Hotch invisible to His Daughter

di CaptainKonny
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 9 ***
Capitolo 11: *** Capitolo 10 ***
Capitolo 12: *** Capitolo 11 ***
Capitolo 13: *** Capitolo 12 ***
Capitolo 14: *** Capitolo 13 ***
Capitolo 15: *** Capitolo 14 ***
Capitolo 16: *** Capitolo 15 ***
Capitolo 17: *** Capitolo 16 ***
Capitolo 18: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


DADDY’S LITTLE GIRL
 
 

Prologo

 

-Mi chiamo Serena Brooks e ho 26 anni.
Vivo con mia zia Jessica a Georgetown, nel Maryland.
Non sono mai stata molto brava con le presentazioni, per questo ho sempre odiato i temi nel primo giorno di scuola. A mio parere, non c’è presentazione migliore di una bella stretta di mano e un viso pulito. Mi reputo una ragazza come tante, non troppo bella non troppo brutta, con degli hobby e la passione di uscire con gli amici. Sfortunatamente, questo è durato fino alla fine delle scuole dell’obbligo, dopo di che sono stata completamente assorbita da quello che avevo sempre desiderato: quello che sarebbe diventato il mio futuro.
Frequento l’ultimo anno di specializzazione dell’accademia, al termine di questo semestre sarò un profiler a tutti gli effetti. Per chi non lo sapesse, i profiler sono degli agenti dell’FBI che per risolvere i loro casi non si limitano alla scena del crimine e alle prove concrete, ma analizzano i comportamenti dell’S.I., ovvero il Soggetto Ignoto. Tutto quello che l’S.I. fa e non fa, il motivo per cui l’abbia fatto, quale sarà la sua prossima mossa, i profiler lo analizzano, cercano di capirne il comportamento, il carattere e la mentalità al fine di prevedere la sua prossima mossa, anticiparlo e poi arrestarlo.
Mi ha sempre affascinato la psiche umana, perché facciamo quel che facciamo. Un nostro banalissimo gesto può far capire ad un profiler molte più cose di noi di quello che immaginiamo. Ovviamente, quando riveli ai tuoi amici che da grande vuoi fare il poliziotto e tu sei una ragazza non riscuoti molto successo, piuttosto scaturiscono molte risate. Se poi aggiungi che vuoi diventare un profiler, iniziano gli sguardi scettici , come se fossi appena uscito da un manicomio; nulla di strano, molte persone non sanno nemmeno l’esistenza della branca del profiling. Quando in seguito vieni accettato all’accademia e ammesso col massimo dei voti, diventi ufficialmente un alieno. I miei amici lo dissero ai loro genitori, i quali a loro volta lo dissero ai loro amici.  Non contenti, sommateci il fatto che io viva con mia zia e dei miei genitori non si sa che fine abbiano fatto, beh…si fa presto a diventare quella “strana”, un’emarginata.
Me la sono cavata, ho imparato a non dar troppo peso alle chiacchiere. Le persone ti osservano, ma poi impari che quelli “strani” sono loro, che dietro a quegli sguardi nascondono segreti ben più grossi del tuo. Forse, se la gente sapesse la verità sarebbe tutto diverso, o forse no; la gente non ama le brutte verità. E io non amo il mio passato. Anche se, curiosamente, questo continui a rincorrermi e ad accompagnarmi nel mio presente e si appresti a diventare il mio futuro.
Un utente di Twitter una volta ha scritto: “Ho sempre desiderato vestirmi da eroe. Ma i vestiti di mio padre mi vanno larghi.”, quanto aveva ragione.
Perché ve lo dico? Perché questo è quello che ho sempre pensato di mio padre. Il vero problema è che se mi trovo in questa situazione la colpa è soltanto sua. Mio padre, mia madre, mio fratello e io vivevamo in Virginia una volta. Mio padre era un profiler, uno in gamba. Era a capo della migliore squadra di profiler di tutta l’America. Quindi, per me, di tutto il mondo. Girava da un paese all’altro, mamma si arrabbiava, ma io e Jack non capivamo, per noi l’importante era che tornasse a casa e lo faceva sempre. Quando nostra madre venne uccisa da uno dei delinquenti a cui stavano dando la caccia, Jack aveva cinque anni, mentre io ne avevo quattro. Eppure l’unica cosa che riuscivo a ripetermi era che papà era lì e che quindi avrebbe sistemato tutto, lui sistemava sempre tutto; dopotutto è questo che fanno gli eroi, no? Quando però cinque anni dopo mio fratello fu ucciso le cose cambiarono drasticamente. Ormai avevo capito che le cose non sarebbero tornate a posto, semplicemente perché certe cose non possono tornare come prima, possono essere rattoppate, come una giacca rotta; ma gli spifferi passano sempre. Mi trasferii definitivamente da mia zia, cambiai cognome e le visite di mio padre durante l’anno divennero dei veri e propri avvenimenti. Ogni tanto sopperiva a questa mancanza mandandomi delle lettere. Tutto per il seguente motivo: “Lo faccio per proteggerti.” Diceva lui. E mi sono fidata. Poi, col tempo, ho capito che la persona da cui mio padre voleva proteggermi era sé stesso. Le telefonate diventarono vietate e le visite quasi del tutto inesistenti, quando poi iniziai gli studi non sapevo nemmeno se gli era capitato qualcosa. Giunsi dopo non molto tempo alla conclusione, i fatti parlavano chiaro: mio padre aveva scelto la sua “famiglia”.
Le uniche cose che ancora ci legano sono il DNA e la passione per il profiling. Curioso quanto il destino sia crudele certe volte. Grazie a questo non potrò mai liberarmi del mio passato, sarà sempre acquattato dietro un angolo o nascosto all’interno di un’ombra. Ma forse potrà anche insegnarmi qualcosa; ad esempio, come non voglio diventare.
Chi era mio padre? L’Agente Speciale Supervisore Aaron Hotchner.-

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Capitolo 2
*** Capitolo 1 ***


3

Capitolo 1

 
“Amo te,
niente di più semplice
amo te,
niente in più da chiedere”
 
POV. HOTCH
Il jet atterrò che era mezzanotte passata. Eravamo tutti stanchi. Ad eccezione mia e di David, gli altri si erano addormentati sui sedili in pelle dell’aereo. Per fortuna non avrei dovuto restare in pensiero che arrivassero a casa integri, ci pensò la gelida aria di Novembre a ridestare tutte le nostre cellule, pizzicandoci piacevolmente il viso. Era bello poter tornare a casa sapendo che un altro delinquente era dietro le sbarre, che delle persone innocenti erano in salvo e che le vittime avevano trovato giustizia. Ogni volta che ci pensavo mi sentivo orgoglioso della mia squadra, eravamo tutti degli ottimi profiler e, a mio parere non da meno, delle brave persone. Ciascuno di noi aveva alle spalle un passato più o meno doloroso e forse questo era il motivo per cui ci mettevamo tanta passione; impedivamo che le persone subissero quello che noi avevamo provato sulla nostra pelle. Ognuno di noi era diverso dall’altro e questo ci rendeva complementi di un gigantesco puzzle.
Salutai i miei colleghi, di lì a poche ore ci saremmo visti di nuovo, e salii sul suv nero che avevo parcheggiato in uno dei posti al coperto. L’abitacolo era relativamente meglio rispetto all’esterno, come temperatura. Appoggiai la testa al sedile, chiudendo gli occhi e espirando profondamente dal naso. A differenza degli altri lavori, il nostro non finiva al termine di una giornata, bensì quando rientravamo a casa. Il che voleva dire poter rimanere svegli ben più di 24h. Poco importava se ci venivano messe a disposizione delle camera d’albergo, in tal caso il più delle volte dormivo sì e no un paio d’ore, non mi sono mai trovato bene a dormire fuori casa. Problema che a quanto pare non ha mai toccato i miei colleghi. Così, ogni volta che tornavano da una missione, prima di continuare a far scorrere il tempo lo bloccavo, prendendomi un attimo per me. Ero il capo di un’unità speciale, non potevo dimostrare tentennamenti davanti ai miei sottoposti. Ecco perché l’opinione generale mi reputava serio, austero, severo, privo di umorismo; ma anche capace e affidabile. I miei uomini si sono sempre fidati di me e io di loro. Così, bloccai il tempo ancora una volta, mettendo da parte l’agente speciale e facendo emergere dagli abissi della mia mente Aaron Hotchner. L’essere umano, l’uomo, capace di sacrificare tutto per il bene degli altri. Quello tormentato dagli incubi di tutto quello che gli occhi del federale in lui hanno visto. Può sembrare crudele, ma provare quel misto di senso di colpa e fallimento mischiati all’orgoglio e alla gioia di essere tornati può farti sentire vivo.
Respirai con calma un paio di volte, nel buio sotto le mie palpebre si muovevano ombre che però in quel momento non potevano nuocermi. Rilassai i muscoli dalla tensione accumulata in quelle ore e non mi stupii di trovarli doloranti, un altro fattore a testimoniare che ero ancora vivo e che la mia psiche non era stata compromessa. Restai lì immobile per un periodo di tempo imprecisato, poco male, non c’era nessuno ad aspettarmi a casa. Aprii gli occhi di scatto. Il mio cuore prese a pompare velocemente. Accadeva ogni volta che pensieri del genere sfioravano anche solo lontanamente la mia mente. E come sempre mi sentii subito in colpa. Strinsi le labbra in una riga sottile, mentre portavo la mano destra sotto al cappotto, all’altezza del petto, per afferrarne il portafoglio. Lo aprii lentamente, assaporando il rumore del tessuto che scricchiola dopo un lungo periodo di tempo di immobilità. Sollevai il tesserino dell’FBI, il battito cardiaco mi rimbombava nelle orecchie, infilai due dita in una taschina talmente stretta che nessuna tessera ci era voluta entrare; ed eccolo. I polpastrelli tastarono un quadratino di cartone perfettamente liscio. Non senza difficoltà riuscii ad estrarlo e i miei occhi ne incontrarono un paio dello stesso colore di quelli di mia moglie. Un intenso azzurro/verde frastagliato di minuscoli cristalli bianchi. I capelli invece erano talmente scuri da tendere al nero, come i miei. Quanto mi mancava quel sorriso, una volta lo potevo vedere ogni volta che tornavo a casa, ogni volta che riuscivo ad esserci. Ricordo ancora quando tutti insieme andammo dal fotografo, servivano le fototessere per l’asilo. Quello scricciolo dal caschetto scuro, seduto sullo sgabello al centro della stanza illuminata mi sorrideva a trentadue denti, o meglio trenta viste le due “palette” davanti crollate dopo un burrascosa caduta dallo scivolo. Così buffa da farmi ridere e lei rideva a sua volta del mio divertimento.
Tornando alla realtà mi resi conto di avere gli angoli delle labbra piegati all’insù.  In un mare di incubi, per fortuna c’è ancora qualche ricordo felice che torna a salvarci. Ancora una volta la realtà ebbe la meglio e il senso di colpa prese il sopravvento. Quella fototessera non era solo un bel ricordo, ma anche il promemoria del mio passato, di quello che non sono stato in grado di impedire. Era il mio esame, ho fallito, e la mia famiglia ne ha pagato le conseguenze. Quel sorriso non mi è stato tolto, sono stato io a scegliere di privarmene.
Non tiravo quasi mai fuori quella foto, quindi non capii perché l’avevo fatto, forse un momento di debolezza. La riposi al suo posto. La prova del mio passato e la promessa che lei avrebbe avuto un futuro migliore. Perfetto, era decisamente giunto il momento di andare, seppellire il passato da dove era venuto.
Girai la chiave nel quadro e il motore rispose con decisione. Accesi la radio per il tragitto aeroporto/casa, non che la ascoltassi però mi faceva compagnia, teneva lontani i pensieri, indistintamente: quelli del lavoro e quelli privati. Le strade erano quasi del tutto deserte nel mio quartiere, giusto qualche giovane che rientrava o che andava a ballare. Parcheggiai la macchina in garage, chiusi la saracinesca e mi avviai verso casa. Anche se non c’era nessuno ad aspettarmi era sempre bello potersi chiudere la porta alle spalle, chiudere fuori i criminali con due giri di chiave; almeno per un po’. Mi tolsi il cappotto e lo appesi all’attaccapanni sulla parete dell’entrata. La luce illuminava il corridoio e le scale, lasciando le stanze laterali quasi nella più completa oscurità. Stavo tirando fuori dalle tasche portafoglio e chiavi, quando i miei sensi di profiler si attivarono all’improvviso. Sentivo i peli sulla nuca pizzicare, come quando sai che qualcuno ti sta osservando. La cosa peggiore era che, non essendoci finestre in quel punto della casa, la risposta era una: chiunque fosse era in casa. Rimasi immobile per alcuni istanti, valutando velocemente il da farsi. Non potevo telefonare ai ragazzi, sarei stato aggredito dall’intruso immediatamente e non avevo idea di che arma avesse, se ne aveva una. Per non contare che mi sarei privato di un mano per difendermi. L’unica era sperare che l’intruso non si fosse accordo del mio comportamento, scoprire dove fosse e metterlo all’angolo. Uscire? Fuori discussione. Avevo chiuso la porta con due giri di chiave, mi sarei fatto prendere alle spalle senza la possibilità di difendermi, senza contare che uscendo avrei anche potuto mettere degli innocenti in pericolo.
Posi chiavi e portafoglio nel portaoggetti sul mobile e con disinvoltura mi apprestai ad allungare un braccio oltre la soglia della sala, con l’intento di illuminarla prima di entrarci, contemporaneamente portai la mano destra ad afferrare la pistola al mio fianco. L’intruso si dimostro audace ben oltre le mie aspettative. Sentii qualcosa di rigido e sottile smuovere l’aria prima di colpirmi con violenza il braccio proteso. Estrassi la pistola con l’intento di puntarla contro la sagoma in movimento davanti a me. Tuttavia, ancora una volta, questa si dimostrò più preparata di me. Mi afferrò per il polso del braccio leso, tirandomi verso di sé. La ginocchiata al fianco destro mi fece piegare e con un altro colpo persi la pistola. A quel punto sfruttai la mia altezza per sovrastarlo, bloccargli le braccia e spingerlo tra i divani. Ormai i miei occhi si erano adattati all’oscurità e riuscivo a seguire l’intruso in ogni sua mossa. Mi avvicinai per colpirlo di nuovo, ma le sue gambe si intrecciarono alle mie in un abile groviglio, mandandomi al tappeto e portando con me il tavolino di legno e tutto ciò che vi stava sopra. Il dolore passò in secondo piano, me l’ero cavata con cose ben peggiori, ma il mio assalitore doveva essere non solo più veloce di me, ma anche più agile. Me lo ritrovai sopra e mi colpì forte lo stomaco e il petto, sentivo chiaramente il sapore del sangue sulla lingua. Toccai qualcosa con la mano, l’afferrai e la scagliai contro la sua testa con tutta la forza che riuscii a radunare in quei pochi attimi. Frastornato, riuscii a togliermelo di dosso, dovevo raggiungere la pistola sul pavimento, illuminata in pieno dalla luce del pianerottolo. L’arma che aveva usato prima sul mio braccio, si abbatté con forza sulla mia schiena. Crollai in ginocchio con un gemito; la pistola a pochi metri da me. Lui mi sorpassò e la calciò via, poi tornò a guardarmi. Mantenni il mio glaciale autocontrollo, ma un brivido freddo mi percorse da capo a piedi. Mi sporsi a prendere la pistola alla caviglia, mi arrivò un colpo in piena regola in faccia, tanto da mandarmi a sbattere dalla parte opposta rispetto a dove mi ero proteso.
-Chi diavolo sei?- riuscii a sputargli in faccia.
Non mi rispose, si avvicinò, accucciandosi in parte a me puntandomi quell’arma contro il petto.
-Che cosa vuoi?-
-Te agente Hotchner.- e un altro colpo partì, ravvicinato. Mi sentii andare a terra, la testa tramortita con violenza da non riuscire a vedere. Si susseguirono altri colpi, poi tutto divenne inesorabilmente buio.
 
“Sei tu il mio re,
io la tua regina”

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Capitolo 3
*** Capitolo 2 ***


Capitolo 2

 

BAU TEAM

Toc toc.

-Oh, buongiorno anche a te dolce visione. Anche tu qui così presto?-

Garcia salutò dalla sua postazione in mezzo alla  “Stanza dei monitor” la collega appena entrata. JJ dal canto suo le porse una bella tazza di caffè ancora fumante.

-Buongiorno anche a te. Avevo un po’ di cose da sbrigare prima che arrivassero i ragazzi. E tu come mai sei così mattiniera oggi?- la donna prese posto accanto all’amica, badando bene a non urtare niente in quel miscuglio di documenti, tastiere varie, post-it e pupazzetti. Garcia si poteva dire quella più eccentrica del gruppo, persino più di Spencer, il cervellone. E come a voler rafforzare quella teoria appurata ma mai espressa, la collega fece dondolare i biondi codini riccioluti, trattenuti da due appariscenti fiocchi rosa a pois bianchi.

-A dire la verità sono andata a dormire molto presto ieri sera e così questa mattina alle sette ero già bella arzilla, così mi sono trovata qualcosa da fare.-

-Non mi avevi detto che avevi un programma da guardare o qualcosa del genere?-

Garcia la guardò con la stessa espressione sconsolata di un bambino di sei anni che ti accusa di non comprendere quanto i suoi cartoni siano importanti.

-Non era un programma, era un videogioco. Il problema è che parlava di 24 capitoli, ma ce n’erano solo 14. E dove sono finiti gli altri 10?-

JJ sorrise dell’espressione di Garcia, era incorreggibile, come sempre.

-Piuttosto, strano non si sia ancora visto Hotch in giro.-

-Meglio. Una persona in meno a cui dover spiegare la mia frustrazione.- rispose l’altra senza distogliere lo sguardo dai monitor, mentre le mani danzavano sui tasti come se avessero vita propria. JJ sorrise ancora una volta.

-Vado a vedere se è arrivato qualcun’altro.- 

-Mmh. Ah, grazie del caffè! Sei stata un tesoro.- la fermò giusto in tempo Garcia, facendo ruotare la poltrona girevole con una spinta decisa.

-Figurati. A dopo!-

Nell’openspace non c’era tantissima gente, più di metà delle scrivanie erano riservate alla loro squadra. Un’arruffata chioma castano chiaro faceva capolino da sopra una delle divisorie.

-Buongiorno Spence!- JJ era l’unica a chiamare il ragazzo con quel nomignolo e a lui andava bene, c’era un rapporto molto particolare tra loro, di estrema fiducia. Sentendosi interpellare il ragazzo alzò lo sguardo dalle carte che aveva davanti, sorridendole radioso.

-Buongiorno a te JJ!- era così dolce, la donna non poteva fare a meno di pensare che ai suoi occhi quel ragazzo non sarebbe mai cambiato. Un bambino dalla conoscenza infinita circondato da adulti freddi e austeri.

-A quanto pare stamattina nessuno aveva voglia di stare a casa. Anche Garcia è già al lavoro.-

-A dire il vero sono arrivato prima perché avevo ancora dei rapporti da completare. L’altra sera Emily me ne ha passati qualcuno dei suoi.- rispose il ragazzo, storcendo un pò la bocca di malavoglia. Preferiva di gran lunga mettere in pratica le sue abilità sul campo, che restare chiuso in ufficio.

-Ma scusa, perché non le hai detto di no?- il ragazzo alzò le spalle come se fosse una cosa ovvia, di non rilevante importanza, sorridendo altruista; gli occhi la guardavano completamente limpidi, spalancati e le ricordarono quelli dei suoi due  figli.

-Lo sai che mi fa piacere dare una mano.-

-Spence, un conto è dare una mano, un conto è approfittarsene.- sottolineò lei, incrociando le braccia davanti a sé con fare materno. Il ragazzo sorrise, sapeva che JJ era molto protettiva verso di lui. Un po’ tutti lo erano a dire la verità, in fondo era il più giovane del gruppo. Eppure JJ aveva un modo tutto suo di farlo sentire a casa. Lui poi che ha avuto un padre assente ed una madre malata da molto tempo.

-Tranquilla, non succederà. E comunque vedrai che Morgan non si smentirà.-

-Riguardo a cosa?-

-Ad arrivare presto. A mio parere non sarà qui fino alle 9:30.-

-Non provare a cambiare discorso.- lo accusò sorridendo la bionda, puntandogli l’indice contro con fare accusatorio; anche il ragazzo rise.

-Cos’è che succederà alle 9:30?-

Una trafelata Emily prese posto alla sua scrivania dopo aver gettato la malaugurata borsa che aveva con sé in parte alla sedia. Dai capelli in disordine e dalla cera pallida, la donna non aveva passato una buona nottata.

-Buongiorno anche a te.- fece ironica la bionda, l’altra sospirò, stufa ancora prima di iniziare.

-Dicevamo che Morgan non sarà qui prima delle 9:30.-

-Probabile, ma non gli conviene se non vuole sentirne quattro da Hotch.- si aggregò la mora.

-Beh, per il momento ne Hotch ne Rossi sono ancora arrivati.- sentenziò JJ, aguzzando la vista oltre il soppalco, dove sapeva erano ubicati gli uffici dei suoi superiori.

-Questo sì che è strano.- commentò distrattamente l’altra, accendendo il suo pc.

-Ehi Emily, tutto bene? Hai una faccia.- domandò il ragazzo.

-No, ricordatemi la prossima volta di non dormire più in aereo. Mi è venuto un torcicollo! Non sono più riuscita a chiudere occhio per tutta la notte.- rispose la collega, frustrata.

-Hai provato a prendere un antidolorifico?- propose JJ.

-Per il momento ho messo una pomata, sperando faccia effetto.-

-Buongiorno a tutti!-

 Quella voce allegra e squillante riportò un po’ tutti alla normale e rilassante quotidianità dell’ufficio; Rossi era l’unico ad arrivare di primo mattino al lavoro con un sorriso raggiante. Ad eccezione di Morgan dopo che aveva passato una delle sue serate di fuoco.

-Buongiorno! Finalmente qualcuno allegro.- sorrise JJ.

-Perché? Qualcosa non va?- domandò l’uomo, preoccupandosi dei suoi giovani ed esperti sottoposti come se fossero i suoi stessi figli.

-A quanto pare è stato un brutto rientro un po’ per tutti.- sorrise Reid dalla sua postazione, con fare tra l’ironico e il divertito.

-Ieri sera mi avevi accennato a dei rapporti da finire, ma a te e Emily cosa è capitato?-

-Torcicollo.- rispose questa tra un colpo di tosse e l’altro.

-E a te JJ?.- domandò l’uomo, guardandola con occhio clinico.

-A me nulla per il momento, ma Garcia è qua quasi da prima di me.-

-Questo sì che è strano.- commentò Rossi alzando un sopracciglio e facendo così ridere tutti quanti.

-Sì, ma lei non è partita con noi.- ci tenne a sottolineare Emily.

-A quanto pare Morgan è riuscito ad addormentarsi senza problemi.- continuò il loro capo, avviandosi verso il suo ufficio, mentre i colleghi ridevano per quella battuta prevista. A metà strada l’agente anziano si fermò, osservando tra le tendine dell’ufficio del suo capo, ubicato a metà strada tra il suo ufficio e le scale.

-Hotch non è ancora arrivato?- domandò serio, questa volta nella sua voce si udì perfettamente quella nota insolita, da avvenimento non calcolato.

-Nessuno l’ha ancora visto.- rispose JJ.

-Magari ha deciso di prendersi qualche ora, ieri non ha chiuso occhio nemmeno per un minuto.- azzardò Emily, ben sapendo che la cosa stonava anche a lei mentre la diceva.

-Hotch? No, non è il tipo.- Spencer, la bocca della verità, aveva dato adito al comune pensiero.

-Ad ogni modo avvisatemi quando arriva, devo parlargli di una questione piuttosto urgente.- tagliò corto Rossi, sparendo definitivamente nel suo ufficio.

Hotch con la sua serietà e autorevolezza aveva il potere di far sentire tutti in soggezione, sotto esame in ogni momento. Di conseguenza, avere una mattinata per rilassarsi avrebbe dovuto farli sentire meglio, a quanto pareva invece la cosa non faceva altro che farli innervosire e preoccupare sempre di più. Hotch era il loro capo e loro erano la sua squadra. Tra loro non c’era solo un giuramento burocratico, ma un vero e proprio rapporto di fiducia e lealtà.

Le ore si susseguono nella più completa tranquillità, compilando scartoffie e rispondendo al telefono. Come premesso, il don Giovanni della squadra non fece il suo ingresso se non un paio di minuti prima che scattassero le 9:40.

-Buongiorno gente! Vi sono mancato?- la sua aria rilassata e festante suggeriva che non solo era riuscito a dormire, ma aveva passato anche una gradevole nottata. Tutti i suoi colleghi gli restituirono occhiate minacciose dalla loro postazione.

-Ehi, che sono quei musi lunghi?- domandò ancora Derek, prendendo posto alla propria scrivania.

-Tu che dici? Noi siamo al lavoro già da un pezzo. Mentre tu dov’eri?- la minaccia di Emily lasciava trapelare tutta la curiosità di cui era intrinseca.

-Tesoro, ricordo solo di essermi svegliato con un vassoio sul comodino con la colazione pronta e una lettera profumata nella parte del letto accanto alla mia. Che vuoi che ti dica?- rispose l’uomo con fare a dir poco poetico.

-Questo non toglie il fatto che sei in ritardo.- sottolineò il giovane dottore, senza distogliere gli occhi dal monitor del computer.

-Reid, lo sai vero che a parlare è la tua invidia e non tu. Vero?-

-Invidia? Invidia per cosa?-

-Per la “compagnia” che tu non hai.- rise l’altro divertito.

-Ma sentitelo!-

In quel preciso frangente, forse attirato dal vociare che aveva animato l’openspace, David uscì dal suo ufficio, appoggiandosi alla balaustra e osservando i ragazzi, come se stesse cercando qualcuno.

-Morgan! Sono contento tu ti sia ricordato di noi questa mattina.-

L’agente di colore non rispose a quella battutina; divertente che fosse, Rossi era uno dei suoi capi e un avviso di richiamo in quelle parole c’era senza ombra di dubbio. David continuò a scrutare la stanza con le sopracciglia arcuate; aveva una strana sensazione da quanto era arrivato e non se n’era più andata. JJ tornava proprio in quel momento da un ufficio accanto, le braccia ricolme di cartelle contenenti ognuna casi diversi.

-JJ, Hotch è arrivato?- la ragazza si fermò, sollevando lo sguardo verso di lui.

-Non che io sappia.-

-Nessuna telefonata o messaggio?-

-No, niente.-

-Aspettate un momento! Hotch non è ancora arrivato?- Morgan aveva dissolto il sorriso burlone, lasciando emergere la persona seria che c’era in lui, il profiler.

-Non è da lui.- sul viso di Emily la preoccupazione era del tutto evidente.

-No, per niente.- anche Spencer aveva lasciato perdere i suoi rapporti.

David, mantenendo un fare controllato, ma non mascherando il forte dubbio che lo attanagliava, prese il cellulare dalla tasca interna della giacca, portandoselo all’orecchio sotto gli occhi di tutti. L’apparecchio iniziò a squillare. Un’attesa bruciante, neanche i secondi erano così lenti. Poi il silenzio assoluto.

-Allora?- domandò Derek, lui e tutti gli altri avevano il volto rivolto verso l’alto. Non ebbe il tempo di rispondere che il telefono sulla scrivania di JJ prese a squillare. Per un paio di secondi nessuno si mosse, in preda all’ansia più completa. Era Hotch quello pacato e deciso, quello che dopo un attimo di silenzio sapeva perfettamente come gestire ogni situazione. David annuì ad uno sguardo della bionda, consentendole di rispondere.

-Pronto.- la dolce e attiva JJ era terrorizzata, la sua voce non era mai risuonata così distaccata.

-Salve Jennifer, o come ti chiamano tutti, JJ.- la ragazza premette un tasto, mettendo la chiamata in vivavoce, poggiò la cornetta sulla scrivania e vi si allontanò come se vi fosse rimasta scottata.

-Chi parla?- domandò la donna, ormai non mascherando il panico di quanto grave si stava per rivelare la situazione. David scese prontamente le scale, raggiungendo gli altri colleghi attorno alla scrivania, muovendosi col fare irrequieto di un leone anziano quando qualcuno osa entrare nel suo territorio, guardingo.

-Questo non ha importanza, non adesso. Piuttosto, voi che non vi siete neanche accorti dell’assenza di un vostro collega, non vi siete neanche domandato il perché.-

-Che cosa gli hai fatto viscido bastardo?- sbottò Morgan, pieno di rabbia. Fu David ad afferarlo per un braccio e a imporgli la calma con un singolo sguardo; non potevano assolutamente permettersi un passo falso in un momento delicato come quello. Una risata sguaiata proruppe dalla parte bassa della cornetta.

-L’agente Morgan! Lo sai, saresti un ottimo capo, se solo non fossi così impulsivo. È quello che pensano tutti.-

-Non hai risposto alla domanda.- sottolineò con innaturale calma David, cercando di riportare la conversazione su un territorio sicuro.

-Ah, l’agente Rossi. Sapevo avrei parlato con lei.-

-Davvero?-

-Il braccio destro dell’agente Hotchner. Com’è prendere ordini da uno più giovane di te? Non ti senti umiliato?-

-Aaron Hotchner è il mio capo, ed è una buona guida per tutti noi. Ha le qualità e l’esperienza necessarie per occupare il posto che occupa.-

-Ma che carini. Sacrifichereste ognuno la propria vita per salvare quella dei vostri compagni.-

-Ci conosci molto bene, vedo.-

-E’ così. Siete famosi in prigione, lo sapevate? Ad ogni modo, era necessario che vi conoscessi. Non abbiatene a male, non ho nulla contro di voi, ma io e l’agente Hotchner abbiamo una questione in sospeso.-

-Non ci hai ancora detto cosa hai intenzione di fare.-

-Vedrete.-

-Sta bene?-

-Per il momento. Adesso però, se volete che continui a star bene, dovrete seguire alla lettera le mie istruzioni. E vi intimerei di non indugiare, ogni secondo che passo in attesa mi annoio e voi non volete che utilizzi il vostro amico come passatempo, vero?- i loro cuori battevano così forte da pensare che tutti nella stanza potessero sentirli.

-Che cosa vuoi?-

-C’è una ragazza, Serena Brooks. Voglio parlare con lei.-

-Ce ne saranno decide di ragazze con quel nome.- ribatté David.

-E’ così, ma a noi ne interessa una sola. Mi rifarò vivo io. Buona fortuna agenti.- la linea cadde e la cornetta prese a squillare a vuoto nel silenzio che si era creato.

La squadra rimase zitta per una buona trentina di secondi, Spencer non aveva potuto impedirsi di contarli sotto shock. C’era qualcosa in tutta quella faccenda che la faceva apparire terribilmente irreale secondo lui. Il primo a riprendersi fu Derek: estrasse uno dei suoi due cellulari e chiamò immediatamente Garcia.

-Buongiorno anche a te Zuccherino. Lo sai vero che dovrai farti perdonare per questo tuo ritardo?- fece giocherellona la ragazza dall’altra parte dell’apprecchio, ancora ignara di quanto erano appena venuti a conoscenza.

-Garcia non abbiamo tempo per i giochetti. Controlla il telefono della scrivania di JJ e vedi se riesci a risalire a chi ha fatto l’ultima telefonata.- ordinò Derek.

-Controllo subito. Ehi, posso sapere cosa è successo?- l’uomo sentiva chiaramente il battere dei tasti dall’altra parte e sapeva anche che la collega non l’avrebbe presa bene.

-Hanno rapito Hotch.- per un lungo momento rimase solo il battere dei tasti, Derek sapeva che non l’aveva presa bene, nessuno di loro l’aveva fatto. Il loro capo ne aveva passate tante, ma per qualche strana ragione apparente era sempre lui a dare sostegno a loro, erano loro ad avere bisogno di lui; non il contrario.

-Guarda Morgan che se questo è uno scherzo, è davvero di cattivo gusto.- Derek ebbe un tuffo al cuore. Garcia, la sua bambolina, stava trattenendo a stento i singhiozzi. Grande e grossa e terribilmente dolce. Riusciva ad immaginarsela: con gli occhi lucidi, il labbro inferiore coperto dal rossetto tremare e le sue mani battere furiosamente sulle tastiere, trattenendosi dal piangere solo per non perdere la concentrazione e fare quello che lei sapeva essere brava a fare, trovare i criminali.

-Non è uno scherzo. Quello che ha chiamato poco fa era il rapitore.-

-Niente. Chiunque sia sa come far perdere le tracce. La prossima volta che richiamerà lo beccherò sicuramente.-

-Garcia, potresti fare una ricerca?- domandò Emily, una volta che Derek ebbe messo la collega in vivavoce.

-Chiedi e ti sarà dato.-

-Il rapitore ha parlato di una certa Serena Brooks, puoi vedere quante riesci a trovarne?-

-Dammi un secondo.- … -Mi dispiace Emily, ma ce ne sono troppe. Ho bisogno di restringere il campo.-

-Garcia, guarda se Hotch ha avuto contatti con qualcuna di loro. Magari erano parenti delle vittime di cui ci siamo occupati ultimamente o magari lo erano dei criminali.- disse Rossi.

-Un momento…ci sono! Qui risulta una Serena Brooks, ventisei anni. Vive a Georgetown con la zia, Jessica Brooks. Hotch ha telefonato a casa loro alcuni mesi fa.-

-Che sia un vecchio caso a cui ha lavorato?- propose Emily; adesso tutte le opzioni per riuscire a completare quel puzzle erano bene accette.

-Aspettate! Garcia, Jessica Brooks ha/aveva per caso una sorella?- intervenne Reid, come quando il suo preparatissimo cervellino ricordava qualcosa di importante.

-Ne aveva una. Oh, santo cielo!- la voce dell’informatica divenne piccola e vulnerabile quanto quella di un bambino.

-Che hai trovato?- le fece forza Morgan gentilmente, ma il tempo a loro disposizione (e a quello del loro capo) stringeva.

-La sorella si chiamava Haley Brooks, è deceduta una ventina di anni fa.-

-E’ la moglie di Hotch.- concluse amaramente Derek.

-Quindi Serena Brooks deve essere la figlia di Hotch.- disse Reid e la conferma alle sue parole arrivò poco dopo.

-Il genietto ha ragione: Serena Brooks ha cambiato il suo cognome all’età di nove anni e anche la custodia d’affido venne interamente passata alla zia.-

-Ma certo, ve lo siete dimenticati? Dopo l’assassinio di Jack, Hotch decise che la  cosa migliore per la figlia sarebbe stata vivere lontana dall’FBI. Così ha fatto in modo che per nessuno sua figlia fosse mai esistita.- insistette Derek.

-A quanto pare però non siamo gli unici a saperlo.- intervenne JJ.

-Garcia, voglio che mi trovi un elenco di tutti i detenuti che sono usciti nell’ultimo periodo che sono stati arrestati da Hotch. Controlla se qualcuno di loro ha avuto a che fare direttamente o indirettamente con la sua famiglia. Io e Morgan ripercorreremo l’itinerario fatto ieri sera da Hotch. Speriamo di ricavarne qualcosa. Reid e Prentiss, recatevi dalla zia Jessica, dovete convincere Serena a collaborare con noi e qualcosa mi dice che non sarà facile.-

Dopo aver dato disposizioni, David estrasse le chiavi del suv dalla tasca dei pantaloni, diretto ai garage, seguito prontamente da Derek.  

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Capitolo 4
*** Capitolo 3 ***


Capitolo 3

 
BAU TEAM

Dopo quasi tre ore di macchina, Prentiss parcheggiò il suv in dotazione dall’FBI accanto al marciapiede di quel quartiere eccentrico, ma quantomeno accogliente. Lei era abituata a grattacieli, condomini grigi con finestre rettangolari e, nella migliore delle ipotesi, case indipendenti con giardino. Georgetown invece era un tripudio di colori. Quelle che avrebbero dovuto essere case a schiera tutte identiche, erano in realtà completamente diverse tra di loro. A partire dalle scale d’ingresso, i muri dai colori più classici fino al blu e al verde, le porte e le finestre dagli stili del tutto originali, per finire con i tetti dalle forme più curiose; alcuni addirittura contigui con due case, ma realizzati per apparire diversificati tra loro. La cosa positiva era che c’erano molte strade a traffico limitato, questo rendeva la presenza delle macchine quasi inesistente e la tranquillità era garantita.

-Carino come posto.- fu il commento di Spencer una volta sceso dall’autovettura.

-Sei serio?- Emily lo guardò scioccata.

-Malgrado la diversità delle costruzioni, nel complesso sembra di stare in mezzo a un dipinto. Lo sapevi che è una comunità non incorporata del Kent County? Non è molto conosciuta, sebbene sia una grossa attrazione per i turisti. Tuttavia, si preferisce parlare del Maryland in generale, come una delle prime tra le tredici colonie che si ribellarono al governo britannico, dando inizio all’indipendenza delle colonie dell’America del Nord, guadagnandosi così il nome di Old Line State, ovvero: lo Stato della vecchia prima linea.-

Emily si voltò a guardarlo con un sopracciglio alzato, sapeva che era una cosa intrinseca al ragazzo comportarsi così e sotto un certo punto di vista lo trovava divertente. Perciò sorrise.

-Secchione.- Reid sorrise a sua volta, abbassando la testa come fosse un ragazzino.

-Avanti genio, qual è il nostro numero?- domandò con un sospiro rassegnato la collega.

-Il 5.- rispose Spencer, facendo subito vagare lo sguardo di porta in porta.

-lo trovarono alcuni metri più avanti, sul lato destro. Una scala da sette gradini bianchissimi curvava verso destra, portando ad una porta azzurro cielo sormontata da una struttura in pietra bianca con tanto di arco e tettuccio sulla sommità. La facciata dell’abitazione non era tutta dritta, ma a sinistra sporgeva in avanti, come i piedi di una torre. Sopra la porta vi era una finestra soltanto, di fianco si affacciavano ben quattro finestre: due al primo piano e due al pian terreno. Il tetto era lavorato con una ringhiera in pietra bianca a circondare la parte obliqua di tegole su cui poi faceva capolino il camino.

-Però, carino!- commentò Emily col naso rivolto verso il cielo, senza mettere troppo entusiasmo nelle parole.

-Chissà perché non mi sarei aspettato niente di diverso.-

-Che vuoi dire?-

-Dopo la morte della moglie, Hotch lasciava i figli dalla cognata. Dopo un trauma del genere, vivere in un ambiente come questo può favorire un’elaborazione e una guarigione più veloce della psiche. Guada la porta, dai segni sui lati si nota chiaramente che è da un bel po’ che nessuno ci dà una bella mano di vernice.-

-Intendi che non è stata più riverniciata da quando Jack e Serena erano piccoli?-

-E’ probabile, ma ovviamente sono solo ipotesi. Quello di cui sono sicuro è che il colore azzurro non è stato scelto a caso. Dalle incrostazioni oserei dire che questa porta in precedenza doveva essere rossa.- spiegò il dottore. Adesso era il momento della verità.

Emily suonò il campanello un paio di volte. Non dovettero attendere molto, una donna sula cinquantina aprì loro con un bel sorriso in volto. Spencer non poté fare a meno di notare che dal funerale della sorella non era cambiata poi molto. Aveva gli stesso lineamenti di Haley, gli occhi chiari e i capelli biondi. L’unica differenza era che lei li portava mossi, non lisci.

-Sì, desiderate?-

-E’ lei la signora Jessica Brooks?- domandò Emily con fare determinato, ma al contempo calmo e gentile.

-Sì, sono io.-

-Signora, io sono l’agente speciale Emily Prentiss e lui è il mio collega, il dottor Reid, siamo dell’FBI. Potremmo scambiare due parole con lei?-

-Ma certo.- rispose la donna, facendosi da parte per lasciarli entrare; tuttavia al giovane dottore era sembrato di scorgere uno scintillio in quegli occhi acuti, al sentire la parola “FBI”. Aveva come il presentimento che Rossi avesse ragione dicendo che non sarebbe stato un compito facile.

La signora Brooks li fece accomodare in salotto, uno spazio caldo e accogliente composto da due divani e una poltrona posti vicino al camino. Tutto nella stanza era arredato con colori caldi: rosso, marrone, giallo. Tutto predisposto affinché chiunque si sentisse come a casa propria.

-Prego, accomodatevi.- li invitò a sedersi. –Allora, di cosa volevate parlarmi?-

-Signora, mi duole farle questa domanda, ma è necessario per capire se stiamo parlando con la persona giusta. Sua sorella era Haley Brooks? Sposate con l’agente speciale Aaron Hotchner?- alla domanda posta dalla agente, le labbra della padrona di casa si tesero in una linea dura, severa, ma nel rispondere mantenne la compostezza dimostrata in precedenza.

-Sì, sono io.-

-Signora, quanto sto per dirle è della massima importanza e delicatezza, non vi avremmo coinvolte se non fosse stato strettamente necessario.-

-“Vi”?- questa volta la signora Brooks non nascose un accenno di ostilità a quelle parole.

-Lei e sua nipote Serena.- al sentir nominare la nipote la donna iniziò ad agitarsi sul posto, visibilmente contrariata a quel colloquio, ma ebbe l’educazione di lasciar finire l’altra di parlare –Ieri notte tuta la nostra squadra è atterrata a Quantico dopo  un caso molto difficile. Questa mattina l’agente Hotchner non si è presentato al lavoro.-

-Beh, non lo troverete di certo qui.- Spencer intuì che la donna dovesse aver pensato anche “di certo non è il benvenuto”, ma davanti a lui e alla sua collega non lo avrebbe mai ammesso. Tuttavia lui si senti in dovere di difendere il proprio capo.

-Questo lo sappiamo.- gli occhi della donna saettarono su di lui –Il suo rapitore ci ha contattato questa mattina.-

Il silenzio che precede la tempesta. La signora Brooks si portò una mano al petto, prendendo un paio di lunghi e profondi respiri. A quanto pareva nemmeno lei si sarebbe potuta immaginare che la faccenda fosse così grave.

-Signora, vuole che vada a prenderle un bicchiere d’acqua?- si offrì Emily. La donna negò con un cenno, tirando le labbra in un sorriso che voleva essere incoraggiante, ma ne uscì una smorfia non troppo convinta.

-Dovete scusarmi, io e mio cognato non abbiamo mai avuto un buonissimo rapporto. Haley era innamorata persa di lui e anche lui mi sembrava lo fosse di lei, ma il suo lavoro mi ha sempre lasciata perplessa. Un uomo sempre in giro per il mondo a salvare innocenti, come può dedicarsi alla sua famiglia?-

-Ma Hotch lo era, era innamorato di Haley. Ha sempre voluto il meglio per la sua famiglia.- intervenne Reid. Lui lavorava con Hotch da molti anni ormai e quando stai per molto tempo a contatto con una persona non puoi non sapere qualcosa riguardo la propria vita privata. Loro poi erano profiler, lo avrebbero capito se c’era qualcosa di strano. Tutti loro sapevano che Hotch lavorava molto, ma nessuno dimenticava i sorrisi che faceva quando passava i weekend a casa, con sua moglie e i suoi figli. No, nessuno del team avrebbe detto che Aaron Hotchner non era un buon padre di famiglia.

-Vero. Crede che non li abbia visti agente Reid? Erano una coppia perfetta, mai viste due persone più felici. Ma dopo la nascita di Jack quelle assenze erano diventate un problema. Tanto che mia sorella decise di lasciarlo. Era convinta che di fronte a duna simile proposta Aaron avrebbe messo il profiling da parte, magari tornando a fare l’avvocato. Non avrebbe mai rinunciato alla famiglia. Ma il lavoro gli era entrato dentro, non poteva farne a meno. Era come voler costringere un leone in gabbia.- non piangeva, non ancora, ma i suoi occhi luccicavano di lacrime represse: di rabbia e dolore.

-Quando si fa il nostro lavoro signora, si vedono tante di quelle cose, che il solo pensiero che ai nostri figli possa accadere qualcosa del genere ci spaventa a morte. E sono certa che il nostro capo pensasse a questo quando ha deciso di continuare a lavorare.-

-Signorina Prentiss, Aaron Hotchner è un gran uomo. Buono e dal cuore grande. Non dubito delle sue buone intenzioni, ma i risultati sono stati catastrofici. Mia sorella è morta a causa del suo lavoro.- le lacrime presero a solcare quel volto che si ostinava a mantenere la propria compostezza. Nessuno dei due agenti osò dire nulla. –Non do la colpa a lui per quanto è successo, come ho già detto posso immaginare quali fossero le intenzioni di mio cognato. Ma dopo la morte di Haley non si è fermato. Non è servito a nulla, capite? È stato a casa un po’ di tempo e poi è tornato al lavoro. In sua assenza stavo io con i bambini e voi non potete immaginare cosa voglia dire dare spiegazioni a due bambini che hanno perso la madre e tutto quello che vogliono è che il loro padre ritorni. In quei giorni ho odiato Aaron come non mai. Aveva due figli per l’amor del cielo!- con una mano si asciugò frettolosamente gli occhi, schiarendosi la voce prima di continuare –Poi è iniziata la scuola, i bambini sono cresciuti, avevano i loro impegni, vedevano il padre abbastanza regolarmente; si può dire che le acque si calmarono. Poi Jack è stato rapito. E poi ucciso. Ho visto quella famiglia venire distrutta una seconda volta. Cosa mi sarei aspettata? Che lasciasse il lavoro. Che prendesse sua figlia, l’unico affetto a lui rimasto, e si dedicasse interamente a lei. portandola via una volta per tute dal giro di criminali di cui la vostra squadra si occupa. Ma non lo ha fatto. Per come la vedo io, ha preferito scappare. L’ha affidata a me, le ha cambiato cognome. Una volta veniva spesso, telefonava…ora non ricordo nemmeno quando è stata l’ultima volta che l’ho sentito. Serena ha un padre fantasma. Per tenere sua figlia al sicuro, ha privato sua figlia di suo padre. Agenti, come pensate che io possa proteggerla? Sono vecchia. Lui era l’unico che avrebbe davvero potuto proteggerla.- il silenzio era calato, esattamente come la quiete dopo la tempesta.

-Signora Brooks, mi dispiace che lei la pensi così. Io purtroppo non sono qui per giudicare l’operato del mio capo sulle decisioni che ha preso in passato. Può darsi che abbia sbagliato, ma se non riusciamo a salvarlo di certo non avrà la possibilità di rimediare.- disse Emily, con tutto il tatto che poté usare.

-Che cosa posso fare?- si arrese infine la donna.

-Dobbiamo assolutamente parlare con sua nipote.- rispose ancora Emily.

-E’ fuori discussione. Non pensate abbia già sofferto abbastanza?-

I due agenti si sarebbero profusi in altre buone spiegazioni, se una voce non li avesse preceduti, attirando l’attenzione di tutti i presenti.

-E’ tutto a posto zia, voglio parlare con loro.-

POV. SERENA

Stavo studiando in camera mia, la porta chiusa e la sola luce proveniente dalla finestra sopra la mia scrivania, quando sentii il campanello suonare. Purtroppo, la mia curiosità era pari a quella di un bambino di quattro anni, perciò interruppi ciò che stavo facendo per rimanere il più immobile possibile, le orecchie tese nella speranza di captare le voci al piano inferiore. Persino il respiro rallentai. Distinsi le voci di una donna e di un ragazzo, parevano entrambi giovani, anche se lui più di lei. da come parlavano la zia li aveva lasciati entrare, chissà chi erano? Non aspettavamo visite questa mattina, in caso contrario me lo avrebbe detto di certo. Poi la voce della zia si fece più acuta e questo voleva dire solo una cosa: guai in vista. Ricordavo perfettamente quando usava quel tono con me dopo che avevo combinato una marachella. Come darle torto, ero un tipo piuttosto agitato da piccola. Mi alzai dalla sedia e socchiusi la porta, giusto un pochino, quel tanto che bastava per riuscire a sentire chiaramente tutto quello che si dicevano. Di certo non mi sarei mai immaginata di sentire il nome di mio padre. Alle parole “agente Hotchner” mi si gelò il sangue nelle vene.

A mia zia non piaceva parlare di mio padre e io badavo bene a non menzionarlo. Non parlavamo mai del mio trasferimento, ma solo del mio futuro. Quando arrivava una delle sue rare lettere o brevi telefonate, la zia me lo passava sempre con un’aria seccata. A suo parere se doveva sparire allora doveva sparire del tutto, non comparire di tanto in tanto per alleviare il suo senso di colpa. Io cosa pensavo? Credo che non esiste domanda più difficile di questa. Che dire? Da un lato non potevo darle torto, dall’altro rimaneva pur sempre mio padre. Perciò non potei fare a meno di pensare che quei due dovessero essere parecchio coraggiosi per parlare di lui con lei. Il cuore mi mancò un battito. La parte peggiore fu quando la zia fece un esaustivo riassunto del mio passato. Si sa, a far finta che certe cose non siano mai accadute, a non parlarne mai, le fa apparire meno vere, meno dolorose. Ma quando poi si torna con i piedi per terra e si è costretti a guardare in faccia la realtà…beh, lì tutto crolla. Ci si sente come i bambini davanti all’uomo nero e tutti aspettiamo che il nostro orsacchiotto di peluche estragga la sua spada di legno e ci difenda. Io non ho mai avuto per migliore amico un orsacchiotto, il mio cavaliere era mio papà, quando faceva capolino in cameretta dopo essere appena rientrato a casa. Poi un bel giorno la porta è rimasta socchiusa, il cavaliere e il mostro erano scomparsi; e io seppi che era giunto il momento di diventare grande. Eppure se ci penso bene, sono ancora con le coperte strette sotto al mento, a fissare quello spiraglio di luce, aspettando il suo ritorno.

-Lui era l’unica persona che avrebbe potuto davvero proteggerla.-

Mia zia concluse il racconto. Ero davvero curiosa di sapere cosa i due sconosciuti avrebbero detto. Mi stupii maggiormente quando la donna lasciò cadere le accuse su mio padre, limitandosi a dire che se non fossero riusciti a salvarlo lui  non avrebbe potuto rimediare ai suoi errori. Quali erano poi i suoi errori? Lo erano veramente? Chi era il mostro? Mio padre era nei guai, loro avevano bisogno del mio aiuto, questa volta era lui ad avere bisogno di me. Cosa dovevo fare? La zia non aveva torto, lui aveva fatto di tutto per scomparire dalla mia vita, quindi perché avrei dovuto volerlo aiutare? Eppure lo volevo. Era mio padre e una parte di me voleva dargli ancora un’ultima possibilità. Quei due sconosciuti, seduti in salotto, avevano fatto tanta strada solo per trovare me; solo per aiutare lui. Si erano comportati come dei figli apprensivi verso il loro padre, avrebbero fatto tutto pur di ritrovarlo. E questo pensiero mi diede fastidio ancor più di tutti gli altri. Lui era mio padre non loro. Io ero sua figlia non loro. Provai una forte invidia, tanto da accecarmi. Malgrado tutti i fatti, mio padre aveva sacrificato me per stare con loro. Avevo passato tutto questo tempo aspettando che lui tornasse, mentre lui per quei due era sempre a disposizione. Non era giusto. Specialmente per il fatto che adesso che si trovavano nei guai, allora io tornavo a contare qualcosa. Oh, no! La piccola Serena Hotchner se ne era andata, aveva lasciato il posto a Serena Brooks, cresciuta con degli ideali e dei valori, imparando dagli errori commessi nel suo passato. Avrei fatto vedere a tutti loro chi ero e cosa ero stata capace di diventare, sebbene senza un padre. Così presi un bel respiro e non lasciai il tempo ai due sconosciuti di rispondere.

-E’ tutto a posto zia, voglio parlare con loro.-

Perfino per me fu strano sentirmi pronunciare quelle parole. Tre paia di occhi mi guardavano visibilmente sorpresi. Beh, in effetti io avrei dovuto essere al piano di sopra a studiare, non sulle scale a origliare tutta la conversazione.

-Serena…-

-Davvero zia, è tutto okay. Non mi da fastidio.- alla fine, con un sospiro rassegnato, zia Jessica si alzò, cedendomi il posto di fronte ai due che al mio ingresso si erano alzati.

-Tu sei Serena.- si decise a dire il ragazzo, più un’affermazione che una domanda; dalla sua espressione sembrava avesse appena visto un fantasma. Ad ogni modo mi sembrò doveroso fare almeno un cenno d’assenso.

-E voi siete?-

-Io sono Emily Prentiss e lui è Spencer Reid, siamo colleghi di tuo padre.-

-Quindi siete dei profiler.- osservai mentre prendevo posto, analizzandoli da capo a piedi.

Mi sembrarono buffe le loro facce, era come se si sentissero impacciati. Che fosse perché avevano a che fare con la figlia “fantasma” del loro capo? Probabile. Ad ogni modo erano due agenti dell’FBI e dovevano essere anche parecchio in gamba per essere finiti a lavorare con mio padre, quindi come minimo mi sarei aspettata un briciolo di autocontrollo in più. Inutile, mi stavo appigliando a tutto pur di tenere le distanze da loro, di una freddezza che non mi apparteneva.

-Sì, ehm possiamo farti alcune domande su te e tuo padre?-

-Certamente.-

-Come sono i vostri rapporti ultimamente?- alzai le spalle, bella domanda, il difficile era trovare il modo di spiegarla a parole.

-Beh, da come avrete capito io e mio padre non ci vediamo molto spesso. Ogni tanto fa brevi telefonate, ma molte volte parla solo con la zia. Alle ricorrenze mi manda un SMS o una lettera. Ad ogni modo non è molto presente.-

-Ad occhio e croce quando è stata l’ultima volta che vi siete messi in contatto?- alzai le spalle.

-Quasi sicuramente circa un anno fa. Mese più mese meno.-

-Tu hai ventisei anni, giusto?- questa volta fu il turno di Spencer.

-Sì.-

-Quindi hai finito gli studi?-

-Non esattamente.-

-Spiegati.- quel ragazzo aveva l’aria di un professorino, sarebbe stato bello incontrarlo in altre circostanze e magari, perché no, diventare amici. Strinse gli occhi curioso, quasi stesse analizzando un testo molto antico e dovese trovarne la parola chiave.

-Ho fatto l’accademia per entrare a far parte dell’FBI.-

-Wow, quindi è un po’ una cosa di famiglia.- Emily era visibilmente sorpresa, tanto quanto lo fui io quando realizzai che era lo stesso lavoro che faceva mio padre, il quale biasimavo tutte le volte che tardava a tornare a casa. Tuttavia, mi ero ripromessa che io a differenza sua non avrei commesso i suoi stessi errori. –Che specializzazione?-

-Profiling.- ci fu un attimo di silenzio in cui i due mi guardarono sbigottiti, probabilmente pensando la stessa cosa che avevo pensato io poco fa. Il primo a riprendersi fu Spencer.

-Come mai proprio quella specializzazione?-

-Che vi devo dire? È un argomento che mi piace, mi intriga. Ho sempre ammirato mio padre per il lavoro che svolgeva, a mio parere è stato l’eroe di tante persone.-

-Ma il tuo no.- concluse Emily.

-Agente Prentiss, mio padre resterà sempre mio padre. Tuttavia non condivido certe scelte fatte da lui sulla nostra famiglia. È vero, voglio diventare una profiler e aiutare molte persone, ma mi sono ripromessa che in determinate situazioni non avrei fatto delle determinate scelte. Scelte che, sempre a mio parere, hanno disgregato la nostra famiglia.-

-Da quanto tempo studi profiling?- Spencer doveva aver capito che entrare troppo nello specifico sulla mia/nostra (mia e di mio padre) vita privata poteva portarci fuori strada: scoprendo troppi scheletri nell’armadio e creando una barriera tra me e loro che avrebbe reso sempre più difficile la nostra collaborazione; sveglio il ragazzo.

-Questo è l’ultimo anno. A fine semestre mi dovrei “laureare”.-

-Questo è tutto a nostro favore. Potresti darci una mano a scoprire chi ha rapito tuo padre e perché.- disse Emily, marcando la parola “rapito” come se non l’avessi capito.

-Ho accettato proprio per questo agente. Non…mi era sfuggito quel particolare.- tossicchiai, ammettendo la mia colpa sul fatto d’aver origliato. Inutile a dirlo, mio padre al mio posto avrebbe mantenuto la sua freddezza celando le sue azioni, ma era anche vero che lui aveva anni e anni di esperienza alle spalle.

-Ecco, riguardo a questo: hai qualche idea su chi possa essere stato?- si vedeva che quella donna aveva proprio a cuore questo caso e la cosa mi dette un po’ fastidio. Gelosia? Poteva essere. Invida? Anche. Decisi comunque di tenere quelle fastidiose insinuazioni per me.

-No. Come vi dicevo ci sentiamo molto poco e per pochi minuti. Non parliamo mai dei suoi casi. Solo come va e se è tutto okay. Non siamo di molte parole. Forse, ritiene che meno cose sappia di lui più io sarò al sicuro.- alzai le spalle, quell’affermazione stonava alle mie orecchie e probabilmente anche alle loro, sebbene sapessi che con tutte le probabilità era proprio così.

-Magari hai sentito qualcosa ai notiziari. La nostra collega che se ne occupa si chiama Jennifer Jereau, magari l’hai vista ancora.-

-Sì, può darsi. Anche se sinceramente non guardo molto la televisione. Lo studio e le lezioni assorbono quasi tutto il mio tempo.-

-Qualche…qualche criminale legato alla vostra famiglia?- si vedeva che avrebbe volentieri evitato la domanda per non ferirmi e apprezzai il gesto, sebbene dopo tutti quegli anni avessi imparato ad incassare il colpo senza farmi del male.

-Non mi pare. Gli unici che mi vengono in mente sono l’assassino di mia madre, che come ben sapete è morto, e quello di mio fratello. Ma se i miei calcoli non sono errati si trova ancora in prigione.-

Emily si umettò le labbra, era giunto il momento di arrivare al dunque.

-Serena, c’è un’altra cosa che dovremmo chiederti e ti prego di pensarci attentamente prima di rispondere. So che non sarà facile, ma malgrado tutto c’è in ballo la vita di una persona.- mi guardò seria e per un frangente mi sentii davanti ad una commissione d’esame: quella domanda era quella decisiva, quella che avrebbe scritto cosa ne sarebbe stato del mio futuro. –Vorremmo che tu venissi con noi a Quantico.-

-Cosa?- ero visibilmente sorpresa. Dal non esistere più nella vita di mio padre a lavorare con la sua stessa squadra. Beh, almeno c’era un denominatore comune: la sua assenza.

-Potresti aiutarci a identificare il rapitore.-

-Non saprei come. In fin dei conti siete voi i profiler migliori del mondo.-

-Lui conosce bene il nostro capo e la sua famiglia. Forse ti potrebbe venire in mente qualcosa che a noi sfugge.-

-Senza contare…- Spencer si era introdotto improvvisamente nella conversazione, lanciando alla collega un’occhiata che significava tutto, ma che per me era nulla e questo continuo stare sulle spine stava iniziando a mandarmi in bestia. Poi si voltò verso di me e continuò -…che il rapitore ha chiesto di te.-

-Temo di non capire.- era vero, c’era qualcosa in tutto il discorso che stonava terribilmente. Avevo un rapporto pressoché inesistente con mio padre, veniva rapito e il rapitore chiedeva di me; semplicemente assurdo. Che razza di rapitore poteva mai essere?!

-Nella telefonata che abbiamo ricevuto ha ammesso di aver rapito tuo padre e ha aggiunto di voler parlare con Serena Brooks. Abbiamo fatto un’attenta ricerca e siamo arrivati a te.- disse tutto d’un fiato Spencer, quasi volesse togliersi un peso dallo stomaco.

-Quindi non siete certi che in realtà stesse parlando di me?- la possibilità che si fossero sbagliati era un appiglio a cui mi stavo aggrappando disperatamente. Avevo impiegato una vita per imparare a ricominciare da capo e adesso che stavo finalmente per raggiungere il traguardo designato, l’indipendenza assoluta, mi veniva richiesto di riappropriarmi della mia vita, pacchetto completo. No, era decisamente fuori discussione. Non ero pronta.

-Serena, la probabilità che ci stiamo sbagliando è molto scarsa.- rispose lentamente Emily, lasciandomi il tempo di interiorizzare le sue parole.

-E se non fossi io?- feci la sostenuta, probabilmente in quel momento mio padre sarebbe stato orgoglioso di me. Quando mi comportavo così mia zia me lo ripeteva continuamente che ero uguale a lui, quasi fosse una brutta cosa.

-Tornerai a casa. Non verrai coinvolta ulteriormente.- rispose Reid.

-Il rapitore ha chiesto di Serena Brooks. Se fossi tu e non ti presentassi, potrebbe anche decidere di fare del male a tuo padre. In caso contrario potresti farci guadagnare un po’ di tempo e magari potremmo scoprire qualcosa: di chi si tratta, dove si nasconde…e se non sarai tu ti prometto che potrai tornare a casa. Almeno avremo fatto un tentativo.- confermò Emily.  Nei loro sguardi c’era il determinato bisogno di una sicurezza e l’unica che poteva dargliela in quel momento ero proprio io. Che cosa dovevo fare? Molte volte avevo pensato a come sarebbe stato tornare alla vita di prima, a lavorare con mio padre e la sua squadra, a salvare una vita. Ma mai avrei pensato che la vita da salvare sarebbe stata proprio la sua. Potrei sembrare egoista, ma in quel momento ebbi più paura per me, del dovermi mettere faccia a faccia col mio specchio, che non per il pericolo che mio padre stava correndo in quel preciso momento. Ne capivo l’urgenza dai loro sguardi e io mi sentii ancor più tagliata fuori.

-Serena, Hotch lo avrebbe fatto se fossi tu al suo posto.- disse Reid.

-Lo so.- era come se non fossi stata io a parlare, come se fosse stata un’altra me. A quelle parole, a quell’ammissione, sentii il mio battito cardiaco accelerare; adrenalina e paura. Quella piccola sensazione che fin da piccola non mi aveva mai abbandonata. Mi resi conto che non solo era sempre stata lì, ma era anche più viva che mai come se non avesse aspettato altro che la tirassi fuori nel momento più opportuno. Potevo fare la sostenuta, celare la verità agli occhi degli altri, ma non a me stessa; non dopo aver aspettato tutto questo tempo. Io dovevo sapere.

-D’accordo. Verrò con voi.-
 

“Baci pensati e mai spesi
Sguardi volti ad orologi appesi
Alla stazione un’emozione
Alla vita che si fa sognare.
Sento il suono del metallo che stride
Mentre passo qualcuno sorride
Frena il treno e mi sposta un po’
Adesso lo so, sto arrivando da te…
Niente di più semplice
Niente in più da chiedere”

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Capitolo 5
*** Capitolo 4 ***


Capitolo 4

 
“E forse capirai, quanto vali
Potrei darti il mondo, tranne me”
 
(FLASHBACK)

-Lo sai vero che non fa paura il tuo costume?-

-Se per questo neanche il tuo.-

-Io però ho la maschera.-

-Bambini basta litigare, altrimenti stasera niente giro del quartiere.- li riprese Haley.

I due bambini si guardarono in silenzio, scambiandosi ancora un paio di linguacce. Avevano aspettato con ansia quel giorno, la notte di Halloween, per poter stare svegli fino a tardi, bussando di casa in casa, sperando che i vicini riempissero di caramelle i loro sacchetti colorati. Si stavano provando per la centesima volta i loro costumi nuovi, rimirandosi davanti allo specchio come solo i bambini sanno fare. Serena si stava ravviando i capelli, indecisa se lasciarli sciolti o legarli, la coroncina d’argento scintillava come una stella sui suoi capelli scuri. Mentre il vestitino da fatina era di uno sgargiante rosa confetto, il tulle ricoperto di brillantini svolazzava sulle balze della gonna che le arrivava sopra il ginocchio. Sotto, un paio di calze lunghe bianche e scarpe da ginnastica del medesimo colore ai piedi. La bacchetta di plastica, ricoperta da brillantini d’argento, sostava sul mobiletto del bagno, sotto lo sguardo non convinto della sua padroncina. Aveva la netta sensazione che il contrasto creato dai suoi capelli e il vestito fosse decisamente eccessivo. Quando quella mattina aveva sottoposto il suo dubbio alla mamma, questa le si era messa guancia contro guancia davanti allo specchio e le aveva detto che secondo lei era bellissima e che anche l’amica di Trilli aveva i capelli scuri. Serena aveva precisato che quello era un cartone e la madre le aveva dato un sonoro bacio sulla guancia in risposta, aggiungendo che non tutte le fatine erano uguali ed era quello il bello, inoltre che lo sapeva che lei adorava i suoi capelli. La bambina aveva arricciato il naso in un’espressione molto buffa, ben sapendo che il motivo era che lei e suo padre si assomigliavano molto. Un destino più clemente invece era toccato al suo fratellone. Spiderman: costume in scatola chiusa, tutto completo. A partire dai pantaloni, la maglia, i guanti, gli stivali da infilare sopra le scarpe e poi c’erano la maschera e le ricariche di finta ragnatela. Si era accostato a lei davanti allo specchio, i pugni sui fianchi, gonfiando il petto e trattenendo il respiro. Serena lo aveva incenerito con lo sguardo dall’invidia, ma il bambino era talmente preso dalla sua immagine da non essersene nemmeno accorto. Mimava il suo cartone animato preferito, fingendo di scagliare ragnatele contro lo specchio.

-Sei ridicolo.- aveva commentato seria la sorella.

-Sei solo invidiosa perché vorresti averle anche tu.-

-Se fosse per quello mi sarei travestita anche io da Spiderman.-

-Tu non puoi.- quel commento secco le aveva fatto più male di quello che diede a vedere.

-Perché?-

-Perché sei una femmina.- Jack non lo disse con cattiveria, ma tutta quella superficialità iniziava a irritarla parecchio.

-Anche le femmine possono travestirsi da maschi.-

-No.-

-Sì, invece.-

-Invece no.-

-E invece sì.-

-E invece no.- senza accorgersene, nell’urlare il bambino aveva stretto troppo il piccolo pugno, azionando l’ingranaggio della finta ragnatela. Un getto di schiuma bianca colpì in pieno la gonna di Serena, la quale lo guardò con gli occhi spalancati, non credendo possibile che lui avesse potuto farlo davvero. Non bastava il suo riflesso, ci si metteva pure suo fratello. Quella serata non si era da fare. Urlò.

-Mamma, Jack mi ha spruzzato la gonna con la bomboletta!-

-Jack, sbaglio o ti avevo detto di non usare quell’affare in casa? Tantomeno contro tua sorella.- disse la voce della madre dalla cucina.

-Ma è stato un incidente.- piagnucolò il bambino, sbuffando incompreso mentre Serena era corsa in cucina con le lacrime agli occhi dall’indignazione. Perché non gliene andava una giusta?
 

Adesso stavano finendo di mettere a posto le loro camerette, condizione che aveva imposto loro la mamma se volevano mangiare qualche dolcetto quella sera stessa. Haley nel frattempo aveva chiuso tutte le finestre e fatto entrare la “sorpresa” per i bambini di soppiatto in camera propria. Ne era certa, sarebbero rimasti letteralmente a bocca aperta.

-Bambini, mancano cinque minuti all’ora “x”, come siete messi?-

-Pronto.- Jack uscì in corridoio con la mano destra alzata sulla fronte in un saluto militare. Serena lo imitò con qualche secondo di ritardo, ma anziché fare il saluto, guardò confusa il fratello che la stava aspettando.

-Perché non hai messo il costume?- gli chiese lei, notando che Jack non indossava la tutina rossa di Spiderman, ma era vestito molto elegante: camicia, giacca e pantaloni classici e una cravatta allacciata un po’ a caso. L’unica cosa a essere fuori posto erano le scarpe da ginnastica bianche e blu. Jack non ebbe modo di rispondere, poiché la madre riscosse entrambi dai loro pensieri.

-Allora? Guardate che la sorpresa la tengo tutta per me altrimenti.-

Alla parola sorpresa i due bambini schizzarono di corsa in salotto, per poi bloccarsi di colpo all’ingresso della stanza. Dalle loro espressioni si capiva palesemente che erano indecisi tra lo stare ammutoliti e confusi oppure urlare di gioia.

Aaron Hotchner era in piedi dietro al divano, girato verso di loro, guardandoli con un sopracciglio alzato come quando sta per dire loro qualcosa di serio. A tradirlo gli angoli della bocca leggermente sollevati verso l’alto, divertito da quella buffa scenetta. Il loro papà era tornato! Ce l’aveva fatta. Era tornato per passare Halloween con loro. Visto che nessuno si decideva a rompere il ghiaccio ci pensò lui stesso.

-Wow, quello non assomiglia al costume di Spiderman.-

Jack lo fissò dal basso verso l’alto con i suoi grandi occhi marroni, prima di riuscire di nuovo a parlare.

-Sono te papino.- e sorrise, stringendo gli occhi e facendo così nascere due graziose fossette sulle piccole guance. Tutti videro Aaron accucciarsi ed allargare le braccia, permettendo al suo primogenito di fiondarglisi addosso, gettargli le braccine al collo e nascondere il viso nel maglione rosso. Lo sollevò, stringendolo delicatamente, ma trasmettendogli tutto l’affetto che un genitore prova per i propri figli. Nessuno però vide il respiro profondo che gli aveva gonfiato il petto d’orgoglio all’udire le parole del suo piccolo. Suo figlio gli aveva detto che si sarebbe travestito dal suo eroe. Haley gli aveva comunicato i vestiti che aveva comprato ai bambini. E lui che aveva pensato di fare una sorpresa a loro, era stato invece premiato con una sorpresa ancor più bella.

Serena era ancora ferma al suo posto, adesso tutto tornava e la punta della bacchetta rivolta verso il pavimento rispecchiava perfettamente il suo umore. Nel momento in cui aveva visto il padre tutto il mondo si era fermato, nemmeno Halloween e i dolcetti avevano più importanza. Solo che il suo papà era tornato a casa. Poi suo fratello aveva detto quelle tre parole ed era stato come se qualcuno le avesse rotto un uovo in testa. Brividi freddi e la paura di non saper fare altrettanto. Il suo papà non aveva mai fatto preferenze tra lei e suo fratello, ma se jack era un tipo spigliato ed espansivo, lei non lo era. L’unica persona con cui le piaceva parlare era il suo papà. Certe volte con uno sguardo si capivano al volo, tanto che la madre quando si arrabbiava con lei non mancava mai di aggiungere “Sei proprio figlia di tuo padre!”. Ma adesso che capiva l’importanza di quello che aveva fatto suo fratello, si sentiva inutile. Se prima il suo costume le era sembrato difettoso adesso era decisamente fuori posto. Oh, quanto avrebbe voluto avere lei quell’idea! Adesso, mentre li guardava abbracciati si sentiva incapace di attirare l’attenzione su di sé; perché certe cose dovevano essere così maledettamente difficili? Non se ne era resa conto, tantomeno si era posta il problema, quando l’immagine di Jack e suo padre aveva iniziato a farsi offuscata. Le lacrime le impedivano di vedere e le manine non le erano mai parse così pesanti ciondolanti ai suoi fianchi. Persino le loro voci apparivano lontane, come in un sogno.

-Papà, allora vieni anche tu stasera?- Jack si era staccato dal collo del padre per poterlo guardare e il genitore aveva sorriso divertito a quell’ovvia domanda.

-Ma certo. Così poi posso mangiare tutte le vostre caramelle.- e aveva finto di mangiare una mano del figlio, il quale era scoppiato in una risata sguaiata.

-Ehi Serena, hai sentito? Papà viene con noi!- il piccolo Hotchner si era interrotto subito, facendosi serio. Aveva visto il viso serio e rigato di lacrime della sorella e si era voltato verso il papà –Perché Serena piange?- poi si era fatto mettere giù.

Aaron depose a terra il figlio, sospirando; sapeva in cuor suo del perché la sua bimba stesse piangendo. Faceva la forte e la sostenuta, litigava e difendeva al contempo il fratello, ma la realtà era che era molto sensibile e fragile. E sapeva che il suo costante allontanamento era uno di quei motivi. Lo sapeva perché anche a lui mancava terribilmente la sua famiglia, i suoi figli prima di tutto, e ad affrontare peggio la cosa era Serena, perché lei era come lui, si teneva tutto dentro. Haley non sbagliava quando diceva che erano identici. Aveva posato Jack a terra per potersi avvicinare a Serena, ma il bimbo lo aveva preceduto. Era andato da lei e l’aveva circondata con le braccia, accarezzandole i capelli neri e dandole ogni tanto qualche bacio consolatore. La bimba si era portata le manine a coprirsi gli occhi, non tentando più di nascondere il suo pianto.

-Su non piangere.- le disse Jack.

Aaron le si avvicinò, accucciandosi alla loro altezza, le sue labbra piegate in un sorriso rassicurante, gli occhi nocciola luminosi come quelli del figlio.

-Ehi Principessa, che succede?- la bambina, piano piano, mostrò i suoi occhi pieni di lacrime. Il papà era davanti a lei e le stava sorridendo.

-Non vieni a salutarmi?- disse, allungando le mani verso di lei, i palmi alzati, aspettando. Serena avrebbe tanto voluto smettere di piangere, il suo papà era tornato e la stava invitando in uno dei suoi caldi e rassicuranti abbracci.

-Papà.- lo chiamò lei con voce impastata di pianto.

-Sono qui tesoro.- la rassicurò ancora lui.

-Papà…- questa volta Serena si scagliò in una breve corsa contro di lui, finendo dritta fra le sue braccia, buttandogli le proprie attorno al collo, stringendo il più forte possibile, come se fosse bastato quello a non farlo andare più via.

-Tesoro, così soffochi il papà!- disse dolcemente la madre, in piedi poco più in là. Ma nessuno dei due sembrava sentirla. Ad Aaron non dispiaceva quella stretta ferrea attorno al suo collo, anzi gli era mancata, come quella del suo piccolo Jack. Chiuse gli occhi, godendosi il momento di poter stringere a sé i suoi figli, ascoltando quei singhiozzo contro il palmo della sua mano che piano piano andavano diminuendo. D’altra parte Serena non ci pensò un solo momento di mollare la presa. Il papà non aveva detto niente, perciò andava bene così. Il viso affondato nel suo collo, inspirando il suo profumo attraverso il maglione; quanto le era mancato!

-Mi sei mancato tanto.- bofonchiò ad un certo punto, senza sollevare la testa. A quelle parole il genitore la strinse un poco più forte contro al suo petto.

-Anche voi mi siete mancati. Tanto.- rispose lui, facendo cenno a jack di avvicinarsi. Il bambino si aggrappò alla sua gamba e Aaron lo strinse a sé, in un abbraccio collettivo.

 
Quella fu la serata più piacevole di tutte. Sembrava che persino il freddo di Novembre avesse deciso per quella sera di ritirarsi, lasciando al suo posto un lieve tepore; probabilmente proveniente dalle tante bancarelle al cui fianco stavano accesi fuochi con sopra ogni tipo di leccornia. La famiglia Hotchner procedeva lungo il marciapiede con passo tranquillo: marito e moglie a braccetto, lei con la testa appoggiata sulla spalla di lui, entrambi con il sorriso sulle labbra mentre i loro occhi osservavano vigili sui due bambini pochi metri avanti a loro, saltellando tra una risata e l’altra, scuotendo in maniera poco rassicurante i sacchetti carichi di dolci. Erano rare le giornate come quella e forse proprio perché erano poche, avevano imparato a non sprecarne ogni singolo momento, godendone appieno.

Quando rientrarono era molto tardi. Serena e Jack trascinavano esausti i piedini sul pavimento. Gli occhi si chiudevano ad ogni passo barcollante che facevano. Aaron ed Haley li accompagnarono a lavarsi i denti e infilarsi il pigiamino, poi via sotto una montagna di coperte. Essendo poche le volte che era a casa, quando c’era spettava a lui rimboccare le coperte ai figli, in modo che non avvertissero quella differenza quando era assente. Haley diede la buonanotte, dando a ciascuno un bacio sulla fronte; la stanza illuminata solo dalle abatjour sui due comodini. Aaron si chinò prima accanto al letto di Jack, quasi completamente addormentato, lo guardava con occhi stretti stretti.

-Buonanotte Campione.- gli sussurrò sorridendo.

Siamo stati grandi stasera, vero papà?- domandò il bambino esibendosi contemporaneamente in un prodigioso sbadiglio. Aaron gli scompigliò i capelli.

-Certo, grandissimi. Ora dormi. Ci vediamo domattina.- e gli diede un bacio sulla fronte.

-Buonanotte.-

-Notte.- guardò il figlio girarsi su un fianco e addormentarsi all’istante. Spense la lampada e si avvicinò all’altro letto dove invece Serena sembrava aver recuperato le energie. Ma dietro quei grandi occhioni l’uomo riusciva ad intravedere la stanchezza celata. Si chinò su di lei.

-E tu perché non dormi? Non hai sonno?-

-Posso chiederti una cosa? Ma solo se non lo dici a mamma.-

-Non riesci proprio ad aspettare domani?- Serena non rispose, ma per Aaron quel silenzio valeva più di mille parole: sì avrebbe potuto aspettare, ma quello era un momento propizio dove poter parlare indisturbati e il giorno dopo non poteva promettere che al loro risveglio ci sarebbe stato; erano piccoli, ma alla fine lo avevano capito. –D’accordo allora, cosa vuoi chiedermi?-

-Tu non ci lascerai mai, vero?- eccola, la domanda tipica che ogni bambino prima o poi, nella sua breve infanzia pone al genitore. Nel suo caso però poteva essere interpretata in modi diversi: che intendesse lasciarli ogni giorno oppure che morisse? Faceva il poliziotto e di conseguenza correva dei rischi, alcune volte non indifferenti. Aaron ricordava perfettamente che anche per Haley non era stato facile accettare l’idea di vederlo uscire, partire per il mondo, tutti i giorni e ogni volta non sapere se avrebbe fatto ritorno a casa. Per quanto riguardava lui aveva dovuto accettare il fatto e conviverci, era il suo lavoro e gli piaceva, quindi non poteva fare altrimenti. Questo non voleva dire che non gli importasse della sua famiglia; assolutamente. Rivedere i loro visi a fine giornata, nel peggiore dei casi a fine indagine, era la ricompensa più grande per lui.

-No, tesoro. Non vi lascerò mai, ne te, ne Jack, ne la mamma.-

-Sai, ho visto un sacco di cartoni, ma in tutti muore qualcuno. Bambi perde la mamma, Simba il papà, Biancaneve e Cenerentola la mamma. Io non voglio che tu muoia, piuttosto preferisco non diventare grande.- gli occhi le si erano inumiditi mentre parlava.

-Ehi ehi ehi, dov’è la mia bambina coraggiosa?- cercò di fermare in tempo quel pianto, prendendole il faccino tra le grandi mani e passando sulle morbide guance i pollici, in un gesto rassicurante –Non devi pensare queste brutte cose.-

-Sì, ma tu vai via sempre. Fai il poliziotto e mamma dice che è pericoloso e lei è triste quando tu vai via.-

-Anche io sono triste e mamma ha ragione nel dire che è un lavoro pericoloso. Ma ti voglio dire una cosa: anche quando non sono a casa io sono sempre con voi, qui dentro- le mise un dito all’altezza del cuore –proprio come voi siete con me. Lo saremo sempre, qualunque cosa accada. Hai capito?- Serena annuì con la testa.

-Sì, ma non è la stessa cosa di quando sei qui.-

-Senti, facciamo un patto: io ti prometto che mi impegnerò a tornare sempre a casa, se tu mi prometti che sarai forte, più forte dei cattivi pensieri. Affare fatto?-

-Okay.- Aaron si chinò a baciarle la fronte.

-Buonanotte Principessa.-

-Buonanotte papà.- Serena gli strinse ancora una volta le braccia al collo in un breve abbraccio, gli diede un tenero bacino sulla guancia e lo lasciò andare.

Serena rimase a guardare il padre spegnere l’ultima luce della stanza, alzarsi, dare un ultimo sguardo ai suoi figli, finchè la porta non si fu chiusa del tutto.

Aaron appoggiò per un istante la fronte al legno della porta, ancora preso da quell’ultimo scambio di parole –Non vi abbandonerò mai Serena, ne te ne Jack. Te lo prometto.- bisbigliò, forse più a sé stesso. Quello che non poteva sapere era che la bambina, con gli occhi ancora spalancati nel buio, aveva sentito tutto, ancora fissando il punto in cui lui era scomparso –Ti voglio bene papino.- mormorò alla porta chiusa.

(FINE FLASHBACK)
 

BAU TEAM

-Trovata! La macchina è parcheggiata in Broadway St.- annunciò la voce squillante di Penelope dall’altoparlante della macchina.

-E’ dove abita Hotch.- constatò amaramente Derek –Questo vuol dire che il rapitore lo ha atteso pazientemente in auto, aspettando che arrivasse a destinazione per mettere in atto il suo piano. Oppure…-

-Sapeva dove abitava e ha aspettato semplicemente che tornasse.- concluse per lui David, seduto sul sedile del passeggero.

-Se è così, il rapitore ha avuto molto tempo per organizzarsi e questo potrebbe voler dire che è stato molto attento a non lasciare tracce.- osservò l’agente di colore. Quella storia lo stava facendo innervosire parecchio.

-Allora speriamo che non sia così. Grazie Garcia, chiamaci se hai altre novità!-

-Agli ordini, passo e chiudo.-

La tranquillità del quartiere trasmetteva una sorta di disagio nei due agenti. La gente chiacchierava, faceva jogging, curava il giardino, senza sapere che un loro vicino quella notte era stato rapito; quando la vittima avrebbe potuto essere chiunque di loro. Derek parcheggiò di fronte al vialetto della casa del proprio capo. Le tapparelle abbassate suggerivano che in casa non ci fosse nessuno, troppo tardi perché il proprietario potesse essere ancora a dormire. In quel momento il cuore dell’agente prese a pompare forte, un terribile dubbio lo aveva colto alla sprovvista, facendo vacillare le proprie certezze.

-Morgan, tutto a posto?- Rossi si era voltato indietro, notando che il collega non lo aveva seguito quando si era avviato verso la scena del crimine. In quel momento notò quanto la preoccupazione contraesse i lineamenti del giovane uomo. Derek levò gli occhi nocciola a cercare un sostegno in quelli dell’amico più anziano.

-Stavo pensando, l’S.I. ha detto di aver rapito Hotch. E se invece lo avesse ucciso?-  condividere quel brutto pensiero lo fece da un lato sentire meglio, ma dall’altro fu come conferire concretezza a quell’idea.

-Come ti salta in mente una cosa del genere? Ascolta, capisco tu sia scombussolato, lo siamo tutti. Ma, se ci rifletti, lo sai benissimo anche tu che Hotch non è in quella casa. Sei un ottimo profiler e sai bene che l’S.I. non avrebbe mai ucciso Hotch, in tal caso non ci avrebbe telefonato e non avrebbe fatto richieste. È una faccenda personale per lui. Adesso però bisogna che ritorni in te, non ci servirai a niente se non riuscirai ad essere lucido. Quindi prendi un bel respiro e quando sei pronto io sarò dentro ad aspettarti.-

Bastarono quelle parole, furono come acqua gelida, ebbero il potere di farlo tornare in sé. Sapeva che David aveva ragione, ma in quel momento aveva avuto bisogno di qualcuno che gli confermasse i fatti. Hotch era stato come un padre per loro e adesso che lui non c’era si sentiva un po’ smarrito, quasi dubitasse delle proprie capacità. No, doveva concentrarsi. Hotch aveva bisogno di loro e se c’era qualcuno che poteva scoprire come aveva agito l’S.I. e perché, quello era lui. Derek avanzò con aria determinata lungo il vialetto, Rossi scrutava le inferriate cercando di individuarne una qualche anomalia.

-Io passo dalla porta principale, tu dal retro. Ci vediamo dentro.-

Derek eseguì. Fece il giro della casa, scrutando alberi, cespugli, muretti, qualunque cosa potesse indicargli che da lì era passato qualcuno o si era appostato per un breve periodo di tempo, persino un vaso fuori posto. Nulla. La porta era massiccia tanto quella d’entrata. Provò ad aprirla, niente. I vetri erano intatti, perciò era da scartare anche quell’idea. Si accucciò al livello della serratura, analizzandone la fessura. Ad una rapida occhiata sembrava intatta, ma vi si potevano notare, con un po’ più di attenzione, dei graffi come se qualcuno avesse tentato di aprirla con qualcosa di affilato. Derek notò inoltre che la placchetta rettangolare che la ricopriva, aveva una delle quattro viti allentata. Non di tanto, ma la cosa bastò per attirare la sua attenzione. Tastò con una mano la stabilità della placchetta, era fissata perfettamente, eppure quella vite fuori di due giri lo insospettiva. Tirò fuori la sua torcia portatile, puntandola contro l’oggetto incriminato. Con la mano libera afferrò meglio che poté la placca, tirandola in avanti. La luce illuminò quello che aveva tutta l’aria di essere un foro sfalsato. L’ S.I. a quanto pareva aveva svitato l’intera serratura, per poi entrare in tutta comodità e rimettere tutto a posto. Derek bussò al vetro, aspettando che il collega venisse ad aprirgli.

-Trovato qualcosa?- gli chiese quest’ultimo.

-Guarda qua! Ha smontato e rimontato tutto alla perfezione, ma ha sbagliato un foro.-

-Qualcuno deve averlo pur sentito usare il trapano.-

-Magari ha usato un cacciavite.- propose Derek.

-No, ci avrebbe messo troppo tempo.-

-Se ha usato un trapano di notte di sicuro qualcuno l’ha sentito, questo è un quartiere tranquillo, non fai casino dopo una determinata ora. Mentre se lo avesse fatto di giorno qualcuno di sicuro l’ha visto.-

-Potrebbe essersi fatto passare per un operaio, nessuno ci avrebbe fatto caso.-

-Ad ogni modo, sapeva di avere il tempo e a propria disposizione. Ha commesso un errore, ma ha fatto tutto con calma calcolata. Forse non gli importava nemmeno che capissimo come aveva fatto ad entrare. Tu, trovato qualcosa?-

David gli fece cenno di seguirlo in casa. L’interno era buio pesto, Rossi accese la luce della cucina e a seguire quella della sala. La scena di fronte a loro lasciava ben poco all’immaginazione: mobilia rovesciata, soprammobili rotti, schizzi di sangue sul tappeto e sulle pareti.

-Hotch ha lottato prima di venire sopraffatto dall’S.I.- constatò Derek.

-E’ quello che ho pensato io. Quello che mi chiedo è perché? Sarebbe stato molto più facile per lui neutralizzarlo per poi portarlo via. Invece ha preferito lo scontro diretto.- disse con cipiglio pensieroso l’agente più anziano.

-Come hai detto tu prima, per il rapitore è una cosa personale. Riuscire ad avere un faccia  a faccia con lui potrebbe essergli stato motivo di adrenalina. Sa di riuscire nel suo piano, perciò fa in modo di godersi ogni singolo momento prolungandolo il più a lungo possibile.-

-Hotch è di corporatura massiccia e sa come difendersi, questo vuol dire che il nostro uomo è in ottima salute, sa combattere e molto probabilmente non supera la cinquantina di anni. Bisogna tener conto che non solo ha messo al tappeto un agente, ma lo ha anche trascinato fuori e caricato in macchina; questo denota una certa resistenza.-

-Non sono state usate armi da fuoco, almeno quella di Hotch non ha sparato.- disse Derek, dopo aver trovato la pistola del proprio capo abbandonata vicino al corridoio d’entrata.
-L’S.I. non avrà voluto far rumore.-

-Avrebbe potuto usare un silenziatore.-

-Troppo rapito, sarebbe successo tutto troppo in fretta, quindi non ne avrebbe tratto alcuna scarica emotiva.- Derek percorse il corridoio adiacente alla stanza.

-L’S.I. lo stava aspettando in sala quando è arrivato. Hotch ha avuto solo il tempo di entrare, chiudere la porta e depositare gli effetti personali. Dopo di che…ha estratto la pistola.-

-E se l’avesse tirata fuori dopo il faccia a faccia con l’S.I.?-

-L’S.I. ci ha dimostrato di conoscere molto bene tutta la squadra. Ha un piano e vuole rispettarlo. Sa che Hotch è un ottimo profiler, cercare il faccia a faccia senza prima neutralizzarlo avrebbe voluto dire correre il rischio che qualcosa andasse storto.-

-Perché non uscire allora? O telefonarci? Avremmo capito che c’era qualcosa che non andava.- David aveva la netta impressione che qualcosa continuasse a sfuggirgli, Derek sospirò amareggiato.

-Non lo so. Probabilmente avrà pensato di potercela fare da solo, oppure che l’S.I. capisse di essere stato scoperto e quindi poi agendo velocemente non sarebbe riuscito a difendersi.-

Rossi tornò in salotto, guardando con sguardo preoccupante quegli inquietanti schizzi cremisi.

-Ad ogni modo chiama la scientifica, voglio sapere tuto ciò che riescono a trovare.- era preoccupato. Si era aspettato di tutto, ma il ritrovamento di tracce di sangue era pur sempre un’incognita difficile da decifrare.

-A cosa pensi?- gli chiese Derek dopo aver riposto il telefono.

-Dalla quantità di sangue Hotch è ferito, ma dovrebbe cavarsela.-

-L’S.I. ci sarà andato giù pesante se voleva sopraffarlo senza una pistola.-

-Spero che parte di quel sangue sia dell’S.I.- Rossi volse lo sguardo verso il collega e fu il suo turno di trovarlo pensieroso –Cosa c’è che non ti convince?-

-Niente, sembra tutto fin troppo chiaro. Spero solo che l’S.I. non abbia usato quel silenziatore.-

-Credi che possa averlo usato?-

-Potrebbe essere se Hotch fosse stato in netto vantaggio su di lui.-

-Quindi il proiettile non sarebbe uscito.-

-In tal caso non abbiamo la più pallida idea di in che condizioni sia.- concluse Rossi; quel caso stava mettendo le loro menti e il loro sangue freddo a dura prova.

Fecero un breve giro del quartiere, bussando di casa in casa, chiedendo se qualcuno avesse visto o sentito qualcosa. I vicini che abitavano di fronte a Hotch erano in vacanza, perciò quella che avrebbe potuto essere una traccia importante se la videro sfumare davanti agli occhi: se ci fossero stati avrebbero avuto una perfetta visuale dell’S.I. e avrebbero potuto dare una svolta all’indagine, invece nulla. Gli altri andavano avanti e indietro dal lavoro, qualcuno non aveva visto nessuno, altri pensavano di aver visto un operaio e sentito rumori di trapano, ma nessuno era abbastanza sicuro da poterlo confermare al cento per cento. In poche parole in mano non avevano niente. Avevano bisogno di buone notizie.

-La Dea del Sapere è in ascolto.- annunciò la voce di Penelope all’altoparlante.

-Bambolina dicci che hai trovato qualcosa.- rispose Derek con un sospiro.

-Non esattamente. Di criminali messi in prigione da Hotch e poi fatti uscire per diversi motivi ce ne sono davvero tanti.-

-Garcia, restringi il campo a quelli vendicativi che possono essere venuti a conoscenza della vita privata di Hotch.- le suggerì David, tornando alla carica. Hotch era una persona riservata e dopo l’omicidio di Jack aveva fatto in modo che nessuno sapesse dell’esistenza della figlia. In tal caso l’assassino poteva risalire da prima della morte di Jack. Eppure una vocina dentro di lui sembrava imporgli la calma, di non dare giudizi troppo affrettati per non cadere in errore. Di errori, con i minuti contati, non se ne potevano permettere. La famiglia Hotchner era stata spezzata per ben due volte, adesso toccava a loro impedire che accadesse una terza.

-Mi ci vorrà un po’ di tempo. Farò un controllo incrociato, magari l’S.I. ha saputo tutto da qualche detenuto ancora in prigione.-

-Siamo nelle tue mani.- sospirò David prima di riattaccare.

Quando l’ascensore si aprì sull’openspace i due agenti trovarono i colleghi radunati attorno alla scrivania di JJ. Spencer era seduto su una sedia, lo sguardo pensieroso, ragionando ad una qualche teoria, mentre mordicchiava il fondo di una matita col fare tipico di un ragazzino, JJ e Emily erano in piedi, la prima con le braccia incrociate, più nervosa dell’altra, e stavano parlando con qualcuno.

-Eccoli, trovato niente?- la prima a notarli fu la bionda, visibilmente in ansia.

-L’S.I. è entrato in casa sua ed è rimasto ad aspettarlo.- rispose David.

-Qualcuno l’ha visto?- si aggiunse Emily, anche lei nel medesimo stato emotivo della collega.

-Nessuno è sicuro di quello che ha visto. Si parla di un operaio, ma niente che ci possa essere di aiuto.- disse Derek.

-Abbiamo chiamato la scientifica, vediamo cosa riescono a trovare. In questo momento Garcia sta facendo un controllo incrociato fra i detenuti; speriamo trovi qualcosa.-

Passarono un paio di minuti di silenzio dopo le parole di David, preparando la domanda bomba, quella di cui tutti volevano la risposta, ma nessuno osava porla.

-Siete riusciti a capire come l’hanno rapito?- coraggiosa JJ.

-A quanto pare l’S.I. ha cercato il confronto diretto, la pistola di Hotch era sul pavimento ancora carica.- rispose Derek, non sapendo se accennare o omettere il dettaglio delle tracce di sangue, almeno finchè non ne avessero saputo di più. Fu David a scegliere per entrambi.

-C’erano anche…delle tracce di sangue.- ecco gli effetti della bomba, JJ si portò una mano alla fronte e Emily sbarrò gli occhi, Reid corrugò le sopracciglia. Derek sapeva che così facendo il più giovane del gruppo inspessiva la propria muraglia, cercando di autosalvaguardarsi. Si odiò per questo, sin dal primo giorno per lui Spencer era stato come un cucciolo da proteggere e lui si era autoproclamato suo protettore, poco importava se il cucciolo aveva dato prova di essere cresciuto, di sapersela cavare, per lui le cose sarebbero rimaste sempre così. Eppure in quel momento si sentiva terribilmente inutile. –Non sappiamo se appartenga a Hotch, all’S.I. o a entrambi. In tal caso possiamo presumere che non sia ferito gravemente, non se l’S.I. vuole passarci del tempo.-

-Ci sarà andato giù pesante, Hotch non è uno che si fa mettere al tappeto facilmente.- disse Emily, tirando le somme.

-E’ quello che abbiamo pensato anche noi.- convenne Derek.

-E se invece gli avessero sparato?- la voce provenne da dietro le due donne, che subito si fecero in disparte, troppo curiose di ricevere gli aggiornamenti del caso tanto che si erano dimenticate della loro ospite.

I due uomini si ritrovarono a fissare una ragazza alta quasi quanto JJ, dal vestiario si sarebbe mescolata tranquillamente tra di loro, passando inosservata: jeans, camicia bianca, maglioncino nero a collo largo e maniche lunghe strette sui polsi. A colpirli di più però fu il suo viso, per la precisione il suo sguardo. I capelli scuri erano tagliati corti, divisi sul lato sinistro e tenuti al loro posto col gel; proprio come Hotch. La bocca aveva labbra piene, ma era dritta e seria; proprio come lo era il più delle volte quella del loro capo. I suoi occhi erano chiari, di diverse sfumature tendenti al verde; diversamente da Hotch che li aveva marroni. Ma il suo sguardo, freddo e distaccato, calcolatore, era proprio quello dell’agente speciale Aaron Hotchner. David e Derek non poterono fare a meno di pensare che quella che avevano davanti era niente poco di meno che un Aaron Hotchner in gonnella. La domanda nel frattempo era rimasta sospesa tra di loro qualche secondo di troppo. David fu il primo a riscuotersi.
 
-Abbiamo pensato anche a quello, ma non avendone la certezza è preferibile basarci su quello che abbiamo. Bossoli e fori di proiettile non ne abbiamo trovati, perciò ritengo che per quanto ferito l’agente Hotchner stia bene. Tu devi essere Serena Brooks.-

-Sì, sono io.- rispose l’altra, accennando un cordiale sorriso in segno di educazione, gli occhi le brillarono e David seppe che li stava analizzando, proprio come loro si sarebbero comportati con chiunque altro. Non teneva le braccia incrociate, in segno di difesa, anzi teneva le mani nelle tasche anteriori dei jeans, segno che non li temeva e non li riteneva ostili, si reputava all’altezza della situazione. David trattenne una risata; pur essendosi persi di vista per così tanto tempo i due Hotchner si assomigliavano più di quanto essi stessi potessero immaginare.

-Ben arrivata. Io sono l’agente David Rossi e lui è l’agente Derek Morgan. Siamo felici tu abbia accettato di collaborare.-

-Agente Rossi, voglio ricordarle che l’agente speciale Aaron Hotchner è pur sempre mio padre.- i quattro agenti nella stanza rimasero basiti, persino la pacatezza era la stessa del loro capo.

-Cosa stiamo aspettando? Diamoci da fare.-

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Capitolo 6
*** Capitolo 5 ***


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Capitolo 5

 
POV. HOTCH

Non so quanto tempo impiegai per tornare alla realtà, a me però sembrò un’eternità. Rumori, suoni, sensazioni, tutto appariva troppo lontano e distorto affinché potessi riuscire a metterlo a fuoco. Se da un lato mi sentivo bene nel mio stato confusionale, dall’altro percepivo l’urgenza di risvegliarmi. Non ricordavo il perché, ma dopo anni nell’FBI riconoscevo perfettamente quella sensazione che mi attanagliava: qualcuno era in pericolo e io dovevo fare di tutto per aiutarlo. Nel momento in cui tornai a vedere la testa parve esplodermi dal male, peggio di un post sbronza. Mi sentivo il corpo rigido e intirizzito per diversi motivi: primo fra tutti l’immobilità prolungata, in secondo luogo le contusioni e gli ematomi che mi ero procurato durante la colluttazione con il mio aggressore (senza contare quelli inferti gratuitamente) dolevano oltre ogni dire, mi sentivo un vero rottame. Per finire, la posizione. L’uomo aveva avuto l’accortezza di legarmi ad un letto malmesso, con il materasso polveroso di mesi, se non di anni, le braccia sollevate oltre la mia testa dove delle morse di ferro legavano insieme i miei polsi e la catena a cui erano legati li teneva inchiodati alla testata del letto. Avevo anche le caviglie chiuse nelle morse, queste però erano fissate agli angoli del letto. Non potevo assolutamente muovermi. Non so quanto avrei dato per poter abbassare le braccia, le mani le sentivo ghiacciate. In poco tempo avevo capito che quell’uomo era una persona estremamente calma, paziente ed organizzata. In poche ore mi aveva privato dell’autonomia, della capacità di difendermi e di aiutare gli altri. Tentai di muovere un poco il busto, tutto ciò che ottenni furono infinite fitte di dolore. Scrutai nel buio, non avevo la più pallida idea di dove mi trovassi. Sicuramente era un posto abbandonato da tempo e c’avrei scommesso l’osso del collo che non era vicino ad altre strutture funzionanti; in tal caso ero sicuro avrebbe provveduto a tapparmi anche la bocca. Non che me ne fosse rimasta molta di voce, mi sentivo la gola dolorante dal troppo mutismo e dall’arsura, non ricordavo nemmeno quando fosse stata l’ultima volta che avevo bevuto; sulla lingua sentivo solo il sapore ferroso del sangue. Ad ogni modo quel posto doveva essere abbastanza grande da avere almeno più stanze sullo stesso piano. Quella in cui mi trovavo doveva essere una vecchia dispensa, poiché l’umidità percepita era nettamente inferiore a quella che ci sarebbe dovuta essere in un posto del genere. Probabilmente in passato era stata usata per evitare che gli alimenti andassero a male.

Inoltre ero convinto che il mio rapitore non se ne andasse in giro mentre ero incosciente, in fin dei conti sapeva che la mia unità era la migliore al mondo e che presto o tardi avrebbero capito chi si nascondesse dietro la maschera.

Quando sentii la porta in metallo alle mie spalle cigolare mi irrigidii, il cuore aumentò il battito; dovevo nasconderglielo, dimostrargli la massima calma e freddezza. Aveva un’aria boriosa, il sorriso soddisfatto di chi è compiaciuto della propria opera. Vestito tutto di nero, senza maschera, stava in piedi di fronte a me. Che senso avrebbe avuto continuare a portarla quando la preda è incatenata?

-Buongiorno agente Hotchner, dormito bene?- aveva una voce squillante a tal punto da sembrare vomitevole, tipo quella dei pupazzi stupidi nel talk show.

-Avrei dormito meglio nel mio letto.- risposi secco, faticando a far uscire la voce. Lui ampliò il suo sorriso.

-M’immagino.- poi si girò a prendere qualcosa che aveva portato con sé: da una borraccia versò dell’acqua in un bicchiere; istintivamente deglutii. Necessitavo di liquidi in quel momento.

-Ho pensato che avrebbe apprezzato.- disse lui facendosi vicino.

-E’ avvelenata?- gli domandai con le sopraccigli aggrottate; poteva sembrare stupido, ma non dovevo mostrarmi debole ai suoi occhi.

-Lei mi stupisce agente Hotchner. Perché avrei dovuto sprecare tanta fatica a portarla qui se la volevo morta? In tal caso l’avrei uccisa immediatamente, non crede?- spalancò gli occhi con fare psicopatico, piegando la bocca in una smorfia. Non lo avrei mai ammesso apertamente, ma quel tipo era inquietante. Tornò a sorridere. –Quindi cosa ha deciso? Si fiderà di me oppure no?- non so quanto a lungo lo fissai.

-Per favore, ho sete.- non gli avrei dato la soddisfazione di scendere a compromessi con lui. Se gli avessi detto che mi fidavo, gli avrei dato automaticamente il permesso di controllarmi, facendo apparire lui totalmente padrone della situazione; mi sarei strangolato con le mie stesse mani. Invece, così facendo, mi ero assicurato una via di fuga. I suoi occhi diedero in un guizzo; lui lo sapeva. Si accucciò in parte a me, porgendomi il bicchiere. Alzai il capo, ci provai vista la scomoda posizione. Le labbra sfiorarono la plastica del bicchiere che lui poco alla volta inclinava. L’acqua non mi era mai parsa così buona e fresca.

-Con calma agente, non vorrà strozzarsi.- mi prese in giro ridacchiando, ma avevo veramente tanta sete. Qualche goccia sfuggì, rigandomi il mento. Quando finii, tornò ad alzarsi, appoggiò sul tavolo alle sue spalle il bicchiere e poi si appoggiò al ripiano, guardandomi come si guarda un’opera d’arte di cui si è orgogliosi. Dovevo sapere cosa gli passava per la testa.

-Che hai da guardare?- gli domandai severo, come se non fossi incatenato ad un letto.

-Che c’è agente Hotchner? Ce l’hai ancora con me per quella telefonata?- sorrise.

Strattonai i polsi e strinsi i denti. Farabutto! Potevo fingere quanto volevo, ma lui lo sapeva bene e anche io. Le mie difese avevano iniziato a vacillare dopo quella telefonata.
 

Quella era stata la prima volta che mi ero svegliato.

Seduto su di una sedia, in mezzo alla stanza, legato con corde ruvide e strette che mi graffiavano la pelle, come se tutte le percosse che le avevano precedute non fossero state sufficienti. La luce sopra di me era talmente forte da ferirmi gli occhi. L’uomo in piedi di fronte a me era praticamente invisibile. Mi sentivo privo di qualsiasi energia, potevo sentire i muscoli pulsare dal male; ero impotente.

-Che cosa succede agente? Si sente poco bene?-

Quella voce. Avrei voluto tapparmi le orecchie tanto era acuta, persino i timpani mi facevano male. Assomigliava tanto all’odiosa vocina delle marionette, come quelle dei clown. Strizzai gli occhi. Più ascoltavo il mio corpo più mi sembrava di impazzire, persino respirare mi faceva dolere  il petto. Dovevo assolutamente distrarmi, pensare ad altro, la mente era la chiave di tutto, perché così era sempre stato. Mi sforzai per mettere a fuoco quel volto, immagini e colori riaffiorarono dai ricordi. Ricordavo di averlo già visto, così come ricordavo alcune caratteristiche del caso in cui lo arrestammo. No, io lo arrestai. Ecco perché ce l’aveva con me, come avevo potuto non arrivarci prima? L’unica cosa che continuava a sfuggirmi era il suo nome, non riuscivo proprio a ricordarlo. Eppure, qualcosa dentro di me mi diceva che era importante.

Nel frattempo lui continuava a parlarmi, ma io ero troppo confuso per capire quello che mi stava dicendo. L’unica cosa che sentii chiaramente, come lo schiocco di una frusta, fu la sua acutissima risata. Quando il silenzio calò e lui scomparì nell’ombra che mi circondava, mi concessi di avere paura, di non sapere dove fossi ne cosa mi sarebbe successo. Il dolore era talmente forte da mozzarmi il respiro di tanto in tanto. Passarono i secondi, i minuti, le ore. E io attesi. Quello che non mi aspettai fu il getto di acqua gelida che mi investì in testa. Annaspai. Non era molta ma era ghiacciata. Tutti i miei sensi si erano risvegliati di colpo e violentemente, facendomi scattare. Questo ovviamente fu la causa di una nuova ondata di fitte dolorose che mi attraversarono il corpo facendomi tremare. Inchiodai il mio sguardo truce contro quello del mio aguzzino, apparentemente tranquillo. Aveva proprio lo sguardo di un pagliaccio e si sa: i criminali più pericolosi sono quelli che sembrano innocui.

-Stia tranquillo, andrà tutto bene. Presto avremo gente.-

Non ero tranquillo, non lo ero per niente. Cosa voleva dire? Parlava di altri psicopatici come lui o di altre vittime? Il fatto che potesse coinvolgere altre persone innocenti nel suo gioco perverso mi provocò un tuffo al cuore: non sarei stato di alcun aiuto.

-Di che parli?-

La mia voce gracchiava dalla spossatezza, sulla lingua avevo il sapore del sangue dovuto alla colluttazione nel salotto di casa mia.

-Che ne diresti se Serena venisse a farci compagnia?-

Sbarrai gli occhi, non poteva essere! Il muro che mi ero costruito, quello che avrebbe dovuto permettere ad entrambi di essere al sicuro, si stava sgretolando tutt’intorno a me. Sarei precipitato se non fossi stato legato a quella sedia. Lui aveva pronunciato solo il nome, poteva trattarsi di chiunque altro, ma in quello sguardo che ci teneva legati capii che stava parlando proprio di lei, della mia Serena. Fui preso dal panico, non me l’aspettavo, e vacillai. L’agente speciale Hotchner stava per lasciare il posto ad Aaron, l’uomo. Ero cosciente che da quel momento in avanti mantenere il mio perpetuo distacco, con quell’uomo sarebbe stato impossibile. Non glielo diedi a vedere, ma in quel momento quei suoi occhi neri come pece sembravano riuscire a leggermi l’anima.

-Che c’è? Il gatto le ha mangiato la lingua?-

-Non so di cosa tu stia parlando.-

Mentire in quel momento sembrava la scelta migliore. Per lo meno potevo guadagnare tempo, farlo parlare e quindi scoprire qualcosa di lui; come le sue debolezze. Tuttavia, se lui non sembrava volermi dar corda, il mio cervello era praticamente diviso in due: la parte che voleva interrogare il rapitore senza nome e la parte che ancora non si capacitava di come potesse sapere di Serena. Come aveva fatto a sapere di lei? Ero stato attentissimo a non lasciare tracce nel corso degli anni. Avevo sacrificato il nostro rapporto per proteggerla dalla gente come lui e ora sembrava non essere servito a niente.

Strinsi le mani attorno alle corde, dovevo resistere, non dimostrarmi debole. Lui rise, sinceramente divertito dalla mia affermazione. Quando tornò a guardarmi capii che sapeva, che ero uno sciocco se pensavo davvero di cavarmela così. Non lo disse apertamente, il suo sguardo bastò per farmi chiudere la bocca dello stomaco, preoccupato oltre ogni dire per quello che sarebbe potuto succedere da quel momento in avanti. Non c’era più solo la mia vita in ballo adesso e la persona predestinata a condividere la mia sorte non era una qualsiasi. Le carte in tavola erano state cambiate radicalmente, tutte a suo favore. Dopo aver aspettato che assorbissi quella notizia, giusto per farmi crollare un poco alla volta, si spostò di lato, mostrandomi cosa c’era appoggiato sul tavolino alle sue spalle: un telefono bianco, di quelli con la cornetta ancora collegata all’apparecchio. Un brivido freddo mi percorse da capo a piedi quando afferrò la cornetta e iniziò a comporre il numero.

-Che vuoi fare?-

Tentai di mantenere la voce controllata, ma in fondo in fondo si poteva distinguere un’inclinazione di terrore. Si limitò a guardarmi, senza rispondere. Temevo che stesse veramente per telefonare a mia cognata, che Serena quindi fosse stata in pericolo ancora prima che io potessi saperlo. Che pessimo padre ero stato; e poi mi ritenevo un ottimo agente dell’FBI. Sudavo freddo, al diavolo il dolore, quello era passato in secondo piano.

-Pronto?-

Chiusi gli occhi e tirai un sospiro di sollievo quando sentii la voce di JJ dall’altra parte dell’apparecchio. L’uomo confessò il mio rapimento, parlando con baldanza ai miei agenti, dimostrando che li conosceva. Riconobbi David che prendeva in mano la situazione dopo che Morgan aveva perso le staffe. Lui gli disse che voleva parlare con Serena Brooks, senza rivelare che fosse mia figlia. Gli piaceva il gusto della caccia, così come quando la preda ero stata io. Lo eccitavano l’attesa e la conquista. Inoltre capii che lui non sapeva dove si trovasse Serena, il suo scopo era quello di utilizzare la mia squadra per arrivarci. Astuto, ma non aveva messo in conto che quando i ragazzi avrebbero trovato Serena, non l’avrebbero mai messa in pericolo. Se avessi dovuto affidare la mia stessa vita nelle mani di qualcuno, quella era la mia unità. Perciò il sapere di avere ancora tempo e che lei sarebbe stata al sicuro era tutto ciò che mi occorreva per tranquillizzarmi. Le sue minacce di usare me come passatempo non sembrarono poi così minacciose dopo quelle certezze.

Mi osservò con uno sguardo curiosamente calmo per tutto il resto della telefonata. Quando riagganciò passarono alcuni secondi di silenzio, in cui decisi che con lui non avrei mentito su quella storia, tanto sapeva che io volevo trovare un modo per esporlo, farlo uscire allo scoperto. In poche parole farlo andare fuori di sé, cosa non proprio ottimale considerando che ero io quello legato alla sedia.

-Devi lasciarla in pace.-

La sua espressione mutò con una velocità allarmante. Mi guardava come se gli avessi fatto il più grande torto della sua vita. Con una lentezza paurosa si slacciò la cintura e se la tolse, arrotolando la parte in eccesso attorno alla mano sinistra, il tutto senza perdere il contatto visivo. Mezzo metro di cintura ciondolava inesorabile come un pendolo che scandisce il tempo, la fibbia in fondo. Il cuore mi batteva furioso nel petto, sapevo che stava per succedere qualcosa. Fu uno scatto, rapido e letale come quello di un cobra. Per un lungo momento vidi rosso e sentii bruciare. Strinsi i denti per non urlare. La fibbia mi aveva colpito alla tempia con violenza, ero certo mi avesse procurato un taglio dal bruciore, ma niente di grave. Voleva farmi del male, glielo leggevo in quegli occhi calmi, dietro cui si nascondeva una personalità malata di violenza, ma non mi avrebbe ucciso. Anche la sua voce era calma quando mi parlò.

-Davvero? Altrimenti, cosa mi farai? Non puoi più proteggerla agente Hotchner. Hai smesso di farlo nel momento stesso in cui l’hai abbandonata.-

-Non l’ho abbandonata.-

-No? Sta pur certo che glielo chiederemo. Dopo tutti questi anni. Sola. Cosa credi abbia pensato? Il mio paparino preferisce il suo lavoro a me.- fece il verso sorridendo; sapeva di aver toccato un tasto dolente.

Non risposi, non avrei saputo cosa dire. Non era vero che preferivo il mio lavoro alla mia famiglia, Serena era tutto ciò che mi rimaneva. Ma era pur vero che in tutti quegli anni ci eravamo sentiti talmente poco…non sapevo nemmeno che faccia avesse. Negli ultimi tempi ci eravamo sentiti solo tramite telefonate, lettere o cartoline. Vivevamo a poche ore di distanza, ma era un modo come un altro per sentirci vicini, come un gioco.

-Cosa fai? Non rispondi più? Eh? Non rispondi più?-

La fibbia calò su di me ancora, e ancora, e ancora. In punti diversi. Con forza. Lividi si sarebbero andati a formare insieme a quelli già esistenti.
 

-Agente? Agente, si è per caso incantato?-

Tornai nella cella, incatenato al letto. Quanto a lungo mi ero perso nei meandri della mia mente? Lui stava in piedi di fronte a me, appoggiato al tavolo, studiandomi.

-Perché si comporta così? Perché non ce la sbrighiamo tra noi?-

-Ahahah, troppo semplice agente Hotchner.- rise lui, divertito quasi si trattasse di un patetico sotterfugio da parte di un bambino.

-Siamo abbastanza grandi per poterlo fare mi sembra.- insistetti con diplomazia.

Sghignazzò, mentre si riavvicinava al letto, osservando qualcosa al di sotto del mio viso. Mi preparai afferrando la catena, qualunque cosa avesse in mente di fare non era assolutamente innocua. I suoi occhi scattarono nei miei, come uno spettro che ti compare davanti all’improvviso, le sue sopracciglia si sollevarono.

-Bel tentativo.-

Tirò violentemente. Il nodo della cravatta sempre più in alto, sempre più stretto. Strattonai le braccia inutilmente. Strinsi i denti, non potevo difendermi. Il respiro mozzato, non mi arrivava aria. Il cuore batteva sempre più forte. Il suo sorriso sopra di me. Non avevo più fiato. Dalla bocca aperta non usciva e non entrava niente. Persino l’udito era scomparso, sentivo solo il battito cardiaco. Davanti ai miei occhi iniziarono a comparire dei puntini neri. Poi, come mi era stato tolto, il permesso di respirare mi fu riaccordato. L’uomo si sollevò da me, in una mano il coltello che mi aveva salvato, nell’altra la mia cravatta tagliata che fissava pensieroso. Tossii, tornando a respirare. Quanto avrei voluto massaggiarmi la gola bruciante. Altro sangue mi si riversò sul palato, forse dovuto alla rottura di qualche piccola vena secondaria.

-Adesso, anche tu pagherai.- si voltò a guardarmi –Per quello che hai fatto.- ed eccola, la sua rabbia, mascherata sotto una facciata di autocontrollo.

-Ricordi? Sei stato tu a darmi la caccia e sei stato sempre tu a mettermi dietro le sbarre. La domanda è: perché?- sembrava veramente inconsapevole del motivo, ma sapevo che era un’altra domanda trabocchetto. Se avessi dato la risposta sbagliata me la sarei vista ancora più brutta di quello che già mi spettava. Così non dissi nulla.

-Io avevo solo protetto i miei figli. E per questo tu mi hai dato la caccia.-

Scagliò lontano la cravatta, i suoi occhi mandavano lampi.

-Lo sai cosa mi hanno fatto agente? Eh, lo sai? Mi hanno picchiato. Un buon padre di famiglia come me! Non importava che fosse giorno o notte, loro non mi lasciavano in pace. Ed è stata solo colpa tua.- dopo lo sfogo, prese un bel respiro profondo, chiudendo gli occhi, richiamando la calma.

-Perciò. Adesso. Anche tu pagherai agente Hotchner. Per quello che hai fatto a tua figlia.- si avvicinò minaccioso ed io lanciai un fugace sguardo allarmato al coltello che ancora teneva in mano.

-Non puoi paragonarmi a te. Lo sai bene. Tu hai ucciso i tuoi figli.- dissi e lui si bloccò sul posto, scrutandomi. Lo presi come un invito a continuare e lo feci –Hai assassinato i tuoi figli, tua moglie e altre famiglie innocenti.-

Uno. Due. Tre. Violenti colpi al fianco, inferti con il manico del coltello. Avevo gli occhi lucidi dal male, senza contare i postumi del quasi soffocamento di poco prima. Il rapitore era così vicino, abbassò la voce quando dovette parlare, quasi dovesse rivelarmi un segreto.

-Hai ragione. L’ho fatto. E adesso, anche tu, vedrai morire tua figlia. E tutto per causa tua. Ma prima…- si sollevò, pronto ad infliggere la propria sentenza.

A quelle parole una morsa mi aveva attanagliato all’altezza del petto. Riuscii a sperare solo che i presupposti che mi ero fatto sulla mia squadra fossero esatti, prima che l’impugnatura di quel coltello cadesse su di me così tante volte, con così tanta violenza, da quasi impedire di oppormi, fino a perdere i sensi.

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Capitolo 7
*** Capitolo 6 ***


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Capitolo 6

 
“Comunque andare
Anche quando ti senti morire
Per non restare a fare niente
Aspettando la fine
Andare, perché ferma non sai stare
Ti ostinerai a cercare la luce
Sul fondo delle cose”
 
POV SERENA

Era strano trovarsi alla sede dell’FBI di Quantico. Pensare a mio padre che percorreva tutti i giorni quei corridoi avanti e indietro; era quella la cosa che lo aveva visto sempre, ogni giorno presente, ligio al proprio dovere. Mi faceva sentire strana. Ricordo di esserci venuta ancora con mamma, ma da allora erano passati anni eppure non sembrava cambiato nulla.

Ero seduta nella stanza usata di solito per gli interrogatori, ignoravo perché mi avessero portata qui. Dopo aver conosciuto gli agenti Rossi e Morgan, il più anziano aveva chiesto alla ragazza di nome Emily di accompagnarmi qui, così avremmo potuto fare quattro chiacchiere senza essere disturbati. Saranno passati una decida di minuti quando l’uomo mi degnò della sua presenza. I cinquant’anni li aveva superati di sicuro, i sessanta? Probabile, ma non ci avrei scommesso. Aveva un modo di fare galante, si vedeva che era abituato a stare insieme alle persone e amava conversare. Lui faceva in modo che la gente si fidasse di lui per avere le informazioni di cui aveva bisogno, l’esatto contrario di mio padre. Freddo e distante, la sua fiducia andava guadagnata. Non lo biasimavo, anche io ero fatta così sebbene avessi dei comportamenti più espressivi ereditati da mia madre. Non concedevo a tutti la mia fiducia, ma mi ritenevo una ragazza molto socievole.
Come capii tutte quelle cose sull’agente Rossi?
Dal modo in cui mi guardò: da padre affettuoso; dal modo in cui mi sorrise: cortese e rassicurante; dal suo modo di muoversi: raffinato ma spontaneo; dalla sua premura…

-Scusa se ti ho fatto aspettare, ma è stata una mattinata piuttosto intensa e avevo proprio bisogno di una bella tazza di caffè. Spero non ti dispiaccia, ne ho preso uno anche per te. Non dirmi che non lo bevi.- il suo fare scherzoso mi fece sorridere, era di sicuro un buon metodo per allentare la tensione. Avevo infatti avuto modo, durante il viaggio verso Quantico, di pensare a quello che mi sarei dovuta aspettare da questa avventura e, dovevo ammetterlo, la cosa un po’ mi preoccupava. Non sempre si ha voglia di confrontarsi con il proprio passato.

-Sì, grazie. È stato molto gentile.-

-Ma ti pare, per così poco.- prese posto sulla sedia di fronte a me, le braccia sopra al tavolo, le dita delle mani intrecciate in una posizione a lui naturale. Era più forte di me, non riuscivo a non analizzarne i movimenti, le espressioni. Mi capitava praticamente con tutti. Lui poi sapevo essere il secondo agente in comando dopo mio padre, probabilmente lo conosceva persino meglio di me, ovvio che provassi un profondo interesse nei suoi confronti. Così come anche negli altri colleghi del team.
Avevo le gambe accavallate con nonchalance di lato, le mani appoggiate in grembo in una postura rilassata e lo guardavo simulando la più completa tranquillità. Era giunto il momento di rompere il ghiaccio.

-Pensavo di essere qui per dare una mano, non come sospettata.- dissi sorridendo a mo’ di battuta, facendo tuttavia vagare lo sguardo per la stanza, in modo che l’agente capisse il significato delle mie parole.

-Infatti è così.- confermò lui.

-E, mi dica, c’è qualcuno oltre il vetro?- domandai, indicando con un cenno del capo il vetro nero oltre le sue spalle, dove sapevo esserci una stanza per ascoltare gli interrogatori senza essere visti e sentiti.

-No, siamo solo noi. Ho pensato che avresti preferito fare quattro chiacchiere in privato piuttosto che sotto gli occhi di tutti.- rispose con calma, gli occhi stretti sapevo mi stavano studiando. Mi aveva detto la verità, in caso contrario non mi avrebbe fornito alcuna spiegazione.

-Quattro chiacchiere di che genere?-

-I ragazzi ti hanno spiegato la situazione. Personalmente, ritengo che l’S.I. si stia in un qualche modo vendicando di un torto subito da tuo padre. Per lui è una faccenda personale, una sorta di conto in sospeso.-

-E io come posso esservi d’aiuto?-

-Il rapitore ha chiesto di parlare con te. Sa di te, ti ha chiamata in causa. Entrambi, tu e Hotch. Il fattore scatenante quindi potrebbe essere nel tuo passato.-

-Vuole che le racconti la storia della mia vita?- non sapevo se mettermi a ridere o essere stupefatta.

-Solo ciò che riguarda il rapporto tra te e tuo padre. Inoltre, l’S.I. ti vuole coinvolgere attivamente nel suo piano. Con la giusta preparazione che noi ti forniremo, potremo farlo uscire allo scoperto e catturarlo.- ne era convintissimo e la cosa mi lasciò perplessa; e non poco. Non sapevo nemmeno io cosa dire. Scossi la testa, arrendendomi all’inevitabile; ecco un comportamento che mio padre non avrebbe mai avuto.

-Da dove vuole che parta?-

L’uomo si appoggiò allo schienale della sedia, preparandosi ad una lunga chiacchierata.

-Partiamo da qualcosa di recente, poi torneremo indietro. Il dottor Reid mi ha raccontato che studi profiling all’accademia.-

-E’ corretto.- Rossi sollevo le sopracciglia, sorpreso.

-Ammirevole! A che anno sei?-

-L’ultimo. Alla fine della prossima primavera sarò un profiler a tutti gli effetti.-

-Però! Sei una ragazza forte. La cosa non mi sorprende, entrambi i tuoi genitori lo sono.-

-Mia madre è morta.- non so perché, eppure ci tenni a precisarlo. Rossi si lasciò andare ad un sospiro amaro alla mia affermazione.

-Lo so. C’ero anche io quando trovammo tuo padre con lei tra le braccia. Mi dispiace.-

-Non fa niente. Sono cose che succedono in questo lavoro, giusto?- non avevo voglia di rivangare la morte di mia madre, perciò mantenni un tono distante.

-Giusto. E come mai hai scelto proprio questa specializzazione?- questa volta le sue sopracciglia si incurvarono, in un chiaro segno di concentrazione.

-Non per essere scortese, ma è la stessa domanda che mi hanno posto i suoi agenti quando sono venuti a prelevarmi.-

-Immagino, ma se non ti dispiace vorrei che fossi tu a parlarmene. Magari a loro è sfuggito qualcosa che a me non sfuggirà.- la sua occhiata era eloquente e non potei impedirmi dal sollevare l’angolo destro della bocca in un sorriso sghembo da malandrina.

-Capisco agente, nessun problema. La verità è che sono sempre stata affascinata dalle persone, dai loro modi di comportarsi, di pensare. Ho sempre guardato al profiler, come a una persona che fa un lavoro emozionante. Pericoloso certo, ma non sono fatta per starmene seduta in un ufficio ad ascoltare chi mi racconta i propri problemi. A me i problemi piace trovarli e risolverli.-

-E con quello che è successo alla tua famiglia? Non dev’essere stato facile.-

-Agente Rossi, David, quello che è successo alla mia famiglia è stata una tragedia e non lo auguro a nessuno. Tuttavia ho sempre avuto questa predisposizione ad analizzare le cose e le persone. È una mia attitudine e, malgrado quello che è successo, si è consolidata. So come lavora mio padre, i casi di cui si è occupato in passato, le volte in cui tornava a casa preparava la valigia e ripartiva. Certo, ero piccola e allora non capivo, ma di una cosa ero certa: il mio papà era un eroe, perché quando tornava a casa aveva salvato la vita di qualcuno.- me ne rendevo conto sempre troppo tardi del fervore che ci mettevo quando parlavo di quanto bene svolgesse il proprio lavoro mio padre.

-Quindi è anche merito di tuo padre se hai scelto il profiling?-

-Sicuramente. Possono esserci stati dei dissapori, ma sono sempre stata orgogliosa di mio padre come profiler. È sempre stato il migliore.-

-Anche come padre?-

Era cosciente di avermi appena sparato contro un proiettile invisibile. Dovevo immaginarlo che sarebbe stato quello il punto di collisione. Mi morsi il labbro inferiore, soppesando le parole con cui avrei dovuto rispondere, il tutto con la massima calma, malgrado l’agitazione che piano piano si faceva largo dentro di me. Colsi così l’occasione per dar voce ai pensieri, almeno ad alcuni, che non avevo mai esternato.

-Che cosa intende per esattezza?-

-Finora mi hai parlato di tuo padre come agente, come profiler, dei casi che ha risolto. Ma a casa? Com’era il vostro rapporto? Per quasi tutti i bambini almeno uno dei genitori è il suo eroe, per te lo era come poliziotto. E quando era a casa? Ritieni sia stato un buon padre?-

-Mio padre ha sempre fatto di tutto per non farci mai mancare nulla, per compensare le sue mancanze.-

-Vi comprava dei regali?-

-Non era quello. Quando era a casa passava la maggior parte del tempo con noi, quasi volesse recuperare quello perso. Ci dimostrava di essere in grado di coprire l’assenza che c’era stata. Al lavoro era al cento per cento un poliziotto e a casa era al cento per cento un padre. Amava mia madre e voleva un mondo di bene a noi, nessuno avrebbe potuto dire il contrario.-

-Non eri arrabbiata con lui quando tornava dopo essere stato via per tanti giorni?-

-Sì, ma era comprensibile. Mi era mancato ed io ero solo una bambina che voleva tornare a casa e riabbracciare tutta la propria famiglia.-

-Anche Jack la pensava come te?-

-Più o meno. Lui sentiva la sua mancanza, ogni tanto lo cercava, ma faceva presto a distrarsi e far passare il tempo. Io invece ero quella che si fermava ad analizzare così tanto le cose da non riuscire più ad andare avanti se non una volta risolte. Abbiamo sempre avuto caratteri diversi. Una volta infatti era stato Jack a cercare papà mentre era al lavoro, io non ci avevo nemmeno provato, mi avrebbero dato della monotona. Tuttavia quella notte fu proprio Jack a dormire come un ghiro, mentre io rimasi sveglia tutto il tempo, finchè non sentii la porta di casa, segno che era tornato.-

-Mi sembra di capire che tu e tuo padre eravate molto legati.-

-E’ così. Credo che lui sapesse esattamente come compensare le differenze di carattere tra me e mio fratello, dedicarci la giusta attenzione. Posso dire che non ci ha mai fatto mancare nulla.-

-E con tua madre? Com’era il loro rapporto?- avevo capito dove voleva andare a parare l’agente Rossi, ma non mi scomposi, era inevitabile che prima o poi ci saremmo arrivati.

-Come le avevo accennato poco fa, chiunque avrebbe notato che si amavano. Forse troppo. E prima o poi anche nelle coppie perfette sorgono i problemi.-

-Immagino tu stia parlando del loro divorzio.-

-Agente Rossi, credo lei lo sappia, quando si fa un lavoro come il vostro non è semplice avere una famiglia. Dedicargli l’attenzione che meriterebbe.-

-Ma prima hai detto che tuo padre era bravo a compensare le sue assenze.-

-E lo era, lo è stato per molto tempo. Ma secondo mia madre non era sufficiente. Ogni tanto li sentivo discutere, ma non ne capito il motivo. Ero una bambina, quando si è piccoli la percezione del tempo e delle cose è diversa. Di una cosa però ne sono certa: mia madre ha lasciato mio padre con l’unico intento di farlo tornare da noi. Perché loro si amavano alla follia.- ed era vero, adesso che lo esprimevo ad alta voce lo era più che mai.

-E secondo te c’è riuscita?-

-Personalmente credo che abbia messo mio padre in una posizione in cui nessuna persona dovrebbe mai trovarsi: scegliere. Non che sia sbagliato, ma quante probabilità al mondo ci sono di incontrare una persona felice perché realizzata sia nel lavoro che nella vita privata? Mio padre era una di queste. Amava il suo lavoro e amava noi, non si può accusarlo di aver mescolato le due cose.-

-Credi quindi che fosse tua madre quella in errore?-

-Vuole sapere di cosa aveva paura mia madre, agente Rossi?- lo fissai intensamente, lasciando per un attimo da parte i ricordi d’infanzia. Lui non rispose, semplicemente mi restituì lo stesso sguardo. –Mia madre temeva che un giorno, uno di voi, avrebbe suonato alla porta di casa nostra, consegnandoci la busta contenente gli effetti personali di mio padre. Perché è per questo che si separano le famiglie dei poliziotti, vero? La paura che un giorno il proprio compagno non torni più a casa.-

-Perdona la mia perplessità, ma come fai a ricordare tutte queste cose? Eri molto piccola.-

-Quattro anni. Mia zia non mi parlava quasi mai di mio padre, solo di mia madre e ho ancora dei video, miei e di Jack di quando eravamo piccoli e qualcuno anche di mamma e papà. Gliel’ho detto, mi piace analizzare le cose, le persone, le situazioni e in tutti questi anni, anche quando ero piccolissima, la mia famiglia è stata il mio primo oggetto di interesse. E visto che lei conosce bene mio padre, non credo troverà discrepanze in quello che le ho detto.-

-No, infatti. Hai iniziato a tracciare i profili delle persone ancora prima di sapere cosa fosse un profilo, notevole.-

-Il classico elemento di disturbo nella classe.-

-Mentre tuo fratello prendeva ottimi voti e si relazionava con tutti i bambini, tu te ne stavi in disparte senza farti notare. Riservando il meglio per dopo.- un breve profilo, ma accurato; e bravo l’agente Rossi. Ma la strada era ancora lunga. –Quindi, tua madre ha messo tuo padre in una posizione difficile. Quale sarebbe stato secondo te l’esito di questa situazione?-

-Non lo so, ma dubito avrebbe portato a qualcosa di buono. Penso che comunque fosse andata, la nostra famiglia sarebbe stata destinata a sgretolarsi.- presi un bel respiro, non avevo intenzione di soffermarmi troppo su ogni singolo caso. –Però Foyet è arrivato prima.-

-Mi dispiace dovertelo chiedere, ma ti andrebbe di farmi un breve resoconto?-

-Io e Jack vivevamo con mia madre. Quando mio padre vide che Foyet stava iniziando ad interessarsi troppo alla squadra, a noi, ci ha fatto mettere nel programma di protezione. Ma lui ci ha trovato lo stesso. È stato gentile con me e con Jack, ma capivo che c’era qualcosa che non andava, mamma piangeva. Poi la mamma ha passato il cellulare a Jack, papà gli ha detto che doveva lavorare con lui e con me a quel caso. Noi sapevamo cosa voleva dire, era una frase in codice, nel caso lui non ci fosse stato. Jack mi prese per mano e mi accompagnò al mio nascondiglio, poi anche lui si nascose. Fu una poliziotta a tirarmi fuori. Non avevo paura, pregavo solo che mio padre arrivasse in tempo. Mio padre fece un enorme sforzo per non far vedere a me e a mio fratello quanto soffriva, si preoccupò piuttosto di riempire quel vuoto che era stato lasciato, ben sapendo che non sarebbe mai riuscito a riempirlo del tutto. Lo ammiro per questa prova di coraggio, lui se l’è dovuta cavare da solo.-

-Non da solo Serena, aveva voi.-

-Vero, ma se conosco mio padre almeno un po’ so che si reputerà sempre responsabile per la morte di mia madre, per non essere arrivato in tempo.- non avrei mai immaginato potesse dare così fastidio riesumare il passato. No, non era affatto semplice come avevo immaginato.

-Preferisci fare una pausa?- l’agente dovette notare il mio stato d’animo. Deglutii.

-A dire il vero preferirei continuare, così poi non ci dovrò più pensare.- quanto mi sbagliavo.

-E dopo? Cosa è successo al vostro rapporto?-

-La zia ci faceva da babysitter e mio padre cercava di esserci, facendoci sia da mamma che papà. Non dev’essere stato facile.-

-E…dopo la morte di Jack?- malgrado il suo fare composto intuii che avrebbe tanto voluto risparmiarmi quella domanda. Mi irrigidii, quella era la parte della storia che preferivo meno, quella che avrei volentieri cancellato.

-Dopo? Io cessai di esistere. Per tutti. Anche per mio padre.- non dovette passare inosservato il tono amaro con cui risposi.

-Ma avete continuato a sentirvi.- disse lui, come se la cosa potesse portare qualche punto a favore di mio padre. Piegai le labbra in un sorriso triste.

-Certo, dopo che si privò della mia custodia per cederla a mia zia. Dopo che mi privò del cognome di famiglia. Dopo che cessò di vedermi anche quel poco che il suo lavoro ci permetteva. Inizialmente non capii, pensavo sarebbe stata una cosa temporanea e che presto lui sarebbe venuto a prendermi per portarmi a casa. Capii che non sarebbe stato così dopo le prime volte che venne a trovarci e sempre dopo un paio d’ore se ne andava. Iniziai a pensare che fosse colpa mia, malgrado le rassicurazioni sue e della zia. Le visite da settimanali divennero mensili, poi sempre più rare. Sa, gli scrivevo lettere tutti i giorni e anche lui di tanto in tanto mi rispondeva. Poi sembrò sparire sempre di più, come un amico immaginario che quando si diventa grandi scompare. Quando fui più grande e affrontai per la millesima volta questo argomento con lui, la sua risposta fu che comprometteva la mia sicurezza. Fu l’unico caso in cui mia zia si alleò con lui. Non è che lo odi, ma ha sempre pensato che se la nostra famiglia è stata distrutta, parte della colpa è stata di sicuro del suo lavoro.-

-E tu cosa ne pensi?-

-Penso che, viste come sono andate le cose, una scelta era d’obbligo.- cercai di mantenere la voce ferma, ma avevo preso a torturarmi le mani in grembo.

-Avresti posto le stesse condizioni che tua madre fece a suo tempo?-

-Allora stavamo bene, eravamo ancora insieme. Ma dopo…mamma e Jack erano stati assassinati, io avevo quattro anni e mio padre era tutto ciò che mi rimaneva.-

-Gliene fai una colpa.- non era una domanda, ma quel punto poco importava.

-Certo che gliela faccio. Avevo bisogno di lui e lui cos’ha pensato bene di fare? Darmi il “contentino” per pochi mesi restando con me e poi sparire. Io…non so nemmeno come trascorra la vita mio padre dopo il lavoro, cosa gli piaccia e cosa no. Lei non crede che una figlia dovrebbe sapere queste cose del padre?-

Il suo sguardo era malinconico, non gli piaceva quello che aveva appena sentito e potevo capirlo bene, io stessa tutte le volte che rivivevo quella storia mi sembrava ci fosse qualcosa di terribilmente sbagliato, quasi un personaggio avesse sbagliato copione; ma era quella la verità.

-Mi dispiace Serena, posso solo immaginare quello che hai passato in tutti questi anni. Ma posso dirti una cosa: conosco tuo padre da tanti anni, passo con lui tutte le giornate e credimi se ti dico che se ha fatto quello che ha fatto è stato solo per proteggerti. Lui si tiene tutto dentro, ma ricordo i suoi occhi brillare quando parlava della sua famiglia e ricordo il suo dolore quando sono morti Haley e Jack. Nemmeno per lui sarà stato facile prendere quella decisione e di certo non gli avrà fatto piacere.-

-Lo so. Ma non è abbastanza. Io ero sua figlia e avevo bisogno di lui e lui non c’era. Ha sempre sacrificato la sua vita per gli altri, ma con me ha preferito fare l’esatto opposto. Lui era al lavoro, è stato per lavoro che mamma e Jack sono morti. Voleva salvarmi? Gli sarebbe bastato fare l’esatto contrario: restare con me.- ero arrabbiata e tanto. Era la prima volta che mi sfogavo a quel modo con qualcuno. L’agente Rossi invece appariva estremamente calmo, ad eccezione di alcune espressioni che lasciano intuire i propri pensieri. Difatti io avevo iniziato ad alzare la voce, il suo tono invece era tranquillo.

-Avresti obbligato tuo padre a lasciare il suo lavoro?-

-Sarebbe stata la scelta più logica. Sarebbe potuto tornare a fare l’avvocato come un tempo. Almeno finchè non fossi stata abbastanza grande per intraprendere la mia strada.- fissai l’agente negli occhi, tornando a calmarmi –Ma la verità è che non l’avrebbe mai fatto. Mio padre amava troppo il proprio lavoro, malgrado gli incubi che gli lasciava. Il suo obiettivo nella vita era quello di assicurare un futuro migliore a tante famiglie. Ma, così facendo, ha trascurato quello che rimaneva della propria. Ha scelto quello che io definisco “il male minore”. Se avesse fatto il contrario sarebbe vissuto di rimpianti. Voleva sapere perché voglio diventare profiler malgrado tuto quello che mi è successo, agente? Perché sono convinta che non farò gli stessi errori che ha commesso mio padre in passato.-

Ci guardammo per un lungo momento, in silenzio. Dopo di che l’agente Rossi si alzò, raccogliendo entrambe le tazze di caffè ormai vuote. Stava per uscire dalla stanza, quando si voltò verso di me.

-Voglio dirti una cosa, probabilmente non te lo sarai sentita dire molto spesso, ma tu e tuo padre siete due gocce d’acqua. Vi assomigliate più di quanto voi stessi possiate immaginare.- era un sorriso gentile quello che aveva sul volto quando se ne andò, mentre io a quelle parole ero rimasta scioccata.

 
BAU TEAM

David raggiunse il resto della squadra nell’openspace, aspettando una qualche informazione da parte di Garcia, l’unica in quel momento in grado di trovare una qualche traccia utile. Nel frattempo dovevano aspettare, sui loro volti l’attesa lasciva profondi segni, poiché non erano abituati a starsene con le mani in mano. Appena lo videro tutta l’attenzione si calamitò su di lui.

-Allora?- JJ di solito era la più controllata del gruppo, ma in quel momento anche lei si sentiva messa alle strette. L’uomo sospirò prima di  rispondere.

-E’ arrabbiata, molto. Frustrata dal passato che ha condizionato il suo presente, privandola del padre.-

-Lasciami indovinare: dà tutta la colpa a Hotch.- intervenne Derek.

-Solo della loro separazione. A quanto ho capito l’ha vissuta come un vero e proprio abbandono.-

-Piuttosto comprensibile, era molto piccola quando ha perso la madre e il fratello. Hotch era l’unico membro della famiglia a cui appoggiarsi, ma poi lui è scomparso.- disse Reid col suo solito fare metodico.

-Sì, ma credo ci sia dell’altro. Lei e Hotch hanno molte caratteristiche in comune, non mi stupisce quindi il suo precoce interessamento al profiling.- spiegò David.

-Credi che il loro legame fosse già consolidato?- domandò Emily.

-Mi ha raccontato che una volta è stata sveglia tutta la notte aspettando che Hotch rientrasse da un caso. Quando ha raccontato della morte di Haley e Jack c’era la tristezza della perdita, ma quando ha parlato di Hotch era…arrabbiata.-

-Di solito le figlie si legano di più ai padri.- convenne Emily.

-Secondo voi lo odia?- domandò JJ.

-No, non credo. Altrimenti non sarebbe qui. Credo piuttosto si tratti di un ultimo disperato tentativo di salvataggio.- rispose David.

-In che senso?- chiese Derek.

-Come i bambini. Si arrabbiano, ma alla fine è la loro indole pacifista a prevalere. Nel loro mondo alla fine va tutto per il meglio.- spiegò Reid.

-Malgrado i sentimenti contrastanti, Serena vuole disperatamente capire e tornare ad avere quel legame che aveva con suo padre.- completò David.

-Legami del genere non si distruggono mai.- disse JJ, parlando da madre.

-Sì, ma questo lei non lo sa ancora.- commentò Derek.

Fu uno dei suoi cellulari a riscuotere l’attenzione di tutti. Subito lo attivò, mettendolo in vivavoce.

-Dicci tutto Bambolina.-

-Ragazzi, forse ho trovato una pista! Un mese fa Rowan McGrant è uscito di prigione per buona condotta.- iniziò la bionda, prima di venire interrotta da Derek.

-Ricordo quel caso, fu Hotch a inchiodarlo e sbatterlo dentro.-

-Sì, ci stavo giusto arrivando se mi avessi lasciato finire Cioccolatino. Ad ogni modo, non ha lasciato nessuna traccia del suo passaggio, si è volatilizzato. Tuttavia, mentre era in prigione ha condiviso la cella con un detenuto che sapeva tutto riguardante Hotch e la sua famiglia: Rudy Gilgun.-

-Ma è l’uomo che ha assassinato Jack!- esclamò JJ, mentre Emily non riusciva a trattenere un’imprecazione.

-Esatto Confettino. Sta ancora scontando la sua pena, vi ho mandato tutte le informazioni sui palmari.-

-Grazie Garcia, sei stata grande.- disse Derek.

-Di nulla Tesoruccio.- salutò lei, lasciando intuire che stesse sorridendo, prima di riagganciare.

-D’accordo, andiamo a fare una visita a Gilgun.- disse Derek, infilando la pistola nella fondina, preparandosi a partire.

 
“Comunque andare
Anche solo per capire
O per non capirci niente
Però all’amore poter dire ho vissuto nel tuo nome”

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Capitolo 8
*** Capitolo 7 ***


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Capitolo 7

 
BAU TEAM

Il penitenziario era situato su di una collina, circondato dalle montagne. Un luogo fuori mano per i turisti, un luogo isolato per i detenuti. Il livello di sorveglianza era alto tanto quanto lo erano i litigi fra i suoi ospiti. Famoso per rinchiudere i prigionieri più sadici e malati, nessuno ci andava mai volentieri, nemmeno la polizia o gli avvocati per interrogarli. Il settanta per cento dei detenuti che entrava in quel posto non ne usciva vivo.
Durante il tragitto Derek e Emily si misero d’accordo sulla tecnica da usare con l’indiziato, dovevano farselo amico per avere informazioni. Sapevano benissimo che era un tipo tosto, sapeva il fatto suo, il suo problema era stato usare le proprie capacità per commettere atrocità sui bambini.

-Non guardarlo mai troppo a lungo negli occhi. È un tizio che parla poco, ma sa far sentire una persona a disagio con pochi gesti.- le consigliò Derek.

-Pensi che potrebbe manipolare l’interrogatorio?-

-Non lo escludo. È uno psicopatico, ma è intelligente e organizzato. Analizza le situazioni e le opportunità prima di agire.-

-Derek?-

-Sì.-

-Credi che scopriremo qualcosa?-

-Lo spero. Tutta questa situazione non mi piace per niente, ma se Garcia ha ragione quest’uomo potrebbe essere la nostra gallina dalle uova d’oro.-

Per la maggior parte del viaggio non parlarono, concentrati sui loro pensieri: l’idea di trovare una traccia sul proprio capo, l’idea di ritrovarsi nuovamente faccia a faccia col killer di Jack Hotchner. Non era mai semplice confrontarsi con qualcuno che aveva fatto del male a dei bambini, il disprezzo nei loro confronti montava ancora prima di incontrarsi e questo poteva condizionare tutto l’interrogatorio. In quelle ore che passarono in macchina, entrambi i profiler si imposero la calma mentale ed emotiva. Sarebbe andato tutto bene. Doveva andare tutto bene.
Ad accoglierli al loro arrivo chilometri di rete e filo spinato, in una muraglia che circondava tutto il perimetro. Emily osservò fuori dal finestrino a bocca aperta.

-Inquietante vero?- le domandò Derek.

-Eri già venuto?-

-No, ma ne ho sentito parlare. Questa è l’ultima di tante barriere. Qui gli agenti sono incaricati di sparare a vista se qualcuno evade. Non esiste posto più sorvegliato al mondo.- Derek, che di solito ironizzava su tutto, era particolarmente taciturno; anche su di lui quel posto aveva allungato la sua ombra. –Fu Hotch a richiedere il trasferimento qui per il killer.-

-Lo avrei fatto anche io se avessero ucciso mio figlio.-

Lande desolate, cielo grigio, il freddo sembrava penetrare fin dentro le ossa. Superarono altri cancelli sorvegliati da guardie armate prima di giungere a destinazione. Una struttura sviluppata sia in larghezza che in altezza, una fortezza inespugnabile. Si incontravano guardie ovunque e i due agenti dovettero passare per più controlli prima di venire scortati nell’area riservata ai detenuti. Lasciarono in custodia le loro pistole ad un agente, i corridoi sapevano di disinfettante e le celle (tutte automatiche) scorrevano identiche ai loro lati. I detenuti li osservavano con sguardi da lupi, curiosi ed affamati, ma nessuno osava fiatare; temevano il manganello che la guardia che faceva loro da guida teneva in mano. Si fermarono di fronte ad una porta in metallo bianca, con una finestrella rettangolare sulla parte superiore.

-I miei uomini sono andati a prelevare l’indiziato, sarà da voi tra alcuni minuti.-

-La ringrazio.- fece il moro, prima di entrare nella stanza ancora vuota, solo un tavolo e tre sedie ad attenderli.

-Nella stanza rimarrà presente una guardia, nel caso il detenuto dovesse dare di matto. Bussate quando volete uscire.- e si congedò.

Emily prese posto su una delle sedie, Derek rimase in piedi accanto a lei, la tensione tra loro era palpabile. Di fronte a loro stava un’altra porta: quella da dove il prigioniero sarebbe entrato. Stavano per incontrare l’uomo che aveva ucciso il figlio del loro capo quando aveva soli dieci anni. Fu il rumore di catene ad annunciare il suo arrivo. La guardia che lo scortava diede due potenti giri di chiave, poi Rudy Gilgun fece il suo ingresso. Mani e caviglie erano ammanettati e un’ulteriore catena centrale le collegava, limitandone i movimenti. Indossava la tipica divisa arancione, la quale lo rendeva ancora più magro di quanto il suo metro e ottanta non facesse già. Emily si stupì di quanto quei diciassette anni sembrassero non averlo scalfito, era ancora identico ad allora. All’epica dei fatti doveva avere venticinque anni, adesso quindi rasentava la quarantina. Eppure quegli occhi azzurri erano glaciali come allora e la sua bocca una linea stretta, quasi a rimproverare qualcosa a qualcuno. In passato aveva accusato il padre, il quale aveva abusato di lui in modi diversi, ecco perché rapiva altri bambini, per crearsi la famiglia che non aveva mai avuto. Ma purtroppo alla fine finiva sempre con l’ucciderli e questo lo obbligava tutte le volte a ricominciare da capo. Ma adesso? Cosa c’era che lo faceva così tanto arrabbiare? Il giovane prese posto davanti a loro, la guardia vigilava in piedi in un angolo della stanza. Gilgun li guardava come un animale ferito, quasi aspettandosi che qualcuno di loro potesse fargli del male, circospetto.

-Signor Gilgun, siamo gli agenti speciali Morgan e Prentiss. Avremmo bisogno di farle qualche domanda.- disse Emily, tentando di stemperare la situazione.

Il detenuto fece scattare gli occhi serpentini su Derek, quasi gli stesse comunicando che essendo stata Emily a interpellarlo, lui non temeva alcuna sua minaccia, benché tutto dell’uomo di colore lasciasse ad intendere che fosse lui il capo; lo aveva surclassato.

-Lo so.- con fare tranquillo si appoggiò allo schienale della sedia, nel lasso di pochi attimi la sua espressione era mutata –Vi stavo aspettando.-. Era un camaleonte. I criminali come lui erano molto pericolosi, poiché imprevedibili. Sapevano adattarsi a qualunque situazione e questo gli consentiva di essere molto sfuggenti. Derek si avvicinò, appoggiando entrambi i palmi delle mani sul tavolo in metallo, reclamando l’attenzione del giovane. Fuoco con ghiaccio, uno scontro interessante.

-E perché ci stavi aspettando?-

-Perché avete bisogno di me.- la sua unicità nel sapere le risposte di cui gli agenti avevano bisogno gli conferiva importanza e potere. A Derek quel gioco piaceva sempre meno ed Emily iniziava a sentirsi nervosa, doveva assolutamente prendere in mano la situazione se voleva evitare che quei due uomini esplodessero.

-Allora, cosa sa riguardo a Rowan McGrant?- nuovamente gli occhi del giovane furono calamitati su di lei.

-Cosa vuole che le dica?- sorrideva.

-Tutto ciò che sa.- rispose Derek, riprendendo il controllo della situazione.

-Si è cacciato in qualche pasticcio?-

-Signor Gilgun, si limiti a rispondere alla domanda.- gli intimò fermamente Emily.

-E’ ovvio, altrimenti voi non sareste qui.-

-Basta Gilgun! O ti riporto dove dovresti stare!- era intervenuta la guardia, picchiando il manganello contro la porta di metallo, rammentando al detenuto dove si trovava.

-Dicevamo?—domandò il giovane criminale, visibilmente infastidito per l’interruzione del suo gioco.

-McGrant.- fu la secca risposta che ottenne da Derek.

-Ecco lui…era una persona interessante.-

-In che senso?- domandò Emily.

-Non era come gli altri detenuti. Era tranquillo, ma pericoloso. Nessuno sapeva cosa gli frullasse in quel suo cervellino sempre al lavoro.-

-Ma tu sì, non è vero Rudy?- Derek usava sempre quella tattica, chiamare i criminali per nome era come creare un rapporto diretto, più intimo con loro. L’altro sorrise.

-Un tipo vendicativo, proprio come me. Non ci piace avere conti in sospeso.-

-E con chi aveva conti in sospeso?- chiese Emily

-Con il poliziotto che lo ha messo qui. Il medesimo che mi ci ha mandato.- i suoi gelidi occhi bruciavano di rabbia, la bocca contorta in un’espressione di disprezzo –L’agente Aaron Hotchner.-

-E ha fatto bene. Hai ucciso suo figlio, ti è andata ancora bene.- fu Derek a calmare la situazione. Il gioco tra lui ed Emily di alternarsi a fare domande stava funzionando alla perfezione.

-Quindi è questo il motivo per cui siete diventati amici?-

-Amici? Agente questa è una prigione, non ci sono amici. Ci sono solo alleati e chi aspetta solo il momento giusto per pugnalarti alle spalle. Non è stato facile avvicinare Rowan, un tipo schivo. Ma appena è girata la voce di cosa avesse fatto e chi lo avesse sbattuto al fresco, ho fatto di tutto per ottenere la sua fiducia.-

-Lo sai vero che potresti essere accusato di complicità nel rapimento dell’agente Hotchner?- gli disse Derek, avvicinando il viso a quello del detenuto in maniera alquanto pericolosa. Il ragazzo si voltò verso di lui con un sorriso divertito in volto.

-No, questo è quello che a lei piacerebbe per costringermi a collaborare con voi.- poi diede in un sospiro annoiato –La verità è che voi non potete provare nulla contro di me, mentre io non ho nulla da nascondervi.-

-Ma hai appena detto di aver fatto di tutto per avvicinarlo, per vendicarti dell’agente Hotchner.- sottolineò Emily.

-Mi credete davvero così stupido?-

-Sentiamo allora, cosa gli hai detto di preciso?- lo prese in giro Derek.

-Gli ho solo dato qualche suggerimento, del tipo: quali tasti toccare. L’agente Hotchner era molto sensibile all’argomento famiglia se non ricordo male.- le nocche delle mani di Derek scrocchiarono. Quella frase, detta con così tanta leggerezza, lo stava mandando in bestia. Emily era certa che se non fossero stati in prigione e senza testimoni, il suo collega avrebbe massacrato di botte quell’insolente.

-Ad ogni modo non capisco ancora perché tu lo abbia aiutato, o comunque come tu ci sia riuscito. Di solito in carcere chi ha commesso reati sui minori non è visto di buon occhio dagli altri detenuti.-

-Ve l’ho già detto, lui non era come gli altri. Era come me. Era una minaccia.-

-Era abile nel difendersi, dico bene?- lo interrogò Morgan.

-E’ così, sebbene i primi giorni non lo abbia dato a vedere. La prima settimana è stato messo in isolamento per aver rotto il naso ad uno.-

-Cambiando un attimo prospettiva: tu conoscevi bene i componenti della famiglia dell’agente Hotchner?-

-Aveva un figlio ed una figlia, se non ricordo male. Il bambino me lo ricordo bene.- un sorriso perverso gli solcò il viso al ricordo macabro di quanto era accaduto diciassette anni prima. I due agenti preferirono non assecondarlo.

-Cosa sapevi della sorella?- domandò Derek.

-Sapevo che si chiamava Serena e aveva un anno in meno del fratello. Fu il piccolo Jack a dirmelo.- ancora quel sorriso sadico.

-E’ tutto quello che sai?- gli domandò poco convinta Emily.

-E’ così. Come ben sapete dopo mi hanno portato qui e non ho avuto molti contatti con l’esterno come potete immaginare.-

-Perciò non sapevi che aveva cambiato cognome?- insistette Derek.

-No. Potevo semplicemente immaginare che l’agente Hotchner avesse preso dei provvedimenti dopo la morte della moglie e del figlio.-

-Non capisco. Quindi quale sarebbe stato il consiglio utile che hai dato a McGrant?-

-Gli ho solo suggerito di fare qualche ricerca sulla famiglia dell’agente Hotchner. Dopotutto per lui non era una cosa nuova. L’unica parente con nome Serena che avesse trovato non poteva essere altri che sua figlia. Non poteva sbagliare.-

-Tu gli avresti solo detto di fare una ricerca?- domandò Emily, ma dopo pochi istanti carichi di silenzio e di sguardi, fu Derek a trovare la risposta.

-No, quella era una briciola di pane, ma dietro c’era molto di più. Non è vero Rudy?- il detenuto sorrise baldanzoso, mentre Emily fissava il collega ancora senza capire.

-Cosa vuoi dire?-

-Prima ha detto che McGrant era simile a lui, ma non si riferiva solo al carattere. McGrant uccideva famiglie con bambini. Dicendogli di fare ricerche sulla famiglia di Hotch ha attirato la sua curiosità, erano la sua preda ideale. Tu gli hai suggerito con chi prendersela.-

-E tutto senza sporcarti le mani.- concluse Emily amaramente. Il criminale alzò le spalle sghignazzando.

-Sapete, Jack non era come gli altri bambini. Anche lui voleva il suo papà, ma quando ha capito che non sarebbe arrivato non si è messo a piangere. Nessuno mi ha mai guardato con occhi così arrabbiati, tranne mio padre. Quando l’ho preso a cinghiate ha pianto, ma non ha fatto rumore. Era il bambino giusto. Se solo lo avessi incontrato prima. Poi ha iniziato a ribellarsi, solo dopo che l’ho portato all’annegamento tre volte si è calmato. Gli altri bambini mi hanno sempre ubbidito, invece lui doveva comportarsi come il suo paparino; coraggioso fino all’ultimo. Quando abbiamo sentito i poliziotti siamo scappati e ci siamo nascosti. Era ancora tutto bagnato e faceva freddo. Sapevo che i poliziotti pur di salvarlo mi avrebbero ucciso, ma lui era il mio bambino perfetto e se io non potevo averlo, non lo avrebbe avuto nemmeno il suo paparino. Non se lo meritava. Così siamo fuggiti e l’ho accoltellato. Non volevo farlo, ma lui continuava a ribellarsi. Ha solo anticipato il momento. Voi non potete nemmeno immaginare come mi sono sentito in quel momento: la paura, l’adrenalina, il freddo, l’eccitazione. Non avevo mai provato nulla del genere, con nessun bambino. Ed è da allora che mi domando come sarebbe stato se avessi preso Serena al suo posto. Quella con McGrant è stata un’occasione unica, la stessa eccitazione che ho provato a rapire Jack. Adesso toccherà a lui affondare il coltello. Come potete ben capire non potevo lasciarmi sfuggire questa opportunità di far ripetere la storia un’altra volta.-

-Agente! Lo porti via!- disse Derek con tono pacato rivolto alla guardia.

Rudy Gilgun li guardava ancora con occhi luccicanti e sorriso smagliante quando lo portarono fuori. I due agenti avevano finalmente scoperto qualcosa di utile, ma erano schifati da quanto avevano udito, sdegnati da come si potesse far del male a dei bambini.

-Ah, un’ultima domanda: non è che sai dove si sia nascosto?- chiese Morgan.

-Informazione riservata.-

La guardia lo spintonò fuori con un colpo secco. Emily e Derek si scambiarono uno sguardo stanco, pieni di rabbia verso quei due criminali, dei quali uno conoscevano solo il nome. L’unica cosa che potevano fare era sperare con le nuove informazioni ottenute di riuscire a tracciare il profilo dell’S.I. .

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Capitolo 9
*** Capitolo 8 ***


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Capitolo 8

 

“Impazzirai, lo so che impazzirai

Perché non ci basta il tempo

Perché nulla basta mai”

 

Era notte fonda quando il suo sonno venne disturbato. Serena rimase immobile, cercando di capire cosa l’avesse svegliata. Delle voci concitate provenivano dall’altra stanza. In assoluto silenzio scivolò fuori dalle coperte, un’occhiata a suo fratello che ancora dormiva dall’altra parte della camera e in punta di piedi oltrepassò la porta. Era tutto buio in casa e lei rimase indecisa sul da farsi. Solo uno spiraglio di luce filtrava dalla camera di mamma e papà, dove i genitori stavano discutendo. Ma da quella posizione non riusciva a vedere niente, perciò passò davanti alla porta della loro stanza, veloce come un’ombra, e si arrampicò sulla scala che portava in soffitta per poi sedersi sul fondo di uno scalino; abbastanza nascosta per non essere vista, nella posizione giusta per vedere e sentire quello che stava accadendo all’interno della stanza.

La mamma era in piedi da un lato del letto e le dava le spalle, il papà invece era dal lato opposto e continuava a andare avanti e indietro, portando vestiti verso il letto.

-Aaron, sono le quattro del mattino.- disse Haley, come se quella fosse una scusa più che sufficiente.

-Haley ne abbiamo già parlato, questo è il mio lavoro.- rispose in un sospiro stanco Hotch.

-No, invece! Tu ne hai parlato, ma non hai mai ascoltato la mia versione.-

-Che cosa staresti insinuando?- adesso l’uomo aveva un cipiglio severo. Serena si strinse le gambe al petto dopo averle circondate con le braccine, sicura di essere al sicuro.

-Ti era stato offerto un lavoro d’ufficio, con orari fissi.- l’uomo non rispose, sapeva dove quel discorso andava a parare –Ma tu hai preferito continuare ad andare e venire.-

-Lo sai bene quanto tenga a questo lavoro.-

-E a noi Aaron? A noi quanto tieni? Più o meno del tuo stupido lavoro?-

-Non c’è niente che mi importi di più di te e i bambini.-

-Davvero? Perché non è quello che sembra.-

-Che vuoi dire?-

-Svegliati Aaron! I tuoi figli stanno crescendo con un padre che c’è un giorno sì e tre no. Non lo vedi come ti si attaccano quando ci sei? Hanno bisogno di un padre.-

-Io ci sono per loro.- rispose Aaron con tono pacato, Haley diede in un risolino di scherno.

-Sì, come no! Dall’altra parte del mondo.-

A seguire un lungo momento di silenzio. Serena sentiva solo il suo respiro solleticarle le manine, gli occhi incapaci di distogliersi da quella scena.

-Devo andare.- Aaron afferrò il borsone che aveva preparato.

-Certo vai. Loro sì che hanno bisogno di te.-

-Haley…-

-Aaron basta!- mamma non gridava quasi mai, tantomeno con papà –Non farmi apparire come un mostro.- silenzio; e singhiozzi.

-Tesoro, mi dispiace. Credimi se ti dico che sto facendo tutto quello che posso per passare più tempo possibile con te e i bambini.-

-E’ solo…- mamma stava piangendo -…non voglio che un giorno tu possa svegliarti in una qualunque città e scoprire di non conoscere i tuoi figli.-

Aaron le pose una mano sulla guancia prima di attirarla a sé in un vero bacio innamorato. Poi appoggiò la fronte a quella di lei, occhi negli occhi.

-Cercherò di fare presto. Te lo prometto.-

-Okay.- la voce smorzata dal pianto, sapeva che anche suo marito soffriva della loro mancanza sebbene non lo desse a vedere. Per questo aveva bisogno ogni tanto che anche lui si esponesse.

-Dai un bacio ai bambini da parte mia.-

-Stai attento.-

Un ultimo rapido bacio, un fugace sguardo e l’agente Hotchner uscì dalla stanza e poi giù per le scale. Vedendo che la mamma era rimasta in camera, Serena tornò vicino alla porta della propria camera per poter seguire con lo sguardo il papà andare via. Aaron si fermò con la porta aperta, voltandosi come se avesse percepito lo sguardo della figlia seguirlo. Ma nascosta nel buio della casa non la vide. Serena osservò i lineamenti severi del padre, il suo sguardo a cui non sfuggiva nulla. E per l’ennesima volta vide le sue spalle mentre andava via.

Si svegliò di soprassalto, quasi stesse precipitando. L’immagine di suo padre che partiva per un’altra missione senza nemmeno salutarli ancora davanti agli occhi. Si passò le mani sul viso per schiarirsi le idee; la prima cosa che notò fu che non era a casa propria.

 

“Anche se in fondo il nostro è amore

Usiamo stupide parole

E siam vicini ma lontani, e troppi tentativi vani”

 

POV SERENA

Erano passate ore dal mio arrivo e dopo il colloquio con l’agente Rossi non è che avessi avuto granché da fare. Avevo visto gli agenti Morgan e Prentiss lasciare la base, io invece ero decisamente di troppo. Chi non sapeva chi fossi mi guardava con fare dubbioso e diffidente, una muta e chiara domanda in volto, gli altri mi guardavano con fare sconsolato, quasi fossi troppo fragile e potessi andare in pezzi da un momento all’altro. L’agente Jereau mi aveva chiesto se volessi qualcosa da bere e io avevo gentilmente rifiutato, esprimendo invece quanto fossi scombussolata da tutto quello che era successo. Alle mie parole mi aveva accompagnato in uno degli uffici sopraelevati che si affacciava sull’intero openspace, per la precisione quello di mio padre. Mi aveva detto che avrei potuto risposarmi mentre tentavano di venire a capo di qualche informazione utile, io ero una pedina importante in tutto quel “gioco” e sarebbe stato meglio che fossi stata in forze quando fosse arrivato il mio turno. Inoltre lì non sarei stata oggetto di troppe occhiate indiscrete. La ringraziai, perché in effetti tutta quella storia mi aveva veramente shakerato per bene. Senza rendermene conto ero piombata tra le braccia di Morfeo senza opporre la benché minima resistenza.

Mi misi a sedere, ancora intontita dal mio breve pisolino. Sollevai il polsino della camicia per controllare l’ora: solo un’ora era passata da che mi avevano lasciata a me sessa. Decisi di dare una breve occhiata all’ufficio, ero curiosa, in teoria quello rappresentava l’immagine di mio padre. Davanti al divano in pelle nera su cui avevo appena dormito c’era un tavolino in legno color ciliegio, poco più avanti due sedie girevoli in pelle nera per gli “ospiti”, la scrivania era dello stesso color ciliegio del tavolino. Su di essa ogni cosa era rigorosamente in ordine: libri, agenda, post-it, cucitrice, scotch, portapenne, telefono fisso, tutto quanto. C’erano persino due foto e la cosa mi sorprese non poco. Nella prima c’erano lui, mamma e Jack, ancora piccolissimo; non ero ancora nata all’epoca. Nella seconda c’era solo Jack che giocava a pallone, con indosso la divisa della squadra. Qualcosa dentro di me si mosse notando che non ce n’era una mia, nemmeno una di famiglia dopo la mia nascita, come se davvero avesse fatto di tutto per rimuovermi. Deglutii, autoconvincendomi che anche quello faceva parte del piano affinché nessuno sapesse di  me. La sua poltrona era anch’essa in pelle nera e girevole, solo che aveva i braccioli. Per finire, sull’ultima parete, si estendeva un’immensa libreria piena zeppa di libri e dedussi che quasi tutti dovessero essere di legge. Tomi che nessuna persona sana di mente ad eccezione di un avvocato leggerebbe mai. Curioso, ma mi venne quasi da ridere.

Aggirai la scrivania e cedetti all’impulso di sedermi su quella poltrona. Fu come un salto indietro nel tempo, quando tornava a casa e gli gettavo le braccia attorno al collo, il suo odore mi investì riempiendomi le narici. Non avrei saputo dire esattamente di cosa si trattasse, ma era odore di lui: un miscuglio di dopobarba, profumo e lavoro; fogli impolverati, polvere da sparo e sudore; severità, determinazione e giustizia. Mi era mancato quell’odore, ma non avevo capito quanto. Le lacrime mi pizzicarono gli angoli degli occhi, ma le ricacciai indietro con ostinazione, mentre lo stomaco avvertiva la terra sotto i piedi mancare. Ed era proprio in quei momenti che mi sarebbe piaciuto uscire allo scoperto, dimostrare i miei veri sentimenti, quanto mi mancasse (considerando che nemmeno io avrei saputo quantificare la cosa). Eppure non ci riuscivo, avevo un blocco, quasi avessi tirato il freno a mano e rotto la leva. Che si trattasse di orgoglio? Poteva anche essere. Solo di una cosa ero certa, faceva male, tanto. Troppo il tempo che questa situazione andava avanti, logorandomi dall’interno, distruggendomi. Ed ero del tutto sicura, sebbene senza saperne come, che anche per mio padre fosse la stessa identica cosa.

Per fortuna ci pensò il bussare alla porta a riscuotermi da quei pensieri. La porta si aprì in uno spiraglio, facendo scorgere una chioma bionda.

-Abbiamo nuove informazioni.-

-Arrivo.- non sembrò stupita di trovarmi là seduta e come lei non dissi nulla.

Seguii JJ nell’openspace dove tutti ci stavano aspettando, anche Morgan e Prentiss erano tornati. C’era solo un volto nuovo tra loro, ne dedussi dovesse trattarsi del tecnico informatico, mio padre mi aveva accennato quanto fosse eccentrica, ma al contempo in gamba nel suo lavoro. Era di poco più alta di me, con quel briciolo di carne in più che agli uomini faceva sempre piacere. I boccolosi capelli biondi erano raccolti con dei fermagli, colorati tanto quanto lo era il suo vestiario: a partire dalla magliettina, a seguire il golfino, per finire con la gonna lunghezza ginocchio; tutto con sfumature bianche e rosa shocking. Mentre li raggiungevo non mi aveva staccato gli occhi di dosso, guardandomi come se avesse appena visto un miraggio attraverso gli occhiali viola dalla montatura a farfalla, le labbra rosse di rossetto leggermente dischiuse.

-Ehi Garcia, tutto bene?- le domandò l’agente Morgan, a quanto pareva anche per lui la reazione della donna era nuova. Non lo degnò di una risposta e questo quasi mi fece venire da ridere.

-Oh, cielo! Oh, mio…! Siete identici! Due gocce d’acqua. Avete visto anche voi. Cioè…appena tutto questo sarà finito voglio una vostra foto.- le sorrisi, impossibile non farlo.

-Allora facciamo in modo che sia il più presto possibile. Ti presento Penelope Garcia, il nostro tecnico informatico. Garcia, lei è Serena Brooks.- ci presentò Rossi.

-E’ un vero piacere conoscerti, non per vantarmi ma qui mi chiamano Genio.- mi porse la mano, vincendo la balbuzie con uno slancio di espansività. Gliela strinsi.

-Il piacere è tutto mio. Ho sentito parlare molto di te.- mi guardò, visibilmente sorpresa.

-Davvero? Hotch ti ha parlato di me?-

-Certamente. Senza di te la squadra sarebbe persa. E il curriculum spedito su carta da lettere rosa ormai è leggenda.- la vidi diventare rossa d’imbarazzo e allargai il mio sorriso aggiungendo –A mio parere, quello è stato un vero colpo di classe.-

-Dici davvero?-

-Sicuro. Non sono molte le persone che riescono a sorprendere mio padre.-

-D’accordo bando alle ciance, Garcia cosa hai trovato?- intervenne nuovamente Rossi. In quel momento realizzai che io e Penelope, fuori da lì, avremmo anche potuto essere amiche.

-Sì, ho riesumato la storia del nostro S.I., Rowan McGrant, cinquantacinque anni. È stato incriminato per aver ucciso mogli e figli di diverse famiglie. Incominciò con la propria, utilizzando la scusa di volerla “tenere al sicuro”.-

-Tenerla al sicuro da cosa?- domandò Emily, interrompendo il resoconto.

-Dalla società, dalle altre famiglie. McGrant era convinto di rappresentare il simbolo del buon padre di famiglia, perfezionandosi a tal punto che, per non far cadere i propri famigliari in tentazione, li ha uccisi per tenerli al sicuro.- rispose Reid.

-Esatto genietto, per poi proseguire con il suo massacro, uccidendo chi secondo lui era “compromesso”.-

-Sì, ma perché ha lasciato vivere i mariti?- chiese ancora Emily. Questa volta fu Rossi a rispondere.

-Per farli sentire in colpa, il buon padre di famiglia che non è in grado di proteggere i propri cari. Avrebbero continuato a vivere nel rimorso.- io ascoltavo tutto, cercando di analizzare il profilo del criminale che aveva rapito mio padre.

Fu in quel momento che un suono a noi familiare spaccò il silenzio, paralizzandoci sul posto. Il telefono sulla scrivania di JJ stava squillando.

-Dite di far rispondere lei?- chiese JJ rivolta alla squadra, indicando me.

-Non così in fretta.- intervenne Morgan, sorpassandoci e raggiungendo l’apparecchio.

-Garcia, vedi se riesci a rintracciarlo questa volta.- ordinò Rossi, Penelope prese posto alla scrivania di Reid e iniziò a smanettare sulla tastiera. Un cenno di assenso tra l’agente di colore e l’agente supervisore, poi Morgan sollevò la cornetta.

-Pronto.- il tono era completamente distaccato.

-Agente Morgan, come va? Spero di non avervi fatto girare a vuoto nel frattempo.- sghignazzò la voce dall’altra parte, perfettamente nitida in vivavoce.

-Io non canterei vittoria, siamo più vicini di quanto credi.- un’altra risata.

-Lo sa agente che lei è molto spassoso? Non dev’essere facile mentire sotto stress, perché lo so che questa cosa vi sta snervando, era prevedibile.-

-Come sta Hotch?- lo interruppe Morgan in modo brusco, Rossi gli fece un cenno con la mano, non dovevamo permettere che l’S.I. avesse il controllo della situazione.

-Spiacente agente Morgan, adesso voglio parlare con Serena.- silenzio –So che è lì. passatemela.-

-Perché?-

-Agente, non tiri troppo la corda. Qualcuno potrebbe farsi male. Passatemela.- Morgan si spostò dalla scrivania per farmi spazio, io non ero pronta. Non mi spaventava l’idea di contrattare con un criminale, ma il fatto che fosse coinvolto mio padre, che sarebbe stata questa l’occasione in cui finalmente lo avrei risentito dopo tutti questi anni; e avevo paura. Incrociai lo sguardo di Rossi, mi fece segno con la mani di calmarmi.

-Cerca di mantenere la calma, se qualcosa non va noi ti aiuteremo. E cerca di restare al telefono il più a lungo possibile. Più parla più indizi ci potrà fornire.- mi disse a bassa voce. Tutto ciò che fui in grado di fare fu annuire.

-Pronto.- cercai di mantenere la voce ferma, ma sapevo di non esserci riuscita molto bene. Dal suono che ricevetti in risposta stava sorridendo.

-Ciao Serena. Sono contento che gli agenti ti abbiano trovata, senza di loro non ci sarei mai riuscito. Allora, come stai?-

-Sto bene.-

-Ottimo. E gli studi? Presto sarai una profiler come tutti quegli agenti.-

-Molto bene, grazie.- il cuore mi batteva all’impazzata nel petto, temevo potesse persino coprire le nostre voci.

-Sai, sono colpito che tu abbia accettato l’invito a collaborare a questo caso.-

-Hanno detto che volevi parlarmi.-

-E’ corretto.-

-Allora parliamo.- era indispensabile che riacquistassi la mia fermezza, non potevo permettermi di fallire.

-Ti hanno detto cosa ho fatto?- quella fu una vera e propria doccia gelata; no, le cose non stavano migliorando.

-Hai rapito mio padre.- fui glaciale. Lui rise come se fossimo ad un telequiz.

-Sì e sai qual è la cosa che mi sorprende? Sei accorsa subito.-

-E’ mio padre.- sottolineai col medesimo tono di poco prima, quelle tre parole volevano dire tutto, colmavano qualunque lacuna. Ma a quanto pareva al nostro amico non fu sufficiente.

-Sì, Serena lo è. Ma dopo tutto questo tempo…- lasciò la frase in sospeso, in un modo che non lasciava presagire nulla di buono.

-Che vuoi dire?-

-Andiamo, so che lo sai. Dopo tutto questo tempo. Sei ancora a disposizione per lui. Dopo che ti ha lasciata.-

-Lui non mi ha lasciata.-

-Dopo che ti ha tolto il suo nome.- ormai ci parlavamo sopra.

-Come un’estranea.-

Non risposi. Mi sentivo come quando un ordigno ti esplode vicino e per un momento non senti più nulla, solo un lungo ed acuto fischio. Ecco così, ero fuori dal mondo. Non sapevo cosa dire, non riuscivo a pensare, ero completamente vuota. Alzai lo sguardo e vidi Rossi di fronte a me, era teso, il volto preoccupato; aveva capito che c’era qualcosa che non andava. No, la situazione stava peggiorando di minuto in minuto.

 

POV HOTCH

-Dopo che ti ha tolto il suo nome. …Come un’estranea.-

Il volume era talmente alto che avevo sentito perfettamente la voce di Serena rispondere alle sue domande. Speravo si trattasse di uno stratagemma della mia squadra, una donna prestatasi per dare la voce, ma al solo sentirla era stato come se qualcuno avesse preso in mano il mio cuore, stringendolo in una morsa di preoccupazione. Per “l’occasione” ero stato legato alla sedia del mio risveglio, le corde che nuovamente tornavano a ferirmi i polsi, in mezzo a quello stanzone vuoto in cui rimbombava tutto. La mia più totale attenzione era per la voce che sentivo dall’altra parte dell’apparecchio, quanto tempo era passato dall’ultima volta.

-Fammi parlare con lui.- la sentii dire, il mio cuore prese a scalpitare: ero pronto a risentirla? Mi diedi dell’idiota, quella era una normale conversazione tra rapitore e agenti di polizia, una trattativa. Di certo non ci saremmo messi a guardare delle fotografie, per quello ci sarebbe stato tempo dopo; se ci fossimo arrivati.

-Perché?- fissai gli occhi in quelli dell’uomo di fronte a me, tutte le volte che pensavo di capire quale fosse il suo filo conduttore, mi rendevo conto che c’era qualcosa che mi sfuggiva. Anche in quel momento mi accorsi che quella domanda era stata fatta apposta, per un motivo ben preciso, ma a me ancora sconosciuto. Avevo un brutto presentimento, il problema era che raramente mi capitava di sbagliare.

-Voglio sapere come sta.-

-Sta bene.- rispose lui, lentamente. Questa volta Serena non ebbe esitazioni a ribattere.

-Voglio parlarci.- lo vidi preso in contropiede, non poteva rifiutarsi, lei aveva fatto ciò che lui aveva chiesto, ora toccava a lui. Mi ritrovai a pensare ironicamente quanto il suo tono assomigliasse al mio quando davo disposizioni ai miei sottoposti; buffo. L’uomo mi si avvicinò, appoggiandomi la cornetta all’orecchio. Sudavo tanta era la tensione, le corde ai polsi parevano stringere più di prima. Ci fu un lungo attimo di silenzio dall’altra parte, solo i nostri respiri, sembrò trascorrere un’eternità.

-Pronto.-

Fu come una doccia gelata, un martello che picchia con forza contro una lastra di ghiaccio mandandola in frantumi. La voce mi si spezzò in gola, non un solo suono raggiunse le mie labbra. Era lei, non vi era alcun dubbio. E l’unica cosa che mi venne in mente fu che era una cosa straordinaria. Mi diedi nuovamente dell’idiota per non averci pensato prima, per essermi privato del piacere che solo una telefonata avrebbe potuto dare.

-Papà?-

Il suo tono rimaneva fermo, perché questo era ciò che le circostanze richiedevano, tuttavia distinsi una nota incerta; dovevo risponderle.

-Serena.-

Fu tutto ciò che riuscii a dire, il cuore mi batteva tanto forte da farmi male, faticavo a respirare. In quel momento tutti i miei dolori fisici svanirono per lasciare spazio solo a noi due.

-Sono qui, sta tranquillo. Andrà tutto bene vedrai. Ti tireremo fuori da lì.-

Cercava di mantenere la calma, ma anche lei era nervosa, catapultata come me in questa storia che aveva dell’inverosimile. Curioso detto da me che ne avevo passate tante, anche sopra la mia pelle. Forse questa volta era diverso perché a essere in pericolo ero io.

-Lo so, farete del vostro meglio come sempre.- dissi, cercando di mantenere il mio tono professionale e distaccato.

-Come stai? Che ti ha fatto?-

-Sta tranquilla. Sto bene.-

-Ti ha fatto del male? Sei ferito?-

Era forse apprensione quella che sentivo nella sua voce? Lo sperai con tutte le mie forze. Esitai a rispondere, se avessi risposto di sì tutti si sarebbero preoccupati e avrebbero potuto agire in modo avventato, per non contare che il rapitore ne avrebbe tratto una soddisfazione personale, non potevo permetterlo.

-E’ tutto a posto, sto bene. Ascoltami Serena, non devi ascoltare quello che dice, non fare niente; mi hai capito?-

Le ultime parole fui costretto a urlarle, la cornetta mi venne portata via. La sentii chiamarmi a vuoto, mentre strattonavo inutilmente le corde cercando di liberarmi. L’uomo mi guardo negli occhi e vidi una luce sinistra brillare nei suoi. Rise, piacevolmente divertito, riportandosi l’apparecchio all’orecchio in un fluido gesto, meticolosamente studiato e ormai divenuto ordinario.

-Allora piccola Serena, come è stato risentire paparino dopo tutto questo tempo?- un moto di rabbia mi colse violentemente. Se avessi avuto le mani libere gli avrei attorcigliato il filo del telefono attorno alla gola. Sporco bastardo! Se sperava veramente di metterci l’uno contro l’altra si sbagliava di grosso. Qui il gioco si faceva complicato: era la polizia che tentava di avere la sua fiducia o era lui che cercava di convincere la polizia? Perché era proprio questo il gioco a cui stava giocando, ed in quel momento io ebbi paura per Serena. Era stato furbo, non aveva scelto una persona a caso, aveva scelto la persona a me più vicina, che potesse collaborare con la polizia e dal punto di vista emotivo che fosse anche la più vulnerabile. Potevo solo sperare che Serena tenesse duro.

-Non chiamarmi piccola.-

-Rispondi alla domanda.- intimò lui, mantenendo la voce gentile ma mutando il tono in uno più esigente. Silenzio.

-Non fargli del male.- lo sentii, qualcosa non andava.

-No? E perché non dovrei?- quel sadico si stava divertendo alle spalle del nostro dolore. La mia rabbia lentamente scemava in una paura fredda. Ci fu un attimo di esitazione e lui ne approfittò per infierire ulteriormente –Pensaci Serena: tu sei qui per lui, ma lui quante volte c’è stato per te?- potevo sentirla trattenere il respiro, lo feci anche io. Mi fissava con occhi taglienti e ogni parola era una pugnalata diretta alla nostra emotività; voleva farci crollare.

-Non pensi che meriti una punizione?- e ci stava riuscendo. –Lui ti ha lasciato, Serena. Puoi anche non ammetterlo, ma ti ha abbandonata. E per cosa? Per salvare altre famiglie.-

-Serena, non devi ascoltarlo! Non ascoltarlo!- urlai con tutto il fiato che avevo in gola, facendomi male, sperando di essere riuscito a sovrastare le sue parole. Il silenzio dall’altra parte del telefono mi inquietava parecchio. Non mi ero nemmeno reso conto di essermi sporto in avanti con il busto, tirando i muscoli doloranti, come un cane alla catena che tenta di mordere l’uomo col bastone, ma questo continua a rimanere fuori tiro.

-Ma così facendo, ha ucciso la sua.-

Quelle ultime parole furono in grado di zittire tutti, come se il mondo stesse trattenendo il respiro con noi in attesa del verdetto finale. Temevo quel momento con tutte le mie forze.

-Adesso dimmi Serena, non sei arrabbiata con tuo padre per ciò che ha fatto?- quel silenzio mi fece male oltre ogni dire.

-Sì.-

Quell’unica parola, pronunciata con la tipica freddezza leggermente incrinata da un po’ di titubanza, fu come lo schiocco di una frusta: mi perforò i timpani, mi ferì la pelle. Tutto stava andando secondo quanto lui aveva prestabilito. Il mondo intorno a me, le mie barriere, andavano sgretolandosi come le mura di un castello sotto i colpi di una catapulta. Stava usando il nostro passato per spezzarci, per dividerci, e ci stava riuscendo. Tutti i miei timori, i miei peggior incubi, prendevano forma sotto il peso di quell’unica risposta. Se i sentimenti fossero stati di carne, in quel momento avrei iniziato a sanguinare copiosamente. E in quel momento non c’era medico che potesse curarmi. L’unica persona era quella che mi stava condannando. Gli occhi del rapitore brillarono in modo perverso, gioiosi nel vedermi così. Era lui l’artefice di tutto.

-Non vorresti che anche lui si sentisse come ti sei sentita tu in tutti questi anni?-

-Sì.- in questa risposta c’era più amarezza che in quella precedente. Oh, Serena!

-Avanti, dillo come ti sei sentita.-

-Mi sono sentita sola. Abbandonata. Come se lui non mi volesse più bene…-

-No, no! Serena lo sai che non è vero! Ti sta usando!- la interruppi urlando; fu un pugno violento alla tempia a zittirmi. Sorrideva, il bastardo!

-Come se lui…si fosse dimenticato di me.- fu come sentire una vecchia radio, brusio e rumore. Qualcosa stava succedendo dall’altra parte del telefono, ed anche l’S.I. doveva essersene accorto poiché si premurò di porre fine alla telefonata con un colpo di stile.

-Ti ringrazio molto Serena per le tue parole, ci hai aiutato molto. E non temere, tuo padre capirà presto quello che ha fatto. E lo faremo insieme.- dopo di che riattaccò.

Ero emotivamente distrutto. Lo guardai negli occhi per affrontarlo, ma in quel momento mi sentivo debole come mai prima di allora. Un paio di lacrime erano sfuggite al mio controllo, diedi la colpa al dolore che mi percorreva le braccia e il busto; ma in quel momento la parte che soffriva di più era il cuore. Mi si avvicinò, portando la sua bocca all’altezza del mio orecchio. Non mi ritrassi, troppo stremato da quella battaglia psicologica. Le sue parole sembrarono arrivarmi dritte al cervello.

-Adesso inizi a capire i tuoi errori, agente? I tuoi peggiori incubi si sono avverati e tutto perché sei stato tu a volerlo. Ora devi pagarne il prezzo.-

Non mi picchiò, non mi fece del male. Mi lasciò da solo, lasciandomi in compagnia del mio dolore. Eppure, in quel momento, avrei tanto voluto che mi colpisse. Perlomeno avrei ritardato il momento in cui avrei rivissuto quella telefonata nella mia mente, parola per parola. Invece niente. Trascorsi le ore successive immerso in quel dialogo, torturandomi con i miei stessi pensieri.

 

“Ed è già tardi e vuoi far piano

Il cuore è il tuo bagaglio a mano perché hai tutti i pregi che odio

E quei difetti che io amo

E schegge di una voce rotta, mi hanno ferito un’altra volta”

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Capitolo 10
*** Capitolo 9 ***


Capitolo 9

 
“Ma griderai, sul silenzio della pioggia
È rancore e mal di testa, su una base un po’ distorta
Ti dirò, siamo uguali come vedi
Perché senza piedistalli, non riusciamo a stare in piedi”
 
POV. SERENA

Nel momento in cui l’S.I. iniziò a pormi le domande un brivido freddo mi percorse da capo a piedi. Ero terrorizzata. Dovevo dire la verità o mentire? Rossi aveva detto di tenerlo al telefono il più a lungo possibile. Optai per la verità, senza scendere troppo nel dettaglio, dandogli qualcosa di cui parlare; in fin dei conti non poteva sapere cosa fosse vero e cosa no. Quello che non avevo messo in conto era l’effetto che quella discussione avrebbe avuto su di me. La sua voce mi ricordava il moto oscillatorio del serpente e ne ebbi paura. Più tentavo di essere forte e più mi sentivo vacillare. Quando poi mi permise di parlare insieme a mio padre mi sembrò di tornare con i piedi per terra, era la mia roccia. Quella voce così conosciuta, così familiare, così rassicurante, che per molto tempo mi era stata vietata, che avevo persino avuto paura di dimenticare, ora era lì. Non sembravano passati anni ma minuti dall’ultima volta che l’avevo sentita. Se avevo avuto paura di dovermi confrontare con lui, in quel momento mi resi conto che era proprio questo riavvicinamento a ridarmi il controllo che avevo rischiato di perdere. Andò tutto bene, finchè non iniziarono le domande. Gli scheletri nell’armadio rivelati, i ricordi riesumati. Non mentii, non sarebbe servito a nulla. Il problema è che la verità fa male. Fu lui a parlare, io dovetti soltanto rispondere e il primo “sì” che pronunciai fu la mia discesa nel baratro. Tutto quello che aveva detto prima era stata solo la premessa, in modo tale da coinvolgermi nella conversazione, quello che un agente non dovrebbe mai fare; ma come avrei non potuto farlo? Ero ancora sua figlia. Io ero la mosca intrappolata nella ragnatela del ragno. Se ero arrabbiata con mio padre? Certo che lo ero. Se avessi voluto che lui sapesse come mi ero sentita in quegli anni? Certo che lo volevo. Ero sempre stata convinta che se lui avesse saputo come mi sentivo realmente, non sarebbe andato via, mai più. L’S.I. questo doveva averlo calcolato, chiunque con un briciolo di intelligenza ci sarebbe arrivato. Sentii mio padre in sottofondo che mi urlava di non ascoltarlo, che chiamava il mio nome. Avevo un masso legato alla caviglia che mi stava portando a fondo. Questa era una sorta di resa dei conti in cui eravamo coinvolti tutti e tre: mio padre, l’S.I. e io. McGrant ci stava obbligando a rivivere il nostro passato per distruggerci, io in fondo volevo questo confronto perché avevo bisogno una volta per tutte che le cose venissero messe in chiaro. Per questo non potei dar retta a mio padre a prescindere, ignorando le parole del rapitore.

I profiler capirono subito che qualcosa non andava nel momento in cui l’S.I. si concentrò su di me. Divennero tesi e nervosi e questo non mi aiutò. L’ultima domanda fu la goccia che fece traboccare il vaso: il mio cervello era in panne, ero completamente estranea a tutto ciò che mi circondava. Quando risposi mi sentii più leggera, libera di esprimere una verità taciuta troppo a lungo. All’ultima domanda fui bruscamente riportata alla realtà, con il saluto del rapitore ancora nelle orecchie. L’agente Morgan mi strappò il telefono di mano, il suo sguardo mi squadrava come se li avessi traditi tutti. Beh, forse in un certo senso aveva ragione. Subito quel senso di vuoto e leggerezza venne sostituito da un lancinante dolore allo sterno, come se mi stessero strizzando il cuore dall’interno. Non riuscivo a concentrarmi su nient’altro ad eccezione di quel dolore.

-Ma che ti dice il cervello? Eh, si può sapere? Mi stai ascoltando?- le grida di Morgan mi giungevano distorte e lontane, cercavo di metterle a fuoco, ma non ci riuscivo. A malapena mi accorsi di avere le mani arpionate al bordo della scrivania con tanta forza da far sbiancare le nocche.
-Hai intenzione di consegnare Hotch nelle mani del rapitore? È questo quello che vuoi?- la testa mi girava pericolosamente.

-Garcia, hai rintracciato la telefonata?- persino Rossi che parlava con Penelope, sembravano lontani anni luce. Lo stomaco iniziò a fare le capriole.

-Serena? Mi senti?- spostai con fatica lo sguardo oltre il mio attuale campo visivo; JJ mi guardava con aria estremamente preoccupata –Ti senti bene? Serena?- mi fiondai in bagno.

Le mie gambe si mossero da sole, senza aspettare ulteriori incentivi. Mi ritrovai inginocchiata davanti al water, tirando su tutto quello che avevo nello stomaco, il che non era molto. La nausea e i conati continuarono a lungo, sebbene la sostanza fosse sempre di meno. Forse la verità era che quello che realmente avrei voluto espellere non poteva abbandonarmi.
Lo stomaco aveva cessato di fare capriole, ma la testa faceva così male che temetti stesse per esplodermi, il petto doleva a tal punto che faticavo a respirare, il mondo che continuava a oscillarmi davanti agli occhi sebbene con minor intensità. Presi un po’ di carta igienica e mi diedi una pulita prima di tirare lo sciacquone. Fu allora che mi accorsi di avere le guance tutte bagnate; avevo iniziato a piangere senza rendermene conto. Adesso tutto acquistava un significato diverso, la telefonata mi si ripresentò nuda e cruda, proprio come io poco prima non ero stata in grado di interpretarla. L’agente Morgan aveva ragione. Non mi ero mai sentita così male in tutta la mia vita. Per la prima volta mi lasciai andare, facendomi travolgere dal dolore, abbandonandomi ad un pianto liberatorio. C’ero solo io.

Non sentii l’agente Jereau aprire la porta della toilette, non la vidi in piedi davanti a me.
-Come stai?- non sembrava un tono d’accusa, ma avvertii una certa spigolosità in quella domanda; cercava di essere gentile perché in quel momento dovevamo assolutamente restare uniti se volevamo vincere, malgrado quello che era successo. Quello che avevo combinato. Non sollevai lo sguardo per incontrare il suo, sapevo che sotto sotto anche lei era irata con me, tutti lo erano, anche io e la colpa di tutto era solamente mia. Buffo, eppure non riuscivo a riderne.

-Secondo lei?- non potrò mai cambiare il mio carattere, cercando di sembrare forte quando anche un cieco capirebbe che di forte in me non è rimasto nulla. Dentro di me c’era ancora una bambina che faceva i capricci per riavere suo padre indietro, ma era veramente uno sciocco capriccio come tutti continuavano a volermi far credere? Non ne ero mai stata tanto sicura.
JJ si spostò per il bagno tirato a lucido e poco dopo mi porse un panno bagnato. I suoi occhi erano fermi, ma non di cattiveria. Era una donna forte, che ne aveva viste tante, irritata per quello che era successo, ma ancora convinta di potercela fare; Jennifer Jereau non avrebbe mai mollato. Accettai il suo muto invito, prendendo la salvietta per ripulirmi un poco il viso e alzandomi dal pavimento per spostarci nella zona lavandini. Mi appoggiai al ripiano in marmo, evitando di guardarmi allo specchio. Avevo visto una fugace immagine di me stessa e non mi era piaciuta. I minuti che seguirono parvero eterni, un momento di stallo in tutta quella tempesta; avrei voluto durasse per sempre.

-Perché hai detto quelle cose?- ovvio volesse saperlo, ma ero pronta a darle le risposte che disperatamente stava cercando di capire solo guardandomi?

-Ha importanza?- non riconobbi la mia voce, non mi ero mai ridotta in uno stato simile.

-Molta e lo sai anche tu.- mantenne la calma, se i toni si fossero surriscaldati non saremmo mai venuti a capo di questa conversazione. Altro silenzio. –Era la verità?-

Sapevo a cosa si riferiva: quello che aveva detto l’S.I., le risposte che gli avevo dato. L’avevo sempre saputo, dal momento che Prentiss e Reid avevano varcato la soglia del mio rifugio, che questa storia mi avrebbe portato a questo punto, era inevitabile. Ora JJ doveva sapere, tutti loro dovevano. Basta tirarsi indietro e scappare, aspettando che Jack, la mamma…o il papà mi venissero a salvare.

-Sai, la prima volta che litigai con mio padre avevo quattro anni.-
 

(FLASHBACK)

Era in camera sua a giocare con i pastelli colorati, le piaceva disegnare. L’albero fuori dalla finestra si muoveva con la brezza leggera, creando ombre con i raggi del sole sulla moquette. Jack era alla festa di compleanno di un suo amichetto, lei e la mamma sarebbero andate a prenderlo più tardi. Fu un tonfo sul pavimento, oltre la porta della cameretta, ad attirare la sua attenzione. Appoggiò la matita rossa sul libro, in modo da non perdere il segno e si alzò, andando ad affacciarsi sul pianerottolo. C’era qualcuno nella camera dei genitori. Guidata dall’istinto entrò, guardandosi in giro; raramente lei e Jack vi entravano, era un posto speciale in cui si entrava pochissime volte e quando questo accadeva di solito c’erano coccole in abbondanza per entrambi i fratellini. Quel momento però era diverso, Serena lo capì subito. Il papà non si era ancora accorto di lei, aveva il viso corrucciato come quando lo vedeva in televisione mentre era via per lavoro. Con loro non usava mai quell’espressione, anzi sorrideva molto spesso; il suo papà aveva un sorriso bellissimo. Lo osservò preparare i vestiti con cura dentro il borsone appoggiato sopra il letto.
Aaron Hotchner si stava preparando per partire un’altra volta verso un nuovo caso. Nella sua mente esperta informazioni e metodi su come gestire la cosa andavano accavallandosi uno sull’altro. Fu la voce di sua figlia a riportarlo nella camera da letto.

-Cosa stai facendo papino?-

Aaron si bloccò un istante, sollevando lo sguardo sulla sua bambina dall’altra parte del lettone e la sua espressione mutò un poco; non riusciva a restare così serio davanti al suo piccolo angelo. Qualcosa di mosse dentro di lui facendolo sentire in colpa. Come ogni volta aveva agito d’istinto, andando a colpo sicuro, dimenticando che adesso doveva fornire le giuste spiegazioni a quella creaturina dai grandi occhi verdi. Che ancora una volta lo avrebbe visto partire. Che ancora una volta non avrebbe capito. Serena aspettava, paziente. A lei piaceva guardare il suo papà, era il suo eroe. Il suo album da disegno era pieno di omini stilizzati a pennarello che rappresentavano il suo papà: alcuni con un mantello come Superman, altri con macchine e pistole come Batman.

-Ascolta tesoro, papà deve andare al lavoro adesso.-

-Ma Jack non è ancora tornato.- Aaron sospirò, non era mai facile. Quegli occhioni lo mettevano a dura prova, ogni volta.

-Pensi che potrai salutarlo tu da parte mia?- di solito Serena era molto accondiscendente nei suoi confronti, tuttavia quel giorno il suo sguardo si rabbuiò e al profiler questo non passò inosservato.

-Jack si arrabbia se non lo saluti.- il padre la guardò con occhio critico; cosa stava macchinando quell’astuto cervellino?

-Davvero?- la bimba annuì con il capo, occhi negli occhi con il genitore –E’ Jack che si arrabbia o sei tu che sei arrabbiata?-

Aaron osservò Serena avvicinarsi e toccare distrattamente il suo borsone.

-Non è giusto.-

-Cosa non è giusto?-

-Che vai via sempre.- il padre sospirò dal naso.

-Tesoro te l’ho già detto, questo è il mio lavoro. Ci sono persone che hanno bisogno di aiuto.-

-Può aiutarli qualcun altro.-

-Non è così semplice.-

-Sì, invece!- alzò la voce la figlia, picchiando con un piede sul pavimento mentre lo gridava, truce in volto.

-Ehi, signorina! Che modi sono?-

-Non è giusto. Non sei mai a casa. Vai sempre via.- il suo tono era smorzato, le lacrime non doveva essere molto lontane.

-Vedrò di tornare presto.-

-No!- urlò ancora pestando i piedi.

-Ehi ehi! Cos’è tutto questo baccano? Aaron hanno chiamato i tuoi colleghi, volevano sapere dov’eri.- in quel momento Haley entrò nella stanza, attirata dalle grida della figlia di solito tranquilla; a parte quando litigava con il fratello.

-Adesso vado, grazie.- le rispose il marito in tono calmo, caricandosi il borsone in spalla.

-No! Mamma diglielo tu che non deve andare! Diglielo!- diceva ad alta voce la bambina. I due genitori si guardarono, cercando di comunicare quello che a parole non potevano dire. Haley si inginocchiò all’altezza della figlia.

-Serena, lo sai che il papà per lavoro deve andare via spesso.-

-Sì, ma lui è sempre via.-

-Credimi tesoro, anche lui vorrebbe restare sempre a casa con noi.-

-Davvero?- Serena si voltò verso il padre, gli occhi gonfi di lacrime.

-Certo piccola.- le rispose lui.

-E allora resta. Ti prego papino, non andare.- e gli afferrò una mano tra le proprie minuscole, con fare implorante.

-Non posso piccola, non è così che funziona.- le disse mentre le stringeva le manine in quella che voleva essere una stretta rassicurante.

-Ho fatto qualcosa di sbagliato? Sono stata cattiva?-

-Certo che no, amore.- rispose Haley.

Il telefonino di Hotch prese a suonare, era la squadra.

-Non litigherò più con Jack te lo prometto, ma resta qui.-

-Chi era?- domandò Haley. Serena si sentiva inutile, ignorata, nessuno la ascoltava. Perché non la ascoltavano? Perché il suo papà non le dava retta? Perché i suoi colleghi continuavano a chiamarlo? Era lei la sua principessa non loro.

-I ragazzi, devo andare.- tagliò corto Aaron, attraversando la stanza.

-Noo! Papà non andare! NON ANDARE!- ma nessuno sembrava volerla ascoltare.

Lo seguì fino alle scale, il padre scese, lei rimase in cima mentre lui faceva finta di niente. Se era arrabbiata? Eccome se lo era. Mai stata così tanto arrabbiata con il suo papà come in quel momento.

-TI ODIO! Vai via! Non ti voglio più vedere! Non ti voglio più vedere!- poi scappò in camera sua sbattendo la porta.

Haley ed Aaron si scambiarono uno sguardo carico di comprensione e rammarico, sapevano che prima o poi sarebbe dovuto accadere, non era stato piacevole ma un giorno avrebbe capito.
Serena era seduta in parte alla finestra ancora arrabbiata, le lacrime continuavano a scendere senza più fermarsi. Come aveva potuto suo padre andare al lavoro anziché restare con lei? Non capiva quanto lei avesse bisogno di lui? Osservò la sua macchina allontanarsi, pensando a quando sarebbe tornato. Aveva detto che avrebbe fatto presto, lo aveva promesso. Il tempo di vedere la macchina sparire oltre la curva e la porta della sua camera si aprì. Serena portò lo sguardo sul viso della madre.

-Perché è andato via?-

-Perché ci sono delle persone che hanno bisogno di lui.-

-E noi? Anche noi abbiamo bisogno di lui. Non ci vuole più bene?-

-No tesoro, quello no. Papà ci vuole un mondo di bene, a tutti noi. Il fatto è che il suo lavoro è complicato. Ma non devi mai dubitare del bene che ci vuole.-

Serena tornò a guardare fuori dalla finestra senza dire nulla. Haley si avviò verso la porta, felice almeno che le acque si fossero calmate. Ma prima che potesse uscire…

-Mamma?- tornò a voltarsi a guardare la figlia –Non è vero che lo odio.- Haley sorrise, nascondendo le lacrime che anche lei si era lasciata sfuggire.

-Lo so tesoro, lo so.-

(FINE FLASHBACK)

 
-Mi dispiace.- la voce di JJ mi giunse nitida e chiara, mentre ancora i miei occhi rivivevano quella scena.

-Quella fu la prima volta in cui credetti veramente che mio padre volesse più bene a voi che alla sua vera famiglia.- dissi di rimando, incrociando finalmente lo sguardo con quello cristallino della mia collega.

-Sai Serena, conosco Hotch da prima che tu e Jack nasceste. È vero, è stato un punto di riferimento per tutti noi, me compresa. Forse il paragone ti sembrerà un po’ ortodosso, ma è stato più di un semplice capo, si è comportato come un padre con la propria famiglia. Con gli anni questo lavoro ha obbligato ciascuno di noi a uscire allo scoperto, a fare i conti con il proprio passato. E Hotch era lì, a darci una mano, lo è sempre stato. Ma non ha mai, e dico mai, confuso l’affetto per i colleghi con l’amore per la propria famiglia.- ed eccola, la leonessa che tirava fuori gli artigli –Io c’ero quando tua madre è morta e tu e Jack eravate solo dei bambini. Io c’ero quando è morto Jack e tu ancora non riuscivi a capire cosa fosse successo. Io c’ero quando tuo padre ha preso la difficile decisione di non averti accanto ogni giorno della sua vita. E credimi se ti dico che neanche per lui è stato facile.- un sorriso triste e comprensivo mi si disegnò sulle labbra.

-Provi a spiegarlo ad una bambina di quattro anni.- anche JJ vacillò, di certo non si era aspettata che entrando con me in quel bagno sarebbe stata catapultata insieme a me nel mio passato. Presi un lungo respiro.

-Quando quella volta mio padre tornò a casa ebbi paura della sua reazione, che potesse ancora avercela con me. Ma lui era contento, come sempre. Ed io ero felice che lui fosse tornato; aveva mantenuto la promessa.-…-Non gli chiesi mai scusa per quello che agli avevo detto il giorno della partenza. Non ne facemmo più parola.-

-Ma tu non te lo sei mai perdonato.- concluse JJ. Mi sfuggì un sorriso ironico.

-Già. Sai JJ, non è mai…stato facile, per nessuno di noi. Dopo tutti i litigi che ebbe con mia madre, dopo tutte le volte che l’ho visto uscire da quella porta per rientrare dopo giorni…o settimane. Avrei dovuto capirlo, ma ero troppo piccola.-

-Eri solo una bambina, nessuno avrebbe potuto aspettarsi nulla di diverso da te.- altro sorriso amaro.

-Non hai idea di quante volte abbia sentito queste parole: da mia madre, da mio padre, mia zia, gli agenti…tutti. Chiunque conosca anche in minima parte il mio passato ha sempre detto la stessa cosa. Eppure, per un qualche assurdo motivo, non mi è sufficiente. Non riesce a farmi star meglio in alcun modo.-

-Probabilmente per te non è abbastanza come sicurezza. Vorresti una qualche prova in più.-

-E’ quello che ho sempre pensato. Sono andata avanti con la speranza che sarei riuscita a trovare le risposte che mi servivano. Il fatto è che quelle risposte non le ho mai trovate, neanche adesso. Mi era rimasto solo un padre sempre più assente.-

Il silenzio tra noi fu decisivo, eravamo giunti alla conclusione di quella discussione; e a me spettava l’ultima parola.

-Mi hai chiesto se penso davvero quello che ho detto. In parte. Era anche ciò che l’S.I. voleva sentirsi dire. Se voglio vedere mio padre morto? Questo non glielo permetterò. Nessuno farà del male a mio padre.-

Non ero mai stata decisa come in quel momento.
 
“Comunque andare perché ferma non so
Stare
In piedi a notte fonda sai che mi farò
Trovare
Non mi importa se brucio i secondi le ore.
E voglio sperare quando non c’è più niente da fare
Voglio esser migliore finchè ci sei tu
E perché ci sei tu da amare.
Dimmi se mi vedi e cosa vedi
Mentre ti sorrido io coi miei difetti ho
Radunato paure e desideri”

 
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Capitolo 11
*** Capitolo 10 ***


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Capitolo 10

 

BAU TEAM

JJ raggiunse i compagni ancora radunati nell’openspace, le loro espressioni erano visibilmente tese: Derek era appoggiato al bordo del tavolo, le braccia incrociate e il viso corrucciato (indubbiamente ancora adirato con Serena); Penelope, seduta al medesimo tavolo, sembrava non sapere che pesci pigliare mentre lo sguardo vagava spaurito sulle sue unghie smaltate; Spencer invece aveva un’espressione persa, un bambino sperduto in un bosco, le braccia incrociate all’altezza del petto come Derek, ma al contrario suo per crearsi una barriera contro tutti quegli attacchi che la sua emotività stava subendo nelle ultime ore; Emily, anch’ella in piedi, era semplicemente provata da tutta quella faccenda che continuava ad evolversi ma di cui mai si scorgeva la fine; David era l’unico che tentava di non lasciarsi coinvolgere dai propri pensieri e dalle proprie opinioni, senza Hotch era lui il pilastro della squadra. JJ si sentì quasi un’intrusa quando fece il suo ingresso, era entrata in quel bagno per capire e avere informazioni, magari anche per arrabbiarsi. Ma mai si sarebbe aspettata di venire travolta da una marea di ricordi, paure e decisioni. Serena era adirata con Hotch più di quanto tutti loro potessero essersi immaginati, ma al contempo aveva manifestato una forza d’animo nel volerlo salvare, nel volerlo ritrovare che le avevano gonfiato il cuore di commozione.Tutti loro avevano passato ogni singolo giorno della loro vita accanto a Hotch, risolvendo casi su casi, da quelli più semplici a quelli più raccapriccianti. In un qualche modo avevano pensato che questo potesse renderli più vicini a lui di quanto Serena potesse essere. Tutti, nessuno escluso, nella propria mente lo avevano pensato. Che stupidi! Si erano lasciati coinvolgere dalla paura e adesso questa li stava mettendo l’uno contro l’altro. Serena in quel bagno le aveva mostrato le sue debolezze ma le aveva anche dimostrato di saper reagire; la stessa convinzione, la stessa luce negli occhi che illuminava quelli di Hotch durante un caso particolarmente complicato. Loro l’avevano trattata come una testimone qualunque, ma lei non era una persona qualunque, lei era la figlia di Hotch, lei era l’unica persona con abbastanza determinazione per poter sostenere anche loro in quella ricerca; perché un figlio non si arrende mai. L’S.I. aveva fatto un errore di calcolo: Serena e Hotch erano deboli l’uno contro l’altra, me lei era anche l’unica in grado di mettergli i bastoni tra le ruote.

-Come sta?- fu Penelope a spezzare quel silenzio e il corso dei suoi pensieri. Gli occhi di tutti si puntarono su di lei. La bionda si costrinse a sorridere con fare rassicurante, come suo solito.

-E’ esplosa. Non c’è da stupirsi, questa situazione sta mettendo a dura prova i nervi di tutti.-

-Non scusarla JJ. Quello che ha detto…- Derek scosse la testa furioso –Non ha seguito le nostre indicazioni. Ha messo a repentaglio l’intera operazione. Ha permesso a McGrant di manipolarla. Non sono sicuro che possiamo ancora fidarci di lei.-

JJ si limitò ad annuire, facendo un respiro profondo per mantenere la calma. Quelle parole facevano male, ma come biasimarlo? Lui in fin dei conti non poteva sapere quello che le era stato detto.

-Non possiamo dare a lei tutta la colpa, l’S.I. ha dimostrato di saperci fare. Era calmo e sapeva cosa dire e in che momento.- intervenne David.

-Perdonami Rossi, ma non sono d’accordo. Quello è suo padre.- un silenzio agghiacciante si frappose fra tutti loro; non era il momento di mettersi a litigare tra loro. Ci pensò Spencer a riportare la discussione ad un livello normale.

-Garcia ha rintracciato la telefonata.- finalmente qualcosa di utile!

-Ottimo, anche se secondo Serena non avrebbe fatto molta differenza. Come ha detto l’S.I.: vuole che ci sia anche lei con lui.- disse JJ; Derek fece un sorrisetto ironico, quella telefonata proprio non riusciva a digerirla. Non era il tipo da fidarsi di chiunque, per lui la fiducia andava guadagnata e dopo quella telefonata quella ragazzina aveva perso tutti i punti che aveva accumulato.

-Senza di lei non può realizzare la sua fantasia, ecco perché ha detto quelle cose.- disse anche Emily, riuscendo a fare un collegamento fra le due cose.

-Ma nessuno di voi ha pensato agli effetti collaterali? E se invece l’S.I. fosse stato scatenato?-

-Che vuoi dire?- domandò Penelope terrorizzata.

-Che magari lui si è divertito, si è eccitato alle parole di Serena e adesso, per divertirsi un po’, magari sta tagliuzzando Hotch.- fu David a riportare la calma tra le parti.

-Non ne sono convinto. Ovviamente c’è sempre una probabilità  di sbagliare, ma alla luce dei fatti credo che Serena possa avere ragione. L’S.I. non ha fatto tanta fatica ad aspettarla per poi buttare tutto all’aria.-

-Allora, adesso cosa facciamo?- domandò Spencer. Rossi sospirò.

-Aspettiamo la prossima chiamata dell’S.I.-

 

***

“Non scappare dai miei sguardi

Non possono inseguirti, non voltarti dai

E forse capirai, quanto vali

Potrei darti il mondo”

 

La macchina scivolava sull’asfalto con fare tranquillo, le case con giardino si susseguivano familiari, conosceva quel posto molto bene. Il sole batteva senza pietà sui finestrini facendolo sudare; era una splendida giornata. Eppure c’era qualcosa di sbagliato: lui era stato rapito, lui non avrebbe dovuto trovarsi lì; quindi, come c’era arrivato?

-Aaron, stai bene?-

Un tuffo al cuore. Come uno sparo. La mano destra stringeva spasmodicamente il volante, la sinistra il cellulare all’orecchio; nemmeno si era accorto di quello che stava succedendo attorno a lui. Ma quella voce…quella voce che da così tanto tempo non sentiva, l’avrebbe riconosciuta ovunque. Era consapevole che non era reale, niente lo era: ne lei, ne la macchina, quella situazione, tantomeno lui. Sapeva che stava rivisitando mentalmente il passato, ma il brutto dei sogni è che non puoi scegliere, puoi solo viverli. Non era un ricordo piacevole, ma quella voce che da anni non chiamava più il suo nome…poterla risentire così nitida, fu come una sensazione di vuoto; Haley.

-Perfettamente.-

Si sentì rispondere in tono falsamente calmo; ricordava alla perfezione l’ansia di quel giorno. Aveva dovuto mantenere il controllo, malgrado la voce sorpresa e al contempo confusa di sua moglie.

-Ma…lui ha detto…- quell’attimo in cui capì che anche lei aveva afferrato la gravità della situazione, un brivido freddo gli era corso per tutto il corpo –Oh Aaron!-

-Può sentirci, vero?-

-Sì. Sapessi quanto mi dispiace.-

-Haley, non mostrati debole. Niente paura.-

-Va bene.- la sentì muoversi vicino al microfono, probabilmente mentre si passava una mano sugli occhi per farsi forza. Strinse il volante con più forza, non sarebbe dovuta andare così, lei aveva bisogno di lui, ma lui come sempre non c’era.

Sentì il rimorso rosicare nella sua coscienza attuale.

-Aaron Aaron Aaron. Il tuo matrimonio è fallito perché sei un bugiardo.- anche la voce di Foyet gli parve più nitida che mai, sebbene lo avesse ucciso con le proprie mani. Risentirlo gli provocò la stessa sensazione di allora, la prova di quanto il nemico fosse vicino e lui lontano.

-Non dargli retta, Haley!- i suoi vani tentativi di colmare quell’assenza, come se fosse stato veramente possibile. Ma ora come allora, era Foyet ad avere in mano la situazione.

-Vuole che tu abbia paura.- doveva assolutamente proteggere Haley da lui, prendere tempo, arrivare da lei e salvarla.

-Le hai mai spiegato il perché di tutto questo? Le hai detto dell’accordo?- no, certo che non lo aveva fatto. Non avrebbe mai immaginato che sarebbero arrivati a questo punto. Solo il cielo sapeva quanto volte si era maledetto per non averlo fatto. E tutte le volte si domandava: e se l’avesse fato sarebbe cambiato qualcosa? Haley sarebbe ancora con lui? Ma non riusciva mai a trovare una risposta.

-Sta cercando di farti arrabbiare.- disse, e sapeva bene che ne avrebbe avuto tutti i buoni motivi, ma ora le serviva lucida, malgrado tutto lei si era sempre fidata di lui.

-Ne avrebbe motivo sta per m-o-r-i-r-e per colpa del tuo ego.- quelle parole facevano male più di qualunque minaccia. Conosceva il suo avversario e sapeva che non scherzava e la sua calma ne era un’ulteriore prova; e lui era ancora troppo lontano. La paura di non arrivare in tempo si faceva di minuti in minuto sempre più concreta, mozzandogli il respiro.

-Ignoralo Haley.- parlare gli serviva anche per allentare quella tensione. Era al corrente che tutta la sua squadra potesse sentirlo, eppure non si era mai sentito tanto umano come in quel momento.

-Sono sicuro che non vuoi che sappia questo dettaglio.- lo sentì sogghignare. Eccola la batosta. –Doveva solo smettere di cercarmi e lei non sarebbe in questo guaio.- lo sentì dire a sua moglie.

-Non reagire.- aveva paura, tanta. Sentiva che anche la voce adesso lo stava tradendo malgrado tutti i suoi sforzi. Haley era tra due fuochi, ma il suo, quello che l’avrebbe salvata, era quello più debole. Se ne rendeva conto; stava perdendo.

-Mi dici di che sta parlando?- la voce di sua moglie era ferma, ma non arrabbiata con lui. Si fidava di lui, voleva solo che le spiegasse, ma come fare? Non era un argomento facile e di certo il momento non era dei migliori. Messo alle strette Hotch dovette prendere una decisione per entrambi, mentre sentiva gli occhi inumidirglisi e il senso di colpa pressarlo. Già, perché tutto quello era opera sua.

-Dì a Jack che voglio che lavori al caso.- fu quello che la sua bocca disse. Da quanto tempo non pronunciava più quel nome? Gli mancavano così tanto. Entrambi se ne erano andati troppo presto.

Sapeva che Haley non avrebbe capito, nessuno a parte lui e i suoi figli. Glielo aveva insegnato nel caso fosse successo qualcosa di brutto, sperando sempre di non doverlo mai usare. Fino a quel momento.

-Come?- Haley era chiaramente confusa: erano in una situazione di pericolo e suo marito voleva giocare con suo figlio?

-Dì a Jack che voglio che lavori al caso!- insistette con maggior convinzione Aaron.

Foyet aveva intenzione di uccidere sua moglie e Aaron dubitava che avrebbe lasciato vivere i figli. Non poteva parlare liberamente, ma se c’era anche solo l’opportunità  di salvare entrambi o i bambini tanto valeva tentare. Non si sarebbe arreso, non così facilmente.

-Jack, hai sentito?- sentì dire con voce dolce al suo primogenito, probabilmente per non spaventarlo.

-Ciao papino.- delle lacrime solitarie gli sfuggirono dagli occhi all’udire la voce del figlio scomparso. Voleva svegliarsi, lo avrebbe tanto voluto. Ma qualcosa lo teneva fermamente ancorato a quel sedile.

-Ciao piccolo.-

-Questo Giorgio è una persona cattiva?- il suo piccolo ometto.

-Sì, è cattiva. Ma Jack, devi lavorare a questo caso con me. Mi hai capito? Devi lavorare a questo caso con me.- pregò intensamente, con tutta la forza che aveva in corpo, che capisse.

-Okay papino.- Aaron rilasciò un lungo, silenzioso, respiro di sollievo. Un passo era fatto. Jack e Serena sarebbero stati al sicuro almeno un altro po’.

-Ora abbraccia la mamma per me.- lo sentì muoversi, il tessuto che sfregava contro il cellulare; avrebbe tanto voluto esserci anche lui in quell’abbraccio.

-Mamma, mi stringi troppo forte.-

-Scusami tesoro.- quanto era frustrante dover assistere per telefono a tutto quello; e non era ancora finita. Solo una partita era stata vinta, ma la battaglia era ancora aperta.

-Perché sei triste?- domandò Jack alla madre, con l’innocenza che solo un bambino di cinque anni può avere.

-Perché ti voglio un mondo di bene.- Aaron sentì la moglie singhiozzare prima di rispondere, era una donna forte lo sapeva e in quel momento era orgoglioso di come stava gestendo al meglio quella situazione.

-Mamma devo andare a lavorare al caso.-

-Certo.- sentì Jack allontanarsi da Haley.

-Serena, ti va di darmi un abbraccio anche tu prima di andare?- altro strofinamento di tessuti mentre sua figlia abbracciava la mamma. La sua silenziosa bimba.

-Andiamo Serena.- sentì brontolare Jack poco lontano. Aaron non era riuscito a salutare Serena e sperò ardentemente di poterla riabbracciare più tardi, quando tutto fosse finito.

-Sono così carini.- disse Foyet rompendo quel momento magico degli Hotchner.

-Sembra un piccolo agente federale.- Aaron sentì nuovamente Haley prendere dei profondi respiri, tentando di mantenere la calma come lui le aveva detto poco prima –Arrivo subito bambini.-

Il cuore di Aaron mancò un battito, pregò di non aver accelerato i tempi.

-Si è allontanato?- domandò ad Haley.

-Sì.- Haley si asciugò le lacrime.

-Tu sei forte Haley. Sei sempre stata più forte di me.- doveva dirglielo, perché non glielo aveva mai detto, perché era la verità, perché entrambi in quel momento avevano paura, perché ora più che mai entrambi sapevano di aver bisogno l’uno dell’altra. Aaron sentì qualcuno muoversi e capì subito che non si trattava di Haley.

-Arriverai presto vero?- Aaron calcò il piede sull’acceleratore.

-Non ti doveva succedere questo.- gli occhi sempre più pieni di lacrime, la voce gli tremava.

-A te neppure.- ed ecco la prova che si erano sempre amati, malgrado tutto.

-Mi dispiace per tutto.- Aaron non si curò più di chi lo stava a sentire, se la sua squadra o Foyet, doveva dirlo ad Haley, essere sicuro che capisse che comunque per lui la famiglia veniva sempre prima di tutto, sebbene non fosse sempre stato bravissimo a dimostrarlo. Doveva farle capire quanto l’amava, perché lui non aveva mai e poi mai smesso di amarla, nemmeno dopo che se ne era andata, nutrendo la speranza che prima o poi sarebbe tornata da lui. Ora invece stava per perderla per sempre.

-Promettimi che gli racconterai come ci siamo conosciuti.- iniziò Haley, riferendosi ai loro figli –E come mi facevi ridere.-

-Haley…- le lacrime adesso gli rigavano copiose le guance.

-Devono sapere che non sei sempre stato così serio, Aaron. Io…- la voce rotta dal piano -…voglio che credano nell’amore, perché…è l’amore la cosa più importante.- adesso nemmeno lei si tratteneva più –Ma questo devi dimostrarglielo. Promettimelo.-

-Te lo prometto.- l’attimo di silenzio durò un’eternità e le parole…fu uno sforzo disumano pronunciarle, il cuore pesante come un macigno. Aaron sentì Haley respirare affannosamente, velocemente, i secondi si facevano lunghi e inesorabili…

BANG…BANG…BANG

E i secondi continuarono lunghi e inesorabili, dolorosi e sanguinanti più che mai.

Hotch gettò con forza il cellulare lontano da sé, come se questo potesse bastare per tenere il dolore lontano da lui. Era un ricordo all’interno di un sogno, ma faceva male uguale, adesso come allora. Certe ferite non guariscono mai, smettono solo di sanguinare.

-Basta! Basta! Per favore…- voleva svegliarsi, ma non gli fu permesso. Era come essere dietro al vetro di una sala interrogatori dove puoi vedere e sentire tutto e tutti, ma nessuno può vedere e sentire te.

Da quel momento le immagini presero a scorrere più velocemente, soffermandosi solo su determinati momenti: lui che teneva Haley tra le braccia dopo averla trovata senza vita sul pavimento della loro camera da letto in un lago di sangue, lui che osservava i suoi figli sani e salvi venire scortati fuori di casa dalla polizia, lui che seduto su una poltrona sistemava la cravatta a Jack per il funerale della madre (una delle poche volte in  cui il bambino aveva la stessa serietà del padre), lui e i suoi figli che partecipavano al funerale di Haley, lui che prendeva in braccio prima Jack e poi Serena per deporre una rosa bianca sulla bara di lucido legno nero.

Se nei sogni si potesse piangere, in quel momento lo avrebbe fatto. Quella era solo una piccola parte del suo passato che durante il giorno fingeva non esistesse, tirando avanti. Poi quella stessa parte veniva a riscuotere il suo debito durante la notte. Quelli erano i suoi mostri. Eppure era anche l’unico modo che aveva per ricordare sua moglie e suo figlio nitidamente, con il terrore costante di dimenticarli.

 

POV HOTCH

Aprii gli occhi con fatica, lieto di essermi finalmente destato. Le palpebre non mi erano mai sembrate così pesanti, gli occhi li sentivo gonfi e le guance tiravano. Non ci impiegai molto a capire che tutto era dovuto alle molteplici lacrime che avevo versato fino a non averne più, fino a crollare esausto. Ecco perché mi pareva di avere la testa avvolta nella bambagia, necessitavo ancora di un po’ di tempo per riacquistare il controllo di me. Presi un respiro profondo e scoprii che mi doleva il petto, ignoravo se per le percosse ricevute o il dolore emotivo. Probabilmente un po’ era anche dovuto al sogno appena avuto. Era da anni che non mi appariva così reale, così presente. Forse, tutto quello che stava succedendo, lo aveva riportato alla luce in tutta la sua crudeltà. Ricordavo le prima notti, quando mi svegliavo con gli occhi umidi di pianto, segno di una notte travagliata. Ma poi ero riuscito a passare oltre, a conviverci; fino a quel momento. Fu nel cercare di fare chiarezza che anche i ricordi recenti riaffiorarono nitidi come quei tre colpi di pistola.

” questo aveva risposto all’S.I., non una ma ben due volte.

“Mi sono sentita sola. Abbandonata. Come se non mi volesse più bene.” Quelle parole erano come un martello che batteva su un’incudine. Contrassi la mandibola e strinsi i pugni, non potevo arrendermi. Eppure ero sulla buona strada per il fallimento. Avevo fallito con Haley, con Jack e adesso era la mia stessa figlia a dirmelo. Ogni volta che la mia famiglia aveva avuto bisogno di me, io non ero presente, come in quell’occasione, non potevo essere di alcun aiuto.

Mi accorsi nel contrarre i muscoli delle braccia che non ero più legato alla sedia, tantomeno al letto. Era una piattaforma fatta a croce, le gambe e le braccai legate con delle robuste cinghie in cuoio, una anche attorno alla gola. Almeno ero in posizione eretta.

-Finalmente ci siamo svegliati! Allora amico, come andiamo?- l’uomo in nero entrò nel mio campo visivo in quella semioscurità; non avrei saputo dire se fosse appena arrivato o se fosse sempre stato lì, fatto stava che non me ne ero accorto. Le mie difese iniziavano a sgretolarsi e questo non era un buon segno.

-Io non sono tuo amico.- cercai di mantenere un tono distaccato, il segreto era sempre quello: non mostrarsi debole.

-Peccato. Potremmo esserlo. Sono convinto che saremmo un’ottima coppia noi due.- disse con tono baldanzoso, prendendomi chiaramente in giro. Lo fulminai con lo sguardo. No, io non mi stavo divertendo per niente; anzi, quella storia era durata fin troppo a lungo. E lui cosa faceva? Rideva. Rideva di me. Ai suoi occhi dovevo sembrare ridicolo: legato come un salame, ferito sia fisicamente che mentalmente, e questo lui lo sapeva bene. Mi scrutò a lungo, cercando i segni che questa lunga permanenza con lui mi stava procurando. Se ero ancora in piedi lo dovevo alla mia resistenza fisica e la mia forza d’animo. Lo avevo promesso ad Haley, anche se nostra figlia mi odiava io dovevo salvarla.

-Finalmente inizi a comprendere, vero?- i suoi piccoli occhi neri luccicavano di perversione, godeva della sofferenza altrui. –Dopo tutta una lunga e brillante carriera, dopo tutto quello che hai dovuto passare, avresti potuto cambiare le cose. Ma non l’hai fatto.- il suo sorriso si tramutò in un’espressione dura. Contrassi i muscoli, preparandomi ad una mossa improvvisa; quell’individuo era davvero pericoloso. –E, adesso, la tua ultima nave ha levato l’ancora. Se ne è andata…lasciandoti affogare.- la cinghia attorno al collo mi parve stringersi con maggior forza; mi ero sporto in avanti come un lupo braccato dal cacciatore che tenta ancora di mordere. –Eh, se solo l’avessi afferrata in tempo.-

-Sei solo uno stupido se credi veramente a quello che ti è stato detto. Ti stanno prendendo in giro.- parlai di botto, se fossi riuscito a confonderlo potevo guadagnare ancora un po’ di tempo. Per cosa? Ancora non ne ero sicuro. Vidi i suo occhi tremolare d’incertezza, non preparato ad una mia reazione, non ad una simile. Forse sperava che sarei crollato non appena avessi risentito la voce di mia figlia. Serena. Le sue parole tornarono ad urlarmi nelle orecchie con forza, se avessi avuto le mani libere me le sarei coperte, anche se dubitavo sarebbe servito a qualcosa. No, non dovevo pensarci adesso! Dovevo rimanere concentrato sull’uomo davanti a me. Mai mostrare segni di debolezza davanti all’avversario. Come in risposta ai miei pensieri, tornò a sorridere giulivo.

-No, agente Hotchner. Questa volta sei tu a sbagliare. Anche se adesso ti risulta difficile crederlo, tua figlia non è qui per aiutarti.- portò il suo viso a poca distanza dal mio –E’ qui per ucciderti.-

Strinsi i denti con tanta forza che temetti di romperli. Poteva mai essere? E se avesse avuto ragione? Serena era arrabbiata con me, ma veramente avrebbe messo da parte tutti i nostri ricordi felici, il nostro legame, per uccidermi? Io avevo ucciso Foyet per proteggere i miei figli, ma anche per vendetta. Serena mi avrebbe ucciso per lo stesso motivo? Anche se ero suo padre? Mi stavo davvero solo illudendo?

-Nell’attesa di scoprire la verità, che ne dici di ammazzare un po’ il tempo?- venni riportato al presente da un poderoso pugno nello stomaco. Non riuscii a reprimere un gemito di dolore. Mi sarei piegato in due, se solo avessi potuto. A quel pugno se ne sommarono tanti da perderne il conto. Questa volta non mi limitai a sentire il sapore del sangue: la mia bocca, il mento, la camicia, avevo chiazze cremisi un po’ ovunque, qualche goccia era persino riuscita a raggiungere il pavimento. Ma quella fu la parte leggera, poi toccò al Taser. Urlai, nessuno a parte lui poteva sentirmi. Ad ogni scarica vedevo il volto di qualcuno: un membro della mia famiglia, della mia squadra. Ognuno di loro era un buon motivo per resistere. Ma solo il cielo poteva sapere quanto faceva male. Poi la voce divenne roca, sempre più bassa, iniziai a perdere contatto con la realtà, semplicemente subivo quella tortura gratuita. Finchè il buio non si richiuse sopra di me e non sentii più nulla.

509-Der-Reaper

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Capitolo 12
*** Capitolo 11 ***


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Capitolo 11

 

POV SERENA

 

Mi ci vollero diversi respiri profondi davanti allo specchio per recuperare la calma necessaria ad affrontare i miei colleghi dall’altra parte della porta. JJ mi aveva preceduta, dandomi il tempo di cui avevo bisogno. Ancora non riuscivo a crederci d’averlo fatto, di essermi lasciata andare come un fiume in piena che rompe i robusti argini della propria diga. Ero esplosa, come una bomba. Ed ora che c’era qualcun altro che condivideva il peso del mio segreto, mi sentivo più leggera, non più obbligata a nascondermi. Sul mio volto erano ancora visibili i segni del pianto, malgrado me lo fossi sciacquata più volte con acqua fredda. Ancora un respiro, raddrizzai la schiena, testa alta, sguardo alla Hotchner ed ero pronta ad affrontarli; perlomeno era quello che speravo.
Erano tutti lì, pensierosi, disposti in cerchio: chi seduto sulla sedia, chi appoggiato alla scrivania, chi in piedi. Appena segnalai la mia presenza con un colpo di tosse (fasullo) i loro sguardi mi catturarono, ponendomi al centro dell’attenzione. Ero abituata a stare in mezzo alla gente, a dire la mia opinione per qualunque cosa, ma in quel momento mi sentii in soggezione come non mai. Difficile dire se ciò fosse dovuto allo sguardo materno di JJ (orami mia confidente), a quello più analitico di Rossi, a quelli confusi di Reid e Penelope, oppure all’occhiata truce di Derek. Sapevo che il bell’imbusto non mi avrebbe perdonato alla svelta e non potevo dargli torto. Mi avvicinai in silenzio, quella tensione era a dir poco imbarazzante e ovviamente toccava a me iniziare.

-Mi dispiace.-

-Mi sembra il minimo.- sbottò Derek interrompendomi, incrociando le braccia all’altezza del petto. I suoi occhi scuri sembravano ardere di collera.

-Mi sono fatta coinvolgere dalla telefonata e dalle parole dell’S.I.. Un comportamento imperdonabile e, per quello che può valere, vi prometto che non capiterà mai più.- nessuno disse nulla e lo interpretai come un invito a continuare –Prima ho parlato con JJ. Non so quanto lei vi abbia riferito ad ogni modo…ho fatto una cazzata. Ho permesso all’S.I. di prendere il controllo delle mie emozioni e credetemi se vi dico che me ne pento amaramente.-

-Non devi dirlo a noi, ma a Hotch.- disse con calma Prentiss. Non mi stava accusando o giudicando, era solo un dato di fatto.

-Lo so. McGrant ha usato questa telefonata per fare del male ad entrambi e ci è riuscito.-

-Quindi cosa pensi di fare?- mi domandò David; ero sotto esame.

-McGrant ci ha usato per indebolire le nostre difese, ha utilizzato il nostro dolore e la nostra rabbia nella speranza di raggiungere il punto di non ritorno. Ma ha fatto male i suoi calcoli, perché  ora lui crede di averci in pugno. Crede che io sarei disposta a tutto pur di fargliela pagare a mio padre, persino collaborare con uno psicopatico come lui. Ma si sbaglia. Perché noi faremo il possibile per ripotare mio padre a casa sano e salvo.- ne ero convinta, ora più che mai.

-Noi?- mi domandò Derek con sguardo diffidente.

-Ho sbagliato e capisco i vostri dubbi nei miei confronti. Non vi chiedo di fidarvi ciecamente di me, ma ho bisogno di aiuto per riportare a casa mio padre vivo. Se non volete farlo per me allora fatelo per lui.-

-Hai già un piano?- chiese ancora David, negai col capo.

-Sicuramente lui si rifarà vivo. Vorrà che lo raggiunga e io farò esattamente come dice.-

-Così non farai altro che fornirgli un altro ostaggio.- mi fece notare Emily.

-E’ me che vuole. Questo ci dovrebbe far guadagnare tempo, a quanto ho capito è uno a cui piace chiacchierare, quindi non mi metterà una pistola in mano chiedendomi semplicemente di premere il grilletto.-

-Piano piano la sua fantasia si sta avverando, non si limiterà a portarla a termine, la farà durare il più a lungo possibile.- David era giunto alla mia stessa conclusione.

-Ma se tu starai al suo gioco, come farai a convincerlo a lasciarvi andare? Una volta dentro noi non potremo fare irruzione finchè lui vi terrà sotto tiro. In caso contrario potrebbe scapparci il morto.- intervenne Derek, questa volta con calma.

-L’S.I. ha dato prova di essere un tipo molto meticoloso e organizzato, ma il fatto che per attuare il suo piano si sia appoggiato ad un detenuto e a Serena mi suggerisce che abbia un controllo precario della situazione.- disse Reid.

-Vai avanti.- gli intimò il supervisore.

-Se le cose dovessero prendere una piega a lui non gradita potrebbe uccidere Hotch all’istante.- al solo udire quelle parole il mio stomaco si attorcigliò in un nodo bello stretto. Quella era un’opzione che non avevo contemplato. Già, perché avrei davvero fatto di tutto per riportare mio padre a casa. Non potevo lasciarlo morire.

-Oppure potrebbe darci tempo sufficiente per contrattaccare.- intervenni io. Sei paia di sguardi mi fissarono interrogativi, quindi mi spiegai –Se riuscissimo a trovare uno stratagemma, qualcosa di inusuale che possa spiazzare lui e allo stesso tempo essere per voi un segnale, potreste irrompere durante il momento di stallo dell’S.I., prima che compia la strage.-

-E’ un piano rischioso.- disse David pensieroso, sospirando.

-Se non dovessimo essere abbastanza veloci potreste morire tutti e due.- aggiunse Derek.

-Ora come ora è l’unico piano che abbiamo. Se ci rifiutassimo di collaborare con lui prima, non sappiamo che reazioni potrebbe avere e chi sarebbe a pagarne le conseguenze: noi, mio padre o qualcun altro.-

-Ad ogni modo, sappiamo che ha necessità di uccidere, ma non lo farà senza Serena. Perciò nel frattempo abbiamo ancora del tempo per farci venire in mente qualche altra idea.- tagliò corto David.

Ci fu un lungo attimo di silenzio, in cui ciascuno di noi pensò a cosa potesse esserci sfuggito. A me venne in mente solo una domanda da fare, che fino a quel momento non mi era venuta in mente di porre.

-Mio padre è stato rapito in casa, giusto?-

-E’ corretto.- rispose David.

-A vostro parere, quanto gravemente è ferito?- vidi David scambiarsi un fugace sguardo con Derek; ne dedussi che fossero stati loro a recarsi sulla scena del rapimento. Dall’espressione non si aspettavano questa mia domanda, probabilmente ritenendo di non poter fare affidamento su di lui durante lo svolgimento dell’operazione.

-Beh, a casa sua c’erano delle chiazze di sangue, ma non siamo certi appartengano tutte a Hotch. È stata una colluttazione corpo a corpo, ritengo che entrambi abbiano subito  più lividi che vere e proprie ferite.-

-Anatomicamente, se l’S.I. vuole ingannare l’attesa torturando Hotch ma senza ucciderlo, non può avergli inferto ferite troppo gravi. Si deve risparmiare il pezzo migliore per la fine.- espose Spencer.

-Sì, ma è ore che è rinchiuso con lui. Non osò immaginare cosa possa avergli fatto.- commentò Emily.

-Quando l’ho sentito al telefono mi sembrava lucido.- dissi non troppo convinta.

-Al di là di come è andata la telefonata di poco fa, McGrant starà facendo in modo che il suo piano fili liscio, questo vuol dire non solo bloccare Hotch come minaccia fisica, ma anche evitare che quando loro due si incontrino lui possa metterla contro l’S.I.- disse Derek.

-Pensi gli stia facendo il lavaggio del cervello?- il volto di Penelope mentre poneva la domanda era una maschera di ribrezzo.

-Lo vorrà far sentire in colpa, distrutto dal rimorso. Lo convincerà che tutto ciò che è accaduto alla sua famiglia sia colpa sua. Che non ha saputo affrontare le difficoltà, che ha abbandonato la sua unica figlia.- le rispose David. In quel momento mi sentii un vero schifo.

-E io non ho fatto altro che rincarare le dose.- dissi amaramente, disgustata da me stessa.

-Chiunque può fare degli errori. L’importante è rimediare.- mi voltai verso Derek; sul serio aveva appena detto quelle cose? E pensare che poco fa sembrava volermi incenerire. Comunque aveva ragione, quella era la mia occasione per rimediare.

-Serena, c’è un motivo preciso per cui hai sposto quella domanda?- domandò JJ.

-A dire la verità mi stavo chiedendo quanto mio padre, nel nostro piano, potesse esserci di aiuto o piuttosto un peso.- le risposi, anche questa volta non troppo sicura di me.

-Meglio non soffermarci troppo su questo aspetto. Per quello che sappiamo Hotch potrebbe stare in ottima salute, come potrebbe invece essere ferito piuttosto gravemente. Visto che ci sono in ballo delle vite preferisco ideare un piano certo, piuttosto di uno con troppe incognite.- decise David per me; meglio così, una responsabilità in meno che gravava sulle mie spalle. Per non contare che aveva perfettamente ragione.

-Quindi è deciso? Andrà lei?- chiese conferma Derek.

Io e Rossi ci scambiamo un breve ed intenso sguardo.

-Sì, anche perché non abbiamo alternative.- rispose David. Io avrei anche aggiunto che non avrei permesso a nessun altro di prendere il mio posto in quella storia, non dopo essere arrivata fino a questo punto; ma pensai bene di tenermelo per me.

-E adesso?- domandò Reid.

-Aspettiamo, mio giovane amico.- sospirò il capo squadra –Aspettiamo.-

-Ah, avrei bisogno di una cortesia, se per voi non è un problema. Vorrei perquisire l’ufficio di mio padre, in modo da ricavarne il più possibile su di lui, su com’è adesso, in cosa è cambiato, i suoi punti di forza, insomma cose così.- tutti mi guardarono come se fossi un alieno, come se servissero ulteriori informazioni; mi venne in mente solo una cosa da dire –E’ tanto che non ci parliamo e quando saremo faccia a faccia voglio essere il più possibile preparata.-

Ci fu un attimo di silenzio, prima che l’agente Rossi mi desse il via libera.

-Non credo che Hotch avrebbe qualcosa in contrario se permettessimo a sua figlia di dare un’occhiata tra le sue cose.-

 

Appena varcai la soglia della stanza quel familiare profumo di casa mi penetrò nelle narici. Mi ricordavo poche ore pima quando mi ero seduta sulla poltrona dietro la scrivania, ma non ci avevo badato quando ero entrata la prima volta, forse troppo presa dai miei pensieri, dalla stanchezza. Assaporai quell’odore finchè non ne divenni parte, lasciando che i miei vestiti se ne impregnassero. Caspita, quanto mi era mancato! Mi chiusi la porta alle spalle, concedendomi un po’ di privacy, restando in quella penombra. I raggi del sole filtravano tra le righe delle tendine abbassate, ma non chiuse del tutto. Tutto quell’ordine non mi era nuovo, anche a casa tutte le sue cose erano sempre, rigorosamente, in ordine. Ogni cosa aveva il suo posto, anche le fotografie di famiglia sulla scrivania non erano disposte a caso. In base a quello che doveva/voleva fare, sapeva dove trovare tutto quello di cui aveva bisogno; un metodo efficace per non mescolare la vita privata con il lavoro e al contempo dedicare la giusta attenzione ad entrambi.

Come avevo immaginato poco prima, i libri sugli scaffali dietro la scrivania erano tutti volumi complicatissimi e costosi. Quando faceva l’avvocato di sicuro mio padre li aveva consultati spesso. Tuttavia dubitavo continuasse a farlo, non con tutti i casi a cui la sua unità era continuamente sottoposta. Non ne avrebbe avuto il tempo materiale. Decisi quindi di dedicarmi alla scrivania. Mio padre non era uno da lasciare in giro tracce di sé, era un ottimo profiler e sicuramente, col tempo, aveva imparato a costruire e irrobustire la sua corazza. Ad ogni modo era pur sempre un uomo e come tale aveva i suoi punti deboli e le sue sicurezze. Con tutto quello che aveva passato dubitavo avrebbe custodito qualcosa di importante a casa propria, Haley Hotchner era stata assassinata nella sua casa. No, se qualcuno vi fosse entrato adesso ne sarebbe uscito a mani vuote. Tenersi qualcosa addosso era rischioso, sarebbe bastato un errore, come per l’appunto venire rapiti, e tutto sarebbe finito, tutti quegli anni di fatica e sacrificio buttati al vento. Ma il suo ufficio…vi passava così poco tempo, era così pieno di carte burocratiche, era impossibile che potesse esserci qualcosa di utile. Ma io sapevo che non era così. Per la seconda volta in quella giornata presi posto alla scrivania. Quel posto era quello dove passava la minor parte del suo tempo come quando veniva a trovarmi dalla zia, in quel posto i suoi casi non erano mai entrati, solo la parte burocratica del lavoro ne aveva accesso, di conseguenza questo per lui era il posto più sicuro.

Incominciai ad aprire i cassetti, anche lì tutto era rigorosamente in ordine. Fogli, documenti, agende con numeri di telefono, poi iniziai a trovare qualcosa di interessante. Prima di tutto un libricino rosso, dall’aspetto del tutto anonimo, contenente delle date in scala per mese. Erano tutti gli avvenimenti importanti: compleanni, anniversari, matrimoni e nessuno, nemmeno il più vecchio, era stato cancellato; come una sorta di calendario dei ricordi. Questo mi fece capire che doveva esserci dell’altro, ne ero certa. Appena sotto il ripiano della scrivania, ad altezza stomaco, c’era un cassetto lungo e basso, quasi invisibile se non ci prestava attenzione. Al centro vi era una piccola serratura in metallo; ovviamente era chiuso a chiave. Riaprii con foga i cassetti, alla disperata ricerca della chiave. Avevo tempo, ma non infinito. Alla fine dovetti arrendermi, prevedibile che mio padre l’avesse nascosta in un posto sicuro, così andai di forcina. Non avevo i capelli lunghi, ma l’esperienza scolastica mi aveva insegnato che portare sempre con sé una forcina poteva tornare utile, specialmente quando ti rubavano la chiave dell’armadietto o ti scambiavano il lucchetto. Ci impiegai più del mio solito per aprire il cassetto, ma alla fine questo si arrese e potei scoprire cosa mio padre ci avesse nascosto. Mi stupii non poco quando vidi cosa c’era all’interno. All’apparenza era una tipica cartellina gialla, dove solitamente vari casi venivano fascicolati, ma all’interno vi era tutt’altro di macabre foto e dettagliate scene di omicidio. Diversi fogli bianchi fecero capolino, tutti con grosse e spigolose lettere scritte con pennarelli colorati, a formare parole del tutto sbilenche. E tutti erano firmati “Jack & Serena”. Era passata un’eternità dall’ultima volta che li avevo visti. Quelli erano tutti biglietti di auguri fatti da me e mio fratello per lui, quando ancora andavamo all’asilo. Auguri di buon compleanno, la festa del papà, di tutto e di più c’era. Strampalati disegni di persone mi guardavano sorridendo con una bocca a mezzaluna, salutando con una mano rotonda a quattro dita. Mi ritrovai a sorridere senza rendermene conto, mai avrei pensato che mio padre sarebbe arrivato a portare dei nostri disegni sul lavoro.

Qualcosa di più piccolo scivolò sul pavimento. Non lo avevo notato, nascosto in fondo a tutti quei disegni. Persi un battito quando vidi di cosa si trattava. Poco fa avevo mentalmente criticato mio padre per le due misere foto che aveva scelto da mettere sulla scrivania e come prevedibile avevo agito/pensato d’impulso, senza riflettere. Avevo perso questa scommessa contro di lui. Quella che tenevo tra la mani, con sguardo ancora incredulo, era niente poco di meno che una foto della nostra famiglia; al completo. Eravamo tutti fuori in giardino, c’era il sole e noi indossavamo il vestito della festa, mamma in piedi con le mani appoggiate alle spalle di Jack in piedi davanti a lei, in parte nostro padre con le mani sulle mie di spalle in piedi davanti a lui, mentre io con una mano stringevo quella di mio fratello e con l’altra una di quelle grandi sulle mie spalle. La cosa bella era che tutti e quattro stavamo sorridendo. Curioso, quella foto non la ricordavo eppure dovetti ammettere che era tanto bella. Avevo sottovalutato mio padre, lui non avrebbe mai potuto abbandonarci, tanto meno dimenticarci, ma la paura alle volte fa brutti scherzi e io avevo fatto un errore madornale: avevo dubitato di lui. In quella scrivania avevo trovato più di quello che mi ero immaginata.

Alzai lo sguardo, andandolo a posare sulla foto di mio fratello che giocava a calcio. Fu allora che notai un’altra cosa che mi era sfuggita. Proprio davanti alla fotografia, quasi mimetizzato nell’ombra del tavolo di ciliegio, vi era un anellino in metallo che io conoscevo molto bene. Si trattava della miniatura di una corona da regina. Era da molto tempo che non pensavo più a quel monile. Lo presi con uno strano senso di colpa, come se stessi violando l’intimità di qualcuno. Ricordavo perfettamente il giorno in cui mio padre lo portò a casa dopo un lungo caso durato giorni. Mi aveva detto di averle trovate su una spiaggia, probabilmente portate dalle onde del male. Già, perché si trattava di una coppia di corone, una da re e una da regina e gli avevano ricordato me e lui; Jack a quel tempo era già scomparso. Si era trattato dei primi mesi in cui vivevo con la zia, quando lui ancora veniva a trovarmi abbastanza di frequente. Con quel piccolo dono, quasi inusuale viste le circostanze, mi aveva dimostrato di pensare a me durante i suoi viaggi, che mi voleva bene, ed io ne ero rimasta estasiata, come solo una bambina di nove anni lo può essere di un genitore. In quel momento per me fu il papà migliore del mondo e quando glielo dissi abbracciandolo, mi regalò uno dei suoi sorrisi più belli. Quelle coroncine ci avevano regalato un momento unico. Quando quella sera mi salutò per andare a casa e il giorno dopo partire alla volta di un altro caso, lo fermai tirandolo per una manica e gli dissi di aspettare. Andai in camera, presi la corona della regina e gliela portai. Lui guardò prima l’anellino e poi me con sguardo interrogativo.

-Così ti ricorderai di tornare da me.- gli avevo spiegato. Lui si era accucciato davanti a me con sguardo dolce, ma al contempo triste.

-Tesoro, non potrei mai dimenticarmi di tornare da te.- mi aveva detto semplicemente.

-Non fa niente. Così sarai obbligato a tornare a casa per forza, come un amuleto, sarai invincibile. E poi se sarai triste, quando lo guarderai sarai un po’ più felice pensando a questo momento.-

-Serena…-

-Tutte le volte che partirai per un caso dovrai riportarmela, perché un re e una regina non si possono separare, giusto?- lui sapeva che io sapevo, quello sarebbe stato un amuleto per entrambi, la certezza che almeno noi non ci saremmo persi, perché era quello di cui noi avevamo bisogno.

-D’accordo reginetta.- aveva sorriso, mi aveva fatto una carezza e dato un bacio sulla fronte; poi se ne era andato.

Per l’ennesima volta in quella giornata mi pizzicarono gli occhi, quel ricordo conservava in me ancora un forte sentimento. Anche io quando ero a casa tenevo la mia corona sulla scrivania in camera e quel particolare mi fece sorridere; io e mio padre avevamo avuto la stessa idea. Poi ci riflettei: prima di seguire Reid e Prentiss sul suv ero andata in camera e, tra le altre cose, mi ero messa in tasca la corona del re, quasi senza pensarci. Ma ora aveva un senso. Sarei stata io questa volta ad andare da lui e ricongiungere le due corone.

La porta si aprì facendomi sobbalzare, quasi mi avessero beccata con le mani nel vasetto della nutella. Era Emily, il volto teso e io mi misi subito sull’attenti.

-Il telefono sta squillando.-

Era giunto il momento. Annuii e mi apprestai a seguirla; non prima però di essermi infilata in tasca la corona di mio padre.

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Capitolo 13
*** Capitolo 12 ***


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Capitolo 12

 
POV HOTCH

Tutto era distorto e confuso. Riuscii a sollevare le palpebre in due misere fessure, non ero in grado di fare di meglio. Questa volta l’S.I. si era divertito più del solito, accanendosi su di me con il Taser. Potevo ancora sentire le scariche percorrermi i muscoli, facendomi tremare sul posto in maniera lieve, ma incontrollabile. Gli arti erano diventati solo un mio prolungamento, come il dolore era diventato parte di me. Non mi ero ancora arreso, ma questa agonia stava assumendo tratti decisamente soffocanti, come il fumo che ti scende nei polmoni quando ti trovi bloccato in un incendio. Non riuscivo ad emettere alcun suono, la gola mi pareva graffiata dall’interno; non ne sarei rimasto stupito visto tutto il sangue che il mio aguzzino mi aveva fatto sputare. La vista era leggermente distorta, la luce sul soffitto rendeva tutto della stessa consistenza dei miraggi. Vedevo un’ombra muoversi davanti a me e ne dedussi che dovesse trattarsi di lui. Concentrai quelle pochissime forze recuperate per tentare almeno di capire cosa stesse succedendo. Le parole erano ovattate, distanti, non riuscivo a metterle a fuoco. Più mi sforzavo meno ce la facevo. Sentii le lacrime pizzicarmi gli occhi dalla frustrazione, ma non permisi a nessuna di rigarmi il volto, non ancora. Dovevo stare calmo e avere pazienza, non mi aveva ferito gravemente, quelli erano solo i sintomi delle torture subite, sarebbero passati. Non ci voleva un genio per capire con chi stesse parlando, non avrebbe mai acconsentito a rivelare informazioni a qualcuno che non fosse lei. Deglutii con fatica mentre la immaginavo in piedi dall’altra parte della cornetta. Strinsi gli occhi in una muta preghiera: che non accettasse. Che mandasse a quel paese le sue condizioni, che semplicemente gli dicesse che non aveva alcuna intenzione di vedere l’uomo che l’aveva abbandonata per tutti quegli anni.

Eppure, mentre quelle parole si tramutavano in immagini nella mia mente e il cuore me lo sentivo spezzarsi nel petto senza fare alcun rumore, seppi che le cose non sarebbero andate così. Lei avrebbe accettato le sue condizioni. Lei sarebbe venuta. Mi ritrovai a chiedermi per la milionesima volta perché e ancora non riuscii a darmi una risposta. Davvero voleva uccidermi?
Non lo credevo possibile. Non la mia bambina.

-Verrai da sola e disarmata.- la realtà mi colpì con violenza, come un televisore che viene riacceso dopo essere stato a lungo messo in pausa, così come la voce dell’S.I..

-Disarmata? Pensavo di dovergliela far pagare.- la voce era leggermente distorta dal vivavoce, ma la durezza di quelle parole no, quella era autentica. Tanto da mandarmi un lungo brivido giù per la schiena. L’uomo che parlava con lei rise sinceramente divertito.

-Non ce ne sarà bisogno ma-petite. Ti fornirò io tutto ciò di cui avrai bisogno.- la sua voce era quella di un adulatore che sa come incantare la propria vittima. Mentre mi perdevo nuovamente nelle mie riflessioni, cosa che ultimamente in quella prigione mi capitava spesso, mi persi parte delle indicazioni che le stava fornendo per raggiungerci. Almeno avrei potuto capire dove mi aveva portato. –Esci dalla strada principale e continua per una ventina di chilometri tra i campi. Ad un certo punto troverai delle vecchie baracche abbandonate, una sorta di granaio a due piani è il nostro rifugio.-

-Ho capito.- la sua voce era così fredda e distante, non la ricordavo così. Momento di silenzio.

-Sei sicura di volerlo fare Serena?-

-Sicurissima.- veloce e precisa come lo schiocco di una frusta.

-Non mi stai ingannando, vero?-

-Assolutamente. Anzi, forse quando ci incontreremo ti ringrazierò per quest’opportunità.-

-Bene. Anche perché in caso contrario ucciderò anche te.- altro momento di silenzio.

-Ci vediamo tra poco allora.-

-A tra poco.- e fu lei a chiudere la telefonata. Era così ansiosa di chiudersi nella tana del lupo?

L’S.I. si girò verso di me con gli occhi brillanti di soddisfazione e un sorriso poco rassicurante ad incurvargli la bocca.

-Sta arrivando.-

Suonava molto come una condanna a morte. Io sostenni il suo sguardo con uno serio dei miei.

-Non ci provare.- mi disse semplicemente, probabilmente pensando che volessi tentare ancora una volta di fermarlo. Non ci provai neppure, non sarebbe servito a nulla, ormai eravamo troppo avanti per tornare indietro. Un altro lungo sguardo e poi se ne andò, lasciandomi solo.

La prossima volta che ci saremmo visti, ne ero certo, sarebbe stata l’ultima; quella decisiva.

 
***
“E forse arriverà, domani
Siamo uguali in fondo
E forse cercherai, le mie mani
Solo per un giorno”
 
(FLASHBACK)

Pioveva a dirotto quella sera e per essere i primi giorni di ottobre faceva anche molto freddo. Le gocce di pioggia rigavano in continuazione il vetro, distorcendo la luce dei lampioni lungo il marciapiede in sfocati globi dalla luce pallida; indecisi anche loro se rimanere accesi o spegnersi. I rami degli alberi si allungavano verso il cielo plumbeo sotto forma di giganti ragnatele nere, ogni tanto scosse dal vento gelido che si era instaurato in città in quei giorni. Un brivido dettato da quelle immagini la portò a stringersi la coperta che portava sulle spalle con maggior forza, alla ricerca di calore. Eppure non sembrava sufficiente e una vocina nella sua testa continuava a bisbigliarle che quel freddo non veniva da fuori, ma da dentro di lei. Ancora il pensiero tornò a quel pomeriggio, quando la zia aveva comunicato loro che se avessero fatto i bravi quella sera ci sarebbe stata una bella sorpresa. Un urlo estasiato di Jack le aveva quasi perforato un timpano.

-Papà torna a casa!-

Gli occhi del bambino brillavano di contentezza di un marrone così caldo da ricordare il cioccolato. Alle volte Serena, quando era triste per la lontananza del padre, lo prendeva in giro, come se così facendo potesse allontanare il suo demone interiore. Zia Jessica non aveva risposto nulla a quell’esclamazione, limitandosi a sorridere. Lei invece era rimasta con il cucchiaio a mezz’aria, sorpresa dalla notizia, combattuta se felicitarsi o meno. Certo che era contenta che il papà tornasse, i suoi occhi sbarrati ne erano una prova. Ma era anche vero che quel caso era durato molto più a lungo di altri e loro in quei giorni lo avevano sentito molto poco. Come se non bastasse Jack, a differenza sua, quando sentiva la mancanza del padre non faceva che parlarne e parlarne, trasformandolo nel suo supereroe personale. Era allora che lei lo prendeva in giro e poi si chiudeva in cameretta. Era gelosa, invidiosa di come Jack sembrasse volere il papà tutto per sé, quasi le sue imprese fossero tutte opera sua. Ma in fondo quale bambino non sognava a sua volta di diventare un eroe?

Per Serena invece era leggermente tutto diverso: il papà era un supereroe e lei e suo fratello facevano parte del mondo che lui ogni giorno si adoperava per salvare. Eppure quando rimanevano soli così a lungo certe volte si domandava se si fosse scordato di loro. Ed era allora che tornava da Jack e si faceva abbracciare, perché in lui trovava quella somiglianza col padre che lei non aveva, quella che solo guardandolo sapeva che suo padre avrebbe pensato la medesima cosa che stava pensando suo fratello: che gli voleva bene. Questo per loro equivaleva che lui non li avrebbe mai abbandonati.

-Serena hai sentito?-

Jack aveva cominciato a tirarle un braccio per avere la sua attenzione. Per poco la minestra nel cucchiaio non le si era rovesciata addosso.

-Attento Jack!-

Ma il fratello ormai non l’ascoltava più. Era saltato in piedi e corso in salotto, le mani appoggiate al ripiano in marmo e il naso schiacciato contro il vetro freddo della finestra, scrutando attraverso l’oscurità nella speranza di individuare la macchina del genitore in arrivo. Serena sapeva non sarebbe resistito a lungo, in fondo lo conosceva bene lei. Lo raggiunse poco dopo, il sapore della fetta di torta che aveva appena mangiato le sembrava così amaro in bocca rispetto a quella notizia. Rimasero immobili davanti al vetro per così tanto tempo che le venne freddo. Si passò le mani sulle braccia, nella speranza di far nascere un po’ di calore e in quel momento la zia le pose la coperta sulle spalle. Come previsto Jack colse l’occasione per sedersi sul tappeto in mezzo alla sala e mettersi a giocare.

-Jack! Abbassa la voce.- gli disse la sorella all’ennesimo contrattacco aereo.

-Non posso. Se smetto di sparare il generale muore.-

-Sei proprio un bambino.-

-E tu una femminuccia.-

-Papà non vuole che mi chiami così.-

-Sì, ma adesso lui non c’è.-

-Adesso finitela, tutti e due. Non vorrete farvi vedere da vostro padre fare i capricci.- li rimproverò la zia.

Serena diede ancora uno sguardo al fratello, immerso in una complessa manovra di guerra spaziale. Senza dire niente si era così rintanata di sopra, avvolta nel buio della stanza, appostata alla finestra e aveva aspettato; finchè un suv nero aveva svoltato nella loro via, rallentando fino a fermarsi accanto al marciapiede, proprio di fronte alla porta di casa.

Aaron spense la macchina, finalmente dopo quei lunghi giorni si sentiva libero da ogni peso. Ogni volta che partiva non poteva essere certo che sarebbe tornato e, adesso che Haley non c’era più, lasciare i suoi figli sempre da soli lo preoccupava oltre ogni dire. Per questo motivo quando il caso si era concluso un senso di sollievo lo aveva pervaso e ogni chilometro che il jet aveva compiuto avvicinandolo a casa non aveva fatto altro che accrescere quel senso di benessere. Non vedeva l’ora di stringere tra le braccia i suoi figli. Scese dall’auto, ventiquattrore e cappotto in mano; non aveva perso tempo sceso dall’aereo, era semplicemente balzato in macchina e aveva premuto l’acceleratore fino al limite consentito. Contenne l’entusiasmo limitandosi a suonare il campanello un paio di volte: era lui l’adulto. Ma in quel momento, come ad ogni suo rientro a casa, per lui poteva essere Natale.

-Finalmente! Sono contenta tu sia tornato, quei due non facevano che chiedere di te.- lo accolse con calore la cognata, invitandolo ad accomodarsi all’interno.

-Grazie per esserti occupata di loro così a lungo, non immaginavo sarei stato via così tanto. Spero non ti abbiano fatto tribolare.-

-Non più di tanto.- sorrise la donna con fare materno, strappandogli un mezzo sorriso, mentre gli prendeva borsa e cappotto dalle mani.

-E tu come stai?- le domandò il cognato.

-I soliti sintomi influenzali di questo periodo, nulla di nuovo.-

-Papà! Papà! Papà!-

Un proiettile urlante gli si catapultò nello stomaco, stringendolo alla vita in una morsa ferrea.

-Ciao campione! Allora, hai fatto il bravo con la zia?- l’uomo finalmente si lasciò andare ad un aperto sorriso, scompigliando affettuosamente i capelli al figlio.

-Sì.- rispose il bambino annuendo convinto, alzando il viso per incontrare quello del genitore.

-Sicuro?- domandò Aaron, inarcando per gioco un sopracciglio.

-Lo sai, la zia ha fatto la torta al cioccolato.-

-Davvero? E me ne avete lasciato una fetta?-

-No, io e Serena l’abbiamo mangiata tutta.-

-Ah, è così!- il bambino si mise a ridere in maniera incontrollata alla vista del genitore che faceva la voce da cattivo, paralizzato sul posto dalle sue stesse risate. Aaron lo sollevò di peso in un batter d’occhio, andando a fargli le pernacchie sul collo e il solletico sul pancino. Jack si dimenava tra le forti braccia del padre, le lacrime agli occhi dal troppo ridere. Anche Aaron dovette ammettere con sé stesso che era passato un sacco di tempo dall’ultima volta che aveva riso così tanto. Sfiniti, i due crollarono di peso sul divano, il bambino ancora abbracciato al collo del padre, entrambi con il fiatone. Fu allora che Aaron si accorse che mancava qualcuno.

-Dov’è tua sorella?-

-Deve essere di sopra. Ti abbiamo aspettato per un po’, ma tu non arrivavi. Così io mi sono messo a giocare e lei è andata su perché aveva freddo.-

-Ho capito.- disse tra un sospiro affannoso e l’altro il genitore, scambiando uno sguardo d’intesa con la cognata, seduta sul divano di fronte a loro.

Nessun rumore proveniva dalla porta chiusa in cima alle scale, che si fosse addormentata? Non sapeva perché, ma era quasi del tutto sicuro che non fosse così. Bussò piano, ma non ottenne risposta.

La stanza era completamente piombata nell’oscurità, la luce blu che entrava dalla finestra delineava a malapena i contorni della sua bambina, rannicchiata sul davanzale con la coperta stretta tra le mani. Aaron varcò la soglia, accendendo finalmente il lampadario appeso al soffitto.

-Serena, cosa fai qui da sola al buio?- le domandò con calma.

La bambina si voltò con una lentezza stressante, facendo iniziare a preoccupare l’uomo che temette potesse essere successo qualcosa, finchè i loro occhi si incrociarono. I suoi, illuminati dai lampioni esterni, sembravano ancora più chiari del solito. Ad oscurare quella bellezza era la loro serietà; lo guardavano, quasi fosse lei ad attendere una risposta e non il contrario. Ed in effetti era da giorni che lei lo aspettava.

-E’ successo qualcosa?- provò ancora il genitore, ma senza alcun successo.

Aaron incrociò le braccia al petto, corrugando le sopracciglia in quello sguardo serio che però non aveva nulla a che fare con quello che usava al lavoro. Quello era uno sguardo interamente riservato ai figli quando combinavano qualcosa di non troppo grave. In pochi passi attraversò  la stanza e si sedette anch’esso sul davanzale, di fronte alla figlia che per tuto il tempo non aveva mai distolto lo sguardo.

-Sei arrabbiata con me, vero?- domandò infine, rilassandosi. Conosceva sua figlia e dopo averla osservata attentamente, quasi quanto lei aveva fatto con lui, aveva capito. Difatti Serena tornò a guardare fuori dalla finestra.

-Non proprio.-

-E allora cosa? Pensavi che non sarei più tornato a prendervi?- quel mutismo lo stava facendo impazzire, perché così lo teneva lontano da lei. quando finalmente la sua voce spezzò il silenzio, l’effetto fu quello di una stanza degli specchi che andava in frantumi, riportando tutti alla realtà.

-Sei stato via a lungo questa volta.- Aaron soppesò molto bene le parole da dire, perché sapeva che lei le avrebbe analizzate molto attentamente. Come si suol dire: le parole alle volte feriscono più delle armi.

-Lo so e mi dispiace.-…-Ma lo sai che non dipende da me, vero?- altro silenzio.

-Avresti potuto telefonare.- questa volta lo guadò con occhi speranzosi, quasi trovando la soluzione adatta ad entrambi. L’uomo fece un sorriso triste.

-Avrei voluto telefonare più spesso, ma è stato un caso complicato e quando avevo un attimo di libertà era sempre troppo tardi, c’era sempre qualcos’altro da fare.- Serena notò, non solo nella parole del genitore ma anche nell’espressione provata, quanto in realtà fosse stanco. Probabilmente era da più di ventiquattro ore che non dormiva, eppure aveva tenuto duro per venire a prenderli quella sera stessa. Si vergognò di aver pensato male di lui.

-Pensavo che fossi così preso dal caso che ti fossi dimenticato di noi.- ammise.

-Come ti vengono in mente questi brutti pensieri? Tu e Jack siete la cosa più bella che ho.- le disse, prendendola di peso e avvicinandola a sé.

-Ma tu non ci sei mai. Preferisci passare più tempo con loro che con noi.-

-Questo non è vero.-…-Ho una squadra formidabile e un lavoro che mi piace molto, ma nessuna di queste due cose potrà mai sostituire te e Jack.- Aaron le prese le mani nelle proprie, avvolgendola con le braccia e dandole un lungo bacio tra i capelli.

-Papà?- bofonchiò la bambina dopo un po’, ancora con il viso affondato nei vestiti del genitore all’altezza del petto, respirando quel profumo che a lei piaceva tanto, che sapeva di casa.

-Cosa?- Serena si puntellò col mento sul suo petto, sollevando su di lui i grandi occhi verdi.

-Mi dispiace di aver pensato quelle cose.- Aaron la strinse maggiormente a sé, dandole un altro bacio –Mi sei mancato tanto.-

-Anche tu piccola, entrambi.-

Improvvisamente la bambina saltò in piedi con il volto raggiante, un’idea che le illuminava il volto mentre ancora teneva una delle grandi mani del papà tra le proprie.

-Balli con me?- Aaron sorrise.

-Serena, hai presente che ore sono?-

-Ti prego è la nostra canzone.- il padre storse la bocca –Solo il ritornello.- come poteva dire di no a quegli occhi così scintillanti?

-D’accordo. Ma solo per pochi minuti.- concesse infine, lasciandosi tirare in piedi. La bambina esultò in silenzio, allontanandosi per poter accendere lo stereo con il cd già inserito.

La musica riempì immediatamente la stanza, rendendola più viva con la sua allegria.

“Per vivere, vivere a colori e
Vivere, vivere a colori e vivere, vivere a
Colori e vivere, vivere…”

Mani nelle mani i due volteggiavano per la stanza, muovendosi per lo più a caso, ma che importava? Loro si stavano divertendo un mondo ed era più che sufficiente. Costretto dalla sua altezza ad abbassarsi per essere al pari della figlia, quando non ne poté più Aaron l’afferrò alla vita in un presa salda, in una giravolta a colori, mettendosela a sedere in braccio: un braccio dietro le ginocchia per sorreggerla, la mano libera a tenergliene una minuscola all’esterno, come se stessero ballando davvero. Serena era così felice che stentava a crederci: stava ballando con il suo papà!

-Noi resteremo sempre insieme. Non è vero papà?

Glielo chiese con una convinzione, una determinazione, a cui non poté impedire al proprio sorriso di allargarsi maggiormente, occhi negli occhi con la sua principessa. La musica ormai diventata il loro sottofondo.

-Certo piccola.-

Serena gli posò la testa sulla spalla e chiuse gli occhi.

“E penso che tu
Sia un fiore di un raro colore che
Riesce a stare fermo con lo sguardo
Altrove e oltre che tu riesci a vedere e
Oltre che tu sai a sentire.”

Era stata una serata molto animata. Dopo che Aaron e la nipotina erano scesi in salotto, raggiungendo il piccolo Jack ancora intento nella sua guerra spaziale, i tre si erano divertiti come non mai. Jessica non ricordava il tempo di vederli così felici, specialmente da dopo la morte della sorella. Aveva sempre considerato il cognato un brav’uomo, sebbene troppo preso dal lavoro e dagli impegni, tanto che più di una volta si era chiesta se per caso ponesse il lavoro prima della propria famiglia. Tuttavia, quella sera, dovette ricredersi. Aveva notato fin dal suo arrivo quanto fosse stanco e necessitasse di un po’ di sano riposo, eppure si era dedicato immediatamente ai suoi figli, parlando e giocando con loro. Il suo sorriso, cosa molto rara da vedere, quella notte era rimasto a lungo sul suo viso. Aveva giocato alla lotta, aveva fatto il solletico ai figli fino a farli restare senza fiato dalle troppe risate, si era improvvisato a cavalluccio. Finchè, quando anche i due bambini avevano iniziato a mostrare segni di stanchezza, lei aveva invitato il cognato a passare lì la notte. Jack aveva pregato il genitore di raccontar loro una storia e Aaron aveva acconsentito, ma solo dopo che entrambi si fossero lavati i denti e infilati il pigiama. I due bambini erano schizzati come fulmini su per le scale ed era stato in quel momento che lei aveva visto gli occhi e il sorriso di lui, la vera prova di quanto anche lui avesse bisogno dei suoi figli.

Era passata più di un’ora da quando i tre erano saliti e dalla camera del piano superiore non arrivava alcun rumore. Jessica socchiuse la porta, tentando di fare il minor rumore possibile. La stanza era illuminata dalle luci delle due lampade poste ai lati del letto, sul quale l’intera famigliola si era addormentata. Erano bellissimi. Aaron in mezzo, interamente vestito, con ancora il libro di favole tra le mani. Sotto il braccio sinistro stava Jack, il pollice della manina sinistra in bocca. Serena invece stava sotto il braccio destro, le manine sotto al mento, accoccolata il più vicino possibile al genitore. Jessica non ebbe cuore di svegliarli. Entrò nella stanza e ripose il volume di storie al suo posto, dopo di che si premurò di allentare il nodo della cravatta del cognato, in modo tale che non soffocasse nel sonno. Probabilmente in una situazione normale si sarebbe svegliato, ma dopo tutta la stanchezza e le preoccupazioni accumulate nemmeno se ne accorse, continuando a dormire.

Jessica si voltò a guardarli un’ultima volta, prima di spegnere le luci.

(FINE FLASHBACK)

 
POV SERENA

Il silenzio dell’abitacolo non mi era mai parso così fastidioso come in quel momento, ma quando avevo tentato di porvi rimedio accendendo la radio, avevo realizzato che il problema non stava nella macchina o nella pessima stazione radio, era dovuto a tutto il resto. Spensi la musica con un gesto stizzito. Era quasi due ore che guidavo, seguendo le indicazioni datemi da McGrant e confermatemi poi nel dettaglio da Garcia. Le mani stringevano febbrilmente il volante, quasi volessero strozzarlo; forse per quello erano ghiacciate malgrado i 20° impostati sul veicolo. Non ricordavo di essere mai stata così nervosa in tutta la mia vita. Ormai era da mezzora che avevo abbandonato la strada principale, percorrendone una secondaria sterrata, piena zeppa di buche tanto da non permettermi di inserire la terza marcia e interamente circondata da campi dedicati al raccolto. Una distesa di terra marrone e arbusti giallognoli era tutto ciò che riuscivo a vedere. Di tanto in tanto, in lontananza, si intravedeva una cascina o un deposito, ma a mio parere erano tutti disabitati.

Il piede tamburellava pericolosamente sulla frizione. A mano a mano che mi avvicinavo alla mia destinazione sentivo l’ansia crescere sempre di più, del tutto inutile il mantra che continuavo a recitare mentalmente per tentare di calmarmi. L’unica cosa che mi impediva di fare inversione e tornarmene al sicuro alla centrale era anche l’unica a spronarmi e ad infondermi il coraggio di cui in quel momento necessitavo: quest’oggi avrei mantenuto la promessa. La stessa promessa che mio padre fece a me e a mio fratello dietro la porta chiusa della nostra stanza e che mantenne per molte volte nel corso degli anni. Quest’oggi sarei stata io a mantenerla. Non lo avrei abbandonato. Era come se tutto improvvisamente mi fosse chiaro, tutto quello che era successo in questi anni assumeva un significato diverso, come quando stai facendo un puzzle difficilissimo e improvvisamente tutti i pezzi trovano la loro giusta ubicazione, quasi per magia. Un po’ come quando si dice che in punto di morte tutta la tua vita ti passa davanti agli occhi. Beh, in quel tratto di strada per me fu proprio così. E mi sentii profondamente colpevole quando realizzai quanto in collera ero stata con mio padre, accusandolo di ogni sua più piccola mancanza, quando poi anche io nel corso di quegli anni avevo fatto la mia parte. Mi ero sempre ritenuta io la vittima di tutto ciò che ci era successo e tutte le buone motivazioni che mi erano state date le avevo classificate come insufficienti. Ma lo erano davvero? E io cosa avevo fatto per rimediare (capricci a parte)? La risposta era: nulla. Tante volte avrei potuto essere io a fare il primo passo, a porre rimedio, invece non avevo detto nulla, piangendomi addosso. Avevo sprecato tutte le mie buone occasioni, ma non avrei sprecato questa. Anche perché, in caso contrario, dubitavo ce ne sarebbero state altre.

Non l’avevo invitato alla mia borsa di studio, così come non lo avevo invitato al ballo accademico. Quante volte avevo fantasticato che anche lui fosse presente, che tra il pubblico che batteva le mani ci fosse anche lui, orgoglioso di me, oppure che come molti genitori ballasse con me una canzone alla festa della scuola. L’ho sempre accusato di non esserci stato, mentre io nel frattempo contribuivo ad allontanarlo da me.

Mi sentii un verme a ripensare quelle cose, ma adesso ero del tutto intenzionata a porvi rimedio. La macchina traballò centrando l’ennesima buca. Controllai il contachilometri, ormai ero quasi arrivata. Mentalmente ripassai il piano studiato con i ragazzi; era stata una vera e propria lotta convincerli a lasciarmi andare, ma tutti sapevano bene che non c’erano alternative. Basta tergiversare, era arrivato il momento di agire. Potevo comprendere il loro timore: sarei entrata nella tana del lupo, sola, disarmata, senza che nessuno potesse intervenire in tempo se ce ne fosse stato bisogno. Allora io feci il loro esatto contrario, proponendo microfoni e videocamere per tenere sotto controllo la situazione, più tre di loro appostati a debita distanza per non farsi scoprire dall’S.I.. Alla fine avevano dovuto cedere. Istintivamente mi portai una mano al polsino sinistro della camicia, controllando il minuscolo microfono collegato al bottone. Inoltre, sapevo che un’unità speciale aveva già fatto un sopraluogo del posto in assoluto silenzio, individuando il capannone incriminato e installando vicino alle finestre che davano sull’interno delle telecamere, in modo che una volta dentro i ragazzi potessero sia vedermi che sentirmi.

-Serena, a che punto sei?- la voce di Rossi mi fece sobbalzare dalla sorpresa, interpellandomi dal mio stesso microfono.

-Ci sono quasi.- risposi, tentando di mantenere la mia sicurezza.

-D’accordo. Noi siamo in posizione. Aspetteremo il tuo segnale quando dovremo intervenire.- sentii dell’incertezza nella sua voce. Il piano era stato concordato, ma avevo omesso quale sarebbe stato il segnale. Per il momento solo una persona ne era al corrente.

-Tranquilli. Lo capirete.- ci fu un minuto di silenzio –Ci vediamo fuori.- o perlomeno era quello che speravo.

-Fa attenzione.- si raccomandò un’ultima volta il caposquadra. Riattaccai. Non volevo farmi sopraffare dall’ansia proprio adesso. Decisi quindi di controllare l’ultima parte del piano. Composi il numero e lasciai squillare il telefono un paio di volte.

-Chiedete e vi sarà dato.-

Quella voce riuscì a strapparmi un sorriso divertito e, dovevo ammetterlo, in quel momento ne avevo veramente bisogno.

-Penelope sono io, allora è tutto pronto?-

-Sì, tranquilla è tutto pronto e in posizione.-

-Molto bene. Penelope, una volta dentro avrò bisogno della tua più totale attenzione. Dipende tutto da te. Un minuto di troppo potrebbe essere fatale per tutti.-

-Tesoro, sei sicura di quello che fai vero?- temeva di fallire e non potevo biasimarla, ma ormai era troppo tardi per tornare indietro.

-No, ma è l’unica alternativa che abbiamo.-

-Ti prego sta attenta. Vedete di riportare entrambi i vostri fondoschiena qui, siamo intesi?- caspita se ci teneva! E pensare che era da solo poche ore che mi conosceva. Aveva proprio ragione mio padre a dire che era speciale.

-Te lo prometto.- detto questo chiusi la comunicazione.

Perché glielo avevo promesso? Mi era sempre stato insegnato che non bisognava mai fare promesse che non si potevano mantenere, ed ero sicura che questa facesse parte della categoria. Eppure non avevo potuto farne a meno: lei era quello che aveva bisogno di sentirsi dire e io avevo bisogno di un pretesto in più per uscire da quel buco, della serie: “mi dispiace signor rapitore, ma ho fatto una promessa ad un’amica, perciò non può assolutamente ucciderci”. In cuor mio sperai davvero che funzionasse.

Come preannunciatomi un capannone dall’aria diroccata si stagliò ad una trentina di metri dalla strada. Felice di poter cessare quel continuo sobbalzare fermai la macchina e spensi il motore; dubitavo che qualcuno sarebbe passato accidentalmente da quelle parti e iniziasse a suonare il clacson per farmi rimuovere la vettura. Feci un respiro profondo mentre guardavo quel posto dall’aria lugubre: ecco la tana, ed il lupo mi aspettava all’interno.

Scesi dall’auto e feci alcuni passi prima di fermarmi e analizzare nuovamente il posto. Ovviamente Rossi, Morgan e Prentiss non erano visibili nemmeno col binocolo, nascosti nella macchia di alberi più vicina, fuori dalla portata visiva dell’S.I.. Mi portai il braccio sinistro davanti al viso, fingendo di tossire.

-Ci sono. Mi appresto ad entrare.- dissi invece al microfono.

Sapevo che l’S.I. mi stava aspettando, potevo sentirmi il suo sguardo addosso, probabilmente cercando di capire sin da subito se fossi realmente sola o stessi complottando qualcosa. A maggior ragione quindi dovevo stare attenta a non fare passi falsi. Mi avvicinai con fare neutro, metro dopo metro, sotto lo sguardo freddo di quelle finestre nere. Un brivido mi percorse da capo a piedi, mio padre era lì dentro. Una volta di fronte alle porte in legno tentennai, un campanello di allarme suonava furiosamente nella mia testa. Lì dentro c’era mio padre, tutta la mia vita, probabilmente torturato oltre ogni dire, con lui c’era un uomo pericoloso, lo stesso che gli aveva fatto del male e che, molto probabilmente, ne avrebbe fatto anche a me. La scelta più logica era fare dietrofront e correre quanto più velocemente le mie gambe mi consentissero di fare. Invece no, perché in una famiglia nessuno viene abbandonato e questo l’S.I. se l’era dimenticato, perciò era giunto il momento che qualcuno glielo ricordasse. “Papà sto arrivando”.

Le porte si spalancarono con facilità, troppa. L’interno era buio pesto e uno spiffero di aria gelida, più di quella che c’era fuori, mi ferì il viso. il mio stomaco si aggrovigliò in un nodo stretto; no, quella situazione non mi piaceva per niente.

-C’è nessuno?- la mia voce rimbalzò nel vuoto, solo uno stormire di piume tra le travi del soffitto dove si erano annidati dei piccioni; dovevo insistere, io ero più forte di lui; -McGrant! Tanto lo so che ci sei!- ancora una volta nessuna risposta. A quel punto sarei dovuta tornare indietro, aspettare la prossima telefonata e minacciare l’S.I. di non aver rispettato i patti. Ma ovviamente non lo feci. Dovevo sapere se mio padre era lì o se quanto meno ci fosse mai stato. Poco importava se si trattava di una trappola, ormai ero in ballo quindi tanto valeva ballare. Ebbi solo il tempo di pensarlo che qualcosa mi colpì con forza dietro la testa. I miei occhi ebbero una panoramica del capannone mentre cadevo al suolo, giusto il tempo che il buio si richiudesse su di me.

 
“Comunque andare
Anche quanto ti senti svanire
Non saperti risparmiare
Ma giocartela fino alla fine”
 
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Capitolo 14
*** Capitolo 13 ***


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Capitolo 13

 
POV SERENA

-Serena! Serena!-

“Accidenti, non ricordavo di essermi addormentata. Ad ogni modo ci penserò dopo, si sta così bene qui al calduccio”.

-Serena! Avanti!-

“Uffa, magari se mugolo in risposta capiranno che ho capito e mi lasceranno in pace ancora un po’, sono così stanca, mi sembrano giorni che non dormo”.

-Serena! Ti prego svegliati! Devi svegliarti!-

“Ma perché papà continua? Non devo andare a scuola ne sono sicura. Un momento! Papà è tornato? Papà?”

-Pa…pà?- mi ci volle uno sforzo sovrumano per emergere dal mio stato di incoscienza, obbligare le mie palpebre pesanti ad aprirsi e pronunciare quelle due sillabe. Davanti ai miei occhi avevo quella tipica nebbiolina di quando si dorme molto, per non contare che la forte luce gialla proveniente dal soffitto non mi aiutava molto. Mentre tentavo di mettere a fuoco sentii ancora quella voce e capii che non era un sogno.

-Serena.-

Rimasi senza parole a fissarlo, come se fosse un miraggio pronto a scomparire all’improvviso. Mio padre era lì, davanti a me, legato come me ad una sedia a pochi metri di distanza. Non potei impedirmi di notare che in quegli anni era cambiato, era invecchiato, eppure allo stesso tempo era sempre lui, neppure una virgola mutata. Milioni di volte avevo immaginato il nostro incontro, ma mai mi sarei aspettata che capitasse in questa maniera. Ma l’importante era che finalmente eravamo di nuovo insieme. Anche lui non aveva ancora distolto gli occhi da me, probabilmente pensando le stesse cose che avevo pensato io di lui. I suoi occhi, furono quelli a riempirmi di felicità, perché quelli erano l’unica cosa che il tempo non avrebbe mai potuto scalfire: caldi, vivi, forti, ancora pieni di energia, ancora pieni di tutto. Eccolo il mio idolo in carne ed ossa. Tuttavia c’era qualcosa che mi sfuggiva, qualcosa di ovvio ma importante, perciò prestai più attenzione e lo vidi. I suoi occhi potevano anche essere sempre gli stessi, ma il suo sguardo verso di me era preoccupato. Me ne vergognai, mi sentii in colpa, perché sapevo di non meritarlo. Io lo avevo giudicato male, lo avevo incolpato, lo avevo ferito e lui anche in quel momento, malgrado tutto, cosa faceva? Si preoccupava per me. E fu proprio mentre lo guardavo, pensando tutte queste cose che mi diedi dell’idiota. Come avevo anche solo potuto immaginare di stare senza di lui? No, non avrei lasciato che morisse, non lo avrei lasciato punto e basta. Ad ogni modo, sapevo, che non avrei comunque potuto eguagliare tutto quello che lui aveva fatto, sacrificato, sopportato per me. Gli idoli puoi imitarli non eguagliarli.

-Stai bene?-

Il suo sguardo era accigliato, la voce bassa e controllata, comportandosi come se avesse tutto sotto controllo. Ma riuscii ad intuire quanto in realtà fosse preoccupato per me. Ma non ero io quella venuta lì per salvarlo? Gli risposi, tentando di mantenere lo stesso autocontrollo.

-Sto bene.- non era esattamente la verità, adesso il retro della testa aveva iniziato a far male, proprio dove l’S.I. mi aveva colpita. Ma non volevo fare la parte della bambina piagnucolosa, ero un poliziotto in fin dei conti. Lui continuava a guardarmi circospetto.

Malgrado fossi legata tentai di mettermi dritta, far ruotare le spalle, sgranchirmi il più possibile. Nel mentre diedi un’occhiata intorno: era un’ampia stanza, riscaldata, probabilmente con qualcosa di elettrico, di finestre non ce n’erano molte, ma quantomeno ero sicura che almeno un paio di telecamere stessero riprendendo tutto. Tornai sulla figura provata di mio padre, questa volta per analizzarne le condizioni operative: i suoi vestiti erano macchiati e strappati in più punti, ematomi e piccole ferite facevano capolino un po’ ovunque, ed ero certa ce ne fossero altrettanti sotto la camicia. Delle strane macchie nere spiccavano sul tessuto bianco, parevano bruciature, ma non sapevo se erano dovute al fuoco o ad altro. Striature di sangue completavano quella triste raffigurazione, ce n’era traccia persino sul collo, sul mento e sulle labbra. Come si poteva esser tanto crudeli? Come potevano certi uomini fare cose simili ad altre persone? Non ne avrei mai compreso la risposta. Mio padre rimase a guardarmi in silenzio mentre facevo la mia valutazione.

-Che cosa ti ha fatto?- gli chiesi infine.

I suoi occhi dardeggiarono, decifrando rapidamente la mia espressione e quale risposta darmi.

-Sto bene, non ho riportato ferite gravi.- la sua voce era arrochita dal troppo silenzio. Mentì. Probabilmente per non farmi preoccupare; naturale, lo avrei fatto anche io se fossi stata al suo posto. Anzi, pensandoci bene lo avevo già fatto, quando anch’egli poco prima mi aveva posto la medesima domanda.

-Perché hai accettato?- la sua voce mi strappò dai miei pensieri, non so perché ma finsi di non capire il senso della domanda, volevo sentirglielo dire –Perché sei venuta fino a qui?- il suo sguardo era serio, il tono della sua voce severo, quasi fossi una sua qualunque collega e non sua figlia. Per questo gli restituii la stessa moneta.

-Per tirarti fuori di qui.-

Ecco, se fossimo stati in un telefilm questo sarebbe il momento in cui l’altro prigioniero faceva dell’ironia, una cos del tipo “Beh, ci sei riuscita alla grande! Adesso siamo in due legati ad una sedia!”. Ma non potevo di certo aspettarmi una battuta da mio padre, nemmeno se le nostre parti fossero state invertite. Che la sua preoccupazione nei mie confronti si fosse maturata in rabbia perché pensava che fossi stata un’irresponsabile? Che l’avessi in un qualche modo deluso? No, non lo credevo possibile. Avevo affrontato fantasmi per essere lì in quel momento, non poteva davvero respingermi.

Fissai i miei occhi nei suoi, pronta ad affrontarlo e dargli le mie ragioni, ma mi resi conto che questi non rispecchiavano il suo tono duro. Quello che stavo guardando era dolore allo stato puro. Dolore per il passato, dolore per il presente. Dolore mentale, dolore fisico. Era tutto lì. Ed io ero certa, che almeno una parte fosse stata causata da me. Non potevo ancora dirgli che era stato tutto un bluff, non sapevo dove fosse l’S.I., ma potevo trovare un modo per infondergli un po’ di speranza prima che iniziasse la mia recita conclusiva. Fece per abbassare lo sguardo.

-Ce ne andremo fuori di qui.- tornò a guardarmi, sebbene non convinto –Insieme.- aggiunsi, sperando cogliesse l’allusione. Non lo facevo solo per lui, ma anche per me, in fin dei conti adesso eravamo sulla stessa barca.

Prima che potesse rispondermi o dirmi qualcosa la porta in fondo alla stanza, immersa quasi nel buio più completo, si aprì. Avevamo parlato praticamente sottovoce per tutto il tempo e sperai vivamente che non c’avesse sentito. L’espressione di mio padre non mutò di una virgola mentre manteneva lo sguardo duro fisso su di me, io raddrizzai la schiena, sperando di dare ad intendere all’S.I. che non avevo paura di lui, che nemmeno il fatto di avermi colpita alle spalle mi aveva sorpresa, avevo tutto perfettamente sotto controllo. Quando entrò nel fasico di luce un brivido mi percorse: i suoi occhi neri, il sorriso incurvato maggiormente sul lato destro, tutto di lui esprimeva una malsana felicità. Per un po’ fece rimbalzare lo sguardo su entrambi, poi si soffermò su di me. Non ruppi mai il contatto visivo, non gli avrei dato l’illusione di essere in suo potere; io ero lì per aiutare lui, non il contrario. Si vedeva lontano un miglio che era soddisfatto della propria caccia. Come dargli torto! Aveva messo nel sacco due agenti federali, di cui uno era il capo della miglior squadra di profiler di tutti gli Stati Uniti. Ci girò attorno, un leone che gioca con le proprie prede prima di ghermire; anche se, a mio parere, più che un leone pareva una iena. Il vero leone era mio padre, purtroppo colpito a tradimento.

L’S.I. si fermò dietro di me e dopo istanti lunghissimi appoggiò le mani sulle mie spalle, erano gelide. L’espressione di mio padre mutò quasi impercettibilmente, i muscoli facciali che si contraevano in un’espressione ancora più dura.

-Non toccarla.- quasi non aprì la bocca nel dirlo, le labbra erano tese in una linea diritta. Adesso i suo occhi lanciavano lampi in quelli dell’uomo alle mie spalle. Non potevo girarmi e quindi vederlo, ma lo sentii comunque sorridere divertito.

-Altrimenti? Cosa mi farai paparino? Mi urlerai contro?- silenzioso, temevo la risposta che avrebbe potuto dare mio padre, fortunatamente però non disse nulla –No, tu non sei uno che alza la voce. Ne le mani.- fu la conclusione pacata e lenta dell’altro, quasi ne fosse deluso. Mi liberò dalla sua presa, più mentale che fisica, come se le sue dita fossero state artigli arpionati al mio cervello. Fu un gran sollievo. Riprese a girare, questa volta il confronto era tra i due uomini. Il cuore mi batté forte quando lo vidi piegarsi all’altezza di mio padre, quest’ultimo che continuava a guardare davanti a sé, come se io fossi trasparente. Forse lo aiutava a mantenere la mente lucida –E’ un po’ tardi per mettersi a fare l’eroe, non credi?-

Fu un sibilo e tanto bastò. In pochi istanti avevo capito che il nostro S.I. ci conosceva meglio di quanto mi fossi aspettata. Non solo riguardo al nostro passato, ma anche su noi stessi: il nostro carattere, le nostre debolezze…ero sicura che il riferimento all’eroe non fosse puramente casuale. Lui sapeva. Sapeva quanto nostro padre fosse stato importante per la nostra famiglia. Sentivo la paura avanzare dentro di me, ma non potevo permetterle di prendere il sopravvento, c’era troppo in gioco per gettare la spugna così. Dovevo stare calma, una qualche brillante improvvisazione mi sarebbe di certo venuta in mente, così facendo avrei ripreso le fila del mio piano iniziale e tutto sarebbe andato per il verso giusto. L’S.I. tornò in posizione eretta, per nulla scalfita la sua soddisfazione di fronte all’ostinato silenzio di mi padre. Fu così che l’uomo in nero intrappolò nuovamente il mio sguardo, stabilendo un contatto che non era per nulla di mio gradimento.

-Serena, ora che sei qui, perché non racconti a tuo padre come sono stati questi anni? Mentre lui era in giro a fare l’eroe.- sapevo me lo avrebbe chiesto, sapevo non sarebbe stato facile, ma mai avrei immaginato così difficile. Un conto era sostenere lo sguardo dell’uomo che lo aveva rapito e aveva commesso un sacco di crimini, dimostrargli che non ero debole come potevo sembrare. Tutt’altra storia era mantenere il medesimo distacco con la persona a cui volevo in assoluto più bene al mondo, guardandola negli occhi mentre parola dopo parola la ferivo psicologicamente. Eppure non avevo alternative, non se volevo portare fino in fondo la mia recita. Dovevo farlo e soprattutto dovevo essere convincente. La parte peggiore era che anche mio padre c’avrebbe creduto.

Gli occhi di mio padre erano due dischi di cioccolato fuso, ma il loro colore andava scemando, temendo quello a cui stavano andando incontro. Io ero l’ariete, lui il portone da sfondare. E io l’avrei divelto.   

Le uniche volte che avevo visto mio padre così addolorato era stato al funerale dei nostri famigliari, di mamma e Jack, ma allora non era stato torturato e riusciva a nascondere le proprie emozioni. Mio padre non ha mai alzato le mani su di me, nemmeno per sgridarmi. Ma quando abbassò il capo, rifiutando di guardare quello che era obbligato a sentire…beh, avrei preferito di gran lunga uno schiaffo. Dai miei occhi traspariva quell’indifferenza che avevo cercato di simulare, eppure mi sentivo come se quella pugnalata a morte fossi io. Mio padre non voleva guardarmi. Non voleva stare a sentirmi, forse perché immaginava che comunque una parte di verità in tutte quelle parole ci fosse. E come dargli torto? Nemmeno io avrei voluto starmi a sentire. Quanto avrei voluto alzarmi da quella sedia, corrergli incontro, gettargli le braccia al collo, stringerlo stretto stretto, dirgli che era tutta una grossa e tremenda bugia. Invece, iniziai a parlare.

-Non…non è stato facile. Mi sono sentita molto sola. Prima la mamma, poi Jack: mi eri rimasto solo tu. Andavo avanti ogni giorno con la speranza che saresti tornato a casa, finchè un giorno non sei più tornato. Avevo trovato scuse a tutto: alla mancanza di telefonate, di lettere…ma non potevo accettare la tua assenza. Ho dovuto imparare ad arrangiarmi, a proteggermi da sola. Nemmeno le spiegazioni della zia erano sufficienti. D’accordo volevi proteggermi, ma perché abbandonarmi?-

-Serena non ho mai voluto…-

-Mi sono arrabbiata così tante volte.- non fu facile interromperlo, non era facile per lui ma nemmeno per me –Più passava il tempo meno ti vedevo e meno ti vedevo più mi convincevo che non ti interessasse più di me. O comunque non tanto quanto lo fosse il tuo lavoro.- lo vidi trattenere per un secondo il respiro, forse un singhiozzo, ma non mi soffermai –Eppure, ancora una volta, tentai di trovare delle scuse plausibili. Dovevi tornare. L’avevi promesso. Alla mamma. A Jack. Quindi l’avresti fatto anche per me, giusto?- corrugai le sopracciglia –Ho sempre sperato di vederti rientrare dalla porta di casa prima di andare a dormire, o di svegliarmi e scendere le scale per trovarti seduto in salotto. Ma ogni volta non c’eri. Finchè la speranza è diventata un sogno che mi ha permesso di andare avanti.- lo sentii prendere un lungo respiro dalla bocca. Era straziante. –Invece ricordo perfettamente la tua schiena, le tue spalle, mentre te ne andavi, lasciandomi con una promessa. Promessa che hai smesso di mantenere, mentre io ogni volta speravo non ti accadesse nulla, che saresti tornato a casa sano e salvo. È questa l’ultima immagine che ho di te: te che te ne vai per non tornare più.- ero così indifferente che mi feci schifo da sola. Un altro tremito scosse quelle robuste spalle. –Lo sai, avrei tanto voluto ci fossi nei momenti più importanti della mia vita. Quando prendevo bei voti, quando ho preso il diploma al ballo della scuola, al mio diciottesimo compleanno dove tu mi hai mandato solo un biglietto di auguri; ecco, credo sia stato proprio quello a rovinarmi l’intera giornata. Quando mi sono iscritta all’accademia, avrei voluto ci fossi anche tu tra tutte quelle persone che applaudivano. Ma tu non c’eri. Eri al lavoro, troppo impegnato. Come sempre.- mi lasciai andare ad un sospiro triste, molto scenico. Si ostinava a non guardarmi e a malincuore sapevo che stavo raggiungendo il mio obiettivo. Finsi un singhiozzo. –Avevo così tante cose da raccontarti: aneddoti, le mie paure, i miei segreti. Ora, non so nemmeno se ne varrebbe ancora la pena.-

-Basta così.- lo sentii a fatica, ma questa volta non lo interruppi. Piano piano sollevò il viso, contratto in una smorfia di delusione. Vidi chiaramente le righe che delle lacrime avevano tracciato sulle sue guance, sebbene adesso non ve ne fossero.

-Ti prego. Smettila.- se il cuore quando si spezza potesse far rumore, il mio in quel momento avrebbe sortito l’effetto di un fulmine che ti cade vicino. Perché mio padre non stava supplicando l’S.I. di smettere, stava pregando me. Mi ero fatta un’idea di quanto avrebbe sofferto ascoltandomi, ma una volta ancora avevo sbagliato; lo era stato molto di più. Le lacrime avevano lasciato i suoi occhi umidi, il mio eroe stava piangendo. Jack si era travestito da papà per dimostrargli che era il suo eroe, ma questo non voleva dire che non fosse anche il mio. Ma io non avevo ancora finito. Dovevo essere dura come un giustiziere, se volevo che l’S.I. si fidasse totalmente di me.

-Va pure avanti, Serena.- mi invitò infatti, candidamente. A quanto pareva la cosa lo stava interessando parecchio. Meglio, sarebbe stata la leva che mi avrebbe permesso di guadagnare punti e rivalermi su di lui. Se ne sarebbe pentito amaramente di quello che ci stava facendo passare.

 
***

 
BAU TEAM

Le casse erano state alzate al massimo oltre che dotate di filtri, in modo da avere un suono più pulito e chiaro possibile. I tre agenti davanti ai monitor erano come ipnotizzati dalla scena a cui stavano assistendo, paralizzati da quello che erano obbligati a sentire. Penelope, la più fragile tra loro, era sconvolta: gli occhi spalancati, la bocca dischiusa in una “o” muta, il corpo scosso dai brividi; eppure incapace di distogliere lo sguardo. JJ la circondò con un braccio, tentando di trasmetterlo un po’ di conforto. Presto sarebbe finito tutto, i loro colleghi sarebbero tornati a casa e tutti insieme sarebbero usciti a festeggiare il lieto fine. Questo almeno era quello che frullava nelle loro testoline.

Mentre le donne si facevano coraggio a vicenda, combattendo contro l’impulso di dedicarsi ad altro, pur di non abbandonare due membri della loro famiglia, Reid se ne stava in piedi a braccia conserte, analizzando quella scena davanti a lui che a suo parere aveva qualcosa di terribilmente sbagliato. In tutto quello a cui aveva assistito fino a quel momento c’era una nota stonata e sentiva che era urgente che lui la trovasse prima che fosse troppo tardi. Gli servirono pochi istanti, doveva per un attimo estraniarsi dalla conversazione che continuava imperterrita sugli schermi davanti a loro. Alla fine ruppe il silenzio.

-Anche secondo voi c’è qualcosa di strano?- le due donne, ben felici di sentirsi chiamate in causa, lo guardarono sorprese e confuse allo stesso tempo.

-Che cosa intendi?- domandò Penelope, temendo un altro colpo di scena a loro sfavorevole.

-L’S.I. ha ucciso intere famiglie, ma mai il padre. Perché ora dovrebbe cambiare?- rispose il più giovane della squadra, esponendo i propri pensieri. JJ assottigliò lo sguardo, seguendo il ragionamento del collega.

-In effetti difficilmente il modus operandi viene cambiato, a meno che non avvenga un’escalation.-

-Un’altra cosa poi che non mi convince- riprese Spencer –è che il nostro S.I. è stato messo in prigione proprio con l’assassino del figlio di Hotch, che guarda caso è l’unico che conosce ogni singolo membro della sua famiglia. Non vi sembrano un po’ strane tutte queste coincidenze?-

-Oh, mio Dio! Non starai pensando che qualcuno possa aver pianificato tutto?!- domandò inorridita Penelope, centrando però i pensieri degli altri due.

-In effetti avrebbe senso. Sapeva che uno dei due assassini non si sarebbe lasciato sfuggire l’opportunità di uccidere un altro membro della famiglia del poliziotto che più odia al mondo, mentre l’altro avrebbe trovato nel primo una valvola di sfogo.- espose JJ.

-Questo significa che c’è qualcun altro, e noi ancora non sappiamo chi, che vuole Hotch morto!- arrivata a quel punto, Penelope era decisamente stanca di sorprese.

-Garcia, pensi di poter fare un controllo incrociato tra: gli agenti del BAU che hanno avuto accesso al penitenziario nel periodo in cui McGrant è finito dentro, quelli con cui è venuto in contatto Hotch per faccende burocratiche e quelli che otterrebbero dei vantaggi se Hotch si togliesse dai piedi?- chiese gentilmente ma in tono pratico il dr. Reid. Garcia rivolse ai due colleghi un’occhiata penetrante, una di quelle che stava a significare che aveva messo il turbo e che chiunque si fosse parato sul suo cammino se la sarebbe vista brutta.

-Ragazzi, se non vi dispiace, ora devo trovare il bastardo che tentava di dividere la nostra squadra, perciò devo concentrarmi e non ci riuscirò mai se voi restate qui.- e molto gentilmente ma con molta insistenza, li buttò fuori dalla sua stanza dei monitor.

Reid e JJ si avviarono alle loro postazioni, da dove avrebbero comunque potuto continuare a seguire la vicenda tra l’S.I., Hotch e Serena. Ancora una volta fu il ragazzo a rompere il silenzio, questa volta però con aria preoccupata.

-Lo sai vero cosa comporta questo nella stesura del profilo?- la donna pensò bene di lasciarlo continuare, anche se un brutto presentimento andava a prendere forma nella sua mente –L’S.I. in realtà non vuole uccidere Hotch, vuole uccidere Serena.-

-In questo modo tutto combacia, non ha cambiato modus operandi allora. Ucciderà Serena così che Hotch si sentirà responsabile della sua morte, per il resto della sua vita.-

 
Con uno scatto Derek chiuse il cellulare, riponendolo al suo posto sulla cintura.

-Ci sono novità?- domandò Emily, visibilmente ansiosa.

Quella storia stava logorando i nervi di tutti. Erano ore che erano appostati poco lontani dal covo del Soggetto Ignoto, il computer portatile, posizionato nel bagagliaio aperto, mostrava loro in tempo reale cosa stava succedendo all’interno dell’edificio.

-Era JJ. A quanto pare c’è stato qualcun altro che ha aiutato l’S.I. nella sua vendetta.-

-Intendi oltre a Gilgun?- chiese sempre Emily.

-Secondo i ragazzi non è stata una coincidenza che i due serial killer siano finiti nella stessa cella, qualcuno ce li ha messi.- spiegò l’uomo di colore.

-Tutto torna: un assassino assetato di uccidere e l’altro di vendetta, il primo il braccio e il secondo la mente. Hanno già qualche idea su chi possa essere?- intervenne David.

-Garcia ci sta lavorando facendo un controllo incrociato.-

-Speriamo riescano a trovare qualcosa.- sospirò l’agente più anziano con fare speranzoso. Emily sbuffò.

-Non ce la faccio più a stare qua con le mani in mano.- al contrario dei colleghi in centrale, forse complice il fatto di trovarsi sulla scena, i tre agenti erano riusciti a mantenere un buon autocontrollo, pronti ad intervenire in qualunque momento.

-Comprendo il tuo stato d’animo, ma purtroppo possiamo solo aspettare i prossimi sviluppi. Non possiamo nemmeno metterci in contatto con Serena, l’S.I. scoprirebbe lei, noi e il nostro piano e magari potrebbe anche decidere di ucciderli entrambi. Un rischio troppo grande per noi. Siamo nelle mani di Garcia e di quella ragazzina.- concluse David, riuscendo così in un qualche modo a placare l’animo focoso della collega; almeno per il momento.

Fu Emily tuttavia a dar voce alla preoccupazione di tutti.

-Spero tanto che Serena sappia quello che sta facendo.-
 
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Capitolo 15
*** Capitolo 14 ***


Serena-Hotch-Jj
 

Capitolo 14

 
“Non mi importa se mi brucio la pelle
Se brucio i secondo e le ore
Mi importa se mi vedi e cosa vedi
Sono qui davanti a te coi miei bagagli
Ho radunato paure e desideri”
 
 
-Mi dispiace.-

Fu questo tutto quello che riuscii a dire, dopo che l’S.I. a resoconto ultimato mi aveva domandato se avevo qualcosa da dire, dopo tutto quello che avevo sentito. La voce mi uscì roca e bassa, ma non era dovuto solo al troppo silenzio. Anche il groppo che mi si era formato in gola ne era complice. Mi sentivo la testa leggera, vuota, come se qualcuno l’avesse aperta e tutti i coriandoli e le farfalle se ne fossero volati via. Alzai lo sguardo per incrociare gli occhi della mia bambina, ma tutto ciò che vidi era una ragazza con gli occhi da giustiziere. Mi sentivo un criminale che di fronte ad una corte chiede perdono per i propri crimini, ben sapendo che comunque questo non sarebbe bastato per assolverlo.

-Mi dispiace.-

Sapevo che non sarebbe cambiato nulla, ma avevo bisogno di ripeterglielo. Ancora e ancora se non fosse bastato. Mi sentivo un delinquente, perché quello che stava usando contro di me era lo stesso sguardo che io usavo per tutti i criminali che arrestavo: serietà, nessuna pietà. Avrebbero pagato per quello che avevano fatto. Ma a me sarebbe stata concessa l’opportunità di pagare? Ne dubitavo.

Ero così intento a guardarla, a studiarne le reazioni, che non notai la reazione dell’uomo accanto a me al suono delle mie parole. Per un attimo vidi rosso. Non sapevo con cosa mi avesse colpito, provai solo un’intensa fitta sulla parte alta posteriore della testa.

-Tutto qui? È tutto qui quello che hai da dire a tua discolpa?- era infuriato come mai l’avevo visto, neanche fosse lui figlio mio. Eppure le sue parole mi scivolarono addosso mentre continuava a muoversi avanti e indietro, furente. La mia attenzione era stata catturata da ben altro. Nei pochi istanti che mi erano serviti per recuperare la vista, mi era parso di vedere Serena sussultare, quasi si fosse spaventata per me. Poteva mai essere? Allora c’era ancora una speranza? Mentre i passi dell’S.I. ci facevano da sottofondo alzai nuovamente lo sguardo, cercando su quel familiare giovane volto indizi che avessi ragione. Non era stata lei a dirmi che era venuta lì per salvarmi? Che ce ne saremmo andati insieme? Possibile che mi stesse veramente ingannando? Non riuscii a capirlo. I suoi occhi rimasero imperturbabili, distanti. Io ero nelle sue mani, sia che fossero per salvarmi sia per uccidermi; questa era l’unica cosa certa.

-Agente Hotchner- la voce dell’S.I. aveva una nota canzonatoria –a quanto pare, anche dopo aver perso tua moglie e tuo figlio, non hai ancora capito il valore della famiglia.- spostai lo sguardo da Serena a lui, avevo la netta impressione che stessimo per arrivare al dunque. Mi si avvicinò per poi aggirarmi, sparendo dalla mia visuale. Anche Serena non si perdeva un suo solo movimento. A strapparmi dalle mie valutazioni ci pensò lui, afferrandomi per i capelli e tirandomi indietro la testa di scatto; serrai i denti e cercai di fare lunghi respiri profondi, in modo da metabolizzare il dolore. Adesso l’unica cosa che vedevo era il soffitto grigio.

-Allora Serena, cosa vuoi che faccia di quest’uomo?- le domandò sorridendo. Bene, eravamo passati alla fase impersonale, quella in cui io non ero più un agente federale, tanto meno suo padre; ero solo un uomo qualunque, era così che gli assassini vedevano le loro vittime. Persone facilmente rimpiazzabili, senza troppa importanza. Se Serena mi avesse visto a quel modo ero spacciato.

-Credevo l’avrei fato io.- gli fece notare lei, quasi che l’S.I. le avesse fatto un torto e lei fosse libera di negoziare con lui, poco importava che fosse legata alla sedia. La sua risata fu vuota, asettica, fastidiosa. Ne ero sicuro, si stava prendendo gioco di tutti noi. La presa sui miei capelli si serrò maggiormente.

-Ammirevole il tuo spirito combattivo, non trovi anche tu Aaron? Comunque sia abbiamo ancora tempo. Ma ti prego, rispondi alla mia domanda. Sono sinceramene curioso.- questa volta Serena non rispose nell’immediato; ci pensò.

-A dire il vero…- mi lanciò uno sguardo penetrante -…non saprei. Non ho mai pensato a come sarebbe stato arrivare a sbattergli in faccia la realtà.-

L’S.I. rise, ancora divertito, lasciando definitivamente la presa sui miei capelli. La cute mi formicolava dove aveva strattonato di più.

-Tranquilla piccola, ti aiuterò io.-

Fece un movimento. Lo notai subito perché diverso dagli altri. Poi sentii la mia voce rompere il silenzio che ci circondava.

 
POV SERENA

Mi ero dovuta mordere la lingua per evitare di urlare o anche solo reagire. Talmente forte che sentii il sapore metallico del sangue riempirmi la bocca. Mi sarei dovuta aspettare che presto i fatti avrebbero sostituito le parole, eppure quel singolo, fluido movimento, era stato come lo sparo di una pistola. Dalla tasca posteriore dei jeans l’S.I. aveva estratto un taser e, senza troppo preamboli, lo aveva azionato contro mio padre. Vidi mio padre stringere i denti, malgrado il profondo gemito che mi aveva paralizzata dall’interno. vederlo sofferente era un conto, assistere mentre lo torturavano un altro. Me la sentivo addosso quella scarica elettrica, i muscoli che si contraevano cercando di resisterle, mentre in realtà ne venivano sopraffatti. La paura mi serrò forte lo stomaco e per un lungo momento non fui capace di distogliere lo sguardo; temetti così di essermi giocata la mia copertura. Fortunatamente non fu così. L’S.I. dovette pensare che la mia fosse una reazione più che normale, visto che continuò a rivolgersi a mio padre, ignorandomi.

-Forse, tuo padre rammenterebbe meglio cosa vuol dire perdere un figlio se ricordasse cosa è successo l’ultima volta.- disse ancora utilizzando quel tono canzonatorio.

 
(FLASHBACK)

Pioveva. Pioveva a dirotto. Serena se ne stava raggomitolata sul divano, la zia seduta in parte a lei le circondava le spalle con un braccio. C’era qualcosa che non andava. Qualcosa di terribilmente sbagliato. Se lo sentiva. Jack non era tornato a casa da scuola con lei quel giorno, era andato via con il suo amico Rudy, dicendole di riferire alla zia che sarebbe tornato per l’ora della merenda. Lo aveva guardato allontanarsi con quel tipo alto alto, dagli occhi cerchiati di nero e il sorriso cattivo. Non aveva trovato un modo migliore per descriverlo. Le aveva messo paura quel tipo, tanta, ma non era stata capace di convincere il fratello a non andare; nemmeno quando aveva aggiunto che la zia si sarebbe arrabbiata molto. Aveva provato a dissuaderlo dicendo che quella sera il papà sarebbe tornato a casa e se lui non ci fosse stato ci sarebbe rimasto male. Ma nulla. Jack aveva detto che sarebbe tornato in tempo e lei era una brava sorellina. Si era sempre fidata di lui  e lo fece anche allora. Come previsto la zia si era subito allarmata vedendola rincasare da sola. Le aveva fatto un sacco di domande, tanto velocemente che aveva fatto fatica a starle dietro. Serena l’aveva guardata, accucciata di fronte a lei con sguardo preoccupato, le mani sulle sue spalle magroline. Non sapeva più cosa pensare, troppe cose affollavano la sua testolina e tutte sfuggivano prima che potesse identificarle, come acqua che scivola tra le dita. Alla fine aveva raccontato tutto alla zia, dimentica delle domande, le aveva fatto un resoconto dettagliato di cosa era successo, cosa si erano detti e le sue impressioni.

Capendo che la nipote non stava mentendo e che quindi non si trattava di uno stupido scherzo da bambini, Jessica Brooks aveva afferrato il proprio telefono e aveva fatto una cosa che di solito non faceva mai: aveva chiamato il cognato sul lavoro. Aaron aveva risposto quasi subito, intuendo che la donna non l’avrebbe chiamato se non si fosse trattato di un’emergenza.

-Pronto?- disse in modo secco.

-Aaron? Grazie al cielo hai risposto subito. Jack è scomparso!-

-Che cosa?- il mondo in un istante era crollato addosso ai due Hotchner, padre e figlia, nell’udire quelle due parole. Adesso Serena capiva il perché di quella brutta sensazione che l’aveva accompagnata a casa. Aaron invece metabolizzò l’informazione, mettendo in azione la sua mente da agente dell’F.B.I..

-Serena è appena tornata a casa. Ha detto che Jack si è allontanato con un ragazzo più grande.-

-Arrivo subito.- poi aveva riattaccato.

Zia e nipote si erano guardate con occhi pieni di orrore. In seguito avrebbero saputo che per le strade della Virginia si aggirava un tipo che rapiva i bambini e finora ne erano scomparsi sei: il quinto trovato morto quella mattina, Jack l’ultimo a sparire. Era uno dei tanti casi finiti sulla scrivani di ‘zia’ JJ, subito accettato non appena avevano saputo della sparizione del bambino. Serena aveva fatto i compiti con il cuore che le batteva forte, dentro la sensazione che fosse colpa sua, che non avrebbe dovuto permettere a quel tipo allampanato di portare via il suo fratellone. Quando aveva espresso i suoi dubbi la zia l’aveva stretta forte a sé, dicendole che non era colpa sua, quel ragazzo era più grande e aveva cattive intenzioni, avrebbe portato via Jack in ogni caso. Quando la porta di casa si aprì, lasciando entrare suo padre, Serena gli corse incontro, gettandogli le braccia al collo. Il genitore la strinse a sé, sollevato che almeno uno dei suoi due figli fosse al sicuro; adesso doveva solo rintracciare l’altro.

-Papà mi dispiace, ho provato a convincere Jack a non andare.- disse la bambina preoccupatissima, il padre inginocchiato davanti a lei.

-Lo so tesoro. Ma lo sai anche tu quanto è testardo tuo fratello.- cercò di rassicurarla lui, cercando di mantenere la calma; sua figlia era l’unica in quel momento che poteva fornire loro informazioni per rintracciare quel delinquente. Nel frattempo la squadra aveva preso possesso del salotto come base.

-Serena ascolta, cosa puoi dirmi del ragazzo che ha preso Jack? Che aspetto aveva? Sai dove avevano intenzione di andare?- le domandò dolcemente Aaron.

La bambina gli fornì un’esatta descrizione del soggetto e, come sempre, ‘zia’ Garcia fece uno dei suoi miracoli, scoprendone l’identità.

Erano passate ore da quando il padre e i suoi colleghi più fidati erano usciti sotto la pioggia battente. Ormai si era fatto buio e di loro nessuna notizia. Zia Jessica si aggirava irrequieta per casa, cercandosi qualcosa da fare per scaricare la tensione. Serena se ne era stata seduta sul divano in silenzio per tutto il tempo, alzandosi solo per andare a mangiare la cena, poi era tornata al suo posto ad osservare gli agenti all’opera. Di tanto in tanto il rombo dei tuoni faceva tremare le finestre. Chissà se il suo papà e il suo fratellone erano al freddo sotto l’acqua?

-Zia JJ, quando tornano papà e Jack?- le aveva chiesto infine. Zia Jessica si era come paralizzata in fondo al corridoio all’udire quella domanda; come si poteva spiegare ad un bambino una situazione tanto delicata?

L’agente dell’F.B.I. dai lunghi capelli biondi sorrise alla figlia del suo capo, prendendo posto accanto a lei.

-Mi dispiace Serena, ma non so dirti quanto torneranno.-

-Ma torneranno, vero? Come sempre?- insistette la bambina, pensando ad uno qualsiasi dei casi a cui aveva lavorato il genitore, portandolo a termine per poi tornare a casa dalla sua famiglia.

-Il tuo papà è il migliore agente dell’F.B.I., vedrai che tornerà presto.- cercò di rassicurarla JJ, portandole una ciocca di capelli dietro l’orecchio.

-Jack non è mai stato fuori così tanto tempo da solo.- disse la bimba, portando lo sguardo oltre i vetri bui delle finestre, striati di pioggia. La giovane donna deglutì, tentando di non commuoversi davanti a lei.

-Vedrai che tornerà presto. Insieme al tuo papà.- il sorriso le uscì molto tirato.

-Mi mancano zia JJ. Voglio il mio papà e il mio fratellone.- confessò la piccola con le labbra imbronciate in un’espressione triste.

-Lo so piccola, lo so.- JJ l’attirò a sé, abbracciandola, strofinandole le mani sulle braccia nella speranza di trasmetterle un po’ di calore. Cercò con lo sguardo quello del collega più giovane, nella speranza di trovare una soluzione per quella bambina. Poi le venne un’idea.

-Pronto.- la voce di Aaron era austera, fredda come la pioggia che si sentiva in sottofondo.

-Hotch, mi dispiace disturbarti, ma ho bisogno che parli con Serena. È spaventata e si ostina a non voler andare a dormire finchè tu e Jack non sarete tornati. Continua a chiedere di voi.- seguì un attimo di silenzio, in cui il caposquadra valutò attentamente se assecondare quella straordinaria richiesta. Infine…

-Passamela.-

-Pronto, papino?- domandò una voce piccola piccola.

-Ehi, principessina! Mi ha detto zia JJ che non vuoi andare a dormire. Non è da te fare i capricci.- le disse il genitore, senza risultare troppo severo.

-Tu e Jack quando tornate?- ovvio che lo snobbasse, lo aveva già calcolato.

-Il prima possibile, ma adesso voglio che tu vada a dormire.-

-No, voglio essere sveglia quanto tornate.- insistette la bambina con ostinazione.

-Serena fai la brava. È molto tardi. Facciamo così, quando io e Jack torneremo verremo a svegliarti, d’accordo?- dall’altra parte il silenzio –Serena, ci sei?-

-Okay, ma solo se venite a svegliarmi quanto tornate.-

-Te lo prometto. Adesso vai.-

-Okay, buonanotte papino.- sentì lo schiocco delicato di un bacino.

-Buonanotte amore, adesso passami zia JJ.- avvenne il passaggio di mano.

-Hotch?-

-Adesso dovrebbe essere tutto a posto, le ho detto di andare a dormire e quando torneremo a casa la sveglieremo.-

-Ti ringrazio, so che non avrei dovuto chiamarti.-

-Hai fatto bene, non voglio che si agiti troppo.- silenzio.

-Avete scoperto qualcosa?- domandò JJ.

-Se le coordinate sono giuste ci stiamo avvicinando al suo nascondiglio.-

-Prendetelo quel bastardo.-

-Tranquilla, non ci scapperà. A dopo.- e senza aspettare risposta riattaccò.

Le ore passavano. Ci pensavano la pioggia e i lampi a scandirne il tempo. Serena era salita in cameretta, si era messa il pigiama e infilata sotto le coperte. Le ci era voluto un po’ prima di riuscire a prendere sonno. Le ombre in continuo movimento nella sua stanza la innervosivano. Quando finalmente si era addormentata il suo sonno era stato agitato. Più e più volte si era rigirata nel letto, cercando di scacciare quel brutto presentimento che si era accanito su di lei da quella mattina. Si ritrovò all’improvviso con gli occhi aperti, svegliandosi di colpo senza la minima traccia di sonno. Le ci volle un poco per fare ordine nei suoi pensieri, ad esempio come mai non era nella sua camera a dormire. Poi rammentò quel sorriso tagliente e le spalle di suo fratello che si allontanava, mano nella mano con quello sconosciuto.
Come se avesse delle molle sotto la schiena balzò fuori dalle coperte, precipitandosi giù dalle scale. Se era pronta a sorvolare sul fatto che il papà non l’avesse svegliata subito, di certo non lo era per la scena a cui stava per assistere. C’era un silenzio tombale nella casa, solo i suo passi ovattati disturbavano quella quiete. In salotto gli agenti stavano riponendo al loro posto le proprie attrezzature: come aveva immaginato il caso si era concluso. La sua espressione sollevata lasciò però subito il posto ad una più seria. Zia Jessica, seduta sul divano di sinistra, aveva gli occhi umidi e arrossati, anche il naso era rosso sebbene fosse seminascosto dal fazzoletto che continuava a premersi sul naso e sulla bocca. Serena notò che stava singhiozzando. Sul divano di destra c’era il suo papà. I gomiti puntellati sulle ginocchia mentre si teneva la testa tra le mani. Cosa era successo? Dov’era Jack? La bambina si avvicinò al genitore con la stessa silenziosità di un fantasma.

-Papà.-

Aaron alzò subito lo sguardo su di lei, come se fosse stato scoperto con le mani nel vasetto della nutella. Serena constatò che anche i suoi occhi erano umidi. Aveva i vestiti sporchi di fango e i corti capelli di un marrone quasi nero luccicavano di pioggia. I due Hotchner rimasero a lungo a fissarsi, come se solo guardandosi potessero comunicarsi un sacco di cose. Strano fu anche quando il padre, anziché sgridarla che non fosse a dormire, allargò le braccia permettendole di avvicinarsi.

-Dov’è Jack, papà?- domandò con innocenza.

Aaron faticò a trattenere le lacrime di fronte a quegli occhi, gli occhi di sua moglie. Cercò di sorridere dolcemente alla figlia, ma quello che ne uscì fu una smorfia mal riuscita. Serena aveva capito subito che era successo qualcosa di grave. Il papà non le aveva ancora risposto e aveva visto la sua bocca tirarsi, mascherando un singhiozzo. Il suo papà era triste. Quando lei era triste i suoi familiari la abbracciavano, dicendole che tutto sarebbe andato bene. Così lei si avvicinò ancora un po’, abbracciando forte il suo papà. Stretta che lui ricambiò. Nemmeno lui si era reso conto di quanto ne avesse avuto bisogno.

-Papà, Jack è con la mamma adesso?-

Aaron chiuse gli occhi, lasciandosi sfuggire alcune lacrime. Socchiuse le labbra per prendere un bel respiro, mentre si teneva stretta sua figlia al petto.

-Sì, tesoro. È con la mamma adesso.- fu un’ammissione liberatoria.

Passarono alcuni minuti di silenzio.

-Papà. Vedrai, andrà tutto bene.- disse la bimba.

Aaron non riuscì più a trattenersi e si lasciò andare ad un pianto liberatorio, stretto fra le braccia della sua bambina.

(FINE FLASHBACK)

 
-Allora agente Hotchner? Te lo ricordi? O forse hai bisogno di una rinfrescatina alle idee?- l’S.I. rideva, continuando a girarci intorno, gli occhi rapaci puntati ossessivamente contro mio padre. –Te lo immagini? Come sarebbe perdere anche la tua ultima figlia? L’ultimo membro della famiglia che tu non sei stato in grado di proteggere. L’ultima persona che ancora ti tiene legato al tuo passato.-

Ma cosa voleva dire? Quelle parole mi lasciarono perplessa, c’era qualcosa che non andava. Sembrava quasi che fossi io la prossima vittima da uccidere, il che scombussolava tutti i miei piani. Non poteva essere, di certo era un altro modo per distrarre mi padre, per farlo soffrire.

 
POV HOTCH

Certo che me lo ricordavo. Quel pazzo non aveva la benché minima idea di cosa stava parlando. Non avrei mai potuto dimenticare i giorni in cui persi mia moglie e mio figlio, mi avrebbero accompagnato per il resto dei miei giorni.

 
(FLASHBACK)

Pioveva. Pioveva a dirotto. Le macchine della polizia avanzavano con non poche difficoltà sull’asfalto scivoloso, cercando al contempo di andare veloci e non causare incidenti. Non se lo potevano permettere, il figlio del loro capo era in pericolo.

-Voglio un indirizzo Garcia!- aveva tuonato Hotch al suo tecnico informatico.

Malgrado tentasse di tenere a bada l’ansia crescente, poco alla volta il controllo iniziava a scivolargli dalle mani. Nessuno infatti osò contraddirlo, potevano solo immaginare loro come doveva sentirsi, senza contare che per lui era la seconda volta che un familiare veniva preso di mira. Involontariamente tutti i membri della squadra, persino JJ e Reid a casa con la bambina, iniziarono a sperare intensamente di ritrovare il piccolo Hotchner ancora vivo.
Garcia fece il suo miracolo e fornì alla squadra un indirizzo. Aaron, mani strette spasmodicamente attorno al volante e sguardo fisso davanti a sé, calcò ulteriormente il piede sul pedale dell’acceleratore. Troppo concentrato sul suo obiettivo non vide l’agente in parte a lui lanciargli un’occhiata preoccupata. Tuttavia David preferì restare zitto, conosceva il suo capo da molti anni ed era sicuro che si sarebbe spinto oltre ogni limite per salvare il figlio, ma non avrebbe mai messo a repentaglio la vita di uno di loro. Perciò la macchina non avrebbe slittato, non avrebbe fatto un testa coda, non avrebbe invaso l’altra corsia, tantomeno si sarebbero schiantati.

Aaron sentiva il cuore battere così forte da volergli uscire dal petto, anche lui voleva essere il primo a trovare Jack. Non a caso si era messo alla guida: non solo per essere il primo, ma anche per impedire alla propria mente di andare troppo in là. Appena aveva visto il nome della cognata sul display del cellulare aveva immaginato che si trattasse dei bambini, ma quando aveva aggiunto che Jack era scomparso il terrore per un attimo lo aveva paralizzato. Inevitabilmente gli era venuto in mente quello che era successo ad Haley e si era ripromesso che non sarebbe capitato anche al suo bambino. Jack era vivo e lui lo avrebbe riportato a casa. E da quel momento era una furia cieca, nulla lo avrebbe distratto dalla sua missione. Intorno a lui le sirene della polizia erano diventate un sottofondo urlante che voleva dire “Stiamo arrivando brutto bastardo!”.
Entrarono nel piazzale del porto, Aaron frenò gradualmente, balzando agilmente poi fuori dall’abitacolo, la pistola tra le mani puntata verso il basso. Tutti erano già divisi per squadre, non rimaneva che darsi da fare. Con lui c’erano Rossi, Morgan e Prentiss. Gli altri poco distanti da loro controllavano l’area di sinistra. Perquisirono container, uffici, magazzini, ripostigli, camion; tutti i nascondigli utili. Il leggero movimento dell’acqua arrivava loro come un sospiro di morte. Aaron iniziò ad irritarsi. Avevano fatto casino nell’arrivare, l’S.I. poteva averli sentiti ed essere fuggito. Sicuramente non aveva preso una macchina, l’unica via d’accesso al porto era da dove erano entrati loro e loro non avevano incrociato nessuno, di barche in allontanamento poi non ve ne erano e con quel buio era necessario accendere i fari se non si voleva scontrarsi con boe e quant’altro. Dove diavolo erano finiti?

-Occhi aperti! Non possono esser andati lontano!-

Avrebbe ribaltato quel posto palmo dopo palmo se fosse stato necessario.

-C’è qualcosa laggiù!- urlò un agente.

-Hotch!- lo chiamò Emily.

Non se lo fece ripetere due volte. Gli aerei, arrivati poco dopo di loro, perlustravano con i fari l’area oltre il perimetro del porto, la superficie dell’acqua e la zona circostante, composta da acqua stagnante ricoperta da arbusti, pontili arrugginiti, vecchi materiali e pezzi di barche. Fu proprio in quella zona che era stato individuato un movimento circospetto. Con un atletico salto Aaron raggiunse l’altra sponda, le braccia tese davanti a sé. Qualcun altro lo imitò, ma non aveva tempo per soffermarsi a guardare. Sapeva che la squadra si sarebbe disposta a ventaglio alle sue spalle, lui davanti a tutti apriva la strada. L’erba gli arrivava ben oltre il ginocchio; se l’S.I. avesse fatto sdraiare a terra Jack ci avrebbero messo il doppio del tempo a trovarli. L’ultima cosa che voleva tuttavia era mettere nel panico il rapitore: giovane, inesperto e affetto da psicosi, avrebbe potuto agire avventatamente e fare del male al piccolo Hotchner.

Lui e i suoi uomini avanzavano in silenzio, un silenzio pesante, assordante. I loro respiri si condensavano in nuvolette davanti a loro.

-Hotch! Laggiù!- bisbigliò Rossi sopra la sua spalla destra.

Aaron allungò il passo in quella direzione. Anche lui nella penombra aveva visto degli arbusti ondeggiare.

-Gilgun, sappiamo che sei lì! Arrenditi!- urlò nella notte. Nessuno rispose. Loro continuarono ad avanzare.

-Gilgun vieni fuori e tieni le mani bene in vista!- disse Morgan alcuni metri più in là, anch’egli con la pistola puntata in avanti.

-Non puoi più fuggire ormai, sei circondato! Lascia andare il bambino e tutto andrà bene!- urlò Emily alla sua sinistra.

Li raggiunse un movimento di arbusti spezzati e, poco alla volta, due mani emersero in quel mare grigio scuro, seguite da una tuta blu da meccanico troppo larga; Hotch e compagnia gli puntarono le armi contro. Il problema era che era solo.

-Gilgun, dov’è il bambino?- domandò Hotch con voce ferma, non lasciando trasparire alcuna emozione, sebbene la sua espressione parlasse per lui.

-Temo vi stiate sbagliando, sono solo.-

Aaron gli avrebbe volentieri sparato in faccia seduta stante. Si vedeva lontano un miglio che quel farabutto si stava prendendo gioco di loro.

-Basta con le chiacchiere, dicci dov’è!- tagliò corto Rossi. Il ragazzo sorrise.

-Ve lo ripeto, sono da solo.-

-Sei stato visto alla scuola oggi e ti sei allontanato con il piccolo Jack.- intervenne Emily; quel ragazzo faceva paura, il modo in cui squadrò la donna sembrava volerla spogliare di tutti gli indumenti. Vedendosi messo alle strette Gilgun abbassò le proprie difese.

-Ah, sì…il piccolo Jack.- disse con voce strascicata, quasi delusa –Lui non era come gli altri. Lui era speciale.- pareva stesse parlando di un serpente.

Aaron percepì brividi freddi scendergli lungo la schiena. Con un cenno della testa diede il consenso a due agenti del posto di ammanettarlo.

-Cosa gli hai fatto?- domandò Morgan.

-Io? Niente.-…-Lui era il mio fratellino.- appena un poliziotto lo toccò, il ragazzo reagì con una velocità fulminante, girandosi di scatto per liberarsi dalla presa dell’uomo e con una poderosa gomitata gli ruppe il naso. Il poliziotto colto di sorpresa si piegò in due, le mani al viso per metà già ricoperto di sangue. Un colpo di arma da fuoco partì in risposta, centrando il delinquente ad una gamba. Il ragazzo urlò tra i denti, ma rimase in piedi.

-Non uccidetelo! Ci serve vivo!- urlò Hotch.

Nel frattempo Rudy era riuscito a guadagnare terreno, approfittando del momento di confusione, mimetizzandosi nell’oscurità. Alcuni agenti avevano subito prestato soccorso al poliziotto ferito.

-Hotch! Sta scappando!- lo avvertì Rossi.

La squadra di profiler si fiondò di corsa dietro al delinquente, cercando di inciampare il meno possibile tra tutte quelle erbacce, sperando di non cascare nelle buche piene di acqua di cui il terreno era disseminato.

-Dov’è finito? Dov’è finito!- sbraitò Morgan.

-Laggiù! Davanti a noi!- rispose Prentiss ad alcuni metri di distanza.

-Ma come fa ad essere così veloce?- domandò ancora l’agente di colore.

-E’ strafatto di droga. Probabilmente il dolore non è nulla in confronto all’adrenalina che sta provando.- rispose questa volta Rossi, il respiro leggermente ansante per quella faticosa corsa.

Hotch non proferì parola, tutte le chiacchiere erano superflue in quel momento.

Poi si fermarono tutti di colpo. La loro preda era scomparsa. Il silenzio notturno mise loro i brividi. Ma non c’era nulla oltre il leggero sciabordio dell’acqua nei canali e il frinire dei grilli. Aaron poteva sentire il proprio cuore esplodergli nel petto, i muscoli dolere per la troppa tensione, la gola bruciare…non era mai stato tanto stanco e vecchio come in quel momento. Dov’era suo figlio?

Stavano iniziando a temere di averlo definitamente perso questa volta…

-Hotch…-

-Shhhtt!-

…quando un tonfo li mise nuovamente sull’attenti. Si voltarono verso destra e ad una decina di metri da loro Gilgun emerse dall’erba alta. Sotto il suo braccio sinistro portava un fagotto.

-Papà!- chiamò una vocina strozzata.

Aaron perse un battito all’udire quel suono così familiare.

-Jack!- si precipitò loro incontro.

-Lascialo! Lascia il bambino!- urlarono gli altri agenti in modo concitato.

-State lontani! Altrimenti giuro che  lo ammazzo!- minacciò invece Rudy.

-Papà aiuto.- disse ancora flebilmente il bambino.

-Tranquillo piccolo, andrà tutto bene.- cercò di rassicurarlo Hotch, senza staccare i propri occhi da quelli fuori di testa del ragazzo. Aveva avuto ragione sua figlia quando gli aveva detto che quel ragazzo era cattivo; gli occhi erano talmente aperti che sembrava volessero schizzargli fuori dalle orbite. Fu proprio lui a distrarlo da quei pensieri.

-Io le consiglio di stare lontano.- sibilò minaccioso, nell’altra mano un coltello rifletté minacciosamente la luce delle torce.

-Avanti Gilgun, lascialo. È solo un bambino. Davvero faresti del male ad un bambino?-

-Non è solo un bambino!- lo aggredì Rudy –E’ il mio fratellino.- disse a mo’ di cantilena.

-Sai bene che non è vero. Voi non siete fratelli.- disse con calma Hotch, sperando di farlo ragionare.

-Invece sì. Il mio papà mi ha fatto tanto male.- rispose, quasi fosse un bambino piccolo, poi la sua espressione mutò di colpo in una feroce –E anche il papà di Jack gli ha fatto male. Noi siamo uguali. Come due fratelli.- e sorrise.

-Basta Rudy, avevi detto che mi avresti lasciato tornare a casa.- cercò di convincerlo Jack.

-Mentivo.- cantilenò il ragazzo più grande.

-Rudy, finiremo col farci male.-

-Gilgun, ti consiglierei di ascoltarlo.- aggiunse Hotch, dando man forte al figlio.

Rudy lo guardò a lungo prima di prendere la sua decisione: una mano posata saldamente sul retro del collo del bambino, l’altra stringeva spasmodicamente il coltello. Nel frattempo gli occhi di padre e figlio si incontrarono, avevano paura tutti e due. Quasi gli avesse letto nel pensiero, l’S.I. allontanò maggiormente Jack da Aaron.

-Invece no. Adesso io e Jack andiamo a fare una passeggiata. Da soli. E se mi dovessi accorgere di qualunque cosa di strano, qualunque, io ucciderò il piccolo Jack. Sono stato abbastanza chiaro?- chiese con tono fermo.

Hotch sentiva il sangue ribollirgli dalla rabbia e dall’impotenza.

-Certo. Abbiamo capito.- rispose per loro Rossi, la sua voce bassa riusciva sempre a infondere un senso di calma negli altri.

Il ragazzo pose entrambe le mani sulle piccole spalle di Jack con fare rassicurante, il coltello pericolosamente vicino al suo collo. Lentamente, i due si girarono fino a dare le spalle ai poliziotti. Gli occhi marroni di Jack non lasciarono un solo istante il viso del suo papà e lo stesso fece Aaron. Un urlo di dolore riecheggiò dentro di lui. Stava succedendo tutto troppo in fretta. Sarebbe bastato un colpo. Uno solo. In mezzo alle scapole. Ma c’era il rischio di ferire il bambino. Si maledì per non essere riuscito a contattare la squadra speciale, un tiratore scelto in quel momento gli avrebbe fatto comodo.

-Hotch! Che cosa facciamo?- gli domandò Emily, confusa per la piega che stava prendendo la situazione.

Aaron si guardò intorno, studiando la zona, cercando la risposta a quella domanda.

-Sparpagliatevi.- ordinò, lo sguardo che vagava tra il punto in cui Rudy e suo figlio erano spariti e le macerie che li circondavano.

-Cosa?- domandò Rossi scioccato.

-Hai sentito cosa ha detto. Se nota anche solo di essere seguito lo ucciderà.- intervenne Emily.

-Credete che non lo sappia?- li fulminò con lo sguardo. Tutti rimasero in silenzio.

-Fate allontanare gli aerei e le macchine della polizia. Diamogli l’impressione che abbia ottenuto ciò che voleva. Nel frattempo noi ci sparpaglieremo. Allargatevi, usate i rottami, l’erba e l’oscurità per nascondervi. Dobbiamo seguirli e tenerli d’occhio. Al minimo cenno di minaccia nei confronti di Jack fate fuoco. Ci siamo capiti?- tutti annuirono in silenzio; nessuno contraddice il capo.

Mentre Hotch si apprestava a mettere in pratica il suo piano, nascondendosi dietro ad un ammasso di metalli ammucchiati, sul porto tutte le sirene tacquero e in cielo gli aerei si allontanarono. In ogni caso sarebbero stati abbastanza vicini in caso di necessità. Anche i suoi colleghi si erano dileguati, mimetizzati nella notte. Sbirciò fuori dal suo nascondiglio, scattò verso il successivo e perlustrò la zona. Andò avanti così per un tempo lunghissimo: scatto, nascondiglio, controllo; scatto, nascondiglio, controllo. Il buio e il silenzio erano così fitti; che si fossero allontanati troppo?

-Su forza, in piedi!- una voce giunse alle sue orecchie mettendolo in allerta.

-Sono stanco.-

-Smettila di frignare.-

-Non sto frignando.- disse con convinzione il piccolo Jack.

-Sì, invece. E ti conviene smetterla, altrimenti te la chiudo io la bocca.- Aaron vide Rudy piegarsi in avanti con fare severo, mentre suo figlio guardava il suo rapitore con sguardo truce. In una situazione normale lo avrebbe anche potuto trovare buffo; incredibile come i bambini riuscissero a sentirsi più forti di chiunque in certe situazioni.

-Voglio il mio papà.-

-Dimenticatelo. Lo sai, no…adesso siamo fratelli io e te.- rispose il ragazzo con fare convincente.

-Tu non sei mio fratello.-

-Ascolta Jacky, non rendere tutto più difficile.-

-Il mio nome è Jack.-

-Beh Jack, non hai molte alternative: o fai il bravo bambino e vieni con me, oppure non tornerai nemmeno a casa dal tuo papà.-

I due Hotchner agirono nello stesso momento; Aaron, capendo la minaccia velata da quelle parole. Jack sferrò un calcio negli stinchi di Rudy, spingendolo via, tentando di imitare un giocatore di football americano. Rudy appoggiò il peso sulla gamba ferita e perse l’equilibrio. Il bambino guadagnò qualche metro, ma venne riagguantato per la maglietta. Rudy lo tirò contro di sé in un macabro abbraccio. Sarebbero entrambi finiti al suolo se qualcun altro non si fosse frapposto tra loro.

Non potendo sparare, col rischio di colpire il figlio, Aaron si era lanciato contro il criminale, come un leone fa con la sua preda. Di stazza più grossa e muscolosa rispetto a quella del ragazzo, lo trascinò con sé nell’erba alta, lontano da Jack. Rotolarono un paio di volte prima di fermarsi. Rudy tentò di sgattaiolare via, ma Hotch lo afferrò con forza girandolo verso di sé e assestandogli un paio di poderosi pugni. Rudy, al suolo con il viso insanguinato, ferito, spompato dalla droga, l’adrenalina e la corsa, si arrese. Alcuni agenti di polizia sopraggiunsero subito, tirando in piedi il malcapitato, ammanettandolo e portandolo via. Ma non era ancora finita.

-Hotch!-

Fu Rossi a chiamarlo con voce bassa ad alcuni metri di distanza, quella nottata per diversi motivi lo aveva sfinito. E non solo lui. Uno di questi motivi era accerchiato dalla sua squadra, sdraiato al suolo. Ad un metro di distanza Emily era inginocchiata a terra, vicino al corpo steso del piccolo Jack. La donna alzò il viso per incontrare quello del suo capo, i suoi occhi trasmettevano una profonda tristezza. In piedi, poco più indietro, Morgan aveva la medesima espressione. Con un ultimo, immane sforzo, Hotch li raggiunse, lasciandosi cadere in ginocchio accanto al figlio. Il bambino lo guardava con i suoi stessi occhi, di un caldo marrone che di tanto in tanto si schiariva in un bel verde bosco; era tranquillo. Non piangeva, non mostrava alcun segno di dolore. Avrebbe detto che era tutto finito, che stava bene, se non fosse stato per la macchia cremisi che andava allargandosi sul suo torace. Quando Rudy lo aveva tirato a sé nella colluttazione, probabilmente lo aveva pugnalato. Pensava che Jack gli avrebbe ubbidito, invece si era ribellato. Come intuendo la gravità della situazione, Aaron sentì gli occhi pizzicargli. Ma non pianse, non voleva che il suo bambino si preoccupasse.

-Ehi, ciao!- lo salutò, tirando fuori un sorriso di riserva; era riuscito a trovarlo, adesso doveva solo portarlo a casa. Con una mano gli accarezzò i capelli dorati, mentre con l’altra gli tamponava la ferità come meglio poteva.

-Mi dispiace tanto, papino.- disse il piccolo con voce triste.

-Tranquillo piccolo, è tutto passato. Rudy non ti farà più del male.- cercò di tranquillizzarlo, forse in questo modo avrebbe potuto guadagnare un po’ di tempo, almeno finchè i rinforzi non fossero arrivati.

-Hotch, i soccorsi sono quasi arrivati.- lo avvisò Derek, riponendo in tasca il cellulare.

-Bene.-

-Sei arrabbiato con me?- gli domandò ancora Jack.

-No, non sono arrabbiato con te.-

-Allora perché sei triste?-

-Perché ho avuto tanta paura, tesoro mio.- e ne aveva ancora. Mentalmente urlava perché i soccorsi non facessero più in fretta. Le lacrime adesso spingevano prepotenti contro i suoi occhi, il tempo passava e il bambino continuava a perdere sangue.

-Papà…-

-Cosa c’è?-

-Mi fa male la pancia.-

-Resisti amore, l’ambulanza sta arrivando.- Aaron premette sulla ferita, quasi volesse arrestare il flusso di sangue che ne usciva.

-Serena è arrabbiata con me, vero? Lei mi aveva detto…coff…di non andare.-

-E’ molto preoccupata per te.-

-Glielo puoi dire che mi dispiace…coff…-

-Glielo dirai tu stesso. Adesso non parlare, devi conservare le forze.- il bambino si agitò un poco, come qualcuno che geme nel sonno.

-Fa tanto freddo…- Jack si mosse, dando segno di voler dormire.

-No, Jack…ehi…non chiudere gli occhi.-

-Ma sono stanco…-

-Coraggio piccolo, non devi addormentarti.- ma Jack aveva perso troppo sangue, la sua pelle era pallida e fredda. Lui si impegnava per fare come il papà gli aveva detto, ma il sonno era come un mare e quando le onde lo colpivano per un attimo ne rimaneva sommerso. Ed ogni onda era sempre più grande…e sempre più lunga. Aaron alzò lo sguardo per vedere a che punto fossero i soccorsi, non mancava molto, il pantano aveva rallentato l’ambulanza, ma dei paramedici erano già scesi con tanto di barella e correvano verso di loro il più velocemente possibile. Appena riabbassò lo sguardo Jack aveva chiuso gli occhi, pareva addormentato.

-Jack…no, avanti piccolo…Jack, svegliati…- lo scosse un poco, il cuore che galoppava furiosamente nel petto in preda al panico. Il bambino socchiuse un poco gli occhi, un paio di volte, faticosamente –Sì, così piccolo.-

-Pa…pà…- uscì in un soffio. Poi li richiuse. Aaron non lo scosse più, non ce n’era bisogno, non sarebbe servito a niente. Il tempo si era come fermato, svuotato nell’esatto momento in cui il padre aveva sentito il corpo del figlio esalare l’ultimo respiro tra le sue braccia. Sembrava stesse dormendo, ma non era così. Bollenti lacrime gli rigarono il volto congelato; il suo bambino non c’era più, se ne era andato per sempre. Lo aveva ritrovato, ma non era stato capace di salvarlo. Non si era nemmeno reso conto dei singhiozzi che gli scuotevano il corpo. Aveva sollevato il corpo di Jack, stringendolo forte a sé, quasi volesse spartire con lui la vita che gli rimaneva; ma non era possibile.

Nessuno disturbò quel momento, scioccati, addolorati. Qualcuno pianse in silenzio. I paramedici si fermarono a debita distanza, capendo di essere arrivati troppo tardi, il lampeggiante dell’ambulanza allungava ombre sinistre sulla scena del crimine. Fu così che passò maggior parte della notte Hotch: inginocchiato nell’erba, con il figlio tra le braccia.

(FINE FLASHBACK)

 
-No.- soffiai.

-Noo?- domandò l’S.I., quasi gli sfuggisse qualcosa di quella risposta. Incatenai lo sguardo al suo. Avrei tanto voluto odiarlo, lo stesso odio che avevo provato per l’assassino di Jack quel giorno. Avrei voluto provare il desiderio di uccidere, lo stesso che avevo provato in passato. Ma la verità era un’altra. Avevo paura. Una paura cieca che potesse uccidere la mia unica figlia;  l’ultimo membro della mia famiglia. Il mio angelo che per Halloween si vestiva da fatina.

-No.- ripetei, con calma –Ti prego. Lasciala andare.- in passato non avrei mai supplicato un criminale, ma qui non c’era in ballo solo la mia vita. Si parlava della vita di Serena, l’altra metà del mio cuore ancora intatta; metà se n’era andata con la morte di Jack. Non sarei potuto vivere, sapendo che anche lei era morta perché non ero stato capace di proteggerla.

L’S.I. sorrise, divertito e compiaciuto, ed iniziò a passeggiare per la stanza –Continua!-

-Risolviamo la questione…ma noi due soli. Lei non c’entra niente con tutto questa faccenda.- il mio cuore perse un battito quando lo vidi giocherellare con una ciocca di capelli scuri di mia figlia, vicino alla guancia. Guardava me, ma giocava con lei. L’annusò. Potrei sbagliarmi, ma avrei potuto giurare che gli occhi di Serena fossero languidi; come se entrambi ci fossimo appena fatti lo stesso tuffo nel passato. Lo scatto della lama di un coltello che si apre attirò la nostra attenzione. Come un deja-vu brividi freddi mi percorsero tutta la schiena. No, non stava succedendo veramente. La storia non poteva ripetersi. O forse sì?

Con la lama del coltello le accarezzò la gola e le guance; sarebbe bastata una minima pressione per ferirla. Ancora una volta il cuore prese a battermi contro lo sterno.

-Non toccarla!- sentii la voce tremarmi. Serena mi guardava, quasi aspettandosi qualcosa da me. Dovevo combattere per lei, come mai avevo fatto in vita mia. Fosse stata l’ultima cosa che facevo. –Mi hai sentito figlio di puttana? Non DEVI toccarla! Se ti azzardi anche solo a torcerle un capello…-

-COSA? EH, COSA VUOI FARE?- le sue urla adirate riempirono la stanza, i suoi occhi parevano assatanati da tanto che erano aperti.

Con fare feroce colmò la distanza che ci separava; ero pronto al peggio. Mi afferrò la mandibola con una forza che non avrei mai sospettato, eravamo vicinissimi.

-Forse, agente Hotchner, c’è una cosa che continua a sfuggirti: sono io a dettare le regole. Tu, al contrario, non puoi fare nulla.- mi lasciò andare per tornare in posizione eretta –E per dimostrarti quanto ti ho appena detto…-

Lo vidi scattare, ruotare il busto verso di me e il suo braccio destro distendersi, puntando al mio torace.

Non avrei mai pensato che venire pugnalati potesse fare tanto male da non riuscire a respirare; quasi fosse la lama stessa a strapparti la vita di dosso.

Jack-Hotch

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Capitolo 16
*** Capitolo 15 ***


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Capitolo 15

 
BAU TEAM

I colleghi assistettero alla scena via video, inorriditi, impotenti. Prentiss si portò le mani alla bocca. Lei sapeva cosa voleva dire provare dolore fisico e il suo capo in tutte quelle ore ne aveva già vissuto troppo. Sperò ardentemente che non fosse grave, in tal caso, il tempo a loro disposizione diminuiva esponenzialmente.

Derek mandò tutto al diavolo in un gesto adirato. Aggirando il suv, puntò verso il capannone.

-Morgan! Che stai facendo?- gli urlò dietro Emily.

-Voi fate quello che volete, io entro!- tagliò corto il moro, senza nemmeno voltarsi a guardarli. Fu David a intervenire, afferrandolo per un braccio. Derek si girò di scatto, liberandosi dalla presa del collega. –Non provarci Rossi!-

-Morgan, so bene come ti senti. Ma se entri là dentro adesso rischierai di far ammazzare Hotch, Serena e anche te.- rispose il più anziano, tentando di farlo ragionare. Derek scosse la testa, rifiutando il fatto che l’unica cosa da fare fosse stare ad aspettare.

-Li ammazzerà comunque.- ci riprovò.

-Può darsi, ma ricordati che Serena ha un piano, finchè quello non va a monte è meglio attenerci al nostro ruolo.- lo convinse Rossi. L’altro sbuffò contrariato, prima di tornare al suo posto.

-Beh, allora speriamo si sbrighi. Ad Hotch non rimane più molto tempo.-

I due non risposero a quell’affermazione, ma sapevano che aveva ragione.

 
-No! No, non è possibile! Non può essere! Ditemi che è un incubo!- iniziò a dire concitatamente Penelope, agitandosi sulla sua poltrona girevole, lo sguardo fisso sui monitor che riportavano quella macabra scena. Lo avevano visto tutti. L’S.I. aveva sferrato un violento colpo all’addome del loro capo. Hotch si era piegato in avanti per quel tanto che i lacci con cui era legato gli permettevano. Sul suo viso un’espressione di puro stupore mescolata ad un intenso dolore, mentre tentava con la bocca socchiusa di respirare, sempre che ricordasse come si faceva.

JJ si era portata le mani al viso, per poi stringersi le braccia in un abbraccio solitario, mentre le dita arpionavano nervosamente le maniche della sua giacca. Si era morsa il labbro così tante volte, con così tanta forza, che temeva presto o tardi si sarebbe messo a sanguinare. Detestava vedere i propri compagni in difficoltà, ben sapendo che non avrebbe potuto essere di alcun aiuto, considerando il fatto che quasi sempre toccava a lei rimanere in centrale per risolvere le questioni burocratiche. Aveva visto la consapevolezza di quanto stava per succedere sul volto del proprio capo troppo tardi, così come non le era sfuggito lo slancio in avanti di Serena, legata ad una sedia. Poteva solo immaginare cosa stessero passando i suoi colleghi in quel momento. Soprattutto Hotch. Serena era ancora piccola quando erano morti Haley e Jack, ma Hotch…nessuno poteva sapere esattamente cosa avesse passato in quelle ore, a come avrebbe reagito se l’S.I. avesse veramente portato a termine il proprio piano di uccidere Serena. –Non lo è purtroppo.-

Spencer deglutì in silenzio. Le braccia incrociate davanti al petto ebbero un sussulto e andarono a circondarsi maggiormente il torso. Non sapeva quale sarebbe stata la cosa più giusta da fare in quel momento: dire qualcosa, non dire niente, chiamare Morgan per avere un consiglio, un sostegno…lui di sicuro avrebbe saputo cosa fare. Era rimasto a bocca aperta, terrorizzato nel momento in cui McGrant aveva pugnalato Hotch. Aveva ragione Garcia, non poteva star succedendo veramente, non doveva. Hotch non era solo un capo per loro, come loro non erano solo colleghi. Erano una famiglia e Hotch ne aveva assunto per modo di dire il ruolo di padre. Li rimproverava, li difendeva, per loro c’era sempre. Ma adesso…adesso che era lui ad avere bisogno di loro, erano tutti un po’ smarriti. L’unica cosa che potevano fare per non crollare era sostenersi l’un l’altro.

-Andrà bene! Deve andare tutto bene. Vedrete che torneranno tutti a casa.- non sapeva dove aveva trovato il coraggio per dirlo, ma lo aveva fatto.

Le due donne non dissero nulla, avevano bisogno di sentirselo dire, poiché era pur sempre qualcosa a cui aggrapparsi. Spencer allungò una mano, posandola sulla spalla di JJ; aveva visto che stava piangendo, sebbene non avesse fatto nulla per farlo notare. JJ non si girò a guardarlo, ma pose una mano su quella di lui, apprezzando quel muto incoraggiamento. In fin dei conti non era ancora finita.

 
POV SERENA

L’aria immagazzinata nei miei polmoni era stata espulsa tutta insieme, con l’effetto dello scoppio di una bomba. Un grido che mi aveva graffiato la gola. Ma non poteva importarmene di meno, non era nulla rispetto al dolore che stava provando mio padre. Per un istante avevo mandato tutto al diavolo: fanculo la copertura, fanculo il piano, solo quel bastardo doveva allontanarsi da mio padre, solo qualcuno doveva chiamare una stramaledetta ambulanza.

Avevo udito chiaramente il respiro di mio padre spezzarsi a metà nell’esatto momento in cui la lama del coltello era penetrata nella carne. La sua espressione confusa, non sapendo come controllare tutte quelle emozioni insieme: stupore per non esserselo aspettato, paura delle conseguenze che quell’azione avrebbe portato, dolore che poco alla volta andava propagandosi per tutto il suo corpo come un’eco.

Avrei dato qualunque cosa per andare da lui, per aiutarlo; le corde che mi legavano i polsi non mi erano mai sembrate strette e ruvide come in quel momento. Il busto proteso in avanti, come se anche io fossi stata colpita a tradimento, mentre tenevo gli occhi fissi su quella scena, incapace di distoglierli. Stavo correndo il rischio di far saltare al copertura? Probabile. Ma in quel momento questa domanda quanta importanza aveva? Non avrei saputo dirlo. Ci avrei pensato a tempo debito.

Con una calma ed una crudeltà strazianti, l’S.I. estrasse il coltello dal fianco di mio padre. Quest’ultimo emise un gemito rauco, cercando di restare calmo e continuare a respirare, per evitare una perdita maggiore di sangue. La sua camicia bianca sporca di polvere e alcune precedenti goccioline di sangue, adesso poteva vantare una grossa macchia cremisi che poco alla volta andava allargandosi. No, non era così che doveva andare. Dovevo mettere alla svelta in atto il mio piano se non volevo che mio padre morisse dissanguato.

Mi accorsi dopo un po’ che McGrant mi stava osservando con fare tranquillo, valutandomi. Merda!

-Cosa c’è?- mi irrigidii quando si avvicinò di un paio di passi –In fin dei conti pensavo che tu fossi qui per punirlo.-…-O mi sbagliavo?- assottigliò lo sguardo.

Potevo ancora farcela, dovevo solo giocarmela bene con le ultime carte che mi rimanevano. Recuperai velocemente un contegno distaccato: raddrizzai la schiena, mi schiarii la voce e lo guardai dritto negli occhi come se nulla fosse.

-In effetti ci sono rimasta un po’ male.- pausa ad effetto, mentre la sua espressione divenne una muta domanda –Avevo capito che sarei stata qui perché venisse punito, ma pensavo sarei stata io a farlo.- il mio tono lasciava trapelare tutta la mia indignazione. –O mi sbaglio?- non potevo lasciare che mi fissasse così a lungo senza dire nulla, dovevo accelerare i tempi. McGrant sorrise.

-No, non sbagli. E sentiamo, cosa ti piacerebbe fargli?- ottimo, si stava rilassando e questo significava che stava anche abbassando la guardia.

-Beh…considerando che è un esperto profiler, o almeno questo è quello che si ritiene di essere, direi che un po’ di dolore psicologico ci sarebbe stato bene. Per poi proseguire con un po’ di dolore fisico.- se qualcuno ci avesse sentito avrebbe potuto benissimo pensare che si trattasse di una sessione d’esame; solo che, in questo caso, era lo studente a condurre l’interrogazione. –Per questo avrei aspettato a pugnalarlo.-

McGrant mi guardava interessato, grattandosi il mento, probabilmente curioso di sapere cosa la mia mente più nera fosse stata in grado di partorire –Continua.-

Perfetto, era giunto il momento di mettere in atto il mio piano.

-Come ben sai, visto che sicuramente mi avrai perquisita, io ho in tasca due oggetti. Banali, certo. Ma fidati, talmente significativi per “quest’uomo” a tal punto da far crollare la sua psiche.- non guardai mai mio padre negli occhi mentre parlavo,  non solo perché non volevo vedere il dolore che stavo continuando a causargli, ma anche perché altrimenti avrei perso il filo del discorso, mandando tutto a monte. Dovevo pensare che lo facevo solo per il suo bene.

L’S.I. si mise a ridere in modo chiassoso, quasi avessi raccontato una barzelletta divertentissima.

-Sai, non avrei mai immaginato l’agente Aaron Hotchner capace di legarsi a dei giocattoli.- e rise ancora.

-Sì, in effetti è divertente. Ora, considerando che l’hai pugnalato e sicuramente gli avrai inflitto altre dolorose torture prima del mio arrivo, che ne dici di slegarmi, così che anche io possa attuare il mio piano, prima di ucciderlo?- mai avrei pensato di poter risultare così minacciosa in vita mia, potevo quasi avere paura di me stessa.

Sebbene non lo avessi degnato di uno sguardo per tutto il tempo di quella conversazione, non mi era sfuggito il movimento del capo di mio padre nella mia direzione, quando l’S.I. aveva detto la parola “oggetti”. Potevo facilmente immaginare gli ingranaggi della sua acuta mente mettersi in moto per capire di cosa potesse trattarsi. Bisognoso di comprendere cosa stesse succedendo. E non potevo biasimarlo.

L’S.I. nel frattempo rifletteva, soppesando le mie parole, le mie espressioni, tentando di capire se poteva fidarsi di me. La verità era che moriva dalla voglia di soddisfare la sua macabra fantasia: io che facevo del male a mio padre. Per questo non l’aveva ancora ucciso, l’unica cosa che lo tratteneva era quel briciolo di ragione che lo aveva spinto sia a perquisirmi che a legarmi; ma non sarebbe durato ancora a lungo. Il conto alla rovescia per lui era iniziato nel momento in cui aveva rapito mio padre.

-D’accordo.-

Una sola parola. Insicura. Aveva ceduto, ma era ancora titubante perciò dovevo stare attenta; poteva ancora ripensarci. Con sguardo serio mi aggirò, iniziando a trafficare con le corde che mi legavano i polsi. Quando ebbe finito si allontanò, rimanendo a debita distanza da me e mio padre, il coltello davanti a sé a fargli da scudo, quasi fossimo due cani randagi pronti a rivoltarglisi contro. Prima di alzarmi mi massaggiai i polsi doloranti, più tardi avrei dovuto essere agile nei movimenti se non volevo farmi sopraffare dall’S.I.. Tanto sapevo che quest’ultimo avrebbe interpretato quel gesto come un modo per prolungare l’agonia di mio padre. Alzai la testa. Adesso potevo anche guardarlo. Feci fatica a respirare. Era pallido, segno che stava perdendo molto sangue, eppure i suoi occhi sembravano immuni a quel dolore: caldi, brillanti, vivi, come sempre. Era forte il mio papà, un supereroe, nessuno poteva piegarlo. Avrebbe potuto essere sconfitto. Ma non era quello il giorno.

-Serena…- rimasi ferma al mio posto, in piedi davanti a lui –Ti prego, non farlo.-

Lo pregai mentalmente di perdonarmi per quello che stavo per fare, ma era necessario. Mi avvicinai a lui con passo lento, lasciando che l’attesa logorasse lui e inibisse l’S.I., abbastanza da portarlo completamente dalla mia parte. Mio padre non mi staccò mai gli occhi di dosso, come se, qualunque cosa fosse successa, l’ultimo sguardo che voleva vedere fosse il mio. Mi accucciai davanti a lui e appoggiai le due coroncine sulle sue ginocchia. Le nostre coroncine. Quelle del re e della regina. Finalmente riuniti.

In quel momento un rumore ritmico, come quello di un motore, si fece mano a mano sempre più forte. Garcia aveva rispettato i tempi “Ottimo lavoro ragazza strana!”.

­-Che diavolo sta succedendo?- sbraitò l’S.I., lo sguardo rivolto verso il soffitto, ancora ignaro che si trattasse dell’elicottero dell’F.B.I.. Negli occhi marroni di mio padre vidi installarsi il dubbio, ora potevo anche smettere di fingere.

-Te lo ricordi? Ce lo siamo promesso.- bisbigliai velocemente, indicandogli le due corone ancora sulle sue ginocchia. Sapevo avrebbe capito subito, ma dopo quello che era successo e che avevo detto, era abbastanza palese che necessitasse di qualche altra prova. E questa era in arrivo assieme all’elicottero. Una musica, non una qualunque, squarciò il cielo sopra il granaio:

“Rimanderò tutto a domani
Sono di carta tutti gli aeroplani
Sei tu il mio re, io la tua regina.
In un’eterna Roma.
Ehh, all’aria tutti i piani
Riavviciniamo i sogni più lontani
E tu lo sai, che non c’è segreto
Per vivere a colori…”

E ne fui certa, in quel momento mio padre capì tutto.

Fu proprio l’S.I. a riportarci brutalmente alla realtà, con il culo per terra.

-Che cosa significa tutto questo?- il volto era paonazzo di rabbia, i suoi occhi mandavano lampi. Mi alzai in piedi, fronteggiandolo, finalmente libera di mostrare le mie vere intenzioni.

-Significa che non permetterò a nessuno di fare del male a mio padre. E che tu hai perso.-

Era scioccato, letteralmente, allibito. Troppo preso dalle sue voglie da non aver notato i segni dell’inganno che mi avevano circondata sin dall’inizio. Mai fidarsi degli sconosciuti. Prima che potesse fare ordine nella sua mente e prendere l’iniziativa, agii. Quello era il segnale, sentendo la musica i miei colleghi sarebbero accorsi in mio aiuto, dovevo solo resistere fino al loro arrivo. Perché non gli avevo svelato della canzone? Perché lo avrebbero ritenuto un piano stupido, cose che succedono solo nei film; ma loro non potevano sapere l’importanza che c’era dietro quella canzone per me e mio padre, per non contare la componente psicologica dell’S.I..

Tirai un calcio mirato alla mano che ancora teneva il coltello, facendoglielo sfuggire di mano. Come risvegliatosi da un sogno McGrant tentò di reagire, cercando la pistola agganciata alla cintura dei pantaloni. Dovevo spostarmi da lì, rischiavo che mio padre venisse colpito. Lo colpii con un altro calcio al torace e uno in piena faccia, roteando su me stessa. L’S.I. mi afferrò la caviglia, trascinandomi con lui al suolo. Fortunatamente, poco distante da me c’era il coltello. Non ebbi dubbi su cosa fare. Lo afferrai e lo lanciai dritto contro di lui. Nello stesso momento in cui il coltello lasciò la mia mano, vidi la canna della pistola puntata contro di me…e fare fuoco.

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Capitolo 17
*** Capitolo 16 ***


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Capitolo 16

 
“Amo te,
niente di più semplice.
Amo te,
niente in più da chiedere.
Amo te,
niente di più semplice.
Amo te,
niente in più da aggiungere”
 
POV SERENA

Venni ributtata al suolo come un fantoccio, la stanza girava attorno a me. Mi ritrovai a fissare il soffitto grigio, mentre il dolore dapprima sordo diveniva via via sempre più forte. Mi portai una mano al braccio ferito, subito una fitta mi risalì lungo la spalla, le dita che andavano a stringere la manica, sporcandosi di sangue. Cercai di riprendermi, non sapevo se avevo colpito o no l’S.I., perciò potevamo essere ancora in pericolo. Facendo fatica ad alzarmi, ancora stordita dallo sparo ravvicinato e l’impatto con il proiettile, cercai per lo meno di rotolare su un fianco. Non avevo una chiara visuale, ma il corpo di McGrant era sdraiato supino sul pavimento e non accennava a muoversi. Uno schianto, seguito da una luce improvvisa, segnò l’arrivo dei miei colleghi e dei rinforzi. La musica era cessata, ma sentivo le pale dell’elicottero girare sopra di noi. Persone ci passarono accanto con mosse studiate, le armi puntate davanti a sé pronte a far fuoco. Qualcuno si fermò accanto a mio padre, ma non me ne preoccupai, loro lo avrebbero aiutato.
Poi notai qualcosa di diverso: la testa di mio padre ciondolava!

-Pa…pà- tossii, sputando un grumo di sangue formatomisi in gola. –Papà.- ci riprovai.

Nessuno parve sentirmi o prestarmi retta. Fu allora che qualcuno si piantò davanti a me, prendendomi per le spalle. Un’altra fitta mi fece stringere gli occhi.

-Serena! Serena…stai bene?- probabilmente notando la mia espressione, l’agente Rossi mi prestò più attenzione, individuando così la mano che mi stringeva il braccio. –Serve un medico! C’è un agente ferito!- gridò alla fiumana di persone.

-Papà…- ci riprovai; dovevo sapere come stava mio padre, lo avevo visto con gli occhi chiusi. No, non poteva essere morto.

-Sta tranquilla, è tutto finito. È morto Serena.- alzai gli occhi su di lui, non capendo se stesse rispondendo o meno alla mia domanda mentale. Speravo di no. In quel momento fu come se mi avessero sparato una seconda volta. –L’S.I…è morto. Il pugnale lo ha colpito al petto.- sospirai di sollievo. Girai la testa verso sinistra, osservando i paramedici che disponevano mio padre su una barella, dopo avergli tolto la camicia e bloccato la fuoriuscita del sangue dalla ferita. Rossi dovette intuire la muta domanda sul mio viso –E’ svenuto. I paramedici hanno detto che la ferita non è grave…- tornai a guardarlo, non mi era piaciuto il modo in cui l’aveva detto -…ma ha perso molto sangue.- per l’appunto.

Non ci rimaneva che pregare e aspettare, sperando che andasse tutto bene.

 
BAU TEAM

L’urlo vittorioso di Garcia proruppe in un boato di gioia, dopo il “Adesso vedi che bella sorpresina ti mando, brutto bastardo!” nel momento in cui aveva dato l’ordine di far decollare l’elicottero e aveva dato il via libera alla squadra di soccorso per intervenire. Praticamente ballava sulla sedia battendo le mani. JJ, con ancora la mano di Reid appoggiata sulla spalla, nel momento in cui la SWATT era entrata nel capannone aveva tirato un sospiro di sollievo, slanciandosi in un abbraccio fraterno con il suo Spence, poi aveva abbracciato da dietro Penelope, dandole un sonoro bacio sulla guancia. Spencer aveva abbracciato JJ, sentendo il cuore nel petto galoppare a ruota libera, finalmente libero dall’ansia accumulata in tutte quelle ore. Aveva la sensazione che il sorriso che gli si era formato sulle labbra niente al mondo avrebbe potuto cancellarlo. Era tutto finito, stavano tutti bene e presto sarebbero tornati tutti a casa, l’S.I. ormai era solo un ricordo. Poi, gli venne in mente una cosa…

-Aspettate!- le due donne si voltarono a guardarlo.

-Bel giovanotto, spero tu abbia un buon motivo per interrompere le nostre urla di giubilo.- disse Garcia, con finto tono minaccioso, quello che usava quando non c’era nulla che a lei non fosse sconosciuto.

-Ehm, credo…di sì…- Spencer non c’avrebbe mai fatto l’abitudine ad essere chiamato in quel modo, lui non era come Derek –L’S.I. è stato fermato, ma non sappiamo ancora chi ci sia dietro tutta questa faccenda.-

Anche JJ questa volta era stata presa in contropiede visto che se n’era quasi scordata, troppo contenta che il piano avesse funzionato. Garcia si girò sulla sua poltroncina girevole, l’espressione furbesca di chi sa di avere la vittoria in pugno.

-Mio caro genietto, sottomettiti al potere della tecnologia. Mentre voi eravate troppo preoccupati per la sorte dei nostri due colleghi e…beh, sì…anche io…comunque, il mio super sistema informatico ha fatto un controllo incrociato alla velocità della luce.-

-Hai scoperto qualcosa?- JJ era troppo stupefatta per riuscire a contenersi.

-Ho fatto molto di più dolcezza. Quando ho dato il via libera al decollo dell’elicottero avevo già un nome e, prima dell’intervento della SWATT, l’avevo già anche fatto arrestare. In questo momento sarà in una stanza per gli interrogatori ad aspettare che uno di noi vada da lui.-

-Garcia sei grande!- esclamò Spencer.

-Quindi di chi si tratta? Perché ce l’aveva con Hotch?- domandò invece JJ.

-Il nome del nostro genio “ma non abbastanza” criminale è Jonas Miller. È stato lui a mettere nella stessa cella Gilgun e McGrant, lo ha scritto espressamente dopo la spedizione di McGrant al penitenziario. A quanto pare Hotch lo aveva messo in cattiva luce riguardo ad un caso a cui avevano lavorato insieme in passato. Una volta che Hotch è stato promosso ad agente speciale supervisore non c’ha visto più. Ho controllato il suo computer, ha tenuto Hotch sotto controllo, o per meglio dire i casi a cui ha lavorato, per tutti questi anni.-

-Aspettando il caso giusto per metterlo fuori gioco.- concluse JJ.

-Beh, adesso di sicuro non nuocerà più a nessuno.- commentò Reid, il volto puntato sullo schermo del pc: il capannone adesso era vuoto.
 

POV HOTCH

Era successo tutto così in fretta. Troppo.

Serena aveva appoggiato quelle due coroncine sulle mie ginocchia. Non avrei mai pensato che un giorno sarei riuscito ancora a vederle insieme. La guardai, dritto negli occhi. Dopo tutto quello che era successo non sapevo più di cosa e di chi fidarmi. Lei parve capirlo, era come se stesse aspettando qualcosa. Poi lo avevo sentito: un elicottero. L’S.I. era andato in escandescenze sin da subito, ma io ero troppo concentrato su quell’altro suono. Una canzone pareva. E non una qualsiasi. La nostra.

-Te lo ricordi? Ce lo siamo promesso.- erano bastate quelle parole e tutto mi fu chiaro. Avrei voluto dirle qualcosa, ma l’S.I. si mise in mezzo.

Poi, fu tutto uno susseguirsi di eventi, a cui io assistei come spettatore impotente.

Vidi l’S.I. e mia figlia lottare. La vidi cadere. Provai paura, ma non riuscii a fare nulla, era come se pian piano mi stessi addormentando. Persino il dolore era diventato un ricordo lontano. Qualcosa dentro di me ancora lottava per liberarsi, ma la debolezza, fisica e psicologica, mischiata alla quantità di sangue perso, mi inchiodavano al mio posto. Quando sentii lo sparo, i miei occhi si stavano già chiudendo.

Era tutto un miscuglio di buio e colori sotto le palpebre, qualcosa mi trascinava via, facendomi scivolare come se fossi semplice acqua, senza consistenza, senza appigli a cui aggrapparmi. Ogni tanto, in quel colorato vortice, rispuntavano l’immagine di quelle coroncine e le parole di quella canzone. Cercai di afferrarle, di metterle sempre più a fuoco. Sapevo…che se ci fossi riuscito sarei potuto tornare indietro. Usai tutte le energie che mi rimanevano, concentrandole sui miei occhi: dovevo aprirli. Una luce intensa me li ferì, ma andava bene, il fastidio non poteva indicare altro se non che ero ancora vivo. Li aprii ancora, le luci andavano e venivano in fila, come i vagoni di un treno. C’erano delle persone ai margini del mio campo visivo, ma tanto che mi sforzassi non capivo di chi si trattasse. Di sicuro non mi trovavo più in quel capannone. Quasi senza accorgermene, le palpebre tornarono ad abbassarsi: ero così stanco. Nemmeno quando Jack e Serena erano appena nati mi ero sentito così spossato, sebbene avessi passato diverse notti sveglio con loro, cullandoli, sperando si addormentassero alla svelta.

A proposito di Jack: ad alcuni metri da me c’era un bambino, aveva gli occhi scuri. Sorrideva. Pareva proprio il mio Jack. Oh, piccolo quanto mi manchi! Una donna gli si avvicinò, probabilmente la madre. Un momento! Ma quella è Haley! Quindi questo significa che quel bambino era davvero Jack! Sentii lacrime calde di commozione e felicità rigarmi il viso. Per tutti quegli anni avevo temuto che non li avrei mai più rivisti. Ed ora, eccoli lì, insieme, felici. D’ora in avanti saremmo rimasti sempre insieme, una vera famiglia felice: io, Haley, Jack e Serena. Un attimo: dov’era Serena?

Uno strano e familiare senso di angoscia e preoccupazione si impadronì di me. Guardai da tutte le parti, Jack e Haley sempre di fronte a me sorridevano, ma di Serena nessuna traccia. Perché Haley non si preoccupava? Non vedeva che mancava la nostra bambina? L’eco di uno sparo riecheggiò in quel silenzio, distruggendone impercettibilmente la pace per sempre. Ricordai la scena vista nel mio stato di dormiveglia. Avevo visto Serena cadere, colpita dal proiettile. La mia bambina era ferita e aveva bisogno di me. Dovevo trovare un modo per raggiungerla ed aiutarla, subito. Ma non sapevo come fare per andarmene. Non c’erano strade o porte, era un’infinita parete bianca in cui c’eravamo solo io, Haley e Jack. Loro continuavano a sorridermi, come se non comprendessero la gravità della situazione. A quel punto acquisii la certezza che c’era un tassello fuori posto in tuto ciò che mi circondava.

Io ero con metà della mia famiglia. Quella metà che mi era mancata da morire e di cui avrei sempre sentito la mancanza. Ma se c’era un motivo per cui Serena non era ancora con loro, forse era perché era ancora viva. Era ferita e aveva bisogno di me. La sola idea che stesse soffrendo, o peggio, che stesse per morire, mi fece male, lacerandomi l’anima. Già, perché adesso ero cosciente di non essere sveglio, ero svenuto e, sebbene in un altro modo, stavo lottando per sopravvivere. Eppure, anche in una situazione così tragica, il mio primo pensiero andò a mia figlia. Forza piccola, non mollare! Pregai mentalmente. Non posso sopportare di perdere anche te!  Non poteva veramente finire così.

Altri rumori, non derivanti dal posto in cui mi trovavo ma dall’esterno, riempirono quel luminoso silenzio. Improvvisamente mi sentii più forte. I soccorsi dovevano essere arrivati in tempo; almeno per me. Guardai la mia famiglia, quella parte che solo per il momento, nella vita reale, avevo perso. Sorridevano ancora, ma in modo diverso. Gli occhi di Haley mi dicevano che aveva capito, che sapeva che avrei fatto la scelta giusta, non ne aveva dubbi. E Jack sorrideva, con quel modo tutto suo di salutare le persone senza il bisogno di usare la manina. Lo stesso che usava con me quando andavo al lavoro, era un “arrivederci”. Capii che arrivato a quel punto potevo scegliere. Scegliere di rimanere, con mia moglie e mio figlio, o scegliere di risvegliarmi, di tornare alla cruda vita reale, al duro lavoro, ma soprattutto di tornare da Serena. Sapevo già cosa avrei scelto, lo sapevamo tutti. Haley prese in braccio Jack, un po’ pareva dispiaciuta.

-Questo non è un addio. Ci rivedremo presto.-

Non sentii la mia voce uscire, non ero nemmeno sicuro d’aver parlato. Sperai che avessero capito. Non ero riuscito a dirgli addio in passato, ma adesso potevo perlomeno dirgli arrivederci. Haley si portò una mano alle labbra, in un bacio volante, mentre Jack mi faceva “ciao” con la manina. Poco a poco sbiadirono. Vederli scomparire fece male quasi quanto perderli la prima volta.

La luce divenne sempre più bianca, sempre più intensa, accecandomi. Tentai di ripararmi con le mani e le braccia, ma non servì a nulla. Finchè la luce non mi ricoprì interamente, inghiottendomi. Avrei urlato, ma ormai ero consapevole che nessuno avrebbe potuto sentirmi perché in realtà non stavo emettendo alcun suono. Poi, nella mia luminosa cecità, iniziai a sentire un suono, sempre più forte, ritmico, come se stesse contando i secondi.

…bip…bip…

Il bianco smise di essere così brillante, diventando sopportabile.

…bip…bip…

Il suono divenne chiaro e nitido a confermarmi che ero tornato indietro.

…bip…bip…

Il bianco che stavo guardando era il soffitto dell’ospedale in cui mi trovavo e il suono era quello della macchina collegata al mio cuore.

…bip…bip…

Mi sembrava di essere stato via un’eternità. Questa volta, il silenzio che mi circondava era calmo e rassicurante. Dopo tutto quello che ci era successo, apprezzai quella calma come mai avevo fatto prima d’allora.

-Si è svegliato!- esclamò in un sussurro qualcuno seduto accanto a me –Hotch!-

JJ mi sorrideva mentre si alzava, chiaramente sollevata di vedermi sveglio. Il suo interlocutore doveva essere David, poiché si avvicinò di qualche passo dalla sua postazione alla finestra. Sul suo viso era dipinto un sorriso sincero.

-Buongiorno, amico mio. Ci hai fatto preoccupare parecchio, sai!- tentai di sorridere a mia volta, eppure mi risultò difficilissimo. Quando tornai a guardarli, capirono al volo la mia domanda inespressa.

-Non devi preoccuparti, è tutto a posto.- disse la mia collega.

-L’S.I. è morto e Garcia è stata talmente in gamba che prima del nostro arrivo aveva già fatto arrestare la mente criminale di tuto questo casino.- aggiunse Rossi.

-Di chi si trattava?- la mia voce era bassa e roca, tanto dovetti tossire per schiarirmela.

-Indovina un po’? Miller.- rispose David facendo inarcare le sopracciglia.

-Chissà perché la cosa non mi meraviglia affatto! È sempre stato invidioso di Hotch! Dal momento che sei finito a capo dell’unità ha sempre fatto in modo di crearci problemi: una volta l’ho trovato a trafficare nel mio ufficio tra i casi che ci erano stati proposti. L’ho minacciato di denunciarlo alla sicurezza interna.- disse tutto d’un fiato JJ. Era difficile far arrabbiare la più nana della squadra, ma se avesse dato segni di irrequietezza non avrei mai voluto essere nei paraggi. Era in gamba. Tutti loro lo erano. In quanto a Miller mi diedi dello stupido per non averlo notato. Non ci eravamo mai sopportati, nemmeno prima di entrare nel BAU. Arrogante figlio di papà, (non che io non lo fossi, ero un giovane figlio di avvocato) pretendeva ogni volta d’aver fatto meglio, arrivando a distruggere una scena del crimine. Da allora era stato allontanato dalla sezione. Poi io ero passato al BAU, perdendolo definitivamente di vista, lasciandomi sommergere dal lavoro, restando all’oscuro del suo cambiamento. Rossi sembrò vedere il mio turbamento.

-Aaron, non avresti potuto farci niente. Non possiamo tenere sotto controllo tutte le persone che ci circondano. Guarda quante vite abbiamo salvato nel frattempo, ed è stato anche merito tuo.- aveva ragione.

In quel momento Morgan, Prentiss e Garcia fecero il loro ingresso ridendo e chiacchierando, tutti con un bicchiere di caffè in mano.

-Ehi, ce l’hai fatta a svegliarti!- esclamò Morgan, piazzandosi in fondo al letto.

Lo guardai con cipiglio severo, ma sorridendo. Incredibile alle volte come da serio agente federale si trasformasse in un ragazzino senza freni.

-Oh, cielo! Meno male! Non che io pensassi che saresti morto, ma beh…ecco…eri ferito…e poi chissà cosa ti aveva fatto quel maniaco pazzoide…- non riuscii a trattenere una risata divertita. Ecco un’altra eterna bambinona, fondamentale per la nostra squadra. Sperai che col tempo non cambiasse mai, non come avevo fatto io, diventando sempre più serio e taciturno.

Vedendomi ridere si bloccò di colpo, aveva tante cose da dire, tante emozioni da esprimere, ma a lei ne bastarono due –Sono contenta.-

Mi sentii il cuore riempire di gioia, tutti loro mi stavano dicendo in modi diversi che mi volevano bene. Poi, c’ero io che in ogni frase non riuscivo a non parlare di lavoro.

-Anche io. Ti devo fare i complimenti. Ho saputo che se il caso è stato risolto è stato anche merito tuo.- in men che non si dica, le sue guance divennero di un bel rosso fragola.

-Oh, beh…grazie, ma il merito è stato di tutti. Come sempre. Sì, insomma…ce lo hai insegnato tu, no?- gli occhi le si erano riempiti di lacrime per la commozione. Sorrisi, erano miei colleghi, ma in realtà erano molto di più, mi conoscevano forse persino meglio di quanto io conoscessi me stesso.

-Oh, vieni qui bambolina!- disse Morgan, circondando la bionda riccioluta per le spalle, stringendola al suo fianco in un poderoso abbraccio. Garcia continuò a sorridermi, asciugandosi gli occhi con una mano, badando bene a non rovinare il trucco.

Guardai Prentiss in piedi alla mia sinistra, assistendo alla scena senza dire nulla. Sentendosi il mio sguardo addosso decise di dire qualcosa. Anche lei non era il tipo da carinerie, perciò in situazioni del genere tendeva a restarsene in disparte.

-Buongiorno capo.-

-Tutto a posto?- le domandai.

-Perfettamente.- pausa di silenzio, sapevo che aveva ancora qualcosa da esternare, Emily era fatta così –Ci hai fatto prendere un bello spavento, sai!- si morse il labbro.

-Sapevo avreste fatto un ottimo lavoro.-

-Come ha detto Garcia, è anche merito tuo.- non riuscimmo a parlare oltre, poiché le voci dei colleghi reclamavano l’attenzione per qualcosa d’altro. Ci guardammo ancora per un lungo momento, come se fosse sufficiente per colmare tutte le cose non dette. Provai a tirarmi su un poco, non senza qualche difficoltà. David arrivò subito in mio soccorso, aiutandomi a mettermi seduto.

-Vecchio mio, temo che per un po’ dovrai fare attenzione e muoverti con cautela. I medici sono stai molto chiari: l’S.I. sapeva cosa stava facendo, perciò la ferita non era mortale. Tuttavia era una ferita molto profonda, ci vorrà del tempo perché si rimargini.-

-Ehi, Reid! Ma dove ti eri cacciato?- domandò Morgan al più giovane del gruppo, appena entrato nella stanza. Il ragazzino si fece avanti, imbarazzatissimo, con quella sua tipica aria da eterno quattordicenne.

-Scusatemi, mi sono perso.- rispose timidamente.

Subito i nostri sguardi si incontrarono; mi era mancato quel ragazzino. Malgrado tutte le battute sul suo conto, Reid era in gamba, e non solo per la sua memoria eidetica. Molte volte i ragazzi lo prendevano in giro, ma erano anche i primi che in caso di pericolo sarebbero accorsi in suo aiuto. In fin dei conti è questo che si fa in una famiglia, giusto? Ne avevamo passate tante, belle e brutte, Reid era diventato il fratellino per i più tanti, per me era come un figlio. Beh, l’età c’era.

-Come ti senti?- fu la sua domanda innocente.

-Abbastanza bene. E tu? Permetti ancora a Morgan di prendersi gioco di te?- lo guardai come guardavo Jack quando faceva una marachella. Lui incassò la testa nelle spalle come un gufo.

-Si vede che è più forte di lui, comportarsi da bambino.- rispose candidamente, con quel sorriso che sapeva di vittoria contro il collega. Sorrisi a mia volta.

-Ehi, ragazzino! Che fai, alzi la cresta?- scherzò Morgan, scompigliandogli i capelli. Ridemmo ancora, tutti quanti. Non ricordavo quando era stata l’ultima volta che avevo riso così tanto. Di sicuro era passato molto tempo. Ma non m’importava, in quel momento volevo solo godermi quella giornata.

-Ehi! Che fai sulla porta? Coraggio, vieni! Si è svegliato e credo abbia voglia di vederti.- esclamò ad un tratto JJ.

Quelle parole ebbero un effetto calmante su tutti i presenti. Tranne su di me. Allungai il collo, o almeno ci provai, nella speranza di vedere di chi si trattasse, sebbene ne avessi già un’idea. Serena avanzò a testa bassa, impacciata, come un’adolescente che l’ha appena combinata grossa, con due occhi da cane bastonato in viso. Potevo facilmente immaginarne il motivo, in fin dei conti ero ancora suo padre e potevo ancora vantarmi di conoscerla piuttosto bene. Nel frattempo il mio battito cardiaco era accelerato. Ero emozionato, finalmente, dopo molto tempo, avremmo avuto modo di parlare un po’.

-Ragazzi! Che ne dite se li lasciamo un po’ da soli? Credo abbiano un po’ di cose da dirsi.- disse Morgan, sciogliendo tutti da quell’imbarazzo generale. Lui e Garcia, ancora stretta sotto al suo braccio, furono i primi ad uscire. Seguiti da Reid, Prentiss, JJ ed infine Rossi, il quale non mancò di farmi un gesto d’incoraggiamento prima di richiudersi la porta alle spalle. In effetti questa sarebbe stata una grande prova per entrambi noi Hotchner.

Serena si fermò sul lato destro del letto, le mani nei pantaloni, visibilmente a disagio. Dello scontro avvenuto con l’S.I. erano rimasti solo pochi graffi sul viso, più che altro dovuti alle cadute. Avevo insistito perché da piccola frequentasse diversi corsi di autodifesa. Ero stato scettico invece quando avevo saputo sarebbe entrata a far parte dell’FBI. Non le avevo dato risposta, non avevo gioito e non avevo protestato. Avevo semplicemente calcolato quanto poco avrei potuto proteggerla una volta diventata un’agente effettivo. Mi sbagliavo! Se eravamo entrambi qui era soprattutto merito suo.

-Allora, come stai?- disse tutto d’un fiato, tentando di essere il più naturale possibile, persino accennando un timido sorriso.

-Piuttosto bene, considerando che stavo per lasciarci la pelle.- tentai di rispondere in modo ironico, ma a quanto pareva lei non la pensò allo stesso modo. Si morse l’interno guancia. L’ultima cosa che volevo era fare il profilo a mia figlia, ma date le circostanze dovevo capire quella sua reazione, pensare come lei. Non ci impiegai molto a rispondermi.

Dato che la ferita non era grave, se avevo rischiato di morire era colpa sua: ecco cosa pensava.

-Non è stata colpa tua.- precisai. I suoi occhi saettarono nei miei.

-Mi stai facendo il profilo?- l’ombra di un sorriso divertito fece capolino sulle sue labbra.

-Certo che non ti si può nascondere niente.- ridacchiammo entrambi.

-I medici l’avevano detto che non eri grave.- io annuii.

-Tu invece come stai?- domandai, riferendomi al colpo di pistola.

-Oh, è una sciocchezza. Il proiettile mi ha preso di striscio. Il problema è che fa un male cane.-

-Sì, è il problema delle ferite superficiali.-

Serena decise di sedersi sul letto, in parte a me. Esattamente come facevo con sua madre, allungai una mano verso un corto ciuffo di capelli scuri, portandoglielo dietro l’orecchio. Trattenne il respiro. Non eravamo più abituati a stare così vicini. Fu allora che notai i suo occhi arrossati. –Hai pianto.-

Lei sorrise, ironicamente o quanto meno ci provò. Fallendo miseramente. Deglutì.

-Sai…ho avuto paura.- mi guardò, seria in volto –Per un attimo ho temuto che ti avrei perso.-…-Ho avuto paura di essere arrivata tardi.- mi spiazzò completamente.

Sapevo che avremmo parlato, che ci saremmo chiariti, ma non avevo messo in conto le parole che sarebbero state dette, le emozioni che avrei provato. Era come se riuscissi ad immedesimarmi in lei alla perfezione. Deglutii a mia volta. Dopo tutta la rabbia e il rancore che avevo visto nei suoi occhi, quelle parole furono come un balsamo per le mie ferite interiori.

-Credo tu abbia ragione. Anche io ho avuto la stessa impressione ad un certo punto.- ammisi tornando a guardarla, dalla sua espressione era come se qualcosa continuasse a sfuggirle.

-Mentre ero incosciente ho visto la mamma e Jack.- la mia affermazione parve turbarla e anche io mi stupii di averglielo detto, ma avevo bisogno che sapesse. Avevamo avuto una seconda chance e questo poteva essere un segno come il frutto di una precoce pazzia, per questo avevo bisogno di un suo parere. Tutto sommato parve riprendersi alla svelta.

-E cosa ti hanno detto?- questa volta fui io a rimanere sorpreso, non avevamo mai intrapreso un discorso sul mistico.

-Nulla. Erano lì, come se mi stessero aspettando.-

-Ma tu non sei andato.- constatò seria.

-No. Mi è stata data la possibilità di scegliere e non potevo di certo andarmene senza aver sistemato le cose con te. Non so se sarà possibile, ma voglio recuperare il tempo perso.- soppesò le mie parole.

-Mamma non sarà stata contenta di vederti andar via di nuovo.- la situazione non era facile anche per lei.

-No, ma tua madre ha sempre capito perché lo facevo. Sa che alla fine tornerò a casa, come sempre.-

-A quanto pare arrivare tardi è un male di famiglia.- ridemmo entrambi. Parole sante!

Ci fu un attimo di silenzio, carico di suspance. Non sapevo cosa pensare e non mi veniva in mente nemmeno niente di geniale da dire. Al che Serena prese un profondo respiro prima di divenire un vero fiume di parole.

-Senti, ti devo delle scuse anche se non è molto visto tutti gli anni che sono passati. Ma credimi, non ho la più pallida idea di come dirtelo, di se sto facendo una cavolata o se è meglio non dirti nulla. Ma non ce la faccio, non dopo quello che abbiamo appena passato e mi sono resa conto di aver aspettato troppo a lungo. Tanto per cominciare mi dispiace per come devo averti fatto sentire in quella prigione, per quello che hai dovuto sentire, per come ti sarai sentito tu. Lo confesso all’inizio ho incanalato la rabbia nei tuoi confronti utilizzandola per assecondare l’S.I., ma credimi se adesso ti dico che mi dispiace da morire. Non gli avrei mai permesso di farti del male, davvero. E ho dovuto toccare il fondo per capire che non volevo perderti, al costo di odiarti tutta la vita.-

Aveva le guance arrossate dall’agitazione e gli occhi lucidi. La mia bambina. Questa volta fui io a prendere un bel respiro e allungai nuovamente la mano per accarezzarle una guancia. Fu come premere un interruttore e delle lacrime le rigarono il viso. Gliele asciugai.

-So perché l’hai fatto. E non sono arrabbiato con te. Al tuo posto avrei fatto la stessa cosa. Hai fatto un ottimo lavoro e sono orgoglioso di te. Sarai un ottimo profiler.-

-Ma come…?-

-Zia Jessica mi ha detto tutto quando iniziasti l’accademia.- avevo immaginato del perché Serena non m’avesse detto nulla sul profiling. Di certo il mio mutismo quando era entrata in polizia non l’aveva incentivata.

-Oh, papà…- da quanto tempo nessuno mi chiamava più così. Sospirai, ora era il mio turno.

-E comunque, me lo meritavo.- Serena mi guardò con sguardo interrogativo.

-Ma…- alzai una mano perentorio, interrompendola.

-Ho esagerato.- il momento in cui ci guardammo sembrò non finisse mai –Con la scusa di proteggerti ho varcato un limite che non avrei mai dovuto superare. Ogni volta che non venivo a trovarti o che non ti scrivevo, per colpa del lavoro o altro, avevo sempre la scusa pronta. Ma così facendo mi sono allontanato da te. Ti ho fatta soffrire. Ed era l’unica cosa che mi ero ripromesso di non fare. Avevi bisogno di me ed io non c’ero. Ti ho deluso.-

-Non mi hai deluso. Io ero…sono orgogliosa di te, sei sempre stato il mio eroe. Ma ti ho visto andartene così tante volte.-

-Mi dispiace tesoro.- adesso anche i miei occhi avevano preso a pizzicare.

-Sai, siamo proprio padre e figlia. Sarebbe ingiusto dire che è stata solo colpa tua, quando avrei potuto essere io di tanto in tanto a fare il primo passo. Invece, quando arrivava il momento, mi tiravo indietro, preferendo nascondermi dietro una scusa; che eri tu mio padre e che essendo stato tu ad andartene dovevi essere tu a fare il primo passo. Quindi, mi dispiace.-…-Papà?- la guardai negli occhi –Ti voglio bene.- Se il mio cuore avesse potuto esplodere di gioia, in quel momento lo avrebbe fatto. L’attirai a me di slancio, dimentico della ferita.

-Anche io ti voglio bene piccola.- sentii le sue braccia circondarmi il torace, il viso nascosto tra il collo e la spalla. Due lacrime sfuggirono ai miei occhi, mentre io non riuscivo a smettere di ringraziare per quel momento. Fino a pochi giorni fa temevo non avrei più rivisto mia figlia, ora la stringevo tra le mie braccia esattamente come una volta.

 
POV SERENA

Non riuscivo a crederci, ma era tutto vero. Se avessi potuto sarei rimasta in quella posizione per sempre. Sentivo le sue braccia sulla schiena, attirarmi ancora più a sé. Presi un lungo respiro, aspirando quel profumo che lo caratterizzava, quello che avevo sentito nel suo ufficio, quello che da piccola mi aveva fatto innamorare. Beh, si sa, il primo amore di una figlia è sempre il suo papà. Lo avrei abbracciato ancora più forte se non avessi temuto di fargli male. Oh, papà quanto mi sei mancato! Avevo così tanta paura che non lo avrei mai più rivisto, che adesso faticavo a capacitarmene. Pregai che non fosse un sogno, troppo bello per essere vero.

Mi ero sentita così stupida prima, in piedi sulla porta, con tutti i suoi colleghi che lo accerchiavano facendogli festa, mentre io ero completamente fuori posto. Se non fosse stato per JJ non era escluso che me la sarei data a gambe; sparendo come quel fantasma che negli anni ero diventata. Beh, perché in quel momento non potevo ancora immaginare cosa mi sarei persa. E adesso, eccomi qui, tornata quella bambina che per Halloween si era travestita da fatina e come regalo il suo papà era tornato a casa. Una volta ancora ebbi quattro anni e mi andava bene così: non volevo più essere grande, non volevo più tornare alla realtà…ma lo feci.

Ci guardammo per alcuni istanti in silenzio, impacciati; di norma non eravamo dei sentimentali, preferivamo tenerci tutto dentro. Poi, mi ricordai di una cosa. Mi misi la mano in tasca, estraendone le due coroncine intrecciate nel palmo della mia mano. Mio padre sorrise, afferrandole e rigirandosele tra le dita.

-Per tutti questi anni ho sempre pensato mi avessi lasciato in disparte. Invece mi hai sempre portato con te.- dissi. Lui sospirò prima di rispondere, serio.

-Non sono stato un ottimo padre. Non c’ero quando avevi bisogno di me. Ma non avrei mai potuto dimenticarti. Non avrei mai permesso che qualcuno potesse farti del male. Sei tutto quello che ho. Tu sei la mia famiglia.- mi impegnai per non rimettermi a piangere.

-E tu la mia.-

-Sai, credo ci sia stata data un’altra occasione e, non so tu, ma io non voglio sprecarla.- sulle sue labbra c’era un velo di quel sorriso che mi piaceva tanto e non ci provai nemmeno a trattenere il mio, a trentadue denti.

-No, nemmeno io.- eccola la nostra sintonia, quella connessione che avevamo sempre avuto e che la mamma per scherzo ci rinfacciava sempre –Ah, papà! Spero non ti arrabbierai, ma ho deciso di riprendere il mio cognome. Sono orgogliosa di essere tua figlia.- i suoi occhi erano lucidi di felicità, quasi brillavano. Quello sarebbe stato un memorabile giorno da ricordare.

-D’ora in avanti le cose andranno per il verso giusto.- gli presi una mano con le mie.

-Sì, lo credo anch’io.-

E una volta ancora gli Hotchner si esibirono nei loro rari sorrisi.

 
“Vivere, vivere a colori e
Vivere, vivere a colori e
Vivere, vivere a colori e
Vivere, vivere…”
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Capitolo 18
*** Epilogo ***


Epilogo

 
-Ewan Skipper…-

Era una caldissima giornata di primavera, il sole splendeva su tutto il Maryland. Non per niente quel giorno vestirsi in giacca e cravatta richiedeva un gran sacrificio. Tutto il campo sportivo dell’accademia era stato allestito per l’occasione: un grosso palco troneggiava davanti alle tribune, davanti ad esso una schiera di sedie in plastica disposte a ventaglio, su un lato erano state posizionate tavole bianche dove venivano offerti aperitivi da uno specializzato catering, mentre sul lato opposto erano state ubicate delle pedane per la banda. Sul fondo un altro palco per la band con davanti relativa pista da ballo.

-Monica Downey…-

I sette agenti del BAU presero posto nella prima fila di sedie rosse, quelle riservate a parenti ed amici. Quelle davanti tutte blu erano riservate ai cadetti che quel giorno avrebbero ricevuto il Diploma Accademico. Tutti quanti erano emozionati di essere lì, quello era un gran giorno. Ma mai quanto lo era per il loro capo.

-Raphael Collins…-

Si sentiva stretto in quegli abiti, sebbene fossero gli stessi che utilizzava quando era al lavoro. Schiena dritta, le braccia incrociate davanti al petto; se così non fosse stato si sarebbe torturato le mani dal nervoso. David, seduto alla sua destra, di tanto in tanto gli scoccava qualche occhiata divertita, ma aveva saggiamente deciso di non proferire parola. Era troppo spassoso vedere il proprio austero capo in difficoltà.

-Rilassati. Non sei tu quello che deve salire sul palco.- gli sussurrò JJ alla sua sinistra, anche lei piuttosto divertita.

Già, era facile per loro dire così. Anche Serena quella mattina glielo aveva detto per telefono. Hotch si era domandato se la sua serietà si fosse presa una pausa, visto che a quanto pareva era trasparente per tutti.

-Misha Fuller…-

In parte a Rossi c’era Garcia, mentre dopo JJ venivano gli altri due: Reid e Morgan. Appena arrivati avevano fatto un giro ai tavoli del buffet, nella speranza di distrarsi nell’attesa che toccasse a Serena. Invece era stato un fiasco pazzesco. Il drink era finito subito e poco dopo si erano trovati nella mischia di genitori, fratelli, zii, nonni, cugini, amici e chi più ne ha più ne metta. Hotch aveva allungato il collo in direzione delle sedie blu, vagando con lo sguardo in cerca della sua pupilla. La trovò poco dopo, quando anche lei aveva fatto vagare lo sguardo sulla folla, senza però smettere di parlare con qualcuno seduto in parte a lei. Quando li aveva individuati aveva sorriso, facendogli un cenno di saluto.

-Thomas Handford…-

Gli studenti dovevano salire sul palco, salutare il preside dell’accademia col tipico saluto militare e stringere la mano al sindaco della città, il quale avrebbe dato loro la pergamena su cui era attestato che il corso in quella particolare specializzazione era stato superato. Ce n’erano di tutti i tipi: unità cinofila (con le proprie sottocategorie), SWATT, balistica, naturalmente il profiling e molte altre ancora. Tutti indossavano la tipica uniforme bianca e nera, con tanto di cappellino.
Aaron si scoprì impaziente oltre ogni dire; in fin dei conti si era limitato agli spettacoli dell’asilo e della scuola elementare. Questa volta invece si trattava di un grosso traguardo per la sua bambina.

-Serena Hotchner…-

Quelle parole lo destarono di colpo. Si unì gli altri per l’applauso, incapace di distogliere gli occhi da quella figurina dalla postura rigida e lo sguardo raggiante.

-Brava Serena!- urlò JJ.

La ragazza si soffermò davanti ai due uomini, eseguì il saluto militare alla perfezione, il quale le venne restituito. Poi i due si scambiarono una stretta di mano. Il sindaco sorrideva mentre si congratulava con lei, per poi consegnarle il fatidico diploma. Aaron, come i suoi colleghi e molti altri, non avevano smesso un secondo di battere le mani. Quel giorno, era il papà più orgoglioso del pianeta.

 
-Woowow! Brava! Bravissima! Complimenti!-

I ragazzi la tempestarono di complimenti non appena li raggiunse. Tutti reclamavano un bacio ed un abbraccio per congratularsi con lei.

-Grazie, ragazzi. Siete troppo buoni.- disse lei, imbarazzatissima; le gote arrossate.

-Te lo sei meritato.- le fece notare Rossi, strizzandole l’occhio, complice.

-Sono d’accordo.-

Hotch era spuntato dietro di lei, la sua consueta serietà recuperata. Tuttavia vi era quel leggero sorrisetto che gli inclinava le labbra, che voleva dire tutto. Serena lo abbracciò e baciò sulle guance, i colleghi di suo padre l’avevano così tanto bombardata di complimenti, da non avere il tempo di chiedere dove fosse finito suo padre.

-Allora, sai già cosa farai adesso?- le domandò Emily.

-A dire il vero, sono già stata contattata dal distretto dell’Analisi Investigativa di New York. A loro farebbe comodo un profiler, non sono all’avanguardia come lo siamo noi.-

-Per non contare che con un padre come il tuo, sei tutta una garanzia.- confermò Derek, suscitando l’ilarità, ma anche il consenso di tutti gli altri. Anche Hotch sorrise prima di aggiungere…

-Morgan, vorrei ricordarti che tu lavori ancora per me.-

-Ehm, ragazzina non è che gli serve un qualche altro agente a New York?- e via altre risate.

-In verità non gli ho ancora risposto.- ammise Serena.

-Perché no?- domandò Garcia.

-Beh, ecco…sono tornata a casa da poco. Non sono sicura di volermi trasferire subito così lontano.- non ci voleva un genio per capire che non le andava di separarsi nuovamente dal padre appena ritrovato. Sarebbe bastata un’occhiata tra i due per intuirlo.

-Dalla Virginia a New York ci sono sole cinque ore di distanza in macchina e una se prendi l’aereo.- intervenne Spencer.

-Reid ha ragione, non sarai poi così lontano.- rincarò la dose JJ.

-Lo so, non è quello il problema.-

-E qual è?- domandò il padre a braccia conserte, come quando si trattava di risolvere un problema non troppo difficile.

-Tanto per cominciare il trasferimento; non potrei di certo fare la pendolare! E poi il lavoro. Sappiamo benissimo tutti quanti che il nostro lavoro non ha orari. Guardate voi, sempre in giro per il mondo!-

-Sapevi che fare il profiler comportava questi rischi.- disse nuovamente il padre.

-Diciamo che allora non avevo messo in conto alcune cose.- sottointeso il riferimento alla loro riappacificazione –Se me ne vado, non ho idea di quando sarà la prossima volta che tornerò.-

-Ascoltami, tu vuoi fare il profiler?- Serena annuì al genitore –Vuoi andare a New York?-

-Beh…sì.-

-E allora vai. Io starò bene. Ci sentiremo spesso per telefono o per internet.-

-Per Natale!- intervenne JJ, per risollevare il morale di entrambi.

-Mi stai dicendo che non ci perderemo di vista?- domandò Serena.

-No, non più. Per nessuna ragione al mondo.-

Tutti sorrisero di nuovo. Una vicenda era finita, un’altra avventura stava per iniziare. L’orchestra attaccò con la musica.

-Serena, posso avere l’onore di questo ballo?- si fece avanti con fare galante Derek. Hotch lo fermò con una mano sul petto ed uno sguardo ferreo.

-Spiacente Morgan, temo dovrai aspettare il tuo turno. Questa agente ha un ballo in sospeso con me.-

Serena non sapeva se morire dalla vergogna di quella scena davanti a tutti o dalla contentezza. Suo padre voleva ballare con lei. Come une volta quando era piccola, per recuperare il ballo di fine anno che lui si era perso. Hotch si girò verso di lei e le porse la mano. Serena, raggiante, l’afferrò e si lasciò guidare da lui lungo la pista, seguendolo nei movimenti di quel lento.

Gli agenti del BAU guardarono i due Hotchner ballare, con quella particolare sfera familiare che li circondava; chi non li conosceva non avrebbe potuto capire. Poi, anche loro si buttarono nella mischia: Derek e Penelope, David e JJ, e Reid…beh Reid venne rimorchiato da una cadetta della SWATT.

 
“Rimanderò tutto a domani
Sei tu il mio Re, io la tua Regina.
E tu lo sai
Che non c’è segreto
Per vivere a colori”
 
Fine


 
Haley-Aaron


Un ringraziamento speciale va a: jaybree (che mi ha e mi sta tuttora seguendo e revisionando), Tony Stark (appassionato di Criminal Minds che ha lottato con i nostri protagonisti fino alla fine), Victoria Buchanan (per seguirmi qui e in diverse altre storie grazie a diversi nostri scambi). E' grazie anche a voi ragazzi se continuo ad avere voglia di scrivere, perchè siete voi che mi criticate e mi fate venir voglia di andare avanti. Grazie mille!

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