Zapphire

di MrsShepherd
(/viewuser.php?uid=839469)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Jane: Vecchie abitudini ***
Capitolo 3: *** Maura: Scelte avventate ***
Capitolo 4: *** Charlotte: Posti vuoti ***
Capitolo 5: *** Maura: Lunga è la notte ***
Capitolo 6: *** Jane: Valori Universali ***
Capitolo 7: *** Charlotte: Un passo avanti ***
Capitolo 8: *** Maura: Mai così lontane ***
Capitolo 9: *** Charlotte: Torna da me ***
Capitolo 10: *** Jane: C'è del torbido ***
Capitolo 11: *** Maura: Colpevole chi? ***
Capitolo 12: *** Charlotte: Semper Fidelis ***
Capitolo 13: *** Jane: Salto di livello (parte 1) ***
Capitolo 14: *** Jane: Salto di livello (parte 2) ***
Capitolo 15: *** Maura: Quello che le donne non dicono ***
Capitolo 16: *** Promesse o minacce? ***
Capitolo 17: *** Jane: Cio che non uccide... ***
Capitolo 18: *** Maura: Sono già là ***
Capitolo 19: *** Charlotte: I morti non parlano ***
Capitolo 20: *** Maura: ...ma vegliano silenti ***
Capitolo 21: *** Jane: Everything will be OK. ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Prologo:
la storia è ambientata 11 anni dopo Quantico. Jane e Maura hanno scoperto che la loro amicizia era qualcosa di più. Si sono sposate e hanno vissuto una vita piena e felice: Maura si destreggiava tra il suo lavoro di anatomopatologa a Boston e il suo impegno umanitario nella clinica della madre Hope. Il suo libro ha avuto un discreto successo e così anche i tre libri successivi, che l'anno resa un' autrice rinomata del panorama internazionale. Jane ha lasciato definitivamente la polizia di Boston, vive a Washington e lavora a tempo pieno come istruttrice dell'FBI, ma torna a casa nei weekend per poter stare con la sua famiglia. Non è stata una relazione facile, la distanza, i fine settimana spesso rimandati per impegni lavorativi, la promozione dei libri, non hanno aiutato molto, eppure Jane e Maura non hanno smesso di amarsi, di credere nella loro storia e nella loro calda e accogliente famiglia. Famiglia, sì avete capito bene: Jane e Maura hanno una figlia.
La sua nascita avvenne in circostanze molto singolari. Jane non si aspettava di avere bambini, ormai quarantenne pensava di aver trovato la felicità e la completezza nell'amore di Maura; poi un giorno tornò a casa nei weekend e trovò maura, seduta sulla poltrona, in lacrime, con una lettera in mano:
 
Cara Jane, se hai ricevuto questa lettera, vuol dire che sono morto. Ho dedicato tutta la mia vita all'esercito, trascurandoti, per paura di non essere abbastanza senza la mia uniforme e i miei gradi stampati sul petto; ma nel momento più intimo della mia esistenza, la morte, non posso fare a meno di domandarmi quale sia stato il mio cammino, i segni lasciati, le persone ferite, gli amori di una vita piena e vissuta. Quando arriverà quel fatidico istante voglio essere sicuro di fare ancora del bene in questo mondo. So che non ho il diritto di chiederti nulla, ho perso questa facoltà dal momento che Maura è diventata tua moglie, però, e perdona la mia insolenza, vorrei fare del bene, ancora una volta, lasciando un segno di me a chi mi è stato vicino. Ho congelato i miei spermatozoi quando ero giovane, in modo che se fossi morto prematuramente avrei dato la possibilità a chi ne aveva più bisogno di essere genitore. Alla mia morte questi saranno consegnati a te e ne disporrai tu. Potrai buttarli, venderli, donarli, farne quello che vuoi, però ti prego di riflettere sulle ragioni del mio gesto. Non c'è egoismo, narcisismo o secondo fine in ciò che ho fatto; voglio solo poter fare qualcosa, rendere il mondo migliore di come l'ho lasciato. Servirlo ancora una volta.
Affido la mia vita a te, compagna costante della mia anima, sei stata ossigeno puro, ogni volta che desideravo arrendermi, morire, soccombere all'orrore che ho visto, che ho provato sulla mia pelle, pensavo a te. Sei stata la luce che mi ha fatto andare avanti e comunque andrà, ti prego, non dimenticarmi, perchè io non lo farò.
Devotamente tuo, Casey.
Furono momenti difficili, soprattutto per Maura. Jane accettò il dono di Casey, una mattina si svegliò e le disse:
- Maura, io voglio un figlio, suo figlio.- .
Non fu una scelta facile: Maura si chiedeva continuamente se sarebbe riuscita ad accettare il figlio dell'uomo che da sempre era stato innamorato della sua Jane e questo fu frequente motivo di discussione con lei. Jane d'altro canto era insicura e spaventata, sentiva di dover qualcosa a Casey, voleva questo bambino, ma non poteva fare a meno di chiedersi se avesse fatto la cosa giusta nei confronti di Maura e del loro matrimonio, questo figlio era piombato dal cielo e lei aveva fatto una scelta, avventata, senza pensarci troppo; si domandava continuamente se questo bambino sarebbe stato amato. Dubbi e preoccupazioni si dissolsero nell'aria non appena Jane partorì. La bellissima bambina conquistò il cuore di tutti, soprattutto di Maura che la amò fin dal primo istante, trattandola come se fosse sua. Gli anni passarono e la bambina cresceva, circondata dall'amore dei Rizzoli, di nonna Angela e di Jane e Maura che la amavano più di ogni altra cosa. Spesso maura si incantava a fissare le sue manine all'opera che toccavano e maneggiavano il mondo, le sue gambe nodose e muscolose come quelle della mamma correre, saltare arrampicarsi sugli alberi, mobili, sedie, armadi. La prima cosa che Maura disse, non appena sua figlia nacque fu: - Ha degli occhi bellissimi.- due iridi color zaffiro, come quelle del padre, spalancate sul mondo. Fu in quell'istante che Jane capì che tutto si sarebbe sistemato per i meglio.
O quasi...

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Jane: Vecchie abitudini ***


1. Jane: Vecchie abitudini
La sveglia delle sette mi martella nel cervello, interrompendo un sogno tanto doloroso da voler che non finisse mai. Ho sognato mia madre stanotte: è la prima volta che la vedo nei miei pensieri, da quando è morta.
È passato un mese ormai e mi sembra di essere ogni giorno più distrutta. Maura mi è stata vicino, mi stringeva nelle notti fredde soffocando i miei singhiozzi e i miei incubi. 
Al funerale ho cercato di non piangere, ma non ci sono riuscita. L'emozione ha vinto sulla famiglia Rizzoli, stretta in un triste cordoglio. Al momento del saluto alla salma Charlotte si è girata e mi ha guardato, i suoi occhi hanno scavato nella mia anima mettendo a nudo ogni più piccola parte del mio cuore, non ce l'ho fatta, sono scoppiata a piangere e mi sono aggrappata a lei, un esserino così piccolo, che per un minuto è diventato più grande di me.
Strizzo gli occhi e mi asciugo una lacrima dal viso. Basta piangere, all'FBI non serve una rammollita. Infilo un vestito nero che mi scende fino al ginocchio, non troppo scollato, che fa risaltare le mie forme ancora piacenti. Indosso un paio di scarpe col tacco nere, mi sistemo i capelli e mi metto in viaggio per Quantico. All'entrata mostro il tesserino come sempre.
- Buongiorno.- saluto, senza guardare nessuno e mi fiondo lasciva nel corridoio che porta alla mia aula.
- Rizzoli?- sento una voce profonda alle mie spalle. Continuo a camminare e sorrido: - Vicedirettore Davies.-
- Jane, sono vicedirettore da quasi un anno ormai, quando la smetterai di urlare il mio grado ai quattro venti? Ormai lo sanno già tutti. Non vedi come sono rispettato?- risponde lui scherzosamente. - Piuttosto...un vicedirettore e un'insegnante avranno tempo di prendersi un caffè in questi giorni?-
Mi fermo. Mi volto e sorrido maliziosa: - Ho lezione, adesso.-
- Bene, allora cena, stasera. Al solito posto. Ti aspetto.-
- è un ordine?-
- Smettila, ti aspetto.- dice lui sorridendo.
 
 
Sono le 20,30. Puntuale come un orologio svizzero entro nel ristorante “Da Mino” e mi siedo al tavolo. Cameron non è ancora arrivato perciò aspetto guardandomi nervosamente le mani. No mi sono cambiata, un po' perchè non ne ho avuto il tempo, un po' perchè non ce n'è necessità. I miei studenti mormorano, dicono che tra noi due c'è del tenero, e a me vien da ridere. Se solo sapessero di Maura e Charlie, non parlerebbero poi tanto. Ripenso al sorriso delicato di Maura, ai suoi baci e alle sue mani sulle mie spalle e subito mi sento più rilassata. Il torpore viene interrotto dall'arrivo di Davies, ma non è solo.
- Gabriel?!- urlo io spalancando la bocca per lo stupore.
- Vi conoscete? - chiede Cameron incredulo.
- Ehm si...abbiamo lavorato insieme a Boston.- taglia corto lui. Noto che è arrossito dall'imbarazzo, subito abbasso lo sguardo.
- Perchè sei qui?- chiedo tutt'ad un fiato.
- Perchè ho una proposta da farti. Ho già parlato con l'agente Davies, anzi, stavamo parlando poco fa di quanto la tua presenza potrebbe essere essenziale sul campo. Stiamo seguendo un gruppo di criminali che gestisce un commercio di armi illegali e droghe pesanti, coca, LSD, Acidi. Tutto quello che sappiamo è che da Washinghton le merci vengono spedite in Messico e da lì partono gli ordini per Iran, Iraq, Siria, Uganda, ovunque ci siano terroristi pronti a far saltare qualche testa, in quanto alle droghe la DIA sta cercando di limitarne il commercio nel paese. Il capo del giro, un certo Alcatraz, ha molte accuse a suo carico, ma purtoppo nessuna prova concreta che o colleghi direttamente.-
- E io vi servirei per?- chiedo. Sono un po' interessata, ma è tanto che non lavoro sul campo e sono un po’ sono arrugginita.
- Tu sarai sotto copertura, ti infiltrerai in una delle loro cellule e riferirai tutto quello che senti a me. In teoria…- conclude Gabriel.
- Gabriel, io ho famiglia. Devo poter vedere mia moglie e mia figlia ogni weekend e se questo vuol dire far saltare la mia copertura allora è meglio che troviate qualcun altro.-
- Vedi? Sapevo che avrebbe detto così. Sono dieci anni che la conosco, dieci anni che fa avanti indietro da qui a Boston, ogni weekend.- dice Cameron.
Gabriel Dean mi sorride: - Non ne avevo dubbi. Per questo ho un piano B. abbiamo scoperto l'esistenza di un Fight Club che si tiene una sera alla settimana, in un posto diverso di Washington, per non destare sospetti. Il nostro agente sotto copertura ci ha riferito che a questi incontri solitamente partecipano i ”Grandi capi”, Alcatraz in primis. Sarebbe una buona occasione per avvicinarlo, in modo da coglierlo sul fatto alla prossima consegna, o per trovare prove concrete per sbatterlo dentro una volta per tutte. Lui e i suoi maledetti topi di fogna.-
- Quindi cosa dovrei fare? Organizzare gli incontri, fingere di essere una di loro, mescolarmi tra la folla?-
- No Jane. Tu dovrai partecipare. Sono sicuro che le tue abilità non passeranno inosservate. Diventerai presto il loro cavallo di punta, scommetteranno su di te e riuscirai a farteli amici. Ascolta, non ti sto chiedendo di lasciare il tuo lavoro, potrai insegnare, uscire la sera, andare dalla tua famiglia nei weekend. È solo una sera alla settimana, dovrai combattere, vincere e aiutarci, come ai vecchi tempi quando lavoravamo insieme io e te. Accetti?.-
Sospiro, ripenso ad Hoyt, alla paura, alle litigate con Gabriel, ma anche all'adrenalina che mi saliva ogni volta che stringevo la mia arma, consapevole del rischio. Guardo Davies: - Non lo so. Cameron, tu cosa dici?-
- Ammetto che l'idea di perderti come insegnante mi turbava e non poco; però l'alternativa proposta dall'agente Dean mi sembra accettabile. Ti conosco e nonostante tu sia una validissima insegnante fremi dalla voglia di lavorare sul campo...e chi sono io per impedirtelo? Che sarà qualche livido in più. Soprattutto se sarai tu a farli ad altre. Seriamente, la decisione è tua, ti sosterrò, qualunque sia la tua scelta.-
Mi sento come se rivivessi la stessa scena di 13 anni fa: sopra ad un vasto oceano ad intimare ad un uomo di rinunciare a suicidarsi, poi lui si butta e io devo fare una scelta. In quel momento, forse non l'ho fatta: non ho pensato a Maura, a mamma a Frankie, a Vince. Non ho pensato a quello che avrei perso, perchè....perchè quella era la cosa giusta da fare.
- Sì.- rispondo facendo appello a tutta la mia forza di volontà.
ACCETTO.

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Maura: Scelte avventate ***


2. Maura: Scelte avventate
 
- Cosa dici?- mi chiede perplessa Jane. I suoi occhi attenti scrutano la mia espressione, che a quanto pare mi tradisce.
Alzo le spalle: - Penso che sia un grande passo. insomma, da insegnante a membro di una delle più temibili organizzazioni criminali dello stato…-
- Maura, sarò sotto copertura, lo sai…- precisa lei, come se non lo sapessi.
- Già, sotto copertura…- sottolineo irritata. – Cioè insomma, è comunque un lavoro sul campo…pensare che mente sarò a casa al sicuro a sorseggiare un buon bicchiere di Pinot nero, tu sia in un posto squallido, a picchiare gente altrettanto squallida, mi inquieta.-
- Non picchio la gente perché mi piace Maura, è un lavoro sotto copertura.-
Noto una nota di risentimento nella sua voce roca, che mi fa scattare reazioni che solo lei ha la capacità di suscitare.
- Non è certamente questo il punto Jane!- trillo irritata. Lei mi interrompe, guarda fissa verso di me, odio doverla ascoltare da un computer.
- Hai paura, lo so. Ti assicuro che starò bene, Cameron e Gabriel mi hanno assicurato che sarò libera la maggior parte dei weekend e che la missione non durerà molto, poi..-
- Gabriel…Gabriel Dean?- un’ altra goccia a riempire un vaso ormai colmo. Jane si è dimenticata di dirmelo o lo ha fatto di proposito? Cercherò di concederle il beneficio del dubbio. Sento avvampare le mie guance perlate.
- C’è anche lui, sì.  Però mi rifiuto di chiarire ancora la mia posizione. Tu e Charlie siete i miei unici amori della mia vita e anche Gabriel e Cameron ne sono al corrente e cercheranno di venirci incontro.-
Evito irritata il suo sguardo, lei se ne accorge e con le mani cerca di aggiustare la visuale del computer; lo avvicina a sé, per stabilire un contatto visivo.
- Maura, io ho accettato, però se vuoi posso anche rifiutare…-
- Jane per carità, lo sai che non ti chiederei mai di rinunciare alle tue decisioni per me.-
- E allora dove sta il problema?-
Il problema? Il problema è che la nostra relazione getta le fondamenta su scelte avventate. Ho capito di amarti quando ti sei buttata in quel dannato oceano. Ricordo ancora il nostro primo bacio a Parigi, sulla “Tour Eiffel”, improvviso, dolce, speciale. Pochi giorni dopo, davanti all’ “Arc Du Triomphe” mi attirasti a te e mi chiesi di sposarti e io troppo innamorata ho accettato. Ho continuato ad amarti, malgrado le miglia che ci separano tutti i giorni. Continuo ad amarti, sostenerti, assecondarti, nonostante viva nel terrore quotidiano di perderti per sempre. E tu per tutto il tempo non hai fatto altro che prendere decisioni su due piedi, senza riflettere, senza pensare a noi, la tua famiglia. Chi siamo Charlotte e io? Chi sono io per te? Siamo solo il frutto di altre scelte avventate? Tu ti butti sempre, senza sapere come atterrerai. E questo mi spaventa perché se ti succedesse qualcosa io non sarei lì a proteggerti e questo non posso sopportarlo, perché ti amo troppo.
Ed è questo che avrei dovuto dirle. AVREI DOVUTO.
Lacrime calde mi inumidiscono gli occhi: - Non voglio litigare davanti ad un computer.-
Abbasso lo schermo e chiudo la conversazione. Cerca di dirmi qualcosa, ma non la sento, non la voglio ascoltare. Copro gli occhi con le mani e resto qui, in camera a singhiozzare sommessamente. Se ci fosse stata Angela avrebbe saputo cosa dire, lei era in grado di far ragionare Jane, che nonostante i miei consigli ha sempre fatto di testa sua.
Ma Angela se n’è andata e Jane è totalmente allo sbaraglio. È questo il suo modo di soffrire.
E io sono inutile.
 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Charlotte: Posti vuoti ***


3. Charlotte: Posti vuoti

 
Gridano il mio nome al microfono: CHARLOTTE RIZZOLI! È la mia chiamata, ora tocca a me. Le prime volte mi vergognavo ad indossare il costumino da ginnasta; mi tirava tutto e la parte in fondo si incastrava nelle mutande. Eve, la mia compagna, un po’ più grande di me mi diceva: - Se si incastra lo devi lasciare così. Non è bello che ti “ravani” nelle mutande il giorno della gara! Ti guardano tutti.-
- Chissenefrega…- le avevo risposto, però da quel giorno non mi sono più “ravanata” nelle mutande.
Il mio allenatore mi sussurra di andare, guardo il presentatore, faccio un cenno per fargli capire che ho capito. Faccio un bel respiro e mi avvicino alla sbarra. Le mie spalle sono rivolte alla tribuna, meglio, così non mi distraggono. Passo le mani sulla trave di legno e con la punta delle dita testo la scivolosità. Poi inizio.
Le mani contratte sostengono il mio corpo che assume una posizione verticale, perfettamente verticale. L’esercizio continua come un rito: le braccia fendono l’aria ondeggiando, i miei piedi si sollevano e atterrano saldi al centro della sbarra, la mia schiena si inarca senza sforzo.
Poi guardo la tribuna, non vedo mamma Jane, lei non c’è. Neanche mamma Maura, strano, di solito non mancano mai ad una gara.  la mia testa si piega impercettibilmente verso un lato.
Concentrati…ti prego… ripeto nella mia mente. Allargo le braccia e faccio una piroetta su me stessa, poteva andare meglio.
Ecco, mamma Maura è arrivata e sta prendendo posto, si scusa con i presenti che si alzano infastiditi per farla passare. Oggi è sabato e mamma Jane dovrebbe essere a casa…eppure, per la prima volta il lavoro l’ha costretta a rimanere a Washington. Ma cosa fa mamma Maura? Piange? Perché? È successo qualcosa? Si asciuga le lacrime in fretta, mi guarda e mi sorride. Non lo so, non mi convince…
Guardo di nuovo la trave, ormai manca poco alla fine, prendo la rincorsa, salto spaccata, dovrei atterrare come tutte le volte, ma no. Perdo l’equilibrio e cado giù. Porco cane. Questo mi costerà un po’ di punti; non ci voleva. Risalgo, faccio un bel respiro e attendo il suono metallico, che mi avvisa che è ora di fare l’uscita. Salto, avvitamento, rondata e giù. Le punte dei miei piedi toccano il terreno e da lì non si muovono più. Ho finito, ma non sono soddisfatta; questa era una gara importante, qualificazione livello 7. Spero di essere passata. Guardo la mamma e faccio segno di no con la testa, lei piega la sua, alza le spalle e sorride. È il suo modo di dire “non fa niente”. Attendo il mio punteggio che arriva dopo poco. Sono passata per un soffio, adesso dovrò impegnarmi al massimo nelle altre specialità. Questo mi riesce bene. Seguono le parallele, i salti e il corpo libero. Alla fine, nonostante la caduta alla trave sono riuscita a piazzarmi prima. Saluto la tribuna mettendomi in quella posa strana che prima mi sembrava così ridicola. Mi infilo la tuta e raggiungo mamma.
- Sei ufficialmente passata al livello 8!-  Mi dice prendendomi per le spalle e chinandosi verso di me: - Sono così fiera di te!- mi bacia sulla guancia e mi stringe in un abbraccio. Vedo che ha pianto, anche se cerca di dimenticarlo. Forse questo abbraccio serve più a lei che a me.
Salutiamo l’allenatore che mi ha portato alla palestra e saliamo in macchina. Il tragitto verso casa non è lungo, ma vedo che mamma rimane in silenzio e non lo fa mai.
- Com’è andata oggi al lavoro?- le chiedo.
- Bene, oggi non abbiamo avuto casi, quindi mi sono dedicata alla stesura del mio discorso sul prossimo convegno che si terrà alla Boston University sull’importanza delle tecniche non invasive per l’analisi di corpi rilevanti in casi forensi.-
- Ah.- mugugno io. Come al solito non ho capito una mazza, forse perche ho 9 anni, magari quando sarò più grande riuscirò a seguirla di più. Meno male che siamo arrivate.
- Ti preparo un bel bagno, la campionessa ha bisogno di rilassarsi.-
Approfitto del fatto che lei sia in bagno per fare il mio lavoro da poliziotta. Voglio capire che succede: guardo in camera delle mamme. C’è il letto stropicciato e il portatile è sul cuscino, non è al suo posto, quindi penso che mamma abbia parlato con qualcuno prima di andare via. Questa persona deve averla trattenuta a lungo perché è arrivata in ritardo e piangendo…però siccome è molto ordinata non lascerebbe mai i fazzoletti in giro. Vado a controllare nel cestino, che è stracolmo di carta. Non so con chi ha parlato e forse non vuole dirmelo, ma quella persona ha fatto piangere la mamma e ha tenuto lontana mamma Jane che viene sempre a vedermi, anche se lavora in un altro stato. Questa cosa mi fa arrabbiare.
- Charlotte amore dove sei? La vasca è quasi pronta!-
- Arrivo mamma!-
Mi siedo sullo sgabello di fianco alla vasca. Mamma maura si è rimboccata le maniche della camicia di voile, elegante anche quando è stanca o ha appena pianto. Lentamente mi toglie il codino che legava i miei capelli e comincia a sciogliermi la treccia ripiegata a forma di scignon.
- Mamma…- le chiedo dopo un po’: - Posso farti una domanda?-
La vedo sospirare allo specchio, forse in fondo ha capito di che cosa si tratta, ma non per questo si tira indietro. – Dimmi pure…- dice sommessamente spazzolandomi i capelli color castano chiaro.
- Come mai mamma non c’è oggi? È successo qualcosa di brutto?-
- No Charlie, non ti preoccupare, mamma sta bene, è solo un po’ impegnata per il nuovo lavoro. Per questo non è venuta oggi.-
- Ah, quindi oggi non c’è. Riesce a venire domai?- chiedo speranzosa
- No, questa settimana non viene.-
- Te lo ha detto al telefono?-
- No ci siamo sentite a computer, ha detto che le dispiace moltissimo ma che questa settimana non potrà vederci.-
Al computer. Quindi era lei la persona cattiva che ha fatto piangere la mamma. Sono confusa, mamma Jane non è una brutta persona, è la mamma migliore del mondo,…però questa volta non viene a trovarci. Ce lo aveva promesso. Le brave mamme non mantengono sempre le promesse?
- Possiamo chiamarla stasera per dirle della gara?-
- No stasera no.- mi risponde Maura con gli occhi bassi
- Domani?-
- No, Charlotte. Neanche domani. Mi dispiace.-
- Ma non è pericoloso il nuovo lavoro all’FBI? Di solito era sempre libera nei weekend. La rivediamo presto vero? -
- Sono sicura che il prossimo weekend sarà libera. Me lo ha assicurato lei.- risponde Mamma Maura
- è Perché mamma Jane non c’è che sei triste oggi?- le chiedo guardandola negli occhi verdi. Lei distoglie lo sguardo.
- il bagno è pronto.- mi dice.
Le porgo il costume e mi immergo nell’ acqua calda, mamma scappa velocemente in cucina. Ripenso alla gara e al posto vuoto in tribuna. Chiudo gli occhi e tocco il fondo. Ho la sensazione che non sia finita qui.
 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Maura: Lunga è la notte ***


5. Maura: Lunga è la notte
 
Ci sono delle notti che nel gergo comune si definiscono “disturbate”. Credo non sia corretto definirle propriamente in questi termini; l personificazione di un oggetto (se così si può chiamare) è una tecnica che si addice alla narrativa o al senso comune, a non ha nulla a che vedere con la realtà. Eppure, che il termine sia appropriato o meno non importa, questa notte è stata DISTURBATA. Jane non era con me. Per la prima volta da quando si è trasferita a Washington, non era al mio fianco e una notte, come tutte le altre, è divenuta anticamera di incubi e timori più reconditi. Nella mia mente hanno cominciato a riaffiorare ricordi del passato ormai stipati: mio padre ferito, i killer, il carcere, la morte di Angela, le innumerevoli volte in cui Jane ha rischiato di morire. Mi sento il cuore chiuso in una morsa, specialmente qui e ora, nel letto freddo e vuoto che ci appartiene. E mi sento sempre impotente di fronte a lei, inutile, superflua. Non posso fare niente ora che lei è a mille miglia da Boston e non ho potuto fare niente allora, quando ha deciso di buttarsi in quell’impresa folle, che ha portato la nascita di quella meravigliosa creatura dagli occhi di ghiaccio, che ha riempito le mie giornate grigie, dando colore alla mia vita, portando la luce nel mio mondo ombroso.
Mi alzo e vado in camera sua; la vedo assopita nel suo lettino di ciliegio: sopra al pigiamo indossa la maglietta di MISS FBI, un regalo che mi fece Jane, ma che poi convenimmo si adattasse più al suo stile che al mio. E adesso ricopre il corpicino di mia figlia, lambendole le ginocchia nodose. Jane manca molto anche a lei.
- Charlotte…- le sussurro dolcemente all’orecchi, lasciandole un bacio sulla guancia calda. Lei storce il naso, poi apre un occhio e mi guarda. E io mi perdo nel suo cielo.
- E’ ancora presto…-le mormoro io: -Volevo passare un po’ di tempo qui con te.- le accarezzo il capo scompigliato. Lei allunga le braccia e le cinge intorno al mio collo. Con un movimento esperto la sollevo dal letto, lei si arpiona ai miei fianchi con le gambe sottili che fanno capolino da quella buffa maglietta. La porto nel nostro letto e la lascio riposare; mi stringo dolcemente a lei, sento i miei occhi inumidirsi, ma li chiudo, fermando le lacrime sul nascere. E finalmente riposo anche io.

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Jane: Valori Universali ***


6. Jane: Valori universali
 
Ormai è il mio sesto incontro. Credevo di non essere più capace, credevo di finire a K.O. al primo round, ma ho capito che ci sono certe cose che quando le impari non le dimentichi mai. L’adrenalina che invade il tuo corpo ogni volta che lavori sul campo, o il primo pugno, ti senti più forte,  più padrone di quello che stai facendo, più…più viva. E non sempre è facile.
Dover lavorare sapendo che la violenza farà parte quotidianamente di te, in un certo senso è frustrante, ma un’ agente sotto copertura deve imparare a convivere con le frustrazioni. L’unico problema è che questa lotta tra chi sei e chi devi essere non è temporanea, ti divora come un parassita e come tale si insidia in ogni angolo della tua vita, nel lavoro, nelle relazioni, in famiglia. L’accademia non ti insegna a superare tutto questo; ti devi semplicemente salvare da sola.
Guardo la mia schiena ossuta allo specchio, un’ ultima volta, prima di uscire e gonfiare la faccia di un’altra donna cazzuta. Tra le scapole si annida un tatuaggio che rappresenta il mio posto nella gang nella quale mi sono infiltrata: la combattente. Sono solo agli inizi, come testimonia il mio corpo intonso, ma la mia fama mi precede e presto Alcatraz si accorgerà di me. Lo vedo partecipare agli incontri, lo spettatore vip che guarda questo spettacolo da gladiatori seduto su una poltroncina che evidentemente porta il suo nome sopra. Viscido, inespugnabile topo di fogna, se potessi lo porterei in cella personalmente, ma il gioco del corteggiamento, che lo porterà a fidarsi di me, è un gioco lungo e richiede tempo e pazienza. Alzo e abbasso le spalle; le due piccole ali incise sul mio corpo si sollevano come se volessero liberarsi da questa pelle che le tiene imprigionate. Maura non ne sarà contenta; appena la missione finirà, me lo farò togliere. Salgo in macchina e mi preparo a raggiungere la “capanna dell’impiccato”, uno dei tanti posti designato per il Fight Club femminile; non so perché si chiami dell’impiccato, anche se non mi è difficile immaginarne i motivo. L’illuminazione è scarsa e le urla scimmiesche di incitamento mi rimbambiscono il cervello: da lì è tutto un susseguirsi di eventi. Mi danno pacche sulle spalle con mani sudaticce e ingiallite dal tabacco, mi presentano al pubblico come Jordan la combattente e subito inizia lo show: la sfidante cade a terra quasi subito, un paio di colpi assestati nei punti giusti e la platea è già ai miei piedi. Si agitano tutti impazziti, lanciano bottiglie, pezzi di cibo, foglietti di carta; vuol dire che ho fatto bene il mio lavoro.
 
_______________________________________________________________
- Vodka liscia.- ordino al bancone del bar.
- Non è una bevanda da signore.-
- Non sono una signora, picchio come un uomo.-
Alcatraz mi si avvicina, i suoi capelli brillantati puzzano di fumo e muffa, mi disgusta, ma è anche il mio obiettivo, quindi devo stare molto attenta.
- Prendo quello che ha preso lei.- si rivolge al barista sedendosi disinvolto.
- Allora, vedo che ci sei andata giù pesante anche stasera, fusto di mais. Dove hai imparato a picchiare in quel modo? - tira su con il naso; posso vedere le sue narici bruciate dalla cocaina.
Mando giù tutt’ad un fiato: - E’ l’unica cosa che so fare e che ho sempre fatto. Faccio solo il mio lavoro.- bofonchio io, giocherellando con il bicchiere vuoto. Faccio cenno al barista perché mi porti un altro shot.
- Anche di più. È un lavoro che mi frutta molti soldi. E io adoro il profumo dei soldi.- mi rivolge un ghigno di apprezzamento, so esattamente dove e cosa sta fissando, faccio finta di non farci caso.
- Di sicuro non è con me che ti fai tutta quella grana…- gli rispondo mettendolo alla prova, tecnica di avvicinamento dell’obiettivo, imparata e sperimentata più volte.
- Cosa vorresti dire?- risponde sull’attenti lui. Più diffidente di quanto credessi; almeno gli ho fatto sparire quell’insulso sorrisetto da deficiente.
-Calmati Alcatraz. Voglio dire che nel fight club che hai messo su ci saranno pesci più grossi di me sui quali puntare.-
- Non così grossi…- continua:- Sai, potresti…salire di livello. Sotto la mia ala saresti una mia proprietà, ma pottresti fare combattimenti veri, guadagnare molti soldi, e non sto parlando solo del fight club…- mi dice sorseggiando il liquido trasparente nel bicchierino.
-Mhh…mi sembra una proposta accattivante, soprattutto per la grana…- scherzo io dandogli una pacca sul braccio. Lui mi afferra prontamente la mano.
- Non così in fretta tesoro.- si avvicina pericolosamente a me, istintivamente mi alzo dalla sedia e mi allontano, la mia integrità mi impedisce di rimanere vicino a quel fetido pezzo di merda, ma lui mi tira a sé e non accenna  a mollare la presa. Riesco a sentire il suo respiro eccitato che mi scalda il collo, la sua virilità preme contro la mia, il calcio freddo della pistola appoggiato sul mio ventre. Cerco di trattenere le mie mani desiderose come non mai di un altro pugno.
- Se vuoi lavorare per me, ci sono delle “condizioni necessarie” da rispettare. Si inumidisce le labbra.- Non so se mi sono spiegato.
Sento uno dei suoi tentacoli poggiarsi viscido sul mio culo, la sua mano lurida saggia le mie forme con meschina disinvoltura.
- Credo di aver capito.- concludo io allontanandomi. –Ti farò sapere.-
- Al prossimo incontro.- mi dice lui allontanandosi beffardo. –Ah, a proposito…belle mani.-  conclude guardando le mie vecchie cicatrici pulsanti, che mi fanno male come mai prima d’ora.
 
Tornata a casa prendo il telefono che Gabriel mi ha dato in dotazione.
Qui. SUBITO. Gli scrivo.
Un’ ora dopo bussa alla mia porta: - Come procede?- chiede dopo pochi convenevoli.
-Procede che se continua così, dovrete trovarvi un’altra agente!- replico io stizzita.
- Jane, il tuo ruolo è essenziale. Ormai sei entrata nel giro e non puoi abbandonare la missione così…-
-Sai, oggi ho finalmente avvicinato Alcatraz. Mi ha proposto di entrare nel suo giro…-
- Visto!? Tutto procede per il meglio, abbiamo fatto progressi grazie a te. Troveremo le prove per incastrarlo una volta per tutte e chiudere il suo giro criminale non solo del Fight Club, ma anche di armi, droga e prostituzione. Ma hai capito che cosa abbiamo tra le mani Jane?! Sarà il blitz del secolo!-
- Sì, ma a quale costo Gabriel?- lo interrompo io.
Sembra perplesso: - Cosa intendi dire?-
- Devo fare un accordo.- sospiro con voce rotta: - Alcatraz mi ha fatto capire, che per lavorare per lui devo essere la sua puttana. Capisci in cosa ci stiamo cacciando Gabriel?-
- Questo non permetterò mai che accada. Non tradiresti mai Maura e la tua famiglia e io non posso costringerti a farlo.-
- E allora cosa pensiamo di fare?- chiedo guardando istintivamente la scatola sulla mensola che contiene la mia fede.
Gabriel passeggia guardando fuori dalla finestra in cerca di un’ idea, in cerca di tempo.
- Dovrai per forza dirgli che non andrai a letto con lui. Lui potrebbe escluderti dai giri, in tal caso il tuo lavoro e anche il nostro sarebbe finito e vano…oppure potrebbe…- fa una pausa: - Potrebbe prenderti comunque e allora la missione continuerebbe come previsto. È un rischio sì, ma dobbiamo tentare. Tu che ne pensi?-
- Dico che va bene, ma non mi farò toccare di nuovo da quel bastardo. Te lo giuro Gabriel, se mi mette ancora le mani addosso, mollo tutto.-
- Va bene.- conclude lui. Si dirige verso il divano dove ha appoggiato il cappotto e lo infila con movimenti lenti. Si sistema la collottola e mi fa segno di dirigersi verso la porta di ingresso. Lo seguo ciondolante. Lui si volta piega la testa da un lato, mi guarda e mi sorride.
- Sei una donna forte Jane. È quello che mi piace di te. Credo tu sia la persona giusta per concludere questa missione. Ed è proprio perché lo sei che ti prometto che farò in modo che non ti accada nulla di spiacevolmente pericoloso.-
Esce da casa mia. Lo vedo imbroccare il corridoio, poi si ferma: - Per qualsiasi cosa…-
E lascia la frase a metà.
Incompleta. Come la fiducia che ripongo in questo caso.

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** Charlotte: Un passo avanti ***


7. Charlotte: Un passo avanti
 
- E’ importante che i piedi siano uniti durante l’avvitamento.-
- Lo so.- rispondo ciondolando all’allenatore.
- Piedi uniti e braccia al petto così! Come un faraone.- incrocia le braccia e mima un salto con avvitamento. Essì, somiglia proprio alle mummie egiziane che abbiamo studiato a scuola…con la signora Insie, signorina INSIE, o come dice zio Tommy “ INSIE l’insipida” per via della sua espressione che ricorda la quando uno assaggia l’insalata e si dimentica di averla condita.
- Lo so.- continuo come una cantilena. Adesso tira fuori la storia di Aliya Mustafina…
- Se no sei comme Aliya Mustafina.-
TAAAC! Non che la cosa non mi faccia piacere…insomma, lei è una campionessa olimpica.
- Lei mentre avvita tiene le gambe disunite e cosa fa?-
- Perde l’equilibrio e…-
- …E rischia di cadere! Esatto! Mi segui?-
- Sì ti seguo, sono solo un po’ stanca…-
- Per la scuola? I tuoi insegnanti ti stanno spremendo come un’arancia?- ridacchia lui mimando i gesto. Effettivamente deve imitare qualsiasi cosa. È irritante.
- No no è solo che…-
- Che?-
Non so se capirebbe. Non vedo mamma da due settimane. Non è mai stata così lontana e mi manca tantissimo. Questo weekend dovrebbe tornare. Dovrei essere contenta e invece sono anche un po’ arrabbiata. So che mi farà tante coccole, rideremo e passeremo dei momenti bellissimi, però adesso che mamma Jane ha un nuovo lavoro, mamma Maura è molto preoccupata. La sento piangere dietro le porte, nascondersi sotto le coperte, studiare, leggere lavorare senza fermarsi mai. Lo fa per non pensare a mamma Jane perche questo la rende molto triste e so che un pochino le manca.
Perché mamma Jane non può dire di no? Perché se una cosa fa stare così male non può smettere? Lei  me lo ha sempre detto: “Charlie, se una cosa non ti rende più felice forse è arrivato il momento di lasciarla andare”
E allora perché lei non lo fa?
Sento che la rabbia sbuffa e borbotta nello stomaco e mi viene una voglia improvvisa di prendere a calci qualcosa. Forse, forse non sono sicura che vederla sia una buona idea.
- Pronto Charlie sei connessa?- mi chiede l’allenatore agitando una delle sue manone vicino al mio viso.
No, decisamente non capirebbe.
- Si si, ci sono!...Continuiamo.-
E questa volta l’avvitamento è PERFETTO.

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** Maura: Mai così lontane ***


8. Maura: Mai così lontane
 
Jane viene verso di me, agita una mano in segno di saluto. Porta il solito borsone sulla spalla sinistra contenente i vestiti necessari per questi due giorni che trascorrerà con noi. Mi alzo dalla sedia dell’aeroporto e le vado incontro, sfoderando il mio migliore charmes. Passano gli anni e lei sembra non cambiare mai. È ovvio che lo scorrere del tempo ha leggermente inciso sul contorno degli occhi, ma lei è sempre bella e uguale, come quando ci siamo conosciute: gli stessi stivali pesanti, la stessa maglietta colorata che le fa risaltare i muscoli addominali e delle braccia, i capelli ricci che le disturbano il volto, il sottile filo di matita nera che rende arcigni i suoi occhi sinceri. Tutto sembra rimasto identico, ma come diceva Angela, ne è passata di “acqua sotto i ponti”.
Posa la borsa sul pavimento pieno di germi e mi abbraccia: - Mi sei mancata moltissimo.- mi sussurra stringendomi forte a sé.
- Jane, mi stai facendo male…- dico strozzata. Lei allenta la presa e mi bacia ripetutamente sulla guancia.
- Scusami, è che avevo tanta voglia di vederti.-
Ecco la mia Jane, che si da da fare per sembrare una dura, ma in realtà ha solo bisogno di affetto. Essì che volevo sembrare offesa…- Anche tu amore.-
 
Siamo in macchina, lei stranamente mi lascia guidare e restiamo in silenzio senza musica, senza parole, lei però non smette di posare i suoi occhi scuri su di me.
- Come sta Charlie?- chiede lei dopo alcuni minuti.
- Bene. Ha iniziato la nuova tranche di allenamenti. L’allenatore afferma che lei è molto dotata per la sua età.-
- Così piccola e ha già raggiunto un livello molto alto. Lei cosa dice?-
- Non parla molto, sembra contenta, ma non lo so. Non mi sbilancio. Dovresti chiedere a lei.-
- Speriamo lo sia…- dice Jane guardando fuori dal finestrino: - E’ così diversa…-
Jane crede ingenuamente che Charlotte assomiglia a Casey, o forse ci spera.
Spera che lei sia come lui, per non lasciarlo mai, per averlo sempre qui. Lo so che non lo fa per amore, però lei è fatta così: vorrebbe che tutto rimanesse sempre immutato, congelato familiare; un animo da perfetta conservatrice. In realtà se trascorresse più tempo con sua figlia si accorgerebbe che da Casey ha preso solo la sfumatura degli occhi. Lei è geneticamente, caratterialmente, emotivamente simile a sua madre. Ma non voglio litigare proprio adesso che è tornata e così la lascio crogiolarsi nelle sue ingenue opinioni, chiaramente discutibili e opinabili. Rimango zitta anche se la mia presa sul volante si fa più secca e dura.
- E Frankie e Nina come…-
- Stanno bene.- rispondo prontamente.
- Anche…-
- Anche i bambini, sì.-
- Ok.-
- Ok.-
E ritorniamo in un silenzio tombale fino all’arrivo a casa, rimandando parole graffianti che sappiamo entrambe che faranno male.
 
Apro la porta di casa e chiamo Charlotte, Jane fa sentire la sua voce: - Hey Charlie? C’è qualcuno in casa?-
Charlotte riconosce immediatamente la sua voce; la sento scendere velocemente le scale, con un salto si getta al collo di Jane: -Mamma, sei tornata!-
- Sì tesoro, sono qui.- dice amorevolmente Jane ricambiando il suo abbraccio. Qualche volta Jane mi ricorda mia madre, quella non biologica. Lei era sempre composta, misurata, elegante in ogni occasione; soleva portare un filo di perle quando usciva di casa, le davano, uno status sociale da mantenere e ostentare. Ma quando la giornata giungeva al termine e il sipario calava, lei si toglieva i tacchi a spillo, il trucco e riponeva le perle in un cassetto. Per brevi momenti tornava ad essere…solo mia madre. Jane è così, non porta perle, ma maschere da tutta una vita e solo pochi riescono a intravedere al di sotto di esse, dove si rivela la vera bellezza del suo volto.
- Quanto tempo rimani?- chiede Charlotte speranzosa.
- Fino a domenica sera. Mi dispiace Charlie, ma lunedì devo lavorare.-
Charlotte si incupisce: - E’ per il tuo nuovo lavoro vero?- Jane mi lancia di colpo un’occhiataccia. – Deve essermi trapelato qualcosa, mi dispiace.- rispondo costernata.
Lei si china su sua figlia e la prende per le spalle: -Mamma non può restare perché lunedì deve andare al lavoro ad insegnare a dei ragazzotti un po’ più grandi di te ad essere dei buoni agenti.-
- Altrimentii diventano dei caproni…-
- Altrimenti diventano dei caproni con la testa molto dura!- conclude Jane picchiettando con il pugno chiuso la testa chiara e ribelle di sua figlia, facendole tornare il sorriso. Poi con un gesto repentino la solleva e caricandosela sulla spalla come un sacco la porta in salotto.
- Allora campionessa! Non mi racconti della tua gara? Quando ci chiameranno per le Olimpiadi?-
___________________________________________________________
 
La giornata è trascorsa tranquillamente: siamo uscite a fare una passeggiata nel pomeriggio e siamo rimaste a casa la sera; sembra che le componenti della mia famiglia si siano scordate del fatto che non ci siamo viste per due intere settimane. Sembra che tutto sia tornato alla normalità, ma non per me. Jane ha saltato un appuntamento, dopo undici faticosi anni, ha mollato e nonostante sia qui e abbiamo trascorso una giornata stupenda, non posso che sentirla lontana.
 
- Charlie è caduta.-
- Quando?-
- Alla gara.- dice lei spazzolandosi i capelli corvini.
- Già, era delusa. Temeva di non ricevere la qualificazione.-
- Se la prende troppo.- risponde lei.
- Chissà da chi avrà preso…- rispondo con tono provocatorio. Apro il computer, inforco gli occhiali e continuo la mia ricerca per l’ incontro in università, che si terrà tra pochi giorni.
- Cosa?- chiede lei smettendo di pettinarsi e fingendo di non aver colto le mie parole.
- Nulla…-
- Senti, ma qual è il problema?! È tutto il giorno che sembri imbalsamata come i tuoi cadaveri. Dovresti essere contenta di passare un po’ di tempo insieme e invece non fai che essere sfuggente e rispondermi cosi, alla cavolo…-
- I miei cadaveri non sono imbalsamati. E comunque, non ho diritto di comportarmi in questo modo?-
- Non sto dicendo questo. Non dico che devi tapparti la bocca, solo che, non ti capisco. Sembra che tu non mi voglia intorno.-
- Assolutamente. Solo che ultimamente ritengo il modo di comportarti piuttosto discutibile.-
- Ti riferisci ANCORA alla missione con Gabriel? Te lo ripeto per l’ennesima volta: non devi preoccuparti. Non durerà molto.- dice cantilenando le ultime parole.
- Mi riferisco al fatto che mi hai avvertito a cose fatte, che per te io non ho voce in capitolo!-
- Come vuoi che mi giustifichi ancora? C’era una decisione immediata da prendere e ho dovuto fare una scelta!-
- Già tu agisci sempre, ma ti dimentichi di pensare. E non è la prima volta che succede.-
- A cosa ti riferisci veramente Maura?- mi chiede Jane con tono minaccioso. Viene verso di me brandendo lo spazzolino da denti come una spada. -Di cosa mi stai accusando veramente?-
- Penso che tu stia attraversando un momento difficile Jane. E quando ciò accade, non ti fermi a pensare o a riflettere, no. Tu agisci. Prendi decisioni escludendo e allontanando chi ti sta intorno, ma non tutti avranno la pazienza di perdonarti sempre Jane.- dico tutt’ad un fiato. Lei alza gli occhi al cielo e posa l’”arma” sul comodino.
- Sei arrabbiata perché non sono tornata a casa lo scorso weekend, ho capito il punto e ti chiedo scusa; l’ho detto a Gabriel, non accadrà mai più.-
- Non devi scusarti con me, ma con Charlotte; ti sei persa la sua gara.-
-Lo so e mi dispiace tremendamente, che altro posso fare?- implora Jane togliendosi la maglietta per infilarsi il pigiama.
- Era una tappa importante e tu non eri lì. Quante altre volte…E quello cos’è?!-
Trillo isterica indicando un piccolo tatuaggio a forma di ali di volatile inciso tra le scapole di mia moglie.
- Cosa?- chiede lei cercando di prendere tempo.
Sento divampare la mia ira: -Quell’obbrobrio che hai tra le scapole Jane!-
Lei tenta di coprirsi con la maglietta del pigiama, ma sa che ormai non è possibile dimenticare ciò che ho appena notato.
- Niente, niente…è un piccolo tatuaggio che sono stata costretta a fare per entrare nel giro dei combattimenti…-
- E ce ne saranno altri? Tanto per essere informata.-
- Non appena avrò finito con Alcatraz, lo o li farò togliere, lo giuro.- si morde le labbra; la sua espressione corrucciata rivela di aver detto troppo.
- Chi sarebbe questo Alcatraz?-
- E’ una specie di capo di un’ organizzazione malavitosa a Washington. Non chiedermi altro…ma sono riuscita ad entrare in contatto, presto lo inchioderanno!-
- Jane, tu hai una moglie e una figlia: come hai potuto accettare una missione del genere? Ti ho sempre supportata e ho sempre mostrato interesse per quello che facevi, però questa volta è troppo pericoloso. Potresti morire! Non te lo sei chiesto?-
- Certo che ci ho pensato. Tutti i giorni mi immagino come sarebbe la vostra vita senza di me. E sono terrorizzata, ma dovevo farlo.-
- No non dovevi. Dovevi rimanere qui Jane, al sicuro, con noi…-
- Non puoi dirmi cosa devo fare! È il mio lavoro, questi non sono…-
- Non sono cosa Jane?!-
- Non sono affari tuoi!!!- urla senza più voce. La sua rabbia ha superato la paura di far male…
Resto con la bocca spalancata ed un espressione allibita per pochi secondi poi finalmente le parole tornano a inumidire le mie corde vocali: - Non ti riconosco più.-
Chiudo il computer, prendo i mio cuscino ed una coperta e mi appresto a raggiungere il divano. Non me la sento di dormire con lei…
- Sai una cosa Maura? Mi sono rotta di dover giustificare sempre tutto. Io mi faccio il culo tutte le mattine per poter contribuire in parte alla vita di Charlie, alle scuole, alle spese di questa casa, che vedo solo nei weekend, perché dopo che mi sono sparata quaranta e passa ore di lavoro devo attraversare tutto il paese per poter stare con la mia famiglia! Hai la minima idea di come mi senta a vedere mia figlia crescere da lontano? Se si fa male non posso essere lì con lei, se ha bisogno di aiuto non posso essere lì con lei…Non vi vedo da due settimane, torno e devo essere trattata come un’appestata inadempiente solo perché non approvi un tatuaggio temporaneo?! Lascia che ti dica: Fottiti.-
Lei si avvicina decisa, io impallidisco e faccio un passo indietro, mi strappa di mano il cuscino e la coperta.
- Stasera sul divano ci dormo io.- si avvia a testa bassa verso il salotto.
-Jane?- la chiamo prontamente
Lei si volta prima di lasciare la stanza e mi guarda con occhi di fuoco: - Cosa c’è?-
Improvvisamente non mi fanno più paura.
- Ti sei chiesta perché Charlotte è caduta?-
 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** Charlotte: Torna da me ***


9. Torna da me
 
- Mamma Jane è tornata a Washington ieri sera, labbiamo accompagnata all’aeroporto e poi io e mamma Maura abbiamo mangiato fuori: «Una cena solo io e te.» mi ha detto.
Durante la cena però lei non ha quasi toccato il cibo: ha lasciato la carne e anche l’insalata, che è il suo piatto preferito e ha quasi svuotato tutta la bottiglia di vino bianco, l’ho vista bere altre volte, ma non così tanto. Dev’essere arrabbiata per l’altra sera, lei e mamma hanno litigato così forte che mi hanno svegliato e ho sentito dire cose che forse non dovevo ascoltare; Jane si è arrabbiata tanto con Maura e poi è andata a dormire sul divano. Anche mamma Maura si è arrabbiata tanto e quando si arrabbia lei fa ancora più paura di mamma Jane, perché lei non si arrabbia quasi mai. L’ho sentita dire che Jane va a combattere con le persone. Sta facendo una missione importantissima che richiede di picchiare alcune persone, come i vecchi videogiochi sui combattimenti, magari se vince anche lei prenderà tanti punti e potrà passare di livello. Però Maura non è contenta perché per vincere devi fare male alle persone e questo è sbagliato.
Così hanno litigato e non si sono più parlate fino a ieri sera. Mamma Jane tornerà sabato prossimo, in tempo per la mia gara, speriamo che l prossima volta vada meglio e riescano a fare pace. Come dici? Cosa penso io? Io penso che a mamma Jane tu manchi molto…ti faccio un esempio: quando devo fare una gara sono agitata: ho paura di sbagliare, di cadere; però poi guardo le mie mamme che mi sorridono e mi passa tutto. Le mie mamme mi danno forza e tranquillità.
Invece, se Jane cerca di guardarti, non ti vede. Alla mamma mancano i tuoi sorrisi, ma non vuole dirlo a nessuno perché se no si metterebbe a piangere e non è una cosa che devono fare i grandi. Quando un grande piange è così triste che fa venire le lacrime anche a me. Quando sei morta Jane si è messa a piangere e mi ha abbracciato e io non potevo farlo perché in quel momento, la persona grande ero io. Le persone grandi non possono piangere, non devono.
Odio quando mamma Maura è triste e odio Jane che la rende così e odio me perché odio loro, che sono tanto buone. Sono le mamme migliori del mondo, però così non va bene. Ti prego, torna da noi, anche solo per un giorno, torna a sistemare le cose…abbiamo bisogno di te, ho bisogno di te. Mi manchi tanto nonna e ho paura di dimenticarti, di non ricordare più il suono della tua voce, il tuo profumo, le tue mani morbide, perciò ritorna. RITORNA, TI PREGO.-
Mi avvicino alla sua lapide e la vedo nitidamente nella fotografia: sorride e guarda l’obbiettivo, una foto scattata da Frankie in occasione del compleanno di Tommy, com’era bella, la mia nonna.
Appoggio un mazzolino di margherite che ho raccolto nel parchetto di fianco al cimitero, prima di venire qui. Tra le margherite spicca un Iris blu come l’oceano, che da un tono di colore alla lapide grigia.
Se mamma Maura sapesse che ho saltato la scuola si arrabbierebbe moltissimo.
- Questo è un segreto tra me e te. Se dovessi scendere da lassù, per sistemare le cose, dimmelo prima, così mi faccio il bagno e mi vesto bene. E non dire a mamma Jane e mamma Maura che sono stata qui. Ti aspetto!-
Mi avvicino al suo viso di vetro freddo e poso un bacino su quell’immagine, la più piccola cosa che mi rimane di lei.
- Ciao nonna, ci vediamo.-
E mi allontano, senza una meta perché scuola e casa sonno gli ultimi posti nei quali vorrei stare.
Eppure non sono ancora riuscita a piangere.

Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** Jane: C'è del torbido ***


10. Jane: C’è del torbido
 
 
- E così ha accettato le tue condizioni?- mi dice Cameron con una vena di sorpresa. È passato a trovarmi, prima che io raggiunga il nuovo posto designato per il Fight club.
- Sembra di sì.- rispondo io vestendomi. Lui tace, dietro la porta del bagno e ascolta attentamente quello che dico.
- E da quanto non ti vede?-
- Dall’ultimo incontro. È passato un po’, la polizia ha fatto delle retate e abbiamo dovuto…difenderci. Mi ha chiesto la mia posizione; ho temporeggiato un po’, ma alla fine, davanti ad un buon bicchiere di Vodka liscia gli ho presentato le mie richieste.-
-E cosa gli hai detto?-
- Che cosa vuol dire, “che cosa gli ho detto” Cameron!? Gli ho detto che non mi piegherò mai al volere di un uomo e non mi piegherei mai a lui; che poteva accettare le mie condizioni o lasciarmi andare.- Faccio capolino dalla porta del bagno: - So fare il mio lavoro.-concludo seccata.
- Con tutta franchezza Jane, non sono tranquillo. Lo so che sei la migliore, non ho detto questo, ma la missione potrebbe sfuggire di mano e conoscendo Alcatraz, è difficile che accetti un NO come risposta.-
- Saprò gestire i suoi “capricci da poppante”.-
Cameron mi guarda e arrossisce, il mio abbigliamento poco usuale che mette in mostra il mio fisico asciutto lo imbarazza.
- Che c’è?- rispondo guardandolo.
Si guarda intorno con fare sospettoso, probabilmente teme l’arrivo di Gabriel, probabilmente c’è qualcosa di confidenziale che desidera dirmi.
- Niente, niente. È solo che mi preoccupo per te. Questa è una missione delicata. I piani alti ci stanno addosso, temono un altro errore da parte dell’FBI.-  Si avvicina e io faccio lo stesso, evidentemente c’è qualcosa che non so. Abbassa la voce: - Ci sono stati dei…dei trascorsi turbolenti…-
- Cosa vuoi dire?- odio rimanere all’oscuro.
- Prima di te, un’altra agente si è infiltrata nell’organizzazione di Alcatraz, per altre vie, con altre competenze, ma non è andata a finire bene.-
- Cioè?- Il mio pensiero mi riporta come un’istantanea a Maura e Charlie; cerco di scacciarlo per evitare di pensare a cosa potrebbe succedere “dopo”.
- C’è un motivo perché lo chiamano Alcatraz. Nessuno riesce ad arrivare a lui, e lui, non si sa come riesce ad arrivare a te. Susan, l’agente Perez, è stata scoperta e la missione si è trasformata in un’ operazione di recupero. Fu rapita e presa in ostaggio, Dan era fuori di sé, ha seguito le sue tracce e quando l’ha ritrovata ha fatto irruzione. Non c’era tempo di mettere insieme una squadra e forse ci aspettavamo di essere soli. Invece ci hanno teso una trappola: Alcatraz e i suoi uomini erano lì, c’è stata una sparatoria. I nostri hanno avuto la meglio, ma ci sono state molte vittime e l’agente Perez quella sera morì. C’è ancora una sorta di tabù sulla faccenda: c’è chi dice che Alcatraz l’abbia torturata ed uccisa prima dell’arrivo dell’agente Dean, c’è chi dice che sia morta nella sparatoria. Quel che so è che il caso è stato segretato e solo Gabriel e chi è sopravvissuto quella sera sa come sono andate realmente le cose.-  si ferma un momento e si avvicina alla finestra.
- Dopo poco i piani alti hanno minacciato Gabriel di aprire un’ indagine interna, perché si sospettava che la missione fosse stata gestita, male.-
- Per quali motivi?- chiedo, dando un occhio all’orologio a muro appeso nel mio appartamento. Ho ancora un po’ di tempo.
- Per la natura del rapporto tra Gabriel e Perez.-
- Gabriel e l’agente Perez avevano una relazione?- sgrano gli occhi per lo stupore.
- Gabriel e Susan erano sposati. E lui l’ha mandata lo stesso.-
- Sposati?-
- Questo ti fa capire la natura anomala della missione. Per Gabriel è una cosa personale; quando Susan è morta lui non si è dato pace. Ha giurato vendetta ad Alcatraz e stai pur certo che non si fermerà.-
- Avrei preferito essere al corrente di questi sviluppi.- rispondo amareggiata.
- E’ quello che ho detto anche io a Gabriel, ma lui temeva che avresti scelto diversamente.-
- L’avrei fatto.- rispondi prontamente: -Ma ormai sono qua.-
- Siamo qua. Non sei sola Jane e non importa cosa pensa Gabriel. Non lascerò che il suo odio comprometta la tua sicurezza. Te lo assicuro.- promette lui seriamente.
- Sembra una promessa interessante.- rispondo con una nota di teso sarcasmo.
Provo ad immaginare cosa accadde quella notte: l’odore di muffa e di sangue fresco, il buio, gli spari, Gabriel chino sul corpo senza vita di Susan, il dolore.
E non posso fare a meno di pensare a Maura, piegata su un corpo morto, sdraiato sul suo lucido tavolo autoptico che puzza di formalina. Quel corpo potrebbe essere il mio.

Ritorna all'indice


Capitolo 11
*** Maura: Colpevole chi? ***


11. Maura: Colpevole chi?
 
Parcheggio la mia Prius scura e la chiudo con un rapido Click. Ho dovuto lasciare il lavoro prima, questo pomeriggio, per motivi personali. Raggiungo ancheggiando la Benjamin Franklin Boston School. Cerco di sembrare il più disinvolta possibile, nonostante la ghaia del cortile mi stia lancinando i talloni e rovinando le mie Valentino in camoscio. Entro nel prorompente edificio e chiedo ad un dipendente indicazioni per l’ufficio della preside, non è una cosa abituale per me. Prima di entrare inspiro profondamente: devo cercare di mantenere la calma e di trovare un po’ di spazio tra tutti i miei problemi anche per questo, sopraggiunto improvvisamente.
Apro la porta e mi trovo davanti la preside, che troneggia dietro ad una scrivania, tra i due malcapitati. Alla mia sinistra c’è un bambino della stessa classe di mia figlia, con il collo della maglietta strappato, un occhio nero e della terra sul volto; seduto vicino a lui suo padre mi fissa con un’espressione severa ed in cerca di soluzioni. Alla mia destra c’è Charlotte, riversa sulla sedia, tutta spettinata, con il naso sanguinante e il labbro tagliato. Guarda fissa per terra con un’espressione tanto adirata quanto impenetrabile; si comporta come se non si fosse accorta che sono entrata. Invece mi ha vista benissimo. Mi siedo nel posto vuoto dalla parte dei colpevoli.
- Non ha voluto farsi toccare.- mi dice la dirigente. Guardo mia figlia. Lei si volta dall’altra parte infastidita.
- Signora Isles, come già le ho accennato al telefono, sua figlia è stata trattenuta. Charlotte, vuoi spiegare tu il motivo?-
Charlotte non si muove.
- Mi ha tirato un pugno e mi ha sbattuto a terra!- irrompe il suo compagno con voce stridula.
- E’ andata così?- chiedo fissandola. Le sue nocche livide diventano bianche tanta è la forza con la quale di aggrappa ai braccioli della sedia.
- Charlotte guardami. È andata così?-
- Alcuni suoi compagni hanno riferito che Donovan abbia usato parole poco gentili con lei, riguardo a sua madre, la signora Rizzoli.-
- Capisco. E si può sapere la natura di queste parole “poco gentili”?- chiedo io cercando di ignorare il rossore che mi sta colorando le guance.
- Speravo che le dicesse lei.- dice la preside sconsolata, aspettando risposte da mia figlia, che ha quanto pare ha perso l’uso della parola.
- Charlotte?- chiedo io. Ma ormai la mia autorità, o meglio, autorevolezza,  sembra non avere più un valore.
Dopo un breve silenzio la dirigente decide di prendere parola: - Donnie ha sicuramente sbagliato a dirti…quello che ti ha detto…ma di certo non giustifica quello che hai fatto. Dal momento che hai alzato le mani sei passata dalla parte del torto anche tu. La violenza, signorina Charlotte, come gli insulti, Donovan, non sono minimamente tollerati in questa scuola. Quindi suggerirei caldamente che entrambi vi porgiate le rispettive scuse.-
Adesso è il padre del bambino a parlare: - Signora preside, signora Isles, mio figlio è disposto a chiedere scusa. Non è vero Donnie?-
Il perfetto padre dell’anno. Se Jane fosse stata qui gli avrebbe detto: «Complimenti papà! Vuole una mediaglia?». E molto probabilmente avrebbe perso le staffe, ma non è proprio il caso.
- Scusa!- Brontola Donnie con una naturalezza di chi è abituato a pronunciare quella parola.
- Charlotte?- richiama la preside. Ma lei non vuole chiedere scusa. Invece, alza lo sguardo e mi fissa: si aspetta che io faccia qualcosa, si aspetta che io sia come Jane.
Sospiro affranta: - Charlotte…chiedi scusa.- pronuncio con fermezza o almeno cercando di essere più autorevole possibile. Lei non smette di fissarmi, ma so che sta morendo dentro. I suoi occhi vengono offuscati da lacrime calde e amare e posso percepire il dolore della pugnalata che ha trafitto il suo cuore, una pugnalata inflitta da me. Socchiude gli occhi e volge lo sguardo verso Donnie; lui ride beffardo, crede di essere riuscito nel suo intento: farla piangere.
- Scusa…- mormora lei con uno sforzo immane. Poi torna ad inabissarsi e a fissare catatonicamente il vuoto.
L’intervento della preside ci risveglia dal torpore: - Bene, direi che ci siamo parzialmente chiariti. Spero di non dover mediare ad altri incontri come questo vero Donovan? – Guarda il bambino che sta già correndo verso l’uscita, guarda Charlotte, che non riesce a sostenere lo sguardo di nessuno.
- Arrivederci signor Lievers, metta del ghiaccio sull’occhio di suo figlio.- lo rabbonisce lla preside Allen.
- Dottoressa Isles,- mi ferma: - possiamo parlare un momento? Rimani pure Charlotte.-
Torno a sedermi e guardo Charlotte che pare distante chilometri da qui.
- Sua figlia ci sta dando parecchie preoccupazioni al momento…-prende un grande quaderno blu notte dal bordo rinforzato e lo apre davanti ai miei occhi.
- Questa è la pagina dedicata alle assenze; come può vedere sua figlia ha saltato molti giorni di scuola questo ultimo mese. Nel contempo, i suoi voti sono calati, non perché i contenuti non siano alla sua portata, ma semplicemente, stando a quanto mi è stato riferito dalle docenti, Charlotte non si impegna quanto richiesto. La sua puntualità e precisione nei compiti è peggiorata, così come il comportamento: non ascolta nessuno e non sembra intenzionata a rispettare le regole scolastiche. Non volevo arrivare a tanto, anche perché assenze e valutazioni vengono sempre firmate, ma dopo l’episodio spiacevole di oggi…francamente credo ci sia un problema.-
Mi porge anche il libretto scolastico indicandomi le pagine interessate. Sono tutte firmate, ma chiaramente la scrittura non è la mia. Intanto ascolto attenta e allibita allo stesso tempo: non so assolutamente cosa dire, ne chi sia diventata la bambina seduta al mio fianco.
- Io…io sono terribilmente costernata signora Allen, credevo non ci fosse nulla da controllare, anche perché la bambina non mi ha informato di nulla. Questo mese non ho firmato ne assenze ne voti così negativi. Evidentemente la bambina mi ha imbrogliato procurandosi un altro diario.- guardo Charlotte e sospiro rassegnata: - Ho riposto troppa fiducia in mia figlia, credendo di potermi fidare. Evidentemente ero in errore.-
Penso al probabile finto diario che Charlotte mi ha fatto firmare e provo amarezza e delusione nei suoi confronti, ma anche insofferenza per tutta questa situazione. Se Jane non fosse stata così assente in questi mesi, tutto questo non sarebbe successo.
- Dottoressa Isles, io credo che in fondo Charlotte sia la stessa brava bambina di prima, ma che stia attraversando un momento difficile della sua vita. Magari la lontananza dalla madre influisce sui suoi comportamenti, magari ha bisogno di valide figure di riferimento. O magari sta solo crescendo e sente la mancanza di un padre o di una figura maschile accanto a sé. Sono tanti i motivi e bisognerebbe vagliare una per una ogni possibilità. Per il bene di sua figlia.-
Osservo la preside Allen, se non la conoscessi le darei della scettica bigotta. Ritta e austera, fiera di portare la sua fede al dito. Con un marito totalmente succube che l’attende a casa con l’arrosto in tavola e il caminetto acceso. Ecco perché odio fare ipotesi: non corrispondono quasi mai alla verità.
So la fatica che Theodora Allen ha fatto per arrivare fin qui. Da figlia della strada di Boston South eèriuscita a diventare tutto quello che una donna nera non sarebbe mai potuta essere. Conosco la sua fatica, la sua umanità, la sua professionalità. Conosco il suo dolore e quello del marito, chini sul corpo esanime della figlia, l’ennesima vittima di overdose dei retaggi di Paddy Doyle, mio padre. Conosco la sua passione per il lavoro e il suo interesse per gli studenti e vorrei dirle tutto quello che ci sta accadendo, ma Charlotte è qui seduta accanto a me e ciò che riferirei non sarebbe appropriato per una bambina di nove anni.
- Stiamo attraversando un momento difficile. Mia moglie ha accettato un lavoro temporaneo per il governo, che la rende poco presente. Cercheròdi parlarle e valuteremo ciò che è meglio per Charlotte.- concludo io guardando con la coda dell’occhio mia figlia, pallida per la vergogna.
Theodora Allen si alza dalla sedia e si sistema il cappotto di Gucci scuro, che le ricade elegantemente sul tronco robusto; dal lembo inferiore spuntano de gambe mogano altrettanto muscolose, abituate fin dalla tenera età a correre per i quartieri della città.
Ci alziamo anche noi: - Credo sia meglio che Charlotte resti a casa per questa settimana.- suggerisce lei mettendosi la sciarpa: - Parlerete con Jane e potrà tornare lunedì prossimo.- si avvicina a Charlotte e la prende per le spalle: - Nuova settimana, nuova testa. Mi raccomando.-
- Sarà fatto signora Allen.- rispondo io per lei.
 
In macchina guardo mia figlia senza farmi notare: è voltata dall’altra parte, dandomi le spalle in segno di protesta e chiusura.
- Charlotte, mi vuoi spiegare? Cosa ti sta succedendo?-
Fa spallucce e continua a guardare la strada, tamburellando con l’indice sul finestrino.
- Charlotte, guardami. Perché non parli?-
Come faccio a capire che cos’ha se non mi vuole parlare? Le manca sua madre? Lei non risponde. Fermo la macchina e spengo il motore.
- Charlotte guardami. GUARDAMI. Per una volta fai quello che ti dico e dimmi cos’hai.-
Esasperata e piena di rabbia si volta all’improvviso e mi urla: - NO!-
Si slaccia la cintura e scende dalla macchina, correndo rabbiosa e dolorante verso casa. La vedo imboccare il vialetto con le lacrime agli occhi e l’unica cosa che mi viene in mente è che assomigli tremendamente a sua madre.
 

Ritorna all'indice


Capitolo 12
*** Charlotte: Semper Fidelis ***


12. Charlotte: Semper Fidelis
 
- Fammi entrare!- urlo picchiando i pugni sulla porta; sono scesa dalla macchina, ma ho fatto una mossa stupida, perché mi sono accorta di non avere le chiavi. Mamma parcheggia e scende calma dall’auto, sta pensando a cosa dirmi, a quali parole usare.
Mi allontano dalla porta di ingresso, quanto basta per farla passare. Non appena apre schizzo come un fulmine in camera e sbatto violentemente la porta. Mi ficco sotto le coperte, con scarpe e pantaloni infangati, la terra sul volto e il sangue che mi cola ancora dal naso. Sento il rumore dei suoi tacchi, prima leggero, poi sempre più rimbombante, vicino alla porta. È arrivata. Sospira, e poi bussa.
- Vattene via!- grido
- Charlotte…-
- Ti ho detto di andare via!- ripeto. Tanto lo so che lei non se ne andrà…
- Fammi entrare almeno per medicarti la faccia e la mano. Per favore.-
Quando mamma si arrabbia mi fa ancora più paura. Lei non mi sgrida mai, dice che ha fiducia in me e quindi non ha bisogno di controllarmi ogni volta. Ma oggi ho tradito la sua fiducia e ho paura di vedere la sua faccia delusa quando aprirò la porta. Ma la mia faccia fa molto male e la mano mi sta diventando nera.
Mi scopro e mi siedo sul letto.
- Va bene.- dico mogia mogia.
Lei apre delicatamente la porta, guarda il letto sporco, ma non sembra preoccuparsene, invece si sofferma a guardare il livido che colora le mie nocche troppo fragili; passa il pollice sulla mia mano, attenta a non farmi male.
- Non è rotto.- dice seria, guardando per terra.
Mi porta in bagno e comincia a passarmi una spugnetta umida sul viso, per togliere la terra e il sangue incrostato. Se ne va e torna con una borsa del ghiaccio che mi appoggia sulla mano mancina, poi ritorna al suo lavoro.
- Vuoi dirmi cosa è successo?- chiede dopo un po’.
- Tanto lo sai…-
- So cosa hai fatto. Vorrei sapere il perché.- fa una breve pausa: - La Charlotte che conosco io non alza le mani, verso nessuno.-
- Se l’è cercata.-
- No Charlotte, non se l’è cercata. Tu l’hai picchiato, sei tu che hai deciso di dargli un pugno e potevi anche evitare.- dice lei tutt’ad un fiato; come se se lo fosse imparato a memoria. – Non avresti dovuto alzare le mani…non è quello che ti abbiamo insegnato.-
- Si certo, come no…-
- Cosa?-
- E la mamma allora? La mamma può picchiare e sono sicura che con la sua pistola ha anche ucciso delle persone, ma se picchio io non posso! Perché? Perché non si fa? E lei?-
Mamma Maura apre la bocca per parlare, ma si ferma e abbassa di colpo lo sguardo. Quando si decide a rispondere la sua voce trema.
- La mamma sta lavorando, fa quello che deve per un motivo.-
- Sono tutte cavolate. «La mamma sta lavorando…» tu dici sempre così e non fai nulla…-
- Non faccio cosa Charlotte? Spiegami perché non capisco…- chiede Maura esasperata.
- Perché non hai detto niente prima? Tu non la difendi mai. Donnie ha detto che la mamma ci ha abbandonate, l’ha insultata e solo io ho avuto il coraggio di fare qualcosa, perché tu non avresti mosso un dito! E devo pure chiedere scusa?-
Mamma Maura si alza, viene verso di me: la sua espressione non mostra la solita serenità o comprensione, ma rabbia e irritazione. Impallidisco.
- Non ho proferito parola perché tu hai sbagliato. Hai picchiato un altro bambino.-
- Anche mamma Jane lo fa!-
- A volte per poter fare del bene è necessario compiere azioni che apparentemente non sono corrette! E se Jane è costretta a picchiare altri esseri umani per poter aiutare le persone che invece di morire potranno vivere serenamente la loro vita, allora sì, lei è nel giusto. Ma tu…tu non lo sei affatto. Potrai anche pensare di assomigliare a tua madre, e magari sarai come lei, un giorno, ma non oggi. Con le tue azioni non hai difeso mamma Jane, non sei diventata un eroina. Hai solo fatto del male a Donovan, a quelli che ti vogliono bene, ma soprattutto a te stessa. E questo non ti porterà a nulla. Ci sono altri modi per cambiare le cose e questo non è di certo il più adeguato!-
- Tu non capisci!...- ribadisco io singhiozzando. - Tu hai conosciuto la mamma prima che andasse via da Boston, ma io no. Per me mamma Jane non è altro che “la zia fica” che viene a trovarmi nei weekend. Lei ha tempo per me solo due giorni alla settimana e io passo quel poco tempo insieme a cercare di essere alla sua altezza! Forse è vero che non le importa di me, magari solo con te sarebbe stata più felice…e forse anche tu non mi vuoi perché non sono figlia tua. E ti ho deluso e tu ora non hai più fiducia in me! E se tu non mi vuoi e mamma Jane non mi vuole io cosa ci faccio qui? Io io….non so cosa fare!- singhiozzo disperata. Lacrime, grosse e ritardatarie lacrime calde, scendono velocemente dai mie occhi, rigandomi il viso, annebbiando la mia vista. Non mi importa cosa pensa Maura. Non mi importa più di niente.
Mamma si china verso di me e mi prende il volto tra le sue mani calde. I suoi occhi , altrettanto pieni di lacrime, mi fissano premurosamente.
- Charlotte, dal momento che tua madre ti ha accettato nel suo grembo tu sei stata amata, voluta e soprattutto mai abbandonata. Jane ti ama e rinuncerebbe a tutto pur di vederti e ogni volta che deve ritornare a Washington lei “muore un pochino”, perchè doverti lasciare qui e non poterti crescere come vorrebbe, la rattrista molto. Quanto a me, è vero, non sei sangue del mio sangue e forse io e te abbiamo poco in comune, ma ti ho amata dal primo momento che ti ho vista, ho deciso di starti accanto e non ti lascerò, neanche in momenti come questo. Perché sei e resterai sempre mia figlia.-
Mi passa un fazzoletto e soffio il naso gocciolante. Poi mi abbraccia e per un tempo che sembra infinito rimaniamo così, strette l’una all’altra a piangere e a consolarci a vicenda, senza parlare. Perché spesso il dolore non ha bisogno di parole per farsi sentire.
 
Credo che mia madre sia una donna molto forte. TJ che è grande ha studiato la storia del Regno Unito, tempo fa mi disse che la regina Elisabetta II era una donna forte. Anche se è molto anziana e le sue ossa scrocchiano come  biscotti della fortuna e i suoi muscoli sono flosci e cadenti. Siccome questa spiegazione fatta da TJ non mi andava molto a genio chiesi a nonna Angela, cosa volesse dire il termine “donna forte”. La nonna mi ha detto che non vuol dire necessariamente che una donna è forzuta, ma che riesce a portare calma e allegria anche quando ci sono delle difficoltà. Mamma Maura sa capirmi e rassicurarmi, anche se sono così diversa da lei e così simile a mia madre. Ne ha passate tante, ma è sempre rimasta: perciò sì, credo che lei sia una vera “donna forte”.
Senza proferire parola e con una naturalezza che solo lei possiede, si alza e va in cucina a preparare la cena. Torna dopo pochi minuti e appoggiandosi allo stipite della porta mi sorride: - E se quel Donovan continua a tormentarti senza un motivo apparente, digli: «Stercorem pro cerebro sabea!»
- E che vuol dire?- le chiedo scacciando via le lacrime con la manica della maglietta.
- Meglio che tu non lo sappia!- sparisce dietro la porta.
- Mamma?- la richiamo io in ritardo. Lei si precipita da me. – Ti voglio bene.-
- Anche io tesoro. Sempre.-
 

Ritorna all'indice


Capitolo 13
*** Jane: Salto di livello (parte 1) ***


13. Jane: Salto di livello (Parte 1)
 
Sono qui, nel mio camerino, e ho paura.
Non so cosa aspettarmi da quell’uomo, se così si può chiamare. Mi gratto nervosamente le cicatrici, noncurante dell’irritazione che verrà; nella testa mi frullano mille pensieri ai quali non riesco a dare un ordine preciso: penso a Gabriel e alle parole di Cameron. La sua preoccupazione è fondata: Alcatraz ha apparentemente accettato le mie condizioni…già, APPARENTEMENTE e mi domando cosa avrà in serbo per me. Comunque, qualsiasi cosa accadrà, la scoprirò solo vivendo…allora perché sono così nervosa? Forse perché ho ancora qualcosa da perdere.
Questa volta l’incontro si tiene in una palestra poco fuori città: la periferia è sempre il posto ideale per fare qualcosa di losco. Nonostante si dedichi minor attenzione a ciò che non risiede nel centro, l’edificio è curato e ben messo. Alcatraz ci deve aver investito molti soldi per averlo trasformato da una catapecchia ad un locale di lusso. Segno che qui i suoi giri vanno alla grande. Le combattenti rimangono sedute in un camerino “quasi personale” che ricorda molto la sala d’aspetto dal dentista, qualcuno esce, qualcuno ritorna dal ring,…sempre meglio che stare all’aperto dove ero prima, tra schiamazzi, sudore e bottiglie di birra tintinnanti.
Due uomini dalle spalle larghe fanno irruzione portando sulle spalle una donna altrettanto robusta, pestata a sangue e incapace di reggersi sulle proprie gambe.
- Tu! Facci posto!- mi intima il meno grosso dei due, adagiando la donna sulla mia sedia. Rabbrividisco. Spero di non finire come lei.
- L’ho fatta nera!- sbiascica lei sputacchiando bava sanguinolenta dappertutto. Mi scosto.
- Nera. Che quasi non respirava, giuro.- mi dice mostrandomi un sorriso sdentato piuttosto inquietante.
- Sta zitta.- abbaia l’altro uomo, quello che è rimasto zitto.- Piuttosto, tu! Preparati, tocca a te.-
Faccio un bel respiro e mi preparo saltellando ad entrare nell’arena. Mannaggia, dovevo portarmi un paradenti.
Sono sempre stata piuttosto sicura delle mie capacità: ho un buon istinto che mi permette di fare quasi sempre la scelta giusta in ogni situazione…eppure questa volta non so, c’è qualcosa che mi puzza.
Chiamano il mio nome, quello scelto da Gabriel per me ovviamente. Senza esitazione salgo sul ring vuoto e con i pugni serrati, in posizione di guardia attendo la mia sfidante. Alcatraz come sempre è seduto in prima fila, circondato dai suoi leccapiedi con le loro puttane; faccio un cenno di saluto che viene impercettibilmente ricambiato, poi il suo sguardo si sposta verso il lato opposto della palestra.
La folla d’elite accoglie la mia avversaria: porta i capelli biondi in tante minuscole treccine raccolte in una smilza coda di cavallo, indossa vestiti corti e stretti con la funzione di risaltare forme che ancora non ha. Il suo viso, bianco pallido è leggermente tumefatto, segno inconfondibile di incontri precedenti, ai quali ha avito la meglio, visto che è qua. Deve essere brava, per essere così giovane. Abbasso la guardia, ma quanti anni avrà? Quattordici, quindici? Quanto peserà, quaranta chili? Guardo incredula Alcatraz che sorride beffardo e alza un dito in alto. Certo, sono salita di livello. Che gran pezzo di merda.
Danno subito il via e inizia l’incontro, quel bastardo non mi ha lasciato neanche il tempo di riflttere…adesso che faccio? Non posso picchiarla, è ancora una bambina, ma non posso nemmeno perdere.
- Hey tu!- mi urla la ragazzina, svegliandomi dal torpore. La sua voce è ancora più flebile di quanto immaginassi. Lei tira un pugno senza esitare, superando la mia guardia abbassata. Mi colpisce in pieno viso. Gemo dal dolore, sento fiotti di sangue colare giù dal naso, ma non posso smettere. Mi pulisco con il braccio e ignorando il dolore, rispondo con un pugno nel punto esatto dove lei mi ha colpito. Schiva il mio secondo gancio e colpisce il mio fianco rimasto scoperto. Cado a terra indolenzita, ma mi rialzo in fretta. È brava, ma io lo sono di più.
Le blocco entrambe le braccia e la colpisco con il ginocchio allaa base dello sterno. Lei cade rovinosamente a terra. Ti prego, non rialzarti. Ti prego. Si solleva sulle braccia molli, lasciando intravvedere la schiena ossuta, bucata da bruciature di sigaretta. Mi chiedo da dove venga e quali debiti debba pagare per essere finita qui.
Le blocco una gamba e con una gomitata sulla clavicola la butto nuovamente a faccia in giù sul pavimento. Mi peso sul suo corpicino supino, quanto basta per raggiungere il suo orecchio sudaticcio. – Non voglio farti del male più i quanto serva. Stai giù.- resta a terra. Le ripeto più volte, poi mi discosto e spero faccia quello che le ho chiesto. Invece eccola lì, di nuovo in piedi e pronta a combattere. Dio mio, perdonami.
Questa volta la butto a terra subito: gancio-gancio sul volto madido e poi un calcio nello stomaco, lei si sbilancia all’indietro, ma con un gesto repentino, ritrova l’equilibrio e risponde con un pugno nell’occhio. In una frazione di secondo mi ritrovo a terra, con la vista annebbiata. Avverto il dolore provocato da un calcio in pancia, le afferro un piede e ribalto repentinamente le posizioni. Adesso sono io che la prendo a calci, ripetutamente. Tutta la rabbia che mi ribolliva nello stomaco sale come lava nel cervello: i miei calci su di lei sembrano seguire un tempo preciso. «RESTA. GIU’. RESTA. GIU’. RESTA…»
Cado a terra stremata e mi ritrovo faccia a faccia con lei, una ragazzina senza nome dai capelli e occhi chiari, sembra ancora più giovane, sembra…non ci voglio neanche pensare.
- Rimani a terra. Se ti rialzi, sai che dovrò farti molto male.- ansimo senza fiato. Lei piange e scuote la testa:- Non posso.- replica. Sputa un rivolo di sangue e si solleva sui gomiti. Faccio lo stesso anche io, cercando di trovare un modo per mandarla al tappeto in fretta e terminare questa tortura. Mannaggia a me . avrei dovuto ascoltare Maura, per una volta. Mi metto in posizione da guardia e fisso negli occhi la mia avversaria: non vedo paura in lei, ma soltanto disperazione. Faccio un passo avanti, finta a sinistra, poi a destra, lei abbocca, mi abbasso e la colpisco al fianco destro, poi all’altro, poi la finico conn na ginocchiata nello sterno. Lei finisce a terra e questa volta non si rialza più.
La vincitrice sono io.
Alcatraz non si scompone, ma batte le sue mani viscide e fa un lieve cenno di riverenza. Guardo la ragazzina. È viva. La sollevano da terra e la portano in un altro camerino, dalla parte opposta del locale, quello dei perdenti, suppongo. La vedo sparire e sparisco anche io, per evitare bagni di folla, che si complimenta con le per azioni che rimpiangerò per tutta la vita.
 
Ritorno nel mio camerino di partenza, seguita dai due energumeni che poche ore prima avevano portato l’altra donna.
- Voi raccattate i rifiuti?- ridacchio cercando di fermare il sangue dal naso.
- Tieni.- mi dice uno dei due porgendomi cotone e disinfettante.- Pulisciti con questi e poi, fuori di qui.-
 
(Fine prima parte)

Ritorna all'indice


Capitolo 14
*** Jane: Salto di livello (parte 2) ***


14. Jane: Salto di livello (Parte 2)
 
Mi infilo sotto la doccia dello spogliatoio: il getto d’acqua calda mi colpisce le nocche livide facendomi gemere per il dolore. Mi frego la faccia con l’intento di togliere gli ultimi resti del sangue rappreso, che mescolandosi con l’acqua, sparisce rosato dentro lo scarico delle docce pubbliche. Prima di vestirmi mi guardo allo specchio per fare la conta dei danni: in sostanza, un occhio nero, un naso da ubriacona e qualche livido qua e là. Poteva andare peggio. Potevo finire come lei.
Guardo l’orologio: ho ancora diversi minuti a disposizione per curiosare in giro e scoprire qualcosa di più. Mi vesto e comincio ad esplorare i dintorni; salgo le scale, diretta al piano superiore, che risiede esattamente sopra la palestra. Da fuori non l’avevo notato. Ci sono cinque porte, disposte in modo simmetrico. Partirò con quella centrale in fondo. È aperta. Al centro c’è una lussuosa scrivania in vetro spesso, poggiato sopra un computer, un tagliacarte per aprire i diversi documenti che affollano il mobile, coprendo più della metà della superficie, altrettanti sono nei cassetti e negli scaffali accanto alla scrivania. Magari, se ho fortuna riuscirò a trovare dati utili per incastrare Alcatraz, ma dubito che sia così poco accorto da lasciare atti personali in giro. Se solo riuscissi ad entrare in questo computer, sicuramente sarà protetto da password e farewell. Niente che il Boureau non possa risolvere ovviamente.
- Dio quanto mi manca Frost…- dico a bassa voce. Se fosse stato qui avremmo potuto avere tra le mani già le prove necessarie, ma sono sola e quindi dovrò escogitare un piano un po’ più elaborato.
Mi sposto ai margini di quella stanza buia e tasto le pareti. Con la punta dei polpastrelli, riesco ad individuare una zona di rilievo nel muro, non è piccola…è una porta, murata con il cartongesso, un’uscita di emergenza probabilmente.
Esco dalla stanza e mi dirigo verso il lato destro del corridoio. Provo ad aprire le porte, ma con rammarico scopro che entrambe sono blindate, forse parte di un’ unica stanza. Anche le porte alla mia sinistra non danno soddisfazione, entrambe chiuse ermeticamente. Ciò mi fa supporre che potrebbero contenere droga, armi, o merci importanti. Spero che ciò che troveremo nel computer basti per chiedere un mandato. Ritorno nell’ufficio centrale e rovisto alla rinfusa nei cassetti, in cerca la chiave elettronica, ma inutilmente. L’unico posto in cui potrebbe tenerla è addosso a se stesso, così diminuiscono le probabilità che subisca un furto o che le porte vengano aperte, ma purtroppo diminuiscono anche le probabilità che io riesca a prendergliela. Dovrò inventarmi qualcosa.
Mi freddo al rumore di passi pesanti che salgono le scale. Cerco di pensare velocemente: devo trovare un modo per nascondermi. No, non posso farlo, se mi chiudessero dentro o mi scoprissero sarei compromessa. Esco e mi dirigo verso la rampa delle scale. Appoggio la schiena alla parete a con l’orecchio teso attendo che gli uomini raggiungano il mio piano. Sento le loro voci, Alcatraz non c’è e questo mi solleva; sospiro e volto l’angolo al momento giusto.
- Hey, belli.- dico fingendomi sorpresa.
- Tu che diavolo ci fai qui?- mi chiede un omone dall’aspetto simile ad un orso Grizzly.
- Buonasera anche a te, amico.- rispondo seccata: - Sto cercando il tuo capo. L’hai visto?-
- Per cosa lo cerchi?-
- Beh, forse perché mi ha fatto combattere contro una ragazzina!? L’hai visto anche tu no? Se devo lottare, lo voglio fare con gente al mio livello, insomma, non sono qui per cambiare i pannolini a nessuno. Voglio sporgere un reclamo…- faccio finta di sembrare offesa, incrocio le braccia e lo fisso con un’aria inquisitoria. Lui fa un passo avanti, puzza di pesce rancido.
- Niente reclami qui. E Alcatraz non c’è.-
- Ok, ok, stai tranquillo. E dove e quando posso trovarlo?-
- Se gli sei piaciuta, ti cercherà lui.-
- E se non fosse così?-
 
 
 
Esco dal retro e mi dirigo verso la macchina. Decido di prendere una via traversa, per evitare di fare il giro di tutto l’isolato, visto che la mia auto è, per sicurezza, molto lontano da qui. La nebbia lambisce la strada rendendo tutto ancora più cupo e umido. Mi stringo nella giacca di pelle e proseguo rabbrividendo. L’odore di spazzatura mi corrode le narici; mi sposto sul lato opposto, rasente al muro e arriccio infastidita il naso. Improvvisamente inciampo in qualcosa e finisco a pancia a terra, sbucciandomi entrambe le mani. Mi volto in cerca del bidone che mi ha fatto cadere, ma la sua vista inconfondibile mi fa indietreggiare di colpo. Riversa ai margini della strada c’è lei, anche se ha il volto tumefatto è impossibile non riconoscerla: le treccine bionde, gli insulsi abitini di strada, il sangue che le cola ancora dal naso. Occhi e bocca di ghiaccio.
Oddio. L’ho uccisa io.
 
 
- Jane hai la minima idea di quanto rischio a venire qui?- dice Gabriel sbattendo la portiera dell’auto scura.
- Non me ne frega un cazzo. Qui le cose sono andate a rotoli.- dico io a denti stretti, trascinandolo per la manica del cappotto.
- Che intendi dire?- mi risponde visibilmente preoccupato.
- Guarda!- indico io con la mascella serrata per l’agitazione: - Uccidere una ragazzina era nelle mie mansioni?-
Gabriel Dean mette a fuoco la figura senza vita immersa nella nebbia notturna, una volta capito si allontana infastidito.
- Cazzo Jane! Che hai fatto?-
- Io,…non lo so. Stavamo lottando e ho vinto e poi…lei non andava giù, continuava a rialzarsi…ho dovuto. Ma stava bene Gabriel! Ti giuro che quando me ne sono andata era viva.-
- Se il direttore lo venisse a sapere, mi toglierebbe il caso…-
- Che vuoi fare?- chiedo sospettosa.
- Aspettiamo a colpevolizzarci, senza prove potrebbe anche essersi suicidata a mio parere. Non saltiamo alle conclusioni. Intanto,…dobbiamo liberarci del corpo.-
- Stai scherzando spero…- reclamo esterrefatta
- Ragiona Jane. Siamo ad un soffio dal mettere dentro Alcatraz per sempre. Se si venisse a sapere che c’è stato un omicidio nei pressi della palestra, la polizia arriverebbe e si muoverebbe come un elefante in una cristalleria, di conseguenza Alcatraz si tutelerebbe smantellando tutto e addio alla missione.-
- Ti ricordo che anche io ero in polizia…-
- Non è questo il punto Jane. Vuoi mandare proprio tutto a monte?-
Sospiro e rifletto: - Hai ragione, alla luce di quanto ho scoperto questa sera, sarebbe meglio non lasciare il suo corpo qui.-
- Cosa hai scoperto?-
- Ho scoperto l’esistenza di un computer protetto e stanze blindate nel piano superiore della struttura che potrebbero contenere merce di contrabbando. Non dobbiamo fare altro che aprirli e troveremo quello che cerchiamo…-
Gabriel Dean sembra perplesso. Si china sul corpo della ragazzina:- questi sono progressi, ma c’è un “però”…con Alcatraz c’è sempre un “però”.-
- Hai ragione. Il problema sarebbe quello di arrivare alla chiave elettronica che apre le porte e quella ce l’ha sicuramente lui.-
- Ovvio.-
- Addosso credo. O nel portafoglio. Di sicuro non la lascerebbe in giro. E nemmeno in banca se questo che stai pensando Dean. Sai da quel poco che ho visto posso affermare con certezza che Alcatraz è un tipo molto alla buona , nonostante tutto…-
- E quindi dovrai per forza arrivare a lui…-
- Già. Però Gabriel sinceramente non penso di durare ancora molto. Odio questa missione e sta diventando un peso per me e la mia famiglia. Ti aiuterò perché siamo amici, ma se le cose si mettono male io mollo. Non devo nulla di più ne a te ne al Bureau.-
- Hai ragione. Non posso costringerti a fare quello che non vuoi,anche se la posta in gioco è così alta. Quando sarai pronta e quando vorrai potrai andartene. Ti chiedo solo di darmi abbastanza materiale per metterlo dietro le sbarre. Non chiedo nient’altro.-
Dice poco, ma glielo devo, non posso abbandonare la nave proprio ora, non devo.
- Va bene.- rispondo sconsolata. Mi vibra il cellulare.
- Chi è?- chiede lui ancora chino ad esaminare il corpo.
- Ho un altro incontro fissato per la settimana prossima. Sempre qui.-
 - Non hanno perso tempo. Si vede che le sei piaciuta.-
- Già.- bofonchio io con voce rotta. -  E guarda a che prezzo…- indico la ragazzina e mi viene un attacco di panico. L’ho ammazzata? Come farò a vivere la mia vita con la coscienza così sporca? Come farò a tornare a casa da Maura e Charlie?
Gabriel se ne accorge, si alza e mi tiene stretto tra le sue braccia da perfetto agente modello. Manovra contenitiva. Tecnica insegnata al primo anno di accademia.
- Jane calmati. Scopriremo cosa è successo a questa ragazza e ne verremo fuori. Non darti subito la colpa. Adesso vai a casa e non ci pensare più ok?-
Mi libero dalla sua stretta importante:- Ok.- rispondo. – il tuo cellulare è criptato?-
- Sì perché?-
Gli porgo la mano e lui titubante, mi consegna il cellulare. – Cosa fai?-
- Ti salvo la carriera.- «911. Qual è l’emergenza?»  - C’è un cadavere nell’oceano a Charlestow Bridge.-
Chiudo la chiamata e cerco tra i rifiuti una coperta o dei sacchi per trasportare il corpo.
- Grazie.- risponde lui.
Io annuisco: - Sbrigati, la polizia arriverà a momenti. Non sarebbe carino se non la trovassero…-
- Jane!- chiama lui. La sua voce è ritornata profonda e tranquilla. Mi volto.
Mi mostra i pantaloni strappati sulla vita. Lo squarcio è inequivocabile. Come ho fatto a non accorgermene prima…
- E’ stata violentata.-

Ritorna all'indice


Capitolo 15
*** Maura: Quello che le donne non dicono ***


15. Maura: Quello che le donne non dicono
 
- Che cosa hai fatto alla faccia?- domando guardando il volto tumefatto di mia moglie.
- Le ho prese.- dichiara lei senza filtri.
- E pensi di presentarti così alla gara di tua figlia?-
- Già, l’idea era quella.- risponde caustica.
Accosto la macchina vicino al vialetto di casa, metto le quattro frecce e le apro la portiera: - Mi rifiuto di farti vedere in questo stato. Vieni in bagno e sistemati.- lei mi segue con l’aria imbronciata.
La chiacchierata con Charlotte, mi è servita; se prima guardavo Jane con una punta di disprezzo (non per lei ovviamente, ma per il lavoro che è costretta a svolgere), adesso che ne ho parlato mi sento come più sollevata e trovo meno difficile affrontare il problema. In fondo Jane fa quello che deve per motivi fondati e se la sera l’America può dormire a sonni tranquilli, anche se è dura,  in parte lo devo a lei.
Colgo l’occasione per parlare dell’argomento che più mi tormenta. Tossisco per farmi sentire.
- Charlotte è rimasta a casa da scuola questa settimana.- Lei si passa il correttore sotto il mento. – Sì, me l’hai accennato…perché?-
- La preside l’ha sospesa.-
- Cosa?! Charlotte? E come mai?- dice lei incredula. Probabilmente si aspettava un malanno o un’infezione a scuola, tutti motivi futili, ma non certo questo.
- Per diversi motivi: ha saltato diversi giorni di scuola...- guardo l’orologio: - Sei pronta?- E’ molto tardi.
Mi dirigo verso l’ingresso. – E come fa a non farsi beccare?- chiede Jane raggiungendomi.
- Non ne ho idea; forse scende dall’autobus e poi cambia strada. Non so, dovrei verificare…-
- E dove va?- domanda lei salendo in auto.
- Non me l’ha voluto dire. Sai che preferisco non insistere…-
- E lei preferisce non parlare, lo so. Vai più veloce che siamo già in ritardo…ormai avrà iniziato.-
- Faccio più in fretta che posso Jane. Le insegnanti hanno riferito che i suoi voto sono calati e non rispetta le regole.- dico io premendo con maggior decisione sull’acceleratore.
- Dovremo fare anche a lei lo screening per la dislessia. Tommy e TJ ce l’hanno, forse anche Charlotte ne soffre.-
Parcheggio la macchina: - Facciamolo se lo ritieni essenziale. Ma non penso sia quello il problema…- faccio una breve pausa e spengo il motore.
- Charlotte è una bambina molto attenta e sensibile. Ha capito che c’è qualcosa che non va, ma cerca di tenersi tutto dentro, ma i suoi atteggiamenti ne risentono. Settimana scorsa ha picchiato un compagno.-
- Chi?- dice lei entrando nell’edificio.
- Donovan Lievers.-
- Ancora lui? Quel bambino si è innamorato proprio di Charlie eh?!-
- Jane è una cosa seria.- noto che lei cambia espressione: - Charlotte l’ha picchiato a causa tua.-
- Come sarebbe a causa mia?-
Rimaniamo per un breve momento in silenzio, davanti alla porta: sento le urla di incitamento dalla palestra, segno che la gara è già incominciata da vari minuti.
- Charlotte è preoccupata per te. Lo siamo tutti, ma a differenza sua io so come sei fatta. Sei da sempre la mia migliore amica, ti amo e ti rispetto, ma ti conosco. So che ami infinitamente il tuo lavoro, perché da quando ne ho memoria, ti fai in quattro per aiutare gli altri. Però questo ti rende anche…come mi dissi anni fa…-
- Difficile da amare.- conclude lei con un sorriso malinconico.
- Charlotte non ha mai visto come sei veramente.-
- In che senso?-
- Sta crescendo Jane. Non ha bisogno di una mamma part-time. Passa tutto il tempo che può con te o a parlare di te e cerca disperatamente la tua approvazione.-
Jane sembra perplessa: - Ma non ha bisogno della mia approvazione! Sono sua madre.-
- Già, ma purtroppo sei sua madre soltanto sue giorni alla settimana…-
- Che idiozia stai dicendo Maura!? Sai bene quanto tenga a lei e non provare a dire il contrario!-
- Non ho affatto detto questo e non lo penso nemmeno. Ma non stiamo parlando di te ora, è l’interesse di Charlotte che dobbiamo tutelare.- Apre la bocca per dire qualcosa, ma si ferma e adatta la sua postura all’ascolto.
- Lei sente di dimostrarti qualcosa: ciò che ha imparato, quello che ha fatto durante la settimana, i suoi progressi. Con me non è necessario, perché mi vede tutti i giorni, le sto vicino, la supporto, conosco i suoi punti di forza e le sue debolezze.- Jane annuisce attenta, colgo l’occasione propizia per proseguire: - E’ come se temesse di…-
- Di deludermi.- sussurra Jane trattenendo la commozione. Guarda verso la porta della palestra, come se si aspettasse di vederla comparire da un momento all’altro. – La sto perdendo, non è vero?- dice Jane con voce tremante.
- Sei ancora in tempo Jane…-
Lei guarda in alto, cercando erroneamente di assorbire le lacrime. Aspetto che Jane si riprenda, poi mi avvicino alla porta e apro senza fare rumore. Dalla classifica parziale risulta che Charlotte ha già eseguito sbarra, parallele e corpo libero e sta attendendo il suo turno per il salto.
- Vai Charlie! Sei grande!- la incita sua madre facendo sentire la sua voce. Lei si volta e scuote la testa amareggiata. Dev’essere caduta perché è sotto il livello del podio, cosa che non accade quasi mai. Le sue compagne eseguono una valida performance, ma certamente ben sotto il livello di mia figlia, che possiede una forma e un equilibrio quasi perfetto. È il suo turno: esegue il saluto e si prepara al salto; con una linea precisa, prende elegantemente la rincorsa e si prepara a spiccare il volo. Io e Jane tratteniamo il fiato e per un attimo il tempo pare scorrere più lentamente. In prossimità del tappeto elastico effettua una ruota e poi una verticale all’indietro, poggiando entrambe le mani sulla cavallina fissata al suolo. Dopo lo slancio, si porta le braccia al petto, unisce le gambe e si da lo sprint per girare. Gambe chiuse e schiena dritta, avvitamento magistrale. Finisce di ruotare ed è pronta ad atterrare, ma mette un piede in fallo e si sbilancia in avanti. Con l’altro piede tenta di mantenere l’equilibrio, ma inutilmente: cade in avanti, ma per fortuna riesce ad ammortizzare con le mani e a concludere il numero con una capriola, evidentemente fuori programma. La platea esprime il suo disappunto, anche loro sono abituati ai risultati eccellenti della mia bambina. Charlotte sembra demoralizzata e lascia la gara raggiungendo lo spogliatoio, prima che essa si concluda. Io guardo Jane: - Peccato.-dico reclinando la testa da un lato.
- Già,- dice lei facendo spallucce: - Può capitare, ma chissà che piva che avrà quando uscirà.-
E infatti appena esce dallo spogliatoio ha un espressione che esprime a pieno il suo disappunto.
- Tutto bene?- chiede Jane apprensiva; si avvicina a sua figlia, ma lei sembra ignorarla: le passa oltre come se fosse trasparente, lasciandola a bocca aperta.
- Tu dov’eri?- trilla Charlotte paonazza.
Jane risponde per me: - Siamo arrivate dopo, stavamo…-
- Non ho chiesto a te!- urla lei in preda ad una crisi di nervi. Jane rimane di sasso. Charlotte si volta verso di me: - Mamma?- i suoi occhi di ghiaccio conferiscono un’espressione nuova al suo volto, mai vista e mai immaginata.
- Io…io penso sia meglio continuare questa conversazione in macchina.- dico leggermente stizzita.
- Lo penso anche io…- conclude mia moglie seria; si avvicina a Charlotte per prenderle l borsa, ma lei si discosta bruscamente e punta verso l’auto con la testa bassa e un umore più nero della pece.
 
- Sei più tranquilla?- chiede Jane dopo un po’. Sta guidando lei «per arrivare più presto a casa!» a detta sua. La mia velocità da lumaca la innervosisce, ma a me sta bene così, almeno posso monitorare Charlotte, che in queste settimane pare un ordigno pronta ad esplodere da un momento all’altro. Comunque sia, mia figlia ha fatto il voto del silenzio e Jane, da RizzoliDOC non demorde. Decide di non usare filtri: - Charlie, sei arrabbiata per la gara?-
- Non ne voglio parlare.- bofonchia lei.
Lo so che non ne vuole parlare, lo so che è arrabbiata. Non che fosse una gara importante, ma di certo lo era per lei. Jane sarebbe venuta a vederla dopo tanto tempo e visto che ultimamente le gare erano sempre durante i giorni lavorativi, questa competizione sarebbe stata l’occasione di dimostrare a Jane che lei non era più la bambina che faceva ginnastica artistica per divertimento, ma una giovane atleta pronta ad andare lontano. E invece, per una serie di ineluttabili circostanze, volute o meno, questa gara non è decisamente tra le sue “migliori”. A Jane questo di certo non importa e nemmeno a me, ma Charlotte è testarda, lunatica, estremamente competitiva e autocritica e se si ostina su qualcosa è molto difficile farla desistere.
Però qualsiasi cosa la affligga in questo periodo, ciò non la giustifica a rivolgersi in questo modo verso sua madre. E capisco quanto possano essere stati difficili questi ultimi giorni di scuola per il corpo docenti della Benjamin Franklin Boston School, ora che mi ritrovo a rivestire i loro panni.
- Dai Charlotte, adesso basta.- sussurro gentilmente cercando di evitare di far trasparire la mia irritazione.
- Che ho fatto!? Ho detto solo che non ne voglio parlare.-
- Come ti dissi in precedenza, c’è modo e modo per fare le cose, o in questo caso per dirle.- Jane alza gli occhi al cielo, anche sua figlia fa lo stesso.
- Eddai Maura, ho capito, non ne vuole parlare. Non facciamone un dramma e parliamo d’altro piuttosto. Charlie, decidi tu. Di cosa vuoi parlare?-
- Non voglio parlare di niente, voglio solo che mi lasciate in pace. Non vi sopporto più! Cacchio state zitte!.- esplode nostra figlia. Questo è troppo anche per me.
- Si Charlotte, di cosa vorresti parlare?- le chiedo io maliziosa voltandomi: - Vuoi dirle perché sei rimasta a casa questa settimana? Oppure preferisci raccontare cosa è successo con Donovan? O ancora meglio, dove sei andata mentre saltavi la scuola questo mese? Così magari informi anche me delle tue nuove abitudini giornaliere!- prendo fiato e la vedo muoversi spazientita, cerca di aprire la portiera posteriore, ma il meccanismo di sicurezza per i bambini le impedisce di uscire dalla macchina, ancora in movimento. Jane interviene per entrambe: - Non importa. Maura davvero, a me va bene anche restare in silenzio. Finiamola qui.- si rivolge a sua figlia:- Ho solo due giorni alla settimana per restare con la mia famiglia e di certo non li voglio passare a litigare.-
Rimaniamo in silenzio per qualche minuto, ognuno immerso nei propri pensieri, tutte impegnate a guardare il tratto di strada che ci separa da casa. Ad un certo punto è Charlotte che prende l parola: - Cosa hai fatto alla faccia?- fisso Jane con sguardo interrogativo, lei ricambia e prende tempo: - Cosa ho fatto alla faccia…niente, andavo a fare jogging nel parco dell’accademia, non ho visto dove mettevo i piedi, ho preso un ramo e sono caduta di faccia giù per la discesa. Rovinosamente. Tutto qua.-
«Rovinosamente» adesso sono io che alzo gli occhi al cielo, stupita per la banalità con cui ha ricostruito la “caduta”. Sorprendentemente anche Charlotte fa lo stesso. Non sembra soddisfatta: - Già...come no…-
- Come?- chiede Jane. – Come?- risponde lei fingendo di non aver capito. Apro la bocca per ribattere, ma Jane frena la mia lingua serpentina: - Bene…- conclude spiccia: - Che c’è per cena? Andiamo da qualche parte? Dirty Robber?-
- Io vado da zio Frankie.- dice Charlotte seccata. Jane sembra delusa e tenta di mascherare più che può la sua frustrazione.
- Come dici?- chiedo dandole la possibilità di cambiare opinione.
- Hai sentito.- risponde secca.
«Beh, hai avuto una bella idea! Potremmo andare tutti a mangiare da Frankie!» ma Jane intuisce quello che sto per dire, allunga un braccio sulla mia gamba e mi blocca dolcemente. Scuote la testa e si rassegna: - Ok. Se è quello che vuoi va bene. Ti passiamo a prendere dopo cena?-
- Domani mattina sarebbe meglio…- risponde lei titubante, è ancora arrabbiata, ma non è una bambina abituata a fare pretese.
- Va bene allora.- risponde Jane con cupa rassegnazione.
 
Sento la porta di casa che si apre, accompagnata da passi pesanti che si trascinano fino alla cucina. Jane è tornata. Ha deciso di portare lei Charlotte da Frankie, suo fratello minore, che vede meno spesso di quanto vorrebbe. Avrei voluto che Charlotte avesse una sorella o un fratello, come Jane lo è stata per me. Qualcuno abbastanza vicino di età con il quale confidarsi apertamente, piuttosto che riversare i suoi problemi sugli altri come un’ ondata batterica, come sta facendo adesso. Ma le circostanze della vita hanno voluto diversamente e ora siamo tutte troppo mature e indipendenti per permetterci un elemento nuovo in famiglia, mature almeno fisicamente…credo.
Jane si accascia sul divano e allunga le gambe, i suoi occhi sono gonfi, ha pianto, ma non in presenza di Charlotte. Si è ripromessa di non farlo più.
- Com’è andata?- chiedo io spuntando dalla cucina.
- E’ da Frankie e Nina. Passo a prenderla domani mattina.-
- Ti ha parlato?-
Scuote la testa: - Nada.- si mette a sedere e si strofina le mani sul viso stanco: - Silenzio stampa.-
- Jane, mi dispiace…ti assicuro che lei…-
- Non importa, Maura…non importa. In fondo è anche figlia mia. Se si comporta così è in parte colpa mia…- mi avvicino a lei, ma si alza di scatto evitando per difesa il mio contatto. – Mmmm, che profumino…cosa c’è per cena? Sto morendo di fame…-
E invece mangia a malapena, nonostante la bistecca al sangue sia il suo piatto preferito. Gira e rivolta la carne come se la disgustasse.
- Jane, non hai mangiato nulla…-
- Qualcosina ho assaggiato dai…- mi guarda con occhi da cerbiatto e io le rispondo con uno sguardo severo, ma eloquente.
- Va bene va bene, hai ragione. È che a carne non mi va stasera, mi dispiace. Mangerò un pezzo di pane.- lo mette in bocca come se ne avesse voglia, ma il boccone non va ne su ne giù.
- Jane, vuoi dirmi quello che ti passa per la testa?- lei evita il mio sguardo e comincia a sparecchiare il suo piatto: - Nulla, nulla. Non voglio farti preoccupare più del necessario.-
C’è qualcosa che la divora da dentro, come un microbo che la sta facendo a pezzi e questo non posso permetterlo. Non più. Faccio una cosa che non ho mai fatto prima d’ora.
Allungo le mani e la prendo per i polsi; la sento allontanarsi, ma la mia presa si fa più salda e sicura. Ci guardiamo negli occhi nell’attesa che una delle due ceda. Nell’attesa che i suoi iridi umidi di lacrime si fondano nei miei.
- Jane, io ti amo. È il mio dovere essere preoccupata ed è un tuo diritto farmi preoccupare. Nella buona e nella cattiva sorte, sono forte abbastanza per sopportare questo fardello che ti porti addosso da troppo tempo.-
- Non posso farti questo…- sussurra lei.
- Sono tua per questo.-
Aspetto che mi parli del caso, delle preoccupazioni e delle difficoltà che comporta la missione, invece decide di aprirsi, di sbocciar come un fiore in primavera, solo come la mia Jane è capace di fare.
- Mi manca mia madre…da morire Maura. Mi manca così tanto che non riesco a respirare, che ho paura di parlare, di agire perfino di camminare, sento che ogni cosa che faccio è sbagliata o non è mai abbastanza, sento che potrei fare di più, potrei fare meglio, ma dall’altra parte di quella che è diventata la mia insulsa vita non c’è più mia madre ha sostenermi a dire «Andrà tutto bene Jane, vai avanti così!» Come faccio a sapere che andrà tutto bene!? Come faccio a non essere un completo fallimento!?-
- Jane…-
- E poi c’è Charlotte, che mi odia e non mi vuole parlare, perché per lei io non conto nulla…e ha ragione! Ma come si fa ad odiare la propria madre!?-
Mi avvicino, ma lei si ritira, il suo respiro si fa più rapido, profondo ma vuoto. Incrocia le mani dietro il collo e cammina avanti indietro in cerca di aria, in cerca di un posto sicuro dove poter piangere in privato la morte di Angela.
- No ti prego Maura, lasciami sola, lasciami…-
E invece mi avvicino lentamente, noncurante di quello che mi dice. Potrei dirle un sacco di cose: potrei parlare a macchinetta delle cinque fasi del lutto o del deterioramento delle sinapsi che avviene quando si subisce una perdita, ma so che questo non le servirebbe. Potrei parlarle di come mi sono sentita persa, quando mia madre stava per morire, potrei dirle di non pensarci o di parlarne con me, di pensare a quanto Angela sia stata importante per lei, a quanto Jane si porti nel cuore di lei. Potrei dirle che i suoi ricordi non saranno mai dimenticati, che lei non è morta, ma la sua memoria resta viva in tutti noi. Potrei dirle moltissime altre cose, ma non sarebbero utili. Nessuna parola di conforto, nessuna teoria scientifica, potrebbero lenire il peso della morte. Davanti ad essa il genere umano, per quanto si sforzi è del tutto impotente. Lei non salta le tappe, non guarda in faccia nessuno; vent’anni di onorata carriera mi hanno insegnato questo e la lezione più grande sarà quella di imparare ad accettarlo.
Imparare ad accettarla.
Aggancio le mie braccia al corpo muscoloso di Jane e mi schiaccio sulla sua schiena calda, chiudo la presa e stringo più forte che posso all’altezza della sue spalle. Sento che si dimena, ma nonostante tema di farle male non mollo la presa: - Sono qui.- le sussurro dolcemente all’ orecchio: - Sono qui e non me ne vado.-
Lei smette di spingere si volta, appoggia la sua testa nell’incavo tra il mio collo e la mia spalla e inizia a piangere. Un pianto disperato, un pianto da troppo tempo sommerso. Si aggrappa a me e stramazza al suolo senza forze, le mie braccia ceree la sostengono, come ancore in un porto di mare.
- Maura, ho fatto cose orribili. Sono una persona terribile…non mi merito questo, non merito nulla.-
Le prendo il viso madido e la bacio dolcemente: - Tutto si sistemerà, col tempo, se vorrai.-
Ricambia il mio bacio e si rimette a sedere. Il suo respiro si è fatto regolare, le sue mani hanno smesso di tremare. La guardo, anche se è scossa, disfatta, impaurita è sempre e comunque bellissima e ho una gran voglia di amarla, come la nostra prima volta, che rimarrà sempre incisa nel mio cuore. Ma so che lei non è ancora pronta e quando lo sarà io sarò lì con lei. Nel bene e nel male. Mi avvicino e le accarezzo la guancia, lei mi sorride stanca, prende la mia mano e la bacia. – Grazie Maura.- Ricambio con occhi umidi il sorriso.
- Vado a mettere sul fornello il bollitore del the. Ho comprato i biscotti al caffè che ti piacciono tanto, almeno mangi qualcosa, visto che non hai toccato cibo a cena…- dico alzandomi dal divano, pronta per andare in cucina.
- No aspetta.-  si pulisce le ultime lacrime che le restano con la punta dei polpastrelli e mi guarda. I suoi occhi spalancati, le sue labbra serrate, la sua aria seria e rivelatrice. Mi sembra di vedere nostra figlia e conosco bene questa espressione. Torno a sedermi perché sarà una storia lunga…
- Sono pronta a parlare.-
 
 
 
 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 16
*** Promesse o minacce? ***


16. Promesse o minacce?
 
 
- Vuoi un bicchiere d’acqua?-
- No grazie, zia Nina. Sono a posto così.-
- Vuoi un bicchiere di vino?- ridacchia zio Frankie dietro di lei.
- Scemo.- sorride lei dandogli una pacca sulla spalla.
- No, sul serio. Sono a posto.-
- E’ una fortuna che Barry sia in ritiro con la squadra per tutta la settimana. Se no ti sarebbe toccato dormire sul divano!-
- Oppure sul divano avresti potuto dormirci tu, Signor Rizzoli scansafatiche!-
- O avrebbe potuto dormirci lui, visto che è grande e forte.- brontola lo zio.
Mi infilo sotto le coperte e mi sforzo di sorridere: - Grazie ancora, ma sono a posto così. Se avrò sete andrò a bere in cucina. Prometto che farò piano piano. Per non vegliare Heather.-
- Se lei non sveglierà te queste notti, potrai ritenerti fortunata…a proposito, parli del diavolo…- dice zio Frankie sentendo la sua piccola figlia strillare dalla stanza accanto. Zia Nina alza gli occhi al cielo e si muove per andare a calmarla, ma lo zio la precede e sparisce dalla mia vista.
- Tutto ok?- Chiede zia Nina rimasta sola con me: - Com’è andata la ripresa della scuola?- Già. Anche loro sono a conoscenza della mia bravata di settimana scorsa.
-  E’ dura. È stato bello stare a casa una settimana, anche se ero in punizione. Però adesso devo cercare di comportarmi bene…-
- Di comportarti meglio. Vedrai che ce la farai. Ti lascio perché dai tuoi occhi vedo che è stata una giornata pesante…-
- Già, penso che mi addormenterò in un secondo.-
- Sperò proprio che Hatty non ti svegli questa notte, ne le prossime che verranno.- si avvicina e mi rimbocca le coperte.
- Grazie.- le dico io
- Buonanotte.- risponde lei spegnendo la luce.
Dopo un attimo di buio totale riesco a distinguere forme e ombre che arredano la camera di mio cugino. Barry Rizzoli, portiere ufficiale della squadra di hockey giovanile di Boston. La pallida luce della luna illumina i poster appesi in camera. Prima di chiudere gli occhi il mio sguardo si posa su un poster appeso al soffitto: la squadra di Washington DC. Ed è proprio là che la mia mente vola…
 
 
- La missione ti sta chiaramente sfuggendo di mano Gabriel.-
- Questo è tutto da dimostrare.- risponde lui risentito.
- I presupposti non sono dei migliori e inoltre sei troppo coinvolto.-
- Non lo siamo tutti? E poi ciò che alludi è storia vecchia.-
- La mia lunga esperienza mi ha insegnato che la storia può ripetersi. Come sta succedendo ora, peraltro.-
- Già, ora abbiamo la possibilità di riscrivere la storia. Possiamo mandare dietro le sbarre Alcatraz per sempre. Jane ha trovato possibili elementi per inchiodarlo; ora resta solo da recuperarli ed è fatta.-
- Sì, ma a che rischio e pericolo? Jane mi è sembrata piuttosto turbata…-
- Per quello che è successo all’ultimo incontro? Jane è stata scagionata e lo sa. La ragazzina è stata violentata e poi l’hanno finita con  un colpo di pistola nella…insomma nella…-
- Sì, so già tutto.-
- E’ allora qual è il problema?-
- Il problema?! Lo sai che queste missioni non possono essere prese alla leggera!-
- E non lo mai fatto!-
- Hai valutato la pericolosità di Alcatraz? Come fai ad essere sicuro che lui non stia tramando qualcosa?-
- Lo so perché Jane è brava nel suo lavoro e non si farebbe mai beccare. Non commetterebbe gli stessi errori di…-
- Di tua moglie?-
- E’ stato uno sbaglio di entrambi: lei non era sufficientemente pronta e io sono stato poco accorto, ma Jane sì. Non farò lo stesso errore e poi le ho fatto una promessa. Non permetterò che le capiti nulla di male, te lo assicuro.-
- Il guaio, Gabriel, è che l’ho fatta anche io una promessa. E ti giuro che se le succederà qualcosa, se quel verme le torcerà anche solo un capello, io verrò a cercarti e mi assicurerò che tu non abbia più una carriera, ne qui, ne in nessun altro posto.-
L’agente Gabriel trasalisce e si guarda intorno sconcertato. Dopo un breve pausa di sgomento prende parola: - Come posso fare per farti cambiare idea?-
- Mi piacerebbe che Jane abbandonasse subito la missione.-
- Questo non è possibile.-
- Non sono sicura che quello che ti ho appena proposto sia una richiesta, Gabriel. Ci sono le premesse per intentare una causa…-
- Senti, facciamo in questo modo: una, concedimi una possibilità; una missione e poi basta. Se riesce nell’intento, buon per noi, Alcatraz andrà in prigione e l’America ci ringrazierà, altrimenti, troverò un’altra soluzione. Solo una e poi non mi farò più sentire. –
- E Jane sarà sorvegliata?-
- Saremo con lei per tutto il tempo.-
- Sarà l’ultima?-
- L’ultima, lo prometto.-
- Non saranno troppe queste promesse?-
- Sono un tipo previdente. Prometto sol ciò che sono sicuro di mantenere.-
- Sarà meglio. Jane non dovrà essere al corrente della nostra conversazione tête-à-tête. Siamo intesi?-
- Sarò una tomba. In fondo, mi hai appena concesso un’ultima possibilità. Un favore per un favore.-
- Io non ti devo proprio nulla.-
 Gabriel sorride forzato: - E’ sempre un piacere parlare con te, Maura. .
- Vorrei poter dire lo stesso. Ma purtroppo, non riesco a dire bugie.-

Ritorna all'indice


Capitolo 17
*** Jane: Cio che non uccide... ***


17. Jane: Ciò che non uccide…
 
 - Ci siamo.-
- Già.- rispondo nervosa: - Quindi questa sarà l’ultima volta?-
Gabriel sospira, Cameron finisce per lui: - Sì Jane, l’ultima e poi…-
- Poi sarai libera.- conclude Dean cupo.
Da un lato sono sollevata che sia finita, in vent’anni di carriera non ho mai avuto una missione così difficile, nonostante sia brava in quello che faccio,… sarà perché la posta in gioco è davvero alta e la mia famiglia ha bisogno di me ora come non mai. Dall’altro lato però, la tempestività di Gabriel mi induce ad affrettare le cose, ad espormi di più. E questo è inevitabilmente a mio rischio e pericolo.
- Do un occhiata in giro e poi faccio l’incontro, cerco di recuperare la chiave elettronica e torno.- ripeto ad alta voce tutti i passaggi per essere sicura di non dimenticarmene nessuno.
- Perfetto. Cerca di attaccare anche questa.- Gabriel mi porge una chiavetta:
- La metti nel computer e in pochi minuti abbatterà i firewall e penetrerà nel sistema, raccogliendo tutte le informazioni necessarie.-
- Se saranno utili.- rispondo secca.
- Lo saranno. E poi non devi preoccuparti. Noi saremo nelle vicinanze tutto il tempo. Da qui abbiamo completa visuale della palestra e dei piani superiori. Se non torni entro l’orario stabilito entriamo noi. Una squadra è già in allerta.- Cameron e il suo solito ottimismo.
- Ok.- rispondo massaggiandomi l’occhio tumefatto, il livido dell’precedente incontro è quasi sparito. Ma ciò che è stato resterà indelebile nella mia anima.
- Ci vediamo tra un po’.-
- Buona fortuna.- bofonchia Gabriel Dean e mi guarda sparire, con un’espressione visibilmente contrariata.
 
 
Chissà se Alcatraz sa, chissà se ha un briciolo di rimorso…almeno nella solitudine. Quando il sipario cala e lui rimane solo; chissà se prima di addormentarsi al posto delle pecore conta le vittime che ha lasciato agonizzanti lungo il suo cammino.
Lo vedo lì seduto come un pascià, che si atteggia come se fosse un sovrano, mente io sono qui a sudare e attenta a non lasciarci le penne. Putrido topo di fogna, marcirai in prigione mentre il mondo gira, anche senza di te.
Questa breve pausa di riflessione mi distoglie dal ring e il mio avversario ne approfitta ,sbattendomi su un palo che delimita il perimetro.
 Sì, avversario.
Proprio di un maschio sto parlando. Un altro dei suoi meschini trucchetti messi in atto per punirmi: non mi sono piegata a lui allora e quindi mi piegherò con il tempo, in un modo o nell’altro. Mi tiro in piedi e mi accorgo che lo zigomo sanguina copiosamente, Alcatraz sorride beffardo e per mia fortuna noto che estrae il suo portafoglio dalla tasca dei pantaloni e porge una banconota ad una delle sue squillo. La chiave elettronica deve essere sicuramente lì e quindi per prenderla devo arrivare a lui.
 Agile come un felino schivo un colpo micidiale e ne affibbio un altro altrettanto tale tra le costole possenti del mio nemico, ma lui è una roccia e gemo di dolore per la mano pulsante. Mi solleva e mi scaraventa a terra inibendo qualsiasi possibilità di sfuggirgli, di respirare, ma io sono un tipo che non si piega facilmente: completamente svuotata rotolo verso sinistra, facendolo piombare a terra sul freddo pavimento sudato. È questa la chiave, usare la sua stessa forza e colpirlo nei punti giusti. Mi tiro sulle ginocchia ignorando le fitte che percorrono le mie tempie; in un attimo sono sopra di lui ed a pugno semiaperto, con le falangi delle dita tiro un cazzotto che si incastra perfettamente nella sua mascella. L’uomo geme di dolore, si tira di scatto in piedi e come un toro imbufalito si scaraventa su di me: pugno su pugno mi mette all’angolo e mi costringe a restare a terra. Sento il mio corpo che protesta e si gonfia sotto il peso dei suoi incessanti pugni, ogni parte di me è ricoperta da sangue che scorre imbizzarrito sotto la mia pelle tumefatta.
- Ti arrendi sporca puttana?-
Cerco di parlare ma tutto ciò che mi esce dalla bocca è sangue e un molare che si è staccato dal gruppo. Lui mi guarda e ride di gusto.
- Allora? Sei pronta a piegarti a me? Sei pronta a sottometterti?-
A sottomettermi!?
Chi ci ha provato ora è sotto terra con un bisturi piantato nel cuore. Io appartengo ad una sola persona e a nessun atro. Ed è per lei che sono qui stasera.
Mi alzo di scatto e ruoto tutto il mio corpo, facendo perno su un piede sferro un calcio al ginocchio facendolo uscire fuori asse, lui si accascia lasciando il fianco destro completamente esposto, il mio lato preferito: mi sposto e spingo, aiutandomi con la mano libera, il gomito spigoloso dentro l’articolazione dell’anca. Lui muove un braccio alla ceca, ma con un gesto repentino lo blocco e glielo spingo all’esterno lussandogli la spalla, poi continuo con il lavoro di prima. Colpisco incessantemente finchè la pelle del mio gomito non si brucia per lo sforzo, finchè non sento che la sua anca è ormai in frantumi. Lo finisco con un calcio nelle palle e un colpo secco che fende l’aria alla gola. Almeno gli ho tolto momentaneamente la capacità di parlare.
Sento il presentatore che annuncia la mia vittoria, ma la sua voce è lontana e tutto intorno a me si fa grigio e sfuocato. Prima di accasciarmi al suolo l’ultima cosa che vedo è Alcatraz che viene verso di me.
 
Quando rinvengo, mi ritrovo nel camerino di partenza, scuro, silenzioso…fin troppo tranquillo. Alcatraz è seduto accanto a me, si discosta allontanando dal mio naso un mucchietto di polvere bianca.
- E’ cocaina?- sbiascico io senza filtri.
- Sono sali d’ammonio…per farti svegliare.- dice lui alzando gli occhi al cielo: - Temevo di averti persa, dopotutto sei pur sempre il mio cavallo di battaglia.- si esprime lui mimando il gesto dei soldi. Essì che all’inizio mi sembrava di aver notato in barlume di gentilezza nei suoi modi. Evidentemente mi sbagliavo, la fiducia non ripaga da queste parti. Mi metto seduta lentamente, ma la vista è ancora poco nitida e la testa mi scoppia.
- Che ore sono?-
- L’una passata. Hai dormito un po’.-
- E ci credo…- sussurro dolorante mettendomi una mano sulla fronte rappresa. Sento un leggero formicolio al braccio sinistro, accompagnato da una poderosa fitta alle nocche saziate di pugni.
- Hai vinto anche stasera.- sorride lui accendendosi una sigaretta. Cerco di mettere a fuoco il suo viso sotto la flebile fiamma dell’accendino, ma inutilmente e la mia testa non riesce a stare dritta, ma ciondola pesante da un lato all’altro. Lui sembra non farci caso.
- Sai credevo che dopo questi colpi bassi ti saresti arresa e invece mi sbagliavo. Non sono uno che si sbilancia troppo, ma ti devo fare i miei complimenti. Non avevo capito che fossi così tosta.-
- Te l’ho detto.- rispondo grattandomi un braccio: - Non mi piego facilmente.-
- Ah, questo l’ho capito. Per questo volevo proporti un altro accordo. Sei la persona adatta per i miei affari.-
Sospiro  e mi fa male: - Un altro accordo…e di che genere?- la mia bocca è ancora impastata di sangue e faccio fatica a parlare.
- Preferirei parlarne in privato. Troppi papponi affamati in circolazione.- sorride beffardo: - Vieni. Ti porto nel mio ufficio.-
- Ok.- rispondo meccanicamente. Cerco di mettermi in piedi ma l’incontro mi ha letteralmente sfinito. Barcollo e casco tra le braccia di Alcatraz, che mi tira su e si propone di farmi da guida. Annuisco debolmente e aggrappandomi a lui, ci dirigiamo al piano superiore. Mi porta nella stanza centrale sul fondo e mi adagia su di una sedia. La testa è un macigno e faccio fatica a rimanere lucida, ma provo comunque a sostenere una normale conversazione. La stanza è pulita, in ordine ed odora di stantio e di chiuso. La puzza mi penetra nelle narici e una smorfia di disgusto appare sul mio viso. Lui si siede e mi guarda compiaciuto.
- Sembri piuttosto provata. Non stai bene?-
- E’ tutto a posto. È solo che…- le parole mi si fermano in gola. Sto cominciando a capire…
- Solo che?- chiede lui avvicinandosi.
Il braccio mi prude all’impazzata: con uno sforzo immane cerco di mettere a fuoco l’abrasione all’altezza del mio gomito e mi sembra di notare un piccolo foro di siringa. – Che ore sono?- ripeto confusa.
- Come mai tutta questa fretta? Vai da qualche parte?-
- Che cosa mi hai fatto?-
- Nulla, una cosa da niente…un po’ di Zolpidem mentre eri svenuta. Nulla che non si possa sistemare entro pochi giorni. Sfortunatamente non ti concederò tutto questo tempo.- si avvicina e mi sposta bruscamente sulla scrivania. Non riesco ad opporre resistenza.
Penso a Maura, a Charlotte, alla mia famiglia, a quell’atroce pensiero di mia moglie che veglia sul mio corpo morto, idea che mai mi sembra così vicina come ora
- Vuoi uccidermi?- sussurro io con voce rotta.
- Hai indovinato. Ancora complimenti. Ma prima voglio divertirmi un po’.-
Mi appoggia una mano sul collo e mi tiene schiacciata alla scrivania, con la mano libera si toglie la cintura e mi slaccia i pantaloni. Cerco di divincolarmi ma la sua forza è nettamente superiore alla mia. Con il braccio mi tiene ferma e senza alcun preambolo entra dentro di me. E io sono diventata sua. Urlo cercando in tutti i modi di farmi sentire, ma non ci sono finestre in quella stanza ed è troppo presto perché vengano a salvarmi. Piombo nella disperazione più profonda: la mia presa sui suoi fianchi si allenta, la mia bocca rimane serrata; mano a mano che le sue spinte si fanno più rapide il mio respiro diventa più leggero, il mio corpo più malleabile, la mia indole più docile, le mie lacrime più amare. E continua, ancora, ancora e ancora. Fino a che crolla senza forze.
È ancora dentro di me quando gli sussurro: - Hai fatto questo anche a quella ragazzina?- lascio cadere esausta le braccia oltre ai bordi della scrivania.
- Chi? Parli di quel cucciolo ancora in fasce? Ha avuto quello che si meritava. Lo stesso che si merita una spia come te…- dice con il fiato corto staccandosi da me.
- Lei era innocente…non ha fatto nulla.- dico stremata e immobile, con le gambe aperte e la mia vulnerabilità completamente esposta.
- Allora l’agente Dean non ti ha raccontato proprio nulla eh?! Tamara Perez era dentro fino al collo.-
- Perez?- mormoro incredula.
- Già. Quella ragazzina, voleva rendersi utile, come sua sorella e l’agente Dean la sfruttata per cercare di incastrarmi, ma inutilmente. Perché io sono un Dio, inespugnabile, sempre all’erta, al di sopra di tutti. Dovreste averlo capito ormai.-
- Ti metteremo dietro le sbarre una volta per tutte…-
Alcatraz si riallaccia i pantaloni e si sistema la cintura: - Non oggi. Non con te.-
Apre la porta dell’ufficio e immediatamente due uomini si presentano all’appello come animali ammaestrati.
- Pensateci voi.- dice sprezzante, prima di lasciare la stanza, guardandomi come se il mio destino fosse già segnato.
I due galoppini ridacchiano di gusto e si preparano ad infliggermi altre violenze, per poi finirmi con un colpo letale. Il primo si avvicina e mi volta, appoggiandomi a faccia in giù contro la superficie della scrivania. Sento la sua erezione farsi pericolosamente vicina alle mie natiche; è il momento giusto per agire.
Allungo le braccia, le mie mani tastano alla ceca la pila di documenti sulla scrivania fino ad arrivare a toccare qualcosa di freddo e duro. Impugno il tagliacarte e sfruttando la forza disperatamente risparmiata, colpisco alla ceca. L’arma si conficca nel collo e spruzzi di sangue si riversano sul muro, imbrattandolo di rosso. L’uomo si allontana barcollando ma io mi volto e lo trascino verso di me, in modo che diventi uno scudo. Gli estraggo la pistola silenziata dalla fondina e parandomi dietro il suo corpo rigido sparo due proiettili verso l’altro uomo, che non riesce a rispondere al fuoco. Non riesco a prendere una mira precisa, ma lo colpisco ugualmente perché vedo la sua sagoma sfuocata abbattersi al suolo. Mi avvicino al primo uomo ormai stramazzato al suolo e giro più volte il coltello nella ferita in modo da esser sicura di averlo messo KO.
Mi allaccio i pantaloni e tiro fuori dalla tasca la chiavetta che mi ha dato Gabriel. Mi avvicino al computer e dopo diversi tentativi riesco ad inserirla nella porta USB, le scritte che compaiono non sono leggibili, ma non ho tempo di valutarne l’efficienza: lui fa il suo lavoro, io ho fatto il mio. Mi dirigo verso i cassetti e ne scardino uno; lo trascino fino alla parete gocciolante e tasto il muro con mani tremanti e decisamente poco salde. Quando trovo l’inizio del cartongesso sollevo con entrambe le braccia il cassetto estratto e tenendolo saldo per il manico lo scaravento ripetutamente sulla parete scalfendola, rompendola, distruggendola, colpo dopo colpo. Non mi curo del rumore, non mi importa del dolore, di ciò che ho appena subito e di cosa accadrà dopo. Voglio solo scappare da qui. “Fa che ci sia un’ uscita di emergenza…ti prego.”
 Prego ad un Dio che ormai non è “di casa” da un po’…o forse non mi sto rivolgendo a lui.
Lei ha ascoltato le mie preghiere: l’ultimo colpo mi apre definitivamente l’uscita. La porta è antipanico, apribile solo dall’interno: con le ultime forze rimaste lancio il cassetto verso la maniglia che si apre senza troppi convenevoli. Mi volto verso il computer che è ritornato spento e intonso come prima. Con la speranza che i dati siano stati raccolti estraggo la chiavetta e mi dirigo verso il cestino, dove pochi minuti prima avevo lasciato il portafoglio di Alcatraz.
Come dicevo, utilizzare la forza del nemico a suo svantaggio: se non fosse stato strafatto di coca, se non avesse creduto di aver la verità in tasca, si sarebbe accorto che mentre mi violentava, sono riuscita a sfilargli il portafoglio dalla tasca anteriore dei jeans e a riporlo nel cestino pieno di carta che ne ha attutito il rumore sordo. Forse Alcatraz non è del tutto inespugnabile.
Lo prendo e me ne vado da quel posto infernale. L’odore dell’aria umida mi rinvigorisce un poco, dandomi la forza necessaria per scendere le scale, senza inciampare ad ogni gradino. Quando sono arrivata all’ultimo scalino guardo in su: tra gli alti edifici popolari spunta un cielo stellato e nonostante la mia visione si sposti continuamente, riesco a notare un dolce spicchio di luna che mi veglia da lassù.
- Grazie.- sussurro in lacrime.
- Grazie.-
Le mie gambe si fanno più pesanti ad ogni passo e le mie forze mi stanno lentamente abbandonando. Devo raggiungere la macchina, non è sicuro rimanere qui, ma sono così stanca. Stringo ancora al petto la chiavetta e il portafoglio e quando vedo le sagome di due uomini avvicinarsi nella notte, correndo verso di me, la mia presa si fa più salda e sicura. Quasi automaticamente alzo l’arma che mi è rimasta in mano e prendo la mira, ma il mio braccio trema e le gambe deboli non riescono a contrastare la mia paura. Perdo l’equilibrio e cado tra le braccia di uno dei due; chiudo gli occhi in attesa di morire, ma la sua voce profonda mi sembra familiare.
- Jane! Oddio Jane…che cosa ti hanno fatto?!- urla Cameron allarmato.
Gabriel si china verso di me e mi sembra di vivere una scena a rallentatore: mi prende il viso con entrambe le mani e cerca di svegliarmi, ma io ormai sono già andata da tempo. Allungo debolmente la mano e affido il mio bottino alla Giustizia. Alla cieca ed imparziale dea che adesso non pare più così candida.
E poi il buio.
Non sono pronta a morire.
Non mi piegherò mai. Nemmeno alla morte.
 
 
 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 18
*** Maura: Sono già là ***


18. Maura: Sono già là
 
La macchina attaccata al corpo immobile di mia moglie sibila ed emette un rumore regolare, che accompagna quello del suo lieve respiro. La flebo che le hanno somministrato ormai ha ripulito tutto il suo organismo dalla droga pesante che Alcatraz le ha iniettato nel braccio, eppure lei non si sveglia. Giace così profondamente che qualche volta appoggio il mio specchietto per truccarmi, sotto il suo naso, per controllare che respiri ancora; oppure in preda al panico qualche volta, mentre stringo la sua mano, cerco di captarne il battito, per paura che non sia viva, nonostante le pesanti macchine mi dicano che non si può negare l’evidenza: Jane è viva e si riprenderà.
Molte persone sono passate a trovarla e hanno lasciato pensierini di pronta guarigione: alcune di loro hanno anche affrontato lunghi viaggi in aereo, come Tommy o Korsak per esempio, che adesso vivono dall’altra parte del paese. Segno inconfutabile che lei non è sola e che potrà contare sull’aiuto di tutti.
Rispondo al telefono che vibra impaziente nella mia mano libera da quella calda e statica di Jane. È Frankie.
- Ciao Maura.-
- Ciao Frankie.-
- Come sta? Si è svegliata?-
- Non ancora, ma accadrà in questi giorni, se tutto va bene.-
- I dottori hanno detto qualcosa di nuovo?-
- Soliti responsi: non ha subito danni interni, ma la quantità di droga correlata con l’affaticamento generale e lo stupro hanno minato molto il suo organismo, debilitandolo. Quando sarà pronta si sveglierà, ma non escludono danni cerebrali.-
- Io lo ammazzo quel figlio di puttana.-
- Ci ha già pensato Gabriel. Da quel che so ha inviato tempestivamente la sua squadra che è arrivata pochi minuti dopo il ritrovamento di Jane, è riuscita a prelevare Alcatraz e a fissare un fermo.- abbasso la voce quasi per paura che qualcuno sentisse queste informazioni strettamente confidenziali:- Dalle prove che Jane ha recuperato sono riusciti ad incriminarlo per una innumerevole serie di capi d’accusa e a breve inizierà il processo.-
- E come hanno fatto ad ottenere un mandato d’irruzione e un fermo così in fretta?-
- Non ne ho idea, forse non ne avevano uno…o forse sono semplicemente il Governo.- queste parole mi suonano amare in bocca e un’idea mi balena nel cervello; finalmente tutto mi è chiaro. Jane era solamente un esca: tutto in quest’ultima missione era stato pianificato a puntino al fine di incastrare Alcatraz una volta per tutte, e in tutto ciò, Jane recitava ignara la parte del “cavallo di Troia” fino a che non è diventata una vittima. E quindi le cose si sono decisamente complicate.
- Insabbieranno tutto non è vero?- sentenzia Frankie Rizzoli amareggiato.
- Non lo permetteremo.- affermo convinta: - Charlotte come sta?-
- Bene. Silenziosa e perspicace come sempre. Chiede di te e di Jane.-
- Non ne avevo dubbi.-
- Che le dico?-
- Non dirle nulla. Per ora. Devo prima consultarmi con Jane, quando si sveglierà. Dille che sono andata a Washington per trovare la mamma e che non so quanto starò via. La chiamerò stasera per sentire come sta.-
- Spero sia sufficiente…-
- Non lo è. Ma per una volta spero che capisca e lasci perdere. E probabilmente capirà.-
- Io l’ho sempre detto: ha il cuore buono dei Rizzoli!-
Sorrido malinconica, non mi può vedere ma sa che la sua battuta mi ha fatto ridere. – Grazie Frankie per tutto quello che tu e Nina state facendo per noi. Ti sono eternamente grata.-
- Scherzi!? Siamo in famiglia! Tu piuttosto, sistema le cose e tienici aggiornati su quando si sveglierà. Siamo tutti preoccupati.-
- Lo farò.-
Non faccio tempo a chiudere la chiamata che sento bussare alla porta della camera.
- Chi è?- chiedo gentilmente.
- Sono Cameron. Ho bisogno di parlarti.-
Un po’ risentita lo invito ad entrare, nonostante non approvi come abbia gestito l’intera operazione. Ma Jane non è una mia proprietà e se lui vuole vedere la sua amica non posso fare altrimenti.
- Non posso entrare. Per favore esci tu.-  mi dice lui da dietro la porta. con immenso rammarico mi allontano da Jane ed esco dalla stanza. Mi fermo davanti all’uscio che piantonerò fino a quando non se ne sarà andato.
- Cameron.-
- Maura. Come sta Jane?-
- Stazionaria. Sei finalmente passato a visitarla? Sai, non ti ho ancora visto al suo capezzale, da quando l’hai portata qui quasi senza vita.- dico sprezzante.
Lui sospira pazientemente: - Sono passato per dirti che ho fatto aprire un’indagine interna. Gabriel sarà indagato ed io come suo supervisore sono tra le persone da interrogare. Per questo non possiamo vederla: finche non veniamo scagionati entrambi non possiamo parlare con lei per non influenzare il testimone.-
- Con il termine “ Testimone” intendi lei?-
- Sì. Jane sarà chiamata in aula per due processi: quello di Alcatraz e quello di Gabriel.-
Espiro pensierosa: - Sarà un duro colpo per lei. Nonostante tutti questi ultimi trascorsi erano rimasti in buoni rapporti.-
- Sì, ma Gabriel ha decisamente passato il segno in questi anni. E io avrei dovuto fermarlo prima.-
- Può darsi.- rispondo sinceramente.
- Si riprenderà?-
- Non lo so. Ma il problema non sono le ferite…è quello che verrà dopo.-
- Ha abortito? Cioè, c’è il rischio che sia…-
- No. I dottori hanno detto che ciò che le hanno iniettato ha impedito a qualsiasi cellula di impiantarsi nel suo corpo, tanto è vero che anche le difese immunitarie sono state compromesse. Inoltre il suo corpo era talmente debilitato che non avrebbe potuto sostenere una gravidanza.-
- Oh Maura. Sono profondamente costernato. Come ho potuto mettervi in una situazione del genere!-
- Non lo so. Ma siamo immersi fino al collo.-
- E Charlotte, come l’ha presa?-
- Nostra figlia ha bisogno di sua madre come lei ne ha di noi.- concludo secca.
- Se posso fare qualcosa…-
- Jane avrà bisogno di riprendersi, ma non potrà farlo se sarà costretta a viaggiare da Boston a Washington tutti i weekend. Ti chiedo di “congelare” la sua mansione di insegnante a Quantico e aspettare che lei sia pronta per ritornare.-
- Ah, ma questo è già stato fatto.-
- Da chi?- rispondo sorpresa.
- Proprio da Jane. Settimane fa. Mi disse che per lei era giunto il momento di ritornare sui suoi passi. Che aveva deciso di pensare di più alla famiglia e di lasciar perdere la carriera. Mi spiegò che già in passato aveva sacrificato l’amore per il successo e non avrebbe più commesso questo errore.-
- Non mi ha detto nulla.-
- Doveva essere una sorpresa. Vedi, è questa la differenza tra noi e un bravo agente come Jane: la capacità di comprendere quando farsi da parte, senza considerarlo un fallimento.-
Sorrido dolcemente pensando a lei: - Quindi aveva deciso di tornare a casa…-
- La sua testa era già a Boston. Il suo cuore non si è mai allontanato da lì.-
- Ma-Maura?-
I miei occhi si illuminano di gioia, dopo aver udito la sua voce.
- Va da lei.- mi dice lui sollevato.
Ma io sono già dentro.
 
 
 
- Come ti chiami?- chiede il dottore passandole una luce abbagliante vicino agli occhi. Lei li strizza infastidita.
- Jane Clementine Rizzoli.- controlla con la coda dell’occhio se sto ridendo per il suo buffo secondo nome. Cerco di trattenere le risate, ma non posso evitare di sorridere. Lei storce la bocca.
- Si tocchi i pollici con le altre quattro dita.-
Lei lo fa senza esitare: - Va bene così?- dice ripetendo il gesto più volte.
- Benissimo. Ora mi dica tre cose che non so.-
- Uhm…vediamo…mi piace il baseball, ho studiato danza classica da bambina e da piccola ho avuto un cane che si chiamava Gatto.-
- Gatto?- dice il dottore sorpreso.
- L’ha scelto Tommy. Voleva fargli venire una crisi d’identità, ma non ha avuto successo.-
- E’ vero?- ridacchia il dottore rivolgendosi a me.
- Purtroppo è la verità.- rido di rimando.
- Beh, allora direi che le funzioni cognitive sembrano intatte. Tornerò più tardi per controllare le ferite, ma nel complesso sento di dire che potrà solo migliorare.-
Appena il dottore esce dalla stanza l’espressione di Jane si fa più seria, ma cerca di mantenere un lieve sorriso sul volto segnato e smunnto. – Allora, siamo qua…-
- Già. Come ti senti?-
- A pezzi. Letteralmente. Avrai saputo cosa è successo.-
- Sì, l’ho saputo e mi dispiace tantissimo, ma sappi che ti starò vicina. Io e Charlotte, ti sosterremo passo dopo passo.-
Jane si sdraia e si tira su la coperta fino al mento: - E’ strano- mi dice: - L’ultima volta che io e te siamo state in ospedale io avevo appena perso mio figlio, ed ora ci ritroviamo qui e io sono stata violentata e sto ancora peggio di prima…mi sembra che tutto stia andando per il verso sbagliato e che le cose possano solo peggiorare.-
- Sai una cosa? Credo che tu ti stia sbagliando.- mi avvicino e la prendo per mano: - Vedi laggiù? Quelli sono tutti regali che ti hanno fatto chi ti vuole bene. Tommy, Korsak, Kiki, Cailin, Hope, Cavanaugh, Tasha…-
- Korsak? E Tasha? Ma hanno fatto tanta strada per venire fino a qui.- dice Jane commossa.
- Già, ma sono venuti lo stesso. Perché ti vogliono bene e nonostante tu creda che la vita riservi sempre dei dispiaceri io penso che ciò che hai intorno, ciò che hai costruito grazie alle tue buone qualità valga molto di più di ciò che quell’uomo ti ha fatto. La tua debolezza non ti rende più vulnerabile ed insicura, ti rende più vera…-
- Più facile da amare.- sorride malinconica lei.
- Senti- le chiedo portandomi la sua mano alla bocca e stampando un dolce bacio sulle sue dita ossute.- Cosa facciamo con Charlotte? La facciamo venire qui?-
- No.- dice Jane pensosa: - Non voglio che mi veda in questo stato. Sarebbe troppo duro per lei e ne ha già passate tante…appena mi riprenderò passerò un po’ di tempo con lei. Va bene?-
- Fa come ti senti. Però non mi congegna lasciarla all’oscuro…-
- Neanche a me, ma non voglio che si preoccupi più del necessario. E poi sarò in piedi tra pochi giorni, no?-
Faccio un’espressione poco convinta e lei se ne accorge:- Vuoi rimanere qui vicino a me per un po’?- si sposta e mi lascia spazio su un lato del letto, mi fa cenno di avvicinarmi. Obbedisco titubante e mi adagio supina di fianco a lei. Mi abbraccia e mi accarezza il viso. Vorrei baciarla, ma ho paura. Non voglio forzarla quindi aspetto le lo faccia lei. Dolorante cerca di farmi più spazio, la sento gemere di dolore.
- Jane forse non dovrei restare qui, ti fa male, lo sento.-
- ti prego non lasciarmi.- mi sussurra disperata.
- No, no. Sono qui con te. Non me ne vado.-
Mi stringe più forte appoggiando la sua testa fasciata sul mio cuore. Il mio battito cadenzato sembra calmarla.
- E così lascerai l’FBI.-
- Doveva essere una sorpresa e invece…-
- Perché hai deciso di abbandonare la tua carriera?-
- Perché non avrebbe senso avere successo se poi quando ritorno a casa non ho nessuno con cui condividere la mia gioia. Voi siete la cosa più importante per me e ho rischiato di perdervi, molte volte. Non voglio provare questa sensazione mai più. Non lo sopporterei. Perciò la mia non è una rinuncia, è un’opportunità per ricominciare.-
Calde lacrime si fanno strada sul mio viso, allungo la mano e la appoggio sul fianco di Jane, lei non si ritrae: - Questo è il regalo migliore che abbia mai ricevuto. Ma la cosa più importante e che tu stia bene e sia viva. E se per te stare bene significa restare con noi non potrei essere più appagata. -
- Sei contenta? Davvero?- mi chiede lei
- E tu? Sei convinta della tua scelta?-
- Se tu sei felice, lo sono anche io. Tutto il resto verrà da sé.-

Ritorna all'indice


Capitolo 19
*** Charlotte: I morti non parlano ***


19. Charlotte: I morti non parlano.
 
Mi siedo vicino alla tua tomba, la fotografia sulla lapide è ancora impregnata di goccioline di pioggia, cadute la sera prima, ma la tua faccia sorridente spicca inconfondibile. Pulisco il vetro con la manica della felpa e mi siedo accanto a te. Ora che mamma Jane non c’è la tua tomba sembra vuota: nessuno si è preoccupato di lasciarti dei fiori. Ci sono solo degli Iris azzurri appassiti che mamma ha lasciato settimana scorsa, prima di partire. Tiro fuori dalla tasca una manciata di margherite raccolte lungo la strada e le infilo nel vaso insieme agli altri fiori; a guardarli bene, non mi sembrano messi poi così male, hanno solo bisogno di un po’ d’acqua. Vado a recuperare l’innaffiatoio per cercare di rianimarli.
- Sai, le cose non stanno andando molto bene ultimamente.- dico versando l’acqua nel vaso di ceramica alla base della tua tomba.
- Mamma Jane è sparita, e Maura è andata a cercarla. Non me lo dicono, però so che c’è qualcosa che non va. Ultimamente litigavano molto spesso e quasi sempre per me. Forse è colpa mia, dovevo essere più buona.
Ho combinato dei casini: ero troppo preoccupata a proteggere la mamma che forse le ho fatto del male e adesso non mi vuole più vedere. Ho picchiato Donnie perché ha detto che mamma Jane non mi vuole più bene, credevo avesse torto, ma ora credo che abbia ragione.
L’ho preso a pugni e poi ha iniziato a perdere sangue, ma io non riuscivo più a smettere. Continuavo a picchiarlo e le mie mani non si fermavano più e avevo addosso così tanta rabbia, ma non so il perché. Mamma Maura dice che noi assomigliamo molto a chi ci ha messo al mondo…e questo mi spaventa. Io vorrei essere come lei, paziente e sempre gentile, ma mi ha spiegato che non sono figlia sua. Cioè non sono nata da lei. Ho avuto dei nonni meravigliosi e i miei genitori sono l’esempio perfetto di giustizia: la calma fredda di un generale dell’esercito e l’onestà di un’agente FBI. Eppure qualche volta mi fanno paura, perché mi sembra che…mi sembra che…siano nati per uccidere.-
Ripenso a mamma Jane che ora non è qui con me e forse mai più vorrà vedermi, la immagino lontano a fare il lavoro che più le esce bene. Mio padre, che impugna il fucile e strizza l’occhio nel mirino, pronto a premere il grilletto.
Loro sono ciò che mi resta, loro sono ciò che diventerò.
E ho paura, perché tutto quello che vedo intorno a loro è distruzione e morte.
Deglutisco cercando di trattenere invano le lacrime: - E mamma era piena di lividi settimana scorsa e ha urlato contro mamma Maura. E adesso non c’è più, può essere morta o in pericolo e mamma Maura è con lei e io non so cosa sta succedendo veramente. È come quando guardi un film del terrore e ti nascondi dietro al divano perché non sai cosa accadrà alla protagonista. Solo che questo non è un film: tu non ci sei più, loro non ci sono più e mi avete lasciato sola. Ma forse è meglio così. Se anche io, quando crescerò, porterò solo distruzione e dispiaceri e morte, forse è meglio che io rimanga da sola, così non faccio del male a nessuno.
Mi dispiace solo che ho deluso Maura e ho risposto male a mamma Jane, non volevo ferirla ancora, per l’ultima volta, non l’ho fatto apposta. Magari adesso è lì con te, o magari no.
Non penso più a niente, non credo più a niente, non so niente. E scusami se ti parlo come se non ci fossi, ma non sono più del tutto sicura che tu mi stia aiutando. Eppure sei la mia famiglia e dovresti vegliare su di me, così mi è stato insegnato.-
Infreddolita per l’umidità di un cielo ancora troppo mattutino, con le lacrime agli occhi,  recido a fatica uno dei fiori che riempiono la tua tomba e mi allontano da te.
- Mi dispiace.- mormoro rivolta verso la tua fredda lapide. – Tornerò.-
Lascio il fiore appena colto sulla sua tomba, poco distante dalla tua e mi inoltro nel boschetto vicino al cimitero. Senza voltarmi indietro perché temo di incrociare il vostro sguardo, calmo, minaccioso e che tutto sa.
 

Ritorna all'indice


Capitolo 20
*** Maura: ...ma vegliano silenti ***


20. Maura: …ma vegliano silenti
 
- Aspetta, ti aiuto.- mi rivolgo a Jane, che sta goffamente tentando di scaricare la sua valigia dalla zona di sbarco.
- Ti ringrazio.- borbotta lei sofferente. Prende una borsa e se la carica sulla spalla, sollevandola con la mano fasciata, tenta di mascherare la sua espressione che però rivela tutto il suo dolore.
- Sai che non sono per niente d’accordo riguardo a ciò che stai facendo…-
- Lo so, ma mia figlia…nostra figlia, è sparita da tre giorni ed io non posso restarmene qui con le mani in mano.- dice spostando i riccioli ribelli che si sono incastrati tra la sua spalla e il manico della borsa.
- Capisco Jane, ma ti sei dimessa contro il parere medico; le tue ferite non si sono rimarginate e le difese immunitarie sono molto basse, sei ancora parecchio debole e così rischi di peggiorare la situazione. Almeno cerca di delegare e riposare!-
- Le mie parole preferite. Guarda c’è Frankie là, sta arrivando.-  Suo fratello si avvicina agitando le braccia, sudato e con il passo pesante, si carica delle sporte della sorella e ci fa strada verso la macchina. Guida nervosamente verso casa.
- Cosa sappiamo?- chiede Jane guardando febbrilmente la strada in cerca di qualcuno.
- Stiamo setacciando vicino a casa e a scuola. Abbiamo stabilito che si è allontanata da lì; le insegnanti dicono che non si è presentata alle lezioni, quindi è probabile che sia scomparsa una volta scesa dall’autobus.-
- E’ probabile?-
- Non sappiamo neanche se è stata una sua iniziativa o altro…Jane, ti giuro che io l’ho accompagnata alla fermata dell’autobus e sembrava tranquilla! Non avevo idea che…-
- Non ti preoccupare Frankie. Sappiamo che Charlie ultimamente è un po’ imprevedibile, vedrai che non le sarà successo nulla di male…- minimizza Jane
- Avrei potuto accompagnarla io a scuola, se solo non avessi avuto il lavoro…-
Intervengo pacata: Frankie, nessuno ti sta incolpando di nulla, stai tranquillo. Se è scappata, ed un’alternativa possibile, la ritroveremo. E comunque avrebbe trovato un altro modo per allontanarsi…-
- E’ inutile pensare al colpevole adesso; focalizziamoci su come trovarla.-
- Hai ragione, dobbiamo ripercorrere tutti i posti in cui è stata.-
 
Visitiamo la scuola, il parco, il cinema, le case dei compagni, ma nessuno sembra averla vista da tre giorni almeno. Prima di tornare a casa esauste e più vuote di come siamo partite, telefoniamo ai nostri parenti, vicini e lontani, allertandoli della situazione. Tutti ci rispondono di non perdere le speranze e ci faranno sapere se scopriranno anche solo un minimo indizio su dove trovarla.  A cena non mangiamo nulla: entrambe abbiamo un nodo alla bocca dello stomaco e a me non va di cucinare. Jane è sfinita, ma non riesce a calmare la sua ansia e si muove su è giù per il corridoio, in continuazione. Io decido di andare a letto, con la mente più riposata riuscirò a ragionare meglio domani. Prima di raggiungere la mia camera passo davanti a quella di mia figlia: apro la porta socchiusa, che scricchiola sotto il mio dolce tocco. Tutto sembra pulito ed in ordine e la stanza profuma di lavanda e sapone. Passo una mano sulla scrivania e noto che un leggerissimo strato di polvere si è depositato sulla superficie, è la prova che non è tornata a casa da un po’ di giorni e che forse mai più i tornerà. Non voglio che questa stanza diventi un mausoleo esente dal tempo che passa; mi prende il panico, come una bambina, mi adagio sul suo letto ed inizio a singhiozzare mestamente. Dopo poco tempo sento il calore del corpo di Jane adagiarsi a fatica di fianco al mio. È rigida e ha paura di essere toccata, ma per me farà uno sforzo. Si dispone dietro di me, in posizione fetale e allaccia le sue braccia al mio ventre piatto. Sento il suo mento incastrarsi dolcemente nell’incavo del mio collo.
- Pensi che Alcatraz o qualcun altro possano averla rapita?- chiedo con un filo di voce.
- No, non l’hanno presa loro Maura. Alcatraz non sapeva nulla della mia vita qui, sono stata più che accorta.-
- Lo so però…potremmo non rivederla mai più.-
- E’ solo scappata. Affidiamoci a questo. Tornerà o la ritroveremo.-
Sento le sue lacrime calde inumidirmi il collo, si uniscono alle mie e scendono giù fino al mio petto, lambendomi il seno.
- Non potrei sopportare di perderla Jane, è mia figlia.-
- Lo so…- sussurra lei stringendomi più forte. Chiudo gli occhi e la sento echeggiare sempre più debolmente: - Lo so.-
 
 
 
Qualcuno mi strattona una spalla. Forse è Charlotte, mi sveglia perché è arrivato il weekend e dobbiamo andare a prendere sua madre all’aeroporto. Sarebbe bello se fosse così, ma non è la verità.
- Chi mi chiama?- chiedo ancora immersa nel dormiveglia. È Jane. È solo Jane.
- Maura! Maura su svegliati!-
Mi sveglio di colpo e mi tiro su dal letto, la sento brontolare: - Ma come ho fatto ad essere stata così stupida!- si picchietta la testa e percorre la stanza con grandi falcate.
- L’hai trovata?-
- No, ma so dove può essere. Aspettavo che ti svegliassi…- mi porge una fotografia che raffigura una donna sorridente sui sessant’anni. Sussulto alla vista di Angela che mi sorride. Quella stessa espressione è impressa sulla pietra che custodisce la sua tomba:- L’ho trovata sotto il suo cuscino.-
- Mi ricordo di questa foto, gliela diede Angela prima di morire, ma non ne capisco la rilevanza. Perché è importante?-
- Ti ricordi cosa le disse quando le regalo quella fotografia?-
- Le disse…disse che poteva guardarla tutte le volte che si sentiva triste e che lei l’avrebbe consolata da lassù…JANE!- urlo colta da un’improvvisa illuminazione.
- Già. È al cimitero che dobbiamo cercare. Sali in macchina.-
 
Il sole appena spuntato illumina le lapidi che brillano come diamanti sotto la luce mattutina. La rugiada rende tutto più nitido, quasi surreale e mi chiedo se ciò che stiamo facendo stia accadendo veramente o se sia tutto un dolce sogno. Jane mi risveglia dal torpore.
- Maura! Non c’è!- grida terrorizzata, allontanandosi dalla tomba deserta della madre.
Cerco di non perdermi d’animo, forse sono ancora un po’ stordita. Avrei dovuto dormire di più ieri sera.
- Magari arriverà. Possiamo chiedere al custode di tenerci informate e di farci sapere se vede una bambina vicino alla tomba di Angela. Ci avviciniamo alla lapide, lei si guarda intorno preoccupata: - O magari ci ha visto ed è scappata e non verrà più. O peggio. A questo punto non escluderei le possibilità che possa essere morta investita, o assiderata, per la fame, per la sete. Devo chiamare gli ospedali, devo avvertire gli obitori devo…- si china sulla tomba della madre e in preda al panico si mette le mani tra i capelli corvini.
- Tecnicamente, visto la quantità di acqua che c’è in questo posto, o anche solo nella città, non può essere morta di sete e nemmeno di fame, visto che non si muore di denutrizione per tre giorni di digiuno.-  lei alza gli occhi al cielo:- Cerco di farti capire che non ha senso saltare alle conclusioni ed ipotizzare scenari pressoché impossibili. Se no ci viene solo il panico e la nostra capacità di stabilire un giudizio obbiettivo si riduce alla metà.- cerco di condire tutto servendomi della scienza per rassicurarla, ma queste convinzioni non suonano incoraggianti nemmeno a me.
La sua fronte si stacca dal viso incorniciato e freddo della madre, il suo sorriso spento mi fa rabbrividire e a stento trattengo la commozione. Jane si asciuga gli occhi con la manica della giacca. Le tendo la mano per aiutarla ad alzarsi, ma lei incespica e finisce per aggrapparsi al vaso di rame pieno di fiori posto ai piedi della tomba; lo rovescia e l’acqua i riversa sulla pietra.
- Cazzo!- impreca lei pulendosi le scarpe scure dagli schizzi, mi guarda e mi chiede scusa. Poi risistema i fiori, riponendoli accuratamente dove stavano prima.
- Vado a prendere della nuova acqua?- le chiedo io. Ma lei è fredda e immobile come una statua. Rigira un fiore azzurro tra le mani.
- Cosa c’è Jane?- si volta e mi mostra il fiore. Un iris azzurro come uno zaffiro.
- Questo fiore. È il mio preferito. Quando stavo con Casey, lui mi regalava sempre degli iris azzurri perché sapeva che mi ricordavano i suoi occhi. Per questo, ogni volta che visito la sua tomba gli lascio un mazzo di iris azzurri.-
- Non lo sapevo…-
- Nessuno lo sa. non ho mai detto a nessuno il motivo del mio gesto, ma so che se questo fiore è finito qui, vuol dire che Charlotte è viva è so esattamente dove trovarla.-
Si dirige zoppicando verso un ala del cimitero riservata ai caduti in guerra. In fondo ad essa una bambina è china in ginocchio su una tomba spruzzata di fiori azzurri. Jane affretta il passo, ma non riesce a starmi dietro, la supero con facilità e corro verso Charlotte urlando di gioia il suo nome. Lei si volta sorpresa e mi salta al collo aggrappandosi con tutta la sua forza a me. Le mie mani saggiano il suo sterno, riesco a sentire costole e vertebre, prova che la mia bambina è al primo stadio di denutrizione. La guardo in faccia e le bacio gli occhi spenti dalla fame. È tutta sporca e odora di muschio e pioggia, ma non mi importa: - Sei viva! Oh Charlotte! Sei viva!- lei si lascia abbracciare, ma si stacca da me non appena scorge in lontananza la figura di Jane.
- Mamma!- grida con tutta la voce che ha in corpo: - Mamma!!!-
Jane la solleva con una mano e se la porta repentinamente al petto. Sembra sorpresa da quanto leggera possa essere sua figlia. Charlotte comincia a piangere e finalmente, per la prima volta, vedo che è disposta a lasciarsi andare.
- Mamma! Credevo di non rivederti più! Credevo di averti perso per sempre! Avevo paura che te ne fossi andata anche tu come la nonna…- non riesce più a parlare, i suoi singhiozzi le tolgono la capacità di respirare. Jane se ne accorge, la chiude in un enorme abbraccio e le lascia soffici baci sul volto.
- Sono viva Charlie. Stai tranquilla.-
- Lo so che sono stata cattiva! Ti prego non lasciarmi. Non abbandonarmi anche tu. Lo so che assomiglio a papà e lui ti ha fatto soffrire, ma cercherò di cambiare, cercherò di migliorare lo prometto.-
Jane le prende il viso e la guarda negli occhi: - Tu non devi cambiare. Perché sei perfetta così come sei. E io ti voglio bene e non ho intenzione di lasciarti sola!-
Charlotte riprende a singhiozzare, quasi mi sembra un rantolo, non riesco a sentire il suo respiro e ho paura. Il suo volto, immerso nei riccioli scuri della madre è pallido e smunto.
- Jane, sta avendo un attacco di…-
- Lo so.- sussurra debolmente lei facendo un ceno di assenso con la testa. – E’ esausta.-
Si siede sul prato verde, noncurante dell’umidità che presto le inzacchererà i pantaloni. Si slaccia la camicia scoprendosi il petto, riesco ad intravvedere il suo intimo scuro. Con la mano sinistra la adagia delicatamente sua figlia su un fianco e appoggia la sua testolina sporca al suo cuore. Si dondola dolcemente e con la mano libera le sorregge il volto perdendosi nei suoi occhi. – Sono qui con te Charlie. Sono qui. Non ti abbandonerò. Mai. Respira. Tranquilla. Così. Stai andando benissimo.- le sue parole sono lente e chiare, come una cantilena. E per un attimo mi sembra che Charlotte sia piccolissima e mi chiedo quanta forza d’animo possa essere racchiusa in una bambina così fragile. Mi chino anche io sul corpicino di mia figlia e vedo il suo petto affannato alzarsi ed abbassarsi ad un ritmo sempre più blando e regolare fino ad uniformarsi con il battito cardiaco della madre. Le sue palpebre si fanno improvvisamente più pesanti, si abbandona completamente tra le braccia di Jane, cadendo in un sonno profondo.
Jane la culla dolcemente per alcuni minuti poi si rivolge con voce flebile verso di me: - Puoi prenderla tu? Non riesco ad alzarmi…-
Come facciamo da dieci anni, che a me sembrano una vita, ci scambiamo i ruoli e io mi trovo a stringere tra le braccia Charlotte, debole ed indifesa che dorme affannosamente come un cucciolo di pettirosso tra le mani.
- E’ bollente.- sussurra Jane toccandole la fronte. – Chissà come avrà trascorso questi giorni, dove avrà dormito…-
- A casa le faremo un bagno caldo e poi la metteremo a letto. Contatterò il pediatra per definire quali procedure adottare.-
- Per una volta, sono d’accordo con te!- ammicca Jane sorridendo.
- Ti va se guido io? Così tu puoi recuperare il tempo perso con Charlotte.-
- Non stiamo andando troppo d’accorso signora Isles? Ci sarà una legge scientifica in grado di spiegare questo fenomeno al limite del paranormale?- scherza lei. Ormai il peggio è passato. E tutte e due siamo decisamente più sollevate.
- In realtà ci sarebbe una spiegazione scientifica e biologica per…-
- Maura- sibila lei alzandosi a fatica:- Stavo scherzando. Vuoi fare addormentare anche me?- sussurra indicando Charlotte che dorme tra le mie braccia.
- Senti…- continua:- Puoi portarla tu in macchina per favore? Ti raggiungo tra un minuto.-
Fa un cenno di riverenza verso la tomba di Casey, poi si dirige a passi lenti e trascinati verso la tomba di sua madre. Si china a raccogliere il fiore che le era scivolato per terra e lo ripone nel vaso di rame assieme agli altri.
- Ti ringrazio per tutto quello che hai fatto per noi, ma devo imparare a lasciarti andare. Sai, tutto sommato credo che me la caverò.
Addio mamma.-
 
 
 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 21
*** Jane: Everything will be OK. ***


21. Jane: “Everything will be OK”
 
Prendo un profondo respiro prima di entrare: Maura mi ha aiutato a scegliere il vestito, perché oggi devo presentarmi al meglio. Indosso una gonna scura che mi cinge i fianchi e scende stirata fino alle ginocchia. Le mie gambe nude si muovono con poca disinvoltura sotto di essa e i tacchi, sottili e vertiginosi, mi fanno sembrare un fenicottero sui trampoli. Ho paura di sembrare insicura e impacciata e probabilmente lo sono. Ruoto nervosamente le spalle cercando di liberarmi dal peso incombente della giacchetta in tweed che Maura mi ha generosamente prestato. Non è decisamente il mio stile, ma ora come mai ho bisogno di fare una buona impressione. L’unica consolazione sono i miei riccioli ribelli, che danno un tocco sbarazzino alla mia figura, indiscutibilmente fuori luogo rispetto a quello che sto per fare.
Spalanco decisa la porta e vengo travolta da un’onda anomala di urla gioiose. Dozzine di agenti mi fanno i complimenti e mi stringono calorosamente la mano; al centro della stanza c’è un cartellone dipinto a mano, sicuramente da Steve, l’unico nel dipartimento di polizia di Boston che ha un minimo di senso artistico: BENTORNATA IN SERVIZIO DETECTIVE RIZZOLI.
Nina si avvicina portando tra le mani una torta tagliata in grosse fette, con fragole, crema pasticciera e panna: - E’ la Torta della nonna, con qualche ritocchino americano!-  dice lei sorridendo.
- La mia preferita, grazie mille!-
- Ma come sei conciata sorellina?- Frankie si fa strada tra le scrivanie ammassate, con la sua aria goffa, un po’ fiera, si avvicina a me e mi stampa un bacio sulla guancia.
- Allora? Sei pronta a tornare in sella?-
- E tu? Sei pronto a riavermi tra i piedi?- rispondo ironica io, ricambiando mille sorrisi tra i colleghi.
- Ah beh, questa volta le cose sono diverse.- troneggia lui gonfiando il petto. Nina sorride e scuote la testa.
- Hai ragione, Sergente Francesco Rizzoli!- dico io con finto broncio.
- Riuscirai a lavorare sotto il mio comando?-
- Penso che farò quello che voglio. Come sempre.- rispondo ridendo di gusto.
- Jane Rizzoli, passano gli anni e non ti smentisci mai…- sento pronunciare da una voce fin troppo conosciuta. Mi volto. Un uomo paffuto, dai capelli grigi e gli occhi buoni è ritto di fronte a me e allarga le braccia chiedendo un abbraccio.
- Vince Korsak!- urlo sorpresa ricambiando il gesto d’affetto. – Che ci fai qui?-
- Non potevo perdermi il tuo rientro in patria, non trovi?-
- E Kiki?- chiedo apprensiva.
- E’ rimasta in Florida. Starò qui solo pochi giorni e poi ritornerò nel mio paradiso a vivere la mia meravigliosa vita da pensionato. Volevo solo vedere come stavi.-
- Molto meglio adesso che ti vedo. Prendi un pezzo di torta…-
Appoggio il mio piatto vuoto sulla scrivania che porta il mio nome  e solo adesso noto la presenza di Maura, in piedi appartata al muro, che mi osserva sorridendo commossa. Mi avvicino senza far rumore.
- Tu sapevi di tutto questo?- chiedo sorpresa puntando il dito per aria. Lei annuisce silenziosa.
- Per questo te ne sei andata via presto stamattina…temevi che ti scoprissi!- le sussurro maliziosa, pizzicandole la pancia morbida. Lei ridacchia divertita: - Non ho segreti per te.-
Ci stringiamo in un amorevole abbraccio. Posso notare il modellino di Frost che spicca immobile e silente sulla mia scrivania.
«Tutto andrà molto bene»* penso fiduciosa.
- Grazie.- Sussurrò all’orecchio di mia moglie. – Grazie per tutto.-
- Bentornata a casa.- risponde lei.
 
* = la frase si riferisce all’episodio finale della quinta stagione. “ Everything will be OK.” È il messaggio che il detective Frost, ormai morto, “fa recapitare” a Jane in un modo molto singolare…non anticipo nulla, così vi lascio la curiosità per andare a vederlo di nuovo ;)
 
Il sole sta tramontando su quello che dovrebbe essere il mio rimo giorno di lavoro. Tutti sono ritornati alle loro postazioni ed eseguono come macchine le tappe di una routine giornaliera che nonostante passino gli anni, resta immutata nel tempo. Firmo il mio ultimo rapporto, sollevo la cornetta del telefono e compongo il numero di casa.
- Famiglia Rizzoli-Isles. Chi è che parla?-
- Sono io.-
- Mamma!- risponde Charlie sprizzante di gioia.
- Volevo sapere come stavi…-
- Io sto benissimo grazie. Stavo giocando a calcio con Barry.-
- Infatti sento che hai il fiatone!-
- Gli ho segnato sei Goal! Sei goal al portiere più forte del mondo!-
- Complimenti! Ma forse anche io sto parlando con la futura attaccante più forte del mondo! Sei sicura che non hai sbagliato sport?- le dico sorridendo.
- Naaah, meglio ginnastica artistica.-
- A scuola com’è andata?-
- Bene! Sono spuntate le zampe ai girini. La maestra dice che tra meno di un mese diventeranno rane.-
- Davvero?! Dovrete fare tante foto, perché io e mamma siamo curiosissime di vederli.-
- Quando tornate?-
- Tra un’oretta.-
- Possiamo mangiare anche con lo zio Frankie?-
- Glielo chiederò. Ci vediamo tra poco.-
-  Ok, vi aspettiamo. Grazie mamma. Ti voglio bene.-
- Anche io Charlie. Tantissimo.-
Lascio sulla scrivania pistola, distintivo, cellulare e tutto ciò che è superfluo e mi dirigo sul tetto piatto dell’edificio. Il sole sta calando, ma diffonde generoso il suo ultimo calore: la città vista dall’alto sembra diversa. Le macchine che strisciano nervose tra le strade, le persone che si riversano nelle piazze come formiche e si riempiono la pancia di cibo d’asporto e la testa di rumori assordanti, tutto sembra distante e fermo nel tempo. Esisto solo io, sopra il mondo, a mirare le infinite possibilità che riserva la vita. Ognuno ha la sua storia, i suoi problemi, i suoi pensieri, ma tutti sembrano connettersi e riversarsi come fiumi, dentro a questo grande sole rosso.
Sento dei passi leggeri imboccare le scale, qualcuno si avvicina verso di me; mi rilasso all’odore del suo profumo inconfondibile.
- Non è bellissimo?- chiedo senza voltarmi.
- E’ magnifico Jane.-
- Sembra che non ci sia più nessuno…- mi allontano ed improvvisamente mi viene da piangere.
- Jane, cosa c’è?- chiede lei toccandomi delicatamente il polso. Mi sposto e mi avvicino alla ringhiera: la città si fa ancora più solenne e rarefatta da quella posizione. Maura si appoggia prudente accanto a me e mi fissa.
- Sai, si chiamava Tamara.-
- Chi?- chiede lei paziente, conoscendo già la risposta.
- La ragazzina che ho picchiato. La ragazzina che è morta.-
- Che Alcatraz ha ucciso.- puntualizza lei.
- Mi dispiace che non possa vedere il tramonto, le sarebbe piaciuto.-
- Jane, capisco come ti senti, ma non potevi fare nulla. Non sapevi che l’avrebbe uccisa.-
- Avrei potuto prevederlo.-
- Davvero avresti potuto?-
- E’ solo una bambina!- la mia presa sulla ringhiera fredda di metallo si fa più rigida, mi do una spinta all’indietro e mi allontano. – Era…- mi correggo.
Maura si rifiuta di lasciarmi sola. –Jane, Tamara non è Charlotte.-
- Lo so, ma…-
- Non puoi salvare tutti, non è quello il tuo dovere. Tamara non è sopravvissuta, ma Charlie è viva e sta bene.-
- E’ solo che…ho paura che venga dimenticata. Ho paura di dimenticarla.-
- Questo non accadrà…-
- Aspetta…stai facendo delle speculazioni?-
- No. Ne sono sicura. Sarà per sempre nel tuo cuore e questo ti spingerà a fare ancora meglio, ad essere quello che hai sempre voluto.-
- Non so se mi piace quello che sono diventata. Non credo di essere più così adatta per questo lavoro.-
- Le emozioni non ti impediscono di fare bene il tuo lavoro, anzi ti aiutano a discernere nell’immediato quale strada intraprendere. Le emozioni rivelano veramente chi sei.-
- E se non fossi quello che credo? Se non mi piacessi come sono?-
- Jane, tu sei esattamente quello che credi e me lo dimostri ogni giorno. Ed è questo che amo di te.-
Mi volto e mi avvicino, le appoggio le ani sui fianchi e la tiro sempre più verso di me, lei mi guarda e non oppone resistenza.
- Hai un istinto quasi infallibile e non devi rinunciarvi per paura di fallire…-cerca di finire la frase, ma blocco le sue parole con un bacio, lei dischiude le sue labbra morbide e si stringe ancora di più a me. Il mio ventre rigido e contratto improvvisamente si rilassa e per un istante, il mio cuore, ritorna quello di un tempo. Le nostre lingue si cercano, si trovano e danzano complici come la prima volta, come se nulla fosse mai accaduto. Ci stacchiamo da quel bacio intenso, ma rimaniamo fronte contro fronte, unite, accaldate; le mie labbra pulsano e il mio corpo chiede disperato il suo. Ma diamo tempo al tempo. Appoggio le mie labbra sulle sue e poso un bacio fuggente e delicato.
- Maura, sarei persa senza di te.-
Lei sorride e ricambia il bacio, lasciandone un altro sulla mia guancia umida. La osservo con uno sguardo carico di gratitudine: il rosso del cielo le illumina il volto, sembra ancora più bella sotto questa luce.
- Ora mi hai trovato, Jane.- risponde lei:
 - ORA MI HAI TROVATO.-
 
FINE.
 
Angolo dell’autrice:
La storia è giunta al termine e mi sento in dovere di fornire qualche spiegazione. Questa fan fiction è sorta per puro caso: il primo capitolo è stato scritto anni fa, senza un motivo preciso, quando ancora Rizzoli & Isles non erano alla stagione finale , ma la serie prosperava e andava avanti tranquilla. Inizialmente ero un po’ scettica riguardo alla coppia Jane e Maura, anche perché sono sempre stata una fan convinta di Jane e Casey e…Maura e Jake…mi sembravano perfetti. Per questo motivo, dopo aver scritto il primo capitolo, presa dallo sconforto, ho riposto la mia storia in un cassetto. Poi però è nata lei: Charlotte Rizzoli. Così, dal nulla, era il collante perfetto. E con la fine della serie, la mia voglia di renderle omaggio e questo nuovo personaggio che mi sembrava perfetto, ho “scongelato” Zapphire e ho continuato a scrivere.
E non ho più smesso.
Ciò che mi ha spinto ad andare avanti, oltre al mio smisurato amore per la serie e per i libri (sono molto belli anche se molto differenti dal telefilm), sono state indubbiamente le recensioni positive che ho ricevuto in questi mesi.
In particolare Calzoniana doc, con la quale condivido l’amore per Grey’s Anatomy, Ellenix, che mi ha inserito tra gli autori preferiti e di questo la ringrazio tantissimo, Siriopg, justfavorita e Miky9410.
(non sto a ringraziare tutti perché mi ci vorrebbe un altro capitolo per esprimere la mia infinita gratitudine e mi sto già dilungando troppo)
Le vostre critiche positive mi fanno sempre piacere e come Jane, che sfrutterà quello che ha passato per “fare meglio”, conserverò le vostre belle parole per scrivere meglio in futuro!
 
MrsShepherd

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3649630