Frammenti sparsi

di Laylath
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Black chocolate like your eyes ***
Capitolo 2: *** Amore di cognato 1 ***
Capitolo 3: *** On ice ***
Capitolo 4: *** Si parte sempre da un ballo ***
Capitolo 5: *** Premesse per il futuro ***
Capitolo 6: *** Quaderni di scuola ***
Capitolo 7: *** Tradizioni di famiglia ***
Capitolo 8: *** Come le corde di un violino ***
Capitolo 9: *** Frammenti di San Valentino ***
Capitolo 10: *** Amore di cognato 2 ***
Capitolo 11: *** Un gesto gentile ***
Capitolo 12: *** Talento in erba ***
Capitolo 13: *** Salto ***
Capitolo 14: *** A casa ***
Capitolo 15: *** Formalità ***
Capitolo 16: *** Pomeriggio da leoni ***
Capitolo 17: *** Saper attendere ***
Capitolo 18: *** Il posto giusto ***
Capitolo 19: *** Troppo grande ***
Capitolo 20: *** Promessa di matrimonio ***
Capitolo 21: *** Festa della mamma ***
Capitolo 22: *** Resistere ***
Capitolo 23: *** Pensierini per la festa del papà ***



Capitolo 1
*** Black chocolate like your eyes ***


Protagonisti: Daisy e Max


Black chocolate… like your eyes.

 
New Optain, 1871

Quella nuova divisa lo faceva sentire un gran figo, non c’era niente da fare.
Ora camminare per le strade era completamente diverso: gli sguardi di tutti erano attratti dalla sua persona, non più un comune ragazzo di New Optain, ma un poliziotto, un tutore della legge, un uomo in divisa.
Alla luce di questo, Max Maffer riteneva che tutti gli sforzi fatti durante l’anno e mezza di corso venissero ampiamente ripagati, in particolar modo dai sorrisi ammirati che gli faceva praticamente ogni ragazza che incontrava. Del resto si sa che la divisa ha un grande fascino che si andava ad aggiungere a quello che lui sapeva di possedere già di suo.
Quando due belle fanciulle si misero a guardarlo ridacchiando e ammiccando, non poté far a meno di lanciare loro una strizzata d’occhio. Certamente se fosse stato in giro con quel palo di Vincent non si sarebbe potuto permettere delle confidenze simili, ma per fortuna il suo rigido ed imperturbabile collega, e prima ancora compagno di corso, era stato assegnato di ronda ad un’altra zona della città.
A lui era toccato quel quartiere della New Optain benestante, dove le vie erano piene di negozi e bei palazzi ed un viavai di persone era sempre presente, a tutte le ore della giornata. Decisamente un bel poliziotto come lui non poteva che essere assegnato ad una bella zona come quella.
Ma certo – annuì compiaciuto, mentre si fermava davanti alla vetrina di un negozio e ammirava per la decima volta la sua immagine in divisa – del resto come potrei essere altrove? Ah, Max, finalmente sei arrivato in cima: adesso non ti resta che trovare una bella ragazza ed il gioco è fatto. Ma del resto con questa divisa ci vorrà ben poco prima che qualcuna cada ai miei piedi e…
“Scusi, signor poliziotto – una voce accanto a lui lo fece sobbalzare – deve entrare o sta usando la vetrina del negozio come specchio per sfogare la sua vanità?”
“Che? – balbettò Max arrossendo per essere stato colto in flagrante. Subito si mise composto e cercò di trovare qualche scusa credibile per quell’imbarazzante momento – ma che dice? Io controllavo solo che…”
La sua spiegazione venne interrotta da quello che si poteva definire un colpo di fulmine bello e buono.
Lei era perfetta.
Era praticamente una visione: non troppo alta, il corpo morbido, le mani sui fianchi, la posa a gambe allargate, i capelli neri e mossi… e poi lo sguardo irato di quegli occhi così scuri come il più delizioso cioccolato fondente.
Come poteva non innamorarsi all’istante di lei?
“Le dispiace levarsi? – continuò la ragazza, squadrandolo con irritazione – ai clienti all’interno non piace essere osservati in quel modo. Se proprio ha voglia di una fetta di torta venga dentro.”
“Torta? – solo allora Max si accorse del grembiule da pasticcera indossato dalla ragazza e del profumo di dolci che proveniva dalla porta aperta – è una pasticceria?”
“La migliore di New Optain – annuì lei con fierezza – provare per credere!”
Era un invito chiaramente, a cui venne aggiunta anche una strizzata d’occhio che fece definitivamente capitolare Max Maffer. Che importava se nelle sue idee iniziali doveva essere una ragazza a restare affascinata dalla sua divisa? Una delle sue doti era quella di sapersi adattare alle situazioni e dunque non esitò a seguire la giovane pasticcera dentro il negozio.
Per fortuna lui aveva una vera predilezione per i dolci: non sarebbe potuto capitare meglio.
Vedendo che il suo invito aveva avuto buon esito, la ragazza lo condusse ad un tavolo vuoto.
“Allora, che cosa posso portare al nostro vanitoso tutore della legge?”
“Tutto quello che vuole, meravigliosa creatura…” disse lui, estasiato, senza nemmeno riflettere.
“Che? Ma mi prende in giro?”
“Non potrei mai… anzi, mi conceda di presentarmi: Max Maffer al suo servizio!” e con gesto eclatante si alzò per mettersi in ginocchio e prenderle la mano.
“Ma che fa!? – si ritrasse lei arrossendo – Mi mette in imbarazzo con il resto dei clienti. Diamine, signore, possibile che…”
“La prego, mi chiami Max e mi dia del tu” continuò lui, per nulla scoraggiato da quell’aria irritata.
“Va bene, Max… dicevo, possibile che non hai un minimo di dignità con quella divisa?”
“Posso sapere il suo nome?”
“Ma mi ascolti quando parlo?”
“E dai… se mi dice il suo nome giuro che le dimostrerò che sono l’uomo più attento del mondo.”
“Daisy McLane – si presentò lei, guardando il soffitto con aria esasperata – e sì, puoi darmi del tu… tanto intuisco già che me lo chiederai nei prossimi minuti.”
“Sei proprio una fata.”
“Scusa? – a quella dichiarazione lei scoppiò a ridere fragorosamente e continuò per un minuto buono, tanto che alla fine si dovette asciugare le lacrime con il grembiule – Oddio, sei la persona più teatrale che abbia mai conosciuto in vita mia!”
“Lo prendo come un complimento!”
“Se ti fa piacere – scrollò le spalle lei – allora, Max, facciamo che ti porto qualcosa io? Sennò mi sa che qui restiamo a discutere fino a notte fonda e non credo che gli altri clienti ne sarebbero felici.”
“Approvato, mia dolce fata!”
 
“Un poliziotto? – Alyce era così eccitata che si mise in piedi sul letto di Daisy e iniziò a saltare – Oddio, che cosa emozionante!”
“Finiscila, piccolo terremoto! – la bloccò la sorella maggiore, tirandola per la camicia da notte e facendola risedere – hai solo dodici anni e certe cose non ti devono riguardare!”
“Sei perfida! – sbottò la ragazzina con un broncio – Non vuoi mai raccontarmi niente! Rosie, dai, diglielo tu di smetterla di essere così cattiva con me!”
“Sei troppo pettegolina per la tua età – scosse il capo Daisy con aria decisa – se continui di questo passo diventerai una vera chioccia e nessuno ti vorrà mai, a prescindere dai tuoi boccoli perfetti per i quali fai tanto la vanitosa.”
“Sei gelosa perché i tuoi capelli sono solo leggermente mossi! Tanto lo so bene che ogni mattina con la spazzola provi a farti i boccoli e non ci riesci mai!” esclamò la più giovane con aria maligna.
“Dannazione, bestiolina! – Daisy scattò verso di lei – Adesso ti faccio vedere io e…”
“Suvvia, suvvia – cercò di portare pace Rosie, mentre Alyce si rifugiava dietro la sua persona – non mi pare il caso di litigare e…”
“Mamma! Daisy mi sta minacciando con la spazzola!” strillò Alyce, facendo poi una smorfia alla maggiore.
“Non è vero! – protestò lei – Mamma! Dì ad Alyce di andare a dormire che è tardi per lei!”
“Ragazze, per favore – giunse la voce della loro madre – non mi pare proprio l’ora di litigare.”
“Vai in camera tua e restaci – sibilò Daisy puntando la spazzola contro la sorellina, ma minacciando di fatto Rosie – altrimenti il brutto voto in geografia che hai tenuto nascosto salterà fuori e allora vedrai se mamma non userà la spazzola sul tuo fondoschiena!”
“E’ un ricatto!”
“Sì, lo è! Fila via, viperetta!”
Solo dopo che quella scenetta quotidiana finì con l’uscita di scena di una sdegnatissima Alyce, Daisy smise l’aria arrabbiata e scoppiò a ridere.
“Lo tengo in pugno quel demonietto!” dichiarò con fierezza.
“A volte sei troppo cattiva con lei – ammise Rosie con lo sguardo basso, arrotolandosi una ciocca di lisci capelli neri sull’indice – non è bello ricattarla.”
“Non è bello nemmeno tenere i brutti voti nascosti a mamma e papà… e non osare fare paragoni con te stessa: tu non hai mai avuto simili atteggiamenti poco rispettosi. Su, girati, piccolo fiore, ti faccio la treccia per la notte. Meno male che ci sei tu…” sorrise e baciò con affetto la guancia della quindicenne prima di iniziare a pettinare i suoi perfetti capelli scuri.
“Davvero ti ha fatto tutti quei complimenti? – chiese ancora Rosie con il tono di voce bassissimo, quasi fosse incredula delle novità – Nonostante ti avesse appena conosciuto?”
“A quanto pare a Max la faccia tosta non manca – ammise Daisy per nulla turbata – è audace il ragazzo, glielo concedo.”
“Ma è un poliziotto… insomma… è grande.”
“Credo che abbia solo qualche anno più di me. Dovrebbe essere sulla ventina.”
“Oh, beh, allora va già meglio…”
“Piccola sciocchina – Daisy la abbracciò – adesso capisco! Tu pensavi al vecchio poliziotto che faceva le ronde vicino a casa fino a qualche anno fa! Rosie! Ma che sciocchezze vai a pensare!”
“E’ che – arrossì lei, impacciata – pensavo che… scusami, è ovvio che i poliziotti sono di tutte le età.”
“Piccolo fiore, a volte sei davvero ingenuotta: dovresti darti una svegliata. L’anno prossimo finisci le scuole e dovresti iniziare a guardarti intorno.”
“Oh no! – Rosie si accoccolò di più nell’abbraccio della sorella – non dire queste cose, ti prego. Noi staremo sempre assieme, vero Daisy? Io e te!”
“E come posso dire di no al tuo musetto, Rosie McLane? – sospirò Daisy, come sempre spiazzata dall’eccessiva timidezza della sorella di mezzo – Certo che staremo sempre assieme. Coraggio, mettiti sotto le coperte: stanotte voglio spettegolare con te fino a tarda ora!”
“Davvero?” Rosie annuì estasiata a quella proposta, anche se sapevano benissimo che avrebbe parlato quasi esclusivamente Daisy.
“Sul serio: in fondo parlare di Max è divertente!”
 
“E ti ho già detto dei suoi meravigliosi occhi color cioccolato fondente?”
“Sì, almeno dieci volte… e, per cortesia, vuoi mollare la manica della mia giacca? Mi sgualcisci la divisa!”
“Andiamo, Vin! Come puoi pensare a questi sciocchi dettagli mentre io ti parlo della più splendida visione che mi sia mai capitata? E il suo nome? Daisy… ah, è pura poesia per le mie orecchie! Non trovi che sia particolarmente melodioso?”
“E’ un nome.”
“Un nome perfetto.”
Max sospirò estasiato, ignorando del tutto l’occhiataccia che Vincent gli aveva appena lanciato.
Era chiaro che il suo rigido amico non poteva capire le bellezze dell’amore, ma il giorno dopo l’incontro con la sua personalissima fata Max si sentiva in dovere di rendere partecipe il mondo della sua felicità.
E non importava se il mondo venisse incarnato da Vincent Falman.
Del resto, volente o nolente, era il suo miglior amico.
“E fammi capire – disse Vincent con tono di rimprovero – hai interrotto la tua ronda per andare a mangiare una fetta di torta? Questo potrebbe anche esser motivo di richiamo.”
“Oh, andiamo, non farai la spia dopo che ti ho confidato le mie gioie d’amore.”
“Max Maffer, sei un poliziotto adesso: finché eravamo allievi potevi anche permetterti queste cose, ma ora più che mai…”
“E la sua voce? Ah, Vin, è così accattivante!”
“Ma mi ascolti?”
“Eh?”
“Lascia stare – sospirò irritato Vincent sistemandosi meglio la giacca della divisa e alzandosi dal tavolo della mensa – adesso devo andare a fare la mia ronda. E non mi metterò di certo a fare la corte a qualcuna in servizio, parola mia.”
“Tu che fai la corte? – Max si alzò a sua volta e lo squadrò con un sorriso divertito – Vincent Falman, tu e l’amore siete due opposti che non si incontreranno mai, parola mia.”
“Non durante l’orario lavorativo.” rispose l’altro con un sorriso sarcastico.
Max lo guardò uscire dalla mensa e scosse il capo con rassegnazione: no, decisamente Vincent non avrebbe mai capito l’amore. Ma lui invece c’era cascato in pieno e non se ne pentiva affatto. Ormai aveva deciso che Daisy McLane era la donna della sua vita e nessun’altra avrebbe mai preso il suo posto.
Che sia questione di settimane, mesi o anni, giuro che capitolerà.
 
Due pomeriggi dopo, in un momento di quiete, Daisy stava al bancone assieme a Rosie aiutandola a ripassare la lezione di storia.
“… e quindi il congresso, dopo il trattato di pace, ha deciso di applicare una politica di sostegno nei confronti del distretto ovest.”
“In che anno?” chiese Daisy, controllando gli appunti.
“Millesettecentosessanta…due? No tre!”
“Sessantadue, piccolo fiore – sospirò Daisy – la devi smettere di cambiare idea all’ultimo. Le cose le sai.”
“Uff, queste interrogazioni mi mettono sempre in agitazione.”
“Vedrai che andrà benone e…”
“Buon pomeriggio, Daisy!”
A quel saluto la giovane alzò gli occhi e vide Max entrare con un gran sorriso dipinto sul volto avvenente.
Sì, che sia bello è innegabile
L’aveva pensato sin dal loro primo incontro: le erano sempre piaciuti i ragazzi particolarmente alti e robusti e a questo Max aggiungeva anche un viso molto avvenente e sfacciato, con dei mossi capelli scuri, quasi ricci… con sua somma invidia.
“Disturbavo qualcosa?” chiese il poliziotto, avvicinandosi al balcone.
“Solo un ripasso di storia – sorrise lei chiudendo il quaderno – lei è mia sorella Rosie.”
“Ciao, Rosie – le strizzò l’occhio lui – tranquilla, la storia non è mai piaciuta a nessuno!”
“Eh? – la ragazza avvampò davanti a quelle parole  e si affrettò a recuperare i quaderni sparsi sul bancone – i… io… io vado a studiare in cucina!”
E prese una rincorsa tale che quasi andò a sbattere contro la porta della cucina, rischiando di far cadere tutto il materiale scolastico. Daisy scosse il capo davanti a quell’ennesima dimostrazione di timidezza, ma poi rivolse la sua attenzione a Max.
“A cosa devo l’onore? Non sei a fare la corte a qualcun’altra? Presumo che uno come te ne abbia una in ogni porto, come si suol dire.”
“Chi, io? Daisy, mi offendi, il mio cuore batte solo per te: è destino.”
“Ci conosciamo solo da tre giorni – sbuffò lei, sollevando una ciocca di capelli neri – e ieri non sei nemmeno venuto.”
“Impegni di lavoro – congiunse le mani lui con aria di scusa – e non hai idea di chi mi hanno assegnato come collega. Ma forse è meglio che non lo conosci.”
“Pare un mostro da come ne parli – ammise Daisy, divertita da quell’espressione così melodrammatica – che fa? Morde?”
“Troppo ligio al dovere, estremamente rigido oserei dire.”
“Ah, allora con me proprio non va d’accordo! E quindi hai la giustificazione per la tua assenza…”
“Perché hai sentito la mia mancanza, vero?”
“Con la sala piena? – mentì lei che, invece, aveva guardato più volte del previsto fuori dalla vetrina per vedere se arrivava – Ah! Caro mio, ne pretendi di cose!”
“Pretendo solo di vedere ogni volta che posso i tuoi occhi color cioccolato fondente, mia dolce fata.” sospirò lui con aria sognante.
“Torta ai frutti di bosco? – propose Daisy alzando gli occhi al soffitto – Appena fatta, il caffè lo offre la casa.”
“Affare fatto!”
Annuendo la ragazza si girò per raggiungere la cucina.
Uno stupido sorriso le apparve in viso, ma fu rapida a cancellarlo, prima di aprire la porta, ed assumere l’espressione più seccata di cui era capace.
Non ci aveva mai pensato, ma non era affatto male essere corteggiata.



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Nota dell'autrice.
Come vi avevo annunciato nella mia pagina fb ecco qua la prima di queste one shot sui vostri personaggi preferiti.
Ho deciso di iniziare con Daisy e Max dato che sono tra le coppie più amate. Finalmente viene svelato come andò il loro primo incontro, ben cinque anni prima rispetto a quello di Vincent e Rosie

Questa prima one shot la voglio in particolare dedicare a BreezyLeveret, dato che oggi è il suo compleanno.
Tanti auguri ^___^ 


Ps: andando contro quello che faccio di solito per questa raccolta voglio coinvolgere pure voi... nel senso, se avete richieste particolari su qualche pg o su qualche momento particolare delle storie potete farmelo sapere sulla mia pagina fb 
https://www.facebook.com/pages/Laylath-Efp/297627547093139

Buon divertimento ^^

 

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Capitolo 2
*** Amore di cognato 1 ***


Protagonisti: Kain, Janet e Jean


Amore di cognato 1.

 
Quel piccolo angolo di mondo 1907

Quel tramonto estivo era davvero meraviglioso, come solo la campagna ne sapeva regalare.
Kain se lo godeva in una maniera del tutto speciale mentre stava seduto su quella staccionata. Non era la prima volta che lui e Janet stavano seduti così vicini, ma era la prima volta che lo facevano dopo essersi dichiarati. Insomma, un conto era farlo con una cara amica, un altro farlo con la propria innamorata.
Con un lieve sorriso il giovane esperto in elettronica sbirciò dolcemente la ragazza, ammirandone il viso dolce e sereno, con la frangetta bionda mossa dalla calda brezza estiva.
“Che guardi?” chiese lei, girandosi di scatto, lieta di averlo colto di sorpresa.
“Guardo te… ti trovo molto più bella del sole, sai?” era fantastico poterle finalmente fare tutti i complimenti che voleva. Per tutti quegli anni si era dovuto trattenere per evitare che Janet, con la sua esuberanza, fraintendesse tutto quanto e cercasse di saltare le tappe più del previsto.
“Oh, tesoro! – sorrise Janet, chiudendo gli occhi con soddisfazione e posandosi contro di lui – Dici delle cose così stupende: essere amata da un esperto di elettronica è la cosa più romantica del mondo.”
“Davvero?” Kain arrossì e si arruffò i capelli con la mano libera.
Era la prima volta che si facevano complimenti al non proprio famoso romanticismo dei tecnici dell’elettronica.
“Davvero.” Janet si accoccolò ancora di più contro di lui.
Era tutto così perfetto e romantico.
A Kain non sembrava vero di poter finalmente godere dell’amore di Janet, senza più doversi preoccupare dei cinque anni di differenza. A diciassette anni la fanciulla era ormai abbastanza grande per poterne accettare l’amore.
Pace e serenità, ecco i due sostantivi  perfetti per descrivere quella serata e…
Un breve ma intenso brivido gli attraversò la schiena… e Kain lo riconobbe.
Era vecchio di anni, risaliva ai tempi in cui lui frequentava le scuole. Era quel sentore che avvisa la preda che sta arrivando il mortale nemico, quella sensazione di pericolo che ha il soldato prima di morire per mano dell’avversario.
Era… era il turbamento delle forze che annunciava la comparsa del suo predatore naturale!
“Nano maledetto, che cosa osi fare a mia sorella!”
Non fu una frase urlata, no… fu un sussurro che gli venne soffiato nel corpo, con il concreto effetto di un veleno paralizzante. Non ebbe la forza di girarsi mentre il suo corpo si immobilizzava, nell’inconsapevole speranza che lo stare fermo non lo facesse notare. Ma dietro di lui sentiva una gigantesca, oscura e minacciosa presenza.
Ci… ci ha pedinato…
Quasi a voler rimembrare i vecchi periodi di bullismo scolastico, Jean Havoc afferrò Kain per il colletto della camicia e lo fece cadere indietro, facendogli sbattere pesantemente la schiena a terra. Con gli occhi scuri sgranati per la sorpresa il giovane Fury vide il suo avversario incombere su di lui con quella che si poteva definire senza troppi errori intenzione omicida.
Lo sapevo! Lo sapevo che non gli sarebbe passata così facilmente… oddio… oddio ora mi ammazza davvero! E’ la volta decisiva, lo so…
 
“Brutto idiota! – subito Janet si riscosse e scese agilmente dalla staccionata, portandosi davanti al fratello e mettendosi con le mani sui fianchi, perfetta imitazione della posa materna – Ma come ti permetti!?”
“Come mi permetto? – fece Jean, sollevando Kain da terra come fosse un fuscello, ma osservando con furenti occhi azzurri la sorella minore – Questo porco ti mette le mani addosso e dovrei stare fermo?”
“Ma, io non…” balbettò Kain.
“Tu non fiatare o ti finisco seduta stante!” lo scrollò con furia Jean, facendogli quasi cadere gli occhiali
“Lascialo – Janet afferrò il fidanzato per un braccio e iniziò a tirarlo – E’ mio!”
“Mollalo! A lui ci penso io! Tu torna a casa subito!”
“Manco morta! Ma chi ti credi di essere!” sbottò Janet dando ancora uno strattone al braccio del fidanzato.
“Tuo fratello! L’unico che capisce davvero la situazione… e cioè che questo scellerato – e tirò Kain verso di sé come un pupazzo – questo fellone seduttore ti sta… ti sta importunando!”
“Ma che importunando! Dannato te, mi stai rovinando l’appuntamento romantico con il mio innamorato!”
“Innamorato? Innamorato? – gli occhi azzurri di Jean si socchiusero e si puntarono su quelli scuri di Kain che, oggettivamente, sudava freddo – E così traviamo le innocenti fanciulle facendo credere simili assurdità! Dannato nano, ma non lo vedi che è una bambina?”
“Ho diciassette anni, Jean! Insomma lo lasci andare?”
“Lo vedi? Lo dice pure lei che ha diciassette anni! Una bambina!”
“Però – ansimò Kain sull’orlo della disperazione – i tuoi genit…”
“I miei non capiscono nulla!”
“Jean Havoc, ti ho detto di lasciare il mio fidanzato!”
“Finiscila tu! Con te facciamo i conti a casa prima che ti spedisca in convento! Quanto a te, nano! Dì le tue ultime volontà prima che io ti stermini!”
“Maledetto stai rovinando tutto!” esclamò Janet perdendo del tutto la pazienza e dando una forte testata al fratello, facendo cadere tutti e tre nell’erba del prato.
 
E Kain, nell’unico atomo che non temeva per la propria incolumità, riflettè che sopportare le angherie di Jean Havoc era la prova d’amore più grande che potesse mai dare a Janet.





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spettacoloso disegno di Mary xD

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Capitolo 3
*** On ice ***


Protagonisti: Vincent e Rosie


On ice.

 
New Optain 1876

Quella mattina Rosie era veramente tesa.
Continuava a chiedersi se era il caso di parlarne con Vincent che, ignaro di tutto, beveva tranquillamente il caffè e si godeva la loro solita colazione segreta. Vederlo con la divisa perfetta le fece ricordare che era un poliziotto di venticinque anni e questo la fece incupire: forse, anzi con molta probabilità, ad una persona come lui non interessava niente di quanto voleva proporgli.
Lo guardò di sottecchi, cercando di immaginare una possibile reazione alla proposta…
Mi prenderebbe per una sciocca ragazzina – rifletté, abbassando lo sguardo sulla sua tazza di caffè ancora intatta – e forse lo allontanerei da me.
Effettivamente stavano insieme solo da qualche settimana e Rosie volava allegramente in quello strano limbo tra estasi e dubbio. Ogni momento con lui le sembrava il più bello del mondo, ma allo stesso tempo riteneva che potesse lasciarla per il primo stupido motivo. Nella sua innata insicurezza ancora non si sentiva degna di aver trovato una persona così meravigliosa come Vincent Falman. E nonostante la loro relazione fosse stata già messa duramente alla prova dalla cena in famiglia, Rosie ancora non si sentiva al sicuro… ed era la sua stessa persona a farle paura.
“Ho detto che era molto buono…”
“Cosa? – si riscosse, sobbalzando nella sedia – Che cosa era buono?”
“Il caffè” fece lui fissandola con perplessità.
“Oh, ma certo! – arrossì, sentendosi incredibilmente imbarazzata – Grazie! Ne vuoi ancora?”
“No, tranquilla. C’è… uhm… qualcosa che non va?” inclinò la testa scura nel farle questa domanda e lei si sentì presa in trappola. A dire il vero avrebbe potuto inventare qualsiasi scusa, ma dalla persona fin troppo onesta che era, non sarebbe riuscita a mentire nemmeno su questo.
“Ecco – iniziò, tormentandosi la manica del maglione che indossava – a dire il vero… c’è una cosa che volevo chiederti…”
“Dimmi pure”
“Sabato usciamo, vero?”
“Certo – sorrise lui, allungando la mano per accarezzarle la guancia – non sai quanto aspetto il nostro giorno libero. Poter passare del tempo con te è la cosa che mi rende più felice.”
A quelle parole così sincere lei si sentì sprofondare in un morbido letto fatto di piume rosa e cuori di seta. Come era possibile che Vincent le facesse battere forte il cuore in quel modo?
“… possiamo andare al parco a fare la solita passeggiata, va bene?”
“Ah – il letto di cuori e piume svanì, mentre le arrivava quell’imbeccata improvvisa ed inaspettata – ecco… veramente…”
No, dai, non dirlo. Lascia stare, ci andrai con Daisy in un’altra occasione… oddio, e quando? Lei è sempre così impegnata e figurati se Alyce vorrà venire con me!
“… veramente? Vuoi fare qualcos’altro?”
“Ecco…”
Non dirlo, ti prenderà per una bambinetta… Rosie McLane, tieni chiusa quella bocca!
“… hanno fatto la pista di pattinaggio nella piazza del teatro, hai presente? Sai, per pattinare sul ghiaccio.”
Ma perché l’ho detto!?
“Ah sì, credo di aver capito: se non sbaglio era da diversi anni che non la facevano, vero?”
“Esatto! – si trovò a battere le mani, troppo entusiasta per poter nascondere la cosa, alla faccia di quanto si era ripromessa sul comportarsi da adulta – Papà portava sempre me e le mie sorelle quando eravamo piccole! A dire il vero non sono mai stata brava a pattinare… cadevo sempre. Però mi piaceva tanto andarci con tutte quelle luci colorate, la musica, l’atmosfera perennemente natalizia! E poi papà ci prendeva sempre la cioccolata calda e allora io e Daisy…” si interruppe, accorgendosi di essersi spinta troppo oltre.
Oddio, ti prego non prendermi per una pazza esaltata…
“Vuoi andarci questo sabato?” le chiese Vincent.
“Che? Sicuro? – ansimò, alzandosi in piedi – Cioè… non ti devi sentire obbligato!”
“Ti piacerebbe si o no?” sorrise lui, inclinando la testa e fissandola con aria curiosa.
“Ti prego! – arrossì felice – Sarebbe stupendo!”
“Allora è deciso, piccolo fiore. Non c’è che da chiedere.”
“Grazie! Grazie! – lo abbracciò con entusiasmo – Sei il fidanzato più premuroso del mondo!”
 
Quel sabato sera Rosie si sentiva al settimo cielo. Man mano che si avvicinava alla piazza a braccetto di Vincent sentiva la musica farsi più vicina e si doveva trattenere per la voglia di correre in avanti come faceva da bambina, quando si teneva per mano con Daisy.
“Eccola! Eccola! – esclamò quando finalmente arrivarono – E’ identica a come la facevano anni fa!”
Non poté resistere e lasciato il braccio del fidanzato corse verso il parapetto, sorridendo estasiata nel vedere tutte quelle persone che pattinavano felici, più o meno a ritmo della musica classica che proveniva  da un’orchestrina che suonava in una pedana.
“Non ti ho mai visto così felice. Devi aver davvero dei ricordi felicissimi legati a questa pista.”
“Tanti! – annuì lei, sostituendo con la fantasia quelle persone con lei e le sue sorelle – Non vedevo l’ora che arrivasse l’inverno e che montassero la pista. Quando l’amministrazione decise di levarla, sette anni fa, ricordo che piansi davvero tanto.”
“Devo ammettere che non è male come posto – ammise lui, guardandosi attorno – certo c’è parecchia gente, non è come fare le nostre passeggiate nel parco.”
“Senti – Rosie lo prese per mano con aria supplichevole – lo so che forse ti sto per chiedere tanto, ma… ti va di pattinare assieme a me?”
“Che?” lui diventò rigido a quella richiesta e per qualche secondo Rosie pensò di essere andata troppo oltre, spinta dall’entusiasmo. Anche se non indossava la divisa era sempre Vincent Falman e…
… e Vincent Falman non è tipo da queste cose – rifletté, mettendo il broncio – lo sto solo mettendo in difficoltà, sono una stupida.
“… scusami, non volevo. Ecco, però possiamo andare a prendere la cioccolata calda: vedi? C’è il carretto lì dall’altra parte della pista!”
“Vuoi pattinare, vero?” sospirò lui, bloccandola per un braccio.
“E’ che… mi piaceva tanto… però da sola non sarebbe lo stesso…”
“Dove si noleggiano i pattini?” chiese lui, con aria di chi sta facendo davvero un grande sforzo.
“Che? Oh cielo, sul serio? Vincent! Non devi sentirti assolutamente obbligato ad assecondare questi miei capricci infantili – scosse l capo lei, facendo muovere i pon pon del suo berretto nuovo – credimi non è il caso di… si noleggiano in quel gazebo lì di lato! Io… io sono così emozionata!”
“Sei adorabile quando sei emozionata e felice, piccolo fiore, credimi” sorrise lui, scostandole una ciocca di capelli neri dalla fronte prima di dirigersi verso il posto da lei indicato.
 
Vincent Falman non aveva mai pattinato in vita sua, ma non credeva che fosse così facile.
Bastava tenere la schiena dritta e l’equilibrio e si procedeva abbastanza spediti: bisognava solo far attenzione a non urtare le altre persone, dato che la pista era abbastanza affollata. Mettendosi a braccia conserte rifletté che tutto sommato non era male e…
“Yaaaahiiii!”
Prontamente si mosse di lato e afferrò Rosie per il braccio per evitarle una caduta sulla pista… l’ennesima a dire il vero.
“Oddio! – balbettò lei, mentre le sue gambe cercavano di rimettersi dritte, almeno per qualche secondo – Non lasciarmi… non lasc…aaaaahuuu!”
“Tranquilla! – la bloccò lui, afferrandola per le spalle e cercando di raddrizzarla – devi piegare leggermente i piedi in modo che le lame siano un po’ verso l’esterno.”
“Ci sto provando! – esclamò lei, notando con imbarazzo che le altre persone, prudentemente, si tenevano a distanza da loro – E’ che non è facile…cielo…”
“Ecco, ci siamo – annuì lui, allentando la presa sulle sue spalle – adesso ti lascio, va bene?”
“Non lo so se sono pronta – ammise lei cercando di tenere la posizione – va bene… al mio tre. Uno… due… due e mezza… tre!”
“Allarga le braccia per…”
Sbong
Questa volta Vincent non fu abbastanza rapido e si ritrovò con la fidanzata seduta sulla pista dopo una poco dignitosa caduta sul fondoschiena. Con una smorfia di dolore Rosie si massaggiò la coscia e poi cercò di rialzarsi, ma ovviamente non poteva farcela. Così, dopo qualche tentativo, tese supplichevole le mani verso Vincent.
“Non sei proprio bravissima, piccolo fiore – sospirò lui, rimettendola in piedi – credevo che fossi più esperta con i pattini.”
“Ma come cavolo fai?” chiese lei, appoggiandosi con sollievo al vicino parapetto in modo da potersi levare i residui di ghiaccio dal cappotto.
“Non lo so – ammise Vincent, raggiungendola con una pattinata fluida ed elegante – mi viene facile. Forse sta tutto nella postura…”
Rosie lo guardò con un lieve broncio per qualche secondo: era in qualche modo ingiusto che lui, al primo tentativo, si dimostrasse un pattinatore provetto, mentre lei, alla faccia di anni ed anni di esperienza, ancora non venisse a patti con il ghiaccio.
“Perché ridacchi?” chiese, vedendo Vincent che sorrideva chiaramente tentando di nascondere una risata.
“Ripenso alla seconda volta che sono venuto al negozio di mattina presto – ammise lui – ricordo che tu arrivasti di corsa ed inciampasti su una lastra di ghiaccio. Il pattinaggio proprio non fa per te, piccolo fiore.”
Lei arrossì ricordandosi di quel dettaglio così imbarazzante, ma poi non poté far a meno di unirsi a quel sorriso così spontaneo che era apparso sul viso del suo fidanzato.
E passarono pochi secondi prima che scoppiassero a ridere.
“Vogliamo riprovare? – propose Vincent dopo un po’, tendendole la mano – Ti porto io, piccolo fiore.”
“Va bene – sorrise lei – riproviamo.”
 
La piazza ormai si stava svuotando, la pista di pattinaggio aveva chiuso e l’orchestrina aveva smesso di suonare. Però le bellissime luminarie restavano e rendevano perfetta l’atmosfera di quella sera così limpida.
Rosie sorrise nel vedere Vincent che tornava con due bicchieri di cioccolata bollente. Aspettò che si sedesse accanto a lei, nella panchina, e poi si accoccolò al suo fianco, gustandosi il primo sorso di quella bevanda così piacevolmente calda.
“Sei la peggior pattinatrice che conosca, Rosie McLane – ammise Vincent, cingendola con il braccio – sei caduta almeno dieci volte, nonostante ci fossi io a tenerti.”
“Cadevo sempre anche da bambina, sai? – sorrise lei, cercando di ignorare il dolore al fondoschiena, ovvia conseguenza di tutte quelle cadute: sicuramente a casa si sarebbe scoperta piena di lividi – Però mi piaceva tanto… papà mi aiutava sempre a rialzarmi e Daisy mi prendeva per mano e cercava di insegnarmi. Non ci sono mai riuscita, ma venire in questa pista per me era speciale.”
“Lo è stato anche oggi?”
“Più che mai, ma in modo così diverso.”
“Ci torniamo quando vuoi, promesso” sorrise Vincent posando il capo sopra il suo.
“Sul serio? – lei chiuse gli occhi, avvinta da quel contatto così protettivo – Lo faresti per me?”
“Tutto per te, piccolo fiore.”
“Ah! Grazie, caro! Sei il migliore!”
Rimasero in silenzio, sorseggiando quella cioccolata calda, godendosi la luce del tramonto che cedeva a quella delle luminarie e dei lampioni. Presto sarebbe stata ora di tornare a casa, ma nessuno volle accennare a quell’argomento: meglio godersi fino all’ultimo quella perfetta serata.
“Rosie…” chiese Vincent dopo un po’.
“Dimmi.”
“Come diamine hai fatto a cadere da ferma?”

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Capitolo 4
*** Si parte sempre da un ballo ***


Protagonisti: Janet Havoc, Kain Fury


Si parte sempre da un ballo

 
Quel piccolo angolo di mondo, 1 dicembre 1907

Janet aveva il carattere di sua madre e dunque se si metteva una cosa in testa non c’era verso di smuoverla. Anche se si trattava di dover attendere anni, se lei aveva deciso che Kain era l’uomo della sua vita, così sarebbe stato.
A quel ballo del primo dicembre ne aveva ben diciassette di anni ed ormai si considerava una donna, come dimostrava anche il suo corpo. Non le importava se doveva aspettare ancora sei mesi per raggiungere la maggiore età: in quell’occasione avrebbe messo alle strette il suo timido esperto di elettronica e l’avrebbe obbligato ad accettare questo amore per il quale si faceva tanti problemi.
Dunque quella sera ci mise particolare attenzione nel scegliere il vestito, optando per un azzurro che metteva in risalto i suoi capelli biondi e gli occhi e che, come era giusto, sapeva valorizzare le sue forme.
Finendo di sistemarsi la treccia e lasciandola cadere sulla schiena, mentre la frangia le cadeva spigliatamente sulla fronte, aprì il piccolo portagioie che teneva sulla scrivania e tirò fuori uno strano braccialetto.
Lo conservava con cura da undici anni, da quando quel ragazzino di prima media l’aveva creato davanti ai suoi occhi una mattina che era particolarmente triste perché il giorno precedente i suoi genitori l’avevano sgridata. Non era un vero e proprio braccialetto, a dire il vero: era una pietrolina tonda incastonata in una cordicella rossa, ormai leggermente sfilacciata.
Il suo intuito le diceva che doveva metterlo anche se non c’entrava nulla con il colore dell’abito. Negli ultimi anni l’aveva tirato fuori da quel cassetto del portagioie così tante volte che aveva perso il conto. La sua mente tornava a quella giornata lontana e al senso di meraviglia che aveva provato nel vedere quelle mani così sottili creare dal nulla quell’oggetto meraviglioso.
E adesso lei voleva che il possessore di quelle mani rompesse gli indugi e diventasse suo.
Ho diciassette anni, Kain Fury: ho aspettato abbastanza e questa sera te ne dovrai rendere conto.
 
Ovviamente al ballo molti sguardi maschili erano per lei.
Tantissimi ragazzi avrebbero voluto invitarla a danzare, ma nessuno lo faceva: come se attorno a lei ci fosse un’aura che avvisava tutti che era già impegnata, anche se non ufficialmente. Le sue amiche la invidiavano per questo: era così bella e aveva la possibilità di avere ai suoi piedi i migliori partiti del paese.
Ma a me importa solo di uno.
“Ciao, sorellina – la salutò una voce, mentre una mano le tirava la treccia con gentilezza – oggi sei proprio splendente: credo che quest’anno la festa del primo dicembre abbia una sola stella.”
“Heymans – sorrise lei, girandosi e dando un affettuoso bacio sulla guancia all’uomo – non sapevo fossi tornato. Ti credevo ancora ad East City per quel caso che stai affrontando.”
“Ho fatto in tempo a prendere il treno questo pomeriggio – ammise il rosso, passandosi una mano tra i capelli arruffati, così fuori luogo considerando i bei pantaloni e la camicia con cravatta – ho fatto giusto in tempo a passare a casa per poggiare la valigia e salutare mia madre.”
“Resterai molto?”
“Probabilmente fino a gennaio, ma anche dopo conto di sbrigare tutte le faccende e tornare in paese. Sai come va con il mio lavoro: certi periodi mi tocca stare ad East City. Ma con Roy e Riza lì non mi sento solo, sorellina, quindi evita di mettere il broncio. E quel demonio di Jean? Ancora non l’ho visto.”
“Lui e Rebecca arriveranno tra poco.” spiegò Janet, poggiandosi al tavolo e guardando la folla che iniziava a danzare.
Così facendo la manica del suo vestito si sollevò appena e gli occhi grigi di Heymans colsero il rosso del braccialetto.
“Ahi ahi, sorellina – mormorò – proprio non ti passa per il giovane Kain, eh?”
“Proprio tu dovresti saperlo bene dato che sei stato il mio fidanzatino fino alla prima media.” ammise Janet, per niente turbata: Heymans spesso la capiva molto meglio di Jean.
“Lui lo sa?”
“Sì, lo sa e mi ha detto di aspettare, ma ormai non ne posso più. Stanotte capitolerà, fidati di me.”
“E come la prenderà il tuo gelosissimo fratello?”
“Non capisco perché debba fare problemi, del resto è la mia vita e sono io a decidere come viverla. Onestamente, Heymans, credi che io e Kain abbiamo possibilità assieme? A volte mi chiedo se tutti i suoi tentennamenti, il suo tirarsi indietro siano dettati dal fatto che in realtà non mi ama.”
“Un po’ come ho fatto io che non volevo deludere la mia sorellina ed ho accettato il mio ruolo di fidanzatino per anni?” chiese con comprensione Heymans, sistemandole una ciocca di capelli dietro l’orecchio
“Più o meno.”
“Lui è quello giusto per te, Janet – sospirò il rosso con un sorriso – e forse l’ho capito sin da quando eravate bambini. Fidati di me, ti ama, ma ha fatto la scelta giusta nell’attendere tutto questo tempo: il nanetto è molto maturato dai quindici anni in poi, forse l’ha fatto più in fretta di noi altri. Attendere per lui è stata una forma di rispetto nei tuoi confronti e anche se sei impaziente, sono sicuro che puoi capirlo.”
“Diciassette anni… credi che mi chiederà di attendere ancora?” mormorò lei, individuandolo dall’altra parte della sala, mentre parlava con i genitori. Ed era bello, incredibilmente: la mano di Janet si strinse dal desiderio di accarezzare quei capelli neri così ribelli. Si era chiesta decine di volte di come doveva essere toccarli, afferrarli, sentire quando erano folti.
“Credo che sia la serata giusta per scoprirlo, sorellina – le strizzò l’occhio Heymans – e ti faccio i miei migliori auguri. Adesso vado a salutare Vato ed Elisa: non sono in paese da un mese ma vedo che il pancione di lei è aumentato. A marzo nascerà il bambino e spero proprio di esserci.”
 
Rimasta sola Janet trasse un paio di profondi respiri e si diresse verso Kain che in quel momento sorrideva, mentre i genitori, mano nella mano, andavano a concedersi un ballo in mezzo alla pista.
Probabilmente lui si accorse del suo sguardo insistente perché si girò verso di lei e sorrise.
“Ciao, raggio di sole – la salutò, prendendole la mano – oggi sei davvero meravigliosa con questo vestito azzurro, te l’hanno detto?”
“Heymans ha fatto qualche commento simile.” ammise lei con una scrollata di spalle.
“E’ tornato? Ottimo, allora dovrò andare a salutarlo.”
“Kain…” lei lo bloccò. Non poteva permettersi che la sua elusiva preda scappasse per l’ennesima volta.
“Ohi, piccola Janet, che è questo sguardo così turbato?”
Piccola… perché ti devi ostinare ad usare questa parola con me?
“Ti amo, lo sai?” confessò, arrossendo lievemente, ma fissandolo con aria decisa.
A quelle parole gli occhi scuri si sgranarono leggermente e l’espressione divenne estremamente pensosa.
Janet allungò la mano e passò le dita tra i ribelli capelli neri: erano così soffici e folti che li avrebbe accarezzati per sempre. Ma si costrinse a ritrarre il braccio, vedendo che lui non rispondeva a quel gesto.
“Proprio no… eh?” sospirò con amarezza.
“Hai il mio braccialetto – commentò lui, prendendole la mano gentilmente – undici anni fa, diamine come vola il tempo.”
“Si cresce, Kain Fury, ma forse io per te non cresco mai.”
“Oh sì che cresci, Janet Havoc.”
“Non abbastanza a quanto pare.” lei mise il broncio e si girò a guarda le coppie che ballavano, soffermandosi su Ellie e Andrew che sembravano due ragazzini per il meraviglioso sorriso che avevano in volto.
“Sai che mio padre si è dichiarato a mia madre la festa del primo dicembre? – chiese lui con noncuranza, portandosi accanto a lei – Te l’ho mai raccontato? Le ha chiesto di ballare ed è stato come se si fossero detti tutto.”
“Certo che lo so, mi sono fatta raccontare la storia da tua madre decine e decine di volte per quanto mi piace.”
Però a quanto pare noi non siamo destinati a vivere un così bel sogno, eh?
“Senti, forse è meglio che vada – sbottò, decidendo di non continuare con quella farsa che la stava distruggendo. Tanto sapeva come sarebbe andata a finire: lui avrebbe di nuovo glissato sull’argomento e poi sarebbe andato via, lasciandola per la centesima volta con un gran senso di delusione addosso – se trovo Heymans gli dico che lo cercavi, va bene?”
“Janet – la bloccò lui, afferrandola per il polso – aspetta.”
“Che c’è?” chiese lei con una punta di esasperazione.
Kain la fissò per qualche secondo, leccandosi lievemente le labbra, un gesto che faceva quando soppesava qualcosa di estremamente importante.
“Ti va di ballare con me?” chiese infine.
Ed il suo sorriso era così dolce, protettivo. Non aveva bisogno di parlare per farle capire che l’avrebbe amata per sempre: la mano premeva sul braccialetto, come se quel piccolo regalo fatto anni prima li avesse legati indissolubilmente.
“Kain…” arrossì lei, mentre si rendeva conto di quello che stava succedendo.
Il suo cuore iniziò a battere all’impazzata, la gioia che si impossessava di lei, finalmente pronta per quel grande passo.
“Si parte sempre da un ballo, Janet Havoc – le mormorò lui, avvicinandola a sé – e tu sei la mia ballerina personale, ti va di avere questo ruolo?”
“Mi rivolti la frittata – riuscì a ridacchiare lei, ma alcune lacrime le scivolarono sulle guance – e pensare che ti ho inseguito per così tanto tempo. Dovrei… dovrei darti un ceffone, ma proprio… proprio non ci riesco. Dannazione… certo che voglio essere la tua ballerina personale!”
“Scusami, raggio di sole – la baciò in fronte – non ti volevo far soffrire tanto. E’ solo che…”
“Oh, finiscila. Ti importa in questo momento?” gli stinse le braccia attorno al collo.
“No – ammise lui – ora mi importa solo di te.”
“E allora baciami – sussurrò lei al suo orecchio – altrimenti non ci crederò e sicuramente mi sveglierò in camera mia e scoprirò che è stato tutto un sogno.”
E lui la baciò, non come quel primo bacio che gli aveva rubato due anni prima.
Fu un bacio così bello e spontaneo, dove nessun dubbio la faceva da padrone.
Era un bacio che parlava da solo.
Vuoi sposarmi?



___________
dedicato in particolar modo a sweetophelia, forse una delle più grandi shippatrici della JanetxKain ^__^

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Capitolo 5
*** Premesse per il futuro ***


Protagonisti: Vincent jr Mustang e Lilia Fury


Premesse per il futuro

 
Quel piccolo angolo di mondo, Novembre 1914

Dall’alto dei suoi cinque anni appena compiuti, Vincent Mustang capiva benissimo che c’era un grande clima di eccitazione a casa di suo zio. Dipendeva tutto dal fatto che era arrivata una cuginetta, così come gli avevano annunciato i suoi genitori qualche giorno prima, proprio quando stavano per partire per il paese.
Ora, Vincent non sapeva molto in fatto di cugini: sapeva che era una cosa simile all’essere fratelli, dunque come Rey e Lisa o come Jody e Jilly, ma più alla lontana. Sembrava che questa bambina fosse cuginetta sia di lui che di Jody e Jilly, ma erano quei dettagli misteriosi che anche se venivano spiegati dagli adulti erano incomprensibili.
L’importante era che lui si comportasse bene a casa dello zio Kain, proprio come gli avevano detto i suoi genitori. La zia Janet era molto stanca e aveva bisogno di riposare: come non poteva essere dato che per tanto tempo si era portata una bambina dentro la pancia? Non era più comodo prenderla in braccio? A volte gli adulti si facevano troppi problemi.
“Allora, la posso vedere?” chiese con aspettativa, afferrando con la mano un lembo della gonna di sua nonna. Non capiva perché lui doveva entrare nella stanza degli zii solo dopo gli altri.
“Pazienta ancora per qualche minuto, caro – sorrise Ellie, accarezzandogli la chioma corvina – tra poco la potrai vedere. Ricordi il suo nome?”
“Lilia – annuì lui, accoccolandosi ancora di più contro la gamba di Ellie e sorridendo per quelle carezze – è il nome di qualcuno, nonna? Come me per il nonno di Rey e Lisa?”
“No, Vincent, nessuno si chiama come lei… ma non trovi che sia bello?”
Il bambino scrollò le spalle: suonava bene, certo, ma era solo un nome. Che importanza poteva avere?
“Allora, giovanotto – Roy che scendeva le scale attirò immediatamente l’attenzione dei due – vogliamo andare a conoscere tua cugina?”
“Sì, papà! – corse subito a raggiungerlo, lieto che finalmente lo ammettessero nella stanza proibita – Sono pronto!”
“Ricordi che hai promesso? Niente grida o schiamazzi: la zia Janet deve stare tranquilla.”
“Sarò buono, ovvio – annuì il piccolo con grande importanza: al contrario di Jody e Jilly lui sapeva controllarsi e dunque comportarsi bene a comando – non mi agito ne faccio cose simili.”
“Molto bene – il colonnello gli arruffò i capelli corvini ed aprì la porta, mentre Ellie li seguiva qualche passo indietro – eccoci qua, ragazzino. Forza, vai pure a dare un bacio a tua zia.”
La prima impressione che Vincent ebbe fu quella di tutti gli adulti che lo fissavano: una cosa che non gli piaceva molto. A volte i genitori dei suoi amici di città obbligavano i figli a recitare qualche cosa o cantare una canzoncina e tutti li guardavano. Non era molto bello.
Così preferì rivolgere la sua attenzione alla zia Janet che stava sdraiata nel letto con un grosso fagotto tra le braccia.
“Ciao, zia, come stai?” chiese subito il piccolo, accostandosi al letto.
“Ciao, Vin, sto bene, grazie – sorrise la donna, allungando una mano per accarezzargli la guancia – allora, vuoi vedere tua cuginetta?”
“Ovvio!”
“Forse ti serve una mano – Kain lo prese da dietro e lo sollevò leggermente, in modo che potesse vedere il contenuto di quel famoso fagottino rosa – non siamo ancora abbastanza alti vero?”
Era… sembrava morbida. Fu questa la prima impressione che Vincent ebbe di sua cugina: aveva un braccio fuori dalla coperta che faceva morbide pieghe in più punti ed anche il viso paffuto contribuiva a quell’effetto. Gli occhi erano aperti e fissavano la madre con pigrizia.
“Che ti sembra?” chiese Kain.
Vincent non seppe che dire, ma allungò una mano con la chiara intenzione di afferrare il braccio della cuginetta.
“No, no! – la voce di Riza lo interruppe – Vincent, non puoi.”
“Ma è mia cugina! – protestò il bambino, non riuscendo a trovare ancora una spiegazione logica al classico guardare ma non toccare – E dai…!”
“Kain, mettilo sopra il letto – propose Janet – vuoi provare a prenderla in braccio?”
“Sul serio? – annuì lui con gioia – Certo, zia!”
“Janet, non dovresti…”
“Oh, tranquilla Riza – sorrise la bionda, sollevandosi meglio a sedere – sono sopra il letto e nel caso cade sul morbido. E poi sono sicura che Vincent starà attento.”
“Certo, zia!” annuì il piccolo tendendo le mani.
“Piegale di più, te la sistemo io tra le braccia… ecco, devi tenere lì, va bene?”
A Vincent sembrò di prendere una coperta avvoltolata male, proprio come succedeva la mattina presto quando si districava appena sveglio da lenzuola e piumone. Il peso non era dissimile, ma poi si rese conto che, al contrario del piumone, si concentrava nella parte centrale.
“Naaagh…” la bambina protestò per quella posizione insicura e subito l’involucro si mosse.
“Si agita!” si impanicò Vincent, non sapendo cosa fare e sentendo subito gli altri adulti che si tendevano preoccupati verso di lui: una cosa che ebbe il potere di farlo preoccupare.
E, ulteriore livello di difficoltà, oltre ad agitarsi la cosa dentro il fagotto iniziò anche a piangere.
“Sssh, cucciola – subito Kain si protese nel letto e aiutò il bambino a tenere quel fagottino – va tutto bene. Tranquillo, Vin, tieni bene qui…poggiatela contro il petto che ti viene più facile.”
Seguendo quel consiglio Vincent sentì che il peso era meglio distribuito e sembrava che anche sua cugina sembrasse apprezzare. Il pianto cessò quasi subito e anche quello sgambettio così destabilizzante. Finalmente, dopo una decina di secondi, i due cugini si scrutarono negli occhi.
“Strizza gli occhi…”
“Ha appena quattro giorni, ancora non ci vede bene – spiegò Kain, accarezzando il braccio della figlia – ma ti riconosce, fidati.”
“I capelli le crescono, vero?”
“Certamente. Ehi, Lulù, lui è tuo cuginetto… proprio come Jody e Jilly.”
“L’hanno presa in braccio pure loro?”
“No – ammise Kain – sono troppo piccoli per una simile cosa. Sei il cugino più grande.”
“Sai cosa vuol dire questo, giovanotto?” chiese Roy, accostandosi a loro.
“Che di lei mi prendo cura io – rispose Vincent, guardando sua cugina e scoprendo che le piaceva più del previsto – a Lully ci penso io!”
“Lully?”
“Sì, io la chiamo così, ma solo io. Vero, Lully?”
Non seppe perché lo disse, ma fu estremamente sincero.
La sua piccola mente si era spesso accorta che, mentre Jody aveva Jilly e Rey aveva Lisa, lui era l’unico del gruppo a non avere nessuno in particolare di cui prendersi cura. Ma adesso le cose sarebbero cambiate: Lully era la sua personalissima cuginetta piccola da proteggere e non sarebbe venuto meno a quel grande compito di responsabilità.
 
Quattro anni dopo…
 
“L’ultimo che arriva alla scuola conta! – esclamò con gioia Jilly, iniziando a correre sfrenatamente verso il luogo stabilito – E non fino a quaranta, ma fino a cento!”
“E’ ingiusto! – protestò subito Lisa, sapendo bene di essere la più lenta nella corsa – Jilly, non vale!”
“Ma quanto sei noiosa – si bloccò la bionda con una smorfia di disappunto – e va bene, se vuoi ti concedo cinque secondi di vantaggio, ma muoviti, io li conto già! Uno, due…”
Vincent sorrise felice mentre iniziava pure lui a correre, sicuro di poter superare tutti quanti e di mettersi al sicuro dal contare per il primo turno di nascondino. Si sentiva particolarmente libero ed eccitato: era sempre fantastico tornare in paese per le vacanze estive. Niente scuola, compiti per le vacanze leggeri e, soprattutto, la compagnia specialissima dei suoi cugini e di Rey e Lisa.
“Aspetta! Aspetta! – chiamò una vocina – Pure Lulù! Vinny, aspetta Lulù!”
“Oh no – sibilò Jilly – ecco che arriva la poppante rompiscatole!”
Dal giardino di casa di Vincent, dove zia Janet e zio Kain erano ospiti per il pomeriggio, comparve Lulù, graziosissima nel suo vestitino azzurro che ben si intonava ai capelli castano chiaro e agli occhi blu. Sfoggiando il più candido dei suoi sorrisi, iniziò a trotterellare verso il cugino più grande, aggrappandosi ai suoi pantaloncini.
“Ecco…” Vincent esitò.
“Sei troppo piccola per giocare a nascondino, stupida – sbottò Jilly – e non ho certo voglia di fare giochi da poppante solo perché ci sei tu!”
“E dai – propose Jody – magari… ehm… corriamo piano?”
Ma era un’idea fallita in partenza: era chiaro che Lulù era troppo piccola per poter tenere i loro ritmi di gioco. Ed una partita a nascondino in versione lenta era tutto meno che attraente.
Gli sguardi di tutti i ragazzi si rivolsero verso Vincent: era lui il capo del gruppo, nessuno lo metteva in dubbio, ed era dunque chiaro che aspettassero il suo verdetto. Il giovane Mustang li fissò a turno, dalle espressioni apparentemente neutrali di Lisa e Rey, a quella seccata di Jilly, fino a quella perplessa, ma volenterosa, di Jody. Poi i suoi pantaloncini vennero di nuovo tirati e abbassò lo sguardo su Lulù che nemmeno aveva fatto caso alle parole poco gentili di Jilly: continuava a fissarlo con il suo gran sorriso, certa che il suo adorato cugino non l’avrebbe delusa.
“Facciamo che i primi giri li fate senza di me – disse infine con voce tranquilla – io vengo dopo, va bene?”
“Che? – protestò Jilly – Ma Vin! E’… la cosa più stupida che…”
“Corri, Lisa! – esclamò Vincent – che arrivi prima di lei alla scuola!”
Fu come se avesse rotto ogni indugio: con aria trafelata la giovane Falman iniziò a correre fuori dal cortile, immediatamente seguita dal resto del gruppo. Fu come se un ciclone si allontanasse, lasciando solo una strana forma di quiete in quel giardino dall’aspetto così curato.
“Anche noi, Vinny?” chiese Lulù perplessa.
“No, noi no – le spiegò, mettendosi a braccia conserte – noi facciamo qualcos’altro. Andiamo a fare le costruzioni con i dadi colorati?”
“Belli i dadi! – approvò subito la bambina, applaudendo – In braccio,però! Prendi Lulù in braccio!”
“Ovvio che Vinny prende in braccio Lully – sollevandola da sotto le braccia e sistemandosela meglio con una precisa torsione – ci mancherebbe altro. Allora, vogliamo andare?”
“Sì!” sorrise lei, accarezzandogli la guancia con amore.
Tanto si sarebbe trattato solo di una mezz’oretta, massimo quaranta minuti: sarebbe presto arrivato il momento del sonnellino pomeridiano della bambina e lui avrebbe potuto con tutta tranquillità raggiungere i suoi amici.

Tanto al primo giro di nascondino faccio la tana a tutti quanti loro.





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lo splendido disegno cuginoso è di Mary, ovviamente **
e finalmente ecco qualcosina sulla terza generazione
 

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Capitolo 6
*** Quaderni di scuola ***


Protagonisti: Henry Breda e Katrin


Quaderni di scuola

 
Quel piccolo angolo di mondo, 1905

Henry Breda non aveva mai pensato all’amore, tanto meno ai colpi di fulmine.
Non disdegnava di osservare le ragazze, ritenere che qualcuna fosse più vicina ai suoi canoni estetici, ma in materia d’amore preferiva non fare alcun passo in avanti, nemmeno a vent’anni. A volte si era chiesto se questo suo atteggiamento dipendesse da quanto aveva passato sua madre, come se in lui ci potesse essere il germe dell’attitudine paterna che tanto l’aveva fatta soffrire. E se si fosse scoperto una persona violenta con la propria compagna? Era davvero necessario esporsi in un simile modo quando finalmente la sua famiglia aveva raggiunto un ottimo equilibrio e una grande serenità?
No, decisamente no – sospirò con un sorriso, mentre tornava a casa da lavoro, slacciandosi il primo bottone della giacca da poliziotto quando era ancora a qualche passo dalla porta – meglio non forzare determinate cose. La vita va benissimo così.
Abbandonando quei pensieri, allungò la mano ed aprì la porta, iniziando a pensare alla cena che sua madre stava preparando: quella giornata il capitano Falman era stato particolarmente insistente con lui e tutto quel lavoro gli aveva messo notevole appetito.
“Ciao, mamma, sono a ca… oh, mi scusi!”
Aprendo la porta aveva quasi colpito una ragazza che, evidentemente, stava uscendo da casa proprio in quel momento. Un pacco avvolto in leggera carta le era caduto a terra insieme a svariati quaderni e questo fece capire al giovane che si trattava di una delle clienti di sua madre.
“Uh, attenzione Henry! – esclamò Laura, proprio dietro la giovane – ti sei fatta male, Katrin?”
“No, no! – rassicurò subito la giovane, chinandosi a raccogliere la sua roba – mi sono spostata all’ultimo. Non dovete preoccuparvi.”
“Mi… mi dispiace!” Henry arrossì veramente imbarazzato, non gli era mai capitata una situazione simile.
Fece per chinarsi, allungando la mano per aiutare in qualche modo la ragazza la cui sciarpa verde chiaro si era mezzo sciolta e dunque stava per cadere a terra, ma poi esitò.
Lei aveva finalmente alzato il viso e lo stava fissando.
Come funzionava in tutte quelle storie? Che il tempo smette di scorrere e ti sembra all’improvviso di essere trasportato in una realtà parallela dove ci siete solo tu e lei?
Perché non l’aveva mai vista? Come mai non aveva notato quegli occhi nocciola e quel viso dalle gote rosate? Possibile che quella frangetta castana, quasi bionda, gli fosse sfuggita per tanto tempo?
Perché ci vediamo per la prima volta solo adesso?
“Io… io dovrei andare…” sorrise imbarazzata la ragazza.
Henry rinsavì, rendendosi conto che era proprio in mezzo alla porta, bloccando qualsiasi via d’uscita.
“Oh! Scusi tanto, signorina!” arrossì violentemente facendosi di lato per lasciarla passare.
Ma oggettivamente il passaggio era comunque ridotto e dunque i due si ritrovarono quasi a scontrarsi vicendevolmente prima che lei riuscisse a sgusciare fuori casa.
Invece di entrare dentro, Henry rimase a fissare la figura snella che si allontanava con passo svelto, si riscosse solo quando la madre gli mise una mano sulla spalla.
“Tesoro, vuoi restare lì tutta la sera e beccarti tutte le correnti di questo mondo, oppure entri e chiudi la porta?”
“Uh? – con disappunto notò che la fanciulla aveva girato l’angolo, scomparendo alla sua vista – Certo, mamma, eccomi.”
 
“Comunque si chiama Katrin.”
“Eh?” Henry alzò gli occhi dal suo piatto e fissò la madre con incredulità. Si accorse che gli occhi grigi le brillavano di qualcosa che si poteva interpretare come malizia.
“Ma sì, quella ragazza che ti ha praticamente lasciato a bocca aperta come un pesce. E’ una mia cliente da circa un anno, ed è una bravissima fanciulla: ha finito le scuole quest’estate. Sai, vuole fare la maestra.”
“Ah sì? Co… comunque non capisco perché mi dici queste cose – si riscosse Henry, tornando a mangiare, sebbene una piccola parte del suo cervello assimilasse le informazioni appena ricevute – è una delle tue clienti e non l’avevo mai vista, tutto qui.”
“Tutto qui?” Laura ridacchiò e questo fece sentire il giovane profondamente in imbarazzo.
Dannazione ad Heymans che quella settimana era ad East City, lottare contro una femmina era davvero complicato, specie se si era da soli e…
L’hai appena definita femmina… è tua madre, la persona che ami di più al mondo – quel pensiero lo fece irrigidire, il ricordo di anni prima che tornava violentemente alla memoria, assieme a quelle parole orrende dette da una voce ormai sepolta – forse c’è davvero qualcosa di lui in me. Forse… forse è solo un incubo che non finirà mai.
“Henry, che hai? – la voce di Laura si fece seria – Sei impallidito all’improvviso…”
“Niente, mamma, sul serio. E… e comunque non scherzare su queste cose. Sei tu la donna della mia vita, fidati. Non ho nessuna intenzione di lasciarti.”
“Oh, tesoro, ma che cosa dici? – Laura sorrise e si rilassò – In quanto madre se c’è una cosa che voglio è che tu e tuo fratello vi sistemiate, che troviate una ragazza degna di voi.”
“Degna…”
“Sì, degna, che c’è di sbagliato?”
“E se scoprissi che sono io quello non degno?” chiese amaramente.
 
Aveva fatto male pronunciare quella fatidica domanda che portava assieme a sé tutti gli orrori dell’infanzia.
Si era pentito di quelle parole non appena le aveva dette: non aveva alcun diritto di riaprire le ferite della sua famiglia. Avrebbe dovuto tacere e continuare a serbare i suoi dubbi in segreto.
Passarono diverse settimane prima che si convincesse del tutto che né sua madre né suo fratello avevano in qualche modo risentito di quel breve ritorno del passato.
Ma, nonostante l’innegabile sollievo, i dubbi su se stesso restavano: tutte le rassicurazioni di sua madre prima e di Heymans poi non erano riuscite a levargli dalla testa che era in lui che c’era il maggior carico di sangue paterno. Heymans poteva aver preso tantissimo nell’aspetto fisico, ma caratterialmente era sempre stato differente da Gregor, arrivando a sfidarlo a liberare la loro madre e tutta la famiglia da quel mostro.
E lui in tutto quello che aveva fatto? Era dura ammetterlo, ma era la verità: fino ad undici anni era stato praticamente un teppista che godeva nel compiere cattiverie e mettersi nei guai. E il compiacimento di suo padre era la cosa che anelava di più… non erano forse segnali che c’era qualcosa di sbagliato in lui?
E pensando a quello che ha fatto a mia madre… oh no, non permetterò a me stesso di fare una cosa simile.
Se lo disse per la millesima volta durante quella mattina di gennaio, mentre era in ronda con il capitano Falman.
“La camminata sulla neve ti sta facendo bene?”
“Signore?” chiese distrattamente.
“A volte sfogarsi fisicamente aiuta ad alleggerire la tensione. Ne hai davvero tanta addosso in questo periodo, ragazzo mio.”
“Scusi, signore – tirò su col naso, non riuscendo a venire a patti con il leggero raffreddore che l’aveva colpito due giorni prima – le assicuro che a lavoro…”
“Non è un problema di lavoro – scosse il capo l’uomo –  Tua madre e tuo fratello sono preoccupati, lo sai?”
“Mia madre ha parlato con lei?” arricciò il naso a quell’eventualità: non gli piaceva essere considerato ancora un bambino con i genitori che confabulavano tra di loro escludendolo.
“No, ma sai come sono le donne, no? Lei ne ha parlato con le sue amiche durante un the, tra le sue amiche c’era mia moglie e dunque le notizie volano. Solidarietà femminile, Henry, quando sarai sposato ci avrai a che fare pure tu.” Vincent annuì con convinzione, sistemandosi meglio uno dei guanti.
“Sembra quasi un’organizzazione criminale…”
“Forse, ma non ha mai fatto tanti danni come un gruppo di teppisti di mia conoscenza: tuo fratello sa bene a chi mi riferisco. In ogni caso, per tornare a monte, vorrei proprio sapere come hanno fatto a venirti in mente simili idiozie.”
Simili idiozie? – Henry scosse il capo, non capendo come fosse possibile liquidare tutta la storia con quelle due parole – Signore, ha visto anche lei cosa ha fatto mio p… quella persona!”
“Sì che l’ho visto – Vincent si fermò a fissarlo con attenzione – e ho visto anche te e tuo fratello diventare delle splendide persone nonostante quello che avete passato. Guarda la divisa che indossi, Henry.”
“Può non voler dire niente…”
“Sì che vuol dire qualcosa. Non te l’avrei mai fatta indossare se non te ne ritenessi degno, ragazzo. Perché devi farti condizionare ancora da lui? Non capisci che così lo fai vincere?”
“Condizionare? Capitano, io sono suo figlio!”
Possibile che non capite?
“Così come Heymans, e allora?”
“Ho il suo sangue – continuò, sentendo l’esigenza di tirare fuori tutto quanto – la stessa cattiveria. Magari non è ancora uscita fuori, ma non posso permettere di…”
“Ti piace così tanto l’idea di bere ed alzare le mani sugli indifesi, eh?”
“Cosa? – Henry sbiancò – Ma… ma cosa sta dicendo?”
“Non vedi l’ora di andare al bordello per divertirti un po’, vero?”
“La smetta – il giovane scosse il capo con disgusto – sa che non è vero!”
“Oh, dai, suvvia, facciamo uscire questo sangue cattivo – Vincent lo prese per i capelli e lo scosse leggermente – o forse non possiamo perché non c’è?”
“Chi è lei per dirlo?”
“Il tuo capo, uno che ti conosce da quando eri piccolo e ha vissuto in prima persona quello che ha fatto tuo padre. Ma se vuoi ce lo possiamo far dire da un sacco di altre persone, quelle che ti conoscono e sanno cosa hai passato… tua madre, tuo fratello, Andrew e Kain, tutti gli altri amici di famiglia. O forse vuoi ancora dare ascolto a quelle stupide malelingue che volevano condannare tua madre per sempre?”
Henry scosse il capo, sentendosi profondamente confuso.
Le parole del capitano Falman avevano certamente un fondo di verità, certo, però quei dubbi…
“Ahu!”
I due poliziotti si girarono a quel richiamo e videro che una persona era appena scivolata su una lastra di ghiaccio, cadendo rovinosamente in avanti.
Vincent si stava per muovere, ma Henry fu più rapido.
Era stato più forte di lui: l’aveva riconosciuta da subito, del resto non perdeva occasione per sbirciarla segretamente ogni volta che la incontrava. Da mesi ormai.
“Va tutto bene?” le chiese, inginocchiandosi accanto a lei e aiutandola a rialzarsi e a farla uscire dalla lastra di ghiaccio.
“Che botta! – arrossì Katrin, tenendosi alle mani di lui – proprio non me ne sono accorta.”
“Sì è formata col freddo di stanotte – spiegò Henry – oh, ma le sono caduti tutti i quaderni.”
“Oh no! I quaderni dei bambini… oh, ma non si deve disturbare, signore…”
“Non è niente! – iniziò a raccogliere quei quaderni con ansia, sperando che la neve fresca non rovinasse le pagine con le scritture infantili – ecco… ecco non sembra che abbiano subito danni…”
“Grazie…” lei arrossì profondamente quando finalmente si trovarono faccia a faccia.
“Non… non so se ha presente… io… lei va spesso da mia madre…” iniziò Henry, confuso.
“Dalla signora Laura, ma certo – lei si avvolse meglio nella sciarpa verde, quasi a nascondere parte del suo viso – ecco… io… io sono Katrin.”
“Lo so…”
“Eh?”
“Insomma – annaspò lui, restituendo quei quaderni – penso di aver sentito mia madre che qualche volta la salutava, tutto qui. E… non volevo essere indiscreto, tutt’altro! Co… comunque io sono Henry, Henry Breda.”
“Lo so.”
“Uh, lo sa?”
“Mi da del lei? – Katrin sorrise – ho appena compiuto diciannove anni, mi pare esagerato.”
“Scusami… era solo per essere educato.”
“Va bene il tu.”
“Anche per me.”
Si guardarono per qualche secondo, restando immobili come belle statuine: solo dopo qualche secondo Henry si rese conto che le sue mani erano ancora sui quaderni che aveva appena restituito.
Era come se entrambi fossero estremamente riluttanti a concludere quell’incontro.
 “Ho il piede un po’ dolorante…” ammise Katrin dopo qualche secondo.
“Ti riaccompagno a casa.”
“Davvero? Grazie.”
“Appoggiati pure a me.” si offrì subito portandosi accanto a lei e porgendole il braccio.
“Ma forse il tuo capitano…” cominciò la giovane ammiccando in direzione dell’altro poliziotto che era rimasto leggermente in disparte.
“Chi? Ah, già… ecco, signore io…”
“Ci vediamo stasera in ufficio, Henry!” sghignazzò Vincent con un cenno di saluto, riprendendo a fare la ronda.
Il capitano Falman che fa uno strappo alla regola? – Henry sgranò gli occhi – Che diamine succede?
Ma poi sentì Katrin che si posava contro di lui, palesemente più di quanto fosse necessario e qualsiasi altro rimando al capitano sparì dalla sua mente.
E mentre procedevano nella strada innevata, Henry si rese conto di una cosa fondamentale: mai e poi mai suo padre avrebbe fatto una cosa simile per sua madre. E mai e poi mai avrebbe provato il medesimo senso di leggerezza che stava sentendo lui in quel momento.
“Non è che il tuo fidanzato si ingelosisce?” chiese con noncuranza.
“Non ho il fidanzato – sorrise lei – e tu sei impegnato?”
“Assolutamente no!”

 

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Capitolo 7
*** Tradizioni di famiglia ***


Protagonisti: Vato Falman, Lisa Falman


Tradizioni di famiglia

 
Quel piccolo angolo di mondo, 1915

L’orecchio attento di Vato colse immediatamente il lievissimo singhiozzare che proveniva da due stanze dopo la sua. Nonostante fosse nel cuore della notte ed il temporale fosse particolarmente forte, capì immediatamente di cosa si trattava e fu subito desto: si alzò a sedere nel letto accorgendosi che anche Elisa si stava in parte svegliando.
“Anche stanotte…” mormorò la donna, girandosi verso il marito ma tenendo gli occhi chiusi.
“Pare di sì – annuì lui, accendendo la luce sul comodino e accarezzando la guancia della moglie – vado io, tranquilla. Hai avuto una giornata pesante a lavoro: con quest’influenza che circola non ti sei riposata un secondo.”
“Grazie… poi controlla che anche Rey dorma – chiese lei accucciandosi meglio sotto le coperte – ma tanto lui dorme anche con un uragano.”
Vato ridacchio nel pensare al suo primogenito di sette anni che quando crollava addormentato non si svegliava fino alla mattina successiva: nemmeno i temporali violenti di quel periodo dell’anno riuscivano a destarlo, sin da quando era neonato.
Sfortunatamente Lisa non aveva lo stesso sonno pesante e quell’anno i temporali si stavano dimostrando i suoi nemici più tosti. Ormai si svegliava ogni notte in preda al terrore, ma chissà per quale motivo non prendeva mai l’iniziativa di chiamare i genitori: si raggomitolava nel letto, o sotto di esso e continuava a singhiozzare fino a quando crollava esausta.
Elisa aveva cercato di consolarla più volte, dicendole che se voleva venire nel lettone non c’era alcun problema e che avere paura dei temporali era del tutto normale. Ma sembrava che la bambina non volesse venire a patti con quelle proposte.
“Lisa – Vato aprì delicatamente la porta e accese la luce – cucciola, che succede?”
I singhiozzi della bambina erano perfettamente udibili, ma bastò un’occhiata per capire che aveva abbandonato il suo lettino per nascondersi. Con un sospiro Vato si inginocchiò e guardò sotto il letto, scoprendo la bambina raggomitolata nell’angolino che lo fissava con lo stesso sguardo di un topolino preso in trappola.
“Oh no, principessa – allungò una mano per accarezzarle il braccio e calmarla – vieni fuori che ti prendi un raffreddore. Dai, ci sono io adesso: va tutto bene.”
“I tuoni sono cattivi – singhiozzò lei, scuotendo il capo e rifiutandosi di abbandonare quel piccolo rifugio – fanno paura.”
“Non entrano in camera, tranquilla – la incoraggiò – vieni, da brava. A papà non piace vederti sotto il letto.”
“Ma se non sto sotto il letto loro mi vedono – ammise lei vergognosa, strisciando fuori  – e mi spaventano.”
Anche se i singhiozzi erano scomparsi le lacrime continuavano a scendere dagli occhi della bambina che, una volta uscita da quel ristretto spazio, si strinse al padre facendosi prendere in braccio e nascondendo il visino sulla sua spalla.
“Di che vogliamo parlare, topolina? – la incoraggiò lui – vuoi che ti racconti di qualche leggenda? O vuoi che parli delle rondini che torneranno tra poco? O forse di qualche cosa che io ed i tuoi zii abbiamo fatto quando eravamo giovani?”
“Papà, perché i temporali mi spaventano? Io… io ho letto tutto su di loro, ma continuano a fare paura – si lamentò lei – lo sai che la luce viaggia più veloce del suono?”
“Certo, ed è per questo che i tuoni arrivano dopo i fulmini: hai provato a contare i secondi?”
“No – ammise lei – ho paura quando arriva il tuono.”
Sembrava proprio che Lisa non si volesse lasciar convincere sul fatto che il rumore del tuono era innocuo. Purtroppo a cinque anni era difficile razionalizzare, per quanto lei ci provasse disperatamente. E Vato la capiva bene: la sua secondogenita gli somigliava davvero tanto per molte cose, a partire dalla precocità nello scrivere e nel leggere. Ma queste doti non potevano fare molto contro le paure infantili.
“Papà… mandali via, per favore…” supplicò ancora la bimba.
“Amore, papà non può allontanare il temporale, è una cosa che se ne va da sola – cercò di spiegarle Vato, sedendosi nel letto e stringendola a sé – ma non ti succede nulla, te lo assicuro perché…”
“Perché?” chiese Lisa alzando lo sguardo incuriosita da quell’esitazione.
“… perché forse non lo sai, ma tuo nonno è il poliziotto dei temporali.”
“Poliziotto dei… davvero?” la piccola sgranò gli occhi davanti a quella rivelazione sul suo adorato nonno.
“Ma certo: nessuno lo sa perché deve esser tenuto nascosto… ma lui è stato mandato qui per controllare i tuoni e non fargli fare mai niente di male. Me l’ha confidato proprio quando io avevo la tua età ed i tuoni mi disturbavano, sai?”
“E credi che il nonno protegga anche me?”
“Soprattutto te, amore, come non potrebbe proteggere la sua nipotina?”
“Possiamo andare dai nonni? – supplicò lei – o chiamare il nonno e dirgli di venire qui, per favore, papà!”
A quella richiesta Vato esitò leggermente: non poteva certo fare un’improvvisata a casa dei suoi a quell’ora così ingrata e con quel temporale.
Però…
“Lo sai che il nonno ha un assistente formidabile quando fa il poliziotto dei temporali?”
“Ah sì? E chi? Zio Henry?”
“No – la voce dell’uomo si fece cospiratoria – è un agente davvero segreto e per tanto tempo è rimasto nascosto. Ma credo che adesso tornerà per aiutare te, cucciola mia… si chiama Lollo.”
“Lollo? – Lisa inclinò la testa castana con curiosità – E chi è?”
“Credo che sia in casa ma è ancora insicuro se uscire o meno: vogliamo andare a chiederglielo?”
“Oh sì, per favore! Lollo! – iniziò a chiamare – Lollo! Esci fuori!”
“Sssh, piano – la zittì lui – se lo scoprono tutti saranno problemi: vieni, credo di sapere dove è nascosto.”
Tenendo in braccio la bambina uscì dalla stanza e si avviò verso il ripostiglio che stava in fondo al corridoio. Sperava che lui fosse sempre nella solita scatola in cima allo scaffale. Dopo più di trent’anni ancora resisteva, con Elisa che ogni sei mesi rimetteva a posto quell’ambiente e provvedeva a dargli una lavata, come era successo proprio tre giorni prima.
Lollo, il suo vecchio orso di pezza, l’orecchio destro rovinato per quanto l’aveva succhiato e masticato per un certo periodo della sua vita… come mai non l’avessero ancora dato a Rey o Lisa era un mistero. Ma forse era arrivato il momento giusto.
“Ehi, amico mio – chiamò infine, accendendo la luce del ripostiglio e allungando una mano verso la ben nota scatola di cartone che stava nel ripiano più alto – so che ci sei, abbiamo bisogno di te.”
“E’ qui?” Lisa era perplessa, anche perché il ripostiglio non era un posto che le piaceva molto: lo evitava con cura ogni volta che passava in quella parte della casa.
“Mi sa di sì… oh oh… ehilà, Lollo – tirò fuori l’orso – lo sai che qui abbiamo bisogno di te?”
“Ma è un pupazzo!” Lisa lo prese in mano sempre più perplessa.
“Può sembrare così, ma sappi che Lollo ha studiato tanto assieme a papà – le spiegò Vato, mentre uscivano e tornavano verso la stanza – sa un sacco di cose e se fai attenzione scoprirai che parla anche. E soprattutto, se lo tieni stretto a te nel tuo lettino tiene lontani i tuoni… loro lo conoscono e ne hanno paura: sanno che è collega di tuo nonno e che li può arrestare tutti.”
“Lollo… ma che ha all’orecchio?”
“Si è fatto male per aiutare papà, vedi quanto è fedele e prezioso? E se è venuto per te allora sei proprio una bimba fortunata, sai?”
In genere Lisa era molto razionale e una storia simile su un altro pupazzo le avrebbe fatto storcere il naso. Ma il fatto che gliela stesse raccontando suo padre cambiava radicalmente la situazione e già quel pupazzo stava assumendo una luce del tutto nuova ai suoi occhi.
“I tuoni stanno già facendo meno rumore – ammise mentre veniva rimessa sotto le coperte – credi… credi che Lollo vorrà restare con me per sempre?”
“Credo proprio di sì, principessa – sorrise Vato, baciandola in fronte – guarda come si fa abbracciare da te. Le piaci davvero tanto… e sono sicuro che proteggerà il tuo sonno, vero? Guardati, stai già chiudendo i tuoi occhietti, amore mio… torna a dormire, da brava. C’è Lollo con te.”
 
“Nonnino! Nonnino! Non mi avevi mai detto di essere il poliziotto dei temporali!”
La voce di Lisa si fece sentire ancora prima che la piccola entrasse nell’ufficio del capitano di polizia. Vincent si irrigidì nella sedia ed Henry, accanto a lui a mostrargli un rapporto, dovette girare di colpo la testa e simulare un colpo di tosse per nascondere la risata.
La bimba entrò con entusiasmo, tenendo fra le braccia Lollo e correndo verso il nonno.
“Lisa, amore mio – Vincent si costrinse a sorridere mentre la prendeva in braccio – ma che… questo pupazzo…”
“Visto, nonno? E’ Lollo! Il tuo collega poliziotto dei temporali! Tiene buoni i tuoni proprio come fai tu! Però credo che solo tu li possa arrestare… Lollo non ha la divisa.”
“Già…” Vincent sospirò, non sapendo cosa dire. Adorava troppo sua nipote per poterle distruggere quel castello che si era creata.
“Zio Henry, anche tu sei poliziotto dei temporali?”
“No, cara, solo tuo nonno e il suo collega lo sono – scosse il capo il rosso ovviamente divertito – sai è un ruolo davvero insolito e difficile.”
“Ci credo, con quei tuoni così cattivi… ma papà mi ha detto che tu li fai stare buoni, nonno! Li sgridi e loro non spaventano più i bambini! E Lollo parla! Mi ha raccontato un sacco di cose tutta la notte!”
“Oh no… no, ti prego, non dirmi pure tu…” il capitano gemette, ricordandosi di come a cinque anni pure Vato avesse l’assurda pretesa che quel pupazzo fosse vivo.
“Sai che ha detto che tu e lui potete volare anche sopra le nuvole? E’ vero?”
“Lisa, amore… Lollo è solo un pupazzo e…”
“No no, è un orso istruito, me l’ha detto papà che gli ha insegnato tutto lui. E papà sa un sacco di cose.”
Annuì con convinzione, consolidando la presa sul pupazzo.
Ed al capitano non restò che annuire, scoprendo che sua nipote si stava rivelando più simile del previsto a Vato. Lanciò un’occhiata malevola al pupazzo che aveva detestato in diverse occasioni.
E così ci si rivede, vigliacco… adesso ti metti ad aiutare contro i temporali. Per Vato ho dovuto fare tutto io inventandomi questa ridicola storia del poliziotto dei temporali, credi che non me ne ricordi?
“Aspetta che lo dica a Jilly e Jody quando vengono a giocare!”
“Che? No… amore, non credo che…”
“E l’ho detto già a nonna e lei si ricorda! Poi mi racconta bene la storia, sai? – Lisa era entusiasta come non mai e continuava a fissarlo con occhi adoranti – Me l’ha promesso! Zio, la vuoi ascoltare pure tu?”
Henry stava per rispondere affermativamente, ma un’occhiata gelida di Vincent lo riportò a più miti consigli.
“Magari un’altra volta, tesoro. Ora devo andare!”
“Scappa pure, vigliacco – sibilò Vincent – ma ti assicuro che se la voce si diffonde la tua testa cade.”
“Che cosa è caduto, nonno?”
“Niente, amore mio, niente.”
“Uh! Lo sai che stamane ho incontrato anche zio Roy e l’ho detto pure a lui?”
E a Vincent crollò il mondo addosso… perché quel maledetto doveva essere in paese proprio in quella settimana?

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Capitolo 8
*** Come le corde di un violino ***


Protagonisti: Jilly Havoc, Rey Falman


Come le corde di un violino

 
Quel piccolo angolo di mondo, 1925

Durante la propria adolescenza capita di avere delle giornate negative, ma sembrava che Jilly dovesse superare qualsiasi record mai stabilito. Quei quindici anni proprio la facevano uscire fuori di testa con un corpo che cresceva più in fretta del previsto ed un’anima che invece voleva restare sempre bambina. Perché quando si cresce i genitori diventano meno indulgenti verso determinati atteggiamenti: certi modi di vestire e di comportarsi non vanno più bene e persino tuo padre, in genere così comprensivo, ti chiede di essere più tranquilla.
E dunque capisci di non andare bene e ti fa male, tanto.
Perché vedi che le altre ragazze attorno a te non hanno alcun problema a diventare grandi e belle. E quindi odi tua cugina che già ad undici anni è dolce e carina, con tutti gli adulti che le sospirano attorno, guardando già alla splendida donna che diventerà. E detesti anche quella che, nonostante tutte le differenze, è la tua amica più stretta perché anche se il suo corpo cresce con maggior discrezione, vedi che la sua mente è già tesa verso grandi progetti, verso mete lontane come l’Università.
E tu?
Tu ti senti sperduta, imprigionata in un limbo che ti tira verso quella che eri, ma che al contempo ti turba con sensazioni che non avevi mai provato e che non vuoi provare.
Che cosa ti resta da fare?
Specie quando tuo padre ti ha appena dato uno schiaffo e ora ti guarda incredulo ed imbarazzato, come se non si capacitasse di averti appena colpito.
“Jilly, chiedi scusa a tua madre…” la sua voce cerca di recuperare il tono autoritario.
Ma perché proprio tu, papà… non è da te… non è da noi.
“No…” non abbassi lo sguardo, non ti metti a piangere, nonostante la guancia bruci così tanto.
“Chiedile scusa, avanti. Certe cose non devi mai dirle, sono stato chiaro?”
Perché difendi lei e non me? Perché fai tutto il contrario di quello che dovresti fare? Perché i tuoi occhi mi sembrano così ostili, come se li vedessi per la prima volta?
“Ho ragione io…”
“Non è questione di chi ha ragione o meno, signorina – la voce così severa ti fa più male dello schiaffo – è questione di rispetto nei confronti di tua madre. Adesso chiedi scusa.”
Chiedere scusa.
Ossia dare conferma al mondo che sei tu in errore. Ammettere con te stessa che sei tu quella sbagliata, quella che deve cambiare. E’ quello che vuoi? Sei davvero pronta per farlo? Sei davvero pronta a cedere a tuo padre che ti ha appena schiaffeggiato perché hai detto una parolaccia a tua madre… per uno stupido litigio su un vestito rovinato?
“MAI!”
 
Jilly Havoc correva per la campagna.
Non era una corsa felice e spensierata, ma piuttosto una fuga. Senza una meta od uno scopo preciso, con la dolorosa consapevolezza che non avrebbe mai avuto il coraggio di scappare di casa per davvero. Era solo uno sfogo fine a se stesso, l’illusione per un paio di ore di poter fare quello che voleva lei.
Ma essere consapevoli della futilità di quel gesto non aiutava a sentirsi meglio.
Arrivata ad una staccionata che separava un campo di grano da una piccola pineta, si fermò per riprendere fiato, le lacrime che scivolavano sul viso assieme alle gocce di sudore. Il caldo estivo le aveva appiccicato i capelli sulla fronte e sulle spalle, una sensazione al dir poco fastidiosa, così come la frustrazione che provava dentro il suo giovane e irrequieto corpo.
Voleva solo un po’ di pace.
Pace…
Alzando la testa all’improvviso si accorse del suono del violino: arrivava dalla pineta oltre la staccionata, portato dalla stessa brezza estiva che le accarezzava il viso accaldato.
D’istinto chiuse gli occhi e rimase ad ascoltare.
Pace.
Non gliel’aveva mai detto, ma ci sapeva davvero fare con quello strumento.
Al contrario di quelli che lo suonavano alle feste, lui esprimeva il meglio di sè come solista… perché una festa non è adatta all’improvvisazione, a rendere le emozioni tramite musica. Alle feste si suona per gli altri e non per se stessi.
Dopo circa un minuto Jilly si decise a scavalcare la staccionata, seguendo quella musica così chiara e limpida: poteva immaginare le dita snelle ed esperte che si muovevano su quelle corde tese, provocando suoni così armoniosi e belli, capaci di penetrarle dentro il cuore e di darle la serenità che cercava.
Si fermò a pochi metri da una piccola radura, posandosi contro il tronco di un albero per poterlo osservare meglio.
A diciassette anni era davvero alto e slanciato, ma nel suonare il suo corpo assumeva un’armonia tutta speciale che non aveva nella quotidianità, dove ancora cercava l’affiatamento con una crescita troppo precoce. Ma era il viso che mutava in questi momenti: l’espressione era così serena eppure concentrata, gli occhi chiusi come se fosse perso in un mondo tutto suo.
Che cosa pensi quando suoni? – si chiese Jilly, osservando quelle dita perfette che danzavano sulle corde del violino – Che cosa ti permette di creare un qualcosa di così meraviglioso?
Sospirò lievemente e questo bastò per far accorgere il violinista della sua presenza… la musica smise e assieme ad essa anche la magia del momento.
Le mani si fermarono e il viso si girò di scatto, tornando ad essere semplicemente Rey Falman.
“Jilly – la salutò, senza però muoversi verso di lei – che hai?”
“Niente, che cosa posso avere?”
Ti riferisci a queste lacrime? Oh suvvia, puoi anche immaginarlo…
E l’espressione era tornata quella timida ed impacciata, quella del ragazzo che, nonostante la buona volontà, non sapeva mai come prenderla per il verso giusto
“Vuoi…” iniziò con imbarazzo.
“Suona ancora – lo bloccò, lasciandosi scivolare seduta sull’erba e posandosi contro l’albero – come se non ci fossi, avanti.”
“Ma tu stai…”
“E’ tutto quello che ti chiedo… è così difficile?” sbottò.
Si mise a fissare l’albero davanti a lei con ostinazione, la sua idea di scomparire che tornava prepotente a farsi avanti. Via… via da quel mondo così poco comprensivo.
La musica riprese a suonare, una nuova melodia questa volta, ma sempre improvvisata.
Come posso scappare dal mondo se la tua musica include anche me?
Può un violino suonare per due anzi che per uno solo?
Non smettere… suona il tuo violino per me… solo per me.

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Capitolo 9
*** Frammenti di San Valentino ***


Protagonisti: Un po' tutti


Frammenti di San Valentino

 

Rosie McLane fissava la sua tazza con le lacrime agli occhi. Si sentiva una stupida ad essersi fatta delle illusioni, ma era stato più forte di lei. Sul tavolo del negozio oltre alle due tazze, di cui una desolatamente vuota, c’era anche un piattino con diversi biscotti a forma di cuore.
Ma lui non verrà, lo sapevi – si disse, asciugandosi col dorso della mano una singola lacrima – ti ha avvisato che sarebbe stato impegnato in una missione e…
La porta si aprì con un fracasso tale che lei fece un salto nella sedia, rischiando di rovesciare il caffè.
Un Vincent Falman incredibilmente con la divisa trasandata ed i capelli arruffati corse verso il tavolo.
“Scusa! Scusa! Scusa! – le disse prendendole le mani e baciandola sulle labbra – Sono in ritardo, lo so… e devo scappare entro i prossimi trenta secondi. E’ già una follia che io sia venuto qui e… oh, che diamine. Buon San Valentino, amore mio. Giuro che… giuro che festeggiamo appena risolvo questo caso, mi faro perdonare… però ora devo andare!”
E con un ultimo bacio frettoloso, l’uragano uscì dalla porta rapido come era arrivato.
Rosie fece appena in tempo a restituire il saluto che le fece dalla vetrina mentre correva via per le strade innevate ancora buie di prima mattina.
Come tutto finì sentì che la sala era incredibilmente silenziosa, però poi scoppiò a ridere e si sentì la donna più felice del mondo.
Uno strappo alla regola era il miglior regalo di San Valentino che potesse ricevere.
 
~
 
“Max Maffer – sbottò Daisy – tra tutte le cose che potevi… oh, meglio che mi stia zitta!”
“Ma dai, meravigliosa fatina! – le corse dietro il poliziotto – Anche se non vuoi ancora cedere non potevi certo pensare che per San Valentino non ti facessi un dono!”
“E ti pare un dono da farmi?!” la ragazza furente gli lanciò lo strofinaccio addosso.
“Ma perché? Sono andato sul tradizionale…”
“Cioccolatini!”
“Credevo ti piacessero…”
“Della pasticceria che ci fa concorrenza!”
“Beh… se li prendevo qui mi avresti scoperto.”
“Lasciamo stare che è meglio!”
 
~
 
“E dai, James, smettila e lascia fare a me…” Angela si sedette con rassegnazione su una sedia della cucina e osservò il marito che, in versione casalinga, si cimentava nella preparazione di un dolce.
“No, no! – le lanciò un occhiataccia lui – sei rimasta tutto il giorno a lamentarti che per San Valentino non facevo mai niente di speciale… che sono insensibile, che questo, che quest’altro… adesso ti faccio vedere io!”
“Mi fai vedere come devasti la cucina per una crema che stai palesemente massacrando? Dai, caro, scherzavo… lo sai che ti amo, non essere permaloso!”
“Ehi, sembri quasi sincera…” James la guardò con perplessità.
“Certo che lo sono – sorrise lei alzandosi in piedi – su, perché rovinarci la mattinata? I ragazzi sono a scuola, l’emporio è chiuso per l’inventario e…mh! James!”
Lui l’aveva già imprigionata tra le sue braccia e l’aveva spinta con la schiena contro il tavolo.
“Comunque San Valentino merita qualcosa di speciale, hai ragione – disse l’uomo, baciandola sul collo – fare l’amore in cucina è qualcosa che non abbiamo mai provato, vero scheggia?”
E nessuno dei due si accorse della crema che, priva di controllo usciva dal pentolino andando a sporcare tutti i fornelli.
 
~
 
“Hey, Hevans, è arrivato un pacco per te!”
Un commilitone gli lanciò un pacco avvolto nella carta marrone e subito questo scatenò le risate di tutti gli altri soldati presenti in sala ricreativa. Ricevere un pacco il giorno di San Valentino era sempre sinonimo di prese in giro: incredibile quanto valorosi soldati si potessero trasformare in ragazzini maliziosi.
Ma Henry Hevans liquidò la questione con una scrollata di spalle e uscì dalla sala per andare a rifugiarsi nel dormitorio vuoto. Con un sorriso aprì il pacchetto e non rimase per nulla sorpreso di trovarci, avvolti nella carta, i cioccolati imperfetti e dal sapore assai dubbio.
Prese la lettera che stava in fondo alla scatola e sistemandosi sdraiato nel letto sorrise nel leggere le prime righe
“Caro fratellone,
rassegnati, anche quest’anno sei destinato ad essere l’uomo della mia vita, o del mio San Valentino. Del resto qui in paese sono tutti così ordinari che uno speciale come te non potrei mai trovarlo…”
“Più che giusto, follettino – ridacchiò, addentando il primo cioccolatino – più che giusto…”
 
~
 
Ellie non riusciva a trattenere una risatina deliziata mentre si faceva guidare da Andrew.
Era tutto così eccitante, non le sembrava vero che suo marito, il giorno del loro primo San Valentino da sposati, la stesse portando verso una destinazione sconosciuta. Appena usciti di casa l’aveva bendata e l’aveva presa per mano, facendosi promettere di non sbirciare e non fare domande.
Sapere che il razionale Andrew Fury stava facendo una cosa simile era veramente incredibile.
“Attenta, c’è un piccolo dislivello – la avvisò la voce del marito mentre le sue mani la afferravano per la vita sottile e la sollevavano – siamo quasi arrivati.”
“Sono così eccitata! – ammise la donna – Quando posso togliermi la benda?”
“Adesso…” le disse lui, provvedendo personalmente a levargliela.
“Ma – la giovane rimase perplessa – è… è Corso… il cavallo che monti tu quando andiamo a cavalcare con papà.”
“Sì, lo so – sorrise lui mestamente rigirandosi la benda tra le mani e fissando il grosso baio legato ad un albero – è tutto meno che il cavallo bianco delle favole, quello sarebbe Blanco… Però, insomma, ho pensato che tutto sommato non abbiamo mai fatto una cavalcata assieme, con io che ti tenevo davanti a me, sai come nelle favole. E dato che a te piacciono un sacco queste cose…”
“Oh, Andrew! – commentò lei arrossendo – Questa è la cosa più romantica del mondo!”
“Però andiamo solo al passo, va bene?”
“Andrà benissimo!”
 
~
 
“Carissima Elisa,
con questo biglietto volevo farti i migliori auguri per un bellissimo San Valentino.
A dire il vero, è più corretto dire che questa festa venne istituita per andare a sostituire i lupercalia, ossia la festa in onore di Fauno Luperco, protettore degli ovini e dei caprini e…     -> o andiamo, vuoi fare una lezione anche nel biglietto di San Valentino! Bravo, complimenti!
Spero che apprezzerai anche le rose rosse ed i cioccolatini che accompagnano il biglietto. Ovviamente sono tutte cose tradizionali. Sai, mi sono documentato ed effettivamente è una pratica che risale ai tempi dell’amor cortese e al circolo di Geoffrey Chaucer
 ma non vorrei che tu pensassi che per questo ti ami di meno gli altri giorni dell’anno.
Insomma… sono la persona più fortunata del mondo ad avere te che mi sopporti in tutto e per tutto.
Per me sei più importante di qualsiasi cosa, darei tutti i miei libri per poter passare solo un minuto con te.
                                                                              Sei davvero sprecato come romantico, Vato Falman!!”
Elisa, arrossendo felice, si strinse al petto quella lettera tutta stropicciata e macchiata d’inchiostro.
Chissà che faccia avrebbe fatto Vato quando si sarebbe reso conto di aver messo nella busta la versione originale e non la bella copia.
 
~
 
“Dei fiori, capisci? Madama pretendeva dei fiori – Jean ancora teneva il broncio mentre fissava il sentiero che scorreva sotto i suoi piedi – E la prossima volta che vorrà? Un anello di fidanzamento? Col cavolo che mi frega!”
“Sì, sì – sbottò Heymans, tirandolo per la manica – continua pure. Ma fatti dire in tutta sincerità che se lei ti ha chiamato mostro insensibile ha anche ragione… Cazzo, Jean, a San Valentino si fa un regalo alla propria fidanzata!”
“Lei è la mia ragazza, è diverso… e poi ho sedici anni e lei quindici, insomma non mi pare ancora il caso.”
“Adesso tu entri in questo dannato negozio – Heymans lo spinse dentro la drogheria – compri dei dannati cioccolatini e poi vai da lei e le chiedi scusa.”
“Va bene! – sbottò il biondo – ma solo perché altrimenti non la finiresti di assillarmi.”
“Certo, certo! Come no! Io intanto vado a recuperare quell’altra scema… vi giuro che sto iniziando a stufarmi di dover fare da paciere per ogni vostro litigio.”
“Heymans…”
“Sì?”
“Se glieli compro a forma di cuore pensi che mi perdona?”
 
~
 
Riza stava seduta nella piccola radura intenta a leggere un vecchio libro di poesie.
Si sentiva estremamente serena quel pomeriggio: la sua nuova vita con i Fury era perfetta e finalmente si poteva definire in pace con il mondo. Persino la quiete che respirava tra quegli alberi era diversa da quella che provava prima che quell’anno sconvolgesse le vite di tutti loro.
Con un sospiro chiuse gli occhi e si appoggiò contro il tronco, avvolgendosi meglio nel cappotto pesante.
Non seppe se passarono pochi secondi o furono minuti, ma all’improvviso sentì delle labbra posarsi sopra la sua fronte.
Aprì gli occhi e vide Roy davanti a lei che le sorrideva.
“Ciao, colombina – la salutò – come stai?”
“Ciao – rispose lei al saluto, mentre il ragazzo le si sedeva accanto, più vicino di quanto fosse mai successo – tutto bene, e tu?”
“Splendidamente.”
Non dissero null’altro, il libro di poesie che restava aperto sul grembo della giovane con una vecchia foglia secca a tenere il segno.
Poi Riza reclinò il capo e si posò contro la spalla di Roy. Automaticamente la testa bruna si posò su quella bionda.
Non ci poteva essere San Valentino migliore.
 
~
 
Qualcosa picchiò contro la finestra ed alzando lo sguardo dal libro di elettronica Kain sgranò gli occhi nel vedere una sorridente Janet seduta sul ramo dell’albero.
“Janet! – esclamò, correndo ad aprire la finestra – Che fai lì? è pericoloso!”
“Pericoloso? – lo prese in giro la sedicenne sorridendo – Suvvia, non ti sei mai arrampicato sugli alberi? Questo poi ha così tanti rami che è un vero e proprio scherzo!”
“Dai, fai attenzione – il giovane tese la mano per farla salire sulla tettoia piatta – Non potevi direttamente bussare alla porta? Guarda che puoi venire qui quando vuoi.”
“Volevo farti una sorpresa – scosse il capo lei, mentre la lunga treccia bionda le scivolava dietro una spalla – sai che giorno è oggi?”
“Sabato quattordici, perché?” chiese Kain, afferrandole con sollievo il braccio e facendola sedere sul davanzale della sua finestra. Non l’avrebbe mai mollata, non voleva assolutamente che per un nonnulla cadesse e si facesse male.
Ma i suoi pensieri sulla sicurezza in generale vennero interrotti dal bacio che lei gli diede sulla guancia, seguito immediatamente da un forte abbraccio che lo imprigionava letteralmente.
“Buon San Valentino, esperto di elettronica – mormorò la giovane – ti amo con tutta me stessa.”

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Capitolo 10
*** Amore di cognato 2 ***


Protagonisti: Kain Fury, Janet Havoc, Jean Havoc e un po' tutti gli altri


Amore di cognato 2

 

Se c’era una tradizione che Kain amava erano i pranzi tutti assieme: gli piaceva tantissimo quando tutti loro si riunivano nella grande casa degli Havoc per passare una bella domenica. Adesso che poi la nuova generazione si stava infoltendo era ancora più bello: osservò con grande simpatia il piccolo Rey che si era beatamente addormentato tra le braccia di Elisa e poi spostò l’attenzione a Riza, ormai prossima al parto e a Rebecca che, invece, era appena entrata nel sesto mese di gravidanza.
Era un trionfo della vita, della natura, ma anche dell’amicizia di tutte le loro famiglie.
Una stretta alla sua mano lo fece girare verso la sua fidanzata: Janet era seduta accanto a lui e lo fissava con malizia ed aspettativa. Oramai era più di un anno che erano fidanzati ufficialmente tanto che persino Jean sembrava essersi messo l’anima in pace.
Adesso il lavoro come perito elettronico si era avviato, considerando che il paese era ormai aperto alle innovazioni, e dunque Kain aveva tutte le carte in regola per poter mettere su famiglia. Lui e Janet ne avevano parlato davvero tanto nelle ultime settimane, disegnando i loro meravigliosi e semplici progetti mentre stavano sdraiati sui prati di campagna a godere ciascuno dell’altro.
Si trattava solo di rendere partecipi il resto di parenti e amici.
E quel pranzo era il momento ideale per fare l’annuncio.
“Che ne dici?” sussurrò la ragazza.
“Dico che è il momento giusto – sorrise lui, baciandola in fronte – allora tra quattro mesi? Il due dicembre?”
“Il due dicembre! – annuì lei, felicissima – il giorno dopo l’anniversario del fidanzamento! Oh, Kain, sono così estasiata!”
Il giovane arrossì nel vederla così carica di aspettative: non gli sembrava vero che Janet fosse al suo fianco, pronta a condividere con lui il resto della vita.
“Ehi, scusate – si alzò, richiamando l’attenzione di tutti – vorrei fare un annuncio importante!”
“Un altro grande progetto di una radio?” lo prese in giro Roy, lanciandogli un’occhiata maliziosa.
“No, dai! – ridacchiò il giovane – E’ una cosa ben diversa.”
“Suvvia, Roy, smettila – sorrise bonariamente Riza, mettendosi una mano sul pancione – avanti, Kain, dicci tutto quanto: dev’essere davvero importante se addirittura ti alzi in piedi.”
“Effettivamente – annuì lui, arruffandosi i capelli con imbarazzo – riguarda me e Janet. Ecco noi…”
Una prima forma di brivido gli attraversò la schiena, ma la felicità del momento glielo fece ignorare.
“… come dire… dunque… io e Janet abbiamo deciso di sposarci… il due dicembre!”
Ecco l’aveva detto: adesso si sarebbe scatenato il classico applauso con i relativi complimenti, proprio come era successo tutte le altre volte che era stato annunciato un matrimonio o una gravidanza. Insomma, era un’ovvia conclusione della loro relazione ed era chiaro che tutti si aspettavano un simile annuncio, però era giusto ufficializz…
“Questo matrimonio non s’ha da fare! Nano! Come osi anche solo presentarti a casa mia con una simile proposta?”
Quella voce furente spazzò via qualsiasi inizio di congratulazioni e Kain si trovò come sempre paralizzato dall’antica paura.
Ma… ma non aveva accettato la cosa?
“Jean fermati!” la voce di Janet in qualche modo sbloccò il giovane, ma era troppo tardi.
Diverse voci e mani avevano cercato di bloccare Jean, ma nell’arco di due secondi il robusto Havoc aveva raggiunto il futuro cognato e l’aveva sollevato per sbatterlo sopra il tavolo di schiena, incurante dei piatti e della torta schiacciati.
“Jean…” balbettò Kain, con le lacrime agli occhi… ma perché ogni volta doveva finire con minacce alla sua persona?
“Per due anni ho tollerato che tu frequentassi mia sorella…” sibilò il biondo.
“Jean, da bravo, calmo!” cercò di bloccarlo Heymans.
“… e pensavo che capissi l’antifona… ho cercato di essere comprensivo con te, Fury, ma è chiaro che vuoi proprio morire!”
“Jean, dannazione a te, smettila – Rebecca, nonostante il pancione, gli diede un ceffone sulla nuca – stai rovesciando tutti i piatti! E’ il servizio buono! E lascialo stare! Sono anni che lo perseguiti!”
“Idiota di un fratello smettila con questa storia! Ho diciannove anni, mi sposo chi mi pare!”
“Tu parti per il convento domani mattina! E quanto al tuo amante… pulirò quest’onta col sangue!”
“Ma non dire cazzate!” sbottò Heymans dandogli un calcio nel sedere.
“Amante! Amante? – Janet si alzò dal suo posto furente – Proprio tu che ti rotolavi con Rebecca tra i sacchi di farina dell’emporio che manco avevate diciassette anni!”
“Janet!” esclamò Rebecca arrossendo.
“E dai che lo sapevano tutti! Stupido bestione – la ragazza iniziò a tirare Jean per la camicia – metti un po’ di sale in quel poco di cervello che hai… lascia stare subito il mio fidanzato! Impiccati!”
Arrivò ad afferrare Kain per un ciuffo di capelli, quasi a sottolineare che era di sua proprietà.
“Impicco lui e poi do il suo cadavere in pasto ai corvi! – replicò il fratello – E adesso non oserai dirmi che ha osato attentare alla tua virtù!”
“Magari l’avesse fatto! Mi sarei concessa più che volentieri!”
“Tesoro – James arrivò e la prese per le spalle – adesso non mi per il caso di esternare… simili dettagli!”
“Andrew! Fai qualcosa che lo sta ammazzando!” supplicò Ellie.
“Andiamo, Jean…” arrivò pure Roy a cercare di riportare la pace, mentre il piccolo Rey si svegliava per quel trambusto ed iniziava a piangere.
“Jean Havoc, smettila – sospirò Vincent – non sono in servizio, però ti assicuro che…”
“Queste sono questioni di famiglia! – Jean li allontanò tutti – La legge ufficiale non c’entra!”
“Tu capisci solo la legge delle sberle!” Janet partì all’attacco dando un ceffone alla nuca già rossa del fratello.
“Se… se ne potessimo parlare con… con calma…” provò a supplicare il giovane Fury.
“SIAMO CALMI!” esclamarono all’unisono fratello e sorella.
E Kain… per cinque orribili secondi… desiderò non aver mai conosciuto i fratelli Havoc.



___
con particolare dedica a xingchan dato che ha scelto lei :D

 

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Capitolo 11
*** Un gesto gentile ***


Protagonisti: Vincent Falman


Un gesto gentile

 
New Optain, 1862
 
Per poter scrivere decentemente era necessario levarsi i guanti, ma questo voleva dire che, nell’arco di un minuto, le mani diventavano fredde e le dita facevano difficoltà a tenere la penna nel modo corretto. Il fatto di dover poi tenere in quaderno sulle ginocchia, mentre stava seduto su quel barile, in attesa di ordini, rendeva tutto ancora più difficile.
Ma Vincent cercava di non far caso a quei dettagli: appena terminava un’operazione si portava le mani alla bocca, soffiandoci sopra per scaldarle un minimo. Il tutto mentre la sua mente ignorava il freddo immergendosi nei calcoli delle lezioni spiegate il giorno prima a scuola.
Continuava a tirare su con il naso, segno che il raffreddore, anche quell’inverno, sarebbe stato il suo compagno fedele: tra classe fredda, consegne da fare sotto tutta quella neve e quanto altro era proprio il caso di dire che era andato a cercarsela.
O per lo meno era sicuramente quello che avrebbe detto sua zia quando l’avrebbe scoperto.
Quel pensiero causò una smorfia di disappunto nel viso del dodicenne: se c’era una cosa che detestava era quando quella donna lo faceva sentire più in colpa di quanto già non lo fosse. Quasi quasi sarebbe stato preferibile ammalarsi seriamente e finire in ospedale: i medici di certo non ti squadravano con astio se ti vedevano soffrire per una febbre alta.
Scuotendo il capo a quei pensieri improduttivi che non l’avrebbero portato da nessuna parte, tornò a concentrarsi su quei problemi di matematica.
“Oh no – sbuffò, quando vide che il tratto della penna iniziava a fare difficoltà – non mi dire che si è di nuovo congelato l’inchiostro!”
Con disappunto iniziò a sfregare l’oggetto tra le sue mani, soffiando sopra la punta e cercando di risolvere quel problema: non poteva certo permettersi di comprare una nuova penna… doveva dare la precedenza al libro di storia, altrimenti non avrebbe potuto studiare. Prendere appunti e stare attento non poteva bastare: aveva bisogno del testo per integrare tutto quanto ed andare bene.
Finalmente la penna sembrò recuperare un minimo di vitalità e, sebbene con qualche riluttanza, riprese a scrivere. Soddisfatto, Vincent continuò a risolvere i compiti, sperando che l’inchiostro resistesse fino alla fine.
“Ehi, ragazzo! – la voce del proprietario del negozio lo fece sobbalzare e per poco il quaderno non gli scivolò dalle ginocchia – Forza, hai una consegna!”
“Sissignore!” con rapidità Vincent scese dal barile e rimise penna e quaderno dentro la tracolla di scuola. Cercando di non fare caso allo sguardo impaziente del suo datore di lavoro, si rimise i guanti e si portò davanti a lui.
“Ecco la merce e nel foglio c’è l’indirizzo – disse, mettendogli tra le braccia un pesante sacco di carta – mi raccomando non fare danni e cerca di tornare entro mezz’ora.”
Vincent diede un’occhiata all’indirizzo e sussultò: mezz’ora era pura follia… sarebbe stato fattibile con tempo buono e senza la neve. Ma per come si stava mettendo quel pomeriggio di dicembre ci sarebbero voluti, ad essere ottimisti, almeno quaranta minuti.
Ma come sempre non si lamentò o fece opposizione: cercò invece di raccapezzarsi su qualche possibile scorciatoia per poter guadagnare qualche prezioso minuto. Con un’ultima occhiata di rammarico al suo angolino con il barile, si apprestò ad uscire per effettuare la consegna.
 
Se c’era una tipologia di clienti che odiava erano le zitelle acide: ogni volta che aprivano la porta lo squadravano con occhio malevolo, quasi ad accertarsi che non fosse un ladruncolo di strada. Nemmeno gli dicevano di entrare: lo lasciavano fuori ad aspettare, a prescindere dal tempo, mentre loro andavano a recuperare i soldi. E mai una volta che qualcuna gli desse una mancia.
Nemmeno dopo che si era fatto una corsa sotto la neve.
“Certo che lo potevi proteggere meglio questo pacco, eh?”
La signora si era anche lamentata, forte del suo vestito di lana e del calore che veniva da dentro la sua casa.
Gli aveva dato i soldi con malagrazia e firmato la ricevuta come se fosse stato un gesto che le costava chissà che cosa… mentre probabilmente aveva solo interrotto, per tre miseri minuti, un pomeriggio passato ad oziare davanti al caminetto.
Con un sospiro Vincent si preparò a tornare alla base: lanciando un’occhiata ad un orologio appeso fuori da un negozio si rese conto che la mezz’ora era quasi scaduta. Un quarto d’ora di ritardo buono era inevitabile.
E speriamo che non decida di levarmelo dalla paga come l’altro mese…
Iniziò ad attraversare la strada quando il suo istinto lo avvisò del pericolo.
Fece giusto in tempo  a fare un balzo indietro per evitare di venir travolto da una carrozza che correva a tutta velocità sulla strada innevata. Lo spruzzo di neve sollevato dalle ruote lo colpì in pieno e in nemmeno due secondi si trovò seduto a terra praticamente fradicio e sporco della neve sporca tipica delle strade.
“Dannazione…” mormorò con rabbia, cercando di ignorare tutti quei mormorii attorno a lui.
Con un sussulto di sorpresa si accorse che nell’impatto la tracolla si era aperta ed il materiale di scuola era in parte finito sulla neve. Subito si affrettò a raccoglierlo, sperando che le pagine di libri e quaderni non fossero state troppo inzuppate dalla neve.
Ed in tutto quel caos nessuno che gli desse una mano, anzi, doveva far attenzione lui a non farsi calpestare dalla folla che aveva ripreso il suo viavai nel marciapiede.
“La penna… manca la penna…” commentò infine, guardando con ansia in quel disastro di neve calpestata e piedi. Questo sì che era un guaio e non…
“Tieni.” si girò di scatto e rimase sorpreso nel trovarsi davanti una bambina, avvolta in un cappotto rosa che decisamente era troppo grande per lei. Due occhioni scuri spuntavano dall’unica parte di viso visibile, dato che una sciarpa pesante le copriva la bocca ed il naso ed un berretto le arrivava a metà fronte, lasciando intravedere solo qualche ciuffo di capelli neri.
La mano guantata gli porgeva la penna fradicia.
“Oh…” rimase interdetto Vincent.
“E’ tua, no?” chiese timidamente la bambina, tendendo maggiormente la mano.
“Sì… grazie…” rispose lui, prendendola.
“Di niente!” lei sorrise, di certo lo fece, anche se la bocca era nascosta dalla sciarpa: i suoi occhi si illuminarono di felicità, era evidente.
“Rosie! Rosie! – una voce fece girare i due ragazzini: a chiamare era un’altra bambina, sicuramente sorella maggiore della prima – Vieni, non restare indietro.”
“Arrivo, sorellona! Ciao, ciao!” salutò la bimba, prima di correre verso la compagna.
“Ciao…” riuscì a dire Vincent, quando ormai era fuori dalla portata d’udito. Ma la osservò mentre raggiungeva la ragazza più grande e le prendeva la mano.
Poi spostò lo sguardo sulla penna: oramai era andata, poco ma sicuro.
Però un gesto gentile aiutava a superare anche quelle brutte giornate.

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Capitolo 12
*** Talento in erba ***


Protagonisti: Andrew Fury, Lilia Fury


Talento in erba

 
Quel piccolo angolo di mondo, 1928
 
La penna premette sul foglio, lasciando il fatidico punto che segnava la fine della storia.
La mano le faceva male per lo sforzo di aver scritto per così tanto tempo nella migliore grafia possibile, facendo persino attenzione a calcolare bene lo spazio tra ogni parola, per evitare andate accapo che potevano in parte rovinare l’aspetto estetico.
La penna venne chiusa con cura e riposta nel suo prezioso astuccio: senza di lei non sarebbe riuscita a scrivere il suo primo vero romanzo, ne era certa. Quegli oltre duecento fogli, attentamente numerati, che ora stavano impilati con ordine sulla scrivania erano la summa di tutti quei mesi passati a lavorare alacremente, rimettendo assieme idee e pensieri, fino ad arrivare ad una trama compatta e sviluppata.
“La porta sull’oceano”
Le piaceva tanto quel titolo, scritto a caratteri leggermente inclinati sul primo foglio: se doveva essere sincera l’aveva scelto ancora prima di iniziare a scrivere la storia. Era un omaggio alla poesia di Julien Lewan, la sua preferita sin da quando era piccola e l’aveva imparata a memoria.
“Oh, come posso dimenticare un dettaglio così importante!”
Arricciando il naso con lieve disappunto per quella trascuratezza, recuperò la penna e, proprio sotto il titolo, in caratteri leggermente più piccoli scrisse il suo nome.
Quindi recuperò un nastro celeste dal cassetto e provvide a legare la sua grande opera, rimirandola come se fosse il pacco regalo più bello del mondo. Prendendola in mano la sentì incredibilmente pesante: e come poteva non esserlo? C’era tutta lei in quelle parole, in quella storia…
Ma forse… forse non…
Come sempre, dopo l’iniziale entusiasmo, i timori e la timidezza presero il sopravvento: a quattordici anni era molto ambizioso dire che aveva scritto un romanzo. Sicuramente il confronto con i veri romanzi della libreria della casa dei nonni era impietoso… così belli, con una sintassi così raffinata, personaggi così reali e meravigliosi.
Però, se continuo a fare confronti non troverei mai il coraggio…
“Oh, insomma, basta così!” con uno scatto deciso si alzò in piedi e prese la risma di fogli, stringendosela con forza al petto. Basta con pensieri improduttivi: del resto aveva fatto una promessa e aveva tutta l’intenzione di mantenerla.
“Mamma, papà! – esclamò, uscendo dalla sua camera e correndo giù per le scale – io sto uscendo, vado a casa dei nonni!”
 
“… spirale di onde spumose che si frange nelle rocce,
può il volo del gabbiano portarmi nell’oblio,
dove muore il tempo e rinasce il mondo?...
Ali bianche, forti e coraggiose
sfidano il mare e le tempeste, vogliose di vita.
La pioggia batte su un corpo bianco che ansima tra gli scogli.
Quella porta di un altro mondo ancora chiusa oltre il mare.” 
Andrew chiuse il libro di poesia con un lieve sorriso: a volte gli capitava, mentre passava davanti alla grande libreria, di ricordarsi di qualche passaggio particolare di poesie o romanzi. Allora, automaticamente, la sua mano correva al libro in questione e ricercava la pagina giusta, rileggendo quelle righe per l’ennesima volta.
Quella poesia di Lewan, poi, era una delle sue preferite: ad essa erano legati un sacco di ricordi della sua giovinezza, quando lui ed Ellie avevano fatto quello strano patto di farsi leggere a vicenda i propri quaderni.
“Ecco – disse proprio la donna, raggiungendolo da dietro – sarebbe proprio la cosa migliore da fare: smetterla con i tuoi progetti e dedicarti alle letture.”
“Ti ho già promesso che l’anno prossimo andrò in pensione, meraviglia – le strizzò l’occhio – anzi, se ci pensi sono solo una decina di mesi ancora… meno di un anno. E poi lo sai che mi occupo dei progetti: il lavoro vero e proprio lo fanno gli operai.”
“Come se non ti conoscessi – sbuffò lei, mentre un ciuffo ribelle, leggermente striato di grigio, le cadeva sulla fronte – ti strapazzi troppo, Andrew Fury, e alla tua età non va bene.”
“Non mi strapazzo più del necessario – la consolò l’uomo, prendendole il viso tra le mani e baciandole il naso – e tu sei bellissima, te l’ho mai detto?”
“Cambi argomento…” ridacchiò lei, mentre veniva baciata anche sulla fronte.
“Per dirti quanto ti amo? Può darsi, dopotutto…”
“Nonno! Nonno!”
Sentendo la porta d’ingresso che veniva chiusa con un tonfo, marito e moglie si staccarono con aria colpevole. Ma subito si ricomposero e si girarono verso la soglia del salone giusto in tempo per veder comparire Lulù tutta trafelata e con il fiatone.
“Cielo, cara – subito Ellie si accostò alla nipote e le sistemò la frangetta scompigliata – sei stravolta… non mi dire che hai corso da casa fino in paese!”
“Oh… forse, anzi sì! – ammise la ragazzina arrossendo e abbassando lo sguardo – Però è una cosa importante, lo giuro. Devo… devo parlare col nonno!”
“Davvero? – Andrew si accostò a loro e le cinse le esili spalle – Per la mia principessina questo e altro. Allora di cosa si tratta?”
“E’… è personale…” ammise Lulù, tormentando la tracolla che indossava.
“Ho capito, tranquilla – ridacchiò Ellie, baciandole la guancia – vi lascio soli: tanto lo so che state sempre a complottare qualcosa. Dopo che finite venite pure in cucina: con una corsa simile sarai davvero affamata, signorina.”
 
Lulù continuava a tormentare la sua tracolla, sentendo il cuore che le impazziva dall’ansia.
Adesso che si trovava al dunque aveva paura di tirare fuori il suo prezioso manoscritto. Eppure era suo nonno, la persona con cui trovava più facile confidare le sue piccole aspirazioni… persino più che con suo padre e sua madre.
Coraggio… coraggio… gliel’hai promesso…
“Allora, cucciola?” le chiese Andrew con un sorriso rassicurante, mentre le accarezzava i capelli castano chiaro.
“Ecco io… io… l’ho finito!” finalmente si decise e con mano tremante ed impulsiva aprì la tracolla e tirò fuori la sua fatica letteraria. L’emozione fu tale che per poco non la fece cadere e fu grazie all’intervento di Andrew che i fogli non sfuggirono al nastro che, durante il viaggio, si era leggermente allentato.
Ecco, l’aveva fatto: era il punto del non ritorno.
Per la prima volta in vita sua faceva leggere a qualcuno le sue personalissime opere.
“Titolo interessante – commentò Andrew, provvedendo a sistemare meglio i fogli – sono sicuro che sarà bellissimo: del resto è scritto dalla mia piccola autrice in erba.”
“Oh, non prendermi in giro, nonno! – supplicò lei – Ci ho lavorato tantissimo, non è un gioco.”
“Mai pensato, mia cara – la rassicurò l’uomo – anni fa conoscevo un’altra scrittrice in erba e scommetto che sei talentuosa almeno quanto lei.”
“E’ un po’ pesante – spiegò la ragazza, cercando di dare istruzioni per la lettura – e bisogna fare attenzione all’intreccio. E poi ci sono scene a volte tristi, però era indispensabile… insomma, del resto la poesia di Lawen non è certo allegra.”
“Julien Lawen, accidenti che ispirazione.”
“Lo leggerai e mi dirai il tuo parere?”
“Ovviamente, tesoro: ti darò le mie più sincere opinioni.”
“Mi raccomando, non fare caso al fatto che io sia tua nipote, eh! – si raccomandò lei – Ecco… ti va di iniziarlo adesso? Perché… ecco, io non so se potrei aspettare tanto tempo!”
Andrew nascose un sorriso nel vedere la sua ansiosa nipote saltellargli attorno come un grillo impazzito.
Gli anni avevano confermato quanto si intravedeva quando ancora era bimba: Lilia Fury era diventata un piccolo gioiello a soli quattordici anni; armoniosa, dolce, con quegli occhi blu così splendenti che la rendevano indimenticabile. E se il corpo prometteva di diventare come quello della madre, tuttavia la delicatezza dei lineamenti le era stata donata a piene mani dalla nonna paterna.
Così come il talento letterario.
“Che c’è?” chiese la ragazzina, notando di essere fissata con attenzione.
“Niente, tesoro – rispose con dolcezza Andrew, dandole un buffetto sulla guancia – scommetto che l’hai scritto con la penna che ti ha dato tuo padre, vero?”
“Ovviamente! – annuì lei con orgoglio – E’ vero che me l’ha regalata l’anno scorso, ma ho voluto usarla per la prima volta per questo romanzo. Del resto è una penna per le cose importanti, non è così che gli hai detto quando gliel’hai regalata? Sai, gli chiedo sempre di raccontarmelo!”
“A lui e a me, Lulù – la baciò in fronte – mi sentirò enormemente fiero quando potrò dire di essere il proprietario dell’originale manoscritto del primo romanzo di una delle migliori scrittrici di Amestris. E non fare quel broncio, non sto mentendo.”
“Potresti almeno aspettare di aver finito il romanzo, non credi?” arrossì la ragazzina.
“Come dici tu – Andrew si accomodò nel divano – ti va di attendere qui?”
“Ovvio! Sempre che non ti disturbi – lei si appollaiò accanto a lui posando la testa sulla sua spalla – non… non ti disturbo, vero?”
L’uomo sorrise e la strinse a se prima di slegare quel prezioso nastro azzurro che in realtà sarebbe dovuto servire a tenere i capelli legati indietro. Ma sapeva bene quanto sua nipote avesse delle idee molto particolari riguardo certi argomenti, come la scrittura.
E a quel giro sembrava proprio che fosse la volta buona perché a casa Fury una scrittrice in erba portasse avanti il suo sogno.

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Capitolo 13
*** Salto ***


Protagonisti: Roy Mustang, Vincent Falman


Salto

 
Quel piccolo angolo di mondo, 1897
 
Era un salto di quasi dieci metri.
Nonostante Roy non soffrisse di simili paure, un lieve senso di vertigine lo colse quando guardò al di sotto dal cornicione di quel vecchio edificio abbandonato in mezzo alla campagna. La sfida era chiara e semplice: saltare ed atterrare nell’unica chiazza erbosa che c’era, evitando tutto il resto del terreno arido e roccioso di quel campo incolto ormai da decine di anni.
Facile e perfettamente fattibile: bastava calcolare bene il balzo e la potenza della spinta. Atterrare con le ginocchia ben flesse e mettere subito le mani al suolo per evitare un rimbalzo in avanti dove poteva farsi davvero male.
Coraggio, che aspetti?
Si guardò attorno, alla ricerca di un pubblico che lo sostenesse, ma non c’era nessuno ad assistere a quella silenziosa prova di coraggio che aveva deciso di fare. Non aveva voluto dirlo ai suoi amici, forse per paura di essere bloccato, ma anche perché ogni tanto sentiva il bisogno di mettere alla prova sé stesso in totale solitudine.
Il suo piede destro si sporse leggermente in avanti fino al bordo di quel cornicione pericolante; gli occhi scuri tornarono a fissare quell’unico punto d’erba morbida che, ad ogni occhiata, sembrava sempre più piccolo.
Come pretendi di poter andare via da qui se hai paura di simili prove?
Scosse il capo con forza, mentre tutto l’orgoglio dei suoi sedici anni appena compiuti si faceva sentire con prepotenza. Sarebbe potuto andare via tranquillamente, nessuno l’avrebbe visto: la sua dignità non avrebbe subito nessuno scossone.
No, bugia! Tu saprai per sempre di aver avuto paura e di essersi tirato indietro!
Davanti a quella prospettiva anche il piede sinistro si portò più vicino al bordo; quasi contemporaneamente le mani tastarono indietro, fino a sentire il rassicurante contatto con il muro scaldato dal sole di ottobre.
Certo che quelle pietre potevano davvero far male… e lui aveva anche i pantaloni al ginocchio. E se si feriva in maniera grave ad una gamba? Come avrebbe fatto a tornare indietro? In quella zona non passava nessuno e lui non…
“Oh! Insomma, basta, Roy Mustang – sbottò, cercando forza nella sua stessa voce – non è da te esitare in questo modo! Al diavolo tutti i dubbi… è solo un salto… forza, un bel respiro e…”
“Roy Mustang! Non osare muoverti!”
La voce del capitano Falman giunse sferzante e severa come al solito e, istintivamente, i piedi del ragazzo fecero un movimento indietro, tornando al sicuro al centro del cornicione. Girando la testa, Roy vide l’uomo che aveva appena oltrepassato lo steccato marcio e si dirigeva a grandi passi verso l’edificio.
“E lei che ci fa qui?” chiese con leggera stizza, cercando di ignorare la componente di sollievo che gli procurava la vista di quell’adulto.
“Vengo a fermare la tua ennesima follia – dichiarò Vincent, fermandosi proprio nel piccolo spiazzo erboso – mi vuoi spiegare che ti salta in mente?”
“Chi ha fatto la spia?”
“Nessuno dei tuoi amici, dubito che sappiano che sei qui… altrimenti mi avrebbero avvisato, di sicuro Riza l’avrebbe fatto.”
“E allora come…”
“E’ tutta la settimana che scalpiti come un cavallo selvatico chiuso in un recinto – spiegò Vincent, mettendosi a braccia conserte – in preda alle tue solite crisi di desiderio di fare il grande eroe spericolato. Stamattina mi hai sentito parlare di questo edificio in ufficio… credi che ormai non lo sappia fare due più due?”
Roy sibilò una parolaccia nel capire quella sua mancanza di discrezione: eppure sapeva benissimo quanto il suo nemico fosse ormai abituato a rovinagli tutti i suoi piani.
“Non ho nessuna intenzione di scendere! Lo farò solo con il salto – dichiarò con orgoglio – anzi, se si vuole spostare da quel punto: è dove devo atterrare.”
“Non mi muovo di qui, ragazzino – rispose il capitano – non ti permetterò di fracassarti con una caduta simile. E’ una stupida prova che ti sei imposto da solo e che non ha alcun senso.”
“Sì che lo ha!”
“Spiegamelo allora. Se sarai abbastanza convincente mi leverò da questa chiazza d’erba, lo prometto!”
“E’ una bugia, non le credo!”
“Sono tutto orecchi, fidati…” garantì Vincent con un lieve sorriso, smettendo la posa a braccia conserte e portando le stesse dietro la schiena.
Davanti a quell’invito a parlare Roy si sentì in chiaro imbarazzo: quell’uomo aveva sempre la capacità di spiazzarlo. Per una volta tanto che aveva bisogno delle sue imposizioni per trovare la forza di disobbedire e dunque saltare, si mostrava disponibile al dialogo.
Per una volta che serve che mi minacci… dannazione a lei!
“Sto aspettando…”
“Sono… sono affari miei, che ne vuole capire?” sbottò mettendosi a braccia conserte in gesto di sfida.
Ma fu un movimento troppo rapido e, con quel minimo spostamento di peso, il cornicione scelse quel momento per creparsi e avere un lieve cedimento proprio tra le gambe del ragazzo. Fu un attimo e Roy si trovò sbilanciato in avanti, senza nemmeno avere la forza di gridare.
Tutto quello che i suoi occhi scuri e sgranati riuscirono a vedere furono quelle pietre che stavano sotto di lui, pronte a fargli veramente male. Trattenendo il fiato, mentre cadeva nel vuoto, si preparò mentalmente al dolore che avrebbe provato e…
L’impatto ci fu, ma contro qualcosa di più morbido.
Emise un gemito d’angoscia e sorpresa mentre sentiva il suo corpo premuto contro quello del capitano di polizia che, per via di quel recupero al volo, perdeva l’equilibrio e cadeva a sedere a terra, in mezzo alle pietre.
“Stai bene? – chiese subito Vincent, scostando il viso del ragazzo dal suo petto – hai sbattuto da qualche parte?”
“No…” ammise d’un soffio Roy.
“Dannazione a te, Roy Mustang – l’espressione dell’uomo divenne subito dura e impassibile – l’hai scampata proprio bella: ti saresti distrutto per una simile… stupida prova di non sai nemmeno tu cosa!”
Il ragazzo rimase in silenzio mentre si rialzavano in piedi entrambi e notava, non senza una fitta di dolore, il terreno brullo e pietroso dove il capitano aveva impattato nella caduta. Ricacciò indietro il tremore e le lacrime dovuti a quella scampata tragedia e cercò di farsi forza serrando i pugni fino a far sbiancare le nocche.
Dai, avanti, continui pure con la sua stupida ramanzina, capitano – pensò con rabbia – tanto so che sta morendo dalla voglia di farlo.
Si aspettò persino uno schiaffo o la minaccia di una punizione non appena tornati in paese, ma non accadde nulla. Alzando gli occhi vide come Vincent Falman, in tutta calma, si stesse rimettendo a posto la divisa.
“Beh?” osò chiedere.
“Beh cosa?”
“Non è… infuriato?”
“Con te? – Vincent allungò la mano e gli arruffò i capelli scompigliati – Almeno dieci volte alla settimana, credimi! Ma questa volta più che arrabbiato sono sollevato… vogliamo tornare in paese? Quel cornicione tra poco perderà altri pezzi e non è il caso di stare qua.”
Annuendo Roy lo seguì con docilità fuori da quel campo, fino al sentiero di campagna che gli parve incredibilmente rassicurante, come se tra lui e quella prova di coraggio ci fosse uno strano confine che lo teneva lontano dal pericolo.
“Sollevato per cosa?” chiese, affiancandosi all’uomo che aveva ripreso a camminare verso casa.
“Di essere arrivato in tempo per poterti recuperare al volo, ragazzino.”
“Contento lei…”
Lo disse in tono noncurante, perfino sdegnoso, mettendosi le mani in tasca.
Ma il ricordo di quelle braccia che lo afferravano, salvandolo dalle pietre, lo faceva stare decisamente meglio e aiutava il suo cuore a recuperare il giusto ritmo.

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Capitolo 14
*** A casa ***


Protagonisti: Riza Hawkeye, Andrew Fury


A casa

 
Quel piccolo angolo di mondo, 1898
 
Doveva solo prendere il guinzaglio di Hayate, recuperarlo dalla sua cuccia e andare via da quel posto. Tanto una casa dove tornare ce l’aveva, a pensarci bene era assurda l’idea di vivere sotto lo stesso tetto di quell’uomo.
“Non doveva! Non doveva farmelo! Ma chi si crede di essere?”
Riza Hawkeye sbottò e scoppiò in lacrime dando una forte manata sul cuscino: tutta la ribellione dei suoi quindici anni trovò sfogo in quel pianto a dirotto con il quale stava inzuppando le coperte.
Come aveva potuto esser così crudele con lei? Con che diritto la metteva in punizione proprio qualche giorno prima del suo anniversario con Roy? Che cosa ne poteva sapere dei suoi sentimenti, di che cosa rappresentava il ragazzo per lei?
E poi, insomma, non ho marinato la scuola: lui aveva bisogno di me.
Era il suo fidanzato, era suo compito stargli vicino nelle sue giornate negative, quelle in cui andava a rifugiarsi nel loro piccolo nascondiglio tra gli alberi. Come se tre giorni di assenza fossero qualcosa di grave per una studentessa diligente come lei.
“No, decisamente non si può continuare così! – esclamò sollevando il viso arrossato – me ne torno a casa mia! Dove sono libera ed indipendente!”
Iniziò a pensare a cosa portarsi dietro, valutando che le bastava poca roba: il resto l’avrebbe potuto prendere successivamente. Le dispiaceva per sua madre e Kain, ma non poteva piegarsi ad una simile situazione.
Tuttavia il suo piano di fuga fu interrotto dalla porta che veniva aperta e dall’ingresso di lui nella stanza.
“Non mi è per niente piaciuto il modo con cui hai sbattuto la porta, signorina!” dichiarò Andrew con voce grave, mettendosi a braccia conserte.
“Non ti preoccupare – mormorò lei, senza guardarlo negli occhi – non la sbatterò più dato che sto tornando a casa mia.”
“Sei a casa tua, non fare la bambina. Cosa speri di ottenere tornando in quella villetta?”
“La mia liberta? – chiese lei con sarcasmo – Sembra così strano?”
“Mi sembra una reazione veramente esagerata per la punizione che ti ho inflitto… punizione che è già in atto, vorrei ricordarti: non puoi uscire, se non per andare a scuola, per i prossimi cinque giorni.”
“Non è giusto!”
Un anno prima non si sarebbe mai sognata di rispondere in questo modo: avrebbe dato perfettamente ragione a quell’adulto così pacato e tranquillo, anzi non ci sarebbe stato nemmeno bisogno di quella punizione perché sarebbe stata lei stessa a non compiere quelle assenze da scuola.
Ma adesso non era più la ragazzina dai corti capelli biondi che teneva lo sguardo basso con gli adulti: adesso di anni ne aveva quindici, i capelli più lunghi che stava iniziando a raccogliere all’indietro, una notevole dose di sbalzi d’umore che molto spesso non riusciva a capire e controllare. E soprattutto aveva la sua relazione con Roy a cui dare la priorità e…
“Fino a quando vivi sotto questo tetto siamo io e tua madre a decidere cosa è giusto o sbagliato, Riza – le ricordò Andrew – e se non cambi atteggiamento i giorni di punizione da cinque diventano sei, intesi?”
Lo odiava… odiava quel viso impassibile, quegli occhi castani che la scrutavano con severità. Eppure non aveva il coraggio di rispondergli a tono come invece desiderava.
“Perché lo fai…” mormorò, non riuscendo a trattenere le lacrime.
“Perché fa parte dell’educazione che io e tua madre diamo a te e Kain – le rispose Andrew con voce gentile, avvicinandosi a lei e scostandole una ciocca di capelli dalla fronte – credi davvero che tornando in quella casa le cose andranno meglio? Non sarai più in punizione, complimenti… e dopo? Sarai di nuovo con quell’uomo, ne varrà davvero la pena?”
“Almeno potrò vedere Roy…” disse lei con occhi bassi.
“Santo cielo, se non lo vedi per cinque giorni non crolla il mondo!”
“Invece sì! Non capisci che lui sta…”
Non seppe nemmeno lei come continuare la frase: come stava Roy? Bene? Male? In fondo il suo umore ancora variabile non le dava nessuna garanzia: domani a scuola poteva benissimo avere il broncio o il sorriso.
“Se viene a casa vi concederò di stare venti minuti assieme in salotto – concesse Andrew – ma niente di più.”
“Se torno a casa…”
“Tu sei a casa, Riza – sospirò Andrew abbracciandola – non mi pare il caso di metterlo in dubbio.”
Riza resistette a quell’abbraccio per cinque secondi, quanto la sua forza di volontà le permetteva. Ma poi la sensazione di benessere prese il sopravvento e l’idea di abbandonare quella sicurezza per tornare in quella casa silenziosa e triste, in nome di una presunta libertà, le sembrò assurda.
Io sono a casa, adesso, in questo momento.

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Capitolo 15
*** Formalità ***


Protagonisti: Riza Hawkeye, Roy Mustang


Formalità

 
Quel piccolo angolo di mondo, 1897
 
Roy iniziò a pensare che forse la faccenda dell’amore non era così semplice come se l’era sempre immaginata. Dopo che aveva visto come si erano sviluppate le storie di Vato e Jean aveva ritenuto che sicuramente per lui sarebbe stata diversa: nessun’esitazione l’avrebbe mai potuto colpire e di conseguenza il fidanzamento tra lui e Riza sarebbe stato una mera formalità.
Insomma, del resto aveva anche una reputazione da difendere: anche se non ci aveva mai prestato troppa attenzione, sapeva bene che tra le ragazze della scuola aveva la fama di bello e inarrivabile e la cosa, nel suo intimo, l’aveva sempre riempito d’orgoglio. Il fatto che vivesse in un locale come quello di sua zia aveva inoltre scatenato incredibili pettegolezzi e leggende sulle sue doti di baciatore e amatore.
Peccato che non abbia dato nemmeno il primo bacio! – sospirò con irritazione, lanciando un sassolino piatto nello stagno e riuscendo a fargli fare ben cinque rimbalzi.
E adesso si ritrovava fregato, non c’era che dire: era sicurissimo che Riza si aspettasse da lui qualche cosa di speciale. Del resto dichiarare il proprio amore ad una ragazza era un passo importante… e dato che si trattava di lui e di Riza doveva per forza essere un momento indimenticabile.
Roba che nessun’altra coppia avrebbe mai potuto eguagliare.
Sì, però che cosa?
Aveva appuntamento con lei, al loro rifugio, tra nemmeno mezz’ora e si era messo in testa che era l’occasione perfetta per dichiararsi. Del resto erano ormai passati due mesi da quando, durante il compleanno di Kain, avevano più o meno chiarito che prima o poi si sarebbero messi assieme: inoltre lui aveva compiuto sedici anni da qualche settimana e quindi era ormai pronto per un simile passo.
“Dannazione, proprio non va bene!”
E il tempo continuava a scorrere inesorabile, senza che nessuna idea giungesse.
 
Riza si guardò allo specchio con nervosismo, chiedendosi se quella gonna nuova le andasse bene e si accostasse alla camicetta che aveva scelto dopo tanti dubbi. Prese la spazzola ed iniziò a pettinarsi i corti capelli biondi, facendo particolare attenzione ai ciuffi che le ricadevano nella fronte.
Quei gesti quotidiani, tuttavia, non riuscivano a calmarla: sentiva il cuore batterle a mille all’idea che si sarebbe dovuta incontrare con Roy.
Perché non era un incontro come tutti gli altri, lo sapeva benissimo.
“Senti… vediamoci al solito posto questo pomeriggio verso le quattro e mezza, ti va? Dovrei parlarti di una cosa…”
Le parole del moro risuonarono ancora una volta nella sua mente: le aveva detto quella frase con noncuranza, all’uscita di scuola, però lei aveva intuito che cosa ci stava dietro. Del resto la loro situazione di apparente stallo durava ormai da parecchio ed era necessario fare il passo in avanti: adesso si sentiva maggiormente pronta rispetto a quelle e strane e goffe anticipazioni di dichiarazioni che Roy le aveva fatto a fine estate.
E una volta lì? Devo lasciarlo parlare? Devo iniziare io il discorso?
I consigli di Elisa e Rebecca si sovrapponevano nella sua mente: Rebecca le aveva detto chiaro e tondo che con i maschi andava presa l’iniziativa, altrimenti si restava ad aspettare all’infinito. Elisa invece le aveva consigliato di lasciar fare a lui e giusto dare qualche incoraggiamento nel caso di eccessiva timidezza.
Però Roy non è né Jean né Vato… è molto probabile che le cose vadano gestite diversamente…
Scosse il capo con violenza, sentendosi impazzire.
“Tesoro – fece Ellie, affacciandosi dalla porta – ma non dovevi uscire?”
“S- sì – balbettò lei con un forte rossore sulle guance – sono pronta. Va bene… sì, sono pronta… come sto?” si girò verso la madre adottiva con disperazione, cercando di trovare un minimo d’approvazione almeno per l’abbigliamento scelto.
“Stai benissimo – strizzò l’occhio Ellie – vedrai che cade ai tuoi piedi!”
E Riza era così emozionata che non trovò nemmeno la forza per imbarazzarsi.
 
Si erano incontrati per la prima volta in quella radura alcuni anni prima.
All’epoca cercavano entrambi un posto dove stare in tranquilla solitudine e si erano trovati a guardarsi con quello che si poteva definire imbarazzo, in parte delusi che un altro avesse deciso per il medesimo posto. Tuttavia quel lieve disagio era durato davvero poco: già dopo un giorno avevano trovato uno strano affiatamento, fatto di un rispettoso silenzio dove uno lasciava stare l’altra alle proprie attività.
Fu quindi surreale per i due giovani trovarsi in quel loro posto privato e scoprire che l’imbarazzo poteva tornare a farla da padrone in maniera così pesante. Continuavano a stare in piedi, l’uno davanti all’altra, senza riuscire a scambiarsi altra parola dopo il lieve saluto che si erano fatti all’inizio.
Roy teneva le mani in tasca, lieto che la stoffa nascondesse i suoi pugni contratti: continuava a darsi dell’idiota… insomma quella davanti a lui era Riza, la conosceva da una vita, sapevano benissimo il motivo per cui si trovavano lì.
Anche Riza si trovava in estrema difficoltà: dargli qualche incoraggiamento o lasciare tutto a lui per non offenderlo? Era un dilemma spaventoso: aveva il terrore che alla minima mossa falsa sarebbe successo il disastro.
“Aehm…” fece Roy, schiarendosi la gola per cercare di recuperare un po’ di dignità.
“La gonna me l’ha fatta la madre di Heymans…” disse lei in contemporanea.
“Bella, ti sta molto bene.”
Ancora silenzio, imbarazzatissimo e teso silenzio.
Siamo noi, Riza – pensò Roy con rabbia – perché dev’essere diverso?
“Ti devo parlare – cominciò – a proposito di noi.”
“Dimmi pure!” annuì lei, abbassando lo sguardo e arrossendo in maniera adorabile.
“Ecco io… dunque, come ben sai… la nostra situazione di amicizia è…”
“Sì?”
Gli mancavano le parole: per un attimo riuscì finalmente a capire Vato quando qualche volta, nonostante la sua erudizione, non riusciva a proferire verbo. Eppure era tutto molto semplice, alla faccia dei grandi progetti che aveva fatto per rendere la cosa speciale.
Vuoi diventare la mia ragazza? Vuoi diventare la mia ragazza? Vuoi diventare la mia ragazza?
“Vuoi diventare…”
“…sì…”
“… la mia ragazza?” concluse tutto d’un fiato senza rendersi nemmeno conto di quel “sì” così flebile.
“Sì…” ripeté lei con un sorriso.
“Bene! – quella conferma gli fece recuperare parte della sicurezza. Sentiva il cuore battere a mille, ma del resto era giusto che fosse così: era Riza, era la ragazza con cui voleva stare. Di che cosa aveva avuto paura per tutto quel pomeriggio – Allora è fatta, no?”
Riza annuì felicissima, anche lei in parte abbandonando quella tensione che l’aveva imprigionata. Le mani smisero di tormentarsi sul davanti e anche il viso si rilassò.
“Mi sento decisamente meglio!” ammise con un sospiro di sollievo.
“A chi lo dici – sorrise Roy, facendole cenno di andare a sedersi nel loro solito posto – non pensavo fosse così complicato!”
Si sedettero sotto l’albero ormai spoglio per l’inverno, cercando di capire il passo successivo da fare. Ma sembrava che dopo quel primo ostacolo tutto venisse decisamente più spontaneo. Dopo qualche secondo Roy cinse delicatamente le spalle della sua ragazza e con piacere sentì che non opponeva resistenza.
Sarà già il caso del primo bacio? – si chiese – non mi sono premurato di chiedere alle ragazze se…
“Senti…” iniziò girando il viso verso di lei.
Ma non aveva calcolato che stando così vicini girare il viso voleva dire avere le labbra a pochi centimetri di distanza.
Per il resto non ci fu bisogno di proseguire con la domanda.




Dedicato ad Alsha che me l'ha richiesto in una recensione ^__^

 

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Capitolo 16
*** Pomeriggio da leoni ***


Protagonisti: Vato Falman, Roy Mustang (con comparsata di Jean Havoc e Vincent Falman)


Pomeriggio da leoni

 
Quel piccolo angolo di mondo, 1897
 

Far parte di un gruppo, antropologicamente parlando, comportava anche partecipare a strani e misteriosi rituali tesi a consolidare i rapporti tra i membri dello stesso sesso. Per le femmine questo in genere si traduceva con riunioni segrete nella camera di una di loro, o chiacchiere e risatine scambiate nell’angolo del cortile della scuola… cose tutto sommato innocue.
Sembrava invece che per i maschi le cose fossero differenti e che questi rituali, diverse volte, sforassero in quella che si poteva definire illegalità. Alla fine niente di seriamente pericoloso per la società, sia ben chiaro, diciamo che si tendeva ad andare… oltre il seminato.
E se il leader indiscusso del gruppo era Roy Mustang questo accadeva spesso.
E così Vato si trovò a fissare con disagio il suo amico che, dal pesante cappotto, tirava fuori una bottiglia di vetro dal denso contenuto color arancione.
“Signori, ecco a voi il whiskey di Central City – dichiarò con orgoglio il moro, tenendo alta la bottiglia come se fosse una reliquia da mostrare ai fedeli – ne è arrivata ieri una cassa a mia zia e questa bottiglia l’ho sgraffignata per nostro uso e consumo.”
Il giovane Falman si girò a fissare le reazioni dell'altra persona presente e notò con disappunto che solo lui appariva leggermente a disagio, mentre Jean era parecchio entusiasta e fissava la bottiglia con aspettativa.
Invidiava profondamente sia Heymans che Kain che non erano stati inclusi data l’amara esperienza del primo con il padre ubriaco, e la giovane età del secondo.
“Roy, ascolta – provò a dire, cercando di evitare quella che si profilava come una tragedia dalle proporzioni epiche – non siamo abituati a simili bevande. E il whiskey ha una gradazione davvero alta… ci farà male.”
“Sciocchezze! – sogghignò l’altro – Basta non berlo a stomaco vuoto. Jean hai portato i biscotti?”
“Certamente! – il biondo tirò fuori un pacchetto di carta e lo aprì nel mezzo del prato dove si trovavano, un posto abbastanza lontano dal paese giusto per evitare dei fastidi – Ne abbiamo quanti ne vogliamo!”
“Visto? nessun problema! Allora, miei prodi, le regole sono chiare… non una parola di questa riunione uscirà dalle nostre bocche, nemmeno con le rispettive fidanzate, intesi?”
“Intesi!”
“Il gioco è questo: io do il primo sorso e dico una parola che inizia per la lettera A, poi passo a Vato che beve e dice una parola con la lettera B… e così a continuare.”
“Eh? – Vato si irrigidì – che razza di gioco sarebbe?”
“Il gioco di vedere chi è il primo che ci va sotto e non riesce a dire la parola – sogghignò Roy – e per penitenza deve bere due sorsi!”
“Ah, di certo non sarò io! – dichiarò con spavalderia Jean – Papà regge alla grande gli alcolici, sono sicuro che anche per me e così!”
“Ragazzi, quello che stiamo facendo non è proprio una cosa…”
“Obiezione respinta, Vato Falman – lo bloccò Roy bevendo il primo sorso e facendo una smorfia per il sapore intenso – lettera A: alfabeto… tocca a te!”
Vato fissò quella bottiglia con sospetto. Una parte di lui desiderava alzarsi in piedi ed andare via da quella stupida prova senza senso in cui era stato coinvolto; tuttavia gli sguardi di Jean e Roy lo tenevano inchiodato al suolo, scatenando il suo senso d’orgoglio… e riuscendo a superare il buonsenso che gli diceva che se suo padre l’avesse scoperto sarebbero stati guai grossi.
“Oh, dammi! – sbottò infine, prendendo la bottiglia e trangugiando una sorsata. Il liquido gli bruciò la lingua e scese come fuoco in gola, facendolo lacrimare. Dovette far appello a tutto il suo autocontrollo per non tossire – lettera B… bancone!”
E passò la bottiglia a Jean.
 
La mattina dopo un rintronatissimo Roy Mustang venne letteralmente buttato giù dal letto dal capitano Falman il quale, con voce piatta, gli ordinò di lavarsi, vestirsi e raggiungerlo a casa sua entro e non oltre dieci minuti a partire da quel momento.
Guai in vista – sbuffò, mentre cercava di venire a patti con i postumi della bevuta del pomeriggio prima – di sicuro Vato ha svuotato il sacco.
Non si ricordava bene di come fosse andata a finire: aveva controllato e la bottiglia era ancora al sicuro dentro il cassetto. Certo che c’erano andati pesante: più di metà contenuto era stato bevuto in quella grandiosa gara che, ad essere sinceri, non ricordava chi avesse vinto.
Tuttavia questo dettaglio non ebbe più importanza: non fece nemmeno in tempo a bussare alla porta che il capitano Falman gli aprì e, presolo per la manica, lo spinse dentro casa.
“In camera di quel genio del male del tuo amico, forza! – gli intimò con un’altra spinta – Io arrivo subito: questa volta vi sistemo per le feste!”
Piano con la voce! – supplicò Roy, dirigendosi verso il luogo della sentenza – rimbomba tutto!
“Allora, genio del male – salutò con rassegnazione, andandosi a sedere accanto a Vato che, onestamente, aveva un aspetto peggiore del suo – come mai hai spifferato tutto…?”
“Roy…”
“Sì?”
“Ieri sera, come sono rientrato a casa… credo di…”
“Di…? Hai vomitato? Guarda che è normale, eh… effettivamente solo Jean sembrava messo bene.”
“No – la faccia del giovane era incredula – credo di… aver mandato…
“Oh, Vato, riprenditi – lo scosse leggermente – che cosa puoi aver fatto di tanto grave?”
“Credo di aver mandato mio padre a quel paese… affanculo, se la memoria non mi inganna. Forse… forse è stato da lì che ha intuito qualcosa…”
Roy rimase interdetto: l’idea di Vato Falman che mandava affanculo il capitano Falman era qualcosa che andava oltre il surreale, il comico e l’eroico. Lui stesso non avrebbe mai osato fare una cosa simile.
Cazzo, quel whiskey è davvero micidiale!
“Vato Falman… tu sei appena diventato il mio eroe!” sogghignò, stringendogli la mano.
“Un eroe tragico però…” sbiancò Vato, mentre i passi del capitano Falman si facevano più vicini.
“Moriremo in gloria, consolati…” dichiarò il moro con voce da martire.
Ma, nonostante tutto quello che accadde nella successiva mezz’ora, quella mattina non morirono.
 
 

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Capitolo 17
*** Saper attendere ***


Protagonisti: Janet Havoc, Kain Fury, Andrew Fury


Saper attendere

 
Quel piccolo angolo di mondo, maggio 1905
 
Kain si stiracchiò con soddisfazione e si sdraiò nel prato, abbandonando il libro di elettronica sullo stomaco e godendosi quella spettacolare domenica di maggio.
Il secondo anno di università lo stava impegnando davvero tanto, anche se trovava i nuovi corsi veramente stimolanti, e dunque quella piccola vacanza al paese che si era concesso, prima dell’inizio delle sessioni d’esame di giugno, era un vero toccasana.
Era stato così bello rivedere i suoi genitori dopo tre mesi che mancava e così i suoi amici.
I primi due giorni non aveva fatto altro che stare assieme a loro, raccontando la sua vita cittadina e rassicurandoli che niente aveva intaccato la sua natura buona e dolce. Perché era quello che un po’ tutti avevano temuto quando era partito per portare avanti i suoi studi di elettronica: lui era il piccolo del gruppo, quello da proteggere, saperlo lontano e da solo aveva creato non poche preoccupazioni, specie in Riza.
“Lo sai bene che lei e tua madre non finiranno mai di preoccuparsi per te.”
Suo padre aveva commentato così, dandogli una pacca sulla spalla, ma Kain non era per nulla turbato da queste particolari attenzioni: erano sua madre e quella che ormai considerava sua sorella maggiore da anni, che altro avrebbero dovuto fare? Anche se ora aveva diciotto anni, tra quattro mesi diciannove, determinate cose erano destinate a durare per sempre e…
“Ciao, Kain.”
Il ragazzo aprì gli occhi, ma li dovette socchiudere subito per il fastidioso effetto dei raggi del sole che rendevano sfocata la figura che stava china proprio sopra di lui. Ma una treccia bionda gli sfiorò la fronte e la sua identità venne svelata, come se la voce non l’avesse già fatto.
“Buongiorno, Janet – sorrise, mettendosi a sedere e osservando finalmente con la luminosità giusta la sua giovane amica – non ti avevo ancora visto dal mio ritorno, due giorni fa.”
“Ho avuto un sacco da fare in casa – sbuffò lei, sedendosi a gambe incrociate accanto al ragazzo – con i preparativi del matrimonio di mio fratello e Rebecca, mamma non mi dà tregua: nell’ultima settimana continua ad infastidirmi con le prove dell’abito che dovrei indossare.”
“Non mi sembri molto entusiasta della cosa, eppure alle ragazzine dovrebbero piacere le prove degli abiti.”
“Trovo che sia una cosa eccessiva: insomma è un abito che probabilmente indosserò solo quel giorno per quanto sarà elegante, di certo non lo metterò per andare a passeggiare.”
Kain scoppiò a ridere e gli occhi azzurri della ragazza si strinsero.
“Mi stai prendendo in giro, vero?” chiese mettendo il broncio.
“Scusami, Janet – sorrise lui, tirandole lievemente una treccia dorata – ma sei così buffa, non sei proprio cambiata da quando eri bambina.”
“No? – lei ci rimase male a quella dichiarazione – Mi trovi sempre uguale?”
“Sei più alta – concesse lui – tra poco mi supererai se continui così, ma non mi sorprenderò: del resto in casa tua siete tutti alti.”
“E basta?”
Eppure proprio quella mattina si era guardata allo specchio in biancheria intima ed era rimasta così soddisfatta nel vedere come il suo corpo stesse sbocciando: aveva compiuto quindici anni da poco più di due settimane, ma le curve erano già al punto giusto, non poteva che migliorare. Bastava pensare che anche i ragazzi dell’ultimo anno,  diciassettenni, le facevano gli occhi dolci.
Però a lei non interessava per niente stare al centro della loro attenzione. Erano tutti degli stupidi e lei aveva in mente una precisa persona da anni… eppure era proprio l’unico che si ostinava a considerarla una bambina, peggio di suo fratello ed Heymans.
Con un sospiro guardò quel viso sorridente dai lineamenti delicati, il naso e le guance leggermente arrossati per il sole preso in quelle ore. Era sempre stato poco muscoloso Kain Fury, distinguendosi dalla maggior parte dei ragazzi di campagna che invece erano robusti, e anche crescendo non si era evoluto molto sotto quell’aspetto. E poi portava gli occhiali, nessuno degli altri ragazzi li aveva, e Janet riteneva che gli stessero benissimo, incorniciando quegli occhi scuri e stupendi che riflettevano sempre il suo sorriso dolce.
“Piccola Janet…” riprese lui, quasi in tono di scusa.
“Piccola? Piccola? – lei si alzò in piedi – Guardami, dannazione, ho quindici anni ormai: ti vuoi rendere conto che non sono più una stupida bambinetta?”
“Non era mia intenzione offenderti – Kain si intristì – dai, risiediti accanto a me, Janet, mi sei mancata in questi mesi, davvero. In tutta East City ti assicuro che non c’è una come te.”
A quelle parole Janet si risedette, ma non era felice.
Ovvio che ad East City c’erano molte ragazze e forse erano più belle e sofisticate di lei: non era mai stata in una grande città e probabilmente a loro confronto appariva solo come una stupida contadinella.
“Heymans era il mio fidanzatino – sospirò, circondandosi le lunghe gambe con le braccia abbronzate, la gonna azzurra che si avvolgeva attorno ad esse – per tutte le elementari mi sono sempre detta che era l’uomo della mia vita, non capendo che in realtà vedevo in lui un secondo fratellone.”
“E’ più che normale, Janet, ed è fantastico che tu sia sempre così legata a lui. Heymans ti vuole un sacco di bene, lo sai, farebbe di tutto per te.”
“In prima media però ho deciso che eri tu l’uomo per me… e non ho minimamente cambiato idea. Sono passati cinque anni da allora, Kain Fury, e sono estremamente decisa ad essere la tua fidanzata.”
“Janet…”
“E non una stupida fidanzatina come si può essere alle elementari.”
“Hai quindici anni – Kain scosse il capo, e poi guardò con aria pensosa il prato davanti a lui – non sai quello che dici: sicuramente a scuola ci sono molti ragazzi che vorrebbero stare assieme a te, più vicini alla tua età e…”
“Non mi interessano proprio per niente! Tu… tu proprio non riesci a vedermi come una donna?”
“Janet…”
Kain si girò per consolarla e lei si sporse in avanti, cogliendolo di sorpresa con un bacio, il suo primo bacio.
Le sue labbra erano incredibilmente morbide, proprio come le aveva sempre sognate, e le regalarono una bellissima sensazione. Gli passo una mano dietro la testa, affondando le dita sui capelli corvini e impedendogli di scostarsi da lei.
Ma poi sentì le sue labbra socchiudersi e catturare il suo labbro inferiore.
Furono dieci interminabili secondi in cui si scambiarono quel bacio, la mano di Kain che si posò delicatamente sulla guancia di lei, facendola impazzire.
“Basta – mormorò lui con preoccupazione, staccandosi – non avrei mai dovuto…”
“Perché no? – Janet si portò una mano alle labbra, rossa in viso, il cuore che batteva fortissimo – Io ti amo e tu lo sai… e tu…”
“Io ho quasi diciannove anni e tu appena quindici – la bloccò lui, alzandosi in piedi – Janet, per l’amor del cielo, sei ancora una ragazzina. Non voglio assolutamente tradire in questo modo l’amicizia che ho con tuo fratello e con i tuoi genitori: non sei assolutamente pronta per determinate cose.”
“Come puoi dirmi una cosa simile? – mormorò lei, mentre le lacrime iniziavano a colare dai suoi bellissimi occhi azzurri – Come puoi farmi sentire così triste dopo che mi hai appena regalato il mio primo bacio?”
“Già, il bacio… Janet, abbi pazienza, ti prego, io…”
“Io ti piaccio sì o no? Abbi almeno il coraggio di rispondermi…”
Kain sospirò e recuperò il suo libro da terra.
“L’unica risposta che ti posso dare è che io ho molta pazienza e due o tre anni passeranno più in fretta di quanto tu creda, Janet Havoc. Ma prima di allora, non è giusto né per me né, e soprattutto, per te parlare d’amore. Ci vediamo, raggio di sole.”
E  a Janet non restò che guardarlo allontanarsi, scavalcando con abilità la staccionata di legno.
Sentiva il suo cuore battere all’impazzata, ancora più innamorato di quanto era stato una decina di minuti prima.
Il mio primo bacio… il mio primo bacio! Oh, come si fa a dire che gli anni passano in fretta? Mi pare un’eternità anche solo attendere domani per rivederti di nuovo.
 
“Turbato, Kain?” chiese Andrew con gentilezza, entrando nella camera del figlio.
“In parte – ammise lui, girandosi verso il genitore: a guardarli così vicini si rimaneva impressionati dalla somiglianza dei tratti – credo di aver fatto una sciocchezza.”
Si passò una mano tra gli arruffati capelli neri, dicendosi per la centesima volta che era stato un folle a ricambiare il bacio di Janet, anche solo per quei dieci secondi. Era bella, desiderabile, perfetta… ma aveva quindici anni.
“Una volta tua madre mi ha baciato che aveva circa quindici anni – disse Andrew, sedendosi nel letto con aria pensosa – credeva che mi fossi addormentato nel prato.”
“E cosa hai fatto?” chiese Kain, non meravigliandosi minimamente che il padre avesse indovinato il suo flusso di pensieri e quanto era accaduto. Crescendo si era accorto di quanta affinità con lui, persino in quella strana vicenda sentimentale che lo stava coinvolgendo.
“Avrei dovuto aprire gli occhi o comunque farle capire che mi stavo svegliando – Andrew si passò una mano tra i capelli in un gesto identico a quello del figlio. Il viso era illuminato da un sorriso imbarazzato – ma non lo feci: rimasi fermo, sentendo le sue labbra sulle mie, non riuscendo a pensare ad altro che al loro sapore. Solo dopo un po’ feci finta di svegliarmi.”
“La amavi già?”
“Diciamo che sentivo già che con molta probabilità era quella giusta, qualche mese dopo l’avrei reso ufficiale con quel famoso ballo. E’ lei quella giusta?”
“Sì, lo è – annuì il giovane senza esitazione – ma ha quindici anni e non è ancora matura.”
“Ti ama come può amare una quindicenne, non può fare altro.”
“E io sono stato così stupido da ricambiare per dieci secondi un bacio che era riuscita a rubarmi.”
Padre e figlio si guardarono per una decina di secondi, poi Andrew si alzò e posò una mano sulla spalla del giovane con fare comprensivo.
“Passano in fretta, Kain, più di quanto tu creda.”
“L’ho detto pure io, ma a volte mi pare difficile crederlo.”
“Ce la farete, ragazzo mio – ridacchiò Andrew – il sangue dei Fury sembra essere preposto per simili situazioni.”
“Ma sì…” sospirò Kain, non riuscendo a dimenticarsi del sapore delle labbra di Janet.

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Capitolo 18
*** Il posto giusto ***


Protagonisti: Jody Havoc, Lisa Falman


Il posto giusto

 
East City, 1929
 
Jody Havoc era un ragazzo di campagna.
Non aveva mai trovato niente di offensivo in questa definizione, almeno fino a quel momento. Sapeva benissimo che il suo mondo era nella verde campagna del suo piccolo angolo di mondo, con l’emporio dei genitori dove dare una mano, le passeggiate all’aria aperta ed il duro ma appagante lavoro. Una vita semplice che però gli calzava a pennello: non valeva la pena tentare di essere qualcosa di diverso.
Tuttavia stare davanti agli imponenti edifici dell’Università di East City gli provocava una sensazione di disagio che aumentava ogni minuto che passava. Era come se ogni singolo mattone, ogni studente che camminava per i viali di quell’ampio viale alberato, gli gridasse che lui non faceva parte di quel posto.
E di conseguenza non era degno di lei.
Del resto non ti ha sempre definito tontolone?
Fino a quel momento quel nomignolo l’aveva sempre giudicato da un punto di vista affettivo, più o meno come quando sua madre lo chiamava bietolone. Senza considerare che Lisa era sempre precisa e tendeva ad usare raramente soprannomi: per lui aveva fatto, sin da quando era piccola, uno strappo alla regola che aveva avuto il potere di farlo sentire speciale.
Pensare a quel tontolone come qualcosa di offensivo non rientrava assolutamente nel modo di fare di Lisa. Lei era la persona più buona del mondo: non gli avrebbe mai fatto una cattiveria simile.
Una risatina lo fece riscuotere e notò un gruppetto di ragazze che lo fissava con aria divertita. Anche se non era una cima, Jody capiva bene quando qualcuno lo derideva, senza contare che quelle studentesse avevano un’aria completamente diversa da quella delle ragazze di campagna.
Se poi continui a ciondolare come un grosso bue al centro del sentiero non hanno tutti i torti, sai?
Davanti ad una situazione simile si disse che, con tutta probabilità, Jilly aveva avuto ragione quando gli aveva detto che andare ad East City era una pessima idea.
Ma Jody non ne aveva potuto fare a meno.
Da quando l’anno prima Lisa aveva preso a frequentare l’Università sentiva che la stava in qualche modo perdendo. In quel tempio del sapere avrebbe imparato tantissime cose che lui non avrebbe mai capito e avrebbe incontrato tantissimi ragazzi che invece non solo le avrebbero capite, ma ne conoscevano altrettante. E allora, forse, Lisa Falman si sarebbe dimenticata di Jody Havoc, di quel ragazzo di campagna che, a guardarla bene, non era degno di lei.
Abbassò lo sguardo e si mise le mani in tasca.
Decisamente era stato troppo impulsivo: prendere il treno così all’improvviso senza dire niente a nessuno e…
“… come hai fatto a non accorgerti che la biblioteca stava per chiudere? Ancora qualche minuto e restavi imprigionata dentro!”
“Lo so, lo so! Ero troppo presa, faccio mea culpa!”
A quella voce gli occhi azzurro cielo di Jody si sgranarono e corsero immediatamente alla persona che aveva pronunciato quelle parole.
Era da qualche settimana che non la vedeva, ma gli sembrava ancora più perfetta: così alta e slanciata, con i morbidi capelli castani che cadevano lisci sulle spalle mentre una frangetta andava a sfiorare gli occhi dal taglio allungato… gli stessi per cui tante volte era stata presa in giro. E allora lui era sempre corso a difenderla perché al contrario degli altri li trovava bellissimi.
“Lisa…” mormorò, indeciso se muoversi o meno dalla sua posizione al centro del viale. Sarebbe stata felice di vederlo o si sarebbe vergognata a morte?
“Jody? – lo notò finalmente lei – Jody! Ma che ci fai qui?”
Subito corse verso di lui e lo prese per mano, fissandolo con sorpresa.
“Scusami, sono stato davvero uno scemo a venire così, senza nessun preavviso…” sorrise mestamente e con aria mortificata.
“Ma no, cosa dici? – scosse il capo la ragazza sorridendo a sua volta – sono solo sorpresa, ecco tutto.”
“Ecco io…” Jody si bloccò, sentendo che l’attenzione di tutti quegli sconosciuti si era catalizzata su loro due. Adesso più che mai si sentiva come un grosso bue da esposizione all’interno di un negozio di gioielli.
Sei nel posto sbagliato, idiota!
“Vieni – la mano di Lisa, così sottile e fresca, si chiuse sulla sua – andiamo in un luogo più tranquillo.”
 
Il parco dove l’aveva condotto la ragazza aveva un non so che di tranquillizzante e rilassante.
Forse erano i laghetti con le anatre, forse tutti quegli alberi, o semplicemente il fatto che la gente fosse di meno e non lo guardasse in modo strano. Era un po’ come essere tornato in uno spicchio della sua amata campagna e questo non poteva che giovare all’animo turbato di Jody.
Ed il fatto che Lisa camminasse accanto a lui con il solito sorriso gli faceva capire che il mondo era tornato a muoversi nel verso giusto. E parlava… era sempre stata brava a farlo. Cose strane e meravigliose di materie come linguistica di cui Jody faceva fatica persino a memorizzare i nomi. Ma che importava? Se era Lisa a dirle, tutte quelle cose avevano un senso.
“Comunque potevi avvisarmi – disse all’improvviso lei, posando le braccia magre e candide sul parapetto di un piccolo ponticello e fissando mamma anatra con i pulcini dietro – sarei venuta a prenderti in stazione. Sai già dove alloggiare?”
“Che? Ecco, a dire il vero…” arrossì lui, mentre la sua impulsività veniva scoperta in modo così umiliante.
“Oh Jody, non ti sei portato nemmeno la valigia…”
“Eh già… non è stato molto intelligente sapendo che il treno per casa è ogni tre giorni.”
“Tontolone…” sospirò lei, sistemandogli con pazienza il colletto della camicia.
“Perdonami.”
“Suvvia, nessun problema. A casa di zio Roy e zia Riza c’è un’altra stanza per gli ospiti. Come arriviamo lì chiami a casa così tranquillizzi i tuoi – il suo viso fece una lieve smorfia di disappunto – però, Jody, cerca di pensare a queste cose! Ormai abbiamo diciannove anni e…”
“Ti amo!” la interruppe.
“Eh?” le guance di lei avvamparono vistosamente e le mani sottili si strinsero sul colletto della camicia.
“Sono un tontolone, lo so – ammise lui, passandosi una mano sui capelli biondi e arruffati – mentre tu sai un sacco di cose e sei tremendamente responsabile. Pensi sempre a me, sei così buona… io… ecco – serrò gli occhi nel fare quella confessione – alla festa del primo dicembre avrei voluto chiederti di ballare, ma da quando hai iniziato all’Università mi sento così…”
“Jody, ma che dici?”
“Mi sento troppo tonto per te e forse lo sono, vero?” chiese con aria rassegnata, immaginandosi già la risposta gentile ma ferma che avrebbe ricevuto e che avrebbe troncato ogni speranza.
“Tontolone…”
“Lo so.”
“Come puoi pensare che io… oh, Jody, a volte sei proprio stupido, lo sai?”
“Scusami.”
“Ti amo anche io, ancora non l’avevi capito?”
“Hai ragione, come sempre del rest… scusa?”
Abbassò lo sguardo con aria stranita e vide che lei stava sorridendo. Un sorriso timido e dolce, così diverso da quello sfrontato di Jilly o da quello solare di Lulù… il sorriso perfetto per lui.
“Ti amo, Jody – ripeté Lisa – e non c’è libro o lezione all’Università che mi possa far cambiare idea.”
“Anche se tu sei così intelligente ed io… non proprio una cima?”
“Basto io per entrambi – propose la fanciulla, posandosi contro il suo petto ampio e muscoloso – come quando eravamo piccoli e io leggevo per te.”
“Mia! – esclamò Jody arrossendo felice e stringendola in un abbraccio da orso – Sei solo mia, Lisa! Ed io ti amerò per sempre, te lo giuro! Sono felice – si accorse di piangere – non hai idea…”
“Pure io – gli fece eco Lisa con voce rotta – sono felice che tu sia qui con me.”
E a Jody pareva di essere a casa, o meglio nel posto giusto.
Ma in fondo essere a casa voleva dire essere con Lisa.


________________
Questa one shot ha una genesi particolare in quanto nasce cartacea. 
La spedii a Mary l'anno scorso dato che è una grandissima fan della JodyxLisa.
Preciso subito che Jody non è scemo: è un bonaccione, forse un po' ingenuo, legato a valori semplici. E' come levare tutta la malizia a Jean e lasciare solo la bontà d'animo.
Questi due ragazzi appaiono solo nell'epilogo di Un anno per crescere, ma già da allora ho lasciato trasparire come il loro legame fosse particolarmente forte. Un po' perchè sono così diversi, eppure così simili nella ricerca tutto sommato di cose semplici. Qualche volta mi sono posta il dubbio se fosse "realistico" fare questo strano gioco delle coppie tra i gemelli Havoc ed i figli di Falman, ma alla fine mi sono detta che niente è impossibile. ^^
E così torno dalle vacanze anche su questa raccolta!
In attesa di scrivere altri frammenti ^^

 

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Capitolo 19
*** Troppo grande ***


Protagonisti: Jean Havoc, Rebecca Catalina/Havoc, Elisa Meril/Falman


Troppo grande

 
Quel piccolo angolo di mondo, 1910
 
Ormai era da qualche settimana che Jean nutriva diverse perplessità in merito, ma non aveva ancora osato parlarne con nessuno, nemmeno con Heymans. La verità era che aveva paura di scoprire che qualcosa non andava e fino a quel momento aveva preferito restare con i suoi dubbi piuttosto che esternarli e trovare delle certezze sgradevoli.
Però qualcosa non mi torna – ammise, prendendo l’ennesima sigaretta e accendendola con un gesto distratto – sono sicuro che la mamma non era così, proprio no!
Fissando il panorama che si godeva dal portico di casa sua, socchiuse gli occhi tornando indietro con i ricordi fino a vent’anni prima, cercando di visualizzare sua madre quando era incinta di Janet. Forse non ci aveva fatto troppo caso a soli otto anni, però qualche ricordo di quella pancia doveva averlo… e non così grande.
“Jean! – chiamò una voce stanca dall’interno della casa – Vieni a darmi una mano! Non riesco proprio a muovermi!”
“Eccomi, Reby!” rispose, spegnendo subito la sigaretta in un vecchio vaso con terra secca e correndo dentro l’abitazione. Arrivò fino al salotto e rimase imperterrito a fissare Rebecca che, con la stessa grazia di una balena spiaggiata, cercava di sollevarsi a sedere sul divano… con una pancia decisamente enorme per essere nemmeno all’ottavo mese di gravidanza.
“Che cosa guardi come un ebete? – chiese la donna con aria stizzita – mi dai una mano o no? Guarda che il responsabile di questo peso sei anche tu!”
“Sempre simpatica – sbottò lui, cercando di recuperare la solita spontaneità: non voleva assolutamente contagiare Rebecca con le sue paure – sono arrivato, no? Datti una calmata.”
Lei non disse nulla, ma tese la mano per farsi sollevare in posizione seduta: ormai nessuna posizione le riusciva confortevole per più di mezz’ora, con ovvie ripercussioni sull’umore.
“Dannazione – sospirò infine, posandosi sullo schienale imbottito e mettendosi una mano sul pancione – non vedo l’ora che nasca… Elisa ha detto a novembre, ma mi pare ancora tremendamente distante.”
“Siamo ad inizio ottobre – cercò di consolarla il marito, posando a sua volta una mano su quella montagna – ormai manca poco, devi solo essere ottimista… ehi, ha dato un calcio!” I suoi occhi azzurri si illuminarono di meraviglia nel sentire quel piccolo movimento proprio sul palmo della sua mano.
“Sì, l’ho sentito! – sorrise Rebecca, riuscendo a trovare di conforto quei segnali di vita del bambino – proprio sulla mia mano!”
“No, sulla mia…” corresse Jean.
Il silenzio calò sui due coniugi Havoc mentre si guardavano con perplessità. Poi, contemporaneamente, abbassarono gli occhi sul pancione di lei e sul punto su cui ciascuno aveva posato la propria mano: esattamente agli opposti.
Va bene… va bene! – si allarmò Jean, cercando di apparire sereno mentre il suo cuore iniziava a battere all’impazzata – E’ solo talmente vivace da poter dare un pugno ed un calcio in due punti diversi del ventre… ed è… enorme!
“Sei… sei sicuro che abbia dato un calcetto dove hai la mano tu?” chiese Rebecca con voce leggermente nervosa.
“Dai, non è così… distante… non credo…”
“Non è così distante? – ansimò lei, agitando le mani con fare isterico – Ma ti rendi conto di quello che hai appena detto? E’… è enorme!”
“Beh, con una pancia così dovevi aspettartelo, no? – Jean si alzò in piedi quasi ad allontanarsi da quella cosa così grande che ormai era stata identificata come pericolosa – non è che lo scopri solo ora che è grande!”
“Mi ucciderà! – cercò di alzarsi la donna, riuscendo però solo a rotolare di lato – questo mi ammazza come lo partorisco! Non è un bambino, è un bisonte! Oh cielo.. cielo… io pensavo che parecchio fosse… grasso!
“Grasso! Beh, è vero che mangi parecchio da quando sei incinta, però non… come hai fatto a non pensarci prima?”
“Perdonami se non sono un’esperta e se questa è la mia prima gravidanza – scoppiò a piangere Rebecca – e scusami tanto se probabilmente morirò nel mettere al mondo il tuo erede! Cielo… non voglio morire! Sono ancora così giovane!”
“Ferma, dai! – la bloccò Jean, aiutandola a rimettersi dritta – vedrai che Elisa farà in modo che le cose vadano bene: ci saranno anche mia madre e la tua… e mia zia Allyson, diamine lo sai che pure lei è una levatrice.”
“E ci sarai pure tu – lo supplicò lei – vero?”
“Ma certo! – annuì l’uomo, battendosi una mano sul petto con fare sicuro – Ti sosterrò in ogni momento, anche a costo di beccarmi i tuoi insulti quando sarai all’apice del dolore e…”
“Non aiuti così!”
“Scusa, scusa…”
“Dannazione, ma quando arriva Elisa? – tirò su col naso Rebecca – oggi doveva venire a visitarmi…”
“Speriamo arrivi presto!” annuì Jean con la medesima disperazione.
 
Jean teneva, anzi serrava la mano di Rebecca nella sua mentre osservava Elisa tastare il ventre gonfio con aria esperta. Cercava di cogliere nella loro amica qualsiasi segnale di disastro incombente: non sapeva come avrebbe fatto, ma non avrebbe mai abbandonato sua moglie in un momento così difficile.
Dannazione a me… ma perché gli Havoc sono così robusti?
“Beh, qui mi pare proceda tutto bene – annuì la dottoressa alzandosi con un sorriso – con molta probabilità partorirai con una decina di giorni in anticipo rispetto al tempo, ma penso che pure tu lo immagini, Reby.”
“Credi che ce la potrò fare?” chiese la mora con ansia.
“Perché non dovresti?”
“E’… è enorme, lo vedi bene pure tu! Oggi… oggi ha dato un calcio ed un pugno in contemporanea… in due punti opposti del mio ventre!”
“Sì – annuì Jean, prendendo la distanza con le mani come quando parlava delle dimensioni di una trota presa al torrente – sarà grande più o meno così: per un neonato è pazzesco! Insomma, va bene che io e Rebecca non siamo mingherlini come te e Vato… ma io mi ricordo Rey appena nato e…”
Si bloccò vedendo che Elisa li stava guardando stranita, come se non capisse di cosa stesse parlando. Poi si mise una mano davanti alla bocca e ridacchiò.
“Beh, mi pare strano che non c’eravate arrivati da soli… vieni, Jean, ascolta con lo stetoscopio – propose, porgendogli lo strumento – prima qui… che senti?”
“Un battito… il cuore del bambino, no?” rispose lui dopo una decina di secondi di attento ascolto.
“Se lo senti accelerato è normale… e ora – la dottoressa spostò lo stetoscopio dall’altra parte del ventre di Rebecca – qui che mi dici?”
“Un altro… cazzo… ha due cuori?”
“Gemelli! – sospirò di sollievo Rebecca, lasciandosi cadere sui cuscini – oh cielo grazie! Grazie! In due fasi ce la posso fare!”
“Gemelli? – Jean era incredulo – come gemelli?”
“Succede sai – sorrise Elisa – con un pancione così grosso era praticamente scontato! Non mi dite che siete rimasti con l’ansia per tutto questo tempo! Oh Reby, eppure ti avevo detto di farmi qualsiasi domanda e…”
“Gemelli!” ridacchiò Jean, correndo ad abbracciare l’amica ed interrompendo la sua spiegazione
Adesso tutto aveva un senso… e lui era l’uomo più felice del mondo.

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Capitolo 20
*** Promessa di matrimonio ***


Protagonisti: Andrew Fury, Laura Hevans


Promessa di matrimonio

 
Quel piccolo angolo di mondo, 1870...1882
 
Laura osservava Andrew che, seduto sul tappeto, impilava ordinatamente le costruzioni di legno, cercando di creare una torre vagamente somigliante a quella che stava nel libro di favole aperto accanto a lui. Il suo amico era completamente assorto nella sua opera che si era quasi del tutto dimenticato di tutto quello che gli stava attorno: dagli altri giochi, ai resti della merenda sul tavolo, alla sua amica che era venuta a trascorrere un pomeriggio a casa sua.
Erano in momenti simili che la bambina lo trovava particolarmente strano rispetto al resto dei loro compagni: avevano iniziato quel gioco in due, ma non era entusiasmante. Aveva proposto di fare altro, ma lui non l’aveva nemmeno ascoltata, ma non per dispetto. Semplicemente era troppo perso nella costruzione e, come aveva sentito dire, le parole gli erano entrate da un orecchio per uscire dall’altro.
Arricciando il nasino la bambina di otto anni sbuffò e si sedette meglio, incrociando le gambe e sistemandosi meglio le pieghe della sua gonna verde scuro.
“Andy…” chiamò per la terza volta.
“Mh.”
“Giro giro tondo, cavallo impera tondo…”
“Mh, mh.”
“Centoquaranta la gallina canta!”
“Sì…”
“Mi ascolti?!” con una manata esasperata buttò in aria la costruzione, a dire il vero poco statica, e i pezzi di legno si sparsero per tutto il tappeto.
Andrew lanciò un’esclamazione sorpresa e poi rimase ad osservare con aria desolata i pochi pezzi rimasti al loro posto. Tuttavia non mosse alcun’accusa nei confronti dell’amica: si limitò a passarsi una mano tra i folti capelli castani e a spostare l’attenzione su di lei.
“Forse aveva qualcosa che non andava.”
“Sono costruzioni di legno – sbottò Laura prendendo un cubo in mano – i castelli non sono fatti di cubi di legno: ovvio che il tuo cade.”
“Già, hai ragione.”
“E comunque sono stanca delle costruzioni! Facciamo qualcos’altro ti prego: tra mezz’ora devo tornare a casa!”
“Va bene – annuì il bambino con aria volenterosa – uhm… vuoi leggere un altro capitolo del libro?”
“No – fece una smorfia lei – ne leggiamo fin troppi a scuola.”
“Vuoi colorare?”
“No.”
“Non… credo di avere bambole a casa, ma se vuoi chiedo a mia madre se…”
“Andy, sai che ieri ho scoperto una cosa brutta?”
“Sì? – il bambino si avvicinò a lei carponi e le si sedette accanto – cosa?”
“Pare che non potrò sposare Henry quando sarò grande: a quanto pare con il proprio fratello non si può.”
E questa era una catastrofe: insomma, era Henry la persona a cui voleva più bene al mondo. Aveva sempre pensato che sarebbero stati insieme per sempre, come nelle favole, come i principi e le principesse, ma sembrava che le cose non andassero così. L’aveva chiesto alla maestra e poi anche ad Henry e le avevano confermato che no, non importava quanto bene si voleva al proprio fratello: non ci si poteva sposare con lui, era un tipo d’amore diverso.
“Beh sì, non lo sapevi? – Andrew la guardò leggermente stranito – non ci si sposa tra persone della stessa famiglia.”
“Ma io volevo stare sempre con Henry!”
“Ecco – ancora una volta il ragazzino era imbarazzato: succedeva sempre quando non riusciva a venire incontro alle richieste della sua amichetta – non credo che si possa fare molto. E’ così e basta.”
“La vita è ingiusta – Laura si lasciò cadere sdraiata sul morbido tappeto, fissando le fiamme del camino – e io che mi ero fatta già tutti i progetti. Io ed Henry ci dovevamo sposare e tu venivi a stare da noi.”
“Non mi dispiacerebbe stare con te ed Henry – ammise Andrew – però… però non credo di voler lasciare mamma e papà: insomma è questa casa mia. Ma voi potete venire quando volete, lo sai.”
“Quando sarai più grande te ne andrai anche tu di casa, stupido!”
I due amichetti rimasero in silenzio per qualche minuto, leggermente turbati dal fatto che il loro affiatamento ogni tanto venisse a mancare: sembrava che Andrew fissasse ogni angolo di quel salotto come per rassicurarsi che non sarebbe andato via da quella casa… non per molto tempo ancora, almeno. Laura invece, nella sua piccola mente frenetica, cercava una nuova soluzione per ovviare all’ostacolo che le si era posto davanti.
“Allora ci sposiamo io e te, va bene?” disse infine, senza smettere di fissare il camino.
“Cosa?” Andrew la fissò sorpreso.
“Sei la persona a cui voglio più bene dopo Henry – rispose lei con logica – e non sei mio parente.”
Il bambino ci riflettè per qualche secondo e poi ammise:
“Anche io ti voglio bene, lo sai. Più che a tutte le altre bambine della scuola: credi che sia l’amore di cui parlano i grandi?”
“Forse… dipenderà dal fatto che non siamo parenti.”
“Va bene, allora se è così ti sposo – annuì Andrew – credi che lo dovremmo già dire ai nostri genitori?”
“No – rispose lei dopo qualche secondo – facciamo che resta un segreto tra me e te: così è più bello!”
“Nemmeno ad Henry?” si sorprese il bambino.
“No, nemmeno a lui – decise Laura con serietà – solo fra me e te. Forza, dammi un bacio.”
“Che? – Andrew arrossì fino alla radice dei capelli – i baci sono cose da grandi…”
“Sulla guancia!” specificò lei, porgendo la gota con le efelidi.
Il ragazzino esitò per qualche secondo, sperando che sua madre non decidesse di entrare in quel momento, poi si sporse e, serrando gli occhi, baciò la guancia che gli era stata offerta. Per la sua migliore amica avrebbe fatto questo e altro. E poi a Laura voleva davvero tanto bene: non ci sarebbe stato niente di strano se da grandi si sarebbero sposati.
“Andy… tu mi proteggerai sempre, vero?”
“Ma certo, non devi mai metterlo in dubbio. Ti ho detto che ti sposerò, no?”
“Dai – sorrise Laura – ti aiuto a rimettere a posto le costruzioni.”
 
***
 
“... Andrew, tu la ami Ellie?”
“Laura…”
“Rispondi solo a questa domanda: la ami? Vuoi che diventi tua maglie un giorno?”
“Sì…”
“Capisci? Non è questo suo figlio… non è… un giorno lui terrà tra le braccia i bambini di Ellie, i suoi bambini. Non posso privarli di tutto questo, Henry, cerca di capirlo. Tu non c’eri alla festa del primo dicembre, non c’eri a vederli assieme…”
“Sono solo romanticherie che non portano a niente.”
“Come questa follia che hai appena proposto!”
“Andrew, dì qualcosa: almeno tu cerca di essere un minimo razionale, andiamo!”
“Non puoi! Andy, non puoi distruggere così tutto quello che avete costruito assieme. Lei ti ama alla follia, farebbe di tutto per te… sai benissimo che quindici anni o diciotto non fanno la differenza per voi due. Non perderla, non farlo…”
“Ellie…”

 
***
 
“Andy… tu mi proteggerai sempre, vero?”
“Ma certo, non devi mai metterlo in dubbio. Ti ho detto che ti sposerò, no?”



 

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Capitolo 21
*** Festa della mamma ***


Protagonisti: Ellie Lyod Fury e Kain Fury


Festa della mamma

 
Quel piccolo angolo di mondo, maggio 1887

Ellie si svegliò, sentendosi ancora estremamente debole e soprattutto esausta.
Sapeva di essere crollata addormentata senza nemmeno rendersene conto, spinta dal suo corpo che richiedeva con disperazione almeno qualche ora di tregua; tuttavia il suo sonno era stato irrequieto e tormentato da incubi, lasciandole solo un forte mal di testa e vaghi e oscuri ricordi di quanto aveva sognato.
I suoi incubi avevano avuto a che fare con Kain, di questo ne era certa… come poteva essere altrimenti?
Dopo che per tre giorni era rimasta a vegliarlo mattina e sera, mentre lui si disperava in preda ad un nuovo attacco di febbre reumatica, non poteva aspettarsi una tregua nemmeno nel mondo onirico.
Si girò verso il centro del letto matrimoniale, scrutando con occhi ancora appannati quella piccola creatura che giaceva addormentata, l’espressione ancora dolorante… così ingiusta in un bambino di nemmeno tre anni.
Erano quelli i momenti in cui si sentiva un fallimento come madre.
Trattenendo le lacrime si disse per la centesima volta che non poteva farci niente: la febbre ed i relativi dolori dovevano scemare da soli. Poteva solo pregare che, nemmeno questa volta, la malattia si rivelasse così forte da interessare pure il cuore.
Ti prego – supplicò, allungando una mano per sfiorare le dita di Kain, ma fermandosi a un centimetro da lui – non posso perderlo, non potete portarmi via il mio unico figlio.
Era lì, febbricitante, ansimante… in preda ad una dolorosa battaglia contro la malattia, e lei non poteva nemmeno tenergli la mano per timore di scatenare i dolori alle articolazioni e privarlo di quel minimo di riposo che gli era concesso.
Tuttavia, manco a farlo apposta, Kain alzò debolmente le palpebre e la cercò, leccandosi faticosamente le labbra screpolate. Gli occhi scuri, lucidi per la febbre, trasmettevano una strana e sofferente maturità… e anche stanchezza. Per qualche tremendo secondo Ellie fu certa che suo figlio la stesse supplicando di lasciarlo andare, di farlo morire per porre fine a quella tormentata vita dove i giorni di malattia erano più numerosi di quelli relativamente sani.
Sono davvero così egoista a volerti qui con me? – la donna se lo chiese mentre si sforzava di sorridere al bambino – Sono davvero una pessima madre?
“Mamma…” pigolò Kain, muovendo faticosamente la mano sinistra, così orribilmente gonfia per la forma di artrite che la tormentava, verso di lei. Il semplice gesto, sgraziato come quello di un uccellino rachitico, provocò un immediato dolore e il gemito che sfuggì dalle labbra del bambino fece riscuotere Ellie.
“No, pulcino – mormorò, accarezzandogli i capelli sudati – non muovere la manina, lo sai che ti fa male.”
Ma Kain scosse il capo con debolezza, fissandola di nuovo, ma questa volta con disperata ostinazione. La mano si mosse fino a posarsi goffamente sulla sua e provando a stringere le dita attorno al suo indice.
“Non piangere – mormorò dolorosamente – Kain non vuole… non vuole…”
Non ti lascio, mamma – dicevano quegli occhi scuri e lucidi, carichi di una forza troppo spesso nascosta dal dolore – non ti lascio sola. Tu non lasciare me.
Era la mattina della prima domenica di maggio, la seconda festa della madre per Ellie Lyod.

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Capitolo 22
*** Resistere ***


Protagonisti: Henry Hevans


Resistere

 
Fronte contro Aerugo, 10 settembre 1882

Una folata di caldo vento riesce ad aprire i lembi sgualciti della tenda color verde scuro, rischiando di far volare i fogli sullo zaino usato come tavolino. Granelli di sabbia e terriccio si vanno a posare sulla carta leggermente stropicciata, mischiandosi con le poche parole scritte con difficoltà da una penna scadente. Un secondo dopo vengono spazzate via con impazienza da una mano che tuttavia, sporca d’inchiostro, lascia alcune macchie sulla superficie giallognola della carta di bassa qualità.
Merda!” sibila Henry Hevans accorgendosi del danno provocato e trattenendosi dal provare a pulire quel disastro con le dita. Non può permettersi di rovinare ulteriormente il foglio: la carta scarseggia lì al fronte e già è stato costretto a diminuire le pagine della sua corrispondenza; la necessità l’ha spinto anche a ridurre la sua calligrafia in modo da far stare più parole nella stessa riga.
Il sergente posa il fucile sul bordo dei fogli per impedire che possano volare via per una nuova folata, poi si guarda attorno, quasi ad assicurarsi che non ci sia nessuno a cogliere quel momento, e si concede di abbandonare la posizione a gambe incrociate sul terreno per assumere quella più volubile delle ginocchia contro il petto, le braccia a circondare gli arti inferiori.
Il rumore delle granate continua a farsi sentire, troppo vicino per i suoi gusti, come per quelli di qualsiasi soldato di trincea. Ormai sa che non lo abbandonerà per il resto della sua vita: quelle bombe continueranno ad esplodere nella sua testa a prescindere dal tempo passato, dal luogo dove si troverà. Ci saranno sempre, così come i corpi dilaniati dei suoi compagni caduti, con i loro occhi a fissare il vuoto in un’ultima espressione di supplica e di terrore, i loro arti sparsi in quei maledetti corridoi di terra che paiono ormai la loro prigione e la loro tomba.
Henry si tappa le orecchie e serra gli occhi, mentre una singola lacrima gli brucia nell’estremità dell’occhio destro prima di colare sulla guancia sporca di polvere, lasciando una strana scia chiara dai bordi più scuri. Ha ventiquattro anni, ha tutta la vita davanti a sé: non vuole morire in quel posto come il resto del suo plotone, ingoiato dall’ingiustizia della guerra in nemmeno due mesi di tempo. E’ rimasto solo lui, non perché sia il migliore, ma solo perché finora è stato il più fortunato: in trincea i bei voti in Accademia contano ben poco.
Ma ci sono momenti, come quello che sta vivendo, in cui gli pare maggiormente orribile essere ancora lì, a rischiare la morte ogni giorno, a subire la fame, le privazioni, gli stenti di una guerra che lui non sente veramente sua. Gli pare solo un incubo fatto di trincee, un labirinto di cui pare non esserci via d’uscita.
No, no! – si dispera, rialzando la testa e scuotendola con decisione – se cadi in questo vortice è la fine, lo sai bene!
Ripensa a quel soldato visto il giorno prima, mentre veniva portato a forza dai suoi compagni in infermeria. Nessuna ferita, solo la follia della trincea, così veniva chiamata dai veterani: quel ghigno assente, eppure isterico, quelle strane contrazioni della mano e della testa che si girava di scatto. C’era qualcosa di inumano in quel ragazzo che non doveva essere molto più grande di lui, tanto che i suoi stessi commilitoni evitavano di guardarlo apertamente, come se fossero in parte consapevoli di averlo in qualche modo perso.
Pensa ad altro, cretino! – ansima Henry, mentre quel viso stravolto dalla follia non va via dalla sua mente – Pensa ad altro!
Con disperazione abbandona la posizione seduta e gattona fino alla sua cassetta personale, sotto il pagliericcio dove dorme. Si sfila la catenina di metallo che indossa al collo e infila con mano tremante la piccola chiave nella serratura. Apre il coperchio con foga e posa immediatamente le mani su delle lettere meticolosamente impilate una sopra l’altra, in quattro gruppi differenti a seconda del destinatario.
E’ come se quel contatto sia la migliore medicina: le immagini del paese tornano alla memoria, riuscendo ad allontanare per qualche miracoloso istante i suoni e gli odori della guerra. Sente di nuovo il vento che fruscia gentile fra gli alberi, la profumata erba dei prati incolti, le risate di Andrew e Laura.
Si immagina di nuovo accanto a loro, felice, sereno, come durante il periodo d’oro che era stata la sua infanzia e adolescenza: il tempo in cui era forte, sicuro di sé, in cui si sentiva padrone del mondo.
In realtà non sei riuscito nemmeno a proteggere tua sorella…
Gli viene spontaneo pensarlo mentre la sua mano destra si posa contemporaneamente su due pacchi di lettere: su uno, nelle buste, si legge la calligrafia ordinata di Andrew, nell’altro quella più inclinata di Laura. Le conosce a memoria, tutte quante, la loro corrispondenza da quando era entrato in Accademia e la sua vita aveva preso una direzione che l’aveva portato in quella tenda militare.
Speranze, sogni… sono l’unico rifugio a cui aggrapparsi.
Dannazione, sua sorella ha partorito un bambino poco più di un mese e mezza fa: un maschio a cui ha dato il nome Heymans, su suggerimento di Andrew. Deve farsi forza, deve tornare da loro.
Andrew prima o poi si sarebbe sposato con Ellie, lui doveva essere il testimone di quel matrimonio.
Devo tornare… devo resistere!
Serra le labbra con forza, fino a quando non sente il sapore del sangue.
All’improvviso nuove urla, molto vicine alla sua tenda: dai richiami si capisce che una granata ha fatto una strage poco distante. Soccorsi, medici, chiunque possa aiutare per salvare il salvabile… quanti? Un paio? Prima che le ferite consumino pure loro dato che ormai sono a corto anche di medicinali decenti, tanto che i medici operano senza anestetico.
“Ehi, tu! – chiama un tenente sconosciuto, affacciandosi alla sua tenda con aria trafelata – stanno tentando di sfondare nel settore ovest, c’è bisogno di tutti gli uomini possibili! Prendi il fucile e seguimi!”
“Signorsì!”
Il sergente Henry Hevans risponde prontamente agli ordini, gli occhi grigi che tornano quelli sicuri e pronti di sempre, quelli che per istinto piacciono ai superiori. Difatti il tenente si concede un istante per annuire in segno d’approvazione prima di scomparire fuori dalla tenda.
Tornerò – si dice ancora Henry, chiudendo a chiave la cassetta e rimettendosi la catenina al collo – ci sono troppe cose che devo fare!
Prendendo il fucile e alzandosi, si concede di guardare quella lettera che avrebbe tanto voluto iniziare, nella quale ha fatto solo in tempo a scrivere la data. Scuotendo il capo con decisione abbandona i progetti per il futuro per tornare al presente della guerra.
 
Una decina di secondi dopo la tenda è vuota e una nuova folata di vento riusce a penetrare, facendo volare via i fogli non più trattenuti dal fucile.
Uno arriva fino alla cassetta di metallo, quasi si volesse unire alle altre lettere.
E’ quello con la data.
10 settembre 1882.

 
 





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Welcome back!
Nel senso, bentornata a me dopo le vacanze estive.
Prima di buttarmi in un anno per crescere 2, stasera è venuto fuori questo frammento sparso, non del tutto privo di un motivo specifico che però non vi posso dire :P

   

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Capitolo 23
*** Pensierini per la festa del papà ***


Protagonisti: Vato Falman, Roy Mustang, Heymans Breda, Jean Havoc, Kain Fury


Pensierini per la festa del papà

 
Pensierino: il mio papà
 
Il mio papà si chiama Vincent Falman, ha trentasei anni ed è nato il 4 febbraio 1851.
Gli somiglio tanto, infatti abbiamo lo stesso taglio degli occhi e la stessa corporatura snella e, quando sarò grande, diventerò alto come lui.
Mio papà è il miglior poliziotto del mondo, oltre ad essere il capitano di polizia del paese: per lui il dovere viene prima di tutto. Mi ha insegnato che devo essere molto responsabile e prendermi sempre cura di mia madre.
Dice sempre che bisogna rispettare le regole, perché sono quelle il fondamento di una società civile. E lui, da bravo poliziotto, fa in modo che queste regole, che sono raccolte nel Codice, vengano rispettate, affinchè tutti possano vivere in armonia. Quando va a lavoro indossa sempre la divisa: è scura, con i gradi di capitano sulle spalline. Una volta mi ha permesso di mettermi in testa il berretto e mi sono sentito molto orgoglioso.
Anche se non vuole che si sappia in giro, mio papà è anche il poliziotto dei temporali: infatti quando c’è lui, i tuoni ed i lampi non vengono a disturbarmi. Sanno bene che verrebbero messi in prigione, perché violerebbero la legge se entrassero in camera mia a farmi paura. Credo che sia una missione speciale e che non tutti i poliziotti riescano a fare una cosa simile: del resto il mio papà è veramente bravo. Lo dice anche la mamma.
Da grande vorrei diventare un poliziotto come lui, in modo da renderlo estremamente fiero di me.
 
Vato Falman, III classe
 
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Io non ho più un padre: è morto quasi due anni fa in un incidente ferroviario, mentre accompagnava il suo superiore in un’ispezione nel settore Est di Amestris.
Si chiamava Christopher Mustang ed era tenente colonnello a Central City. Il suo era un ruolo molto importante e questo lo portava lontano da casa, quindi non ci vedevamo molto. Anche quando tornava era molto impegnato e tante volte ripartiva il giorno dopo. Ma io non ero triste per questo: aveva un sacco di cose da fare per lavoro e dunque non poteva pensare troppo a me. Però per Natale e per il mio compleanno mi faceva sempre un bel regalo.
Fisicamente non ci somigliamo molto: dalle foto si vede che somiglio più a mia madre. Lui aveva i capelli e gli occhi castani, mentre io li ho scuri entrambi.
Sono sicuro che se avessi avuto il tempo di crescere e di dimostrargli di cosa sono capace, avrebbe passato più tempo con me. Da grande mi piacerebbe diventare un soldato come lui, con un grado importante come il suo, o più del suo. Sono sicuro che avrebbe voluto così.
 
Roy Mustang III classe
 
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Mio padre si chiama Gregor Breda.
Lui è un operaio, anche se in questo periodo non lavora in nessun cantiere.
Ha i capelli castani, così come gli occhi ed è molto robusto.
Lui non è Quando è in casa faccio attenzione a non disturbarlo, proprio come dice la mamma.
 
Heymans Breda III classe
 
 
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Mio padre si chiama James Havoc ed è il papà migliore del mondo.
È il padrone dell’emporio fuori il paese ed è così grande che riesce a sollevare un sacco di cassette da solo, oppure i sacchi di farina. E io mi posso arrampicare sulle sue spalle e toccare il soffitto con un dito da quanto è alto e grande.
Papà è biondo e con gli occhi azzurri, proprio come me: mamma dice che io sono un Havoc fatto e finito. Non so cosa vuol dire esattamente fatto e finito, ma penso voglia dire che somiglio molto al papà e la cosa mi rende felice.
Lui lavora tutto il giorno all’emporio e io lo aiuto spesso quando posso. A dire il vero preferirei aiutarlo piuttosto che studiare, ma lui e la mamma dicono che non va bene. Però sono già in grado di spostare una cassetta da una parte all’altra del magazzino tutto da solo.
Anche se lavora tanto papà  trova sempre tempo per giocare con me: prima di cena o dopo facciamo sempre la lotta sul tappeto del salotto e mi dice sempre che sto diventando sempre più forte. Mi piace tanto arrampicarmi sul suo petto e cercare di bloccarlo, però vince sempre lui.
A volte mi porta a fare commissioni col carro: la volta scorsa mi ha anche permesso di tenere le redini fino al paese. Ho imparato subito e lui non mi ha dovuto aiutare nemmeno una volta.
Da grande voglio proprio diventare come lui: sarò grande e alto, potrò sollevare i sacchi di farina e le cassette proprio come fa lui. E potrò batterlo nella lotta una volta per tutte.
 
Jean Havoc III classe
 
 
~
 
 
Il mio papà si chiama Andrew Fury ed è un ingegnere molto stimato.
Adesso sta lavorando a dei progetti di canalizzazione nel terreno di un signore: grazie ai suoi lavori, se mai ci sarà siccità, il raccolto non andrà perduto.
Il mio papà fa i suoi progetti nel suo studio che è una delle mie stanze preferite della casa: ci sono tutti i suoi libri dell’Università in una grande libreria. A volte gli chiedo se me ne prende uno e poi mi sdraio sul tappeto a guardare le belle figure che ci sono. Nella stanza c’è anche un grande tavolo da disegno. Mi piace molto mettermi dietro il papà ed osservare come traccia tutte quelle linee con il righello e la matita. Quando lavora indossa gli occhiali e questo mi piace molto perché anche io li porto, sebbene sempre.
La mamma dice che ho ereditato la sua precisione nel fare le cose e questo mi rende molto felice perché desidero davvero somigliargli tanto.
Quando glielo chiedo mi parla di quando era all’Università: adoro sentire queste storie, ancora di più sentire la sua voce che mi parla. Sono i momenti che preferisco.
Un giorno gli ho chiesto se, da grande, pure io potrò andare all’Università e mi ha risposto di sì. La notizia mi ha reso molto felice ed è stato molto bello quando ha risposto al mio abbraccio.
Vorrei essere meno timido, più forte, perché so che questo lo renderebbe felice. Vorrei sempre renderlo fiero di me, perché è il papà più bravo del mondo e gli voglio tantissimo bene.
 
Kain Fury III classe



 

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Non c'è un anno specifico in quando i diversi pensierini si svolgono quando i ragazzi sono in 3a elementare, dunque in anni differenti.

Allora, molto spesso è un classico che per la festa del papà a scuola chiedano di fare un pensierino in merito. Ho cercato di far trasparire il rapporto di ciascun ragazzo con la figura paterna, in un momento in cui i fatti di Un anno per crescere non sono ancora accaduti.
Si può percepire l'ammirazione di Vato per suo padre, ancora tinta di quelle sfumature  infantili come la storia del poliziotto dei temporali. Altresì traspare già l'impostazione un po' rigida che Vincent sta dando al figlio, con il pressante insegnamento di rispettare le regole.
Roy invece parla del padre con un misto di distacco, ammirazione e giustificazione. Non vuol esser considerato un bambino abbandonato a se stesso, per non dire trascurato, e così si rifugia dietro il lavoro del padre, dietro quei regali fatti più per dovere che per vero affetto. Si coglie anche un certo senso di rivalsa in quel voler diventare un soldato con un grado più importante del suo.
Heymans invece ha fatto l'unico compito insufficiente della sua vita scolastica. Sappiamo come già ad otto anni il rapporto con Gregor sia complesso e di come il bambino abbia capito che nella sua famiglia ci siano dinamiche profondamente sbagliate. Ma per ora non c'è ancora nessun moto di ribellione: Gregor è la figura da temere, da non provocare. Ne ha un timore primordiale, istintivo, tanto che non sa nemmeno cosa scrivere nel suo quaderno.
Di contro si vede invece come Jean abbia un rapporto idilliaco col genitore, probabilmente il più naturale di tutti i ragazzi: non c'è niente di sottinteso nelle sue parole da figlio entusiasta, se non il grande amore che prova per James.
Kain, infine, fa capire come i rapporti con Andrew non siano del tutto spontanei come quelli di Jean. Si intravede una certa distanza tra padre e figlio, dettata dall'incapacità del bambino di farsi valere nei suoi rapporti interpersonali (cosa che dichiara lui stesso nelle ultime frasi); distanza che lui colma con quei momenti di intimità che comunque riescono a concedersi: Kain da estremo valore al tempo passato con Andrew, anche se si tratta solo di stare con lui nel suo studio e di poter condividere il suo ambiente. Altro fatto che trovo molto tenero (che avevo messo nello spin off) è di come il bimbo sia molto attratto dalla voce del genitore: lo trovo un dettaglio molto significativo perché sottolinea l'importanza non solo del legame fisico, ma anche di quello degli altri sensi.

Quanto a Riza... beh, come sapete lei le scuole elementari non le ha fatte, in quanto stava in casa con la madre. Di conseguenza un compito del genere non ha avuto occasione di svolgerlo.

Enjoy :)

 




 

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