L'ultimo canto di Sheyla

di Makil_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Il bacio del fuoco ***
Capitolo 2: *** L'ombra del bosco ***
Capitolo 3: *** Il ruggito del fumo ***
Capitolo 4: *** La voce delle tenebre ***



Capitolo 1
*** Il bacio del fuoco ***


                                                                       Il bacio del fuoco


L’ombra di Sheyla era distesa sul prato, sinuosa ed elegante accanto alle fiamme brulicanti.
La donna non aveva avuto neppure un ripensamento sul gesto che aveva fatto, almeno fino ad allora. Riuscì a fingere di non avvertire il puzzo di cenere che risaliva nell’aria per un paio di minuti, pur sapendo che, da lì a poco, sarebbe volato via lungo tutto i confini del cottage, pronto ad inondare le sale di fuliggine e arsura e la foresta di fumo e nubi grigie. Il suono dello scricchiolare degli arbusti secchi spezzati e corrosi dal fuoco le fece provare una sensazione di goduria che non avvertiva ormai da anni. Si era preparata a lungo per quel giorno, tanto di più per quell’esatto momento, ma ora che ce lo aveva davanti agli occhi non riusciva proprio a vederne la bellezza che lo aveva contraddistinto fino ad allora nella sua mente. Le fiamme stavano avvolgendo nelle loro spire i vari ramoscelli di alloro e melo che, baciati dalle calde labbra del fuoco, erano ormai divenuti un tutt’uno con l’aria, trasformate in essenze e profumazioni silvestre disperse nel vento.
Sheyla si avvicinò al rogo che aveva preparato con cura, facendo attenzione che le mille stoffe che la ricoprivano, sorrette da una mano al petto, non finissero a contatto con il fuoco. Non appena fu abbastanza vicina, alzò le mani al cielo. Sotto le stelle e la luna di quella notte gelida, il fuoco continuò ad ardere i rami di melo ed alloro senza curarsi dei gesti della strega. Sheyla non si preoccupò dell’indifferenza delle fiamme che aveva creato, in quanto era stata abituata a vivere nella poca considerazione che perfino la vita aveva avuto di lei.
Raccolse dal grande cestino di vimini posato ai piedi del rogo altri tre rami di alloro e, con un gesto altrettanto indifferente, li mandò a bruciare in mezzo all’enorme rogo al centro del prato, assicurandosi che finissero nel cuore delle fiamme.
«Per questa notte e per tutte le notti a venire!» mormorò afferrando un altro ramo dal cesto. Si trattava, questa volta, di un arboscello di menta, che si contorse e si incartapecorì non appena fu accolto dalle fiamme. Menta significava amore, Sheyla lo sapeva bene. “Un amore che muove ogni cosa e che finisce per corrodere il cuore: come il fuoco!”. Aveva imparato, malgrado l’avesse fatto a sue tristi spese, che l’amore era un fuoco pronto a bruciare chi, come lei, vestito di mille stoffe differenti, non era capace di trattenere bene il cuore all’interno del petto. Quello che aveva preparato era un rogo di riscatto dalla vita contro la morte, un nido di fiamme pronte a conferirle potere, forza e speranza, di cui Sheyla si sarebbe servita per il suo scopo prediletto: avere vendetta.
Si chinò un’altra volta sul prato già grigio di cenere, le mani immerse nel cesto in cui giacevano le altre piante che aveva ricercato a lungo nel bosco. Le erano serviti numerosi anni per poter preparare quel rogo, un grandissimo numero di giorni per poter trovare tutte quelle tipologie di arbusti sperduti nei vari angoli del bosco. Sperava almeno di non aver scordato nulla, proprio come le aveva sempre ricordato il suo mentore più saggio: l’antico tomo impolverato di incantesimi, sortilegi e maledizioni che giaceva abbandonato in un oscuro cassone del suo cottage, al coperto da sguardi indiscreti.
«Per questa luna e per tutte le lune a venire!» sibilò senza neppure distogliere lo sguardo dalle fiamme, ora più vivide che mai. Gettò nella pira tre rami di mandorlo profumanti e lisci, lasciando che si dimenassero come braccia umane nell’intricato ammasso di lingue rosse. Il mandorlo era sinonimo di rinascita e resurrezione, di cambiamento. Un mandorlo sapeva quand’era ora di trasformare il nero in bianco, il bianco in nero. Sheyla, fino ad ora, non aveva mai amato il cambiamento, ma aveva preferito restarsene ammantata di grigio, protetta dal pretesto che le aveva fornito anni orsono la morte. Lei era riuscita a vederla poco dopo essere stata ingannata dal suo amante, bianca, stagliata contro la coltre oscura di ombre. Sheyla aveva visto la morte e da lei aveva avuto un regalo: il dono della vita. Era morta con le sembianze di un folletto, la creatura che era stata prima di abbandonarsi nel giaciglio di foglie del mostro che l’aveva ingannata, ed era risorta come donna, umana, dotata di carne ed ossa come tutte le altre. Sheyla, da allora, era stata chiamata con diversi appellativi, ma quello che più sembrava preoccupare il popolo era il nome di strega. La morte aveva voluto concederle il dono di una forza eterea, pura, e per questo aveva infuso in lei la stregoneria: una forma di potere di cui Sheyla non era mai stata sazia. Come ogni strega delle leggende popolari o delle fiabe per bambini, Sheyla aveva un potere unico che le scorreva nelle vene insieme al sangue. Lei era capace di generare sfere di energia allo stato puro, bianco, attraverso le quali poteva causare morte e distruzione, corrodere i corpi e bruciare le cose.
Avrebbe chiesto volentieri indietro la sua vita da folletto, uno spirito vago e indefinito dei boschi, e avrebbe preferito lasciarsi alle spalle il suo cottage, il suo manuale d’incanti e quelle fiamme oscure. Se c’era una cosa di cui poteva essere grata alla morte, era la voce che le aveva conferito il corpo in cui era stata costretta a giacere per tutti questi anni. Infatti, con le sembianze di una donna umana, Sheyla aveva ottenuto una voce soave, melodiosa, in grado di irretire gli animi e di confondere le menti dei più stolti. Questo le aveva dato il piacere di dedicarsi al canto più di ogni altra cosa e di trascorrere le sue giornate oziose a canticchiare nenie di cui non ricordava neppure più le origini. Ma quel dono non le bastava più. Fino ad allora, perciò, la vita di Sheyla era stata solo un duello, una grande e misteriosa battaglia senza fine, un complesso testa a testa con la morte, con il cui solo aiuto avrebbe potuto riprendere la vita che le apparteneva. E ora, forse, con quelle fiamme a così ravvicinata distanza, lei avrebbe avuto il riscatto di una vita.  
«Per queste stelle e per tutte le stelle a venire!» cantò rivolgendo gli occhi al cielo cupo di quella notte. Erano le nubi che si levavano dalla pira di fiamme a renderlo così impuro, quasi fosse un cielo d’acciaio. Afferrò i rami di quercia che aveva raccolto un lontano pomeriggio passato e li lanciò ad incenerirsi tra gli altri. La poca grazia che utilizzò nel farlo fece sollevare un’ondata di calore verso di lei, che la ricoprì dalla testa ai piedi.  La quercia era la forza della morte, la magnificenza della vita, la maestosità di entrambe: tutte qualità che le sarebbero servite nel bosco. Quella notte come mai la sua mente era concentrata su un unico obbiettivo; stanare dal bosco colui che aveva assassinato la sua vita e che  l’aveva costretta ad un corpo umano perfetto, magico. Quella notte come mai Sheyla pensava solo e soltanto alla forza con cui avrebbe affrontato il suo aggressore, colui che era stato suo marito, il suo amante e il suo confessore per molto tempo nel bosco. Il nome di tutte le sue disgrazie era Pancrazio, il folletto che aveva amato fino a quando aveva avuto modo di vederlo con sé, fino a poco prima che lui le rovinasse la vita e la morte. Un essere informe di cui non avrebbe sentito più il nome volentieri.
Quel rogo si innalzava lì per lui, per benedire l’impresa che avrebbe condotto Sheyla nelle cavità più oscure del bosco, che l’avrebbe condotta nella tana dell’impostore che aveva amato a lungo e che le avrebbe dato il potere di ucciderlo una volta per tutte.
«Per queste nubi e per tutte le nubi a venire!» intonò chinandosi ad afferrare i fiori spinosi di rosa. Afferrare tra due dita quella pianta le fece colare due rivoli di sangue dai polpastrelli, che finirono per dilatarsi a dismisura giù per le mani, sotto la tunica e lungo le braccia. Questo la fece ridere e le diede forza. Gettò tra le fiamme anche quei fiori, il cui colore si disperse nel rogo divenendone parte. La rosa, sinonimo di eleganza, purezza, innocenza e tormento si disintegrò come tutte le altre piante che la strega aveva dato in pasto alle fiamme. Sheyla era stata pura e innocente un tempo, così come lo erano state le cose di cui aveva amato circondarsi: il bosco, la casa, gli amici, l’amante e la vita. Ma ora la purezza delle cose era volata via come foglie spazzate dal vento, lasciando la donna scoperta, imprigionata in un corpo che non le apparteneva, impuro e umano. Una parola che le aveva sempre dato allo stomaco più del puzzo dei cadaveri e del gusto del sangue. A quel punto del rituale riuscì a sentire il piacere che le stava dando quel sortilegio, purificando la sua anima e preparandola alla resa finale. Sarebbe entrata nel bosco col capo alto, fiero, e lì avrebbe portato la giustizia bianca dei suoi poteri: avrebbe dato a Pancrazio il dono che la morte le aveva dato un tempo, giusto per vederlo soffrire come aveva sofferto lei. Giusto per vederlo morire, proprio come era morta lei. Sheyla moriva ogni giorno, ogni volta che il riflesso del suo volto impresso nelle acque o nel vetro di qualche ampolla le ricordava chi era diventata a causa di chi.
Una lacrima le solcò di netto il viso.
«Per queste lacrime e per tutte le lacrime a venire!» cinguettò tenendo a bada il dolore. Mordendosi la lingua tra i denti, si chinò per afferrare il lungo ramo di cipresso, così distante dalla grandezza degli altri che dovette dividerlo in tre distinte parti, preoccupandosi di spaccarlo sulla coscia prima di gettarlo nel caldo abbraccio delle fiamme. Il cipresso cosparse l’aria di un odore forte ed aspro. Trattene il disgusto pur di continuare il rituale, per cui, almeno secondo il manuale, il cipresso era uno dei tre fulcri dell’evento. Ciò che simboleggiava il cipresso era il lutto e la longevità. Lei era una creatura luttuosa, dalle cui vene poteva liberamente sgorgare acqua nera macchiata di ricordi amari e speranze assopite piuttosto che sangue. Sapeva, infatti, che questo apparteneva all’uomo, e lei lo aveva ereditato quando la morte le aveva concesso il dono della vita umana, distruggendo la sua dopo essere già stata disintegrata da Pancrazio. Avere il sangue dell’uomo voleva dire essere un uomo, e lei non apparteneva a quel mondo di paura e desolazione a cui era abituato il popolo del borgo. La sua vita era nel bosco, lei era una creatura degli alberi, non una strega malvagia costretta a rimanere rinchiusa in un cottage e stimolata dal solo piacere di voler far soffrire chi le aveva dato quel dolore da sopportare. Quando le memorie di tutto il dispiacere che la colmava ripresero il sopravvento nella sua mente offuscando la visione del bosco, Sheyla si ritrovò ad essere più umana di quanto non si aspettasse.
Pancrazio le aveva rovinato ogni cosa, solo per il piacere di servirsi del suo animo. Ricordava come erano andate le cose, anche se forse avrebbe fatto meglio a non farlo. Infatti, seppur volesse credere il contrario, Sheyla aveva avuto più di una colpa nell’accaduto che l’aveva trasformata in quella bestia dalla pelle rosea. Era stata lei a desiderare una vita immortale ed era stata lei a costringere Pancrazio a lavorare su una mistura in grado di farla rimanere intatta, speciale, eterna. Il suo amante, l’ingrato folletto di cui tanto ora il suo cuore doleva, le aveva assicurato che le avrebbe dato ciò che la sua dolce creatura chiedeva. Così Sheyla aveva atteso per molte lune la preparazione del dolce infuso di miele ed erbe dei boschi più oscuri, che, solo secondo le parole consolatorie di Pancrazio, le avrebbero infuso il dono dello splendore celeste, la bellezza degli astri e la lucentezza del sole. Insomma, bevendo il contenuto della fiala fornitole da Pancrazio, Sheyla sarebbe diventata un’angelica presenza dei boschi, un folletto puro, in grado di viaggiare per l’eternità. Ma Pancrazio non aveva fatto altro che prendersi gioco di lei, sminuendola ed eludendola solo per potersi dedicare ad un altro folletto femmina di cui si era invaghito. Sbarazzarsi di lei fu semplice come l’ardere una pigna. Al folletto che aveva tanto amato bastò assicurarle ciò per cui Sheyla aveva pregato a lungo: la vita eterna. Eppure, Sheyla non aveva mai avuto nulla di tutto ciò, per quanto le sue labbra avessero saggiato davvero l’infuso del folletto. Quello che Pancrazio le aveva dato a bere era stato il frutto amaro di un disprezzo serbato a lungo, solo e soltanto un veleno dolce e verde come la linfa degli alberi, che l’aveva distrutta dall’interno e  che l’aveva uccisa dinanzi agli occhi del suo uomo. Infine, in sogno, Sheyla aveva visto la bianca purezza della morte, il fascino del suo esile corpo latteo mischiato alla sua immensa fragilità, che le aveva ridato la vita ad una condizione: che fosse una vita lontana da quel mostro; una vita da umana. Per quanto l’idea fosse sembrata discreta alle sue orecchie da folletto, Sheyla non aveva mai imparato ad apprezzare quel dono e piuttosto aveva tentato di togliersi invano la vita. Non c’era mai riuscita, però. L’unica cosa di cui era certa, dunque, era che se non poteva permettersi di morire, allora avrebbe fatto in modo di dare la morte a Pancrazio, dal cui evento, almeno, avrebbe gioito come quando la sua vita era spensierata tra i boschi.
Sheyla, la strega che ormai stava danzando a ritmo del fuoco, non chiedeva altro. Ora che si dimenava come un albero scosso dal vento, Sheyla stava intuendo tristemente di non essere neppure più una donna. Sapeva che le donne non si comportavano in quel modo; loro era molto più delicate, fragili ed aggraziate. Quel circolo vizioso avrebbe avuto fine nella sua morte, perché una donna che sa di non essere più donna altro non può sperare se non che di morire, lasciandosi alle spalle il cottage, il rogo, il bosco, la vita ed il cuore. Aveva imparato a non temere più la morte, ormai parte essenziale del suo corpo, ma non aveva mai imparato a non desiderarla, sapendo che non c’è folletto più triste nel bosco di quello che soffre per non poterlo più essere.
«Per questi sogni e per tutti i sogni a venire!» urlò al centro del prato afferrando dal cesto tre cipolle rosse. Aveva raccolto quei tre tuberi la mattina stessa, nell’attesa che il rogo fosse innalzato adeguatamente. Con una forza che non le apparteneva neppure, la strega scagliò le cipolle tra le fiamme ardenti. Il manuale di stregoneria le aveva suggerito che la cipolla era il dolore allo stato puro, l’unico frutto della natura capace di far piangere l’uomo. Le cipolle rosse, più di tutte altre, simboleggiavano la falsità e l’inganno della mente. Questo, decise, le sarebbe servito quella notte più che mai, quando le sue spoglie avrebbero abbandonato il suo corpo da strega per tornare, almeno per poche ore, nelle sembianze di un folletto. Sheyla si sarebbe inoltrata nel bosco nelle sembianze del corpo che le era appartenuto, e avrebbe posto fine ai respiri di Pancrazio attraverso la magia che lui stesso, inconsapevolmente, le aveva fornito. Lasciandosi cullare dal suono delle fiamme brulicanti vide che delle tre cipolle non era rimasto più nulla. Ai suoi piedi il cesto di vimini era tornato vuoto.
Sheyla chiuse gli occhi e restò per qualche minuto a respirare l’aria attorno al rogo, ormai satura dell’essenza del bosco e del tanfo del fumo. Inspirò tre volte a pieni polmoni, lasciando che l’aria grigia e bianca le entrasse nel corpo, scorresse nel suo sangue e si mischiasse con la sua pelle. Chiuse gli occhi e portò le mani in cielo, ancora una volta.
Il corpo che la morte le aveva donato non era assolutamente brutto. Sheyla era, infatti, una donna dalle forme aggraziate e sinuose, dalla pelle diafana in pieno contrasto con i suoi occhi neri. I lunghi capelli corvini scossi dal vento della notte le si agitavano irrequieti sul capo. Il suo volto longilineo, il mento sporgente, il naso adunco e fine, le labbra sottili e quasi invisibili facevano del corpo della donna una figura capace di incutere timore allo sguardo. Per l’occasione, la strega aveva indossato una lunga ed elegante veste viola dall’alto colletto bianco, in parte sormontata da un piccolo medaglione luminescente che prendeva vita ogni volta che Sheyla utilizzava i suoi poteri. La lunga figura della strega proiettava un’ombra ancora più lunga sul prato, e il mantello scuro che aveva sulle spalle svolazzava seguendo il movimento delle fiamme.
Le piante bruciate stavano avendo l’effetto che Sheyla aveva letto nel manuale. Più le fiamme bruciavano, più i suoi polmoni respiravano quell’aria malsana, più il suo cuore si riempiva d’odio e di dolore, di tutte le caratteristiche che possedevano gli arbusti che aveva sacrificato alla luna.
Il dolore la coprì dalla testa ai piedi, rabbuiandole il viso come un’ombra. Sheyla iniziò a ghignare sotto le stelle, con una risata stridente ed assordante. Era convinta a voler portare avanti quell’incantesimo delle fiamme.
Quando la rabbia le entrò nelle ossa, i suoi lineamenti si fecero duri.
«Maledetto!» urlò con una voce che ormai non le apparteneva più. «Lurido essere dei boschi! Io avrò la tua vita. Io avrò il tuo corpo. Io avrò il tuo sangue». Sheyla spinse avanti la mano e sfogò la sua tensione verso le fiamme. Una serie di sfere luminescenti le fuoriuscirono rapidamente dal palmo aperto, bianche e pure. Le onde di luce si scagliarono ripetutamente sul rogo per sei volte e alimentarono ancora di più la fiamma viva. Gli urli strazianti della strega, i suoi lamenti di dolore e i suoi pianti di odio ora erano più forti, più vivi: esattamente come la fiamma.
Aprì il taschino della sua lunga veste ed estrasse, infine, l’ultimo elemento da sacrificare. Afferrò quella fialetta verde con una sola mano, stringendone il ventre rigonfio con le dita. Quello che cingeva era l’elemento chiave del suo sortilegio oscuro, una pozione avuta in cambio del suo sangue. Era stato Illymio, un noto folletto del bosco, a donargliela, chiedendole un pagamento col sangue e col dolore. Illymio si era sacrificato per lei ingannando Pancrazio, il Signore dei Signori Folletti, Colui che vede e sente tutto, ed era morto per aiutarla a riavere la sua vita. “Quando avrò riavuto il mio corpo sterminerò tutti coloro che ci hanno assassinati” pensò riflettendo su Illymio. “E loro non avranno nessuno che li vendicherà”. La fiala era fatta di vetro chiaro e lucente, solcata da striature di ferro grezzo e scuro del bosco, che l’avvolgeva nel tappo sormontato da un cristallo ambrato, nel collo dalla lunga catenella e nella pancia. Al suo interno era visibile l’essenza pura ed incontaminata dal bosco, concretizzata nella presenza di una foglia dell’albero cuore. Il contenuto di quella fiala era la possanza degli alberi, la linfa delle piante, i versi degli animali, l’essenza dei fiumi, il cuore dei folletti. Quella fiala le avrebbe conferito l’aspetto che aveva posseduto prima di morire: Sheyla sarebbe divenuta per poche ore un folletto, agli occhi degli altri, lo stesso che era prima di essere uccisa da Pancrazio. Solo in questo modo avrebbe potuto attraversare indisturbata i reami del bosco e ritrovare il suo assassino.
Stappò la fiala e mandò altrove il tappo. Il contenuto non aveva alcun odore.
«Per il mio sangue e per il tuo, folletto». Fino ad ora si era ostinata a non chiamare per nome il suo assassino. Il prossimo passaggio, però, richiedeva che la causa del dolore uscisse chiara dalle labbra del sofferente. «Per le mie ossa e per le tue, Pancrazio». Gettò la fiala in mezzo alle fiamme. Quando questa toccò la loro luce, il rogo si colorò per un istante del verde delle foglie del bosco. Sheyla guardò ad occhi spalancati l’enorme esplosione di fiamme verdi guizzanti e schioccanti come fruste.
Adesso sapeva bene cosa doveva fare: l’ultimo passaggio prima della morte. Avrebbe lasciato il suo corpo da donna per tornare ad essere, per qualche ora, un folletto. Da lì a poco, le fiamme avrebbero smesso di bruciare così insistentemente e la magia si sarebbe affievolita sempre più. Quello era esattamente il momento giusto per terminare il rituale.
Slacciò i due cordoni che le legavano i polsi alle maniche e sbottonò uno per uno i piccoli bottoni dorati della lunga veste. Sciolse il nodo che aveva sotto il colletto bianco, lasciandosi ricadere il mantello alle spalle. Allentò la cintura nera legata strettamente al bacino e sganciò la collanina con il medaglione luminescente. Sheyla scivolò fuori dalle sue vesti nel cuore della notte, lasciando che la sua pelle nuda venisse baciata dal gelido tocco del vento.
La strega si avvicinò un passo alla volta al rogo, i fianchi che ondeggiavano da un lato all’altro. Sheyla stava piangendo senza conoscerne il motivo; forse le cipolle avevano avuto l’effetto descritto dal libro. Se l’incantesimo non avesse funzionato, il suo corpo sarebbe stato ridotto ad un ammasso di ceneri nere poco differenti da quelle degli arbusti.
Rimase per un paio di secondi a fissare la pira che aveva di fronte, spalancò le braccia e si gettò con noncuranza nell’abbraccio del fuoco. La danza delle fiamme continuò per tutta la notte.  


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Capitolo 2
*** L'ombra del bosco ***


                                                                         L'ombra del bosco 


La luce non era mai entrata in quel bosco.
Se il mondo degli uomini era la casa del sole, il bosco dei folletti altro non poteva essere che la dimora delle ombre.
Sheyla stava camminando da un paio di ore ormai, ignorando del tutto il terreno su cui posava i piedi nudi, totalmente incapace di dire con certezza quali strade imboccare. Era una strana sensazione quella da cui si sentiva pervasa: non ricordava di essersi sentita mai tanto distante da quel luogo, dalla sua casa. Un tempo gli alberi che la circondavano erano stati per lei il nascondiglio verso cui correre quando la pioggia si faceva copiosa, le vette da cui poter osservare il mondo degli uomini, i padri della sua famiglia e del suo popolo. Ma ora non erano altro che semplici arbusti imbruttiti dall’oscurità, stranamente contorti come possenti figure grottesche pronte ad afferrarla e a fermarla. Tutto ciò che un tempo era stata la sua casa, adesso le era sconosciuto come una dimora che non le era mai veramente appartenuta.
Il grande laghetto su cui si gettava la strada che stava seguendo era desolato e vuoto, e nasceva proprio sul punto in cui Sheyla aveva sperato di trovare almeno un segno della sua stirpe. La sua memoria l’aveva ingannata un’altra volta, si disse. Se una volta era lì che sorgeva il grande albero cuore, adesso doveva essere stato estirpato.
Si guardò a lungo attorno prima di decidere verso quale strada proseguire. A nord si stagliava il laghetto dalle acque grigioverdi, cosparso in superficie da melma e letame. Tutt’attorno alle sue acque e agli ammassi di fango che si erano formati sulle rive ronzavano mosche e scie di zanzare-lupo, le enormi e fastidiose creature che tormentavano i sonni dei folletti; per quanto di questi non ci fosse alcuna traccia. Sugli argini della pozza d’acqua crescevano giunchi grigi ed incartapecoriti, alcuni dei quali secchi ed accasciati su un solo lato. Le erbacce del bosco non avevano risparmiato quel luogo neppure un secondo. Attorno allo sperone di roccia che sorgeva sopra le acque del laghetto crescevano indisturbati rovi spinosi e secchi, il cui unico scopo era quello di prosciugare e rendere debole il terreno. Sul tronco spezzato e caduto di un enorme albero secolare, due cervi snelli e poco aggraziati stavano giocando a chi trovasse più riprovevole quel luogo contaminato dal grigiore del fumo che fuoriusciva dalle acque. Se fosse stata uno di quegli animali, Sheyla avrebbe vinto ad occhi chiusi. Per un attimo le sembrò come se fosse tornata dentro al rogo che si era lasciata alle spalle la mattina stessa, abbracciata nuovamente dal fumo delle fiamme e dai vapori verdi fuoriusciti dalla fiala di Illymio. Lo scenario era uno dei più tristi che la strega avesse mai visto. Che dopo la sua morte anche il bosco avesse smesso di vivere? Una solidarietà del tutto inconsiderabile, dal momento che questo era governato da niente poco di meno che il suo unico nemico: Pancrazio.
Guardò per un po’ di tempo anche ad ovest, il punto in cui il sole sprofondava prima di salutare per l’ultima volta gli uomini. La sua luce, però, non era mai riuscita a farsi spazio oltre la chioma fitta degli alberi di quel bosco. I folletti non riuscivano ad amare l’ovest neppure sotto tortura. Dicevano che fosse il punto in cui le cose si decomponevano e si inoltravano nel buio, pur non sapendo spiegarne affatto il motivo. Forse per confermare a sé stessa di essere più un folletto che un’umana, Sheyla non trattenne a lungo lo sguardo verso quel punto.
Ovest o Nord; buio o luce.” pensò, malgrado l’unica luce che poteva sperare di vedere era quella della lanterna ad olio che stringeva nella mano sinistra. “Ho già attraversato le ombre, ora è tempo che passi per la luce.”
Decise di avvicinarsi alle acque, prestando ben poca attenzione a cosa le passasse sotto ai piedi. Il terreno era friabile e fangoso, solcato da sassi ricoperti di muschio, radici spezzate e, di tanto in tanto, ossa di animali. Una miriade di lucciole fluttuava mezz’aria attorno a lei, quasi come fossero tante stelle stagliate nel cielo, con l’unica e sola differenza che, per quanto dentro al bosco si potesse affermare il contrario, fuori era giorno. Sheyla avanzò lentamente e si avvicinò ad una delle sponde del laghetto, con la lanterna tenuta a mezz’aria e tesa in avanti. La sua luce fioca non le sarebbe più servita una volta arrivata nel reame dell’albero cuore, ma per il momento quella era l’unica fonte di cui disponeva per orientarsi senza perdere la vita.
Si affacciò lentamente sulle acque del lago, la destra al petto e la sinistra alta. Seppur con poca nitidezza, le acque, inondate dalla luce della lanterna, specchiarono la sua esile figura. La fiala donatale da Illymio aveva avuto, almeno in parte, l’effetto desiderato. Sheyla adesso era la figura che era stata un tempo, prima della morte e prima dell’inizio di ogni sua peggiore disgrazia.
Sorrise nel vedersi sulle acque, soddisfatta di ciò che era riuscita a fare. In pochi avrebbero saputo creare un incantesimo di tale calibro, capace di ridare alle cose la forma originaria, agli uomini la forma primitiva. Era bastata una sola notte per ucciderla, anni fa, e una sola per farla risorgere. Se chiudeva gli occhi poteva ancora avvertire il brulichio delle fiamme che l’avevano avvolta per tutta la durata della notte e che le avevano ridato l’aspetto della creatura che era stata.
Continuò a fissarsi sorridendo. Il suo corpo era sinuoso, molto più di quello che aveva avuto nelle vesti della strega. La pelle chiarissima, sfumante al verde pallido come il manto ruvido delle rane. Dal capo ricadeva una chioma di capelli folti e bruni, intrecciati a giunchi, lillà ed edere. Le sue orecchie erano diventate nuovamente lunghe ed appuntite, proprio come un tempo, anche se ora non sapeva constatarne la loro validità. Se era il bosco a non avere più suoni o le sue orecchie a non funzionare più correttamente, Sheyla non sapeva dirlo.
Fece scorrere la mano sulle acque. Oltre le vesti trasparenti che indossava e che le ricoprivano il busto fino ai palmi, Sheyla poteva avvertire il potere scorrerle dentro le vene. La strega aveva l’aspetto di un folletto, malgrado non avesse perso l’essenza magica di un’umana. Se lo avesse desiderato, avrebbe potuto ricoprire quel lago di energia bianca, mandarlo in rovina, distruggere gli alberi, bruciare la legna, massacrare gli animali, aprire in due metà il cielo e la terra, folgorare le rocce e le erbe. Ma doveva mantenere quelle forze per un altro scopo.
Qualcuno o qualcosa, poco distante da lei, si mosse velocemente nell’erba. Sheyla si guardò attorno per qualche secondo.
«Chi va là?» domandò alzando la voce e la lanterna più del necessario.
Nessuno rispose e l’erba rimase immobile com’era. Il solo fruscio udibile era quello dello scorrere delle acque sporche.
Sheyla posò la lanterna sul terreno, che si spense non appena toccò la roccia nuda. Portò avanti le mani e plasmò una palla di luce. Non appena il bosco fu investito da tutta quella energia, un cupo rombo risuonò il lontananza.
«Fatevi avanti, ombre.» mormorò avanzando di qualche passo e perlustrando il luogo. «Non vi temo, spettri del bosco.»
Il fruscio si intensificò alle sue spalle. Si girò di colpo.
«Mi hai insegnato a non temerti, ombra. Non puoi spaventarmi!». Sheyla socchiuse gli occhi ed ascoltò attentamente. Il folletto che era stato la signora dei boschi respirò tutta l’aria malsana di quel luogo inquinato. Portò indietro il palmo della mano e si fece luce alle spalle.
«Ti comando di uscire, nel nome di Sheyla Spina d’Argento!»
«E nel nome di Sheyla Spina d’Argento io ti condanno ad una morte rapida e senza dolori!»
Un grosso cervo macchiato dall’età uscì fuori dall’erba fitta che s’innalzava poco distante. Il suo corpo era molto più grasso e formoso di quelli che aveva visto giocare sul tronco, e le sue corna molto più lunghe e contorte.
«Aireo!» urlò la strega sbalordita nel vederlo. «Cervo, non mi riconosci?»
Al contrario della bestia, lei lo conosceva molto bene. Aireo era un cervo parlante – così come tutte le altre creature del bosco del cuore - il segugio di Pancrazio, uno sgherro in grado di compiere ogni suo volere.
«Ho conosciuto il tuo corpo, ma ora non conosco te.» rispose l’animale spingendo avanti il muso e facendosi guardingo. «Il folletto femmina che servivo è morto anni fa.»
«Ed è risorto adesso, Aireo. Conosco il tuo nome, tu non far finta di non ricordare il mio.»
«Sheyla…» mormorò lui. «Era questo il suo nome. Lei era bella come le pietre luccicanti dell’entroterra. Ma tu non sei lei. Le donne non possono morire per ritornare a vivere.»
«E i cervi non possono parlare.» ribatté lei.
«Questo non è vero, incantatrice. La tua insolenza ti costerà cara.»
«Che ne sai tu di cos’è vero e cosa non lo è?»
Aireo chinò il capo verso terra. Le lunghe corna contorte tracciarono un solco a croce sul fango e poi iniziarono a brillare. Il cervo aveva sempre avuto il potere di creare illusioni e smascherare i sortilegi attraverso le sue corna. Il punto scavato iniziò a franare lentamente e a rimodellarsi, la terra si spaccò giusto un po’ e si frantumò in tanti piccoli pezzi. Un fiore sorse esattamente nel punto in cui le due linee che aveva disegnato si incrociavano.
«Questo luogo non è ciò che credi sia. Agli occhi di non chi non sa vedere, il bosco appare solo come un bosco. Il signore delle illusioni può permettersi di saper distinguere il vero dal falso, il giusto dall’errato. Per caso hai mai redarguito un uccello perché non sapesse volare? Donna spergiura, il tuo inganno ti costerà un paio di dita.»
«Non hai il permesso di rivolgerti a me in questo modo. Un tempo avresti chinato il capo solo per baciare la terra su cui posavo i piedi.»
«Tu desideri ingannarmi, lo leggo nei tuoi occhi. Dici di essere Sheyla Spina d’Argento, eppure i tuoi occhi negano ogni tua singola parola. Leggo paura e dolore nei tuoi, fastidio e… disonore.»
«Non mi fai paura. Il tuo bosco non mi fa paura. Io sono Sheyla Spina d’Argento, Regina del Bosco, signora dello spietato e velenoso Pancrazio. E io sono qui per ucciderlo.»
Quella frase non piacque per nulla ad Aireo, che dimostrò il suo dissenso con un nitrito impacciato.
«Questo non ti è concesso, incantatrice. Le tue mani non si poseranno mai sul corpo di Pancrazio, sappilo bene.»
«Questa è una cosa che spetta a me decidere.»
«Non qui» rispose secco il Aireo. Scavò tre volte la terra con lo zoccolo. «Non nel nostro bosco.»
Il cervo s’impennò sulle zampe anteriori e nitrì furiosamente scuotendo da una parte all’altra il capo. Quando si rimise sulle quattro zampe, la terra vibrò sotto di loro.
«Non costringermi a prenderti, furfante. Esci da questo posto di tua volontà e torna da dove sei venuta. Pancrazio sarà informato dell’inganno, e non sarà certo contento di sapere che un’incantatrice ha rubato le sembianze della sua dipartita signora.»
«Che lui stesso ha ucciso.» aggiunse Sheyla guardandolo in cagnesco.
«Non puoi permetterti di parlare del Signore senza neppure conoscerlo. La sua signora è morta, e tu non puoi essere lei.»
Aireo spinse in avanti la testa, la calò rapidamente e la fece passare sotto al braccio di Sheyla, poi la rialzò con la medesima velocità. Il braccio della strega rimase incastrato tra le due corna della creatura.
«Lasciami andare, Aireo! Io non ti permetto di toccarmi!» urlò. Non voleva mettersi contro quella creatura, un tempo amico fidato e leale. Eppure, il cervo la stava proprio costringendo a fare il peggio. Scosse il braccio prima da un lato e poi dall’altro, mentre lui piegava il capo a tempo per non permetterle di staccarlo. Le corna le infilzarono la veste, poi, lentamente, anche la carne del braccio. Non appena avvertì i primi dolori, la sua rabbia ebbe la meglio sulla sua forza. Sheyla alzò l’altra mano e la scaraventò sul suo capo, contorcendo le dita sulla sua mascella. Spinse il cranio della creatura invano, finché questa non nitrì più forte. Allora Sheyla si sentì risalire l’energia attraverso il braccio, scorrerle lungo tutte le dita. L’onda di luce fuoriuscì con un bagliore dal suo palmo e si schiantò sul volto del cervo, senza che neppure la strega riuscisse a rendersene conto. Sheyla tirò indietro il braccio dalla sua morsa. Un’altra volta la creatura s’impennò sulle zampe anteriori, scalciò, nitrì di furore e poi cadde per terra.
Sheyla iniziò a correre senza una meta. Il cervo si stava contorcendo sul fango, le zampe che andavano alla ricerca di un pezzo di terreno meno molle su cui poter essere poggiate. Non appena lo vide rialzarsi goffamente, iniziò a correre attraverso l’intricato ammasso di erba alta. Si fece strada in quel mare verde allargando le braccia come se stesse nuotando, spezzando piccoli arbusti e abbassandosi di tanto in tanto per superare dei ramoscelli. Corse su per una piccola collinetta scoscesa, e continuò a correre finché non pensò di essersi liberata di Aireo. Ma il cervo conosceva più di una scorciatoia in quel luogo e, a dimostrazione di ciò, fuoriuscì da una piccola grotta proprio sulle pendici della collinetta. Sheyla trasalì e poi riprese a correre nella direzione opposta, le sue piccole e minute gambe da folletto che si contorcevano doloranti.
Aireo continuò a seguirla correndole dietro e lasciando che i suoi passi risuonassero acuti in tutto il bosco. Sheyla non aveva mai visto Aireo così infastidito dalla sua presenza. Passò attraverso una caverna breve e sbucò dall’altro lato del bosco. Ancora una volta, il cervo si perse alla sua vista. Sheyla però non si fermò, e corse finché non fu ad un passo dallo sfinimento, finché la strada di rovi contorti non si ridusse a nulla poco di meno che un vicolo senza via d’uscita. Tutt’attorno a lei si innalzavano possenti alberi secolari, un vallo di pietre e fango sulla via principale e rocce ammassate lungo i lati. Sheyla era estranea a quel luogo, talmente tanto lontana da quegli animali e da quelle piante da sentirsi mancare il fiato, sebbene non fosse per la lunga ed estenuante corsa.
Rimase a fissare le tenebre per un’eternità, prima che il silenzio di quell’ambiente fosse distrutto dal suono di passi delicati in lontananza. Sheyla sussultò.
«Allontanati, Aireo!» urlò al vuoto. Si voltò e diede le spalle al vallo, la mano aperta verso la via principale, vuota. «Se non lo farai giuro che manderò alle fiamme il tuo bosco. Eccoti una dimostrazione!». Tese maggiormente il braccio e sprigionò una serie di palle d’energia bianca che si frantumarono contro i tronchi di tre alberi e che appiccarono un incendio. Le lingue di fiamme presero immediatamente a risalire lungo il tronco di ognuna delle piante, mandandole presto in rovina.
Sul sentiero calò il silenzio e il brulichio delle fiamme s’intensificò. Sheyla guardò a sinistra nella coltre di arbusti e piante, poi a destra nell’intricato ammasso di foglie e rovi. Tese lo sguardo alle sue spalle, dove il vallo non permetteva alla via di proseguire. Di Aireo non c’era traccia.
Dalla via provenne un altro rumore ovattato. Gli occhi della strega saettarono nella direzione del suono. Lentamente e con una grazia propria di pochissime creature, Aireo emerse dall’erba folta con il suo fiero portamento e con il capo alto. I suoi occhi neri scagliavano in ogni direzione il suo monito di inequivocabile serietà. Il suo manto era cosparso di qualche pelo grigio sotto al mento e sul collo, che gli conferiva un aspetto più saggio e anziano del dovuto. Aireo era sempre stato quel che era ora. Difatti, le creature del bosco non potevano invecchiare, specie quelle che, come loro, avevano un potere e il sacro obbligo di difendere l’albero cuore nelle vene.
Aireo avanzò con lentezza, un passo alla volta, mentre Sheyla indietreggiava sempre più. La strega dovette fermarsi non appena toccò con le spalle e con le mani il grande vallo di pietra. Non c’era più scampo, ora. Se da una parte si trovava una barriera inequivocabile e testarda come la pietra robusta, dall’altra c’era un vallo costruito appositamente per sbarrare i percorsi. Sheyla chiuse appena gli occhi.
«Il bosco ti ha imbrogliata, incantatrice. Lo fa con tutti coloro che sono estranei alle sue vie. Se fossi stata davvero chi dici di essere, non avresti avuto problemi a sfuggirmi. Sheyla Spina d’Argento non aveva rivali in campo di fuga.» mormorò il cervo scuotendo avanti il capo con fare regale. «Persino le sue spoglie hanno abbandonato il bosco con una fuga del tutto inspiegabile. Nessuno ha mai saputo dire in che modo il corpo della mia signora evaporò dal giaciglio in cui era stato lasciato. Nessuno.»
“La tua signora è ancora qui, cervo, ma tu sei diventato troppo cieco per rendertene conto”. Sheyla abbassò il capo e mandò avanti le ciocche dei suoi capelli. «Tu non mi crederai, Aireo. Ma io sono Sheyla, la tua signora. È stato Pancrazio a togliermi la vita, e lui stesso a bruciare i resti del mio corpo. Credimi, cervo, non avrei motivo di dirti delle bugie.»
«Fandonie, incantatrice.» sibilò Aireo. «Non provare a menzionare un’altra volta il suo nome, o dovrò toglierti la vita.»
«Sei un suo servo, ecco tutto. Con cosa ti ha pagato quell’essere viscido?»
Il cervo nitrì.
«Vorresti spaventarmi? Non temo la morte, Aireo, ho smesso di farlo anni orsono. E tu, cervo, hai paura di morire oggi e di essere confinato all’inferno?»
«Non parliamo di simili argomenti nel bosco: gli esseri bianchi non temono la morte. Tu dovresti farlo invece, sappilo. Assumere le sembianze di un folletto deceduto è un reato che va contro ogni sacra morale del bosco.»
«Non hai risposto alla mia domanda, Aireo». Sheyla lo redarguì con lo sguardo. «È l’inferno a farti tremare?»
«L’inferno è qui» disse. «Qui per te e nessun altro.»
«Dimostramelo allora, avanti. Io sono pronta.»
Aireo s’impennò sulle zampe anteriori e mosse rapidamente le altre due. Sheyla tese in avanti entrambe le mani puntando il corpo del cervo, che ricadde di peso sul terreno. La creatura sibilò e inspirò l’aria del luogo con le sue enormi narici. Le lunghe corna presero ad illuminarsi assumendo lo stesso colore dell’oro appena fuso. Prese una lieve rincorsa e poi si gettò su di lei con furia. Sheyla scagliò le prime folgori sul terreno. Un’enorme barriera di fuoco si levò in alto e formò una linea di fiamme davanti a lei. Il cervo arretrò di qualche passò, scalciò e poi ringhiò. Chinò in basso il capo e impresse dei solchi sul terreno. La luminescenza delle sue corna si disperse nelle tracce sul fango, e le fiamme si spensero come se bagnate da tonnellate d’acqua. Sheyla posò una mano sul vallo e lanciò altre sfere di luce verso la creatura. Il cervo le schivò tutte con eleganza, lasciando che andassero a sbattere sugli alberi e sull’erba. Riprese a correre verso di lei. Sheyla concentrò tutte le sue forze sull’obiettivo e spalancò entrambe le mani. Socchiuse gli occhi e s’impuntò sui talloni. La forza che impiegò nello scagliare quelle sfere d’energia la fece ricadere per terra, ma non produsse alcun risultato. Aireo scansò ogni attacco e ne parò uno con le lunghe corna. La creatura abbassò il capo e si preparò all’impatto contro il suo corpo, la testa che mulinava da un punto all’altro con le corna lucide e lucenti. Sheyla chiuse gli occhi. La morte e le ombre l’avrebbero presa lì, senza neppure accorgersene… proprio come l’ultima volta. Strinse le mani in pugno finché le proprie unghie non si conficcarono sulla pelle, lasciando che iniziasse lentamente a sanguinare.
Poi un soffuso bagliore divampò nell’aria, e Aireo non la colpì mai.
La luce s’intensificò. Non appena Sheyla fu inondata da quell’immenso bagliore, si rimise immediatamente in piedi e osservò con stupore la scena. Una lunga scia di luce proveniva dall’estremità superiore del vallo che aveva alle spalle e si diradava verso il cervo, trattenuto a mezz’aria da tutta quella forza. Aireo stava scalciando e nitrendo furiosamente, colto da un improvviso impeto di violenza. Sheyla avanzò giusto quanto bastava per vedere chi fosse il suo salvatore, trattenendo le vesti con la destra. Fu costretta a posare una mano sulla fronte per non essere accecata dall’immenso bagliore proveniente dal vallo, e dovette ammiccare un paio di volte prima di poter scorgere anche solo una figura in ombra.
Infine riuscì a vedere.
La longilinea figura di una donnola si ergeva proprio al centro della barriera di pietra, le corte zampette ritirate sul dorso e il muso sporto all’infuori. Erano i suoi occhi a proiettare tutta quella luce, forte ed accesa come quella del sole. Si sentì richiamata da quel potere, avvolta da tutto quel calore. Alzò improvvisamente le braccia al cielo e si fece abbracciare dal caldo furore della luce, mentre alle sue spalle Aireo si contorceva fluttuando a mezz’aria. La luce l’avvolse dal capo ai piedi e lei fu obbligata a chiudere gli occhi per non accecarsi; quando li riaprì fu come se non fosse servito a nulla. Credé di essere diventata cieca, credé di aver perso la vita. Le ombre si stagliavano tutt’attorno a lei, coprendola e soffocandola come se la stessero stringendo da ogni lato. La luce iniziò pian piano ad affievolirsi lasciando spazio alla fredda aria delle tenebre.
L’ombra del bosco adesso era più scura che mai.

                                                                          

Note d'autore: 
Un grazie immenso a Spettro94 e a The3rdLaw, che ormai conosco bene, per le loro preziose recensioni lasciate al precedente capitolo. Un ringraziamento speciale anche ai miei lettori silenziosi: spero di avervi soddisfatto anche con questo secondo. Il prossimo aggiornamento è previsto per la settimana seguente [martedì 21]. 
A presto, Makil_

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Capitolo 3
*** Il ruggito del fumo ***


                                                     Il ruggito del fumo 

 
Un piccolo focolare brulicava in una nicchia della parete di legno scuro, ed era l’unica luce in quel luogo di fumo ed ombre.
Il suono del fuoco risvegliò la donna-folletto dal suo sonno durato chissà quanto tempo. Si trovava in una casa dalla forma cilindrica e dal tetto a botte sostenuto da poderosi pilastri di legno. Tutt’attorno al suo letto di paglia e giunchi intrecciati si estendeva un pavimento di legno scurissimo, reso ancora più scuro dalla grigia aria malsana che avvolgeva il luogo.
Dovette strofinarsi per bene gli occhi prima di riuscire a capire dove fosse, ma infine fu consolata non poco dalla vista. Al centro della casa di legno sorgeva una spessa cattedra dello stesso colore, che nasceva come un tutt’uno con il pavimento stesso. Non c’erano finestre né porte, e l’unico ingresso era per via di una botola che collegava la casa all’entroterra. A Sheyla fu chiaro che si trattava di un albero, tipica dimora di ogni abitante del bosco. E quell’albero non le era neppure del tutto sconosciuto.
Si guardò un po’ attorno prima di mettersi seduta sul lettino, la testa dolente come se avesse ricevuto una martellata sul cranio. Il silenzio e la tensione erano palpabili nella casa.
Sentì scricchiolare il legno sotto ai suoi piedi quando fece per posarli per terra, e ciò bastò per far sì che tutti gli sguardi dei presenti si posassero su di lei. Una vocina non poco sconosciuta la fece sobbalzare nel letto.
«Vossignoria!» cinguettò la voce. «Abbiamo pregato affinché tu non morissi.»
Sheyla rise. “E come potrei morire di nuovo?”. Dall’enorme nube di fumo grigio che l’avvolgeva, la ghiandaia blu sbucò con una serie di giravolte e si tuffò nella luce del fuoco svolazzando tutt’attorno alla casa. Il suo corpicino piumato del blu delle acque del mare s’illuminò di gioia.
«Allora è vero» cinguettò «Sheyla è tornata. Vossignoria sta bene!»
«Posso assicurartelo» fece Sheyla «Come posso assicurarti che mi è stato dato del filo da torcere.»
Aglaia – questo era il nome della ghiandaia blu – fece una piroetta a mezz’aria e planò sul lettino.     
«Aireo!» pigolò più stridula che mai. «Il suo servizio è sempre stato così integerrimo nel bosco, tanto giusto ed affidabile che mi sono sempre chiesta come facesse a non sbagliare mai. Mi sbagliavo, anche lui è in grado di confondersi.»
«E di confondermi!» sbraitò Sheyla alzando la mano. «Si ostinava a dire che non fossi io la vera Sheyla.»
«Una cosa di cui ha fatto bene a dubitare.»
«Ah sì?» fece Sheyla. «Io non ho dubitato di lui, e ora non sto dubitando di te, Aglaia. Mi piacerebbe sapere che c’è della reciprocità in questo.»
Aglaia spalancò le ali. «Senza dubbio, vossignoria. Mi credi forse folle? Sono una ghiandaia, per mia fortuna, non un cervo. O forse la luce ti ha inebriata a tal punto da farti vedere più corna del normale?»
«Non più del necessario: vedo quelle che ci sono.»
La ghiandaia pigolò e chinò il capo.
«Che ci faccio qui?» chiese Sheyla desiderosa di sapere cosa le fosse successo. Ricordava ben poco dell’accaduto ed aveva memoria solamente dalla luce che l’aveva avvolta nel bosco.
«Oh, tempo al tempo, vossignoria. Dapprima c’è bisogno che tu beva questa». Aglaia piegò la zampetta di lato ed indicò una tazza di ceramica poggiata accanto al letto.
«Che cos’è?» chiese Sheyla. «Se c’è una cosa che ho imparato negli anni che mi sono stati concessi è di non bere ciò di cui non conosco con certezza l’origine ed il sapore.»
«Tempo al tempo» ripeté la ghiandaia. «Presto avrai le tue risposte. Ma adesso fa’ come ti dico.»
«Non se prima non l’assaggi anche tu» ribatté Sheyla.
«Io?» domandò Aglaia. «Credo davvero che la luce di Fronesio ti abbia accecata» la ghiandaia si diede una paio di colpi sul becco. «Se non ricordi, posso aiutarti a farlo. Vedi, noi uccelli abbiamo un becco… non una bocca vera e propria…»
«Bevilo, ho detto.»
«Vossignoria, non agitarti. Io non lo berrò, ma so chi potrà farlo per te». Aglaia spalancò le ali e planò in alto per andarsi a posare su una nicchia vuota sulla parete alta. Dal vortice di fumo che s’alzava al centro della stanza uscì una bestia dal manto nero come la notte. Sheyla riconobbe Elestoria, l’elegante pantera padrona della memoria e dei sogni.
«Spina d’Argento» mormorò a denti stretti la creatura, con una voce cupa e misteriosa. Un passo dopo l’altro, accompagnata dalla sua eleganza tenebrosa, la bestia si avvicinò. «Chi non muore si rivede.»
«E chi si rivede non è mai morto» ribatté Sheyla. «Una cosa che andrebbe comunicata anche ad Aireo.»
Elestoria si avvicinò con grazia al giaciglio di Sheyla e afferrò la sua coscia con gli artigli della zampa. «Aireo dice di sapere, ma in realtà non sa. Quel cervo ha perduto il senno allo stesso modo in cui tu hai perduto la vita». La pantera posò la zampa per terra. «Che ti è successo?»
«Ogni domanda avrà sempre e solo una risposta: Pancrazio. Elestoria, almeno tu, credi a ciò che sto per dire, ti scongiuro. Quel folletto è un mostro, un vero abominio della natura.»
«Va’ a dirlo a lui e ti dirà che i mostri non esistono nel bosco.»
«Lo farà con lo stesso disinteresse con cui mi hai fatto bere una fiala della morte istantanea?»
«Probabile di sì» mormorò Elestoria. «E probabile di no. Non ci è dato sapere cosa passi per la mente all’illustrissimo Signore dei Boschi.»
«Al diavolo tutti i suoi titoli! Ho giurato sui cieli e sulle stelle che io riavrò la mia vita, e lui avrà la sua morte. Nessuno potrà impedirmelo»
«E nessuno te lo impedirà» cinguettò Aglaia dall’alto. «Ma ora bevi!»
«Elestoria non ha ancora bevuto per me.»
La pantera gattonò fino alla tazza e bevve po’ il contenuto, assicurandosi che Sheyla la vedesse nel farlo. «È sicura, bevila e fa’ come ti è stato detto.»
«Non mi è ancora chiara una cosa. Che ci faccio qui?»
Calò un silenzio che bastò a Sheyla per avvertire i brusii di lamento della ghiandaia blu.
Elestoria fece qualche passo verso di lei, si avvicinò al suo giaciglio e si mise seduta. Il manto nero brillava assorbendo la luce fioca del fuocherello vicino.
«Fronesio ti ha salvata, Sheyla Spina d’Argento. Lo ha fatto ancora una volta». La pantera si mise composta per terra, la coda che ondeggiava delicatamente da un lato all’altro.
«Lui… lui… ha fatto questo per me?»
«E per chi, altrimenti?». Aglaia decollò sul dorso di Elestoria e si punzecchiò un paio di volte le penne col becco. «Lui sente e vede tutto. Sapeva che eri in pericolo, e sapeva che dovevi essere salvata.»
«Io l’ho visto… lassù nel vallo. Ha proiettato luce!» disse stupefatta Sheyla. «Non lo avevo mai visto allontanarsi da questo luogo.»
«Ci si annoia a restare sempre negli stessi posti. Lui aveva l’obbligo di accorrere in tuo aiuto.»
L’ultima volta che Sheyla aveva visto Fronesio era stata molti anni prima di morire nel bosco. Tutti lo consideravano il saggio del reame, la forza intellettiva della natura. La sua percezione superava persino la magia, e la sua abilità era tre volte maggiore di quella di un folletto. Fronesio era a tutti gli effetti un’anima. Come questa non parlava, a causa di un morbo che lo aveva colpito numerosi anni orsono, quando ancora Sheyla non era neppure un fagotto.
«Voglio vederlo» disse Sheyla. «Ho bisogno di parlargli. Lui saprà dirmi cosa fare. Voglio tornare a vivere, amici. Voglio tornare nel bosco.»
«Tempo al tempo» ribatté Aglaia più dura di una roccia. «Suvvia, bevi.»
Fu Elestoria ad avvicinarle la tazza con il muso. Sheyla si fece guardinga non appena riuscì ad afferrarla. Nessuno l’avrebbe tradita lì dentro, ne era certa. Conosceva Elestoria ed Aglaia da quando era poco più piccola e minuta di un arboscello di ciliegio, e loro erano stati i suoi compagni di gioco preferiti. Bevve il contenuto tutto d’un sorso, assicurandosi di non avvertirne né l’odore né il sapore.
«Dunque, ho bevuto.» disse Sheyla posando ai suoi piedi la tazza. Aglaia volò accanto alla sua mano e la beccò su un dito, che subito iniziò a sanguinare. «Cosa fai, Aglaia!?»
«Mi assicuro di star parlando con la vera Sheyla». Il sangue colò giù per il dito e lacrimò sul pavimento macchiandolo di rosso. «E ho il piacere di notare che è proprio così.»
«Come puoi dubitare di me?» domandò Sheyla sbadigliando.
Fu Elestoria a risponderle. «Dubitare di qualcuno è il primo passo per rendersi conto di potersi fidare». Fece un paio di passi delicati, attutiti dai cuscinetti sulla sua zampa. Posò una di queste sulla sua spalla e fece forza. Sheyla arretrò: le girava un po’ la testa.
«Portatemi da Fronesio.» comandò.
«Lui non è in casa al momento.» rispose secca la pantera. «Avrai modo di vederlo quando il sole sorgerà nel bosco e il cielo si macchierà di bianco.»
«Che vuol dire tutto ciò?»
«Aglaia non te lo ha detto: sarò io a farlo». Elestoria ruggì. «Il bosco è morto e Aireo cerca di tenere le ombre lontane. Da quando Sheyla ha tolto la sua spina d’argento dalle sue terre, le radici degli alberi si sono impoverite. Tu sei un’ombra ora, ecco perché Aireo voleva scacciarti.»
«Ma le ombre sono ben accette in questa casa» s’introdusse Aglaia svolazzando in tondo. «Loro risaltano nel bianco del fumo.»
Proprio come la morte” pensò Sheyla. «Cos’altro devo sapere?»       
«Tante, troppe cose.» disse Elestoria riassumendo la sua aria elegante. «Non basterebbe una vita per dirtele tutte.»
«È per questo che ne ho avute due.» ribatté Sheyla, la cui testa stava iniziando a dolere sempre più forte. Sbadigliò.
«Due!» fece Aglaia. «E due sono anche gli anni che hai passato lontana dal bosco! Le cose sono cambiate, vossignoria. Il tempo è una pala: più lo si lascia scorrere, più scava le nostre fosse. E la tua, di fossa, non si risanerà mai.»
«Mai?» domandò Sheyla perplessa. «Che intendi?»
Iniziò a girarle la testa. Vide un’ombra bianca in lontananza avvicinarsi sempre più verso di lei. Una sagoma di luce, perfettamente delineata su uno sfondo di ombre scure come una macchia di catrame. Aveva già visto quella figura, anni prima. Entrambi si conoscevano meglio di quanto si potesse chiedere. La morte era lì, stagliata di fronte a lei. Gli occhi simili a braci accese e le braccia saettanti come folgori.
Sheyla scosse il capo più volte. La pantera le saltò addosso con le fauci spalancate. L’ultima cosa che vide di Elestoria fu il bagliore turchese dei suoi occhi. D’improvviso la pantera fu nei suoi sogni.
 
***
 
Si risvegliò intontita e seduta su una morbida poltrona di paglia rinsecchita dall’arsura. Sopra e attorno a lei si ergeva una torre di fumo bianco, impregnata dell’odore del legno bruciato e dello sterco secco. In confronto all’aria della notte inspirata durante il rituale del rogo, quella era proprio disgustosa. Dovette trattenere i conati di vomito a lungo per potere capire da dove venisse quel puzzo malsano. Dalle spire di fumo che non permettevano di vedere nulla fuoriuscì Aglaia. La ghiandaia intonava un canto vorticando attorno al nugolo di vapore.
«Aglaia!» vociò Sheyla con la testa che doleva più che mai. «Ti ordino di ascoltarmi! Io… io…»
La cortina di fumo si spalancò e iniziò a distogliersi lentamente. Al centro della stanza rimase l’enorme cattedra che sorgeva al centro della stessa, del tutto spoglia e lesionata dal tempo. Sul suo dorso giaceva una donnola accoccolata su sé stessa, adagiata su un cuscino color porpora. Quella creatura era Fronesio, l’anima del bosco, il saggio tra i saggi, la luce delle ombre. Non appena apparve, il bagliore del sole fu parte della casa. La donnola emanava luce dagli occhi, immobili proprio come la creatura stessa.
Fronesio stava facendo ciò che faceva solitamente: se ne stava nella sua casa a fumare l’enorme bakook, una pipa quadrangolare oblunga forata in cinque punti sul dorso, che emetteva ruggiti, rombi e fumo grigio ogni volta che la creatura pensava. A giudicare dalla quantità di fumo che gravava sulla casa, la donnola doveva essere immersa nei suoi pensieri da ore.
Ai piedi della cattedra c’era Elestoria, seduta sulle zampe posteriori, intenta a leccare una delle sue zampe. Aglaia planò sulla cattedra e si fece spazio accanto al bakook di Fronesio.
«Mio signore». Sheyla chinò profondamente il capo, inspirò il fumo del bakook e incrociò le mani. Un rito che nessuno aveva mai scritto da nessuna parte, ma che tutti facevano obbligatoriamente quando andavano a proferire con il saggio Fronesio.
La creatura la guardò negli occhi ed inspirò del fumo. Produsse poi tre anelli grigi con il bakook. Aglaia, impettita al suo fianco, si apprestò a tradurre il messaggio. La ghiandaia era divenuta da anni le sue ali e la sua bocca, Elestoria le sue orecchie e le sue braccia
«Fronesio dice che vostra signora è benvenuta nella sua casa, e che sempre lo sarà finché resterà tale.»
Sheyla si bagnò le labbra con la lingua. Annuì lentamente.
La creatura fece altri due cerchi concentrici di fumo.
«Chiedete e avrete risposte» tradusse Aglaia. «Pensate e avrete domande.»
Sheyla abbassò nuovamente il capo e pensò ad una delle tante domande che l’assillavano.
«Ucciderò Pancrazio, questa volta?»
Nell’aria calò il silenzio. Il fumo separò un’altra volta la cattedra della donnola dalla poltrona di Sheyla.
«Ucciderete chi non vi ucciderà, ma non avete speranza contro chi vi ha già uccisa.» disse Aglaia.
Sheyla soppesò con cura le parole del saggio. Rilassò la tensione da cui si sentiva pervasa, socchiuse brevemente gli occhi.
«Quindi non potrò mai ucciderlo?»
Fronesio dipinse altri cerchi bianchi nell’aria. Il bakook gettò fuori tre anelli concatenati ed una figura perfettamente sferica.
Aglaia allargò le ali e le batté due volte. Le figure di fumo presero vita per un istante.
«L’aquila e il falco si azzuffano nel cielo, dice. Nessuno dei due può morire se l’altro continua a vivere.»
«Certo» fece Sheyla. «Ed è per questo che nessuno sopravvivrà». Poi gettò delle occhiate ad Elestoria, giusto per assicurarsi che la pantera fosse al suo posto. La creatura aveva gli occhi fissi verso una sola direzione, un solo punto; e quello non era Sheyla.
«Tornerò a vivere nel bosco?»
Il bakook prese vita, ruggì, plasmò vortici di fumo e vapori. Come dal comignolo di un camino appena accesso, dai cinque fori sorsero colonne di fumo bianco che si espansero verso ogni direzione.
«No» fece Aglaia. «E il bosco non potrà risorgere in te.»
Enigmi, altro non erano che enigmi! Sheyla lo sapeva fin troppo bene. Per quanta verità ci fosse in quelle parole, il linguaggio di Fronesio era sempre stato fin troppo criptico. Pancrazio soleva dire che non bastavano sette vite per decodificare un suo saluto. Sheyla sorrise al pensiero.“Ne avresti volute sette. Non ne potrai vivere a pieno neppure una! Dammi solo il tempo di ritrovarti e di te non lascerò neppure le ceneri.”
«Amerò mai un'altra creatura?» chiese Sheyla. Quella domanda le uscì dalle labbra quasi spontaneamente. Alle sue parole seguirono i giochi di fumo, alimentati dal fiato della donnola. Aglaia tradusse: «Avete vissuto per amare, non sperate di amare per vivere.»
«Non è necessario» rispose lei. «Io non vivrò più, è questo che hai detto. Ma nel tempo che rimane, forse, potrei uccidere tutti coloro che hanno avuto a che fare con la mia morte.»
Il bakook sibilò e le lingue di fumo si contorsero tre volte. Da tre fori fuoriuscirono tre figure pallide. Aglaia cinguettò.
«Il saggio chiede se mai lo ascolterai.»
«Ci proverò» fece Sheyla. «Ho sempre ascoltato i suoi consigli.»
«Il saggio aggiunge che non ti è dato togliere la vita chi te ne ha concessa una nuova.»
Sheyla si rabbuiò. «Una vita nuova?» domandò. «Avrei preferito morire piuttosto!». Poi sospirò profondamente e abbassò lo sguardo. La donnola era assopita nel fumo del bakook.
«Fronesio ti indicherà la luce verso cui proseguire, ma tu devi promettere che la seguirai.»
Sheyla incrociò le dita di entrambe le mani. Le sue orecchie appuntite si fecero tese, pronte ad ascoltare il saggio. Sei vortici di fumo grigiastro si sparsero sopra i loro capi. Il bakook tuonò.
«Non c’è luce nell’ombra in cui siete diretta, dice». Aglaia spalancò le ali e si grattò una penna blu col becco. «Aggiunge: il vostro sogno è avere un sogno, Sheyla. Elestoria ha visto.»
Elestoria strofinò il muso sulla cattedra, annusò l’aria e tornò composta per terra. La pantera era entrata nei suoi sogni dopo averle somministrato il sonnifero, aveva perlustrato gli angoli più remoti della sua coscienza e aveva attraversato i suoi ricordi. Un’abilità propria che Elestoria sapeva sfruttare pienamente in ogni occasione.
«Lui ti riconosce, Sheyla.» disse Aglaia. «E sempre lo farà, qualunque aspetto tu assuma. Se diverrai un uccello, lui vedrà. Se diverrai un leone, lui vedrà. Se diverrai un albero, lui vedrà. Smetterà di vedere solo quando sarai fumo e cenere.»
Sheyla abbassò il capo, lo alzò e pose un’altra domanda. «Non mi sembra di averlo notato prima. Mio signore, perché non sono stata salvata nello stesso modo quando era nel mondo degli uomini?»
Il bakook emise cupi rombi simili al ruggito di Elestoria. La casa tremò giusto un po’, poi venne avvolta dalla barriera di fumo e vapori.
«Tu non hai compiaciuto il saggio» disse Aglaia. «Lui dice che in quel mondo è conosciuto con un altro nome, con altre forme e con altre luci. Ma tu non hai saputo vederlo.»
Sheyla si fece guardinga, non del tutto soddisfatta della risposta.
«Sfiderò mai più la morte?»
Le parole furono presto seguite dai suoni cupi del bakook, ad ogni esalazione sempre più forti. L’odore della cenere avvolse completamente la stanza.
«Ogni giorno la morte e la vita ci pongono delle barriere, ogni giorno tutti gli individui sfidano la vita e sconfiggono la morte. Ma voi, Sheyla Spina d’Argento, voi non la sfiderete più. L’avete sfidata, l’avete vinta. E dopo una vittoria, segue sempre una sconfitta.»
«Quindi…» fece Sheyla. «Qualsiasi passo mi porterà alla tomba.»
Il bakook rintronò. Fu come se nella stanza stesse per levarsi un temporale. «Sì» ammise Aglaia tristemente. «Qualsiasi passo sarà per te morte.»
La pantera si rizzò sulle zampe posteriori e si fece dubbiosa.
«Come sarebbe a dire?» tuonò. «La morte di Sheyla porterà alla morte del bosco! Il suo legame tiene unite le creature e le piante. Se mai le dovesse accadere qualcosa, tutto andrebbe distrutto di nuovo e il bosco cadrebbe nel baratro della morte!»
Aglaia rivolse un rapido sguardo carico di rimproveri alla pantera.
Sheyla sospirò. L’aria l’entrò nei polmoni; fece come se non avesse sentito. «E sia» disse. «Se questo è, questo sarà. Se è ora che Sheyla Spina d’Argento muoia, allora che sia fatto. Ma con me verrà anche lui, Pancrazio. E con lui, anche il suo bosco, se è necessario.»
Si ritrovò a trattenere le lacrime di dolore senza neppure sapere per quale motivo stessero per sorgere. Elestoria si rimise sulle quattro zampe e puntò i suoi occhi su Sheyla.
«Aglaia, interrompi il legame.» ordinò alla ghiandaia. «Sheyla ha sentito fin troppo. E anch’io.»
La ghiandaia fece come gli era stato ordinato senza esitare. Vorticò attorno al fumo, inspirò l’aria rimasta, batté le ali più volte ed allontanò rapidamente ogni spiraglio di vapore grigio. Il bakook tornò silenzioso.
Sheyla trasalì. «Che succede ora?»
«Basta così.» mormorò la pantera. «Se è questo che volevi sentire, ben fatto. Ma sappi che io non ho alcuna intenzione di lasciarti andare a morire. Di mezzo c’è la purezza del bosco e di tutte le altre anime che lo abitano. Anni fa promisi a tua madre di difenderti dalle ombre, Sheyla Spina d’Argento, e, benché il tempo sia passato, io non verrò meno a questo incarico. Ho fatto altre promesse nel corso della mia vita: una a difesa delle creature del bosco, l’altra a difesa di Fronesio. Non permetterò che qualcuno gli faccia del male. Mi seguirai fino al reame dell’albero cuore.»
Sheyla fu colta dall’incredulità. «Come sarebbe a dire?»
«Tu andrai, se è questo che vuoi.» mugugnò. «E io sarò con te. Non voglio che il bosco si spenga quando tutto ciò sarà finito. Per cui, se per salvare la tua vita e quella sua la morte ha bisogno della mia, io gliela darò volentieri. Se devo morire, lo farò con dignità. Se devo lasciare i miei incarichi, allora lo farò tentando di rispettarli: i nostri doni non ci saranno utili quando il bosco morirà.»
Aglaia planò sul dorso della pantera. «Elestoria ha ragione. Ho ali, ma non potrò utilizzarle quando il bosco cadrà per terra. A che serve essere una ghiandaia se tutto ciò che posso fare è utilizzare le mie abilità per beccare e parlare? Se davvero fossi capace di qualcosa, io volerei tanto lontano da potermi mettere in salvo». Aglaia pigolò qualcosa. «E allora mi dico che se ho ali, le utilizzerò come tali. Volerò, Sheyla, e volerò per te.»
Sheyla sorrise, meravigliata non poco da quelle insolite parole. “Mi seguiranno, mi sosterranno. Vivremo per davvero, tutti, almeno per una notte.”
Aglaia si alzò in volo sopra ad entrambi i presenti. Batté le ali e si alzò verso il tetto. Da quella distanza, la sua voce fu quasi impercettibile.
«Per l’ultima volta, ascolterai le parole di Fronesio?»
Sheyla annuì. «Lo farò, certamente.»
«Ed è per questo che sbaglierai sempre». Aglaia planò sulla cattedra e roteò su se stessa prima di spalancare le proprie ali. Le piume bianche del petto si fusero con quelle blu. «Ascolta il tuo cuore, vossignoria; soltanto quello. È l’unico a poterti dire sempre chi sei e cosa vuoi.»
Sheyla guardò Elestoria e Aglaia. Li avrebbe portati a morire con sé, e insieme a loro avrebbe abbattuto persino il bosco e tutte le creature che lo abitavano. Avrebbe annientato anni ed anni di pace e prosperità, distrutto secoli di benessere, solo e soltanto per un desiderio di vendetta proprio, di cui il resto del mondo non era neppure a conoscenza. Avrebbe raso al suolo la sua casa e quella di tanti altri per l’egoistico piacere di vedere la sconfitta di Pancrazio.
Ma io ce l’ho un cuore?”.


Note d'autore:
Tante grazie a chi ha letto fin qui, alla mia commentatrice Law (ti apprezzo tantissimo!) e a tutti i silenziosi. Spero che questo penultimo capitolo vi sia piaciuto, ora che la storia inizia a procedere verso la sua conclusione. I due personaggi introdotti in questo capitolo - mi riferisco ad Aglaia e Elestoria - sono molto simbolici nella loro semplicità, e un po' tutto il capitolo si basa su una certa nota filosofica. Sheyla deve ritrovare sé stessa prima di poter ritrovare la via. Spero di aver reso bene quest'idea, per quanto in saggezza non sia affatto un granché. Al prossimo ed ultimo aggiornamento [martedì 28]!
Makil_

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Capitolo 4
*** La voce delle tenebre ***


 La voce delle tenebre

 
Non c’era vita in quell’angolo del bosco attiguo al laghetto melmoso e, cosa più angosciante delle altre,  non c’era neppure morte. Non si poteva dire che quella zona del bosco fosse popolata, né si poteva affermare che fosse vuota. Per molti acri, effettivamente, non si poteva dire proprio nulla di niente. Non c’era stabilità, non c’erano suoni, non c’erano rumori, non c’erano versi: non c’era niente che potesse far capire dove fossero.
La terra era sassosa sotto ai piedi smagriti della donna che era stata un folletto morto e rinato, poi una strega e di nuovo un essere dei boschi. Sheyla aveva paura: non quella solita paura che pervade il cuore e lo stomaco delle persone, né quel tipo di paura che annebbia la vista e distoglie il pensiero dal proprio obiettivo. Sheyla temeva di vivere ancora là dentro, anche se da una parte il suo cuore sembrava desiderarlo ardentemente. Mente e cuore di Sheyla, senza dubbio, si azzuffavano violentemente: la prima le comandava di restare fuori, tornare al cottage, annullare l’incantesimo, darsi alle fiamme per sempre; il secondo le diceva di continuare a camminare, passo dopo passo, piede dopo piede, verso colui che era stato marito e distruzione, ragione di vita e causa di morte.
Elestoria, la pantera dalle forme sinuose e il manto tipico delle tenebre, le camminava al fianco arrancando a passi delicati, il muso ancora bagnato dell’acqua che si era fermata a sorseggiare. Aglaia, invece, volava sulle loro teste, e dall’alto faceva da sentinella per ciò che avrebbe potuto sorprenderli durante il cammino. La ghiandaia dalle penne blu aveva il compito di tenere il loro passo dritto verso quello che doveva essere l’ingresso al regno di Pancrazio, per evitare che il bosco li confondesse a favore del folletto maschio.
«Sei sicura che siamo sulla giusta strada?» chiese Sheyla non poco incerta. Le dolevano i fianchi e i piedi stavano iniziando a sanguinare.
«Non avrei motivo di sbagliarmi» rispose secca la pantera. «Tu, piuttosto, sei sicura che la tua strada sia quella corretta?»
«Non ho mai pensato il contrario.»
«A volte il solo pensare a ciò che potrebbe farci stare bene annulla ogni altro pensiero. Ti sei mai chiesta cosa comporterebbe il contrario, Sheyla Spina d’Argento?»
«No» rispose Sheyla. «E non ho intenzione di chiedermelo adesso.»
Elestoria aumentò il passo e si precipitò più avanti. «Sai che Pancrazio ha scelto un’altra signora dei boschi?»
Sheyla lo sapeva bene: come avrebbe potuto non saperlo? Eppure, sentirlo dire da qualcuno che non fosse il suo pensiero le risultò molto spigoloso. Se non avesse già sanguinato dai piedi, avrebbe iniziato a farlo dal cuore: ma quell’insolita emorragia non l’avrebbe abbattuta né ora né mai.
«Il suo nome è Azyara» continuò Elestoria. «E ora lei si fa chiamare Azyara Frondazzurra. In pochi la temono e in pochi la rispettano, Sheyla, ma Pancrazio ne è ammaliato. Hai idea del motivo per il quale il tuo remoto marito se ne sia invaghito a tal punto? Che sia forse un incantesimo mortale, come dicono in molti?»
«Incantesimo?» fece lei. «L’unico incantesimo mortale di quel mostro è stata la sua nascita. E fu sua madre a darglielo!»
«Vossignoria, vedo l’albero!» cinguettò con un timbro squillante Aglaia, dall’alto. «Vossignoria, siamo quasi arrivati!»
«Bene» mormorò Sheyla. “Iniziavano ad essere stanca”.
Videro l’albero cuore solo poche ore più tardi, quando il nugolo di nebbia fu soffocato totalmente dal verde che proveniva da quel punto del bosco. In quel piccolo tratto di terra in cui immergeva le radici il maestosissimo albero sacro, la terra era fresca, fertile, produttiva, ricca di alberi, cespugli in fiore, ruscelli gorgoglianti d’acqua limpida e fresca. “L’albero si nutre del cibo del bosco e questi si abbellisce ogni giorno di più” erano soliti dire i folletti durante i loro riti dedicati all’albero cuore. L’albero cuore era così chiamato perché pulsava davvero dell’immensa bellezza di tutti i boschi del mondo. Nessun’altro albero avrebbe saputo eguagliare la dolcezza delle sue fronde, il colorito puro dei suoi rami, l’armoniosità della sua chioma, e il pallido legno da cui era costituito.
Il grosso fusto della pianta sorgeva nel bel mezzo di uno spiazzo circolare completamente vuoto, come il collo di un mastodontico gigante sotterrato nel fango e visibile solo per la grande testa e per i suoi folti capelli. Non aveva occhi - questo era ovvio - ma in compenso aveva mille braccia che si allungavano verso il cielo e altrettanti piedi che si inabissavano nell’entroterra più remoto che l’uomo avesse mai potuto conoscere.
«Il reame dei folletti è oltre quel cespuglio» indicò Elestoria. L’ingresso a cui si riferiva era un intricato ammasso di foglie che incorniciavano un insieme di rami curvati a mo’ di arco. Un ingresso modesto e semplice, del tutto impossibile da scovare se non consapevoli della sua esatta posizione, che non lasciava intravedere neppure un minimo di tutta la magia che lo difendeva.
«Tu non puoi entrare, vossignoria.» mormorò Aglaia.
«Come sarebbe a dire?». Quella frase fu un pugno allo stomaco.
«Mi sembrava che sapessi almeno questo, Spina d’Argento» disse lentamente Elestoria superando il folletto femmina e stagliandosi tra lei e l’ingresso. «Il confine tra il mondo conosciuto e quello dei folletti richiede un pedaggio e magia oscura, se non si è più forti del bosco.»
Avrebbe saputo darle il secondo elemento richiesto, non aveva dubbi… ma il pedaggio?
«Che genere di pedaggio?»
«La morte di un accompagnatore.» rispose lei, la rabbia e l’inquietudine impressa nei suoi occhi scuri. Si accorse che Sheyla era divenuta silenziosa e seria. «Scegli tra me e Aglaia e facciamola finita. Ci rivedremo, Spina d’Argento, qualunque sia la tua scelta, qualunque sia la natura del tuo odio.»
Sheyla gettò un’occhiata furtiva all’albero cuore. “Cuore” pensò. “Persino il bosco ne ha uno…” «No» mormorò poi in risposta. «Oggi non morirà nessun innocente.»
Aglaia planò rapidamente sul suolo, Elestoria si mise ritta sulle zampe, incuriosita. «Mia signora, non ci sarà modo di oltrepassare l’ingresso allora. Non si può entrare, se non si attraversa questo portale.»
«Vero» annunciò Sheyla. «Ma si può uscire.»
 
***
 
Il freddo e ruvido manto pallido che ricopriva l’albero cuore le tastava la pelle come il più dolce dei mariti. Il suo tocco era gelido quasi quanto il bacio di una lama sulla pelle, capace di mostrare tutti gli impulsi della linfa che scorrevano nel suo legno.
Pancrazio aveva sempre amato la musica e il canto: ne era davvero stato irretito durante la sua vita. Per questo motivo, Sheyla Spina d’Argento, aveva deciso di utilizzare i poteri che egli stesso gli aveva inconsciamente fornito per compiere la sua missione.
Modulò a lungo la sua voce, si tastò la gola con le dita e massaggiò la pelle del petto. Le note musicali della sua armoniosa voce avrebbero attirato il folletto maschio nella sua trappola, come il cibo lasciato nel paniere attirava a sé le mosche. “Una mosca” pensò Sheyla. “Dopotutto, anche lui è una mosca e io posso schiacciarla con due sole dita”.
Il respiro di Elestoria, appallottolata sulla cresta dell’albero cuore, era udibile anche dal basso. Quello della pantera era un sospiro appena percettibile, in realtà, ma colmo di una forza incredibilmente distruttiva. Aglaia era nascosta nel piccolo cespuglietto cresciuto alla destra di una radice sporgente dell’albero, come in attesa dell’uscita dalla sua tana del più microscopico dei lombrichi, il becco a contatto col suolo, immobile.
Sheyla si accarezzò le braccia, strinse i pugni e socchiuse gli occhi. La sua voce uscì limpida e pura, sacra come il ruggito delle acque nei letti dei fiumi, colorata come il succo della più polposa ciliegia.
 
“Se nei suoi occhi guarderai,
nubi grigi e sangue verde nelle vene
il suo cuore aspro palperai
che nel petto buio ormai tiene.
 
Figlio dei boschi, lacrime della madre,
fanciullo degli alberi e spirito.
Padrone della terra, forza del padre,
creatura della purezza e sogno preferito.
 
Guarda nei suoi occhi,
guarda nella sua mente e nella sua pelle.
Chi bussa? Sì, chi?
È la più bella delle tue ancelle.
 
Sogni dorati, guarda anche questi.
O spirito dei boschi, osservali tutti.
Magro, allettante, che prendi e rivesti
d’oro e d’argento i pianti dei lutti.
 
Cuore di sangue, sangue nel cuore,
saggezza del mondo, mondo dei saggi.
Regna per odio, regna per amore,
nella luna sui colli e nel sole sui raggi.
 
Se nei suoi occhi guarderai,
nubi argentate e sangue rosso nelle vene,
il suo cuore dolce palperai,
che per te ora trattiene”.
 
Il mormorio che si levò al termine del canto lasciò dubbiosa Sheyla per alcuni attimi. Non appena riaprì gli occhi, il suo corpo fu investito da un sussulto.
«Perdincibacco!»
La grottesca figura del suo remoto marito, Pancrazio, era in punta di piedi di fronte a lei, le braccia spalancate e la bocca contorta. Il folletto non era più bello come una volta. Un tempo il suo sguardo, le sue labbra, i suoi riccioli grigi, avrebbero incantato persino la più nobile delle donne. Ma ora Pancrazio era tutt’altro che dal bell’aspetto. Sembrava quasi essere stato schiacciato dal pesante fardello che la vita e la morte avevano ripiegato su di lui. Una giusta punizione, dovette ammettere Sheyla, per un uomo che aveva sempre trattato come un oggetto la propria donna, che non aveva avuto ripensamenti nell’ucciderla, e che non aveva mai saputo rispettare una sola promessa.
La curiosità che manifestavano i suoi occhi, ben presto, fuoriuscì dalle sue labbra rinsecchite come il più grigio dei lamenti.
«Sheyla?». La sua voce era rauca, triste, senza vita.
«Pancrazio, verme dei più miseri angoli del bosco.»
I due folletti guardiani che gli paravano le spalle tirarono avanti le armi d’osso appuntite. Spiedini, nulla più che spiedini, ora che Sheyla aveva conosciuto armi che andavano ben oltre la possanza di quelle lische.
«Giù le armi» li quietò Pancrazio. «Questa è mia moglie.»
Laida creatura” «Come ti permetti» iniziò Sheyla. «Come ti permetti, infido mostro, a definirmi moglie?»
«Perdindirindina, amata, ho sempre dato la vita per te, lo sai bene.»
«L’hai data» fece Sheyla. «Hai dato la mia, insulso uomo dal cuore vuoto.»
«Ho dato la tua?» domandò retorico lui. «Perbacco, chi ti ha detto una cosa simile?»
Sheyla non rispose.
«Sheyla, amata, tu sei morta di tua volontà. Io ti ho solo dato il bacio della sepoltura, quando il tuo corpo mi ha chiesto di essere sepolto accanto a quello dei tuoi genitori. Dolce amata, non piangere e non dannarti!»
Sheyla stava piangendo, vero, ma non per lui. Presto quel furore sarebbe diventato rabbia, e la rabbia avrebbe trovato il modo per uscire dal suo corpo, dalle sue vene, dalle sue mani già spalancate. «Tu mi hai dato una fiala sbagliata, verme. Tu mi hai ucciso avvelenandomi, solo per sposare un altro folletto femmina. Qual è il suo nome?»
«Io…»
«Qual è il suo nome?»
«Azyara.»
Quella parola la fece rabbrividire. «Ammetti ciò che hai fatto e ti sarà data una degna sepoltura, mostro dei più mostruosi angoli di questo dannato bosco.»
«Perdiana! Ammettere cosa, mia amata?»
«Ammetti che tu mi hai sempre rifiutata, ammetti che tu mi hai uccisa in vita e dopo la morte. Ammetti che tu temi per la tua incolumità. Ammetti di avere paura.»
«Calmati, mia amata, perdinci!»
«Chiamami un’altra volta “mia amata” e potrai considerarti morto e sepolto, verme. Se sono qui è solo per questo, tu mi stai solamente rallentando». Era vero? Poteva ucciderlo?
Pancrazio si ritrasse in un breve istante. «Sono armato, Sheyla. Non converrebbe a nessuno dei due farci ancora del male. Torna con me nel bosco e finiamola qui. Forse sono stato codardo, forse…»
«No» concluse Sheyla. «Hai idea di cosa ho dovuto sopportare per tutto questo tempo? Hai solo lontanamente idea di cosa io ho dovuto soffrire? Hai idea di quanto male mi hai fatto? Tu non hai assolutamente idea di quel che sono diventata e di quel che potrei farti ora, verme. Su mio ordine, dovrai uccidere Azyara, per prima cosa.»
«Perdiana, Sheyla, è come chiedermi di tagliare l’albero cuore. Io… io non posso… io… io l’amo.»
Sheyla piantò avanti le mani e sentì il potere risalirle lungo le dita in un battito di ciglia. Un solo colpo e quel folletto sarebbe crepato. «Ripetilo se hai coraggio!». Le sue guardie tennero le spade diritte nelle loro salde prese. Sheyla iniziò a piagnucolare con più intensità. Il dolore che provava nel vederlo era superiore a qualsiasi ferita sanguinante del suo corpo.
«Sheyla…» mormorò terrorizzato lui. «Abbassa le tue mani… sono così dolci… così belle…»
Sheyla chiuse i pugni e le sue unghie scavarono un solco nella pelle. «Perché mi hai avvelenata? Dimmi ciò che voglio sapere e poi me ne andrò.»
«Mia amata…»
Riportò avanti le mani spalancate. «Ho detto che non devi chiamarmi in quel modo. Un’altra volta e queste tue parole saranno la tua  morte definitiva.»
«Io l’ho fatto per salvarti.»
«Da cosa?»
«Da te, Sheyla. Avresti avuto morte e distruzione se avessi saputo che io non ti amavo più, se solo avessi sentito che io ti tradivo con un altro folletto femmina. Pensai che, forse, la migliore delle vie sarebbe stata il renderti per sempre cieca, per sempre muta. Ma tu eri troppo potente, io troppo debole. Come potevo riuscire nel mio intento, se non sfruttando la tua più grande fragilità, il tuo desiderio più puro? Ne sono dispiaciuto, ora più che mai… se solo potessi rifarmi…»
«Avresti potuto» corresse lei. «Ora è troppo tardi; ora è troppo il dolore che mi investe.»
«Io non avrei mai voluto vederti piangere, mia dolce amata…»
Quella fu la sua condanna a morte: Sheyla non si trattenne un secondo di più. La sfera d’energia che scagliò fu deviata da Pancrazio, che fu rapido nel coricarsi per terra. Non ebbe il tempo di lanciarne un’altra, che il Signore dei Boschi stava già scappando. «Prendetela! Uccidetela un’altra volta! Quella donna è fuoco, distruzione. Quella donna è morte!»
Sheyla balzò, si tirò indietro. In quel momento il caos ebbe la meglio.
I due cavalieri si duplicarono l’uno dietro l’altro, e presto l’albero cuore fu circondato da folletti armati fino ai denti. Aglaia planò rapidamente, salvò Sheyla dall’infilzamento acciuffandone uno per la collottola e mandandolo a rotolare altrove. Poi la ghiandaia iniziò a combattere ardentemente contro ognuno dei cavalieri. Come un cavallo imbizzarrito, Elestoria iniziò a balzare da una parte all’altra dello spiazzo, lasciandosi il suo splendore alle spalle, fino a che non fu sporca di fango e sangue di tutti quei cavalieri a cui strappava di dosso armature, armi e arti. La purezza dell’albero cuore fu presto profanata dinanzi agli sguardi di molti folletti ben più che atterriti.
Colpiscili”. Una sfera lattea di energia si schiantò contro il corpo di un folletto, che volò lontano dimenandosi, senza più armature o armi a difenderlo. Da dietro, venne colpita alla spalla dal freddo tocco di una lama. Si voltò di scatto, alzò le braccia e creò una sfera di luce, che scagliò con violenza sul capo del suo aggressore. Questi iniziò a tremare con furia, si contorse per terra e cadde sfinito, morto.
Ben presto si trovò circondata; Aglaia era prigioniera di un gruppo di folletti, Elestoria, coricata su un solo fianco, era divenuta una sola cosa col fango. Al centro della folla fece il suo ingresso Pancrazio, anch’egli con una daga alla mano.
«Mi spiace, mia amata» sussurrò. «Questo sarà un gesto di carità che non avrei mai voluto concederti.»
Il bacio dell’acciaio…”. No! La morte non l’avrebbe acciuffata un’altra volta. Pancrazio non poteva ridarle quel dono. Lui non era nessuno per fare del suo corpo un semplice oggetto nelle mani oscure della morte; lui non avrebbe mai sottratto a Sheyla Spina d’Argento il suo corpo preferito.
La strega-folletto alzò le mani al cielo, che si illuminarono di una luce immensamente bianca. Una sfera d’energia pura, allo stato brado, s’ingigantì nella sua morsa. In breve, per pochi istanti, il sole tornò a splendere nel bosco dei folletti. Poi, Sheyla scagliò la sfera contro il suo più oscuro nemico, e continuò a tenere dritte le mani finché non sentì il suo sangue ribollire, finché le sue forze non vennero meno e la fecero barcollare all’indietro fino a farla ricadere sulle natiche.
Ci furono diversi bagliori, tutti di diversa intensità, che infine si quietarono nel bianco più acceso. Sheyla non riuscì più a vedere nulla, ma poteva sentire il freddo buio gravare attorno al suo misero corpo e a quello di tante altre vittime: Pancrazio compreso.
Sheyla non ricordava di aver mai assistito a qualcosa di simile. In lontananza, in quello che sembrava essere lo spettro di un immenso corridoio bianco, apparve la sagoma di una vecchia conoscenza. I suoi occhi color brace erano furenti, le folgori che dipingevano le sue braccia erano affamate ed insaziabili. Conosceva quell’essere dalle fattezze fin troppo umane  – la morte – più di quanto non conoscesse la sua stessa vita.
Il corpo invisibile della creatura dagli occhi di sangue le si avvicinò. «Hai perso, donna.»
Sheyla non riusciva a fiatare né a replicare. Fu in quel momento che capì che la vita era venuta nuovamente meno e che la morte, nel bene o nel male che la situazione avesse portato, era divenuta di nuova la padrona della sua esistenza.
«Sono venuta a reclamarti oggi.»
Le folgori che saettavano nel suo corpo presero a vibrare. Un solo gesto, la mano della morte si alzò con un furente colpo. La strega-folletto osservò il dilaniarsi lento delle sue carni, lo spogliarsi rapido della sua pelle, la separazione del suo corpo dalla sua anima linda. Poi vi un boato che investì ogni cosa: luce, null’altro che luce. Fiamme contro fiamme, morte contro morte.
Non c’era più nulla a cui aggrapparsi intorno a quel bagliore supremo.
Sheyla fu disintegrata dalla luce, proprio come era accaduto un tempo, ma questa volta il suo cuore era leggero, fresco.




Note d'autore:
Finisce così questa piccola storia... un racconto che ho amato scrivere per il concorso di Jadis_ "L'Aquila e il Falco". Inizialmente la storia doveva essere formata da un solo capitolo ma, come spesso accade, i personaggi riescono quasi a prendere vita via via che si scrive di essi, tanto da forzare la narrazione a continuare. Gli elementi che mi erano stati proposti erano diversi: si trattava, infatti, di un finale senza lieto fine (eh sì), l'immagine di una strega, un folletto, un bosco e una fiala verde. Spero di aver reso bene questi elementi all'interno della narrazione, e li svelo soltanto adesso proprio per chiedervi se sono riuscito nell'intento. Inoltre, dispersa nel terzo capitolo, vi è anche una citazione alla stessa canzone che fa da titolo al contest, e lo stesso titolo dell'opera ha a che fare con l'ambito musicale. Insomma, per ogni domanda sui personaggi sono qui... e lo stesso vale per ogni altra domanda sul racconto e sul finale. Purtroppo non è da me dare un lieto fine alle storie che mi propongo di creare, e il finale che mi era stato detto di scrivere ha trovato tutta la mia approvazione in questo modo. 
Con questa piccola nota - ormai lunga, anzi - voglio ringraziare di cuore tutti i miei lettori silenziosi, Spettro94 e, in modo molto particolare, The3rdLaw, che mi ha supporto assiduamente con i suoi preziosi commenti. 
A presto!
Makil_


 

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