The back of the t-shirt - Calore Latente

di Relie Diadamat
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Dirty Paws ***
Capitolo 2: *** Just a little change ***
Capitolo 3: *** Lost and insecure, you found me (just a little late) ***



Capitolo 1
*** Dirty Paws ***


Nda: Buon salve a tutto il fandom!
Sì, ho iniziato un'altra long che ovviamente non potrò aggiornare spesso e con frequenza, ma dovevo scriverla.
Come detto nell'introduzione, la storia è ispirata al romanzo (stupendo, a mio avviso) "Il mio cuore cattivo", scritto da Wulf Dorn.
Dopo il capitolo trovete ulteriori spiegazioni. Per il momento, vi auguro una buona - si spera - lettura!
 
The Back of the T-Shirt
(Calore latente)

 
 
I. Dirty Paws
 
Dicono che ci sia una ragione se le cose vanno in un modo: la sveglia staccata con metodica precisione, il bus preso alle 7.30 del mattino e il debole chiacchiericcio dei passeggeri mattutini; la solita fermata di tutti i giorni, i passi quotidiani compiuti dall’ormai familiare panetteria dall’insegna ocra sino alla scuola. Azioni banali, ripetute giorno dopo giorno.
Newton affermò: «Ad ogni azione corrisponde una uguale ed opposta reazione», come il ragazzo dai capelli rossi che un giorno appare trafelato sul sentiero ricoperto dalle foglie autunnali, rincorrendo e chiamando ad alta voce il suo cane dopo che questi ha morso la caviglia di uno sconosciuto; il principio di qualcosa d’indefinito che mette i brividi, un incontro di menti che allontana la logica; la morsa alla bocca dello stomaco quando la sua chioma ramata è nei paraggi, lo scombussolamento provocato dal suo odore, il modo in cui la pelle brucia a contatto con la sua; la prima dose di eroina iniettata nelle vene, la scarica di euforia e il ritrovamento di una pace tanto agognata. Gli occhi sempre più stanchi, la bocca sempre più secca, la voglia impellente della prossima siringa… e poi d’improvviso il vuoto, un blackout totale, la perdita della cognizione del tempo. Lui scompare, la sua assenza diventa soffocante, una nuova iniezione l’unico rimedio. Aumentare così tanto le dosi da finire in ospedale, biascicando nella mente il suo nome come una nenia incessante.
Ricominciare daccapo, con le zampe sporche di una sola notte cancellata dalla memoria, l’ultima notte al suo fianco.
Trasferirsi in una grande città, ritornare a scuola e fingere che vada tutto bene.
Dicono che ci sia una ragione se le cose vanno in un modo, ma sarà davvero così?
 
*

 
Si svegliò tenendo gli occhi chiusi per un po’, arricciando contrariata il naso nell’udire la fastidiosissima voce di Lea Michele intonare la prima strofa di Total eclipse of the heart, combattuta tra il tirarsi le coperte fin sopra i capelli o allungare un braccio verso il comodino alla sua sinistra per far tacere quel maledettissimo affare. Optò per la seconda mossa.
Quando finalmente il coro di Glee le concesse un momento di pace dal suo non desiderato risveglio, Molly Hooper si riscoprì stranamente sorridente. L’avambraccio destro sulla fronte, i capelli di caramello sparsi sul cuscino e l’ombra di un sorriso sul viso ancora assonnato. Davvero, Molly? Fai sul serio?
Era patetico – e la sua amica Mena non smetteva di ripeterglielo -, aveva impostato quella canzone come sveglia per un solo ed unico motivo: Sherlock.
L’adorava ed ogni volta che l’ascoltava finiva per perdersi in lunghi sogni irrealizzabili, in cui gli occhi azzurri di Sherlock la guardavano senza la minima traccia d’indifferenza o rimprovero come da routine, ma con una dolcezza che le avrebbe fermato il cuore in un secondo se non fosse che almeno nei suoi rosei viaggi mentali aveva deciso di prendersi una meritata gioia, mentre le mani affusolate del ragazzo si posavano sul suo volto e le sue labbra si avvicinavano sempre di più e…
Davvero, Molly?!
La realtà era che per Sherlock Holmes sarebbe sempre rimasta la Molly Hooper invisibile che consultava – chissà perché, poi – solo in cambio di favori a livello scolastico. Non che ne avesse bisogno: Sherlock Holmes era il ragazzo più brillante, intelligente ed intuitivo che Molly avesse mai conosciuto – ma anche il più egocentrico, egoista e ottuso in caso di sentimenti; parlare con lei, probabilmente, lo aiutava a riflettere ad alta voce.
Sospirò, dirigendosi in bagno per darsi una rinfrescata. Si lavò i denti in pochi minuti, decidendo che avrebbe fatto colazione a scuola, concedendosi il lusso di una barretta al cioccolato del distributore automatico. Indossò una camicetta a tema floreale, s’infilò un paio di pantaloni marroncini e il cardigan beige che sua nonna le aveva comprato per lo scorso compleanno, trotterellando al piano di sotto sulle sue scarpe da ginnastica fuori moda e lo zaino a tracolla sulla spalla destra.
Sua madre doveva già essere uscita di casa. In cucina, attaccato al frigo, trovò il solito post-it verdastro che erano solite lasciarsi tutti i giorni. Ne sorrise di riflesso, alzandosi i capelli lisci in una coda alta, legandoli con un codino. Nel voltarsi, i suoi occhi incontrarono una foto appesa alle pareti lilla della cucina e sentì distintamente una vecchia ferita riaprirsi. Restò immobile con le scarpe piantate sul pavimento in vinile, il riflesso delle sue gambe sul vetro del forno, fin quando un vecchio nodo alla gola non venne a farle visita. Era passato appena un anno dalla morte di suo padre e Molly doveva ancora abituarsi alla sua assenza, al non vederlo più leggere un giornale in soggiorno seduto sulla sua poltrona o con la testa fra le mani e le palpebre abbassate come le capitava spesso di trovarlo nel suo studio. Molly non si sarebbe mai abituata ad un mondo in cui suo padre non c’era più, ma le cose stavano così e non sarebbero mai cambiate.
Stiracchiò le labbra in un mezzo sorriso, soffermandosi per un’ultima volta sugli occhi scuri e malinconici di suo padre, le rughe sul suo viso stanco e la bocca sottile che si sforzava di allargarsi in una curva allegra mentre le cingeva la schiena con un braccio. Poi, uscì di casa.
Anche quella mattina, il cielo di Londra dava prova di come i meteorologi sbagliassero troppo frequentemente: al posto della bella giornata assolata prevista, infatti, nubi argentate regnavano imperiose dall’alto regalando ai londinesi una stereotipata mattina britannica. Molly, le dita strette intorno alla sbarra gialla del bus, pregò che non piovesse; riascoltò per l’ennesima volta la sua canzone preferita del momento, ripensando automaticamente a Sherlock.
Non sapeva nulla di lui e nessuno, a scuola, sembrava conoscerlo per davvero. Era comparso nella sua vita da poche settimane e già si era guadagnato un posto in prima fila nel suo cuore senza fare nulla per meritarselo. Sherlock Holmes era un mistero avvolto in un guscio di superbia e diffidenza; alcuni si chiedevano se fosse davvero un essere umano: poche persone lo avevano visto mangiare e ancora di meno avevano avuto il privilegio d’intavolare con lui una conversazione superficiale che non riguardasse la chimica, la biologia o qualsiasi altra materia per cui Sherlock Holmes mostrasse interesse.
Sherlock Holmes era un arrogante ragazzo allampanato dagli occhi di ghiaccio e ricci capelli castani, così scuri da sembrare neri, trasferitosi da una piccola città alla grande metropoli inglese per motivi che parevano estranei a tutti. Non c’era una sola ragione al mondo per cui Molly potesse anche lontanamente essere attratta da lui se non fosse che, per assurdo, sentiva di comprendere il suo linguaggio segreto: leggeva tristezza, nel suo sguardo, lo stesso velo affranto che aveva riconosciuto negli occhi di suo padre. Sherlock glielo ricordava costantemente e, forse, tutto l’affetto incondizionato che nutriva nei suoi confronti era dettato da quel piccolo particolare.
Non le importava se sarebbe sempre stata un dettaglio insignificante agli occhi dello scontroso e sfuggente Holmes, Molly ci sarebbe sempre stata per lui. Sempre.
 
*
«Non l’ho trovato molto cortese da parte sua sottolineare come lo stress per la prossima verifica si stia incrementando sottoforma di chili accumulati. Gli farò vedere io, ti dico, così vedremo chi di noi due potrà vantarsi di essere una promessa della medicina e… mi stai ascoltando, John? John?»
Mike allungò la mano verso il braccio dell’altro, scrollandolo. John si riscosse dai suoi pensieri come svegliato di soprassalto, puntando disorientato gli occhi verso la faccia tonda dell’amico.«Sì, certo. Sì, ti ascoltavo».
Mike sbuffò una risata, seduto di fronte al biondo, con i gomiti sul tavolo. «Certo, come no.» Seguì con lo sguardo il punto che John stava fissando con insistenza, riconoscendo seduta al tavolo della mensa la figura esile di Harry mentre masticava il suo tramezzino, tutta sola ed in silenzio. «Ancora problemi con Harry?»
Le sopracciglia di John schizzarono in alto, le dita cominciarono a tamburellare in un moto di nervosismo sulla superficie bianca del tavolo. «Metterla in questo modo sarebbe un eufemismo.» Scosse la testa, contrariato. «La settimana scorsa si è scagliata contro nostra madre perché Clara era l’amore della sua vita, l’altro giorno era talmente ubriaca che siamo andati a recuperarla in ospedale, grazie a C.C. che ha chiamato l’ambulanza».
«C.C?»
«Chissà chi», chiarì sospirando, lasciando scivolare via un po’ della rabbia che sentiva ribollire nelle vene quando sua sorella era nei paraggi. «Non so proprio cosa fare con lei, Mike».
Mike osservò per un’altra manciata di secondi la giovane Watson col viso pallido nascosto dalla frangetta biondo scuro, azzardando un mezzo sorriso con una scrollata di spalle. «Almeno so che non è colpa mia se non ho mai avuto chance con lei».
John si concesse una lieve risata senza allegria. Non era sicuro che sua sorella avrebbe notato il panciuto Stamford se avesse avuto preferenze diverse a livello sessuale, ma preferì tenerselo per sé. Voleva bene ad Harriet, era sua sorella, ma da quando aveva capito di provare attrazione nei confronti delle donne era cambiato tutto: non era più lei, era diventata una ragazza che John stentava a riconoscere. I tempi in cui giocavano insieme rincorrendosi nel parco erano finiti, così com’era giunta al termine l’era dei loro lunghi discorsi del pomeriggio, seduti sul divano, a sgranocchiare degli snack. Harriet parlava una lingua tutta sua, che purtroppo John sentiva di non condividere più. «Certe volte vorrei che non l’avesse mai conosciuta», confessò, sentendosi sporco un attimo dopo.
Sentì gli occhi di Mike studiarlo attentamente dietro le grosse lenti dei suoi occhiali, abbassando lo sguardo quando l’amico gli disse: «Non c’è nulla di male, sai, se le piace un’altra donna».
«Lo so, Mike, ma certo che lo so!» rispose. «Non mi fa arrabbiare ciò che lei è, ma ciò che fa per dimostrarlo: non studia, non s’impegna a scuola, non mi parla. Alcune volte ho come la sensazione di essere un estraneo che vive sotto il suo stesso tetto. E ultimamente le cose non vanno bene neanche a casa: i soldi scarseggiano e presto dovrò trovarmi un lavoro, ma questo Harry non lo capisce. Lei… lei non ci capisce».
«Non sarà che magari siete voi a non capirla, a non prenderla per il verso giusto?»
John sollevò le iridi bluastre dal vassoio col pranzo praticamente intatto, incontrando quelle piccole e serene di Mike. Non erano decisamente grandi amici, ma passare del tempo con quel ragazzo gli piaceva: sapeva ascoltare e parlare nel momento giusto, cosa che ultimamente con Sarah sembrava non accadere mai. La sua vita in quel periodo gli pareva un totale casino: con Harry, a casa, con la sua fidanzata…
Si passò una mano sulla fronte, tentando di alleviare almeno in parte tutto quello stress che gli corrodeva le membra. «Forse», gli concesse. «Forse hai ragione».
Mike non disse più niente per un po’. Diede tre morsi al suo tramezzino, gustandoselo in silenzio, sporcandosi i lati della bocca con la salsa. Si pulì con un tovagliolino di carta, dedicando al biondo un’espressione che seppe mettere i brividi a John: la chiamava “espressione-alla-Mike-Stamford”, ovvero un piccolo segnale d’allarme che si accedeva ogniqualvolta l’amico fosse folgorato da un improvviso lampo di genio – che in realtà non erano altro che soluzioni banali a cui nessuno aveva mai pensato, come ad esempio scambiarsi gli appunti di biologia o negoziare con i ragazzi dell’ultimo anno. Adesso che ci pensava, doveva esserci il suo zampino se lui e Sarah si erano rivisti alla festa di Janette qualche mese fa, quando timido come un bambino le si era avvicinato chiedendole se lo avesse riconosciuto. Sarah lo aveva guardato con l’aria di chi la sa lunga, confessandogli che un ragazzo come lui non si dimentica così facilmente, soprattutto se la prima volta ti urta al supermercato. John aveva riso nervoso e per un istante aveva creduto che tutte le sue possibilità si fossero ridotte ad un mucchio di cenere; poi Sarah gli aveva sorriso ancora, con dolcezza, e da quel momento non si erano più staccati l’uno dal fianco dell’altra. Parlarono per tutta la serata, finché le parole non divennero superflue e le loro bocche cominciarono ad assaporarsi, sperimentando sapori graditi ad entrambi. Adesso, a distanza di mesi, John si chiedeva dove fossero finiti quei due ragazzi, e se fosse ancora possibile ritrovarli.
«Hai detto che ti serve un lavoro, giusto?»
La voce di Mike riportò John alla realtà. Quest’ultimo sbuffò una risata, giocherellando col bicchiere di plastica quasi vuoto. «Non mi dire che adesso distribuisci anche posti di lavoro in giro per la città», scherzò.
«No, però conosco qualcuno che potrebbe aiutarti», gli disse, indicandogli col mento le porte della mensa.
John ne seguì la traiettoria, riconoscendo in meno di un secondo la chioma riccia e spettinata del pazzo – così era conosciuto da mezzo istituto -, gli zigomi affilati e gli occhi attenti. Vederlo in mensa era un evento più unico che raro, ma non fu per questo che il biondo strabuzzò gli occhi come se avesse visto un fantasma, voltandosi repentino verso Mike. «Sul serio?» gli chiese retorico. «Lui?»
«Perché no?»
«Non parla con nessuno, perché dovrebbe darmi un lavoro?»
«Infatti non te lo darà», precisò Mike, sotto lo sguardo confuso di John. «Ma suo fratello sì. Per essere ingaggiato basta rivolgergli la parola, gli Holmes hanno occhi e orecchie dappertutto».
«Mi stai prendendo in giro».
«Affatto. L’altro giorno scambiai con quel tizio mezza parola sull’ultima lezione di Chimica e indovina un po’ chi mi ritrovai davanti, qualche ora più tardi, mentre sorseggiavo del tè allo Speedy’s?»
John schiuse la bocca, senza parole. O Mike lo stava prendendo per i fondelli, o il fratello di Holmes era cento volte più strambo di lui. L’unica certezza era che ciò che Stamford gli aveva detto era la più grande assurdità mai udita in tutta la sua vita. «È legale una cosa del genere?».
Vide l’amico scrollare le spalle e raccogliere il vassoio, alzandosi dalla sedia. «Tu pensaci», gli disse, lasciandolo solo con uno sciame d’interrogativi che gli ronzavano nel cervello.
Rimasto solo, scoccò un’occhiata al tramezzino e alla mela ancora intatti, meravigliandosi di se stesso per non aver ancora udito la sua pancia brontolare. Se la situazione con Harry gli aveva fatto passare l’appetito, il nuovo consiglio di Mike lo aveva scombussolato del tutto. Ma in fondo cosa aveva da perderci?
Cercò il giovane Holmes con lo sguardo, tentando di capire qualcosa su di lui – e di quanto gli era stato appena detto – nell’osservarlo mentre sollevava piccole cucchiaiate da ben tre piatti diversi senza mai portare nulla alla bocca. Teneva gli occhi ad una minima distanza dalla posata di plastica, alternando il suo esame scrupoloso dal cucchiaio della mano destra a quello nella mano sinistra. John non aveva la più pallida idea di che diamine stesse facendo, ma continuò a tenerlo sott’occhio, afferrando il frutto e staccandone un morso con fare deciso, masticando piano. Il boccone per poco non gli finì di traverso quando la testa del ragazzo scattò come una molla verso la sua direzione; distolse immediato lo sguardo, abbandonando la mela nel vassoio, alzandosi così in fretta da far strisciare la sedia sul pavimento. Si morse un’imprecazione, agguantando il vassoio, scappando dallo sguardo indagatore del pazzo.
 
*
 
Avrebbe avuto un senso scappare in quel modo dalla mensa, se non fosse che John e il pazzo seguissero la stessa lezione di matematica. John odiava la matematica.
Holmes era seduto ad uno degli ultimi banchi, lo sguardo fisso sulla penna che aveva tra le mani. Sembrava ipnotizzato.
John non si stupì che molti lo ritenessero matto, chiacchierando delle sue strane abitudini. Quel ragazzo sapeva di certo come attrarre l’attenzione su di sé… seppur standosene per conto suo.
Sherlock Holmes era una novità, e come tutte le cose nuove suscitava l’interesse della maggioranza, eppure da poche settimane dal suo arrivo a Londra nessuno sapeva niente di lui. John aveva sentito dire che proveniva da un piccolo paesino, che la sua casa fosse stata posseduta dal demonio e che avvicinarsi a lui fosse pericoloso. Dal canto suo, non ci aveva mai dato peso, ma doveva ammettere che era un tipo abbastanza fuori dagli schermi. E che aveva l’abitudine di alzare lo sguardo nei momenti meno opportuni.
John si morsicò la lingua, chinando il capo sul suo quaderno, fingendo di prendere appunti. Se lo sentiva attaccato addosso, quello sguardo di ghiaccio da lince attenta, fisso sul suo profilo mentre nervoso, John, tamburellava la penna sul banco. Si diede mentalmente dell’idiota per quei vani tentativi di malriuscito spio-il-pazzo-per-riflettere-sulle-idiozie-di-Mike, ripetendo a se stesso che avrebbe bene ad ignorare quella storia e a cercarsi un vero lavoro, con uno stipendio vero e senza lo sporco zampino di Mike.
A dispetto di ogni suo buon proposito, però, appena avvertì di non essere più l’obiettivo visivo di Holmes tornò a sbirciare il viso chiaro del ragazzo concentrato nel nulla, la camicia bianca perfettamente in ordine lasciata sbottonata dalle clavicole in su, coperte in parte dalla sciarpa blu che teneva avvolta al collo; la fronte lievemente corrugata e le labbra carnose serrate in una precisa linea retta.
John lo guardava, e più lo guardava meno ci capiva qualcosa.

*
 
Appena l’ultima lezione volse ufficialmente al termine e il suo orologio da polso segnò le 15 in punto, Molly cominciò a torturarsi le mani percorrendo i corridoi della scuola, lanciando di tanto in tanto occhiate alle finestre delle aule aperte, accertandosi che il cielo non avesse deciso di giocarle un brutto scherzo con grossi goccioloni d’acqua, lampi e tuoni. Per fortuna, non sembrava esserci traccia di pioggia.
Molly tirò un sospiro di sollievo, avviandosi agli armadietti con la tracolla in spalla. Cominciò ad armeggiare con la combinazione finché una risata civettuola non catturò la sua attenzione, spingendo il suo sguardo verso destra dove un ragazzo e una ragazza si tenevano stretti, sussurrandosi parole all’orecchio e scambiandosi fugaci baci sul collo e sulle labbra.
Le sarebbe piaciuto vivere qualcosa di simile, trovare una persona con la quale scherzare e ridere in quel modo. Ne aveva una in mente, certo: Sherlock era sempre il suo primo ed ultimo pensiero, ma una parte di Molly – per quanto ci sperasse – era cosciente che sarebbe rimasto soltanto tale. Una fantasia, qualcosa di irrealizzabile.
È ridicolo, Molly Hooper. Tu sei ridicola. Da quanto tempo conosci quel ragazzo, due settimane? Come puoi ridurti in questo stato per un tizio di cui non sai assolutamente niente.
«Non è vero che non so niente di lui», si rimbeccò da sola, posando i libri dell’ultima lezione nell’armadietto prima di richiuderlo. Una cosa molto importante la so, invece.
Molly Hooper era una timida diciassettenne che credeva ancora nell’amore eterno, quello che ti fa battere il cuore giorno dopo giorno come se fosse il primo, che ti fa stare bene e che ti salva da ogni male. Ci credeva così tanto da pensare di meritarselo, da innamorarsi con un colpo di fulmine dell’ultima persona al mondo a cui avrebbe dovuto pensare.
Se dovesse ripensare al momento in cui Sherlock l’era entrato nel cuore, sarebbe senza ombra di dubbio la prima volta che l’aveva udito suonare il violino nella classe deserta di musica. Con l’archetto nella mano a sfiorare le corde tese dello strumento, diventava una persona completamente diversa da quella che appariva nelle quattro mura del liceo. Sherlock si abbandonava totalmente alla musica, alle note che produceva stando in piedi con le palpebre calate, dando le spalle alla porta chiusa. Suonava parole implicite che non avrebbe mai trovato il coraggio di pronunciare e che Molly non si sarebbe mai stancata di ascoltare. Anche se dietro una porta chiusa, lontano dal suo sguardo, come una qualsiasi ombra invisibile.
Molly sapeva che lo avrebbe trovato lì, anche quel giorno, come il primo Martedì in cui lo aveva spiato in silenzio, tentata dal chiudere gli occhi quando le note diventavano talmente struggenti che pareva che il violino stesse cantando con voce sofferta.
Camminò guidata dal ricordo di quella struggente melodia, sentendosi come un topolino incantato dal pifferaio magico, arrestando titubante i passi quando trovò un’altra persona intenta ad osservare quella piccola fetta di magia. Un po’ le dispiacque dover condividere il linguaggio segreto di Sherlock con qualcun altro, ma si limitò a sorridere come sempre, accostandosi al ragazzo biondo che indossava una t-shirt rossa particolarmente visibile a causa della giacca nera. Questo osservava Sherlock con lo stupore negli occhi blu, così preso dalla sua musica da non accorgersi della presenza di Molly al suo fianco finché non lo face trasalire, dicendo: «Ha un talento innato, col violino».
Lo vide boccheggiare, impreparato al suo intervento. «Sì, è davvero bravo… è incredibile».
«Deve essere il suo preferito».
«Mhm?»
«Bach. Lo suona spesso».
«Oh.» John puntò lo sguardo sulla mano affusolata del ragazzo, osservandone le dita snelle che danzavano sulle corde con un’agilità graziosa. «Piace molto anche a me», confessò, restando ad ascoltare per una manciata di secondi l’Adagio eseguito da Sherlock. Poi tornò con le iridi bluastre su Molly, chiedendole: «Tu sei… una sua amica?»
Non esattamente. Sono la ragazza che gli procura del caffè quando ne ha bisogno, la secchiona non-secchiona che gli passa gli appunti che non ha preso la briga di annotarsi o, ancora, la nullità irrilevante che lo spia da lontano, sperando ancora che un giorno possa notarla.
Rise impacciata, scuotendo appena la testa come a cacciare via quelle fastidiose e dolorosamente vere paroline che il suo cervello le sussurrava. «Sono solo Molly. Frequentiamo lo stesso corso di chimica.» A disagio, spostò il peso del suo corpo da un piede all’altro.«Adesso devo proprio scappare…»
«John».
«Passa una buona giornata, John.» L’ombra di un timido sorriso sulle labbra sottili e Molly andò via con la musica di Sherlock che le risuonava nella testa. Non fu presente quando la melodia si bloccò in una nota stroncata bruscamente e la postura del giovane Holmes abbandonò la sua morbidezza cedendo il posto alla rigidità, il violino ancora sulla spalla e l’archetto ad un soffio dalle corde, mentre il povero John temendo di essere stato sgamato si defilava a passo svelto verso l’uscita.
 
*
 
«Redbeard! Redbeard», sussurrava quel nome con urgenza, sforzandosi di distinguere qualcosa di familiare in tutta quell’oscurità rischiarata dal flebile fascio di luce della torcia, ma le uniche cose che trovò sul suo cammino furono solo escrementi di topo e insetti. Lottò contro l’impulso di vomitare a causa del fetore che regnava in quel posto, tentando di non trattenere il fiato per restare concentrato. Doveva continuare a cercare, in modo da corroborare le sue ipotesi con prove concrete.
Non era tutto frutto della sua immaginazione, non poteva esserlo.
Fece qualche passo avanti prima di impietrirsi sul posto. C’era qualcosa su quelle assi di legno scricchiolanti, qualcosa che gli gelò il sangue nelle vene. Gli bastò mezzo secondo per notare che il sangue era ancora fresco.
«Sherlock».
Sollevò lo sguardo dalle impronte di cane, puntando la torcia di fronte a sé. Si costrinse di non tremare, tradito dagli occhi azzurri sbarrati dallo sgomento e la bocca schiusa in preda al panico.
«Il gioco è appena cominciato».



Relie's Corner

- ODIO le teen!fic con tutto il cuore, quindi dimostrandomi una persona molto coerente ho deciso di iniziarne una. :D
- Non so molto sulle scuole inglesi: ho fatto ricerche di ogni genere, ma sono sicura che scriverò delle assurdità.
- La storia non è una Sherlolly. Per la mia cara Molly ho altri progetti... 
- Le parti scritte in corsivo sono dei "flashback"
- Redbeard è un cane, perché non esiste proprio al mondo che mi uccidano questa mia fantasia mentale. Non esiste.
- Sicuramente ho dimenticato qualcosa - e sto letteralmente morendo di sonno, ma o pubblicavo adesso o mai più xD -, quindi per eventuali chiarimenti chiedete pure!
Intanto vi lascio il link della mia pagina fb --> click
Pareri sempre graditi, ovviamente.

Alla prossima!


 

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Capitolo 2
*** Just a little change ***


Nda: Buon salve a tutto il fandom!
Per una volta in vita mia sono felicissima che oggi sia una giornata non adatta alle scampagnate in pineta o al mare. Desideravo scrivere e concludere questo secondo capitolo da settimane intere e... finalmente ci sono riuscita.
Come sempre, ringrazio le splendide persone che hanno aggiunto la storia nelle seguite/preferite/ricordate (siete in tanti e saperlo riempie il mio cuoricino di gioia! *-*) e coloro che leggono in silenzio; un grazie in particolare a coloro che hanno recensito lo scorso capitolo: conta molto per me.
E niente, vi lascio a questo secondo capitolo ricco di flashback, Redbeard e biscotti allo zenzero. (Ci ritroveremo a fine a capitolo, se vi va, per ulteriori informazioni).
Buona, spero, lettura!
 

II. Just a little change
 
Stava passeggiando lungo il sentiero come ogni pomeriggio, quando tra le foglie giallo e arancio si materializzò un setter irlandese a spianargli la strada. Il folto pelo rosso brillava ai raggi intesi del pomeriggio che filtravano dalle chiome degli alberi, le zampe e le unghie ben piantate nel terreno. Tra i denti, un codino che Sherlock riconobbe all’istante.
Mai fissare intensamente gli occhi di un cane che non conosci: nella sua lingua significa inimicizia, ricordò a se stesso Sherlock, ma per una qualche ragione il cane ringhiò ugualmente, rizzando il pelo del collo.
Sherlock si disse di non attaccarlo in nessuna maniera, restando immobile al proprio posto. Distogliere lo sguardo, fingere di non dare peso alla sua presenza.
Udì un ramo spezzarsi e l’eco di una risata inconfondibile, una risata che gli urtava il sistema nervoso e gli faceva perdere il controllo. Si voltò bruscamente alla ricerca della sua figura, dimentico del setter che gli era dinanzi. In men che non si dica, il cane si era fiondato sulla sua caviglia, costringendolo ad atterrare al suolo colto alla sprovvista. Istintivamente, e con la mente annebbiata, cercò di divincolarsi dalla stretta, ma questo servì solo ad aumentarne la pressione.
Mi sto prendendo gioco di te, Sherlock. Non te ne accorgi?
Sherlock sibilò al vuoto di tacere, serrando la mascella per la rabbia più che per il dolore.
 «Redbeard!»
Era ancora con la schiena contro il terreno, lo zaino sotto il suo peso, quando un ragazzo comparve nel suo campo visivo; con le mani aprì la bocca del cane, rendendo possibile a Sherlock sottrarsi dalla sua morsa. Si frappose tra lui e il setter, rimproverandolo per il suo comportamento, per poi tendere una mano al giovane Holmes. Questi rifiutò, rimettendosi in piedi da solo.
 «Sono davvero desolato», continuò il ragazzo, passandosi le dita tra i capelli rossi. «Di solito è un bravo cane».
Sherlock lo ignorò, scrollandosi il terreno dal cappotto nero e dai pantaloni. Non appena fece un passo avanti, però, zoppicò a causa della ferita. Barcollò, perdendo il baricentro, convinto che si sarebbe ritrovato con la faccia contro foglie secche e sassolini, quando il ragazzo si fece avanti per sorreggerlo. Ad una spanna dalla sua faccia, Sherlock poté notare per la prima volta il colore verde dei suoi occhi.
«Sei ferito. Ti porto in ospedale».
«Non è roba da ospedale» lo rimbeccò, con una nota di saccenteria.
«Allora lascia che ti aiuti», gli disse. «Non mi va di tenere sulla coscienza una persona che legge Macbeth».
Solo in quel momento Sherlock si ricordò del libro che gli era caduto dalle mani; lo cercò con lo sguardo ed il rosso, imitandolo, si inginocchiò a raccoglierlo per poi tornare col braccio destro dietro la sua schiena e quello sinistro sul petto.
Quella vicinanza non voluta lo metteva a disagio, ma Sherlock non si oppose al suo sostegno. Si limitò ad arricciare il naso, rendendogli noto: «Non lo stavo leggendo».
L’altro scrollò le spalle, accennando un sorriso sghembo. «Meglio così. Personalmente preferisco storie che parlano di pirati».
«Pirati?»
«Pirati».
Sherlock lo osservò attentamente per una manciata di secondi, dopodiché si esibì in un sorrisetto sicuro. «Sai, la cosa non mi sorprende affatto».

*
 
Era lì, dinanzi a lui, ad offrirgli le spalle coperte dalla stoffa chiara della camicia mentre lasciava danzare delicatamente l’archetto sulle corde del violino. Le note sembravano correre in cerchio nella penombra della stanza, donando a quel momento un’atmosfera surreale.
La fioca luce del primo mattino si scontrava sul vetro dell’ampia finestra, ricadendo sui ricci castani del ragazzo, creando uno strano gioco d’ombre sul pavimento. John sarebbe rimasto a guardarlo per ore ed ore, fino ad  avvertire i muscoli rilassarsi e le palpebre calare vinte dalla stanchezza.
«È ora di svegliarsi, John».
John si paralizzò, una scia gelida a percorrergli la spina dorsale. Non poteva essere la sua voce e quella non era più la sua musica. Lui è solito suonare Bach, ma quella melodia ipnotica era totalmente estranea all’Adagio delicato e preciso che aveva udito a scuola.
È ora di svegliarsi, John.
John si rigirò dall’altro lato del letto, aprendo lentamente gli occhi. La figura allampanata del ragazzo si dissolse nella semioscurità della camera insieme al violino, alla grande finestra e ai giochi di luce, lasciando spazio alle strofe lente di una canzone che non conosceva, accavallate dalle chiacchiere degli speaker radiofonici. John sbruffò, ancora mezzo intontito dalle poche ore di sonno, allungando un braccio verso il piccolo comò alla sua destra, sbattendo dapprima le nocche contro gli spigoli di plastica, tastando poi a tentoni la radio fino a trovare il pulsante giusto per quietarla.
Socchiuse gli occhi riducendoli a due fessure, infastidito dalla luce verdastra della radiosveglia, leggendone l’orario. Le 5.40 del mattino.
In casa regnava un silenzio tombale e si accorse solo in quell’istante di essere solo nella stanza. Eppure quella voce sembrava così reale, così vicina alle sue orecchie… Percepì un lieve brivido scorrergli sulla pelle al sol pensiero, decidendo che non sarebbe riuscito a riaddormentarsi.
Scese dal letto, calzando le sue ciabatte scure, dirigendosi verso il bagno senza l’ausilio della luce. Si sciacquò la faccia due volte con dell’acqua fredda, sperando aiutasse ad alleviare il fastidioso cerchio alla testa. Si asciugò il viso, tamponando le tempie più del dovuto, provando un leggero sollievo a contatto col panno morbido e fresco dell’asciugamano.
Dormivano ancora tutti, persino Harriet.
Una volta in cucina, John rovistò in frigo e sui ripiani alla ricerca di cibo, trovando solo un pacchetto di crackers e un cartone quasi del tutto vuoto di latte scremato. A malincuore, sbocconcellò i salatini senza gustarseli, provando ad immaginare chi avesse finito tutte le brioches che la povera Annie Watson aveva comprato due giorni prima. Quella era l’ennesima prova per John, l’ennesima dimostrazione che Harriet ignorasse tutti gli sforzi che lui e i loro genitori stavano facendo per lei: si sarà rimpinzata di merendine nella sua stanza, saltando la cena per un paio di sere.
Si versò da bere in un bicchiere, bevendo lunghi sorsi. Sentiva la bocca talmente asciutta da far invidia ad un naufrago, quella frase intonata da una voce a tratti acuta e infantile a penetrargli la testa. Rabbrividì.
S’infilò la tuta, chiudendo la lampo della felpa fino a metà busto e sgattaiolò in silenzio fuori dall’appartamento sulle sue scarpe da ginnastica, stando ben attento a non fare rumore nel richiudere la porta a chiave.
Mentre correva con gli auricolari nelle orecchie, superando a passo sostenuto case, auto parcheggiate nelle microscopiche porzioni di cortile e nascoste dalle siepi verdi, e alberi che intanto cominciavano a perdere le foglie ingiallite, John sentiva una strana sensazione nelle ossa. D’un tratto, persino la musica energica degli One Republic sembrò annullarsi, cedendo il posto alle note di un violino suonato nella semioscurità di un luogo sconosciuto mentre qualcuno lo intimava ad alzarsi.
La prima goccia di sudore scivolò lungo il suo viso, fredda come il ghiaccio, e John aumentò istintivamente il passo fino a non sentirsi più le gambe, i polmoni brucianti nel petto e il fiato corto.
Correre era diventata una medicina, per lui. Lo aveva scoperto dalla prima grossa lite avuta in famiglia tra Harriet e loro madre, sperimentandolo anche dopo le discussioni con Sarah – di recente sempre più frequenti -, fino a prendere in considerazione l’idea di unirsi alla squadra di football del college. Correre lo alienava dalle preoccupazioni, rendeva muto ogni contesto emotivo: c’era solo John H. Watson, il ragazzo col cuore martellante nel petto e il respiro affannoso. Nient’altro.
Stoppò la sua corsa solo quando fu al limite, beandosi della fresca aria mattutina di fine Settembre che si adagiava sulla sua faccia sudata; prese grossi respiri, lasciandosi ricadere con le spalle contro la parete di mattoni di un palazzo. Lanciò una rapida occhiata verso l’incrocio, dove il semaforo si esibiva nel suo giallo più deprimente, oltre il quale Baker Street si mostrava in tutta la sua eleganza, avvolta nelle nubi mattiniere di Londra. Percorreva frequentemente quella strada, ma gli era capitato di rado di vederla alla luce delle 6.09 del mattino; questo gli suggeriva di essersi allontanato abbastanza e che era ora di fare retromarcia verso casa e prepararsi per una nuova giornata di studio, Mike Stamford, Harry-chi-ti-conosce-Watson… e magari avrebbe trovato il tempo per passare al cimitero, come ogni settimana.  
Pronto a riprendere il passo, fece per infilarsi gli auricolari nelle orecchie quando la mano si bloccò a mezz’aria e lo stomaco di John cominciò a brontolare, ricordandogli la triste colazione consumata una mezz’oretta prima. Come attratto da una calamita, le iridi bluastre seguirono l’odore dolciastro proveniente da una pasticceria, posandosi sui succulenti e invitanti biscotti allo zenzero esposti in vetrina. «Non guardatemi in quel modo» soffiò affamato, tossicchiando imbarazzato quando due pedoni lo superarono continuando per la loro strada.
Era decisamente, e malinconicamente, giunta l’ora di alzare i tacchi.
*

Sherlock camminò appoggiato al ragazzo lungo tutto il bosco, con Redbeard che zampettava indisturbato al loro fianco, annusando di tanto in tanto il sentiero o avvicinandosi alle radici di qualche albero, sbuffando col naso.
Seguirono il sentiero fin dove gli arbusti cominciarono a diradarsi, mostrando ampi campi verdi contornati da staccionate in legno. Sherlock scoccò un’occhiata alla piccola baita in mattoni abbandonata tra l’erba incolta e recintata da filo spinato e paletti in legno.
Pensi di essere bravo, Sherlock? In realtà non hai capito niente.
L’altro la oltrepassò senza prestarle la minima importanza, continuando il cammino per altri minuti, seguendo la staccionata. Si ritrovarono con le scarpe sporche di fango a bussare alla porta di una casa in legno, i cui davanzali erano abbelliti da vasi colmi di fiori. «Fidati di me, al mondo non esiste rimedio migliore di Mrs Hudson», gli disse il ragazzo lanciandogli un’occhiata, mentre un ciuffo rosso gli ricadeva fastidiosamente sull’occhio verde. Verde come le foglie di una cannabis.
*
Restò incappucciata per tutto il tragitto, le mani nascoste nelle larghe tasche della felpa grigia, mentre superava a capo basso negozi, palazzi e bici parcheggiate. Si scoprì il volto solo quando fu arrivata a destinazione: una caffetteria situata all’incrocio della strada, che spiccava tra i palazzi in mattone e lo smog londinese con la sua distinta vernice verde che richiamava le alte scogliere dell’Irlanda. Le sembrò quasi di vederla, dietro la vetrata, con i suoi lunghi capelli corvini sempre in ordine, gli occhi scuri sorridenti e un grembiule legato alla vita sottile, mentre con le labbra ricoperte da un filo di rossetto gironzolava per il locale appuntando gli ordini.
Tentò di fare un passo, ma rimase impalata con le scarpe sul marciapiede, senza smuoversi di un millimetro. L’ultima volta che si erano viste era successo di tutto: Clara si era detta stanca di quell’ennesimo tira-e-molla al quale l’accusava di giocare, ponendole la domanda più dolorosa che potesse farle, la più spaventosa in assoluto: «Vuoi che finisca, Harriet? Perché questa storia mi sta sfinendo».
«Non lo so» le aveva risposto, senza smettere di guardare la punta delle proprie scarpe, neanche quando col cuore in mille pezzi Clara aveva boccheggiato alla ricerca di altre parole, risparmiandosele tutte andando via.
Harriet non sapeva cosa desiderasse in quel momento. C’era una parte di lei, quella da buona ragazza normale, che le gridava a squarciagola di amare Clara con tutto il cuore, di volerla al suo fianco, di non essere ancora pronta a rinunciare a lei… poi c’era la parte prevalente, quella della Watson-sbagliata, che non riusciva a tenersi lontana dall’alcool; la Harriet che si rifugiava nelle lattine di birra e bottiglie di Vodka per non pensare, per non sentire il dolore. Per scappare dai problemi. Era la cosa che le riusciva meglio, dopotutto.
Si fece coraggio, espirò pesantemente, ed entrò nella caffetteria. L’odore caldo di caffè le sfiorò le narici insieme a quello della prime birre a spina consumate nei boccali di vetro; Harriet si costrinse ad ignorarlo, arricciando il naso e tirando dritta verso la donna al bancone.
«La piccola Watson.» La canzonò senza allegria, con una voce tanto piatta da far invidia ad una macchina. «Di cosa hai bisogno?»
Era difficile non sentirsi intimoriti dallo sguardo tagliente di Alicia Smallwood; la piccola bocca impeccabilmente ferma e scarlatta in contrasto con la pelle chiara, la rigida frangetta bionda a nascondere la fronte e per contorno delle rughe severe attorno agli occhi, Alicia Smallwood era quel genere di donna che nessuno al mondo avrebbe immaginato come proprietaria di una caffetteria situata nelle strade di Acton, con tanto di freccette e tavoli e sedie in legno. Harriet non avrebbe faticato a scommettere che in un’altra vita quella donna fosse stata una scrupolosa e intransigente donna d’affari o magari un’insegnante severa segregata dietro una cattedra ad incutere terrore a dei poveri bambini innocenti.
D’altronde, era così che Harry si sentiva al suo cospetto: una bambina cattiva bacchettata alle mani. Eppure le cose sarebbero state più semplici se fosse stata davvero una bambina irrequieta ed indisciplinata: le sarebbe bastato correre da John, piagnucolare senza sosta, lasciandosi consolare e viziare dal fratello maggiore. L’unico in grado di capirla.
Ma Harriet non era più una bambina e l’unica tana dove rannicchiarsi era l’alcool. Quindi alla domanda di Mrs Smallwood strinse forte i denti, trattenendo l’incontrollata voglia di sollevare un braccio verso i liquori posti ordinatamente sugli scaffali alle spalle di Alicia per indicargliene uno, frenando il sapore pungente che già pregustava nel palato, rispondendole: «Clara. Ho bisogno di Clara».
«Clara non è qui, al momento».
Harry abbassò lo sguardo, riconoscendo la menzogna. John era solito mentire per lei alla stessa maniera poi, col tempo, aveva smesso. «Può almeno dirle che sono passata, per favore? E che ho intenzione di tingermi i capelli dello stesso colore della sua pelle… Anzi no, è una cosa stupida e razzista», scosse il capo, rimproverandosi mentalmente per la stupidaggine appena detta. «Le dica solo che sono passata».
«Harriet» cominciò a dirle, mettendo da parte lo strofinaccio con cui stava pulendo il bancone un attimo prima che la giovane Watson entrasse nella caffetteria. «Clara è una brava ragazza. L’altra sera era distrutta, ed io non voglio più vederla in quello stato o temo che non sarai più la benvenuta. Ci siamo intese?»
Harry assentì mestamente col capo, fissando lo sgabello accanto a sé pur di non incontrare lo sguardo accusatore di Mrs Smallwood.
«Hai bisogno di altro?»
Due lattine di birra, fresche o calde non fa alcuna differenza.
«No».
Gli occhi le pizzicarono e un nodo opprimente le strinse la gola in una morsa soffocante. Uscì dal locale incurante del convenevole commiato di Alicia e delle occhiate insistenti che la ragazza mora seduta a due sgabelli di distanza le stava riservando, trattenendo le lacrime fin quando non fu tornata al college e sgattaiolata nel bagno. Si lasciò andare contro la porta chiusa, strisciando lentamente verso il pavimento, la testa nascosta tra le ginocchia.
Rimproverò se stessa di non far rumore, ma fu tradita da un singhiozzo mal trattenuto.
Qualcuno bussò alla porta e dopo secondi di silenzio una voce delicata, pulita, le chiese:«Va tutto bene?»
Harry tirò su col naso, asciugandosi gli occhi con i palmi delle mani; pensò che se avesse avuto a disposizione un piccolo specchietto, con molte probabilità vi avrebbe visto riflesso un panda macilento a causa del mascara colato. «No», rispose in tutta sincerità. «Non va bene per niente».
«Ti va di parlarne?» si sentì domandare con una punta di titubanza.
Alzò lo sguardo dinanzi a sé, ritrovando un triste water di ceramica. Starsene seduta contro la porta della toilette del college non avrebbe giovato a niente – dato che non si era portata nulla da scolarsi -, e piangere in quel posto le sembrò ancora più deprimente. Così decise di rimettersi in piedi e aprire la porta, incontrando un paio di occhi castani, una coda bassa di caramello e piccole labbra sottili lievemente schiuse.
Harry stropicciò un mezzo sorriso, portandosi una ciocca dietro l’orecchio. «Forse prima dovrei sciacquarmi la faccia».
L’altra le offrì un sorriso genuino. «Potrebbe essere un’idea».

*
 
John avanzò verso l’armadietto come se stesse compiendo uno sforzo titanico, imprecando mentalmente contro i numeri sbagliati della combinazione. Seguire le lezioni di Biologia era bello quanto impegnativo già normalmente – figurarsi con solo tre ore scarse di sonno. Era talmente stanco da iniziare a credere che si sarebbe ritrovato con la faccia contro il pavimento a sonnecchiare profondamente fino al giorno dopo. Gettò uno sguardo fugace all’orologio appeso alla parete, realizzando che aveva una buona oretta di tempo prima dell’inizio della prossima lezione.
Incerto se allontanarsi dal college o meno, decise di procedere un passo alla volta: prima avrebbe sistemato i libri di biologia nell’armadietto, poi avrebbe controllato nella tasca dei jeans se avesse con sé qualche moneta e si sarebbe preso un bel caffè, magari sarebbe passato da Sarah per farle una sorpresa… Merda.
John frugò nelle tasche dei pantaloni alla ricerca del proprio cellulare.

10 messaggi non letti.
 
Se non litigare con Sarah in quell’ultimo periodo era diventato impossibile, da quel giorno sarebbe stato un’utopia. John era così preso dai suoi problemi da dimenticarsi tutto il resto. Cambiò le carte in tavola: come prima cosa, John si sarebbe appartato in un angolo del cortile e avrebbe telefonato a Sarah - anche se convinto che non sarebbe servito a molto -, poi si sarebbe munito della giusta dose di caffeina per affrontare il resto della giornata.
Aprì l’armadietto deciso sul da farsi e fu allora che si gelò sul posto. Accanto alla piccola pila di libri c’erano dei biscotti allo zenzero chiusi in una busta di cellofan, il tutto abbellito con un nastro arancione. Deglutì a fatica, guardandosi intorno per istinto.
Qualcuno aveva messo quei biscotti nel suo armadietto. Qualcuno lo aveva seguito. Qualcuno lo stava tenendo d’occhio.
Richiuse l’armadietto, brandendo tra le mani il cellulare come un’arma invincibile; si accostò in un angolo, a riparo dal timido sole che sbucava dalle nubi, digitando il numero di Sarah. Non rispose e John decise di lasciarle un messaggio in segreteria, nel quale si scusava per il proprio comportamento e le prometteva che quella sera si sarebbe fatto perdonare, chiedendole di passare al college dopo le lezioni. Sperò che gli credesse e che decidesse di farsi viva.
Scorse distrattamente tutti i messaggi che Sarah gli aveva mandato, sorvolando sui toni tutt’altro che pacifici dell’ultimo. Quando alzò lo sguardo verso il cortile individuando un viso a lui familiare, però, tutte le preoccupazioni di un attimo prima scomparvero cedendo il posto ad un lieve prurito alle mani: Mike Stamford era dall’altra parte del cortile, all’ombra del portico, che parlava niente poco di meno che col pazzo. Con Sherlock Holmes.
«Quel figlio di…» John ingoiò l’imprecazione, serrando la mascella. Se quell’idiota di Mike aveva deciso di prenderlo per i fondelli – fingendo che un fantomatico fratello Holmes lo stesse seguendo e spiando -, avrebbe dovuto rivedere i suoi piani.
Collerico ritornò all’armadietto, acciuffando i biscotti allo zenzero. Lo stratagemma machiavellico di Mike gli sarebbe costato molto caro, ma almeno sarebbe servito a placare il suo enorme appetito.
Per sbollire la rabbia, decise di passeggiare per il cortile in cerca di un luogo appartato in cui ripetere in santa pace gli appunti – incomprensibili – di matematica… e magari schiacciare un breve pisolino; fu proprio accanto al campetto di calcio, seduta su una panchina, che trovò la ragazza dell’altro giorno. Scribacchiava chissà che cosa su un piccolo notebook, parlottando tra sé e sé.
«Ehi».
Molly sobbalzò, facendo scivolare la liscia coda di caramello sulla spalla destra.
«Scusami, non volevo spaventarti.» John le indicò la panchina col mento. «Posso?»
Rise nervosa, facendogli spazio. «Certo».
«Spesso vengo qui per ripassare. C’è una pace da fare invidia ai monasteri tibetani».
Molly abbassò gli occhi scuri sugli esercizi ostrogoti di fisica sui quali aveva speso più di una mezz’oretta, confessando: «Devo ancora abituarmi alla vita del college. Prima dei diciassette anni sembra tutto così semplice…»
«L’importante è non arrivare in ritardo alle lezioni e…» Le fece cenno di avvicinarsi, sussurrandole all’orecchio: «ricordati di negoziare con quelli dell’ultimo anno. Hanno sempre qualche favore da chiederti».
Molly corrugò la fronte divertita. «Non ha l’aria di essere un buon consiglio», ammise.
«Detto così forse no, ma…» John alzò le mani in segno di resa, «studentessa avvisata…»
John la sentì ridere di nuovo, genuinamente, e si rese conto di provare una sincera simpatia nei suoi confronti: Molly sembrava essere una ragazza semplice, lontana dalle mode e dalla chiacchiere, sempre pronta a dire la verità e a difendere i propri amici…
Sempre disposta a dire la verità…
John si schiarì la gola, scalciando un sassolino immaginario con la scarpa da ginnastica. «Posso farti una domanda, Molly?»
La ragazza annuì, stringendosi le braccia al petto. Si era alzato un lieve venticello e il sole era scomparso dietro le nuvole. «Dimmi pure, John».
«Hai detto di seguire lo stesso corso di chimica con Sherlock Holmes.» La guardò bene negli occhi, cercando nel palato le parole giuste da utilizzare. «Voi… avete mai parlato?»
Il viso di Molly si rabbuiò in un lampo, come se d’improvviso fosse calato l’inverno su di lei. «Qualche volta».
«E… hai mai conosciuto suo fratello?»
L’espressione di puro stupore sul volto di Molly corroborò le ipotesi del biondo. «Sherlock ha un fratello?» chiese, stupita.
John scrollò le spalle, un sorrisetto sghembo sulle labbra. «Così sembrerebbe.» Recuperò i biscotti che aveva lasciato al suo fianco, liberando la busta dal nodo. La porse alla ragazza, invitandola a prenderne uno. «Ti va un biscotto?»


*

 
«Ti va un biscotto?»
Sherlock storse il naso, seduto sul divano a due piazze al fianco del ragazzo, declinando l’offerta dell’anziana. «No», le rispose. «…Grazie».
«Io ne prendo uno volentieri», s’intromise l’altro, prendendone una manciata con una sola mano facendo sorridere di soddisfazione Mrs Hudson. «Adoro i biscotti allo zenzero!»
«Oh, Victor caro, attento a non soffocarti» lo avvertì come una nonna apprensiva, posando la mano libera sul fianco alla volta di Redbeard. «E tu, giovanotto, dovresti seriamente mangiare di meno».
Il cane uggiolò, mantenendo il contatto visivo sul piattino dove vi erano adagiati i biscotti che l’anziana reggeva, scodinzolando nella speranza di riceverne uno. Mrs Hudson, intenerita, sospirò mestamente. «E va bene, ma solo una» dichiarò autoritaria, mostrandogli la mela che aveva afferrato dal portafrutta. Il setter scodinzolò felice, seguendola al tavolo dove l’anziana si era seduta per tagliarla in piccoli pezzi, privandola dei semi.
Sherlock guardò la scena in silenzio, notando il notevole cambiamento del cane nei suoi confronti. Non gli aveva più ringhiato e – sia lodato l’Universo – non aveva più cercato di aggredirlo. Mrs Hudson, anziana vedova premurosa, aveva esaminato la ferita di Sherlock sotto la pressione di Victor, ignorando le continue proteste del giovane Holmes che le ripeteva che non si trattava di nulla di grave. L’anziana stessa dichiarò che sarebbe bastato sciacquare la ferita con acqua e sapone e coprirla con un cerotto, eseguendo tali operazioni di sua spontanea volontà… su uno Sherlock riluttante. 
 «Redbeard è un bravo cane vaccinato», gli aveva detto mentre puliva per bene la caviglia ferita. «Non c’è motivo di preoccuparsi».
Osservando l’anziana porgere al cane pezzetti di frutta, tutto gli divenne chiaro.
«Sicuro di non volerne uno?» gli chiese Victor, le guancie gonfie come quelle di Mycroft nel giorno di Natale. «Sono buonissimi».
«Mangiare mi rallenta» spiegò risoluto, raccogliendo lo zaino e il libro di Shakespeare, pronto ad uscire da quella casa. Con la scusa di medicargli la ferita, Mrs Hudson si era lasciata andare ad uno sproloquio sulla propria vita privata, raccontandogli di come avesse ereditato degli appartamenti a Londra dopo la morte del marito e avesse deciso di ritornare nello Yorkshire, accanto alla sua migliore amica Margaret Trevor– deceduta recentemente.
«Sicuro di essere in grado di camminare? Se vuoi ti do un passaggio».
«Non ce n’è bisogno».
«Ti preoccupa restare da solo con un estraneo?» lo stuzzicò, inarcando le sopracciglia rosse in modo provocatorio.
Sherlock alzò un angolo della bocca all’insù. «Tu sei tutto fuorché un estraneo, Victor».
«Ma se non sai niente di me!» protestò divertito, dando un morso ad un nuovo biscotto.
«Errato. So che sei straniero, probabilmente americano dato l’accento. Se venuto qui, nello Yorkshire a seguito della morte di tua nonna – paterna, presumo -, proprietaria del setter. Questo ce lo dimostra la tua eccessiva apprensione per un morso lieve: sai come comportarti con i cani, ma non avevi idea se quello di tua nonna fosse stato vaccinato o meno. Il cane invece si trova perfettamente a suo agio, e questo ci suggerisce che non solo è un luogo a lui conosciuto ma anche il suo territorio: ha tentato di difenderlo da eventuali invasori – e in questo caso sto parlando di me. Abiti in questa zona, e questo è l’unico motivo che giustificherebbe un cane lasciato sciolto durante una passeggiata nel bosco. Ti sei appena offerto di darmi un passaggio e parcheggiato accanto alla casa adiacente c’è un motorino. Potrei anche annoiarti facendoti notare le numerose foto che ritraggono Mrs Hudson e tua nonna – dalle più recenti a quelle datate 1950 -, ma suppongo non ce ne sia il bisogno: Mrs Hudson ha già spiegato tutto ciò che c’era da sapere», snocciolò frettolosamente, quasi senza riprendere fiato tra una parola e l’altra, lasciando il ragazzo esterrefatto con la mandibola che si muoveva in slow motion.  
Il silenzio tra i due stava diventando soffocante quanto imbarazzante, quindi Sherlock decise di alzare i tacchi e tornarsene per la propria strada quando Victor parlò: «Vedi che faccio bene a preoccuparmi così tanto? Non esiteresti un istante a denunciarmi».
Per la prima in quella giornata, Sherlock si aprì in un sorriso sincero.

*
 
Al termine delle lezioni, John varcò i cancelli del college come prestabilito con Sarah, ingannando l’attesa col cellulare. Era talmente concentrato ad allineare tre dolcetti identici, da non accorgersi dei passi che si arrestarono al suo fianco.  «Credo che porre fine alla relazione sia più pratico per entrambi».
John sussultò, e per poco il cellulare non gli cascò dalle mani. Si voltò spaventato, sbarrando ancora di più gli occhi una volta incontrati quelli di ghiaccio del ragazzo. Il pazzo. Sherlock Holmes. «Come hai detto?» gli chiese, la voce leggermente alterata per lo spavento.
Il ragazzo gli dedicò quella che a John parve un’occhiata di sufficienza, gli zigomi affilati messi in risalto dal bavero alzato del cappotto. Il sole si era rintanato dietro le nuvole, il vento stava aumentando e in lontananza si potevano udire i primi tuoni. La figura slanciata di Sherlock Holmes sembrava intonarsi perfettamente in quel piccolo quadro, mentre John cominciava a sentirsi a disagio per via di ciò che l’altro gli disse: «Suppongo che per un ragazzo condizionato dal fallimento del padre e le abitudini alcoliche della sorella sia difficile impegnarsi in una relazione stabile, per non parlare della drastica condizione economica in cui riversa la tua famiglia. Restare con una ragazza benestante non fa altro che incrementare lo stress, convincendoti di non essere alla sua altezza. Morale della favola: meglio soli che male accompagnati».
Il cuore gli batté ferocemente nella cassa toracica, la mano libera si serrò in un pugno. Dovette respirare profondamente per non perdere le staffe. «Mike ti ha detto anche questo?»
Le sopracciglia folte del ragazzo si curvarono in segno di confusione. «Mike?»
«Mike», John rimarcò il nome dell’amico a denti stretti, come se stringendoli potesse trattenere anche la rabbia nel palato. «Mike Stamford. Ti ha parlato anche di mio padre?»
«Non c’è stato bisogno», dichiarò tranquillo il giovane Holmes. «Il fango sulle tue scarpe da ginnastica e qualche chiacchiera di troppo nella mensa sarebbero sufficienti persino ad un agente di polizia».
«Il fango sulle mie scarpe?» domandò, con un filo di voce roca.
Il ragazzo gli sorrise furbamente, prima che un braccio si posasse su quello di John come una carezza delicata e un paio di occhi chiari riscuotessero il giovane Watson dal misto di rabbia e incredulità nel quale si era perso. «Ehi».
Si voltò, incontrando una fronte spaziosa e un sorriso roseo, la solita coda alta e ordinata tipica di una Sarah Sawyer ritta nella sua camicia bianca e la gonna a ruota ben aderente in vita. «Ho sentito il tuo messaggio in segreteria ed eccomi qua».
«Sarah» riuscì solo a pronunciare, ancora frastornato dalle illazioni di quel ragazzino balzano.  «Il messaggio… sì».
Sarah inclinò la testa di lato, con dolcezza, allargando le labbra carnose. «Per questa volta sei perdonato, John Watson, ma bada bene: mi aspetto una serata indimenticabile.» Gli soffiò un bacio sulle labbra, come una vecchia abitudine dura a morire, e per un secondo anche John si sciolse in un piccolo sorriso. Le promise che avrebbe fatto del suo meglio e dopo averle accarezzato la guancia diafana le cinse le spalle con un braccio, aspettando di sentire le sue dita snelle dietro la schiena.
Sarah era una ragazza eccezionale: simpatica, giocherellona e tifosa improvvisata di football. Non riusciva a tenergli il muso per molto tempo e John stesso reputava impossibile non capitolare ai suoi piedi di fronte al suo viso pulito e intelligente. Sarah era molto importante per lui, era un posto sicuro nel quale rifugiarsi quando scoppiava la tempesta, ma al contempo appartenevano a due mondi diversi e più volte si erano scontrati perché desideravano cose diverse. Guidato da questa consapevolezza lanciò uno sguardo alle sue spalle, accorgendosi dell’assenza di Sherlock Holmes.
Avvertì un insolito buco allo stomaco, e per un motivo a lui inspiegabile camminare abbracciato a Sarah divenne stranamente faticoso. 

 


Relie's corner
- Ho scritto il capitolo tenendo costantemente una finestra aperta con google maps. Abbiate pietà di me e della scarsità delle descrizioni.
- Tutt'oggi non ho capito se la Smallwood si chiami Elizabeth o Alicia... ma visto che nella quarta stagione sul fogliettino passato a Myc compare quest'ultimo... ho optato per quello. xD
- Harriet è la mia più grande gioia e sono felice di poterla giostrare come un'OC a tutti gli effetti.
- Amate Redbeard con me, vi prego. 
- NON LINCIATEMI: ho sempre provato simpatia per il personaggio di Sarah e vederla insieme a John non mi ha mai disturbato più del dovuto. Onestamente, ad oggi, la preferisco cento volte a Mary e mi è dispiaciuto non ritrovarla nelle scorse stagioni.
- Ero indecisa se interrompere o meno il capitolo, ma dato che era già abbastanza prolisso ho deciso di terminarlo così. 
- Credo di aver terminato con le info/precisazioni, ma se dovessero esserci punti poco chiari/perplessità non esitate a domandare. Intanto vi lascio il link della mia pagina fb --> click
Pareri sempre graditi!

Buona Pasqua (passata) e Pasquetta a tutti!
Alla prossima!



 

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Capitolo 3
*** Lost and insecure, you found me (just a little late) ***


Nda: Buon salve a tutti!!
Finalmente aggiorno questa storia. Felicità-time!
Sono passati mesi dalla pubblicazione dell'ultimo capitolo e di questo mi dispiace tantissimo ma... capitemi, la maturità è stata traumatica. 
Il bello è stato che, leggendo un altro romanzo di Dorn, mi sono accorta che le due storie viaggiano sulla stessa lunghezza d'onda. Divertente, dato che volevo ispirarmi ad un altro suo romanzo.
Per il resto, voglio solo dirvi che alcuni posti da me nominati sono completamente inventati di santa pianta - così evito di scrivere cavolate su posti che non ho mai visitato in tutta la mia vita. In alcune parti il linguaggio potrà sembrarvi un po' "colorito", ma l'ho ritenuto necessario.
Inoltre, questo capitolo è leggermente più lungo del precedente. Spero non sia un problema.
Ringrazio tutte le belle persone che hanno aggiunto la storia nelle seguite/ricordate/preferite, coloro che leggono in silenzio e gli utenti che mi hanno lasciato per iscritto il loro parere. (Scusatemi se non ho ancora risposto alle vostre recensioni, lo farò il prima possibile!)
Detto questo, vi lascio al terzo capitolo. 
Buona, spero, lettura!
 
III. Lost and insecure, you found me
(just a little late)
 


All’età di dodici anni c’era uno sketch di una nota serie tv americana, in grado di farlo ridere sino alle lacrime, che aveva fatto il giro del mondo. Il protagonista della scenetta comica era un quarantenne di Brooklyn che – nell’arco di una sola giornata – era riuscito a perdere la donna della sua vita, il suo posto di lavoro e l’ananas comprata al supermercato la mattina stessa. L’uomo cadde vittima dell’alcolismo, piccola caratteristica tragi-comica che l’avrebbe reso famoso sul piccolo schermo. In quella scena in particolare aveva bevuto così tanto da non riconoscere neppure il palmo della propria mano, e una volta ciondolato fino al garage dove aveva affidato la sua auto ad un parcheggiatore, aveva urlato al ladro, puntando minaccioso verso il povero guardamacchine. Il tutto si risolse con la caduta rovinosa dell’uomo sul cofano del veicolo.
Ricordò di essersi fatto delle grasse risate, John, di aver rivisto il video più e più volte, raccontandolo a chiunque l’avesse ascoltato fino alla nausea. Ma adesso che, appena varcata la soglia di casa, la sua scarpa si era scontrata con la lattina vuota di birra dimenticata sul pavimento, il ricordo di quella gag non lo fece sorridere neanche un po’. Al contrario, avvertì lo stomaco indurirsi come cemento armato e l’impulso di serrare la mano destra in un pugno.  
Per un momento fu tentato nel girare sui tacchi e uscire di casa così come ci era entrato, ma poi deglutì in silenzio il boccone amaro della rassegnazione sollevando la lattina vuota dal linoleum in legno per poggiarla sul comò, accanto ad una vecchia foto di famiglia. Sembrava passata un’eternità dal sorriso genuino di Harry e il volto sereno di Mr. Watson  immortalati in una cornice graziosa.
La dipendenza dall’alcool di cui sua sorella era caduta vittima, lo preoccupava non meno della situazione in cui riversava suo padre. Era cambiato tutto. In un attimo, senza il minimo preavviso. Era stato come vedersi sommergere dalla lava di un vulcano in eruzione da un giorno all’altro, senza scosse di avvertimento, senza terremoti di monito; come se un palazzo fosse crollato nel bel mezzo della notte, nel bel mezzo del sonno, con un unico rumore sordo.
Era cambiato tutto e, per quanto John si sforzasse di essere forte e stringere i denti, nulla sarebbe più tornato come prima. Nulla.
Adesso c’era spazio solo per il “dopo”, per i resti, per i cocci. C’era spazio solo per una sorella che ingoiava sorsi di insoddisfazione, per un padre distrutto dai propri sbagli, una madre che aveva perso il proprio baricentro e un ragazzo di diciotto anni perso ed insicuro, che per rispondere ai pugni ben assestati che la vita gli rifilava aveva bisogno di correre per le strade di Londra prima che il sole sorgesse, portando fiori freschi una volta a settimana in un cimitero con l’erba alta.
S’incamminò dove  immaginava di trovarla, prendendo mentalmente un bel respiro per prepararsi alla scena che era certo di vedere. Un po’ come quando ritorni nel luogo dov’era stato appiccato un incendio: sai già cosa troverai, sai già cosa incontreranno i tuoi occhi, ma devi comunque stringere forte i denti e farti coraggio. Perché immaginare qualcosa è diverso dal viverla sulla propria pelle.
Ed Harriet era diventato tutto questo: cenere al suolo.
Per questa ragione non si sorprese quando, entrando in cucina, rivide sua sorella seduta tutta sola al piccolo tavolo bianco rettangolare, un bicchiere pieno fino all’orlo di birra. Ancora prima che sollevasse il viso, John poté notare distintamente le occhiaie mal camuffate dal fondotinta e il colore opaco delle sue labbra sottili. Ma come diamine ci erano arrivati a quel punto?
«Se n’è andato».
La voce di Harriet non era spezzata, triste o venata da un incontrollabile dolore interiore. Harriet aveva pronunciato quelle parole distrattamente, come si pronunciano frasi del tipo “manca il latte” o ancora “la mia penna non scrive più”. La voce di Harriet era atona quando i suoi occhi freddi e spenti avevano incontrato quelli bluastri ed esausti di John.
Il ragazzo aveva lasciato perdere lo sguardo di muto rimprovero indirizzato alla sorella e aveva aggrottato le sopracciglia. «Chi?», le chiese solamente.
«Sai benissimo di chi parlo», gli aveva risposto abbassando gli occhi sul bicchiere di vetro. «Lui. Lui se n’è andato. Ha portato via la sua roba ed è uscito».
No, non è vero.
John deglutì in silenzio, lo stomaco improvvisamente di cemento. Il modo in cui Harry continuava a giocherellare col bicchiere, invece, non tradiva alcuna emozione. Come se non fosse successo niente.
I rapporti tra Harriet e Johnathan Watson si erano incrinati talmente tanto fino ad appallottolarsi come un pezzo di carta: Johnathan si disinteressava alle sue giornate ed Harriet lo ripagava con occhiate truci; Johnathan si preoccupava – a suo modo – per le scelte compiute da Harry e lei rigettava il suo finto interesse. Era diventata una partita a ping pong che nessuno dei due era realmente interessato a giocare; l’importante non era neanche vincere, l’importante era non permettere un’ invasione di campo.
Harry non pronunciava nemmeno più il suo nome, come se il solo provarci le desse disgusto. Persino quel “lui” biascicato tra i denti come un sibilo le dava il voltastomaco. John non avrebbe mai compreso sua sorella, non ci sarebbe mai più riuscito. Adesso restava con gli occhi fissi sulla birra aspettando solo che lui muovesse qualche passo, che se ne andasse via – come loro padre.
«Non dici sul serio.» John scosse appena il capo, come se già sapesse la risposta. Non è uno scherzo, John. È tutto vero. Controlla tu stesso.
Harry alzò le spalle con noncuranza, trasformando in parole tangibili i suoi pensieri: «Controlla tu stesso».
Non avrebbe bevuto in sua presenza, ma moriva dalla voglia di farlo. Glielo leggeva dalle dita tremanti e le pieghe involontarie che la bocca assumeva.
Eppure John si mosse lo stesso. Raggiunse a grandi falcate la stanza di Mr e Mrs Watson ed ebbe subito come l’impressione che mancasse qualcosa, ed era così: l’orologio da tavolo, accanto all’abat jour, non c’era più; gli occhiali da lettura, quelli che suo padre lasciava sempre nelle vicinanze della sveglia, erano spariti, così come l’ultimo pacchetto di sigarette. Molte altre cose erano rimaste, come le foto di famiglia adagiate sul comò bianco o la boccetta di profumo che Annie gli aveva regalato lo scorso compleanno, ma un uomo in fuga non se ne fa niente di quelle cose. 
Non può essere vero.
E perché non potrebbe, John?
Perché non deve.
Con uno scatto deciso aprì le ante del grosso armadio. Il vuoto tra le camicie e i pantaloni lo accolse come un pugno secco nello stomaco. Harry gli aveva detto la verità.
Deglutì a stento, tornando a capo basso in cucina. L’occhio gli cadde irrimediabilmente sul bicchiere che sua sorella reggeva tra le mani tremanti, ormai mezzo vuoto. Un moto di rabbia si impossessò del suo corpo, gli ribollì nelle vene fino a tramutarsi in parole: «Penso che tu debba smetterla», sputò fuori a denti stretti, indicandole col mento il liquido quasi terminato.
«Non m’interessa ciò che pensi».
Strinse i denti, i pugni, reprimendo il bisogno isterico di frantumare qualcosa in mille pezzi. «Se continui con questo atteggiamento, le persone si stancheranno di aiutarti».
Gli occhi. Gli occhi di Harry erano spenti e irruenti, fiammeggianti e liquidi. Forse lo stavano solo implorando, forse gli stavano comunicando qualcosa che sua sorella non avrebbe mai espresso verbalmente. Ma erano secoli, ormai, che John non riusciva più a leggere quei messaggi invisibili in quel blu estraneo. Quel blu che sentiva di non conoscere più.  Quel blu che si era posato su di lui come una spada di Damocle oscillante. «Non ho bisogno dell’aiuto di nessuno».
«Sì, dannazione!» esclamò, incapace di controllare il tono della propria voce. «Guarda cosa stai diventando! Non è scappando che si risolvono i problemi, qualche litro in più di alcool nel corpo non ti servirà a niente se non a farti collassare il fegato!»
«E sei tu a dire una cosa simile a me?!» Harry si era alzata di scatto facendo stridere la sedia sul pavimento, fronteggiandolo dall’altro capo del tavolo. «Tu non scappi John?»
Era pronto ad aprire la bocca per quietarla.
No, Harry. Mi prendo le mie responsabilità.
Studio.
Cerco un lavoro.
Provo ad andare avanti.
Ma Harry glielo impedì. Pronunciò un solo nome, un nome in grado di raggelargli il sangue nelle vene. «E Mary? Da lei non scappi? Tutte le ragazze che hai frequentato dopo di lei, Christine e Sarah, cosa sono?»
John restò zitto, fermo, congelato. Udire quel nome era come incassare cento goal in un solo secondo, inciampare durante una maratona e atterrare col naso sull’asfalto. Quel nome era un virus penetrato nel suo organismo, la sua infezione latente. Ma costante.
«No.» John serrò la mascella, due pugni stretti lungo i fianchi. «Non mi va di parlare di questo».
«Ti stai nascondendo, John.»
«Harry».
«Ti nascondi in relazioni vuote, insensate, fingendo di provare qualcosa che non senti da tempo. Passi la maggior parte delle tue giornate evitando le ragazze che dici di amare, costringendoti da solo a mandare avanti rapporti che non fanno altro che soffocarti, e tutto per i sensi di colpa che provi nei confronti di Mary. Quindi no, non sono io ad aver bisogno di aiuto!»
«Ho detto basta!»
Il frigorifero traballò come gelatina al colpo secco di John, le nocche impresse contro la superficie lucida dell’elettrodomestico. Harry fissò ad occhi sbarrati il viso contratto dall’ira del fratello, ammutolita.
John ne aveva abbastanza. In modo o nell’altro era il colpevole; qualunque cosa facesse, ogni volta che muoveva un muscolo, commetteva un errore. Harriet è un’alcolizzata, ma questo perché tu non sai prenderla per il verso giusto; tuo padre è andato via di casa, John, devi rimboccarti le maniche!; santo cielo, John, tua madre non ne uscirà viva. Devi studiare John. La matematica, John. È importante la matematica, non importa che tu non la capisca. Vuoi diventare un medico, John? Pensa a cosa hai fatto a Mary.
Mary.
Sempre lei, sempre presente. Un’infezione perenne, quotidiana, da tenere sotto controllo. Si era diffusa in tutto il corpo arrivando ai polmoni, al cuore e al cervello. Pensare a quel nome gli faceva venire la nausea.
È tutta colpa tua.
Tenne lo sguardo basso sulle mattonelle della cucina senza vederle sul serio, il mento a sfiorare la maglietta a righe bianche e grigie. Le dita erano ancora piegate sul palmo della mano, le nocche impallidite. Restare in quella casa era impossibile: puzzava di birra, abbandono e risentimento. Puzzava di sangue.
John non aveva tempo per quelle cose. John doveva studiare, doveva rendersi utile. Attraversò il corridoio senza pronunciare neanche una sillaba, afferrando in fretta lo zaino che aveva lasciato accanto al portaombrelli.  Quando il bicchiere si schiantò contro la porta, John era già andato via. Sentì il vetro frantumarsi in mille pezzi mentre scendeva velocemente le scale, due gradini alla volta.
Harriet era rimasta da sola in una casa che detestava.
Consumò la rabbia in silenzio, osservando la pozza fetida di birra che si allargava sul pavimento tra i cocci del bicchiere. Nel lanciarlo, Harriet si era bagnata parte della manica e dei pantaloni.
Non c’era nessuno.
Si inginocchiò sul pavimento, lasciando  che i suoi jeans si colorassero di alcool. Allungò una mano verso un pezzo di vetro rigirandoselo nel palmo. Lo avvicinò al polso, sfiorandosi la pelle. Se fosse stato magico gli avrebbe chiesto di mostrarle il futuro, ma nel mondo reale non c’è spazio per la magia, per il lieto fine e tutte le altre cazzate. Quello era solo un pezzo del vetro di un bicchiere che aveva scagliato contro un John immaginario.
Non avrebbe mai potuto mostrarle il futuro, altrimenti Harry avrebbe visto. Avrebbe visto dei capelli biondi confondersi col rosso del sangue, la lama affilata di un coltello e ancora sangue. Sangue ovunque.
 
**


Varcò la soglia della libreria tenendo la mano sinistra infilata nel cappotto scuro, stringendo tra le dita l’elastico per capelli che aveva recuperato nel bosco. Fosse stato un altro giorno, magari avrebbe roteato gli occhi al cielo nell’udire il suono melenso del campanellino fissato sulla porta d’ingresso, ma quella volta Sherlock fece un’eccezione.
Nella sua testa riecheggiava il suono di una risata fastidiosa, poi una frase: “Smettila di curiosare, Sherlock. Non far arrabbiare paparino. Non c’è nessun orologio manomesso in mezzo alla neve.”
Aveva rimuginato su quelle parole per tutto il tempo delle lezioni. All’inizio sembravano non aver alcun senso, ma Sherlock sapeva benissimo che quella era un’opzione da escludere: lui amava giocare anche se gli consigliava di smettere. Lui cercava di stuzzicarlo. Lui aveva ammesso la sua colpevolezza.
Era un gioco tra loro due. Tra Sherlock e il responsabile di quanto era successo, qualcuno che lo aveva notato e si nascondeva dietro messaggi e telefonate da un numero sconosciuto. Lo scopo era svelare l’enigma, osservare e dedurre nell’ovvio, scoprire il volto della persona che si nascondeva dietro la firma“M.”.
Il piccolo paesino nello Yorkshire era costituito da un gruppo di sessantasette case distribuite per la città; le poche ville si trovavano al delimitare del bosco mentre larghe campagne dividevano le abitazioni solitarie e un piccolo cottage. Nessuna di esse sorgeva nei pressi della baita e tutte erano distanti dal lago.
In città era difficile incontrare un volto sconosciuto. Tutta gente monotona e noiosa, si ripeteva tediato Sherlock.
Ma non per questo scovare un criminale era semplice come bere un bicchier d’acqua.
No, il problema non era il posto. Era il suo avversario ad essere un abile giocatore. Ma quello non era più un gioco. Non per Sherlock.
«Sherlock! È un vero piacere vederti da queste parti. Sono arrivati i nuovi saggi sulle fibre tessili.» lo accolse Angelo col suo sorriso migliore, adagiato con le braccia sul bancone, per poi schiarirsi la voce e tamburellare i pollici sul legno.  «Ho saputo che le ricerche sono ancora ad un punto morto».
Angelo, cinquantenne di origini italiane, si era trasferito in quel paesino sperduto dello Yorkshire per ripulirsi la coscienza con l’aria tranquilla di campagna, calzando perfettamente lo stereotipo ex criminale in cerca di redenzione.
La sua fedina penale era senza dubbio più limpida delle acque  del Tamigi considerati i sette passati in galera, ma tutto questo rendeva Angelo un tipo abbastanza stimolante agli occhi di Sherlock. Anche se riusciva a leggere la solitudine tra le pieghe della sua camicia a quadri e il suo passato da scassinatore dalle dita tozze, come un libro aperto, Sherlock non sdegnava  più di tanto quel libraio di mezz’età – lasciando correre quello stupido campanellino.
Angelo era sicuramente meglio dell’istruttrice di danza pettegola, di quel pomposo e irritante Anderson e della giovane e acida giornalista Donovan: l’uomo si teneva lontano dalle malelingue e per Sherlock era un bene. Di solito non gliene importava niente dei pettegolezzi scambiati sorseggiando del pessimo caffè, ma quella volta era diverso. Quella volta le voci di corridoio lo toccavano da vicino.
A Sherlock non importava niente di ciò che la gente pensasse o facesse, ma gli pesava la consapevolezza dell’ignoto. Del non sapere. Del brancolare nel buio insieme alla polizia.
Per questo non offrì una vera e propria risposta ad Angelo, ma all’uomo sembrò bastare il sorrisetto palesemente forzato del ragazzo. «Prendi pure ciò che vuoi», gli ricordò il libraio, e la conversazione terminò lì.
Tutta l’attenzione di Sherlock era focalizzata sull’ultimo messaggio di M. “Non c’è nessun orologio manomesso nella neve.” Accompagnato da un piccolo bonus di incoraggiamento. “Cercare oppure aspettare il tempo giusto? Giallo o rosso? Troverai mai, Holmes, la nostra segreta chiave?”
Sherlock aveva fissato lo schermo del cellulare per diversi minuti, ignorando la lezione di astronomia che ormai era diventata solo un sottofondo, cogliendo l’indizio molte ore prima della campanella di fine lezioni.
Un codice. Una parola ogni tre. Era un gioco che era solito fare con Mycroft.
Dunque, l’indizio di M. era: “Cercare il giallo. Troverai la chiave.”
Lo scaffale dei polizieschi ricordava più che altro un altarino in memoria dei classici gialli. Sherlock impiegò tredici secondi per dedurre, dall’altezza della polvere, che La saggezza di Padre Brown era stata ignorata dal resto degli avventori da circa un mese a dispetto de Le bouchoun de Cristal il cui ultimo acquisto doveva essere avvenuto due giorni addietro.
Ma c’è davvero gente che legge questa roba?!
I libri erano disposti in ordine cromatico – Angelo… sul serio?! – e trovare due romanzi dello stesso autore vicini era un’impresa più unica che rara. Un po’ come immaginare Mycroft seguire correttamente una dieta.
Nella sua mente, piegò le labbra in un mezzo ghigno di compiacimento.
I suoi occhi ricaddero su un volume solitario, poggiato tra un romanzo di Donald Bain e un bestseller psico-thriller come un ponte che unisce due generi letterari apparentemente simili, ma diametralmente opposti.
«Non c’è nessun orologio manomesso nella neve» fece eco ai suoi pensieri che pian piano collimarono con le sue illazioni. «Assassinio sull’Orient Express».
Il libro non presentava tracce di polvere molto accentuate, come se fosse stato riposto in quella posizione da meno di sei ore. Come se lo stesso aspettando.
«Vede, mio caro dottore, io non sono uno che si fida della solita procedura. Io cerco la psicologia, non le impronte digitali e la cenere delle sigarette».
Lo riconobbe in un battito di ciglia. Non gli servì nemmeno voltarsi e incontrare quegli occhi invadenti in netto contrasto col rosso dei suoi capelli. Victor Trevor era stato già scannerizzato e salvato nel suo hard disk. Tuttavia, faticò ad ammettere a se stesso di aver trattenuto un sorriso. «Pensavo preferissi le storie di pirati».
«Sì, infatti», concesse, «ma diventa estremamente difficile non memorizzare i libri che qualcuno leggeva ad alta voce dalla mattina alla sera. Almeno due volte al mese».
«Oh, sono impressionato».
«Ne hai tutto il diritto. Potrei recitarti Dieci piccoli indiani in due lingue diverse, dall’inizio alla fine».
«Fossi in te non mi vanterei di avere tanta spazzatura nel cervello. Lì potrebbe esserci ciò che ti è utile per davvero. È uno spreco immenso riempirlo con romanzetti banali e imbarazzanti».
Victor si lasciò andare ad una lieve risatina. Probabilmente lo avrebbe mandato a quel paese nei prossimi minuti – come tutti, del resto – e a Sherlock non sarebbe importato.
A lui non importava mai.
Gli dava ancora le spalle, il libro ormai tra le mani, quando Victor gli disse: «La tua incoerenza mi diverte. Nel senso positivo del termine, s’intende».
«Incoerenza?» ripeté Sherlock, voltandosi a guardarlo con uno sguardo truce.
Victor Trevor non si era scomposto di una virgola: le sue labbra sottili erano incurvate in un sorriso privo di sarcasmo, scherno o malizia; arrotolato attorno alla mano destra il guinzaglio nero, la sinistra lasciata lungo i fianchi; all’altezza della coscia una macchia d’olio e qualche pelo ramato.
«Gironzoli per il bosco con un libro di Shakespeare, ma affermi che non lo stavi leggendo. Ti ritrovo in una libreria incantato davanti a un romanzo della Christie – che per la precisione adesso si trova nelle tue mani – mentre ti eleggi nemico giurato dei gialli.» Scrollò le spalle, negli occhi la convinzione di averlo inchiodato con le spalle al muro. «O sono io a destabilizzarti, oppure c’è qualcosa che mi sfugge».
«Il problema, Trevor, è che tu guardi ma non osservi».
Victor piegò lievemente il capo di lato, aggrottando le sopracciglia con fare confuso.
Fu Sherlock a sorridere, questa volta. «Se mi limitassi a guardarti non farei altro che vedere un ragazzo che indossa un giubbotto troppo largo per la sua corporatura e un paio di pantaloni grigi. Se invece ti osservassi – esattamente come osservo questi libri – noterei che hai di nuovo offerto il pranzo al tuo cane – pollo fritto, presumibilmente – e questo lo capirei dalla macchia che ti sei procurato all’altezza della coscia e dai peli che ti porti addosso. Non sembri un tipo sciatto a giudicare dal modo in cui curi i capelli e dal costante profumo di deodorante che ti porti appresso, dunque o non ti sei accorto di quella piccola macchiolina o avevi troppa fretta per cambiarti. Un litigio giustificherebbe la fretta, la fretta giustificherebbe il fatto che adesso indossi il giubbotto di tuo padre. (Motivo che mi farebbe pensare ad un piccolo diverbio).
Ma se così non fosse, dove potrebbe mai dirigersi con tutta questa urgenza un ragazzo che non è del posto in una città così piccola e perché non ha scelto di utilizzare il motorino? Perché il ragazzo non doveva raggiungere nessun luogo, ma aspettare qualcuno. Non sei sudato, non hai corso e poi c’è il cane. Perché andarsene a spasso con un cane se l’intento è quello di lasciarlo fuori dal negozio: può entrare, non c’è nessun divieto di sorta, eppure eccoti qui con un guinzaglio arrotolato intorno alla mano destra. Perché lasciare un cane fuori dal negozio? Forse perché temi che la persona che stavi aspettando non gradisse la sua presenza: lo sconosciuto a cui ha morso la caviglia, per esempio.  Lo stesso sconosciuto che al momento del vostro primo incontro indossava una divisa di una scuola privata che dista circa un’ora da qui. Qui accanto c’è la fermata più vicina al centro della città e forse è questo il motivo per cui ci troviamo qui, io e te, in libreria, alle 16 e 47. Dunque, se il tuo desiderio di vedermi è legato alla voglia di comprendere le mie scelte letterarie dell’ultimo giorno, sappi che non leggo quella roba. Io la osservo. Se invece... sei qui spinto dai sensi di colpa, non ce n’è motivo. Per cui puoi anche far entrare il tuo cane prima che morda la caviglia di qualcun altro. »
Sherlock parlò così in fretta che le parole sembrarono incollate tra loro, senza la minima pausa scandita da una normale respirazione. Sul volto di Victor si dipinsero espressioni che variarono dallo smarrimento all’incredulità, ma mai – mai! – Sherlock si sarebbe aspettato ciò che il giovane Trevor fece un attimo dopo che il monologo terminasse. «Dovresti smetterla», decretò.
Sherlock deglutì in silenzio.
Smettila di curiosare, Sherlock.
«Dovresti smetterla di osservare a vuoto e farne qualcosa di più. Ma soprattutto dovresti smetterla con tutti questi pregiudizi nei confronti di Redbeard. Ci è rimasto male anche lui, sai? Ho dovuto offrirgli il mio pranzo per mettere fine al suo digiuno. Dovresti dargli un’altra possibilità. Sa farsi amare, quando vuole».
Un abbaio.
Redbeard scodinzolò a quattro zampe dietro il vetro della porta d’ingresso, come ad acconsentire alle parole del padrone.
«Vedi», Victor lo indicò con un gesto della mano, «è d’accordo con me».
A quelle parole, la bocca del giovane Holmes si arricciò imbarazzata e impreparata al complimento appena ricevuto, e Sherlock poté fare nulla per impedirlo.
 
**


John si era sempre chiesto come riuscissero certe persone a leggere in autobus.
Quel lieve traballare, il chiacchiericcio della gente, gli occhi degli altri puntati sulla schiena… John reputava insostenibile situazioni di quel genere. Una volta salito in autobus, di solito, si concentrava sullo spettacolo che i finestrini avevano da offrirgli, ma forse gli appunti di matematica sarebbero rimasti astrusi anche nell’assoluto silenzio di una biblioteca.
John odiava i numeri, odiava i problemi e tutti i sistemi cartesiani di questo mondo.  Ma non poteva permettersi di odiarla se voleva comprenderla. E doveva comprenderla.
Un tuono.
John spostò lo sguardo dal libro che teneva in equilibrio sulle gambe al finestrino. Londra era cupa sotto quel cielo plumbeo imbronciato; una donna sbucò dal portone di un palazzo tutta incappottata, reggendo tra le mani un ombrello giallo. John rimpianse di non averne uno con sé.
«Segua la stessa strada che ha percorso per arrivare fin qui».
Le iridi cerulee del diciottenne cercarono la fonte della voce appena udita, trovandola seduta qualche sedile avanti con un libro aperto tra le mani. Da quell’angolazione riusciva a cogliere solo il profilo niveo della ragazza, una cascata di capelli color limone  e la lana nera del basco a coprirle una piccola parte della fronte spaziosa; le labbra scarlatte che sussurravano avide le parole che i famelici occhi chiari divoravano.
Per un attimo gli sembrò che il tempo si fosse congelato e che il resto del mondo avesse smesso di girare. Per un attimo sparì il gel colorato sulle unghie curate della ragazza, i capelli si accorciarono fino alle spalle formando boccoli perfetti e la copertina flessibile del romanzo di Emily Brontë divenne spessa e decorata con ghirigori floreali azzurri.
Gli sembrò di rivedere una vecchia pellicola senza audio, una scena di un film a rallentatore.
E Mary?
Da lei non scappi?
Bastò che l’autobus rallentasse e che le prime gocce di pioggia cadessero violentemente sul tettuccio del veicolo per far evaporare quell’immagine.
Spese parte del suo pomeriggio imbottigliato nel traffico senza una meta precisa, gli integrali che tremavano sulle pagine bianche. Piovve per tutto il tempo, anche quando il bus sostò alla stazione.
C’era un silenzio surreale nel mezzo di trasporto. L’unico rumore che si udiva era il picchiettare della pioggia sul tetto della stazione e i passi affrettati di qualche passeggero che si apprestava a salire sul veicolo in partenza.
Il bus dov’era seduto John era il penultimo di una lunga fila. Quasi nessuno sembrava notarlo, ben nascosto dai fari spenti. Scoccò un’occhiata all’orologio da polso. Erano soltanto le sette di sera anche se con quel tempaccio sembrava notte inoltrata.
Immaginò sua madre rincasare distrutta dal lavoro, i piedi gonfi e la testa pesante, mentre accendeva per abitudine le luci del corridoio e della cucina riscoprendosi sola. La immaginò chiamarlo per nome e cercare Harriet senza alcuna speranza di trovarla in casa, sciacquarsi la faccia, bere un bicchiere d’acqua e accorgersi che mancava dell’altro. Se la figurò senza alcun difficoltà con gli occhi increduli sbarrati dinanzi al vuoto nell’armadio per poi raggiungere con un nodo alla gola tutti gli angoli della casa per verificare la mancanza di una qualsiasi cosa che potesse confermare l’abbandono di suo marito. La immaginò sola, smarrita e con le gote rigate dalle lacrime, più stanca di quanto non lo fosse mai stata.
Le mani gli pizzicarono al sol pensiero. John era incazzato nero. Con suo padre, con Harry, con se stesso e con Mary.
Era incazzato con la sua inutilità, la sua impotenza e le sue scarsissime capacità matematiche. Cazzo, lui odiava la matematica, non c’era niente da fare. Non l’avrebbe mai capita!
«Ti ho detto di sparire, mi hai sentito?»
«Fortunatamente per entrambi ti ho sentito, sfortunatamente per te non hai ancora risposto alla mia domanda.»
«Ti ho detto di sparire!»
Un tonfo sordo attirò l’attenzione di John, facendogli dimenticare completamente i suoi problemi. Quasi non credé  alle sue pupille quando affacciandosi al finestrino intravide il volto pallido del ragazzo rischiarato dalla poca luce che giungeva in quella direzione. Era bagnato fradicio, i ricci appiccicati sulla fronte, le spalle contro la fiancata rossa dell’ultimo autobus della fila.
John riconobbe quegli occhi di ghiaccio in un attimo. Era il pazzo. Era Sherlock Holmes.
Non lo aveva mai incontrato fuori dal contesto scolastico e adesso che un tizio allampanato era piegato minacciosamente verso di lui mostrandogli un coltellino, John ebbe come l’impressione di aver incrociato la sua strada per la prima volta.
Non fu chiaro cosa lo spinse a scattare giù dal veicolo, abbandonando i suoi libri su un sedile asciutto e confortante, dirigendosi a passo svelto verso la schiena dello sconosciuto, afferrandolo per il cappuccio; ad ogni modo, quel tizio era talmente fatto che a John bastò un pugno ben assestato sul naso per farlo piagnucolare con le mani sporche di sangue, e metterlo in fuga come una gazzella inseguita da un leone. La lama del coltellino tintinnò sull’asfalto accompagnata dal rumore dei passi dell’uomo in fuga.
John non avvertì neppure il dolore alla mano per il colpo inferto: si sentiva più leggero, svuotato di un peso enorme, come se non avesse desiderato altro per tutto il giorno.
«Ma che cosa hai fatto?!»
Il biondo si stava ancora godendo il suo attimo di gloria – per fortuna nessuno sembrava aver notato quella piccola scaramuccia – quando la voce accigliata di Holmes gli arrivò alle orecchie. Quello lo trafisse con uno sguardo a metà tra l’indispettito e l’iracondo, allargando le braccia con melodrammaticità.
John non riusciva a comprendere quel gesto. «Come?»
«Cosa ti è saltato in testa! Hai la minima idea di quanto tempo abbia speso per rintracciarlo?!»
«Quel tizio era armato!» ribatté piccato John, infastidito dal comportamento insensato di quel ragazzo.
«Sapevo difendermi. Era tutto sotto controllo».
John, paralizzato dall’incredulità, boccheggiò alla ricerca di una risposta sensata senza alterarsi. Fallendo miserabilmente nel suo intento. «… Sotto controllo, certo. Sai, penso che tu mi dovresti un “grazie”».
«Oh, ovviamente. Dovrei esserti eternamente grato per aver messo in fuga la persona che avevo intenzione di interrogare. Peccato che non avessi portato con te una pistola, allora sì che avresti fatto faville!» Holmes snocciolava il suo disappunto come un mixer azionato alla massima velocità, e, se da un’altra prospettiva quella scena poteva sembrare comica, John provò lo stesso fastidio di chi si ritrova circondato da uno sciame di mosche. «Ti sono immensamente riconoscente per aver sfogato la tua rabbia repressa su un perfetto sconosciuto, sono sicuro che la recente lite avuta con tua sorella abbia giocato un brutto tiro ai tuoi nervi saldi».
«Interrogarlo?» gli fece eco, come se avesse detto la più grande assurdità  del mondo. Registrò solo in un secondo momento le ultime illazioni, ritrovandosi a deglutire a bocca asciutta. «Come diamine fai a sapere…»
Sherlock sembrò riprendere momentaneamente la calma. Abbassò il tono della voce, compresse le labbra e prese un lungo respiro. «Dai tuoi vestiti. Sono gli stessi che indossavi questa mattina a scuola. Solo un imprevisto come una lite potrebbe giustificare la mancata doccia e la fuga da casa. Le abitudini alcoliche di tua sorella potrebbero essere un ottimo movente, ma c’è di più. Si tratta di tuo padre. Di quello che fatto e di cui ti senti responsabile».
«Come dia…»
«Non sei andato al cimitero.» Lo anticipò Holmes. «Ti rechi lì ogni settimana, ad un orario e un giorno prestabilito. Lo capisco dal fango che porti sulle scarpe: quel particolare colore rossiccio è tipico solo del cimitero Agra. I residui ai lati non sono freschi, quindi vuol dire che non ci sei stato. Agra non è il posto in cui verrebbe seppellito un membro di una famiglia poco agiata. Questo ci riconduce a tuo padre e all’abbandono della sua carriera chirurgica. E facendo due più due mi sembra logico insinuare che il vero oggetto della discussione avuta con tua sorella sia stato tuo padre.» Una pausa, finalmente, e poi aggiunse: «Per rispondere alla prima domanda: sì, interrogarlo».
Una cosa del genere non gli era mai capitata. John restò letteralmente senza parole mentre Holmes si sistemava la sciarpa intorno al collo pallido, il cappotto che sembrava un mantello inghiottito nell’oscurità a conferirgli quell’alone di mistero di cui tutti a scuola parlavano.  John pensò seriamente che quel ragazzo avesse qualche rotella fuori posto.
Esattamente come te, gli ribadì una vocina nella sua testa.
«Fantastico» riuscì ad articolare, la bocca spalancata. E una cosa del genere l’avrebbe detta solo se un calciatore avesse segnato da metà campo.
Sherlock sembrò impreparato a quella risposta.  «Davvero?» chiese titubante. «Niente “chiudi il becco”, “vaffanculo”, “togliti di mezzo”».
No. Quello l’ho pensato per tutto il tempo. «Assolutamente. È stato… straordinario. Tu… tu… hai detto che dovevi interrogare quel tizio?»
Gli occhi di Sherlock Holmes si ravvivarono di una strana luce e fu chiaro ad entrambi che per il resto della serata non ci sarebbe stato spazio per gli appunti di matematica di John.
Trascorsero un’ora intera seduti su una panchina deserta, nel lato più solitario della stazione, a parlare del drogato col coltellino. A dire il vero, fu Sherlock a parlare per tutto il tempo: John si limitava ad ascoltare, intervenire con domande apparentemente ovvie per Holmes, e annuire poco convinto. Sherlock fu dettagliato e allo stesso tempo si tenne sul vago. In sessanta minuti Watson aveva appreso che Bill Wiggins – così si chiama quel povero diavolo a cui John aveva con tutta probabilità rotto il naso – era un punto fermo per tutti coloro che attendevano la prossima dose di cocaina. Appena venticinquenne, si era rifugiato nella droga per convenienza e sempre per un riscontro economico si divertiva a “condividerla con i bisognosi”. Bill Wiggins poteva sembrare un perfetto idiota, ma ci sapeva fare nel suo campo e soprattutto aveva un’ottima memoria: ricordava alla perfezione i volti e i nomi dei suoi acquirenti, dal primo all’ultimo. Il problema, secondo Holmes, era che Bill non doveva trovarsi a Londra.
 «C’è qualcosa sotto», aveva decretato con aria cupa.
Sherlock era fermamente convinto che Bill fosse coinvolto nella scomparsa di una persona in particolare – un suo cliente a quanto pare -, ma quando John chiese ulteriori spiegazioni il diciottenne fu molto chiaro: «Queste sono informazioni che non posso fornirti».
«Perché?»
«Non sei tenuto a saperlo».
John insistette più volte, ma Sherlock fu irremovibile. Si limitò a ricordargli l’inizio della prossima corsa indicandogli il bus in partenza, e il ragazzo fu costretto a correre come un matto verso le porte ancora aperte del veicolo, spinto dal ricordo dello zaino lasciato sul sedile.
Vide la figura slanciata e impenetrabile di Sherlock Holmes in piedi, le mani lungo i fianchi, diventare un punto sempre più distante mentre John combatteva contro il desiderio di prenotare la prossima fermata e tornare indietro. Voleva saperne di più, scoprire ciò che il ragazzo gli aveva tenuto nascosto, comprendere il suo ruolo in tutta quella storia.
Non pensò ad altro per il resto della nottata. Non pensò ad altro che a Bill Wiggins, al suo traffico di droga e a Sherlock Holmes.

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Angelo aveva reso vana ogni teoria: stando al libraio nessuno di insolito era passato da quelle parti lasciando quel libro della Christie sugli scaffali. «Magari qualcuno lo ha spostato e si è dimenticato di rimetterlo al proprio posto», aveva suggerito.
«Non è stato dimenticato. È stato lasciato in quel punto esatto di proposito. Deve essere successo stamattina, più o meno verso le 10 e 40. Hai visto qualcuno curiosare tra quegli scaffali verso quell’ora?»
Angelo aveva alzato le spalle. «Sono in pochi a leggere gialli da queste parti. Stamattina le uniche persone che hanno messo piede in libreria sono stati la giovane Donovan e il dottor Moran. Soltanto Sally ha dato un’occhiata a quegli scaffali».
Il volto del ragazzo si scurì nell’udire il nome dello psicologo. «Ma non hanno comprato nulla».
«In realtà, il dottor Moran ha comperato l’ultima edizione de L’interpretazione dei sogni. Mi ha fatto impacchettare il libro e se n’è andato.»
«L’interpretazione dei sogni
Angelo indicò col mento  i libri disposti in bella mostra sulla mensola più vicina alla porta. «Libri sulla psicologia. Sembra non leggere altro. In un certo senso sembra avere la sua logica…»
Sherlock si morse la lingua, contrariato.
Per raggiungere i gialli bisognava per forza superare i romanzi rosa e gli storici. Moran si era fermato all’ingresso, aveva comprato il libro ed era uscito. Seppure fosse tornato indietro per depositare il romanzo, Angelo avrebbe udito il campanello e lo avrebbe visto.
Continuò a rimuginarci su anche mentre camminava, tenendo il libro nella mano destra. Quella mattinata si era sforzato di dissimulare il lieve fastidio per il morso dello scorso giorno, ma tutto sommato non si trattava di nulla di grave o particolarmente doloroso. Aveva smesso di zoppicare una volta alzato dal letto, per amor delle sue orecchie.
Sua madre era andata in escandescenza quando lo aveva visto rientrare in casa zoppicante. Le braccia conserte di Mycroft e la sua espressione austera gli sussurrarono una paternale scontata e fastidiosa degna di un fratello maggiore. “La mamma ha già molto per cui essere preoccupata, non ti ci mettere pure tu”.
Indispettire il maggiore degli Holmes era sempre un piacere, per Sherlock… sentire le querimonie di sua madre un po’ meno.
Tutto per un cane. Il cane di Victor Trevor che adesso avanzava docilmente davanti a loro, la lingua penzoloni e il naso ad annusare la scia di frittura proveniente da una tavola calda. Un’immagine carina che discordava col diavolo ringhiante dello scorso pomeriggio.
L’avrà sentita anche lui quella risata?
Come se avesse udito i suoi pensieri, Redbeard si voltò nella sua direzione in quello che a Sherlock parve un sorriso da abete con la lingua lasciata penzolare ad un lato del muso.
«Sai, credo che tu gli piaccia», s’intromise Victor.
«Spero non quanto la mia caviglia».
Victor sbuffò una risata, roteando gli occhi. «Non è un serial killer, è solo un cane!»
«Questo lo dici tu».
Victor Trevor era diverso da tutti i ragazzi che aveva conosciuto nella sua breve esistenza e da tutte le persone che avevano incrociato il suo cammino. Victor sapeva stargli intorno senza infastidirlo, o annoiarlo.
C’era qualcosa, in lui, che lo incuriosiva. Che lo attraeva. Qualcosa che Sherlock non era capace di decifrare. Victor Trevor era… piacevolmente diverso.
«Sherlock».
Victor si fermò, imitandolo, guardandolo con aria interrogativa. «Cosa?»
«È il mio nome», precisò. «Non te lo avevo mai detto».
«Sherlock», ripeté quello lentamente, quasi lo stesse analizzando nel suo palato. «Sembra vagamente il nome di un pirata».
«Sicuramente più appropriato di Victor», ne convenne.
L’accenno di una risata fu spezzata da Redbeard che, inaspettatamente, tirò verso la vetrata della tavola calda. Victor diede un’occhiata al cellulare, guardando poi con la stessa espressione del suo cane l’hamburger che un uomo stava divorando seduto al suo tavolo.  «Senti, Sherlock… non è che per caso avresti fame?»
Sherlock sembrò pensarci su per qualche secondo. «Forse un po’».
Il romanzo nelle sue mani gli apparve improvvisamente più leggero di quanto già non fosse.





 


Relie's Corner:
Spero vivamente di non essere caduta nell'OOC, ma per questo attendo i vostri pareri.
Ho nominato un bel po' di libri - quasi tutti presenti nella mia biblioteca personale -, accanendomi principalmente sui gialli. Questo perché credo che Sherlock non li avrebbe mai graditi come genere letterario. Idem per Shakespeare. (Mi scuso per aver chiamato questi capolavori "roba").
Spero che le deduzioni di Sherlock siano plausibili. Io, almeno, ci provo. xD
Il verso citato da Victor è una citazione del libro "Assassinio sull'Orient Express" di Agatha Christie. 
Il verso citato dalla sconosciuta sul bus (??) è tratto dal romanzo "Cime tempestose".
Non ho la più pallida idea di quale sia il nome del padre di John - figuriamoci quello della madre -, quindi mi sono rifatta alla scelta di Yoko Hogawa per la sua meravigliosa Meant to be Alone.
L'idea della "deduzione sul cimitero" è un chiaro rimando a Elementary, mentre l'assalto di Watson ad un sospettato (chiamiamolo così) è ispirata ad una scena carinissima di una serie russa su Sherlock Holmes. <3.
Sicuramente c'è dell'altro che non ho detto, ma che al momento mi sfugge... quindi mi sento costretta ad eclissarmi e a sperare che il capitolo sia stato di vostro gradimento.
Alla prossima!

 

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