The last chance

di dream_more_sleep_less
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 10 ***
Capitolo 11: *** Capitolo 11 ***
Capitolo 12: *** Capitolo 12 ***
Capitolo 13: *** Capitolo 13 ***
Capitolo 14: *** Capitolo 14 ***
Capitolo 15: *** Capitolo 15 ***
Capitolo 16: *** Capitolo 16 ***
Capitolo 17: *** Capitolo 17 ***
Capitolo 18: *** Capitolo 18 ***
Capitolo 19: *** Capitolo 19 ***
Capitolo 20: *** Capitolo 20 ***
Capitolo 21: *** Capitolo 21 ***
Capitolo 22: *** Capitolo 22 ***
Capitolo 23: *** Capitolo 23 ***
Capitolo 24: *** Capitolo 24 ***
Capitolo 25: *** Capitolo 25 ***
Capitolo 26: *** Capitolo 26 ***
Capitolo 27: *** Capitolo 27 ***
Capitolo 28: *** Capitolo 28 ***
Capitolo 29: *** Capitolo 29 ***
Capitolo 30: *** Capitolo 30 ***
Capitolo 31: *** Capitolo 31 ***
Capitolo 32: *** Capitolo 32 ***
Capitolo 33: *** Capitolo 33 ***
Capitolo 34: *** Capitolo 34 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


The last chance
I


1:37 a.m.
Lo zapping in tv, dopo il calcio, era il suo passatempo preferito: in quel modo passava le giornate, sdraiato sul divano come un ebete, guardando lo schermo e bevendo Red Bull. In onda c'era una replica de I Robinson, la cosa non gli interessava molto: gli bastava che sentisse le voci e vedesse immagini muoversi.
Indossava lo stesso paio di pantaloncini da calcio ormai da tre giorni e non si era neppure rasato, gli occhiali enormi da  vista non contribuivano molto a migliorare il suo aspetto. Anzi, lo peggioravano proprio. Quello era lo stato in cui si riduceva ogni volta che perdeva una partita di calcio. O peggio, il campionato studentesco, cosa che accadeva ormai da due anni consecutivi. Era totalmente demoralizzato, non aveva neppure la forza per cambiare canale anche odiava quelle vecchie serie televisive.
Aveva passato gli ultimi giorni a pensare a cosa avesse sbagliato durante le partite di campionato ed era sempre giusto alla stessa conclusione; la colpa era dell'allenatore che lo aveva sostituito alla semifinale e quindi non era riuscito a dare il massimo. Nella sua testa il ragionamento non faceva una piega, ma in realtà era una grandissima stronzata e, cosa ben peggiore, non se ne rendeva ancora conto. Non riusciva a fare a meno di imprecare contro il portiere della sua squadra, Lance Stark, con il quale non era mai riuscito ad andare d'accordo.
Gli tornavano ancora alla mente gli attimi della partita e il goal della sconfitta, sarebbe bastato pochissimo per vincere eppure non era riuscito a fare nulla. Nonostante fosse il migliore giocatore che quella squadra avesse mai avuto,  non era riuscito ad evitare quel goal, nemmeno quell'idiota di portiere ci era riuscito.  
Lanciò la lattina di Red Bull, ormai vuota, contro la porta, la frustrazione e la rabbia gli salivano alla testa.  "Stupido Leeroy!" disse ad alta voce. Si insultava da solo molte volte ormai, e negli ultimi due anni era anche peggiorato, se qualcuno lo avesse sentito in quella situazione lo avrebbe preso per pazzo. A causa del suo comportamento sua madre era disperata, non capiva come un ragazzo della sua età potesse stare tutto il tempo dietro ad un pallone invece di correre dietro alle ragazze. 
Più di una volta gli aveva detto: "Ma ogni tanto fai sesso?  Tutta questa repressione non può che farti male." Ed ogni volta Leeroy la mandava a quel paese in risposta, e quella notte accadde per l'ennesima volta che Amanda, sua madre, si intrufolasse in camera sua per farsi i suoi affari. Sentì bussare e pregò che sua madre non entrasse. Quella donna cercava di creare un rapporto con lui che non si basasse solamente su Madre, ho fameMadre i soldi, devo uscire.  Ma con lei non si poteva avere nessun altro tipo di relazione, era una persona "particolare", fatta a suo modo, e neppure lui, suo figlio, riusciva a capirla. Provò ad ignorarla come ogni volta, magari se ne sarebbe tornata in camera sua a leggere i suoi stupidi romanzetti. Purtroppo quella non era la sua serata: Amanda, Super Amy per gli amici di Tumblr e Twitter, entrò nella stanza fregandosene della privacy del diciottenne. Tra le braccia portava un vassoio con insalata, pomodori, mozzarella e olive assieme ad un bicchiere di succo di frutta. Poggiò il tutto sul piccolo tavolino in mezzo alle cartacce di patatine e cioccolata. Dannata lei e le sue fisse per il mangiare sano, pensò il ragazzo.
"Mà, che vuoi?" chiese al limite della disperazione, strofinandosi gli occhi con i dorsi delle mani.Era chiedere troppo venire lasciato alla sua depressione post-partita?
Amanda ignorò, come ogni volta, il tono acido e insolente del giovane. In fondo era un maschio, con una femmina sarebbe stato tutto diverso.
"Puffetto, sembri una ragazza di fronte alla sua prima delusione amorosa." lo canzonò la donna. "Ti sequestro le red bull e le altre schifezze, domani hai scuola e gli allenamenti, quindi vedi di lasciare perdere le repliche dei Robinson e di andare a letto."
Odiava venire chiamato puffetto, quella donna era proprio ostinata, lo chiamava così dai suoi innocenti tre anni. Si poteva odiare la propria madre? Sì, lui poteva. Evitò di pensare al paragone con la ragazzina perché l'avrebbe presa volentieri a schiaffi.
"Abbiamo perso di nuovo la finale, cosa me ne frega degli allenamenti?" il tono era svogliato e disinteressato, ma il suo sguardo duro diceva tutt'altro.
"Ma, Puffetto... principalmente la colpa è tua e del tuo amico..."
A sentir menzionare quell'idiota di un portiere si infervori ancora più di prima: principalmente non si era presentato agli allenamenti per non scatenare un'altra rissa e non venire sospeso proprio gli ultimi giorni di scuola. Non erano mai stati amici, al massimo erano "compagni di squadra", ma anche solo a pensarlo gli saliva il sangue al cervello. Erano incompatibili, non c'era altro da dire.
"Siamo compagni di squadra." disse indignato.
"Sì Puffetto, ma vedi... se non riuscite a fare lavoro di squadra è inevitabile che ogni volta rischiate di subire goal. Come se non bastasse anche durante le partite vi insultate e litigate come due bambini. Si può sapere che ti ha fatto? O che gli hai fatto?".
Amanda era veramente stufa di vedere il figlio comportarsi come una ragazzina mestruata ogni volta che metteva piede in campo o che perdeva una partita. Sapeva che la colpa era del suo brutto carattere, non riusciva a ragionare prima di parlare o fare qualcosa.
"E' un coglione che non capisce un cazzo di calcio, si crede chissà chi solamente perché è bravo."
"Sei un idiota, lo sai?" rispose la madre guardandolo seriamente.
Il ragazzo fece spallucce, e per quel gesto Amanda gli diede uno pugno in testa, non gli fece male ovviamente. 
"Che ho fatto per meritare un figlio così?" chiese disperata.
"E' colpa delle porcate che leggi  e scrivi, sei ossessiva nei miei confronti." le urlò tirandosi in piedi.
"Che c'entra il mio lavoro adesso?!" chiese punta sul vivo.
Leeroy sospirò rassegnato, non si poteva ragionare con quella donna. Amanda viveva nel suo mondo, per cercare di capire il figlio si affidava a dei manuali idioti che non servivano a nulla, oppure cercava di psicanalizzarlo ogni volta che poteva.
"Niente, ora mi lasci da solo?"
"Solo se mi prometti di andare a scuola domani e se cercherai di comportarti da adulto e non come un cavernicolo. Se non ti mostri accondiscendente ogni tanto non arriverai mai da nessuna parte."
Leeroy si mise a ridere ironico, non poteva chiedergli seriamente una cosa simile.
"Scherzi? Io a quello gli spacco la faccia se lo vedo!"
"Almeno dovrò ripassare un'altra notte all'ospedale come l'altro anno! Quindi tu, microcefalo, vedrai di fare come ti ho detto, chiaro?"
Certo che sua madre quando si metteva in testa una cosa era difficile fargliela lasciar perdere, era più testarda di lui, ed era anche più insopportabile di lui. Non voleva diventare come lei, rabbrividì al solo pensiero. Sospirò rassegnato, doveva fare come diceva lei altrimenti non se la sarebbe più tolta dalle scatole.
"Non ti prometto nulla, diciamo che eviterò di finire di nuovo all'ospedale come quella volta." disse rassegnato.
"E' un buon inizio." gli disse sua madre sorridente. "Ora però vatti a lavare che puzzi come un capra, odio le persone che non tengono alla propria igiene, com'è possibile che ti riduci così ogni volta?" Concluse, prima di dargli la buona notte e andare via portandosi dietro le lattine vuote e i pacchetti di patatine accartocciati.
Ogni volta sua madre lo lasciava spiazzato a causa dei suoi discorsi, una madre non dovrebbe parlare così al figlio, Amanda avrebbe dovuto viziarlo e fargli avere ogni cosa  volesse in quanto unico figlio e invece si ritrovava ad essere trattato come un cretino. O almeno, così stava pensando Leeroy.
"Dimenticavo, Puffetto...  trovati una bella ragazza, almeno scarichi tutta questa tensione, ne avresti proprio bisogno." gli urlò dalla porta del corridoio.
"Vai a quel paese." rispose lui. Quella donna era impossibile.
"Puffetto, non devi mica vergognarti perché sei ancora vergine, lo sai vero?" disse la madre con tono apprensivo.
"Crepa!" urlò a pieni polmoni. Quella donna era il diavolo che lo aveva partorito per martoriargli l'esistenza. Non avrebbe augurato una madre del genere nemmeno al suo peggior nemico. Si era da tempo rassegnato alla sua esistenza, quante volte aveva pregato che dovesse trasferirsi per lavoro come suo padre. Ma invece niente, lei aveva piantato le radici in quella città e non le avrebbe mai sradicate, nemmeno per un'offerta migliore di lavoro. Non si capacitava di come era riuscito ad arrivare sano e salvo ai suoi diciotto anni. Durante la sua infanzia invocò più volte la morte per colpa di quell'essere inumano. In fondo poteva ritenersi quasi immortale se non era morto a causa delle stronzate di Amanda, chi lo avrebbe ucciso? Sorrise rassegnato, prima di spegnere la tv e andare in bagno a farsi una doccia. Dopo essersi lavato andò in cucina a farsi una camomilla, ne aveva proprio bisogno: dopo tutta la Red Bull che aveva trangugiato senza ritegno sarebbe stata dura per lui addormentarsi quella notte, prevedeva già di addormentarsi l'indomani a lezione o peggio durante l'allenamento. Tornato in camera sua poggiò la tazza sul tavolino aspettando che si raffreddasse un po', rassegnandosi nel frattempo a mangiare ciò che Amanda gli aveva portato. Sospirò per la centesima volta in quella serata tra un sorso di succo d'arancia e l'insalata.
Si ritrovò nuovamente a pensare a quella maledetta partita persa. La sconfitta bruciava e faceva più male di tutte le botte che aveva preso. Ogni volta gli altri si ostinavano a ripetere che la colpa era sua e del suo brutto temperamento sia durante gli allenamenti che durante le partite, ma era convinto che fossero tutte cavolate. La colpa era anche di Lance che lo istigava a picchiarlo e ad insultarlo per i suoi modi di fare insopportabili. Ma a Lance non veniva mai detto nulla. 
Nella semifinale l'allenatore l'aveva addirittura sostituito con uno dell'ultimo anno perché stava litigando con il portiere già dai primi due minuti della partita. Era stato frustrante per lui dover stare seduto in panchina per tutto il tempo a guardare quella partita, ma erano riusciti a vincere comunque. Purtroppo poi il suo sostituto si era fatto male e non avrebbe potuto giocare, quindi con non poca riluttanza l'allenatore dovette nuovamente mettere Leeroy in campo. Fu ciò che costò la vittoria alla squadra, anche se durante il primo tempo si era comportato bene, senza nemmeno considerare Lance. Avevano ripreso a litigare con l'inizio del secondo tempo, determinando  la loro sconfitta. I tempi supplementari furono un'agonia poi.
Persero 3 a 1. L'unico goal - davvero bello, commentò mentalmente Leeroy - fu merito di un calcio di rigore di uno dell'ultimo anno. Il pensiero che non avessero fatto abbastanza lo tormentava. Leeroy ci aveva provato fino all'ultimo a salvare la partita, ma non era servito a nulla, e come se non bastasse si erano persino giocati il portiere. Il loro continuo litigare aveva reso anche Lance irascibile, perciò  non era più riuscito a pensare lucidamente. Era stato insopportabile sentirsi così impotente e ancora più insopportabile vedere che Lance non riusciva a parare nulla. Era andato tutto a puttane, tutti i loro sforzi e gli allenamenti non erano serviti a nulla.
Ricordava ancora le parole di Lance dopo il fischio finale.
"Non abbiamo fatto abbastanza".
Il suo sguardo fu come un coltello conficcato in pieno petto, ebbe come la sensazioni di averlo deluso e che lui stesso fosse rimasto deluso da Lance, dalla partita, da tutto. Dopo la partita Leeroy non era più tornato a scuola, era rimasto barricato in camera sua a contemplare la sconfitta e a piangersi addosso senza la minima forza di riprendersi. Per lui, così sensibile agli insuccessi, il mondo aveva smesso di girare con il fischio finale dell'arbitro. Il primo giorno aveva cercato di auto-assolversi dando la colpa agli altri difensori e soprattutto a Lance. Il secondo, invece, non pensò più al calcio: si era quasi rassegnato all'idea di diventare uno psicologo come la madre, magari con le sue conoscenze avrebbe potuto metterlo a capo di uno studio. Il terzo giorno avrebbe voluto annullare la sua esistenza e fondersi con il divano e la tv. Ciò che lo risollevò dalla sua depressione, oltre ai discorsi di sua madre, fu arrivare alla conclusione che il prossimo anno sarebbe stato l'ultimo con una buona annata di giocatori. Avevano ancora un anno per dimostrare le loro capacità, ancora un anno per giocare in una squadra forte prima che tutti i ragazzi dell'ultimo anno si diplomassero, prima che quel bastardo si diplomasse. Non voleva dimostrare nulla, ma ammetteva che la loro era una delle squadre più forti del campionato. In teoria avrebbe dovuto vincere ogni partita senza troppe complicazioni, ma non era mai stato così. Tutto era andato a farsi benedire per la loro incapacità di collaborare.
 
***
 
Era finito per dare retta a sua madre e tornò a scuola per l'ultima settimana. Arrivò all'entrata in orario. La scuola era un edifico su due piani fatto di mattoncini rossi, non era molto grande ma era provvista di due grandi palestre e un campo da calcio all'aperto nel cortile posteriore. L'unica cosa che funzionava in quel complesso scolastico erano i club sportivi, le lezioni infatti venivano tenute da professori svogliati che ormai avevano superato la cinquantina e avevano perso ogni voglia di insegnare. In questo modo solamente gli alunni più capaci venivano seguiti, gli altri invece, come Leeroy, venivano abbandonati a loro stessi. Almeno quell'anno, grazie al sostegno del professore di educazione fisica e di quello di biologia, era riuscito a farsi ammettere nella classe successiva. Non c'era da sorprendersi: a Leeroy bastava promuovere senza impegnarsi troppo, la sua priorità era solo frequentare il club di calcio.
Quel giorno il tempo minacciava pioggia, le nubi che coprivano il cielo erano davvero allarmanti. Forse non avrebbero fatto l'allenamento, si disse Leeroy guardando il cielo con una smorfia. Non aveva nemmeno portato con sé l'ombrello, se avesse iniziato a piovere sarebbe tornato a casa fradicio. "Che palle." sospirò.
"Hey Roy! Hai barboneggiato come tuo solito?" 
Leeroy si girò, sorpreso della voce dal forte accento italiano che l'aveva chiamato. Se la prese con il ragazzo per ciò che aveva appena detto. In fondo era illogico pensare che nessuno si sarebbe mai accorto delle sue "strane" assenze dopo ogni sconfitta.
"Non ho barboneggiato, Daniele." rispose acido.
"Certo. Ti sei fatto crescere la barba perché ti piace? Ma non farmi ridere." 
"L'ho fatto per cambiare un po'." cercò di giustificarsi.
"Roy, hai anche delle occhiaie che ti arrivano fino alla mascella, se ti fossi fatto la barba scommetto che si vedrebbero."
Leeroy non poté fare a meno di pensare che l'ironia del giovane italiano fosse davvero snervante.
"Anche a me fa piacere vederti."
"Eddai, non fare l'antipatico."
"Non sono tutti solari come te di prima mattina.", sospirò esasperato.
L'italiano era davvero stressante, non la smetteva mai di parlare e diceva sempre ciò che pensava. Il più delle volte Leeroy si chiedeva perché non lo avesse ancora picchiato.
"Comunque, l'allenatore ti vuole vedere. e anche Miles. Sai, è davvero incazzato con te. Non la smetteva di insultarti l'altro giorno."
Ovvio che è incazzato, ma perché non con l'altro coglione?, fu il pensiero di Leeroy.
"Che palle. Dovrò evitarlo  fino all'allenamento  di oggi. Non mi va di sentirlo sbraitare  nei corridoi."
Daniele gli poggiò una mano sulla spalla in confidenza. "Sappi che questa volta non farò finta di non sapere dove sei, anche io sono incazzato per la partita Roy."
L'italiano fissò l'inglese con un ghigno malefico. Stupido mangia-spaghetti. Soltanto perché era una brava punta doveva incazzarsi con lui?!
"La colpa non è solo mia. E' anche di quel coglione." Si giustificò mostrando i denti, in una smorfia.
"Lance ha già parlato con Miles, manchi solo tu."
"Che palle."
In quel momento la campanella suonò. Il difensore pregò di non incontrare il capitano nei corridoi.
 
Salite le scale che conducevano al secondo piano, la prima cosa che Leeroy vide fu una testa castana che spuntava tra le altre, proprio davanti alla sua classe. Si fermò sull'ultimo scalino come pietrificato: Reginald Miles lo stava aspettando. La voglia di scappare nei bagni del primo piano era molta.
"Merda."
"Wow." esclamò Daniele, "Per starsene ad aspettarti davanti alla porta della nostra classe deve essere davvero incazzato."
"Tu non mi hai visto." Si girò, pronto a filarsela.
L'italiano afferrò prontamente l'inglese per la tracolla. "Se hai intenzione di nasconderti ai bagni del primo piano scordatelo, perché lo mando a cercarti."
"Sei proprio un bastardo! Fortuna che ti reputi mio amico!" sbottò acido e sorpreso.
Miles era intento a parlare con chissà chi, non si era ancora accorto della loro presenza sulle scale. Leeroy avrebbe potuto davvero scappare per rimandare la strigliata all'allenamento, ma Daniele lo tratteneva per la tracolla.
Con uno strattone l'inglese si liberò dalla presa e corse giù per le scale, investendo i malcapitati che stavano salendo.
Daniele non poté fare a meno di pensare che Roy fosse proprio un coglione di prima categoria. In quel momento Miles si girò  verso le scale,  cercando con lo sguardo il difensore problematico della sua squadra. Tutto ciò che trovò fu Daniele, che lo salutava con un sorriso sornione mentre con una mano gli indicava le scale. Tra le tante cose che Reginald Miles odiava c'erano i codardi, e Leeroy Rogers era uno della peggior specie.
 
Il difensore stava correndo come se non dovesse vedere l'alba del giorno dopo. Escluse di andare a rintanarsi in bagno, optando invece per lo sgabuzzino dei bidelli. In quel posto non sarebbe venuto nessuno a cercarlo. Avrebbe aspettato fino al suono della seconda campanella e poi si sarebbe diretto in classe, sicuramente Miles sarebbe già stato nella sua da un pezzo. Era così preso dai suoi ragionamenti che non guardava dove mettesse i piedi, né  tanto meno si rendeva conti di chi avesse davanti. Andò inevitabilmente a sbattere contro un metro e 96 di muscoli. Cadde per terra a causa dello scontro, iniziando subito ad imprecare come uno scaricatore di porto. Doveva riprendere subito la sua fuga altrimenti non sarebbe servito a nulla.
"Sei proprio un idiota."
Al suono di quella voce la rabbia gli fece andare il sangue alla testa. Fra tutte le persone della scuola doveva proprio andare a sbattere contro quella che odiava di più?
"Guardi mai dove metti i piedi mentre cammini?"
"Se Miles mi trova giuro che dopo ti riempio di botte Lance, quindi togliti dalle palle, non è giornata!"
Il suo ritorno a scuola era stato più movimentato del previsto, e la cosa non gli era piaciuta per niente. Prima Daniele, poi Miles e come ciliegina sulla torta quell'idiota dai capelli rossi.
"Non sono affari miei."
Quella frase lo colpì molto. Lance era il tipo di persona che non attaccava mai briga, ma con lui finiva addirittura per alzare le mani. Allora perché non reagiva ai suoi insulti?  Che fosse davvero rimasto deluso dopo la partita? 
Lance gli voltò le spalle, dirigendosi verso la sua classe e lasciando un Leeroy perplesso ed incazzato, seduto in terra come un idiota.
"Ma che cazz..." commentò, assottigliando gli occhi.
Da quando in qua si comportava così? Leeroy si tirò in piedi, determinato a corrergli dietro e riempirlo di botte come non aveva mai fatto in vita sua, ma qualcuno lo afferrò per la maglia. "Ma che cazzo vuoi?" chiese fuori di sé, girandosi. Avrebbe preso a pugni chiunque si fosse trovato davanti anche se fosse stato il preside in persona.
"Cercavi di scappare vero?"
Il sangue gli si raggelò nelle vene, quel bastardo di Daniele lo aveva tradito. Vatti a fidare degli amici, pensò.
Miles lo fissava con uno sguardo omicida che avrebbe fatto accapponare la pelle a chiunque. Il loro capitano faceva davvero paura quando perdeva la pazienza.
"N-non stavo scappando, dovevo andare in bagno." rispose prontamente Leeroy, pregando che quella tortura finisse presto.
"Mi fa piacere." Miles sorrideva ironico, e non auspicava nulla di buono. "Ci sarai all'allenamento di oggi, non è vero?"
Leeroy annuì, deglutendo.
"Lo sai che dovrai recuperare i giorni di allenamento che hai perso?"
"A che serve? Il campionato è finito.", non poté fare a meno di ribadire.
"Taci." Il sorriso del capitano si tramutò in un ghigno. Leeroy si chiese come riuscisse a fare certe espressioni raccapriccianti. "Farai come dico io. E ricordati che dobbiamo ancora parlare dell'esito dell'ultima partita. Sai che se da ora in poi non seguirai i miei ordini alla lettera ti ritroverai seduto sulla panchina a vita?"
"Ma che caz- non puoi farlo! Sai che servo alla squadra!" Leeroy si infervori, colpito sul punto da quella minaccia.
"Te lo ripeto: farai ciò che dico io. Ora torna in classe, ingrato che non sei altro."
"E per quanto riguarda Lance?" Domandò senza neanche pensarci. Voleva sapere se il loro destino sarebbe stato lo stesso, o se l'altro avrebbe ricevuto qualche trattamento di favore. Era intollerabile che quello la passasse sempre liscia, mentre lui si ritrovava sempre in mezzo ai casini.
"Lui non è affar tuo, non devi nemmeno guardarlo, perché se vi ribecco a zombarvi di botte giuro che entrambi farete i panchinari a vita. Sono stato chiaro?" Il suo ghignò si allargò ancora. Si vedeva che si stava trattenendo dal picchiarlo selvaggiamente.
"Cristallino", sibilò tra i denti.
Era fregato. Non avrebbe potuto picchiare quel bastardo per averlo messo nei casini e per averlo lasciato nel corridoio come un idiota.
"Se è tutto chiaro, vai in classe. Ci si vede dopo, e non fare tardi." Detto ciò Miles si dileguò, lasciando un Leeroy in piena crisi di nervi nel corridoio, pronto ad esplodere al minimo accenno di ostilità nei suoi confronti. Le cose non andavano mai come voleva. Quando sarebbe andato in classe l'avrebbe fatta pagare all'italiano.
"Scuola del cazzo."
 
***
 
Alla fine della giornata non aveva ancora piovuto, quindi si ritrovò svogliatamente a dirigersi agli spogliatoi nel cortile posteriore della scuola.  L'entusiasmo che aveva sempre avuto quando si trovava su un campo di calcio quel giorno gli fu come risucchiato da tutte quelle disavventure. 
"Non te la prendere Roy. Sono cose che capitano." commentò Daniele mentre faceva la strada con lui. Alla fine Leeroy non era nemmeno riuscito a vendicarsi del tradimento perché, appena giunto in classe, era stato costretto ad andare alla lavagna e ci aveva passato tutta l'ora. Era sfinito sia fisicamente che psicologicamente.
"Non dire stronzate. Succedono sempre a me."
"Questo perché hai un carattere di merda." risponde sorridendo tranquillamente.
"E' anche colpa tua se sono finito nei casini!"
"Sì, ma non puoi sempre scappare dai problemi. In questo modo hai affrontato subito il problema. Poteva andarti peggio."
"Avrei preferito affrontare Miles dopo. Quello è pazzo, e lo sai."
"Smettila di piagnucolare come una ragazzina."
"Non rompere."
Furono i primi ad arrivare allo spogliatoio, degli atri nemmeno l'ombra. Leeroy sperò che fossero andati tutti a casa per il brutto tempo. Si cambiarono velocemente ed uscirono ad aspettare. Il primo ad arrivare fu Akel. "Perché non mi avete aspettato?" 
"Roy non aveva voglia di aspettare che finissi di copiare la roba per le vacanze.., e nemmeno io." rispose l'italiano all'amico di origini turche.
"Certo che sei proprio uno stronzo." 
"Non lo dire a me, oggi mi ha dato in pasto a Reginald." chiarì Leeroy.
"E non arrabbiatevi così, dai!"
Gli altri arrivarono poco dopo insieme all'allenatore. Leeroy rabbrividì, sperando che la ramanzina da lui sarebbe giunta alla fine dell'allenamento. Lance e Miles furono gli ultimi ad arrivare, beccandosi un breve rimprovero dall'allenatore. 
"Si può sapere dove eravate?!"
"Miles era impegnato a fare il Don Giovanni con Abigail, come suo solito." replicò il portiere per prenderlo in giro.
"Non è vero! Le ho solo chiesto se era venuta a vederci durante la finale!"
"Non mi interessano le vostre cavolate, andate a cambiarvi che siete gli ultimi."
I due obbedirono senza protestare, l'allenatore era ancora infuriato per la partita quindi era meglio non contraddirlo. Anche il portiere lo era e non aveva ancora smesso di colpevolizzarsi per l'accaduto. Se la difesa crollava lui era l'ultimo uomo che poteva ancora salvare la partita, ma non c'era riuscito nonostante tutti i suoi sforzi. Non era riuscito a rimanere lucido e La rabbia aveva avuto la meglio sul suo solito sangue freddo. Di Leeroy non gli importava nulla, ma sapeva che parte della colpa era anche del compagno di squadra.
"Abbiamo ancora un anno." disse Miles come se avesse capito i pensieri dell'amico.
"Come?"
Il capitano aveva intuito lo stato d'animo del portiere e voleva rassicurarlo: in fondo era anche suo compito sollevare gli animi della squadra quando qualcosa non andava. Lance non poteva continuare a rimproverarsi, doveva rialzarsi e andare avanti. D'altronde avevano ancora tanti anni per giocare, anche dopo il diploma. Condivideva i suoi rimpianti ma non potevano fermarsi al primo ostacolo.
"Non te la prendere, il prossimo anno vinceremo." Miles accennò un sorriso, sicuro ed ottimista.
"Non è questo il punto. Quelli dell'ultimo anno saranno veramente delusi, e anche io lo sarei, se questa fosse stata la nostra ultima possibilità." disse alzando la voce per la frustrazione.
"Credi che anche io non ci abbia pensato?"  
Il tono del capitano era duro e pieno di rimpianto. Lance diede un calcio allo stipetto per la rabbia che gli straboccava da ogni poro della pelle. Non poteva più nemmeno sfogarsi prendendo a calci Leeroy come aveva fatto fino a quel momento.
"Dannazione."
"Senti, andiamo ad allenarci che è meglio. Sfogati durante l'allenamento."
Il portiere sospirò. "Forse hai ragione."
Lance prese l'elastico nero che portava al polso, il suo portafortuna, e lo mise in testa a mo di fascia per tenere i ciuffi di capelli rossi lontani dagli occhi.
"Ma perché non ti tagli i capelli? Non ti danno noia così lunghi?" chiese Miles.
"Vanno bene così. Ora andiamo."
Miles annuì. Una volta fuori si unirono agli altri nei giri di campo.
"Fate quattro giri poi iniziate a cambiare andatura." urlò l'allenatore.
Miles corse alla testa del gruppo dando il ritmo alla squadra.
Fortunatamente non ci furono problemi durante l'esercitazione. Filò tutto liscio senza intoppi da parte di nessuno. Alla fine però l'allenatore chiamò tutti i ragazzi per un discorso. 
"Ora ti prenderà per le orecchie" disse Akel  a Leeroy. Il difensore sbiancò pensando che forse il turco avesse ragione. Si immaginava Stan  prenderlo a pallonate fino al giorno dopo.
"Se non lo fa lui ci penserà Miles." aggiunse Daniele ridacchiando.
"La volete smettere?"
"Mi sa che ha paura." Anche Akel rise.
Forse era quello che succedeva ad avere un turco ed un italiano per migliori amici, pensò Leeroy. Avevano l'abitudine di punzecchiarlo e prenderlo in giro alla minima occasione.
"Piantatela." Fu la risposta esasperata dell'inglese. Cercò per un attimo gli occhi di Lance per verificare se anche lui fosse un po' preoccupato per ciò che l'allenatore stesse per dire. Il portiere però era girato a parlare con il capitano, durante l'allenamento quei due non si erano mai separati. Sicuramente era stata una delle direttive dell'allenatore e di Miles per tenerlo buono. Lo vide mettersi davanti a Stan per ascoltare ciò che aveva da dire alla squadra mentre Leeroy si era messo alla destra del mister assieme ai suoi "amici".
Stan era un uomo sulla quarantina, probabilmente era il professore più giovane della scuola e dimostrava anche meno anni degli altri. Era una di quelle persone sempre attive e che credeva nel sostegno dei giovani nonostante fossero delle teste calde o dei buoni a nulla. Il suo sguardo in quel momento era serio e non lasciava trasparire emozioni, tanto che tutti si stavano chiedendo cosa avesse di così importante da dire.
"Sono molto dispiaciuto per gli esiti della finale, ero convinto di essere riuscito a portarvi al massimo. Non credo di avervi sottovalutato. Siete ancora al massimo, avete fatto un bel lavoro in questi anni." fece una pausa, nella sua voce si avvertiva una nota di irritazione forse dovuta alla sconfitta. "Non dovete arrabbiarvi per come è andata, sono cose che succedono. Ed è per questo che non dovrà più accadere." L'andamento della voce si fece più duro e fermo.
Leeroy si sentì punto sul vivo, pronto a scommettere che di lì a poco avrebbe fatto il suo nome addossandogli tutte le colpe. Non aveva la minima intenzione di scusarsi pubblicamente per ciò che non aveva fatto durante la partita.
"Mi dispiace solo per i ragazzi dell'ultimo anno, so che ci speravate, e anche io ci speravo. In realtà ne ero proprio convinto. Potevamo vincere quella partita."
Un ragazzo della squadra però lo interruppe. "Non si preoccupi, Stan. Sapevamo che con certi elementi sarebbe stata dura, ma l'importante è che siamo diventati più forti. E poi noi tutti dell'ultimo anno continueremo a giocare a calcio all'università. Non si preoccupi." commentò James, l'ormai ex attaccante della squadra. Il suo tono di voce non era colmo di rimpianti o di rabbia, ma semplicemente nostalgico. Lui ed altri cinque giocatori si sarebbero a breve diplomati e quindi sarebbero stati sostituiti da quelli più giovani come Daniele e Akel.
"Però certa gente dovrebbe calmare i suoi bollenti spiriti." aggiunse.
"Che?" fece Leeroy, sentitosi chiamato in causa.
"Voglio dire che devi darti una calmata." disse con tono serio James.
"Parole sante." concordarono Daniele ed altri giocatori, quasi all'unisono.
Leeroy guardò malissimo l'amico, quella se la sarebbe ricordata.
"Hai pienamente ragione, infatti mi assicurerò di far calmare quella testa calda." disse Stan.
"Vi ricordo che sono qua." Leeroy si sentiva davvero offeso. Alla fine lo aveva tirato in causa quello dell'ultimo anno e aveva ricevuto un'altra ramanzina. Non poteva però dar loro torto per avercela con lui.
"Stai buono, io e te parliamo dopo." aggiunse l'allenatore.
Era ufficialmente nei guai. Aveva creduto che il discorso sarebbe finito lì, invece il peggio doveva ancora arrivare. Si sentiva un vero schifo, si chiese se anche Lance in quel momento provava lo stesso. Cercò nuovamente la sua figura con lo sguardo. Il portiere teneva lo sguardo basso e le mani munite di guanti nelle enormi tasche dei pantaloni. Era strano quel comportamento da parte sua, di solito stava con le mani sui fianchi a mò di prima donna. Doveva essersi incantato perché non si accorse che Daniele lo stesse chiamando fino a che non lo strattonò per la maglia.
"Ci sei o ci fai?" chiese l'italiano.
Solo allora si accorse che l'allenatore era sparito e che gli altri si stavano già avviando allo spogliatoio. "Che vuoi?" Rispose Leeroy, sorpreso.
"Il mister vuole che lo raggiungi in sala insegnati dopo che ti sei cambiato." gli disse Daniele annoiato.
L'inglese annuì e lo seguì nello spogliatoio. Non aveva voglia di cambiarsi, ma gli tornarono alla mente le parole della madre. Odio le persone che non tengono alla loro igiene, com'è possibile che ti riduci così ogni volta? Sbuffò scocciato. Onde evitare altre scenate da parte di quella donna isterica si spogliò e andò a farsi la doccia.
Si infilò nel box vuoto, tra i due occupati da Akel e Daniele, i quali erano intenti a parlare a gran voce dei loro propositi per le vacanze estive.
"Quindi torni in Italia appena finita la scuola?" domandò il turco.
"Sì, mi sono rotto dell'Inghilterra." Fu la risposta di Daniele.
"Avete finito di urlare?", interruppe l'inglese al limite della sopportazione.
"Se non ti vuoi muovere dalla tua cara e piovosa Inghilterra non è un problema nostro." disse Akel infastidito, sottolineando l'aggettivo piovosa.
"Posso andare dove voglio, ma non ho voglia di muovermi questa estate." rispose svogliatamente. Uscì dal box doccia, saturo dei discorsi di quei due. Fuori trovò Lance, in attesa di potersi lavare. Il rosso lo sorpassò senza considerarlo, chiudendosi la porta in plastica alle spalle. Leeroy rimase di sasso, chiedendosi immediatamente se poteva esistere qualcuno più coglione di quel portiere. Cercò di calmarsi, altrimenti sarebbe entrato nel box e lo avrebbe pestato a sangue. Decise però di abbandonare quell'idea e si vestì velocemente per andare a parlare con l'allenatore. Si sarebbe sfogato a casa giocando a Call of Duty.
Mentre si vestiva gli cadde l'occhio sullo specchio dell'armadietto. Con la barba e quei capelli arruffati sembrava un trentenne, eppure rasato dimostrava sì e no sedici anni. Si sistemò i ciuffi neri ribelli all'indietro in modo che non gli ricadessero sugli occhi. Lo infastidivano le punte dei capelli bagnati sulla fronte, gli sembrava di avere degli aghi piantati nella pelle.
"Hai finito di farti bella?" lo canzonò Miles, ridendo divertito.
"Simpatico." rispose acido, fingendo una risata.
"Muoviti a cambiarti, a Stan non piace aspettare."
"Lo so, lo so." Gli sembrava che il destino del mondo dipendesse da quel colloquio. Quando fu pronto prese la borsa a tracolla di scuola e il borsone di calcio e si avviò all'edificio scolastico.
"Leeroy, fatti quella barba!" urlò Miles da dentro gli spogliatoi. Subito dopo si udì uno scoppio di risate.
"Ma fatevi i cazzi vostri!" sbottò digrignando i denti. Cosa volevano quegli idioti dalla sua barba?  Perché non pensavano ai loro problemi invece di rompere l'anima proprio a lui? Li mandò mentalmente al diavolo e corse dall'allenatore, fortuna che non ci fosse nessuno all'interno dell'edificio altrimenti sarebbe rimasto incastrato con le borse tra i primini. 
La sala insegnanti si trovava al piano terra in fondo al corridoio, subito dopo l'aula di arte. Trovò la porta aperta e l'allenatore seduto a bere una tazza di caffè. L'aula odorava di uno strano mix tra aroma di caffè, deodoranti e vecchi fogli. La stanza era quadrata con al centro un tavolo rettangolare di legno scuro, in un angolo alla sua destra vicino alla finestra si trovavano gli armadietti dei professori, mentre subito alla sua destra c'era una specie di cucinino per il caffè e il tè. I muri, a cui appese foto di paesaggi,  erano dipinti del solito bianco immacolato come tutte le altre classi dell'edificio, e alla sua sinistra si trovava una bacheca piena di foto di gite e cartoline.
"Entra pure e siediti."
Leeroy  lasciò le borse ingombranti dietro la sedia prima di seguire l'invito dell'allenatore . "Di cosa vuole parlare?", domandò una volta accomodato.
"Lo sai di cosa voglio parlare." Il tono autoritario lasciava intendere a Leeroy che, esattamente come immaginava, le cose erano serie. Il ragazzo annuì e automaticamente si appoggiò allo schienale della sedia, pronto a sentire qualsiasi cosa gli fosse stata detta.
"Sai di avermi deluso molto?" 
Il ragazzo annuì di nuovo.
"Si può sapere che ti è preso? Nel primo tempo eri  perfetto, poi che diavolo è successo tra te e Lance?" Il tono di voce si era fatto più alto e infuriato.
"Niente." rispose secco.
"Niente un corno! Per poco non vi siete presi a pugni e ti sei preso anche un'ammonizione." urlò Stan.
Leeroy si ostinava a non parlare e ciò fece irritare ancora di più l'allenatore, ma poi lo vide calmarsi dopo aver fatto un respiro profondo.
"A questo punto non mi interessa, ma ti avverto: fai altri scherzi come quello e ti giuro che sei fuori dalla squadra, chiaro?"
Il giovane teneva lo sguardo basso per la vergogna e la frustrazione. Non era possibile che l'allenatore volesse buttarlo fuori dalla squadra unicamente per il suo comportamento. Dannazione lui era tra i più bravi, se non il migliore. Aggrottò di più le sopracciglia.
"Non mi interessa se sei bravo, posso sempre rimpiazzarti. Non credere di essere unico, posso trovarne altre dieci come te. Datti una regolata o non arriverai da nessuna parte." Ne aveva visti di ragazzini come lui che si credevano imbattibili ma che col passare del tempo  si rivelavano essere solo fumo negli occhi.
A quel punto Leeroy non poté fare a meno di sgranare gli occhi, incredulo. Stan non poteva dire sul serio, lui non era fumo negli occhi!
"Se ci tieni, e lo so, dimostralo a me e alla squadra. Cerca di instaurare un rapporto con Lance. Non dovete diventare amici, ma almeno imparate a fare gioco di squadra." L'allenatore si strofinò gli occhi con le mani per la stanchezza, non vedeva l'ora di essere a casa per poter dormire.
"Ho capito." conclude mogio Leeroy.
"Lo spero per te e ora fuori dalle scatole."
Il ragazzo si alzò e riprese le sue borse prima di salutare.
"A domani."
"Ciao." disse sovrappensiero per poi aggiungere: "Fatti quella barba."
"Certo." rispose il giovane con tono piatto, uscendo dalla stanza. A quel punto le cose sarebbero dovute cambiare seriamente.

NDA:
Devo ringraziare H_Ele che gentilmente mi ha fatto da beta reader e mi costringe a scrivere i capitoli. u.u Non ti lamentare del ringraziamento, non mi piacciono i discorsi da Oscar. :)

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


The last chance
II

Nonostante il rimprovero di qualche giorno prima, Stan decise che per far assimilare meglio il messaggio "Non fare altri casini altrimenti sei fuori." a Leeroy, avrebbe dovuto utilizzare una soluzione semplice e pratica.
Mancavano poco meno di quindici minuti alla fine dell'allenamento, così l'allenatore fermò la partita che i ragazzi stavano disputando per avanzare una proposta. Era una giornata veramente afosa e tutti, nessuno escluso, stava annaspando per il caldo. Tutta la squadra era a torso nudo e sudata sia per lo sforzo fisico che per il caldo, ma finchè giocavano non ci badavano.
"Che c'è?" chiese Miles, fresco come una rosa, sembrava che non sentisse mai la fatica.
"Venite qua." poi si rivolse al portiere: "Lance, esci dalla porta."
Il ragazzo rimase interdetto: che Stan volesse fare altri discorsi? Non aveva voglia di perdere tempo in chiacchere, dovevano allenarsi.
"Leeroy, vieni anche te qui."
Il difensore superò i compagni per raggiunge l'allenatore. "Sì?" chiese con voce ancora affannosa.
"Lance, dagli i guanti." disse l'allenatore, aggiungendo poi:"Leeroy, vai in porta."
"Che?" chiese stupito il diretto interessato.
"Hai capito bene."
Il portiere si tolse malvolentieri i guanti per poi lanciarli al compagno di squadra, che li afferrò al volo. Nessuno capì la decisione fino a che Stan non parlò nuovamente: "Per evitare che a qualcuno sorga la brillante idea di rinchiudere Leeroy in uno sgabuzzino per poi riempirlo di botte faremo ora un bel allenamento. Vi aiuterà a scaricare la rabbia che provate nei suoi confronti. In questo modo nessuno si farà del male... beh, forse solo Leeroy." concluse sorridendo.
"Lo useremo come tiro al bersaglio?" Il tono di Daniele era stranamente euforico.
"Più o meno. Potrete fare quello che volete, a patto che usiate il pallone e non le mani o i piedi, ma avrete una sola possibilità. Non ve ne darò altre. In questo modo si chiuderà subito la questione. Chi è il primo?" chiese con un ghignetto divertito.
"Quindi lo useremo come tiro al bersaglio!" ripeté di nuovo l'italiano, tutto contento.
"Non siamo mica dei barbari!" esclamò il diretto interessato, molto preoccupato per l'esito di quell'allenamento. Sarebbe tornato a casa pieno di lividi.
"Taci. E vedi di parare se ci riesci." lo zittì Stan.
Leeroy non potè fare a meno di pensare che quell'uomo fosse un gran bastardo. Tra la folla di ragazzi si fece avanti Daniele con il pallone, sarebbe stato il primo a tirare. Si posizionò e si fece indietro per la rincorsa.
"Niente di personale." commentò l'italiano.
Leeroy sudò freddo: quel bastardo avrebbe fatto sul serio e avrebbe sicuramente mirato alla faccia.
"Cerca di evitare il naso, non voglio portarlo in ospedale." fu il commento ironico dell'allenatore.
"Ci proverò, mister!" 
"Che situazione del cazzo..." borbottò Leeroy infastidito. Come se non bastasse i guanti gli stavano enormi ed erano sudaticci. Avrebbe voluto uccidere qualcuno alla fine della giornata. Si posizionò al centro della porta a braccia aperte, come aveva visto fare molte volte a Lance,  aspettando il tiro. Non aveva idea in che punto avrebbe tirato ma pregò che non puntasse davvero alla faccia.
Daniele fece una rincorsa veloce per poi fermarsi improvvisamente ad un passo dal pallone e calciò proprio in direzione del portiere, più precisamente al basso ventre. Leeroy parò con il corpo bloccando la palla con le mani, ma il colpo lo sentì forte e chiaro.  Annaspò per un momento come svuotato del fiato che aveva in corpo. Quell'italiano era proprio un deficiente. Vide Daniele dare il cinque a Miles facendosi dare il cambio.
Lance aveva assistito alla scena molto divertito, trattenendosi dal scoppiare al ridere e non vedendo l'ora che fosse il suo turno.
Miles, al contrario di Daniele, non aveva intenzione di fargli male: preferì piuttosto umiliarlo facendo goal. Leeroy doveva capire che ogni ruolo era importante e difficile al tempo stesso.
Il capitano prese la rincorsa. Il portiere non aveva la più pallida idea di dove avrebbe tirato e quindi non sapeva se schivare un colpo diretto a lui o parare un goal. Quandò Miles colpì la palla non la vide nemmeno arrivare e finì in rete senza che Leeroy riuscisse a sfiorarla con la punta delle dita. Si buttò troppo tardi, la palla era già entrata quando capì cosa doveva fare, rimase a terra per qualche momento. Sono un difensore, non un portiere! Perché dovrei saper anche parare?!
"Bel goal." commentò Lance ghignando.
"Scommetto che se ci fosse stato il nostro portiere al suo posto l'avrebbe parato." aggiunse Daniele dando una pacca sulla spalla di Lance, ridendo dell'incapacità del suo amico come portiere.
"Già, sarebbe stata tutta un'altra storia." concordò Lance al compagno di squadra.
Dovevano farlo sentire un incapace, oltre che un idiota? Quella situazione era esasperante ed il caldo non lo aiutava di certo. "Datevi una mossa a finire questa pagliacciata."
"Certo, certo." fece Stan con sufficienza. "Il prossimo."
Dopo Miles venne il turno di Akel, ed anche lui fece goal facendo saltare i nervi a Leeroy mentre gli altri ridevano di gusto. A quel punto era chiaro che umiliarlo sarebbe stato più divertente del prenderlo a pallonate, così fecero gli altri componenti della squadra compreso James. 
Arrivò infine la volta del vero portiere. Leeroy era pienamente convinto che non avrebbe mai fatto goal, era impossibile. Non poteva immaginare, però, che Lance avrebbe fatto come gli altri, impaziente di dimostrare al novellino che, al contrario di lui, sapeva fare altro oltre parere. Quando si posizionò, Leeroy divenne improvvisamente nervoso. Deglutì prima di detergersi il sudore dalla fronte. I loro sguardi si incatenarono per un momento. Leeroy ebbe come un brivido su per la schiena nonostante il caldo. Non va affatto bene. Con una sola occhiata quel tizio riusciva a fargli perdere la concentrazione e la pazienza. "Dannazione."
Dagli occhi del rosso capì che non doveva aspettarsi nulla di buono, sicuramente lo avrebbe colpito dritto sul viso.
"Ci diamo una mossa?" domandò Miles. Quella pagliacciata doveva davvero avere fine, e chi meglio di Lance poteva finire in bellezza?
"Non mettermi fretta, non voglio sbagliare."
"Certo, se tu sai tirare un rigore io ho un unicorno rosa in casa!" sbottò Leeroy, al limite della sopportazione.
Lance ghignò perfidamente. Stai a vedere che ti combino, pensò. Fece parecchi passi all'indietro, correndo poi velocemente verso il pallone. Si fermò improvvisamente, fingendo di tirare. Leeroy uscì dalla porta, sicuro di aver intuito le intenzioni dell'altro, ma appena vide l'altro bloccarsi e colpire il pallone con il collo del piede capì di essere stato fregato. La palla volò sulla sua testa e cadde in rete. Goal. 
Gli aveva fatto il cucchiaio?!
"Sei un grandissimo bastardo!" tuonò a quel punto, alzandosi in piedi. "Non è valido! Dovevi colpire me, non mirare in porta!"
"Stan ha detto che potevamo fare tutto ciò che volevamo. Non è vero?" chiese Lance girandosi verso l'allenatore.
"Lance ha ragione." 
"Ora possiamo andare?" chiese il rosso con tono annoiato.
"Certo. Tutti nelle docce, ci si rivede tre settimane prima dell'inizio della scuola. Vi farò sapere il giorno esatto tramite Miles o un sms. Buone vacanze ragazzi."
 
Dopo la doccia i ragazzi si ritrovarono ad un bar nelle vicinanze della scuola, molto in voga tra i giovani della loro età. Era stata una giornata stancante e qualcuno avrebbe voluto addirittura dimenticarla. I brutti pensieri e le figuracce furono però ben presto sostituiti da risa e partite al calcio balilla. Il locale era grande, su due piani: al primo c'erano i tavolini in prossimità delle finestre, e al centro della sala il bancone, mentre al lato opposto delle finestre si trovava il biliardino assieme ad un biliardo. Al secondo piano, invece, si trovava un salone adibito a ristorante che veniva usato solamente la sera e in occasione di qualche festa o compleanno. Frequentavano quel locale dal primo giorno di scuola e nonostante conoscessero bene il proprietario non aveva mai fatto loro uno sconto. Quel giorno, però, non si erano riuniti tutti al bar: James e gli altri neo-diplomati, infatti, era andati a festeggiare con le rispettive ragazze in qualche locale fuori città. Verso le 11 di sera, però, i festeggiamenti sarebbero continuati: quelli della squadra avevano come usanza quella di fare una festa per i ragazzi che finivano la scuola. Altri, invece, non avevano semplicemente avuto voglia di rimanere fuori con quel caldo, nemmeno Leeroy era tra quelli, ma la fame aveva avuto la meglio sull'afa. Se ne stava seduto vicino a Drew e Daniele, mentre di fronte aveva Lance al cui fianco stavano Akel e Miles. A capotavola, invece, troneggiava come sempre l'unica ragazza del gruppo: Abigail. Era un'amica di Miles, il quale si ostinava a negare ogni tipo di coinvolgimento sentimentale con tale fanciulla. Il difensore stava aspettando con impazienza il suo fish and chips da divorare ma nell'attesa, molto svogliatamente, si era messo a sentire ciò che Abigail aveva da dire loro. Il più delle volte erano rimproveri. e quel caso non era di certo un'eccezione. Abigail non era la mascotte della squadra e nemmeno la manager, anche se era sempre alle partite e li aiutava con gli allenamenti. Leeroy la riteneva una ragazza strana, in quanto amava lo sport più della maggior parte dei ragazzi che conosceva, mentre odiava con tutto il cuore passare le giornate a sparlare delle sue compagne di classe e del bello di turno. Le uniche volte che l'aveva vista per negozi era stato per comprare abiti sportivi o palloni da pallavolo. 
"Ragazzi, mi raccomando per il prossimo anno: voglio che prendiate a calci nel culo quei bastardi!" esclamò la ragazza.
Gli altri la guardavano un po' preoccupati. Si poteva dire che era la loro fan numero uno, ma il più delle volte si sostituiva all'allenatore e pretendeva di prepararli come dei soldati prossimi alla guerra. La squadra era sempre riluttante quando lei si metteva in mezzo, a volte persino terrorizzata.
"Dai Abigail, calmati. C'è tempo, lascia finire le vacanze estive... che tra l'altro non sono nemmeno iniziate. Voglio vivere." commentò l'italiano con tono stanco, mentre si accasciava sul tavolino. Miles, al contrario, stava tamburellando con le dita sul tavolino in legno, molto seccato, non era possibile che quella trovasse da ridire su ogni cosa. Era in quei momenti che malediva il giorno in cui le aveva proposto di dar loro una mano. Notò con comprensione che anche gli altri erano veramente sfiniti dai discorsi della ragazza: Daniele, stranamente, non dava cenno di vita, si ostinava a tenere la testa china come quando dormiva durante le lezioni. Akel e Drew gesticolavano senza farsi notare dalla ragazza, capì che stavano pianificando la fuga da quella situazione, mentre gli altri due sembravano fuori dal mondo, con la testa chissà dove. Pensò che era arrivato il momento di farla calmare.
"Ci vuole più impegno da parte vostra, siete dei fannulloni!" replicò lei seccata. Si dava tanto da fare per loro e non aveva mai preteso un grazie o riconoscimenti, le bastava essere ascoltata... e che eseguissero i suoi ordini alla lettera. Ma quei tipi erano davvero impossibili.
"Abi, basta. Non ho più voglia di sentire i soliti discorsi. Daniele ha ragione, è estate, potrai romperci le palle durante la preparazione ad agosto. Ora basta." Il tono del capitano, che solitamente era sottile e basso, si era improvvisamente fatto duro e profondo.
La ragazza lo guardò tra lo stupito e l'incredulo. Quel porcospino di capitano, le stava dicendo di chiudere il becco perché era pesante? Gli altri ragazzi si guardarono allarmati, prevedendo mare in tempesta. Quando Abigail Twain si innervosiva era meglio non essere nei paraggi. La videro fare un respiro profondo per cercare di calmarsi, ma sapevano che sarebbe stato inutile. Leeroy si convinse che mangiare al bancone sarebbe stata una splendida idea.
"Che ne dite di una partita a biliardino magari?" chiese Drew, con tono vago.
"Va benissimo!" risposero gli altri all'unisono, alzandosi contemporaneamente e lasciando il capitano a fare i conti con il suo peggiore incubo. 
Miles ed Abigail non si accorsero nemmeno dell'accaduto da tanto che erano presi l'uno dall'altra, continuando a guardarsi in cagneso per un bel pezzo.
"Si può sapere che hai da ridire?" domandò lei in tono piatto, dopo un bel po'.
"Ho da ridire sul fatto che sei assillante con i miei giocatori!" rispose lui, furente di rabbia. La pazienza con lei andava ogni volta a farsi benedire. Era un bene per la squadra averla, ma anche un male dato il suo carattere, quindi Miles, il più delle volte non sapeva se mandarla a quel paese oppure ringraziarla.
Leeroy, che intanto era stato servito e aveva preso a mangiare voracemente il suo piatto, faceva finta, esattamente come gli altri, di non conoscere quei due che attualmente litigavano come marito e moglie. 
"Scommetto quello che volete che alla fine la spunta lei come sempre." proclamò a gran voce Daniele mentre parava il goal di Akel a biliardino.
"A questo giro la farà correre via in lacrime." commentò Drew preoccupato.
"Non dire cavolate, quella se lo mangia, col cavolo che scoppia a piangere." aggiunse Leeroy finendo la sua merenda. Sentì il cellulare vibrare, qualcuno doveva avergli scritto un sms. Sulla schermata comparve il nome "Jo", lo sguardo gli si assottigliò, c'erano quattro chiamate perse e tre messaggi. Doveva essere successo qualcosa.
Nei duelli verbali tra la ragazza e il capitano della squadra era Abigail quella che ne usciva puntualmente vincitrice. Gli altri della squadra continuavano a chiedersi perché non si fossero ancora messi assieme, visto che erano due persone insopportabili che si erano trovate.
"Io credo che gli darà un altro calcio nelle palle." se ne uscì Leeroy sovrappensiero, lo sguardo ancora sullo schermo del cellulare. "Che c'è? L'ha già fatto una volta." aggiunse scocciato, vedendo che gli altri lo guardavano storto.
"Sei proprio una persona violenta." sospirò Daniele. Leeroy lasciò perdere il commento, ormai ripetuto ogni giorno. Alle loro spalle la coppietta felice non dava cenno di cessare il litigio.
"Se non ci penso io ai tuoi giocatori, chi ci pensa?!"
"Sei ancora arrabbiata perché quella ti ha fregato il ruolo di capitano della squadra?" chiese alibito.
Lo sguardo della ragazza si raggelò per un momento. "Pensì che io me la prenda per una cosa così stupida...?" sibilò. I suoi occhi la tradivano, Miles l'aveva subito capito: quella stupida cercava di essere indifferente quando in realtà ci teneva molto. Aveva intuito sin da subito che qualcosa non andava con lei quel giorno, e aveva subito sospettato che il problema fosse quello. Quel litigio, in fondo, non poteva che farle bene, ora che si era sfogata avrebbe placato la sua rabbia almeno per un po'.  Abigail, infatti, sembrò aver capito ciò che il ragazzo stesse pensando e si calmò tornando a sedersi composta. Si sistemò i capelli neri sopra le spalle per poi ritrovarsi a gicoare con le punte fucsia, guardando fuori dalla finestra con improvviso disinteresse. Incredibile ma vero, Miles era riuscito nel suo intento, ed era un evento più unico che raro. La guardò meglio: gli sembrò che si fosse fatta una ragione dell'accaduto. Pensò che le donne sapevano adattarsi ai problemi molto meglio rispetto agli uomini, le era bastato insultarlo un po' per dimenticare la faccenda.
"Ti va di andare a fare un giro?" azzardò Miles.
"No, voglio stare anche con gli altri." lo liquidò lei.
Il capitano si rassegnò accennando un sorriso: in fondo, anche se le era passata, non voleva dire che avrebbe accettato proposte da lui.
Dall'altra parte del locale i ragazzi avevano visto e udito tutto. "Cazzo!" esclamò Akel stupito. "Stavolta l'ha calmata!"
"Tanto non gliela dà." commentò Leeroy, alzandosi dalla sedia per uscire dal locale e beccandosi altre occhiatacce.
"Lo sai che a parlare così di lei potresti prenderle dal capitano?" disse Drew.
"Tanto lui non si è accorto di essere ricambiato, è un idiota."
"Ma dobbiamo stare qua a cazzeggiare su quei due o andiamo al mare?" chiese l'italiano seccato dall'attesa.
"Finiamo prima la partita, io e Lance stiamo vincendo." disse il turco.
"Taci stronzo, non hai fatto che rullare tutto il tempo, chi ti ha insegnato a giocare!?" sentenziò Drew faticando con le stecche del biliardino.
La partita finì con la vittoria di Daniele e Drew per nove a otto. Lance si dileguò in bagno mentre gli altri  andarono a chiamare la coppietta felice.
"Allora si va?" chiese Drew, appoggiandosi allo schienale della sedia della ragazza per poi appoggiarle le mani sulle spalle con fare amichevole. Miles lo incenerì con lo sguardo.
"Sì. Ma, per curiosità... avete letto sul giornale delle rapine che stanno avvenendo nei quartieri alti della città? Sembra che il rapinatore sapesse quando e come entrare senza far scattare gli allarmi." raccontò Abigail preoccupata.
"Fortuna che noi non abitiamo nei quartieri alti... vero, Roy?" lo schernì l'italiano. In verità Leeroy abitava proprio in una di quelle villette, ma fortunatamente per sua madre nessun ladro aveva mai provato ad entrare in casa.
"Ho l'antifurto." rispose secco.
"E se lo disattivano?" chiese Drew.
"Senza il codice non possono staccarlo, è uno di quelli nuovi."
Lance arrivò in quel momento. "Andiamo?"
"Pensavamo ci fossi cascato dentro." disse il capitano.
Fuori dal locale l'afa li investì come un fiume in piena, neanche fossero nel deserto. Gli unici due che sembravano non curarsene più di tanto erano l'italiano e il turco, avvezzi a temperature esagerate. Per loro non sarebbe stata una brutta esatte, a casa loro si sarebbero divertiti, se non fosse stato che entrambi avrebbero compiuto gli anni proprio in quei mesi. Durante le ultime settimane di scuola, però, ad Akel era venuta la brillante idea di festeggiare il compleanno nel locale dei genitori di Daniele, una volta tornati dalle vacanze. Ora non bastava loro che dirlo agli altri.
"Ragazzi, prima che ce ne dimentichiamo, io e Akel faremo il compleanno assieme quando le vacanze saranno finite, siete tutti invitati naturalmente. Abi, per favore, porta qualche ragazza della squadra" chiese con occhi dolci alla pallavolista.
"Va bene, chiederò a due mie amiche." sorrise loro. "Pensavo che avreste fatto i compleanni a casa vostra."
"Sì, ma non ci divertiremo come a quella che faremo con voi." sentenziò Akel sorridendo.
"Va bene, tanto ci saremo tutti. Io vado a casa, non ho voglia di venire al mare." disse Leeroy svogliato.
"Bastardo di un asociale, lo so perché vuoi andare a casa!" gli gridò contro Daniele. "La tua cazzo di idromassaggio! Stai pur certo che quest'anno ci faremo tante feste a casa tua, tirchio!" aggiunse prendendolo in giro.
"Se faccio una cosa del genere mia madre mi ammazza. Ci si vede dopo le vacanze." si incamminò così verso l'auto che si trovava vicino alla scuola.
Daniele non si sbagliava: stava realmente andando a casa per l'idromassaggio. Il mare non gli era mai piaciuto, odiava con tutto il cuore l'acqua salmastra e fredda che bagnava le coste inglesi.
Per strada il telefono vibrò nuovamente. Era di nuovo Jo. Questa volta rispose, visto che nessuno l'avrebbe potuto ascoltare. Non gli piaceva parlare dei problemi della sua famiglia davanti agli altri.
"Cosa è successo?" chiese con tono apprensivo.
"Quella stronza di mia madre non mi manda a Brighton per le vacanze estive, mi obbliga a stare in collegio a Londra!" dal tono capì che la ragazza era davvero infuriata.
"Hai provato a sentire mia madre?"
"Sì, ma nemmeno lei può fare qualcosa. Cugino, non puoi provare a convincere la zia a farmi mandare da te? Non sopporto più di stare qua... Giuro che alla prossima che mi combina scappo da questa dannata scuola!"
"Non dire stronzate." le sbottò al telefono. La sua famiglia era davvero insopportabile, dovevano sempre crearsi problemi dove non esistevano. In più quella stupida di sua zia non lasciava che sua cugina conducesse una vita normale. Era intollerabile. "Facciamo così, appena arrivo a casa ti faccio chiamare da Amanda, così le spieghi tutto. Ma non dire altre cavolate come scappare dal collegio. Intesi?"
Senti la ragazza rispondergli dall'altra parte del telefono tra i singhiozzi. Leeroy sospirò. "Non piangere. Farei volentieri a cambio di madre con te."
"Non dire cavolate, tua mamma è fantastica! E' la mia che è una stronza."
"Basta dai. Ora stacco che devo guidare, ci si sente dopo, ok? Tu cerca di calmarti. Ciao Jo."
Dopo aver attaccato salì in auto, pensando che sua zia fosse davvero una stronza sragionevole a trattare così la figlia. Era anche vero che Jo non avesse proprio un bel carattere e che si arrabbiava per ogni cavolata, ma non era possibile che ogni santa volta doveva finirci lui di mezzo.
 
Approfittò del fatto sua madre non fosse ancora giunta a casa per prendere le lattine di Red Bull dal frigo prima di andare a mettersi il costume e buttarsi nella Jacuzzi con le cuffie alle orecchie. Stava ascoltando Viva la Vida per rilassarsi un po'.
 Il cielo era ancora azzurro, ma il sole a breve avrebbe iniziato a tramontare. Aveva una vista perfetta del tramonto da quella posizione, ma non vi prestò molta attenzione cercando invece di  concentrarsi sulle parole della canzone canticchiando a mezza voce. Ormai era chiaro che sua cugina non avrebbe passato l'estate con lui. Il cellulare sul bordo della vasca vibrò interrompendo per un momento la canzone. Era un messaggio di sua madre. 
 
Ho parlato con Adrian, ma non vuole saperne di lasciar venire qua Jo. La manderà in collegio a studiare per l'estate. Sarò a casa per le 20, baci.
 
A quanto pare sua cugina non era stata la migliore della classe nemmeno quell'anno. Leeroy era sicuro che lo facesse per ripicca nei confronti della madre, sapeva che in realtà Jo amava andare a scuola e studiare, ma Adrian le aveva fatto passare la voglia. Decise di scriverle un sms per consolarla.
 
Mi dispiace, di questo passo non so se tua madre ti lascerà venire da me a Natale. 
 
Inviò il messaggio e poi ripose il cellulare sul bordo, mettersi di nuovo ad ascoltare la musica. Quella sarebbe stata un'estate orribile per entrambi. Sospirò tra un sorso di Red bull e uno sbadiglio.
 
***
 
Senza che se ne accorgesse i giorni passarono stranamente in fretta. La calma che a lui piaceva tanto svanì però una mattina, quando Julio e Bartosz lo svegliarono suonando il campanello di casa. Erano circa le 10 di mattina e Leeroy era andato a dormire da appena quattro ore, dopo una nottata passata a giocare con l' X-Box. Sentì bussare ripetutamente alla porta, per un momento nella dormiveglia pensò di essere in ritardo per la scuola. Si diede del cretino mentre si rigirava nelle lenzuola, era ancora in vacanza grazio a Dio. Però sua madre non la smetteva di bussare, fortuna che questa volta aveva chiuso la porta a chiave. Naturalmente questo non la fermò dall'intento di svegliarlo. Qualche attimo dopo infatti, Leeroy sentì il cellulare suonare, e si maledì mentalmente per avere una suoneria per le chiamate così rumorosa. Sapeva che avere Last resort come suoneria era un suicidio, soprattutto se qualcuno lo avesse chiamato la mattina come in quel caso. "Cazzo, cazzo, cazzo!" ringhiò da sotto le coperte cercando il telefono nascosto sotto il cuscino. La stanza era completamente al buio, con il livello dell'aria condizionata al massimo. Sembrava di essere a settembre ma a lui piaceva così. Fece fatica a sollevare le palpebre degli occhi per vedere il nome sul display. "Amanda". Sua madre era veramente una palla al piede. Chiuse la chiamata e buttò il cellulare sul comodino. La suoneria ripartì nuovamente. Quell'apparecchio era un oggetto diabolico, era seriamente tentato di scaraventarlo giù dalla finestra. Questa volta decise però di spegnerlo, mandando al diavolo sua madre.
"Puffetto! Apri la porta, hai visite!"
Non rispose, era troppo stanco per sostenere un dialogo con quella donna.
"Puffetto! Ci sono i tuoi amici, vogliono che vai con loro a giocare al parco."
Quanti anni credeva che avesse, dieci? Si domandò se sua madre avesse finalmente realizzato che lui aveva già diciotto anni. Ma con lei non poteva dare nulla per scontato. Si rigirò per l'ennesima volta nel letto soffocando la testa nel cuscino per l'esasperazione.
"Leeroy, apri la porta o giuro che stacco internet." 
Sapeva di aver usato le parole giuste, anzi, le parole magiche per farsi ascoltare dal figlio. Infatti sentì un tonfo per terra e poi armeggiare con la chiave, trovandoselo davanti di umore nero.
"Che vuoi!?"
"Sei sordo? Vieni giù, ci sono Julio e il polacco dal nome impronuciabile che vogliono uscire con te."
"Si chiama Bartosz, non è così difficile da pronuciare."
"Avanti, vieni giù." Poi sembrò ripensarci un momento e lo fermò. "Prima datti una ripulita, sembri uno zombie."
Quel tono risoluto non fece che irritare ulteriormente il ragazzo. "Di loro che arrivo subito." rispose irritato.
"Intanto preparo loro qualcosa per colazione, te vuoi niente?"
"Caffe doppio."
"Tutta quella caffeina ti fa male!" strillò contrariata.
 
Qualche minuto dopo Leeroy arrivò in cucina. L'odore di caffè appena fatto lo travolse dandogli un dolce buon giorno, poco ma sicuro migliore di quello di sua madre. Julio e Bartosz stavano bevendo caffè americano, che lui però odiava con tutto il cuore: era acqua calda. L'espresso, invece, aveva un sapore più forte e lo svegliava appena lo assaggiava. Si chiese cosa fossero venuti a fare a casa sua così presto. Erano già stati a casa sua molte volte durante l'anno per sfide all'X-Box, ma nessuno dei suoi amici aveva mai osato tanto. Sapevano tutti che aveva un pessimo carattere, ma di prima mattina era veramente il peggio del peggio.
"Vieni con noi al campetto a fare due tiri?" chiese Julio solare.
Leeroy si sedette sullo sgabello della penisola della cucina afferrando la tazza di caffè nero datagli da sua madre.
"Non potevate dirmelo ieri sera?" chiese sorseggiando, trattenendo uno sbadiglio.
"Certo, almeno non ti facevi nemmeno trovare in casa. Daniele mi ha detto che bisogna venire a prenderti il giorno stesso in cui usciamo senza darti alcun preavviso." commentò il polacco.
Leeroy si massaggiò le tempie con le dita. Non era possibile che l'italiano mettesse lo zampino ovunque, anche quando non era presente. Una volta tornato per regalo di compleanno lo avrebbe preso a calci. Riusciva sempre a metterlo in situazioni scomode. 
"Ora che siamo qua non puoi fare altro che venire con noi." ghignò Julio sinistramente.
"Ragazzi vi ringrazio di essere venuti a prenderlo, non è uscito nemmeno un giorno durante questo mese. Penso che l'abbia passato su Youporn." raccontò la madre rattristata ma con una nota di ironia nella voce per prendere in giro il figlio.
Gli altri due non poterono fare a meno di scoppiare a ridere come due matti, beccandosi poi un'occhiataccia dal diretto interessato. "Penso che sia ora di andare." disse cupamente Leeroy pur di zittire la madre e i due amici. "Vado a prendere la sacca con gli scarpini e usciamo."
 
"Certo che in casa tua l'aria condizionata non manca, io e Bart non volevamo più uscire." rise Julio.
"Odio il caldo con tutto il cuore." replicò il polacco.
"Compratevela."
"In realtà ci stavamo chiedendo se non ti andava di fare un party a casa tua uno di questi giorni." disse piatto Bart.
"Non se ne parla, abbiamo promesso a Daniele di aspettarlo, perché vuole avere lui l'onore di battezzare casa Rogers con un mega party."
"Quell'idiota se lo sogna di entrare in casa mia..."
Arrivarono al campetto di periferia, che si trovava a poco più di mezz'ora a piedi da casa di Leeroy. Ad aspettarli c'erano già Miles, Drew e, per la gioia del difensore, Lance.  Leeroy si sentì in trappola. L'avevano forse fregato quei due? O era tutta un'idea di Daniele? Fece un respiro profondo prima di salutare gli altri e cercò di far finta di niente ignorando totalmente la presenza del portiere rompiscatole. 
A quel campetto ci aveva passato anni della sua infanzia giocando con altri bambini, il posto non era cambiato affatto, forse era un po' invecchiato. Sembrava che nessuno ci prestasse molta cura: l'erba, infatti, era quasi del tutto mancante sotto le due porte e al centro campo. La rete di recinzione era bucata in più punti e le panchine ai due lati opposti del campo era imbrattate di graffiti. Fortunatamente quella non era una giornata particolarmente calda, così non avrebbero sofferto a correre sotto il sole. La sua attenzione fu ripresa da Miles, che stava parlando di fare una partita tre contro tre. 
"Io, Lance e Drew contro voi tre, ok?" disse il capitano con voce autoritaria.
"Guarda che qua non comandi te, perché non dai a noi Lance e non ti prendi Julio?" disse il polacco.
"Julio non è un portiere, mi tengo Lance. Se vuoi ti dò Drew, penso che in porta se la sappia cavare." replicò Miles con tono deciso, ma in verità era dubbioso.
"Ok. Julio per Drew."
Finite le trattative i ragazzi si disposero in campo aspettando che Leeroy si cambiasse le scarpe. Stava già pensando che quella fosse l'occasione perfetta per farla pagare a quel bastardo. Il goal che gli aveva fatto durante l'ultimo allenamento gli era rimasto sullo stomaco. Si sentì pieno di energia, così corse subito in campo disponendosi a fianco del polacco.
Miles li aveva fregati. Drew non era capace a stare in porta, era riuscito a malapena a parare un goal, mentre ne aveva subiti tre. Leeroy invece sudava e ribolliva dalla rabbia per non essere riuscito a fare ancora un tiro in porta.
"Bart, passa!" urlò il difensore al compagno.
Il polacco scartò Julio, per poi ritrovarsi di fronte Miles che non aveva intenzione di lasciarlo passare. Provò a fare una finta, ma quello non si spostava di un centimetro. Leeroy andò incontro al compagno per farsi passare la palla. Appena la ebbe tra i piedi iniziò a correre verso la porta dopo aver scartato Julio. Lo spagnolo era bravo, ma lui era meglio. Se lo trascinò appresso fino a quando non fu abbastanza vicino alla rete per tirare, poi prendendo Julio alla sprovvista tornò indietro, passando nuovamente la palla a Bart e facendosela ripassare, tirando infine in porta. Il pallone prese in pieno la traversa, lasciando Leeroy di sasso. Si diede dell'idiota mentalmente.
"Sei proprio un cazzone, Roy!" gli urlò Bartosz.
"Non rompere, era solo riscaldamento."
"Non dire stronzate." lo apostrofò Miles. "Hai sbagliato, non atteggiarti a figo della situazione." trattenne a stento una risata.
"Parlò il grande centrocampista!" lo prese in giro Leeroy, ghignando infastidito.
"Sta zitto e torna a giocare." 
 
La partita si concluse con la vittoria della squadra di Miles; Drew in porta era stato a dir poco osceno. Bart si era già annotato mentalmente di farla pagare al capitano per quella fregatura; la loro squadra non aveva nemmeno un portiere di riserva e per il polacco era una cosa scandalosa. Era mezzogiorno passato e i ragazzi decisero di tornare alle rispettive abitazioni per pranzare, ma Leeroy non aveva voglia di rivedere sua madre in casa; ora che era in ferie l'aveva avuta tra i piedi troppo tempo.
"La prossima volta vogliamo la rivincita, non potete mettermi in porta così perché vi gira." disse Drew abbattuto. Si era sentito inutile per tutto il tempo.
"Non rompere. Non possiamo mica scannarci per una cosa così." sentenziò Miles.
"La fai facile tu, visto che ti sei fatto la squadra forte, con tanto di portiere." rispose Leeroy con una smorfia.
"Se non ti andava bene il portiere potevi andare te in porta, ma non penso che il risultato sarebbe cambiato di molto." fece Lance annoiato.
"Tu non parlare che è meglio." Anche quell'idiota ci si doveva mettere a dar noia? Si ripetè di stare calmo per non saltargli al collo e strangolarlo. Le minacce del capitano e dell'allenatore gli tornarono alla mente come una doccia gelata. Non doveva assolutamente venire alle mani con Lance, o avrebbe fatto il panchinaro per tutto l'anno.
"Come sei permaloso." lo canzonò il portiere.
A quel punto, Miles interruppe l'inizio dell'imminente litigio cambiando volutamente discorso. "Cosa regaliamo a Daniele e ad Akel per il compleanno?"
"A Daniele una padellata di cazzi suoi, e ad Akel una bambola gonfiabile."
"Vada per la bambola gonfiabile, ma serve qualcos'altro." disse Miles pensieroso, ignorando volutamente metà delle parole di Leeroy.
"Akel ha il borsone rotto, se ne prendessimo uno nuovo?" propose Julio.
"Ottimo. Per Daniele?"
"Niente sul calcio, altrimenti sua madre ci uccide. Ne ha anche troppe con il figlio e il marito per avere altra roba in giro per casa." rispose Leeroy assorto.
"Che musica gli piace?" domandò Lance.
"Italiana. Se siete d'accordo gli ordino un cd su internet e magari prendiamo anche una maglietta." fu l'idea di Leeroy.
"Perfetto! Ora vado che ho degli amici di famiglia a cena, ci si vede in questi giorni." salutò Miles prima di dirigersi all'auto.
A quel punto anche Julio, Drew e Bart si dileguarono, lasciando il difensore con il suo peggiore incubo che lo scrutava in modo strano. Che vuole da me ora?  Lo sguardo di Roy si assottigliò un poco, gli diede le spalle senza nemmeno salutarlo andando a cercare un bar nelle vicinanze. Non aveva intenzione di perdere tempo con quello. Contro ogni sua aspettativa, ritrovò Lance al suo fianco.
"Andiamo a mangiare, offri tu." tagliò corto il portiere, senza nemmeno lasciarlo rispondere.
Ma che diavolo si era messo in testa? Non era mica una banca il suo portafogli, pensò Leeroy. La cosa peggiore era che si stava chiedendo perché lo stesse assecondando. Forse dovevano davvero fare un trattato di pace temporanea o cavolate simili. L'importante era non litigare con il colosso.
"Come ti pare."
Il tragitto fu insolitamente silenzioso per quei due; trovarono un bar in una strada vicina, così si sedettero fuori aspettando che qualcuno venisse a prendere le loro ordinazioni. Lance stava messaggiando e quindi non gli prestava molta attenzione, anzi non lo considerava affatto. Leeroy, invece, aveva la testa appoggiata alle braccia sul tavolino, stava morendo di sonno e quella situazione era surreale. Aveva bisogno di caffeina come non mai, altrimenti non sarebbe mai stato in grado di reggere una conversazione con l'altro.
"Allora ragazzi, cosa vi porto?" domandò loro una ragazza sulla ventina molto carina con i capelli raccolti in due trecce corte. Leeroy notò che aveva già puntato gli occhi sul portiere, si chiese cosa ci trovassero le donne in quell'energumeno pel di carota. A sua grande sorpresa, lance si dimostrò molto freddo con la ragazza liquidandola dicendo cosa voleva ordinare.
"Una Red Bull con ghiaccio e un panino." disse il difensore.
"Torno subito." La ragazza sorrise e sparì dentro il locale.
Lance sembrò portare finalmente la sua attenzione sull'altro ragazzo. "Come fai a bere tutta quella Red Bull? Daniele mi ha detto che ne bevi a litri."
"Daniele dovrebbe pensare agli affaracci suoi, va a raccontare i miei cavoli a tutti." sbottò stanco strofinandosi gli occhi. Doveva avere di nuovo delle occhiaie profonde per la notte insonne trascorsa a giocare. Qualche momento dopo tornò la ragazza con le loro bibite.
"Grazie." dissero i due all'unisono svogliatamente.
"Ora vi porto i panini."
Leeroy aprì la lattina per poi versarne il contenuto nel bicchiere con ghiaccio, idem Lance con la sua Coca Cola. Il difensore non aveva idea di cosa dire, le uniche cose che gli venivano in mente erano insulti. Per ammazzare il tempo e l'imbarazzo trangugiò metà bevanda. Sicuramente ne avrebbe presa un'altra. Prese un po' di coraggio e chiese con tono neutro all'altro che continuava a messaggiare: "Perché dovrei offrirti il pranzo?"
"Perché non avevo soldi con me." rispose semplicemente.
"Non potevi chiederli a Miles?" disse infastidito.
"Mi sono dimenticato." Lance continuava a mandare un sms dopo l'altro senza prestargli troppa attenzione, quell'atteggiamento stava per far saltare i nervi a Leeroy. Lo scoppio della bomba venne però rimandato dall'arrivo della cameriera con il cibo.
"Ecco qua ragazzi." sorrise loro.
Leeroy controvoglia allungò una banconota da dieci sterline alla ragazza per pagare.
"Ricordati che mi devi un pranzo." Magari il fatto che Lance fosse in debito con lui era una buona cosa. L'altro annuì tranquillamente prima di rimettersi il cellulare in tasca e iniziare a mangiare.
Leeroy pensò che in fondo riusciva, se pur con un immenso sforzo, ad essere civile con l'altro.
Mentre il difensore addentava il panino vide Lance assumere un'espressione seria, rimase per un momento interdetto. "Che c'è?" chiese a bocca piena.
"Voglio parlare della partita."
 
Leeroy alzò un sopracciglio contrariato. Il portiere aveva davvero finto di farsi offrire il pranzo per discutere? Lo stava aggirato? Insomma, avrebbe potuto dirglielo anche una volta tornati a scuola. Ciò che lo stupì fu che Lance stesso intavolò il discorso. Oltre alle lotte e agli insulti non avevano mai sostenuto un dialogo "normale" fino a quel momento.
"Cos'è quell'espressione stupita?"
Leeroy mandò giù il boccone per poi domandare a sua volta con tono piatto. "Perché vuoi palrarne?"
L'altro sospirò. "Perché sono incazzato quanto te per aver perso." disse schiettamente.
Il difensore assottigliò lo sguardo. Forse se avessero parlato le cose sarebbero potute anche andare un po' meglio tra loro due. Ci pensò un po' su e poi domandò: "Che hai in mente?"
"Dare un taglio a tutte le tue puttanate. Cazzo, hai la mia stessa età e ti comporti come un ragazzino sul campo."
Come faceva a sapere che avevano la stessa età? Nessuno a scuola, oltre a Daniele e Akel, sapeva che aveva perso un anno. Gli rivolse uno sguardo interrogativo. Non fu tanto stupito da quel discorso, ormai erano le stesse cose che gli venivano dette da chiunque, ma sentirsele dire da lui era un'altra cosa. Se anche Lance lo pensava allora doveva proprio essere un caso pietoso, ma non gli avrebbe mai dato la soddisfazione di avere ragione.
"Non sono affari tuoi." lo liquidò prima di alzarsi per andarsene.
"Rimetti il tuo culo se quella cazzo di sedia, non abbiamo ancora finito." sentenziò il più alto.
"Io e te abbiamo finito. Non starò qua a sentire le tue stronzate!" gli ringhiò contro.
"Siediti, per piacere. Dobbiamo finire il discorso." sibilò tra i denti Lance. Non riusciva a capire come Leeroy potesse essere così immaturo, non era in grado di parlare civilmente con le persone se non per insultarle. Aveva davvero intenzione di discutere su come migliorare i loro rapporti, così da poter convivere placidamente in campo. Cercava di essere gentile con lui ma non ci riusciva, Leeroy era un ragazzino viziato con la puzza sotto il naso.
"Non farmi sprecare fiato, siediti."
Alla fine il difensore riprese posto contro la sua volontà. Doveva cercare di sopportare la presenza dell'altro senza spaccargli la faccia. Gli aveva dato fastidio il tono con cui lo aveva chiamato.
"Va bene. Ma cambiamo i toni, oppure finisce che davvero ci spaccheremo la faccia a vicenda." Leeroy cercò di sdrammatizzare la situazione. In fondo voleva davvero sentire che diavolo aveva da dirgli.
"Non dobbiamo diventare amici, a me non frega un cazzo di te e a te non frega un cazzo di me, giusto?" Lo guardò cercando la sua approvazione.
Il difensore annuì. La cosa era indubbiamente palese.
"Quindi?" chiese curioso.
"Io e te non ci consideriamo se non durante gli allenamenti o le partite, e con ciò intendo che quando siamo sul campo non voglio ritrovarmi a dover pestarti perché perdi tempo a farti insultare dal primo cretino che passa." disse serafico.
"Stai parlando di Sanders durante la partita?"
"E di tutti gli altri giocatori, ma soprattutto di lui. Non ti sei reso conto che lo ha fatto apposta per tutto il tempo? Tu naturalmente ci sei cascato come un idiota." sospirò stancamente.
Come poteva quell'idiota dirgli come comportarsi sul campo? Se un cretino come Oliver Sanders lo insultava lui non poteva che rispondere per le rime.
"Devo lasciarmi offendere senza reagire!?" chiese arrabbiato.
"Reagisci con il gioco, non attaccando briga!"
"Per te è facile, devi stare in porta!" sbottò acido.
Lance lo guardò storto. "Si può sapere che hai in testa? Sei idiota o cosa!?" Non era possibile che quel ragazzo fosse così egoista e stupido. Aveva idea di cosa fosse il gioco di squadra?
"Non dire stronzate. Se hai finito, io me ne vado." Si alzò e questa volta si incamminò davvero verso casa.
Il portiere non sapeva più che pensare. Leeroy aveva proprio un carattere impossibile. Aspettò qualche minuto prima di alzarsi e seguirlo.
Leeroy si infilò le cuffie e fece partire Animal I have become, camminando a passo svelto per sbollire. Non riusciva a smettere di pensare alla conversazione appena avvenuta. Aveva sprecato soldi e tempo con quello là. Era stato solo fiato sprecato, le cose non potevano cambiare solo perché Lance lo voleva, se loro due non si sopportavano non  sarebbero mai andati magicamente d'accordo. All'improvviso sentì come la presenza di qualcuno dietro di sé, pensando che fosse qualcuno che voleva passare si girò per cedere il passo. Di fronte a lui però non trovò una vecchietta che faceva fatica a camminare, ma Lance che lo guardava scocciato.
"Si può sapere che vuoi ancora? Il discorso è chiuso, non mi frega un cazzo di niente!" gli urlò contro.
Il portiere era sempre stato un ragazzo molto paziente, ma da quando aveva conosciuto Leeroy aveva perso il suo sangue freddo. Di impulso lo afferrò per la maglietta, scaraventandolo contro il muro di recinzione di una casa. Per la strada fortunatamente non c'era nessuno, così i passanti non avrebbero chiamato la polizia per separarli. Leeroy rimase un attimo frastornato a causa della botta alla nuca.
"Stammi bene a sentire, brutto pezzo di merda. Non mi frega un cazzo di te, fosse per me ti avrei già spaccato la faccia da renderti irriconoscibile agli occhi di tua madre. Ma siccome siamo nella stessa squadra, fammi il sacrosanto piacere di evitare di comportanti come un coglione. Non mi ci vuole niente a spezzarti le gambe!" tuonò il rosso, fuori di sé.
Leeroy restò interdetto. Quell'idiota era pesante e lo stava schiacciando contro la parete fregandosene di quanto gli stesse facendo male. Lance doveva avere dei problemi di bipolarismo, non poteva cambiare umore così su due piedi. Gli diede una ginocchiata al basso ventre, ma il portiere la evitò per un soffio. Roy ne approfittò allora per liberarsi dalla presa del rosso.
"Che cazzo fai!?" Digrignò Lance, infastidito per essersi fatto scappare il difensore.
"...Ti spacco la faccia!" disse tirandogli un pugno e prendendo il portiere sul naso.
Lance si portò istintivamente una mano sulla zona colpita scoprendo che stava perdendo sangue. Quella fu la goccia che fece traboccare il vaso. Afferrò nuovamente Leeroy per la maglietta strattonandolo e  colpendolo a sua volta in faccia. Il difensore venne colpito sullo zigomo destro per poi arretrare di qualche passo. Il giorno dopo avrebbe avuto un bel nerone. Ripartì all'attacco cercando di colpire l'altro allo stomaco, ma Lance gli afferrò il braccio in tempo bloccandoglielo dietro la schiena.
"Se non la smetti figlio di puttana ti spezzo il braccio." gli sibilò nell'orecchio.
"Vaffanculo." sputò Leeroy.
Lance strinse di più il braccio facendogli volutamente male. L'altro imprecò per il gesto.
"Che diavolo state facendo!?" urlò qualcuno alle loro spalle.
Istintivamente Lance lasciò la presa. Era una donna anziana che li guardava sconvolta ed adirata. "Non ci si azzuffa a quel modo in mezzo alla strada, delinquenti! Vi faccio arrestare!"
I due si guardarono stupiti e, non sapendo cosa fare, iniziarono a correre dalla parte opposta per fuggire alla vecchietta. "Quella è pazza!" disse Leeroy. "Solamente perché ce le stavamo dando non vuol dire che siamo teppisti, che pregiudizi del cazzo!" aggiunse con il fiatone.
"Sicuramente avrà pensato che ti stessi derubando." rispose Lance piatto.
Quando arrivarono ad un parco nelle vicinanze decisero di fermarsi per bere un po' d'acqua dalla fontana. Leeroy non poté fare a meno di iniziare a ridere, quella situazione era stata veramente surreale. 
"Che hai da ridere?" chiese Lance stupito del repentino cambio d'umore del compagno di squadra.
"Dimmi che per un momento non hai avuto paura che fosse la polizia!" e intanto non riusciva a trattenere le risate.
Il portiere lo guardò come si guarderebbe un alieno appena giunto sulla terra; non aveva mai visto l'altro ridere, e sembrava essere una di quelle persone che quando iniziava poi non si fermava più. Sicuramente soffriva anche il solletico.
"Ti prego, datti una pulita alla faccia". disse Roy, senza smettere di ridacchiare. "Sembra che ti è scoppiato in faccia una bottiglia di ketchup!" 
Lance lo guardò irritato. "Vuoi che ti riprendo a calci?" 
"Non rompere, la tua faccia mi sta facendo morire!"
"Vedo." 
Lance ficcò la faccia sotto la fontana bagnandosì i capelli e poi si ripulì il viso, ma rimase comunque quell'alone rosato sul mento e sopra il naso. Quando tornò a vedere l'altro lo scoprì a frugare nella sacca. Tirò fuori un pacchetto di fazzoletti e glielo lanciò. "Datti una ripulita." disse scherzando. 
"Grazie, mammina." lo prese in giro l'altro, sarcastico.
"Come ti pare, io intanto vado a prendere un lattina congelata da mettermi sulla guancia. Se vado di nuovo a casa con un nerone mia madre mi toglie dal mondo." disse piatto, per poi dirigendosi verso il chiosco al centro del parco. Era una casetta di legno, con una finestra ampia dalla quale si poteva ordinare, di fronte c'erano un paio di tavolini di plastica verde economici.
"Mi da una Red Bull, se possibile ghiacciata." chiese gentilmente. Per sua fortuna ce l'avevano, così pagò per tornare in dietro. Si bloccò pensando che dovesse prendere qualcosa anche per l'altro, sicuramente anche i suoi avrebbero trovato da ridire se Lance fosse tornato a casa con un nerone.
"Mi può dare anche una Coca Cola?"
Dopo aver preso finalmente tutto ciò di cui aveva bisogno, tornò dal portiere trovandolo seduto su una panchina con la schiena poggiata allo schienale e la testa reclinata all'indietro. 
"Idiota metti questa sul naso." lo chiamò il difensore.
L'altro si tirò su di scatto, come se lo avesse svegliato. "Ma stavi dormendo?" 
"Non sei l'unico che passa le nottate in bianco, anche se io le passo in un altro modo, e non a nerdeggiare." rispose Lance acido.
Si sentì offeso da quell'uscita, ma cercò di non darlo a vedere. "A me non frega di quello che fai durante le tue notti. Ti ho preso una lattina, tò." disse porgendoli l'oggetto con tono forzatamente inespressivo.
"Ma come siamo premurosi." lo canzonò ancora.
"Simpatico. Non voglio far incazzare i tuoi perchè il loro figlio torna a casa pieno di colpi."
Leeroy si sedette sulla panchina ma dalla parte opposta rispetto all'altro, sostenensodi la testa  con le mani e lo sguardo puntato a terra, mentre la lattina tra la mano destra e la guancia. Quanto avrebbe voluto berla, invece doveva tenersela a mò di ghiaccio.
Lance, al contrario dell'altro, se ne fregava di possibili lividi, ma su una cosa aveva ragione: se fosse tornato a casa in quello stato sua madre gli avrebbe urlato contro, per non parlare di sua sorella. Sospirò, poggiandosi svogliatamente allo schienale e lasciando la testa inclinata all'indietro con la lattina appoggiata al naso. Che estate del cazzo!  Non aveva più voglia di parlare con il difensore, ma non voleva nemmeno tornarsene a casa. Si sarebbe andato a fare un giro e poi avrebbe chiamato Miles per rompergli le scatole. Il suo sguardo cadde involotariamente sull'altro, che sembrava perso nei suoi pensieri come ogni volta. Si chiese se il suo cervello riuscisse davvero a formulare pensieri di senso compiuto.
"E adesso?" si sentì chiedere il portiere.
"E adesso cosa?" domandò in risposta.
Leeroy si sentì preso in giro, così tirò su la testa per cercare un contatto visivo con l'altro. "Voglio sapere se hai altre cavolate da dirmi."
Lance rimase sorpreso. Allora Leeroy non era un totale imbecille. "Ho detto tutto quello che avevo da dire." disse con tono neutrale.
"Va bene. Cercherò di darmi una controllata."  Puntò lo sguardo davanti a sé e sospirò. In fondo se entrambi avevano lo stesso obiettivo non potevano che provare a non uccidersi a vicenda.  Aprì finalmente la lattina per bere un po' di quella bevanda che gli piaceva tanto.
Lance alzò un sopracciglio stupito. Forse le cose sarebbero migliorate.. o peggiorate drasticamente. Fino ad agosto non si sarebbero più rivisti, quindi doveva aspettare a dire se quella chiaccherata aveva funzionato.  "Grazie per la Coca. Ci si vede." Lo salutò il portiere, tirandosi in piedi.
"Con questo siamo a due favori, ricordatelo."
"Sì, sì..."
Leeroy indugiò ancora per un po' sulla panchina, pensando agli avvenimenti della giornata. Finita la lattina di Red Bull si alzò e si avviò verso casa, pensando che doveva mandare un sms a Daniele dicendogli di scordarsi pure l'idea di fare una festa a casa sua.

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


The last chance
III

Si specchiò nella vetrina della pizzeria. I grandi occhiali neri da vista stonavano sul suo viso, lo facevano apparire ancora più bambino. Li reputava scomodi oltre che brutti, ma sopratutto erano la sua barriera psicologica. Erano un qualcosa di indispensabile per la sua vita quotidiana e le partite. In realtà odiava i suoi occhi, ai quali mancavano dei gradi e quindi imperfetti. Leeroy sapeva di essere un giocatore con una tecnica perfetta, riusciva a sentire il movimento del pallone anche stando fermo, ma quei miseri gradi in meno lo facevano sentire impotente. Durante le partite e gli allenamenti indossava le lenti a contatto, ma il suo stato d'animo non cambiava ugualmente: quelle membrane trasparenti gli davano solo l'apparenza di normalità. Stranamente, però, nessuno gli aveva mai fatto notare quel piccolo particolare. Drew, invece, che aveva il suo stesso problema, veniva quotidianamente etichettato come "orbo" oppure "talpa". Roy era convinto che fosse per la differenza di bravura tra i due perché nonostante quel piccolo handicap il difensore era un fuoriclasse.
Aveva ancora la testa fra le nuvole quando Daniele aprì la porta per invitarlo ad entrare. "Akel è già arrivato?" chiese Leeroy. L'italiano sembrava essere uscito da un solarium da quanto era abbronzato, all'inglese il colorito scuro di Daniele era subito saltato all'occhio. Provò un po' di invidia. Roy sarebbe voluto andare da qualche parte durante l'estate, ma siccome Jo non aveva avuto buoni voti non aveva potuto raggiungerlo a Brighton. Quella strega di sua zia, in pratica, gli aveva rovinato le vacanze. "E' nella saletta privata a mangiare, mangi anche tu qua, non è vero?" domandò l'italiano cercando l'approvazione dell'altro,la quale non tardò ad arrivare. Roy ghignò sarcasticamente sapendo già come sarebbe finita la serata. "Ovvio."

La pizzeria aveva una grande sala per i clienti con un bancone per il bar nella zona opposta all' entrata. Seguì Daniele attraversò il locale fino all' ambiente privato riservato ai dipendenti e ai proprietari per riposare e mangiare. "Bella Napoli", la pizzeria della famiglia Balboa, era aperta dal 1969, anno in cui il nonno di Daniele emigrò in Inghilterra per aprire un ristorante e vedere il mondo. Gli affari andavano bene sin dall' apertura, infatti era il locale italiano più amato della città. Leeroy e Daniele trovarono Akel che divorava tranci di pizza come se non mangiasse da mesi, ed in parte era vero. Quando li vide provò a salutarli, ma quasi si strozzò, così fu costretto a buttare giù il boccone con un sorso di birra. Nonostante il turco e l'italiano fossero ancora minorenni Paolo, il padre di Daniele, se ne fregava della legge e offriva loro sempre alcolici.
"Non morire!" scherzò Roy.
"Non puoi capire... passa due mesi dai miei parenti e ne riparliamo. Odio il cibo turco."
"E ha pensato bene di venire qua a strafogarsi. Sembri una tredicenne che è appena stata mollata." lo prese in giro l' italiano.
Akel in tutta risposta sollevò il dito medio sorridendo ironico.
"Sediamoci che arriva mia sorella con le pizze e le birre." annunciò Daniele.
Leeroy lo guardò scettico: da quando in qua sua sorella gli concedeva favori? La conosceva da quando conosceva l'italiano, e poteva affermare che i due non si sopportavano proprio. Rebecca aveva un anno più del fratello e frequentava la loro stessa scuola.
"Rebecca viene a servirci ... ?"
"Mi doveva un favore... storia lunga."

Continuarono a parlare del più e del meno, di come erano andate le vacanze e di altre cose aspettando la "cameriera". Daniele raccontò di come aveva conosciuto una ragazza e di come presto aveva scoperto che questa fosse già impegnata con un altro. L'italiano aveva rischiato seriamente di essere preso a mazzate ed essere buttato in mare con le reti da pesca.
"Signorine, pizza e birra per voi."
Rebecca entrò nella stanza svogliatamente, sperando che nessuno dei tre facesse battutine idiote altrimenti avrebbe gettato loro il vassoio in faccia. Appena la vide Akel smise di mangiare e si pulì la bocca per non apparire un cavernicolo, mentre Daniele le lanciò un'occhiata divertita. Quei due erano il giorno e la notte nonostante di aspetto fisico si somigliassero molto. Mentre Daniele aveva uno sguardo più svagato, l'espressione della giovane era quasi sempre seccata e seria. La si era vista poche volte ridere.
"Rebi, non ti lamentare! Un accordo è un accordo, ci farai da cameriera per tutta la serata!"
La ragazza incenerì il fratello con lo sguardo per poi sibilare un insulto in italiano che gli altri due non capirono; dopodiche poggiò il vassoio in malo modo e sparì dietro alla porta con passo spedito, continuando ad insultare il fratello. Dover convivere con quel nulla facente era davvero dura per lei.
"Certo che è sempre più acida." commentò Akel.
"Come volevi che diventasse dopo le vacanze? Il suo sogno è di vivere in Italia ma siccome non c'è futuro per lei là è costretta a rimanere qui, così ogni volta che torniamo è più incazzata del solito."
Daniele non capiva l'assurdo attaccamento della sorella verso la loro terra natia. L'Italia era un bel paese, ma per lui viverci era fuori questione. Sapeva che in realtà Rebecca avrebbe voluto passare più tempo con i nonni materni, i quali, molto vecchi, sarebbero più potuti venire a trovarli in Inghilterra. Un po' la capiva, anche lui era triste per la loro lontananza ma non poteva farci nulla.
"Cambiando discorso..." La voce dell'inglese interruppe il filo di pensieri dell'amico. "... mi spieghi perché cavolo sei andato a dire a quei due di venirmi a rompere le scatole all'alba l'altro mese?!" chiese con tono seccato. Daniele lo guardò storto. "Ma sei scemo? Hai diciotto anni e passi le giornate rinchiuso in casa ai videogiochi o agli allenamenti! ... Avrei dovuto mandarti una ragazza a svegliarti, almeno mi avresti ringraziato invece di essere così rompi coglioni."
L'atteggiamento dell'inglese per Daniele erano inspiegabile, un ragazzino di dieci anni aveva una vita sociale più attiva della sua.
"Non rompere con queste stronzate." sbottò Roy. "Doveva venire mia cugina per l'estate, ma mia zia non l'ha lasciata venire, per questo non ho fatto niente."
Non riusciva a credere di essere arrivato al punto di doversi pure giustificare con quell'idiota. Se Jo fosse venuta a Brighton non sarebbe rimasto tappato in casa come un topo. Rimase per un istante perplesso dagli sguardi che i suoi amici gli rivolgevano. Si irritò non poco. "Ma che cazzo pensate? Sono cresciuto con lei, è come una sorella!" proruppe indignato. Gli altri due, in tutta risposta, scoppiarono in una fragorosa risata.
"Noi non abbiamo detto nulla, l'hai detto te!"
"Certo, trovatevi una ragazza e lasciatemi in pace!"
"Ci fai conoscere tua cugina?" 
"Assolutamente no!"
Non avrebbe mai lasciato sua cugina nelle mani di quei due disgraziati, erano amici, okay, ma Jo non si sarebbe mai abbassata a conoscere certe persone, erano due idioti incoscienti. Anche se lui non era da meno.

La serata trascorse tranquilla. Ogni tanto Rebecca passava malvolentieri a rifornirli di birra e cibo, ogni volta più indispettita della precedente. Fece avanti e indietro un bel po' quella sera e, secondo Daniele, si sarebbe sicuramente vendicata. Chiacchierando venne fuori il perché della sua mansione come loro personale cameriera: in Italia, infatti, un ragazzo ci aveva provato spudoratamente con lei, fino a sfinirla e, per toglierselo dai piedi, aveva dovuto ricorrere al fratello.
"Certo che per chiedere il tuo aiuto doveva essere proprio disperata." commentò Leeroy.
Erano arrivati più o meno alla quarta o alla quinta birra quando gli umori iniziarono a rallegrarsi.
"Povero ragazzo, mi faceva quasi pena! Era un riccone milanese senza palle, quando gli ho detto che se continuava gli avrei mandato i miei amici sotto casa quello è sbiancato ed è scappato con la coda tra le gambe!" raccontò Daniele con una punta di orgoglio nella voce, ridendosela al solo ricordo.

Tra gli scherzi e le risate, Leeroy rinchiuse il suo brutto carettere in una parte di se stesso, per essere una volta tanto una persona amichevole, cosa che accadeva di rado e con poche persone. Non perché fosse una persona introversa, ma quando qualcuno non gli piaceva non riusciva proprio a comportarsi bene, era più forte di lui. Il giorno dopo sarebbero iniziati gli allenamenti e sapeva già che sarebbe tornato di cattivo umore per colpa di Lance, nonostante la promessa che aveva fatto. Il massimo che poteva fare era ignorarlo, non aveva intenzione di diventare suo amico; doveva solo farselo andare a genio quando erano assieme alla squadra, e sapeva già che anche solo quello sarebbe stato arduo.
Sentì lo stomaco rigirarsi al solo pensiero di doverlo vedere il giorno dopo, quella volta al campetto gli era bastata per altre sei vite. Trangugiò metà birra a causa di quei brutti pensieri, esibendosi poi in un rutto assordante che suscitò le risate degli altri due e che diede il via ad una gara. Sentendoli Rebecca non poté fare a meno di chiamarli "porci", prendendo poi le sue cose dall'armadietto vicino alla porta e uscendo accompagnata dal suono di un altro rutto, questa volta da parte del fratello. Uno di quei giorni gliel' avrebbe fatta pagare a quei tre idioti. Quando rimasero soli nella stanza scoppiarono a ridere. "Certo che sei proprio stronzo con tua sorella." fece Akel, che non sapeva se rimanerci male per Rebecca o continuare a ridacchiare.

"Non ero l'unico!" si giustificò l' italiano finendo la frase con un altro rutto, suscitando nuova ilarità.

*

Andarono a letto verso l'una, sapendo che sarebbe stata un' impresa per tutti alzarsi quella mattina. Dormirono sul divano letto tutti e tre con delle coperte, ma nessuno di loro riuscì a chiudere occhio perché il materasso era scomodissimo. Akel si augurò di non dover dormire mai più con quei due, era una tortura per la schiena. Daniele, invece, si rigirava sul lato sinistro assestando colpi alle costole di Roy, ripromettendosi di non invitarli più a dormire nel ristorante. Vennero svegliati molto presto a causa dei rumori provenienti dalla cucina lì affianco: alle 5 e mezza Paolo era già a lavoro a preparare la pasta fresca e il pane per il locale.
"Odio tuo padre." farfugliò Akel tirandosi la coperta fin sopra la testa ma scoprendo i piedi, aveva passato l'intera notte a cercare di stare sotto quella coperta troppo corta per lui senza successo. Sbuffò avvilito, voleva andare a casa. Non avrebbe mai retto l'allenamento dopo una nottata come quella.
"Dovevi dormire a casa allora." Daniele si girò per l'ennesima volta nel divano colpendo Leeroy senza farsi scrupoli, tanto l'inglese continuava a dormire alla grossa come se non sentisse nulla. "Questo invece non si sveglia nemmeno con le trombe." aggiunse l'italiano lamentandosi.
"Lo odio, riesce a dormire in qualsiasi situazione! Non mi stupirei se sapesse dormire anche in piedi come i cavalli..." borbottò Akel strofinandosi gli occhi troppo stanchi per aprirsi. Dopo poco però li sgranò: aveva avuto un' idea grandiosa. Ghignò malignamente: se lui non riusciva a dormire perché Leeroy avrebbe dovuto? Si alzò e andò nel piccolo bagno dopo aver afferrato uno dei boccali di birra rimasti dalla cena, sotto lo sguardo incerto di Daniele, che, essendo ancora mezzo assonnato non riusciva a capire le intenzioni dell'amico. "Che cazzo fai?" chiese.
"Sveglio il bastardo." tagliò corto il turco con uno sbadiglio.
A quella risposta l' italiano si tirò automaticamente in piedi più sveglio che mai, porgendo la mano ad Akel. "Se va fatto, lo faremo assieme." disse con tono grave mentre un ghignò si dipingeva sulla sua faccia.
"Sai che ce la farà pagare?" chiese retoricamente il turco, conoscendo bene le conseguenze che quell'azione avrebbe comportato. Daniele annuì. "Ma quando ci ricapita una cosa del genere?"
I due si scambiarono uno sguardo complice prima di lanciare l'acqua del boccale in faccia a Leeroy, risvegliandolo. L'inglese annaspò come se stesse annegando, ma poi si tirò a sedere guardandosi attorno spaesato. Quando però sentì gli altri due ridere come ossessi iniziò ad imprecare: "Ma che cazzo fate?!"
"Dovevamo fargli una foto." disse Daniele sconsolato per non averci pensato prima.
L'inglese si alzò inveendo nuovamente dopo aver visto l'ora. "Ma che cazzo avete in testa?! Ora col cazzo che vi accompagno agli allenamenti!"
"Vai a casa!?" chiese Akel stupito; si preoccupò un po' perché a casa doveva riportarlo Roy in macchina, il turco infatti abitava troppo lontano dal ristorante e l'idea di farsela a piedi lo fece cadere nel panico.
Leeroy annuì prima di afferrare gli occhiali e andare in bagno per asciugarsi la faccia. Non se ne stava andando per lo scherzo, anche lui avrebbe fatto la stessa cosa a gli altri due al loro posto, ma aveva bisogno di un materasso e di stare solo nel letto senza che nessuno gli tirasse colpi alle costole. In più tutti quei disagi, se così li poteva definire, l'avevano fatto tornare irascibile, cosa che non poteva permettersi. Se normalmente era irritabile con le persone che non sopportava, quando aveva la luna storta era una persona odiosa, non voleva arrivare a quel punto. Quando tornò nella stanza vide Akel mettersi le scarpe mentre Daniele si ributtava sul divano occupandolo interamente e cadendo finalmente addormentato, senza curarsi minimamente dei suoi ospiti.
"Mi porti a casa?" chiese il turco afferrando il portafogli e le chiavi di casa dal tavolino.

"D'accordo, tanto l'avrei comunque fatto." sospirò Roy cercando di tenere un atteggiamento rilassato. Prima che uscissero dal locale Daniele urlò loro: "Ricordati di venirmi a prendere alle 9 per andare agli allenamenti! Altrimenti ti scordi la birra gratis la prossima volta!"

*

Arrivarono all'allenamento con dieci minuti di ritardo. Stan sarebbe stato furioso e tutti e tre, lo sapevano, ma l'unica cosa a cui riuscivano a pensare era correre senza inciampare nei loro borsoni.
"Questa è l'ultima volta che ci sbronziamo la sera prima dell'allenamento!" disse Akel prima di aprire la porta dello spogliatoio cadendo per terra dopo essere inciampato in un paio di scarpe lasciate li da qualcuno. Gli altri due scoppiarono a ridere. "Cazzo ridete!?" chiese massaggiandosi il ginocchio. "Alza il culo e muoviti, se Stan ci vede ci ammazza." sbottò Roy mentre si cambiava.
"Chi è il coglione che lascia qua le scarpe?"
"Sarà uno dei novellini." disse Daniele disinteressato.
"Certo che sei bravissimo a simulare falli!" scherzò l'inglese.

Vedere quei tre arrivare in ritardo al primo allenamento non fu una novità per Lance, ma preferì di gran lunga quello che un Leeroy inviperito che cercava di pestarlo senza motivo. Notò subito lo sguardo contrariato e severo di Stan. L'allenatore stava andando loro incontro per fargli una bella ramanzina. Cominciamo bene!, pensò il portiere continuando a fare gli addominali. Siccome dovevano iniziare la "preparazione" Stan li aveva fatti mettere a coppie e dovevano fare flessioni, addominali, allungamento e cose del genere. Fino a metà Settembre avrebbero unicamente preparato il fisico, dopo di che avrebbero iniziato con gli allenamenti veri e propri. Quel mese e mezzo sarebbe stato veramente faticoso. Sicuramente i suoi compagni avrebbero dato il massimo e lui anche per poter arrivare primi al campionato. Quei tre ritardatari sarebbero stati un vero spasso, Lance li vedeva già a fare venti giri di campo, e così fu: Stan, essendo già di cattivo umore, andò fuori di testa quando vide Roy, Daniele ed Akel arrivare in quel momento, evidentemente reduci da una serata all'insegna del divertimento.
"Si può sapere dove diavolo eravate?! Noi abbiamo iniziato da mezz'ora!... No, non voglio saperlo andate a fare subito venti giri di campo." disse l'allenatore cercando di trattenere a stento la rabbia.
Erano arrivati in ritardo per un motivo stupidissimo: Daniele, dopo essersi preparato e tutto, si era riaddormentato nella sala privata del ristorante non volendo saperne di alzarsi. Akel lo aveva svegliato tirandogli un bicchiere d'acqua fredda in faccia, lasciando l'italiano letteralmente senza fiato e di umore nero. Roy cercò di prendere le redini della situazione spiegando così le sue ragioni, ma Stan li spedì negli spogliatoi senza lasciargli aggiungere altro. Cinque minuti dopo i tre erano già fuori e stavano iniziando quei venti giri
"Daniele, rifai una cosa del genere e giuro che la prossima volta ti tiro un secchio d'acqua addosso, non un bicchiere!" disse il turco visibilmente irritato. Non era possibile che erano arrivati in ritardo per colpa dell'italiano, di solito la colpa era sempre di Roy. Era vero però, che quando Daniele dormiva era davvero molto difficile ridestarlo.
"Calmati! Sono cose che succedono, fortuna che Leeroy ha la macchina!" ribatté l'italiano cercando di discolparsi. Ormai il danno era stato fatto, quindi avrebbero dovuto correre all'infinito intorno a quel dannato campetto.
"Non posso fare da baby-sitter ad un narcolettico! Daniele stavolta la colpa è tua, non rompere! " aggiunse l'inglese seccato.

I loro compagni di squadra intanto si godevano la scena sghignazzando tra di loro, era sempre un piacere vedere Roy in punizione soprattutto se se la meritava. Lance rimase a fissare il trio per qualche secondo, domandandosi se le cose da quel momento sarebbero cambiate, se Leeroy si fosse ricordato del loro accordo. Era convinto che il difensore se ne fosse dimenticato o che avesse accettato unicamente per evitare altre discussioni.
"Non ti fermare." disse Stan al portiere vedendolo fermo con lo sguardo perso. Lance riprese subito il suo esercizio e l'allenatore passò oltre.
"Dici che andrà bene?" chiese Miles, che faceva coppia con Lance. Il portiere lo guardò un po' sofferente a causa dell'allenamento. "Cosa intendi?" chiese di rimando, facendo finta di non aver capito. Miles gli lanciò un' occhiata irritata. "Intendo, fate altri casini e siete fuori. Parlo di te e Rogers... da quello che mi avevi detto le cose dovrebbero andare meglio, almeno spero!" A quel punto la serie di addominali toccò al capitano, così si sdraiò sull'erba mentre il portiere gli teneva ferme le caviglie. "Si vedrà prossimamente se qualcosa è cambiato. Ora continuiamo qua e smettila di parlare. Sei una pettegola." sentenziò Lance prendendo in giro l'amico. "Spiritoso!"

L'unico lato positivo di quei tre, secondo il portiere, era che erano divertenti, tranne l'idiota di Leeroy. Lo aveva visto ridere solo una volta mentre le altre volte aveva sempre la luna storta o aveva la testa fra le nuvole, senza dubbio a sognare la Premier League. Era più forte di lui, non lo sopportava proprio. Sperava che qualcuno delle nuove reclute fosse più bravo di lui, così l'avrebbero sostituito. Avrebbe dato un rene per un nuovo difensore e per vedere Leeroy in panchina. Tra quelli nuovi aveva visto due ragazzi che secondo lui spiccavano tra gli altri, ma non era ancora sicuro, si sarebbe visto poi il loro rendimento. Tra l'altro aveva saputo da Miles che il budget per la squadra quell'anno era meno della metà dell'anno precedente quindi solo pochi ragazzi sarebbero stati reclutati, probabilmente quei due lo sarebbero stati. Uno dei due era alto, forse quanto lui, con un'espressione seria e i capelli biondi un po' lunghi, raccolti in un codino sulla testa, dall'accento doveva essere tedesco... Era strano come in quella squadra fosse pieno di stranieri, tra l'italiano, il turco, lo spagnolo e il polacco mancava solo il tedesco. Rise tra sé e sé. L'altro invece, era inglese, sorridente e un po' minuto, ma era solo apparenza. Aveva intenzione di vincere quel campionato, e se non si sarebbe sbagliato quei due avrebbero fatto al caso loro.

*

Dopo l'allenamento Stan annunciò il problema del budget, sentenziando che solo cinque nuovi ragazzi sarebbero stati ammessi nella squadra. A quella rivelazione molti dei novellini si sentirono senza alcuna speranza, sicuramente avrebbero provato con qualche altro sport che non avesse problemi economici. Dopo che tutti furono andati a cambiarsi Miles andò dall'allenatore per chiedere direttive. Si sentiva un po' affaticato, non era da lui, sicuramente era perché aveva passato l'estate ad oziare come non aveva mai fatto. Tra qualche giorno ci sarebbe stata l'amichevole della squadra di pallavolo e, Abigail come ogni volta, lo aveva chiamato obbligandolo ad andare a vederla. Molto probabilmente avrebbe invitato anche gli altri della squadra. Si chiese se anche Stan aveva in mente un' amichevole nei prossimi giorni, probabilmente sì. "Mi dica, Coach." chiese dopo averlo raggiunto.
"E' un peccato non poter prendere tutti quei ragazzi in squadra. Per ora ne ho visti due che potrebbero andare, Andrew e Viktor."
Miles rimase per un'attimo interdetto, era convito che Stan avesse altro da dirgli. "Mi ha chiamato solo per questo?"
L'allenatore lo guardò contrariato a causa del tono di voce usato dall'allievo. "Ti sembra il modo di parlarmi?" chiese scherzando.
"Pensavo avesse qualcosa di importante da dirmi."
"In effetti è così. Ho in programma un'amichevole con la Ravensburg, io ed il loro allenatore siamo già d'accordo per l'inizio di settembre."
Miles inarcò un sopracciglio. Una partita contro la squadra in cui giocava Oliver Sanders era l'ultima delle cose che si sarebbe mai immaginato, si chiese se Stan si fosse bevuto il cervello. Non poteva fare una cosa del genere, era un suicidio. Contro la Ravensburg avevano perso in finale solo pochi mesi prima, era stata la partita peggiore che avessero mai giocato. La colpa della loro disfatta era stata colpa di Lance e Leeroy, non voleva ripetere quell'esperienza di nuovo, soprattutto perché non aveva ancora idea di come sarebbe stato il comportamento del difensore. Per di più il resto della squadra non sarebbe stato molto contento, erano ancora abbattuti per la sconfitta troppo recente e non sapeva come avrebbero reagito alla notizia.
"So cosa ti turba, ma voglio provare una terapia d'urto e far vedere a quei ragazzini che quest'anno andrà diversamente. Non preoccuparti." lo rassicurò Stan.

Il capitano non la trovava comunque una bella trovata. "Non so..." disse grattandosi la punta del naso con fare un po' incerto.
"Ai ragazzi non diremo ancora nulla, teniamola come sorpresa per la fine del mese."
"Non mi piace questa cosa."
"Andrà bene, ne sono certo." rispose l'uomo con un gran sorriso genuino.
Miles non capiva proprio da dove prendesse tutto quell'ottimismo. Si congedò per andare a cambiarsi.
Nello spogliatoio quel giorno c'era più gente... troppa. Non vedeva l'ora che le selezioni fossero finite, tutti quei principianti lo irritavano.

*

In mezzo al mucchio di ragazzi intenti a cambiarsi si scorse una testa castana salire sopra una delle panche per poter dominare la scena dall'alto. "Come ben sapete la Spagna ha vinto gli Europei battendo l'Italia quattro a zero." annunciò Julio a gran voce, attirando l'attenzione di tutti. "Per questa lieta occasione ho deciso di offrire churros a tutti e di cantare una cosa per Daniele!"
Daniele lo guardò visibilmente indispettito, mentre tutti gli altri scoppiavano a ridere, compresi Akel e Leeroy. "E' colpa dell'allenatore, erano tutti infortunati e-"
Lo spagnolo non lo lasciò nemmeno finire la frase. "Certo, certo. Accetta la sconfitta e ascolta!"
"Appena scendi sai dove te li ficco i tuoi churros!?" gridò l'italiano inviperito.
"Pienso que un sueno parecido no valvera mas..." iniziò a cantare."Y me pintaba las manos y la cara de azul. Y d'improviso el viento rapido me llevo, y me hizo volar en el cielo infinitoooo... Voooolaaareee oh oh! Caaaantaaaareree oh oh oh!"
Tutti intorno non accennavano a smettere di ridere mentre Daniele rimaneva immobile, pensando che al prossimo mondiale gli avrebbero fatto il culo a quegli spagnoli.
"Non ti senti a casa ora!?" chiese lo spagnolo sorridendo, mentre passava con un vassoio di churros e li offriva all'italiano e ad i suoi amici. Daniele negò con la testa, non si sarebbe fatto corrompere.
Akel e Leeroy, invece, si riempirono le mani di quella specialità spagnola sotto gli occhi indignati dell'amico. "Traditori!" ringhiò. "Voglio vedere quando mi verrete a chiedere qualcosa, vedrete come vi manderò a quel paese!"
Tra lui e lo spagnolo era tutto appena iniziato, aspettava con impazienza i prossimi mondiali.

*

Miles uscì da quel caos dopo circa mezz'ora assieme a Lance, che avrebbe dovuto accompagnare a casa, ma proprio fuori dallo spogliatoio fu placcato come in una partita di Rugby dal libero della squadra femminile di pallavolo, finendo a terra con il borsone.

"Verrai alla partita vero!?" chiese Abigail che al contrario del capitano non era caduta durante l'azione.
"Ma che cazzo fai?!"
"Calmati, ti è successo anche di peggio!" rispose la ragazza offrendogli una mano per aiutarlo ad alzarsi.
"Passate bene le vacanze Abi?" chiese Lance.
"Naturalmente, al contrario di voi sfaticati io l'ho passata giocando a beach volley e tenendomi in forma!" rispose orgogliosamente mostrando i muscoli delle braccia.
"Di sicuro è più in forma di te, Reginald." scherzò Lance, sottolineando il nome dell'amico.
Una volta che il capitano fu in piedi guardò storto il portiere. "Devo iniziare a chiamarti pel di carota?" ribatté con tono serafico. Nessuno aveva la minima idea di quanto detestasse il suo nome.
"Dai Regi non te la prendere se la mamma ti voleva così male da darti un nome del genere." infierì ancora Lance, facendo scoppiare a ridere Abigail. In quel momento sopraggiunse Daniele assieme ad Akel. "Che avete da ridere?" chiese il turco.
"Non sono cavoli tuoi." rispose acidamente Miles.
Vedendo anche gli altri due componenti della squadra la mora pensò bene di invitarli alla sua amichevole.
"Verrete assieme a Miles e Lance a vedermi giocare, vero!?" chiese con voce entusiasta.
Lance si chiese quando mai avesse accettato l'invito, che tra l'altro non gli era nemmeno stato rivolto.
"Certo che verremo!" disse Daniele.
Abigail guardò l'orologio e si rese conto che era già in ritardo per tornare a casa.
"Ragazzi, ci si vede! Miles, mi accompagni a casa?" domandò. Lei e il capitano si conoscevano da molto tempo, perciò la ragazza non si vergognava nel chiedergli continui favori.
Miles la guardò scocciato, prima lo atterrava e poi pretendeva di farsi portare a casa? Gli era proprio mancata Abigail e la sua vivacità. Sbuffò rassegnato.
"Va bene, ma vai dietro, non voglio che ti metti a giocare con la radio."
"Certo che sei proprio cattivo! Se non ti va di accompagnarla a casa ci pensiamo noi con Roy!" commentò Daniele, speranzoso di dare un passaggio alla ragazza.

Miles lo fulminò con lo sguardo.

"Andiamo Abigail." disse il capitano senza nemmeno pensarci, non avrebbe mai lasciato il libero con i suoi giocatori. Daniele ed Akel rimasero ad aspettare Leeroy divertiti dalla scenetta tra quei due. Quando finalmente il difensore uscì anche Lance aveva raggiunto Miles dopo aver salutato i due attaccanti.

"Hai proprio ragione su Miles, è troppo stupido per rendersi conto di Abigail." fu il commento di Akel.

"Scusate... e a me?" chiese disinteressato, doveva andare a casa ad ordinare il regalo di compleanno dell'italiano su internet non aveva tempo da perdere.

"Come sei permaloso!" commentò l'italiano incamminandosi assieme agli altri alla macchina.

Il compleanno di Akel e Daniele si sarebbe tenuto quel fine settimana alla pizzeria dei Balboa. Akel era contento di poter fare lì la festa, almeno avrebbe potuto vedere Rebecca, anche se se solo avesse provato ad accennare a Daniele che provava dell'interesse nei confronti della sorella lo avrebbe pestato o lo avrebbe fatto lei. Non era una ragazza comune, era orgogliosa, testarda, molto egocentrica e soprattutto odiava con tutto il cuore il calcio. Il turco sapeva perfettamente di non avere speranze, ma perlomeno voleva fare bella figura con lei e non il deficiente come era solito fare. Le aveva persino portato un souvenir dalla vacanza in Turchia, ma sicuramente glielo avrebbe tirato in testa. Sospirò sconsolato, appoggiato al bancone del bar del ristorante, mentre sorseggiava un espresso. Al suo fianco Daniele stava giocando alla PSP regalatagli dagli zii per il compleanno, gli piacevano i video giochi ma non ne era ossessionato come il suo migliore amico.
"Mi vuoi dire che hai, Akel? E' da quando sei tornato che hai quell'aria da cane bastonato." disse l'italiano continuando a giocare alla console masticando la cannuccia della sua Coca-Cola.
"Niente, mi sto chiedendo dove diavolo sia finito quel cretino di Leeroy." mentì. Daniele lo guardò con la coda dell'occhio, sapeva che qualcosa non andava, probabilmente affari di cuore. Pensare all'amico innamorato, però, gli fece venire il buon umore. "Non preoccuparti, mi ci gioco le palle che come minimo sta comprando ora i nostri regali!" scherzò l'italiano. "Devo farla pagare a quel bastardo di Julio e alla sua serenata del cazzo. Come gli è venuto in mente di cantarmi volare in spagnolo?" aggiunse nervosamente ripensando all'episodio di qualche giorno prima.
"E' stata una scena bellissima!" disse Akel beccandosi un'altra occhiataccia dall'amico. Daniele ringraziò la sua buona stella per non aver visto la finale degli Europei assieme agli altri, altrimenti lo avrebbero sfotutto per tutto il tempo, non sarebbe stata una bella scena.
La porta del locale si aprì lasciando entrare l'inglese del trio. "Alla buon ora, ma dov'eri finito?" chiese Akel.
"A cercare parcheggio."
Leeroy notò lo sguardo di Daniele puntato alla propria camicia. "Che c'è?" fece inarcando un sopracciglio. L'italiano appoggiò la console sul bancone e andò dall'amico afferrando il papillon blu elettrico che stava indossando.
"Spiegami cos'è questo!" domandò con tono allibito Daniele.
"Un farfallino, un papillon.." scandì bene le parole come se stesse parlando con un poppante.
"Lo so cos'è, ma... perché te lo sei messo!?"
Akel guardava i due amici senza capire il punto della situazione, che tra l'altro sfuggiva anche a Leeroy. "Mi dici qual'è il tuo problema?" chiese l'inglese stufo.
"Quel coso." disse l'italiano indicando il papillon. "E' orribile, dimmi che ti ha obbligato tua madre a metterlo!" poi scoppiò a ridere. "Sembri un cazzo di cameriere, se vuoi dico a mio padre di assumerti!"
L'inglese alzò gli occhi al cielo esasperato, Daniele non poteva essere così polemico riguardo al suo modo di vestire, si ricordava ancora la volta che lo aveva accompagnato a fare shopping. Gli era sembrato di trovarsi sul set di I love shopping, dopo quella esperienza si era giurato che non l'avrebbe mai ripetuta.
"Akel, gli altri fra quanto arrivano?" chiese Leeroy ignorando volontariamente l'italiano. Il turco sbirciò l'ora dal cellulare. "E' ancora presto, arriveranno tra un'ora." sbuffò.
"Ma che hai oggi?" chiese l'inglese, stupito come Daniele dall'umore dell'amico.
"Niente, spero solo di non ridurmi uno schifo altrimenti mia madre mi ucciderà."
Se la notte del loro ritorno dalle rispettive terre natie erano stati leggermente brilli quella serata invece non sapevano nemmeno come sarebbe finita: avevano il ristorante a loro completa disposizione, senza Paolo e gli altri camerieri intorno. Leeroy non poté fare a meno di pensare che i genitori dell'italiano avessero un gran coraggio a fargli quella concessione, ma c'era anche da dire che ci sarebbe stata Rebecca, la più responsabile tra i due fratelli, a controllare.

Passarono l'ora ad aspettare l'arrivo degli altri giocando con la PSP di Daniele e ascoltando musica. Rebecca arrivò poco prima dell'arrivo del primo ospite assieme alle sue amiche, andando direttamente al buffet senza nemmeno salutare i festeggiati. Akel si scoprì a spiarla con la coda dell'occhio ogni tanto, voleva riuscire a darle il souvenir ma quando poi la vide scomparire nella saletta privata decise di lasciar perdere. Il primo ad arrivare fu Miles, assieme a Nicholas e Abigail. Il capitano si diresse con passo spedito nella direzione di Leeroy e, dopo aver salutato il turco e l'italiano, si trascinò via il difensore con una scusa. Quando furono in disparte Miles parlò: "I regali li ho già nascosti nella cella frigorifera, avevo chiesto a Rebecca il permesso. Ad una cert'ora ti mando a prenderli, okay?" chiese.
"Sì, ma... non potevi farlo tu?"
"Sono i tuoi migliori amici." lo liquidò il capitano.

 

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Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***


The last chance
IV

La festa era stata un successone ma non era ancora finita, infatti mancava ancora la consegna dei regali. Purtroppo Miles non si trovava e Leeroy non aveva la più pallida idea di quando sarebbe dovuto andare a prendere i regali. Lo aveva cercato da ogni parte, facendosi largo tra i ragazzi e le ragazze accalcati nel ristorante, ma il capitano sembrava essere scomparso. Pensò che forse si trovava da qualche parte a vomitare l'anima a causa di tutto l'alcol ingerito in quelle ore. Alla fine, dopo essere anche andato in strada a cercarlo e averlo chiamato al cellulare, lasciò perdere decidendo di andare a prendere quei benedetti regali di compleanno. Quando arrivò nella cella frigorifera, che a suo dire, era enorme, non aveva idea di dove mettere le mani. Si chiese quanta roba ci fosse la dentro, tutte e tre le pareti erano occupate da scaffali alti più di lui, che a suo dire era tanto visto il suo metro e ottantacinque. "Sicuramente quel cretino avrà messo tutto in alto dietro quei scatoloni." farfugliò tra sè e sè. Cercò di allungarsi più che poteva per riuscire a spostare gli scatoloni e vedere se effettivamente ciò che stava cercando si nascondesse proprio là. I suoi sforzi furono vani. Iniziò a maledire Miles, pensando che come minimo era andato ad imboscarsi da qualche parte con la pallavolista. "E poi sarei io l'irresponsabile." disse digrignando i denti per lo sforzo di allungarsi ancora una volta. Ad un certo punto sentì la porta aprirsi. "Alla buon' ora, dove cavolo eri finito?" sbottò pensando si trattasse del capitano di ritorno da qualunque cosa stesse facendo.

"Che stai facendo?" sentì chiedere, da una persona che chiaramente non era Miles, ma l'ultima da cui avrebbe mai ricevuto un aiuto.

"Non sono affari tuoi." tagliò corto Leeroy cercando per la terza volta di spostare gli scatoloni senza successo, ma ad un certo punto una mano arrivò in suo aiuto spostandoli. Con la coda dell'occhio vide Lance dietro di se che lo stava aiutando contro ogni sua aspettativa.

"Ti serve altro?" chiese il portiere disinteressato.

Leeroy, si girò a fronteggiare il compagno di squadra, sentì una vampata di calore salirgli alle guance, non capì se la colpa fu dell'alcol o dell'imbarazzo. Non sopportava il portiere e ancora di più non sopportava setirsi in ibarazzo con il portiere. Quel calore lo infastidiva, odiava il caldo con ogni fibra del suo essere proprio non lo sopportava e proprio non capiva come facesse a sentirsi accaldato. Per un' attimo balbettò come stordito. "H-ho... caldo."

In cambio ricevetta un'occhiata scettica. "Siamo in una cella frigorifera!" Lance sottolineò bene le ultime due parole. Si chiese se oltre che stupido, il difensore avesse anche dei disfunzionamenti al centro termoregolatore del cervello.

Dopo poco Leeroy tornò in se mandando al diavolo il portiere, il quale fece roteare le palle degli occhi resosi conto di aver passato anche troppo tempo con il difensore. Afferrò una busta di fagioli surgelati e se l'appoggiò sul gomito del braccio sinistro suscitando l'interesse di Leeroy.

"Che hai fatto?" disse incuriosito, di solito era lui a fargli male, non ricorava che il portiere si picchiasse con altre persone.

"Indovina?" chiese sarcastico.

"Nicholas e Drew?"

"Quei due idioti e le loro grandi idee del cazzo. Tu piuttosto che ci fai qua? Avevi caldo?" domandò riferendosi alle parole di Leeroy stesso pronunciate pochi secondi prima.

"Reginald ha nascosto i regali là sopra... e non ci arrivo." disse un po' in inbarazzo. Leeroy era alto come ragazzo ma Lance era il più alto della squadra dal suo metro e novantasei faceva paura a molti avversari durante le partite.

"Lo avevo capito." rispose con tono piatto, dopo di che rimise a posto i fagioli surgelati e prese i regali da sopra lo scomparto. Alla fine avevano comprato ciò che avevano già deciso in precedenza quella volta che erano tutti usciti assieme il mese prima, ovvero: un borsone nuovo per Akel con anche un paio di pantaloncini da calcio e per Daniele un CD di musica italiana e una felpa. Il regalo scherzo lo avevano già fatto all'inizio della festa. Le bambole gonfiabili infatti erano piaciute ai ragazzi ma si erano anche sentiti in imbarazzo, in particolar modo Akel.

Porse i pacchetti al difensore con fare sbrigativo dopo di che gli intimò di darsi una mossa perché stavano per tirare fuori la torta. Leeroy rimase imbambolato come un idiota nella cella frigorifera a causa della gentilezza di Lance.

Il vero problema di quella sera fu il ritorno a casa degli ospiti, più in particolare di Miles, Abigail, Nicholas, Leeroy e Lance. L'unico che non aveva bevuto era il portiere, mentre gli altri erano molto alticci mentre il difensore era schifosamente ubriaco. Infatti dopo aver consegnato i regali, Leeroy, aveva ben deciso di darci sotto con la sue migliori amiche: vodka e Red Bull. Alla fine della serata quello che si presentò davanti agli altri membri della squadra fu un Roy da prendere volentieri a calci per le cavolate che sparava. Decisero di comune accordo di usare l'auto di Miles, lasciando quella del difensore al ristorante, non ci tenevano ad arrivare al campionato con un giocatore in meno. Leeroy venne caricato a forza sull'abitacolo da Nicholas e gettato come un sacco di patate sui sedili posteriori, a fargli compagnia ci si mise Abigail che cercava di tenerlo sveglio. Laciarono il locale verso le 5.00 passate. L'unico sobrio era Lance per loro fortuna, in quanto odiava alzare il gomito da dover passare la nottata sul cesso come certa gente che non si vergognava neppure a raccontarlo. Erano sulla strada per la casa di Abigail quando il portiere ebbe la brillante idea di accendere la radio, cambiò più volte stazione non trovando nulla che lo accontentasse fino a che, dopo aver saltato Bonnie Tyler, si sentì chiamare dal difensore.

"Rimettila, dai." quasi urlò entusiasta Leeroy, sporgendosi in mezzo ai due sedili anteriori per cercare di arrivare alla radio e rimettere la canzone che aveva intenzione di ascoltare. Ci riuscì. Il ritornello di Total Eclipse of the Heart invase le casse stereo dell'abitacolo. Il difensore si sistemò tra i due sedili e si protese nuovamente in avanti per vedere meglio la strada e iniziò a cantare.

"And I need you now tonight... And I need you more than ever"

Miles si strofinò gli occhi cercando di stare sveglio, gli sarebbe venuto il mal di testa dopo quella pagliacciata.

"And if you only hold me tight we'll be holding on forever and we'll only be making it right" Roy iniziò quasi ad urlare, seguendo le note alte della canzone nell'orecchio dell'autista. Tutto quell'alcol lo aveva proprio ridotto male, in circostanze normali non si sarebbe mai e poi mai messo a cantare Bonnie Tyler.

"Vi prego toglietemelo di dosso o giuro che freno e finisce in mezzo alla strada." sbraitò infastidito dai modi del compagno di squadra.

"'Cause we'll never be wrong together... we can take it to the end of the line. your love is like a shadow on me all of the time..." purtroppo per lui non riuscì a finire la sua "performance" perché Abigail con fare sbrigativo lo afferrò per il collo della camicia sbattendolo contro il sedile. La ragazza però non poteva fare a meno di ridere assistendo a quella scena, sapeva che Leeroy era insopportabile ma da ubriaco era divertente.

A quel punto il portiere non potè fare a meno di sospirare sollevato. "Quello rischia di ammazzarci." brontolò Nicholas asservando il difensore mentre appoggiava la testa sulla spalla di Abigail dandole la buonanotte. Il libero lo guardò spiazzato. "Sto scemo mi si è addormentato addosso." disse ridendo.

"Il concerto deve averlo affaticato." scherzò Nicholas.

 

Dopo aver accompagnato Abigail e Nicholas il penultimo a scendere fu il capitano che barcollando un po' riuscì ad arrivare alla porta di casa. "Sei sicuro di riuscire a portare quella zavorra a casa?" chiese Miles cercando le chiavi nella tasca dei pantaloni. Lance si massaggiò le tempie, la stanchezza iniziava a farsi sentire. Diede un'occhiata veloce ai sedili posteriori dove il difensore dormiva accartocciato su se stesso, doveva stare veramente scomodo, pensò il portiere. "Traquillo, lo porterò di peso se non si sveglia."

"Ci si vede allora." disse l capitano infilando la chiave nella toppa della porta. Lance aspettò che fu dentro prima di mettere nuovamente in moto l'auto. Diede un'altra occhiata dietro attraverso lo specchietto retrovisore con la seranza che Rogers si svegliasse, non aveva intenzione di portarlo di peso. Quando arrivarono al capolinea il portiere sospirò pesantemente. "Svegliati."

L'altro in tutta risposta girò la testa dall'altra parte grugnendo. "Alza il culo Rogers." Non si sarebbe alzato per aiutare l'altro a scendere.

Leeroy finalmente aprì un occhio. "Dove sono?" biascicò togliendosi gli occhiali e massaggiandosi il setto nasale. Si maledì per non essersi messo le lenti a contatto, gli sarebbe riasto il solco sul naso.

"Sei a casa, coglione." rispose il portiere. Lo vide mettersi a sedere composto con la testa tra le mani, sicuramente anche lui aveva mal di testa; il giorno seguente sarebbe stato una schifezza per tutti a causa dei postumi della sbornia. "Ti prego non farmi scendere per aiutarti." disse seccato.

"Ma non rompere, ora me ne vado." sospirò Leeroy. Sicuramente una volta a casa non sarebbe più riuscito a chiudere occhio, tutte le volte era la solita storia. Sarebbe rimasto davanti alla tv a fare zapping cercando di prendere sonno e il giorno seguente pure. A tentoni cercò la maniglia della portiera. "Ci si vede." disse prima di scendere rivolto al portiere.

Lance lo seguì con lo sguardo, qualcosa poi gli venne in mente. "Ehi!" lo chiamò. "Dopo questo, ti devo solo un favore." gli disse.

Leeroy lo guardò perplesso, ma poi capì a cosa si stesse riferendo. Gli fece un cenno di aver capito e poi gli rispose: "La prossima volta cibo." Non riuscì a formulare una frase di senso compiuto e per quello si sentì un cretino ma sapeva che era unicamente colpa del sonno.

Lance annuì e poi andò via.

 

 

***

 

Arrivò nel suo quartiere verso le sei passate; accostò l'auto al marciapiede difronte a casa sua. Vivere nel quartiere più povero della città non era il massimo della vita ma almeno lì stava bene, non si sentiva fuori posto come quando andava a trovare Miles nel suo bel quartiere di famigliole felici. Da quelle parti rischiavi di farti rubare anche le mutande con i pantaloni ancora addosso. Fortunatamente per Miles, Lance era conosciuto dove abitva e nessuno si sarebbe mai permesso di rubargliela. Nel momento in cui si voltò per sganciare la cintura sentì qualcuno picchiettare sul vetro, sperò che non fosse la vicina anziana che soffriva di insonnia sempre pronta a farsi gli affari degli altri. Quando alzò lo sguardo, per sua sfortuna, al posto della vecchietta c'era sua madre: Gabrielle. Dal sorriso che le deturpava il viso in una smorfia forzata dedusse immedatamente che era ubriaca. Non si aspettava che andasse a salutarlo anzi non si aspettava proprio di vederla.

"Tesoro, dove vai?" chiese barcollando sui tacchi troppo alti.

"A dormire." la liquidò uscendo dall'auto e dirigendosi verso casa. Gabrielle lo raggiunse con piccoli passi veloci stando attenta a non inciampare e lo afferrò per la maglia.

"Tesoro non è che potresti prestarmi l'auto? Sai... devo accompagnare a casa un mio amico." disse con un sorriso enorme cercando di essere gentile. Sua madre puzzava d'alcol e fumo e il trucco pesante sulla sua faccia si era sbaffato; il nero della matita, che contornava i suoi occhi grigi, e del mascara era colato fino alle gote troppo rosse. Non riusciva più a guardarla in faccia da qualche anno, da quando loro padre se ne era andato di casa piantandoli assieme ai debiti.

"No, Gabrielle, non ti presto l'auto, vieni in casa." disse con tono che non ammetteva repliche.

Vide la solita luce maligna guizzare in quegli occhi grigio spento a portare nuovamente caos e menzogne.

"E' questo il ringraziamento per averti allevato?" chiese quella indignata.

Lance si massaggiò le tempie, non aveva voglia di litigare, non aveva voglia di ricominciare quei stupidi discorsi, non aveva più voglia di vivere con quella donna che un tempo aveva chiamato madre.

"E' questo il ringraziamento per pagarti le tue uscite con i tuoi amichetti? Questa è casa mia! E' grazie a me se mangi." iniziò la donna a sbraitare. I vicini non ci badavano più nemmeno; in quel quartiere ognuno aveva i suoi problemi e quello di Lance era avere una madre alcolizzata.

"Stai zitta, io non ti devo nulla. Ora vieni in casa." urlò il figlio.

L'amico del quale sua madre aveva prima accennato si fece avanti per darle manforte.

"Ragazzino, fai come ti dice tua madre e non rompere i coglioni perché non te ne vai a giocare con le macchinine? Dacci quelle cazzo di chiavi." sbraitò.

Lance conosceva i tipi come lui, disoccupati alcolizzati proprio come sua madre, dei buoni a nulla che grazie ad un po' di alcol nelle vene si credevano i padroni del mondo.

Guardò sua madre e quell'individuo anonimo negli occhi prima di mandarli al diavolo per andarsene, non avrebbe sprecato più tempo con certa feccia della società. Sentì l'uomo ridere e sghignazzare per qualcosa che Gabrielle aveva detto ma che non era riuscito a sentire.

"Sei proprio un finocchio." urlò l'uomo. "Vai a piangere nel tuo lettino."

La pazienza che tanto lo contraddistingueva dalle altre persone andò a puttane dopo quella frase. Odiava sua madre, odiava la sua vita, si maledisse più volte aver permesso che accadesse tutto quello. Ma ormai non si poteva più aggiustare nulla, era tutto perduto, ogni legame ogni speranza di felicità. Il braccio si sollevò automaticamente senza nemmeno che dovette pensarci; il pugno prese in pieno viso l'amico della madre spaccandogli il naso. Non contento, con la rabbia che ormai l'aveva accecato, continuò a colpirlo ripetutamente. Gabrielle strillò spaventata per poi pregare il figlio di lasciare stare l'uomo.

"Lance lascialo, lo uccidi." pianse la donna. Il trucco, trasportato dalle lacrime le sporcò ancora di più il viso. "Lance sei un mostro, lascialo." disse aggrappandosi alla schiena del figlio cercando di farlo smettere. Tirò un ultimo calcio alle costole del bastardo. Non smise perché sua madre glielo chiese ma perché la paura di arrivare ad uccidere quel coglione si era isinuata dopo poco nel suo cuore. Aveva provato un'immensa pace nel colpirlo non lo avrebbe mai negato. Gabrielle si buttò subito sull'uomo a terra grondante di sangue.

"Come stai? Mi dispiace." disse la donna sommessamente cercando dei fazzoletti nella borsa per pulire tutto quel sangue.

"Lance!" urlò la madre. "Che hai fatto?" iniziò a piagnucolare come una bambina.

Il giovane salì in macchina senza nemmeno guardare la donna disperata che lo chiamava e se ne andò.

L'uomo sdraiato a terra sembrò riprendersi, allontanò subito Gabrielle da se. "Vattene brutta stronza, quel finocchio di tuo figlio è un pazzo." sbraitò questo spintonandola e cercando di andarsene barcollando.

"Lenny dove vai?" chiese Gabrielle stupita.

"Lontando da te troia." urlò l'uomo piantandola.

 

**

 

Stan stava con lo sguardo fisso sui suoi giocatori. Era seduto in panchina e giocava con l'accendino, aprendolo e chiudendolo come se non potesse farne a meno. Stava riflettendo. Due di quei ragazzi li aveva già scelti, ma non sapeva ancora che ruolo dare loro, erano forti non poteva usarli come riserve, erano uno spreco. Si infilò la giacca della tuta; negli ultimi giorni aveva iniziato a fare fresco. I ragazzi continuavano l'allenamento senza lamentarsi; agosto era quasi finito e prima o poi avrebbe dovuto annunciare loro la notizia dell'amichevole. Non sapeva se essere divertito o preoccupato. Non conosceva ancora la reazione che avrebbero potuto avere quei ragazzi. Un sorrisetto divertito gli si dipinse sul volto. Voleva essere lui a dare la grande notizia, sperò che quella pettegola del capitano non l'avesse già raccontato a qualcuno. Sicuramente Lance lo saprà già, pensò, o forse no? Riflettè sul fatto che anche per il portiere sarebbe stata dura presentarsi nuovamente in campo contro quei tipi. Però era un ragazzo maturo, conosceva i suoi doveri, di lui poteva anche non preoccuparsi. Il suo più grande problema era il difensore. Aveva già preso la decisione di non schierarlo in campo, non lo avrebbe fatto giocare, quella sarebbe stata la sua ultima posizione. Voleva vedere se era almeno un po' cresciuto. Non poteva permettersi di avere giocatori immaturi. Posò lo sguardo,preoccupato, sul ragazzo in questione. Leeroy stava facendo gli addominali assieme all'italiano. Di primo acchito gli era sembrato calmo, ma nello sguardo vedeva quella luce di vendetta più accesa che mai. Non sarebbe stato facile con lui.

"Stan, scusa devo andare a casa prima oggi."

L'allenatore si girò di scatto riconoscendo solo dopo il portiere che lo guardava dall'alto della sua altezza superiore al metro e novanta. Lance era il giocatore più alto che avessero, e persino per Stan, che era molto alto, trovarselo ogni volta davanti era come avere un gigante.

"Si certo." rispose un po' sovrappensiero. Ma poi lo richiamò. Negli ultimi giorni si era accorto che Lance era nervoso, troppo nervoso. "E' successo qualcosa ultimamente?" chiese.

Il portiere inarcò un sopracciglio sorpreso dalla domanda. Sopirò prima di rispondere.

"Problemi a casa, come sempre." confessò. Con Stan non aveva paura di parlare dei suoi "casini" famigliari, quell'uomo era stato come il padre che non aveva mai avuto ed era riuscito a tirarlo fuori da un baratro di depressione grazie allo sport e ai suoi incoraggiamenti.

"Se hai bisogno di un po' di tempo..."

"No!" rispose subito Lance, senza nemmeno lasciargli finire la frase. "Ho bisogno degli allenamenti altrimenti impazzirei."

"D'accordo." rispose l'uomo dandogli una pacca sulla spalla.

Dopo che il portiere fu andato via, rimase un altro po' a guardare i giocatori finire l'allenamento.

Più tardi richiamò i ragazzi ed annunciò la fine dell'allenamento.

 

 

 

**

 

 

Si era addormentato con le cuffie alle orecchie la notte precedente e aveva dimenticato di toglierle. Se le tolse come se stesse estirpando delle erbacce. Doveva smetterla di sentire sempre la solita canzone come se non ne esistessero altre al mondo. Le note di Iron Man dei Black Sabbath continuavano risuonare al massimo volume. Si strofinò gli occhi svogliatamente e spense l'mp3. Doveva essere mattina presto, constatò dalla fioca luce che entrava dalle finestre, che la notte prima aveva dimenticato di coprire con le tende. Stranamente il sonno gli era passato; come ogni volta dopo che aveva passato la nottata a bere con gli amici. Non reggeva l'alcol ma almeno lo smaltiva in fretta. Si tolse le coperte e avvertì un po' di freddo ma non vi badò, a lui piaceva quella sensazione la mattina. C'erano persone che si rintanavano nel letto appena sentivano un'arietta fresca sul collo mentre a lui piaceva, anzi riusciva a svegliarsi addirittura di buon umore. Scese in cucina ma non trovò nessuno. Non si chiese dove potesse essere sua madre, pr quanto ne sappeva anche a lavorare. Si preparò la macchinetta del caffé per un espresso dopo di che si sedette alla penisola sfogiando una rivista aspettando di sentire il caratteristico rumore del caffè quando sale. Sua madre entrò in quel momento nella cucina.

"Sto parlando con Maurice in Skype. Vuole parlarti." disse la donna canticchiando mentre si versava del succo d'aracia in un bicchiere.

Leeroy agrottò le sopraciglia. "Papà?" chiese stupito. Era un po' che non si parlavano. A causa del suo lavoro Maurice era raramente a casa, passava il tempo a salvare foche e pinguini al Polo Sud.

"Quando il caffè è pronto chiamami, vado a salutarlo." disse andando nello studio della madre vicino alla cucina. Vide suo padre sullo schermo del computer portatile di Amanda, stava scrivendo qualcosa su dei fogli, pensò che fossero i risultati delle sue ricerche.

"Papà, come stai?" chiese dopo essersi seduto. L'uomo era talmente preso dalle sue cose che non lo sentì. Leeroy s'irritò un poco. Aveva sempre odiato essere ignorato, soprattutto dal padre.

"Maurice, c'è tuo figlio che ti vuole parlare, mi ascolti?" disse un po' frustrato e il tono della voce alto. L'uomo sussultò, poi guardò a sua volta nello schermo del computer un po' sorpreso. "Oh! Ciao."

Gli occhi nocciola, come quelli del figlio, si assotigliarono un poco. Senza occhiali non vedeva da vicino. Li avrà dienticati come ogni volta, pensò il più giovane.

"Come vanno gli allenamenti? Stan come sta?" chiese l'uomo riponendo le sue scartoffie da una parte della scrivania a cui si trovava. Roy lo vide molto sciupato in viso, stare in Antartide non doveva essere una passeggiata.

"Va tutto bene." disse senza aprofondire le cose.

"Quando torno andiamo a fare motocross, d'accordo?" chiese il padre. "Con la mamma come vanno le cose?"

Lo sguardo di Leeroy fu più che eloquente per Maurice. Sapeva che la moglie aveva i suoi modi di fare con il figlio e sperava che questo non ci badasse molto, ma purtroppo da quando era cresciuto, Roy aveva iniziato a non sopporla. Amada cercava di aiutarlo con i suoi modi da psicologa ma in realtà otteneva tutto il contrario.

"Non te la prendere per le cose che fa, è pur sempre tua madre." ammicchò l'uomo.

"Disse l'uomo in Antartide." rispose con tono sarcastico, strappando un sorriso al padre.

"Non sono scappato."

"Quando torni?"

Il viso dell'uomo si illuminò a quella domanda. "Natale e Capo d'anno li passerò con voi." rispose ammiccando.

Leeroy si sentì felice, finalmente avrebbe passato del tempo con Maurice, era dal Natale prima che non si vedevano. Suo padre partì per l'Antartide di fretta e furia un paio di anni prima dopo aver finalmente ricevuto il lavoro tanto agognato.

"Finalmente!" sospirò Leeroy cercando di dimostrarsi contenuto.

"Una cosa, figliolo." disse il padre catturando nuovamente l'attenzione del figlio. Lo sguardo dell'uomo si indurì. "Se rifai una cazzata come lo scorso anno a capodanno, ti giuro, quando finisci la scuola ti porto qua con i pinguini e fanculo il calcio."

Leeroy si ricordò presto che le minacce di Maurice non erano mai infondate; se glielo aveva promesso allora sarebbe sicuramente finito in Antartide con i pinguini. Alzò gli occhi al cielo per la disperazione, non voleva una ramanzina anche da lui. Sapeva già che si era comportato male e tutto il resto, ma non vedeva come una strigliata anche da parte sua potesse cambiare le cose. In realtà, le cose erano già un po' cambiate, ma non ne era ancora sicuro. Forse aver parlato quel giorno con Lance aveva aiutato a smuovere quei muri enormi che si erano costruiti vicendevolmente per tenere l'altro lontano.

Alla fine annuì senza ribattere. Salutò il padre e poi spense la video-chat sospirando. Fino a Natale sarebbe stata lunga.

Tornò in cucina, dove una Amanda al settimo cielo parlava da sola su come poter abbellire la casa per le feste, ora che il marito sarebbe tornato a casa il suo carattere lunatico si sarebbe un po' attenuato. O almeno così il difensore sperava. Dopo aver bevuto il caffè tornò in camera sua. Non aveva voglia né di accendere il computer nè di giocare alla XboX. Sbuffò indeciso sul da farsi. Alla fine afferrò l'mp3 eil costume da bagno dall'armadio e si andò a rilassare nella idromassaggio in giardino. L'aria era fresca nonostante fosse ancora agosto, ma per lui andava più che bene. Poggiò la testa contro il bordo e riprese a sentire la musica. Si domandò se non si stava solo prendeno in giro dopo quella chiaccherata con il portiere. Il ricordo dello scorso capodanno gli tornò alla mente. Non sapeva se ritenerla la peggiore o la migliore serata che avesse mai passato. Un leggero sorriso gli si dipinse sulle labbra. Si coprì gli occhi con il braccio, il sole iniziava ad infastidirlo. Erano finiti in ospedale sia lui che Lance quella volta; il difensore con un polso rotto e il portiere con un tagllio sulla mano. Faceva fatica a ricordare il motivo della litigata...

 

31 Dicembre 2011

 

Il bicchiere, che fino a quel momento aveva tenuto in mano, volò per terra frantumandosi sporcando il pavimento di alcol e Red Bull. Alcuni dei ragazzi che assistettero alla scena rimasero stupiti, gli altri invece che conoscevano i due protagonisti della vicenda rimasero impassibili e un po' scocciati. Miles nonostante fosse un po' brillo riusciva a pensare lucidamente, infatti si chiese per l'ennesima volta quella sera, chi avesse avuto la brillante idea di invitare anche Leeroy alla festa. Rimase in disparte a guardare non ci pensava nemmeno a mettersi in mezzo. Lance aveva preso il difensore per il colletto della maglietta e l'aveva spinto contro il muro e in quel mentre il bicchiere era inevitabilmente caduto. Per tutta la sera da quando erano arrivati non avevano mai smesso di punzecchiarsi a vicenda con frasi pungenti o spinte. Sorprendentemente per tutti il primo a cedere fu il portiere. Nonostante non avesse bevuto e fosse un ragazzo che riusciva in ogni situazione a mantenere la calma alla fine era scoppiato. Aveva trovato Leeroy insopportabile dal primo momento che lo aveva visto, lo irritava e lo sfidava con ogni parola o gesto. Alla fine era stato troppo per lui. Quell'ultima frase lo aveva fatto scoppiare come una bomba programmata a tempo. Le parole gli rimbombavano ancora in testa. "Poveraccio! Non hai i soldi per prenderti da bere?" lo schernì il difensore nuovo arrivato prima di far scoppiare la rissa.

Leeroy rimase spaesato per qualche secondo a causa del movimento improvviso dell'altro, in più era anche intorpidito a causa dei fumi dell'alco. Gli sembrava di essere rinchiuso in una bolla con il mondo fuori; i rumori erano ovattati e i suoi movimenti lenti. Non si riprese subito. A risveglirarlo fu un pugno da parte del portiere che lo fece cadere a terra su un fianco. Avvertì immediatamente il tipico sapore metallico del sangue sulla lingua. Il bastardo gli aveva sbaccato il labbro. Si tirò su a fatica un po' tremolante. Il secondo pugno lo colse nuovamente di sprovvista facendolo cadere ancora. Gli occhiali neri finirono sul pavimento lontano da lui. Cercò di allungarsi per prenderli ma si sentì trascinare via per le gambe, allarmato cercò di aggrapparsi inutilmente al pavimento. I ragazzi tutti intorno ridevano, compreso Miles, che se ne stava nascosto in un angolo della sala cercando di non farsi riconoscere. Lance prese di peso Leeroy e se lo caricò su una spalla come un sacco di patate. Il ifensore a penzoloni iniziò ad imprecare. "Sta zitto coglione ora ti butto fuori, almeno la smetti di fare il figlio di puttana viziato." lo insultò il portiere prendendo le scale per scendere al piano terra. Roy continuò ad imprecare e iniziò ad agitarsi cercando di scendere ma Lance aveva una presa salda, non lo avrebbe lasciato per nulla al mondo."Calmati principessa." lo schernì.

"Fanculo" ringhiò in risposta.

Non trovando modo di liberarsi pensò bene di dare un morso alla coscia del portiere senza volerne sapere di staccarsi. Si trovavano agli ultimi scalini della rampa quando Lance iniziò ad imprecare a sua volta. "Lasciami stronzo!" urlò.

Lance mollò la presa sulle gambe del difensore, che cadde in avanti e cercando di ripararsi mise una mano avanti, finendo per scaricarvi tutto il peso sopra. Al difensore sfuggì un gemito di dolore che poi diventò un' imprecazione. Si tirò in piedi e con l'altra mano afferrò Lance per la maglia gettandolo a terra. "Stronzo, mi hai slogato il polso." urlò il difensore ormai sopraffatto dalla rabbia. Iniziò così a prenderlo a calci, nonostante il difensore fosse ancora a terra disorientato; fu come se i suoi sensi si fossero spenti per qualche secondo lasciandolo inerme. Ma era forte e si riprese. Leeroy in quel momento gli stava sopra a cavalcioni tirandogli pugni ovunque: sul viso, al costato, nella pancia. Sputò sangue. Lance si sentì mancare l'aria. Non riusciva a respirare. Gli accadeva ogni volta che si trovava in situazioni estreme. Iniziò a tossire e sputò altro sangue. Leeroy doveva avergli rotto un dente, lo sentiva in un angolo della bocca, sputò anche quello. Odiava essere messo alle strette, odiava quegli attacchi che lo coglievano all'improvviso e gli tagliavano il respiro. Soffriva ogni volta. Si riprese prima che l'ennesimo pugno lo colpisse al costato, bloccò la mano del difensore e con un colpo di reni invertì le posizioni assestando una ginocchiata nello stomaco di Leeroy. Il difensore annaspò e si contorse a terra per il dolore, anche lui con il respiro rotto. Lance si staccò da lui e si sdraiò il più lontano possibile da lui cercando di liberare i polmoni e farvi entrare l'aria. Sentì dei passi avvicinarsi in corsa. Miles gli si fece affianco con una bottiglia d'acqua chiedendogli come si sentisse.

"Potrei stare melio." annaspò.

Lo sguarò del capitano si fece insistente. "Ti porto fuori." asserì prima di aiutare il migliore amico ad alzarsi.

Leeroy rimase a terra tra gemiti di dolore e imprecazioni. Non sopportava perdere e per lui quella era stata una bruciante sconfitta. Il polso al solo sfiorararlo lo faceva quasi urlare dal dolore e più o meno era lo stesso con il viso; lo sentiva bruciare mentre respirava. Solamente dopo qualche minuto riuscì a tirarsi in piedi e barcollando si appoggiò al muro. I ragazzi tutt'intorno rimasero ammutoliti; nessuno si era aspettato una scena alla Fight Club. Daniele arrivò in quel momento assieme a James, l'attaccante dell squadra, a soccorrere Leeroy.

"Sei proprio un coglione." disse l'italiano senza peli sulla lingua.

Il difensore sospirò adirato.

"Non iniziare che non è serata cazzo!" tuonò Leeroy.

"Non iniziate a litigare ragazzini, ora porto te e Lance al pronto soccorso e chiamo i vostri genitori." disse con tono annoiato James estraendo dalla tasca il cellulare.

Il portiere non si guardò nemmeno alle spalle quando uscì per andare a prendere una boccata d'aria ma sentì chiaramente lo sguardo del difensore trapassargli la schiena carico d'odio. Le cose non sarebbero finite tanto presto tra quei due.

Una sensazione di impotenza e timore s'impossesò delle sue membra. Non riusciva a svegliarsi. Quell'orribile sensazione non lo abbandonava. Aprì gli occhi e si ritrovò in nella idromassaggio. Le cuffie alle orecchie con i Black Sabbath che continuavano a suonare. Non riusciva a ricordare cosa avesse sognato ma le emozioni che aveva provato gli erano rimaste incollate addosso proprio come se avesse vissuto una brutta situazione. Come se quel sogno fosse stato vero. Odiava sentirsi impotente, non poter essere padrone delle proprie azioni, sentirsi alla deriva. Ogni volta aveva l'incubo di non riuscire a muoversi nel campo, di rimanere bloccato per chissà quale strana paura.

Aveva paura che di punto in bianco le sue gambo avrebbero deciso di non rispondere più agli impulsi nervosi del suo cervello lasciandolo a se stesso, alle sue paure con la parte peggiore di se stesso. Non era ancora tempo per affrontare le sue paure, lo avrebbe deciso in seguito, avrebbe avuto lui il controllo degli eventi, non si sarebbe lasciato schiacciare dalla propria rabbia e dalle fobie come l'ultima volta. Si immerse completamente nella vasca trattenendo il respiro, quel gesto lo calmò almeno un po'. Gli piaceva trattenere il respiro fino al limite, cercando di infrangere i suoi limiti, cercando di battere il proprio corpo con la sola volontà. Quando riemerse cercò di calmarsi cambiando canzone, optando per qualcosa di più rilassante.  

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Capitolo 5
*** Capitolo 5 ***


The last chance
V
 

Miles arrivò nel palazzetto dello sport assieme a quasi tutta la squadra; alla fine Abigail era riuscita a convincere molti ragazzi ad andare a vedere la sua amichevole. Vide la ragazza in mezzo alla palestra che si riscaldava nei palleggi assieme alla sua amica Katerina, l'attaccante in posto quattro della squadra. Non cercò di attirare la sua attenzione per non distrarla, anche se quella era solo una partita di poco conto non voleva che perdesse la concentrazione, cosa che sapeva che lei non glielo avrebbe mai perdonato. Si sedette sugli spalti in mezzo a Lance e Nicholas, i quali erano arrivati con pacchi di patatine e bibite, nemmeno fossero stati allo stadio.
"Niente striscione Miles?" scherzò Nicholas facendo ridere anche il portiere.
"Spiritosi..."
In quel momento giunsero anche il difensore con gli altri.
"Miles, siamo tutti qui a fare il tifo per la tua ragazza." scherzò Akel andando a sedersi dietro ai tre ragazzi più grandi assieme ai suoi migliori amici. Leeroy e Lance non si guardarono nemmeno; non avrebbero di certo iniziato, come se nulla fosse, a salutarsi come due vecchi amici. Al difensore non importava che il portiere lo avesse riportato a casa la sera del compleanno; loro due non avevano un rapporto. Dovevano far finta di non conoscersi, a meno che la situazione non lo richiedesse. Miles inarcò un sopracciglio, già innervosito.
"Non rompete le scatole." rispose secco. Non sopportava quelle insinuazioni: tra lui ed Abigail non c'era mai stato nulla. Erano buoni amici da tanto tempo. Sospirò ormai rassegnato da tempo alla superficialità dei suoi compagni di squadra e si sedette aspettando che la partita iniziasse, piantando lo sguardo sulla giocatrice. Era ancora un po' preoccupato per lei; da quando aveva scoperto che non era stata scelta come nuovo capitano era giù di morale. Nonostante avesse detto che l'ira le fosse sparita lui non le credeva più di tanto.
La partita iniziò dopo poco e subito andò degenerando.
Abigail, invece di dare la palla all'alzatrice, la passava alla centrale la quale, alla prima, se l'era cavata, ma le volte successive si trovò subito in confusione. Il libero buttò fuori tutte le palle successive, ritrovandosi ad essere insultata dalle compagne di squadra.
Sugli spalti, i ragazzi increduli, assistevano a quello spettacolo del tutto nuovo per loro. Quella non era la prima partita a cui andavano, ed infatti non riuscivano a capire il comportamento della ragazza, del tutto strano ed insolito ai loro occhi. Lance notò subito le braccia e tutti i muscoli di Miles irrigidirsi di colpo, lo sentì iniziare a respirare pesante. Doveva essere successo qualcosa e il capitano non riusciva a capire cosa. Il portiere gli mise una mano sulla spalla cercando di attirare la sua attenzione.
"Ti vuoi dare una calmata?!" sibilò duramente.
I loro sguardi si incontrarono per un attimo e Stark vide gli occhi del migliore amico pieni d'ira.
In quel momento videro l'allenatrice chiamare Abigail per il cambio, e Miles subito si tirò in piedi sbattendo contro la ringhiera che separava il pubblico dalle giocatrici.
Lance sospirò rassegnato, ma si fece avanti anche lui senza però tutta quella foga. Il libero stava sbraitando con il coach, ma da quella distanza non riuscivano a sentire nulla, videro solo Abigail afferrare le sue cose ed andarsene abbandonando il palazzetto.
"Indovinate chi mi ricorda?" scherzò Nicholas, cercando di sdrammatizzare la situazione.
"Leeroy!" canticchiarono in coro Akel e Daniele deridendo l'amico.
Questa volta i tre si beccarono un'occhiataccia da parte degli altri; compreso lo stesso difensore.
Miles lasciò perdere i suoi compagni di squadra e si precipitò giù per la scalinata a cercare la ragazza. Intanto la partita continuava e la squadra di Abigail stava già rimontando.

Arrivò nel cortile in tempo per vederla prendere a calci un bidone dell'immondizia appena fuori dallo stabilimento.
Un tenero sorriso gli si dipinse sul viso. Scosse la testa come a cacciare via un brutto pensiero. Le andò incontro poggiandole le mani sulle spalle, ma Abigail cercò subito di liberarsi.
"Lasciami Reginald, non è giornata!" sbottò la ragazza agitandosi per divincolarsi.
Miles sospirò abbattuto, lasciando la presa. "Mi dici che ti è preso?"
Abigail gli voltò le spalle. "Lasciami in pace,"
Il ragazzo inarcò un sopracciglio contrariato. "Scherzi!?"
La ragazza si girò fronteggiandolo, non le interessava se arrivava a malapena al mento del giovane; non si faceva mettere i piedi in testa da nessuno. "Stammi a sentire, sono affari miei quello che è successo oggi! Tanto a te non frega nulla!" urlò afferrandolo per la maglietta e strattonandolo. Miles non poté fare a meno di pensare che Abigail Twain era sempre stata una bulla anche con lui. Quell'ultima frase della giovane lo colpì in pieno. Si costrinse a non ribattere e a fare finta di nulla.
Il libero scosse la testa esasperata. "Vedi, non parli nemmeno.. Ci si vede." disse con voce ancora traboccante di nervosismo prima di voltare le spalle, dirigendosi verso casa.

*

Dopo la partita Lance andò con Miles e Nicholas a mangiare qualcosa in uno dei bar del centro. Il portiere guardò nello specchietto retrovisore dell'auto del capitano per scorgere un Nicholas intento a copiare gli appunti di storia che l'insegnante aveva dettato loro a giugno.
"Si può sapere perché lo stai facendo ora?" chiese scettico, chiedendosi se l'amico non potesse anzi fotocopiarle quelle pagine.
"Storia lunga... sono gli appunti di Abigail e me li lascia solo per oggi." rispose sbuffando e cercando il punto fin dove era arrivato a copiare. Alla fine sospirò abbattuto spiaccicando la faccia contro il finestrino. Non poteva ritrovarsi in quelle situazioni disperate ogni anno, a breve la scuola sarebbe reiniziata e lui non aveva nemmeno i compiti delle vacanze.
"Smettila, dopo ci fermiamo a farti le fotocopie, mi fai patire così." commentò Miles mentre parcheggiava l'auto. Era ancora un po' scosso per la sfuriata della ragazza. Non gli era piaciuta la sua reazione.
A quella notizia Nicholas buttò i quaderni nel borsone tutto contento di non doversi sottoporre più a quella tortura barbarica.
Entrarono in un locale a caso, sperando che ci fosse posto per sedersi. Trovarono un tavolo isolato in un angolo della sala. Non badarono molto agli altri clienti e si accomodarono aspettando la cameriera.
"Miles, sai già chi ha intenzione di prendere in squadra Stan tra quei ragazzi?" domandò Nicholas interessato.
"Viktor e Andrew." rispose prontamente Lance cercando il portafogli nelle tasche dei pantaloni della tuta.
"Come lo sai?"
"Ma li hai visti?" domandò il portiere scettico; certe volte si chiedeva se l'amico fosse cieco.
Il compagno di squadra annuì. "Il tuo sesto senso?"
"Sono bravi. Stan ha già deciso la loro presenza in squadra." confermò Miles.
Lance lasciò perdere quel discorso, era ancora nervoso per l'ultima scenata di sua madre. Non potevano andare avanti così. In quelle situazioni vorrebbe che sua sorella Alexandra fosse ad aiutarlo, ma lei era a Liverpool a studiare per diventare architetto. Invidiava come la sorella riuscisse a farsi scivolare addosso gli insulti e le azioni senza senso di Gabrielle, e soprattutto la invidiava perché era a chilometri di distanza da quella donna, mentre lui era obbligato a farle da badante. Non poteva passare la sua vita arrabbiato, ma ormai lo era sempre, da anni. E il fatto che nessuno se ne fosse mai accorto stava a significare che era un bravo attore. Era certo di aver mandato all'ospedale l'uomo che aveva pestato quella notte, ma era un bene che non si fosse più fatto vedere in giro. Sospirò chiedendosi quanto ancora a lungo la sua vita sarebbe andata così male. Mentre sondava con lo sguardo la sala si accorse di una figura a lui conosciuta e sfortunatamente la rabbia crebbe ancora. Vide la persona in questione dirigersi al loro tavolo con un ghigno stampato in faccia.
"Salve, ragazze." disse quello appoggiandosi alla sedia di Miles. Quando realizzò che Oliver Sanders era andato a salutarli, il capitano sperò che le cose non si sarebbero messe male; e con male pensava ad una rissa.
"Salve stronzo." rispose a tono Nicholas, lasciando perdere il panino che stava per addentare.
Lance lo scrutò di sottecchi, cercando di apparire il più calmo possibile agli occhi degli altri ma in realtà dentro si sentiva come una fornace. Erano successe troppe cose nell'ultimo periodo e riusciva a fatica a mantenere la calma come suo solito. Aveva bisogno di starsene un po' per conto suo.
"Voi delle scuole pubbliche siete proprio degli zoticoni." li schernì l'attaccante della squadra avversaria.
"Ha parlato il mantenuto."
"Che cazzo sei venuto a fare qua?" tagliò corto il portiere, rivolgendogli uno sguardo tagliente.
"Sono venuto a portarvi buone nuove." rispose continuando a ghignare.
Il rancore che Lance provava nei confronti di Sanders era diverso da quello che provava per Leeroy; avrebbe volentieri ucciso Oliver con le sue mani, era uno degli individui peggiori che per sua sfortuna avesse mai conosciuto. Lo irritava anche solo sentirlo parlare: quell'accento americano così marcato era insopportabile.
"Sai che vi spaccheremo il culo quest'anno?" affermò Nicholas di punto in bianco, senza peli sulla lingua.
Sanders si soffermò a guardare i tre giocatori uno per uno facendo finta di non aver sentito, per poi dire: "Ma la principessa dov'è?" Quell'affermazione di scherno era rivolta a Leeroy. Lance strinse i pugni, cercando di assaporare mentalmente come sarebbe stato prenderlo a pugni, ma non lo avrebbe fatto perché non ne sarebbe valsa la pena. Oliver Sanders era il tipo di persona che andava battuta sul campo, in modo da fargli capire quanto fossero sbagliate le sue convinzioni.
"La principessa, come la chiami tu, quest'anno non ti farà nemmeno avvicinare a me." ribatté il portiere. Sapeva bene che se il difensore avesse dato il massimo quel figlio di puttana avrebbe visto la porta solo in cartolina.
"Da dove viene tutta questa solidarietà?"
Lance lo fissò nelle iridi grigie mantenendo il suo sguardo superiore. "Quest'anno vinceremo." lo liquidò senza rispondere a quella domanda.
Oliver si passò una mano tra i capelli neri sorridendo divertito.
"Allora ci si vedrà all'amichevole." sogghignò scambiandosi un'occhiata veloce con Miles.
La notizia sconvolse il portiere, ma riuscì a non darlo a notare.
"Oh! Ma non ditemi che lo sapevate?" fece l'americano, con tono falsamente sorpreso.
"Miles... è vero?" domandò Nicholas con un tono di voce allarmato. Il capitano sospirò: perché quel tipo doveva sempre rovinare tutto? Sul campo l'avrebbe pagata per ogni cosa. Stan aveva ragione: dovevano farla quell'amichevole, c'erano troppe cose lasciate in sospeso.
"Senti, Sanders... perché non alzi i tacchi e non te ne torni dai tuoi amichetti e lasci perdere?" domandò Miles, nel tentativo di ottenere il solito tono autorevole che teneva anche con i suoi giocatori.
Sanders l'osservò ancora per un po', sorridendo sinistramente. Tutti e tre erano d'accordo sul fatto che fosse una persona viscida e insopportabile, ma purtroppo sul campo era quasi imbattibile.
"Certo mamma chioccia. Ci vediamo." disse facendo l'occhiolino, prima di dileguarsi tra i numerosi tavoli della sala.
Miles lo seguì con lo sguardo finché non lo vide più, dopodiché sospirò sollevato. Sentì gli occhi dei suoi amici puntati insistentemente su di sé.
"E' vero?" chiese semplicemente il portiere.
Il capitano si strinse la testa tra le mani. Perché dovevano venirlo a sapere proprio in quel modo? Stan si sarebbe infuriato; sarebbe dovuto rimanere un segreto tra loro. Prese il coraggio a quattro mani e svuotò il sacco dopo un lungo sospiro e aver mandato al diavolo l'americano.
"Sì. Il coach ha programmato un'amichevole con la Ravensburg la prima settimana di Settembre." Dopo averlo detto si sentì più leggero.
Nicholas strinse la testa tra le mani a sua volta e colpì piano il tavolino con la fronte, disperato.
"Non esagerare." esordì il rosso sbuffando.
Il moro lo guardò storto. Lance si lasciò sfuggire un altro soffio, spazientito. Non si aspettava una notizia del genere: sapeva che ci sarebbe stata un'amichevole di inizio anno scolastico, come accadeva sempre, ma non immaginava proprio contro quella squadra. Era un colpo basso. Come se non bastasse non era ancora certo di come Rogers si sarebbe comportato. Il loro rapporto nelle ultime settimane era cambiato, non si insultavano più ogni volta che si vedevano, ma non si salutavano nemmeno. Erano due sconosciuti che giocavano nella stessa squadra; una cosa assurda ed inaccettabile in un team. Si irrigidì. Continuava a non sopportarlo, però sentiva la necessità di mettere in chiaro le cose per la partita un'altra volta, voleva sapere se Leeroy aveva recepito bene il messaggio. Sperò vivamente di preoccuparsi per nulla, che quell'idiota avesse messo la testa a posto e che non avrebbe causato altri problemi.
"
Voglio morire." si lamentò Nicholas; non sapeva se ridere o piangere.
Miles lo rassicurò. "Non iniziare a piagnucolare come una ragazzina, dobbiamo metterci sotto. Tecnicamente siamo superiori noi, anche se non penso in una vittoria schiacciante contro di loro." assicurò il capitano, notando poi che qualcosa turbava il migliore amico. Immaginava già quale fosse il problema; quello stupido di un difensore creava più problemi di quante partite facesse vincere.
Nicholas sembrò riprendersi un po'. "Speriamo in bene"

*

Non gradiva quando Lance era taciturno: significava che qualcosa lo turbava e, quando ciò accadeva, non c'erano modi di rassicurarlo.
"Vuoi parlare, o devo cavarti le parole di bocca?" domandò Miles, spezzando quel silenzio snervante.
Il portiere tornò alla realtà e si voltò verso l'amico, che stava guidando. "Non so di cosa stai parlando." rispose pacatamente, facendo finta di niente.
Il semaforo divenne rosso e il guidatore fu costretto a fermarsi. Con gli occhi chiusi e un po' sofferenti diede una leggera testata al volante. "Lo so che ti preoccupa Rogers." .
"Anche a me preoccupa. Ma non devi essere te a preoccupartene." aggiunse poi.
Sollevò la testa per controllare se fosse diventato verde.
"E' anche un problema mio invece." Al solo ricordo delle risse scoppiate ogni volta che erano nella stessa stanza o nello stesso campo la rabbia gli salì alla testa.
Finalmente Reginald poté passare e continuò dritto in direzione di Whitehawk.
"Non dire stronzate."
"Non le dico." Lance lasciò perdere e preferì concentrarsi sul paesaggio al di là del finestrino.
"Seriamente... Penso che tu abbia bisogno di scopare." disse con tono serio il capitano continuando a guardare avanti.
Sul volto del portiere si dipinse un sorriso divertito.
"Ma vaffanculo!" rise Stark accendendo la radio.

*

Il primo giorno di scuola fu un trauma per Leeroy e Daniele; avevano passato la notte precedente giocando on-line a Call of Duty in casa dell'inglese. C'era stato anche Akel che, al contrario dei due patiti di videogiochi, aveva una passione per le serie televisive. Così si era appropriato del portatile del difensore e aveva guardato in streaming qualche puntata di How I met your mother. A differenza degli altri due, però, aveva avuto il buonsenso di andare a letto ad un orario decente. Infatti era giunto a scuola fresco e riposato.
"Siete due idioti." commentò il turco riferendosi ai due amici.
Si trovavano nel cortile della scuola ad aspettare il fatidico suono della campanella che annunciava l'inizio delle lezioni.
"Roy, siamo ancora in tempo! Torniamo all'auto e andiamo a dormire!" supplicò l'italiano, aggrappandosi saldamente alle spalle dell'amico.
L'inglese prese le chiavi della macchina da una delle tasche dei jeans ma, prima che potesse anche solo acconsentire alla proposta, venne bloccato da un Reginald Miles con la luna storta.
"Che hai intenzione di fare?" chiese con voce serafica. Anche lui sembrava parecchio sciupato in viso, doveva aver fatto la loro stessa bravata.
Daniele roteò gli occhi scocciato. "Andare a dormire. Se vuoi ti diamo un passaggio."
"Andate in classe... e non iniziate l'anno con tre o quattro materie sotto la sufficienza, altrimenti diventate panchinari." li minacciò.
"Come sei noioso." asserì Akel piantando tutti e avviandosi in classe.
"Ehi! Akel, aspettami!" quasi urlò Daniele per il panico, non voleva rimanere solo con il capitano di prima mattina.
Miles e Leeroy si scrutarono a lungo, entrambi con fare superiore.
"Sei avvertito: fai il bravo. Tu più degli altri." gli ricordò Reginald con tono grave.
Il difensore aveva tanta voglia di mandarlo a quel paese. Non riusciva a fare come il capitano gli diceva, trovava la sua voce irritante quasi quanto quella della madre.
"Sì, sì, mamma chioccia..." sborbottò svogliatamente in risposta prima di raggiungere gli altri in classe.
Quel soprannome iniziava a stancare il capitano.

*

Quella fu una delle giornate più faticose della sua vita per Leeroy Rogers. I professori avevano già programmato vari compiti da lì a qualche settimana; non sarebbe riuscito a prendere nessuna sufficienza. Stare tra quei banchi lo mandava in depressione. Si accasciò contro la parete di fianco sospirando di noia. Akel accanto a lui non poté fare a meno di ridere.
"Non rompere, vai meglio di me a scuola." mugugnò affondando poi la testa nelle braccia sul banco. Voleva andarsene a casa. Si diede mentalmente dell'idiota per aver passato la nottata ai videogiochi. Sbirciò il posto accanto al turco, dove sedeva Daniele che, come lui, se ne stava con il capo nascosto sotto le braccia.
La campanella della pausa suonò dopo poco. Leeroy e Daniele non avevano nemmeno alzato la testa dal banco per salutare la professoressa quando Julio entrò correndo in aula come un matto e dirigendosi dai compagni di squadra.
Si appoggiò al banco di Akel, cercando di riprendere fiato.
"Ehi! Che cavolo succede?" chiese il turco.
"Julio se sei venuto a rompere non è giornata." lo avvertì l'italiano: la serenata in spagnolo se l'era legata al dito, prima o poi gliel'avrebbe fatta pagare.
"Ho una notizia orribile!" asserì lo spagnolo con il fiatone.
Leeroy non stava minimamente ascoltando i compagni, troppo impegnato a cercare di recuperare le ore di sonno perse. In quel momento a loro si aggiunse anche Bartosz. "Perché non mi hai aspettato?"
"Non ho detto ancora nulla!" si lamentò Julio, sbuffando all'amico polacco.
Akel era visibilmente irritato, non gli piaceva stare sulle spine. "Si può sapere che succede, o no!?" sbottò.
"Se ti rilassi ti dico tutto..." rispose Bart, ma venne subito interrotto dal compagno di classe. "L'amichevole quest'anno è contro la Ravensburg!" disse tutto d'un Julio, disperato.
A quelle parole la mascella del turco si spalancò per lo stupore e i suoi due amici saltarono come molle.
"E' uno scherzo?!" chiese Daniele incredulo. Non voleva ripetere l'esperienza, non così presto. Si ricordava ancora quanto aveva faticato con la loro difesa durante la finale di campionato.
"No, ho sentito Miles e Nicholas che ne parlavano stamattina e ho perso dieci anni di vita!"
"Naturalmente ti avevo detto di aspettare a parlarne a questi tre, ma tu non ascolti." lo rimproverò il polacco.
Leeroy non li stava più nemmeno ascoltando. I ricordi della finale lo travolsero come un'auto in corsa. Non riusciva a dimenticare quella sconfitta; per non parlare della figura da cretino che aveva fatto. Aveva voglia di prendere il muro a pugni. Stan non poteva fare una cosa del genere.
"Noi dobbiamo tornare in classe. Mi raccomando: voi non sapete nulla." si raccomandò Bartosz prima di andarsene con Julio.
"Ehi! Non puoi buttare una bomba del genere e poi pretendere che facciamo finta di niente!" sbraitò Daniele.

*

Miles non aveva il coraggio di confessare a Stan che ora, grazie a Oliver, praticamente tutti sapevano dell'amichevole. Nicholas non era il tipo che sapeva mantenere segreti. Nel giro di pochi minuti la campanella sarebbe suonata annunciando la fine delle lezioni e sarebbero andati all'allenamento. Non ce l'avrebbe fatta. Come se non bastasse Abigail non si era ancora fatta sentire. Non riusciva a capire il suo comportamento durante e dopo la partita. O forse non voleva?
Lance lo risvegliò dai suoi viaggi mentali con un colpetto sull'avambraccio.
"Devi andare al patibolo." lo prese in giro il migliore amico, ricevendo in cambio un'occhiataccia. "Come sei acida oggi, mamma." aggiunse, recuperando lo zaino sotto il banco ed alzandosi. "Ti aspetto giù."
Vide l'amico scomparire oltre la porta e si lasciò scappare un sospiro nervoso. Come avrebbe fatto a gestire tutti quei ragazzi arrabbiati ed angosciati? In fine seguì Lance al campetto. Non gli piaceva piangersi addosso e quello non era nemmeno il momento più adatto.
Davanti allo spogliatoio c'era già tutta la squadra al completo più le reclute ancora da scegliere, tutti con gli occhi puntati su di lui.
Perfetto! Lo sanno già tutti!, pensò infuriato. Li oltrepassò con indifferenza e andò a cambiarsi.
Quando uscì vide che i ragazzi si erano radunati tutti attorno all'allenatore in una piccola folla agitata: c'era chi chiedeva spiegazioni e chi cercava conferma ad un possibile sbaglio. Miles ebbe il tempo di sbuffare prima di essere affiancato da Lance.
"Bella cavolata, capitano." lo prese in giro l'amico.
Non sopportava perdere il controllo della situazione. Urlò ai compagni di squadra di calmarsi e tutti chiusero finalmente la bocca. Sentendo finalmente un po' di silenzio l'allenatore si staccò dai giocatori mettendosi in un punto dove poteva vederli tutti e, con molta calma, si accese una sigaretta.
Gli studenti provarono a tornare all'attacco con altre domande ma Stan li zittì con un gesto.
"Da quanto ho capito.." iniziò a parlare ma prese subito una pausa per una boccata di fumo. "Sono stati gli avversari a dirvi tutto?!"
Tutti annuirono.
"Non ve la starete mica facendo sotto dalla paura?" li schernì. Quello era l'unico modo che conosceva per motivarli. Erano un branco di pisciasotto e di prime donne, glielo aveva detto spesso ma in quel momento era meglio farglielo notare senza mezzi termini.
"Tanto finirà a cazzo." bofonchiò Nicholas sconsolato.
Lance, dal canto suo, non vedeva quale fosse il problema, se non Leeroy. Se avesse messo una delle riserve o uno dei nuovi al suo posto ne sarebbero usciti senza problemi. Non si chiese se a farlo parlare fosse l'orgoglio o quel lato di sè stesso che odiava l'altro, ma si diede mentalmente del cretino. Non poteva nuovamente cambiare idea. Doveva andargli a parlare. Lo vide di schiena davanti a sè, vicino a quei suoi amici. Notò i muscoli delle spalle tese. Sicuramente lui era uno di quelli che si era aspettato che si fosse trattato di uno sbaglio. Rise a quel pensiero. Quel ragazzo era proprio ingenuo.

Il difensore, al contrario, non riusciva a trattenere la felicità. Dopo aver ascoltato le parole di Stan era come rinato. Quello era solo l'inizio; con quella partita avrebbe messo le cose in chiaro in vista del campionato. Non gli interessava vincere o perdere, voleva solo dimostrare a Sanders e a tutti quei giocatori chi fosse il migliore. Incrociò le braccia al petto. Sentì Daniele imprecare; a lui non doveva piacere molto l'idea. Akel, invece, pareva non aver ancora metabolizzato la cosa. "Dai, ripigliatevi." disse loro Leeroy con tono stanco. "Non azzardarti a fare la predica a noi! Chi è quello che barboneggia se perde una partita!?" lo punse sul vivo l'italiano, indispettito.
"Sì, sì... Ne riparleremo quando salverò la porta da quel coglione di un americano."
"Anche troppo se riesci a togliergli la palla." lo prese in giro Akel, ridacchiando sotto i baffi.
In tutta risposta l'inglese gli diede una leggera gomitata nelle costole senza farsi vedere da Stan.
"Fanculo."
"Non fate le femminucce."

*

Alla fine aveva preso la sua decisione: ci sarebbe andato a parlare. Ora che tutti sapevano doveva mettere le cose in chiaro. Vide il ragazzo dirigersi a passo svogliato verso gli spogliatoi. Afferrò con i denti un guanto e lo sfilò velocemente poi fece la stessa cosa con l'altro nervosamente. In realtà non voleva andarci. Avrebbe potuto andare a cambiarsi senza nemmeno considerarlo però qualcosa lo spingeva a farlo. Non era senso di responsabilità nei confronti della squadra. Forse egoismo? Alla fine le uniche cose che gli importavano erano il calcio e i suoi studi: i suoi unici biglietti della lotteria per poter fuggire da quella sua triste vita. Infilò i guantoni nei pantaloncini poi si strofinò il naso indeciso sul da farsi. Leeroy era quasi nell'edificio. Gesticolò con il braccio cercando, infine, di richiamare la sua attenzione. "Leeroy." lo chiamò. Il ragazzo aveva già la mano sulla maniglia della porta per aprirla quando si girò sorpreso nella sua direzione. Non si era accorto che Lance fosse ancora in campo.
"Che vuoi?" chiese per un momento spiazzato, rimanendo davanti all'entrata.
Il rosso lo raggiunse con delle falcate veloci. "Ti devo ancora un favore, no?" chiese cercando di far sembrare tutto normale.
Rogers inarcò un sopracciglio incuriosito. "...Sssìì?" rispose un po' scettico. Si chiese tutto d'un tratto da dove venisse tutta quella confidenza da parte di Stark.
"Ti devo ancora un pranzo." fece tranquillamente. "E poi dobbiamo finire quel discorso, visto che l'amichevole sarà con Sanders..." aggiunse assumendo un'aria seria. Sapeva che l'altro a quella notizia avrebbe subito cambiato umore, infatti lo sguardo del moro si era assottigliato.
Leeroy non capiva le intenzioni dell'altro. Era convinto che il discorso si fosse concluso l'ultima volta al parco. Insomma, che avevano da dirsi? Oltre alla squadra cosa avevano in comune? Non capiva tutta l'insistenza dell'altro. Sperò solo che non si trattasse di una paternale sull'imminente partita. Non aveva la minima voglia di starlo a sentire.
Il portiere lo guardò intensamente negli occhi, come a cercare una complicità che non c'era mai stata tra loro. "Non voglio rompere le palle, voglio mettere assieme informazioni." mentì infine.
"D'accordo." acconsentì subito dopo quell'affermazione. Voleva sapere se Stark aveva trovato qualche punto debole dell'americano o cose simili. L'unica cosa che gli interessava era farla pagare ad Oliver per quella sconfitta. Sperò solo che tutto non si sarebbe concluso con una rissa come la volta precedente o le altre. "Ci si vede alla mia macchina." Detto ciò entrò nello spogliatoio richiudendosi la porta alle spalle.
Lance rimase fuori per qualche minuto. Disfò il codino e rifece una crocchia alla meno peggio. Avrebbe dato un rene per avere un nuovo difensore al posto di Rogers, ma si sarebbe dovuto accontentare per il momento. Forse sarebbe riuscito a convincerlo a non dare colpi di testa durante la partita. Aveva riconosciuto la luce che si era accesa negli occhi del difensore dopo rivelazione del segreto da parte di Stan. Gli occhi di Leeroy avevano arso di una luce sinistra, piena di vendetta e testardaggine. Già in quel momento capì che non ci sarebbe stato modo di calmarlo se non quello di andargli a parlare. Alla fine qualcosa in comune lo avevano: voler essere la causa della sconfitta di Oliver Sanders.

*

Erano in un locale del centro a mangiare tranci di pizza. Il pensiero che con l'altro avesse in comune solo l'aria che respiravano gli fece salire un risolino sulle labbra che prontamente nascose con il tovagliolo. Non si erano detti molto. Forse Lance aspettava di aver finito per intavolare l'argomento, pensò Leeroy. Notò con piacere che questa volta il portiere non stava passando tutto il tempo con il cellulare; che poi, quello non poteva nemmeno farsi chiamare cellulare. Era un aggeggio vecchio con la schermata in bianco e nero. Si chiese perché avesse un apparecchio così stagionato. La sua attenzione venne poi catturata dai suoi occhi. Erano grigi, non ci aveva mai prestato molta attenzione. In quel momento gli sembravano da un'altra parte, persi chissà dove. E poi sono io quello con la testa tra le nuvole!, pensò divertito.
"La smetti di fissarmi?"
Leeroy ebbe come un tremito, quelli che si hanno quando si viene beccati a fare qualcosa di sbagliato con la convinzione che nessuno vede.
"Non ti stavo fissando." rispose velocemente, cercando di non dare per scontata la sua colpevolezza.
"Se se!"
"Evita di fare l'idiota. Non eravamo qua per un altro motivo?" chiese Rogers, sondandolo con lo sguardo.
Lance sorrise. "A volte la testa la usi."
Il difensore si sentì punto sull'orgoglio, ma lasciò cadere l'insulto. Non voleva perdere tempo. Si maledì per la centesima volta per aver accettato quell'invito.
"Mettiamola così: più parole e mano cazzate. Ti conosco. Cosa vuoi da me?" chiese per la prima volta seriamente Leeroy.
Il rosso si pulì le mani con un tovagliolo e bevve un sorso d'acqua. Quel temporeggiare stava facendo infuriare il difensore che iniziò a mordicchiarsi l'interno della guancia.
"Vuoi sapere se ho intenzione di fare il bravo bambino?" domandò con un tono di ilarità nella voce.
Lance lo guardò storto. Odiava quel tono. Si sentì un imbecille ripensando al momento in cui aveva provato imbarazzo per andare a parlargli. Si stupì di aver usato quella parola nella sua testa. Non era stato imbarazzante, ma inopportuno. Non avrebbe dovuto farlo.
"Anche! Ma più che altro voglio che tu non commetta ancora gli stessi dannati errori. Voglio che impari, non che continui a sbattere contro lo stesso muro per sempre." Il tono era passato da compiaciuto a serio. Compiaciuto perché vedeva che il ragazzo di fronte a sé non era del tutto stupido, e serio perché doveva esserne sicuro. Sicuro che non avesse intenzione di non perdere la pazienza e diventare l'Hulk dei poveri in calzoncini da calcio e tacchetti. Quell'immagine lo fece ridere.
Vide Leeroy strizzare gli occhi e massaggiarsi le tempie. Pensò che sicuramente stava cercando di trattenersi dal mandarlo al diavolo.
"Senti!" esordì fiaccamente il difensore. "La paternale ti avevo chiesto di evitarla. Sono venuto solamente perché mi avevi promesso di parlare di Sanders." concluse stancamente, esausto da quella tiritera. Perché l'altro doveva essere così pressante? Non poteva andare a farsi fottere e lasciarlo in pace? In quel momento se ne sarebbe voluto tornare a casa più che volentieri.
"Penso che tu abbia ragione." sentenziò l'altro all'improvviso, lasciando il compagno di squadra tra l'incredulo e lo stupefatto.
"Sanders è un bastardo." aggiunse poi. "Farà come la scorsa volta, ti starà addosso come una sanguisuga e appena potrà ti pianterà scappando verso la porta. Sicuramente cercherà anche di farti dei falli."
Leeroy inarcò un sopracciglio, stupito. Lance aveva ragione: la finale era andata proprio in quel modo. Riprese a mordicchiarsi l'interno della guancia senza pensare minimamente di starsi martoriando inutilmente la carne.
"Per piacere, smetti di farlo. E' fastidioso." lo riprese Stark.
Il moro lo guardò nuovamente attonito, non capendo a cosa si stesse riferendo. "La guancia. Smettila. Lo fai anche durante le partite quando sei sotto pressione." disse con tono grave.
Si sarebbe aspettato qualsiasi cosa da Lance, ma di sicuro non quello.
"Mi rilassa." sbottò.
"Trova un altro modo o finirà che ti morderai la lingua." rispose con tono annoiato.
"Parla quello che si mangia le dita dei guanti! Ci pensi a quanto sporco c'è sopra?"
Lance lo guardò storto. Non sopportava quando venivano criticate le sue abitudini, e tra l'altro non rischiava di amputarsi un muscolo o altro, al massimo una congestione.
"Stiamo cambiando discorso e perdendo tempo."
"Se tu evitassi certe uscite!"
Lance puntò lo sguardo dritto in quello dell'altro per fargli capire quanto irremovibile sarebbe stato sulle sue decisioni. "Promettimi solo tre cose."
Leeroy si sentì come messo all'angolo.
"Cosa?" chiese imitando il tono duro dell'altro.
"Non ascoltare le sue stronzate. Non farti fregare. E non farlo avvicinare a me."
I loro occhi non si erano ancora staccati dell'altro. Forse un briciolo di complicità stava nascendo tra quei due, ma era ancora presto per dirlo, troppo presto. Non si poteva sotterrare l'ascia di guerra solo perché esisteva il detto "il nemico del mio nemico è mio amico". Sarebbe stato troppo bello, troppo facile, troppo innaturale.
"Consideralo fatto." rispose con un leggero ghigno sulle labbra. In fondo non si trattava di alleanza, ma di sopravvivenza.

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Capitolo 6
*** Capitolo 6 ***


The last chance
VI


Le persone arrivavano e andavano via senza nemmeno pensare a chi fosse la persona che li stesse servendo. Lance Stark vedeva molte teste passare, nel suo turno dalle 4 alle 7 del mattino. Alcune di clienti fissi, altre di sconosciuti. La sua non era la solita vita rosa e fiori, ma a lui andava bene così. Non avendo affetti non avrebbe avuto rimpianti quando poi se ne sarebbe andato. Eppure non riusciva a non invidiare quei passanti. In loro vedeva la libertà che non avrebbe mai avuto fino al giorno del diploma. Per lui già uscire di casa e andare a prendere un caffé alle prime luci dell'alba senza preoccuparsi della madre voleva dire libertà. C'erano momenti, però in cui lo sconforto lo imprigionava, come durante la notte, quando aveva incubi orrendi e non riusciva a svegliarsi. Sognava di una vita all'eterna mercé della madre e ciò lo terrorizzava più di qualsiasi altra cosa, perfino più della morte stessa. Ma quella giornata per lui sarebbe dovuta essere diversa. Non aveva il tempo per quei brutti pensieri; in quel momento la testa era sul campo. Stando fermo riusciva a percepire i movimenti automatici del suo corpo durante le partite. La sua mente fabbricava immagini di possibili rigori parati, di calci d'angolo e altro ancora. La testa cercava di giungere alla soluzione come se si trovasse davanti ad un'equazione matematica. Quello era uno dei modi per evadere alla vita del bar mentre lavorava. Il cellulare gli vibrò in tasca ma non poteva rispondere, aveva ancora una coppia da servire. Prese caffé e muffin consegnandoli al signore augurando anche una buona giornata con un sorriso stampato in faccia. Si stupiva ogni volta di come gli riuscisse bene fingere un sorriso. Andò nel retro e solo allora lesse il messaggio.

Non so ancora quando tornerò a casa. Paga le bollette e l'affitto. Adam come sta?

Senza pensarci rispose subito.

Riesco a vive anche senza un adulto che mi dica cosa fare. Pensi che facendo così ti si allievi la coscienza? Chiamalo, non sono il tuo segretario.

Era soddisfatto di ciò che aveva scritto così premette invio senza pensarci due volte. Non si curò se la risposta sarebbe risultata acida, anzi, si sarebbe preoccupato se non lo fosse stata.

Alle sei e mezza precise, dalla porta del locale entrò Miles. Veniva a prenderlo ogni volta per accompagnarlo a scuola. Era riuscito a convincerlo una volta con la colazione gratis e da allora avevano un patto. In fondo sapeva che a Reginald piaceva alzarsi presto in modo da evitare tutti i suoi fratelli che litigavano per il bagno e il cibo.

Si tolse il grembiule e sfece la crocchia che si era fatto per tenere in ordine i capelli lunghi, poi lo raggiunse al tavolo. Notò subito che era di cattivo umore. "Che c'è?"

"Mio fratello Leonard aveva una gita oggi e si è alzato presto. Non capisco che debba fare un bambino di dodici anni per più di mezz'ora nel bagno.” brontolò con la testa poggiata sulle braccia conserte. Il suo corpo esigeva cibo e caffè. In particolar modo caffé; non aveva chiuso occhio durante la notte.

"Sei pronto per oggi pomeriggio?" chiese Lance cambiando discorso.

Il capitano tirò su la testa per guardare l'amico negli occhi. "Sì. Tu piuttosto, stai bene?" sbadigliò assonnato. Il portiere annuì ma la sua attenzione venne catturata dal “bip” del cellullare.

Sullo schermo lesse: Sei pronto per domani mattina?. Rispose con un semplice .

"Chi era?" chiese Miles incuriosito. Nemmeno lui sapeva con chi scambiasse tutti quei messaggi; per lo più credeva si trattasse di sua sorella, ma sapeva che doveva esserci qualcun'altro.

"Nessuno, mia sorella."

Reginald si chiedeva se lo tenesse all'oscuro di tutto per un valido motivo o solo per capriccio.

"Va bene, andiamo?” replicò il portiere dopo pochi secondi.

"E' ancora presto, e voglio mangiare qualcosa prima di andare."

Lance sperò vivamente di non incontrare la madre al suo arrivo a casa, doveva farsi una doccia prima di andare a scuolae non aveva intenzione di farla nello spogliatoio.

"Il solito?" chiese all'amico, prima di rimettersi il grembiule e legarsi nuovamente i capelli.

Miles annuì sbadigliando mentre Lance andava a prendere caffé e muffin al bancone del bar.

*

Dopo la scuola Stan convocó le matricole. Gli sembravano tutti molto nervosi. Gli dispiaceva non poterli prendere tutti ma, oltre al problema dei soldi, dopo sarebbe anche sorto quello del numero. Aveva già più di una dozzina di ragazzi da gestire e per lui erano anche troppi. Solo non gli piaceva leggere la delusione nei loro occhi. Li fece schierare di fronte a sé come dei bravi soldatini poi iniziò a fare i nomi dei prescelti. Sapeva di aver fatto delle decisioni giuste, aveva preso solo coloro che erano all'altezza e sarebbero stati utili alla squadra. Miles stava al suo fianco con in mano le cinque divise da assegnare ai nuovi membri. Lo vedeva nervoso. L' idea di dover giocare quel pomeriggio stesso doveva farlo impazzire e, come se non bastasse, lui era il perno che doveva tenere unita quell'accozzaglia di ragazzini esuberanti con gli ormoni a mille. Ogni tanto si chiedeva chi tra i due avesse il ruolo più ingrato.

"I ragazzi che chiamerò dovranno fare un passo avanti e farsi dare le divise da Miles. Mi dispiace per i ragazzi scartati ma come ho già detto quest'anno abbiamo problemi di budget. Purtroppo siamo limitati, ragazzi. Magari il prossimo anno andrà meglio." disse Stan. Prima di proseguire gettò lo sguardo un'ultima volta sulla schiera di ragazzi. "Andrew Cooper” chiamò.

Il ragazzino in questione si fece avanti sorridente, non sembrava molto sorpreso dal verdetto.

"Tieni”, gli fece Miles porgendogli maglia e calzoncini, anche secondo lui era un bravo giocatore. Sperò vivamente che le nuove reclute sarebbero servite a qualcosa.

"Viktor Schlegel."

Si fece avanti un ragazzo molto alto, sovrastava senza problemi tutti gli altri, che senza dire una parola prese le sue cose e tornò al suo posto.

Dopo di che vennerò chiamati altri due ragazzi che felici come non mai presero, increduli, le loro rispettive divise.

"Lawrence O' Toole"

Il ragazzo in questione era l'ultimo della lista ma non d'importanza, infatti Stan lo aveva ritenuto sin da subito un possibile giocatore da difesa. Ed era indispensabile, visto le crisi da prima donna che prendeva Leeroy ogni volta. Purtroppo per il difensore quella non sarebbe stata una bella giornata; l'uomo sperò vivamente di non dover assistere a scene imbarazzanti. Ormai aveva preso la sua decisione e non sarebbe tornato indietro se non in caso di estrema necessità. Salutò gli esclusi e lasciò Miles a parlare con i nuovi giocatori, diretto in aula insegnanti per prendersi un caffé. Aveva bisogno di stare un po' da solo, senza quei ragazzini tra i piedi.

"Ci si vede alla partita." si limitò a dire, richiudendo la porta dello spogliatoio dietro di sé.

Miles ricambiò il saluto e iniziò a spiegare alle reclute.

"Io sono il capitano, chiamatemi Miles. Se farete tutto quello che vi diremo io e il coach andrà tutto bene. E ripeto: chiamatemi Miles se non volete finire in panchina." pronunciò con voce serafica. Dentro di sé stava sorridendo: nessuno poteva capire quanto gli piacesse fare il capitano e comandare gli altri.

Alcuni dei ragazzi infatti rimasero un po' intimoriti, come Andrew che ora lo guardava come un cane bastonato.

"Ci si vede qua alle tre e mezza. Non giocherete, ma almeno siete in squadra, complimenti." concluse poi, prima di andarsene, molto soddisfatto, e lasciare lì i ragazzi come nulla fosse.

*

Arrivarono al campo della scuola già stanchi a causa di compiti in classe o lezioni interminabili di algebra o chimica. Gli unici che sembravano di ottimo umore erano le nuove reclute. Gli altri, invece, che già conoscevano la squadra avversaria, erano molto tesi. Daniele stava mandando ogni sorta di accidenti agli avversari insieme ad Akel.

"Non siamo così caduti in basso da dover mandare maledizioni." sentenziò Drew, riprendendo i due più giovani. "Taci. Abbiamo bisogno di fortuna. Lo sai che hanno una difesa con i contro coglioni; non sei te che deve vedersela con quelle bestie." replicò Akel con tono alterato. Nessuno di loro stava vivendo bene la cosa; a parte Drew, che sembrava non curarsene molto.

"E' un'amichevole, fate meno le donnicciole."

"Me lo ridici durante la partita, ok?" rispose l'italiano con un sorriso decisamente nervoso e sarcastico.

Stan arrivò in quel momento e li mandò a cambiarsi nello spogliatoio. "Datevi una mossa e non perdetevi in chiacchiere."

I suoi ragazzi lo assecondarono facendosi comunque scappare qualche commento acido, come Nicholas: "Perché non la smette di dare ordini e non viene a giocare?"

"Guardate che non sono sordo." aggiunse l'allenatore con tono duro in modo da farli stare in riga e non permettere loro di fare i loro porci comodi.

"Entro domani, ragazze."

*

L'incontro si sarebbe svolto in casa per i giocatori della S. Collins. Speravano di avere la fortuna dalla loro una volta tanto.

Abigail trovò posto vicino a Katerina sulle gradinate per vedere bene il campo. Avevano comprato patatine e bibite al bar vicino alla scuola. Nonostante avesse mandato al diavolo qualche giorno prima Miles, non si sarebbe persa per nulla al mondo una delle sue partite. Si guardò intorno in cerca di altre facce conosciute, ma a parte a loro due non vi era nessun altro, nemmeno Rebecca. Non si stupì più di tanto: l'italiana non era mai stata una grande fan di quello sport. Però era un peccato, avrebbe potuto fare loro compagnia, in fondo erano compagne di classe. Si concentrò sul rettangolo verde: i ragazzi si stavano riscaldando. Miles era con Lance a fare gli esercizi di stretching. Il capitano era furbo. Aveva capito dove Abigail voleva andare a parare, il giorno della sfuriata, ma aveva fatto finta di nulla. Riusciva ad essere un completo stronzo durante la vita di tutti i giorni, ma quando si trattava di andare sul personale faceva sempre marcia indietro. Aprì il pacco di patatine e iniziò a mangiarle senza ritegno. Quando era nervosa mangiava. Avrebbe volentieri preso a pugni April. Aveva rovinato tutto. Dopo quella scenata con la coach, era stata sospesa dagli allenamenti per qualche giorno. Devi schiarirti le idee Abigail. Tornerai quando sarai tornata in te stessa. le aveva detto. Che palle! Che palle! Che palle!, pensava masticando voracemente. Come se non bastasse non aveva nemmeno capito il suo stato d'animo, nessuno l'aveva capita, nemmeno quell'idiota di Miles. Avrebbe voluto iniziare ad urlare, ma il cibo la stava aiutando a sfogarsi.

"Ma fra quanto iniziano questi?" chiese Katerina grattandosi la testa da un lato. Tutto ciò che non fossero pallavolo o cibo l'annoiavano. "Dammi delle patatine."

"Non lo so, basta che si sbrighino: non voglio passarci la giornata qua." asserì infastidita il libero.

Katerina inarcò un sopracciglio. "Datti una calmata, ci sei voluta venire tu qua."

Abigail sospirò. Che palle! Non contraddire la russa o ti spacca la faccia, pensò. Non voleva vedere Katerina arrabbiata, era uno spettacolo orribile. Se il libero sembrava una bulla, Katerina era anche peggio, proprio perché era sempre silenziosa e sulle sue. Accartocciò la carta delle patatine la lanciò nel cestino a fianco dei gradoni facendo canestro. Quando rialzò lo sguardo, la sua poca pazienza era andata a farsi benedire. April era venuta ad assistere alla partita, contro ogni sua aspettattiva. Abigail, conta fino a dieci!, pensò il libero cercando di stare calma.

"Oh! Ci sei anche tu." disse con sufficienza il capitano della squadra di pallavolo mentre scendeva i gradoni.

"Tsk! Tu, invece, perché non sei dal parrucchiere? Visto che stare zitta e ferma è il meglio che sai fare?" sbottò con tono acido la mora.

April ghignò. "Almeno io so fare un passaggio, tu invece sembri un po' impedita. Se non sai reggere la pressione è meglio che lasci perdere." rispose l'altra con tono superiore prima di andare a sedersi in una postazione libera con le sue amiche.

Abigail stava per andarle dietro e tirarle un pugno, ma venne afferrata per la maglia da Katerina. "Ma sei scema?" sbottò la sua migliore amica.

Il liberò roteò gli occhi per il disappunto. "Devo spaccarle la faccia." rispose con tranquillità.

"Non in pubblico, altrimenti addio pallavolo."

Sbuffò esasperata. L'amica aveva ragione. Posò lo sguardo sul campo; i ragazzi erano rientrati negli spogliatoi. "La partita sta per iniziare, andiamo a sederci."

"Quanti pacchetti ti sono rimasti?"

*

"Non giocherai."

Quelle parole dette da Stan con un tono strano, tra il dispiaciuto e il duro, lo sconvolsero. Non era ancora abbastanza maturo da poter dire: ok, è la decisione del coach. Nonostante i suoi diciotto anni, Leeroy era ancora infantile e permaloso come giocatore. Continuava a voler la fetta più grande del dolce e il suo posto in campo. Era egoista ed egocentrico con la vita totalmente dedicata al calcio, senza sarebbe morto.

"Come sarebbe? Che vuol dire?"

Il coach lo aveva preso da parte con la scusa di dovergli dire qualcosa di importante, sospettava che ci fosse qualcosa sotto, ma quello era troppo. Aveva pagato per tutti i danni che aveva causato, perché dovevano infierire ulteriormente?

"Vuol dire che stai in panchina, al tuo posto andrà Julio per oggi..." fece una pausa, "per adesso."

"Julio è un attaccante, la sua conoscenza di gioco si blocca nella metà campo avversaria." sbottò incredulo e avvilito.

"Rogers smettila, sono io a prendere le decisioni, non tu. Lo farai quando avrai una tua squadra, quindi per ora adeguati." lo rimproverò ancora l'uomo.

Il giovane trattenne a stento un'imprecazione tra i denti. Quella era l'occasione buona per mostrare ad Oliver e a Lance che le cose erano cambiate e invece si ritrovava seduto e impotente.

A che serviva andare d'accordo con il portiere se poi non poteva giocare? Fanculo, pensò. Stan lasciò il ragazzo solo nella sala adibita ad infermeria e tornò dagli altri. Non appena la porta si richiuse alle spalle dell'uomo il difensore prese una sedia che si trovava lì e la lanciò contro il muro urlando. Era un incubo!

*

Stan tornò nello spogliatoio assieme agli altri giocatori, non si aspettava di vedere Leeroy tornare subito dopo di lui. Sospirò rassegnato, era stata l'unica cosa da fare. Quel ragazzo doveva imparare a doversi sudare le cose perché nulla veniva regalato, soprattutto se non vi era della buona volontà da parte sua nel migliorare. Ora, almeno, non litigava più con il portiere; vedeva che si limitavano a sguardi o a brevi cenni con la testa. Era già un inizio, ma in una squadra serviva complicità e quei due per ora non l'avevano. Leeroy non aveva problemi con gli altri giocatori, specie con gli altri difensori; anzi, erano molto affiatati. Ma con Lance si capiva che era diverso; si odiavano dal profondo del cuore. Anche lui, da giovane, aveva avuto problemi del genere, ma non era mai stato una testa calda come il terzino. Prese un respiro profondo e diede la notizia. Sapeva che il malumore non avrebbe fatto che aumentare tra quelle fila. Perché nonostante Leeroy fosse un piantagrane era ben visto come giocatore e tassello della squadra.

"Rogers non giocherà oggi. Gomez, vai al suo posto. Per il resto non cedete alle loro provocazioni e tutto filerà liscio." disse frettolosamente come se stesse dicendo una cosa di poca importanza.

Lo spagnolo saltò in piedi stralunato. "Cheee?!"

"E' un attaccante, al massimo può andare al posto di Akel, a che serve in difesa?" domandò Miles. Non sopportava quando Stan faceva delle sceltr azzardate, e quella era semplicemente inaccettabile.

"Ehi!" brontolò Julio per il commento del capitano.

"Seriamente Julio, come difensore fai schifo. Metti un altro, o meglio lascia Leeroy, così è andare al macello." replicò più infuriato che mai Reginald.

"Basta con queste cavolate. Andate in campo a scaldarvi. Non voglio più sentire fiatare su questo argomento.”

I giocatori uscirono in silenzio dal locale con l'umore più nero di quando vi erano entrati. Daniele afferrò Akel per un braccio prendendolo in disparte. "Seriamente, a sto giro faremo la figura dei principianti. Come se non bastasse Leeroy sarà incazzato nero, spero solo che rimanga e che non faccia il matto."

Il turco sospirò. "Lo so. Ma non dobbiamo partire già con l'idea di non farcela, soprattutto te. Rilassati."

"Lo so, ma la vedo dura dopo questa trovata geniale." sbottò Daniele enfatizzando l'aggettivo.

*

Lance era rimasto immobile, quasi inespressivo, nel momento in cui Stan aveva annunciato la notizia. Da una parte si era sentito sollevato, dall'altra invece insoddisfatto. Non sapeva quale delle due sensazioni prevalesse. Aveva seguito gli altri fuori senza battere ciglio, si era sentito frastornato.

"Forse può tornare a nostro vantaggio." commentò Miles sovrappensiero.

Il portiere lo guardò senza sapere cosa rispondere; quella era una bella incognita.

"Non mi interessa." mentì in risposta, beccandosi un'occhiataccia dall'amico. "Ascolta, non è il momento di discutere." cercò di smorzare la questione il rosso. Si avviarono in testa alla squadra per fare qualche giro di riscaldamento. L'altra squadra stava facendo lo stesso ma nell'altra metà campo. Miles guardò verso gli avversari, gli sembravano molto tranquilli. "Che rabbia, la cosa non li tocca nemmeno."

Lance si girò a sua volta in ricognizione. Vide Sanders ricambiare lo sguardo e salutarlo con un cenno della mano accompagnato da un sorrisetto tutt'altro che di buono auspicio.

"Spero che si rompa una gamba." borbottò Miles.

"Ci pensano già Akel e Daniele a mandargli gli accidenti."

Al capitano scappò un riso isterico. "Che palle! Che palle!Alla fine della giornata avrò i nervi a pezzi!"

Poco più in là, un Leeroy a dir poco furente e funereo faceva la sua comparsa nel campetto e prendeva posto sulla panchina della squadra senza neanche guardare l'allenatore e gli altri. Non avrebbe accettato la cosa così facilemente, ma dal momento che non avrebbe giocato a cosa gli sarebbe servito il riscaldamento?

*

"E' strano, manca qualcuno.." disse ad un certo punto Katerina dopo aver dato un'occhiata veloce al campo. L'amica inarcò un sopracciglio, alzando poi lo sguardo dal cellulare per portarlo al rettangolo verde. La russa aveva ragione, erano rientrati con qualcuno di meno. Mancava Leeroy. Si chiese se avesse avuto qualche imprevisto, non potevano giocare senza di lui. Per il momento decise di non preoccuparsi molto, magari era solo in bagno. Ma quando vide tutti schierati nelle loro ostazioni per il calcio d'inizio e Julio al posto del difensore quasi non urlò all'allenatore per lo sgomento.

"E' scemo?! O inizia a sentire l'età che avanza?!" quasi urlò Abigail Twain a quella vista precipitandosi come una pazza alla ringhiera degli spalti. "Staaan! Che è sta roba? Ci vuoi morti?!" continuò ad urlare in direzione dell'allenatore attirando molte occhiatacce da parte degli altri spettatori. Katerina si coprì il volto con le mani per la disperazione.

Miles, che la sentiva urlare come una pazza, abbassò lo sguardo per l’imbarazzo. Fortunatamente per loro l’arbitro le fece segno di calmarsi.

“Che palle! Che palle!” sbraitò la ragazza tornando a sedere grattandosi le tempie infastidita. “Datti una calmata!”

l’apostrofò la russa.

“Non arriverò alla fine della giornata.” Sospirò mentre stropicciava i bordi della maglietta. Katerina sbuffò in tutta risposta lasciando perdere l’amica.

“Guarda!” disse quasi sbalordita la schiacciatrice. Abigail guardò verso la metà campo avversaria. Miles era riuscito subito a rubare la palla all’altro centrocampista e a passarla ad Akel che in quel momento avanzava verso la porta.

*

Le gambe gli tremavano come ogni volta prima di dover prendere posto sotto la rete. Conosceva bene l’importanza o meglio la responsabilità che richiedeva il suo ruolo. Lo sguardo gli scappò verso la panchina. Il difensore migliore della squadra stava seduto a gambe divaricate sostenendosi la testa con i palmi delle mani. Gli faceva una tristezza immensa. Leeroy non poteva lamentarsi alla fine della giornata, doveva prendersi le sue responsabilità, o almeno doveva iniziare a farlo, ma il solo pensiero di ritrovarsi al suo posto gli fece salire un conato di vomito. Istintivamente inghiottì a vuoto. Non doveva pensare a terzi ma solo al pallone e a Sanders.

Dopo il calcio d’inizio Akel e Daniele erano quasi riusciti a segnare. Gli avversari non erano certo rimasti con le mani in mano, stavano tutti dando del filo da torcere a Julio, che fino a quel momento non se l’era cavata male tutto sommato. Lo spagnolo purtroppo non era all’altezza dell’inglese in quel ruolo, e ogni membro della squadra lo sapeva, ma non lo aveva ancora realizzato fino a quel momento. A breve cederà, pensò Stark amareggiato. A breve sarebbe toccato solo a lui difendere la porta. Gli altri tre difensori erano marcati a uomo e gli avversari non avrebbero lasciato loro nemmeno il tempo di respirare. Come resistenza fisica siamo ancora inferiori, dannazione! Imprecò mentalmente Lance, mordendosi nervosamente il labbro inferiore.

*

Vedere i suoi compagni giocare senza di lui nel rettangolo verde era la peggiore delle torture a cui potesse essere mai sottoposto in vita sua. Non riusciva a pensare a nulla di peggio. I ragazzi che erano rimasti in panchina con lui non la smettevano di fare il tifo, mentre Leeroy se ne stava seduto immobile, quasi pietrificato. Dentro di lui un mare in tempesta si abbatteva impetuoso, provocandogli una specie di nausea. Lo sguardo assottigliato, attento, concentrato sulla partita, anche se apparentemente i suoi occhi sarebbero sembrati vitrei a quelli di un altro. La partita si trovava in stallo. Julio riusciva con estrema fatica a difendere il suo pezzo di terreno, e gli avversari si abbattevano su di lui senza alcuna pietà. Se ci fosse stato lui non si sarebbe mai fatto scartare a quel modo da quell'idiota di un americano. Sprofondò nella panchina massaggiandosi le tempie continuando a mantenere lo sguardo fisso sul campo.

*

Miles non se la passava meglio. Uno dei due gemelli, alias i due centrocampisti avversari, gli stava attaccato come una piattola, non lo lasciava nemmeno respirare. Quel ragazzino, nonostante fosse più giovane, non scherzava. Riusciva a malapena a tenere il pallone per qualche secondo prima che l’altro glielo rubasse. Samuel, così si chiamava, aveva una risata veramente fastidiosa e un ghigno di compiacimento stampato in faccia che non aiutava di certo a far stendere i nervi del capitano, già al limite.

La Collins riusciva a resistere agli attacchi dell’altra scuola ma solo per poco ancora. Bastava un passo falso, un movimento troppo veloce o troppo lento da parte dei bianco azzurri e si sarebbero giocati lo zero a zero.

Sanders arrivò di fronte a Julio con non troppa fatica, ma lo spagnolo non aveva intenzione di farsi fregare. Fu addosso all’americano cercando di sottrargli la sfera senza successo; corse in suo soccorso Nicholas, dopo aver compiuto un veloce scatto per liberarsi dal suo uomo. Riuscì a prendere possesso palla e con un lungo passaggio la diede a Miles. Oliver e Nicholas si scambiarono uno sguardo intenso.

“Avete avuto fortuna per ora. Ne riparleremo tra poco” disse l’americano dopo aver fatto l’occhiolino ai due difensori.

Julio lo guardò in cagnesco cercando di non mandarlo al diavolo. “Che cazzo ci faccio, io, in difesa? Voglio saperlo, porca puttana!” sbraitò Gomez. Non era bello sentirsi incapaci e con le aspettative di tutti che gravavano su di lui.

“Stai buono. Fai quello che puoi, è solo un’amichevole.” Nonostante Nicholas sapesse che tra il dire quelle parole e il metterle in pratica, ci fosse un abisso, doveva comunque cercare di tenere vivo lo spirito dell’amico.

*

Leeroy era ormai accartocciato su se stesso sulla panchina masticando senza tregua la parte interna delle guance quasi fossero gomme e strofinandosi la nuca nervosamente. Seguiva i movimenti dei giocatori e il pallone come farebbe un gatto con un raggio di sole sul pavimento. Gli occhi guizzavano da una parte all’altra del campo senza sosta. I muscoli del corpo si tesero tutti nello stesso istante, mancavano pochi secondi alla fine del primo tempo. Sanders si era liberato con una facilità incredibile di Miles e Drew puntando subito all’anello più debole della catena: Julio. Questa volta Nicholas non fu abbastanza veloce; Oliver scartò lo spagnolo e tirò dritto in porta. Per l’americano fu più facile di bere un bicchier d’acqua. Quei ragazzi non erano ancora al suo livello, o meglio l’unico in grado di fermarlo era in panchina a rodersi il fegato. Sorrise. La palla sarebbe entrata in porta senza che il portiere l'avesse potuta bloccare.

Lance aveva già intuito la mira dell’attaccante avversario, gli sarebbe bastato rimanere fermo ad aspettare, ma l’americano fu troppo veloce nel cambiare le carte in tavola. Il portiere si fece avanti troppo tardi riuscendo però a deviare la palla con il piede destro. Nell’azione improvvisata, però, perse l’equilibrio e cadde sull’erba con un’ imprecazione sulla punta della lingua. Appena la palla rimbalzò lontano dal piede di Lance, Oliver la colpì e fu goal.

“Che cazzo fai?” urlò Leeroy nello stesso istante in cui Lance uscì dalla porta per andare a bloccare la palla.

“Rogers, stai al tuo posto.” Lo riprese Stan con tono duro e arrabbiato, anche lui, come il difensore aveva capito lo sbaglio del portiere con quell’azione.

Lance si rialzò con l’aiuto di Julio e nello stesso istante in cui alzò lo sguardo. incontrò quello accusatore del difensore relegato in panchina. Rimase come spaesato per una frazione di secondo, riprendendosi però in pochi istanti. Quel contatto tra i due giocatori, anche se era durato un niente, aveva mandato forte e chiaro: Non fare altre cazzate!

Al portiere scappò un mezzo ghignò e si strofinò gli occhi chiedendosi se davvero avesse bisogno di quel cretino per rendere bene in partita. I suoi pensieri vennero però disturbati da un Julio esasperato. “Lance, è colpa mia, non riesco in questo ruolo!”

“Non mi interessa. Stai attaccato al culo di quello stronzo come se non dovessi arrivare alla fine di questa partita”, sentenziò. “E fammi il piacere di non fartela sotto quando lo vedi.”

*

“Roy! Roy!”

“Leeroy… Muoviti!”

Non sentiva nulla, la voce di Stan veniva risucchiata dalle voci dei giocatori in mezzo al campo che chiamavano la palla.

“Porca miseria, Rogers! Alza il culo da quella panchina e inizia a riscaldarti!” sbraitò l’allenatore. Era impossibile che quel ragazzo creasse agitazione anche stando fermo e zitto.

Il difensore scattò in piedi come una molla tutto d’un tratto, come risvegliato da un sonno profondo durato anni. Non riusciva ancora a credere alle parole dell’allenatore. Era stupito e confuso allo stesso tempo ma non gli importava più nulla ormai. Non appena il suo cervello aveva elaborato quell' alza il culo la sua testa era entrata automaticamente in campo. Poteva giocare finalmente, non gli interessava se mancavano dieci minuti alla fine della partita. Non gli interessava se avrebbero perso, voleva solo entrare in campo e misurarsi con Sanders.

*

Lance notò del movimento dalla loro panchina. Si chiese cosa stesse succedendo. Che Stan avesse qualche brillante idea? Oppure stava solo litigando con Leeroy? Fu distratto dalla voce di Julio che lo avvertiva di fare attenzione all’altro attaccante, un ragazzino che doveva essere uno dei nuovi giocatori della Ravensburg. Non solo Sanders era un osso duro, ma pure gli altri membri della squadra non erano da meno. Non sapeva cosa fare, si sentiva come nudo senza Leeroy in campo. Era una sensazione fastidiosa. In quel momento si sentiva vulnerabile più che mai come portiere. Maledì il numero tredici per i suoi modi di fare e l’allenatore per averlo tolto dalla squadra durante quella partita. L’ avversario gli si parò nuovamente davanti, con Julio che cercava di fermarlo senza riuscirci, e lui si sentì per un momento perso. L’attaccante calciò la palla nell’angolo in basso a sinistra. Il portiere si lanciò solo dopo un momento di esitazione. Arrivò per un soffio a bloccare la palla tra il petto e l’erba. Il cuore gli batteva all’impazzata sia per la fatica che per la pressione psicologica. Aveva bisogno di aiuto. Non poteva fare tutto da solo. Il fischio dell’albitro che chiamava il cambio lo fece sobbalzare. Alzò lo sguardo istintivamente verso la panchina. E lo vide. In piedi di fianco a Stan, che si contorceva le dita dalla gioia, gli occhi persi nel verde del campo. Lee!

Si tirò immediatamente in piedi con uno scatto improvviso, facendo quasi spaventare lo spagnolo che era andato per aiutarlo a rialzarsi. “Che ti prende?” domandò stupito.

“Ora sono cazzi per tutte e due le squadre!” quasi sghignazzò il rosso.

“Che?!” chiese ancora sbalordito Julio, non capendo a cosa si stesse riferendo l’amico fino a che l’arbitro non gli fece il segno di uscire.

Tutti in campo si girarono verso Leeroy, quasi fosse un fantasma.

“Finalmente iniziamo a fare sul serio.” disse tra se e se Sanders senza nascondere un sorrisetto compiaciuto.

Leeroy dal canto suo non percepiva neppure un solo sguardo se di se. Era troppo concentrato, troppo entusiasta. Stavolta sarebbe andata meglio.

*

Dagli spalti Abigail saltò in piedi eccitatissima urlando tutto il suo entusiasmo. “Staaaan! Ti amooo! Alla fine hai capito che senza quel cretino in difesa facciamo schifo!”

“E datti una calmata.” sbottò esasperata Katerina. Quanto mancava alla fine della partita?

“Daniele, Akel, non fate cazzate, voglio l’uno a uno!” continuò a sbraitare la ragazza.

I ragazzi dal canto loro trovavano tutto ciò imbarazzante, soprattutto Miles, che ostinava a nascondersi dietro i giocatori avversari per non farsi vedere dalla ragazza.

*

Diede il cinque a Julio e corse immediatamente nella sua posizione senza guardare nessuno, nemmeno il portiere. Non poteva pensare a quanto non sopportasse Lance in quel momento, doveva guardare avanti. Era calmo e pronto. Ripresero subito a giocare. Stark gli passò la palla senza nessuno dei suoi soliti commenti bastardi, se non con uno strano sguardo compiaciuto in viso, che Leeroy non notò in quel momento. Non fu Sanders a farsi avanti ma l’altro attaccante, Thorne, che gli si attaccò subito addosso peggio di una figurina. Con due finte però, Leeroy fu di nuovo libero; era troppo veloce per quel ragazzino. Arrivò a metà campo e vide Miles solo, ma l'altro dei due gemelli Grant, che se non ricordava male si chiamava Maximilian, andò subito a marcarlo. Alla sua destra Sanders arrivava per rubargli la palla e alla sinistra arrivava l’altro gemello. Non ci pensò troppo, andò avanti. Passò la palla a Daniele con un lancio lungo, che finì dolcemente tra i suoi piedi. All’italiano per poco non venne da piangere: quasi nessuno in squadra era dotato di una precisione simile. Appena si girò ebbe nuovamente a che fare con due dei difensori della Ravensburg. Akel era troppo lontano, non sarebbe riuscito a passargli il pallone senza farselo fregare.Dietro di se vide Bartosz correre come un pazzo seguito da Charles Laurent, uno dei centrocampisti avversari. Gli passò la palla senza nemmeno pensarci e questo con un tiro lungo provò a buttarla in porta.

“Dannazione!” berciò Miles. “Pensa prima di tirare, non fare come ti pare!” urlò in tono di rimprovero al giovane.

“Ehi! Chiudi il becco, ci ho provato! E' un’amichevole, non abbiamo nulla da perdere!” rispose tranquillamente il polacco. Sapeva che la palla non sarebbe mai entrata, ma tanto valeva fare pressing psicologico sull’avversario. I nervi prima o poi saltano a tutti!

La palla venne passata a Maximilian dal portiere e subito dopo a Sanders che si trovava già nella metà campo avversaria. Leeroy e Drew gli furono addosso senza pochi ripensamenti. “Principessa, hai bisogno di aiuto contro il cattivo di turno?” scherzò Oliver. “Evita certe puttanate ora!”, lo riprese Drew. Leeroy lo ignorò, aveva bisogno di silenzio nella sua testa. Bloccò ogni possibile via di fuga dell’avversario. Un sorrisetto infastidito si dipinse sul viso dell’americano. “Basta con queste cazzate!” sbottò il moro prima di scattare nuovamente verso la porta avversaria. Drew fu troppo lento e rimase indietro, ma Leeroy gli si parò nuovamente davanti dopo un millessimo di secondo . “Dove cazzo vai?” chiese divertito.

“Principessa, vedo che sei migliorata.”

Erano sempre più vicini alla porta, Rogers doveva fare subito qualcosa per evitare il due a zero. Drew arrivò in quel momento alle spalle dell’americano, che però lo scartò senza problemi. Oliver iniziò a farsi strada fino alla rete trascinandosi dietro il difensore. Leeroy non provò a trattenerlo per la maglietta ma aspettò il momento prima che tirasse e con un tocco di piede la palla finì a Drew, il quale corse subito nella parte opposta del campo senza pensarci due volte. Passò la palla a Bartosz, che a sua volta la passò a Miles che venne subito marcato dal gemello di turno. “Avete rotto le palle.” Sbottò prima di iniziare a correre come un disperato e lanciare la sfera ad Akel, che si trovava a una ventina scarsa di metri dalla porta della Ravensburg. Il turco si fece più indietro, stoppò il pallone e lo tirò in porta, dritto al sette. Il portiere avversario l'aveva vista troppo tardi, non si aspettava un tiro da quella distanza.

Il primo ad esultare fu Daniele che con un Ti amo! gridato a squarciagola, saltò addosso all’amico che a sua volta stava saltando di gioia.

*

“Akel, grazie a Dio hai mosso il culo!”, urlò dagli spalti Abigail. “Stan, che ti avevo detto? Visto che differenza con quel cretino di Leeroy in campo?!”

Il diretto interessato guardò verso i gradoni con sguardo truce. Vide la ragazza esultare come poche volte gli era capitato. Lui era indispensabile, lo aveva sempre saputo, e anche gli altri lo sapevano. Ma fino ad ora solo quella pazza della ragazza del capitano lo aveva ammesso liberamente. Questo gli dava da pensare quanto potesse essere stronzo ed egocentrico.

Lance non esultò, quella era solo un’amichevole, il bello doveva ancora iniziare. L’arbitro fece segno che avrebbe dato altri cinque minuti di gioco supplementari. Ciò che fece rabbrividire il portiere fu avere la prova autentica che senza Lee la squadra non avesse possibilità.

“Ehi, ehi! Non prendetevela con così tanta calma, ci sono ancora cinque minuti” ghignò Oliver in direzione del suo rivale.

*

Mancavano solo i cinque minuti di recupero alla fine della partita. Abigail osservava i giocatori stritolando la maglietta di Katerina e gridando accidenti ai ragazzi della S. Collins per gli errori che facevano.

"Ti vuoi dare una calmata!?" sbraitò la russa, ormai al limite. Sin dall'inizio il libero non aveva smesso di agitarsi o urlare frasi incomprensibili in direzione del campo da gioco. Sicuramente alla fine della giornata avrebbe avuto un gran mal di testa, e tutto grazie a quella fanatica.

"Taci, hanno la possibilità di vincere! Se magari Reginald facesse dei passaggi decenti!" urlò enfatizzando molto il nome del ragazzo.

Katerina si strofinò la testa per la disperazione, aveva bisogno di un po' di tranquillità.

"Ma non è ancora finita?"

L'unica a girarsi fu la russa mentre la ragazza inglese sembrava vivere su un altro pianeta.

"Ciao Rebecca." la salutò tranquilla.

"Sono venti minuti che aspetto nel parcheggio quel disgraziato di mio fratello. Quando esce dal campo, se non è morto per la fatica, lo ammazzo io." commentò accomodandosi vicino all'attacante della squadra di pallavolo. L'italiana era molto nervosa: doveva tornare a casa presto per studiare. Quell'idiota di suo fratello l'aveva praticamente pregata di passare a prenderlo per accompagnarlo a casa, ma si era visto bene dal darle l'orario giusto.

Rebecca notò il sacchetto pieno di cibarie ai piedi della ragazza bionda così domandò: "C'è qualcosa da mangiare?"

"Fame isterica?" chiese Katerina tirando fuori ciò che le era stato chiesto.

"Si," rispose artigliando il cibo.

Intanto Abigail continuava ad urlare ai ragazzi di non combinare pasticci proprio ora che le cose stavano andando nel verso giusto.

"Come può essere così esagerata?" chiese l'italiana.

"Perché non hai visto che ha combinato alla nostra amichevole."

Rebecca lasciò perdere l'amica e tirò fuori il cellulare per vedere l'ora; era davveri tardi, non avrebbe nemmeno lasciato il tempo a Daniele di farsi la doccia. Appena sarebbe finita la partita sarebbero andati a casa a costo di prenderlo per i capelli.

La sua attenzione venne catturata da dei risolini alla sua destra in lontananza. Quelle ragazze le conosceva. Una doveva essere il capitano della squadra di pallavolo, chissà che avevano così tanto da ridere? Odiava quel tipo di persone. Le vide girare la testa nella loro direzione e poi riprende a ridere come delle vecchiette ad un circolo di cucito.

"Ma che problema hanno quelle oche?" chiese a Katerina, infastidita.

"Diciamo che si divertono a rompere le palle ad Abigail."

"Che rottura, stanno venendo qua.” sospirò la russa, vedendo il gruppetto alzarsi ed avvicinarsi.

Rebecca alzò lo sguardo in direzione di quelle ospiti indesiderate, quella non era giornata. Si alzò in piedi a fronteggiarle con sguardo furente stupendosi che quelle non fossero già scappate.

“Ci chiedevamo…” iniziò April dopo un momento di silenzio, si era sorpresa di vedere la sorella di Daniele alla partita. “…verrai alla festa di sabato prossimo con tuo fratello?”

Rebecca sollevò un sopracciglio in segno di disappunto. “Ma anche no! Io non esco con mio fratello e i suoi amici.”

Al capitano sfuggì un risolino quasi isterico. “Se non esci con i suoi amici che ci fai con loro?”

“Ti sembrano maschi?” rispose l’italiana sempre più irritata. April lanciò una veloce occhiata di sufficienza in direzione di Abigail. “Beh, lei non sembra la femminilità fatta persona.”

A quella risposta il libero non ci vide più dalla rabbia e caricò un pugno nella direzione dello zigomo destro del capitano. Katerina però la bloccà in tempo. “Lasciami.”, soffiò Abigail.

Le altre ragazze iniziarono a ridere senza ritegno, beffandosi della compagna di squadra. “E poi dovrei aver torto? Non vedi che è una testa calda? Deve andarsene dalla squadra”, replicò April continuando a ridere facendo così aumentare la rabbia del libero che continuava a dimenarsi nella presa della schiacciatrice. “Hudson, vai a rompere da un’altra parte, su un’altra galassia magari. Non capisco ancora come una persona ispida come te possa essere capitano.” ribattè la russa.

“Ma tornatene in frigo, Polaretto.” sibilò April sentendosi punta sul vivo e, non sapendo cos'altro ribattere, fece per andarsene. Urtò volontariamente Rebecca per attraversare lo spazio che la separava dalle scale, e l’ italiana con molta disinvoltura portò leggermente in avanti il piede destro. La ragazza andò a sbattere come un peso morto sul cemento, di faccia, facendo riecheggiare un urletto stridulo per gli spalti che accompagnò il lungo fischio di fine partita.

Rebecca a quel punto si girò senza nemmeno curarsi dell’ accaduto verso il campo da calcio dicendo: “E’ finita, andiamo?”

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Capitolo 7
*** Capitolo 7 ***


The last chance
VII

L’amichevole era andata meglio quanto i ragazzi della S.Collins si aspettassero. L’unico a pensarla diversamente era Stan, e non era il solo. Non era ancora abbastanza. Lance era ormai dell’opinione che se Leeroy avesse giocato sin dal principio, la partita sarebbe andata diversamente. L’allenatore era negli spogliatoi assieme a tutti i suoi ragazzi e li stava rimproverando.

“Si poteva fare meglio. Tutti potevate fare meglio, soprattutto tu, Julio. So che sei un attaccante, ma quando ti dico di giocare come difensore, tu devi farlo, e non lamentarti con il portiere”, asserì con aria grave al giovane spagnolo. Il ragazzo si sentì punto sul vivo e si tirò in piedi con un’espressione in viso a metà tra l’imbarazzo e la rabbia.

“Scusa Stan, ma fino ad ora mi ha sempre allenato come attaccante, della difesa conosco solo la teoria”, parlò tutto d’un fiato.

Stan si massaggiò una tempia, esasperato dalla poca volontà di quei ragazzi.

“Ascolta… tecnicamente e fisicamente puoi fare entrambi i ruoli. Quello che ti manca è la volontà. Dalla prossima volta ti faccio allenare con Leeroy.”

Julio guardò l’uomo stupito e tornò a sedersi. Rogers inarcò un sopracciglio a sua volta, stupito, domandando: ”Devo fare da balia a Gomez?”

“Tu sei l’ultimo che deve parlare, o anche provare a lamentarsi”, lo fulminò con lo sguardo l’allenatore, suscitando le risate dei compagni, persino quella di Lance.

“A proposito di balie…” continuò l’uomo, dopo aver fatto segno ai ragazzi di fare silenzio.

“Quelli che di voi disgraziati hanno delle insufficienze, saranno affinacati da una balia”.

Molti dei giocatori si sentirono tirati in causa; anche Leeroy, nonostante al ragazzo non importasse nulla del suo andamento scolastico.

“Roy-Roy, sei nella merda!” lo apostrofò Daniele, ridacchiando accanto a lui. L’inglese lo ignorò senza problemi.

“I vostri professori, che andrebbero fatti santi, tra parentesi, mi hanno pregato, quasi supplicato di fare qualcosa con le vostre teste vuote. Chi ha più di un’ insufficienza verrà aiutato da un compagno della squadra. Chi però non ne recupererà nemmeno una non potrà più disputare partite con la squadra. Ci siamo intesi?” domandò infine.

Tutti i ragazzi provarono ad aprire bocca per replicare, ma Stan li bloccò sul nascere con una sola occhiata. “Non voglio discussioni, e non voglio capre nella squadra, quindi muovete il culo e dateci sotto. Ora andate a casa, ci si rivede per l’allenamento di domani.”

Tutti annuirono senza protestare.

“Tu aspetta ad uscire!”

Leeroy si fermò senza stupirsi più di tanto, sapeva che Stan aveva quasi sempre qualcosa da dirgli,

*

Aprì la porta di camera sua, e appena dentro, lasciò cadere il borsone assieme alla felpa e alle chiavi di casa sul pavimento, lasciandosi sfuggire un sospiro abbattuto. Quel periodo era stato sfiancante per Leeroy, e il peggio era che non fosse ancora finito. Dopo l’ annuncio di Stan a proposito delle materie scolastiche e le insufficenze si sentiva peggio di un disperato. Si buttò sul letto e quasi conficcò la testa nel cuscino, senza trattenere un gemito di esasperazione. Sua madre, grazie al cielo, non era ancora rientrata a casa. Non le avrebbe detto nulla riguardo al suo andamento scolastico, in fin dei conti neppure lui stesso era a conoscenza dei reali voti. Il giorno seguente avrebbe visto i risultati, fosse era per quello che si sentiva così palesemente in ansia. Forse per la prima volta nella sua vita. Come se non bastasse, l’ idea di essere seguito negli studi da uno dei compagni lo infastidiva. Non voleva apparire stupido, non era un tipo tutto muscoli e niente cervello, ma sicuramente era quella l'impressione che dava. Sospirò nuovamente. Il cellulare squillò in quel preciso istante; il fatto che qualcuno lo cercasse lo infastidì ancora di più. Bloccò la chiamata senza neppure guardare chi fosse. Al diavolo tutti, pensò. Il telefono riprese a suonare. Aspettò che chiunque fosse si stancasse, ma fu solo tempo perso. Alla fine si tirò su di scatto facendosi scappare un’imprecazione. “Pronto!?” chiese con tono tutt’altro che amichevole.

“Oh, alla fine hai risposto! Dove sei?”

Chi poteva essere se non Daniele? Sospirò esasperato. “A casa, nel mio letto. Vorrei dormire”. Udì altre voci dall’altra parte della linea. Sicuramente era con gli altri in qualche bar a festeggiare. Almeno lui non ha problemi coi voti, pensò amareggiato. “Adesso non stare a pensare ai voti coglione, vieni al Royal Owl. Non fare il depresso!”

“Fanculo, Daniele!” sbraitò e riattaccò il telefono in faccia all’amico. Si alzò dal letto con uno scatto e recuperò il mazzo di chiavi da terra, deciso a raggiungerlo a quel maledetto bar.

“Ehi puffetto, sei a casa?”, si sentì chiamare dalla voce di Amanda, al piano terra. Doveva essere appena arrivata. Un buon motivo per uscire di casa, riflettè il ragazzo, che ormai aveva sceso le scale ed era a pochi passi dall'entrata, dove si trovava ancora sua madre.

“Esco, a stasera!” disse velocemente, superando la donna e uscendo di casa senza voltarsi.

“Ma tesoro, la partita?” chiese un po’ delusa, voleva che il figlio le raccontasse qualcosa.

“Pareggio!” si limitò a rispondere, per poi chiudersi la porta alle spalle.

Amanda rimase per un po’ a fissare la porta senza un’espressione ben precisa in volto. Sospirò e disse a se stessa: “Ha diciotto anni, devi lasciargli i suoi spazi, non fare la madre invadente!”. Buttò poi la borsa sulla poltroncina all’ingresso di casa e si diresse in cucina.

*

In venti minuti fu davanti alla porta del locale dove si trovavano i ragazzi, non molto distante dalla loro scuola. Non aveva alcuna voglia di entrare.

“Ehi, Roy!”

Abigail era appena scesa dalla parte del passeggero di un’auto, sicuramente del fratello o di uno dei genitori.

“Tutto bene?”, chiese il ragazzo per cortesia.

La ragazza assottigliò lo sguardo, sospettosa e irritata. “A cosa ti riferisci?”

“Stai calma!” fece in risposta a quella reazione. “Era per dire, poi se maltratti le tue compagne di squadra e il nostro capitano non sono affari miei. Anzi, mi fai un po’ piacere”, aggiunse, strizzandole l’occhio.

Abigail lo guardò stranita e stupita. “Ci stai provando?”

“Non oserei mai!” rispose, entrando poi nel bar e lasciando la ragazza con le guance lievemente arrossate all’entrata.

I ragazzi erano seduti tutti intorno al tavolo centrale del locale, a bere chi cola e chi birra, discutendo animatamente.

“Non è colpa mia se la prof di arte mi odia, Miles, fattene una ragione! Il mio compito di latino era perfetto, porca puttana! Avevo copiato gli appunti di Abigail, non è possibile che mi abbia dato l’insufficienza!” sentì sbraitare Nicholas.

Reginald picchiettava nervosamente la penna sul tavolino di legno: com’era possibile che l’idiota non capisse il punto della situazione?

“Nicholas ha ragione, ha fatto così pure con me” aggiunse timidamente quello che Leeroy riconobbe come il nuovo ragazzino entrato in squadra, Andrew.

Il capitano sprofondò ulteriormente nella sedia dalla disperazione, arrivando alla conclusione che tutti i suoi compagni fossero un branco di idioti.

“Spero che stiate scherzando! Quella lo sa da chi prendete gli appunti, e sa che non li studiate ma che li copiate palesemente parola per parola, non serve una laurea per capirlo. Datevi una svegliata!” tuonò alla fine, facendo ammutolire tutti.

Leeroy si avvicinò silenziosamente al gruppo cercando di non dare nell’occhio e di non far innervosire più del dovuto il capitano. Prese posto affianco a Julio e Daniele.

“Sei arrivato nel momento migliore. Regi è davvero incazzato questa volta, credo che non la farà passare liscia neppure a Nicholas”, gli bisbigliò l’italiano nell’orecchio, cercando di non farsi sentire e facendosi scappare una risatina. L’inglese gli tirò una gomitata nelle costole. L’attaccante soffocò un gemito.

“Sentite… non voglio prolugare questa pagliacciata, quindi andiamo al punto. Sappiamo già chi avrà dei votacci. Quindi facciamo un bel giochino, come quando eravamo all’asilo, vi va?” disse con voce tagliente, accompagnata da un sorrisetto nervoso.

I ragazzi si sentirono presi in giro dal capitano come sempre, soprattutto Leeroy, che odiava quel tono di superiorità che spesso Miles faceva suo.

La porta del locale si aprì nuovamente, lasciando entrare il libero della squadra di pallavolo femminile. Il discorso rimase in sospeso e cadde il silenzio tra i ragazzi.

Abigail rimase per un attimo interdetta; l’istinto le gridava di scappare, ma la sua testardaggine la portò a camminare con passo da soldato fino al bancone, salutando la squadra ma senza degnare nemmeno di uno sguardo Miles.

“Cosa posso fare per lei, signorina Twain?”, chiese il barista con tono palesemente svogliato.

La ragazza lo guardò di sottecchio. “Fai un bel sorriso ai clienti, altrimenti scappano”.

“Quindi se ti sorrido usciresti con me?”

“Dammi una birra che è meglio”, tagliò corto lei.


Al tavolo la squadra di calcio della S.Collins era piombata in un silenzio imbarazzante, spezzato dopo poco da Daniele.

“Crisi di coppia?”

Scoppiarono tutti a ridere, e sentendosi terribilmente al centro dell’attenzione - ma non nel modo in cui gli piaceva essere di solito, Miles sgridò i ragazzi per recuperare la situazione.

“Non siamo al parco giochi, disgraziati. Datemi un foglio di carta. Roy, vai al bar e fatti dare una ciotola”.

“Ai suoi ordini!”, rispose stizzito e irritato il giovane. Leeroy non doveva nemmeno essere lì quel giorno; in quel momento sarebbe dovuto essere sotto le coperte a dormire. Maledì mentalmente il migliore amico.

Al bancone Abigail non rimase stupita nel vedersi affiancare dal terzino della squadra di calcio.

“Esegui gli ordini dell’idiota?”, domandò seccata. Stranamente si era sempre sentita di poter far trasparire il suo stato emotivo con Roy.

“Non ho voglia di litigare con lui, altrimenti non se ne uscirebbe più oggi. E comunque sia, perché non vai a parlargli? E' rottura di palle per noi della squadra. Quello è completamente rincoglionito, se non gli spieghi le cose non le capisce”, rispose, infastidito da quella situazione ambigua.

La ragazza gli rivolse un'occhiata quasi perplessa, per poi rispondere: “Certo che quando vuoi sai essere intelligente”.

“E smettila di fare la vecchia vedova fredda e acida”, fece lui, assumendo un tono serio e guardandola negli occhi, ma Abigail voltò lo sguardo dall’altra parte, quasi indignata.

“Come puoi non darmi torto?”, chiese inarcando un sopracciglio, sorpreso.

Il cellullare della ragazza squillò in quel momento. “E’ Rebecca. Ci si vede, Rogers”. Dopo aver risposto alla chiamata uscì dal locale per poter parlare meglio con l’amica.

Guardò la coetanea arrivare fino alla porta del locale, la quale si chiuse e riaprì quasi subito, facendo entrare il portiere della squadra. Leeroy notò subito lo sguardo quasi spaesato di Lance in cerca degli amici. Sperò vivamente che il compagno di squadra non avesse nulla a che fare con le brillanti trovate del loro capitano, altrimenti ci sarebbe stato da ridere. Guardò il barista e chiese il recipiente.

“Lance, fortuna che sei arrivato! Non so più come spiegare a questi idioti che i professori non sono dei babbuini e che si accorgono se si copia dagli appunti della migliore della classe”, disse Miles tutto d’un fiato, con tono alterato, mentre si grattava la testa a causa del nervosismo.

Il rosso prese posto vicino al migliore amico iniziando a sghignazzare. “In quanti avete copiato dagli appunti di Abigail?”

“Mi spieghi cosa dobbiamo farci con questo recipiente?” domandò Leeroy di ritorno dal bancone.

“Benissimo, iniziamo. Siediti Rogers, e non aprire bocca che mi girano le palle.”

“Almeno non sono cretino come questi, che copiano per filo e per segno gli appunti nelle verifiche. Per copiare ci vuole arte”

“Ecco, te nemmeno quella conosci, altrimenti non avresti tutte quelle insufficienze”

Daniele e Akel furono i primi a scoppiare a ridere.

Il difensore non aveva proprio voglia di stare a sentire quelle stupidaggini, e soprattutto non aveva voglia di litigare con il capitano, così fece per andarsene.

“Quando avete finito con questa pagliacciata datemi un colpo di telefono”, asserì freddamente, uscendo dal locale.

Gli occhi di Lance non degnarono la scena nemmeno di uno sguardo, troppo impegnato ad osservare ilcmessaggio appena arrivato sul suo cellulare.

“Ma dove cazzo vai?!” quasi urlò Miles.

Una volta fuori dal locale Leeroy mise in moto la macchina e tornò a casa.

*

Era convinto di essere riuscito almeno a strappare una sufficienza scarsa nei compiti di storia, letteratura inglese e latino. Aveva fatto bene i suoi calcoli: era riuscito a copiare qualcosa da Daniele ed era riuscito a sbirciare qualche appunto durante le verifiche. Teneva la testa tra due mani e fissava il bianco del banco di scuola con la disperazione negli occhi. Aveva come un brutto presentimento e cercava di cacciarlo via strizzando gli occhi e mordendosi l’interno della guancia destra. Alla sua sinistra l’italiano non dava segno di preoccupazione, al contrario scherzava allegramente con Akel riguardo a dei programmi televisivi.

La professoressa iniziò a passare tra i banchi e a rilasciare i risultati di tutti e tre i test con tanto di correzione affianco.

Aveva l'orribile sensazione che avesse iniziato dai voti migliori, perché i compiti dei suoi migliori amici erano stati consegnati quasi subito, ed avevano ottime votazioni. Si sarebbe voluto seppellire sotto metri di terra. La testa continuava a sprofondare fino a che non si ritrovò a baciare il banco con le braccia a fargli da scudo.

“Su, Rogers! Non fare il bambino, non avresti problemi a raggiungere la sufficienza, ma se passi la notte davanti ai videogiochi ci credo che strappi a malapena una D”, disse la donna appoggiando i fogli vicino alla mano del ragazzo.

La sua carriera calcistica era finita ancora prima di iniziare, ormai poteva anche rassegnarsi a vivere di rendita con i soldi del casato della madre. Mantenuto a vita, peggio di un “mammone”, come diceva Daniele per prenderlo in giro. La campanella suonò in quel momento.

“A domani ragazzi, e mi raccomando: chi ha le insufficienze deve riportare i compiti firmate entro tre giorni”.

Sprofondò ancora di più in depressione dopo quelle parole.

“Usciamo oggi?”, chiese Daniele, spensierato come al solito.

Leeroy in quel momento avrebbe volentieri spedito l’amico in Italia a calci. “No, oggi non è giornata. Ci si vede domani”, rispose lapidario.

Daniele non ci rimase male: conosceva il carattere testardo e infantile dell’inglese.

“E’ solo un compito, se ti aiutiamo io e Akel recuperi”, rispose scocciato.

“Sì, sì. Ne riparliamo domani”. Non diede nemmeno il tempo di replicare a Daniele che già era uscito dalla classe con i compiti corretti sotto braccio, diretto alla biblioteca.

“Certo che è proprio un coglione”

“Lascia perdere, lo sai come è fatto. Andiamo a mangiare qualcosa dai tuoi prima di andare a casa?”

“Ho un ristorante, non una mensa per i poveri”

*

In biblioteca c'era stato poche volte, ma mai per studiare; solitamente solo per fare fotocopie di appunti che non aveva mai studiato. Era un locale con più stanze, grande ma non abbastanza come si converrebbe ad una vera biblioteca scolastica. Ci stavano sì e no una ventina di persone, e fortunatamente per lui non era molto frequentata. Si diresse verso la sezione di storia, che era quella un po’ più isolata rispetto alle altre, munita con un solo tavolino con un paio di sedie. Aveva bisogno di stare solo e quella era la zona adatta. Quando arrivò, però, scoprì che qualcuno già la occupava. Non aveva assolutamente voglia di andare a cercare un altro luogo per i suoi studi; e di certo non poteva tornare a casa dove i videogiochi lo avrebbero di nuovo stregata, e cosa ben peggiore avrebbe dovuto affrontare Amanda. Si fece coraggio e si avvicinò al posto libero. Riconobbe subito il ragazzo come questo alzò la testa da un libro di fisica. Era Andrew.

“Oh, ciao Leeroy”, lo salutò il ragazzino.

“Stai studiando?”

“In realtà è una lettura leggera”, scherzò.

“Posso sedermi?” Di certo non poteva salutarlo e poi andarsene come un idiota. Doveva comunque provare a studiare qualcosa. I test di recupero sarebbero stati sugli stessi argomenti di quelli vecchi; certo, le domande sarebbero cambiate, ma alla fine era sempre la stessa storia.

“E’ andata male anche a te?” chiese il più giovane.

“Cosa te lo fa pensare?” ribatté allora Leeroy, sulla difensiva.

“E’ quello che dice Miles. E poi, non saresti qua in biblioteca se fosse andata bene”, rispose l'altro con tono tranquillo.

“Potrei essere qua anche per studiare, come da mio dovere” disse, cercando di mantenere un tono controllato.

“Non sembri il classico tipo studioso... nonostante i tuoi occhiali da nerd”

“Tu non sembri il classico tipo sportivo, eppure sei entrato nella squadra”

“Ognuno ha le sue qualità” rispose senza offendersi Andrew, sorridendo.

Leeroy non replicò ulteriormente, non poteva mettersi a discutere con ogni membro della squadra, e tra l’altro doveva seriamente mettersi al lavoro. I due non si rivolsero parola per una buona mezz’ora, ma tra i due il più impegnato sembrava il nuovo membro della squadra. Il difensore, più cercava di sforzarsi di imparare poche date a memoria, più perdeva la concentrazione. All’ultimo sfilò l’iPhone dalla tasca dei jeans per guardare chi fosse online. Dei suoi migliori amici nemmeno l’ombra. Sarebbe volentieri andato a fare un giro anziché rimanere rinchiuso in quel buco. Sospirò rassegnato, sbattendo la testa sul libro di storia senza fare rumore.

“Sicuro di stare bene?” chiese allora Andrew.

“Taci! Voglio morire!” rispose sommessamente.

Il sedicenne inarcò un sopracciglio stupito, chiedendosi come l'altro potesse disperarsi per dei compiti andati male. Non gli sembrava stupido, anche se aveva notato che doveva avere un grave disturbo dell'attenzione.

“Guarda che storia è una materia semplice”, commentò tranquillo.

“Disse quello con la sufficienza in storia”

Andrew assottigliò lo sguardo, storgendo le labbra, quasi indispettito “Volevo cercare di aiutarti, ma se non ti interessa resta pure a disperarti”, fece, mentre si alzava e raccoglieva i libri sul tavolo per andarsene.

“Come ti pare…”. Si chiese come avrebbe potuto aiutarlo negli studi, se era più piccolo e di un’altra classe.

*

“Sono a casa”. Non seppe bene perché lo disse, non era sua abitudine annunciare il suo rientro. Forse anche la sua coscienza era contro di lui.

“Puffetto!” esclamò Amanda, sorpresa di vedere che il figlio fosse già reincasato. Leeroy andò direttamente in cucina, affamato. La madre lo raggiunse nel frattempo. “Com’è andata a scuola?”

Il giovane quasi si strozzò con l’aria. Era ancora così di cattivo umore per le sceneggiate di Miles che aveva completamente dimenticato i risultati dei test.

“Senti, mamma”, asserì con tono grave.

La donna assunse subito un’espressione seria, l’ultima volta che l’ aveva chiamata in quel modo si era picchiato con Lance la notte di Capodanno.

“Che diavolo hai combinato?”, chiese già pronta a minacciarlo di togliergli ogni privilegio e vizio. Sapeva che la pace con un figlio unico maschio era impossibile; era in quei casi che avrebbe preferito avere una femmina.

Leeroy inghiottì a vuoto; non che stesse tremando di paura, ma era terrorrizato dalla reazione della madre.

“Tre verifiche sono andate male. Devo recuperarle il prima possibile, ti prometto che mi metterò a studiare da oggi in poi. Infatti vengo ora dalla biblioteca” raccontò tutto d’un fiato, con il terrore che, se si fosse fermato per respirare, la donna lo avrebbe aggredito.

Amanda sbatté più volte le palpebre e boccheggiò senza parole; era stupita e perplessa dal comportamento del figlio. Sapeva che quando si trattava di scuola nascondeva tutto e non si impegnava neppure a salvare il salvabile.

“Il fatto…”, continuò Leeroy, “E’ che se non recupero le materie non mi sarà permesso disputare le partite di campionato, e io tengo al pallone, non ho intenzione di mandare tutto all’aria per tre misere materie!”

Solo l’udire quelle parole fecero infervorire la donna, alla quale scappò un sonoro ceffone sulla guancia destra del ragazzo.

“Sei un stupido!” quasi strillò.

“Ahia, mà!” esclamò Leeroy coprendosi la guancia lesa.

“Tu disgraziato, non devi recuperare le materie per poter giocare a calcio! Ma perché devi pensare al tuo futuro! Cosa succederebbe se tu non potressi più giocare? Come vivresti?”

Il ragazzo fece roteare le palle degli occhi, seccato al suono delle stesse parole dette ogni volta dalla madre per farlo sentire un cretino. Ogni volta doveva ricordargli come lei era riuscita a costruirsi la sua vita, senza un centesimo dell’eredità del padre.

“Lo so, mamma. Se dovesse succedere qualcosa, in quel caso mi metterei seriamente sotto con gli studi, ma per ora lo faccio per il calcio. Lo sai che non voglio lavorare in un dannato ufficio”. La sua voce si era leggermente alzata e fatta più autoritaria.

Amanda si passò una mano tra i capelli neri e mordicchiò nervosamente l’interno della guancia destra. Conosceva anche troppo bene i desideri del figlio, per suo fortuna almeno di quello era convinta.

“Recupera le materie, non mi interessa come, ma fallo. Altrimenti ti stacco davvero internet, X-Box e non vedrai più il ristorante di Daniele”, asserì la donna con tono grave.

Il ragazzo sospirò abbattuto. “Sì!” Di certo non poteva mandare sua madre a quel paese quando l’argomento in discussione era la scuola.

La signora Rogers abbracciò il figlio di slancio, anche in punta di piedi gli arrivava a malapena al mento. “Non farmi preoccupare, ok?”

“Sì Amanda.” fece Leeroy, rispondendo all’abbraccio della madre e sorridendo, senza che lei potesse però vederlo.

*

Era stanco di aspettare, l’idiota era in ritardo come al solito; sicuramente si era fermato a comprare un po’ d’erba o a spacciarla. Sospirò infastidito mentre si rigirava nel letto. Quella notte se ne sarebbe stato volentieri a dormire. Purtroppo però aveva bisogno di soldi, e non poteva di certo pagare le bollette con i suoi risultati scolastici. Tra le mani aveva un vecchio mp3 che usava il più delle volte per andare a correre o per prendere sonno la notte. Tra le canzoni più ascoltate c’era Lose Yourself, che ascoltava il più delle volte per darsi carica in notti come quelle.

Non gli piaceva cantare, o rappare, come in quel caso, ma mimava con la bocca le parole al buio nella sua stanza. Look. If you had one shot, or one opportunity. To seize everything you ever wanted. One moment. Would you catch it, or let it slip?

Il vecchio cellulare vibrò alla sua destra, esattamente nel momento in cui la prima strofa era finita.

Alza il culo, sono giù.

Sbirciò fuori dalla finestra ed intravide una figura scura appena illuminata dalle luci dei lampioni. Quel figlio di puttana era l’unico che poteva andare a passeggio in quel quartiere senza correre il rischio di essere malmenato dai vicini. Dal modo in cui teneva la mano stava sicuramente fumando: sperò vivamente sigarette, perché quando fumava altro diventava veramente insopportabile.

Spense l’mp3 e lo lanciò sul cuscino, dopodichè si stiracchiò un po’ e respirò profondamente. Quella sera non aveva proprio voglia di fare nulla. Prima di uscire, passò accanto alla camera della madre, che come sempre era vuota. Sospirò rassegnato e passò oltre. La porta dal legno chiaro con i fiori rosa appiccicati con il nastro adesivo era chiusa a chiave. La camera di sua sorella. Vi poggiò una mano sopra, come sperando che quella gli desse conforto.

Il telefono riprese a squillare. Altro sms. Non abbiamo tutta la notte.

Sbuffò seccato, dirigendosi all’uscita. Una volta fuori, un ragazzo più grande di lui di qualche anno stava appoggiato ad un auto troppo costosa per dei tipi del genere, fumando una sigaretta. Gli occhi di Lance si scontrarono con quelli blu densi dell’altro.

“Quante volte ti ho detto di non rompere le palle?” asserì il più giovane, innervosito. Non sopportava dover essere sempre assillato dal collega di lavoro ad ogni ora del giorno.

“Non rompere le palle, ragazzino, e sali in macchina. Stasera tocca alla villetta sulla costa nord”, commentò eccitato come un bambino Adam Twain.


 


 


 

 

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Capitolo 8
*** Capitolo 8 ***


The last chance
VIII


Tra i componenti della squadra Miles era quello con più resistenza fisica, ma in quel momento gli sembrava di morire. La macchina gli si era fermata a due chilometri da scuola, senza dare più alcun segno di vita. Sperò che non fosse giunta l’ora di doverne prendere una nuova. Era partito prima da casa quel giorno con l’intenzione di parlare con Abigail. Sapeva che la ragazza da quando non gli rivolgeva più la parola aveva iniziato ad entrare molto presto nell’istituto. Guardò l’orologio del cellulare e gli scappò un’imprecazione: era già in ritardo di cinque minuti, e non aveva voglia di sentire il tono deluso della professoressa di inglese. Se proprio non fosse riuscito ad arrivare in tempo sarebbe entrato all’ora successiva.  Arrivò all’ingresso giusto in tempo per vedere il ritardatario di Leeroy che parcheggiava l’auto e che con tutta calma lo raggiungeva. “Buongiorno!”, salutò insolitamente con educazione il moro. Il capitano notò subito che il ragazzo non aveva chiuso occhio quella notte: aveva delle occhiaie imbarazzanti. Non erano affari suoi se usciva a sbronzarsi la sera, ma a scuola doveva venire puntuale e anche agli allenamenti. 
“Giorno! Sei in ritardo".
“Anche te".
"Mi si è rotta la macchina", rispose giustificandosi subito. 
“Bella merda! Hai bisogno di un passaggio a casa?” chiese Leeroy senza nemmeno pensare a ciò che stava dicendo. 
“Prima entriamo che è meglio".
 "Sì, mamma chioccia", replicò seccato il difensore. “Capisco perché Abigail non ti vuole parlare". Miles si sentì punto sul vivo. Non avrebbe reagito per non mostrare in alcun modo che se la ragazza non gli parlava per lui era un enorme dispiacere. “Non mi interessa.” Si incamminarono per le scale fino al secondo piano; le loro classi non erano vicine ma visto che la professoressa di inglese aveva pianificato di mostrare un film alla classe, quel giorno avrebbero tenuto l’ora nell ‘aula video. “Non prendermi per il culo, Miles. E’ arrabbiata, ma devi comunque andare a parlarle”. “Cosa ti ha detto?” domandò a quel punto il capitano, esasperato. Non riusciva nemmeno a credere di star tenendo quella conversazione con Leeroy Rogers. 
“A me nulla, e anche se fosse non sono affari miei. Valle solo a parlare”, si limitò a dire, rimanendo sull’evasivo. Quelli non erano affari suoi ,ma in fondo dare una mano a Miles con Abigail avrebbe potuto fargli comodo in futuro. 
“Comunque non mi serve il passaggio per oggi, viene mio padre a prendermi dopo scuola così chiama anche il meccanico. Ma domani mi faresti un piacere”, disse sinceramente, prima di guardare l’orologio del cellulare con fare disinvolto. 
“Nessun problema, ma parla con Twain”.
“Ora vado in classe, spero che quella di inglese non rompa le scatole”.
“Tutti i professori ti amano perché sei bravo a scuola, cosa dovrebbero dirti?” disse Roy ridendo, prima di dirigersi alla sua aula con molta calma. 
“A proposito dei voti”, aggiunse Miles. Leeroy si voltò verso l’amico con un brutto presentimento. “L’altro giorno sei scappato dalla riunione della squadra”. Il difensore inarcò un sopracciglio incuriosito e allo stesso tempo terrorizzato. “Da domani iniziamo insieme a studiare, ti faccio io da balia”.
“Mi prendi per il culo?” chiese sconvolto.
“No”, rispose prima di entrare in classe dopo aver bussato. 
*

La trovò mentre prendeva a calci uno dei due distributori con Rebecca che l’osservava esasperata. “Non solo ho un fratello idiota, ma anche le mie amiche non sono da meno... lascia stare questo coso!”, sbraitò quasi. “Non è colpa mia se questa cosa non funziona!” rispose l'altra, frustrata. Con un po’ di coraggio Miles si fece avanti. “Basta dare un colpetto per far scendere la roba, non serve distruggerla. Credo si sia offesa”, disse il ragazzo cercando di essere gentile. Abigail venne scossa da un brivido lungo la spina dorsale; si voltò di scatto per vedere Miles composto come sempre. Il fatto di non avvertire nessun tipo di cambiamento nella sua persona la fece arrabbiare di nuovo. La calma quasi mistica che era riuscita a raggiungere prendendo a calci la macchinetta venne spazzata via. Rebecca inarcò un sopracciglio: trovava tutto ciò ridicolo. “Senti, bel maschione in crisi ormonale, noi torniamo in classe. Ci si vede”, annunciò l’italiana con una punta di cinismo sulla lingua. Afferrò l’amica per il braccio e la trascinò via. Reginald rimase impalato nel mezzo del corridoio guardando le ragazze allontanarsi e maledicendo la sua cattiva stella. La volta in cui raccoglie il suo poco coraggio e va a cercarla quell’amore dell’amica di lei la trascina via. “Ma vaffanculo!” imprecò sottovoce. “Oh che cazzo ho fatto?” chiese Lance appena arrivato sulla scena. Il capitano si strofinò quasi con esasperazione il viso con le mani. “Lasciamo perdere, va! Perché altrimenti finisce solo che mi incazzo”.
Il rosso prese degli spiccioli e li mise dentro il distributore optando per un’acqua minerale. La bottiglia scese subito senza bisogno di ulteriori aiuti. “Vedi? Tu sì che sei fortunato. Se lo avessi fatto io avrei dovuto prenderla a calci!”
“Penso che sia il Karma”, rispose semplicemente il portiere. “Comunque…” 
Miles inarcò un sopracciglio. “Cosa?” 
“Non puoi pretende di parlarle quando è con la sorella di Daniele, quella è una vipera”.
“Come scusa? Hai  visto tutto?” domandò stupito e profondamente imbarazzato il capitano. 
“Ah-ha”.
“Senti, non mi interessa. Volevo chiederle se fosse ancora incazzata ma se non vuole parlarmi sono affari suoi. Più che provarci che devo fare? Lei non ci ha nemmeno pensato”. Lance lo guardò attentamente negli occhi prima di esordire con un: “Non mi raccontare cazzate. Smettila di fare il coglione per piacere e non autocomiserarti, perché non ti sopporto”.
“Se se. Come ti pare. Torniamo in classe”, disse precedendolo in direzione delle scale per salire al primo piano. Stark scosse la testa: certe volte si stupiva di quanto potesse essere testardo Miles per delle cose così stupide.
Alla sua destra apparve una ragazza, forse di qualche anno più giovane. In viso era rossa come un pomodoro.  “Scusa, potresti spostarti? Vorrei prendere l’acqua...”, chiese timidamente. Lance non si era reso conto di essere rimasto tutto il tempo appoggiato alla macchinetta, e neppure si era accorto della ragazza. “Ah! Scusa”.
“No, non devi scusarti”, rispose lei sorridendo e avvicinandosi al distributore automatico. “Allora ciao!”, fece lui prima di allontanarsi mentre le sorrideva di rimando. La ragazza intanto aveva già messo i soldi e selezionato l’acqua quando si accorse che l’affare si era di nuovo bloccato. “Aspetta un momento! Scusa, ma non mi da l’acqua”,  esclamò allarmata. Lance si avvicinò nuovamente. “Non ti preoccupare, basta dare un colpetto qua e il gioco è fatto”, L’acqua cadde come aveva detto e la porse alla ragazza. “Ecco a te”.
“Grazie mille!”, gli sorrise di nuovo la giovane. 
“Di niente”. Fece per andarsene ma lo richiamò. “Ehi... non è che verresti a bere un caffè dopo scuola? Sai, per sdebitarmi…” chiese con tutto il coraggio che aveva in corpo cercando di non balbettare. Lance si grattò la testa pensieroso sul da farsi. “Scusa, ma sono impegnato tra la scuola, gli allenamenti e il lavoro”.
“Oh! D'accordo... ” disse tristemente la giovane. Divenne ancora più rossa e quasi scappò. Il portiere la guardò andare via sospirando. Con le donne non sapeva proprio farci.
“Certo che non hai proprio tatto!”. Nell’udire quelle parole si girò trovandosi davanti Rogers. Sospirò nuovamente. “Che vuoi?” 
“Ma come le tratti le ragazze?” 
“Tu per caso conosci un modo carino per dire: non sono interessato!?” chiese quasi sbraitando, prima di scappare via a sua volta adirato. 
*

“Mi devi un enorme favore, Abi”, sentenziò l’italiana una volta in salvo da Miles.
L’inglese fece roteare le palle degli occhi per sottolineare quanto odiasse palesemente quel discorso. Forse se non ci fosse stata Rebecca avrebbe parlato con Reginald, ma non avrebbe comunque saputo cosa dire. Si era comportata da stupida. Era gelosa del fatto che lui fosse capitano e lei no a causa del suo temperamento. 
“Te ne chiederò un altro: entra a far parte della squadra di pallavolo! Ti prego! Lo so che hai giocato come alzatrice quando eri alle medie ed eri piuttosto brava”.  La giocatrice quasi si inginocchiò, come per chiederla in moglie.
Rebecca sgranò gli occhi e poi inarcò un sopracciglio, infastidita.
“Come fai a saperlo?” chiese quasi sbalordita.
“Tuo fratello”, rispose l'altra con tono da bambina, cercando di spalancare gli occhi blu per farle tenerezza e così convincerla.
“Nemmeno morta! Odio gli sport, e mi portano tempo via per lo studio, lo sai!” rispose con tono irremovibile. Si appoggiò al calorifero nel corridoio, ormai quasi vuoto, guardò distrattamente l’orario nel cellulare. Era quasi ora di rientrare e non voleva arrivare tardi.
“Sei sempre cattiva con me”, rispose Abigail, tirandosi in piedi e facendo due saltelli sul posto per sgranchirsi le gambe. Era piena di energie, aveva voglia di scaricarsi; peccato però che non poteva andare con le ragazze a fare allenamento.
“Andiamo?” chiese scocciata Rebecca.
In quel momento al libero venne una brillante idea. “Tu vai avanti. Devo chiedere un favore ad una persona”, esordì con un sorriso smagliante.
L’italiana quasi si sentì male; sicuramente Abigail avrebbe combinato guai e non aveva voglia di finirci di mezzo. “Fai quello che devi fare, ma non dirmelo, preferisco essere all’oscuro delle tue cavolate”.
“Certo che hai una buona opinione di me”, commentò con disappunto.
In quel momento si girarono entrambe nella direzione opposta alle loro per vedere Katerina inseguita dai soliti due idioti della squadra di basket della scuola che ci provavano con lei.
“Ancora loro?” esclamò Abigail seccata. 
“Non ho voglia di fare il cavaliere che salva le donzelle in pericolo”, sbuffò Rebecca. “Katerina se la cava sempre, è merito del sangue freddo russo”, scherzò. La bionda si avvicinò a loro con passo da soldato senza nemmeno guardare i due ragazzi più alti di lei. Era convinta che le facessero il filo solamente perché lei non avrebbe mai trovato un ragazzo considerevolmente più alto di lei. Quei due erano insopportabili. “Sentite, ragazzini. Tornate da me quando saprete come trattare una donna, senza tutte queste smielate e complimenti idioti”, li liquidò prima di iniziare a parlare con le amiche. “Certo che sei una stronza!”, disse uno di loro. La russa si voltò con sguardo glaciale. “Senti, brutto pezzo di idiota, non lo capisci quando una donna non vuole avere a che fare con te? Sparisci, e anche te Jack. Avete rotto le scatole”, Jack e l’amico si scambiarono uno sguardo di intesa. “Ne riparliamo quando nessuno ti vorrà per la tua altezza”. 
“Provate anche solo a riparlare così con me e vi spacco la faccia, ragazzini. E ora via, filate in classe”.
“Andiamo che è meglio, non capisco perché perdiamo tempo con questa”.
“Che idioti...”
*
Abigail era letteralmente scappate dalle amiche dopo che era arrivata Katerina. La campanella era ormai già suonata e sicuramente sarebbe arrivata con un ritardo del diavolo in classe. Doveva trovare un modo per allenarsi nonostante il guaio che aveva combinato, e doveva risolvere le cose con Miles; con la sua idea avrebbe preso due piccioni con una fava. Bussò alla classe del fratello di Rebecca e il professore la lasciò entrare. L’uomo si tolse gli occhiali da vista, stava leggendo una qualche poesia ai ragazzi. “Mi dica, signorica?” 
Arrossì per l’imbarazzo per mezzo secondo, ma si riprese subito. Forse stava per infilarsi in un altro guaio. “Salve, avrei bisogno di Rogers per un momento”.
Il ragazzo inarcò un sopracciglio stupito. Daniele lo guardò sbalordito e l’unica cosa che riuscì a dire fu: “Se lo viene a sapere Reg sei fottuto”.
“Non rompere”.
“Signorina, Rogers non è un genio nella mia materia e non può permettersi di uscire”.
“Non si preoccupi, è questione di un paio di minuti poi glielo restituisco volentieri” spiegò cercando di essere il più gentile possibile. L’uomo si strofinò gli occhi con entrambe le mani e fece cenno al ragazzo di andare. “Magari ora avrai un buon motivo per impegnarti”,  disse l’uomo suscitando le risate della classe. “Se Miles lo sa lo ammazza!” continuava a ripetere Daniele ad Akel, senza volerlo incontrò lo sguardo omicida di Abigail. 
Leeroy fu il primo ad uscire dalla classe. “Allora che vuoi?” 
“Vedi perché non potrai mai avere una ragazza? Sei troppo brusco con le donne”, rispose lei scherzando. “Basta dai. E’ successo qualcosa con Miles? Non voglio farvi da consigliere”, sospirò seccato. 
“No, lui non c'entra. Aspetta... Cosa intendi con consigliere? Ti è venuto a parlare?” chiese incuriosita. Voleva sapere se Reginald aveva parlato di lei con i compagni di squadra. L’unica persona con cui avrebbe potuto parlare sarebbe  potuto essere Lance, ma lui era troppo fedele, non avrebbe mai aperto bocca. La cosa che più la stupiva era il fatto che uscisse con suo fratello Adam, che era un bugiardo provetto da quando era venuto al mondo. “Senti, non ci hai ancora parlato? Se sei venuta qua per parlare dei tuoi problemi di cuore puoi tornare in classe. Ma ti ringrazio per avermi fatto perdere tempo con la lezione”. Non gli piaceva come stessero prendendo piega le cose: andava bene dare una dritta ai quei due ogni tanto, ma non voleva che diventasse un’abitudine. “Ok. Arrivo al punto”, disse lei esasperata. “ Chiedi a Stan se posso allenarmi con voi? Parlo dell’allenamento fisico. Non voglio stare senza fare nulla in questo periodo che sono fuori dalla mia squadra””
“Scherzi?” 
Abigail divenne paonazza. “No, non ti prendo in giro! Per favore Leeroy!” quasi lo supplicò disperata. “Vuoi venire con noi almeno hai un modo di parlare con Reginald ?” 
“Anche”.
Il ragazzo si grattò la testa e sbuffò prima di rispondere. “Va bene, non ti prometto nulla, ma dopo chiedo a Stan, okay?” La ragazza gli saltò al collo, abbracciandolo e baciandolo sulla guancia. “Rogers, quando vuoi sei un amore!”
*

Guardò il messaggio che gli era appena arrivato. A quanto pare questa volta hanno fatto le cose in grande. Dobbiamo stare attenti.
Lance cercò di non fare trasparire emozioni. Sapeva che prima o poi sarebbe successo.  Rispose velocemente al suo collega. Vediamoci questo venerdì alle 23. Dopo averlo inviato alzò la mano e chiese di andare in bagno. Miles intanto contiuava a prendere appunti, mentre a Lance era passata la voglia di farlo. Quella notizia non ci voleva. Il professore acconsentì senza battere ciglio. Per i corridoi non c'era nessuno, stranamente; sospirò pensando che fosse meglio così, in quel momento il minimo sguardo storto nei suoi confronti gli avrebbe fatto saltare i nervi.  Andò al bagno del secondo piano, aveva bisogno di perdere tempo per schiarirsi le idee e tornare in classe a seguire le lezioni. Davanti all'entrata ritrovò casualmente la ragazza che gli aveva chiesto di andare a prendere un caffè durante la pausa, che arrossì bruscamente appena lo vide. Non aveva voglia di sorbirsi le seghe mentali di una ragazzina; in un'altra situazione sarebbe anche stato cordiale, ma in quel momento era meglio non aver a che fare con lui. Entrò quindi in bagno dopo essersi sforzato di salutarla con un cenno del capo. Non era la ragazza in sé ad aver peggiorato ulteriormente il suo umore, quanto il ricordo delle parole del compagno di squadra. Gli scappò un'imprecazione. Aprì il rubinetto e si sciacquò il viso con vigore, come a cercare di cancellare dalla mente i cattivi pensieri che l'assediavano. Alzò lo sguardo allo specchio e sbuffò pesantemente, ora sarebbe anche potuto tornare in classe,

 
*

Guardava concentrato l'orologio del cellulare ormai da un paio di minuti; aspettava con ansia la fine della giornata . Trattenne il respiro quando mancò solo un minuto alla campanella. Scattò nell'istante in cui sentì il suono, salutò e scappò via come se ne dipendesse la sua vita senza nemmeno salutare gli amici. Si diresse alla biblioteca della scuola senza nemmeno pensarci, aveva bisogno di ripassare qualcosa in santa pace per mostrare a Miles che non era proprio un incapace come tutti pensavano. Durante il breve tragitto non guardò nessuno in faccia, andò diretto e sicuro di sé, come poche volte nella sua vita da studente. Entrò in biblioteca e andò a sedersi ad un tavolo isolato dagli altri, non voleva assolutamente essere disturbato. Passare per tutto muscoli e niente cervello era l'ultima cosa che si augurava. Gettò lo zaino su una delle sedie e si sedette per poi tirare fuori i libri di storia. Non aveva la più pallida idea su quale capitolo si stessero tenendo le lezioni. Sospirò cercando di stare calmo e non farsi trasportare dall'isterismo. Era sicuro di aver preso un paio di appunti, ma solo perchè il prof si era accorto che Rogers si stava facendo gli affari suoi. In quelle poche settimane era già stato richiamato più volte dai professori proprio per il suo atteggiamento nullafacente. Continuò a sfogliare il libro come un disperato fino a che non si sentì sfilare gli occhiali da qualcuno.
“Un evento più unico che raro... Leeroy Rogers in biblioteca a studiare!", esclamò una voce sull'orlo delle risate, alle sue spalle.
Stupito, il ragazzo si girò pronto a ribattere; nessuno doveva osare toccargli gli occhiali.
“Mollali!" quasi ringhiò.
I due ragazzi davanti a lui scoppiarono a ridere. Leeroy inarcò un sopracciglio in disapprovazione. 
“Voi due, che ci fate qua?” chiese seccato incrociando le braccia al petto. “Vi aspettavamo per la prossima settimana".
Si sentì stranamente contento di rivederli: Kurt e Liam erano due giocatori preziosi della squadra.
“Com'è andata in Spagna?” chiese.
“Non puoi capire", rispose Liam scambiandosi uno sguardo complice con l'altro.
“Se ci offri da bere ti raccontiamo", aggiunse poi con un sorriso sornione, sedendosi al tavolo del terzino.
*
     
Dopo essere stato al bar in centro si diresse con la sua auto verso il quartiere alto della città, a Roedean. Sarebbe andato a casa a riposarsi giocando alla X-box.  Gli piaceva passare del tempo a casa solo quando sua madre lavorava, altrimenti cercava di passare più tempo possibile con i suoi amici. Scese dall'auto, attraversò il vialetto lastricato di casa che tagliava il giardino anteriore dell'edificio prima di accorgersi che Amanda era già tornata. Quasi gli scappò un'imprecazione, non aveva voglia di ascoltare tutte le sue domande. Pregò di riuscire ad arrivare vivo in camera da letto. Con un po' di coraggio aprì la porta e, per sua sfortuna, sua madre era già lì ad aspettarlo. Sbuffò rassegnato. La donna era al telefono; parlava a gran voce e gesticolava con la mano libera. Non capì subito l'argomento.
“Mi stai dicendo che nessuno dei tuoi vicini ha visto nulla? Come è possibile? Nessun testimone? State scherzando?” quasi urlò incredula.
Leeroy si sentì rimpicciolire. Aveva visto sua madre poche volte in quelle condizioni. Alzò una mano cercando di chiederle spiegazioni, ma lei gli fece bruscamente segno di tacere. Si sentì quasi offeso per quel gesto; rimase come un idiota sull'ingresso di casa ad aspettare che Amanda finisse di discutere. 
Aspettò un buon quarto d'ora prima di poter provare a porle qualche domanda, ma come sempre non ne ebbe il tempo; Amanda raccontò tutto indignata e arrabbiata.
“Ebbene, dei ladri hanno derubato la signora Ecker, una delle mie pazienti. Sai qual'è  il colmo? Che nessuno ha visto nulla, e abita nel nostro stesso quartiere!" disse tutto d'un fiato, continuando a gesticolare freneticamente e camminando inconsciamente in tondo.
Leeroy inarcò un sopracciglio stupito. In quel momento riuscì a pensare solo che la donna si tesse preoccupando troppo.
“Amanda, chi vuoi che venga da noi? Se dei ladri venissero qua scapperebbero dopo averti vista, anz,i ci chiederebbero dei risarcimenti", cercò di scherzare per tranquillizzarla un po'.
“Smettila di fare il furbo", lo pietrificò con un solo sguardo. “Non sono cose sulle quali bisogna scherzare, lo sai benissimo", disse assumendo un tono duro e portando le mani sui fianchi.
Il ragazzo roteò gli occhi per sottolineare quanto poco gliene importasse. “Sì, sì, hai ragione".
Amanda inarcò un sopracciglio infastidita. “Leeroy smettila, vai in camera tua a fare i compiti o studiare".
Stranamente, quella fu musica per le sue orecchie:  in un lampo corse su per le scale fino a camera sua.
Sua madre si chiese per la millesima volta come doveva fare con lui.

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Capitolo 9
*** Capitolo 9 ***


The last chance
IX

 

C'erano state troppe novità tutte in una sola volta: Leeroy si sentiva come se avesse preso una botta in testa. Stranamente Stan aveva accettato l'assurda proposta di Abigail, dopo il ritorno di Liam e Kurt l'uomo sembrava più incline ad assecondare le sue richieste, cosa mai accaduta prima di allora.

Avevano iniziato da poco e stavano facendo i consueti giri di campo; non c'era nulla di strano, se non il fatto che Abigail gli si era attaccata alle costole e sembrava non volerlo mollare. Akel e Daniele correvano dietro di loro e allo stesso tempo confabulavano tra di loro, come due vecchiette ad un circolo di cucito; e, come se non bastasse, il capitano si voltava ogni tanto per lanciare occhiate atroci al difensore.

“Non ti avevo detto che non ho assolutamente intenzione di fare da balia a te e Reginald?”, chiese scocciato. La ragazza non rispose, sembrava assorta nei suoi pensieri.

“Si può sapere che hai?”

“Niente”, rispose lei, aumentando il ritmo e lasciando indietro il ragazzo.

Stranamente era taciturna: di solito gli veniva il mal di testa per tutto quello che diceva. Il turco e l'italiano sghignazzavano alle spalle del terzino.

“La piantate? Non vi sopporto più”.

“Calmati, stiamo solo scommettendo sulla possibilità che Miles ti spacchi la faccia dopo gli allenamenti”.

“Ancora con questa storia? Avete rotto le palle, basta. Non posso nemmeno aiutare una persona che iniziate a lagnarvi come delle checche”, sbottò all'improvviso. Non aveva voglia di stare a sentire ulteriori critiche sui suoi modi di agire. Raggiunse la ragazza subito dopo, lasciando gli altri indietro. Akel e Daniele si guardarono quasi sconvolti: non si aspettavano una risposta simile. Avrebbero immaginato un “vaffanculo” gratuito.

 

“Smettila di pensare a lei, stai diventando ridicolo”, sospirò Lance annoiato mentre faceva i piegamenti sull'erba. Lentamente aveva iniziato ad avanzare l'autunno: non avevano più i problemi a causa del caldo come l'estate durante gli allenamenti. Il cielo era pieno di nubi che minacciavano pioggia, sarebbe stato un vero problema se avesse cominciato a piovere. Non poteva andare a casa a piedi.

“Non dire cavolate. Sono solo stupito per il fatto che Stan la lasci allenare con noi”, disse con una alzata di spalle prima di dare il cambio all'altro.

“Certo, e non stai tipo maledicendo Rogers perché in questo momento lo preferisce a te”.

Il capitano lo fulminò con uno sguardo e il rosso scoppiò a ridere. “Visto che ho ragione? Smettila di fare così, te l'ho detto già mille volte”.

“Senti, con lei ci ho provato a parlare, ma quella scema di Rebecca si è messa di mezzo”.

Spostando lo sguardo vide Kurt cambiare posto assieme a Liam e mettersi vicini alla ragazza e al terzino; quasi si sentì morire, mentre Lance continuava a ridere.

“Cosa vuoi fare ora? Ammazzare tutti i tuoi compagni di squadra?”, chiese il portiere cercando di essere il più serio possibile.

 

“Allora Abi, come mai ti alleni con noi?”, domandò Kurt mentre faceva gli addominali. Inutile dire che stava solo cercando di mettersi in mostra agli occhi di lei.

La ragazza finì il suo esercizio prima di rispondere. “Mi hanno sospesa dagli allenamenti per un po', quindi vi farò compagnia”. Diede il cambio a Leeroy, che si sdraiò, mentre la ragazza gli teneva ferme le caviglie.

“Hai bisogno anche di allenamenti privati? Io sarei disponibile”, propose con aria maliziosa. Il difensore era già pronto a rispondergli ma la pallavolista fece prima di lui.

“No grazie, non penso di averne bisogno. Non ho passato il tempo ad oziare in Spagna a bere sangria”, esordì con tono cristallino e un enorme sorriso stampato in faccia.

Liam e Leeroy scoppiarono a ridere stesi sul terreno. “Si vede così tanto che non abbiamo fatto nulla?”, chiese Kurt imbarazzato. La ragazza cercò di contenersi dal ridere in modo esagerato come facevano le compagne della sua età. Lei odiava farlo.

Leeroy non poteva che darle ragione: Liam e Kurt avevano fatto uno scambio culturale all'inizio di giugno ed erano rimasti a Barcellona per quattro mesi andando anche a scuola. Il difensore non avrebbe mai potuto fare una cosa simile. Odiava le lingue. Odiava lo studio. Socialmente l'idea di dover andare in un'altra nazione a studiare lo terrorizzava. Era più il tipo da divano e partita che da avventura fuori casa. Probabilmente sarebbe andato all'estero solo se reclutato da un'importante squadra tedesca o italiana.

“Almeno vi siete divertiti o avete passato il tempo solo a studiare?”, domandò.

“Certo che hai proprio una brutta opinione di noi, Roy”.

“Siete due secchioni”.

“A te studiare un po' non farebbe male, sai?”, lo stuzzicò Abigail, ridendo.

*

Finiti gli allenamenti, Abigail fu la prima ad andarsi a cambiare, e subito dopo scappò a casa, salutando tutti tranne Miles.

“Ti si è spezzato il cuore?”, domandò Lance al capitano in un orecchio, senza farsi sentire.

“Fottiti”, rispose cercando di mantenere la calma. Non aveva paura della cosiddetta concorrenza, che poi non poteva nemmeno chiamarla così: Abigail era una buona amica, non poteva vedere Leeroy come un usurpatore. Lei era libera di frequentare chi meglio credeva.

“Guarda che lo scemo è bello, non ti sei accorto di quante ragazze gli vanno dietro?”, commentò ancora Lance con una punta di malizia.

“Ti diverti a farmi perdere la pazienza?”

“No, però ora pagherei per vederti solo con lui mentre devi dargli ripetizioni”, ripose scoppiando a ridere.

 

“Che facciamo stasera?”, chiese Akel, “non ho voglia di andare a letto come le galline, è solo giovedì”. I ragazzi si stavano cambiando lentamente quel giorno; erano tutti senza energie, ringraziavano il cielo che era finalmente quasi fine settimana.

“Io niente, me ne vado a letto. Se volete vi accompagno dove volete, ma poi vi saluto”, sbottò Leeroy, con un tono quasi infastidito.

“Sei nervoso perché Abigail è già andata via?”, scherzò come suo solito Daniele.

Si chiese come potessero minimamente pensare che lui fosse in qualche modo interessato alla ragazza. Sapeva che scherzavano, ma erano sempre più insopportabili. Non moriva dalla voglia di vedere l’espressione di Miles una volta che sarà arrivato al limite della sopportazione. Solo un idiota non si sarebbe accorto della gelosia e rabbia repressa nei suoi confronti. E quell’idiota era Daniele. Vide Reginald con la coda dell’occhio che cercava di trattenersi dall’aprir bocca. Il capitano non avrebbe mai creato un motivo di lite nella sua squadra, ma interiormente sapeva che gli sarebbe venuto a parlare. Sperò solo che tutto quello non avrebbe impedito Miles dal dargli ripetizioni, perché in fondo un po’ ci sperava in un suo aiuto.

“Ora basta, o ve ne andate a piedi”, disse con tono alterato Leeroy. Daniele capì subito che non stava ironizzando. Che lo avesse irritato fino a quel punto? Stava per sdrammatizzare quando Kurt si fece avanti: “Ragazzi, non vi preoccupate, vi portiamo noi. Tanto volevamo andare a fare un giro per pub”.

“Oh! Veniamo con voi allora”, Rispose con enfasi Akel senza pensarci due volte.

“Allora muovetevi”, aggiunse Liam ormai quasi pronto.

Leeroy lasciò perdere tutti finendo di cambiarsi. Dopo aver legato i lacci delle scarpe, notò con la coda dell’occhio Reginald che usciva, sbattendo la porta. Lance aveva provato a fermarlo senza successo; lo vide girarsi puntando lo sguardo nel suo. Ora mi ammazza!, pensò deglutendo. Il portiere però distolse subito gli occhi, che subito dopo gli sembrarono più sorpresi che arrabbiati.

“Tu non vuoi proprio venire, vero?”, domandò nuovamente Kurt.

“No, grazie. Vado a casa”.

Quando si voltò di nuovo verso l’uscita, il portiere era sparito senza nemmeno salutare. Rimase colpito. Sicuramente era corso dietro a Miles per tentare di fargli passare la fase da “maritino geloso”, causata dai suoi migliori amici. Per un istante l’idea di andarsi a scusare gli attraversò la mente, ma qualcosa la rispedì subito da dove era uscita: il buon senso. Sarebbe certamente stata una cosa cortese, ma non l'avrebbe fatto. Quella pagliacciata non era stata ideata da lui, anche se vi era finito in mezzo per colpa dei due diretti interessati. Pertanto non aveva voglia di calarsi ulteriormente in quel ruolo, che nemmeno gli si addiceva.

“Sei peggio di una vecchietta”, commentò acidamente Akel sentendosi scemare il buonumore.

Leeroy guardò gli amici. Certe volte gli passava la voglia di vederli, quello era il motivo principale dei suoi giorni, o addirittura mesi sabbatici dove staccava internet e il cellulare vivendo come un eremita. In certi momenti avrebbe voluto esserlo sulle Highlands scozzesi, lontano da tutto e tutti.

“Ci vediamo domani a scuola, fatemi il piacere di non ubriacarvi”, si raccomandò gettando un’occhiataccia a Liam e Kurt. Li conosceva bene. O meglio, lui era uno di quelli che cercava di fare concorrenza ai due quando si trattava di bere, ma ogni volta dopo il quarto bicchiere cadeva in catalessi. Erano i due festaioli per eccellenza. Anche se Liam, da quando stava con Michelle, aveva messo la testa in cassetta. Dopo l’ultima festa a cui aveva partecipato aveva deciso di darci un taglio, o sarebbe finita male. Leeroy si sarebbe per sempre ricordato la faccia di Amanda, a metà tra il disgusto e la rabbia quando, rientrando a casa alle 4 del mattino, aveva vomitato sul divano di vera pelle in salotto. Non reggeva proprio l'alcol. Liam e Kurt quella sera avevano assistito alla scena, e avevano riso come due matti fino a che la signora Rogers non li sbattè fuori di casa dopo aver chiamato un taxi. Leeroy aveva passato la notte nel bagno a vomitare.

“Non preoccuparti, con noi sono in buone mani!”, commentò Liam sorridendo come un bambino. “E’ di questo che mi preoccupo infatti!”, sospirò incamminandosi alla porta.

“Non preoccuparti, ci sarà anche Michelle con noi”, esordì Julio comparendo quasi dal nulla.

“Che? L’hai chiamata?”

“Sì almeno porta la sorella”, rispose lo spagnolo facendo l’occhiolino all’amico.

“No, me ne vado a casa anche io allora”, fece Liam. Anche se Michelle era la sua ragazza e non si vedevano da un po’ di mesi, non voleva uscire assieme a lei se c'erano anche gli altri. Era un gruppo che semplicemente non funzionava e portava solo guai. Soprattutto per colpa della ragazza e della sua lingua lunga, o meglio per i suoi commenti acidi su tutto. A lui piaceva proprio per quel motivo, perché era spregiudicata e aveva sempre un'opinione. Era difficile farla tacere, a differenza di molte altre ragazze con le quali non si poteva parlare al di fuori di trucco e vestiti. Ma non significava che fosse lo stesso anche per le altre persone: Kurt, ad esempio, la trovava irritante, e finivano sempre a litigare.

“Dove pensi di andare? Se non vieni, non verrà Michelle e di conseguenza addio a Sarah. Perché vuoi fare questo ad un tuo amico!?”

“Ragazzi, sbrigatevela da soli. Ciao”, fece il difensore, al limite della sopportazione. Leeroy non poteva farsi fermare ogni volta da quelle sceneggiate, gli facevano perdere solo tempo. Fuori dallo spogliatoio, il sole era già tramontato e una brezza gelida gli carezzò subdolamente il collo. Rabbrividì solo perché il corpo reagiva di conseguenza. Finalmente stava arrivando l’inverno.

''Rogers, mi dai un passaggio?''.

Leeroy si girò verso l'entrata dello spogliatoio e trovò Lance appoggiato di schiena al muro con una sigaretta tra le labbra e iĺ borsone gettato ai suoi piedi. ''Da quando fumi?'', domandò sorpreso.

“Ogni tanto me lo concedo”, rispose in un soffio di fumo prima di gettare la sigaretta a terra. Dopo di che si avvicinò al difensore. ''Dicevo. Mi accompagneresti a casa? Miles mi ha lasciato a piedi, grazie ai commnti di Balboa”, spiegò con tono piatto.

“Come vuoi”, rispose semplicemente: non aveva voglia di discutere anche con lui.

Lance raccolse il borsone e lo seguì al parcheggio.

Saliti in auto, il portiere domandò se potesse fumare nell'abitacolo. Il difensore annuì. Adorava la sua Range Rover Sport, ma non era una di quelle persone che odiava l'odore di fumo, come sua madre per esempio. Intanto aveva messo in moto la macchina e si era unito al traffico dell'ora di punta in città.

''Sai che Miles è ad un passo dal prenderti a pugni?'', chiese distrattamente Lance, come se la cosa non lo toccasse minimamente.

''Ma sai che non lo avevo capito?'', rispose ironicamente l'altro. ''Se quell'idiota mi desse retta, invece di incazzarsi con me, non sarebbe di certo scappato a casa''. Non potè fare a meno di essere schietto. Sperò che Lance non si aspattasse delle scuse da parte sua, perché in quel caso lo avrebbe deluso.

''Non sei l'unico che glielo fa notare. Dice tanto di te che non gli dai retta, e poi non riesce a gestire una cavolata del genere”. Anche il portiere diede voce ai suoi pensieri senza riserve.

Leeroy si chiese l'utilità che potesse avere quella conversazione: Lance avrebbe dovuto sapere che non ci avrebbe mai provato con Abigail. O meglio, Miles avrebbe dovuto saperlo. Paradossalmente la secondogenita di casa Twain era una sua vecchia conoscenza e una cara amica da tempo immemore. Molti dei guai che aveva combinato avevano anche lei come complice. Negli ultimi anni però si erano persi di vista.

“Te lo dico ora e non lo ripeterò ancora. Quindi se vuoi una prova fai una registrazione e falla ascoltare a Reginald”.

Lance lo guardò sorpreso.

''Non potrei mai e poi mai baciare o fare sesso con Abigail. Andavamo all'asilo insieme, sarebbe come baciare mia cugina”, disse con tono irremovibile.

“Guarda che con me non devi giustificarti”.

“Da come ne parli però sembrerebbe il contrario”.

La discussione finì per quel momento, in quanto il difensore era troppo preso dal traffico per poter rispondere ad ulteriori domande.

“Potresti fermarti al prossimo incrocio?”, chiese il portiere quasi allarmato. “Parcheggia davanti al bar. Mi sono scordato di prendere i turni per la prossima settimana”, spiegò subito dopo. Di solito era molto responsabile, ma il giorno prima era corso velocemente a scuola e aveva dimenticato di prendere la tabella.

Rogers sbuffò maledicendosi per aver voluto accompagnarlo.

“Che palle Lee. Se entri e fai il bravo ti offro un caffé”, disse con un tono volutamente simile a quello di una madre che parla al figlio capriccioso.

Il difensore sbuffò nuovamente e si fece coraggio. Un espresso era ciò di cui aveva bisogno.

 

Parcheggiò davanti al locale nel posto adibito al carico/scarico merci. Lance gli disse che si sarebbero trattenuti giusto il tempo necessario per un caffè. Scesi dall’auto, il rosso fece strada dentro il locale. Si trattava di un piccolo bar che apriva prima dell’alba per le persone che andavano presto a lavoro, o per i ragazzi che rientravano da festeggiare il sabato e la domenica mattina. Leeroy pensò che il portiere non dovesse avere tanto tempo per il divertimento dopo aver dato un'occhiata veloce agli orari. Dentro si respirava un piacevole profumo di caffè e di aromi per dolci. “Viene fatto tutto a mano?”, domandò incuriosito. “Sì, dicono che facciamo i muffin più buoni della città”, rispose distrattamente l'altro, dirigendosi verso la stanza adibita al personale. “Siediti pure e ordina quello che vuoi, faccio in un attimo”, aggiunse poi, chiudendosi la porta alle spalle.

Leeroy ne approfittò per guardarsi un po’ intorno. Non c'erano tanti tavolini, erano giusto una decina. Si sedette ad uno vicino al banco dei dolci. Le pareti erano ricoperte da carta da parati argento con ghirigori a forma di ginestre e fiori di ciliegio, alternate a zone dipinte a righe nere e bianche. Quel posto sarebbe sicuramente piaciuto a Jo. In effetti un po' di fame l'aveva.

Un uomo arrivò a prendere la sua ordinazione: doveva trattarsi del proprietario, a giudicare da come parlava con i clienti. ''Sei un amico di Lance?'', domandò sorridente. Era un signore sulla quarantina vestito come un cameriere di un hotel importante, con tanto di cravatta e gilet nero. “Giochiamo nella stessa squadra”.

“Spero che quest'anno riusciate a vincere”.

“Abbiamo buone possibilità”.

“Cosa ti posso portare?”, domandò gentilmente.

Leeroy guardò distrattamente il centrotavola, non capendo come estrarre il menù. L’orchidea che stava a mò di decorazione lo fece rabbrividire: era uguale a quelle che comprava sua cugina da piccola per fargli delle coroncine. Si era sempre domandato perché diavolo sua zia avesse avuto solo una femmina: se avesse avuto anche un altro figlio, Jo non avrebbe traumatizzato la sua infanzia. Sicuramente la cugina aveva ancora delle foto nascoste chissà dove. Rabbrividì di nuovo, pensando se fossero finite in mano di sua madre. Sperò vivamente di no!

Capì poco dopo che doveva semplicemente schiacciare la clip. ''Intanto un espresso, un bicchiere d'acqua... e gradirei una fetta di cheesecake con la frutta di stagione”, disse con un sorriso di gratitudine e cortesia. Era una di quelle cose che gli riuscivano bene.

Lance, che aveva assistito alla scena, non rimase stupito dai modi di fare del difensore, si immaginava avesse dei modi così ben educati, in fondo. La cosa lo innervosì un po'. La sensazione di stare cadendo in un buco nero lo colpì come una doccia gelata. Si era ripromesso di non coltivare quel sentimento di gelosia nei confronti delle altre persone, ma vedendo Leeroy ordinare si sentì fuori posto persino nel locale dove lavorava. Eppure l'altra volta non era andata allo stesso modo, anche se allora i loro rancori erano più presenti che mai. Scosse la testa come per scrollarsi quella sensazione di dosso.

“Jack, a me porti un cappuccino, per favore?'', chiese al suo capo. L'uomo annuì.

“Domani ricordati di portare la pendrive con il nuovo menù della settimana”.

“Non preoccuparti”.

Si sedette di fronte al difensore, che continuava a guardare la carta; gli sembrò molto concentrato. Forse era uno di quei amanti dei dolci come Adam o sua sorella.

“Li prepari anche te?”, domandò sovrappensiero Rogers, chiudendo il libricino.

“No, faccio solo le bevande e servo ogni tanto”.

Rimasero in silenzio fino all'arrivo delle ordinazioni. Non avevano molto da dirsi in fondo, o almeno così pensavano.

“Ecco a voi, naturalmente offre la casa”, disse Jack facendo l'occhiolino a Leeroy, poi se ne andò con un sorriso malizioso. Il ragazzo rimase interdetto, non capendo il significato di quel gesto.

“Pensi che Miles mi darà comunque le ripetizioni?”. Notò che il rosso non aveva versato zucchero nel suo cappuccino. La cosa lo disgustò un po': personalmente non riusciva a berlo amaro, quel sapore forte lo infastidiva.

“Certo che sei proprio un opportunista”, commentò scherzando, ma ciò non tolse che stesse dicendo la verità.

“Non sono un opportunista è lui ad essersi preso un impegno”.

“Allora ti consiglio di chiarire con lui”.

Lance si stupì nell'udire quelle parole: che il compagno di squadra ci tenesse infondo ai suoi risultati scolastici, o era una scusa solo per poter disputare le partite? Non voleva pensarci troppo, non erano affari suoi, ma lo innnervosiva il suo comportamento nei confronti di Reginald.

“Cosa ne sai te di queste cose poi? Non sai nemmeno come si trattano le ragazze”, commentò irritato il difensore dopo qualche momento.

Il portiere inarcò un soppracciglio, spiazzato da quell'uscita. “Scusa ma che centra?”, rispose con lo stesso tono.

“Quella ragazza ci ha provato con te e l'hai trattata con sufficienza, ed era bella. Che hai nella testa?”, domandò prima di addentare il dolce che gli era appena stato servito per la rabbia. Il rosso si chiese a cosa potesse mai servire quell'esempio.

“Ma sei scemo? Non sono affari tuoi ciò che faccio. Ma se vuoi saperlo, non è il tipo di persona con cui potrei avere una specie di relazione, se così la vuoi chiamare”, fece con tono ancora più irritato del dovuto. Odiava le domnde personali, specialmente da persone che non sapevano nulla di lui e si preparavano a gettare giudizi come se fossero elemosina.

Leeroy non si agitò e non alzò la voce; lasciò finire l'altro mentre sorseggiava il suo espresso con un cucchiaino e mezzo di zucchero.

“Sarai mica gay?” chiese allora innocentemente, dopo aver riappoggiato la tazzina sul piattino, guardandolo finalmente negli occhi.

Se prima il portiere era irritato e quasi furibondo, ora si era stranamente calmato. Puntò a sua volta lo sguardo in quello dell'altro.

“Potrei dire lo stesso di te”, rispose con una calma irreale.

“Non sono una persona che lancia pregiudizi a cazzo come i miei due amici”.

Ed era vero: voleva solo infastidito un po'. Non gli fregava nulla della vita sessuale del portiere, o meglio, della sua vita privata in generale. Gli piaceva punzecchiarlo, e lo divertiva il fatto che fosse l'unico a fargli perdere le staffe.

“Non si direbbe”.

“Senti, non ho intenzione comunque di parlare con Reginald. Se la deve vedere lui. E' carino che tu voglia prendere le sue parti, lo avrei fatto anche io, ma non delicatamente come stai facendo tu”.

Lance si massaggiò le tempie. Si sentiva tutte le energie prosciugate solo per aver parlato con quel cretino. Non gli interessava cosa pensasse di lui, ma odiava le sentenze.

In quel mentre arrivò Jack. “Ragazzi tutto bene? Ho notato un po' di tensione, non vorrei che vi prendeste a pugni del locale”, scherzò.

Il rosso maledì mentalmente Leeroy per avergli fatto fare brutta figura con il capo.

“Non preoccuparti, non è così stupido da picchiarmi in un locale pubblico... anche se in realtà è già successo”.

“Ah già, al pub vicino alla pizzeria di Daniele a marzo... Non posso più metterci piede”, raccontò con un sospiro di delusione. Gli piaceva quel locale, avevano una buona birra e bella musica.

“Nemmeno io posso metterci più un piede dentro, grazie a te”.

*

Adam arrivò mezz'ora prima della chiusura del locale. Lo faceva spesso. In realtà era la sua passione per quei muffin fatti in casa e per il cappuccino a spingerlo là ogni volta. Entrò facendo un cenno di saluto a Jack, che stava parlando e scherzando ad un tavolo con tre ragazze; doveva aver già finito il turno e si stava godendo una buona compagnia. Si sedette al bancone dove Lance stava preparando dei cappuccini. “Buonasera!”, disse per attirare l’attenzione del ragazzo più giovane.

Il portiere lo guardò poco sorpreso, si aspettava che arrivasse in anticipo. Sapeva già cosa voleva. “Il solito?” chiese prendendo i cappuccini e avviandosi al tavolo che li aveva richiesti.

“Altrimenti non sarei qua”, rispose con un’aria furba da ragazzino. Adam Twain era più grande di lui di tre anni, ma per certe cose sembrava un bambino di dodici anni. Ringraziò solo di non lavorare in una gelateria o in un ristorante. “Oggi devo fermarmi mezz’ora di più, ho l’inventario da fare e Jack tra poco va via”, lo avvisò.

“Nessun problema”. Twain si alzò e andò a sedersi ad un tavolo che si era appena liberato vicino alla parete destra. Notò che il proprietario aveva rinnovato i centrotavola: fino a una settimana prima c’erano delle statuette di terracotta che raffiguravano pesci e stelle marine. Aveva sempre trovato le altre statuette troppo appariscenti. Ora invece vi erano delle piccole orchidee azzurre e rosa in vasetti in vetro nero e bianco, a lato dei quali vi era come una clip fatta in modo da tenere il menù del locale. Ad Abigail sarebbero piaciute, magari poteva farsi dire dove le aveva prese e comprarne un paio per la sorella.

Fu riportato alla realtà dall’arrivo di Lance. “Ti è permesso restare qua solo perché stai simpatico a Jack”, disse con tono duro il rosso, appoggiando cappuccino e il muffin ai mirtilli sul tavolo. Adam rise.

“In realtà posso perché Jack era a scuola con mio padre, e sa dove venirmi a prendere se dovesse mancare qualcosa dall’incasso”.

Il giovane lo guardò con sguardo torvo. Adam sembrava non badare mai molto alle minacce degli altri: solo le minacce reali lo spaventavano, come poter finire in galera o prendere una multa. Un ragazzo avrebbe anche potuto minacciarlo di morte e lui non si sarebbe scomposto, lo avrebbe guardato in faccia e avrebbe riso. Lance a volte si chiedeva se non vivesse in un suo mondo, fatto di quadri, musica ed erba.

“Allora mettiti comodo e aspetta che vadano via i clienti”. Lance si allontanò andando a servire le ultime persone della serata.

Adam notò che il collega aveva un ottimo charm con i clienti. Riusciva a vendere alle persone tutto quello che voleva, e nessuno si lamentava mai del prezzo. Il ragazzo sapeva vendere. Avrebbe saputo però vendersi? Quando sarebbe arrivato il momento, sarebbe riuscito a far in modo che qualcuno scommettesse su di lui? Non importava se sarebbe stato per l’università o per il calcio, ma avrebbe dovuto farlo. Altrimenti non sarebbe mai andato via, non sarebbe mai cresciuto. Il timore che tutti i suoi sforzi non sarebbero serviti a nulla era un presentimento che lo assillava da molti mesi a quella parte. Alexandra ci era riuscita. Il suo, però, era un dono naturale, per questo ora poteva fare ciò che voleva. Ma non era sicuro che la ragazza fosse libera o meno da tutto ciò che si era lasciata alle spalle. Sicuramente non si era ancora liberata dei suoi demoni. A confermarlo era il fatto che quando chiamava Lance non chiedesse mai della madre. L’amico non glielo aveva raccontato, ma lo aveva intuito, e poi conosceva lei. Quanto aveva pregato per la sua felicità?

Prese lo zucchero e lo versò nella bevanda calda: due cucchiaini per lui non bastavano, abbondava sempre almeno poteva sentire un po’ di dolcezza. Lui non aveva i problemi degli Stark, ma aveva i suoi. Ed era per quelli che faceva ciò che faceva. Bevve tutto in due sorsi. Appena rivide Lance passare ne ordinò un altro.

“Certe volte rompi le palle”.

“Come sta Alex?”, cambiò discorso. Non voleva veramente chiederlo, ma le parole gli erano uscite di bocca.

Il cameriere inarcò un sopracciglio: Adam non lo aveva mai stupito come in quel momento. Non gli aveva mai chiesto come stesse la sorella, anzi: non l’aveva mai nominata da quando era andata via per studiare a Liverpool. Mentre lei chiedeva ogni volta di lui.

“Ma ti droghi?”, disse senza pensare.

“Ogni tanto”, rispose il più grande cercando di mantenere un profilo serio, ma stava per scoppiare a ridere.

“Idiota”. Lance gli strinse la spalla fino a fargli male.

“Sai che non sono come gli altri ragazzi quando parlo di lei”, rispose con un sorrisetto isterico per celare il dolore fisico che stava provando. Il rosso lo lasciò andare. “E’ questo il problema”.

“Stark, sei stronzo come tua sorella”, scherzò dolorante.

“Dote di famiglia”.

*

Dopo che Lance aveva gentilmente mandato via anche gli ultimi clienti insieme al proprietario, chiuse la porta a chiave. Adam si accese una sigaretta e ne offrì una all’amico, che intanto aveva spento le luci più forti per accendere quelle soffuse. Infine si sedette di fronte all’altro. “Allora... in poche parole siamo nella merda fino al collo. Se facciamo il prossimo colpo rischiamo seriamente di essere beccati”, disse Adam senza tanti giri di parole. Era sicuro al cento per cento che durante l’ultima “commissione” il vicino del loro “ospite” fosse quasi riuscito ad intravedere la sua auto. Sapeva che sarebbe potuto essere facilmente rintracciato. Per questo dovevano dare un fermo alle “vendite” almeno per un po’. Per lui non era un problema farlo, ma sapeva che per il collega non era lo stesso. Il cameriere espirò il fumo della sigaretta lentamente per prendersi un po’ di tempo per sé, poggiando i piedi sul tavolino.

“La cenere buttala nel piattino. Grazie”, suggerì Lance all’amico. Non gli andava di pulire il doppio di quello che già avrebbe dovuto. Alzò la testa al soffitto con la sigaretta in bocca pensando sul da farsi. Avevano già stabilito i possibili piani di fuga se si fosse dovuto presentare un inconveniente come quello. Per lui però decidere era difficile. Non poteva fermarsi.

“Quindi abbiamo un mese?” domandò, ma la vera domanda che pose a se stesso fu: “Ho un mese?”

“Sì”. Adam annuì gettando fuori il fumo dalle narici. “Per un mese non si farà più nulla”.

“Sai già che non me lo posso permettere”, commentò con tono piatto. Non stava obbligando Twain a seguirlo e a farlo rischiare di essere beccato solo per i suoi problemi. Stava solo ribadendo com'era la sua situazione.

I loro sguardi si incontrarono senza alcun timore dell’altro. Gli occhi di Lance erano troppo grigi e spenti per un ragazzo della sua età; Adam non vi vide alcuna supplica, solo una piena consapevolezza delle conseguenze.

“Ti farò avere foto e altre info sulla villa. Dopo di che la nostra collaborazione finirà. Ovviamente tornerò a trovarti al bar oppure qualcuno si potrebbe insospettire, ma per il resto te la dovrai vedere tu”. Il ragazzo più grande non era mai stato serio come in quel momento, e per Lance sembrava una specie di barzelletta. Si domandò se Adam alla fine ci tenesse veramente alla considerazione dei suoi genitori dal non voler finire in galera, o più semplicemente il suo autocontrollo sapeva quando dire basta. Il portiere spense la sigaretta nel piattino e ne prese un’altra sfilandola dal pacchetto del collega, accendendola subito.

“Hai del whisky?”

“Offro io”, rispose alzandosi e andando dietro il bancone. Si mise la sigaretta tra le labbra e sfece il codino che fino a quel momento aveva portato e riutilizzò l’elastico a mò di fascia, tenendo i ciuffi troppo corti lontani dagli occhi. Alle donne piaceva vederlo quando lavorava, se ne era subito accorto e solo per quel motivo continuava a portare i capelli raccolti; con quel trucchetto riusciva sempre a beccarsi delle buone mance. Però, quando il lavoro finiva, ritornava ad essere se stesso. Quelle ciocche lo avevano infastidito sin da bambino.

“Tagliati quei capelli per l’amor di Dio, sembrano quelli di una ragazza”.

“Ma non rompermi la palle”, rispose tornando con la bottiglia e due bicchieri.

Il cellulare di Lance squillò.

“Fai pure”.

Il cameriere accettò la chiamata. “Pronto?”

“Dove sei?”, chiese la voce di Miles.

“A lavoro?” rispose con tono ovvio. “Oggi ho l’inventario, rimango fino a tardi. Avevi bisogno di qualcosa?”. Il portiere sentì la voce del capitano insicura per un momento: che non si fidasse delle sue parole?

“No, non fa niente. Ci vediamo domani”, rispose infine con tono poco convinto, riattaccando subito. Che qualcosa non lo convincesse, o che fosse ancora nervoso per la storia di Abigail? Non lo sapeva. Si chiedeva perché certe volte avesse paura di porgli domande per quanto personali potessero essere. Miles era sempre lì per lui, lo proteggeva o almeno così pensava di poter fare, tenendolo lontano da persone come Twain, ma non era così. Reginald non avrebbe mai potuto capire.

“La tua fidanzata ti controlla?”, scherzò il ragazzo più grande.

“Sai che se ti vede ti spacca la faccia?”

“E nonostante ciò è innamorato perso di mia sorella. Dai, è un ragazzo coraggioso. O semplicemente deve rivedere le sue priorità”, aggiunse sempre con tono ironico.

Lance gli rivolse uno sguardo torvo. “Potrei dirti lo stesso”.

A quel commento Adam quasi sbiancò. “Ripeto, voi Stark siete proprio dei gran bastardi”.

Il cameriere versò l’alcolico ad entrambi. “A noi Stark” propose il più giovane prendendo in giro il collega, il quale rise amaramente e ribattè: “A voi Stark”. E bevve tutto d’un sorso.

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Capitolo 10
*** Capitolo 10 ***


The last chance
X


Chiuse l'ultimo cassetto cercando di non fare rumore, anche se era solo nella villa. I padroni erano andati via in vacanza portandosi dietro il cane. Era rimasto colpito quando lo aveva scoperto, non era cosa da tutti. Non sarebbe nemmeno stato un problema mettere un leggero tranquillante i una bella bistecca; per sua fortuna non aveva dovuto farlo. Fuori il cielo notturno, che tra qualche ora avrebbe annunciato l'alba, era cosparso di stelle. Solo in collina si riuscivano a vedere, i ricchi potevano permettersi anche quello. Cercò di sbrigarsi tentando di non perdere altro tempo in smancerie, non gli sembrava il caso. Soprattutto se era senza il sostegno di Adam; doveva essere più cauto.

Uscì dalla porta pincipale come era entrato, per poi riallacciare il sistema di sicurezza. Quello era un trucchetto che gli aveva insegnato un amico di Adam che in quel momento stava scontando una pena di tre anni a Liverpool.

Respirò l'aria fresca e frizzante di quella notte. Si assicurò per l'ennesima volta che lo zaino nero fosse ben chiuso, così si diresse verso il muro di recinzione per issarvisi sopra. Controllò che non passasse nessuno. Quella però non doveva essere la sua serata. Dei fari illuminarono il cancello in ferro battuto. "Merda." Cercò di ricadere sull'erba senza fare rumore, mentre la volante parcheggiava sul marciapiede. Attese rannicchiato contro il muro sperando che non entrassero. Forse avrebbe dovuto dare retta a Twain, ma ricacciò quel pensiero subito da dove era venuto. Non poteva di certo agitarsi e mandare tutto a monte. Aveva sempre saputo che quell'inconveniente sarebbe potuto venirsi a creare.

I poliziotti scesero e si avvicinaro all'entrata controllando poi da fuori che tutte le luci fossero spente. "Qui sembra tutto in ordine. Passiamo alla prossima?" domandò uno dei due, mentre con la torcia cercava di illuminare un po' al di là dell'inferrata.

"Sì, andiamo avanti”, fece l'altro, “da quando i ladri sono arrivati a colpire anche in questa zona, gli abitanti hanno anche paura di andare al cinema la sera”, aggiunge, dirigendosi verso l'auto.

"Non capisco nemmeno perchè con tutti i soldi che hanno non abbiano pagato una di quelle agenzie private”, commentò infastidito il primo. Dal tono di voce doveva essere uno sforzo enorme per lui fare la guardia alle proprietà altrui.

"Chiudi il becco e sali”.

Dal suo nascondiglio Lance non era riuscito a vederli, ma per come li sentì andare via gli scappò un sospiro di sollievo. Aspettò qualche secondo prima di risalire sul muretto e cadere dall'altra parte. Guardò l'orologio. Quell'inconveniente gli aveva fatto perdere tempo. Avrebbe dovuto camminare fino in centro e gli ci sarebbe voluta almeno un'ora. Sicuramente sarebbe arrivato tardi a scuola.

Arrivò a casa che il sole non era ancora sorto e l'aria iniziava ad essere pungente, la sua felpa non lo proteggeva più dal freddo ormai. Entrò in casa trovando la madre addormentata sul vecchio divano in pelle del salotto. Certe volte gli veniva da ridere all'idea che una volta prendevano il tè delle cinque proprio in quella stanza come tutte le persone normali.

Prima di dirigersi in camera sua spense la tv, non sopportava il brusio delle televendite così presto la mattina. Una volta in camera sua, buttò lo zaino sotto il letto per poi crollare su di esso, sfinito. Fortunatamente aveva già messo la sveglia anche se sarebbe suonata da lì ad un'ora, non avrebbe di certo dormito tanto.


 

“Quindi?”

“Quindi cosa?”

“Vieni a lezione e basta. Non mi lasci come un coglione a fare niente mentre il prof interroga”, disse Miles irritato. Lance alzò gli occhi al cielo. “Allora vieni anche te con me in caffetteria. Senti, ho lavorato come un matto nell'ultima settimana, non reggo un'ora senza addormentarmi con quel cadavere ambulante del signor Rimes, ok?” disse quasi sbadigliando il portiere.

Stavano rientrando in classe dopo la pausa e Lance aveva deciso all'ultimo momento di dare buca all'ora di storia senza prima aver interpellato il suo migliore amico.

“Ti odio”, sentenziò a quel punto il capitano, gettando la spugna. Non riusciva quasi mai a far cambiare idea a Lance; o meglio, non riusciva a fargli fare ciò che voleva. Passarono davanti alla caffetteria dove alcuni ragazzi dei diversi anni stavano ancora facendo la fila per poter avere un panino o dell'acqua.

“Io mi fermo qua. A dopo.”

“Stronzo.”

Nel girarsi Stark notò subito la figura di Rogers china sui libri. Non poteva credere ai suoi occhi: una visione più unica che rara, pensò ridendo. “Penso sia meglio tu vada ora”, disse indicandogli il difensore con la testa. Trovò divertente l'espressione che fece il viso dell'amico.

“Ci si vede agli allenamenti.”

“Non ti mangia mica.” rise prenderlo in giro.

Dopo che Miles era sparito pensò bene di andare direttamente da Rogers, voleva vedere se stesse davvero studiando o meno. Era semplicemente curioso. Il difensore aveva le cuffie alle orecchie e sembrava non tener conto delle persone nel locale. Davvero, quello era un evento più unico che raro. Gli si avvicinò piano, mentre l'altro continuava a sottolineare e a leggere, e con un movimento veloce gli tolse una cuffia. Lo fece sobbalzare e gli regalò l'ennesima occhiata truce.

“Che vuoi?”

“Stai calmo, ero curioso di vedere cosa stessi facendo”, asserì spostando la sedia e sedendosi di fronte al compagno di squadra. Leeroy a quel punto si tolse anche l'altra cuffia. Sicuramente non sarebbe andato più avanti di così quel giorno. Ma probabilmente, anche se Stark non fosse arrivato, non avrebbe comunque combinato molto.

“Come procede quindi lo studio?”, chiese come se nulla fosse. Rogers inarcò un sopracciglio come suo solito. “Stai cercando di intavolare una specie di conversazione?”.

Lance nascose la faccia nei palmi delle mani quasi dalla disperazione; si chiese perchè mai il terzino dovesse fare domande del genere. “No, cerco di parlare con i libri, loro almeno sono di compagnia”, borbottò da dietro le mani.

“Perchè non sei in classe?” domandò a quel punto Leeroy stupito. mentre chiudeva il tomo di storia. Lance incrociò le braccia sul tavolino e vi accoccolò la testa, sbadigliando. “Ho lavorato troppo e se entro da Rimes e dormo mentre interroga mi sbatte fuori... è già successo.”

“Vai in infermeria allora.” Stark alzò la testa di botto. “Seriamente? In quel buco con quella vecchia che mi palpa le cosce anche quando non sto male?”

Leeroy scoppiò a ridere. “Oh mio dio! Lo fa a tutti allora.”

“L'unico che si salva è Miles, ma se sapesse fare i massaggi non sarebbe neppure un problema.”

Tornò giù con la testa. “Lee, ne hai per molto?”

“Volevo ripassare prima di andare da Miles, starò qua ancora un'ora, credo. Perché?” chiese curioso e leggermente infastidito per come lo aveva chiamato ancora una volta.

“Tu studia da bravo. ché ti serve, e io dormo. Svegliami tra un'ora”, disse prendendo l'iPhone di Rogers, con tanto di cuffie, indossandole. Ricevette uno sguardo truce in risposta.

“Il mio è scarico, e a te non serve la musica per studiare.”

Seriamente, quel cretino non aveva un altro posto dove poter andare a dormire? Leeroy aprì nuovamente il libro di storia, tornando alla rivoluzione francese. Si depresse subito nel constatare che non ricordava una sola parola di ciò che aveva studiato prima. “Voglio morire.” sospirò. Vedere Lance dormire gli fece tornare su tutta la stanchezza della notte precedente, passata a leggere quelle pagine. Tra due settimane avrebbe avuto il recupero e non sapeva nulla, se non che a Maria Antonietta piacessero le brioches. Aveva bisogno di un miracolo.

“Ho bisogno di caffè!” si alzò, andando al bancone. Odiava il caffè della scuola, in particolare quello delle macchinette era il peggiore di tutti. Quello alla caffetteria lo facevano con le cialde; non si avvicinava nemmeno a quello che aveva a casa, ma era meglio di nulla. “Un espresso per favore.”

Dopo averlo preso ed essere tornato al posto, si rimise a studiare. Non ci riusciva però, aveva perso la concentrazione. A dirla tutta non ne aveva mai avuta. Si distrasse fissando il compagno di squadra, che nel frattempo aveva tirato su il cappuccio per coprire gli occhi. Stranamente non aveva lentiggini. Tutti i pel di carota che aveva conosciuto le avevano marcate e sembravano davvero quasi ortaggi. Lui no. Notò che aveva anche la musica a tutto volume e riconobbe la melodia di Iron Man dei Blach Sabbath.

Una cosa in comune che non sia il calcio, pensò una parte di lui. Forse erano sulla buona strada per essere quasi amici.

*

Era strano avere ancora Abigail lì con loro; non gli dava fastidio, solo non capiva perché fosse così tanto ostinata a restare con loro. Si allenava solo assieme a lui, continuando a non guardare in faccia Miles e obbedendo a tutto ciò che Stan le dicesse. Di solito lei faceva sempre di testa sua, senza ascoltare mai nessuno.

“Ti sei incantato?” chiese lei mentre gli passava la palla.

“Ma fra quanto puoi tornare a giocare nella tua squadra?”

“Un altro discorso?”

Leeroy alzò gli occhi al cielo, esasperato dalla ragazza. “Ma perché devo farti da babysitter?”, chiese ancora.

“Allora facciamo cambio”, sbottò lei. innervosita da quelle lamentele, ma nel girarsi vide Miles che la guardava e così tornò a fare i suoi esercizi, lasciando perdere Rogers.


 

Durante gli allenamenti non era riuscito a togliersi dalla testa il ritornello di Iron Man. Odiava quando succedevano quelle cose. Il problema era che lui era una di quelle persone che ascoltavano la stessa canzone a ripetizione per ore, se non giorni. Cercava anche di rimanere concentrato su quello che stava facendo ma non ci riusciva per la stanchezza. Non ne aveva proprio voglia e la canzoncina a ripetizione nella sua testa non aiutava.

Oltretutto Miles quel giorno era veramente snervante. Non era ben sicuro quale fosse il motivo: se perché l'aveva lasciato solo a lezione o perché Abigail non accennava ancora a rivolgergli la parola. Vedeva come lui si rigirava stizzito e frustrato ogni volta che lei rideva con Leeroy.

Stavano facendo vari esercizi di riscaldamento, quando all'ennesima sbuffata del capitano Stark lo mandò a quel paese per dirigersi verso la fonte del problema. La mancanza di sonno non lo aiutava ad essere più accondiscendente, di solito avrebbe lasciato stare ma non era normale che il suo migliore amico continuasse quella pagliacciata.

"Abigail, facciamo cambio. Io e Lee dobbiamo riappacificarci, vai a fare da balia a Reginald per favore”, esordì dal nulla quando giunse da loro.

La ragazza rimase perplessa e si irritò subito. “Ma anche no."

Lance alzò gli occhi al cielo pensando che non aveva voglia nemmeno di sopportare i suoi capricci. "Senti, fai come ti dico e vivremo tutti più tranquilli”, replicò prima di prenderla di peso su una spalla e portarla come un sacco di patate dal capitano.

"Noi ci cambiamo, penso che persino Rogers oggi sia più simpatico di voi”. Detto ciò tornò dal terzino che non aveva pronunciato parola in tutto ciò.

"Seriamente dopo questa ti offro da bere”, commentò Leeroy, sconvolto e divertito allo stesso tempo.

“Facciamo gli esercizi prima che mi penta di quello che ho fatto”, rispose il portiere preparandosi a fare le flessioni.

 

“Miles mi porti a casa?”, domandò mentre si buttava a sedere su una delle panche di fronte agli armadietti dello spogliatoio.

“Non ho ancora la macchina. Vado in autobus, di nuovo”, rispose frustrato.

“Che palle”.

“Mi hai lasciato un’ora a giocare a Candy Crush durante storia, stavo morendo dalla noia.”, ribattè con tono leggermente alterato mentre si spogliava per andarsi a lavare.

“Non fare la moglie tradita, non ti si addice. Allora prendo il taxi”.

“Fai come ti pare”.

Si alzò dalla panca e iniziò lentamente a cambiarsi, si sentiva un cadavere. In cinque minuti fu fuori, all'aria fresca della sera. Abigail era poggiata al muro, mentre telefonava.

“Ti viene a prendere?”, domandò alla ragazza sapendo già con chi stesse conversando. “Sì, ma dopo quello che mi hai fatto prima col cavolo che ti faccio accompagnare a casa. Eh, come? Pizza?” Abigail si volse verso il rosso, stizzita. “Ti va di venire a mangiare una pizza? I miei non sono a casa e Adam è tornato ora dall'università.” Stark annuì facendo un sorriso a trentadue denti.

"Sei una carogna.”

"Almeno io non sono una ragazza frigida."

Iniziò a prenderlo a pugni sulla spalla mentre si avviavano verso la strada principale, ad aspettare che Adam venisse a prenderli con la macchina.

*

La partita stava per volgere al termine. Era la prima del campionato, e come promesso Leeroy insieme agli altri ragazzi con le insufficienze erano in panchina.

Questa volta il ragazzo però sembrava più tranquillo. Conosceva la squadra avversaria: non era molto forte, ma non andava nemmeno sottovalutata. In difesa se la sarebbero dovuti cavare benissimo anche senza di lui, se non fosse stato per un infortunio di Julio. I due non avevano neppure iniziato ad allenarsi assieme e Stan aveva pensato bene di ributtarlo in campo come terzino destro. Si chiedeva seriamente se l'allenatore avesse iniziato a farsi di acidi.

Affianco a lui, un Andrew poco interessato alla partita teneva in mano i manuali di matematica, in preparazione per la verifica di lunedì mattina.

“Come riesci a studiare in un momento come questo?” domandò quasi sconvolto al più giovane. “Stiamo due a zero, Leeroy, perché dovrei essere preoccupato?” rispose tranquillamente.

“Perchè Julio si è fatto male e non riesce a appoggiare bene il piede per terra”.

Andy chiuse il libro di botto per controllare il compagno di squadra nel campo. “Come lo sai?” “Quando l'attaccante gli è andato contro durante il calcio d'angolo gli è atterrato sulla caviglia, ma lo stupido ha pensato bene di far finta di nulla”, spiegò, incrociando le mani sotto il proprio mento con forza, per cercare di mantenere la calma. Aveva l'adrenalina a mille, avrebbe voluto entrare in campo, ma anche volendo non avrebbe potuto. Stan aveva già fatto tutti gli scambi disponibili per provare i nuovi giocatori. La partita sembrava vinta, ma con lo spagnolo infortunato non c'era da scherzare. Gli avversari se ne sarebbero subito approfittati.

Mancavano ancora dieci minuti alla fine e per ora la difesa sembrava reggere. Lance stava dirigendo l'orchestra al meglio, come suo solito. Se la sarebbe cavata, pensò, ma non riusciva comunque a non essere in pensiero. Gli altri non erano sprovveduti; chiunque avrebbe saputo aprirsi un varco fino alla porta. Dopo due minuti l'ala sinistra scappò all'inseguimento di un lancio lungo del suo terzino sinistro. Julio non si scompose nel ritrovarsi il ragazzo davanti, anzi; straordinariamente cercò di guadagnare tempo, facendo in modo di ostacolarlo. Durò poco, ma bastò per far reimpostare al portiere la difesa. L'altro giocatore riuscì comunque ad arrivare fin sotto rette e a tirare al sette. “Davvero un bel goal!”, sospirò Leeroy dalla panchina.

“Come?” domandò Andy leggermente incredulo.

“Non hai visto che bella azione? Ha saltato tutti i difensori ed ha preso la rete”.

“Okay, ma per chi fai il tifo?”

“Hai bisogno di tempo per capire queste cose.”

“Disse quello che si è fatto quasi buttare fuori dalla squadra.”

La nuova recluta ricevette un'occhiata di gelo. “E' ovvio che se al posto di Julio ci fossi stato io, non si sarebbe neppure avvicinato, ma ha comunque approfittato della situazione. Il pallone è tondo e qualsiasi cosa può succedere.”

Andy lo guardò stranito. “Ti giuro, certe volte le tue spiegazioni non hanno senso.”

“Perché sei un topo da biblioteca e non un vero sportivo. Conosco il tuo piccolo segreto”, rispose ridacchiando tra sé e sé.

*

Era a casa già da un paio di minuti. Appena entrato, era subito corso al bagno del piano di sopra per lavarsi. Quel giorno era letteralmente scappato dopo la partita. Forse aveva la luna storta, come aveva detto Akel, o più semplicemente gli stavano partendo i nervi. Avevano vinto, ma non gli sembrava di essere particolarmente coinvolto. Voleva rientrare in campo ad ogni costo.

Si spogliò e si infilò nel box doccia. Non aveva voglia di fare nulla, persino i suoi pensieri erano ovattati. Appena finito se ne sarebbe andato subito a letto. Forse aveva solo bisogno di riposo.

Si sentiva così stanco che non si accorse subito delle urla provenienti dal piano di sotto. Pensò di essersi immaginato tutto, ma comunque aprì l’anta e chiuse il rubinetto, mettendosi in ascolto.

“Porca puttana!”. Sua madre stava urlando, e sentiva quelli che sembravano rumori di una colluttazione. Si diede mentalmente del cretino più volte mentre usciva dal box doccia, infilandosi solo i boxer per correre in camera sua proprio di fronte al bagno per prendere la mazza da baseball. Perché diamine aveva dato a sua madre della scema dicendole che mai nessuno sarebbe venuto a rubare loro in casa?

“Merda, merda!” ringhiò. Sperò vivamente che non ci fossero persone armate. Scese con passo leggero i gradini fino al soggiorno. Vide qualcuno buttare per terra dei piatti in cucina.

Muovi il culo coglione, pensò. Con uno scattò veloce entrò in cucina brandendo la mazza pronto a colpire l’intruso. Amanda nel vederlo entrare a quel modo urlò ancora più forte.

“Ma dico, ti sei bevuto il cervello?!”, sbraitò lanciando un piatto al muro alle spalle del figlio per lo spavento. “Mamma, ma sei scema?! Che cazzo stavi facendo?!” urlò anche lui lasciando cadere la mazza per terra. Stava per spaccare la testa a sua madre. Si sentì infinitamente stupido. Era ovvio che non c’era nessuno: era solamente una delle crisi da menopausa della donna.

“Tu e tuo padre siete uguali.”

“Eh?” Leeroy rimase per un momento perplesso, ma poi capì subito. Dovevano aver litigato per telefono. Chissà cosa fosse successo quella volta?

Si sedette su uno degli sgabelli di fronte alla penisola della cucina, facendo attenzione a non infilarsi qualche coccio in qualche parte del corpo. “Che è successo?” chiese a quel punto guardando negli occhi la donna, che a sua volta si era seduta, affianco al figlio.

“Non verrà a Natale. Ha detto che deve restare là per altre ricerche... mi ha promesso un bel regalo però, ha detto che lo pagheranno il doppio per quel mese”. Sospirò amareggiata cercando di sistemarsi i capelli arruffati.

Il ragazzo se lo era immaginato purtroppo. Da quando Maurice era partito era tornato a trovarli solo un paio di volte. Vedeva che sua madre, nonostante facesse finta di nulla. era in realtà distrutta; in più lui stesso non faceva che darle dei problemi. Anche se a dirla tutta sperava che riuscisse almeno un po’ a non pensarci. Non osava immaginare come sarebbe stato se una cosa del genere fosse dovuta capitare a lui stesso. Sicuramente avrebbe troncato subito.

Sua madre era una donna di fede. Si era innamorata di un uomo a sua volta innamorato della scienza, ed era difficile da sopportare. Ma lei affrontava questa cosa a testa alta. L’orgoglio che la distingueva dalle altre donne di ricche della città era il fatto che provenisse da una famiglia nobile. Nonostante lei se ne sia allontanata, certe cose non era riuscite a cancellarle. Come l’orgoglio, la fierezza, il non cedere mai a niente e a nessuno. Sua madre era una persona mille volte più forte di lui. Certe volte si ritrovava a pensare che se le loro parti fossero state invertite, sicuramente lei sarebbe riuscita a realizzare i suoi sogni. Perché in verità lei ci era riuscita: si era fatta da sola per i suoi sogni, non aveva aspettato nessuno. L’unico suo problema ora era questa lontananza che la stava uccidendo, e contro quelle miglia l’orgoglio e la fierezza non potevano fare nulla, se non dare una parvenza di calma.

“Vieni dai, ti faccio un tè”, sbuffò il ragazzo con tono rassegnato, avvicinandosi alla madre.

“Usa le tazze vecchie, non quelle buone”, gli ricordò Amanda, con il tipo fare da madre pignola. Leeroy allora l'abbracciò forte, strusciando la punta del naso sul suo collo. “Perchè riesci a rompere le balle anche quando sei così mamma?” scherzò il ragazzo.

La madre lo abbracciò a sua volta, facendosi scappare una risata. “Dai Roy, fai il tè. Mi raccomando: le tazze vecchie.”

Quella sera Rogers la passò a guardare film con la madre, seduti sul divano come quando lui aveva sei anni. La sensazione di calore che provava gli era mancata da tanto. Quant'era che non abbracciava qualcuno che amava?

 


 

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Capitolo 11
*** Capitolo 11 ***


The last chance
XI


"Allora, com'è andata?"

Adam entrò come sempre all'ora di chiusura. Anche se da fuori era già affisso il cartello con la scritta "chiuso" in bella vista, con tanto di luci abbassate e le tapparelle tirate giù, sapeva comunque che Lance era dentro a finire di pulire.

Il rosso alzò lo sguardo dalle tazze e bicchieri che stava finendo di asciugare, posandolo sull'amico. "Meglio di quanto pensassi."

"Scusa se l'altra sera non abbiamo avuto tempo per parlare, ma con mia sorella sai com'è..." disse sedendosi allo sgabello al bancone.

"Non è questo che mi preoccupa, ma la volante della polizia che mi sono ritrovato davanti alle quattro del mattino mentre stavo uscendo”, disse con tono grave.

Adam lo guardò incredulo. "Cosa?"

"Non preoccuparti, non mi hanno visto. Erano lì solo di controllo, a quanto pare i cittadini hanno chiesto delle ronde notturne per verificare che tutto sia okay”.

Il moro affondò la faccia nelle braccia conserte sul bancone. "Lavoro in più in vista della prossima volta. Dovremo controllare gli orari e fare gli appostamenti”, si lamentò.

"Se hai così voglia di lagnarti così perchè non ti trovi un vero lavoro?"

"Aspetto che qualcuno compri i miei quadri.”

"Aspetta e spera.” Chiuse così il discorso. Non aveva voglia di discutere con Twain, per certi versi era come la sorella. Si mise a fargli un cappuccino, almeno avrebbe tenuto la bocca chiusa.

Adam si rimise composto, tirando fuori il pacchetto di sigarette e accenderne una. Assottigliò gli occhi pensieroso, fissando un punto indefinito sulla macchina del caffè. Avrebbe dovuto trovare un modo per risolvere tutti quei problemi con il "lavoro". In realtà non sarebbe stato un problema, ma richiedeva tutto uno spreco di tempo assurdo e ciò lo infastidiva. Lance gli poggiò la tazza di cappuccino fumante sotto il naso. "Grazie."

"Pensavo la smettessi di lagnarti almeno”, fece in tutta risposta.

Ormai gli restava solo la macchina del caffè da pulire e quella era sempre una rottura; soprattutto quegli aggeggi dove dentro andava la polvere macinata. Non si era mai chiesto quale fosse il loro vero nome: li aveva sempre chiamati cosi o aggeggi.

"Cosa hai fatto a mia sorella? E' incavolata nera per qualcosa che le hai fatto ma non vuole dirmi cosa”, chiese Adam incuriosito, iniziando a versarsi lo zucchero.

Al portiere quasi scappò una risata. "Abigail era diventata insopportabile, le ho dato una mano a far tornare le cose normali”, scherzò sull'argomento. Era convinto che era stata la scelta migliore che potesse fare per la sua sanità mentale. Quelle soap opera adolescenziali non gli erano mai piaciute.

"E' ancora tutta colpa di Reginald?"

"No, stavolta è colpa di Abigail. Di punto in bianco ha smesso di considerarlo. Possiamo parlare di lavoro ora?", chiese a quel punto, infastidito. Quella era stata una giornata lunga fra scuola, allenamento e lavoro; voleva solo sedersi e fumare una sigaretta in santa pace. Non poteva preoccuparsi Twain per la sorella, quando entrambi sapevano benissimo che non sopportava Miles.

Bevve il cappuccino stizzito. Lance doveva essere proprio di pessimo umore quella sera; pensò che sarebbe stato meglio non andare ad insultare il suo migliore amico che ci provava con sua sorella.

"Per il prossimo colpo ho già indirizzo e nome. Si farà il prossimo mese, è una villa vicina a una dove eravamo già stati”, cominciò, poggiando i fogli con i disegni e gli appunti sul bancone.

*

"Leeroy Rogers, fermati subito!”, urlò la donna dalla cucina, sperando che il figlio le desse retta.

"Mà, sono in ritardo, e quando faccio tardi sei te che ti incavoli sempre”, rispose scocciato il ragazzo, correndo giù per le scale.

"E' importante, idiota, puoi ritardare per oggi, ma devi ascoltarmi”, disse impuntandosi come poche volte. Aveva persino preparato il caffè al figlio degenere per fargli andare giù la notizia che aveva in serbo per lui. Aveva passato così tanto tempo a formulare il discorso nella sua testa che poi aveva dimenticato di sbirciare l'ora. Il tempo era volato. Leeroy tra l'altro aveva deciso di diventare diligente proprio nel momento meno opportuno.

Il ragazzo corse in cucina per aprire il frigo e prendere una lattina di Red Bull, ma sentendo l'odore di caffè aleggiare nell'aria se ne versò subito un po' in una tazza grande. "Amanda la porto in macchina, la lavo stasera", giurò mentre arraffava lo zucchero e lo buttava dentro senza guardare.

"Dobbiamo parlare.”

Roy la baciò su una guancia prima di uscire di casa e dirle:" Mi dirai tutto sta sera, se faccio tardi ancora mi becco una sospensione. Lavo stasera la tazza!"

La donna non ebbe nemmeno il tempo di battere ciglio che il ragazzo era sparito oltre la porta. Rimase per un attimo spaesata. Il mio lavoro in casa non serve a un cavolo, pensò sospirando e rivolgendo poi lo sguardo alle valigie già pronte nel salotto. "Quel genio non le ha nemmeno viste." Decise allora che avrebbe chiamato a scuola quando sarebbe uscito. Sapeva che il figlio avrebbe guidato come un matto per arrivare puntale. Non voleva che lo facesse, ma non poteva neppure legarlo in casa. "Perché non ho comprato un gatto?"

*

Leeroy stava aspettando Miles ormai da più di venti minuti e il capitano non era mai in ritardo. Iniziò a pensare seriamente che gli avesse dato buca. Forse non voleva più fargli da "balia" per via di ciò che era successo all'allenamento. Tirò fuori il cellullare per controllare meglio l'ora: le 16:35. Sbuffò. Al massimo se la sarebbe dovuta prendere con Lance, non con lui. Cercò di non pensare a quelle cavolate e rimise gli occhi sul tomo di storia. La rivoluzione francese lo stava sfinendo. Faceva fatica a ricordare le date e i nomi. Prese un respiro profondo prima di riprendere il cellulare e inviare un sms al compagno di squadra. Con suo stupore proprio mentre finì di scrivere il ragazzo comparve trafelato nella biblioteca.

"Alla buon'ora. Per una volta che io sono puntuale arrivi te in ritardo?", commentò divertito.

"Ho avuto un contrattempo”, si scusò poggiando la cartella sul tavolo per poi sedersi per riprendere fiato. Prese la bottiglia di acqua dallo zaino e quasi la svuotò.

"Cosa eri a fare?", domandò incuriosito Rogers.

"Non sono affari tuoi. Andiamo avanti con lo studio”, rispose senza mezzi termini.

Leeroy inarcò un sopracciglio per poi esordire con un: "Allora avete fatto pace!?" per poi farsi scappare un mezzo ghigno. "L'intervento di Lance è servito."

Il capitano lo guardò severo. Si sentì leggermente infastidito da quel commento. Non avrebbe certo discusso della sua vita privata con lui. "Roy torna a studiare, hai la verifica a breve."

"Sì mamma chioccia."

Lo studio non proseguì proprio alla grande. Miles continuava a sperare di riuscire a insegnargli qualcosa nel poco tempo che avevano. Sapeva che il terzino si era messo a studiare anche per conto suo, ma comunque sia i risultati erano magri. Sperò che almeno in letteratura inglese le cose sarebbero potute andare meglio.

"Hai ancora voglia di studiare?", chiese ad un certo punto.

"Seriamente, sono esausto, siamo qua da due ore. Facciamo una pausa o finiamo qua. Stasera andrò avanti da solo”, rispose Leeory gettando la testa sugli appunti. La biblioteca della scuola avrebbe anche chiuso a breve. Se avessero voluto andare avanti si sarebbero dovuti trasferire a casa sua, e non ne aveva voglia con sua madre iperattiva.

Miles si strofinò gli occhi. "Va bene finiamo così per oggi, andiamo avanti domani.”

Leeroy alzò la mano con fatica dal banco facendo il segno della pace, poi lentamente iniziò a fare la cartella. Aveva bisogno di caffè. Si sarebbe fermato in città da qualche bar, aveva bisogno di vero caffè e non quella brodaglia delle macchinette. Notò lo sguardo stanco e stralunato del capitano e riuscì solo a pensare che non poteva aspettarsi nulla di buono. Non fece in tempo a chiedere cosa ci fosse che non andasse che Miles parlò.

"Senti, non voglio fare la madre di tutti quanti, come ti piace dire. Tengo alla squadra quanto te, e sì, per me è un sacrificio immenso venire qua ad aiutarti quando potrei benissimo andarmene a casa. Quindi, per favore, dai del tuo meglio”, spiegò lentamente, soppesando le parole. Gli costava molto anche solo averle pensate. Non era proprio il massimo degli incoraggiamenti quello. Si diede dell'idiota, magari gli avrebbe fatto venire cattivi pensieri.

Il moro lo guardò perplesso. "Pensi che non lo sappia? Anch'io ci tengo quanto te. Sto dando del mio meglio per questo stupido test."

"Leeroy, non è uno stupido test. La scuola ti servirà. Non sarà sempre tutto così, rose e fiori. Cosa farai se non ti dovessero prendere in una squadra importante?", chiese irritato. Da quel poco che conosceva di Roger,s sapeva che non si sarebbe mai messo a fare il mantenuto dalla madre, ed era proprio per quello che gli stava dicendo le cose come stavano.

Il terzino prese un respiro profondo prima di rispondere. "So perfettamente che hai ragione, quindi non ti preoccupare. Ho solo bisogno del mio tempo."

Si fissarono per un lungo momento negli occhi; il primo a togliere il contatto fu il capitano. "Ho solo detto come la penso”, disse facendo capire che quella era l'ultima volta che avrebbero parlato dell'argomento. "A domani."

Rogers annuì, poi mise le ultime cose nello zaino e sparì dietro la porta del corridoio.

Il telefono gli squillò come fece due passi nel corridoio, riconoscendo subito il nome della madre sullo schermo. "Dimmi."

"Senti, è successa una cosa."

La voce di Amanda era un misto di eccitazione e nervosismo.

"Mà, cosa è successo?”. Era già convinto che avesse comprato chissà quale strano aggeggio per la casa e doveva andarla ad aiutare a montarlo.

"Tuo padre ieri notte mi ha chiamata."

Rimase per un attimo interdetto. Che forse venisse a Natale?

"Viene?"

"Mi ha chiesto di andare da lui per qualche tempo, il suo finanziatore ha detto che non c'erano problemi. Gli ha detto che era tanto che non ci vedevamo così mi ha fatto avere le coordinate e tutto il resto. Sono ora all'aereoporto."

"Tu sei dove?" le urlò quasi. Si dovette fermare e poggiare la schiena contro una parete per metabolizzare la cosa.

"Ti rendi conto che stai lasciando il tuo unico figlio di diciotto anni solo a casa per un lasso di tempo indeterminato?", domandò per chiedere conferma che non stesse sognando.

Amanda ridacchiò e la sentì annuire. "Si tratta solo di poco tempo, e poi sono sicura che sarai giudizioso."

"Mamma, ma no che non potrò esserlo, ho diciotto anni. Non puoi mollarmi qua da solo durante il periodo scolastico!". Per il modo in cui Amanda stava parlando, Leeroy si sentiva come se stesse dicendo delle assurdità.

Sentì in sottofondo l'altoparlante dell'aereoporto. "Stai già per partire?", domandò a quel punto, sconfitto dagli avvenimenti.

"Sì, sto per imbarcarmi. Andrà tutto bene”, disse con tono rassicurante. "Devo andare ora, ti chiamo quando arrivo. Fai il bravo”, aggiunse per poi riattaccare di fretta.

Non riuscì a fare nessuna replica.

Come sua madre riattaccò crollò a terra come privo di energie. Sbattè più volte le palpebre incredulo. Sua madre a volte faceva degli scherzi del genere, ma la smascherava subito. Quello non era uno scherzo. Istintivamente prese il cellulare e compose il numero di Jo. L'attesa gli sembrò un'eternità.

"Ehi, che c'è?” rispose lei finalmente.

"Mia madre è andata da mio padre e non so quando ritornerà." disse tutto d'un fiato.

"Come? Tua mamma è andata in Artartide?" la voce della cugina suonò perplessa.

"Mi hanno mollato qua da solo per passare una specie di luna di miele.” Non riuscva a credere alle sue stesse parole. Era assurdo.

"Hai questa fortuna e ti lamenti? Trai noi due chi è quello stato abbandonato in un liceo privato?", disse con tono leggermente irritato.

Leeroy si strofinò gli occhi seccato. Non è la stessa cosa, pensò. "Non so neppure se mi toccherà passare il Natale da solo o se mia madre si degnerà di tornare a casa."

"Sinceramente spero di non vedere la mia in quel periodo”, commentò Jo in tono piatto.

Leeroy conosceva fin troppo bene il carattere di sua zia. Era una donna insopportabile, non si stupiva che a cugina avesse finito per combinare molti guai. Si ricordò quando andavano ancora alla stessa scuola a Londra, avevano bucato le ruote alle gomme del professore di scienze perchè le aveva detto che nella sua materia non era brava. Per fortuna non vennero scoperti. Gli scappò una risatina.

"Che c'è? Non stavi per piangere per essere stato abbandonato?", domandò incuriorita.

"No, scusa. Mi è venuto in mente delle ruote del professor Tissue. Ti ricordi?" riprese subito a ridere coinvolgendo subito dopo anche lei.

"Quello è stato uno dei nostri colpi migliori”, ammise Jo.

"Già." Si guardò le punte delle scarpe rimanendo incantato a fissarle. Un po' si era calmato, ma si sentiva terribilmente insicuro. "Non mi dispiace che i miei passino un po' di tempo insieme. Il fatto è che senza mia madre che mi controlla è capace che finirò per bocciare”, ammise infine. Sperò di sentirsi meglio dopo averlo detto, ma non era del tutto così.

"La zia non è una sprovveduta. Penso che se abbia fatto così lei si fidi veramente di te, e voglia allo stesso tempo darti l'opportunità di dimostrare quanto sei diventato maturo."

Leeroy continuava a chiedersi da anni come facesse la cugina a trovare Amanda una donna geniale. Con lui era sempre stata una palla al piede, con i pazienti sapeva fosse un brava dottoressa, ma con lui non ne aveva mai fatta una giusta. Si chiese se Jo e Amanda fossero solo affini per certe cose. Magari era quel sesto senso femminile del quale alle donne piaceva tanto vantarsi?

"Molte volte mi chiedo se quando parli di lei in quel modo ti riferisca davvero a lei o ad un'altra donna”, disse Roy scoppiando a ridere. Era assurdo.

"Smettila, tua madre sa quello che fa, e sa quello che puoi fare."

"Speriamo."

"Starai bene?"

Annuì tra sé e sé. "Sì dai. Torna a fare le tue cose. E chiamami se hai bisogno."

"Non fare cavolate, cugino."

"Certo”, rispose con tono calmo prima di riattaccare. Si tirò su dal pavimento, cercando si scacciare i pensieri negativi che lo assillavano. Sarebbe andato a casa e avrebbe studiato, era la cosa migliore da fare. In quel modo non avrebbe nemmeno pensato molto a ciò che era successo. Si sarebbe ordinato una pizza e avrebbe mangiato altre schifezze in cucina mentre studiava. Gli sembrò un piano perfetto.

"Cosa fai ancora qua?" si sentì chiedere il terzino. Riconobbe subito la voce e nel girarsi vide Lance, anche lui con ancora lo zaino di scuola.

"Miles è arrivato tardi per la nostra lezione. Ma credo che il tuo intervento abbia fatto miracoli”, ammise soddisfatto. Anche se la loro breve discussione lo aveva leggermente irritato l'aveva trovata meglio di una litigata per Abigail. Però sarebbe stato divertente vedere una scena del genere. Sicuramente sarebbe finita con una rissa.

Stark ridacchiò sistemandosi meglio lo zaino sulle spalle. "E ti ricordo che mi hai anche offerto da bere per quel favore.", aggiunse cercando di stuzzicarlo un po'. Voleva vedere se lo avrebbe fatto davvero.

Leeroy d'impulso guardò l'orologio del cellulare: erano le 19:15. L'idea di uscire a bere e magari mangiare qualcosa in quel momento gli sembrò più allettante di andare a casa solo come un cane. In fondo era anche venerdì, aveva bisogno di divertirsi almeno un po'.

"D'accordo. Andiamo all'Howl?”, chiese guardando l'altro negli occhi.

Lance rimase interdetto per una frazione di secondo, ma si riprese subito. Non pensava il ragazzo avrebbe preso la cosa come se nulla fosse. "Ti ricordo che non ci possiamo entrare."

"Cazzo, è vero”. Si grattò la testa indeciso. "Se andiamo con la macchina fuori città?"

"Cosa c'è, hai paura di farti vedere giro con me?", lo prese in giro il portiere.

"Figurati. E' che non ho voglia di ritrovarmi in mezzo al casino del fine settimana."


 

Durante il tragitto non parlarono molto. Leeroy lasciò che la radio parlasse per coprire il silenzio che si era venuto a creare. Non era imbarazzante, forse era solo dovuto alla stanchezza di entrambi. Arrivarono a Westmeston, un paesino a mezz'ora da Brighton; per essere il fine settimana era completamente deserto. Il sole ormai stava tramontando, gli ultimi raggi di luce autunnale lasciavano un velo di malinconia in quel posto. Leeroy parcheggiò al lato della strada e scesero entrambi.

"Ma dove siamo?", domandò Lance.

"E' il Red Baron. E' qua da cinquant'anni e vengono solo i clienti affezionati."

"Un posto per vecchi, intendi?"

Leeroy alzò gli occhi al cielo. "Se non ti va bene, quella è la via."

Lance lo precedette nel locale. "Non ti scaldare troppo”, fece divertito.

Il pub dentro era piccolo, con pochi tavolini rotondi e solo sgabelli arredato come una bettola per pirati. Stark lo trovò suggestivo. Qua e là c'erano qualche bandiera pirata e qualche arma appesa alle pareti. "Bello 'sto posto. Com'è che non lo conosce nessuno a scuola?", domandò mentre si accostavano al bancone per ordinare. Il barista arrivò subito, era un uomo sulla cinquantina con capelli grigi e una camicia nera dalle maniche strappate.

"Due birre piccole”, disse il difensore. L'uomo le preparò subito.

"Perché è un pub per vecchi”, rispose Leeroy alla domanda fatta dal portiere, al quale scappò una risata. "Allora si brinda ai vecchi”, scherzò, mentre andavano a sedersi.

"E alla speranza di superare l'esame di storia”, aggiunse mogio il comapagno di squadra. Dopo di che bevvero.

Lance continuava a guardarsi intorno come se fosse un bambino in un parco giochi. Leeroy lo trovò divertente.

"Non è così difficile la Rivoluzione Francese”, esordì il rosso, sovrappensiero.

Il terzino inarcò un sopracciglio con fare scettico. "Non sai di cosa stai parlando”, disse prima di svuotare il suo bicchiere.

"Secondo giro. Offro io”, disse Lance alzandosi con i due bicchieri e andando diretto al bar senza aspettare una risposta.

Rimase stupito nei modi di fare di Lance. Di solito era freddo e saccente con lui. Questa parte di lui gli piaceva, ma era ancora troppo presto per dirlo. Con loro due non si sapeva mai: bastava una parola fuori posto che finivano stesi sul pavimento a fare a pugni. Quello era anche uno dei principali motivi per cui lo aveva portato lì invece che in città. Era più rilassato e meno incline alla violenza in un posto in cui si sentiva come a casa.

"Allora. Devi sapere che dalla Rivoluzione Francese è nata la Repubblica. Il popolo si era rotto le palle dei ricconi che pensavano solo ai loro capelli e vestiti fregandosene di loro”, raccontò Lance sedendosi e porgendo la birra a Roy. Il terzino rimase per un attimo perplesso.

"Questo già lo so”, rispose scocciato.

"Ho appena iniziato. Non avere quel tono con me. Dicevo: il popolo allora bruciò Parigi, fece un bordello e uccisero i regnanti nel '93. Ci sei?"

Leeroy annuì e basta.

"Uno degli avvenimenti più importanti è la presa della Bastiglia, che avvenne il 14 Luglio del 1789. La Bastiglia era la prigione dove venivano incarcerati e torturati i ladri e anche gente che non aveva fatto nulla. Oggi la Bastaglia non esiste più e al suo posto c'è solo un monumento alla memoria, credo”. Raccontò tutto con tranquillità e pazienza come se per lui fosse la cosa più facile del mondo, lasciando Leeroy a bocca chiusa per la prima volta in vita sua.

"Come fai a ricordartela ancora dall'anno scorso?" chiese stupefatto Rogers: lui non ricordava nulla delle materie degli anni passati.

Lance alzò le spalle. "Mi piace storia."

"Potresti andare avanti a spiegare?" chiese a quel punto il moro.

"Sì, ma prima fammi ordinare da mangiare, o crepo." ammise.

Leeroy rimase di sasso. Non si sarebbe mai aspettato che Lance potesse spiegare meglio di Miles. Insomma, il capitano aveva voti migliori di Lance a scuola, aveva sempre creduto che fosse un genio anche nel poter insegnare. Non pensava di doversi ricredere.

"Ehi, ordini anche per me?"

Andarono avanti a studiare. Il terzino era talmente preso che tornò in auto a prendere lo zaino con i libri. Restarono lì fino a mezzanotte passata. Il tempo era volato senza che nemmeno se ne accorgessereo, e nel frattempo il locale si era anche riempito. Non c'era tanto casino comunque, erano per lo più uomini con il turno di notte che si fermavano a mettere qualcosa sotto i denti.

Lance riuscì a spiegargli tutta la Rivoluzione Francese in quelle poche ore, lasciando Leeroy soddisfatto anche se non glielo avrebbe mai detto.

Quando decisero di andare e arrivò il momento di pagare, il moro scattò al bancone.

"Cretino, fammi pagare la mia parte”, gli disse Lance raggiungendolo.

"Senti, chiudi il becco. Mi hai aiutato e ti ho tenuto qua a romperti le palle su roba che sapevi già. Qualcosa ti dovrò, o no?", spiegò semplicemente. Un tempo non lo avrebbe mai detto, non lo avrebbe mai addirittura pensato.

"Insisto”, replicò il portiere.

"Non rompere.” E Leeroy lasciò i contanti sulla bancone, salutando il barista che stava uscendo in quel momento dalla cucina. "Tenga il resto."

"Non serviva che pagassi”, disse ancora Lance fuori dal locale, mentre salivano in auto. Leeroy alzò di nuovo gli occhi al cielo.

"La prossima volta mi offri te da bere, okay?" rispose mentre metteva in moto e si rimetteva sulla strada.

Il rosso annuì e basta.


 

Quando Lance tornò a casa, trovò la madre addormentata in cucina in una pozza di vomito. La sorpassò per andare in camera sua, dove buttò sul letto le cose di scuola, per poi tornare indietro. La sollevò per la vita, portandola nella sua camera da letto. Andò poi in bagno dove prese uno straccio bagnato per pulirle la faccia. Le tolse le scarpe e il giubotto, coprendola con le coperte. In cucina l'odore era insopportabile, si dovette tirare la felpa sul naso per riuscire a ripulire. Una volta finito andò a lavarsi, si sentiva quell'odore ancora addosso. La mattina dopo doveva lavorare presto e fu contento di non essere presente al suo risveglio.

Come toccò il letto si addormentò con le cuffie alle orecchie, ascoltando Iron Man.


 


 

 

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Capitolo 12
*** Capitolo 12 ***


The last chance
XII


Vinsero anche la seconda partita di campionato. Gli avversari non erano tra i più forti, ma seppero comunque tener testa per poco alla S. Collins. Tra gli spalti quel giorno c'erano alcuni giocatori della Ravensburg per controllare l'evoluzione dei giocatori della squadra di Brighton. Sapevano di essere superiori, ma di certo non li avrebbero presi sottogamba.

Oliver non si era tanto scomposto dal risultato della partita in corso: era palese chi sarebbe uscito vincitore. Trovava dolce come la Collins si stesse trattenendo per non umiliare gli avversari; lui non lo avrebbe mai fatto. Avrebbe messo in evidenza la differenza di forza tra le due squadre. D'altra parte, era quello che avevano fatto l'anno passato, vincendo 7 a 0.

I gemelli Grant gli stavano tenendo compagnia. O meglio: i due se ne stavano a chattare tutto il tempo con i rispettivi cellulari, mentre lui analizzava il modo di giocare dei loro futuri avversari. Se non fossero stati in pubblico, avrebbe dato loro dei cretini. Quei due erano una cosa impossibile. Si sentiva male al solo pensiero di dover lasciare la squadra nelle loro mani l'anno successivo, quando si sarebbe diplomato. L'attaccante li lasciò perdere, sbuffando e cercando con lo sguardo l'unico che si sarebbe mai potuto mettere tra lui e il primo posto del campionato. Lo vide in panchina, mentre chiacchierava con un piccoletto.

Si strofinò il lobo dell'orecchio, giocando con l'orecchino e perdendosi nei suoi pensieri. Un sottile ghigno gli si dipinse sulle labbra nell'esatto momento in cui Leeroy alzò lo sguardo per puntarlo nel suo. Quegli occhi non lo delusero affatto: riuscì a vedervi quel senso di impotenza che lo faceva sembrare addirittura inutile. Gli sembrò un uccellino in una gabbia con la porta aperta, ma che sapeva di non poter volare via. Leeroy poteva fingere di essersi calmato e di non soffrire la panchina con i suoi compagni, ma Oliver non era così facile da imbrogliare. Riusciva a tirare fuori il peggio di Rogers se di mezzo c'era un rettangolo verde.

"Oliver, andiamo?", domandò Samuel, uno dei gemelli. Dal tono di voce gli sembrò stufo di quella partita, o meglio, di stare lì a dover aspettare i comodi del compagno di squadra. "Voglio andare al cinema stasera, e di 'sto passo farò tardi”, aggiunse lamentandosi mentre continuava a scrivere, forse alla sua ragazza.

L'attaccante non fece in tempo a rispondere che Maximilian lo precedette con tono irritato: "Ehi, te stasera non vai da nessuna parte! Ci sono ospiti a cena e non mi lascerai là come un coglione a sopportarmi quei rompipalle mentre te ne vai al cinema con la tua fidanzata."

A quel punto intervenne Oliver, stanco di quella pagliacciata. "Signorine, ora andiamo, qui abbiamo finito. E per piacere, smettetela di litigare ogni volta che siamo fuori, mi mettete in imbarazzo." disse facendo segno agli altri due di alzarsi per scendere le gradinate.

"Ha iniziato lui."

"Chiudi il becco."

"Non sono vostra madre”, sbottò esasperato l'americano, trascinandoseli via come due bambini piccoli.

*

Lance arrivò a casa dopo essere stato a bere con la squadra. Lo aveva riportato Miles, ora che aveva ripreso l'auto era molto meglio, non avrebbe più dovuto scroccare passaggi a Rogers o ad Adam. Con Reginald non si vergognava di chiedere qualcosa o di farsi pagare da mangiare. Era come essere in famiglia, come fratelli. Ormai era buio fuori e non aveva voglia di fare nulla, voleva solo andarsene a letto e leggere qualcosa. Per fortuna i compiti li aveva fatti il venerdì, prima di uscire da scuola. Il giorno dopo sarebbe dovuto andare a lavorare e poi a scuola, al solo pensiero si sarebbe buttato sotto un tram. Non erano ancora a metà anno scolastico ed era già stanco. Forse era l'età, pensò, facendosi scappare un sorriso amaro.

Dopo dieci minuti che si era messo a letto sentì sbattere la porta di casa , che lo destò di colpo, facendolo imprecare. Pensò di lasciare perdere, ma sentendo la voce di un uomo assieme a quella della madre scattò in piedi per dirigersi alla cucina.

Non era lo stesso uomo dell'ultima volta, ma uno nuovo. Era sempre così con lei: via il vecchio, avanti il nuovo. L'avrebbe presa a schiaffi se non fosse stata sua madre. "Domani ho scuola”, disse con un tono che non ammetteva repliche.

"Non ti farà male arrivare per una volta in ritardo, ragazzo”, commentò l'uomo. Puzzavano entrambi di fumo e alcol. Gli si rivoltò lo stomaco.

"Non sto parlando con te."

"Eddai tesoro, ci stiamo solo divertendo. A scuola hai voti ottimi. cosa ti interessa se domani arrivi per una volta tardi?”, disse la madre iniziando a ridere. "Vieni con noi, ho comprato qualcosa di nuovo”, aggiunse tirando fuori dalla borsa una busta di erba con all'interno un altra bustina piena di pasticche, fiera di se stessa.

Lance strinse i pugni cercando di mantenere la calma. Non voleva sapere come l'aveva comprata e da chi. Aveva già provato più di una volta di impedirle di comprarla, ma non ci era riuscito. Un pensiero gli attraversò la testa facendolo scattare nella sua camera da letto. Ficcò la testa nell'armadio buttando fuori ogni cosa alla ricerca della sua cassetta di sicurezza, che naturalmente non trovò. Imprecò. Tornò in cucina afferrando l'uomo per la gola e lo schiacciò contro la porta di uscita, sollevandolo di due spanne da terra.

"Non me ne fotte un cazzo chi sei, ma se ti rivedo in casa mia, ti strappo le palle e le do da mangiare a Lilly, il cane del mio vicino. Chiaro?", domandò mentre lo fissava negli occhi con sguardo omicida. Non gli importava nulla se lo avrebbe denunciato: quel figlio di puttana in casa sua non ci sarebbe più entrato. Nessuno di quei figli di puttana doveva entrare in casa sua, mai.

"Cristo santo, calmati. Che cazzo ti ho fatto?", chiese l'uomo, cercando di divincolarsi. Lance rafforzò la presa sul suo collo. A quel punto intervenne la madre, gettandoglisi al collo del figlio per liberare l'uomo. "Lance ma ti sei bevuto il cervello?", urlò la donna.

Il portiere cadde a terra con Gabrielle che cercava di tenerlo fermo, ma non ci riuscì molto: in un secondo se l'era tolta di dosso e si era riavvicinato all'uomo, che giaceva in ginocchio con la schiena ancora appoggiata al muro, tenendosi il collo e tossendo.

"Ma che ti ho fatto?", chiese, continuando a tossire, per poi spaventarsi dalla luce negli occhi del giovane.

Lance non rispose: lo afferrò per la camicia e lo trascinò fuori dalla porta e poi giù per le scale fino sul marciapiede. Prima di mollarlo gli tirò un calcio nelle costole.

"Se ti rivedo, queste”, disse tirando fuori un coltellino a serramanico dalla tasca e indicandogli in mezzo alle gambe. "Finiscono in bocca a Lilly. Hai capito?", chiese tirandogli uno schiaffo.

L'uomo sputò sangue per terra balbettando un debole "Sì”.

"Non ho sentito”, fece Lance, alzando la voce e tirando un altro schiaffo.

"Sì, cazzo, ho detto sì!" urlò quasi l'uomo, cercando di non sembrare patetico, ma ormai era troppo tardi.

"Bene, ora sparisci." Lasciò la presa su quello sconosciuto e lo lasciò scappare via. Dopo due tentativi falliti nel rimettersi in piedi, quello salì in macchina e sparì dietro la curva sgommando.

Tornò in casa evitando gli sguardi dei vicini, che si erano affacciati alle finestre per vedere la nuova rissa in casa Stark. "Si fottano." disse fra sé e sé.

Una volta dentro trovò la madre in sala a fumare e piangere. La bellezza che l'aveva contraddistinta una volta era sparita in uno schiocco di dita negli ultimi anni.

"Tu sei pazzo. Perché non pensi un po' alla mia felicità?!”, urlò la donna, tirandosi in piedi.

Il figlio le andò incontro, fronteggiandola. Era così piccola e minuta in confronto a lui, avrebbe potuto spezzarla se solo avesse voluto.

"Lo faccio, ma tu non sei abbastanza lucida per capire cosa sia meglio, non lo sei mai!”, disse prendendo con uno scatto di rabbia la busta.

"Lance, cosa fai? Ridammela!”, strillò lei, saltandogli addosso per cercare di riavere l'erba.

Tanto non sarebbe cambiato nulla anche se l'avesse presa. Buttò la busta sul divano e la donna mollò la presa su di lui per seguire l'oggetto dei suoi desideri.

"La vita è tua, fai quello che ti pare”, disse a quel punto Lance. "Ma non azzardarti più ad entrare in camera mia e a rubare i soldi con cui ti permetto di vivere qua”, urlò il figlio per la prima volta.

"Come ti permetti di parlare così a tua madre?!", domandò lei con tono indignato.

Lance uscì semplicemente la stanza, lasciando Gabrielle a se stessa. Ora aveva altri problemi da risolvere e lei non rientrava certo fra quelli. Ormai vi aveva rinunciato.

Entrò nella sua camera, sbattendo la porta alle sue spalle. Vi si poggiò contro, chiudendo gli occhi e respirando a pieni polmoni per tentare di calmarsi. Prese il cellulare e inserì il numero di Adam.

"Domani vieni a prendermi a scuola”, disse con tono che non ammetteva repliche.

"Non posso, ho l'università fino a tardi. E non usare quel tono da cazzone con me."

"Non me ne frega un cazzo. Ha usato i soldi che avevo guadagnato per andare a spassarsela. Ho di nuovo bisogno di soldi."

Calò il silenzio per un momento. Sentì Adam imprecare dall'altra parte del telefono.

"Va bene. Ma mia sorella non deve vedermi o farà domande."

"Lo so."

"E' tutto apposto?", azzardò a chiedere il più grande.

"Ovvio che no."

"Ti passo a prendere?"

Lance prese un respiro profondo. "Passi a bere qualcosa qua nel parcheggio? Ho bisogno di alcol per dormire ora."

*

Miles rimase stupito nel vedere che Leeroy riusciva a rispondere ad ogni domanda che gli poneva. Non erano sempre frasi di senso compiuto, ma il contenuto era giusto, ed era un enorme passo avanti. Ormai erano due minuti buoni che lo stava fissando ad occhi sgranati.

"Tutto okay? Ho sbagliato le date?", domandò innocentemente Leeroy.

Il capitano si riscosse. "No, no. A parte qualche frasa sgrammaticata, era tutto giusto”, rrispose con tono incredulo.

"Dai cazzo!", esclamò euforico il terzino.

"Stai calmo, hai anche letteraura da recuperare”, lo smorzò subito il compagno di squadra.

Era veramente stupito, quasi terrorizzato dal miglioramento di Rogers. Lo guardò di sottecchi prima di domandare: "Seriamente, come hai fatto?"

Leeroy lo fissò a sua volta con un enorme punto interrogativo dipinto in volto, non capendo.

"Intendo a studiare. Le altre volte non ti ricordavi nemmeno esistesse la Bastiglia."

"Ho studiato forse?!", rispose con tono irritato a quella domanda.

"Sì ti credo, è solo... che questo tuo miglioramento improvviso mi lascia senza parole”, ammise in tutta sincerità e con un pizzico d'orgoglio. Alla fine i suoi insegnamenti avevano dato i loro frutti; di quel passo Leeroy sarebbe riuscito a rientrare in gioco e ad avere bei voti a scuola.

"Ripassiamo un'ultima volta e poi si passa a letteratura."

"Si capitano”, rispose scherzando il terzino.

Finirono dopo appena mezz'ora. Ormai Rogers sapeva tutto, avrebbe solo dovuto ripassare il giorno prima dell'esame, ma per Miles il compagno di squadra poteva considerarsi promosso. Erano a casa del terzino ormai da tre ore buone, si era fatto tardi ed entrambi erano affamati.

"Prima di iniziare con inglese, cosa ne dici di ordinare due pizze?", domandò il padrone di casa cercando di trovare approvazione negli occhi dell'altro.

Miles guardò l'orologio, rimanendo sconvolto nel constatare che erano le 21:00. "Cazzo, com'è tardi. Tua madre non dovrebbe essere già tornata da lavoro?", domandò il capitano, stupito dal fatto che l'altro volesse ordinare da mangiare: di solito Amanda preparava sempre qualcosa per gli amici del figlio che si fermavano da loro.

Leeroy si rabbuiò per un secondo. "E' partita per andare a trovare mio padre l'altro giorno. Starà via per un po'. Allora, ordino?" chiese subito dopo, per cambiare discorso.

Reginald rimase interdetto. I suoi genitori, nonostante si fidassero di lui, non lo avrebbero mai lasciato a casa da solo per un periodo indeterminato. "Scherzi?"

Roy alzò gli occhi al cielo, esasperato per l'insistenza del capitano. "No, starà via forse un mese o poco di più."

"Ti ha lasciato completamente da solo sapendo cosa potresti combinare?"

Il terzinò si innervosì ancora di più. "Secondo te perché non ho detto niente a nessuno? Sai quanto ci impiegherebbero Daniele e Akel assieme agli altri tre a far diventare casa mia una discoteca?"

Miles scoppiò a ridere. "Saggia decisione. E io che pensavo fossi tu quello con la cattiva influenza."

"Se vengo lasciato i pace non rompo le palle a nessuno, ma di solito i rompipalle vengono tutti da me”, disse agitando le braccia.

"Va bene, va bene. Ordina quelle pizze."

"Oh, grazie a Dio!"

*

Da quando Amanda era partita passava le serate in sala, sdraiato sul divano preferito della madre. in boxer e con il cartone della pizza. Se Stan avesse saputo che aveva iniziato a mangiare schifezze ogni giorno lo avrebbe preso per le orecchie. Era già ingrassato di due cjhili nel giro di pochi giorni. La cosa non lo disturbava minimamente, tanto avrebbe smaltito tutto durante gli allenamenti. Aveva appena iniziato con la maratona dei primi tre film di Batman quando sentì squillare il portatile sul tavolinetto davanti a lui. Riconobbe la foto del padre con due pinguini sullo schermo. Si infilò le cuffie sbuffando, sapendo già che quella videochiamata non sarebbe andata a buon fine, e rispose.

"Ciao." disse con voce rauca. Si schiarì subito la voce.

"Tutto bene?", chiese il padre.

Leeroy annuì e basta, sistemandosi il portatile sulla pancia. Non aveva voglia di alzarsi.

"Senti, scusa se non sono stato onesto e ho fatto venire Amanda da me”, ammise l'uomo grattandosi la testa, imbarazzato.

"Già che c'eri potevi vendere la casa e mandarmi a vivere con i nonni”, rispose acidamente.

Vide il padre strofinarsi le tempie, pensieroso. Dietro di lui riconobbe la parete con la bacheca e gli appunti del suo lavoro. C'era anche una loro foto. L'avevano fatta quando aveva dieci anni ed erano andati in vacanza in Nuova Zelanda. In realtà lui e la madre erano stati in vacanza, mentre il padre lavorava tutto quasi tutti i giorni nella riserva naturale. Erano stati bei giorni. Ricordava ancora quella villetta in riva al mare che Amanda aveva affittato solo per loro due. L'odore dell'Oceano Pacifico gli era sempre sembrato completamente diverso dall'Atlantico. Più selvaggio forse. Quando riportò la sua attenzione su Maurice si domandò dove fosse sua madre.

"Ho avuto questa occasione e l'ho colta al volo. Tu hai la scuola, non potevo trascinarti qua e rispedirti a casa subito”, si giustificò l'uomo.

Quelle parole lo infastidirono ancora di più, facendo solo peggiorare il suo umore."Quanto resterà la mamma da te?”, domandò anche se già immaginava la risposta. Il tono del padre non gli era piaciuto.

Maurice sospirò amareggiato: quelle parole gli costavano caro. L'umore di Leeroy peggiorò ancora. Suo padre non poteva dirgli sempre che doveva essere una persona giusta e corretta quando lui stesso non lo stava facendo.

"Resteremo qua due o tre settimane, poi dovremo andare per un po' sull'isola Maquarie, a controllare i pinguini reali, ed infine in Sudafrica, a Cape Town. C'è la possibilità che venga trasferito proprio là. Sarei più vicino a casa e non più su un blocco di ghiaccio in mezzo al nulla”, ammise infine, cercando però di fare dell'ironia, che al figlio però non piacque.

Leeroy si mise di scatto a sedere, fu così veloce che sembrò avesse preso una scossa.

"Ti sembra di dover stare a casa così conciato?" disse il padre un tono di disappunto, notando il disordine nella sua sala. "Tua madre se lo vede inizia a strillare. Perché non riesci ad essere un po' ordinato?", domandò irritato dalle abitudini del figlio, che peggioravano se lasciato solo.

"Non provare nemmeno a cambiare discorso. Cape Town non è dietro l'angolo, non è come dire Parigi. Mi avete mollato deliberatamente qua per andarvi a fare la luna di miele”, sbottò a quel punto il figlio. Suo padre non doveva azzardarsi a dargli ulteriori insegnamenti di vita dopo questo scherzo.

"Non dire cazzate."

"Non devo dire cazzate? Guarda quella che hai fatto te. Scommetto quello che vuoi che a Natale non ti farai nemmeno vedere. Salutami Amanda e i pinguini”, gli urlò quasi contro prima di interrompere la chiamata. Maurice non fece in tempo a ribattere che ormai era sparito dallo schermo. Leeroy sentì di nuovo gli squilli della chiamata, ma spense subito il portatile. Per quella sera ne aveva avuto abbastanza.

*

Adam guidò fino al parcogiochi appena fuori Brighton. Preferì andare lì a parlare con Lance dopo che questi aveva finito di lavorare, piuttosto che farlo nel locale. Aveva come il vago presentimento che il ragazzo sarebbe scoppiato e pensò che un posto isolato sarebbe stato meglio. Parcheggiò senza farsi troppo problemi proprio davanti all'entrata del luogo. Le luci dei lampioni illuminavano poco e male le panchine vicine al cancello grigio del parco. Si accese una sigaretta come fu fuori dalla macchina.

"Quindi?" domandò.

"Te l'ho già detto, bisogna anticipare”, disse Lance in tono fermo. Si accese a sua volta una sigaretta nervosamente.

"Non siamo preparati. E la famiglia in questione non è ancora andata in vacanza. Come pensi di farla 'sta rapina? Mentre dormono tutti?", chiese con la voce leggermente alterata il più grande. Non si sarebbe fatto dire cosa avrebbe dovuto fare dal più giovane, e cosa più importante non avrebbe rischiato il culo per una mossa così stupida.

Il rosso cercò di calmarsi, rimettendosi la sigaretta in bocca. In nemmeno un minuto l'aveva quasi finita. Sapeva che Twain non avrebbe mai detto di sì senza garanzie. Doveva trovare una soluzione in poco tempo.

"Quali erano le altre opzioni in quella zona?", domandò finalmente in un tono calmo.

Adam a volte rimaneva basito nel modo in cui il rosso passasse da un estremo all'altro.

"La coppia dei Bloom. Sono fuori città da qualche giorno, ma non so quando ritornano, per questo li avevo scartati."

Lance valutò la cosa. "Con un po' di fortuna ce la facciamo."

"Un po' di fortuna un cazzo, è troppo rischioso."

Lance afferrò Adam per il colletto del giubotto di pelle nera. "O fai come ti dico o giuro che dico tutto a tua sorella”, gli ringhiò in faccia.

Adam gli tirò un calcio secco nello stinco per divincolarsi. Una volta libero, tirò un pugno in faccia al più giovane.

"Ti aiuterò, ma tu datti una calmata, cazzo!", disse massaggiandosi le nocche della mano. Si era fatto male, era stato come colpire un muro. Imprecò. "Cristo se la tua testa è dura."

Lance si toccò il punto in cui era stato colpito. "Ma sei scemo?"

"Sei tu ad aver iniziato. Questo a volte è l'unico modo che conosci per tornare te stesso, testa di cazzo”, sbottò senza mezzi termini.

Stark si poggiò contro l'auto, chiudendo gli occhi e rinchiudendosi per qualce secondo nei suoi pensieri. "Sono un coglione."

"Ma và?”. disse scherzando Twain, mentre accendeva un'altra sigaretta; l'altra era finita a terra durante la collutazione.

"Scusa."

Il più grande sospirò rattristato, pensando che Lance doveva andarsene al più presto da quel posto. Se avesse voluto la sua vita avrebbe dovuto lasciare tutto alle spalle, compresi gli amici.


 

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Capitolo 13
*** Capitolo 13 ***


The last chance

XIII


La foto che aveva tra le mani era la stessa di Maurice nel suo ufficio in Antartide. Da quando si erano sentiti, si era sorpreso più di una volta a fissarla. L'aveva ritrovata la sera prima, in mezzo ad un suo album fotografico nello studio del padre. Quei colori così vividi gli mancavano, gli sembrava tutto più bello in quella foto. Avrebbe persino abbandonato casa sua per andare a vivere in Nuova Zelanda con i suoi, se suo padre avesse accettato quel posto anni addietro. Maurice però lo aveva rifiutato: il suo sogno era sempre stato l'Antartide.

A volte ci scherzava sopra, se lo era sempre immaginato come un capitano a dare ordini a tutti, proprio come faceva con lui. Se solo avesse voluto, lo avrebbe seguito in capo al mondo. Era ancora leggermente addormentato, mise la foto nel cruscotto e riaccese la radio dell'auto. Prese il bicchiere da caffè che aveva riempito a casa e bevve un sorso, aveva deciso di finirla per un po' con la Red Bull. Amanda aveva sempre comprato quei contenitori per il figlio, sapeva che avrebbe sicuramente perso un termos. Ogni volta non poteva fare a meno di ricordargli quanti astucci e quanti quaderni avesse perso nella sua carriera scolastica. Lui si era sempre definito distratto.

Arrivare a scuola con una anticipo di più di quindici minuti lo aveva reso orgoglioso di se stesso. Aveva avuto il tempo di prendersi la colazione per la strada e barboneggiare in auto. Controllò che il borsone per gli allenamenti fosse sui sedili posteriori prima di spegnere la radio. Quando scese dall'auto con la tracolla in spalla, vide Lance entrare a piedi nel parcheggio della scuola. Aveva uno sguardo torvo e alle orecchie portava delle cuffiette nere. Gli andò incontro per salutarlo.

"Buongiorno” disse per poi prendere un sorso di caffè. Già dal modo in cui il rosso sollevò il sopracciglio, capì che era meglio lasciarlo stare per quel giorno.

Lance si tolse lentamente una cuffia, mettendo poi in pausa. Leeroy distinse le note di Cleanin' Out My Closet. Chissà come mai, ma se l'era aspettato che gli piacesse Eminem.

"Ciao” rispose brusco. "Cosa fai qua già a quest'ora?" chiese con voce strascicata. Aveva dormito sì e no tre ore quella notte.

"Mi sono svegliato presto."

Lance lo squadrò da capo a piedi, lasciando trasparire quel senso di superiorità che tanto faceva alterare il terzino.

Leeroy rimase per un momento spiazzato: come poteva quel cretino passare da uno stato d'animo ad un altro? Prima lo aiutava e poi lo guardava così? Poteva concedersi il beneficio del dubbio, ma odiava quello sguardo, era quello che lo faceva scattare ogni volta come una molla per prenderlo a pugni. Sarebbe dovuta essere la sua degna risposta. Prese un respiro profondo, prima di finire a fare qualsiasi cosa.

"Problemi? Volevo ringraziarti, ma a quanto pare hai le palle girate già a quest'ora. Ci si vede."

Stark sembrava perso nei suoi pensieri. Annuì per poi dirigersi dentro la scuola senza considerarlo più di tanto.

"Che coglione” disse il terzino. per poi tracannare ciò che restava del caffè nel bicchiere. Si chiese se quel comportamento stesse a significare che erano tornati al punto di partenza. "Ora chi glielo dice a Miles?". Quasi si disperò. Si avvicinò all' entrata dell'edificio per sbarazzarsi del contenitore di carta.

"Cosa ci fai qua?" domandò una voce alla sue spalle.

"Akel, seriamente, avete tutti le stesse domande?"

"Eddai, è strano vederti così presto da queste parti. Bisognerebbe darti un premio” scherzò l'amico. Per certe cose Rogers lo preferiva a Daniele; l'italiano sembrava non conoscere proprio il significato delle parole "tatto" e "riservatezza". Infatti, al momento, solo il turco, oltre al capitano, sapeva dell'assenza di Amanda. Glielo aveva accennato il giorno prima, facendosi ripromettere di non dire nulla a nessuno o non lo avrebbe mai più riportato a casa.

"Come procede lo studio? Vuoi una mano a ripassare stasera?" domandò l'amico. Quel ragazzo era il completo opposto dell'italiano: lui sì che era una persona altruista, non come quel sadico egocentrico.

"In pratica so tutto, stasera devo solo rivedere un paio di date. Non sono sicuro di prendere un votone, ma per la prima volta so di aver studiato abbastanza” ammise con lui per la prima volta.

"Se lo passi ci offri da bere.”

"Non dovrebbe essere il contrario?"

"Roy Roy, tutto bene?"

Puntuale come sempre, pensò Rogers.

"Se Roy passa storia e inglese con più della sufficienza ci offre da bere." informò Akel, rivolgendosi all'amico.

Daniele sembrò pensarci un po' su. "Credo sia troppo poco. Così non lo sproniamo affatto... aspetta, ho un'idea! Se passi entrambi con più della sufficienza, mi vesto da donna il sabato sera al pub." azzardò l'italiano.

Akel e Leeroy si guardarono negli occhi. cercando nell'altro conferma di ciò che avevano appena sentito.

"Scherzi?" domandò il turco. Era convinto che Daniele non l'avrebbe mai fatto, e l'inglese era della stessa opinione. A Rogers scappò una risata.

"Scommettiamo?"

"Guarda che poi lo fai."

"Andata."

"Andata."

Daniele cascava male se pensava di vincere facile. Leeroy fece due conti veloci. Era sicuro di avere già il voto di storia in tasca; letteratura inglese sarebbe stata la vera sfida. Confidava in se stesso però, una cosa mai successa prima in ambito scolastico.

*

Non era il tipo da doccia ghiacciata; anzi, il contrario. L'acqua bollente gli dava quel senso di calma e finto controllo di cui aveva bisogno. Lo stordiva quasi, per poi rimettergli ogni idea nel giusto ordine. Trattenne il respiro per qualche secondo sotto il getto, lasciando che gli investisse il volto.

Si sentiva un idiota per tutte le volte che aveva confidato nel cambiamento della madre. Non si era mai sentito così vuoto, come se non servisse più a nulla. Ogni sforzo che aveva compiuto fino a quel momento era stato vano. Era arrivato piano piano ad odiare sua madre, ma non abbastanza da abbandonarla o denunciarla. La rabbia gli salì di nuovo al pensiero della sera precedente; era di nuovo tornata a notte fonda facendo casino, ubriaca fradicia.

Aveva iniziato ad invidiare la sorella, e forse ad odiarla un po'. Lui ed Alexandra avevano fatto un patto, ma si era sentito fregato negli ultimi tempi. Come se avesse puntato sul cavallo sbagliato. Forse era già scritto nelle stelle che avrebbe perso tutto, che la sua vita non sarebbe mai cambiata. Da quando sua sorella se n'era andata, si era sentito come l'aiutante di poco conto dell'eroe. Mai ricompensato per il duro lavoro, mai ringraziato, mai amato.

Appena sentì gli altri arrivare si lavò velocemente ed uscì. Si cambiò in un lampo e raccolse i capelli rossi ancora umidi in una crocchia. Afferrò il borsone e sparì dietro l'entrata, senza salutare nessuno. Miles, dall'altra parte del locale, lo seguì con lo sguardo, preoccupato.

Una volta fuori,si diresse verso la strada principale, svoltando poi in una stradina che fiancheggiava il perimetro della scuola. Adam era là ad aspettarlo. Lance salì direttamente in auto. Il più grande mise in moto, dirigendosi verso il parco giochi della volta precedente. Ormai il sole iniziava a tramontare, portando con se la brezza gelida della sera, ma ciò non scoraggiò entrambi dall'abbassare il finestrino e fumare.

"Fermati ad un benzinaio, ho bisogno di un energy drink."

Adam annuì solamente.

Dopo la loro lite, nessuno dei due aveva molta voglia di parlare; Stark perché si sentiva ancora in colpa, e l'altro perché non sapeva cosa dire. O meglio, lo sapeva, ma glielo aveva già ripetuto così tante volte negli ultimi anno che Lance avrebbe dovuto saperlo ormai. Pensò che probabilmente nella sua testa, il portiere, stava dando ragione a quel discorso mai avvenuto.

La situazione era assurda. Lui stesso non poteva capire come si sentisse il socio e per un momento pensò che nemmeno Alexandra ne avesse idea. Lei aveva avuto il coraggio di andarsene e mollare lì il fratello minore. Ogni tanto si malediva per aver accettato di prendersi cura di lui. Non avrebbe mai dovuto farlo, non spettava a lui. Era proprio riuscito a farsi fregare per bene da un paio di occhi azzurri e un bel faccino. Imprecò mentalmente, sapendo che non era così.

Dopo qualche minuto accostò di fronte ad un benzinaio. Era andato tante volte in quel posto con lei, a comprare le sigarette quando avevano sedici anni. Era colpa di Alex se lui continuava a fumare. Cercava di mantenere vivido un ricordo che altrimenti sarebbe sbiadito. A volte si domandava cosa Lance pensasse davvero di lei. Quando parlava della sorella, negli suoi occhi leggeva tanti sentimenti diversi, che si scambiavano e si sovrapponevano troppo velocemente. Avrebbe voluto fare qualcosa.

*

Miles lo aveva tenuto bloccato fuori dallo spogliatoio almeno per venti minuti, chiedendogli se avesse ancora bisogno d'aiuto per il ripasso. Era sicuro di potersela cavare da solo, ormai le cose le sapeva, non aveva bisogno che il capitano gli mettesse ansia. Miles a volte si preoccupava eccessivamente, negli ultimi tempi aveva anche tirato fuori il suo lato umano con il terzino e la cosa lo aveva quasi sconvolto. Pensò che magari era così che finiva una persona con troppi fratelli minori. Non ci voleva pensare. Scacciò quei pensieri, concentrandosi sugli appunti che aveva fatto assieme a Lance quella volta al Red Baron. Si ritrovò ancora a domandarsi perché diavolo quella mattina fosse stato così irascibile, di solito non lo era mai, anzi, era Rogers stesso a suscitare l'ira dell'altro. Lo stomacò reclamò per l'ennesima volta cibo quella sera. Nonostante avesse mangiato una pizza e un panino, aveva ancora fame. Aprì il frigo, trovandolo vuoto.

"Fantastico!"

Da quando Amanda era partita non era andato a fare la spesa, anzi, non l'aveva mai fatta in vita sua. Si ripromise di andare a comprare cibo vero l'indomani, dopo scuola. Non poteva andare avanti a pizza.

Prese dei toast dal portapane sull'isola della cucina e li riempì di burro e nutella. Aveva bisogno di zuccheri per far lavorare il cervello. La macchinetta del caffè iniziò a gorgogliare, cercando la sua attenzione. La spense e si versò tutto in una tazza. Non aveva bisogno di fare la nottata, ma tutto d'un tratto aveva seriamente paura di dimenticarsi le cose e di non passare l'esame. Prese un respiro profondo e tornò sugli appunti. Era ormai a buon punto, quando il telefono di casa suonò. Si domandò chi potesse essere alle undici e mezza della sera.

“Pronto?”

"Leeroy, dove diavolo hai il cellullare? Sono due ore che ti invio sms e non mi rispondi."

Riconobbe la voce del capitano; si chiese se stesse scherzando. Come poteva chiamarlo a quell'ora solo per sapere cosa stesse facendo?

"Calmati, è di sopra, non volevo essere disturbato” rispose con una calma che sorprese persino se stesso.

"Quindi stai ancora studiando?" domandò con un tono di voce allarmato il capitano.

"No, sto ripassando. Non ti preoccupare, sono a buon punto, ancora un paio di pagine e poi vado a letto” lo tranquillizò. Si domandò se sua madre prima di partire e abbandonarlo a se stesso non avesse chiesto a Reginald di sostituirla.

"Va bene. Mi raccomando, domani arriva puntuale, ricordati le date. Probalmente in un esercizio dovrai collegarle agli avvenimenti."

"Me l'hai già detto trenta volte oggi."

"Okay. Se hai dei dubbi chiamami, ci si vede domani” disse il capitano, per poi riattaccare.

Leeroy trovò tutto al limite del normale. Miles era peggiorato drasticamente nell'ultimo periodo. Abbandonò il cordless sull'acquaio e tornò sullo sgabello a sfogliare le sue cose. Sperò solo che il capitano non lo provasse a richiamare di nuovo.

A mezzanotte e mezzo circa aveva finito il ripasso, si sentì quasi orgoglioso di se stesso. Sarebbe potuto andare a letto per la prima volta senza dover passare la notte in bianco a pensare come saltare la verifica. Lui e i compiti in classe non avevano mai avuto una relazione facile; già ai tempi delle elementari sua madre non credeva più al figlio quando le diceva di stare male. Aveva imparato subito a fingere per evitare un brutto voto. Amanda gli aveva sempre detto che avrebbe dovuto fare l'attore, non il calciatore. Si alzò e ficcò libri e appunti nella tracolla per la mattina, poi spense le luci e si diresse in camera sua. Era veramente stanco, sperò di dormire come un sasso e di non fare strani sogni sulla Rivoluzione francese. Ad Akel succedeva spesso di sognare le materie che studiava per i compiti in classe; la cosa l'aveva sempre divertito.

Dopo essere andato nel bagno privato della sua stanza, si buttò a peso morto sul letto, ma prima di addormentarsi azionò le sei sveglie nel cellulare. Ognuna era programmata con la stessa canzone per suonare ogni cinque minuti. Una sveglia normale non l'avrebbe mai svegliato, o meglio gliene sarebbero servite più di una. Non seppe quanto tempo era passato quando si risvegliò di botto, per colpa delle sirene della polizia.

"E che cazzo, no!" disse disperato, premendosi il cuscino sopra le orecchie. Si alzò dal letto parecchio irritato per affacciarsi alla finestra di camera sua che dava sulla strada. Le volanti erano già passate, ma un'altra auto stava passando davanti al cancello a tutta velocità. Non riuscì a vedere bene, ma era sicuro di averla già vista. Lasciò perdere e se ne tornò a letto, non gli interessava che dei ladri fossero tornati nel quartiere in quel momento, aveva altri problemi, più importanti. Se non si fosse riaddormentato subito, la mattina seguente non sarebbe mai arrivato in orario.

*

Si sentiva più sicuro con Adam ad aspettarlo nell'auto parcheggiata fuori, a fare da palo, era molto meglio che lavorare da solo. La villa dentro non era molto grande, o meglio, non come quelle che svaligiava di solito. In compenso, il terreno intorno alla casa era enorme; quei Bloom dovevano essere amanti della vita all'aria aperta. Aveva trovato molte foto dei due neosposini durante escursioni o campeggi. Si vedeva che a loro piaceva viaggiare. Sullo sfondo di loro due abbracciati aveva riconosciuto il Grand Canyon. Non potè non provare una vena di invidia. Si scosse dai suoi pensieri nell'udire la voce di Adam all'auricolare del cellulare.

"Ti dai una mossa?"

"Sono appena entrato."

"Muoviti e basta, i vicini stanno rientrando ora.”

Lance alzò gli occhi al cielo. L'amico doveva darsi una calmata, altrimenti lo avrebbe preso a ceffoni quando sarebbe sceso. "Tranquillo."

Entrò nella camera da letto dei Bloom, cercando di non fare eccessivo rumore; sapeva che i vicini non potevano sentirlo, ma cercava comunque di limitare il tutto il più possibile, non si era mai troppo sicuri.

La camera era spaziosa con un enorme balcone all'esterno, che dava su un boschetto di querce. L'armadio alla sinistra della porta finestra era in legno massiccio riverniciato di bianco. Ci si fiondò sopra, aprendolo e cercando la cassetta di sicurezza.

"A che punto sei?" domandò Adam annoiato, mentre mangiava un sacchetto di patatine in macchina.

"Sto cercando la cassetta di sicurezza, dovrebbe essere nell'armadio."

Adam accartocciò la carta e la gettò tra i sedili posteriori, per poi si aprire una cola. "Naaa, venti sterline che la trovi nello studio” scommesse, ingurgitando la bibita.

"Non fare il saputello. Si sono appena sposati, sicuramente è lei che decide dove tenere i soldi e i valori” ribattè Lance, mentre frugava nei cassetti di biancheria intima della donna.

"Non penso, vai a vedere nello studio.”

Stark lasciò perdere la camera da letto e tornò nel corridoio della casa. Notò subito una cornice in oro. Quella sarebbe stata un buon pezzo, l'apri lasciando la foto sul mobiletto, mentre la cornice finiva nello zaino. Proseguì la sua strada fino alla terza porta del piano superiore; sapeva esattamente cosa ci fosse dietro ogni porta. Adam era bravissimo nel suo lavoro, malgrado non avesse idea di come riuscisse a procurarsi quelle dannate piantine aggiornate. Forse era meglio non chiedere.

"Allora? Ce la fai prima di domani?"

"Se sei così impaziente, la prossima volta vieni te al mio posto e io faccio il palo” sbottò, cercando allo stesso tempo di tenere la voce bassa.

"Non dire cavolate, dai."

Lance scosse la testa, entrando nella stanza. Al contrario della camera da letto, si vedeva che era stata arredata da un uomo: era in disordine, con colori che cozzavano tra di loro. La libreria alla sua destra era una di quelle vecchie, sicuramente un regalo di parenti lontani. Nemmeno sua madre avrebbe mai preso una cosa del genere. Rimase colpito nel vedere una Play Station nella stanza. Quella però non gli interessava, la oltrepassò senza pensarci troppo. Si posizionò davanti alla scrivania, frugando nei cassetti ma non trovando altro se non fogli, appunti e foto. Imprecò irritato.

"Non c'è nella scrivania."

"Nel mobile?" domandò Twain come se fosse la cosa più ovvia del mondo, mentre si accendeva una sigaretta e si guardava intorno. Era veramente silenzioso quel quartiere a quell'ora, era quasi sinistro. Iniziava anche a fare freddo. Infatti si era portato una coperta e del caffè per stare sveglio.

Lance sbuffò. Non lo sopportava quando faceva così. Osservò quell'oggetto da antiquariato che era il mobile, con una vetrina piena di libri accatastati senza cognizione. Nel guardare meglio, notò un lieve dislivello nel punto in cui i libri e la parete si incontravano. Una serratura, pensò.

"Trovata. E' nel muro, ma non ci sono problemi, posso aprirla senza una combinazione” disse entusiasta.

"Perfetto. Sbrigati allora, che voglio andare a casa."

ll più giovane lo lasciò perdere; ora doveva concentrarsi e fare la sua magia. Spostò i libri sulla scrivania e tirò fuori dallo zaino i suoi arnesi da scassinatore. Prima di iniziare, però, si intascò un pesante fermacarte in oro e argento. Si mise la pila in bocca e infilò i due ferretti nella serratura. Non aveva tanto spazio a disposizione e la cosa lo avrebbe fatto andare un attimo a rilento, era abbastanza frustrante in quanto non avevano molto tempo prima che la pattuglia di controllo passasse. Prese un respiro profondo e fece girare la serratura. Il sonoro clack fu musica per le sue orecchie.

"Fatto” comunicò al socio.

Subito l'allarme della casa scattò, seguito dalle imprecazioni di Lance.

"Che cazzo succede?" domandò Adam, allarmato udendo il rumore assordante. Nel giro di una decina di secondi alcuni dei vicini si affacciarono alle finestre o scesero per strada.

"C'era un secondo allarme sulla cassetta di sicurezza. Sono un coglione. Prendo la roba ed esco” disse, aprendo lo zaino per metterci tutto quello che trovava. Doveva essere veloce.

"Non uscire da davanti. I vicini sono al cancello. Scavalca da dietro, ti vengo a prendere” gli ordinò Adam con un tono agitato. Per fortuna la sua auto non era visibile a chi era in strada, nel punto in cui aveva parcheggiato. L'unico modo per andare a prendere il ragazzo, però, era tornare indietro passando davanti ad altre abitate; se lo avesse fatto, avrebbero sicuramente preso la targa. Imprecò. L'unica soluzione era andare dritto e scendere dalla collina per poi risalire dall'altra via.

"No, lascia perdere, vattene e non farti vedere. Io taglierò per il bosco e andrò qualche villa più avanti” rispose, infilando fino all'ultima banconota nello zaino, per poi chiuderlo.

"Non ti lascio lì, cazzo."

"Metti in moto la cazzo di macchina e vattene."

Aveva poco tempo e doveva uscire da lì alla svelta. Corse giù dalle scale, entrando subito nella grande sala, aprì la finestra e saltò di sotto. Per fortuna non era dovuto saltare dal secondo piano.

Adam intanto aveva eseguito gli ordini. Riuscì a svignarsela poco dopo l'arrivo della polizia. Inveì più volte per la strada. Non sarebbe subito andato a casa. Si sarebbe dovuto nascondere per almeno un'oretta prima di potersi considerare al sicuro. Una volta scesa la collina, si diresse a velocità moderata fuori città, al solito parco giochi. Intanto aspettava una chiamata di Lance, per sapere che era tutto a posto. Sperò vivamente che non venisse preso. Non avrebbe avuto il coraggio di chiamare Alexandra per dirle che avevano arrestato il fratello.

*

Saltò a fatica la rete di recinzione al limitare del boschetto che divideva la villa dei Bloom da un'altra. Corse come un matto, sperando che non ci fossero cani o altri allarmi nascosti in quelle case di dottori e direttori di banca. Come se non bastasse, aveva dovuto spegnere anche la pila, altrimenti sarebbe stato notato da qualcuno. Aveva sentito la polizia alle sue spalle entrare nella proprietà ed era riuscito a sfuggire loro con sufficiente tempestività. Sperò che il suo vantaggio non diminuisse.

Era arrivato quasi al secondo muretto quando inciampò come un sacco di patate in alcuni vasi vuoti, dimenticati dai proprietari. Gli partì un'imprevazione. Non doveva demordere; si tirò nuovamente su. Prese un respiro profondo. Mantieni la calma, pensò fra sé e sé. Fissò le finestra della villa, non aveva svegliato nessuno per fortuna.

Riprese la sua fuga. Si rese conto di avere le mani graffiate solo quando le guardò, mentre si arrampicava sul muretto. Imprecò di nuovo, ma riuscì comunque a tirarsi su. "Non è niente di grave, idiota”, si disse. Attraversò il nuovo cortile in veloci falcate. Mandò al diavolo la sua avarizia: lo zaino era troppo pieno. Si lanciò letteralmente sopra alla rete di recinzione che divideva i due terreni e cadde dall'altra parte sul sedere. Si tirò nuovamente in piedi, fregandosene del dolore, e continuò ancora a correre. Sentì dalla strada la polizia che iniziava a controllare casa per casa. "Fanculo."

All'ennesimo muretto che saltò, non aveva idea di quante case aveva superato, si fermò a prendere un po' di ossigeno. Avrebbe preferito un allenamento con Stan a quella folle corsa, in quel momento. Alzando lo sguardo verso la proprietà, gli sembrò di averla già vista; i suoi dubbi si dissiparono quando vide il Range Rover bianco nel vialetto. "Porco cazzo."

In quel momento sentì delle auto giungere in quella direzione. Senza pensarci due volte, vedendo la finestra della sala aperta, ci si infilò dentro.Urtò una poltrona e cadde per terra, imprecando. "Cazzo, cazzo." Poteva la sua buona stella da ladro averlo abbandonato? Si fermò un secondo, smise di respirare cercando di sentire se qualcuno si fosse svegliato. Udì i passi dal piano di sopra. Inveì per l'ennesima volta. Non sapeva cosa fare per la prima volta. Si nascose dietro la poltrona, aspettando che scendesse le scale. La luce per fortuna era spenta e sperò che lo restasse, in quel modo non sarebbe stato visto. Le sue preghiere, però, non vennero esaurite. Nel momento in cui la luce venne accesa, suonò anche il campanello dell'entrata.

"Esci da lì o ti spacco la faccia."

Lance si coprì il viso con una mano, pensieroso sul da farsi. O la va o la spacca, pensò. Uscì fuori dal nascondiglio, mettendosi in piedi con le mani alzate.

"Che cazzo fai con una mazza da baseball?" chiese sconvolto.

Leeroy lo guardò dall'alto in basso, non capendo cosa diavolo il portiere stesse facendo lì.

"Che cazzo ci fai tu qua?"

Il campanello dell'entrata suonò ancora.

Lance puntò lo sguardo negli occhi del compagno di squadra. Dopo qualche secondo, Leeroy posò la mazza contro il muro e andò a sentire chi fosse al citofono.

"Polizia, potrebbe farci entrare?"

Rogers fulminò l'altro con lo sguardo. Stark, invece, restò impassibile.

"Cosa posso fare per voi?"

"C'è stata una rapina qua vicino, vogliamo controllare che da Lei sia tutto a posto."

Leeroy imprecò mentalmente, strofinandosi gli occhi non più assonnati. Aveva capito che diavolo ci facesse Lance nella sua sala. Sperò vivamente di non doversi pentire del suo gesto.

"Sì va bene, vi apro” disse infine, aprendo il cancello con il pulsante di fianco al citofono.

Il portiere, intanto, era già pronto ad uscire da dove era entrato, quando Leeroy parlò di nuovo.

"Che cazzo fai? Vai in camera mia a nasconderti, coglione, ci penso io a loro” gli ordinò sottovoce, con tono alterato.

Lance quasi non credette a quelle parole, rimase per un attimo immobile.

"Cristo, ti devo portare in braccio? Muovi il culo.”

Il rosso in un attimo rimise la poltrona contro il muro sotto la finestra e corse su per le scale. Non aveva idea di quale fosse la camera del terzino.

Leeroy prese un respiro profondo e aprì la porta appena vide i due poliziotti arrivare dallo spioncino. Finse più che potè un'aria assonnata ed irritata. Cosa non difficile per lui.

"Scusa per l'ora, i tuoi genitori non sono in casa?" domandò il più alto ed anziano.

"Sono fuori per un viaggio, ma sono maggiorenne, non si preoccupi. Cosa è successo?"

L'altro uomo cercava di avere una panoramica completa del piano terra. La cosa infastidì veramente il ragazzo, infatti cercò di impedirgli la vista, frapponendosi tra lui e l'entrata.

"E' stata svaligiata una casa qua nelle vicinanze, a voi manca nulla?" chiese il secondo.

"No signore, è tutto apposto. Vorrei tornare a letto, domani ho un compito importante."

Il primo scarabocchiò degli appunti su un taccuino nero.

"Hai visto o sentito cose strane?"

Il giovane negò, scuotendo la testa. Non era dell'umore per sorbirsi un interrogatorio o per essere gentile con degli sconosciuti che venivano a suonare quasi alle tre del mattino.

"Pensiamo che i ladri siano scappati passando per le diverse proprietà adiacenti alla casa."

Allora non sono stupidi come nei film, pensò. La polizia aveva un'idea su che fine avessero fatto i ladri, o il ladro, anche se vaga. Senza prove o un mandato, non potevano entrargli in casa, di questo era sicuro. Era l'unica cosa che aveva imparato guardando C.S.I e tutte le altre serie in televisione. Quindi cercò di forzare il tono di voce per mandarli via.

"Dormivo come un sasso finché non ho sentito le sirene. A parte quel casino non ho sentito nessun altro rumore strano” disse, aggiungendo uno sbadiglio che tanto finto non era.

"Se dovesse mancare qualcosa, potrai venire da noi domani in centrale. Saremo ancora qua di pattuglia fino all'alba." concluse l'uomo, cercando di non far trasparire il tono irritato. Non sopportava i ragazzini come quello.

Leeroy sperò che finalmetne se ne andassero una volta per tutte, voleva davvero andarsene a letto.

"Vi ringrazio per il vostro lavoro, ma non penso manchi nulla. Buonanotte."

"Buonanotte." dissero all'unisono i due agenti.

Dopo aver chiuso la porta tirò un sospiro di sollievo.

"Lasceresti mai tua figlia da sola a casa per andare in vacanza con tua moglie?" chiese un poliziotto all'altro; Leeroy li sentì parlare da dietro la porta.

"Stai scherzando? Questi ricchi se lo possono permettere, io no di certo."

Al giovane padrone di casa partì un imprecazione. Non sopportava quei commenti del cazzo. Quello, però, non lo preoccupava; il suo problema attuale, al momento, se ne stava al piano di sopra. Si chiese perchè diavolo avesse agito in quel modo. Prese la mazza da baseball, poi chiuse la finestra e spense la luce. Prese un respiro profondo prima di entrare in camera sua, trovandola vuota.

"Ma che cazzo... Dove diavolo sei?"

Lance sbucò fuori dal bagno. "Non sono scappato, sta' tranquillo." Leeroy pensò che forse sarebbe stato meglio.

Si fissarono per qualche secondo. Quella situazione aveva dell'assurdo. Leeroy andò a sedersi sulla sponda del letto, sospirando pesantemente, dopo aver lasciato la mazza sul divanetto che si trovava lì. "Cosa devo fare con te?" chiese a se stesso.

"Facciamo che me ne vado adesso e te non hai visto nulla” disse il rosso, mettendosi di profilo alla finestra. "Cazzo." La polizia era ancora fuori.

"Esatto. Resteranno qua fino all'alba, non ti conviene andare via ora” disse Leeroy, grattandosi la testa pensieroso. Il sonno iniziava a tornare. "Dormi qua stanotte, domattina ti porto dove vuoi” aggiunse infine, trovando che fosse la soluzione più adatta al momento.

Lance lo guardò storto.

"Tranquillo, non ti soffocherò nel sonno” disse il padrone di casa, sbadigliando.

Il portiere lasciò cadere lo zaino sul pavimento, il quale fece un tonfo sordo.

"Cazzo, ne hai di roba là dentro."

Stark lo fulminò con lo sguardo.

“Tranquillo, non mi interessa cosa hai fatto o cosa ci sia dentro” lo rassicurò Rogers, sdraiandosi sul letto per mettersi più comodo. “Senti, ora andiamo a letto se ne riparla domani, okay?". La voce del terzino era ferma e non ammetteva repliche. Lance annuì, più per stanchezza che per altro.

"Nell'armadio ci sono le coperte, prenditi quello che vuoi e mettiti sul divano” disse, mettendosi su un fianco e fissando la parete. Quella non ci voleva, avrebbe dovuto davvero mettere un sistema d'allarme in casa. Sbadigliò.

"Sei pronto per la verifica di domani?" chiese Lance, mentre apriva l'armadio e tirava fuori al primo colpo una coperta. La mise sul divano e cercò qualcosa che potesse entrargli.

"Le tute sono in alto a sinistra”, disse Leeroy, puntando poi il suo sguardo sull'altro. "Ho ripassato fino a qualche ora fa.” Sbadigliò ancora, mentre si metteva sotto le coperte. Si scoprì a fissare Lance mentre si spogliava per rimanere in boxer. Aveva più muscoli di lui. Lo vide trovare un paio di pantaloncini, e nel piegarsi per metterli notò un tatuaggio sulla schiena, poco sotto la nuca.

"Ti piace Eminem?" domandò, mentre l'altro tirava fuori anche una t-shirt abbastanza larga da entrargli.

"Cosa?" chiese distrattamente.

"Il tatuaggio!” Aveva riconosciuto le parole della canzone Cleanin' Out My Closet.

"Diciamo che sono un fan, ho tutti i cd a casa.” Rimase per un attimo colpito nel scoprire che il terzino aveva riconosciuto il testo della canzone. Indossò la maglietta e si sdraiò sul divano, troppo piccolo per la sua stazza.

"Non sono un fan del rap, ma Eminem mi piace. Ora dormi, sto crepando di sonno” disse Leeroy, ficcandosi sotto le coperte. "Se vuoi ti porto a casa domani prima di andare a scuola” aggiunse poi, mettendosi su un fianco per riuscire a dormire, dopo aver spento la luce.

Lance sbuffò, rigirandosi per cercare la posizione più comoda.

Dopo dieci minuti la luce venne riaccesa da un padrone di casa irritato.

"Il tuo divano fa schifo” asserì il portiere.

"Ringrazia di essere ancora qua” disse Rogers, alzando gli occhi al cielo. Si tirò poi a sedere, la luce gli infastidiva la vista, perciò tenne gli occhi semiaperti.

"Vieni qua prima che ci ripensi."

"Cosa?" chiese Lance, interdetto.

"Alza il culo e vieni nel letto, non ti sopporto più” disse, scoprendo l'altra parte.

Stark fece come gli era stato detto; non aveva voglia di litigare ancora, voleva anche lui dormire in santa pace. Si sdraiò vicino al compagno di squadra, il quale spense subito la luce, dandogli subito le spalle.

Lance si coprì fin sotto al mento: in quella stanza faceva più freddo che nelle altre, stranamente.

"Grazie" riuscì infine a dire.

Leeroy si girò sull'altro fianco, cercando subito gli occhi del portiere. Lì trovo, nonostante l'oscurità. "Lasciamo perdere” disse con sincerità.


 


 

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Capitolo 14
*** Capitolo 14 ***


The last chance
XIV

Riuscì ad andare a casa solo quando ricevette un sms da Lance. Stava bene, era riuscito a scappare e sarebbe andato a casa da solo. Quello già gli bastò per sentirsi risollevato. Doveva impedirgli di finire in galera, non essere la sua balia.

Rimise l'auto in moto. L'aria fuori era dannatamente fredda e il cielo diventava sempre più nero. Odiava l'alba. Quella mattina, per sua fortuna, non doveva andare in università; l'avrebbe passata a casa a dormire. Poi avrebbe dovuto iniziare a chiamare i suoi compratori per riuscire a piazzare gli oggetti che Lance aveva preso, glielo aveva detto nel messaggio che aveva proprio un bel bottino. Si accese l'ultima sigaretta del pacchetto a malincuore. Era troppo stanco per fermarsi a comprarle, sarebbe andato dritto a casa e le avrebbe prese nel pomeriggio.

*

Aveva la sensazione di aver dormito troppo. Il problema era che non aveva la forza di alzarsi e guardare l'orologio. Era strano, la sveglia avrebbe già dovuto suonare. Si concesse altri cinque minuti prima di trovare il coraggio di svegliarsi. Sentì il letto muoversi e rimase per un secondo interdetto, poi ricordò di Lance. Fanculo, pensò, io continuo a dormire. La sveglia suonò in quel momento, seguita da un'imprecazione del padrone di casa. Si sentì la bocca impastata, e la parte della guancia destra poggiata sul cuscino secca. Fantastico, ho di nuovo sbavato nel sonno.

Si tirò a sedere ancora coperto fino alle spalle dalle lenzuola; al suo fianco Lance continuava a dormire a braccia aperte. Notò che sfortunatamente gli aveva sbavato propria sopra la mano, che per quelle poche ore era rimasta adagiata sul suo cuscino, poco al di sotto del suo viso. Stava per mettersi a ridere, ma gli scappò un'altra imprecazione vedendo l'ora. "Cazzo, cazzo! Alza il culo, ho messo male la sveglia!” urlò quasi, tirandogli una gomitata nelle costole. Lo vide alzarsi di botto. "Cristo santo, Leeroy, ma sei coglione?!" disse, accasciandosi su un fianco e tenendosi la parte dolorante. "Siamo in ritardo, coglione!" disse, mettendogli davanti agli occhi il cellulare con l'ora. Lance imprecò a sua volta, ma non per l'orario. "Cristo. Mi hai sbavato sulla mano” sbottò, mettendosi in piedi.

"Succede quando non si sa dormire dalla propria parte del letto” rispose stizzito.

"Ma che schifo!" disse il rosso, andando in bagno a lavarsi le mani. "Se vuoi farti la doccia, vai al bagno nel corridoio” disse Leeroy con tono alterato mentre lo seguiva, ma andò a sbattere contro la porta. "Ma che cazzo! Non ti fare la doccia nel mio bagno!”. Appena udì il getto d'acqua azionarsi, diede un colpo alla porta. "Ma che cazzo!”

Sapere di essere già in ritardo lo spinse a lasciar perdere e a correre nel bagno in corridoio. Lo rallegrò ricordarsi che avevano solo venti minuti per prepararsi e fare colazione. Dopo essersi lavato e rivestito di fretta, corse giù con lo zaino, entrando in cucina per farsi il caffè. Senza sarebbe morto. Dopo poco arrivò anche Lance, con addosso i vestiti della sera prima e di pessimo umore. "Non posso venire a scuola così.” Maglietta e jeans era sporchi di terra.

Leeroy affondò la faccia nei palmi delle mani. "Prendi qualcosa dal mio armadio allora” disse con fare spiccio.

Il caffè venne su proprio in quel momento. "Prendi una tuta a caso, è uguale, ma sbrigati” aggiunse a gran tono di voce, vedendolo ancora lì impalato.

"Okay, okay. Non essere così agitato. Dobbiamo ancora passare da casa mia, non ho la mia roba per scuola."

Il padrone di casa si diede dell'idiota, si era dimenticato quel piccolo particolare. Versò tutto il caffè in due tazze e poi corse su per le scale, cercando le tute vecchie; erano le uniche cose che sarebbero potute entrare a quella bestia, che intanto lo aveva seguito. "La prossima volta che decidi di derubare qualcuno, abbi la decenza di avere un piano B” sbraitò mentre gli lanciava addosso una felpa e dei pantaloni. "Ce l'avevo, ma non è colpa mia se è arrivata la polizia” disse mentre si toglieva la maglietta sporca.

"Come vuoi, ma sbrigati."

Leeroy corse di nuovo di sotto, afferrò la sua tazza e vi versò lo zucchero; era un po' troppo per un espresso, ma doveva stare sveglio. Afferrò le chiavi dell'auto e aspettò il compagno di squadra sulla porta, anche con la sua tazza. Arrivò quasi subito, senza lo zaino della sera prima. Gli porse il bicchiere di carta e chiuse la porta alle spalle per poi imprecare.

“Cosa c'è?”

“Gli occhiali, li ho lasciati su. Guida te” disse lanciandogli le chiavi.

“Come vuoi.”

In auto, Leeroy trangugiò il caffè come se fosse acqua e si sentì quasi rinato. “Fuma se vuoi, ma vai veloce, è più importante la verifica di una multa.”

“Fanculo, la fanno a me, mica a te.”

“Te la pago io, ma muoviti.”

Lance roteò gli occhi, accendendosi la sigaretta e aumentando la velocità. Per arrivare a casa sua conosceva una scorciatoia, ci avrebbero messo poco se non avessero trovato traffico. Leeroy accese la radio mettendo la radio locale, aveva lasciato la sua USB in casa il giorno prima. Sbirciò di nuovo l'orologio del cellulare, sperando di arrivare in tempo a scuola. Al pensiero dell'esame gli tornò sonno.

“Lo bevi il caffè?”

Lance inarcò un sopracciglio, sbuffando fumo dalla bocca. “Sì” rispose, bevendo in un sorso metà tazza, poi però porgendola al compagno di squadra, che a sua volta lo guardò stupito.

“Bevi dai, sembri un drogato di caffeina.”

Il difensore non fece in tempo a berne una goccia che Stark inchiodò sul vialetto di casa, scattando subito fuori dall'abitacolo, accompagnato dall'ennesima imprecazione del compagno.

Non ci mise molto, fortunatamente aveva già preparato tutto. Dopo pochi minuti, fu di nuovo da Leeroy.

“La prossima volta io ti ammazzo.”

“Stai calmo, è solo caffè” disse rimettendo in moto per dirigersi verso la scuola, sgommando.

"Muoviti, abbiamo cinque minuti."

"Non preoccuparti, Lee."

Rogers roteò gli occhi con stizza, continuando a bere il suo caffè.

Arrivarono dopo poco a scuola. Lance quasi inchiodò nuovamente. "Fanculo, senti, ci si vede più tardi, poi mi ridai le chiavi” disse il moro, uscendo dalla macchina e correndo verso le scale; aveva meno di un minuto per essere in classe.

Stark non fece nemmeno in tempo a rispondere che Rogers era già sparito. Si chiese se il compagno di squadra si fosse reso effettivamente conto del suo secondo lavoro. Sorrise tra sé e sé per l'assurdità della cosa, chiudendo l'abitacolo.

*

“Dove diamine eri?” sbottò Miles, visibilmente preoccupato. La campanella della prima ricreazione era da poco suonata e i due amici si trovavano nel parcheggio perché il rosso aveva voglia di fumare.

“Ieri notte ho lavorato, e stamattina mi sono alzato tardi. E' stata una nottataccia” ammise, anche se non del tutto la verità. Si strofinò gli occhi assonnati. Non avrebbe dovuto lasciare il caffè al difensore. Probabilmente avrebbe dovuto comprarne in caffetteria. Notò lo sguardo ancora più preoccupato di Miles.

“Potevi chiamarmi questa mattina ti sarei passato a prendere. Anche per il resto, sai che puoi venire da me se hai bisogno.”

“Va tutto bene, ho solo dormito troppo” mentì, cercando di sembrare convincente. Non sopportava che Reginald si preoccupasse così tanto; sì, erano amici, ma non era la sua vita. Doveva cavarsela da solo, perché Miles non ci sarebbe stato per sempre. Sapeva che l'amico era già pronto ad entrare nei college più importanti d'Inghilterra, mentre lui non sapeva nemmeno se sarebbe arrivato a fine mese. Gli voleva bene, era la sua unica famiglia, ma non poteva contare su di lui. Esattamente come non poteva dirgli che stava continuando il suo “secondo lavoro”.

Gli occhi di Reginald continuavano ad essere preoccupati, ma poi si rasserenarono. “D'accordo” disse per poi mettersi le mani in tasca e dondolare sul posto, pensieroso.

“Qualcosa non va?”

“Non so se devo ringraziarti o mandarti a quel paese per quello che hai fatto con Abigail” ammise Miles per la prima volta.

Il portiere per un momento non aveva minimamente capito di cosa l'amico stesse parlando. Gli erano successe così tante cose negli ultimi giorni che si era completamente dimenticato della sorella di Adam. In fondo lo aveva fatto per lui.

“Mi ringrazierai a tempo debito." disse, scherzando dandogli una pacca sulla spalla con fare scherzoso. “Mi raccomando, usa le protezioni, perché poi non voglio fare da baby-sitter ai tuoi figli” aggiunse per prenderlo in giro.

Miles arrossì lievemente per l'imbarazzo. “Simpatico. Credi che non sappia quello che faccio?”

Lance gli lanciò uno sguardo eloquente. “Ti devo ricordare di Eleonor?”

Con quella sola frase colpì e affondò l'amico.

“Se mai racconterai a qualcuno di quella storia. sarà la volta buona che dovrai scappare in Siberia” disse Miles con una risata isterica.

Il portiere scoppiò a ridere. “Tranquillo, non oserei mai. Ti giuro, non avrei nemmeno il cuore di raccontare a voce alta quella storia.”

“Fottiti” sentenziò il capitano, per poi aggiungere: “Ci vediamo in classe, vado in caffetteria.”

Lance dietro di lui stava ancora ridendo. “Eddai, non ti offendere.”

La prima volta di Miles era davvero una barzelletta. Lui non conosceva tutti i retroscena, sapeva solo che aveva avuto problemi tecnici e la ragazza lo aveva preso a schiaffi perché era troppo lento. Ogni volta che gli tornava in mente non riusciva a trattenersi. Il cellulare squillò proprio in quel momento, spegnendo il suo buon umore non appena lesse il nome di chi lo stava chiamando.

“Come hai fatto ieri notte a tornare a casa?” domandò il maggiore dei Twain dall'altro capo del telefono, con tono preoccupato.

“Non ti preoccupare di questo. Piuttosto, hai chiamato in palestra?” domandò, facendosi più serio. Al telefono non poteva raccontargli quello che era successo dopo che si erano separati, lo avrebbe fatto quando poi si sarebbero visti per parlare della vendita.

“E' per questo che ho chiamato. Dobbiamo andare questa sera per forza, non possiamo rimandare altrimenti la tessera scade.”

Stark si chiese ancora perché diavolo avessero scelto un linguaggio in codice così stupido. Molte volte si sentiva un idiota. Quell'idea brillante, però, non era stata loro, ma di Alexandra. Aveva detto loro che nessuno faceva mai domande strane sulla palestra. “

“Va bene. A che ora?” domandò, anche se sapeva già di conoscere la risposta. Le vendite erano quasi sempre alle stesse ore; o alle otto del mattino o alle nove di sera . Il proprietario sembrava fare come un vero e proprio orario di lavoro d'ufficio, l'aveva sempre trovato divertente.

"Le nove, al solito posto."

"D'accordo. A stasera” disse per poi riattaccare. Sperò vivamente di poter riuscire a raccimolare abbastanza soldi, così avrebbe potuto mandare qualcosa anche alla sorella. Di solito non lo faceva, ma alcune cose che aveva preso dovevano essere di buon valore.

Guardò il cielo, che stava iniziando a rannuvolarsi, portando con sé un po' di vento autunnale. Rabbrividì. Gli abiti che aveva addosso erano scomodi e odoravano di ammorbidente, malgrado fossero stati usati molte volte dall'amico in allenamento. Gli tornò alla mente quando da bambino si perdeva nell'odore buono delle lenzuola appena lavate o dei vestiti piegati e stirati con cura. Ora che doveva fare tutto da solo usava solo un detersivo e gli bastava; l'odore se ne andava quasi subito dagli abiti. A lui andava bene così. Non era mai stato incline ai ricordi olfattivi, gli sbattevano la realtà in faccia senza avvertire.

*

Per la prima volta da quando andava a scuola, era riuscito a fare tutti gli esercizi di un test. Consegnò per ultimo, per via di un paio di esercizi con i quali aveva fatto a pugni. Poco prima di lui aveva consegnato Andrew. Per quella verifica di recupero di storia, i vari professori avevano pensato bene di mettere insieme tutti gli alunni con l'insufficienza, in quanto erano veramente pochi. Il cinquanta per cento, però, erano membri delle squadre di calcio e di pallavolo. Sapeva però che il ragazzo aveva fatto tutto nei primi dieci minuti; aveva notato il suo sguardo annoiato mentre leggeva il primo esercizio. Non capiva proprio quel ragazzo. Lui era dovuto ricorrere a Lance Stark per capire due concetti, mentre quel ragazzino era brillante, e per paura di una qualsiasi stupida convenzione sociale aveva paura di mostrare il suo genio. Lo avrebbe preso a pugni solo per quel motivo. Non appena consegnò i fogli, si beccò un'occhiata severa dal suo insegnante.

“Spero per te che sia andato bene.”

“Può scommetterci” rispose senza pensare, con tono deciso, per poi dileguarsi dall'aula.

Andy, stranamente, era fuori ad aspettarlo. I due di solito non parlavano molto al di fuori degli allenamenti o delle partite.

“L'esame era facile, una cavolata paragonati a quelli che facevo nella mia scuola precedente. Però ho messo qualche errore qua e là per strappare una banale sufficienza” disse con tono esaltato il più giovane.

Leeroy lo fissò per un secondo. basito. Come poteva dire una cosa del genere o anche solo pensarla? Era troppo stanco per mettersi a discutere con lui, non riusciva neanche a pensare di mettersi ad urlargli in faccia quanto fosse stupido. Lo salutò e si allontanò come se nulla fosse. Forse era sembrato un po' sgarbato, ma era certo che chiunque, nella sua situazione, avrebbe fatto lo stesso. Andò in caffetteria e prese una brioche al cioccolato e una bottiglia di succo d'arancia, al che si diresse in classe. Sperò davvero di aver fatto bene quel dannato compito. Sapeva però di essere solo all'inizio dell'anno e quello non sarebbe stato l'ultimo compito di storia. Avrebbe avuto bisogno di un modo per poter migliorare il suo metodo di studio e la sua concentrazione. Ogni volta, entrambe le cose andavano a farsi benedire. Lance era riuscito ad aiutarlo e forse anche in modo quasi perfetto, molto meglio di come aveva fatto Miles in tutti quei mesi. Ma non avrebbe mai potuto chiedergli di poter continuare quel "gruppo studio", in primo luogo perché, in teoria, si odiavano reciprocamente; in secondo luogo, perché aveva la sensazione che avrebbe potuto ferire l'orgoglio del capitano in qualche modo. Gli era sembrato genuinamente esaltato quando aveva notato che Leeroy aveva imparato qualcosa, contro ogni sua aspettativa. Sospirò pesantemente, bevendo poi un sorso di succo. Prima avrebbe dovuto schiarirsi le idee. Tra l'altro, il fatto di non aver dormito peggiorava il suo umore man mano la giornata proseguiva. Bussò ed entrò in classe con molta calma; la professoressa del corso sapeva della sua verifica di recupero, anche se aveva storto il naso in quanto nessun insegnante voleva che Rogers perdesse ore utili di lezione. Andò a sedersi nel banco vuoto vicino ad Akel, che a sua volta era vicino a Daniele, a metà classe.

“Toppato di nuovo?” bisbigliò l'italiano nella sua direzione.

Leeroy gli lanciò un'occhiataccia. “Non rompermi le palle di prima mattina, ne potrebbe andare della tua vita.” rispose con tono irremovibile.

“E dai, datti una calmata.”

“Dan, lascialo stare. Come minimo ha passato la notte in bianco a studiare” replicò Akel, come a voler sostenere il terzino.

Non li considerò. Si accoccolò sopra il suo zaino, mollato sul banco. Forse sarebbe riuscito a dormire un po', ma non ci sperava. Era orribile dover stare seduto tutto il tempo e dover per forza prestare attenzione alla lezione, quando le palpebre sembravano avere vita propria e il cervello minanacciava di andare in black-out da un momento all'altro. Provò a chiudere gli occhi per un momento, ma li riaprì subito, sentendo lo sguardo di disaprovvazione della professoressa sulla sua testa. Mise lo zaino per terra e cercò di prestare attenzione, senza successo. Iniziò subito a chiedersi se magari Stan lo avrebbe lasciato giocare almeno per qualche minuto alla prossima partita. Aveva paura di essersi arruginito, e gli mancava l'adrenalina del campo. Sospirò amareggiato. Ormai non litigava nemmeno più con Stark. Al pensiero del portiere sembrò svegliarsi tutto d'un botto. Non gli aveva chiesto spiegazioni per quello che era successo la notte prima e sinceramente la cosa non gli interessava. Trovò solo ridicolo che facesse quel tipo di cose. Aveva anche un lavoro, come era possibile che i soldi non gli bastassero? Magari lo faceva per divertimento?

Cercò di non pensare troppo ad affari che nemmeno lo riguardavano. Sicuramente non lavorava da solo, chissà chi fosse il suo socio. Non conosceva il rosso così bene da poter giudicare il suo “hobby”, ma era rimasto quasi sconvolto, anche se non lo aveva dato a vedere. Doveva chiamare Amanda e chiederle il permesso di installare un sistema di sicurezza; se era entrato Lance, ci sarebbe riuscito sicuramente anche qualcun altro. In realtà la colpa, o il merito, era suo. Si era dimenticato la finestra aperta in salotto. Dopo gli allenamenti avrebbe dovuto parlargli, anche se non sapeva di cosa, esattamente. Aveva lasciato lo zaino con la refurtiva in camera sua, quel genio.

*

Durante l'allenamento era rimasto in disparte. Troppi pensieri per la testa. Erano arrivati tutti in una volta e nel momento sbagliato. Era totalmente deconcentrato. Aveva ancora le chiavi del Range Rover nel suo zaino. Era preoccupato per quello che avrebbe potuto dire Leeroy su quanto era successo quella notte. Sicuramente avrebbe chiesto spiegazioni. Poteva anche non dargliele. Ma se avesse avuto la brillante idea di denunciarlo? No, il difensore non lo avrebbe fatto, altrimenti lo avrebbe consegnato alla polizia sul momento, mentre se ne stava nel suo salotto. Non riusciva ancora a credere a tutto ciò che era successo. Gli era già capitato di doversi dare alla fuga, ma mai come quella notte e mai era entrato di nascosto in una casa che non doveva rapinare. Si accorse che Stan lo stava chiamando solo quando gli si avvicinò.

“Si può sapere che hai? Hai fatto anche te le ore piccole come Rogers?” domandò con tono alterato. Aveva subito notato che quei due non erano molto presenti, o meglio, solo Stark. Leeroy si stava perdendo in chiacchiere con i suoi amici. Brutto segno.

"No. Va tutto bene” rispose il portiere con tono neutrale, anche se in realtà era infastidito. Il ragazzo aveva un bel carattere, ma quando aveva solo dormito poche ore non sopportava sentirsi urlare nelle orecchie.

Leeroy non sopportò a sua volta essere chiamato in causa. “Ora io cosa c'entro?” chiese stupito, mentre faceva segno ad Akel di stare zitto. Avevano parlato fino a quel momento di How I Met Your Mother, la loro serie preferita.

“Leeroy, ci vuoi stare zitto?” sbottò Stan.

“Ma che ha? Non gliel'ha data la moglie ieri sera?” bisbigliò Daniele nell'orecchio del terzino con tono sarcastico; non sopportava Stan di cattivo umore, infatti ogni volta ci andava giù pesante con le battute.

A quel punto, Rogers divenne tutto rosso e scoppiò in una fragorosa risata che mandò ancora di più in bestia l'allenatore.

“Hai rotto le palle, vatti a cambiare” ordinò con tono irremovibile, lasciando Leeroy a bocca aperta per la sorpresa.

“Cosa?”

“Coglione” disse Lance tra sé e sé. Per sua sfortuna, venne sentito da Stan.

“Stark, Rogers, fuori dalle palle. Ci si rivede domani. Tutti gli altri dieci giri di campo e poi tre serie da cinquanta di addominali.”

“Ma Stan, non volevo...” Il portiere venne subito interrotto dall'uomo: "No, vai anzi a riposarti, non mi servi così. Lo stesso vale per te, testa vuota. Spero che tu abbia passato quel dannato esame, altrimenti non rivedi il campo nemmeno se mi piangi in cinese."

“Ma io cosa c'entro non l'ho ancora capito” disse Roy esasperato, incamminandosi verso gli spogliatoi, affiancato dal compagno di squadra. Non si rivolsero parola finché non furono nel locale.

Leeroy sbuffò pesantemente e lanciò gli scarpini in un angolo, per poi iniziare a spogliarsi e buttare sul suo borsone. Afferrò l'asciugamano e si ficcò nella doccia.

Lance, alle sue spalle, posò lo sguardo sulle travi del soffitto, trovandole particolarmente interessanti.

“Sai che ho ancora io le chiavi della tua macchina, vero?” domandò il portiere, mentre si spogliava a sua volta.

“E tu hai lasciato il tuo zainetto a casa mia.”

“Non potevo portarmelo a casa o a scuola” ammise entrando nel box doccia di fianco a quello di Leeroy il quale, a quelle parole, realizzò sul serio che lo zaino con la refurtiva era ancora in camera sua.

“No sul serio, perché diavolo hai lasciato lo zaino a casa mia?”

“Te l'ho detto.”

“In un altro momento ti avrei dato dell'idiota, ma siccome i miei non ci sono, non è un problema” disse uscendo dal box doccia dopo aver finito di lavarsi. Rimase stupido di come la cosa non lo disturbasse, non si sentiva preoccupato a causa della refurtiva in camera sua.

“Wow, che gentile.”

*

Quando tornarono a casa Rogers, il sole ormai era già quasi tramontato e iniziava a fare fresco. Le strade erano piene per la gente che tornava a casa dal lavoro e l'aria che entrava dal finestrino abbassato per lasciar fumare Lance sapeva di salmastro. Leeroy amava quell'odore.

“Così ora vendi tutto?” chiese per rompere il silenzio, mentre scendeva dall'auto e faceva strada all'altro.

“Non credo siano affari tuoi” rispose con tono neutrale, entrando dopo di lui in casa.

Quella risposta, seppur sensata, lo innervosì un po' e lo incuriosì allo stesso tempo. Gli tornarono alla mente i pensieri che aveva avuto quella stessa mattina a scuola. Almeno qualche chiarimento poteva concederglielo. Gli fece segno di aspettare in cucina, mentre andava in camera a recuperare quel dannato zaino.

Intanto Lance si era accomodato sullo sgabello della penisola della cucina. Voleva andare a casa e cambiarsi i vestiti, non sopportava indossare indumetni di altre persone, lo facevano sentire a disagio, e poi aveva bisogno di dormire. Era rimasto anche stupito dal fatto che Miles non avesse fatto strani commenti. Meglio così, pensò. Leeroy tornò dopo poco con l'oggetto in questione su una spalla.

“Certo che è pesante” si lamentò, poggiandolo poi sul ripiano dell'isola. "Ti va un caffè?"

"No, grazie e sì, è pesante."

“Come vuoi, io però me ne devo fare uno o crepo in terra dal sonno”ammise, mettendosi a pulire la caffettiera che aveva già usato quella mattina. Fece tutto molto lentamente e con cura, come faceva sempre. Riusciva a rilassarsi mentre preparava il caffè. Aveva bisogno per un momento di schiarirsi le idee.

“Puoi accompagnarmi a casa?” domandò Lance mentre prendeva lo zaino e se lo poggiava ai suoi piedi. Avrebbe controllato il contenuto solo una volta in camera sua.

“Mi sembrava scontato” rispose accendendo il fornello e poggiandovi sopra la caffettiera. “Puoi spiegarmi cos'è questa storia? Non voglio i dettagli, solo capirci qualcosa” aggiunse subito dopo, puntando lo sguardo negli occhi del portiere. Per un momento li vide vacillare. “Non rispondermi che non sono affari miei, perché ti giuro che ti mando a casa in mutande e a piedi.”

Lance gli lanciò un'occhiataccia. “Non sai fare minacce peggiori?” rispose guardandolo a sua volta fisso negli occhi, senza però vedere alcun segno di timore.

“So che non mi riguarda, ma almeno vorrei sapere perché diavolo sei entrato proprio in casa mia.”

“Ti giuro, non mi ero accorto di essere arrivato fino a qua finché non ho riconosciuto il Range Rover. Ho visto la finestra aperta e mi sono infilato dentro. Non ci ho pensato molto” ammise. Non voleva raccontargli cosa era successo nei dettagli, però sapeva che aveva capito a grandi linee di cosa si trattasse.

“Quindi stavi scappando dalla polizia dopo una rapina e casualmente sei finito davanti la finestra aperta del mio salotto?”

“Sì, e credo tu debba seriamente pensare di mettere un sistema d'allarme.”

“Lo so, non serve che me lo dici” rispose con tono irritato. “Non mi dirai altro, vero?” constatò dopo vari secondi di silenzio di Lance, con aria seccata.

“Ti ringrazio per quello che hai fatto, ma no, non ti dirò altro.”

Leeroy assottigliò lo sguardo, ancora più seccato. Ruppe il contatto visivo con l'altro quando sentì il caffè venire su.

“Bevo questo e ti riporto a casa. Non dimenticare i tuoi vestiti, per favore.”

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Capitolo 15
*** Capitolo 15 ***


Warning: Secondo aggiornamento della giornata. :)
 

The last chance
XV


Alle otto e mezza di sera era al supermercato ai limiti del quartiere. Era uscito prima per comprare le sigarette e parlare con Adam. Non era ancora riuscito a cambiarsi. Non appena Leeroy lo aveva lasciato a casa, era entrato solo per posare lo zaino di scuola, assieme alle banconote che aveva preso in casa dei Bloom, e buttare i suoi abiti usati a lavare. Faceva un po' freddo e la cosa lo irritava. Era di pessimo umore, era peggiorato per colpa del difensore che gli aveva posto tutte quelle domande. Non poteva però che rimproverare se stesso, si era cacciato da solo in quel guaio. Se ci fosse stato uno sconosciuto, forse sarebbe stato meglio.

Dopo aver preso le sigarette e una bottiglia d'acqua, si sedette sul muretto che divideva la strada dal parcheggio, fumando con il cappuccio della felpa calato sulla fronte. Non saltò giù quando vide l'auto nera di Twain arrivare, aspettò che il ragazzo parcheggiasse e gli si fece vicino.

“Allora?” domandò il più grande, accendendo a sua volta una sigaretta.

“Ci pagherà il prezzo patuito questa volta?” chiese Lance togliendosi il cappuccio, che in verità lo infastidiva perché non arrivava a coprirgli gli occhi.

Adam si sedette a sua volta, a poca distanza dal collega. “Ha detto di sì. Ha detto anche di essere puntuali e di non fare come a tuo solito, che ti incazzi per qualche spicciolo” rispose con tono neutro. Nessuno dei due sopportava il compratore: era un vero e proprio rompipalle pignolo. Riusciva ad aver ragione quasi il novanta per cento delle volte su ogni cosa che faceva, e riusciva sempre e comunque ad abbassare il prezzo reale. Ma almeno sborsava i soldi, non come certi altri tipi che dicevano di tornare la settimana seguente e poi non davano nemmeno un centesimo bucato.

“Si fotta. Tra oro e argento, ci dovrebbe essere una buona somma. E c'erano quasi tremila sterline in contanti. Le ho lasciate a casa in un posto sicuro questa volta, dopo ti do la tua metà” disse mentre gettava via il mozzicone di sigaretta e saltava giù.

“Non preoccuparti, passo a prenderli quando posso. Andiamo?”

Lo sguardo di Adam si soffermò sulla figura intera del ragazzo che ormai conosceva da una vita, e inarcò il sopracciglio stranito nel vedere quello strano abbigliamento.

“Ti si è ristretta la roba in lavatrice?” domandò con una risata.

Lance per un momento non capì di cosa stesse parlando, infatti lo fissò senza sapere cosa rispondere.

“Parlo dei tuoi vestiti.”

“Ah! E' una lunga storia, non mi va di parlarne.”

Il più grande balzò a sua volta giù dal muretto, con una strana luce negli occhi.

“Dove li hai rubati?”

“E' una lunga storia.”

"Eddai. Li hai rubati ad un altro ragazzino?"

“Li ho rubati in uno dei giardini, erano stesi fuori ad asciugare, la mia roba era rovinata” mentì, per poi guardare da un'altra parte con fare spiccio. Non voleva parlargli del possibile problema Rogers; anzi, non doveva nemmeno preoccuparsi, perché non lo sarebbe stato.

“Andiamo?”

Arrivarono dopo pochi minuti alle case popolari a est del quartiere. Lì non ci viveva nemmeno un inglese, per lo più erano numerose famiglie di siriani o turchi. La palazzina in cui dovevano recarsi era senza ascensore, ma dovevano salire solo al secondo piano. Vista da fuori sembrava fatiscente, mentre all'interno era tenuta davvero bene, anche se lo strano odore che aleggiava tra quelle pareti lo stomacava ogni volta. xXx

Il nome sul campanello era Smith, ma in realtà il nome dell'uomo in questione era Golan Haji. Nessuno conosceva quello vero, chi era nel giro sapeva solo che l'uomo aveva cambiato il nome in uno inglese per evitare problemi. Per la gente normale, era un pensionato metà inglese metà siriano, che aveva deciso di passare la sua vecchiaia in tranquillità.

Suonarono alla porta e l'uomo in questione andò loro ad aprire. Guardandolo, nessuno avrebbe mai detto che fosse un ricettatore. Era un signore che superava la sessantina, con i capelli grigi e un bastone da passeggio. Il volto appariva gentile, ma era solo di circonstanza. In realtà era molto burbero.

“Entrate e non fatemi perdere tempo” disse sbrigativo, conducendoli nel salotto dove aveva anche il suo studio, se così poteva essere definito. L'ambiente era antiquato e nulla in quella casa sembrava di valore. Si andò a sedere dietro la sua scrivania, ricoperta di scartoffie e polvere. Sembrava che nessuno pulisse lì.

Lance posò lo zaino sul ripiano, lo aprì e passò la merce all'uomo. Quest'ultimo tirò fuori gli occhiali da vista dal taschino della camicia bianca e si mise ad osservare le varie collane e cornici.

“Mi ci vorranno venti minuti. Andate in cucina a farvi un thé” disse svelto ancora una volta; non sembrava piacergli essere osservato mentre faceva il suo lavoro.

Adam e il collega fecero come gli era stato detto. Quando poi tornarono in salotto, l'uomo aveva tirato fuori, come sempre, una piccola cassetta per valori arancione. Pareva in sovrappensiero, con lo sguardo perso fuori dalla finestra, finchè ad un tratto non scrisse velocemente qualcosa su un foglietto e lo porse capovoloto ai ragazzi.

“Non un centesimo di più.”

Il più grande lo prese e lesse. Guardò poi l'uomo e di nuovo il foglietto. “Cinquemila sterline? Mi prende per il culo?”

Lance cadde come dalle nuvole. Si era aspettato almeno il doppio.

“Ragazzini, alcune di queste cose sono personalizzate, mi sarà difficile venderle. Quindi o accettate, o andate da un'altra parte.”

Al più giovane scappò un'imprecazione. Quella somma, più la metà dei contanti rubati, gli sarebbero bastati, ma lo irritava sapere che aveva rischiato letteralmente il culo per solo cinquemila sterline. Si strofinò le tempie. Non potevano andare nemmeno da un altro: Smith era l'unico sicuro e che non faceva domande. Vide Adam irritato a sua volta per la faccenda, ma con un'occhiata gli disse che andava bene comuqnue.

“D'accordo, affare fatto” disse il più grande con tono stizzito.

“Bene” rispose l'uomo, tirando fuori i contanti e dandoli ad Adam. “Se avete bisogno di altre cose, sapete dove trovarmi. Ora andate” li congedò senza troppi convenevoli.

*

Parcheggiò sul vialetto di casa e si incamminò alla porta. Ormai erano le undici di sera e si stupì nel vedere le luci ancora accese. Forse Abigail era ancora alzata a guardare la televisione. I loro genitori avevano il turno di notte all'ospedale e non sarebbero tornati prima delle otto del mattino. Adam si ricordò di avere lezione solo nel tardo pomeriggio, così avrebbe potuto dormire un po' di più. Era ancora un po' in pensiero per Lance, ma abbandonò quel pensiero appena entrò in casa. Non rimase contento quando, entrando in cucina si ritrovò, l'ultima persona che avrebbe voluto vedere in quella serata. Miles stava abbacciando e baciando sua sorella, dando la schiena all'ingresso. Non odiava quel ragazzo, solo non sopportava l'idea di lui con Abigail.

“Abigail,non dovresti andare a letto?” disse alzando la voce di proposito per mostrare la sua autorità.

La sorella si staccò di scatto dal ragazzo, colta di sorpresa. “Cristo Adam, ma si fa così?”

Reginald era in visibile imbarazzo, infatti afferrò la giacca che era poggiata su una delle sedie della tavola da pranzo. La cosa divertì molto il maggiore dei Twain.

“Non puoi portare il ragazzo a casa quando sei da sola. Ti ricordi tua cugina?” disse severo.

"E' risaputo che nostra cugina è una grande zoccola” rispose seccata, alzando gli occhi al cielo, facendo poi segno al ragazzo di aspettare prima di andare.

“Sì, ma non è una scusante.”

“Domani abbiamo scuo..." Il capitano della squadra non riuscì a terminare la frase che Adam gli parlò sopra. “Vi do venti minuti, poi torno in casa e non voglio rivederti, chiaro?” disse con un tono che non ammetteva repliche, prima di aprire il frigo, prendere la botiglia di whisky e uscire nuovamente di casa.

Andò a sedersi sugli scalini e si accese una sigaretta. Si sarebbe dovuto aspettare una cosa del genere prima o poi. Continuava a non capire cosa ci trovasse lei in quel porcospino. Prese il cellulare dalla tasca e chiamò l'unica persona con cui aveva voglia di condividere l'accaduto. Bevve un lungo sorso, aspettando impazientemente che qualcuno rispondesse. Voleva risentire la sua voce. A parte tramite messaggi, non si erano più parlati.

“Cosa c'è?”

“E' sempre un piacere sentirti quando sei di buonumore.”

“Fanculo Adam, sono a letto, domani devo alzarmi presto” rispose la voce di Alexandra dall'altro capo del telefono.

"Ho appeno beccato mia sorella con Reginald Miles in casa a baciarsi” ammise con tono drammatico. Gli era mancato parlare con lei. Sentì come il click della luce che si accendeva dall'altra parte del telefono.

“Era ora! E' uguale se non lo sopporti, lui le muore dietro da tipo sempre” disse lei, finendo la frase con uno sbadiglio.

Il ragazzo bevve un altro po' di whisky. "Sì, lo so. E' che ci sono rimasto veramente di merda. Se lo è portato a casa, a casa nostra, ed erano in cucina” continuò, lamentandosi. Sentì la ragazza sospirare pesantemente.

“Non puoi di certo impedire a Reginald di vedere tua sorella. Sii felice per lei.”

Adam alzò gli occhi al cielo, per poi mettersi a contemplarlo. Le stelle non si vedevano bene per via dei vari lampioni sparsi per il quartiere. Tutte le luci delle case erano spente lì nel vicinato. Gli metteva tristezza, e al tempo stesso gli riportava alla mente il tempo passato con lei.

“Ti ricordi invece quella volta che tu sei venuta a casa mia nel cuore della notte e il cane dei vicini ti rincorse svegliando tutti?” rise lui al ricordo. Era stata una notte indimenticabile.

Alexandra rise. "Non è stata una delle migliori. Grazie a Dio poi tuo padre mi ha permesso di dormire da te.”

“Anche perché eri ubriaca.”

“Non ero l'unica.”

Quelli ,per quanto bui, erano stati bei tempi. Gli mancava Alexandra, forse anche troppo. Si chiese se, dato che finalmente aveva la sua vita, fosse almeno un po' più serena. Si sentì un coglione solo a pensarlo. Era felice quando lei andava da lui, come quella volta, per fuggire alla sua vita. Ora che invece lei non aveva più quei problemi, non era più tornata. Forse non l'avrebbe più fatto. Sapere che uno dei motivi che gli impediva di mollare il suo lavoro con Lance era lei lo faceva sentire un idiota.

“E non era nemmeno la prima volta” sottolineò con tono nostalgico, per poi riprendere un sorso d'alcol.

“Ci sono state anche serate migliori” disse lei per poi aggiungere: “Come quella volta di notte in spiaggia.”

Adam, che stava continuando a bere, si rovesciò una buona parte del contenuto addosso per lo stupore. Come poteva dire una cosa del genere dopo così tanto tempo?

*

Si sentiva un vero schifo a dover stare in panchina. Non ci aveva fatto ancora l'abitudine. Aveva sperato di sapere il risultato del compito in classe prima di quel giorno, almeno avrebbe avuto la possibilità di giocare. Sapeva che era andato bene, ma l'attesa lo stava uccidendo, era inumano. I giocatori in campo stavano facendo come sempre un buon lavoro, anche se la squadra con la quale avevano a che fare era di un livello superiore rispetto alle altre.

Julio aveva sbagliato un movimento e, a dieci minuti dalla fine del primo tempo, aveva lasciato che il numero 12, la seconda punta avversaria, lo superasse facendo goal, fregando pure Lance.

Lo spagnolo era migliorato, ma lui quell'errore non l'avrebbe mai fatto. Gomez poteva comunque essere fiero di se stesso.

Durante il secondo tempo, Daniele riuscì a pareggiare grazie ad un bellissimo passaggio di Miles. Gli era venuta quasi la pelle d'oca a vedere il capolavoro che aveva fatto il capitano. Rispettava davvero Reginald sul campo.

“Tutto bene Roy?” domandò Andrew. Ormai erano sempre seduti vicini in panchina.

“Sì, se continuiamo così vinciamo di sicuro” ammise, anche se alle sue orecchie sembrava una menzogna. Voleva andare a fare due tiri e farsi prendere dalla foga, per sentirsi in pace con se stesso di nuovo.

“Rogers, inizia a riscaldarti” gli ordinò Stan dopo essersi avvicinato.

Leeroy lo guardò come uno stoccafisso. Non era sicuro di aver capito bene. Se quello era uno scherzo, non era divertente.

“E non guardarmi così, sembri un deficiente. Incredibile ma vero, hai superato l'esame di storia di tutti, quindi ti meriti gli ultimi quindici minuti” spiegò l'uomo. Non si era sbilanciato più di tanto, anche se in realtà si era sentito molto orgoglioso nel sentire dal professore di storia del ragazzo il risultato del recupero. “Muovi il culo, non aspettiamo i tuoi comodi.”

Rogers scattò in piedi come una molla.

“Allora l'hai superato, meno male! Pensavamo che non ci saresti mai riuscito” disse Andrew, facendosi scappare una risatina.

Il difensore non fece caso alle parole del più giovane; in quel momento nessuno avrebbe potuto rovinargli l'umore.

“Visto che sono bravo, se voglio?” disse pavoneggiandosi. In realtà non lo pensava minimamente.

Andrew rise in risposta. “In bocca al lupo.”

“Non ne ho bisogno.”

Dopo qualche minuto, l'allenatore della S.Collins fece segno all'albitro per la sostituzione. Julio rimase spiazzato alla notizia. Ma, vedendo quanto Roy fosse esaltato, pensò bene di non fare commenti.

Nel momento in cui si diedero il cinque al limite del campo, lo spagnolo gli ricordò di non fare cazzate. In tutta risposta, il terzino fece un sorriso a trentadue denti e corse verso la sua postazione lasciando tutti i suoi compagni di squadra stupiti.

"Guess who's back, back again" canticchiò in direzione di Lance, che in realtà non sembrava molto colpito del rivederlo in campo. Si limitò ad un "Stai attento al 12, non lo sopporto quando si avvicina troppo."

Leeroy annuì, concentrandosi poi sul campo.

Come il portiere gli aveva preannunciato la seconda punta, più che un osso duro, era una zecca che non mollava chi decideva di marcare. Stava infastidendo pure lui. Quando se lo ritrovò davanti, però, riuscì a faro sbilanciare e a rubargli il pallone, per lanciarlo in mezzo al campo, verso Miles. Sapeva che passandolo a lui non avrebbe sbagliato. E così fu.

L'attaccante avversario tornò su Leeroy, ma questa volta con più accortezza: il difensore, infatti, perse l'equilibrio e cadde per terra. Si ritirò su quasi subito, coreendo dietro al numero 12, che ormai era quasi sotto la porta. Divertente, davvero, ma non ce la farai, pensò raggiungendolo e sorpassandolo. Gli rubò la sfera ancora una volta e la passò al suo compagno più vicino. Il gioco si rispostò nell'altra metà del campo.

“Dì la verità, ti sono mancato” disse rivolgendosi a Lance. Il portiere gli lanciò in risposta un'occhiata divertita.

“Speriamo duri.”

La partita finì con la loro vittoria per due a zero e con un Leeroy contento, più che di aver passato l'esame, di aver di nuovo giocato. Si sentiva rinato, avrebbe potuto giocare ancora un tempo. Nella strada per gli spogliatoi venne fermato da Andrew.

“Certo che è stata tanta roba” ammise il ragazzo più giovane.

“Non ero nemmeno al massimo della forma. E' un peccato che ho giocato così poco, ma ne sono comunque soddisfatto” ammise, questa volta senza nascondere alcuna emozione.

“Come hai fatto a superare il test? Non era difficile, anzi, una cazzata. Ma sono comuqnue stupito, perché sembravi non saper dove andare a sbattere la testa” chiese incuriosito.

A Leeroy tornò in mente cosa gli aveva detto il compagno di squadra dopo il compito e si sentì leggermente preso per il culo. Lo fissò storto in tutta risposta.

“Ho studiato. Non come qualcun altro.”

Il più giovane si pietrificò per un momento. “Ho studiato come te per storia.”

"Non offendere la mia stupidità, cazzo. Sei un fottuto genio e devi rimediare a trucchetti inutili per cosa? Per non passare per tale? Sei un genio, e se io fossi al posto tuo me ne vanterei." sbottò a quel punto il difensore. Il ragazzino era riuscito a mandarlo in bestia a scoppio ritardato.

“Non sai di cosa parli. Tu giochi a calcio e sei bravo, nessuno si permette di prenderti in giro per quello che sai fare.”

“Seriamente?”. Lo guardò di nuovo storto. “L'unica cosa che so fare è prendere a calci un pallone, ma sono stupido e pigro. Non mi piace né studiare, né venire a scuola. Per questo tutti nella squadra mi sfottono. I tuoi modi di fare insultano la mia stupidità” disse con tutta sincerità. Andrew, on poteva farsi bloccare da delle persone o traumi che aveva passato in una scuola precedente per tutta la vita.

"Non sai cosa vuol dire essere preso di mira solo perché sei più intelligente o perché prendi bei voti senza aver bisogno di dover studiare come gli altri.”

“Ma allora sei proprio scemo” sbottò un'altra volta. Non ne poteva più di quelle scuse. Per loro fortuna erano gli ultimi a dover entrare nello spogliatoio e nessuno avrebbe sentito quel discorso.

“Non sono io quello che ha dovuto ripetere il secondo anno” rispose secco Andy.

“Allora un po' di orgoglio ce l'hai” rispose Roy, facendosi scappare una risata dopo qualche secondo. “Te lo ripeto, mi sento insultato per quello che fai. Vorrei averlo io il tuo cervello, quindi per favore, smettila. Non ha senso. Se sei bravo in ciò che ti piace non devi sentirti un escluso.” Prese una pausa per vedere se il ragazzo lo stesse davvero ascoltando. "Fregatene e fai quello che sai fare. A me non interessano gli altri, a me interessa il mio traguardo. Per la scuola sono il migliore, ma credi che non ce ne siano migliori di me? Do il meglio di me in ciò che amo, anche se molti dicono che so dare solo il peggio di me sul campo...” Fece una breve pausa, grattandosi la testa e prendendo un respiro profondo; aveva parlato a macchinetta, senza prendere fiato. Di solito non succedeva. "Il mio consiglio è: smettila subito con questa pagliacciata, insulta la tua intelligenza e insulta il mio cervello ritardato. Ho dovuto seriamente studiare per questa cavolata.”

Il compagno di squadra continuava a guardarlo con un'espressione stralunata. Non capiva cosa spingesse il difensore a fargli quel discorso, che si sarebbe dovuto aspettare da un amico o un familiare.

“Perché mi dici queste cose?” chiese.

Leeroy rimase senza parole e lo guardò interdetto. “Perché? Non lo so, non mi piace vedere questo genere di cose. Le trovo stupide ed inutili. Sei meglio di così.”

“Come puoi dirlo se non ci conosciamo bene?”

Il terzino alzò gli occhi al cielo. "Senti Andy, non ti dico cosa devi fare. Prendilo come un consiglio, ti va meglio così?”

Il più giovane sospirò. “Va bene Roy.”

“Meglio, ora andiamo. Voglio andare a casa e dire a mia madra che il suo figlio sciagurato ha passato storia.”

Per sua sfortuna, Leeroy non aveva tenuto conto che Lance non fosse ancora entrato nello spogliatoio; di fatti, era rimasto un momento in disparte, a parlare al telefono. Come aveva riattaccato la chiamata, era rimasto incuriosito dalle parole dei due compagni di squadra.

Sentire Rogers parlare di certe cose lo lasciò spiazzato. Gli era comparso un sorriso mentre lo ascoltava. Poi gli avrebbe fatto i complimenti per storia, ma non in quel momento. Non si era nemmeno aspettato un risultato del genere.

Il ragazzo, però, aveva ragione. Lance stesso sapeva fare bene tante cose, ma non sapeva più nemmeno se riusciva ad amare qualcosa. Giocare a calcio riusciva a portargli via molti dei suoi cattivi pensieri, anche se solo per quelle poche ore. Invidiò Lee per un momento, perché sapeva cosa voleva e stava combattendo per averlo.

Odiava dover avere tutto il mondo contro. Odiava dover fare ciò che faceva. Se le cose fossero state a posto, sicuramente anche lui l'avrebbe pensata come Leeroy. 

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Capitolo 16
*** Capitolo 16 ***


The last chance
XVI


Dopo la partita aveva pensato molto a come avrebbe potuto fare a studiare inglese. Miles era fuori questione. Non voleva offenderlo e dirgli in faccia che non era capace ad insegnare. Si grattò la testa, indeciso sul da farsi. Era seduto in cucina a cercare di studiare; aveva mentito a Miles, dicendo che non si sentiva bene. Forse non gli aveva nemmeno creduto. In quel momento, però, non gli interessava. Mollò tutto sul tavolo, tornò in camera sua con delle lattine di energy drink e accese l'X-Box. Prese le cuffie e il suo cellulare per ascoltare gli AC/DC. Gli davano adrenalina e si sentiva veramente parte del gioco. Passò così l'intero pomeriggio, fino a sera, quando Daniele lo chiamò.

“Ti va di uscire stasera?” domandò l'italiano con uno sbadiglio.

“Non mi va. Sono con l'X-Box” rispose Leeroy, prendendo un sorso di energy drink, la seconda da quando aveva iniziato.

“Cosa c'è, si offende se stasera la lasci da sola?” lo schernì l'amico, scoppiando poi a ridere. “Dobbiamo festeggiare per il tuo successo in storia, dai.”

Leeroy alzò gli occhi al soffitto, scocciato. “Non ti scordare della nostra scommessa. Dovremmo parlare di festeggiamenti dopo, quando ti vedrò con il vestito blu di tua sorella.”

“Ehi! Hai ancora una verifica da recuperare, non è detto che supererai anche quella. Ma bisogna comunque festeggiare.”

Il più grande non avrebbe potuto uscire nemmeno se avesse voluto. “Non posso, ho detto a Reginald che stavo male. Se mi becca in giro con te mi ammazza.”

“Andiamo al Raven, non dove sempre, è impossibile beccarlo là. Quello è un tipo da pub, non da locale” spiegò sicuro l'attaccante.

Il difensore sospirò. Effettivamente non aveva voglia di passare la notte a barboneggiare, poi gli scoppiava anche la testa per via della musica a tutto volume. Aveva bisogno di uscire. “D'accordo. Vengo da te a ristorante tra un'ora, mi devo lavare.”

“Bravo ragazzo!”

“Non esaltarti troppo.”

*

Il Raven era un locale per ragazzi della loro età sul lungomare di Brighton, a pochi minuti a piedi dal Brighton Pier. Sperò soltanto che Daniele non avesse di nuovo la brillante idea di fare una gita in spiaggia. L'ultima volta che l'italiano aveva voluto fare il bagno in autunno erano finiti a letto con la febbre a 39.

Il cielo si era rannuvolato, ma le previsioni avevano preannunciato pioggia solo per l'indomani. Aveva parcheggiato al locale di Daniele e poi avevano proseguito a piedi fino al Raven. Davanti all'entrata si trovavano un paio di tavolini alti, circondati da ragazzi che stavano fumando. Il freddo non li spaventava e l'alcol li scaldava abbastanza da permettere loro di resistervi. A lui piaceva il freddo, ma non come ai fumatori. Entrarono subito, cercando dei posti vicino al bancone, ma era già tutto occupato.

“Per colpa tua non abbiamo nemmeno una sedia” si lamentò l'italiano, mettendosi in punta di piedi per cercare un tavolo vuoto in mezzo a tutta quella gente.

“Potevamo restare da te in pizzeria e bere a scrocco” rispose secco l'inglese, innervosito da quel pienone. Lasciarono perdere l'idea di cercare un posto a sedersi e si avvicinarono di nuovo al bancone per ordinare da bere.

“Che palle bere in piedi.”

“Non lamentarti, almeno ti svaghi un po', ne hai bisogno.”

“Ti ricordo che abbiamo fatto una scommessa.”

“Tranquillo, questa è tutta una tattica” rispose Daniele, ridendo.

Avrebbero bevuto un paio di bicchieri e poi se ne sarebbero andati a casa, sarebbe stata una serata tranquilla. L'indomani avrebbe ripreso a studiare. Ormai c'era quasi...

Si stava guardando intorno alla ricerca di facce conosciute, quando Daniele gli diede un colpo alle costole, facendgli rovesciare il Gin tonic sulle scarpe.

“Cazzo, il porcospino è qua” sbottò l'attaccante allarmato, afferrando Leeroy per un braccio per portarlo via. Nell' alzare lo sguardo, però, incontrò gli occhi del capitano.

“Porco cazzo.”

Miles arrivò da loro, accompagnato da Lance. Leeroy avrebbe voluto seppellirsi sotto metri di terra e al tempo stesso avrebbe voluto soffocare Daniele per le sue idee del cavolo.

“Ragazzi, vi state divertendo?” domandò il capitano tranquillamente; la cosa fece capire al terzino che ormai era finita.

“Veramente ce ne stavamo andando perchè si è fatto tardi” rispose Daniele, cercando di spingere l'amico fuori dal locale.

Rogers notò subito lo sguardo di disapprovazione di Lance. Gli fece crescere un senso di fastidio all'altezza dello stomaco.

“Senti scusa, stavo davvero male, ma avevo bisogno di prendere aria” cercò di scusarsi Leeroy.

“Certo, in un bar” infierì su di lui Stark.

Il terzino inarcò un sopracciglio irritato, fulminandolo con uno sguardo. Stava parlando con Reginald, non con lui, non doveva mettersi in mezzo per peggiorare la situazione.

“Non mi interessa cosa fai, Roy” commentò Miles con un tono neutrale, ma il terzino vi scorse una punta di rabbia. Più di chiedergli scusa, cosa doveva fare? Il fatto che ora il capitano fosse deluso lo lasciò perplesso e arrabbiato. Lo aiutava, ma non poteva pretendere di controllare la sua vita. In realtà, lo aveva aiutato di più Lance in pochi giorni che lui in settimane di studio intenso. Questo però non avrebbe dovuto saperlo, o probabilmente Lance lo avrebbe davvero ucciso. Miles, però, non poteva comportarsi come una madre. Iniziava a rimpiangere Amanda.

“Possiamo vederci quando vuoi” disse a quel punto Leeroy. Però il capitano sembrò non ascoltarlo: aveva lo sguardo perso oltre al compagno di squadra, all'entrata del locale. Abigail era arrivata.

“Sì va bene, chiamami domani” rispose, sorpassandolo con noncuranza e dirigendosi dalla ragazza.

“Certo che è proprio un morto di figa per sfancularti così” ironizzò l'italiano, per poi attacare a ridere nel vedere la faccia dell'amico.

“Balboa, dì ancora una cosa del genere e ti faccio piangere in cinese” commentò Lance inespressivo.

“Certo che sei suscettibile.”

Il portiere non li salutò nemmeno e se ne andò, scomparendo tra la folla di ragazzi. Leeroy, senza pensarci due volte, lo inseguì, lasciando Daniele solo al bancone.

Afferrò Stark per la maglietta per farlo girare con cautela, non voleva essere bandito da un altro locale di Brighton.

“Cosa vuoi?” chiese Lance, leggermente innerovosito.

“Primo: scusa per ciò che ha detto Daniele. Secondo: puoi dedicarmi cinque minuti?” chiese, cercando di essere il più gentile possibile. Non aveva intenzione di farlo incazzare più del dovuto; quella sera non sembrava proprio essere dell'umore.

Lance fece cenno di sì con la testa, mentre si girava per fronteggiarlo. Leeroy inghiottì a vuoto: Lance incazzato non era mai una bella cosa, per non parlare di quanto fosse alto. Si era sempre chiesto se fosse stato così anche all'asilo; sicuramente era stato un bullo da bambino. La cosa non lo avrebbe nemmeno stupito, visti gli ultimi avvenimenti.

“Ti ascolto.”

“Quanto vuoi l'ora per aiutarmi a studiare?” domandò con fare disinvolto.

“Fottiti” rispose, per poi rigirarsi e fare per andarsene.

Rogers si diede mentalmente del coglione. Sapeva che quello era l'approccio sbagliato con lui, ma nonostante ciò aveva fatto l'idiota. Lo raggiunse per la seconda volta e lo afferrò per il braccio senza strattonarlo, sperando che l'altro non rispondesse con un pugno.

“Lasciami.”

“Non volevo fare il cazzone.”

Lance lo guardò scettico. “Combini solo cazzate e pensi che con un semplice 'scusa' si possa risolvere tutto.”

Leeroy lo guardò contrariato, lasciandogli il braccio. Doveva usare altre parole e riformulare la frase. “Non volevo far incazzare Miles, volevo solo uscire di casa un po'. Non posso fare nemmeno questo?"

“Sei un bambino.”

Fantastico, Lee, pensò, ti dici di cambiare parole e poi spari di nuovo stronzate. “Ho bisogno davvero di aiuto in inglese, potresti aiutarmi? Le cose per la squadra stanno andando meglio e poi guarda, io e te riusciamo a parlare tranquillamente senza pestarci, direi che siamo ad un ottimo punto!"

Il rosso lo fissò con uno sguardo ancora più perplesso. “Sei troppo ottimista.”

“Se fosse così, ti avrei sbattuto fuori di casa, invece di lasciarti dormire da me” rispose secco. Notò subito il modo in cui il compagno di squadra sgranò gli occhi, e la cosa gli fece capire che forse aveva colto nel segno.

“È un ricatto?" domandò Lance con sguardo omicida, facendosi più vicino al viso del terzino.

“Una constatazione” rispose Leeroy senza battere ciglio, fissandolo di rimando negli occhi.

“Se le cose stanno così, si fa alle mie condizioni. Chiaro?”

“Chiaro.”

Leeroy si chiese dove volesse andare a parare.

“Primo: Domani chiedi scusa a Miles come si deve e gli dici che sì, sei un coglione. Secondo: si fa quando dico io e quando posso io, se te non puoi, ti arrangi. Chiaro?” domandò con sguardo ancora più torvo.

Rogers annuì, mentre un sorrisetto compiaciuto iniziava a formarglisi in viso.

“Terzo: non voglio soldi. Ma se mai avessi bisogno di un favore, so già chi chiamare, okay?”

Eccolo il suo errore; non avrebbe dovuto offrirgli soldi in cambio di aiuto. Lance aiutava le persone che glielo chiedevano, lo aveva sempre notato e la sua domanda era stata dannatamente superficiale.

“Affare fatto.” Roy lo fissò negli occhi come se avesse appena fatto jackpot. L'unico pensiero di Lance fu che probabilmente se ne sarebbe pentito.

“Ci si vede a scuola” si limitò a dire il portiere, allontanandosi.

Leeroy rimase a fissare nella sua direzione, anche quando questi era sparito. Avrebbe studiato, avrebbe preso un buon voto e sarebbe tornato titolare in tutte le partite.

*

A Lance quella specie di accordo che aveva fatto con Leeroy non piaceva affatto. Prevedeva guai. Solo l'idea di dover raccontare una balla a Miles lo faceva stare male. Gli sembrava di prenderlo in giro con quella geniale trovata. Suonò il campanello di casa Miles e attese che il maggiore andasse ad aprire. Si erano dati appuntamento per una serata di film e birra. Fuori il cielo si era già oscurato e la strada era deserta. Era sempre un po' inquietante quel quartiere, nonostante fosse in una zona migliore della città.

Non appena la porta venne aperta, riuscì a distinguere chiaramente le parole “Lucy in the sky with diamonds”. Anche se non lo dava a vedere, Miles era leggermente fissato con i Beatles. Certe volte gli sembrava una ragazzina di tredici anni. Non tutti conoscevano quel suo lato da nerd e fan sfegatato.

“Dimmi che non stavi pulendo casa!” esclamò appena vide l'amico con l'aspirapolvere in mano.

“I miei sono via con i due disgraziati e mia madre mi ha mollato il suo lavoro” rispose scocciato.

Lance si andò a buttare direttamente sul divano, accendendo la tv. “Aspetto che finisci, Cinderella man” disse con un sorrisetto maligno.

“Sai che odio quel film.”

Un'ora e due birre dopo, erano entrambi sul divano a fare la maratona dei film di Fast and Furious. Miles si era procurato i nachos e la salsa piccante, uno dei pilastri saldi della loro amicizia. Senza nachos e salsa, non ci sarebbe stata alcuna maratona.

Nonostante Lance amasse il film, era distratto dai pensieri che gli vagavano in testa. Avrebbe già dovuto intavolare il discorso da un pezzo, ma non ci era riuscito. Prese un lungo sorso di birra, finendo la bottiglia. Subito dopo aprì la terza. Il capitano, al suo fianco, continuava ad ingozzarsi di nachos senza ritegno.

“Leeroy ti ha fatto incazzare?" domandò ad un tratto, senza nemmeno pensare troppo alle parole da usare.

Miles inarcò un sopracciglio e finì a sua volta la birra.

“In realtà no. Volevo solo farlo sentire in colpa” rispose, cercando di essere il più sincero possibile. “Perché me lo chiedi?”

“Mmh... Mi eri sembrato incazzato nero, anche se poi quando è arrivata Abigail hai sfanculato tutti.” Rise, afferrando il pacchetto di sigarette sul divano. Per sua fortuna, quando i genitori dell'amico non c'erano, potevano fumare in casa. Allungò il pacchetto a Reginald, il quale ne sfilò una, per poi portarsela alla bocca. Era una di quelle persone che fumava solo occasionalmente, quando aveva bevuto o era particolarmente rilassato. Della squadra non lo sapeva nessuno, a parte il portiere.

“Simpatico. È stata dieci minuti fuori ad aspettarmi.”

“Se, se!” fece Stark, prima di scoppiare di nuovo a ridere per prenderlo in giro.

“Cazzo ridi!” sbottò, mentre si accendeva la sigaretta e poi lanciava l'accendino al migliore amico.

“No davvero, hai ancora voglia di questa pagliacciata? Intendo, hai intenzione di andare avanti ad aiutare Rogers?” chiese, tentando di apparire il più distaccato possibile. Non voleva che iniziasse a trovare strano tutto quel suo interessamento. Anche se prima o poi lo avrebbe comunque scoperto. Meglio poi che prima, pensò.

“In verità mi piace aiutare le altre persone, ma Rogers è una testa dura, continuo a chiedermi come abbia fatto a passare l'esame. Un miracolo, praticamente. Non riesco a credere sia solo merito mio” commentò, alzandosi per andare a prendere il posacenere in cucina. I suoi genitori erano fumatori, ma per via dei due gemelli piccoli, non avevano mai osato accendere una sigaretta in casa.

Lance non rimase stupito dall'osservazione di Reginald; sapeva che era difficile che non notasse qualcosa. Quel ragazzo è sempre a farsi seghe mentali, prima la ragazza, ora Rogers, pensò tra sé e sé, sospirando rumorosamente.

“Sinceramente, da quando le cose vanno meglio con lui durante gli allenamenti, stavo pensando di provare io a dargli ripetizioni. Forse potremmo riuscire ad essere più affiatati sul campo.” Se si fosse riascoltato, avrebbe sicuramente vomitato. Non credeva ad una singola parola che aveva pronunciato in quel momento, e allo stesso tempo non riusciva a credere alla naturalezza con cui le aveva dette. Si sarebbe preso a pugni.

Miles poggiò il posacenere sul tavolino del divano e vi buttò la cenere. Si grattò la testa, cercando di ragionare su quello che gli aveva appena detto l'amico.

“Te l'ha chiesto lui?” domandò a freddo.

Grande, pensò Lance, lo aveva subito beccato. Il giorno dopo avrebbe ammazzato quel cretino del difensore. Annuì senza aggiungere altro.

Miles sbuffò. “Se ti paga venti sterline l'ora, è okay.” Sicuramente era stato Lance a domandare a Leeroy se avesse bisogno di ulteriore aiuto, e solo per raccimolare tutti i soldi che poteva. Non poteva dargli torto. Lance aveva bisogno di soldi e quello era un modo facile per ottenerli. Si sarebbe messo volentieri da parte per aiutarlo.

Stark non riuscì a credere al fatto che l'avesse bevuta così. Rimase per un secondo imbambolato a guardarlo. “Me ne da venticinque, in realtà. In pratica gli ho detto che so già le domande del compito di inglese” mentì.

“Cazzo, è vero, il prof dà quasi ogni anno le solite domande” commentò, spegnendo la sigaretta. “Comunque davvero, non c'è problema.”

“Grazie.” Si sentì un coglione. 

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Capitolo 17
*** Capitolo 17 ***


The last chance
XVII
 

"Alle 9:30 vengo da te. Non provare a dormire fino a tardi."

L'sms risaliva all'una meno un quarto di notte. Guardò l'orologio sullo schermo dell'iPhone e imprecò: nove meno un quarto del mattimo. La sera prima aveva guardato un film e si era addormentato senza controllare il cellulare. Si era svegliato così presto solo per la sete e per fortuna aveva guardato i messaggi. Di solito dormiva fino all'una; non sopportava le persone mattiniere. Abbandonò il calore del letto contro voglia, tirò su le tapparelle e aprì la finestra. Fuori il cielo grigio lo invitava a tornarsene sotto le coperte, ma con rammarico si diresse alla doccia.

Dieci minuti dopo era in cucina a prepararsi caffè e toast. Si domandò con che coraggio Lance gli avesse chiesto di incontrarsi così presto: non aveva altro da fare di sabato mattina? Tipo dormire come ogni ragazzo normale. Guardò l'orologio appeso in cucina, che segnava le nove e un quarto. Non sapendo cosa fare, per ingannare l'attesa accese la tv. Rimase a guardare i cartoni animati finché il campanello del cancello non suonò, facendolo trasalire. Si alzò controvoglia e andò ad aprire, pensando che magari il portiere avrebbe anche potuto direttamente scavalcare il cancello, anziché suonare.

"Prima che apri bocca, fammi un caffè” ordinò l'ospite con tono cupo, facendo innervosire leggermente Leeroy, il quale però si ricordò di mantenere la calma.

"Ti sei svegliato male?" domandò il difensore, chiudendo la porta dietro di sé e facendo strada all'altro in cucina.

"No, ho lavorato fino ad ora” rispose con un sonoro sbadiglio, per poi aggiungere: "Hai già le tue cose pronte?"

"Se hai lavorato fino ad ora, perché vuoi darti un'altra mazzata venendo a dare ripetizioni a me?" chiese Rogers leggermente sconcertato; lui non avrebbe mai fatto una cosa del genere.

"Decido io gli orari, ricordi?"

Leeroy alzò gli occhi al soffitto, mentre metteva di nuovo la caffettiera sul fornello. "Sissisignore. La mia roba di inglese è in sala comunque, ieri pomeriggio ho cercato di darci un'occhiata ma non ci ho capito nulla."

Due caffè dopo, si ritrovavano a fissarsi negli occhi, con l'isola della cucina ricoperta di libri e appunti.

"Allora, iniziamo da qualcosa di facile. Defoe o Richardson?" domandò Lance, rompendo il ghiaccio. Leeroy rimase per qualche secondo con un sopracciglio alzato, come se non capisse di che stesse parlando.

"Defoe. Richardson è roba da mia madre” rispose quasi schifato.

Al rosso si dipinse un sorriso compiaciuto sulle labbra. "Bene, iniziamo da Richardson."

"Certo che sei bastardo."

"Iniziamo dal più noioso, così poi il resto sarà una passeggiata” disse il portiere, cercando di essere positivo, anche se non sapeva se credere alle sue stesse parole o meno. Spiegargli storia non era stato facile; sperò solo che il compagno di squadra non avrebbe fatto il difficile.

Leeroy sbattè la testa sul volume di letteratura inglese. "Dio, quanto ti odio!" si lamentò.

Lo lasciò perdere e iniziò con la spiegazione. “Paradossalmente, questo signore che non aveva altro di meglio da fare nella vita se non scrivere romanzetti rosa, insieme a Defoe, ha dato le basi della nascita del romanzo moderno." Lance gli lanciò un'occhiata, per vedere se lo stesse seguendo; il compagno di squadra annuì.

"Il romanzo che lo rese famoso a quei tempi si chiama Pamela e la virtù premiata. Allo stesso tempo, però, c'era anche un altro autore, Henry Fielding, che scrisse la presa per il culo al romanzo dell'altro, Shamela. Una cosa tipo Scary Movie, solo che quello andava letto."

Leeroy rise ironicamente a quella frecciatina.

"Comunque, 'sti due iniziarono un botta e risposta sui giornali e tramite le loro opere, con tanto di commenti bastardi e frecciatine. Tornando al romanzo: Pamela era una serva a casa di Lady B. Il giorno in cui la padrona muore, subentra il figlio, che vuole una cosa da una botta e via, ma lei tiene troppo alla verginità e al matrimonio e rifiuta. Dopo essere stata imprigionata per quaranta giorni, quasi violentata per due volte alla fine, dopo la terza volta che le chiede di sposarlo, acconsente e diventa ricca e ha un matrimonio felicissimo."

"Ecco perché odio i libri che legge mia madre”. Leeroy si strofinò gli occhi; odiava la letteratura studiata a scuola perchè era imposta, e in tutta la sua vita non gli era mai piaciuto nulla del programma. Gli unici libri che aveva letto li aveva letti perché gli piacevano. Quelli lì a scuola erano uno più orribile dell'altro; anche solo all'idea di dover leggere una storia del genere gli vennero i brividi.

"Seriamente, come puoi aspettarti che una cosa del genere sia normale? Ha cercato di violentarla due volte, l'ha rinchiusa e comunque sia lei lo sposa. E in tutto questo, lei ha quattordici anni” si lamentò nuovamente, strofinandosi la faccia.

"Una volta era normale."

"Come la caccia alle streghe” berciò Rogers, prima di fargli cenno di andare avanti.


 

Un paio d'ore dopo, il padrone di casa riuscì a tirare un sospiro di sollievo quando il suo "tutor" gli chiese la pausa sigaretta. Leeroy guardò l'orologio, notando che era quasi mezzogiorno; non aveva proprio voglia di mettersi a cucinare.

"Fino a che ora hai intenzione di darmi ripetizioni?" domandò allora, iniziando a sentirsi affamato.

Lance, che era poggiato alla finestra con il braccio fuori, non sembrava aver sentito, assorto in chissà quali pensieri; o forse era solo stanco. Per un attimo, a Leeroy sembrò di scorgere un velo di tristezza sul suo viso, che rese il colore dei suoi occhi quasi opaco.

"Ehi, ho chiesto se hai fame."

Il rosso si girò di scatto, colto di sorpresa. "Come?"

"Ti va una pizza?"

Il portiere guardò l'orologio, per poi imprecare. "No, grazie, tra poco devo andare. Mi dai uno strappo in centro?"

*

Ormai pioveva da una settimana e quasi nessuno dei ragazzi aveva voglia di allenarsi con quel tempo, a parte Julio e Andrew. Entrambi erano quasi esaltati: si erano ritrovati ad avere Leeroy come allenatore personale, che però imprecava ogni due starnuti. Non si doveva ammalare proprio adesso. Lasciò i due ragazzi continuare a fare i loro esercizi e andò dritto da Stan, che se ne stava tranquillo sotto la tettoia a finire di compilare dei fogli.

"Stan, non faccio che starnutire, non voglio andare a casa con 40 di febbre, e in settimana ho anche il prossimo compito di recupero. Non mi sembra una cosa saggia” si lamentò Leeroy, cercando però di non essere arrogante come suo solito.

L'allenatore alzò gli occhi dalle sue scartoffie per squadrare da cima a fondo il ragazzo; in effetti non aveva tutti i torti. Sospirò amaramente, gli pesava dover far finire l'allenamento dopo nemmeno un'ora. La prossima partita era molto vicina. Annuì in direzione del ragazzo, per poi alzarsi in piedi ed uscire sotto la pioggia per fare segno agli altri di fermarsi.

"Si continua domani, qui qualche ragazzina rischia il raffreddore. Forza, andate a cambiarvi.” Tornò poi da Leeroy. "Passa questo esame ed è fatta, okay? Ho già visto che le cose stanno andando meglio. Spero che non mi deluderai."

Il terzino trattenne per un attimo il respiro. Non gli piacevano quei discorsi: parevano gli ultimatum di un generale ad un soldato semplice che rischiava di morire in missione.

"Non preoccuparti, ho tutto sotto controllo” rispose con un sorriso, per togliersi da quell'impiccio.

Fu a casa in una mezz'ora e si buttò subito sotto la doccia. Non aveva voglia di fermarsi più del dovuto al campo. Poi la sua doccia era la sua doccia, poteva stare sotto il getto d'acqua quanto gli pareva.

Intanto, il suo telefono nella borsa squillava a vuoto.

*

Il tempo era migliorato, stranamente: non c'era il sole, ma non pioveva come in precedenza. Julio e Andrew erano sempre più entusiasti dell'aiuto del terzino e sembravano non voler mai lasciare gli allenamenti. Finirono verso le sette quel pomeriggio, e Leeroy pensò bene di invitare i due ragazzi a bere qualcosa. Non aveva più parlato con Andy da dopo la partita.

"Scusate, ma devo andare a casa, ho da preparare la cena per i miei stasera o mia madre quando torna mi ammazza” disse lo spagnolo, rifiutando l'invito di Roy.

"Ci si vede domani Gomez” lo salutò Leeroy, mentre si incamminava con Andy al bar vicino alla scuola.

"Come prosegue lo studio?" domandò il più giovane, mentre si issava il borsone sulla spalla.

"Preferirei parlare d'altro, mi mettete tutti ansia” borbottò, senza però risultare maleducato. "Per esempio, ancora un paio di volte con me in allenamento e giocherai in tutt'altro modo."

"Dici?" chiese sorpreso.

"Assolutamente.”

Mentre entravano, notò gli altri ragazzi della squadra seduti fuori sotto le lampade a calore. "Ho capito che uno fuma, ma voi siete furbi a stare fuori” scherzò, avvicinandosi a loro mentre si trascinava dietro il più giovane.

"Non rompere Roy, sei sempre una polemica” rispose secco Daniele.

Lance alzò lo sguardo al cielo per trattenersi dal fare commenti sulla battuta del terzino, mentre questi si sedeva. Rimase stupito nel vederlo portarsi appresso la matricola; non avrebbe mai creduto che lo avrebbe fatto davvero. Quei suoi modi di fare lo lasciavano sempre senza parole. Non era un bimbo viziato, o almeno, non gli dava più quell'impressione. Lo divertiva come Daniele lo prendeva in giro e Lee cercava di restare impassibile, ma le espressioni che faceva raccontavano tutt'altro. Gli scappò un sorriso mentre accendeva la sigaretta, la prima da quando erano arrivati poco prima del terzino.

Lo osservava con curiosità mista a pacatezza, come se si fosse fermato a pensare ad un bel ricordo che lo rasserenava. Peccato non ne avesse quasi nessuno. I loro sguardi si incontrarono per un momento. L'espressione che rivolse al compagno di squadra gli diede ad intendere che tra poco avrebbe alzato i tacchi. Lance si alzò, facendo poi un cenno con la testa ai ragazzi, lasciandoli al bar. Aveva bisogno di una dormita.

*

Dopo le chiamate di qualche giorno prima, Jo non si era fatta più sentire. Aveva provato a richiamarla un centinaio di volte, ma la linea era sempre staccata. Non riusciva a togliersi dalla testa che quello fosse un brutto segno. Sentire sua zia Adrian era fuori questione, non aveva voglia di sentire quella donna, ancora più isterica di Amanda, urlargli al telefono. Era semplicemente impossibile.

Sospirò, mentre controllava gli sms ricevuti. Lance gli aveva detto l'ora per studiare, ma non il posto. Magari questa volta aveva possibilità di scelta.

"Ci vediamo al pub vicino al parcogiochi, qui vicino a casa mia?" scrisse al rosso. La risposta che seguì dopo pochi secondi fu affermatva. Sicuramente doveva trovarsi già nei paraggi, forse aveva avuto del lavoro da finire.

Decise di lasciare l'auto a casa e camminare giù per la collina; si trattava solo di un quarto d'ora a piedi, non si sarebbe certo stancato. Il tempo sembrava reggere per il momento, ma al meteo avevano di nuovo annunciato pioggia. Alla sua sinistra riusciva a vedere alcuni raggi di sole, coperti da quel cielo grigio, scomparire tra il mare e la terra. Intorno a lui, c'era solo campagna e villette. Non lo avrebbe mai ammesso a nessuno, ma in fondo amava quel posto e quella vista. Gli piaceva persino in quel tipo di giornate, dove l'aria salmastra era più pungente e il vento troppo forte.

Arrivò al pub con qualche minuto di ritardo, si era soffermato troppo tempo ad ammirare il paesaggio. Disse a Lance di essere solo partito troppo tardi da casa. Entrarono subito nel locale, era uno dei pochi posti dove facevano del buon cibo, ma la birra non era delle migliori il terzino, comunque, non si lamentò. Avrebbero studiato un po' e poi si sarebbe bevuto una birra, ne aveva bisogno per i nervi che minacciavano di saltargli.

Stranamente non avevano nulla da dirsi; iniziarono subito a fare un ripasso di Defoe e Richardson, prima di passare ai nuovi autori. Lee non riusciva a capire se l'amico fosse soddisfatto o meno del suo rendimento. Pensò che fosse meglio lasciar perdere e non fargli domande che avrebbero potuto innervosirlo. Stava diventando bravo ad interpretare l'umore del compagno di squadra, ma non era ancora al punto da intavolare un discorso su cosa e perché lo avesse.

Andarono avanti per un po', finchè non arrivarono entrambi ad aver fame, perciò ordinarono due chicken pies. Continuarono a non scambiarsi molte parole, anche dopo aver mangiato. Leeroy sentiva il bisogno di un bel caffè, ma in quel posto servivano solo la tipica brodaglia all'americana, così chiese una Red Bull.

"Non riesci a vivere senza caffeina?" domandò Lance sovrappensiero, mentre finiva di ripulire il piatto.

"No, mi si chiudono già ora gli occhi per la stanchezza. Ne ho un bisogno patologico."

Il cameriere tornò dopo poco con la lattina e, mentre il terzino l'apriva per berne un sorso, si accorse dello strano sguardo che il compagno di squadra stava rivolgendo alle sue spalle. Si voltò con un sopracciglio inarcato, non capendo la sorpresa dell'altro, finchè subito non capì. Gli scappò un'imprecazione. Ormai la serata-studio era andata a farsi fottere.

"Ragazzi, che fate? Terapia di coppia?" li schernì Oliver, appena entrato nel locale. C'erano più di mille pub nel raggio dei trenta chilometri che separavano Brighton da Worthing, e il giocatore più odiato dalla S.Collins doveva farsi vedere proprio in territorio nemico?

L'americano si avvicinò ai due. "Allora? Ho sentito che ti hanno fatto giocare per dieci minuti durante l'ultima partita. Chissà che emozione."

Leeroy era già pronto a mandarlo a quel paese, quando Lance lo fece stare zitto tirandogli un calcio negli stinchi, sotto il tavolo. "Cosa ci fa il capitano della Ravensburg qui da noi?" chiese il portiere, con tono annoiato e disinteressato.

"In visita, sai... Piuttosto, voi due che fate qua tutti soli? Stan non ha paura che diate fuoco a qualcosa?" continuò a prenderli in giro Oliver. In quel momento entrarono anche i gemelli, che restarono molto stupiti vedendo gli altri due giocatori lì.

"Fantastico, ora ci sono anche Pinco Panco e Panco Pinco” disse Rogers leggermente incredulo e infastidito. Senza accorgersene, aveva strappato un sorriso al portiere.

"Come hai chiamato me e mio fratello?" tuonò Maximilian, andando verso il terzino.

Leeroy non potè fare a meno di domandarsi se quella non fosse la prima volta che venivano chiamati così. Si tirò subito in piedi appena vide il ragazzo avvicinarsi. Il suo sesto senso per i guai si attivò all'istante. Non sarebbe finita bene.

"Ho detto 'Pinco Panco e Panco Pinco'. Non dirmi che non hai mai letto Alice nel Paese delle Meraviglie. Dovete aver avuto una brutta infanzia” li schernì il terzino, per poi scoppiare a ridere.

"Brutto pezzo di merda!” gli urlò Max, mentre cercava di lanciarglisi addosso e Oliver cercava di fermarlo. Al capitano piaceva litigare e stuzzicare le persone, ma non finire in una rissa in un bar con membri della sua stessa squadra. L'allenatore li avrebbe uccisi.

"Max, cazzo, no!" tentò di fermarlo.

Intanto Leeroy era scivolato di lato, andato a sbattere con il sedere sul pavimento di pietra.

"Lee, ora muoviamo il culo, altrimenti spieghi tutto te a Stan."

"Sì sì, non preoccuparti” replicò il terzino, mettendosi in piedi con il fondoschiena dolorante, mentre Oliver e Samuel cercavano di trattenere Maximilian. "Rogers, testa di cazzo, vieni qua che ti spacco la faccia!”

"Non ci penso nemmeno, coglione."

Max riuscì a liberarsi dalla presa del capitano e del fratello gemello per buttarsi sul terzino e tirargli un pugno in faccia. Per la fortuna di quest'ultimo, lo sfiorò e basta, ma finirono entrambi a terra.

Lance, a quel punto, prese di peso il giocatore avversario e lo buttò da parte, per mettere in piedi Leeroy mentre gli diceva che era un coglione.

"Cristo Max, ma devi sempre fare 'ste stronzate?" quasi urlò Samuel, adirato con il gemello.

Il portiere afferrò Rogers per un braccio, intimandogli di alzare i tacchi. Prima di farlo, però, Leeroy buttò due banconote da venti sterline sul bancone e uscì. Poi tornò subito dentro per recuperare lo zaino con i libri, che aveva dimenticato. Max stava ancora a terra, tenuto fermo dal fratello, mentre Oliver si massaggiava le tempie, incredulo della pagliacciata appena avvenuta.

"Oliver, tu non dici niente al tuo allenatore, io non dico a Stan che Panco Pinco ha dato di matto, oka?” disse Leeroy, facendo l'occhiolino al capitano avversario, il quale inarcò un sopracciglio irritato e per poco non lo prese a pugni. Lance lo salvò per la seconda volta, afferandolo di nuovo e trascinandoselo fuori dal locale. Leeroy fece segno a Lance di seguirlo verso casa sua mentre scappavano. Dopo qualche metro, si fermarono un momento a riprendere fiato.

"Ma ti sembra il modo di sfottere Samuel?" domandò Lance, "lo sai che sono fuori di testa più di te."

"Quello era Maximilian, ed è l'unico fuori di testa." rispose Leeroy, cercando di regolarizzare il respiro. In fondo però la cosa lo aveva divertito, ed era pronto a scommettere che anche l'altro si fosse divertito, a giudicare da come stava sorridendo. "Vieni da me dai, ti riaccompagno poi a casa.” Come ebbe finito di parlare, iniziò a piovere.

"Inghilterra del cazzo” sbottò Lance. Di solito non si sarebbe lamentato di dover camminare; anzi, era abituato, ma sotto la pioggia lo odiava.

"Tranquillo, se corriamo siamo su in cinque minuti" disse il moro, come se niente fosse.

"E certo, perché secondo te io ora ho voglia di correre?" Parlò praticamente al vento, in quanto Leeroy si era già avviato, lasciandolo da solo. "Fantastico!"

Quando finalmente arrivarono a villa Rogers, il cancello era chiuso. Il terzino aveva ben pensato di lasciare le chiavi nel vaso vicino alla finestra della sala, invece di portarsele dietro per aprire il cancello principale. "Sono un genio” commentò infastidito tra sé e sé.

"Cosa?"

"Mi toccherà arrampicarmi, ho lasciato le chiavi nel vaso sotto la finestra."

Intanto la pioggia non accennava a cessare e stava facendo innervosire Lance ancora di più. "Con te non ne va mai una giusta” sospirò il rosso, irritato. "Non romperti una gamba."

"Carino da parte tua preoccuparti per me” ironizzò il difensore, saltando sopra il cancello, che sotto il suo peso si mosse. Imprecò. Era impossibile che si aprisse, aveva chiuso tutto prima di uscire. Quei pensieri gli attraversarono la mente in meno di un secondo. Il cancello si aprì e si richiuse di botto, poi le ginocchia di Leeroy, per il rinculo, andarono a sbattere contro il ferro battuto. Imprecò nuovamente.

Lance non si scandalizzò più di tanto; diciamo che con la fortuna che aveva avuto fino a quel momento, quello era il minimo. Rogers, a quel punto, mentre cercava di scendere, cadde sulla strada asfaltata. Stark gli si avvicinò, sentendolo inveire per l'ennesima volta. Il moro era caduto, sbattendo anche la fronte contro una sbarra di quell'affare. Max non gli aveva fatto un occhio nero, ma il cancello aveva finito il lavoro. Gli scappò un sorriso divertito.

"Cazzo ridi?" chiese Leeroy, sentendosi punto sull'orgoglio.

"Non rido, coglione."

Rogers si limitò a fissarlo torvo, mentre Lance si inginocchiava di fianco a lui. Anche quest'ultimo si ritrovò a fare lo stesso, allungando però una mano sul punto dove il ragazzo si era fatto male. Si diede dell'idiota. Spostò quelle corte ciocche che si erano appiccicate sulla fronte del difensore. Pensò che così stava meglio. Quello sguardo, però, gli fermò un battito. Non riuscì a descrivere cosa vide in quegli occhi, ma lo pietrificarono sul posto. Anche volendo, non sarebbe riuscito ad alzarsi e andarsene. Fece scendere la mano tra la spalla e il collo di Lee, per poi rispostarla sul collo, avvicinandosi ancora. Prima che potesse compiere qualsiasi altra azione, il terzino si girò di scatto verso la porta di casa, e tra le sbarre vide qualcosa che lo pietrificò a sua volta sul posto.

 

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Capitolo 18
*** Capitolo 18 ***


Warning: secondo aggiornamento in due giorni - 10/02/2016 e 11/02/2016 :)
The last chance
XVIII

 

Sentiva tutto ovattato intorno a sé, persino la voce di Jack che, dall'altra parte del bancone, gli diceva le nuove ordinazioni; gli  sembrava dall'altra parte del mondo. Stava facendo la schiuma per dei cappuccini e, come di rado accadeva, si era incantato ad osservare il movimento del latte. Non aveva dormito molto e si sentiva il viso egli occhi completamente secchi, non era riuscito a togliersi quella sensazione di dosso nemmeno dopo essersi lavato. Quando il latte gli scoppiò addosso e sulla macchinetta, tornò in sé, in tempo per sentire le imprecazioni di Jack e la risata fastidiosa della cameriera. Il suo capo era una persona a modo, ma con il locale pieno e le ordinazioni non ancora uscite non potè fare a meno di dare del deficiente a Lance.

"Dannazione, che diavolo fai?" Jack corse dietro il bancone per cercare di contenere il danno. Lavare il latte dall'acciaio era una vera scocciatura, ma tanto lo avrebbe fatto fare alla ragazza.

"Cristo! Scusa."

"Ma si può sapere dove cazzo hai la testa?" domandò Jack,soffiando tra i denti per non urlare; non voleva dare ulteriore spettacolo ai clienti.

Lance si strofinò gli occhi per cercare di svegliarsi, di solito non era così rincoglionito. Si sentì molto stupido. Prese un panno per asciugare il bancone e la macchina per il caffè, ma Jack lo bloccò."Lo fai dopo, ora rifai il latte" gli disse, allungandogli l'occorente.

Le tre ore di punta dopo quell'incidente filarono lisce come l'olio e,per fortuna, nessuno si lamentò. Lance finì di sistemare il macello che aveva combinato, mentre la cameriera andava finalmente fuori a fumare una sigaretta.

Jack osservò un po' il ragazzo prima di avvicinarsi a lui. Non gli parlava molto della sua vita privata, ma sapeva che aveva grossi problemi con la madre. Cercava di trattarlo come meglio poteva, anche perché sapeva fare bene il suo lavoro, ed era più difficile trovare personale fidato come lui che il resto. Non gli piaceva interferire con le vite altrui ,ma in certi casi andava fatto. "Lance stacca un attimo, andiamo a fumare" gli disse come sempre.

Uscirono proprio quando la ragazza stava rientrando. "Controlla tu per dieci minuti."

In risposta lei annuì, contenta di poter avere il tempo di dare una sbirciatina veloce a Twitter.

Fuori il tempo era grigio, in giro per la città c'erano solo auto e poche persone coperte da ombrelli, ma per fortuna non faceva freddo. Il vento degli ultimi giorni sembrava essersi calmato. Per un attimo vide lo scorcio dei prati di Galaway. L'unico posto al mondo dove sarebbe rimasto anche ore sotto la pioggia, a correre, ma cacciò subito quel pensiero.

"Tutto bene?" domandò Jack.

"Sì, perché?" domandò spiazzato Lance, mentre si accendeva la sigaretta.

"Te lo ripeto, tutto bene? Ultimamente mi sembri giù di morale, e con questo non intendo che non sorridi ai clienti, quello non lo fai mai,intendo che stai proprio a schifo." disse il proprietario, mentre si sistemava le ciocche di capelli dietro le orecchie.

Il ragazzo fissava il marciapiede, senza voler accennare ad alzare lo sguardo. Sospirò; odiava parlare di come si sentiva. "Come pensi che sia? Non posso tirare un momento un sospiro di sollievo che arriva altra roba. Ora che mi sembra di poter tornare a respirare per un po', si mettono altre cose di mezzo e, sinceramente, spero di essermi solo immaginato tutto, perché non ne ho per le palle di causare solo casini." disse tutto d'un fiato, per poi rilassarsi, riprendendo la sigaretta tra le labbra e inspirando profondamente.

"Le cose alla tua età non sono mai facili, tutti hanno problemi diversi.Il vero guaio è quando arrivi alla mia età e hai ancora gli stessi problemi. È lì che ti passa la voglia di vivere" rispose Jack, fissando il semaforo lì vicino, che da giallo diventava rosso. Non era mai stato bravo con i discorsi di incoraggiamento.

"Cosa vuoi dire?"

"Lo sai benissimo" replicò piatto il proprietario, spegnendo la sigaretta sotto la punta della scarpa.

Stark rimase interdetto sull'entrata, mentre Jack rientrava. "Alla fine riusciamo in tutto Lance, anche se il mondo non vuole."

Prima di tornare anche lui all'interno del locale, con un ultimo sguardo alla pioggia rivide ancora le colline verdi sul mare sotto la pioggia, lui e la sorella a giocare sulla spiaggia mentre il sole moriva.

Avere Jo sul divano in lacrime da un giorno non era il massimo. Non l'aveva mai vista in quello stato e non avrebbe mai creduto a quello che aveva fatto, se non per il fatto che era proprio lì in quel momento. Avevano passato la notte insieme a guardare la tv e,dopo il primo shock, le aveva promesso che non avrebbe chiamato Adrian fino al giorno dopo. Si era anche sentito un po' maleducato ad aver liquidato Lance in quel modo dopo che l'aveva vista. Per un attimo non era riuscito a spiegarsi cosa facesse lì, ma dopo poco aveva capito il perché di quelle chiamate. Sperò che andasse tutto per il verso giusto. Aveva saltato la scuola per restare con lei quel giorno.Ormai gli sembrava calma, rispetto a quando era appena arrivata.

Erano le nove passate del mattino, così si alzò dal divano, lasciando dormire la cugina per preparare il caffè. Sul suo cellulare c'erano già chiamate e messaggi di Daniele, Akel e Miles. Avrebbe risposto più tardi, in quel momento non era in grado nemmeno di raccontare una balla. Mise sul fornello la caffettiera, preparò due tazzine con lo zucchero e prese il fustino del latte. Jo amava il latte nel suo caffè. Sicuramente avrebbe dovuto chiamare Amanda; pensandoci su, si rese conto che era tanto che non sentiva i suoi genitori. Vedendo la testa biondo-arancione spuntare da sopra il divano, capì che la pace era finita. Finalmente si era svegliata e lo raggiunse all'isola della cucina, sedendosi sullo sgabello e poggiando la testa tra le braccia sul ripiano.

"Non ho fatto una cazzata" disse la ragazza con la voce ancora insonnolita. Leeroy riconobbe il rumore della macchinetta che annunciava di aver finito il suo lavoro, ed un piacevole aroma di caffè si mischiò all'aria della stanza.

"Non sono io a dover giudicare le tue azioni" rispose lui, versando la sua bevanda calda preferita nelle tazzine.

"Grazie" mugugnò la ragazza, continuando a tenere il capo nascosto.

"Mi racconti cosa è successo?" domandò allora il ragazzo. Sentì Jo sospirare pesantemente prima di alzare la testa e piantare lo sguardo in quello dell'altro. I loro occhi sembravano il riflesso degli altri, quel colore nocciola scuro era l'unica cosa che li accomunava, insieme ad altri tratti del carattere.

"Adrian ha esagerato. Mi ha tolto la macchina fotografica. No, scusa, togliermela è un eufemismo, l'ha buttata nel Tamigi, due giorni fa. Aggiungendo che la devo smettere con queste stronzate e studiare. Poi mi ha detto che a Natale lei e papà sarebbero andati ai Caraibi e che potevo restare in collegio" disse tutto d'un fiato, per poi bere il suo caffè in un sorso. Ringraziava Dio di non aver visto sua madre il giorno della partenza, altrimenti l'avrebbe davvero schiaffeggiata. Sentiva la rabbia ribollirle nelle vene, non le era ancora passata.

Leeroy sospirò pesantemente. Che altro poteva aspettarsi da sua zia? Si chiese cosa avesse fatto durante la sua giovinezza, non era possibile essere così dal nulla. Quella doveva essere stata la goccia che aveva fatto traboccare il vaso della pazienza di Jo.

"La zia sa che sei venuta qua?" domandò allora; doveva prepararsi psicologicamente agli urli della donna al telefono.

"In realtà no, sono scappata dal collegio durante l'ora d'aria, infatti ho poca roba con me" disse, senza però sembrare abbattuta.

"Cazzo! Cosa fanno appena si saranno accorti della tua assenza?"

"Credo abbiano già chiamato la polizia e i miei genitori."

Leeroy la guardò sconvolto. "Chiamo tua madre!"

"Non ci pensare nemmeno!"

Leeroy si strofinò la testa con rabbia. "Devi dire loro che stai bene e che non sei stata rapita, così limiteremo i danni. Magari potrai stare qua una settimana per riprenderti e poi ripartire" disse, cercando di essere il più ragionevole possibile.

La cugina lo fulminò con lo sguardo. "Se lo fai, me ne vado in albergo."

Il moro alzò gli occhi al soffitto. Di solito non era così difficile trattare con lei, ma doveva ancora essere arrabbiata per colpa di Adrian, la capiva benissimo. Doveva però cercare di essere razionale, e poi lei era ancora minorenne.

"Resti qua, ti dai una pulita e poi chiamo la zia. Le dirò come stanno le cose, ti farà stare qua un po' di tempo e poi tornerai a Londra" replicò con tono deciso.

"Io a Londra non ci torno. Voglio restare qua e frequentare la scuola con te!" urlò quasi frustata la ragazza. Non sarebbe tornata in quell'inferno e non sarebbe tornata dalla sua famiglia finché non si sarebbero comportati meglio nei suoi confronti.

"Sai che se fosse per me staresti qua già da un anno, ma è tua madre a decidere, dannazione Jo!" sbottò a quel punto il terzino.

"E allora convincili, per favore."

Leeroy si rassegnò; con le donne della sua famiglia non c'era modo di ragionare. Bevve il suo caffè e poi scelse il numero di Adrian dalla rubrica del cellulare. Prese un sospiro profondo mentre aspettava.

"Leeroy? Scusa ma ora non posso, dì a tua madre di chiamarmi quando..."disse la donna cercando di chiudere subito la chiamata, ma il nipote la fermò subito.

"È qui con me" disse solamente. Sentì un sospiro di sollievo dall'altro capo della linea.

Jo lo fissava senza respirare o emettere un suono, con il cuore in gola.

"Oh Dio! Sta bene?"

"Sì sì, non preoccuparti di questo."

"Ma cosa ci fa a Brighton? Quando è arrivata? Tu lo sapevi che sarebbe venuta lì?" domandò ancora la donna, senza respirare tra una domanda e l'altra.

Leeroy si sentì un po' di giocare all'avvovato del diavolo, come spesso succedeva quand'erano piccoli, quando Jo combinava guai e lui cercava di sminuire la cosa, dicendo che le cose accadevano. Non era più bravo come una volta.

"Senti, zia." La chiamava in quel modo solo quando aveva bisogno di favori,perché Adrian adorava essere chiamata così. "Jo è sconvolta perchè le hai rotto la macchina fotografica e perché a Natale non volete andare da lei."

"Come sarebbe? La macchinetta mi è scivolata nel fiume! Ha fatto tutto questo solo per una macchina fotografica? Gliene avrei comprata un'altra se non fosse scappata" urlò la donna. Si immaginò sua zia con la vena sulla tempia che minacciava di scoppiare. Allontanò _il cellulare dall'orecchio come sempre, da quanto fosse alto il tono di voce. Dio, non le mancava proprio.

"Sì, zia, lo so, e lo capisco." Cercò di calmarla ma senza riuscirci,infatti riprese subito con gli strilli. Alzò di nuovo gli occhi al soffitto per la disperazione.

Jo nascose di nuovo la testa tra le braccia, domandandosi come potesse avere una madre così stronza. Odiava essere figlia unica, se avesse avuto un fratello o una sorella avrebbe saputo con chi condividere la pena.

Leeroy si sorprese quando le urla al telefono cessarono e comparve una voce profonda di uomo al telefono. "Roy, sei tu?" domandò l'avvocato Hiddleston.

"Sì."

"Passami mia figlia."

Rogers porse il telefono alla ragazza, inghiottendo saliva a vuoto. Non sapeva mai cosa aspettarsi da suo zio, era tutto fuorché una persona prevedibile, tutto il contrario di Adrian. Si chiese cosa mai li avesse fatti sposare. I soldi, probabilmente. Da tutto ciò era nata quella pazza di sua cugina Jo. Poteva ritenersi fortunato.

"Sì?" la ragazza sperò che il padre non la tirasse per le lunghe con la solita ramanzina. Non aveva paura di lui, e il più delle volte le sue minacce erano parole al vento. Qualcosa però le disse che quella volta sarebbe stata diversa.

Leeroy la vide sbiancare per qualche secondo, per poi riprendere colore e iniziare a saltare sulla sedia. "Davvero? Davvero?" quasi gridò.

Il ragazzo continuava a non capire nulla, finché Jo non gli restituì il telefono con l'avvocato ancora in linea. "Ascolta, tra poco chiamo Amanda. Se lei mi dice di sì, Joanne potrà passare l'anno scolastico da te, ma sempre alle mie condizioni."

Rogers quasi non credette alle parole di David Hiddleston. "Okay!" riuscì solo a dire, ancora sbalordito.

"Nel caso in cui lei rimarrà, le bloccherò il conto in banca e dovrà avere un lavoro per il fine settimana. In più, pagarvi un affitto di ottanta sterline al mese."

A Leeroy per poco non saltarono gli occhi fuori dalle orbite. "Aspetta, cosa?" Provò a fermare suo zio, ma ormai aveva riaggangiato. Rimase per un po' a fissare il display. "Tuo padre è pazzo."

"E poi nessuno crede che le mie idee vengano da lui!" rispose Jo alzando gli occhi al soffitto.

*

Adam lo passò a prendere dopo la scuola, dovevano organizzarsi per un nuovo lavoro. Stavolta, però, l'idea non gli andava. Aveva ancora il morale sotto ai piedi dal fine settimana. Quella chiacchierata con Jack non lo aveva aiutato affatto, si era solo sentito una causa persa. Guardò il cellulare per vedere se c'erano nuovi SMS. Si accese una sigaretta nell'auto dell'amico, il quale lo guardò di sottecchi mentre girava all'incrocio per andare a casa Twain. Per loro fortuna, da quando Abigail era rientrata in squadra, Adam aveva sempre casa libera.

"Tutto bene?" domandò il più grande.

"Sììì, tutto bene" rispose Lance frustrato. Odiava quella domanda. Avrebbe voluto parlare con Miles, ma non poteva, quindi il più delle volte si doveva accontentare di Adam.

"Dai parla, sono lo psicologo di casa Stark da una vita ormai, so come prendervi."

Lance alzò gli occhi al cielo; odiava quando l'altro faceva così. "Non ho niente da dire."

"Sappiamo entrambi che non è vero."

Il rosso colpì più volte il finestrino con la fronte, come per cacciare via i suoi pensieri. "Seriamente, non credo che tu voglia parlare con me della mia sessualità" rispose secco Lance ad un certo punto.

"Ma non mi dire? Hai una cotta?" chiese sbalordito. "Che carino che sei" aggiunse, scimmiottando una ragazza.

"Ti giuro che, se non avessi già digerito, il mio pranzo ora sarebbe sul cruscotto" disse schifato, buttando la sigaretta fuori dal finestrino e accendendone subito un'altra.

"Non fumare così tanto, cazzo!" sbottò Adam. "Con te non si può nemmeno scherzare comunque, certe volte sei di una noia mortale."

"Farò come mi pare?!" rispose irritato il più giovane. Sospirò pesantemente. "Non mi sono preso una cotta." Disse l'ultima parola con un certo disgusto. "Cioè, è successa una cosa strana..."

"Vai avanti..." lo incitò Twain, mentre guardava lo specchietto retrovisore e voltava di nuovo a destra. Il traffico era allucinante a quell'ora, e il più delle persone non sapeva guidare; si innervosiva ogni volta per una piccolezza. Sarebbe arrivato anche ad insultare una vecchietta in quei momenti.

Lance non sapeva davvero come spiegare la cosa, così cercò di dirla così come gli veniva in quel momento, mentre guardava fuori i passanti sui marciapiedi. "Credo di essere stato sul punto di baciare Rogers l'altro giorno..."

Twain non si rese conto dell'improvviso semaforo rosso e quasi tamponò l'altra auto, frenando di colpo. Imprecò ad alta voce e mandò maledizioni al guidatore di fronte.

"Ma si può essere così deficienti!?"

"Non metterti a smattare con la gente!"

Adam si bloccò per un attimo, come se il suo cervello stesse elaborando solo in quel momento le parole del collega. "Stai scherzando?"

Lance si massaggiò le tempie innervosito, continuando a pensare che raccontargli i suoi problemi fosse una pessima idea. "No. Stavo per farlo e credo che l'avrei fatto."

"Ma come?"

"Cosa ne so, sarà stato il momento" rispose secco e ancora più innervosito.

"Perché poi non è successo?"

Il rosso buttò la seconda sigaretta nella strada, mentre il semaforo diventava verde e Adam ripartiva, superando a gran velocità il cretino che gli aveva quasi fatto fare un incidente, con tanto di dito medio fuori dal finestrino.

"Sua cugina" disse sospirando. "Era fuori da casa sua sotto la pioggia e a quanto pare non sarebbe dovuta essere lì, a giudicare dalla reazione di Leeroy."

"Cos'hai intenzione di fare allora?" domandò il più grande, mentre imboccava finalmente il vialetto di casa e parcheggiava.

"Niente, è stato un caso isolato."

"Scusami eh, ti fai la doccia con lui da due anni e 'sti pensieri ti sono venuti solo ora?" chiese scettico, scendendo dall'auto.

"Che domanda del cazzo!" sbottò il più giovane; sarebbe finita che lo avrebbe preso a pugni.

"Non incazzarti, sono domande normali per me, a me piacciono le donne!"esclamò in tutta sincerità. Immaginava che non doveva essere facile per il ragazzo. Ricordava ancora quando Alexandra gli aveva detto che suo fratello preferiva i ragazzi, e non riusciva a farsene una ragione. Ora, però, era cresciuto, e se non fosse per questo piccolo impiccio, fino a quel momento non aveva avuto grandi problemi. Non avrebbe voluto essere nei suoi panni, anche se forse lui era messo peggio."Ti chiedo: cosa hai intenzione di fare?"

"Ti rispondo: è stato un caso isolato" replicò a denti stretti. La rabbia l'aveva fatto parlare troppo; in realtà non sapeva cosa pensare. Per il momento avrebbe fatto finta di nulla, sperando davvero che si trattasse di un caso isolato. Doveva solo dargli ripetizioni. 

*
 

David Hiddleston chiamò di nuovo quella sera e volle parlare solo con il nipote. Jo, invece, era occupata a giocare alla X-Box. "Tua madre ha detto che va bene. Ti ripeto, la cosa funzionerà solo se Joanne seguirà le mie condizioni, altrimenti tornerà a Londra."

Leeroy rimase quasi pietrificato. Si chiese perché David avesse deciso una cosa simile; si era aspettato che la venisse a riprendere per i capelli, non quello.

"Va bene, glielo dirò."

"Domani stesso invierò i documenti alla scuola e invierò un mio delegato a firmare quelli del trasferimento. Sperò che non ti dia problemi, in caso chiamami e la vengo a riprendere."

Il ragazzo guardò la cugina, mentre questa uccideva i soldati nemici con solo una vita a disposizione e lanciava maledizioni. Non erano tanto diversi, ma non sapeva se in bene o in male.

"Non preoccuparti, lei qua è sempre la benvenuta" disse Leeroy con tono protettivo.

"Spero che non rimarrà delusa dalle sue scelte" disse David prima di riattaccare, lasciando il nipote perplesso. Si era ritrovato Jo dall'oggi al domani in casa e non sapeva se le cose avrebbero funzionato. Gli sarebbe davvero dispiaciuto se la cugina fosse dovuta andare via. Ora che erano entrambi soli avevano bisogno l'uno dell'altra, anche solo per non uscire fuori di testa.

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Capitolo 19
*** Capitolo 19 ***


The last chance
XIX

 

But the film is a saddening bore

'cause I wrote it then times or more

It's about to be writ again

As I ask you to focus on

Sailors fighting in the dance hall

Oh man, look at those cavemen go
 

Anche nel dormiveglia sapeva quelle parole a memoria. Nella sua testa non le ripeteva soltanto, ma era come se stesse recitando una poesia a qualcuno. Forse a se stessa. Il calore delle coperte e quelle note le fecero quasi credere di essere ancora a casa. Per un momento si era aspettata che suo fratello arrivasse a svegliarla togliendole le coperte di dosso. L'odore dei vinili era ancora chiaro e quasi reale nei suoi ricordi; ogni volta che li prendeva in mano rischiava sempre di starnutire.

Ogni domenica mattina suo padre usava una canzone diversa come sveglia. Prima di colazione le raccontava di quando era bambino, di come andava a nuotare nell'oceano, delle giornate grigie dell'Irlanda del Sud e degli elfi. I folletti e le fate non erano sempre buoni, il più delle volte rapivano bambini, rubavano e spaventavano, per questo quelle storie preferiva sentirle di giorno.

Finché non arrivò a sperare di essere rapita da loro.

Si tirò a sedere malvolentieri; doveva ancora finire di studiare per il prossimo esame. Preferiva dare anima e corpo allo studio e dimenticarsi di tutto, così la sera i ricordi non l'avrebbero più spaventata. Staccò la radio sveglia con un'imprecazione. I capelli rossi e mossi avevano quasi vita loro. Cercando di legarli in una crocchia si ripromise che, se avesse passato il prossimo esame con il massimo dei voti, li avrebbe tagliati.

Il cellulare, vicino sopra il suo comodino, vibrò. Sospirò profondamente, non sopportava avere a che fare con le persone appena sveglia. Aveva bisogno di caffè per rimettere i neuroni sull'attenti. Guardò lo schermo, sperando che non fosse quel ragazzo di giurisprudenza che cercava da un mese di portarla fuori. In quel caso sarebbe potuta risultare maleducata, e molto. Il sopracciglio le si inarcò come lesse il nome di Adam sullo schermo. "Sono le sei del mattino, che cazzo vuoi?" chiese.

"Alex, per una volta muovi il culo e vieni a Brighton. Tua madre è in ospedale e Lance non so che abbia," disse Twain senza nemmeno prestare attenzione alle parole della ragazza. Non aveva intenzione di mettersi a sentire le sue scuse campate per aria. Se non fosse venuta, sarebbe andato lui stesso a prenderla per i capelli.

Rimase per un momento interdetta dal tono del ragazzo; non si aspettava quel tipo di chiamata, soprattutto non da lui, ma forse avrebbe dovuto. Si strofinò gli occhi, sapendo già che qualsiasi decisione avesse preso, sarebbe stata quella sbagliata. “D'accordo.”

Questa volta fu il turno di Adam di rimanere di stucco. Non era mai successo che lei gli desse retta. “Ci vediamo domani allora,” disse prima di riagganciare. Non voleva dilungarsi più di tanto; non sarebbe stata una conversazione piacevole. Avrebbero avuto tempo per prendersi a schiaffi e insulti di persona.

Si lasciò cadere sul letto assieme al telefono. Rimase una buona mezz'ora nella semioscurità, fissando il soffitto e canticchiando.

But her friend is nowhere to be seen, now she walks through her sunken dream, to the seat with the clearest view and she's hooked to the silver screen..."

*

Non era ancora sicuro se si trattasse di una buona idea. Forse Jo si sarebbe stancata di Brighton e sarebbe voluta tornare a Londra. Alla fine amava la sua città natale, al contrario di lui. Probabilmente era solo una cosa passeggera, o almeno così sperava. Le donne della sua famiglia erano tutte volubili, nessuno sapeva mai come prenderle. Per questo molte volte si chiedeva per quale assurdo motivo Maurice avesse sposato Amanda e lo stesso valeva per David e sua zia.

“Cosa ti va di mangiare stasera?” domandò sovrappensiero la cugina, mentre metteva nel carrello detergenti per il viso e creme.

Leeroy la guardò perplesso. “Tu non hai mai cucinato, vorrei ricordarti...”

“Cosa ci vorrà mai?! Leggo le ricette su internet,” rispose come se fosse la cosa più normale del mondo mentre si dirigeva verso il reparto delle carni.

A quelle parole il ragazzo capì che sarebbe stato meglio non lasciare Jo e la cucina da soli in alcun caso, o lui sarebbe stato il prossimo ad essere diseredato. Raggiunse la ragazza e l'aiutò a scegliere per la cena di quella sera. Il cellulare gli vibrò in tasca.

Alle 21:30 sono da te.

Rogers si era completamente dimenticato delle ore di studio extra con Lance. Gli scappò un'imprecazione, seguita da un'altra vibrazione del suo iPhone.

E no, non puoi spostarla a domani. I patti sono patti.

Il ragazzo sbirciò l'ora sullo schermo e per poco non morì: erano già le otto e mezza e non avevano ancora finito.

Ok, stasera ceni da me, rispose semplicemente.

"Stasera cucino io, sarà meglio,” disse alla cugina, facendole segno di muoversi.

*

Vide Lance e Adam in lontananza, appoggiati contro l'auto di quest'ultimo. Stavano fumando, anche se faceva freddo. Non avrebbe mai capito i fumatori. Si preparò psicologicamente ai commenti sul suo ritardo. Infatti, tra una cosa e l'altra, erano riusciti ad impiegare più di un'ora per tornare a casa. Il fatto che sua cugina non sapesse fare la spesa l'aveva lasciato leggermente scioccato. Per una volta non si era sentito lui il figlio di papà.

"Leeroy, tutto bene?" chiese Jo, vedendolo un po' agitato. Quella sì che era una bella domanda. Da quando aveva iniziato a preoccuparsi se fosse in ritardo o meno con qualcosa che non fosse la scuola?

“Ora inizierà a rompere le palle,” sbuffò, parlando del compagno di squadra, sul vialetto davanti al cancello.

"Ma siete amici?"

Altra bella domanda. Interessante, pensò, davvero. “No, mi da solo lezioni extra.”

Lo guardò per un attimo, interdetta. Quando l'altro giorno vi ho visti mi avete dato un'altra impressione.”

Leeroy le lanciò un'occhiata sconcertata, non capendo cosa intendesse.

“Lascia perdere,” sbuffò lei, facendogli segno di muoversi. Stava morendo di fame.

Rogers scese dall'auto per andare ad aprire il cancello; sua madre se n'era andata portandosi via il telecomando e quindi era costretto ora a farlo ogni volta manualmente. Non lo entusiasmava l'idea di parlare con il fratello di Abigail. Seppur non conoscendolo bene, giravano voci su di lui e e su i suoi vizi ed abitudini.

“Scusa il ritardo, abbiamo trovato traffico.”

Stark buttò la sigaretta per terra, facendo segno che non c'era problema. “Siamo arrivati da poco, ho ritardato anche io per via del lavoro.”

Mentre Leeroy andava ad aprire il cancello, sentì Adam dire qualcosa per poi scoppiare a ridere come un'idiota.

“Certo che sei un cretino,” disse Lance al collega. In quel momento lo avrebbe preso volentieri a schiaffi.

“Qualche problema?” chiese il difensore. Twain iniziava ad infastidirlo.

“No, no. Lance mi ha solo raccontato di come sei caduto l'altra volta per aprire il cancello,” rispose questi, ridendo in direzione di Stark. Non gli interessava se si fosse arrabbiato; voleva solo vedere la reazione di Rogers. Il quale inarcò un sopracciglio, infastidito. Stava per rispondere quando Lance lo interruppe. “Adam, non dovresti andare da Abigail? Stasera hai ospiti a cena.”

Twain smise subito di ridere e guardò pietrificato l'amico. “il porcospino è di nuovo da me?”

“Sì, mi ha detto oggi che tua sorella l'ha invitato a cena. È meglio se vai.”

Il più grande lanciò uno sguardo di odio profondo all'amico. “Ma perché non lo persuadi dal venire a casa mia?” domandò senza aspettarsi una vera e propria risposta. Non poteva impedire al ragazzo di incontrare la sorella.

“Io vorrei mangiare, e se per voi non è un dispiacere, vorrei entrare in casa,” disse Jo con tono infastidito, fulminando con lo sguardo i due estranei.

“E io dovrei studiare.”

“Va bene, va bene. Lance, chiamami quando hai finito. Vado a rompere le palle a Miles, te lo saluto?”

Stark gli lanciò uno sguardo che, tradotto, significava: “Levati dalle palle.”

*

Nell'ultimo mese aveva già mangiato più di una volta a casa Rogers, ma fino a quel momento il proprietario non aveva mai cucinato. Era troppo strano vederlo intorno ai fornelli. Faceva tutto senza seguire alcuna ricetta, andando a istinto e aggiustando il sapore del sugo ogni tanto. Stava preparando della pasta e poi aveva messo la friggitrice a riscaldare per fare le patatine fritte come secondo. Si rese conto che stava morendo di fame. Dopo scuola era corso subito a lavoro e non aveva mangiato niente. La sua attenzione venne catturata dalla ragazza che stava seduta sul divano nell'altra stanza. Si chiese per quanto sarebbe rimasta lì e cosa ci facesse. Quando era arrivata non aveva capito cosa fosse successo.

"Se hai sete prendi quello che vuoi, per mangiare ci vuole ancora un quarto d'ora,” disse Leeroy, andando ad aprire gli sportelli della cucina per tirare fuori i piatti.

Lance si prese una coca cola dal frigo, e rimase stupito dal vedere che non ci fosse più una cassetta intera di Red Bull nello scompartimento in basso.

"Hai ripassato?" domandò, aprendo la lattina.

"Sì, se vuoi posso farti il punto della situazione,” propose il terzino mentre apparecchiava.

“È già un inizio. Non farmi pentire delle mie scelte,” disse con tono stanco. Più che una coca cola, gli sarebbe servito un caffè. La stanchezza iniziò a farsi sentire, si sarebbe potuto addormentare sullo sgabello dell'isola della cucina. Aveva anche bisogno di una sigaretta.

“Esco un momento a fumare.”

“Aspetta, vengo con te.” Poi si rivolse a Jo. “Appena bolle, butta la pasta e lasciala cuocere al dente. Se è scotta te la mangi te.”

"Sissignore,” rispose infastidita, alzandosi di malavoglia dal divano e andando a sostituire il cugino ai fornelli.

Fuori l'aria era fredda e Leeroy respirò a pieni polmoni. Nella veranda c'era un tavolino in ferro battuto nero con un posacenere e delle sedie, dove si sedettero.

“Credevo non fumasse nessuno da te,” commentò Lance, vedendo l'oggetto.

“In realtà mia madre fuma ogni tanto quando è sotto stress per il lavoro,” replicò, sbadigliando. Si sentiva anche lui stanco. Non aveva lavorato, ma con Jo aveva avuto il suo da fare. Appoggiò un gomito sul tavolo per nasconderci il viso, mentre Stark accendeva la sigaretta.

“Stanco?” domandò il portiere, guardandolo di sbieco. Leeroy si limitò a fare segno di sì con la testa. “Dai, fammi il punto della situazione, se dormi sono venuto per niente.”

Rogers iniziò a raccontare tutto da quella posizione, tra uno sbadiglio e l'altro. Stark non potè lamentarsi: sembrava che avesse capito i concetti più importanti e, malgrado avesse ancora qualche punto debole, sembrava pronto.

“La cena è pronta!” disse Jo dalla finestra; non ci pensava nemmeno ad uscire. “Fa un freddo cane, venite in casa!”

 

Dopo cena, Leeroy buttò tutto nell'acquaio. Avrebbe sistemato tutto il giorno seguente, era troppo stanco anche per mettere tutto in lavastoviglie.

Lance lo guardava di sottecchi mentre il terzino apriva i libri e il quaderno con gli appunti sul tavolo. Si chiese se Lee si fosse accorto delle sue intenzioni l'altra volta. Non aveva notato nulla di strano nei suoi modi, non gli sembrava nemmeno in imbarazzo. Possibile che fosse così ingenuo? Guardò l'orologio alla parete. Le dieci e mezza. Sarebbe già dovuto essere a casa.

“Vuoi un caffè?” domandò il padrone di casa.

“Sì, ma ora continua a ripetermi da dove eri rimasto.”

Ormai le cose le sapeva, si sarebbero dovuti rivedere giusto il giorno prima dell'esame per un ripasso generale e poi sarebbe stato pronto. Dopo aver preso il caffè, continuarono ancora per un'ora buona, finché Lance non disse che per lui era il momento di tornare a casa.

“Chiamo Adam per un passaggio,” disse, tirando fuori il vecchio cellulare dalla tasca.

“No, ti porto io, non stare a rompergli le scatole. E poi era nei patti,” esordì l'altro con un tono stanco ma che non ammetteva repliche, mentre si alzava per riversarsi quello che restava del caffè freddo nella macchinetta. Lo avrebbe riaccompagnato a casa a prescindere dagli accordi; era suo ospite dopo tutto. Lance non replicò, probabilmente era troppo stanco anche solo per aprir bocca.

“Vado a vedere cosa sta facendo mia cugina, torno subito.”

Stark intanto aveva appoggiato la testa sulle braccia sul tavolo. Voleva solo riposare gli occhi per un po'. Il caffè aveva aiutato a malapena per un'ora. Annuì.

Jo stava dormendo in camera sua. Non provò a svegliarla, domani sarebbe dovuta andare a scuola con lui. Era meglio che uno dei due fosse abbastanza riposato per svegliare entrambi la mattina dopo. Chiuse la porta e tornò in cucina. Lance si era addormentato nella posizione in cui lo aveva lasciato. Fantastico, pensò. Non poteva di certo biasimarlo, con la vita che faceva era normale. Si sedette dalla parte opposta alla sua, osservandolo. Si chiese come faceva ad andare avanti così. Non sapeva molto di lui, ma quello che sapeva gli bastava per capire che non era facile. Mantenere una famiglia, anche se composta da due persone, a soli diciotto anni, non doveva essere di certo uno spasso. Con l'altro lavoro che faceva, però, doveva riuscire a guadagnare abbastanza da non avere problemi. Cosa sarebbe successo se quella notte che era scappato lo avesse consegnato alla polizia? Forse non sarebbe lì a dargli lezioni di letteratura. Non avrebbe potuto tradirlo e non lo avrebbe fatto. Quello che faceva erano affari suoi, poteva far finta di non sapere. Non si sarebbe stupito affatto se il suo aggancio per poter fare quello che faceva era Adam. Probabilmente era lui.

Si strofinò gli occhi per la stanchezza, cercando di scrollarsi. Era ora di andare, anche lui voleva il suo letto. Sapeva già che sarebbe arrivato tardi a scuola l'indomani.

"Ci vuoi andare a casa? O vuoi dormire qua di nuovo?" domandò Leero, alzando la voce e scuotendo una spalla del compagno di squadra.

Questi tirò su la testa a fatica, cercando di mettere a fuoco la persona davanti a lui. Si era davvero addormentato. “No, poi mi risbavi addosso come un cane.”

Rogers alzò gli occhi al cielo. "E io che mi aspettavo un po' di gratitudine. Alza il culo, ti porto a casa.”

Stark obbedì senza ribattere. Era davvero stanco.

 

Quando si fermò davanti a casa del portiere, Leeroy pensò che si fosse di nuovo addormentato contro il finestrino, ma si ricredette quando lo vide alzare la testa e rivolgere lo sguardo verso il suo. "Mmmh grazie."

“È il minimo."

“Domani non fare tardi o senti Miles come rompe le palle.”

“Lo so, lo so.”

Lance rimane per un momento a fissarlo come se si fosse imbambolato.

“Mi sa che è meglio se vai, o ti devo accompagnare?” domandò il terzino insicuro.

Il portiere si riscosse, dandosi mentalmente del coglione, e ridacchiò tra sé e sé. "No, no, ce la faccio. Grazie.”

Leeroy aspettò che scendesse dall'auto e che fosse dentro casa prima di ripartire, dopo un cenno di saluto con la mano. Non vedeva l'ora di essere nuovamente a casa sua, nel suo letto. Sapeva già che avrebbe dormito poche ore. Con la mente non del tutto lucida ripensò alla giornata e ad Adam. Vederlo l'aveva leggermente irritato. Soprattutto il suo commento lo aveva innervosito. Come poteva Abigail avere un fratello del genere? Era quel tipo di persona che ti stava sulle scatole a pelle e che aveva un vaffanculo al mondo scritto in faccia. Anche lui lo aveva, ma per quanto riguardava il calcio, non la vita. Si chiese se anche lui fosse come lui nei suoi momenti peggiori. Sperò di no.

Un po' gli era dispiaciuto mandare a casa Lance quando sua cugina era comparsa come un fantasma all'entrata di casa sua. Si era sentito veramente un coglione, senza sapere cosa dover fare. Poi lo sguardo di Lance era stato strano, come quello di pochi attimi fa in auto.

*

Non avrebbe provato nemmeno a guardare se sua madre fosse in casa, non gli interessava in quel momento. Si sarebbe lavato e poi buttato subito a letto. Gli venne quasi da ridere quando i suoi propositi per la serata andarono a puttane, come sempre d'altronde nella sua vita, quando la trovò svenuta in cucina, in una pozza di vomito. Il panico e l'agitazione ormai non li sentiva più da un anno. Sapeva già com'era la prassi. Prenderla, buttarla nella doccia, svegliarla, rivestirla e metterla a letto. Quella routine non gli piaceva, ma sapeva conviverci. Peccato che poi arriva sempre la volta in cui la routine si spezza.

Sua madre non sembrava rispondere e nemmeno emettere alcun suono. Il panico non arrivava ancora, ma doveva essere prima sicuro di cosa le fosse successo. La tirò su e dalle mani di lei scivolarono delle pasticche. Imprecò a gran voce. Fece subito il numero del pronto soccorso. Come diavolo era possibile che una madre doveva essere una croce simile per il figlio? Come diavolo era possibile che fosse da solo ad affrontare tutto? Senza pensarci fece il numero di Adam.

“Ho chiamato l'ambulanza. Credo sia andata in overdose.”

Per un attimo non provenne alcun suono dall'altro capo del telefono. Udì solo un'imprecazione. “Vado in ospedale, ti aspetto lì.”

“Va bene.”

“Stai calmo.”



Adam guardò l'orologio del telefono, maledicendo tutti i santi e cercando di respirare profondamente. Prese le chiavi dell'auto e uscì di casa. Per fortuna Miles era andato via già da un'ora. Non aveva voglia di spiegargli perché il suo migliore amico preferiva chiamare lui per quel tipo di emergenze. L'unica persona che sarebbe dovuta essere lì al momento era a Liverpool e l'istinto di prenderla per i capelli era forte. Come poteva essere stata così stronza? C'è un limite a tutto. Non l'avrebbe chiamata, doveva prima vedere com'era la situazione. Forse il giorno dopo.

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Capitolo 20
*** Capitolo 20 ***


The last chance
XX


 

Anche quell'esame era andato, e paradossalmente era sicuro di averlo fatto bene. La cosa iniziava a lasciarlo spiazzato. Se sua madre lo avesse saputo gli avrebbe dato dello sfaticato. Cosa assolutamente vera. Sapeva però che il calcio non gli era bastata come motivazione per passarli. Non voleva ammetterlo, ma con Lance era riuscito davvero a studiare, ed era stato quasi divertente.

Andò in caffetteria a prendere un energy drink. Per sua fortuna, l'esame di recupero sarebbe dovuto durare due ore, ma lui era riuscito a finirlo mezz'ora prima, quindi poteva concedersi di barboneggiare. Si sedette ad un tavolo in un angolo nascosto e si mise ad ascoltare la musica. Notò subito i messaggi di Miles.

Hai studiato?

Fammi sapere appena esci.

Se non passi questo esame farai il panchinaro a vita.

Ce la puoi fare. Non fare cazzate.

Hai finito?

Leeroy alzò un sopracciglio, scocciato. Quel ragazzo soffriva di un qualche disturbo bipolare.

Ho finito mezz'ora prima, sono in caffetteria. Penso sia andato bene.

Inviò il messaggio e poi staccò la connessione internet del cellulare. Voleva godersi quel poco tempo di pace da solo. Si chiese cosa stesse facendo Lance. Dall'ultima volta che lo aveva visto non era più venuto a scuola. Gli aveva scritto il giorno prima per prepararsi all'esame, ma non gli aveva risposto. Non aveva insistito. Aveva pensato che sicuramente era occupato con il lavoro in caffetteria o con l'altro lavoro.

Però non era da lui. Normalmente gli avrebbe risposto anche solo per dirgli di andare a farsi fottere. Doveva farsi gli affari suoi e non starci a pensare. Lo avrebbe ringraziato poi, se mai lo avrebbe fatto. Qualche mese prima avrebbe fatto una grossa risata al solo pensiero. Alzò lo sguardo ritrovandosi un Miles con sguardo severo a fissarlo. Gli prese quasi un infarto per lo spavento.

"Cosa ci fai qua?" chiese con tono agitato.

Il capitano prese posto di fronte a lui senza tanti convenevoli.

"Sei sicuro che sia andata bene?" domandò serio.

"Sei uscito di classe per sapere come è andato il mio compito?" chiese Leeroy sconcertato.

Miles gli lanciò un'occhiataccia. “Senti. Dimmi com'è andata, sei sotto la mia responsabilità, anche se è stato Lance a darti ripetizioni alla fine.”

Rogers continuava a non capire tutta la premura del capitano, ma cercò di farsene una ragione e rispondere alle sue domande per levarselo di torno.

"L'ultima volta che ho visto il tuo amico compagnone di merende, mi aveva detto che ero pronto, anche se sparavo cazzate. L'ho comunque preso in parola, e prima durante il compito stranamente sapevo le risposte. Non dico di essere stato un genio, ma è andata,” rispose cercando di essere il più onesto possibile, guardandolo poi fisso negli occhi.

Reginald sembrò scrutarlo come a cercare delle bugie nascoste. “Se mi dici che è andata bene sono sollevato. Potrai già riprendere da titolare in squadra... non che la cosa mi renda felice.”

“E dillo che sei contento di riavermi in squadra! Lo sai che sono l'unico che ti passa il pallone su un piatto d'argento,” disse Leeroy, cercando di fare il ruffiano e ridendo.

“Non ho mai detto il contrario, e comunque esageri.”

“Vedremo alla prossima partita."”

Miles gli sembrò per un attimo pensieroso, come se volesse porgli una qualche domanda ma non era sicuro di volergli parlare. Assottigliò lo sguardo. “Sputa il rospo.”

Reginald sembrò punto sul vivo. “Come, scusa?”

Rogers alzò gli occhi al cielo. “Lo so che vuoi chiedermi qualcosa. Dai, dimmi.”

Il capitano sembrò pensarci un po' su, ma poi parlò: “È per caso successo qualcosa con Lance?”

Per un momento Leeroy rimase sorpreso dalla domanda. “L'ho visto qualche giorno fa l'ultima volta, poi non si è fatto più sentire. L'ho chiamato ieri sera per sapere se poteva aiutarmi per un ultimo ripasso, ma non ha risposto,” rispose semplicemente. Quella situazione non gli piaceva proprio. Non era lui il suo migliore amico? Al quale avrebbe dovuto confidare tutto? Non riusciva nemmeno a credere che Reginald fosse venuto da lui per chiedergli di Stark. Gli sembrava una barzelletta, gli veniva da ridere quasi. Lo sguardo del compagno di squadra però lo fermò dal farlo; sembrava davvero preoccupato.

“Quel coglione non viene a scuola e non risponde al telefono. Non capisco che diavolo abbia. Pensavo aveste litigato o roba simile.”

“Cazzo, bella considerazione che hai di me,” disse Leeroy con ironia pungente.

“ È una vita che vi scannate, tutti hanno pensato lo stesso.”

“Non credo che non venga a scuola solo per una litigata con me. Venne a scuola anche dopo che ci buttarono fuori da quel locale in riva al mare perché ci eravamo tirati dietro i bicchieri.”

Miles lo guardò pensieroso, come a volergli dar ragione, ma non sapeva come reagire.

La campanella della pausa suonò in quel momento. Leeroy non vedeva l'ora che Miles se ne andasse: quella conversazione non gli piaceva per niente. I problemi del portiere non erano a affar suo e non lo sarebbero mai stati.

“Ci vediamo agli allenamenti, vado a riprendere la mia roba in classe,” disse Reginald prima di alzarsi per andare.

Rogers rimase in caffetteria tutta la pausa. Aveva ancora da fare i nuovi compiti di storia e come suo solito li aveva scordati. Sperò solo di avere abbastanza tempo, non gli andava di ricopiarli come suo solito da Akel all'ultimo minuto.

*

Per una volta Leeroy era riuscito ad essere responsabile e a portare a buon fine qualcosa che non fosse un'azione sul campo. La cosa lo rendeva felice, ma non abbastanza da andarglielo a dire. Aveva ancora molto da imparare quel ragazzo. Stan guardò l'orologio, rendendosi conto che mancava ancora una mezz'ora all'inizio degli allenamenti. I progressi di Julio e Andrew lo stavano soddisfancendo. ma non era ancora abbastanza. Quei due sarebbero stati pronti per l'anno prossimo. Non era sicuro di avere la vittoria in tasca quell'anno, ma era positivo sul rendimento dei ragazzi.

Stava per spegnere il computer nell'aula insegnanti quando si ricordò di avere scordato aperta la sua posta elettronica. Controllò che non ci fosserò cose importanti, che di solito dimenticava. Sotto tre e-mail di pubblicità, ve n'era una che lo lasciò di stucco. L'aprì senza pensarci e lesse in una volata. Poche righe ma il contenuto era grandioso.

Era incredulo. Come poteva quella squadra essere a conoscenza dei giocatori della sua squadra? E soprattutto, dove avevano preso il nome di Leeroy Rogers? L'allenatore sarebbe venuto a vedere il ragazzo giocare se la squadra fosse andata in finale. Avevano bisogno di ragazzi giovani e talentuosi per la difesa.

Qualcuno bussò alla porta. "Avanti,” gridò con un tono su di giri. Lo stesso che aveva da giovane quando andava alle partite ed era ancora un grande con il pallone.

“Stan, sono io. Possiamo parlare un momento?” La testa di Miles spuntò all'entrata, lasciandolo un momento interdetto per la sua espressione. Sicuramente Leeroy aveva combinato qualcosa. Avrebbe ammazzato quel ragazzo; le pallonate in faccia non gli erano bastate.

“Cos'è successo?” chiese con tutto il buon umore che scemava. “Entra, non stare sulla porta, i prof sono già andati via, sono l'ultimo che resta per colpa vostra. Avanti.”

Il capitano entrò e prese posto non troppo vicino al suo allentore, sospirando. Gli sembrava una pessima idea andare a parlare da lui di quei problemi, ma Stan era quasi una figura paterna per il portiere. Se non gli avesse risposto, sicuramente l'avrebbe fatto con lui.

“Non so cosa sia successo a Lance. Sono due giorni che non viene a scuola e tre che non risponde al telefono. Credo lo abbia staccato. Ne ho già parlato con tutti della squadra, persino con Leeroy, ma anche a lui Lance non risponde, e doveva dargli ripetizioni. Tutto ciò non è da lui,” disse tutto d'un fiato. Si sentì veramente un idiota.

Stan lo guardò stupito e poi con un sguardo comprensivo. Stark, malgrado eccellesse a scuola, non era proprio un buon soggetto, per non parlare del posto in cui viveva o per la vita che faceva. Probabilmente era successo qualcosa e molto probabilmente non qualcosa di semplice da risolvere. Miles aveva ragione: quel comportamento non era da lui.

Sospirò pesantemente. “Finito l'allenamento lo chiamo e ti faccio sapere. Per ora ti direi di lasciarlo stare e aspettare che sia lui a farsi sentire.”

Reginald annuì un po' impacciato. Senza Lance a scuola era strano e come se non bastasse quell'ansia che aveva addosso non lo faceva stare bene. Era come se sapesse che qualcosa era successo, ma non sapeva cosa. Odiava ammetterlo, ma c'era una persona che sapeva benissimo quale fosse il problema. Se lo immaginava, ma non sarebbe mai andato a parlargli.

*

“Dai, porta tua cugina da me. Parlo con mio padre e sento se può prenderla per il fine settimana. Ma di sicuro le toccherà passare lunghe serate assieme alla lavastoviglie e ai bicchieri se non ha esperienza,” disse Daniele, rivestendosi.

Avevano finito da poco l'allenamento e si stavano cambiando. Leeroy aveva già parlato con l'italiano per cercare di dare una mano alla cugina. Non gli andava di mandarla in qualche bar sconosciuto a lavorare, preferiva averla sotto gli occhi di persone fidate.

“Va bene, stasera è ok? Passo anche a prendere delle pizze o a mangiare pesce. Decido sul momento quando arrivo.”

“Sai che mio padre adora tua madre? Lei sì che sa stare a ristorante. Lo dice sempre,” commentò Daniele ridendo.

Amanda non era una di quelle ricche che ostentava i suoi averi, ma aveva un piccolo problema con il pesce e il vino bianco di importazione. Infatti era la miglior cliente del ristorante della famiglia Balboa.

“Non ti prometto di essere come mia madre, ma spenderò. Dì a tuo padre di non preoccuparsi.”

Fuori, intanto, Stan stava provando a chiamare il portiere, ma il cellulare continuava a squillare a vuoto. Dopo la quarta volta che rispondeva la segreteria, iniziò ad infastidirsi, così gli scrisse un messaggio.

Chiamami subito, dobbiamo parlare.

Sperò che quel ragazzo non fosse veramente nei guai o che non gli fosse accaduto nulla. Da una parte aveva lui, pieno di energia e talento, ma aveva la sensazione che facesse le cose solo perché le sapeva fare, nella speranza di cambiar vita, e dall'altra il difensore. Talento senza fine, arrogante e a conoscenza del suo destino, pronto a buttare giù montagne e a spostare oceani. Entrambi avevano cuore. Entrambi erano geniali. Ma solo uno era stato scelto, e se fosse stato per Stan, avrebbe offerto l'altro. Si accese una sigaretta cercando di scacciare quei pensieri oscuri. Una volta che un'idea si annidava nella sua mente, però, era difficile farla svanire.

Il telefono squillò senza preavviso, lasciandolo sorpreso. Il nome del portiere comparve sullo schermo.

“È successo qualcosa?” domandò il ragazzo con tono neutrale.

“Dovrei essere io a chiedertelo. È successo qualcosa?” replicò con tono severo, sentendo l'altro ragazzo sospirare nel frattempo.

“Sì, ma non mi va di parlarne. È un casino, dei miei soliti. È come se tutta la sfiga del mondo si fosse concentrata sul mio tetto e non conoscesse altre persone.”

“Posso fare qualcosa?”. Non voleva scendere nel personale se il ragazzo diceva che per lui non era il momento di parlarne. Voleva che Lance continuasse a fidarsi di lui e che non lo vedesse come gli altri adulti che avevano cercato sempre di salvarlo. Da quando lo conosceva, sapeva che tutti i professori ed assistenti sociali avevano cercato di aiutarlo, trattsndolo come un caso disperato. A lui però non era mai andata così. Quello era uno dei motivi per il quale aveva rifiutato l'aiuto esterno. Assumersi quella responsabilità alla sua età non era una cosa da ammirare, ma da ritenere stupida.

“Ho bisogno solo di ancora qualche giorno per sistemare le cose, poi torno a scuola. È solo una questione di poco. Mia sorella è tornata e può aiutarmi. Non devi preoccuparti, e nemmeno Miles.”

Se fosse stato per Stan lo avrebbe preso per i capelli, urlandogli che doveva usare la testa per uscire da quella situazione e non continuare così. Ma non erano affari suoi. Non poteva fare nulla per cambiare le cose.

“D'accordo. Comunque credo che tu abbia fatto un buon lavoro con Leeroy, penso abbia passato anche questo esame,” disse per alleviare gli animi. “Potrà già tornare in campo dalla prossima partita. Mi aspetto che anche tu ci sia.”

“Le partite non le perdo, non ti preoccupare. Voglio vedere cosa combina quel cretino.”

L'allenatore fissò lo sguardo verso le vetrate della palestra della scuola, dall'altra parte del campo, sovrappensiero. Forse qualcosa poteva fare.

“Stan?”

“Ho ricevuto una e-mail, credo potrebbe interessarti. Il West Ham cerca giovani promesse. Se arriviamo in finale, verranno a cercare nuovi giocatori nella mia squadra. Guarda caso cercano un portiere.” Non avrebbe potuto fare altrimenti. Quella era l'unica cosa che poteva fare per lui. Non era una bugia. Lance sembrò aver riattaccato. “Ci sei?”

“Sì, il fatto è che non capisco. Come fai a saperlo?" chiese incredulo.

“Mi ha scritto la loro segretaria. È tutto vero. Non ti prendo per il culo. Forse riesco a sbatterti fuori da qua,” disse, forse più a se stesso che al ragazzo. Sperava davvero di riuscirci. Leeroy avrebbe avuto tutte le possibilità del mondo.

“Appena torno mi devi raccontare. Ora devo andare, mia sorella mi aspetta.”

“D'accordo. Però non farne parola ancora con nessuno, devo prima chiarire la questione.”

“Grazie,” disse semplicemente il ragazzo prima di riattaccare.

Stan rimase a fissare l'erba sotto i suoi piedi. Si sarebbe sicuramente pentito di quella decisione, ma se non avesse fatto qualcosa, poi se ne sarebbe pentito. Avrebbe parlato con la segretaria degli Hammers e avrebbe persino venduto l'anima al diavolo per far prendere Lance al posto di Rogers.

*

Alexandra non sarebbe mai voluta tornare a Brighton prima del tempo. Essere lì era come essere in mare senza bussola, ed era un paradosso perché lì c'era cresciuta. Suo fratello aveva appena chiuso la chiamata con un sorriso stampato in faccia.

“Qualcosa di bello?” chiese con un tono piatto. Nella loro famiglia le cose belle erano rare, se non uniche. Si sistemò meglio sulla panchina, portando le ginocchia al petto e accendendo una sigaretta. Non aveva mai smesso di fumare, anche se aveva provato.

“Forse, ma non credo sia il momento di parlarne.”

La ragazza fissò il cielo notturno: da lì non si vedeva neppure una stella, l'edificio produceva troppa luce. Continuò comunque a guardare come aveva sempre fatto. Era una sua abitudine.

“Dammi una sigaretta, le mie sono finite.”

Rimasero lì senza parlare di nulla. Non avevano mai molto da dirsi. Il vero problema non lo avevano ancora tirato in questione, aspettavano ancora il verdetto dei dottori.

“Adam non doveva chiamarti.”

La ragazza sembrò continuare a fissare l'oscurità sopra di lei prima di guardarlo in faccia. I suoi occhi grigio-verde non erano comprensivi. Non lo erano più da molti anni.

“Gli avevo detto che se lo avesse ritenuto opportuno, avrebbe dovuto farlo. Non pensavo che quella avrebbe combinato qualcosa del genere,” rispose freddamente.

Quella è nostra madre. Mi sembra che il nostro patto stia favorendo più te che me. Adam sta facendo anche troppo,” disse con tono irriverente. Non dovevano litigare, dovevano fare il punto della situazione. Cercò di calmarsi.

“Nostra madre, tsk!” esclamò, tornando a guardare il cielo con la sigaretta in bocca come avrebbe fatto un ragazzo. Non era mai stata la ragazza dei sogni di nessun uomo. Era esattamente come lui nei modi di fare, ma testarda come una donna. Peggio di così non poteva essere descritta.

“Io posso continuare con questo ritmo, ma ho bisogno di appoggio da parte tua, non di 'oggi ci sono, domani se mi va'. Porca puttana! Se io vado giù, te vieni con me, ricordatelo,” fece lui, quasi in un ringhio.

“Non preoccuparti, a breve si sistemerà tutto,” rispose lei con tono leggero.

Lance la guardò interdetto, senza capire.

*

"Potrai venire qua il prossimo giovedì sera, verso le cinque. Almeno potrai guardarti intorno e vedere come sono le cose qua. Inizierai con le bevande e il lavandino, poi vedremo come va,” disse il signor Balboa alla ragazza.

Jo annuì semplicemente, mentre l'uomo le faceva vedere un po' il locale. Quella sera non c'erano molti clienti e Paolo poteva anche prendersela con calma.

Leeroy se ne stava ancora seduto al tavolo, esausto. Si chiese come avrebbe smaltito tutto quel cibo. Aveva finito per riempirsi di pesce senza vergogna, forse peggio di Amanda.

Daniele era dietro il bancone a sistemare i bicchieri quando l'amico gli fece segno di avvicinarsi.

“Non volevo dirtelo davanti agli altri, ma credo che dovrai chiedere un vestito a Rebecca per il prossimo fine settimana,” disse con un sorriso sornione.

“Scherzi, vero?”

“Affatto. Una scommessa è una scommessa. Domani saprò il risultato e allora sì che potrai iniziare a pensare al colore che ti sta meglio.” Ridacchiò. “Io ti direi il giallo canarino.”

“Daniele, torna a lavorare che tra poco arriva un ordine da portare via,” disse il padre. “Quel ragazzo non ha voglia di lavorare, passa tutto il tempo appresso al pallone. Avesse almeno la ragazza,” aggiunse l'uomo con un tono melodrammatico.

Jo rise sotto i baffi assieme a Leeroy.

“Non preoccuparti Roy Roy, ti faccio da accompagnatrice per il prossimo fine settimana.”

“Io ed Akel non vediamo l'ora.”

In quel momento, nel locale entrarono i fratelli Twain, lasciando morire le risate di Rogers. Non li aveva mai visti assieme, era un evento più unico che raro. Guardandoli bene, non si assomigliavano molto. Abigail lo vide subito e gli andò incontro, mentre il fratello andava al bancone per ritirare le pizze.

“Sei come sempre a fare il porco.”

“Simpatica. Dove l'hai lasciato Mister 'vado in ansia per l'esame di Roy'?” chiese scherzando.

“Dimmi che hai superato l'esame o non finirà più di esaurire me e poi te.”

“Sì che l'ho passato, e qui la signorina Daniela ci farà l'onore della sua presenza il prossimo venerdì,” disse facendo l'occhiolino in direzione dell'amico.

“Pensavo fosse una cosa detta per fare! Voglio vederti anche io!” esordì la ragazza eccitata dall'evento. Era una di quelle cose che non si sarebbe voluta perdere per nulla al mondo.

“Guardate che non è bello sentirsi dire da una ragazza che non vede l'ora di vederti vestito da donna! In che mondo vivo!?" si domandò, prendendo a testate il bancone.

Adam intanto aveva già ritirato le pizze e già pagato. A Leeroy sembrò che non volesse rimanere lì più di tanto. Sembrava nervoso.

“Tutto bene?” domandò senza aspettarsi una vera risposta.

Twain lo guardò scocciato. Rogers non lo sopportava ogni momento di più. Qualcosa gli disse che magari lui sapeva qualcosa di Lance; anzi, in realtà ne era sicuro.

“Il solito, te?” rispose con tono piatto.

“Se vedi Lance, digli di rispondere alle chiamate,” rispose con un tono che non ammetteva repliche. I modi di fare di Adam lo avevano fatto agitare più del dovuto. Calmati, idiota, si disse.

“Glielo dico io, non preoccuparti. Mio fratello dimentica le cose,” disse Abigail sorridendo all'amico di infanzia.

Adam si limitò a guardare storto il terzino.


 

“Si può essere più cretini di te?”. Abigail era ormai arrivata alla conclusione che il fratello fosse una causa persa. Da quando Alexandra era tornata, sembrava che il cattivo umore avesse preso pianta stabile in lui. “Datti una calmata. Voleva solo sapere di Lance. Se fai così con lui, Miles lo ammazzi?”

“Reginald lo ammazzerei solo perché esce con te. Lo sai che lo trovo irritante, non capisco cosa ci trovi,” sbottò lui con il solito tono alterato.

“Se te lo spiego, poi non lo fai più entrare in casa,” disse lei con un sorriso isterico, che minacciava di ucciderlo anche se solo avesse provato a replicare.

“Non voglio sapere.”

“Io invece voglio sapere perché ogni volta che Alex torna diventi così bellicoso.”

“Bellicoso?”

“Sì, bellicoso.”

“Un'altra parola, no?”

Abigail alzò gli occhi al cielo, esasperata. “Andiamo da Lance và, o la pizza si raffredda.”


 


 

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Capitolo 21
*** Capitolo 21 ***


The last chance
XXI

 


“Sì mamma, ho superato anche l'ultimo test. È andata bene, stranamente," disse mogio. Non aveva voglia di dilungarsi più del dovuto su quel discorso. Amanda faceva troppe domande e diventava insopportabile.

“Guarda zia che sta facendo il bravo! Studia sempre e la cosa lascia sconvolta anche me,” commentò Jo con tono divertito.

La donna nello schermo sorrise pensierosa. “Ora però cerca di tenere questa media o dovrai davvero rifare un altro anno di scuola.”

Il figlio alzò gli occhi al soffitto; non aveva voglia di sentire un'altra predica da parte sua. Si limitò ad annuire ripetutamente. La cugina gli diede un pugno sul braccio, senza fargli male, per intimargli di smetterla. Odiava questa complicità tra le due. “Ascolta tua madre!”

“Senti chi parla!”

Jo lo fulminò con lo sguardo per poi sbuffare, lasciando perdere il discorso e rivolgendosi ad Amanda. “Come sta andando da voi con i pinguini?”

La signora Rogers sospirò. “È un po' noioso, ma almeno ho dei libri e connessione Internet. Forse, ma non ne siamo ancora sicuri, verremo trasferiti a Città del Capo. Un collega di Maurice vorrebbe averlo li per altre ricerche.”

“L'Africa è più vicina rispetto all'Antartide,” disse la ragazza con tono positivo. Aveva un buon presentimento a riguardo.

Leeroy invece non trovava nemmeno un po' di consolazione; non sarebbero stati con lui.

“Ho da fare i compiti, devo staccare. Salutami Maurice," disse chiudendo la videochiamata senza aspettare una risposta.

"Ma perché hai dovuto fare così?" domandò la cugina con tono irritato.

“È sempre la stessa storia. Passeremo il Natale da soli tanto.”

*

“Quindi fammi capire. Vuoi che con i soldi risparmiati fino ad ora la spedisca in una clinica e che io faccia altri furti per potermi pagare da vivere?" domandò Lance alla sorella, con il tono di voce troppo alto.

“Esatto.”

“E la cosa come dovrebbe funzionare?”

“La cosa può funzionare finché io non avrò concluso l'università e non avrò un lavoro,” rispose semplicemente.

Il più giovane si slegò la crocchia passandosi poi le mani tra i capelli ripetutamente per poi coprirsi gli occhi con un sospiro.

“Praticamente quello che ho fatto fino ad ora non è servito a un cazzo,h sbottò, alzandosi in piedi per fronteggiarla.

Lo sguardo di lei si fece duro. “Ti ho detto che tutto andrà per il verso giusto e non dovrai più preoccuparti di lei.”

“Mi sono già fidato di te, ma le cose non sono mai migliorate, solo peggiorate fino ad arrivare a questo,” disse quasi ringhiado le ultime sillabe.

“Fidati ancora di me. Ho un piano.”

Il minore si allontanò, dandole le spalle con una risata isterica. “I tuoi piani fanno schifo.”

“Almeno ascoltami fino in fondo.”

“Dai, sentiamo, hai intenzione di fottermi ancora di più?"

Alexandra alzò gli occhi al soffitto. Aveva le idee chiare sul da farsi, Lance doveva solo tenere duro, poi lo avrrebbe ripagato per tutto. Doveva crederle.

"La lasciamo in clinica finché non si sarà ripulita, poi la manderemo con un volo di sola andata in Irlanda."

Lance rise ancora più sguaiatamente. "E infatti il nonno la riprenderà in casa come se niente fosse! Guarda, lasciamo le cose come stanno..."

La ragazza abbassò il tono solo per renderlo più autorevole. "Ho già parlato con loro, se lei si ripulisce, la prendono."

Il fratello la guardò sbigottito, per poi assottigliare lo sguardo, adirato. "Perchè cazzo sono sempre l'ultimo a sapere le cose da te?"

La più grande lo guardò dispiaciuta, posandogli una mano sulla spalla per cercare un contatto, ma lui se la scrollò di dosso. Erano di nuovo in quella casa insieme e come sempre lui non aveva mai voce in capitolo. Quanto avrebbe voluto che lei fosse lì solo per fargli visita e non a per loro madre. Dopo che il padre se n'era andato, Alexandra l'aveva odiata, attribuendole la colpa, ma in cuor suo sapeva che se anche loro padre fosse mai tornato, lo avrebbe mandato al diavolo sedutastante.

Ogni volta che a lui veniva aperta una possibilità, un'altra porta gli veniva chiusa di conseguenza in faccia, facendo il doppio del male. Sarebbe dovuto arrivare in finale per avere la sua opportunità; una volta preso non avrebbe avuto più problemi. Nemmeno la sua famiglia l'avrebbe più ferito.

“Quanto ci serve per il tuo piano?” domandò il più giovane, sospirando amareggiato.

“Quelli che hai non bastano, ce ne servono altri.”

“Adam sta progettando un altro colpo.”

“Perfetto, quando lo farete?”

"Sarete voi a farlo, questo fine settimana,” disse senza pensarci due volte. Voleva realizzare i suoi piani? Ci avrebbe messo anche lei il culo.

Lo sguardo che Alexandra aveva in quel momento se lo sarebbe ricordato per i prossimi vent'anni; era una cosa a metà tra lo sconvolto e l'indignato che riuscì a metterlo di buon umore.

“A proposito, sta arrivando. Avrete tempo di organizzarlo nei minimi dettagli assieme,” disse prendendo le chiavi di casa e l'mp3, uscendo per andare a correre. Alexandra rimase immobile sul pianerottolo di casa senza sapere come ribattere. Per una volta l'aveva spuntata lui.

Era uscito di casa di fretta senza prendere una giacca a vento, ma pensò che si sarebbe di sicuro riscaldato dopo poco. Fuori piovigginava e, anche se lo infastidiva, non ci diede peso. Aveva bisogno di rilassarsi e schiarirsi le idee. Prese un respiro profondo prima di iniziare a correre e azionare l'mp3. Le parole iniziarono a scorrergli dentro, cercando di interpretarle al meglio e armonizzando la sua corsa al ritmo. Fino ad arrivare al suo pezzo preferito.

I can't feel

the way I did before

don't turn your back on me

I won't be ignored

Time won't heal

This damage anymore

don't turn your back on me.


Le canzoni continuarono una dietro l'altra senza dargli tregua e ringraziò uno ad uno i cantanti per averle scritte. Certe volte non avrebbe mai saputo come tirare avanti senza di loro.

*

Si stavano fissando ormai da dieci minuti buoni da quando Adam era arrivato. Da quando era tornata, non erano mai rimasti da soli e non si erano rivolti più di un “Ciao” o un “Tutto bene?”. La cosa stava diventando insostenibile. Si sedette al tavolino della cucina e si accese una sigaretta. “Potresti almeno offrirmi qualcosa da bere?” domandò lui.

“Sai esattamente dov'è la roba, fai da solo.”

“Gentile come sempre,” disse più a se stesso che alla ragazza.

“Mio fratello vuole che sia io ad aiutarti, non ha intenzione di partecipare a questo lavoro. È solo per lui se siamo qua.”

Quelle parole lo lasciarono piacevolmente stupito, anche se non sapeva ancora se ritenerlo un bene o un male. Svuotò il suo zaino dai vari fogli che riguardavano casa Powell e li sistemo con cura sul tavolo. “Intanto dacci un'occhiata, io mi faccio del tè, ne vuoi?”

Alexandra si domandò se avesse ascoltato una sola parola di ciò che gli aveva detto; per lui era sempre tutto facile. Non viveva con i suoi problemi. Adam aveva una famiglia e non doveva sbattersi per raccimolare i soldi per la cena o per il pranzo. A lui piaceva giocare e fare il figlio ribelle perché altrimenti la sua vita sarebbe stata noiosa. Un completo idiota. Scosse la testa in segno negativo. Era lei l'idiota. Andò al frigo e tirò fuori una birra.

Quando furono di nuovo intorno al tavolino, il ragazzo iniziò a dare le direttive.

“Siccome lo facevi già, prendi il posto di Lance e io ti faccio da palo.”

“Perché non puoi farlo te? Sono fuori allenamento.”

“Siete tu e tuo fratello quelli sportivi. Hai più possibilità di me là dentro, e comunque si fa come dico io. Sai com'è, a me quei soldi non servono,” disse con tono disinteressato, andando a colpirla dritta nell'orgoglio.

Adam non si rimangiò una sola parola.

“Sei un bastardo.”

“Lo so, ora andiamo avanti?” disse con un sorriso sornione, fatto apposta per farla infuriare.

*

Rebecca guardò il fratello, maldicendo lui, i suoi amici e le loro idee del cazzo. Uno dei suoi vestiti dopo quella sera sarebbe stato da buttare.

“Dai, almeno potrai sfotterlo per il resto della sua vita,” disse Leeroy, dandole una pacca sulla spalla.

“Tu non sei donna, non puoi capire,” asserì l'italiana.

“Quel vestito è vecchio, non starti a lamentare dai,” disse Abigail con tono annoiato, mentre beveva una Coca Cola, seduta al tavolino della cucina. I genitori dei fratelli Balboa quella sera erano al ristorante, per fortuna del ragazzo, così non avrebbero visto quello spettacolo.

“Non pensavo facessi sul serio l'altra volta,” si alterò Daniele con la ragazza. Non voleva tutto quel pubblico sin dall'inizio. Leeroy era un bastardo.

“Non fare la ragazza acida. Dai, ti mancano le scarpe e sei perfetto,” disse l'inglese, frugando nell'armadio della signora Balboa.

“Ma non potevi bocciare?”

“Ora smettila di lamentarti, cara, che siamo già in ritardo.”

Daniele alzò gli occhi al soffitto, disperato; sapeva già che non sarebbe arrivato vivo alla fine della serata.

*
 

L'entrata nel locale affittato da Liam per il suo compleanno fu la cosa più dolorosa e imbarazzante che Daniele avesse mai fatto.

Con il suo metro e 78, diventato quasi 90 grazie ai tacchi laccati di nero della madre, era il centro dell'attenzione di tutti. L'abito verde pastello che, a detta di Abigail, gli fasciava perfettamente i fianchi, diventò subito l'attrazione della serata. Avrebbe potuto sopportare la cosa se non fosse che, come iniziò a camminare tra i compagni di scuola e di squadra, partì una canzone che capì subito fosse dedicata a lui.

“E questa, piccola, è per te!” urlò Leeroy, facendosi passare la bottiglia di spumante da Akel, il quale conoscendo già i piani del terzino si era preparato.

“Sei un gran figlio di puttana! E mi dispiace dirlo perché adoro Amanda!”

Rogers rise a gran voce, seguito dagli altri, per poi aprire la bottiglia e bere direttamente dalla canna, facendone fuoriuscire quasi tutto lo spumante.

 

My face to the sky, sunglasses on. Turnin' up the beat so sick YOU'RE like a brand new bitch! Liam, Akel, Julio! Questo,” disse indicando Daniele. “È un regalo per voi e per tutte le volte che è stato uno stronzo!” urlò ancora. L'italiano iniziò a chiedersi se non avesse bevuto prima di andare alla festa, quel cretino.

"Questo Roy è un regalo di compleanno con i controcazzi!” urlò Liam dalla pedana con il DJ.

Intando Abigail non sapeva se ridere o piangere in mezzo al pubblico insieme a Rebecca, la quale sembrava godersi la scena dal canto suo.

“Sai che ti voglio bene Danny.”

“Sai che ti ammazzerò?”

“Me la godo ancora un po'.” Bevve un altro sorso di spumante per poi afferrargli il viso a malo modo e stampargli un bacio sulla bocca.

“Fratelli per la vita, stronzo.”

“Io ti ammazzo lo stesso!” urlò Daniele sciacquandosi la bocca con l'alcolico.

“Sempre detto che quei due sono innamorati,” disse Rebecca con tono schifato.

“Eddai, Leeroy voleva solo vendicarsi,” rispose l'amica ridendo ancora come una pazza. “Dai, andiamo a bere.”

*

Le ragazze erano sedute mentre lui, da gentiluomo, stava in piedi, appoggiato al bancone, cercando di essere il meno ingombrante possibile per far passare la gente. Nicholas era arrivato da poco e stava in un angolo a parlare con Andy riguardo al prossimo compito di matematica; lo stava palesemente supplicando di aiutarlo con lezioni extra.

Odiava l'odore di sigaretta e, per sua sfortuna, avendo Liam affittato la discoteca per il compleanno, tutti potevano fumare. Gli avrebbe volentieri spaccato la testa per quello. Abigail continuava a parlare di quanto fosse stata epica la scena dei due ragazzi, mentre Katerina mangiava dell'insalata fredda offerta al buffet lì vicino. Rebecca, invece, era sparita chissà dove assieme a Jo. Non si preoccupò più di tanto, la ragazza non combinava cazzate.

Si voltò per ordinare una Coca Cola al barista; aveva bevuto anche troppo spumante, non aveva intenzione di tornare a casa in taxi e poi dover riprendere l'auto. La sua piccola vendetta gli era bastata a metterlo di buon umore per almeno una settimana.

Quando tornò a guardare Abigail notò, subito dietro le ragazze, quasi come uno sfondo, Lance con in mano una sigaretta. Sfuggì subito il suo sguardo, andando a fissare il barista mentre riempiva i bicchieri di birra, cercando di trovarlo estremamente interessante.

La prima cosa che gli venne in mente fu: che cazzo ci fa qua? Era convinto che fosse al lavoro quella sera e non in giro a fare baldoria. Per un momento pensò di andare da lui a chiedergli cosa fosse successo, non era da lui sparire così all'improvviso. Lasciò subito perdere quell'idea; magari aveva avuto solo da lavorare, ma già il fatto che anche Miles non sapesse nulla lo lasciava un po' preoccupato. Che avesse fatto qualche cazzata?

Un brivido lo colse all'improvviso, come quando ci si accorge di essere osservato da lontano. Si sentì a disagio e per un momento gli mancò ossigeno in quel locale. Doveva uscire, doveva prendere un po' d'aria. Si fece strada a spintonate senza guardare nemmeno chi avesse di fronte. Una volta fuori, tirò un profondo sospiro di sollievo. Si appoggiò alla ringhiera di ferro che segnava il confine del locale con il marciapiede e prese l'iPhone per chiamare Jo. Gli scappò un imprecazione. Non c'era linea.

Avrebbe poi dovuto cercare la cugina. Sapere che fosse con Rebecca lo rassicurava, ma c'era anche Abigail, e la ragazza era come lui. Sicuramente avrebbe riportato Jo a casa ubriaca, e l'idea non gli faceva fare i salti di gioia.

Rimase fermo con lo sguardo puntato al cielo pieno di nuvole. Il freddo non lo aiutò a riprendersi del tutto. Gli era rimasta un po' di nausea, non sopportava i luoghi chiusi con fumatori accaniti. la voglia di scappare fuori

fuori si ripresentò all'improvviso per colpa del caldo e dell'odore di sigaretta, esattamente in quest'ordine. Una ragazza palesemente ubriaca si fece avanti con un “Hey ciao!”, con un sorriso stampato in viso, e Leeroy la scartò come avrebbe fatto con un avversario, dirigendosi dagli altri. Per sua fortuna lo sgabello vicino a Katerina era libero e vi si sedette.

Daniele continuava a fare l'idiota con le ragazze, cercando di usare la dritta di Abigail, “A noi piacciono i ragazzi femminei”, mentre Leeroy sentiva la presenza dello sguardo bruciante di Lance sulla schiena. Sapeva che stava ancora fumando e che voleva cercare di parlare, ma non riusciva a girarsi. Era pietrificato.

Sorseggiò un po' di Coca Cola e sospirò profondamente.

“Guarda che se parli con il bicchiere vuol dire che hai bisogno di uno psichiatra!” disse Daniele, cogliendolo alle spalle e facendolo quasi morire di spavento.

“Fai poco il furbo, se continui così dovrai conciarti così altre venti volte!” rispose a tono il difensore, pregustandosi già il momento.

“La prossima volta ci sarai te con tacchi e parrucca bionda qua,” disse l'attaccante prima di tornare dalle ragazze. Leeroy lo lasciò perdere e bevette tutta la Cola.

Quando appoggiò il bicchiere, il braccio di Lance si fece in avanti in cerca del posacenere. Con movimento meccanico glielo passò, senza fiatare. Guardò di sottecchi come spegneva la sigaretta. Aveva delle belle mani.

Voltò lo sguardo nuovamente verso il barista per la millesima volta quella serata, sperando che Lance andasse a farsi un giro con le ragazze e che non lo considerasse. Se non si era fatto sentire in quei giorni, voleva dire che non aveva più voglia di fargli da balia, anche se la cosa non era da lui. In fondo tutti avevano le loro giornate no, Stark più di altri.

“Come sta tua cugina?” chiese improvvisamente il portiere, cogliendolo alla sprovvista. Leeroy si rigirò di scatto come se avesse toccato il fuoco per incontrare il viso di Lance. Non si era rasato. Fu la prima cosa che notò e poi gli occhi grigio-azzurri, lucidi, forse per la stanchezza e l'alcol.

“Jo sta bene,” rispose, quasi fosse un automa. “È da qualche parte con Rebecca, qua in giro.” L'altro inarcò un sopracciglio per lo stupore.

“Immaginavo che essendo della famiglia le piacesse far baldoria,” scherzò.

Leeroy si sporse per guardarlo meglio negli occhi, e solo allora si accorse che arrivava perfettamente alla sua altezza. Diede un'occhiata di sbieco ai piedi del tavolo, notando due scalini, e Lance poggiava i piedi sul pavimento. Quanto cazzo è alto?, pensò.

“Simpatico come sempre,” rise ironico. "Scommetterei lo stesso su tua sorella.”

Lance rimase per un momento interdetto da quella risposta, non se l'aspettava. Evitò di rispondere incassando quella frecciatina. Si rivolse al barista, ordinando due Whisky Cola.

Leeroy inarcò un sopracciglio, non capendo le intenzioni del rosso. Quando i drink arrivarono, Lance porse il bicchiere al difensore con un “alla tua salute coglione, per aver passato il compito” e con un mezzo sorriso di scherno.

Rogers afferrò il bicchiere senza fiatare, lanciando a Stark uno sguardo di sfida, come faceva ogni volta che lo faceva infuriare, e bevve tutto d'un fiato. “Non aspettare che ora ti ringrazi.” Aveva bisogno di un altro drink.

Lance assottigliò lo sguardo. “Era un tuo problema se lo avessi passato o meno,” rispose, per poi dirigersi all'uscita del locale.

Leeroy rimase palesemente basito. Che diavolo voleva quello? Le cose sembravano andare meglio tra loro due, e quel coglione era tornato alle origini dal giorno alla notte.

Lo strano sguardo del portiere lo aveva lasciato ancora più interdetto di prima. Non aveva voglia di affrontarlo, soprattutto a quella festa e non a quel modo.

“Una tequila, per favore.” Aveva bisogno di coraggio liquido. Fanculo l'auto, pensò.

Scese dalla sedia e seguì il rosso fuori dal locale. La porta si richiuse alla sue spalle, portando via con sé i rumori della festa, rendendoli più ovattati. Faceva freddo, il cielo era ancora colmo di nuvole e questa volta minacciava di nuovo pioggia, proprio come qualche sera prima.

Sospirò stanco, intento a cercare il compagno di squadra. Notò un movimento alle proprie spalle e si voltò di scatto. La pioggia iniziò a cadere come spilli.

“Sinceramente, sei una cazzo di delusione.”

Il portiere rise, accendendosi una sigaretta. “Non mi interessa esserlo per te.”

Leeroy gli si avvicinò di scatto, bloccandolo con le spalle al muro, ma senza colpirlo. Nel movimento la sigaretta cadde per terra.

“Cazzo!” imprecò Stark, sbattendo la testa.

“Sei una testa di cazzo. Ti rendi conto che Miles è venuto a chiedere a me cosa ti fosse successo?" gli ringhiò a pochi centimetri dal viso. Lo sguardo di Lance non era cambiato, era solo più indifferente di prima, forse un po' divertito della cosa.

“Non sono cazzi tuoi.”

In tutta risposta Rogers lo sbattè un'altra volta contro il muro e Lance, di riflesso, lo afferrò per il colletto della camicia. Si fissarono negli occhi in cagnesco, pronti per la prossima mossa.

"Rifallo e ti spacco la testa." disse Stark, cercando di allontanare da sé il corpo di Leeroy che cercava di bloccarlo contro il muro, nonostante lo stesso istinto che lo aveva sorpreso al loro ultimo incontro cercava di prendere il controllo e portarlo a fare lo stesso. Lo sguardo dell'altro però non faceva che invogliarlo a prenderlo a pugni, confondendogli ancora di più le idee e i suoi impulsi. Rogers con quella sua faccia da schiaffi era insopportabile. Sapeva di aver bevuto troppo e nonostante ciò non aveva intenzione di prendersi alcuna responsabilità di quello che sarebbe potuto succedere di lì a poco. In un certo senso confidava che il lato maturo dell'altro lo spingesse a lasciar perdere e a farlo tornare nel locale, archiviando quella situazione come “semplice routine quotidiana”. Provò come un conato di nausea alla bocca dello stomaco.

“È la volta buona che ti mando in ospedale,” rispose Roy quasi senza fiato per la rabbia, guardandolo fisso negli occhi. Le minacce dell'altro non facevano che spronarlo ad essere peggio di lui e sapeva benissimo che sarebbe potuto esserlo.

Gli si spense quasi il cervello per un momento; non poteva tornare ad essere impulsivo come prima. Sentiva l'elettricità nell'aria come ogni volta prima di venire alle mani con Stark. Ogni volta era la stessa sensazione: gli dava la stessa adrenalina di una partita. Lo faceva sentire bene ed euforico, ma poi sarebbe svanito tutto e sarebbe rimasto con un occhio nero. Non era il caso. Sospirò pesantemente cercando di ritrovare la calma. Sin da bambino gli avevano detto di contare fino a dieci prima di alzare le mani o dire qualcosa di poco carino, e ogni volta arrivava a contare fino a cinquanta senza rendersene nemmeno conto.

Non sapeva se era l'alcol a far ragionare Stark o solo rabbia repressa che non sapeva come far fuoriuscire. Certe volte era convinto di essere la sua punch ball personale. La cosa gli fece comparire un sorriso tirato sul volto che lasciò interdetto Lance.

"Ho bisogno di bere," sentenziò allora, mollando Rogers. Non voleva rendersi più ridicolo di quanto già non fosse stato.

*

Miles arrivò alla festa che era già inziata da un pezzo, dopo un messaggio di Nicholas che gli aveva detto che Lance era presente. La cosa lo lasciò di sasso. Non si era fatto sentire per giorni e poi andava di punto in bianco ad una festa senza dirgli nulla. Forse era successo qualcosa di grave, ma questo lo sospettava già. Il fatto che Stan gli avesse detto di non preoccuparsi non lo aveva fatto stare meglio per nulla. Non voleva preoccuparsi per niente, ma era più forte di lui.

Per sua fortuna o sua sfortuna lo trovò subito fuori dal locale, a fumare con altri ragazzi della scuola che aveva già visto spesso intorno a lui. La cosa gli fece arricciare il naso. Il suo sesto senso prevedeva guai.

 

L'espressione del portiere quando si ritrovò davanti il capitano fu la prova che non voleva averlo attorno. Lo vide sbiancare, per poi ricomporsi subito e portare la sigaretta alla bocca, spegnendola dopo un ultimo tiro, poi prese un sorso di Whisky Cola.

Ad una sola occhiata di Reginald, i tre ragazzi alzarono i tacchi senza voltarsi, sparendo nella folla dentro la discoteca.

 

“Non ti aspettavo, “disse Stark.

“Se è per questo, neppure io.”

Lance bevve tutto il contenuto del bicchiere, per poi sbatterlo sul tavolo.

"Saresti dovuto venire prima, sai? Ti sei perso un bello spettacolo: Daniele con l'abito di sua sorella,” disse per poi scoppiare a ridere. Non era ubriaco, questo Miles lo sapeva, Lance non andava giù con poco. Si stava solo atteggiando ad idiota per evitare di affrontare i problemi.

“Non me ne frega un cazzo. Si può sapere cosa diavolo è successo?” sbottò il capitano. Non sopportava quando Lance non parlava. Era una cosa difficile per lui, non aveva mai esternato i suoi sentimenti. Il più delle volte quando succedeva qualcosa boccheggiava cercando parole che per lui invece erano semplici, come "sto male" o "aiutami". Erano da sempre stati diversi, ma per questo ottimi migliori amici. Si conoscevano da una vita, e forse era per questo che Miles non sopportava più le mezze verità.

“Non sono affari tuoi,” rispose a denti stretti. “Smettila di farti mille seghe mentali per me. Sto bene, non è niente di che.”

 

“Se fosse così, non ti troveresti qua, coglione.”

“Se fosse così, non farei più nemmeno la vita che faccio,” disse ridendo istericamente e pensando che per continuare quel discorso aveva bisogno di più alcol. Quella era stata una serata di merda. Si sentì un coglione solo perché avrebbe voluto baciare Rogers un'altra volta. Non era normale. Aveva bisogno di leggerezza una volta ogni tanto. Ed era per quello che era andato alla festa da solo. Non si sarebbe aspettato tutta quella sceneggiata.

Miles lo scrutò per qualche istante, prima di parlare per mettere fine a quella conversazione:

“Ok. Fai come ti pare. Tanto capisci solo quello che cazzo pare a te.”

Gli diede le spalle tornandosene all'auto parcheggiata lì vicino, dispiaciuto di non aver nemmeno fatto gli auguri a Liam.

 

 

 


 


 

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Capitolo 22
*** Capitolo 22 ***


N.B: Abbiamo modificato la seconda parte del capitolo 21. Prima di leggere questo, passate a leggere di nuovo l'altro. Grazie. :)
 
The last chance
XXII

 
"I want to ride my bicycle I want to ride my bike!"

"Stai ammazzando questa canzone",  gracchiò la voce di Alex dall'auricolare del ragazzo, seduto nell'auto, nascosta una strada più avanti, dietro una quercia.

"Credo tu sappia di cosa mi fa venire voglia questa canzone", rispose Adam, lasciando cadere la critica di Stark. Avrebbe davvero preferito fare altro in quel momento piuttosto che stare appostato al buio mangiando patatine e ascoltando i Queen, anche se per quello che aveva in mente da un po' il gruppo sarebbe stato un bel sottofondo. Un sorriso gli si stampò sulle labbra, lasciandogli un impressione da ebete.

"Evita di fare il ragazzina in piena crisi ormonale e fai il tuo lavoro, non voglio lasciarci il culo", commentò seccata. Quella casa le metteva i brividi; era una di quelle villette antiche piene di roba che forse era stata di moda cent'anni prima. I proprietari erano due anziani in vacanza alle Maldive. Avrebbe voluto farsi anche lei una vacanza in un posto al caldo, con le noci di cocco e gli ombrellini decorativi, come nei film. Sospirò amareggiata, pensando ancora a tutti gli esami che le restavano da sostenere prima di poter trovare lavoro e potersi permettere una cosa simile.

"Fine come la carta vetrata."

Alzò gli occhi al soffitto buio della stanza, cercando di lasciar perdere le frecciatine di Twain; al momento quel ragazzo le faceva perdere la pazienza. Era così solo da quando lo aveva rivisto: prima della sua partenza per Liverpool, passavano il tempo ad insultarsi. Non sapeva se rimpiangere quei tempi o no.

"Sei sicuro che non abbiano una cassaforte?" chiese ancora una volta per avere la conferma. Non era sicura di quello che stava per fare,le sembrava che fosse passata una vita dall'ultima volta. Certe volte ne sentiva la mancanza; a volte le mancava l'adrenalina, altre invece era contenta che fosse finita. Trovarsi però di nuovo a quel punto la faceva sentire strana, come se tutti i suoi sforzi non fossero serviti. Proseguì cercando la camera da letto padronale all'ultimo piano. I quadri appesi alle pareti erano vecchi e impolverati. Si chiese se con tutti quei soldi quei due non potessero pagare una donna delle pulizie.

"Ora potevo essere a studiare per il prossimo esame", sbottò infastidita, aprendo finalmente la porta in legno massiccio della camera da letto.

"Almeno impari prima di dare ordini a tuo fratello", rispose Adam; gli piaceva darle contro, ma più che altro in quel momento doveva farle capire che anche lei aveva la sua grossa parte di torto, anche se sapeva che con le donne era molto difficile.

Alexandra si fece luce con la pila cercando l'armadio, sapeva per esperienza che le persone anziane nascondevano tutto tra i vestiti e la biancheria. Il commento del ragazzo non aveva fatto che aumentare il suo malumore, ma fece finta di nulla ancora una volta. Aprì l'anta in basso e cercò i gioielli tra le camice da notte di seta, quasi identiche a quelle di sua nonna. Non appena trovò le scatole, un sorriso sornione le si dipinse sul viso, come ogni volta che era contenta. Tolse lo zaino di spalla e ci buttò dentro tutto quello che riuscì a trovare. Passò poi in rassegna gli altri scomparti, senza però trovare soldi.

"Si saranno portati l'intero guadagno di una vita alle Maldive", si lamentò. "Ho trovato solo gioielli, provo a vedere se trovo altro nelle altre stanze."

"Va bene, però muoviti, ho paura che passi di nuovo una pattuglia e non posso fare Fast and Furious."

"Calmati, mi sbrigo", disse, chiudendosi la porta alle spalle e tornando al pianterreno per controllare le cianfrusaglie sui mobili. Molte decorazioni erano in argento o in vetro di Murano; l'argenteria, poi, era fantastica. Un altro sorriso le illuminò il volto.

"Ho trovato altra roba, ma non riesco a portare tutto. Passa qua davanti e facciamo due carichi."

"Ma sei scema?"

"Fai come ti dico, intanto porto tutto in giardino, dalla parte dove sono entrata."

Adam si chiese se stesse scherzando, non poteva fare una cosa così avventata. I vicini avrebbero potuto vedere. Non appena fossero stati a casa, l'avrebbe presa per i capelli per quello scherzo. Mise in moto l'auto e si avvicinò alla recinzione, imprecando per le idee del cazzo della ragazza.

"Se ci beccano, ti giuro, il culo te lo faccio io, e non come vorrei."

"Tanto poi mi ringrazierai."

Continuò a darsi dell'idiota finché non vide la testa spuntare da dietro il muretto la testa della ragazza, con addosso il cappello di Batman che lui le aveva regalato per il suo diciottesimo compleanno. Gli scappò un sorriso.

Con agilità saltò giù, per poi aprire la porta posteriore dell'auto e infilarci la refurtiva. Si avvicinò al finestrino abbassato e gli tirò il cappello.

"Vedi che porta fortuna?"

Rimase per un momento con l'oggetto in mano, senza riuscire a dire nulla. Era stupito dal fatto che lo avesse ancora.

Alex gli sorrise e si arrampicò nuovamente sul muro, sparendo dall'altra parte.

Era convinto che lo avesse buttato dopo che se ne era andata da Brighton, non sapeva se essere contento o arrabbiato. Non la sopportava, era una stronza e sapeva rigirarlo come voleva ed entrambi lo sapevano, e mentre lui non poteva fare a meno di lei, Alexandra sembrava riuscire a portare la sua vita benissimo sulla retta via anche senza Twain. Si sentì un coglione per l'ennesima volta. Il suo flusso di pensieri non gli fece notare i due poliziotti che avanzavano nella sua direzione, finché non furono a pochi metri da lui. Il tempismo di Alexandra poi fu perfetto: saltò di nuovo giù dal muretto con il resto della refurtiva proprio davanti ai poliziotti. Cappello fortunato, 'sto cazzo.

"Corri cazzo, cazzo!" gridò Stark, lanciando di scatto la borsa con dentro l'argenteria sopra i due poliziotti e saltando sopra il muro per tornare nel giardino della villa.

Adam impallidì per un attimo, ma poi premette l'acceleratore e si diede alla fuga mentre i due poliziotti si rimettevano in piedi e alla radio segnalavano l'auto.

"Fantastico, ora non potrò più nemmeno vendere la macchina, cazzo!"

Si maledì per aver lasciato andare Alex da sola. Un tempo non si sarebbe preoccupato, ma ora era diverso, lei non era più preparata a quel genere di situazioni. Guardò di sbieco il cappello sul cruscotto per qualche secondo prima di indossarlo. "Portami una cazzo di gioia."

 
*

Uscì dal locale. deciso di andare a casa. Jo per sua fortuna non era ubriaca, e vedendo che andava d'accordo con le altre non gli andava di rovinarle la festa, così la lasciò lì. Si fidava di Abigail e Rebecca; poi avrebbe ricambiato loro il favore. La cugina si meritava un po' di svago, e a dirla tutta anche lui, tra scuola e allenamenti, non sapeva più dove sbattere la testa. Per non parlare di Jo. La cugina non era un problema, ma la sua presenza non rientrava nei piani. Fuori l'aria era pungente e umida per via del mal tempo. Non era ubriaco, anche se sapeva che sua madre gli avrebbe detto di prendere un taxi per tornare a casa. Scosse la testa per scacciare quei pensieri, per poi respirare a pieni polmoni l'aria della sera e potersi rilassare.

"Vai già via?"

Leeroy si girò di scatto, trovando Lance seduto sullo scalino del negozio accanto, palesemente ubriaco. Vederlo cercare di accendere la sigaretta dalla parte del filtro e cercare di fumarla fu divertente. Sembrava uno di quei barboni alcolizzati che si trovano il pomeriggio per la strada e ti chiedono spiccioli. Aveva un aspetto orribile con i capelli sciolti e spettinati. Gli andò incontro malvolentieri.

"Sì, non ho più voglia di rimanere o torno a casa conciato come te."

"Ma la festa non è ancora finita. E poi lasci tua cugina qua?" biascicò mentre riprendeva in mano la sigaretta e la fissava.

Rogers alzò gli occhi al cielo, per poi sfilargliela dalle dita e metterla nel verso giusto tra le labbra. "Non serve un master per fumare", ironizzò il terzino facendosi scappare un sorriso, il quale si spense nel vedere che Stark non riusciva neppure a far partire l'accendino.

"Sei imbarazzante", disse, facendogli anche il favore di accendergli la sigaretta. Lo aveva già visto ubriaco molte volte, ma mai così, forse perché di solito partiva subito la rissa. Non che lui fosse mai stato meglio, sapeva di essere insopportabile come alzava un po' il gomito. Probabilmente era dovuto tutto alla sua scenata di prima.

"Nah, quello imbarazzante sei tu quando ti incazzi", concluse la frase con un rutto. "Mi sa che devo vomitare."

"Non su di me."

Lance poggiò la testa tra le ginocchia; pensò addirittura che si fosse addormentato, ma poi rialzò la testa per continuare a fumare.

Lee alzò ancora una volta gli occhi al cielo. Stark ormai lo aveva condannato.

"Alza il culo, ti porto a casa, non voglio averti sulla coscienza stanotte", disse poi, mentre si chinava per afferrarlo per il braccio e tirarlo su, un po' barcollante.

"Dopo stasera mi devi due favori."

Il portiere fece passare il braccio sulle spalle del compagno di squadra per reggersi meglio. In quel momento diede ragione all'altro: sì,aveva bevuto troppo e stava di merda.

"Non dire stronzate."

"Uno per ora, e l'altro per prima. Ti avrei davvero spaccato la faccia per le tue stronzate", disse Rogers mentre con una mano reggeva il compagno di squadra e con l'altra cercava le chiavi nelle tasche dei pantaloni. Voleva solo liberarsi del peso morto e andare a letto, quella serata doveva finire.

Lance rise tra sé e sé, avvicinando il volto a quello dell'altro. "È reciproco."

"Il coglione che viene alla festa solo per ubriacarsi e farsi compatire sei te. Scusa tanto se a me non è dato conoscere i tuoi problemi, ma cerca di non aggiungerli ai miei", sentenziò Leeroy, fissando l'altro negli occhi grigi offuscati dall'alcol, con un po' di rancore nascosto nella voce.

"Stronzate", fu l'unica cosa che ebbe da dire prima che Rogers aprì l'auto per ficcarcelo dentro a malo modo.

"Sei un perfetto gentleman."

"Non sfottere, hai il culo sulla mia macchina. Se mi gira ti porto al mare e ti metto in ammollo fino a domattina."

Questa volta fu Lance ad alzare gli occhi al cielo. "Hai sempre da polemizzare."

"Fai poco lo stronzo. Ti sto facendo un favore, non voglio pensare se Miles venisse a saperlo."

Stark sospirò guardando fuori e abbassando il finestrino, aveva bisogno d'aria e una scappatoia in caso avesse avuto altri conati. Almeno per quelle cose riusciva a pensare lucidamente, o quasi.

"Mi ha già visto così, diciamo che non è andato via molto contento", confessò per non doverne poi più parlare.

"Ha ragione, cazzo." Quasi si maledì per il fatto di essere d'accordo con il capitano, ma almeno a quel punto doveva dargliene atto, anche se per lui il fatto che il portiere fosse un coglione non era una cosa nuova.

"Lui non sa come stanno le cose, è difficile spiegarglielo."

Rogers lo guardò disorientato. "Lui non sa cosa fai oltre al normale lavoro?"

Lance si ficcò le mani nella testa rossa per cercare di sistemarsi i capelli, portando una parte dei ciuffi all'indietro. "Non del tutto."

"Non voglio sapere altro", rispose subito il compagno di squadra.

Il portiere cercò di inspirare più aria possibile per cercare di rimettere in moto il cervello, l'alcol l'aveva fottuto. "Non ti spiegherei comunque i dettagli."

"È già anche troppo che so cosa stavi facendo quella notte."

Il whisky lo stava fregando, gli rendeva tutto più facile e più lento al tempo stesso, forse anche più invitante. Non poteva ubriacarsi a quel punto e poi ritrovarsi a meno di un metro in uno spazio ristretto con un altro ragazzo, soprattutto se si trattava di Lee. Da quando avevano iniziato a parlare non aveva fatto altro che guardare le sue labbra e il modo in cui si muovevano. Doveva farsi portare a casa e basta, senza altre cerimonie.

"Finiamo il discorso e andiamo? Potrei vomitare sui tappetini", sbottò senza però avere alcun tipo di nausea, forse sarebbe venuta durante il viaggio. Spalancò completamente il finestrino e iniziò a piovere in auto. In tutta risposta Leeroy chiuse tutto, bloccando i comandi dalla sua pulsantiera, e accese l'aria condizionata.

Lance ci mise qualche secondo per capire. "Eddai cazzo, ho bisogno d'aria, non di sto schifo di climatizzatore."

"Mi piove in macchina."

"Ci potrei vomitare, nella cara tua macchina".

"Me lo dici e accosto."

"Ma col cazzo!" sbottò Stark facendosi in avanti e spegnendo l'aria condizionata, per poi buttarsi quasi addosso al compagno di squadra con tutto il peso del corpo, per riuscire a sbloccare i comandi.

"Cristo santo, non hai cinque anni, smettila!"

"Abbassa il finestrino e la smetto!"

Erano faccia a faccia, con Leeroy spiaccicato con la schiena contro la portiera, mentre tentava di impedire all'altro di arrivare ai pulsanti.

"La vuoi piantare!? Ti giuro che ti mollo qua!"

In tutta risposta Lance gli afferrò le braccia per poi bloccargli i polsi tra lo schienale e la coscia. Sbloccò i comandi e tirò giù entrambi i finestrini. Per un momento gli sembrò di stare meglio, nonostante il mal di testa. "Aria." disse respirando a pieni polmoni, mentre un Leeroy sempre più infastidito lo fissava sul punto di esplodere.

"Se rifai una cosa simile, ti spacco la faccia", sibilò il terzino, divincolandosi e afferrando l'altro per il colletto della maglietta nera. "Ora fai il bravo, ti siedi e non rompi il cazzo. Chiaro?"disse Leeroy con tono severo, quasi sull'orlo di una crisi di nervi. Lo sguardo di Lance in quel momento si assottigliò, come se stesse pensando se dovergli obbedire o meno. Il portiere si rabbuiò per un momento, poi avvicinò il volto ancora di più a quello del compagno di squadra. Leeroy si inumidì le labbra, come se volesse parlare o stesse aspettando qualcosa. Quell'avvicinarsi e gli occhi di Lance che saettavano tra i suoi e la bocca lo lasciarono immobile.

"Cazzo!"

La nausea lo aveva colto di sorpresa e si era buttato con la testa fuori dal finestrino a vomitare l'anima, mentre Leeroy lo guardava tra lo stordito e lo schifato.

"Ti prego, non prendere la portiera."

In tutta risposta il portiere alzò il dito medio nella sua direzione.

"Quando ci sei, andiamo."

Il telefono nella tasca di Stark suonò. "Rispondi te..." Le parole dopo furono risucchiate dai conati di vomito. Fantastico, pensò. Ora avrebbe dovuto parlare con la madre dell'ubriaco, che lavoro ingrato. La voce al telefono però lo lasciò di sasso.

"Coglione, vieni a prendermi, sono bloccata tre villette dopo la casa di stasera", disse una voce femminile con tono trepidante al telefono.

"Ehm, Lance sta vomitando. Sono Leeroy", fu l'unica frase che la sua testa riuscì a formulare.

Sentì una pausa dall'altra parte. "Mi prendi per il culo? Che cazzo, io sono nella merda!"

Il portiere, riprendendosi per un momento, cercò di chiedere al guidatore cosa fosse successo, il quale però non lo considerò, continuando a fissare la pioggia fuori dal finestrino. Prese un respiro profondo e parlò.

"Dammi l'indirizzo, veniamo a prenderti."
*

L'idea non era la migliore che avesse avuto fino a quel momento. Ok, aveva già mentito e nascosto il ladro e la refurtiva alla polizia. Ora stava diventando anche complice. Sua madre lo avrebbe ammazzato, lo sapeva.

"Mia sorella è una stronza, non devi andarla a prendere, sono cazzi suoi", biascicò Lance cercando di tenere gli occhi aperti, si sentiva un po' meglio ma aveva di nuovo sonno.

"Non credo possa essere peggio di te. E poi non capisco, non dovrebbe esserci qualcuno con lei?"

"Se ha chiamato, vuol dire che Adam è dovuto scappare."

"Fantastico, di nuovo la polizia! Ho proprio voglia di rispondere ad altre domande, con te ubriaco e io che ho bevuto al volante."

"La polizia starà cercando Adam, spera solo che non ci sia una pattuglia nei dintorni."

Rogers impiegò un bel po' di tempo ad arrivare alla villetta in collina che era il bersaglio di quella sera. Alex doveva essere nella terza villetta partendo dall'inizio della strada, sulla destra. Per loro fortuna aveva smesso di piovere. Leeroy quasi inchiodò nel vedere le auto della polizia in lontananza e gli partì un'imprecazione. Stavano perlustrando la zona.

"Dannazione! Non può uscire con gli agenti così vicini e io non posso fermarmi qua, farebbero troppe domande." Si massaggiò le tempie, pensando, mentre Lance si metteva la cintura di sicurezza e accendeva lo stereo al massimo.

"Che cazzo fai?"

"Non hai precedenti, vero?" domandò Lance con un sorrisetto da bambino che stava per combinare un guaio.

Leeroy scosse la testa.

"Perfetto, allora è tutto ok, ti faranno solo la multa."

"Ma che cazzo?!"

"Ora parti, fai gli ottanta."

"Ma no."

Lance alzò gli occhi al cielo e alzò ancora di più il volume della musica, mentre vedeva in lontananza i poliziotti avvicinarsi.

"Fanculo", disse Leeroy mentre cambiava marcia e partiva a tavoletta.

Intanto Lance prese il cellulare e scrisse alla sorella di togliersi dai piedi e farsi trovare al parco giochi, un chilometro più avanti.

"Giuro che ti ammazzo!" urlò quasi Leeroy, vedendo uno degli agenti prendere il numero di targa, mentre Feuer Frei faceva vibrare le casse dell'auto.

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Capitolo 23
*** Capitolo 23 ***


The last chance
XXIII

 

Non sapeva se il silenzio della stanza fosse imbarazzante o altro. Non sapeva neppure perché si trovasse in casa Stark. I due fratelli continuavano a fissarsi senza dire nulla, entrambi preoccupati per le sorti di Adam. Il ragazzo, dopo la fuga, non aveva più fatto averesue notizie ed ormai era quasi l'alba. La casa era calda, anche se per quello che sapeva Lance non vi passava molto tempo. Sarebbe voluto andare a casa, in fondo il suo lavoro l'aveva fatto. Scrisse velocemente un messaggio ad Abigail per sapere se avesse portato a casa Jo. Stranamente la risposta arrivò subito. Le ragazze erano ancora in giro con Daniele e stavano andando a fare colazione. Avrebbe voluto esserci anche lui e non rischiare di perdere la patente a quel modo. Quel silenzio lo stava soffocando. Fece per parlare, ma in quel momento il campanello suonò ripetutamente. Tutti e tre si voltarono verso la porta in contemporanea, spaventati, pregando che non fosse la polizia. Sapevano di aver fatto da manuale come sempre, ma il terrore di venire scoperti era sempre presente e forse era ciò che li aiutava a lavorare quasi alla perfezione.

"Sono Adam, aprite."

Alex tirò un sospiro di sollievo e Lance andò ad aprire la porta.

"Ho perso anni di vita, testa di cazzo. Cosa è successo?"

"Dammi il tempo di entrare e dammi una birra," disse il più grande, entrando in sala da pranzo senza troppi problemi e dirigendosi al frigo. Prese una birra, la stappò e la bevve dalla canna, poi sospirò e riportò lo sguardo sui presenti, rimandendo interdetto.

"Che cazzo ci fa lui qua?"

Lance alzò gli occhi al cielo, strofinandosi le tempie.

"È una lunga storia."

"Con 'lunga storia' intendi che ti ho dovuto raccattare dal marciapiede ubriaco fradicio e andare a prendere tua sorella?" fece Rogers sarcastico, sollevando l'interesse di Twain.

"Seriamente...adesso?"

"Lascia perdere, dimmi dove cavolo eri finito, pensavo fossi già in questura," disse la ragazza cambiando discorso.

Adam prese posto tra di loro, guardando però storto Leeroy. Il giovane a quel punto capì che era meglio andarsene, non aveva voglia di mettersi a litigare con il fratello idiota di Abigail; quel ragazzo doveva avere anche qualche problema di autostima per come lo squadrava ogni volta quando era insieme a Lance. O forse era solo geloso che gli portasse via l'amico del cuore, o il ragazzo. Quel pensiero lo fece rabbrividire. Aveva bisogno di dormire.

"Ci vediamo agli allenamenti o a scuola. Ora vado, ho da controllare mia cugina," disse con tono piatto.

"Se vuoi puoi rimanere qua a dormire," disse Alex, sorridendo di buon grado; non era un'ingrata come gli altri due.

"No grazie, devo proprio andare. È stato bello, ma preferirei non rifarlo," disse scherzando, facendo sorridere la ragazza, mentre Adam invece gli fece un cenno con la mano, stizzito.

"Ti accompagno," disse Lance alzandosi e andando verso la porta, lasciando il compagno di squadra interdetto.

Una volta fuori, davanti alla macchina, Leeroy fece per salire a bordo, ma Il portiere gli fece cenno di aspettare; lo vide avvicinarsi con fare incerto e la cosa non gli piacque molto.

"Ascolta, stasera vorrei buttarla nel dimenticatoio," disse il portiere tutto d'un fiato. "Lo so che terrai la bocca chiusa, ma c'è un motivo per come mi sono comportato finora e non voglio parlarne. Non riesco a parlarne nemmeno con Miles e per favore, se ti dovesse chiedere qualcosa digli che non sai niente."

Leeroy lo guardò pensando sul da farsi. Gli era sembrato sincero, sapeva che non se la stava passando bene, altrimenti non avrebbe nemmeno fatto quel secondo lavoro. Sentire l'altro che lo pregava di fare qualcosa gli era nuovo e lo metteva a disagio.

"A Miles non dirò nulla se tornerà a far domande, però parlagli, non lo sopporto quando fa la moglie abbandonata," lo rassicurò, portando lo sguardo in quello dell'altro, che annuì, strofinandosi poi gli occhi. "Credo che vomitare ti abbia aiutato a riprenderti. Non ti avevo ancora visto così conciato," rise il terzino.

"Ho ancora mal di testa. Appena sono in casa mi butto a dormire, odio bere così tanto."

"Sei sicuro che sia andato tutto bene?" chiese Rogers con aria seria.

Lance prese l'ultima sigaretta dal pacchetto che aveva nei jeans chiari e l'accese, massagiandosi poi le tempie pensieroso.

"Ora sento cosa ha da dirmi Adam, spero che non sia successo nulla quando è scappato, altrimenti sì che sono cazzi."

"Poi fammi sapere," disse senza pensarci. Si diede subio dopo dell'idiota per quella frase, non erano affari suoi. Anzi, sì, dal momento che aveva preso una multa per salvare il culo alla sorella dell'altro.

Lance annuì con uno sguardo assonnato e pensieroso. "Grazie," esordì poi prima di salutarlo e fare retrofront fino a casa.

Leeroy salì in macchina e solo allora si accorse di quanto in realtà fosse stanco. Si sarebbe potuto addormentare sul sedile del veicolo senza nemmeno accorgersene. "Di niente," disse tra sé e sé prima di mettere in moto e tirare giù entrambi i finestrini. L'aria pungente dell'alba l'avrebbe tenuto sveglio abbastanza a lungo da arrivare a casa.

*

Miles si sorprese nel vedere Lance seduto al suo solito banco in classe. Sembrava stanco; era evidente che doveva aver fatto uno sforzo per essere comunque venito a scuola. Cercò di far finta di nulla e si sedette vicino a lui con un cenno di saluto. La lezione iniziò subito dopo per sua fortuna. Si sentiva un po' in colpa per come l'aveva mollato alla festa l'altra sera. Appena era arrivato a casa era andato a letto, ma la mattina dopo i rimorsi si erano fatti sentire e aveva subito scritto ad Abigail per sapere come stesse. La ragazza naturalmente non aveva detto molto. In quei casi sapeva che qualcosa era successo, e in quei casi di mezzo c'era sempre il maggiore di casa Twain. Quanto lo detestava. Pensò che magari non era il caso di parlargli a scuola, lo avrebbe cercato dopo gli allenamenti. Sospirò annoiato mentre continuava a prendere appunti. Di tanto in tanto lo guardava di sottecchi, ma non stava facendo altro che non fosse ascoltare ed annuire ad ogni frase del professore. Non appena suonò la campanella, fece lo zaino ed uscì velocemente per dirigersi all'ora di ginnastica. Non era da lui evitare le persone, di solito cercava subito un confronto diretto per mettere le cose in chiaro e sistemarle. Sapeva però che quella non era stata una semplice litigata con uno sbronzo. Probabilmente c'entrava anche il fatto del West Ham. Stan se lo era fatto scappare con lui durante l'ultimo allenamento e gli aveva giurato di non dire nulla, anche se Lance lo sapeva già. Forse tra tutti i problemi che aveva non riusciva a pensare che fosse vero, oppure la negatività l'aveva fatto cedere ancora una volta. Scrisse un messaggio ad Abigail e le chiese di vedersi durante la pausa pranzo, davanti al campetto. Voleva sapere, non gli andava più di essere quello sempre all'oscuro di tutto.

*

"Con questo tempo vuoi venire proprio qua?" sbottò la ragazza come fu davanti alla rete che delimitava il perimentro del campetto.

"Non fare la bimba, è solo un po' di vento."

Lasciò perdere la frase, altrimenti gli avrebbe staccato un orecchio. Miles con le ragazze non ci sapeva proprio fare, questa era una cosa che tutti sapevano, ma al tempo stesso tutti sapevano che lei era un uomo mancato, quindi i conti tornavano.

"Cosa vorrebbe sapere sua grazia Reginald?" disse con tono pomposo, facendo pure un inchino e beccandosi in tutta risposta un'occhiataccia.

Il ragazzo sospirò. "Non fare la cazzona, dai. Potresti raccontarmi cosa è successo alla festa con Lance?"

"Immaginavo che l'avresti chiesto," rispose la ragazza, facendo poi una breve pausa e pensando sul da farsi. "Perché non chiedi prima a lui?"

Reginald prese a calci uno dei pali che sosteneva la recinzione per scaricare un po' la tensione. "Perché non so come prenderlo ultimamente, è lunatico, peggio di Rebecca con il ciclo."

"Sei fine come la carta vetrata," rispose lei, assottigliando lo sguardo infastidita.

Di conseguenza lui alzò gli occhi al cielo, esasperato. In quel momento forse si sarebbe fumato una sigaretta. Gli mancava fumarne una con Lance ogni tanto.

"Beh, non so tutto. È la solita questione, solo che questa volta nella merda c'è finita Alex e in tutto questo Lance era ubriaco perso. So che tu preferisci non sapere cosa faccia per tirare avanti, oppure non so, cerchi solo di ignorarlo, ma ultimamente stanno tirando troppo la corda e sono sicura che si spezzerà. E io non posso dire ad Adam di smetterla e di non aiutare più Lance. Mio fratello lo farebbe comunque."

"Adam fa l'università e si comporta come un bambino di tredici anni. Cerca di fare il figo, convinto che non verrà mai preso. Come se non bastasse non l'ho mai visto fare nulla per Lance," sbraitò quasi parlando sopra le parole della ragazza, la quale prese un profondo respiro prima di poter riprendere la parola.

"Ascolta, né io né te conosciamo la situazione nei dettagli, quindi smettila di dare giudizi solo per sentito dire e fai la persona matura. Vai da Lance e parlagli, mi sono rotta le palle di 'ste scenate," disse lei prima di fargli un cenno di saluto e andarsene, lasciandolo al vento gelido.

*

Stan si era rincuorato nel rivederlo durante gli allenamenti. Non era ancora sicuro di poter mantenere la promessa fattagli. Dopo quella telefonata aveva scritto alla segretaria del West Ham, chiedendo di poter mettere in mostra il portiere al posto del terzino, in quanto non era molto sicuro dei risultati scolastici del ragazzo, quindi sarebbe potuto bocciare nuovamente. Purtroppo però non aveva ancora ricevuto risposta. Sicuramente o non avevano avuto tempo o stavano discutendo di quella possibilità. Sperò di riuscire nel suo intento. In fondo in fondo si sentiva un po' un verme, ma il fatto era che Leeroy era semplicemente un fuoriclasse; le diverse squadre in futuro avrebbero fatto a gara per prenderlo e lui aveva cuore. Lance invece no. Per lui era un gioco e un modo per distrarsi, anche se sapeva di essere bravo. Il portiere gli andò incontro, correndo sul campo.

"Possiamo parlare di quella cosa quando abbiamo finito?" domandò il ragazzo.

Stan sorrise, per fortuna il ragazzo non aveva perso la voglia di farsi avanti; sperò vivamente che avrebbe deciso di mettersi in gioco.

*

"Rogers, Akel, stasera pizza da me," esordì l'italiano mentre si sfilava la maglietta.

Il turco annuì, aprendo il borsone e tirando fuori gli abiti puliti, aveva voglia di qualcosa di calmo dopo quel fine settimana allucinante.

"Cosa hai detto?" urlò Roy dalla doccia.

Anche Daniele si fiondò sotto il getto, nel box vicino a quello dell'amico per parlargli. "Stasera pizza da me e non accetto un no come risposta, Andy e Julio li ho già invitati."

"Non mi va di lasciare Jo a casa."

"Ci saranno anche le ragazze, Rebecca mi ruba sempre le idee," disse l'italiano scocciato.

"Non tirare troppo la corda con tua sorella, altrimenti ti ritrovi di nuovo vestito da donna a provarci con le ragazze," lo prese in giro l'amico.

"Siete degli stronzi, lo sapete?" rispose uscendo dalla doccia per andare a vestirsi, prendendo pure l'asciugamano e le ciabatte dell'amico fuori dal suo box, senza che questi se ne accorgesse.

Balboa non era un tipo vendicativo, ma quando ci voleva, ci voleva.

Leeroy lo lasciò perdere, continuando a stare sotto l'acqua calda. Era ancora stanco, più emotivamente che fisicamente, e sì, aveva bisogno di sedersi ad un tavolo a fare niente se non parlare e mangiare in buona compagnia. Doveva cancellare quel fine settimana dai suoi ricordi. Peccato stesse ancora aspettando la multa. Scosse la testa, decidendo di lasciar perdere tutta quella faccenda e sapendo che l'avrebbe archiviata al più presto in un angolo nel suo cervello. Fece per uscire e si accorse degli oggetti mancanti.

"Daniele del cazzo! Non sei divertente!" sbottò, sentendo subito dopo una grossa risata.

"Tranquillo, siamo tutti ragazzi, non sconvolgerai nessuna ragazza per le tue doti mancanti," continuò l'italiano ridendo poi insieme ad Akel.

"Guarda che poi piangi, mezza sega!"

La porta dello spogliatio si aprì facendo entrare l'allenatore con un espressione annoiata; non aveva voglia dei soliti litigi tra bambini.

"Che cazzo è questo casino?"

"Balboa non mi da l'asciugamano."

"Non ho preso niente!"

"Chiudete il becco!" sbottò esasperato l'allenatore. "Dov'è Miles?"

"È già andato, aveva da fare," rispose uno dei ragazzi.

"Quando il gatto non c'è, i topi ballano," disse tra sé e sé l'uomo, sospirando e grattandosi la testa. In quei momenti si chiedeva perché avesse accettato il ruolo di balia per quei ragazzini.

"Eddai Stan, era solo uno scherzo," si scusò Akel sfoderando la sua faccia d'angelo senza peccato, che di solito con i professori attaccava; la tirava sempre fuori per salvare il culo agli altri due, facendo la parte del bravo ragazzo responsabile. Peccato che con Stan non funzionasse. Infatti lo guardò severamente e gli fece segno di no con la testa.

Lance, che era ancora fuori ad aspettare che Stan tornasse per parlare del West Ham, decise di andare a vedere che avessero combinato questa volta i ragazzi, e sapeva che di mezzo ci doveva essere Balboa, come sempre.

Rimase sulla porta senza mettersi in mezzo. Per un secondo credette di stare male. Doveva andarsene.

"Senti Daniele, hai rotto il cazzo," disse Leeroy fregandosene ed uscendo dalla doccia senza starci a pensare, e andando incontro al ragazzo che aveva l'asciugamano.

Nello stesso momento Stark entrò e come un automa raccolse le sue cose, sparendo subito dopo, rubando la scena a Rogers, il quale rimase per un momento interdetto.

"Lance, dobbiamo finire il discorso!" Le parole di Stan non lo raggiunsero nemmeno da quanto correva veloce, dandosi del cretino ogni due metri.

*

Il signor Balboa sembrava di cattivo umore quella sera, era arrivato a minacciare entrambi i figli di fare personalmente la pizza agli amici se non la smettevano di litigar su chi dovesse essere servito per primo. Leeroy conosceva bene le dinamiche della famiglia e non si stupì nel sentirli tutti e tre urlarsi contro in italiano. Quando Rebecca parlava la sua lingua madre cambiava da ragazza fredda e calcolatrice a testarda e impulsiva, mentre Daniele restava il solito idiota. La cosa assurda poi era che da quando Jo lavorava là i fine settimana, aveva imparato qualche parola e non faceva che chiamarlo 'testa di minchia' ogni volta che faceva qualche stronzata.

Dopo quel piccolo inconveniente, e di inconvenienti in casa Balboa ce ne erano sempre tanti, la serata scorse piacevolmente. Si stupì però nel non vedere affatto Miles. Si chiese se avesse litigato anche con Abigail. Durante gli allenamenti gli era sembrato molto strano, più del solito. Da quando aveva litigato con Lance era insopportabile, ora invece solo strano.

In realtà però anche lui aveva i suoi dubbi. Si era ripromesso di non indagare su ciò che facesse, ma per le ripercussioni che aveva su tutti lo lasciava perplesso. Probabilmente Miles voleva che la smettesse e il portiere sicuramente non poteva. Si chiese se Lance gli avrebbe davvero fatto sapere se le cose erano andate bene quella sera, ma sicuramente il ragazzo aveva interpretato quella come una frase di circostanza. La curiosità lo sai che poi ti ammazza, si ripetè. Meno sapeva meglio era, in tutti i sensi. Non se l'era persa quella sua espressione prima che vomitasse l'anima fuori dal finestrino. Fino a quel momento non si era fatto troppe domande sulle preferenze sessuali del portiere, ma cazzo, aveva davvero provato a fare quello che si era immaginato? L'alcol toglie le inibizioni, ma per come lo conosceva non gli sembrava in grado di fare una cosa fatta tanto per. Sospirò pesantemente prima di buttare giù mezzo bicchiere di birra. Non che avesse problemi con il bere, ma era leggermente intontito e non voleva nemmeno essersi immaginato tutto. Il telefono gli vibrò in tasca, doveva essere arrivato un messaggio.

È andato tutto bene, se vuoi domani ti racconto dopo la partita. Vedi di non fare puttanate come tuo solito.

Era da Lance. Gli aveva davvero scritto. Rimase per un momento ancora più confuso di prima. Gli rispose, confermando e mandandolo a quel paese; in fin dei conti erano sempre i soliti messaggi che si mandavano. Gli scoppiava la testa.

In quel momento notò come Abigail lo stesse guardando. Alzò le mano come per dire: che ho fatto?, e lei gli fece segno di seguirlo. I ragazzi intanto erano ognuno per i cavoli loro a chiacchierare e nessuno sembrava essersi accorto di quanto Leeroy fosse taciturno.

La raggiunse fuori dal locale e l'aria fredda della sera di inizio dicembre gli diede il benvenuto, calmandogli un po' i nervi tesi. Anche Abigail sembrava più a suo agio.

"Volevi parlami?" domandò il ragazzo.

"Beh sì, ma non saprei da dove cominciare," rispose la ragazza, guardandosi le punte delle scarpe da ginnastica.

Rogers sembrò intercettare i pensieri di lei. "Tu sai cosa fanno Lance e tuo fratello, vero?"

La secondogenita di casa Twain annuì, un po' imbarazzata.

"In un certo senso vorrei ringraziarti per aver coperto entrambi. Adam mi racconta cosa succede, nel caso in cui io debba creare un alibi sul momento," rispose con un tono neutro.

Il terzino non riusciva a capire se questa cosa desse fastidio alla ragazza o meno, era strano il modo in cui ne parlava. Se lei conosceva tutto, allora conosceva bene anche Lance. Una domanda gli nacque sulle labbra, ma aveva troppa paura a porla.

"Il fatto è che non possono continuare così, e l'idea di mettere Alex al posto di Lance quella sera è stata un suicidio. Lei ha smesso di farlo da un bel pezzo."

"Se sei così preoccupata, perché non li fai smettere?" domandò Roy.

Lei alzò gli occhi al cielo della notte, cercando di vedere le stelle e respirando a pieni polmoni. "Fosse facile lo avrei già fatto. Mio fratello vuole aiutare Lance il più che può, l'ha promesso ad Alex prima che lei partisse per Liverpool. Quei due hanno un rapporto che al momento è qualcosa del tipo 'ti vorrei ammazzare ma poi mi mancheresti troppo' ed è solo per quel motivo che non si scannano a vicenda."

"E Lance?"

"Lui fa tutto quello che può per raccimolare soldi, pagare i debiti della madre al bar e poter scappare una volta per tutte da qua. Lui è strano per certi versi, vuole molto bene a Miles e agli altri, ma ha bisogno di poter trovare se stesso credo. Deve riuscire a vedere il mondo con un'altra lente per poter dire ' so cosa voglio dalla vita'... ma a quel punto non c'è ancora," disse onestamente; non avrebbe mai raccontato quelle cose se non sapesse che Leeroy era curioso, e anche molto. Aveva notato quanto fosse silenzioso.

In un certo senso il difensore si era immaginato tutte quelle cose, ma sentirsele raccontare lo faceva sentire una brutta persona. Non si era mai sentito migliore degli altri per via dei soldi e per i problemi che non aveva, ma in quel momento sì. Si sentì un vero schifo.

"Non spaccarti la testa, lui sa quello che fa, e i soldi per il momento non sono un problema, devono solo farne abbastanza."

"E tuo fratello?"

"Lui è un coglione, fa questo per lei. Dovrà aprire gli occhi poi e rendersi conto che non è un bambino."

"Credo di stargli sulle palle."

"A lui stanno tutti sulle palle. Lui e Reginald se si vedono devo tenerli al guinzaglio. Credo che sia solo gelosia, in fondo," disse sospirando esasperata, ripensando alla discussione con Miles nel pomeriggio. Non gli aveva ancora risposto ai messaggi. Sia lui che Adam erano sempre esagerati.

Un brivido lungo la spina dorsale scosse il ragazzo e forse non per via del vento freddo. La domanda di prima si ripresentò e decise che tanto valeva togliersi il dubbio.

"Posso chiederti una cosa su Lance?" domandò cercando di usare un tono più neutro possibile.

Lei annuì, consapevole che forse conosceva già la domanda, ma non poteva di certo dirgli che sapeva tutte le seghe mentali del portiere perché Adam gliele andava a riferire.

"Beh, non lo so. Magari sto campando solo le cose per aria..." fece una pausa, cercando le parole esatte. "A lui non piacciono le ragazze, vero?" si diede dell'idiota per come era uscita quella frase. Si era quasi strozzato con l'ultima sillaba.

Abigail lo squadrò per un po', non sapevo cosa rispondere, se dirgli la verità o meno. Gli unici a saperlo erano Miles, Adam e lei, per non contare l'intero quartiere e la famiglia. Sospirò rassegnata. Adam le aveva detto che forse Lance era attratto dal ragazzo, ma era stata una frase sconclusionata tra parolacce e bicchieri di birra dopo che aveva chiamato Alexandra a tarda notte. Perché no?

"Mettiamo che io non ti ho detto detto nulla e questa cosa nasce e muore e qua?" rispose lei.

"Perché nessuno lo sa?"

"Seriamente?"

"Eddai, viviamo a Brighton."

"Lui gioca a calcio e si fa la doccia con voi altri."

A quell'uscita sbiancò. Lance era scappato dagli spogliatoi appena lui era uscito nudo dal box doccia. "Ok, hai ragione," disse, colto nel segno. Non è che si sentì male, ma in quel momento aveva bisogno di bere. Abigail lo guardò preoccupata mentre rientrava nel locale.

"Lo sai vero che se dici qualcosa in giro ti stacco le palle?" disse lei sorridendo.

"Ti sembro così coglione?"

Andò dalla cugina, che era dietro al bancone a dare una mano a Rebecca a pulire i bicchieri. Ormai il locale stava per chiudere e praticamente erano loro i soli clienti. Ordinò mezzo litro di birra. Che la forza sia con me, pensò prima di buttare giù mezzo bicchiere.

 

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Capitolo 24
*** Capitolo 24 ***


N.A: Secondo aggiornamento consecutivo. :)
The last chance
XXIV - Parte I

 

L'ufficio di Stan era stranamente vuoto. Aveva bisogno di discutere con lui il dopo partita, volevano andare tutti a fare un giro al pub in centro a mangiare qualcosa, qualunque fosse stato l'esito della partita. Dovevano rinforzare lo spirito di gruppo. Come sempre era tutto disordinato e c'erano scartoffie ovunque e moduli di iscrizione per i pulcini. Si chiese come facesse a provare ad allenare i bambini una volta a settimana, già aveva loro da sopportare. Si sedette alla scrivania per mettersi a giocare al computer e sopra la tastiera trovò una e-mail stampata che catturò subito la sua attenzione. Lo stemma del West Ham era inconfondibile. Lesse tutto d'un fiato non capendo. C'era scritto Leeroy Rogers, non Lance Stark. Rimase per un momento a contemplare il nome in religioso silenzio. Non poteva pensare che Stan avesse detto una bugia al suo migliore amico; magari il West Ham voleva entrambi, però preferiva non dirlo ancora al terzino. Per maggiori chiarimenti, anche se non doveva farlo, decise di aprire l'e-mail dell'uomo. Scrollò la varia posta ricevuta finché non trovò solo quella che aveva appena letto. Guardò poi tra quelle inviate. Rimase scosso. Stava cercando di mettere Lance al posto di Leeroy nella squadra, ma non era ancora arrivata alcuna conferma. Quello non era essere sicuri al cento per cento. Forse gli scout avrebbero perso l'interesse dopo quella e-mail e Lance non avrebbe ottenuto nulla e si sarebbe sentito uno schifo. Si alzò ed uscì dall'ufficio per cercare Stan. Voleva dei chiarimenti.

*

Gli avversari erano un osso duro. Miles non riusciva a passare una palla in avanti. Inoltre era ancora più frustrante il fatto che non fosse ruscito a parlare con Stan. L'aveva trovato prima della partita e non gli era sembrato il caso di fare scenate. Ora però non sapeva bene cosa fare, tutto ciò lo stava deconcentrando. Leeroy poi non era ancora entrato. Stavano perdendo uno a zero con quella squadretta di fuori città ed era ad un punto da prendere a pugni il numero 8. Lo stava snervando con le sue battutine e i suoi modi di fare, cercava sempre di buttarlo a terra e l'arbitro non aveva ancora fischiato un solo fallo. Respirò profondamente prima di riprendere a correre verso il numero 12 che gli veniva incontro. Riuscì a sottrargli la palla, ma la calciò troppo lontana e finì fuori campo. Gli scappò un'imprecazione. Stava aspettando la pausa da ormai dieci minuti, stranamente si sentiva fiacco. 
Una volta che l'arbitro ebbe fischiato la fine del primo tempo, si diresse a passo di marcia da Stan.
"Vuoi far entrare Leeroy!?" disse tra i denti all'orecchio dell'uomo.
"Ti vuoi dare una calmata? Altrimenti esci."
"Va benissimo," rispose a tono, togliendosi la maglietta e gettandola a terra, dirigendosi verso l'uscita. Era stanco di quella pagliacciata. I ragazzi lo guardarono sconvolti, nessuno aveva mai visto Miles dare di matto o anche solo alzare la voce con l'allenatore.
Stan bestemmiò. "Lance, vai a riprendermelo," disse con un tono che non ammetteva repliche. Stark senza pensarci annuì e gli andò appresso, correndo e afferrandolo per una spalla.
"Cazzo dai, torna."
"No, mi sono rotto le palle delle sue stronzate."
"Ma cosa ti ha fatto?" chiese il portiere.
"A me niente, è il suo atteggiamento, ci stiamo facendo il culo e siamo sotto di uno a zero, quando invece avrebbe potuto far entrare Roy dall'inizio e non saremo a questi punti."
Lance lo guardò preoccupato; non lo aveva mai visto in quello stato solo per una partita, doveva essere successo qualcosa. "Sai che puoi parlarmi se succede qualcosa, vero?"
Reginald in tutta risposta rise. "Certo, come fai te."
Il portiere ammise con se stesso di essersi meritato quella risposta e cercò quindi di farlo ragionare.
"Mi dispiace per come mi sono comportato fino ad ora, possiamo parlarne dopo la partita, ma ora per favore, torna e scusati con Stan."
"Torno ma con lui non mi scuso, posso stare anche in panchina, non mi interessa."
Lance sospirò: quando Miles usciva di testa era difficile farlo ragionare. Era come una bomba ad orologeria; una volta che scoppiava, poi bisognava aspettare che tutto si calmasse per poter raccogliere i pezzi.
"Dai, andiamo," gli disse, mettendogli una pacca sulla spalla.
Non appena Miles fu di nuovo davanti a Stan, non lo guardò nemmeno. Raccolse la maglietta e prese una bottiglia d'acqua, per poi andarsi a sedere.
"Reginald rientri, non mi interessa se non hai più voglia," disse l'allenatore con tono grave.
"Perfetto."
Prima di rientrare Miles andò da Leeroy. "Guarda il numero 8, è una testa di cazzo. Il 14 fa troppi falli. Come hai la palla, non passarla a me, vieni in avanti e cerca di tirarla lunga a Daniele."
"Vuoi provare ora?"
"Appena te lo dico io."

*

Erano passati venti minuti e erano ancora uno a zero, Reginald non aveva ancora detto nulla e la cosa iniziava a farlo innervosire. L'attaccante numero 14 gli stava facendo girare le scatole, saltellava di qua e di là con la palla come un cazzo di coniglio, lo avrebbe preso a calci nei denti.
Si ritrovò la palla davanti e iniziò ad avanzare con essa, ma non fece nemmeno cinque metri che tre giocatori avversari gli si schierarono davanti. Cercò di sorpassarli, da destra ma arrivò pure il quarto. Si girò con le spalle ai numeri 14, 9 e 5 per poter passare la palla a Liam. Tutte queste ammucchiate gli stavano facendo girare le scatole. Si liberò di loro e tornò vicino alla porta, dato che anche Liam aveva perso la palla e gli avversari stavano avanzando dall'angolo destro.
Fu calcio d'angolo. Controllò che ogni giocatore fosse marcato prima di poggiarsi dal lato opposto della porta. Il numero 5 tirò nel mucchio e la palla venne deviata da Miles nella sua direzione, la stoppò di petto per poi ricalciarla in avanti verso Julio.
Il ragazzo arrivò a metà campo e il numero 8 gli riprese la palla, andando in contropiede. Leeroy stava perdendo la pazienza. L'8 passò poi la palla al 14, che andò in direzione di Roy, seguito poi dall'altra parte dal numero 5. Rogers gli andò incontro, riuscendo a prendere la palla e scattando in avanti, ma il 5 entrò in scivolata, facendogli perdere il controllo palla e regalandola al 14, che si diresse in porta mentre il terzino imprecava a denti stretti per terra.
Liam andò in aiuto di Lance, ma era già troppo tardi, perché la palla era già alzata da terra all'altezza della testa del portiere, ma al sette. Stark la vide giusto all'ultimo secondo e saltando riuscì a buttarla fuori con la mano a pugno, ricadendo poi a terra, a pochi centimetri dal palo.
"Lee, stai più vicino a me, non andare in avanti, cazzo!" urlò il portiere, arrabbiato con il terzino.
"Non è colpa mia se sono delle teste di cazzo!"
"Non parlare così, porca puttana."
"Va al diavolo," disse fra sè e sè Rogers, prendendo posto come gli era stato detto.
Lance passò la palla a Liam, che avanzò, ma poi la rimandò a Leeroy e in quel momento Miles gli fece segno di andare avanti. "Scusa Lance," disse prima di partire e correre come se non dovesse avere un domani. Riuscì a superare gli attaccanti e quando fu a metà campo fece un breve passaggio a Nicholas, per poi farsela ripassare e così servire Daniele.
L'italiano, appena ebbe la palla, la stoppò e tirò subito in porta. Il portiere non la vide nemmeno.
Miles e Leeroy si scambiarono uno sguardo di approvazione. Il capitano gli andò incontro. "Ora stai in difesa, al resto ci pensiamo noi," gli disse all'orecchio dandogli, poi una pacca sulla spalla e spettinandogli i capelli.

*

Vinsero la partita due a uno e in quel modo a Miles e Rogers tornò il buon umore. Reginald aspettò che tutti avessero finito negli spogliatoi prima di trovare il coraggio di andare da Stan. Doveva mettere le cose in chiaro.
Lo trovò fuori dall'impianto calcistico a fumare appoggiato all'auto. Prese coraggio e andò da lui.
"Parla."
"So che il West Ham vuole Leeroy e non Lance. Come puoi aspettarti che solo perché tu dici loro che Leeroy non passerà l'anno loro prenderanno Lance? Se poi non verranno proprio, non avrai solo tolto le speranze ad un ragazzo, ma a due. E tu sai che quei due ragazzi ti rispettano moltissimo. Non solo loro, cazzo, tutta la squadra ti vede come un punto di riferimento e un ottimo allenatore e tu te ne esci con 'ste puttanate?" buttò tutto fuori come se stesse vomitando. Era davvero ciò che pensava e non poteva trattenersi con tutto quello che era in gioco.
"Sto aspettando la risposta. Se dovessero dire no insisterò. A Leeroy si apreranno un mucchio di strade in futuro, per Lance invece è tutto incerto."
"Ma almeno diglielo."
"No, ho fatto una cazzata probabilmente, ma voglio aiutarlo."
"Hai mentito a lui e non hai detto nulla a Rogers."
"Sono sicuro di quello che sto facendo."
"Devi dire a Lance che non sei più così tanto sicuro, che è tutta una balla. Devi, lo avrai poi sulla coscienza."
"Non lo farò."
"Bene, allora io sono fuori," disse il capitano. Ne aveva abbastanza, non avrebbe potuto sopportarlo e non avrebbe di certo raccontato lui le stronzate di Stan a Lance, doveva farlo lui. Non gli interessava se con la sua testardaggine avrebbe perso il suo ruolo, Lance era più importante.
"Non fai sul serio, vero?" chiese Stan, che adesso era davvero basito.
"CI puoi scommettere," concluse Miles, riprendendo il borsone che precedentemente aveva buttato a terra, per dirigersi all'auto e andare a casa. Non sarebbe andato alla cena.

*

Negli spogliatoi Leeroy non aveva potuto fare a meno di fissare di sottecchi Lance. Durante le partite non avrebbe neppure guardato una nuova X-Box, figuriamoci fissare qualcuno in quel modo. Non sapeva esattamente perché lo aveva fatto. Si era soffermato a guardargli il viso e i vari tatuaggi. Quello di Eminem lo conosceva già, ma non ci aveva dato troppa importanza finché non era stato in camera sua quella notte. Aveva capito che qualcosa era cambiato dopo che aveva parlato con Abigail, e di nuovo poi con lui a scuola. Era distaccato, non lo insultava quasi, ma comunque sia gli parlava.
Sapeva che fosse bello, solo un cieco non se ne sarebbe accorto. Non riusciva ancora a capire come fosse possibile che avesse cercato di baciarlo nonostante non si sopportassero. 
Prese a testate il tavolino del pub, sospirando poi pesantemente. 
"Tutto bene?" chiese Daniele un po' preoccupato, ma anche già brillo.
"Sì sì. Ora molla la birra, non ti riporto a casa ubriaco."
"Non sono ubriaco... ancora."
"Ah-ah!" rise Leeroy sarcasticamente. "Non ci pensare nemmeno." Guardandosi attorno si accorse che Miles mancava; il capitano non perdeva mai una cena dopo le partite. Lance invece era al bancone con Nicholas e Liam. Che avessero litigato di nuovo? Reginald veniva a quei ritrovi anche dopo che si era insultato con lui, perché avrebbe dovuto fare così con il migiore amico? Il capitano non era quel tipo di persona. Lasciò perdere. Prese di mano la birra a Daniele e bevve in un sorso quello che rimaneva. "Tu fai il bravo che ti riporto a casa," disse Leeroy.
"Quando rifacciamo una serata da te?" chiese Akel, mangiando le patatine.
"Sì nfatti, io mi sono rotto di farvi mangiare pizza a spese mie!"
Rogers alzò gli occhi al cielo. "Non posso fare serate a casa con mia cugina, e soprattutto conoscendo te, stupido italiano."
"Com'è che di me ti fidi e di lui no?" chiese Daniele indicando l'altro amico.
"Perché tu sei italiano."
"Razzista!"
"Vai a berti una birra per favore, non voglio finire 'sto discorso."
"Eddai, la mandiamo con Abigail e le altre."
"Per favore," disse Akel, sfoderando di nuovo il faccino da bimbo bravo. Con Leeroy funzionava ogni volta, infatti l'inglese annuì esasperato. "Ma decido io quando."
"Sai che noi ti amiamo, vero?" dissero i due all'unisono, abbracciandolo.
"Voi però prendete da bere."
Il cellulare squillò e vedendo il nome della cugina rispose subito.
"Eh? Non sento niente." Nel locale la musica alta e gli amici a fare casino peggioravano l'ascolto. Uscì dal locale, portandosi dietro la giacca, e ciò non sfuggì al portiere, che era ancora al bancone.
"Ora mi senti?"
"Sì, dimmi."
"Ha chiamato tua madre, voleva sapere come stavi."
"Appena sono a casa la chiamo."
"Non preoccuparti, ha detto che ti richiama lei domani sera."
"D'accordo. Ci vediamo dopo allora."
"Potresti portami da mangiare? Non ho voglia di cucinare."
"Ti porto qualcosa dal pub, va bene?"
"Basta che ci siano le patatine fritte e va bene tutto."
"Ok."
Riagganciò la chiamata e rimise il telefono in tasca. Quando sollevò lo sguardo, trovò gli occhi di Lance che lo fissavano. Ebbe come un déjà vu. Stark se ne stava seduto sul muretto che separava la terrazza del pub dall' entrata. "Di nuovo a fumare?"
"È la prima da quando abbiamo finito di giocare, non fumo tanto," rispose il portiere acidamente; quelle erano le cose che non andavano mai dette ai fumatori.
"Per il resto tutto bene?" cambiò discorso il ragazzo, non aveva voglia di discutere delle brutte abitudini dell'altro.
Il portiere annuì e basta. "Ci è andata di culo per la seconda volta," disse con lo sguardo assorto oltre la figura del terzino. Non sapeva bene perché fosse uscito per andare da lui, voleva parlargli, ma non sapeva bene di cosa. Fino a quel momento non avevano mai avuto una vera e propria conversazione. 
"Prima o poi la tua buona stella smetterà di brillare."
"Ne sono consapevole. Il mio motto è: arraffa più che puoi!" commentò il ragazzo, facendo un po' di autoironia.
Leeroy, ridendo, andò ad appoggiarsi al muretto, vicino al compagno di squadra, senza però salirvi sopra, guardando le vetrate illuminate del locale. Era un pub che rimaneva leggermente isolato dal resto della città, in una zona poco trafficata. Era piacevole andare lì solo perché non c'era mai l'affollamento che c'era di solito in quelli del centro.
"Avrei giurato L'inverno sta arrivando!" disse il terzino, iniziando a ridere di gusto. Era una vita che voleva dirglielo.
"Non è divertente, lo sai?"
"Per me che guardo la serie sì, e molto."
"So già che finirà male anche la prossima stagione," ammise Lance sconsolato.
Leeroy si mise a sedere sul muretto, continuando a ridere. "Gli avversari di oggi mi hanno fatto girare troppo le palle."
"A proposito, perché dai retta a Miles e non a me? Cazzo, ti dico 'resta dove sei' e poi mi parti in quarta? Volevi farlo te gol?" disse il portiere con tono tra il divertito e l'incredulo. 
"Ma è stato Miles che ha avuto una specie di trovata."
Trovò troppo strano il modo in cui si stavano parlando, eppure era piacevole e assurdamente nessuno dei due era ubriaco. Si sentiva perfettamente a suo agio, ma forse lo era sempre stato, e i litigi ne erano la conferma. Era convinto che da sobri riuscissero solo ad insultarsi e da ubriachi a picchiarsi. Guardandolo di sottecchi, si chiese se Lance avrebbe avuto il coraggio in quel momento di riprovarci. Si avvicinò a lui e subito dopo si diede dell'idiota. Perché avrebbe dovuto? Non sapeva nemmeno cosa avrebbe dovuto pensare. Eppure voleva. Si avvicinò ancora, ma prima che potesse ripensarci e così allontanarsi, le labbra di Lance erano sulle sue. Stark le sfiorò appena con le sue, per poi subito staccarsi e appoggiare la fronte contro quella dell'altro. I loro sguardi si incontrarono mentre respiravano piano. Vedeva in quel grigio oscurato dalle ombre della sera cosa voleva il compagno di squadra, ma non sapeva cosa stesse provando. Era troppo preso a decifrare le sensazioni che provava per poter riuscire a comprendere quelle di un'altra persona, per non parlare delle sue. Il modo in cui lo guardò, però, gli fece capire che forse era la stessa cosa che voleva lui. La mano destra del portiere andò a poggiarsi dietro la nuca del terzino, che senza pensarci tornò a baciare il compagno di squadra. Per un breve attimo gli sembrò di essere nel dormiveglia, quando si è cullati dal dolce tepore delle coperte e non ci si vuole alzare, ancora inebriati dai sogni della notte. Quei sogni in cui non ricordi cosa hai fatto, ma ricordi benissimo le sensazioni, e la mattina ti supisci che era tutto frutto del tuo subconscio. Quel momento però era reale, lo sentiva sulla pelle, ne sentiva l'odore di mare trasportato dal vento e il calore sulla sua bocca. Non voleva che finisse. Leeroy non ebbe nemmeno il tempo di stupirsi delle sue stesse azioni che si allontanò da Lance, scosso. Era troppo, troppo in una sola volta e per un solo bacio. 
Lance guardò Rogers negli occhi con un po' di imbarazzo, sapendo di aver fatto una cazzata, e bella grossa. Si rese conto di aver buttato nel cesso quella poca intesa che c'era tra di loro.
Leeroy, dal canto suo, non seppe cosa dire se non: "Devo andare a ordinare da mangiare per Jo."
Il portiere lo guardò sparire dentro il locale. Si accese subito l'ennesima sigaretta.
"Ora sì che riprendo a fumare come un dannato, fanculo Lee!"

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Capitolo 25
*** Capitolo 25 ***


The last chance

XXV
 


Jack guardò perplesso le tre tazze di cappuccino che Lance aveva poggiato sul bancone. Aggrottò le sopracciglia prima di aprir bocca. "Che è 'sta roba?"

Il giovane lo guardò senza capire. "Cosa?"

Il  titolare prese le tazze senza rispondere, sparendo nella folla dellasala. Quella mattina il locale era pieno più del solito, in quanto l'altro cafè al di là della strada aveva pensato bene di fare una settimana di vacanza, così si erano ritrovati a servire il doppio dei clienti di sempre. Jack tornò poco dopo, appoggiando il vassoio sul bancone.

"Si può sapere che hai? Sembravano bolle di sapone più che schiuma," disse, riferendosi ai cappuccini.

Lance sembrava non ascoltarlo mentre montava il latte per fare una cioccolata calda. Non riusciva a smettere di pensare a cosa fosse successo quella sera al pub. Gli sembrava di essersi immaginato tutto. Doveva aveva avuto la testa? Eppure per un momento, quando si erano guardati negli occhi, era stato sicuro che anche l'altro volesse la stessa cosa. Si era immaginato tutto? Non le labbra di Lee. Ne aveva ancora il sapore sulle sue e si era scoperto ad inumidirsele solo per ritrovare quel gusto, quella sensazione.

"Idiota," disse tra sé e sé, mentre il latte bollente usciva dal bricco d'acciaio, bagnando la macchina del caffè ed ustionandogli le dita.

"Lance, basta. Esci, faccio io le bevande. Fumati una sigaretta, per l'amor di Dio."

"Non serve."

"Vai sul retro, subito."

Appena arrivò l'ora di calma piatta al locale, Jack pensò bene di scambiare quattro chiacchiere con il suo cameriere. Non voleva sbatterlo fuori, ma voleva sapere se la sua "luna storta" era temporanea o meno. Aveva la testa sempre tra le nuvole.

"Questa scena mi sembra di averla già vista," disse il ragazzo.

"E la rivedrai ancora se continua così," rispose a tono il titolare. Non lo avrebbe sgridato, non era da lui. "La situazione è peggiorata?" domandò serio.

Lance rimase per un momento interdetto. "N-no," balbettò per un momento. "Un po' è migliorata da quando mia sorella è tornata,anche se non sono rose e fiori."

"Allora qual è il problema?" domandò ancora l'uomo, accendendosi la sigaretta e porgendone una al portiere.

"È tutto a posto, credo. Cioè, no" prese un respiro profondo. "Credo di aver fatto una puttanata e non riesco a ragionare a mente lucida."

L'uomo lo guardò preoccupato. "Che tipo di puttanata?"

Lance quasi non credette alle parole che gli uscirono dalla bocca. "Ho baciato il mio compagno di squadra. Questo tipo di puttanata! E lui non sa che sono gay e so che lui non lo è, e non so perché cazzo si sia lasciato baciare. E probabilmente dovrò mollare la squadra e mandare in culo il West Ham. "

Jack lo ascoltò senza scomporsi, continuando a fumare placidamente come se niente fosse, mentre il ragazzo vomitava frasi sconnesse in preda all'ansia.

"E questa la chiami puttanata? Una puttanata è quando ti scopi il contabile dell'azienda per far quadrare i conti. Questa è una ragazzata," disse l'uomo guardandolo fisso negli occhi con un'ombra strana celata al di là di essi. "Lui ci è stato?"

Lance lo guardò perplesso. "Sì, o almeno credo."

"Non esiste 'almeno credo'. Sì o no."

Il ragazzo si strofinò la testa esasperato, cercando di scacciare quel ricordo dalla testa. Non voleva pensarci, voleva andare a rinchiudersi nella cantina del locale e non uscire più fino alla fine dei suoi giorni.

"Sì," disse sospirando, come a liberarsi di un peso enorme, ma nonostante tutto il dubbio era ancora annidato nel profondo della sua coscienza.Sarebbe voluto tornare indietro solo per evitare di farlo e prendersi a pugni con le sue mani.

"Forse non è stata una puttanata," disse Jack dandogli una pacca sulla spalla. "Se non mi ritorni funzionante come prima dovrò chiudere bottega o cercarmi un altro aiutante."

"So già che che cercheresti un altro aiutante," rispose Lance ridendo."Comunque, ti sei davvero fatto il contabile della ditta di famiglia?" domandò quasi sconvolto.

"Ecco, questa poi magari te la racconto un'altra volta."

All'ora di chiusura, un Reginald Miles con la luna storta e lo sguardo basso marciò dentro il locale, salutando con un cenno della mano Jack e andandosi a sedere al tavolo vicino al bancone. Lance lo guardò stranito, non capendo il motivo della sua presenza lì. Non si erano ancora chiariti, dopo la partita non si erano neanche risentiti. Che il capitano avesse deciso di fare la prima mossa?

Jack finì di sparecchiare l'ultimo tavolo per poter pulire le ultime cose. Non aveva voglia di intrattenersi più del dovuto, né tanto meno di stare a sentire i problemi dell'amico del suo cameriere. Anche se probabilmente sapeva già che il portiere gli avrebbe raccontato tutto.

"Hai le chiavi?" domandò al ragazzo mentre apriva la lavastoviglie permettere dentro i bicchieri.

"Certo."

"Allora ci si vede lunedì dopo scuola. Ho da finire delle scartoffie per il locale, chiudi tutto e ricordati di scrivere sulle lavagne i dolci del giorno di domani," disse spiccio il titolare, andando nel retro a prendere la giacca. Si accese una sigaretta con calma e prima di andare prese l'incasso del giorno.

"Fate i bravi. Miles, passa ogni tanto con la tua ragazza. La vedo sempre con le amiche qua ma mai con te. Hai paura di farti vedere in luoghi pubblici con lei?" domandò l'uomo, ridendo. Gli piaceva stuzzicarlo.

In tutta risposta il ragazzo rabbrividì. "Non ho tempo, ho da fare da babysitter ai miei fratelli."

"E non hai tempo per la ragazza? Voi ragazzi d'oggi non capite le priorità."

"Dai, lascialo stare," intervenne Lance. Il ragazzo sperava di riuscire a finire prima delle dieci, non aveva voglia di andare troppo tardi a casa, aveva bisogno di dormire.

"Tu non aprire bocca, che è meglio."

"Simpatico."

"Ci vediamo, fate i bravi."

Lance seguì con lo sguardo la figura di Jack uscire dal locale, e quando fu sicuro che fosse andato si rivolse all'amico. "Tutto bene?"

"Dammi una birra."

Stark si sfece la crocchia per poter lasciare i capelli sciolti e con un movimento della mano si lisciò le ciocche che gli coprivano il viso all'indietro. "È così grave?" domandò prendendo una sigaretta dal cassetto vicino alla cassa. Prima parlava, prima sarebbe potuto andare a casa. Quando Miles era così pensieroso non era mai una buona cosa. Andò al tavolo portando il posacenere e due birre e appoggiò tutto davanti all'amico.

"Parla,"disse, sedendosi.

"Sono un coglione."

"Questo si sapeva, ma continua pure," scherzò Stark, aprendo le due bottiglie con l'accendino.

Miles si strofinò la faccia stancamente, afferrando poi una bottiglia. "Ho fatto la testa di cazzo con Abigail e di solito non mi comporto così."

Lance assottigliò lo sguardo gelidamente e l'amico subito se ne accorse.

"So anche che non sarei dovuto andare da lei per sapere cosa stesse succedendo e ti chiedo scusa," fece una breve pausa. "È solo che sei sparito per giorni e non sapevo cosa pensare, neppure Leeroy sapeva nulla."

Il portiere sospirò riconoscendo le sue colpe, Miles però non avrebbe capito, in un certo senso si vergognava delle sue azioni e di ciò che era obbligato a fare. Voleva tenerlo fuori e basta.

"Mia madre si è sentita male ed è ancora in ospedale, per questo mia sorella è tornata e non ci sono stato in questi giorni." Solo in quel momento si rese conto di quanto fosse stato stupido. Perché doveva tenersi anche quello dentro e cercare di soffocare i sentimenti negativi per poi farli esplodere in una valanga, quando almeno per quello, avrebbe potuto trovare conforto in Miles?

Vide per un momento gli occhi dell'amico rattristarsi. "È grave?"disse solamente.

"In realtà no, il problema è che se si riduce un'altra volta in questo stato il fegato non reggerà. Ora vogliono che la mandiamo in un istituto dove dovrebbe venire aiutata."

Reginald annuì solamente. "Non avreste dovuto pensarci già da tempo?". Sapeva di aver posto una domanda stupida.

"Sai benissimo che non avevo ancora diciotto anni e mia sorella non voleva lasciarmi in una casa affidamento o da sconosciuti."

"Quindi tutto quello che hai - che avete fatto fino ad ora, era per poterla mandare in un istituto una volta che anche tu fossi stato maggiorenne?" domandò incredulo.

"Piano di mia sorella," rispose Lance prima di bere dal collo della bottiglia tutto d'un fiato. "Con Abigail puoi rimediare comunque,"aggiunse subito dopo.

Miles ridacchiò tra sé e sé. "A questo punto non lo so," disse sfilando una sigaretta dal pacchetto dell'amico che aveva poggiato sul tavolo.

Lance inarcò un sopracciglio contrariato. "Ma se siete cotti l'uno dell'altra da tempi immemori."

"Tu dimentichi la cotta storica di Abigail," rispose, ridendo accendendosi la sigaretta. "E tutto ciò mi fa sentire un cretino."

Stark rimase per un momento interdetto e l'immagine della sera al pub gli tornò vivida come se avesse un video registrato davanti ai suoi occhi. Lui che poggiava le labbra su quelle dell'altro, i loro respiri e lo sguardo plumbeo di Lee.

"Cosa c'entra Rogers?" domandò con un filo di voce.

"Oggi li ho visti al bar vicino alla scuola. Di solito non escono mai insieme, e lei gli era saltata al collo come se fosse l'amore della sua vita, riempiendolo di baci."

Fu Lance a ridere in quel momento.

"Cazzo ridi?"

"Ma con lui lei è sempre così."

"Non è vero."

"Scommetti?"

*
 

Il messaggio che le aveva mandato quella mattina stessa lo aveva riscritto almeno dieci volte. Non era sicuro di cosa doverci scrivere, perché non l'aveva mai invitata da sola a bere un caffè e non voleva che sembrasse strano. Si chiese se Abigail sapesse già di cosa volesse parlargli, si rispose subito che doveva essere così.Era una ragazza e probabilmente aveva già capito tutto anche per la chiacchierata della volta precedente. Il messaggio in risposta arrivò dopo un'ora. Si sarebbero incontrati il pomeriggio sul tardi e lei moriva dalla voglia di sapere cosa fosse successo.

Uscì di casa, salutando Jo. La cugina sarebbe rimasta in casa tutto il giorno a studiare per la verifica che avrebbe avuto in settimana e più tardi sarebbe dovuta andare a lavorare.

"Non serve che mi porti al locale, passa a prendermi Rebecca."

"Va bene, quando hai finito chiamami, ti passo a prendere io."

"No, tranquillo, mi riporta lei."
 

Si incontrarono direttamente nel bar. Abigail era seduta ad uno dei tavolini vicini alla finestra con una grossa sciarpa nera a coprirla fin sopra al naso. Non sembrava stesse proprio bene. Davanti a lei,una cioccolata calda fumante.

"Scusa se non mi avvicino, ma ho un mal di testa atroce." Il suono della sua voce risultava attutito dal tessuto.

"Magari dovresti toglierti tutta quella roba che hai addosso, quando poi esci ti prende qualcosa," disse il ragazzo, prendendo posto davanti a lei. Ordinò una cola e un panino, stava morendo di fame nonostante avesse pranzato per due praticamente.

"Di cosa volevi parlarmi?" domandò la ragazza con fare furbo, allentandosi le spire della sciarpa e togliendosi la giacca.

"Non fare quella faccia, credo tu lo sappia già."

Lei ridacchiò. "Non negherò il suo interesse nei tuoi confronti e neppure il tuo nei suoi."

"Come fai a dirlo?" domandò lui accigliato.

"Sei qua a parlare con me," rispose Abigail girando il cucchiaio nella tazza.

Leeroy sospirò, facendosi scappare un mezzo sorriso.

Quando l'ordinazione del ragazzo arrivò, mangiò e parlarono d'altro. La giovane Twain gli raccontò di cosa fosse successo con Miles e Rogers cercò di spezzare qualche freccia a favore del capitano.

"Lo sai che con tutto quello che è successo è uscito un po' di testa. È cretino, perché è cretino, ma vacci a parlare," disse il ragazzo finendo di bere la Coca Cola.

Abigail guardò distrattamente l'orario. Era già tardi per lei; doveva andare a lavoro. Quella sera anche lei avrebbe aiutato alla pizzeria dei Balboa. Ci sarebbero stati due compleanni di persone anziane e avrebbero avuto molto da fare. In realtà non ne aveva molta voglia, ma la mancia era l'unica cosa a muoverla.

La cameriera portò il conto e Leeroy pagò tutto senza battere ciglio, lasciando perdere le lamentele della ragazza.

"Se vuoi offrirmi da bere, facciamo il prossimo fine settimana," disse lui, non ammettendo repliche, mentre uscivano dal locale.

Abigail alzò gli occhi al cielo "Va bene, va bene!"

Per un momento il silenzio cadde tra di loro mentre si incamminavano alle rispettive auto.

"Promettimi che se non va, non farai stronzate," disse lei, ad un tratto seria.

"Perché pensi questo?"

"Perché sei un cretino e quando dai di matto fai stronzate."

Leeroy la guardò negli occhi forse con lo sguardo più serio che lei gli avesse mai visto fare.

"Stai sicura che se è con lui, di stronzate ne farò a prescindere."

Abigail rimase per un momento spiazzata da quella risposta, ma subito dopo rise. Gli saltò addosso, abbracciandolo e dandogli un bacio sulla guancia sinistra.

"Devo considerarlo il bacio di Giuda?" chiese lui, assottigliando lo sguardo.

La giovane Twain ghignò in risposta, baciandogli anche l'altra guancia.

*
 

Quando rincasò, Jo era già sparita. Avere di nuovo un po' di tempo con se stesso non era una brutta cosa. Con la cugina in quella grande casa si sentiva meno solo, e in un certo senso più al sicuro. Avrebbe dovuto chiamare Amanda in settimana, o meglio, aveva voglia di sentirla; sua madre iniziava a far sentire la sua mancanza. Non ci volle pensare. Di solito non beveva alcol a casa da solo, ma aveva voglia di una birra e di un bel film. Si levò le scarpe, lanciandole in un angolo della sala, e si buttò poi sul divano dopo aver preso la bottiglia dal frigo, iniziando il suo zapping disperato. Voleva tenere la mente impegnata in realtà. Anche se con Abigail si era dimostrato sicuro di sé, non lo era. Provò a chiudere gli occhi per cercare di dormire un po', ma tutto gli tornava in mente in maniera troppo vivida. Per un momento si crogiolò in quella sensazione. Si sentiva euforico e pieno di dubbi. I ricordi e le sensazioni che lo incitavano a fare qualsiasi cosa pur di rivivere quel momento. E dall'altra parte la ragione che gli diceva: vai a letto che è meglio. Avrebbe urlato volentieri, tutta quella tensione non gli piaceva se non era sul campo da calcio. Spense la tv, bevve la birra e se ne andò in camera. Si sentiva un cretino. Quando fu a letto, il cellulare ricevette un sms che lo lasciò perplesso e subito dopo indignato.

Ma sei cretino?, digitò sulla tastiera in risposta. Bloccò lo schermo e lo buttò in fondo al letto.

*

Lance in un certo senso si senti rincuorato a far leggere la risposta a Miles. Il portiere forse sapeva cosa il terzino volesse veramente e in quel caso non la più giovane dei Twain.

"Contento?"chiese Stark.

Miles lo guardò storto. "Gli hai veramente scritto?"

"No guarda, ti lasciavo qua a struggerti come una ragazzina di tredici anni," rispose secco. Guardò l'orologio e decise che ormai era ora di andare. Voleva andare a dormire, era stanco morto e quella giornata sembrava non finire mai.

Reginald si massaggiò le tempie, anche lui esausto. Tra Abigail, Leeroy e Stan, il suo cervello stava facendo gli straordinari per tenere il ritmo. Di Stan non gli avrebbe ancora parlato, avrebbe dovuto farlo lui. Nel caso poi in cui l'allenatore non avesse voluto, allora ci avrebbe pensato di persona.

"Lasciamo perdere, sono stato un coglione e domani vado a scusarmi con lei.Basta, chiuso il discorso," annunciò alla fine, alzandosi. Anche lui voleva andare a quel punto.

Lance rispose brevemente al messaggio del terzino. Riguardava Reginald, non me.

La risposta arrivò in tempo record. Poteva chiedere direttamente lui. Ovvio che non riguardava te.

Il portiere inarcò un sopracciglio contrariato, fissando lo schermo.

"Vogliamo andare?" brontolò Miles, sbadigliando.

Stark non lo ascoltò nemmeno e digitò sul telefonino. Io e te parliamo, ora. Sto arrivando.

"Come scusa?"

"Andiamo?"

"Puoi portarmi a casa di Rogers?"

*
 

Leeroy guardò il messaggio per parecchi minuti, come se non riuscisse a capirne il senso. Si chiese per quale motivo Lance sarebbe dovuto venire lì. Di cosa avrebbero dovuto parlare in fondo? Di quello avrebbero potuto parlare anche un altro giorno. Non aveva nulla da dire. Le cose stavano prendendo una brutta piega. La tempesta stava arrivando e probabilmente nessuno dei due ne sarebbe uscito vivo. Miles poi era un'idiota. Si chiese se tutto ciò era dovuto alle seghe mentali del capitano. Probabilmente lo era. Chiuse gli occhi e si abbandonò sul letto, cercando di capire cosa fare. Il suo istinto lo sapeva già però.

*

Arrivarono a casa Rogers dopo una ventina di minuti. Miles continuava a non capire le motivazioni dell'amico, né cosa lo spingesse. Che fosse venuto a sapere delle menzogne di Stan? Non era possibile, altrimenti gliene avrebbe parlato. Si senti un codardo. Avrebbe dovuto parlargliene lui in prima persona, ma sapeva che non era giusto. Doveva essere l'allenatore a prendersi le sue responsabilità.

Lance scese dall'auto senza dire nulla e si accese una sigaretta. Sapeva di essere partito senza riflettere e per un secondo le sue ragioni gli sembrarono stupide. Non che rimandare avesse molto senso, prima risolveva la cosa, meglio era.

"Non ho ancora capito cosa tu voglia fare qua," ammise Miles, tirando giù il finestrino dell'auto per potersi far sentire.

"Poi ti spiego, è una questione tra me e lui. Devo risolverla il prima possibile."

"Potresti almeno mettermi al corrente? Mi sento un idiota a non capire," sospirò il capitano. In realtà non si aspettava una vera spiegazione. Ma dopo quello che si erano detti, doveva fargli almeno quel favore. Lance però era difficile.

"Ti spiego poi con calma, ok?" disse, gettando via la sigaretta."Fidati di me."

Reginald alzò gli occhi al cielo. "D'accordo. Ci vediamo a scuola allora?"

"Sì, non preoccuparti, non la salterò più."

Nel momento in cui l'auto scomparì dietro la curva della collina indirezione opposta, Lance tirò un sospiro di sollievo. Non avrebbe nemmeno saputo come spiegargli tutto e nemmeno se davvero glielo voleva spiegare. Accese un'altra sigaretta, aveva preso un pacchetto nuovo prima di partire. Temporeggiare era il suo forte.

*
 

Stava suonando ormai da dieci minuti buoni e sembrava che in casa non ci fosse nessuno, nonostante le luci della sala accese.

"Se quel cretino finge di non esserci, lo ammazzo," borbottò tra sé e sé. Non era possibile che si comportasse così. Decise di aspettare ancora cinque minuti. Provò a chiamarlo, ma anche sul cellulare non rispondeva. Stava perdendo la pazienza. Notò solo allora che la finestra era di nuovo aperta. "Hai fatto 30, facciamo 31."

Quando fu dentro, vide i vestiti buttati a casaccio del padrone di casa sul divano.

"Rogers?".Provò a chiamarlo, ma nessuno rispose. Si chiese se non fosse o a dormire o sotto la doccia a quel punto, perché le prove che lui fosse in casa c'erano. Lo avrebbe preso volentieri a pugni.

"Fanculo." Si diresse su per le scale fino alla camera del ragazzo, e bussò più volte. "Testa di cazzo, sono venti minuti che suono."

Nel momento in cui aprì la porta, il padrone di casa si era svegliato e messo a sedere imprecando. "Come cazzo sei entrato?"

"Dalla finestra, coglione."

"Potevi chiamare."

"L'ho fatto, ma dormivi."

"Continuo a non capire che cazzo vuoi," disse francamente Leeroy. "Se è per Abigail, te l'ho detto, dovevi fare una registrazione perché lei per me è come una sorella. Dannazione te e Miles, vi fate di quelle seghe mentali allucinanti," disse tirandosi in piedi, mentre si sistemava i capelli, ancora rincoglionito dal sonno.

"Lo so. Ma Miles questo non lo capisce."

"Allora avresti dovuto mandare lui," rispose secco il ragazzo. Leeroy non capiva perché il portiere non andava dritto al punto della situazione, senza girarci intorno. Si stava innervosendo. Si alzò dal letto. "Mi vuoi dire cosa vuoi?"

"Credo tu lo sappia."

Leeroy alzò gli occhi al cielo, esasperato. "Parla come una persona normale. Non mi piace doverci arrivare alle cose. Preferisco i discorsi chiari," disse, facendo un passo dopo l'altro finché non gli fu davanti. Non voleva metterlo a disagio. ma vedere come avrebbe reagito.

La vicinanza di Leeroy lo fece tremare per un momento. "Non fare cose di cui potresti pentirti," disse con un filo di voce, cercando di non muovere un muscolo. Già solo respirare gli sembrava uno sforzo tremendo. Gli veniva quasi da ridere, non avrebbe mai pensato di ritrovarsi così disperato dal desiderio e al tempo stesso così sicuro di non fare nulla per paura di poter ferire un'altra persona. Leeroy fissò gli occhi oscurati dalla poca luce della stanza in quelli insicuri di Lance.

Il portiere non sapeva come comportarsi. Di solito non era così, non lo era mai stato. Così insicuro e così incline a potersi pentire subito delle sue azioni.

"Non è questo il caso," rispose Leeroy ad un soffio dalle sue labbra. Era come fare un salto nel vuoto. Tutta la tensione che vi era prima di buttarsi dal cornicione si era sciolta al contatto di quelle labbra, tranquillizzandolo. L'odore salmastro mischiato alla terra del portiere lo fece sentire sereno come se ogni problema prima di quel momento non fosse mai esistito. Fu la calma di pochi secondi, prima della tempesta che poi lo fece rinvenire e allontanare. Cercò il suo sguardo, mosso dalla curiosità, per scoprire la sua reazione. Lui aveva fatto abbastanza e sapeva quello che doveva sapere, tutto il resto stava a Lance.

Quando sentì le mani di Lance sui suoi fianchi che lo spingevano verso di lui, capì che in fin dei conti aveva una buona influenza sull'altro. Le loro bocche si incontrarono ancora e subito Leeroy andò a circondare il collo dell'altro, infilandogli le mani tra i capelli. Forse se ne sarebbe davvero pentito, non pensava mai prima di agire e forse era per quello che dopo tanto si erano ritrovati lì. Indietreggiò fino a sfiorare con i polpacci la sponda del letto.

"Sei un coglione," disse Lance senza fiato, facendo una breve pausa per ritrovare il respiro.

Leeroy se lo trascinò sul letto in tutta risposta. "Dimmi qualcosa che non si sapeva già."

Stark smise di pensare e agì solamente. Forse i rimpianti sarebbero venuti alla fine. Non riusciva a togliere le mani dai fianchi e dalla vita del terzino. Troppe volte si era soffermato a guardarli comparire da sotto la maglietta durante le partite. Non riuscì a fare a meno di stringerli prepotentemente, come per constatare che fossero veri. Quella sarebbe stata una bella morte. "Cazzo."

"Sta' zitto," disse, tappandogli la bocca con la sua.

La maglietta di Leeroy volò subito giù dal letto insieme a quella di Lance. Fu Rogers a slacciare i jeans dell'altro per primo, cercando di avvicinarlo il più possibile a sé, come se avesse per la prima volta bisogno di calore.

Nessuno dei due in quel momento riusciva a provare altro se non gioia ed euforia. Era come a dire prendi tutto, per stanotte è uguale, puoi avere le mie gambe, le mie mani e tutta la mia giovinezza. Il resto non conta. Il resto era fuori da quella camera. Era come essere di nuovo sopra il campo da calcio.

Quando furono finalmente nudi e le gambe di Leeroy avvinghiate ai fianchi dell'altro, con le mani di Lance che lo toccavano, il terzino lo baciò ancora. Più a lungo come a soppesare il momento. Ora o mai più, era il messaggio.

Mentre si lasciava prendere e il dolore aumentava, non riusciva a trovare nulla di sbagliato.

"Cazzo, fai piano," si strozzò quasi.

Lance in risposta continuò a baciargli il collo e le labbra. La sua mano destra era sempre più possessiva sul fianco del ragazzo sotto di lui, ad ogni affondo, come a non volerlo lasciare scappare.

"Lee..." gli disse senza fiato all'orecchio, continuando a provocare piacere ad entrambi.

Il terzino non potè fare altro che avvicinare di più Lance a sé e baciarlo ancora e ancora, continuando ad aggrapparsi alla sua schiena. Averlo lì era tutto ciò che importava. Sentire quello che sentiva era l'ultima delle cose che si sarebbe mai aspettato. 




 

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Capitolo 26
*** Capitolo 26 ***


The last chance
XXVI


Ora che era libera di tornare a Liverpool, non sapeva se era la cosa giusta da fare. Nella clinica dove aveva portato sua madre c'era una strana quiete. Con il caffè in mano guardava fuori dalla finestra, soppesando le scelte prese fino a quel momento. Era riuscita in tutto ciò che si era prefissata, ma a che prezzo? Sospirò, prendendo un sorso di caffè. Il tempo in quei giorni era peggiorato e non le piaceva la pioggia. Il medico arrivò in quel momento.

"Signorina Stark, buonasera," disse l'uomo, aprendo la cartella con le scartoffie che la ragazza avrebbe dovuto compilare.

"Buonasera. Quindi è tutto pronto?"

"Mi deve ancora preparare questi fogli e poi sua madre sarà ufficialmente una nostra paziente."

Alexandra sorrise incerta, prendendo la cartella. "Riuscirete davvero a guarirla?"

"Sarò franco, noi possiamo rimetterla in sesto, ma quando poi avrà finito con noi dovrà essere lei a riuscire a non ricaderci."

"Capisco," rispose pensierosa. "Faccio subito le carte."

Mentre firmava, si chiese per l'ennesima volta se fosse la cosa giusta. Era stato quello il piano sin dal principio. Con sua nonna era già d'accordo: sua madre sarebbe andata a vivere da lei non appena avesse finito lì.

Di Lance invece non si preoccupava affatto. Lui aveva vissuto da solo fino a quel momento e, ora che aveva più libertà, era sicura che sarebbe stato anche più tranquillo.

Il fratello arrivò in quel momento. "Alex, hai fatto tutto?"

"Sto finendo di compilare ora i fogli, poi possiamo andare."

"Non vuoi passare a salutarla?" chiese lui, anche se sapeva già la risposta.

La ragazza sembrò pensarci un po' mentre si accingeva ad applicare l'ultima firma. Ormai era fatta. "Sta dormendo, non voglio disturbarla."

"Aspettami qua. Adam è fuori ad aspettarci."

Alex lo guardò scomparire per i corridoi, non sapendo come sentirsi.

La stanza era piccola, con un armadio bianco e un paio di sedie. I libri di lei su una scrivania troppo piccola anche per un bambino. Sua madre dormiva, avvolta dalle coperte che avevano portato da casa. Il dottore aveva detto che era meglio che avesse qualcosa che fosse suo per farla sentire più a suo agio. Si chiese se fosse vero. Era sicuro che lei non si sarebbe abituata a quel cambiamento. Avrebbe odiato entrambi. Era strano vederla così quieta, le uniche volte che l'aveva vista così era quando si ubriacava fino all'incoscienza.

Si chiese ancora una volta se sarebbe servito a qualcosa. Doveva ancora chiamare sua nonna, voleva sapere per quale motivo alla fine avesse deciso di riprendere sua figlia. Da quando era cominciato il declino erano cambiate tante cose. Non aveva più visto l'Irlanda. Gli mancava casa. Nonostante fosse nato a Brighton, considerava le isole Galway la culla della sua infanzia e della sua vecchiaia. Sapeva già che prima o poi si sarebbe ritirato da tutto e tutti per andare là da solo. 

Si avvicinò a guardarla. Gli mancavano i tempi in cui tuttoera normale. Prima che suo padre se ne andasse al diavolo. Leaccarezzò una guancia e se ne andò. La malinconia che gli nascevadentro era nociva per la sua età.

*

Mentre preparava le valigie per tornare a Liverpool l'indomani, continuava a chiedersi se avesse fatto la scelta giusta. Credeva di sentirsi sollevata, ma non era così. In cucina Lance e Adam fumavano con la televisione in sottofondo. Era tutto come sempre sarebbe dovuto essere; senza preoccupazioni. Quando ebbe finito tornò dagli altri, aveva paura che rimanendo da sola sarebbe uscita di testa. Non doveva pensare troppo, ma tornare all'università e preparare i suoi esami. Da quel momento avrebbe pensato solo al suo futuro e nient'altro.

"Ti ho detto che per questo anno abbiamo finito. I soldi per pagare fino al nuovo anno li abbiamo. Riprenderemo a febbraio, ora voglio avere un po' di pace, "disse Lance con tono stanco.

Adam sospirò. Dava ragione all'amico, ma aveva comunque bisogno di tenere la mente occupata. Probabilmente avrebbe già organizzato le cose per l'anno nuovo.

"D'accordo. A proposito di dicembre... Venite a casa nostra? Mia madre ha chiesto di voi," chiese con disinvoltura. Non che fosse una novità, anzi; era più una tradizione da un paio d'anni.

"Sai che portiamo noi il dolce," rispose Lance. Il dolce lo aveva sempre fatto lui, facendolo passare per quello della sorella. Alexandra odiava cucinare, o meglio, non ne era affatto capace. Tutti nella loro scuola si erano spesso chiesti come potesse essere così in forma nonostante mangiasse cibo spazzatura ad ogni ora del giorno.

"Non so se vengo quest'anno. Ho da preparare due esami per l'inizio di gennaio. Contavo di passare quella settimana a studiare."

"Ma non puoi non venire giù per Natale!" esclamò secco il fratello.

Alexandra alzò gli occhi al cielo, esasperata. Sapeva che avrebbe reagito così.

"Fare avanti e indietro con il treno è una rottura e ho esami da dare."

"Posso venire a prenderti io con la macchina se non vuoi venire in treno," suggerì Twain.

"Allora prendo il treno."

"Ma si può sapere qual è il tuo problema?" domandò Adam, alzando il tono della voce. "Volevo farti un favore, mica portarti a letto."

Lance cercò difar star zitto l'amico senza troppo successo, non sopportava vederli litigare, erano un caso umano.

"Dubito che avrai mai successo in quello," rispose secca lei. "Ma non preoccuparti, verrò da tua madre a Natale."

Il fratello si massaggiò le tempie, iniziando a perdere la pazienza. Decise allora di lasciarli da soli per andarsene in camera sua. Ne aveva avuto abbastanza.

"Non devi venire se non vuoi, puoi startene a Liverpool."

"Ma farò come mi pare? È tua madre ad avermi invitata, non tu."

Adam spense la sigaretta nel posacenere, sbuffando. "Sei insopportabile."

"Ah, io lo sarei?" domandò la ragazza, alzando la voce. "Ma se il tuo unico pensiero da quando sono qua è quello di portarmi a letto. Non hai provato per un solo momento a farmi delle domande su come sto," sbottò, sedendosi all'altro lato del tavolo.

"Ho provato tutto il tempo, ma se mi trovo un muro davanti, non posso fare molto."

Le sue parole furono seguite da un lungo silenzio. Entrambi lo usarono per calmarsi e cercare di ragionare. Ciò che c'era stato tra di loro non era morto. Era solo complicato, lo era diventato con tutti i problemi che si erano messi di mezzo. Alexandra lo aveva abbandonato per inseguire i suoi sogni, nonostante gli avesse detto che non lo avrebbe mai lasciato. Adam invece era peggiorato. Una volta le sue battute erano divertenti e la facevano gongolare, ora invece le trovava fuori luogo. Era ancora convinta che lui fosse l'unico. Lo era sempre stato. La vita le aveva remato contro fino a quel momento e lui aveva attraversato la tempesta con lei, senza guardarsi alle spalle. Si era buttato come solo un pazzo avrebbe potuto fare. Per questo lui era l'unico e lei, per quanto sapesse che le cose erano diventate complicate, con arroganza era convinta fino alla morte che fosse l'unica per lui. Forse non ora, ma poi avrebbero avuto una possibilità.

"Sappiamo entrambi come stanno le cose. I sentimenti non sono cambiati..." iniziò lei, ma venne subito interrotta da Adam.

"Sono le persone ad essere cambiate. Questo è normale, ma tu devi decidere. Io so cosa voglio,  e fino ad ora ho aspettato. Cosa vuoi sentirti dire? Che ti aspetterò all'infinito? Probabilmente sì, sono così idiota che non potrei smettere di pensare a te. Quindi prendi la tua decisione." Per una volta era riuscito a dire tutto ciò che veramente pensava e sapeva di essere un debole. Lo sarebbe sempre stato davanti a quegli occhi.

Alexandra lo guardò senza riuscire a non provare nulla.

"Non posso prometterti nulla, te l'ho sempre detto," rispose lei.

Adam si accese l'ennesima sigaretta, senza guardarla, e si diresse alla porta. Era stanco di parlare e non essere ascoltato. Rimase con lo sguardo fisso sulla porta e la mano bloccata sulla maniglia per qualche secondo. Gli occhi persi chissà dove, cercando le parole nel profondo di se stesso. "Ti amo," disse in un sospiro. E se ne andò.

Alex rimase a fissare il punto dove prima c'era Adam, mentre le lacrime iniziavano a macchiarle le guance. Era troppo tempo che non piangeva. Non era ancora il momento giusto.

*

La lettera con la multa arrivò quel mercoledì. Fu Jo a trovarla nella cassetta della posta al ritorno da scuola. Non poté fare a meno di ridere quando gliela porse. "Come si fa a prendere una multa simile? Che diavolo ci facevi là?"

"È troppo lunga da raccontare," concluse lui, non aveva voglia di parlarne. Soprattutto per tutto ciò che aveva comportato dopo. Ma si era reso conto che non era vero. Era arrivato a pensare che, se non fossero finiti a letto, sicuramente sarebbero finiti all'ospedale. Ora però si era complicato tutto. Sospirò, guardando la lettera. Jo era andata a fare i compiti. Non le avrebbe raccontato cosa era successo. Sapeva solo che Lance era rimasto a dormire lì quella notte perché la mattina lo aveva visto uscire di casa. Non si erano detti molto. Quella era la parte difficile, l'imbarazzo che ne era derivato. Doveva chiamarlo. Quel cretino non aveva un cellulare normale e continuava a chiedersi perché diavolo con tutti i soldi che aveva non si fosse ancora comprato un normale smartphone. Avrebbe potuto mandargli la foto su Whatsapp e sarebbe finita lì. Ma sapeva che non era un argomento da affrontare in quel modo. Non poteva fare l'immaturo. Tornò in camera sua e si mise alla finestra, componendo il numero.

"È successo qualcosa?" chiese la voce del portiere dall'altra parte, con tono allarmato.

"No, cioè, sì. È arrivata la multa di quella sera," disse Leeroy, non sapeva esattamente cosa dire.

"La pago io come ti avevo detto. Non preoccuparti."

"Non è quello." Calò un silenzio imbarazzante, interrotto solo dal loro respiro.

"Portala domani a scuola e ne parliamo," sì limitò a rispondere Lance.

"Va tutto bene?" domandò Roy, incerto. Non sapeva come comportarsi. Aveva l'impressione di star sbagliando qualcosa.

"Ora sì. Ci vediamo domani a scuola," disse solo prima di riattaccare. 

Leeroy rimase stranito per un momento. Era andato fino a casa sua per parlare del bacio e della questione di Miles e Abigail, ma dopo che avevano fatto sesso diceva solo 'ci vediamo a scuola'? Gli venne da ridere. Per il momento lasciò perdere e andò a fare i compiti. Si era ripromesso di continuare con i bei voti. La sua bocciatura alla scuola di Londra in un certo senso aveva un po' influenzato il suo rendimento. Sapeva di essere stato bocciato per il suo modo di fare, ma la verità era che si era rotto le scatole di stare in quella scuola privata per rampolli. Sua nonna aveva voluto fare un piacere a sua madre e mandarcelo, ma lui non voleva.Ma ciò che nonna diceva, era legge per la sua famiglia. Preferiva cento volte aver saltato l'anno piuttosto che rimanere in quel buco un momento di più. Sospirò. La cosa non lo preoccupava molto, ma sapeva che per quanto stronzo e svogliato fosse, i professori si erano creati un immagine di lui. A parte loro, nessuno gli faceva pesare la cosa. Non che gli importasse. Non voleva dimostrare niente a nessuno in quel momento della sua vita, solo non aver più problemi. 

Raggiunse Jo in cucina alla penisola e fecero i compiti insieme. Evitò camera sua tutto il giorno e vi tornò solo per dormire. Gli tornava tutto in mente solo stando davanti alla porta. Qualcosa era già cambiato, si chiese solo quali sarebbero state le conseguenze.

*

Alex sarebbe partita quel giorno stesso. Nel suo sguardo Lance aveva letto una certa delusione e sapeva benissimo chi ne fosse la causa. A prendere il treno non c'era quasi nessuno, era notte tarda e faceva freddo. Il vento tirava forte, scompigliando i capelli di entrambi. Si nascosero dietro una colonna per riuscire a fumare.

"Andrà bene," disse lei, fissando il vuoto e tremando. "Riuscirai in tutto, Lance. Lo vedo nel tuo futuro. Non chiedermi come, ma lo so."

Vederla così tremante lo fece ridere, ma decise comunque di abbracciarla. "Va meglio?"

"Grazie," disse lei con un tono assente.

"Non essere triste. Come hai detto tu, andrà tutto bene. E lui ti aspetterà,"sussurrò il più giovane nell'orecchio della sorella.

"Non sono triste per quello."

"Lo so, lo so," rispose Lance, cullandola. Quello era uno dei pochi momenti che avevano avuto da quando Alexandra era partita per Liverpool. Era difficile riacquistare la fiducia dell'altro dopo tutto ciò che c'era stato.

"A Natale ti regalo un cellulare, è inconcepibile che tu vada in giro con quel coso," scherzò lei ad un certo punto.

"È perfetto per il lavoro e evito lo spam."

"Quanto sei asociale."

"Disse Miss-Amo le persone."

Risero di nuovo insieme dopo tanto tempo.

Dopo poco arrivò il treno che la riportò fino a Liverpool. Si sarebbero rivisti presto.

*

Quando arrivò a casa, nel vialetto c'era l'auto di Twain, con lui seduto dentro a finestrini chiusi, stava fumando. Sentì il brusio della musica provenire dall'abitacolo e sapeva già che canzone fosse. Andò spedito all'auto, aprendo lo sportello dalla parte del passeggero, ed entrò.

I tried to find her

'Cause I can't resist her

I tried to find her

I never knew how much I missed her

Sorrow

"Per l'amor di Dio, stacca Bowie," commentò esasperato Lance, spegnendo la radio."Ora sì che sei ridicolo, manco ti piace."

"Non rompere, lasciami così."

Stark accese una sigaretta, strofinandosi le tempie.

"Senti, i tuoi problemi già li so, ora ti sorbisci i miei," disse secco il più giovane.

Adam non sembrava molto interessato, come suo solito, infatti l'amico alzò gli occhi al cielo. Non sopportava quando non l'ascoltava.

"Ho fatto sesso con Rogers." Forse chiamarlo per cognome gli avrebbe impedito di vedere quanto la cosa fosse seria.

Twain sembrava essere su un altro pianeta da quanto fosse preso da se stesso. Sua sorella aveva talmente una brutta influenza su quel povero ragazzo che se gli avesse detto di buttarsi da un monte, non solo lui avrebbe accettato di buon grado, si sarebbe pure fatto spingere da lei a occhi e orecchie bendate.

"Ti vuoi riprendere? Cazzo, sei un coglione. Ti dico che mi sono scopato Leeroy e non dici un cazzo. Bell'amico. Ti avessi detto qualcosa su mia sorella, avresti fatto di tutto," sbottò incazzato, uscendo dall'abitacolo.

Adam rimase per qualche secondo bloccato con una mano sul volante e l'altra con la sigaretta, seguendo con lo sguardo sgranato l'amico. Scese anche lui quando Lance aveva ormai raggiunto l'ingresso.

"Stai scherzando!?" riuscì solo a dire in mezzo alla strada.

*

A scuola era tutto normale. Si era calmato dopo la litigata di quella notte con Adam. 

Si sentiva un coglione. Non avrebbe dovuto farlo. Erano compagni di squadra e gli dava anche ripetizioni. Più o meno questo aveva raccontato a Twain, mentre le sue risposte erano state per lo più insulti nei confronti del terzino.

Era comunque stata una cosa da una notte e basta. Leeroy era la persona più asessuata che conoscesse, infatti non si era mai aspettato quella reazione da parte sua. Quel ragazzo però era impulsivo e sapeva che ciò era dovuto anche dalla loro amicizia-relazione. Mentre percorreva i corridoi per incontrarlo davanti al campetto durante la ricreazione, il suo cuore non riusciva a far meno di battere troppo e il cervello di lavorare. 

La verità però era che non si era pentito di nulla, era solo che non potevano. Così e basta. Non ci sarebbe stato altro.

Lo vide da lontano. Aveva solo una felpa addosso e la sciarpa che lo copriva fino al naso. Si chiese come potesse non avere freddo. Era strano per quelle cose. Non poté fare a meno di sorridere.

"Perché dobbiamo fare 'sta cosa della multa così clandestinamente?" domandò Leeroy annoiato.

"Perché non voglio far sapere a troppa gente che ho soldi per pagarla."

"Hai dormito male?" chiese Rogers bruscamente.

"Lascia perdere, fammi vedere."

Il terzino alzò gli occhi al cielo, esasperato. Già lui non era una persona mattiniera, ma Lance poteva prendersi un caffè. Gli diede il foglio, senza accorgersi dello sguardo del portiere che lo squadrava da capo a piedi, soffermandosi poi sulla sciarpa.

Stark si mise a leggere per conto suo e mentre gli occhi guardavano altro, la testa non riusciva che a pensare al ragazzo di fronte a lui. "Lo sai che ti dovrai togliere la sciarpa agli allenamenti, vero?"disse distrattamente.

"Ho lo scaldacollo," rispose a sua volta, un po' brusco, riprendendosi il foglio.

Leeroy per certe cose aveva come un sesto senso, si aspettava già le prossime parole di Lance. Non aspettava altro che desse voce ai suoi pensieri.

"E sai che siamo nella stessa squadra," disse Stark ad un certo punto, incerto. Intanto aveva tirato fuori i soldi dalla tasca.

"No, guarda, gioco a pallavolo con Abigail. Ma il discorso è chiaro." Prese i soldi e se ne tornò sui suoi passi.

"Coglione," riuscì solo a dire il portiere.

*

Si aspettava quelle parole e sapeva che aveva ragione. Ma nei suoi occhi non aveva letto alcun tipo di rimorso. Almeno di quello era sicuro. Avevano solo fatto sesso, cosa poteva esserci di più? "Fanculo,"disse a denti stretti. Stavano facendo una partitella giusto per finire l'allenamento e stranamente non aveva ancora toccato il pallone. Gli era passata la voglia di giocare. Voleva andarsene a casa, moriva anche di fame. Non riusciva a togliersi quelle immagini dalla testa, esattamente come con quel bacio. Solo che ora era diverso, non sapeva quale fosse il passo successivo, anche se Lance l'aveva fatto per entrambi. Per lui la scelta del portiere era stupida. Non sapeva se provava qualcosa o meno. Ma non pensava che avrebbe mai riprovato quelle sensazioni. La mattina dopo, quando si era svegliato solo nel letto, aveva pensato per un momento che si fosse trattato solo di un sogno, ma dopo aver constatato di essere nudo si era reso conto che era stato reale, e il panico gli aveva attanagliato le viscere per un momento. L'odore di terra e salmastro di Lance era rimasto tra le lenzuola e sulla sua pelle. E nonostante fosse andato via, non aveva potuto fare a meno di sorridere.

Ora non aveva idea di dove andare a sbattere la testa. Nei giorni seguenti si era chiesto come diavolo fosse potuta accadere una cosa del genere, era tutto così irreale per lui. Ogni volta che dava carta bianca all'istinto finiva così, e non aveva ancora imparato. Forse non voleva, in quel modo riusciva a vivere a pieno, nonostante tutte le conseguenze.

Stan annunciò la fine della giornata organizzata come preparazione alla partita di domenica, così Leeroy seguì gli altri negli spogliatoi.

"Venite a casa mia dopo?" chiese Daniele, aprendo la porta.

Roy ed Akel sbadigliarono. Il turco annuì, aveva voglia di divertirsi un po' anche se era stanco morto.

"Io passo, grazie, voglio andare a dormire, non riesco a tenere gli occhi aperti," biascicò il difensore. La sera precedente aveva passato il tempo a giocare alla X-box per evitare di rimuginare sull'accaduto. Non si era ancora spogliato per fare la doccia che Miles lo aveva raggiunto per parlargli, o meglio, per dargli ordini.

"Cosa c'è?"domandò Roy, sbadigliando ancora. Sperò che il ragazzo non volesse parlargli di Abigail, non era né il momento, né il luogo adatto.

"Stan ha chiesto se ti fermi più degli altri insieme a Lance. Non chiedere, sue idee del cazzo," rispose il ragazzo, brusco.

Leeroy rimase spiazzato: quando Miles parlava con le veci di capitano non era mai così. Non credeva che la colpa fosse ancora legata alla ragazza.

"Credo voglia vedere quanto siate amici ora," aggiunse acidamente.

"Ma ti è venuto il ciclo?" chiese a tono il terzino, per poi cercare lo sguardo del portiere.

Aveva fatto gli esami e si stava comportando bene, per quale motivo doveva mettersi a fare una cosa del genere? Non era il momento.

Miles lo fulminò con lo sguardo.

"Hai ragione, è un'idea del cazzo!" esclamò Leeroy.

"Muovi il culo e vai da lui, non abbiamo tutto il giorno."

Leeroy imprecò a bassa voce, per poi tirare un calcio alla panchina dove aveva appoggiato il borsone. Akel scosse la testa in disapprovazione. "Vai, dai. Non fare cazzate però," si raccomandò il turco. Lance uscì in quel momento dallo spogliatoio, guardando di sfuggita Rogers.

"È facile per te dirlo," sospirò abbattuto.

"Akel ha ragione, vai e cerca di non spaccare la faccia a nessuno, altrimenti ti scordi di giocare" aggiunse Daniele.

"Tanto non cambia niente."

Leeroy si diresse verso la porta dopo averli salutati. Quei due però non potevano capire il suo stato d'animo, non sapevano cosa fosse accaduto tra il difensore e il portiere qualche giorno prima. Il pensiero che sarebbero rimasti soli lo bloccò dall'aprire la porta dello spogliatoio. Non era più sicuro di voler andare. Quella però era l'occasione giusta per far vedere a Stan che le cose tra i due andavano bene, ma non voleva uscire. Forse avrebbe potuto far vedere a Lance che l'essere compagni di squadra non era un problema. 

Chi voleva prendere in giro? Era pessimo in quello. Stava vacillando. Pensò che doveva mandare al diavolo quella storia e concentrarsi solo sulla partita in arrivo e non al fatto che avessero fatto sesso. Non era ancora riuscito ad assimilare la cosa. Si inginocchiò per allacciarsi bene gli scarpini, cercò di temporeggiare. Doveva uscire con un'espressione normale, doveva far finta di nulla per il momento. Avrebbe chiesto spiegazioni a Stan di quella geniale trovata, poi alla fine avrebbe parlato a Lance e avrebbe detto la sua. Si tirò su, prendendo un bel respiro prima di aprire la porta e raggiungere l'allenatore e il portiere in mezzo al campo.

Quando arrivò da loro, notò subito che Lance aveva distolto lo sguardo da lui, rivolgendolo alla porta.

 

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Capitolo 27
*** Capitolo 27 ***


The last chance
XXVI


 

“Allora, la cosa è semplice, Roy! Starete qua per un'altra mezz'ora a fare qualche passaggio e dei tiri in porta per vedere se riuscite a non urlarvi contro. Ho già visto che le cose vanno meglio tra voi insieme agli altri, ma ora voglio vedervi fuori dal contesto della squadra." disse Stan.

Leeroy pensò che l'uomo non si era mai sbagliato così tanto. Annuì e seguì Lance verso la porta. Stan aveva già preso un pallone e si era messo di fronte al terzino. "Devi impedirmi di fare goal,” annunciò Stan.

Le cose andarono bene durante quella mezz'ora; i due non si insultarono una sola volta, anzi, si rivolsero a malapena una parola. Leeroy pensò che quella sceneggiata non fosse servita a nulla perché non c'era affiatamento tra i due, facevano solo ciò che dovevano fare passivamente. Sperò con tutto il cuore che a Stan potesse adare bene anche in quel modo. Alla fine del tempo stabilito, l' allenatore diede a Lance la copia delle chiavi degli spogliatoi di Miles, dicendogli di riportargliela il giorno dopo.

"Per ora quello che ho visto mi va bene. La disciplina prima di tutto. Spero che venga anche un po' di affiatamento tra voi due, sembravate due automi che seguivano ordini e basta. Ma come ho già detto, per ora mi accontento," disse Stan.

I due ragazzi si sentirono sollevati. In un certo senso avevano avuto la paura che Stan chiedesse loro se qualcosa tra loro non andasse.

"Ora scusatemi, ma devo andare, altrimenti faccio tardi, mi sono fermato anche più del dovuto. Prima raccogliete tutti i palloni e l'altra roba, poi potete andare via," aggiunse per poi dirigersi con la sua roba verso il parcheggio. Leeroy sospirò sollevato, ma poi l'uomo si girò. "E vi prego, non fatemi rimangiare ciò che ho detto.” Dopo di che si dileguò, lasciando gli altri due soli.

Lance era già sparito in direzione degli attrezzi dell'allenamento da mettere nello spogliatoio, lasciando l'altro in mezzo al campo. Lo seguì con lo sguardo senza dire una parola, pensando a come intavolare il discorso; ci stava impiegando troppo tempo e non aveva idea di cosa dire, se non si fosse sbrigato l'altro sarebbe andato via, perdendo così la sua occasione.

Lance era di schiena, piegato a raccogliere da terra gli ostacoli per i salti, quando si sentì chiamare. Leeroy lo vide voltarsi e incontrò subito il suo sguardo. Per un attimo vacillò. I ricordi di quella notte gli tornarono alla mente, investendolo e stordendolo.

"Dobbiamo parlare," disse dopo essersi ripreso. Vide che l'altro lo stava studiando, ma ciò che disse lo spiazzò.

"Di cosa?"

Il difensore strabuzzò gli occhi. "Come di cosa? Della tua decisione,” rispose con tono già alterato dalla rabbia. Lance si girò, tornando a prendere gli ostacoli. "Non posso nemmeno fare come mi pare?"

Il terzino non riuscì a credere a quelle parole e la rabbia lo assalì. Afferrò l'altro per un braccio, costringendolo a voltarsi e portandolo a pochi centimentri dal suo viso. "Tu non hai fatto come ti pare, se non ti avessi baciato io non sarebbe successo niente!" gli urlò in faccia. Il portiere si divincolò dalla presa dell'altro. "Forse sarebbe stato meglio. Dannazione Leeroy! Siamo nella stessa squadra e abbiamo gli stessi amici. Non possiamo."

"Allora perché diavolo mi hai assecondato? Se pensavi già tutto questo, perché cazzo mi hai baciato al pub?” urlò ancora il difensore. Era davvero convinto che avrebbe dimenticato tutto dal giorno alla notte? Che fosse stato solo questione di un momento di debolezza? Si passò nervosamente una mano sulla faccia, respirando profondamente; non doveva cedere alla violenza, altrimenti addio alla partita.

"Faccio le scelte che ritengo più giuste per me,” lo liquidò Lance provando ad andarsene, ma l'altro lo bloccò. "Infatti vedo le tue scelte. Sei la persona più infelice della scuola e non è per i soldi, ma per scelte come questa."

Il portiere a quel punto gli si avvicinò pericolosamente, per poi sibilargli a un soffio dal viso: "Non parlare di cose di cui non sai nulla. Torna alla tua casetta sulla collina dove tutto è perfetto e restaci.”

Leeroy sentì la rabbia montargli addosso ancora più prepotentemente. Non sapeva se fosse peggio andarsene come diceva o prenderlo a pugni soddisfando il suo bisogno di fargli male, ma venendo poi buttato fuori dalla squadra. "Non vado da nessuna parte,” rispose digrignando i denti per la rabbia. Doveva riuscire per la prima volta nella sua vita a non mettere le mani addosso ad una persona mentre ci litigava. Si ricordò che sua madre gli diceva di fare lunghi e profondi respiri per cercare di calmare la rabbia, così fece. "Dimmi perché cazzo l'hai fatto?" sibilò.

Lance lo afferrò per la maglia, strattonandolo. Leeroy cercò di respirare a pieni polmoni per calmare le sue emozioni negative, ma tutto ciò sentì fu l'odore del compagno di squadra che gli andò alla testa.

"Stammi a sentire, testa di cazzo. Credi che perché abbiamo scopato io ti debba qualcosa?”

Nel suo sguardo Roy vide una rabbia cieca.

A quel punto però il difensore non poteva più tollerare l'altro, così si liberò e afferrò a sua volta il portiere per la maglia, sollevando il braccio, pronto per colpirlo. Lo guardò negli occhi per un lungo attimo, vedeva la sua rabbia combaciare perfettamente con quella dell'altro; se lo avesse colpito non sarebbe finita solo con qualche ematoma o abrasione. Lasciò la presa, prendendo un altro respiro profondo. "Non ho intenzione di mandare al diavolo la mia presenza alla partita per uno stronzo come te, quindi vaffanculo,” disse, mollandolo lì e dirigendosi verso gli spogliatoi. Non aveva intenzione di sprecare altro tempo con Stark.

Un sorrisetto sarcastico gli si dipinse sul viso, pensando che tutti erano convinti che la persona immatura fosse lui. Se avessero visto il portiere in quel momento si sarebbero ricreduti.

Lance non potè fare altro che infuriarsi di più. "Cosa c'è, il figlio di papà ha paura di sporcarsi le mani?"

Leeroy si girò, cercando di mantenere la calma. "Non ne vale la pena,” ribatté con tono fermo il difensore, ormai saturo delle cazzate dell'altro.

Non guardò nemmeno il portiere prima di entrare nello spogliatoio, sbattendo la porta. Si spogliò velocemente e si infilò sotto la doccia. Imprecò sottovoce prima di prendere a pugni il muro ricoperto in mattonelle color crema. Lance non aveva capito un cazzo, era tutta colpa sua se il loro rapporto era andato a puttane tornando da punto a capo, forse era addirittura peggiorato. Avrebbe dovuto smettere di seguire il suo istinto. non portava a nulla di buono, ma non poteva farne a meno. Era ciò che lo faceva sentire vivo. Chiuse gli occhi sotto il getto caldo, cercando di non sentire altro se non il rumore dell'acqua venir risucchiata nello scarico. Aveva bisogno di dormire.

 

Lance rimase impietrito dopo quello che era successo. Si rese conto solo allora di quante stronzate avesse detto. L'irritazione e la rabbia per quella conversazione, però, non erano ancora diminuite, anzi, dopo l'ultima frase del difensore erano balzate alle stelle.

Era troppo tempo che non sentiva più così tante sensazioni tutte in così poco tempo. Non era più abituato e non sapeva come comportarsi, riusciva solo a far uscire il peggio.

Afferrò gli attrezzi da terra e raggiunse a grandi falcate lo spogliatoio. Una volta dentro gettò tutto a terra e sbattè la porta. "Ti rendi conto di essere un coglione?" domandò sarcasticamente.

Leeroy non si aspettava che quella discussione avesse un seguito, per lui era finita lì. Se avessero continuato uno dei due sarebbe esploso e non voleva finire nei casini.

"Questa cazzo di conversazione è finita," disse tranquillamente da sotto la doccia, continuando a lavarsi.

Lance diede un calcio alla panchina degli spogliatoi per sfogare la sua rabbia repressa, ma non bastò, così si tolse gli scarpini ed uno a uno li lanciò contro il muro. "Non è finita un cazzo!" disse ringhiando, per poi aprire il box doccia e tirare un pugno sullo zigomo sinistro di Leeroy, il quale colto alla sprovvista andò a sbattere contro le mattonelle, cadendo poi a terra.

La prima cosa che il portiere vide fu il sangue che colava dal sopracciglio destro del difensore. A quel punto iniziò ad imprecare. Non si rese nemmeno conto di essere fradicio. Si sentì disorientato per un momento, come se vedesse quella scena come spettatore. Incredulo per ciò che aveva fatto. Di solito era sempre il terzino ad arrivare alle mani per primo. Lui non era così, non lo avrebbe mai fatto.

Leeroy era rimasto stordito dopo essersi accartocciato a terra per l'urto. Inconsciamente si tamponò con la mano il punto in cui aveva sbattuto . Aveva la vista un po' offuscata, ma vide il sangue sulle dita. Sorrise senza accorgersene, sentendo le imprecazioni dell'altro. "Cazzo, cazzo, cazzo!" gridava rabbiosamente il portiere, mentre apriva la scatola del pronto soccorso per cercare ghiaccio e bende.

Tornò alla doccia dove trovò Leeroy ancora a terra che si teneva la testa con gli occhi chiusi. Doveva aver preso una bella botta, pensò amaramente. Lo afferrò per il braccio libero e lo tirò in piedi, sostenendolo per il breve tragitto fino alla panchina, facendolo sedere.

Il terzino sentiva la testa pulsare e lo zigomo bruciare, Lance doveva averlo conciato proprio bene. Sentì la mano del portiere spostare la sua dal taglio per cercare di pulire il sangue con il cotone. Lance si inginocchiò tra le gambe di Leeroy per essere più comodo e poterlo medicare. Buttò il cotone da una parte e lo sostituì con delle garze alla meno peggio, dopo di che posò il ghiaccio delicatamente sullo zigomo. Il sangue però continuava ad uscire. Sentì un gemito di dolore scappare dalla bocca di Leeroy, che glielo fece ricordare madido di sudore sotto di sé, mentre lo stringeva in un modo che non sapeva descrivere. I loro occhi si incontrarono per un momento, quelli di Lance colpevoli come quelli di un bambino che aveva rubato caramelle e deve chiedere scusa ma non vuole. Lo sguardo del terzino, invece, sembrava quasi assente, sicuramente, pensò Lance, perché ancora stordito dal colpo. Roy socchiuse gli occhi, cercando di non pensare al dolore, ma non ci riusciva, così si scoprì a spiare l'espressione preoccupata dell'altro. Quando Lance sentì la coscia di Leeroy sfiorargli il fianco realizzò che il difensore era nudo e che lo era stato per tutto il tempo. Cercò di sopprimere l'istinto che lo aveva spinto verso di lui anche la volta precedente e lo aiutò ad alzarsi.

"Ti porto in ospedale, ti servono dei punti. Riesci a vestirti da solo?"

"Se non mi avessi preso a pugni, sicuramente, ma penso di riuscirci comunque," rispose freddamente a causa del tono dell'altro. Si asciugò frettolosamente, e non senza qualche problema tecnico riuscì ad infilarsi boxer e pantaloni della tuta; per la maglietta fu costretto a farsi aiutare dall'altro. Si sentì trattato come un moccioso, l'aria di superiorità dell'altro lo stava mandando in bestia nuovamente, sentì come tutto il rancore che provava nei suoi confronti si fosse risvegliato dopo mesi.

"Dammi le chiavi della macchina, guido io,” ordinò il portiere con un tono che non ammetteva repliche, infilandosi le scarpe da ginnastica.

"Col cavolo, la macchina è mia."

Lance lo guardò storto, per poi replicare: "Non sono io quello che ha preso una botta in testa, muovi il culo, non ho intenzione di portarti in braccio." Poi afferrò i loro borsoni e si diresse al parcheggio, lasciando l'altro dietro ad imprecare.

 

Una volta in macchina, un silenzio imbarazzante li avvolse. Leeroy prese a mordicchiarsi nervosamente l'interno della guancia e ogni tanto dava un' occhiata al guidatore. Non poteva fare a meno di pensare alla situazione del cazzo in cui si era andato a cacciare, sicuramente Lance sarebbe andato a dire Stan della loro zuffa e non avrebbe potuto più giocare. Imprecò a bassa voce.

"Questo silenzio è insopportabile, metti un po' di musica. Devo avvertire Jo che ritarderò," sospirò Lee con un tono stanco.

"Non le dici cosa è successo?" chiese perplesso mentre cambiava la marcia e aumentava di velocità.

"No, altrimenti si preoccuperebbe inutilmente, sto bene, mi hai fatto di peggio."

Il dolore alla testa non accennava a diminuire, così chiuse gli occhi, cercando di rilassarsi un momento.

"Non dormire."

 

Dopo poco arrivarono all'ospedale, dove furono costretti ad aspettare quasi un'ora per via di due emergenze.

"Dannazione, perché ci vuole così tanto per mettere due cazzo di punti?" iniziò a lamentarsi Roy, dondolandosi sulla sedia a causa del nervosismo.

"Datti una calmata, tra poco tocca a te."

"Questo è tutta colpa tua, stronzo, e grazie a te ora non potrò nemmeno giocare alla partita. Fanculo"

Lance stava per rispondere, ma venne interrotto dall'infermiera che era venuta a chiamare il loro turno. Decise di rimanere fuori ad aspettare e bere qualcosa alla macchinetta, se stava altri cinque minuti con lui gli avrebbe rotto anche l'altro sopracciglio. Come diavolo gli era venuto in mente di prenderlo a pugni? Non avrebbe dovuto, una volta era Rogers quello che iniziava le risse, ma lui di persona non aveva mai iniziato. Lui le aveva sempre concluse.

Come se non bastasse, quando nello spogliatoio si era accorto che era nudo, il suo primo pensiero non era stato quello di portarlo in ospedale, ma di fare ben altro. Un sorriso sarcastico gli si dipinse sul volto. Si era messo nei casini perché non riusciva a pensare con la testa, era proprio un coglione. Per quel motivo non voleva iniziare una relazione con lui. Era come se già sapesse che i suoi sentimenti per lui non avrebbero fatto altro che diventare più forti. Sarebbero perdurati anche senza di lui e ciò lo spaventava. Era troppo per lui sia da gestire che vivere.

Le parole di Lee però si insinuarono in lui.

Gli ospedali lo mettevano di cattivo umore, soprattutto per il loro odore di disinfettante, guanti di plastica e di quelle insipide mele scotte che portavano ai pazienti ricoverati. Quelli però non erano i motivi principali: in realtà, con una madre come la sua, era normale ritrovarsi in quel luogo più di una volta al mese, a volte a causa dell'alcol, altre per incidenti che se fosse stata sobria avrebbe tranquillamente evitato. Non riuscì a fare a meno di sentirsi sollevato per un momento. Ora che era in clinica sarebbe stata meglio, lo desiderava più di ogni altra cosa. Lo irritava però pensare al fatto che ora si ritrovava lì non per colpa di sua madre, ma sua. L'attimo dopo che aveva colpito Leeroy si era sentito svuotato e subito colpevole. Non era una persona violenta, non lo era mai stato. Il modo in cui il difensore gli faceva perdere il controllo lo stordiva ogni volta, perché non riusciva mai a rendersi conto di ciò che stava facendo nell'esatto momento in cui lo faceva. Ciò che però non riusciva a perdornarsi era di essere venuto meno alla prima delle sue regole autoimpostesi e cioè: mai e poi mai iniziare una relazione sul campo. Come se non bastasse, era andato ad invischiarsi con l'ultima persona a cui avrebbe mai pensato in quell'ambito. Si sarebbe preso a pugni da solo, e sapeva che avrebbe dovuto. Aveva sperato fino all'ultimo secondo che Leeroy non gli avrebbe rivolto parola, non voleva problemi, non voleva rovinare la squadra. Se qualcuno lo fosse venuto a sapere, ci sarebbero state delle conseguenze, come dei commenti omofobi da parte di qualche coglione. Di ciò non si preoccupava molto, perché come aveva mandato il terzino all'ospedale, avrebbe potuto mandarci chiunque altro. La sua unica e vera preoccupazione era la squadra, si sarebbe potuta sfaldare e tutti i loro sforzi sarebbero andati a puttane unicamente per le sue debolezze ed il suo egoismo. Perché cazzo quella sera gliel'ho permesso, pensava disperato, mentre si passava freneticamente una mano alla base del collo, dove aveva il tatuaggio. Avrebbe chiuso ogni cosa con Leeroy definitivamente una volta che fossero usciti da quel posto.


Il difensore uscì dalla stanza accompagnato da un'infermiera che gli raccomandava di fare più attenzione durante gli allenamenti. Lui le sorrise, poi la signora accolse un nuovo paziente. Gli sguardi di Lance e Leeroy si incontrarono per un momento, lasciandoli senza parole. Nessuno dei due si sarebbe scusato, perché ognuno di loro aveva esternato il suo stato d'animo anche se non completamente. Lance notò subito dopo l'enorme cerotto bianco che copriva il sopracciglio destro del difensore, vi si soffermò per un lungo momento. Questo come lo spiego a Stan?, pensò. Leeroy richiamò la sua attenzione. "Andiamo?"

Lance si alzò e lo seguì fin fuori l'edificio e poi in macchina. Notò subito che il terzino era più irascibile del solito, eppure prima che entrasse in ospedale non sembrava averla presa così male per quel taglietto. Sicuramente il suo cervello aveva elaborato l'accaduto in ritardo.

"Ti hanno chiesto come hai fatto a farti male?" chiese disinteressatamente il portiere, guardando la strada. Il sole era quasi tramontato e delle nubi iniziavano ad oscurare il cielo, probabilmente avrebbe piovuto quella notte.

A quella domanda Leeroy rifletté un po' su prima di rispondere.

"Ho detto che ho preso una pallonata in faccia mentre stavo di fianco alla porta e che ci sono andato a sbattere contro," disse con tono piatto. Aveva mentito all'infermiera, non voleva che venisse contattato uno dei suoi genitori e nemmeno Stan, altrimenti addio campionato. Tra l'altro non poteva nemmeno spiegare il motivo del pugno di Lance, però aveva sentito la sua paura dopo essere stato colpito. Aveva anche visto il suo sguardo colpevole ma che non voleva chiedere scusa.

"Che scusa stupida," sentenziò Stark.

"Se tu pensassi prima di fare qualcosa, cazzo, magari non saremo a questo punto," rispose secco.

"Non sono l'unico,” rispose semplicemente il portiere. Le colpe andavano condivise.

Parlare con Lance ogni volta era una battaglia persa, era come remare contro corrente.

"La colpa non è mia, ma del tuo atteggiamento del cazzo," sentì Lance sbottare. Quella era la risposta che non voleva sentirsi dare.

"Vaffanculo, muoviti a portarmi a casa allora." Si mise a guardare fuori dal finestrino, cercando di pensare ad altro, magari il paesaggio l'avrebbe calmato. Stavano percorrendo un lungo viale alberato, il sole era ormai tramontato, lasciando il posto al buio, e la strada era deserta. Come avrebbe spiegato a Stan tutto quello? Non avrebbe mai creduto a nessuna scusa che Leeroy avesse inventato. Si sentiva come se tutte le forze della natura lo avessero preso di mira, come se avesse una calamita per le disgrazie. Realizzò in quel momento che non poteva obbligare Lance a parlare, forse avrebbero dovuto chiudere lì tutto quanto come se nulla fosse mai accaduto.

"Hai ragione. È meglio lasciare le cose come dici te," sussurrò, continuando a guardare gli alberi che passavano velocemente davanti a lui. Notò che tra le nuvole in cielo si riuscivano ad intravedere i raggi della luna piena. Tirò giù un po' il finestrino, voleva sentire l'aria fredda sul viso per non pensare più, avrebbe potuto cessare di esistere in quel momento stesso, ascoltando i suoi stessi battiti che lo calmavano.

Non riusciva a credere come quell'altro non riuscisse a prendere delle responsabilità che fossero al di fuori del contesto scolastico. Leeroy non era un idiota alla sua prima cotta. Qualche goccia di pioggia cadde sul finestrino, destando Roy dai suoi pensieri. Poco dopo notò che la macchina stava accostando.

"Non sai azionare i tergicristalli?" chiese scettico, senza ricevere risposta.

Vide Lance appoggiare la testa e le braccia al volante, sospirando.

"Che c'è, ora?" chiese spazientito.

 Le parole di Lee non avevano ancora smesso di ronzargli nella testa. Non riusciva a trovare una via d'uscita a quella situazione nonostante la sua intelligenza. Entrambi non riuscivano a dimenticare quello che avevano provato. Se prima voleva ammazzarlo di botte perché non lo sopportava, non sopportava la sua faccia da schiaffi, il suo carattere irritante, ora invece avrebbe voluto sentirselo sulla pelle. Le uniche cose che gli riuscivano bene nella vita erano tre: il calcio, la scuola e fare lo stronzo. Con Leeroy poteva comportarsi nel modo peggiore che voleva, poteva essere sempre se stesso, senza mai sentirsi in colpa, quindi anche dopo quella notte, Lance avrebbe anche potuto comportarsi con lui a quel modo. Quella cicatrice però gli avrebbe ricordato ogni volta cosa aveva fatto.
Quando gli occhi di Lee si specchiarono nei suoi, si accorse di non avergli ancora risposto. Si slacciò la cintura di sicurezza ed afferrò la nuca del difensore con la mano sinistra tirandoselo più vicino per baciarlo. Notò subito che l'altro era rimasto come pietrificato e non accennava a ricambiare il bacio.
Tanto rumore per nulla, pensò ironicamente. Poi però sentì l'altro aggrapparsi alle sue braccia e alle sue spalle, rispondendo. L'effetto di disorientamento non se l'era inventato, appurò che era una sensazione reale. Il terzino lo stordiva per brevi attimi, lo faceva sentire bene. Avrebbe ricominciato subito da dove erano rimasti l'altra volta. Si staccarono per un momento. "Ora me lo sai spiegare?" chiese Leeroy con il fiatone. In tutta risposta Lance tornò a baciarlo e fece scivolare una mano nell'interno coscia, accarezzandolo, per poi risalire fino a fermarsi in mezzo alle gambe. Sentì un gemito uscire dalle labbra che stava baciando.

"No, Lee..." rispose.

"Non in macchina," riuscì a dire ad un certo punto Leeroy, dopo aver realizzato come si sarebbero potute concludere le cose. Si baciarono un'ultima volta prima che il terzino riuscisse a staccarsi di dosso il portiere con uno sguardo interdetto.

"Sono in ritardo, Jo si starà chiedendo dove sono."

 

 

Una volta arrivati nel vialetto di casa Rogers, Lance spense l'auto, lasciando scendere uno strano silenzio tra i due. Non era imbarazzo, era in verità una situazione di stallo. Partivano sempre d'istinto, con forza brutale, con rabbia e passione ma alla fine rimaneva sempre quella fastidiosa sensazione sullo stomaco di entrambi che impediva loro di agire e parlare. Si ritrovavano a guardarsi di sottecchio o ad ignorarsi, proprio cercando di raccogliere il coraggio a due mani e agire.

"Vieni a farti la doccia da me, poi ti riaccompagno a casa,” disse Leeroy con un tono leggermente seccato. Come sempre, era lui a prendere la situazione in mano, a cercare di portare il loro "rapporto" in una qualunque direzione. Era proprio vero, era tutta colpa di Leeroy se si trovavano a quel punto.

L'aria fuori dall'auto era pungente e fastidiosa. Lance sentì il freddo circondargli la carne, fino a quel momento non si era reso veramente conto di essere ancora in pantaloncini corti. Seguì il padrone di casa dopo aver afferato il proprio borsone. Una volta dentro non potè fare a meno si sospirare di sollievo perché al caldo. Stranamente, la cugina del difensore non era in giro; di solito passava la maggior parte del suo tempo nel salotto o in cucina, a fare chissà cosa. La trovava strana, ma carina.

"Mia cugina sarà sicuramente in camera sua a cazzeggiare, a quest'ora passa il tempo su Twitter," disse Roy, non sapendo cosa dire, facendo strada in camera sua. "Vuoi da bere?" domandò poi.

"No grazie, voglio solo andare a casa. Sono stanco morto," rispose Lance, sbadigliando. Gli ultimi giorni erano davvero stati difficili. Aveva bisogno di dormirci sopra e di mangiare. Si rese conto in quel momento di quanto avesse fame, di fatti si fece sentire lo stomaco.

"Se vuoi puoi restare per cena, Jo cucina," disse il terzino entrando in camera. "La doccia sai dov'è."

"No grazie, preferisco andare a casa."

Leeroy sospirò. "Seriamente, mi hai preso a pugni e sono strafatto di antidolorifici, con che coraggio vuoi farti portare a casa da me?" chiese il padrone di casa con un sorriso furbetto che lasciò l'altro senza parole.

"Tu ti sei offerto di portarmi a casa."

"Ho mal di testa,” rispose secco, facendosi poi scappare una risata.

"Lo fai venire anche a me di 'sto passo." fece Lance, afferando il borsone e rinchiudendosi in bagno.

Leeroy si buttò sul letto, cercando di restare sveglio. Voleva solo riposare le membra per poco. Si concentrò sul rumore dell'acqua della doccia che proveniva dal bagno. Prese le cuffie del cellulare e si mise ad ascoltare Viva la Vida a tutto volume. Con Lance in campo avrebbe dato il massimo, di questo ne era certo. Nonostante con Stan si erano comportati in quel modo strano, durante le partite veniva fuori la loro vera intesa. Si chiese se fosse così anche con quello che era appena successo tra di loro.

In quel momento bussarono alla porta di camera sua.

"Sì Jo?" chiese. Questa volta l'aveva sentita.

La ragazza entrò senza troppi complimenti, ma prima che poté, chiedere qualcosa, si preoccupò subito vedendo la faccia del cugino.

"Che cavolo hai fatto?!" chiese stupita, andando subito ad afferrargli la faccia.

Lee spense la musica, lasciandosi controllare. "Fa male?"

"No, ma ho mal di testa. Sono pieno di antidolorifici."

"Ma come hai fatto?"

"Ho avuto una breve disputa con Lance, ma non lo dire a nessuno o non giocherò domenica."

Jo lo guardò estrefatta. "Non puoi fare così ogni volta. Se la zia lo viene a sapere ammazza entrambi. Dovete andare d'accordo, non menarvi." disse lei facendo avanti e indietro davanti a lui.

"Sì, lo so, infatti resta a cena," rispose lui, come se niente fosse.

 

 

 

 

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Capitolo 28
*** Capitolo 28 ***


The last chance
XXVIII
 

Erano gli ultimi venti minuti di partita, erano ancora zero a zero. Daniele sembrava fiacco; aveva corso dall'inizio dell'incontro come un pazzo dietro quel pallone e ora si ritrovava senza fiato. La cosa non era piaciuta affatto a Leeroy, soprattutto lo aveva infastidito che Stan non avesse ancora cambiato il giocatore. La difesa avversaria era tosta, non c'era dubbio. Con i nuovi arrivati ormai le loro forze erano quasi alla pari. Sputò per terra, tornando in posizione e aspettando il numero 10. Lo seguì da lontano, mentre Drew lo raggiungeva dal lato opposto. Riuscì a togliere la palla all'avversario e la passò in lungo a Miles prima che gli altri due giocatori potessero fare lo stesso. Il ragazzo si trovò tutto il centrocampo avversario andargli incontro.

"Fantastico!"

Non potè fare altro che retrocedere e passare la palla a Leeroy. Se la ripassarono cercando di tenere il gioco fermo per qualche secondo e riflettere sul da farsi.

Dovevano fare qualcosa. Lance alle sue spalle sembrava con la testa da un'altra parte. Sarebbero dovuti passare il prima possibile in attacco. Cercò di nuovo con lo sguardo il capitano, ma era troppo lontano. Stava per urlare ad Akel, ma Stan in quel momento chiamò il cambio. Rogers si sentì sollevato. Ora che stava entrando Julio al posto di Daniele avrebbero potuto ancora fare qualcosa. Chiamò Liam, che in quel momento aveva la palla ed era circondato. Il ragazzo iniziò a correre nella direzione del compagno di squadra, scartando gli avversari e fece un tiro lungo. Leeroy, a quel punto, iniziò ad avanzare con la palla ai piedi fino ad arrivare al centrocampo. 

"Miles, a Julio!" 

Riuscì a farla arrivare a pochi metri davanti al capitano, il quale, non riuscendo a passarla al compagno la diede ad Akel. Il ragazzo sembrava ancora in forma e scattò in direzione della porta avversaria. Julio intanto era già in posizione. Fu questione di pochi secondi e la palla fu dentro. 

*

Stan si riteneva soddisfatto del risultato. Julio era un bravo giocatore, era solo un peccato che Daniele avesse strafatto. Avrebbero potuto comunque vincere. Avrebbe dovuto parlargli al prossimo allenamento. Al contrario, Leeroy e Lance avevano fatto un buon lavoro, nonostante il portiere gli sembrasse con la testa tra le nuvole. Sospirò e chiuse gli occhi, accendendosi una sigaretta. Avrebbe dovuto parlargli, ma dal momento che non aveva ancora ricevuto alcuna risposta dal West Ham, non sapeva come comportarsi. Si diede ancora tempo fino al prossimo fine settimana, poi avrebbe parlato con il ragazzo. Si sentiva un idiota. Aveva pure chiamato gli uffici più volte, ma non era successo nulla, lo mettevano sempre in attesa. Non sopportava nemmeno più lo sguardo severo di Reginald; il ragazzo aveva pienamente ragione. I ragazzi uscirono in quel momento dallo spogliatoio. Quella sera niente pub, aveva bisogno di raccogliere le idee e dormirci sopra ancora una volta.

"Stan, lo so, sono un coglione," ammise Daniele, uscendo per primo. Aveva subito notato lo sguardo accusatore dell'allenatore.

"Balboa, ne riparliamo lunedì. Riposati."

L'attaccante sapeva già che ci sarebbero state delle conseguenze, come giri di campo per temprare il corpo. Non vedeva l'ora di buttarsi a letto.

"D'accordo. Ci vediamo," rispose, sparendo per andare al parcheggio, mentre gli altri lo seguivano. Leeroy ed Akel lo raggiunsero subito.

"Dai, andiamo a bere qualcosa, è sabato. Rompi sempre le palle che vuoi uscire, facciamolo. Portiamo anche Andy," disse il terzino, afferrandolo per il borsone prima che questo scappasse via. 

"Non ho voglia." 

"Non fare la mezza sega. Ti passiamo a prendere alle nove dai, si va a fare festa," aggiunse il ragazzo.

Daniele sembrò pensarci un po' su. "Però niente ragazze e niente travestimenti," disse fissando Leeroy.

"Non rompere dai. Andiamo a bere e basta," promise il ragazzo. 

"Vedi che quando vuoi sei un vero uomo," disse Akel, prendendolo in giro. I ragazzi si salutarono e il terzino fu l'ultimo ad andarsene, in quanto doveva fare il giro dell'isolato per andare a riprendere l'auto. Quel giorno era arrivato tardi e non aveva trovato parcheggio. Prima che potesse andarsene, però, arrivò Stan. "Stai andando?" domandò l'uomo.

"Sì, ho lasciato l'auto lontano."

L'allenatore sembrò squadrarlo da capo a piedi. "Qualcosa non va?" domandò il terzino. 

"Sai che non ti ho fatto domande per l'occhio, vero?"

Leeroy si sentì male per un secondo, ma cercò di non darlo a vedere. Per sua fortuna nessuno aveva detto nulla. Lance aveva promesso quel giorno stesso di non aprir bocca. "È successo a casa con mia cugina," rispose cercando di essere il più naturale possibile. 

"Sai che devi andarci piano. Se combinate qualcosa sei fuori," replicò Stan, serio.

"Puoi stare tranquillo." Leeroy lo guardò negli occhi più sicuro che mai. Una sua bugia non era mai sembrata così convincente. 

"Lo sono. Ora vai, non voglio farti arrivare tardi alla vostra serata. Non fate cazzate." 

Leeroy sospirò di sollievo, vedendolo andare via. L'occhio non era più gonfio come prima, ma era ancora abbastanza scuro. Sua madre si era spaventata a vederlo e gli aveva detto che era successo a casa a sistemare la spesa con Jo. Una balla più stupida di così non l'aveva mai inventata. Per loro fortuna, ci aveva creduto. Per sua ancora più grande fortuna, Jo non aveva fatto domande quando Lance si era fermato a cenare e a dormire a casa loro. Non sapeva nemmeno come spiegarglielo e a dire la verità non poteva ancora farlo. Il rapporto tra di loro era tornato come prima che Lance sparisse e litigassero. Era comunque strano. Non sapeva se chiamarlo per chiedere anche a lui di uscire quella sera o meno. Aveva detto ai ragazzi che sarebbero stati solo loro, e così sarebbe stato. Lo avrebbe chiamato, doveva anche far vedere a Miles che non aveva cattive intenzioni. Sospirò esasperato. Quella situazione con il capitano lo stava distruggendo.

*

Era in camera sua più o meno da mezz'ora a fissare il soffitto. Avrebbe dovuto davvero chiamarlo? Dopo che Lance aveva dormito a casa sua, non avevano propriamente "parlato" della situazione. Gli sembrava solo che ora Lance non avesse più intenzione di mandarlo all'ospedale, ma niente di più. Alla fine erano compagni di squadra, se usciva con gli altri poteva venire anche lui e non ci sarebbe stato nulla di strano.

"Roy!" Chiamò Jo dal corridoio.

"Lasciami a morire, sono stanco."

La ragazza se ne infischiò ed entrò comunque. "Ho finito ora di pulire casa, ricordati che domani devi pulire il piano di sopra," disse lei con tono un po' acido. Non aveva mai dovuto pulire casa sua in tutta la sua vita e la cosa la stava un po' infastidendo. Il problema principale era che, appena finiva di pulire, il cugino passava come un uragano.

"Lo so, lo so."

"Perché sta sera uscite da soli?" domandò lei curiosa, andando a sedersi sul letto di fianco a lui.

"Devo fare qualcosa con i miei amici, con il fatto delle ripetizioni non sono mai uscito."

"Ma uscivi con Lance," rispose lei prontamente.

"Quello non era uscire per andare a divertirsi ma per studiare."

"Ma ti divertivi," affermò lei con un sorriso furbetto.

Il ragazzo la guardò con aria quasi colpevole. "Non ci si diverte a studiare, "rispose indignato, quasi la cugina avesse bestemmiato.

"Quindi stanotte non devo aspettarvi?"

Leeroy assottigliò lo sguardo. "Non so quando tornerò," disse sottolineando il fatto che sarebbe stato da solo. Jo non era stupida; se se ne stava accorgendo lei, forse anche qualcun altro se ne sarebbe reso conto. Probabilmente perché era l'unica ad averli visti da soli. Si chiese però come cavolo potesse saltare a certe conclusioni.

"Stan sa che il mio occhio nero non è stato un incidente a casa, anche se non ha preso provvedimenti. Non so come faccia, è come se avesse un sesto senso per le mie puttanate," disse con voce sommessa, cacciando la testa sotto il cuscino.

"Sul serio? È più probabile che, visti i tuoi precedenti, non si fidi molto e basta. Se non ha fatto nulla, allora non ti preoccupare."

"Ora non mi leverà gli occhi di dosso," replicò esasperato.

"Ritieniti fortunato." Fece una breve pausa. "Comunque, domani resti in casa con me, dobbiamo fare il giorno della vergogna," gli ricordò lei. Aveva bisogno di stare un po' in famiglia, e le giornate sul divano a guardare film erano le sue preferite quando era in compagnia del cugino.

"Oh cazzo,sì! Prendi le schifezze da mangiare per domani e non dimenticare la cioccolata," disse Leeroy, risorgendo dal letto. Guardò poi l'orario. Pensò che era ancora presto per prepararsi, ma poteva ancora chiamare Lance.

"Vado a vedere la tv, vieni anche te?" domandò Jo a quel punto, guardandolo divertita.

"No resto a letto, ho bisogno di energie per stasera."

Quando fu rimasto solo, prese di nuovo il cellulare in mano, fissandone lo schermo per qualche secondo. "Ma che cazzo!" Esclamò e cercò il numero in rubrica.

Squillò a vuoto e si attivò la segreteria. Riprovò un paio di volte e solo alla fine realizzò che forse era al lavoro. Decise di lasciargli un sms, chiedendogli se aveva voglia di uscire con la squadra. Poi tornò a fissare il soffitto. Odiava aspettare. Non poteva continuare a pensare a tutto quello che era successo. Lo aveva baciato in macchina dopo che gli aveva spaccato un sopracciglio e fatto un occhio nero. La sera poi avevano solo dormito. Non che fosse deluso della cosa, ma era stato strano. Era rimasto a guardarlo prendere sonno, cercando di ascoltare il suo respiro e chiedendosi cosa diavolo stesse facendo. In quel momento, nell'oscurità della notte, tutti I dubbi che forse provava Lance lo avevano preso d'assalto. Non erano compatibili e non erano nemmeno opposti che si attraggono. Stark per lui era ancora un'incognita. Avrebbe voluto avere la risposta pronta a quel problema. Ma rimase dell'idea di fidarsi del proprio istinto. Le sensazioni che aveva provato baciandolo, però, erano il motivo che l'avevano spinto a fare la prima mossa. Non se l'era aspettato. Era sempre stato sicuro di essere lui l'uragano, quello che come passa, combina solo guai. Londra ne era stata una prova. Avendo conosciuto Lance, però, non si era mai reso conto quanta vita quel ragazzo avesse dentro. Lo sconvolgeva e lo faceva sentire in balia di una tempesta di continuo e allo stesso tempo lo calmava. L'odore d'erba e di salsedine gli oscurò per un momento i sensi e si sentì infinitamente stupido.

*

Appena arrivò a casa, buttò le sue cose sul tavolino all'entrata, poi si levò le scarpe e andò a prendere una birra al frigo. Quel giorno sarebbe rimasto a casa a fare nulla se non bere e guardare la tv sul suo vecchio divano. Non aveva neppure voglia di controllare i messaggi in segreteria. Rimase per qualche minuto sdraiato, contemplando quanto fosse diventato vecchio. Una volta non avrebbe sentito tutta quella stanchezza, anche dopo quattordici ore di lavoro.

Invidiava i suoi atleti e la loro giovinezza. Fosse tornato indietro, forse non avrebbe mai fatto la cazzata di sposarsi a ventiquattro anni e fare subito un figlio. Giusto, Garrett. Avrebbe dovuto chiamarlo in giornata.

"Alla fine sono sempre i figli che fanno muovere il culo a noi vecchi," disse Stan tra sé e sé, cliccando distrattamente sul tasto della segreteria telefonica mentre si dirigeva verso il divano, aspettandosi di sentire la voce di Garrett.

"Buon pomeriggio. Sono la signora Vega. Lavoro per il West Ham e le sarei molto grata se Lunedì richiamasse. Abbiamo preso in considerazione la sua proposta e gliene vorrei parlare. A presto."

In quel momento non seppe se sentirsi sollevato o meno. Forse avrebbero preso Lance.

*

"Stasera mi sfondo talmente tanto da non vedere domani," esordì Akel con tono scocciato, mentre saliva in macchina.

Leeroy e Daniele inarcarono un sopracciglio nello stesso istante, fissandolo dallo specchietto retrovisore.

"Che c'è?" rimbeccò il turco.

"Non voglio spiegare a tua madre perché sei tornato a casa ubriaco."

"Quello con la giornata storta sono io," sbottò Balboa, atteggiandosi a primadonna come sempre.

Akel alzò gli occhi al cielo. "Scusa, non voglio fregarti il posto." rispose acido. "I miei stanno viziando i miei fratelli in un modo allucinante e volevano che restassi a fare il babysitter," aggiunse poi, sospirando.

"Poteva essere peggio dai," sdrammatizzò Leeroy, mettendo in moto.

"Io li adoro, ma stanno crescendo come rompicoglioni."

*

Fuori dal locale gli altri li stavano aspettando, ma Lance non c'era. Non doveva essere deluso; in fondo gli aveva risposto che non sapeva ancora a che ora si sarebbe liberato. Aveva voglia di vederlo. Seguì gli altri, cercando di pensare ad altro. Andy gli si accostò subito.

"Sei stato grande oggi!"

"Se continui così sono sicuro che Stan ti metterà presto sul campo," ammise Leeroy; non cercava di consolarlo o di dargli false speranze, era convinto delle sue parole.

"Non penso."

"Dai vieni, ti offro da bere," disse il difensore, cambiando discorso.

"Devi offrire anche a me!" sentenziò Daniele.

"Non sono la banca d'Inghilterra," rispose scocciato, ma andò comunque al bancone.

Gli altri erano già spariti sulla pista a fare I Casanova dei poveri con l'intera squadra di pallavolo femminile.

"Ma non doveva essere una serata solo ragazzi?" fece l'italiano scettico.

"Non è colpa mia se in questa città ci sono solo due locali in croce."

Leeroy riuscì a vedere Abigail da lontano, i suoi capelli erano inconfondibili. Si chiese se sarebbe venuto anche Miles. Nei suoi messaggi con il portiere aveva detto che poteva portarlo. Forse aveva fatto una cavolata se c'era anche lei.

Bevve con gli altri e poi si buttarono in pista, anche se odiava ballare. Subito venne afferrato per un braccio e trascinato in mezzo.

"Cosa ci fai qua?" gli chiese Abigail all'orecchio.

"Serata tra ragazzi. Te?"

"Serata tra ragazze. Ma dov'è?" domandò lei.

"Lance? A lavoro."

"Dobbiamo ancora brindare." Lo riafferrò per il braccio e se lo portò davanti al bancone.

"Guarda che non stiamo insieme," disse lui in fretta, per mettere subito le cose in chiaro. Lei non lo ascoltò nemmeno, ordinando subito da bere.

"Se fosse come dici te, lui non sarebbe andato a prendere Miles per venire qua."

Leeroy la guardò di sasso. "Come lo sai?"

Abigail sorrise, per poi brindare e buttare giù lo shot di tequila.

Il ragazzo fece lo stesso e sentì l'alcol bruciargli la gola. Quello era il momento di smettere di bere; doveva guidare per tornare a casa e non voleva combinare altri casini.

"Comunque, ti ha fatto proprio un bello scherzo questa volta," disse lei, indicando il sopracciglio.

Leeroy smise di stupirsi del fatto che lei sapesse tutto, sapeva già chi era ad aver cantato con lei.

"Torniamo a ballare."

Riuscì solo a pensare che Daniele si sarebbe incazzato a fine serata per il fatto che fosse sparito a quel modo. Erano nel locale ormai da due ore quando sentì il cellulare vibrare.

Il messaggio era breve: Vieni fuori. Inarcò un sopracciglio, per poi alzare la testa dallo schermo e puntare lo sguardo all'entrata, senza però vedere nessuno se non Miles.

"Torno subito," disse titubante ad Abigail.

"Divertiti," sorrise lei maliziosa.

Prima di andarsene, però, le prese la mano, alzandola sopra la testa per fare segno a Miles di raggiungerla. Quando lei se ne accorse il ragazzo era già partito nella sua direzione e Leeroy sparito.

"Stronzo."

Si preparò un broncio di circostanza per salutare Reginald, ma divenne subito un sorriso timido. Le scappò un'altra imprecazione.

*

Fuori dal locale non c'era alcuna traccia di Lance. Fece per riprendere il telefono in mano quando il ragazzo gli comparì davanti, facendogli prendere un colpo.

"Avvisa quando arrivi, cazzo."

"Se non stessi tutto il tempo con il telefono in mano non avresti questi problemi."

Leeroy alzò gli occhi al cielo. "Miles è già dentro."

"Lo so," rispose sinteticamente Stark.

"E credo che Stan sappia che l'occhio nero sia colpa tua," gli confidò il terzino, sospirando. "A 'sto giro mi spacca il culo se combino di nuovo qualcosa, lo so," ammise frustrato.

"Non credo farà qualcosa," disse il portiere, accendendosi una sigaretta.

Per un momento Rogers pensò di dirgli che Abigail sapeva tutto, ma poi avrebbe dovuto spiegare perché era andato a parlare con lei dei suoi problemi. Preferì di no.

Rimasero per qualche secondo in silenzio. Leeroy si passò una mano tra i capelli nervosamente, non sapeva di che parlare tutto d'un tratto.

"Perché mi hai chiesto di venire fuori?" buttò lì il terzino.

"Non ho voglia di entrare. Non è serata, ho scazzato con la mia collega al lavoro."

A Leeroy venne da ridere. "E quindi vieni da me per peggiorarla?"

"Devo comunque sfogarmi in qualche modo. Sei sempre servito a quello in realtà," rispose Stark, ridendo a sua volta.

"E certo, sono un sacco da box."

"Non te la prendere, il più delle volte è colpa tua."

Lance gli fece segno di seguirlo. C'erano troppi occhi indiscreti in quel momento. Il portiere aveva voglia di stare da solo con Rogers. Era rimasto stupito nel leggere quel messaggio ed era ancora più stupito del fatto che aveva sorriso leggendolo.

Non appena Leeroy superò l'angolo della strada, lo spinse contro il muro, prendendogli il volto tra le mani, e lo baciò. Il terzino rimase per un secondo interdetto. Quella era l'ultima delle cose che si sarebbe mai aspettato da Stark in un posto simile. Ricambiò subito il bacio. Sentì una mano dell'altro afferrarlo possessivamente per il fianco. Il piacevole freddo che aveva sentito fino a quel momento si tramutò in un vento rovente. Non era abituato a quelle sensazioni. Si sentì come una bomba a tempo. Quando Lance si staccò per permettere ad entrambi di riprendere fiato, Leeroy si riavventò sulle sue labbra. 

Non sarebbe durata. Sarebbero bruciati prima.

"Sono ancora un sacco da box?"

"Sempre stato."

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Capitolo 29
*** Capitolo 29 ***


The last chance
XXIX


Pioveva a dirotto e, nonostante ciò, aveva acconsentito ad andare a prendere Lance al lavoro. Era rimasto tutto il giorno con Jo in casa a guardare serie tv, aveva bisogno di una boccata d'aria, ma non si aspettava quel diluvio. Non aveva neppure senso usare l'ombrello. Il portiere lo stava aspettando all'angolo della strada, sotto la tettoia del locale. Gli fece segno di salire.

"Cazzo, che tempo," berciò, salendo con la sigaretta accesa.

"Non tirare giù il finestrino, cazzo."

"Non rompere, è solo acqua," rispose a tono Lance, abbassando comunque il finestrino di poco.

"Perché mi hai chiamato?" domandò Leeroy, concentrato sulla guida.

Starkevitò la domanda con un'altra domanda. "Ti va un caffè da me?"

Il guidatore alzò un sopracciglio, interdetto. Lo aveva fatto uscire per andare di nuovo in casa? Sarebbe potuto rimanere sul suo divano a quel punto.

"Prendo un tè a casa tua, non sai nemmeno cosa sia il caffè," rispose acido.

Lance alzò gli occhi al cielo. "Sempre simpatico."

"Come te, dopotutto." Fece una breve pausa. "Tua madre non dice nulla se vengo a quest'ora?" 

Gli sembrò che lo sguardo di Lance si fosse indurito per un momento. Sapeva più o meno com'era la situazione a casa sua, immaginava che non dovesse essere propriamente facile per lui. Soprattutto quando il padre sparisce dal giorno alla notte senza farsi più risentire. In quel momento, si rese conto di quanto poco sapesse veramente di lui. Era a conoscenza delle voci che giravano, ma Stark non aveva mai raccontato nulla. Quasi sì penti della sua domanda quando sentì la sua risposta.

"Non c'è. Io e mia sorella l'abbiamo portata in clinica," rispose con voce spenta, guardando la strada.

Leeroy si diede del cretino. "È per questo che sei mancato da scuola?"

Lance annuì e basta.

Il terzino pensò che se Lance avesse voluto parlargliene lo avrebbe ascoltato, ma non avrebbe fatto domande. Era troppo incasinato.

Arrivarono dopo poco. Il tragitto dall'auto al portone bastò a renderli fradici. "Porco cane," imprecò Roy.

"È solo acqua."

In casa faceva anche più freddo rispetto a fuori.

"Ho dimenticato di accendere i termosifoni," disse Lance per scusarsi, andando a prendere degli asciugamani.

Intanto Leeroy si era tolto gli occhiali per cercare di pulirli alla meno peggio con la maglietta, anche quella bagnata. Quando aveva bisogno della custodia degli occhiali non l'aveva mai appresso. Prese un pezzo di carta e li asciugò con quello.

Lance gli tirò uno degli asciugamani in testa. "Se il tempo resta così è meglio se vai ora a casa, potrebbe peggiorare," commentò Lance, cercando di far capire al ragazzo che non era obbligato a restare. Non riusciva ancora a spiegarsi come fossero arrivati li, ma ora che c'erano non voleva tornare indietro. La cosa iniziava a piacergli. Continuava ad essere dell'idea che fosse uno sbaglio però.

Rogers lo guardò perplesso per qualche secondo. Assottigliò lo sguardo e si tolse la maglietta, stando attento a non far volare gli occhiali, per poi fronteggiare Lance. Notò subito come lo sguardo di Stark cambiò.

"Mi hai fatto venire qua con questo tempo, non me ne vado," disse, prima di baciarlo in punta di piedi.

Lance si staccò senza rispondere.

"Che c'è?" chiese Leeroy perplesso.

Il padrone di casa lo ribaciò a fior di labbra e poi con calma gli sfilò gli occhiali. "Questi danno noia," rispose, posandoli sul tavolo della cucina. Lo afferrò poi per i fianchi e si rigettò sulle sue labbra. Il sospiro di piacere che sfuggì al terzino lo fece sorridere sulla sua bocca. Era bello come lo faceva sentire. Tutto quello che c'era stato prima di Rogers non era niente a confronto. Un brivido di piacere lo scosse per un momento. Cazzo, riuscì solo a pensare. Lo voleva di nuovo sotto di sé come l'altra volta, lo voleva fino all'ultimo respiro.

Il telefono del terzino squillò in quel momento e dovette rispondere, lasciando Lance interdetto. La cugina voleva che andasse subito a casa a controllare della roba.

Il 'mai una gioia' negli occhi di Lance.

*

Stan era rimasto tutto il giorno nel suo ufficio dopo la chiamata con la signora Vega. Aveva finto un mal di testa atroce per non dover tenere lezione, dicendo anche però che non poteva andare a casa. Il preside, per sua fortuna, essendo un suo caro amico, non aveva fatto domande. Non aveva smesso di guardare fuori dalla finestra, cercando di realizzare cosa aveva fatto. Aveva troncato le gambe a Rogers, il suo giocatore migliore. Si sentiva un infame. Un vero allenatore non avrebbe mai fatto una cosa del genere, lui non era quel tipo di persona. Non lo era mai stato. Si tirò in piedi controvoglia e andò alla finestra. Aveva bisogno d'aria e di una sigaretta. Uscì dall'ufficio e si diresse verso il bar sulla strada opposta alla scuola, aveva bisogno di sgranchirsi le gambe.

Aveva chiesto alla segretaria se per il prossimo anno ci sarebbe stato posto per un'altra recluta e lei non aveva saputo rispondere. Lo aveva salutato con un: Ci faremo risentire noi dopo la finale, se ci arriverete. Il telefono era volato dentro il cestino della spazzatura subito dopo che lei aveva riagganciato.

"Cazzo, cazzo!"

Rimase tutto il giorno al bar finché non fu ora dell'allenamento. Avrebbe dovuto parlare subito con Lance e poi con Miles. Il suo capitano si sarebbe infuriato, lo sapeva, e non poteva dargli torto. Reginald aveva pienamente ragione.

Tornò in ufficio poco prima delle quattro e, come volevasi dimostrare, il ragazzo era già lì con tutta la sua solita aria da: io te l'avevo detto.

"Bene, Miles, cosa posso fare per te?" chiese sarcasticamente l'uomo. Sapendo come stavano le cose, non aveva voglia di fare la solita persona educata. Avrebbe fatto la parte del cattivo fino in fondo.

"Voglio sapere cosa ti ha risposto il West Ham," elargì autoritario.

L'uomo sospirò pesantemente. "Prenderanno Lance nel caso in cui arriveremo in finale, alla fine ho mantenuto la mia promessa."

"E per quanto riguarda Leeroy?"

"Avrà più fortuna il prossimo anno," rispose secco, cercando dismorzare la cosa.

Miles lo pietrificò quasi con lo sguardo. "Cosa significa 'avrà più fortuna il prossimo anno'? Lui è quello che si merita di andare in quella squadra, lui è il genio. Lance è fottutamente bravo, ma non al livello di Roy. Questa è un ingiustizia," disse duro. La rabbia lo stava facendo diventare il ragazzo che di solito non era. "Non ci credo che tu abbia fatto una cosa simile."

"Rogers è bocciato un anno, non può andare via senza finire la scuola. È più saggio mandare lui piuttosto che Leeroy," rispose secco l'uomo, non ammettendo risposta.

Miles lo fissò a lungo negli occhi, studiandolo. "Lo dirai a Leeroy?"

"Assolutamente no, renderò pubblico che il West Ham verrà a vedere Lance giocare se arriveremo in finale, ma niente di più."

"Se la metti così, io non sono più il capitano," disse, girando i tacchi e dirigendosi all'uscita. Non aveva intenzione di rendersi partecipe a quella tragedia che avrebbe solo peggiorato la situazione tra i due ragazzi. Era troppo e le scelte di Stan non avevano scusanti.

"Ci vediamo quando dirai la verità, non meritano di sentirla da me."

Stan rimase a guardarlo sparire. Se lo meritava.
 

Andò dai ragazzi subito dopo, prendendo il coraggio che gli era mancato fino a quel momento. Li trovò già sul campetto a riscaldarsi. Se Leeroy avesse preso male la cosa, si sarebbe giocato il posto in finale. Lo vide insieme a Balboa e Akel mentre facevano gli stupidi come sempre. Lance, invece, lo osservava dall'altro lato del campo, mentre parlava con Drew. Miles se ne era proprio andato. Di lui non avrebbe detto nulla.

"Ragazzi, ascoltate. Non so se lo sapete già o meno, ma ho una buona notizia per il signor Stark. "

Il ragazzo, sentendosi chiamato in causa, rivolse lo sguardo sull'allenatore, capendo subito dove sarebbe andato a parare. Non voleva che lo dicesse così apertamente, con Leeroy non ne aveva ancora parlato. Se n'era completamente dimenticato, non voleva che lo venisse a sapere così. Pensava che la storia del West Ham fosse solo una remota possibilità. Scosse la testa in segno di diniego verso Stan.

L'uomo non capì quel gesto e proseguì. "Se voi idioti vi aggiudicherete il posto in finale, verrà un agente del West Ham a vedere giocare Lance. Quindi fatemi il piacere di continuare come avete fatto fino ad ora. E Leeroy, ti osservo," disse l'uomo, guardando il ragazzo.

Rogers rimase per un attimo interdetto, con lo sguardo vacuo. Non si rese nemmeno conto che Lance aveva ripuntato gli occhi su di lui.

"Ora iniziate con i giri di campo."

Daniele quasì fulminò Stan con lo sguardo. "Ti sembra normale, cazzo?" sbottò una volta che erano lontani dalle orecchie dell'allenatore. "Perché cazzo dovrebbero venire a vedere lui quando ci sei te?" continuò arrabbiato.

"Probabilmente perché Roy deve ancora finire la scuola?" fece Akel. La cosa aveva sconvolto anche lui, ma riusciva a capire il perché di quella decisione.

"Così non lo fai stare meglio," berciò l'italiano.

Leeroy li lasciò perdere e li superò senza dire nulla. Passò tutto l'allenamento senza proferire parola.

Stark non poteva fare a meno di sentirsi in colpa. Non riusciva nemmeno a capire dove fosse Miles. Aveva detto che lo avrebbe preceduto ma, quando era arrivato negli spogliatoi, non aveva trovato nemmeno il suo borsone.

Avrebbe dovuto parlarne con Lee prima, senza fargli avere quella sorpresa da incubo. Perché diavolo non potevano scegliere entrambi? Era Rogers quello nato per stare sul campo, non il contrario. Sapeva di essere bravo, ma allo stesso tempo sapeva di non essere come lui. Erano su due pianeti differenti.

Gli sembrò che gli allenamenti non finissero mai. Fu un supplizio enorme riuscire ad arrivare alla fine senza rivolgere parola al terzino. Si sentì un coglione senza precedenti. Stan avrebbe potuto consultarsi con lui prima di parlarne. Non che non volesse tenere la cosa segreta, ma avrebbe preferito mettere lui stesso il compagno di squadra al corrente. Cercò di darsi una calmata. Dove cazzo era Reginald quando serviva?

Quando negli spogliatoi riprese il suo telefono, trovò varie chiamate da parte del suo migliore amico. Probabilmente voleva spiegargli cosa fosse successo; decise di chiamarlo più tardi, doveva prima parlare con Rogers.

Riuscì a rincorrerlo fuori dal parcheggio, arrivando giusto in tempo prima che mettesse in moto la macchina. Gli si parò davanti come se si trattasse di vita o di morte. Ci erano vicini.

Leeroy lo fissò ad occhi sgranati, facendosi scappare un'imprecazione. Abbassò il finestrino e lo invitò a salire.

"Possiamo parlare?" domandò il portiere.

Il terzino sembrò pensarci su, ma poi annuì. Aspettò che fosse salito e mise in moto. Non c'era nulla di cui parlare. Era solo deluso da se stesso in realtà. Se non si fosse fatto bocciare a Londra ci sarebbe lui al posto del portiere, oppure avrebbero preso entrambi.

"Tu lo sapevi già?" domandò, cercando di intavolare il discorso.

"Sì, me l'aveva detto Stan qualche settimana fa, ma credevo fosse solo una  possibilità remota. Non credevo che poi sarebbe diventata ufficiale," spiegò sinceramente, con un sospiro pesante. "Con tutto quello che è successo l'avevo completamente dimenticato. Avrei dovuto parlartene," aggiunse, cercando di leggere l'espressione del guidatore.

"Non devi scusarti. Se sei venuto a parlarmi perché pensavi mi sentissi tradito o chissà cosa, hai visto male," replicò con tono duro.

"Allora perché ti stai comportando così?" domandò Lance seccato; si era sinceramente preoccupato per Leeroy e, nonostante non stessero insieme, si era reso conto di tenerci. Non sapeva nemmeno se la loro fosse una relazione. Si era fatto tutti quei problemi per nulla prima?

Leeroy svoltò prima di arrivare a casa Stark, verso il parco giochi del quartiere. Se doveva raccontare la storia, tanto valeva farlo con calma e per bene. Parcheggiò in silenzio e pensò bene alle parole che avrebbe dovuto usare. A quell'ora era buio e aveva ripreso a piovere, fortunatamente non c'era nessuno nei paraggi. Odiava stare in auto e avere gente che fissava mentre passava di fianco.

Lance lo stava ancora guardando, aspettando una risposta in trepida attesa.Non capiva quale fosse il problema del ragazzo. Probabilmente non lo conosceva come pensava. Cosa sapeva di Leeroy prima che tornasse a Brighton? Nulla.  Sapeva che il periodo di Londra  l'aveva cambiato, ma nessuno sapeva cosa fosse successo; o meglio, gli unici a sapere tutto erano i suoi pochi intimi. Non riusciva ancora a credere che Daniele riuscisse a mantenere segreti del genere. Quel ragazzo era quasi una vecchia zitella con il gossip sulla lingua dalla mattina alla sera.

"Il problema non è che abbiano scelto te. Sei bravo, nella mia classifica mentale vieni subito dopo di me," disse serio.

"Modesto."

"Anche tu sai che è vero. Non è questo il punto." Prese un respiro profondo, massaggiandosi le tempie. Avrebbe volentieri fumato. "La mia bocciatura a Londra. Se io non mi fossi fatto bocciare, ora sarei all'ultimo anno e avrei la mia possibilità. Dovrò aspettare un altro anno e a quel punto sarò un anno più vecchio."

"Puttanate. Lo sai che se sei un fuoriclasse, ti prenderanno a prescindere."

"Sì, ma sarei andato volentieri a giocare in una squadra tutta nuova, che si sta ricostruendo ora," ammise. Si accasciò sul sedile.

Lance aveva paura a chiedere, ma voleva sapere. In giro era girata la voce che Rogers fosse troppo stupido per la scuola di rampolli e poter continuare a studiare là, ma secondo lui era una balla inventata.

"Perché sei stato bocciato? Perché sei tornato a Brighton quando eri a Londra e avresti avuto più possibilità?" 

Leeroy rise tra sé e sé, volgendo poi lo sguardo al compagno di squadra. "Mi faceva schifo. La squadra di calcio era piena di rampolli mezze seghe. Ho visto ragazzi migliori giocare in spiaggia."

"È per quello quindi?" domandò.

Rogers strizzò gli occhi, sorridendo amareggiato e cercando di ricordare quei momenti. "No, i professori e mia nonna. La famiglia di mia madre mi ha obbligato ad andare a Londra, io volevo restare qua. A scuola andavo bene, diciamo," spiegò, guardando fuori dal finestrino.Quelle cose le sapevano solo i sue migliori amici e la sua famiglia. Si chiese cosa avrebbe pensato Lance di lui dopo quelle parole.

"Odiavo stare là, non sono un figlio di papà. Odiavo i loro commenti del cazzo quando la sera si usciva per andare a bere. Avevo degli amici che avevo conosciuto al campetto ma, siccome non erano ricchi, per loro erano dei pezzenti. Queste cose non le sopporto, non sopporto le ingiustizie. Mi sono picchiato con i compagni della mia classe, ne ho mandato uno all'ospedale, mi sono preso una denuncia e da quel momento a scuola le cose non andavano più bene. Mia nonna poi aveva cercato di fare donazioni per garantire la mia permanenza lì, ma poi ho mandato a fanculo tutti i prof ed eccomi qua," disse sarcastico, guardandolo poi negli occhi. "Lo rifarei cento volte e per questo non verrò scelto quest'anno," aggiunse infine, sospirando.

Leeroy si appoggiò con la schiena al finestrino e continuò a guardare Lance negli occhi. "Quindi no, non ce l'ho con te perché non mi hai detto nulla. Non ti biasimo. Anch'io ho i miei problemi, anche se non sono uguali ai tuoi, ma non mi sogno nemmeno di paragonarli," disse poi, avvicinandosi al viso dell'altro.

"Ti chiedo solo... se io condivido qualcosa con te è perché mi fido. Se vuoi, puoi fare " sussurrò Leeroy sulle labbra di Lance, guardandolo negli occhi prima di baciarlo.

 Fu come quando l'onda si abbatte sugli scogli. Ciò che più di tutto spaventò Lance fu la consapevolezza che si sarebbe scopato Leeroy anche lì in auto, vicino al parco giochi. Gli accarezzò la testa all'attaccatura dei capelli. Quando poi si staccarono, gli lasciò un altro bacio a fior di labbra, fissando gli occhi neri come la notte del terzino. Il desiderio che provava Leeroy per lui lo lasciò di nuovo spiazzato. Ciò che vedeva in lui non l'aveva mai visto. Da quando si erano avvicinati a quel modo, aveva scoperto lati del ragazzo che sperava nessun altro avrebbe mai visto. Rise per un momento.

"Che c'è?" chiese Rogers, passando lo sguardo su quello dell'altro e poi alle sue labbra.

"Sei sicuro di quello che stai facendo?" domandò di nuovo con una risata incredula, baciandogli una guancia.

Leeroy non gli era sembrato così serio, neppure la prima volta che lo avevano fatto.

"Se non fosse così non sarei qua," disse, mordendogli il labbro inferiore.

Si baciarono ancora a lungo. L'odore di Leeroy era così forte e così travolgente da tramortirlo quasi. Non riusciva a dire quanto fosse perfetto per lui tutto ciò. Era irreale. Era irreale che provasse tutto quello solo stando a contatto con lui. Solamente respirando la stessa aria. Dovevano andare a casa. 
 

Quando arrivarono all'appartamento di Lance, lo invitò di nuovo ad entrare. Non riusciva a togliergli le mani di dosso.

"Non posso fermarmi tanto, domani abbiamo scuola," disse il terzino

"Come se fosse la prima volta," scherzò il padrone di casa, facendo strada.

"Le altre volte sono stati casi non programmati," rispose a tono. "Non posso arrivare tardi a scuola o mi segano."

Lance avvolse il collo dell'altro con le braccia, poggiando la fronte sulla sua. "Non ti manderò a letto tardi."

Leeroy lo baciò, lasciando poi che l'altro lo trascinasse nella camera da letto. Gemette di piacere quando Lance lo afferrò per una natica prima di cadere entrambi sul letto.

"Non lasciarmi segni come l'altra volta," disse Rogers irremovibile.

"È stata una svista," sussurrò l'altro sul suo collo, facendolo rabbrividire.

Leeroy si sentì afferrare di nuovo per i fianchi e combaciare perfettamente con l'altro, sentendo risvegliare tutti i sensi in una volta. Un brivido di piacere gli scosse di nuovo la schiena e il corpo, facendo in modo che ribaltasse le posizioni, ritrovandosi in testa.

Lance sentì chiaramente i denti dell'altro chiudersi sulla sua giugulare. Gli scappò una risata sorda. Non seppe come, ma riuscì a togliergli la maglietta e subito iniziò a baciargli il petto. A quel modo però non gli piaceva, voleva anche lui avere la sua parte di divertimento.

Leeroy sorrise di nuovo sulle sue labbra, rubandogli un altro bacio prima di riprendere sul suo collo. Tolse anche a lui la maglietta, ritrovandosi pelle su pelle, e il fuoco che dentro iniziava a bruciare, incenerendogli farfalle e viscere. Inconsciamente mosse i fianchi su quelli di Lance, sentendo scosse di elettricità pervadergli il corpo.

Aprì i jeans sotto di lui senza troppo convenevoli. Lance lo riportò sotto di sé per riuscire a sfilargli tutto di dosso. Lo distraeva accarezzandogli e ricoprendogli il corpo di baci. Vedeva perfettamente il modo in cui gli occhi nocciola di Leeroy diventavano sempre più neri, oscurati dal piacere. Lo avrebbe voluto così per l'eternità. Si sentì un idiota. Aveva solo diciott'anni e tutto in quel momento gli sembrava perfetto. Non avrebbe voluto che il tempo andasse avanti, non avrebbe voluto cambiare lui con nessun altro.

Riuscì a spogliarlo con non poca fatica e, per forza di cose, Rogers lo obbligò ancora una volta a cambiare posizione, ritrovandoselo sopra di sé. Quando si sentì inglobare nel corpo dell'altro senza alcun preavviso, quasi perse un battito. Vedendo però il volto di Leeroy, cercò di stare fermo. La prima volta per lui non doveva essere stata il massimo. Rimase immobile, aspettando che fosse lui a fare la prima mossa. Se continuava a stare così, però, sarebbe sicuramente morto.

Lo strinse a sé, avvicinando la propria bocca all'orecchio del ragazzo. "Lee, quando vuoi," lasciandogli poi un bacio sullo zigomo. Continuò a ripete quel diminutivo sussurrandolo, e cercando di tenere le redini, finché non sentì i fianchi di Rogers muoversi.

Se lo avesse saputo prima, non avrebbe passato quasi due anni a fargli la guerra.
 

Il modo in cui si muoveva, in cui lo chiamava con lo sguardo e in cui lo baciava fece credere a Lance che, in fondo, su questa terra un paradiso può esistere. Avrebbe voluto trascorrere così le sue ultime ore, sarebbe potuto morire lì. Tra quelle cosce e quel respiro spezzato dalle spinte, e la preghiera che leggeva in quello sguardo. 

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Capitolo 30
*** Capitolo 30 ***


The last chance
XXX
 

Se qualcuno l'avesse visto in quel momento, sicuramente avrebbe pensato che fosse impazzito. Adam se ne stava al centro della stanza, davanti aveva un quadro. La finestra aperta lasciava entrare il sole di una bella giornata e il freddo dell’inverno. Teneva gli occhi chiusi, mentre ascoltava la musica dalle cuffiette; il cellulare era infilato nei boxer, tra le mani aveva solo un pennello, la tavolozza e nient’altro addosso. Pelle e tatuaggi erano in mostra solo per la tela davanti a sé. La porta della camera era chiusa a chiave, non voleva essere disturbato mentre si lasciava andare. Non sentiva il gelo che entrava dalla finestra. Aveva i pensieri persi nell’opera. Ondeggiava testa e braccia a ritmo con le note, cercando di focalizzare. La carne gli rabbrividiva solo per quelle voci.

"Vieni e senti del mio core il frequente palpitar," disse lentamente, non riuscendo a raggiungere il cantante.

Era tutto troppo chiaro. C’era troppa luce là dentro, ma andava bene in quella tonalità per il quadro; erano i suoi occhi ad aver bisogno di vedere una tonalità più scura. Indossò gli occhiali da sole con le lenti tonde e la montatura fine in oro. Lei li adorava, e lui adorava lei. Non per niente gli servivano per dipingerla. Per mostrare tutta la sua bellezza agli altri, ma attraverso quelli, lui solo riusciva a vederla. La venerava.

Intanto Lance continuava a chiamarlo senza ricevere risposta.

*
 

“Sei sicuro della tua scelta?” domandò Abigail, soprappensiero. Era preoccupata per il fratello: da tre giorni non usciva da camera sua. La cosa ancora più strana era che non faceva alcun rumore. Solitamente si sarebbe sentita musica metal per tutta la casa.

Miles era furibondo, glielo si vedeva in faccia da come teneva le sopracciglia aggrottate e dagli occhi scuri. “Sì che sono sicuro. Lasciare il ruolo di capitano non può che farmi bene. Mi sono rotto le palle di fare il babysitter ad un adulto e a dei bambini, cristo santo," sbottò per poi prendere il telefono. Non smetteva di vibrare e lo stava innervosendo all’inverosimile. Lo mise sul silenzioso e lo lanciò a malo modo sul tavolo di casa Twain.

“Datti una calmata," disse Abigail con tono autoritario. Lo scatto del ragazzo l’aveva riportata con i piedi per terra. Dopo ciò che gli aveva raccontato, era sempre più convinta che l’ormai ex-capitano della S. Collins avesse fatto una puttanata.

“No che non mi calmo. Stan doveva dirglielo e invece no. Ha preferito fare finta di nulla, fregandosene di tutto," urlò quasi. “E chi ha la coscienza sporca? Io, non lui. Io non riesco a far finta di nulla. Era il posto di Leeroy, non di Lance, cazzo.”

Abigail lo afferrò per il colletto della maglietta, portandoselo ad un palmo dal naso. Miles si dimenticava spesso della forza della ragazza. Troppo spesso.

La padrona di casa piantò il proprio sguardo negli occhi dell’altro con durezza. “Datti una cazzo di calmata, sei in casa mia, cazzo. Se continui così ti sbatto fuori.”

Miles la guardò stralunato e con le sopracciglia ancora più aggrottate. “Dattela te una calmata," disse lui con tono più calmo.

La giovane Twain lo lasciò.

“Fai paura quando fai così. Dovevi andare a fare wrestling,  altro che pallavolo.” In tutta risposta rivide uno sguardo torvo.

“Ascoltami," disse allora Abigail, prendendo un respiro profondo prima di continuare. “Lascia le cose esattamente come stanno o potrebbero uscire altri casini. Se ora dici qualcosa a Leeroy causerai solo la divisione della squadra e questa volta sarà peggio.”

Reginald l’ascoltò con una certa irritazione. Non gli piaceva mantenere segreti, soprattutto se doveva farlo con i suoi amici. Lo odiava, gli procurava l’orticaria e quella sensazione fastidiosa di essere una pessima persona, o meglio, un pessimo amico.

“Se fossi tu al mio posto," osò dirle.

“Non cambierebbe nulla.”

“Se tu fossi al mio posto, staresti zitta per il bene di Katerina e Rebecca?”

Se avesse potuto, l'avrebbe ucciso con uno sguardo. “Terrei la bocca chiusa, dannazione. Peggiorerebbe tutto. Lance e Leeroy sono finalmente amici e tu vuoi rovinare tutto!?” Questa volta fu lei ad alzare il tono. Sperò solo che lui non notasse la troppa enfasi. Miles non poteva capire cosa stava succedendo realmente. Se Stark non gli aveva detto nulla della sua tresca, non sarebbe di certo stata lei a rovinargli la sorpresa. Potevano rimanere in una situazione di stallo per un po’. Era convinta che quando poi il portiere gli avrebbe spiegato dei nuovi risvolti della sua vita, anche Miles avrebbe convenuto che la scelta migliore era quella di chiudere il becco e lasciar morire quella storia.

Reginald afferrò il telefono dal tavolo e se lo mise in tasca. “Non so mantenere le bugie." Abigail ebbe come l’impressione che, mentre afferrava l’oggetto, avesse cambiato idea un milione di volte. Il ragazzo si alzò e si diresse alla porta, aveva bisogno di aria.

“Se glielo chiedi,Stan ti farà tornare ad essere capitano," commentò Abigail,  raggiungendolo. “Non voglio esserlo e non voglio supplicarlo. Ha sbagliato lui.”

La ragazza non rispose; prese la giacca dell’ospite dell’attaccapanni e poi gliela porse. La infastidiva vederlo andare via così. Probabilmente, una volta a conoscenza della verità, se la sarebbe presa anche con lei. Ciò però non le fece cambiare idea.

Adam comparve in quel momento in salotto e si stese sul divano. Lui e Miles si scambiarono un'occhiata. Uno annoiato, l’altro stupito.

“Cazzo guardi?” domandò il più grande, con ancora solo occhiali, boxer e pittura addosso.

Abigail alzò gli occhi al cielo, mandandolo mentalmente al diavolo. Reginald aprì la porta e uscì. La ragazza lo seguì ancora.

“Lascialo perdere, è così da quando Alex l’ha mollato.”
"Non mi frega un cazzo se ha il cuore spezzato.” 
“Promettimi che non dirai nulla.” lo pregò Abigail, prendendogli il viso tra le mani. Lo vide sospirare sconsolato e seppe di aver vinto.

*
 

Gli allenamenti alla Ravensburg, il più delle volte, avvenivano anche durante le ore di lezione, soprattutto nel caso in cui ci fosse stata una partita da disputare o in casi speciali.

Edward Lee, l’allenatore, infatti, aveva finalmente ricevuto la lista dei suoi giocatori scelti dai reclutatori. Era contento di vedere il nome di Oliver comparire fra questi ed era ancora più contento che la sua fosse una vera e propria lista. Sapeva che altre scuole avevano un solo giocatore candidato, mentre lui ne aveva ben quattro. Già sentiva decantare le sue lodi.

Tenne un breve discorso su quanto si era impegnato per riuscire a portare quei ragazzi dov’erano e sul loro impegno. La squadra lo guardava trepida d’attesa, tranne uno. Per Oliver il suo nome era scritto lì dalla nascita, non dubitava minimamente del contrario.

Rabbrividiva solamente all’idea di vedersi alla finale con la S.Collins, perché sapeva che tutto si sarebbe ripetuto. Voleva un nuovo confronto con Leeroy, un testa a testa per tutto o niente, e questa volta sul serio. Quando Edward lo chiamò, non esultò neppure, si limitò ad ammiccare.

Una volta finito, si avvicinò all’allenatore. Aveva una sola domanda e, anche pur conoscendo già la risposta - perché anche quella era scritta nelle stelle - voleva sentirsela dire. Voleva sentire che anche Leeroy Rogers era uno dei prescelti dal West Ham. Solo così avrebbe potuto iniziare a sentire il vero brivido del campionato. Non voleva vincere, voleva solo dimostrare che il migliore era lui.

“Hanno combinato un casino. È stato scelto il portiere. Ho saputo che Stan ha fatto pressione per farlo passare, anche se il West aveva scelto Rogers. Non capisco che diavolo combini quell’uomo," disse l’allenatore, controllando le chiamate al telefono. Andava di fretta, aveva una lezione tra pochi minuti ed era in ritardo.

Oliver rimase perplesso, come se gli avessero dimostrato che la Terra era piatta. Non era possibile. Si sentì preso in giro, l’unica persona che lo incentivava era tagliata fuori dalla scommessa. Com’era possibile che dopo una cosa del genere Rogers volesse continuare a giocare con quelli là?

Il suo numero però era ancora salvato in rubrica del suo cellulare.

*
 

La giornata era cominciata male. La sveglia non aveva suonato per nessuno dei due, non avevano assunto caffeina ed ora entrambi venivano chiamati alla cattedra per essere interrogati. Le innumerevoli scuse non erano servite a nulla. Leeroy e Jo marciarono al patibolo, senza alcuna speranza di essere salvati. Come se non bastasse, Daniele da dietro se la rideva sotto i baffi. Dallo sguardo della cugina, capì che l’italiano durante l’intervallo le avrebbe prese. Il che era una magra consolazione; cercò di immaginarsi la scena per tirarsi su di morale.

Tutto sommato non gli andò male, se la cavarono con una sufficienza striminzita e il professore concluse con un: “Spero che il fatto che siate cugini non accomuni anche la vostra possibile bocciatura.”

Leeroy gli avrebbe volentieri spaccato la faccia sulla cattedra, si era immaginato la scena molto vividamente, ma si limitò a sorridere sfacciatamente.

“Ne riparleremo alla fine dell’anno," lo sfidò invece Jo; la ragazza, a differenza del cugino, era brava se voleva. Aveva una buona possibilità di passare l’anno indenne.

“Vedremo.”

Quando l’uomo uscì, la ragazza lanciò il libro di inglese all’italiano, prendendogli una spalla. “Cazzo ti ridi!”

Tutti risero, tranne Daniele.

“Mi hai tolto le parole di bocca," commentò Leeroy contento, ammiccando all’amico. 
 


Sul campetto quel giorno l’umore era basso. Nessuno aveva voglia di correre come al solito o anche di tirare il pallone. Sicuramente era per colpa del freddo e della pioggia che pungeva come aghi. Rabbrividivano tutti negli scarpini e a pettavano solo la fine delle due ore per poter tirare un sospiro di sollievo e potersene andare a casa.

Miles, alla fine, fu l’ultimo ad entrare negli spogliatoi. Era stato trattenuto da Stan, che voleva parlargli. 
“Non posso dare il ruolo di capitano ad un altro.” 
"Non è un problema mio," aveva risposto, senza pensarci troppo. “Sai che se glielo dici torneremo punto e a capo?”

Dannazione se lo sapeva. Era fregato. Era stato fregato sin dall’inizio, avrebbe dovuto cantare subito, invece di prolungare quella tortura. Stan sembrava vivere bene con i sensi di colpa. Annuì. Non voleva aggiungere altro e si incamminò a raccogliere gli attrezzi.

Quando andò a cambiarsi, il locale era quasi vuoto, era rimasto solo il terzetto dei suoi incubi. Sapeva che Lance era scappato per via del lavoro, ma sinceramente non aveva molta voglia di vederlo. Non sapeva se sarebbe riuscito a restare muto ancora a lungo.

Si spogliò e andò dritto sotto la doccia. Voleva scacciare via tutto dalla sua mente. Non si sarebbe dovuto lasciar fregare da Abigail, ma lui non poteva dire no a quegli occhi. Strega, pensò divertito. Una volta fuori, si rivestì con calma, notando Leeroy ancora seduto solo quando uscì.

Era rimasto più del dovuto perché era stanco, gli era presa un'improvvisa sonnolenza e doveva aspettare che Jo uscisse dalla biblioteca. La ragazza era andata a studiare con Olivia, una ragazza della loro classe. Per sua enorme sorpresa, anche ieri era una patita della sua band preferita. La cosa gli aveva fatto alzare gli occhi al cielo, si era stancato di sentire quei cinque di prima mattina, in macchinq durante il tragitto per la scuola. Riusciva a mettere lei di buon umore, ma far crescere la morte nel cuore di lui.

Katy Perry’s on replay, she’s on replay. DJ got the floor to shake, the floor to shake…” si sorprese a canticchiare anche in quel momento. Rabbrividì e scosse la testa. Quando la canzone che odiavi ti rimaneva in testa per giorni,  era semplicemente orribile.

Il telefono del terzino squillò più volte con un numero da lui sconosciuto. Aveva sperato fosse la cugina, voleva andare a casa.

“Pronto?” disse con tono esasperato.

“Rogers, spiegami un po’ che cazzo sta succedendo,” tuonò la voce dall’altro capo. Per un momento Leeroy rimase interdetto, come non capendo di chi fosse. Subito dopo realizzò. “Ma di che cazzo parli, coglione?” rispose poi prontamente.

“Parlo del West Ham. Come cazzo è possibile che ci sia quel cazzo di portiere al posto tuo? Ti sei rincoglionito?”

I pettegolezzi erano già viaggiati fino alla Ravensburg.

“Non sono cazzi tuoi. E dove hai preso il numero?” fece con un senso di irritazione crescente. Che diavolo voleva Oliver da lui? Era così indignato perché non ci sarebbe stato lui nella grande scommessa? Quel figlio di puttana stava facendo di nuovo pressing psicologico come l’altra volta. Riuscire a mandare le persone fuori di testa prima e durante un incontro, era il miglior lavoro che Oliver sapesse fare. Questa volta non gliel'avrebbe permesso.

Sentì come una risata all’altro capo e poi un sospiro.

“Sono io a fare le domande, Rogers. Perché cazzo hai acconsentito a scambiarti con Stark?”
Leeroy non capì.

“Di che diavolo parli?”

“Stan ha scambiato te con lui per il West Ham. Mi spieghi che cazzo hai fatto?” Sentì come un colpo alle costole. Gli mancò il respiro. Non capiva.

“Che cosa?” gli uscì in un soffio.

“Non lo sapevi?” ci fu un silenzio pesante e non sentendo riposta, Oliver rispose e trasse le sue conclusioni. “Il West Ham voleva te, Stan ha fatto pressione per far passare Stark.”

Sentì come se le costole gli stessero comprimendo tutti gli organi interni. Stava per soffocare. “Mi prendi per il culo,” sibilò, stritolando il cellulare.

“No, porca puttana. Volevo delle risposte, porco cane. Doveva esserci il tuo nome su quella lista.” 
"Vai al diavolo." Riattaccò.

Lasciò lì il borsone e uscì di corsa, cercando Miles. Se qualcuno sapeva qualcosa, era lui. Si sentì stupido, esattamente come tutti lo descrivevano. Leeroy Rogers, un ragazzo ignorante che sa solo prendere a calci un pallone. Alla fine l'avevano trattato da tale. Era solo un idiota, si era fatto fregare. Non poteva perdere tutto un’altra volta, non poteva, dannazione. Tutti quei mesi a cosa erano serviti? Riappacificarsi con Lance a cosa cazzo era servito? Cristo, che cazzo aveva fatto? Continuava a guardare davanti a sé con  gli occhi spalancati all’inverosimile, cercando di mettere a fuoco, ma non ci riusciva.

Il sogno gli stava morendo tra le mani e non sapeva come rianimarlo.

Trovò il capitano svoltando per andare verso la scuola. Lo afferrò per la giacca.

“Che cazzo, Roy?"

“Stai zitto. Dimmi solo se è vero o no.”

Reginald non capì, non aveva mai visto gli occhi del terzino così cupi e vuoti. “Ma cosa?”

“Il cazzo di West Ham, avevano scelto me?”

Gli occhi di Miles si spalancarono increduli. Il corpo, per il senso di colpa,non si oppose più alla stretta del terzino. Avrebbe voluto dirgli che era una bugia, ma non ne fu in grado; tutto ciò che gli uscì dalla bocca fu: “Come lo sai?” con un fil di voce.

Non aveva realizzato le parole che aveva usato finché non sentì Leeroy mollargli la maglietta e fare qualche passo indietro. Sentì il rispetto che il terzino aveva portato nei suoi confronti fino a quel momento svanire e tornare come delusione ed incredulità. Si sentì raggelare il sangue nelle vene. Rogers sparì subito dopo a grandi falcate, in direzione del parcheggio.

Restò imbambolato per qualche secondo. Non era stato in grado di dire assolutamente nulla. “Sei un cretino,” disse a se stesso. Il presentimento che il ragazzo avrebbe combinato qualcosa lo assalì subito.

Lo vide da lontano. Stava camminando con Drew verso l’uscita. Indugiò per un secondo ma poi le sue gambe si mossero da sole. Andò ad istinto, non volendo ascoltare la testa. Sentì a malapena la voce di Miles provenire alle sue spalle. Lance, invece, l’aveva sentita, e si era girato. Avvenne quasi a rallentatore. Il portiere notò prima Leeroy dell’amico, e le labbra gli si incurvarono direttamente in un sorriso, senza nemmeno rendersene conto. Qualcosa dentro il terzino scattò e gli fece aumentare nuovamente il passo. Dietro di lui, l’ex capitano stava correndo.

Rogers buttò Drew a terra con forza prima di mirare alla faccia di Lance e tirargli un destro che lo fece barcollare ma non cadere.

“Cristo santo, Roy!” urlò Drew.

Ancora una volta non sentì nulla; era tutto ovattato, percepiva solo il proprio battito.

“Figlio di puttana!” gridò a sua volta, afferrando il portiere per il giubotto e portandoselo davanti alla faccia. “Quel posto era mio!” Gli sputò quasi addosso, con veemenza e con un odio che non aveva mai avuto. La sua testa centrò perfettamente e di prepotenza il naso del ragazzo.

Stark rantolò e il sangue uscì subito. In quel momento tutto scomparve, come se non ci fosse mai stato. Indietreggiò, coprendosi la faccia, ma Leeroy lo buttò a terra e gli salì subito a cavalcioni. “Sei un fottuto bugiardo!” Sferrò un altro colpo al viso.

Lance non era riuscito ad alzare un dito per l’incredulità. Che cazzo era successo?

Riuscì a bloccare il secondo pugno e ad assestarne uno a sua volta, facendo cadere Leeroy al suo fianco. Il naso gli bruciava, sentiva il sangue colargli fino al collo. Quando fece per tirarsi su, il terzino era già ripartito all’attacco, imprecando per tenerlo giù.

Prima che potessero fare altro, arrivò Miles, che afferrò Leeroy da sotto le ascelle, trascinandolo via. Il ragazzo, però, continuava a scalciare e fece perdere l’equilibrio ad entrambi, ma Reginald non mollava la presa.

“Calmati, cazzo!" urlò, cercando di tenerlo fermo; dovette ribaltare la posizione e schiacciarlo con la faccia sul selciato.

“Vaffanculo, lasciami! Cazzo, lasciami, vi ammazzo!” gridò Leeroy, non preoccupandosi di star dando spettacolo.

Drew si riprese solo in quel momento, andando a dar di mano a Lance per sollevarsi; era rimasto pietrificato da quella scena. Nemmeno la volta di Capodanno il terzino era stato tanto violento. Altri ragazzi accorsero a vedere cosa fosse successo, mentre Leeroy continuava a gridare.

Lance scansò l’amico con una spinta brusca e si tirò su, barcollando e pulendosi con la manica il sangue.

“Si può sapere che cazzo hai!?” tuonò incazzato. “Ti sei rincoglionito?” Leeroy sputò un misto di saliva e polvere in tutta risposta.

“Posso spiegare", disse Miles,cercando di calmare le acque e pregando di non finire anche lui in mezzo alla rissa, anche se sapeva di meritarselo però.

“No, cazzo. Non voglio saperlo da te. Voglio sapere da quello stronzo che cazzo sta succedendo, che cazzo ti ho fatto?” urlò Lance, sputando saliva e sangue. Reginald giurò di non averlo mai visto così.

“Non far finta di non sapere, cazzo! Me l’ha detto Reginald.”

“Di cosa cazzo stai parlando?”

“Te e quel bastardo di Stan mi avete fottuto. Il West Ham aveva scelto me, non te, e nessuno mi ha detto un cazzo. Ti ha fatto mettere in lista al posto mio, e tutti lo sapevate, cazzo! Ecco cosa è successo!” urlò ancora Leeroy.

Lance boccheggiò; ora era lui a non capire. Non lo sapeva. Fulminò subito Miles con lo sguardo, cercando una risposta. Sentì la pietà di Stan come un macigno.

Reginald lasciò la presa sul terzino, il quale si tirò in piedi e riscattò in un faccia a faccia con il portiere.

Questa volta fu Drew a mettersi in mezzo per allontanare Rogers; l’ex capitano non sembrava voler più aiutare.

“Smettetela ora!"

“Vaffanculo”, fece Leeroy, spintonandolo di nuovo via e tornando a fissare l’altro negli occhi con ira cieca. Non gli interessava più nulla di lui, di loro, di tutto. L'aveva ammazzato. “Fottetevi tutti e due. Cercatevi un altro giocatore", disse a denti stretti. Era cosciente che avrebbe potuto fare seri danni restando lì.

“Tu non sai un cazzo." Nonostante la sua espressione fosse di puro stupore, il terzino non riusciva a vedere nulla in Lance, solo una faccia come un altra, ed il sangue che la ricopriva non lo impressionava minimamente, non sentiva assolutamente nulla.

“Esatto, sono un gorilla cretino, quindi fanculo", disse, tornando indietro a prendere le sue cose. Non si voltò nemmeno a guardarli; tirò dritto, continuando a sentire il sangue pulsare nelle orecchie. Era tutto andato a puttane. Si chiuse a chiave dentro lo spogliatoio. Doveva calmarsi; cercò di respirare a fondo e si strofinò gli occhi lucidi dalla rabbia. Raccattò borsone e cellulare e rimase impalato per qualche secondo al centro della stanza. Ancora una volta qualcosa scattò dentro di lui e lanciò tutto. Era come se un ingranaggio si fosse rotto e ora non riuscisse più a funzionare, perdeva colpi dopo quella telefonata. Si mise poi a urlare, prendendo a calci le panche. Si sentiva soffocare da quanto era stato stupido. Voleva scomparire, non essere mai esistito, avrebbe voluto addirittura fondersi con il cemento. Voleva essere morto. Non ci sarebbero state altre possibilità. Doveva saperlo, dannazione. L’altra volta era finita allo stesso modo. Quella maledetta partita contro il Ravensburg era stata tutta colpa sua e di nessun altro. Lance era stato un fottuto sbaglio, Brighton era stata uno sbaglio e anche i suoi capricci. Sarebbe dovuto restare a Londra.

Si strofinò la faccia per togliere il lieve velo di sudore, ma quando si guardò le mani, scoprì sangue invece.

“Vaffanculo”, disse con un fiato, tirando un pugno al muro. I denti si serrarono, aspettandosi dolore, ma non sentì nulla. Cadde a terra. 
 

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Capitolo 31
*** Capitolo 31 ***


The last chance
XXXI
 

Aveva passato l'intero pomeriggio a chiamare Lance, si era addirittura presentato a casa sua, ma nessuno aveva risposto al citofono. Se n'era andato sconsolato, consapevole di meritarsi quel trattamento. Dopo il casino che era successo al parcheggio, il suo migliore amico aveva voluto sapere cosa fosse realmente successo. Non l'aveva mai visto così adirato e dispiaciuto allo stesso tempo. Era stato surreale. Per un momento aveva creduto che sarebbe scoppiato in lacrime, invece il suo sguardo era diventato vuoto e se n'era subito andato. Non aveva nemmeno voluto parlare con Stan. 
Miles sospirò amareggiato, provando a chiamarlo ancora una volta. Avrebbe dovuto dirgli tutto dall'inizio, e non impuntarsi con l'allenatore. Ora la squadra era senza capitano, senza terzino e forse anche senza portiere. Si fece i complimenti per la sua trovata. In una sola volta aveva buttato fuori i giocatori migliori della squadra. Doveva fare qualcosa per rimediare al danno, non poteva sopportare di aver fatto una cosa del genere al suo migliore amico, e lo sguardo deluso di Leeroy continuava a comparirgli davanti. 
"Sei un coglione, Reginald!" 
Se Lance non l'avesse ascoltato, forse il terzino l'avrebbe fatto, o almeno, era quello che sperava.

*
 

Non aveva minimamente preso in considerazione l'idea di rispondere a Miles. Doveva prima riflettere. Si era fatto dare giorni in più da Jack durante la settimana, non aveva intenzione di andare agli allenamenti. Nei pochi giorni che erano passati, era andato a scuola, ma era uscito sempre prima per non incontrare nessuno. Aveva evitato Miles come la peste, mentre con Leeroy non ce n'era stato bisogno: il cretino aveva avuto il buonsenso di non presentarsi proprio a scuola. 
Per sua fortuna il naso non era rotto, ma aveva ancora la faccia tumefatta e faceva un male cane. 
L'unico ad aver preso quella rissa sul serio era stato Stan. Era riuscito a fermarlo all'uscita da scuola quel giorno stesso. 
"Se lo vengono a sapere finirai nei casini. Ho già dovuto chiamare i genitori di Leeroy." 
Stark se n'era andato senza rispondergli, scansandolo con la spalla. Non voleva sentire quelle puttanate, non in quel frangente. Doveva andare a lavorare, al diavolo il resto.

Jack non commentò i suoi modi di fare in quei giorni e gliene fu grato; sicuramente anche lui aveva altre cose per la testa, come la cameriera che continuava a sbagliare ad usare la cassa. Lo stava esaurendo in quei mesi. 
Lasciò che la macchina del caffè portasse via il suo cattivo umore, trasformandolo in caffè; non aveva bisogno d'altro in quel momento. Solo più tardi quella sera, in quella casa vuota, sentì il peso di tutto gravargli addosso. Si sentì opprimere il petto e il respiro accellerato, come se dovesse piangere, ma in realtà voleva solo distruggere tutto. 
E lo fece. Tutte le cose che si trovavano sul tavolo della cucina volarono per terra, in uno scatto di pura ira. 
Era stato un idiota. Come poteva aver sperato per un solo momento di essere migliore di Leeroy nel calcio, per una volta, come? 
Quella era stata pietà. Aveva visto pietà negli occhi di Miles e di Stan. Voleva distruggere qualcos'altro. Come diavolo c'era finito lì per terra a disperarsi, senza nemmeno sapere di cosa?
Era la consapevolezza di aver rubato il posto a Leeroy o di essere stato raccomandato a ridurlo così? 
Non avrebbe dovuto fare quello che aveva fatto, era per quello che era sempre stato titubante a creare quel tipo di legame con qualcuno della squadra. Si era messo nella merda da solo. 
"Vaffanculo, vaffancuo, cazzo", disse a denti stretti, prendendo a pugni il pavimento senza riuscire veramente a farlo. 
Andò al frigo e prese una birra; per quella volta poteva anche concedersela. Doveva annegare tutto, doveva morire tutto e lui con esso. Odiava avere ragione. 
Accese lo stereo e per sua sfortuna dentro era rimasto il cd di Alex. Lasciò perdere e selezionò la sua canzone preferita. Si lasciò andare di nuovo per terra, con il viso rivolto al soffitto, ascoltando quella voce che ormai conosceva così bene. 
"We have never lost control with the man who sold the world," canticchiò a sprazzi, ridacchiando e aggiungendo un'altra imprecazione. 
Rimase sul pavimento gelido finché non finì il cd. Non avrebbe chiamato Alexandra per cercare conforto, doveva riprendersi e andare avanti, come aveva sempre fatto. Era già caduto tante volte, cosa faceva una volta in più? Ordinaria amministrazione. Era per quel motivo che non era mai stato un credente. Era un disgraziato come lo era sua sorella, non ci sarebbe stato un lieto fine per loro, solo finti sprazzi di felicità che sfociavano in distruzione. 
Si sarebbe ripreso, sarebbe andato avanti e nient'altro.

Ciò che lo faceva incazzare, però, era che con Leeroy si era davvero illuso. Le cose sarebbero comunque finite così. Lo sapeva dall'anno prima e lui aveva preferito far finta di nulla. In un certo senso aveva sempre provato una specie di attrazione per lui, ma non ci aveva mai badato troppo. Era come un oggetto di cui conosci l'esistenza ed il valore, ma a cui tieni alla larga perché lo sforzo per ottenerlo sarebbe immane e non avresti garanzie. 
Tutto ciò, però, si era concretizzato negli ultimi mesi e, cazzo, gli aveva fottuto il cervello come una malattia. Sapeva che sarebbe finita così, dannazione quanto si era illuso. Si odiava più per quello che per il resto. Era stato avventato, ma lui era lì e in quel momento gli era sembrata la cosa più giusta da fare. Non aveva potuto far finta di nulla, perché lo voleva e si sentiva disperso in una tormenta, senza sapere dove si trovasse il Nord. Baciarlo era stato liberatorio, giusto e aveva quasi sentito il coro degli angeli. 
Si coprì gli occhi con una mano, ricordando la sensazione del momento. Voleva sparire, assorbito dal pavimento, cessare di esistere da quanto faceva male. 
Scosse la testa, come a porre una fine. Doveva andare a letto e dormire. 
Prese sonno difficilmente quella notte, continuando a pensare, era come se il suo cervello volesse dirgli io te l'avevo detto, coglione. 
Riuscì ad addormentarsi solo dopo aver ricordato la finale dell'anno passato, cercando di provare lo stesso odio per Leeroy che aveva provato allora. Forse così sarebbe stato meglio. 
Era riuscito a credere finalmente di nuovo in qualcosa grazie a lui, in quei giorni a studiare e a far nulla. Indirettamente gli aveva fatto del bene, ma in pratica gli aveva solo scavato la fossa.

*
 

In quei giorni non era stato ignorato solo da Lance, ma anche da quell'idiota di Rogers. Non che la cosa lo stupisse, ma lo stava innervosendo più del solito. Se almeno il portiere veniva a scuola sembrando un automa, Leeroy invece non si era proprio presentato. 
Aveva anche scoperto che era Abigail che passava a prendere Jo per portarla a scuola, il ragazzo non usciva più nemmeno di casa. Come se non bastasse, sapeva che Stan aveva contattato i genitori del ragazzo per metterli in guardia. La sua unica fortuna era che nessun professore voleva averci a che fare e avevano lasciato la faccenda all'allenatore. Doveva essere lui ad occuparsi degli elementi indisciplinati. A parte quello, però, non aveva fatto altro, ed era ancora piu snervante. 
Durante gli intervalli, aveva provato a parlare con i due compagnoni di merende di Leeroy, ma nessuno dei due si era minimamente disturbato di ascoltarlo. Akel, che di solito era quello calmo, gli aveva urlato contro. Daniele, invece, gli aveva inveito contro in dialetto; anche quella, una cosa mai successa prima di allora. Erano tutti delusi. Sospirò, rasentando l'esaurimento nervoso. 
Dopo la scuola avrebbe chiamato di nuovo il difensore e, se non avesse risposto, allora avrebbe sentito sua cugina e, se nemmeno lei avesse risposto, sarebbe andato a casa sua. 
Abigail aveva cercato di confortarlo senza speranza. Sarebbe dovuto avvenire in un altro modo. 
Una volta che fu a casa, sbattè fuori i suoi fratelli da camera sua. Ogni volta li beccava con il computer a cercare cose sconce usando la sua e-mail. Erano dei demoni. Sapevano fare di quelle cose con la tecnologia che erano inverosimili per la loro età. Certe volte gli sembravano usciti da Star Trek. 
Si sistemò sul letto e cercò di rilassarsi un momento. Rimase così per una buon mezz'ora, sperando di addormentarsi per lo sfinimento, ma la sua testa stava lavorando troppo in fretta. 
"Ok, ok!" farneticò a voce alta. "Lo chiamo."
Compose il numero del terzino, ma capì subito che nessuno avrebbe risposto. Provò più volte, ma non accadde nulla. 
Alzò gli occhi al cielo. "Sono davvero la madre di questi cretini!" 
Con quel sarcasmo, almeno, si stava riprendendo dal suo abbattimento. Tanto valeva provare a chiamare Jo. 
Sperò che almeno lei non lo mandasse al diavolo. 
Non fece nemmeno in tempo a dire "Pronto" che la ragazza attaccò subito a parlare. 
"Guarda, non mi sembra il caso. È di pessimo umore e i miei zii torneranno fra qualche giorno." 
Rimase perplesso. "Voglio solo spiegargli cosa è successo, né lui né Lance mi rispondono, posso avere una possibilità?" disse tutto d'un fiato. 
La sentì sospirare, sicuramente non era sicura sul da farsi. 
"Sai cosa vuol dire che non l'ho mai visto così? È distrutto e tu vuoi venire a parlargli solo per peggiorare la situazione? Quando tu sapevi tutto sin dall'inizio e non hai cercato nemmeno di spiegare la situazione."
Avrebbe sopportato quelle parole dagli altri, ma non dall'ultima arrivata. 
"Ascolta, conosco tuo cugino da quando andavamo all'asilo, non gli avrei mai fatto un torto del genere solo per gusto. Dannazione, Jo! Siamo compagni di squadra e ci rispettiamo, non l'avrei mai fatto a loro." 
"Senti, solo perché sono qua da poco non vuol dire che io non sappia nulla. Conosco mio cugino e non è ridotto così solo per via del West Ham, c'è dell'altro, ma non sono sicura..." 
Miles rimase stranito. Cosa poteva esserci che lui ancora non aveva notato? 
"Cosa intendi?" 
"Gli dico di chiamarti, almeno parlate. Ha bisogno di sapere la verità da te, e non da Sanders com'è successo." 
Quella era l'unica accusa che meritava. 
"D'accordo."

*
 

Abigail non lo sentì neppure arrivare in cucina. Era troppo silenzioso e strano. La questione gli stava sfuggendo di mano. Lo vide afferrare a malo modo la maniglia del frigo, tirare fuori la bottiglia di vino e bere attaccandosi direttamente. 
"Sei un coglione", sentenziò la sorella. 
Adam la guardò di sbieco, pulendosi la bocca una manica. 
"C'è di peggio." 
"Ti riduci così ogni fottuta volta, fortuna che mamma e papà hanno il turno di notte, altrimenti finirebbe in un macello." 
Il più grande ripose la bottiglia al suo posto con calma, quasi non sentendo le parole. 
"Non sono affari tuoi quello che faccio." 
"Io direi di sì, cazzo. Te ne stai tutto il giorno rinchiuso in camera a dipingere e non esci neppure per andare da Lance. E tutto questo per la più grande stronza di Brighton, complimenti", urlò la ragazza con furia. Suo fratello era meglio di così. 
"Tu non capisci." 
"Non capisco cosa? Che lei non ha intenzione di stare con te? Fattene una ragione e vai avanti. Cristo santo, non sei nemmeno andato da Lance dopo quello che è successo." 
"Anche tu dovresti guardarti da chi scegli come ragazzo. Un bugiardo", rispose lui prontamente. 
Abigail scattò in piedi e assieme a lei un rovescio che finì sulla guancia destra del fratello. 
"Non provarci nemmeno. Fai qualcosa per riprenderti, perché sei ridicolo. Fino ad allora, non rivolgermi la parola", tuonò la ragazza, fulminandolo con lo sguardo. 
Adam rimase per un attimo scosso dal colpo, ma poi come niente fosse successo le voltò le spalle e si diresse alla porta. 
"Vai scappa dai problemi, è quello che hai sempre saputo far meglio!", urlò lei ancora. 
"Sono fuori con dei compagni di universita, ci vediamo domani mattina", tagliò corto lui prima di prendere la giacca in pelle ed uscire. 
"Vai al diavolo."

*
 

Come volevasi dimostrare, Leeroy non l'aveva richiamato. Alla fine si era ritrovato in auto alla volta della villa sulla collina. Aveva anche ricevuto un messaggio da parte di Abigail, infuriata con il fratello. Non poteva fare a meno di non sopportarlo. Quella ne era la prova lampante. Sperò solo di avere il tempo di andare da lei più tardi, sempre che non fosse finito all'ospedale per colpa del padrone di casa. Gli scappò una risata isterica.

Parcheggiò vicino al cancello e andò a suonare. 
Si era ripromesso che, se non avessero aperto, avrebbe scavalcato il muro di recinzione. Con suo sommo stupore, dopo solo dieci minuti gli venne aperto. Sicuramente Jo doveva aver litigato con il cugino nel frattempo. Quando arrivò sull'uscio, la porta era già aperta. 
"Mi immaginavo saresti venuto", disse la ragazza, andandogli incontro. 
"Non ha chiamato." 
"Ho cercato di convincerlo, ma non ne vuole saperne né di scendere né di uscire. Ha anche lanciato l' Xbox. Se ne sta in camera ad ascoltare musica e dormire", raccontò lei, afflitta. 
"Posso andare su?" 
"A tuo rischio e pericolo" 
Si fece coraggio ed imboccò le scale. 
Lo trovò a testa in giù sul divano di camera sua, con le cuffie in testa, mentre canticchiava non sapeva cosa. Le finestre poi erano oscurate dalle tende. Non aveva idea di come facesse a respirare li dentro, l'aria era pesante. Come si immaginava, poi, la stanza era un macello, vestiti ovunque ed il letto sfatto. 
Andò alle tende e le tirò per poter aprire le finestre e far entrare aria pulita. Subito dopo gli prese il telefono dalle mani, staccandolo dalle cuffie. 
Rogers imprecò subito, cercando di afferrare l'oggetto dalle mani di Miles, senza riuscirci. Si sbilanciò e cadde per terra con le gambe al soffitto. Imprecò ancora per il dolore alla schiena. 
"Cosa diavolo vuoi?" 
"Vestiti ché usciamo, dobbiamo parlare", proruppe subito Miles, con il solito tono che non ammetteva repliche. Doveva rimediare a tutto.

*
 

Arrivarono al locale dopo mezz'ora. Nessuno dei due aveva proferito parola durante il viaggio in auto. Leeroy era ridotto nel suo solito stato con barba e occhiaie. Era inverosimile come si riducesse ad ogni colpo basso. Non poteva dargli torto però.
Si misero in disparte, ad un tavolo lontano dal chiacchiericcio del venerdì sera. La sala era piena di combricole ed universitari. Quanto li invidiava, non vedeva l'ora che quell'anno finisse. 
La cameriera portò loro due bottiglie di birra e se ne andò senza guardarli nemmeno in faccia, avevano molto da fare quella sera dietro il bancone. 
Leeroy ne buttò giù metà in una sorsata sperando che l'alcol l'avesse fatto diventare piu incline alla parola. Non si era aspettato che Miles si presentasse alla sua porta, ma avrebbe dovuto. 
"Non è stata colpa di Lance, ha fatto tutto Stan", riuscì a dire Reginald finalmente. 
"Questo non cambia che mi abbiano tolto qualcosa che era mio di diritto", risposte Roy tagliente. 
"Lui non lo sapeva, Stan gli ha fatto credere che la squadra avesse scelto lui sin dall'inizio. Io ho sbagliato perché quando l'ho scoperto avrei dovuto subito dirvelo, invece ho sperato che Stan si scusasse e dicesse la verità... Non sei l'unico ad essere rimasto deluso. Sono settimane che ci litigo, ma lui ha deciso di fare di testa sua e allora ho mollato la squadra", raccontò l'ex capitano, sperando che Leeroy capisse. Sapeva che non sarebbe stato facile, il ragazzo era testardo ed orgoglioso. 
"Pensi che ciò possa farmi stare meglio? Mi avete tutti quasi obbigato ad andare d'accordo con quello stronzo e poi quando le cose vanno bene, Stan se ne esce con questo? Dimmi dov'è la coerenza. Cosa si aspettava che succedesse quando lo fossi venuto a sapere? Che avrei fatto finta di nulla? No, cazzo", sbottò il terzino. Per lui ormai era una questione di principio, quella era stata una provocazione. L'avevano fregato sin dall'inizio. 
"Calmati, dannazione. Lo so che il vostro rapporto era andato a puttane durante la finale, tutti lo sanno. So anche lo sforzo che hai fatto per andarci d'accordo e diventargli amico. E le cose andavano bene, lo so. Eravamo tutti contenti, almeno nessuno si sarebbe ritrovato di nuovo deluso. Sono stato un coglione perché avrei dovuto dirvelo subito", si sfogò Reginald, sperando che l'altro capisse. 
Leeroy sospirò profondamente, bevendo poi quello che restava della sua birra. Era arrabbiato perché non voleva mettersi di nuovo contro l'intera squadra. Aveva sbagliato una volta e quella volta era stata solo colpa sua, ma ora era diverso, perché era lui la vittima. Cosa avrebbe dovuto fare? Andare da Lance come se nulla fosse mai accaduto e dirgli che gli dispiaceva per avergli rotto il naso? 
Cristo santo, dopo tutto quello che era successo non sapeva nemmeno come comportarsi. La sola idea di rivederlo gli faceva crescere il panico dentro e gli mozzava il respiro. Non ci sarebbe mai riuscito. L'aveva picchiato senza guardarlo in faccia, gli aveva fatto uscire sangue e se l'era ritrovato su di sé. Tutto ciò l'aveva fatto star male per la prima volta. Quando era tornato a casa, aveva davvero chiesto a se stesso cosa cazzo hai fatto?!.
Per fortuna c'era stata Jo: non aveva fatto domande e l'aveva sorretto come sempre. Sin da quando erano bambini lui faceva i danni e lei li riparava. Ora, invece, si ritrovavano in quell'età in cui entrambi facevano casini. 
"Non ho intenzione di tornare in squadra finché Stan non si scuserà con entrambi", sentenziò poi. 
Miles rimase perplesso, non capendo. 
"Tornerai a scuola?" domandò pacatamente. 
"Sì, ma non so se riuscirò a guardare Lance in faccia dopo quello che ho fatto", disse la verità in un sussurro, sorreggendosi la testa con i palmi sul tavolino. 
Un dubbio sorse in Miles. Cosa intendeva Jo con c'è dell'altro
Normalmente Leeroy sarebbe tornato quello di prima, non avrebbe mai detto che non sarebbe riuscito a guardare il portiere in faccia. 
"Non avrei dovuto farlo, porca puttana." 
"Il naso non è rotto, ma ha la faccia blu. Guarirà, non ti preoccupare." 
Quelle parole furono una magra consolazione. "Sono un coglione", disse ancora Leeroy. 
A Miles sembrava straordinariamente e sinceramente dispiaciuto, come non l'aveva mai visto. 
"Hai provato a chiamarlo?" osò domandare. 
Il terzino negò con la testa. "E nemmeno lui ha provato a chiamarmi, ma direi che è meglio così." 
Miles sospirò, afferrando la sua bottiglia e bevendone un sorso. "Si aggiusterà anche questa, te lo prometto." 
Leeroy annuì impercettibilmente. "Speriamo, altrimenti con noi tre fuori finisce che nemmeno quest'anno si vince nulla." 
"Non essere pessimista." 
Le porte del locale si aprirono in quel momento per lasciar entrare un gruppo di lauerandi barcollanti; in mezzo a loro, con occhiali da sole e giacca in pelle nera, faceva la sua figura Adam Twain. 
Miles ne udì solo la voce e già volle andarsene altrimenti, sarebbe davvero finito qualcuno in ospedale. Doveva fare la persona matura e lasciarlo perdere, non poteva fare altro, anche perché ultimamente era diventato insostenibile. 
"Andiamo?" disse prima di finire la bevuta e aspettando che Adam prendesse posto. 
"Ho visto. Mi sa che è meglio, è un rompicoglioni ultimamente", commentò Leeroy, mostrando una certa antipatia nei confronti di Twain. 
Fu Rogers a pagare, pensò che fosse il minimo per quello che aveva fatto Reginald. 
Quando fecero per uscire, però,Adam si parò davati al terzino, ridendo; il ragazzo fece per superarlo ma il più grande con uno strattone lo tenne al posto. "Lasciami andare", disse Leeroy, serafico. Gli mancava anche di fare a botte con lui e poi avrebbe concluso in bellezza la lista delle cazzate del mese. 
"Mi spieghi cazzo fai con Reggie qua? Cosa c'è, non ti è bastato pestarlo a sangue?" 
Miles, a quel punto, si mise di mezzo. "Adam, fatti un giro. Non siamo in cerca di rogne." 
"Ma davvero? Però sei te quello che ha fatto tutto questo puttanaio, complimenti." 
Leeroy notò subito lo sguardo di Reginald e lo prese per un fianco per bloccarlo. Non potevano scatenare una rissa nel mezzo del locale. "Continua a farti i cazzi tuoi", rispose il terzino cercando di spostarsi con Miles. Furono davvero alla porta quando Twain tornò a parlare. 
"Reggie, ora ti fai dire cosa fare dalla ragazza di Lance? Non pensavo aveste questa intesa, te lo scopi anche te?" disse per poi scoppiare a ridere. 
Leeroy non fece in tempo a girarsi per tirargli un pugno in piena faccia che Miles l'aveva già fatto. L'aveva atterrato con un destro in piena faccia. Non l'aveva più visto in una rissa dai tempi delle medie. Era stato velocissimo. Si riprese subito dallo stupore però. Vedendo che l'ex capitano stava per caricare un altro pugno, lo afferrò e lo trascinò via dal locale. Avevano già fatto troppi danni. 
"Sei un figlio di puttana, Adam Twain!" gridò Reginald, correndo via con il compagno di squadra. 
Non riusciva a credere che avesse detto una cosa simile. Non erano cazzi suoi cosa facesse Lance, non doveva permettersi di parlarne così. Era un figlio di puttana senza morale. Gli prudevano ancora le mani. L'aria fredda di dicembre lo aiutò un po' a calmarsi. 
Si ritrovarono a qualche isolato più avanti, vicino ad un parco giochi per bambini, entrambi con il fiatone. Quando Leeroy fece per parlare, Miles lo interruppe subito. 
"Per affrontare questo discorso ho bisogno di sigarette e alcol, andiamo al distributore." 
Reginald non era ingenuo, sapeva trarre le sue conclusioni e le sue erano state solo confermate da Adam.
 
Tornarono al parco dopo un quarto d'ora, con una bottiglia di whisky scadente, tabacco, cartine e filtri. Non era tanto bravo a rollare sigarette,ma quel dannato distributore sembrava aver finito tutto, meno quello. 
Aprì la bottiglia e ne trasse un lungo sorso, e poi la passò all'amico. Intanto iniziò imprecando a farsi una sigaretta. Gli uscì decentemente al quarto tentativo. 
"Da quando fumi?" domandò Leeroy, non sapendo che altro dire. 
"Fumo occasionalmente e in eventi unici come questo", rispose con un tono lievemente sarcastico. Quando finalmente l'accese e ne trasse un respiro profondo, parlò di nuovo. Sembrava piu rilassato in que momento. 
"Quindi fammi capire, da quanto va avanti?" domandò, massggiandosi una tempia con la mano libera e afferrando poi di nuovo la bottigia. 
"Da un po'." 
"È per questo che sembravate andare così d'amore e d'accordo. Ad averlo saputo prima, vi avrei subito parlato della puttanata di Stan, ma no, Lance deve complicare ancora di più le cose", disse sarcasticamente. Non era né deluso né arrabbiato, capiva perché non avesse detto nulla, ma era comunque sorpreso. Molto sorpreso. Era come se gli avessero detto che gli alieni esistevano e che stavano per atterrare sulla Terra: era quel tipo di scoperta. Avrebbe dovuto capirlo, cazzo, si sentì un cretino. 
"Era per questo che Lance non voleva. Per via della squadra e il resto avremmo solo complicato le cose. È stata colpa mia se siamo finiti a letto e poi in questo casino. Sarei dovuto stare calmo quando Oliver mi ha chiamato", ammise con un tono di vergogna, strappando a bottiglia a Miles e bevendo d'un fiato. Non voleva sapere il giudizio dell'amico sulla faccenda. 
"Tu non sei gay!" sentenziò Miles, perplesso. 
"Che vuol dire?" 
"Non ti ho mai visto uscire con un ragazzo o con una ragazza, te sei quello fissato con il calcio", constatò con tono sicuro. 
"E infatti guarda con chi sono finito", gli fece eco con il tono di voce e indicando con la bottiglia un punto indefinito verso gli alberi. 
"Ok, di questo devo dartene atto." 
"Lance se mi vede mi ammazza", disse disperato Leeroy, coprendosi gli occhi con le mani; un lieve mal di testa iniziava a farsi strada in lui. 
"Risolveremo anche questa", lo consolò Reginald. 
Leeroy bevve ancora. "Volevo prenderlo io Adam a pugni. Ma ti ringrazio per averlo fatto", ammise il terzino, guardando oltre gli alberi, dove gli appartamenti in mattoncino. 
"Cazzo, ora riesci a dire pure grazie?" rise Miles sempre più stupito, o forse era solo l'alcol che faceva uscire la sua parte divertente. Quella che di solito riservava a poche persone, come i suoi fratelli o il suo migliore amico.



 

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Capitolo 32
*** Capitolo 32 ***


The last chance

                                                                                                                 XXXII
 


Se lo ricordava ancora il momento in cui tutto si era frantumato, in cui la poca calma che Leeroy aveva mantenuto fino a quel momento era venuta meno e  aveva ceduto alla rabbia. Se lo chiese ancora una volta: se, in quel momento, invece di aprir bocca se ne fosse stato zitto e fosse tornato nello spogliatoio come se non avesse visto nulla, avrebbero vinto la partita?
Leeroy forse non avrebbe ceduto alle calunnie di Sanders. Se non si fosse fatto avanti, forse, il primo tassello del domino non sarebbe caduto.

Durante l'intervallo era uscito per prendere una boccata d'aria; erano in troppi in quella stanza, tra compagni di squadra, allenatore e Abigail. Non sapeva come, ma era riuscita ad intrufolarsi, facendo l'invasata come suo solito e saltellando come una gazzella per far festa a tutti. 
Contrariamente a quanto aveva pensato, era sicuro che avrebbero portato a casa la partita; ciò che però lo lasciava ancora piu stupito era Leeroy. 
Il ragazzo si stava comportando come un vero membro di una squadra e non come un dio onnipotente e capriccioso. Forse sarebbe arrivato a compl imentarsi con lui a fine partita. Sarebbero riusciti a tenere duro e vincere quella dannata coppa per una volta. L'anno prima era stato un disastro, ora potevano solo migliorare.

Arrestò il passo quando udì delle voci provenire dal corridorio attiguo. Lo stadio in cui stavano disputando la finale era enorme; questa volta avevano fatto le cose in grande, ma solo perché c'era la Ravensburg di mezzo. 
Non riconobbe la voce di chi stava parlando, ma riconobbe il vaffanculo a denti stretti di Leeroy riecheggiare per le mura. Che diavolo sta combinando?, pensò, sperando che il ragazzo non si stesse mettendo nei guai. Non l'aveva nemmeno visto uscire dallo spogliatoio prima di lui. 
Si accostò al muro, senza però sbirciare, e a quel punto riconobbe anche l'altra voce.

"Lo sai, vero, che gli scout non sono qui per te, ma per me?" disse Oliver. 
"Non sei all'ultimo anno," rispose secco Leeroy. 
Lance pensò che stesse cercando di mantenere la calma e per una volta sperò che il ragazzo ci riuscisse veramente. 
"Sei un idiota, a loro non interessa a quale anno ti trovi, se gli piaci ti prendono. Ho saputo che qualcuno di loro ha pure messo gli occhi sul portiere e il vostro capitano," fece ancora il giocatore avversario. Il portiere capì che lo stava prendendo in giro dal tono che stava usando; voleva mandare il cervello in pappa al suo terzino. Se Leeroy cadeva sarebbe caduta tutta la difesa, dannazione.
"Vatti a fare un giro, Oliver." A quel punto Lance non potè piu fare finta di nulla e parlò, rivelando la sua presenza. 
"Wow, ora ti fa anche da mamma? Pensavo che quella fosse una prerogativa di Miles," li schernì l'americano. 
"Chiudi quella bocca, cazzo," sbottò Rogers, per poi rivolgersi al portiere con uno sguardo come se fosse lui il cattivo di turno. Per lui lo era. 
"Non sono cazzi tuoi." 
"Sì se siamo nella stessa squadra." 
"Ci vediamo fuori ragazzi. Tanto nessuno di voi verrà scelto, anche se doveste vincere la partita," rise, andandosene. 
"Testa di cazzo, fuori ti prendo a calci in quel culo finchè non torni in America!" urlò Leeroy, muovendosi verso l'avversario, ma Lance si mise di mezzo, afferrandolo per un braccio. 
Il terzino lo strattonò. "Lasciami, non sei mia madre." 
Quello sguardo fece salire il timore al portiere che ormai fosse irrecuperabile. 
Lance lo tirò per il braccio finché non furono occhi negli occhi. 
"Comportati come hai fatto fino ad ora e non azzardarti a dare di matto, altrimenti giuro su Dio che ti spacco il culo," gli disse in un fiato, senza staccare lo sguardo da quelle iridi che non vacillarono neanche per un secondo a quelle minacce. Quanto lo irritava. Vedeva benissimo che Leeroy non aveva limiti con lui, non lo temeva, non aveva paura di fargli o farsi male, era una gara a chi fosse migliore o peggiore. Leeroy vinceva sempre, perché Lance non poteva permettersi di dare sfogo a ciò che provava dentro. Non era una brava persona, tutto ciò che covava dentro era odio misto a rabbia e altri miliardi di sensazioni negative che Rogers riusciva a far traboccare con un solo sguardo. 
Il terzino lo afferrò a sua volta per il collo della divisa. "Non ti azzardare mai più." 
Non poteva permettersi di replicare o sarebbe scoppiato. Si limitò a strattonarlo per allontanarlo da sé. 
La sua presenza gli faceva uscire il peggio. 
"Muoviti," disse soltanto, tornando sui suoi passi. Pregò solo che sul campo non avrebbe fatto nulla di cui poi si sarebbe pentito amaramente.

Aveva dovuto lasciar entrare Adam in casa o avrebbe sfondato la porta a forza di bussare. Ritrovarselo davanti a sua volta con un occhio nero lo lasciò senza parole. Probabilmente era quello che voleva raccontargli nelle telefonate senza risposta che aveva ricevuto. 
Ma non era molto convinto di volerlo ascoltare. 
Si preparò però ad una lunga storia. 
"Ascolta, ero ubriaco e non so come mi sia saltato in mente di dirlo," fece subito il più grande con tono agitato, camminando avanti e indietro per la cucina. Lance non capì di che diamine stesse parlando. 
Infatti il suo sguardo perplesso lo convinse ad andare avanti, anche se immaginava già la reazione dell'amico da lì a pochi secondi. 
"Ho incontrato Miles e Leeroy l'altra sera, al pub," sentenziò Adam con sguardo contrito. 
Il padrone di casa sgranò gli occhi. 
"Me la sono presa con entrambi e mi è scappata la cosa di te e di Rogers." 
"Tu cosa?" 
"Ho insultato Leeroy e il tuo migliore amico mi ha preso a pugni. Non volevo dirglielo, ma avevo bevuto e.." 
Lo sguardo di Lance si spostò velocemente da Twain al tavolo davanti a sé e poi di nuovo sul ragazzo. 
"Fuori." 
Adam lo guardò perplesso. 
"Ho detto fuori di qua." Lance si alzò e, con tutta la forza che aveva in corpo, lo trascinò alla porta. 
"La prossima volta ti prendo io a pugni, sei un coglione." 
"Cazzo, lo sai che non l'avrei mai fatto." 
"Non me ne frega niente, l'unica cosa che non dovevi fare l'hai fatta, che cazzo di amico sei?!" sbottò Lance, furioso. Non riusciva a credere a cosa avesse fatto. Al diavolo lui e la sua depressione da ragazzina innamorata. "Hai toccato il fondo," disse freddo, prima di chiudergli la porta in faccia.

La sua prima reazione fu quella di prendere il telefono e chiamare Miles, ma poi lasciò perdere. Non gli interessava, non gli interessava più nulla. Se il suo migliore amico avesse voluto parlargli, l'avrebbe già fatto. Anche se lui ora sapeva, non sarebbe cambiato nulla. Si fece una risata e tornò a guardare la tv. 
"Che vadano tutti al diavolo."

*

Per un momento aveva avuto il dubbio che si fosse trattato di un errore; quando aveva guardato Miles negli occhi aveva quasi pregato in una risposta negativa. Dentro, però, lo sapeva che Oliver aveva aveva ragione. 
L'anno prima l'aveva innervosito, riempiendogli la testa di bugie e cattiverie; quella volta non gli aveva creduto, ma l'aveva fatto uscire di testa, soprattutto per via dell'intromissione di Lance. 
Avrebbe lasciato correre, se poi l'americano non avesse continuato a dargli addosso anche su campo con falli e frasi non sentite dall'arbitro. L'aveva distrutto psicologicamente e ancora una volta ci era riuscito.
Quando si era ritrovato al secondo tempo a guardare la palla senza sapere cosa fare, anche Lance aveva a tartassarlo. Ricordava ancora il passaggio mancato e la palla che era rotolata fino ai piedi del portiere. Si era imbestialito.

"Non dormire cazzo," gli disse Stark, passando in lungo a Drew. 
Leeroy si sentì ignorato. Nonostante fosse proprio davanti a lui, aveva preferito l'altro. 
Se l'avesse presa lui, avrebbe impiegato pochi secondi per ritrovarsi a centro campo e passarla poi a Miles. 
"Ero qui, cazzo!" sbottò. 
Il portiere si girò a guardarlo, notando subito che era alterato, ma  non gli interessò. 
Poteva passargliela, ma non l'aveva fatto. 
"Porco cane, ero qua e l'hai data a Drew!"
"Continua a giocare," lo liquidò. 
Leeroy cercò di calmarsi per un momento, non era il momento di dare di matto. Gli diede le spalle e tornò in posizione. 
La palla venne subito intercettata da Oliver, che lo puntò immediatamente. Lo sguardo che gli rivolse gli fece perdere la calma e si ritrovò a corrergli incontro, senza pensare. L'istinto l'avrebbe fregato di nuovo. 
"Sei proprio un idiota." 
Il terzino, a quelle parole, cercò di prendergli la palla in scivolata, ma andò a vuoto. Imprecò dopo non averlo nemmeno sfiorato. 
L'attaccante avversario si diresse in porta dopo aver oltrepassato anche Drew. 
Non seppe come, ma Lance riuscì a parare la palla; si sentì sollevato, ma anche arrabbiato. Andò incontro al ragazzo, facendogli segno di passargli la palla, ma venne di nuovo ignorato e venne passata in lungo a Miles. 
Imprecò. 
"Mi stai prendendo per il culo?!" urlò. 
Il portiere non gli rispose. A quel punto marciò nella sua direzione, andandogli faccia a faccia e spingendolo ad indietreggiare. 
"A che cazzo di gioco stai giocando?" 
"Torna a giocare." 
"Vaffanculo," disse, per poi spingerlo a terra; il ragazzo però non cadde, e fece lo stesso. 
"Lasciami in pace, cazzo!" 
"Passami quella fottuta palla!" Leeroy lo spinse ancora con più forza e questa volta finì a terra. 
Lance si tirò subito in piedi e lo afferrò per la maglietta. "La vuoi smettere? È la finale, porca puttana!"
In quel momento al terzino non interessò molto se stessero giocando la finale o meno, voleva solo che gli passasse quel dannato pallone. Si era stancato dell'aria di superiorità del portiere. 
"Non sei un cazzo, non ti azzardare."
L'arbitro arrivò in quel momento e ammonì entrambi con il giallo.

Non aveva provato nulla nemmeno in quel momento, se non rabbia e odio. Era stato come sventolare una tovaglia rossa davanti ad un toro. Era riuscito a distruggere tutto in pochi secondi. Stan l'aveva subito sostituito e non era riuscito a guardarlo in faccia, non gli aveva rivolto minimamente la parola. 
Nemmeno Akel era riuscito a calmarlo, dovette trascinarlo a forza negli spogliatoi per non lasciare che urlasse contro l'arbitro ed il portiere. 
Era stato imbarazzante e stupido. Anche a distanza di mesi non era riuscito a farselo andare giù. 
Avrebbero dovuto dargli una medaglia per quanto fosse bravo a mandare a puttane ciò in cui credeva di più.
Al solo ricordo voleva seppellirsi sotto metri di terra.

Un anno prima sarebbe marciato da Stan e l'avrebbe obbligato a ridargli il suo posto; ora non gli interessava. 
Quell'opportunità era da sempre stata scritta nel suo destino. Non era presunzione; la presunzione sarebbe stata se avesse dato per scontato di venir preso. 
Non sarebbe stata l'unica opportunità, ne era certo. Ma qualcosa si era comunque spezzato in lui, sicuramente non sarebbe stato più lo stesso. Doveva andare avanti però.

La questione, al momento, era più complicata del previsto, da quando i suoi genitori avevano preso il primo volo per Londra. Ed ora che si trovavano in cucina con lui, sperò che non fossero mai tornati. Si sentiva un codardo. 
Nonostante sua madre sembrasse tranquilla suo padre, al contrario, sembrava voler scoppiare ad un solo suono uscito dalla sua bocca. Jo aveva provato a scappare, ma Maurice l'aveva fatta restare con una sola occhiata e lei si era seduta mogia sullo sgabello vicino al cugino. 
Il signor Rogers guardava entrambi come se cercasse di capire cosa fare o dire, ma quando fece per parlare, Amanda prese parola. 
"Quello che mi ha detto Joanne è la verità?" chiese soltanto. Teneva le mani sui fianchi mostrando autorità, ma qualcosa diceva al ragazzo che forse non se la sarebbe presa come avrebbe fatto suo padre. 
Leeroy e la ragazza annuirono contemporaneamente, con la testa bassa. 
La donna si portò una mano alla fronte. Forse al contrario di ciò che pensava era davvero vicina ad una crisi di nervi. 
"Mi avevi promesso che non te la saresti più presa con quel ragazzo, e quello che ha fatto Stan non è una scusante per avergli quasi rotto il naso e avergli fatto un occhio nero," sbottò poi sua madre. 
"Zia, chiunque avrebbe reagito così. Roy non sapeva niente e pensava di essere stato preso per il culo sia dall'allenatore che da Lance," cercò di chiarire la ragazza, difendendo il cugino a spada tratta. 
"Sono io la psicologa qua," rispose secca Amanda. "Non è una scusa. La scuola l'ha denunciato perché non è la prima volta che combina una cosa del genere." 
"E certo, perchè è normale che l'allenatore gli dica: devi andare d'accordo con Lance se vuoi giocare, e poi senza dire nulla a nessuno, da il posto per il West Ham che toccava a Leeroy anzi a Lance. Molto professionale, " disse con tono sarcastico la ragazza, scuotendo la testa, ancora incredula per tutta quella storia. 
"Non fare l'avvocato del diavolo. So cosa è successo e so che Stan non doveva azzardarsi a fare una cosa del genere, ma mio figlio è un cretino che si lascia accecare dall'ira e peggiora solo la situazione," fece la donna. Capiva perfettamente il punto della situazione, ma non si permetteva il lusso di dare fiducia cieca al figlio; aveva solo diciotto anni ed era una testa calda. Stan, comunque, l'avrebbe pagata. 
"Lo so, mamma, non serve ripetere sempre la solita cosa. So di aver fatto una cazzata, ma a differenza delle altre volte sono maledettamente pentito. Non avrei dovuto farlo. Ci ho messo non so quanti mesi per andare d'accordo con Lance, e mi andava pure bene, poi Stan ha mandato tutto al diavolo, compreso l'umore della squadra. Non avrei dovuto farlo, ma ormai è successo, e ne accetto le consequenze, non ho intenzione di combinare altre cazzate," disse Leeroy, per la prima volta guardando la madre negli occhi con un cipiglio che la donna non gli aveva mai visto. Rimase per un attimo interdetta. 
"Bel discorso, ma tutto ciò non può in nessun modo salvarti dalle conseguenze e dal fatto che io e tua madre dovremmo prendere dei seri provvedimenti questa volta," parlò per la prima volta  Maurice. 
"Lo so, hai ragione e non ho intenzione di mettermi a frignare per farmela passare liscia," rispose, sentendosi colpito nell'orgoglio, fissandolo in quegli occhi grigi che ora sembravano una pozza senza emozioni. 
Il padre lo fissò ancora a lungo, come a soppesare le sue parole. 
"Dopodomani andremo a sentire cosa hanno da dire la vicepreside e Stan, avranno le tue scuse e le nostre, ma se si azzardano a sospenderti, quant'è vero Iddio gli faccio chiudere bottega," fece Amanda, cercando di mantenere un tono piatto. 
"Vedremo cosa hanno da dire e poi decideremo cosa fare con te. Se fosse per me, dopo questa ti spedirei di nuovo a Londra," commentò Maurice sovrappensiero, lisciandosi la barba. Da quando era tornato, la notte prima, non se l'era ancora tagliata. In quei mesi al freddo non ci aveva minimamente pensato a farla e ora si era abituato ad averla. 
"Non è un problema," rispose subito il figlio con uno sguardo di sfida. 
Avrebbe accettato qualsiasi cosa purché capissero che questa volta era davvero pentito.

*

Aveva rivisto Miles a ricreazione quel giorno e gli aveva raccontato la situazione. Non avrebbe ceduto su tutta la linea, ma per il momento non sarebbe tornato agli allenamenti fino all'appuntamento con i suoi genitori. Miles non potè dargli torto e lo tranquillizzò. Per il momento era tornato in squadra, ma non voleva indietro il suo ruolo di capitano, e Stan aveva fatto finta di nulla. 
La pazienza del ragazzo era al limite, in quei giorni avrebbe davvero vouto lasciare la squadra. 
A fine lezione Leeroy fu l'ultimo ad uscire dalla classe con la cugina, non aveva la forza di rischiare di incontrare il portiere nei corridoi. A quell'ora di martedì avevano lezione in classi adiacenti e l'avrebbe sicuramente visto uscendo. Sua cugina capì al volo e andò avanti per tastare il terreno. Volle dargli anche qualche attimo di pace, visto che il professore di storia l'aveva ancora tartassato di domande. 
Quando finalmente uscì e si diresse alle scale che conducevano al piano terra, si sentì sollevato. Non vedeva l'ora che tutta quella situazione fosse finita. Erano arrivati all'apice ed avevano fatto un bel volo fino a terra. Leccarsi le ferite non sarebbe stata una sua prerogativa, si stava rimettendo in piedi e avrebbe lasciato perdere tutto. 
Era ancora con la testa altrove tra i suoi ragionementi quando lo vide salire le scale. Si incontrarono a metà. Notò subito che Lance si era accorto di lui solo quando sollevò lo sguardo, e rimase per un attimo sconcertato, glielo lesse negli occhi. 
Rimasero a fissarsi senza dire nulla per un lungo minuto. Leeroy avrebbe voluto dire un mucchio di cose, ma non trovò né le parole giuste, né il coraggio. 
Per la seconda volta non riuscì a decifrare le proprie emozioni e neppure quelle del ragazzo davanti a lui, ma sapeva che erano le stesse. Ognuno continuò poi per la propria strada, lasciando l'altro ancora più scombussolato di prima e spezzando forse ogni proposito che si erano tacitamente promessi.

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Capitolo 33
*** Capitolo 33 ***


The last chance
XXXIII


Il fatto che Rosalie fosse venuta a dargli sostegno lo fece stare tranquillo sia nei giorni precedenti che in quel preciso momento. La signora Twain, in un certo senso, era sempre stata affettuosa e rigorosa con lui, come una vera madre. Il pensiero l'aveva sempre rattristato.

Non sarebbe mai riuscito a ripagare il debito che sentiva di avere nei confronti di quella donna, era sempre stata presente nella sua vita da quando suo padre era sparito.

Certe volte anche il solo pensiero gli toglieva il respiro perché quello non era un suo compito.

Rosalie gli poggiò una mano sulla spalla, quasi conoscesse i suoi pensieri. In fondo era una madre, era normale che li conoscesse. Con già due figli ormai era navigata come madre.

Sospirò.

Stavano aspettando fuori dall'ufficio della vicepreside e Lance non riusciva a fare a meno di pensare che quella sarebbe stata l'ultima volta in cui avrebbe volontariamente rivolto la parola al terzino.

 

Arrivarono con qualche minuto di ritardo.

Una volta accomodati la signora Steel prese subito parola.

"Ci dispiace avere convocato voi signori per un motivo così grave oggi, ma dobbiamo discuterne le conseguenze," disse, facendo poi una breve pausa.

"Il mio collega ed io abbiamo cercato di non fare la cosa più grossa di quanto non sia già, ma il preside ha voluto prendere seri provvedimenti."

Leeroy stava quasi per alzare gli occhi al cielo per tutte le cavolate che uscivano dalla bocca della vicepreside. Come a suo solito cercava di fare bel viso a cattivo gioco, non per niente era considerata la più viscida e infame tra i professori.

Cercò però di stare tranquillo e non aprir bocca, non voleva peggiorare ancora di più la situazione o sarebbe finito al patibolo.

Guardò di sottecchi Lance, seduto accanto a lui, per vedere la sua espressione, ma il ragazzo sembrava assurdamente concentrato ad ascoltare attentamente le parole della donna, senza considerare le altre presenze. La cosa lo innervosì non poco e tornò ad osservare i suoi genitori che sarebbero stati giudice, giuria e carnefice dopo quell'incontro. Non degnò Stan di uno sguardo, come se non fosse presente. Era lì per sentire il verdetto, non per delle scuse false da una persona che si era presa gioco di lui.

"Per questo dobbiamo decidere come procedere dopo quanto accaduto. Per il signor Stark non ci saranno seri provvedimenti, è uno studente modello. Per quanto riguarda il signor Rogers, invece, dati i precedenti, saremo costretti a sospenderlo per una settimana."

"Non si potrebbe evitare la cosa visto che è uno dei miei titolari?" parlò Stan per la prima volta.

"Purtroppo, come abbiamo già detto, la sospensione è già ufficiale da lunedì, e non posso farci nulla. Sono molto dispiaciuta."

Leeroy aveva la nausea ad ascoltarli. Mentre suo padre sembrava pensare ai fatti suoi, sua madre era stoica; sembrava aspettare il momento adatto per parlare.

"Sì, ma non è giusto, il ragazzo ha lavorato tanto," fece la signora Twain in difesa di Leeroy; lo conosceva da una vita e non capiva perché per una scazzottata dovevano farne un affare di stato con tanto di denuncia.

"Non si è mai comportato bene, nè durante le partite, né durante le lezioni, e il suo rendimento non è tra i migliori," disse la signora Steel con aria contrita.

"Con ciò cosa vorrebbe insinuare?" domandò Amanda con tono calmo.

"Signora Rogers..."

“È signora Whynter,” la bloccò subito.

La signora Steel sembrò arrossire, non capendo, e anche per il tono deciso della donna davanti a lei.

"No, la prego, mi illumini, cos'ha Leeroy per meritarsi un verdetto simile? Non penso sia l'unico a cacciarsi in situazioni di questo tipo, con gli altri ragazzi non è mai stata sporta denuncia, vorrei sapere perché ora e perché con lui," disse la madre del ragazzo, partendo in attacco; aveva il fuoco negli occhi.

"Capisco che voglia proteggere suo figlio, ma vede, non sempre..."

"No, lei non capisce, evidentemente non ha dei figli," sentenziò subito in risposta. Amanda aveva quel dono di colpire le persone dritte al loro punto debole. Maurice sembrò per la prima volta ascoltare la conversazione.

La vicepreside boccheggiò. "Come si permette?"

Amanda si avvicinò alla scrivania, tirando fuori dalla borsa a bauletto una busta, e ve la appoggiò.

"Signorina Steel,” iniziò con tono di scherno. "questa è la risposta del mio avvocato."

"Ha intenzione di fare causa alla scuola?" domandò Stan con tono disinteressato, dopo averla aperta e aver letto velocemente i vari fogli. La sua collega sgranò gli occhi.

Maurice quasi rise sotto i baffi, adorava il carattere della moglie.

"Se voi volete andare avanti in questo modo, sì. Sarete entrambi, assieme al preside, citati in giudizio. Più il professore di storia, come si chiama?" chiese con tono disinteressato.

"Il signor Morris?"

"Esattamente,” fece Amanda con un sorriso solare che parve inquietare tutti nella stanza, eccetto il marito. "Ora, signori, possiamo metterla in due modi," propose la signora Whynter, schiarendosi la voce. "Possiamo procedere come voi avete iniziato e vi posso giurare che per quello che Stan ha fatto, non solo lui, ma anche la scuola finirà su tutti i giornali d'Inghilterra, causandovi non pochi problemi. Oppure facciamo come dico io."

"Signora, queste sono minacce,” disse la vicepreside, sconvolta. Fece per continuare, ma un' occhiata di Maurice la fece subito desistere.

"Voi ritirate la denuncia e noi lo faremo a nostra volta. Mio figlio non verrà sospeso, tornerà ad allenarsi e non verranno presi provvedimenti, nemmeno per Lance..."

"Sa che è impossibile?" fece Stan, non capendo dove la donna volesse arrivare, ma lo divertiva come stava mettendo in ridicolo la Steel.

"Credete che non conosca i problemi della scuola, come la facciata da riverniciare o i computer obsoleti?" disse con tono ovvio. "Tutti gli studenti si lamentano di quanto questa scuola stia cadendo a pezzi, non avete neppure fondi per corsi extra in caso qualcuno ne avesse bisogno,” continuò con tono sufficiente, ridicolizzandoli quasi. "Questi ragazzi avranno bisogno di maggiori comfort, non è vero?" aggiunse poi, sorridendo.

La vicepreside parve per un attimo ammaliata, ma si riscosse subito.

"Questa è corruzione."

"Si chiamano donazioni, signora Steel, e sono queste a migliorare le scuole. E in questo caso miglioreranno anche i nostri rapporti d'ora in poi, non trova?"

Calò il silenzio nella stanza. Amanda non attese nessun tipo di risposta e rimise mano alla borsa, tirando fuori il libretto degli assegni davanti a tutti quei volti ammutoliti.

"Credo che venticinque per il momento siano un buon incentivo. L'altra metà l'avrete a denuncia ritirata,” disse, lasciando poi cadere il pezzo di carta sulla cattedra.

La signora Steel lo afferrò al volo, guardandolo incredula.

"Ma signora Whynter, lei non può farlo."

"In realtà l'ho già fatto. Si ricordi di ritirare la denuncia entro venerdì, o l'assegno non sarà piu valido. È stato un piacere,” fece infine, con un altro sorriso. "Leeroy ora possiamo andare."

Il ragazzo rimase per un momento interdetto; si era aspettato di tutto, tranne quello.

La vicepreside corse subito fuori dall'ufficio a chiamare il suo superiore, non si era mai sentita così umiliata in vita sua.

Lance e Rosalie raggiunsero la signora Whynter nel corridoio, solo Maurice e Stan rimasero seduti e studiarsi a vicenda, finchè l'allenatore non cedette.

"Senti, mi dispiace, non era mia intenzione far venir fuori un casino del genere."

Il signor Rogers si accarezzò i capelli per sistemarli un po'; era un po' piu lunghi del normale e lo infastidivano.

"Beh quel che è fatto è fatto, non credi?" disse l'uomo, senza smettere di fissarlo negli occhi.

"Cercherò di rimettere le cose a posto."

"Mia moglie l'ha già fatto."

Maurice si alzò e, augurando una buona giornata, raggiunse gli altri. Non sarebbero tornati a bere una birra al pub come una volta per un po' di tempo.

 

"Mamma, che cavolo hai fatto?" disse Leeroy alla madre una volta fuori, con aria scovolta.

"Quello che andava fatto. Ora tornate in classe, io e Rosalie andiamo a prendere un caffè."

"Credo che dopo questo serva ad entrambe. Poi devo anche tornare a lavoro,” disse la signora Twain, controllando l'orologio.

Lance continuava a guardarsi le punte delle scarpe, ancora scosso; non riusciva ancora a credere a cosa fosse appena successo. Quella donna non avrebbe dovuto farlo, come avrebbe potuto ripagare una cosa simile? Perché diavolo si era data tanta premura anche per lui?

Leeroy doveva averle detto qualcosa. Si sentì in balia degli eventi, come sempre senza poter fare nulla. Avrebbe dovuto riuscire a tirarsi fuori da quella situazione da solo.

"Non doveva farlo,” le disse con tono colpevole.

Amanda lo guardò stupita per un momento. "Stan non doveva azzardarsi a fare una cosa simile, né tanto meno la scuola. Mio figlio è un cretino, se vorrai ripagarlo con la stessa moneta, non verrò a prenderti per le orecchie. Non sono quel tipo di madre. Ma stai tranquillo, non la passerà liscia, vero puffetto?"

Il terzino arrossì fino alla punta delle orecchie. Come aveva osato?

"Ma ti sembra il modo di chiamarmi a scuola?!" rispose sconvolto.

Rosalie rise. "Chiamavo Adam cucciolo da quando era bimbo, aveva degli occhi enormi. Ora è un teppista perditempo. Mi chiedo se riuscirà mai a prendere quella laurea, mi fa dannare,” ammise la donna in un sospiro.

"Adam è un bravo ragazzo, così come Abigail, vedrai che si raddrizzerà quando capirà che se continua così finirà l'università a trent'anni,” commentò Amanda.

La signora Twain sospirò ancora. "I maschi sono tremendi, non potevo avere due femmine?"

"Volevo anch'io una femmina, non questo ritardato di figliolo," scherzò la signora Whynter, indicando il suo ragazzo.

Leeroy preferì non controbbattere; era già stato troppo imbarazzante fino a quel punto.

"Lance, se vuoi stasera vieni pure a mangiare a casa nostra," disse Rosalie, guardandolo con fare amorevole.

"Grazie, ma stasera devo lavorare, sarà per un altra volta."

"Non farti problemi, ok?" disse lei, ancora sorridendo.

Il portiere si sentiva affogare per tutto quell'affetto non giustificato. Sorrise semplicemente.

Maurice uscì in quel momento, squadrando da testa a piedi Stark, come se non l'avesse mai visto; gli incutè timore per qualche secondo.

"Una volta nessuno si azzardava a fare denuncie per queste cose, erano i genitori che prendevano a ceffoni i figli se si azzardavano a fare cose simili,” commentò l'uomo con tono grave.

"Questo non è il Medioevo,” lo apostrofò la moglie.

L'uomo annuì e basta, poi tornò a fissare Lance. "Se dovesse tornare a casa con un occhio nero, non dirò nulla."

Lance rimase perplesso per un momento. Quell'incontro era stato fuori estraniante, come se non fossero dei genitori a parlare, ma dei ragazzi della loro età. Annuì imbambolato, vedendoli poi andare via.

"Roy, dopo gli allenamenti fila a casa,"intimò il padre al figlio.

"Sì Mars, tutto quello che vuoi," rispose il ragazzo. Affranto; sapeva già che non avrebbe avuto una bella accoglienza.

 

Quando rimasero soli si scambiarono una veloce occhiata e subito dopo Leeroy scappò quasi verso la sua classe, a passo spedito. Lasciò Lance ancora più intontito di prima in mezzo al corridoio, a fissarlo mentre se ne andava. Il portiere scosse la testa e lo seguì.

"Parliamo,” sentenziò, giungendo alle sue spalle per poi spingerlo dentro i bagni alla loro sinistra. Prima di chiudersi la porta alle spalle controllò che nessuno stesse arrivando. Non voleva scocciatori.

A dir la verità non voleva nemmeno parlargli. Si maledì perché non era mai stato così impulsivo.

"E che cazzo, potevi fare come una persona normale,” si lamentò Leeroy, sistemandosi la maglietta.

"Chiudi il becco. Hai detto anche ai tuoi di noi?"

Rogers inarcò un sopracciglio, capendo subito dove l'altro volesse arrivare.

"No, non sanno nulla. Come io non sapevo nulla di quella scena alla Robert de Niro,” rispose sarcastico. Lo innervosì quell'insinuazione. “Se pensi che vado a piangere da mamma per farmi togliere dai casini, non hai mai capito un cazzo"

Lance si sentì un coglione.

"Miles è venuto a parlarti?" domandò Leeroy, notando il silenzio del compagno di squadra.

Il portiere negò con la testa. “È venuto Adam, è incazzato con Miles per l'occhio nero."

Rogers si strofinò gli occhi, sbuffando. "Stavo per colpirlo io, ma Reginald mi ha preceduto. È stata una scena epica. Un po' agghiacciante, ma epica,” disse, facendosi scappare una risata, per poi guardarlo di sbieco.

"Non doveva venirlo a sapere."

"Se Adam si fosse fatto gli affari suoi, non sarebbe successo."

Cadde il silenzio per un momento e lo passarono a studiarsi a vicenda. Leeroy si perse per un momento a fissare il capolavoro di cubismo che era diventata la faccia dell'altro.. Si sentì tremendamente in colpa. Poggiò la mano destra sulla guancia tumefatta di Lance, facendosi scappare una carezza, e in tutta risposta l'altro l'afferrò per allontanarla.

"Nessuno dei due deve scusarsi," fece in un sospiro. Il contatto con la pelle di Rogers l'aveva fatto vacillare per un secondo.

Il terzino lo guardò con un espressione interrogativa, non capendo.

"Anch'io avrei fatto la stessa cosa,” disse amaramente. E questo perché si trattava di lui. Se ci fosse stato Miles o Drew o persino Daniele, sarebbe andato dritto da Stan. Ma trattandosi di Leeroy, l'avrebbe preso a pugni senza riserve. Gli faceva uscire il peggio ed il meglio e si odiava per il modo in cui perdeva il controllo.

"Lo so perfettamente,” ammise Leeroy con tono fermo. Non avrebbe mai avuto paura di prenderle dal portiere. Come lui riusciva a tirar fuori il peggio dell'altro, Lance tirava fuori il meglio di lui.

 

Parlare come stava facendo in quel momento con lui non l'avrebbe mai fatto con nessun altro. Non sapeva se la cosa lo rendesse felice o triste, ma lo lasciava alla deriva, senza sapere come reagire.

Lance si sentì come se fosse stato colpito di nuovo in faccia. Come poteva Leeroy accettare tutto quello?

Lui stesso non riusciva ad accettare l'aiuto di altre persone, ma Rogers riusciva ad accettare sia il male che il bene. Amanda non avrebbe dovuto aiutarlo. Quella sensazione di stordimento passò in quel momento. Si passò entrambe le mani sulla faccia come per risvegliarsi, doveva essere lucido, anche se tutto ciò che provava erano solo sensazioni negative.

"Te l'avevo detto che era una pessima idea,” gli rinfacciò, quasi con tono stanco.

"Non mi sento in colpa per aver scopato con te, se è di quello che parli,” rispose Leeroy, punto sull'orgoglio, risultando quasi sarcastico. Come poteva pensarlo?

"Era complicato prima e ora lo è ancora, se non peggio. Dimmi dannazione perché dovremmo continuare."

 

Leeroy rimase spiazzato. Gli aveva fatto mettere tutto in dubbio con una sola frase. Dannazione, pensò. Sgranò gli occhi e fece per parlare, ma uscì solo aria.

Lance scosse la testa: la loro relazione si bastava solo sulla stessa aria che respiravano, e non bastava. Non gli rispose e andò alla porta.

Rogers rimase fermo immobile, non capendo cosa fosse appena successo.

*

 

Quell'ultima partita prima delle vacanze di Natale stava andando bene, anche se il giocatore migliore della squadra era in panchina. Stranamente Leeroy l'aveva scelto da solo, non sentendosi in grado di giocare insieme al portiere al momento. Naturalmente non aveva detto questo a Stan, ma solo a Miles. Ne aveva parlato con lui e gli aveva chiesto di fare passaparola. Al suo posto aveva fatto andare Andy; il ragazzino si meritava un battesimo del fuoco. Se la stava cavando bene seguendo le direttive di Lance e di Drew.

Dalla panchina, però, anche se riusciva a vedere bene i giocatori, non seguiva i loro movimenti come suo solito. Si sentiva catatonico dall'ultima volta che aveva parlato con il portiere.

Per sua fortuna i suoi genitori non erano venuti a vederlo; anzi, era stato lui stesso a dir loro di non presentarsi perché non avrebbe giocato.

Maurice l'aveva messo in punizione dopo che era tornato a casa. Sarebbe dovuto andare a scuola in autobus e la X-box era off-limits. Gli sembrò anche una cosa giusta. Non provò nemmeno ad obiettare.

Si era sentito un vero idiota negli ultimi giorni. Avrebbe dovuto semplicemente rispondere e invece no, aveva fatto la figura di quello che parla a vanvera senza sapere quello che dice.

A casa non aveva chiuso occhio, era rimasto a fissare il soffitto, a pensare a tutte le risposte possibili ed immaginabili.

Si sarebbe fatto prendere a padellate nei denti da Amanda.

Era stato lui ad iniziare tutto, lui che era andato a cercarlo dopo gli allenamenti per avere dei chiarimenti, finendo pure all'ospedale,per poter continuare quella cosa che neppure sapeva cosa fosse. Quando poi Lance aveva messo le cose in chiaro, si era bloccato.

In verità era convinto che Stark l'avrebbe preso a pugni di nuovo o mandato al diavolo. Tutto, tranne quella domanda.

Fu scosso dai suoi pensieri dall'arbitro che segnava la fine della partita con il fischietto. Avevano vinto due a uno grazie a Miles e a Daniele. L'unico gol subito era stato dovuto ad Andy, ma era stato comunque bravo.

Quando vide il portiere avanzare verso la panchina, si alzò di riflesso e scappò nello spogliatoio.

Non aveva la forza di vederlo, nè di parlare con gli altri membri della squadra.

Per sua fortuna Maurice gli aveva concesso l'auto quel giorno, così non avrebbe dovuto aspettarlo per tornare a casa.

Scappò a casa senza guardarsi indientro, dandosi del vigliacco.

*

 

"Come mai vuoi parlarmi di punto in bianco? Pensavo non volessi più vedermi dopo l'altro giorno,” sentenziò il più grande, entrando nell'appartamento con fare circospetto. Non si fidava molto di Lance quando era arrabbiato.

 

"Siediti e chiudi il becco."

 

Adam fece come gli era stato detto, contro la sua volontà; aveva l'impulso di mandarlo al diavolo.

"Allora?"

"Io e te prepariamo i prossimi due colpi per febbraio e marzo,” sentenziò senza timore.

"Noi cosa?"

"Non era una proposta, ma un ordine. Mi servono i soldi per andarmene da qua dopo il diploma, mi sono rotto le palle.”

"Dove vorresti andare?" domandò scettico.

"Ovunque, ma non qui.”

Adam cercò negli occhi dell'altro una parvenza di cedimento, ma non la trovò. Si sentì responsabile.

Aveva fatto troppi casini da quando Alexandra era partita e aveva peggiorato troppe cose; come il loro rapporto. Si era ritrovato in un pozzo senza poter affogare o risalire, costretto a morire di stenti.

"Avrò bisogno di tempo."

"Prendi tutto il tempo che ti serve, ma a fine febbraio si lavora. E non dire nulla a mia sorella, ha già dato troppi problemi,” disse con tono irremovibile. Andò a prendere due birre come di sua consuetudine, offrendone poi una al più grande.

"D'accordo. Ho già qualche idea,” rispose Adam, degluttendo a vuoto. Non avrbbe discusso per il momento i modi dell'altro, non ne aveva il diritto.

"No, questa volta andiamo a chiedere un lavoro al nostro amico. Mi sono rotto di cornici e cazzi vari. Voglio roba di valore,” disse il ragazzo, aprendo la bottiglia con fare disinteressato.

"Sai che più la posta è alta, più è pericoloso.”

"Non mi interessa, voglio i soldi."

Adam si strofinò la faccia, poi per evitare di mandarlo al diavolo aprì a sua volta la bottiglia e prese un lungo sorso. Si rinfrescò il cervello per vedere se davvero aveva capito il punto della situazione.

Sarebbero dovuti essere ancora più cauti di prima. Avrebbero potuto davvero rischiare la galera a questo punto.

"Parlerò con lui e cercherò allo stesso tempo altri obiettivi. Poi ne discuteremo di nuovo,” disse il più grande pacatamente, sperando che l'altro non scoppiasse. Gli sembrava completamente un'altra persona, quella che non sarebbe mai voluto diventare.

Non lo stava facendo per fargliela pagare su, questo ne era sicuro, doveva essere successo qualcos altro.

"D'accordo. Ci vediamo quando? Venerdì sera daanti al palazzo?" fece Lance.

"Devo prima prendere l'appuntamento per queste cose, non posso semplicemente presentarmi là,” chiarì Adam. Quella situazione era già irreale così e le richieste di Lance la peggioravano e basta.

Prese un respiro profondo. Parlare in quel momento sarebbe stato un grave errore.

"Mi spieghi qual è il problema?" sbottò Adam, scrutando l'espressione dell'amico per trovarvi una risposta.

"Nulla." Stark fu secco, irremovibile.

Twain scosse la testa, ridendo quasi. "Se questo tuo tono lo chiami nulla, allora siamo a cavallo."

Pensò bene di lasciar perdere. Non era il momento adatto.

*
 

Erano quasi le undici di sera e Leeroy se ne stava solo con un maglione sulla sdraio del giardino, interno a fissare il cielo per una volta libero dalle nubi. Sentirsi risucchiare da quell'oscurità lo faceva sentire in pace con se stesso. Aveva sempre avuto di abitudine fermarsi a soppesare la volta celeste quando era in stallo. Sua madre ormai non gli diceva più nemmeno di rientrare per il freddo.

Era suo padre Maurice che il più delle volte lo affiancava e restava in silenzio al suo fianco, e neppure quella volta si fece attendere molto. In un certo senso gliel'aveva trasmessa lui quell'abitudine, ma non ricordava come o quando. Da quando aveva memoria,si rivedeva sempre con suo padre in giardino a fissare il cielo.

Maurice quella volta, però, gli accarezzò i capelli, facendo poi finta di tirarglieli prima di accomodarsi su un'altra sdraio. "Sei un idiota."

Leeroy annuì, senza però rispondere. Era contento di riaverlo a casa.

 

 

 

 


 


 


 

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Capitolo 34
*** Capitolo 34 ***


The last chance
XXXIV
 
 

Ritrovarsi ancora una volta su quel pianerottolo in un certo senso lo rassicurò, ma allo stesso tempo gli ricordò quanta strada avesse ancora da fare prima di porre una volta per tutte la parola 'fine' a quella vita. 
Adam era stato restio quella volta a prendere l'appuntamento; sembrava quasi non voler disturbare il vecchio. Questa volta, ad aprir loro la volta, non fu il signor Smith, ma un bambino di circa dieci anni, che li squadrò dall'alto in basso, lasciandoli spaesati. 
"Nonno, sono arrivati!" urlò il piccolo, per poi scappare in cucina. 
Era la prima volta che lo vedevano. Da quando il vecchio si portava il nipote al lavoro? 
"Venite avanti e chiudete la porta, fa freddo," si fece sentire il vecchio dalla sua scrivania. 
Aveva già gli occhiali sul naso e stava controllando dei documenti che ad Adam sembravano per l'esattezza dei testamenti. Aveva due copie davanti, con la stessa identica carta, stesso inchiostro e stessa firma. 
"Sono un opera d'arte," commentò Twain, ammaliato dalla destrezza dell'uomo. 
"Non ho bisogno di un imbianchino che tessa le mie lodi. Falsifico documenti da quando avevo l'età di mio nipote, idiota," lo rimproverò l'uomo, sistemando poi le scartoffie in un cassetto della scrivania e chiudendolo a chiave.
Adam non rispose: se si fosse messo a litigare con Smith, avrebbero detto addio al colpo, anche se non sarebbe stata una cattiva idea. 
"Ho chiamato per avere delle informazioni," sentenziò poi Twain, aspettando che l'uomo mettesse le carte in tavola. 
Smith li osservò attentamente prima di aprir bocca. Non ci aveva dovuto pensare molto alla risposta ma preferiva averli davanti per spiegar loro come giravano le cose in quel mondo. 
"Fino ad ora vi siete limitati a giocare e avete rischiato il culo più di due volte. Come potrei presentarvi ad un mio cliente?" disse secco l'uomo. 
Adam fece per parlare, ma venne zittito con una mano. "Ve ne andate in giro a giocare a Fuori in sessanta secondi¹ senza pensare prima di agire, ed io con quale faccia vi dovrei presentare ad un mio cliente? Su, ditemelo." 
"Abbiamo avuto sfortuna," rispose Lance senza però volersi giustificare. "Sapevano che ci sarebbero stati altri furti è normale." 
Smith lo guardò torvo. "No, nel nostro lavoro la sfortuna non ci dev'essere, bisogna programmare tutto nei minimi dettagli. Le vostre sono solo scuse da bambini che non sanno neppure rubare le caramelle dalla borsa della madre senza essere beccati. Non posso presentarvi senza garanzie," fece l'uomo con tono irremovibile; era stanco di quei due. Le voci nel loro settore facevano presto a girare e lui era quello che metteva quelle voci in giro. Erano troppo avventati e, così facendo, gli avrebbero rovinato gli affari. 
"Facci capire, vuoi che cambiamo il nostro compratore? No, perché se è così bastava dirlo al telefono, nemmeno noi abbiamo tempo da perdere," commentò Adam, irritato. Non si era aspettato quella scena da parte di Smith. Doveva essere infuriato per rifiutarsi anche da fargli da rivenditore. La situazione doveva essere più grave del previsto. 
"Ragazzino, bada al linguaggio." 
"Allora perché siamo qua?" domandò Lance a quel punto, stanco di quei giri di parole. Se Smith non avesse voluto incontrarli, l'avrebbe detto direttamente al telefono, e invece erano lì. C'era qualcosa sotto. 
"Ecco, tu sei quello con il cervello tra i due," disse il vecchio, indicandolo. "Ho un lavoro che nessuno vuole fare perché fuori dall'ordinario, ma viene pagato in contanti a consegna fatta." 
Adam l'avrebbe mandato al diavolo seduta stante se non fosse stato che il suo collega volesse andare fino in fondo alla faccenda. Sarebbe dovuto uscire in quel momento e non voltarsi indietro, lo sentiva. Tutto dentro di lui urlava è una pessima idea da quando l'aveva chiamato. Dannato Lance. 
Smith scrisse poche righe su un post it e lo passò ai ragazzi. 
"Se fallite questo possiamo dire conclusa la nostra collaborazione. A me spetta il dieci percento in contanti. Ora fuori dalle scatole, devo fare la cioccolata calda a mio nipote," concluse l'uomo, afferrando il bastone per tirarsi in piedi.

Sul foglietto v'erano scritti solo un nome e un numero di cellulare. 
"Dite che vi manda Smith."

Quando furono in auto, Adam non potè fare a meno di chiedere all'amico se era sicuro di voler andare fino in fondo. Se avessero chiamato quel numero, non avrebbero potuto rifiutare senza evitare di fare una figura di merda, e ciò li avrebbe screditati ancora di più agli occhi di Smith. 
"Faremo quella telefonata e concluderemo l'affare. Tu mi aiuterai perché l'hai sempre fatto e sei l'unico di cui possa fidarmi per queste cose. Chiaro?" 
Twain avrebbe dovuto rifiutarsi subito quando Lance ne aveva parlato, e anche in quel momento avrebbe potuto rifiutarsi, ma non poteva lasciarlo così a se stesso. Magari sarebbe riuscito a contenere i danni con la sua presenza. Ciò però non toglieva il brutto presentimento che sentiva dentro. 
Scosse la testa, rassegnato. 
"Andiamo fino in fondo," rispose, consapevole di firmare così la sua condanna.

*

Arrivarono sul luogo dell’incontro con trenta minuti di anticipo per controllare la zona da un posto isolato. Fidarsi di Smith era giusto, ma essere cauti era meglio. Quando mancavano ormai pochi minuti alle due, un’Audi bianca accostò presso lo spiazzo per i pic-nic all’aperto, con vista sul mare. Di giorno quel luogo era molto trafficato, ma a quell’ora era meglio starci lontani. Adam e Lance non avevano paura di cosa avrebbero potuto incontrare a tarda notte in quel posto, ma di chi si accingevano ad incontrare. Zachary Williams era il proprietario della discoteca gay più in voga della zona, tutti lo conoscevano anche solo per sentito dire. Ad Adam sembrava strano vederlo invischiato in affari loschi come quello; l’unica cosa a cui riuscì pensare fu che forse si sarebbero incastrati con un affare con la droga. Per ora era l’unica conclusione a cui era giunto e non sapeva neppure su che basi fossero uscite quelle congetture. Il brutto presentimento che piano piano si era insinuato in lui ora sembrava urlare nelle sue orecchie. Lance, dopo che erano usciti da Smith, era la pace fatta persona, e lo stava inquietando. 
Uscirono dall’auto e si incamminarono verso le tre figure appoggiate all’auto bianca con le luci di posizione accese. 
Stai calmo, pensò, prendendo un respiro profondo prima di ritrovarseli faccia a faccia. 
Si accese l’ennesima sigaretta.

Fu Lance il primo a parlare, sorprendendo anche Adam. 
“Nessuno di voi è Zachary,” affermò con disappunto, assieme ad un sopracciglio alzato. 
Davanti a loro due ragazzi si fecero scappare una risatina, mentre uno restò in silenzio e si fece avanti. Era massiccio, fu l’unica cosa a cui riuscì pensare Lance per un momento. Ricevere un pugno da quello non sarebbe di certo stata una bella esperienza. Sicuramente era uno degli strider del locale; sperò che fosse stupido quanto pompato. 
“Noi eseguiamo ordini e voi due farete lo stesso. Spero per voi che Smith non abbia sbagliato a mandarvi da noi,” disse con calma, squadrando entrambi i ragazzi con fare imperioso. Lance avrebbe alzato gli occhi al cielo per quei modi di fare, se non fosse stato troppo impegnato a non abbassare la guardia.
“Sappiamo solo che dobbiamo fare un servizio, sarà un evento unico," parlò Adam, cercando di sciogliere l’aria tesa. 
“Quasi esatto," disse il ragazzo. “Dovete prima risolvere un nostro problema, poi potremo parlare del vero lavoro,” sentenziò con tono che non ammetteva repliche. 
“Che tipo di problema?” domandò Stark, accendendo una sigaretta. Si era ripromesso anche lui di restare calmo e stranamente lo era. Aveva la mente ben schiarita. Adam gli era sembrato sin da subito dubbioso. Doveva tenere le acque calme. 
“C’è un certo signore che ha dimenticato la scadenza del mese e da qualche giorno se ne sta rinchiuso a casa della madre.” 
“Non siamo un agenzia di recupero crediti,” appurò Twain con tono pacato, come a spiegare una cosa ovvia. 
“Prendetela come una prova generale, è così o niente."
Gli altri due continuavano ad osservarli senza dire nulla. Sembravano pienamente a loro agio, come se lo facessero da anni. Lo innervosirono. Gli sembrò una buona offerta quella, ma era ancora presto per dirlo. 
“Cosa ci guadagniamo?” 
“Non siamo gli unici, possiamo mettere una buona parola per futuri servizi. Con questo primo lavoro, comunque, prendereste duemila a lavoro compiuto,” spiegò, come se nulla fosse. 
Fece finta di pensarci su per qualche secondo, osservando l’oscurità alle spalle del ragazzo. Quella collaborazione avrebbe portato loro molti vantaggi se avessero fatto le cose giuste. 
“Quando sapremo il giorno e l’ora?” 
L’altro sorrise per la prima volta, ma gli sembrò più un ghigno di divertimento che altro. 
“Vi chiamerò io tra qualche giorno.” 
Uno dei ragazzi alle sue spalle si fece in avanti, porgendogli un telefono usa e getta, per poi tornare subito di fianco all’altro. 
Lance fissò prima l’oggetto e poi il suo interlocutore senza farsi scappare una sola nota di stupore. La cosa lo stava divertendo. 
Portò la sigaretta alle labbra, aspirando. “Allora siamo d’accordo.” Infilò poi il telefono in tasca. 
“Guidate piano, ci si vede tra qualche giorno. Stark, Twain," disse rivolgendo lo sguardo ad ognuno. 
Adam l'avrebbe preso a pugni. Tutta quella sceneggiata gli aveva dato i conati.

Quando furono di nuovo in auto, Lance controllò la rubrica del cellulare: l’unico nome salvato era Mr. Darcy. Gli scappò una risata. 
“Spero per te che non finiremo nella merda, perché il mio brutto presentimento non se n'è ancora andato.” 
“Pensa a guidare.”

*

Se ne stava sui libri cercando di farci entrare più informazioni possibili, ma era quasi impossibile. I suoi pensieri non facevano che riportarlo alla sera prima e all'incontro con i ragazzi di Zachary. Avrebbe dovuto fermare la cosa sul nascere, ma non ne aveva avuto il coragg. Da una parte continuava a tener fede al voto di prendersi cura di lui e aiutarlo economicamente, dall’altra vedeva tutto con gli occhi di un altro. Gli sembrava di essere in un brutto film di serie B, senza via d’uscita, dove avrebbe fatto una pessima fine. 
A malincuore che mise via i libri e raggiunse la stanza della sorella. Non ne avrebbe parlato con Alex, non voleva sentire il suo giudizio o un suo superfluo commento, non dopo il modo in cui si erano lasciati. Bussò e Abigail lo lasciò entrare. Vide dal suo viso che non era molto contenta di quella visita. La ragazza era intenta a leggere non sapeva cosa sul suo tablet, sdraiata sul letto ad una piazza. 
Se lui in camera aveva dipinti e poster di gruppi, lei aveva palloni e vestiti sparsi ovunque. Era il perfetto contrario di una ragazza della sua età. 
Rosalie si dannava per tenere la camera della ragazza pulita da vestiti sporchi e quella del figlio dalla pittura. 
“Possiamo parlare?” domandò con tono insicuro. Sapeva come si era comportato fino a quel momento con lei, voleva rimediare in un certo senso. 
“Se non spari cazzate, sì," fu la risposta secca di lei.
Adam sospirò e entrò, andando alla scrivania. “Non preoccuparti, non voglio farti arrabbiare.” Sulla sedia c’era una montagna di vestiti. Fissò quello e poi la sorella.
“Butta tutto in terra, tanto va lavato.” 
Fece come gli venne detto e si sedette; notò tra gli abiti una maglietta che la sorella aveva indossato il fine settimana prima. “Abbiamo una lavatrice,” commentò solamente il ragazzo. 
“Se sei qua per giudicare il mio stile di vita, quella è la porta.” 
“Pensavo solo a chi mai potrà sposare una donna che non sa tenere pulita camera sua.” 
“Tu saresti una perfetta donna di casa in quello,” lo rimbeccò subito. 
Adam tra i due era quello ordinato. Lasciò perdere quella frecciatina, altrimenti avrebbero litigato allo sfinimento. 
“Non so più come gestire Lance,” disse in un soffio. 
“Credevo fossi tu il problema dopo tutto," fece lei mentre si scioglieva i capelli; odiava tenerli legati mentre dormiva, le causavano mal di testa.
“Lo so di essere stato uno stronzo e mi dispiace, ok? Ma la conseguenza di tutto ciò è stato anche Lance. Vuole fare un altro colpo e questa volta rischiamo seriamente.” 
Abigail lo scrutò per qualche momento, come a ponderare bene cosa stesse dicendo. 
“Non è che magari la vedi solo più grossa di quello che non è? Lo fate da anni, ho sempre fatto finta di nulla e non mi sono mai lasciata immischiare, perché dovrei farlo ora?” disse onestamente. Quei due idioti avrebbero dovuto immaginare prima che, ad un certo punto, le loro scorribande notturne sarebbero state irreversibili. Avevano avuto tante volte la possibilità di rinunciare, ma non l'avevano mai fatto. 
“No, dovremo lavorare per qualcuno stavolta, e i soldi saranno tanti. Lance non ci ha pensato due volte ad accettare.” 
“Tu lo sai che non è solo per colpa tua, vero?” 
Adam si strofinò il viso con entrambe le mani; doveva trovare un modo per scrollarsi quella tensione di dosso, doveva fare qualcosa di fisico per stancarsi e poi crollare stremato. Aveva troppo a cui pensare. 
“È colpa del calcio, anche se lui dovesse venire scelto so che rifiuterebbe. Non ha mai voluto la carità. Ha accettato il lavoro perché il nostro amico ha elogiato le sue qualità. Credo si senta una specie di genio della rapina.” 
“Siete tutti e due troppo orgogliosi. Hai provato a chiamarla?” 
Il fratello la guardò come se stesse parlando di stregoneria. 
“Non ci penso nemmeno, ci sono io a farmi in quattro per suo fratello, non lei, che vada al diavolo," disse con lo sguardo vuoto, perso sul tappeto blu della stanza. 
Abigail avrebbe voluto sentire quelle parole qualche settimana prima, non in quel momento. Perché dovevano tutti arrivare al limite per capire le cose? Probabilmente perché solo allora le avrebbero comprese a pieno. 
Meglio tardi che mai, pensò, ma non osò dirlo, anche se il fratello se lo sarebbe meritato. 
“I soldi a lui servono, non puoi lasciarlo nella merda da solo, sarebbe solo peggio. E se tu ce lo lasciassi, non te lo perdonerei. Non posso fare nulla di concreto per voi, ma se avrete bisogno di aiuto, ci sarò. Finita questa cosa parleremo con lui.” 
Anche se non aveva confessato il suo piano, la giovane Twain sapeva già cosa fare. 
Dove i ragazzi venivano meno, lei sarebbe riuscita a mettere in chiaro una volta per tutte un paio di cose. Si era rotta le scatole di quella storia e di vedere suo fratello e Lance in quello stato.
“Spero che vada bene.”

*

Doveva dimenticarsi l’ombrello proprio quel giorno? Odiava la pioggia solo quando usciva da lavoro a tarda sera, dopo un turno infinito. Doveva chiedere a Jack di non lasciarlo più da solo, ci impiegava una vita a chiudere tutto. Oltretutto Amber, la cameriera, non la smetteva di prendere pause per andare a trafficare con il cellulare. Ringraziò Dio quando finì il turno quel giorno. Cercò di accendersi la sigaretta stando al riparo dal vento, contro l’entrata chiusa del locale. Aspirò profondamente. Gli ci voleva proprio. Guardò l’orario e imprecò: aveva perso l'ultimo autobus. Tornare in taxi gli sarebbe costato troppo, così si mise a malincuore in cammino. Non aveva neppure un cappuccio. Stava anche morendo di fame. 
Il cellulare squillò, cogliendolo impreparato. Dal suono capì subito che non era il suo; finalmente si erano decisi a chiamarlo. 
Non riuscì neppure ad aprir bocca che la voce dall’altro capo del telefono parlò velocemente. 
“La prossima domenica, le case di fronte all’ospedale.” 
“Come so l’indirizzo?” chiese sarcasticamente. 
“Ti mando un sms. Sono contento che abbiate accettato." Riattaccò e il telefono squillò di nuovo subito dopo. Sullo schermo comparve la scritta: un nuovo messaggio. 
Perfetto, pensò. Una volta a casa l'avrebbe comunicato ad Adam; ora doveva solo arrivarci, e con quel tempo avrebbe preferito rinchiudersi nel locale a dormire. 
Qualcuno suonò il clacson più volte, facendolo trasalire. Si voltò e riconobbe il Range Rover bianco all’istante. Perse un battito e prese un altro tiro di sigaretta. Rimase immobile per qualche secondo, finché non suonò di nuovo. Il finestrino si abbassò e invece dei soliti occhi scuri ne incontrò un paio chiari. L’aria tornò nei polmoni. 
“Sali, ti porto a casa,” disse Maurice con tono snervato; dietro di lui si stava formando una coda di auto. Stranamente c'era traffico, anche se erano le nove e mezza di sera. 
Senza nemmeno pensarci, fece il giro dell’auto e salì. 
“Grazie, ma non serviva...” 
“Se poi ti ammali, chi va a lavoro per te?” fece l’uomo, immettendosi nella strada. 
Lance era già andato a lavoro con la febbre e il mal di gola, non sarebbe di certo morto per un'altra esperienza simile, ma evitarla sarebbe stato meglio di certo. 
“Non devi vergognarti," asserì Maurice, mentre teneva lo sguardo sulla strada. “Non sei l’unico a fare quello che fai. Per pagarmi l’università avevo tre lavori e dormivo in una stanza con altri due ragazzi. Puoi immaginarti lo schifo,” disse ammiccando. “Non sarà per sempre così.” 
“Pensavo che anche lei fosse di buona famiglia,” ammise. 
Si sentì un idiota. 
“Non sia mai. Mille volte il cognome Rogers da contadino che Whynter," scherzò l’uomo. 
Lance lo scrutò per un lungo momento. Riuscì  a vedere Leeroy in quei lineamenti, ma i loro due caratteri erano completamente diversi. Non capì nemmeno perché cercò quella somiglianza. 
Fece per chiedere qualcosa, ma Maurice imprecò. “Questa auto del cazzo, non fa che appannarsi. Mi prendi il panno dal cruscotto?” fece, cercando di vedere tra i punti ancora visibili. “In Antartide stavo meglio.” 
Lance tirò fuori ciò che Rogers gli aveva chiesto e glielo porse, ma nel farlo gli cadde l’occhio su una foto. Era la prima volta che la notava, anche se in verità non aveva mai messo le mani in giro a farsi gli affari del terzino. L'uomo raffigurato nella foto lo lasciò di sasso. Era il re della Kippax, uno dei capisaldi del calcio inglese. Sulla foto spuntava anche la firma con dedica. 
Ricky, spero di vederti giocare. Colin Bell².
Avrebbe pagato per una cosa simile. Pensò seriamente di far finta di nulla e infilarselo nella tasca, ma gli sembrò poco corretto. Il signor Rogers lo stava accompagnando a casa, in fondo. Rimise la foto al suo posto e richiuse. 
“Credo che tu debba accettare la proposta del West Ham" disse Maurice ad un certo punto, riscuotendolo. 
“Come?” 
“Devi accettare. Hai avuto fortuna ad essere nominato, Stan ha fatto, scusami il termine, un puttanaio per farti accettare al posto di Roy, devi accettare.” 
“Non è così che l’avrei immaginato. Le mie capacità non sono riconosciute così.” 
“Stronzate. La vita non è rosa e fiori, se ti si presenta una possibilità di fare ciò che vuoi, la cogli a costo di tutto ciò che ha intorno,” disse l’uomo, forse stava parlando troppo di sé. 
“Non è facile, non lo è mai stato.” 
“Allora resterà difficile per tutta la vita se non ti sbrighi a decidere," concluse. 
Lance rimase interdetto. Perché il padre di Leeroy gli stava facendo quella paternale? Si erano visti sì e no qualche durante le partite, o quella volta in ospedale, quando aveva fatto letteralmente volare il figlio con uno schiaffo per avergli rotto le ossa. Quella scena era stata impagabile. Allo stesso tempo, però, avrebbe voluto ricevere anche lui quello schiaffo e finire con il culo a terra. Sua sorella si era limitata a chiamarlo e a constatare se potesse ancora fare le cose da solo. 
Si sentì dannatamente fuori posto. 
“Vedrò di fare ciò che posso.”

*

Il tempo a Brighton era anche più orrido che a Liverpool, notò subito Alexandra appena arrivò dalla stazione centrale, guardando il cielo. La pioggia continuava a cadere dalla sua partenza. Era di pessimo umore, con troppi bagagli, e necessitava di una doccia all’istante. 
Si incamminò verso la fermata degli autobus, sperando che passasse subito. La sigaretta dell’arrivo se l’era fumata appena aveva messo piede a terra, ora aveva bisogno di casa sua. 
Non si accorse dell’auto nera che accostò, tirando giù il finestrino dalla parte del guidatore. 
“Tesoro, sali che dobbiamo parlare.” 
Alexandra si voltò di scatto, riconoscendo all’istante la voce. 
La giovane Twain le fece segno con una mano e un ghigno di salire in macchina. Stark non poteva scappare.

Note a piè di pagina
1: Remake del 2000 di Sessanta secondi e vai via. Una sorta di Fast and Furious.
2: Classe 1946, ex centrocampista del Manchester City, considerato il migliore giocatore mai avuto dalla squadra e uno dei migliori giocatori della storia del calcio inglese.

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