse per questo sorride “Volevamo, sì, occuparti, ma poi basta. Non era necessario e non volevamo cancellarti dalla cartina geografica. Credimi, ci ho pensato seriamente in questi anni e penso che hai ragione ad essere arrabbiato…”

“Prussia, falla finita e stringimi la mano” gli stivali delle due divise smettono di sfregiare il bianco della carta. Il guanto piccolo e un po’ largo di Polonia si alza. Le dita tese verso il prussiano. Perplesso e cauto, il comandante posa gli occhi sul sorriso calmo del ragazzo “Mi hai comunque eliminato dal mappamondo” Prussia deglutisce “Ma faremo, tipo, finta che la cosa ora non ci interessi. Credo che dovremmo smetterla totalmente di farci guerra anche qui. Che ti pare?” la mano più piccola viene stretta violentemente. Polonia quasi ode la propria pelle strapparsi e le ossa inclinarsi e spezzarsi. Gli occhi verdi sono spilli sbigottiti e i tremiti sulla spina dorsale ora sono briciole di panico. Prussia stringe troppo forte e con troppa fretta la sua mano. Polonia guarda attonito il ghigno soddisfatto e rassicurato del prussiano e non sa che pensare.

“Idea magnifica, Principessina!” e la mano viene sbattuta lontano da loro. Polonia ha temuto di seguire con l’intero suo corpo il braccio volato via. Ancor più che incredulo, osserva la camminata baldanzosa del comandante. Non ascolta ciò che dice, temendo troppo per la mano dolente. Muove veloce le dita e nota che nulla è rotto o fuori luogo. Però il dolore e la sorpresa l’hanno preso di sfuggita. Prussia continua la camminata e pare volare nel bianco tanto è felice e libero dal brutto pensiero ora risolto.

“Ti muovi o no? Il Magnifico non può aspettare!”

Polonia, a malincuore, deve corrergli dietro.

 

 

 

 

 

Le ginocchia hanno fremiti così forti da far tremare i braccioli e le gambe della sedia. Il pavimento scuro accoglie l’ombra di Estonia e la inghiotte nel buio della stanza. Ingorda, spietata, dura, sbrana anche il coraggio del ragazzo, la stanza spoglia e morta. La puzza di sali e terra è assillante e punzecchia le narici e il respiro sussultante. Il freddo penetra fin dentro lo stomaco del biondo, senza vestiti, i vestiti regalatogli da Russia, quasi del tutto nudo come un neonato. Le spalle non hanno solo brividi di freddo. E mai il respiro e i sussulti sono stati così tanti, dopo tutti questi anni di pace. La pace appena uccisa e perduta. Estonia vorrebbe nascondere il volto in grembo, e il corpo ancora non comprende di non poterlo fare. Di essere paralizzato dal terrore su di una sedia. Di essere legato come un condannato.

La rivoltella, appena caricata di nuovi proiettili, scatta dentro il metallo della pistola. La debole lampadina del seminterrato, dove Polonia ha dormito la scorsa notte, è un tormento di cigoli e di luci maledette. C’è poca vita anche nella lampadina avvitata male che scarica a stenti l’energia nel vetro ed accende e spegne la propria essenza, come un soldato ferito indeciso se vivere o morire in pace. I guanti neri e caldi di Russia passano fra le linee di metallo dell’arma, ammaliato e pensante. Il cappotto pesante, fermo, quasi vorrebbe toccare terra. Estonia, ora più che ora, sente ancora più freddo.

“Bene, Estonia, vediamo se riusciamo a rinfrescare la tua debolissima memoria” pare una filastrocca, una barzelletta ironica e disumanamente dolce, quella che pronuncia Russia. Ha qualcosa di familiare ma comunque insolito, la sua voce. Il generale è tornato spietato e maligno. Estonia se ne rende conto e dentro di sé piange, più di quanto abbia fatto ore fa, quand’era giorno, quando il russo l’ha spinto e legato là dentro. Quando l’ha abbandonato lì, con la pancia vuota e i tremiti di freddo. Non ha provato nemmeno a liberarsi. È inutile e quasi giusto. Fosse stato Russia, Estonia avrebbe fatto lo stesso. Non avrebbe mai sputato sul cambiamento del proprio padrone. Gli mancano i suoi occhiali, più di qualsiasi altra cosa ora. Forse più di Lituania e Lettonia, ma non ne è certo.

La lampadina forse decide di morire e di lasciare la propria anima. La lucerna si spegne piano e, cauta, chiude gli occhi al mondo, forse per sempre. Il buio ritorna mastro di questo buco nel terreno e il ragazzo sente la paura strisciare, come aggrovigliato da serpenti. Sente le loro squame ruvide e ghiacciate sulla sua schiena e i tremori raggiungono anche le braccia. Russia, al buio, camminante verso di lui, oscuro e misterioso, gli sembra un mostro pronto a strappargli le carni. E lui è la sua preda preferita, gettata apposta come sacrificio in questo stanzino. L’istinto lo precede ed appiattisce la sua schiena all’indietro, contro il legno freddo ed instabile. Il cuore pulsa come una rondine in gabbia: Russia si è fermato. E la pistola è in mano sua. Di nuovo. Estonia deglutisce e il buio fa di lui una carcassa piangente. Vorrebbe scappare e non tornare mai più qui, in questa casa. E dimenticare tutto e tutti. Le mani di Russia carezzano piano ed incerte il metallo fra le dita.

“Dimmi: Lituania e Lettonia dove sono andati con quel cadavere?” come ore fa, come quando il sole riusciva ad entrare dalla botola sopra di sé, come quando i suoi raggi arrivavano a penetrare nel buio, accarezzandogli la carne fredda, Estonia tace. Reprime il gemito di paura ed esasperazione. Non sa da quanto tempo sia lì, ma sente la testa girare e le ossa indolenzirsi sotto le strette corde della sedia. Il legno dov’è imprigionato trema insieme a lui. Russia ha atteso fin troppo e la sua figura imponente annuisce sommessa. Estonia guarda in alto e gli sembra di vedere gli occhi brillanti della bestia di fronte a sé, avvolti dal buio della notte senza luna né stelle “Bene, allora dovrò essere cattivo anche ora” anche se con la stessa aspettativa, Estonia trema e tira su il naso. Non ha idea di cosa voglia fargli ora.

La schiena si è reclinata ancora più indietro e le ciocche bionde sfiorano il muro dietro di lui. Non toccano pietra fredda. Estonia vuole distrarsi, vuole pensare a qualsiasi cosa tranne che a tutto questo. Per questo volta piano il capo e sente bene la fragilità di ciò che ha dietro. Gli occhi toccano il muro e riescono a vedere, anche se senza luce. La grande e larga cartina dell’Europa comprime la pietra scura della stanza e si poggia piano dietro la testa e il collo del ragazzo. È confuso, ma consapevole, Estonia. Russia ha fatto di tutto per farlo parlare, ma questo è strano. E proprio perché è qualcosa di mai visto prima che lo fa temere per la propria vita. Russia fa dei passi indietro. L’ombra scura s’adagia anche sugli occhi violacei.

“Bene, se non vuoi parlare allora parlerò io!” fanciulla, bambina è la sua voce. Il ragazzo non la ode da anni questa ragazzina maledetta e riascoltarla è come un pugno da parte di Lituania, oppure vedere la propria bandiera bruciare tra le mani del nemico. Gli occhi stanchi e provati di Estonia bruciano e le palpebre diventano impercettibili filamenti di carne. Ha paura, tanta paura. Eppure non si libera. Sa che è inutile, questo l’ha imparato con anni ed anni di torture. La pistola passa di mano in mano, giocosa e puerile fra le dita avvolte nel nero. La cicatrice dell’uomo pulsa e s’infiamma di dolore. Sotto il guanto, sotto le bende, si è aperta e presto avrà un’altra sorella ad accompagnarla.

“Dunque, questa volta ti spiegherò qualche mia ipotesi” ancora immatura e mielata, questa voce comincia a far male. Fa male risentirla. Più tremiti e voglia di scappare. Con un guizzo la sicura scatta. Una pugnalata nel povero cuore del ragazzo “Il treno può essersi diretto a Minsk, in Bielorussia…” il braccio, veloce predatore, salta in avanti e il grilletto viene premuto. Urla non è riuscito a trattenersi: il proiettile si è lanciato poco lontano dal suo braccio. Questo sussulta e perde i fremiti per poco, per poi ricominciare con più disperazione. Estonia guarda il proiettile conficcato nella cartina e Minsk scompare, bruciata dalla lama rovente, appena scomparsa dentro al muro. Estonia, incredulo e miserabile, non può credere a quello che sta vedendo. La gola brucia e i polmoni pretendono molta aria, anche se la gola disidratata secca la propria angoscia. Pochi secondi e la rivoltella scatta ancora “Oppure a Kijev, in Ucraina…” la voce rimbomba fra le quattro mura come un eco maligno e divertito. Estonia urla e sobbalza dalla sedia: il proiettile, caldo e doloroso, ha toccato la propria pelle e la spalla inghiotte quel male insopportabile. Urla ancora di dolore, tanto il bruciore è potente, tanto sangue vede sgorgare dalla ferita, anche se superficiale. Estonia non può credere di essere così debole.

Paura.

I passi di Russia sembrano comprimere e spezzare la pietra sotto i propri piedi, impaziente e forse infuriato. Cuore battente, cuore di un coniglio, quello di Estonia. Il generale, calmo, quieto come colui che sa di vincere, ma che in sé non lo desidera, si porta dinanzi al poveretto. E questo ragazzo trema fin dentro l’anima e le lacrime cristalline pretendono di essere libere di soffrire anch’elle, ma fuori dalle iridi bollenti. Russia, mantello d’oscurità di fronte ad Estonia, si fa attende poco e per l’estone è come aspettare la morte con la falce nella destra e la propria testa bionda e insanguinata nella sinistra “Oppure potrebbe essere andato nel Baltico, forse a Tallinn, in Estonia, per un motivo che ancora non so” e conclude ora la voce, non più bambina né ingenua. E il tono adulto ferma i sussulti del cuore. Ma teme di farlo piangere e gridare, Russia, alzato il braccio. E la canna della rivoltella ferma poco più sopra del naso dell’estone. Fra gli occhi, dietro di lui, Tallinn è riparata dal corpo gracile e penoso del ragazzo. Il metallo della pistola non lo tocca, ma Estonia sente comunque il freddo della morte strisciare nelle sue vene. Né bambino, né adulto, Russia si piega piano verso il ragazzo e le labbra sorridenti sembrano brillare come il viola dei suoi occhi. Bestia, crudele, tradito, sussurra al suo orecchio, al povero ragazzo “Mi sto avvicinando, Estonia?”

Estonia non trema più, ma lo fanno i suoi occhi gonfi e rossi “Mi perdoni, non me lo ricordo. Non… non credo di saperlo” pure la voce, con la schiena, si appiattisce, allarmata. La figura gigantesca del russo pare un orso pronto a morderlo e a strappargli carne e pelle con i denti mordaci e seghettati. Il sorriso del mostro muore e pare molto più brutale. Gli occhi brillano per il rancore e la ferita ancora aperta dentro al proprio cuore. Russia non avrebbe mai accettato tutto questo, non fuori da queste quattro mura. Il corpo si rialza, le iridi violette sono fari di luce in quel buio senza anima. Attesa, terrificante ed orribile attesa. Russia sembra pensare a tutto e a niente. E la pistola scende piano.

“Vi avrei dato la mia anima…” non ha nulla, la sua voce. Ancora non ha nulla e non è nulla. Estonia potrebbe credere di aver sentito male. Alza gli occhi con timore e i lampi tra le palpebre sottili di Russia sembrano pretendere la carne del ragazzo “Perché mi avete tradito?” è un soffio innocente, piccolo, dolce, crudele, ingannato, carico di collera repressa e di aspettative bruciate questa mattina. Estonia abbassa gli occhi, compreso tutto. In qualche modo, sente di essere lui l’artefice di ogni cosa. Non avrebbe mai fatto tutto questo, non dopo il cambiamento avvenuto nell’anima di Russia. Gli occhi, affranti, pieni di rancore, tra le spire delle palpebre, sembrano urlare il proprio dolore “Cosa ho sbagliato, ora, Estonia?”

Estonia vorrebbe piangere e le lacrime riempiono gli occhi blu, macchiati del rosso delle vene. Vorrebbe rispondergli e dirgli qualcosa. Sente di aver sbagliato tutto, di aver ingannato per anni Russia, anche se diventato buono. Sente di essersi maledetto per l’eternità. Ogni cosa, distrutta o rovinata, mai potrebbe cambiare. Non si può tornare indietro, ma il ragazzo lo vorrebbe fare. Vorrebbe aver impedito a Russia di ritrovare il cadavere di Polonia. Vorrebbe aver impedito a Lettonia di acconsentire di celebrare funerale. Vorrebbe poter ritornare nella loro stanza e di chiuderla a chiave, per fermare Lituania, per impedirgli di raggiungere il corpo del suo amico. Qualche lacrima, piccola e pentita, lascia le ciglia e cade, sbatte contro il grembo di Estonia e scivola giù, sul legno della sedia. Le ciocche bagnate di sudore si sporgono dov’è caduta la goccia salata. La invidiano e l’ammirano.

“Però mi avete comunque tradito” gli occhi, prima lucidi, ritornano sfere di vetro, spalancate e fredde. La nuova voce di Russia fa più male di quella fanciullesca che conosceva “Credo che tu sappia che in Russia il tradimento è punito molto più duramente dell’omicidio” ritorna, non il tono di bambino, ma la rabbia nascosta del generale, adulto e crudele. La rivoltella è ferma nella sua mano, ma pare tentennare nel calare sul cuore del ragazzo “Sai, credo sia più credibile che siano andati a Riga, in Lettonia. Se bisognasse prendere un’altra ferrovia o un’altra strada, sarebbe conveniente andare dritti al cuore” e il cuore vero, battente, terrorizzato di Estonia, dietro alla canna della rivoltella, sbatte forte contro la cassa toracica, desiderando fuggire da lì. Il corpo, invece, ancora pentito, ancora indignato di sé stesso, è immobile come la cartina dietro le spalle dell’estone. Debole, quasi piangente, Estonia non fa nulla, né dice nulla. Accetta ed è pronto per essere sparato.

Il barlume lo prende, appena poggia gli occhi su quelli luminosi di Russia. Non brillano, né sono carichi più di odio. Lo guardano nel buio e carezzano piano le lacrime di Estonia. Un abbraccio caldo e straziante soffoca il ragazzo. Ricorda il dolore. E altro.

 

“Estonia…” il sussurro morto esce fuori piano dalle labbra screpolate, strappate dal vento e dalla neve, maligne e pericolose per il ragazzo nel letto. Estonia rabbrividisce e un frammento di cuore si spezza e si abbandona al freddo della sua carne. Estonia si sente freddo più che mai e non lo dicono solo i suoi occhi, calmi e severi. Non parlano solo loro. Il biondo ha passi affatto forti, affatto prepotenti. Tristi e fragili, le proprie ossa rimangono ferme vicine al letto. Il maggiore, pallido, stanco, provato, poggia gli occhi lucidi su di lui. Sa di ghiaccio e di inverno, lo sguardo di Estonia. Sa di morte e calore, quello di Lituania.

Estonia è muto, ma Lituania legge e comprende. Il corpo rigido ed immobile, proprio di fronte a lui, pare pietra insensibile e apatica. Gli occhi blu hanno il sapore delle scure gemme di zaffiro abbandonate in una caverna vuota. Vorrebbe essere forte, Estonia, ma ha paura di esserlo e di sbagliare un’altra volta. Si muovono gli occhi blu e gli zaffiri dimenticati brillano di orgoglio, di debolezza, di falsa insensibilità. Estonia è provato e non vuole mostrarsi in questo modo, non dopo quel che ha fatto il fratello per dimenticare il dolore.

Lituania sente le braccia cucite. Muove piano le stanche dita. Queste tirano la carne sopra le vene e le ossa. Sente pigramente la debolezza del proprio corpo e del proprio spirito. Si sente vecchio, malato, ma non sofferente. Quest’ultima sensazione è scomparsa del tutto da sé stesso. Ed Estonia lo guarda e le iridi chiedono, quasi pretendono di vedere qualcosa che si possa muovere in questa stanza dimenticata e cupa. Vorrebbe che uno dei due parlasse e che iniziassero a litigare e ad insultarsi. Lo preferirebbe al silenzio di stasi di ora.

Il maggiore non riesce a parlare, ma gli occhi azzurri si liberano della stanchezza e le palpebre si aprono forti e decise. Non c’è vita né luce nelle iridi di Lituania e il fratello spera che non abbia perso ogni cosa col suo gesto. Ancora silenzio, ancora gli occhi del moro sono posati sui suoi. Estonia non sa cosa dire e sa che Lituania non ha la forza per dire nient’altro che il suo nome. Aspetta ancora. Pensa di lasciarlo lì dentro, di chiudere la porta e di far rinascere il buio in questa stanza. Sarebbe una piccola ma lieta vendetta. Vorrebbe che il ragazzo soffrisse, solo perché ha fatto soffrire lui. Ma pensa a Russia e alla sua promessa e pensa di non fare nulla.

Il braccio fasciato, tremante per il dolore, s’alza e si poggia. Estonia ha un tremito nell’animo quando le sue dita si intrecciano con quelle del fratello. La mano di Lituania è fredda ed ossuta. L’istinto fa muovere le sue dita e prova a scaldare le ghiacciate del fratello. Ora i suoi occhi sono ghiaccio sciolto. La luce degli occhiali rende incandescenti le sue iridi. Le ciglia sono erbacce sbattute contro il vento. Posa di nuovo lo sguardo su quello del fratello e capisce. Le ginocchia cedono, commosse, e cadono piano sul pavimento duro. Gli occhiali lasciano il loro posto dal viso. Ora la fredda pietra che era è diventata bollente raggio di sole. Estonia brilla di commozione mentre la mano del fratello percorre il proprio volto e i capelli spettinati. Passa alla guancia e il pollice troppo magro asciuga dolcemente una lacrima pesante. Lituania vorrebbe sorridere, ma non ci riesce e forse non dovrebbe per il ricordo del suo animo malato, ora guarito. O sul punto di guarire.

Estonia ha l’anima bollente di tenerezza. Vede il proprio fratello e lo riconosce come tale. Sente di vedere per la prima volta dopo mesi il vero Lituania. Le palpebre squarciate sono stanche e vogliose di sonno, poco il sangue e la forza di muoversi. Ma Lituania è tornato buono, dopo aver salutato Polonia. Il braccio cade con calma dietro la nuca del più piccolo. Lo tira dolce a sé e il letto si riempie anche di Estonia. Guida il corpo del più piccolo sopra al suo. Conduce la testa verso il proprio cuore e la mano verso la propria mano. L’anima di Estonia si crepa e la fornace nel suo cuore straripa di calore.

Sopra al letto, addossato sul fratello malato, piange. Le lacrime sono salate, il corpo un fremito di battiti e di un cuore morto per l’ira troppo forte per lui stesso. Estonia non odia più Lituania. Sente di amarlo e di volerlo proteggere più di quanto abbia fatto in tutta la sua vita. Anche il cuore si spezza e getta via il sentimento di rancore verso il fantasma del principe, la rabbia verso il fratello e l’esasperazione nell’essere il nuovo cuore per loro tre, tristi e soli. Estonia dimentica ognuna di queste sensazioni e viene calmato con le dita del maggiore fra i suoi capelli. La mano gracile cade dietro la nuca e culla con le dita le ciocche bionde dell’occhialuto. Sente odore di sale sulle coperte e sulla propria pelle. L’altro braccio si muove e sfiora il pugno chiuso, dolorante per il caldo, di Estonia. Le dita, sorelle fra loro, s’intrecciano e si stringono forte, o quanto più possano fare le loro compagne più chiare e sofferenti. Il biondo riesce a calmare le lacrime e si abbandona alle carezze del moro. Sospira di stanchezza e dolore, il ragazzo.

Lituania si sente fratello di Estonia. Estonia si sente fratello di Lituania.

“Ti voglio bene, Lituania”

Lituania non riesce a rispondere, ma Estonia sente e apprezza il bacio dietro al proprio orecchio. E l’amore verso il maggiore cresce come girasoli in estate.

 

Sobbalza forte, il corpo di Estonia. La sedia abbraccia il fisico gemente e spezzato. I gemiti, non più freddi, ma bollenti come fuoco incandescente, bruciano anche negli occhi. Le lacrime si liberano, fiumi infuocati, straziano le guance del ragazzo. Estonia vede la pistola tentennare e, incerta, allontanarsi piano da lui. Non è un’incertezza per il pianto liberato, Estonia non lo sa e ora lo ignora, sentendosi degno di una punizione. Ma non per incolpare anche i propri fratelli.

“M-Mi dispiace, signore” e la voce, singhiozzante e strascicata, abbandona vergognosa le labbra di Estonia “Mi dispiace per tutto questo. So che è stato molto buono con noi, ma… ma…” ancora strascichi e tentennamenti nelle lacrime. La rivoltella ora è lontana da Estonia “Non avrei mai voluto fare tutto questo. Ma… ma… è tutto molto più difficile” tira su il naso, si sente cattivo e disgustoso “Non l’ho voluto fare io. L-Lituania ha voluto partire, ma non l’ha fatto perché non vi vuole bene… Non pensate male di noi” un gemito lungo e altre lacrime più amare che salate “L’ha fatto per lui. Per Polonia” il nome del principe fa male ad entrambi “Perché è il suo cavaliere. Perché sono amici e perché si vogliono bene anche loro. Lettonia l’ha seguito perché vuole bene a Lituania e non voleva che gli succedesse qualcosa. Io… io l’ho fatto per loro due, perché non volevo che si facessero del male” piange e piange, ma il disgusto verso sé stesso è più forte “Non volevo che Lituania si sentisse male come anni fa. Non volevo che anche Lettonia soffrisse per colpa mia. L’ho fatto per loro, signore. Avrei potuto impedirli di partire, ma non l’ho fatto” tira su con più forza la bile che scende dal suo naso. non alza gli occhi, vergognoso “Sono io l’unico cattivo. Non faccia del male a loro, sono andati via perché non gliel’ho impedito” occhi ancora bassi, fermi i gemiti e i sussulti “Punisca solo me, sono qui solo per questo. Non faccia del male ai miei fratelli”

Russia ha qualcosa che non va, pensa Estonia. Pensa che nessuno mai in vita sua gli abbia chiesto di venire punito. Ma non è solo questo. Il ragazzo lo intuisce. Sente l’uomo di fronte a sé più quieto e sensibile. Sembra pensare a qualcosa. I secondi non vengono più scanditi e l’attesa diventa semplice tempo abbandonato e dimenticato. Estonia teme che il verdetto sui suoi fratelli sia diverso da quello appena pronunciato da lui stesso. Russia si scongela, ritorna in vita. L’estone lo sente e lo vede. Le ginocchia del gigante si chinano e si piegano sulle cosce. Russia incontra gli occhi del ragazzo. Il generale sorride e il cuore di Estonia cade sullo stomaco.

“Visto che alla fine me l’hai dimostrato?” un brivido di panico ingiustificato serpeggia tra le spalle del ragazzo. Non capisce. Gli occhi violacei dell’uomo ritornano seriosi e il sorriso muore un’altra volta “Ma mi hai comunque fatto del male. Devo punirti in qualche modo” il panico muore, consapevole della punizione e l’attende, col capo chino sul grembo. Altra attesa, Russia non muove un muscolo, le ginocchia ora stese e la sciarpa bianca, luminosa e pura. Lo sguardo di Russia è ancora fermo e adulto, ma non minaccioso. Avanza veloce, l’enorme mano, e la corda della sedia, stretta alla mano di Estonia, si srotola sul pavimento. Il ragazzo alza lo sguardo, incredulo, muto “Il resto fai da te” non aggiunge altro, il generale, ancora in parte arrabbiato. Estonia, ancora più confuso, si libera da sé. Passa ai piedi e ripensa alle parole di Russia. Cade un’altra corda e anche una barriera di confusione nel proprio cervello. Giorni più tardi, con un panno umido in mano, chino sulle scale della villa, ricordò.

 

“Anche se non puoi difendere nemmeno te stesso, potresti almeno provare a difendere qualcun altro”

 

Russia esce fuori da quel buco nel terreno e l’aria ghiacciata della notte brilla sulla sua pelle. Bielorussia, come immaginava, è fuori ad ascoltare. Lo sguardo torvo, confuso anch’ella, forse indignata per le sue parole. Russia non apre bocca. Né spiega, né vorrebbe essere compreso. Continua il cammino, finge semplicemente di non importargli ora di sua sorella. La ragazza, ancor più che incredula e confusa, rimane ferma dov’è stata vista. Vede suo fratello togliersi i guanti e tastare la nuova benda sul polpaccio della mano, per poi afferrare dalla giubba il fascicolo preso da lei stessa sulle partenze dei treni di quella mattina. Russia rientra in casa, nel suo studio, a rileggere le sue ipotesi.

Bielorussia, quasi arrabbiata, con passo pesante, ritorna nella casa per controllare ancora una volta Katja e le sue condizioni, sdegnata per la nuova natura di suo fratello. Ma quella sera si pentì di non essere stata insieme alla sorella maggiore. L’urlo s’infranse per tutta la villa. L’urlo di rabbia, di sdegno e di paura fu udito anche da Ivan. Si precipitò nella stanza e vide ciò che vide anche la sorellina. E l’incredulità e gli spiriti fraterni urlarono insieme come sorelle nella notte.

Ucraina era sparita.

 

 

 

 

 

Ungheria piano, materna e dolce, continua a canticchiare sottovoce, quasi all’orecchio di Polonia. Lo culla come una madre culla il proprio bambino. Il capo in grembo alla donna, i capelli d’oro carezzati sommessamente, ma il respiro affaticato e il cuore galoppante nel petto. Le lacrime e i gemiti bassi di terrore. Il pianto neonato tra le ciglia. Respira pesantemente, Polonia, che pare venire strozzato da un assassino. E Ungheria continua a cullarlo, con ancora più tenerezza. Il canto continua, purtroppo Polonia non lo sente. Ma capisce ugualmente. Capisce che lo stanno accudendo, che non è solo, che ha qualcuno che gli vuole bene. Non sanno bene cosa stia pensando il povero ragazzino, ma questo smette di gemere. E la mano gracile al petto cessa di stringere forte il cuore impazzito.

Ungheria continua, smette il canto. Italia, impotente, la boccuccia vacillante e gli occhi affranti, reprime l’agitazione. La donna, angelo di bontà, convince il corpo del polacco ad alzarsi. Inizia a scalciare, spaventato, confuso dal movimento improvviso. Altre carezze, altri gemiti bassi di un cucciolo strappato dal calore del proprio nido. Ungheria supplica alle braccia magre di portarsi dietro le proprie spalle. Polonia lo fa. Qualche lacrima bambina lascia le iridi smeraldine. Ha paura, glielo legge negli occhi vuoti. Italia riesce ad avvicinarsi. Ungheria acconsente. Il giovane servo, commosso, affonda lentamente la mano fra le ciocche dorate. Non lo sente ma lo vede, Prussia. Sono morbide come seta. Questo nuovo contatto spaventa il malato e il gemito acuto tronca il silenzio. Italia ritira la mano, preso di sorpresa, Polonia si stringe forte al nuovo calore e nasconde con immane terrore il proprio volto. Non capisce cosa o chi sia, ma sente che Ungheria sia buona, per questo affonda anche la fronte nel collo della guerriera.

Le ciocche brune vengono tirate indietro, in malo modo. Un gemito più forte affonda tra le pieghe del vestito della donna. Italia ha occhi gonfi. Si scusa. Ungheria è buona. Gli sorride. Non è stata colpa sua. Polonia piange ancora, più confuso, più bambino. Ha paura di quel che gli stia succedendo. Geme ancora, più piano, ancora attutito dal collo della guerriera. Ungheria ricomincia a cullarlo e a cantargli. Gli dice che andrà tutto bene, che non gli sta succedendo nulla di brutto. Che riavrà Lituania. Che ritornerà a casa. Polonia non sente una parola, ma smette di gemere. Ora è solo pianto, sconnesso e disordinato, ucciso nel collo e dai capelli morbidi dell’ungherese. La paura svanisce, ma il disordine nella sua testa c’è ancora, per questo continua a piangere.

Prussia guarda Italia, addolorato e vergognoso, e lo tira forte al suo fianco. Gli dà due pacche sulle spalle. Non è colpa sua quello che è successo. Prussia guarda Ungheria cantare e cullare il biondo e non capisce. Non capisce perché canti. Non serve, non la sente e non la potrebbe mai sentire. Ma lei è sempre stata testarda, per questo lo fa. Prussia comunque non capisce, così come non capisce perché Austria non sia lì con loro. Ma ora non è importante. Polonia è guarito, ma è stato strappato bruscamente dalla propria terra e questa è ormai morta. L’aveva detto ad Austria di non farlo, che non sapevano che cosa gli sarebbe accaduto, se sarebbe sopravvissuto. Ora lo sanno e l’hanno saputo con le urla del ragazzo e i suoi occhi terrorizzati nel vedere il nero attorno a sé e nel non sentire nulla, nemmeno la propria voce. Il medico è stato quasi crudele nel rivelare ciò che era accaduto, che era accaduto a Polonia.

“…Perdonateci, abbiamo fatto il possibile… Le condizioni fisiche sono state risanate… Ma il ragazzo è cieco e sordo, e probabilmente anche muto…”

 

Lo stivale di Prussia sbatte contro qualcosa di duro. Trattiene un sobbalzo di sorpresa. Fischi di metallo prezioso sbattuto sul pavimento di marmo. Eppure in questo bianco assillante non esiste nulla. Nemmeno il marmo. Nemmeno del metallo prezioso. Nemmeno la luce gialla e pura che tocca ciò che ha sbattuto. Polonia, più sveglio, affatto confuso per ricordi infelici del passato, reagisce più velocemente. Afferra da terra quella cosa. La alza, un sopracciglio biondo s’attorciglia verso il basso e la confusione è anche sua. Le dita fasciate nei guanti girano e tastano l’oro di quello che dovrebbe essere una piccola coroncina. Troppo piccola per lui. Per un bambino. Troppo piccola per un gatto e troppo grande per un topolino. Le gemme colorate gli bruciano gli occhi. Troppo tempo passato nel bianco. Strizza gli occhiacci di demone e anche Toris sembra fare lo stesso, ma senza confusione né perplessità.

“Ma che ci faceva qui?” chiede, ma Prussia non risponde. Il falcone rosso concentra la vista. Gli occhi neri e profondi si perdono nel suo riflesso macchiato nell’oro. Ora indifferente e scocciato, si scrolla e le piume s’arruffano tra il rosso e il nero. Polonia decide di ignorarlo “Perché non l’ho mai vista prima…?”.

La coroncina le viene strappata dalle mani. Polonia sobbalza e gli smeraldi ai suoi occhi diventano spilli. Anche il falcone sulla sua spalla ha temuto di lasciare la presa dal corpo del principe. Toris sibila, arrabbiato. Prussia ignora entrambi e la minuta coroncina s’incastra perfettamente nel suo pollice fasciato di nero. Sghignazza e ride, felice di aver trovato qualcosa per dimenticare altri ricordi. Giocherella e la passa da dito a dito. L’aquila nera è sparita. Ride forte e mostra al cielo la piccola meraviglia.

“Finalmente qualcuno capisce chi è il migliore qui!” si vaneggia e la tira in alto “Il sovrano di Prussia ha di nuovo la sua corona!” Polonia, incredulo e spazientito, sbuffa aria calda dalle labbra. Corrucciato, spalle cadenti, sospira. Vorrebbe controbattere e riavere indietro il piccolo tesoro che aveva in mano, ora eccitato per aver trovato qualcosa di nuovo in questo mondo cartaceo. Non ha il tempo di aprire bocca, né capisce bene che cosa voglia fare di sbagliato il comandante, ma gli occhietti sbarrati di Toris lo risvegliano. Ancora muto, il volatile sembra trattenere il fiato nel becco socchiuso, prima che si liberi. La paura traspare nelle piume frementi. Il sibilo di allerta fora un orecchio a Polonia. Guarda Prussia. Lo vede sul punto di indossare la coroncina. Non capisce lo sbaglio, ma lo vuole comunque impedire.

“A-Aspetta! Non sappiamo cos-!” ma il prussiano non lo ascolta e i suoi occhi vermigli si sbarrano come quelli neri di Toris. Guarda il nulla e sembra guardare il mondo, le guerre e il sangue del proprio popolo in una terra straniera. Ma non è la guerra che vede, né sangue, né il mondo. Vede Berlino, il cielo rosso, gli occhi di West che stonano con i suoi. Ricorda. Ricorda, anche se non vede bene. Ma sente chiaramente. La coroncina gli urla le parole e lo sdegno. E la pazzia. E il proprio cuore battente di paura. Di perdere anche suo fratello.

 

“Proprio così, West! Io, tuo fratello, ho firmato quelle carte! Che c’è vuoi rifarmi la ramanzina e dirmi che queste cose non si fanno? Sono tuo fratello, West, e molto più grande di te”

“…Perché l’hai fatto?”

“Perché siamo i migliori, West, e i migliori devono esistere soli al mondo. O si inchinano di fronte a noi, o muoiono. Così abbiamo fatto fino ad ora”

“Non ci posso credere… E tu mi hai ingannato per tutti questi anni…?”

“…Ingannato? No, fratellino, io ti ho reso il migliore. L’ho fatto per te, non capisci? Così non avrai nessun altro più in alto di te! Così nessuno ci farà più del male! Non capisci, West? Perché non capisci?! Almeno ora che ci stanno per uccidere, capiscimi, idiota! Non guardarmi in questo modo!”

“Ma ora è tutto più chiaro! Proprio ora che Berlino sta per essere presa da loro! Proprio ora che Inghilterra ci sta bombardando! Ora è tutto più chiaro! Tu mi hai mentito per quasi cinque anni. E solo ora me ne rendo conto!”

“No… non ti ho mai mentito. Solo quelle carte… solo quelle…”

“No, Prussia, non sono solo quelle carte! Mi hai sempre detto che noi siamo i migliori, che dovevamo governare il mondo solo noi due…”

“Infatti! Non ci siamo quasi riusciti?”

“Era tutto falso, Prussia! Non esiste quel che mi hai detto fino ad oggi. E il peggio è che ho dovuto vedere Russia fuori dalle mura di Berlino per rendermene conto! E ho dovuto vedere dei ragazzi gettati in una guerra inutile per proteggere questa città! Prussia, come hai potuto farlo? Io sono tuo fratello! Questo paese è governato da me e da te!”

“West, veramente, non ti ho mai mentito… Credimi ancora… Hey, non guardarmi così… West, West? Fratellino, che stai facendo?! Dove vai?!”

“Non ne posso più di bugie, Prussia. Se smettere di vivere in questo castello di carte vale a dire di arrendersi, allora lo farò. Mi consegno agli inglesi, non ne posso più di questa follia”

“West…? West, non andartene! West, idiota, torna indietro!”

 

Lo strappo è stato più prepotente di quel che credeva. L’aquila nera pareva ruggire nel cielo per l’indignazione del proprio protetto e l’ha colpito. La coroncina dorata balza via dalle mani del prussiano e rotola lontano da loro. Prussia sente il proprio cuore venire percosso tra le costole della gabbia toracica. Sordo, tranne che per il battito impazzito, respira con affanno. I guanti tremano e il capo cade verso gli stivali. Il rapace scuro atterra sulla sua spalla, elegante e saggio. Gli occhi blu, alti e possenti, osservano dall’alto il comandante. Lentamente, Prussia riprende il controllo di sé. Sussurra un ringraziamento al proprio compagno, che annuisce con piume ferme e occhi chiusi. Per un attimo ha dimenticato Polonia. Il ragazzo ha ripreso la coroncina e ora è vicino a lui. Prussia non immaginava che il piccolo fosse così veloce.

“Cos’è successo?” e vorrebbe piangere, Prussia, che sente il proprio cuore spezzarsi per la domanda indiscreta. E anche gli occhietti forti e severi del ragazzo lo spingono a tenere la testa abbassata. Con tutta la forza che ha in corpo, il comandante non versa lacrime.

“Non volevo tutto questo…” l’aquila nera riapre gli occhi e gli azzurri trapassano i vermigli del protetto.

“Eh?”

“Niente, non puoi capire” alza una mano e la agita, inducendo il biondo a chiudere il discorso. Ma Polonia vuole risposte e Prussia capisce che dovrà per forza averle “Quando ho poggiato sulla testa la coroncina, ho visto delle cose… cose della guerra. Cose brutte, Polonia” non piange, non geme, non singhiozza. Un prussiano non deve mai piangere. Soprattutto se il proprio maestro è vicino a lui. Polonia, confuso ed interessato, poggia di nuovo la coroncina sulla propria testa. Prussia non si aspetta nulla, per questo non si meraviglia nel vedere il turbamento del biondino. Non accade niente, il ricordo è scomparso, bruciato da egli stesso. O forse, semplicemente, non è il ricordo di Polonia, per questo non si mostra. Prussia passa l’indice sotto al naso, più velocemente di quel che credeva di poter fare. Si concentra per ignorare il dolore al cuore “E se ne cercassimo altri, di oggetti?” il falcone di Polonia già da un po’ ha iniziato ad occhieggiare nel paesaggio attorno a sé “Credo che troveremo qualcosa di interessante da vedere” anche senza parole, l’idea interessa al polacco.

Toris è più veloce e con un battito d’ali si alza in cielo e comincia la ricerca. Senza parole, con l’euforia negli occhi verdi, Polonia comincia a correre dietro al volatile. La coroncina viene nascosta discretamente dentro alla tasca della divisa verde. Non gli parla, non lo guarda. Prussia, ora, non vuole essere nemmeno notato. Insegue il ragazzo e chiude la bocca. Anche l’aquila si alza in volo, ma piano muove le piume e altrettanto piano raggiunge i due che, curiosi, si sono fermati in un altro spazio bianco e vuoto. Prussia ferma gli stivali e le labbra sottili del principe, alzate timidamente all’insù, lo scuotono. Il falcone rosso è fermo, ora al terreno. Gli artigli sono saldati sopra all’oggetto nuovo. Polonia lo afferra con due mani e Toris svolazza fino alla sua spalla. Il lungo bastone che ha fra le dita è sottile e leggero. Brilla, l’argento, come brillano i suoi occhi di stupore. La punta all’estremità è spessa e man a mano s’arrotola su sé stessa, fino a rendersi acuminata e aguzza. La lancia argentata viene piantata con fierezza vicino al fianco di Polonia. Al prussiano sfugge una risata ironica.

“Mica porti così una lancia, idiota!” Prussia lascia uno sghignazzo divertito. Con la schiena dritta, il braccio premuto nell’angolo sbagliato del bastone e la punta troppo in alto per il biondino, il comandante ricorda il Vecchio Fritz e le loro vecchie lezioni. Fosse stato di fronte al suo maestro in quella posizione lo avrebbe preso per le ciocche e strattonato per tutta la Prussia. Fa un segno di rinnego e fraternamente abbassa il braccio del polacco e gli rilassa la schiena. Vorrebbe aggiungere qualcosa, ma non sa più cosa dire.

Entrambi sussultano, entrambi sbarrano gli occhi. Nessuno lascia la presa dal bastone argentato. Con la coda dell’occhio, Polonia vede Toris con tre piume nel becco. Queste bruciano e s’abbandonano nel bianco, non più cartaceo. Lo spazio argenteo si colora di verde, figure di carta prendono forma attorno a loro e anche queste s’intingono di colori. Gli occhi del ragazzo pizzicano per questo cambiamento improvviso. Guarda Toris e non capisce perché l’abbia fatto. Questo è serio e resta in silenzio. Accuccia il proprio corpo sulla spalla gracile e le zampette vengono nascoste dal piumaggio scarlatto. Nemmeno un occhio attento sul polacco. Sente Prussia deglutire e sobbalzare e mai lascerebbe la presa dalla lancia. Polonia alza di nuovo gli occhi e l’iride smeraldina viene toccata dal pallido bianco di una luce nivea.

Delle mani forti, decide, per nulla esitanti, lasciano su quella collinetta, fra il verde dei fusti d’erba e i fiori giallognoli, un fagotto altrettanto bianco e puro. Le mani di uomo, di un freddo guerriero, abbandonano il fagotto e svaniscono, così come sono apparse. L’aria su quella collina ritorna calda, il vento riprende a fischiare sui fasci d’erba. Il fagotto bianco si muove. Le manine di neonato, addormentate e goffe, sporgono dal cantuccio caldo e materno e sentono per la prima volta il freddo. Non è spaventato, il piccolo, non è nemmeno confuso. Sente di conoscere quel posto. Dell’uomo bianco nemmeno una traccia. Dalla copertina pesante e familiare, spunta fuori il faccino tondo. Le guance bianche e il nasino schiacciato. La fronte liscia e i ciuffi biondi tremiti al vento. La copertina pare bruciare nell’aria. Pare frantumarsi in fibre ghiacciate d’inverno. Così come le mani, così come l’uomo e il bianco candore, la copertina si dissolve e si sbriciola in minuscoli fiocchi di neve morente al caldo del sole. Il bambino fa uno sforzo e riesce a mettersi in piedi. Dimentica le braccia del padre. Dimentica di essere stato abbandonato.

I passettini schiacciano impaccati il muschio imperlato di rugiada e gli occhietti vispi tengono d’occhio i ditini paffuti, attenti a non calpestare qualcosa di cattivo. Il bambino sente di sapere dove sta andando, ma di non avere un luogo preciso dove dirigersi. Indifferente e ancora più curioso, prende coraggio e i passettini divengono più sicuri e coraggiosi. Orgoglioso di sé stesso, le guanciotte brillano di rosso e il sorriso aperto, senza dentini, splende sul visetto di neonato. Guaisce entusiasta, si aggrappa alle cortecce ruvide degli alberi. Capisce che sono parte di sé e del proprio corpo e premette di ricordarsi della loro ruvidezza. Per la prima volta sente la spensieratezza e la felicità spiccare il volo nel proprio cuoricino, anche senza aver fatto nulla.

Il sole cala e la notte passa col sonno indisturbato del piccino. Il giorno ritorna in cielo e il bambino si rimette in piedi. Ricomincia il viaggio senza meta. La curiosità è mastra negli occhietti verdi. Le manine all’aria, per tenere dritto il corpicino, il passo tremolante e i ciuffetti biondi sono le uniche cose che possiede. Ma è un bambino e i bambini sono felici anche senza nulla. Trova un campo vuoto e degli steli verdi più bassi di quelli che ha visto in precedenza. È felice, sa cosa sono. Poggia scioccamente le manine sul terreno morbido e lascia cadere il corpo. La distesa verde è piena di piante di mirtilli. La schiena morbida torna verso il cielo e le ginocchia grassottelle affondano nel muschio profumato.

I ditini grassocci e le unghiette ancora corte afferrano con sicurezza il morbido frutto blu. Gentilmente la piantina glielo concede, al principino di quella foresta, ancora troppo piccolo ed innocente per mangiare qualcosa di più grande di lui stesso, anche se più saporito. Ma la creatura non conosce altri sapori, non più del mirtillo fra le gengive ancora morbide. Il frutto viene schiacciato fra le due pareti di carne e il succo turchino bagna la gola del piccino. La linguetta sporge dalle labbra fine e le guance s’imporporano di rosso. Il mirtillo è dolce e scivola facilmente nella gola. Sente il pancino riscaldarsi un po’. Il bimbo capisce di avere fame.

Consapevole ed affamato, sporge la manina verso altri frutti blu e le ginocchia gattonano per il muschio morbido ed umido. La veste leggera e bianca, lasciatogli dal padre, s’imbrattata della rugiada trasparente e degli steli spezzati che, sanguinanti di linfa, sporcano anch’essi l’indumento bianco e puro. Le manine innocenti s’impiastricciano di blu e presto anche le labbra e le guanciotte mutano dello stesso colore. Sporco, perso, ma allegro, il bambino gioisce della pancia piena. Capisce che questo gli è sufficiente, che non deve per forza mangiare troppo. Che sarà felice anche solo con questi pochi frutti.

Beato, coi ciuffi biondi al muschio, in ritardo si accorge di essere osservato. Di vedere il ferro di poche ma lucide armature, di vedere lance appuntite e ululati feroci di cani. Il bimbo è intimorito da queste cose. Coraggioso ma confuso, rialza la schiena dal nuovo giaciglio. Vede soldati e cacciatori, vede cani e falconi da caccia. Vede punte affilate e occhi scuri verso di sé. Intimorito, arriccia le labbra verso il basso, il piccolo bambino. Inquieto, alza gli occhi verso i nuovi sconosciuti, ma non riceve risposte o incoraggiamenti. Qualcuno dalla calca si muove e, veloce e preciso, lo afferra e riesce a portarlo via da casa sua. Il bambino sa chi sono quegli uomini, ma in qualche modo gli fanno paura. Non protesta, non scalcia né si arrabbia. Non è della sua natura, per questo non lo fa. E anche perché spera che non gli facciano del male. Il piccolo sa che siano anch’essi parte di sé, ma non è certo che siano buoni. Istintivo, poggia la tempia sul lucido metallo dell’armatura. Vorrebbe essere stretto forte e al caldo, ma il ferro luminoso è ghiacciato più della notte trascorsa da solo, ma felice. Timoroso, confuso, vede la foresta svanire e un sentiero diretto in città lo rende perplesso. Vede la foresta morire dietro alle sue spalle e si chiede dove abiterà d’ora in avanti.

Prussia muove il labbro, ora perplesso e libera la voce, meno gracchiante del solito “Hey, Polonia, ma mica quel nanerottolo…”

“Sì, quello ero io” brusco e regale, il biondo lo fa tacere. Il comandante non capisce la rabbia nella sua voce e, orgoglioso, vorrebbe delle spiegazioni. Poggia gli occhi torvi sui capelli del ragazzo. Ma lo sguardo non gli viene mostrato. Polonia mostra gli occhi al suo amico e si aspetta delle risposte. Attende con pazienza, la lancia stretta con assillante fermezza nella propria mano. Toris è muto e sa cosa sta facendo, ma non può spiegarsi e non vuole spiegarsi. Gli occhietti cupi si scontrano su quelli di Polonia. Perplessità e, forse, anche nervosismo, il falcone ricambia lo sguardo del ragazzo ma vorrebbe abbassare gli occhi e concentrarsi su altro.

Per la prima volta Toris vide brillare negli occhi di Polonia una scintilla d’odio, ardente negli occhi del figlio di un demone.

Ritorna all'indice


Capitolo 12
*** DoDiCeSiMo CaPiToLo ***


Ha sempre considerato suo figlio un ingrato per tutte le opportunità che gli regalava come caramelle. Nella vita si lavora o si resta senza casa, così è la vita e non solo in Russia. Ma pare che il suo primogenito non l’abbia ancora capito. Ha sempre dovuto pregarlo di lavorare anche solo per un ora e oggi gli ha addirittura chiesto di avere dei giorni di ferie. E la motivazione fu più che ridicola: perché è estate, papà. Ridicolo. Perché è estate?!, aveva risposto lui, più che indignato. L’aveva praticamente gettato fuori di casa e chiuso alla stazione al suo posto di lavoro. Quel giorno era importante: sarebbe dovuto partire per Mosca e superare quasi tutto il baltico fino a Vilnius, sorpassando l’Estonia. Pochi giorni, ma importanti. Non doveva assolutamente farsi mettere i bastoni fra i piedi dal suo ragazzo. Ha chiesto ad un suo amico di tenere a bada suo figlio fino al suo ritorno. Si è scusato ed è corso nel vagone treno, più veloce di una scheggia. Il treno e il capo non perdonano, nemmeno un ritardo. E lui di ritardi non ne ha mai fatti in una vita intera. E suo figlio? Che impari a vivere e ad apprezzare ciò che gli viene regalato. Così, convinto e fiero delle proprie decisioni, aveva svolto il suo lavoro ed era andato a dormire. Avevano superato di poco il confine russo ed altre persone si erano raggruppate nei vagoni. Ha fatto un controllo nel terzo vagone e ora sta per iniziare la pausa pranzo. Non vede l’ora! Felice per quest’ultimo pensiero, si liscia i baffi scuri, bussa piano ed entra dentro. Manca solo quel vagone stretto e poi ha finito.

“B-Buongiorno” mormora il ragazzino alla sua sinistra, appena entrato. Lo ignora, non è tipo da saluti né da cortesie. Vuole solo muoversi. Eppure non riesce a non notare quanto siano giovani i passeggeri. Gli sorge quasi un dubbio. Dubbio che viene distrutto voltando il capo e vedendo gli altri due ragazzi. Uno dei due dorme, con la tempia poggiata sul ginocchio dell’altro più alto e forse più anziano. Non vede molto, ma pare dormire, anche se con quella coperta è ben difficile comprenderlo. Decide di fare piano e di non disturbare i passeggeri.

“Biglietti e passaporti” il moro e forse il più grande fra i tre, annuisce piano, getta il braccio sul baule aperto e prende ciò che gli occorre. Glieli offre e attente. Il ragazzino, ancora rosse le guance, abbassa la fronte e tenta di non tremare. Questo non gli sfugge all’occhio, ben allenato per i clandestini e i truffatori, ma finge di non vedere nulla. Guarda i passaporti e nota ben più che di strano. Nessun nome, nessuna data di nascita, solo foto e provenienza. E nella provenienza si sofferma più: Lituania, Lettonia, Estonia. E una fiaccola d’incredulità e consapevolezza si accende dentro di sé. Si sente sudare la fronte e le mani. Si sente bollente ed è certo che stia arrossendo più del ragazzino biondiccio vicino a lui. Col volto fiammeggiante di vergogna, osserva i tre e si sente più che in imbarazzo. E la consapevolezza di sapere diventa più che inopportuna e fastidiosa.

“Ma voi siete…?” mormora e gli manca il fiato. Vorrebbe quasi sbagliarsi e portarli al capotreno per aver tentato di truffarlo. Ma ha troppo caldo alle guance e troppo peso nell’anima per farlo. Ricorda di averli già visti o, almeno, due di loro li ha già visti di sicuro. Ma non ci ha mai parlato. Era un tipo troppo impaziente per capire chi fossero e la folla, all’epoca, era così tanta che era difficile avere concentrazione per le urla di gioia di fine guerra. Il moro ha alzato la mano, in segno di silenzio, e blocca altre parole. Gli abiti quotidiani che indossano quasi stonano con la grandezza che immaginava da giovane.

“Mi perdoni, ma siamo in viaggio in incognito e non vorremo essere riconosciuti…” più di così non riesce ad inventare, il povero Lituania. La bugia non è la sua materia e Russia ben sa questo. La lingua gli si spezza e più di questo non riesce a dire. Un brivido di panico non congela, ma brucia di frustrazione. E non sa cos’altro dire. Lettonia pare respirare con fremito, forse impaurito. Si aggiusta sul suo posto, come se la sedia sia scomoda, e si schiarisce la voce.

“…Visti i rapporti che abbiamo avuto con la Polonia, abbiamo deciso di visitare Varsavia per le congratulazioni per essere ritornata in vita. Per questo siamo partiti senza dire nulla al governo per non oltraggiare con la nostra presenza la Russia” Lituania riabbassa il capo, forse più rosso in volto dello stesso uomo “Vi chiediamo solo di non rivelare la nostra presenza… qui” conclude, imbarazzato e tremante il piccolo Lettonia. Deglutisce e il respiro si fa più regolare guardando negli occhi scuri il controllore, foglia d’autunno, tremante nei suoi stivali. Non ha mai voluto dubitare delle parole dei Baltici, non ci ha nemmeno riflettuto né vorrebbe rifletterci troppo. Ricorda il bianco della neve, i fiocchi leggeri vibranti nell’aria ghiacciata, le urla di gioia e i tedeschi morti nelle loro foreste. Non ha motivo di dubitare di loro. Ma l’emozione è forte e lo fa tremare come un bambino. Si sente quasi patetico. E il cuore non smette di battere per aver visto ciò che i loro nonni consideravano pari agli dei. Si meraviglia che siano così giovani e ben più timidi di lui, che di età ne ha decisamente poca rispetto a loro. Brontola la sua gola, si scarica dell’adrenalina. Sente arrivare un attacco di tosse, proprio ora. E le gambe gli tremano ancora così forte…

“Ora… ora non ha importanza. Spero che facciate buon viaggio” e il tono burbero che usa sempre con suo figlio lo precede e lo avvolge. Le gambe non tremano più, le guance affatto paonazze, il sudore congelato e morto. Si pente di ciò che ha detto e della sua voce fin troppo sgarbata per dei ragazzi, anche se immortali. Timbra frettolosamente e con eccessiva forza i biglietti. Altrettanto scortese e rude, esce fuori dal vagone e cammina veloce nel corridoio, pentito e mortificato per la brutta impressione appena fatta. In un attimo gli è passato l’appetito.

Lettonia s’alza piano e traballante. Occhieggia malamente, infantile, il corridoio e vede l’uomo chiudere la porta dietro di sé, per altri vagoni sconosciuti, immersi della luce del mezzogiorno. Lettonia si sente più sollevato. Cade, desidera cadere per terra e si lascia scivolare giù, il corpo più pesante di come ricordasse. Lituania sospira, ancora seduto, ancora con la mano sul capo coperto di Polonia, scambiato per Estonia. Fortuna che abbiano gli stessi capelli biondi. E la morte ha reso meno raggianti le sue ciocche lunghe, come quelle del Baltico, ora intrappolato chissà dove. Ma si sono disperati ieri per Estonia, fin troppo per voler fare domande su di lui e sul suo sacrificio. Lituania si sente ancora in colpa, ma non è il momento per pensare al male. Il suo fratellino si stringe le ginocchia e i due cuori battenti smettono di infastidire le membra fra le costole.

“Fiuu…! Ce l’abbiamo fatta…”

“Quel tipo fa paura. Pensavo che volesse arrestarci…”

“Grazie al Cielo non ha visto la faccia di Polonia” Lituania sente il proprio cuore sbattere nella gabbia toracica e, frustrato, butta l’intero suo battito fino alle ossa e nelle vene delle braccia. La mano, dove la vena palpita sangue e terrore appena scomparso, lascia il volto coperto fino alle labbra del principe addormentato. Immagina il caldo che debba avere il corpo abbracciato con forza dalla coperta, anche se leggera. Scopre piano e cauto la carne e l’abito di Polonia. Le ciocche bionde cadono sul labbro leporino. Lentamente, prudente e fraterno, porta i fili morti di capelli dietro l’orecchio grigiastro, senza una goccia di cremisi. E sospira ancora di sollievo, il ragazzo, che gli pare che tutto sia finito. Lettonia torna calmo e dolce, gattona e raggiunge entrambi. L’istinto e la tenerezza lo fanno sorridere.

“Credi che stia bene ora?” quel maledetto ciuffo biondo, insistente, cade ancora sull’occhio e sul labbro. Lettonia guarda lì e il sorriso, come tramonto, scompare e l’avvolge la tristezza. Non ha idea di come il labbro si sia sfregiato così tanto, ma lo trova comunque orribile. Tanto la carne è stata scavata da mostrare due denti gialli e il canino minuto. E sembrano più piccoli ed innocenti, le delicate ossa fra le gengive. Potrebbero essere i denti da latte di un bambino, ma non quelli di un ragazzo. Immagina che il tempo li abbia rovinati e la muffa e lo sporco li abbiano consumati. Lituania vede ciò che vede il fratellino e con malinconia sospira. Non sa e non riesce ad immaginare come possa ritornare in vita il suo migliore amico. Spera che i ciuffi biondi non debbano essere per forza tagliati in futuro. Polonia non sarebbe lo stesso senza i suoi capelli lunghi.

“Spero di sì, Lettonia. Di sicuro avremo tante cose da raccontargli” e vive ancora nei sogni, il giovane cavaliere. Immagina di ritornare ad abbracciarlo, di stringerlo forte e di raccontargli tutte le avventure della guerra passata. La nuova amicizia coi suoi fratelli. I boschi in estate in Russia. Russia. Gli occhi azzurri perdono un po’ di luce. L’iride, nostalgica, cade sulla propria mano e incontra la giacca nuova, profumata, luminosa. Guarda anche i pantaloni scuri e le scarpe appena lucidate. Uno spirito inquieto si poggia sul suo cuore e pressa, morbido e pacato, sulla vena principale. E un senso di colpa lo avvolge. Ricorda anche Estonia e lo spirito comprime sulle arterie. Ma non è il momento di ricordare. Sbatte le palpebre e vede la mano di Lettonia sui capelli del dormiente. Anche con l’occhio lo nota: le ciocche bionde sono morte e al tatto non sono più soffici, ma dure e crespe come capelli di bambola. Sembra un oggetto inanimato, Polonia, con le gambe stese, la pelle malamente perlacea, il labbro rotto di porcellana e il respiro regolare ma impercettibile. Guarda il fratellino e pensa che dovrebbe prendersi cura anche di lui “Lettonia, siediti qui vicino a me” e sorride affettuoso, Lituania. Lettonia abbandona i capelli morti e ubbidisce. Poggiatosi al braccio del maggiore, cede alla mano calda sui suoi riccioli. Si sente in pace, il ragazzino, anche se dovrebbe sentirsi tutt’altro che quieto.

“Vuoi dirmi qualcosa?” la pace rimane nell’animo, anche se sbattuta contro le parole del fratello. Lituania lo sa, anche se nessuno l’ha mai detto. Lettonia ha imparato a contenere le parole e ad usarle per il bene, però non ha imparato ad usarle per se stesso. Lettonia ha imparato ad avere la lingua ferma e le labbra sigillate, ma non ad aprirle quando desidera. Non vuole cadere nell’errore come in passato, né vuole dire qualcosa di sbagliato, che di sbagli ne ha fatti tanti con la lingua. Ma se il fratello desidera, ben parli.

“Come potrà mai ritornare come prima?” sente di aver sbagliato, Lettonia. Sente il sobbalzo prepotente e sbigottito del fratello maggiore e vorrebbe ricucirsi la bocca, ma Lituania lo carezza e vuole sapere ciò che pensa e crede “Insomma, hai visto com’è il suo corpo. So che Estonia e Russia gli hanno ricucito la pancia ed è stato un lavoraccio. Ha anche la gola tagliata e una parte delle sue labbra… praticamente non c’è. Anche se si sveglierà, secondo te tornerà mai come prima? E, se non sarà così, riuscirà a vivere felice, anche se messo così male? Io… io non credo che ce la farei a vivere con tutte quelle cicatrici…” e qui Lettonia si blocca e questa volta è lui a sobbalzare forte. Deglutisce e sente cadere le sopracciglia verso il basso. Deglutisce ancora e un groppo di saliva acre scivola lenta nella propria gola. Ricorda solo ora della schiena di Lituania. Ricorda solo ora che anche lui ha cicatrici. E che le avrà per tutta la vita. Il ragazzino si sente in colpa, ma abbassa il capo, comunque cosciente di aver detto il suo pensiero. Solo ora il pavimento trema e ruggisce col fischio del treno. Entrambi sentono le rotaie sotto i propri piedi, ma non hanno pensieri a riguardo.

“N-Non lo so, Lettonia. Non lo so” pare più tremore che brusco, Lituania. Il fratellino vorrebbe sprofondare nel legno e cadere sotto le rotaie. Si era promesso anni fa di non imitare più il suo vecchio io di secoli fa, prima che Russia diventasse buono. E anche le guance s’imporporano e non per vergogna. Deglutisce ancora e nella saliva c’è anche disgustosa bile acerba. Lituania è rigido e sente quelle stesse cicatrici tendersi insieme a lui. Come se le parole di Lettonia avessero lanciato un proiettile lì, in mezzo alle ragnatele nere dietro alle proprie spalle. Ma è calmo, Lituania, toccato ma calmo. Il treno fischia ancora. Non conoscono questi segnali, i due Baltici, per questo li ignorano. Così come ignorano il baule che, lentamente, pare muoversi da sé “So solo che dobbiamo arrivare presto a Varsavia e che dovrò restare lì con Polska per un po’ di tempo prima di tornare a Mosca” questo fa alzare il collo del ragazzino e rende pallide le guance di Lettonia.

“Ne sei sicuro?”

“Certo. Non credo che potrebbe riconoscere di nuovo la sua città, nemmeno potrebbe trovare da mangiare o un posto per dormire, non trovi?” Lettonia ci ragiona su e annuisce, convinto. Il baule continua a tremare e a spostarsi ancora un po’ “E poi vorrei passare un po’ di tempo con lui. Sono… sono decenni che non lo vedo, né sono riuscito ad abbracciarlo. Vorrei prendermi cura di lui ed aiutarlo, anche perché sono passati più di dieci anni dalla sua… beh, comunque è passato molto tempo e i tempi sono cambiati, no? E vorrei parlargli tanto… Non sai quante cose vorrei chiedergli” e si perde, Lituania. Lettonia è felice e sollevato che il fratello abbia dimenticato le sue parole. Si ripromette di non farlo mai più, a costo di dover dimenticare il proprio cuore e i propri pensieri. Sorride, addolcito anche nel cuore.

“Cosa vorresti chiedergli?” il baule freme con più forza e anche il treno pare inclinarsi lentamente verso sinistra. Nessuno ancora comprende quel che stia accadendo. Lituania poggia gli occhi azzurri sulla mano minuta del fratellino. Questa è quieta e tiepida di felicità. La stringe forte nella sua, tanto piccola da scomparire dentro il pugno chiuso del più grande. Sente il corpicino morbido e profumato del più piccolo accucciato al suo fianco e il pollice della mano carezza la pelle liscia, senza tagli né sangue. Anche Russia ha amato tanto Lettonia in questi anni.

“Vorrei chiedergli se abbia sentito qualcosa quando era nella casetta. Vorrei chiedergli dove abbia trascorso tutto questo tempo e… sono curioso di sapere che cosa stia facendo ora!” soffia una risata calda, il piccolo. Le guance sono mele rosse, pronte da mordere. I riccioli brillano, entusiasti. La felicità del fratello lo entusiasma. Il vagone del treno continua ad inclinarsi, così come il baule “E anche… Sai, non gli ho mai chiesto come abbia passato la sua vita prima di incontrarmi” e sbiancano subito, le guance rosse, prese dall’incredula sorpresa. Sbatte tante volte le palpebre e il blu nelle iridi brilla di curiosità. Sbianca anche Lituania, che ha mascherato bene le sue parole. Ben altro vuole chiedere a Polonia, ma non vuole allarmare Lettonia, per questo decide di mentire.

“Davvero? Non lo sai?”

“No, in effetti no. È una cosa che mi tengo dentro da tanto tempo, ma credo che glielo chiederò”

“Uh… Credi che sia stato felice anche senza di te?” la risposta si fa attendere. Perplesso, il ragazzino alza la fronte. I suoi occhi non incontrano quelli di Lituania. In attesa, col cuore fermo, Lettonia crede che il cavaliere sia ritornato nell’anima del fratello. Il petto è dritto, le spalle ferme, il capo diritto di fronte a sé. E gli occhi seri e tristi. Le ciocche brune cadono sugli occhi, ma il piccolo vede lo stesso. E la domanda viene dimenticata, solo da lui. Il cavaliere non ha dimenticato. Ricorda il passato e ricorda il male dentro il suo amico. Ricorda la notte cupa, senza luna con stelle d’argento. Le guardie in preghiera per la morte della cattolica regina. Ricorda la finestra spalancata con forza e ricorda la prima volta in cui vide il vero Polska. Aveva gettato sotto ai propri piedi la maschera di principe severo ed indifferente, il povero Polonia. Fino a quella notte credeva che quello fosse il vero principe polacco e mai l’avrebbe immaginato come quella notte senza anima. Lituania aveva conosciuto veramente Polonia solo nella camera da notte della regina, giaciuta morta. E aveva conosciuto il suo primo amico con la crudeltà della torre alta e il vento freddo scaraventatogli in faccia. E con la morte della sua sovrana.

Sobbalza, si sta muovendo sul sedile e solo ora si accorge del baule tremante. Il treno fischia con più forza e affronta la pesante curva. Inesperti e disorientati, i due Baltici sussultano e si sentono scivolare e cadere quasi sul pavimento. Il treno fischia e la curva prende velocità. Le ruote aumentano i movimenti e scricchiolano, massacrano il ferro delle rotaie ghiacciate nella notte. Lettonia cade per terra e le ginocchia lo impuntano per terra. Geme per il dolore e la scarica di adrenalina elettrizza il suo cuoricino. Lituania pare non comprendere quello che stia succedendo e il fratellino pensa prima da sé. Gattona veloce, indica il corpo di Polonia e il ragazzo si rianima. Passa il braccio sulla pancia. Sente le bende e sotto di quelle le ossa appena rimarginate ma deboli. Lo tiene stretto, ma comunque scivola all’ingiù e un sobbalzo di terrore gli raschia i polmoni deboli. Lettonia lo salva e salva anche Polonia. Dal basso, lo tiene fermo e lo spinge forte all’indietro, i capelli morti cadenti verso terra. Il treno fischia e la curva è superata. Sbattono ancora. Lettonia si fa male e la testa colpisce malamente il ginocchio del fratello che, sentito un dolore ben diverso, lo ignora. Sbatte anche lui e Polonia, conto il legno e i cuscini. Passa il panico, passa la paura. Lettonia, traballante e dolorante, torna in piedi. Vede il biondo dormiente con le labbra al soffitto e il collo scoperto e cucito. Sospirano entrambi di sollievo.

“Oddio, che paura” esclama il piccino e il ragazzo annuisce, con eguale conforto. Polonia avrebbe potuto farsi male. I quattro occhi, fratelli anch’essi, cadono piano sul polacco. La gola tagliata si è riaperta, ma nemmeno un fiotto di sangue vermiglio la bagna. I fili della cucitura sono nulli e scomparsi, tagliati dalla curva del treno. Lituania sente Lettonia, anche se alto in piedi, piccolo e sbigottito. Ma il ragazzo se lo chiede per davvero. Si chiede se Polonia possa mai sopportare tutto questo sulla sua pelle già fin troppo magra. Si chiede se possa mai riconoscersi in quel corpo smorto. E non si chiede nemmeno le risposte, che non ne ha. Che risposte non potrebbero mai esistere. Polonia morrebbe in un corpo come questo, anche se tornato in vita. Ed è tristezza. Ed è un cuore rotto. Lettonia sobbalza e pare che gli manchi aria nei polmoni.

“L-Lituania, guarda le labbra!” e l’istinto fa muovere i suoi occhi prima della ragione e del dubbio. Il cuore si rigenera dal malanno della gola squarciata e la tristezza sfuma nella meraviglia. Le labbra, che fino a poco prima erano leporine, ora sono rigenerate. Come per magia. Come per miracolo. Sente aria nel cervello e l’anima incatenare vicina al cuore. Il labbro si è trasformato, eppure ha lasciato il marchio di sé: una striscia più bianca che grigiastra taglia le labbra e sorvola fin dove la carne mancava e dove i denti si mostravano “L-La gola!” singhiozza incredulo il piccolo Lettonia che pare più terrorizzato che stupefatto. La carne si muove, si sporge come essere vivente verso la gemella strappata dalla lama di Russia, irato della sua stessa esistenza. Bacia la sorella mancata per anni, tenuta lontana da sé e dalla propria vera casa. Si ricongiungono e s’abbracciano strette. S’uniscono e si ricreano da sé. Come prima di essersi separata. Come se nulla l’avessero allontanate. Lituania ha un groppo in gola, come se la gioia la chiudesse forte in una morsa di ferro. Respira a fatica e vorrebbe non scoppiare a piangere proprio ora, di fronte a Lettonia.

“Lettonia, corri e chiedi dove siamo ora” più meraviglia che confusione, anche il ragazzino pare voler piangere, forte è l’emozione. Ma ubbidisce, rosse le guance e gli occhi lucidi. Aspetta ben poco, Lituania, che il fratellino ritorna, col passo meno svelto ed ansimante. Le labbra piccole di bambino si sono alzate sulle guance. Le iridi pretendono di liberarsi dalla morsa delle lacrime. Pretendono di farlo.

“Siamo in Lettonia. Abbiamo appena toccato il confine” singhiozza e il respiro manca. I polmoni fanno fatica, tanta fatica a portare aria dentro di sé e per dare ossigeno al cuore esultante di felicità. Lituania non vuole più piangere e non lo fa. Le lacrime si ritirano, la gola si libera dalla morsa. Afferra per il braccio il fratellino e il corpo pretende un abbraccio. Sente lacrime tiepide sulla sua guancia quando il piccolo lo stringe forte, dimenticandosi quasi di Polonia “Domani pomeriggio saremo a Riga!” e singhiozza il corpo più della gola. Lituania, semplicemente, lo stringe forte, non sapendo per chi essere più felice.

Per Lettonia che dopo decenni sta per rivedere la sua città o per Polonia che non deve temere di avere un corpo maledetto dalle cicatrici come il suo.

 

 

 

 

 

La lancia pare brillare di una forza sconosciuta ma ignorata. Il ricordo continua. La carta muta e cambia colore.

Il bambino è gettato di nuovo su di una sedia, ben troppo alta e scomoda per lui. Sbuffa e protesta con occhi corrucciati, ma viene ignorato come sempre. Le mani scure che l’hanno costretto lì, a quella tavola, in mezzo a quella gente che non conosce, che non è mai riuscito a conoscere, scompaiono. Ora perplesso, cauto e lento si volta. Non ha mai visto in faccia colui o colei che lo hanno sempre trascinato per ogni gradino di quel castello, come se nemmeno lui sapesse camminare. E un piatto appare di fronte a sé, sulla tavola, fra le posate d’argento. Si volta veloce, il bimbo, ed è ancora più confuso. Nemmeno sa chi poggia i piatti e prepara le pietanze per lui. Anche questa figura scompare e mai più riuscirà a vederla.

Insicuro come un ragazzetto in un luogo sconosciuto, alza la testa dal piatto e guarda. Geme tra le labbra serrate, che nessuno vuole mai ascoltarlo. Un altro pezzo di carne, altre cose più grandi di lui che non riuscirà mai a mangiare. La pancia brontola forte. Il bimbo la stringe, gli fa male il rumore che lo scuote come un tamburo. Si sente affamato come un lupo, ma non riesce a mangiare tutto quello che gli danno. Si volta alla destra e alla sinistra, timido. Vede altre barbe, altri vestiti luminosi e fastidiosi: troppo accecanti, tanto da fargli abbassare il capo. Guarda stupefatto gli altri alla tavola, anch’essi senza volto. Si chiede come facciano a mangiare così tanto, così velocemente. Ma, in realtà, si chiede il bimbo, come facciano a mangiare. Il pancino borbotta e protesta. Non può più disubbidirgli, da mesi non mangia quasi nulla, meno che foglioline verdi e piselli. Aveva pensato che fossero simili ai mirtilli dolci del bosco, ma si era sbagliato. E da mesi non fa altro che cercare ciò che ha perso. Sono mesi che si trova lì, ma già si pente di non essere scappato dalle guardie e dai cacciatori.

Guarda ancora la carne nel suo piatto e la trova troppo grande per lui, troppo piccolo e magro. Guarda gli altri alla tavola e li trova disgustosi. Ma ricorda che ha fame e tenta di nuovo. Passa la lingua sui denti e avvicina il piatto più a sé. Afferra malamente la gigantesca forchetta. È pesante, ma è anche un bimbo testardo, per questo la pianta forte nella carne. La manica della tunica scivola giù e lecca la carne sanguigna. Il blu e l’oro si macchiano e si sporcano. Precipitoso, il piccolo ritira la manica, prima che qualche altro sconosciuto se ne accorga. Fanno sempre i cattivi: se prova a scivolare dalla sedia lo rimettono al suo posto, se si sporca deve scendere e uscire dalla stanza, senza mangiare, se geme troppo forte lo alzano e lo strattonano sulla sedia. Fa male quando lo fanno. Ora più prudente, fa scivolare la posata con forza fino al bordo. Abbassa piano la testa e scopre i denti. Arpiona la carne e la stringe forte. Il sapore del sangue, ferroso, e della carne bruciata, secca, gli fanno rivoltare il povero stomaco come il manico della sua veste. I dentini, soldati fin troppo minuti per un avversario così imponente, tirano con coraggio e provano a strapparne almeno un pezzettino. Tirano forte, i soldatini bianchi, la forchetta ben piantata nel piatto. Pare una missione impossibile, ma tirano ancora, con virtù di cavalieri. Ma nulla, la carne è ancora solida. Lo stomaco si lamenta una terza volta: ha fame. Il bambino si spazientisce e gli occhietti verdi brillano di rabbia ed incomprensione.

I soldatini ora sono mercenari senza paura. Si piantano come paletti nella loro preda e tirano come coloro che debbano uccidere solo per avere oro. I mercenari non hanno pietà, anche se stremati ed esausti per il dolore e lo sforzo. Si sentono mancare, ma la fame è pressante e lo stomaco pretende cibo e non più la poca carne fra le ossa del bambino. E qui viene l’errore. Lo strattone è troppo violento e la frustrazione troppo incalzante. La carne, tutta la fetta, cade a terra e macchia il pavimento. Pare più i resti di un morto. Angosciato, risvegliato dalla paura, il bimbo si sporge e s’angoscia nel tentare di afferrarla in tempo, prima che se ne accorgano. Qualcosa sguscia sotto al tavolo. Gli occhietti verdi e terrorizzati s’incrociano con una pelliccia chiara. Il cane, ordinato di stare lì per afferrare ciò che viene gettato giù, afferra il pezzo di carne e, veloce com’è apparso, sgattaiola di nuovo sotto al tavolo. Scompare nel buio. Incredulo per la sua sfortuna, il pancino protesta ancora, ma piange in silenzio, che la disgrazia non è solo sua.

Il bimbo, appena cacciata di nuovo la testa tra i drappeggi folgoranti delle tuniche, si sente strattonare e trascinare di nuovo. Sente i piedi in terra e un’altra mano sconosciuta lo conduce a forza in un luogo che non conosce. Impaurito per la futura punizione e forse per un male che ancora non ha mai provato, tenta di liberarsi. Si divincola e le unghie corte s’allarmano sulle mani bianche. Gli occhi lucidi chiedono aiuto, si voltano verso la tavola, verso tutti gli altri nobili e prega di essere salvato. La porta viene chiusa dietro di sé e nessuno pare essersi accorto di nulla, troppo impegnati a mangiare.

Si sente urlare contro, si sente ancora trascinare, ancora, come se non sapesse poggiare i piedi da sé. Il bimbo si sente insicuro persino di camminare, ora che la voce da una è mutata in più d’una. Non capisce cosa dicano, non capisce cosa vogliano. Ma ha paura, si sente spaventato, che tutte queste grida non le ha mai sentite in vita mia. Non è mai stato sgridato in vita sua. Vorrebbe mormorare delle scuse, ma non sa pronunciarle ancora, troppo piccolo. E nessuno si è mai disturbato di insegnargli le parole. Nemmeno quelle di perdono. Allora geme, sente le guance in lacrime. Gli importa poco di cosa pensino ora, vuole solo che smettano. Le urla da due diventano tre. Il cuoricino è un sussulto di terrore. Piange come mai ha fatto, come mai ha fatto nella foresta di mirtilli. Cade a terra e l’istinto gli fa coprire le orecchie. Da tre le urla diventano quattro. Ha paura e le lacrime sono sale che pizzicano sulle sue guance.

Qualcosa muta, in qualcosa di mai visto. Da quattro, le urla tornano tre, ma ciò non lo convince e piange ancora. Una mano lo afferra e le poche ciocche biondicce vengono strattonate. Questo fa male. Il bimbo urla e il gemito di dolore si trascina per tutta la stanza, gigantesca com’è. Pare che questo faccia spazientire ancor di più le quattro voci, per questo gli vengono tirati i capelli. Il povero, piccolo bambino piange e a nessuno sembra importare. Si sente trascinare di nuovo. Ora riesce a vedere dove sta andando, il piccolino. Occhieggia attorno a sé, un cucciolo incatenato, e si spaventa ancor di più. Questo lato del castello non l’aveva mai visto. Non sa dove stanno andando. Ha paura, non sa cosa gli stia succedendo. Senti i propri passi fare male nelle scarpine. Le guance pallide come la pancia di un pesce. Protesta ancora, tenta di fare parole, ma la bocca è ancora quella di un bimbo e un bimbo non sa che gemere. Lui non sa parlare ancora. Ha paura.

Non vede nemmeno la porta, gli viene semplicemente aperto di fronte un varco buio come il catrame. Non ha mai visto tanto buio in vita sua. Per un attimo il cuoricino si ferma e i capelli baciano per la prima volta le perle di sudore, macchiate del suo terrore. Gli occhietti vacillanti, i polmoni bloccati. Si sente bloccato. Viene spinto lì e per un attimo non capisce quel che stia avvenendo. Il buio gli viene parato di fronte e per il piccolo è come gettarsi fra le braccia della morte. Questo posto fa male e sbatte pesantemente contro le costole. Non inciampa, si volta subito e rivede la luce. Rivede il buio della figura che l’ha portato qui. Scorge per un attimo lo scintillio dorato di un anello e la punta di rubino pare splendere più forte in sintonia con la sua paura. I piedini infantili zampettano, saltellano verso la luce che gli viene negata.

La porta viene sbarrata e il bimbo ci sbatte contro. Il buio è un mantello di pece soffocante. Fa freddo lì. Urla, vuole uscire da lì, vuole essere di nuovo libero. Vuole chiedere perdono per quel che ha fatto. Nulla, i passi pesanti dietro al legno sembrano allontanarsi. E il panico è sovrano di quel regno atroce. Salta in alto, tenta di afferrare la maniglia, ma è troppo piccolo per farlo e rimane bloccato ancora per terra. Prima ha urlato, ora soffre e si addolora. Qualcosa gli sussurra che è inutile. I piedini rinunciano a rimanere in piedi e si chiudono in terra. Le manine aggrappate ancora al legno scuro. Cercano la libertà, cercano di essere nella luce e di rendere libero anche il piccolino. Ha paura di quel posto. Non prova nemmeno a voltarsi. Non vuole vedere quel posto orribile. Anche la testolina cade e gli occhietti si serrano. I gemiti sono singhiozzi trattenuti. A loro non piace che lui pianga. Pensa ancora che siano lì dietro ad aspettare che ci sia silenzio e che non dica nulla per poi liberarlo. Ora c’è il silenzio, ma anche dietro la porta vi è silenzio. Il bambino pensa di essere stato abbandonato. Ha paura. Non è mai stato abbandonato in quel castello. Disabituato ad essere solo, si accuccia per terra. Il buio dietro le sue spalle lo arpiona per le costole. Polonia ragazzo è inflessibile.

“Mi hanno chiuso là dentro per tre giorni” Prussia sente la testa pesante come un carroarmato, la lingua secca come un deserto e l’aquila sulla sua spalla molto più pressante di quel che ricordava. Si sente confuso per quel che sta vedendo e non capisce perché lo stia vedendo. Ma la presa alla lancia è ancora salda. Volta per poco gli occhi lontano da Polonia bambino e si concentra sul ragazzo vicino a lui. Il volto bianco, gli occhi vuoti, le labbra serrate. Eppure Prussia vede nell’iride smeraldina della vita. Vede muoversi tutto un mondo e pare che là dentro l’anima abbia portato tutta la sua energia. Sghignazza, nonostante non sia affatto divertito da quel che ha visto.

“Davvero, così poco?” sbuffa una risata che si spegne in un battito di ciglia. Polonia è silenzioso, ancora concentrato sulla sua figura di bambino “No, dai, non possono essersi incazzati solo per un po’ di carne sul tappeto…”

“Si erano dimenticati di me” il comandante ha il sorriso inalterato, statico, persa anima e vita. Pensa e spera di aver sentito male. Le labbra, bloccate, lentamente si abbassano. E gli occhi vermigli non brillano più. Per un attimo ha sentito gli artigli acuminati dell’aquila nera iniziare a serrargli la spalla, come irritato da queste parole. Prussia la ignora e poggia con più insistenza lo sguardo sul polacco. Vorrebbe aver sentito male.

“Stai scherzando?” non volta nemmeno l’iride, ma il comandante immagina già lo sguardo che ha il più piccolo. Incredibilmente, ha voglia di ridere, tanto gli sembra assurdo tutto quel che ha sentito “No, dai, è impossibile. Non ci si può dimenticare della propria Nazione! E poi, anche se non lo fossi stato, non si rinchiude un marmocchio in uno stanzino solo per…”

“Eppure l’hanno fatto” e sembra che voglia smettere di parlare e di continuare a parlare di se stesso e del bambino di carta che, impaurito, si è stretto in una morsa fra le braccia già troppo magre all’epoca. Infantile ed inquieto, si chiude in bozzolo e pare attendere di essere salvato. Non verrà nessuno, vorrebbe sussurrargli Polonia ragazzo. Vorrebbe essere annoiato per quel che sta succedendo. Per la prima volta odia Toris per avergli fatto vedere questo e per averlo fatto vedere anche a Prussia, vicino a lui. Non voleva rivedersi da bambino, piccolo ed impacciato. Ancora inconsapevole della crudeltà della corte. Prussia vorrebbe aggiungere qualcosa, ma non lo fa. Perché non sa bene cosa dire, ancora confuso e disorientato per la novità di quel che sta osservando e perché non è la persona giusta per dire qualcosa di buono in questi momenti. Lo sa bene.

Il tempo nella carta colorata pare correre più veloce. Il bambino, affamato, assetato, morto e bianco nell’anima, sente qualcosa muoversi dietro la porta. Speranzoso, sempre stato speranzoso, si alza in piedi. Solo il cuore emozionato lo tiene in piedi. I passi decisi e forse anche frettolosi avanzano nel corridoio dietro la porta. Non sembra volerlo raggiungere. Lacrimevole, emozionato di poter essere liberato, poggia i palmi sul legno scuro e la poca forza fa oscillare la porta. Sa che non è sufficiente. Urla, urla di essere aiutato. E la gola secca gli blocca le parole che mai ha pronunciato. I passi sembrano fermarsi. Paura e terrore, sono le guance bianche. Lo stomaco impreca nella pancia, ancor più che affamato. I passi si voltano e corrono verso di lui. Sente la figura dietro la porta e schiamazzi di donne incredule. Lacrime salate tagliano come spade gli zigomi del piccino. È salvo, finalmente è salvo.

La porta si spalanca. Non vede la luce, non la vede ancora. Riconosce la porta troppo pesante, spinta con troppo enfasi, troppo velocemente. Troppo vicino a lui. Lo spesso legno lo colpisce forte e il cranio sussulta. Confusione e punti bianchi tempestano come stelle le iridi. Il bambino non riesce più a pensare, nemmeno a reggersi in piedi. Traballa, una zattera in mezzo alla tempesta. I punti bianchi gli oscurano la luce. Il piede non tocca più terra e cade giù, ancora più a fondo nel buio. Sente il proprio corpicino rotolare. E la carcassa della zattera sprofonda nel mare. Il bimbo si sente sprofondare e la testa pulsa, i puntini bianchi lo rendono cieco e la pancia protesta ancora.

Sente confusione di voci, altre figure sconosciute, altro male. Ancora retto e portato in braccio. Il bambino detesta essere preso in braccio. Lacrime e umido in fronte. I capelli corti come elettrizzati, ma sporchi. È libero, è sotto la luce. I puntini bianchi non ci sono più. Ora vede bene. Le figure sono soffocanti e sembra un affollarsi di galline in un pollaio. Lui, piccolo pulcino, capisce di essere stato preso in giro. Non sono lì per aiutarlo. Sono lì per fargli ancora del male. Crede a quest’idea e la fa sua. Non è più un bimbo, non c’è più innocenza in lui. Le guance sono del rosso dell’Inferno e gli occhi gridano di una vendetta che non avrà mai. Una delle figura, quella che lo tiene fermo, riceve il suo pugno. Per un attimo c’è silenzio e i battibecchi di quelle chiocce smettono di assillarlo. Sente la propria anima battere e gridare tra le proprie carni, frustrata, tradita, affamata, assetata, sorda di ogni parola di cortesia per le fanciulle. Il bimbo le odia. E per la prima volta conosce l’odio. Odia tutti e quel castello dov’è imprigionato. Odia tutta quella luce. Odia essere stato fasciato con quei vestiti ingombranti. Odia essere stato portato lì, felice della sua casa nella foresta. Odia queste giovani donne che l’unica cosa di cui vede sono gli occhi corrucciati e perplessi. Ed è mortificazione e male alla testa.

Muori!” urla la sua prima parola, la sua prima maledizione, il suo primo rancore. Le fanciulle non sanno cosa dire. Vedono solo la tempia lacrimevole di rosso del bambino. Non sanno che lui è la loro Nazione, nessuno gliel’ha mai spiegato. Lo ignorano e riprovano a prenderlo in braccio. Il piccolo si divincola e sbatte di nuovo il pugno al seno di una delle tante chiocce “Morite! Morite! Dovete morire!” continua a ripete questa parola, che ricorda essergli spesso urlata contro, vedendo gli occhi di galline angosciarsi. C’è confusione di parole, confusione di azioni. Sono tentate di lasciarlo lì, con la ferita ancora pulsante e gli occhi stregati di demone che ora le fanno paura. Non sanno chi sia questo bimbo, ma è orribile. Un piccolo demone. Per questo si allontanano piano da lui.

Il bambino ora piange. Sente solo in un frangente il dolore al cranio e le ditine toccano per la prima volta il sangue rosso e appiccicoso. Non sa ancora cosa sia, ma gli fa male. Confuso, affamato e dolorante, piange e urla il suo dolore. Le fanciulle credono veramente che sia un piccolo demone, allora scappano e scompaiono dentro la luce dei tizzoni. Il bimbo si sente abbandonato di nuovo. L’anima pulsa sulla ferita ancora scoperta. Si sente male, un male che non ha mai provato. Non si è accorto che una delle figure non se n’è andata. La fanciulla non vede quel che hanno visto le sue compagne. Piano, cauta, cade in ginocchio e avvicina il bambino a sé. Il piccolo si lascia alle lacrime e ai singhiozzi. Non vuole essere preso in braccio, ma vuole essere compreso. Sente la mano fine e preziosa fra le sue ciocche. Non sa cosa sia, ma al bambino piace molto. Sente il calore della fanciulla e il suo profumo. Sa di un frutto che ancora non conosce, ma che già ama.

“Muori…” mormora, rilassato. Non voleva dire quella parola, ma conosce solo questa e si accontenta. La fanciulla finge di non sentire e continua a cullarlo. Sotto la sua spessa veste il bambino sente vivere un cuore. I battiti vezzeggiano le sue orecchie. Il profumo è una ninnananna, il grembo della ragazza una culla. Per la prima volta il principino si sente a casa. Gli occhietti cedono e si chiudono impacciati. La guancia poggiata sul seno ancora giovane. Le manine tra le ciocche lunghe e morbide. E il cuoricino si addormenta, come il padroncino. Sente solo ora di essere sollevato. Non protesta: c’è ancora il profumo dolce, il battito tranquillo, la mano minuta fra i suoi capelli. Quietato del tutto, si addormenta.

Svegliato in un letto morbido, non sente più il dolore alla testa. Riaperti gli occhietti verdi, vede la fanciulla e il cuoricino batte forte per l’emozione. Materna forse ancora impacciata per la tenera età, sorride, gli sussurra qualcosa e gli indica le proprie mani. Un piatto colmo. Meravigliato, il bambino non sa cosa sia questa pietanza. Ma sembra calda, tanti fiotti di fumo bollenti gli solleticano il nasino. Ha un buon profumo, anche se di uno strano colore. Ma ha fame, tanta fame. Geme un lamento, vuole subito da mangiare. Il cucchiaio si riempie in fretta. Nemmeno conosce il nuovo sapore che già inghiotte il liquido. La zuppa gli scivola in gola. Lo riscalda e fa calmare il pancino. Per la prima volta realmente felice, poggia gli occhi sugli azzurri della giovane. Sorride e pare voler saltellare sul letto tanto è contento. Non riconosce ancora un’espressione imbarazzata, vede solo il sorriso tremolante della fanciulla. E si lascia poggiare di nuovo il cucchiaio dolce sulle labbra. Si sente felice, il piccolo Polska.

Prussia non apre bocca. Gli occhi eloquenti e freddi si poggiano pigramente sulla chioma bionda del polacco. Si sente molto più calmo di quel che dovrebbe essere. Capisce che per il polacco l’anima è ben più lontana dalla quiete. Quel che ha visto fa male e gli fa aprire più occhi di quel che credeva di avere “Lei… lei chi era?” Polonia abbassa la fronte. Vede ancora gli occhi azzurri della fanciulla e si accorge di ciò che avrebbe dovuto accorgersi da bambino.

“Una nobile come tanti” Prussia sente angoscia nella voce, allora ferma in tempo un commento ironico. Un grande velo è caduto dalla sua fronte e vedere così bene gli fa appesantire il cuore. La carta è veloce a cambiare e a mostrare il suo passato che detesta. Vede la stessa fanciulla scandirgli parole e insegnargliele. Il bambino la guarda come un angelo caduto in cielo. Polonia è incredulo per la sua ingenuità. Non voleva vedere tutto questo. Un nodo si chiude forte alla gola e non lo fa respirare. Le iridi pungono, i denti mordono forti il labbro e il suo bordo. Non vuole piangere, non ora almeno. L’aquila nera, suo consigliere, guarda l’allievo con seria mortificazione. Col becco gli indica il principe. Prussia comprende e annuisce. Polonia sente il comandante trascinarsi piano vicino a lui, più vicino. Ora può guardarlo e vede gli occhi lucidi.

“E’ stata con te per molto tempo?” il nodo alla gola stringe più forte. Ora si sente soffocare. Le labbra inghiottono aria con gran forza, ma il nodo non si scioglie. Comincia a far male, anche il ricordo dei tanti anni passati con lei. Sente un sussurro, più esausto che scoraggiato. Polonia dimentica Toris e l’aquila nera. Immagina di essere solo con Prussia. Solo con lui, annoiato e forse con un’ironia crudele in cuore. Ma il vero prussiano non ha nulla di questo e gli occhi del ragazzo brillano come fari quando annuisce, freneticamente, quasi dimenticando come si faccia. Ma cerca di schiudere il nodo e questo non si apre, tanto è stretto. Tanto fa male “Sai il suo nome?” inghiotte saliva acre. La tranquilla calma di Prussia gli sembra crudele.

“S-Sì, ma non voglio…”

“Non fa niente, tranquillo” la carta di fronte a loro non perdona e le immagini sono sempre più veloci, sempre più pesanti per Polonia. Prussia è distante. Un buon amico prussiano gli darebbe una pacca sulla spalla e gli direbbe di essere forte e di dimenticare il dolore, ma Prussia non si è mai promesso di essere un buon amico per Polonia. Resta semplicemente in silenzio. Lascia un sospiro che per le orecchie del biondo è una risata trattenuta. Tira su il naso con forza. Respira ed inspira, il nodo inizia a sciogliersi. Stringe la lancia tra le dita talmente tanto forte da farla tremare. Prussia sente e comprende bene. Il falcone rosso alla spalla di Polonia ha occhi lucidi come i suoi, ma non per le lacrime. Brilla un intero cosmo negli occhi di Toris e mostrano bontà nell’animo di custode. Le piume soffici solleticano il suo orecchio, la testa del rapace sfrega sui capelli lunghi e la tempia provata dal sudore. Un po’ si calma il suo cuore, ma non ringrazia Toris: è colpa sua se quel che sta vedendo sta accadendo di nuovo.

E muta di nuovo la carta. Il nodo si riforma nella gola e gli blocca il respiro. La lancia è stretta forte fra le dita vacillanti del polacco.

Il piccolo Polska non si era mai sentito così felice come in questi anni. Aveva dimenticato la realtà buia del castello e la sua vita precedente, perché era certo che ora la sua vita era cambiata e sarebbe cambiata ancora più in meglio. Il giardino, se per lui prima era grigio ed indifferente, ora vede luci e sfavilli di fate e folletti invisibili. Il cuoricino crede di essere in un luogo incantato e magico che prima si rifiutava di conoscere. Non dovrebbe nemmeno essere lì, ma ha voluto farlo. Per la sua amata qualsiasi cosa, anche la morte. Perché è certo: lui ama quella fanciulla e quella fanciulla ama lui. È ingenuo, il piccolo Polska, ma è un’ingenuità infantile, sempre benigna, anche se irrazionale.

Allunga le forbici nel folto delle rovi, dove la rosa più grande dell’intreccio mostra orgogliosa il rosso dei suoi petali. Il rosso è il sangue e il sangue è trabocco d’amore per lei. È ancora molto piccolo, Polska, ma quello che prova è certo che sia amore. Perché una sensazione così forte di felicità non l’ha mai provata. Taglia lo stelo che lacrima verde rugiada. Afferra la rosa, la più grande, la più bella e la poggia insieme alle altre. Alle altre rose, alle margherite, e ad altre meraviglie di cui non sa il nome. Il mazzo è più grande di lui stesso. Le manine sputano gocce di sangue. I rovi hanno fatto male. Loro, malvagi, non volevano che prendesse i loro gioielli per la sua amata. Ma lui è stato coraggioso. Si è battuto con orgoglio e fedeltà per la sua fanciulla e scappa dalla foresta di rovi, malandato e sanguinante, ma felice.

Il mazzo è completo, ora è stretto forte fra le sue braccia. I fiori sono gioielli incantati, conquistati nel castello di un orrido stregone che è l’intreccio dei rovi, e lui, valoroso cavaliere, darà in regalo quella meraviglia per lei. E la ama tanto, la ama così tanto! Non potrebbe mai amare nessun’altra se non lei, tanto dolce come un madre e tanto bella da sembrare una strega. Perché le crudeli dame del castello la credono una strega. Perché è bella, perché è dolce e pia, perché ha gli occhi della sua stessa Nazione. Polonia le ha maledette tutte. E se sia veramente una strega, allora ha realizzato bene il suo incantesimo su di lui.Vuole solo essere amato, il piccolo, vuole solo essere voluto bene. Nessuno l’ha mai capito se non quella fanciulla. E se sia veramente una strega, allora si darà a lei per l’eternità, tanto la ama.

Pigola il suo nome, fuori dalle sue stanze. Non può più entrarci, ormai diventata donna. L’attesa sussulta di gioia: da dietro al legno lei ha acconsentito ad entrare. Il cuore è un’esaltazione di felicità ed entra, contento ed emozionato. È il suo primo regalo per lei, dopo anni che l’ha conosciuta. È stato proprio crudele per non averle dato i trofei dei suoi viaggi immaginari. È stato proprio meschino. Ma lui non lo sapeva, ancora troppo piccolo ed inesperto. Entra nella sua camera e nei gesti si mostra rispettoso. Ora è più grande, ora è più alta, più fiera, più donna. Più bella e dolce. Porta i fiori in alto e si guarda bene di non farne cadere nemmeno uno, troppo preziosi e sudati di avventure. Lei si volta e il cuore sussulta ancora. Gli occhi azzurri brillano di vita, di una parte di felicità che ha regalato tutta a lui, e mai è stato tanto grato ad una donna per averlo salvato. Mormora il suo nome e l’emozione muove l’anima agitata del bambino. Ammirerà le sue imprese? Apprezzerà i suoi sforzi fatti per lei?

I capelli neri, onde del mantello della notte, scivolano sulla spalla nel chinarsi sui tesori colti per lei. Dei fili scuri si poggiano sul suo nasino. Lo arruffa e ispira il profumo di quel che pensa che sia un abbraccio. Ora conosce bene quell’aroma, tanto buono da morire in braccio a lei. Se dovesse morire, lo farebbe tra le sue braccia e il capo sul suo seno. La donna porta alle mani i fiori senza spine, tolti tutti. Spera che sia felicità quella che illumina i suoi occhi e fa cadere i capelli sui petali profondi di rosso. Sorride, entusiasta per l’impresa riuscita. Le manine sono un groviglio di tagli e rosso rappreso, la tunica sporca del sangue verde dei fiori. La fanciulla sorride, allora anche il bambino sorride. E nessuno vede il padre della ragazza e nemmeno il suo sguardo fermo ed inquisitorio.

Polonia ragazzo, con la gola bloccata e il respiro mozzato, vede. Vede il sorriso incredulo ed imbarazzato della fanciulla, non avendo mai creduto che il suo amore prestato potesse fare questo. Vede i suoi occhi vuoti e dubbiosi del dono. I fiori si regalano agli amanti e lei non potrebbe mai toccare un bambino e mai l’ha fatto. Nemmeno lei vede il proprio padre, ha occhi incerti solo per Polska. Vorrebbe spiegazioni e vorrebbe sapere cosa voglia intendere con quel dono così bizzarro, anche se ben accettato. Tuttavia è cortese d’animo e non vorrebbe nemmeno far morire la contentezza del bambino. Polska sorride raggiante e la giovane donna ben sa che sia un segnale di pericolo.

Polonia ragazzo ricorda quel giorno e trattiene le lacrime. La lancia pare bruciare nella sua mano.

“Ti amo” la voce sussurrata e piena di emozioni del bambino pare una lancia scagliata nello stomaco. La povera fanciulla, col filo e l’ago tra le dita e il ricamo ancora da perfezionare, alza timorosa la testa. Le guance rosse del bambino e le dita piccole appena fasciate fanno ridipingere di colore il volto. Ciononostante, lo stomaco è ancora una zavorra pesante e ghiacciata. Le duole il ventre come non mai e gli occhietti timidi del bambino appesantiscono le viscere.

“No, piccolo, non puoi dirmi questo” pensa e spera in un solito scherzo. Perché Polska è un bambino ignorato che ha bisogno di attenzioni e le opportunità le crea da sé. Ma dentro il proprio cuore comprende la realtà di quel che ha appena detto. Polska è brioso, ma mai bugiardo. Soprattutto con lei. La fanciulla lo sa bene, pur tuttavia torna col capo chino e le mani s’impigliano di nuovo nella stoffa. Spera ancora che Polska le abbia giocato un brutto scherzo o che fraintenda qualcosa che deve avergli insegnato.

“Ti amo” voce più decisa, quasi minacciosa. Ha sbagliato ancora il tono, il bambino. Avrebbe voluto usare un’inflessione più amorevole e serena, come ha letto nei libri di cavalieri della giovane donna. E il dolore persiste, non vuole fare del male al bambino. Non vuole e vorrebbe non esserne in grado. Capisce ciò che le ha detto e sa bene che Polska, questa volta, intende esattamente ciò che ha pronunciato. Ma vuole comunque provare a fuggire dalle parole. Ricorda i fiori regalati quel pomeriggio e teme che significhino ciò che ora sta provando a dirle. Ritorna il capo in alto. Il rossore sulle guance del più piccolo è svanito, ma la luce dei batticuori brilla forte nel verde smeraldino. Il prete le ha ben detto e suo padre le ha confermato: il demonio ha gli occhi verdi. E lei li ha ignorati entrambi.

“No, Polska, questo lo dovrai dire alla donna che ami” la luce di speranza muore. Il bambino pare spegnersi, anche le manine smettono di assillarsi fra di loro. La giovane dimentica l’ago e il filo e teme di averlo ferito. Non trova motivi per cui avrebbe dovuto. Si sente sinceramente in colpa. Ma Polska è anche testardo, quasi se n’era dimenticata. L’iride ritorna a splendere quanto un sole verde. Le braccia, meno paffute di come dovrebbero essere, sembrano ali d’uccello che vorrebbero, desidererebbero spiccare il volo in quell’istante.

“Ti amo tanto!” e le ali si liberano, si aprono di fronte a lei, entusiaste. La povera fanciulla sospira. Polska non ha compreso molto, anzi, pare che non voglia comprendere. Con occhi a lei incomprensibili, le si avvicina. Pesta indifferente la gonna e le si siede in grembo. Le ginocchia, se pur piccole, le danno dolore alle gambe e il suo lavoro ben fatto scivola a terra. Sospira ancora, affranta che non possa più occuparsi del cucito. Preso l’equilibrio e con le manine alle sue spalle, Polska sembra aver timore di pronunciare ciò che brucia sulla sua lingua “Tu mi ami?” il cuore di lei cade e forse di frantuma. Questo ha fatto molto male. Riflette veloce.

“Sì…” è un mormorio ridico e anche falso. Per la prima volta in vita sua non si pente di aver detto una bugia, anche se fatale. Il piccolino sembra essersi tolto un grosso dubbio. Calmo e molto più allegro, mormora qualcosa fra sé, forse un sospiro di sollievo. La giovane donna, ancora più confusa, e preoccupata che il piccolo possa cadere, lo afferra per le spalle e lo avvicina al petto. Questo gesto viene frainteso, il bambino le si accoccola al seno.

“Ti sono piaciuti i fiori?” altre parole imbarazzate. La donna s’intenerisce.

“Sì, tantissimo”

“Bene! Perché… perché volevo farti un altro regalo” la fanciulla si paralizza di fronte al sorriso del bambino. Si preoccupa. Si chiede cosa intenda dire e perché affermare una cosa del genere a lei. Si maledice per la sua sfortuna e per aver dato credito e false affermazioni a quel bambino. Sa bene che sia una Nazione e che vivrà per sempre e proprio per questo non avrebbe voluto trovarlo rinchiuso in quella stanzetta buia. Spesso si chiede cosa le sarebbe accaduto se non avesse chiamato le sue sorelle per fermarsi e per aiutare quel bambino. Non sa bene se essere l’unica persona per Polska sia un bene. Il bambino poggia il capo arruffato al suo cuore e ascolta i battiti come ammaliato dal loro suono “Il tuo papà non ti vuole bene. Allora non lo vedrai mai più, sei felice?”

“Sì, piccolo, ora però vai a dormire, sembri molto stanco” è una scusa, il piccolo Polska non è mai sembrato così tanto vivace. Non potrebbe dormire nemmeno volendolo. Ma ubbidisce, ha delle cose da fare nella sua camera. Polska lo sa: il padre della sua amata è feroce e spregevole. Litiga sempre con lei e la fa piangere. Lei non deve mai piangere e quell’uomo non ha il diritto di farle del male. Vuole liberarla da lei e sarà soltanto sua. Potrà vivere felice, così come vivrà felice anche lui.

In camera sua ha scritto una lettera. Giorni e giorni di lavoro per rendere la sua scrittura immacolata e le sue parole audaci ed armoniose come quella di un vero cavaliere. La carta fine e pregiata, nessun altro se non il re può averla. Gliel’ha sottratta, ma per una buona causa. Le ha scritto parole d’amore, i libri l’hanno aiutato ad aprirgli il cuore. Le ha scritto che l’ama, che la vorrebbe sua, che quel luogo infimo non è adatto per un angelo come lei. Le ha scritto di essere il suo cavaliere e di servirla fino e ben oltre la sua morte. Le ha scritto che quella mattina l’avrebbe voluta pronta per il viaggio che avrebbero vissuto, pronti per una nuova vita. Non firmò, nome troppo empio il suo, e fece scivolare la lettera sotto la porta della sua dama. Felice e preparato il tutto per il lungo viaggio, s’addormentò.

Si svegliò e andò nelle stanze della sua amata. Si allarmò e impazzì: la camera era vuota, come se niente e nessuno ci abbia mai abitato prima d’ora. Spaventato e preoccupato, era andato a chiedere persino a coloro che odia per sapere che fine abbia fatto il suo amore. È andata via la scorsa notte, dissero tutti, quella strega se n’è andata via, finalmente. Il padre disse solo che sarebbe dovuta andare a sposarsi, ben lontano da questa città. Li ha maledetti. Ha urlato e strillato di avere di nuovo la sua dama, l’unica persona che aveva, il suo cuore e la sua anima. Ha rotto un bel po’ di oggetti e i rimproveri non hanno funzionato.

Hanno usato le mani. Per la prima volta Polska è stato picchiato. Ha fatto molto più male di quel che ha creduto. Non riusciva a reggersi più in piedi. L’hanno chiuso di nuovo in quella stanza buia. Pianse tanto. Per essere di nuovo lì, al buio, coi ratti. Per essere stato di nuovo abbandonato e per aver perso la sua amata, per sempre. Questa volta non si dimenticarono di lui e il suo insegnamento fu più duro di quello applicato in precedenza. Se è troppo debole e gracile per essere cavaliere, allora sarebbe diventato un principe. E un principe deve saper dominare i sentimenti.

Prussia sente come un vento lontano, prepotente, che scaraventa la lancia lontano da lui. Si volta, incredulo, e vede Polonia. Vede il suo falcone rincorrerlo nel vento per provare a raggiungerlo e a fermarlo. Vede la macchiolina verde scomparire piano dalla sua vista. Agitato, riafferrando la lancia, inizia a correre. Urla il nome del ragazzo e gli ordina di fermarsi. Giacché non si piange per una donna. Nemmeno per un ricordo d’infanzia ben lontano. Neppure per essere soli al mondo. Nonostante tutti questi avvertimenti, Polonia corre ancora. Non vuole vedere nessuno.

 

Da quando Gilbird gli ha pigolato dove fossero i due sposini, e da quando si è nascosto dietro al folto dei cespugli, non ha fatto altro che strabuzzare gli occhi. Quel che vede dev’essere irreale, falso o una sceneggiata creata per prenderlo in giro. Alla sponda del lago non possono esserci Austria ed Ungheria insieme. Non possono essere felici di essere insieme. Dopotutto si sono sempre detestati e da quando Polonia ha iniziato ad abitare con loro, credeva che l’odio per Ungheria verso il marito fasullo fosse ancora più forte. Invece sono lì e l’aristocratico pare meno elegante del solito. È sorpreso di vederlo insieme alla donna, senza scarpe né calzettoni. Col pantalone arrotolato, la casacca buttata sull’erba fresca, il farsetto srotolato, Austria sembra sinceramente felice. Assottiglia ancor di più gli occhi, sbalordito. Forse non l’ha mai visto sorridere veramente in vita sua. Le catene signorili sono state sciolte e ora lui innaffia i piedi in acqua con quella che riteneva una selvaggia fino a pochi mesi fa.

Gilbird pigola ancora sulla sua testa e, con le alette indaffarate nel volo, indica poco lontano dalla coppia. Ancora più incredulità. C’è il malato della casa, sdraiato sull’erba. Crede in un abbaglio. Che forse non veda bene per la distanza? No, ora è più chiaro. Gli sposi si avvicinano al polacco, pasciuto al sole, e lo fanno alzare. Fa caldo quel giorno, tanto da potersi lasciare i vestiti alle spalle e buttarsi a nuotare. A Polonia viene sfilata la camicia, le scarpe e i calzini. Austria gli arrotola i pantaloni. Cieco e sordo, ma fiducioso, si lascia trasportare dai due. E i piedi toccano fieri l’acqua. Entusiasta di sentire qualcosa di nuovo, inizia a schizzare col piede, trattenuto alle braccia dalla coppia. Polonia sembra capire e sentire felicità, per questo continua e ride beato, finalmente felice.

Si allontana dal suo nascondiglio e i passi marciano all’indietro. Si sente veramente turbato. È dovuto partire per pochi mesi e solo rivedere quello gli spezza il cuore. Teme che in quei quattro, quasi cinque mesi sia accaduto qualcosa di solido e potente. Teme in questo. Gilbird pigola ancora sulla sua testa e si posa sui capelli chiari. Sente il proprio padrone turbato ed agitato, allora si agita anch’egli e si domanda cosa l’abbia fatto sentire male. Prussia abbassa il capo e si chiede se i fiori che con cura ha raccolto e confezionato siano una buona idea. Si chiede se aprire il cuore ad Ungheria sia una buona idea.

Scuote la testa, irritato per i suoi stessi pensieri. Ungheria odia Austria e spesso gli ha rilevato di volere il divorzio da quel matrimonio forzato. Qualche mese non può essere cambiato tanto, anzi, non deve essere cambiato niente. Persino il Vecchio Fritz non ha mai amato una donna. Gli raccomandava di non ingannarsi mai. Una donna non la si ama, mai è esistito un uomo che ami la propria donna, specialmente se presa in sposa. Ma Prussia non si è mai preso il disturbo di ascoltare ogni parola di quel che diceva il Vecchio. Senza più alcun turbamento, il comandante si decide di attendere la sera, quando Austria sarebbe stato impegnato in altro ed Ungheria sarebbe stata fuori in giardino, con vento geloso dei propri capelli e le nuvole rossastre per il tramonto.

Sarebbe andato tutto bene. Se lo sentiva.

 

Polonia, finalmente, dopo minuti di corsa, ha deciso di fermarsi e di dare tregua anche a lui. Si è rannicchiato in terra, col viso premuto contro le ginocchia, le mani sotto la fronte e la schiena spezzata in avanti. Da un po’ sono in silenzio, non esistono nemmeno singhiozzi incastrati nell’uniforme del ragazzo. I capelli dorati scendono tenui sul verde dei pantaloni. Sfiorano gli stivali lunghi e si rifiutano di tornare al proprio posto. Seduto anch’esso per terra e con l’aquila ora in volo su di loro, Prussia è indeciso su cosa fare. Non è fatto per incastrarsi in situazioni come queste e detesta ritrovarsi incapace di decidere. Lui è fatto per la guerra e in guerra tutto è più facile. Non c’è spazio per le lacrime, per questo ne è sempre grato della sua esistenza. Resta fermo, alto, col gomito sul ginocchio e il pugno sulla guancia fredda. Non ha idea nemmeno di cosa dire. L’aquila nera continua a volare e la lancia brilla al suo fianco di una luce argentea. Respira profondamente, Polonia, e questo lo fa preoccupare.

“Suo padre ha trovato la lettera quella sera” la voce è roca, ha qualcosa di rotto, quasi mostruoso “Aveva notato la calligrafia e le parole e ha creduto che lei avesse un amante e che volesse scappare dal palazzo. Me l’ha portata via prima dell’alba. Aveva avvertito pochi conoscenti della sua partenza e l’ha trascinata via, in un’altra città. L’ha fatta sposare con un nobile del luogo” respiro profondo, la spiegazione s’interrompe per poco “Già da qualche anno voleva farlo, ma lei ha sempre rifiutato, conosceva l’uomo che doveva sposare e questo non l’amava e lei non amava lui. Ma il padre non ne voleva sapere, voleva solo che si sposasse e ha trovato l’occasione per farlo. Forse sapeva anche che fossi stato io l’idiota ad aver scritto quella lettera, ma non gli è importato” i guanti scendono dalle ginocchia alle gambe e il viso ritorna alto, scoperto “Non l’ho mai più vista, né ho avuto più notizie di lei” e cala il silenzio. L’uomo affianco a sé si spazientisce subito.

“Hey, stai bene?” Prussia si era preparato allo scoppio di lacrime o di rabbia repressa da anni, ma questa è l’ultima cosa che avrebbe voluto vedere. Ha occhi più stanchi che tristi, l’infelice. Sente il suo respiro debole, quasi trattenuto nella trachea. Per un attimo è felice e fiero che il ragazzo abbia dimenticato il ricordo e l’impercettibile movimento di assenso del capo è più che sufficiente per rassicurarlo. Detesta e non sa consolare nessuno, il comandante prussiano e l’idea di provarci in questo luogo bianco eppure così scuro gli ha quasi spezzato il cuore dalla tristezza. È contento che Polonia stia bene e questo gli basta per fargli rifiorire il sorriso sghembo. Non sa e non vuole sapere del nodo ancora fermo nella gola e delle lacrime trattenute con la forza della vergogna. Non vuole piangere, Polonia, che ha pianto fin troppo quand’era bambino. Toris è muto affianco a lui, intuisce l’animo dell’amico, ma non sa bene nemmeno lui cosa fare per renderlo felice. Piuttosto poggia gli occhietti sul fianco del prussiano e saltella interessato verso altri oggetti misteriosi, probabilmente colti di recente. Il biondo, ancora inclinato per il ricordo di capelli neri e occhi azzurri, aguzza lo sguardo ed è ben felice di distrarsi su qualcosa che non sia il passato.

“Cioè, ma che roba è quella?” ha la voce strascicata e debole, ma il prussiano ignora il particolare. Non vorrebbe far notare il turbamento che ha per il piccolo Polonia, né la sua preoccupazione. È una cosa ben poco magnifica. È una cosa ben poco adulta e ragionevole. Se qualcuno soffre, se ragazzo o uomo, l’ultima cosa che desiderano è che qualcuno glielo faccia notare. Prussia lo sa bene e sa bene come si senta il polacco. Quando, quella notte lontana, Ungheria gli ha negato il suo cuore, avrebbe voluto morire nelle lacrime da solo, come sempre. Avrebbe sparato al soldato che gli ha spiegato il suo tormento. Per fortuna la birra risolve tutto. Per fortuna, il mattino dopo, West l’ha ritrovato e portato a casa e ha compreso la sua sofferenza. Era ancora un ragazzino, il suo fratellino, ma è stato comunque la migliore medicina che il Signore gli abbia mai regalato.

“Mentre ti rincorrevo ho trovato tutta questa roba e muoio dalla voglia di vedere cosa nascondano!” nemmeno vede di cosa si trattino che già un brivido di terrore ha seghettato le vertebre di Polonia. Col volto pallido, incredulo della contentezza di Prussia, Polonia abbassa gli occhi su quegli oggetti. Toris cala, veloce e scattante, la testolina e il becco, bacchetta interessato questi nuovi tesori. Non hanno il valore della coroncina che ha nella tasca della divisa, quasi dimenticata nella fretta degli avvenimenti portati dalla lancia. Prussia prende fra le mani i due oggetti e li mostra con un ghigno orgoglioso: quel che pare una coperta bianca, leggera e quasi odiosa, e un fiocco scuro. La malinconia per i ricordi appena rivisti gli rende insopportabili alla vista. Ma quando si ha nulla anche un granello di sabbia, questa diventa una pepita d’oro. Il comandante rialza il capo, vivace e curioso “Sono troppo curioso! Ti do l’onore di scegliere”

Ma io non voglio!, vorrebbe rispondergli, ma la lingua rimane incastrata, così come il nodo che gli chiude ancora la trachea. Il respiro si fa sempre più corto e sofferente. Con tutta la forza della sua volontà, si rimette in piedi, per stare dietro a Prussia e alla sua malevola curiosità. Si sente soffocare. Non gli piace scegliere e non vuole scegliere. L’idea di vedere la vergogna del suo passato blocca l’anima nel suo corpo. Si vede in una stanza buia e nera, umida ed insicura, come lo sgabuzzino in cui spesso è stato incarcerato. Si vede soffocare, tendere il mento verso il cielo. Implorare Dio di salvarlo e di liberarlo. Vede serpenti grandi quanto lui stesso, piccolo ed angosciato topolino, di cui le spire cruenti lo stringono con forza. E l’abbraccio di morte si trasforma in una ricerca disperata d’aria. Si vede ancora nello sgabuzzino buio, pieno di ratti e di serpenti, e crede che questo pasticcio in cui si sia rinchiuso non sia tanto diverso dal suo passato triste.

Ma Prussia è ignorante e vuole ignorare. Per questo afferra la copertina, entusiasta, e l’avvolge fra lui stesso e Polonia. Toris, appoggiato con un balzo d’ali sulla sua spalla, si strappa nuovamente tre penne e le brucia addosso alla coperta. Vede la lancia ancora in mano del prussiano e i gesti veloci del pennuto e si chiede perché siano così crudeli con lui. Tira su il naso, trattiene ancora le lacrime. Il paesaggio si colora di nuovo e la carta prende nuove forme e figure.

L’aquila nera, appena in tempo, si cala sulla spalla del protetto. Cauta e severa, assiste anch’ella.

 

 

 

 

 

“Vi darei tredici… no, quattordici anni!” esclama la vecchia balia. Il gracidare della sua voce alle orecchie del ragazzino sembra il rauco strillo di dolore di un asino. Ama e detesta questa donna, non sa ben dire nemmeno lui per quale motivo. La ama perché è una delle poche che lo tratta come un figlioletto. Lo veste e gli pettina i capelli. Gli prepara sempre da mangiare, da quando deve studiare i libri imposti dai suoi re, e lo conforta quando si lamenta. Eppure, nonostante tutte queste premure, la vede come una figura distante. Anni dopo, diversi anni dopo, quando seppe della sua morte, non avvertì nulla e l’animo non si angosciò troppo per la perdita. E la detesta. Forse perché, come tanti altri in quella corte, è appiccicosa, è servile, anche se lo ritiene meno importante dei propri bambini. E ne ha tante, di creature da allevare. Polonia lo sa bene che lui è solo un ragazzetto come molti che deve tenere sotto il pugno di madre. E lui deve subire come sempre, ormai l’ha capito e ha accettato decenni fa il suo destino.

Ha dimenticato la fanciulla e tutta la felicità che gli ha donato. Ha dimenticato ogni cosa. Non saprebbe dire cosa sia un bacio o una carezza. Nessuno l’ha più amato dopo quel giorno. Gliel’hanno fatta dimenticare. Era solo una nobile come tanti, dicevano, non puoi soffrire per così poco. E ha dimenticato l’importanza dell’amore. Sa cosa sia, i libri sono i suoi veri maestri, ma non potrebbe mai spiegarlo. È come uno scolare che, imparata a memoria la lezione, non saprebbe come illustrarla a parole proprie. Ma non se ne cura, il piccolo principe, nessuno potrà più dargli quel che ha perso, quindi non vale la pena soffrirne. Già soffre per la noia e per il mantello che deve indossare ogni ora della sua vita. Questo basta per dimenticare.

Un’altra balia, ben diversa di volto e d’abbigliamento, esce ancora dalla stanza. Arraffa di fretta altri lenzuoli bianchi e scappa ancora dentro, dove accade quel che pare più una guerra che un parto. Polonia sospira e la balia di fronte a lei, polacca anche nel sorriso, scandisce altre sue possibili età. Ricorda un altro motivo per cui la detesta. Detesta darsi delle età e mostrarsi più piccolo di quel che sia. In realtà, Polonia non tiene conto nemmeno degli anni della sua vita, annoiato anche di quelli. Non ha mai vissuto quegli anni, quindi non ne possiede e non sono sue. Non deve avere un’età perché non ne ha mai avuta. Ma la donna continua, indifferente al suo dolore, come chiunque altro abbia conosciuto nelle varie corti in cui ha viaggiato. Era la loro bambola: lo vestivano come li aggradava, gli dipingevano un sorriso quando ne avevano bisogno e uno sguardo severo quando erano tempi crudi. Lo sbattevano in stanza in stanza e ignoravano il cuore palpitante, selvaggio, che pretendeva la liberazione da loro, dalle brucianti, false, carezze. Ma, con sforzi e punizioni, sono riusciti a domare quel cavallo pazzo e a riportarlo al suo posto. Anche se dovettero tagliargli criniera e zoccoli per farlo.

“La Maestà si sta riposando. Potete vederla” conosce ben poco l’ungherese, ma comprende l’essenziale. Si alza e lo fa anche la balia, con le braccia prepotenti e le gambe tozze e frizzanti. Lei felice, lui serio. Lei eccitata, lui probabilmente annoiato. Non saprebbe dire nemmeno come sia il suo animo. Scene come queste le ha viste fin troppe volte e ben altre volte ha dovuto dare la propria benedizione ai figli dei suoi sovrani. Ne è sinceramente annoiato. È annoiato anche di essere lì, in Ungheria, invece che a casa sua. Solo questa è l’unica innovazione che gli si è mostrata. Ma non può mostrarsi con un volto del genere alla sua signora. Quindi indossa la maschera parzialmente cucita sul suo viso ed entra.

Niente di nuovo o diverso e non si sente onorato di essere lì, nemmeno perché lui sia un ragazzo. Le finestre questa volta sono aperte e Polonia ringrazia Dio che lo siano: questa stanza puzza di sangue e dolore di donna e lui non ne vuole essere contagiato. Ignora il fagotto portato via dalle balie ungheresi e naviga dentro quell’aria pesante. La sovrana pare più morta che viva e non è la prima volta per lui vederla in quello stato. Si chiede perché dare alla luce così tanti bambini e con così tanto dolore. Le coperte e le lenzuola sono già state sostituite e presto quelle altre saranno bruciate. Per Polonia un giorno del genere dev’essere pieno di lamento che di felicità. Non capisce perché una donna debba essere così tanto entusiasta per la nascita di una creatura che in futuro, probabilmente, tenterà di strapparle via ogni briciolo di potere che possiede. A maggior ragione se non sia il primo di quello strazio. La donna è coperta bene, ma il biondo vede comunque il sudore che le imperla la fronte. È sollevato che possa almeno dormire. Ma sa della sua presenza e sa che deve, purtroppo, parlarle.

“Non serve parlarmi, Elisabetta. So che è stato molto più faticoso del tuo primo parto” riapre gli occhi, la sovrana. La stanchezza e lo sforzo si sentono anche dalle iridi spente. Ha fatto molto più male di quel che credeva lei stessa. Eppure ha dovuto, il bambino chiedeva solo di nascere. Guarda gli occhi torvi del ragazzino, ma legge tutt’altra espressione di compassione. Le è rimasto a cuore quel ragazzo più di quanto mostrasse a lui stesso. Ma perché all’inizio lo vedeva come un demone con occhi verdi e labbra rigide. Ha compreso tardi che l’hanno mutato in questi abiti il suo stesso popolo, ma ora soffre per lui più di quanto faccia ora, tra queste coperte sudice.

“Oh, Polonia…” pare soffrire anche nel pronunciare queste poche parole. Ma il biondo la rispetta e rimane in silenzio. Un brivido bollente di compassione lo abbraccia dalle spalle e ha quasi la sensazione che qualcosa lo stia tenendo fermo per le costole. E questo sconosciuto gli sussurra molte più domande e altra pietà. Quanto potrà mai portare dolore ad una donna mostrare la luce ad una creatura non del tutto sua? E lo spirito scuro che lo trattiene gli sussurra altra compassione. Il ragazzino sente di non dover essere qui e di non avere alcun motivo di disturbare questa donna, presa da un dolore a lui ignoto ma comunque terribile. Solo la fama di quel male lo fa tremare. Deglutisce, il piccolo Polonia e vorrebbe andare via per davvero.

“Io potrei anche andarmene…”

“Polonia, sai che è una bambina?” lo interrompe lei stessa. Polonia la guarda confuso e pare che negli occhi sia tornata la gioia e la vita “Ho pianto nel saperlo, ragazzo mio. Ho veramente pianto, tanto ero felice” e gli occhi s’intrecciano di lacrime, il fiato ritorna placido e calmo. Polonia è confuso e non potrebbe mai conoscere l’allegria che prova la sua sovrana. Sente i capelli più spettinati di quel che siano e le braccia ben più leggere di quel che crede. Una parte di maschera cucita, una grande fetta di cuoio, si stacca dal suo viso e cade. Lo sguardo affatto contento, ma neppure triste. La sorpresa forte. Nessuno è mai stato felice per la nascita di una bambina “Vorrei fartela conoscere. Magari… magari le piacerai” e chiude di nuovo gli occhi “Magari sarà il tuo re e ti aprirà il cuore” e crolla nel sonno, come morta.

Sta delirando, pensa lui e la balia affianco a lei. La misericordia per lei è padrona nel suo animo. Poche volte il suo cuore si è mai mosso con così tanta forza. Sono stati bravi a sigillarglielo, i malati della corte polacca. Sono stati aggressivi nel farlo, ma hanno realizzato un ottimo lavoro. Un principe non ha lacrime, né può permettersi un cuore troppo schietto. Un principe è severo e ha l’occhio attento al mondo. Un principe non ha amici, ma servitori. Un principe deve comandare e sapere quando dev’essere comandato. E dev’essere il braccio del sovrano nel momento del bisogno. Questo gli hanno insegnato e non è mai stato certo della loro veridicità. Ma a nessuno ha mai importato del suo cuore né se ne soffrisse, quindi finse di non soffrire e man a mano negli anni non ne soffrì veramente più. Era solo un ragazzino capriccioso ed infantile, questo gli hanno urlato per decenni e di questo ormai si nutre. Hanno creato e plasmato una maschera per lui, loro bambola di cristallo, e gliel’hanno cucita addosso. L’ago aveva dato più dolore di quel che credeva, il cuoio bruciava e la pelle gridava dalla sofferenza. Tanta disperazione gli hanno donato per modellarlo come gradiva a loro, maledette serpi. Ma ce l’hanno fatta. Eppure sente che un frammento di maschera sia stato sciolto dal filo di metallo e sia caduto, lontano da lui. Vedere la sofferenza di Elisabetta è stato doloroso. Ora non risponde più, completamente stremata. Polonia la rispetta e si allontana, e anche il corpo è felice di eseguire.

“Signore, ecco la bambina” ancora provato, ancora scosso e sfiancato, Polonia si volta. La balia ungherese, una delle tante, le porge il fagotto bianco. Il ragazzino si siede, sospira, ricordando la noia, riavendo noia. Ma, cauto e prudente, l’afferra piano. Poggiata sulle proprie ginocchia, la piccolina smette di agitarsi e rimane come paralizzata, forse per la sorpresa o forse per il nuovo calore mai provato prima d’ora. Guarda in basso, Polonia, colei che un giorno, come ha dichiarato la sovrana, lo guiderà e lui guiderà lei. Apre gli occhietti assonnati, il corpicino arrossato. Anche la balia si allontana, sicura di non dover interferire. L’avrebbe mortificata se l’avesse fatto.

Le palpebre della piccola mai si sono schiuse, nemmeno per vedere la madre o le copertine bianche. Ora si aprono, per la prima volta vede il mondo. Nel panno bianco, più puro di lei stessa, prova a stiracchiarsi, col corpicino fin troppo grassoccio e la pelle troppo rosata e raggrinzita. Il capo senza nemmeno un capello, i pugnetti serrati fuori dall’involucro niveo. Gli occhi chiari s’alzano e incontrano gli smeraldi di un giovane demone. Mai visto qualcosa in vita sua. S’interessa e comincia a fissare col blu il verde della Polonia. Polonia sbatte le palpebre, perplesso e preoccupato. La bambina è immobile ora, con l’occhio adulto e preciso sui suoi. Non potrebbe guardare nient’altro, osserva il ragazzino. Ben altri bambini ha preso in braccio e tutti erano fin troppo diversi da lei. Qualcuno di quelli voleva i suoi capelli e alzava le manine, già egoiste, verso i ciuffi biondi per farli suoi. Alcuni, già paurosi e vigliacchi, vedevano i suoi occhi di volpe scaltra e crudele e piangevano dimenandosi. Altri ancora, già indifferenti della vita, già indifferenti di altre vite, non lo guardavano e si scrollavano in cerca di tesori inesistenti. La bimba che ha in braccio non si muove ancora e Polonia viene stregato dai suoi occhi, così come lei lo è dai suoi.

Sente il proprio cuore ora, il piccolo Polonia. Lo sente forte, vibrante con quello della piccina, debole e veloce, diverso dal suo. Chiude piano le palpebre e pare che vene e margini di pelle facciano ugual cosa. Riaccende le iridi, il blu concentrato con più attenzione e virtù nei suoi occhi. Sembra anziana, questa piccina, con lo sguardo profondo e gli occhi instancabili. Aria fredda sfiora e penetra nella carne del biondo, che pure i capelli, anche se abbassati, si rifiutano di cadere verso la piccola. Questi occhi penetranti, che possano pure ospitare l’intero cielo d’estate, lo terrorizzano e lo tormentano. Tiene fermi i tremiti e vorrebbe far fuggire gli occhi da quelli suoi, ma è in qualche modo anche incantato. Preoccupato, terrorizzato, affascinato è Polonia, che questa bambina lo strega più d’una pozione. Ed è preoccupato per quel che prova. È terrorizzato da quel che sta vedendo. Ed è incantato dalla virtù di questi occhi. Per una volta, l’occhio di demone trema nel posarsi sulla figura di un angelo.

Il pugnetto si schiude. Discreta, grande e lenta, la manina s’alza, che vorrebbe provare la realtà di quel che sta vedendo. Polonia è incredulità pura: i bambini non sono niente di tutto questo. Non sono docili al tatto, non sapendo di poter essere cauti. Non sono così lenti, solo quando temono la novità lo sono. Ma questa bimba brucia di coraggio ed onestà e la mano pasciuta si poggia bollente sulla guancia del polacco. È ardente, ma morbida come piuma, la sua manina. Polonia è muto e provato ed osserva incantato ancora quegli occhi, luci turchine nel buio di questa stanza. Avverte la manina, che invece di salire verso ciò che studia, scendere sulle labbra di Polonia. Nel bordo della bocca non si ferma. I polpastrelli scottano sulle labbra sottili e bianche. Lì si fermano e lì si bloccano, come nel tacerlo, come nel confortarlo. Gli occhi blu sono ancora rapiti dai suoi. Polonia si sente rapito, incantato ed angosciato dalla pericolosità di questa bambina. Avverte il petto privo d’aria e spera che non siano queste iridi ad avergli tolto il respiro.

Non sente l’ungherese mormorato dalla balia, ma capisce che la bambina gli viene sottratta dalle braccia. Anche se allontanata da lui, il suo sguardo interessato ed inquieto continua a poggiarsi sugli occhi della piccina. Ancora l’osserva, ancora lo scruta, come se avesse già compreso che lei stessa sarebbe diventata sovrana di quel principino. La porta si sbarra, gli occhi chiari svaniscono, ma l’angoscia del ragazzino si protrae e l’assilla anche quella notte. E tra le lenzuola sudate di terrore per il blu del cielo, prega che quella creatura non la riveda mai più. Che troppa paura l’ha avvolto con un solo sguardo, anche se tacito.

Prussia alza un sopracciglio, intrecciato il corpo nel tessuto bianco e la mano ferma sulla lancia d’argento. Volta lentamente il capo verso Polonia. Perplesso, batte le palpebre. Il ragazzo ha una luce ben diversa da quella vista con l’arma d’argento. Con la bocca schiusa piano e gli occhi affatto luciferi, Polonia ricorda e ne è incantato. Persino Toris, alla sua spalla, vede la luce gioire negli occhi verdi e china il capo piumato, come sospirando, ma non per malinconia.

Frammenti di carta vengono strappati dal vento silente. E altro colore brilla sugli squarci candidi.

Anni sono passati e il blu degli occhi della bimba è ormai carta stracciata di un passato dimenticato. Ha dimenticato quella piccina, nient’altro che un fagotto innocente e forse anche morto. Molti bambini muoiono poco dopo il parto e ha sperato tanto che la stessa sorte baciasse anche la neonata. Forse è egoismo, ma non gli importa, che l’egoismo gliel’hanno insegnato e lui non è che il loro infido discepolo. E un discepolo non può lamentarsi degli insegnamenti dei maestri, anche se falsi più di lui stesso. Allo specchio si ammira e il cuore rimane ancora muto. È stato legato per troppe volte a queste catene e non ne sente più la stretta ai polsi. Guarda il mantello rosso più del vermiglio dei soldati caduti e pensa che una sorte del genere gli è ormai fin troppo familiare. Ci si dimentica di essere incatenati, se lo sia per quasi un secolo. Ci si dimentica di soffrire, se sia l’unico sentimento che ha mai provato per tutti questi decenni. Si guarda allo specchio e la monotonia di giornate come questa non lo toccano più. È una delle tante incoronazioni a cui è costretto ad assistere e ve ne saranno ben altre come questa.

“Siete meraviglioso! Siete voi il vero sovrano!” la balia la detesta ancora, le parla ancora ben poco. È una servitrice, dovrebbe stare zitta e sbarrare i denti. La detesta, anche se i suoi occhi affermano ciò che pronuncia con tanta esaltazione e gioia. Non c’è niente per essere gioiosi. Ma lei, anche se anziana, è pur sempre un madre e una madre è stretta bene al figlio, anche se alfine Polonia non ha una goccia del suo sangue. Ma Polonia non vuole essere trattato da figlio, per questo sbuffa e rigira gli occhi. Questa botte grassa è attenta, fin troppo per lui. Nota l’atteggiamento irrispettoso e fa anche lei la cattiva “Dovreste gioire anche voi: attendevo anch’io da anni un sovrano fuorché uomo! Dovreste emozionarvi così come faccia io e tanti altri!” Polonia vorrebbe trovare un modo per farsi giustizia di lei, ma non lo trova, allora fugge dalla camera e la lascia lì, ancor più che furiosa. L’avrebbe sentita il mattino dopo, alla fine dei festeggiamenti, ben più furba e vendicatrice.

Il mantello è uno strascico pesante ed opprimente, la tunica fin troppo leggera e larga e gli anelli gettati immediatamente al suolo. Ignora gli occhi alti degli uomini e lo sconcerto delle donne. Credeva che decenni di parole potessero spezzare l’energia di un uomo, ma si è sbagliato: li ha rimproverati più volte, ma non esisterà mai un anello che potrà mai indossare. Ed infilarsi gemme femminili è fuori discussione. Disprezza questa gente solo per i loro occhi, per questo li ignora. Che gli strappino le vesti, se ne importerà ben poco. È immortale e le generazioni mutano come un alito di vento: li dimenticherà e loro dimenticheranno lui, con la morte. Anche per questo tutto ciò è poco importante.

Apre brusco le porte e, nemmeno è entrato, che già i piedi scappano al loro posto. La nobiltà si volta stupefatta ed impaziente. Gli occhi si spengono, sfugge qualche sospiro: è solo la loro Nazione. Sconfortati, più che agitati per l’emozione, ritornano a confrontarsi fra loro sulla futura sovrana della loro terra. Polonia è ignorato e vuole essere ignorato, per questo rimane vicino alle porte, in attesa che il suo compito raggiunga il termine. Non ascolta il chiacchierio della nobiltà, nemmeno vorrebbe conversare coi soldati vicini, alla guardia della sala. Ha rinunciato persino a squarciare il mantello com’aveva precedentemente ponderato di fare. È pesante, troppo pesante per lui, ma sopporta il dolore alle spalle. Sospira, infelice di essere lì e di non essere nessuno per questa gente. L’occhio vaga, in cerca di distrazione. La cappella brilla d’oro, simbolo degli antichi sovrani caduti, i vetri colorati non brillano neppure, forse anch’essi stanchi, la croce con Gesù, piangente, pare davvero riprendere a vivere e a supplicare di cessare il tormento che è anche del principe polacco. Compatisce quella croce, così come la croce compatisce lui. Gli occhi scavati del figlio di Dio bruciano di passione e lacrimano di sangue alla vista dello scempio della nobiltà e del suo dolore nascosto. La corona di spine, anche se dell’uomo crocifisso, Polonia la sente sul proprio capo, come Gesù si è sentito incoronato del sangue del suo popolo. Il ragazzino pensa di essere il principe del nulla e si sente vicino al figlio del Signore per lo stesso strazio. Anche lui ha una corona fasulla, di falso oro, di una falsa Nazione, implorante di morire. Si chiede se l’uomo alla croce, quando fu eretto sul colle assieme ad altri colpevoli, si fosse sentito preso in giro per la sua sciagura. Perché ora Polonia si sente veramente un povero fringuello, incatenato in una gabbia argentata, splendente e perfetta. Ma pur sempre una gabbia. Polonia si commuove, fa il segno della croce e ringrazia silente Dio di avergli fatto sfiorare il dolore del figlio. Perché alfine Lui ebbe il trono meritato nei Cieli e spera che un giorno ne avrà anch’egli uno per lui di vero oro e vero argento. Con una vera corona e una vera nazione.

Le porte, lente di attesa, si spalancano. Polonia fa cadere lo sguardo: per poco il mantello maledetto non si sarebbe strappato. Controlla se si sia lesionato o peggio. La balia non glielo avrebbe perdonato e lui non saprebbe ancora come vendicarsi di lei. Tacciono i nobili e la luce del mattino folgora l’intera Chiesa. Polonia non sa ancora che sia benevola questa luce, per questo la ignora. La musica si scalda e dà calore all’intera sala dell’amorevole melodia. Polonia non sa neanche che sia una musica diversa da quella che ascolta al solito, allora ignora anch’essa. L’ombra timida carezza il proprio mantello e i piedi calzati con pregiate stoffe. Sa solo che la sua sovrana è assai più piccola di quel che gran parte della corte si aspettava, per questo non se ne meraviglia. Ignora il mantello, ben poco importante ora. Alza piano il capo, lo sguardo di principe severo e occhio ricurvo. Alza gli occhi e vede blu di cielo.

La musica si ferma e anche il cuore del polacco fa ugual suono. Il gelo dell’inverno appena trascorso lo congela e penetra fin dentro le carni. Lo sguardo che avrebbe dovuto sempre mostrare pare come incenerito e dimenticato. L’occhio di demone mostra il proprio terrore e danza malamente nell’iride pallida del ragazzo. Il respiro si stringe e la gola non pretende più aria, vuole solo fuggire da questo corpo ingombrante, ma per farlo deve renderlo più leggero possibile. Ma i piedi sono marmo incastrato nei ghirigori del tappeto e si rifiutano di fuggire, anche se l’anima pretende di farlo. Con cuore fermo e il cervello strascicato dal terrore, Polonia non riesce a pensare e semplicemente non lo fa. Il blu ancora si posa sui suoi occhi luciferi e, come un demone alla vista di un angelo, il ragazzino vorrebbe fuggire. Ma ben poco può fare.

Il corpicino di bambina muove la mano prima di egli stesso. Si scuote poco, il cuore, come nel vedere fra le dita della piccina degli artigliacci di strega. Forse la melodia esiste ancora nella sala, ma non potrebbe dirlo: il cuore fa troppo baccano tra le costole spezzate dalla paura. La bambina non muta sguardo, né sbatte le palpebre, come cristallizzate, ma è la manina a muoversi ed intreccia le unghie minute fra gli spazi delle sue dita. Il cuore romba nelle orecchie del principe e pare urlargli di fuggire, di scappare da questa follia dove si è cacciato. Che lei non è una futura sovrana, ma la sua condanna. Ma non potrebbe ascoltarlo nemmeno se lo desiderasse. Allora stringe forte le dita ghiacciate e camminano assieme verso l’altare. Come Nazione e re. Come principe e principessa. Come marito e moglie. Perché è questo quello che sta facendo Polonia: sarà sposato con questa bambina, finché la morte non la strapperà dalle sue braccia. E il ragazzino vorrebbe che la figura oscura e misteriosa dell’angelo nero la porti via da lui, lontana, affinché svanisca come cenere. Ma non accade e i gradini vengono superati.

La mano non si separa dalla sua, anzi, le altre dita solitarie accolgono quelle bianche della bambina. Per quel poco che gli occhi blu lo lasciano, posandosi sulle nocche del principe, Polonia riprende il fiato che ha perso e ne è confortato. Eppure il cuore palpita ancora e rende bianche le proprie guance e leggeri i capelli color grano. Vorrebbe un vento caldo per accogliere le spalle sfibrate. Vorrebbe che Dio lo salvasse. Guarda in alto, sulla croce di suo figlio e gli prega di dargli risposte sul perché si trovi lì e sul perché questa bambina debba essere la sua sovrana e perché Elisabetta abbia voluto dannarlo invece che rincuorarlo. Dall’alto non ha risposte e allora riabbassa il capo, deluso.

Il prete li avvolge insieme, con la stoffa fresca e pura di un velo. Il respiro gli viene di nuovo negato, dovendo per forza poggiare gli occhi di nuovo su quelli della piccina. Il cielo nelle iridi è tenue dietro ai fili sottili del velo. Ne è sollevato, gli reca meno dolore l’occhio saggio e carezzevole della bambina. Dietro alla stoffa, dietro a questa barriera fasulla ma efficace, Polonia riesce a concentrarsi e la paura viene meno. La croce avvolge i due capi giovani, sopra alla stoffa leggera, ma l’oro del crocifisso non lo tocca e non lo scoraggia, nonostante sia pesante. Riesce il cuore ad essere più elastico, a non assillarlo più. Terrore ne ha, ma ora è indagatorio, scoperta la natura mite della piccina. Non vede solo blu, ma anche il nasino piccolo, infantile e tenero. Le guance tonde, i capelli fini nell’acconciatura elaborata. Non ha più paura, Polonia: è solo una bambina. Una bambina con uno sguardo ed occhi di signora e questo è insolito per lei. Insolito, ma non pericoloso. Non ha sentito una parola del prete, completamente perso ad altro. Il velo e la croce vengono tolti e la realtà riappare nitida come prima, ma non per niente mostruosa. Ora l’anima è sollevata, quella del ragazzino, avendo scoperto la curiosità invece della paura. Il cuore ha piccoli palpiti, meno energici, più persi di lui stesso. La corona grossa, viziata dei re viene retta sul capo minuto della bambina. Questa, virtuosa e non deviata, si erge per mostrarsi. Come una sovrana. Come il Re.

“Jadwiga d’Angiò è il nostro nuovo Re!” urla di gioia, chi falsa chi autentica, intonano l’intera chiesa. E petali di fiori, di ogni sfumatura e colore cadono sulla giovanissima sovrana, ancora forte dello sguardo, immutato come pietra fiera e leale. Eppure il capo volta e incontra lui, il suo debole sposo, che l’ha resa sua questo giorno. Che lei ha reso sua quel giorno. L’occhio più curioso, ma affatto immaturo, poggia la propria anima su quella sporca del biondo. Polonia si sente teso come una corda di fronte a lei, ben più piccola e pacata. La maschera che doveva indossare per tutti questi anni si è sfibrata e ora cade, dimenticata del tutto.

Prussia riconosce la bambina, causa di grandi sventure per lui. Ma, affatto meschino e vendicativo, volta il collo verso il più piccolo, per burlarsi di lui e della sua ridicola paura. Toris è girato verso comandante e lo fa tacere con gli occhiacci severi. Prussia blocca le parole, non solo per lo sguardo sprezzante del falcone o per le piume scosse dell’aquila nera, ma perché una luce così forte non ha mai visto negli occhi di Polonia. Tace e continua ad osservare la carta mutare di fronte a loro.

“Non vi vado molto a genio, Polonia” il ragazzino sente un brivido di freddo terrore a queste parole. È congelata, l’anima ribelle, che di ribellioni non ne ha più fatte. Non ne ha avuto mai l’occasione o il consenso. Volta piano il capo, Polonia ed incontra gli occhi di Jadwiga. Se n’è vergognato molto di non aver chiesto chi fosse lei, prima dell’incoronazione. Chi sarebbe stato il suo Re e di chi è figlio. Non l’ha chiesto: troppa noia, troppa pigrizia. Troppa indifferenza. Sarebbe stato uguale a tanti altri sovrani, aveva pensato giorni prima. Non avrebbe fatto differenza. Eppure, ora, questa sera, seduto su quest’erba, con questo tramonto, Polonia se ne vergogna. Inclina il capo, serioso. Cerca la maschera di principe, ma non la trova.

“Cosa glielo fa credere, Maestà?” la piccina è seduta sull’erba come lui. Che vergogna per una sovrana! Nonostante ciò pare più toccata dalle sue parole che dalla rugiada tiepida sui suoi vestiti. Inclina il capo in basso, ma gli occhi sempre fermi sui suoi, anche se spenti. Gliel’ha spenti lui, questi occhi. Ma non se ne pente. Non subito.

“Mi guardate con timore, eppure non vi ho fatto alcun male” un’altra scarica di freddo vento ghiacciato striscia veloce sotto la tunica troppo leggera del ragazzo. Il cuore tonante, lo sguardo fermo sul suo. Vorrebbe sovrastarla, questa bambina, ben più piccola di lui. Ma non ne è in grado e non potrebbe mai farlo. Perderebbe contro di lei anche se avesse un intero esercito fra le sue dita. È troppo potente, solo per gli occhi. È troppo piccina, anche se importante per il suo trono. Non volta il capo, tuttavia sente i bisbigli di sconcerto, di disgusto forse. Non sono troppo lontani dal castello, e le balconate sono spalancate per ammirare il tramonto. Il cielo rossiccio, il sole biancastro, cadente dietro agli alberi delle sue foreste, le nuvole quasi scure per l’avvento della notte. È meraviglioso, questo tramonto. Ma il gelo viene scacciato dalla schiena di Polonia. Ora è bollente come fuoco. La frustrazione per questi uomini e donne che li fissano, cattivi, crudeli, lo fa bollire nella rabbia. Vorrebbe digrignare i denti, pestare qualcosa fra i molari. Spesso ha pensato di pregare il sole di bruciare quel castello e di far vivere solo lui, per farlo fuggire e per lasciarlo sopravvivere nelle foreste. Saprebbe già come cacciare e dormire laggiù, in quei labirinti di foglie e lupi. Sarebbe felice di essere libero. Un fringuello fuggente dalla gabbia d’oro. Sarebbe il ragazzo più felice del mondo. La piccola sovrana ha gli occhi attenti e ancora scuri. Ha sbirciato dietro le loro spalle e vede ciò che Polonia detesta. Le guance sono bianche quando gli parla, quando ormai il tramonto è scomparso e le stelle cominciano a brillare dietro le nuvole.

“Credete che diventerò come loro. Credete che vi deriderei e v’ignorerei” afferma sempre, mai domanda, si rende conto il biondo. Polonia, affatto annoiato di lei, la guarda ancora. Ma gli occhi blu non lo stregano affatto. Se vi è stato un incantesimo, allora si è sciolto. Non ha paura di lei. Ora l’osserva bene. È una bambina come tante, che ha di fronte a sé un destino già scritto. E forse nell’essersi reso conto che sia uguale alle altre, lo rende triste. Preferirebbe temerla ancora, come ha fatto quand’era una neonata, come ha fatto quand’era in quella chiesa e l’ha rivista. Quando i suoi occhi sembravano celestiali e pericolosi. Ora sono solo delle pupille blu, affatto diverse da altri occhi chiari che ha visto in passato. Si sente sconfortato. Però, anche se come tante altre bambine, gli occhi di questa sovrana sono adulti e saggi. Sono seri e pacati. Sono virtuosi e forti. Questo lo ha meravigliato la prima volta che la vide, ora ricorda. Non è affatto uguale ad altre fanciulle, infantili ed ignoranti. Lei lo guarda ancora e pare interessarsi di lui. Polonia spera che non possa mai stancarsi del suo animo di demone. Spera che continui ad affermare il vero e mai a chiedergli. Si sente dispiaciuto per averle poggiato malamente l’occhio su di sé. Si vorrebbe scusare, non è da lui fare questo.

“Non l’ho neppure pensato, Maestà” il turchese nelle iridi pare bruciare e scongiurare di non diventare cenere. Ha alzato di nuovo gli occhi su di sé e ora brillano, spezzati. Non gli crede, nemmeno una parola. Ma non pronuncia i suoi pensieri, fin da ora sapiente e serena. Polonia arrossisce di vergogna, non sapendo più cosa fare. E il rossore pare toccare anche la propria schiena che, pentita, cade in basso. Il naso vorrebbe sfiorare i ciuffi verdi d’erba, tanto si sente mortificato. Per la prima volta dopo anni si pente di aver offeso una persona. Si pente di non aver compreso che questi sono occhi d’angelo: vedono ogni cosa che ha in cuore, anche nel suo, cuore di demone. Pensa che forse dovrebbe allontanarsi, ha già dato fin troppo peso con la sua presenza. Come sempre. Ma in passato non ne voleva sapere di accettarlo. Rialza il capo e crede veramente di alzarsi. La bambina alza il mento grigio al cielo, sopra i picchi di foglie degli alberi, come concentrata. Il blu ritorna in vita.

“Credo di averti già visto. Forse molti anni fa, ma ti ho già visto” uno scatto, solo uno scatto ha il corpo del ragazzino, ma lo trattiene con tutta la sua forza. Il volto, però, dimentica come sia fatta la maschera che sta cercando da tempo. Il verde smeraldino è cadente, vergognato di trovarsi vicino a lei. Di poterla guardare così da vicino.

“D-Davvero?” chiede, la voce minuta, più infantile di questa piccina. La veste color oro fa brillare i capelli del medesimo colore della pietra aurea. Il cuore impazzisce, come scoperto un segreto di anni. E il desiderio di nascondersi è forte. Ma non vuole, non ancora. È pur sempre un ragazzo e un ragazzo è un garbuglio d’ingenua curiosità. È curioso, Polonia, della sua sovrana. E a malapena ricorda che gli ha dato del tu. Come un fratello. Come un marito amato. Eppure non è nulla di tutto questo, l’infantile principe polacco.

“Ricordo sempre strani sogni. In uno ci sono occhi come i tuoi, Polska” ancora novità, ancora qualcosa di mai sentito prima d’ora. Nessuno l’ha mai chiamato così amorevolmente. Ma il pensiero è ben più lontano, ben più impaziente. Chiamati in causa, come accusati di un omicidio mai commesso, i propri cristalli verdi cadono, tentano di celarsi, ma non ci riescono. Anche un cieco li vedrebbe. Due occhi così cattivi e crudeli li vedrebbe e li disprezzerebbe qualsiasi buon uomo. Ma la bambina cattura nel suo cielo il verde delle gemme e lo culla tra i pezzetti di nubi, incastrati nell’iride colorata. È meravigliato, Polonia, ma non felice. Forse terrorizzato.

“Occhi, bimba…?” altro di nuovo, altro d’insolito. Non avrebbe mai osato parlare in questo modo ad un sovrano. Se i suoi maestri lo sentissero, prenderebbero il bastone e lo costringerebbero a chiedere perdono col capo sul marmo. Sa bene cosa gli farebbero. Madre mia, ha detto ad Elisabetta, per ringraziarla, per averlo baciato e cullato, quando dimostrava ancora pochi anni. Le è stato grato e l’ha baciata anch’egli. Nessuno ha mai fatto questo per lui. Ma è stato visto, è girata la parola e ha avuto la punizione. Elisabetta non l’ha saputo. Gliene ha parlato quand’ebbe Maria, la sua prima bambina. Gliel’era sfuggito dalle labbra e lei voleva punire i colpevoli. Non era possibile, troppo tardi: già morti, già mangiati dai vermi della terra. Ma nessuno ora lo sta ascoltando e non si pente delle sue parole. Questa annuisce, per la prima volta pare più bambina.

“Sì, erano verdi come i tuoi, tagliati come un buon demone”

“Un demone non è buono, Jadwiga” le sorride, sinceramente grato della nuova scoperta: è pur sempre una bambina, assai saggia, ma pur sempre una bambina. I bambini sono ingenui e ben poco sanno della realtà. Non conoscono nemmeno la ferocia di un demone. Un demone come lui. La piccina lo guarda, le guance più tonde e i capelli un arruffamento di boccoli lucenti. Le stelle la illuminano e la desiderano anch’essa come propria maestà. Non apre bocca, ma ha un lieve sorriso. E basta questo per controbatterlo, a non credergli. Al ragazzino muore il volto lieto, come colpito da un fulmine. E il brivido elettrico lo fa tremare e lo paralizza. È pazza, questa. Una pazza molto buona. Le guance più pallide per il freddo, ma lo ignora, poco importante. Il cuore un lieve palpito innocente. Polonia si stende e i capelli si macchiano di rugiada. Jadwiga lo imita, il capo cadente e gli occhi specchio di stelle turchesi. In silenzio, per nulla ignorato, Polonia si sente stranamente in pace ora.

“Nel mio sogno mi sentivo in trappola. Era tutto, tutto buio e a malapena riuscivo a concentrarmi. Pensavo di essere bloccata, e infatti non riuscivo a muovermi. Ma poi aprii gli occhi e ho visto solo verde” Polonia fa un respiro molto più profondo e attende che il cuore fermi i palpiti fin troppo prepotenti. Eppure non è paura, la sua nuova malattia “Non vedevo nient’altro e a me sembrava di non guardare nient’altro di più bello. Ne ero incantata. Volevo capire se fossero veri occhi quelli che vedevo e se potessi in qualche modo non allontanarli da me. Ho alzato la mia mano e presi la guancia del fanciullo. Per me lui era un fanciullo e io una bimba ancora troppo piccola per camminare. Ma presi la guancia e sperai almeno che potesse baciarmi la mano, perché è così che si suggella l’amore, così mi ha raccontato mia madre. Ma il mio sogno si conclude sempre così, anche se ora ho risposte di tutto questo” sembra riprendere fiato, fermarsi e attendere di avere aria alla gola. Polonia non ha fretta, il cuore ancora troppo estasiato, gli occhi umidi “Era solo un sogno… Non ho mai visto quegli occhi e gli ho immaginati” la voce ancora più fine, la rugiada increspata fra i capelli di entrambi “Mi è dispiaciuto veramente tanto scoprirlo… Erano veramente belli…” e tace, forse esausta.

Ha occhi umidi, guance pallide e fredde, vento troppo severo, capelli impregnati di lacrime d’erba verde. Il naso vorrebbe gocciolare, ma glielo impedisce. Non può mostrarsi piangente di fronte a lei, anche se piccina. Sente il cuore spezzato, tranciato in due. Ma è ridicolo: non è triste, non è stato nemmeno distrutto e schiacciato. È felice. Per la prima volta dopo anni si sente veramente felice. E non comprende il motivo delle sue lacrime, terribilmente infantili. Maldestro, detestandosi, tira su il naso, deglutisce bile e saliva, acerba come sangue malato, e si strofina gli occhi con troppa forza. Ma così ferma i tremiti e le altre gocce del suo pianto. Si sente felice, eppure si sente così male… Forse non è più abituato alla felicità e provarla di nuovo gli procura ora fastidio e dolore. Il corpo umano è come una grande e complessa macchina, in continuo movimento, anche in emozioni. Come ogni congegno, se un meccanismo non viene utilizzato per un buon periodo di tempo, questo si arrugginisce e forse si rovina. E riutilizzare lo stesso procedimento, distrutto dal tempo, compromette l’intero circolo e rischia di frantumare bulloni e motori.

Per nulla calmo, decide di rivelare il sogno alla piccina. Alza piano il petto e già vorrebbe parlare, ma si blocca. Jadwiga dorme cullata dal vento notturno, carezzata dalle stelle della sera. È dolce ed infantile, con le guance tonde, le manine rivolte allo scuro manto della notte e i capelli abbandonati alle premure degli steli d’erba. Se ne innamora, il piccolo Polonia. Se ne innamora e ne soffre, non potendo il suo amore essere mai ricambiato. Spera che un giorno possa amarlo come lui ora ama lei. Lo spera tanto. Bacia il palmo aperto della sua mano, come lei desiderava ogni notte e chiede a Dio di darle in sogno lui stesso, di avere nei suoi pensieri i suoi occhi che nessun altro ha mai apprezzato fino ad ora. Spinge il corpo vicino al suo e, per la prima volta nella sua vita, veglia il sonno di un suo Re.

Anni e stagioni sono passati. Polonia non ha più contato le primavere e gli inverni trascorsi insieme a Jadwiga. L’ha fatto per breve tempo, fino a quando altri sovrani desideravano la propria bambina. Passarono solo tre stagioni prima che il Granducato di Lituania si presentò insieme al proprio sovrano, per avere Jadwiga. L’avrebbe persa per sempre, aveva pensato. E si era comportato come un bambino, Polonia, perché non voleva perdere l’unica fanciulla che amava veramente. Ma ha dovuto accettare la richiesta: diecimila persone erano contro di lui. La corte lo desiderava. Elisabetta lo desiderava. Allora ingoiò il malore e tentò di accettarlo. Jadwiga era la sposa di Jogaila e lui non poteva fare molto. Ma la medicina amara passò veloce ed indolore nello stomaco: Jadwiga gli parlava ancora, gli sorrideva come prima che il suo regno diventò più grande e forte. Non l’aveva persa, non come la fanciulla senza nome che l’aveva accudito. Era ancora sua. Ma guardava il granduca col mento alto e lo sguardo truce: il matrimonio è utile solo per portare tanto male. Polonia lo sa per esperienza ed era certo che la sventura avrebbe indicato con la sua mano aguzza anche Jadwiga. E lo fece. E lui non fece nulla, non poteva fare nulla.

Entra nella camera, timido come mai ha fatto. Ha dolore e ricordi. Elisabetta è morta anni prima, ma gli ha lasciato il disagio del parto e la cruda realtà del dolore. Anche la sua sovrana ha dovuto subire questa punizione di Dio, per un delitto che non ha mai commesso. Ogni donna deve subire tutto questo per l’egoismo del proprio uomo. Nelle ore precedenti, coi lamenti di Jadwiga dietro alle mura scure, aveva meditato di farsi assassino di Jogaila, maledetto cane come tanti altri mariti. Non poteva un dolore del genere stracciarle il suo grembo. Non poteva il Signore essere così insensibile con una creatura anche sua. Non poteva e basta.

Storce il naso: stesso odore malsano, stessa aria chiusa, stessa donna gettata in quel pantano. Prima di qualsiasi altro servo spalanca le finestre e la pioggia scroscia dentro. L’aria fredda sferza la propria ira addosso alla pietra sotto ai suoi piedi. Entra un po’ di luce e spera che lei stia bene. Stessa pelle bianca. Stessi segni scuri sotto agli occhi. Stesse palpebre senza vita. Il dolore rende uguale qualsiasi uomo o donna. È una triste verità: persino la sua sovrana ha lo stesso volto di qualsiasi altra donna che abbia mai visto. È identica a sua madre ora, Jadwiga, e Polonia non sa se esserne felice o amareggiato. Lo stomaco ha un tormento di sensazioni. Poggia le ginocchia sulla pietra e i gomiti sul letto. È ancora piccolo e gracile, il ragazzino, ma dopo anni solo ora se ne rende conto. Jadwiga è brava a far dimenticare la vergogna di sé stessi.

“Polska, sei qui!” mormora lei, con gli occhi spenti e le labbra troppo fini. La morte le ha strappato gli occhi e rubato il turchese. L’anima si muove tenue, incatenata ad un corpo morto. Polonia vorrebbe piangere, anche ora che si trova vicino a lei. È persino cresciuta più di lui, la dolce Jadwiga, lui incapace di trattenere fra le dita una spada. Lo chiama ancora per nomignoli, tanto è buona. Basta poco per farlo rendere bambino, il piccolo Polonia. Sorella e moglie amata, piange in silenzio, che ha sentito gli altri crudeli della corte, malvagi ma veritieri. Il parto è dolore. Il parto è sangue. Il parto è morte. E nessuno l’ha voluto consolare mai, l’innocente Polonia. L’ha reso lei innocente e di questo ne è grata anche la più minuta delle sue ossa. Polonia dà la colpa del suo dolore allo sposo ingrato, il grande Jogaila, che lui l’ha maledetta e ha maledetto anche lui. Che la ama. Un amore ben più maturo del suo precedente, con la fanciulla senza nome. E sussurra ora in mente sua: che tu possa morire agli Inferi, Jogaila! Che Dio, che non hai mai conosciuto veramente, possa fulminarti! Jadwiga non lo sente, le orecchie per metà sorde. Il dolore porta anche alla mancanza. Non sente nemmeno il proprio grembo, che il bambino ha rifiutato di nascere. Ha perso anche parte della vista, la sventurata, pura sovrana. Appunto, non vede le lacrime di Polonia “Dov’è mia figlia?” le scosse più forti, i tormenti nell’animo, ma la voce forte, sprezzante del destino spietato.

“E’ morta!” urla e forse solo ora Jadwiga sussulta, in tutta la sua vita piena di luce e di Dio “Elisabetta Bonifacia è morta! E tu hai dato la tua vita per una creatura ingrata!” vergognoso per le sue parole sdegnose e agitate, fa spezzare il proprio collo e sbatte forte la testa sulle coperte. Bianche, vergini di purezza, si macchiano delle sue lacrime. Geme forte, arrabbiato, Polonia, che un destino così crudele non è voluto nemmeno al più infimo degli uomini. Nemmeno ad un piccolo demone, che in vita sua ha fatto poco che niente di male. Ora odia lo sposo della sua sovrana, anche se mai gli ha rivolto la parola e mai lo farà. Non vorrà più guardarlo in volto, non vorrà più mangiare alla sua stessa tavola. Non dopo ciò che gli ha fatto. Non dopo averle strappato via la sua amata. Con fatica alza il volto e l’anima sobbalza ancora. Fa fatica, anche a guardare Jadwiga. Il suo volto morto gli fa urlare il cuore per la frustrazione. Doveva impedire quel matrimonio. Doveva, ma non l’ha fatto e ora ne paga le conseguenze “Jadwiga… non andartene…”.

Meraviglia. Occhi sbarrati e commossi. Credeva che le forze per parlare fossero poche. Ma s’è alzata, con forza di santa. Ha alzato anche le braccia e gliele avvolge attorno. Ha calore, Polonia. Quel calore di donna, di amore che raramente ha mai provato. E ora la ama veramente, il ragazzino. La ama come si ama una sposa. Avrebbe voluto sposarla lui, come un qualsiasi uomo. Come un qualsiasi umano. Si è trovato la sfortuna deridente di lui, ogni giorno della sua vita. Ha creduto che l’avesse abbandonato, la crudele megera, quando quella sera fu incoronata la sua sovrana. Ha creduto che la vita potesse sorridergli ancora e che potesse tenerlo abbracciato nel proprio grembo. È stato tutto falso. È stato preso in giro di nuovo. E anche se lei ora lo tiene stretto, Polonia piange ancora. Si sente un bambino, strappata via la madre morente. Se ne vergogna, ma non riesce neppure a fermarsi “Devi essere forte, piccolo. Veglierò su di te da lassù. Te lo prometto, Polska” e l’abbraccio pare meno energico, anche se disperato.

La stringe lei. I gemiti più prepotenti. Le lacrime instancabili fiumi. L’anima strascicata dal destino brutale. Immagina la megera ridere di lui, della sfortuna che lei stessa gli ha causato sin dalla nascita, chiuso in quel castello di adulti. Così in trappola non si era mai sentito, l’ingenuo Polonia, che un peccato del genere non doveva mai ricevere. Straziato dall’interno delle carni, tranciato, sofferente, Polonia libera il volto dalla spalla debole della donna. L’urlo è forte, allarma le donne raccolte fuori dalla camera. Stretto al corpo morto di Jadwiga, Polonia urla, finchè la gola non si strappa e le grida non si stringono per il dolore. Brucia, la gola del ragazzino. Grida l’anima sofferente. Jadwiga è spirata nel suo abbraccio e a nessuno pare importare della sua angoscia.

La donna che ha amato è morta e nessuno lo consola o lo ascolta, perenne fantasma fra queste mura di carta.

Ha osservato portare in città, a Cracovia, il corpo della sua sposa. Ora è solo e non desidera altro che solitudine. Sul prato verde, senza fiori, bagnato dalla pioggia insistente, Polonia vuole lasciarsi morire da solo. Chiunque lo desidererebbe, ma quei pazzi hanno creduto il contrario. Ha rifiutato più volte di seguirli e di portare via Jadwiga insieme a loro. Gli ha minacciati, ha mortificato le donne e scocciato gli uomini. Se un altro di loro avesse aperto bocca, aveva detto, lo avrebbe appeso a testa in giù in cima alla torre, fino a quando la morte non lo avrebbe strappato dal supplizio. E più nessuno più si sarebbe ricordato di lui. Nessuno gli ha creduto. Un bambino viziato dev’essere solo ignorato. Così fecero e se ne andarono lontano da lui. Il funerale sarà celebrato in città, ma non vuole parteciparvi, né osservarlo.

Un altro tuono romba nel cielo scuro. È mattino, eppure fa così freddo… La pioggia è come un bagno ghiacciato sulla sua pelle. Anche Dio piange la morte della sua signora, nonostante le abbia dato la morte. Un essere supremo, ma ipocrita, non lo vorrebbe mai conoscere. Avrebbe dovuto lasciargliela. L’avrebbe resa felice fino alla vecchiaia. Sarebbe stato più paziente e meno lacrimevole, se l’avesse portata ai suoi angeli da anziana e saggia. Avrebbe vissuto una lunga vita, avrebbe dato a quell’ingrato marito altri figli, solo per accontentarlo. L’avrebbe fatta ridere e vivere i suoi anni. Pensa veramente di odiare Dio. Un individuo così spietato non dovrebbe nemmeno esistere. Forse l’infelice Lucifero è un re ben più buono, forse spodestato non per sua superbia, ma per sua generosità. Polonia ci crede veramente e, guardando attraverso la pioggia, attraverso gli spari veloci dei fulmini, osserva il cielo. L’occhio fin dalla sera prima era scuro, ora brilla di vendetta che non avrà mai. Non potrà vendicarsi di Dio, ma può disprezzarlo. Le gocce gelate gli appannano la vista, ma si fa coraggio e guarda ciò che non dovrebbe guardare. Crede che Dio sia proprio lì, ad osservarlo e, con falsa misericordia, lo compatisce. Ha lo sguardo di un demone, Polonia, e lo riserva solo al suo persecutore. Odia Dio e spera che venga tradito una seconda volta dai suoi angeli, per distruggerlo del tutto. Per eliminare questo inganno.

Per poco la sua vista si oscura. Rizza la schiena, terrorizzato che i suoi pensieri possano essere stati dannosi per lui. È solo un mantello, lanciatogli sulle spalle e sui capelli infradiciati. È ancora caldo e morbido, mai toccato dalla pioggia. Più irritato che grato, volta il capo. Aveva creduto che nessuno ci fosse al castello, tutti presi dalla marcia verso la chiesa. Eppure qualcuno è rimasto, meno che le guardie. E’ Lituania, solo lui, eppure maledettamente fastidioso. Il suo sguardo compassionevole e il suo sorriso puerile fanno agitare il fuoco in lui. Potrebbe fulminarlo, se potesse. Non ha mai parlato col ragazzino, meno che la prima volta che si incontrarono, più di dieci anni prima. Aveva Jadwiga, non aveva bisogno di nient’altro. E già detestava Jogaila, quindi la sua Nazione doveva essere ugualmente cinica. Ma Lituania è solo un ragazzino, rimasto lì per malinconia. Ha visto la Nazione infelice e ha voluto dargli conforto. Ma Polonia fa stridere i denti.

“Vattene! Non ti voglio vedere mai più!” non ne ha mai avuta di compassione, e non ne vuole avere. Soprattutto da un lituano che, è certo, sia stato la causa di tutti i suoi mali. Maledice qualsiasi cosa, il ragazzino, ma perché non riesce ad incolpare sé stesso.

Lituania si trova il mantello rigettatogli addosso, come uno straccio. È il suo mantello preferito e ha pensato che l’altro ne avesse bisogno. L’ha osservato per vari minuti sotto la pioggia, a bestemmiare in silenzio contro il cielo, con gli occhi che paiono lame incandescenti, lasciate per giorni sul fuoco per cuocere la propria ira. Ha uno sguardo mortificato, il piccolo Lituania. Si sente in colpa per un misfatto mai compiuto. Anche lui ora è zuppo di pioggia, i capelli un panno infangato in uno sporco fiume. Deglutisce ed indietreggia: gli occhi furibondi di Polonia sembrano veramente pericolosi. È solo un ragazzino, ancora pagano nel cuore, e ha sentito spesso di certi demoni che si nascondono nei corpi della gente, per abitarci e nutrirsi del loro odio. Lituania crede molto a questa storia, ma vuole comunque scacciare quel presagio di malvagità in Polonia. Un po’ più coraggioso, decide di avvicinarsi. Il biondo, imbizzarrito, adirato, desideroso solo di solitudine, lo colpisce. Non ha mai colpito una persona in vita sua e non ha mai creduto che potesse fargli così male il pugno.

Lituania cade a terra, infangato ancor di più e col cuore spezzato. Non voleva essere colpito. Fa male, ma non è il dolore che conosce già, diventato un piccolo cavaliere. Coraggioso, piccolo Lituania, alza la fronte e gli occhi blu s’incastrano in quelli del demone. Piange, Polonia, anche se non ha mai conosciuto Lituania non ha mai voluto fargli del male. Credeva di non esserne in grado. Si ricrede. Lo guarda piano negli occhi infranti. Anche questi sono occhi chiari, azzurri di infanzia orgogliosa. Lituania è un’anima felice, lui non lo è mai stato. Tira su il naso e il dolore del lituano passa del tutto sul suo cuore. Fa ancora più male colpire qualcuno. A Jadwiga non sarebbe piaciuto il suo comportamento. Ma non vuole essere più maledetto da occhi azzurri. Mai più da quelli dolci della fanciulla senza nome, né da quelli profondi di Jadwiga, né da questi ingenui di Lituania. L’istinto gli sussurra di odiarlo ancora di più.

Uno spasmo di dolore lo percuote e fa vibrare tutto il suo corpo, ben più gracile di quello di Lituania “Devi morire” la voce annullata, quasi incomprensibile. Ma il moretto comprende e deglutisce, impaurito “Per colpa tua è morta Jadwiga. Non ti perdonerò mai” la pioggia nasconde malamente il proprio dolore, ma riesce nell’intento, anche se con poca efficacia. Ma Lituania sa già che Polonia piange, quindi è tutto inutile. E il cuore fa così male… Trascina i piedi lontano da quel piccolo traditore. Non aveva dato alcuna fiducia in lui, ma fa comunque male l’assassinio della propria amata. Non vuole più incontrare nessuno. Veramente vuole stare da solo a compatirsi da sé, che nessuno mai lo farà più. Vorrebbe che Krewo sia distrutta solo per il Trattato che ha dovuto firmare. Morirebbe parte di sé stesso, ma non gli importerebbe affatto. Avrebbe ancora Jadwiga e questo basterebbe per lui. Entra nello scuro, perfido castello e s’accascia al proprio letto. Butta via i vestiti. Piange altre lacrime che non è riuscito a piangere.

Polonia ragazzo vede il ricordo spezzettarsi ancora una volta e svanire, frantumarsi nell’aria infinita di questo spazio bianco. Crede di aver rivissuto anni ed anni di nuovo dentro le proprie carni. Anche ora ha occhi lucidi, ma si rifiuta di nasconderli. Non è più un principe, non ha più un onore. La coperta cade alfine addosso al biondo e anche il calore di Prussia riscalda le sue spalle. Questo è statua, questo è marmo. Il comandante ha nell’anima un garbuglio di sensazioni che non potrebbe mai spiegare. Si volta solo per guardare Polonia. Il vermiglio è un lago di fuoco liquido. Non è qualcosa che potrebbe mai vedere in Prussia. Il comandante fa cadere la lancia, fra le dita rimane solo il nastro scuro, forse dimenticato nell’affanno dei ricordi. Entrambi guardano l’ultimo oggetto rimasto, ma solo il più grande chiede con lo sguardo il consenso. Polonia annuisce, non per curiosità. Vuole dannarsi fino in fondo. Vuole ricordare fino in fondo. Prussia si muove dietro di lui. Cauto, preciso, anomalo per lui, gli lega i capelli col tessuto nero. Anche Polonia lascia cadere dalle spalle la coperta. Alza gli occhi al cielo e un frammento di anima vola insieme ai suoi occhi.

La carta muta ancora, fin troppo brusca per le due anime dannate.

 

 

 

 

 

Ogni suono si è annullato. È come trovarsi nella foresta notturna, senza fischi di uccelli, né passetti di animali. L’orecchio è diventato sordo, come quello di Jadwiga, prima di morire. Il cuore, dopo ore di pianto, si è spezzato ancora e batte piano, solo il necessario per dargli ossigeno nelle vene. E lo compatisce, Polonia, perché non ne può più di ascoltarlo nel silenzio del proprio dolore. Sente il viso tirare per il sale delle lacrime, i capelli ancora umidi per la pioggia di questa mattina, le iridi pulsanti di un rosso esausto. Si sente stanco, ha voglia di dormire, ma non ci riesce.

Schiude le labbra e l’aria ghiacciata esce fuori in una nuvoletta color neve. L’osserva riscaldarsi, toccare l’aria calda della sua stanza e svanire, come il sogno di fuggire da questo posto. Anche l’odio di stare tra queste quattro mura è scomparso. Il cervello si è annullato del tutto, il cuore spezzato non vuole ricucire la propria ferita.

Debole, ancora stanco per il pianto, si alza. I piedi spogli, umidi, toccano il grigio della pietra. È fredda, ma per il ragazzino è tiepida veste di lana. Anche lo stomaco stringe, senza una briciola di pane all’interno, svuotato e disidratato. D’istinto poggia una mano lì e il tocco assente viaggia anche sul fianco liscio. Debole, gracile, magro. Troppo magro. A loro non è mai piaciuto che lui fosse magro. Volevano un cavaliere e un cavaliere dev’essere robusto. Per questo l’hanno fatto principe, per disperazione. Il ricordo fa male. Il cuore ha un’altra crepa.

Fa dei passi nel buio, il corpicino minuto viene riflesso nello specchio. Ha occhi fiacchi, annoiati, ma una noia diversa da quella che conosce da anni. È una noia più triste e asfissiata. Si guarda allo specchio e non si piace. Non si è mai piaciuto. Sin da piccolo aveva adottato l’idea della corte. Un ragazzo troppo scarno ed ossuto è meno che una donna. Ricorda che qualche suo falso coetaneo gli aveva riso. Pensavo fossi una fanciulla!, credeva che fosse divertente. Non lo era affatto. Qualche decennio fa si era tagliato i capelli e l’effetto era medesimo. Forse anche più orribile. Un ragazzo malato e addolorato, avevano pensato che fosse. Non gli ha tagliati più da quel giorno. Gli occhi curvi e seccati di quelle persone lo assillarono per anni. Lo fanno ancora, ma ora per la nobiltà è solo un fantasma. E un fantasma non lo si vede, invisibile. Un’altra crepa, più profonda, trafigge il cuore.

Scalzo, col petto nudo ed infreddolito e i capelli disfatti dalla pioggia, esce fuori. Fa ancora più freddo, ma anche questo per Polonia è un falso calore. Non ne ha avuto più bisogno. Il castello è ancora vuoto, nota. C’è solo lui là dentro, a piangere. Devono essere fuggiti veloci dal funerale e rimasti in città per giocare e spendere danari, immagina. Nessuno in questo castello ha mai guardato la bella Jadwiga come l’ha guardata lui. Era bellissima, ma una bellezza attribuita all’anima. Virtù e Dio erano i suoi comandamenti e li rispettava ogni giorno ed ogni ora. Riusciva veramente a disprezzare le altre fanciulle in questa gabbia, se guardava prima la sua sposa. E mai si è tanto sentito onorato Polonia nel comprendere che lei fosse nata per stare insieme a lui. E forse lui era nato per seguirla e proteggerla. Per essere suo cavaliere e lei suo Re. Per la prima volta considerò qualcheduno suo Re. Due crepe, altre due spaccano le arterie.

La grande, inutile sala da pranzo è dimora di fantasmi. Fa ancora più freddo. Il corpo glielo fa notare, ma lui lo ignora. Ricorda dove Jadwiga era solita sedersi e lui affianco a lei, il posto dello sposo. E aveva riso in faccia agli altri che non comprendevano che lei e lui erano come coniugi. Polonia aveva il diritto di sedersi affianco a lei. Forse era l’unica, dopo sua madre, la premurosa Elisabetta, ad indurlo a mangiare. La pace durò solo un anno, dopo che Jogaila si unì a lei. Si sentì tradito. Non dalla piccola sovrana, anche la sua bambina non poteva decidere il proprio destino, ma dalla corte, che desiderava un’unione per lei, per essere più forte. Per avere un trono ricolmo d’oro e avorio. Sfiora il legno del suo vecchio posto. Il sedile è levigato male, rovinato dalla statura e dal peso di Jogaila. L’aveva sin dal principio odiato, il Granduca. Non era sua, era lui lo sposo. Non doveva e non poteva tenerla stretta con sé, indegno. Ma la chiesa desiderava il loro vero matrimonio e le due corone unite. Ha odiato anche loro, che gliela stavano portando via. Eppure… eppure non le hanno fatto dimenticare di lui. La vedeva sempre, prima bambina, poi sua coetanea, poi ancora ragazza e alfine giovane donna. Era sempre la sua luna e Polonia si era promesso di essere il suo cielo, di cingerla sempre quando chiedeva di lui, di proteggerla quando era minacciata. L’aveva giurato, Polonia, ma il giuramento l’ha spezzato con le sue stesse mani. La mano poggia le dita sul posto di Jadwiga. Carezza il suo fantasma, sorridente a lui. Eppure ha fallito, anche se l’amava tanto, più di sé stesso. Una vena si buca e il sangue fatica a raggiungere il cuore.

La stanza di Jadwiga, dove tempo prima dormiva, dove ha partorito e dov’è spirata, pare mai abitata prima. Deglutisce e i polmoni tagliano piano la carne. Si riempiono d’aria, ma non la catturano, né l’usufruiscono. Sono inutili, proprio come lui. Il letto bianco, il profumo di carta e gelsomini dal fondo della camera, i fuochi spenti, lo specchio coperto da un lenzuolo nero. Respira più morte qui che in altro luogo del castello. Piano, malinconico, il corpo stanco s’accascia alla lana. Sente il morbido della coperta e il profumo mutato della sua bambina. Profumava di bosco, Jadwiga, come tornata da una passeggiata nel verde. Profumava di fiori, di mirtilli e di lamponi. Era buono, il profumo della sua sposa, dolce anche nella pelle che talvolta, per scherzo e gioco, gliela baciava. E mai aveva toccato le labbra e ora come ora rimpiange di non averle mai assaggiate. Le desiderava quando era cresciuta e dimostrava la sua età. Stava diventando una piccola donna e la desiderava al tempo più per gli abbracci che per i giochi. Stava maturando anche lui, l’amore che sentiva per lei era vero come l’amore per lei verso Dio. Lo stesso che l’ha portata via da lui. Ma ora non si può fare più nulla e Polonia non sa più per quale motivo vivere. Il corpo e la mente, annullati dall’infelicità e dalla consapevolezza, si rendono conto di non poterne più della vita.

S’alza, il passo forse un poco più certo e meno debole. La stessa finestra che prima aveva aperto per dare aria a Jadwiga, spalanca. Il vento, la pioggia, con la porta aperta, pare che vogliano spingerlo al di fuori. Non entra dentro, non pretende di vedere la morte anch’egli, il vento. Piuttosto lo afferra e le braccia ancor più gracili di quelle di Polonia lo vorrebbero veder cadere, abbracciato al proprio collo ghiacciato. Il biondo si lascia cullare e i soffi d’aria gli carezzano il viso, portano lontani le gocce di pioggia, sapendo già di essere odiati dal principino. Ragazzaccio malizioso è il vento, lo stesso che l’ha fatto nascere e portare su quella collinetta, nella foresta di mirtilli. Si alza sul gradino, il povero ragazzino, si trattiene per poco. Pare che il vento lo acclami, trattenendolo più a sé e lo solleciti. Buttati, Polonia!, urla il ragazzaccio ridente, Buttati, che la tua amata ti aspetta! Ma Jadwiga è sul trono di Dio e lui non vuole vedere quell’essere. Rinuncerebbe di vederlo. Piuttosto diventerebbe un demone, un vero demone. Sarebbe cavaliere di Satana, ubbidendo ai suoi ordini. Sarebbe il suo braccio, il suo servitore più fedele, per aiutarlo, per servirlo nell’eternità. Per spodestare quel pazzo e crudele Signore dei Cieli. Attaccherebbe il suo Paradiso e liberebbe ogni anima affatto felice di essere stata condannata all’Inferno. Avrebbe di nuovo Jadwiga e lì sarebbero sposi. Dio non potrebbe dire altro per impedirglielo. Il vento, impaziente più che mai, quasi lo spinge lui stesso. E Polonia non vuole più farsi pregare.

“Polonia, che fai?” sobbalza con prepotenza, ma non cade. Il mondo si è rigirato. Il vento non è più ragazzaccio gioioso, ma solo aria viziata, la pioggia non è più mare di lame di ghiaccio su di lui. Lì nei cieli non c’è più Dio ad osservarlo, nel sfidarlo con lo sguardo. Polonia, che prima si sentiva ad un passo dal vento, ora ha i piedi conficcati nel legno della finestra. Il cuore è l’unico che riprende vita, l’unico che ritorna regolare. I polmoni ancora impigliati fra loro, il respiro estinto, aria ghiacciata su di lui. Ora lo sente chiaramente, il freddo della notte, che mai l’ha voluto perdonare per i suoi pensieri. Rimane ancora fermo lì, a guardare l’altezza sotto di sé, anche se i passi si sono fermati dietro la propria schiena. Forse impallidisce ancor di più, preso da un sentimento ben diverso.

Questa stessa persona lo afferra e gli stringe le mani al petto. Le ossa di questo tremano, differenti da lui, paralizzato anche nella parola. È forte, questa persona: riesce a trattenerlo e a portarlo gentilmente dentro, al caldo. Polonia guarda ancora fuori, il vento non lo chiama più, è stato solo un miraggio. Non vorrebbe voltarsi, ma questa stessa mano calma ma tremante chiede piano la sua attenzione. L’occhio, quasi costretto, s’inclina verso l’alto. Lituania si è asciugato, i vestiti cambiati, i capelli ora stretti in un nastro nero. Intuisce chiaramente che è un nastro: non ha il coraggio di sfiorare gli occhi del ragazzino, più alto di lui, con uno sguardo probabilmente incredulo per il suo gesto. Lo assale la vergogna, eppure le guance sono ancora troppo bianche. Non lo vede, ma lo sente: Lituania trema ancora, scosso, ma alza il sorriso.

“Dai, su, vieni con me” esclama, la voce scossa che con fatica cerca di essere calma e forse ilare. È la prima volta che gli dà del tu “Sei tutto sporco. Se il Granduca ti vede così ti azzanna!” Polonia guarda ancora in basso. Le mani del moretto sono salde ai suoi polsi. Li stringe forte, solidi. Preme le palme e le poggia a sé, al suo cuore. Sotto la maglia leggera, il principino ne sente il battito, un continuo martellare di tamburi. È teso e sussultante il povero, piccolo cavaliere lituano. Gli ha fatto paura, eppure sorride. Gli sorride, come per nascondere la verità. Sa benissimo cosa voleva fare e Polonia comprende tutto. Non tenta nemmeno di liberarsi dalla stretta. Non vuole nemmeno pensarci. Ha così sonno che potrebbe morirgli addosso “Questa volta ti faccio io il bagno, va bene?” non risponde e Lituania non si aspettava una risposta.

Ora sente suoni e odori, quelli che prima l’avevano abbandonato. Il cantuccio di legno è pieno d’acqua, forse fin troppo per lui, sottile come un giunco. Ma sente il caldo e il vapore, allora non gli importa. Le mani di Lituania sono più gentili di quel che credeva. Credeva che un cavaliere, soprattutto se lituano, non conoscesse la bontà. Sbagliava, sbagliava assai. E si vergogna anche di questo. Lo sta gestendo come una bambola e lo muove come un burattino. A malapena sente la compassione e l’agitazione del ragazzino. A Lituania importa di lui, ma lui non lo comprende. Sente di far male, sa bene di fare male. Ma pensa solo a Jadwiga e forse nessun altro è in grado di comprendere il suo dolore. Non sa nemmeno se maledire ancora il ragazzino per avergli impedito il gesto, ma anche ringraziarlo gli pare disonorevole. Come se si fosse voluto gettare per capriccio. Non potrebbe mai accettare un’idea simile di sé stesso, ben sapendo che chiunque in questo castello pensi la medesima cosa di lui. Si stringe forte a sé, più leggero nel calore dell’acqua. E dalle mani insaponate sui suoi capelli.

La stanza di Lituania è piccina in confronto alla sua. Non sa bene nemmeno se gli piaccia. Ma non vuole avere un’opinione ora. Non ascolta il ragazzino, che gli chiede di dormire insieme a lui. Non risponde, non vuole pensare a questo. Non avendo risposte, il moretto si risponde da sé: dormirà insieme a lui. Ha paura, il ragazzino, capisce bene Polonia. Ha paura che possa ritentare il salto e che possa riuscirci per colpa sua. Il corpo infreddolito nella camicia di lino, il cuore e l’anima bollenti.

Faticando come un moribondo, Polonia s’infila nella coperta e così fa Lituania, affianco a lui. Non gli importa nemmeno che siano nello stesso letto. Anche se la camera è minuta, il materasso è ben più morbido e caldo del suo. I cuscini, gonfi di piume, sembrano pezzi di nuvole, soffici e accoglienti. Volta le spalle al suo salvatore e guarda bene di fronte a sé, stranamente sveglio. Lituania striscia piano dietro alle sue spalle.

Pensa di Lituania come ha sempre pensato di ogni persona. Crede che sia uguale a tutti gli altri in questo castello. Pensa che lo dirà a tutti e tutti lo sapranno. Sapranno che ha voluto buttarsi giù e che volesse morire. Non vuole che pensino questo di lui. Ha già troppi problemi con la corte. Non vuole che sappiano anche questo. Lituania è proprio dietro di lui. Vorrebbe toccare il principino, ma è esitante. Non sa bene come reagirebbe ad un abbraccio, quindi non fa nulla, indeciso. Polonia questo non lo sa, ma per una volta vorrebbe essere davvero un ragazzino viziato. Ricorda Jadwiga e ogni cosa, ora, sembra non avere più alcuna importanza.

“L’ultima cosa che ha fatto è abbracciarmi” Lituania, alle sue spalle, reprime il sobbalzo, non aspettandosi delle parole. Accetta in lui il silenzio e le parole del compagno “Mi ha detto di essere forte e che veglierà su di me dal Cielo” ha un nodo alla gola ed entrambi capiscono che presto si scioglierà in lacrime “Ma io non volevo che se ne andasse! Doveva restare qui e non partorire quella cosa! Non doveva nemmeno sposarsi! Sarebbe rimasta insieme a me e tutto questo non sarebbe acc-… Non toccarmi!” si è deciso, finalmente. Lituania ha sentito il pianto ed è accorso. Le mani bollenti e rigide del ragazzino toccano e stringono la pelle sotto la camicia. Non l’ha fatto apposta, ma la pelle si è scoperta. È marmo bianco e freddo, in confronto a sé. Ma Polonia è morbido, anche se sottile, quindi non gli farà del male stringendolo. Il principino aveva urlato di non toccarlo, eppure non li libera, né prova a liberarsi. E’ rimasto scioccato quando Lituania l’ha veramente abbracciato. Nessuno l’avrebbe mai fatto. E l’onore gli ordina di essere forte, come ha detto Jadwiga, e di ordinare a questo cavaliere di non toccarlo, che non ha bisogno di essere consolato. Ma il cuore è spezzato e chiede, supplica di essere risanato. Ha bisogno di amore, Polonia, non lo sa ma è così. Lituania glielo sta concedendo, e lui non se ne rende conto.

Vergogna, con ancora più ostinata vergogna, si abbandona e si volta. Preme il volto sul collo del lituano, piano, affinché lo respinga, come tutti hanno sempre fatto. Ma Lituania non è come loro, si rende conto Polonia. Non lo respinge, poggia la mano nei capelli biondi e lo carezza. Come faceva la fanciulla senza nome. Come faceva Jadwiga. Sente tutto il calore della sua mano tra i fili dorati. Piange veramente, il povero Polonia. Vorrebbe morire di vergogna, vorrebbe che Jadwiga non gli avesse raccomandato qualcosa di così difficile da mantenere. Ma non è mai stato capace di mantenere promesse, il principino. Infatti piange e continua a gemere sul collo del moretto. In qualche modo, sente che questo ragazzino manterrà il silenzio e non dirà a nessuno del suo cuore spezzato.

Stretto forte, morto il pianto, Polonia crolla nel sonno, aggrappato ancora al piccolo cavaliere. Il nastro nero di Lituania cade sotto al letto. Sospira, rasserenato che il principe sia salvo e felice. Prova ad addormentarsi ed ore dopo ci riesce.

 

 

 

 

 

Toris ha fatto di tutto per far alzare il capo a Polonia. Gli ha strofinato il becco, sia con l’osso morbido che con quello più rigido. Ha portato le piume e le ali sotto i capelli lunghi. Ha usato le maniere forti, spazientito. Gli ha tirato ciocche di capelli e gli ha punzecchiato e tirato le orecchie. Arrabbiato, aveva alzato il capo, affatto consolato. Sa che il falcone ha voluto aiutarlo e accetta il pensiero. Ma si sente comunque esausto, distrutto, malinconico. La presenza, anche se silenziosa, di Prussia l’ha trovata fin troppo antipatica. Non voleva mostrare certi pezzi del suo passato, soprattutto a lui, suo nemico sin dai tempi più antichi. Nonostante questi pensieri, il comandante prussiano non immagina nemmeno di dover ridere di lui, povero infelice. Non potrebbe mai farlo. Eppure ha la parola più veloce del pensiero. E quest’atmosfera la disgusta. Afferra la divisa di Polonia e lo costringe veloce in piedi. Riluttante, ancora provato, il ragazzo accetta l’azione. Toris ritorna sulla sua spalla.

“Bene, abbiamo ufficialmente scoperto che non sei un frocetto. Sono felice di questa scoperta” conclude, con un ghigno sarcastico. Vorrebbe distruggere tutto il bianco che c’è in questo posto e modificarlo in un altro colore. Vorrebbe che Polonia si arrabbiasse come sempre e che gli urlasse contro. Lo vorrebbe tanto. Ma il cuore è ancora spossato e il pennuto sulla spalla del biondo sfrega dolcemente le piume della guancia sulle lacrime. Le cancella e ammorbidisce il rosso della pelle. Il ricordo ha fatto più male di quel che credeva. Ma non si pente di aver usato le sue piume. Uno dei suoi compiti è stato saldato, anche se con un pianto. Ma Polonia ha bisogno di pianto, per aprire gli occhi. Lo consola e gli asciuga le lacrime.

Il ricordo ha fatto veramente male. Gli fa ricordare altro di orribile. Ricorda ciò che nella guerra contro la Russia gli ha fatto pensare e ben credere. Quello fu uno dei pochi atti fraterni che ebbe con Lituania. Per lui, principe viziato, Lituania era poco più che un servitore, suo cavaliere. Quand’era ragazzino non vedeva la realtà, fin troppo infantile, senza che nessuno gli abbia mai insegnato come essere buono con una persona che ti ama. Ha sempre, fin da quella sera, creduto che Lituania fosse in quel castello solo per fargli del bene, per consolarlo quando stava male, per abbracciarlo quando piangeva. Per servirlo quando aveva bisogno di lui. Un lampo di consapevolezza, più fluido e doloroso gli strappa parte del respiro. Sente vento freddo d’Inverno, neve ghiacciata, una casa in mezzo al bosco. Ricorda occhi d’ametista, capelli di cenere, sorriso crudele. Ricorda Russia e ha un secondo di terrore. Si paragona a lui e non si vede molto diverso dal generale russo.

“H-Hey… stavo scherzando. Insomma, non l’ho mai creduto veramente…” alza gli occhi. Vede negli occhi vermigli di Prussia una vena di preoccupazione e pentimento. Non è colpa sua e ben presto anche il comandante, calmato, lo crede. Sospira di sollievo. Ha comunque un briciolo di preoccupazione in lui, subito ingigantito dagli occhi scuri del ragazzo. Decide di usare anch’egli il silenzio, come Lituania. Ma non è così buono come lui, quindi gli volta lo sguardo e rimane fermo, fisso verso il bianco incontaminato. Polonia continua ad osservarlo, spaventato dalla sua reazione. Crede che il prussiano sia rimasto indignato dal suo comportamento e che non voglia mostrargli gli occhi per il suo sdegno. Ne rimane spaventato e deglutisce nulla che aria fredda. Ancora occhi violacei, ancora sguardo di mostro. Ha paura, Polonia, che possa essere stato un male simile a Russia per il suo amico. Terrorizzato da questa idea, rivolge ancora gli occhi al comandante, fin troppo concentrato. L’aquila nera s’adagia sulla spalla nera dell’uomo e anch’ella fissa il nulla di fronte a sé.

“Prussia, che cos’è l’amore?” non batte ciglio, il prussiano, eppure l’espressione muta in qualcosa che forse Polonia non ha mai visto. Non potrebbe dire cosa sia e il non saperlo lo spaventa. Che abbia chiesto qualcosa di stupido? Ma gli occhi vermigli riflettono ben altro che ironia. E Prussia è sollevato che Polonia non sappia il peso della sua domanda per lui. Spezza la serietà, porta alle labbra uno sbuffo di risata.

“Lo chiedi alla persona sbagliata, nanerottolo” Polonia riconosce il proprio errore. Annuisce fra sé. Prussia vede il movimento chiaro dei capelli del ragazzo e rimane deluso. Di sé stesso. Respira profondamente e libera tutta l’aria che ha nei polmoni “E’ quando vorresti la felicità di una persona più della tua” incuriosito, Polonia rialza gli occhi. Non se l’aspettava. Sospira ancora, il prussiano, preso coraggio. L’amore non è la sua materia, ma per un periodo ha pensato che lo fosse, quindi tenta, anche se con difficoltà “E’ un continuo ed infinito dare. Daresti qualsiasi oggetto o diavoleria che desidera alla persona che ami. Le regalasti la cosa più preziosa di questo mondo, anche la tua anima. E se non hai niente vorresti comunque darle        ancora oggetti o tesori. Potresti anche rubare la felicità di un altro o strapparti ogni cosa che possiedi per avere il suo sorriso. E sei felice quando lei è felice” incredulo per le parole di Prussia, Polonia rimane in silenzio per riflettere su ciò che ha sentito. La confusione e il dubbio sono ancora più forti. Non è certo che verso Lituania abbia avuto questo atteggiamento. Forse non sempre…

“E, invece…?”

“Il contrario dell’amore? È quando tu vorresti prendere e basta, nanerottolo” pare quasi accusarlo, il prussiano, con un’occhiata veloce e dolorosa a lui “E’ quando vorresti la tua felicità più della sua e per questo faresti di tutto per te stesso. È un continuo prendere, anche se forse provi qualcosa per quella persona tu vorresti prendere comunque. Potresti anche rinchiuderla vicino a te, per continuare a rubare. E a te non importerà se sia in catene o che stia soffrendo. Ti interessa solo rubarle tutto ciò che ha e anche se non ha più nulla da darti vorresti in ogni modo avere ancora e ancora. Fino in fondo…” smorza la frase, la rende cripta, intraducibile. Polonia è terrorizzato da questa consapevolezza. Ricorda una casetta cadente, sangue su pareti e pavimenti, Lituania torturato e Russia piangente. Ricorda il desiderio di portarlo via da quell’Inferno di ghiaccio e del suo tentativo quasi riuscito. Ha dubbio, ancora più dubbio. E quel fino in fondo gli dà più insicurezza. Così come gli dà insicurezza lo sguardo rigido e rigoroso di Prussia, concentrato ancora lontano da lui. Ha paura, Polonia.

“Intendi... tipo, ucciderla?” colto nel segno, Prussia impallidisce. Queste non sono nemmeno sue parole. In preda al dubbio, voleva parlare con qualcuno più esperto di lui. Era andato da Francia, per chiedergli risposte. Si era subito dato dell’idiota per questo: per quale motivo quel depravato avrebbe dovuto dargli risposta a delle domande che ben pochi sanno rispondere? Eppure… eppure lui fu ben più saggio di quel che credeva. Si era meravigliato di essere riuscito, grazie a lui, a sciogliere il suo cuore. Si era incantato, sinceramente incantato, Prussia. Come Austria, aveva anche lui giudicato male Francia. E lo sguardo fraterno che gli aveva rivolto era più che sufficiente per comprendere il vero. Era diventato suo amico, e anni dopo, il suo migliore amico. L’aveva aiutato e nemmeno l’ha ringraziato. Ma ora pensa a Polonia e la sua domanda brucia e gli frantuma il cuore. Per fortuna che è nipote di Germania Magna e dal suo nonno ha ereditato lo sguardo duro. Mai l’ha ringraziato come ora. Perché, quella lontana sera, quando incontrò Ungheria e le aprì il cuore, fu rifiutato. Era sposata, diceva, e ora amava quell’uomo che forse aveva giudicato male. Non l’aveva accettato. Non l’aveva veramente accettato. E mai, anni ed anni dopo, aveva ringraziato Austria per essere stato lì, ad ascoltare, per fermarlo dal suo intento. Che, con tutta l’anima di bestia che possedeva in quel breve istante, aveva odiato Ungheria. E mai avrebbe voluto che lo rifiutasse.

“No, no, non per forza” mente, legge bene l’aquila nera che, con sdegno, lo fissa metà incredula metà rabbiosa “Beh, sì, anche quello, ma non sempre” sospira, indeciso ancora sulle parole da usare “Intendo dire che potresti anche farle del male. Magari tu le vuoi bene, ma lo dimostri come se non fosse così. La tratti come un giocattolo o come una di quelle marionette a cui tiri i fili per farle muovere le braccia o le gambe” e, piano, volta gli occhi, sorprendentemente più luminosi dei rubini che lo stesso Spagna ha rubato nel Nuovo Mondo “Credo che tu abbia capito” queste ultime parole erano per Polonia, comprende lo stesso.

Prussia ha veramente occhi più demoniaci dei suoi, piccolo e gracile polacco. Lo guarda, occhi negli occhi, e si sente ben più basso e piccino di quel che sia. Se lui è un demone, Prussia allora è Satana in persona. Capisce questo e cala gli occhi. Incontrano i propri stivali e lì concentra i pensieri. Mai sentito più sporco ed indeciso di sé stesso. Non si sente affatto sollevato, ma nemmeno ha ora la consapevolezza di essere stato un mostro. Il cervello è ben confuso. Il paragone creato di sé stesso con Russia spinge nel proprio cranio. Non può essere stato come lui. È impossibile. Russia è malato, è solo, è un mostro. Lui… lui cos’è stato per Liet? Immagina ancora il suo vecchio avversario e pensa di non essere come lui. Lui non era malato, era solo, ma con Liet stava guarendo dalla sua solitudine, non era un mostro. Infatti, non lo era affatto. Ma si scuote, ricordando. Non era un mostro, ma era un demone. E un demone è ben peggiore di un mostro. Ma, ricorda, Liet ha voluto la morte per stare con lui. Quindi è stato buono con lui. Ma lo è stato veramente? Un demone è ben peggiore di un mostro, ricorda: se il mostro sfoggia immediatamente tutto il suo male, il demone lo tiene ben nascosto. Possiede ben più crudeltà del mostro ed è cauto nell’usufruirne. Il demone mostra pian piano la sua cattiveria. Fa in modo che la vittima se ne abitui con lentezza, fino a mostrarla del tutto e l’oppresso non penserà mai di essere usato o preso in inganno, credendo nella natura fasulla del suo compagno. Scuote il capo, quasi indignato dei suoi pensieri. Rifiuta di pensare di sé stesso in questo modo. Non potrebbe essere stato crudele con Liet. Era l’unica persona che si curava di lui, in quel castello, e la prima con cui ha stretto amicizia. Non può essere stato un demone col lituano, anche se involontariamente. Confortato per questi pensieri, pensa di doverne essere certo. Pensa che debba fare un’azione decisamente buona per assicurarsi di essere stato un buon amico per Lituania. Gli viene in mente un pensiero, che tempo prima, con solo Toris al suo fianco, aveva ponderato per qualche tempo.

“Sai, vorrei sapere come stia il mio popolo” Prussia sembra assai più rigido di prima. Non lo nota, preso dalla sua buona azione “Cioè, sono passati un bel po’ di anni. Sono totalmente curioso di scoprire se stiano bene o se la guerra abbia fatto loro del male. Tu, tipo, pensi la stessa cosa?” si volta, entusiasta. Prussia l’osserva. Sembra più suo fratello Germania che altri. Non capisce il suo volto pallido, nemmeno gli occhiacci dell’aquila sui capelli biancastri. Non capisce e ora non vuole capire.

“Sì…” annuisce lentamente il prussiano, senza veri pensieri in testa. Si sente ben più confuso del ragazzo vicino a lui e nessuno dei due lo nota.

Come lanciato un segnale, l’aquila nera si lancia dalla spalla della divisa scura. Prussia l’osserva scendere e prendere il volo. Entrambi, confusi, l’osservano. Il rapace, con colpi secchi d’ala, svanisce in un punto impreciso in quel deserto bianco. Forse preoccupato, Prussia scioglie il suo incantesimo e ritorna il comandante prussiano che Polonia conosce. Increduli, tranne che per il piccolo Toris, il pennuto ritorna. Tra il becco svolazza qualcosa. Il prussiano alza il braccio e questa si posa. Strappa ciò che ha nel becco. L’osserva corrucciato e lo mostra poi al polacco. Polonia stringe fra le mani una vecchia fotografia che mai ha visto in vita sua. Senza guardarla bene, la volta. Lukasiewisz. Scritto in grassetto e con calligrafia accurata, di un fotografo. Il ritratto di una famiglia e il loro cognome mostrato dietro allo scatto.

Prussia, anima ben più preoccupata di Polonia, si guarda. Guarda la lancia con cui, quasi inconsapevolmente, giocava. Guarda la copertina piegata sulla spalla del ragazzo e il falcone rosso poggiato prudentemente su di essa. Guarda il nastro nero, ora sciolto e gettato nella tasca della divisa di Polonia. Guarda il gonfiore che crea la coroncina d’oro dentro una seconda tasca del completo verde. Si chiede che fine faranno con tutti questi oggetti e che altro male vorranno farli questi due pennuti. Osserva l’aquila nera sul proprio braccio. Lo guarda attento, gli occhi azzurri lo zittiscono e lo impongono a procedere. Sospira e si avvicina al biondo. Polonia si concentra.

Come ha pensato, è una foto di famiglia. Una famiglia polacca, numerosa. Sente di non conoscerli e di non poterli dare dei nome. Ma si è dato un impegno, per questo si concentra di più. Vede due uomini, con la spalla contro l’altra. Il più alto e baffuto, con gli occhi scuri come il petrolio, osserva col sorriso, tirato, verso la fotocamera. Polonia esamina il balzo veloce che deve aver fatto il suo labbro: probabilmente non è stata una sua idea fare la foto di famiglia. Accanto a lui c’è l’altro uomo. Anch’egli è baffuto, eppure i capelli scuri e disordinati gli rovinano la serietà che ha probabilmente voluto mostrare. Con la cravatta ben avvitata, in contrasto con la divisa di soldato del suo compagno, cozza pesantemente la spalla contro quella del fratello più robusto ed alto. Come per sfidarlo anche in una foto. Guarda ancora: ci sono due donne, forse le loro mogli. Vicino al soldato, la treccia bionda della signora e gli occhi azzurri brillano di allegria. Deve piacerle stare lì, vicino all’obiettivo. La luce su di lei e le labbra sottili la fanno bella, la fronte bianca e il vestito morbido sul corpo magro la rendono giovane. È una bella donna, una bellissima donna. Tra le braccia, questa porta un fagotto rosa, affatto interessato di guardare la fotocamera: la bambina è veramente piccola, ma probabilmente diventerà bella come la madre. Una mano tocca la spalla della donna: un ragazzo, occhi seri, eppure il sorriso sfrontato e giovane guarda attraverso l’immagine e pare vantarsi di essere lì, com’è ora felice la madre. Già ha creato una famiglia, Polonia, ma guarda alla sinistra, verso il secondo uomo, illustre nell’abbigliamento. È sposato anche lui, vede. La donna accanto è ben diversa dall’altra, solare e felice. Pare più calma e pacata, questa signora, con gli zigomi pronunciati e un velo scuro sotto gli occhi e sulla fronte stanca. I capelli chiari, tirati in una coda malfatta e un sorriso debole. Ai loro piedi, accucciato su una roccia, a sbucciare un’arancia, ignorante del tutto della posa, c’è un bambino, più grande della neonata, ma più piccolo del ragazzo. Concentrato sul frutto, non guarda l’obiettivo, nascosto lo sguardo probabilmente indifferente dai capelli biondicci e il nasino lentigginoso. Si sorprende di non averlo notato prima: al centro di tutte quelle persone c’è un anziano, sulla sedia a rotelle, forse il padre dei due uomini. Fissa l’obiettivo con un sorriso fin troppo aperto, quasi sciocco. Si mostra parecchio divertito di essere lì, bambino di cuore.

Interessato della foto fra le mani, troppo tardi Polonia vede le piume rossicce che, leggiadre, cadono sull’oggetto fra le dita. E il bianco ritorna a colorarsi.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 13
*** TrEdIcEsImO cApItOlO ***


Lituania immagina di essere dentro ad un pendolo. Immagina delle lancette immaginarie dondolare avanti ed indietro all’interno di una finta scatola di legno. Nota che non ci sia alcuna gigantesca lancetta, ma solo il buio dello studio di Russia, la pelle della poltrona fin troppo morbida, il profumo di primavera di Russia. Russia sa di fiori e di pini, sa che è stupido pensare ad una cosa del genere proprio ora. Ora che ha visto il battito nella vena di Polonia, non riesce a pensare a nulla. Il suo cervello ha un blocco, o qualcosa di simile. Lituania immagina nella sua mente un veloce guizzo di scarabocchi e petrolio nero. Inchiostro e garbugli di graffiti. Come uno scarabocchio di un bambino, Lituania ha la mente impiastricciata e bloccata. Anche il corpo rifiuta di avere reazioni.

Russia continua a sfregare la mano dietro la nuca. Qualche minuto, forse secondo fa, era più gentile. Le dita dell’uomo strusciano, impacciate, tremori, dietro la sua nuca. E il pendolo continua a dondolare. A malapena gli occhi reagiscono e memorizzano quel che stia facendo il generale. Poggia spesso le dita sui suoi capelli, Russia. Forse gli piacciono che siano lunghi o forse vuole recuperare qualcosa che teme di perdere o di aver perduto. Spesso la sua mano scende e tocca la nuca, senza cicatrici e tagli. Lì l’ha sbattuto contro il vetro e quei pezzetti di cristallo si erano conficcati nella schiena. Ora la mano trema e il dondolio nella sua testa diventa sempre più asfissiante.

Se l’uomo gli abbia parlato tempo prima, quando l’ha portato fuori da quello scantinato, non saprebbe dirlo. Il pendolo ha cominciato a spezzargli l’udito appena è entrato in casa. Appena Russia l’ha portato dentro, in salotto. Appena l’ha fatto cadere su quella poltrona, nel suo studio, in mezzo a quel buio. Si deve essere dimenticato di aprire le tende, pensa il ragazzo. Vorrebbe darsi dello stupido, che non è il momento di pensare a certe cose, che dovrebbe pensare a Polonia, ancora là sotto al freddo, ancora vivo. Ma il pendolo dondola ancora, Russia è ancora più impacciato e il garbuglio nel suo cervello è troppo aggrovigliato per essere districato. Russia trema, lo stringe più a sé, terrorizzato.

Lituania è ancora freddo. Lituania è ancora ghiaccio. È ancora morto. Russia ha paura di questa reazione, allora sfrega con più forza. Quasi gli fa male. Ora il ragazzo registra il dolore. Un frammento di scarabocchio cancellato. Batte le palpebre, il pendolo ha un suono troppo veloce e rimbombante. Gli fanno male le orecchie, l’uomo lo stringe troppo forte. Sbatte ancora le palpebre. Se ne rende conto, il lituano, che il dondolio della lancetta non era altro che il cuore angosciato dell’uomo, premuto malamente contro il suo orecchio. Fa male quel suono, anche se innocente. Lituania non è più gentile, non pensa più al bene di qualcun altro. Nemmeno dell’uomo che è cambiato tanto per lui. Nemmeno per i suoi fratelli. Non pensa di far del male a Russia col suo silenzio e coi suoi occhi ghiacciati. Lituania vuole solo stare da solo, per riflettere e per comprendere il miracolo che ha visto. Vorrebbe che Russia non patisse per lui, che lo lasciasse andare.

Russia, forse compreso qualcosa, forse semplicemente arreso, lo libera dalla stretta. Lituania si sente libero e sollevato. Preoccupato e triste. Abbandonato e solo. Russia non lo sfiora più, non prova più a confortarlo per un male che lui immagina. Lituania non è malato e non ha bisogno di aiuto, ma la mano dell’uomo era calda e l’abbraccio teso ma paterno. Sente le spalle ghiacciate e nude, i capelli disfatti e i vestiti fin troppo leggeri. Sa che lo sta guardando, che vorrebbe una sua parola, un cenno o un pianto. Russia accetta ogni cosa da loro ora, ma non riceve niente dal ragazzo. Lituania lo immagina più piccolo e bambino. Più incapace e tormentato. Non vuole che si senta male per il suo dolore. Non potrebbe sopportarlo. Ma non riesce nemmeno a pensare a Polonia, per questo resta immobile come la maschera di cavaliere che ha sempre indossato. Vede un tentennamento del capo da parte del generale. Pare annuire e comprendere qualcosa di sconosciuto perfino a Lituania stesso.

“Lietuva…” non Lituania, non Litva, che comunque non usa mai, ma Lietuva. Lituania attende e lo guarda. I suoi occhi non sono tristi, non più. Hanno qualcosa di cupo e malinconico, le sue iridi. Lituania attende ancora, statua di ghiaccio e mente congelata “Ti devo far vedere una cosa” la voce affatto infelice, eppure fragile come un fiore, con discrezione lo tocca. Lituania guarda Russia, ma Russia non guarda Lituania. I suoi occhi sono di un bambino infantile che con fatica tenta di raccontare una sua marachella. La voce fragile e adulta di un uomo addolorato che tenta di narrare la morte di un fratello. Russia si alza, ma non si cura di far alzare il ragazzo. Lituania si alza, ma perché ora è preoccupato, anche se rigido come roccia.

L’uomo si ferma alla sinistra della scrivania e punta gli occhi sotto al legno scuro. Fermo, indeciso se continuare, rimane ancorato in quel punto, bollente e pentito. Lituania, freddo come ghiaccio in inverno, muove i passi e li ferma di fianco al suo padrone. Questo non si scuote, né si scosta. L’iride incapace e colpevole punta verso il basso, dove gli ampi cassetti occupano il legno dello scrittoio. Lituania attende ancora, affatto impaziente, ma inquieto dalla piega dello sguardo del generale. Russia lo guarda, sposta l’occhio su di sé. L’ametista non brilla, né riesce a vedere qualcosa con cui possa parlargli. Guardano entrambi lì, nei cassetti. L’uomo l’osserva ancora e pare aver preso la decisione più dolorosa della sua vita. Annuisce e il ragazzo capisce che parli con lui. Lituania ricorda un baule, del sangue e il cadavere di Polonia ammucchiato là dentro come sporcizia e panni sporchi. Per questo tentenna molto nell’aprire l’ultimo cassetto della scrivania.

Aperto, Lituania rimane perplesso ed angosciato, forse anche travagliato. Carta, prima bianca e ora gialla, per gli anni e forse per i secoli abbandonati alle spalle. Lettere, lettere accumulate e riposte con cura in un unico cassetto. Due lunghe file di carta compresse le une con le altre, simmetriche e perfette nella precisione. Lituania non potrebbe dare un nome a quel che sta vedendo e non sa nemmeno cosa siano tutte queste missive e il non saperlo lo affligge. Il ghiaccio si scongela, gli occhi vivi, trepidanti e la gola aperta nel ricevere deglutii. Sa che Russia gli stia facendo vedere qualcosa di orribile, che forse si pentirà di conoscere. La mano ferma e i pensieri ancora ingarbugliati, afferra la prima lettera della prima fila a sinistra. La carta pressata e perfetta, già aperta e strappata. Lituania non vede che l’indirizzo della casa di Russia e la città di Vienna premuta sotto ad un timbro. Ansioso, forse cosciente di quel che sta avendo in mano, afferra tremore la carta dentro la busta e inizia a leggere, con una fretta disgraziata nel voler sapere.

 

Caro Liet,

sono io. Sono Polonia. Sì, lo so, non è proprio il modo totalmente corretto di iniziare una lettera, ma volevo scrivertelo di corsa. Sono riuscito ad avere il tuo indirizzo, cioè quello di Russia (ma è anche il tuo, quindi è ok, no?). Non chiedermi come abbia fatto ad averlo, perché è stato tipo una faticaccia. Te lo racconterò in un’altra lettera. Ti scrivo perché non voglio che tu fraintenda o che pensi che ora sia tutto finito fra noi due.  

Voglio che tu sappia che tu sei ancora mio amico e vorrei tanto che anche per te sia tipo lo stesso. Perché non ce la farei proprio a stare da solo e a pensare che tu sia totalmente lontano da me e che forse tu viva anche peggio di come vivo io (non che viva male, ma che ne so io come ti tratti qualcuno come Russia). Sono ancora malato, Liet. Mi hai visto durante il Congresso, no? Te lo leggevo in faccia. Cioè, sapevi quel che mi era successo e come stavo. Te l’ha detto Austria, giusto? Non mi sorprenderei, ma non sono arrabbiato con lui, alla fine l’avresti scoperto lo stesso. Forse te lo avrebbe detto Russia (o qualcuno cattivo come lui, tipo Prussia, ma ora non importa). Comunque, voglio che tu sappia che è tutto vero. Sono stato strappato letteralmente dalla mia nazione, prima che scomparisse del tutto e io con lei. Il cordone che ci legava dev’essersi spezzato, o qualcosa del genere, e ho avuto dei mesi d’inferno prima di stabilizzarmi e ad abituarmi a non dipendere più dalla mia terra. È tutto vero, Liet. È vero anche che fino a qualche anno prima del Congresso io non vedevo né sentivo nulla. Cioè, veramente. Era come essere dentro una stanza senza finestre né porte. Al buio, totalmente al buio. Non capivo nulla all’inizio, Liet. Credevo di essere morto e di essere finito all’Inferno. Poi però mi ero reso conto di essere ancora vivo e di… essere stato proprio fortunato. Credevo che fossi sopravvissuto per te, Liet. Che dovevo ancora fare qualcosa di importante in questo mondo prima di morire veramente.

Ora ho riavuto la vista e ricordo ancora come si scrive, ma mi fa male pensare a come ti senta laggiù, da solo, veramente solo. Qui ho Ungheria e Italia. Ho fatto amicizia anche con lui, lo sai? Mi preparava lui il pranzo e mi abbracciava quando piangevo e pensavo a te. È davvero, ma proprio davvero davvero, una bravissima persona e un buon amico. Qualche volta Austria si preoccupa per me. Fa un po’ paura, ma è buono anche lui. Ungheria dice che non è cattivo, ma che fa così perché è stato abituato ad essere totalmente severo con tutti. Ne so qualcosa, per questo non mi arrabbio quando mi sgrida o tipo va di matto. Immagino che tu non abbia nessuno, Liet. Io ho qualcuno qui che mi vuole bene, ma tu non so. Non credo che Russia… lascia stare.

Ti scrivo per dirti che sei ancora mio amico e che vorrei che ci scrivessimo ancora, anche se siamo lontani. Anche se forse non ci rivedremo tanto presto. Ma tu (dico veramente, non ti prendo in giro) sei importante per me. Non potrei dimenticare nulla di te. Mi fido più di te che di qualcun altro! Non mi fido di me stesso se prima non ho tipo il tuo sì. Liet, scrivimi, voglio sapere se tu stia bene. Dimmi di tutto. Dimmi pure che mi odi per non essermi alzato per aiutarmi quella volta, ma a me non importa. Non cambia che io ti voglia bene. Liet, aspetto la tua lettera, tipo totalmente impaziente!

Tuo,

Polska

 

Lituania è confuso. Il battito del cuore libero ed emozionato, ma incredulo. Legge la data e non capisce. Polonia non gli aveva mai scritto prima del conflitto con lui stesso avvenuto decenni fa. Non gli aveva mai raccontato della sua malattia, nemmeno che avesse fatto amicizia con Italia. Nemmeno che ci fossero con lui Ungheria ed Austria. Non ricorda una sola volta in cui gli avesse scritto il suo indirizzo per ricevere o mandare lettere. In quegli anni Lituania si sentiva solo e credeva di essere stato abbandonato. Credeva che Polonia non lo volesse più e cercava di convincersi invece che la sua malattia l’avesse colpito con più forza o che avesse di nuovo perso la vista. Guarda di nuovo il cassetto stracolmo di carta gialla. Frettoloso, ne afferra un’altra, al centro della prima fila, iniziando a comprendere la verità.

 

Caro Liet,

cioè, non riesco ancora a capire perché tu non mi scriva. Almeno un ‘Polska ti odio per avermi abbandonato quaggiù a morire di freddo’, no eh? Bene, se sei arrabbiato con me, non fa niente. Ti scriverò lo stesso, così mi vendico anch’io e saremo tipo tutti felici. Contento?

Ieri era l’anniversario di matrimonio di Austria ed Ungheria. Si sono innamorati, Liet. Si sono davvero innamorati. L’ho visto mesi fa, forse lo erano anche prima, quando non stavo bene e forse non vedevo niente, ma ora è ovvio. Sono belli insieme, anche Italia dice lo stesso. E se lo dice Italia, allora è tipo la verità. Abbiamo fatto una sorpresa a loro due. Abbiamo suonato insieme tutto quel che sapevamo dell’Ungheria e dell’Austria. Lo abbiamo suonato al pianoforte, io ed Italia. Abbiamo preparato insieme la cena e poi li abbiamo visti ballare. Cioè, Liet, se c’eri tu t’innamoravi di quell’atmosfera. Erano un pezzo di paradiso in mezzo a questa terra. Non esagero, davvero, Liet. Lo sai cosa penso del matrimonio, ma non ce l’ho fatta.

Quando si sono baciati era come se il mondo mi si fosse capovolto, ma nel verso totalmente giusto. Ero… totalmente felice per loro. Italia mi abbracciava e quei due non si staccavano per un secondo. Erano la cosa più dolce di questa casa. Austria così felice non l’ho mai visto. Tranne, certo, quando c’è Ungheria vicino a lui. Mi fanno davvero cambiare idea su tutto quello che ho visto a corte, lo sai? Forse esistono dei matrimoni felici e forse io sono stato totalmente idiota per non averli mai visti. Mi piacerebbe vederti sorridente come ho visto oggi quei due. Non sento ancora nulla, Liet. Non ricordo più nemmeno che suono faccia un pianoforte e credimi se io ed Italia ci abbiamo messo dei giorni per coordinarci senza sbagliare nemmeno una nota.

Liet, ricordo la tua voce. Ricordi quando ti ho portato nel bosco, quando eravamo piccoli? Tipo, eri contentissimo, ne ero certo. Avevo mangiato troppi mirtilli e mi si era fatta la lingua blu. Dicevi che sembravo tipo un folletto ed ero buffo. Eri felicissimo, lo sapevo. Ridevi come un matto, non la smettevi più. Ricordo il suono della tua voce, Liet. Ricordo solo questo. Non ricordo più nemmeno la mia di voce. Ma mi sta totalmente bene. È meglio così, ricordo bene anche come canticchiavi quando tornavamo al castello e come provavi a raccontare a quelli idioti della corte come tu ti fossi divertito. Ero felicissimo anch’io, lo sai? Ma sono strafelice lo stesso. Conserverò la tua voce per sempre e più, Liet. Non mi dimenticherò mai di te. Ti voglio bene.

E scrivimi, almeno so che sei totalmente arrabbiato, così mi arrabbio anch’io e facciamo pace, va bene?

Tuo,

Polska

 

Gli gira la testa. Comprende. Comprende anche senza vedere Russia in volto. Si sente male. Sente la nausea e forse le gambe molli come foglie d’autunno. Con la testa ancora più ingarbugliata e i polmoni straziati, afferra un’altra lettera, una delle ultime della prima fila.

 

Caro Liet,

veramente, scrivimi, non mi sento bene. Non mi scrivi perché non mi vuoi più vero? Sei arrabbiato ancora e non vuoi più parlarmi, è così?

Liet, te lo dico. Sai perché non mi ero alzato quella volta e non ti ho salvato da Russia? Liet, avevo la pancia aperta. Non ti sto mentendo, Liet, è vero. Ero ferito, mi hanno sparato. Non mi hai visto perché eri svenuto e ti volevano far del male. Ti ho difeso con tutto il mio corpo, Liet, e non mi pento. Tipo per niente. Anche se ho dovuto sparare in faccia ad uno di loro. Non si è più mosso da lì, ma non m’importava un bel niente. Puoi anche non credermi, ma è totalmente così. Mi girava la testa, faceva freddo e tu non ti svegliavi. Credevo che fossi morto, Liet, e che presto sarei morto anch’io. Quando Russia ti ha portato via, sapevo che era totalmente inutile. Non avevo nemmeno un po’ di energia, mi sentivo morire per davvero, Liet. Sono rimasto lì per tutta la notte e credevo che sarei morto di freddo. Lo sentivo in quel momento, non appena ti hanno portato lontano da me. Sentivo che mi avrebbero ucciso, ma che tu almeno saresti sopravvissuto. Era totalmente ovvio, Liet.

Ma non mi mossi nemmeno per salvarmi. Sapevo che non serviva. Sapevo già che sarei morto di freddo o che mi avrebbero abbandonato lì ugualmente. Ma pensavo solo che tu ti saresti salvato e che avresti potuto avere una possibilità. Liet, sto piangendo. Dico davvero Liet, sto piangendo come un bambino. Non sento ancora nulla e ora non ci credo più che riavrò indietro le orecchie. Credo che adesso le cose andranno sempre male e non solo fra noi due.

L’hai saputo lassù, vero? Sacro Romano Impero è morto. Non l’ho proprio visto quando ero qui, a Vienna. So veramente poco di lui, ma mi fa male sapere una cosa del genere. Francia è venuto da noi. Piove anche oggi e non credo che finirà questo diluvio. Forse anche Dio è triste o qualche angelo ha pietà di noi. Non sento ancora nulla, ma ho letto le labbra, Liet. L’ha detto mormorando. Era ferito e aveva il mantello strappato. Ha portato in disparte Italia e gliel’ha detto. Ha detto che il suo amico è morto. Piango, Liet, piango. Italia non aveva più nulla che lo ricordasse come lo ricordavo prima. Non piangeva, ma lo ha ucciso questa notizia. Non ha detto niente, si è alzato ed è uscito fuori. Continua ancora a piovere, vedo i fulmini fuori dalla finestra e sento con le dita il vento che prova a spezzare il legno della porta.

Liet, Italia è sparito, non so dove sia. Austria ed Ungheria sono andati a cercarlo, ma non lo trovano. Sono passate ore e fra poco sarà buio. Ho paura, continuo a piangere, ho paura che Italia voglia scappare o peggio. Tremo e ho freddo, in questa casa non c’è più nessuno. Francia è ancora in salotto, sono tipo insieme a lui. Non riconosco più nemmeno lui. Ho paura. Sono triste, voglio che tu sia qui. Voglio che tu mi abbracci, come facevi sempre. Liet, mi manchi. Scrivimi, ti supplico, scrivimi.

Tuo,

Polska

 

Scarta un’altra lettera, una delle prime della seconda fila.

 

Liet, perché non mi scrivi? Perché mi vuoi far piangere così?

Sto male, Liet, sto male. Mi trattano come un bambino, come un malato. Hanno cominciato a farlo adesso. Mi fa male il cuore. Voglio di nuovo sentire, Liet, è orribile tutto questo. Italia non mi parla più, non vuole vedere più nessuno. Si è chiuso in camera sua, non vuole che qualcuno gli parli o solo che lo veda. So come ci si sente quando si perde qualcuno, Liet, lo so bene. Vorrei che Italia si senta bene e vorrei che anche Austria ed Ungheria mi pensino ancora. Non mi pensano più, lo sai? Non c’è più quell’atmosfera, non c’è più quel profumo di sposi nell’aria. Non so se stiano bene insieme l’uno con l’altra adesso. Ho paura che forse tutto questo possa distruggere il loro legame.

Vorrei che Francia non fosse mai venuto a casa nostra e che non abbia mai parlato con Italia, né con Austria ed Ungheria. Non lo perdonerò mai per questo. Lo so bene: l’ha ucciso lui, con quel dannato Napoleone e la sua voglia di conquistare. Fra poco conquisterà tutta l’Europa e ci mangerà tutti quanti, ne sono certo. Al diavolo la Nazione dell’Amore!

Mi sento solo, Liet. Ti voglio bene. Ti voglio tanto bene. Sei il mio migliore amico, ti amo tanto. Non potrei dimenticarmi mai di te. Ti prego, dimmi che non ti è successo niente o che non stia scrivendo ad un muro. Ti prego, Liet, ti sto supplicando in lacrime…

 

Un’altra lettera, una al centro della seconda fila.

 

Lietuva, leggi, questo è lituano.

È vero lituano. L’ho imparato per te, lo sai? Ora possiamo scriverci nella tua lingua. Quando eravamo bambini e vivevamo insieme, non ho mai voluto impararlo. Credevo che saresti stato insieme a me per sempre, quindi che non avrei avuto bisogno di imparare la tua lingua. Pensavo che sarebbe stato molto più semplice se tu avessi imparato la mia di lingua. Te lo dico perché voglio essere totalmente sincero con te. Sono mesi che ti scrivo, ma tu non scrivi a me. Ma non riesco a dimenticarti, tipo per niente. Ti voglio bene ancora, Lietuva, come ho sempre fatto.

Prussia è tornato a farci visita. Tutto è cambiato. Quando entrava lui in casa, sembrava come se tipo fosse entrato un demone e noi dovevamo scacciarlo via il prima possibile. Austria ed Ungheria non lo volevano mai e non gli parlavano nemmeno troppo. Non so bene il perché, ma era così prima. Era accaduto tutto in fretta e io a malapena capivo quel che stava accadendo.

Italia era scappato di nuovo e non tornava più a casa, nemmeno dopo quasi tre giorni. Prussia, non so come, l’ha trovato. È stato un miracolo, Liet. Non so cosa si siano detti o cosa sia accaduto fra loro due, ma l’ha riportato a casa. Eravamo in pena per lui e per quel che gli passava per la testa. È stata solo gioia, Liet. Ci siamo abbracciati, tutti noi: io, Ungheria, Italia, Austria (non ci crederai mai!) e anche Prussia si è unito a noi. Sembravamo veramente una famiglia. Mi sentivo benissimo. Qualcosa si è aggiustato totalmente fra di noi. Italia non scappa più e riesce a sorridere ancora. Austria ed Ungheria si amano ancora. Prussia è entrato nella nostra famiglia, o tipo quel che è il nostro gruppo.

E’ ritornato il sole, anche se qui Francia con quel maledetto diavolo di Napoleone ne fa accadere di tutti i colori. Ma non m’importa. L’importante è sorridere, Liet. Perciò fallo anche tu. Sorridi in tanti modi diversi, lo sai? Non fai mai lo stesso sorriso. Arricci le labbra almeno in dieci modi totalmente dolci. Un giorno li conterò, va bene? Ti andrò a trovare lassù, a Mosca, prenderò a calci Russia e ti abbraccerò di nuovo. Anche se sarai totalmente arrabbiato o forse mi avrai dimenticato, me ne fregherò tipo completamente! Ti voglio bene e questo non cambierà mai.

Tuo,

Lenkija

 

“Alcune le ho bruciate, ma la maggior parte le ho conservate” la voce di Russia, fragile e sottile come un filo, gli fa alzare il capo. Non lo guarda, non si volta verso di lui. Il garbuglio che ha nella testa non prova, nemmeno tenta di srotolarsi. Si sente soffocare. Si sente rinchiuso in una gabbia. Vede le pareti stringergli attorno al corpo e paralizzarlo nelle proprie membra. Ancora silenzio, il pendolo è scomparso minuti fa. Eppure non vuole rumore, il povero ragazzo, che ha ricevuto forse uno dei colpi più forti di tutta la sua vita. Guarda la lettera che ha in mano e la quantità infinita dentro il cassetto. Non riuscirebbe a contarle nemmeno con tutta la sua forza di volontà.

“Non fraintendere, Lietuva, non pensare male di me…” non piange, ma sente nelle corde vocali dell’uomo uno strappo, una ferita sanguinante. Lituania si sente freddo, insicuro, incredulo della scoperta. Tradito. Russia anni fa, prima che iniziasse la guerra, ha giurato a loro tre fratelli che mai più li avrebbe mentito. Mai avrebbe nascosto a loro qualcosa. Lituania non guarda Russia, non ha le forze per farlo. Ritorna ghiaccio, ritorna maschera di cavaliere. Guarda di fronte a sé, la porta chiusa, eppure facilmente sorpassabile. Stringe forte il pugno, quello libero dalla carta, quello lasciato al suo fianco. Le nocche scricchiolano e liberano le ossa dal gelo nella sua anima. Non proverebbe nemmeno ad alzare un pugno su qualcuno, ma le dita bruciano di inganno e disperazione. Sente la mano del gigante cedere e provare a posarsi su di lui. Lituania, ancora tradito, veloce e fluido, fa un passo di lato e rifiuta di venire sfiorato. Russia guarda Lituania con disperazione, Lituania guarda la porta come se avesse ricevuto una pugnalata da lei stessa.

“Lietuva, ero diverso all’epoca. Era per te, per voi. L’ho fatto per voi…” Lituania si sente un corpo senza anima, un filo di vento incastrato in questa realtà non sua. Deve costringere lui stesso i passi a farsi strada e ad avviarsi verso la porta. Russia sembra un disperato. Gli sussurra, gli supplica di non arrabbiarsi, di comprenderlo. Ma Lituania non lo comprende, per questo continua a camminare. Non sbatte la porta, non sente nemmeno la consistenza del legno sotto i polpastrelli. Ricorda gli anni di gelo e terrore. Ricorda di aver maledetto quell’idiota di Polska più volte di quanto abbia maledetto Russia in tutti quei decenni. Ricorda la prima guerra combattuta contro Polonia da lui stesso e si sente tradito. Crede che Russia non sia mai cambiato e mai cambierà. Se si nasce mostro, si muore mostro. Non l’ha capito se non oggi. E il seme del tradimento germogliò quando ritornò in quella stanza e trovò un secondo e un terzo cassetto, anch’essi stracolmi di carta. Prese tutte quelle lettere e ancora deve finire di leggerle.

Dentro il treno, guardando Riga dal finestrino, non si pente di aver sacrificato Russia per Polonia. Russia l’ha maltrattato per secoli, ha ucciso la sua gente e in futuro farà questo e peggio. Non lo odia, non ne è capace, non dopo essere cambiato così tanto per loro. Ma nemmeno lo ama. Lituania non si pente di nulla, né vorrebbe cambiare la sua decisione. Paziente, sospirante, guarda la moltitudine di gente nella stazione e si chiede quando tornerà Lettonia dopo avergli concesso di rivedere la sua capitale.

 

Caro Lituania,

sono ancora io. Questa sarà la millesima lettera che io ti abbia scritto in questi anni e questa sarà l’ultima. Sarò breve e maturo con te.

Sto per salvarti da quell’inferno, sto per portarti via da Russia. Sono ritornato ad essere una Nazione. Una vera Nazione e sto iniziando a crescere. Vorrei ritornare come un tempo e mi servono territori. E anche il mio vecchio amico che mi ricordi di avere una testa sulle spalle. Ora so cosa ti fa quel maiale. Non chiederti come l’abbia saputo, ma lo so. E penso che sia una cosa totalmente ingiusta. In passato sei stato il mio cavaliere, mi hai difeso e salvato più volte di quanto ricordi. Ora è il mio turno, Lituania. Questa volta sarò io il tuo cavaliere, sarò io a salvarti e a renderti giustizia. E quando sarò di nuovo grande, ucciderò Russia. E pagherà per ogni singolo istante in cui ti ha fatto del male.

Ho aperto una guerra contro di lui. Ti strapperò via da quel postaccio freddo e buio. Ti porterò a vivere come prima, com’eravamo bambini. Sarai di nuovo mio e staremo di nuovo insieme come un’unica Nazione. Aspetta solo che raggiunga Vilnius e poi faremo insieme festa fino all’alba! Aspettami, che ti riporterò a sorridere come un tempo.

Tuo,

Polonia

 

 

 

 

 

Lettonia allunga il naso sul cielo color cenere di Riga. Annusa, riempie i polmoni di quell’aria completamente diversa e che mai potrà dimenticare. La sua capitale, la sua bellissima capitale è ora qui, di fronte ai suoi occhi. E lui non può vederla per troppo. I polmoni si riempiono di pane sfornato, di dolci freschi, di acqua di mare, di aria tiepida. La tenue pioggia ha smesso di toccare le strade e le vie. Riga è sempre stata calma e pacifica. Mosca è troppo caotica e rigida per somigliarle. Le era mancata. Ah, se l’era mancata.

Smette e ritorna col naso ai piedi della stazione. Non può muoversi, non può oltrepassare le scale, altrimenti perderà il treno. Si sono fermati per una breve sosta, per far passeggiare un po’ i passeggeri e poi ripartire. Ha solo cinque minuti, il povero Lettonia, ma vorrebbe più tempo. Il cuoricino commosso e i polmoni carichi della sua vecchia patria lo fanno commuovere. Sente di essere ritornato a casa. È la sensazione di pace e piacere che difficilmente si dimentica. Russia per qualche anno l’ha fatto sentire in pace, ma mai l’ha fatto commuovere ed emozionare come ora. La panchina viene tastata in continuazione dal suo corpo, irrequieto. I piedi smaniosi. Vorrebbe restare qui per sempre e dimenticare ogni cosa.

La gente per le strade è poca, il cielo ancora grigio, ma di un grigio ben diverso, più tendente al bianco. Più speranzoso e affatto carico di neve. In Russia nevica sempre in anticipo, sempre ed ogni inverno. Fa caldo a Riga, a Mosca tremi dal freddo. Mosca è disordinata, Mosca scoppia di persone e stranieri. Riga è docile, Riga non ha altri se non le proprie generazioni. Non cambia nulla a Riga, Mosca è mutevole e frenetica. Lettonia ha un cuore calmo come la sua città e non gli è mai mancata tanto se non ora. Non è domenica, nemmeno è festa, le persone sono formichine, ben lontane da lui. Non c’è caos, non c’è agitazione. Riga è quiete. Riga è pace.

Una donna, malandata e forse anziana, si siede sulla stessa panchina, nel verso opposto. Lettonia guarda ancora il cielo, sente nell’aria salsedine e una pioggerellina estiva. Ricomincerà a piovere, lo sente nella propria anima. Non si è dimenticato la sensazione di toccare coi piedi la propria nazione. Alza lo sguardo dietro di sé, dove il treno è ancora fermo e i passeggeri ronzanti vespe in un alveare. I vagoni sono ancora fermi, ma l’orologio non gli mente e nemmeno il fischio leggero, segnale di imbarcarsi. Mancano pochi minuti. Deve tornare da Lituania. Amareggiato, eppure maturo, il ragazzino si alza. Col passo di piombo, inizia ad avviarsi. Non si volta, non vuole farlo. Qualcosa di tiepido e gracile lo ferma, una mano gentile. Stringe con difficoltà, lo impone a fermarsi. Lettonia non sobbalza, né trema, troppo cortesi erano le dita, anche se agitate. Volta il capo e i riccioli lo seguono “Lettonia, aspetta!”.

Il ragazzino guarda e non comprende, affatto cauto. La donna non è anziana, non lo è affatto. Non lo è nemmeno la sua mano, piccola ma rigorosa. Strizza le palpebre, insospettito. Si chiede come sappia il suo nome. Occhi blu, toccati dalla gigantesca nube grigio e bianca sotto di loro. Occhi stanchi, occhi pressati dal dolore. Dolore fisico e mentale. Dolore di un tradimento. Lettonia guarda e vede bende pressate sul capo della signora. Le palpebre, incredule, prese da uno scatto di terrore e paura, si spalancano. Le gambe restano impigliate al cemento dello scalino della stazione, la mano ancora impigliata a quella della donna. Se lei fosse stata Russia, avrebbe iniziato a tremare. Eppure ha pur sempre un liquido congelato, stridente sulla sua spina dorsale. Balbetta, come faceva un tempo “C-Che ci fai qui, Ucraina?” sempre gli stessi occhi addolorati, sempre lo stesso dolore. Ucraina è una donna spezzata dalla fatica e dalla sofferenza.

“Lettonia, perché mi hai sparato?”

 

Lituania osserva il cielo, grigio e con un venticello bollente. Non è certo, ma crede che presto inizierà a piovere. Sospira di sollievo, al caldo della cabina, solo e affatto seccato. Non pensa ancora a Lettonia, è ancora troppo presto per preoccuparsi. Il venticello timido entra dentro il vagone. Riscalda l’aria tiepida e ritorna indietro, preoccupato anch’egli ad altre faccende. Deve portare il caldo e l’estate in Lettonia, non può soffermarsi troppo su un ragazzo addormentato. Lituania, cauto e fraterno, s’accosta a Polonia, dritto e dormiente, accucciata la testa sulla coperta, resa ora cuscino.

Poggia lentamente, quasi con timore, un dito sotto al naso del ragazzo. Il respiro debole di Polonia si poggia sulla sua pelle. La riscalda e poi la raffredda, affatto potente come soffio di vita. Il moro, ora tranquillo, toglie l’indice da sopra il labbro dell’amico. Lo fa spesso, terrorizzato da una reazione negativa del corpo. Teme un mancamento, un respiro smorzato, un cuore fermo, un cadavere da portare a Varsavia e non un povero soldato rinvenuto dalla terra. L’osserva, lo controlla. Il volto inespressivo, bianco, né sereno, né dolente. La carne magra senza muscoli, le ossa sporgenti. Pare più morto che vivo, il povero Polonia. Ma a Lituania non interessa.

Istintivo, dolce, afferra la mano fredda dell’amico e la stringe con la sua.

 

“C-Cosa? Non sono stato io, Ucraina!”

“Ne sei certo, caro?”

“Certo! Io stavo scappando, Ucraina. Russia… Russia mi stava inseguendo e voleva sparare me. Non voleva farlo apposta. È stato un incidente”

“Davvero, Lettonia?”

“Sì, davvero”

“Allora perché sei scappato via? Perché non mi hai aiutato?”

“Perché… P-Perché avevo paura…”

“Oddio, caro Lettonia…”

“S-Scusami…”

“Avevi paura di mio fratello o di me, tesoro?”

 

Lituania alza la mano ossuta, senza carne del biondo. La porta di fronte agli occhi. Le iridi ispezionano, più perplesse che preoccupate. Le dita forti iniziano il loro percorso. Sfiorano curiose i solchi e i tagli profondi nella carne marcia. Le dita di Polska sono davvero morte. La terra ha mangiato e assorbito ogni goccia di sangue e sudore. È cuoio sotto i polpastrelli del lituano. La pelle uniforme, legata e stretta attorno ad ogni osso come un guanto soffocante. Inagibile, intrattabile e restia a contrarsi. Teme di muovere troppo le dita, teme di strappare la pelle senza articolazioni, senza liquidi. Porta ancora una volta il fazzoletto bagnato di pioggia sulle dita ossute. Fuori sta incominciando a piovere, ma non a diluviare. Le goccioline, infanti e piccine, tintinnano i loro corpicini sul vetro chiuso del finestrino. Unghie argentine sulla pelle tesa di un tamburo. Come prima, come miracolo, come magia, l’acqua del fazzoletto viene immediatamente assorbita. Affamata di liquidi e sangue, la pelle si tende e inizia a perdere il colore della morte. Più bianca e meno grigia, si stende e appare assai meno rivoltante. Polonia non si è mosso, ignaro di ciò che gli sta accadendo. Lituania sente un secondo fischio del treno. Alza lo sguardo dall’amico e vede fuori i passeggeri tornare dentro i vagoni, ancora pesci in un branco di sardine. Lituania si fa pensieroso e si chiede se Lettonia sia fra quel mucchio di giacche e vestiti.

 

“I-Io… io non volevo…”

“Shh… Lettonia caro, non piangere”

“I-Io non volevo lasciarti lì. M-Ma avevo tanta paura. Pensavo che Russia si sarebbe arrabbiato e non ci avrebbe fatto partire. Non volevo andarmene e lasciarti morire lì, Ucraina. Davvero, credimi…”

“Certo, caro, certo che ti credo. Ti prego, caro, non piangere… Allora perché sei andato via?”

“A-Andato via? U-Ucraina, io non volevo scappare…”

“Lettonia, Russia ed Estonia si stanno preoccupando a casa. Perché sei scappato?”

“N-Non posso dirtelo…”

“Perché, caro?”

“P-Perché sennò farei del male a Lituania”

 

Lituania ha la tentazione serpentina di aprire la veste di Polonia e di scoprire la carne del petto. È curioso, maledettamente curioso di sapere in che condizioni si trovi il torace perennemente scarno del povero ragazzo. Vede bende ancora bianche, pulite e perfette sotto altro fresco e leggero bianco. Potrebbe profumare di pulito, Polonia. Ma la pelle è ancora bucata e il sangue troppo poco per tentare e soddisfare l’infelice desiderio di sapere. Lituania si chiede se veramente, nonostante il lungo viaggio che stanno percorrendo, il suo amico avrà cicatrici impossibili da eliminare. Con le dita ancora intrecciate e il fazzoletto umido premuto fra di loro, Lituania si chiede se mai Polonia potrà avere segni indelebili sul proprio corpo. Non ha mai visto cicatrici sul polacco, o almeno quand’erano ragazzini. Lui combatteva e lo difendeva da mali e disgrazie. Lui si macchiava di sangue, lui si feriva. Polonia era troppo mingherlino, troppo esile per portare fra le mani il ferro di una spada o il legno acuminato di una lancia. Le cicatrici di Polonia venivano spazzate via dagli anni e solo l’anima le curava col tempo e con l’affetto del proprio fratello. Lituania ha ancora qualche ferita ricavata dalla guerra e dai primi anni trascorsi dietro lo scudo di cavaliere. Ma ora sono solo sottili frammenti di vita infantile che persino il corpo ha dimenticato. Le Nazioni dimenticano in fretta l’infanzia. Polonia avrà cicatrici dettate dalla guerra e dal proprio paese straziato e distrutto.

Lituania prova ad immaginare il suo amico col petto libero dai vestiti e le gambe scoperte con ragnatele di tagli. Non ci riesce.

 

“Non fa niente, caro, puoi anche non dirmelo”

“U-Ucraina…”

“Ma sai che Russia è molto preoccupato per te. Crede che non tornerai più a casa. Anche Estonia è molto preoccupato”

“E-Estonia sta bene?”

“Sì, caro, Russia non gli ha fatto niente. Sta bene”

“Oh, grazie al Cielo…”

“Lettonia, tu devi tornare a casa. D-Devi farlo…”

“Ucraina! La tua testa! Esce sangue!”

“Non è niente, sto bene, caro…”

“Sanguini e sei pallida! Sei tu quella che deve tornare a casa!”

“L-Lettonia, devi venire con me”

 

Lituania ritira le dita, involontariamente cadute fra le ciocche morte di Polonia. Se n’è staccata un’altra. Un altro mazzetto di fili d’oro spento cadono e lasciano il cranio secco ed infecondo. Durante il viaggio ne sono cadute altre due, di ciocche. Lituania deglutisce, sospira, abituato ormai a quel che stia vedendo. Abituato a cambiamenti che forse non comprenderà affatto. Afferra l’ennesimo mucchietto e lo lascia volare fuori, contro il vento estivo e bollente, le goccioline, tamburelli contro ogni mattone e tetto di Riga. Polonia non ha capelli molto folti e nemmeno molto forti. Sono letteralmente fili sottili e delicati. Ma non si strappano né cadono facilmente. Sono fili, ma fili rigidi come corde. Lituania impara in fretta e ha imparato a guardare i cambiamenti dell’amico senza aprire bocca. La ciocca era meno folta delle precedenti, ma vede ugualmente uno spazio vuoto e liscio sul capo del ragazzo. Ormai è ovvio: gli cadranno i capelli. Spera che quelli nuovi possano ricrescere velocemente, così come è ricresciuto la carne sul labbro. Ha lasciato un segno bianco e visibile, ma perlomeno non è più carne morta. Anche se un cambiamento positivo, per Lituania è sofferenza: Polonia non sarà completamente come prima.

 

“S-Se ti curi, allora verrò con te”

“Certo che lo farò, caro. Non avere paura, R        ussia non ti farà alcun male. Ti vuole bene, non ti farebbe mai del male. Mai più”

“Ma così dirò addio a Lituania…”

“No, caro, è solo un arrivederci”

 

Lituania ha sentito il terzo fischio, il treno sta per partire. Lettonia non c’è ancora. La gente ha riempito i vagoni e ora chiacchiera all’interno del treno. Deglutisce, un balzo al cuore. Alza il finestrino e caccia fuori la testa. Vento bollente, gocce ghiacciate di pioggia. Riga piange un addio. Si bagna, s’inzuppa piano, il disperato Lituania. Aguzza ancora la vista e vede. Lettonia si avvicina, vede il rosso dei suoi pantaloni. Piano, mortificato, trascina i piedi fin sotto il suo finestrino. Con una fatica degna di Ercole, alza lo sguardo. Non è lacrimoso, né vorrebbe buttarsi nelle lacrime. Vede vene pulsare nei suoi occhi e teme di aver fatto male. Ricorda come l’ha abbracciato durante il viaggio, di come volava via dal vagone per vedere la sua città, di come tristemente abbia accettato di non rivederla più di pochi minuti. Avrebbe contratto la tristezza lui stesso, se ne rende conto. Affatto arrabbiato, incontra coi suoi occhi il suo sguardo.

“Lituania… non posso” sente caricare le ultime due parole, come se pesassero quanto mattoni e mattoni di case e castelli. Anche se un ragazzino, anche se lo conosce e lo abbia sempre trattato più di un fratello, anche se comprende, sente la tristezza. E lo sconforto. Non è tradimento, ma è qualcosa di simile quello che sente e che il cuore con fatica accetta. Le sopracciglia cadenti, le spalle spaccate, i denti scoperti per il dolore, Lituania sussulta. Lettonia pare far lo stesso, che deglutisce ed ingoia la promessa e il giuramento di aiutarlo e di stargli affianco. Ma Lituania è comprensivo, anche se rattristato.

“Perché?” la voce di Lituania pare disperata e non sua. Deglutisce ancora, il ragazzino. Ancora niente lacrime. Lettonia le contiene ed è bravo a tenerle ferme, senza nemmeno sporcare le ciglia. Affranto, fa un grande respiro e pare che la gola si liberi, si senta molto più leggera. Lettonia ricorda il sangue sui muri e i dipinti della casa di Russia. Gli occhi sbarrati, increduli e morti di Ucraina. La pozza di sangue. La disperazione di Russia e come scuoteva quel corpo insensibile ai suoi lamenti. Lettonia non tradirebbe mai Lituania, ma il senso di colpa è troppo forte. Ucraina ora è affianco a lui. Lituania l’ha a malapena riconosciuta. La donna affianco a lui gli dà più angoscia che liberazione.

“E’ per Ucraina, Lituania. Ti giuro che è solo per lei” non ha paura, Lituania legge chiaramente nel suo sguardo. Lettonia è sempre stato un libro aperto, uno specchio senza alcuna macchia per confondere o imbrogliare. Lettonia è sempre sincero. Lettonia si era svegliato l’altra notte chiamando e chiedendo perdono alla donna che pensava di aver quasi ucciso. Lituania accetta, Lituania comprende. Ucraina è ancora stanca, la benda cucita malamente e gocce di sangue grandi quanto dei pollici. Lituania comprende e non è più tradito.

Il treno comincia a camminare, a prendere la rincorsa verso casa sua, verso la Lituania. Lettonia cammina, Lettonia teme di dover perdere un altro fratello. Alza e afferra la mano calda del maggiore. È calda e sudata per la fatica, la sua mano. Il moro vede le sue gambe correre e il paesaggio di Riga cambiare rapidamente in verde ed erba, carezzata da gocce di pioggia. I capelli mori volano, si liberano anche se pesanti per la pioggia. I riccioli di Lettonia paiono meno biondi e più spessi. Lettonia lascia Lituania. Lituania lascia Lettonia. Mani fredde, anima pesante. Il treno inizia veramente a correre. E già la mano piccina del fratellino manca. Lo strappo è stato meschino: Lettonia è già lontano. Lituania si sporge con più enfasi e disperazione. Lituania piange, Lettonia no, ha imparato e ora non è più bambino.

“Arrivederci, Lettonia! Abbia cura di te!”

“Arrivederci, Lituania!”

Lituania smette di agitargli la mano, intimorito di poter cadere. Vede la sua figura allontanarsi e farsi più piccola. Anche se piccino, anche se ancora un ragazzino, Lituania è fiero di Lettonia. Si asciuga le lacrime e ritorna da Polonia, abbandonato tra le coperte e gli improvvisati cuscini. Lituania guarda quel che resta del suo amico e la malinconia lo prende e sbatte forte il suo cuore. Troppi strappi alla carne per quei pochi minuti. Sente gli occhi inumidirsi e la gola chiudersi. Cerca di trattenersi, deve trattenersi. Lettonia non ha pianto nemmeno una volta di fronte a lui, non può dare il cattivo esempio ed esserne da meno.

 

 

 

 

 

Apre gli occhi e il buio lo avvolge, come sempre, come ha fatto fin da quel momento. Sbatte le palpebre, più e più volte, confuso, impacciato. È il buio, il buio che l’ha sempre accompagnato, soffocato, infuriato. Però è un buio assai particolare, questo qui. Non è il solito buio crudele ed insensibile. È un buio scuro, ma non lo trattiene a sé come una madre fin troppo protettiva. È un buio molto più tenue, dolce. Non è il buio che ha sempre conosciuto e questo lo interessa. È un buio singolare e colorato. Non vede nero, vede blu.

Alza il tronco e il capo. Sente lo stesso freddo sulle guance e la stessa coperta sulle gambe. La sente e la vede. Il buio, questo che gli chiede cortesemente di destarsi, è veramente speciale. Ha un blu scuro, un blu pregno di bianca luce e di verdognolo delle siepi. È buio, è notte. E vede, in qualche modo vede. È incredulo ed affascinato da questa scoperta. La coperta che gli attorciglia le gambe è chiara, più del buio. Ha una forma morbida e pelosa. Può vedere. Vuole scoprire altro.

S’alza, coi piedi sul tappeto muto, con le palme spoglie a darsi l’equilibrio, cammina. Indaga e cerca altro di nuovo. Guarda di fronte a sé. La riconosce bene: un pomello di un buio meno chiaro della coperta, ma affatto scuro come quest’altro buio attorno a sé. Alza le dita. Vede le sue dita. Le muove, le agita. Si muovono e si agitano. Le vede muoversi ed agitarsi. Un tenue calore gli scalda il cuore. È confuso, ma felice. Poggia la mano sul pomello e lo muove. La porta si sposta e si apre. Vede un buio molto più diverso, molto più ammaliante. Una notte piena di stelle e un blu quasi celeste. Zampetta per quel luogo, tasta quel che vede. Vede veramente. Sorride, davvero sorride.

Apre un’altra porta silenziosa. Vede la sala gigantesca, la più grande che abbia mai trovato. Vede un buio veramente troppo oscuro. Ma quel buio è lucido, per questo è ancora più curioso. Lo riconosce. È legno lucido, le stelle brillano su di esso, catturate nella ragnatela dell’oscurità. Coi passi muti e la mano cauta, tasta. È liscio, non è umido, ma quasi ghiacciato. Si abbassa e si poggia sullo sgabello. Il pianoforte sembra prezioso, tanto è curato, tanto è viziato nella perfezione del pulito. Prima profumava, ne è certo. L’odore si è dissolto e smarrito. Apre il legno lucido e il buio scompare. Bianco e cristallo lucido sono i tasti. Ignora i maggiori in nero, ignora qualche vecchio segno giallastro per l’età o per la sbadatezza. È un pianoforte e lui sa suonarlo.

Poggia le palme separate, le dita allargate, le ossa fuoriescono ancora e si contraggono nella carne delle mani. Respirato il profumo dissolto, poggiato gli occhi per bene sui tasti da toccare, suona. Aggrotta le sopracciglia e sbatte le palpebre. Nessun suono. Non comprendendo, eppure non arrendendosi, ritenta. Le stesse dita, le stesse note. Poggia i polpastrelli sul bianco e li sbatte con dolcezza. Le sopracciglia ancor più incrinate. Nessun suono ancora. Il piano è muto. Non comprendendo ancora, ma nemmeno volendo arrendersi, ritenta.

Le dita volano e pigiano sui tasti quasi giallognoli e sulle stelle incastrate nella ragnatela nera. La pratica l’ha lasciato, ma non abbandonato. Le dita non danzano, si scontrano e fanno capriole le falangi sulle unghie e sulle falangette. Ancora nemmeno un suono. Sospira, contrariato. Ritenta, daccapo. Ricorda la notte come malinconica ma comunque felice, allora suona un Notturno che non immaginava di saper suonare e pretende che le sue dita la ricordino. Gli sgambetti sono meno prepotenti, le unghie non s’incastrano più nei de molle e nemmeno nei si. La melodia continua, ma il pianoforte non suona. Non fa sentire la sua voce. Tiene premuti più a lungo i tasti, pigia le note alte con insistenza, fa scivolare piano l’anulare sinistro sui tasti bassi. Ma nulla. Il Notturno smette di muovere i tasti. L’ha ritentato due volte, ma non si decide a far sentire la sua voce. Rilascia i tasti e si chiede perché, se non veda, perché non senta ugualmente.

Si sente sfiorare, un tocco leggero, di mano straniera, né è certo. Con velocità e con paura si tira in piedi e per fortuna la seggiola non cade. Si volta, istintivo, verso il suo nemico. Il buio non è oscuro come ha creduto quand’è giunto fino in questa stanza. Vede la figura alta, troppo alta per lui e a malapena riconoscere il volto senza lenti di Austria e senza i suoi soliti abiti. L’ha destato il pianoforte, nel bel mezzo della notte, e si chiedeva perché diavolo Italia si fosse messo a suonare ad un’ora come questa. Solo lui e il ragazzo sanno suonare. Guarda attentamente l’iride del ragazzo. La pupilla è ferma e non traballante ed instabile. L’occhio dà fuoco a quel che vede di fronte a sé. Vede. Polonia vede.

Polonia sa che Austria non saprebbe come attaccarlo. Quasi si poggia sul pianoforte e per sbaglio pigia i tasti. Ancora nessun suono. Austria sbatte le palpebre, sussulta, come sorpreso o infastidito. Il pianoforte fa suono, ma lui non sente ugualmente. Guarda Austria prudente, come lo guardava in battaglia come suo nemico. Non ricorda il bagno nel lago che gli ha concesso, nemmeno la passeggiata nel giardino di Vienna, nemmeno la mano elegante e gentile che lo teneva stretto protettiva ed impaurita. Austria capisce che Polonia non lo riconosce e non lo ricorda, ma nemmeno lo teme. Con sguardo sospettoso, continua a fissarlo, quasi contrariato dalla sua presenza. Austria sospira, più per lo sconforto che per il sonno.

Allunga la mano, prudentemente, verso il ragazzo. Polonia è sospettoso, per questo prova ad allontanarsi, sbattendo soltanto più il fianco sul legno lucido. Guarda le dita come se fossero insetti velenosi ma dormienti. Austria fa un passo in avanti e anche il braccio lo segue. Il biondo lo osserva tra il dubbioso e l’offeso. Le dita s’impigliano nella ciocca fuggita dall’intrigo di capelli. Polonia continua a guardare, immaginando un trucco. L’indice si avvolge ai fili dorati e la ciocca comincia il viaggio. Incredulo, il ragazzo non riesce più a vedere la mano, ma sente. La sente aggrappata alla ciocca, sorvolare l’orecchio e poi cadere giù, oltre il lobo. Il dito si stacca e Polonia ricorda. Ricorda di aver sentito vertigini e il cuore sussultante. Aveva sentito dolore alle ginocchia e di essere rotolato giù, per un po’ di tempo. Ricorda di essere ritornato in piedi da solo e di come le lacrime scendevano per lo spavento e il dolore. Ricorda lo stesso tocco. Lo stesso dito e lo stesso attorcigliarsi nelle ciocche sporche.

Polonia guarda Austria e comprende. Austria guarda Polonia e si sente sollevato. Però la tristezza e la felicità si confondono in una melma inconsistente dentro di sé. L’aristocratico fa di nuovo lo stesso segnale, lo stesso indice fra le ciocche dei suoi capelli. Polonia realizza molto. Si sente sorpreso e meravigliato. Guarda Austria e vede tristezza. Vorrebbe ringraziarlo, ma senza voce non può fare nulla e comunque non comprenderebbe. Non ricorda la guerra, passata anni fa, non ricorda che Austria gli abbia fatto del male, anche se non intenzionalmente. Polonia stacca la carne dal pianoforte e s’avvia. Poggia il capo e il busto sulla veste da notte di Austria. Lo sente irrigidirsi, lo sente poi rilassarsi. Non alza braccia né s’avvicina più di così. Non lo conosce abbastanza per farlo. Austria si sente felice e triste ugualmente. Continua a tenere la mano fra le ciocche bionde, senza muoverle o agitarle. Vorrebbe piangere, ma non lo fa. È disdegnoso per lui, soprattutto se Ungheria l’ha seguito e ora sta dietro di lui. Ha sentito anche lei il pianoforte fantasma, così come l’ha sentito Italia, terrorizzato, e Prussia, loro ospite, anche se sgradito.

Italia si avvia anche lui, con timidezza e confusione. Non ha ancora realizzato, così come Ungheria si sente stupefatta ed entusiasta, così come Prussia ha compreso. Ha compreso che non è mai stato lui un problema per Ungheria, come lei gli ha urlato in faccia mesi prima. Lui non ha mai fatto nulla di sbagliato. Sa che se Polonia non fosse mai sopravvissuto lei non avrebbe mai rivalutato suo marito. E suo marito non si sarebbe mostrato molto più affettuoso con lei ed Italia. Ora anche il giovane servo ha realizzato e saltella felice, irrequieto ed elettrizzato. Prussia rimane all’entrata della sala, non riuscendo a vedere altro che rosso di battaglia e cenere di spari in quell’aria allegra. Stringe il pugno e trattiene i denti sotto le labbra bollenti.

Se Polonia non fosse stato qui, in questa casa, Ungheria sarebbe stata sua.

 

 

 

 

 

 

Il flash di una fotocamera lo prende di sorpresa. Sbatte più volte le palpebre, un misto di stupore e dolore. Bruciano e fanno sibilare le orecchie, gli occhi accecati. Si passa una mano guantata sugli occhi, ancora carboni ardenti sotto le palpebre. Bruciano ancora. Sulla sua spalla, infuriato, Toris sibila un suo tipico verso infuriato. Abbassa le spalle con fin troppa foga. Rischia di farlo cadere. Indignato, si sporge veloce e rapido sull’orecchio scoperto e bianco del polacco. Vorrebbe afferrarlo, vorrebbe tirarglielo come sempre e come farà anche in futuro. Polonia si strofina ancora gli occhi, irrequieto e dolente. È l’occasione giusta. Il rapace si sporge e il becco s’incastra perfettamente come un pezzo di puzzle fra il lobo. Basterebbe solo tirare. Giusto un po’.

“Allora, questa volta com’è uscita, peggio di quella di prima?”

“Darek, per favore!” ancora col bruciore all’iride, Polonia apre gli occhi. Con fatica gli socchiude. Vede puntini bianchi sopra la sua testa. Questi avvampano e s’impigliano nelle vene degli occhi. Chiude ancora gli occhi. Bruciano come tizzoni ardenti, le orecchie sibilanti e quasi sorde. Ma si concentra, il dolore quasi attutito del tutto, il falcone alla sua spalla impaziente e stranamente fermo e rigido. Socchiude gli occhi. Confuso e meravigliato, si guarda attorno, come un bambino sperduto.

“Signori, questo era l’ultimo scatto. Fra qualche settimana vi spedirò la migliore”

“E     dev’essere la migliore!”

“Tymek, non incominciare anche tu” la vocina di bambina, dolce e birichina, non sembra affatto contrariata come hanno dimostrato le parole. Bruciore completamente assente, apre gli occhi. Non vede più bianco. C’è il verde di un giardino aperto, il blu di un cielo estivo senza nubi, una casetta in lontananza, erba colta senza ciuffi fuori posto. Polonia tocca erba coi piedi, vera erba. Morbida e soffice sotto i suoi stivali. Si sente più leggero, più sollevato ed incantato. Non ricordava più com’era carezzevole l’erba d’estate. Ormai lo sa: è dentro la foto. Vede anche la famiglia che non conosce e che in qualche modo è collegata a lui.

“E’ incredibile…” sussurra la voce fine e malinconica di Prussia, appena notato dal ragazzo. Lo vede, di fianco a sé, poco più lontano. Il sole tocca la sua divisa scura e la fa brillare di giallo. Non c’è vento. I capelli sono calmi e semplicemente cadenti sulla sua testa. L’aquila mesta china sulla spalla rigida. Lo sguardo perso di fronte a sé, al verde più lontano e al blu impossibile da visitare. Polonia guarda anche lui con più attenzione. Una cicogna vola ben lontana e prudente da loro. Atterra sul nido scuro e si stende. Il manto bianco quasi nero per l’arroganza del sole. C’è l’infinito dei campi polacchi, senza colline né montagne. La terra piatta e fertile, il grano appena visibile lontano, nell’infinito del paradiso. Si sente piccolo, un puntino in mezzo al nulla. Si sente volare, si sente infelice. È a casa, veramente a casa. Prussia pare più nostalgico che meravigliato di questa sorpresa. Paiono tornati indietro, a quando erano vivi e questo riempie molto Polonia. Però ricorda Toris sulla sua spalla e ricorda anche il desiderio espresso ad alta voce. Ricorda la foto e la famiglia ritratta. Guarda Prussia, molto più calmo, ora girato verso di lui. Non sembra avere parole. Impugna la lancia, muove le dita su di essa come se, per una semplice sillaba in più, possa scagliarla contro quel mondo fatto di carta. Polonia ricorda anche che questa è solo illusione. O forse un ricordo lontano. Ma è anche curioso e giovane, allora lascia lì Prussia. In qualche modo si sente fuori luogo nella sua tranquillità.

C’è odore di buono dentro casa. Polonia si fa strada da sé, Toris già volato all’interno delle mura e fra gli oggetti familiari. Piano, curioso, nostalgico, lascia che i piedi guidino il suo corpo. C’è odore di qualcosa che ha già mangiato. Le narici si allargano, respira la carne tenera nell’aria e le spezie che gli pizzicano la punta del naso. L’odore non punge, carezza i polmoni. Dolce e familiare, sempre più suo, si fa ancora strada. Vede Toris prima di poggiare gli occhi sulla cucina confusa ed impiastricciata. Il falcone è immobile, gli artigli lisciano il legno della poltrona, vissuta e sudata di qualche anno. Non lo guarda, ma nemmeno lo ignora. Polonia sa che è entrato, sa che è sconosciuto a quel che sta vedendo. Il rapace rosso è fermo, gli occhi si muovono, brillano ancora di un nero d’ossidiana. Paiono due lame nella luce. Trafiggono altro, assolutamente non care al biondo. Puntano e calano le lame sulla donna.

La cucina profuma di carne e gelsomini. Polonia, timido, bambino, si avvicina. La donna canticchia ancora qualcosa che non comprende, o che forse non conosce. Ignara dello sconosciuto, serena, continua a tagliare. Polonia ingoia saliva e timidezza, le si avvicina. Come se potesse vederlo, come se potesse toccarlo, le si affianca. La guarda e arrossisce, come se non avesse mai visto una donna in vita sua. La treccia sottile potrebbe sfiorarlo, se avesse carne e spirito. Lunga, balla con la voce della bellissima. Polonia sente la fronte e il collo in fiamme, timidi come le guance. Ha gli zigomi alti, il naso piccolo e fine, gli occhi brillanti boccioli, le ciglia lunghe. Pare una cerbiatta o una sorprendente incarnazione. Polonia indietreggia di un passo, imbarazzato. Il canticchiare continua, il coltello posato e le fette di cetriolo cadono dentro un piatto fondo, bianco, senza decori. Pare sorridere solo con gli occhi. Polonia abbozza un sorriso tremule, ancora rosso, ancora col disagio sulle spalle. Si sente stupido ed innamorato.

“Dorota!” la voce affatto prepotente, ma rimbombante nella stanza, uccide il suo sorriso. Sbarra gli occhi, il rossore diventa bianco latte. Il cuore ha un sussulto, come ricevuto un pugno al petto. I piedi paralizzati al legno del pavimento. Scosso, sussulta. È entrato un uomo, che piano le si avvicina. Quella, Dorota, abbandona il piatto sulla tavola. Viene presa per i fianchi e quasi sollevata come una bambina. Lei, affatto incredula per la voce dura, né per i passi agguerriti, abbandona le braccia mingherline all’uomo. I baffi scuri paiono sollevarsi anch’essi col sorriso pacifico. Viene calata ancora e tocca col fianco la tavola. L’uomo, alto come un orso, posa le labbra su quelle piccine della bella. Polonia sente una crepa nel cuore, arrossito ancora per il turbamento e per la sua testa. Lo riconosce, vede la divisa verdognola da militare e l’aquila bianca coronata sulla spalla. È il marito, quello che nella foto era accanto a lei. Immagina che sia sposata e che abbia già avuto due parti. Si passa una mano sulla guancia, come ricevuto uno schiaffo. Il cuore batte forte, sconcertato e vergognoso. Si sente un ingenuo. Dorota si stacca e dolcemente lo spinge.

“Darek, smettila o mi arrabbio!”

“Non con me di certo!” e ride, i baffi arricciati e spettinati. I capelli scuri e rasati. Polonia sente un treno nel cuore. Batte forte come un tamburo, ancora incredulo. Si guarda i piedi, fa strisciare la punta dello stivale sul tallone dell’altro piede. Ha perso il rossore, ma non il rifiuto nemmeno pronunciato “Dov’è la piccola Klara?” chiede lui, Darek, che cerca con gli occhi un fagotto rosa e una neonata rossiccia come le sue guance. Sembra una caricatura buffa ed esagerata, irrequieto, in un corpo troppo grande e troppo ingombrante. Ferma gli occhi, gli s’illuminano di luce. Polonia segue lo sguardo, proprio dove Toris ha posato i suoi artigli “Ah, eccola, la mia bambina!” Polonia si scuote e si avvia alla poltrona.

Dorota ha disteso la piccina sulla schiena, col capo cautamente poggiato sul cuscino. Klara, la neonata, ha le palpebre pesanti e spesse come la carne che ora taglia la madre Dorota. Sembra stanca e affaticata, le sopracciglia incredibilmente sottili eppure contratte, la boccuccia stretta, il visino imperfetto corrucciato e quasi arrabbiato. Le rughine sotto agli occhi, il nasino schiacciato. È tenera, anche se severa. Sonnecchia, sotto una copertina rosa e un’altra bianca. Polonia si china e le si avvicina, come ha fatto con sua madre. Affatto toccata dalla presenza dello sconosciuto, continua a respira placidamente, le palpebre ancora abbassate, le sopracciglia arruffate e bionde. Polonia sente un dolce tepore, proprio in fondo al petto. Vorrebbe sorride, ma ora fa fatica. Se si movesse, anche solo uno stropiccio degli occhi, riderebbe, ammaliato.

“Già, ha solo due mesi e mi ha già fatto cadere le budella” sghignazza una voce roca e giovane, irosa e desiderosa di dare risa. Polonia, ancora accucciato vicino alla poltrona, ancora col tepore dolce al petto, volta il capo. I capelli tagliano l’aria attorno alla pelle. Qualcuno scende le scale, il passo veloce e spavaldo, ilare e quasi cattivo. Il polacco dimentica il calore al cuore e s’irrigidisce, quasi intimorito dell’adolescente assai più alto di lui. Ritorna in piedi, prova a guardarlo a non provare la sua solita fobia. Ci sono fin troppe persone che non conosce e che non conoscerà mai. E che non conosceranno mai lui. Si sente un peso di troppo, indesiderato in quel ricordo. Anche Toris osserva, alto sulla sua postazione. Vede i capelli talmente scuri che la luce, prendendosene gioco, gli trasforma in riflessi blu. Gli occhi inclinati come se arrabbiati, la fronte alta come quella di un re. Il falcone scuote il corpo, come se una zecca gli sia impigliato tra le piume. Il ragazzo si poggia sulla sedia e si sporge sui due sposi. È il figlio, nessun altro sarebbe tanto sfrontato “Allora, che si mangia?”

“Tymek, smettila di parlare male di tua sorella e siediti” parla Darek, ora veramente un orso, ora veramente minaccioso, con occhi diventati d’un tratto rossi. Polonia non si spaventa, in qualche modo è grato che il ragazzo non abbia parola facile. Il giovane sbuffa, alza la sedia alla sinistra del capotavola e ci cade sopra. Sbatte i gomiti sul legno lucido, la mascella ciondolante e quasi sconnessa al cranio. I riflessi blu scomparsi. Polonia si sente ancora di troppo. Poggia ancora gli occhi sulla piccola Klara, ancora dormiente, ancora corrucciata, ignorata ed ignorante delle parole del fratello maggiore. Più rincuorato, lancia uno sguardo al falcone. Toris non lo guarda. Il ragazzaccio, Tymek, getta gli occhi sopra di lui, sul padre ancora severo.

“Ho vent’anni, papà, e dico quel che voglio di quel mostriciattolo”

“Sì, ma io sono il tuo capitano in caserma e sei ancora un soldato semplice che deve ubbidire ai miei ordini, Lukasiewicz” Tymek sbuffa ancora, mormora qualcosa che Polonia non riesce a comprendere. Darek si sposta al capotavola, affianco al figlio ancora preso per aver nominato il suo grado nel suo lavoro. Il polacco comprende, anche se in parte. E’ stato soldato e ha portato l’esercito verso i tedeschi e i russi, ma non ricorda di aver mai avuto un padre e se mai l’abbia avuto non riesce ad immaginarsi nei panni del giovane “E siediti composto, questa è anche casa tua” umiliato, mormora ancora qualcosa fra sé e sé e si compone. Dorota sospira, forse abituata alla scenata, eppure sempre seccata dall’irruenza temporanea del marito.

“Ewa, dove sono i miei occhiali?” un mormorio di donna, incomprensibile. Un altro ha parlato, fuori dalla stanza, nel corridoio “Li avevo posati per fare la fotografia, ma non ricordo dove li ho poggiati” ancora un mormorio indistinto, sempre di donna, sempre indecifrabile. Senza un comando o un’attenzione particolare, i tre si voltano e gli occhi incrociano l’entrata della sala da pranzo e della cucina. Klara dorme ancora, ignara, forse un po’ più beata. Le copertine paiono respirare sul suo corpicino rossiccio, le sopracciglia distese “A-Aspetta, dove sono?” la voce più vicina, accanto alla porta, dei passi incerti e lenti. La voce femminile e provata dallo snervamento più vicina, quasi dentro la stanza.

“Wladymir Lukasiewicz, i tuoi occhiali sono sempre sul camino, al solito posto” la voce stanca, esausta più per l’incertezza dell’uomo che per la giornata passata ad occuparsi della casa. Entra qualcuno, la porta spalancata malamente. Un altro uomo, una copia molto più magra e bassa di Darek, vestito come ad un evento importante, formale e conciso, nonostante i baffi e i capelli ugualmente spettinati come quelli del fratello, anche se lunghi. I passi esitanti, gli occhi strizzati fra le palpebre, la vista annebbiata e gli spettatori calmi. Un lampo lo acceca: Darek ha lo stesso sguardo sfrontato del figlio e lancia al fratello minore, adulto ed impacciato, un ghigno divertito. Dorota, accortasi, arriccia dolcemente arrabbiata le sopracciglia. Arrivato al camino, con le mani tastanti le foto di famiglia, Wladymir sospira scoraggiato.

“Ewa, dove diavolo sono?” un boato spranga il silenzio e forse il divertimento del fratello maggiore. Polonia sobbalza, la porta sbattuta l’ha preso di sorpresa. La donna che prima ha urlato al marito quasi cieco ora appare e, con una pazienza sottile come un filo, si avvia al camino, dove il poveretto ancora tasta il vuoto sul ripiano di pietra. La donna, più anziana, con più rughe sul volto, con gli occhi stanchi e deboli, afferra il paio di lenti e li porge rudemente al marito, con iridi severe ed infuocate e la coda di cavallo rovinata. Wladymir li afferra, li indossa e il mondo pare molto meno sfocato. Pacato, sospira.

“Grazie, tesoro” Ewa, abituata e sgonfia d’ira, si volta e si siede, con molta più fatica di come gli occhi dimostrano. Sembra essere più anziana di quel che sembra. Darek ha spento il sorriso e, fiero, si siede a capotavola, volendo sovrastare il fratellino anche al di fuori della foto. Tymek, ancora scontento, mormora un saluto allo zio e alla zia. Dorota zampetta come un cagnolino nel lato della cucina e porta in tavola ciò che ha cucinato. Il pollo emana una scia di odore che s’innalza in tutta la stanza. Polonia inspira a pieni polmoni ancora una volta, la malinconia appena ritornata. La immagina una vera scia colorata di un sottile color carne invadere la stanza ed accostarsi sotto al suo naso, divertendosi a stuzzicarlo e a ricordargli di non poter più mangiare. Vede Prussia e la sua aquila, entrati dalla stessa porta in cui ora ci sono i membri della famiglia. Lo sguardo basso, mortificato. Vede subito il ragazzo e il suo falcone. Cammina e si ferma affianco a loro, senza guardare nessuno. Disgraziatamente non tocca gli occhi di nessuno, nemmeno dei frammenti di ricordi. Polonia vede le sue guance arrossate, come sfregiate, e lo sguardo abbattuto gettato sui componenti seduti. Il biondo arriccia un sopracciglio e fissa meglio Prussia. Non gli dice ancora nulla, né vuole mostrare nulla di sé. La lancia stretta ancora come se volesse spezzarla, la copertina abbandonata sulla sua spalla, dove prima c’era l’aquila. L’ha già vista volare sul camino e sbattere le ali con troppa insistenza. Gli occhi azzurri del volatile quasi accoltellano il comandante, come nel tentativo di sussurrargli qualcosa. E intanto la tavola chiacchiera.

“Ma dov’è tuo padre, Jan?” domanda Ewa, quasi offesa che il suocero sulla sedia a rotelle sia stato abbandonato fuori.

“Tranquilla, è in buone mani” Polonia guarda Prussia e sembra veramente spezzato e morto. Le palpebre scure, la pelle fin troppo bianca. Perplesso, affatto preoccupato, vorrebbe chiedergli cosa stia pensando. La porta si apre ancora. Lo stridio di un paio di ruote e del metallo irrompe, ma non agita alcun pensiero. Appare il vecchio felice e bambino che ha visto in foto, ancora col sorriso fin troppo aperto, ancora con una scintilla incredula splendente nelle iridi azzurrine. La sedia cammina facilmente, senza incappare in qualche ostacolo. I capelli grigi e corti, il naso fin troppo abbondante, ma con delle guance anch’esse tonde. I due uomini sospirano di sollievo, uno dei due per nulla titubante del compito dato al figlio.

“Ottimo lavoro, Feliks” un aggrovigliarsi di capelli biondicci entra nella stanza, spingendo l’anziano sulla sedia. Il bambino, incredibilmente forzuto, anche se bassino, pare non sentire il peso della sedia. Il bambino, con occhietti vispi, le sopracciglia calate e quasi arrabbiate, il naso e le guance lentigginosi. Il vecchio sembra la persona più felice del mondo. Gli zigomi alzati, la pelle tirata in un grande sorriso.

“Ah, bellissima sala da pranzo, ragazzi. Sono fiero di voi!” esclama, contento di vedere un ambiente che non viene mai collegato ai suoi ricordi. Wladymir, il più vicino, si alza e guida il padre al suo posto, accanto a lui. Il piccolo Feliks, corrucciato ed iroso, si siede accanto alla madre. Poggia le manine al grembo e lì sta fermo. Jan è stato scortato alla tavola, sente l’odore buono e pare leccarsi i baffi.

“Buon appetito!” tintinnio di posate e bicchieri, piatti salterini sulle teste dei membri della famiglia, un chiacchierio di voci che non vuole ascoltare. Polonia si sente malinconico e triste. Guarda e vede qualcosa di diverso. Vede i campi gialli e le spighe al vento. Vede una tavola abbandonata in un sogno bruciato nel sangue. Vede e sente i baci e l’abbraccio di Lituania su di sé, stretto alle sue costole per nulla spaccate o spezzate dalla collera di Russia. Vede troppo, sente troppo. Scuote la testa, non volendo più ricordare. Volta ancora il capo verso Prussia, sempre rigido, sempre addolorato. Vede la tavola familiare, ma vede qualcosa che Polonia non riesce a leggere.

“Stai bene?” chiede, sussurra, più impensierito di quel che sembra. Gli occhi del prussiano paiono tizzoni spenti di lanterne abbandonate. Arriccia il nasino, rende pesanti le labbra. Senza nemmeno desiderarlo, anche i suoi occhi si spengono e seguono l’esempio dell’uomo di fronte a lui. Prussia sembra più curvo, più pietoso. Non sa cosa pensi, ma non lo preoccupa troppo. Prussia è Prussia, non c’è niente da aggiungere né da impensierirsi. I Germani non sanno cosa sia il dolore dell’anima. Questo è un pensiero diventato suo centinaia di anni fa, per questo non si angoscia. Infatti, il patetico uomo alza la schiena e sbatte le palpebre.

“Sì, tutto bene” a Polonia cade l’occhio sull’aquila nera, inquietante e terribile coi suoi aguzzi occhi azzurri. Fendono l’aria e osservano con rispetto il ricordo di un pranzo in famiglia. Sembra un fantasma accucciato nel buio. Toris sembra fare lo stesso, guarda un punto indefinito del tavolo, dove il cibo viene passato, dove le patate vengono gettate da una parte all’altra dei piatti, come i pomodori e i cetrioli. Sembra tutto delizioso. Polonia deglutisce, ha l’acquolina in bocca. Sente gorgogliare nello stomaco un groppo di saliva dolce, saporita quasi quanto il pollo e il pensiero di un dolce in arrivo su quella tavola. Ha fame, dopo tanto tempo sente la fame “Secondo te perché siamo qui?” la voce di Prussia era un mormorio serio e basso, troppo basso per uno come lui. Polonia nemmeno sfiora l’idea di risponderli, troppo impegnato a passare la lingua sul palato addolcito. Nemmeno lo sente, quasi immagina di aver udito male.

“Feliks, è da tutto il giorno che fai quello sguardo. Non è divertente, smettila” rimprovera il bambino la voce della madre, adocchiando un altro sguardo irato di Feliks su di lei. Su chiunque. Tira su il naso, il piccolo Feliks, i capelli biondicci caduti sulle palpebre, le lentiggini stelle ed astri sopra ad un cielo rosato. Raggiungono persino la fronte coperta e cadono all’ingiù, sotto gli zigomi e con fatica cercano di colonizzare fino alle labbra. Ewa s’irrita, indignata dal figlio “Insomma, cos’hai?” pretende di sapere, alzando la voce. I ciuffi scompigliati, le lentiggini furibonde come il proprio padroncino. Gli occhietti incrinati.

“Voglio una sorellina” nessuno apre bocca, nessuno pare aver udito. O forse hanno già udito altre volte. Dorota e Darek sorridono divertiti, Darek più aperto e gaio. Feliks è ancora fiero del suo desiderio, espresso chiaramente anche l’altro giorno. E il giorno prima. E anche quello prima ancora. E’ quasi un mese che va avanti con questa storia e anche Wladymir, povero padre, comincia ad annoiarsi dell’espressione continuamente furioso del suo unico figlio. Unico e ugualmente pesante. Tymek sghignazza una risata e lancia una gomitata al cugino.

“Sei l’unico idiota al mondo che vorrebbe una sorellina. Ti cedo la mia: è bruttina, come piace a te”

Tymoteusz!” sbotta il padre, più irritato che rabbioso, ancora concentrato sul piatto sotto i suoi occhi. Ha anche la fame di un orso. Il ragazzo sbuffa ancora, divertito dalla reazione del padre. Il ragazzino si massaggia la spalla colpita, arrabbiato, veramente arrabbiato. Guarda il cugino come se fosse uno scarafaggio apparso pochi minuti prima sulla tavola, a banchettare con la carne fumante.

“Almeno non sarà un babbeo come te… e sarà dolce come Klara e come la zia Dorota” mormora il piccolo, ricominciando a minacciare i due genitori con gli occhi infuocati. Tymek, affatto offeso, scuote la testa, come non credendo alla stupidità del proprio cuginetto. Feliks, superbo, continua ad insistere con gli occhi, non implorando nemmeno. Come pretendendo di avere ciò che desidera. Ewa sa che il figlio la guarda, ma continua ad ignorarlo, il metodo migliore che conosce per non essere alla mercè di un secondo piccolo uomo. Il padre, aggiustatosi gli occhiali sopra al naso, lo ignora anche lui. È un metodo che conosce anche lui “E dovrà chiamarsi Magda!”

“No, se nascerà una bambina in questa casa avrà il nome di tua nonna, Tekla” corregge severamente Ewa, non sfiorando nemmeno l’idea di avere un membro in più in quella casa. Già nei primi di maggio nacque Klara e per lei questa nascita fu più che sufficiente, nonostante non fosse sua. Ma l’allegria di una persona non corrisponde spesso a quella di un’altra. Feliks, indignato, capriccioso, inizia a scalciare, come un cavallo a cui hanno marcato la pelle col fuoco.

“No, sarà Magda! Tekla è un nome da vecchia!”

“Chi è Tekla?” aggiunge l’ignorato Jan, dall’altro capo della tavola, sentito un nome a lui sconosciuto, ma che altri gliel’hanno ripetuto almeno venti volte. Ewa rotea gli occhi, prova a non arrabbiarsi e con fatica ci riesce. Jan fissa ancora la nuora, volendo una spiegazione. Wladymir, capendo la difficoltà di parlare in questo momento della moglie, decide di aiutarla.

“Era mia madre, papà. Era tua moglie” l’anziano sbatte le palpebre, non ricordando affatto. Alza gli occhi e il capo al cielo e pare pensarci veramente tanto. Dopo poco, con uno sguardo ben diverso, ma nemmeno serioso, tenta di rispondere.

“Avevo una moglie?” Wladymir, povero figlio, si arrende. Anche Darek, ora per niente ridente, annuisce fra sé e sé, affatto dimentico della malattia del padre. Il vecchio, dimenticatosi della sua domanda e perfino della risposta, continua a mangiare, credendo di essere ignorato e di non avere più nessuno vicino a lui.

“Allora?” pretende ancora una risposta il bambino, protendendosi sulla tavola, quasi come se desiderasse scavalcarla ed afferrare il padre per la testa per leggergli nella mente. La camicia per pura fortuna non sfiora il piatto pieno. Wladymir, per nulla desideroso di discutere di qualcosa del genere col figlioletto, sospira, cercando una soluzione. Non la trova. Conosce Feliks anche meglio della moglie: non si arrenderà prima di aver avuto quello che desidera. Lo squillo di un telefono ferma le posate e i piatti rimangono fermi ai loro posti. Wladymir si alza, evitando lo sguardo del figlio. Il telefono squilla ancora, sibila tra le mura. Polonia si sente teso, i telefoni, se insistenti, non portano nulla di buono. Feliks è ancora furibondo, le braccia conserte, i piedi scalcianti. La cornetta viene alzata e poggiata all’orecchio, evitando gli occhiali. Ewa ferma la mano che tagliava il pollo. Polonia man a mano si avvicina e abbandona la piccola Klara e Prussia, congelato nei suoi pensieri.

“Sì, pronto? Ah, direttore!” ora anche il bambino ferma i piedi, interessato. Polonia sente un brivido d’incertezza passare tra le sedie e sotto il tavolo. Solo Jan continua a mangiare, importandosene ben poco di quel che stia accadendo. Mormorii lunghi, senza pause, senza dare fiato alla gola. Polonia è affianco a Wladymir e si meraviglia di se stesso per averlo visto simile al fratello Darek. Lo guarda e vede tratti e zigomi che il maggiore non ha e nemmeno sono somiglianti. Wladymir è concentrato sulla telefonata e piano annuisce più volte. Polonia vede la giacca stirata e confortevole. Batte le palpebre, ancora mormorii indistinguibili e fin troppo veloci. Un pensiero veloce lo fa ragionare. Volta gli occhi e piano anche il collo. Guarda Darek, vede la divisa militare, il colore un ammasso di verdognolo, diverso da quello della sua divisa. È scomposto, disordinato ed indisciplinato, Darek. Ancora una volta si meraviglia di averli paragonati “Certamente, partirò fra pochi minuti. Arrivederci” abbassa la cornetta, sospira, affatto triste. Pare più consolato “Scusatemi, ma devo ritornare all’università” Darek ingoia il boccone, deglutisce forte, il pomo di Adamo possente.

“Torni a Varsavia?” chiede Dorota, interessata dall’inizio della telefonata. È curiosa come una bambina. Polonia la trova molto dolce. Ewa e Feliks sembrano contrariati, per motivi veramente differenti. Darek e Jan hanno ancora nei pensieri i piatti che stanno trascurando. Tymek è stranamente silenzioso ed interessato.

“Sì, qualcuno ha fatto un pasticcio con gli esami di letteratura e di polacco e…” sospiro, decisamente poco straziante. Pare quasi contento “…devo tornare a sistemare io il problema, ovviamente, essendo io stesso professore” soggiunge quest’ultimo, notando il ghigno antipatico del fratello maggiore. Darek è felice, come se avesse vinto qualcosa d’importante. Polonia inclina la testa, interessato. L’occhio cade dietro le spalle di Wladymir. Vede qualcosa che ha ignorato di questa casa. Non legge bene, i caratteri troppo minuti, l’occhio poco allenato alla lettura, ma sembra un certificato. Nero su bianco, ghirigori attorcigliati agli spigoli del foglio, formali e disturbanti per il biondo. Lingue e Letteratura Polacca, legge. È certo che sia la laurea di Wladymir. Si sente orgoglioso, senza sapere veramente il perché.

“Certo, te ne vai via anche il sabato…”

“Ewa!” esclama il marito. Polonia sobbalza ed arricchisce le sopracciglia per la sorpresa e anche per gli occhi mortificati dell’uomo. Polonia ritorna suscettibile. Ha tralasciato qualcosa leggendo la laurea orgogliosamente appesa all’uscio di casa. Non riesce a realizzare cosa sia accaduto. È difficile per lui comprendere. Non prova nemmeno a posare gli occhi su Toris o su Prussia, nemmeno sull’aquila nera. Mordicchia l’interno della guancia e poco più sotto l’interno del labbro. Il silenzio più lo disturba che lo inquieta. Ewa si scioglie dalla sua paralisi e sospira. Una vera d’irritazione spacca il suo viso fin troppo anziano per la sua età. Pulsa e si quieta facilmente, questo nervo scoperto.

“Va’, prendi il treno” risponde al silenzio, forse il vero destinatario delle sue parole. Un germoglio di curiosità cresce nel cervello di Polonia. Una reazione del genere lo interessa. I denti, liberi dalla volontà del ragazzo, escono fuori dalle labbra. Il canino mordicchia la pelle pallida, senza sapore. Inclina la testa, fa ballonzolare il proprio corpo, come un bimbo che ha appena visto qualcosa di nuovo ed interessante. Wladymir fa morire lo sguardo di sconcerto e ne fa suo uno più mortificato. Veloce, indolore, si avvicina alla guancia della moglie e le lascia un bacio, come se dicessero addio che arrivederci. Lo sguardo ancora lontano dal suo, irritato e colpito all’orgoglio. Ewa non gli dirà mai nulla.

“Tornerò prima di sera, lo prometto” lei non risponde e Wladymir non aspettava una risposta. Veloce, ora per nulla contento e sollevato, si avvia all’uscio. Polonia dietro di lui, pochi passi li separano. Polonia si è abituato ad essere un fantasma e ora guarda paziente ogni cosa che gli viene mostrata. Smesso di angosciare il labbro, vede la mano dell’uomo afferrare la maniglia ed aprirla. Polonia si scuote, non sorpreso ma perplesso: il paesaggio del paradiso, l’infinito della pianura, scomparso. Solo luce, solo bianco di carta che ricorda di aver sempre visto in questi anni. Il ricordo si sta sbriciolando. La cucina, la più lontana, sta diventando carta e perde colore. Polonia è sinceramente dispiaciuto di non poter rivedere più loro e la loro famiglia, ormai diventata importante per lui.

“Papà, allora me la darai una sorellina?” Wladymir, paziente, ancora pallido per il perdono non concesso della moglie, si volta al figlio e sospira.

“Ne parleremo un altro giorno, Feliks” non dice altro, la luce lo investe e lo divora, rendendolo bianco e cartaceo. Invisibile e scomparso. Polonia lo aveva visto investito di luce e sorpassare la porta. Il legno sbarrato, perso anch’esso il colore, mangiato anche il pavimento della luce. Si volta indietro e anche il resto è quasi del tutto scomparso. I famigliari, i restanti sono già spariti. Polonia vede il legno sotto ai suoi piedi perdere il colore, linea e sottigliezza. Lo spavento, l’imprevisto lo coglie. Un tuffo al cuore. Un terrore viscido lo paralizza. Gli occhi sbarrati. Questo non era mai accaduto. Tutto è bianco, tutto è tornato come prima. Ma non sente più nulla sotto ai piedi. Non c’è più carta. Il vuoto e la luce lo avvolgono. Vorrebbe urlare, liberare i denti, ma non ci riesce. Non fa in tempo. Non vede aiuti. Non vede Prussia, né Toris. È solo e le vertigini della caduta fanno spalancare la bocca, senza far uscire nemmeno un suono di terrore.

E cade. Cade come inghiottito. Cade come albero abbattuto. Cade come corpo morto e non vede altro ora che oscurità serpentina. Lo avvolge come coperta. Come abbraccio. Come acqua che lo soffoca e gli impedisce di emergere.

 

 

 

 

 

 

Tymek a quattordici anni decise di diventare soldato e di servire il paese. A quindici anni lo ha comunicato a suo padre, a servizio del paese lui stesso. Non gli piaceva la scuola e trovare già lavoro non gli andava. Ma gli piace la guerra, il sangue e la divisa di suo padre quando, tornato dalla caserma, gli si gettava con le braccia propense per salutare il suo bambino. Non ha mai visto la guerra, né conosce l’odore del sangue su di una divisa con lo stemma dell’aquila bianca. Darek già lo sapeva all’epoca e aveva rifiutato. A quindici anni e mezzo Tymek divenne indisciplinato, distruttivo, irrequieto. Anche sua moglie, la dolce Dorota, stava per disperarsi lei stesso. Per preoccupazione e vendetta, Darek accettò. Tymek a sedici anni entrò in caserma per diventare soldato. Darek era sergente maggiore all’epoca e operava tra le nuove reclute più giovani. Darek già lo sapeva che avrebbe dovuto formarlo lui stesso, Tymek no, ma l’idea non lo spaventava, giovane e testardo.

Il primo giorno suo padre, il suo superiore, gli diede un pugno nello stomaco. Il terzo giorno gli fece fare venti flessioni per un esercizio sbagliato. Il settimo giorno lo fece correre tre volte intorno alla caserma. Lui solo. Darek già si voleva vendicare ed avere ragione su di un figlio ribelle. Voleva mostrargli i veri doveri e compiti di un soldato. Tymek non comprese nulla e non rifiutò la scommessa fatta con suo padre. A diciassette anni Tymek cambiò squadra e Darek non fu più il suo sergente ed istruttore. Darek si preoccupava già, il figlio continuava a provare l’ebbrezza di qualcosa che non esisteva. A diciotto anni superò il secondo anno di caserma e divenne soldato semplice. Tymek era emozionato, Darek nervoso. Tymek non voleva andarsene, pensando alle dormite sul banco della scuola e alle corse per fuggire dal maestro che lo desiderava in classe, mentre lui si desiderava al fiume a pescare pesciolini.

A diciannove anni Tymek aveva abbandonato l’idea di una nuova lezione del padre e di ritornare fra i banchi e gli scolari. A vent’anni Tymek riuscì a creare un nuovo sé stesso, diverso e disciplinato rispetto al suo precedente e reale. In caserma era Lukasiewisz, a casa era Tymek. Ora ha quasi ventun’anni e la Germania obbliga il suo paese a combattere per difendersi. Non lo desiderava e non lo voleva inizialmente Tymek, quasi spaventato. Ma è giovane e i giovani vogliono l’ebbrezza di vivere. Di sentire e vedere qualcosa di nuovo. Di vivere ed essere eroi. Sarebbe tornato a casa a guerra conclusa e vinta. Sarebbe stato un modello e avrebbero scritto il suo nome, di un soldato giovane e in canna che è riuscito a sopravvivere e a far temere la sua presenza di fronte ai tedeschi. Tymek vorrebbe avere un prestigio del genere ed è emozionato dall’idea di diventare eroe della nazione. Non ha ancora visto il sangue e nemmeno una trincea, ma vorrebbe essere fra il fango e i cadaveri, proprio ora.

Bydgoszcz, la città dove lui e i suoi compagni di squadra sono stati inviati, è piccola e pacifica, ignorante ancora della guerra, alle porte della regione. Bydgoszcz dev’essere evasa completamente o ci sarà un bagno di sangue. Tymek non si lamenta, è un soldato e un soldato ubbidisce agli ordini. Un soldato non ha pensiero se non quello del suo superiore. Avanza tra le stradine, ordinato, obbediente, ligio. Ora c’è Lukasiewisz, il soldato che ora è chiamato per ricevere ordini dal suo capitano. Anche il suo capitano si chiama Lukasiewisz, il suo capitano un tempo è stato il suo sergente ed istruttore.

Le case hanno muri bianchi di mattone. Le strade strette. I cittadini dentro le case, come in un piccolo paese. In un piccolo paese a quest’ora non ci dovrebbe essere anima viva. I civili sono tutti dentro le quattro mura delle loro casette. Qualcuno è sveglio, qualcuno gira gli angoli del vicinato, incuriosito dai soldati e dai loro chiacchierii sommessi. Qualche donna, non ancora troppo vecchia per ricordare la vecchia guerra, osserva dalle porte aperte, sedute alle sedie del piccolo tavolo, insufficiente per lei, per suo marito e per i suoi numerosi figli. Ci sono troppi bambini in città come queste. Qualche uomo non dorme ancora e ha deciso di afferrare anch’egli una sedia e di osservare le uniformi e le armi strette alle mani. Anche Lukasiewisz ora ha il suo fucile e per l’eccitazione si sta dimenticando perfino il nome datogli in caserma.

Le tende del momentaneo accampamento sono poggiate su lunghe stecche di legno, come in un campeggio per giganti. Altri soldati, più soldati. Riconosce alcuni della sua squadra che sono cresciuti con lui. Non li saluta. Un soldato, quando ha un ordine, non può salutare. Terza tenda a destra, gli ha detto il suo caposquadra. Con la schiena dritta e lo sguardo affatto entusiasta, Lukasiewisz entra, la tenda già spalancata. Riconosce suo padre, sulla scrivania prestata alla biblioteca di Bydgoszcz e la sedia, prestata anch’essa a qualche casa. C’è il capitano Lukasiewicz, il soldato semplice Lukasiewisz e un altro soldato che a Tymek pare di aver già visto nella sua vecchia squadra, qualche anno fa. Ha di sicuro la sua età. La tenda è aperta in avanti e dietro le sue spalle. Dietro alla scrivania, col capitano chino e piegato, vede pezzi di buio e di foresta.

“Signore, soldato semplice Lukasiewisz a rapporto, signore!” esclama, come gli hanno sempre insegnato fin dai primi giorni in caserma, quand’era ragazzino e pensava solo a non andare a scuola. La schiena di ferro, le braccia lunghe ai lati del corpo, lo sguardo fisso, il fucile, scarico, dietro la schiena. È perfetto, suo figlio Tymek, dannatamente perfetto.

“Bene, che resti solo il soldato Lukasiewisz” dice, col tono grave, affatto tipico dell’uomo, nemmeno quando era istruttore di suo figlio. Nemmeno quando era insoddisfatto di sé stesso. Il soldato esclama il saluto e, col passo né lento né veloce, lascia la tenda. Rimane spalancata, eppure pare che un’oscurità sia calata su di loro. Buio alle spalle, sulla scrivania e sulle mani rigide di Darek. Il soldato, giovane quanto Tymek, li lascia e cala il freddo. Tymek vede dietro le spalle del padre, con lo sguardo fisso di fronte a sé. Le lucciole fuori, nella foresta, paiono stelle e le foglie degli alberi pezzi di cielo scuro.

“Riposo, soldato, questa volta voglio mio figlio” Tymek ricorda il suo primo anno di servizio, quando suo padre era suo superiore e lo insultava come si insulta una bestia o un russo. Conosce questa formula e sa che il padre l’ha chiamato per parlare con Tymek e non con il soldato semplice Lukasiewisz. Ora Tymek è sciolto, scomposto, interessato dall’aria fredda di questa tenda. Non sente però la tensione e il cuore angosciato di Darek. Ignorante di tutto ciò, scioglie le spalle, il fucile cadente sulle sue costole. I soldati pullulano come insetti dietro di lui.

“Dimmi, papà” mormora, non urla. È Tymek e Tymek con fatica accetta di urlare o di essergli urlato contro. Darek lo sa meglio del suo stesso figlio e questa considerazione lo fa penare ancor di più. Si sente soffocare, respira a fatica, come se la tenda quasi del tutto chiusa abbia sbarrato anche l’aria. Si alza dalla scrivania e cammina lento, pesante, cauto, come se non volesse svegliare un mostro sotto ai suoi piedi. Con fatica mantiene l’agitazione. Intanto boccheggia come uno che sta per finire l’aria e non vuole morire. Tymek, diventato irrequieto ed impaziente, decide di aprire bocca “Papà, che sta succedendo?” i passi si fermano. Darek, con le spalle al figlio e con lo sguardo alla notte, sospira.

“E’ accaduta una sparatoria in questa cittadina” il turbamento di Tymek si congela, ma non si scrolla via dai piedi. Questi si muovono, imbizzarriti “E’ accaduto nelle strade periferiche ad ovest e a nord-ovest. Qualche civile è ferito, qualcuno è morto” dice, con voce dura, ma col corpo in ansia. Darek è in caserma da più di vent’anni e da vent’anni ha imparato a tenere la voce ferma e il corpo rigido. E ora si chiede perché gli tremino così tanto le mani da doversele stropicciare nei guanti. Tymek non vede ancora nulla. Un misto di emozione e disgusto lo pugnalano alla bocca dello stomaco. L’odio verso lo schieramento nemico lo avvolge e gli fa comprendere ogni cosa, nonostante la confusione. Si chiede come sia stato possibile una cosa del genere con loro, soldati, nella cittadina.

“Cosa? Com’è successo?” chiede, frettoloso, impaziente come sempre. Darek sospira ancora, la gola inizia ad inclinarsi e ad appesantirsi.

“Sono stati i tedeschi, Tymek…”

“Certo che sono stati loro!” esclama, senza esagerare, l’indignato ragazzo. Immagina delle uniformi tedesche, senza volto, saltellanti come marionette legate a dei fili. Le immagina dietro i muri della città, coi fucili e le granate nella cintura. Nello stomaco bolle ira e voglia di vendetta “Dove credi che si siano nascosti? Li cacceremo a calci in culo, come abbiamo fatto sempre. Papà, quante squadre di ricerca faremo? Devono essere ancora qui…”

“Zitto!” si volta, si spalanca di fronte a sé la faccia iraconda del padre, che di solito la ricorda spensierata e scherzosa. Suda, tentenna. Tymek si placa e ritorna ad essere soldato. Ricaccia il desiderio di essere eroe e di ammazzare tedeschi. Il fucile ancora immobile alle sue spalle. L’occhio confuso ed inquieto contro il rabbioso e il tremante di Darek. Suo padre ha qualcosa che non va, qualcosa che ancora non comprende. Avuto ciò che ha urlato, Darek ritorna dritto e fermo. Il sudore scorre ancora sulle sue tempie, le rende umide ed appiccicose. Non fa caldo, non fa affatto caldo nel buio della tenda “Non hai capito nulla”

“Cosa devo capire?” ritorna l’arroganza, gorgoglia ancora come un calderone di una strega. L’impazienza del figlio lo fa arrabbiare, oltre che terrorizzare. Non avrebbe mai voluto che suo figlio diventasse soldato. Darek non è mai stato in guerra, ma immagina molto e sa che essere nell’esercito decreta anche una tua possibile morte. Darek non avrebbe mai voluto vedere suo figlio nelle vesti di soldato semplice, a diciotto anni. Un ragazzo non deve vedere ciò che ha visto lui in quelle settimane. Darek ha visto la morte, Darek ha parlato con un suo collega e, voltato, ha visto il suo naso esplodere e il cranio aprirsi di rosso come quello di una bambola di porcellana. Il sangue del suo collega è stato sputato su di lui e con fatica era riuscito a toglierselo dalla faccia e dai capelli. Sospira ancora, meno certo di quel che era e dimostrava coi cadetti e i suoi subalterni.

“Sono stati i civili, Tymoteusz. Sono stati loro” le guance di Tymek si sono riempite d’aria e di aria pesante di quella tenda soffocante. Le guance si sono svuotate come quelle di un rospo e hanno sputato una risata debole e disgraziata. La battuta non lo fa ridere, suo padre non fa ridere e nemmeno ora ha fatto ridere. Ma ride ugualmente, pronto a prendersi gioco di Darek anche durante una guerra, anche mentre suda e trema come un cane che sta per essere bastonato a morte.

“Sì, come no, papà, e io sono tedesco e mi chiamo Fritz” e continua a ridere, divertito dalla faccia paonazza del padre, non solo per essere stato offeso dal suo ragazzo “Raccontamene un’altra e poi ne riparliamo”

“Sono serio, Tymoteusz” la gola arrossata per le risa si placano, ma il sorriso rimane. Con l’anima divertita, Tymek guarda suo padre, divertito ancora come un bambino, sentita una battuta volgare e simpatica. Gli occhi scuri del padre sembrano inghiottirlo, le sopracciglia ammassate sulle ciglia come nel volerle spezzare. I baffi sono lisci, adatti ad un severo capitano. Tymek guarda negli occhi Darek e il sorriso muore. Sente la tenda ghiacciata, così come l’ha sentita fino ad ora suo padre. Ha freddo, un soffio gelato l’ha toccato proprio ai piedi della spina dorsale. Si sente come in pericolo, sbattuto tra due fucili nemici.

“M-Ma tu ci credi veramente?” Darek, suo padre, non lo guarda negli occhi, fisso lo sguardo dietro di lui, come un vero militare. Tymek inizia a sudare, a far battere colpi infami al suo cuore e alla sua schiena “E’ tutto falso, papà! Perché dei polacchi dovrebbero ammazzare altri polacchi?” suo padre non lo guarda, eppure sente le giunture della sua divisa scricchiolare come pezzi di noci fra delle dita forzute. È nervoso ancora, Darek, e solo ora suo figlio se ne rende conto. Solo ora che anche lui fatica a respirare.

“No, Tymoteusz, dei civili hanno trucidato dei bambini” afferma con un occhio più stanco dell’altro, con un piedi più irrequieto del destro, fermo e posato. La voce sembrava indecisa, non pareva nemmeno la sua. L’ha sorpassato, come se dovesse impartirgli nuovi ordini. Tymek si volta, un garbuglio di sangue bollente gli riscalda i polmoni e lo fa urlare. Si volta, non essendo il soldato semplice Lukasiewisz.

“E perché dovrebbero farlo?”

“Perché hanno sangue tedesco in corpo, figliolo!” Tymek apre la bocca, ma gli si blocca la voce nella trachea. Rimane con i denti spalancati e le labbra schiuse. Avrebbe voluto ribattere e dire qualcosa, ma quel che ha detto suo padre lo ha paralizzato. Riflette e un barlume di comprensione ed orrore mortifica la sua spina dorsale. Ha freddo, d’un tratto sente freddo nelle sue ossa. Non trema, ma in sé Tymek trema. Guarda negli occhi il padre e non viene ricambiato. I baffi scuri più sciupati, la fronte veramente fradicia, la divisa informale, i capelli rasati e corti. Inizia di nuovo a camminare, avanti ed indietro, come per mantenere la calma. Ha qualcosa di spaventosamente umano Darek, ora Tymek se ne accorge.

“N-Non c’è altra soluzione” balbetta, Darek, e mai ha balbettato con suo figlio. Nemmeno con uno sconosciuto, nemmeno con Dorota. Darek non balbetta mai e non ha mai avuto quello sguardo amareggiato e drammatico che ha ora. Suo padre non ha mai avuto uno sguardo afflitto e nemmeno una schiena così curva. Un lieve tremore e una goccia di sudore imperlano la tempia del ragazzo. La gola secca, la lingua carta stagnata.

“C-Che vorresti fare?” nemmeno lui balbetta mai, ma la gola è secca e l’aria in quella tenda aperta è disgraziatamente pesante. È terrorizzato da una risposta del padre, che tarda, che non arriva mai. Un barlume, un scintillio nella notte fa scattare i suoi piedi e il suo collo. Il scintillio del ferro di un fucile simile al suo lo attira. Un soldato della sua squadra, che riconosce a fatica nel buio, lo attira. E un altro che non conosce. Ed un paio ancora che gli pare di averli già visti. Guarda la luce che lo ha attratto. Rimane sbigottito e perplesso. I fucili sono carichi, una cartuccia carica premuta al di sotto del ferro freddo. Tymek osserva ancora e lentamente sbarra gli occhi. Ricorda le parole del padre e una rivelazione lo colpisce. Nasce qualcos’altro di più caldo e soffocante dentro di lui. Fa uscire fuori i denti, come un’animale rabbioso “Ma sei impazzito?! Vuoi fare un massacro di cittadini polacchi?!”

“Sono tedeschi, Tymek”

“Ti sei fottuto il cervello!” ha alzato troppo la voce, irosa, indignata. Quelli stessi soldati che ha visto coi fucili carichi si voltano impacciati e curiosi. I loro sguardi, muti e coperti dal manto nero della notte, li osservano, sentita l’esclamazione indignitosa per un capitano di tutto rispetto come Darek Lukasiewisz “Ma allora non siamo qui per la ritirata! Tu vuoi ammazzarli tutti!” qualche altro sguardo giovane si volta, chi in piedi, chi seduto. Quasi nessuno sa il cognome del soldato semplice, né che sia il figlio del capitano Lukasiewisz. Per questo rimangono ammutoliti, impietriti dall’angoscia dello stesso capitano, di fronte ad un soldato che l’ha offeso e non l’ha rispettato.

“Perché la nazione è spacciata, Tymek!” silenzio. Nemmeno fuori dalla tenda nessuno fiata. Con sguardi più grigi, più sottomessi ed ubbidienti, i soldati tornano a camminare, a svolgere quel che avrebbero dovuto fare minuti fa. Nessuno parla più, nessuno chiacchiera più. Darek ha urlato tanto da farsi sentire per tutto il perimetro di tende e ufficiali. Guarda suo figlio e crede di aver sbagliato tutto. Non avrebbe dovuto fare soldato dell’esercito un ribelle come lui. Questo, con la rabbia che scorre nelle vene giovani e cariche, lo guarda accigliato e deluso. Anche Darek è deluso di sé stesso, per questo rimane muto, aspettando la risposta dal ragazzo. La mano di Tymek afferra la bretella spessa agganciata al suo fucile. Lo tasta coi polpastrelli, come nel riflettere e intanto continua ad osservarlo. Abbassa di nuovo la mano, riflettuto a sufficienza.

“Mi rifiuto” Darek in parte se l’aspettava, ma è ugualmente indignato del proprio ragazzo. Lo sguardo angosciato si spacca e ridiventa duro, com’è sempre stato fin da quando era suo sergente maggiore. Occhi negli occhi, nessuno dei due rinuncia ad abbassare lo sguardo. Occhi negli occhi, padre come figlio, figlio come padre. Entrambi ragionevoli, entrambi testardi.

“Fai silenzio ed ubbidisci, idiota!”

“Nossignore, mi rifiuto!”

“Allora vattene!” un pezzetto d’ira di Tymek si eclissa, svanisce e diventa ghiaccio e freddo. Guarda ancora negli occhi il padre, come si guarda ora il proprio istruttore nel ricevere un ordine assurdo “Sarai nel corpo della ritirata, te ne ritorni a Varsavia insieme alla tua squadra” la voce era rigida, ma il corpo più sciolto. Come liberato di un peso, come avendo fatto una decisione difficile. Guarda gli occhi sbarrati e sdegnati del figlio e sa che non accetterà mai un ordine del genere. Nemmeno al costo di morire. Tymek è testardo e farebbe di tutto per avere l’onore che ora ha lui. Le spalle, le spalle di Darek si sciolgono, colpite e spezzate. Ha pensato ad una decisione orribile che suo figlio potrebbe prendere. Tymek non è ancora uomo e continua a vendicarsi come un bambino. In un attimo, si pente di aver pronunciato tali parole. I piedi di suo figlio si voltano verso l’altro lato della tenda, verso la foresta e l’oscurità.

“No, me ne vado. Ve lo faccio vedere io dove sono i tedeschi che dobbiamo ammazzare” e continua a camminare, come se dovesse andare proprio ora in trincea. Come se dovesse andare proprio ora a morire. Darek è un padre e un padre vorrebbe spirare prima di suo figlio. Si pente veramente tanto di aver aperto bocca e di aver parlato a Tymek come ad un soldato indisciplinato. Non andrà a Varsavia, anche solo per vendetta lui non tornerà a casa. Ritorna nel buio della tenda, ancora più coperto e pesante di quel che si aspettasse. Sente il fiato spezzargli non appena afferra la spalla del suo ragazzo. Pensa che ha solo vent’anni e a vent’anni si vive ancora. A vent’anni, in un addestramento fuori città, ha incontrato sua moglie, Dorota, un po’ più piccola di lui. A venticinque si sono parlati per la prima volta. A ventisei l’ha vista nella chiesetta vicino alla sua caserma fasciata di bianco. Darek non può permettere che suo figlio non viva tutto questo.

“Tymek! Tymoteusz!” solo ora gli occhi del ragazzo si sono voltati sui suoi, terrorizzati e pentiti “Promettimi almeno… promettimi che torni a casa” nemmeno una scia di luce bagna l’occhio curvo del figlio. Ora ha vero terrore “Tymoteusz, sei un uomo ora, puoi capire” tenta di non soffocare nel suo terrore, non ci riesce. Respira con affanno, gli occhi piegati in scongiura, ma ugualmente severi “Promettimi che se succede qualcosa, qualunque cosa… proteggi tua madre e tua sorella” non si scompone, né cambia la curva dell’occhio di suo figlio. Non vede Tymek, il suo ragazzo, non vede nemmeno il soldato semplice Lukasiewisz che rifiuta un ordine. Un soldato semplice, anche se negando e non accettando un comando, non si butta a cercare tedeschi nell’oscurità delle foreste.

“Siamo ritornati un vita dopo più di duecento anni e la Germania non può farci cadere a terra dopo nemmeno venti anni di respiro” la spalla viene strattonata in avanti, la mano di Darek saltata. Incredulo, terrorizzato, Darek vede suo figlio scappare di fronte a sé, nei campi secchi di grano, verso la nera foresta che nemmeno ora ricorda il nome. Vorrebbe corrergli dietro, ma anche se lo acciufferebbe e lo rimetterebbe al suo posto, Tymek non ritornerebbe più a Varsavia. Non ritornerebbe più da sua madre, né dalla sua neonata sorellina. Darek pensa a Dorota e a Klara e non può credere a quel che stia succedendo. Urla il nome del figlio, gli urla di tornare indietro e di non fare pazzie. Quello non lo ascolta, già entrato nel buio fra gli alberi.

Il caricatore pieno fra le dita, il fucile nell’altra mano, la bretella tagliata dell’arma. Carica il suo fucile, fa schioccare il caricatore all’interno del metallo. Una cascata di adrenalina e forza corre nei polpacci ed elettrizza le dita intrecciate nel suo fucile. È la sua occasione, quella che ha aspettato per quasi cinque anni di caserma. Affatto silenzioso, affatto cauto, salta le radici degli alberi e continua a cercare. È certo che sia tutto falso, che nessun polacco potrebbe mai uccidere un polacco. Non potrebbe mai essere vero. Suo padre è stato ingannato, così come altri soldati e capitani dell’esercito.

Un cespuglio appuntito non lo afferra per un pelo, nemmeno riesce a graffiare la divisa nuova. Il metallo fra le sue dita sembra incandescente, il grilletto pare gridargli di toccarlo, di premerlo, di sparare. Non ha ancora sparato a nessuno, nemmeno ad un tedesco. Il pensiero di uccidere un uomo è forte. Lo elettrizza, lo eccita, lo bagna di sconforto. Ma pensa alla guerra che hanno dichiarato a loro, ai soldati polacchi che hanno ucciso. Allora il pensiero di peccato, di impurità lo abbandona. Dio lo perdonerà perché ha voluto difendere la patria, perché sarà l’eroe della sua nazione. Sarà ricordato come un combattente e chiunque si ricorderà di lui, di Tymek Lukasiewisz, colui che ha fermato il genocidio di Bydgoszcz e ha portato il responsabile di una possibile strage alla corte marziale.

Alt!” una fucilata, un tuono sembra abbattersi sul cuore giovane di Tymek. Ferma la corsa, l’adrenalina nei polpacci si sgonfia e si annulla. Le dita elettrizzate si paralizzano. Il grilletto muto, il fucile incandescente fra le dita del ragazzo. Rimane immobile lì, nel buio, con gli occhi sbarrati. Il cuore ricomincia ad urlargli nel petto. La foresta si muove, i cespugli e le ombre si avviano a pochi passi da lui. Con freddezza e calma, le figure lo circondano. Sente il sudore sulla fronte diventare ghiaccio e il battito bombardargli gola. A malapena riesce a contarli. A malapena comprende che quelle divise non siano affatto simili a quelle polacche. Le armi che non riconosce puntate su di lui. Tutti e quattro fermi come lupi che puntano alla preda, meno uno, col cuore in gola, che sussulta appena gli si avvicina. Alza le braccia, istintivo. Non vuole che gli sparino.

Non sa il tedesco, a scuola non l’ha mai voluto imparare, nemmeno conosce i saluti. Non sa bene cosa gli stia urlando la voce dietro di sé. Sa solo che il suo cuore sta per scoppiargli in gola, che è incredulo di essere stato già preso dal nemico, che non voleva essere catturato per una stupidità del genere. Alla sua destra, un’ombra con la canna puntata su di sé gli fa un segno. Getta l’arma, capisce. Tentenna, non sa bene cosa fare. Guarda per un attimo il suo fucile, che ora scoppietta d’incredulità. Davvero non può credere che tutto questo gli stia succedendo. Anche le sue mani tremano, anche il suo corpo è rigido come quello delle ombre. Il suo fucile viene gettato a terra, sotto le radici di un alto albero. Ritorna con le mani alzate, le ossa sussultanti.

Urla ancora, quell’ombra dietro di lui. Non capisce ancora, rigido, intrappolata l’anima nella cassa toracica. Come in una gabbia, questa si quieta e resta a tremare fra le sbarre, non aspettandosi nemmeno lei di essere finita in quello stato. Ancora alla sua destra, affianco a lui, quell’ombra gli fa un altro segnale. Voltati lentamente, capisce. E lentamente si volta. L’istinto, molto più potente degli anni di addestramento avuti in caserma urla di dolore: non potrà più avere il suo fucile. Non potrà più difendersi. Sono come immaginava, i tedeschi: senza volto, senza un’espressione. Alla sua destra, poco lontano da lui, solo uno di quelle ombre trema. L’occhio di Tymek, desideroso di non pensare a tutto questo, si blocca su di lui. Vede gli occhi azzurrini, piegati come in una supplica. Le mani di questo soldato tedesco sembrano tremare e non smettere mai. È terrorizzato. Tymek lo osserva meglio e vedere qualcuno molto più impacciato di lui lo conforta. Il buio non maschera le guance tonde, gli zigomi morbidi, le sopracciglia cadute, il mento sbarbato. È molto più giovane di lui. Tymek è sorpreso di vedere un ragazzino lì, fra questi soldati. E ha l’aria di uno che farebbe qualsiasi cosa meno che stare qui, in questa foresta tetra, lontano da casa sua.

L’occhio del ragazzo, veloce, nota qualcosa. Vede l’arma del giovane soldato tedesco, l’osserva con più tenacia. Ha un fucile quasi più ridicolo del suo, con più legno che ferro. Un filo di speranza e sorpresa accende di luce il cuore di Tymek: il caricatore è assente, forse scarico e poi buttato via. L’occhio scatta veloce verso le altre ombre. Stessi fucili, stesse cariche assenti. Gli puntano delle armi scariche. Lo stanno facendo stare fermo solo con la paura. Non potrebbero mai sparargli. I muscoli rigidi si sciolgono, vicino a lui il ragazzo tedesco deglutisce sonoramente. Tymek l’ha notato solo per un attimo: lo osservano, cercano di capire chi sia e perché si trovi qui, in mezzo alla foresta di notte. Non hanno idea di chi sia. Tymek comprende tanto e la superbia ritorna a bruciare nelle sue vene. Una delle ombre, strisciando accanto a lui, osserva meglio la sua uniforme e sussulta: l’aquila bianca svetta sulla spalla, orgogliosa e luminosa “Polnisch!” Tymek scatta, i muscoli accesi di un fuoco indomabile e scappa.

I soldati non iniziano ancora ad inseguirlo, ma lo faranno a breve, lo immagina già. Immagina che non abbia percorso gran parte della foresta, quindi potrebbe farsi inseguire fino all’accampamento di tende a Bydgoszcz e ad avere dei fucili e uomini per catturare questi tedeschi. E magari spararne qualcuno. Tutti meno che il più giovane, però. Non crede di potergli fare del male. Non crede che abbia deciso lui di finire in questo posto, lontano dai suoi genitori e dai suoi fratelli. Ma gli altri moriranno. Se non qui, almeno nella prigione di Varsavia e lì resteranno fino alla morte. Perché loro, polacchi, vinceranno contro questo invasore e lo riporteranno a casa a colpi di fucile.

Più veloce, ancora più veloce dell’entrata in quella gabbia scura, Tymek salta e schiva rocce ed alberi. Ce la farà, vorrà vedere la faccia incredula di suo padre quando vedrà quanto abbia avuto ragione. Vorrà vedere le facce dei suoi compagni e degli ufficiali non appena vedranno il soldato semplice Lukasiewisz inseguito da tedeschi. Dagli stessi che hanno fatto credere della sparatoria di Bydgoszcz. Vedrà le loro facce. Oh, saranno furibondi per la disubbidienza agli ordini, ma poi sarà perdonato. Ha comunque salvato la città, il soldato semplice Lukasiewisz. Sarà perdonato per l’eroica impresa compiuta.

La foresta si sbriciola di fronte ai suoi occhi. Il campo di grano secco e raggrinzito lo accoglie. Al di là del campo grigio, le tende dell’accampamento. Tymek già sente le grida di orgoglio della sua squadra e lo sguardo fiero del suo caposquadra. Quanto sarà applaudito!

Sente prima il colpo dietro la schiena, allo stomaco. Sente metallo scavare nella carne e bucarlo. Tymek ritorna alla realtà, Tymek sente una scarica di dolore nella sua carne. Sente fluire liquido appiccicoso e tiepido sul fianco e sulla divisa nuova. Non immagina il suo volto, ma spalanca gli occhi. L’impatto era forte, catastrofico. L’ha spezzato. Si sente spezzato. Ora il dolore. Quel punto brucia. Sente la sacca che è il suo stomaco lamentarsi e gorgogliare. Tymek non ricorda cos’abbia mangiato, ma ora pare risalire lungo la gola. Non sente più nemmeno il rancio che ha mangiato quella sera e nemmeno il sapore disgustoso della gavetta della mattina. Sente liquido, sente ferro, sente i denti impiastricciati di sangue e non di saliva. Non ha più saliva. Le guance piene, ha trattenuto fino ad ora il disgusto che gli è salito fino ed oltre la gola. I piedi fermi, bloccati come cemento sul campo grigio e sterile di grano. Sputa un garbuglio di sangue, bile e saliva. La sfera di schifo s’infrange e si scaraventa sul terreno. È rossa e nera, questa chiazza. Tymek non vede più, non riesce a vedere altro che quel rosso e quel nero che ha macchiato il campo di grano e che ora esce dalla sua bocca, macchiando la divisa nuova.

Le ginocchia non lo reggono più, cade, il volto sconvolto, scoperto di una parte. Sente spari, non per lui. Sono troppo lontani per essere per lui, troppi solo per un soldato semplice. Sufficiente per una fucilazione di massa. Tymek ricorda suo padre e la sua angoscia. Ricorda i fucili carichi dei suoi compagni di squadra. Ricorda i loro piani e il loro terrore. Sente un’altra fucilata nell’aria, lontano, dove Bydgoszcz mostra casette bianche e muretti di pietra. Tymek comprende e l’angoscia del padre è anche la sua. Lo stomaco caccia altro sangue e rimasugli di rancio. Si sente svuotare della vita.

L’occhio sconcertato viene abbagliato da una debole luce. Una stella, piccola eppure abbagliante, viene attaccata ad un fucile. Tymek lo guarda e riconosce il calcio raschiato dalle sue unghie, quando in caserma aspettava il suo turno per provare a sparare. Guarda più in alto, guarda occhi che prima erano terrorizzati e ora quasi decisi. Il calcio del fucile, del suo fucile, gli viene sbattuto sulla guancia. Tymek, esausto, strappata parte di anima, sente solo l’orecchio diventare sordo e l’occhio chiudersi con uno scatto. Se deve morire, lo farà con occhi chiusi. Sente la vita mancargli e i muscoli irrigidirsi. Sta morendo, morirà senza aver fatto nulla per il suo paese. Tymek non si muove più. Una delle quattro ombre, più scura delle altre, si avvicina al giovane soldato, col fucile nemico in mano, l’unico carico. Lo afferra per la spalla e lo trascina via. Sarà giovane, sarà soldato, sarà stato un nemico, ma ha comunque ucciso per la prima volta.

Polonia guarda il corpo di Tymek rimanere abbandonato nel grigio delle spighe morte. Occhi più sbarrati di quelli di Prussia, si volta verso di lui. Ad entrambi manca il fiato, ad entrambi manca colore alle guance. Polonia lo guarda negli occhi appannati. Gli fa un cenno, i denti scoperti e la saliva bollente. Gli nega leggermente con la testa, non può essere accaduto per davvero. Polonia, pesante, eppure disperato, corre. Prussia lo segue, i due volatili fidi compagni dietro di loro. La divisa di Polonia quasi lo intralcia, la mantella incastrata nella coperta bianca che ha ancora sulle spalle. Si sente soffocare dal caldo e dal dolore. Un pugno di affanno stringe il suo cuore e lo soffoca. Bydgoszcz la conosce come se fosse un pezzo del suo corpo, un dito dei suoi piedi, un pezzo di carne del suo fianco.

La città puzza di metallo e di fumo. Si getta in un vicolo, dove è certo di aver sentito le fucilate e le mitragliate. È buio e fa freddo, anche con la coperta sulle spalle ha freddo. Calpesta qualcosa di morbido e caldo, qualcosa di umido e disgustoso. Guarda in basso, temendo. Il corpo, l’istinto, il terrore lo fanno sobbalzare e lo fanno indietreggiare. Non è certo di cosa sia, ma di sicuro è sangue e carne quella. Ha paura, ha tanta paura, ma alza ugualmente lo sguardo. La piazza di Bydgoszcz, piccola, pacifica e bianca, è macchiata e sporca. Avanza nel pantano, nei corpi ammucchiati sui muretti delle case. Guarda i vestiti: civili. Avanza ancora, un gorgoglio di nausea irrigidisce il suo corpo. Raggiunge il centro di Bydgoszcz, il suo cuore. E qui Polonia sente il suo cuore in quel pantano. Ai suoi piedi scorre sangue, i suoi stivali si macchiano di rosso. Guarda il corpo di un signore, più in alto, quasi schiacciato sul muro sporco della casa, con occhi sbarrati dal terrore e dall’incredulità. Quello è un soldato semplice. C’è un silenzio assordante, che si ripercuote malamente nella sua coscienza. E il sangue scorre come fiume sotto i suoi piedi.

“Tymek…” Polonia, bianco come la morte, guarda ai suoi piedi, dove un mucchio di carne e divise polacche ha creato una pila molto più consistente. Dove le stelle baciano il sangue sulle tempie e suoi visi della gente maltrattata. Polonia vede per un attimo alla finestra di un piano alto una donna, che prima osservava alla finestra i soldati marciare sulla piazzetta. Il corpo abbandonato lì, la testa e i capelli sudici di nero e rosso cadenti all’ingiù, sul muretto che poco prima era bianco ed immacolato. Le braccia a penzoloni, quasi staccate dalle spalle, dondolano ancora al ritmo dell’assordante angoscia del biondo. Delle gocce scure abbandonano il capo e s’infrangono in una pozza di sotto, della stessa consistenza e colore. Polonia guarda ai suoi piedi. Qualcuno respira, qualcuno si trascina. Un mucchio di carne rossiccia pare guardarlo, pare provare a riconoscerlo. Entrambi si riconoscono, entrambi in modo diverso.

“Tymek, sei tu…?” la voce strascicata, che con fatica esce dalla gola e tocca le labbra. Polonia ha nausea, Polonia ha paura. Si porta la mano alla bocca. Non riesce a rispondere, non riesce a dire nulla. Sente la saliva acre ed acerba. Sente di star per vomitare. Darek non riesce a guardarlo. Un occhio è morto, sgorgante da una pallottola mal centrata, l’altra palpebra è serrata e ugualmente inutile. Polonia riconosce Darek, il padre di Tymek, e Darek non riconosce suo figlio Tymek “Tymek, aiuto…” Polonia, sussultante, con la gola bloccata dalla nausea, lo guarda ancora. Gli occhi appannati scorgono comunque. Vedono una saccoccia scura ed umida, con la corda spessa avvinghiata alla bocca del sacco. Il ragazzo segue con gli occhi il cordone della saccoccia e ne vende altri raggruppati. Tutti sotto la pancia dell’uomo. Polonia si porta una seconda mano alla boccia, la nausea crescente. Darek tenta ancora di avvicinargli. Polonia indietreggia, la gola piena di orrore “Sparami, Tymek”. 

Il corpo gorgoglia e sputa sangue, la saccoccia e le corde dell’intestino paiono fare ugual cosa. Polonia comprende, sentendosi colpevole e toccato. Con gli occhi appannati e le mani serrate alla bocca, nega con tremore con la testa. Pare più fare scatti che negare. La puzza di ferro e di mitragliate gli sta asfissiando le narici “Tymek, ti prego, sparami. Te ne prego, figliolo!” Polonia geme e non si muove. Un rantolo di orrore gli abbandona le labbra e lo fa sussultare. La carcassa viva di Darek, capito di non poter essere soddisfatto nel suo ultimo desiderio, si accascia in terra. Trema e piange quasi più del ragazzo di fronte a sé.

Polonia guarda ancora. Guarda i corpi dei civili polacchi e tedeschi. Guarda le carcasse e le divise con stemmi dell’aquila bianca. Guarda la donna abbandonata e quasi cadente dalla finestra della sua casa. Con fatica e terrore guarda Darek e la nausea non si calma affatto. Guarda lontano, dove una sediolina è stata abbandonata sull’uscio di casa. Vede una bambola, coi capelli ricci e biondi, e il vestitino e la pelle bruciati dal fuoco. La bambolina l’osserva, accasciata al legno spezzato, e per Polonia è come guardare una bambina che l’osserva piangente in mezzo al sangue e al fumo. Prussia l’ha seguito, se n’era dimenticato. Gli ha gettato una mano guantata agli occhi e una ancorata alla lancia. Polonia non vede nulla, ma ormai ha visto fin troppo. Un gemito trapassa il collo del ragazzo e pezzi di rimpianto gli trafiggono il cuore.

Prussia vede il corpo di Darek, che intanto ha smesso di lamentarsi. Ritorna il bianco, ritorna la carta immacolata. Prussia stringe forte a sé Polonia, continua a parargli la vista con la mano. Non vede l’aquila nera gettata sulla sua spalla, ma è certo che il suo sguardo sia veleno su di sé.

 

 

 

 

 

 

Il foglio gli si parò davanti con una delicatezza tale da sembrare un piatto di dolci. Come se avesse fin poco significato un pezzo di carta abbandonato su di una scrivania vuota di scartoffie o libri. Per un attimo Prussia pensò che questa stanza fosse terribilmente più ghiacciata di quel che credesse. Eppure fuori faceva così caldo…

Il suo capo, maledetta canaglia con quello sguardo da serpente, gli ha gettato davanti un foglio. Come se fosse insignificante inchiostro stampato su di una carta altrettanto insignificante. Prussia per un attimo pensò che questa stanza fosse terribilmente più accaldata di quel che pensasse. Eppure fuori pioveva come se fosse autunno…

Gli si era gettato di fronte agli occhi una penna, una stilografica nera e lucida, insignificante, simile a tante altre stilografiche che esitano al mondo. Gli si era portata di fronte agli occhi come se avesse chissà quale valore esotico. Eppure di stilografiche come questa ne aveva viste perfino in casa di Russia, quando dovette firmare insieme a lui l’accordo per avere Polonia. Peccato che sia morto…

Per avviare queste procedure è necessario il consenso della Nazione.

Il foglio gli si era avvicinato ancora di più dal suo capo e, oddio come lo odiava, con un cipiglio fin troppo insistente. Come se quel foglio dovesse essere firmato assolutamente, come se avesse idee ben diverse da quelle con cui ha trattato con lui. Questo foglio è un pezzo di carta come tanti altri. Ne ha visti ben troppi, di questa maledetta carta stampata. Perfino da Russia ne ha viste un bel po’, in giro per la sua casa, che pareva più un gigantesco castello. Peccato che debba ancora aspettare la sua morte…

Aveva preso la penna in mano, come se avesse qualche materiale prezioso fra le dita. Aveva avvicinato ancora un po’ il foglio e aveva osservato lo spazio bianco dove avrebbe dovuto firmare. Aveva osservato quello scorcio bianco come se dovesse scegliere la sua vita o quella di West. Come se dovesse dipendere la vita del suo stesso fratello. Lui non sa niente, non deve sapere niente. Lui è la Germania e ogni cittadino tedesco che respira ed esulta il proprio orgoglio per la patria. Lui… non l’ha ancora capito. Un giorno, forse, lo capirà. Ma prima deve firmare questo foglio. Prima deve dimostrare al mondo che West è la Nazione migliore di questo mondo.

Senza il consenso della Nazione non potremo procedere con le procedure razziale, essenziali per il miglioramento morale e civile del paese.

West è il migliore e lo sarà ancora di più. Non sarà più in pericolo, non dovrà più essere schiavo di altre Nazioni più deboli di lui.

Porta la stilografica allo scorcio bianco. Firma con la stessa rigidità di West e la sua stessa forza. Firma e il foglio lo abbandona sulla scrivania, mentre il suo capo poggia gli occhi severi su di lui e passa il dito sotto i baffi folti.

 

 


Deutschland.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 14
*** QuAtToRdIcEsImO cApItOlO ***


Il girasole lasciato sulla finestra della sua camera brilla alla luce del mattino. I petali paiono ben più gialli e brillanti, le foglie trasparenti sembrano essere trapassate dalle lame del bagliore, il capo alto e scuro insensibile alla forza del sole. Diventa tutt’un col bagliore dell’estate. Diventa unico sole nella camera silenziosa.

Le dita robuste, eppure gentili, carezzano uno dei petali. Piano, cauto, paterno, sfrega i polpastrelli sul giallo abbagliante. Sono morbidi, i petali del girasole. Sono calde, le punte gialle e brille. A Russia ricordano i capelli di una bambola, le guance di un bambino, il lobo dell’orecchio di Lituania, quando lo vezzeggiava. Ha le guance giovani e rosse, Lituania, arrossiscono per sciocchezze e poche gentilezze. Russia ricorda quando lo trovava seduto sulle scale di casa a guardare il tramonto oltre gli alberi. Quando il sole faceva suo i capelli scuri e la pelle pallida per il freddo. Quasi arancione, vedeva fame di libertà e lentiggini brune. Vicino e discreto vedeva dei puntini sulle guance e sul naso. Lituania è lentigginoso e dopo anni se n’era accorto.

Non ricorda bene ora, ma crede che Lituania gli abbia regalato questo girasole, forse per i vestiti regalati. L’ha appoggiato alla finestra e, grande e curioso, osserva lui, ignorante della luce. Un girasole bizzarro è questo. Gli regala luce e compagnia eppure sceglie sempre di contemplare questa brutta stanza. Che buffo girasole. Buffo come il piccolo Lituania. Buffo come la persona che l’ha fatto nascere. Carezza ancora l’orecchia sporgente del fiore e pian piano la luce lo scalda. Pigro per il calore, ma non esausto, il polpastrello vola sui petali gialli sul capo nero. Li carezza come capelli bruni e morbidi.

Lituania era buffo. Lituania era buffo, ora non più, cresciuto e duro di cuore. Lituania era buffo quando ancora lo conosceva per i suoi sussulti e gli zigomi alzati con forza e timore. Quando ancora per lui non aveva macchioline scure sulle guance. Quando spesso la sua schiena sanguinava. Quando spesso piangeva sulle scale di casa. Era buffo, davvero buffo, il piccolo Lituania. Credeva in tutto, credeva sempre in peggio. Credeva di essere solo e di dover rimanere per sempre da solo. Era buffo, davvero e semplicemente buffo.

Era buffo quando non sapeva dei cassetti pieni di lettere. Nemmeno il fuoco poteva far smettere i loro arrivi. Polonia era tenace. E testardo, anche se malato. E insopportabile. E spina in un cuore frustrato. Russia non è mai stato buffo. E’ sempre stato ingombrante e solo. Ora si sente quasi come un tempo. Lituania era buffo e dolce quando piangeva. Quando le gocce perlacee inzuppavano il suo viso come un bambino. Con fatica si faceva sfiorare. Però ascoltava e credeva in ogni cosa.

Lituania credeva di essere solo. Di essere stato abbandonato. Di non essere voluto da nessuno. Polonia mandava lettere e offese a lui. Russia era frustrato, perché Lituania si sentiva solo e non lo vedeva. Perché Polonia era assillante, anche da malato. Anche da guarito. Anche da Nazione rinata.

Lituania, solo, piccolo, dolce, gli aveva creduto. Aveva creduto in ciò che desiderava che credesse. Gli aveva fatto credere che non fosse lui cattivo, ma Polonia. Lo aveva poggiato sul campo di battaglia col cuore iroso e abbandonato di fronte al suo vecchio principe. Gli aveva sussurrato bugie e menzogne. Perché era solo anche lui e perché amava Lituania da quando era una macchiolina rannicchiata nella neve, con un cagnolino e un cappottino verde. Lo amava già all’epoca e avrebbe fatto qualunque cosa per farlo suo. Per far di Polonia un nemico. Ma Lituania è buffo, ma non stupido. L’ha portato di fronte a Polonia e di fronte a Polonia comprese di essere stato ingannato. L’aveva perso per anni, così come l’ha perso anche ora.

Il petalo brillante perde la sua luce. Il polpastrello, sfregando e ricordando, l’ha strappato. Cade, come pesante carcassa, sul mattone, accanto allo stelo prepotente del girasole. Cade e s’accascia come morto, come grigio scheletro. Russia poggia gli occhi stanchi sul petalo quasi nero. Sospira e trattiene uno sbuffo di risata. Anche questo girasole è buffo: ha creduto alle sue mani e, alfine, gli ha strappato parte di sé. Ha fatto male a fidarsi, così come ha fatto male Lituania. Così come forse sta facendo adesso.

Per un attimo si chiede se sia un bene per il ragazzo stare accanto a lui.

Ne accarezza un altro, con più malinconia, con più dolcezza, mentre gli occhi infuocati di Bielorussia, appoggiata allo stipite della porta, guardano crudelmente il girasole e l’unghia del fratello. Come se volesse che prendesse fuoco in quell’istante.

 

 

 

 

 

Jan ricorda poco della sua vita. Ma in generale crede di non essere mai riuscito a ricordare qualcosa. I primi mesi erano assillanti, ricorda, o forse immagina. Il dimenticare dove fossero le chiavi di casa. Poi dove avesse lasciato delle carte importanti. Poi se avesse mai avuto due figli o una moglie. Qualcuno, non ricorda bene chi, se n’era accorto, del suo problema. Devono averlo portato in ospedale, forse, ricorda solo bianco e pelle di poltrona sulla sua schiena. Forse devono avergli fatto delle domande e forse si devono essere accorti che Jan Lukasiewisz fosse malato. Di cosa non ricorda, ma era malato.

Contemporanea alla memoria, anche le gambe incominciarono a fargli del male. Le ginocchia s’incurvarono verso l’interno e non l’esterno come suo solito, o come qualsiasi corpo possa fare. La pelle delle cosce parve quasi strapparsi e bruciare sotto al suo peso. Non immaginava di essere così tanto pesante, o forse le sue gambe non lo reggevano più come una volta. Poi incominciò a cadere e a farsi veramente male. Dopo essere caduto varie volte, si rese conto di non riuscire più a reggersi in piedi. Entrò di nuovo in ospedale e ne uscì con una sedia a rotelle. Poi non ricordò bene più nulla.

È tutto frammentato, come se il suo cervello, una cassetta antica di un vecchio film, avesse bruciato alcune pellicole bianche e nere. Ha solo quei frammenti di spazio e colore intraducibile. Ha spesso frammenti di persone che non ricorda di aver mai visto. Alcuni frammenti ne hanno pochissimi, altri in abbondanza. La cartuccia del suo cervello sta continuando a prendere fuoco e a dimenticare. In molti frammenti vede la campagna, il sole, il grano, una casetta, due bambini. Vede lunghi, lunghissimi capelli scuri, una frangetta tagliata troppo lunga. Ricorda un profumo, ma non lo riconosce. Quella figura è spesso presente nei suoi ricordi e spesso la dimentica.

“Ecco, le ho abbottonato la camicia” ritorna in sé, come appena svegliato. Con lo sguardo gettato sotto di sé, sui suoi pantaloni, rialza gli occhi appannati. C’è una donna, giovanissima, vestita in bianco. Strizza gli occhi, inclina un sopracciglio più dell’altro. Non sa bene chi sia e nemmeno perché gli abbia abbottonato la camicia. Si sente pulito e fresco di bucato, ma la signorina di fronte a sé continua ad osservarlo, paziente ma contrariata.

“Vi ho già vista?” la biondina, l’ha notato solo ora, chiude un attimo le palpebre. Jan immagina che sia arrabbiata. Un attimo di lucidità, frammenti di videocassetta rinvenuti dalle fiamme. Rivede questa ragazza più giovane, coi capelli sciolti, tagliati all’americana, o crede che fosse un taglio americano. Ricorda un maglione scuro e pesante, una giornata fredda. Ricorda le sue mani robuste che tremavano sul ferro della sua sedia, ricorda che lo spingeva e parlava e parlava. Di cosa non ricorda. I suoi occhi s’illuminano, ricordando ed essendo fiero di ricordare.

“Ah, certo! Sei Karla!”

“Sono Wala, signor Lukasiewisz” risponde, riaprendo le palpebre e tagliando l’aria con i suoi occhi “Sono la vostra infermiera da quasi due anni e ogni volta vi dimenticate di me” finisce di parlare, usando un tono frustrato. Nelle tempie di Jan si accende un ricordo che però non riesce a dare un’immagine. Questa scena gli è familiare, l’ha già vista. Ricorda ancora lei, la giovane infermiera, arrabbiarsi, con occhi e guance di fuoco, saltellante per la rabbia. Era divertente, ricorda. Sorride, ricordando Wala.

“Sono felice di vederti, Wala”

“Sono stata accanto a voi tutta la mattina…”

“Ah, davvero?” respira profondamente, Wala. Persino il collo le si fa rossastro e gli occhi incominciano ad annacquarsi. In piedi, ritta di fronte alla sua sedia, stringe forte i pugni. Jan sente scricchiolare le nocche e le falangi e pensa di rimanere immobile e zitto. Non ha paura, qualcosa, forse qualche ricordo o strappo di videoregistratore, gli dice di non aver paura. Non gli farà mai del male. Un po’ gli dispiace di averla fatta arrabbiare. Si guarda attorno, come se vedesse questa clinica per la prima volta.

“Cosa facciamo ora?” chiede innocentemente, ricordando con difficoltà quel che è appena successo. L’infermiera sa che sia inutile arrabbiarsi. Si arrabbia troppo e per cose stupide, lo sa bene. Le sue colleghe gliel’hanno sempre detto. Sa che non dovrebbe essere nervosa con i pazienti e che non dovrebbe farsi vedere così infantile di fronte agli altri. Soprattutto alla sua direttrice. Un mese dopo che Lukasiewisz gli era stato affidato, aveva perso la pazienza e aveva alzato la voce mentre Jan la guardava dubbioso. La direttrice l’ha vista e l’ha richiamata. Non vuole che accada mai più.

“        Andiamo fuori in giardino? A lei piace tanto” Jan annuisce, non ricordando che in quel luogo ci fosse un giardino. Wala annuisce insieme a lui, comprensiva, afferra con forza la sedia e ricomincia a spingere.

La clinica sa di dolci. Qualche infermiera deve aver cucinato il cioccolato e il Pan di Spagna. Il palato avverte lo zucchero prima della mente. Ricorda una focaccia tonda, col buco al centro come una ciambella. Ricorda di averne tagliato una fetta, non sa dire quando l’abbia fatto, e di aver visto cioccolato fuso cadere lentamente sul piatto immacolato, senza briciole. Aveva un fumo intrigante, morbida come piace a lui. Ricorda di averne mangiata molta anche fuori dalla clinica, ma ricorda dove. Forse a casa sua, in campagna. Non ricorda e non gli va di ricordare.

Un piatto gli viene poggiato in grembo, già con la forchetta poggiata dentro, tagliando in due il pezzo di torta. Non si fa domande, prende il piatto e affonda le labbra sulla forchetta. Mangiucchia piano il dolce e prova a ricordare qualcosa, non ricordando. Spesso gli accade di dimenticare pochi minuti di ricordi. Non sa chi gli abbia poggiato il piattino, né come abbia fatto a finire nella mensa. Vede solo altre persone che forse ricorda o forse con cui ha parlato. Al tavolino dov’è c’è un altro signore. Le rughe sembrano pezzi pesanti di carne che tentano di cadere nel piatto sotto di sé. La fronte spaziosa, il naso grosso, gli occhi truci. Con la forchetta scava nel Pan di Spagna, come se detestasse tanto la fetta di torta da volerla distruggere invece che gustarla. Jan lo dimentica subito e getta lo sguardo altrove. Su una sediolina è caduta Wala. Sorride, tra le mani carta. Una lettera. Jan la osserva, interessato, ricordandosi chi sia. Alza lo sguardo e riconosce con fatica una foto.

“Chi è lui?” l’infermiera alza lo sguardo, lo guarda spaventata, come un bambino guarda spaventato il genitore che lo ha appena visto con una mano nella marmellata. Arrossita, non per rabbia, guarda in basso, sulla foto. L’ha scattata l’ultima volta che ha visto il suo ragazzo a Berlino, tra il caos della città e il cielo decisamente più rilassato e calmo. Wala sospira e prova a mormorare qualcosa.

“E’ il ragazzo che sposerò” Jan guarda lei, con interesse. Wala pensa che non ricorderà mai questa foto e nemmeno la lettera che le ha inviato. Pensa che sia inutile raccontargli qualcosa, ma esita comunque “E’ di Berlino, è tedesco” mormora imbarazzata, come si è imbarazzati nel parlare dell’uomo che si ama e che presto si sposerà.

“Lo ami?” Wala guarda Jan e crede che la domanda sia sincera. Le si fanno ancora umidi gli occhi, per l’emozione. Le si fa il rossore, appena le s’incurvano le labbra.

“Sì”

Jan guarda di fronte a sé. Vede verde del giardino. Vede campagna gialla e scura. Ancora familiarità in quel che vede. È felice. Il sole sta calando, lo vede chiaramente coi suoi occhi. Riesce a vedere bene gli alberi alti e le loro ombre protratte ad abbracciarsi fra loro. Sente sotto la pelle iniziare a far freddo e l’aria iniziare a congelarsi. Fra poco sarà completamente buio. Jan guarda comunque ancora di fronte a sé, meravigliato, dimenticando e ricordando questo paesaggio sempre suo. Jan ama la campagna, il grano e le foreste nere. Gli ricordano sempre quella ragazza coi capelli lunghi e scuri e la frangetta dispettosa sui suoi occhi. È familiare e confortevole, questa sensazione. Jan chiude gli occhi. Si sente in pace.

Riapre le palpebre. La clinica non sa di dolci, né di cioccolato, né di Pan di Spagna. Si sente piccolo, d’un tratto. È seduto ancora alla tavola dov’era seduto ieri. O forse giorni fa, non ricorda. Forse è passato molto più tempo di quel che crede. Un brivido di paura ed immobilità serpeggia sulla sua spina dorsale. C’è qualcosa di diverso. Si guarda attorno e vede meno persone. Credeva che ce ne fossero molte, tantissime, tante da riempire tutta questa stanza. Ma è ora di pranzo, crede che sia ora di pranzo, e non c’è quasi nessuno. Alza lo sguardo, angosciato. L’uomo, quello scorbutico, con le rughe pesanti come pezzi di piombo, è sparito. La sua sedia è vuota. Qualcosa dentro Jan gli dice che non c’era neanche ieri e nemmeno il giorno prima. Qualcosa dentro di lui gli fa credere che questa sala sia più grigia di com’era quando era venuto qui la prima volta. Jan sente mormorare. Si volta alla sediolina, dove credeva che fosse Wala, ma lei non c’è. Sente comunque la sua voce. È offuscata, appannata, iraconda. Si chiede, intrappolato nella sua mente, se quel che senta lo stia ascoltando ora oppure lo abbia ascoltato tanto tempo fa.

 

“Mi ha abbandonata. Mi ha lasciata!”

“Come? Com’è possibile?”

“Non lo so. È cambiato. Dice che sono una razza inferiore e che non possiamo più sposarci perché macchieremo la razza ariana!”

“Ma è ridicolo! Com’è possibile?”

“E’ diventato pazzo! Gli hanno fatto il lavaggio del cervello! È come se fosse morto! Non lo riconosco più!”

“Wala, cerca di calmarti”

“No, mi ha ferita, non ce la faccio più. Devo andarmene, devo capire perché mi abbia lasciata per davvero”

“Ma dove vai? Wala, non te ne puoi andare così!”

 

“Signor Lukasiewisz” Jan si sveglia dal mormorio di ricordi senza immagini né forma. Qualcosa in lui lo rende sgarbato e gli ordina di guardare il suo nuovo infermiere con disprezzo. Non gli piace per niente quest’uomo. Né il modo in cui lo guarda, né la sua altezza e il suo rifiutarsi di guardarlo negli occhi, né come lo comandi. Jan ricorda tutto questo, come se non esistesse ricordo più importante che lui, quest’uomo freddo e rigido. Con le sue spalle alte e il suo accento spigoloso “Deve mangiare” e gli getta sotto al naso un mucchietto di patate. Jan annusa e non sente patate. Sente olio di trattore, e pellicce di ratti che un tempo girovagavano nella sua casetta di campagna.

“No” risponde secco, non ricordando di aver mai dato una negazione a Wala. Si chiede dove sia e se sappia forse un angolo della sua memoria dove sia potuta andare. L’infermiere non annuisce, ancora morto di animo, ancora fiero per qualcosa che lui non comprende.

“Allora non mangerà nulla anche oggi” afferma ancora, indifferente, con l’accento irritante. Ritira piano il piatto e, come un fantasma, svanisce. Jan sente il proprio stomaco lamentarsi e si spaventa. Ha fame, davvero tanta fame.

Il cielo del suo paesaggio preferito sembra sempre lo stesso. Anche il tramonto non pare aver mai cessato di cadere dietro agli alberi e le loro ombre si abbracciano come al solito, come cullate dal tepore dei raggi arancioni. Eppure Jan si sente distante, intimorito persino delle proprie spalle. Sente di essere osservato e non con affetto come lo è sempre stato, o crede di essere sempre stato. Jan non ricorda quasi nulla della sua vita, ma riesce a ricordare bene ogni giorno di quel che succede nella clinica. Le infermiere, quelle giovani, frizzanti o infantili, le hanno sostituite con donne adulte e fredde. Non ha mai visto un dolce guardo da loro. I suoi compagni alla clinica che ricorda ora, sono quasi tutti spariti. Chi chiuso, chi veramente scomparso. Non capisce bene cosa accada in quelle quattro mura, ma hanno persino distrutto il paesaggio che tanto adora e che forse gli ricordava qualcosa. Guarda con più attenzione il nero sopra alle cime nere degli alberi, interessandolo di più, rendendolo più attento. Si sente triste.

La sedia sembra muoversi, sembra scendere lentamente verso la collina su cui si è appoggiato. Non ricorda come fermarsi, non ricorda come muovere le ruote e cessare di cadere. Vertigini, tremiti. Sta scendendo verso il nero del grano. Senza stelle, senza luna, Jan non sa che fare e semplicemente non fa nulla, intristito. La sedia è veloce, troppo veloce. Chiude gli occhi, immaginando già l’impatto, immaginando già il dolore. Le ruote volano e una si fora. Una pietra appuntita l’ha spezzata. Il corpo anziano e leggero di Jan sbalza, come preso il volo. Jan ha ancora gli occhi chiusi, ancora ha paura. Il corpo cade e si spezzano le ossa. Ci sono troppe pietre, sotto la collinetta. Jan si fa male, Jan sente sangue alla testa.

Il cervelletto pare sbloccarsi, il rullino della sua memoria non brucia più. Come rinate dalle ceneri, i frammenti di ricordi ruotano veloci alla memoria debole di Jan. Vede ancora i capelli lunghi e scuri e la frangetta. Ma vede anche occhi blu con spicchi di marroncino, come piccole nocciole. Vede tra le sue braccia un bambino, lamentoso e rossiccio. Ne vede un altro affianco a sé, grassottello nelle sue scarpine, invidioso del fratellino più piccolo. Vede una lunga treccia e una mano bianca e piccina fra le sue. Vede poi un viso stanco e un sorriso esausto. Vede capelli biondicci e lentiggini su di un faccino ribelle.

Jan, ammirato dai colori e dai suoni della sua memoria, rimane ancora con occhi aperti. Gusta i ricordi come se fossero nocciole e miele, prima non sentire più l’anima nel suo corpo.

Il medico in cima alla collina inizia a camminare verso la sedia e il corpo, immaginando già il peso e la difficoltà nel trasportarli.

 

 

 

 

 

 

L’aria è fresca e calda, come se fosse estate. L’erba è immobile e statica sul verde campo. L’aria dolce del lago. Il sole che picchia malamente sulle spalle coperte dalla camicia. Il mormorio di qualche insetto che non conosce e non vuole conoscere. Un uccellino che picchietta sul legno del tronco, cercando insetti da mangiare. Polonia, innanzi a lui, abbagliato dal calore dei raggi, eppure insofferente. Respira, inspira. Non sente, ma odora comunque. È bello il lago. È bello vedere Austria ed Ungheria ancora insieme, con Italia. Polonia non sente e non potrebbe sentirli nemmeno se potesse. Troppo lontani, troppo chiacchiericcio. Chiude gli occhi e gli cade la schiena sul prato. L’erba non è umida e il sole lo scalda. Non soffre per le sue orecchie: s’è già rilassato.

Prussia sente il picchiettare sui tronchi e il fruscio del vento e ne è felice. È felice che qualcosa sia negato al biondo e a lui concesso. Lo rende più contento. Fissa lontano, dove Polonia ha guardato, dove i tre passeggiano. Gli hanno lasciato il ragazzo e loro se ne sono andati a spasso. Rilassato, ammorbidito dall’abbraccio del sole, Polonia sospira ad occhi chiusi. Poggia le mani dove cade l’ombellico. Stringe piano sulla maglia troppo grande per lui, eppure leggera. Non gli è dispiaciuto vagare tra i vestiti ed immergersi nelle stoffe: nulla gli è mai andato perfettamente con la taglia. In quegli anni, inoltre, è dimagrito e pesa quanto un fuscello. Non se ne lamenta, non si lamenta di nulla. Non c’è motivo per lamentarsi. Fa strisciare le mani dentro il tessuto colorato. Si tocca dove la pelle è più fredda e si stringe. Vuole un abbraccio.

Prussia non si è mai seduto, non ha mai avuto voglia né motivo per sedersi. In qualche modo gli dà fastidio stare fermo. I tre si sono allontanati troppo. Sembrano puntini in lontananza, lungo la scia diamantata del lago. Vede Italia saltellare con le braccia aperte come ali. Ungheria è calma ed ondeggiante. Austria più fermo, ma inaspettatamente impreciso coi passi. Pare molto più aperto. E Prussia non può che lamentarsene.

La testa è spesso impegnata e i pensieri fissi ovunque per non toccare il ragazzo che ora sonnecchia sull’erba vicino a lui. Eppure ricorda che la scorsa notte, pregato da Ungheria di controllare Polonia, lo aveva trovato il ragazzo addormentato nel lettuccio. Ricorda di aver concretamente pensato di afferrare il secondo cuscino e di premerlo sul naso pallido del polacco. Si vedeva nel sogno col trionfo di una morte creata in casa straniera, in una stanzetta straniera, con la morte di un ragazzo straniero. Aveva rivisto il rosso attorno agli occhi, le mani pizzicavano di malizia, le dita carezzavano il cuscino come se fosse un neonato. Poi Polonia si era mosso e il rosso ridivenne blu di notte. Non si era svegliato, il ragazzo, ma Prussia aveva ben pensato alla stranezza della sua testa.

Ci sta pensando anche ora, ben più calmo, ben più indifferente. Rivede sé stesso e la sua mente sporca di sangue quando, nemmeno la settimana scorsa, Polonia riebbe gli occhi. Si rivede gettarglisi addosso al collo sottile. Immagina una sua reazione, un suo comportamento. Ungheria si sarebbe gettata anch’ella su di lui e l’avrebbe davvero cacciato fuori di casa. Austria… Austria chissà. Italia avrebbe pianto. Non aveva fatto niente. La sorte e il pensiero fin troppo giovane l’hanno fermato alla porta e bloccato sul legno del muro. Ma ora ci riflette e ora immagina con più facilità. Prussia è calmo, Prussia è quieto, ma pensa comunque. Polonia ha occhi affatto appannati. Lo fissa, come se vedesse turbamento nel suo animo. Il comandante sorride e il polacco sa che non è vero e sincero.

“Quando ero piccolo i bastardelli come te li ammazzavamo” Polonia non legge le labbra, non sa ancora farlo, non ne è in grado, nemmeno in tedesco. Assottiglia le palpebre, inclina la testa. Non ha capito e vuole capire. Prussia non vuole ripetere nemmeno una sillaba di quel che ha appena espresso. Chiude gli occhi, sospira, sorride ancora, contento di aver detto ad alta voce ciò in cui crede. Si sente più leggero, senza colpe né altri pensieri. Guarda, alto, il lago diamantato, l’erba ora vivace, l’acqua cristallina. Si sente felice e sereno. Respira e stende il sorriso. Questo lago è un quadro italiano.

“Polonia, spero tanto che un giorno potrò mai ucciderti”.

Polonia lo guarda ancora, perplesso. Non ha capito ancora.

 

 

 

 

 

Feliks trasale e respira una boccata d’aria pesante. I ciuffi di capelli gli vanno negli occhi e qualche granello di polvere di gesso gli vola sulla divisa scolastica. L’aria chiusa e la puzza d’inchiostro lo svegliano completamente, quasi dimentico di essersi addormentato in classe. Non gli accade mai. Alza lo sguardo e incrocia gli occhi con quelli del maestro. Si sente osservato da ogni angolo, come un leone rinchiuso nella gabbia del circo. La stilografica immersa nell’inchiostro sembra squadrarlo male per averla lasciata imbevuta completamente nel liquido puzzolente.

“Bene, il signor Lukasiewisz finalmente si degna di aprire gli occhi a noi povera gente. Dormito bene, signore?” Feliks sente le guance prudere per l’imbarazzo e la vergogna. Il suo banco, in mezzo alla classe, lontano dalle finestre, dal muro, ma vicino alla cattedra, sembra bruciare sotto lo sguardo dell’alto maestro e dalla classe intera. Ridono tutti, mormorii leggeri. Nessuno gli ride, non direttamente, non fuori dalla classe. Nessuno prova nemmeno ad alzare le mani su di lui, ragazzino robusto e affatto debole. Ridono per la battuta e non per la sfortuna, capisce. Feliks, nonostante ciò, si sente rosso e sottomesso. Si vergogna di se stesso. Non ha voce, né parole.

“Ecco, beh…”

“E’ un peccato sapere che non abbia risposte da darmi, perché in effetti avrei delle domande da porvi” il cuoricino dispettoso salta dalla cassa toracica e sbatte contro la gola sigillata. Batte, batte come un tamburo. Le lentiggini paiono mimetizzarsi sotto il telo rosso e la fronte abbassata. I capelli arruffati cadono sulle sue palpebre. Con fatica osserva il maestro, i suoi capelli radi e i suoi baffi folti e bianchi. Per il piccolo Feliks sembra minaccioso e terribile ora. Si sente piccolo nel suo banco, sotto gli occhi penetranti del maestro, le occhiate terrorizzate dei suoi compagni e il ghigno di qualche d’uno nella classe.

“M-Ma!”

“Visto che ritiene le sue conoscenze sufficienti da non ascoltare la lezione, perché non metterla alla prova?” è arrabbiato, infuriato. Al maestro non piace quando qualcuno è distratto o non lo ascolta, lo sa bene. Feliks non dorme mai in classe, né ignora le lezioni. Non lo fa mai. Si sente sfortunato e nei guai fino al collo. Non voleva addormentarsi in classe e non voleva finire in questo pasticcio. Si chiede come abbia fatto ad essere così sfortunato proprio oggi, proprio quando la sera scorsa era così impegnato. L’insegnante lo guarda ancora, aspettando una reazione. Pensa che ormai sia spacciato e che sarebbe meglio giocare al suo gioco, o almeno così dice sempre suo padre.

Sospira e deglutisce.

“Bene, mi dica di preciso il motivo per cui iniziò la Grande Guerra” Feliks vede brillare di fronte ai suoi occhi una cascata di stelle e comete. Uno scomparto della sua memoria si apre e vede luce “Spero che se lo ricorda” certo che se lo ricorda. Ricorda suo padre, tornato la sera tardi da Varsavia, con la fronte bassa e gli occhiali pendenti. Ricorda quando si sedette sul divano e buttò i fascicoli dell’università sul tavolo della cucina. Pagine e pagine di testi scritti da alunni che mai conoscerà. Era arrabbiato, nel suo modo. Incrociava le dita sulla fronte coi capelli e le rughe di sforzo. L’esame dei suoi alunni era andato male, sbagliando domande di storia internazionale e non solo polacca. Gli occhiali sembravano pizzicargli sul naso. E’ incredibile, disse fuori di sé, che tra i giovani ci sia così tanta ignoranza! Non sanno nemmeno perché iniziò la Grande Guerra!

“Iniziò perché l’Arciduca austriaco Franz Ferdinand era stato assassinato a Sarajevo, nel… 1914” mormorò con fatica la data, ricordando bene la scansione che fece il padre quella sera. Wladimir Lukasiewisz è logorroico quando è arrabbiato, soprattutto se la materia trattata era l’università. Soprattutto quando a sbagliare erano degli allievi particolarmente ottusi. Si sedeva e faceva sedere qualcuno vicino a sé. Ripeteva e ripeteva domande, risposte errate degli studenti e quelle esatte che avrebbero dovuto scrivere. Feliks era tra i primi che si sedeva sul divano insieme a lui. Guerre, alleanze e date, tutte ripetute più e più volte. A Feliks piace la storia e suo padre, a modo suo, gliela insegnava e lui la ripeteva in classe. Qualcuno negli ultimi banchi sbuffò e rigirò i pugni, altri d’avanti sospirarono di sollievo e ammirazione. Il maestro sbatte le palpebre e se le massaggia, deluso e forse anche sorpreso.

“Ah, è stato piuttosto facile. Siete stato molto fortunato, potrei anche ascoltarla in un’altra domanda…” la campanella trilla indispettita, come un’ape incastrata in un barattolo di marmellata. Non la finisce più di strimpellare e per Feliks è come un grido di esulto. È salvo, il maestro non gli farà più domande a sorpresa. Si sente leggero come un palloncino. L’ansia e l’attesa evaporano dal suo corpo “Avete più fortuna di quanto credessi, Lukasiewisz” qualcuno si alza, i suoi compagni iniziano già ad eclissarsi dalle quattro mura, come inseguiti da un esercito di vespe e mosconi. Inizia la pausa, inizia la ricreazione. Il maestro si allontana, per Feliks ormai è solo un’ombra innocua “Filip, impegnati di più la prossima volta. Jozef, smettila di impiastricciare il banco, nella mia ora non ci sono artisti emergenti. Lukasz, i compiti si fanno ogni giorno e non solo quando ci sono io in classe. Rafael, la storia è una materia importante nella vita, non dimenticarlo. Simeon, non sospirare sempre, la vita è ancora lunga per te. E Feliks…” il ragazzino si blocca sulla sedia “…la notte solitamente si dorme” e ritorna alla cattedra. Feliks, felice e leggero, si alza anche lui.

La classe è quasi vuota, solo qualcheduno ha deciso di spendere alcuni minuti in più. Il banchetto di Feliks è al centro della scatola quadrata che è la sua classe. Il ragazzino è abituato a poche cose in questa classe, a malapena è iniziato settembre. Con strazio sua madre gli comprò una nuova uniforme, cresciuto in meno di un anno, fatte le spalle più sode e le cosce più magre. Quasi tutti hanno la camicia, la cravatta e il panciotto blu. Sua madre e lui stesso hanno girato molto nelle ultime settimane. Tutti i panciotti blu erano finiti. Solo uno rosso, solo uno scartato il giorno prima da un altro bambino. Gliel’ha infilato con disperazione e preghiere, affinché nessun maestro potesse lamentarsene. Già da quasi tre settimane andava a scuola e nessuno sembrava notare quella macchiolina rossa in mezzo ad una classe pacificamente azzurra.

I muri sono azzurrini, appena dipinti, con una linea più scura e quasi simmetrica. Feliks si era divertito a cercare un punto sbagliato nella linea in mezzo al muro azzurro, eppure niente. Nemmeno pende troppo verso il basso o verso l’alto. I banchi bassi, la cattedra alta, le finestre ancora senza tendine, ancora spoglie, l’aria di pulito. E’ ancora estate e possono aprire le finestre quando desiderano. Possono anche correre fuori in giardino. L’anno scorso e anche quello prima c’era così tanta neve che avevano portato da casa gli slittini. Feliks spera che anche quest’anno faranno la stessa cosa. Gli piace di più la neve che il caldo del sole. Gli piace di più il bianco che il verde. Il giardino fuori dalla finestra è già pieno di ragazzini piccoli e grandi. Ora si accorge che gli brontola lo stomaco.

Il maestro è ancora alla cattedra, chino sul registro e altri fogli che non comprende. La porta è chiusa, qualcuno l’ha chiusa per sbaglio. Sollevato, provando ad ignorare l’avvenimento tra i due, Feliks si avvia alla porta. Il maestro sembra non averlo visto. I baffi lunghi quasi toccano il legno tanto è chino. Spettinati sono anche i ciuffi di capelli quasi grigi, la pelle e le rughe pesanti, cadenti sui fogli. Feliks spera che non faccia sapere ai suoi che abbia dormito in classe. Spera che sua madre non lo saprà mai e mai vedrà la stanzetta all’ultimo piano della loro casa. Quella che prima era la sua stanzetta quando era piccino, quella che la notte scorsa ha dipinto con furia, fino al mattino. Non l’ha ancora finita e crede che non si sia nemmeno asciutta completamente. La pelle quasi sfiora la maniglia della porta.

“Lukasiewisz” un tonfo al cuore, un altro salto verso la gola “Vorrei parlarti un momento” è furibondo, pensa il bambino. Deglutisce, si sente lento e pesante, ardente ed imbarazzato, ancora una volta. Ricorda però la campanella suonata e la risposta corretta, allora si volta con meno peso alle gambe. Si avvicina con timidezza. Immagina scuse che deve pronunciare e suppliche per non farlo sapere ai suoi genitori. E neanche alla zia Dorota. Già è diventata triste lei, non vorrebbe darle un dispiacere. Gli si bloccano i piedi di fronte alla sedia del maestro. Guarda in alto, pronto per qualsiasi sgridata. Certi maestri danno ceffoni ai ragazzi, ma il suo no, per questo è tranquillo. Il suo maestro però non è molto paziente, per questo è teso. Pensa ancora alla sua mamma e al suo papà. Non vuole che lo sappiano. Il maestro si sfrega ancora le palpebre coi polpastrelli. Quando è rilassato fa così, ricorda.

“Feliks, ho apprezzato il tuo impegno l’anno scorso nelle mie materie, soprattutto per il polacco e la storia…” il bambino ricorda suo padre e annuisce all’insegnante “…e anche in queste settimane ti stai dando da fare, nonostante i problemi che noi tutti abbiamo…” Feliks ricorda lo zio Darek e il suo funerale avvenuto meno di un mese fa. Ricorda Tymek, scomparso dall’accampamento e ancora non ritrovato, eppure per tutti morto. Ricorda la zia Dorota e quanto piangesse, nonostante lei non si addolorasse mai. Ricorda il nonno Jan trovato con la testa rotta e il collo spezzato. Ricorda che il maestro ha due figli e uno dei due l’hanno ancora ritenuto disperso. Ricorda il papà di Simeon, seppellito nella chiesa vicino alla casa di Filip. Annuisce e si sente triste “…ma voglio comunque essere certo che i tuoi progressi continuino allo stesso ritmo e non vedendoti addormentato in mezzo alla lezione” Feliks ricorda la vergogna, annuisce e deglutisce “Non dirò nulla ai tuoi genitori, ma che non riaccada mai più, intesi?” Feliks ricorda la paura e annuisce “Perfetto, puoi andare a giocare” il bambino sospira di sollievo, si volta, apre la porta ed esce fuori.

Il giardinetto della scuola di Feliks è veramente grande. Più grande della vecchia scuola di Tymek e un tempo se ne vantava con lui per guardarlo con superiorità. Non hanno ancora completato la stradina di pietrisco che collega l’entrata della scuola col giardinetto, ma nessuno lo nota per davvero. Feliks addenta il suo panino e mastica con la bocca aperta, ingoiando più ossigeno che pezzi di carne. Ingoia e lecca con la lingua i residui sul labbro. Respira con tranquillità e calpesta l’erba sotto i suoi piedi. Gli dispiace vedere così tanti bambini come lui nel giardinetto: hanno già preso tutti un posto sui giochi. E con difficoltà qualcuno ne cederà il posto, tutti avari ed infantili. A Feliks non importa molto di loro e nemmeno di giocare. Il suo panciotto rosso taglia in due il verde dell’erba e il blu delle uniformi. Avanza con un cipiglio quasi arrabbiato, anche se docile. Feliks sembra sempre arrabbiato, anche quand’è contento. I suoi compagni lo sanno e l’hanno saputo in breve. Il bambino si siede ad una panca, in mezzo al chiacchierio e alle urla. Seduto, come se non sentisse o vedesse movimenti, scarta ancor di più il fazzoletto azzurrino della mamma e morde a grandi bocconi il panino e la salsiccia.

Avvinghiati ad un’altalena, tutt’altro che seduti, alcuni piccini, nuovi e senza ancora le divise, osservano di sottecchi il rosso di Feliks. Due di loro, con le facce più tonde degli altri e i nasini ancor più schiacciati, ancora stretti all’altalena, cacciano gli occhi su di lui. Vedono un biondino, con le spalle grosse, basso ma colerico di sguardo, e sussultano. Sono bambini appena entrati nella scuola, che non sanno nemmeno come tenere in mano una stilografica e come asciugarne l’inchiostro. I due guardano ancora con preoccupazione. Feliks vede gli sguardi e ricambia, indifferente, masticando con ancora più forza. Ma per i due questo è come un avvertimento a non impicciarsi nei suoi affari, allora singhiozzano e lasciano l’altalena, spaventati. Feliks osserva i vestiti svolazzanti dei bambini, alza le spalle e morde ancora il panino.

Un grosso gruppetto di macchie azzurre pare avere un cervello ed un capo e, come tante pecorelle, si dirigono in una direzione precisa. Feliks addenta ancora e strappa al panino un grosso pezzo. Non gli dispiace che nessuno si sieda vicino a lui, troppo spaventati i piccini e distaccati i più grandi. Gli piace essere solo e poi il verde non lo attira. Spera che arrivi in fretta la neve, così potrà andare anche a pattinare con la zia Dorota, che lei pattina come una campionessa. Il gruppo di macchioline azzurre si stacca dal verde e gira l’angolo. Feliks conosce bene quel gruppo, allora li ignora. Ha fatto già a pugni con loro e non vuole fargliela pagare per come l’avevano preso in giro. Già la maestra l’ha richiamato e ha fermato quei bulletti. Feliks ha vinto, eppure sua madre lo ha trattato come uno sconfitto. Ora lo evitano e a lui sta bene.

Nemmeno se n’era accorto, ma qualcuno si era seduto sulla sua banchina vicino a lui. Feliks mastica con forza, coi denti impiastricciati di pane umido. Occhiali tondi, panciotto blu, magro e leggero come uno stuzzicadenti. Il bambino lo guarda timido, con occhi sottomessi. Per poco non l’aveva riconosciuto. Mastica e ingoia il suo pezzo di pane. Era l’ultimo, ha finito la sua merenda. Gli occhiali tondi del bambino lo guardano dal basso verso l’alto, con le mani tormentate. Feliks fa passare la lingua sui denti e quello deglutisce.

“Che c’è, Simeon?” domanda, per nulla irritato, anche se con voce differente. Simeon ha sentito rabbia ed impazienza, allora sobbalza. Simeon è sempre triste, sa. È nuovo nella loro classe e già una cerchia di impiccioni lo sta prendendo in giro e spintonando. Una volta l’ha trovato col naso sanguinante e gli occhiali spezzati. Il giorno dopo l’ha ritrovato in classe con un gigantesco cerotto marroncino e degli occhiali più ovali che tondi. Una volta l’ha scovato accerchiato da degli spacconi, quella volta ha fatto a pugni con loro. Quella volta ha rotto il naso a Rafael e al suo amico Lukasz e la maestra li ha fermati e ha chiamato i loro genitori. Quella volta Feliks si era sentito solo deluso e tutti ora lo ignorano o lo guardano spaventati. Ma lo facevano anche prima, per questo a Feliks non importa. Simeon lo guarda supplichevole, allora capisce. Butta tutte le briciole in terra, si pulisce un po’, si alza e cammina affianco al bambino. Entrano a scuola, più serena che nel giardinetto.

“Hey, ho sentito di tuo zio e di tuo nonno”

“Ah…”

“Mi dispiace” Feliks annuisce, dispiaciuto anche lui, nonostante Simeon legga tutt’altro. Gli manca lo zio Darek e anche il nonno Jan, anche se a malapena lui sapesse come si chiamasse. Ma non gli importava, non era molto importante. Non se n’era mai lamentato. Gli piaceva anche lo zio Darek. Era simpatico, faceva sempre felice la zia Dorota e sgridava Tymek quando gli dava fastidio. Ancora non ha ben realizzato che non ci siano più. Si sente stringere il cuore e l’aria mancare, ma non vuole più piangere. Simeon lo guarda ancora da dietro le lenti trasparenti.

“Io ho sentito di tuo padre, ma non so bene cos’è successo” Simeon si fa cupo, le lenti paiono diventate nere, i capelli piatti e senza vento. Per quanto sappia, Feliks ha sempre visto Simeon come grigio e triste. Non era così prima. Prima che morisse suo padre era almeno studioso. Studiava anche più di lui. Prima Simeon era giallo come il sole, come la sabbia del deserto. Feliks lo ricordava ben diverso e con capelli biondicci. Potrebbero essere anche grigi come delle nuvole quiete, per come potrebbe descriverlo. Prima Simeon era quasi smorfioso e col naso all’insù, ora non si permette nemmeno di sorride.

“Gli hanno fatto un buco proprio qui” il suo dito punta verso la gola, nell’osso dietro la carne. Feliks immagina già sangue e sporcizia, allora sussulta intristito “L’hanno portato indietro dalla mamma e la nonna. La mamma ha pianto tanto” si ferma un attimo, con occhi di un grigio più scuro.

“Avete fatto il funerale?”

“Si, domenica scorsa” Feliks s’intristisce. Non aveva mai assistito ad un funerale, la sua prima volta fu dello zio. Immagina che anche per Simeon sia lo stesso. Simeon tira il naso e Feliks si preoccupa. Crede che voglia piangere e si impietosisce.

“Stai bene?”

“Sì” tira ancora su il naso. Feliks non ne è sicuro, ma non protesta. A lui dà fastidio piangere di fronte a qualcuno, allora sta zitto. Al funerale del nonno, quando ha visto la salma, ha singhiozzato come un bambino. I bambini non possono avere sorelline, per questo si è vergognato tantissimo. La loro classe è vuota e silenziosa. Le finestre ancora spalancate. Si avvicinano a quelle, a quei banchi. C’è il banco di Simeon. Il bambino lo guarda triste, Lukasz l’ha già scarabocchiato tutto. Scoraggiato, ma non sconfitto, Simeon prende una gomma e inizia a cancellare. Le scritte sono grandi e troppe per lui. Gli ci vorrà tempo, pensa Feliks. Comprensivo, schifato, prende anche lui una gomma e lo aiuta. Simeon nemmeno lo guarda e non sa dire se apprezzi.

Dupek.

“Quando c’era papà nessuno mi trattava male” dice, come se avessero parlato fino ad ora. Feliks non si sorprende troppo e continua a cancellare. Il banco sta già cominciando a diventare bianco. Feliks da qualche tempo viene spesso chiamato da Simeon. È come se avessero sempre avuto un accordo fra di loro. Feliks lo accompagna in classe, come una guardia del corpo, e Simeon si siede in classe o cancella il banco. Feliks è bravo ad ascoltare e a vedere, per questo sta zitto. Non sa dire se Simeon sia un suo amico o no, ma gli addolcisce la giornata stare con lui.

Gòwno.

“Ora è tutto diverso ed è proprio brutta questa cosa” si aspettava che sospirasse, eppure niente. Non gli piace tanto questo nuovo Simeon, ma nemmeno quello di prima gli andava molto a genio. Lo ricordava sgargiante ed orgoglioso. Lo ricordava altezzoso e vivace. Era quasi seccante, Simeon. Con quell’occhietto che sapeva qualsiasi cosa, quelle orecchie perennemente aperte alla sua testa, quel colletto preciso e il labbro perennemente alzato. Era irritante, ma felice. Feliks cancella, come se fosse nato solo per fare questo.

Niemiecki.

“        Prima era tutto molto meglio” getta la gomma, hanno finito. A Feliks fa male il polso e se lo stiracchia. Simeon si è poggiato sulla sedia e guarda fuori. Feliks si poggia sul banco dietro di lui e fa lo stesso, coi suoi occhi quasi furiosi. Fuori i bambini e i suoi compagni stanno ancora giocando come tanti pulcini blu. I due non li guardano e fanno strada agli occhi verso l’alto. Oltre le nuvole e il verde c’è Varsavia, la città. Sembra lontana, il verde troppo vicino, sembra essere un luogo mai visto. Eppure Simeon ci abita e Feliks dalla campagna va sempre a scuola la mattina. Simeon è pensieroso e per Feliks sembra veramente distrutto “Credo che me ne torno a casa” l’altro lo guarda, affatto sorpreso.

“Ancora?”

“Sì, sennò mi picchiano” Feliks ritorna a guardare fuori, oltre gli alberi, verso un grigio più chiaro, quello della città. Non si sorprende e non è nemmeno preoccupato. Simeon scappa spesso da scuola in questi giorni. Spesso la madre è a lavorare e non trova nemmeno la nonna ad aspettarlo, almeno così dice. I maestri per ora non dicono nulla, ma il bambino crede che fra qualche giorno, se le cose continuassero in questo modo, allora Simeon sarebbe in un mare di guai. Per Feliks è ovvio, ma non vuole nemmeno fermarlo per preparare lo zaino. Se Simeon si sente male per il suo papà, allora lo capisce. Anche lui si sentiva male andando a scuola, pensando al nonno e allo zio Darek. Si sente male anche ora, ma non voleva vedere la zia ancora triste. Simeon si mette lo zaino in spalla, pronto. Sembra esitare, Feliks pensa solo che abbia dimenticato qualcosa. Qualche libro sotto al banco, forse.

“Grazie comunque, Feliks. Per… per avermi aiutato, insomma”

“Uh, certo” risponde, continuando a guardare fuori. È sinceramente arrabbiato con Simeon. Perché scappa e non affronta la realtà, come dice suo padre. Ma suo padre gli ha spesso detto di non arrabbiarsi sempre e di sembrare sempre calmo anche quando non lo è affatto, per questo guarda fuori e non il compagno.

“Sai, quando il papà è morto sono andato in chiesa e ho visto quella regina” sembra pensarci su “Quella morta giovane… quella che il maestro ha spiegato sulla Confederazione coi lituani, ricordi?”

“Ah, sì, Jadwiga”

“Sì, infatti, Jadwiga” risponde, come se in realtà non gli importi molto il suo nome “Ero così arrabbiato con tutti che mi sono messo a pregare a lei” gli racconta, come se fosse importante, molto importante. Feliks si accorge del tono grave, come se confessasse un peccato ad un prete, per questo volta il capo e il verde diventa ancora grigio “Ero davvero arrabbiatissimo. Le avevo chiesto di uccidere tutti quanti a scuola” Feliks s’inquieta, Simeon si aggiusta gli occhiali, vergognandosi “Tutti quanti. Il maestro, la maestra, Lukasz, Jozef, Rafael, tutti. Però tu no” Feliks lo guarda ancora, preoccupato “Ho chiesto che morivano tutti, ma non tu. Tu sei l’unico buono qui” avanza un sorriso timido. A Feliks non è mai importato troppo l’andare in chiesa e nemmeno sa cosa siano veramente le preghiere. Ma per Simeon sembra una cosa molto importante, allora si imbarazza, non sapendo nemmeno per cosa. Si sente rosso in faccia, proprio come lo era col maestro.

“Grazie…”

“Io vado, ci vediamo” sta per oltrepassare la porta, col suo zaino pesante e molliccio, grigiastro come tutto di lui. Feliks lo vede fermarsi e voltarsi giusto per un attimo “Uh, senti, ma perché ti sei addormentato oggi in classe?” Feliks arrossisce, ma non si vergogna, non come col maestro. Pensa che non ci sia nessuno in questa classe e che tutti stiano giocando fuori e non saprebbero mai nulla di quel che dirà. Deglutisce, imbarazzato, con una voce più mortificata che aggressiva.

“Stavo dipingendo una vecchia stanza ieri…”

“        Ah, perché?”

“Volevo dipingerla tutta di rosa” Simeon si volta completamente e lo zaino lo segue. Lo guarda incredulo. Feliks lo guarda arrabbiato, veramente furioso. Ma anche rosso, veramente impacciato “Era per la mia sorellina… Ci ho messo tutta la notte per dipingerla e non l’ho ancora finita”

“Oh, non sapevo che la tua mamma aspettasse un bambino” Feliks annuisce, più sicuro di sé, molto più fiero del suo desiderio “E come sai che sarà una femmina?” Feliks lo guarda penetrante, imbronciato.

“Lo deve essere, altrimenti lo chiamerò Tymek e lo prenderò io in giro quando sarà grande!” esclama, le lentiggini ancora sparite sotto un altro strato di rosso. Sa di aver detto una bugia. Anche se sarà un maschio non lo chiamerà mai Tymek: ce n’è già uno nella sua famiglia che si chiama così e uno basta. Perché Tymoteusz non è morto, è solo scappato dalla guerra ed è sparito, codardo com’è. Così ha capito Feliks da sua madre, mentre i pensieri della donna erano ben diversi. Non voleva farlo soffrire, così ha fatto semplicemente scomparire suo cugino. Feliks non sa questo e viene calmato dal sorriso di Simeon, ironico, burlesco, familiare.

“Va bene, come vuoi” e pare veramente uscire fuori dalla classe. Si ferma ancora e per Feliks sembra quasi una presa in giro “Senti, qualche giorno vieni a casa mia a giocare?” il rossore di vergogna e rabbia del bambino diventa marmo bianco. Guarda il compagno e l’istinto lo fa annuire, commosso, incredulo. Simeon sorride ancora, saluta con la mano e scompare. Feliks, da solo nella stanza vuota, batte le palpebre, diventate d’un tratto pesanti. Sente di aver trovato un amico. Confuso, ma comunque felice, si siede al suo banco e aspetta. La campanella trilla subito dopo e qualcuno incomincia già ad occupare i posti.

Feliks non sente la lezione della maestra e perde molte frasi che dice di geografia. Non hanno ancora una cartina in classe, per questo si arrangiano con il loro libro colorato. Feliks guarda la cartina dell’Europa e tutti i colori brillanti ed inopportuni. La Polonia, squilibrata e bruttina, è di un viola troppo chiaro, quasi rosa. Per un attimo Feliks si chiede perché la Polonia debba avere un colore così ambiguo. La Germania e l’Unione Sovietica sono rosse. L’Inghilterra verde palude. La Francia celeste. Anche l’Italia è blu, solo un po’ più scura. Feliks guarda la Germania e quel rosso lo trapassa come una lama. La spoglia dello zio era stata forata da proiettili, ferite aperte e occhi scavati che fuoriuscivano dal cranio. Darek sembrava un mostro uscito dalla terra e aveva un rosso tanto agghiacciante da mostrarsi anche se lavato. La zia Dorota aveva urlato e si era gettata su di esso. In quell’attimo Feliks aveva avuto la consapevolezza che quello fosse un corpo morto.

La maestra viene chiamata fuori da un’altra donna. Esce fuori, dopo un attimo la classe ritorna a chiocciare come galline. Feliks, della fila centrale, al centro della classe, ha ancora la testa schiacciata sull’immagine dell’Europa. La maestra è nuova e giovane, sa bene. Talvolta, non sempre, viene chiamata fuori dalla balia per allattare la figlia, ancora neonata. Tornerà presto, lo sa bene, per questo resta impiastricciato nei colori delle nazioni. Si sente irrequieto e triste, per questo non si muove.

Qualcuno bisbiglia, vede occhi puntati sul banco vuoto e il nome di Simeon si fa sentire. Feliks d’istinto punta gli occhi anche lui sul bianco del banco appena pulito. I compagni, chi preoccupato, chi curioso, curiosano e si chiedono domande senza risposta. Feliks sbuffa, ritornato inquieto, e giocherella con l’angolo della carta del libro. Il padre di Simeon era importante e il figlio lo esaltava quasi ogni giorno. Il generale aveva medaglie e distintivi, la Polonia lo acclamava. Simeon aveva un padre fiero e dignitoso. Feliks guarda il rosso della Germania e si chiede perché una nazione più grande della sua debba far del male alla sua casa e a quella dei suoi amici. Assai nervoso, si chiede perché debba per forza uccidere suo zio e far piangere e opprimere sua zia. Feliks non lo capisce e si sente impotente.

La maestra torna in classe, senza gemiti d’infante nel corridoio. Come galletti di fronte ad una volpe, tutti tacciono e rimangono fermi ai loro posti, come se mai fosse accaduto il chiocciare di prima. Feliks non si è mosso. Alza gli occhi sulla maestra, sottile come uno spillo, e si ricorda della figlia lasciata alla balia fuori dal corridoio. Ricorda sua madre e della pancia non ancora soda, ma tonda. Una scintilla di ricordo brucia e si rivede nel rosa della sua vecchia cameretta. Pensa che debba per forza essere una femmina, quella che ha nel ventre sua madre, altrimenti avrebbero un cattivo in casa. Come Tymek. Feliks non vuole un altro come lui. Vuole una bambina pacifica come sua cugina Klara, che dorme sempre e quand’è giorno lo guarda interessato da quel faccino tondo e rugoso. Ricorda Klara e i ciuffi biancastri cresciuti quel mese. L’istinto lo fa sorridere. Pensa che non sia tutto perduto. Lo zio Darek se n’è andato e anche il nonno Jan e forse anche quell’antipatico di Tymek, ma la sua sorellina deve ancora arrivare. Alza il viso e lo poggia sulla mano, piantato il gomito al banco. Guarda la maestra sorridendo come uno che ha vinto e sa che vincerà ancora. Lui vivrà felice con la sua nuova sorellina e questa sarà l’amica del cuore di sua cugina Klara. Andrà tutto bene, deve solo aspettare.

La maestra smette di spiegare. Ancora annoiati, gli alunni attendono. Gli occhiali abbaglianti della donna sono immobili, impiantati alla finestra chiusa. Qualcuno vicino alla cattedra si allarma. Qualcuno nelle file più lontane bisbiglia. Feliks, al centro, nota la riga di sudore sulla fronte della maestra e le labbra schiusa. Mormora qualcosa alla classe, Feliks non ascolta. Guarda dove la donna sta sgranando gli occhi. Qualcuno imita il bambino. Un solo sguardo attira più del miele con le api. Più occhi incrociano il vetro delle finestre.

Fuori c’è il sole, appanna il verde degli alberi del giardinetto. Lo sguardo viene lanciato più in alto. Feliks non vede cosa stia succedendo. Si alza dalla sedia e gli altri lo imitano. Vede un punto nero, a forma di aereo, che rimane impigliato nel cielo azzurro. Sopra ad un palazzo, o a quello che pare un palazzo, il punto nero continua a sorvolare, con l’ala pendente verso il cielo. Svolta veloce, senza far rumore. L’aereo getta una piccola parte di sé, nera e ugualmente terribile. Feliks sente silenzio, nemmeno il corridoio parla, nemmeno la classe accanto, nemmeno la maestra. Il sole tocca l’alto del cielo e quel frammento di nero, sporco, marcio, cade sul palazzo.

Scoppio bianco, scoppio dalla terra. Feliks è abbagliato da quella luce insormontabile che acceca l’intero edificio bianco e grigiastro. Il bambino, concentrato, ammirato da quella novità, si sente piccolo, paralizzato, in pericolo. Il vento improvviso tira l’erba, l’altalena e gli alti alberi. Pare trascinarli e volergli strappare. Feliks si riscuote, il suo cuoricino batte ancora. Sbatte le palpebre, il vento tira ancora. Gli alberi avvinghiati alle corde dell’altalena, quelli che il bambino ha sempre visto fin da quando entrò per la prima volta nella scuola, paiono gracili. L’aria dello scoppio fa cadere le chiome più scure. I compagni di classe sbarrano gli occhi: le radici si mostrano e cadono all’insù. L’altalena vola con tutta la corda e il ramo a cui era aggrappata.

Il vento picchia. Il vento forza. Il vento spacca il vetro della finestra. Il suono improvviso fa arretrare i due bambini, pulcini impauriti. Il vento batte i pugni, il vento rompe. Gli ingenui vicini alle finestre mostrano le mani di fronte alla testa. Un terzo inciampa. Il vento li spinge all’indietro. Feliks serra gli occhi e si para il viso. Sente legno strisciare sul pavimento. Sente sfrigolare i banchi. Li sente strappati e gettati verso il muro. Feliks inciampa e sbatte il braccio sul banco. Rimane lì, sul pavimento. Il vento continua con la sua prepotenza. Lo fa voltare e puntare l’orecchio per terra. Rombi di tuoni, fulmini e tornadi tra le orecchie. Urla di bambini. Ossa e carni gettate contro legno e piastrelle. Feliks sente la terra tremare e il cuore battere come un malato che sbatte, sbatte fino a perdere letteralmente la testa. Socchiude gli occhi, la saliva esce dal labbro come un piccolo fiumiciattolo. Vede bianco fuori dalla finestra. Il capo caduto sulla piastrella sfregiata dal banco. Gli occhi avanzano lacrime, non prova nemmeno a trattenerle. Grida di bambini, la cattedra trema, i libri cadono, le sedie inciampano fra i piccini per terra. Urla di dolore, qualcuno si è fatto male. Il libro di Feliks cade sulla sua mano, ancora aperto, ancora mostra le nazioni e i loro colori. Feliks è costretto a guardarla, sente non il pavimento, ma tutta la stanza muoversi.

Guarda il rosso. Guarda il centro dell’Europa. Gli escono lacrime dagli occhi.

Seppur appannati, vede. Qualcun altro piange, più di uno. Feliks non li riconosce. Guarda avanti, vicino alla finestra. Guarda Jozef, coi suoi denti da coniglio spezzati e i capelli impiastricciati di sangue. I vetri della finestra si sono gettati su di lui, hanno tagliato la tempia. Josef tocca la carne con le dita. Urla, con le lacrime agli occhi. La maestra non parla, forse non sta bene, forse è morta, pensa la sua paura. Feliks sente la bile scendere dal suo naso, bollente come mercurio. Geme, sente con l’orecchio un’altra scossa. La classe si muove ancora. Il libro di geografia è sparito. Pensa al sorriso ingenuo del nonno Jan e a come lo zio Darek gli spazzolava i capelli con la sua mano grande e forzuta. Feliks piange e non gli importa di essere bambino. Sente grida di aiuti, sente schiamazzi. Non urlano solo loro in classe. Qualcuno chiama la maestra, qualcuno il papà, qualcuno la mamma.

“Mamma…” geme Feliks. Non aveva mai chiamato lei, troppo severa, troppo impaziente. Pensa a come lo abbracciava quand’era più piccolo, quando si faceva male quando correva dietro a Tymek. Feliks sente l’aria puzzare e il gas infilarsi fra le narici. La classe trema ancora, i banchi ora si spostano verso la finestra. Guarda in alto, verso il soffitto, vede bianco, vede mattoni e legno spaccarsi sulla sua testa. Vede qualcosa esplodere. Sente che qualcosa starà per esplodere su di lui. Questa lo inghiottirà e lo ucciderà.

“Mamma…”

Grida e macerie, orrori e sangue. Il bambino guarda la sua scuola, fuori dal cancello, con lo zaino sulla schiena, caduto tra i ciottoli e la sporcizia. L’edificio azzurrino, i mattoncini imbiancati, il cancello caduto come montagna di carte da gioco. La scuola si spezza in due, come casetta di bambola. Il bambino si sente sporco, le mani fradice di melma, le strade allagate dalla fanghiglia delle fogne. Pensa solo una cosa che ha detto e piange, piange come chi ha sbagliato e non potrà più rimediare. Il povero Simeon sembra una maschera di disgrazie e sofferenza.

 

“Ero così arrabbiato con tutti che mi sono messo a pregare a lei”

 

“Le avevo chiesto di uccidere tutti quanti a scuola”

 

“Tutti quanti. Il maestro, la maestra, Lukasz, Jozef, Rafael, tutti”

 

Dovevano morire tutti, ma non lui. Lui non aveva colpa di nulla.

E intanto Varsavia viene violentata dagli aerei nemici, come se bambini ed anziani valessero meno della sporcizia in cui si rotolano i maiali.

 

 

 

 

 

 

Russia alza lo sguardo dal libro e capisce che c’è qualcosa di strano. Estonia ha poggiato la scopa nell’angolino tra il muro e la finestra e rimane incastrato lì, di fronte alla luce del mattino. Russia si sveglia presto per abitudine, Estonia si sveglia presto per sostituire i suoi fratelli. Affaccendato e stanco si veglia all’alba e cade sul letto, ben oltre il tramonto. Non si ferma, né si lamenta, forse per questo che Russia nota a malapena la sua stanchezza. Non può farcela da solo, ma non deve penarsi per questo: l’ha tradito ed è giusto così. Eppure ora si è fermato e ora è diventato uno con la luce.

Russia si alza dalla poltrona e gli si avvicina. Estonia sa che lo guarda, anche con tensione, ma non si volta. Rimane lì fermo, protetto dai raggi del mattino, con gli occhiali concentrati e luminosi. L’uomo affianco a lui non sa che fare e non crede che questo sia un capriccio del ragazzo. Fa un passo pesante e tocca la spalla di Estonia con la mano. Strizza gli occhi ed osserva. Il giardino è il solito, il cancello affatto. È spalancato, lasciato aperto. Qualcuno entra e si mimetizza nella foschia dell’alba, sottile ed argentea come se fosse nebbia. Estonia sobbalza e pare che gli occhiali abbiano più luce attorno alla lente.

“Lettonia!” esclama, inciampa nel tappeto, ritorna alto e corre. Russia cammina veloce, dietro di lui. Sente freddo alla pelle e caldo al cuore. Batte come un tamburo di guerra. Estonia salta i gradini della scalinata, evita un altro tappeto. Affaticato, emozionato, angosciato, spalanca il portone. Russia vede la figura minuta del ragazzino scomparire sotto le braccia e il peso del fratello. È felice e tremule, l’estone. Il portone si spalanca completamente, preso dalla foga e dalla forza di Estonia. Sta per richiudersi. Russia è veloce ma cauto e lo ferma. Guarda innanzi a lui, abbassa solo poco gli occhi. Ucraina, sua sorella, sorride umile, come se la benda non desse alcun peso alla sua testa. La guarda e gli si appannano gli occhi. Ucraina è serena e sta bene. Lei ha portato a casa Lettonia, lei sta bene. Sta bene, sta veramente bene. La mano sul legno della porta, tanto trema che cade. Vorrebbe abbracciarla.

Estonia libera Lettonia dall’abbraccio. Il ragazzino lo guarda con timore, che lo costringe a gettare gli occhi su di lui e levarli dalla sorella. Deve avere un volto ambiguo, poiché il piccolo non ha ancora smesso di osservarlo impaurito. Russia non sa cosa pensare. Il calore al suo cuore è fin troppo opprimente per farlo ragionare limpidamente. Sente girare la testa. Stanno succedendo troppe cose e non si è ancora accertato delle condizioni della sorella maggiore. A Russia il caldo opprime le viscere, a Lettonia il freddo lo investe.

“Sono… sono tornato per stare vicino ad Estonia e per far guarire Ucraina. S-Sempre se lei voglia” non trema più la voce. Nemmeno le gambe, nemmeno lo sguardo. Lettonia è dritto innanzi a lui e, anche se gli occhi temono il peggio, il corpo è rigido e sicuro. È diventato grande. È diventato coraggioso. Confuso, commosso, con occhi più appannati, Russia lancia uno sguardo alla sorella. Le muore il sorriso, con lentezza accenna con la testa. Lettonia ha portato a casa Ucraina. Estonia l’aveva quasi dimenticato. Stringe le spalle del fratellino, protettivo e preoccupato. Lo guarda sottomesso eppure forte. Ha paura che gli faccia del male. Russia sospira e con fatica trattiene una lacrima da uno degli occhi. Il ginocchio cade sulla pietra sotto di sé. Una mano si alza e s’impiglia fra i riccioli di Lettonia. Sospira, come se si liberasse la gola da un gran peso.

“Oh, Lettonia…” e non dice nient’altro. Vezzeggia ancora le dita sui capelli folti. Lettonia lo guarda confuso, ma più leggero. Non l’ha notato, ma fino ad ora ha tenuto la mano ad Ucraina. Russia non riesce a pensare a nulla. Deve avere tempo, deve togliersi e rinfrescarsi il cuore appesantito. Fa cadere la mano sana dai riccioli. Si rialza, sospira ancora, e si volta. La mano malata, tagliata una seconda volta, fasciato il pollice con bende ed una seconda cicatrice, si muove. Possono entrare. Ucraina sospira di sollievo, Estonia anche. Russia si allontana, non riesce veramente a pensare. Gli fa male la testa e non vuole sentire le domande e le risposte dei due fratelli. Cade sulla poltrona. Sospira ancora, il dolore al cuore non se n’è ancora andato. Ucraina l’ha seguito, se n’è accorto solo ora. I gomiti sui ginocchi, i palmi aperti sul viso.

“Un giorno mi uccideranno, quei tre” Ucraina ride con gioia. Per Russia è un sollievo che ride, anche se di lui. ‘Non dire così, caro’, potrebbe aver detto. Non l’ha ascoltata, ancora scosso, ancora trattiene la commozione. Sente solo le braccia di sua sorella attorno a sé. Lo riscaldano più di una stufa in una serata invernale. Russia accenna ad un sorriso, si sente un po’ più leggero.

Bielorussia è indignata e rossa, visto ogni cosa sopra la scalinata. Scivola fra i corridoi e le stanze e raggiunge la propria. Spalanca la porta, come se volesse distruggerla. Si china e con voracità afferra sotto al letto la sua valigia, già pronta da qualche giorno, già conscia che il fratello non avrebbe alzato un dito su quei tre Baltici. Li ama troppo e questo non va bene. Scribacchia sulla sua scrivania un biglietto e lo abbandona lì dove ha appoggiato l’inchiostro. Con poca cautela esce dal retro e si avvia, a piedi, verso città.

 

 

 

 

 

Vado a recuperare il Baltico e il morto.

Datemi pochi giorni.

Non cercatemi.

 

Bielorussia.

 

 

 

 

 

Angolo di L0g1

Signore e signori, il mese scorso la Fenice ha festeggiato il suo primo compleanno. Avrei voluto scrivere un capitolo speciale, ma mi sono resa conto di non aver avuto abbastanza tempo a disposizione e non sapevo nemmeno quanto fosse difficile iniziare il mio ultimo anno al liceo classico, per cui ho deciso semplicemente di continuare a scrivere questa fanfiction.

Non scrivo un “angolo” da anni ormai e non ricordo nemmeno cosa scribacchiassi un tempo, ma cercherò di dare il massimo.

Vorrei ringraziare tutti voi, lettori e recensori, della pazienza che avete nel leggere questo gigante, straziante, mai felice storia. Voi tutti che amate, apprezzate o forse detestate Polonia e Lituania, voi tutti che vi aspettavate o meno questa famosa ‘Lietpol’ o che leggete solo per passare il tempo.

Vi ringrazio tutti, con tutto il mio cuore.

La Fenice d’argento riuscirà a vedere la fine e non dovrà passare un altro anno per vederla. E, anche se in ritardo di qualche settimana: buon compleanno a tutti voi!

L0g1

 

 

 

 

 

Mi duole soltanto che non ci siano tante recensioni come l'anno scorso, ma non ha importanza: continueró e finiró comunque questa fanfiction, costi quel che costi!

 

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 15
*** QuInDiCeSiMo CaPiToLo ***


West ora sembra più alto e forte, più robusto e vigoroso. Più fiero e tenace. A Prussia viene voglia di sorridere: è fiero di lui. Il fratello si volta, esce con la divisa stirata e lucida. Esce risoluto ed orgoglioso. La porta si chiude e ritorna il silenzio. West è andato via, nemmeno il corridoio fa sentire i suoi passi.

Prussia si alza, con l’uniforme lustra e gli stivali levigati. Si sente più forte. Si accosta alla scrivania, gli occhi danno spazio alla cartina sul muro. Si sente più determinato. La Germania e la Prussia sono un’unica grande nazione. Sono un’unica cosa. Prussia li guarda come se lo fossero sempre state. Si sente più grande.

West, la Germania, la nazione è rossa di orgoglio e vermiglia di superbia. Nemmeno Russia ha tutto questo. L’Europa centrale è rossa, chiazzata quasi fino all’ultimo paese. L’Europa è loro. Loro sono l’Europa. Si sente invincibile.

Guarda in alto il maledetto verde dell’Inghilterra e il rosso poco più chiaro di Russia. Saranno anche loro parte di loro, loro non saranno più di loro stessi. Loro li appartengono. Loro s’inchineranno di fronte a lui e a West. West sarà orgoglioso di se stesso. Domani l’Inghilterra, poi la Russia, poi l’America e infine il mondo. Saranno padroni e loro servi. Non dovranno più servire alcuno. Mai più. Gli viene voglia di ridere, veramente tanta, quanto la superbia che brilla dentro di sé.

Si sente veramente, sinceramente, magnifico.

 

 

 

 

 

Il bacio schiocca, casto e svelto. Wladymir guarda la moglie e si sente mortificato. Ewa è fredda, sciupata. Sembra più vecchia e brutta. Wladymir non vuole avere quest’immagine di lei. La ricorda e la venera come forte e paziente, come matriarca anziana eppure tenace. Ewa è fredda, ma lacrima come una pianta tranciata da una mano infantile. Brillano come pezzi di cristallo, i suoi occhi blu. Anche Feliks aveva i suoi occhi. Ingoia ancora il boccone amaro. Le sorride triste, sa che ha una sfumatura addolorata negli occhi. Lei lo guarda, contrariata, ghiacciata nella sua inflessibilità, distrutta. La guarda come se in tutti questi anni non l’avesse mai conosciuta. Nemmeno guarda il rigonfiamento del ventre, non saprebbe che aspettative dare alla sua creatura. Gli manca ancora troppo suo figlio e le sue lentiggini. Gli manca troppo suo fratello e suo padre. E suo nipote. Dorota è morta da quando rivide i resti di suo marito. Klara è sempre trascurata. Ewa rimarrà sola. Ingoia un altro boccone amaro, si volta. Apre la porta, esce. Questa si chiude piano dietro di sé e Wladymir aveva un gran desiderio di voltarsi ancora una volta. Ancora una singola volta, per vedere sua moglie e per capire se lei fosse sempre stata matriarca o solo bambina indifesa. Vede uniformi scure e facce che non ha mai visto e si avvia con loro.

Polonia non sente quasi più Toris sulla sua spalla. Non sente più il suo corpo, né crede che abbia mai avuto una vera e propria consistenza. I capelli biondi gli si agitano sul viso, ma nemmeno questo per lui ha veramente molta importanza. Per la prima volta si sente veramente morto, fantasma intoccabile. Si sente un puntino nero in un abisso bianco e cartaceo. Si sente sporco e sperduto.

I due tedeschi non hanno volto, non hanno qualcosa che a Polonia possa dare un’importanza vera e propria. Queste uniformi non le ha mai viste, questo nero non l’ha mai notato nella foresta con Tymek o tra i resti della sua gente o tra quelli di Darek. Il nero sembra petrolio con cui specchiarsi. Gli stivali senza tagli, né polvere della campagna. Polonia senza volerlo si accosta ad uno dei due, quello di fronte a Wladymir. Il biondo lo guarda e non vede nulla. Il volto sembra paralizzato in un’espressione rigida. Polonia lo guarda, sa che non può essere guardato, eppure sente freddo correre sotto la sua divisa, sotto il mantello e giù lungo la spina dorsale e le gambe. Timido, spossato, abbassa d’istinto gli occhi. Il sole della campagna è tiepido, settembre è ormai passato, non vede una foglia su alberi e alberi. Il grano tagliato, ma non raccolto, lasciato come mucchi di corpi in un campo grigio e sterile. Sente freddo, fino alle spalle, fino alle orecchie. L’uniforme nera ha qualcosa che per gli occhi infantili del ragazzo è una piastrina. Non è importante per lui, ma i suoi occhi vengono in qualche modo attirati sul metallo lucente. Ne sono due, assemblate con forza. Per Polonia sono dei fulmini, per Prussia, dietro di lui, sono dei simboli di futuro orrore.

Polonia poggia i piedi sulla pietra e alza gli occhi sulle case. Non sa dove siano, non sa che paesello potrebbe essere e non si sforza di cercare di ricordare qualcosa di quel che stia vedendo. Non vede macerie, non vede case distrutte. Il legno sembra marcio e sporco, la pietra su cui cammina pare spezzarsi sotto al suo gracile peso, l’anima morta dentro falegnamerie e piccoli negozietti. Il vetro spezzato di una baracca pare trafiggergli il cuore. L’erba cresce nei viottoli infangati. Polonia vede e respira sporco e polvere. Si sente lui stesso sporco, imbrattato di fumo e pezzi di vetro. La mano guantata, timida come il suo padrone, percorre spezzata il petto e stringe in pugno, con unghie, la stoffa sopra al cuore, là dove non batte più nulla. Immagina che un’arteria passi e continui a passare sporco e fango, fin dentro i suoi polmoni. Respira a fatica, continua a guardare.

Wladymir nota di non essere solo. Il medico del paesello dove vive è stato portato qui vicino a lui, ancora impiastricciato nel suo camice bianco, non gli hanno consentito di cambiarsi. L’anziano si specchia negli occhi di Wladymir e vede passività e lacrime fedeli alle sue. Non aprono bocca, a malapena conoscono i propri mestieri, eppure si guardano come se si conoscessero dall’infanzia. Si vedono sulla stessa nave, alla deriva nell’Oceano Indiano. Si vedono nello stesso plotone, con le baionette in mano e il terrore coperto dalla pioggia. Si vedono schiavi dello stesso padrone.

Arrivano altri tedeschi, con altre persone. Wladymir è rimasto sempre rigido, il medico ora contrae la schiena e le ginocchia. Il giudice grassoccio, avanzato in età e severità, avanza con le braccia conserte dietro la schiena e lo sguardo contratto in un’espressione di sdegno e tristezza. I tedeschi non hanno detto nulla a loro, ma sanno già perché sono lì, al muro del paesello, irrigiditi nella piazzetta come topi di fronte a gatti sprezzanti. Altri due soldati, bianchi in volto e un prigioniero impazzito: un ragazzo che Wladymir conosce e che ricorda come un bizzarro quanto intelligente avvocato, che ogni mattina prendeva il treno per andare a Varsavia. Glielo scaraventano ai suoi piedi, ha fatto resistenza per tutto il tragitto. Eppure quello, ora ritornato in piedi, non apre bocca, per orgoglio e per paura. Sa anche lui cosa accadrà. E altri soldati in giro per il paesello e altri prigionieri: due preti della chiesa all’angolo della piazza, il nuovo farmacista che solo l’anno scorso si trasferì vicino casa loro, il proprietario della villa più agiata del paese, senza famiglia e solo come un cane, quello strambo giornalista che ogni mattina prende il treno per lavorare a Varsavia. Wladymir lo ricorda bene: sul treno lo osservava con occhi amichevoli ed interessati. Ogni mattina, tranne la domenica e il sabato, prendeva il treno. Come ogni giorno. Coi capelli lasciati spettinati e il sudore imbizzarrito sulla fronte, lo vede deglutire. Sa anche lui perché è lì.

I tedeschi non gli hanno detto nulla, non sanno il polacco e nessuno vorrebbe mai impararlo, ma in realtà non vorrebbero nemmeno dire qualcosa. Wladymir li guarda e sa che non avranno niente a cui dargli un nome o un soprannome. Non hanno una faccia o uno spirito e Wladymir lo sa bene. Coloro che hanno ucciso suo padre, suo fratello e suo figlio non possono permettersi una faccia. Si aggiusta gli occhiali, per il sudore stavano per cadere. Loro non hanno niente che a Wladymir possa sembrare una vera causa o un vero motivo per uccidere un anziano, un soldato o un bambino. Non hanno nulla per cui compatirli. Wladymir in sé ha un leone e la forza. Ma tra i due solamente Darek sapeva farlo svegliare e ruggire in tutto il suo splendore. Wladymir amava suo fratello perché era tutto ciò che non è e che è mai stato. Però non vuole morire così.

Alza gli occhi, brillano come ardenti pezzi di carbone, rossi per il fuoco. Ha un mucchio di terrore e corpi di uomini dietro le sue spalle. Le sue sopracciglia si contraggono e un angolo delle due cade verso il naso. Le ciglia tese come corde di violino lo fanno trattenere il respiro. Le rughe della fronte s’irrigidiscono, i denti si stringono come fauci trattenute dietro alle labbra. Il capo alto, i capelli toccati dalla lieve brezza invernale. Wladymir non ha freddo e guarda quel tedesco che l’ha portato lì, lontano da sua moglie e dal bambino che ancora deve nascere. Wladymir comunque sente di non provare odio, non ha mai provato odio in vita sua e non crede di sapere mai cosa sia.

Il tedesco senza volto lo guarda, lui soltanto e sa che questa è una ribellione contro se stesso e i suoi compagni. Alle spalle di Wladymir c’è paura, terrore, un groviglio di topi che trotterellano e bisbigliano domande di angoscia. Wladymir si sente per la prima volta leone e guarda il tedesco come se avesse vere zanne e vera criniera. Si sente forte e vorrebbe che lo fosse sempre stato nella sua vita. Guarda il senza volto come se fosse stato veramente lui stesso ad uccidergli il fratello, assassinatogli il padre e massacratogli il figlio, che nemmeno il corpo ha ricevuto dalle macerie. Ma Wladymir non ha vero odio, ma solo un altro boccone amaro di una vita non completata. I carboni infuocati paiono meno accesi e più pietosi, verso il fucile puntatogli e lo sguardo incompleto di questi occhi inespressivi.

Non sente lo sparo con orecchie ma con carne. Ha chiuso gli occhi, gli ha serrati in tempo, prima di piangere per la perdita della moglie e del bambino che ancora non conosce. Sente di valere meno di un alito di vento. Non sente più i propri piedi, ma sente il proprio cuore, prima di averlo perso completamente. Ha sentito il proiettile incandescente bucargli la pelle e le arterie dell’organo. Lo sente incapace di muoversi, incapace di battere più. Non ha più aria, i polmoni non ne desiderano più. Sente il proprio sangue schizzare e macchiare la terra e lo sporco sotto ai suoi piedi.

Polonia contrae differentemente il volto da quello di Wladymir. Scavati nella carne, con ombre sotto ad occhi e fronte, Polonia vede gocce di sangue grandi quanto il pugnetto gentile di un bambino. Vede volare cremisi e pioggia vermiglia. Lo toccano, lo trapassano come schegge e per il ragazzo sono aghi di dolore premuti sulla pelle. Non l’hanno realmente toccato, l’hanno ignorato e hanno premuto sulla terra, ma per il biondo è come se fosse ora macchiato di quel liquido caldo ed appiccicoso. Come se una parte del suo cervello fosse scoppiata e questa non provasse più a reagire e a muovergli i muscoli e il pensiero. Polonia vede Wladymir cadere ed irrigidire la mano verso di sé, come uno che non vuole morire e che supplica di non farlo morire.

Polonia vede Wladymir morto sotto l’ombra del muretto e si scuote dal suo posto. Scuote la testa, i capelli irrequieti lungo il suo mento. Vede gli altri letterati e menti polacche che cadono come tanti pezzi di domino, accasciati gli uni affianco agli altri. Come se valessero poco più che pezzetti di legno e non cervelli per saziare un paese ed abbracciare le proprie famiglie. La carta muta e cambia colore.

E Polonia si sente ancora sporco di sangue.

 

 

 

 

 

Polonia tocca coi piedi grigio e lerciume. Lo sorpassano come fantasma e lui non bada agli stivali falsamente infangati. Sa bene che non si potrà mai sporcare. La carta muta e pare più bruciare su se stessa che prendere colore. Rottami di automobili e pezzi di pietra spezzano le strade di questa sporca città. Il ragazzo guarda in alto, dove il cielo viene immerso di nubi di pioggia. Sembra pomeriggio inoltrato e quelle sembrano ultimi bagliori ben nascosti del sole. Cala il buio. Polonia si sente scoperto e nudo. Si sente solo e abbandonato. Toris, sulla sua spalla, si scuote le piume. Polonia per poco sobbalzava per la sorpresa. Alza gli occhi sul falcone, perennemente leggero ed ignorato. Alla creatura brillano ancora stelle e pianeti negli occhi. Fermo, come pietra, guarda lontano da sé, dove la strada prosegue. Polonia comprende e non si sente più solo e abbandonato. Poggia i primi passi sulla strada senza vita e cammina. La neve mista al fango non lo sfiorano e lo sorpassano.

Prussia lo segue, come un cane bastonato.

Il silenzio è statico, ma inquieto dietro le ombre. Polonia sente freddo. Si stringe la divisa e la mantella ai fianchi. Toris pare non aver sentito il movimento. Resta ancora fermo e riflessivo. Il ragazzo sente ancora silenzio ed inquieto timore. Qualcosa si nasconde dietro a questo nulla. Il freddo penetra sotto la sua carne, dentro le ossa. Si stringe e sospira. Non emette aria, nemmeno uno sbuffo di vapore caldo. Capisce che i suoi passi valgono meno del vento e non si sentono per la città. Il freddo prende la spina dorsale. Si scuote piano come un cane. Si chiede se sia il caso di chiedere a Prussia di avere la coperta che gli ha dato. Non sa se questo freddo sia reale e non vorrebbe essere preso in giro dall’uomo, anche se è stato più fantasma di lui stesso.

Un fruscio, un crepitare bisbiglia piano al suo orecchio destro. Polonia lentamente si volta, sulla spalla dove Toris non è poggiato. Un vicolo stretto, buio, nauseante. Il bisbiglio continua a chiedere di essere ascoltato. Polonia guarda ancora il vicolo, come se nascondesse un terrificante segreto. Non vuole andarci. Non sente odori, ma immagina fetore di tubature spaccate, fango e neve abbracciate come nemici, buio che al ragazzo ricorda una stanza senza finestre e con una porta sbarrata. Polonia sente la spalla ancora più leggera: Toris ha fatto un salto e ha pigiato le ali sull’aria inquinata. Sbatte le piume sul freddo e si addentra nel vicolo. Le piume rosse brillano come fuoco, anche dentro al nero di quel vicoletto. Svanisce come una fiaccola spenta. Polonia si sente subito scoperto ed in pericolo. Ragionano i piedi e non la calma paradossale. Corre dietro al falcone, guarda solo dove Toris è sparito e il buio gli sembra meno rischioso di quel che è.

Sbuca fuori subito, come un topolino da un buco nel muro. Abbaglio di luce, fuoco e legna che brucia. Guarda prima attorno a sé, per cercare Toris e per averlo ancora vicino a lui e per essere al sicuro. Trovato: è per terra, vicino alle fiamme basse. Il ragazzo saltella e gli si avvicina. Il pennuto lo guarda, come se non fosse accaduto nulla, come se non l’avesse lasciato. Polonia si china e gli porge il pugno guantato. Toris saltella sul polso magro, con cautela cammina sul suo braccio e pian piano alla spalla. Polonia poggia solo per poco gli occhi stanchi su di lui. L’occhio viene catturato da una fiaccola vivace che si nutre di qualcosa di più arrendevole di legna o ramoscelli. Polonia guarda la metà bruciata di un libro. Senza più copertina, senza più caratteri per riconoscerlo, senza più identità. Alza gli occhi, come colui che non capisce. La catasta è assai più alta di lui, più di qualche ramo d’albero sradicato. Il fuoco non brucia solo legna. Carta ed inchiostro vengono divorati selvaggiamente dalle fiamme. Il fuoco si alza in su, verso l’alto del cielo. Polonia sente ancora più freddo. Toris si agita ancora sul suo posto e riprende il volo, fuori dai suoi occhi e lontano dalla sua spalla. Polonia si volta, lascia dietro di sé il fuoco e il freddo e corre dietro al falcone.

Toris vola più lentamente, con quel suo modo impossibile di poter planare. Tiene le ali distese, senza vento ad agitarle. L’aria sembra molto più pesante. Plana lento, un uomo potrebbe corrergli dietro come nulla fosse. Il buio si rischiara di fronte alle sue piume, il freddo continua ad avanzare sotto la sua divisa. Polonia corre lento, angosciato. Un edificio grigiastro, spezzato in due, si tiene fermo con la testa sopra ad un altro edificio. La carcassa dell’edificio si regge in piedi con difficoltà. Uno dei suoi pezzi cadrà a breve. Polonia guarda in alto, sulle travi e le finestre distrutte, senza più vetro da poter sputare. Toris si ferma là davanti. Sul lampione spezzato e ricurvo getta gli occhi sul palazzo, ma non pare interessargli. Polonia lo raggiunge, senza il suo tipico fiatone. I capelli gli cadono sugli occhi. Ritorna dritto, guarda il falcone. Toris guarda ancora verso il palazzo cadente. Sono vicini, troppo vicini a quello. Polonia deve alzare al massimo il collo per poterlo guardare. È carta, non cadrà, pensa. Una trave di legno marcio si spezza come un frammento di ghiaccio. La carcassa cade come albero marcio e spezzato. Come corpo morto senza sangue. L’istinto gli fa alzare le braccia. Stringe gli occhi e attende.

Toris gracchia, più per strazio che per rabbia. Polonia fa cadere le braccia e guarda. Nessun vento, nemmeno polvere ha mostrato la morte di quel mostro. Il ragazzo si volta verso il compagno alato, vuole capire. Toris saltella sul posto, con un balzo si volta e cade per riaprire le ali. Lo vede sbattere le piume sul metallo di grate alte e pungenti. Il falcone si poggia su una sporgenza liscia. Con fatica e stizza si volta verso di lui. Lo guarda e lo invita. Polonia cammina, affonda i piedi nel fango, nella polvere e in un’erbaccia. Si ferma, guarda in alto, dove Toris si è fermato. Il pennuto sbatte lentamente le palpebre. Non si stiracchia. Fa cadere il becco sulla lastra liscia e strofina. Polonia si scuote, sbatte anche lui le palpebre. La neve sotto il becco appuntito di Toris cade e si frantuma. Il ragazzo capisce di dover aiutare e strofina anche lui. Un color oro sfatto, delle parole marcate con cura, delle lettere polacche. Finito, il volatile ritorna dritto. Si fissano, verde nel nero e nero nel verde. Polonia guarda la scritta e un frammento di neve cade sulla sua guancia.

Vietato l’accesso ai polacchi, agli ebrei e ai cani.

Polonia percorre la collinetta in silenzio. Calpesta verde scuro, nascosto sotto al manto della notte e delle nubi ora grigie. La neve scende come fantasma immortale. Polonia guarda in basso, vede fiocchi bianchi arrampicarsi con fatica agli steli di pianticelle secche e fili di corteccia caduti. Raggiunge l’alto della collina. C’è una panchina. Polonia rimane fermo, con le guance ghiacciate e le gambe di piombo. Il legno della panchina sa di nuovo, di pulito, di curato. Polonia si avvicina, ma non si siede. Vede metallo lucidato, giusto un po’ di bianco sulle tavole e una curva gentile dei manici. Si volta, la collinetta mostra la città. Polonia la guarda e vede grigio, cenere e disgusto. E tristezza e confusione. Si sente infelice. Guarda il bianco scendere lento sul grigio. Qualche fiocco diventa grigio, qualcheduno si poggia e rimane bianco. Non ci sono i mucchi di neve dove ci si affondava quand’era bambino. Non ci sono slittini di ragazzini. Non ci sono persone. Si sente solo, un unico punto in un universo che non conosce.

“Dove siamo?” 

Prussia sente ghiaccio sul suo volto. I denti si scoprono e la fronte cade. Sente saliva dolce sotto le sue labbra. Sente vergogna e umiliazione “Questa…” deglutisce, la saliva dolce lo nausea e s’incastra nella sua gola “Questa è Varsavia”.

Le orecchie gli si appannano. Sente le gambe incerte e fragili. Non tremano, eppure sa che potrebbe cadere. Alza lo sguardo sull’alto della collina. Vede macerie… e sporcizia… e sozzura… e grigio… e nulla di quel che ricordava. Ricorda solo ora, solo ora che ha sentito il nome della sua città. Ricorda di essere stato qui, in questo parco, su questa panchina. Si ricorda seduto, vestito per la domenica. Solo, triste. Gli si spezza il ricordo. Vede con la coda dell’occhio bianco splendente e sole invernale. Era inverno, ma faceva caldo. Guarda i palazzi e li ricordava alti. Guarda le strade e le ricordava piene di uomini con le loro donne e le loro creature.

Si sente cadere, si sente spezzare. Sente lo stomaco angosciarsi nella sua pancia: sente di star per vomitare. Non lo fa. Trattiene i piedi sul terreno. Le gambe sono troppo deboli: indietreggiano troppo. Oltrepassa la panchina, come fantasma senza corpo. La collina si sbriciola dietro di sé e cade ancora nel bianco cartaceo e morto. Guarda la collina e la panchina e rivede se stesso, lavato e vestito bene, coi capelli impigliati nella sciarpa e nel vento. E nella malinconia.

Polonia cade e il suo vecchio fantasma diventa carta, come ogni cosa attorno a sé.

 

 

 

 

 

Dorota cammina per la stanza e si siede con lentezza sul letto vuoto e grigio. Klara tra le sue braccia geme, Dorota muove un po’ il busto per calmarla. La piccina sbatte le ciglia corte, aggrotta la fronte pallida e chiude gli occhietti. Dorota d’istinto sospira e l’animo le si chiude, come in trappola.

Klara è pasciuta, morbida e emana profumo di neonata. I radi capelli le stanno già crescendo e morbidi boccoli dorati le si attorcigliano al visino. È bianca e sana, e non rosata e ruvida. È biondina come lei, come la madre che la tiene in braccio, non è mora come il padre morto in guerra. Dorota aveva atteso cinque mesi e aveva scoperto che sua figlia non aveva niente di Darek. Non ha il suo naso prominente, ma uno tondo e piccolo come il suo. Non ha le guance quasi vermiglie di suo marito. Non ha nulla di suo marito, ormai sotto metri di terra. Klara è addormentata e Dorota la guarda con distrazione.

Ha dimenticato di cambiarla e di pulirla oggi. Se ne vergogna, come ogni giorno, ma il dolore dura poco più di un sospiro. Aveva dimenticato anche di allattarla e l’aveva ignorata anche quando urlava per la fame e la solitudine. Passa sempre la giornata nella loro nuova casa, ma non aveva veramente badato alla sua bambina. Guarda Klara e vede una bambina come milioni che ce ne siano al mondo e non come una creatura nata dal suo grembo. Si rende conto che il suo male è solo egoismo e se ne vergogna, ma sospira ancora di tristezza e dimentica di nuovo.

Klara si acciambella, come spesso fa quando si addormenta del tutto. Si stringe vicina al suo seno e respira con trasporto. Dorota s’intenerisce, come s’inteneriva quando passeggiava al parco con Darek e vedeva una qualunque bambina giocare con la sua palla. Non dovrebbe uscire, ma vorrebbe ricordare. Sua cognata Ewa non vuole, il medico, quello che le aveva fatto domande e domande nelle scorse settimane, quello che lei fu certa che non fu un vero medico, le aveva consigliato di accudire con più amore sua figlia e di non uscire di casa. Ma ora la città è buia e vuole passeggiare. Pensa di tenere in braccio Klara e di camminare nel frattempo. Ewa è certa che dorma. Alza la tenda di fortuna, maleodorante e rammendata, e si abbandona alla strada, con la piccina tra le sue braccia stanche.

Il quartiere assegnato a lei e a sua cognata non le piace e non le è mai piaciuto. Hanno più tende che muri, i mattoni per le strade, la terra grezza su cui poggiare cuscini e materassi. Ha qualcosa di scuro e malinconico. Di triste e nostalgico. Odia stare lì, in quell’angolo di case cementate male e abbattute da nemici che non conosce. Non ci sono nemmeno bambini, in qualche modo sono spariti tutti. Non ci sono anziani, anche loro sono spariti. Cammina con la figlia ancora addormentata. Prima, ricorda, appena arrivata, depressa e col lutto sulle spalle, aveva visto un bambino cencioso che saltellava sui mattoni come un ranocchio tra le pozzanghere. Quel bambino è sparito, non l’ha più visto e non le sembrò che fosse malato. Prima c’era una coppia anziana di fianco alla loro nuova casa, sorridenti come se la guerra fosse un vecchio ricordo. Sono spariti anche loro, degli uomini in uniforme nera come il carbone erano entrati in casa loro e mai più li ha visti.

Klara annusa l’aria sporca e piovana attorno a sé. Spaesata, assopita, riapre gli occhietti. Guarda in alto e vede la madre, allora rimane calma. Dorota sa che non dovrebbe uscire, che sua cognata non vuole e la fissa con preoccupazione, che il medico falso ma gentile non vuole. Ma l’ha fatto altre volte, quindi non ha colpa delle sue azioni. Ciò ormai è diventata abitudine per lei. Ogni sera esce e dopo un’oretta torna. La cognata Ewa, tanto, dorme sempre, il medico falso non l’ha più visto e non le importa troppo. Ha solo portato per la prima volta fuori Klara, di notte, tardi rispetto al coprifuoco che i tedeschi vogliono che rispetti. Per Dorota ormai è abitudine e vorrebbe innamorarsi della figlia così come si era innamorata di Tymek mentre cresceva e diventava uomo. Suo figlio era come il padre, sua figlia è come la madre e non la soddisfa. Vorrebbe amarla di più e farle ricordare come la cullava Darek quando la notte si svegliava piena di lacrime. Come la osservava sereno quando si avvicinava alla sua culla. Darek si era innamorato di sua figlia e guardava con rabbia il figlio che lo sfidava. Dorota si era innamorata del figlio e apprezzava la piccola Klara, senza ancora speranze su di lei.

Klara guarda in alto, oltre la treccia della madre. Vede buio e una colonna che non riconosce. È perplessa, ma la mamma cammina decisa, allora è decisa anche lei. La mamma non le farà mai del male.

Dorota riconosce ancora l’arcata della chiesa. Ricorda il tappeto rosso, i fiori appesi e trattenuti tra le sue mani. Si sentiva una regina col suo abito, vedeva Darek come un uomo quando strinse le sue nocche ruvide e sudate sull’altare. La chiesa aveva luce, il mattino la rischiarava dal portone antico. Darek era timido e la reggeva commosso. Dorota era felice e bianca come una perla. Suo marito l’aveva baciata e aveva provato la strana sensazione dei baffi morbidi sulla sua pelle. L’aveva presa in braccio come una bambola, con tutto il vestito e lo strascico ingarbugliato. Alla porta venne investita da petali di rosa e da chicchi di riso. Era felice di essersi sposata con Darek.

Klara avverte i passi pesanti della madre sulla pietra spoglia di questo edificio misterioso. Riecheggiano come un eco lontano ed inquietante. La piccina guarda ancora in alto e non vede altro che buio che non conosce. Ha paura, ma non geme: la mamma non vuole che lei non sia coraggiosa. Immagina comunque di non dover essere lì e che la mamma le stia facendo fare qualcosa di nuovo che non dovrebbe essere fatto. Imbriglia le labbra sottili e le guanciotte. Si stringe alla mamma, ha paura di essere lì e di non poter andarsene. Dorota si siede dove un tempo sedeva suo padre e sospira ancora, con più allegria.

“Klara, vedi questo posto?” la piccina ancora non si stacca dal petto caldo e non vorrebbe farlo “Qui è dove la mamma si è sposata” Klara non capisce quel che dica, ma immagina di dover mostrare almeno un occhietto all’altare spezzato. Dorota vede ancora luce e magia, per questo continua “C’era il papà con il prete. C’era anche lo zio Wladymir e la zia Ewa. Erano seduti laggiù” indica i posti a sedere, vede ancora il suo abito bianco e la camicia fin troppo stretta per le spalle del marito. Klara vede solo buio, per questo ha paura e nasconde ancora un po’ il faccino. Dorota sospira, spera che la figlia possa capire “Il piccolo Feliks non c’era ancora e non c’era nemmeno Tymek. C’era invece il nonno Jan e il mio papà” Klara continua a guardare e vede nero. Dorota continua a guardare e vede bianco.

Polonia guarda la donna e paradossalmente il nero la illumina. La primavera non ancora germogliata le scuote la treccia col suo venticello. Fa scomporre i ciuffi di capelli. È spettinata e stanca, ma le brilla la pelle come luna in un mare nero. Sente i propri piedi piantarsi sul legno dell’altare, così come gli stivali di Prussia. Toris si appallottola sulla sua spalla, comprendendo che non si muoverà. Polonia vede vestiti sporchi, mani provate e distrutte dalle gelate, capelli arruffati. Ricorda come l’aveva vista felice alla casetta di campagna e immagina la nostalgia per suo marito e per suo figlio. Guarda la bambina, smarrita e paurosa, affatto coraggiosa come Darek o altezzosa come Tymek. Sembra una bambola perfetta, incappucciata in abiti rattoppati. Il cuore perde la voglia di battere.

Prussia guarda ciò che guarda Polonia e il cuore si rifiuta di dover ancora battere in petto. L’aquila nera, con gli artigli ancorati alla sua carne, lo rende rigido come metallo. Guarda Dorota, bionda e con gli occhi da cerbiatta e vede Ungheria, castana, selvaggia, con gli occhi da guerriera. Polonia sente il suo guanto sulla sua spalla, dove Toris è poggiato. Si scuote, ma non si volta, nonostante la novità.

“E’ bellissima” sussurra Prussia, come se potesse udirlo la stessa donna. Polonia ricorda il suo vestito colorato e la treccia ben pettinata durante quel pranzo. La mano di Prussia gli si stringe. Polonia è fermo, ma sente la sua divisa su di sé. Polonia alza lo sguardo su di lui, non capendo. Prussia guarda ancora Dorota e la piccola Klara e ricorda Ungheria col piccolo Italia tra le braccia “E’… è un peccato” Polonia annuisce, pensando ad altro. Sbatte le ciglia, ingrossa le sopracciglia. Si volta confuso, dimentica il braccio di Prussia su di sé e involontariamente lo scansa.

“Cosa vuoi dire?” Prussia ritira la mano, fingendo di non importargli nulla dello strattone. Si passa lo stesso guanto fra i capelli e aggiusta la copertina sulle sue spalle. Guarda Polonia e si rifiuta di posare lo sguardo sui suoi occhi.

“Presto sarà anche la sua ora” dice, deglutendo. Le parole lo oltrepassano come semplice vento. Triste, confuso, impaurito quasi quando la piccola Klara, Polonia guarda d’istinto all’entrata della chiesa, dove la luna si poggia nel cielo e dove qualcuno fa sbucare la sua testa come un topo fa sbucare i suoi baffi fuori dalla sua tana. Polonia non realizza bene e il cuore pompa sangue, realizzando solo lui. Vede figure nere ammucchiarsi sul portone. Vede ombre lunghe e vede passi, senza sentirli. Prussia deglutisce, la mano trema e fa tremare anche la lancia “Credo che questa famiglia stia già percorrendo il suo destino”

Polonia non lo sente e non sente nemmeno la sua voce strascicata. Vede le ombre e le figure ammucchiarsi sulla navata, come un unico corpo. Il cuore pompa sangue e terrore. Dorota parla ancora, Klara è ancora stretta alle sue braccia. Dorota ha soltanto sua figlia, Klara è solo una bambina. L’occhio guizza, le figure sono vicine. Vede piastre sulle loro uniformi, occhi spenti, fucili che puntano. Polonia sobbalza e sobbalza anche Toris sulla sua spalla.

“Scappa!” urla alle due, ancora cieche, ancora sorde.

Vede un braccio alzato, qualcuno dalla nicchia delle ombre ha fatto un segnale. Qualcuno pare annuire. Un’ombra o due si staccano dal garbuglio di petrolio. Vede fucili alzati. Polonia si sente incastrato in una realtà in cui non ha diritto di parola, ma si sente ugualmente disperato.

“Sono dietro di voi!” urla con più forza. Si trascina dietro un passo, le palpebre svanite. Le due non lo sentono. Polonia ricorda le sue ciglia lunghe e come Darek la prese in braccio per baciarla. Guizza ancora l’occhio: i fucili si alzano e puntano verso le due. Polonia ricorda che sono innocenti, che non hanno fatto alcun male ad altri popoli o ad altri stati. Ricorda un pranzo e una casetta in campagna. Ricorda una famiglia e dei bambini. Polonia si sbilancia e Toris spicca il volo per non cadere.

Dorota!!!

Polonia vede la canna di tanti fucili illuminarsi e sputare i loro proiettili. Gli occhi innocenti di Dorota s’illuminano di dolore. Il muro di piombo le si getta addosso come per farla cadere. Il corpo le si scuote, la carne si apre, la schiena tossisce rigagnoli di cremisi e corvino. Le pupille le si restringono, come teste di spilli. Una pallottola, carogna, le si getta alla testa. La trafigge e spezza la carne del cervello. Apre la testa come si apre una noce. Ritorna fuori come una lama di coltello. Spezza di due Dorota e fa saltare la carne del naso. Polonia ha la mascella spalancata, incapace di tornare a sfiorarsi coi denti. Il proiettile cade da qualche parte vicino a lui. Sente gelo e un cuore ingrossato di orrore. Il corpo della donna si è scosso, ma non è caduto. L’occhio di Dorota ritorna grande come prima, dimenticato il dolore. Le labbra schiuse, una cascatella vermiglia che le cade dalla bocca e le gocciola al grembo, sui vestiti della figlia. Un buco in mezzo alla testa e della carne rimasta ancora ancorata al naso, ma penzolante dal suo posto originario. Polonia non vorrebbe, ma guarda. Oltre il buco vede il percorso della pallottola. Vede bruciato, carne ancora mobile, che ondeggia con un braccio ancora impigliato nella pelle della donna. Polonia sente lo stomaco irrigidirsi e un conato di disgusto e terrore salirgli fino alla gola.

I piedi dimenticano come fare passi all’indietro e inciampano negli scalini dell’altare. Sente il bisogno di urlare, ma non ci riesce. Lo sguardo è ancora rapito da quello di Dorota e dalla sua testa spaccata. La guarda negli occhi e lei guarda negli occhi lui. Polonia si sente trafitto da lei. Sente la sensazione di avere una colpa. Sente che lei lo stia accusando. Il cuore impazzisce, lo stomaco sta per collassare. Vede le stesse ombre e vede le loro medaglie. Vede in un abbaglio quel doppio fulmine. Sente nausea, sente di non riuscire ad alzarsi.

Su Klara gocciola il sangue della madre. Le si stringe, impaurita dai rumori e dagli spari. Piange e si agita: la mamma non risponde, non è più calda e non la sta abbracciando. Polonia vede le guanciotte rosse della piccola, i suoi capelli sporchi di sudore e gocce rossicce. Piange con più enfasi, i suoi gemiti riempiono soli l’arcata della chiesa. Il polacco vede nuovo movimento: un tedesco si è staccato dal gruppo e osserva con freddezza la piccola piangente. Il ragazzo si scuote e ricorda di nuovo di avere terrore. L’uomo vede la piccola Klara e a Polonia parte un grido di allarme nelle orecchie. Non devono vederla, non devono farle del male.

Lo stesso tedesco tocca la piccina, la tiene in braccio. Vede capelli biondi e quel poco anche degli occhi azzurri. Polonia e Klara sobbalzano insieme, terrorizzati, non comprendendo. L’uomo non guarda nemmeno quel che rimane di Dorota e si richiude nella cerchia. Klara urla aiuto e la mamma. Polonia sente che le sta chiedendo soccorso.

“No…” con lo stomaco in subbuglio, prova ad alzarsi. Sente lo sguardo di rimprovero di Dorota su di sé e si sente ancor più colpevole. Klara si agita tra le braccia sconosciute del tedesco. Il suo faccino si contrae nella più grande disperazione. Il gruppo nero si avvia, silenzioso, coi tacchi leggeri, senza nemmeno l’eco degli stivali. La bambina piange e piange. Polonia si tira sui piedi e sente di dover fermare tutto questo.

“Fermatevi!” poggia i passi sulla navata e scatta verso l’uscita. Veloci, i tedeschi raggiungono l’uscita spalancata. Polonia corre, il suo stomaco bestemmia e il cuore supplica di essere più veloce. Klara alza lo sguardo oltre la spalla dell’uomo. Guarda dove ora c’è il biondino e agita una manina, come nel volere che qualcuno la afferrasse per portarla via dallo sconosciuto. Polonia vede lei che lo supplica di aiutarla, Klara guarda la mamma seduta laggiù che non si alza per venirla a prendere. La boccuccia si spalanca e urla. Le lacrime riscaldano il suo volto e implora aiuto.

Klara!!!” urla Polonia, alzando anche lui la mano, per afferrarne la piccina e morbida della bambina. Le figure inespressive scompaiono, la piccola Klara diventa carta bianca. Polonia precipita nel bianco cartaceo e le lacrime salgono ai suoi occhi come la disperazione aveva preso Klara nell’urlare la sua angoscia.

 

 

 

 

 

Ewa non si è mai dimostrata perennemente gentile. Non è del suo io aiutare chi non conosce o chi anche conosce per poco meno di tre anni. Non fa parte del suo carattere e comunque non ama le persone come ha amato Wladymir, anche se goffo e timido.

Ewa aveva conosciuto Wladymir già da quando era ragazza. Era in una classe con solo due ragazze, lei inclusa. Era in una classe piuttosto fredda e affatto amichevole, per essere una classe di liceali. Le stufe quasi prendevano fuoco nella sua classe e le finestre erano sbarrate per il troppo freddo. Lei è sempre stata impeccabile, sempre orgogliosa di sé. Wladymir sempre in ritardo, sempre e perennemente un bambino abbracciato alla gonna della madre. E nascosto dietro l’ombra robusta ed ilare del fratello. Ewa conosceva anche Darek, ma lo detestava. Era immensa la forza d’animo del maggiore rispetto all’altro occhialuto e più schivo. Ewa quand’era ragazza non si curò di quel suo coetaneo disordinato ed ignorato da molti. Dimenticò Wladymir, così come prese il diploma.

Non ha potuto frequentare l’università, anche se diverse ragazze ben più povere di lei potessero farlo. A quale vantaggio, lei non ne aveva idea, ma le rispettava e ammirava la loro cultura. Ewa un tempo non poteva far altro che sedersi sull’erba del suo parco preferito e leggere avidamente. Wladymir era uomo e suo padre poteva farlo studiare. Wladymir non era un uomo di guerra come il fratello. Non era orgoglioso, non era forte. Ewa lo vedeva correre ogni mattina di fronte al parco dove lei di solito si sedeva. Con la strada di fronte a lei e la corteccia della quercia alle sue spalle, si ricordò di quel ragazzo timido che aveva in classe quand’era ragazzo. Darek aveva deciso di entrare nell’esercito e di servire il paese. Wladymir scelse di studiare per essere professore. Lo divenne e la laurea bruciava come un fuoco sacro fra le sue mani.

Si erano guardati negli occhi fra le sbarre del cancello. Lui vide il suo libro e le chiese se fosse storia medioevale polacca. Lei affermò. Lui le si avvicinò e si ricordò di Ewa.

Si sposarono tardi in confronto al fratello di lui, ma il padre Jan la accolse con calore e così anche la dolce cognata e il suo nuovo fratello. Ewa non aveva una vera famiglia, non aveva fratelli. Sua madre morì quand’era bambina, suo padre fu portato via dalla Grande Guerra. Visse coi nonni, che le diedero un’istruzione, ma non molto affetto. Erano troppo addolorati per le due morti per riuscire a dargliene alcuno. Lei non gliene ha mai dato colpa e non li incolpò nemmeno di essersene andati anche loro, pochi mesi prima del suo matrimonio.

Ewa era sempre precisa e puntuale, Wladymir perennemente pauroso e impacciato. Darek era forte e di un’ironia quasi prepotente, Dorota continuamente dolce e di una felicità quasi fanciullesca. Jan era perennemente gentile, anche se con poca memoria. Tymek era come il padre Darek, orgoglioso e desideroso di essere amato e apprezzato, ma era anche come Dorota, affettuoso a suo modo e con la stessa risata della sua giovane cognata. Feliks era simile ad Ewa, anche se non lo immaginava, ma era anche simile al padre, intelligente e schivo. Conosceva poco Klara, ma era una dolce bambina, come la madre.

Ewa ricorda ancora quando si sedevano a tavola la domenica, dopo aver partecipato alla messa. Ricordava le sfuriate tra i due cugini Tymek e Feliks, le occhiate infantili dei due sposi Dorota e Darek, gli sguardi di sconforto che il marito le rivolgeva ad ogni rimprovero, le espressioni ingenue di Jan e i sospiri nel sonno di Klara. Era qualcosa di caotico, ma bellissimo. Lei non ha mai avuto niente del genere. Aveva perso ogni cosa e aveva perso la sua famiglia. Aveva ingenuamente pensato di poter cambiare e così di salvare qualcuno, prima di dare alla luce il secondo figlio di Wladymir. Così si dannò e nascose in casa sua un ebreo, lo stesso che aveva tentato di salvare Dorota con quel poco di psicologia che conosceva.

Prussia si morde il dito sotto al guanto e le gambe gli tremano, non sa se per stizza o per pressione al cranio.

L’aquila nera alla sua spalla vola ora su uno dei sedili e lì poggia gli artigli. Non si muoverà da lì. Il falcone rosso di Polonia saltella sul legno e si avvicina alle gambe del ragazzo. Polonia non si è nemmeno guardato attorno, non pare nemmeno essersi accorto di essere su di un treno spoglio, freddo e con le finestre senza vetri. Buio, nonostante il giorno, marcio, nonostante all’esterno pare essere uno di quei treni in cui di solito viaggiava. Quando l’Europa era in mano sua.

Le mani di Polonia si congiungono nocche con nocche. Ha alzato i pollici e tra le pieghe delle dita vede il legno scuro su cui è accucciato. Prussia non riesce a guardarlo e teme che possa alzargli lo sguardo e fargli qualcosa che nemmeno immagina. Sospira con furia, gli tremano ancora le gambe e il ragazzo è ancora accucciato, con le ginocchia aperte e i gomiti piantati nella carne delle gambe. Toris saltella ancora e gli si avvicina fra le gambe. Là, sotto le mani in preghiera, vede l’occhio spalancato e verde tremare come l’iride di una furiosa e penosa fiera.

“Perché l’avete fatto?” lo sente ringhiare come un cane. Prussia non l’ha mai sentito ringhiare, pensava ingenuamente che non potesse farlo o che non ne fosse in grado. Le gambe per un attimo smettono di tremare. Prussia continua a mordere il dito sotto al guanto, non sentendo dolore, ma solo frustrazione. Essere a due passi dal ragazzo lo disturba, lo disturba come gli disturbava vederlo addormentato nella casa di Austria tra le coperte calde e il cuscino poco lontano dalle sue mani. Le gambe ritornano a tremare e sente più l’occhio severo dell’aquila nera che quello lucido del falcone rosso.

“Non lo so…” decide di guardare Ewa e di sperare di pensare ad altro. L’occhio, dai capelli radi e vecchi, gli si sposta verso la pancia fin troppo gonfia. Gli si para rabbia, frustrazione… vergogna. Una mano gracile e ossuta passa i polpastrelli sul rigonfiamento. La guarda, la donna ha occhi stanchi e spenti. Non aveva quegli occhi quando l’ha vista alla casetta con suo marito e il figlio. Il figlio aveva i suoi occhi e i suoi capelli. Un conato di pentimento gli sale fin sulla gola. Sposta ancora gli occhi. Non vuole sentirsi così male. E le gambe continuano a tremare.

“Era così felici! Erano tipo la famiglia più felice del mondo! Perché li avete uccisi?!” Prussia deglutisce, le gambe gli tremano come se provassero loro stesse vergogna. Guarda il pavimento. Vorrebbe sprofondarci come un verme nel terriccio fertile.

“Non lo so” Polonia si toglie le mani dagli occhi, quasi strusciandole addosso alla pelle. Ignora tutta la gente seduta sui sedili, ignora i loro vestiti logori e quello strano simbolo giallo cucito sui loro cappotti. Ignora anche Toris che, come nulla fosse, viene scacciato con una mano. Polonia ha rabbia, frustrazione per non poter fare nulla… vergogna per non essere riuscito a fare nulla. Pensa ancora a Dorota e a come lo guardava con sguardo colpevole anche da morta. Agita i gomiti come un bambino capriccioso.

“Perché Germania ha fatto tutto questo?!” Prussia sente come una lamina di ghiaccio scivolargli sotto la divisa. Sente sollievo e ben più turbamento di quanto ne sentiva quando ha visto il rigonfio del ventre di Ewa. L’aquila nera, ben lontana, eppure vigile, volta veloce la testa. Prussia finge di non aver notato lo scatto veloce e nemmeno la tensione degli occhi cerulei su di sé. Lo guarda con rabbia, disgusto… vergogna “Perché tuo fratello ha ucciso il mio popolo?!”

“Non lo so!” esce un urlo spaventosamente acuto “Cristo, Polonia, non lo so!” abbassa la voce, si copre la bocca “Non lo so…” e parte di sé vorrebbe rispondergli, così come un’altra parte di sé si sente ben più che colpevole. Si sente come se avesse chiesto perché lui abbia fatto una cosa del genere. Prussia non ha energia per rispondere e ha troppa confusione dentro di sé per poter rispondergli. Ricorda quando West si svegliava la mattina e lavorava, nonostante la febbre e il sudore che gli colava come sangue da una ferita. Ricorda quando era ora di cena e suo fratello non rientrava ancora dal lavoro. Ricorda quando lo cercava la sera e lo trovava addormentato alla scrivania, con la fronte sudata e bollente, e coi debiti che aumentavano come vermi su di un corpo morto. Questo per pochi marchi alla settimana. Non poteva lasciare che una cosa del genere accadesse a West, che ama quasi più di se stesso.

Rumore di spari, vetri fracassati. Prussia volta lo sguardo dietro di sé solo per un secondo e pare che abbia fatto passare almeno mezz’ora. Vede un proiettile entrare da una finestra e con una lentezza assillante entrare nella tempia di una signora. Quella ha lo sguardo esausto e per un attimo prende vita. Sbarra le iridi grigiastre e orribili. Le rughe sulla sua fronte si tendono e scompaiono, quelle sotto gli occhi si stendono, quelle agli zigomi si spezzettano. La testa segue il proiettile e il corpo segue la testa. Vede le sue guance grasse scontrarsi sul legno polveroso. Le iridi sbarrate e la bocca contratta. A Prussia involontariamente gli ricorda una di quelle scrofe che si appendono ai ganci per essere tagliate e farne salsicce.

Polonia si alza e per lui è passata poco più di un ora. Confuso, consapevole di vedere altro sangue, vede solo confusione di donne e uomini scaraventati fra di loro. Si volta indietro e vede Ewa cadere di schiena. La vede sbattere per terra. La gente si agita e chi non riesce a ripararsi si sdraia per terra. Chi muore prende altre pallottole dai finestrini: i corpi non cadono per terra e nessuno vuole smuoverli dai loro posti. Qualcuno nel panico si alza e prova a scappare verso il portellone di uscita. Ewa striscia sul pavimento: il treno si muove a passo d’uomo. Qualcuno è impazzito, qualcuno ha ancora forza di urlare e di agitarsi. Una donna, con la faccia contratta come quella di un ratto preso per la coda, calpesta nel terrore il grembo di Ewa. Entrambe contraggono il volto: Ewa ha dolore e rapido terrore, la donna è stata colpita e l’occhio le sanguina come esploso nel cranio. Cade calpestandosi il tallone e sbatte anche lei la schiena sul legno. La sua testa sbatte tra le dita di Polonia. Le vede la lingua penzolare dalla mascella e muoversi fra i denti con spasmi, come un pesce appena pescato e gettato sulla terra ferma. Polonia alza con fatica lo sguardo. Ewa si tiene il grembo con le braccia. Perde il bambino, pensa, sta per morire!

“Dobbiamo fare qualcosa!” urla e la voce pare più decisa della sua mente confusa. Prussia sente prima gli schiamazzi degli ebrei, tenta disperatamente di dimenticare la donna scrofa, e solo ora sente Polonia.

“Cosa?”

“Dobbiamo aiutarla!” urla, cercando con lo sguardo qualcuno che abbia visto Ewa, il suo grembo e il suo contorcersi per terra con disperazione. Nessuno vede o ha visto Ewa, nessuno pare interessarsi di lei. Polonia guarda e getta sguardi più disperati di quelli della donna per terra. Nessuno l’aiuterà, così come nessuno ha salvato Darek dalla fucilazione, Tymek dallo sparo allo stomaco, Jan dalla spinta su per la collina, Feliks dal bombardamento in pieno giorno della sua scuola, Wladimir dagli spari e Dorota e Klara dai tedeschi. Nessuno salverà nemmeno lei, la lasceranno morire come se fosse poco più di una cagna.

Polonia ha occhi brillanti come gemme. Toris incontra i suoi occhi, le sue sopracciglia cadenti, la sua mandibola serrata, i suoi denti bianchi e sporgenti dalle labbra. Toris lo guarda come lo guardava tacito nel bianco della carta. Polonia poggia le mani sul legno del sedile dove ora ha poggiato gli artigli. Toris lo guarda e aspetta soltanto che parli “Toris, ti prego, salviamola!” gli supplica, così come gli ha supplicato di vedere per la seconda volta il suo amico “Ti prego, Toris, dobbiamo fare qualcosa, non possiamo lasciarla morire!” il falcone acconsente, alza l’ala e si strappa quattro piume rosse e nere.

Ewa sente liquido denso e bollente fra le gambe, sotto la sua gonna. Il pancione pare agitarsi e tremare dentro di sé. Respirare le toglie il respiro più che dargliene: la schiena è bloccata sul pavimento e la pancia è troppo pesante per alzarla ed abbassarla coi polmoni. Si sente soffocare dal suo stesso grembo. Le mani le stanno iniziando a tremare. Sente poche urla, solo un gemito di bambino lontano da lei. Gli spari hanno smesso e distingue le ruote del treno cigolare con più velocità. Una fitta la prende come una pugnalata: il bambino si agita, il punto dove quella donna l’ha pestata fa male. Sente un livido nascere lì. Brucia come carbone. Un’altra fitta, un altro respiro faticoso.

“Signora, l’aiuto io!” sente ginocchia cadere e strusciare. Alza lo sguardo e incrocia i suoi occhi con quelli di un ragazzo “Come si sente? Dove le fa male?”    Ewa deglutisce, con tanta fatica tira un respiro. Sente di star per piangere.

“Sta per nascere…”

“Come?”

“Sto per partorire!” il ragazzo sussulta. Inizia a tremare come se avesse i piedi incastrati nel ghiaccio.

“N-Non si preoccupi. Io… io…” deglutisce e trema ancora. E’ terrorizzato quasi quanto lei, si rende conto. È comunque grata che qualcuno stia cercando di aiutarla “Io ho… ho cinque fratelli, so come aiutarla!” Ewa non riesce più a tenere gli occhi aperti e non si cura se il ragazzo abbia detto la verità. Sa solo che la pancia le fa male e che il bambino si agita e scalcia. Un’altra fitta, le gira la testa. Sente ancora il piede della donna sul suo grembo “Respiri, respiri!”

Sente in lontananza i passi pesanti e selvaggi di Prussia. Se n’è andato. Polonia respira un altro sorso d’aria fredda e stende sulle guance un sorriso tremule. Prussia salta e sorpassa il vagone e si ritrova in un altro. Dimentica la sua abitudine di guardarsi le spalle. Sente le spalle deboli e malate quando si lascia cadere per terra, in un angolino della vettura. Si poggia le mani sugli occhi e le spinge. Non vuole piangere, non vuole sentirsi così pesante. Non vuole sentirsi così nauseato. Gli sfugge un gemito, ha dimenticato di pressare anche la bocca. Sente lievi affanni nel vagone al di la del suo. Quella donna lo sta uccidendo anche senza vederla. Guardarle il grembo gli ha contratto lo stomaco e fatto salire le lacrime. Si toglie le mani dal volto. È inutile, piange comunque come un bambino. Geme ancora e si sente disgustato. L’aquila nera l’ha seguito e lo guarda senza batter ciglio. Prussia lo disgusta anch’ella “Perché mi fai vedere tutto questo? Perché non mi butti all’Inferno e la facciamo finita?!” l’aquila continua a fissarlo, caduta ai suoi piedi.

Prussia s’infuria e col guanto si strappa via le lacrime. Alza lo sguardo e vede affianco all’uccello una mano bianca. Prussia sente gli occhi contrarsi. Si alza e si guarda attorno. Il vagone pare sputare rosso e carne. Vede schizzi vermigli sul legno dei sedili e su vestiti di donne e uomini senza volto. Il naso gli si contrae anch’ello e lo sguardo gli cade sulla mano che ha visto prima. Segue il polso grigio, il gomito scheggiato, la manica del cappotto. Vede guance tonde di bambina e boccoli biondi intrecciati sulle spalle. Vede una giovinetta non più bambina, ma nemmeno donna, accasciata al pavimento e con gli occhi incrinati come se capovolti nell’orbita. Vede quasi bianco nelle sue pupille. Prussia non si scuote nemmeno. Col volto incrinato malamente, si sente come svuotato e più leggero. Come frammento di quel paesaggio vermiglio ed invernale, come se ormai fosse freddo a tal punto da non sentire più nulla. L’occhio gli cade ancora e vede la tempia fratturata della ragazzina che il volto è riuscito a nascondergli. Le orecchie lo colgono di sorpresa e sente in lontananza un urlo di dolore e sollievo. Prussia sbatte le palpebre e due scie di lacrime si trascinano sulle sue guance.

Polonia deglutisce e sospira. Arraffa nella sua uniforme il nastro e la coroncina che aveva trovato in questo viaggio. Le infila nella tasca dei pantaloni e incomincia a togliersi mantello e giubba. Rimane con una maglia bianca a maniche corte, ma il freddo nemmeno lo sfiora. Si sente troppo commosso e provato per farsi scalfire dal freddo. Ewa è distrutta, come svuotata di tutta la forza che aveva in corpo. A malapena vede il ragazzo che l’ha aiutata, troppo pressata, troppo sfocata la sua figura. Polonia si toglie parte della sua uniforme, ma Ewa vede un ragazzo che si sta togliendo il cappotto pesante e malconcio. Polonia rimane a maniche corte, ma Ewa vede una camicia bianca troppo leggera per lui. Il ragazzo arrotola il cappotto attorno alla creatura che ha partorito. Quella si agita e scalcia. Geme e piange. Si muove come qualcosa di non umano e per Ewa è incredibile. Infagottata e calmata, la creatura si ferma, rossiccia e umida. Il ragazzo trema e tira su il naso.

“E’…” lo sente deglutire. Quasi non respira più “E’ una femminuccia” Ewa chiude gli occhi, non ha la forza per realizzare una cosa del genere. Si sente mancare, forse svenire. È solo un attimo, ora sta bene. Però il pavimento è congelato e sente spifferi lungo le cosce. Si sente umida e vuota come un guscio spaccato di un uovo. Vede il ragazzo stringere la bambina al petto. Sente di nuovo tirare il naso, non sa se stia piangendo “Come… come la chiamerete?” Ewa rimane ferma ai suoi pensieri, come non realizzando o realizzando a metà. Deglutisce aria delle guance e guarda ancora il ragazzo.

“Magda…” si perde nei pensieri, ormai senza forma “Come…” sospira “…come vuoi tu, Feliks” sente di essere confusa e di confondere. Polonia ha capelli lunghi e biondi, ma Ewa vede capelli corti, tagliati malamente e bruni. Lo guarda negli occhi profondi e verdi, immutati dalle piume rosse, e ci si perde. La creatura in braccio al ragazzo pare scuotersi per qualcosa e continua a gemere. Polonia, confuso e consapevole, guarda Ewa e lei guarda lui. Capisce qualcosa che non vorrebbe capire.

“Signora?” le tende la mano sulla mano bianca di lei. La scuote e così si scuote tutto il suo corpo. Ewa continua a fissarlo o fissa un punto lontano che lui non riesce a vedere. Polonia non sente disperazione, ma tormento. La scuote ancora e pare voler scuotere tutto il vagone “Ewa, svegliati!” non si muove “Svegliati, forza, svegliati!” non sente lacrime sulle sue guance, ma è come se le avesse. Si muove troppo col polso, la bambina in braccio a lui sente di star per cadere e piange, avvisando del pericolo. Polonia l’afferra lasciando la madre. La bambina, anche se rasserenata, comunque piange ancora, cieca e bisognosa di attenzioni, con la pelle contratta come il muso di una scimmia. Polonia si scuote e la culla, facendo andare avanti e indietro i gomiti come una zattera in mezzo alla tempesta. Invano, quella piange con più preoccupazione.

Polonia non sa più che fare e si volta all’indietro, chiedendo aiuto con gli occhi. Prussia nemmeno lo guarda. Fissa Ewa, morta per la fatica sul pavimento di un treno per rifugiati ed esuli, e non riesce a far altro. Ascolta i lamenti di Magda e le suppliche di Polonia, ma non ci presta attenzione, come musica di sottofondo ad una scena teatrale agghiacciante.

 

 

 

 

 

Magda dorme tranquilla infagottata nella divisa di Polonia. Altro non ha trovato per vestirla. Alla fine ha dovuto lasciarla così, sporca ed appiccicosa. Crede che in quel treno non ci sia effettivamente qualcosa per accudire una neonata.

Magda sonnecchia. Le guanciotte tonde e ancora rosse per lo sforzo mostrano vene violette sotto la pelle. La tempia ne ha altre, ramificate come fili di ragnatele, verdi e viola. La testa calva e bollente. Polonia si meraviglia che possa tenerla in braccio e stringerla. Sentire il suo cuoricino sotto la giacca della sua divisa, il suo respiro quieto, il suo fagotto bollente. Sente sotto di sé il treno avanzare nella neve, i sedili urtare con la sua schiena debole, la neve che timidamente entra dentro i finestrini spaccati dalle pallottole. Si chiede ancora perché qualcuno debba sparare ad un treno.

Polonia fissa la piccina e le sembra diversa dalle migliaia di neonate che abbia visto in vita sua. Si chiede se riuscirà a trovare un ricambio per lei, una bacinella e dell’acqua calda per lavarla, del latte per nutrirla. Se Ewa fosse ancora viva avrebbe potuto allattarla. Magda borbotta nel sonno. Stira le labbra e le lascia socchiuse. Polonia prende la manica della giacca in cui è avvolta e gliela stringe meglio al busto. Magda incrocia le sopracciglia e borbotta ancora. Il ragazzo sorride impacciato. La trova adorabile.

“Non è totalmente dolce, vero?” chiede a Prussia, alzando lo sguardo sul sedile di fronte a sé. Prussia non si è mosso da lì da quando Ewa gli ha lasciato la bambina. L’uomo sente la domanda, ma è come se non l’avesse sentita. Rimane ancora pensante e teso, col gomito addossato alla coscia e la mano imbrigliata nella bocca e nelle guance. Ha qualcosa di mortificante, Prussia. Il teso sospira fra i denti, abbandona la mano dal volto e guarda Magda fra le braccia di Polonia. La guarda come un uomo guarda un oggettino rotto trovato tra le mani del figlioletto. Magda per Prussia è insignificante e allo stesso tempo la cosa più dolorosa che abbia visto fino ad ora.

“E’ una bambina e basta, Polonia” risponde scoraggiato e depresso. Per Polonia è noia e affaticamento, per questo sbuffa e rimane zitto con la piccola. Non è una sua bambina, per questo non gli importa di lei, immagina. Ma qualcosa gli dà fastidio e gli turba di Prussia. Lo vede teso, freddo, isolato. Ha qualcosa di rabbioso che non comprende. Il ragazzo sbatte più volte le palpebre e mostra alta la testa.

“Cioè, perché non ti interessa di lei? La madre è tipo morta qui poche ore fa e nemmeno ti importa?” Prussia non sente ancora e continua a rimanere fermo e pensoso. E freddo e sottomesso come un cane di fronte al bastone. Guarda fisso l’aquila nera gettata lì nello spigolo del vagone con occhi eloquenti e minacciosi. È colpa tua, gli dice, guardandolo fisso. È la tua colpa e così la paghi, dice ancora. Per Polonia questa è indifferenza. Per un attimo la piccina gli pare bollente come un secondo cuore “Ma che ti prende, Prussia?”

“Sta’ zitto! Non mi interessa e basta!” Prussia sente tormento nella sua voce, se ne vergogna e poggia ancora il guanto sulla mano, come per parare altre parole velenose e disdicevoli. Il tacco dello stivale si muove ritmico sul legno e sfoga la sua ira sulla gamba. Polonia vede la stessa cosa che ha visto di se stesso il prussiano e rimane comunque interdetto. Guarda un attimo la piccola Magda, ancora tranquilla nel giaciglio sporco, e guarda verso l’interlocutore.

“Ma che hai?” il tacco di Prussia ha spasmi meno violenti. Polonia capisce che non è il solito prussiano “Stai bene?” la mano guantata cade ancora dal mento. Deglutisce, gli si stanno appannando gli occhi “A che pensi?” chiede il ragazzo, abbastanza preoccupato.

“Penso…” Penso che farà la fine della madre, del padre, del fratello e di tutti gli altri della sua famiglia, pensa Prussia, attraverso i suoi occhi di rubino fuso. Penso che tu abbia fatto una cosa completamente inutile. Penso che morirà, così come sono morti tutti in questo cazzo di paese. Penso che non dovresti fare quella faccia da ragazzina ogni volta che uno di loro muore! “Penso che dovresti lasciarla qui”

“Uh?!” storce le palpebre Polonia. Prussia nemmeno guarda la bambina. Odia l’espressione del biondo, come se non capisse nulla. Non può essere così scemo!, pensa il comandante.

“Credimi, è meglio così: qualcuno la troverà e potrà darle da mangiare e tirarla su meglio di come stai facendo tu ora” Polonia lo guarda come se gli avesse detto di buttare la piccina fuori dalla finestra, nella neve, ora che il treno si è fermato. Lo legge negli occhi: non vuole e non accetterà mai. Prussia non vuole che veda un’altra morte, proprio di questa bambina, nata di fronte ai suoi occhi. Senza che abbia nemmeno un giorno di vita. Si sente trascinare il petto e spezzare in due. Polonia non lo capisce e lo guarda come se avesse chiesto di sparare alla piccina.

“Uscite subito! Abbandonate tutti i bagagli e scendete!” urla qualcuno con un accento marcato e un ringhio nella voce. Prussia si sente in pericolo. Trema e respira con difficoltà. Polonia non vuole abbandonare Magda ed è ancora ingenuo. Si alza cautamente. Controlla se la piccola si sia svegliata e cammina verso l’uscita del treno.

Prussia rimane immobile e lo guarda incredulo mentre esce dal treno, come se fosse su di una carrozza di prima classe ad una destinazione che conosce.

 

 

 

 

 

Sente puzza di gomma e grasso bruciati nell’aria.

Polonia è sollevato e confuso del fatto che tutti lo possano vedere, ma che non lo facciano. Si sente una sardina all’interno di una scatola con altre sardine, schiacciato contro altri cappotti e corpi umani. Tiene in alto Magda, per farla respirare. La piccina continua a dormire, forse non accorgendosi nemmeno di quello che stia accadendo attorno a loro. Polonia alza lo sguardo in alto. Il cielo triste e nevoso sulla sua testa non lo tocca nemmeno. Le guanciotte rosse di Magda sembrano mele lucide. Polonia poggia un braccio sotto di lei e la alza un po’ di più. Si sente soffocare, come se cento occhi gli stiano incollati al cranio, come quando è agitato nel vedere troppi stranieri.

La folla sembra aprirsi un po’ di fronte a sé. Un po’ d’aria fredda, un po’ di libertà. L’uomo che prima gli si schiacciava contro il petto si è allontanato da lui e cammina come uno zoppo, senza nemmeno mostrarsi. Polonia deglutisce. Guarda avanti, dove un piccolo spiazzo di neve gli si apre davanti al naso. Si rende conto di essere in una conca, dove all’infuori si trova una scrivania e due uomini in uniforme nera come la notte e lucida come l’acciaio. Polonia sente le ginocchia tremare e forse anche Magda le sente, svegliata ed imbronciata. Quei due lo guardano. Due estranei lo stanno guardando.

“Il prossimo” dice uno dei due, guardandolo fisso. Polonia si sente calpestare dai suoi occhi inespressivi e immagina che debba avvicinarsi. Le ginocchia tremano ancora mentre trascinano i piedi fino ai due in uniforme. Alza lo sguardo, il secondo uomo, quello che non gli ha ancora parlato, lo osserva come se fosse un qualche disgustoso e bizzarro insetto. Il collo gli cade e abbassa la testa, intimorito. Un briciolo di neve cade sul nero dell’uniforme. Polonia aguzza impacciato l’occhio. Lo stesso simbolo a forma di fulmine si piazza sul colletto della giacca. La doppia S s’impenna anche alla sinistra dell’uomo, dove pompa un cuore sterile.

“Quanti anni hai?” chiede l’altro, senza alcun accento nella voce. Polonia immagina che gli possano chiedere dei documenti che non possiede. L’idea di non poter fare qualcosa per i due stranieri gli fa tremare le ginocchia. Con lo sguardo basso, deglutendo, trema. Immagina un’età qualsiasi per se stesso.

“Se-Sedici…” mormora, spaventato. Si chiede cosa potrebbe fare nel caso gli chiedessero un nome che non riuscirà ad inventare. Le ginocchia cozzano ancora fra di loro. Alza con paura lo sguardo, come se i due cani potessero alzarsi dal tavolo e sbranarlo subito, importandogli per nulla di essere una nazione immortale. L’altro, quello con il simbolo sull’uniforme, pare trafiggere la piccola Magda tra le sue braccia.

“E lei chi è?” chiede lui. Polonia sussulta: la sua voce era rude, tagliente, cattiva. Deglutisce, inventandosi qualcosa che non immaginerebbe mai.

“E’… è mia sorella” i due non tolgono gli occhi da Magda, ancora accucciata nella sua uniforme. Si chiede cosa possano vedere in lei e perché la osservino così tanto. Immagina che dei neonati non dovrebbero stare lì. Terrorizzato, si chiede se la porteranno via da lui. Si chiede se dovrà fare la fine di Klara e lui della madre Dorota. Quest’immagine lo fa tremare con più forza. I due continuano a mormorare qualcosa fra di loro. Guardano Magda, il suo faccino rossiccio. Guardano anche lui, le sue spalle magre e le sue braccia deboli. Questa cosa lo terrorizza. Il secondo gli rivolge lo sguardo. Alza il braccio e lo punta alla sua sinistra.

“Andrai a sinistra” Polonia non se lo fa ripetere due volte. Le ginocchia smettono di tremare e iniziano a correre nella direzione indicata. Alza lo sguardo e finalmente lo vede. Guarda più in alto e nota attorno a lui reti e filo spinato sopra la sua testa, attorcigliato sulle reti. Volta lo sguardo dietro di lui e vede una marea di carne, di giacconi invernali e di sguardi vacui dopo un lungo e tormentoso viaggio. Polonia è basso e non riesce a vedere la fine di quell’ammasso di sconosciuti e di nuvole grigie. Continua a camminare, impacciato e volenteroso di fuggire da questo posto.

“Il prossimo” urlano i due uomini dietro di lui. Polonia sobbalza, insieme al corpicino di Magda e il suo passo diventa corsa.

 

 

 

Questa grande stanza lo fa sentire più al sicuro, lontano dall’ammasso di corpi e sguardi sconosciuti. È grande, buia, senza occhi. Si sente protetto al buio, lontano dalle finestre. Quand’era entrato aveva sussultato: altre persone che non conosce e che si ammasseranno contro di lui come fiammiferi in una scatola troppo stretta. Entrato, coperto dall’oscurità, si era calmato: sono solo bambini e forse qualche ragazzo come lui. I bambini non giudicano e non potranno mai fargli del male, per questo ora non trema. Dei passi pesanti rimbombano nella stanza. Polonia sussulta e alza lo sguardo come se ne dipendesse la sua vita. Qualcuno dietro di lui se ne lamenta e geme, ma non gli importa.

La puzza di grasso fuso è disgustosa.

“        Zitti, giudei!” Polonia impallidisce per la voce aggressiva “Ai bagni, presto!” urla la donna, ben lontana da lei, ma chiara come se gli avesse urlato in un orecchio. Magda riapre gli occhi, ceca per il buio e paonazza per la sorpresa. Polonia la culla quasi con disperazione. Non vuole che pianga, che attiri l’attenzione su di loro e che magari li possa accadere qualcosa di orribile.      L       a piccina non ha mai voluto aprire la boccuccia, ma non richiude gli occhi, insospettita e curiosa. Polonia vede movimento e corpi molto più piccoli di lui spingersi tra di loro, verso la donna che prima ha urlato. Polonia sente le ginocchia sbattersi ancora fra loro e incomincia a camminare.

La donna ha un che di terribile, vista la faccia da lontano. Non è vecchia, non è giovane, ma è terribile ugualmente. La sua carnagione non sembra avere un vero colore, forse sporca, forse semplicemente ambigua. La faccia contratta e gli occhi sporgenti la fanno sembrare ad un qualche felino abbandonato nelle foreste siberiane. Una qualche tigre feroce, vestita pulita, a righe come una carcerata, con gli stivali di cuoio pesante, e il seno rigido ad ogni passo che compie. Polonia vede teste alte quanto lui e anche più. Non vede in faccia i ragazzi, ma immagina gli occhi addossati su di sé e allora rinuncia di avvicinarsi. Vede le scale che scendono verso il basso. Un brivido di terrore raschia in due la spina dorsale.

“Svestitevi ed entrate nelle docce!” urla infuriata la donna. Polonia si guarda attorno. È veramente uno spogliatoio di una doccia comune. Vede le panche, i ganci per i vestiti e le scarpe. I bambini e i ragazzi si sparpagliano per la stanza gigantesca. C’è qualche anziano in questo gruppo, nota, con la pelle screpolata e chiazze grigie e gialle. Polonia rimane bloccato sul suo posto. Non vuole spogliarsi, farsi vedere nudo di fronte a così tanti sconosciuti. Non vuole essere lì. Indietreggia e sbatte la schiena contro qualcuno di alto e robusto. Si volta terrorizzato. La donna abbassa il mento contro la sua testa. Sente il suo alito e vede i suoi denti sporchi e cariati.

“Non hai sentito?! Spogliati!” la voce aggressiva lo attanaglia e lo fa scappare, come un’onda d’urto che lo trascina e lo fa sbattere contro muri e scarpe. Si stanno tutti già svestendo. Polonia cade sulla prima panca vuota che trova. Si guarda attorno, trema il suo sguardo così come trema il suo petto. Non vuole svestirsi. Alza lo sguardo, incontra con gli occhi ancora la donna di prima. È infuriata, glielo legge in faccia. Un riflesso involontario lo fa agire. La immagina scattante verso di lui, col pugno massiccio incastrato alla sua faccia. Teme che possa picchiarlo. Si toglie i guanti, la maglia rimastagli, gli stivali, i pantaloni. Si guarda le mutande e tentenna. Gli sale la vergogna e la consapevolezza di essere nudo come un verme. Non vuole entrare in quella porta ed essere schiacciato da altri corpi. Con angosciante lentezza si toglie i calzini. Ha freddo, trema. Magda lo osserva incantata e sciocca, calma e paziente. Per un attimo si vergogna anche di farsi vedere in questo stato da lei.

“Tu!” urla ancora quella. Polonia sobbalza, vedendo ancora i suoi occhi su di lui “Muoviti, bastardo!” colpito e terrorizzato, si abbassa anche le mutande “Togli gli stracci anche al bambino!” Polonia ubbidisce, svelto. Anche Magda è nuda e con la pelle più bollente del carbone. Se la stringe al collo. La piccola continua a non comprendere nulla, apre la boccuccia e inizia a succhiare la pelle bianca del ragazzo. A lui non importa. Sente la sua faccia contrarre e le guance arrossire per il disagio. Alza gli occhi lacrimevoli. Tutti i ragazzi e i bambini sembrano larve bianche che strascicano i piedi verso la porta delle docce. Magda continua a succhiare la sua pelle, concentrata, come se per lei fosse un traguardo importante. Polonia non immagina nemmeno la bava che ha sulla spalla. Nasconde il viso nel pancino sodo della piccola e tira su il naso. Alza le ginocchia al petto. Si vergogna, come un condannato si vergogna dei suoi peccati.

“Entrate, svelti!” si sente spingere dentro, sbattere contro altra pelle. Magda scivola dalla sua spalla. Geme arrabbiata, inizia a piangere, pretendendo la sua vecchia posizione. Polonia la alza e la poggia ancora al suo collo. Lei smette di lamentarsi, rasserenata. Col braccino grassoccio si issa fino alla sua spalla. Poggia le labbra umide sulla sua pelle e ispeziona la pelle dell’osso. Succhia come una spugna, trovato il suo vecchio segno. Polonia sente la lingua solleticargli la carnagione pallida e immagina delle bollicine di saliva scoppiare vicino alle labbra di Magda. Immagina che abbia fame, per questo fa così.

Guarda il nuovo mare di figure in cui è stato imprigionato. S’incastra fra dei bambini e prega che nessuno lo guardi. A Magda non sembra importarsene, per questo continua a succhiare con più avidità. Non appena usciremo da qui, pensa Polonia, dovrò trovarle del latte caldo e una coperta nuova. Cioè, subito dopo aver trovato i miei vestiti. Ricorda, arrossito ancora per la vergogna. Vede il pesante portone di metallo chiudersi. Sente la serratura serrarsi per tre volte. E poi il silenzio. Polonia guarda in alto e altri occhi fanno lo stesso, stancati di ogni cosa, ora tante sue ombre. Vede acciaio lucido ben al di sopra di lui e cilindri dove l’acqua dovrebbe scendere. Si tranquillizza, immagina di non essere lì, in mezzo a tanti sconosciuti. S’immagina in un posto desolato, forse di nuovo nel bianco immacolato e cartaceo insieme a Toris e a nessun altro. Prima che arrivasse Prussia e la fotografia. Prima della lancia, della copertina, della coroncina e del nastro di Liet. Ricorda Liet e come lo abbracciava nel letto della sua stanza, nel castello. Sente lo stesso calore al cuore. Si sente molto più rilassato. Sobbalza: Magda stringe la sua pelle con le gengive. Gli fa un lieve solletico. Andrà tutto bene, pensa, Magda vivrà e avrà una nuova famiglia. Respira una buona boccata d’aria. Andrà tutto benissimo. E cala il buio.

Polonia spalanca ora le palpebre, arrivato una profonda oscurità. Mormorii indistinti, corpi che si muovono fra loro, confusione ed agitazione. Hanno spento le luci. La stanza è gigantesca, senza finestre, senza altra via d’uscita se non la porta di fronte a sé. Polonia perde il coraggio. Ferma i tremiti e li converte in scatti. Vede la porta blindata, a pochi metri da sé, con un’unica finestrella cupa. Sente il cuore scalpitargli per la paura. I mormorii diventano chiacchierii di panico. La sua paura aumenta. Il tempo passa, le luci non si accendono. Non capisce.

Una goccia d’acqua gli cade in testa, fra i capelli. Un brivido freddo lo congela. Sente altre gocce, tante altre. L’acqua è poca, veramente poca per una doccia, per così tante persone. Cadono come un ritornello scoordinato, le goccioline. Tintinnano anche sulla sua pelle e scendono sulla sua schiena. Polonia sente le gocce bollenti prudere sulla sua pelle, anche lì dove Magda aveva succhiato. La piccola geme, poi piange e scalcia. Polonia la trattiene al petto. Lei continua, calciando l’aria, ribellandosi. Le gocce aumentano, strisciano sulla sua spina dorsale. Pizzicano la sua pelle, la bruciano, la squarciano. Ora sente bruciore di punture di api e sfregi di ortiche. Sente urla e confusione nella stanza. Sente spingere e gemiti. Magda urla anche lei, Polonia è rigido come un pezzo di legno. L’aria puzza, si espande qualcosa sulle loro teste.

“Il gas!”

Gas? Polonia si risveglia. Magda smette di scalciare, urla come urlava contro di lui la donna negli spogliatoi. Annusa l’aria. Le narici gli si stringono, come rifiutando l’aria che sta inalando. L’aria bollente della miscela percorre i condotti e la trachea fino ai polmoni. Bruciano la pelle delle sacche, sterilizzano l’aria buona che prima aveva respirato. Tossisce lo schifo dentro di sé. Tossisce ancora, non si libera completamente di questo disgusto. La stanza puzza, la stanza è tossica. La nuvola di gas si è ormai espansa anche ai loro piedi. Non c’è più aria sana lì dentro.

“Apriteci!” qualcuno urla di fronte alla porta. Non vede niente, Polonia. Le sue pupille sono ingigantite per il buio. Non riesce nemmeno a vedere Magda tra le sue braccia, sorretta sotto le ascelle come un sacco di zucchero. La marea si agita e tutti si spingono. Si sente spingere in avanti. Lui stesso spinge. Il gas occupa tutti i suoi polmoni. Sente qualcuno cadere ed urlare. Il trambusto di voci frantuma i suoi timpani. Si sente bloccato. Questo posto lo fa sentire in gabbia, in una vera gabbia. Vuole fuggire. I suoi piedi pestano qualcuno caduto. Non gli importa del bambino calpestato da più piedi. Spinge e scalcia altra carne davanti a sé. La porta è l’unica che potrebbe farlo uscire da lì. È l’unica vera uscita da questo posto.

Il gas lo fa lacrimare. I suoi occhi bruciano come gettatogli addosso del sale. Le lacrime non si fermano. Sfrega con forza il pollice sulle palpebre, tenendo stretto a sé la piccina solo con un braccio. Magda ricomincia a scalciare, così come tanti altri fanno, agitati e terrorizzati. Pensa di soffocare, i polmoni non rispondono più. Si sente bloccato, impigliato in questa ragnatela oscura. Spinge un altro e qualcuno spinge lui. È qualcuno molto più alto e forte di lui. Sente la carne scoperta della sua coscia scontrarsi con la sua. Il cuore ha una fitta, sente gelo attorno al petto: Magda scivola dalla sua presa.

Un secondo colpo lo prende alla testa, dietro alla nuca. Cade a terra, addosso ad altra carne, coi polmoni scoppiati e il bruciore agli occhi e alla pelle bagnata dall’acido. Si sente confuso e schiacciato contro altre cosce. Non sa dove sia Magda. Panico, terrore. Qualcuno cade addosso a lui. È pesante, perde altra aria. La chiama, lei gli urla, anche lei dolorante e confusa. Sente piedi su di sé. Non sente più aria nei polmoni. Non riesce a respirare nemmeno il gas. Nel buio sente mani contro l’acciaio della porta, corpi morti sotto il suo e sopra di sé piedi sulla sua spina dorsale e sul morto caduto addosso a sé. Un tallone s’impunta sull’osso sacro. Polonia sente le vertigini in quel corpo che non gli appartiene.

“Magda!” non risponde più. Non sente più urla di neonata. Polonia soffoca nel suo stesso respiro. Si chiede dove sia la bambina e che cosa gli stia succedendo. Un piede liscio e sudato s’impunta sulla sua testa. Il mondo scuro attorno a lui gira e gira su se stesso.

Col lezzo della carne estranea e della miscela nel suo sangue, perde i sensi.

 

 

 

Ode solo silenzio e palpebre incapaci di aprirsi. Sente aria bollente sulle spalle e pressione di corpi spogli su di sé. Si chiede se stia sognando o se sia ancora vivo. I polmoni bloccati rifiutano di aprirsi per altra aria. La pelle screpolata e bruciata smette di avvertire peso o disgusto su di sé. Le palpebre imbrigliate nelle ciglia non sono più capaci di aprirsi. Il cervello prende informazioni, senza capire. Il corpo che ha ospitato la sua anima, quello del ragazzo che Ewa deve aver visto sul treno, è morto.

Ferro acuminato s’incastra dentro l’osso del collo. Polonia spalanca gli occhi, incredulo. Non sente dolore, sente solo fastidio, eppure ha spalancato le palpebre. L’iride non vede, come cieca in quell’abbaglio di luce e ombre indefinite. Sente il gancio dietro al suo collo trascinarlo, trasportando con fatica anche gambe e braccia. Polonia non sente più le proprie dita. Confusione. Ancora luce, viene ancora trascinato. Lo spostano in alto, ora riesce a guardare in su. Si sente stordito ed ingenuo. Non riesce a capire cosa gli stia succedendo. Non riesce a guardare altro che il soffitto. Le iridi non riescono più a muoversi. Con la coda dell’occhio vede ombre di volti e capelli. La gola è chiusa e secca.

“Magda…” muovono le labbra, ma non prendono suono le parole. Nessuno se ne accorge e nessuno getta un occhio su di sé per constatare che sia vivo. Polonia vorrebbe che lo sapessero, in qualche modo vorrebbe che lo capissero. Ma nessuno lo comprende. Continuano a camminare, trascinando dietro il suo corpo. Polonia dimentica il gancio dietro al suo collo e dimentica di essere ancora nudo, tirato con forza sul pavimento di chissà quale luogo. Non gli interessa più, non crede che qualcos’altro possa interessargli “Magda…” mormora ancora, col cervello statico e la voce assente.

Si sente sollevato, non solo col gancio. L’occhio è ancora freddo, non riconosce i volti né i colori. Capisce di essere stato buttato dentro qualche cunicolo. Non riesce ad immaginare cosa possa succedergli. Il cunicolo è stretto, buio e grigio. Lo infilano dentro fino alle dita dei piedi, gettato a pancia in giù. Le braccia sono abbandonate lungo il corpo. Alla sua destra, dove la sua testa non si è voltata, sente un altro corpo contro il suo. Non riesce a memorizzarlo bene, non riesce a comprenderlo affatto. Se prima era terrorizzato da ciò, ora non gli importa.

Gettato alla sua sinistra un corpicino di neonato. Vede pelle grigia come ceneri di un caminetto. Le palpebre abbassate come lo erano le sue, i pugnetti serrati, le sopracciglia contratte, così come la mascella di gesso. Polonia batte per la prima volta le palpebre, dà fuoco a quello che sta vedendo. La neonata non si muove. Guarda il braccino spezzato e contratto innaturalmente all’indietro. Immagina l’osso rotto e sussulta. La sua mente comprende e rende realtà quel che sta vedendo. La ricorda tra le sue braccia, gemere, avvinghiargli sul collo per succhiargli la pelle. Se il corpo fosse ancora vivo, tremerebbe. Se l’occhio non fosse paralizzato, lacrimerebbe.

“Magda…” mormora, immaginando la sua voce impigliata nella trachea. Sente il fastidio del fuoco, puzza di gomma e grasso bruciato su di sé e poi altro buio.

 

 

 

 

 

La fotografia della famiglia pare bruciargli fra le dita. Sente le dita sotto i guanti avvertire il cuoio contrarsi sui polpastrelli. Non l’ha toccata durante questo viaggio infernale. Non si è reso conto che i volti dei Lukasiewisz sono diventati appannati e grigi. Il volto di Darek si sgretola e sfuma, muta colore e forma. Sta bruciando. La moglie accanto, Dorota, fa lo stesso. E anche la piccola Klara. E Wladymir, Ewa, Feliks, tutti bruciano. Lascia la foto e questa prende il volo nel bianco. Il vento falso la porta lontano. La guarda allontanarsi di poco e poi bruciare completamente. È diventata cenere, così come gli uomini e le donne che vivevano in quel ricordo.

“Sono morti tutti…” mormora fra i denti Polonia, pallido come la carta e scosso come chi ha vissuto ogni morte che ha visto in quel ricordo. Prussia lo osserva, bianco e scosso come lui, ma in qualche modo più pesante. L’aquila nera sulla sua spalla col suo peso lo tiene fermo, come se temesse di vederlo scappare come un bambino mortificato. Prussia sente di star per inciampare nei suoi stessi piedi: Polonia tira su il naso, sta piangendo.

“Dai, non piangere”

“Non ho fatto niente…” smorza la frase, ma comunque comprensibile per Prussia. Osserva il falcone accucciato per terra, osservare il ragazzo con trasporto. Guarda i suoi occhi neri brillare intensamente, come provati anche loro, nonostante la serietà. Prussia muove e rigira fra le mani la lancia. La copertina è ancora sulla sua spalla. Sente la gola secca, allora tossisce a bocca chiusa. Guarda i capelli del ragazzo parargli il volto, cadute le ciocche e appiccicate sulle lacrime. Lo disturba vederlo così.

“Non è colpa tua” Polonia tira ancora su il naso. Forse non lo ascolta nemmeno “Non avresti potuto fare nulla per loro: era loro destino morire. Non essere arrabbiato con te stesso. In qualche modo doveva finire così”

“Magda…” sente il cuore sbattere contro le costole della cassa toracica. Lo sente autolesionarsi e vorrebbe farlo anche lui. Vorrebbe che in quel bianco ci fosse una roccia o un albero da picchiare e calciare. Ricorda Magda in braccio a lui e come stupidamente ha seguito le indicazioni dei due tedeschi e della donna orribile. Pensa che avrebbe potuto salvarla e scappare. Oppure restare nel treno e sperare che nessuno li trovasse. Ricorda i suoi errori e sbatte con più forza il piede contro l’altro suo stivale. Contrae innaturalmente il muscolo. Piange ancora. Prussia si sente pesante e maldestro. Fa scivolare dalla spalla la copertina e lascia cadere con un tonfo la lancia. L’aquila nera sembra capire e abbandona la spalla.

“Vieni qui…” apre il palmo della mano e l’avvicina alla spalla di Polonia. Il ragazzo si scansa, indispettito e vergognoso. Smette di sbattere i piedi gli uni contro gli altri “Vieni…” prende di nuovo la spalla. Polonia lo accetta. Col capo abbassato avvicina la guancia al petto di Prussia. Si sente uno di quei bambini viziati a cui basta un abbraccio per far dimenticare un capriccio. L’abbraccio di Prussia ha qualcosa di caldo e fraterno. A Polonia è familiare, allora gli si abbandona col corpo e le lacrime. Prussia lo sente piangere, con la testolina che nemmeno gli sfiora il cuore. Impacciato, ma un po’ più leggero, comincia a strofinare il palmo della mano sulla schiena sussultante. Polonia sente di star schiacciando dentro il taschino della divisa la coroncina e il nastro di Liet. Ricorda quando lo tirava a sé e faceva poggiare la sua testa sulla sua spalla. Profumava di quercia e di bosco, Liet. Prussia sa di cuoio, di divisa nuova e lucida, di piombo. Non ha niente di Liet. Liet lo avrebbe stretto con più forza e avrebbe passato le dita nude sulla sua testa. È qualcosa che nessuno aveva mai fatto a lui. Prussia ha le mani fasciate nei guanti e trova estraneo la carezza alla schiena che gli sta facendo. Non sa che faceva così con West quand’era bambino, allora non riesce ad accettarlo. Si sente ancora più male e colpevole.

“Perché…?” mormora tra i singhiozzi. Prussia deglutisce e gli spasmi del ragazzo si ripercuotono anche su di sé. Sta per aprire bocca “Perché Germania l’ha fatto!?” grida nella divisa di Prussia, continuando a piangere. Prussia sente di nuovo il petto diventare gelo e poi il sollievo carezzargli il cuore. Ma alza gli occhi all’aquila e la consolazione scompare. Quella lo guarda come una carogna. Il comandante deglutisce con fatica, con la gola secca. Fa scendere la mano dalla schiena del ragazzo. Osserva i capelli lunghi e sussultanti. Immagina che d’ora in avanti sarà solo come un cane, solo con l’aquila. E che dovrà essergli nemico in questo Purgatorio bianco e mutevole. Immagina il dolore futuro e deglutisce ancora. L’aquila pare annuire e involontariamente così fa anche lui.

“Germania…” sente singhiozzare ancora Polonia al suo petto. Immagina l’astio che aveva per lui quand’era più giovane e gli occhi e le orecchie non gli erano concessi. Immagina l’odio che provava per lui quand’era tra Austria ed Ungheria nel lago e quanto ne aveva quando lo vide la notte accasciato all’aristocratico. In seno ad Ungheria. Nell’abbraccio di Italia. Ricorda bene e in qualche modo le lacrime di Polonia gli paiono meno asfissianti “…e chi ha detto che è stato lui?”

Il corpo tentennante di Polonia si blocca, come mancato il respiro. Le palpebre rossicce gli si spalancano, il respiro veramente non raggiunge le narici. Sbarrata la mascella, Polonia si stacca da Prussia. Alza lo sguardo, ora per niente appannato, su di lui. L’occhio naturalmente serpentino di Prussia lo ghiaccia, tanto è severo. Polonia ha l’impressione di non averlo mai visto se non ora. Gli occhi verdi e sussultanti, innaturalmente, cadono più in basso, sul collo bianco e sbarbato. Le SS lo squadrano come uno sconosciuto. Polonia vede grigio e non bianco, come se una nuvola abbia oscurato ogni cosa attorno a sé. Alza ancora gli occhi verso l’uomo e per il ragazzo è come guardare un proprio fratello con la spada puntatagli a tradimento sotto al mento “Perché…?”

“Perché era di nostro diritto”

Toris non sobbalza, ma è come se il suo cuoricino abbia fatto un salto dentro il petto. Gli occhi come lampi si voltano. Vede la mano guantata di Polonia stringersi e la immagina scricchiolare dentro al guanto. Toris saltella allarmato e osserva. Polonia ha l’occhio incrinato, una luce di tradimento sfiora le sue pupille lucide. Prussia ha qualcosa di freddo e disumano, come qualsiasi tedesco che abbia avuto quel marchio sulla propria divisa. Polonia lo guarda negli occhi e immagina la copia perfetta delle bestie che hanno ucciso quella famiglia che ora gli è entrata nel cuore. Prussia guarda Polonia e dimentica il rancore che aveva per lui. Tenta di non tremare e di non far trasparire emozioni. Conosce il proprio ghigno e non lo vorrebbe mostrare a tradimento, anche se un rigagnolo di sudore gli cade dalla fronte. Toris osserva e respira con affanno. Aspetta la prima pietra scagliarsi addosso al prussiano.

Il piede di Polonia si volta nella direzione opposta. L’altro lo raggiunge e insieme iniziano a marciare nell’ignoto del bianco. Prussia dentro di sé si sente leggero, fuori sembra perplesso e corrucciato “Dove vai?” sbotta, internamente offeso che il ragazzo lo stia ignorando. Polonia continua a camminare e a far riecheggiare i propri passi nel bianco del nulla.

“Devo fare una cosa” mormora. Prussia sente collera di adulto nella sua voce. Il sollievo si affievola in sé. Inclina un sopracciglio verso il basso e un altro lo alza. Il ragazzo continua a camminare e pian piano non lo potrebbe più sentire. Inclina la testa, ora l’aquila nera gli si è calato sulla spalla.

“Non devi dirmi niente?” Prussia immagina che si fermi, ma non lo fa. Nemmeno il passo rallenta, né il capo si volta, neanche brevemente.

“Non c’è nient’altro da dirci” ringhia tra le mascelle. Prussia abbassa anche l’altro sopracciglio, più perplesso. Sospira a mascelle serrate e lo guarda allontanarsi. Sente già il freddo della solitudine. Polonia è ora un puntino indistinto in lontananza. Prussia si volta, osserva brevemente la lancia e la copertina e ricorda i frammenti di ricordo di Polonia. Alza le spalle e continua una camminata tutta sua.

Decide di lasciare lì gli oggetti, non saprebbe cosa farne.

Toris guarda il suo protetto e spicca il volo per raggiungerlo. Corre, immaginava bene. Il volo lo rende quasi più veloce del ragazzo. Lo raggiunge ad un palmo. Vede gli occhi infuocati, contratti ancora, con le tempie incrinate e piene di vene pulsanti. Toris lo vede fermarsi e gli si bloccano ali e respiro. Polonia arde, sente un fuoco bruciargli le carni e le membrane del suo cervello. Si sente cuocere dentro un sole. Correre gli ha fermato le pulsazioni, ma non il sentimento. Il cuore ruggisce. Vede frammenti di ricordi. Vede Dorota alzata ed abbracciata a Darek, vede Jan addentare una fetta di Pan di Spagna e rigirarla nelle guance come un bambino, ricorda Tymek e il suo sorriso sfrontato, la pacata dolcezza di Wladymir e del suo bacio alla moglie prima di morire, come Klara lo supplicava di salvarla in braccio ad uno sconosciuto. Il foro nella testa di Dorota, lo stomaco bucato di Tymek, le scosse e le lacrime di Feliks sotto i detriti della sua scuola, il nome della bambina pronunciato senza forza da Ewa prima di chiudere per sempre gli occhi, il corpicino grigiastro e storpio di Magda.

Nell’ultimo ricordo dimentica la colpa che lo affligge e lo addossa tutto su Prussia. È stata tutta colpa sua. E’ lui l’assassino, quello che ha condannato lui e la sua nazione. Lui dev’essere punito e torturato del suo male. Ignora Russia e Germania e l’intera causa della sua ira cade su di lui. Per Polonia Prussia è un demone che dev’essere eliminato. Lo ricorda mentre guardavano insieme i suoi ricordi d’infanzia e come l’ha abbracciato poco prima. L’aveva al seno, come una serpe. L’ha toccato, lo ha abbracciato come un fratello, gli ha fatto credere di avere un cuore. I prussiani non hanno cuore. Sono nati per creare guerre e per dannare i più deboli. D’istinto poggia la mano sul taschino. Sente la consistenza ferrosa della coroncina e quella soffice del nastro di Liet. Stringe sotto la divisa i due oggetti, con rabbia e frustrazione. Vuole vendetta salata, qualcosa tanto doloroso da ucciderlo. Stringe con più forza, le pietruzze della coroncina quasi lo urtano anche se sotto un guanto. Vuole vederlo soffrire, così come lui ora sta soffrendo.

La mano cade, ha urtato qualcosa col piede. Guarda in basso. Un nuovo oggetto, un nuovo ricordo. Polonia si china e lo afferra con entrambe le mani. Il fucile fra le dita pesa, gli ricorda quello che usava Tymek. Lo stringe con trasporto, lo osserva in ogni punto. Per un attimo gli nasce un desiderio iroso ed esaltante al tempo stesso. Si volta fugace. Prussia è svanito del tutto. Sbuffa contrariato. Ringhia ancora: il fucile non ha munizioni. Si volta allora col desiderio scalpitante come un cavallo imbizzarrito. Sente la felicità del compimento della sua vendetta scivolargli dolcemente nello stomaco come zucchero liquido. Toris lo vede sorridere e mostrare i canini, con occhi ancora più brucianti. Per il falcone è qualcosa di anormale e si alza ancora in volo. Atterra sulla spalla, apre il becco e lo chiude sull’orecchio del ragazzo. Polonia scatta e l’istinto gli fa alzare il pugno. Sente le nocche cozzare contro il cranio del volatile. Toris casca a terra. Polonia sbuffa contrariato.

“Non ora, Toris” dice, oltrepassando il falcone e continuando a camminare e a guardarsi attorno. Toris sa cosa sta cercando e glielo vuole impedire. Si alza ancora in volo, sbatte le ali. Per un attimo ha un capogiro, ma vola a pochi palmi dal ragazzo. Inizia a schiamazzare con ira. Polonia non sente l’avvertimento e lo scaccia ancora “Toris, smettila!” un secondo pugno prende il capo e il becco del falcone. Toris cade ancora a terra e con fatica si rialza. È più che stordito. Polonia sente solo sfrigolare la mano per il becco appuntito. Toris vola e gli tira una ciocca di capelli. Polonia lo colpisce ancora.

“Basta, Toris!” gracchia infuriato. Il colpo parte e colpisce la tempia del volatile. Toris ritorna e quasi gli strappa il lobo dell’orecchio. Polonia lo colpisce con vera volontà.

“Toris!” ritorna, gli becca la testa, gracchia come un corvo e non come un falcone. Polonia ha la tempia pulsante e lo colpisce con un pugno forte.

“Finiscila!” urla, con le orbite pulsanti di verde smeraldo. Toris vola ancora e gli graffia il naso col becco.

“Devi smetterla!!!” grida, alzando il fucile e usandone il calcio come uno dei suoi pugni. Toris sente il proprio cranio frantumarsi. Plana, prova a planare e cade con le ali spalancate.

Gli occhi gli si bloccano, non riesce più ad aprire le palpebre. Sente Polonia corrergli. Spera che lo soccorra, spera che si penta di quello che gli ha fatto. Il ragazzo si accovaccia addosso a lui, Toris sente le ginocchia premere sulle sue ali. Lo blocca, lo sta costringendo a terra, si rende conto il volatile. Il cuore pompa disperazione e timore. Prova a muovere le ali, ma né testa né penne riescono a comprendere ciò che desidera. Sbatte la testa a destra e a sinistra, impazzito dal dolore e dalla frustrazione. Polonia vuole vendetta e non è questo quello che Toris vuole per lui.

“Tranquillo, tornerò subito” fiata su di lui il ragazzo “Tipo, ho bisogno delle tue piume” Toris si agita “Così gli faccio vedere chi è tipo ancora vivo” a malapena comprende “Poi tornerò da te, dopo aver sistemato quel maledetto bastardo” si agita il pennuto: sente le sue penne venirgli strappate. Gli fanno male. Vorrebbe urlare il suo dolore, ma il capo non pare comprendere il desiderio. Si agita come un pesce appena schizzato fuori dall’acqua “Tornerò subito”.

Apre gli occhi, non sente più il peso di Polonia su di sé. Se ne sta andando. Toris sente come una gettata di aria ghiacciata su di lui. Se ne sta andando, lontano da lui, senza di lui. Non è così che doveva andare. Polonia non dovrebbe scappare per vendicarsi. Il falcone si agita, ma il respiro gli si toglie dai polmoni. Il colpo al cranio gli si ritorce ancora contro. Rimane incastrato ancora con la testa premuta sul bianco. Non sente più nulla, solo il pulsare isterico nelle tempie. Toris non sente altro che dolore.

Vede lontano Polonia chinarsi e afferrare qualcosa. Aguzza la vista, vede infilare un caricatore all’interno del fucile. Toris non potrebbe più agitarsi e rimane semplicemente lì, pesante e bloccato. Vede il ragazzo scomparire grazie alle piume che ora non ha più, con la carta mutevole come la pelle di un camaleonte. Toris si sente violentato e spoglio come un neonato. Non vede più nulla, non sente più nemmeno il proprio cuore.

Toris smette di respirare e non lo farà mai più.

 

 

 

Non ho scusanti per questo immenso ritardo. Detesto anch’io quando un autore ritarda in maniera esagerata senza una motivazione scritta. Potrei dire che da gennaio la mia scuola è diventata un campo di concentramento per via della maturità che dovrò affrontare, potrei raccontarvi di come cercai di cambiare linea telefonica e così anche quella di internet e di come per uno stupido incidente io ne sia finita senza per quasi due mesi. Potrei anche raccontare di come persi pagine e pagine di testo e delle lacrime versate per dover riscrivere praticamente mezzo capitolo, ma ciò non avrebbe alcuna importanza. Chiedo scusa a tutti voi.

Ma non assicurerò nemmeno che un ritardo di due mesi riaccada: la maturità è ancora lontana, ma la mia concentrazione a scuola è raddoppiata, il problema di internet è quasi del tutto finito, se non per qualche problemuccio col mio vecchio computer…

Ciò per dirvi che, sì, la Fenice continuerà ad essere pubblicata, ma non aspettatevi più una vera e propria cadenza, come quella che un tempo avevo, soprattutto in periodo primavera-estate. Avrò molte difficoltà a riguardo, senza dubbio, ma tenterò comunque a postare un capitolo una volta al mese.

Il prossimo capitolo l’ho scritto grazie al computer di mio fratello. È quasi completo, abbiate pazienza!

Chiedo scusa ancora per il disagio.

 

L0g1c1ta

 

 

 

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 16
*** SeDiCeSiMo CaPiToLo ***


Polska non aveva mai immaginato che giocare fuori fosse così divertente. Il mondo fuori dalle mura del castello gli era sembrato pericoloso. L’ha esplorato poche volte, l’ha contemplato nel silenzio in compagnia dei battiti del suo cuore e della mantella color rubino. Non aveva mai portato nessuno insieme a lui, la solitudine per lui era come sorella. Non era mai stato al confine con un’altra nazione, nemmeno con quella lituana.
Liet conosce questo bosco. Vede più muschio di quello delle sue foreste. Si era inginocchiato e accucciato come un cagnolino sul tappeto accanto al fuoco. Era morbido come cotone e umidiccio come pioggerella autunnale. Gli piace stare qui.
Liet gli ha parlato di dei e nature, di spiritelli e folletti. Erano andati a cercarli e hanno finito per giocare. Polska è magro e piccolo, gracile ed inopportuno, lento ed incapace. Liet è veloce e già alto, già si allena con la spada tra i cavalieri. È il suo sogno e spesso lo osserva allenarsi. Rimane ammaliato da come Liet cresca così in fretta. Sarà cavaliere e lo proteggerà con spada e scudo.
Inciampa, saltella e si rialza, Polonia, che sembra un leprotto in tutto quel verde. Scavalca i tronchi e corre svelto, Lituania, che pare più un lupacchiotto alla sua prima caccia. La corte vuole che il biondo sia più in alto dell’amico, ma ora è libero e si sente come nella solitudine delle sue foreste. Gli piace giocare a rincorrersi. Gli piace essere preso e non acchiappare.
Gli piace essere desiderato e cercato.
Liet lo ha preso e lo fa cadere, ma c’è il muschio morbido e profumato e non si fa male. A Polska scappa da ridere e anche a Liet. Si sente a casa, anche se in terra straniera.
 
 
 
 
 
Bruciano fra le mani quattro piume del grande mucchio e la carta muta.
Polonia alza gli occhi, inclinati come un gatto, socchiusi per la luce improvvisa. Vede macerie e spaccature nelle case rimaste. Varsavia. La sua signora violata e depressa.
Il sole lo acceca e gli fa inclinare ancor più gli occhi. Si sente appena uscito da una miniera e non riemerso dal bianco cartaceo. Il fucile continua a pesare fra le sue braccia. Lo incastra dietro la schiena. La cinghia attorno al torso tocca il suo cuore. Lì pulsa forte: c’è il nastro nero di Liet e la coroncina trovata nel bianco. Poggia lì la mano guantata. Ricorda le pietruzze colorate e come l’aveva poggiata al capo Prussia. Stringe forte il pugno sulla tasca. Pensa che dovrebbe sbarazzarsene. La cinghia inciampa e tocca l’altra tasca, dove pompa forte il secondo polmone. Sente sotto il cuoio le piume morbide e sode. Ricorda che ha poco tempo. Inizia a camminare.
Alla luce le strade sono assai meno tetre, come se il sole le abbia purificate, o abbia tentato di farlo. Vede acqua piovana, le grate delle fogne ancora tappate, i ciottoli di terra e fasci d’erba crescere tra l’asfalto come concime. Guarda in alto e vede palazzi pendenti, finestre bucate, assi spezzate. Polonia immagina carri armati e aerei sulla sua testa e non se ne meraviglia, eppure il rancore e la nausea si accasciano all’altezza dello sterno. Prussia deve pagare per ciò che ha fatto. Si allaccia meglio la cinghia del fucile. Immagina che sparerà e che ucciderà. Può farlo, sa che lo farà, anche se non l’ha fatto in guerra, anche se era il primo a difendersi dietro le spalle di Lituania. Sparerà ad un tedesco e il suo sangue bagnerà come acqua santa le strade della sua città.
“Ehi, ehi, fermo tu!” Polonia ferma i piedi. La paura si è eclissata dietro alla rabbia. Polonia si volta corrucciato e serioso, con le sopracciglia incrinate e i capelli pesanti che gli toccano quasi le spalle. Le ha puntate verso il davanti, quasi come un gobbo. Vede un ragazzo alto, molto più alto di lui. La rabbia verso i tedeschi arde ancora come un fuoco e per questo non ha timore. Quello ondeggia mentre lo raggiunge. Polonia lo guarda e il berretto che gli copre gli occhi gli fa rigirare lo stomaco. Gli dà rabbia anche la sigaretta incastrata tra i denti e il fumo che sbuffa sul suo naso.
“Sei il ragazzo che doveva portarmi gli ordini?” dice, inclinando la testa e guardando la sua divisa. Polonia immagina che abbia già visto l’aquila bianca alla sua spalla, altrimenti non gli si sarebbe avvicinato. Il biondo ora è interessato e parte di fuoco si quieta nel suo cuore. Polonia ha un brivido di timore: sta attendendo una risposta che non conosce.
“Uh…” deglutisce e abbassa lo sguardo, intimorito, forse anche arrossito. L’altezza del ragazzo ora lo mortifica. Lo fa sentire un topolino di fronte ad un gattaccio.
“Che hai lì?” abbassa il braccio e si china. Gli ha preso qualcosa dalla tasca dei pantaloni. Polonia sobbalza, meravigliato. Il ragazzo col berretto si rigira fra le mani fogli che non sapeva di avere. Apre il ritaglio e lo ispeziona. Si leva la sigaretta dal labbro. Aspira, abbassa il braccio e sputa il fumo alla sua sinistra. Con l’occhio fermo legge. Il fumo è lontano da Polonia, ma uno sbuffo di aria lo rigira verso di sé. Il tabacco ha qualcosa di aspro e chimico. Lo aspira e i polmoni premono per tossire aria tossica. Che strana sigaretta che ha, pensa. Il ragazzo muove l’indice svelto e fa cadere la cenere per terra. Sente lo sbuffo lieve di una risata. S’infila il foglio in tasca, quasi appallottolato.
“Grande, erano così disperati da portarmi te” la risata che sbuffa sa di grottesco e adulto. Polonia arrossisce, non è un ragazzo, lui si è confuso. Smette di ridere e la lingua secca bagna le labbra sottili. Il biondo alza lo sguardo e vede uno sfregio sulla guancia. Non apre bocca “Dimmi, nuova recluta, come ti chiami?” Polonia reprime il sobbalzo. Ricorda Magda e i due soldati in uniforme nera. Dovrà inventare un nome che non immaginerà. Apre la bocca, incerto “Niente cognomi, non mi servono” lo interrompe quello, aspirando dalla sigaretta. Polonia ricorda Magda e Prussia e i suoi occhi arroganti nel guardarlo. Perde la paura. Ricorda la famiglia morta per colpa sua e ha più coraggio.
“Tymoteusz…” sussurra, incerto. Il giovane uomo agita la sigaretta e fa cadere altra cenere. Gli occhi sotto il velo nero della visiera sembrano guizzare. Soffia il fumo sopra la sua testa. Polonia sente il calore della sigaretta ad un pollice dal cranio. Quello lo squadra, con la cicca di nuovo alla bocca.
“Che hai detto?” chiede, inclinando la palpebra di un occhio. Per Polonia sembra più divertito della sua paura che arrabbiato o stizzito. Pensa che possa ridere di sé e del suo timore verso quest’estraneo. Il biondo aggrotta le sopracciglia e alza bene lo sguardo.
“Tymoteusz!” esclama, con voce meno potente di quel che si aspettava di usare. Il giovane uomo soffia il fumo dalla sigaretta, intanto aspirata. Sorride, come sorride un ragazzino sfrontato e voglioso di vantarsi.
“Che onore e coincidenza…” mormora inaspettatamente, sbuffando ancora quella risata provata e quasi patetica. Alza la mano alla testa e tocca la visiera del berretto. Se lo sfila, semplicemente, ma per Polonia è come se si fosse strappato una seconda faccia dal volto. Strabuzza gli occhi ed impallidisce. La forza e la rabbia verso la Germania evaporano come gocce d’acqua sotto al sole estivo. Impallidisce, guarda il volto familiare e i capelli neri e folti, con riflessi ora giallognoli e prima, al buio della sua casa, blu “Anch’io mi chiamo Tymoteusz!” esclama, esageratamente felice “Ma chiamami Tymek, così non ci confonderemo”.
Polonia osserva il ragazzo che conosce solo come fantasma. Si sente inopportuno e fuori posto. Gli cede un piede e quasi inciampa nel suo stesso tallone. Non sente più il peso del proprio corpo sulle gambe. Tymek lo guarda e lo tocca, preso per una spalla. Polonia guarda la mano ora robusta del moro avere un peso ed una consistenza su di sé. Non è più aria, non è più spettatore. Tymek soffia per l’ultima volta e getta la sigaretta lontano, come schioccandola fra le dita. Polonia sente un calore dolce alla sua spalla. Può parlargli per davvero, può conoscerlo.
“Vieni, ora ti faccio vedere il bunker, prima dell’assalto di stasera!” quasi non lo sente più, commosso e felice.
Ora è attore e mai più spettatore.
 
 
“Guarda quello lì, quello curvo sul fucile”
“Quello che lo lucida?”
“Sì!” esclama ancora Tymek, in qualche modo felice “Sai perché è qui? I tedeschi gli hanno portato via il figlio perché era sposato con un’ebrea. Quei bastardi li hanno trascinati nei campi e chissà se sono ancora vivi” con emozione racconta, come se fosse la sua vera storia. Polonia ha occhi lucidi e cuore perennemente sussultante. L’emozione di avere la mano di Tymek sulla sua spalla è forte. Si sente corporeo e importante. Sente di avere uno scopo e le possibilità di raggiungerlo. Tymek cammina ancora e lui affianco, come una terza gamba. Anche se le pareti sono tanto strette da soffocarci dentro e vi è più terra e sporcizia che pavimento, Polonia è felice. Si apre un altro sbocco, i due vedono altri uomini, in qualche modo precisi come macchine. Tymek alza l’indice ed indica un altro di loro, fra gli incastri di altre persone.
“Vedi invece quell’altro?”
“Quello alto e biondo?”
“Sì!” esclama e annuisce, ma fattosi più serio “E’ qui perché è morta sua figlia” Polonia sussulta, così come sussulta dentro di sé Tymek “Da quando hanno chiuso i licei e hanno proibito le iscrizioni alle medie i tedeschi hanno scritto che i bambini non potevano imparare altro che leggere, scrivere e contare fino a cinquecento. Cinquecento!” ripete con gli occhi contratti e il labbro alzato, come schifato. Polonia inclina anche lui gli occhi, sinceramente iroso ed incredulo “Ma lui ha insegnato comunque alla figlia come contare fino a mille. Una mattina la piccola stava giocando e i tedeschi le si sono piantati davanti. Hanno fatto tanto i carini e le hanno chiesto quanto facesse cinquecento più uno…” si abbassa il tono di voce, Polonia gli si avvicina di più per ascoltare, intanto che aggiusta il fucile attorno alla spalla “Lei ha risposto e quelli hanno alzato i fucili” ringhia lui e così sussulta con più rabbia Polonia, alimentato il fuoco del suo rancore. A malapena può pensare a quello che gli ha appena raccontato Tymek. Digrigna i denti e fa schioccare le dita stringendole in pugno. Prussia la pagherà anche per questo.
Tymek apre una porta che Polonia non ha notato. Entra e così anche il biondo. La stanzetta ha una luce saettante, che contrae la propria luce da debole a troppo forte, e una lampadina troppo abbagliante. Polonia socchiude gli occhi, già quasi del tutto bruciati. La cinghia gli cade dalla spalla, la riaggiusta subito. Non vede bene per la luce, ma riesce a scorgere il grigio dell’ambiente, solo il colore, il tavolo inclinato, che pare più una scrivania riutilizzata, e i fogli accartocciati e altri ammucchiati sul legno fin troppo sensibile. La nazione guarda i mucchi di giornali e si chiede come facciano a non far cadere l’asse inclinata fin troppo all’infuori del tavolo. Polonia vi si concentra, cercando di non pensare alla luce, ora soffusa. Tymek fa strisciare una sedia e la porta davanti a sé. Poggia le braccia e le inclina sullo schienale sfrangiato, poggia il suo peso sulla sedia e vi si accascia, coi ginocchi all’infuori come le assi del tavolo. Polonia ora guarda Tymek e ricorda solo ora che solo lui lo conosce e non il contrario.
“Allora, come sta Karol? È pronto per stasera?” dice, poggiando sulle mani anche il mento, osservandolo divertito come al circo si guarda interessati per la prima volta un animale insolito. Polonia si accorge del sorriso e dell’arroganza nascosta. Arrossisce, come un bambino arrossisce di fronte ad un adulto. Abbassa lo sguardo e adocchia la sua guancia, con la cicatrice dello sfregio. Si concentra su quella e deglutisce.
“Sì, credo, cioè…” un lampo istantaneo illumina gli occhi di Tymek. Il sorriso strafottente scompare come ora invece appare la palpebra storta e le sopracciglia rigide. Polonia si rende conto di quello che ha appena detto e diventa marmo. Le gambe si rifiutano di muoversi. Sente le piume dentro la tasca più bassa della sua divisa e un brivido d’ira lo coglie, dando colpa a quelle.
“Che vuoi dire? Non hai la minima idea di quello che succederà stasera?” rigido, autoritario d’un colpo, Tymek si alza dalla sedia. Alza le braccia dallo schienale “Hai qualcosa da nascondermi, ragazzino?” dice. Polonia sussulta, guardandolo negli occhi, come elettrizzato da questi. Con la coda dell’occhio vede il suo calcio spingere prepotentemente sulla sedia. Sente solo lo schianto di quella col muro, non riesce a distogliere gli occhi da quelli di Tymek. Indietreggia, imboccata la paura e la timidezza. Con l’altezza prepotente, lo si para davanti “Sei coi tedeschi, Tymoteusz? Ci vuoi ammazzare tutti?”
“N-No, signore non ci ho mai…” dice, con la voce ridotta ad un sussulto. La cinghia del fucile è rigida come le sue spalle. Gli occhi di Polonia sembrano palle da bigliardo, lucide ed inchiodate fra le ciglia. Non riesce a far smettere di battere all’impazzata il suo cuore. Tymek alza le spalle su di sé. La sua ombra lo rinchiude in una morsa di dolore. Le mani vogliono alzarsi su suo viso, paurose. Immagina che lo voglia picchiare. In un attimo le spalle di Tymek cadono, le sopracciglia si rialzano e anche le fossette sulle guance si mostrano. Gli sorride. Polonia sente il proprio cuore cadere sullo stomaco. Tymek chiude le palpebre e quello che sente è una risata e uno sghignazzo insieme. Le gambe del biondo da marmo diventano ghiaccio sciolto.
“Dovresti vedere la tua faccia!” continua a ridere di gusto, allontanandosi di qualche passo. La cicatrice sulla guancia freme, si alza e si abbassa come se i baffi di suo padre quando sorrideva alla bellissima madre. Polonia nota il paragone e dimentica di avere paura. Tymek fa un mezzo giro, afferrata una seconda sedia e sedendosi con le ginocchia divaricate e la camminata ondeggiante “Ovvio che non sai nulla: non l’ho detto a nessuno qua dentro!” e ricomincia a ridere, indicando Polonia e la sua faccia. Il ragazzo si tocca la guancia e lascia la mano strisciare su di essa. Si sente ora preso in giro. Tymek smette per metà e prende un bel respiro “Stasera i tedeschi faranno un bel fuocherello. Una sorta di falò gigantesco e ci sarà di tutto: generali, comandanti, soldati scelti, un bel pezzetto di Crucconia militare” sghignazza e per Polonia ora sembra un porcellino da latte “Noi andremo lì e li mitraglieremo come se dovessimo battezzarli tutti” smette completamente di ridere, elettrizzato, con gli occhi accesi come fari, come se avesse la scena già di fronte a lui “Dovremo dare il meglio di noi e la vita se necessario!” aggiunge, ora più serio, ora con gli occhi puntati verso di lui. Polonia sente un fremito al centro del petto, ascoltate queste parole “Daresti la vita per la tua nazione, Tymoteusz?” Polonia si sente tirato in causa. Gli brillano gli occhi pieni di orgoglio verso Tymek.
“Sì, signore”
“Tipo quante volte?”
“Tipo tante quanti tedeschi ci sono da ammazzare, signore, se è per la nazione” aggiunge per ultimo, ricordando Prussia e la vendetta che ha intenzione di attuare. Il fremito al petto diventano carezze ed incoraggiamenti. Vede una possibilità di vittoria e di riscatto. Prussia la pagherà col suo sangue e con quello dei suoi uomini migliori. Il fremito è anche voglia di ridere e gloriarsi del suo futuro. Sente che ogni cosa andrà tutto bene. La porta si apre, Polonia si volta per guardare. Osserva con distacco, con un cipiglio irritato. Tymek si alza dalla sedia e nello stesso momento Polonia sussulta, incredulo.
“Wala!” esclama Tymek e per poco Polonia non faceva lo stesso, bloccato in tempo il respiro. Le si avvicina con la stessa ondeggiante camminata. Le circonda la schiena con trasporto, con una delicatezza che non sfugge Polonia. Le prende la mano e il modo in cui la stringe meraviglia il ragazzo, ancora scosso per aver visto l’infermiera di Jan viva e sana. Wala lo guarda con imbarazzo e presto lo sguardo le si rivolge ad altro. Polonia fa lo stesso, arrossendo pure. Le sono cresciuti i capelli, nota “Ragazzino, credi che questa bella signorina sia troppo in basso per un uomo?” la donna chiude le palpebre e sussurra fra sé e sé qualcosa che Polonia non riesce a sentire.
“N-No, signore”
“Credi che qualcuno se ne possa lamentare o che qualche idiota la possa chiamare ‘razza inferiore’?” Polonia scuote la testa, negando più volte “Beh, ecco l’intelligenza di questa ‘razza ariana’: non sanno che si perdono” alza lo sguardo su Wala e anche lei lo guarda, non attentamente come Tymek. Lei arrossisce forse ancora di più, sempre col cipiglio imbarazzato “Un tedesco imbecille doveva sposarla e l’ultimo mese ha annullato tutto perché lei non era abbastanza per lui” dice con più calma, socchiudendo gli occhi e forse dimenticando di avere Polonia quasi affianco a lui e a Wala “Meno male che ci sono io a risolvere tutto” e congiunge le labbra con le sue. Polonia sente le ossa delle braccia staccarsi dalle spalle, le gambe ancora più scollegate fra loro, ma comunque impigliate nel pavimento come seppellite nella neve. Si sente confuso, incredulo, imbarazzato. Wala alza una mano e fa schioccare docilmente il palmo sulla guancia di Tymek. Indietreggia e si para il labbro col pugno.
“Ma che ti salta in mente?! Di fronte ad un ragazzino!... Sono comunque un’infermiera, Tymek!”
“Ma che importa? Il ragazzo ha fatto di peggio nella sua vita, vero?” dice e di scatto si volta verso i biondo. Polonia sussulta, con le guance rosse e i capelli una matassa sulla sua testa “Giusto, Tymoteusz? Quanti anni hai?” Polonia si sente essere stato preso in contropiede, con l’imbarazzo crescente come un fungo tossico. Deglutisce e abbassa lo sguardo.
“Quindici…” inventa. Tymek sbuffa contrariato, ma più che altro scocciato “E non hai combinato niente in quindici anni di vita?” aggiunge, imbarazzando ancor di più il ragazzo. Wala guarda il più piccolo e le si gonfiano le guance come un criceto indispettito. Smettila, Tymek, la sente sussurrare “Insomma, non hai mai baciato una ragazza?” chiede, falsamente scandalizzato.
“Ecco…” mormora impacciato con le labbra ora tentennanti e tremanti e gli occhi socchiusi. Si sente bollente e molleggiante come un budino. Non gli piace questa domanda e non vuole dare una risposta.
“Zitto, idiota!” urla Wala, persa la pazienza e la tinta alle guance. Sospira, Tymek non ha imparato la lezione, continuando ad adocchiarlo con un sorriso malizioso. Polonia deglutisce e sussulta con forza, come presa una scarica elettrica, coi capelli elettrizzati sul cranio “Ignoralo… Tymek ha come primo lavoro quello di comandante…” l’interpellato alza le braccia al cielo, chiude le palpebre, si stiracchia, facendo crocchiare le ossa e sbadiglia “…e il secondo come rompiscatole”
“Già e tu qui hai come primo lavoro quello di infermiera e il secondo quello di mia fidanzata… con più di lavoretti aggiunti” Wala s’imbizzarrisce, mortificata, e scaglia un pugno troppo leggero a Tymek. Sentendolo ridere quella s’indiavola ancora di più, immaginando un imbarazzo ora inesistente nel ragazzo. Polonia sente solo un caldo al cuore e una leggera voglia di sorridere. Questa notizia lo fa sentire leggero come il mucchietto di piume che ha in tasca. Riaggiusta il fucile alla sua spalla, anche se non si è mosso di un pollice. Li guarda bisticciare. Guarda Tymek alzare le mani di fronte a sé, come difendendosi. Guarda Wala alzare l’indice e contrarre il volto dolce. Un ricordo gli passa davanti agli occhi. Ricorda Darek e come stringeva tra le braccia l’angelica Dorota. Sorride tristemente. Il figlio non è tanto diverso dal padre.
“Bene, è meglio se andiamo, stasera si festeggerà per bene e il ragazzo qui diventerà un uomo, non in quel senso!” aggiunge alla fine, notando il labbro indignato di Wala e le palpebre calate minacciosamente.
Polonia sente ali ai piedi come Ermes, prima di vedere scoccare una freccia di Eros nei cuori di Tymek e Wala.
 
 
“Non è questo quello che volevamo, ma il fuoco dev’essere combattuto col fuoco. E il sangue lavato col sangue” una pausa, per accertarsi che tutti riescano ad ascoltarlo con attenzione. Vede occhi puntati solo su di sé e sguardi rapiti sulla sua figura. Continua.
“Troppo a lungo abbiamo vissuto sotto il braccio ferreo dei tedeschi e dei russi. Ebbene… non sarà più così. Non vedremo più la morte dei nostri figli o saremo rifiutati solo perché polacchi o ammazzati sotto le nostre case per il divertimento dei tedeschi” uno di loro sussulta, nelle prime file. Polonia lo ricorda: era quell’uomo chino sul suo fucile, a lucidarlo come se non dovesse esserci nemmeno un granello di polvere a scalfirlo. Lo guarda e vede un taglio sul sopracciglio e un secondo sul labbro. Lo sguardo completamente rapito e orgoglioso di essere compreso.
“Non vedremo più un altro uomo separato dalla propria moglie o un respiro mozzato per un loro capriccio” un secondo deglutisce e pare rigirare i denti sotto le labbra: è l’uomo alto e biondo che prima aveva visto. Ha occhi scuri e una luce coraggiosa che brilla dentro l’iride lucida.
“So che non tutti desideravate questo, ma Varsavia racconta ciò che ci è accaduto in questi anni e non vi è altro che macerie e lerciume. Questa città era nostra e presto ci apparterrà di nuovo, così come le nostre vite… e mai più qualcuno vivrà come un topo sotto la terra o in un buco scavato tra i rottami” ora è lui a sussultare di meraviglia: Tymek pronuncia ogni suo pensiero e lo scandisce con massima precisione con le sue labbra. Libera l’aria dai suoi polmoni e socchiude la bocca. Si sente compreso e fiero di quel che sta ascoltando. Tymek pare un oratore antico, ma affatto vecchio, che di fronte ai giudici urla la sua arringa.
“La decisione è la vostra: andare per la vostra strada o unirsi alla nostra missione. Questo è solo un piccolo passo e insieme… faremo tremare Berlino!”
Un coro di esclamazione trionfa come una sola voce e mani alzate si liberano in alto. Tra quelle c’è anche quella minuta di Polonia.
 
 
“Come ti chiami, ragazzo?”
“T-Tymoteusz”
“Come il nostro comandante! Allora ci porterai fortuna! Stai dietro di me: ti terrò d’occhio io”
 
Il fucile non pesa più così tanto come l’aveva preso in braccio la prima volta che lo vide nel bianco latteo del nulla. Lo carezza coi polpastrelli e gli pare che il legno intriso col ferro sia più lucido rispetto a prima. La strada di sera, senza lampioni, né lucerne, sembra la strada di un vecchio cimitero inoltrato nella boscaglia. Non ha neppure paura: l’uomo che ha deciso di tenerlo con sé e di guidarlo è dolce e paterno. Non ricorda bene il suo volto, ma riconosce facilmente nel buio la sua schiena robusta e curva.
 
“Non devono avere più rinforzi per mandare uno scricciolo come te. Ma quanto pesi, ragazzo?”
“I-Io…”
“Ah, fa niente! Scherzavo come al solito. Piuttosto, sei certo di voler venire con noi? Non hai paura di far stare tua madre senza un uomo a difenderla?”
 
L’aria è ghiacciata, come se fosse invernale. Forse lo è veramente e lui non se n’è reso conto, senza neve o senza aver immaginato di chiedere in che mese si trovino. Questa sera ha qualcosa di spettrale e di magico. Le stelle sulle loro teste puntellano il cielo e qualcuna è così sbiadita da sparire quasi del tutto. L’uomo che segue sembra deciso e pare conoscere perfettamente la strada, così come tanti altri che lo seguono come un branco di lupi. Polonia, piccolo lupetto, non si è reso conto di non ricordare più come sia la forma della sua città.
 
“N-No, signore. Cioè, io non una madre… tipo non più”
“Oh, scusami… E non hai paura di morire, invece? E di prendere una pallottola alla gamba e non riuscire più a difenderti?”
“…No. Non più, sono totalmente sicuro di venire con voi. Per la Polonia”
 
Si sono già divisi tutti e ogni vicolo e tetto è stato occupato. Polonia è al secondo piano di una casa. Sente scricchiolare assi per terra e zampette di ratto correre affannosamente, con la coda a seguire il corpo quasi del tutto spellato. L’uomo che ha seguito fino ad ora si è accucciato sotto la finestra distrutta e lui gli va dietro, fedele a lui. È pronto, già con l’indice nel grilletto e la sicura tolta. Oltre la finestra, ora specchiata dentro la casa, c’è il fuoco di un immenso e maledetto falò. Ricorda la prima volta che passeggiò a Varsavia e vide i libri diventare cenere, mangiati dalle fiamme. Un conato di rabbia lo accende e lo scalda. Stringe il fucile come se fosse un fratello. Questo è per la sua gente.
 
“Davvero? Sei davvero così innamorato di questo paese da perderci la vita?”
“Sì, signore, sono totalmente pronto a morire per Varsavia e per la Polonia. Almeno altre mille volte”
“Bene, allora scusami: dovevo fare il diavolo con te, me l’ha detto il caposquadra, per essere sicuro della tua fiducia. Allora benvenuto fra i suicidi, ragazzo!”
 
“Fuoco!!!”
Spari, mitragliate di fucili. Frastuono e rumore di corpi che cadono. Abbagliati dal fuoco, gli uomini continuano a sparare e i proiettili rimbalzano nell’ambiente della piazzetta. Polonia si alza dalla sua postazione, insieme alla sua guida e spara. Il fucile sputa fuoco e piombo e sotto i guanti il ragazzo sente infiammare il metallo e il legno. Il fucile è caldo, brucia i suoi polpastrelli e a Polonia, inaspettatamente, piace.
“Fermi!!!”
Gli spari smettono di percuotere l’aria. Il fuoco in mezzo alla piazza pare meno accecante e superbo. Polonia è soddisfatto, come se fosse diventato veramente un uomo. Involontariamente sorride serafico, diavoletto di volto. Uno dei canini scintilla, mostratosi al di fuori della carne del labbro. È soddisfatto, felice che dei tedeschi siano morti. Che coloro che lo hanno contaminato ed ucciso siano in parte cibo per vermi di terra. Guardano tutti, Polonia abbassa lo sguardo sulla piazza.
L’uomo affianco a lui, sua guida fino ad ora, non mostra altro che silenzio. Polonia afferra la sua paura e la sua confusione, così come afferra la sua e quella di tutti gli uomini che hanno sparato. I generali, con le loro uniformi nere come petrolio, non sono lì. Eppure hanno sentito corpi cadere e cozzare con la pietra, ricordano tutti. Aguzzano lo sguardo e vedono uomini accasciati al fuoco, alcuni caduti dentro. Quelli bruciano come banali ramoscelli. Polonia li osserva e strizza gli occhi. Non hanno uniformi, nemmeno un segno di riconoscimento. Hanno sparato a civili, pezzi della sua carne e cellule del suo corpo.
Feuer!” sentono tutti in lontananza, prima ancora degli spari non loro. Polonia guarda ora la strada dove la voce ha urlato con la forza di un orso e con una certa familiarità. Le palpebre spalancate come se non ne avesse più. Il cuore, prima congelato nella cassa toracica, ora un ingranaggio battente e pericoloso. La sua guida si volta, così come ben altri si sono voltati. Balbetta qualcosa che non comprende e che ritiene pericoloso.
“E’ una trap-!” uno scoppio lo prende al petto e gli strappa l’aria dalla gola. Polonia sente il bruciore asfissiante della pallottola conficcarsi nel polmone a sottrargli aria. Vede schizzi di vermiglio infrangersi macchiare le pareti e la guida che l’ha condotto fino a lì. Diventa ancora sordo. I passi traballano, ha una pericolosa sensazione di vertigini. La vista sta per mancargli. Un riflesso gli ricorda la finestra accanto a lui e il panico attanaglia il cuore come una morsa. L’istinto gli fa aprire il palmo e lo fa scattare in avanti. Si aggrappa alla divisa dell’uomo. Non riesce a vedere l’incredulità e il panico macchiargli le iridi scure. Polonia stringe con forza e disperazione, sapendo che non cadrà quest’uomo, sua guida immortale. Nessuna guida potrebbe mai morire, è inaccettabile una cosa del genere. Anche il polmone sano del ragazzo sente e immagina dolore: l’uomo lo guarda terrorizzato e tradito, il peso spezzato dall’equilibrio precario. Polonia si sente cadere e si trascina dietro l’uomo.
Polonia fotografa con gli occhi il mondo che gli gira attorno, ma non lo registra nella sua memoria. La nuca sbatte, così come sbatte la guida sul suo braccio. Il fucile ruzzola da qualche parte e per un attimo Polonia immagina di averlo visto gettato sulle cascate di fiamme del falò.
Polonia ha confusione e rabbia: è morto ancora una volta in un corpo straniero.
 
 
 
 
 
La mano di Liet è morbida come pane appena sfornato e il sudore che ha è appiccicoso come burro. È anche calda come la crosta di una pagnotta uscita in tempo dal fuoco. La mano di Jadwiga era più paffuta e affatto umida. Liet gli ha preso la mano e camminano entrambi nel palazzo, appena tornati da una fuga nel bosco. Liet è sudato e i calzoni sono macchiati di verde alle ginocchia. Ha i capelli appiccicati alla fronte e scuri come mignatte di palude. Polska lo guarda in faccia e sorride, vedendolo contento a stringergli la mano. Ha le guance rosse e sulla punta del naso vede puntini scuri. Gli dà una spinta, istintivo. L’amico si sorprende, ma accetta il gioco e lo spinge anche lui, con un po’ più di forza. È vero: Lituania ha una costellazione di lentiggini e lui non se n’è accorto se non ora.
Fa cozzare la spalla con la spalla, ha dovuto reggersi sulle punte per farlo. Si fermano, si guardano rapiti, sfugge un sorriso e un sussulto. Polonia corre per i corridoi del palazzo e Lituania lo insegue. Quando l’amico l’ha preso per la mano ha pensato a Jadwiga e a come da bambina voleva farsi stringere come una piccola sposa. Liet ha le mani della sua regina. Si volta, lui lo rincorre ancora, famelico e allegro. Lo vuole, lo desidera.
Liet sbatte addosso a lui e lui addosso alla parete di pietra. Non sente troppo dolore, è troppo sereno per sentirne alcuno “Ti ho preso!” esclama, scodinzolante come un cagnolino. Polska respira con affanno, per nulla abituato alle corse, ma ugualmente felice. La faccia un po’ tonda ed infantile di Liet ha occhi grandi e luminosi. L’azzurro è così vivo che non potrebbe paragonarlo ad una pietra preziosa. Pare più un mare calmo, del Mediterraneo o di qualche costa spagnola, ad est delle Colonne d’Ercole. Ha un abbaglio, Jadwiga aveva occhi così, ma i capelli biondi davano luce più alla fronte. Liet è diverso: il sole presta la sua luce solo agli occhi turchini. Per un attimo gli pare proprio bello, il suo Liet.
L’istinto e l’emozione lo fanno scattare in avanti. Poggia le labbra sulla guancia dell’amico. Non l’ha mai fatto prima con nessuno. La pelle di Liet è ancora sudata. Le labbra sentono sale e calore. Spinge la carne delle labbra con forza. L’imbarazzo lo precede e lo fa tornare con la schiena al muro. Liet ammutolisce e diventa rosso. La mano si alza tremule e si poggia lì dove ha posato le labbra. Toccato il punto, s’immobilizza il tremito. Lo guarda con curiosità ed incertezza. La sua faccia ha qualcosa di dolce e buffo. A Polska scappa la risata e la tenerezza. È anche dolce, il suo Liet.
Liet vede lo sguardo di Polska cambiare e raffreddarsi. Si volta, sorpreso e timoroso. Il moretto volta gli occhi. Stanno passando alcuni della corte. Liet vede i loro abiti e l’abbaglio che acceca i suoi occhi. Gli danno fastidio. Guarda Polska e immagina che venga trascinato via da lui e allontanato da quelli. Ma il biondino rimane lì, con una faccia più sottomessa e quasi terrorizzata. Liet lo guarda e non lo capisce. Sente bisbigliare del polacco più formale e lui non capisce né l’una né l’altra cosa. Polska lo comprende e comprende anche che non sono visti da quelli.
“Il piccolo Granducato è così adorabile! L’ho visto da vicino e quegli occhi azzurri sono delle piccole gemme!” esclama estasiata una voce giovane.
“Sì, adorabile, veramente adorabile!” strilla un’altra più giovane e con la voce martellante come quella di un’oca.
“Signore, vi prego, è solo un lituano” dice un uomo, contrariato e severo.
“E con ciò, messere? È un lituano, ma è un lituano delizioso e incantevole!”
“Sì, sì, davvero incantevole!” balbetta l’oca.
“Se è davvero la rappresentazione perfetta degli abitanti, allora dovrei convincere mio marito a trasferirsi laggiù… e io accanto, ovviamente!” mormora infine, con una malizia crudele che a Polska non sfugge e che lo fa sussultare. Liet è ancora vicino a lui, comprende a metà e vorrebbe ancora la mano di Polska tra le sue dita e andare via di lì.
“Ma le abitudini comunque mostrano grandi differenze dalle nostre… Sono comunque selvaggi e i selvaggi non servono nemmeno a lucidare le mie vecchie scarpe” Liet sente la mano di Polska sfuggirgli. Meravigliato, lo guarda puntare i piedi in avanti e pestare pesantemente il pavimento. Ha fatto qualche balzo per mostrarsi di fronte ai tre. Li guarda come li voleva guardare secoli fa. I tre lo osservano, interessati in qualche modo alle sue sopracciglia inarcate e agli occhiacci di lucifero puntati sui loro volti. Polska si sente offeso e sta facendo quello che ritiene giusto. Ma ha agito seguito dall’istinto. Infatti le parole tardano a mancare e la lingua s’ingarbuglia col palato. Ha voluto sempre fare tutto questo, ma non sa cosa fare. L’unico uomo lo guarda, guarda dietro le sue spalle e vede Liet. Comprende e la situazione lo fa sorridere.
“Non credo che dovremo considerarli più come tali, ormai”
“Cosa intendete dire?” si meraviglia una delle due, già dimentica di avere la propria rappresentazione vicina a lei. La seconda ritorna ad ascoltare, smemorata anche questa.
“Con la nostra influenza quel pezzo di terra sarà giustamente civilizzato e ora che la loro rappresentazione barbuglia con la nostra… immagino una veloce ripresa della Lituania”
“Ma messere, parlate anche della nostra rappresentazione?” dice la prima, fingendo di dimenticare Polska, che in quel momento si sente chiamare in causa.
“Certamente, quel Lucifero che abbiamo! Non li avete visti insieme in questi mesi? Saranno fratelli di sangue ormai!” ironizza e in qualche modo quelle due ridono. Polska si sente pugnalare al cuore “Ormai…” tossisce un rimasuglio di risata “…sarà un nobile perfetto, quel lituano. Diverranno Bruto e Cassio, giusto il tempo di farsi demone anche la Lituania. Perché, come ben sapete, chi va con l’ubriaco… impara a bere” ridono e chiocciano.
“Giusto! E chi va col diavolo diventa diavolo anch’egli!” esclama la prima, ritornando a contorcersi le viscere.
“Sì, sì, anch’egli!” e ridono, dimenticando Polska e Liet, dimenticando e non aver mai ricordato di aver spezzato il cuore ad un ragazzino. Polska non immaginava che il suo coraggio gli avrebbe causato tale dolore. Lui alza gli occhi e cerca pietà. Gli lacrimano gli occhi, pugnalati, offesi e umiliati. Le risate non smettono. Liet nemmeno sbuffa contrariato, compreso perfettamente soltanto le ultime frasi. Lui non se ne cura e afferra con la mano Polska. Già è entrato alla scuola e già immagina di diventare un eccellente cavaliere. Già il maestro lo bastona e gli urla insulti quando sbaglia o quando non sta fermo. Già le sue orecchie sono sorde a queste chiacchiere. Per Liet sono degli stolti con fango nelle mascelle, ma per Polska sono parole accusatorie e veritiere. Lui ha orecchie ancora vergini e questa cosa gli ha fatto male.
Lascia la mano di Liet e scappa, con le lacrime agli occhi. Liet è fraterno e comprensivo, allora lo segue, intimandogli di fermarsi e di abbracciarlo.
 
 
 
 
 
Le cinque dita escono fuori dal pantano. Artigliano il terreno, sporche e sudice. Si aggrappano alla terra e al sangue degli uomini morti. Arpiona il terreno come se fosse oro e issa il corpo martoriato.
Polonia porta in alto il bacino e riesce a scrollarsi di dosso il cadavere senza volto. L’altra mano, chiusa a pugno, si appoggia anch’essa alla terra e spinge il resto del bacino e le gambe. È libero, riesce a respirare. La pioggerella tintinna sui suoi capelli e li inumidisce. I fili dorati si aggrappano alla fronte di Polonia e non bastano pochi scrolli per toglierli dal viso. Nella mano chiusa il ragazzo stringe forte sei piume che bruciano sopra al cuoio del guanto sfregiato. Si issa e libera anche le gambe. La gamba non è più paralizzata e riesce ad ancorarsi ad essa e a reggersi in piedi. Gli occhi brillano di confusione, sgomento, rabbia.
Hanno vinto ancora.
Anche l’altra gamba poggia il terreno. Le piume si sono bruciate completamente. Le mani sbattono sulle gambe e si liberano un po’ del lerciume. Si sente sporco. Muove il collo in alto e col polso si libera dei capelli. L’occhio cade sulle gocce di pioggia che tintinnano sulle sue guance. Nel petto formicola qualcosa dentro Polonia, quando capisce di aver trascorso un’intera notte sotto della carne morta e del fango pestato da stivali tedeschi. Stringe il pugno, appassita l’ira, ma non la frustrazione.
Corre, coi piedi che sanno già dove andare. Gli stivali lasciano impronte nel fango, la divisa si bagna per la pioggia. Sente sotto i suoi piedi il pestare delle suole nelle pozzanghere. Guarda avanti e non si volta, scese le scale per fuggire nel rifugio, svoltato il vicolo ed evitato due scorci pieni di ratti e melma. Dimentica la guida che aveva trascinato dietro di sé nella caduta, i suoi baffi biondi e il suo sorriso birbante. Lo stesso corpo che gli era caduto addosso e sotto cui ha passato la notte. Non vuole pensarci.
Svolta vicoli e trova il rifugio. Scende la scaletta di metallo, col silenzio immondo. Il formicolio nel petto diventa fuoco incandescente. Non può pensare di aver perso un’altra volta. Per Polonia ormai è in gioco l’onore e la nazione. Cammina nei corridoi metallici. I tacchi degli stivali percuotono tirannicamente sul pavimento imbrattato di fuliggine. Lascia altre orme dietro di sé. I capelli li trova assillanti, un’altra ciocca sul suo viso. Si toglie il guanto e scopre la mano bianca e umidiccia. Afferra la ciocca e la sbatte all’indietro.
Il fuoco è diventato incendio nel suo petto. Spera che Prussia non fosse lì per deriderlo ed umiliarlo. L’idea che abbia potuto lanciare in aria l’allarme e che abbia urlato per sparare la trova viva e veritiera. Il labbro si arriccia, lo morde forte. Sente carne viva sotto i suoi denti. Il sapore metallico e prepotente lo sveglia. Deve trovare Tymek e creare un nuovo piano per vendicarsi di Prussia. Smette di torturare il labbro, le ciocche ora scoprono il volto incrinato e gli occhiacci lucenti. Basta poco per ammazzarlo, pensa Polonia, solo altri uomini e molto coraggio.
Lo sparo si ripercuote nel bunker. I passi di Polonia si arrestano. Le pareti metalliche tremano e oscillano, il pavimento pare fatto di burro. Polonia è ancorato al terreno e non si muove. Il capo si volta, il cuore pulsa di paura: lo sparo proveniva dall’interno. Tedeschi?!, trema terrorizzato il ragazzo. Corre nella direzione del rumore orribile, col cuore paonazzo di emozioni. I piedi scattanti. Sente freddo, d’un tratto, come se solo ora la pioggerella lo abbia toccato. Immagina divise nere dentro lo studio di Tymek. Immagina i simboli dei fulmini e Prussia deridente del suo tentativo. Da rabbia, il formicolio al petto trasuda terrore. Non vuole che accada una cosa del genere. Lo sparo smette di rimbombare nelle pareti e Polonia, senza nemmeno pensare, abbassa la maniglia della porta e la spalanca.
L’uscio ha sbattuto pesantemente contro il muro e crea il rimbombo di un tuono nella stanzetta. L’ordine e la calma della scrivania e delle sedie ha qualcosa di surreale. Polonia sente ancora il boato dello sparo nelle sue orecchie allora si volta, sentendo altro. Sente respiri profondi, sente gemiti trattenuti dietro a falangi. Vede prima il rosso, poi vede la figura magra, china e raggrinzita su se stessa. Polonia non sa dove posare gli occhi. Tymek alza la testa scattante. I suoi occhi rossastri hanno ira e paura.
“E tu chi diavolo sei!?” urla, con un boato smovente come lo sparo di prima. Polonia guarda ancora Tymek e i suoi occhi pressati dalle emozioni, come se non comprendesse ciò che ha appena detto. L’occhio cade dietro le sue spalle e vede ancora rosso. Il passo d’istinto si fa avanti, in qualche modo incerto “Non ti avvicinare o ti sparo!” urla ancora, con la voce che penetra nelle ossa di Polonia. Il ragazzo guarda Tymek e vede tra le mani il fucile puntato su di lui. Un brivido di freddo percorre la spina dorsale di entrambi.
“Va bene, va bene, sto fermo” i passi si fanno all’indietro e quasi cozzano contro la parete. Le mani si alzano, arrese. Si sente in pericolo. Vede ancora rosso. Polonia ha un occhio curioso e si ferma lì. La macchia vermiglia pare più vernice che sangue, tanto è lucida. Delle gocce si fanno strada e strisciano sulla parete grigiastra, colorandola. L’occhio cade ancora più in basso. Vede il lettuccio in parte bianco e in parte sporco. Vede i lineamenti di una donna sotto ad un lenzuolo. Polonia fissa i tratti del viso. Sente lo stomaco rigirarsi dentro di sé e un conato percorrergli la gola. Serra i denti, non vuole vomitare. Spalanca gli occhi, non vuole piangere. Tymek, confuso e piangente, segue il suo sguardo e reprime il respiro: non vuole frignare come un bambino.
“Senti…” crepita la voce debole e rabbiosa “…non fare quella faccia. Me lo chiedeva e siamo comunque spacciati” la gola di Tymek ha un sobbalzo e pronuncia con prepotenza e tensione queste parole. Non riesce a parlare. Gli occhi si rifiutano di cacciare altre lacrime. Polonia capisce molte cose e scuote la testa, negando a se stesso. Non può finire così.
“Tymek, possiamo tipo…” deglutisce saliva dolce, il conato ancora nella gola “…tipo andarcene da qui, però dobbiamo scappare ora” Tymek lo guarda con occhi lucidi come specchi. Vede riflesso un barlume di confusione e dolore. Polonia immagina di aver ancora cambiato corpo, immagina che Tymek non sappia chi sia e perché debba ascoltarlo. Il sangue di Wala scende ancora e gocciola lungo la coperta sottile. Qualcuna di queste cade sulla gola della donna e giacciono accanto ad altre sorelle.
“No, non serve a nulla. I tedeschi hanno ammazzato tutti quelli della mia squadra e io sono l’ultimo…” mormora con più calma e fragilità. Gli occhi azzurri sono distrutti. Per Polonia sono quasi grigi. Muove lentamente un passo in avanti, Tymek non si accorge di nulla e allora Polonia muove un secondo passo, più morbido. Sente la schiena libera e ne è sollevato “Ho mandato a morire un ragazzino, te ne rendi conto?!” sbotta, arrabbiato d’un colpo. Polonia sobbalza, sentendo di nuovo la tensione nell’aria che striscia sulla sua schiena. Arretra ancora e sbatte di nuovo contro il muro. Sente le gambe tremare e lo stomaco irrigidirsi. Il conato di vomito svanisce, la gola si paralizza. Ricorda il fascio di piume mastre che ha bruciato, la caduta e la morte del suo corpo straniero. Non è più quel ragazzo, non è più Tymoteusz. Deglutisce aria e saliva dolce.
“Tymek, non è troppo tardi per cambiare le cose. Cioè…” gli occhi brillano di terrore. Pensa ai tedeschi sulle loro teste, pensa a Darek, all’odore nauseante di sangue e interiora. Pensa alle sue viscere che uscivano dal corpo e a come mormorava il suo nome. A come chiese di sparargli. A come lo chiamò col nome del figlio. Polonia smette di tremare e pensa che tutto quel che Tymek stia vivendo sia ingiusto “Pensa a tuo padre” mormora, la voce stranamente armonica “Ha dato la sua vita per il paese e sarà per sempre ricordato” dice ancora, con la voce sussurrata come un conforto. Ma non vuole che Tymek muoia. Non vuole vedere il ragazzo ucciso. Tymek alza la testa e contrae il volto come una fiera mostra le zanne.
“Mio padre è morto come un maiale!” il piede del ragazzo arretra terrorizzato, sbattendo contro il muro “Tu non sai niente! Non sai come l’ho trovato! Non ho avuto la forza di tornare a casa dopo quello che gli è successo” lacrime nella voce, il volto si piega come mortificato, gli occhi brillanti “Lui era un vero soldato, lui aveva ragione su tutto. Doveva vivere lui…” abbassa la testa, con gli occhi tocca il fucile tra le sue mani. Polonia ha uno scatto nel cuore. Dal pantano di vermiglio esce fuori il corpo di Darek. L’occhio cieco e l’altro serrato. Sente la presenza, fasulla, del figlio. Chiede, supplica un proiettile al cranio. Polonia vede corvino e rubino. Scattano le iridi. Tymek…sparami. Il passo si fa avanti.
“Questo non è vero!”
“Ah, no? Lui ha sempre amato questo cazzo di paese. Ci è nato e cresciuto a Varsavia. È diventato soldato perché lo voleva veramente. Io… io…” singhiozza, il corpo segue la gola e sobbalza ad ogni parola. Tira su il naso. Gli occhi lacrimano, si fanno più rossi e pulsanti di vene. Si passa il dorso della mano sugli occhi. Non cala le dita dal suo viso “Io ci sono andato perché non volevo studiare. Ti pare che un bastardo come me debba ancora vivere?” urla contro il ragazzo. Polonia non vuole arretrare più. Sente in Tymek disperazione e non rabbia, per questo ha un barlume di coraggio nel cuore. L’occhiaccio smeraldino cade sulle dita frenetiche di Tymek che armeggiano con la carica del fucile. Lo vede chino sul ferro, lo sguardo orribilmente calmo, anche se lacrimante. Polonia è in allerta, come se desiderasse sparargli, ma senza avere paura che possa farlo. Le dita smettono di guerreggiare col caricatore. L’arma è carica. Polonia guarda negli occhi Tymek e legge apatia e vuoto. Il proiettile sfonda il cranio di Dorota. Lo sguardo vacuo e la testa aperta in due. Polonia guarda la donna e un orribile parassita gli sussurra di essere osservato dal corpo morto. Legge negli occhi vacui la sua colpa. Vede Klara piangere e chiedere aiuto alla mamma. Fa due prepotenti passi in avanti, come se la vita di Tymek dovesse spezzarsi in questo istante.
“Fermati!” urla supplichevole. Tymek lo osserva e per un attimo vede luce nelle sue iridi “Tutti meritano di vivere! Tua madre vorrebbe che tu sia felice, Tymek. Dorota ti ha amato tantissimo, non puoi farle questo!” gli occhi di Tymek si fanno sempre più stretti ed increduli “Ti ha amato troppo per vederti così disperato! Vorrebbe vederti sorridere… e non totalmente morto con un proiettile in testa!” lo sparo nell’aria ha squarciato il silenzio e il sangue di Dorota macchia l’altare dove un tempo si era sposata “Ed è tipo uguale anche per Klara!” la bambina viene presa e osservata. Geme e strilla. La mamma non si muove, la mamma non viene qui ad aiutarla. La mamma non si alzerà mai più da quella panca. Le labbra di Tymek si socchiudono. Polonia vede umanità nei suoi occhi. Ma vede anche confusione e terrore. Cala il silenzio, entrambi sentono i propri cuori sussultanti. Polonia guarda Tymek con fragile fermezza. Ha detto ciò che nessuno potrebbe mai sapere. Tymek sussulta e lo guarda come se gli fossero spuntate ali nere di corvo e corna di satiro.
“Tu chi diamine sei?” altro silenzio, Tymek non muta espressione. Polonia vorrebbe aprire la bocca e parlare, ma non sa cosa dire. Ha ancora occhi sbarrati e fermi su quelli del giovane soldato. Deglutisce, apre la bocca, ma la richiude subito. Si morde il labbro e lo massacra coi denti. Non sa cosa dire e non crede di dover e poter dire la verità.
Mormorii e urla sulle loro teste, incomprensibili ad entrambi. Tymek e Polonia alzano le testa con lo stesso scatto del collo. Osservano il soffitto, come se vedessero ben oltre i metri di terra e metallo. Altre parole, altri ordini lontani in una lingua che Tymek non ha mai voluto imparare. Passi, stivali e tacchi di cuoio che pestano il terreno fangoso. Pozzanghere martoriate da piedi stranieri, corse sulle loro teste. A Tymek il cuore pare quasi scoppiargli in petto. D’un tratto diventa tremule. Gli occhi si agitano tra le ciglia, la fronte suda come se questa stanza emanasse calore dall’Inferno. Entrambe le coppie di occhi cadono in basso e si scrutano, Tymek con terrore, Polonia con fermezza e un briciolo di coscienza. I passi avanzano su di loro. L’entrata per il bunker è vicina a quelle voci.
“Non c’è più speranza…”
“No, c’è!”
“No, non c’è!” dice, con la voce straziata “Che dovrei fare adesso? Ora arriveranno qui e mi spareranno… e tutto quello che ho fatto non sarà servito a niente! Non voglio… non voglio vedere mio padre dopo tutto questo!” cala il volto e piange, passandosi una mano sul viso, l’altra ancora ancorata al fucile maledetto. Polonia fa istintivamente un passo avanti. Sente il suo volto contratto in tristezza, ma non riesce a smuoverlo. È ad un passo da Tymek. Lo guarda con un sentimento che non riconosce. Indossa la stessa divisa che indossava quella notte, quando è stato sparato e i tedeschi uccisero tutti i soldati e suo padre, in quella maledetta notte. Vede sulla spalla l’aquila bianca svettare, sporca e grigia. Polonia ha come l’impressione di vederla per la prima volta. Questa è sgualcita e vecchia, malata e stanca. Polonia pensa che sia l’ultimo polacco che indossi quest’aquila e un freddo gelo penetra nelle sue ossa.
“Tymek…” sussurrano le sue labbra. L’orecchio oppresso sente in lontananza stivali e voci arrabbiate. Sente ordini urlati e braccia pesanti che scendono lungo la scala di metallo. Tymek è spacciato, pensa consapevolmente e con un batticuore compassionevole. Non lo vuole morto, non vuole che Tymek sia ucciso da tedeschi. Il soldato smette di piangere e abbassa la mano dal viso. Tymek guarda Polonia, i suoi capelli, i suoi occhi fermi e tristi, eppure luminosi. Si sente leggero e libero, ma affatto felice. Sente di aver capito come fuggire da questo posto.
“Sei un angelo, vero?”
Polonia sente le proprie sopracciglia cadere. Socchiude la boccuccia, le spalle, sempre tese fino ad ora, sgonfiarsi e afflosciarsi. Guarda Tymek e le sue lacrime e non può credere in quello che ha appena detto. Sente le gambe rigide, come affondate nude in un mare di neve. Lo guarda meravigliato. Tymek entra nella sala da pranzo con un’arroganza adolescenziale. Il padre lo sgrida, lui sbuffa e smette di deridere la sorella. Prende in giro Feliks e il suo sogno. Ride e i genitori scuotono la testa. Polonia non riesce nemmeno a negare. Il suo sguardo afferma il contrario di ciò che vorrebbe dire a Tymek.
“Sei venuto qui per dirmi di non fare niente di stupido… Hai visto com’è morto mio padre?” Polonia è ancora freddo, è ancora meravigliato. Si sente soffocare dal moro, si sente artefice della morte della sua famiglia. Non riesce a parlare, non annuisce, ma è come se l’abbia fatto. Il volto di Tymek si contrae in dolore “Oh, Cristo…” si getta la mano in faccia. Le ginocchia cedono e cade sopra al materasso sporco. Sospira pesantemente, Polonia sente ancora gelo nelle sue carni “Mia madre e mia sorella sono morte?” chiede con una voce martoriata. Sparo. Altare sanguigno. Testa di Dorota frantumata. Occhi vaghi e accusatori. Klara portata via. La sua mano si apre per afferrare quella della bambina. Caduta nel mare cartaceo. Polonia sente le lacrime avanzare sotto le sue palpebre. Annuisce con più forza, come se affermasse di averle uccise lui stesso. Tymek sgrana gli occhi sotto le dita “Oddio…”
Passi selvaggi dietro porte e porte. I tedeschi sono qui. Sente le urla con più chiarezza, anche se ancora offuscate. Uomini e uomini armati. Tymek sembra molto più tranquillo e freddo. Polonia lo guarda incredulo. Il moro si toglie le mani dal viso. Lo sguardo stanco e gelido di uno a cui la morte non tocca più. Gli occhi avanzano sopra le coperte grigiastre. Sfiora con lo sguardo la mano del corpo. Apre la palma e la poggia su quella di Wala. Polonia non sente più urla dietro gli usci, non sente più tedesco strillato. Tymek carezza Wala. Lui vede tristezza, Polonia vede amore “Io non sono mai stato come mio padre. Non ho mai fatto nulla di utile per il paese” fa scivolare via la mano dalla spoglia dell’amante, chinando ancora il capo “Mia madre era troppo buona per essere stata uccisa”.
Urla. Parole tedesche. Corse lungo i corridoi. A Polonia non importa più, a Tymek non importa più. Alza lo sguardo e gli occhi s’incrociano chi provato e lacrimevole, chi paziente e mortificato. Tymek sembra appassito come un fiore.
“Ti ringrazio per essere qui, angelo… ma non posso andare in Paradiso” la mano si apre e afferra il fucile senza sicura. Tymek guarda fraternamente l’angelo dai capelli biondi e gli occhi verdi “Credo che i Lukasiewisz non meritino di vivere, ormai…” veloce, sfuggente, il ferro della canna si poggia sulla bocca spalancata di Tymek. Rimane ferma sul palato e l’altra mano tocca il grilletto. Gli occhi azzurri lo supplicano di avere perdono. Polonia spalanca le palpebre e si rende conto di non poter fare nulla.
“No!!!”
Lo sparo riecheggia e lo fa tremare. Polonia vede solo nero sotto le sue dita. Si è riparato il volto con le mani. Sente le pareti oscillare e il pavimento come spezzarsi sotto al suo peso. Attende e trema. Si toglie timidamente le mani dal volto. Vede rosso e grigio, carni… cervella. Si volta e si poggia una mano sulla bocca. Non vuole vomitare, non deve vomitare. L’acido e pezzetti di cibo che non ricordava di aver mangiato gli salgono in gola. Si poggia la seconda mano sulle labbra e respira. Non vuole voltarsi, non deve voltarsi. Tymek non ha più una faccia, l’occhio si regge a fatica nell’orbita… la testa è scoppiata e Polonia ha visto solo carne sulla parete che strisciano verso il basso come sanguisughe. Si preme con più forza le mani sulla bocca. Il corpo gli si piega. Non deve vomitare.
Una voce ha urlato dietro la porta. Era così aggressiva da farlo trasalire. Lo stomaco si blocca e il rigurgito comincia a scendere. Sono vicini, sente i passi più prepotenti, più scattanti. Si crea il gelo dentro le sue ossa. Le mani cadono e cercano appoggio, trovato in una sedia. Scuote la testa. Sono vicini, sono troppo vicini.
Polonia si guarda attorno. Non ci sono finestre, non ci sono porte. Non ci sono nascondigli. Per sbaglio l’occhio si poggia su Tymek e Wala e la nausea si fa risentire. Qualche brandello di pelle e ormoni è ancora ancorato alla parete. Guarda in basso, tra il materasso e il pavimento. Si avvicina, ma guarda in alto e si blocca. Si para gli occhi. Non può nascondersi lì.
Il rimbombo della lingua tedesca si abbatte sulle pareti. Polonia guarda la porta come se ne dipendesse la sua vita. Guarda la scrivania, non può accucciarsi là sotto. Guarda le sedie, i fogli e i documenti malamente scritti. Non può difendersi. È perduto, come Tymek.
Sente una porta spaccarsi. Si volta terrorizzato. Non è la sua, ma la seconda lungo il corridoio. Guarda Tymek, come se cercasse aiuto da lui, ma l’ha abbandonato e il suo corpo non può guardarlo senza sentire lo stomaco rigirarsi tra le viscere. Guarda la porta e indietreggia. Presto sarà il suo turno.
“No…” sbatte contro la scrivania. I passi degli stivali sembra quasi vederli dietro la porta “Non voglio che finisca così” scuote la testa. La porta sta per essere aperta. Spalanca le palpebre, le iridi smeraldine si sono fatte piccole come teste di spillo. La maniglia si sta abbassando. Spalanca la mascella, urla come non ha mai fatto, preda della paura. Paura, pazzia, affonda la mano nella tasca della divisa. Afferra, spezza con le dita le piume rosse e nere. Le stringe come si stringe una manciata di sabbia e, conquistato dal terrore, urla  “Non voglio morire!”
La porta si apre, le piume prendono fuoco. Bruciano, incendiano come un piccolo falò. Il fuoco non consuma le piume. Polonia se ne accorge e sente vero fuoco sopra al cuoio del guanto. Le getta d’istinto e toccano terra. Bruciano, infiammano il pavimento, infiammano le pareti di carta che, come foglie, si stringono e appassiscono. La carta si tramuta in cenere. Polonia si guarda attorno e si chiede che fine abbia fatto il bianco latteo che ha sempre visto fino ad ora. La carta avvampa anche sotto ai suoi piedi e precipita.
Polonia rimane scioccato, mentre affonda sempre più nel nuovo nero di questo mondo.
 
 
 
 
 
Polska si è fermato alla sala, dove anni prima si erano incontrati per la prima volta. Si è seduto lì, sul trono, e si è stretto in un bozzolo di lacrime e vesti lunghe. Liet ha quasi paura di toccarlo. Ha cercato di confortarlo, di non ascoltare quelli, che sono solo stolti, che non possono capire loro Nazioni, che non sanno chi sia davvero. Ma Polska ha continuato a piangere e non fa altro anche ora. Liet si sente male perché non sa più cosa fare e sente già il naso colargli. Lo tira su, non può piangere anche lui. Il trono sembra spento e le foglie ricamate in oro paiono seccate.
“N-Non è vero nulla…” mormora, ancora chiuso nel bozzolo come un baco di seta. La sua voce è parsa appannata e debole. Al lituano dispiace veramente tanto, come se fosse in parte colpa sua.
“Sì, è vero” prova ad incoraggiarlo, facendogli cadere lentamente le gambe dal sedile vermiglio del trono. La testa abbandonata al grembo, i capelli calati sul volto. Le braccia sono ancora strette in una morsa. Liet immagina che possa farsi del male. Non ha mai visto qualcuno stringersi con così tanta forza da artigliarsi le costole. Il moretto deglutisce e tira ancora su il naso.
“Non sono cattivo…”
“Certo che non lo sei. Sei buono…”
“Sono loro cattivi!” urla d’un tratto. Liet ha indietreggiato di un passo. Si tira le mani allo sterno, spaventato. Non se l’aspettava “Loro…” singhiozza Polska “Loro l’hanno portata via…” mormora qualcosa fra le labbra, forse un nome. Il lituano non lo sente “Hanno ucciso Jadwiga…” gli trema il labbro, i capelli si aprono come una tenda sul volto del biondino “Mi hanno tolto tutto!” gracchia. Liet è ancora fermo sui talloni e con il braccio al petto. I piedi di Polska calciano il trono, con qualcosa di simile alla frustrazione invece che rabbia. Gli si contorce il busto come un vermicello a cui hanno tagliato il capo. E nemmeno le braccia artigliate ai fianchi fermano l’ondeggiare mostruoso. A Liet tutto questo movimento sembra pericoloso e vorrebbe fermarlo. Si avvicina deciso al biondino, singhiozzante. Pensa che debba abbracciarlo.
“       Non piangere, va tutto bene” afferma con calma. Non vuole che Polska pianga più. Gli si accosta e alza una mano per toccarlo. Il biondino l’afferra e la stringe. Il lituano sussulta: la presa è salda, la stretta anche se tremule è comunque forzuta. Gli manca il respiro, guarda Polska. I suoi occhiacci lacrimano ancora e il pianto gli ha fatti rossicci e infiammati. Le iridi smeraldine sono ancorate alle sue. Le gambe gli tremano. Un freddo invernale striscia sulla sua schiena. Questo sguardo gli fa paura “Tu sei mio”
“C-Cosa?” chiede la sua voce diventata un bisbiglio. Non ha sentito bene. Polska lo guarda fisso e in qualche modo a Liet ricorda un demone, proprio come l’hanno dipinto i nobili a corte.
“Tu non sei di loro” Liet annuisce con sicurezza, anche se con le gambe tentennanti. È vero, lui non è della corte polacca. Il biondino gli molla il braccio e un sollievo pervade il petto del moretto, ma lo sguardo è ancora fisso sul suo. A Liet sembra arrabbiato, forse con lui stesso. Abbassa lo sguardo, comincia ad aver paura di incrociare gli occhi con quelli dell’amico. Il biondino alza il braccino e lo struscia sotto al naso gocciolante. Le lacrime non le lava “Inchinati” ordina.
“Come?” mormora, sottomesso e con lo sguardo impaurito. Non riesce ad alzare gli occhi. Polska tira ancora su il naso.
“Inchinati!” urla. Liet si spaventa e sobbalza. L’istinto gli fa abbassare il ginocchio sul pavimento. Trema di paura. Alza gli occhi, Polska non ha cambiato sguardo. Lo guarda come se dovesse fulminarlo e al moretto questa cosa terrorizza. Il trono pare ora ancora più cupo, le foglie completamente essiccate e piegate verso il principino, i gambi cadenti. Lo sguardo freddo di Polska lo trafigge “Di’ che sei mio” mormora poco convinto e colpevole. A Liet sembra più umano, allora alza la testa.
“I-Io…”
“Di’ che sei mio!” urla ancora, con la voce gracchiante e velata dalle lacrime. Continua a piangere. Il ragazzino si commuove e si maledice per la sua lentezza.
“Sono tuo”
“Dillo… dillo di nuovo”
“Sono tuo, Polska” è stato più istintivo questa volta. Sentire il suo nome pronunciato da Lietuva lo ha fatto sentire bene. Immagina troppo. Immagina che il suo Liet l’abbia detto veramente col cuore. Ha detto che è suo e che non appartiene a nessun altro. Ha detto che non sarà strappato via da lui come è stato quand’era bambino, né verrà ucciso come lo è stato con Jadwiga. Lietuva ha detto che gli sarà vicino per sempre. Gli ha detto che non l’abbandonerà mai. Tira su ancora una volta il naso, il volto si rilassa, le lacrime continuano a bruciare tra le sue ciglia.
“Sì, è così…” annuisce fra sé e sé. Il moretto si rialza. Vede di nuovo il volto del suo amico e dimentica lo sguardo glaciale che gli ha rivolto poco prima. Polska si alza dal trono, calpesta impacciato il pavimento sotto i suoi stivali e caccia la testa nel collo di Liet. Il moretto rimane spiazzato. Si sente stringere debolmente e allora lui lo fa con più forza. Ha dimenticato ciò che è accaduto. Polska continua a piangere, ma si sente più rincuorato: Liet non l’abbandonerà mai.
Liet è solo suo.
 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 17
*** DiCiOtTeSiMo CaPiToLo ***


La tomba scoperta non l’ha nemmeno pensata in quei giorni. Alla luce del giorno, col sole che filtra i suoi raggi in mezzo ai rami verdi, pare quasi patetica. Sospira a denti stretti. Le rose sono marcite in questa settimana dolorosa. Le dovrà bruciare, più tardi. Stare lì, nell’ombra della sua casa, a guardare l’inizio del suo struggimento gli toglie ogni energia. Ricorda cosa debba fare, allora attutisce dentro di sé un secondo sospiro.
Si abbassa, afferra la bara di legno. La solleva con facilità. Sembra molto più leggera di come ricordasse. Con la sinistra afferra il coperchio. La chiude, la serra, la porta sulla spalla e cammina.
Il giardino d’avanti casa è illuminato dal sole estivo. Sente la pelle bruciare, fa davvero caldo. Ma preferisce ardere sotto al sole che irrigidirsi nel freddo della neve, per questo non si lamenta e, se non fosse per la tristezza, gli spunterebbe un sorriso. Parte del giardino è spoglio. Non è rimasta nemmeno una rosa, tutte donate a Polonia. Il cuore pesa di tristezza. Dovrà piantare altri semi, forse di altri fiori. Vedere di nuovo i cespugli rossi e bianchi gli farebbe irrigidire lo stomaco.
“Lettonia caro!” sente in lontananza. L’occhio si volta. Non li vede, devono essere dall’altra parte del giardino. Ucraina è guarita in fretta e Lettonia ne è rimasto sollevato. Sorpassa la macchina e il cancello. La voce si fa più lontana “Ti ho preparato un panino…” gli sembra di sentire, insieme ad un Lettonia con una vocina timida e felice. Non li sente più.
Il boschetto gli pare insignificante e tutto questo verde pare non aver alcun colore. Non vede gli scoiattoli appollaiati sui rami alti, non sente il cuculo cinguettare tra le foglie, non nota i ricci e i funghetti appoggiati sulle loro spine, né sente odore di lamponi e fragole.
Si ferma di fronte alla casetta. La osserva un attimo. Sembra cupa ed ipocritamente pericolosa. Non pare nemmeno terribile. È un mucchio di legno come tanti altri. La scalinata cigola sotto i suoi piedi pesanti. Questa, si rende conto, è la vera tomba dove doveva stare Polonia. È il luogo dove avrebbe abbandonato Lituania, se il suo amico l’avesse portato in Paradiso insieme a lui. Avrebbe poggiato i capelli scuri del ragazzo vicino alle ciocche dorate di Polonia. Li avrebbe lasciati dormire sul suo vecchio materasso e avrebbe imboccato a loro le coperte. Sente Lituania come morto. Si chiede ancora, come ogni giorno, se sarebbe stato meglio lasciarlo morire. Immagina se stesso quella notte, che girasse le spalle al ragazzo e lo lasciasse accogliere tra braccia più morbide delle sue. Sarebbe stato felice, avrebbe chiuso il debito che ha con Lituania. Non avrebbe avuto un fantasma insensibile in casa. Non avrebbe mai visto degli occhi seri e freddi nel suo viso. Non avrebbe visto un estraneo simile a lui in guerra, ad uccidere come se fosse parte della sua anima. Lituania non è più un angelo, dopo tutto quello che ha vissuto e sofferto.
Prova ad aprire la porta. È chiusa a chiave. Ha un attimo di smarrimento, poi ricorda: l’ha chiusa per sempre ieri, questa casetta. Scuote la testa, incredulo della sua memoria corta. Si volta, pensa di lasciare qui la bara e di sperare che nessuno se la porti via. Potrebbe servirgli d’inverno, per accendere le braci del camino. Si volta, dimentica cos’è questa casa e perché lo angosci così tanto. Le spalle sono pesanti come montagne. Cammina verso casa, senza nemmeno guardare il boschetto fuori il cancello. A malapena ricorda cos’ha fatto e come ci sia finito in giardino.
Il cancello lo sorpassa col cuore pesante. Fino ad ora ha tenuto lo sguardo ancorato ai suoi piedi. Se ne vergogna, non dovrebbe farsi vedere infelice a casa sua. Alza la testa. Il sole lo abbaglia. Strizza gli occhi, d’istinto poggia una mano di fronte a sé per proteggersi. Il sole sembra perdere consistenza sotto la sua mano. Un lampo nero si muove alla finestra. Estonia non lo vede, voltato di spalle. Lo guarda alzato sulle punte, con lo straccio che strofina con fatica il ripiano troppo alto della biblioteca. Fosse alto come Lituania ci arriverebbe senza fatica. Lettonia gli dà un grande aiuto in casa, ma non ce la possono fare da soli. Hanno bisogno del fratello maggiore, per il fisico e per lo spirito. Lituania sarebbe stato alle spalle di Estonia, gli avrebbe dato un altro compito e avrebbe ultimato lui lo spolverare della biblioteca. L’assenza di Lituania sembra un pezzo di puzzle che in qualche modo rende incompleto il quadro.
Oltrepassa il giardino frontale, si dirige verso la tomba, che ora pare più una fossa scavata inutilmente. Questo lato di giardino non ha un raggio di sole. Abbassa il braccio, afferra la pala appoggiata al muro della casa. Con questa butta la terra, pezzi di rose e gambi di fiori dentro il buco.
Inizia a chiudere la tomba, così come vorrebbe rattoppare ogni strappo che ha provocato nel cuore di Lituania.
 
 
 
 
 
Il ronzio interminabile del rasoio è straordinariamente rilassante. Non lo agita, non gli dice nulla di sbagliato. Non gli fa del male, nemmeno se strappa dal suo cranio ciuffi di capelli. È come starsene ore ed ore ad ascoltare il gocciolare insistente della pioggia sulla sua testa. Lo rende leggero, questo ronzio. Polonia sente sempre più la testa leggera. Vede la mano che regge l’apparecchio, ma non l’uomo, né il suo volto. Non gli interessa nemmeno, in verità. Crede che non lo ricorderà comunque. Vorrebbe sbadigliare, ma non è certo di riuscirci.
Una metà di testa si libera delle ciocche bionde, il rasoio concentra le sue lame sull’altra metà di cranio. Il lato sgombro non ha un pelo. Polonia lo immagina biancastro, un pallone imperfetto. Ha freddo su quella pelle. Non ricorda affatto quando mai avesse avuto i capelli corti o quanto li rasò da ragazzino. Non ricorda neanche il gelo sul cranio affatto liscio. Immagina buchi microscopici sulla sua testa, senza un filo di capelli a riempirli. Che immagine triste, pensa.
Guarda in basso, mentre il ronzio dell’aggeggio pare quasi sul punto di spegnersi. Sulla sua spalla cade una ciocca sporca di fango. Era pesante come una zavorra. È quasi felice di liberarsene. Non si muove, ma quella cade dalla scapola e finisce a terra. Ai suoi piedi ce ne sono altre di queste larve. Non vede nemmeno un ciuffo giallo. Il pavimento tra le sue caviglie è tetramente scuro. Prussia l’ha trascinato fin quaggiù e quaggiù, in questa baracca congelata, l’hanno fatto sedere come un burattino senza fili. Non riesce ancora a muoversi ed è troppo stanco anche solo per pensare di essere in grado di muoversi. Ma dopo quel sogno orribile, non crede di poter più riuscire a fare un passo. Il rasoio si spegne, una mano gli scuote la testa col palmo e lo libera dai ciuffi morti. Hanno finito.
Sanno che non può muoversi, a quanto pare. Qualcuno gli poggia il braccio sotto la gamba e un altro sotto la schiena. Ha le braccia robuste, questo personaggio. Lo tira su, quasi gli fa fare un balzo in alto, e Polonia non batte nemmeno le palpebre. E’ esausto, ha sonno, non riesce a sbadigliare. Sente l’ondeggiare del corpo dell’uomo insieme al suo. Lo rilassa anche questo. È come una di quelle culle in cui non è mai riuscito ad entrare da bambino. Il cranio ha brividi di freddo.
L’uomo senza volto e senza identità lo poggia a terra. Polonia non registra su cosa sia seduto, non riesce a rendersene conto. Questo stesso uomo, con naturalezza, si china affianco a lui e inizia a sbottonargli la casacca della divisa. Polonia segue con fatica le dita grassocce. Gli sfila la mantella, la casacca e gli stivali. Le sue mani sono veloci, anche se spesse come salsicce, non riesce a registrare tutti i suoi scatti. È come vedere tutto sfocato. Si muovono sulla sua schiena. Sente lo strappo della maglia. Chiude le palpebre, le riapre. Non lo sente più. Forse deve aver finito e gliel’ha tolta, non ne è sicuro.
Poggia la sua schiena per terra. L’impatto leggero con il pavimento non lo ode, immagina solamente che ci sia stato un impatto. Non gli interessa veramente. Il mondo gira attorno a sé, come scosso. Smette di girare. Gli toglie i pantaloni. Sente freddo ovunque. Quello se ne va, senza voltarsi. Lo abbandona lì, nel pavimento congelato, nudo come un bambino. I suoi vestiti non li ha portati via. Deve avergli calciati in un angolo, lontano da lui. Non sente vergogna. Il mondo è fermo, i suoi pensieri sono fermi. Non sente un briciolo di disagio come quando si dovette svestire tra tutti quegli sconosciuti con Magda. Non gli interessa molto. È ancora troppo stanco per realizzare qualcosa.
Scende dell’acqua dall’alto, che lo bagna come un pulcino. Sbatte le palpebre. Qualche goccia perlata gli entra negli occhi. Serra le palpebre, sospira per il nuovo freddo che scambia per caldo. Per un attimo ricorda la stanza affollata dov’era stato rinchiuso con la piccina. Crede che sia la stessa, ma non ne è certo. Dall’alto scendeva acido e qualcuno aveva urlato di un certo gas che non aveva mai sentito nominare, ricorda. L’acqua lo innaffia, è ghiacciata, ma non lo fa tremare. Con fatica capisce che non sia la stessa acqua disgustosa che ha bruciato la sua pelle quella volta. È acqua, vera acqua invernale. E ne è zuppo, in ogni angolo di sé. Immagina che dovrebbe vergognarsi, ma non ricorda bene come ci si vergogna, quindi resta fermo laggiù, ancora abbandonato. Non apre le palpebre.
L’acqua smette di bagnarlo e ferma la sua pioggerella in quella stanzetta. Delle ultime gocce tentennano nel toccarlo. Ha freddo, ma immagina che il suo corpo non ne abbia. Non lo capisce affatto in questo momento. Si sente umido, ma pulito. Non del tutto, ma è pulito. Apre le palpebre e ora sembra la cosa più complicata del mondo. Un’altra ombra, un altro uomo senza volto. Non sa se sia lo stesso di prima: se l’è già dimenticato. I suoi vestiti appaiono in mano a questo, con la maglia strappata e gli stivali distrutti da tutto quel che gli è accaduto. Guarda delle mani rovistare dentro le tasche della casacca e dei pantaloni. Polonia ha un lampo di consapevolezza. Sbatte le palpebre. Il corpo per un attimo si riscalda di vita. Ricorda della coroncina che aveva trovato con Toris e del nastro di Liet. Li ha nella tasca, ne è certo. Sono le uniche cose che si è portato dietro da quel viaggio nel nero. Deglutisce, incerto di quel che stia facendo questo mostro.
Le mani rovistano nella tasca sinistra della giacca. È gonfia, rovista per pochi secondi. Tira fuori la coroncina e il nastro nero, ingarbugliato tra le pietruzze rosse e blu. Polonia sente aria nei suoi polmoni e palpebre spalancate. Il cuore ha un sobbalzo: le mani separano la coroncina dal nastro. La coroncina striscia fin nella tasca dell’uomo. La serra. L’uomo si volta, sembra andarsene. Polonia guarda le dita, come se possano cambiare qualcosa di tutto quello che gli sta accadendo. Vede la tasca dell’uniforme nera ingrossata e mai più toccata. Il nastro scivola dalle sue dita, sbatte contro il tallone della suola di cuoio e cade accanto alla mano di Polonia. Lo abbandona, insignificante per lui. Polonia guarda con fatica il nastro. Un istinto muove le sue dita. È meravigliato che riesca a sporgere la sua mano fino ad afferrare con l’indice e il medio il nastro. Le dita lavorano con una fatica inumana. Chiude il nastro nero nel suo pugno, lo ingloba completamente. Lo stringe forte, chiude il pollice sull’indice e il medio. Sembra la cosa più calda che abbia mai preso in mano.
Chiude le palpebre e le riapre. Ora è seduto, toccato da altre mani. Sbatte le ciglia. È come se si fosse addormentato e poi fosse stato buttato in un altro posto sconosciuto. Se ne rende conto, ma non gli importa. Muove pian piano il pugno. Il calore del nastro di Liet chiuso dentro le sue dita non è svanito. È l’unica cosa che gli interessi per davvero. Lo tengono ferme un paio di mani, un altro paio sembrano fargli indossare dei vestiti diversi. Gli occhi riescono a compiere la fatica di guardare quello che fanno. Un paio di mani lo sollevano, un altro paio gli fanno indossare con distrazione dei pantaloni, forse un po’ troppo larghi per lui, una camicia, anche questa troppo grande, e delle scarpe che non ricorda di aver mai visto. Sembrano fatte di legno, ma Polonia non riesce a capire perché debba indossare delle scarpe di legno e perché debbano esistere delle scarpe del genere. Guarda questa sorta di divisa. Rimane per la prima volta perplesso. Sembra una di quelle uniformi carcerarie che ha visto anni fa nei film di America: è strappata, bianca a righe nere. Non capisce, ma è troppo stanco per farsi domande.
Una delle quattro mani gli afferra il braccio, non quello che stringe il nastro di Liet, si accorge con sollievo. Fa tirare la camicia a righe fino al gomito, senza fretta, ma nemmeno con calma. Sono incredibilmente brusche, le mani. Gli fanno quasi male. Un’altra mano sconosciuta fa avvicinare un bastone scuro, lungo e probabilmente anche pesante. L’estremità tondeggiante pian piano si avvicina verso l’interno del braccio. Polonia vede le sue vene blu e verdastre sotto la sua pelle magra. Il bastone si avvicina. Avverte un calore improvviso, verso la sporgenza del bastone. Polonia batte le palpebre, avuto uno scatto improvviso al cervello addormentato: quello non è un bastone.
La punta tonda viene premuta sulla sua pelle. Il bruciore fa scattare un segnale d’allarme nella sua mente. Eppure non sente quasi nulla. Polonia continua ad osservare con attenzione, ora chiedendosi perché non senta la puzza di pelle bruciata e il dolore che il suo corpo chiede di provare, ma che non riesce ad emulare. La punta incandescente del ferro viene alzata e abbassata più volte. Le mani gli stringono con fermezza le spalle e le braccia. Pensano che possa avere una reazione o uno scatto, immagina Polonia. Ma non si muove, non sente dolore, non urla, non prova a scappare o ad allontanarsi da questa che dovrebbe essere una tortura o una punizione incomprensibilmente terribile. Lasciano il suo braccio, non lacrima nemmeno una goccia di sangue, non pare aver udito nulla nemmeno lui. Polonia stringe con più forza il pugno e il nastro, anche se non avrà spiegazioni per tutto ciò. Lo fanno alzare ancora e lo trascinano chissà dove, mentre la testa di Polonia ciondola verso il basso e guarda quel che gli hanno cicatrizzato per tutta la sua permanenza qui.
 
                                                  000000
 
Ritorna la sonnolenza e la consapevolezza di voler dormire. Sente lo sbadiglio rimbalzare nel suo petto e percorrere la sua gola. Non lo libera, anche la mascella fa fatica a muoversi. Chiude le palpebre, non pensa di volerle riaprire. Sente come una porta aprirsi. Vertigini da caduta. Le mani che l’hanno mosso fino ad ora lo hanno abbandonato ancora. Il suo cranio sbatte su un gradino, uno spigolo, un qualcosa che ora ha fatto prendere la rincorsa al suo corpo. Sente di precipitare ancora e di non sentire nemmeno un granello di dolore. Ha sbattuto poco più sopra dell’orecchio sinistro: lì l’hanno sparato quando fu separato per la prima volta da Liet, nella neve, con Russia che portava via il suo amico. Il proiettile è stato rimosso secoli fa, ma la conca è pur sempre rimasta. Toccarla di solito lo fa sobbalzare e sussultare, eppure ora non sente niente, solo capisce di essere stato toccato lì.
Il suo rotolare in fondo alle scale pare smettere in fretta. Erano pochi scalini, a quanto pare. È finito a pancia in giù, con la testa di lato ad osservare un muro che ora non identifica. Ritorna il sonno, a malapena ricorda di dover stringere meglio il pugno per non far volare via il nastro di Liet. Sbadigliano i suoi polmoni, si chiudono le sue palpebre. Il respiro si fa lento e dimentica quel che gli è accaduto fino ad ora.
Morfeo lo prende fra le braccia e lo porta lontano dall’Inferno.
 
 
 
 
 
Il re sbarra gli occhi e rimane incredulo della trappola, avvolto nello scuro mantello di ermellino. Il cuore pare aver preso il sopravvento sui polmoni, nel ritmo incalzante. Si sente rinchiuso tra le braccia della morte bianca. Lo stivale ricamato da abili sarti rimane imprigionato a terra. Il soldato senza volto, col suo lungo mantello luminoso, rimane fermo nella sua posizione, attendendo i comandi per poter sferrare il colpo decisivo. Il re si volta alla destra e alla sinistra, cercando una via d’uscita inesistente, ma è tutto inutile: il lato destro è marcato da un secondo soldato, senza un’espressione di pietà, senza poter chiedere di essere risparmiato; il lato sinistro è ben peggiore, pensa il re: il cavallo bianco dell’arciere non sbuffa nemmeno di fronte alla sua debole figura. È spacciato, si rende conto. Deglutisce, sentendo di essere giunto alla sua ora. Il cavaliere a cavallo incrocia gli occhi insensibili coi suoi terrorizzati. È pronto per attaccare.
Lituania allunga gli angoli delle labbra, consapevole di aver già vinto “Allora, Polonia… adesso sei con le spalle al muro. Cosa pensi di poter fare?” gli occhi azzurri scintillano per la futura vittoria. Entrambi hanno guardato la scacchiera ed entrambi sanno che qualsiasi mossa potrà fare il re nero non sarà altro che inutile, circondato e ormai perduto. Polonia sobbalza indignato. Sa bene che perderà. Odia gli scacchi e non vuole più giocarci da quando Liet incominciò a prendere quel gioco con una serietà disarmante. E’ ammirato dall’intelligenza di Liet, ma vorrebbe che quell’intelligenza sia sua. Incrina le sopracciglia, offeso.
“Che?! Cioè, questa è una totale follia! Non me ne posso uscire totalmente in nessun modo da questo casino! Tipo, per davvero!” Lituania sembra paziente e ugualmente felice. Polonia reprime il sospiro di rabbia e sdegno. Non vuole che Liet sia felice di vincere. In verità non vuole che Liet stia per vincere. Vorrebbe vincere lui. Ed essere intelligente come lui. E dimostrargli di essere migliore di lui. Ma Lituania è migliore di lui e Polonia non lo accetta. Gli occhi azzurri si posano gentilmente sui suoi.
“Io non perdo mai nei giochi in cui devi usare il cervello” anche la sua gentilezza irrita il biondino. I pugni si stringono e una nocca schiocca. Si sente tradito dal suo stesso amico. Si sente inferiore a lui. Non vuole essere inferiore a lui. Liet trasale, incredulo dall’espressione sbalzata di Polska “Uh?!”
Polonia alza i pugni. Non se ne accorge, ma ha quasi fatto un salto, seduto sulle proprie ginocchia “Userò la Regola di Polonia! Sarà il mio turno per sempre!” non si accorge nemmeno di aver alzato la voce. Lituania è spiazzato, preso di sprovvista. La lingua rimane incastrata nel palato. Spaventata, la testa si abbassa e il collo si ritira fra le spalle.
“Cosa?! Ma che dici?!” a Polonia spunta un sorriso: la faccia spaventata di Liet è divertente e soddisfacente allo stesso tempo. Prende l’alfiere col suo cavallo immaginario e lo butta. Afferra i due pedoni e le loro spade fiabesche e li getta lontani “Cosa? Che diamine è questa ‘Regola di Polonia’?!” Afferra la torre e la lancia dietro le sue spalle. E un altro pedone. E la regina. Tutti i pezzi bianchi di Liet. Lituania comprende quel che sta accadendo e sporge con uno scatto la testa dalle spalle “Hey, questo non è più il gioco degli scacchi! Ci sono solo pedine che volano via dalla scacchiera!”
Non c’è più nemmeno un pezzo bianco. Polonia ha tra le dita solo un ultimo pedone. Non c’è più nessun nemico da sconfiggere, non c’è più nessuno che possa impedirgli di vincere. Gli scappa da ridere. Liet ha una faccia divertente “Ho vinto!” esclama, più leggero con se stesso. Si sente il vero vincitore “Veramente, Liet, guardare la tua faccia è più divertente che giocare a scacchi!” ride ancora di gusto, sincero in quel che dice. Lituania ha la faccia nascosta dentro al suo cuscino. Non si muove da lì. Polonia lo guarda e la risata pian piano si affievola. Lituania sembra sentirsi male. Cade un cupo silenzio. Polska lo guarda e non ride più. Guarda la fronte ingoiata dalla seta arancione, le mani strette nei pugni, i capelli scomposti. Polonia sente un’angoscia strisciargli lungo le vertebre. Tutto questo non è più divertente. Il pedone fra le sue dita scivola via.
“Liet, scusa…”
Lituania non si muove. Non si smuovono i pugni, né i capelli impigliati nell’arancione. Sembra non respirare nemmeno. Polonia ricorda di avere nell’anima un altro se stesso più anziano, ma sente ugualmente la colpa iniziare a vibrare nella sua mente. Ricorda di aver riso e di aver rovinato il gioco. Si sente male. Il silenzio diventa pesante.
“Liet, non volevo dirti quelle cose… Non è vero che sei divertente quando sei triste. Liet, ci sei?” sussurra debolmente, ha paura di dire qualcos’altro di crudele. Lituania non si muove ancora. I pugni si stringono con più forza sul cuscino. Polska guarda le mani più morbide e le nocche più rosee del Liet più grande e gli pare udire lo stesso sconforto che ha il suo amico. Guarda la fronte, gli sembra rossa. Crede che stia per piangere. Gli trema il cuore. Si guarda attorno. I pezzi degli scacchi sono sperduti nella stanza. Non ha idea di dove possano essere quelli che ha buttato via dalla scacchiera. Guarda il pedone che aveva fra le dita e che avrebbe potuto fare la fine dei suoi gemelli e fratelli. Gli tentenna il sorriso quando lo poggia di fronte al re nero. Il turno è di Liet. Guarda il suo amico. Ha ancora la testa bloccata nella seta “Liet, ora è il tuo turno. Stai vincendo tu. Lo sai, no?”
Attende che l’amico alzi la testa, che lo guardi arrabbiato o triste o deluso di lui, che prenda il pedone e mangi il re. Che ritorni tutto alla normalità. Polonia attende e Lituania si fa attendere. Alza la testa dal cuscino. La sua fronte è più rossa di quel che credesse. I capelli gli nascondono gli occhi. Non lo guarda, non sembra pensarci nemmeno. Non sorride. Si alza, si volta, cammina verso la porta, senza nemmeno alzare la testa. Il cuore di Polonia smette di battere, le pulsazioni intrappolate tra le costole.
“Liet, hai vinto tu. Sei tu il migliore”
Lituania sembra non ascoltarlo o forse non vuole ascoltarlo. I passi vengono trascinati fino alla porta. La mano pesantemente tocca la maniglia. Polonia pensava di veder voltare il suo amico, di prendere il re nero e di gettarlo alle sue spalle. Di fargli capire che ha vinto e che è il più intelligente di lui. Il re nero rimane fisso sulla scacchiera. Gli occhi di Polonia sono attaccati alla figura del moretto che si aggrappa alla maniglia e la gira.
“Liet, ti voglio bene”
La porta viene aperta con una debolezza soffocante. Lituania striscia dentro i pochi centimetri aperti. Sparisce nel nero indefinito. Polonia guarda la porta e spera, prega, che possa tornare. La porta viene chiusa e la tristezza e il pentimento lo attagliano. Non respira neanche. Lituania non torna.
“Liet, torna qui. Facciamo pace…”
Liet non torna. A Polonia sembra che il mondo inizi a sbiadirsi e a scuotersi dolcemente sotto di sé. Il pedone bianco viene dimenticato sulla scacchiera dominata dal nero.
 
 
 
 
 
Il ricordo del sogno gli fa sentire più freddo di quanto non abbia. Si stringe con più forza le ginocchia alla pancia. Guarda il nastro ruvido di Liet e lo poggia fra gambe e naso. Gli pesa il cuore. Non ricorda se quella volta, giocando a scacchi, si fosse scusato. Immagina di no, non era il tipo da scusarsi per qualcosa. E la faccia triste di Liet gli era sembrata veramente molto divertente. Deglutisce, tira su il naso, anche se non ha pianto e non piangerà. Il nastro di Liet sembra profumare, ma non capisce di cosa possa profumare. Si sente male, anche il braccio marchiato dal ferro rovente brucia. Lo stomaco borbotta ancora. Si poggia una mano sulla pancia. È ancora perplesso del perché voglia mangiare. Con Toris, immerso nel bianco, non aveva mai sentito la fame e il freddo. La spina dorsale trema e scuote tutta la carne attorno. Ha freddo, sprofonda ancor di più nei panni sporchi che ha trovato.
Questa stanzetta scavata nel terreno non la comprende. Non capisce perché esista e perché abbia una finestrella così alta e irraggiungibile. Non capisce perché ci siano delle sedie e un tavolino. Non capisce perché ci sia questa oscurità fitta, nonostante la luce debole ma potente. Non ha senso. Non capisce nemmeno perché ci siano queste camicie strappate e questi pantaloni rattoppati proprio lì, gettati in un angolino. Non ha senso. Si stringe là dentro, scava dentro i panni, come un cane in una cuccia. Ci si rotola e ci si stringe dentro. Non riesce a scaldarsi, non è un vero letto. Il nastro di Liet è ancora in mano sua. Se lo poggia sul naso. Immagina il profumo di bosco del suo amico. È veramente la cosa più calda di questo Inferno.
Una porta sembra cigolare frettolosamente e sbattere contro la parete. Polonia sobbalza e parte della sua cuccia sporca si sfalda. Degli stivali marciano rapidamente sulle scale. Prussia si sfila il soprabito della divisa e l’appoggia su una delle sedie. Polonia lo guarda da sotto una camicia fin troppo sottile. Riconosce e vede la sua figura accomodarsi nella stanzetta, come se fosse casa sua. Sente il tintinnio indistinguibile di porcellana. La figura rimane un attimo ferma. Decide di togliersi dalla faccia la camicia strappata. Polonia guarda Prussia come se non l’avesse mai visto in tutta la sua vita. Questo soprabito luminoso ricorda di non averglielo mai visto addosso. Ha gli stivali appena lucidati, la divisa stirata, con quei due fulmini cuciti sopra. E piastre e piastre di medaglie sul lato del cuore. Lo abbagliano, anche se in questo posto vede più buio che luce. Prussia sembra luminoso e lui è gettato nell’angolo più buio della stanzetta. Polonia lo guarda meravigliato, Prussia non alza lo sguardo verso di lui, gli fa troppo male il cuore. Quella testa rasata e il segno passato del proiettile lo disgustano e lo opprimono. È un ricordo che non vuole avere nella sua memoria ora. Polonia non vede tutto questo, vede piuttosto quel che ha poggiato sul tavolo: un piatto con quella che sembra carne.
Si passa la lingua sulle labbra, lo stomaco brontola con più forza. Il cervello sembra pizzicare insistentemente sulle sue tempie. Per un attimo gli sembra di sentire l’odore del pollo nel piatto. Potrebbe buttarsi sopra il tavolo e rubarglielo da sotto al naso. Immagina delle patate e dell’insalata affianco al piatto. La pancia brontola ancora, come se lo stomaco mordesse la sua stessa carne per nutrirsi. Il cervello pizzica ancora, ha fame da morire. Prussia guarda il suo riflesso del piatto. Non ha idea del perché sia voluto andare lì.
Si sfila i guanti, come se fosse la cosa più difficile del mondo. Prende il coltello e la forchetta. Taglia un pezzo di pollo e se lo ficca in bocca con voracità. Ha fame anche lui e vuole andarsene da lì. Si maledice per essersi trascinato qua dentro. Polonia deglutisce, come se quel bocconcino fosse finito in bocca a lui. Il collo si sporge, gli occhi s’inclinano supplichevoli. Guarda Prussia e spera che gliene dia un po’. Vorrebbe chiederglielo, ma questo comandante severo e splendente lo intimidisce. Ha paura di lui, come se non lo riconoscesse.
Prussia ingoia gli ultimi bocconi. L’odore buono di pollo nell’aria svanisce. Si passa la lingua sulle labbra, completamente sazio. Si rimette i guanti. Si alza dalla sedia. Senza neanche voltarsi, afferra la sopraveste nera. Scappa via verso la porta, coi passi che vorrebbero spezzare il legno sotto i suoi piedi. Finge di dimenticarsi il piatto. La porta viene sbattuta dietro le sue spalle. Prussia non ha guardato Polonia per tutto questo tempo.
Polonia tende l’orecchio, non sente più i passi degli stivali. Guarda il piatto lasciato sul tavolo. Posa di nuovo gli occhi sulla porta. I piedi gli ordinano di scagliarcisi addosso. Lo stomaco si rigira ancora dentro la pancia magra. Ha fame, troppa fame. Scatta in avanti, traballa sulle sue gambe ossute. Abbandona il nastro di Liet nel cumulo di stracci. Sbatte il ginocchio sul legno, si fa cadere sulla sedia dove si era seduto Prussia. Afferra l’osso del pollo e se lo butta in bocca. I denti gli sembrano spezzarsi sotto le gengive. Inghiotte i pochi pezzi di pollo rimasti incastrati nelle ossa, raschia le ossa coi denti e succhia il sapore della carne ormai perduto. Pulisce tutte le ossa. Le guarda: sembrano levigate e lustrate da un artigiano. Lo stomaco borbotta frustrato: ha ancora fame. Spezza gli ossicini disperatamente. Non può aver già finito di mangiare. Dev’esserci altro che può ancora ingerire.
Succhia dentro l’osso spezzato, comprendendo che non ci sia altro da mettere sotto i denti per quel giorno. E intanto lo stomaco gli ordina di succhiarsi le dita e di morderle, se necessario per nutrirlo.
 
 
 
 
 
“Che?! Siete totalmente fuori di testa!” urla la voce infantile di Polska, tanto forte e spaventata che persino nella torre est del castello l’hanno sentita. Tanto che qualcuno è addirittura sobbalzato “Voi dovete totalmente cancellare questo matrimonio! Gli stranieri mi fanno tipo paurissima!” continua a lagnarsi e ad agitarsi il biondino. Il cuore trasale ogni secondo ed agita le mani come morso dalla tarantola, pensa il soldato, deglutendo.
“E’ vero. Tutto questo fa un po’ paura” afferma con occhi docili e saggi la sovrana bambina, le mani al cuore e la corona che appena le sfiora i capelli “Che io sappia lui è un uomo anziano” abbassa la testa, con un qualcosa di malinconico “Spero che potremmo andare d’accordo” dice la piccina, forse già accettando quel che le avverrà e ciò che la corte ha già deciso sulla sua vita. Il soldato la conosce, conosce il suo dispiacere e lui stesso ne rimane dispiaciuto, anche se ne è solo l’ambasciatore. Intanto Polska non ha fatto altro che lamentarsi.
“S-Si dia un contegno, la prego” afferma con fatica, guardando addolorato la giovane Nazione. Conosce anche il suo dispiacere ed è ben più doloroso di quello che vuole far apparire. Polska non vuole perdere Jadwiga, non vuole che sia di nessun altro se non sua. Ha paura che possa andar via per sempre, la sua amata, per questo piange come un bambino. Sa anche che le sue lacrime non serviranno a nulla. E che tutto è ormai deciso da mesi.
“No! Mi sento tipo per morire! Davvero, non può essere vero!” singhiozza, con gli occhi già arrossati, scuotendo ora la testa, preso da chissà quale demone “Gli stranieri mi fanno paura! Non ci posso parlare! Non ci posso parlare…! Io…” e gli si spezza il cuore, comprendendo di non essere ascoltato e di essere trattato in qualsiasi modo come un bambino capriccioso. Le lacrime gli scendono ben oltre le guance. Non vuole perdere Jadwiga. Ha come uno scatto improvviso e si getta al collo della sovrana bambina. Poggia la testa al suo collo e sembra quasi che almeno parte di sé si sia calmato. Piange e piange ancora, inzuppando la tunica della sua amata. Jadwiga rimane paralizzata per un attimo, ma poi poggia la mano alla sua testa.
“Su, su…” sorride con dolcezza, comprendendo anche lei il demone che morde il cuore di Polska. Continua a carezzarlo. Polska continua piangere e solo ora smette di agitare il corpo, in parte quietato. Il soldato balza in avanti, con l’armatura tintinnante dietro di sé.
“Non faccia i capricci, la prego! Saranno qui a minuti!” dice, dimenticando in parte il motivo del pianto. L’ha detto con la paura di avere una punizione dalla corte. Una Nazione non può apparire in lacrime di fronte agli stranieri, gli hanno detto.
“Lituania e la sua compagnia sono appena arrivati” esclama un secondo soldato, a malapena notato dai tre. Sentito questo, Polska si stacca da Jadwiga, terrorizzato e vergognoso. Quel soldato non sa nulla di lui e del suo dolore. Non lo conosce e lo spaventa, ma meno di quel che ha appena sentito. Il soldato più anziano annuisce.
“Perfetto” dice, voltandosi verso la Nazione, con lo sguardo severo di chi vuol essere ubbidito “La prego di accoglierli convenientemente” la tarantola pare pizzicare ancora il povero Polska che trema manco fosse bruciato dalla febbre. Comprende di avere degli occhi orribili e di avere un’impressione altrettanto amara ed infantile. E comprende che nessuno potrà mai ascoltarlo e che nemmeno Jadwiga potrà mai essere ascoltata. Questo giorno doveva arrivare, ma non è pronto per ospitarlo dentro di sé. Sbarra gli occhi, corre via.
“La prego, non fugga!” urla terrorizzato il soldato anziano. Alza lo sguardo e sobbalza con forza. La Nazione ha raggiunto il trono del re e vi ci è seduta con la caviglia sul ginocchio e la mano poggiata al mento. Il soldato sussulta dentro di sé. Polska gli sembra un qualche sovrano, con gli occhi severi, un qualcosa di adulto e forse cattivo. Gli sembra un demone seduto al trono, con quegli occhiacci da gatto. Ne rimane incredulo e meravigliato. Un lampo bianco tocca gli occhi verdi. Polonia inizia a vivere nel suo corpo da fanciullo.
Le porte si spalancano e i soldati le tengono ferme con le braccia robuste. Il tappeto rosso viene per la prima volta sfiorato da stivali stranieri. I lituani hanno tuniche molto più pregiate di come ricordasse, con colori vivi e mantelli di pelliccia. Il Granduca non gli interessa, già gli si rigira lo stomaco nel pensare a lui. Lituania fanciullo ha lo sguardo basso di chi sta per essere sgridato da un adulto e trascina i piedi come se volesse scapparsene in fretta verso l’uscita di quel posto mai visto. È la prima volta che calpesta un tappeto straniero. Polonia lo guarda rapito, non lo ricordava così timido. Gli carezza il cuore vederlo così bambino. Il piccolo Lituania alza per poco gli occhi, per poi cacciarli di nuovo sulle sue mani. Ha sentito chiaramente il suo sobbalzo. Sa di avere uno sguardo crudele, sa di parere molto più adulto e severo, senza sorriso, con gli occhi truci di un demonio. Lo vede tremare, dentro la sua tunica scura. È dolce, anche quando ha paura. Lo trova adorabile, tutto d’un tratto.
“Ho sentito parlare di te” inizia, con la voce dura e inflessibile come pietra “Ti ringrazio per essere venuto fin qui” accenna ad un sorriso, che tanto desidererebbe di poter prolungare “Io sono Polonia… colui che comanda l’Europa dell’Est” gli si scalda il cuore vederlo sobbalzare. Ne gioisce dentro di sé. È così Liet: timido, adorabile e buono come il pane appena sfornato.
“S-Sì signore!” non ricordava la sua voce così stridula. Il piccolo Liet abbassa gli occhi, gli rialza e gli abbassa di nuovo “Io…! Io…! Uh...!” chiude gli occhi, prende un profondo respiro. Riapre gli occhi in un modo tanto infantile e deciso che Polonia, con un’anima più anziana, ne ride dentro di sé “Io sono Lituania!” esclama con forza “Siamo giunti fin qui per discutere riguardo al matrimonio tra il nostro Granduca e la vostra sovrana” Polonia continua a sorridere e a giocare in questo ricordo. Si toglie la mano dalla guancia e la poggia al mento. Guarda il piccolo Liet negli occhi, sentendosi più forte e importante.
“In effetti, sia i tuoi interessi che i miei… potranno essere soddisfatti grazie a questo matrimonio” il soldato sospira e tutta la sua paura striscia via come cacciata dal suo cuore. Quel che ha sperato si è avverato: Polska può gestire bene queste situazioni, quando arriva un momento critico.
“Ah…” sussurra una vocina da Polonia. Il soldato alza gli occhi, diventati perplessi. Anche Jadwiga fa lo stesso, perplessa e meravigliata anche lei. La sala cala nel silenzio “Ecco… Beh, insomma… Uh…” Polonia alza gli occhi. La sfumatura verde si fa meno lucifera e più fraterna. Il ginocchio fa scivolare la caviglia dalla tunica, le mani cadono sui manici del trono. Il sorriso del biondo pare quasi timido “Spero che diventeremo buoni amici, Lituania”.
Il moretto lo guarda stupito e meravigliato, così come tutta la sala. Lo guardano chi sgomentato, chi invece incredulo, come se un attore avesse recitato, di fronte alla sala gremita di gente, di fronte a tanti altri attori come lui, una frase del copione completamente sbalzata e inesatta.
Lituania lo guarda ancora rapito. Chiude le palpebre e calca il sorriso, più adulto di quello di Polonia.
 
 
 
 
 
Ha trovato nell’involucro degli stracci una cintura tagliuzzata, di un cuoio utilizzato eccessivamente. Se struscia troppo il pollice iniziano a staccarsi pezzetti scuri di chissà che pelle di animale. Polonia pensa che ormai ci farà la cuccia qua dentro. Usa la cintura e se la lega alla vita, insieme ai pantaloni troppo grandi. Perlomeno sono ben lunghi per lui, almeno lo scaldano un po’. Il nastro di Liet ha trovato posto nel suo polso: è riuscito a farci un nodo. Lo strattona con forza, nota che non si stacca. Il suo polso sembra uno scheletro senza carne. Vede le sue giunture, i rami fini dello scheletro della sua mano e gli ossicini delle sue nocche. Non avrebbe mai immaginato che fosse così imponente e robusta la nocca, in confronto al dito. È come un doppio nodo fra falange e falangetta. Deglutisce, lo stomaco non romba più nemmeno: non ha mangiato neanche oggi, neanche gli altri giorni, se ne siano passati altri. Schiocca con fatica la lingua secca. Ha sete.
Un suono irregolare si spinge oltre il muro. Polonia, dal garbuglio di stracci, sotto camicie e pantaloni strappati, si concentra ad ascoltarlo. Tum tum tum… Polonia ricorda quand’era seduto su una panchina. Ricorda di aver guardato una palla e dei bambini che la facevano rimbalzare soddisfatti. Stava per incominciare la partita della domenica o forse del mercoledì, non ricorda. Tum tum tum… E’ una palla, che rimbalza sulla sua testa, oltre la finestrella del suo buco. Polonia sporge il collo dal mucchio di stracci. La palla si avvicina e si avvicinano anche dei piedi.
Tum! Il rumore sordo non spaventa Polonia come l’ha spaventato il getto che è entrato nel buco. Quella cosa si è fiondata dentro il fascio grigio chiaro della finestrella, è rimbalzato sulla tavola, mirando e facendo cadere il piatto e le ossa di pollo, ed è caduto poi, infine, a terra. Polonia osserva di sottecchi quell’affare, ma capisce che non può fargli del male, che non può muoversi e, se si sia mosso, non è per colpa sua. Tranquillo, poggia i piedi nudi a terra e inizia a camminarci vicino. E’ da un po’ che non cammina, gli fanno male le ginocchia. Il pavimento è stranamente tiepido.
Scorge una delle sedie e l’istinto lo fa correre dietro per nascondersi. Guarda cos’è quella cosa e le spalle sospirano per il sollievo. È quello che sembra un pallone o almeno, per il biondino, quello è un pallone. Tende la mano, lo afferra con il pollice e l’indice, con una certa paura e un lieve disgusto. Il pallone si è bucato e ora pare più un cartoccio informe e bruno. Si chiede di cosa sia fatto questo affare.
La poca luce della finestrella si oscura, cala il buio. Polonia si accorge che questo buio sia mobile. Delle mani ossute quanto le sue, più corte e terrorizzate, si tendono e acchiappano aria attorno a loro. Polonia capisce subito. Sente i versetti dei bambini, incomprensibili. Le mani smettono di arraffare il vuoto e si ritirato, così velocemente da sbattere contro legno e altre mani. Devono aver paura, ma vogliono comunque la palla. Polonia guarda la finestrella e capisce che non ci potrà mai arrivare. Poggia il pallone sul tavolo, arruffa una sedia e la poggia contro al muro. Afferra di nuovo i resti della palla e si mette in punta di piedi sulla sedia. Sente schioccare le ossa dei piedi. Non sfiora nemmeno la luce. Una delle mani è uscita di scatto, tentando un altro balzo nel vuoto. Polonia tende il pallone sulla sua testa. La falange tocca il pallone. La mano viene ritirata con un urlo terrorizzato. Ritorna subito la luce nel buio. Polonia sobbalza, la palla gli cade dalle mani.
“No, aspettate!” urla, non vuole che scappino. Scende dalla sedia e guarda il tavolo. Lo sposta contro al muro, getta la sedia sul tavolo. Non ha nemmeno paura di cadere, vuole vedere quei bambini. Si mette in punta di piedi sulla sedia “Non scappate!” silenzio. La luce abbaglia gli occhi di Polonia. Lo investe il freddo pungente del fuori. Non ha visto la luce quasi per niente e gli bruciano gli occhi. Sbarra le palpebre, ritenta. La luce è ugualmente terribile. Si sforza di guardare attraverso la finestrella. Non capisce cosa vede, ma è grigio e informe. Gli bruciano ancora gli occhi. Poggia le mani sul legno e sopra del vero terreno spoglio. Sente freddo sul viso. Gli tremano le spalle e così trema anche la sedia sotto ai suoi piedi.
Un pigolio di vocine. I bambini sono tornati. Polonia ha gli occhi chiusi, ma li sente ad un palmo dal suo naso “Siete tornati!” i bambini osservano quella strana creatura dentro al buco. Chi rimane atterrito, chi rimane sollevato: è una persona. Hanno avuto paura che fosse un mostro. Polonia li sente parlare. Non capisce una parola in tutto quel pigolio. Quella lingua non la conosce. Socchiude gli occhiacci. Per alcuni bambini pare un vecchio gatto raggrinzito. I più grandi dicono quel che hanno pensato, i piccini ridono. D’istinto anche Polonia ride. Una delle figure più grandi e scheletriche sembra parlargli. Non capisce una parola “N-Non vi capisco… Scusate, ragazzi” i bambini rimangono in silenzio. Il pigolio dei piccini interrompe la riflessione dei grandi. Chiedono un’altra cosa a Polonia, lui sospira, un po’ agitato. Sono bambini, ma non li conosce “Non vi capisco, vi è tipo chiaro? Sapete il polacco? Il francese?” i piccolini cinguettano preoccupati. I più grandi scuotono la testa. Polonia deglutisce “N-Nemmeno il russo? Il tedesco?” le teste si scuotono. I piccini non capiscono e il pigolio continua.
Una mano nel gruppetto indica Polonia, che chiude le palpebre, non capendo. La mano insiste e così la voce che non comprende. Punzecchia il nero dietro le sue spalle. Ripete una parola che non comprende. Polonia capisce “Ah, la palla… Un attimo” scende dalle punte, dalla sedia e dal tavolo. Ritorna il caldo soffocante della sua fossa. Afferra i resti della palla che ha dimenticato e corre verso i bambini. I cinguettii si fanno alti e felici. Polonia si alza sulle punte e spinge fuori la palla. I pigolii dei piccini sono bassi. La palla è sgonfia e rotta. Polonia socchiude le palpebre per la luce ritornata, ma vede i resti passati da mani a mani. Immagina che siano delusi “M-Mi dispiace, ragazzi…” uno dei più grandi lascia a terra la palla. Non possono farci più nulla. Il loro scontento si carica dentro Polonia. Si fa scontento anche lui. Sente la pancia brontolare, i bambini continuano a discutere sul da farsi.
“Ragazzi, sentite, avreste tipo qualcosa da mangiare?” le facce sfumate lo guardano per un attimo. Non sembrano capire. Lo stomaco borbotta “Sì, cioè, del cibo…” pigolii incomprensibili. Polonia deglutisce, si fa più in alto sulle punte. Le sue braccia sporgono al sole e al freddo rinfrescante. Muove le falangi “Qualcosa…” afferra con entrambe le mani l’aria “…da mangiare” avvicina il cibo immaginario alle labbra, ne strappa un pezzo e finge di masticare. Borbotti incomprensibili. Sembrano affermativi. Lo stomaco esulta, hanno capito “Sì! Del cibo!”
De sibo?” mormora una vocina di bambina. Polonia ha voglia di ridere e piangere allo stesso tempo.
“Del cibo, totalmente esatto!”
De sibo, totabenme egiato!” afferma con fermezza la piccina, imitando gli stessi gesti di Polonia. Uno dei piccini scappa via. Polonia guarda meglio. La bambina ha la testolina rasata come la sua e una divisa carceraria più ingombrante di quella che ora indossa. Ma gioisce troppo il suo stomaco per guardare certi particolari. Le mani sono ancora fuori dalla finestrella. Le punte dei piedi gli fanno male, gli tremano le gambe. La pancia continua a mordicchiargli la carne nelle viscere. La fame non si è mai sentita con così tanta prepotenza. Saltellio e corsa su piedini in scarpette di legno. È arrivato “De sibo!
“Grazie, ragazzi!” ride e trattiene le lacrime Polonia. Gli tendono una lattina nera. Lo stomaco si zittisce, diventa perplesso. Polonia avvicina la latta al naso. Non sembra avere odore. La fame è troppo forte. Lecca quel che c’è dentro. È acqua. Polonia la ingoia in un sol boccone. Lo stomaco rimane dubbioso e frustrato. Ha un sapore strano. Il pigolio si mischia col cinguettio. Anche loro sono perplessi, non volevano vedere la lattina nera. Polonia la poggia, qualcuno la afferra e scompare dalla poca vista. Gli occhi sono rossi per la fatica, quasi non li vede più. Non hanno neanche loro da mangiare “Niente cibo…”
Ne de sibo…” dice la bambina dispiaciuta, fattasi traduttrice del gruppo. Polonia tira su il naso, deluso come lo erano i bambini quando hanno visto i resti della palla.
“Non fa niente, grazie lo stesso” dice, non credendo alle sue stesse parole.
Ha ancora fame, davvero tanta fame.
 
 
 
 
 
Il nastro di Liet al suo polso tocca la vena. Polonia immagina che la carezzi. Il silenzio della notte fuori dal buco lo abbraccia. Ricorda il galoppare dei cavalli nei boschi lontani. Ricorda di aver stretto Liet, con il vento che gli voleva strappare via il mantello. Ricorda i suoi capelli bruni legati nella coda con un nastro simile a questo. Non ricorda quand’è successo questa cosa. Non ha senso che lo ricordi. Ricorda il profumo mielato del pane e del burro nella sacca che si erano portati dietro. Deglutisce, non ascolta più lo stomaco.
Non ha contato i giorni passati. Non ha mai creduto di poterlo fare. Allunga ancora il dito. Carezza quel nastro come se fosse la vera mano di Liet, addormentato affianco a lui, nel grano giallo, sotto al sole d’estate. Non l’ha mai fatto, non lo ha mai carezzato, ma gli si para di fronte agli occhi l’immagine fanciullesca. Tutto quello che ha vissuto fino ad ora non esiste più. E non importa più a nessuno. Nel buio vede meglio di un sorcio. Sotto al nastro ci sono quei sei zero allineati con la precisione di un maestro. Li sfiora con fatica. La carne è insensibile e dura come cuoio. Non potrebbe più crescere nemmeno una seconda pelle per coprirli. Non sa che significhino, ma a volte bruciano e pesano molto più del suo braccio. Si sente morire di fame.
Abbandona i segni indecifrabili. Il nastro nero al suo polso lo scalda. Lo avvicina al naso una millesima volta. Profuma ancora di Liet e dei suoi boschi solitari. Ne ha nostalgia. La fitta fa tremare il cuore. Presto morirà di fame, se continuerà così. Si muove tra gli stracci. Gli si libera la testa e il braccio. Il calore è asfissiante. Non può scappare: dalla finestrella non passerebbe nemmeno un cane e la porta è sigillata. Quella è la sua tomba.
Guarda il muro senza vederlo. Si fa l’animo capriccioso. Scaglia il polso in una maniera che solo un debole può farlo. Si fa infantile di cuore. Il polso senza nastro e senza numeri struscia contro il muro. Si fa indifferente di mente. Continua a strusciare, non sente nemmeno dolore. Lo fa per capriccio o per noia o perché vorrebbe fare qualcosa. Perché non accade nulla da giorni. Struscia. Perché si sente male. Struscia ancora. Perché ricordare Liet gli fa male.
“Ti sei già totalmente deciso ad ammazzarti?”
Polonia riprende coscienza di sé. Il polso smette di farsi del male.
“Hey, Po, ora che non puoi più fare il totale bastardo con nessuno…” Polonia si volta nei suoi stracci. La mascella gli cade quando vede rosso porpora e capelli dorati, sfolgoranti come gemme, in quella sua fossa nera “…incominci a fare tipo il bastardo con te stesso?”
L’occhio verde e grigio di Polonia si scontra spaventato contro lo smeraldino vivo e crudelmente ridente del suo sosia poco più giovane, luminoso come un principino.

Ritorna all'indice


Capitolo 18
*** DiCiAsSeTtEsImO cApItOlO ***


Il treno si è fermato da un pezzo, nessuno ha chiesto nulla del baule ingombrante, nessuno sembrava notarlo. Ha visto la sua Vilnius ed è cambiata. La dama che ha servito e che ha conquistato dopo guerre e battaglie pare un meccanismo incompleto di un orologio. La scoperta non gli ha detto nulla. In verità, dopo che Lettonia se ne andò, lui ha ricominciato a non sentire più nulla. Ha dovuto aspettare che cadessero i capelli a Polska. Ha una testa rugosa e sinceramente anche bruttina. È terribile pensare questo del proprio migliore amico.
È sceso da tempo dal treno e il baule l’ha accompagnato. C’è stata la folla inizialmente, poi ogni allegria si è spenta. La sua città è spenta. Toccare coi piedi la Lituania e respirare la sua aria di fabbriche e smog non gli ha detto nulla, eppure… eppure sente che qualcosa manca dentro di sé. Forse si è dimenticato di scrutare la città in questi anni, invece di ignorarla come ha sempre fatto dopo la sua guarigione. Ma in realtà Lituania ha quasi dimenticato di essere lituano e di appartenere a tutto questo. Somiglia ad una noiosa città industriale come ce ne sono di città industriali. Pare una piccola Pietroburgo. Questa cosa nemmeno lo rattrista.
C’è solo lui seduto in panchina. Non c’è nemmeno un cane ad abbaiare nei vicoletti, come ne correvano un tempo a casa sua. Non ronza nemmeno un’ape, né sente fischiare il vento fra gli alberi. Scuote la testa e pensa che sia stupido pensare a cose del genere se non c’è nemmeno più un albero a Vilnius. Dimentica questi pensieri in fretta. Sono troppo infantili. Al nuovo Lituania non piace più essere bambino. Non se n’è accorto nemmeno, ma la sua gamba sta accarezzando il baule, lasciato un po’ aperto. Immagina le ossa spezzate di Polska, ma non rabbrividisce. Pochi giorni e sarà a casa.
Gli stivali rigidi calpestano la stradina. I capelli non hanno del vento per carezzarli. Il cappotto è troppo pesante per quel giorno, si rende conto. Ignora tutto, stringe i pugni. Il pugnale antico poggiato al suo cuore sembra un’arteria di troppo e pulsa anch’egli, tremando tra i suoi passi. Si ferma di fronte alla panchina, non mostra altro che la solita espressione che gli ha sempre mostrato. Non la nota o forse finge di non notarla. Questa cosa le fa rabbia, ora che il fratello non c’è. Stringe i denti, si avvicina ancora. Lituania ha alzato lo sguardo. In qualche modo i piedi rimangono bloccati al terreno, congelati dagli occhi grigi e chiari. Non hanno un lampo di luce, solo spessore che non ricorda bene. È un campanello d’allarme nella sua testa.
“Cosa vuoi, Bielorussia?” e la guarda con più intensità e forse stizza.
Basta solo questo per farla deglutire e tremare il pugnale nascosto.
 
 
 
 
 
 
 
 
I polmoni succhiano un’ondata improvvisa di ossigeno, che riempie Polonia, con un forte dolore. Alza di scatto la testa, con la bocca ancora carica di aria. Il collo e il busto lo seguono, come se invece di ossigeno abbia ricevuto un pugno allo stomaco. Gli occhi vedono azzurro, per un attimo ha pensato al cielo mattutino, per un attimo ha creduto ad un sogno.
Ma che…?!, vorrebbe urlare, ma frena immediatamente la lingua coi denti. Muove piano la testa, gli occhi si fanno scattanti nelle palpebre. L’azzurro che sta vedendo è solo mattone dipinto. Vede la cattedra, i banchi piccini e tanti bambini seduti. Guarda avanti, vede il maestro che cammina leggiadro, coi baffi argentei sotto al naso. Gli muore la voce, i tremiti lo aggrediscono. Sente il suo cuore impazzire e rimbombargli nelle orecchie. Si accorge di aver trattenuto il fiato fino ad ora. Questa è la classe di Feliks.
Ma perché sono qui?, si chiede una sua vecchia vocina timida. Il mento si posa a destra, a sinistra, sotto di lui. È seduto al centro della classe, sulla sedia minuta di Feliks. Il banco è sparito. Congiunge le ginocchia con le mani. Le dita s’impiastricciano tra di loro. Si sfregano e si maltrattano. Polonia ricorda di essere già stato qui. Ricorda l’esplosione di piume, i tedeschi alla porta. Ricorda la caduta nel buio. Si chiede perché sia ancora lì. Perché sia al centro di questa classe su una sediolina, in mezzo a tanti bambini. Si chiede come farà ad uscire da questo posto.
Il maestro continua a spiegare qualcosa che Polonia non riesce ad ascoltare. Gli alunni hanno ancora le teste sui libri. A nessuno importa di lui. È un briciolo, ma importante sollievo. Ricorda di dover respirare e deve obbligare i polmoni a recuperare ossigeno. Deve ordinare a se stesso di respirare. Le dita smettono di graffiarsi a vicenda, ma i tremiti sono ancora centrati sulle ginocchia. Sente di star per impazzire per la paura e la confusione. Non vuole stare in quella anormale normalità. Il maestro gira ancora di fronte alla cattedra, col libro in una mano e il braccio dietro la schiena. Polonia è sordo. Deve stare calmo, non deve perdere la testa. Immagina di essere ancora invisibile, di non valere altro che aria in quella stanza, ma Feliks non c’è e sente la paura cozzare con la sua mente.
La terra sotto ai suoi piedi sembra tremare. La stanza ondeggia leggermente, l’azzurro si agita di fronte ai suoi occhi. Guarda fuori dalla finestra, con un antico presagio. Vede oltre al parco punti neri, palazzi e macerie. Aerei tedeschi. Il cuore si ferma, la stanza continua ad oscillare e si scuote maledettamente. Si guarda attorno: i bambini hanno gli occhi chini sui libri, il maestro poggia i passi con leggerezza. Nessuno alza gli occhi, nessuno sente gli scoppi in lontananza. Le mani ritornano a graffiarsi ed azzannarsi. Le ginocchia tremano con più forza e si impigliano con le gambe. Guarda ancora fuori: gli aerei hanno colpito un palazzo in lontananza. Non capisce, e il sudore cola dalla sua fronte.
“La Germania è attualmente il paese europeo, potremmo dire, migliore al mondo…” sente per la prima volta dalla bocca del maestro. Nessuno pare notare l’oscillare più insistente della stanza. Polonia si accuccia nella sedia, come se fosse il rifugio più sicuro qui dentro. Respira con affanno, ha la gola chiusa. Il sudore cola dalla sua fronte come cera su una candela accesa “…e lo sarà per sempre, bambini”.
La finestra ha uno scoppio improvviso. Polonia non riesce nemmeno a sobbalzare, volta semplicemente la testa. I vetri cadono addosso ai due bambini azzurri. Entrambi guardano il libro. Uno di loro segue le parole del maestro col dito movente tra le righe. Un pezzetto della finestra si è conficcato nella carne della mano. Polonia vede rosso colare dalla mano gracile. Macchia il libro. Ha la mascella di ferro: l’altro bambino ha un taglio sul naso e il sangue bagna le dita del piccino. Le ginocchia battono fra di loro. Non riesce a capire perché nessuno si accorge di nulla “Hitler è come una guida per noi polacchi. Ogni sua decisione è giusta e dev’essere seguita come una legge, piccini”.
Sopra la sua testa sente qualcosa sgretolarsi. Alza di scatto la testa. Si è formata una grossa crepa sul soffitto. La stanza volteggia e danza come valzer viennese. Polonia si deve tenere aggrappato alla sedia per non cadere. I bambini e il maestro sono in un equilibrio allarmante. Il maestro si è fermato e ora si è appoggiato alla cattedra, con una calma che penetra nelle vene di Polonia come ghiaccio fuso. La crepa si sta ampliando e taglia in due, poi in tre, poi in quattro la stanza azzurrina. Lo spacco si apre e fa cadere polvere come farina gettata in aria. Polonia si tiene aggrappato anche a se stesso. Gli sta per scoppiare il cuore in petto.
“La Germania non vorrebbe da noi altro che ubbidienza e noi polacchi siamo più che fieri di ubbidirle, giusto bambini?”
“Sì, maestro” Polonia vede la crepa tagliare le pareti ai lati. Li vede sconnettersi al pavimento e star sul punto di cedere. Il soffitto sulla sua testa sputa altra polvere. Cadono pezzetti di mattone, il calcestruzzo si sbriciola come terra. Si poggia le mani sulla testa con disperazione. Le ginocchia si congiungono col resto del corpo. Si fa un bozzolo, terrorizzato. Fra poco il soffitto cederà e cadrà addosso a lui. Sente scoppiare affianco alla scuola un’esplosione. La stanza trema su se stessa.
“Bene, bambini, la lezione è finita. Salutate la nostra Germania” dice il maestro, alzatosi dalla cattedra, indifferente, ceco, in equilibrio sulle proprie gambe, nonostante il tremare insistente della classe e le crepe sulla sua testa e alle sue spalle. I bambini si alzano dai banchi, fermi sulle proprie gambe, completamente ignari del terrore di Polonia. Polonia contrae il volto con qualcosa di simile all’orrore.
“Heil Hitler!” dicono in coro, alzando di scatto il braccio in un saluto che Polonia giura di non ricordare. Il ragazzo non vuole più vedere niente. Sbarra gli occhi, si chiude la testa fra le gambe. Sente la stanza cedere. Fra poco cadrà sulla sua testa un gigantesco blocco di cemento e mattoncini. Non è pronto per questo.
Trilla la campanella nella stanza. Polonia spalanca gli occhi. La stanza non trema più. Alza con timore gli occhi. I banchi minuti dei bambini sono spezzati, alcuni raggruppati, alcuni sparsi nella stanzetta. Drizza la testa: il soffitto è pieno di crepe e spacchi. Le finestra sono distrutte, nemmeno un frammento di vetro le ricopre. La cattedra è capovolta. I bambini e il maestro sono spariti. Si alza con timore in piedi. Questo nuovo silenzio fa urlare il suo cuore. Non sa cosa ha appena visto. Si lascia andare il torso e comincia a camminare. Il pavimento è scollegato, pendente verso sinistra, come una lieve discesa. Fa fatica a stare in piedi. Con la coda dell’occhio vede la porta d’uscita. Il legno è levigato, la maniglia brilla come oro. Non si fa domande, vuole uscire subito da lì. Cammina più velocemente, calcia con affanno i ciottoli sotto ai suoi piedi. E’ ad un passo dalla porta. Allunga la mano. Guarda la maniglia come se quel giallo fosse vero oro.
“Lukasiewisz” il cuore fa un sobbalzo, il corpo rimane immobile “Vorrei parlarti un momento” esita un secondo. La voce del maestro gli era sembrata dura come piombo. Deglutisce e, senza desiderarlo, volta i piedi e cammina. Il maestro sembra meno alto di come ricordasse, i baffi hanno qualcosa di triste. I suoi occhi smorti e vecchi. Polonia lo guarda negli occhi, si meraviglia di essere riuscito a farlo. Non lo fa mai con nessun estraneo. L’uomo si sfrega le palpebre coi polpastrelli. Polonia si sente più rilassato, non sa bene il perché “Vede, io sono un povero insegnante e fino alla mia morte non ho dato altro che la vita per insegnare alla Polonia e ai suoi bambini” qualcosa dentro Polonia si sblocca e fa rilassare i muscoli “Sono fiero di quel che ho fatto nella mia vita, ma ho ancora molti dubbi riguardo tutto ciò che ho visto e che i miei figli hanno vissuto” prende una paura, smette di carezzarsi le palpebre. Lo guarda negli occhi, che brillano come in un prossimo pianto “Perché lei non ha tentato di salvare i suoi cittadini e soldati? Esiste un motivo che noi morti non conosciamo?”.
Polonia sente il cuore cadere sullo stomaco. Guarda negli occhi il maestro e crede di star per piangere come lui. Ma sente il corpo freddo come bronzo e non comprende se stesso. Si sente freddo ed impassibile. Certo che ho provato a salvarvi! Non ho pensato ad altro che a voi!, pensa di dire. Apre la bocca, ma qualcosa parla prima di lui “Il nostro obbiettivo era quello di garantire un giusto trionfo alla Polonia. La morte di qualche civile non ha particolare importanza, se la vittoria rimane mutilata” conclude freddamente la voce dentro di sé.
“Ah… capisco” abbassa la testa per un attimo, il maestro. Polonia è ancora insensibile “Allora direi che io possa comprendere il mio sacrificio… anche se mutilato” Polonia chiude le palpebre e le riapre d’un colpo. Il maestro è svanito come aria. Si scongela, si getta una mano sulla sua bocca. Spalanca le palpebre, ritornate alla normalità, i piedi ritornano impazziti sotto le sue ginocchia. Si stringe la mascella con forza incredula. Quello non può averlo detto lui. Quello non voleva dirlo veramente. Si volta con la testa abbassata. Cala la mano dalla sua bocca, non comprendendo ancora chi abbia parlato attraverso di lui. Perché quello non l’ha pronunciato per davvero. Lui non l’avrebbe mai detto.
La maniglia viene girata e Polonia le si getta addosso come se la stanza dietro di sé possa distruggersi.
 
 
 
 
 
Chiude la porta freneticamente, vede buio e malinconia. C’è troppo silenzio. Polonia si guarda attorno e dimentica di guardarsi le spalle. Ha troppa paura per farlo. Se si voltasse ora, se guardasse la porta, avrebbe nuovo terrore. Lo sa bene e cammina innanzi a sé, con una nuova apparente calma. C’è troppo silenzio per avere paura di qualcosa.
La strada sotto i suoi piedi scricchiola. Calpesta le foglie secche, spezza il silenzio senza veramente distruggerlo. Fa freddo qui fuori, come se stesse per nevicare. I ciottoli sotto alle suole strusciano contro la terra sterile e nera. Fuori dalla finestra della scuola era mattino, brillava l’azzurro del cielo, prima che la classe venisse distrutta. Prima che mortificasse il maestro. Questo posto è buio, il sole è calato. Fa troppo freddo. Si stringe le braccia e se le sfrega. Continua a camminare. I ciottoli si fanno grigi e spessi, insensibili ai suoi stivali. Non affonda più il cuoio nel terreno. Il tacco tintinna sulla pietra della scalinata. Polonia scala i cinque gradini come se il suo corpo pesi il doppio del solito. Con le spalle alte e le braccia nude nascoste sotto alla mantella, guarda in alto. Una chiesa bianca. La chiesa di Dorota.
Si meraviglia che riesca a vedere in quel groviglio di oscure carcasse, tra la legna spezzata e oltre l’altare lucente di luce sua. Dorota era cieca in questa chiesetta abbandonata. Polonia vede, come se avesse occhi di lupo. Non filtra nemmeno luce dalle finestre nere, nemmeno un bagliore di una luna finta. Eppure vede. Cammina lungo la navata. I suoi stivali schioccano sul tappeto disfatto. È timido, curvo, vergognoso. Non vorrebbe fare alcun suono. Vorrebbe essere un venticello inutile come prima. Con la vergogna sulla schiena e le braccia avvolte sotto alla mantella, supera le panche disordinate e scomposte. Qualcuno ha tagliato il legno dei sedili, immagina.
Si guarda a destra, non sentendo altro che silenzio. Queste panche sono intatte, il legno lubrificato, lucido e brillante. Non sembrano combaciare con quello che ha visto finora. I piedi s’impuntano sul tappeto, le braccia scivolano, le dita si congiungono e si carezzano l’ombellico. Polonia fa un respiro profondo: ha sentito l’aria mancargli. Gli cadono anche le spalle: i banchi ospitano forme di corpi e lenzuoli che li coprono. Guarda in alto, vede lineamenti di volto sotto il telo vergine. Ha un abbaglio, che passa di fronte ai suoi occhi. Lo sguardo gelido e stanco di Tymek avanza sopra le coperte grigiastre. Apre la mano e la poggia su quella insensibile di Wala. La carezza, la divisa gli sembra stare troppo grande, gli occhi non hanno più voglia di vivere. Polonia ha le gambe fredde come se le avesse immerse in acque ghiacciate. Non riesce a muoversi.
Il velo sottile di Jan si adagia sulla pelle come una maschera. Guarda in basso, più vicino a sé. Le gambe sono spezzate. La saliva si fa dolce sotto i denti di Polonia. Ripristina le gambe e avanza con lentezza. I capelli lunghi di Dorota cadono fino a terra, sotto il lembo bianco. Li guarda, paiono grigi e crespi, come i vecchi capelli finti di una bambola di porcellana. L’occhio si alza e incontra il collo. Il drappo è cencioso, il vermiglio alla testa macchia il bianco candore. Fili di capelli sono pezzi di freddo sangue asciutto da mesi. La seconda pelle della bella cerva è logora. Il volto deforme non è affatto invisibile. Passa avanti.
Ewa ha il volto bianco, come dovrebbe essere. Le braccia sporgono da sotto il velo, mostrano osso e vene ferme. Polonia sussulta e dà un pesante colpo di ossigeno ai polmoni. Liquido familiare corre sotto alle gambe secche. Il parto sbagliato, il ventre lacerato. Polonia batte due volte i polmoni con nuovo ossigeno e passa avanti. Si è staccato un pezzo del soffitto ed è cascato addosso a Feliks. Vede il grosso masso spezzare il corpo minuto, picchiare sulla sua pancia, scoppiare il suo cuoricino. Non c’è vermiglio. C’è polvere e frammenti di soffitto. E la testa schiacciata del bambino, come un limone in mano ad un uomo. Polonia poggia le mani alla bocca. Non deve vomitare. Passa avanti. Volta piano la testa. Un breve frammento di memoria: la testa scoppiata di Tymek. Gira ancora di nuovo la testa, si schiaccia le palme sugli occhi e seguita. Non deve guardarlo. Un garbuglio di orrore e disgusto si mescola nel suo stomaco. Respira profondamente. Lo sparo. Rosso. Grigio. Carne. Cervello sul muro. Pezzi di umori e cervella che scivolano dal muro grigio, come sanguigne assetate. Si preme le mani alla bocca. Respira con più velocità. Non deve vomitare. Non deve assolutamente vomitare.
Singhiozzi vicini a lui. La meraviglia sostituisce il ribrezzo. Lo stomaco smette di girarsi sotto la sua pancia. Si toglie le mani dal viso. Alza la testa stupefatto. La scura giacca di Wladymir lo colpisce, le lacrime di Darek lo deprimono. Sono in piedi, sono vivi. Polonia si avvicina e i suoi passi si fanno leggeri come aria. Si sente fluttuare e condurre quasi involontariamente a loro. Li guarda. I due lacrimano tristezza. Guardano sulla panca. Polonia vede un cumulo di ceneri grigie come pellicce di ratto. Alza gli occhi e capisce cosa sia. I due piangono, Polonia deglutisce bile e pezzi di cuore spezzato.
“M-Mi dispiace”
“Perché hai lasciato morire mia figlia?” singhiozza Wladymir, senza nemmeno voltarsi, con le mani agli occhi e gli occhiali pendenti dal suo naso. I capelli disfatti di Darek scattano verso di lui. Polonia non immaginava nemmeno di riuscire a guardarlo negli occhi. Il soldato lo guarda penoso e tragico, ma non vendicativo. A Polonia si gelano le braccia. Darek lo guarda come se lo conoscesse.
“Perché hai lasciato che mio figlio si sparasse?” Polonia si sente freddo, ma non insensibile. Batte le palpebre e i due scompaiono, ma sa che sono ancora lì. Li sente alla spalle e non ha forza di voltarsi “Ora Tymek sarà all’Inferno per essersi strappato la vita” sente rabbia nella voce di Darek, ma per le sue orecchie era anche disperazione.
“E anche mia figlia, che non è stata nemmeno battezzata” Wladymir era freddo, con lacrime amare nella gola. Polonia sente il proprio volto contrarsi, le sopracciglia abbassarsi e i propri occhi appannarsi. Batte le palpebre. Sono in mezzo alle panche. Polonia a malapena li distingue.
“Non ci ricongiungeremo mai ai nostri cari” dice Darek, con rabbia.
“Nessuno si ricorderà mai di noi… per questo siamo in questo limbo” singhiozza Wladymir.
“Resteremo bloccati qui per sempre, senza nessuno che possa vendicare i nostri spiriti” urla affatto iroso Darek, di nuovo scomparsi, eppure vicini a lui.
“Resteremo per sempre soli” a Wladymir cade una lacrima sul labbro “Questo per colpa tua” dice con qualcosa di simile a rassegnazione e dolore. Polonia ritorna con un briciolo di forza. Si sente colpito fin dentro le ossa. Vorrebbe che siano arrabbiati con lui, non che accettino quel che ha fatto. Scuote con più debolezza la testa, non avendo la forza nemmeno di controbattere.
“No, io… io…” sussurra più flebilmente del vento sotto la sua divisa. Non ha detto una parola per discolparsi. Vuole cancellare dai suoi occhi i due morti. Non capisce perché non siano aggressivi con lui. Non capisce perché siano tanto buoni con lui, anche se furiosi. Non capisce e scuote la testa ai due. Batte gli occhi, si sforza di non far cadere una lacrima. Wladymir e Darek sono spariti, due panche si sono riempite. Polonia le guarda debolmente. Darek ha le spalle più robuste di come ricordasse. Le salme sono macchiate fino a dimenticare il proprio colore reale. Il sangue pare nero sopra la pelle dei due. Distoglie lo sguardo dalla pancia strappata di Darek e dalla costellazione di proiettili sul corpo di Wladymir.
Col cuore pesante, avanza.
 
 
 
 
 
Riconosce Varsavia ancora prima di aprire gli occhi. È sempre la solita violentata città. I soliti palazzi cedenti e le solite stradine melmose. Odora di zolfo e fumo. Solo questo. Nient’altro.
Il petto gli pesa e lo condanna a piegare la schiena. L’aria è soffocante. Per qualche motivo fa fatica a respirare. Si poggia d’istinto la mano guantata sulle narici. Respira ed inspira. L’aria sotto al guanto sa di terra, ma comunque respirabile. Il fumo gli entra negli occhi. Avanza con le palpebre abbassate. Bruciano meno di quel che crede, ma ora gli è insopportabile tutto questo. Non vuole stare lì. Vuole ritornare nel bianco latteo della nebbia di carta. Insieme a Toris. Insieme a qualcuno. La tempia tuona, ricorda Prussia, con una sfumatura più affranta. Ha smarrito anche la rabbia per lui. Si sente deluso e triste. Avanza ancora e la puzza, con gli crepitii degli stivali nel lerciume, svanisce.
Apre gli occhi, fa cadere la mano dal naso. Respira aria fredda. Penetra rudemente nei polmoni, li fa protestare. Polonia tossisce poca aria. Il suo fiato crea nuvolette di vapore bollente che svaniscono nel freddo invernale. Il buio della chiesa era inquieto ed angosciante. Il buio della sua città è mesto e addolorato. L’occhio si volta, capisce di stare su una collina arida. Nemmeno un fascio d’erba indifeso, né una qualche foglia secca d’autunno. L’istinto lo fa voltare. La panchina è ancora qui, intatta come l’aveva lasciata. Si trascina i piedi dietro e vi ci siede.
Il cuoio degli stivali si rilassa sullo spiazzo di terra compatta. La panchina è rovinata, scomoda, eppure lo tiene stretto a sé. Polonia ci appoggia la schiena. Si sente protetto, senza un vero e proprio motivo. Lascia un respiro carico di tutto ciò che ha visto fino ad ora. Resta fermo, tra il legno schiacciato e il gelo della città in lontananza. Non succede nulla, non accadrà nulla. Lascia un altro sospiro, più triste. È un sollievo, ma non una certezza. Vuole stare solo, ha bisogno assolutamente di stare solo e a non pensare a nulla. Vuole andarsene, rannicchiarsi in una spiazzo bianco e stare in pace. Si sentirebbe molto meglio che stare su questa panchina, con la città catastrofica di fronte a lui, che pare minacciarlo di non aver fatto nulla per salvarla.
Quand il me… ses bras… tout bas… je vois la…” Polonia stropiccia gli occhi pesanti. Deglutisce, si guarda attorno. Pareva la voce strascicata di una radiolina. Ricorda di aver visto Francia con una di quelle, anni prima. Ricorda che gli fece vedere, fiero, di poter armeggiare come un mago quella scatoletta metallica. Ricorda che la musica era dolce. È stanco e stancamente si guarda i piedi e dietro le caviglie “…dit des mots… de tous les… me fait quelque chose…” la trova. È piccola come una scatola di scarpe per bambini. La mano trema quando l’afferra. Il metallo lucido fra poco gli sfugge dalle mani. Continua a mormorare e a mangiare parole. La poggia sulle sue ginocchia. La città è silenziosa, nemmeno l’albero spoglio alle sue spalle sussurra parole stentate. La radio è disincronizzata. Poggia la scatoletta in equilibrio. Afferra entrambe le manopole e le gira. Non può fare altro. Con cautela gira le dita della mano destra, come gli ha insegnato Francia, quand’era paterno con lui “…entrè dans… un part… bonh-… je con-…” non va bene. Muove anche le dita alla sinistra. La linea continua a singhiozzare su e giù “…c’est lui pour… pour lui… vie…” un colpo di pollici. La radio canta, canta per davvero. La donna intona la sua canzone “C’est toi pour moi. Moi pour toi. Dans la vie, il me l’a dit, l’a jurè pour la vie…
La radiolina ha colore, nota solo ora. Di un ocra zecchino, capisce. Brilla più di qualsiasi altra cosa qui, su questa collina abbandonata dal mondo. La donna canta come un usignolo. Polonia è chino sul colore e lascia alle spalle la Varsavia  distrutta, i detriti, forse il sangue e le vita spezzate attorno a sé. Vorrebbe dimenticare la collina orribile dov’è ora. La radiolina prende energia e Polonia ne perde. Sente il cuore pesante come un mattone e lo trascina con più foga sulla canzone. Immagina la donna con uno di quei leggeri e vivaci vestiti francesi. Forse con le spalle scoperte, forse col seno esposto, non gli importa. Immagina la gonna di fiori estivi, i capelli morbidi e pregiati come seta che cadono sulle spalle magre, una collana di perle, un fermaglio dorato e stravagante. La donna canta. Polonia si guarda la divisa molto più sciupata di come ricordasse, gli stivali raschiati dal freddo e dalla lordura delle strade, la mantella smorta. Respira e l’aria gli pare molto più gelida di come immaginasse “Et des que je l’apercois. Alor je sens en moi. Mon coeur qui bat” la musica si ferma. Ritorna il silenzio. Polonia muove entrambe le manopole della radio. Non sa perché lo faccia. Non lo vuole fare. Le mani sono ferme e sembrano cercare veramente qualcos’altro. Polonia ne è quasi spaventato. Non sta muovendo lui le sue dita.
Bentor-… a tutti… me Patrick e… -rabile Celine!” Polonia non controlla più le sue dita e non se ne spaventa nemmeno, non come aveva fatto la sua voce col maestro di Feliks. C’è qualcosa di consapevole nei movimenti delle sue mani. Gira, rigira, allineano perfettamente. Si fermano all’improvviso, così come si sono mosse “Continueremo a trattare della seconda Grande Guerra insieme a tutti voi…” Polonia si guarda le dita, incredulo. Le scuote, tremano così come tremavano insieme a lui. È attonito “… insieme alle rappresentazioni dei paesi vincitori. Salutate qui in studio la Francia e l’Inghilterra!
Bonjour à tous, Parigi. Qui c’è la vostra rappresentazione a dir poco magnifique!” schiocca un bacio alla radio, Francia. Polonia si scuote, come presa una scossa da dentro il suo cuore. Riconoscere la voce di Francia fa male. Gli trillano le orecchie, quasi non credeva di risentirla. Sente uno sbuffo dall’altro capo della radio.
Buongiorno a tutti voi” risponde imbronciato, Inghilterra. Polonia lo immagina con lo sguardo basso, le spalle alte, gli occhi truci sull’alleato. Prende la radiolina fra le mani. Gli batte forte il cuore e vorrebbe che sia felicità quella che sente, ma la confusione la precede e la annebbia completamente.
A te la parola, Celine. Iniziamo con le domande
Subito!” risatina leggera, imbarazzata. Un altro schiocco, labbra su pelle. Francia deve averle baciato la mano e Inghilterra ha di nuovo sospirato con ira. Rumori di carte, una penna che batte su di un tavolo “Dunque, questa domanda è particolarmente richiesta dalle lettere nel nostro studio…” un'altra risatina, Francia ne ha fatta un'altra delle sue “Allora, sappiamo che la Grande Guerra scoppiò in seguito all’attacco della Germania verso la Polonia, portandola fino alla sua distruzione. Conoscevate, messieurs, questa Nazione, prima che morisse? È stato un vostro caro collega o c’è altro che dobbiamo sapere?” silenzio, solo brevi interruzioni della rete scarna della radiolina.
Scusi, chi?” le dita di Polonia si muovono. Una debole scossa le ha prese. Una risata confusa, sempre della donna.
Ah, la Polonia, intendo. Ricordate?” un colpo di tosse da parte di Inghilterra. È imbarazzato, non sa cosa rispondere “Lei, monsieur France?”
In verità mi chiedo anch’io chi sia” dice con sicurezza e un lieve disagio. A Polonia tremano le mani, le stesse che tengono in mano la radiolina. La risposta di Francia fa molto più male di quella di Inghilterra “E’ davvero morto? Uh, Angleterre?
No, non credo. Immagino di… ecco… Francia?” esclama alla fine. Francia non controbatte, non sa neanche lui cosa dire. Polonia stringe forte la maledetta scatola. D’un tratto la odia. Le braccia tremano e le dita stringono malamente come artigli. Sente una fitta al cuore. Fa male quello che hanno detto. Il petto è ancora più pesante. Le ossa sono bollenti. Le dita più indispettite. Quello che ha nello stomaco sa di tradimento, di inganno, di rabbia e tristezza. La radiolina cade dalle sue mani. Si alza in piedi, fulmineo.
Perdonateci, cher, ci devi dare una mano” la voce di Francia ha qualcosa di innocuo. Fa alzare lui stesso il piede di Polonia.
Celine…!” si sente in lontananza dentro la scatoletta, sotto il cuoio dello stivale del ragazzo.
Oh, non fa niente! Sapete, non ha molta importanza…” un altro colpo pesante. La radiolina si piega a metà “…dimentichiamo la Polonia
Giusto, sarebbe meglio dimentica-…” lo stivale è affondato pesantemente nel metallo. Uno brillo incandescente sembra aver illuminato la scatola di ferro e poi ha smesso di parlare. Polonia dà un calcio alla radiolina. Non la vede nemmeno, la sente rotolare, muta, lungo la collina. Il rumore assordante del metallo squarcia in due in silenzio come un coltello. Non gli importa. Non vuole e non deve piangere. Guarda per terra e vorrebbe che la vista non sia così offuscata e così disgraziatamente ovvia. Non vuole piangere. La gola protesta e singhiozza. Il naso si fa bollente e inizia a lacrimare bile. Le lacrime pungono sotto i suoi occhi. Polonia ora vede questa cosa come uno scherzo orribile. Uno scherzo fatto ad uno che non può fare nulla per impedirlo. Si sente ancora in trappola dentro le sue ossa, dentro questo mondo falso. La radiolina non tintinna più. Ritorna il silenzio. Al ragazzo spuntano denti appuntiti, occhi rossastri e cuore impazzito.
“Non è vero, è tutta colpa vostra!” urla a Francia e ad Inghilterra, dietro ad una scatoletta rotta lungo la collina, sotto uno strato di zolfo e polvere. Tira su il naso, sente fin troppa saliva nella sua bocca “Voi mi avete portato qui! Dovevate aiutarmi, dovevate salvarmi, avevamo un accordo!” la gola singhiozza e non lo fa parlare. Polonia si asciuga gli occhi, prima di ritornare a scagliarsi contro l’ignoto sotto di lui. Si sente patetico ad urlare così, senza nessuno che lo ascolti. Si sente ancor più tradito e solo. E morto “Voi mi avete ucciso!” il silenzio tace, interessato “Per colpa vostra sono morto! Per colpa vostra Liet si è quasi ammazzato! È tutta colpa vostra…” finisce esausto, con la voce guasta. Si poggia le mani al volto, non vuole che qualcuno possa guardarlo. Si sente disgustoso e brutto, d’un tratto. E infantile. Non gli piace questo lato di sé. Consuma il pianto tra i guanti. I capelli s’impiastricciano nelle lacrime, si fanno scuri e mostruosi anche loro. Si sente solo e grigio e brutto come la sua Varsavia. Vuole qualcuno che lo consoli, che lo abbracci. Vuole Liet più di qualsiasi altra cosa al mondo ora.
 
“Capisco… allora perché non mi racconti tu una storia?”
 
Il cuore di Polonia sussulta. Una freccia di ghiaccio fa breccia dentro di sé e lo riempie di gelo. Ma è un gelo dolce, allora ne vuole altro. La voce era chiara, cristallina, non filtrata dietro il macchinario di una radio o di un telefono. Polonia non la sentiva da anni. Si toglie gli strati di lacrime sulle sue guance. La voce era lontana, ma chiara in questo silenzio opprimente. Polonia si volta, si gira e rigira. La voce di Liet l’ha gelato, l’ha come schiacciato.
 
“I-Io?! Uh… Ma allora come dovrei chiamarti?”
 
Un'altra freccia traditrice. Sente ora la carne squarciarsi sotto il gelo e l’emozione. Non ha più fiato. Segue quel filo di voce fino a calpestare ogni angolo della collinetta. La panchina non ha nulla da offrirgli, deve cercare altrove. Un lampo di comprensione lo coglie. Si sporge dal terreno e guarda in basso, oltre la nube di fumo sotto di lui. Lì è dove la radiolina è precipitata ed è sparita.
 
“Io sono Lituania! Siamo venuti fin qui per discutere riguardo al matrimonio tra il nostro Granduca e la vostra sovrana”
 
Da laggiù proviene la voce. Polonia non prova nemmeno a fermare le lacrime, già le vede staccarsi dai suoi occhi e precipitare lungo la collinetta. I piedi fremono, il cuore palpita. Si stringe i pugni. Ha paura, davvero tanta paura. Liet non può essere qui. Vedrà qualcosa di orribile su di lui.
 
“Cosa?! Beh, allora ti chiamerò ‘Po’. Quindi, puoi smettere di chiamarmi ‘ehi tu’, se vuoi…”
 
Ma la voce è troppo viva e il suo cuore è troppo emozionato. Si getta in basso. Appena tocca terra inizia a correre. Non immagina nessun inganno, come quelli visti fino ad ora. Non immagina nulla di atroce, nemmeno ricorda quel che ha visto o sentito. La voce di Lituania non la sente da chissà quanti anni. Ed è troppo viva e familiare per essere falsa. Si precipita dentro al fumo, non volendo nient’altro che qualcuno che possa salvarlo da questo posto e da tutte queste illusioni.
 
“Negli scacchi sono imbattibile, è impossibile che tu riesca a sconfiggermi!”
 
 
 
 
 
 
Il fumo ha rivelato pietra. Pestarla gli ha gelato il sangue. Ha sentito la schiena irrigidirsi e i piedi hanno addirittura smesso di correre. Si sente in qualche modo osservato. Si volta e fa avanzare la vista più di quanto faccia di solito. Non c’è nessuno, solo pietra scura e nemmeno una luce che possa filtrare, eppure vede, vede chiaramente. Non sente più la voce di Liet.
Il tavolo non sembra avere un vero colore e se ne possegga qualcuno allora è nascosto per il buio. Le sedie le guarda con distrazione e perplessità. Hanno qualcosa di agghiacciante. Finalmente muove i piedi. Si sposta con cautela, sente ancora occhi invisibili su di sé. Poggia il palmo della mano sulla sedia e lo fa percorrere con lentezza. È un vecchio gioco, nulla di più. Lo fa con tutte le sedie della prima fila. Finisce al capotavola, a malapena si accorge del sedile ben più alto degli altri, senza nulla che li distingua gli uni dagli altri. Ritira la mano, la guarda incerto: trema di vera paura. La voce di Liet è completamente svanita.
Sente gli occhi invisibili diventare ancora più aggressivi. Polonia irrigidisce le spalle e alza gli occhi con terrore. Non c’è nessuno. Appare un portone. Di sicuro è apparso ora, immagina il ragazzo. Non l’aveva visto prima. La sensazione di smarrimento gli fa bloccare il fiato. È già stato in questo posto e in qualche modo ne ha paura. Non può far altro che esplorare e pregare che non gli accada nulla di terribile. Deglutisce, si porta una ciocca ribelle dietro l’orecchio, respira profondamente e spalanca la pesante entrata.
Nella sala del trono pare essere caduta l’oscurità di una notte senza luna. Guarda il tappeto sotto i suoi piedi e gli sembra ben più polveroso e vecchio. Avanza lungo il percorso. Il tappeto è stato strappato e mordicchiato da qualcosa. Un filo di disgusto e ghiaccio percorre la sua spina dorsale. Non vuole assolutamente pensarci. Lo sguardo è diventato ora tirannico addosso a lui. Polonia si sente servo e miserabile, per questo alza piano gli occhi e tiene la fronte bassa. Qualcuno è seduto sul trono. Polonia realizza chi sia e la testa si alza, la timidezza si placa. Si sente confuso, incredulo, terrorizzato da quello sguardo di lince. Non sente più le palpebre.
Avanza sul tappeto, ora guarda fisso di fronte a sé. I suoi piedi riconoscono la sala e i gradini, quasi volano sopra la pietra. Polonia si sente leggero, come se il suo corpo non avesse più una vera compostezza. Si sente inutile aria, sente che i piedi potrebbero fluttuare ad un palmo da terra. Non sente più nemmeno il suo cuore, gli fanno troppo male gli occhi per pensare al battito incalzante. I passi superano i gradini, camminano per un po’ e si fermano, terrorizzati di stare troppo vicini a questa persona. Ha il gomito appoggiato al manico del trono, qualcosa gli dà un’aria arrogante e arrabbiata. Il mantello rosso non lo nota nemmeno, non sembra avere nemmeno questo una luce. Un tallone è addossato al ginocchio, non sembra importargli se la tunica possa scoprirlo. Polonia è rapito, incatenato. Gli occhi lo fanno impallidire: non hanno fatto altro che seguirlo fino ad ora. Il personaggio lo guarda dal basso verso l’alto, ma Polonia ha l’impressione di essere basso almeno un’altra spanna. Questa cosa lo terrorizza. Non sa cosa dire, rimane a guardarlo, incredulo, tradito dalle piume che ha bruciato. La persona sospira, con qualcosa di simile all’impazienza, eppure desiderando di trattenere un’ira che Polonia non comprende. Abbassa il mento, si passa le dita bianche tra i lunghi capelli. Quel gesto lo faceva spesso quand’era ragazzino, ricorda Polonia. Deglutisce, prende coraggio.
“Tu… tu chi sei?”
“Ti sei totalmente fottuto il cervello?” lo interrompe bruscamente, mangiando qualche sua lettera. Smette di lisciarsi i capelli biondi e soffici, sbatte la testa con rabbia verso di lui “Sono te, idiota! Non riconosci più te stesso?” pare urlare, a malapena trattenendo la calma. Polonia non capisce perché ce l’abbia con lui. I piedi sono ancora premuti sul pavimento e non riescono a muoversi. Non può scappare. Si guarda attorno, cerca di non sentirsi colpevole della furia del suo sosia. Non c’è nessun’altra porta per scappare. Deglutisce ancora. Ha ancora paura.
“Sai come uscire da qui?” chiede con una voce fin troppo timida per essere sua. Gli occhiacci verdastri del sosia si socchiudono. Non sembra arrabbiato, ma nemmeno benigno. Le sopracciglia si alzano, il gomito viene smosso e le braccia abbandonate sul trono. Ha un’aria di sufficienza.
“No. E perché dovrei farlo? Non hai fatto altro che ignorarmi da tipo sempre e tu ora vorresti il mio aiuto per uscire dallo schifo in cui ti ci sei totalmente buttato da solo? Cioè, col cavolo!” non urla, ma per Polonia sembra quasi un rimprovero furioso. Si sente soffocare, stretto in una morsa troppo asfissiante. Alza le spalle, tende le mani sopra alla pancia. Sente come di aver ricevuto un pugno al torso. Urla di tedeschi. Nessun nascondiglio. Nessuna via d’uscita. Urla dietro alla porta. Paura. Terrore. Piume al cielo. Inferno di fuoco. Caduta nel buio.
“H-Ho dovuto farlo. Non volevo…”
“…Farti ammazzare?” la sua schiena si adagia meglio sul trono. Sbuffa contrariato, con qualcosa di simile all’ironia crudele. Il tallone lascia il ginocchio “Po, ti ricordo che sei già morto e, beh, morire un’altra volta sarebbe tipo impossibile” respira profondamente. Gli occhi s’inclinano, abbassa piano le palpebre. Vede giusto un filo di verde smeraldino che lo aggredisce con ira nascosta “Te la sei totalmente fatta addosso e hai cercato il modo migliore per scappare” lascia un respiro più triste. Abbassa completamente le palpebre. Gira la testa di lato. Vede la guancia bianca e liscia come perla “…come in ogni guerra” Polonia sente il bisbiglio volontario e scatta, colpito dentro. Si sente più sicuro di sé.
“Non è vero, la scorsa guerra ho dato il meglio di me!”
“Già, e il meglio di te è stato buttarsi addosso ai russi e farsi totalmente mitragliare da quel bastardo di Russia” non sorride, nemmeno per ironia malsana, eppure Polonia ha giurato che l’avrebbe voluto fare. Alza solo un piccolo angolo delle labbra. Lo aggrediscono ancora gli occhi. Sono magnetici, non riesce a togliere lo sguardo da questi. Polonia non immaginava di poter dare una forma così agghiacciante al suo sguardo. Si accorge con fatica del misero, ironico, deluso applauso “Ottimo lavoro, Polska…” smette subito, riabbassa le mani. Anche da ragazzino odiava applaudire. Sbuffa, rigira ancora la testa “…Hai anche ucciso un bel po’ di gente, ti ricordo” Polonia scatta ancora, preso nel cuore. I Lukasiewisz a tavola. Feliks viene sbeffeggiato da Tymek. Darek rimprovera suo figlio. Dorota sorride imbarazzata. Ewa mangia e rimprovera il piccolo. Wladymir ridacchia e arrossisce. Jan guarda la scena, non ricordando come sia scoppiata, e sorride, sinceramente felice. Klara dormicchia sul divano, calma. Polonia si sente pugnalato al cuore.
“Io… non immaginavo che…”
“Che cosa? Cioè, ma che credevi? Credevi che i tedeschi ti avrebbero risparmiato perché eri tipo ‘un totale e dolce scemo’ che non valeva nemmeno la pena di bombardare in testa…” Feliks sotto le macerie della scuola “…o di sparare in mezzo agli occhi?” Dorota sparata in testa dai tedeschi. Polonia sente freddo. Il suo sosia non cambia espressione, la ammorbidisce soltanto. Non è pietà per lui, glielo legge perfettamente “Polska, la guerra ammazza tutti. Potevi salvare quella famiglia, così come potevi salvare Liet” l’ultima frase non la nasconde, nemmeno la bisbiglia fra sé. Un battito prepotente di rabbia lo accende come una fiaccolata. Mostra i denti.
“Io l’ho salvato! Ora sta bene ed è felice! Lui è il mio migliore amico!”
“Oh, certo, ovvio” annuisce freneticamente, con sufficienza. Polonia stringe i pugni, monta ancora la rabbia. Il sosia bisbiglia ancora, gli mostra ancora la guancia “Bel amico…”
“Ma che dici? Liet è il miglior amico che esista al mondo!”
“Stavo parlando di te” la fiammata di rabbia si quieta del tutto. La risposta lo lascia senza parole, la sicurezza cade. L’altro lui sospira sonoramente, con vera calma. Alza gli occhi, lo guarda come se fosse un bambino particolarmente stupido “Po, tu non hai salvato Liet: hai solo pagato il tuo debito. Sei stato un totale bastardo con lui sin da quando eravate piccoli e quell’avanscoperta da Russia l’avresti potuta fare anche prima” Polonia si spegne completamente. Ricorda la guerra contro Russia. E contro il suo Lituania “Se Liet non fosse un santo avrebbe già pisciato sul tuo cadavere e baciato gli stivali di Germania” sospira ancora, con un briciolo di tristezza “Avresti potuto salvarti, così Liet non avrebbe sofferto così tanto” Lituania lo porta nel bosco lontano casa. Si veste elegante. È bello, il suo Liet. È agghiacciante, la sua felicità. Gli mostra il coltello. Terrore. Angoscia. La lama viene portata al polso. Polonia perde colore alle guance. I suoi occhi non sanno dove soffermarsi.
“Non avrei potuto fare niente per impedirlo”.
Il sosia lo fissa intensamente. Rimane ancora congelato di fronte agli occhi intraducibili. Gli angoli delle labbra si muovono verso le guance. I denti bianchi, puliti, scintillano. I canini si scoprono. Gli occhiacci smeraldini sembrano brillare di una nuova luce meschina “Perché non lo chiedi a Liet?”
Uno squillo inconfondibile di telefono fa sobbalzare Polonia. Lo fa voltare di scatto. Vede qualcosa in fondo alla sala, forse un tavolino. Si volta ancora verso il trono. È vuoto. 
Lo squillo strappa di nuovo la tranquillità del silenzio. Polonia avanza, col cuore pesante. Si trascina le gambe fino al tavolino. Il tappeto è raschiato dalla polvere, eppure non è ancora cremisi come lo ricordava. Si avvicina, guarda esitante. Lo squillo sembra più quieto, meno aggressivo di come l’ha udito col suo gemello crudele. Il color oro della cornetta lo risveglia. Non c’è nessun filo a collegarlo alla corrente. Un altro squillo. Alza la mano, l’avvicina. Trema quando afferra la cornetta del telefono. La porta all’orecchio, con vera paura. L’occhio gli cade in basso: questo non è un tavolino. Ricorda di aver avuto un comodino vicino al suo letto simile a questo. La stringe con entrambe le mani. Ha paura. La voce nella cornetta sussulta.
“Ah!” sobbalza gentilmente “Polonia, sono io, Lituania. S-So che può sembrarti assurdo, ma è appena arrivato Prussia a Mosca! Dice che vuole invaderti e Russia sembra voler accettare…” l’orecchio si è già fatto sordo. La mano ha smesso di avere paura e si poggia sulla bocca. Non deve piangere. Respira a pieni polmoni. Il cuore gli si è fatto bollente come carbone. Capisce che quel che parla è veramente lui. Sente l’emozione e la memoria scavargli nella testa come una trivella maledetta. Non immaginava all’epoca che sarebbe stata l’ultima volta che avrebbe parlato con Liet. Sente una crepa formarsi nel cuore. Si sente solo “P-Polska, ma stai piangendo?” chiede preoccupato. Polonia tira su il naso. Ora odia l’essere altruista di Liet
“N-No, non sto piangendo…” tira ancora su il naso. La sua voce sembrava dannatamente infantile. Si vergogna e arrossisce. Non riesce a far smettere le lacrime di scorrere. E bruciano maledettamente.
“Polska, non avere paura! Non è ancora troppo tardi! Puoi farcela, devi solo armarti e potrai difenderti a dovere!” annuisce fra sé e sé, confortato fin dentro le ossa. La sua voce lo fa sentire al sicuro. E a casa. Obbedirà a Liet e andrà tutto bene.
“Sì, sì, lo farò. Farò tutto quello che mi hai detto, Liet” afferma sincero. Rimane a fissare ancora il muro di fronte a sé. Liet non risponde ancora. Nemmeno si chiede se stia bene.
“Tu… tu mi hai creduto, vero?” Polonia si sente preso al cuore.
“Ma è ovvio, Liet! Cioè, perché non dovrei crederti?” Io mi fido totalmente di te!, urla dentro la sua testa, senza avere tempo per aprire bocca. Lituania non dice ancora nulla. Il silenzio non lo calcola, non pensa che alla voce di Liet che manca. Vorrebbe che lo portasse lontano da questo posto. Vorrebbe stare con lui. Vorrebbe cancellare ciò che è realmente successo in quella telefonata e alla sua risata cattiva quando gli ha riattaccato. Non ha più sentito la sua voce da quel giorno. Il silenzio si spacca.
Non è un po’ troppo tardi, Polonia?
Non sapeva di star sorridendo fino a quel momento. Gli angoli della bocca si sfaldano. Gli si spengono gli occhi lacrimevoli. Rimane ancora in attesa, non c’è nessuna risposta. Lituania ha smesso di parlargli. La mancanza di lui è pesante, gli blocca il respiro. Anche la mano cade. Sa che non dirà più nulla. Le dita si sentono deboli e fanno precipitare la cornetta. Questa è ignorata, ondeggia affianco al comodino, come la lancetta di un veloce pendolo. Polonia si sente pesante come un macigno, quando si volta. Il suo sosia lo guarda cripto, non sa cosa stia pensando di lui. Lituania non gli ha mai risposto. Il mantello lo avvolge come un abbraccio. Polska lo guarda, bianco come la pancia di un pesce. Attende la risposta a quelle parole a lui comprensibili ed incomprensibili. Non dice nulla, ha lo stesso sguardo, con la stessa pelle rosea e morbida. Volta il collo con lentezza. Resta a guardare il trono. Polonia non vuole più comprendere, ma non riesce a fare a meno di guardare anche lui. Gli si apre il cuore e una cascata di emozioni circonda nelle sue vene. C’è Liet. Sorride, i piedi scalpitano, sembra che il mondo si sia rovesciato, ma in meglio. L’istinto lo fa correre verso di lui.
“Liet!” allunga la corsa sul tappeto. Il suo cavaliere rimane fermo, anche se l’ha visto. È lui, è sicuramente lui. Ha i suoi occhi celesti, i suoi capelli scuri, l’uniforme verde come l’aveva visto l’ultima volta. Eppure… Il passo rallenta, non riesce a salire gli scalini. Lituania ha uno sguardo incomprensibile. I suoi occhi sembrano grigi. È triste e qualcos’altro che ora Polonia non capisce, ma intuisce. Resta fermo sotto la gradinata. Vuole abbracciarlo e sentirsi abbracciato “Liet, sono io, sono Polska! Sono vivo!” Lituania rimane immobile, solo il capo si muove di lato e le palpebre cadono.
Vivo…” ripete, come un qualche vecchio giocattolo, ma con una voce distrutta. Polonia la sente e sente che ha ripetuto quel che ha detto e ha detto quel che voleva dire. Un passo si poggia sul gradino, fa avanzare il corpo più avanti. È ancora euforico, vuole stringerlo e premere il suo viso sul collo dell’amico. Ma gli occhi grigi di Liet lo fermano. Sorride ancora, smorzato dall’aria fredda tra loro.
“Sì che sono vivo! Non sei tipo felice di questo?” Lituania sembra essere stato pugnalato al cuore. Gli occhi si sgranano, il grigio nell’iride si mostra con più tristezza.
Felice di questo?!” ripete. Per Polonia è come se gli parlasse per davvero. Gli si spezza il sorriso. L’emozione che l’ha avvolto lo ha abbandonato. Il trono alle spalle dell’amico pare in rovina, con le foglie ormai secche e gli steli spezzati. È orribile quel che sta vedendo. Fa un altro passo sulla scalinata, non capendo e non volendo capire. Vuole solo essere muto e sordo e affondare il naso sul collo di Liet.
“Ma perché mi parli così? Non siamo stati amici fino ad ora?” Lituania pare sussultare e chiudere le palpebre lucide. Le ombre sotto ai suoi occhi inglobano le palpebre. Sembra un qualche teschio. Polonia lo osserva e non immaginava che fosse ancora così magro. Scuote la testa e anche Liet fa lo stesso.
Amici… Fino ad ora?!” Polonia sente il cuore battergli in petto. Tutto questo che sta accadendo è sbagliato. Liet non dovrebbe piangere di fronte a lui. Non l’ha mai fatto. Vede lacrime d’argento scavare nella sua pelle. Tutto questo è terribile. Un altro passo sulla scalinata. Si sente pesante e colpito.
“Liet, siamo sempre stati amici, questa è la totale verità!” Lituania scuote la testa e Polonia non si arrabbia. Il panico di quello che gli sta facendo intuire il suo amico lo fa tremare “N-Non è così? Lietuva, questo non è vero! Ti ho sempre voluto bene! Non ci sei stato altro che tu!” sembra volersi voltare e andare via, col suo sguardo basso e quella poca carne che ha attorno alle ossa. Sembra star male, il suo Liet e questo lo fa soffrire ancor di più. Scala i gradini, Lituania si volta, la schiena è in vista. Polonia la guarda e non ha più parole da pronunciare.
Non ci sei stato altro che tu!” urla dietro le spalle magre. Polonia ha ancora le labbra socchiuse. L’uniforme alla schiena è strappata, la carne e le ossa esposte. Polonia vede tagli di coltello. Sangue lacrimante dalle ferite aperte. Carne strappata più volte. Polonia vede carne viva gemere e sputare vermiglie cascate. Una è stata aperta e riaperta con ira. Vede attraverso di essa rigature grigiastre e bianco sporco. L’osso esposto non lo meraviglia, non lo disgusta più di quanto immaginasse. Polonia ha le lacrime agli occhi.
“Non ti ho fatto io questo, Liet! È… E’ stato Russia!” mormora appena, quando Liet si volta. I suoi occhi sono contratti. Sembra arrabbiato o desiderare di mostrarsi arrabbiato, fallendo in parte. Vede ancora le sue lacrime e i suoi denti sporgere, mortificati. Allarga le braccia strappate. Mostra la vena del braccio. I rigagnoli di sangue cadono a terra, senza nemmeno un rumore. Fiume di sangue, laghetto cremisi. Polonia ricorda e sgrana gli occhi.
E’ stato Russia?!” urla, metà fra scherno e orrore. Polonia non ha nemmeno tanto orrore, ma disgustosa sorpresa. I tagli creati di fronte a lui, desiderando di essere preso e portato in Paradiso, gli strappano ogni scusa possibile. Però apre comunque la bocca.
“Non sono stato io!” Sei stato tu!, ferma in tempo, incredulo del suo stesso pensiero. Non può averlo pensato veramente. Liet sgrana gli occhi, s’infiammano, come in battaglia s’incendiavano di valore. Polonia spalanca gli occhi. È ira fluita fin dentro la carne. La sente infrangersi su di lui.
Sei stato tu!” urla, l’eco si percuote in ogni angolo della sala. Polonia poggia i guanti lerci sugli occhi. Piange. La testa cade nella coppa creata dalle sue mani. Le gocce salate insozzano di più i guanti. Sa che Lituania se n’è andato, non serve guardare, ha imparato questo orribile scherzo. Nonostante ciò piange e un frammento di verità fa aprire un scomparto segreto nel suo cuore. Non capisce perché tutto questo non possa smettere. Sente la presenza silenziosa e crudele del suo sosia. La verità non può essere questa.
“Non ho mai voluto Liet morto…” lo sente affianco a sé. Sente le sue braccia cingergli i fianchi. Lo abbraccia. Questo calore lo conforta e lo disprezza. Ma non se ne stacca. Ne ha veramente bisogno. Lo sente sospirare vicino al suo orecchio.
“Strano, io ricordo un episodio totalmente diverso, Po” lo canzona. Non vuole ricordare il sogno e la casetta in mezzo alla neve. Ferma i ricordi sul nascere, gli si spezzerà il resto del cuore se continuerà a vedere e a ricordare i suoi errori. L’abbraccio si fa più stretto. Sente il suo profumo. Sa di mirtilli e fragole di bosco. Non riesce a non pensare al piccolo Liet e a quando erano bambini. Scuote la testa, non vuole accettarlo.
“Sta’ zitto! Io… non ucciderei mai qualcuno…” le mani di seta del gemello sembrano raffreddarsi. La stretta attorno a sé si scioglie, ma solo in una mano. Polonia fa cadere le mani dagli occhi gonfi e appannati. Immagina già le sue guance bruciare come tizzoni ardenti. Il sosia poggia una mano su suo viso e lo fa voltare. Occhi contro occhi. Smeraldo contro smeraldo. Gli occhi del sosia brillano, i suoi sono cupi e lucidi. Il dito della sua mano si muove. Gli pulisce una lacrima, incastrata sotto le ciglia. Polonia rimane incredulo. Il gemello sorride, indecifrabile, forse nemmeno sincero.
“Davvero, Polska?” sussurra con una qualche bizzarra ed innaturale dolcezza. Polonia rimane incantato e servile. Il pollice segna un terzo e quarto percorso sulla sua guancia. Si sente abbandonato a lui. Le sue mani sembrano vera seta e non un banale paragone. Morbide e preziose. Una piccola fila di denti si scopre, la lingua sotto al palato scocca “E dov’è Toris?”
A Polonia sembra cadere un intero mondo sotto ai suoi piedi. L’aria nemmeno entra nei suoi polmoni. Non pensa nemmeno ad una risposta. Il sorriso del gemello si allunga, serafino. Il suo pollice gli prende un ciuffo di capelli che non immaginava nemmeno di avere e lo poggia dietro al suo orecchio, conoscendo la strada perfettamente. Polonia si sente fra le braccia del diavolo. Gli tremano i piedi, il cuore palpita “Che cosa gli hai fatto?” il sosia sghignazza, con il volto contratto.
“Io?” continua a ghignare, coi denti che paiono affilati come quelli di una qualche disgustosa bestia. Polonia lo guarda non comprendendo e tremando dentro i suoi stivali. La mano di seta si fa tenaglia di artigli. Stringe forte l’osso della mascella. Polonia sobbalza, sente dolore improvviso. Fa scattare il suo collo dove ora lui sta guardando, lì dove per la prima volta ha visto Liet. C’è qualcosa di bizzarro accasciato in terra. Grigio, brutto e spennato. Polonia vede un becco appuntito e realizza “Lo abbiamo ucciso insieme, Polska!”
L’urlo si alza fino al soffitto della sala. Polonia si libera della presa del doppione, corre e s’inginocchia. Toris è poggiato sulla schiena, il collo spezzato, le ali aperte come in caduta, come quelle anatre sparate in aria da un cacciatore. Le piume non hanno più un velo di colore. Polonia ha le mani che tremano, il fiato che sussulta di dolore. Non ha lacrime, ma vorrebbe urlare ancora, fino a strapparsi la gola. Ha paura di toccarlo, di fargli ancora più male o di strappargli involontariamente qualche altra penna. Il gemello, principesco e calmo, scende le scale. Polonia prende coraggio e gli stringe fra i guanti la testolina cava. È fin troppo leggera. Gli si spezza la schiena, mentre urla di dolore.
Toris bambino gonfia le guanciotte rosse per la corsa inutile. Polonia lo tira in alto, leggero come una piuma. Stretti i piedini nudi, corre nel bianco del nulla. Il bambino esulta e ride per la gioia. A Polonia viene voglia di fare il cattivo e lascia i piedini nella corsa. Il bambino si capovolge, impallidisce di paura. In aria diventa falcone. Polonia si ferma, Toris si poggia sulla spalla. Afferra col becco il suo orecchio e tira, infuriato. Polonia ride ancora. Adora questo fratellino speciale.
Le lacrime s’impigliano nelle piume maltrattate e nei solchi dove sono state strappate. Non ha la forza nemmeno di coprirsi il volto. Non ha la forza di smettere. Ha perso tutto. Ha perso anche l’unica persona che aveva vicino in questo luogo abbandonato da Dio. Il sosia poggia la sua mano ironica sulla sua testa. Sente le sue dita fini impigliarsi fra le ciocche morte. È disgustoso. Un conato di vomito ferma per un secondo le sue lacrime. Le dita sottili fanno cerchi sul cranio lesionato “Perché piangi? Non volevi vendicarti di Prussia e vedere Liet?”
Sta’ zitto, bastardo!, urla la sua mente, senza però formare le parole. Vorrebbe che togliesse la mano dalla sua testa. La sua mano è morbida, ma in qualche modo nella sua testa è come se fosse scheletrica e raccapricciante. La mano si chiude sulle ciocche bionde e sporche, alza la testa di Polonia con un’incredibile forza. Polonia non riesce a guardarlo negli occhi e ha paura di farlo. Gli occhiacci di gatto sembrano scavati dentro ad un cranio bianco.
“Non mi dare del bastardo!” gli urla ad un palmo dall’orecchio. Questo diventa sordo per un attimo, scioccato che sia riuscito ad ascoltare i suoi pensieri. La presa alla testa si fa più prepotente. Polonia sente vero dolore, ma non pensa nemmeno di riuscire a fermare la mano che gli sta strattonando fili e fili di capelli “Sei tu il bastardo. T      u hai voluto tutto questo. Tu hai voluto fare l’idiota con Liet. Tu hai voluto vendicarti di Prussia, ammazzando altri del tuo popolo” Polonia sussulta per il dolore al cuore. Si vergogna delle sue lacrime. Sente le ginocchia penzolare dal terreno. È incredulo della forza del suo gemello “Non c’è spazio in Paradiso per bastardi come te” spalanca gli occhi, il sosia non ha cambiato espressione. È raccapricciante “L’hai voluto tu l’Inferno… e adesso ti ci anneghi, Polska”.
Il calcio allo stomaco è stato violento ed inaspettato. Polonia chiude gli occhi. Non vuole vedere più niente. Si sente scivolare e cadere. Da sotto le palpebre vede nero. Le lacrime sembrano staccarsi dalla sua pelle e volare lontano da lui.
 
“Non potresti comunque avere Lituania, Polonia. Tu non andrai nello stesso luogo dove andrà lui…”
 
Apre gli occhi di scatto. Il cuore spruzza di terrore. Vede un fitto cielo grigio. Vede la pioggia scendere dal cielo e cadere. Si sente umido e sporco. Guarda altrove, non ci riesce. Si rende conto di non riuscire a muovere il collo. Né le braccia, né le gambe. Il suo corpo è paralizzato. Il panico scivola dentro la sua spina dorsale. Non riesce nemmeno a tremare. La pioggia lo lava dal fango e dalle lacrime. Non sente nessun odore nell’aria. È intrappolato lì, sulla sua schiena. Sente dei passi. Il cuore sussulta e solo lui può sussultare veramente. Sente le suole pesanti calpestare il fango in cui si è immerso. L’ombra nera lo inghiotte, Polonia può solo guardare in alto. Impallidisce, urlerebbe se potrebbe.
“Bentornata, principessina!” gracchia Prussia, sorridente, coi denti che sporgono dietro alle labbra e l’aquila nera sulla spalla. Il pennuto lascia subito la spalla del comandante. Polonia ha la bocca paralizzata, come il resto di sé “Non sai che avventura che ho avuto per ritrovarti! Il Magnifico di solito non spreca tante energie per una sola persona. Dovresti ringraziarmi, sai?” Polonia non ride e nemmeno Prussia, che sembra capire che non riesca a muoversi. Gli occhi rossi si fanno seri, lo squadrano dagli stivali fino ai capelli. Polonia vorrebbe sprofondare nel terreno. Prussia sparisce dalla sua vista “Bene, principessina, andiamo nella nostra nuova casa” dice, senza un vero sentimento nella voce. Polonia non capisce, ma sente parte di sé sollevarsi. Vede di nuovo Prussia, curvo e di spalle, con i suoi piedi tra le mani. Lo sta trascinando per le gambe.
Le braccia, incontrollate, già incominciano a tendersi sopra la testa. Si lasciano trascinare anche i capelli. S’incastrano fra lerciume e ramoscelli. Prussia non dice una parola. L’aquila nera sembra sparita. La pioggerella sembra picchiettare più forte sul suo viso. Qualche goccia finisce tra le sue ciglia. Sono fredde, come un temporale autunnale. Gli occhi non riescono a concentrarsi su nulla, non c’è nulla da vedere. Il panico monta in gola a Polonia. Non sa cosa sta per succedergli. Prussia rallenta la camminata, in qualche modo sembra addolorato “Siamo arrivati”.
Polonia deve sforzarsi per vedere il cancello di ferro battuto. Sente un fulmine schizzare in lontananza, nei cieli. Non illumina la scritta bizzarra incisa lassù, ma riesce comunque a leggerla. Prussia non si ferma e non guarda in alto.
Arbeit Macht Frei. Il lavoro rende liberi.
Polonia immagina ghiaccio, un trono di stalattiti nordici, il signore infernale seduto sul trono coi traditori di Cesare e del Signore inchiodati ai lati dell’immenso e terribile paesaggio. Polonia immagina che il cancello sia rossastro e che citi qualcosa che lesse nei libri antichi di Italia. È all’Inferno.
 
 
 
 
 
“Cosa vuoi, Bielorussia?”
“…Come ‘cosa vuoi?’!? Te ne devi tornare a casa da mio fratello e subito”
“Tornerò a casa, dopo che sarò stato a Varsavia”
“Ho detto subito, coglione!”
 
“Sono felice di avere una compagnia così giovane sul mio carretto” esclama il vecchio, curvo, magro e rugoso. Ha qualcosa che l’ha inasprita sin dalla prima volta che l’ha visto. Ha quel qualcosa di felice e sereno che a Bielorussia dà sui nervi. Le regala molta più agitazione, anche senza guardarlo in faccia. Lituania sorride o finge di sorridere, non saprebbe dire. Alza di poco lo sguardo, e vede solo la curvatura delle guance. La infastidisce, riabbassa la testa.
“La ringrazio, anche se dovremmo ringraziare voi” la sua voce è dolce. Bielorussia pensa che sia fasulla, come qualsiasi cosa di questo nuovo lui. Involontariamente ringhia sotto i baffi. Detesta il vecchio, ma detesta anche Lituania che lo prende per i fondelli, solo per un passaggio.
“Figurati, ragazzo. È un piacere vedere un compaesano ritornare in patria” Bielorussia s’irrigidisce. Lo stomaco s’inclina in una piega disgustata. Che razza di schifoso insetto che è questo vecchio ingenuo, con la carrozzina che definisce carretta.
 
“Biela, ti devi calmare”
“Tu non mi dici quando devo calmarmi o no! Mio fratello sta per sbattere la testa contro il muro, solo per un bastardo ingrato come te che ad un certo punto della giornata alza il culo e se ne va di casa!”
“Non capisci niente, Biela”
“Io capisco benissimo, invece”
“No, non capisci. Secondo te perché avrei dovuto portarmi dietro i resti di Polonia, se avessi voluto scappare?”
“Ma… ma che ne so! Ti dico che devi venire con me e chiedere come minimo il perdono in ginocchio a mio fratello per quello che gli stai facendo!”
“Lo farò, Biela. Ti dico che tornerò a casa, ma fra pochi giorni. E ora abbassa quel coltello, sei ridicola”
“Me ne fotto, bastardo!”
 
“Come ti è parsa Vilnius dopo tanti anni? Hai detto che da quando eri un ragazzino che non la vedi” interrompe i suoi pensieri la voce racchia del vecchio. Sbatte le palpebre più volte. Lituania, di fronte a lei, seduto, ha ancora una gamba abbracciata al baule e l’altra che ondeggia per aria. Sbuffa, Lituania sembra indifferente a tutto. Le dà ancora più fastidio. Lui le dà fastidio, sin da quando la guerra si concluse. Ha quell’anormalità stampata ovunque sul suo corpo. Il piedi smette di fare il pendolo e si poggia a terra con la punta. La rabbia smette. Tira su un respiro profondo.
“Beh, è cambiata moltissimo” uno sbuffo di risata, stranamente adulto. Suo fratello talvolta sbuffa una risata simile a questa. Rimane ad ascoltare “Me l’aspettavo, insomma… dopo tanti anni è normale che la propria città cambi, soprattutto dopo la guerra, però… non mi aspettavo questo” piccola pausa. Fa un respiro profondo, la voce ora sembra meno falsa “Non c’è più la stessa atmosfera che si respirava quand’ero piccolo” Biela si spazientisce, quando sente l’ultima parola. È falso, come al solito “Ora sembra una qualsiasi città russa che io abbia visto in questi anni. Anche Vilnius sembra essere presa completamente dal comunismo”.
C’è silenzio. A Biela non piace molto, forse preferisce di più il chiacchierio antipatico di prima. Un’aria fredda congela la serenità. E’ appena stata pronunciata una triste verità. Alza lo sguardo. Vede la mano fasciata di Lituania e una goccia di rosso spuntare timidamente dalla benda. Gliel’ha dovuta fasciare lei, quella ferita. Contempla il basso, di nuovo. Guardare di nuovo gli occhi maledetti del ragazzo le risulta insopportabile.
“Sì, è vero, ora siamo molto più simili ai russi, ai lettoni o ai bielorussi” sobbalza sentendo il nome del suo popolo. Il vecchio continua a guidare la carrozzina e i due cavalli con le stringhe “Con le relazioni negative che abbiamo con gli Stati Uniti di sicuro ci siamo chiusi molto in noi stessi” Lituania abbassa lo sguardo sulla sua benda. Vede il rosso e pensa che debba cambiarla. E che dovrà farlo Biela “Ma in fin dei conti non si sta così male” lui alza lo sguardo, lei lo riabbassa. Non lo ascolta quasi più “Mio nonno coltivava la terra come me e che io ricordassi non ha mai imparato a scrivere, se non il suo nome. Ogni cosa costava cara e i suoi padroni gli davano del denaro giusto per dare da mangiare a lui, a mio padre e a me. Questo carretto è suo, lo tengo più per ricordo che per altro. E’ vero che i russi ne hanno fatte di tutti i colori alla Lituania, ma ora posso fare più o meno tutto ciò che voglio e che mio nonno non credeva di poter mai fare” sospira, sembra pensarci molto, forse col suo solito sorriso che a Biela irrita tanto “Ad esempio posso mandare i miei figli a scuola senza dover pagare nemmeno un libro, oppure ora sono riuscito a guarire dal mio problema al fegato senza sborsare un centesimo” alza la mano e si gratta la schiena “I tedeschi, venendo qui per invaderci, dicevano che quaggiù non ci fosse la libertà e che morivamo tutti di fame. Beh, io ora ho la pancia piena ed è vero che non ci sia tanta liberta, ma immagino che non esista nemmeno da loro. Col loro capitalismo, se non hai del denaro, ti lasciano morire di fame per strada. Qui basta solo saper fare il mestiere che si desidera e tutto si risolve” si volta verso Lituania. Biela guarda solo il vecchio, sorridente come al solito. Non le dà tanto peso ora, questo suo sorriso sciocco “Hai ragione, siamo diventati un pezzetto di Russia, ma credo che anche dall’altra parte della barricata stiano diventando tutti americani” Lituania sembra pensarci su. Lo vede annuire leggermente. Ha una voce diversa.
“Sì, forse ha ragione”
 
“Tu fai soffrire mio fratello tutti i giorni! Perché dovrei crederti?”
“Biela, a me non importa che tu mi creda. Voglio solo portare a casa Polska. Nulla di più”
“Non ti credo. Te ne vuoi scappare, così come hai fatto anni prima, quando te ne sei andato a leccare il culo ad America!”
“Biela, mi conosci da secoli. Sei stata nella nostra casa anche prima di entrare nell’Unione Sovietica. Tu dormivi nella stanza accanto alle nostre, quando non esistevano ancora i fucili e i carri armati”
“E questo che cazzo c’entra?”
“Ti ho mai mentito, Biela?”
 
“Ah, siamo arrivati!” la carretta si ferma, i due cavalli nitriscono per la frenata. Alza finalmente lo sguardo. Vede la fine del bosco e lontano da loro solo giallo e verde di colline e campi di grano “Vi devo lasciare qui. Devo consegnare gli ortaggi a sud” Lituania ha la stessa voce diversa che non sente da anni.
“Non sappiamo come ringraziarvi” Biela scende di corsa. Non vedeva l’ora. Si aggiusta la gonna e il cappotto. Lancia un altro sguardo al nulla di fronte a loro. C’è un cartello e leggerlo le fa male al cuore. Lituania scende anche lui, col baule sotto braccio, come se non pesasse nemmeno un grammo.
“Figurati, compaesano. Buona fortuna in Polonia!” e parte, con la carrozzina ingombrante e cadente. Biela sbuffa, non lo guarda nemmeno più. Inizia a camminare. Lituania la segue. Legge anche lui il cartello. Sente il suo respiro profondo dietro le sue spalle. Sembra più umano di quel che immaginasse. È strano, ma sollevante. Significa che è più debole e che tentennerebbe di farle del male, se solo lo pensasse.
 
“Senti, questo è il piano: noi ora andiamo a Varsavia, lasciamo lì il corpo e poi torniamo a casa dal fratellone, che riapra gli occhi o no non m’importa”
“Va bene, Biela. Credimi, aprirà gli occhi”
“Non ci credo per niente in questa storia… ma credo che portare a casa questo morto farebbe veramente pena…”
“Grazie, Biela…”
 
Guardano entrambi il cartello e entrambi sanno che tutto questo sta per finire.
Warszawa


Ritorna all'indice


Capitolo 19
*** DiCiAnNoVeSiMo CaPiToLo ***


La divisa nera del fratello le sembra un orribile presagio, le medaglie splendenti di mille arcobaleni una vaga speranza. Soltanto guardarle le fa male. Lo stomaco le si stringe in una morsa molto più crudele di quella scorsa. Russia le sembra più alto, più scuro, più irraggiungibile. Odia questa sensazione. Odia che la sua gola bruci. Il fratello si stringe la sciarpa bianca attorno al collo. Si volta verso di lei, poggiata all’uscio e lui sulle scale del giardino. Quel nero stona molto su suo fratello. Lo fa brutto e ombroso come la morte, pensa, anche se è vero solo al suo cuore. Russia la guarda ancora, lei non riesce a guardarlo. I suoi passi schiacciano la pietra dei gradini, li oltrepassa. Si ferma davanti a lei, si china, l’abbraccia. La sua mano le cinge la schiena, i suoi capelli cozzano coi suoi, ma è la cosa più dolce che abbia sentito questo mese. Stringe le braccia al suo collo. Vorrebbe dargli premura così come lui le sta dando.

“Tornerò presto, sorellina. Aspetta qualche mese, riporterò da noi la sorellona e ritornerà tutto come prima” le sorride ad occhi chiudi. Lo stomaco le si stringe ancora. La gola in fiamme non la fa parlare. Vorrebbe dirgli qualcosa. Le mancano le parole. S’impazzisce il cuore. Russia si stacca dolcemente da lei. Le sue braccia scivolano via dal suo collo. È una calda carezza che pian piano svanisce. È orribile quel che le sta succedendo. Suo fratello è raggiante, ma in modo diverso dal solito. Ha gli occhi scuri come i suoi, non ha nemmeno un frammento di luce. Le sembra umano, debole e fragile. Ha paura di questo suo sentimento “Mentre ci aspetti fai la donna di casa. Fai la brava, va bene?” non riesce ancora a parlare, allora annuisce. Russia alza gli occhi, poco dietro di lei. Non vuole voltarsi, non ne ha le forze. Il fratello guarda Lituania e la sua severità, vista mentre erano a casa, le sembra mostruosa “Lituania, prenditi cura dei tuoi fratelli e di Biela. Fai in modo che a loro non manchi nulla”.

“Sì, signore” dice il ragazzo e annuisce, senza battere ciglio. Russia deglutisce. Guarda il ragazzo e non capisce cosa pensi di tutto questo. Non riesce a leggere i pensieri di Lituania da tempo. Per la prima volta abbassa lo sguardo e si rassegna. Chiude per un attimo gli occhi, spera con cuore di bambino che riaprendoli possa cambiare qualcosa. Gli riapre. Lituania non ha cambiato espressione. Sembra una statua immobile o un soldato in attesa di ordini. Sente quel poco di anima strapparsi dal petto. Russia si volta e incomincia a marciare sui gradini di casa. Ha una fitta al cuore. Si sente senza forze. Forse sarà l’ultima volta che vedrà quella casa. Forse l’ultima volta che vedrà Lituania sarà con quegli occhi senza amore.

Biela è rimasta a guardare il fratello svanire nella boscaglia. Respira profondamente, non ha più aria nei polmoni. Lituania si volta e cammina dentro casa. Biela sente chiudere la porta di casa alle sue spalle. Lui non ha sospirato, non ha calpestato il tappeto di casa in modo diverso. Non è cambiato nulla per lui. Biela vuole indietro il fratello, questa casa è troppo cupa per lei ora. Trascina i passi sugli scalini e ci si siede. La gonna è pesante, ma la camicia è troppo leggera per questo autunno scuro. Per lei ogni cosa non è altro che vento invernale, allora non ci fa caso. Punta gli occhi dove il fratello è sparito. Il cancello è chiuso a chiave. Un alito di vento le passa sopra i capelli. Deglutisce il nulla, la gola è ancora bloccata da un nodo gordiano. A malapena respira. Il vento si fa maldestro e prova a scoprire le calze e gli scarponcini. Ora è una col freddo.

Passano le ore e nemmeno se n’è resa conto.

“Se resti qui ti prenderai un brutto raffreddore” non crede di aver sentito i passi di Lituania e nemmeno sa se valga la pena voltarsi verso di lui. Non lo vuole guardare. Non ricorda nemmeno di odiarlo. Non capisce neppure perché sia tornato e non le importa: le fa ancora male la gola e lo stomaco ha stretto il suo cappio fino a soffocarla. Vuole stare sola, ma non lo scaccia: che resti o meno non fa differenza. Il ragazzo attende e capisce che non avrà risposta “Continuare a guardare il cancello non farà tornare indietro tuo fratello”

“Sta’ zitto!” gracida la sua voce, fatta rauca dal nodo alla trachea. Respira ed inspira. La sua gola fa uno strano suono. Lo odia, ma ora non prova odio. È assorbita dal freddo del vento e dolore della perdita, anche se non effettiva. Germania ha inglobato l’Europa e ha ucciso Polonia. Ha schiavizzato e sottomesso. Ha fatto urlare di morte Inghilterra, l’intoccabile. Potrebbe uccidere anche suo fratello e sua sorella. Questa ipotesi le solletica l’orecchio come una pulce fastidiosa. Lituania non si fa umano, ma nemmeno mostro.

“Russia tornerà e distruggerà Germania, Bielorussia, e tu lo sai benissimo” non è canzonatorio, lei lo capisce, ma non è nemmeno benefico. Non sembrano valere nulla le sue parole. Tutto ciò che le sta dicendo le sembra falso, come se avesse scritto un copione e lui, attore senza sentimenti, prova a recitarlo di fronte a lei. Lituania è diventato rivoltante in questi mesi. Il Lituania che ha conosciuto da bambina non avrebbe mai avuto una voce così fredda. E non starebbe in piedi di fronte ad una fanciulletta seduta, a stringersi le dita le une fra le altre, più per dolore che per tremore invernale. Un cavaliere soccorre la dama, ma Lituania non è più un cavaliere “Torna dentro casa al caldo, non voglio che ti prenda qualcosa”

“Ma a te che cazzo te ne importa?!” gracchia ancora come un corvo. La sua voce è terribile ed insicura. Prende una boccata d’aria e riempie i polmoni. Fa ancora quello strano suono. Si stringe nella gonna. Il cuore pulsa maledettamente. Le fa male, lo sente nelle orecchie. Lituania rimane ancora in piedi. Forse non capisce quel che sta sentendo nel suo spirito o molto più semplicemente sta ignorando il suo gracchiare più che eloquente. Sembra un adulto inflessibile di fronte ad un bambino capriccioso e questa cosa la odia.

“Mi è stato ordinato di prenderti cura di te, mi deve importare della tua salute” Biela non risponde. Il Lituania che conosceva non avrebbe mai detto una cosa del genere. Il Lituania cavaliere sarebbe corso da lei incredulo e terrorizzato e le avrebbe parlato con empatia. Questo Lituania non ha cuore. Questo Lituania non ha anima. Lo sente sospirare “E cosa ti fa credere che Russia possa perdere la guerra?”

“Non lo so!” la gola le si apre d’un tratto. È come una diga straripata e poi spezzata dalla gettata d’acqua fiondatasi addosso. Riesce a respirare, la sua voce continua a gracidare e a sussultare. Lituania è ancora inflessibile. Le pare tuttora ingiusto e crudele e questo la fa sentire male. Non riesce nemmeno ad arrabbiarsi con lui. Non ne ha le forze. Il ragazzo fa un altro respiro profondo, lei non sente questa cosa, con le mani gettate sugli occhi. Si vergogna di quello che sta facendo.

“Biela, smettila di piangere”

Continua a singhiozzare. Sente acqua salata scendere e macchiare la sua gonna. Questo vestito l’ha comprato suo fratello per lei. Non voleva sporcarlo in questo modo rivoltante. Si sente ancora più triste. Non riesce a fermarsi. Si sente ancora più sola. Sarà orfana anche dei suoi fratelli, fredde croci della guerra inutile. I tedeschi stermineranno tutti gli slavi come hanno detto e la sua famiglia sarà di nuovo decimata.

“Biela, smettila, non fare la bambina”

Tira su il naso. Non riesce a fermare gli scossoni della schiena. Immagina cose mai accadute e che probabilmente non accadranno mai. Immagina suo fratello ingoiato dal fango e dal sangue suo, e Germania che lo guarda con disprezzo e lo squadra alzandogli la pistola alla testa. Però non riesce ad immaginare la sorella, forse per rivalità, forse perché le è troppo raccapricciante pensare di lei sotto la pioggia di proiettili nemici. È troppo familiare come sensazione…

“Biela, basta”

…è qualcosa che ha già visto troppe volte…

“Biela, non devi fare così, andrà tutto bene”

…è qualcosa di ossessivo ormai, è come il destino crudele che ha intrecciato il suo filo nella sua vita, in quella di sua sorella…

“Biela, non piangere…”

…in quella di suo fratello, in quella del suo cuore sfortunato. Non riesce più a fermarsi e non si è nemmeno accorta della voce di Lituania e di come si sia ingentilita. Non si è accorta nemmeno che si sia seduto vicino a lui, sui gradini di casa, sotto il venticello autunnale. Non si è accorta nemmeno di quanto si sia avvicinato a lei. Però si accorge del fazzoletto che le sta porgendo. Non sa come comportarsi, credeva che non avrebbe pianto in questo modo. Lo afferra e lo passa sotto agli occhi. Le palpita ancora il cuore per il dolore. La mano le trema mentre si asciuga le lacrime con la morbida seta. Lo poggia sotto al naso, profuma, non sa bene di cosa.

“Non devi pensare a queste cose. Tuo fratello e tua sorella torneranno a casa e vinceranno la guerra. Russia è forte, Biela, lo sai che dico la verità” la voce di Lituania le è molto più familiare e adolescenziale di quella che ha sentito fino ad ora. Quasi l’aveva dimenticata. Annuisce più volte, senza più lacrime. Ha detto il vero: suo fratello è forte, torneranno a casa e ritornerà tutto come prima. Crede che sia stata patetica. Ha un altro singhiozzo. L’animo del ragazzo si fa più dolce “Biela, non piangere più… Sei troppo bella per piangere”.

Bielorussia si fa rigida come il marmo. Le lacrime che stavano per nascere s’impietriscono sotto le ciglia. Il petto le si fa leggero e il cuore meravigliato. Alza lo sguardo e abbassa il fazzoletto al grembo, raccolto nella gonna. Guarda per la prima volta Lituania. Le sue guance sono tinte di un lieve rossiccio, gli occhi luminosi e i capelli raccolti le paiono cavallereschi. La guarda come un bambino guarda una Madonnina per la prima volta, con incanto e timidezza. Lituania è identico a come lo ricordava. Le si contrae il viso in una smorfia, quelle parole l’hanno disgustata. Alza la mano e schiocca il palmo sulla guancia del ragazzo.

Gli ha dato un colpo forte e inaspettato. Gli si è girata la testa dal lato inverso. Abbassa la mano, pronta a difendersi con una lingua di serpente, a sbeffeggiarlo, a ricordargli che lei è la sorella del suo padrone e che non deve nemmeno poter pensare a dirgli cose del genere. Lituania riapre le palpebre, serrate prima per il ceffone. La piega degli occhi è cambiata, pare più adulta e rigorosa. Non volta il capo, non muove gli occhi per guardarla. La guancia colpita è già bruciante di rosso. Lituania rimane un attimo fermo. Il celeste diventa grigio perla. Sembra realizzare qualcosa che lei non comprende. Bielorussia rimane in allerta. Non la guarda. Non sembra esistere più per lui. Si alza, rigido come un soldato, con la guancia ancora incandescente, e cammina a casa. Biela rimane incredula, non riesce a dire nulla, non lo ferma, non gli impedisce di scomparire dietro la porta di casa. Si sente confusa e oltraggiata. Guarda il fazzoletto nel suo grembo e le ricorda troppo lui. Le ritorna la rabbia e l’umiliazione. Lo accartoccia nella sua mano e lo lancia lontano, come una pietruzza. Più tardi si ricorderà di buttarlo veramente.

I giorni seguenti Lituania non cambiò volto, non cambiò occhi, né passo fermo. Era ritornato cavaliere senza anima, come se tutto quello che era successo non fosse mai accaduto.

 

 

 

 

 

“Hey, dove state andando?!”

L’occhio lucifero di Polonia vede cavalli e aste di lance allontanarsi verso l’orizzonte. Il soldato polacco che ha urlato alle sue spalle ha il volto contratto dal fango e dal terrore. Lo perde di vista in un attimo, dev’essere stato ucciso alle sue spalle. Ormai i prussiani li hanno accerchiati per davvero. Non ha tempo da perdere. Le armature pesanti tranciano con un eco il suono della battaglia. I ferri dei cavalli sbattono sul terreno e fuggono come se lo desiderassero loro stessi. Le pellicce barbare scompaiono del tutto dal suo occhio. I soldati lituani sono fuggiti. Liet se n’è scappato con loro.

“Ah! Sembra che il tuo amichetto ti abbia tradito” Prussia, molto più giovane di come ricordasse, col mantello bianco, onda del vento, sghignazza a due passi da lui. Alza la spada, aguzza la punta, come se fosse stata impugnata solo in questo istante “Peccato… beh, tanto i miei uomini gli sono dietro” ammorbidisce il sorriso “Ora getta la spada e ti porterò da lui” il cuore di Polonia pompa terrore e rabbia. Le parole del cavaliere bianco bruciano come acqua salata. Il filo di sangue si congela sulla sua fronte. Si sente veramente sporco. Alza la spada, ridotta ad un giocattolo in mano ad un bambino. Dimentica come impugnarla e la tiene con due mani, incapace.

“Dio, sei un totale chiacchierone!” dice, con la voce più furiosa che terrorizzata “Ce la faccio anche da solo!” Liet non doveva lasciarmi qui da solo, pensa il suo cuore di infante. Sente di essere a due passi dalla morte.

“Ho detto di gettare la spada! Gettala, bastardello!” non trema più, l’urlo di Prussia ha penetrato nella sua anima. Si sente scosso fin dentro il midollo delle ossa. Guarda Prussia, la sua scioltezza, la sua sicurezza e si sente un granello di sabbia in suo confronto. Pensa a cosa fare. Pensa che non può farcela per davvero da solo. Pensa che ha mentito e che non dovrebbe neanche pensare di poter stare senza Liet, anche se l’ha lasciato qui. Pensa che non potrebbe mai macchiare di sangue il mantello bianco del mercenario prussiano. È nato per indossare una corona e non per prendere in mano la lancia e lo scudo. Non è nemmeno abbastanza forte per sollevarlo, uno scudo. Esita ancora, ma sa che gli occhi vermigli non avranno pietà.

“Va bene…” mormora, lasciando la spada. Si disarma con le sue stesse mani. Un cavaliere non l’avrebbe mai fatto. Liet non l’avrebbe mai fatto, piuttosto si sarebbe ucciso. Polska lo sa bene, ma sa anche di odiare questa spada e questa polvere molto più del tradimento del suo amico. La spada affoga nel fango nero e nel sangue scarlatto di cavalli e cavalieri. Scende sulle ginocchia. Alza le mani, arrendendosi. Guarda per terra, è troppo orgoglioso e codardo per fronteggiare con gli occhi un nemico. Un vero cavaliere avrebbe trapassato con l’iride l’anima nera del suo avversario e lo avrebbe deriso, anche se tra le braccia della morte.

“Ah, che significa questo?” Polska non batte ciglio. Prussia pensa la stessa cosa del ragazzino e lui stesso lo sa. Si sente sporco e codardo “Non immaginavo che saresti stato tanto intelligente…”.

Polonia continua a fare il testardo, continua a guardare terra. La sua spada è sparita, non potrebbe nemmeno fare il meschino e tagliargli di sorpresa lo stomaco come gli ha insegnato Liet. Liet gli ha detto che non esiste disonore più grande che inginocchiarsi di fronte al nemico. Gli ha detto che è un gesto da vigliacchi. Gli ha detto che la morte è ciò che un cavaliere merita, insieme al sangue e alla gloria del proprio sovrano. Polonia ricorda tutto, eppure non ricorda di doversi vergognare. Liet dovrebbe proteggerlo, non avrebbe dovuto lasciarlo morire qui, nel fango, tra i corpi dei suoi uomini. La lama bianca di Prussia si alza sulla sua testa. Polska vede l’ombra oscurargli gli occhi. Il nemico lo copre col velo della madama morte.

“Farai pace col tuo amichetto all’altro mondo” pronuncia, solenne. Per Polonia è un bacio alla signora oscura “Addio!”.

Polonia ritorna ragazzo in un corpo da bambino.

Chiude gli occhi, attende il colpo che sa che non avverrà mai. Sotto le palpebre vede lo spettro della spada squarciare pian piano l’aria sporca. Si fa sordo, si fa cieco e muto. Ricorda la battaglia maledetta, ricorda come ha fatto ad incastrarsi in questo luogo atroce. Ricorda Liet cavalcare coi suoi uomini lontano da lui e di averlo abbandonato ad una spanna da Prussia. Lo ricorda, così come ricorda ciò che accadde in seguito. Liet tornò indietro, disarmò Prussia, lo costrinse ad arrendersi. Lo salvò, così come ha sempre fatto. Un angolo delle sue labbra si alza leggermente, con la sicurezza nell’anima. Liet lo salverà in tempo.

Dolore, vero dolore. Polonia spalanca le palpebre, trattiene l’urlo, le pupille diventano capocchie di spilli. Non sente più scorrere il tempo. Vede le ginocchia del suo nemico e i bordi del suo mantello latteo. Il bianco diventa luce argentata, che gli spezza la vista. È abbagliato, non sa come riesca a tenere gli occhi aperti. Rimane paralizzato per un attimo e abbassa lo sguardo. È ancora per metà cieco, ma vede una spada incastrata nella sua carne. Il metallo è inebriato del suo sangue. Parte di sé comprende. Non capisce, questo non è mai accaduto. La lama affilata trapassa il suo petto con un leggero affondo. Polonia sobbalza, sputa, non immaginava di avere sangue alla gola. Sente canali di vermiglio straripare dalla sua gola e gocciolare fuori dalla bocca. Non riesce a respirare. Sente l’altro capo del metallo pesante dietro la schiena. Gli tremano le ginocchia su cui è appoggiato. Questo è dolore vero. Questo non è un sogno. Una vera spada lo sta uccidendo, si rende conto. Si chiede come abbia fatto a finire qui.

L’arma bianca è crudele: non torna indietro, ma taglia in alto, verso la sua gola. Lo sta tranciando in due come una carta francese. Polonia vorrebbe urlare, vorrebbe ribellarsi a ciò e strapparsi la spada dal petto. Non riesce nemmeno a muovere le dita. Gorgogli di sangue spruzzano dalla sua ferita, macchiano il terreno e i bordi del mantello di Prussia. Vede solo bianco. Gli cade la testa all’indietro, le braccia seguono il collo spezzato. Sente scoppi di arterie e vene. Sente sangue abbandonarlo. L’anima lo sta abbandonando. La lama riesce a tagliarlo come carne di vitello. Geme, non capisce. Dov’è Liet?

La spada viene strappata dalla sua carne. Polonia urla, col sangue che gli macchia le labbra. Continua ad urlare, si agita come un lombrico strappato dalla terra. La lama maledetta lo ha trinciato fino alla gola. Il suo stesso sangue schizza via e lo innaffia come pioggia. I capelli e l’armatura s’immolano nel pantano e negli sputi dei nemici. Non sente più nulla. Prussia è sparito, lo ha abbandonato anche lui.

Il dolore invece non lo smette di pulsargli le orecchie. Trema, ancora vivo. Che morte crudele. Si chiede dove sia Liet e perché l’abbia lasciato lì a morire da solo. La sua bocca sputa garbugli di sangue nero. Sta soffocando. Sta morendo.

 

 

 

 

 

La forchetta s’impunta con le sue cinque gambe di ferro su quel frammento di petto scoperto. Alza di poco gli occhi: da sotto le palpebre dell’addormentato si stanno agitando delle iridi irrequiete, le sopracciglia si dimenano tra loro anch’esse. Abbassa lo sguardo sulla forchetta ancora premuta sulla carne fredda. Non ci pensa nemmeno, preso dal capriccio. Tiene ferma la posata col polpastrello dell’indice e preme. Parte delle punte scompaiono sotto la pelle grigiastra. Alza gli occhi, nessuna reazione insolita, ha ancora il sonno agitato. Con lo sguardo concentrato sul volto tra gli stracci, continua a premere imperterrito il ferro acuminato. Le gambe affondano infine nella carne.

Finalmente una reazione: il volto si contrae, si sono aperte anche le labbra, esce un gemito basso. È troppo incomprensibile per lui. Il capriccio lo stravolge, gli scappa anche il sorriso. Impugna l’utensile come un coltello e affonda. Le gambe di ferro si immergono nel petto come una fetta di torta. Polonia, scosso dall’incubo e dal dolore, urla e scalcia i suoi stracci. Si alza il torso, poggia le mani in mezzo al petto, il suo urlo riecheggia ancora nella stanza, nonostante il tempo passato. Si agita come si agitava nel terreno sporco e sanguineo. Si stringe il torace e singhiozza, chiuso in un bozzolo. Il sosia vede solo il cerchio grigio della sua testa imperfetta. Guarda annoiato l’altro capo della stanza: la forchetta è saltata addosso ad una camicia e non ha nemmeno tintinnato sul muro. Sospira, amareggiato che il suo scherzo sia già finito, ma divertito dalla reazione del ragazzo.

“Ma che stavi facendo?!” non si rende conto di urlare. Abbassa lo sguardo sul petto. Apre freneticamente i due bottoni la camicia: ci sono cinque buchi cicatrizzati sulla sua pelle. Sembrano morsi di serpe. Sono già uscite gocce di sangue. Non smettono di ruzzolare fino alla sua pancia. Sale il panico. S’infila un dito sporco in bocca e incomincia a puntellare le ferite. Bruciano un poco e il sangue continua a scorrere e a macchiargli la camicia a righe. Il sosia si alza da terra, si scrolla della terra invisibile dalle ginocchia, congiunge le mani e si stiracchia le dita, senza fare alcun suono.

“Dai…! Mica ti ho fatto tanto male” a Polonia pizzicano le orecchie. Sentire la sua voce dalle labbra di un estraneo gli è ancora insolito. E fastidioso. E spaventoso. Fosse un cucciolo abbasserebbe le orecchie.

“Sei scemo o cosa?! Mi potevi uccidere!” geme di rimando. Guarda ancora in basso. I tagli non lacrimano più sangue, ma incominciano a bruciare. Sono rossicci, forse potrebbero anche infettarsi. Questa prospettiva lo fa deglutire. Non esisterebbe nulla di peggio. Gli occhiacci smeraldini lo squadrano come un gattaccio squadra un topolino sperduto nella campagna.

“Tante storie per dei taglietti. Se ne andranno tipo subitissimo” sbuffa con una certezza disinteressata, il suo gemello. Polonia capisce il suo disinteresse per lui e deglutisce. I suoi occhi grigi guardano da capo a piedi il sosia. Gli osserva le mani e possibili fenditure nel mantello. Si rassicura un po’: non ha nulla che potrebbe fargli del male. La sua copia capisce perché sia così sottomesso, ma non se ne rallegra “Piuttosto, guarda che ti hanno portato stamattina” dice con una nuova freddezza d’animo, facendo scivolare il piede di lato.

Polonia non sapeva cosa fare, allora ha arricchito la sua tana. Ha organizzato al meglio le camicie e i pantaloni strappati. Ne ha ammucchiati alcuni per creare una sorta di cuscino, un materasso sporco e una coperta inefficace. Si sta accorgendo di quanto stia diventando magro, persino le sue ossa di notte li fanno male: le giunture della spina dorsale si fanno sentire sotto la pelle. Dovette ammucchiare i pantaloni sotto la sua schiena per dormire. Ha circondato il materasso con le sedie, quelle che non servivano per creare il ponte per la finestrella, e ha realizzato un muro tra lui e il resto della stanza. Un muro lontano da chiunque entrasse lì quando dormiva. Un muro per tenere lontano il sosia.

Quello è sparito dalla sua vista, il mantello lo ha seguito come un secondo strato di pelle. Il porpora gli fa stringere le palpebre, come da miope. Polonia aguzza la vista indebolita: vede una ciotola ai piedi della spessa porta di ferro. Comprende, gli si arresta il cuore. I denti scattano fuori dalle labbra, gli occhi si fanno piccoli, il fiato corto. Si alza e balza sul suo materasso, come se avesse altra energia in corpo. Spinge il letto coi piedi scalzi, fa volare in aria una camicia e un copricapo a righe. Le sedie vengono scaraventate a terra, si creano lividi sulle gambe senza carne. Polonia si getta sulle scale, annaspa senza aria e gattona affaticato, il sosia alza un sopracciglio, come indignato e incredulo. Guarda dentro la ciotola: c’è della zuppa. Fa scattare le dita addosso al legno. Sembrano artigli, le sue unghie. Alza la ciotola e ingoia. Non sente nemmeno il sapore, non sente i pezzi di cibo scivolargli in gola, non sente quanto sia calda. Singhiozza, gli va di traverso del brodo, tossisce con impazienza. Lo stomaco vuole nutrirsi. Con la tosse incontrollata, ricomincia ad inghiottire acqua e altro di strano. Il suo gemello si stringe nel mantello, la tunica violetta scompare nel porpora. Osserva le unghie lunghe con lo sporco sotto, i piedi scalzi e imbrattati di terra e polvere, la camicia e i pantaloni ormai tinti di brodaglia inodore. Storce la bocca: è disgustoso. Polonia finisce la zuppa. Si lecca le labbra, si succhia le dita.

“Hey, hey, non è che tipo gli spunteranno le gambe e se ne scapperà via, Po” annuisce fra sé il gemello, strappandosi via l’espressione infastidita. Polonia è ancora affamato. Sente il ventre scaldato, ma lo stomaco ancora insoddisfatto. Guarda la ciotola, un guizzo di delusione lo prende al cuore. Credeva che fosse più grande e colma. La osserva ancora, non c’è rimasto più niente. Si agita sullo scalino, controllo che non abbiano lasciato altro. Nulla. Abbassa lo sguardo, abbattuto “Se ti metti a piangere io me ne vado di corsa, frignone” mormore il sosia, acquattato vicino al suo orecchio. Polonia credeva che fosse ancora di fronte a lui, per questo sobbalza. Sbatte l’osso sacro contro lo spigolo dello scalino. Ingoia il dolore, orgoglioso. Il suo gemello vuole solo vederlo distrutto, sa bene. Non vuole dargliela vinta. A quello si allunga il ghigno e mostra i denti. Gli legge ancora nel pensiero, sa che si è fatto male. Ridacchia, divertito. Polonia si nasconde nelle spalle. Lui è prepotente, veramente prepotente. Batte le palpebre, quello scompare. Scompare anche il freddo nella stanza. Lo fa sempre. Batte ancora le palpebre e una luce abbaglia il suo lui più giovane, ritornato nella camera. Chino, di spalle, afferra qualcosa dalla sua cuccia completamente rovinata. Polonia ha una fitta al cuore: quello tiene tra due dita, scettico e schifato, il pallone che negli ultimi giorni ha provato a riparare. Gli batte forte il cuore.

“Non toccarlo!” non lo ascolta, continua a rigirarselo fra le mani. Polonia si alza di scatto, fa cadere la ciotola a terra. Continua a battergli il cuore come un tamburo. Non sa che aspettarsi. Cautamente scende le scale. Non sa che fare. Gli occhi s’impuntano sul pallone come se stesse per sparire del tutto. Il sosia si volta. Inclina gli occhi come un gatto spietato. Allunga il sorriso. Polonia rimane congelato coi piedi immobili a terra.

“E tu hai perso tutto questo tempo a riparare questo pallone totalmente inutile?” alza gli occhi al cielo, sbuffa, col sorriso da bambino viziato “Lo sai che è tipo una cosa totalmente inutile, vero?” Polonia deglutisce, sa che farà qualcosa di orribile.

“Non è inutile. Ora ridammi la palla!” non si muove dal suo posto, sa che è inutile. Il sosia può svanire e ricomparire alle sue spalle con la facilità di uno schiocco di dita. Sa che, anche da scomparso, continuerà a farsi sentire la sua voce. E a prendersi gioco dei suoi pensieri, lui legge i suoi pensieri. A sussurrargli la notte di non dormire, quando è stanco morto. A far saltare in aria la sua cuccia e tutte le sedie. Lo fa sempre, si annoia anche lui e ha il potere di farlo sentire male. Ha il potere di ricordargli quanto sia inutile ora da morto.

“Uh, se ci tieni…” la palla per metà riparata cade per terra. Polonia trattiene il respiro, continua ad osservarla, come se brillasse di luce propria. Dimentica di non doverlo fare, che così non farà altro che divertirlo. Ma Polonia dimentica anche che non vuole dargliela vinta. Si è stufato di essere nemico di se stesso. Il cuoio bruciato, ricucito con spago di pantaloni, forato con un chiodo sottile strappato da una sedia sembra veramente insignificante per il gemello. Quello ha un’illuminazione negli occhi. Alza lo sguardo su Polonia. Occhio spavaldo contro occhio terrorizzato. Il sosia alza il piede, sta per calciare “Prendila, allora!”

“Fermo!” Polonia chiude gli occhi e si accuccia sulle ginocchia, stringendo la testa con le braccia ossute. Immagina il colpo prepotente su di sé, con quegli stivali di cuoio e ha un attacco di codardia. Sente sulla sua testa la palla tagliare l’aria. Sente come uno scoppio, un palloncino esploso. Si alza da lì, con la paura nel cuore. La palla si è spaccata a metà, non è più un taglio netto. Si è completamente distrutta. A Polonia trema l’anima nel fondo della carne. Guarda i resti del pallone come se fossero le ossa di un neonato. La sua speranza si è spezzata in due come il cuoio. Non ha la forza nemmeno per voltarsi.

“Beh, questa palla ha fatto proprio schifo” sente il sosia stiracchiarsi ancora. E’ proprio un gattaccio. Polonia ha l’anima crepata, si sente svuotato di tutti i suoi sforzi. Si volta con gli occhi fuori dalle orbite e il collo spezzato.

Il sosia è sparito. L’ha lasciato solo, con una palla da rattoppare daccapo.

Gli viene da piangere. È frustrato e triste. Stringe forte per palpebre, non vuole far cadere nemmeno una lacrima. Inizia a singhiozzare. Scivola a terra, nell’angolo di questo buco. Si appallottola, con le ginocchia al petto e la testa sui polsi. Guarda i sei numeri stampati nella sua carne e piange. Guarda il nastro di Liet e lo porta alle labbra.

Continua a piangere e nessuno lo consola.

 

 

 

 

 

Gli bruciano le orecchie. È una cosa stupida, ma è veramente così. Non può pensare ad altro che fuoco dentro al padiglione destro. Fa più male di quello sinistro, che man a mano sembra sbloccarsi dal suo dolore. Si sta affievolendo il bruciore anche nell’orecchio destro. Muove i polpastrelli delle dita, le stiracchia sul terreno dov’è sbattuto. O crede di essere stato sbattuto, non ricorda e basta. Sente freddo, sente morbido. Sente neve. La stringe forte tra le falangi insensibili. Gli gira la testa, per un attimo ha creduto che il terreno si muovesse. O forse si muove veramente e lui non ne è certo. Il bruciore alle orecchie svanisce del tutto. Ora sente, sente delle ginocchia schioccare, piegate verso terra. Sente cuoio e pelliccia pesante piegarsi insieme ad un intero uomo. A Polonia si sbloccano le orecchie, ascolta.

“Sembri un ragazzo molto intelligente. Ti farò lavorare a casa mia” sente un sobbalzo accanto a sé. Ma non sa nemmeno chi ci sia accanto a sé “Hai perso, quindi non è che tu abbia una scelta”.

Polonia spalanca gli occhi, senza nemmeno guardare la terra che scrutano i suoi occhi. Si sente sveglio e attivo, come se si fosse bagnato il viso con acqua ghiacciata. Ricorda la neve, la pancia strappata ma indolore, i due uomini che ha ucciso per Liet… Liet.

L’occhio verde scatta, guarda la mano da gigante di Russia scendere sulle spalle di Liet. Polonia si scuote, ha freddo e paura. Dimentica il dolore alle orecchie e allo stomaco aperto. Dimentica le mani congelate, tutt’uno con la neve. Dimentica che questo è solo un sogno, come gli altri che ha vissuto. Russia si sta alzando, ha le mani sotto le ascelle di Lituania. Polonia impunta il ginocchio per terra. Scatta in avanti, crolla addosso alla schiena dell’amico, ancora sollevato. Russia forse non se l’aspettava o forse non aveva la presa ferrea, ma entrambi scivolano di nuovo per terra. Polonia cade addosso a Liet. Non ricorda la pancia aperta e il suo sangue sul compagno. Alza la testa e incontra gli occhi sbigottiti di Russia. Prende un respiro profondo, non ha più aria nei polmoni.

“Non portarmelo via!” grida, senza nemmeno rendersene conto. Ma a Polonia ora non importa. I capelli castani di Liet non si sono mossi. Polonia prende un'altra sorsata d’aria gelida. Il gigante lo osserva con occhi sbigottiti “Liet è importante per me e tu lo sai benissimo!” Russia non ha espressione. La sciarpa si muove col vento. Lo guarda come se non capisse. È indecifrabile, come Polonia lo ha sempre ricordato “Tu non hai bisogno di lui, io si! Liet… Liet” ingoia altra aria, dirlo è difficile “Liet è l’unica persona che ho. Io non ce la faccio a vivere senza di lui. Mi capisci, Russia?!” la sua voce ha fatto eco nel bianco dei boschi circostanti. Russia si scongela, rilassa le spalle. Lo guarda ancora senza espressione “Tu hai già le tue sorelle, hai Estonia e Lettonia e se potessi ti prenderesti totalmente tutto il mondo! Ma Liet lascialo a me. Io ho bisogno di lui” Io non vivo senza di lui, vorrebbe aggiungere, ma gli si è bloccata la gola.

Russia cambia piega degli occhi. Non sono tristi, non sono infuriati. Non sono indifferenti. Il vento agita la sua sciarpa e il giaccone scuro. Polonia non batte ciglio. Prende forti boccate d’aria, non vuole piangere. Il gigante bianco chiude per qualche secondo gli occhi, gli riapre con qualcosa che somiglia alla noia, ma non la identifica come noia. Si china di nuovo, fa schioccare di nuovo il ginocchio sotto al suo peso. Polonia incrocia gli occhi coi suoi. Sente le vertigini, sente la paura. Si specchia nelle biglie amare. È un bambino di fronte ad un adulto. La sua mano smisurata si poggia al collo di Polonia. Capisce cosa vuole fare. Geme, alza le mani, si sente scivolare lontano dalla schiena dell’amico. La pancia ritorna a sfiorare la neve sporca. Aggrappa le unghie alla giacca di Russia, stringe forte. Ma è troppo forte

“Polonia, lascialo andare” dice, con una voce che non ricordava sua.

Si apre una crepa nel suo cuore.

Alza Lituania, come se pesasse meno di un grammo di polvere. Liet poggia i piedi a terra. Non ha fatto resistenza. Russia lo prende per la mano e non per il polso, Polonia la vede stringere con un sentimento che non ha mai riconosciuto in lui. Si volta, tira piano il ragazzo. Liet cammina facilmente, senza pensare alla gamba spezzata. Polonia ricorda chiaramente che avesse una gamba spezzata. Russia scompare nella bufera. Liet scompare insieme a lui. Lo abbandonano nella neve, ferito come un miserabile. Aguzza gli occhi, ma il suo amico non c’è più. Non vede più nemmeno le sue dita nella mano gigantesca di Russia.

E gli si spacca il cuore.

Liet non lo ha guardato nemmeno per un secondo.

 

 

 

 

 

Smette di tremare e piangere, anche se nel silenzio. Una mano affonda nella pelle del suo cranio. Non ricorda nemmeno di non avere un capello in testa. Le dita femminili non toccano la sua ferita, passano sopra le orecchie, carezzano il cranio sterile. Si quieta d’un colpo, il corpo diventa morbido, non s’irrigidisce più. Si concentra sulle dita morbide e dolci. Si sente rilassato.

Respira con le labbra, rimane ancora immobile. Non riesce ad aprire gli occhi e non vorrebbe nemmeno farlo. La fanciulla se ne andrà, se si sveglierà. La sua mano di giovane donna è familiare, il respiro sulla pelle del suo collo è caldo. La carezza è sempre più profonda. Polonia si rilassa del tutto. Per poco non aveva sobbalzato: le labbra morbide si sono poggiate poco sopra il suo orecchio. Sente un calore nel petto e nello stomaco, come innamorato. La vuole, sa che la vuole.

La mano lo abbandona dolcemente. Il respiro non si fa più sentire. Sta per andarsene. Polonia non apre gli occhi, non vuole guardarle il volto e pentirsene. Nel vuoto e nel silenzio fa scattare la mano poco sopra la sua testa. La fanciulla sobbalza: le ha stretto il polso. Respira con affanno, non vuole che quel calore se ne vada. La strattona all’indietro. Vuole che cada nello stesso pantano dov’è ora, vuole che non se ne andrà mai più. La giovanissima cade nei suoi stracci. Le stringe la carne con l’altra mano. Non vuole che provi a scappare mai più.

Non sente più carne, nemmeno più calore. Perplesso, apre gli occhi e vede solo il buio della sua prigione. La fanciulla è stato solo un sogno.

 

 

 

 

 

Sì! De sibo!

“Fantastico, hai capito tutto!” sospira sollevato Polonia, ancora con gli occhi chiusi per il sole come un gatto esausto. Alla bambina sembra ancora un felino raggrinzito, per questo ridacchia. Il sosia guarda la schiena magra del suo gemello, senza dire una parola. Osserva la bambina e non ha espressione. Polonia fa uscire dalla finestrella la palla riparata. Alla bambina brillano gli occhi. Dice una parola della sua lingua che non capisce.

Sì, de sibo, de sibo!” comprende. Allunga le mani verso il buio. Vuole la palla. Polonia da sotto le palpebre vede la manina magra avvicinarsi. È rapido. Fa scomparire la palla. La bambina rimane come ferma e incredula. Sente il suo pugno minuto sbattere contro terra. Ripete quella parola, ripete altre parole che non comprende. Si sta agitando e non capisce perché non può avere indietro il suo gioco. Polonia, al posto della palla, mostra la sua mano. Abbassa il mignolo e l’anulare. La bambina osserva le tre dita, non comprendendo.

“Devi portarmi tre de sibo. Tre. Capito?” la bambina si guarda le mani, si conta le dita. Mostra anche lei il pollice, l’indice e il medio.

Thè?” Polonia alza la voce.

“No, tre! Tre de sibo! Uno, due, tre!”

Tre?” dice correttamente, con un po’ di tremore nella voce, come se stesse chiedendo oro ispanico solo per delle ciotole di zuppa. Polonia annuisce, ancora con gli occhi chiusi. In un'altra mano mostra la ciotola di legno che ha conservato in questi giorni. Il nastro di Liet continua a stringergli il polso, i numeri bruciano sotto al sole. Spinge la ciotola verso la piccola. Lei la afferra esitante e se la rigira. Capisce, ma non crede che sia vero quello che le stia chiedendo. Polonia sospira con la poco pazienza che ha in corpo. Ha fame, è il suo stomaco a parlare.

“Tre de sibo, dopo ti darò la palla. Capisci?” sibila, come infuriato. La bambina si stringe la ciotola al petto. Trema, ma vuole la palla e vuole far felici anche i suoi amici.

Tre de sibo, poi palla” lo stomaco ruggisce.

“Sì, ora vai! Muoviti!” sbatte i polsi al terreno. La piccola sobbalza sulle ginocchia e si rialza. Da sotto le palpebre chiuse Polonia la vede correre via, con la sua ciotola. La pancia smette di irritarsi e attende. Spera che possa portargli subito qualcosa da mettere sotto i denti. Si accorge che il nastro di Liet si stia sporcando nel fango, allora ritira la mano. Si rintana dentro il buco. Guarda preoccupato il ricordo del suo amico. Non è niente di grave, ma questa polvere non c’era prima. Ci soffia addosso, strofina le dita sulla seta nera.

“Sei proprio un bastardo, Po” ignora il sosia, ancora lì, con le braccia incrociate. Continua a soffiare. La polvere se ne sta andando “Ma lo sai quanto è difficile per lei trovare un po’ di zuppa?” lo stomaco di Polonia sbuffa per lui.

“Sta’ zitto, tu! Le sarà totalmente facile. Io invece sto morendo di fame e ne ho bisogno tipo quasi più di lei!” ruggisce la pancia e continua a sfregare il nastro sporco, come se fosse la cosa più importante di questo mondo.

Il sosia guarda brevemente il pallone, caduto per terra e ignorato da entrambi. Scuote la testa, indignato. Si volta e scompare, senza che nemmeno Polonia lo veda.

De sibo!

“Bravissima, ce l’hai totalmente fatta!”

 

 

 

 

 

 

“Hey, mister Po, anche oggi niente cibo!” trilla la vocina del suo sosia. La fame ha trasformato le sue orecchie acute e la sua vista sottile. Vede a malapena dalla finestrella. Si è arrampicato anche oggi quassù. La luce gli fa ancora male, forse anche più di prima, ma sente di aver bisogno di raggi di sole. Il buio alle sue spalle lo rende ancora più cieco, la fame lo rende ancora più testardo e sgarbato. Non sa quante volte ha urlato malamente al suo gemello. È ancora egoista, ha ancora una voce irritante, è…crudele. Lo ignora, non gli importa di quel che ha detto. Se l’aspettava, in verità. Se negli ultimi due giorni non hanno fatto scendere niente, allora anche oggi non faranno lo stesso. Il sosia lo osserva in silenzio, sa tutto di lui ormai, sa anche che lo sta ignorando. Sente il suo stivale premere delicatamente sul pavimento.

“Polska, posso chiederti una cosa?” Polonia irrigidisce i muscoli, la sua voce agrodolce lo disturba. Lo vorrà insultare come al solito e prenderlo in giro. Oppure si lamenterà del fatto che abbia chiesto da mangiare ad una bambina “Non ti prendo in giro, sono serissimo ora” legge nei suoi pensieri. Anche solo il pensiero che possa capire cosa pensi gli dà fastidio. Ma Polonia si è abituato anche a questo.

“Cosa?” sbotta, con la voce affamata, ma con più calma. Guarda ancora in mezzo al bianco, senza immergerci la testa, con le mani fuori dalla finestrella, a prendere aria e raggi caldi di sole. Il sosia non si muove, ma a Polonia è sembrato di sentire un respiro tiepido sulle sue caviglie scoperte.

“Quand’è stata l’ultima volta in cui hai abbracciato Lituania?”

Polonia non sbatte nemmeno le palpebre. Parte di sé deve ancora assorbire completamente la domanda. Il gemello sa la risposta, non doveva neanche chiedergliela. Eppure non gli è sembrata una crudeltà. Polonia ha come un dardo di ghiaccio conficcato nel cuore. Congela tutto di lui, anche le mani scaldate al sole. Socchiude la bocca, vorrebbe rispondere, ma la risposta gli sfugge dai denti. Non ha una risposta. Non sa la risposta.

“Non te lo ricordi, vero?” traduce i suoi pensieri. Polonia chiude la bocca, non sa nemmeno che aspetto abbiano i suoi occhi o se siano lucidi. Non ha più pudore per queste cose. Deglutisce aria fredda, dimentica di sbattere le palpebre. Il dardo è ancora conficcato nel cuore. Ricorda gli incubi che l’hanno assorbito in queste notti e ricordargli è uno dei dolori peggiori mai incontrati.

“Prima che ci separassero lo facevo tutti i giorni…” la sua voce singhiozza, per fortuna i suoi occhi sono ancora opachi. Si concentra su questa domanda come se la risposta sia essenziale in questo momento. Il suo sosia si è avvicinato a lui, come per magia, sulla sedia dove ora si tira su per guardare fuori. Il suo respiro è diventato caldo. Non lo tocca e in sé Polonia lo ringrazia per questo. Odia essere toccato da lui. Odia che il gemello possa toccarlo, mentre invece lui no.

“Non dovresti più pensare a lui” il sosia sospira “La vita è per i vivi, Polska” Polonia stringe i pugni, non per rabbia. Sente il dardo rigirarsi nella carne. Il sosia gli guarda il polso, lui fa lo stesso. Il nastro di Liet è ancora stretto alla sua carne. Vorrebbe portarselo al naso e alle labbra, ma reprime l’istinto. Non è il momento per essere consolato da un brandello di seta “Potresti vivere un’altra vita qui” Polonia batte le palpebre “Magari non sarà come la vorresti… di sicuro non sarà bella come la tua di prima… ma ti sentiresti molto meglio con te stesso”.

Polonia batte ancora le palpebre. D’istinto guarda il nastro di Liet al suo polso. Un altro istinto lo fa voltare verso il sosia. Non è mai stato così. Il doppione lo guarda grave e addolorato. Ha occhi scuri ed emozionati. Parte della sua anima si smuove, come se sentisse quel che prova il suo gemello. Questo non è mai successo. Lo guarda come se non capisse quel che stia dicendo. Scuote la testa, non capendo, non volendo capire.

“Tu sei totalmente fuori” mormora. Il sosia lo sente e il suo volto muta completamente. Polonia stringe i pugni, scopre i denti. La fame e la rabbia lo fanno furente “Come dovrei stare bene qui?! Mi stanno uccidendo, manco fossi tipo ancora vivo! Mi hanno rinchiuso qui, mi hanno bruciato la pelle come un animale, mi hanno tolto i vestiti e mi hanno messo questi qua! Sembro… faccio schifo, idiota!” stringe i denti, non vuole urlare troppo. La sua voce è come quella del sosia e detesta anche questa. Il suo doppione alza le sopracciglia “Questo… questo è l’Inferno e tu lo sai! Come dovrei viverci qui, secondo te?!”.

Il gemello lo squadra. Squadra la sua cuccia di stracci alle sue spalle, squadra i numeri marchiati sul suo braccio, la sua testa rasata affatto tonda e la sua uniforme carceraria. Smette di fissarlo e allunga il sorriso. Mostra anche lui i denti. È ritornato cattivo. I suoi occhi diventano sottili, il suo sorriso sembra quello disumano di Russia.

“Sì, è vero Po, questo è l’Inferno” per un attimo Polonia ha visto occhi violacei e sorriso infantile ma ugualmente cinico. Riconosciuto un demonio, deglutisce. Il dardo cade dalla sua carne e viene dimenticato. Il sosia si volta, ancora canzonatorio. Liberano entrambi un sospiro, ma entrambi completamente diversi “Allora goditelo, questo Inferno. Il bello non è nemmeno iniziato” e congiunge le mani dietro al mantello.

Polonia sbatte le palpebre. Il sosia è di nuovo sparito.

 

 

 

 

 

 

 

AVVISO!

Buongiorno o buonasera a tutti i miei lettori e recensori. Volevo scrivere questo annuncio per augurarvi delle ottime vacanze e per avvertirvi che questo sarà l’ultimo capitolo della Fenice prima dell’inizio dei temutissimi esami di maturità.

Immagino, che qualcuno abbia avuto un colpo nel leggere ‘ultimo capitolo’, eh? (tsk, magari fosse l’ultimo…). Lo studio in questi giorni sta aumentando a dismisura e presto dovrò completare la tesina che dovrò portare agli orali.

Solo verso la metà di luglio incomincerò di nuovo a scrivere. Non aspettatevi immediati aggiornamenti. Queste settimane saranno tragiche per me. Conoscendo la mia ansia mi metterò a piangere durante gli orali (che fifona che sono…).

Dunque, non temete. Presto o tardi avrete nuovi capitoli e conoscerete anche i risultati del mio ultimo test di coraggio al liceo classico (sempre se non vieni bocciata, L0g1…).

Concludo augurando a tutti voi delle bellissime vacanze estive e di divertirvi il più che potete, anche per la poveraccia che sta scrivendo questo papiro che è la Fenice d’Argento.

Arrivederci a tutti voi!

L0g1

 

Ritorna all'indice


Capitolo 20
*** VeNtEsImO cApItOlO ***


Il portone d’acciaio si spalanca lentamente.

L’apertura l’ha sentita, ma l’ha udita con fatica.

Il suo cuore continua ad impazzire, il suo cervello continua ad essere calmo.

La luce trafigge man a mano gli scalini profondi, tocca il pavimento polveroso. Il battito gli puntella le tempie. È strano: un battito non dovrebbe infastidirlo proprio al cranio e nelle membrane del suo cervello. A malapena sente il freddo e a malapena memorizza la figura del suo gemello invisibile a ridosso delle scale, seduto comodo sugli scalini, attendendolo con la caviglia penzolante per aria, nonostante sia stato sempre affianco a lui. Polonia guarda Polska con occhi pieni di lacrime, ma senza voglia di piangere. Il battito continua ad infastidirgli le tempie. Lo rende sordo. Comincia a far male. Ha pupille tentennanti e mortificate. Chiede un aiuto disperatamente, senza un filo di voce. Il più crudele alza il mento verso di lui, i suoi occhiacci non lo squadrano, bensì lo penetrano.

“Era ora che tornassi”

Polonia sente qualcosa muoversi dentro il suo petto, ma non riesce a registrarlo. Non sa cosa sia. Le lacrime gli offuscano la vista. Alza un piede, pesa come ferro e acciaio di mitragliatori. Lo poggia male, il suo peso si catapulta sul tallone insensibile e scivola.

Non ricorda nemmeno di dover chiudere gli occhi. Le lacrime di dolore sono una coltre di fumo, non vede nemmeno dove si ribalta. Ha sorpassato le scale ruzzolandoci sopra come spazzatura abbandonata. Oltrepassa pezzi di pavimento raschiato e il suo corpo lo ribalta a pancia in su. Non sa nemmeno di aver provato altro dolore. Il corpo invece l’ha registrato e incomincia a tremare, consapevole di quanto valga poco questo male rispetto a quelli di prima.

Non immagina di doversi alzare e stringersi nella sua cuccia. Non immagina nemmeno quanta forza potrebbe avere per tentare almeno di strisciare verso il suo riparo, probabilmente distrutto di nuovo dal sosia. La caduta non muove l’altro, il cinico. Polonia avverte e non avverte i suoi stivali adagiarsi sul pavimento accanto a lui. Polonia vede un soffitto irraggiungibile, l’altro vede un animale appena abbattuto, con occhi freddi, come un abile cacciatore. Resta lì, ad osservarlo e a torturarlo con gli occhi, Polonia non ha la forza nemmeno di pensare di fermarlo.

“Che occhi rossi che hai” mormora, fingendo o meno di interessarsi all’altro “Hanno fatto un casino di male, eh?”

La pupilla di Polonia diventa minuta come una puntina da disegno.

 

Urla. Scalci. Bianco. Luce. Troppa luce accecante.

Morsi. Ribellione. Negazione.

Ira degli altri.

Due. Tre mani. Quattro mani. Stringono braccia e gambe.

Urlo.

Puntura. Acido dentro le vene.

Frustrazione. Stanchezza. Muscoli fermi.

Ultimo urlo.

 

Il gemello ha visto la sua paura e il suo ricordo sbiadito. Il veleno nelle sue vene non lo fa agire. Questo bastardo sa tutto, pensa Polonia. Sa bene che lui è stato lì, ad osservarlo contorcersi come il peggiore dei vermi, anneriti di terra e lordura. L’ha guardato con interesse quando ha tentato di prendere il bisturi di uno dei pazzi. L’ha osservato deluso quando ha fallito nel pugnalare una di quelle tante mani.

Aveva paura, il piccolo Polonia. Si sentiva come quando era bambino, quando lo gettavano contro i muri e lo stringevano fino a farlo urlare di dolore. Quando nessuno alzava un occhio per aiutarlo, nemmeno per interessarsi a lui. Polonia si era sentito di nuovo un bimbo, quando i grandi ti squadrano con disgusto, come un figlio di nessuno.

Deglutisce, il sosia ha visto anche questo. Con la coda dell’occhio, punto senza lacrime, vede le sue labbra incurvarsi come una luna mangiata di tre quarti.

“Sai che è stato totalmente divertente quando ti hanno infilato quel coso nell’occhio?”

Polonia guarda in alto, proprio come guardava in alto quando l’hanno messo su quel tavolo e l’hanno legato. Non ha reazioni.

 

Petto calmo, battito regolare, tutto tranquillo. Ma il bianco è assordante, il silenzio è incomprensibile.

Camice bianco, mascherina sul volto, senza occhi, non vede nulla.

Occhi imbizzarriti, corpo immobile come cera: metallo lungo e sottile.

Incomprensione, palpebra forzata, per tenersi aperta. Cuore impazzito, confusione. L’ago d’acciaio fine entra sotto la sua palpebra aperta.

Freddo, panico, il corpo non risponde all’allarme e al pericolo.

Palpebra bollente, dolore.

Un martelletto minuscolo. Martella l’ago lungo e sottile.

Dolore. Voglia di urlare.

Qualcosa si spezza nella sua testa. Un frammento di cranio si sfalda del tutto. Crack.

Spaccato. Cuore battente, mente assente, un motore senza carburante da bruciare.

L’ago se ne va dal suo occhio. Lacrime salate, senza emozioni.

 

Non riesce più a provare nulla dopo quello che gli hanno fatto. Le sue emozioni non filtrano più, si sente congelato. Dovrebbe provare paura, dovrebbe urlare contro il gemello crudele, che ancora sghignazza accanto a lui. Si sente un’anima dentro un corpo non suo. Il suo corpo gli è ora ripugnante. Non si sente bene con questa carne smoderatamente mutata. Il sosia ha sentito anche questo. Allarga il sorriso, gli brillano gli occhi verdi.

“Però è stato divertente anche quando ti hanno tagliato la pancia. Il tuo cuore è tipo piccolissimo! Dovevi vedere anche i tuoi polmoni: si alzavano e si abbassavano veramente! Era totalmente forte!”

Polonia ha come un abbaglio, gli gira la testa.

 

Respiro regolare, battito leggero, tutto nella norma.

Si sente sperduto o abbandonato a morire nel nulla. Non ricorda nemmeno perché si trovi lì e perché il bianco sia così accecante. Il suo cranio scoperto non lo ricordava così scomodo come appoggio per il suo collo. Non hanno nemmeno un cuscino per lui.

Il sosia lo guarda e guarda ammirato il sangue nero pieno di ossigeno su i medici, su di lui e dentro di lui. Non lo vuole guardare. Si sente orribile. Non vuole essere guardato.

Uno di quelli tocca poco più sotto, dentro la cassa toracica. Sospira, nemmeno sobbalza. Battito accelerato. Battito regolare, tutto nella norma.

Il sospiro sfuggito fa cadere la sua testa dal lato inverso. Non vuole guardare se stesso interessato da tutto questo schifo.

Si sente male, vuole andare via da qui, vuole andare via e basta.

Scontra i suoi occhi dolenti contro altri dolenti e rossicci come i suoi. Questi che guarda sono vero rubino fuso. Non riesce a guardare altro e non prova a guardare altro.

Polonia guarda il nero di quella divisa e gli occhi falsamente duri di Prussia che guardano le sue labbra “Aiuto”.

Battito debole, battito assente. Rianimazione veloce. Elettricità. Shock. Un altro shock. Un altro ancora.

Respiro regolare, battito leggero, tutto nella norma.

 

Il gemello s’inginocchia e gli afferra il polso. Polonia sente solo aria soffocante attorno alla pelle scoperta e sotto la camicia strappata. Ascolta l’altro, dimenticandosi di doverlo ignorare. Vuole ogni cosa che non sia silenzio.

“Ti avevo detto di lasciar stare Liet” sussurro adagio, carezzando il nastro diventato meno che cotone strappato “Ti avevo detto di non pensare a lui. Ti avevo detto che non verrà mai qui e non ci verrebbe nemmeno per salvarti, idiota” getta il suo polso e per fortuna o destino la stoffa nera si poggia sulle sue labbra. Polonia dimentica persino di desiderare di baciarlo o di odorarlo. Questo brandello di cucito ormai non ha più l’odore di pino di Liet e non è più morbido come la sua mano o il pane che mangiavano nei suoi boschi di muschi e abeti.

Non ha più niente di Liet.

Il più cattivo dei due si alza da terra. Polonia guarda il suo mantello, come se fosse la cosa più importante in questo momento. Ha bisogno di lui, non vuole che se ne vada. Non vuole di nuovo il silenzio. Si strazierebbe le corde vocali per avere rumore. Vuole una voce per riempire quello che ha visto. Non vuole sognare quello che gli è successo. Il gemello lo guarda, senza sorriso, senza desiderio di calpestare ciò che è stato già calpestato.

“Tu mi detesti, Po, non voglio farti da radiolina da sala” si volta, guarda un frangente di uno dei suoi smeraldi spezzare l’aria in mezzo a loro “Stattene da solo”

E se ne va.

Polonia non fa altro che guardare il soffitto, dimenticandosi di poter osservare altro e non solo sopra di sé.

Il silenzio è penetrante, straccia le sue carni e gli fa sognare l’ago e l’occhio rosso e la pancia aperta e ora rattoppata come uno straccio e Prussia e il suo dolore.

Si sente male. Sogna dolore.

 

 

 

 

Lituania si stringe nella pelliccia della sua coperta. Continua a tremare, non c’è un alito di vento che non sia ghiaccio invernale. E’ inverno e fa maledettamente freddo. È inverno e per qualche scherzo hanno voluto avventurarsi nel bosco. Polska lo voleva, ricorda, voleva fare l’eroe tra loro i due. Voleva vincere la paura di se stesso. Liet non aveva detto niente, aveva accontentato l’amico, come al solito. E ora sono coperti di ghiaccio.

Si è fatto giorno, il mattino brilla dietro i rami coperti di neve, ma Lituania non se ne accorge. Non ha dormito, non ha mangiato. Non hanno cibo. Non ricorda nemmeno perché si trovi lì e perché Polonia abbia voluto fargli uno scherzo del genere. Perché abbia voluto dimostrargli di essere forte. Gli ha chiesto di cercare aiuto, fuori dal loro accampamento di stracci. Hanno perso i cavalli. Hanno finito la carne e la legna non prende fuoco. Hanno il freddo della tempesta passata quella notte.

Liet non ha fatto altro che aspettare Polska per tutta la notte. Ha dimenticato come aprire gli occhi. Si sono fatti brina, le palpebre, e non riesce più ad aprirle. Con fatica sente qualcosa, forse l’eco della bufera scampata. Sa solo che ha freddo. Pensa che Polonia sia scappato chissà dove. Forse si è perso anche lui. Trema ancora, cercando di togliersi il mantello di dosso e la neve che lo avvolge. Sente aghi di pino e neve tra i suoi capelli. Ha perso anche il nastro, le ciocche gli cadono sulla fronte, sulle palpebre.

Fa uno sforzo da eroe. Apre gli occhi. È dolore e luce accecante: il sole lo ha colpito in mezzo agli occhi. Si sente accecato e confuso. Si mette a sedere, cieco come un vero orbo. Le mani, agitate ed infreddolite fin nel midollo, si poggiano sugli occhi. Sente sotto i polpastrelli ciglia ingarbugliate, palpebre insensibili, ciottoli di fredda neve, incastrati fra ciglia e palpebra. Non riesce a liberarsene, non del tutto, fa del suo meglio, ma non si staccano tutte. I ciottoli sono come pezzi di carne sulla sua pelle. Li strappa e sente dolore. Sospira di frustrazione e confusione. È come abbagliato dall’incantesimo di una strega. Se ne libera, apre gli occhi, allontanati dalla luce sprezzante. Si chiede ancora dove sia il suo amico.

“Liet, sono tornato” non nota la voce debole, sente prima il tonfo sordo di fronte a lui. Alza gli occhi, ancora un po’ oscurati e li incrocia con quelli di Polska. Si sente meravigliato e ancora più confuso. Guarda il mantello unto di neve, gli stivali inchiostrati di fango e la stringa del cavallo che regge con una mano. Si concentra su quella, realizzando poco a poco. Questo cavallo è suo, comprende, preso da una scossa. Questo cavallo è quello che ha usato per viaggiare nella foresta. Quel povero animale lo guarda e sbuffa vapore intriso di neve e gelo. Polonia ha lo stesso sguardo rattristato della bestia, pensa Liet, guardandolo come un nemico ritrovato che come un amico.

“Hai trovato il cavallo” non riesce a dire altro, notando una faretra prima piena e ora svuotata di frecce. Vede l’arco, quell’arco che sicuramente è suo. Vede anche cosa ha fatto Polska per tutta la notte, mentre lui lottava col freddo e la fame, mentre lui se n’era scappato, senza voltarsi, senza dirgli nemmeno dove andasse. Liet sa che voleva fuggire e abbandonarlo lì. Lo sa bene. Polonia annuisce, coi capelli grinzosi che gli cadono sulle guance.

“Il mio è morto: è caduto da un burrone ed è ruzzolato a valle” afferma, triste, forse più addolorato per il cavallo che per lui, immagina erroneamente Lituania, ancora convinto e fermo sulla sua idea. Il suo è uno sguardo irremovibile e smorto. Polonia non risponde a quegli occhi: abbassa i suoi e si perde nella cinghia della faretra, stretta saldamente alla vita. C’è solo una freccia all’interno, quella che prima aveva almeno quindici, di frecce.

“Ho trovato da mangiare per noi” Lituania sente quasi per errore. Osserva le mani insolitamente adulte del ragazzo, le guarda voltarsi vero la sella del cavallo e afferrare tre piccole teste bianche, due incoronate di rosso, una integra e con un orecchio spezzato. Dei conigli, bianchi come nevischio e rossi come il sangue che hanno cacciato dalle loro teste. Uno di loro ha un lobo senza occhio. Polska ha cacciato con la sua faretra e il suo arco, comprende. Tra quindici frecce ha preso solo tre lepri. Lietuva guarda le mani esperte di Polska, che afferrano per le orecchie le tre creature senza vita. È ancora inespressivo, ma ugualmente perplesso. Polska non sa usare l’arco, ricorda perfettamente. Polska non sa orientarsi da solo. Polska non sa che per reggere un coniglio bisogna portarlo per le orecchie. Lo vede poggiarli a terra, di fronte a lui, seduto sulla neve. Guarda Polonia rialzarsi e incrociare con fatica gli occhi con i suoi. Il biondo gli divora le iridi, afferra. Polska non sembra lui.

“Po, tu non sai usare l’arco e non sai cacciare” Polonia annuisce, con occhi caldi e profondi. Lo guarda come si guarda un amico ritrovato “Non sai nemmeno come scoccare una freccia senza di me” l’altro continua ad annuire, gli si fanno gli occhi pieni dell’altro. Lituania annuisce lui stesso e sospira, più adulto e consapevole. Rialza gli occhi e guarda Polonia, con occhi ombrosi “E tu sai che questo non è mai accaduto”

“Lo so” dice, senza annuire, senza sforzarsi nemmeno di non far uscire una lacrima. Ne cade una, la cosa più bollente di questo baratro bianco. Lietuva pare un uomo e non un ragazzino. Non batte nemmeno ciglio.

“Tu in realtà te ne sei scappato e mi hai lasciato qui per due giorni”

“Lo so” cade una seconda lacrime.

“Ti eri dimenticato di me e te n’eri tornato nel castello. Non avevi chiamato aiuto e non mi avevi cercato”

“Lo so”

“Tu non hai mai fatto questo. Tu non sapevi cacciare e non volevi farlo”

“        Lo so” piangono i suoi occhi, ma la voce rimane inflessibile. Lituania è un altro, un ragazzo che non conosce, ma che gli ricorda molto lui. Ora abbassa gli occhi, consapevole di tutte queste risposte. Nessun altro conosce Polonia meglio di lui. Si alza, come se tutto ciò che gli era accaduto questa notte non fosse mai successo. Sospira, incrocia i suoi occhi bui con quelli bollenti di Polska. Non cede, trattiene più che può le lacrime: avendo pianto tanto ormai sa come governarle. È ugualmente fiero di lui. Scivola alle sue spalle, così come scivola la mano del ragazzo dalla cinghia del cavallo. Lituania continua a camminare nella neve, ma Polonia non si volta. Sente ugualmente il suo respiro liberarsi e farsi padrone del pianto. Lituania volta piano la testa, guarda l’altro con la coda dell’occhio.

“Non mi cerchi?” esitazione, Polska nega con la testa, veloce, perdendo compostezza “E allora che fai ancora qui? Non ti perdono, Po”

“Non mi aspetto il tuo perdono” singhiozza la vocina dell’altro. Ha ceduto in parte. Lituania è ugualmente fiero di lui.

Si avvia e lo lascia.

 

 

 

 

 

Polonia sente freddo e amaro nel palato, fino alla gola. Si sveglia, ubriaco di malinconia. Un altro sogno cosciente. Apre gli occhi, è ancora ancorato al pavimento del buco. L’aria è fredda, come nel suo sogno. Alza con fatica la testa, capisce di non riuscire ancora a muoversi. Si sente parte del legno sotto la sua schiena. La finestrella la vede con fatica. Entrano lucciole bianche da fuori. Non sfiorano Polska, ma capisce quanto siano ghiacciati. Dev’essere inverno. Ha freddo. La luce è biancastra, vede a malapena cosa dovrebbe esserci fuori. Dopo essere uscito da qui, dopo essere finito in quell’ospedale, forse un ospedale, e dopo avergli aperto la pancia, riesce a vedere attraverso il bianco. Ha un brivido lungo la schiena, sobbalza tutto il corpo.

Bianco. Siringa. Martelletto. Non vuole ricordare: è troppo orribile.

Batte le palpebre, crede di aver sentito qualcosa. Era un rumore ovattato e debole. Lo sente ancora. E’ ripetuto, irregolare. Passi leggeri sulla neve. A Polonia viene in mente il suo sogno. Nella luce tenue del mattino vedeva gli occhi severi di Liet. Era deluso da quello che era accaduto veramente. Si passa la lingua tra le labbra: ha dormito con la bocca socchiusa e ora sente un sapore secco sulla lingua. I passettini sono più decisi. Si stanno avvicinando. Polonia guarda attentamente la finestrella, non riuscendo a vedere altro che la sua luce. Sa chi è.

Vede degli zoccoli di legno, sa che sono zoccoli, gli stessi che dovrebbe indossare anche lui e che ora sono, forse, nella sua cuccia ancora rovinata. Sono troppo grandi per quei piedini. Istintivamente guarda i piedi del tavolo. C’è il pallone rovinato che ha aggiustato con un chiodo e del filo. Ora che riesce a vederlo meglio lo trova ancor più insignificante. È un lavoro orribile. E quella bambina lo vuole a tutti i costi. Erano tre pasti, ricorda, in cambio della palla. Lei gli deve un'altra ciotola di zuppa.

De sibo…?” sente mormorare, piegate leggermente le caviglie. Per la prima volta Polska vede le sue caviglie. Non le immaginava così ossute. Una manina, scambiata per un secondo per un garbuglio di ossa, si fa largo dentro la finestrella. Polska vede la sua mano per la prima volta. La trova ripugnante. Incrocia le sopracciglia, disgustato dal suo stesso pensiero. Deglutisce, prova a rialzarsi, anche se sa che è inutile. Non ci riesce, le ossa non lo aiutano.

De sibo?” chiede, senza più paura. La manina si ancora alla pietra. Si muove il corpo e la camicia a righe. Sbuca una testa. Polska sobbalza dentro di sé. Vede un occhio uscire prepotentemente dalla pelle del cranio senza peli o capelli, senza sopracciglia e con rughe. Rimane sbigottito, gli si mozza la lingua, non vuole che sappia che sia lì, quell’affare spaventoso. La ciotola di zuppa si mostra, non notata minimamente da Polonia. L’occhio si avvicina di più al buco, chiudendo tutta la luce. Anche se di fronte a sé, la bambina non lo vede. Serra gli occhi, terrorizzato da una bambina.

De sibo? De sibo!” alza un po’ il tono di voce. È preoccupata per lui. D’un tratto il corpo di Polska si fa morbido. Riapre gli occhi, socchiusi e terrorizzati prima. Vede qualcos’altro. Immagina quel cranio scavato pieno di riccioli biondi, vede un vestitino rosa addosso a lei, con merletti e fiocchetti. Vede più carne e meno ossa. Vede un occhio color torrone e non brunastro. Polska sente il cuore pesante come un macigno. Ha chiesto del cibo ad una bambina senza niente. Quella lo cerca ancora, si agita sul posto, fa cadere neve dentro il suo nascondiglio. Polonia si vorrebbe scavare una fossa e seppellirsi dentro.

Nessuno dei due ha sentito i passi pesanti.

La bambina sobbalza da terra e, come un gemello, Polonia fa lo stesso. La ciotola di zuppa viene raccolta da una mano guantata e nera. La piccola viene sollevata, capisce. Sente ossa gettate contro il muro. Un brivido di panico raggiunge il midollo delle sue ossa. Non si muoverebbe nemmeno se potesse. Vede ora caviglie senza carne. Chiunque abbia preso la bambina ora le sta gridando contro. L’altra ha la voce minuta, non sa che dire. Parlano una lingua sconosciuta. Polonia ascolta, non capisce nulla, ma avverte il pericolo. Riconosce entrambi gli urli. L’uomo urla, di rabbia, la bambina urla, di terrore. Polonia rimane a guardare la finestrella, col cuore galoppante e le carni insensibili.

De sibo!” capisce nella sfilza di parole mai sentite “De sibo…!” urla all’uomo che non comprende e non vuole comprendere. Polonia sente lo stomaco rigirarsi tra gli altri organi. Sente la saliva acida. Sta per vomitare tutto ciò che non ha mangiato. Sente singhiozzi. Le caviglie vengono sollevate. La bambina urla. Ossa gettate contro il muro. Le pareti della sua tomba si muovono come prese vita. Polonia sente la schiena muoversi a ritmo. Gli occhi sono ancora concentrati di fronte a sé, la bocca socchiusa. Urlo infantile e acuto. Schiocco di un arma. Ricarica di un proiettile. Polonia capisce. Gli occhi si spalancano. La bambina non sa dove scappare. Si volta disperatamente. Vede la finestrella aperta e spera di passarci attraverso. Polonia lo sa: nemmeno un cane ci potrebbe passare. Non vede l’occhio, non vede un corpo. Un braccio tutto ossa, dita e sporcizia si tendono verso il buio, verso di lui. Lui contrae le sopracciglia. L’ha visto.

De sibo!” urla.

Sparo di un fucile. Il corpo si è mosso, si è mossa la parete, ondeggia il pavimento sotto la schiena di Polonia. Fa l’eco lo sparo dentro il buco. La mano è morta, eppure continua ad avere spasmi, continua a dare vita. Il polso si contorce, sbatte contro il muro, le dita si spezzano. La mano smette di fare ciò che non potrà più fare e si arresta. Polonia guarda ancora lassù. Lo stomaco si arresta. La saliva non ha sapore. Non vuole vomitare, non vuole e non deve. Gli trema il labbro. Non riesce a crede che una bambina sia morta qua di fronte a lui. Per una ciotola di zuppa. per un pallone rattoppato. Lo stomaco si contrae di nuovo. Sente acido salirgli per la gola. Serra i denti, chiude gli occhi, respira profondamente. Cerca di fermare la nausea. Non deve vomitare e non deve piangere.

Altri passi, dove la bambina è morta. A Polonia batte il cuore: i passi sono prepotenti. Li segue con lo sguardo. Guarda il suono come se si potesse realmente vedere. Gli occhi verdi percorrono il muro della sua cella. Lo spigolo. Le scale e la porta. Ingoia gli ultimi battiti terrorizzati e accetta quelli più distruttivi: i passi si sono fermati alla porta. Non la vede, ma la sente. Chiunque abbia ucciso la bambina ha spalancato la porta. Il rumore secco sbatte addosso ai muri, fa tremare la sua schiena. I passi scendono la scalinata. Polonia vede stivali neri di soldato e pantaloni scuri. Sbarra gli occhi, il freddo alla schiena si placa.

Prussia guarda dritto di fronte a sé, non gli cadono gli occhi nemmeno per un istante. Non ha palpebre, non batte gli occhi. Quello sguardo non lo mai visto addosso al prussiano. Il freddo alle osso si tramuta in calore. Il comandante smette di far tintinnare le medaglie al petto, moltiplicate più di prima e abbassa gli occhi verso il pavimento, verso Polonia. Lo guarda, ma non lo vede. Polonia lo guarda e gli s’infiamma l’anima. Prussia pare deglutire e battere per la prima volta gli occhi. Si spezza il gelo attorno a sé, vede nel ragazzo qualcosa che lui non vede.

“Ti doveva portare questo, no?” gli occhi di Polonia rispondono per lui. Guarda la mano guantata e vede la ciotola di legno. Gli s’inclina lo stomaco. Prussia guarda attraverso Polonia. Non incontra i suoi occhi “Meglio che la mangi prima che si raffreddi-…”

“L’hai ammazzata tu” sibila. La voce di Polonia infastidisce Prussia. Gli infastidisce il tedesco sulle labbra del ragazzo. Gli occhiacci rossi si ingarbugliano fra gli occhi fermi del prigioniero e il pavimento. Non sa dove guardare. Si sente pesante come un macigno.

“Non mi devi parlare in questo modo, bastardello!” ruggisce e sbatte lo stivale per terra. Polonia dimentica chi è Prussia. Mostra i denti. Ruggisce anche lui.

“Perché l’hai fatto?!”

“Non doveva farlo! Non doveva violare il regolamento!” ruggisce ancora, muovendo la mano vicino alla tempia, come se pulsasse tanto da rischiare di esplodere. Al ragazzo si mozza la lingua. Gli s’incrinano le sopracciglia. Guarda l’uomo come se non lo conoscesse. Non riesce ancora a credere che l’abbia fatto. Quello abbassa la mano dalla tempia pulsante: fa ancora male, ma non può calmarsi ora. Ricorda di avere una mano occupata. Guarda la zuppa nella ciotola e lo disgusta. Per un attimo si chiede perché ce l’abbia in mano. Deglutisce, odia stare qui, con Polonia. Si è già pentito di tutto, eppure tutto gli si sta ritorcendo contro ancora. Con la mano sgarbata, mostra al più piccolo la ciotola. Polonia la guarda, confuso e nauseato. Non deve vomitare.

“T     u te la mangi” alza gli occhi verso i rossi di Prussia, incredulo, confuso, disgustato, pentito. Scuote la testa con rabbia, si rende conto di riuscire a muovere soltanto il collo e le palpebre.

“Non la mangio!”

“Sì, tu te la mangi, altrochè!” e gli si getta al collo.

Polonia ricorda chi è Prussia e perché dovrebbe avere paura di lui. La mano nera gli si accanisce al collo. D’istinto chiude gli occhi. Ricorda di non riuscire a muovere un muscolo. La mano stringe forte. Chiude la bocca, ma non riesce a fare altro. Chiede aiuto alla mano, ma non si muove. Chiede aiuto al piede, ma non vuole muoversi nemmeno lui.

“Apri questa cazzo di bocca!”

Polonia stringe di più i denti. Gli batte forte il cuore. Nemmeno le dita riescono a sollevarsi. Non vuole vedere. La mano stringe un punto sensibile dietro al muscolo. Polonia sente un disturbante dolore. È come un ago poco affilato che tenta di infilzargli la carne, senza riuscirci. Polonia non ce la fa. Non riesce a respirare. Gli si blocca il naso. Lo stomaco scalcia nella sua pancia. Apre la bocca, vuole aria. Prussia trova l’occasione e gli getta tra i denti il legno della ciotola. Polonia ha dolore ai denti, li allontana dal legno, cacciato fin dentro la gola. Non respira. Sente liquido scivolargli dentro la trachea e i polmoni. Vuole aiuto dalle sue braccia, ma non fanno nulla. Vuole combattere, ma non reagisce.

“Dai, mangia, so che lo vuoi” mormora il sosia, mentre pezzetti di cibo gli si incastrano nella gola. Non ci riesce, lo stomaco si ribella. Prussia si allontana, con la ciotola vuota e pochi rimasugli di patate invernali e carote ammuffite.

Polonia rigira il collo a terra e vomita.

 

 

 

 

 

Non ha più acqua in corpo. Se ne rende conto passandosi la lingua sulle labbra. Ha sognato di nuovo un frammento di memoria mai accaduto. Deglutisce, non ha più saliva e ha la gola in fiamme. Muove le dita, gli gira la testa, non ha più nausea. Prussia l’ha lasciato lì e non ha voglia di muoversi. Il suo vomito non puzza e sembra più saliva e acido che patate e minestra. Quella zuppa la odia.

Dalla finestrella passano debolissimi raggi di luna. Il braccio della bambina resta ancora lì, a ciondolare giù dalla finestra, con una cascatella di sangue rappreso che macchia la finestrella, il muro, il tavolo e le sedie, fino a terra. Non sa nemmeno il nome della piccola. Non sa nemmeno che lingua parlasse. Non sa che Nazione la rappresentasse. Forse nevica fuori, ma non capisce bene. Muove i palmi delle mani e si tira su dal pavimento. I gomiti schioccano, intorpiditi. La spina dorsale gli duole fin alla nuca. Che schifo, che male. Si siede. Non guarda il braccio della bambina e non vuole vedere la cosa disgustosa che ha vomitato e sputato.

“Perché lei è qui?” il sosia sente il suo mormorio, ma non si muove, né gli occhi vogliono tendersi verso il nuovo ospite. Guarda Polska come si guarda un bambino capriccioso. Ma Polska non ha capricci. Polska è solo stanco ed esausto di stare lì. Polska accetta la sua condanna, ma non le sue punizioni.

“Perché ti voleva totalmente vedere. Cioè, dopo tutti questi anni vorrà sapere come ti sia tipo-…”

“Non voglio parlarle”

Non la guarda, non la sfiora nemmeno con la coda dell’occhio. Si alza. Le ossa scricchiolano dopo ore ed ore di immobilità. Le ginocchia si stirano con così tanta forza da fare eco, in quel buco. Guarda il suo mucchio di stracchi che faceva da letto e gli sembra tutto ciò che è meno confortevole in questo posto. Sfiora le sedie con le dita e cammina ancora. Non crede di riuscire a rimanere fermo per altri minuti. Ma non può nemmeno voltarsi, la guarderebbe senza dubbio. Poggia la fronte al muro. Respira come non ha mai respirato prima. Non sa più cosa siano le lacrime.

“E perché, Po?” chiede l’altro, senza emozioni. Polska gli risponde, ugualmente senza anima.

“Perché mi ha abbandonato” Perché la odio, risponde con severità dentro di sé. Lei l’ha lasciato e ha sposato un altro. Per lei, da bambino, avrebbe dato il mondo nelle sue mani. Per lei si sarebbe inginocchiato di fronte al Signore per unirsi a lei. Ma lei l’ha lasciato. È stata la tua ingenuità a farla scappare, trilla una voce dentro di sé. Polska si meraviglia che questa vocina esista. Non sente passi o schiocchi scocciati di lingue.

“Davvero, Po?” sogghigna “E perché dovrebbe essere qui, se non ti vuole?”

“Perché… mi vuole…” …umiliare, si risponde nel cuore, già di per sé umiliato. Sente l’anima lasciargli il corpo, non ha più forze per fare tutto questo, non ha più forze per farsi ancora così male. Perderà la testa se gli succederà altro di orribile, ne è certo. Puro velluto tocca le sue braccia. La sua mano di fanciulla gli carezza la pelle scoperta dalle maniche della camicia. Sospira, sta per perdersi. Sente l’anima strapparsi del tutto da sé. È solo un corpo pieno di passioni. Vuole carezze, vuole baci, vuole conforto dopo questo Inferno. Vuole la pace. Alla carne non si nega. Si sente circondare da braccia. Lei lo abbraccia. Il sosia sorride, sa bene che sorride, lo vede nei suoi pensieri, nelle sue riflessioni. La parte marcia del suo cuore. Quello sogghigna, nel suo orecchio.

“E tu la vuoi, Polska?” le labbra bianche di lei schioccano sotto il suo orecchio, a raso sulla pelle, ma vorrebbe tanto che lo avesse sfiorato per davvero. E gli si apre la memoria. La ricorda coi suoi riccioli neri, ricorda come profumava di pesche, ricorda gli occhi, zaffiro scuri, che lo guardavano e brillavano, era certo, che brillassero come gemme. Polska sa che non è vero, ma vorrebbe che sia vero. Ricorda anche come abbia voluto baci e carezze da lei. E lei, maledetta, se n’era fuggita. Polonia ricorda di aver perso Lituania, di aver ucciso una famiglia intera, di aver portato alla morte una bambina e di avere una pancia cucita tristemente, aperta senza alcun motivo. Dopo tutto questo non ha più motivo di vivere. Ma non vuole nemmeno morire.

Se si volta si perde, lo sa. Ma Polonia vuole perdersi. Vuole morire nella carne di quella che lo ha ucciso da bambino. Si volta, non la guarda nemmeno.

Si, la voglio.

Le serra le guance fra i palmi ruvidi, contro la sua pelle di seta. Chiude gli occhi. Cozza le sue labbra strappate contro le sue di pesca. Lei non si muove, non reagisce. Forse voleva ribellarsi debolmente, forse voleva riavere il respiro smorzato, ma socchiude le labbra. Lui getta la lingua dentro la sua bocca. È umido, è caldo, è bollente. Sente il suo stesso alito vomitevole in quello della ragazza. Non vuole che scappi e la stringe con più forza alla carne morbida delle braccia. È più bassa di come la ricordasse. Non ha più il vecchio profumo di pesca. È cambiata.

Polonia è rigido, inesperto, rabbioso. La fa arretrare e la sbatte per terra, insieme agli stracci del suo letto, insieme a se stesso, caduto addosso a lei. La vuole, si fa fiamma e fuoco maligno. Si sente accaldato. Rigira la lingua secca e nauseante nella sua bocca. Non deve andarsene più. Non deve fuggire, non deve abbandonarlo come ha fatto e come altri hanno fatto. Sente le fiamme percorrergli arterie e vene. Sta sudando. Allunga la mano e la tende al suo petto. Vuole spogliarla e poi spogliarsi. Questi stracci saranno la sua alcova e lei sarà sua. Tira indietro la testa, respira con affanno che non ha respirato affatto finora. Le guarda il petto: le ha strappato il corpetto. Le ha scoperto il seno giovane.

Ha uno scatto, le guarda il volto, ha ricordato qualcosa. Si fa bianco come la pancia di un pesce. L’anima gli ritorna in corpo. Vede sfregi sul suo viso, che lo ricordava immacolato come quello della Vergine. Non ricordava quelle labbra spaccate, né i capelli crespi, né le guance infiammate. Né un occhio cieco e chiuso. Il fuoco nel ragazzo si spegne del tutto. La guarda sconvolto. Vede lacrime nei suoi occhi, anche nel cieco.

“Sono morta giovane, Polska!”

Rimane ancora immobile a contemplarla e si alza in piedi, quasi dimenticando quel che aveva intenzione di farle. Non riesce a farne a meno, è un istinto potente: le guarda il seno. Vede un neo scuro, tondo e schiacciato, come il petto infantile. Deglutisce. Ricorda la verità che scoprì da bambino. Ricorda una lettera di un soldato che conosceva. Vede fiamme, un rogo, delle urla mai viste, ma sempre immaginate. Ricorda il suo pianto e la vergogna che aveva di se stesso. Lei piange e si rialza a fatica, con la veste cucita di stracci, come quella dei carcerati e degli impiccati. Si copre il petto con le braccia. Si vergogna di sé.

“Mi hanno presa per strega e mi hanno bruciata viva!” mormora “Per colpa tua, Polska! Per colpa tua!” sente le sue spalle contro al muro, contro un vero muro. Allarga i piedi, si sente piccolo come un insetto. Non riesce a scrollarsi gli occhi dalle figura di lei, che cerca di coprirsi, di sfogarsi. Polska non ha parole, Polska sa che ha sbagliato e dentro di sé sa che è vero “Non esisto più ora, Polska! Sono solo cenere e nient’altro!”

Non sai nemmeno il mio nome.

E muta in vera cenere.

La sua figura diviene un mucchio di smog e polvere di stelle nere. Quella nube crudele si ingrossa, si arriccia su se stessa. Si gonfia come una nube ricolma di pioggia e lampi. E si getta addosso a Polska. Polonia chiude gli occhi appena in tempo e si para con le braccia, come se avesse di fronte a sé un reale nemico. La nube è bollente e inabissale. Si sente bruciare anch’egli, come prima bruciava di una passione violenta e sbagliata. Polonia si pente anche di questo. La coltre di fumo pare passata o perlomeno è andato via il suo calore asfissiante. Per poco non soffocava. Polonia inghiotte saliva aspra e resta con le braccia alzate e gli occhi stretti. Non sa cosa gli accadrà se aprirà gli occhi.

Gli occhi bruciano sotto le palpebre: vede luce, la nebbia di cenere se n’è andata per sempre. Riesce a respirare aria pulita. L’aria profuma di gelsomino e lillà. Sa anche di quercia e mandarino. Non sa da dove venga questo profumo. Con le mani ancora tese di fronte a sé, tocca qualcosa. No, qualcosa tocca i suoi palmi. Li stringe e li tira a sé. Polonia è talmente confuso ed ammaliato che non protesta, anzi, apre gli occhi.

S’illumina di immenso.

“Polska, sono io, sono Jadwiga”.

La guarda.

Guarda le mani che hanno le sue, pulite ed esili. Guarda i capelli di miele. Guarda la tunica turchina. Guarda gli anelli e le pietre alle sue dita, i ghirigori dorati della sua veste, guarda tutto e non vede niente. Guarda il sorriso estendersi e si sente vinto dalla lama di un nemico.

“Polska, passeggiamo un po’, ti sentirai meglio”

Si lascia trasportare. Polonia si sente sordo, muto e cieco un'altra volta nella sua vita.

Gli fa vedere un giardino che non ha mai visto in tutta la sua vita. Pare una valle interminabile. Vede alberi e boschi che non ha mai conosciuto. Le passeggia affianco con la mano nella mano. Vede un cielo sereno e poche nuvole ad ombreggiarlo. Si sente increspato di gigli e azalee. Il suo letto di stracci non sembra esistere più. Non esiste più nemmeno l’aroma raccapricciante della terra e dei suoi sali, della polvere e della fame. Coi piedi scalzi sente terriccio ed erba verde. Si sente… calmo, come per miracolo, dopo chissà quanti giorni e settimane di lacrime. Si sente… felice.

“Polska, non mi parli?”

Ritorna la vista e l’udito, eppure la lingua è ancora mozza. La guarda e si sente ammaliato, così com’era ammaliato quando l’aveva vista in fasce, quando la rincontrò da bambina e quando crebbe più in fretta di lui. Nulla è cambiato nel suo cuore per lei. Ne è sorpreso e contento. Per lui la ragazza senza nome era principessa e poi strega, per lui ora Jadwiga è regina ed è ancora regina. È semplicemente felice che la sua mente non sia stata dispersa dai mali e dai ricordi. Per lui è ancora Vergine bellissima.

La guarda e le poggia la tempia al ventre. Non sa perché l’ha fatto, sa che ne ha bisogno.

“Polska, piangi, non ha importanza” ride la sua voce, senza deriderlo. Gli occhi si liberano dalla cenere e dal buio di quel luogo dov’è stato finora. Piange senza voce. E si libera di un peso ben più pesante delle sue stesse sofferenze. Finalmente piange di felicità.

 

 

 

 

 

“Vivi qui, Jadwiga?”

“Sì, questo è il mio giardino. Finalmente ho un ospite insieme a me”

“Mi sei mancata tanto. Non sai quanto…”

“Lo sapevo, Polska”

“…Mi guardavi da qui?”

“Sì, tutti i giorni”

“Come… come mi avevi promesso”

“Sì, Polska. Ho pregato per te da quando venni qui”

 

Non ha portato con sé le sofferenze del parto, né la freddezza di un corpo debole. Sembra ritornata come la ricordava. Polska è fiero che la propria memoria sia tanto ferrea.

Non ha cuore per rovinare i fiori o per strappare rami dagli alberi. Vuole solo stare con lei il più possibile. Le si stringe alla gonna come un bambino a quella della madre. Chiude gli occhi e dorme, con la sua mano ad accarezzargli il capo rasato.

 

“Perché mi hai portato qui? Questo… questo non è il posto dove dovrei stare”

“No, è vero, Polska. Non sei ancora pronto per stare qui con me. Però non è ancora troppo tardi. Sono qui per ridarti nuova vita”

 

La collina che hanno raggiunto non è affatto ripida come si aspettava a valle. Si sporge, guarda in basso. Sembra una montagna, eppure la scalata è stata veloce. Jadwiga lo richiama, vuole che si avvicini a lei. Polska si volta, si fa di nuovo piccolo come un cucciolo. Le si fa vicino, la guarda negli occhi.

Lei si fa raggiante, sorride, avvicina le labbra alla sua fronte e la bacia.

 

“Devi dimostrare di amare, Polska. Salverebbe la tua anima e soprattutto la tua coscienza. Questa ti ha veramente fatto toccare il fondo del peccato. Devi sdebitarti con essa”

“Come posso dimostrartelo, Jadwiga?”

“No, Polska, non devi dimostrarlo a me, ma a te stesso. Sei in pena con te stesso, soltanto tu sai come dormire in pace”

 

Gli lascia le mani. Polska la lascia e si fa lasciare da lei. Lei si volta e, così com’è apparsa, come un miraggio straordinario in un deserto, scompare nella luce dov’è apparsa, con la veste che si fa parte di cielo zaffiro. Polonia si lascia trascinare per terra, non per lo sconforto.

Si tira le ginocchia alla pancia, solo ora si vergogna di essersi fatto vedere vestito come il peggiore dei miserabili. Poggia la fronte sull’osso e sospira in sé.

 

“Come? Con chi?”

“Lo sai bene”

 

 

 

 

 

Tira un forte vento su questa collina. Ulula selvaggio nelle sue orecchie e fra i suoi capelli. Ha voglia di fare il maldestro, il vento, e glieli agita sul viso. È tempestoso come un dannato oggi e vuole che anche altri siano turbolenti quanto lui: nuvole, alberi, erba e vesti di persone. Anche le sue. Eppure non gli tocca affatto ciò. Gli piacciono le urla sorde della corrente. Gli piace stare sulla collina e nient’altro gli importa ora. Guarda in alto, c’è solo una nuvola in cielo. Vorrebbe che fosse il tramonto, sarebbe maestoso da quassù.

“Hey, hey…” mormora Polska, rilassato “Hai qualche storia interessante sulla tua capitale?” Lietuva si volta, con capelli ancor più imbrigliati dei suoi. Avrebbe potuto portarsi il nastro, ma se n’è dimenticato. Gli occhi azzurri lo scrutano interessato, le ciocche castane volano sulle palpebre.

“Uh? La nostra capitale?”

“Già, la vostra capitale” annuisce il biondo “Ho capito che chiedere qualcosa alle persone è un buon modo di ascoltare storie. È tipo un trucco inventato da me” Lituania rimane in silenzio per un po’. Questa domanda l’ha preso di sorpresa e la risposta non la conosce. S’ingarbuglia nella sua memoria qualcosa che possa somigliare ad una risposta, eppure… Tiene le mani fra le cosce e continua a riflettere. Polska volta i piedi nella sua direzione. Si stringe le ginocchia allo stomaco. Pazientoso, lo attende. I capelli ora non gli vanno più in faccia.

“Ecco…” gli spunta un sorriso sincero e volta anche lui il corpo verso il biondino “Mi racconti una storia sulla vostra capitale”

“Cioè, puoi anche darmi del ‘tu’!” lo interrompe, alzando di scatto la testa, arrossendo anche un po’. Si è imbarazzato. Nessuno gli ha mai dato veramente del ‘lei’ o del ‘signore’. Si sente grande e adulto e questa cosa lo innervosisce molto. Non gli piace sentirsi quel che non è. Alla risposta, a Lietuva il sorriso scompare e diventa bianco come un cencio.

“D-Davvero?!” abbassa lo sguardo, ritornato il colore alle guance. Rialza gli occhi. Si sente imbarazzato quanto l’altro “…Allora come potrei chiamarti?” Bam! Lietuva sobbalza per questo strano verso. Gli occhietti verdi di Polska brillano e il sorrisetto malandrino si mostra. Gli punta un indice al naso con qualcosa di simile alla superiorità.

“Potresti chiamarmi ‘Signor Polska’, se vuoi. Oppure, facendo una totale eccezione, potresti chiamarmi tipo ‘Po’. Che ne pensi?” Lietuva sobbalza un'altra volta, preso di sorpresa ancora una volta, anche per il suo cuore da bambino. Si fa impacciato e fa fatica a tenere gli occhi alzati. Osserva il compagno quasi con paura.

“Cosa?!”

“Stavo scherzando” Lietuva riacquista di nuovo colore. Si scema l’ansia. Polska sorride sotto i baffi, ma pare anche qualcos’altro che lui non comprende. Riapre le palpebre e lo guarda, con occhi adulti “Tutti mi chiamano Polska, quindi… se ti va puoi chiamarmi così” e riabbassa lo sguardo, vergognoso… o forse no. Lietuva non nota nulla. È sollevato che stesse scherzando. Sospira di sollievo.

“Ah, va bene. Per me sarai Polska” ripete, come un fanciulletto. Si sente veramente tranquillo ora.

“Ma ad una condizione…” il castano si fa di ghiaccio, gli si blocca il cuore “…che io ti chiami Liet. È, cioè… il diminutivo di Lietuva” il ragazzino si scongela e annuisce. Non gli dispiace questo patto. E, in verità, questo soprannome già gli piace. Non sapeva nemmeno che l’altro conoscesse il suo nome nella sua lingua. Si sente importante e arrossisce. Alza il suo peso e si avvicina di più a Polska.

“        Quindi, riguardo alla storia…” Polska guarda in alto, perso in qualche pensiero, con occhi spenti. Ricorda qualcosa che Liet non immagina.

“Ah, la storia… ce n’è una sulla mia capitale…” Liet si avvicina ancora, attendendo. L’alleato riabbassa lo sguardo verso l’erba. Attende ancora, il castano, ma l’altro non sembra avere vita. Inizia a preoccuparsi. Sta per aprire la bocca, per chiedergli cosa c’è che non va. Polska rialza gli occhi e annuisce fra sé e sé “Va bene, te la racconto” Liet lo guarda perplesso, non capendo cosa sia successo “Si dice che un tempo ci fosse un spaventoso drago sotto il castello di Cracovia”Liet chiude gli occhi e vede occhi grandi e luminosi, che lo guardano minacciosi nel buio “Questo essere creava un gran scompiglio nella città, soprattutto perché mangiava qualsiasi cosa gli capitasse di fronte: anche donne e bambini, se lo desiderava. La situazione era disperata, allora si decise di chiamare un saggio principe, in modo da trovare un sistema per ucciderlo” Liet vede di fronte agli occhi l’uomo con la lunga barba grigia e la lanterna nella destra, mentre attraversa le rovine sotto terra “Finché… arrivò faccia a faccia col dragone” il ragazzino vede l’uomo sobbalzare di fronte alla gigantesca creatura nera “Quella bestie era davvero minacciosa e possente, tanto che il principe credeva che non potesse veramente esistere un mostro del genere, sotto la sua città, sotto ai suoi piedi” Liet vede l’uomo con occhi più irosi di quelli della bestia. Vede la sua mano sulla spada e sguainarla con un urlo di battaglia “Allora prese coraggio, sguainò la spada e si lanciò verso di lui”

Sembra proprio una storia emozionante. Polska è bravissimo a raccontare leggende, pensò dentro di sé, col cuore in gola per l’emozione.

“Con la sua saggezza il principe lo uccise facendogli mangiare dello zolfo” Liet riaprì gli occhi. Polska lo guardava, incredibilmente adulto “In questo modo la nostra capitale diventò pacifica e il principe divenne nostro eroe”

“Capisco, sembra fortissimo” ha un abbaglio, ricorda qualcosa. Un ricordo lontano gli si para di fronte a sé “Ah! Ora che ci penso, c’è una storia che il Granduca mi ha raccontato un po’ di tempo fa…”

E ritorna a parlare, con la sua voce fanciullina, come Polska la ricordava. Parla e parla e Polonia non sente nemmeno una parola. Guarda i suoi piedini, ora veramente minuti. Liet è cresciuto tanto in poco tempo, lui è rimasto piccolo ed infantile, come da piccino. Sente suoni e suoni della sua voce, tanto giovane e tanto cortese. In futuro avrebbe conosciuto il sangue e autentiche grida di cavalieri e soldati. Ora Liet non è un cavaliere, è un apprendista che vuole conoscere tante cose. Si stringe nelle ginocchia, consapevole del futuro. Fra qualche anno Lietuva diventerà cavaliere e imparerà ad usare la spada e a cavalcare. Fra qualche anno lui vedrà guerre insieme a lui. Fra qualche minuto Polonia non rivedrà mai più il bambino con gli occhi celesti, limpidi per l’età giovane, e con le leggere lentiggini, che lui stesso scoprì secoli e secoli dopo. Lituania è lentigginoso e lui lo scoprirà in guerra contro il suo stesso fratello e amico. Trova questo molto triste. Immagina che Russia lo avesse scoperto anche prima di lui. Lui, che è un mostro, conosce il suo amico meglio di lui stesso. Questo è… triste.

“…a me sembra un po’ romantic- ah!” Lietuva sussulta. Polska è stretto alle ginocchia, con la fronte nascosta tra le mani. Il vento gli scompiglia i capelli, come i suoi. Non capisce ed è preoccupato. Il biondino capisce che abbia smesso di raccontare e alza la testa. L’amico vede occhi limpidi come pozzanghere. Si sente imbarazzato e preoccupato allo stesso tempo. Istintivamente alza la mano, ma si blocca. Non sa se possa toccare il principino. Ha una sinceramente apprensione per lui “T-Ti senti bene?”

“Mi è venuta in mente un’altra storia” lo interrompe “La vuoi ascoltare?” non vede più lacrime agli occhi. Per un attimo aveva immaginato di vederlo piangere. Liet è perplesso, ma decide di non intervenire, non conoscendo ancora il compagno.

“Oh, erm… va bene” annuisce, non convinto di quel che sta vedendo. Polska acconsente e inizia a raccontare. Respira profondamente e il bambino dai capelli castani non vede altro che la storia.

“Non molto tempo fa c’erano un cavaliere e un principe. Per vari motivi, politici, reali ed altro, s’incontrarono. Non passò molto tempo che divennero amici, sin da ragazzini. Passarono anni insieme e vissero battaglie e avventure, ma la loro amicizia non era reale, non del tutto…”

“In che senso?” chiede il ragazzino, molto curioso. Chiude gli occhi, li vede insieme, i due protagonisti, stringersi la mano, in segno di amicizia.

“Il cavaliere era ingenuo e molto buono. Credeva che il principe fosse altrettanto con lui, ma non era così. Spesso lo mortificava, talvolta lo umiliava, ma lui non se ne accorgeva. E poi… anche perché il cavaliere sapeva che il principe gli volesse molto bene, solo che non lo dimostrava affatto. Ma questo perché non sapeva dimostrarlo, non perché non gli volesse bene per davvero… capisci?”

“Oh, sì, capisco…” dice il ragazzino, intimidito. Il tono alto dell’amico aumenta il suo interesse e… anche una certa tristezza. Non sa perché voglia sottolineare tutto ciò e perché sia tanto importante per la storia “Poi che accadde?” Polska sospira. Sembra intristito. Guarda in alto il cielo, chiude gli occhi e parla.

“Persero una battaglia contro tre grandi re” Liet sussulta, preoccupato. “Uno di loro veniva dal Nord, vide il cavaliere e decise di portarlo nel suo regno e di farne sua guardia personale. Il principe invece… si ammalò”

“Perché? Di cosa si ammalò?” chiede, sconfortato. Li vede sconfitti, sul campo di battaglia, strappati entrambi da tre colpi di spada.

“Per la perdita e anche per le ferite: la battaglia colpì soprattutto lui. Tornato in sesto, scoprì di non essere più un principe e di non avere più un regno. Era… diventato una persona normale, insomma. Visse sotto l’ala del primo e del secondo re che lo sconfissero. Divenne un loro servo, ma non si sentì mai infelice. Sapeva che un giorno avrebbe riavuto il suo regno e avrebbe governato insieme al suo cavaliere, proprio come facevano da ragazzi. Ma il cavaliere… non visse bene”

“Oddio… cosa gli è successo?” Liet si avvicina di più a Polska. Il biondino lo vede con la coda dell’occhio. Potrebbe sfiorargli la mano, se volesse. Non lo fa. Chiude di nuovo gli occhi e ritorna con lo sguardo in alto.

“Il re del Nord era un uomo inflessibile e a volte anche crudele. Lo trattava come uno schiavo, rendendo schiavi anche due fratelli dello stesso cavaliere e mortificandolo sempre più. Il cavaliere si sentì anche lui malato. Man a mano appassiva e perdeva vita, anche perché credeva che il principe fosse morto o che lo avesse abbandonato al suo destino. Però, dopo molti anni, il principe riuscì a ricostruire un esercito e decise di affrontare il re del Nord, per riavere indietro il suo trono e il cavaliere. Ma il cavaliere non voleva unirsi a lui”

“E perché? Erano amici!” dice, indignato, Liet.

“Perché il re del Nord era astuto e perché si era affezionato tanto al cavaliere, però anche lui, come il principe, non sapeva dimostrare il suo affetto. Era tanto legato a lui da non immaginare la sua vita senza. Gli raccontò delle falsità su di lui e il cavaliere gli credette, anche perché molte cose che diceva sul principe erano vere. Diceva che era egoista e che lo usava per i suoi scopi e in parte era vero, ma nemmeno lo stesso principe era consapevole di fargli del male” si ferma un attimo. Deglutisce “Si incontrarono sul campo di battaglia. Si scontrarono e vinse il principe”

“Riebbe almeno il trono?”

“Sì, e anche altri territori, ma il cavaliere era ancora sotto l’ala del re del Nord. Più avanti scoprì che il re gli aveva mentito e non voleva più avere a che fare con lui. Il re non poteva accettare tutto questo. Aveva sopportato il silenzio del ragazzo per anni, ma non ne poteva più. Non… non voleva che il cavaliere avesse a cuore qualcuno che non fosse lui stesso. Lo rivoleva indietro e decide di iniziare guerra contro il principe e il suo nuovo regno, fino a distruggere ogni cosa di lui” Lietuva si sente indignato. Questo re lo detesta già e non lo comprende.

“Ma… ma perché? Lui cosa voleva da loro? Era davvero tanto importante questo cavaliere?” chiede Liet, confuso e ancor più interessato. Polska lievemente alza una palpebra.

“Te l’ho detto: dopo anni ed anni, anche se con un cuore di ghiaccio, il re del Nord si era affezionato al ragazzo” Russia amava veramente Liet “Forse… forse voleva adottarlo e farne principe anche lui, ma, ovviamente, il cavaliere non voleva, dopo essere stato tradito, e lui si arrabbiò tanto da distruggere il regno del principe e lo uccise lui stesso…”

“No…” mormora, amareggiato. Polska sembra anche lui preso dalla narrazione e annuisce anche lui, scosso dentro di sé. Lietuva vede un castello in fiamme, Polska vede una scena realmente accaduta.

“Sì… il cavaliere lo seppe e seppe anche che il principe l’aveva sempre considerato come un fratello, anche se non era mai riuscito a dimostrarlo. Aveva un grande orgoglio e non poteva credere di aver solo dubitato di lui. Perse la testa e tentò di raggiungere l’amico nell’altro mondo…” Liet spalanca gli occhi, ferito “…ma i suoi fratelli e lo stesso re lo fermarono e lui riacquistò il senno. Il cavaliere decise di essere fedele ai suoi fratelli e al re del Nord. Il re gli aveva dimostrato il suo pentimento e lo aveva trattato come un figlio, per questo lo perdonò. Il principe lo aveva sempre guardato dall’alto dei Cieli e gli aveva giurato di rincontrarsi, in futuro”

Lietuva annuisce, piuttosto scosso e anche addolorato. Questa leggenda lo fa sentire male “E’ una… storia molto triste…” l’altro riapre gli occhi e annuisce al compagno. Sospira e deglutisce: parlare così tanto e di vecchi ricordi gli ha reso la gola secca. Polska gattona sull’erba, fino alle sue spalle. Liet si stringe nelle ginocchia, preso dalla storia. È un bambino, si commuove per nulla. Ricorda il cavaliere e il dolore che ha patito. Ha una gran pena per lui. Sente la presenza dell’amico alle sue spalle, alzato sulle ginocchia. I capelli ribelli del castano si agitano e sbattono contro i rami del vento. Che disastro, pensa Polska, per non commuoversi anche lui.

“Sì, è vero, ma questa storia insegna molto: anche se tutto va a rotoli, l’amicizia… è la cosa più importante che ci possa essere” il castano ci riflette un po’ e alla fine annuisce, sorridendo. Questo insegnamento lo apprezza molto.

“Giusto, la loro amicizia ha fatto vivere il cavaliere, nonostante tutto” Polska mormora qualcosa dietro al suo orecchio, ma non ci fa caso. Parte dei suoi capelli smette di dimenarsi sopra di sé. Sobbalza: sente le mani di Polska fra i suoi capelli. Volta di scatto la testa. Incontra gli occhi severi del biondino. Ha veramente le dita fra le sue ciocche scure “M-Ma che stai facendo?”

“Ti lego i capelli. Dovresti: il vento te li tira sempre” Sei un disastro anche da bambino, Liet, pensa l’infelice Polska e fa voltare la sua testa con le mani. Liet lo lascia fare, stringendosi nelle spalle. Polska gli afferra con premura i capelli e le ciocche ribelli. Si guarda il polso. Non ci riflette un attimo: non vuole ripensamenti. Con convinzione libera il nastro del suo amico dal polso e così gli lega la chioma. Fa un fiocco basso, com’è sempre piaciuto a lui. Gli è sfuggita qualche ciocca. È una pessima coda e lui è un pessimo ascoltatore: non ha udito nemmeno una parola della sua storia. Ne è consapevole e sospira. Il nastro sembra ritornato nuovo come un tempo, come se la lordura e il buio della cuccia dov’è stato finora non abbia modificato nulla di Liet. Non lo rivedrà mai più. Il ragazzino ricorda qualcosa e volta la testa.

“Ma il cavaliere e il principe alla fine si sono rincontrati?” Polska si fa cupo. Lo guarda alto, severo, adulto. I suoi occhi verdi fanno quasi paura.

“No, non ancora” Liet sobbalza. Polska si alza, si stira i vestiti, guarda brevemente il nastro, senza un filo di lacrima al volto. È sicuro di quello che sta per fare “Io vado via, Liet” e si avvia, senza voltarsi. Se si volta si perde, sa bene. Per fortuna non ha alcun desiderio di farlo. Si sente in pace e sicuro di sé. Il castano volta i piedi verso di lui, confuso, comprendendo erroneamente. Si alza in piedi, perplesso come solo un bambino riesce ad esserlo.

“Ma… dove vai? Tornerai presto?”

Polska ferma i piedi. Tentenna, ma si volta. Liet non è certo di quel che stia accadendo. Il biondino sorride, un autentico sorriso, non uno da bambino, uno da ragazzo ben cresciuto. Il vento si fa tutt’uno coi suoi capelli di grano e gli occhi verdognoli. Polonia sorride felino, col cuore finalmente leggero e con la coscienza pulita. Si sente sinceramente contento di se stesso. Ha concluso tutto ciò che avrebbe dovuto cambiare in meglio nel suo passato. Liet lo ricorda nella casa di Russia. Ricorda Russia e come soffriva, nascosto fra gli alberi del suo confine, a guardarli correre sotto il sole, fra i campi i suoi immensi campi di grano. Ricorda come Estonia dava voce alla sua ira e frustrazione, quando vide Liet con le braccia straziate dalla sua stessa lama, affilata dalle sue dita. Ricorda Lettonia e come ha accompagnato il fratello in camera loro per proteggerlo e come ha giurato di stargli accanto. Sa che sta bene, nel mondo dei vivi.

“Liet, sarai felice anche senza di me”

 

 

 

 

 

“Ma sei pazzo?!”

Sente l’urlo ancor prima di svegliarsi dal sogno liberatorio. Apre gli occhi, rilassato, indifferente e si ritrova nella sua cuccia spoglia. Guarda la finestrella, la prima fonte di luce: la bambina è sparita e il suo sangue non scorre più lungo il muro, fino a terra. È svanito, così come il suo corpo. Si rimette in piedi. Sente la sua anima perfettamente aderente a sé. Non ha un capello in testa, ha un braccio bruciato dal ferro e degli stracci come vesti, ma si sente libero. Guarda la sua cuccia, questo buco dov’è vissuto. Non gli sembra poi tanto orribile. Trova gli zoccoli di legno che avrebbe sempre dovuto indossare e li indossa. Sono troppo grandi, come li ricordava, eppure non gli dispiacciono.

“Lo vuoi abbandonare veramente?! Tu hai bisogno di Liet!” la voce del sosia sembra rimbombare nelle pareti e muoverle col suo solo eco. Quel piccolo frangente della sua mente gli sembra davvero ridicolo. Polonia si volta verso il suo doppione, i suoi occhi sgranati e il suo mantello sbiadito. Non lo ricordava più basso di lui. Cala piano gli occhi scuri verso quelli patetici del più piccolo. Non ha voglia di perdere tempo e di prestargli una minima attenzione.

“No, non è vero. Lasciami andare” e si volta. Il sosia digrigna i denti, lo sente chiaramente, lo capisce senza nemmeno voltarsi. Il gemello aveva sempre saputo cosa stava pensando e dove voleva nascondersi da lui, ma ora anche Polonia sa cosa voglia l’altro e cosa pensi. Ora è arrabbiato, disgustato dal suo sosia più maturo. Ora lo vuole umiliare e farlo cadere. Ora non sa cosa inventarsi.

“Hey, mister Po, tipo calmati e ascolta: senza quel ragazzo ora che farai?” sembra quasi convincente… “A… a te non piace stare qui, totalmente, vero?” peccato, è ritornato patetico. Polonia pensa che questo ragazzino viziato non dovrebbe essere nemmeno ascoltato, ma immagina anche che dovrebbe sapere che non si può sempre avere ciò che si desidera.

“Sì, ma me ne farò una ragione. Me l’hai detto anche tu” sibila come un serpente, senza ironia, ma sapendo di essere crudele. Il sosia stesso vorrebbe tranciarsi la lingua. Era la sua possibilità di scappare. Non voleva veramente aiutarlo. Polonia è felice di non averlo ascoltato. Guarda la porta blindata, pesante quanto dieci uomini, così la immaginava. Ora le si avvicina e guarda la toppa scoperta. Gli sembra una semplice porta, come ce n’erano tante anche nei bunker di Tymek. Quello, alle sue spalle, si fa disperato e gli trema la voce.

“S-Stavo scherzando, Po! Non ero in me, davvero…! Senti, tipo torna indietro, dì a Liet che gli manchi, perché è così! Lui ha bisogno di te!” Polonia si alza di nuovo in piedi, in cerca di un’uscita. Scende le scale, sorpassa il ragazzino stupido e guarda la finestrella sgombra, quella dove nessuno sarebbe riuscito a fuggire e ora le sembra una qualche finestrella come tante, forse un po’ più piccola, per non far passare persone indesiderate e per avere comunque un po’ di luce. Inizia ad arrampicarsi.

“Non è vero, lui ora è con Lettonia, Estonia e Russia” raggiunge la cima, il sosia è a terra, alle sue spalle. Lo sente sghignazzare, il suo sghignazzo orribile, che non lo faceva dormire per il terrore. Ora è solo la risatella disturbante di un bambino affatto cresciuto. Si alza e vede la luce: gli zoccoli lo ricompensano un po’ in altezza e lo fanno vedere meglio. Sa che non potrebbe passarci comunque, ma vede qualcosa nella neve, abbandonato apposta lì, capisce. Nessuno abbandonerebbe una cosa del genere per errore. Si sporge più che può, tenta di prenderlo.

“E tu ti fidi di Russia?! Quello che ti ha totalmente ammazzato e portato qui?!” afferra tra le mani una pistola. Alla luce del giorno vede il cane e il grilletto. La apre. Tre proiettili: più che sufficienti per fuggire da lì. Scende dalle sedie e dal tavolo. Si rigira l’arma tra le mani e sa già cosa dovrà fare. Il ragazzino imbranato vuole la sua risposta.

“Sì” e non dice altro. Lo ignora, così come l’ha ignorato lui stesso quando chiedeva aiuto e cibo da fuori. Lui ora lo osserva con gli occhi fuori dalle orbite. Polonia lo guarda con la coda dell’occhio, prima di dirigersi verso le scale e puntare la canna della pistola verso la toppa sconnessa della porta. Ha la faccia così altera da sembrare anziana, piena di grinze e ombre sotto agli occhi e sulla fronte. Sembra veramente noioso adesso, il suo doppione stupido. Non sospira, non gli mostra nulla, se non le spalle. Toglie la sicura e mira.

“Tu sei pazzo, Po… Smettila di ignorarmi! Smettila, Po!”

Bang!

La toppa scoppia e diventa incandescente. La porta ora è aperta, potrebbe essere aperta. Polonia guarda in alto, verso la sua salvezza da questa puzza e questa oscurità. Dal buco che ha creato entra una debole luce. C’è la neve fuori. Non ricorda più il vecchio sogno e le lepri che avrebbe dovuto cacciare per Liet. Non gli importa più. La sua coscienza è stata sufficientemente soddisfatta. Vuole uscire e dire addio a tutto questo. Ma sa anche che la sua coscienza ha un lato sporco dentro di sé e vorrebbe liberarsene il prima possibile, prima che ritorni ancora là sotto, a piangere e pregare nell’oscurità. Sente il parassita del suo cervello strisciare alle sue spalle.

“Liet ha totalmente bisogno di te! Non puoi andartene via così!”

Si volta e spara.

Bang!

Il petto del sosia assorbe l’impatto e si trascina all’indietro. Non cade, ha ancora forze per reggersi in piedi. Fiotti di sangue bagnano il pavimento. Raggiungono i piedi Polonia e bagnano i suoi zoccoli di legno. Non se ne importa, che di sangue ne ha visto di più autentico. Il gemello guarda la sua ferita e la mano che tocca il suo stesso sangue. Non sembra avere più una pupilla, tanto è spalancata. Rialza lo sguardo verso i felini occhi verdi della Nazione cresciuta. La Nazione lo guarda. Lo trafigge con gli occhi e per la prima volta il più piccolo sussulta. Il più grande fa un passo e l’altro per la prima volta trema.

“Io ora non ho bisogno di Liet”

Bang!

“E Liet non ha bisogno di me”

E cade a terra con occhi ancora vivi. In mezzo alle sue iridi scorrono due scie di sangue che toccano le due guance rossastre di lacrime. Piange come un bambino. Chiede pietà con le mani alzate, come un codardo, come un moccioso lamentoso. Polonia lo ricorda quando si era inginocchiato di fronte a Prussia con le mani alte. Quello era lui, nel suo corpo, ad ordinarglielo, capisce. Lui aveva mosso la sua codardia fino ad ora. Lui aveva dato dolore a Liet, con le sue mani. Lui non è una persona. Lui è il male dentro di sé. E ora se ne libererà.

“E tu…” butta la pistola, senza più proiettili “…tu non devi più starmi vicino” si volta, senza più guardare il pattume che ha creato. Con occhi vivi e severi si volta e percorre le scale. Si libererà della sua anima marcia e ne creerà un'altra migliore, ben più forte. Spalanca la porta e i suoi piedi toccano luce e neve. È fuori, finalmente, al freddo, ma lontano dall’oscurità. Si volta solo per poco, deve fare un’ultima cosa. Il suo doppione ora striscia sulle scale e lascia la sua disgustosa bava dietro di sé. Lo trova più che ripugnante. Afferra l’anta e lentamente sbarra la porta, per sempre. L’altro lo guarda sconvolto e i suoi occhi sputano sangue e lacrime.

“Po, Polska, aspetta! Non è vero! Ti sei totalmente fottuto il cervello! Po!” chiude quella porta per sempre. Sente piangere, sente rimorso, quello che Polonia non ha. Non si volta più, non vuole più stare laggiù. Avanza nella neve e nulla lo farà voltare.

“Tu hai bisogno di me…”

Non lo sente nemmeno. È finalmente uscito dall’Inferno e ora s’incammina verso il bianco e congelato Purgatorio.

 

 

 

 

 

 

 

ANGOLO DI L0G1

Beh, poteva andare peggio, ma poteva anche andare meglio… Diciamocelo, con una media dell’otto e un orale da trenta, non ti aspettavi un misero settanta (maledetti…). Tuttavia, si pensa in positivo e si guarda al futuro: università, giurisprudenza, sto arrivando!

Spero che il capitolo vi sia piaciuto (forse quello che ho visionato di meno, chiedo scusa per eventuali errori ortografici…), ci sentiamo nei commenti.

L0g1c1ta

 

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 21
*** VeNtUnEsImO cApItOlO ***


Caro fratello, sono Bielorussia.

 

Come avrai già letto dalla lettera precedente, io sto bene. Sono insieme al lituano con il cadavere del polacco. Dice di voler restare qualche giorno in Polonia dopo il suo risveglio.

Io ho approvato per darti tempo di rintracciarci e di riportarlo a casa. È probabile che voglia definitivamente lasciare Mosca per restare lì. E come vedi sta delirando, riguardo al morto. Sappiamo che non tornerà più in vita, eppure lui insiste del contrario.

Ti prego di prendere il primo treno per Varsavia, o per quello che ne rimane. Io sarò vicina al lituano, per far smettere in fretta tutto questo e di concludere questa farsa. Domani mattina raggiungeremo la capitale. Spero che questa lettera sia più veloce di noi.

 

Tua sorella,

Bielorussia.

 

“Cosa stai facendo?”

Bielorussia sobbalza prepotentemente. Per fortuna non è sbattuta contro il legno. Le si arruffano i capelli, s’incrinano gli occhi. Diventa feroce come una tigre. Lituania è ancora alle sue spalle, paziente e muto. L’atteggiamento adulto e severo del suo compagno di viaggio la irrita. Respirando profondamente, fa la bambina. Volta la testa di poco, quel che serve per guardarlo e per nascondere ciò che ha fra le mani. Ha ancora quell’espressione fredda, il ragazzo. Lei sbuffa, spazientita.

“Non sono affari tuoi” le esce dalla bocca la frase affilata. Compiaciuta, lo osserva ancora. Sbuffa di nuovo, comprendendo che l’effetto desiderato si fa attendere. Lituania è ancora immobile, non ha mosso nemmeno un dito, nemmeno le ciocche di capelli tentano di frantumare la tensione che ha il suo sguardo. Bielorussia blocca involontariamente il fiato, come messa alle strette. Si è resa conto che la lettera che ha appena scritto non dovrebbe leggerla nessun altro se non lei e Russia. Lituania probabilmente ha già notato il suo collerico nervosismo. I gelidi occhi grigi si spostano verso le sue mani. Vede la carta. Bielorussia si volta. Nasconde la lettera dietro la sua schiena. Il ragazzo vede con la coda dell’occhio quel pezzo di carta, che ora pare bruciare come fuoco ardente. Lei trattiene ancora il fiato. Si rende conto di essere patetica.

“E allora perché nascondi quella lettera?” Bielorussia digrigna i denti. Si è già accorto di tutto. Questo nuovo Lituania non le piace per niente. La sua severità la fa sentire più bassa, più misera, più colpevole. Eppure lei non è nulla di tutto questo. Scuote la testa e scaccia via la sensazione dispettosa.

“Perché sono cazzi miei, idiota!” Lituania sospira. Vorrebbe pestare i piedi a terra: è ritornata la sensazione irritante sulla sua pelle. Le pizzica il cuore e i polmoni respirano più di come dovrebbero. Le gambe hanno un attacco di nervi e vogliono correre e calciare qualcosa. Lituania la guarda ancora come un uomo guarda una bambina capricciosa. Inclina gli occhi in modo nuovo: pare deluso ed intristito. A Bielorussia parte la stizza, sa che vuole quella lettera.

“Dammela” alza la mano, con la voce affatto severa. Lei guarda la sua mano come se reggesse fra le dita un groviglio di serpi. Arriccia il naso, i denti tornano sotto le labbra, al caldo: si sente sconfitta e ancora più bambina. Vorrebbe togliersi questo sguardo pesante dalla schiena. Alza il braccio con rabbia, gli sbatte in faccia il pezzo di carta, ora sgualcito e sudato. Allontana gli occhi da lui, li detesta, i suoi occhi e il suo sguardo, anche se un po’ più ammorbidito. Sente la carta scivolarle via dalle dita. Alza lentamente gli occhi, lo vede leggere con interesse. Le sue ciglia restano ancora immobili, ritorna il cavaliere senza sentimento e senza voce. Bielorussia si compiace. Adora quell’espressione. Allunga il sorriso come una strega.

“E’ inutile distruggerla: tanto ne scriverò un’altra e mio fratello ti verrà comunque a prendere” dice, soddisfatta delle sue parole. Lituania pare ignorarla, o comunque ascolta a metà la minaccia immatura. Smette di leggere, ma le risponde con lo sguardo ancora fermo sul pezzo di lettera.

“Hai capito male. Non ho mai detto di voler restare in Polonia” Bielorussia sobbalza, il suo sorriso crudele sbiadisce “E non hai compreso un altro particolare…” il sorriso le cade completamente: vede le dita del lituano afferrare i lati della carta. Sente il foglio stracciarsi in due, in quattro, in tanti piccoli pezzettini mingherlini. Guarda i resti della lettera con stupore, ma non con sorpresa. Immaginava che l’avrebbe fatto, ma non credeva che potesse farlo per davvero. Lituania si avvicina ad un bidone, abbandonato lì come una lattina schiacciata, e ci butta dentro, indifferente, i resti del foglio “…Polonia si sveglierà, appena arrivati a Varsavia” si scrolla le dita dei pezzettini rimasti attaccati tra le dita. Alza gli occhi, la guarda con un sentimento che lei non riconosce “E’ la pura verità”.

“E chi te lo dice, idiota?” sospira “Senti, quell’imbecille è morto anni fa e rimarrà morto per sempre” lo vede afferrare il pesante baule ed incominciare ad incamminarsi. Bielorussia sbuffa ancora, si sente arrabbiata senza alcun motivo. Il ragazzo non si volta nemmeno “Lituania, ti stai solo prendendo per il culo!” non la ascolta, non ha nemmeno preso in considerazione le sue parole. Non aspetta che lei lo segua.

Lituania guarda la città grigia e buia in lontananza e la vede macchiata d’oro e marmi.

 

 

 

 

 

Prussia guarda il gruppetto di bambini a righe come un pastore guarda tristemente il suo gregge morente durante una camminata tra la neve e i rovi nascosti.

Polonia guarda il gruppetto di bambini sopravvissuti alla tortura dei tedeschi come un caporale guarda i suoi futuri cadetti, chi pieni di sonno, chi già esausto, senza nemmeno aver iniziato la futura marcia.

Prussia non aveva aperto bocca quando gli altri due suoi soldati, scampati alle bombe e agli aerei, rigidi fino all’ultima goccia di sangue, avevano indicato lontano, tra la neve e le colline cineree in lontananza, discutendo di come liberarsi degli ultimi superstiti di quello che doveva essere il loro trionfo. Non aveva alzato gli occhi per un istante nemmeno quando discutevano su dove trovare altre munizioni e su come scavare abbastanza buche per quelli che per Prussia erano meno che ragazzini. Non è abituato a tutto questo, nonostante ciò che ha già visto. Però aveva voltato la testa pian piano verso terra e aveva visto gli zoccoli di legno di Polonia e i pantaloni della sua divisa. Era come un fantasma: gli era scivolato alle spalle, invisibile. Aveva la pelle quasi trasparente e gli occhiacci di un verde smorto e limpido. Aveva voltato il collo di poco, pochissimo, tuttavia aveva visto il suo sguardo penetrante.

Polonia guardava i due soldati come un boia guarda con superiorità e disgusto i bastardi a cui dovrà dare il fatidico colpo.

Prussia si era lasciato trasportare da quell’espressione e aveva visto fuoco acceso d’Inferno. Un soldato l’aveva richiamato e aveva dimenticato la sensazione di gelo lungo le sue ossa. La marcia della morte non è ancora iniziata e ha già il cuore pesante. Non ha ancora imparato l’indifferenza a tutto questo. Sente polacco dietro le sue spalle. Si volta, desiderando qualsiasi altra chiacchiera. Vede ancora Polonia, con le spalle rivolte a sé. Capisce poco. Lo vede gesticolare con fermezza e vitalità. Odia il polacco e ha imparato della lingua ben meno di tre parole. Ascolta, cercando di immaginare.

Polonia sembra farsi capire dai piccoli e dai più grandi. Gesticola come un italiano forsennato. Volta piano la testa e il busto e indica in lontananza. Tutte quelle teste, Prussia ne conta con fatica una trentina, si volgono, attratti dal dito come tanti pulcini al cibo. Anche lui stesso si volta, interessato dalla lingua incomprensibile. La lingua cambia. Russo. D’istinto fa stridere i denti, infastidito. Capisce anche meno. Ripete le stesse parole e indica lo stesso punto. I bambini capiscono. Sente tedesco. Comprende. Ascolta poco. Ripete ancora una volta le stesse parole e indica sempre nello stesso punto.

“…faremo una lunga camminata, forse non potremo nemmeno fermarci per un po’. Per questo voglio che siate tutti dietro di me e che non perdiate il passo. Vi cercherete un amico e vi prenderete per mano. Poi mi seguite tutti, va bene?” i bambini, quelli che comprendono, perdono la stanchezza nei loro occhi. Si guardano fra di loro, come sperduti. Alcuni si alzano le mani e guardano le cinque dita come se non le avessero mai viste prima d’ora. Osservano di sottecchi i loro compagni, quelli senza la loro lingua. Non sembrano capire molto. Un ragazzino, con lo sguardo un po’ più sveglio e le ginocchia sdrucciolevoli, incrina gli occhi verso Polonia.

“E come lo vediamo un tappo come te?” i più piccoli lo guardano, chi comprendendo, chi no. Nessuno ride, non era divertente e non voleva essere divertente. I bambini hanno dimenticato la risata. Polonia guarda in mezzo ai piccoli e ai più grandicelli. Non sfiora nemmeno con lo sguardo quello che l’ha insultato. Volta tutto il corpo, ignora Prussia e i soldati e guarda i rami degli alberi, caduti nella neve. Ne adocchia uno, snello e alto, senza rametti o foglioline. Lo afferra e ritorna al gruppetto. Poggia a terra il legno così come si poggia a terra un’asta. Prussia ricorda di averglielo mostrato e sbatte le palpebre, non avendo sentimenti a riguardo. Il lungo ramo scuro si erge tra tutti i piccoli a righe.

“Così mi vedete” il ragazzino che l’aveva apostrofato non apre bocca e ritorna a nascondersi nella crocchia. I soldati alle sue spalle urlano in tedesco. Prussia sobbalza, non riconoscendo nemmeno la sua stessa lingua. Quelli si voltano e incominciano ad incamminarsi. Sanno già dove andare. Prussia deglutisce e, con la coda tra le gambe, incomincia il cammino anche lui. I bambini trovano un compagno e si tengono per mano, senza conoscere nemmeno la Nazione dell’altro. Polonia è a capo del gruppo, con la schiena dritta.

Marsh!” e Prussia dimentica ogni cosa che vede, in questa marcia senza onore. Tanto non c’è altro che neve e nuvole grigie…

Un sobbalzo di uno dei due soldati lo risveglia dal sonno della sua coscienza. Alza lo sguardo e vede una fattoria e un campo di grano ormai marcio, trascurato dalla mietitura. I due osservano la mappa e annuiscono. Era qui che volevano andare. Prussia si ricorda di Polonia. Il gruppetto di bambini si tiene davvero per mano e tutti procedono in fila dietro al polacco, come un capo banda di una parata. La fila sembra ingrandita, per la lunga coda di piccini. Polonia tiene stretto il ramo. A Prussia ricorda una chioccia in mezzo ai suoi pulcini e a quelli di altre galline. Sorride debolmente, in un'altra situazione avrebbe riso. I due soldati fanno segno di proseguire. Devono andare in quella casa. Scavalcano il recinto ed incitano i bambini di fare lo stesso. Tutti entrano nella fattoria.

I piccoli vengono lasciati fuori con Polonia e uno dei due tedeschi. Prussia entra per primo, il compagno spalanca le finestre del soggiorno e della cucina. Le stanze sono piccole e umili nelle case di campagna polacche. Il legno del pavimento scricchiola ad ogni passo di cuoio. Prussia e il soldato guardano in alto, coi fucili in mano. Rimangono in silenzio, senza vere parole. L’uomo appeso al soffitto è stato di sicuro costretto a legarsi la corda al collo, immagina senza sforzo. Guarda le mani legate del poveraccio. Non incrocia i suoi occhi con quelli del morto: la sua coscienza si dimenerebbe ancora dentro di sé. Il soldato sa quello che deve fare. Trova una sedia e slega il morto dal suo posto: cade a terra come un sacco di patate e fa il medesimo suono sul legno marcio.

Il secondo soldato sbircia dentro, avendo sentito il rumore. I due ignorano Prussia, come si lascia in disparte un’ombra senza voce. Discutono, decidono di buttare il corpo in cantina. Tanto nessuno si sarebbe accorto della sua assenza. I due sono freddi e senza emozioni: presto la casa sarebbe diventata cenere, insieme al povero impiccato e ai bambini. Nessuno avrebbe saputo niente, in qualsiasi modo sarebbe finita la guerra.

Prussia li ascolta con la medesima emotività. Scruta fuori dalle finestre Polonia, ancor più gesticolante di prima, di nuovo circondato da piccini. Uno di loro sembra interessare il ragazzo. Polonia si china e lo tiene stretto a sé. Il comandante alza gli occhi alla scena. Polonia poggia una mano sulla testa del piccolo piagnucolante, più ossa che carne. Gli carezza la testa senza capelli. Gli altri piccolini guardano con trasporto la scena. Non sanno nemmeno loro se vorrebbero lo stesso.

Prussia ha un lampo, un ricordo veloce. Ricorda Ungheria e come stringeva al seno il piccolo Italia, quand’era bambino e lei era solo una ragazza. Qualcosa si muove dentro di lui e non sa nemmeno come chiamarlo, questo sentimento di gioia e tristezza.

 

 

 

 

 

Russia guarda dalla finestra del suo ufficio. Non c’è niente da fare e l’aria calda dell’estate non lo conforta.

Estonia è in biblioteca a leggere, poco fa l’ha aiutato a riordinare gli ultimi documenti. La Polonia chiede di ritornare viva come un tempo, dalle ceneri della guerra e dal sangue dei tedeschi. Aveva guardato quel foglio stampato come si guarda un banale foglio bianco. Non l’ha ancora firmato. Non sa cosa pensare.

Lettonia è con sua sorella. È guarita in fretta, come ci si aspettava. Non le duole più la testa, almeno così immagina. Lettonia le sta sempre dietro, come un cucciolo sta dietro l’ombra della madre. Ad Ucraina sembra piacere tutto questo. La sta trascurando molto, sua sorella. In verità… non ricorda bene quand’è stata l’ultima volta in cui le ha veramente parlato. Non ne è certo. Ultimamente sta trascurando molti, in quella casa. Ultimamente sta trascurando anche se stesso.

Dalla finestra vede il giardino ombroso, quello che non dovrebbe nemmeno esistere e avere un significato. La lapide, alla fine, l’ha staccata dalla terra e portata nella sua vecchia casa. C’è ancora l’orma del buco che aveva scavato. Le rose sono appassite, sono meno che grani di cenere. Non sa bene il perché, ma l’altro giorno è riuscito a tornare in quell’angolino di terra. Aveva incominciato a fissare il fosso come se ci fosse ancora un cadavere, lì dentro. Non ricorda quanto tempo ha lasciato alle spalle.

Aveva schiacciato le rose. Una ad una. Non ne era rimasta più nessuna. Aveva riempito il suolo di sangue rosso e bianco.

Guarda ancora dalla finestra. Poggiate lì, ancora vive, ci sono quelle due rose. La bianca cresce affiancata alla rossa, la rossa si appoggia dolcemente alla bianca. Vivono ancora, in qualche modo si sostengono insieme. È da molto che Russia non vedeva due steli intrecciati, di rose. Tra le carcasse delle altre sorelle, i due fiori sembrano rinati dalla cenere. Si mostrano con colori sgargianti e piccole perle d’acqua. Vivono insieme, bevono dallo stesso stelo e si abbracciano, senza spine.

Russia immagina che il destino voglia Lituania insieme a Polonia e Polonia rinato debba restare al fianco di Lituania. Sembra che nulla possa strappargli dall’abbraccio altrui. Russia si addolora: voleva anche lui far parte del destino di Lituania. Immagina che anche Estonia e Lettonia l’abbiano desiderato tanto. Il destino vuole solo loro due, nello stesso cerchio di vita. Russia se n’era reso conto anni fa, quando la guerra era giunta anche nelle terre lituane e Germania pretendeva la vita dei suoi ragazzi.

Era ritornato dalle trattative fallimentari. Aveva i capelli gremiti di sudore, il cappotto sgualcito. Sua sorella non l’aveva seguito. Col cuore gonfio di vergogna era tornato a casa. Gli aveva aperto Estonia. Tremava. Lituania non si sveglia. Aveva perso un battito nel petto.

 

La tempia del ragazzo sembra gonfia. L’aveva fatto notare ad Estonia. Aveva trovato il fratello a terra. Doveva aver battuto la testa. Aveva immaginato che fosse inciampato e svenuto. Dopo minuti e minuti, si era reso conto delle guance rosseggianti e della fronte bollente. L’aveva portato nella loro stanza, l’aveva spogliato ed infilato sotto le coperte. Non si svegliava, non gli rispondeva. Sembrava accennare talvolta, sussultava se qualcuno lo sfiorava, anche per errore. Più di questo nulla. Estonia se n’era andato tossendo. Aveva ignorato anche lui.

Trascinata la sedia, vi ci siede. Questa scricchiola sotto al suo peso, non ci bada. Si sfila per la prima volta i guanti. Solo ora si accorge di non esserseli tolti. Si alza, li poggia sulla scrivania. Si siede una seconda volta, i suoi piedi non hanno controllo. Fa troppo rumore, gli sussurra una parte del suo cervello. Dimentica di ascoltarla. La mano è imbizzarrita: con uno scatto sfiora la fronte di Lituania. Brucia. Deglutisce, si calma di poco. Questa stanza è fredda e buia. Si sente schiacciare dalle pareti. Il ragazzo fa un respiro più profondo dei precedenti. Russia lo osserva, pieno di aspettative. Guarda i suoi occhi, li vede pian piano aprirsi. Sono carichi di sonno e malattia. Russia si quieta del tutto, d’istinto sorride. Lituania lo osserva, si sforza di scrutare nell’oscurità. Lo guarda con una sfumatura debole di incredulità.

“C-Cosa fai qui…?” sente con fatica, in quel silenzio ovattato e con la sua gola in fiamme “Come sei arrivato…?”

“Con il treno, Lituania” lo interrompe, con una tonalità involontariamente ironica nella voce “Ero preoccupato per te. Sono corso il prima possibile” Lituania lo guarda ora con velata confusione. Russia smorza il sorriso. Probabilmente non riesce ad udirlo o forse non comprende l’ironia. Guarda il ragazzo, come mortificato “Scusami…” Lituania ha occhi rossicci, vede a malapena il celeste dei suoi occhi. Le ciglia, pesanti, tentano di alzarsi ancora un po’. Abbozza un sorriso sincero. I capelli sono intrisi di sudore e umidità. Russia lo contempla: sembra una sincera felicità di un bambino. Ingoia una risata “Cosa c’è?”

“Sai che ho fatto un sogno? C’eri anche tu” gli muore il sorriso, rimane perplesso. Ha pronunciato queste parole come se sia per iniziare una chiacchierata tra amici. Russia si sente inopportuno, non riesce a crede che gli stia parlando in questo modo. Riflette un attimo, gli ritorna in mente ciò che ha detto. Si sente ingenuamente felice.

“Davvero?” Lituania annuisce con lentezza. Lo guarda ancora come un amico. Ora pare lui inopportuno. Russia non capisce, ma vuole ingannarsi “Che cosa hai sognato?”

Sembra tutto così irreale…

Lituania prende un respiro profondo e ricorda.

“C’eri tu, io e il sole. E i campi di grano” racconta, felice, immaginando sotto le palpebre chiuse “C’era l’estate e il raccolto doveva essere falciato. Mi mettevo d’impegno a raccogliere le spighe. Tu no, volevi dormire e stare sotto al sole. Mi ero arrabbiato con te, ti avevo detto di muoverti o si sarebbero arrabbiati con noi. Tu non ne volevi sapere, eri proprio un pigrone…” Russia lo ascolta e non capisce. Lituania continua a raccontare, come un vecchio ricordo “Mi ero arrabbiato ancor di più con te. Ti avevo sgridato, ma tu non mi davi retta. Allora ho buttato a terra il mio lavoro e ti avevo preso per le spalle ‘Senti’ ti ho detto ‘se non la finisci di fare il bambino, io non ti insegnerò più ad andare a cavallo’. Tu ti sei rianimato e mi sei scappato dalle braccia. Ti sei rimesso in piedi e hai falciato tutto il campo da solo” Russia lo guarda con ancora più confusione “Io ti ho guardato soddisfatto e ho detto ‘Hey, ti insegno a comunque cavalcare, non aver paura!’. Hai smesso di lavorare e ti sei rincuorato. Avevi avuto così tanta paura che hai mietuto tutto un campo di grano!”

Russia vede sotto le labbra i denti lucidi di Lituania. Ha il cuore pesante, immagina un’orribile realtà che il ragazzo vede dentro la sua carne. Si rende conto di aver finito il racconto. Deglutisce, tira su un sorriso infelice. Lituania non apre più bocca, non pare nemmeno respirare. Russia immagina che si sia addormentato. Immagina di essere una banale figura di carta, nell’angolo di questa stanza. Si alza, la sedia questa volta non scricchiola. Felino, nonostante la grandezza del suo corpo, afferra i guanti e imbocca la porta.

“Aspetta” si arresta la mano, che per poco avrebbe girato la maniglia “Resta ancora qui, mi fai un po’ di compagnia” chiede gentilmente. Una vocina così minuta non la sente da mesi dalla sua bocca. Russia dimentica la maniglia e ritorna lentamente alla sedia. Il suo cuore pare volare per la stanza. Si sente leggero e felice, nonostante l’angoscia di questo momento. Lituania lo osserva rapito, capisce che rimarrà lì. Il groviglio di lenzuola si scosta. La sua mano smagrita esce dalle coperte e si alza con fatica verso di lui “Tu non te ne vai più, vero?”

Russia d’istinto l’afferra. La sua mano inghiotte la piccola del moretto. Si commuove.

“No, non me ne vado più” Lituania guarda con allegra confusione la sua mano inghiottita in quella del gigante. Allunga il sorriso, chiude le palpebre. La febbre lo investe e gli fa gli occhi rossicci e stanchi.

“Che mano grande… sei proprio cresciuto molto, Polonia…”

Si addormenta e a Russia cade il cuore, che fino ad ora non faceva altro che volare per tutta la stanza buia.

 

“Signore, c’è una lettera da sua sorella” dice Estonia, aperta la porta. Russia si sposta dalla finestra e lo accoglie nell’ufficio. Il ragazzo gli lascia la lettera nelle sue mani. Russia osserva con indifferenza la firma, con il ricordo ancora in mente. Il ragazzo attende ordini. La lettera viene letta con altrettanta indifferenza. Bielorussia non ha cambiato nemmeno una parola nella carta, forse esagerando ancor di più i fatti. Le conclusioni sono le medesime, così come sono medesime le sue richieste. Lo vuole a Varsavia, per tornare a casa e per far tornare a casa il ragazzo e il morto. Estonia continua ad attendere. Russia non sospira, non si affretta nemmeno. Il destino è un avversario divino e lui è solo una misera creatura di Dio, anche se potente. Non può strappare un’altra creatura dai desideri del fato. Firma la carta polacca, di fronte agli occhi di Estonia. Fa una pessima firma, ma gliela consegna ugualmente.

“Inviala a Varsavia, sapranno cosa farne” Estonia si aggiusta gli occhiali sul naso e afferra con una mano tremante la carta. Osserva di sbieco la firma, con fatica capisce di cosa si tratti.

“Sì, signore… e la lettera di sua sorella?” Russia non ha bisogno di guardarla, né di riflettere. Poggia fra le mani del ragazzo anche quella.

“Buttala, non è niente che ci riguardi” si volta, scuro in volto e di voce, come un tempo. Non attende nemmeno che Estonia se ne esca dalla stanza. Si appoggia di nuovo alla finestra e lì rimane. Il ragazzo capisce di essere stato congedato e scivola fino alla porta, silenzioso come un gatto.

Con la porta chiusa alle sue spalle, Russia guarda il giardino ombroso e le due rose, gemelle dello stesso stelo, poggiate sulla tomba di quella carcassa di Polonia. Porta ai denti la carne della cicatrice riaperta sul pollice. Morde quel pezzo di carne. Non dovrebbe farlo, diventerà una cattiva abitudine. Malgrado ciò pensa solo di aver perso e di aver avuto finora un nemico ben più grande di lui. Non Polonia. Non Lituania stesso. Il destino gli era rivale e pretendeva che il suo andamento continuasse senza impigli, come lui. Morde troppo in profondità: una lacrima di sangue taglia in due la mano. Russia morde con più forza. Non accetterà mai un fallimento così doloroso.

La goccia di sangue cade dalla sua carne e s’infrange sul legno chiaro. Presto avrà altre sorelle con cui sdraiarsi al sole.

 

 

 

 

 

Prussia non aveva fatto altro che fissare il soffitto sopra la sua testa. I due soldati non avevano fatto altro che dormire.

La notte non terminava e non era nemmeno certo che fossero passate più di due ore. Aveva sentito russare nelle stanze affianco a lui. Che schifo, aveva pensato, con la gola attorcigliata. Aveva annusato l’aria dalla sua finestra e aveva adocchiato la stalla. Loro, soldati del Reich, dormono nelle stanze di una famiglia ammazzata, loro, bambini, con più ossa che carne, dormono tra il fieno e la neve. Trova rivoltante anche questo. Aveva sentito odore di patate e sale, dalla stalla. Aveva visto una carica scia di fumo nell’oscurità. Era sceso dalle scale, senza far rumore, senza alcun pensiero, e aveva seguito l’odore quasi piccante. Aveva trovato un banchetto di patate, nascoste sotto al fieno, zucchero e pepe. L’aria era frizzante. I bambini parlavano, sussurravano in tante lingue. Nessuno l’aveva notato. Polonia l’aveva osservato come un gatto bisbetico osserva un cane addormentato. Non aveva voglia di fare il cattivo. Si era seduto nel fieno e non si era mosso più da lì.

I bambini hanno le pance piene, dopo chissà quanto tempo, e dormono accasciati l’uno all’altro. Sembrano tanti sacchi di ombre, buttati nel fondo della stalla. La pentolaccia di stagno smette di dare fuoco alla sua bocca. Si spegne la fiamma sotto la legna. Ora è buio e c’è silenzio. L’odore di patate dà a Prussia un ricordo e un rimpianto. Gli viene voglia di mangiare, ma non ha cuore per chiedere un piatto. Immagina che non abbia il diritto di stare qui, allora lo stomaco si mette il cuore in pace. Polonia è sveglio, lo sente respirare non lontano da sé. Non ha smesso di guardarlo. Prussia osserva i pezzi di legno sotto la pentolaccia, con ancora qualche gramo di fuoco attaccato. Stanno per spegnersi del tutto. Prussia si guarda le mani e non vuole fare altro. Le patate gli ricordano suo fratello, quand’era bambino ed innocente, quando ancora non poteva tenere in braccio un fucile. Lo zucchero gli ricorda Ungheria e come la sua gonna ballava col vento e Italia l’aiutava a spazzare le scale. Il pepe gli ricorda Austria e come da bambini era tutt’altro che quello che è ora. Prussia scuote la testa, sa che l’altro lo sta ancora osservando e valutando.  

“Austria da piccolo era diverso” dice dal nulla. Vede un movimento veloce con la coda dell’occhio. Polonia è colpito dal silenzio spezzato. Non dice una parola. Prussia si stringe i pollici tra le altre dita “Era uno scricciolo senza spina dorsale e aveva i capelli arruffati. Quel maledetto ciuffo non si vedeva quasi per niente in quella zazzera nera” deglutisce, c’è ancora silenzio. Polonia non si muove. Prussia sospira “Ad un certo punto si era deciso di essere forte. Non ne capiva di spade e nemmeno di campi di battaglia. Era negato, ma fino al midollo. Quella volta mi aveva chiesto anche aiuto” Polonia è immobile, la stalla è ferma. Lo ascolta con pazienza “Ma non c’era verso. Avevamo provato di tutto, ma non era proprio il suo mestiere. Non gli entrava in testa che quando tiri con l’arco devi

inclinarlo un po’ per dare equilibrio alla freccia” sospira “Non so perché io abbia deciso di dargli una mano…” forse perché volevo essere suo amico…

Una mano ossuta gli si presenta tra le ginocchia. La pelle è appiattita sulle ossa senza carne, le unghie sono state morse. Prussia segue le vene sporgenti. Polonia lo guarda senza espressione e senza voce. Ripercorre di nuovo il braccio. Regge un bicchiere, come tanti altri bicchieri che i bambini avevano tra le dita. Le patate non sono più calde e lo zucchero e il pepe sembrano più grami di terra. Prussia prende in mano il cibo offerto. Lo osserva, poi osserva Polonia, immutabile come una statua greca. Lo guarda negli occhi, Prussia non osa e inclina lo sguardo. Gli scuote la testa, non sa nemmeno lui cosa provi.

“Sei come Austria” dice, poggiando il bicchiere sulla paglia “non capisci mai niente” si alza, senza voltarsi, senza far rumore. Se ne va.

Polonia lo segue con lo sguardo. Lo segue con i piedi.

Prussia si sente stanco, il cuore gli pesa come tonnellate di acciaio. Butta il fucile sul divano. Non lo vuole più vedere. Lo lascia lì. Non vuole fare la donna e pensare troppo a cose orribili. Crollerebbe, se lo farebbe. Urlerebbe se ricordasse che il mattino dopo avrebbe dovuto bruciare quei bambini. Bestemmierebbe se immaginasse di dover impiccare Polonia e lasciarlo legato all’albero, mentre i due suoi compagni brindano di questa piccola vittoria. Però riderebbe, se sapesse che la stessa fine spetterebbe a loro. Sarebbe divertente, vedere quei due maiali morire prima di aver toccato il fucile. Sarebbe interessante sapere di essere stati traditi dalla loro stessa Nazione. Sarebbe… spassoso. Un po’ più leggero di prima, sale le scale e si butta sul letto. Il mattino dopo avrebbe tolto la sicura al suo fucile.

Polonia lo ha seguito, silenzioso come un fantasma. Senza alcun tormento o rimorso, entra in casa. Come un gatto, vede nell’ombra, ormai abituato a vivere come un ratto. Vede una coperta sul divano. Immagina che possa servire anche quella. Se la tira in spalla, scopre ciò che nascondeva: il fucile di Prussia. Lo osserva, con vivo interesse. Tende la mano sul metallo ghiacciato e se lo tira sulla seconda spalla. Non pensa nemmeno, esce subito di casa. Nella stalla butta la coperta sul ramo appuntito che aveva trovato quella mattina. Non ricorda nemmeno perché se l’abbia portato dietro. Esce dal buio e dai sospiri notturni dei bambini. Alza il fucile, bianco per i raggi di luna. Lo apre. Ha proiettili. È carico. Lo richiude.

Alza gli occhi in alto, verso i campi di grano bagnati di neve e letti di luna. Lo sguardo diventa scuro, gli occhi bruciano fuoco maledetto, come se lì, lontano, fra le colline, ci sia il suo reale nemico e non in quella casa, tra quelle assi marce.

Polonia respira, le sue guance riprendono il rosso della vita. Fa scattare la sicura.

 

 

 

 

 

Varsavia aveva il cielo sereno, senza nemmeno una nuvola. I suoi palazzi erano crepati e i vetri sporchi. Le strade si frantumavano sotto i piedi di Lituania e qualche piantina cresceva indispettita tra le crepe del calcestruzzo. Aveva visto la gente passeggiare allegramente con le loro famiglie, le donne coi loro bambini e gli uomini con le loro mogli e i loro figli. I ragazzini calciavano il pallone per le strade senza macchine e un gruppo di giovani donne leggevano sotto i rami degli alberi. Lituania si siede sulla panchina e finalmente, dopo tante ore di viaggio, tira un respiro di sollievo.

Lascia il baule con Polonia lontano dalla sua mano. Si stiracchia le dita, che schioccano come ossa spezzate. Ha trascinato Polska fino a questa collinetta, in questo parco senza vita. La panchina pare avere più ruggine di quanto ne abbia un ferro ossidato. Ormai non ha più nemmeno un briciolo del suo vecchio colore, Lituania non potrebbe dire come sia stata in passato. L’albero che copre loro due è sopravvissuto alla guerra. L’ombra e il fruscio delle sue foglie sono piacevoli. Lituania si stiracchia la schiena e lascia i suoi capelli scivolare lungo le spalle. Si sente bene.

Apre il baule. Polska non ha cambiato posizione per tutto il viaggio. Ha bagnato il corpo d’acqua e ora sembra ben più che un cadavere putrefatto. La pelle è ugualmente incolore, ma c’è molta più carne di quanta ne aveva il corpo prima di iniziare il viaggio. Fa uscire con cautela il busto e poi le gambe che, leggere, si aprono sulla panchina. I piedi sporgono un po’. Lituania sorride ingenuamente e poggia la testa dell’amico sulle sue ginocchia. La folla di polacchi aumenta sempre più per le strade.

“…dopo la Grande Guerra, finalmente potremo avere la nazione che noi, popolo polacco, abbiamo chiesto per anni…” mormora una voce in lontananza, da qualche altoparlante per strada. Lituania sospira ancora, con la gola attorcigliata attorno ai polmoni. Respira con fatica. Il sole cala in lontananza, dietro ai palazzi accartocciati e quei pochi che stanno per essere ricostruiti. La città vuole rivivere di nuovo. Lituania guarda Polonia, che pare più dormiente che morto. Si chiede con ironia quando potrebbe smettere di fare il pigro e svegliarsi. Sorride con più maturità. Respira profondamente. È pieno di commozione.

“…presto avremo conferma dalle Nazioni dell’Unione Sovietica e dalla Germania Est sugli accordi stipulati…” non lo sente quasi più. La folla in strada è diventata immensa. Non vede altro che il tramonto scomparire per davvero oltre l’orizzonte. Il cielo da arancione diventa pian piano blu e nero. Vede le prime stelle puntellare il cielo. La stella della sera è un puntino insignificante adesso. Gli sembra che la testa e il corpo di Polonia brucino di fuoco adesso. Ha occhi lucidi.

“…gran parte del blocco orientale ha dato già conferma alla formazione di una nuova Polonia…

Che idioti, pensa Bielorussia, che ha ascoltato finora, senza aprir bocca, tra le ombre delle foglie, il discorso. Lituania aveva creduto che non l’avrebbe seguito e tutt’ora crede che sia ancora lontana chilometri da Varsavia. Il ragazzo è tuttora seduto in panchina, coi capelli spruzzati di arancione. Bielorussia regge fra tre dita il coltello a serramanico. Alza ancora gli occhi e guarda la schiena di Lituania con disprezzo. Colui che sta facendo soffrire suo fratello siede in un parco, acciambellato di fronte al sole, con le ginocchia pregne di qualcosa che non avverrà mai. Bielorussia si sente ancor più insultata. Sente che Russia sia stato ancor più umiliato. Lentamente si avvicina alla schiena ora scura di Lituania e alza il coltello, di cui una luce lo sfiora e lo illumina sulla sua testa.

Urlo di gioia tra le strade. È arrivata una lettera.

“Biela” Bielorussia, col braccio ancora alzato, rimane bloccata come una statua di sale “metti giù il coltello” si scuote di nuovo, alza più in alto la lama bianca. Lituania si volta con lentezza. La ragazza deglutisce, i suoi occhi si fanno accesi come lampi: viene di nuovo colpita dagli occhi azzurri di Lituania. Rimane ancora paralizzata: vista la lama, Lituania sembra essersi fatto lupo. Nascondendo il tremore e l’indignazione, digrigna i denti.

“Ti stai prendendo in giro, Lituania e tu lo sai!” dice, reggendo l’arma con sicurezza “E stai prendendo in giro anche mio fratello!” urla, questa volta, con molta più rabbia, credendo in ogni parola che ha pronunciato. Si sforza di guardare negli occhi il suo avversario. Lituania abbandona Polonia e si alza in piedi. Bielorussia abbassa il coltello, ma rimane ugualmente in allerta: qualcosa in Lituania la turba “Tu ora vieni con me e ce ne torniamo a casa!”

“Tu non mi ordini niente qui” dice con molta più certezza di quanto abbia detto lei. Questo la disturba ancor di più. Un nervo le si scopre sulla sua tempia e incomincia a pulsare. Lituania pare feroce e controllato allo stesso tempo. La fulmina con gli occhi e non spezza il contatto tra di loro. Lei si sente frustrata. Alza il coltello e ruggisce al vento.

“Oh, fanculo!” 

Ma non lo colpisce, così come non lo colpisce la seconda volta e la terza. La quarta. E la quinta. Lituania la spinge e si scansa. Non le ruba il coltello. Non la affronta. Bielorussia si carica di odio. Ricorda il fratello seduto sulle scale di casa, ignorante del mondo attorno a sé, solo concentrato sulla ricerca di questo ragazzo ingrato. In un attimo diventa ira. Ruggisce di nuovo. Non lo colpisce, si scansa in tempo. Respira con affanno, con le mani imbrigliate nella lama, ora scura per il tramonto andato. Non vede quasi nulla di fronte a sé, Lituania è solo un ombra immobile e irrisoria. Digrigna i denti, quasi come se li volesse spezzare tra loro.

“Ma che cazzo stai facendo?!”

“Aspetto”

“Cosa?”

E’ arrivata!” urla l’altoparlante, come se non ci credesse nemmeno lui “L’Unione Sovietica ha accettato! La Repubblica Popolare Polacca è una vera Nazione!”

E grida di mille e mille voci. Bielorussia non riesce a credere alle sue orecchie. Si fa pallida come la pancia di un pesce. Guarda l’ombra di fronte a sé come se fosse la sola cosa veramente importante ora. Lituania respira aria, dolore e liberazione. Non ci fosse la luce, probabilmente vedrebbe un sorriso e lacrime di felicità.

Rimane lì, ferma, immobile come gesso. Il mondo le gira attorno, il terreno le pare affatto sicuro sotto i suoi piedi. vede solo Lituania cadere con le ginocchia a terra, dove sulla panchina è disteso quello che lei credeva e sperava che fosse un morto.

 

 

 

 

 

Non aveva sbagliato un colpo.

Non aveva agito come un bambino, ma come un uomo. Non era corso come un pazzo e non aveva urlato quando i due soldati erano stramazzati sulle coperte di lana, nemmeno quando si erano girati e rigirati nel loro pantano. Aveva ricaricato di nuovo il fucile e le uniche vere voci infantili che sentiva erano quelle dei bambini nella stalla, spaventati da tanti spari e sangue che macchiava le finestre. Aveva ricaricato una terza volta il fucile e aveva colpito il petto di Prussia.

Le grida fuori sono più che disperate. Qualche ragazzino, più adulto, urla di scappare. Ogni piccino, chi con le gambe lunghe, chi corte, segue un solo nuovo capo e svaniscono dalla vista e dai pensieri di Polonia. Prussia è rotolato giù per le scale e si accascia a terra, su vera terra. Non vi sono più urla. Il fucile ha ancora due colpi nel caricatore. Polonia vede più sangue che il nero della sua divisa, che ha infangato anche la sua di divisa a righe. Polonia lo osserva senza rancore e senza gioia. Prussia sputa un grumo di sangue. Alza lo sguardo sulle righe nere di Polonia, imbrattate di fango e neve. Vorrebbe rosso su di lui. Ringhia dal profondo della sua gola.

“Ma non capisci?” sputa una seconda volta “Tutto quello che fai non servirà a niente! È tutto inutile. Tutto questo non è mai accaduto e non accadrà mai!” lo fulmina crudelmente coi suoi occhi, sperando in una reazione dall’altro “Quei bambini sono morti e non puoi fare niente per impedirlo!” Polonia sembra guardare attraverso il corpo che lui stesso ha martoriato. Non ha agito con odio. Sente un alito di vento sulle sue guance. Questa brezza è completamente innaturale: non dovrebbe essere calda, in mezzo alla gelida neve. Allunga lo sguardo dove batte il venticello “Che fai, nano!?”

Il fucile gli scivola dalle mani e cozza col terreno. Afferra quel che scorge lì affianco: il bastone e la coperta che ha racimolato. Li guarda con smarrimento. Prussia non accetta di essere ignorato dal demonietto che gli ha appena sparato a morte.

“Io… ti ucciderò” sghignazza con vergogna. Polonia alza gli occhi su di lui. Non ha reazione, come se quel pantano non lo avesse creato lui stesso “Io ho ucciso tutti voi e vi ucciderò ancora!” Polonia osserva i due oggetti che ha in mano e gli risultano più che familiari “Nessuno si chiamerà polacco, perché non esisterà nessuna Polonia…” Polonia esamina il bastone affilato e inizia a strusciarci sopra le unghie. Rivela argento vivo. Non è un bastone: è una lancia “Tu rimarrai con me per sempre… Ci faremo guerra tutti i giorni e io vincerò sempre! Non puoi andare via se non qui!” ride, come se avesse realmente vinto. Polonia riconosce la coperta: era la stessa che scoprì con Toris, nei suoi ricordi. Questi oggetti non li ha trovati per caso, si rende conto “Sarai per sempre il perdente e sarai per sempre umiliato e sconfitto!”

Polonia gli porge la coperta. A Prussia cade il sorriso e l’ironia. La fa adagiare sul corpo spruzzante di carne viva e sangue bruno. L’uomo sente vero calore. Questa non è una coperta, ma una bandiera bianca che il suo sangue sta macchiando per metà di rosso. Polonia, per la prima volta, lo guarda negli occhi senza alcun timore. Si sente grande e forte, Prussia si sente piccolo e timido. Non riconosce il ragazzo che ha visto per secoli e secoli di lotte e tragedie. Non sa chi sia questo piccolo uomo.

“Io oggi ho vinto, Prussia”

La bandiera è macchiata del sangue di un tedesco. Polonia la ritira. La brezza invernale è completamente distrutta dal calore della bandiera e della sua asta. Il ragazzo vede dei fermagli su di essa e vi aggancia la stoffa. Questa non è mai stata una lancia, ma un’asta per bandiere. Polonia si erge alto, col braccio fermo sull’argento. Prussia guarda Polonia, Polonia guarda Prussia. È tutto finito, sussurra una voce alle loro orecchie. L’aria invernale diventa estiva, pare che la neve si scongeli, o diventi carta di pagine di libro. Si sdrucciolano gli alberi e la stalla e la casa. Si sdrucciola il terreno e ritorna il bianco. Sono tornati indietro. Polonia guarda con occhi limpidi Prussia e un’aria più infantile, ma non immatura.

“Tu non sei veramente così, Prussia, io lo so!” Prussia accoglie queste parole con un sorriso che sa di rimpianto e di consapevolezza.

Polonia ricorda diversamente Prussia. Ricorda lui e Ungheria, nel giardino di Austria, lui con la spada e lei vestita da uomo. Ricorda i battibecchi, le urla e le risate. Ricorda Prussia alla finestra, silenzioso, ad ascoltare il pianoforte di Austria. Ricorda Prussia in una guerra lontana, retto dalle sole ginocchia e dall’orgoglio di un titano, brandire la spada e mostrare lo sguardo fiero di un cavaliere senza paura. Polonia guarda ora Prussia e non vede niente di tutto ciò che ricordava. Abbassa la fronte, abbattuto, deluso, confuso.

“Perché?”

Prussia sorride e non risponde. Scuote la testa. La risposta non la sa nemmeno lui. Non perché aveva desiderato gloria e fama, non avrebbe ucciso per così poco. Non perché si sentisse schiacciato da altri, non li avrebbe trattati come servi. Non perché volesse essere il migliore al mondo, non serviva una guerra per dimostrarlo. Perché voleva il fratello felice, in un mondo dove nessuno sarebbe stato migliore di lui. Ma non solo per questo. Polonia rinuncia alla risposta, non sa se la desidera per davvero.

Prussia sa che fra poco si separeranno. La carta non muta più: è già completamente trasformata. È solo infinito bianco, con granelli di polvere gialla e rossiccia. Polonia ricorda di avere una bandiera fra le mani e ricorda che in questo luogo non credeva di ritornarci più. Sente un fischio di volatile reale. Sente un richiamo dall’alto. Polonia spalanca gli occhi, i denti dimenticano di reggersi alla mascella. Toris fa una picchiata rapida, le sue piume paiono prendere fuoco con l’aria bollente. D’istinto Polonia alza il braccio e poco dopo gli artigli minuti del suo amico si curvano sul suo osso, che di carne non ne ha più. Polonia diventa bollente, le lacrime si liberano, la gola fa fatica a riempirsi d’aria.

“Toris!” il volatile lo guarda dritto negli occhi e strabuzza le penne “Credevo di non rivederti mai più!” il falcone si scrolla ancora le pelle della coda, nere e rosse. Osserva di sbieco il polacco e il suo sorriso di gioia. I suoi occhi si fanno come offesi, ma non irosi. Apre il becco e pizzica l’orecchio di Polska. Polonia dimentica la sorpresa e sente dolore. Quasi dimenticava tutto questo. Non si arrabbia, ma ride. Gli mancava tutto questo. È sinceramente felice. Prussia vede un secondo volatile. L’aquila nera dagli occhi azzurri non l’aveva mai abbandonato. Guarda il suo allievo e lo stato in cui è ridotto. Guarda Polonia e Toris, finalmente riuniti. Pare come annuire fra sé e sé. Si trasforma, diventa ciò che è sempre stato finora. Toris smette di tirare le orecchie a Polonia e osserva di fronte a sé. Polonia, confuso, fa lo stesso.

Vede penne nere aprirsi e rivelare vestiti candidi. Incrocia i suoi occhi verdognoli con quelli cerulei dell’uomo, che fino a poco fa credeva un semplice pennuto. Friedrich II di Hohenzollern annuisce e sorride. Polonia si sente meravigliato, come se non sapesse più reggere le sue stesse spalle. Il sovrano apre la mano anziana e rugosa e rivela oro e pietruzze sconosciute. Brilla la corona che il ragazzo credeva perduta nel suo primo giorno di prigionia. Timido, capisce che è sua e, con la mano decisamente tremante, afferra la coroncina. Toris, veloce, se la porta alla testa. E’ perfetta per lui. Meravigliato, Polonia poggia la mano al cuore e fa un inchino imbarazzato. Friedrich pare ridere della sua insicurezza.

“Mi prenderò cura io di questo qui” e indica scherzosamente Prussia, senza più sangue sulla divisa, senza più alcun dolore. La carta bianca guarisce ogni cicatrice “Ragazzo, tu invece dovresti andare: questo posto non è fatto per te” sorride con le labbra congiunte. Le parole erano anche per il giovane Toris che muta ancora, così com’era mutato al suo ultimo saluto con Liet. Diventa gigantesco, le piume cambiano colore, come invecchiate o forse divenute ben più sagge dopo una lunga avventura. Polonia si ritrova sulla groppa del falcone, bianco e puro, con la coroncina dorata alla sua testa, diventata anch’ella matura e possente. Polonia pensa che la sua vita stia per cambiare una seconda volta e pensa che debba rinascere ancora in un altro luogo. Sta per rivivere di nuovo.

Toris è grande. Toris è argentato. Toris è una fenice d’argento.

Prussia si alza in piedi, senza nemmeno una macchia sulla divisa. Guarda il Vecchio e Polonia. Trattiene la voglia di urlare “Salutami West e… controlla che Gilbird stia bene e… prenditi cura di Austria e Ungheria e… anche di Ita...” gli si rompe la voce. Polonia non vede lacrime, ma le sente “Dì a Francia e a Spagna che mi dispiace… Polonia, mi dispiace…” e sorride, come se non stesse per essere lasciato lì, in quel Purgatorio, per ancora tanti anni e forse decenni.

Toris spicca il volo. Le sue ali battono leggere sul terreno, come se fatte loro stesse di carta. Alcune piume lo abbandonano e raggiungono l’alto del cielo, di un delicato color arancio e blu. Polonia guarda ancora in basso, senza vertigini, con le mani fra le piume del collo di Toris. Prussia e il suo maestro sono piccole bamboline di stoffa in lontananza. Tende il collo, gli si spezza il cuore e riempie i polmoni “Addio, Prussia!” urla.

Non vede nient’altro, le due figure scompaiono del tutto. Il cielo su cui stanno volando pare scurirsi e farsi ben più che nero. Polonia vede stelle e sente aria bollente sul cranio spellato. Toris lascia una scia di piume bianche e trasparenti, che paiono ben più luminose degli stessi corpi celesti nel firmamento. Polonia spalanca gli occhi, il cuore gli batte forte. Ricorda qualcosa che avrebbe dovuto ricordare molto tempo fa. La sua pupilla si fa piccola nel vedere il suo stesso ricordo.

 

Il cavallo inciampa nello strapiombo e lui stesso cade a terra. Ruzzola lontano dalla povera bestia, senza più gambe per sorreggerla. Si rialza, gli si fa il cuore piccolo. Vede Varsavia, città che era tutto il suo mondo, rovinata e fumante di morte. Digrigna i denti: il cavallo si agita come un ossesso. Afferra la pistola e gli spara alla testa.

Corre nelle strade scoscesi, tra gli alberi strappati dalla terra, tra i ciottoli fumanti per i bombardamenti dall’alto. Le crepe nel suo cuore si riaprono. Si sente morire soffocato dal caldo. Tutto ciò in cui credeva sta per sparire del tutto.

Un pianto in lontananza, qualcuno dev’essere tra le macerie. Polonia si sente più morto che vivo, eppure si commuove e cambia strada. La periferia di Varsavia è ugualmente annientata dalle bombe aeree. Vede quella che ricordava una scuola, un giardino senza più giochi, un bambino che trascina un braccio da sotto le macerie. Il bambino recupera il compagno ricolmo di sangue nero. Polonia sente il suo cuore spezzarsi.

Il più in salute, occhialuto e disperato, vede la sua divisa e gli supplica di aiutarlo. Polonia è pessimista e non ha voglia di sprecare altro tempo, anche se triste: morirà, dice. Il bambino non vuole credergli e lo supplica di fare qualcosa, cieco delle sue stesse ferite e delle bende che fasciano il suo petto. Polonia si commuove e rigira il corpo martoriato.

Il piccolo respira, ma non si muove. Lo sente piangere, con gli occhi ciechi e neri e i capelli ramati. Polonia d’istinto pensa alla pistola, ma non potrebbe: non ha il coraggio e nemmeno le pallottole. Il bambino con gli occhiali capisce che è ormai tutto perduto e si copre il volto con gli occhi. È colpa sua, dice, Polonia lo ignora. Stringe il bambino, vede lentiggini e pelle bianca, vede capelli biondini e spalle larghe. Gli dice che andrà tutto bene, che deve solo rilassarsi. Che non sta accadendo nulla di brutto.

Il bambino pare credergli. Respira profondamente. Non ha più sangue. Chiude del tutto gli occhi. Non li riapre più.

L’altro piange, Polonia si sente sconfitto. Non sa più cosa fare e non sa più se valga la pena andare avanti. Presto morirà, lo sa bene, ma non vuole morire nascosto come un topo. Si alza e se ne scappa.

Incontrerà Russia, alto, con la divisa stirata e lucida, ridente e vendicativo e dei due bambini non ricorderà nulla.

 

Polonia batte gli occhi, incredulo di se stesso per non essersi ricordato qualcosa di così importante. Sotto di loro, a centinaia di chilometri e miglia da terra, brilla un intero mondo e luci di città. Gli sembra di essere su di un elicottero. Toris non ha mutato espressione e non pare leggere i suoi pensieri. Polonia guarda la bandiera e l’asta che ha portato con sé. Prende un respiro profondo, si avvicina al becco del volatile “Toris, mi sono ricordato di una cosa di quand’ero ancora vivo. Vorrei raccontartela” il suo amico non accenna nulla, forse indifferente “Quando Varsavia venne bombardata, io mi recai laggiù per fermare Russia, anche se non c’era più niente da fare. Lì mi sono fermato in una scuola completamente distrutta e lì ho visto Simeon soccorrere un altro ragazzino tra le macerie. Quello era Feliks Lukasiewisz, uno dei bambini della famiglia che abbiamo visto”.

Toris non muta ancora espressione. Polonia si avvicina ancora “Toris… eri tu quel bambino. Tu ti chiami Feliks Lukasiewisz”

Il volatile spalanca i suoi occhi scuri. Anche le piume paiono sorprese o meravigliate e abbandonano tutte il corpo alato. Polonia non sente più sostegno sotto di sé e stringe con forza l’asta della bandiera. Le piume si sparpagliano nel cielo stellato. Polonia inizia a precipitare verso terra, eppure non ha paura. Toris si è ritrasformato in bambino, ma diverso da quello che ha sempre visto. I suoi capelli non sono rossicci, ma biondi, i suoi occhi non più scuri, ma chiari e limpidi. Con lentiggini e spalle larghe. Precipita dolcemente anche lui. Allunga una manina, Polonia d’istinto la afferra. È tiepida, piccina. Si sente incantato. Feliks Lukasiewisz sorride alla Nazione con la bandiera rapita dal vento.

“Grazie, Polonia, per avermi riconosciuto” dice, ridente “Mi bastava essere ricordato per tornare a casa dalla mamma e dagli zii” Polonia non potrebbe essere ancor più sorpreso di aver detto una verità “Ti sei davvero ricordato di me!” Polonia sente lacrime agli occhi.

“E come potrei dimenticarvi? Avete dato la vita per la vostra nazione. Che Dio vi benedica, voi tutti” le lacrime non scendono, ma salgono, trasportate dalla corrente calda e frizzante.

Il terreno sotto di loro si apre e diventa terra nera. Feliks pare rallentare la corsa della loro discesa. L’aria non sferza più le guance rosse di Polonia. Man a mano i piedi toccano vera terra, morbida come pan di Spagna. Le ginocchia rinsecchite giacciono sullo strato più morbido del mondo. Le stelle brillano come diamanti sulle loro teste. Feliks, leggero come un batuffolo di polvere, poggia l’asta della bandiera. Quella affonda da sé, come richiamata. Polonia rimane seduto sulle ginocchia, guardando il bambino riavere le piume e la coroncina d’oro. Polonia riconosce in lui l’aquila bianca della sua terra.

Le piume lasciano fumo e ciò che sembra cenere. La picchiata è lenta, come se il vento faticasse a portare il falcone alla Nazione. Feliks si getta su Polonia e il suo becco trafigge con lentezza il torace, sotto al collo. Si fa piccino, le piume bruciano. Polonia respira il fumo e gli ricordano le castagne ardenti. Adora questo profumo. Il falcone entra nel suo cuore. Il ragazzo non sente altro che un caldo brioso. Gli farebbe male il petto, ma il fumo lo acquieta. La sua bandiera, macchiata del sangue di Prussia, pare invece tinteggiata dal porpora del coraggio che sente ora. Non c’è la sua aquila leggendaria, eppure non ne sente la mancanza. La sua pelle incomincia a bruciare, vero fuoco divora la sua carne e beve il suo sangue. Questa sensazione è insolitamente piacevole per lui. Si lascia annientare dal fumo e dal calore, completamente inebriato e, in verità, anche stanco.

 

 

 

 

 

Apre gli occhi, come un bambino apre per la prima volta gli occhi al mondo.

Si sente debole, stanco, senza energie. Batte le palpebre, come se fosse la cosa più difficile del mondo. I rumori sono ovattati e man a mano si fanno reali alle sue orecchie. Lituania ha abbandonato Bielorussia e si sta precipitando da lui, senza sapere di trovarsi su di una panchina arrugginita.

Vede Liet e con fatica cerca di realizzare che sia tutto vero.

A Bielorussia cade il coltello dalle dita. Lo dimentica e si dirige dal rinato, con lo sguardo vuoto, la confusione e le lacrime di frustrazione. Polonia guarda Liet e lo vede sorridere e ridere e piangere, tutto insieme. Fa un nuovo sorriso, che non ricordava di aver mai visto. Polonia pensa solo che sembra molto più alto di come ricordasse e riderebbe, un altro giorno, di questo pensiero. Ora è veramente stanco.

Alza gli occhi. Fuochi nel cielo nero e stelle minute in lontananza. Adesso riesce ad ascoltare gli spari e la musica. Sente un violino e un grammofono o forse se lo sta solo immaginando. Osserva in silenzio, tra le lacrime di gioia di Liet e quelle infuriate e internamente felici di Biela il cielo costellato di colori. Spari, applausi, risa e una nuova nascita. Polonia è spossato e sinceramente felice. Crede di avere gli occhi lucidi adesso.

Sorride e guarda ancora Liet. Alzerebbe le dita per asciugargli le lacrime, ma non ha forze. Lo guarda e pare ridere sotto i baffi e piangere allo stesso tempo. Lituania comprende, e gli poggia una mano sulla testa calva, con mille e mille emozioni nel petto.

 

Russia apre la busta, nel buio del suo salotto. Estonia e Lettonia lo guardano e lo vedono annuire. I due fratelli sospirano, riconoscendo la sconfitta ben prima di leggere il contenuto della missiva.

Si stringono vicino al cammino spento, si accostano con un braccio attorno alle spalle e ignorano il loro padrone. Ignorano la mano sul suo volto e le lacrime che inesorabili scendono sulla cicatrice riaperta e bendata e tra le dita.

Mentre Polonia e Lituania piangono per essere di nuovo riuniti.

 

 

 

 

 

 

ANNUNCIO FINALE DI L0G1

 

Ho avuto solo una volta la sensazione esuberante di aver finito una fanfiction dopo anche solo un paio di anni dalla sua pubblicazione. È pura magia, felicità, soddisfazione e anche un briciolo di arroganza per aver fatto quello che per me rientra tra le cose più difficili da portare a termine. Potrebbe essere qualsiasi cosa, ma io tendo a lasciare le cose a metà, meno che questa.

Grazie al vostro aiuto e al vostro sostegno durante questi due (?!) anni dalla nascita della Fenice d’Argento.

Sarebbe troppo lunga la lista di persone che hanno contribuito, grazie a recensioni e alla lista dei preferiti che cresceva di mese in mese. Vi dico solo questo: vi ringrazio di cuore per avermi spronato a finire questa pazza e triste storia. Era iniziata per essere una stupidaggine di cinque capitoli o meno e adesso abbiamo di poco oltrepassato i venti.

Siete meravigliosi, voi tutti. Vi ringrazio dal più profondo del cuore <3.

Per sempre vostra,

L0g1

 

P.s Whoops! Dimenticavo: piccolo regalo… non è del tutto finita, in verità. Ci sarebbe anche l’Epilogo… o qualcosa del genere…

;)

Ritorna all'indice


Capitolo 22
*** EpIlOgO ***


America esce dalla stanzetta dell’anagrafe facendo schioccare le ossa delle spalle, con un’aria soddisfatta. Gli occhiali brillano sul suo naso. Stiracchiandosi fa scoprire sotto alla camicia una vecchia maglietta blu e rossa che Lituania gli aveva regalato pochi giorni fa, a Natale, durante lo scarto dei regali a casa loro. Si vede la scritta Superman sotto la camicia bianca. Inghilterra lo segue, con lo sguardo alto e un libro sotto braccio, fiaccamente infilato sotto l’ascella. Non riesce a leggere il titolo. Francia pare raggiante, dietro di loro, appena uscito anche lui.

“Che bello avere un nome, finalmente!” esclama America, risistemandosi la camicia dentro i pantaloni. Inghilterra scuote la testa.

“Io non ho ancora capito perché ci servano dei nomi… proprio ora che sta per iniziare l’anno duemila…” America non si lascia demoralizzare, abituato ormai, fin troppo orgoglioso di se stesso e della sua idea geniale. Si volta, senza scemare la scintilla entusiasta nei suoi occhi.

“Perché così potremmo essere qualcuno!” esclama, inibito da tanta ignoranza del suo vecchio padrone. Inghilterra alza un sopracciglio “Immagina un po’: potrai camminare per strada, così, tranquillo, qualcuno ti chiede come ti chiami… anche una ragazza carina” Francia ammicca alle spalle di Inghilterra, lui finge di non notarlo “E potrai presentarti come un umano! Del tipo: Hi! I amAlfred Jones

Inghilterra scoppia in una risata acida. America si indispettisce. Il suo fratellone lo guarda con un’espressione compassionevole, scuotendo la testa, come faceva quand’era bambino e combinava i suoi piccoli pasticci. A Francia, dietro di loro, sfugge un sorriso genuino. Sospira tra sé e sé. Inghilterra riapre gli occhi e aguzza i denti sotto il suo sorrisaccio da cattivo.

Alfred! È così che ti sei chiamato?” all’americano si fanno le guance rosse.

“Sì! Come il maggiordomo di Batman e perchè…” Inghilterra ritorna a ridere, come se non riuscisse veramente a smettere. America diventa rosso come un pomodoro “…e perché così potrete chiamarmi Freddy!” il più grande decide di continuare ad ascoltarlo, più per dargli il suo momento di gloria che per altro.

“Perché proprio Freddy?” chiede Francia, vagamente interessato. Decide che si sarebbe vantato del suo nuovo nome coi due in seguito. America sgonfia le guance e invece si gonfia il petto.

“Perché è un nome importante: pensa a Freddy Krueger e a Freddie Mercury…” Inghilterra alza un sopracciglio, non credendo ad una singola parola di quello che dice il più giovane. America capisce di non averlo convinto. Mostra un broncio, si chiude in un guscio “…mi sono sempre presentato così ai colleghi del mio capo” Inghilterra sghignazza, soddisfatto di sé stesso e della sua intuizione. Francia dietro di lui decide di prendere la palla al balzo.

“Io invece non ho ancora capito perché non ti sia opposto all’idea di America, Angleterre” Inghilterra sobbalza, preso alla sprovvista, come pugnalato allo stomaco. Trova una scusa in pochi secondi, regola il respiro, mostra uno sguardo disinteressato alla Nazione francese e agli occhi curiosi del fratello. Alza le sopracciglia, con indifferenza.

“Ho un cottage da qualche anno, ma la legge dice il contrario. Così, ora che ho un nome e dei documenti di proprietà, potrò dimostrare di averne la proprietà. Mi sono stufato di chiedere aiuto al mio capo per queste faccende…”

“Certo, certo… nominandoti come il famoso Arthùr?” sogghigna divertito il francese, osservando minuzioso il libro sottobraccio, leggendo chiaramente ‘King Arthur and…”. D’istinto, Inghilterra cerca di nascondere il volume dentro la tasca della sua uniforme. Il libro è troppo grande, non entra. Ora anche America lo legge.

Scoppiano entrambi a ridere, mentre Inghilterra inizia a sbraitare minacce. Lituania sorride di riflesso e scuote la testa, facendo scrollare i capelli scuri nel codino. Due ciocche si sono liberate, come al solito. Le tiene ferme dietro all’orecchio. Alla sua sinistra qualcuno attira la sua attenzione: la minuta Repubblica Ceca gli mormora qualcosa, interessata al corridoio alla loro sinistra: Lituania, c’è Polonia.

La porta del corridoio si apre con sicurezza. I suoi passi fermi tintinnano sul pavimento, senza far rumore. Non rimbomba alcun eco. Ungheria vede l’amico con la coda dell’occhio. Nota un sorrisino da parte della donna. Vorrebbe salutarlo, ma si blocca, così come Austria e Italia e le altre Nazioni slave, germane e mediterranee. Repubblica Ceca alla sua sinistra sembra trattenere un’esclamazione meravigliata, Slovacchia, più in fondo, mostra un’espressione perplessa. Italia saluta Polonia, lui ricambia. Occhi allegri e occhi smarriti lo scrutano, ma non sembra importargli. Da anni ha dimenticato la paura di chi non conosce. Vede Liet, si avvicina e si siede alla sua destra.

“Ti ho fatto tipo aspettare?”

“No, sei in anticipo. Ora inizia l’Europa centrale e il Mediterraneo” Polonia annuisce e si abbandona sulla sedia, sospirando di sollievo.

Spagna viene chiamato, così come Portogallo, Germania e Svizzera. Diligenti, entrano nella stanzetta. Lituania vede i loro posti vuoti. Ha quasi paura di entrare dalla porta d’ebano. Inghilterra, America e Francia, nonostante abbiano compiuto il loro dovere, continuano ancora a discutere. Immagina che presto, ogni Nazione, finita la marcia dall’anagrafe, incomincerà a fare domande su nomi e futuri mestieri. America gli aveva accennato di voler studiare per diventare astronauta, a Natale. Gli brillavano gli occhi, non ha avuto il coraggio mostrare il suo dubbio riguardo il suo sogno. I quattro escono dopo una decina di minuti. Italia, suo fratello, Repubblica Ceca e Slovacchia entrano. La piccola donna non ha staccato gli occhi da Polonia per tutto questo tempo. Entrambi se ne sono accorti.

“Ultimamente ti fai notare parecchio” afferma Lituania, più divertito che indispettito di ciò. Non è più geloso dello spirito del suo amico. Polonia rigira gli occhi, più seccato che rallegrato di ciò. Osserva il braccio, dove una quarantina di anni fa mostrava sei zeri allineati col ferro sulla sua carne. La sua pelle è ancora inflessibile come cuoio, ma ormai i numeri sono nascosti dietro ad un tatuaggio. L’ago e l’inchiostro non li ha uditi affatto. Il tatuatore era sbigottito nel vedere i numeri. Ripensando a tutto questo… non gli da alcuna sensazione. Lituania capisce i suoi pensieri e annuisce fra sé, con una vena di orgoglio. Polonia lo vede come un uomo e non più come un ragazzo “Com’è andata questa volta?”

“Una donna soltanto mi aveva chiesto di fare ricerche sulla sua famiglia, anche dopo cinquant’anni” Lituania lo osserva interessato “Secondo i suoi documenti era nata in Germania, ma ovviamente non era totalmente vero…”

“Era una bambina polacca rapita durante la Guerra?”

“Certo” Lituania sospira. Polonia fa questo lavoro da quando ritornò in vita, quella lontana sera di luglio. Non avrebbe mai immaginato che avrebbe potuto aiutare così tante persone. Non avrebbe mai sospettato che durante la Guerra fossero accadute così tante disgrazie: bambini polacchi rapiti dalle culle, fucilazioni di generali e uomini di cultura, le camere a gas… Polonia le ha scoperte da solo, come se avesse sempre saputo di ciò e ha incominciato a lavorare, per far riemergere dalla cenere ogni segreto e documento nascosto. Lituania non ha aperto mai bocca sui suoi dubbi “Conoscevo già quella donna e la sua famiglia, non è stato tipo difficilissimo”

“Davvero? Ha trovato almeno… qualcuno dei suoi famigliari?”

“No, tutti morti. Klara Lukasiewisz ormai non ha più una famiglia polacca. Ha deciso di rimanere in Germania. Aveva dei figli grandi, sai? Stava per diventare nonna, mi aveva detto. Sembrava sapere che fosse tutto totalmente inutile…” Polonia pare più amareggiato che triste del suo racconto.

Lituania annuisce ancora, sa che nasconde qualcosa. Ormai sa come riconoscere la verità e la finzione. Osserva la cicatrice biancastra lungo il labbro di Polonia. È quasi invisibile adesso, ora che il suo amico è ritornato in salute, nonostante una fetta di labbro scenda leggermente in basso, seguendo il taglio, che cade fino alla mascella. Polonia è cambiato molto in pochi anni, anche se immagina che non sia diventato un uomo diverso da com’era in passato. Polska capisce i suoi pensieri, accenna ad un sorriso, che coi suoi occhi pare quasi una tigre.

“Poi ti racconto tutto, ok?”

“Ok”

Italia e suo fratello discutono, uno entusiasta, l’altro perplesso. ‘Hai scritto bene il nostro cognome?’, ‘Ovvio! Non lo sbaglierei mai!’. Repubblica Ceca saltella verso il suo posto, orgogliosa di se stessa, Slovacchia sospira, come se si fosse tolto dalle spalle un gigantesco peso sullo stomaco. Manca poco al loro turno. Belgio, Olanda, Grecia e Turchia entrano. Lituania incomincia a ritornare ragazzo. Osserva il foglio che ha fra le mani con vari nomi, cognomi, sbavature e cancellature. Non riesce a credere di non essere riuscito a trovare un nome per sé. Polonia capisce e osserva il foglio, ritornando anche lui come un tempo.

“Ma dai, non hai ancora trovato un nome!”

“No, solo il cognome…” dice, mostrando un Laurinaitis scribacchiato con cura, differentemente dagli altri, cancellati e macchiati da sbavature di matita. E sudore e nervosismo. Decisamente, Liet non è cambiato affatto. Polonia scuote la testa, indispettito “Q-Quale dovrei scegliere?” mostra il foglietto all’amico. Polska lo afferra e con attenzione scruta il pezzo di carta. Lo apre: si rivela una lista completamente imbrattata di inchiostro e matita. L’amico lo guarda con sufficienza, Liet ricambia grattandosi la testa con imbarazzo. Polonia ritorna a leggere.

“Rufas è brutto da morire…”

“Sì, lo penso anch’io…”

Ritorna a leggere.

“Mikas?”

“E’ troppo da bambino, secondo me”

“Lukas?”

“Poco lituano… anche i Nordici hanno questo nome”

“Jurijus?”

“No!”

“Gintis?”

“Dai, Polska!”

“Fredas? Faustas? Eimis? Bernardas? Ah! Ecco uno totalmente perfetto: Brunonas!” gli strappa dalle mani il foglio, staccando anche lo stesso. Si ritrovano fra le mani due pezzi di carta logora. Lituania, con un’aria tra l’arrabbiato e l’indignato, e Polonia, divertito e irrisorio. Lituania guarda il suo lavoro distrutto, ma affatto scoraggiato. Era un lavoro di due giorni ed era anche pessimo. Polska ritorna serioso. Vengono chiamati i Nordici, lasciando fuori solo il giovane Islanda, già entrato prima insieme ad Inghilterra. Attende con pazienza, insieme alla sua pulcinella di mare in grembo, intenta a gracchiare qualcosa di simile a fusa tra le braccia del suo padrone. Lituania sa che manca poco. Tamburella le dita con nervosismo.

“        Che ne pensi di Toris?” Lituania sente una voce senza ilarità e ne rimane basito. Sbatte le palpebre, osservando l’amico “Non so se te lo ricordi… ma quando eravamo piccoli avevamo parlato tipo dei nostri nomi particolari. Mi ricordo anche del nome Toris… mi era piaciuto tanto. A te no?” Lituania sente un bisbiglio alle sue orecchie, un sesto senso che ha sviluppato in questi anni: sta mentendo. Polonia lo guarda fisso negli occhi, avendo imparato a mentire senza vergogna. Lituania capisce che è una semplice menzogna innocente, tira un sorriso e scuote la testa.

“Polska, questo nome non esiste in Lituania e… credo in nessun altra Nazione” Polonia sbatte le palpebre, come spezzato qualcosa dentro di sé “Credo che avessi sentito Tolys o Taurys, ma Toris… non l’ho mai sentito”

Negli occhi di Polonia cala un’ombra disillusa. Sembra aver realizzato qualcosa di importante e crudele. Lituania osserva la mascella rigida, i capelli diventati scuri, gli occhi vuoti e i pugni nelle mani. Ha detto qualcosa di inaspettato, crede. Polska perde in un attimo la sua fragilità e i pugni deboli. Stende la schiena sulla sedia, guarda di fronte a sé, ma resta ancora l’aria mortificata. Rimane in silenzio, a contemplare un ricordo. Liet si sente anch’egli ferito.

“Però mi piace tanto” Polska non lo guarda, ma lo ascolta “Toris Laurinaitis… suona anche bene, non credi?” l’amico sorride come un adulto, con occhi fermi e guance bianche.

“Sì, soprattutto su di te” Lituania osserva quel sorriso enigmatico e si sente come un bambino premiato inaspettatamente. Non arrossisce, ma il cuore perde un battito.

I quattro Nordici ritornano, chi entusiasta, chi serioso. Islanda annuisce al richiamo silenzioso di Norvegia e a quello estasiato di Danimarca. Si alza dal suo posto, composto e maturo, e i cinque si dirigono verso la fine del corridoio. Vengono chiamati altri nomi: Austria, Ungheria, Romania e Polonia. Polska si alza in piedi, lasciando Lituania con la sua perplessità. Bulgaria fa segno a Romania di tenerlo d’occhio, adocchiando l’occhiata di scherno dell’amico verso la donna appena entrata. Il piccolo Moldavia si agita tra le sue braccia. Polonia lascia Lituania ed entra nella stanzetta. Lo lascia perplesso. Scuote la testa, decide di lasciar stare. Quella spina fra di loro sembra rigirarsi nella carne del lituano.

Il corridoio sembra quasi deserto senza i Nordici, i fratelli Italia, Spagna e Germania, andati nel bar fuori. Estonia è uscito insieme a Finlandia, conoscendolo rientrerà appena in tempo per scrivere il suo nome e poi andarsene. Senza salutarlo. Lettonia entra nel corridoio, si volta come sperduto in un ambiente completamente nuovo. Lituania fa un cenno con la testa, lo invita a sedersi. Il più piccolo lo vede e corre al posto di Polonia. Lettonia è l’unico che lo tratti da fratello, dopo Polonia.

“Lituania! Sono arrivato in tempo?”

“Fra poco tocca a noi”

Non si vedono spesso i tre Baltici, ma per Lituania è sempre un piacere incontrare il piccolo Lettonia. Si parlano, Lituania carezza i riccioli del più piccolo, Lettonia regala al più grande due caramelle. Gli racconta di aver trovato un amico, un po’ più piccolo di lui, che passerà il Capodanno a casa sua, in Inghilterra. Lituania ne è felice. Racconta della nuova casa in campagna che hanno acquistato il mese scorso, della neve che ha toccato la villetta già i primi di settembre e dei gatti che Polonia ha trovato. Lettonia si interessa e chiede di loro.

“Polonia aveva trovato una banda di gatti poco dopo esserci sistemati nella nuova casa. All’inizio se n’era presentato solo uno: era bianco con delle macchie marroncine. Non so il perché, ma non ne voleva sapere di aprire gli occhi, faceva anche uno strano verso. Si era presentato all’ora di pranzo, quando Polska stava provando a cucinare la pasta…” Lettonia pare affascinato “Gli abbiamo lasciato un piattino con degli spaghetti al pomodoro e se n’era andato, felice. Poi hanno incominciato a comparirne altri e altri ancora, sempre in modo strano. Ad esempio, quando Polska stava provando il pianoforte in soggiorno ne era sbucato un altro dalla finestra, con il pelo scuro e un ciuffo ribelle. Guardava Polska compiaciuto, ascoltando la musica…” lo aveva inquietato molto questo episodio “Abbiamo incominciato anche a dargli dei nomi. Sai, la cosa è veramente strana…”

“Perché è strana?” chiede Lettonia, trovando la storia tutt’altro che stravagante o deludente.

“Perché… sarà strano, ma assomigliano molto a persone che conosciamo. Il primo gatto l’abbiamo chiamato Italia, poi Austria e Ungheria. C’era anche un gatto simile a Prussia, col pelo bianco e un taglio sull’occhio. Credo che mi detesti: un giorno l’ho trovato sul tettuccio della mia macchina in una posa… erm, egocentrica… e non ha fatto altro che drizzare il pelo non appena mi avvicinavo. Polska l’ha tolto da lì, come se niente fosse e quel coso non ha fatto resistenza!” Lettonia ride di gusto.

“Sembra che Polonia ci sappia fare più di te coi gatti!”

“Già, io li odio…” Lettonia continua a ridere, estasiato. Lituania non lo sentiva ridere di gusto da tanto. Gli carezza i capelli, come un antico istinto. Nemmeno lui sente Estonia da tanto tempo. Ne hanno discusso, ma Liet ha difficoltà a parlarne. Da quando ritornò dalla Polonia, insieme a Bielorussia, suo fratello non ha più voluto parlare con lui. È sempre distante, come tradito. Non ha accettato veramente il ritorno di Polonia. Non immaginava che potesse essere tanto geloso del suo amico. Un decennio fa, dopo la caduta dell’Unione, incominciò a frequentare Finlandia. Sembrano andare d’accordo. Gli altri Nordici lo accettano, anche se con perplessità. Non sa cos’abbia in mente, ma non lo tranquillizza vederlo sempre in compagnia dei cinque, sempre dietro di loro. Sempre in qualche modo ignorato. Lituania pensa che non abbia alcun diritto verso di lui, ma non riesce a fare a meno di osservarlo da lontano, con occhi scuri. Ha vissuto con lui nella stessa casa e ha mangiato con lui dalla stessa tavola. Un giorno vorrebbe parlargli veramente, da uomo a uomo. Da fratello a fratello.

Lettonia si volta e anche lui, istintivamente. Dalla porta del corridoio sente una voce di donna fin troppo alta e dura. Attraverso il vetro vede Ucraina, con occhi severi, eppure tremuli. Lituania vede delle mani chiuse sul cuore, dei capelli disordinati e una camicia strappata dal lato della manica sinistra. Ucraina se la passa male in questo periodo. Sembra sul punto di piangere, come suo solito in questi anni. Lituania vede una mano estranea, decisamente più robusta di quella della donna, avvicinarsi alla sua guancia. Lei si esaspera, impedisce alle dita dell’uomo di asciugarle la lacrima e spalanca la porta, lasciando Russia all’entrata.

Ucraina si siede, afferra con tremore un fazzoletto dalla tasca e si asciuga le lacrime con irritazione. Repubblica Ceca e Slovacchia la osservano anch’essi, interessati e tremolanti. Russia entra nel corridoio e immediatamente ogni sguardo su di lui si ritira, come terrorizzato. Russia ha perso tutto il potere che aveva, ma la paura che si rialzi dal suolo è comunque tangibile. Lituania e Lettonia non abbassano gli occhi. Russia sembra molto più anziano, coi capelli decisamente troppo lunghi e arruffati, il cappotto scuro sgualcito. Si accascia alla sedia affianco alla porta del corridoio, lontano da chiunque, separato da loro da una decina di sedie vuote. Lituania vede occhi stanchi e… tristi. Sente qualcosa creparsi dentro di sé.

La porta si apre, è il loro turno. Polonia ritorna da loro, salutando Lettonia, rifiutando la proposta di cambiare posto. Il più piccolo nota dei cambiamenti nel biondo e ne rimane meravigliato. Inghilterra, non l’ha notato, si è seduto e legge il suo libro, attendendo qualcosa che non riesce ad immaginare . America chiede a Slovacchia il suo nuovo nome, volendo la sua firma e quella di Repubblica Ceca. Francia decide di alzarsi e di andare al bar. Saluta Inghilterra e America e si avvicina a Polonia.

“Oh, comunque, cher, bei capelli”

E scompiglia la nuova chioma bionda di Polska, corta, arruffata, ribelle, completamente diversa dalla sua precedente. Repubblica Ceca, come nominata, si alza in piedi, scattante come una molla ‘Infatti! Ora sei carinissimo, meglio di prima!’, con assenso di Ungheria e Lettonia. Slovacchia, ancora perplesso, decide di far sentire la sua voce ‘Per me stavi meglio prima…’, Austria approva con un breve cenno della testa. Ucraina alza gli occhi dal suo fazzoletto e osserva la nuova figura di Polonia. La vede sorridere leggermente, con occhi gonfi e rossi.

Lituania vede con la coda dell’occhio Russia in fondo al corridoio, troppo lontano da loro, ancora più solo, mentre altre Nazioni si avvicinano interessati al suo amico. Non è cambiato nulla. Resta immobile e angosciato, come un cane abbandonato.

A Lituania sembra che quelle cinque sedie vuote siano ben più di cinquecento chilometri di distanza.

 

 

 

 

 

Lituania legge il messaggio sul cellulare.

 

Mi dispiace, Lituania.

Non posso venire con te.

Ho il mio amico a casa in questi giorni. Sarà per la prossima volta.

 

Lituania sospira sconsolato. Avrebbe voluto almeno la presenza di Lettonia accanto a sé. Estonia non gli ha ancora risposto. È da ore che non risponde. Immagina che non voglia farlo e basta. È troppo abituato alla sua indifferenza per prendersela. Ucraina l’ha deluso anche lei, anche se la comprende. Ricorda i suoi occhi rossi il pomeriggio del giorno seguente e si intristisce ‘Mi dispiace, caro, ma certe cose non possono essere perdonate’. Aveva annuito a lei, salutata e aveva riattaccato. Fa scivolare il cellulare nella tasca e stringe le mani sotto le ascelle. Non nevica, ma fa freddo nel loro giardino. Il grano è stato tagliato mesi prima e ora non c’è altro che una distesa di neve interrotta dalla foresta in lontananza.

“Vorresti andare da lui?” Polonia interrompe i suoi pensieri. Alza gli occhi, il suo amico è ancora seduto sui gradini di pietra, con tutti quei gatti ai suoi piedi, come fosse il loro capo. Ovunque si volti vede gatti. In pochi mesi ne sono arrivati una cinquantina, tutti con pellicce e particolarità distanti fra di loro. Ha sempre immaginato che avessero così tanta compagnia perché la loro casa fosse la sola in chilometri di distanza. Inoltre Polska dà anche da mangiare a quei batuffoli di pelo colorato, aumentando ancor più l’attenzione dei felini verso il biondo.

“Sì, vorrei chiarire delle cose con lui… se non ti dispiace” Polska riflette, carezzando il pelo nero e bianco di un micio più piccolo degli altri, con una coda a batuffolo, come quella di un coniglio. Il piccino fa le fusa in grembo a Polonia, beato. Lituania riconosce quel gatto come un tipetto amante del pesce in scatola. Questa volta non si sente inquietato. Polska non sospira, né batte ciglio.

“Non mi dici mai un granché di cosa è successo quando abitavi con lui” pare più una riflessione che un’accusa, eppure Lituania sente un brivido lungo la schiena. Ha sempre immaginato Polska iracondo verso Russia, eppure non ha mai visto l’amico di tali pensieri, quando lo vedeva insieme al suo vecchio padrone, in passato. Pareva piuttosto che Russia fosse spaventato da lui, aveva notato Liet, con i suoi nuovi occhi. Un altro gatto, battezzato come Germania, osserva il suo compagno sdraiato e pasciuto e pare come scuotere la testa.

“Già…” un altro gatto, in fondo al giardino, peloso e scuro, lo osserva compiaciuto. Non l’ha mai visto prima, ma non si domanda nulla: non vuole nemmeno immaginare quanti gatti possano esserci e quanto cibo dia loro Polska. Questo è grassoccio, spintona gli altri, fa abbassare le code e le orecchie agli alcuni. Altri scappano, terrorizzati da quanto sia grosso. Ricorda più un cucciolo di orso che un gatto. Lituania batte le palpebre, affascinato: non ne aveva mai visto uno così tondo. A malapena vede le sue zampette condurlo verso le scale.

“Comunque, non sono arrabbiato. Te l’avevo già detto, tipo anni fa”

“Se lo sei dimmelo”

“Non lo sono per niente” pare che Polska abbia imparato a fingere, anni dopo essere ritornato in vita. O forse non prova davvero rancore verso Russia. Per Lituania è qualcosa di assurdo e sospetto. Non provare ira verso chi ha spezzato la tua vita è ridicolo. O forse Polska non gli ha mai voluto dire nulla più di quel che sa. La sua mano carezza ancora il gattino, mentre un altro, battezzato Italia, sembra interessarsi al trattamento del suo amico. Scivola sotto le gambe di Polonia, intenzionato ad avere quel che desidera, benché il gatto Germania non pare apprezzare tutto ciò. Lituania gonfia il petto, ricordandosi di molte cose.

“Polska, chi è Toris?”

Polonia volta la testa. I suoi occhi vorrebbero essere seriosi, ma vi è un tentennamento. Lituania non abbassa gli occhi e non cede, come faceva da ragazzo. Che Polska gli nascondesse qualcosa gli era chiaro da anni, che gli fosse accaduto altro mentre era morto è quasi una certezza per lui. Il nome con cui il suo amico l’ha battezzato non gli dice niente, ma come desiderava quel nome su di sé gli era parso fin troppo bizzarro e impossibile da dimenticare. Lituania ha coraggio ora e desidera risposte. Il gattino vede l’espressione severa di gatto Germania e abbassa il capo, come scusandosi. Scende gentilmente dal grembo di Polska e ritorna dai suoi amici. Polonia, adulto d’animo, riflette e decide.

“Ti racconterò tutto dopo che tornerai da Russia” Lituania rimane basito “Partirai subito, no?”

“Sì…”

“Bene” si alza con uno scatto, tale da lo sobbalzare e si dirige in casa. I gatti non entrano, è proibito per loro entrare. Liet lo segue. Lo vede entrare nel salotto e nella cucina e arraffare qualcosa su un piano alto. Lo tira giù e glielo conficca fra le mani, con un’infantile rudezza. Vodka. Lituania lo guarda sorpreso. L’amico arriccia le labbra e le braccia “In casa di un russo devi sempre portare qualcosa, eh! Tipo anche vodka e regali fichi e…” lo abbraccia con un sospiro sconsolato e contento. Il biondo rimane paralizzato, ma si scioglie e ripete anch’egli il gesto.

“Resto lì solo per poco, se lo vuole…”

“Lo so”

“Tu puoi chiamare qualcuno anche… Italia può stare qui da noi”

“Chiamo Ungheria e Austria, gli ho promesso una cosa”

Sciolgono l’abbraccio. Liet abbozza un sorriso. Rimane perplesso guardando Polska. Sembra che avesse già architettato tutto da sé. Incrina le sopracciglia, interessato.

“Cosa?” Polska aguzza i denti e indica con un cenno del capo fuori. Liet osserva dalla finestra tutti i gatti nel giardino. Chi litiga, chi si stiracchia, chi dorme e chi si azzuffa con altri nella neve. Paiono loro Nazioni, sempre in pena fra di loro, ad attaccar briga come gattacci di strada e a ronfare nei giorni di pace. Polonia li osserva così come si osservano dei bambini abbandonati a se stessi.

“Sto chiamando qualcuno che possa adottare i gatti . Hanno bisogno di una casa, Liet” dice con tristezza “Ho chiamato anche le Nazioni. Molti sono totalmente interessati a loro” e allunga il sorriso, perdendo la tristezza “Non sarebbe tipo fantastico se ognuno di noi avesse un gatto totalmente uguale a noi? Allora… ho chiesto a Giappone. Lo vuole tipo immediatamente. Poi ad Italia, che vuole gatto Romano. A Romano, che vuole gatto Italia e gatto Spagna… Ah, sì, anche a Grecia e a Germania, però lui ha già dei cani e ha detto no…” sospira “Ungheria vuole quello che somiglia a Prussia. Oggi pomeriggio viene…” guarda tristemente sulle scale, dove si è accampato gatto Prussia, col pelo bianco e la cicatrice sull’occhio, orgoglioso di se stesso.

“Ti dispiace?” Polska apre gli occhi, scuri.

“Sì, è sempre stato un amico”

“Che cosa?” esclama Lituania, incredulo. Gatto Prussia, fuori dalla finestra, lo adocchia. Sbadiglia di fronte a lui e miagola rumorosamente, sfidandolo. Fa uscire i denti e, con i baffi all’insù, sgattaiola via, lontano dalla finestra. Liet si sente inquieto dalla risposta di Polska e attende, quasi oltraggiato da aver sentito qualcosa del genere. L’amico ghigna, capendo i suoi pensieri. La cosa lo diverte.

“Il gatto, Liet. Il gatto è stato un amico” rilassa le spalle, sospira rincuorato “Credo che dovresti prendere il treno tipo ora”.

Lituania in poco tempo preparò per sé una valigetta, ci mise lo stretto necessario per una o due notti e buttò tutto in macchina, con la bottiglia di vodka e le bustine piene di semi di vari fiori. Un regalo per Russia. I gatti lo hanno rincorso come tanti bambini attorno alla maestra. Non ha cibo per loro, eppure i mici continuano ad assaltarlo, chiedendo carezze e premure. Polska lo ha seguito fino alla macchina. Ora capisce perché ci siano così tanti batuffoli di pelo. Lo abbraccia un'altra volta, immaginando che possa essere difficile per lui tutto questo. Eppure sbaglia, Polska non gli ha mentito su questo. Ma Liet non lo sa ancora.

“Ci vediamo a Capodanno, Liet” lo saluta e saluta tutti i gatti. Entra in macchina, allaccia la cintura e parte, senza rendersi conto di avere un compagno in più sui sedili posteriori, grasso e peloso che, indifferente all’andata di quello che considera il suo padroncino, inizia a dormire.

Lituania trascorre ore interminabili nel treno e trova il cancello della casa di Russia spalancato e rugginoso.

Continua a camminare, chiedendosi se il padrone di casa accetterà mai una sua visita. Il giardino è spoglio e trascurato. Non vive un fiore nella neve di Russia. La casa è ugualmente grande, ma come trascurata: le finestre sono appannate dalla brina, i mattoni paiono sul punto di cedere, la porta cigola appena viene aperta.

Russia è ancora alto e forte. Lituania lo guarda come se lo vedesse per la prima volta. Lo ricordava coi vestiti stirati e i capelli ben tagliati. Vede una leggera barba incolta, dei ciuffi più grigi che biondi e occhi stanchi. I vestiti sono stropicciati, così come li ha visti quando si era presentato all’anagrafe con le altre Nazioni. Quando i suoi occhi incontrano quelli del ragazzo si fanno come meravigliati ed increduli. Non lo aspettava. Lituania non gli ha detto nulla e Russia non aspettava nessuno.

Lituania si sforza di sorridere, ignorando la stretta che ha al cuore nel vedere il suo vecchio padrone in questo stato. Il ragazzo non sa, ma anche Russia lo sta guardando così come lo guarda lui. Russia ricordava un ragazzo con occhi bassi e timidi, poi diventato gelido e severo. Russia ricordava una divisa perfetta, che stonava pericolosamente su quel ragazzo, una disgrazia che l’aveva trasformato in male. Russia ora vede qualcosa di diverso e meraviglioso. Questo ragazzo che gli sorride è un Lituania dolce e col petto in fuori, coi capelli raccolti e gli occhi fermi.

Russia non alza una mano, non apre bocca, non sembra volerlo far entrare, ma nemmeno farlo scappare.

Rimane lì a fissare quel che sembra per lui un’apparizione e non Lituania, mentre sta per nevicare.

 

 

 

 

 

Lituania riapre gli occhi. Batte le palpebre annebbiate e vede il soffitto della casa di Russia. Non ricorda cosa dovrebbe fare oggi. Immagina che sia domenica, l’unico giorno a disposizione per riposare. O forse è festa e lui, come al solito, se l’è dimenticato. Immagina di non dover continuare a poltrire nel letto, mentre altri saranno già svegli. Alza il busto. Si rende conto di non essere nella sua stanza da letto, ma sul divano del salotto. Vede il cammino spento, ma di sicuro era stato acceso la sera prima. Gli viene in mente qualcosa.

Una mano si aggrappa alla sua spalla, un istinto antico gli fulmina il capo e lo avverte di un pericolo, inarcandogli i nervi “Dove te ne vai?” dice la voce di Russia, divertito e anche abbastanza stanco, costringendolo a cadere di schiena di nuovo sul divano. Lituania ricorda ora e gli viene in mente il vero motivo per cui si trovi lì. Non ricorda bene ciò che è successo, in verità. Russia si è creato un letto affianco al divano, con delle coperte accantonate a terra, che con fatica coprono i suoi piedi. Vede in un angolo la bottiglia di vodka e le bustine coi semi. Comincia a capire.

“Ahi… cos’è successo?” Russia gli risponde dopo qualche secondo.

“Beh, è stata una serata… interessante” Lituania non vede il sorrisino da bambino “Hai provato anche a spogliarti di fronte a me” nella testa del moro scatta un campanello d’allarme. Il cuore gli salta in gola. Guarda il suo vecchio padrone completamente in balia dal terrore.

“Cosa?!”

“Scherzetto!” e scoppia a ridere di gusto. Liet aspetta che i tremori scompaiano prima di offendersi. Russia non pare volerlo vedere in difficoltà. Smette quasi subito, riempiendosi le guance di un sorriso sincero “Piuttosto, non devo più farti bere vodka: crolli subito a dormire” Lituania si rilassa, ritorna a sbattere la testa sul cuscino del divano. Questo lo sa, immagina di aver completamente dimenticato quel che è accaduto la sera prima. Quasi si vergogna.

“Capisco… in effetti non dovrei” dice, continuando ad osservare l’altra Nazione ai piedi del divano, in quel giaciglio creato in meno di cinque minuti. Lituania continua a notare i capelli troppo lunghi e grigiastri, le ombre sotto agli occhi, le mani strette alla pancia. Tutto questo per lui è sbagliato “Avreste potuto dormire in camera vostra. Non era necessario starmi vicino” Russia riapre gli occhi, più lucenti di come ricordava.

“Non potevo. Le ho chiuse a chiave”

“Come mai?”

“Mi trasferirò il prossimo anno in città. Una casa così grande non mi serve più. L’ho già venduta” il ragazzo sente come una leggera scossa al cuore. Russia ha detto la verità, capisce. Eppure quasi fatica a credere che sia realmente così. Lituania alza il collo, per avvicinarsi all’altro. Sente una vena di dispiacere stringere sulla sua schiena.

“Davvero?” Russia lo guarda, senza alcuna tristezza e annuisce come un anziano. Lituania sente come un violino stridere nelle mura della casa, leggendo la sua angoscia. Casa loro… non è più casa loro. Ha più ricordi tristi che felici in questo luogo, ma la malinconia dentro di sé nasce ugualmente. Per Lituania questo posto era importante. Come una scuola severa ed ingiusta, ma che gli ha regalato forza dalla apatia e dalle prepotenze. È come veder morire un insegnante freddo, ma che gli ha regalato molto alla fine del suo percorso. Russia nota tutto questo e allunga una mano sul suo braccio, stringendolo rassicurante.

“Ho comunque apprezzato il regalo. Avrò un balconcino per piantare i girasoli” sbuca un sorriso anche al ragazzo “Sono felice che tu sia qui. Credo che dovrei prepararti qualcosa, prima di partire”

In effetti ho un po’ di fame, ricorda la pancia a Lituania. Non crede di aver cenato o forse non se lo ricorda. Russia si alza con fatica, lo stesso fa Liet. Si siede e si stropiccia gli occhi, togliendosi i residui di sonno. Russia si passa una mano sui capelli, gettando le ciocche all’indietro, che con facilità rimangono nella loro posizione. Non si fa nemmeno la doccia.

La porta d’ingresso si muove e cigola nel tentativo di aprirsi. Lituania osserva con attenzione e rimane spiazzato. Sobbalza, affatto impaurito, ma piuttosto incredulo e inquieto. Quel micio grosso e grasso, scuro, con la pelliccia che lo rende ancora più tondo, lo ha seguito fino a Mosca. Lituania lo vede passeggiare nel salotto come se fosse casa sua, completamente sicuro di quel che sta facendo. Lo vede e annuisce, felice di fronte al suo sguardo quasi arrabbiato. Gattona verso il divano, salta e gli si adagia sulle sue ginocchia. È pesante, è bagnato di neve, è peloso. Anche Russia lo nota, sinceramente sorpreso.

“Ma che ci fai tu qui?! Dovresti essere a casa!” Russia ritorna sui suoi passi, dimenticando di chiedersi come abbia fatto un gatto ad entrare in casa sua, piuttosto questo lavoro lo lascia a Lituania, che tenta di far cadere questo bestione dalle sue gambe. Fallisce e la palla di pelo sembra più che contento di ciò. Tutto questo fa innervosire il ragazzo.

“E’ un tuo amico?” chiede Russia interessato. Allunga una mano verso il micio e questo fa le fusa per le sue coccole. Liet è ammirato e tradito da un alleato. Il gatto si lascia sollevare, senza alcuna fatica e senza alcune preghiere, come se conoscesse Russia da sempre. Continua a farsi coccolare. Lituania è l’unico con occhi scuri verso quell’ammasso di pelo nero. I gatti lo odiano, ma non immaginava nemmeno che Russia li adorasse. Si sente ancor più tradito.

“E’ uno dei gatti di Polonia… e non dovrebbe essere qui” il micio gigante fa le fusa, come se gli avesse appena detto un complimento “E adesso come facciamo a tornare a casa noi due?”

“Perché? Non ha una casa tutta per sé?” Lituania spiega che il treno non dovrebbe accettare animali, che il loro giardino è decisamente troppo piccolo per ospitare così tanti gatti, incluso questo nuovo appena apparso quel giorno, che Polonia non riuscirebbe a gestire anche questo. Che lui lo trova inquietante. Russia riflette, forse ricordando qualcosa a cui aveva ponderato già da tempo “Posso adottarlo io?”

“Lo vuole davvero?” chiede Lituania, sinceramente sorpreso. Il gatto scuro continua a pretendere coccole dal suo nuovo padrone, incredibilmente simile a lui. Continua a fare le fusa sotto le mani gigantesche di Russia.

“Mi farà compagnia”

Russia continua a guardare oltre il gatto. Lo osserva e scruta i suoi occhi, come timido o indeciso. Abbassa le palpebre e sospira. Lituania nota un pollice sfregiato da un taglio netto. Immagina che non debba chiedergli come se lo sia procurato. Anche l’altro capisce i suoi pensieri e gli sorride di rimando. Lituania, di riflesso, lo guarda con sospetto.

“Cosa?”

“Niente…” alza gli occhi e riflette “Stai diventando un bel uomo, Lituania. Sei quasi più alto di me”

Lituania lo guarda meravigliato, senza alcun bruciore alle guance, mentre il gatto continua a chiedere coccole.

 

 

 

 

 

Aveva lasciato la stazione come se avesse lasciato per sempre alle spalle un mondo intero, senza più alcuna possibilità di ritornarci. Lituania sentiva che sarebbe tornato a Mosca solo dopo molti anni, ma che avrebbe rivisto Russia e il suo nuovo amico prima che avesse mai immaginato. Il treno aveva anticipato i suoi passi, l’aveva abbandonato alla sua macchina e poi al suo giardino.

Gli innumerevoli mici continuavano ad azzuffarsi e a dormire vicino alla porta di entrata, al caldo. Lituania non vede il gatto bianco con la cicatrice e il portamento da signore. Non lo insegue e non tenta di scalare il tettuccio dell’automobile. Ricorda di averlo visto per l’ultima volta il giorno in cui partì. Nota che altri gatti non si mostrano. Non c’è il gatto che ama la pasta e che fa versi strani. Non c’è nemmeno l’altro che lo assomiglia molto, sempre irritato, e un altro ancora, col pelo sporco di pomodoro appassito. Nemmeno il piccoletto con la coda a batuffolo, né il micio che amava il piano di Polska. Per qualche ragione sente un dispiacere in sé. Alla fin fine erano suoi amici. Entra in casa e un cinguettio lo accoglie.

Un uccellino canta in cima alle scale, al secondo piano. Polonia non c’è. Avanza, abbandonando le scarpe all’ingresso. Il pigolio continua imperturbato fino in cima, nella soffitta, nella futura stanza di Bielorussia. Lei abitava con loro subito dopo aver lasciato la sorella Ucraina. Era diventata una sorellina, come ai vecchi tempi. L’anno prossimo tornerà ad infestare casa loro come una principessa capricciosa. Tutto ciò non lo mortifica, ma lo fa ridere.

Sale le scale, vede Polonia al lavoro coi pennelli. Ha coperto con i vecchi lenzuoli il letto e i mobili e sta già incominciando a lavorare. Ha completato solo un muro. La stanza di Biela dev’essere ridipinta. Lituania lo saluta, lui annuisce, concentrato. Gilbird è sul telo del cassettone, continuando a canticchiare la sua melodia. Polonia lo aveva avvisato: Ungheria glielo aveva ceduto per qualche giorno, visto che sarebbe partita per Capodanno. E loro invece festeggiano da soli, in tranquillità. Probabilmente non si sentiranno nemmeno i fuochi d’artificio in città, tanto sono lontani. Polonia continua ad armeggiare col pennello, con un’insolita abilità.

“Non credo che a Biela piacerà il rosa” afferma Lituania, scettico, notando il color confetto. Polonia alza le spalle.

“Dovrà abituarsi. Ormai l’ho tipo completata e poi gli ho promesso di dipingerla di rosa”

“A chi?” Polonia abbassa il pennello, ultimato il secondo muro. Alza il secchio e la sedia e incomincia con un terzo angolo di stanza. Gilbird si alza in volo e si poggia ora sul letto, più vicino al polacco.

Lituania osserva il lavoro, il pennello, Polonia e ricorda quel che avevano dovuto buttare nel camino quando comprarono la casetta. In soffitta c’era una culla, mangiata dalle tarme e dalla muffa. C’era un barattolo di vernice già aperto e completamente inutilizzabile. La stanza era già in parte dipinta malamente. Questa casa l’aveva scelta Polonia, prima ancora che aprisse bocca. Non immaginava nemmeno che potesse esistere. Polonia sapeva che esisteva. Gilbird cinguetta una melodia più energica, Lituania prende un respiro profondo. Guarda il braccio tatuato dell’amico e prende coraggio.

“Polska, chi è Toris? Ora me lo dici?” Gilbird continua a canticchiare, come se la domanda non avesse modificato assolutamente nulla nell’aria. Per Liet è come se gli si fosse stato tolto un coltello inchiodato nel fianco. Sente un gran sollievo. Per Polska è come se stesse per strapparsene uno con le proprie mani. Lo sente deglutire.

“Sì, ora ne possiamo parlare” dice, buttando il pennello nel barattolo e tirandosi le maniche della maglietta “Però è una storia lunga. Credo che prima dovrei parlare di come ti sei sentito dopo che io morii e di come si comportò Russia con te…”

“P-Polska, questo in realtà dovrei raccontartene io. Hai sbaglia-…”

“No, Liet. No” interrompe pacificamente la sua frase. Polonia alza gli occhi sui suoi e non riesce a credere che abbia così tanta calma e pazienza riflessa nelle sue iridi. Lituania è l’unico veramente spaventato di tutto ciò. Il cuore gli balza in gola. Polska aveva la chiave per strappargli dal corpo la sua armatura e non l’ha mai usata. Si sente nudo ed indifeso. Il ragazzo è ancora confuso e vuole spiegazioni. Polska si siede a terra e Liet tentenna nel fare lo stesso.

“Prima ti parlerò di Mosca, poi della famiglia Lukasiewisz, poi di Prussia” Prussia!?, sussulta Liet dentro la sua anima “e di come entrai in un campo di concentramento. E ti parlerò anche di Toris… no, cioè, Feliks. È il suo vero nome” e Gilbird continua a cantare.

L’occhio di Lituania cade sul braccio scoperto di Polska. L’aveva notata la prima volta con incredulità e rabbia, vedendo la carne bruciata da sei numeri 0. Anni più in là l’aveva osservata con indifferenza, ora la scruta come se fosse stata la chiave di tutto e mai avrebbe giurato che fosse stata tanto importante.

Tra i numeri, con mani esperte, è stato inciso elegantemente un nome: Feliks Łukasiewicz. Polska ha voluto battezzarsi come il suo angelo, ma non col suo intero cognome. Giusto una stacca nella L, per ribadire che egli non è e mai sarà veramente parte di quella meravigliosa famiglia, che gli ha salvato la vita, l’anima e la Nazione.

Polska incrocia le dita, la scritta sul braccio brilla mentre racconta la sua storia.

 

 

 

 

 

 

 

 

“E’ iniziato tutto con una dormita totalmente fantastica, una cartina gigante e un pulcino che non ne voleva sapere di lasciarmi ronfare…”

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

ANGOLO DI L0G1

Questa è la fine della nostra avventura, che forse per molti è durata anche troppo, ma ammetto di essermi divertita come non mai. Ho tentennato molto per l’università e, soprattutto, perché volevo darvi un finale reale e nemmeno troppo dolce alla mia storia.

È emozionante concludere questo papiro dopo, accidenti, più di due anni dalla pubblicazione. È la seconda volta che concludo una long, ma questa è speciale per me. È stato un onore scrivere per voi e avere così tante persone che leggono ancora la Fenice d’Argento. Grazie a voi, per averla conclusa con un sorriso.

 

Ringrazio in particolar modo i recensori

Feliks the Phoenix

Dimonios_

Russia_love

mary_manga01

Pochaka o Gozli

Le vostre parole mi hanno fatto aprire il cuore ancor di più alla scrittura di questa fanfiction. Vi ringrazio di cuore J.

 

Chi l’ha portata tra le Preferite:

Davos

Feliks the Phoenix

mary_manga01

Nhikaoru

Rosa Verde_Blu

_Dreamer97

 

Chi nelle ricordate

Davos

 

E chi nelle seguite

anaFuZy14

Briciole_di_Biscotto

Dimonios

Davos

Fay_Fay

Girasole98

Imetta

LaRagazzaAsociale16

LB Shadow

mary_manga01

Moonflower95

 

 

E tutti coloro che hanno letto in silenzio.

 

Senza di voi tutto questo non sarebbe stato possibile. Spero di rivederci in un’altra avventura, forse lasciando finalmente in pace Lituania e Polonia XD.

Un abbraccio e questa volta con un bel ‘Storia Completa’, e un Buon Natale a tutti voi!

L0g1

 

 

 

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3285848