Illusion

di EvrenAll
(/viewuser.php?uid=561248)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Non cambia nulla ***
Capitolo 2: *** Easy ***
Capitolo 3: *** Caffè ***
Capitolo 4: *** Amaro ***
Capitolo 5: *** Giostra ***
Capitolo 6: *** Morgan ***
Capitolo 7: *** Awake ***
Capitolo 8: *** Reunion ***
Capitolo 9: *** Nodo ***
Capitolo 10: *** Vedersi ***
Capitolo 11: *** Pausa ***
Capitolo 12: *** 1988 ***
Capitolo 13: *** Stordita ***
Capitolo 14: *** Monologo ***
Capitolo 15: *** Scelta ***
Capitolo 16: *** Ammissione ***
Capitolo 17: *** Ricominciare ***
Capitolo 18: *** Rifugio ***
Capitolo 19: *** Catarsi ***
Capitolo 20: *** Inaspettato ***
Capitolo 21: *** Nostro ***
Capitolo 22: *** Foto ***
Capitolo 23: *** Drift ***
Capitolo 24: *** Ironic ***



Capitolo 1
*** Non cambia nulla ***


Non cambia nulla
(Black Milk - Massive Attack)










22 gennaio 1991


-Sei una palla, Lizzie-

Ecco, ci risiamo.

-Prendi il cazzo di telefono e chiamalo, no?-

-Adriana ha ragione. Porca puttana, chiamalo e basta-

Mi veniva da ridere a vedere quei due andare d’amore e d’accordo, visti i loro pregressi. Il trucco alla fine era stato non intraprendere una relazione che oltrepassasse l’amicizia.

Steven e Adriana mi guardarono entrambi di sbieco, disapprovando il sorriso che avevo addosso.

-Siete stupendi-

Inclinai la testa appoggiandola alle mani.

-Le tue opere d’arte, si- sbuffó scocciata e scorse la rubrica del suo cellulare portandolo subito all’orecchio.

I suoi occhi mi parlavano anche se lei teneva la bocca chiusa “Avresti dovuto farlo tu”.

Sì, avrei dovuto.

 

Ma mi si rivoltava lo stomaco nella pancia al solo pensarci.

 

-A me non risponde-

-Io non ci provo neanche- Steven scoppiò a ridere.

Sospirai e mi alzai per lasciare la stanza, anche se tecnicamente era la mia cucina.

 

-Elizabeth!-

 

Ignorai i ragazzi e chiusi dietro di me la porta della terrazza.

 

Ci eravamo lasciati, si era sposato, sua moglie aveva abortito, avevano firmato le carte per il divorzio.

Tutto nella norma.

Tutto nella norma.

 

Ed ora mi toccava fare finta che la loro separazione e la sua sofferenza mi lasciassero indifferente.

Non era così, perchè nell’anno passato con lui avevo imparato a conoscere il suo modo di vivere con il dolore.

Tra tutte le persone di cui era circondato ci sarebbe dovuto essere almeno qualcuno con cui potesse dividerlo, no? Il dubbio mi assillava.

Ma non ci sentivamo da troppo tempo e non volevo che si riavvicinasse a me solo per essere consolato.




Quella notte seppellita nel cuore, il mio peso sulle spalle.

Rinata dal passato, costretta a nascondere il mio amore in un pozzo.




 

Stavo andando anch’io avanti.

Ci stavo davvero provando, anche se mi rendevo conto che non avrei trovato nessun altro al mondo che fosse come lui.

Ma c’erano Morgan e Joe.

Morgan mi aveva già travolta con la sua esuberanza e la sua stravaganza, Joe… lui aveva contribuito alla mia rinascita.

Non avrei potuto dire di amarlo, ma diamine se gli volevo bene.

Ci provavo.

Ci provavo da un anno.

Però ora il divorzio sembrava essere un segno: il via libera per tornare alla carica ed abbandonare quello che stavo provando a costruire.

Inspirai profondamente.



No.



 

Cosa ti sei promessa Elizabeth?

L’hai giurato a te stessa: hai giurato di portare rispetto verso di te e non farti ammazzare dai sentimenti. Non farti illusioni e non farti più coinvolgere, non cadere nella trappola di un amore non corrisposto.

Ma nel rispetto per me stessa riconoscevo che la fiammella che il dannato Axl Rose aveva acceso in me la sera del 23 marzo 1986 non si era spenta. Era così: piccola, flebile e spaventosamente vicina ad un barile di benzina.

Bastava solo che rimanesse innocua, a distanza di sicurezza.

Ce la potevo fare.




 

Per te Elizabeth, per chi altro?

Vuoi ancora lasciarti ferire?



 

Rientrai spegnendo la cicca nel posacenere.

-Rinfrescata le idee?-

-Sì: vado dal mio ragazzo ora-

Adriana sospirò arresa.

-Quel figaccione del negozio verso il centro?-

-Certo, gradireste uscire da qui?-

Inclinai la testa esortandoli ad avvicinarsi alla porta.

-Stronza eri, stronza rimani- sbuffó Adriana.

-Mi auguro che tu non dica sul serio-

-Ti chiamo, Betty-

-Steven, chiamami ancora così e-

-Proprio carina quando mi minacci di morte-

Non smise di sorridere e mi schioccó un bacio sulla guancia.

-Andiamo, prima che prenda un coltello e ci squarti- concluse Adriana alzando gli occhi al cielo.

-Più rilassata, Elizabeth, devi essere più rilassata- concluse guardandomi.

Salutarono ed uscirono.

Afferrai la giacca appoggiata all’attaccapanni, presi la borsa e li seguii fuori.






 

Camminai una ventina buona di minuti, seguendo una delle strade meno affollate.

Perché dovevano presentarsi alla mia porta e ricordarmi in modo così prepotente della sua esistenza? Come se riuscissi a farlo rimanere ai margini di norma.

Mi tormentava: la canzone alla radio, il video su Mtv, il manifesto di un concerto, le rose.

Ma mi sforzavo: ai margini della mia mente.

...il tempo aveva comunque un po’ aiutato.

...e anche il fatto che avesse davvero sposato Erin. E che lei fosse rimasta incinta.

Mi fermai fuori dalla vetrina sedendomi sul gradino vicino all’entrata.

Posai la borsa sulle ginocchia e ci ficcai le mani, in ricerca.

Aveva la sua vita, avevo la mia.

Dovevo farmi bastare questo.

Dopotutto probabilmente si era dimenticato totalmente della mia esistenza. Aveva scelto di farlo ed era rimasto coerente a sé stesso, ero io la stupida che ci pensava ancora e tornava indietro: nei ricordi, nella memoria.

Pozzo senza fondo.

Sollevai piano il pacchetto di Marlboro Rosse.

Era sigillato.

Lo tenevo in borsa da tre anni ed era sigillato.

Febbraio ‘88.

Non mi ero mai concessa di aprirlo.

Lo strinsi tra le dita ed accarezzai il marchio familiare.

Non dovevo aprirlo.

Appoggiai i gomiti alle ginocchia lasciando che la mia fronte si posasse in avanti, su di esso e sulle mani.




 

Non cambia nulla.



 

Oggi non è diverso da ieri.



 

Non cambia nulla.





 

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Easy ***


Easy
(She's in parties - Bauhaus)










 

-Ciao moretta-

Joe prese posto al mio fianco e mi circondò le spalle con una delle sue braccia permettendomi di appoggiarmi al suo petto.

-Pensieri?-

Nascosi il pacchetto nella borsa con lentezza ed afferrai l’astuccio con il tabacco.

-Sono passati a trovarmi Adriana e Steven-

-Carrellata di buone notizie?-

-Axl ed Erin divorziano-

Ero troppo schietta?

Tanto avrebbero fatto notizia.

Mi strinse una mano sulla spalla baciandomi i capelli.

-Resti qui, vero?-

Mi girai a guardarlo, incredula.

-Davvero?-

Rimase a fissarmi aspettando che fossi io a dire qualcosa.

Capiva troppo che lui, Axl, era stato davvero tanto per me, e capiva me.

-Ma sei stupido?-

Come se avessi voglia di farmi affossare di nuovo il cuore da quel rosso.

Soffocai la parte di me pronta a contraddirmi e lo baciai.

Mi strinse di più a sè, calmandosi.

Leccò le mie labbra, tracciandone lieve il contorno con la lingua. Risposi intercettandola e mordicchiandogli il labbro con delicatezza.

-Lavorato oggi?-

Umettò le labbra allontanandosi quel che bastava per parlare, ma non sufficientemente da impedire di farmi sentire il suo respiro addosso al mio viso.

-I miei clienti sono sempre soddisfatti-

Appoggiò il viso contro la mia spalla.

-Credo di avere bisogno solo di guardare a più di venti centimetri dal mio naso al momento, e di stiracchiare le mani-

-Se n’è già andata, la tua opera?-

Annuii, stanco.

-Peccato-

-Una figata di disegno, anche se quello che ho fatto per te rimane ancora nella top ten-

Gli baciai piano la fronte, rimanendo evidentemente sovrappensiero.

-E se venissi da te stasera..?-

Sollevai la mano percorrendo la sua figura e gli accarezzai i capelli.

Neri, forti, mossi.

Joe era uno dei ragazzi più belli che avessi mai visto nella mia vita, e la sua personalità semplice mi piaceva da matti. Era un ottimista, lui.

-Ordiniamo cinese?-

Alzò lo sguardo speranzoso.

-Se proprio è necessario…- risposi vaga alzando gli occhi al cielo.

-Senza Morgan...?-

Si morse il labbro, vago.

-Senza Morgan- confermai abbassando la voce.

-Farei le fusa se fossi un gatto-

Mosse il viso contro la mia spalla e sorrisi lasciandolo fare, mentre la sua barba mi pizzicava la pelle.

-Potrei quasi concederti di vedere lo stencil-

Azzardò alzandosi e stiracchiandosi.

Allungai una mano sulla sua pancia approfittando della canottiera, sfilatasi dai pantaloni per merito del suo allungarsi, e la strinsi piano. Pancia, petto, ventre su cui cresceva una leggera peluria scura… non si depilava, grazie al cielo.

-Tipo giapponese, sulla coscia-

Tenne le braccia incrociate dietro la testa.

-E l’hai finito tutto?-

-Sì, ci andavamo avanti da un paio di sedute-

Mi alzai, avvicinandomi a lui fino a far aderire la mia pancia alla sua.

Arrivavo malapena al suo mento. Era alto alto, Joe.

-E poi è divertente avere a che fare con donne mezze nude per queste cose-

Rise tra sè, allegro, inarcando le sopracciglia e sottolineando con quel piccolo gesto il piercing sull’arcata sinistra che aveva attirato tanto la mia attenzione fin da subito.

-Idiota- mi lasciai sfuggire un piccolo pugnetto, colpendolo all’altezza dei reni senza la vera intenzione di fargli del male.

Mi bloccò la mano e mi baciò ancora, appoggiando i suoi palmi prima sulle mie spalle e poi sul mio viso.

-Piccolina-

Gli feci una linguaccia ed entrai nel negozio, scappandogli prima che potesse avvolgermi in uno dei suoi colossali abbracci.

-Voglio vedere lo stencil!-







 



22.56

Sospirai rilassandomi.

Nuda, alla sua mercè, avevo trovato una dimensione di totale serenità.

Chiusi gli occhi mentre faceva scorrere la punta del pennarello ancora chiuso lungo il mio corpo, dal seno al ventre.

-Sai cosa sarebbe perfetto in questo momento?-

Aprì il pennarello ed iniziò a tracciare delle linee all’altezza della mia anca, giocando con il profilo dell’osso del bacino. Il solletichio provocato da quella punta umida mi faceva sorridere.

-Cosa?-

-Una canna-

Rise piano.

-Incosciente, piccola maniaca-

-Incosciente perfino?-

-Anch’io ho voglia di fumare qualcosa di buono a dir la verità-

Commentò abbassandosi pericolosamente lungo la coscia.

-Con un po’ di Pink Floyd sullo stereo magari- aggiunse.

-Facciamolo, ti prego- riaprii piano gli occhi mentre cambiava colore.

Un motivo semplice e floreale stava apparendo sulla mia pelle.

Era impagabile vedere come i suoi disegni sgorgassero fuori così naturalmente da ogni strumento che avesse per le mani.

Sorrise in quella sua maniera strana lanciandomi un’occhiata scura.

-Joe?- mi tirai su appoggiandomi ai gomiti senza smettere di guardarlo.

Lasciò il suo lavoro in sospeso riappoggiando la sua arma dietro di sè, nell’astuccio sul suo comodino. Era un disastro, la sua camera: piena di disegni, piena di colori, piena di tutto.

Torse il corpo all’indietro ed i muscoli si tesero in quella semplice azione. Splendido.

-Hai davvero talento-

Rise.

-Lo so, ma c’è tanta gente molto più brava del sottoscritto-

-Modesto-

-L’umiltà è la chiave per riuscire ad imparare sempre qualcosa di più, qualcosa di nuovo-

-Si sente che sei vecchio-

Nascosi una smorfia divertita e soddisfatta ed allungai una mano fino ad accarezzargli il corpo. Come ogni tatuatore che si rispetti, la sua passione non era limitata solo al disegno: era egli stesso un’opera d’arte.

Lì, sul braccio e su una piccola parte del petto c’era uno dei disegni che apprezzavo di più.

Il tema principale era un motivo floreale, tra cui erano nascoste mille cose, ciascuna con un piccolo significato.

Orologio da taschino.

Una sottile frase in latino.

Un teschio.

Delle chiavi.

Un occhio tremendamente realistico, visibile solo quando alzava il braccio o lo portava all’indietro.

-Vecchio a trent’anni, ti sprechi con i complimenti-

Fece una smorfia mentre specificavo che avrebbe compiuto 32 anni proprio a fine agosto di quell’anno.

-Il tempo, il tempo…- cantilenai, accarezzando le lancette del suo orologio.

-Simpatica, davvero-

Sbuffò, alzandosi, lasciandomi sul letto, semiseduta, ad ammirare il suo corpo di spalle.

-Però per essere un quasi trentaduenne hai un culo davvero stupendo-

Allungai le mani verso di lui per abbassare i boxer che nascondevano la sua pelle.

-Almeno quello- girò la testa appena, quanto bastava per vedermi, e con una mano mi impedì di proseguire a spogliarlo.

-Credo di doverti portare a casa, Ellie-

-...non posso dormire qui?- proposi piano.

-Dormiremmo davvero?-

-Non ti basta il nostro post-cena?- mi appoggiai al materasso, sfiorandomi il seno con una mano.

Alzò un sopracciglio, sfacciato, come per dire che ero io quella a cui non bastava mai.

-Non scambiarmi per una ninfomane-

Gonfiai le guance e mi raggomitolai sul suo letto, nascondendomi sotto le coperte e rifugiando la testa sul cuscino.

Avevo bisogno di rimanere lì perchè lo spettro di Axl non mi tormentasse quella notte.

Vivendo appieno il mio presente, la mia relazione con Joe, l’avevo relegato in un angolino della mente, ma sentivo sarebbe tornato se fossi rimasta troppo da sola, soprattutto dopo la notizia ricevuta quella mattina.

-Elizabeth-

Lo sentii sospirare.

-Piccola bambina capricciosa che non sei altro…-

Sentii il materasso inclinarsi sotto il suo peso.

-Domani lavoriamo entrambi, lo sai?-

-Ti prometto che dormo. Faccio la brava. Brava bravissima-

-Ma se rimani nel mio letto così, non so se io riesco a fare il bravo- specificò, infilandosi nel letto dietro di me e facendo aderire totalmente il suo corpo a me.

Era nudo.

-Sono brava a controllarmi-

-Io non so se voglio controllarmi-

Fece scorrere le mani su di me.

-Domani lavoriamo, lo sai?-

Rigirai la sua domanda, e rise sottovoce.

-Non ci credo… rifiuti un vecchietto come me?-

A Joe i preliminari non piacevano tanto quanto piacevano ad Axl, l’avevo imparato bene.

Ma tutto sommato non era una mancanza così grave.

-Sbaglio o la presenza di una donna nuda nel tuo letto ti eccita?- sussurrai mordendomi il labbro sentendolo premere addosso a me.

-Per una volta che non c’è Morgan nella stanza di fianco… -

-Predichi bene e razzoli male, tesoro-

Mi avvicinai assecondandolo ed accavallai una gamba alle sue.

C’era qualcosa di stranamente eccitante, nel suo sfiorare ma non toccare, avvicinarsi ma non entrare.

Non farlo fino a quando mi mi avrebbe sentita pronta.

Appoggiò una mano sul mio ventre, guidandomi nella posizione giusta.

Il sesso con lui era così diretto e semplice.

Poca malizia, azione e soddisfazione.

Infondo non poteva esserci modo migliore per concludere la giornata e lasciare da parte i pensieri, no?







 

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Caffè ***


Caffè
(Merrie Melodies opening)










 

23 gennaio 1991


 

Presi un profondo respiro provando ancora a chiudere gli occhi, ma la luce che filtrava dalla porta finestra mi impediva di prendere sonno.

Girai la testa, puntando lo sguardo sulla sveglia regolata sulle sette del mattino e li riabbassai le palpebre, cercando di assimilare quel che avevo visto.

6.17.

I miei risvegli imprevedibili.

Li riaprii definitivamente sentendo la porta d’entrata chiudersi con un leggero tonfo.

Allungai lo sguardo verso il corridoio: avevamo lasciato la camera aperta e mi aspettavo di vedere una figura sbucare nella stanza di Joe da un momento all’altro.

Udii invece il rumore delle chiavi sul legno e lo scroscio dell’acqua nel lavabo.

Decisi di alzarmi per raggiungere il mio ospite.

Passai lieve l’indice sulla guancia di Joe.

Aveva ancora almeno mezz'ora di sonno davanti. Respirava impercettibilmente, tenendo una delle sue mani aperte sul mio fianco.

Scostai piano le coperte allontandomi da lui cercando di non svegliarlo, quindi mi misi in piedi.

 

Ora. Dove erano finite le mutande?

E perché uscire da quel rifugio caldo doveva sempre essere un trauma?

Rabbrividii mentre mi piegavo per raccoglierle e dopo aver indossato quelle e la maglia di Joe ed aver fatto un salto in bagno, mi diressi in cucina.

 

-Ciao Mo’-

Presi posto sulla sedia affianco alla sua e mi soffermai a guardarla: aveva sepolto la testa tra le braccia, incrociate ed appoggiate al tavolo della sala.

-Mmh-

Che risposta eloquente.

-Faccio un caffè-

Decretai, rialzandomi.

-Guarda che io vado a dormire ora- specificó, trascinando la voce, senza ancora degnarmi di uno sguardo.

-Che hai fatto stanotte?-

-C’era il compleanno di Seth- proruppe in un sonoro sbadiglio ed inclinó la testa di lato. Le ombre sotto i suoi occhi scuri erano traccia esplicita di una notte insonne.

Sistemai la moka sul fuoco, accesi mettendo la fiamma al massimo e mi girai a guardarla.

-Il cantante?-

-Lui- storse la bocca in una smorfia sognante.

Alzai un sopracciglio, interrogativa.

-Ho conosciuto la sua ragazza-

Sciolse le braccia e si appoggiò allo schienale, tradita da un sorriso di soddisfazione.

-Dolce, molto dolce-

Abbandonó la testa all’indietro.

Il malandato caschetto che portava le sfiorava appena la schiena. Un po’ di frangia le nascondeva la fronte, ma alcuni ciuffi di quella erano stati raccolti con qualche forcina.

Trattenni una risata guardandola.

-Non giudicarmi, come se tu e mio cugino non aveste scopato tutta la notte. Ho le mie necessità- alzò le spalle.

-Te la sei fatta?-

-Era abbastanza brilla…-

Mi voltai, sentendo il gorgoglio proveniente dal contenitore sui fornelli. Spensi il fuoco e mi avvicinai alla credenza per prendere tre tazze.

-Seth era abbastanza marcio- continuò piano, giocando con l’unica ciocca risparmiata dal taglio: una treccina parecchio più lunga del resto della sua chioma.

-Ammetto di averne leggermente approfittato-

Versai il liquido caldo nascondendo una risata.

-Che cattiva ragazza-

-Elizabeth, stai attenta, questa ti stupra nel sonno- il mormorio della voce di Joe ed il suono del suo sbadiglio mi fecero allargare il sorriso.

-Buongiorno Morgan- lo guardai di sfuggita mentre le lasciava un bacio sulla testa.

-Mmh, caffè…-

Appoggió le mani alle mie spalle con delicatezza ispirando l’odore amaro.

-E la mia maglia- puntualizzó, scostando i capelli dal mio collo per baciarlo.

-Io non stupro nessuno-

-Volete anche un po’ di latte?-

-No- risposero immediatamente con un’assurda sincronia.

-Qui allora-

Appoggiati le tazze davanti ai loro posti e mi diressi al frigo a prendere latte per me.

-Grazie-

Morgan si avvicinò subito al contenitore ed immerse il viso nei vapori della bevanda bollente.

-Buongiorno eh…-

Joe mi sbirció afferrando il contenitore dello zucchero ed appoggiandolo alla tavola insieme a tre cucchiaini.

-Ciao-

Mi avvicinai e lo guardai, in attesa che si abbassasse quel che bastava per permettermi di raggiungere le sue labbra.

Mi appoggiò una mano sulla guancia, accompagnandomi verso di lui.

-Nana- sussurró, spostandola fino alla mia testa per scompigliarmi i capelli.

Soffocai malapena una smorfia e gli punzecchiai un fianco, facendogli fare un passo all’indietro.

-Se cerchi la guerra l’avrai- commentai.

-Deponi l’ascia, bimba, vengo in pace- ridacchió prendendo posto. Mi sedetti sulle sue gambe e versai subito la bevanda bianca nel caffè, osservando come da quell’incontro scaturisse un nuovo colore.

Morgan alzò gli occhi dal tavolo per guardarmi, catturata dalla mia mancata risposta allo scherzo di suo cugino e dall’insolita concentrazione che stavo impiegando per compiere un’azione così semplice.

-A che ora devi essere al bar?-

-Tra non molto, ti scroccheró un passaggio, Joe-

Intercettai l’occhiata perplessa di lei iniziando a mescolare il caffè latte.

Sollevai appena la destra dalla superficie del tavolo e mossi l’indice in modo che disegnasse un paio di cerchi.

Dopo Mo’, parliamo dopo.

In tutta risposta affiló lo sguardo, scuotendo impercettibilmente la testa.

-Va bene- Joe intanto prese la tazza e, velocemente, ne bevve il contenuto.

-Bimba, vado a docciarmi- battè un lieve colpo sul mio fianco e mi alzai di qualche centimetro: giusto quel che bastava per fare in modo che potesse sfilarsi da sotto di me.

-Va bene- un altro lieve bacio e sparì nella zona notte.

Continuai a far girare il cucchiaio senza alzare lo sguardo, lasciando che lo zucchero si sciogliesse fino all’ultimo granello.

Una volta chiusa la porta del bagno Morgan si schiarì la voce in modo alquanto esplicativo.

Sospirai profondamente prendendo tempo e parlai solo dopo aver udito il sottile rumore dello scroscio d’acqua sul piatto di ceramica.

-Divorziano-

-Non potevano durare, l’avevo detto-

Che sbruffona. Presi un bel respiro evitando di guardarla.

-Elizabeth- cantilenò.

-Che vuoi?-

-Capire come stai-

-Bene-

Scosse la testa.

-Dì quello che pensi alla cara Morgan: lei sa-

Sorseggiò il caffè con calma stoica.

-Non torno da lui- strinsi le dita sulla tazza e desiderai ardentemente che una sigaretta accesa si materializzasse tra le mie labbra.

-Non sto bene quando parliamo di lui-

Vedevo rosso.

-Ci sto provando davvero con Joe, ora-

Nascose una risata prendendomi in giro -Grazie: siete passati da ‘ci vediamo per il sesso’ a ‘facciamo la coppia fissa’-

-Che dicevi prima sulle esigenze?-

Alzai gli occhi al cielo, scocciata.

-Touchè, amor-

-Ma lascialo prima che si innamori troppo, se non fai sul serio-

-Ma io faccio sul serio!- sibilai convinta a bassa voce.

Mi guardò con sufficienza alzandosi e finendo di bere.

-Ti basta la parola divorzio e torni a pensarci. Riflettici su-

Incrociai le braccia seccata.

-Buonanotte Elizabeth- fece un cenno e si nascose in camera sua.

Scossi la testa e la abbassai, cercando di farmi il più piccola possibile.

Qualche giorno e avrei smesso di pensarci.



That’s all, folks.










 

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Amaro ***


Amaro
(A Bitter Song - Butterfly Boucher)






2 febbraio 1991




 

Now you say you're lonely

You cry the whole night through




 

Continuavo a dirle che avremmo avuto bisogno di più strumenti rispetto al basso, ma lei insisteva ed arrangiava.

E stranamente alla gente piaceva.





 

Well you can cry me a river

Cry me a river

I cried a river over you




 

L’unica volta in cui ci aveva sentite esibire poi, McKagan si era sprecato con i complimenti per quella ragazzina che suonava il fretless quasi come lui suonava il suo Fendler Jazz Bass.

Morgan aveva ritmo e groove, non c’era nient’altro di importante oltre a questo.




 

Now you say you're sorry

For being so untrue

Well, you can cry me a river

Cry me a river

I cried a river over you





 

Trattenni un sospiro.

Fissai la folla, articolando quelle semplici parole mentre il suono profondo proveniente dall’amplificatore alle nostre spalle ci cullava.

Era strano, quello che avevo con Morgan.

Eran una ragazza talmente schietta che a volte, davanti alle sue sentenze ed alle verità che mi sbatteva in faccia riuscivo solo a mandarla a quel paese e ad andarmene. Allo stesso modo però la cercavo.

Suo padre, zio di Joe, l’aveva sbattuta fuori di casa non appena aveva avuto la conferma che sua figlia fosse strana.

Che persona di merda.




 

You drove me, nearly drove me, out of my head

While you never shed a tear

Remember, I remember, all that you said

Told me love was too plebeian

Told me you were through with me




 

Comunque, giusto per fare un esempio: questa canzone, come gran parte delle altre che componevano la nostra scaletta, l’aveva scelta lei, e, testuali parola “Non gliene fregava un cazzo se l’avevo cantata con Rose: me la dovevo far passare”. Perchè era una bella canzone e perchè aveva trovato un arrangiamento schifosamente meraviglioso.




 

And now you say you love me

Well, just to prove you do

Come on and cry me a river

Cry me a river

I cried a river over you




 

Le persone erano per la maggior parte concentrate nel chiacchierare o nel mangiare.

Pochi ci stavano ascoltando davvero, ma c’erano. Attenti, rapiti dalle sue mani o dalle mie labbra.

Seguivano il nostro piccolo duetto in quelle bettole di Los Angeles che ancora avevano bisogno di musica di sottofondo, e di tranquillità.

E noi portavamo a casa almeno una cinquantina di dollari a serata, e mangiavamo gratis.

Un concertino al mese se andava bene, e prove a casa di Joe.

Non ci interessava poi molto di diventare importanti o cose del genere.

Ci piaceva e basta.

Per la mia vanità, per la sua finta modestia.

Dissi un chiaro grazie in risposta agli applausi più o meno spontanei del nostro pubblico.

Guardai Morgan mentre afferrava una sigaretta e se la sistemava, spenta, tra le labbra, prima di attaccare con il bravo successivo. Mi chinai verso terra prendendo dalla borsa un ovetto per dare la parvenza di una base ritmica e iniziai a scuoterlo, seguendo il giro di basso.

I Police.

Lasciai vagare lo sguardo nel locale e sorrisi, vedendo Joe accomodarsi vicino al palco che avevamo improvvisato.


Che guaio, cantare canzoni d’amore.


Avevo rivisto Joe nel 1990 per colpa di Morgan, dopo averla conosciuta sulla spiaggia, dove lei cercava di raccimolare qualche soldo facendo da commessa in uno stupido negozio per turisti.

Io e lui eravamo usciti qualche volta a bere, ed eravamo finiti fin troppo in fretta a fare sesso sul divanetto del suo studio.

Poi si era parlato di una relazione.


Più che d’amore, sembrava parlare di stalking, la canzone.


Mi concentrai sul ritmo ignorando il resto e chiudendo gli occhi.





 

30 agosto 1990
 

-E come va con Axl?-

Appoggiai il bicchiere e risi fin quasi ad avere le lacrime agli occhi. Mi avevano trattato come una bambina nascondendomi quello che era successo per mesi. L’avevo scoperto solo una settimana prima imbattendomi in uno stupido video su Mtv.

-Mmh, si è sposato- ridacchiai e lo ripresi svuotandolo.

-Ouch- nascose la bocca con una mano guardandomi fin troppo seriamente.

-Ci siamo lasciati- mi morsi il labbro, desiderando che il bicchiere si riempisse ancora.

-Stasera dovevo uscire con Adler perchè sostiene ...dice che la notizia del matrimonio mi ha scossa troppo- mi appoggiai alla sedia.

Ignorai il suo sguardo accigliato ed il suo avvicinarsi.

-Io? Scossa?- sorrisi sfacciata.

-Sono due anni e mezzo che non vedo quell’uomo, quindi chissenefrega-

Due anni, sei mesi e ventisette giorni.

Richiamai l’attenzione di uno dei camerieri e mi feci servire della sambuca.

-Duff invece dice che sono sessualmente frustrata e si offre volontario per sopperire alle mie mancanze- sghignazzai, indugiando troppo a lungo con gli occhi sulle sue labbra e sul piercing sul suo sopracciglio sinistro.

-Teoria interessante-

Si piegò leggermente nella mia direzione lungo il tavolo cercando di non ridere di me.

Ingurgitai un dito del superalcolico e lo guardai.

-Ad Axl e a me piaceva...-

Giù tutto il bicchiere.

Tirai indietro i capelli mentre sentivo la gola bruciare.

-Joe, ho bisogno di fumare-

-Ti faccio compagnia, però camminiamo-

Ci alzammo e sistemammo il conto alla cassa, quindi uscimmo.

Faceva caldo, ma ignorai l’afa estiva e mi rollai una sigaretta con fin troppa sicurezza considerando tutto quello che avevo bevuto quella sera. Accesi e presi la prima boccata seguendo Joe nella sua passeggiata.

Aveva allacciato le nostre braccia in maniera che non potessi cadere per terra per qualche strano gioco di equilibrio nel mio cervello e la cosa risultava parecchio strana ed anomala perchè non ero mai uscita con un ragazzo che fosse perfino alto un centimetro più di McKagan.

Parlammo di cose futili per cinque minuti, quindi esaurimmo gli argomenti.

Rimanemmo in silenzio, fino a quando mi sorprese con una domanda.

-Quindi con McKagan ci sei andata a letto?-

Tolsi la sigaretta dalle labbra iniziando a ridere sguaiatamente.

-No, no! Duff? No, anche se ci ha provato disperatamente- Cercai di ricompormi, mentre lui mi osservava, quasi allucinato dalla mia reazione.

-Due uomini hanno avuto il privilegio, basta-

In realtà Joe mi eccitava. Lui ed il suo modo di guardarmi e guidarmi per Los Angeles.

-E quando dice che sono frustrata.. che ne vuole sapere- inspirai e gettai il mozzicone prima di attraversare la porta di quello che riconobbi come il suo negozio solo dopo essere stata circondata dal ronzio della luci a neon.

Trasalii sentendo le sue mani appoggiarsi alla mia schiena.

-Rilassati-

-Dovrei?-

-Sì-

Presi un respiro profondo, facendo arrivare l’aria fino in fondo ai polmoni.

-Sei un fascio di nervi… Fammi rivedere questo qui…-

Dal bordo della maglia si vedeva solo qualche centimetro quadrato di pelle colorata di giallo-arancio.

Parlava del mio tatuaggio.

-Controlli se me ne sto prendendo cura?- incurvai le labbra e sfilai l’indumento scuro che portavo, rimanendo in reggiseno. Un reggiseno con una fantasia particolarmente poco interessante, ma con delle spalline rosso bordeaux che amavo.

Spostò i miei capelli e mi accarezzó la pelle ripercorrendo le linee del disegno.

-Molto bene- mormorò.

Il tocco delle sue dita era molto più interessante senza guanti, era molto più interessante ora che non avevo nessuno.

...forse Duff aveva ragione. Almeno un pochino.

-Posso rimetterla?-

-Hai mai pensato ad altri tatuaggi?-

-No. Non ancora-

Fece scorrere il pollice lungo la spina dorsale.

Mi stava provocando?

-Ti tatuo più che volentieri. Tienimi presente.-

-Certo-

Rimisi la maglia e mi voltai guardandolo per qualche secondo.

-Grazie- mi alzai sulle punte, schioccandogli un bacio sulla guancia. Rise per la mia bassezza e per la sfacciataggine con cui avevo finito per sdraiarmi sulla poltroncina per i clienti.

-Quindi mister...-

Incrociai le gambe guardandolo.

-E la tua ragazza? L’hai mollata per disperazione?-

-Parli del fatto che io sia single?-

Rise piano.

-Ci siamo mollati, abbiamo semplicemente deciso che non eravamo fatti l’uno per l’altra. Siamo andati avanti troppo, ci trascinavamo... Non ci siamo più visti-

Fece qualche passo verso di me.

-Da?-

-Tre, quattro mesi-

-Ti senti libero?-

Annuì, appoggiando una delle ginocchia vicino alle mie gambe.

-Tu?-

-Lui è sposato, dovrei-

Mi umettai le labbra. Era troppo vicino e il mio corpo non era indifferente.

-Ho l’impressione che la tua testolina non abbia un attimo di pace- infilò con cautela una mano tra i miei capelli. Chiusi gli occhi.

-No-

-Da quanto non stai con qualcuno?- Fece scorrere la mano lungo il mio viso e la premette sulla mia pelle, troppo vicino al mio seno.

Da lui.

-Da troppo-

-Ti porto a casa-

L’assenza improvvisa di contatto mi fece trasalire. Ne avevo bisogno. Ero eccitata e ne avevo bisogno.

-Hai intenzione di fare il bravo ragazzo?-

Prima che si potesse allontanare afferrai la sua maglietta cercando di tirarlo verso di me.

-Non sono ubriaca-

-Cioè, solo un po’, ma sono consenziente-

-Sei disperata- mi corresse.

-Aiutami a farmela passare allora-

-Mh- mugolai sorpresa dalla sua irruenza e dal modo in cui le sue mani avevano stretto la mia pelle.

Mi aveva baciato incollandomi al sedile della poltroncina e si era subito tirato indietro.

-Anche tu lo sei- constatai.

-Non pretendere di conoscere quello che non sai- mi squadró severamente, ma risi.

-Suvvia, un po’ di sesso non farà male a nessuno-

Si appoggiò a me di nuovo mentre allungavo le mani verso le sue anche. Mi morsi le labbra tastando la sua pelle calda.

-Mmh, no- concluse chinandosi verso di me.

Mossi una gamba e lo strinsi in modo che fosse più vicino ancora. Rispose aderendo di più a me e facendo scorrere il bacino addosso al mio interno coscia più volte, fino ad arrivare in mezzo.

Insistette.

Jeans contro leggins. Magnifica frizione.

Smise solo per un attimo e continuai a guardarlo mentre si abbassava i pantaloni e recuperava un goldone dal portafoglio.

Lo imitai, spogliandomi dalla vita in giù senza spostarmi dalla postazione.

Mi schiacciò tra il suo corpo e la stoffa simil pelle del divanetto percorrendomi il corpo con le mani.

Chiusi gli occhi mentre si assicura che fossi eccitata e quindi entrava.

Non ci interessavano troppo i baci, né i preliminari.

Così diverso da...
 

Non voglio pensare.
 

Non farmi pensare.
 

Non farmi pensare.

Non farmi pensare.

Non farmi pensare.

 

 






Che giorno è oggi?














- - - - - - - 


Ciao, sono tornata, più o meno.
Ringrazio tutti coloro che stanno leggendo silenziosamente e chi ha messo la storia tra le preferite o le seguite.
Un abbraccio.
A presto.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Giostra ***


Giostra
(Avalanches - IAMX)






00.17

Ci aveva aspettato fino alla fine dell’esibizione ed aveva aiutato Morgan a riportare l’amplificatore in macchina mentre io arrotolavo il canon che era servito per il microfono.

-Brave-

Mi baciò la testa abbracciandomi mentre portavo anche la mia borsa nell’automobile.

-Grazie- la appoggiai su uno dei sedili posteriori e lo guardai prendendo posto.

Morgan, seduta al posto di guida, spettava solo che anche lui salisse.

-Muoviti, Joe-

Gli feci posto accanto a me, e sospirando si infilò in auto chiudendo la portiera.

-Elizabeth, dimmi dove devo portarti.-

-Casa mia-

Mi appoggiai alla spalla di Joe dopo aver messo la cintura.

-Sei stanca?- mi accarezzò lentamente la schiena.

-Solo un po’- lo tirai a me baciandolo.

Ricambiò con meno entusiasmo del solito per cui mi allontanai per guardarlo.

Si aspettava una notte con me? Per quello reagiva in questo modo così nascosto ma estremamente esplicito per me, che avevo sentito le sue labbra addosso alle mie?

-Ehi- gli rubai ancora un altro bacio e scesi fino a lambirgli il collo.

Amato contatto fisico. Eravamo bravi in quello.

-Tu fai la Femme Fatale...- mormorò allontanando il viso ed appoggiandosi al finestrino.

...io faccio la Femme Fatale e tu ci caschi come un vero idiota.

Tramite lo specchietto retrovisore vidi Morgan alzare gli occhi al cielo, ma Joe era così: le diceva le cose, per quando sdolcinate o imbarazzanti, per quanto fosse un eterno scoprirsi per lui, ed io non mi fossi ancora esposta.

Joe mi intiepidiva il cuore.

Io mi buttavo su di lui sperando di bruciarmi.

Ma in due mesi di relazione e cinque di frequentazione non era ancora successo.






 



Percorrere il corridoio d’entrata fu particolarmente complicato: uno strano incedere tra sicurezza, apatia e voglia di tornare fuori di casa. Riposi i cavi e il microfono nel cassetto a loro dedicato, uno dei tre presenti sul mobiletto che sosteneva la televisione a circa ottanta centimetri da terra ed andai in bagno a spogliarmi.

Il radiatore aveva scaldato l’asciugamano con cui mi avvolsi alla fine della doccia rendendolo tiepido e perfetto per sfregare la pelle senza essere vittima degli spifferi di inizio febbraio. Mi sedetti a terra proprio accanto ad esso, in attesa di sentire il suo calore e sentire la cute diventare più asciutta.

Non avevo orologi, lì in bagno, ma in fin dei conti era solo uno dei molti pregi delle docce notturne: niente fretta, luce soffusa, tempo per me, silenzio.

Stare da sola si era rivelata la scelta migliore.

Inspirai appoggiando la fronte alle ginocchia.

La notte.

Mi accarezzai le gambe lentamente quindi mi alzai: non avevo davvero bisogno di pensarci.

Lo specchio del bagno era completamente appannato, il suo riflesso opaco e incapace di restituire la mia immagine al meglio. Sciolsi l’asciugamano e pulii la superficie con un gesto sicuro.

Eccomi.

Rimasi ad osservare la ragazzina che avevo davanti senza capire cosa si agitasse nei suoi occhi.


Cosa c’è di sbagliato?


I miei capelli stavano gocciolando sulla ceramica del lavandino e sul tappeto sotto ai miei piedi creando una macchia più scura rispetto al suo beige. Qualche perla d’acqua scivoló lungo la mia pelle, trascinando con sé una scia di gelo.

Quegli occhi non mi davano risposta.

Mi riavvolsi nel telo e sedetti sul gabinetto chiuso iniziando a sciogliere i nodi nella mia capigliatura.

Non avevo tagliato i capelli se non per eliminare qualche seccante doppia punta: arrivavano abbondanti a metà schiena, coprendo la cicatrice, nascondendo il tatuaggio di cui ero tanto fiera.

Una volta districati mi rimisi in piedi: schiuma ora, e phon con il diffusore. Asciugare al meglio per evitare di essere un cespuglio informe domani. Avevo il turno dopo l’ora di pranzo.

Avrei potuto dormire tutto il tempo necessario, se fossi riuscita a prendere sonno.

Spensi e tastai il capo in corrispondenza delle radici, ora calde e per lo più asciutte.

Li scompigliai senza che assumessero una direzione precisa, quindi uscii dal bagno dirigendomi in sala.

Afferrai un paio di mutande, una canotta e una maglia a maniche lunghe direttamente dallo stendibiancheria infilandole lentamente. Mi stesi sul divano e accesi la televisione.

Non riuscivo a capire se il freddo che sentivo provenisse dall’ambiente o da dentro di me.

Mi rannicchiai con il viso contro lo schienale stringendomi addosso la coperta, cercando di trovare conforto e distrazione in quel chiacchiericcio confuso di programmi notturni.

Avevo evitato la camera per un motivo preciso e stavo cercando di fare in modo che i miei pensieri non ci si soffermassero.

Sì: sfioravano i ricordi e risalivano, come in una continua giostra.

Fiocchi freddi sballottati in una tormenta di neve.

Se si fossero fermati sarebbe stato un bel problema.

Mi girai cercando una posizione più comoda nascondendo il viso.

 

Morfeo, prendimi ora...




 

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Morgan ***


Morgan
(About a girl - Nirvana)








10 febbraio 1991


Mossi piano i piedi guardando verso la spiaggia, aspettando Morgan per il nostro ritiro spirituale in spiaggia, sciocca ricorrenza che avveniva una o più volte al mese a seconda della stagione e della temperatura. Amavamo il mare entrambe. Ci faceva pensare e rilassare.

Era solo un pochino più grigio del solito perchè sopra di lui vi era qualche nuvola di passaggio a ripararlo dal sole; la sabbia, umida, non brillava ed aveva assunto un pessimo color marroncino.

-Liz-

La voce quasi annoiata della mia amica mi fece girare.

-Alla buon’ora- mi squadrò con quei suoi occhi grandi e scuri mentre commentavo il suo ritardo.

-Ti sei decisa a prendere il biglietto per il concerto?-

Rimasi in silenzio.

Avevamo visto assieme la pubblicità del loro nuovo tour.

-No, lo sapevo- rispose al posto mio, prendendo posto sul muretto accanto a me.

-Che cacasotto, per fortuna che ci sono io-

Estrasse dalla tasca del suo giaccone due fogli chiari.


Guns N’ Roses


Lessi, ma non mossi null’altra parte del mio corpo che non fossero gli occhi.

-Mo’, no-

-Io non li ho mai visti, quindi tu mi accompagni-

-Tuo cugino mi ammazza-

-Mio cugino ti fotte ma sa che non sei di sua proprietà, e poi non c’è scritto da nessuna parte che vi vedrete-

Continuava a tenere il braccio sollevato e quegli stupidi pezzi di carta sotto il mio sguardo.

-Fino a prova contraria sono la sua ragazza-

-Ma ciò non cancella quello che hai avuto con il rosso-

-Come hai detto tu, è solo per il divorzio che ora sto così- le feci il verso allungando piano la mano.


29 maggio 1991

Noblesville, Indiana


-Indiana?!-

-Gli altri erano già sfumati o costavano troppo- alzò le spalle.

-Fino in Indiana?!-

-Smettila di rompere, stiamo via un paio di giorni, non ci farà male-

Rimasi attonita nonostante le sue parole: avremmo dovuto prendere un cazzosissimo aereo e rimanere in un cazzosissimo motel per vedere i cazzo di Guns N' Roses il cui cantante era il mio ex che mi faceva ancora star male come un idiota grazie al semplice fatto di esistere.

-Probabilmente ti ha maledetto o qualcosa del genere. Capelli rossi, figlio del diavolo-

Tralasciò la mia espressione e trattenne una smorfia divertita prendendomi in giro ancora una volta per Lui.

Storsi la bocca alle sue parole.

-Non ha una grande storia alle spalle, non scherzarci-

-Mmh, sei noiosa- sbuffó.

-E niente maledizioni- aggiunsi.

-In questi anni senza di lui ho fatto molte cose- precisai, con tono più sicuro del dovuto: era vero solo in parte e Mo' lo sapeva.

-Tipo?- spalancò gli occhi, dimostrandosi fintamente interessata.

La ignorai platealmente stringendo la carta tra le mani prima di raccogliere le braccia al petto in segno di chiusura.

-Lavorato-

-Come una pazza per distrarti- specificò.

-Sono andata in viaggio con mio padre e siamo sopravvissuti senza ucciderci-

-Beh, immagino l’avresti fatto comunque visto che la persona che ti ha fatto ritrovare la tua famiglia ed il rosso coincidono- alzò un sopracciglio, quasi stanca di riuscire a ribattere ad ogni mia obbiezione.

-Non avrei avuto tempo-

-Che scusa del cazzo-

-Non lo voglio vedere, Mo. Neanche con il binocolo, neanche tramite lo schermo di una dannata televisione, figurati con i miei occhi- sbottai, mentre il mio sguardo cadeva ancora su quegli inutili fogli.

Il nodo nel petto non spariva.

Porca puttana.

Che cazzo mi aveva fatto quell’uomo?

Le diedi indietro i biglietti, sicura che comunque li avrebbe conservati e che avrebbe insistito allo sfinimento.

-Non voglio sentire parlare di lui. Non voglio niente- conclusi aspramente.

-Come puoi essere così incazzata con lui se avete semplicemente rotto? E parliamo di quattro anni fa, Elizabeth…-

Mi morsi il labbro e scesi dal muretto, atterrando dalla parte della strada.

-Non fa niente per nuocerti ma stai male. Sempre-

-Morgan. Sei sempre pronta a rendermi le cose semplici, vero?-

-Odio le maschere-

Mi si affiancò, seguendomi mentre iniziavo a camminare

-Io voglio solo stare in pace-

-Pace, tieni-

Mi porse il suo pacchetto e sfilai senza indugio una sigaretta.

Lucky Strike Blu.

Estrassi l’accendino ed accesi per automatismo prendendo una lunga boccata, anche se non andavo matta per quella marca.

-Sto ancora aspettando che arrivi il giorno in cui tu mi racconterai tutto quello che è successo tra di voi-

Addocchiai una panchina e mi ci sedetti abbassando la testa.

-Avere una specie di dispositivo cancella memoria non sarebbe male- ammisi.

-Non sarebbe più semplice? Dimenticare ciò che è successo… non avere rimpianti o ferite- aggiunsi borbottando a bassa voce.

-A volte ti fanno rendere conto dell’importanza di ciò che hai perso- prese posto dietro di me ed appoggiò le mani alle mie spalle.

-E se non vuoi che le cose importanti lo siano davvero?-

-Non c’è scampo, Liz. Ti scuote se è importante. Nel bene o nel male.-

-Non voglio provare niente. O… riuscire ad amare tuo cugino sarebbe ottimo. Riuscire a dirgli che lo amo-

-Amore… è una cosa enorme- sospirò.

-Voglio portarti lontana anche per quello- ammise con cautela, allentando per un attimo la presa delle dita sulla mia pelle.

La guardai.

-Non avrai Joe a cui aggrapparti. Non avrai il tuo sesso-medicina.-

Il mio sesso-medicina.

La nuvola di preoccupazione che l’aveva avvolta sembrò essere spazzata via da un semplice sospiro.

-E gli Skids suonano il giorno prima- alzò le spalle.

Alzai la testa verso l’alto per vedere il suo sorriso.

-Gli Skid Row e i Guns un giorno dopo l’altro?-

-Procurati i biglietti tesoro. Io pretendo di vedere Rachel Bolan a petto nudo dalla prima fila-

-Se la metti così…-

Mi morsi il labbro.
 



Gli Skids...


...lui...




-Credo di avere caldo-

Espirai lentamente.

-...Snake Sabo e i suoi occhioni blu blu blu- aggiunse lei al mio elenco mentale.

-Tu non eri dell’altra sponda?-

-Pff, stiamo pur sempre parlando di David- camminò fino a portarsi davanti a me e rubò la cicca che mi aveva gentilmente offerto poco prima.

-Dovevamo fare le groupie, Elizabeth-

Risi, cristallina.

-Mo’, diciamo che non mi posso lamentare-

Vince Neil ed Axl Rose.

Che coppia.

-Non puoi essere davvero stata una brava ragazza prima di conoscere quei cinque-

-Chiedi a papà- incrociai le gambe sulla panchina.

Rimase un attimo in silenzio con la sigaretta a mezz’aria, pensierosa.

Aggrottai le sopracciglia: chissà che diavolerie le stavano attraversando la mente...

-Credi che sarebbe troppo pretendere di vedere anche un concerto di Joan Jett e arrivare al backstage?-

...appunto.


















-- -- -- -- 

Riciao. Capitolo piuttosto ilare per me, scritto un mondo di tempo fa ormai. 

C-c-c-c-changes!

Ci tengo a rimandarvi in cima a controllare la canzone per questo capitolo.
Sì, oggi. No, non me ne sono accorta fino a quando non ho aperto il magico file con i capitoli da postare.
Lo so che il fandom è dei Guns, però insomma... Ricordiamo.
 
Grazie a chi legge, chi mette tra i preferiti e seguiti. Ringrazio in anticipo anche chi vorrà lasciare una recensione.
A presto.


 

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** Awake ***


Awake
(Ikigai - Idealism)








16 febbraio 1991



 

-Mh-

Il mugolio di Joe e una sua manata sul mio petto mi fecero definitivamente aprire gli occhi.

Sbuffai.

Avrei voluto rimanere sotto le coperte, al caldo, in silenzio a pensare per l'ennesima volta alla proposta di Morgan.

-Joe, continua a dormire-

-Per una volta che mi inviti da te…-

Sbottò scocciato e pieno di sonno.

-...Io dormo come un pirla- concluse la frase con uno sbadiglio.

-Lavori, hai il diritto di riposarti- mi voltai verso di lui, appoggiando la testa al cuscino e guardandolo negli occhi.

-Ho anche il dovere di trattarti come meriti di essere trattata-

Si avvicinò, stringendo una mano lievemente sul mio fianco e facendola scorrere poi fino al suo capolavoro. Le sue palpebre erano ancora chiuse, appesantite dal sonno, i suoi capelli in disordine. 

Ignorai la sua tranquillità e rivolsi lo sguardo verso il soffitto. 

-Mo’ mi ha regalato il biglietto per i Guns-

Avrei dovuto ridipingere la stanza e sostituire con una tinta più viva il bianco che permeava i muri. 

-Lo so-

Lo osservai con la coda dell'occhio.

Non volevo chiedergli da quanto lo sapesse. Non volevo avere la conferma del fatto che stesse aspettando che fossi abbastanza pronta per parlargliene.

Pizzicò piano la mia pelle, poi si fece forza sulle braccia e si mise seduto grattandosi la testa e scompigliando ancora di più quella matassa intricata che aveva sul capo.

-Non ti da fastidio?- aggiunsi sottovoce.

Forse sarebbero bastate delle tende colorate. Rosso sangue?

-Lo ami ancora?-

No. Rosso no.

-Sono passati quasi quattro anni- alzai le spalle proferendo una non risposta con apparente calma, ma troppa prontezza.

-Potrei prenderlo come un sì, tesoro-

Alzò l’angolo della bocca in un’espressione divertita e mi appoggiò una mano sul petto, spingendomi verso il materasso e costringendomi a legare i miei occhi ai suoi.

-Siamo quelli dei vecchi amori importanti, è un po’ una disdetta- ammise portandosi a cavalcioni su di me e posando le mani ai lati della mia testa.

Era rimasto insieme ad Erika per tre anni abbondanti prima che le cose iniziassero a scivolare.

-Siamo anche una bella coppia-

Borbottai alzando un braccio fino a che le dita non riuscirono ad accarezzare quel sottile strato di ricrescita sul suo mento.

-Non siamo una coppia molto seria però-

-Joe, pensi di baciarmi o vuoi rimanere a chiacchierare tutta la mattina?-

-Parlare- mi squadró con l’aria di chi la sa lunga.

-Fatti ricrescere la barba, sei più sexy-

Aggrottò la fronte, mentre si abbassava verso il mio viso, squadrandomi con aria critica.

-Se comprassi delle tende colorate?- accennai alla finestra con la testa senza lasciare il contatto con la sua pelle. 

-Ti piacerebbe?- chiesi sottovoce. 

Mi afferrò la mano e la portò alle labbra, raddrizzando leggermente la schiena.

-Cerchi di cambiare discorso?- 

-Forse- ammisi.

-Potrebbe esserci qualche problema, sai?-

Inarcai le sopracciglia senza capire.

-Se io mi stessi davvero innamorando di te e tu fossi ancora cotta di Rose- 

Baciò le mie dita con leggerezza e mordicchiò l'indice lambendolo piano con la lingua.

-E allora non innamorarti-

Non farlo: per il tuo bene non farlo ora.

-Non finché potrò dirti che mi è totalmente indifferente- specificai mentre con l'altra mano accarezzavo ancora il suo viso con delicatezza, sollevando il busto dal materasso per avvicinarmi a lui.

Volevo bene a Joe e non potevo permettermi che soffrisse per causa mia.

-Perché non ho tutti questi problemi con la mia ex?-

-Perché era una persona orribile- abbozzai un sorriso prendendolo in giro: l’avevo conosciuta, Erika.

-Era piuttosto carina in realtà-

-Ma io sono più bella-

Battei le ciglia e mi morsi il labbro in un’espressione da sciocca bambolina per dimostrarlo.

-Sei bella, sì-

Sorrise più dolcemente.

-Elizabeth Moore-

Sciolsi la mia espressione mentre si appoggiava a me e mi passava una mano sulla guancia, quindi si stese, con la testa sul mio petto, incurante del fatto che la mia maglietta si stesse stropicciando sotto la sua guancia.

-Dimmi…-

-Mmh, niente. Ti voglio bene. Sei comoda-

Ed io che avrei dovuto rispondere?

-Ti voglio bene anch'io-

Sussurrai, appoggiando una mano sulla sua schiena con incertezza. Stavo mentendo?

No: gli volevo bene.

Avevo bisogno di lui.

-Facciamo qualcosa insieme oggi..?-

Alzò lievemente la testa sorridendo in risposta alla mia proposta.

-Tipo un giro al parco, ho voglia di camminare- specificai.

-E dovrei fare la spesa-

Affilò lo sguardo per un attimo, poi si sciolse in una smorfia soddisfatta.

-Guido io, ti porto in un bel posto, vedrai-

Mi baciò la fronte con dolcezza e prese le mie mani nelle sue, stringendole.

-Hai intenzione di dirmi dove?- ridacchiai mentre mi aiutava ad alzarmi e mi abbracciava.

-È un parco dove sei già stata, ma ho scoperto una cosa speciale-













 

18 marzo 1991

 

C’era silenzio in quell’angolo di parco.

Io e Joe non eravamo più tornati lì insieme dopo quel pomeriggio di febbraio, ma la panchina dal legno scritto e sfilacciato ed i sottili fusti al mio fianco erano diventati meta comune delle mie passeggiate.

Alla mia destra l’albero di nocciolo si muoveva appena a causa del primo vento primaverile, e con la sua presenza poco invasiva mi teneva compagnia.

Non ero sicura che Joe si fosse reso conto di quale fosse la pianta sotto cui mi aveva portato il mese precedente: pensandoci meglio non avrebbe neppure potuto sapere qual era il nome della persona che avevo sempre nominato come Mamma.

Hazel.

Nocciolo.


 

Quindi, mamma, sono venuta a trovarti anche oggi.


 

Sorrisi tra me, quasi sentendola appoggiarmi le mani sulle spalle in una bozza di massaggio, e chiedermi se stavo bene.

Nonostante il mio senso di colpa nei suoi confronti sembrava essersi quietato e mi piacesse pensare a lei, richiamare lei nella mia mente mi faceva una tremenda paura: più il tempo passava, più la mia memoria iniziava a tradirmi.

L’aspetto di mamma lo ricordavo grazie alle fotografie che vedevo quotidianamente nel mio appartamento; ma l’odore? La voce?

Avevo il terrore di dimenticare il suo timbro, il modo con cui modulava le parole, i piccoli difetti, le canzoni che adorava cantare...

A luglio ci sarebbe stato l’ottavo anniversario del nostro incidente.

Stavo vivendo? Stavo vivendo abbastanza ed un po’ anche per lei?

Avvolsi il braccio sinistro attorno al busto nel tentativo di raggiungere il segno, la cicatrice, il tatuaggio che significava la mia sopravvivenza e la mia vita: rinata dal fuoco che mi aveva bruciata io ero viva.

La consistenza della pelle sotto le dita era sempre la stessa: un po’ più liscia ed un po’ più spessa del dovuto.

Incredibilmente mi trovai a sorridere.

La mia storia era lì, ed al di là del significato simbolico di quel disegno e la sua valenza estetica, grazie alla quale non avevo più così paura a mostrare la mia pelle, la mia cicatrice sarebbe sempre rimasta.

Cicatrice che era dolore ed orgoglio insieme.

Risi tra me posando di nuovo la mano sulle gambe.



Da quando in qua sei così zen, Elizabeth?



Accarezzai la stoffa dei jeans sovrappensiero, sciogliendo il sorriso e stringendo tra loro le labbra.

La cicatrice, la mia storia, tutto quello che significava nella mia breve vita di 24 anni.

Sospirai. Purtroppo, o per fortuna, il suo ricordo non era legato solo all'incidente.

-Sono felice?-

Mi alzai lentamente, avvicinandomi all’albero tanto quanto bastava per poter quasi sfiorare le gemme che si stavano affacciando alla nuova stagione. Piccoli germogli verdi e coraggiosi.

 


Cos’è essere felici, mamma?

Realizzarsi?


 

Allungai una mano verso i rami, senza però toccarne nessuno.

 


Lavorare in un bar e avere un ragazzo che non riesco ancora ad amare?

È tutto qui?


 

Strinsi i pugni portando lentamente lo sguardo fino a terra.

 


È tutto qui?


 

Era coperta d’erba scura e lunga. Nessun fiore ancora voleva mostrarsi tra i suoi fili sottili.

Le domande sono prepotenti quanto ti sorprendono: ti incastrano tra due pareti troppo vicine e stringono lo stomaco in una morsa. Sono stronze, pessime perchè si svelano quando nel profondo conosci la risposta e la testa lotta per fare in modo di non vederla.

Desiderai che mamma fosse con me, che mi afferrasse le spalle e mi scuotesse forte rispondendo al posto mio, mentendomi dicendo che non avevo ancora visto tutto, confortandomi con la certezza che se non avessi trovato altro allora quel poco che tenevo tra le mani sarebbe diventato abbastanza semplicemente dandoci un po’ di significato in più e vivendo profondamente un giorno alla volta.


 


 


 


 

-Sei troppo idealista, Elizabeth-



 


 

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** Reunion ***


Reunion 
(Time gone by - Izzy Stradlin)











24 aprile 1991



-E queste reunion?-

-Ci chiedevamo se fossi ancora viva-

Duff ammiccò al mio indirizzo oltrepassando la soglia del mio appartamento e guardandomi dall’alto in basso.

-Hai cambiato qualcosa-

Alzai le sopracciglia senza capire esattamente cosa intendesse e Steven rise accostandosi a me e cingendomi le spalle con un braccio.

-Te lo dico io, Duff: è sempre la stessa depressa, solo che ora ha iniziato ad ascoltare musica più seria e a vestirsi male-

-Chi si veste male?-

-In effetti sei un po’...- storse la bocca.

-Un po’?-

-Morticia Addams-

Ghignò sornione per la sua presa in giro e mentre organizzavo la mia filippica per difendere la mia libertà nel scegliere il nero come colore predominante nel mio abbigliamento fece scansare il piccolo batterista e mi abbracciò, avvolgendomi.

Mi strinse forte con tale dolcezza da farmi mancare il fiato.

-Ciao Elizabeth- sussurrò, passandomi una mano sulle spalle, gesto che ora tolleravo molto meglio rispetto ad anni prima. Cercai di farmi piccina sul suo petto.

-Devo rifarti il colore, Duff?-

Sorrisi tra me rialzando il viso per guardarlo e sconfiggendo per un attimo la malinconia causata dai ricordi di quel gruppo di scapestrati che avevo conosciuto nel 1986.

-Nah, per quello devo prendere appuntamento più avanti-

Mi stuzzicò lasciando che le sue mani aderissero alla base della colonna vertebrale.

-Abbiamo portato alcol e dei pasticcini-

Steven attirò la mia attenzione agitando una borsa di plastica apparentemente leggera. Il contenuto di latta e vetro tintinnò con un rumore cristallino e mi ritrovai addosso un sorriso sbarazzino che avevo dimenticato di avere.

-Che si festeggia?-

-Il compleanno di Izzy..?- propose il gigante togliendosi di dosso il chiodo ed appendendolo all’attaccapanni lungo la parete.

-E Izzy dove sarebbe?- per giunta il suo compleanno era passato da giorni.

-Dettagli- agitò una mano al mio indirizzo ammiccando e recuperò un pacchetto di sigarette dalla tasca.

Ridacchiai seguendo il batterista in cucina.

Appena ebbe appoggiato la borsa sul tavolo mi appesi alle sue spalle stritolandolo.

-Ciao Pop Corn-

-Bella, era da troppo che non ti vedevo-

-È stata un’idea tua?-

Mi accarezzò le braccia. Sapevo che stava sorridendo e ne ero estremamente felice.

-Un pochino- ammise.

-L’ho incontrato, li ho incontrati la settimana scorsa ed ho pensato che ti avrebbe fatto piacere vedere almeno lui-

-Grazie- raggiunsi la sua mano con la mia e la strinsi in segno di riconoscenza.

I miei due biondini. Erano stati loro a tirarmi fuori dal guscio ed a coinvolgermi in quel gioco di complicità e scherzo che era l’amicizia: era stato l’inizio del mio cambiamento.

-Da quando in qua sei così dolce?-

-Liz, dimmi che fumi ancora, non trovo il fottuto accendino!-

La risata soffocata di Steven fu interrotta dal borbottio contrariato del bassista, che ancora stava trafficando con qualcosa in entrata.

-Ce ne sono ovunque, Duff, basta che cerchi-

-Ma dove?!-

-Vieni in cucina, su-

Mi staccai dal riccio per prendere il piccolo vassoio al centro tavola e porgerlo a Duff: vi erano tre accendini ed un pacchetto di fiammiferi.

-Carino questo…- afferrò quello piccolo nero e giallo e lo fece scintillare un paio di volte per verificare che funzionasse.

-Non sprecare e offri-

Decretai, riappoggiando il soprammobile e dirigendomi sul divano. Mi misi a gambe incrociate e guardai i due ragazzi orientarsi nella mia zona giorno.

-In effetti Axl mi aveva detto che fai collezione-

Accennó un sorriso bruciando l’estremità della cicca.

Ignorai il suo nome annuendo appena in risposta alla sua affermazione: rimasi composta ed indifferente come se le mie orecchie ed il mio cervello avessero posto un’automatica e severa censura. Steven nel frattempo aveva cercato dei bicchieri e fiero del suo bottino li stava riempiendo con una delle birre che avevano portato.

L’espressione di Duff si spense imbarazzata e pentita appena ebbe incrociato il mio sguardo.

Non avevo fatto facce strane, vero?

-Pronto per il tour?- cambiai argomento in maniera repentina per evitare di giacere il quel silenzio strano e denso di ricordi.

-Alquanto gasato- espiró verso il soffitto e mi si sedette di fianco circondandomi le spalle con un braccio.

-Sarà eterno e passerà in fretta. Abbiamo davanti due anni pieni di lavoro-

-Dobbiamo per forza parlare dei Guns?- chiese Steven avvicinandosi.

Mi porse il bicchiere sedendosi poi sul tappeto davanti a me; aveva lasciato quello di Duff sul tavolo della cucina.

-Pop Corn, e la mia birra?-

-È sul tavolo-

Steven allargò il sorriso al suo indirizzo: dolce e sfacciato insieme. Ridacchiai mentre l’ossigenato si alzava ed il batterista gli rubava il posto al mio fianco.

-Betty- mi salutò di nuovo e mi bació la guancia.

-Steven- gli scompigliai i capelli e mi appoggiati a lui mentre dalla cucina proveniva uno sbuffo contrariato.

-Adler, era il mio posto-

-Peccato- il giovanotto alzò le spalle, per nulla pentito del suo scherzetto.

-Sei il solito idiota-

-Il solito furbo- lo corresse.

-Io ho anche un altro fianco, eh- mi feci più vicina a Steve e lasciai che Duff si sedesse alla mia destra.

-Poteva mettercisi lui prima- sottolineó, sbuffando di nuovo e buttando giù il primo sorso di birra.

-Preferisco la sinistra-

-E io in mezzo?- alzai un sopracciglio, guardando alternativamente ciascuno dei due e soffermandomi sull’espressione di Duff, fattasi improvvisamente furba.

-Io sopra allora- ghignó facendomi l’occhiolino.

-Don’t touch her- Steve appoggiò il viso alla mia spalla facendomi sorridere... protettivo come sempre.

-Tesoro, sono grande ormai-

-È libera di fare quello che vuole: sopra, sotto…- argomentó Duff, agitando piano il bicchiere in aria e lasciando la frase sospesa.

-Dietro…-

-Steven!-

Iniziarono a ridere per il mio improvviso scompormi e girarmi verso il riccio con aria scandalizzata, quindi Pop Corn mi strinse a sé, facendomi immergere la testa sul suo petto.

Chiusi gli occhi, cullata dal sottile ridacchiare dell’ossigenato e da quel mare di benessere che mi dava la loro semplice compagnia.

-Mi mancate-

-Basta che tu prenda il telefono e faccia il numero giusto, lo sai…-

Girai la testa verso Duff guardandolo con un sottile sorriso sulle labbra: quelle piccole bugie sembravano quasi vere dette in quel modo innocente.

Lui sarebbe stato via, Steven sarebbe stato impegnato: le loro vite erano piene di musica, ragazze, interviste, vizi. Il tempo per stare in compagnia in modo semplice e quasi sano era finito.

-Abitiamo ancora tutti nella stessa città, no?- aggiunse il biondo, accarezzandomi la schiena con la mano.

-Mmh- mugolai pensierosa e mi sistemai in modo tale da essere distesa tra loro e su di loro. Posai la testa sulle cosce di Steven e le gambe sul grembo di Duff che inclinò il capo. Un ciuffo di capelli chiari gli si posò davanti al volto ondeggiando a causa della gravità, sbiadito dalla nuvola di fumo che usciva dalla sua bocca. Il suo sguardo era sereno e puntato verso il mio, azzurro.

-Potrei farci un pensierino, ecco- conclusi, confortata dalla anomala familiarità di quel suo verdognolo ed alzai gli occhi verso Steven, che allargò le labbra in quel sorriso che mi faceva sempre sciogliere il cuore.

Perchè non mi ero innamorata di quell’espressione così dolce?

-Comoda?-

-Sì, potrei affittarvi come divano- sorrisi tra me cercando di sistemarmi alla meglio.

-Pop Corn, non trovi che la ragazzina sia fin troppo placida?- Duff si allungò alla sua destra spegnendo la sigaretta nel posacenere e scambiò un’occhiata complice con il biondino sfregando le mani.

-Ragazzina a chi?-

-Sono d’accordo, collega- mi ignorò trattenendo un sorriso e, nello stesso istante, come dopo un silenzioso conto alla rovescia, attaccarono i miei piedi scalzi ed i miei fianchi, facendomi contorcere dalle risate.

-Basta!-

Rotolai di lato alzandomi in fretta cercando di nascondere l’espressione divertita che avevo sulla faccia.

-Idioti-

Ne andava del mio orgoglio, insomma.

-Ci vuoi ancora come divano?- disse Duff prima di bere un sorso di birra guardandomi soddisfatto da sopra il bordo del bicchiere. Steven ancora non riusciva a smettere di sghignazzare.

-Dipende dalla tariffa-

Incrociai le braccia appoggiandomi al tavolo con il bacino.

-Guarda che ci facciamo pagare bene- sottolineò Steven sporgendosi verso di me.

-Se vi preparo la cena mi fate lo sconto?- proposi, sbirciando l’orologio sulla parete della sala.

-Può darsi- il gigante gentile alzò le spalle, vago.

Mi morsi il labbro, guardandoli, indecisa.

-Patate in padella ed una buona bistecca di manzo?-

-Mmh…- Steve si grattò la testa e incrociò per l’ennesima volta lo sguardo del bassista.

-Può andare-

-Sì, direi di sì- confermò l’ossigenato.

Annuirono entrambi al mio indirizzo, rilassandosi sul divano.

Illusi: non avrei preparato tutto da sola.

Mi diressi verso il frigo ed aprii uno dei cassetti, estraendo il sacco di tuberi mezzo pieno e rimettendomi quindi in piedi.

-Era da un sacco che non cucinavi per noi- Duff si stiracchiò sui cuscini ed abbandonò la testa all’indietro.

-Vero, vero- commentai, avvicinandomi a lui e mollando il peso in prossimità della sua pancia.

Sobbalzò e portò le mani sulla confezione, sorpreso dal freddo e dal peso inaspettato.

-Ehi!- si lamentò guardandomi scocciato mentre Steven ridacchiava sotto i baffi.

-Tesoro, tocca a te sbucciare le patate-

-Ben ti sta Duff- Steven inziò ad accomodarsi ma lo fermai sul nascere.

-Steve, lavati le mani: tu prepari l’insalata-

-Non si era parlato di insalata!- protestò sbuffando ed arricciando il naso in una smorfia scontenta.

-Dai ragazzi, prima si lavora, prima si mangia- sorrisi accondiscendente beccandomi un paio di occhiate insoddisfatte.

-Da quando sei diventata una ricattatrice?-

Risi tra me alla parole del batterista dirigendomi verso il lavello: avrebbero imparato qualcosa e non li avrei davvero fatti avvicinare ai fornelli.

Altro chè praparare la cena: quai due da soli avrebbero rischiato di bruciarmi la cucina.

















-- -- -- -- 

Buonasera^^ 
Prossimamente ci sarà un esperimento: visto che sono riuscita a mettere in pari il calendario della storia e quello reale, i capitoli verranno pubblicati in corrispondenza degli avvenimenti, come in una sorta di diario. Quindi aspettatevi aggiornamenti molto frequenti o un po' più distaccati nel tempo ^^
In ogni caso ho pronto per voi almeno un capitolo al mese e a breve potremmo rivedere Axl.
Grazie a tutti coloro che continuano a leggere!





 

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** Nodo ***


Nodo
(Waking the witch - Kate Bush)





 




27 maggio 1991



 

Sentii la mano di Morgan stringersi su una delle mie spalle.

-Elizabeth?-

Aprii gli occhi mettendola piano a fuoco e portai le dita della destra alla gola, ripercorrendo uno dei miei ricordi peggiori.

-Lizzie, ehi-

Mi scosse con cautela, allarmata dall’anomala frequenza dei miei respiri.

La scansai, alzandomi in fretta e percorrendo a piedi scalzi il breve tragitto tra il letto ed il bagno. Chiusi la porta a chiave dietro di me e mi chinai a terra davanti alla tazza del water.
Il pavimento dell’albergo era gelido.

Ignorai la voce di Morgan che mi rimproverava da dietro la soglia, lasciai che il mio stomaco rovesciasse la povera cena della sera prima e solo quando fui certa di non sentire più quella stretta così forte alla pancia e alla gola mi alzai e tirai lo sciacquone.

Avanzai lentamente verso il lavandino tenendomi al muro e quindi alla ceramica che lo componeva.

Sotto la tetra luce a neon dello specchio la mia pelle aveva assunto un colorito talmente malsano da sembrare quella di un malato terminale. Avevo pianto, e non ne avevo memoria. Le labbra pallide erano dischiuse come in procinto di dire qualcosa, ma effettivamente non avevo parole da pronunciare, nemmeno a me stessa.

Non riuscivo a ricordare che cosa avessi sognato nonostante la sensazione di disgusto e di malore permeasse ancora tutto il mio essere.

Mia madre? L’incidente? Axl?

Venire in Indiana era stata una pessima idea.

Bagnai il viso cercando di cancellare l’espressione attonita che avevo sulla faccia, quindi girai la chiave, lasciando che fosse Morgan a preoccuparsi di entrare.

-Che cazzo! Mi fai preoccupare, dannazione!-

Spalancò la porta mentre stancamente mi avvicinavo al water e ne chiudevo il coperchio. Mi sedetti ignorando la sua filippica e nascondendo il volto tra le mani.

-Se ti chiudi in bagno un’altra volta lasciandomi fuori in questo modo non ti rivolgo più la parola-

Non diceva sul serio, nonostante il tono acuto avesse assunto una sfumatura minacciosa.

-Che hai sognato?-

Tralasciò il vomito, tralasciò le lacrime. Dritta al punto.

-Non lo so- bisbigliai.

-È colpa di quello che abbiamo bevuto?-

Girai la testa verso il muro sentendola avvicinarsi.

Ignorò la mia protesta fermandosi esattamente davanti a me e attirandomi contro di sè in un maldestro abbraccio.

-Forse era mamma…- suggerii, ma qualcosa mi diceva che questa volta nei miei incubi non c'erano state macchine, nè fuoco.

-Andrà bene. Non succederà nulla- e Morgan l'aveva capito, forse prima di me.

Ignorò il singhiozzo proveniente dalle mie labbra e rafforzò la presa.

-Saremo due ragazze ad un concerto, sarà come questa sera. Te lo prometto…-

Una lacrima dopo l’altra la tensione abbandonò finalmente il mio petto: Morgan riuscì a portarmi a letto e farmi accoccolare sotto le coperte.


Però il nodo c’era ancora. Nella gola un piccolo masso ostruiva la via al mio respiro, accorciandolo, stancandomi.




 

Vattene.
















--- --- ---

Sì, sì, ho cambiato idea. Ci ho pensato su e nonostante il pubblicare in sincrono con la storia sarebbe davvero carino e magari utile per rendersi conto della lunghezza di certe cose, dall'altra parte rischia di diventare un lavoro davvero troppo duraturo.
Quindi eccoci.
Grazie a tutti coloro che leggono e in particolare a Caskett_Always che ha lasciato una recensione :3
A presto.



 

Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** Vedersi ***


Vedersi
https://www.youtube.com/watch?v=lpkZP8f8x4I







29 maggio 1991


 

Ero finita per divertirmi, trascinata dalla loro musica, musica che amavo ed odiavo.

Rocket Queen. Ignorai le urla nella mia testa, ricordo di una discussione, di un tradimento, lasciando che si confondessero con quelle gioiose della gente. Le ignoravano e rimanevano un sottofondo.

Funzionava, ballavo, cantavo con Morgan. Funzionava.

Ma non appena vidi Axl avvicinarsi al pianoforte a coda e sedercisi davanti sentii la folla proferire la mia condanna a morte con un boato di esultanza.



Qualche nota.


Tachicardia.


Come se non ne avessi già avuta abbastanza per quella sera nello sforzo continuo di fare finta di niente, di nascondere i miei pensieri più veri a me stessa.


Iniziò a suonare.

Ora non avevo più scampo.

Rimaneva solo lui. Lui e il piano. Lui e la sua anima.

Improvvisava, come nel mio vecchio locale, e lasciava che tutto di sè uscisse ad incantarci.

Era tutto lì ancora: il tormento, la dolcezza, la fretta, la profondità.

Pochi secondi e poi si fermò per parlare

-Ora proveremo qualcosa che non abbiamo mai fatto in tour fino a questo momento-

Un altro accordo, come per provare a capire se il piano si sentiva davvero.


La maglia della Malboro.


-Quando la sentirete nel cd… Ci ho messo un po’ di sinfonia qui, un sacco di cose-

-Sarà una fortuna se mi ricorderò le parole-

Accennò una risata e si chinò per un attimo verso la tastiera, posandoci di nuovo le mani.

-Non la suono da molto tempo, vedremo…-

-Facciamo un paio di giri per l’intro, ok?-

-Uno, due, tre, quattro…-

 



Un cambio inaspettato.

Le note di quell’assolo si trasformarono in una melodia vecchia, nostalgica ed estremamente familiare, e mi congelai come sotto il getto di una doccia all’azoto liquido.

Era lei.

November Rain.




 

When I look into your eyes

I can see a love restrained

But darlin' when I hold you

Don't you know I feel the same

'Cause nothin' lasts forever

And we both know hearts can change

And it's hard to hold a candle

In the cold November rain

 



La mia ragione si scontrava addosso ad ogni sua parola, man mano che quel testo che tanto avevo desiderato conoscere si svelava a me.

Linea vocale perfetta, parole che si riversavano addosso a me come in una chiacchierata uno ad uno. E semplicemente ascoltandola seppi che era, o era stata, la sua canzone per me.




 

We've been through this such a long long time

Just tryin' to kill the pain

But lovers always come and lovers always go

An no one's really sure who's lettin' go today

Walking away

If we could take the time

To lay it on the line

I could rest my head

Just knowin' that you were mine

All mine

So if you want to love me

Then darlin' don't refrain

Or I'll just end up walkin'

In the cold November rain




 

Era davvero per me? La stava scrivendo a casa…

Sentii gli occhi gonfiarsi sotto il peso delle mie lacrime.

E quindi era così che realizzava la sua promessa?



 

Do you need some time on your own

Do you need some time all alone

Everybody needs some time on their own

Don't you know you need some time all alone



 

Sei tu che te ne sei andato…

Tempo da solo?

Da sola?

Comparve la rabbia, rabbia e disperazione.

Stare con Erin era il suo stare da solo?

Grazie Axl, grazie!



 

I know it's hard to keep an open heart

When even friends seem out to harm you

But if you could heal a broken heart

Wouldn't time be out to charm you



 

O era perchè dovevo diventare grande, da sola?

Mi ci aveva fatto diventare lui, grande e forte, affrontando il cimitero e facendomi rinascere.

 



Sometimes I need some time on my own

Sometimes I need some time all alone



 

Tempo da sola.



 

Everybody needs some time on their own

Don't you know you need some time all alone



 

Lasciai chiudere gli occhi ed abbassai la testa.

Era tutto un’illusione.

Una presa in giro.



 

And when your fears subside

And shadows still remain



 

Le ombre c’erano tutte. L’ombra non era mai sparita, ed la sofferenza sopita non si era davvero placata.

Gemetti di dolore e annaspai tra la folla cercando una mano amica, cercando Morgan.

Ma ero muta e cieca. Riuscivo solo a sentire lui.



 

I know that you can love me

When there's no one left to blame



 

Ci ero finita io nella pioggia, ed il panico, l’intensità, la voglia di averlo al mio fianco di nuovo mi stavano sommergendo ancora più della notte del Ritz, ancora più di quando era stato mio.

Amarlo..?



 

So never mind the darkness

We still can find a way



 

Sei particolarmente divertente stasera William, davvero.



 

'Cause nothin' lasts forever

Even cold November rain



 

Finisce la pioggia? Davvero non dura per sempre?

Non riesco a ridere, questo scherzo non mi piace.

 

Stettero fermi un secondo.

Una nuova parte strumentale, più energica mi fece stringere di più le braccia al petto.

Le dita che premevano decise sui tasti erano martellate sul mio cuore, sul mio stomaco, erano metri che si accumulavano sopra di me, mentre scivolavo nel buio.



 

Don't ya think that you need somebody

Don't ya think that you need someone

Everybody needs somebody

You're not the only one

You're not the only one



 

Che fosse uno dei miei incubi?



 

Don't ya think that you need somebody

Don't ya think that you need someone

Everybody needs somebody

You're not the only one

You're not the only one



 

Era come aveva detto Mo: Lui non mi aveva visto.

Però io l’avevo avuto davanti agli occhi.

La sua musica mi aveva riportato nell’oscurità che avevo già conosciuto, ma da essa vedevo emergere una fiamma sottile. C’era sempre stata, ma mi ero circondata di luce per non vederla, e, allo stesso modo in cui non riusciamo a vedere le stelle di giorno, l’avevo ignorata.

Ora la vedevo chiara. Era la mia verità: avevo bisogno di lui.



 

Everybody needs somebody



 

Continuai a tenermi. Non volevo spezzarmi.

Pregai la chitarra di rimanere sospesa in quell’accordo per sempre, in un time-out eterno, come quello che sembrava essere presente nella mia mente.

 



-Potrei avere dell’acqua senza delle fottute mosche dentro? Grazie-

Rimasi a guardarlo per qualche istante mentre la gente urlava e Slash cazzeggiava alla chitarra.

-È stato davvero un test, la prima volta a provarla fuori che abbiamo suonato questa cosa live-

Non gliene fregava nulla di me, non era per me...

Aveva dimenticato tutto.

 


Ero arrivata al limite.

 


Dovevo scappare.

Lontano dagli occhi, lontano dal cuore.

Diedi le spalle al palco cercando di trovare un buco tra la folla ma mi sentii stringere il polso.

-Fino alla fine Liz-

Scossi la testa fissando gli occhi scuri di Morgan e diedi uno strattone liberandomi ed iniziando a camminare.

Mi rifiutai di ascoltare le parole di Axl, ignorai gli altoparlanti e le casse mentre fuggivo.

La sua voce mi faceva tremare anche in una semplice cover.



Fuori.


Fuori.





 

Era stato quasi impossibile riuscire ad allontanarmi, ma la gente aveva preso posto volentieri sostituendomi mentre io tornavo indietro.

C’erano molti lampioni in giro.

Luce, ma non stavo bene ed era pericoloso.

Mi guardai attorno addocchiando un locale illuminato e mi ci diressi, sperando di trovare rifugio.

-C’è un telefono?-

 










-Chi parla?-

-Sono Elizabeth-














- - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - 


Sapete il colmo? Che solo al vedere i primi fotogrammi del video lassù mi congelo, perchè manca meno di un mese...
Meno di un mese!
Ehm.

Grazie a tutti quelli che leggono, un abbraccio.



 

Ritorna all'indice


Capitolo 11
*** Pausa ***


Pausa
(World Coming Down - Type O Negative)






30 maggio 1991


Strinsi appena le dita della mano sulla sua schiena, in una piccola coccola, un movimento che avrei voluto riuscisse a calmarla e far rilassare la tensione del suo corpo.

Dormiva, appoggiata addosso a me, ma anche dal suo sonno traspariva agitazione.

C’era come un accordo tra noi, un sottinteso che avevamo stabilito fin dai primi giorni della nostra conoscenza: esserci.

Sì, era stupido.

Non ci amavamo nel senso convenzionale del termine, ci sentivamo relativamente poco, ma allo stesso modo in cui mi ero presentato sotto casa sua il giorno del mio licenziamento come un bambino disperato e fatto come la peggior feccia di Los Angeles, lei aveva chiamato me.

Ed ora era a casa mia, con la testa appoggiata ad un cuscino sulle mie gambe, il viso rivolto verso la mia pancia.

Mi veniva da chiedermi quanto male stesse e perchè fosse arrivata a rivolgersi al sottoscritto.

Ero andata a prenderla in aeroporto quella mattina, trovandola mogia mogia, chiusa perfino nei confronti di Morgan.

La ragazza era riuscita a scambiare solo un paio di parole con me prima di andarsene.

L’ho portata dai Guns.

Avevo inarcato le sopracciglia e scosso la testa.

Sfido stia così, non le serviva questo.

Era più che giustificato il fatto che non volesse parlare con Morgan nell’immediato.

Chi rimaneva, oltre a lei?

Joe? Escluso.

Adriana? La vedeva una volta al mese se andava bene.

Io? Ero un’altalena. Come su tutto, del resto.

Una fottuta altalena che voleva farsi una dose di eroina anche in quel momento.

Le avevo detto una bugia il giorno in cui l’avevo rivista l’ultima volta: ero stato ad una festa e…

Sospirai.

-Betty, Betty, ho bisogno di una babysitter, altrochè…-

Sentii lo spasmo di un singhiozzo farle tremare la schiena e scossi la testa.

-Ne abbiamo bisogno entrambi-

Però c’ero.

Sollevò la testa di scatto, rischiando di sbattere la fronte sul mio mento.

Aderii allo schienale del divano mentre lei si guardava intorno, persa.

-Siamo alla Hell?-

-La Hell House è vuota da un po’. Questa è casa mia-

Si staccò da me in fretta.

-Siamo da soli, Elizabeth-

-Steven- mi interruppe.

-Steven, perchè l’ho lasciato andare via? Perchè le cose sono andate così?-

Si rannicchiò su se stessa come a proteggersi: petto, pancia, nascoste dalle braccia e dalle gambe.

-Piccola, che ti succede..?-

-Io lo volevo…-

-Elizabeth: soggetto, verbo…-

-Lo volevo…-

Mi girai e le afferrai piano il viso tra le mani.

-Parla inglese, tesoro-

-Ho la nausea, Steve. Ho la nausea-

-A chi lo dici… ti serve il bagno?-

-Non ancora-

Tirò su col naso, cercando di darsi un contegno.

Sapevo di chi stava parlando ed ero stufo del fatto che continuasse a stare di merda per colpa di quell’uomo.

-Vederlo è stato peggio di quello che pensavo-

-Devi smetterla di pensare a lui, hai Joe dannazione!-

-Joe?!-

La sua espressione era deformata da un sentimento che avevamo assaggiato entrambi e che ora si stava manifestando nel peggiore dei modi.

-Joe è pallido- rispose usando un tono più alto del mio.

-Joe è tiepido-

-Joe è grigio-

Voltò la testa per smettere di guardarmi e per evitare che io vedessi lei.

-Io voglio bruciare-

-Ti sei fottuta il cervello Elizabeth-

-Io non voglio una vita mediocre! Io non voglio un amore mediocre!- sbottó con tale impeto da spegnere tutta la mia convinzione.

-Non sono capace di sentire le cose a metà. Voglio bruciare-

Era tornata ad essere la stessa anima inquieta che avevo conosciuto, ma per una causa totalmente diversa. Lo si vedeva dagli occhi. Aveva qualcosa in fondo a quei pozzi. Una scintilla che non aveva nulla a che fare con il loro colore gelato.

-Porca puttana lo sto già facendo-

Mormorò a mezza voce.

Dall’omicidio involontario della madre ad un amore impossibile.

-Metti da parte queste cose per un momento, Ellie- addolcii il tono aspettando che si voltasse verso di me e sospirai.

Aveva bisogno di tempo.

Si appoggiò a me tenendo lo sguardo basso e passò una mano sul viso per eliminare ogni traccia delle sue lacrime.

-Mettiamo tutto da parte, beviamo un caffè, stiamo qui-

Attesi invano una sua parola, quindi appoggiai la nuca allo schienale del divano e la strinsi in un abbraccio.

-Invidio la tua capacità di amare. Perchè è così, no? Lo ami e basta, anche se è passato tanto tempo-

La sentii muovere la testa in gesto di stizza, forse, o di arrendevolezza.

-Chi sa che sono da te?-

-Solo la tua amichetta-

Si rilassò in un sospiro allungando una mano alla ceca verso il bracciolo del divano, alla ricerca di un fazzoletto.

-È territorio neutrale questo, vero?-

-Sì, aiuto le persone in difficoltà- confermai: ero il primo della lista.

-Grazie Steven-

-Riposiamoci, Betty. E domani, o dopodomani, ricominceremo da dove eravamo rimasti-

















--- --- --- --- --- ---

Il prossimo capitolo sarà leggermente impegnativo^^'
Però intanto Elizabeth rimane da Steven, deve metabolizzare il concerto, deve fare i conti con alcune cose che ha volontariamente lasciato in sospeso.
E tra un esame e l'altro vi assicuro che aggiornerò presto c:

Grazie ancora a tutti quelli che leggono e a Caskett_always, sempre puntuale.
See you soon.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 12
*** 1988 ***


1988
(Cyanide Sun - HIM)







31 maggio 1991



 

-Scusami-

Una parola a mezza voce per interrompere quell’insistente silenzio sceso tra noi dalla sera del concerto. Scossi la testa come per dire che non era nulla e presi quello che mi serviva appoggiandolo per un attimo sulle cosce.

Era arrivato il momento di parlare.

-Io l’ho rivisto-

Tirai indietro i capelli e mi concentrai sul tabacco che stavo cercando di sistemare sulla cartina.

-Quando hanno suonato al Ritz, qualche anno fa-

-Specifica il rivisto- cercava di non mostrarsi interessata, ma aveva capito.

Dopo tutto quel tempo, solo ora che riuscivo a far uscire quelle parole dalla mia bocca ammettevo a me quello che era successo. Lo assimilavo. Lo facevo mio per sempre.

Lo rendevo realtà ancora più vera.

-Notte superba… Quando mi sono svegliata però era già andato via-

Accesi ed inspirai.

-E poi in altre occasioni, ma Erin era vigile-

-...Il matrimonio?-

-Non ci sarei andata, nemmeno se avessi conosciuto la data.-

Alzai le spalle.

-Vai avanti-

Sbuffai incrociando le gambe mentre lei prendeva la mia cicca dalle labbra e la usava per accendere la sua.

-Per fortuna c’era Duff quando ho appreso la notizia; a fatto già avvenuto tra l’altro- raccolsi le braccia al petto e poi ne allungai una reclamando indietro la mia dose di nicotina.

La stavo prendendo larga. L’avevo presa larga.

Non ce l’avrei fatta a dirle tutto quello che avevo provato e pensato.

-L’hai scelto bene l’uomo da cui farti strappare il cuore, eh?-

-Ma ti dico che stavo bene, stavo benissimo fin quando non l’ho rivisto quella sera al Ritz-

Pochi miseri mesi di pace.

-È stato come se non se ne fosse mai andato-

Una parola alla volta, sillabate lentamente per evitare di crollare.

Anche quella volta era stato comunque un fare l’amore, rivivere quello che avevamo avuto e riaccenderlo.

-Ma a quanto pare non lo è stato per lui-

-Non voglio pensarci Mo’-

Stavo sbagliando a parlare.

A ricordare.

-Quanto male ti fa?-

-Troppo-

Le strappai la sigaretta dalle dita e mi rifugiai nel fumo, quasi sperando di confondermi nella nebbia grigia che usciva dalle mie labbra.

-Quindi esiste, ma non esiste-

-Esiste eccome, Elizabeth-

Mi puntò una mano sul petto arrivando a toccare con l’indice la pelle lasciata scoperta dalla camicia che portavo, vicino al cuore.

-Pum-

Mimò con la bocca il suono di una pistola.

Sembrò che una cascata di sangue iniziasse a sgorgarmi dal petto.

Tutto l’amore condiviso che ora era diventato solo mio e cercavo di nascondere ogni tanto usciva prepotente, e mi faceva male, mi faceva davvero male al cuore.

Finsi di non accorgermene, ma colava, colava.

Mi sommergeva.

-Non potevano rimanere insieme?-

Ignorai anche la sensazione di gonfiore agli occhi.

Li chiusi, tanto c’era solo Mo.

-Non potevano rimanere insieme e continuare a vivere la loro vita del cazzo?-

-Non poteva lasciarmi in pace?-

Eccoli. Goccioloni lungo le guance. Come se non avessi già pianto abbastanza.

-Ma no, in qualche modo deve sempre, sempre, sempre ritornare a tormentarmi-

-Elizabeth…-

La zittii con un gesto della mano.

-Lasciami piangere-

Mi alzai e feci cadere la sigaretta tra la sabbia.

-Tanto lo sappiamo perfettamente chi lo tiene tra le mani il mio dannato cuore!-

Urlai all’oceano.

Il mio cuore batteva troppo forte, stavo per esplodere, stavo per collassare.

-Axl Rose!-

Iniziai ad avanzare verso l’acqua.

-Il fottuto William Bruce Rose Bailey e checcazzo-

Sfilai le scarpe dai piedi e camminai ancora fino ad immergerli in acqua, fino a bagnarmi fino alle ginocchia.

Rabbrividii.

Stavo andando a fuoco.

-Non potevo amare qualcuno di più semplice?-

Iniziai a singhiozzare

-Qualcuno che fosse solo mio?-

Resami conto che le mani di Morgan erano sulle mie spalle, pronte a sostenermi, mi lasciai arrendere, scivolando contro il suo corpo, tenendo le dita strette sulla mia pelle, sulla sua pelle, sentendomi troppo vuota e rivivendo di nuovo quella dannata notte di illusione.

 

Mia Elizabeth.

 

Sua.

Sua.

Imprescindibilmente sua.

 

 

- - - - - - - - - - -




 

2 febbraio 1988


 

-Dannazione sei davvero qui-

Fui sorpresa dalla morsa delle sue braccia attorno al mio corpo sottile e risi.

-Ciao Axl-

Mi strinse ancora, più forte. Cedetti alla tentazione e lasciai che le mie mani scorressero sulla sua schiena e le dita affondassero nella sua pelle.

-Biancaneve- disse piano separandosi da me.

Allungò una mano verso il mio viso e spostò uno dei miei ciuffi neri fino a infilarlo dietro al mio orecchio.

Cercai di trattenere il mio cuore dal volarmi fuori dal petto, inutilmente.

-Axl-

Ripetei il suo nome e gli misi le braccia attorno al collo stringendolo di più.

-Sei tutto sudato-

-Ci siamo agitati, su quel palco- sentii le sue mani scorrere su di me mentre ascoltavo la sua voce, furba.

-Meravigliosi. Michelle, Michelle, e quelle parole da dove le hai tirate fuori, Will?-

Rise piano baciandomi la fronte, mentre lo guardavo come una bimba fa con il suo idolo.

Mi sentii arrossire.

Eravamo così uguali e così diversi da quando ci eravamo lasciati: la rockstar e la bambola.

Bambola con i capelli in parte raccolti ed una canotta chiara con maniche sottili, in modo che il mio tatuaggio fosse visibile a tutti.

-Sai da dove vengono- mi fece l’occhiolino e mi prese sottobraccio, iniziando a camminare verso gli altri.

Com’era possibile che in quei mesi l’elettricità non fosse scomparsa?

Steven mi addocchió prima degli altri, avvicinandomi immediatamente per coinvolgermi in uno dei suoi abbracci.

-Betty!-

Lo fermai.

-Come mi hai chiamato?-

Sorrise.

-Dai, è carino-

-Carino un paio di palle, ti rivedo dopo mesi e mi chiami come tua nonna?-

-Beh, mia nonna in realtà...-

-Moretta!-

Puntuale come un orologio, Slash piazzò la sua mano sulla mia testa.

-Sexy questa cosettina che hai addosso…- la portò subito sulla mia spalla e sollevò di qualche centimetro la spallina della canottiera.

-Tesoro, sono nuda sotto questa cosettina- lo scacciai battendogli un colpetto sul dorso e coprii il seno con un braccio.

McKagan si appoggiò all’altra spalla.

-Non ti facevo così ardita…-

-Michael- sorrisi.

-Chi è Michael?- Slash rise tra sè piazzandosi al fianco di Pop Corn ed osservandoci.

-Io, coglione-

-Ehm, ehm- Steven si schiarì la voce in sottile protesta.

Alzai gli occhi al cielo sentendoli battibeccare e controllai dietro di me: Axl era appoggiato alla parete e ci guardava con un lieve sorriso sulle labbra.

Era felice.

Mi veniva da piangere a vederlo stare così bene.

-Direi che possiamo andare a bere-

Izzy si avvicinò con la sua immancabile cicca tra le labbra.

-Elizabeth, ti vedo bene-

-Grazie- gli sorrisi e mi sporsi per abbracciarlo.

-Quando Bill ha saputo che saresti venuta è stato fin troppo contento- bisbiglió complice, approfittando della nostra vicinanza.

-Sono felice di essere qui… grazie dell’invito Jeff, e del biglietto, e...-

-Dovere- mi interruppe, facendomi un’occhiolino.

-Ci fai compagnia, ora che sei single?-

La domanda di Slash, fatta così sfrontatamente davanti a tutti loro e a voce alta fece abbassare le mie labbra per un attimo.

-Perchè sei single, vero?- rise.

Provai a tenergli testa.

-Che ne pensi, Slash, ti sembro incatenata?-

Vidi Izzy gettare un’occhiata loquace alle mie spalle.

Axl. C’era Axl lì.

-Ti porto a casa, allora-

Ammiccò.

-Perchè dovete sempre incondizionatamente provarci con me?- cercai di trovare il lato divertente della faccenda mentre Slash si riavvicinava ed Izzy scuoteva leggermente la testa all’indirizzo del rosso in modo dannatamente esplicativo per chi di noi conosceva il loro linguaggio.

-Sei fottutamente fatto, amico. Lasciala stare-

Si frappose tra il mio corpo e quello del riccio in maniera naturale, ma Slash lo scansò, mettendosi esattamente di fronte a me.

-Se è vero che quelle tette sono tutte tue vale decisamente la pena-

Storse le labbra e mi stampò un bacio pericolosamente vicino alla bocca.

-Per non parlare di questo…-

Prima che me ne potessi rendere conto aveva schiaffato un colpo sul mio sedere e lo aveva stretto con una mano.

-Slash!-

Arretrai scontrandomi per un attimo con Duff, che a dispetto del chitarrista, sembrava abbastanza preoccupato dalla reazione che avrebbe avuto il rosso. Mi allontanai subito anche da lui.

-Che cazzo credi di fare?-

Axl.

Axl ringhiava.

-Ho sempre voluto farlo- tirò indietro i capelli scoprendo per un attimo gli occhi. Era genuinamente ubriaco, ma mi aveva palpato abbastanza coscientemente.

Feci ancora qualche passo per evitare di respirare ancora quell’odore malsano di alcol e chissà cos’altro proveniente dal fiato e il corpo di Slash. Una mano sul fianco.

La sua.

Slash scosse la testa guardandolo.

-Non è single?- lo provocò, giocando.

La tensione che veniva da dietro alle mie spalle era palpabile e lo dimostravano anche gli sguardi di Steven e Izzy, pronti a farsi avanti se lo stallo si fosse in qualche modo sbloccato nel peggiore dei modi.

-Slash, vaffanculo, datti una calmata- sbottai piano.

Ero in mezzo.

-Era uno scherzo, Liz, ma se vuoi ti prendo in parola, sai? Però prima devo pisciare-

Se ne andò lasciando nella stanza un silenzio imbarazzante.

-Fuori forte, stasera- azzardò Steven provando a ridere.

-Facciamo che io e Pop Corn cerchiamo di arginare i suoi scherzi alla zona bar del locale, che ne dite?-

Duff, presa la situazione a due mani e Steven sottobraccio, iniziò ad ondeggiare nella direzione in cui era sparito il riccio che in pochi secondi aveva perso un migliaio di punti simpatia nonostante fosse stato solo uno scherzo.

-E questa è la ragione per cui tu sei rimasta ed io me ne sono andato-

Chiusi gli occhi e presi un respiro profondo.

Aveva tolto la mano dal mio fianco, ma potevo sentirlo, dietro di me.

Mio, rassicurante.

-Per un attimo vi ho visti a darvele sul pavimento- Jeff si avvicinò piano a noi ed appoggiò una mano sulla spalla del cantante che sorvolò attentamente l’argomento rissa e gelosia e si concentrò sul successivo.

-È andato a farsi una dose?-

-Non sarebbe capace di centrarsi una vena in questo momento- scosse la testa e mi guardò con aria preoccupata.

-Ho preso una paura fottuta- ammisi, nascondendo il viso tra le mani.

-Elizabeth, è uscito-

Riuscii a calmarmi solo sentendo le sue braccia serrarsi attorno al mio corpo ed annuii lentamente appoggiandomi addosso a lui.

-Stiamo degenerando- Izzy sbuffò.

-Non serve dirlo-

-State attenti voi due: vado a cambiarmi-

Inspirai sulla sua pelle, rassicurata dal semplice fatto che fosse Lui.

Le sue mani erano diverse da quelle di chiunque altro.

-Mmh, hai visto? Niente risse- ironizzò e mi strinse di più a sè.

Annuii lentamente respirando sul suo petto mentre scaricava la tensione in quel modo: assicurandosi che fossi in mano sua e gettando occhiate di morte nella direzione del suo collega.

-Stai bene?-

-Mi riprendo, sono forte-

Alzò un sopracciglio puntando gli occhi nei miei ed abbozzò un sorriso di scherno.

-Mh-

-Guai a te se osi prendermi in giro per quello che ho appena detto- puntualizzai ricambiando lo sguardo.

-Mio Dio, quanto mi sei mancata-

Mi limitai a posargli un bacio su quel petto nudo che avevo visto e sentito sotto la lingua tante, tante volte.

-Forse mi sarei divertita di più con una rissa-

-Ah si?-

Annuii.

Lo sentivo, stava ripercorrendo la strada che Saul aveva voluto testare: schiena, fianchi…

Si fermò infilando i pollici nel bordo dei miei pantaloni e lasciando che il palmo delle mani fosse appoggiato proprio lì, su di me.

-Vuoi attacare briga con me?- propose.

Giocava, cauto.

Dovevamo stare attenti ai confini.

-Uh, la lotta sono brava a farla solo con i cuscini-

Così diventava relativamente facile dimenticare lo scherzo di Slash.

-Lo so-

-Sfacciato- Mi morsi il labbro, cogliendo la sfumatura perversa che era riuscito a dare anche a questo.

Rise e mi baciò la fronte prima di staccarsi e prendere una camicia ed il suo chiodo.

-Immagino che tu non abbia molta voglia di rimanere qui a fare festa, vero?-

La infilò, chiudendo con precisione quasi tutti i bottoni.

-Diciamo che… no, non mi va, anche se infondo sono venuta qui per stare un po’ con voi-

-Ti accompagno-

Propose.

-Voi, non te- specificai mentre si metteva il chiodo.

-Non dire bugie, su… Ti voglio raccontare come sta andando, ti voglio raccontare tutto e voglio sentire quello che tu hai da dire a me-

La sua mano raggiunse la mia senza preavviso.

-Ci serve un po’ di tranquillità, non credi?-

-Sì-

Annuii e non aggiunsi altro, scombussolata dal fatto che stringere di nuovo quella presa fosse stato così facile.








 

Risi appoggiandomi al sedile.

-Oh si, tu ridi, ma è così davvero. Ci siamo portati quel serpente in giro per mezza America perchè quello scemo di Slash non voleva lasciarlo ad un negozio di animali-

-Hai paura dei serpenti Will?- mi avvicinai a lui ondeggiando appena. La macchina era stretta per questi giochetti, ma avevamo tirato i sedili indietro al massimo per avere più spazio per noi.

-Per carità, no, ma se ti svegli e te lo trovi attorcigliato ad una gamba non è divertente per niente-

Scosse la testa mentre ridacchiavo e gli appoggiavo una mano sulla coscia.

I vetri erano appena appannati a causa del nostro continuo chiacchierare. Non avevamo smesso un attimo di raccontare ed ormai da una o forse due ore eravamo posteggiati sotto l’hotel in cui avevo prenotato per quella notte.

-In realtà siete un branco di bambini con l’aspetto di venticinquenni. L’ho sempre sostenuto-

Alzai le spalle solleticando la sua gamba con le unghie.

-Sempre sostenuto, seh, hai visto che concerto serio stasera? Mtv censurerà sicuramente qualcosa… Teste di cazzo-

-Che sboccato Axl-

-Anche tu non scherzi, tesoro-

-Io sono beneducata, è il tuo chitarrista quello che palpa il culo alla gente a random-

-In genere palpa dei bei culi, devo concederglielo-

Scossi la testa mentre accarezzava ancora il dorso della mia mano, in un gesto che doveva sembrare casuale ma in cui leggevo la stessa volontà che avevo messo nello sciogliere il nodo al foulard ancora sul suo collo dallo spettacolo stando troppo vicina a lui. Tutte queste allusioni, lievi contatti, vicinanza, odori.

Eravamo elettrici.

Eravamo drogati in astinenza.

-...L’avevi fatto anche tu- realizzai la cosa improvvisamente e risi.

-Cosa?- non era bravo a fingere.

-Palparmi-

-Io?-

Che finto tonto.

-Ossì, bello mio- risi, ricordando.

-Perchè sapevo già che non mi avresti potuto resistere- mi guardò di sottecchi senza smettere di sorridere.

-Sei Axl Rose- specificai.

-Sono fottutamente magnifico, grazie- scherzò.

-Ma nemmeno tu hai resistito, ed Elizabeth Moore non è nemmeno famosa-

-Dettagli, anzi, meglio così- strinse la mano sulla mia e, confortata, mi appoggiai alla sua spalla facendo scorrere l’altra sul suo braccio.

-Sei stato con qualcuna?-

Senza preavviso, le parole uscirono dalla mia bocca in un sussurro.

-Ni-

Strinsi appena le labbra.

-Non vado matto per le groupie, ma ..me ne sono passate alcune per mani, devo ammetterlo-

Mi intristiva.

-Sesso triste come quello con Adriana- aggiunse tra sé e mi strinse reagendo appena al mio voltare la testa e al mio tentare di allontanarmi da lui.

-Tu?-

-Ho avuto altro a chi cui pensare-

Era vero.

-Sei sciocca se pensi che sia riuscito ad allacciarmi a qualcun'altra. Sei davvero sciocca-

Mi fece aderire a sé e mi spostai in braccio a lui, incastrandomi tra il suo corpo e il volante.

Ci scambiammo una lunga occhiata dopo che ebbi alzato lo sguardo per colpa del suo tono troppo serio e coinvolto. Mio Dio. C’era troppo.

-Siamo nei guai, Axl…- mormorai immergendo il viso sulla sua camicia.

-Lo siamo. Sì-

Sentii le sue labbra indugiare sul mio viso e mi beai di quel contatto.

Rimanemmo in silenzio per qualche attimo mentre giocavo con i suoi bracciali, mentre appoggiava il viso contro i miei capelli e respirava.

Stavamo bene. Fin troppo.

Ma mancava solo una cosuccia per rendere tutto un idillio.

-Mmh- sussurrai scansandomi e sollevando la borsa fino ad appoggiarla alle mie gambe.

Aprii la busta e sbuffai.

-Che palle-

-Finito il tabacco?-

-Si- mi lamentai, tornando ad appoggiarmi a lui e stringendomi al suo braccio.

-La tua solita fortuna... guarda un po’ cos’ho qui-

Sorrise togliendo dalla tasca dei pantaloni un pacchetto nuovo fiammante di Malboro Rosse.

Tentennai.

-Ci credi se ti dico che non ne ho più fumate?-

Non serviva specificare da quanto.

-Davvero?-

Annuii lentamente.

Lo infilò nella tasca della giacca lentamente e senza guardarmi fece una semplice domanda, che nascondeva però un mondo sotto di essa.

-E ti ricordi ancora il loro sapore?-

E ti ricordi ancora il mio sapore?

Tono inconfondibile. Non intendeva quello che diceva, pensava ad altro.

Era davvero possibile essere così eccitata ed atterrita insieme?

Scossi impercettibilmente la testa in senso di diniego raccontando una sciocca bugia.

Inclinò la testa avvicinandosi e prendendo una nuova sicurezza.

-Non ci credo…-

Abbassò la voce avvicinandosi ancora, ancora.

-Tu ricordi?- lo sfidai guardandolo.

La sua mano sfiorò le mie cosce, fermandosi su una di esse.

-Si-

Non parlavamo di sigarette.

Strinse la presa.

Mi sforzai di respirare.

Il suo profumo mi sommergeva, la sua presenza mi alienava, i nostri corpi sapevano già come muoversi l’uno insieme all’altro.

-Dovró fartelo ricordare- bisbiglió, concludendo la conversazione.

Non era più giocoso, era serio, e perso tanto quanto lo ero io.

Lui, solo Lui, sempre solo Lui.

Le nostre labbra non avevano dimenticato.

E nemmeno le nostre mani e le nostre lingue.

Il nostro bacio fu l’inizio della mia tempesta.

Un fulmine in un cielo in cui le nuvole non erano sembrate tanto aggressive.

Gli morsi il labbro, forte.

Volevo fargli male, volevo che sentisse che ero sempre io.

Elizabeth.

Mi allontanai per guardarlo.

Vigili, presenti, i suoi smeraldi parlavano la stessa lingua dei miei occhi.

Decretammo senza aprire bocca che la nostra notte sarebbe stata teatro di cruda verità e di passione mai sopita. Riemergeva dall’oblio con disperazione.

-Vieni di sopra?- sussurrai, il mio petto già scosso dal respiro accelerato.

-Sì-

Un altro bacio.

C’era così tanto da dirci, tanto di cui parlare: nulla che centrasse con le stupide chiacchiere di poco prima. Non avevamo detto una parola su di noi, sul saluto, sulla nostalgia, sul tuffo al cuore di quella sera e dovevamo sistemare queste cose.

Ci credevo. Volevo crederci.

Ma prima volevamo noi.

Noi e basta. Corpi e basta. Insieme e basta.

 







 

Chiusi la porta alle mie spalle ed il secondo dopo mi trovai già incastrata tra il legno ed il corpo del rosso.

Le sue labbra e la sua lingua su di me erano troppo per poter pretendere di pensare qualcosa di coerente. Sciolse il bottone dei miei pantaloni con fretta e riportò le mani sui miei fianchi.

Gliele feci staccare per togliergli il chiodo, che finì per terra con un tonfo sordo.

-Ehi- ghignò e strinse i denti con foga sulla pelle tra il collo e la spalla, avvicinandomi a sè di nuovo.

Cercai inutilmente di slacciare i bottoni della sua camicia, mentre ancora scopriva un po’ di me e mi faceva tremare.

Mi aggrappai al bavero della camicia tirandolo a me mentre mi baciava ancora, tirandolo così forte da far saltare il bottone.

Sì.

Sì.

Diedi un altro strattone e spalmai le mie mani addosso al suo petto.

Sì…

Cazzo.

Mi fermai a guardarlo facendo scorrere l’unghia dell’indice destro dallo sterno fino al suo ombelico, premendo abbastanza da lasciare una sottile striscia rossa.

-No-

Mi rimproverò come si fa con una bambina cattiva e catturò i miei polsi con una sola mano, impedendomi di toccarlo.

-Mmh- mi lamentai.

Quanta forza nella sua presa.

Mi incollò di nuovo alla parete, separando le mie mani, tenendole con le sue contro il muro alle mie spalle e premendo con tutto il suo corpo contro il mio.

Percorse le braccia, tenendo il naso immerso addosso a me.

Il mio profumo, ancora.

La mia eccitazione crescente.

Abbassò velocemente i miei pantaloni, le mutande? Chissenefrega.

Chissenefrega.

Animali.

Mi aggrappai a lui mentre mi sollevava ed entrava in me con foga.

Mugolai di piacere e sorpresa.

Non l’avevo visto spogliarsi.

Spinse, approfittando della gravità che mi portava inevitabilmente a scorrere su di lui.

Stavamo bruciando.

Rivolsi la testa verso l’alto, lasciando che il mio sospiro si confondesse con i suoi versi di piacere.

Oh, quanto era bello.

Mio Dio, il suo respiro spezzato dal piacere, proprio lì, sulla mia pelle.

-Mmh-

La sua voce, profonda, gonfia di soddisfazione.

Mi lasciai abbandonare addosso alla sua spalla prorompendo in un rantolo mentre mi sentivo stringere addosso a lui ed avvolgerlo. Tutto dentro di me, tutto.

Pochi secondi, riempiti dal nostro ansimare.

La nostra brama per un attimo colmata.

Intercettai per un attimo i suoi occhi prima che si sciogliesse in un bacio.

Più dolce.

Più mio.

Come poteva essere tutto in questo modo?

Mi lasciò scivolare lentamente fino a mettere i piedi a terra.

Feci qualche passo in avanti, appoggiandomi con una mano al muro di quel piccolo anticamera dove eravamo rimasti.

Ero malferma sulle gambe e lui affaticato dallo sforzo di tenermi alzata.

Risi piano, realizzando che quel pezzo di intimo era ancora lì, addosso a me ed estremamente bagnato.

-Troppa fretta?- mi abbracciò avvolgendo le mie spalle con le sue braccia.

Preoccupato, ma non troppo. Soprattutto malizioso.

-Aiutami ad arrivare in camera viva-

-Mi hai ucciso la camicia-

-Non si sbottonava…- mi lamentai e diedi un’occhiata dietro di me sentendolo staccarsi.

La abbandonò sul pavimento e mi lanciò uno sguardo pieno di parole.

Con una mano ravvivó i suoi capelli all’indietro, togliendo il sottile strato di sudore che gli imperlava la fronte.

Un respiro più profondo da parte mia; la mano sinistra, libera, corse veloce al mio seno e poi giù… stupidi slip.

Alzò piano uno degli angoli della bocca in un sorriso non meno esplicito della sua silenziosa soddisfazione.

-Bella scusa-

Mi morsi il labbro guardandolo ancora per qualche attimo e poi procedetti verso la camera da letto.

Non mi bastava.

Lo sentivo: dietro di me, mi seguiva rimanendo a pochi centimetri di distanza.

Il mio cacciatore, la sua preda.

Mi sorpassó appena ebbi varcato l’entrata di camera mia ed osservó l’ambiente.

-Questa?-

Afferró il portafoto che avevo lasciato nella stanza al mio arrivo: mamma, papà ed io, al mio sedicesimo compleanno con una stupida corona in testa. Avevo bisogno di portarli con me, sempre.

Sfilai dalle braccia il maglione che avevo indossato per uscire dal locale, ancora integro, nonostante le sue mani e le sue labbra fossero riuscite ad arrivare quasi ovunque e lo lasciai abbandonato sulla sedia.

Rise.

-Regina Elisabetta.. terza-

-No, no, no- scossi la testa.




 

Le spuntó uno strano sorriso in faccia mentre si avvicinava, avvolta in una striminzita canottiera azzurro chiaro e nascosta solo da quegli slip maltrattati.

Palesemente eccitata.

Come io avevo ritenuto inutile portare i boxer sotto alla seconda pelle nera, lei non aveva indossato il reggiseno: spiazzante come l’ombra delle due lievi punte dei capezzoli accendessero in me la voglia di atterrarla.

Di nuovo in lei. Di nuovo.

Immerso nel suo fuoco, diverso da tutti gli altri.

-Prima- precisó, artigliando il bordo dei miei pantaloni con una mano ed iniziando a lambirmi il petto con le labbra.

-Io sono la Prima-

Intrecció una mano con la mia e la portò alla bocca, baciando i miei anelli, catturando tra le labbra una delle mie dita.

Umida e calda.

Schifosamente provocante.

-Sdraiati- sussurrai.

Non lo fece subito.

Allungó le mani sul mio corpo, tra i miei capelli, sulle guance. I suoi occhi si erano sciolti già da un po’, ma ora sembrava che il ghiaccio fosse del tutto sparito e sostituito da mare caldo e profondo.

Avvolgente.

Dolce.

Chissà quanti avevano assistito a questa sua trasformazione.

Volevo credere di essere l’unico.

-Ciao William- bisbiglió.

Socchiusi gli occhi, lasciando che sulle mie labbra si formasse un sorriso.

William.

Neanche io potevo fingere davanti a lei.

Sei mesi non avevano cambiato le cose.

Noi. Noi. Noi.

Questa notte con lei sarebbe stato un tremendo sbaglio, ma.

C’era un Ma.

Perché la volevo, e non era un capriccio.

-Ciao Elizabeth-

Niente tutele per i nostri cuori.

Faccia a faccia.

Nudi.

La spinsi piano sul letto.

Elizabeth. William.

Elizabeth e William, William ed Elizabeth.

Senza niente di mezzo, senza che la vita rovinasse il nostro stare insieme.

Lei si lasciò guidare, appoggiando la schiena al copriletto lentamente.

Finii di spogliarmi velocemente: io non ero importante.

Per una notte.

Per una notte.

Una parentesi socchiusa, un cassetto che avrei fatto meglio a non aprire.

Le accarezzai i fianchi e le tolsi di dosso la canottiera. Senza fretta la lasciai cadere a terra e mi chinai su di lei, ripercorrendo il contorno delle braccia: spalle, gomiti, polsi, mani; del suo corpo: seno, costato, ombelico.

Faceva quasi male da quanto era familiare.

Il mio naso era contro la sua pelle. Bramavo il sentire il suo profumo: indemoniato, dopato dal suo odore continuavo a scorrere, nascondermi tra i suoi capelli, sul suo collo.

-Ti voglio troppo- la strinsi, lasciandomi scappare le parole dalla bocca.

Stare con lei, vivere con lei, con la mia vita di merda e i miei schifosi problemi..?

Non avrei potuto.

Bipolare. Echeccazzo.

Una notte e basta.

Dovevo proteggerla anche da me.

Dovevo farlo…

Mi accasciai sul suo ventre, nascondendo il viso.

No. Non pensare. Non adesso.

Mi accarezzó, lieve, i capelli.

Aspettava.

Amavo il modo in cui le sue mani riuscivano a darmi conforto.

Mi sollevai di nuovo su di lei e sorrise quando la immersi in un bacio, come se fosse tutto un gioco.

Il mio egoismo non aveva limiti.

Abbassai piano gli inutili slip, sfilandoglieli dalle gambe.

La accarezzai e le feci aprire le gambe con lentezza, ma non meno desiderio di quando l’avevo presa sulla porta.

Mi immersi in lei gustando ogni singolo centimetro. Infondo, fino a riempirla.

Strinse le gambe attorno a me per sentirmi ancora più vicino, ancora di più, di più.

Sembrava tutto così facile quando eravamo una persona sola.






 

Iniziò a muoversi piano.

Tutto così diverso da prima. Tutto tremendamente sbagliato perché nella lentezza stavamo trovando il tempo di pensare e sentire qualcosa oltre al piacere fisico.

Inarcai la schiena aprendo la bocca in un sospiro, sorpresa nel sentire l’ennesima scossa scuotermi.

Avvolsi le sue spalle con le braccia e lo strinsi ansimando sentendolo iniziare a spingere di più.

Mio Dio.

Era una corsa.

Eravamo cherosene che aveva preso fuoco.

Di più.

Di più.

Glielo dissi, pregando.

Godetti del suono roco e graffiante uscito dalle sue labbra mentre con un forte colpo di reni sembrava volesse trovare il mio fondo e stringeva il mio sedere con le mani perché fossi ancora più vicina.

Un colpo.

Due colpi.

Singoli. Ben definiti.

Ma che non fecero altro che incrementare ancora la nostra urgenza.

Ricominciò a correre abbracciandomi.

Veloce, veloci.

Gemetti rumorosamente chiudendo gli occhi, lasciandomi guidare dall’istinto per godere appieno di quell’amplesso.

Lo avvicinai ancora sperando che nel calore e nella forza riuscissimo a scioglierci e rimanere insieme per sempre.

I nostri movimenti diventarono scoordinati nella fretta di raggiungere il nostro essere tutto con l’altro e mentre sentivo il suo seme riversarsi in me lo strinsi ancora di più, saggiando con le labbra il sapore salato del suo, del nostro sudore, confuso con quello delle mie lacrime.

-Ti prego resta- lo implorai, travolta una volta per tutte dal sentimento che avevo provato a seppellire.

Lo amavo.

Non avrei mai smesso di farlo.

-Sono qui-

 

Si mosse ancora, più lentamente, come a voler confermare le sue parole.

-Oh, Will…-

 

Mi zittii baciandomi, impedendo che il mio tremore si tramutasse in serie di singhiozzi ininterrotta.

Perchè c’era, era lì, era qui, era dappertutto ora.

-Mia Elizabeth-

Solo un lieve sussurro addosso alle mie labbra.

-Mmh…-

Gemetti e strinsi ancora le mani sulla sua schiena, graffiandolo.

Cos’ero? Cosa stavo facendo? Perché?

Lo sentii inspirare tra i denti trattenendo una smorfia in risposta al dolore che gli stavo causando, ma niente di più. Solo qualche bacio, ancora, ovunque la sua bocca potesse raggiungermi senza che si sfilasse da me.

Ed un morso, sulla spalla, deciso.

Le mie labbra si distesero.

-Mh…- finalmente smisi la sua tortura ed appoggiai i palmi sulla sua schiena.

Leccó avidamente la mia pelle, lungo il segno lasciato dai suoi denti e quindi, facendosi forza sulle braccia si tolse da me e si stese al mio fianco.

Rimasi a guardarlo per qualche minuto e tracciai lentamente il profilo del suo corpo con le dita.

Mi avvicinai ed appoggiai la testa sul suo petto per riuscire ad ascoltare il suo cuore: quel battito era uno dei suoni più rassicuranti che avessi mai avuto l’opportunità di sentire.

 

-Ho voglia di te-

Rise piano.

-Insaziabile, dammi un attimo-

Mi guardò per un lungo istante come aveva già fatto prima, quindi si avvicinò al mio corpo con sicurezza.

-Anche tu lo sei…-

-Devo ancora cominciare a mangiarti, Elizabeth, come potrei essere sazio?-

Arricciai le labbra sentendolo giocare con le dita sull’osso della mia anca, appoggiare le labbra sul mio collo, stuzzicare il seno con i denti, infilarsi nel mio ombelico e quindi leccarmi con un’assurda precisione.

Mi trattenni dal portare una mano tra i suoi capelli.

Mi guardava godere: era il suo gioco preferito.

La sua lingua, la sua bocca… troppo, troppo.

Mi arresi con un mugolio di piacere ed immersi le dita nel rosso, in una silenziosa richiesta.

Passò le sue mani lungo le mie cosce sollevandomi appena verso di sè, ma si bloccò tenendomi in sospeso, facendomi impazzire.

-William…- Lo implorai.

Uno, due, tre secondi per tirarmi su e incontrare ancora le sue labbra e toccarlo e tentare di farlo diventare matto tanto quanto mi aveva fatto diventare lui.

 

Finimmo incastrati di nuovo, seduti, abbracciati, disperati.

Piansi ancora e mi strinse a sè consolandomi.

Perchè quel fare l’amore sembrava un addio ancora più di quello che ci eravamo già dati?

 

 


Volevo parlargli, ma non volevo farlo.

Volevo dirgli quello che sentivo, ma ero bloccata.

Avrei voluto fare tante cose, ma non riuscii a fare nulla nella paura che quella notte potesse finire.

Ci scambiammo un ultimo, lungo bacio, e ci addormentammo allacciati, provando ancora ad aggrapparci a quello che eravamo stati e raccontandoci in silenzio l’illusione di quello che avremmo potuto essere.

 

Avremmo parlato domani.

Sì. Domani, davanti ad uno buono e caldo cappuccino.







 

 

-Axl?-

Il letto era vuoto.

La luce della mattina non aveva pietà di me, illuminando tutto quello che non c’era.

-Will..?-

I suoi pantaloni.

-William?-

Il rumore di un’altra persona oltre a me in quella piccola stanza d’albergo.

La sua camicia in entrata.

La sua giacca di pelle nera.

Non c’era.

Nuda come un verme, mi chinai a raccogliere l’unica cosa capace di farmi credere che quella notte non fosse stata solo un sogno: il pacchetto nuovo che mi aveva mostrato la sera prima era scivolato dalla tasca della sua giacca mentre lo spogliavo, rimanendo inerte sul pavimento; ma Lui era sparito.

Chissà. Forse l'aveva dimenticato di proposito.

Lasciai che la gravità avesse la meglio su di me, facendomi cadere per terra.



 

Mi rimaneva il Vuoto.

Il Vuoto ed un pacchetto di Malboro Rosse.

 

 

- - - - - - - - - -


 

-Abbiamo fatto sesso, come mai prima. Abbiamo fatto sesso, arredendoci, provando a non pensare.. ma per me non funziona così. Sì, Mo’ vivo nel passato. Lo odio.

È sparito, ed io non riesco a lasciarlo andare-

Chiusi gli occhi.

Non potevo dirle tutto. Non potevo raccontarle dello sguardo di pietà lanciatomi dall’uomo della reception mentre senza quasi alzare gli occhi dal tavolo gli avevo chiesto di contattare l’aeroporto per prenotare il primo volo per Los Angele ed ero scappata da lì. Ennesima ragazza abbandonata da uno stupido uomo. Dei giorni in cui ero rimasta chiusa in appartamento a piangere e quindi a guardare il soffitto quando le lacrime erano finite. Della chiamata di Jeff, e quindi del silenzio assordante in cui avevo scelto di immergermi staccando il filo del telefono. Di quello che mi era successo.

-Tornerai da lui?-

-No-

Sibilai.

-No-


 

Che controsenso: il mio odio nascondeva tutt’altro sentimento.

 

Bugie? Bugie? Quante bugie?




Fermate il mondo, voglio scendere.








 


21 febbraio 1988


 

Erano passate quasi tre settimane.

-Sei a casa- inconfondibile, il tono sollevato della voce di Jeff si fermò nella mia testa.

Non risposi. Che cosa dovevo dire? Che cosa dovevo fare? Io non avevo scelto. Io non volevo scegliere.

-Hai voglia di parlare oggi?-

Axl non aveva detto ancora nulla, nemmeno al suo migliore amico, anche se Izzy gli aveva concesso tutto il tempo del mondo.

Cos’era successo?

-Così poi mi lascerai in pace?-

-Forse, Lizzie. Sono preoccupato. Non mi piacciono i vostri silenzi-

Sospirai arresa.

-Se n’è andato, tutto qui-

Andarsene. Che brutta parola.

Jeff poteva indovinare cosa ci fosse oltre a quella breve risposta, breve ma molto diversa dal “Non è successo niente” della settimana prima, o dal mio cercare di cambiare discorso e fare finta che andasse tutto bene.

Osservai la cucina in disordine, le coperte trascinate lungo il corridoio perchè mi dessero caldo anche dopo essere uscita dal letto.

Rimase in silenzio. Quel vuoto aveva il suono delle nostre speranze in frantumi.

-Mi dispiace-

Un singhiozzo troppo forte attraversò la linea fino ad arrivare a lui. Mi sembrava quasi di vederlo: appoggiato al muro della sua stanza con il telefono in mano, arreso, a labbra strette, con Axl seduto sul letto di fianco al suo. Ma non erano a casa, e forse non erano nemmeno insieme in quel momento.

-Elizabeh, lui sta-

-Ciao Jeff-

Interruppi la chiamata, e tirai con forza il cavo della linea fino a staccarlo dal muro. Beato silenzio.

Non avevo altro da dirgli, non c’era altro che quella parola. Non volevo sentirlo adesso, non volevo sentire nessuno.

Cosa avrei fatto, poi, se fosse stato Lui a chiamare? Se Lui si fosse presentato ancora alla mia porta?

Lui lui lui.

Mi rannicchiai sul pavimento, colta da un improvviso crampo al ventre.

Lui.

Trattenni un lamento, sorpresa dall’intensità di quel dolore così simile e così diverso dal solito.

Mi alzai lentamente, trascinandomi verso il bagno.

Di nuovo.

-Ti prego-

Non era bastato il dolore psichico: ora anche il mio corpo si opponeva a me.

Presi la borsa dell’acqua calda e corsi in cucina per prepararla.

Con penna alla mano mi avvicinai al calendario e piazzai una croce sul giorno corrente: 21 febbraio 1988. Ingenuamente proseguii l’automatico controllo a ritroso, mentre l’altra mano andava a massaggiare il ventre, colto dall’ennesimo crampo. Strinsi i denti e continuai a contare.

Arrivata al 22 gennaio i miei occhi slittarono subito alla ricerca della X di quel mese: 3 gennaio 1988.

49 giorni. 49.

-Devi essere un ritardo-

Contai ancora: perchè ero stata così poco attenta?

Quasi tre settimane.

Perchè ero rimasta tre settimane a trascinarmi come uno zombie tra casa e lavoro, provando a non pensare, scroccando shot, aiutando la notte con bianchi sonniferi.

Doveva essere solo un fottuto ritardo.

Per colpa Sua.

Doveva esserlo.

Ignorai l’ennesimo crampo nonostante l’intensità mi avesse fatta contercere su me stessa.

Un fottuto ritardo.

Scivolai sulla sedia più vicina, nascondendo il viso con una mano.

Elizabeth, non pensare.

Quel Se prese forma nonostante il rifiuto di dar forma alle parole nella mia stessa mente.

Piansi ancora.















- - - - - - - - - - - - 





Told ya.
Vado a nascondermi in un angolino.



 

Ritorna all'indice


Capitolo 13
*** Stordita ***


Stordita
(True Love Waits - Radiohead)








9 giugno 1991

 

Tutti gli ordini apposto, Carlo che chiacchierava con un cliente.

Un attimo di tregua.

Mi sedetti davanti al bancone ed incrociai le braccia nascondendoci il viso.

Tutti hanno bisogno di tempo da soli.

Tutti hanno bisogno di qualcuno.

Ignorai il tintinnio del campanello.

Non poteva bastarmi Joe? Avevo diviso tutto anche con lui…

Perchè non mi bastava Joe?

Perchè non riuscivo a tagliare il nastro?

Lasciare il permesso al mio cuore di abbandonare l’amore per Axl e vivere.

Lui l’aveva fatto: aveva ripreso Erin, ma non aveva funzionato.

Probabilmente vedeva già altre.

Sospirai.

Erano passati quattro anni e non era cambiato nulla, infondo.

Forse mi piaceva stare con uomini che mi facevano male. No, non era vero.

Nessuno mi aveva mai fatto male, a parte mio padre e Axl.

E alla fine li avevo perdonati entrambi.

Più o meno.


 

-Lizzie?-

Sollevai la testa, realizzando di essermi lasciata avvolgere dalla musica del pianoforte.

Carlo mi picchiettò le dita sulla spalla e mi avvicinò un bicchiere di vino rosso.

-Scusami- ravvivai i capelli all’indietro rizzando la schiena.

-Offri al pianista-

Annuii e mi alzai, prendendo il calice tra le dita.

Mi voltai ed iniziai a tremare.

-Offre la casa-

Lo appoggiai piano sul piano.

-Ciao Elizabeth-

Ciao amore della mia vita.

-Ciao-

Allungò una mano verso il mio braccio trattenendomi prima che potessi scappare.

-Speravo di trovarti qui-

Non riuscivo a dire niente.

-Sapevo di dover cambiare lavoro-

Scottava.

-Presuntuosa- improvvisamente si rese conto di essere lui stesso a disagio.

-Presuntuoso sei tu-

Mi sedetti sulla panca affianco a lui ed appoggiai le mani alle ginocchia.

-Lo so, ci siamo lasciati. Avevi tutto il diritto per fare quello che hai fatto-

-Non volevo farti ancora male, Elizabeth-

-E allora non avremmo dovuto fare l’amore alla prima occasione-

Girai la testa e lo guardai negli occhi.

-E non avresti dovuto andartene senza salutarmi-

-Elizabeth, io voglio solo qualcuno che mi ascolti- mi interruppe.

-E io qualcuno che non mi strappi il cuore dal petto-

-Ho bisogno di te-

-Piove-

Aggrottò le sopracciglia.

-Piove, Willliam-

-Non posso farti riavvicinare a me, ho troppa paura-

Il suo sguardo si rischiarò capendo l’allusione delle mie parole.

-Sai-

-Non ho mai smesso di guardarti-

-Di chiedere a Steven e a Duff se eri viva, se eri sola-

-E dalle nostre poche chiamate sembrava che ti fossi liberata di me-

-Allora ho deciso di stare bene anch’io. E il successo ed il tour mi hanno distratto, disinibito ed inibito insieme. Erin è tornata alla carica. Tu e Joe… mio Dio, ti ci ho spinta io tra le sue braccia-

-Me ne sono andato mentre dormivi perchè se ti avessi vista svegliarti accanto a me non avrei potuto più lasciarti andare-

-Tour, coca, Erin, sedute-

-Il tentativo di ricostruirmi è fallito con la morte di mio figlio e le stronzate di quella bambina-

-Credi che io non abbia paura?-

Appoggiai la testa alla sua spalla.

-Vuoi riprovarci?- sussurrai.

-Voglio averti vicina e basta. Sei l’unica con cui io riesca a parlare… A parte la psicologa-

-Jeff?-

-Mi da ancora dello stupido da quando sono tornato con Erin-

Ammise piano.

-Ben ti sta-

Silenzio.

-Axl, mi scoppia il cuore-

Silenzio.

-Lo sai che non posso essere tua amica, vero?-

La sua mano si strinse sulla mia schiena.

-Nemmeno io-




-Lizzie?-

Alzai la testa sentendo un ticchettio sulla mia spalla.

-Offri al pianista- mi accostò un calice di vino rosso.

Annuii nascondendo il tremore e presi tra le dita il sottile gambo di vetro.

Mi alzai e mi avvicinai al vecchio dalla zazzera canuta seduto al pianoforte.

-Offre la casa-

Un sorriso splendido, senza pensieri.Intontito.

-Grazie-

Ricambiai, senza ricordare i frammenti della conversazione del mio sogno.

Incubo.

Tutto svanito, se non quel gesto e la memoria di quella chioma rossastra.






 

Dove finiscono i sogni dimenticati?


 

Ritorna all'indice


Capitolo 14
*** Monologo ***


Monologo
(Black Hole Sun - Soundgarden)







11 giugno 1991





 

-Morgan?- richiamai la sua attenzione colpendo il suo braccio con la punta del piede.

-Mmh?-

Affilai lo sguardo nel buio della sala del mio appartamento: la poca luce proveniente dal televisore delineava i contorni dei nostri corpi stesi sul divano. Morgan aveva gli occhi chiusi, probabilmente aveva smesso di seguire il film da un bel pezzo.

Scossi la testa lentamente, quindi la riappoggiai al cuscino, trascinando con la sinistra la coperta dallo schienale fino a coprirci.

-Rivederlo ha riaperto parecchie ferite, sai?-

Bisbigliai.

-Come se tutto ciò che avevo provato a dimenticare fosse tornato a galla… E adesso non posso più fare finta di niente. Sei riuscita a far spezzare la maschera che mi ero messa addosso tre anni fa- ridacchiai sottovoce.

-Quindi dì addio alla mia falsa indifferenza, alla mia faccia di bronzo, alla mia inutile insofferenza verso tutto. Dai il benvenuto ad un Elizabeth emotiva, isterica, impaurita, persa…

-Sono persa Morgan-

-Ho perso anche questa battaglia. Lui mi fa perdere tutte le battaglie…-

Le mie imposizioni più o meno consapevoli si infrangevano sui suoi occhi, sul suo essere e sulle verità che mi poneva davanti.

Sei nuda, Elizabeth, di nuovo.























-- -- -- -- -- -- 


Scusate la brevità del capitolo.
Avrei voluto pubblicare ieri, ma, per ovvie ragioni, non ne ho avuto la possibilità.
Ne è valsa la pena. 
Tempo di riprendermi ed arriverà un nuovo capitolo, magari più corposo.

A presto.


 

Ritorna all'indice


Capitolo 15
*** Scelta ***


Scelta
(No Surprises - Radiohead)








13 giugno 1991



-E se dormissimo e basta..?-

Un sussurro, prima che potesse salire su di me con la chiara intenzione di baciarmi, spogliarmi, toccarmi, immergersi dentro di me.

Inclinó la testa soppesandomi con lo sguardo per un attimo di troppo.

-Sei stanca, bimba?-

Si accostò semplicemente al mio corpo, lasciando seppellire il mio viso sul suo petto nudo.

-Un po’-

-Sembra che andare in Indiana non ti abbia fatto bene-

Chiusi gli occhi, accompagnata dalle lievi carezze sulla mia schiena e sui miei capelli.

-È stato singolare-

Vedere l’uomo che amavo sul palco, circondato da una folla entusiasta mentre io, piccola formica, venivo schiacciata dalle sue parole e dalla consapevolezza di non essere nient’altro che parte della folla stessa non era stato semplice.

Era come se io, Elizabeth, non fossi stata lì: Axl, così come gli altri ragazzi della band, non avevano visto nessuno di noi del pubblico, nessuna singolarità. Solo pura e semplice folla.

-Morgan mi ha detto che ti sei sentita male-

-C’era troppa gente, ho preferito defilarmi prima di svenire lì-

Sospirai piano. Non era andata proprio così, ma quella spiegazione sarebbe dovuta bastare a Joe.

Arretrai, a disagio, fino ad appoggiare la testa sul cuscino.

Riaprendo gli occhi vidi il mondo crollato nella mia testa riflettersi in una sua lieve smorfia di preoccupazione: avevo rifiutato il sesso, ora scappavo dal contatto con lui e non riuscivo a fare a meno di mentirgli.

-Le avevo detto che non sareste dovute andare da sole-

Così come non riuscivo a smettere di pensare alle parole uscite dalla mia stessa bocca qualche giorno prima a casa di Steven e al fatto che sapevo che l’uomo che mi stava accanto non era l’uomo che volevo.

La pelle che toccavo non era la Sua, gli occhi non erano i Suoi, i capelli, le labbra…

Non amavo Joe. Non l’avevo mai amato e non mi sarebbe mai stato possibile farlo.

Senza guardarlo trascinai le dita sul suo petto, fino ad appoggiarle al capezzolo sinistro. Sentii una nuova piccola crepa farsi strada nel mio cuore ricordando il sottile anello di ferro, un altro riferimento del Suo corpo.

-Elizabeth?-

Venni riportata a terra dalla sua voce.

-Stai bene?-

Di nuovo nel mio corpo, presi consapevolezza del sorriso allampanato che erano andate a formare le mie labbra e del sottile velo d’acqua che mi faceva vedere tutto sfocato: il minimo per inumidire gli occhi, non abbastanza per versare lacrime.

-Credo di sì-

Mentii di nuovo.

Avevo già deciso cosa fare. Non mi era chiaro se in quel momento, o fin dall’attimo in cui avevo iniziato questa parentesi di vita con Joe. Quell’insulsa notte in Indiana era stata l’ultima goccia necessaria a far traboccare il famoso vaso.

Quanti giorni mi ci sarebbero voluti per trovare il coraggio di dare voce alla mia scelta?





 

Ritorna all'indice


Capitolo 16
*** Ammissione ***


Ammissione
(Daughter - Smother)








 

18 giugno 1991




Rigirai l’anello argenteo che portavo sull’anulare sinistro facendogli compiere infiniti giri mentre aspettavo che Joe aprisse la porta del suo appartamento. Sapevo che Morgan non era in casa: saremmo stati soli, esattamente come volevo.

Tolsi la sottile fascia e la riposi nella tasca dei jeans, soffermandomi per qualche secondo ad osservare l’ombra scura sulla mia pelle che nascondevo da qualche mese con quello sciocco stratagemma. Un piccolo tatuaggio quasi invisibile, fatto da un collega di Joe nella primavera dell’88.

Rialzai lo sguardo verso la porta sentendo la chiave girare nella serratura.

-Elizabeth- sorrise cautamente. Gli avevo anticipato per telefono che dovevo parlargli.

Sapevamo.

-Ciao Joe- nascosi le mani l’una con l’altra e lo seguii fino alla sala, chiudendo la porta d’ingresso alle mie spalle.

-Cosa succede, piccola?-

-Non mi ha fatto bene andare in Indiana-

Mi fissò, aspettando che pronunciassi ciò che avevo nella testa da giorni.

Parole che le mia lingua non aveva il coraggio di formulare, nè le mie labbra di scandire.

Non posso stare con te.

-Non so cosa dire-

Ammisi, evitando i suoi occhi, sentendo le mie stesse unghie scavare leggemente i palmi delle mani, contratte a pugno e segno evidente della mia tensione.

I secondi di silenzio diventarono troppi per lui.

-Vuoi lasciarmi?-

Mi si asciugò la bocca. Sentii il bisogno di tastare il collo con le dita per assicurarmi che non ci fosse nulla attorno ad esso in procinto di soffocarmi in modo da far scemare quella sensazione di asfissia con la logica.

-Sì- bisbigliai.

Strinse i denti.

-Fantastico-

Avevo lo stomaco sottosopra a causa di quel sì e di tutte le conseguenze che recava con sè. Trattenni le lacrime mentre riprendevo coraggio, alzavo lo sguardo e vedevo l’espressione sul suo viso dipanarsi, trasformarsi da preoccupata ad asettica; lasciando il nulla.

-Fantastico, davvero- continuò.

La sua bocca formò un sorriso storto ed arreso. Mi sembrava di riuscire a vedere le sue certezze sgretolarsi, i suoi timori prendere vita e stracciarle con pochi e potenti colpi di martello.

-Mi dispiace Joe…-

Scacciò le mie parole con una mano e sfregò le dita sul mento.

-Puoi uscire? Ho bisogno di stare per conto mio-

Annuii lentamente.

-Non vuol dire che non passerò ancora di qui…-

-Pensiamoci più avanti, lasciami un po’ di tempo-

Mi interruppe corrucciando il viso in una smorfia contrariata: per quanto ci fossimo sempre raccontati che tra noi le cose non sarebbero state mai davvero importanti stava male.

Fece scorrere una mano tra i capelli e sugli occhi, stanco.

-Ve bene- acconsentii.

-Dovevo saperlo. Sono sempre stato un idiota a sperare in noi, vero?-

Strinse i denti ed affiló lo sguardo.

-Spero di essere stato almeno un buon rimpiazzo-

-Un rimpiazzo?-

-Sono un cazzo di idiota- rise, dandomi la schiena e facendo pochi passi verso la finestra.

-Joe, non-

-Esci-

Rabbrividii di fronte al tono della sua voce: non l’avevo mai sentito così freddo.

Senza aggiungere niente arretrai ed uscii, precipitandomi giù per le scale, dimenticando l’auto parcheggiata a lato della strada ed iniziando a camminare.

Solo poche lacrime scesero lungo le guance. Mi premurai di cancellarle in fretta, cercando di capire a cosa realmente fossero dovute.








 

-Mamma, ho lasciato Joe-

Dissi ad alta voce all’albero che avevo davanti, mentre ancora il mio petto era scosso dal fiatone di quella camminata frettolosa e senza controllo.

-L’ho fatto stare male-

Strinsi le dita sulla borsa che tenevo a tracolla e mi piegai in avanti, cercando di riprendere il respiro e lasciando che le emozioni mi travolgessero.

Ero libera.

-Non voglio più raccontare bugie-

Libera di sentire quello che provavo davvero.

Rialzai la testa e percorsi la breve distanza che mi separava dal tronco dell’albero. Ci appoggiai la sinistra aprendo le dita e stringendole lievemente sulla corteccia, intravedendo di nuovo la piccola rosa sulla mia pelle.

Il parco rimaneva silenzioso.

Non c’era un’anima.

-Io amo solo una persona. La stessa che odio perché mi ha lasciata da parte-

Era terribile.

Ero terribile.

Non stavo sentendo altro che senso di colpa per la perdita di Joe, il fantastico ragazzo che mi era stato affianco in quei mesi. Senso di colpa perchè come aveva detto ero stata io l’unica stronza a lasciare che le cose si disfacessero senza controllo, ad usarlo per provare a riempire il vuoto che sentivo, senza mai ammetterlo direttamente a me stessa.

Rinunciando a lui avevo deciso di rinunciare definitivamente la maschera che mi ero ostinata ad indossare.

Avrei dovuto lavorare su me stessa per guarire dalla mia malattia, dall’amore per William, ma non avrei più negato o nascosto che la malattia c’era. Non avrei più tralasciato nessuna delle emozioni che provavo.

Axl mi aveva abbandonato senza dirmi una parola.

Avevo vissuto la sua perdita una seconda volta ad un solo mese di distanza dal concerto dell’88, l’avevo segnato con inchiostro indelebile per non dimenticare mai.

Mi aveva ferito il suo matrimonio.

Mi aveva ferito l’aborto di Erin.

Continuava ad interferire con la mia vita a distanza ed io continuavo ad essere per lui, ad amarlo, e a fare i conti con il mio amore non corrisposto proprio come mi aveva raccontato con November Rain.

Un’altra lacrima mi scivoló lungo la guancia mentre le mie dita s’infilavano nella borsa ed incontravano la familiare scatola rettangolare.

Tolsi l’imballaggio e la aprii, estraendo dal pacchetto una delle sigarette.

La posai tra le labbra, appoggiandomi di schiena al tronco e lasciandomi sostenere da esso.

Presi l’accendino e accesi.

Il tabacco sfrigoló, infiammandosi ed inspirai la prima dolorosa boccata.

Lasciai che il fumo mi penetrasse nei polmoni e si soffermasse sulle labbra e sulla lingua.


 

Ecco la verità.


 

Ricordo piacevolmente e dolorosamente amaro.



 

Sapore di Marlboro Rosse.





 

Ritorna all'indice


Capitolo 17
*** Ricominciare ***


Ricominciare





 

1 settembre 1991

 

Avevo chiesto una riduzione dell’orario di lavoro a Carlo: anche se combattuta, volevo riuscire ad allontanarmi da quel posto che continuava a giocarmi brutti scherzi. La libreria aveva cambiato gestione e mi ero licenziata dopo che anche Daniel se n’era andato.

Un po’ mi mancavano, i libri…

Con lo straccio di diploma in mano potevo ambire a davvero poco, per cui ora giravo per la città con un sottile pacco di fogli in cui mi mettevo a disposizione per fare da babysitter. Erano stati scritti a penna perchè non avevo voglia di cercare un negozio per stampa e non avevo voglia di spendere soldi.

Nome, numero di telefono, un paio di riferimenti sulla mia esperienza segnati in bella grafia per decine di volte… un lavoro eterno e meccanico.

Entrai nel piccolo supermercato dopo aver legato la bici all’esterno e con energia mi avvicinai alla bacheca degli annunci.

Come se non ce ne fossero già abbastanza anche lì.

Sbuffai.

Cazzo.

Tenni sollevate in aria una delle copie e una puntina, incastrando il resto dei fogli nella borsa.

-Ok, dove ti caccio?-

Soppesai il pannello di sughero fino a quando trovai lo spazio più adatto per me.

Appoggiai il foglio e lo fermai.

Et voilà.

Mi allontanai di un metro e fissai la parete.

Faceva la sua porca figura, niente da dire.

Tenni d’occhio per un attimo i clienti in uscita e la merce appoggiata vicino alle casse.

Niente.

La mia collezione di accendini non sarebbe cresciuta oggi.

Infilai una mano nella tasca della felpa, accertandomi della presenza del mio acquisto di pochi attimi prima.

Malboro Rosse per la mia piccola dose di illusione.

Venni urtata da una signora dalla chioma scura ed alzai gli occhi al cielo.

Che grazia…

La squadrai mentre soppesava la bacheca, si girava e mi guardava negli occhi.

-Ragazzi di 12 o 13 anni?-

Dritta al punto, niente mezzi termini.

Annuii.

Andavano bene. Le medie.

Carine, le medie.

-Ripetizioni al pomeriggio?-

Si soffermó sui miei capelli, sul mio pallore, sul filo di pancia lasciato scoperto dalla maglia troppo corta e la vita dei jeans troppo bassa. Non mi interessava: ero la più bella del mondo.

-Sì, va bene-

-Sette dollari l’ora, inizi domani-

Specificó l’indirizzo e l’ora a cui avrei dovuto presentarmi e strappó il mio annuncio dalla parete infilandolo in borsa.

-Guarda te che mi tocca fare: assumere qualcuno per badare ai miei figli mentre guardo quello di qualcun altro- borbottó tra sé uscendo, lasciandomi spiazzata in mezzo all’uscita del supermercato.

No, però calmati eh.

Calmina.

Alzai le mani in segno di resa e mi diressi sulla strada.

Calmina, donna.

Calmina.

Estrassi una delle sigarette dal pacchetto ritrovandomi a sorridere.

Avevo già un lavoretto.

Accesi ed inspirai.

Socchiusi gli occhi, per un attimo assuefatta dall’inconfondibile sapore e mi rilassai.

Lasciare andare...

 

Ora.

 

Che diamine studiano i bambini alle medie?











-- -- -- -- -- -- 

Perdono, perdono, chiuìedo umilmente perdono. Ho ritardato l'aggiornamento sia per cause scolastiche, sia per problemi con la rete (casa isolata per qualche settimana), ma sono ritornata. 
Spero di riuscire ad essere più puntuale in futuro, pregate che le compagnie telefoniche ci concedano il privilegio di avere internet per più di qualche minuto.
A presto.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 18
*** Rifugio ***


Rifugio










29 settembre 1991



 

Terremoti.

Tre terremoti insopportabilmente energici.

Avevo desiderato urlare.

Fare la babysitter non sembrava essere un mestiere per me. Come dannazione mi era venuto in mente di poter gestire delle bestiole del genere?

Non erano i compiti il problema, era la loro totale mancanza di voglia di stare fermi attorno al tavolo per più di dieci secondi dopo aver finito l’esercizio. E mentre la loro madre era fuori per lavoro e commissioni e le lezioni scritte terminavano trovavo Alessandro aggrappato alla mia gamba e Vanessa che mi trascinava per un braccio mentre Fernando si arrampicava sul divano e si proclamava re della casa.

Come potevano essere così composti e casinisti in momenti in istanti così ravvicinati?

Avevo pensato di mollare tutto: avevo troppa poca esperienza e troppe poche idee per gestire la loro noia dirompente.

Poi era successo qualcosa.

In una delle poche sere in cui ero rimasta a badare a loro, avevo iniziato a costruire un rifugio tra i cuscini della sala. Mentre cucinavo qualcosa per loro, avevano decorato il tutto con le coperte rubate dal divano e ci si erano infilati dentro, bisbigliando i loro segreti.

Avevo dovuto preparare loro la tavola e chiamarli più di qualche volta per convincerli a venire a mangiare. Mi avevano ascoltato quando la fame aveva iniziato a perforare i loro stomaci.

Con il passare dei giorni Frenando e Vanessa avevano iniziato a cedere più facilmente alle richieste del più piccolo, adattando i loro giochi a lui e tornando per un attimo un po’ più infantili.

Ed io con loro.

Avevo guadagnato l'accesso a quel rifugio di coperte così in fretta da non rendermene conto.

Il giorno del mio compleanno avevo trovato una torta sul tavolo della loro sala da pranzo.

Le candeline a forma di ventisei avevano illuminato il buio e tutti e tre, insieme alla loro madre, mi avevano cantato tanti auguri.

Quello nato come lavoro improvvisato si era trasformato in impegno ed affezione, e dopo sole quattro settimane il pensiero di lasciare soli quei ragazzi mi riempiva il cuore di amarezza. Accendevano un calore che pensavo di aver spento, ma pur provando quella nuova sensazione di benessere il teatrino finiva quando chiudevo la porta di casa loro alle mie spalle.

I demoni continuavano ad abitarmi dentro. I miei mostri mi divoravano, fumando le amate Malboro e seguendo di sfuggita le avventure di quel gruppo e dell’uomo che mi aveva rubato il cuore, non raggiungevo mai la pace.

Mi immergevo nei ricordi e ne uscivo con la pelle d’oca, più vuota di quando mi ero abbandonata ad essi.

Il tempo guarisce tutte le ferite, dicono.

Tempo, sì.

Ma quanto?

 

Ritorna all'indice


Capitolo 19
*** Catarsi ***


Catarsi










 

1 ottobre 1991

 

 

In piedi con lo sguardo fisso su quell’uomo dai capelli scuri lisci e lunghi fino alle spalle, dopo venti minuti di concerto ero finalmente riuscita a smettere di chiedermi che cosa ci facessi lì; ad ascoltare quello che in altre occasioni avrei definito solo casino.

Slow, Deep and Hard.

Quel casino mi era entrato nelle ossa.

Ce l’avevo nell’anima e forse era sempre stato parte di me.

Che avrebbero detto i miei adorati Guns se avessero sentito questo? Così diverso dalla principessa che credevo di essere o che avevo provato ad impersonare.

Era un uomo enorme.

I muscoli delle braccia erano tesi nell’atto di sostenere il peso del basso e suonare, il collo dritto verso il microfono. Quella tenda di fili neri gli copriva appena il viso, ma non c’erano veli per la verità e per l’intensità di quello che lui stava provando, comunicando, e dando a tutti noi, pubblico.

Disperazione pura. La storia di un tradimento.

Non mi coinvolgeva in prima persona, no.

Non centrava con me direttamente: andava a toccare però quelle corde che cercavo di nascondere.

Risuonavano e rispondevano, facendo emergere il nero dal pozzo.

Il nero della mia ossessione seppellita.

Il suo sguardo cadde addosso a me, che di nero quella sera non avevo indossato nulla.

Mi distinguevo dal resto dei fan per una maglietta bianca a maniche lunghe e dei jeans.

Avevo raccolto i capelli in una coda.

Fottuti cantanti.

Dannati occhi verdi.

Dannata Los Angeles.

Non sorrise. Non sorrisi.

Tre secondi: abbastanza per decidere di stringere più forte la ringhiera e sopportare le spinte della gente dietro di me. Avrebbe potuto essere una buona occasione: un’eccezione rispetto a tutto quello che ero di solito utile per far uscire i miei pensieri inespressi su quanto stessi male.

Lo stavo nascondendo, ma ero sospesa su un filo.

Il vuoto che avevo cercato tanto ora mi spaventava terribilmente.

Vuoto?

Nah.  

Lasciare Joe, ammettere a me stessa la ragione per cui avevo scelto di farlo e insieme rimettere le labbra sulle dannate Malboro per non dimenticare il sapore della sua bocca e dei baci bagnati che ci eravamo dati.

Non ero comunque riuscita ad uccidere il mio amore. Non ancora.

Ma almeno sentire questa musica incazzata mi faceva stare meglio.

Mantra, sfogo.

Doom Metal.

Nonostante sentissi, rimasi ad ascoltare senza nemmeno urlare o applaudire.

Infondo loro suonavano per loro, ed io ascoltavo per me: occhi aperti su quell’uomo, sulla sua pelle pallida, sul suo basso verdognolo, su quel parco scarsamente illuminato; con i brividi che giocavano a rincorrersi sulle spalle, sulla schiena. Sentivo freddo anche dove mi ero bruciata.

Il mio cuore profondo e calmo, nonostante il volume immenso ed il ritmo incalzante.

 

I’ll kill you tonight

 

Piansi, incurante del mascara sulle guance.

 

I’ll kill you tonight

 

Musica salvatrice.

 

I’ll kill you tonight

 

Liberami da questo schifo che sento.


 

Catarsi.












---- ---- ----



Vi è mai capitato di ascoltare certa musica per far gridare qualcuno al vostro posto? Perchè eravate talmente arrabbiati, tristi o frustrati da voler urlare ma non lo potevate fare? 


Sono curiosa di vedere se qualcuno indovinerà di chi è il concerto a cui ha assistito Elizabeth stasera, indizi ce ne sono a bizzeffe.
A presto.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 20
*** Inaspettato ***


Inaspettato









17 ottobre 1991



 

Il rumore della serratura mi fece alzare la testa dallo schienale. Il piccolo si era addormentato addosso a me e respirava piano dalla bocca aperta. Piccolo… Alessandro aveva già dieci anni in realtà, ma era adorabile.

Sorrisi e lo spostai piano, facendolo appoggiare al cuscino ed alzandomi.

-Torno sabato, cucciolo-

Gli schioccai un bacio tra i capelli e recuperai le scarpe.

-Beta?-

La chiamai piano diretta verso la cucina.

Da oltre la porta chiusa proveniva un confuso vociare: non era sola.

Di nuovo l’ex marito? Parenti?

‘sti brasiliani…

-Beta?-

Bussai piano ed aprii senza aspettare una risposta.

-Elizabeth scusami per il ritardo, ci sono stati problemi al lavoro. Questo giovanotto fa il difficile.-

Verde. Blu.

Merda.

Chiusi le palpebre per non guardarlo arretrando di un passo ed implorando il mio cuore di rimanere fermi nel petto.

-Ti serve un passaggio fino a casa?-

Le riaprii per vedere Beta avvicinarsi. Ma la sua presenza non era abbastanza per riuscire a separare i nostri occhi.

-Penso che andrò a piedi…- balbettai.

Lei ci squadró, come soleva sempre fare quando si trovava davanti a qualcosa di nuovo o inaspettato.

Lui aveva pianto.

-Niña, conosci quest’uomo-

Non era una domanda.

Beta non faceva domande, sapeva e basta.

-Axl?-

A lui le faceva?

William annuì lentamente.

Non eravamo ancora riusciti a distogliere lo sguardo l’uno dall’altra.

Feci un altro passo indietro, scontrandomi con lo stipite della porta a causa della mancata coordinazione: il mio cervello era completamente inibito dalla sua presenza. Mi distrassi, girandomi per un secondo a guardare dietro di me, e mi immobilizzai nel sentirmi avvolgere da braccia troppo forti e annegare in un mare di capelli troppo sanguignei per essere quelli della donna per cui lavoravo.

Aveva approfittato della mia sbadataggine per abbracciarmi.

Intrappolata dal panico l’unica cosa che riuscii a fare fu afferrare debolmente un lembo della sua maglia.

Cazzo.

Mi aveva annullato di nuovo.

Spostó le mani lungo il mio corpo, fino al mio viso, e la fronte sulla mia.

Sentì un rantolo uscire dalle sue labbra ed un lieve sobbalzo per un sospiro troppo profondo.

-Ehi- sussurrai appena, bloccata tra il suo corpo e lo stipite.

-Scusa-

Scusa?

Lo strinsi, avvolgendolo con le mie braccia.

Averlo vicino non faceva così male.

Non faceva male come avevo pensato.

Aprii per un attimo gli occhi scontrandomi con il cipiglio perplesso di Beta.

Chissene.

Richiusi gli occhi e lo strinsi ancora.

Amore della mia vita, ciao…

Si stava calmando ed ora era solo appoggiato a me. In pace.

Sospirai profondamente sentendo i miei pezzi andare apposto per un istante.

Che bello…

Scoppiai a ridere per un attimo senza riuscire a trattenermi.

Sarebbero stati solo secondi e poi via di nuovo. Ma glielo stavo facendo fare perché nel suo sguardo avevo visto un’ombra talmente triste da far male.

-Ridi?-

Alzò piano il viso incrociando i miei occhi.

-È pura isteria- affermai.

-...che ci fai qui?- feci scorrere la mano lungo la sua guancia, dimentica del resto. Era ancora più bello.

-Beta… è la badante del figlio della mia… di Stephanie-

-La tua ragazza-

Annuì lento.

-Mr Rose-

Beta attirò la sua attenzione e gli porse un fazzolettino di stoffa.

-Mr Rose, deve raccontarmi qualcosa?-

Lui si raggeló ed abbassò lo sguardo.

-Sai abbastanza-

-Cosa ti succede?-

Li interruppi.

-...ho ripreso le sedute, è una serata no-

Evasivo come le prime volte. Evasivo.

Se n’era andato.

I miei propositi riemersero dalla nebbia con convinzione.

-Me ne vado-

Dovevo dimenticarlo prima che potesse farmi ancora male.

-Niña, ti porto a casa?-

-Cammino-

Faccia colma di disappunto.

-Allora dormi qui-

Sbuffai.

-Beta-

-Elizabeth, non ti lascio fare mezz’ora di strada a piedi di notte da sola ora-

Strinsi le labbra.

-Va bene, mamma- commentai arcigna.

Il mio umore rimbalzava peggio di delle palline di plastica con cui giocavano i ragazzi.

Serena, impaurita, in pace, incazzata.

-Bambina, portami rispetto-

Rispose. Non lasciava nulla in sospeso, lei.

-Rispetto-

Mormorai.

-Non sei la sua sostituta, non lo sarai mai. E questo è rispetto per i morti, Beta-

Lasciai la stanza e tornai vicino ad Alessandro nel buio della sala.









 

Beta gonfió leggermente le guance, ma non la seguì.

-Credo di iniziare a capire da dove viene la sua sfacciataggine-

-È sempre stata così-

-È quella ragazza?-

-Troppi anni fa, te l’ho accennato: è tardi, c’è Stephanie e c‘è Dylan-

Avevo chiuso Elizabeth fuori dalla porta della mia vita, ma le nostre strade non smettevano di incrociarsi, perfino ora, dopo tre anni di silenzio, riempiti dal fastidioso chiacchiericcio di Jeff e di Duff.

-Non devi illuderti-

-Illusione è la parola dell’anno- feci una smorfia.

-Devi stare attento-

Sbuffai. A me piaceva Stephanie.

Molto. Troppo.

-Ti chiedo solo una cosa: piangi con la signora Seymour?-

Odiavo le domande di Beta.







 


Non potevo vederlo.

Feci finta di dormire mentre li sentivo andare alla porta, annunciati da qualche parola sommessa.

Sì, avevo lasciato Joe perchè volevo pensare a me stessa e riuscire a convivere con la convinzione che Lui fosse ancora importante per riuscire a superarla. Fumare una certa marca di sigarette avrebbe dovuto farmi riuscire a sopportarlo sempre di più, non a ricordarlo in modo costante.

E mio malgrado, eccolo: la vita mi aveva riportato tra le sue braccia in maniera talmente inaspettata da farmi incazzare. Ruggivo, graffiata dall’interno del mio stesso petto.

Come fuggire se lui era ancora presente?

Coincidenza.

Coincidenza.

Doveva esserlo.

Per la mia sanità mentale.

Non volevo tornare a sentire il mio cuore.

Faceva troppo male, ora.














-- -- -- -- -- -- 



Ritardo di un giorno per laurea (non mia ^^'): ieri sera quando sono arrivata a casa ero decisamente uno straccio.
Ho voluto mantenere comunque la data di ieri perchè per me è un giorno speciale e quindi niente, 17 ottobre, invariato e quasi in perfetta contemporanea ^^
Grazie a hello_miki e Caskett_Always, il vostro supporto è incoraggiante :3
A presto.
 


 

Ritorna all'indice


Capitolo 21
*** Nostro ***


Nostro










 

23 ottobre 1991







 

-Ciao-

Avevo malapena appena la porta, sentito la sua voce ed intravisto la sua zazzera rossa, ma fu più forte di me.

Gli sbattei la porta in faccia.

-Nina!-

Beta mi allontanò dalla porta ed aprì.

-Eccovi qui! Ciao Dylan vieni qui con Beta-

Osservai la scena con una punta di scetticismo.

Uno: non volevo vedere Axl.

Due: non volevo conoscere il figlio della sua adorabile nuova ragazza.

Tre: non potevo vederlo fare il paparino.

Arricciai una ciocca di capelli attorno all’indice trattenendomi dal far correre le mani al mio ventre, memore delle innumerabili volte in cui era stato proprio dentro di me e della nostra sera.

Strinsi le labbra e mi voltai, prendendo la giacca dall’attaccapanni.

-Beta, vado a prendere Alessandro, lo porto qui e me ne vado-

Quando tornai a rivolgermi alla porta mi ritrovai davanti gli occhi limpidi di un bimbo di uno o due anni.

Rimasi a guardarlo per una manciata di secondi, dilatati in un tempo indefinito.

A me non piacevano i bambini, a me non piacevano.

Strinsi le dita sulla giacca chiudendomi nel silenzio.

-Dylan, questa è Elizabeth, un’amica di Axl-

Odio i bambini troppo piccoli.

Si nascose sul petto di Beta senza smettere di guardarmi.

-Saluta, non sei così timido…-

Will gli accarezzó la schiena incoraggiandolo ed il piccolo alzò una mano in un sottile cenno.

Non riuscii a dire nulla: smarrita da quegli occhi puri e da quello strampalato accostamento.

-Elizabeth, hai bisogno di un passaggio? Dovrei passare davanti a scuola andando all’intervista-

Scossi la testa.

-Cammino-

-Sei sicura?-

-Cammino!-

Lo oltrepassai ed iniziai a scappare, anche se i maledetti polmoni incatramati mi rendevano difficile prendere fiato.













 

Porca puttana.

Sbattei la porta dell’appartamento, rifugiandomi nella mia stanza. Mi rannicchiai sul letto, appiattendomi contro il muro e trattenendo la sigaretta quasi finita tra le labbra. Non Malboro, non questa volta. Inspirai a fondo, sperando che il fumo annebbiasse la mia mente, i miei ricordi e i dannati sentimenti, sperando che cancellasse la rabbia e sedasse per sempre il mostro che sentivo avere in fondo al cuore.

-Fanculo-

La presi tra le dita sporgendomi verso il posacenere. Le mani tremavano in maniera incontrollata, dimostrando per l'ennesima volta il potere che quell'essere aveva su di me.

-Maledetto- schiacciai con forza la cicca nel contenitore.

Trattenni le lacrime e mi rialzai, diretta all’entrata. Composi il familiare numero di telefono ed appiccicai la cornetta all’orecchio, aspettando.

-Sì?-

-Lo odio- sputai, interrompendo il suo saluto.

-Quel bastardo continua ad intromettersi nella mia vita-

-Non lo sopporto, Morgan! Non riesco nemmeno a guardarlo e lui si presenta davanti alla porta di casa di Beta con un bambino-

-Un bambino. Il figlio della sua fottuta ragazza-

-Perchè anche lui si prende cura di quell’essere. Avevano gli occhi più limpidi dell’universo. Erano felici-

Scoppiai. Le parole mi ferirono la gola e rotolarono fuori dalle labbra con rabbia. Non gridai, non avrei mai potuto urlare così forte.

-Doveva essere nostro, quel bambino!-

Il dolore zittì anche i miei lamenti, lasciando per un attimo la linea in un assordante silenzio.

-Liz, arrivo-

-Grazie-







 

Ritorna all'indice


Capitolo 22
*** Foto ***


Foto










29 ottobre 1991 



-Dylan, amore di mamma, vieni qui!-

Me lo prese dalle braccia stringendolo.

-Mamma, nanna...-

-È notte, vedi che buio c’è fuori?- gli accarezzó la testa con dolcezza.

-È proprio ora di fare la nanna, sì, credevo che Beta ti avesse già messo a letto…- sembrò accorgersi solo allora della mia presenza.

-E tu saresti?-

-Elizabeth. Babysitter dei ragazzi di Beta. Lei è dovuta correre in ospedale con Fernando, è caduto oggi a scuola e stava continuando a lamentarsi per un dolore al polso.. un controllo non gli farà male-

-E ti ha affidato mio figlio?-

Affiló lo sguardo: certo certo, non dovevo fare una bella impressione così, con un’enorme maglia nera dalla stampa discutibile e degli shorts che spuntavano malapena oltre il suo bordo. Delle calze scure mi lasciavano le gambe, facendo in modo che non morissi congelata.

-Stephanie, la conosco, è una ragazza apposto-

Mi accorsi solo allora di Axl, in piedi alle sue spalle.

Una ragazza apposto.

Ah. Ah. Ah.

-Oh, si, mi conosci molto bene…- borbottai trattenendo una smorfia.

Diede un’occhiata a suo figlio per assincerarsi che sembrasse abbastanza tranquillo. Lui giaceva sulla sua spalla, assonnato e pasciuto.

Avevamo mangiato assieme, lui, io, Alessandro e Vanessa, e dopo quello, mentre aiutavo la ragazzina a ripassare letteratura ed Ale sistemava il suo zainetto, l’avevo cullato, cercando di farlo addormentare.

E ci sarei quasi riuscita se sua madre non avesse premuto così insistentemente il campanello di casa Lebeis.

Facevo la scontrosa, e non avrei smesso nemmeno un secondo di mostrarmi così, ma mi stavo affezionando ai figli di Beta, e tenere in braccio quel tato per tutta la serata mi aveva fatto uno strano effetto.

Parlare con Morgan era stato liberatorio. L’odio per i bambini troppo piccoli probabilmente nasceva solo quando c’era Axl al loro fianco: me l’ero cavata egregiamente durante l’assenza di Beta. Stephanie non avrebbe potuto lamentarsi di nulla. Dylan stava bene.

Strinse le labbra e si voltò verso Axl.

-La conosci?-

-Sì-

Breve, riassuntivo. Il suo tono non lasciava spazio ad altre domande.

Mi morsi la lingua per non rovesciarle addosso il fatto che fossi una delle sue ex, per non lasciarmi sfuggire nemmeno una parola di noi e del mio più grande Se.

Tanto non sarebbe importato…

-Bene. Buonanotte-

Si girò, scaricandomi in modo spiccio.

Supermodelle del cazzo.

Incrociai lo sguardo di Axl.

Uno, due, tre secondi.

O pugni o baci.

La voce di mia madre mi risuonò in testa come una semplice cantilena, prendendomi alla sprovvista.

Lo diceva ogni tanto, scherzando sulla mia conquista del liceo. Prima dell’incidente.

-Grazie Elizabeth-

Rimasi impassibile guardandolo.

-Ciao Axl!-

Vanessa fece sbucare la testa da sotto il mio braccio, sorridendo.

-Non dovresti essere già a letto tu?-

Rise piano e le fece l’occhiolino.

-Buonanotte ragazze-

Lasciai che fosse lei a salutare per entrambe, e senza aprire la bocca chiusi la porta, dando un giro di chiave.

Tenni le mani un secondo di troppo ferme a stringere il sottile pezzo di ferro, appesantita dai pensieri.

-Elizabeth?-

-Dimmi-

Le tolsi dalla serratura in modo che Beta potesse entrare al ritorno dalla visita: stavano facendo davvero tardi.

-Non ti piace?-

Mi voltai.

-Chi?-

-Axl-

-È una storia lunga-

Andai in cucina senza guardarla: dovevo prendere la felpa con cui ero arrivata quel pomeriggio, in modo da provare a scaldarmi da quel gelo che mi aveva pervaso.

-È lunga e adesso tu devi andare a dormire. Chiama anche Alessandro. È tardi.-

Chiusi la zip a metà e tirai le maniche verso i polsi, fino a nascondere le dita.

Che stronzate.

-Ma…-

-Dai Vanessa, domani devi alzarti presto per la scuola, e se va come penso tuo fratello tornerà a casa con un bel gesso sul braccio. Un toccasana per il nostro buonumore-

-Tanto già sorridi poco-

Mi fece una linguaccia e si avviò verso la zona notte.

Sorridevo poco.

Mille punti per lei.

Piccola Vanessa.

Sospirai e presi il portafoglio dalla borsa prima di seguire i due nella zona notte.

Aiutai il ragazzino a cambiarsi mentre lei andava in bagno.

-Domani andiamo al parco?- propose, già sepolto dalle coperte.

-È una bella idea- gli baciai la fronte.

-Buonanotte, Ale-

-Buonanotte- rispose girandosi su un lato e chiudendo gli occhi. Mi chinai abbassandomi e gli lasciai un altro bacio tra i capelli. Sorrisi leggermente ed uscii dalla stanza che occupavano lui e Fernando, entrando in quella di Vanessa e trovandola ancora deserta.

Mi sedetti sul letto estraendo il portafoglio dalla tasca. Appoggiai la schiena al muro e rannicchiai le gambe al petto aprendolo con lentezza.

Girai uno degli scompartimenti ed estrassi tra i fogli che sbordavano, leggermente rovinati dall’usura, quello più lucido. La carta fotografica era facile da distinguere tra i vari biglietti da visita.

-Però se mi occupi il letto non posso dormire-

Si arrampicò sul materasso sedendosi al mio fianco e solo quando fu abbastanza comoda allungò la mano per prendere quello che le stavo porgendo e reggevo tra le dita: la copia della vecchia foto che avevo fatto stampare per il venticinquesimo compleanno di William.

Appoggiai la testa alle ginocchia, fingendo che il silenzio della ragazzina non fosse pesante o che il ricordo di quell’anno non mi stesse annientando.

Faceva male, riaprire i cassetti.

Prese una delle mani con cui stavo stringendo le gambe e ci rimise, con estrema cura, la fotografia.

La posi sul mio grembo, tenendola tra pollice ed indice.

Vanessa cacciò un braccio sotto la mia spalla, incrociandolo con il mio e mi si appoggiò addosso, coinvolgendomi in un maldestro abbraccio.

-Era il tuo ragazzo-

-Tanto tempo fa- sussurrai.

-Tanto tanto tempo fa- conclusi, facendo sparire in fretta dalla guancia l’unico segno capace di tradire la mia malinconia.

-A Fernando non lo dico, che sai piangere anche tu, e neanche ad Ale-

-Grazie Vanessa-

Sussurrai, stringendola un po’ di più.







 

Fui svegliata da una carezza di Beta, tra le undici e la mezzanotte.

Fernando avrebbe dovuto portare un tutore per un paio di settimane e sarebbe stato insopportabile, ma ero troppo stanca per realizzarlo, anche se nella mia anomala routine mi ero abituata a ben altri orari.

Bascicai qualche parola riguardo a Dylan cercando di rimettere al suo posto il mio piccolo ricordo ed accettai il suo invito a rifugiarmi nella camera degli ospiti.

Chiusa la porta alle mie spalle decisi di aprire la finestra affinchè l’aria della notte portasse via da me un po’ di confusione. Mentre prendevo il primo respiro profondo mi ritrovai a tastare le tasche dei pantaloni in cerca di nicotina.

Da quante cazzo di ore non fumavo?

Sbuffai, conscia del fatto che Beta non mi avrebbe permesso di prendere una sigaretta a quell’ora e fumare in quella stanza, e mi abbandonai sul letto.

Chissà che aveva pensato quella donna, trovandoci così: come se fossimo entrambe figli sue, vedendo quella foto tra le mie mani.

Axl…









 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 23
*** Drift ***


Drift






31 ottobre 1991

 

-Sì, Beta posso stare qui mentre tieni d’occhio Dylan-

-La signora Seymour sta dando una festa qui a casa del signor Rose, ma di lui non c’è traccia, mi dispiace Elizabeth-

Sbuffò.

-Alla faccia delle madri protettive- notai.

Beta imprecò sottovoce nella sua lingua natia al sentire l’ennesimo rumore di risate provenire da oltre la soglia della stanza in cui si era rifugiata.

-Mi rifugio al piano di sopra, non posso credere che permetta tutto questo casino quando suo figlio è a due passi. E non oso immaginare che cosa ci sia in questo momento nel salotto del signor Rose. Potrei arrivare lì da un momento all’altro pur di portarlo lontano-

Mi appoggiai al muro mentre le sue parole fortemente accentate per il suo tono alterato mi rimbombavano nella testa.

-Non ti preoccupare: tornerà e li caccerà di casa…-

-Aveva la terapia stasera il signor Rose. Può tornare a casa molto di buon umore o molto di cattivo umore, oppure decidere di fermarsi da uno dei suoi compari-

-Smettiamola di parlare di lui, Beta-

Portai una mano alla fronte, in un vano tentativo di capire se il raffreddore di quella mattina fosse degenerato in febbre, ma si. Avevo i brividi.

-Nina, tutti a letto per le dieci e mezza, non li viziare-

-Pf, quei marmocchi con me non se la caveranno facilmente-

-Poi puoi approfittare della camera degli ospiti, ormai sei di casa-

-Domani mattina presto arriva mio padre. Devo andarlo a prendere in stazione e portarlo da me e casa mia per quell’ora deve essere abbastanza apposto- borbottai.

-Appena dormono credo ci tornerò, sono in bici-

-Attenta-

-Sì, sì…-

Ci dammo la buonanotte e riattaccai.

-Betty, hai tutti gli occhi rossi-

Fernando mi guardò dal divano inclinando la testa.

-Betty ora prende un’aspirina e viene a torturarti perchè non la puoi chiamare Betty-

Gli lanciai un’occhiata di sfida e lui ridacchiò correndo fino a sparire in cucina.

Il mio cipiglio si dissolse in un attimo: stavo scoppiando.






 

-Pronto?-

-Ehm, Axl? Sei tu?-

-Sì, con chi parlo scusa?-

-Sono Vanessa-

Ovvio che ero io, insomma, mi conosceva un pochino.

-Fa parlare me!- Fernando mi spinse piano per allontanarmi ma tenni la cornetta fissa in mano contro l’orecchio.

-Non rompere Fernando-

-Che palle, Vane, almeno sbrigati-

Dall’altra parte della cornetta, la risata del cantante dei Guns N’ Roses mi fece sentire le guance improvvisamente un po’ più calde.

-Allora Axl, siamo in un pasticcio perchè è tardi-

-E Beta vi vuole a letto... che avete combinato?-

-Non abbiamo combinato nulla, solo che Elizabeth doveva venire a darci la buonanotte e controllarci, invece è rimasta in camera e non si è ancora fatta viva-

-Elizabeth la babysitter?-

Fernando si morse il labbro e aprì la porta della camera degli ospiti di qualche altro centimetro, lasciando che la luce del corridoio vi entrasse parzialmente.

-Sì, Elizabeth, proprio lei-

Era stato il suo ragazzo di sicuro le voleva ancora bene, e mamma era troppo severa: saremmo finiti in castigo, io e Fernando… Ale l’avrebbe scampata come sempre.

-Vabbè, io entro-

Misi una mano sulla bocca seguendolo con lo sguardo.

-Avete controllato?-

-Fernando è appena entrato nella stanza-

-E?-

Feci qualche passo in avanti ed allungai la testa.

Elizabeth si stava lamentando dell’orario e stava sgridando mio fratello, ma si stava alzando dal letto.

-Si è svegliata-

-Vanessa con chi sei al telefono? Andate in camera per piacere-

Elizabeth tirò su col naso e nascose gli occhi con una mano, infastidita dalla luce.

-Non credo stia bene, anche se ha preso l’aspirina prima-

-Vanessa, metti giù, dai. Con chi stai parlando?-

Fernando la guardò con occhio critico e cercò di stamparle una mano sulla fronte.

-Betty ha la febbre! Facciamo noi i babysitter- rise piano.

-Vanessa, magari passo di lì prima di tornare a casa, va bene?-

-Grazie- sospirai di sollievo, mentre la babysitter guardava Fernando contrariata e, facendosi forza tentava di farlo stare tranquillo.

-Ma se si arrabbia?- mi passò per la testa il dubbio e non potei trattenermi.

-Mi inventeró qualcosa-

Sorrisi soddisfatta e lo salutai, quindi appoggiai la cornetta.

-Sto bene ragazzi, mi sono solo appisolata. Guardate che lavoro la mattina presto, provateci voi a rimanere in piedi dalle sei- sbuffò spingendo piano mio fratello verso la camera da letto.






 

-Che pensi di fare con quel catorcio?-

Si voltò in un lampo, spaventata.

Trattenni una risata e mi avvicinai a lei.

-Non so se tu sia un’allucinazione dovuta alla stanchezza, un sogno o una persona vera, ma gradirei che non mi tormentassi ora-

Soffocò il tono alterato parlando a bassa voce e cercò di schiarire la gola.

-Ti tormento?-

-Axl, lasciami andare a casa…-

Aveva le guance chiazzate di rosso.

-Non puoi rimanere a dormire da Beta?-

-Domani viene papà, devo preparare casa e il letto per lui-

La vidi rabbrividire nonostante l’enorme felpa, chiusa fino all’estremo e alla sciarpa che le nascondeva in parte il viso.

-Ho una macchina-

-E io ho una bicicletta-

-Biancaneve- la rimproverai e mi avvicinai per cercare di capire quanto scottasse.

Pur di evitare la mia mano fece un passo all’indietro, cadendo rovinosamente sul ghiaino.

Rimasi ghiacciato per una manciata di secondi mentre lei si guardava le mani con cui aveva cercato di attutire la caduta e strizzava gli occhi, cercando di fare in modo che stanchezza e frustrazione non si manifestassero con le lacrime.

Cadere pur di non toccarmi?

Perchè?

Mi abbassai lentamente.

-Axl, vai a casa tua- sbottò adirata con un filo di voce.

Me lo meritavo.

Ma non lo volevo.

-Ce la fai ad alzarti?-

Mi si stringeva lo stomaco alla consapevolezza che non era nemmeno disposta a toccarmi a causa di quello che le avevo fatto e dopo tutto quello che avevamo avuto insieme.

Quindi ero ancora più determinato a cambiare le cose.

Elizabeth Moore.

Quante domande per lei.

...quanti rimpianti.

Scosse la testa rannicchiandosi su se stessa.

-Elizabeth, non ti faccio niente di male-

Bandiera bianca, alzavo e sventolavo bandiera bianca.

Mi rispose con uno sguardo insieme carico d’odio, di stanchezza e di lucidità.

Aveva ragione: le avevo già fatto male.

Ma pensava che per me rivederla fosse semplice?

Riuscivo solo a combinare casini in sua presenza, e a fermarmi a guardarla stupidamente, come fosse la prima volta.

Come se avessi dimenticato il suo supporto, il suo riprendermi con sé, e cercare di salvarmi da me stesso. Le nostre notti insieme: Natale, compleanno, il pianoforte…

Il 1988.

...l’avevo trattata male.

Non potevo metterla in pericolo.

Avevo sperato di tenerla lontana, eppure le nostre strade si incrociavano ancora.

Ignorai le maledizioni che sicuramente mi stava lanciando e la tirai su a forza.

-Sei dimagrita?-

Parlai prima di rendermene conto e rafforzai la presa.

Poteva esserci un senso in questo? Oltre a ricordarmi i conti in sospeso che avevo con lei o quanto bene ero stato? O al mio stupido tentativo di sostituirla con qualcuno di totalmente sbagliato?

-Mettimi giù-

-No-

Le feci appoggiare i piedi a terra solo quando ebbi bisogno di una delle mani per aprire la portiera del passeggero.

Forse potevo sistemare le cose, almeno un po’...






 

Salii senza protestare. Mi avrebbe avuta muta e sorda durante quel breve viaggio in auto ed io sarei arrivata a casa viva. Peggio per lui, che pagava la benzina.

Chiuse la portiera e fece il giro dell’auto.

Mi sembrava di avere la traccia delle sue mani, bollente, sul corpo nei punti in cui mi aveva anche solo sfiorata.

Misi la cintura e chiusi gli occhi sentendolo salire ed accendere.

-Grazie Axl per avermi evitato di cadere dalla bici mentre vado in giro ubriaca di stanchezza- mi fece il verso innestando la retromarcia.

Mi tenni sulle mie e mi accarezzai i palmi delle mani, graffiati dai sassi qualche attimo prima.

-Mi hai fatta cadere lo stesso- feci notare sottovoce.

-Se mi odi così tanto da inciampare sul vuoto…- partì.

Odio, Amore.

Quanta confusione.

Mi veniva da vomitare dalla tensione.

Estrassi il pacchetto di sigarette e ne accesi una.

Dentro. Fuori.

-Ragazza, fumi ancora come una ciminiera?-

Non risposi, inspirando e cercando di stare appoggiata al sedile nel punto più lontano possibile da lui.




 

Trattenni un sorriso di soddisfazione sentendo l’odore proveniente dalla sigaretta accesa.

Malboro, poco ma sicuro.

Magari non mi odiava così tanto come voleva dare a vedere.

Iniziai a parlare a ruota libera.

-Stiamo iniziando a lavorare seriamente, dallo psicologo. Lo scorso incontro abbiamo tirato fuori un po’ tutto quello che c’è da sapere su di me-

Anche tu, aggiunsi mentalmente.

-Ed oggi abbiamo ufficialmente cominciato la terapia regressiva-




 

Cercai di ignorare il suo chiacchierio, senza riuscirci davvero.

-Ipnosi regressiva. Ha cercato di spiegarmi come funziona, ma alla fine farlo è più facile che raccontarlo-

Mi interessava. Incredibilmente, nonostante mi avesse illusa e abbandonata, avevo caro il fatto che stesse bene. Se la terapia lo stava aiutando a venire a capo dei suoi problemi, chi ero per distruggere la sua pace?

Gli dovevo la mia, di pace.

Decisi che la cosa migliore da fare sarebbe stata ascoltare mentre continuava a descrivere il lavoro con la psicologa, senza darlo a vedere troppo , ovviamente. Non sarebbe nemmeno stato difficile, visto il modo in cui la fronte continuava a pulsare e gli occhi a minacciare di chiudersi.

-É come se mi mandasse in una specie di dormiveglia, ma è semplicemente uno stato in cui riesco a ricordare meglio-

Sospirò. Ormai eravamo ad un isolato di distanza. In auto era così breve il tragitto..

-Ho paura-

Parcheggiò sotto il mio condominio. Non aveva dimenticato dove stavo.

-Ho davvero paura-

Spense l’auto.

Mi concessi di guardarlo.

I capelli gli nascondevano leggermente il viso.

-Perchè?-

-Perchè i miei sogni se possibile, sembrano essere ancora più orribili di tempo fa-

-Sento che c’è qualcosa dietro, e non è bello ed è pesante- aggiunse, appoggiando il capo al sedile con pesantezza, contemplando con intensità il modo con cui il bracciale appeso allo specchietto retrovisore interno oscillava prima di fermarsi.

-É ridicolo, ma mi sembra che tu non ti sia mai aperto così con me-

Mi feci sfuggire quelle poche parole e tossii.

Colpa del mio malessere.

Aveva ragione a dire che ero ubriaca di stanchezza.

-Tu riappari…-

Sussurrò.

-Io non posso far finta di niente, anche se le nostre vite sono proseguite in modo diverso da quel che ci aspettavamo anni fa-

Far finta di niente.

-Insomma, tu il tatuatore, io Erin, Stephanie-

Quindi nessuno gli aveva detto che fine avevamo fatto io e Joe.

Ma del resto, come poteva sapere di Joe, se non mi vedeva da anni? Duff? Steven?

-Riappari, e mi rendo conto che le due persone con cui riesco e sono riuscito ad interagire nel modo migliore nella mia vita si chiamano entrambe Elisabetta-

Rise tra sè ironico.

-Rischio di sbatterti la porta in faccia ancora- lo avvisai.

-Non vorrei perdere la nostra amicizia, Lizzie, quindi credo che insisterò-

Feci un respiro profondo ed aprii la portiera.

-Tanti auguri-

-Ce la fai ad arrivare viva di sopra?-

-Sì.. vattene ora, ok?-

Uscii cercando di tenermi in equilibrio sulle gambe. Influenza. Diamine.

-Cerca di stare attenta, va bene?-

-Buonanotte- conclusi la conversazione in modo brusco e mi avvicinai al portone.

Sentii il rumore dell’auto in partenza solo dopo aver acceso la luce del mio appartamento.

Stupido stupido stupido Axl.















-- --- -- -- -- -- --- -- --- --


E i dannati Guns 'N Roses che hanno amorevolmente deciso di prosciugare (di nuovo) le nostre finanze?!
Che persone orribili u.u

Scusate per il ritardo nell'aggiornamento.. credo che da qui a un mese il ritmo di pubblicazione non sarà quello di ottobre, ma sperabilmente diciamo che dall'8 dicembre ci sono buone
speranze che ritorni ad un capitolo a settimana ^^ In realtà forse da qualche giorno prima, ma il 7 ho un impegnuccio a Milano che.. *^* quindi vi do la peggio ipotesi :P

A presto, un abbraccio!
 

Ritorna all'indice


Capitolo 24
*** Ironic ***


Ironic






 

1 novembre 1991

 

-Sì?-

Guardai mio padre dal divano tirando su con il naso. Maledetto raffreddore.

-È qui sì, ma credo non sia una buona idea-

Lo vidi alzare un sopracciglio e squadrarmi interrogativo.

-37.9, mal di testa… Sta riposando e non ho intenzione di disturbarla-

Mi sollevai sulle braccia senza capire.

-Certo, buona giornata-

Appoggiò la cornetta con convinzione e tornó vicino a me sul divano.

-Chi era?-

-Rose-

Si sedette sospirando e mi riappoggiai piano alla sua spalla, stando ben attenta a rimanere avvolta nella coperta.

-Sembrava preoccupato-

Mi guardò con una marea di sottintesi negli occhi.

-Lasciamolo preoccupare- chiusi i miei mentre il mal di testa continuava ad essere come un martello sulla mia fronte.

-Credevo che aveste… tagliato i rapporti-

-Sì, esattamente-

-D’accordo-

Che tono insoddisfatto.

-Mmh, che ne vuoi sapere tu di Axl e me..?-

Mi sporsi verso il tavolino cercando un fazzoletto pulito.

-Vi ho trovati il mattino di Natale nascosti in camera tua a dormire come ghiri- iniziò vago.

-Sono andato con lui a trovare mamma quel giorno, mi hai chiamato quando è partito…-

Non diede memoria al fatto che avessi pianto, anche se sapevo che se n’era accorto.

-Da lì in poi hai semplicemente evitato di accendere la televisione su MTv. C’è stato un solo momento in cui ho temuto che tu-

-È stato anni fa- lo interruppi, impedendogli di parlare del mio periodo di isolamento. Non sapeva e non avrebbe mai dovuto sapere come ero stata durante quel mese.

-Allora diciamo solo che lo considero complice del fatto che tu mi abbia invitato qui anche quest’anno-

Ammise e mi scompigliò i capelli alzandosi ed avvicinandosi al fornello.

Era palesemente insoddisfatto.

Mamma, hai parlato di Axl con papà?

Soffiai piano il naso e mi lasciai stendere di nuovo sul divano, seppellendo la testa sul cuscino.

Lo sentii armeggiare con le pentole, aprire il flusso d’acqua, chiudere ed accendere il fuoco.

-E trovo che sia una gran fortuna che io sia capitato qui proprio durante la tua influenza-

-Non ho l’influenza-

-Elizabeth- mi rimproverò con la voce.

Mi nascosi nella coperta e mi voltai verso lo schienale.

Non volevo parlare di Axl.

Rimanemmo in silenzio a lungo. Eravamo abituati a sentire il vuoto, ma negli ultimi tre anni, ricominciando a comunicare, con un minimo di collaborazione da parte di entrambi, la pesantezza aveva iniziato a svanire anche nei silenzi.

Era come se fossi tornata la sua bambina, e lui fosse tornato il mio papà.

Il trascinio delle gambe della sedia sul pavimento mi fece capire che si era seduto.

Sospirò e si misi a sfogliare uno dei giornali sul tavolo, probabilmente lo stupido catalogo di qualche supermercato. Si stancò in fretta perchè dopo alcuni minuti lo sentii rialzarsi ed avvicinarsi.

Il cuscino del divano si incurvò sotto il suo peso. Continuai a fingere di dormire mentre sentiva quanto calda era la mia fronte e mi accarezzava la schiena.

-Hai una bella influenza, altrochè- borbottò.

-Testarda che non sei altro- mi lasciò un bacio sui capelli e si mise in piedi di nuovo.

-Un po’ come te, vero Hazel?-

Mi si spalancò il cuore a sentirlo pronunciare quel nome: stava parlando con mamma.

Il borbottio dell’acqua bollente lo distrasse.

Aprii qualcuna delle credenze ed urtò un barattolo di vetro prima di trovare la mia scorta di tisane.

-Tombola-

Mi girai piano guardandolo mentre spegneva il fuoco e cercava di scovare un gusto che andasse a genio ad entrambi.

-Papà, c’è il tè classico lì in fondo, quello al limone- mormorai e lui si girò a sorridermi.

-Perfetto- individuò la confezione e mise subito una busta nella pentola.

-Scusami, dobbiamo rimanere qui chiusi per colpa mia-

-Sto volentieri qui-

Si appoggiò di schiena al mobile guardandomi.

-Senza Natalie e Annah. Un po’ con la mia bambina. Ci vuoi anche un po’ di tachipirina nel tè?-

-Papà, posso prendere una pastiglia-

-Non hai più quattro anni, no, hai ragione-

Mi soffiai ancora il naso rabbrividendo.

-Fa freddo- mi lamentai e mi alzai andando a sedermi a tavola trascinando la coperta con me.

Vidi la mia borsa lì vicina e ne approfittai per allungare le mani e tirare fuori il pacchetto di tabacco.

-Elizabeth, devi proprio fumare ora?-

Mi morsi il labbro.

-Preparo qualche sigaretta per quando sto meglio..?-

Azzardai una scusa plausibile ed iniziai a rollarne una.

Mi mise una fumante tazza di tè davanti con un’occhiata parecchio esplicita.

-Va bene- mi arresi e spostai tutto a parte.

-Brava ragazza-

Continuò ad osservarmi criticamente. Cercai di ignorarlo e misi un paio di cucchiai di zucchero nella tazza.

-Pensi di smettere prima o poi?-

-Parli del fumo?- mescolai lentamente tenendo lo sguardo rivolto verso il tavolo.

-Sì- sbuffò.

-Ho smesso quando avevi tre anni, sotto stretta minaccia di tua madre- trattenne un sorriso allungando la mano verso la zuccheriera.

-Fumavi?-

-Beh, da qualcuno avrai pur preso- sghignazzò a bassa voce.

Le labbra mi si aprirono in un sorriso spontaneo. Allora da lui non avevo ereditato solo i capelli neri.

Mi nascosi dietro la tazza di tè fumante senza distogliere lo sguardo da lui, sommersa da un'improvvisa ondata di felicità: era il mio papà.

Come avevo potuto rifiutarlo per tutti quegli anni?
 

Nonostante la mia malattia passammo il nostro tempo immersi in un clima di rinnovato calore, condividendo il divano per appoggiarci l’un l’altra e guardare un banale film già visto.

Senza dire niente lasciammo libero uno dei cuscini. Non c’era bisogno di usare la voce per sapere che lì, in quell’appartamento, non eravamo soli. Non eravamo mai stati soli.

La nostra famiglia era ancora presente, e più tempo passava da quell’estate del 1987, più mi rendevo conto che lo sarebbe rimasta per sempre.

Ironico che ancora una volta il merito di quella pace così agognata fosse Suo.













-- -- -- -- -- -- -- -- 

Buondì! Come avevo detto ad hello_miki, ce l'ho fatta ad aggiornare ^^
Le cose ieri -nonostante attacchi di panico e nodi d'ansia che maremma, un po' e collassavo- sono andate bene, ed oggi è ufficialmente un giorno di pausa prima di un nuovo round c:
Cercherò di pubblicare il nuovo capitolo al più presto, abbiamo superato la metà della storia ormai ^^ 
Bye^^

 

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3646940