Bejelein - Il Tessitore di Trama

di Michan_Valentine
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1 - Mezzosangue ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2 - Lasciapassare ***
Capitolo 4: *** Capitolo 3 - La Cerca ***
Capitolo 5: *** Capitolo 4 - Zemilos Sulescu ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


 Prologo
“Guardami.”

Il sibilo tagliò l’aria e sovrastò il rumore di masticamento. Il contadino sussultò, come sferzato dal comando. Tremò e strinse maggiormente a sé il corpicino del figlio; ma non riuscì a deviare lo sguardo dalla carcassa.

Il bambino invece non guardava proprio, confortato dalle braccia e dal petto del padre. Labile protezione. Era lercio, puzzava di piscio e piagnucolava troppo. Un tedio per le sue orecchie; e un piacere al tempo stesso. Difficile dirsi dove finiva l’uno e iniziava l’altro.

Rannicchiati a terra, padre e figlio davano l’impressione di un mucchio di stracci abbandonati. Carcasse anche loro. Lividi, piccoli e spauriti. Insignificanti. Materia prima o nutrimento per le sue deliziose, obbedienti creature. Ma c’era del bello nella mortalità che le si mostrava in forma pura.

C’era orrore negli occhi sgranati dell’uomo, fissi sull’ammasso di carne bruciata e interiora sparse che una volta era sua moglie. La donna con cui aveva giaciuto, condiviso i sospiri e concepito l’esserino che ora gli si avvinghiava addosso, in cerca di qualcosa che non poteva dargli. C’era terrore nelle membra rigide, sudate e tremanti. Inermi. C’era sincerità assoluta nella pozza di urina che macchiava gli abiti e si allargava sul pavimento. Ma, soprattutto, c’era consapevolezza. Completa, agghiacciante consapevolezza. Sapevano di essere carcasse. Lo sentivano dentro, nelle viscere. Era solo questione di tempo.

Dinanzi a un simile spettacolo non poteva restare indifferente. Era eccitata. Si sarebbe immediatamente bagnata fra le gambe, se solo il suo corpo fosse stato di carne e sangue come un tempo. Ne voleva di più.

Sei un’ingorda, Iblys. Hai tutta l’eternità davanti. Puoi rimandare. Smettila di giocare. Noi stiamo aspettando.

Lasciò scattare la mandibola scarnificata. Le fila di denti gialli e neri scricchiolarono e sfregarono sinistramente fra loro, esprimendo disappunto. Non voleva ascoltare l’eco. Non in quel momento così piacevole.

“Come si chiamava? Doveva avere un nome.” sibilò ancora.

Non si riferiva ai resti della donna, ma alla creatura che ne masticava le budella. Voltò il capo e le vertebre esposte del suo collo crepitarono, come volessero sfaldarsi e finire in polvere da un momento all’altro. Non se ne preoccupò e analizzò le fattezze della sua più recente creazione.

Chino sui quattro arti, la testa affondata nel ventre aperto della donna riversa terra, il non morto si nutriva con sordo rumore di carne e ossa maciullate. Il sangue gli imbrattava i vestiti e le braccia fin sopra i gomiti, gli sporcava i denti storti e gli scivolava in corposi rivoli sulla bocca e lungo il collo a ogni boccone. Sembrava vivo. Era fresco, dopotutto. Ma gli occhi vitrei e la ferita slabbrata che gli aveva inferto sul collo raccontavano tutt’altra storia.

La carcassa era invece irriconoscibile. Labbra, naso e parte del viso le erano stati staccati a morsi. Uno dei bulbi oculari pendeva lungo la guancia martoriata del cadavere e rifletteva sinistramente la luce soffusa dell’ambiente.

Un quadro affascinante. Peccato che la donna non si dimenasse e non urlasse più.

“S-signora… vi p-prego…” replicò il contadino messo all’angolo “V- vi prego… almeno mio figlio…”

L’uomo aveva ritrovato la favella e un pizzico di coraggio, notò. Tuttavia non le aveva risposto. O meglio. Non le aveva obbedito.

“Abitava qui vicino. Devi conoscerlo.” continuò, sorda alle suppliche “Probabilmente quando stamani si è svegliato nel suo letto, accanto a sua moglie e ai suoi figli, ha sorriso. Ha provato gioia. O forse no. Forse ha provato debolezza. O amarezza. Stanco di lavorare la terra tutti i giorni fino a farsi sanguinare le mani. Stanco di giacere con la stessa donna da anni, di vivere in un buco fatto di fango e di essere guardato dall’alto in basso dai possidenti. Magari ha pensato di farla finita. O di rifarsi sugli altri. Oppure non ha provato niente. Affatto. Indolente, di per sé soddisfatto dall’inerzia della vita. Chissà…” fece una breve pausa, lisciò il finissimo broccato che le ricadeva sulle ossa e adocchiò i tratti della creatura in questione “Poi è calato il buio e sono arrivata io. Non si aspettava la mia visita. Non così presto. Improvvisamente tutto ha perso d’importanza. Chi era, cosa voleva e dove stava andando. Tutto. Eccetto il terrore. E l’essenziale. Così ha pianto per trarre un respiro di più. Un battito in più. Ha supplicato per accaparrarsi secondi d’esistenza. Semplicemente per sentirsi vivo il più a lungo possibile. Ha invocato…” rise “...il Luminoso. Ma non ha ricevuto grazia. È morto nella disperazione... perché non ha risposto alle mie domande.”

“Io… io non so n-niente! Mio figlio non ha fatto niente! Vi prego…”

Fece scattare nuovamente la mandibola, il collo, e il suo teschio puntò nuovamente padre e figlio. Le fiamme verdi che bruciavano sul fondo delle sue orbite scure avvamparono e crepitarono per via dell’irritazione. Di rimando l’uomo si fece più piccolo e strinse con maggiore vigore il corpo inerme del bambino. Quello strillò così forte che perfino il non morto alzò la testa dalle viscere calde.

“Non sai niente?!” sibilò Iblys, sferzando l’aria “Non sai niente!” reiterò con maggiore veemenza, finché perfino la luce della candela tremò e s’affievolì, proiettando intorno ombre tremolanti e più dense “Fiamme. Volute inestinguibili. Indomabili. Nove anni or sono hanno ingoiato il vostro villaggio, hanno devastato i vostri campi, consumato fra urla di tormento i vostri cari! La terra è ancora morta, lì dove è stata toccata. Nera. Da nove anni il sottosuolo continua a bruciare. La superficie è rovente al tocco. Pulsante. L’aria stessa che si respira in quei luoghi è torrida. Malsana. E nessuno di voi ha visto o sentito niente?!”

Uccidilo! Uccidilo subito! Da morto scioglierà la lingua. Ti obbedirà, mia Signora. Sta mentendo. Noi eravamo lì e lo sappiamo.

Inclinò il capo e poggiò elegantemente il braccio sul tavolo cui sedeva. I morti non ingannavano, ma non erano loquaci. E raramente risultavano esaustivi. Fece ticchettare le falangi mummificate sul ruvido piano e soppesò l’idea. Il tavolo era sporco, pieno di solchi e traballava spesso. Su di esso la zuppa si raffreddava, ormai abbandonata e vittima delle mosche. Uno scenario ordinario. Modesto. Improvvisamente si riscoprì stanca di giocare. La noia era da sempre sua acerrima nemica. Nemica dell’immortalità. E quel posto non si confaceva a una Signora. Forse l’eco non aveva tutti i torti...

“N-noi… siamo scappati. Prima che il fuoco raggiungesse i campi… non eravamo al villaggio. Non so c-come sia successo…”

“Chi altri.”

Il contadino tremò, boccheggiò, occhi sgranati e fissi su di lei. Sembrava confuso. E non riusciva a sostenere quanto i suoi occhi vedevano. Nondimeno era fisicamente incapace di distogliere lo sguardo. Ciò la deliziò e le conferì ulteriore pazienza. Avrebbe sorriso, comprensiva come una madre, se solo avesse avuto delle morbide labbra.

“Chi altri è sopravvissuto.” specificò quindi “Chi è uscito vivo dalle fiamme.”

Quello si passò la mano sul viso una, due volte, forse accecato dal sudore e dalla sporcizia. Poi tornò a stringere il piccolo al petto. Poteva leggere l’urgenza nei suoi gesti, poteva immaginare i pensieri che gli saettavano nella mente, le parole che gli indugiavano sulle labbra e sentire perfino il suo cuore palpitare fino allo spasmo. Gonfio di speranza. Era cauto, sì. Spaventato, anche. Ma era pervaso dalla speranza che se avesse detto la cosa giusta si sarebbe salvato. Le faceva quasi tenerezza.

“Due bambini. Dal villaggio. Un maschio e una femmina.” sputò infine il contadino “Non so come abbiano fatto. Né dove siano adesso. Un uomo, uno straniero li portò via con sé la notte della tragedia… aveva l’oro…”

È lui! Si è fatto beffe di te. Si è fatto beffe di noi. Deve pagare! Chiedigli chi è! Vogliamo conoscere il suo nome…

Le molteplici voci tacquero, disperdendosi nella sua mente. L’eco era impaziente. La comprendeva. Per anni era tornata sul luogo dell’incendio per interrogare i probabili testimoni di quanto era stato, ricavando informazioni ovvie sull’imprevedibilità e sull’inspiegabilità dell’accaduto. E quello era forse il primo indizio concreto. E utile. I villici erano sempre stati approssimativi e discordanti nelle versioni. E la paura aveva fatto il resto, trasformando i possibili indizi in suppliche. In molti avevano detto che non c’erano stati sopravvissuti. Altri avevano parlato di soccorsi, di orfani. Alcuni avevano invece spergiurato di essersi salvati grazie all’aiuto divino. Sciocchezze.

Ma l’uomo di cui l’altro parlava... Un Tessitore di Trama, indubbiamente. Come lei aveva percepito le interferenze nei filamenti di nove anni prima e le aveva seguite fino a raggiungere l’epicentro del fenomeno. L’aveva preceduta di un soffio. E le aveva sottratto quanto bramava.

L’affronto bruciava. Le fiamme dei suoi occhi crepitarono e avvamparono nuovamente, le sfilza di denti scivolarono gli uni sugli altri per l’irritazione. Con infida e falsa calma si protese sul tavolo, poggiò i gomiti sul piano e intrecciò le falangi innanzi a sé.

“Uno straniero…” sibilò “Non mi basta. Voglio un nome.”

Se possibile, il contadino si fece più cinereo e più piccolo. Poi deglutì e scosse furiosamente la testa. Era di nuovo nel panico. Probabile che non sapesse come accontentarla.

“S-signora. Vi prego… non conosco quell’uomo… non l’ho nemmeno mai visto. È stato m-mio padre a raccontarmi la storia. Ma è morto l’anno scorso di polmonite, poveretto… Al tempo ero s-solo un ragazzino e ricordo c-così poco. Vi p-prego, almeno mio figlio… almeno mio figlio…”

Iblys si ritrasse, sciolse la morsa delle dita e poggiò nuovamente contro lo schienale della sedia. Era stanca dei balbettii. Il tedio aveva infine surclassato il piacere e perfino i singhiozzi, il puzzo d’urina del moccioso cominciavano a darle ai nervi. I morti non ingannavano. L’aveva detto anche l’eco. E lei aveva già perso troppo tempo.

Sollevò il braccio e la sua obbediente creatura assecondò immantinente il comando. Con un rantolo il non morto barcollò e si rimise in piedi, le braccia penzoloni lungo i fianchi e l’espressione spenta. Vuota. Le budella della donna gli scendevano dal margine della bocca, semi masticate. Un tocco di colore che la riempiva d’anticipazione.

Di rimando il contadino tremò da capo a piedi e si guardò freneticamente attorno, forse alla ricerca di una scappatoia. Non ce n’erano. L’aveva già appurato quando si era presentata in casa sua e l’aveva messo all’angolo; ma l’istinto di sopravvivenza restava un insopprimibile e delizioso prodigio della natura. Il morto vivente era uno strumento fallibile. Tuttavia non sarebbe mai riuscito a sfuggire a lei.

Quello l’intuì l’istante seguente, perché serrò gli occhi, invocò Helientar e coprì il figlio per intero con le proprie membra. Illuso.

“Prima il bambino.” sentenziò.

Con una rapidità impensabile per un ammasso di tessuti in decomposizione, la creatura protese le braccia, spalancò le fauci e si scagliò sui viventi alla stregua di un animale selvatico. E implacabile. Le strilla risuonarono nella notte. Sembravano quelle di un maialino da latte, ponderò.

Mentre tornava a ticchettare con le falangi sul vecchio, consunto tavolo, ammise nuovamente fra sé che la mortalità le riservava sempre degli spettacoli meravigliosi.
 
Salve! Dopo un millennio torno a pubblicare questa vecchia storia, che ho rivisto e riscritto da capo. Perché sono masochista. E perché faceva schifo. Lol. Questo è il prologo. E mi farebbe piacere sapere che cosa ne pensate. Non solo, mi sarebbe davvero d'aiuto per capire in che direzione sto andando. Mi rendo conto che è crudo. Tuttavia spero che risulti quantomeno interessante. Perciò vi chiedo... continuereste a leggere questa storia? Oppure scappereste urlando? ^^'
Come informazioni generali posso dire che la storia consterà di capitoli lunghi. E di aggiornamenti non costanti. Sto cercando di fare le cose per bene, stavolta, perciò ho bisogno di tempo per documentarmi e scrivere. Alla prossima!
CompaH

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Capitolo 2
*** Capitolo 1 - Mezzosangue ***


 Capitolo 1 - Mezzosangue
"Ehi, stupratore! Tu con i capelli biondi."
La voce gracchiò, ma Calardir non gli prestò attenzione. Accumulò con le mani la polvere che stava nell’angolo della cella, sul pavimento, e ne afferrò un pizzico fra indice e pollice. Se la portò innanzi al viso, sfregò le dita e la lasciò ricadere lentamente al suolo, analizzandone con accuratezza la discesa. Si umettò le labbra; dopodiché recuperò quanta più polvere possibile e se l’infilò in tasca.
"Non ho idea di cosa tu stia facendo, ma potresti condividere le tue gesta. Com'erano i fianchi della puledra? Scommetto che era selvaggia. Mordeva e scalciava, vero? Ah, che darei per una cavalcata così..."
Calardir sollevò svogliatamente lo sguardo. Un vecchio coperto di stracci s'affacciava dalla cella dirimpetto, con le braccia penzoloni oltre l'inferriata e il viso rugoso poggiato fra le sbarre. Sembrava uno spaventapasseri per quanto era logoro, sporco e magro. Le ombre gli si proiettavano nette sul viso spigoloso, nascondendogli gli occhi e mettendogli in risalto le sopracciglia irsute, il naso grosso e la bocca sdentata, in quel momento piegata in un sorriso sghembo. Barba e capelli erano invece radi, giallognoli e contribuivano a dargli un’aria malsana.
L'aveva già visto quella mattina ai margini della strada, gettato tra la polvere a chiedere l'elemosina. Quando si era rifiutato di allungargli moneta, il vecchio gli aveva chiesto della birra. L'odore pungente dell’alcol e del sudore terribilmente mescolati gli fece contrarre lo stomaco al semplice ricordo.
"Falla finita, Cheslav. E' di Pavla che stai parlando. Suo cugino è qua fuori. Se ti sente ti fa saltare via quei quattro denti che ti ritrovi e ti butta di nuovo in mezzo alla strada. Se tiri le cuoia durante la notte non ci dispiace. E a quella vacca di tua moglie nemmeno."
Era stato un secondo uomo a parlare, ma da dove si trovava non poteva individuarlo. Irrilevante, comunque. Calardir si alzò e si diresse al pagliericcio. Voleva solo dormire un po’ e recuperare le forze. Si sdraiò, si sistemò il braccio dietro la testa e si avvolse nel mantello. Con la mano libera, invece, si calcò maggiormente il cappello a tesa larga sulla testa e celò la parte superiore del viso.
"Ehi, non fare lo gnorri!" gracchiò ancora il vecchio, sordo agli avvertimenti del compare "Da dove arrivi? Non ci sono belle donne dalle tue parti? Tu non sei di qui. Io conosco tutti e tutti mi conoscono. Ma a te, caro mio, non ti ho mai visto prima."
Calardir sospirò.
"Mio buon signore, la tua sicurezza mi stupisce, perché bevendo di giorno e soggiornando in prigione di notte è più probabile che tu non riesca a distinguere un asino da un cane." replicò quindi, senza muoversi.
Il vecchio rise, asmatico. Poi scatarrò.
"E' per questo che quella vacca di mia moglie m'ha buttato fuori di casa. Ma tu, stupratore... tu sei giovane, alto, biondo. Sembri uno di quei damerini Thyatiani che vivono nella capitale, con gli stivali di cuoio e i mantelli bordati di pelliccia. Li ho visti una volta, a cavallo, mentre tornavano a Mirroden. Perfino le bestie che cavalcavano erano vestite meglio di me, con le gualdrappe rosse e blu. Certo il tuo mantello è logoro e i tuoi stivali sono sporchi, ma in un buco come questo non passi inosservato."
“Non sono uno stupratore.”
Il vecchio rise di nuovo, sputazzando e tossendo. A sentirlo sembrava che potesse stramazzare al suolo stecchito da un momento all’altro.
“Certo. Dillo ad Erofey!” si intromise l’uomo di cui conosceva soltanto la voce “E’ il cugino di Pavla e il figlio del fabbro. Quando non è di guardia lavora alla forgia. Ha le braccia grosse come prosciutti e la testa dura come l’incudine su cui batte il ferro. Dovresti giocarci a dadi. Non sa perdere.”
Istintivamente Calardir si portò la mano sulla faccia e si massaggiò la mandibola. Sotto il velo di barba, si stendeva un gonfiore diffuso e pulsante. Ogni volta che cambiava espressione la pelle tirava e doleva. Perfino parlare era fastidioso.
“Conosco i suoi pugni.” commentò, concedendosi ugualmente un mezzo sorriso “Parola mia, è un peccato che il suo intelletto non sia altrettanto svelto.”
Dei lamenti improvvisi coprirono le sue ultime parole. Provenivano da fuori e dal tono acuto sembravano quelli di un bambino, ma dirlo con certezza era impossibile. Anche perché ad accompagnare gli strilli c’era un gran fracasso e la voce grossa dei carcerieri, che ridevano e imprecavano fra loro.
“Quella peste di Orest. Stavolta Maksim l’ha preso con le mani nel sacco e l’ha spedito dritto qua.” commentò il vecchio.
“Maksim esagera, le verdure che coltiva sono sempre abbondanti. E quel figliolo deve pur mangiare.” soggiunse l’altro, come se fosse la cosa più naturale del mondo.
Orest doveva essere l’ennesimo disperato. Forse un bambino senza genitori che viveva alla giornata. Senza contare che anche Cheslav e compare avevano poco a che vedere con i borseggiatori e i tagliagole cui era abituato.
Infine, con un sinistro cigolio, la malandata porta di legno che l’aveva lì condotto s’aprì. Seguirono passi, altri piagnistei e rumori di trascinamento lungo il passaggio fra le celle. Il vecchio, probabilmente ancora affacciato all’inferriata, rise e tossì. Poi disse: “Ehi, non è Orest.”
“Vi prego, non sono stato io! Sono innocente! Innocente!”
“Qui lo siamo tutti. Io non sono un ubriacone molesto, Pyotr non è un ladro di polli e il biondo è casto e puro come un sacerdote di Helientar.” convenne Cheslav, mentre il nuovo venuto strepitava a squarciagola.
“Dico la verità! Mi trovavo lì per caso! Sono di passaggio e non ho idea di come quella roba sia finita nella mia borsa. Non potete rinchiudermi se non ho fatto niente! Chiedete a tutti, in taverna. Sono una brava persona! Ho saldato il conto e non ho dato fastidio a nessuno. La moglie dell’oste lo sa!”
“Adesso basta, nanerottolo. Mi hai preso per uno stupido? La tua vocetta stridula non ti salverà.” intervenne la guardia.
Calardir non si mosse e attese, perché a giudicare dai suoni l’improbabile coppia si era fermata proprio innanzi alla sua cella. Il tintinnio del mazzo di chiavi, la serratura che scattava e la gabbia che s’apriva cigolando gliene diedero conferma. Subito dopo percepì anche un tonfo e un lamento strozzato. Probabile che il carceriere avesse gettato al fresco il nuovo ospite senza un minimo di riguardo. Quello singhiozzò pietosamente alla stregua di un bambino e soggiunse: “E’ va bene… sono stato io. Ma sono pentito. Restituirò tutto, perciò… per questa volta chiudete un occhio e fatemi uscire.”
Il silenzio seguì la confessione, unicamente interrotto da Cheslav che tossiva e scatarrava di tanto in tanto. Poi i cardini cigolarono nuovamente, la gabbia si richiuse con un tonfo e la guardia rigirò più volte la chiave nella serratura prima di andarsene senza nulla aggiungere.
Dal pagliericcio Calardir sollevò di un poco il cappello e puntò il compagno di gattabuia, che se ne stava inginocchiato fra la polvere con la schiena curva e il capo chino. La corporatura era effettivamente quella di un bambino, ma ormai dubitava che si trattasse perfino di un umano. Sembrava realmente disperato. Ciononostante, quando quello si voltò e ricambiò il suo sguardo, gli fu impossibile non notare la maliziosa scintilla insita in quegli occhi. O il sorriso impertinente che gli piegava le labbra. Imbroglione.
Con un movimento fluido l’altro si rimise in piedi e si spazzolò rapidamente calzoni e casacca, laddove erano rimasti impolverati; dopodiché gli si avvicinò saltellando. Di rimando inarcò il sopracciglio e continuò a studiarlo, certo di essere studiato.
“Un altro straniero.” osservò invece il dirimpettaio “O forse dovrei dire un mezzo straniero? Ci dispiace, ma in questo buco dimenticato dagli Dei non abbiamo donne alla tua altezza!”
La risata asmatica di Cheslav risuonò ancora una volta per l’ambiente, ma il piccoletto non sembrò badarvi.
Il vecchio non ci era andato lontano, comunque, perché più analizzava le fattezze del nuovo venuto, più riconosceva in lui i tratti tipici dei mezzuomini. Doveva essere abbastanza giovane, ma non poteva darlo per scontato. A dispetto del viso pieno, liscio e della corporatura minuta era plausibile che avesse alle spalle molti più anni di lui. Era sporco e in disordine, ma indossava abiti verdi e marroni di ottima fattura. A protezione del torso portava invece una corazza leggera di cuoio bollito, anch’essa in perfette condizioni. Calzava stivali alti di pelle scamosciata e guanti dello stesso materiale che gli lasciavano scoperta la punta delle dita. Presumibilmente era un accorgimento che gli permetteva di conservare maggiore sensibilità e libertà di movimento. Spostò l’attenzione sul viso del mezzuomo. Espressione sveglia, capelli scuri ed arruffati, orecchie leggermente a punta, pelle ramata e due grandi occhi castani che trasmettevano al mondo una curiosità smisurata. Era furbo, forse infido.
Tornò a infilarsi il cappello fin sopra gli occhi. Poteva ricordare i lord di Mirroden per l’altezza e per il colore dei capelli, come diceva Cheslav, ma quel nanerottolo se la passava decisamente meglio di lui. Se era un ladro, si trattava di uno specialista e come minimo apparteneva a una gilda dai proventi importanti.
“Se ti addormenti lì sopra prenderai le pulci.” esordì il mezzuomo.
Calardir non rispose.
“Sai, questa è la prima volta che riescono a catturarmi.” continuò quello, ridacchiando.
“Sciocchezze. Ti sei lasciato acciuffare di proposito. Anzi, è da quando hai messo piede qui dentro che stai dando esclusivamente spettacolo. Quello che mi chiedo è perché.” ribatté.
“Perspicace.” commentò l’altro in tranquillità “Sai, nella vita bisogna divertirsi e ognuno ha i propri passatempi. C’è chi intaglia il legno, chi va a caccia… Tu invece? Non hai l’aria del mendicante di strada, del rissaiolo da taverna o del mero contadino di campagna.”
“Ne convengo, ma tu hai indubbiamente l’aria del borseggiatore.”
“Del mago.” lo corresse il mezzuomo.
Quella precisazione lo colse impreparato e gli fece addirittura dischiudere le labbra per la sorpresa.
“Questa non se la beve neanche un ubriacone come me. Se tu sei un mago io sono Falgorn, il drago d’oro! Di maghi veri non ne ho mai visti da queste parti e mai ne vedrò, per fortuna. Di ciarlatani, invece, è pieno il mondo.”
Calardir scosse la testa. Cheslav poteva essere un beone, ma non era uno stupido. Sollevò il busto, si mise a sedere a gambe incrociate fra la paglia e si tolse anche il cappello; di riposare aveva perso la voglia oltre che la speranza. Di sicuro quel piccoletto non era un Tessitore di Trama nel vero senso del termine, ma sapeva il fatto suo. Intanto era riuscito ad attirare la sua attenzione.
“Il buon signore laggiù ha ragione.” disse.
Il mezzuomo non replicò alle obiezioni. Fissò prima il vecchio oltre le sbarre e poi lui, passandosi l’indice di traverso sotto il naso. Infine gli si avvicinò ulteriormente, occhi luminosi. Tese il braccio, compì una piccola, quasi impercettibile rotazione del polso e come per magia un Reale d’argento gli comparve sul palmo della mano. Il mezzuomo se lo rigirò velocemente fra le dita, lasciandolo scivolare prima in un verso e poi nell’altro sulle falangi, per poi compiere un’altra rotazione del polso e farlo nuovamente scomparire fra le pieghe della manica.
La scioltezza con cui aveva effettuato il gioco di prestidigitazione era stata impressionante, ma tenne per sé l’apprezzamento. Ciononostante la bocca gli si piegò brevemente in un sorriso  spontaneo.
“Illusionista è uno dei miei appellativi. Tu puoi chiamarmi Destro.”
“Sei mancino.” osservò.
“E’ vero. Ma sono anche abile. Se preferisci, comunque, puoi usare il nome Scheggia. Per la rapidità, sai.” spiegò il mezzuomo, senza che gli fosse stato chiesto “Cos’è il segno nero che porti sugli occhi? Pittura? Ho visto qualcosa di simile sui cacciatori elfi delle foreste, a Nord. Ma tu sei un umano. E non sei un cacciatore.”  
“Devi aver viaggiato molto. Le foreste a Nord sono lontane.”
Destro inclinò il capo e tacque per un po’, sopracciglio alto. Lo stava studiando fin dal principio e con molta probabilità aveva già notato che evitava con accuratezza tutte le domande.
“Non quanto mi piacerebbe.” commentò infine.
“Perché sei venuto proprio qui?”
“Potrei chiederti la stessa cosa. Ti ripeto che non hai l’aria del contadino.”
Stavolta si era messo le mani sui fianchi. Lo conosceva da poco, ma dalla nuova postura e dall’espressione accigliata capiva perfettamente di averlo spazientito. Forse indispettito. Doveva essere un tipo permaloso. Non poteva biasimarlo, comunque, dacché non si era nemmeno presentato. Tuttavia trovava che fosse buffo così impettito, specie se si considerava la stazza minuta e i lineamenti quasi infantili del viso. Più che minaccioso sembrava capriccioso, ma gli aveva già dato dimostrazione di essere tutt’altro che sprovveduto. Presumibile che tagliasse gole con la stessa precisione e la stessa rapidità con cui faceva sparire le monete. Chissà se…
“Sto cercando una persona.” rispose quindi, continuando a valutarlo a sua volta.
“Ma sei rinchiuso qui. Che hai combinato?”
Cheslav ridacchiò e si lasciò scappare qualche commento piccante a proposito dei fianchi di Pavla. Stavolta Pyotr non ribatté. A giudicare dai grugniti sempre più forti, doveva dormire della grossa già da un po’. In qualche modo il ladro di polli era riuscito laddove lui aveva fallito, realizzò.
“E’ una storia noiosa.”
Destro si strinse nelle spalle; poi gli si accomodò di  fianco, sul pagliericcio, e tornò a puntarlo dal basso verso l’alto, in attesa.
“Non ho niente di meglio da fare. E tu nemmeno.”
Rise.
“Hai ragione.” convenne “Vedi, mi piacciono le donne. E io piaccio alle donne. La maggior parte delle volte, almeno. Non c’è niente di male in questo. E’ una cosa sana e naturale. Insomma, nella vita bisogna divertirsi e ognuno ha i propri passatempi, giusto?”
“Giusto.”
“Ma stavolta sono incappato nella ragazza sbagliata… Bel visino, curve al posto giusto… non so se mi spiego…”
 “No.”
 “Lascia perdere. L’ho notata al mercato. Ci siamo scambiati degli sguardi. Mi si è avvicinata e mi ha chiesto se volevo comprare uno dei suoi mazzolini. C’erano margherite, genziane e ginestre selvatiche. Le ho risposto che il fiore che mi piaceva non era fra quelli. Ha sorriso. Andava tutto bene… finché ci siamo appartati dietro la stalla della taverna.”
“Che è successo?”
“Il padre di lei mi ha beccato con le mani fra le sottane della figlia. E ho scoperto che era vergine e pure promessa in sposa a un tale dall’altra parte del Verdarzillo. Avrei dovuto immaginarlo, visto come arrossiva. Ma sul momento ho pensato solo che fosse molto carina. Dopotutto conosco donne di mestiere che fanno questo e quell’altro e sono il ritratto dell’innocenza…”
“Le femmine portano solo guai, dico sempre io. O ai pugni, in questo caso. E’ stato il padre?”
“Il cugino.”
Calardir scrollò le spalle e tacque. Dacché si trovavano in una fetida gattabuia dalle pareti umide e dall’aria stantia, il resto della storia era abbastanza scontato. In più non era tipo da menar le mani e a quel cazzotto non aveva nemmeno risposto. In fin dei conti non voleva attirare l’attenzione più di quanto avesse già fatto.
“In pratica te la sei scopata sì o no?”
La domanda schietta di Cheslav giunse inaspettata. Si concesse un mezzo sorriso e sospirò. Poi il cigolio della porta gli lasciò intuire che qualcun altro stava per sopraggiungere. Le guardie, probabilmente. Diresse lo sguardo oltre le sbarre, sulla porzione di camminamento che si vedeva dalla cella. Un primo uomo, corazza di cuoio borchiato a copertura del torace, daga alla cintura ed elmetto malandato di bronzo sulla testa, si approssimò a Cheslav con una scodella colma di brodaglia. Il vecchio ringraziò e allungò le braccia scarne per afferrare quanto l’altro gli porgeva.
Il cugino di Pavla comparve subito dopo e si parò innanzi alla gabbia che l’ospitava. Di conseguenza un’ombra grande e scura si proiettò all’interno e l’investì. Calardir schioccò le labbra e fissò l’altro negli occhi, nient’affatto sorpreso. O intimorito. Erofey era equipaggiato come l’altra guardia, ma era più grosso. Più di quanto ricordasse, in effetti. Di sicuro Pyotr non s’ingannava paragonando le sue braccia a dei prosciutti. Quando perdeva ai dadi doveva indubbiamente essere una spina nel fianco, irascibile com’era. Percepì il mezzuomo irrigidirsi, forse impensierito dalla stazza dell’energumeno, ma dal canto suo non si scompose. Ciò sembrò irritare particolarmente Erofey, che aggrottò la fronte, disegnò una smorfia ancora più dura sulle labbra e grugnì; poi allungò una scodella di brodaglia oltre le sbarre.
“Prendi, piccoletto.” tuonò.
Destro abbandonò cautamente il pagliericcio e obbedì, adocchiando talora l’uno e talora l’altro con occhi luminosi e attenti. Non ci avrebbe messo la mano sul fuoco, ma non sembrava che la situazione lo preoccupasse come invece dava a vedere. A dirla tutta pareva quasi che stesse sorridendo sotto i baffi. Imbroglione, pensò; per la seconda volta da che si erano incontrati. Tralasciò la questione e tornò a concentrarsi su Erofey, che sputò con risentimento nella brodaglia a lui destinata.
“Questa è per te, schifoso, così impari a tenertelo nei pantaloni!"
Ciò detto l’energumeno scaraventò la scodella all’interno, versandone il contenuto quasi per intero sul pavimento. Fece spallucce.
“Comprendo il tuo turbamento, ma non puoi farmene una colpa.” ribatté “E’ evidente che il promesso sposo di Pavla non è questo granché. La poveretta avrà pensato bene di consolarsi altrimenti. Avrei forse dovuto negare il mio virile aiuto a una fanciulla bisognosa come lei?”
Erofey sfoderò un’espressione inebetita e non reagì. Probabile che non avesse afferrato in pieno il senso di quanto gli aveva detto; ma impiegò poco per giungerne a capo. Dall’altra parte del passaggio Cheslav rise, tossì e scatarrò come se dovesse sputare i polmoni. Anche Destro doveva aver arricciato le labbra verso l’alto, perché vide finalmente la rabbia accendersi e bruciare negli occhi di Erofey, che di rimando gonfiò i muscoli fino allo spasmo. Tremava addirittura, pervaso da una frenesia improvvisa e quasi animalesca che, sperava, l’avrebbe spinto a mettergli le mani addosso. Dopotutto se voleva tirargli il collo doveva necessariamente aprire la gattabuia; e non per una manciata di istanti come già accaduto in precedenza.
“Figlio di puttana! Ti mozzerò la lingua e te la farò ingoiare! Pavla è una ragazza perbene e tu hai approfittato di lei! Se speri di andartene sulle tue gambe ti sbagli di grosso! Non dopo quello che hai detto! T’insegno io a portare un po’ di rispetto!”
L’energumeno si scagliò contro l’inferriata e la fece vibrare violentemente. Per un attimo pensò che l’avrebbe buttata giù e vi sarebbe passato direttamente sopra come un behemoth imbizzarrito. Non se ne sarebbe stupito, comunque. Invece quello mise mano al fitto mazzo di chiavi esattamente come aveva pianificato e fece per aprire la cella. Tuttavia, prima ancora che potesse mantener fede ai propositi, l’altra guardia intervenne e si frappose nel mezzo.
“Ignoralo.” fece il carceriere, dando al compagno una sonora pacca sulle spalle “Abbaia perché è un cane in gabbia. Lascialo nel suo piscio per i prossimi quattro giorni e vedi come abbassa la cresta.”
Calardir non aveva intenzione di restare lì per tutto quel tempo, ma gli altri non potevano saperlo. Erofey continuò a guardarlo con occhi di brace, forse indeciso sul da farsi; poi grugnì e si allontanò, seguito a ruota dall’altro. I passi si allontanarono, la porta di legno girò sui cardini, stridette e infine si richiuse con un tonfo.
“Non sei un damerino Thyatiano. E forse non sei nemmeno uno stupratore. Ma sei senza ombra di dubbio un pazzo.” commentò Cheslav.
Destro invece lo scrutò con attenzione; poi disse: “No, non lo è.”
Ignorò sia l’uno, sia l’altro e abbandonò il pagliericcio. Raggiunse la ciotola abbandonata a terra, la raccolse e mandò giù la brodaglia in un sol sorso. Sapeva di verdure e pollo annacquati, ma almeno era calda. Si disfece della scodella e si rivolse al mezzuomo.
“La mangi quella?”
Destro fissò la squallida broda che teneva fra le mani. Arricciò il naso e gli porse la propria razione.
“Non ci penso nemmeno. Anzi, non so con che coraggio tu riesca a mandarla giù.”
“Basta far finta che sia zuppa di fagioli. Con il pane all’aglio e il rosmarino.” rispose, bevendo avidamente quanto ottenuto “Oppure basta essere a digiuno da giorni. Sai, ho perso al gioco i miei ultimi Reali. Parola mia, credo che ora come ora addenterei anche un topo di fogna, crudo e con tutta la pelliccia.”
“Usciamo da qui e ti offro la cena. Conosco una taverna dall’altra parte del Verdarzillo che fa un’ottima minestra di ceci. Con la salvia, il prezzemolo e un pizzico di cannella. La parte migliore è inzupparci dentro il pane. Più è raffermo, più è buono. In cambio dimmi il tuo nome.”
Calardir adocchiò il mezzuomo, soppesando la proposta. Non si fidava completamente di lui, ma in qualche modo avevano attirato ognuno l’interesse dell’altro. Nella situazione in cui si trovava, poi, poteva tornargli utile; e non soltanto per evadere di prigione.
“Uscire?!” si intromise il vecchio, tossendo “E come? Se ci riesci, comunque, io mi chiamo Cheslav Didimiv. Non te lo dimenticare!”
“Basta gracchiare! Ecco perché stai sullo stomaco di tutti, corvaccio della malora. Presto tirerai le cuoia, dovresti piuttosto risparmiare il fiato. Così quella vacca di tua moglie non si mette troppo comoda! Lei e quella palla di lardo di tuo figlio.”
Pyotr si era svegliato. Con tutto il baccano che avevano fatto non c’era da stupirsene, specie se si consideravano le urla di Erofey. O forse era stato solo l’odore di brodo a rendergli i sensi. Cheslav ribatté che la palla di lardo in questione era la testimonianza che i suoi lombi erano stati sani, mentre i polli che l’altro rubava avrebbero potuto raccontare solo che sordide storie. Rise e scosse la testa; poi tornò al mezzuomo.
“D’accordo. Tirami fuori e ti dico il mio nome.” fece, incrociando le braccia al petto.
Era sinceramente curioso di sapere come avrebbe fatto e se l’abilità che tanto vantava avrebbe avuto ragione delle solide sbarre. Destro non si scompose, andò al pagliericcio, vi si accomodò e cominciò a sfilarsi uno degli stivali. Inarcò il sopracciglio, chiedendosi cosa celasse lì dentro. Tuttavia quando l’altro estrasse dalle calzature tensore e grimaldello non si stupì.
“Volevi sapere perché avessi dato spettacolo. E’ semplice. Perché essere sopravvalutati non è sempre vantaggioso, anzi. I più non si guardano le spalle da pusillanime e mentecatti. Inoltre le mie strilla sono fastidiose. Si sono sbarazzati di me in tutta fretta e mi hanno gettato in gattabuia senza nemmeno una perquisizione.”
“Resta un azzardo. Ci sono prigioni più sicure e guardie più sveglie. Cosa avresti fatto se non avesse funzionato?”
“Avrei provocato il più sciocco fra i carcerieri e sarei sgusciato via alla prima occasione. Con la differenza che sono più piccolo e più agile di te.” ribatté.
Calardir rise.
“Adesso sei tu che mi stai sottovalutando.” soggiunse.
Destro non rispose, raggiunse l’inferriata, posizionò il tensore nella serratura e subito dopo vi inserì anche il grimaldello. L’osservò mentre tastava accuratamente le molle del congegno con la punta uncinata, tendeva l’orecchio e ne ascoltava le piccole sfumature di rumore. I suoi tocchi erano leggeri, rapidi e precisi, come se non impiegasse il minimo sforzo nell’impresa. Eppure bastava guardarlo in faccia per notarne l’effettiva concentrazione. Di tanto in tanto si fermava, frustrato, e lanciava occhiatacce in direzione di Cheslav che tossiva, sputava e inveiva dietro a Pyotr. Di sicuro il vecchio non gli rendeva più facile il lavoro. Poi, d’improvviso, il mezzuomo infuse la giusta pressione al grimaldello e lasciò ruotare il tensore. Di rimando la serratura scattò e la porta della gabbia s’aprì di uno spiraglio.
Destro estrasse gli arnesi da scasso e li fece volteggiare brevemente tra le dita, prima di occultarli da qualche parte fra i vestiti. Poi si passò con soddisfazione l’indice sotto il naso e lo guardò. Era stato talmente rapido che non era riuscito a capire nemmeno il movimento delle sue mani. Calardir recuperò il cappello e lo raggiunse in prossimità dell’uscio, ma quando fece per avviarsi al camminamento quello gli piantò il palmo sullo sterno e lo fermò.
“Andrò io. Mi nasconderò dietro ai barili di fianco alla porta. Quando sono arrivato stavano già bevendo birra. Non mi noteranno nemmeno. Recuperare armi e bagaglio sarà un gioco da ragazzi. Energumeno e compagni si accorgeranno di quello che è successo soltanto quando passerò loro la lama da un orecchio all’altro.”
“Erofey non è affar tuo. Non c’è bisogno di spargere sangue.” ribatté.
Ciò detto lo scansò dalla traiettoria e proseguì. Destro barcollò indietro di un paio di passi, ma non gli prestò ulteriore attenzione. Anche quando quello lo richiamò con un secco “ehi”, probabilmente risentito. Abbandonò la gattabuia e percorse a passo svelto il corridoio fra le celle. Infilò la mano in tasca e afferrò un pugno di polvere. Si concentrò e man mano sentì il calore animarsi e ribollire dentro di sé. Deglutì, trasse regolari, profondi respiri e trattenne il naturale impeto della cosa, concentrando il flusso incandescente sulla punta delle dita.   
“Ci è riuscito davvero! E’ fuori! E’ fuori!” urlò Cheslav di lontano.
Raggiunse la porta di legno che dava sulla stanza attigua, deciso a sistemare la questione una volta per tutte. A modo suo, ovviamente. Non si preoccupò di passare inosservato, semplicemente spalancò l’uscio e lo varcò. Prevedibilmente gli occhi dei presenti gli si appuntarono addosso. Una delle guardie lasciò cadere sul tavolo il boccale di birra che teneva in mano, espressione inebetita e bocca aperta. Il liquido scrosciò a terra e si spanse fra la polvere. Un altro fra gli uomini balzò invece in piedi e balbettò qualcosa a proposito del come, del quando e del perché. Ma Erofey impiegò decisamente meno a sopraffare la sorpresa e ad estrarre la daga, spingendo il tavolo da un lato per farsi strada. Dopotutto stava aspettando quel momento dalla prima volta che si erano visti, dietro la stalla della taverna. Chissà quanto gli sarebbe piaciuto affondargli la lama nel costato…
Sentì i passi di Destro raggiungerlo di volata, mentre l’effetto sorpresa svaniva e tutti i carcerieri, abbandonati panche e boccali, sguainavano le armi e si predisponevano allo scontro. Di conseguenza la cerchia gli si strinse innanzi e gli tagliò le possibili vie di fuga. Il mezzuomo doveva essere realmente preoccupato, ora che non poteva agire nell’ombra e si trovava faccia a faccia con avversari grossi il doppio di lui. Non si sarebbe stupito se avesse tentato la fuga, lasciandolo da solo alla mercé di Erofey.
“Non so come tu abbia fatto, ma stavolta non te la cavi! Sei disarmato, cosa puoi fare? Niente! Sei pazzo, oltre che un uomo morto!” tuonò il cugino di Pavla, muscoli gonfi e vene sul collo.
Sorrise, sprezzante. D’altro canto percepì Destro trattenere il respiro. Poi scansò i lembi del mantello con un gesto secco e scoprì le braccia. Le mani gli formicolavano, ormai. I presenti sussultarono appena, confusi; ma non diede loro il tempo di capire, ammesso che potessero. Si portò la mano e la polvere innanzi al viso, rilasciò l’energia accumulata e la soffiò addosso agli avversari. Dopodiché cantilenò velocemente la formula necessaria e svolse in scioltezza la giusta sequenza di gesti. Il suono della sua voce divenne improvvisamente duro, profondo, quasi gutturale e si disperse stentoreo nell’ambiente, come se a parlare fosse qualcun altro. Qualcuno di più antico.
Confuso, quasi spaventato, Erofey si scagliò contro di lui in un ultimo, disperato tentativo di sopraffarlo; ma quando il silenzio calò improvviso nella stanza, l’uomo precipitò al suolo profondamente addormentato assieme ai compari. La daga che quello impugnava scivolò e roteò sul pavimento con un sordo rumore metallico, fermandosi poco più in là. Innocua.
Si voltò appena in direzione del mezzuomo e lo esortò a passare per primo con un elegante cenno della mano.
“Dopo di te. Stai solo attento a dove metti i piedi.”
Sonori grugniti andarono a sovrapporsi al suono della sua voce. Una fra le guardie si grattò perfino l’ascella e si rigirò mugugnando dall’altro lato, forse in cerca di una posizione più comoda. Destro invece non si mosse. Aprì la bocca una volta, poi una seconda, finché trovò il fiato e le parole che cercava.
“Sei un mago. Uno di quelli veri, intendo. Di quelli che tessono la Trama e fanno gli incantesimi.” fece, passandosi la mano fra i capelli arruffati; poi saltellò fra i corpi stesi al suolo “Dormono tutti. Eccetto il vecchio e quell’altro. Sono cascati a terra come pesci senza lisca. Come hai… no, lascia perdere. Non avevo mai incontrato un mago, prima. Non uno di quelli veri, almeno. Si dice che siate in grado di rianimare i morti e di far piovere frecce di fuoco dal cielo. E’ così?”
Per la prima volta da che si erano incontrati, fra la sorpresa e la curiosità, nell’espressione del mezzuomo lesse anche un pizzico di genuino timore. Era più serio rispetto a prima e lo osservava con una certa dose di cautela. Niente d’inaspettato, comunque. Dopotutto uomini e donne capaci di manipolare la Trama e di usarla a proprio piacimento erano comunemente temuti in tutto il regno di Kratos. A ragione, riteneva.
“I maghi così potenti sono rari. E sono vulnerabili come gli altri uomini, se colti di sorpresa.” commentò; poi si strinse nelle spalle “Ho studiato la Trama, sì. Ma questo non fa di me un mago. Il mio potere è… diverso.”
“Diverso…”
Destro ripeté e soppesò la parola, mani sui fianchi e sopracciglia aggrottate. Stava riflettendo e presto sarebbe giunto all’ovvia e inevitabile conclusione. Ma quanto avrebbe realizzato non sarebbe servito a tranquillizzarlo. Ciononostante, quando il mezzuomo sollevò su di lui i grandi occhi castani, restò stupito: era greve, profondo, ma in quello sguardo non c’era effettiva paura; solo piena consapevolezza e nuova determinazione.
“In altre parole sei uno stregone. Un mezzosangue. Stirpe di Drago. Di voi si dice anche peggio.”
“Sono solo leggende.”
“Nella penombra della cella sei riuscito a ingannarmi, ma ora lo vedo chiaramente. I tuoi occhi sono del colore dell’ametista. E io non ho mai incontrato pupille simili, né fra gli uomini, né fra gli elfi.”
“Ti turbano?”
“Meno di una femmina tra i piedi.”
Senza mai staccargli gli occhi di dosso Destro l’aggirò, superò il corpo di Erofey con un balzo e si piazzò agilmente in prossimità della porta.
“Dovevo scappare quando hai affrontato le guardie. Che hai intenzione di fare adesso? Perché mi hai detto queste cose? Avresti potuto addormentarmi assieme agli altri e dileguarti nella notte. Chiunque con un po’ di sale in zucca ti denuncerebbe alla milizia, sapendo quello che so io. La pena per quelli come te è la morte. Se ti prendessero ti mozzerebbero le mani, la lingua e ti metterebbero al rogo l’indomani stesso, lasciando esposti i resti.”
“Tu non lo faresti.”
“Io non sono uno sciocco. Ma vedo che l’eventualità non t’impensierisce. Hai forse intenzione di uccidermi? Altrimenti parla chiaro.”
Destro scivolò di un altro passo verso la porta. Non gli interessava più di recuperare né il bagaglio né le armi, ma si era assicurato la via di fuga più breve. Se avesse fatto anche il più piccolo, avventato gesto l’avrebbe si sicuro visto schizzare fuori alla velocità del fulmine per mai più ritrovarlo. Saggio, da parte sua. Ma era anche un mezzuomo curioso, oltre che intelligente, e voleva delle risposte.
“A dispetto delle leggende, non amo gli inutili spargimenti di sangue. Inoltre ti ritengo abile ed estremamente sveglio. Eppure il rischio non ti spaventa. Ti eccita, semmai. Per questo sei qui a temporeggiare, per questo vuoi sapere. E io ho ancora un nome da dirti e un affare da proporti. Altrimenti stai pur certo che saresti già steso a terra assieme agli altri. Perché non ne discutiamo davanti alla minestra di ceci che mi hai promesso?”
Destro inarcò il sopracciglio e lo studiò ancora per un po’, forse indeciso se credergli oppure no. Poi si rilassò e sciolse i muscoli di braccia e gambe, assumendo una posa leggermente meno rigida. Tuttavia non si allontanò dall’uscita. Né alleggerì la serietà dei tratti.
“Non così in fretta. Dopotutto non so ancora come ti chiami. Inoltre, che ci faceva uno stregone sdraiato in gattabuia?!”
“Avevo fame. Stavo aspettando l’ora di cena.”
“Sei assurdo.”
“Più assurdo di un borseggiatore che si fa imprigionare per divertimento?” ribatté, arricciando le labbra verso l’alto.
Destro scosse la testa e rise di rimando. Ciononostante lo vide esitare ancora, combattuto forse fra l’istinto, la ragione e l’indubbia curiosità. Il mezzuomo impiegò poco per giungere a capo dei dubbi, perché subito dopo tornò sui propri passi e si diresse sul lato opposto della stanza, dove una grossa pila di cianfrusaglie stava accatastata in un angolo di fianco ai barili, oltre la tavola rettangolare. Capitava assai di rado che qualcuno gli concedesse fiducia. Specie sapendo ciò che Destro sapeva. Rilasciò un piccolo sospiro e sorrise fra sé, soddisfatto. L’accompagnò con gli occhi, mentre frugava attentamente fra il ciarpame e rinveniva quanto gli era stato sottratto in precedenza: cintura e pugnale, bagaglio in pelle e balestrino leggero di ottima fattura.
Calardir valutò brevemente l’attrezzatura del mezzuomo, poi distolse lo sguardo e si approssimò all’uscita. Aprì la porta e un refolo l’investì, facendogli ondeggiare le pieghe del mantello. Era sera inoltrata ma l’aria non era fredda. Frizzante era forse il termine giusto per descriverla. Si calcò meglio il cappello sulla testa e uscì in strada. I dintorni erano bui, deserti e le facciate delle case apparivano grigie e fredde. Da qualche finestra s’intravedeva appena la fioca luce di un focolare. Sollevò il naso per aria e si soffermò a guardare il cielo, dove le stelle occhieggiavano languide. Pellegrino doveva essere nei dintorni e presto o tardi si sarebbe fatto vivo. Fischiò forte, per chiamarlo. Di rimando un’ombra saettò sopra i tetti e gli coprì la visuale per pochissimi istanti. Era stato fortunato e l’aveva trovato prima del previsto. Sollevò il braccio e attese. Destro lo raggiunse in strada che il falco era già calato e gli aveva saldamente affondato gli artigli nel guanto, accaparrandosi il sostegno con un verso stridulo. Lo carezzò sul petto e quello arruffò le piume, inclinando la testa.
“Pellegrino.”
“E’ il tuo nome o quello del pennuto?”
Rise.
“Io sono Calardir. Il falco ci indicherà la strada.”
Pellegrino fischiò ancora e schiuse leggermente le ali, quasi volesse confermarlo. Calardir sorrise, annuì in risposta e si incamminò lungo il sentiero sterrato. Da dietro, invece, arrivò il commento di Destro: “Usi le pitture di guerra, hai un compagno animale e perfino un nome elfico. Eppure sei uno stregone. Dire che sei assurdo è dire poco. Al confronto io sono la sagra delle banalità!”
Dopo molto tempo torno a pubblicare. Questo è un capitolo di presentazione dei personaggi, perlopiù. Ma la vicenda entrerà presto nel merito. Intanto spero davvero di non aver annoiato chi è riuscito ad arrivare fin qui. °A° Se vi va, fatemi sapere cosa ne pensate. Se avete trovato il capitolo pesante, poco scorrevole, non chiaro, etc. O se c'è qualcosa che vi è piaciuto particolarmente. ^^ Alla prossima!
CompaH

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Capitolo 3
*** Capitolo 2 - Lasciapassare ***


 Capitolo 2 - Lasciapassare
“Largo, largo. Non vedo!”
Gli avventori controllarono prima i dintorni e poi chinarono lo sguardo su di lui, strabuzzando gli occhi e aprendosi goffamente per farlo passare. Destro li salutò con la mano e proseguì, insinuandosi nella calca. Qualcuno gli soffiò in faccia il fumo della pipa e l’odore d’Erba Sogno mista a birra gli solleticò l’olfatto. Arricciò il naso, strinse gli occhi e si approssimò ad altri due spettatori. Li analizzò rapidamente: calzoni logori, piedi nudi e facce scavate. Straccioni. Forse contadini o pastori del luogo.
“Largo!”
Li superò e notò l’individuo che faceva al caso suo sopraggiungere in prossimità del tavolo da gioco. Abiti rifiniti, barba curata, calzature di cuoio e ventre gonfio. Si passò l’indice di traverso sotto il naso e trattenne a stento un sorriso. Qualcuno che puzzava di sudore raffermo lo urtò e per poco non lo investì, coprendogli il bersaglio e gettandolo malamente addosso al tizio che gli stava dietro. Accusò un gemito e l’irritazione prese il sopravvento.
“Ehi, pertica! Chiedi scusa e guarda dove metti quelle zattere. Scommetto che l’arnese che hai fra le gambe non è nemmeno lungo quanto il resto!”
Quello si girò con una smorfia ma non lo notò nemmeno. Afferrò per il bavero la persona alle sue spalle, invece, probabilmente con tutta l’intenzione di spaccargli la faccia. Destro sgusciò oltre prima di restare schiacciato. A giudicare dagli improperi e dagli schianti doveva aver scatenato una piccola rissa, considerò; ma non ci teneva a rivendicarne il merito, specie quando c’era già qualcun altro a prendersi i pugni per lui.
Saettò con lo sguardo a destra e a sinistra finché rintracciò l’uomo che gli interessava. Doveva essere un mercante o qualcosa di simile. Da quel punto di vista la grossa borsa che portava a tracolla acquisiva sfumature ancora più interessanti. Si fece faticosamente avanti e lo raggiunse, affiancandolo.
“Quindi ai doppi si beve.”
Stava parlando col tizio accanto e non sembrava averlo notato.
“Al sette e all’undici, anche. Vince quello che resta in piedi.”
“Sono rimasti in tre. Su chi hai scommesso?”
“Il mio uomo è già fuori a vomitare. E il biondo è il prossimo, te lo dico io.”
Non era sicuro che si riferisse a Calardir, ma gli venne spontaneo sollevarsi sulla punta dei piedi per controllare. Non lo vedeva bene, considerando gli scorci fra la gente che andavano e venivano, ma lo stregone non aveva l’aria di essere sobrio. Una puttana, poi, gli sedeva in braccio e gli passava le dita tra i capelli. Inarcò le sopracciglia e scosse il capo. Quando aveva chiesto a Calardir di attirare l’attenzione non aveva preventivato che avrebbe proposto un simile gioco e causato tanto scompiglio solo per ubriacarsi e accompagnarsi a una donnaccia.
Sbuffò, allungò la destra e afferrò la manica del mercante, strattonandolo vigorosamente. Quello abbassò lo sguardo e lo fissò dall’alto sbattendo le palpebre, forse sorpreso. Sorrise.
“Puoi dirmi il risultato dei dadi? Da qui non riesco a vedere niente. Ho puntato sul tizio biondo, ma ho le gambe corte e qui intorno c’è troppa gente alta.”
La richiesta era semplice e innocua, proprio come il suo aspetto. Non si stupì quando quello l’assecondò e voltò il capo in direzione del tavolo da gioco, strizzando le palpebre. Colse l’attimo; rimarcò il contatto delle dita sulla manica come garanzia e infilò invece la sinistra nella borsa.
“In totale il tuo uomo ha fatto cinque. Tocca al prossimo. Otto,” riferì l’ignara vittima dei suoi raggiri. “Sei fortunato che a questo turno abbia bevuto un altro, altrimenti era fuori. Sta ondeggiando… e, che Il Luminoso mi perdoni, vorrei tenere le mani dove le tiene lui!”
Destro non capì che cosa intendesse con quell’ultima osservazione. Si strinse nelle spalle, sfilò il sacchetto dei Reali dalla tracolla e se lo mise nel bagaglio con estrema naturalezza.
“Grazie mille. Helientar apprezzerà di sicuro la tua gentilezza.”
Non ci credeva per niente. Comunque restava il terzo gonzo che alleggeriva e per la serata poteva bastargli. Per sicurezza adocchiò i tavoli, il banco dell’oste e la zuffa che si era lasciato poco più indietro. C’era chi cenava, chi conversava e chi beveva, ma nessuno sembrava aver notato i suoi intrallazzi. Era un mago, dopotutto! Avanzò fischiettando e raggiunse il tavolo da gioco sgomitando. Ormai mancava poco alla fine e, a giudicare dai pareri, Calardir era prossimo alla sconfitta.
Schiuse le labbra, ricredendosi. Lo stregone era ancora in lizza, mentre uno degli altri due partecipanti si stava invece allontanando con l’aria stralunata, le guance rubizze e il passo malfermo di chi aveva decisamente bevuto un bicchiere di troppo. Quello urtò e pestò chiunque fosse a tiro, imprecando; finché due uomini l’agguantarono per le braccia e lo trascinarono via, probabilmente per buttarlo in strada.
Tornò ai due contendenti rimasti. Al tavolo sedeva ancora un tipo snello vestito di nero, con la calvizie incipiente e i capelli lunghi, unti. Chissà quanto puzzava! A tratti la sua risata gli ricordava il ragliare di un asino. Era brillo, ovviamente, ma aveva l’occhio sveglio. A differenza di Calardir che sembrava badare soltanto alle forme della femmina che gli si stringeva addosso, talora mordendogli l’orecchio, talora il collo. Il quadro di lascivia si completò quando comprese l’osservazione del terzo gonzo cui aveva sottratto i Reali. La mano dello stregone scompariva infatti senza pudori al di sotto del piano, fra le sottane e le gambe dischiuse della donna. Sollevò gli occhi al cielo e incrociò le braccia al petto. Quello stupido avrebbe perso e avrebbe perso di più per pagare i servigi alla puttana.
“Ritirati, ragazzo. Almeno ti verrà duro e la signora non resterà delusa. Perderai i soldi, sì, ma salverai la faccia,” biascicò lo smilzo.
La battuta provocò ilarità fra il pubblico e perfino la donna si lasciò scappare una risatina. Dal canto suo Destro si concentrò sulla reazione di Calardir, che ridacchiò assieme agli altri e scosse leggermente la testa, all’apparenza nient’affatto turbato. Aveva parecchio sangue freddo per essere alticcio…
“Altroché. Mi sento allegro. Così allegro che potrei danzare tutta la notte. Ma, parola mia, qualcuno che resterà deluso c’è. Tu. Puoi fare il gradasso e azzeccare una o due battute di spirito, ma non sei sobrio. Inoltre tocca a me. Questo vuol dire che la partita è aperta.”
Lo stregone ondeggiò e si spostò sullo sgabello. Di rimando la donna che gli stava sulle gambe si chinò leggermente in avanti, puntò i gomiti sul tavolo e offrì una visuale completa dei seni, i cui capezzoli scuri facevano capolino dalla scollatura. Destro fece una smorfia e guardò altrove, ma il ticchettio dei dadi che rotolavano lo costrinse a puntare le pupille nuovamente sul tavolo, con l’ansia di leggerne il risultato. Doppio sei.
“Bevi,” ordinò Calardir.
Destro arricciò le labbra verso l’alto. La puttana batté le mani e strillò. Molti degli avventori urlarono incoraggiamenti come “forza” o “resisti”, perorando più che altro le proprie scommesse. Il perdente invece smise di ragliare e storse la bocca. Il mezzuomo si passò il dito sotto il naso, mentre quest’ultimo afferrava con riluttanza il boccale al centro del tavolo e se lo portava alle labbra, ingollando malamente. Per un istante pensò che non ce l’avrebbe fatta. Ciononostante, fra cospicui rivoli di birra che gli scivolavano dai margini della bocca fin sul piano, lo smilzo mandò giù l’intera pinta. Poi trasse un respiro profondo, strabuzzò gli occhi e ruttò, rosso come un peperone. Uno dei suoi sostenitori lo incitò dandogli una pacca sulla schiena e per poco non gli fece schizzare i bulbi fuori dalle orbite. Per empatia Destro sentì le viscere aggrovigliarsi e la nausea stringergli la gola. Dubitava che il disgraziato avrebbe retto a un altro boccale di birra.
“Complimenti, una tempra invidiabile. Ma per tua sfortuna tocca ancora a me,” soggiunse lo stregone.
Una vivandiera si avvicinò e riempì il boccale. Calardir invece adagiò il viso fra i seni che la puttana gli offriva, recuperò i dadi e lanciò, implacabile. Doppio sei. Per la seconda volta di fila.
Destro restò interdetto, occhi fissi sul risultato e bocca aperta, mentre intorno si scatenava il putiferio, tra urla e commenti indistinguibili. Ondeggiò, sbatacchiato dalla calca, e si aggrappò al tavolo. E dire che fino a un paio di lanci prima non avrebbe scommesso sul compagno di viaggio nemmeno una moneta di rame, specie perché in prigione gli aveva confessato di aver digiunato per giorni dopo aver perso tutti i Reali al gioco. Non aveva importanza, comunque. Che avesse barato o che avesse usato la magia, i dadi non mentivano e le due facce da sei ne sancivano la vittoria. L’idea di toccare e contare il denaro sparso sul piano, poi, l’allettava enormemente… Non fece in tempo a pensarlo che lo smilzo balzò dallo sgabello come una molla e batté vigorosamente le mani sul tavolo, richiamando la totalità dell’attenzione su di sé.
“Stai barando! Stai barando fin dal principio, non c’è altra spiegazione! Sei stato tu a proporre questo gioco e l’hai proposto perché sapevi che avresti vinto!”
Tremava e sudava. Se di rabbia o di malessere Destro non seppe dirlo, ma dava l’impressione di reggersi in piedi per pura concessione divina. Calardir riservò all’uomo una lunga, intensa occhiata nella calma più assoluta.
“Mio buon signore,” fece infine con una scrollata di spalle, “sei alticcio e non sai che dici. Come potrei aver barato? I dadi sono i tuoi, li hai tirati fuori dalle tue tasche, di tuo pugno. Dovresti accettare la sconfitta, piuttosto. Perderai i soldi, sì, ma salverai la faccia.”
Le parole erano pungenti ma il tono dello stregone pacato. Ciononostante l’atmosfera incandescente attorno al tavolo si era ormai trasformata in un’insidiosa calma percorsa unicamente da mormorii sconcertati. Non c’erano “ma” o “se”. Semplicemente il “quando”. Presto o tardi i sostenitori di ambo i partecipanti, trasportati dal gioco e dalle scommesse, avrebbero approfittato del pretesto per darsi addosso. Qualsiasi cosa pur di non rimetterci le puntate. Destro lo leggeva sulle facce cupe di ognuno di essi.
Istintivamente portò la mano al pugnale. Forse era meglio allontanarsi, prima che qualche testa calda sferrasse il primo pugno. O peggio, cacciasse la lama dalle maniche.
Calardir sospirò e scosse la testa. La femmina invece si alzò, si abbassò le sottane e accennò ad andarsene. Lo stregone l’afferrò prontamente per il braccio; poi adocchiò l’avversario, rigido ai margini del tavolo, e domandò: “Allora?”
In risposta lo smilzo fremette e serrò la mandibola, occhi piantati in quelli dell’altro alla stregua di aghi arroventati. Poi si voltò e s’allontanò, spintonando malamente coloro che si frapponevano nel mezzo. Destro non si mosse, in attesa. Uno dopo l’altro i restanti si dispersero. Li seguì con iridi attente finché ognuno tornò ai rispettivi affari; poi rilassò il braccio e sciolse la morsa delle dita, abbandonando l’elsa dell’arma. Anche se la vicenda si era conclusa senza spargimenti di sangue, ormai il sospetto aleggiava nell’aria.
“Andiamocene. Ti sei divertito abbastanza. In più la situazione non mi piace. E questa vacca che ti sei scelto nemmeno,” commentò.
Lasciò andare lo sguardo dallo stregone ai dintorni e dai dintorni allo stregone. Per tutta risposta Calardir distese il braccio sul tavolo e spinse il denaro verso di lui. Il tintinnio che ne scaturì gli scaldò il cuore come una donna non avrebbe mai potuto.
“Occupatane tu, Destro. Aspetta, non tutti. Questo,” e prese un Reale d’argento dal mucchio, “è per la dolce signora che mi ha portato fortuna.”
Ciò detto quello infilò la moneta nella scollatura della femmina. Il mezzuomo sgranò gli occhi.
“Una moneta d’argento! Sei impazzito?! E per cosa? Per averti scaldato le gambe?”
Di quel passo sarebbe morto di crepacuore. L’altra invece s’aprì in un sorriso, infilò le dita tra i capelli dello stregone e lo baciò. Le lingue s’intrecciarono. Destro fece una smorfia. Che schifo!
“Grazie mille, signore. Ricordati di me, la prossima volta che passi di qui.”
“Sì, sì, ora sparisci e vai a spillare soldi a qualcun altro,” intervenne, inasprendo il tono di voce. “Il ragazzo allegro e generoso con tanta voglia di danzare deve venire via con me.”
Ciò detto acchiappò a pugni i rimanenti Reali e se li mise in tasca prima che Calardir potesse darli direttamente in beneficenza. Fruscii e passi. Destro sollevò il capo e sbatté le palpebre. La puttana. Vicina. Troppo vicina. S’irrigidì e si fece indietro, ma quella gli agguantò il viso con ambo le mani e gli assestò un sonoro bacio sulla bocca. Mugugnò e la spinse via.
“Che fai?! Toglimi le mani di dosso, stupida vacca!”
“Così la prossima volta che passi di qui anche tu ti ricorderai di me.”
Quel sussurro gli scaldò la pelle. Per la prima volta lasciò andare le iridi sul viso della femmina. Sorrideva. Arricciò il naso e si pulì col dorso della mano, mentre Calardir rideva senza pudori. Aprì la bocca una volta, due volte, ma la puttana s’allontanò ondeggiando i fianchi. C’erano un mucchio d’improperi che avrebbe voluto urlarle dietro; ciononostante per qualche strana ragione gli restarono incollati al palato. Si pulì ancora. Poi con occhi di brace puntò lo stregone. Era tutta colpa sua.
“Che c’è?” fece quello, l’innocente.
Prese fiato per spiegarglielo forte e chiaro; ma Calardir guardò oltre, alle sue spalle, e smise di sorridere. Dopodiché si alzò di scatto come se avesse visto uno spettro. Avvertì una stretta allo stomaco e si voltò.
“C-che ci fai qui? E’ notte e la taverna non è un posto adatto a te. Ti sei guardata attorno?” fece lo stregone, sorpassando il mezzuomo.
Dar’ya stava in piedi poco più in là, con le sopracciglia inarcate e il broncio. Il torace le si alzava e le si abbassava per via del fiato corto. Sembrava che fosse cascata giù dal letto e che avesse indossato i vestiti di fretta e furia, almeno a giudicare dai lacci del corsetto malamente serrati e dalla camicia sottostante, infilata nella gonna solo per metà. Inoltre teneva i capelli goffamente raccolti sul capo e cospicue ciocche castane le scivolavano libere lungo il collo, dandole un’aria ancora più disordinata.
Destro incrociò le braccia al petto: ora che c’era pure lei il suo tripudio era completo. La ragazzina non si lasciò intimidire, comunque. Si piazzò davanti allo stregone e lo fissò dritto negli occhi dal basso verso l’alto, mani sui fianchi. Gli occhi nocciola sprizzavano fulmini.
“Finalmente so che cosa fai ogni notte. Furfante! Altro che proteggere, altro che scortare! Sei uno spergiuro e un traditore! Prenderai il morbo dell’amore e morirai come un cane sul ciglio di una strada! Tu e questo… questo mezzuomo!”
“Destro, signorinella. O signor mezzuomo,” la corresse, inarcando il sopracciglio. “E io non lo infilo dove e quando capita. È stata la vacca ad allungare le mani.”
Non aveva ancora finito di puntualizzare che quella stupida gli aveva già dato le spalle, andandosene a passo di marcia. Sbuffò e andò con gli occhi al cielo. Sbottare, piagnucolare e non lasciare possibilità di replica era tipico delle donne. Quando poi avevano poco più di quindici anni era pure peggio.
“Ci ha seguiti. È infida, la mocciosa. Prima finge di andare a dormire e poi si scapicolla fuori di nascosto,” commentò. “Sia chiaro: se mi avessi detto che stavi cercando lei, ti avrei lasciato in gattabuia.”
“Andiamocene, prima che questi invasati si accorgano di avere le tasche vuote.”
Calardir infilò il cappello e si allontanò senza aspettare replica. Destro fece spallucce e lo seguì. Poggiato allo stipite dell’ingresso c’era lo smilzo, con gli occhi e le guance rosse. L’aria frizzante che filtrava dall’esterno doveva essere un toccasana per le sue condizioni. Non mancò di notare l’occhiata torva che quello scoccò loro. Ricambiò e uscì in strada, dove un cantastorie accompagnava col liuto la ballata del Buffone Incoronato.
“Se la milizia lo sente, lo sbatte dentro. Ma considerando l’ora è più probabile che qualcuno gli rovesci in testa il contenuto del pitale.”
Lo stregone non commentò; sospirò e allungò il passo, forse per stare dietro a Dar’ya, che s’intravedeva più avanti lungo lo sterrato. Il mezzuomo gli trotterellò dietro. Andava troppo spedito per essere ubriaco.
“Ehi,” lo chiamò, “tu non sei alticcio.”
“E non sono più allegro.”
Storse la bocca.
“Per colpa della mocciosa? Non ci pensare. Domani avrà dimenticato tutto. In compenso troverà qualcos’altro per cui lagnarsi e borbottare. Preoccupati di questo. Le mie povere orecchie stanno già chiedendo pietà! Piuttosto, hai usato,” abbassò la voce, “la magia?”
Lo stregone batté le palpebre e aggrottò la fronte.
“Per vincere, intendo. Hai imbrogliato. Doppio sei due volte di fila! Hai visto come ti guardava lo smilzo? Ti avrebbe volentieri piantato la lama nella pancia.”
“Ho agito come mi hai chiesto.”
Inarcò il sopracciglio.
“Vuoi dire che non hai barato?”
“Voglio dire che non ho usato quella… cosa.”
Fece un saltello più lungo, l’affiancò e l’agguantò per il mantello.
“Frena, non ho le gambe lunghe come le tue,” precisò. “E spiegati meglio!”
Normalmente era lui che imbrogliava il prossimo; ma stavolta era stato imbrogliato. Pertanto moriva dalla voglia di capire, di sapere come si erano svolti i fatti e qual era il fantomatico trucco che gli era passato inosservato sotto il naso.
“Lo smilzo aveva ragione: ho scelto quel gioco di proposito. Ho una tempra eccellente. Non basta qualche boccale di birra per farmi girare la testa. In verità contavo di vincere per abbandono degli avversari. Ma dimostrandomi sobrio avrei guadagnato troppi sospetti.” 
“Tutto qui?” 
Calardir arricciò le labbra verso l’alto.
“Non è un dettaglio trascurabile. Essere sobrio mi ha permesso di capire che i dadi dello smilzo erano truccati. Così ne ho approfittato per terminare la partita prima del previsto. Per il resto ho seguito le tue indicazioni alla lettera. Attirare l’attenzione altrove e agire di soppiatto.” 
Destro ripercorse mentalmente gli accadimenti cui aveva assistito attorno al tavolo da gioco. Lo stregone avvinghiato alla femmina, i dadi con il doppio sei sulle facce e lo smilzo che batteva furiosamente i palmi sul piano. Pochi dettagli, dacché la maggior parte del tempo l’aveva passata a evitare la morsa degli spettatori e a sviare l’attenzione dalla donna.
“La puttana!” sbottò.
“Precisamente. In molti l’hanno trovata uno spettacolo allettante e più interessante della partita in sé. Ho infilato la mano sotto il tavolo, sì, ma per colpire il piano al momento opportuno e sfruttare i pesi, gli angoli smussati dei dadi. Questo spiega i doppi sei.”
Scosse la testa e si morse il labbro. Detestava ammetterlo.
“L’hai fatta perfino a me.”
“Ma non allo smilzo. Sai bene che mi avrebbe sventrato volentieri.”
“Ha tutta la mia comprensione. L’hai umiliato. Io sono un mago. Un artista, se vogliamo. Se qualcuno s’azzardasse a borseggiarmi e riuscisse nell’impresa lo ripagherei senz’altro con del ferro nelle viscere. Sei fortunato che è messo male, non si regge in piedi; o non potremmo camminare così tranquilli per strada. Sai, ti facevo diverso.”
“Non ti seguo.”
Il mezzuomo si guardò attorno. Per strada c’era ancora qualche viandante, sagome scure che si muovevano nella foschia della notte.
“Stirpe di Drago,” sussurrò quindi. “Credevo che uno stregone mangiasse carne umana, che vivesse in tortuose, profonde caverne e che scagliasse fulmini contro le città. Qualcuno sostiene anche che abbiate squame e corna, talvolta la coda. E invece tu sei un furfante come gli altri, che mangia zuppa di ceci, rischia il ferro nella carne, fotte e piscia come chiunque.”
Calardir rise.
“Sembri deluso.”
“Un po’,” ammise. “Speravo di vedere qualcosa di più. Com’è accaduto in prigione, ma in grande.”
“Sono umano, Destro. Mia madre e mio padre erano dei semplici contadini. Un uomo e una donna fatti di ossa, sangue e carne. E le leggende restano leggende. Nient’altro che racconti inventati e ingigantiti dall’uomo.” Lo stregone fece una pausa e sfoderò un mezzo sorriso. “Dai cantastorie, ad esempio. Magari narrando storie di mostri alla corte dei nobili per suscitare lo stupore e l’orrore delle dame,” soggiunse; poi scosse la testa. “Personalmente preferisco la ballata del Buffone Incoronato.”
Non era difficile credergli. Destro serrò le labbra in una linea dura e ricordò la carcassa carbonizzata che gli era capitato di vedere durante uno dei suoi viaggi, esposta lungo la via principale di una delle grandi città di Kratos. Piccola, ritorta e nera come il ramo secco di un albero. Per un attimo immaginò gli strepiti inarticolati di quel corpo ancora vivo avvolto dalle fiamme. Lo vide contorcersi. Rabbrividì e scacciò quello scenario dalla mente. Sollevò gli occhi sullo stregone, ma non ne incontrò lo sguardo. Calardir fissava dritto innanzi a sé, mandibola contratta. Non era più così certo che guardasse a Dar’ya.
Quando raggiunsero la Tartaruga Zoppa il locandiere stava sull’uscio, in cima ai tre scalini d’ingresso. Attorno c’era una manciata di gatti che gli si strusciava sulle gambe, miagolando. Ruffiani, pensò il mezzuomo. L’uomo lì notò, gettò il resto degli avanzi a terra e si pulì le mani sul grembiule. Poi si aprì in un cordiale sorriso.
“Bentornati, signori. La vostra graziosa compagna vi ha preceduti di poco. È forse accaduto qualcosa? Sembrava un po’… turbata, ecco.”
“Ordinaria amministrazione. È una femmina. Ogni cosa è un nuovo dramma,” commentò, sventolando la mano.
Calardir rise.
“Non ti daremo noie, buon uomo. Ripartiamo domattina presto. Perciò permettimi di dimostrarti fin da subito la mia gratitudine per il buon cibo, il comodo giaciglio e il tuo prezioso riserbo.”
Destro inarcò il sopracciglio. Lo stregone invece poggiò la sinistra sulla spalla del locandiere e gli strinse vigorosamente la mano con la destra. I mezzuomo seguì il gesto e non mancò di notare il riflesso argentato delle monete che passavano da un palmo all’altro. Il locandiere fece sparire il denaro fra le pieghe del grembiule; poi sorrise e replicò: “Visto che vi attende un lungo viaggio, domattina vi farò trovare latte caldo, pere, formaggio con le noci e miele.”
Ciò stabilito quello si fece da parte. Lo stregone annuì ed entrò per primo. Destro lo seguì. La sala comune era vuota, eccetto per un paio d’avventori che ancora sedevano e fumavano in prossimità del grosso camino. Il fuoco era ormai ridotto a sparute fiammelle e le braci occhieggiavano languide fra la cenere del fondo.
“Cominciava a fare domande,” commentò Calardir.
Il mezzuomo fece spallucce.
“Lo so. Non te le metto in conto. Ma quelle che hai dato alla puttana sì,” rispose.
Calardir rise di nuovo. Di rimando piegò la bocca verso l’alto anche lui. Salirono le scale accompagnati dallo scricchiolare del legno e raggiunsero il piano superiore. Lo stregone arrivò per primo alla stanza da letto e aprì la porta. Tuttavia non accennò a entrare. Gli lasciò invece la chiave fra le dita e proseguì lungo il corridoio, probabilmente diretto alla camera adiacente. Destro dischiuse l’uscio.
“Sprechi il tuo tempo,” disse.
“Quella stupida ha rischiato di essere stuprata. O peggio. E nemmeno se ne rende conto. Anche tu. Tieni occhi e orecchi aperti, Destro. Pellegrino è irrequieto. Lo sento.”
Arricciò il naso e aggrottò le sopracciglia.
“Lo senti?”
“Sì.”
Lo stregone se ne andò senza nulla aggiungere, lasciandolo sull’uscio a chiedersi come c’entrasse il falco e perché. Si spazientì subito. Si passò la mano fra i capelli e li arruffò. Non avrebbe mai capito gli elfi o gli aspiranti tali. Entrò, si richiuse la porta alle spalle, sorpassò il letto di Calardir e andò a sedersi sul proprio. Per prima cosa accese la candela che stava sul comodino. Poi sfilò gli stivali e sgranchì i piedi. Puzzavano di formaggio. Poco male. Buttò sul giaciglio la borsa e si sfilò anche la corazza, che depose a terra.
Finalmente libero, si stiracchiò con un lungo mugolio. Era stanco, ma non poteva andare a dormire senza aver contato i guadagni della serata. Perciò s’alzò, recuperò il bagaglio e si diresse al piccolo tavolino che stava davanti alla finestra. Balzò e sedette, svuotò le tasche e riversò il tutto sul piano. Stessa sorte toccò al contenuto dei sacchetti che teneva nella borsa. Arricciò le labbra, si passò l’indice sotto il naso e cominciò a separare il rame dall’argento. Il tono dello stregone lo raggiunse attraverso le pareti, pacato e profondo. Scosse la testa. Non solo il tempo; stava sprecando anche il fiato. Dar’ya replicò subito dopo. Non capì le parole, ma la parlata era secca, acuta e veloce. Il successivo schianto non gli lasciò dubbi al riguardo: il confronto c’era stato e la ragazzina aveva appena vinto.
Al colpo seguì rumore di passi. Probabile che lo stregone stesse tornando con la coda fra le gambe. La porta si aprì che Destro stava impilando le monete di rame in serie da dieci. Si voltò e adocchiò Calardir da sopra la spalla. Sulla guancia aveva impresso un bel segno rosso, presumibilmente un ceffone.
“Me l’avevi detto.”
“Già.”
Il mezzuomo tornò ai conti, mentre l’altro buttava a terra il cappello e si lasciava cadere sul letto con un profondo sospiro.
“Con questi copriamo la tratta sul Verdarzillo,” disse, spostando all’angolo dello scrittoio due pile di bronzo. “E con questi le spese dei giorni passati. Vitto, alloggio e rifornimenti vari. Peccato per quelle corde. Non valevano nemmeno la metà del prezzo!”
“Il valore di ciò che hai rubato dalla bottega è di molto superiore, se non sbaglio.”
“Ed è per questo che me la sono ripresa col garzone e non ho mandato a chiamare il proprietario,” convenne Destro, unendo alle precedenti una terza pila. “Intanto se consideriamo anche il conto della Tartaruga Zoppa ci restano solo due monete d’argento, tredici monete di bronzo e una, due… sei monete di rame. Male, direi.”
“Bastano e avanzano per raggiungere Arthia,” commentò l’altro, asciutto.
Il mezzuomo inarcò le sopracciglia e batté le palpebre. Degli elfi Calardir aveva anche lo sprezzo verso il denaro, annotò. Come se si potesse vivere di sole bacche! Stizzito stipò nella borsa i Reali, in sacche diverse a seconda del tipo. Poi, con estrema calma, cambiò posizione sulla sedia e poggiò il petto contro lo schienale, gli occhi puntati sullo stregone e ridotti a due fessure.
“Mi hai detto che vuoi entrare nel palazzo di Zemilos Sulescu. La sera che ti ho sfamato non ho indagato. Con la ragazzina sempre tra i piedi, poi, e stato impossibile approfondire. Ma ora voglio saperlo. Perché?”
Calardir rise, ancora supino sulle coltri.
“Perché è ricco?” fece poi.
“Ciò suscita il mio interesse. È per questo che sono qui. Ma tu sei diverso. I Reali per te sono un mezzo, né più né meno. Mi domando per quale scopo. Dopotutto è più conveniente alleggerire benestanti e ignari avventori, che infilare le mani nei forzieri del Lord di Arthia,” insistette.
Lo stregone sollevò il busto e si mise a sedere sul margine del giaciglio, i capelli arruffati. Poi lo fissò di rimando e fece spallucce.
“L’idea ti spaventa?”
“Certo. Non sono stupido. Ma la tentazione è più grande, mio malgrado,” replicò. “Pensavo di mettermi alla prova in un carcere di massima sicurezza, giusto per togliermi lo sfizio. Ma questa mi sembra un’ottima alternativa. Più fruttuosa, se non altro. Ciononostante voglio conoscere i dettagli. Perché sono curioso. E perché come tuo socio ne ho il diritto.”
“Siamo soci?”
“Non lo siamo? Ti ho anche aiutato con la mocciosa, non lo dimenticare. E condivido metà del rischio.”
“Ti tocca metà del ceffone, allora.”
Destro rise.
“I soci non rispondono della stupidità della controparte. In più ti avevo avvisato,” fece, sventolando la mano per aria. “E ora sputa il rospo!”
“Bene,” convenne l’altro.
Il mezzumo batté le palpebre. Non s’era aspettato la resa incondizionata. Anzi. Calardir era sempre bendisposto, chiacchierava e scherzava volentieri, ma non si esponeva mai più del dovuto. Spesso eludeva le domande. A conti fatti non sapeva nulla di lui. Era Stirpe di Drago, sì. Forse il dettaglio più importante da conoscere. E i suoi genitori erano morti, da come aveva capito. Per il resto si comportava come un elfo. E come un furfante. Caratteristiche che cozzavano come il verde con l’arancio. Senza contare che voleva entrare di nascosto nel palazzo di Zemilos Sulescu. Per il denaro? No di certo. Incrociò le braccia sulla spalliera della sedia e aspettò di saperne di più.
“Recentemente Lord Sulescu ha accolto a palazzo un mago proveniente dalla Baronia dell’Anguilla Nera. Voglio saperne di più,” spiegò lo stregone, sfilandosi gli stivali.
Destro inarcò il sopracciglio. Prevedibile. In sostanza gli aveva detto tutto e non gli aveva detto niente. E altre domande avevano preso il posto delle precedenti. Chissà se i due si conoscevano. Chissà se fra loro correva buon sangue. Per certi aspetti la situazione era intrigante, oltre che pericolosa. Ciononostante il suo buon senso poco poteva contro l’innata curiosità. Sarebbe morto giovane, ne era consapevole. Ammazzato, probabilmente. Ma soddisfatto.
“Un Tessitore di Trama. Il rischio aumenta,” commentò.
“Ma te ne spetta solo la metà.”
“E come hai intenzione di fare? Per entrare, intendo. Io sono bravo. Il migliore, forse. Ma non conosco né la zona né il palazzo. In più siamo entrambi forestieri. Chiedere udienza è fuori discussione, anche soltanto per dare un’occhiata,” fece quindi.
Calardir annuì, ma non gli sembrò impensierito.
“Tre settimane fa, ad Arthia, incappai in un gruppo di guardie con le insegne del Casato Sulescu. Fra loro c’era un tizio in particolare. Lo osservai per giorni, in taverna. Non beveva mai assieme ai compagni. Se ne stava da solo, a fumare. A pensare, forse. Spesso senza toccare la pinta che teneva davanti. Insomma non era propriamente un buontempone,” raccontò l’altro, togliendosi anche il mantello. “Una sera uno dei suoi disse qualcosa come ‘non ci pagano abbastanza. Soltanto quel cane fedele di Gutter può chinare la testa e obbedire come niente’. In quell’occasione il diretto interessato lasciò il tavolo e aggredì il compagno con una furia che non avrei mai immaginato. Il tutto senza dire una parola.”
Destro si spostò appena sulla sedia, senza capire dove l’altro volesse arrivare.
“Cominciai a pensare, a farmi delle domande. Era un soldato fedele, ma non era fiero di esserlo. Faceva parte della guardia, ma si manteneva in disparte. Aveva aggredito il compagno, ma non l’aveva tacciato di nulla. Perché? Pensai che le sue ragioni fossero profonde. Di sicuro personali. Forse dolorose. Decisi di parlargli.”
“Cosa ti disse?” incalzò.
Lo stregone sorrise.
“In principio nulla, fui io a discorrere. Mi presentai, gli offrii da bere e sedetti con lui. I suoi occhi dicevano più delle parole, comunque. Erano profondi, cupi, determinati. Gli occhi di un uomo cui non restava nulla, eccetto uno scopo innominabile. Mi scacciò. Più di una volta, a dire il vero. Mi minacciò, anche; ma non sul serio. Diciamo che col passare dei giorni si rassegnò alla mia presenza. Forse si sentiva solo. Forse aveva bisogno di parlare, di alleggerirsi la coscienza. Beh, un po’ c’entra anche la birra… ma quando gli chiesi di lui, dei Sulescu, si aprì a denti stretti. Non me ne meravigliai.” Calardir si umettò le labbra. “Hai presente l’incidente diplomatico di due anni fa? L’attentato a Lord Sulescu.”
“Naturale. Dopotutto a tirare le cuoia è stata la futura Guida dei Glantrenth, non uno qualsiasi.”
“Bene. Gutter disse di aver scoccato le frecce attentatrici di proprio pugno, per ordine di Zemilos Sulescu. Capisci? Una farsa, una manovra per accaparrarsi il pretesto di muovere guerra agli elfi della foresta limitrofa e scalzarli così dal territorio. Che Lauthian Glantrenth sia morto è stata una disgraziata fatalità. Per quanto ne so, non doveva trovarsi nemmeno lì.”
Destro schiuse le labbra e restò interdetto per qualche istante. Gli mancava il fiato. Se si considerava che il re Abadon Encratis in persona si era dovuto formalmente scusare con la Guida Galanodel Glantrenth per evitare una guerra fra uomini ed elfi, era un’informazione di una certa rilevanza. Che metteva Zemilos Sulescu in una posizione a dir poco sconveniente.
“N-ne hai le prove?” domandò, gli occhi grandi.
Non sapeva che cosa c’entrasse tutta quella storia con il mago o con le intenzioni di Calardir, ma l’idea di tenere il Lord di Arthia per le palle gli piaceva smisuratamente. E pace all’anima di Lauthian Glantrenth! Stava già pensando a quanti Reali ricavare da quelle informazioni, quando lo stregone mandò in mille frantumi i suoi sogni.
“No,” fece, strappandogli di rimando una smorfia. “Ma lasciami finire. Quando Gutter terminò il racconto tornai a pormi nuove domande. Si trattava di un uomo semplice e tormentato. Dunque perché serviva in silenzio il Lord che disprezzava? La risposta mi sovvenne d’improvviso e finalmente capii perché mi aveva da subito colpito.”
Calardir lo fissò come se si aspettasse la risposta da lui. Destro sì grattò la testa, invece. Era sinceramente confuso. A questo punto non gli importava più di capire; non dopo che la possibilità di guadagnare soldi facili gli era così crudelmente sfumata innanzi. Era ancora a lutto, lui!
“Per necessità?” tirò a indovinare.
“Per vendetta, Destro. Non c’è niente che ti dia la forza di aspettare e serbare il rancore dentro. In silenzio. Per giorni, mesi. Anni, magari. Finché, prima o poi, si presenta l’occasione giusta per colpire. O per riscattarsi. Sinceramente non ho idea di quali siano le vere ragioni di Gutter. Non gli chiesi il motivo del suo odio. Non era rilevante. E non me l’avrebbe detto in ogni caso. Ma gli proposi di aiutarmi a entrare. In cambio io avrei aiutato lui a rovinare Zemilos Sulescu.”
“Come.”
Lo stregone fece spallucce.
“Gli elfi non consentivano alle carovane mercantili di attraversare la foresta. Perché? È questo che devo scoprire. Una mezza idea già ce l’ho. Dubito che trasportassero granaglie. Sono certo che da qualche parte in quel palazzo c’è una fitta documentazione, in proposito. Entrate, uscite. Devo solo trovarla. Gutter non sa leggere, ma io sì. E Abadon Encratis pure.”
A sentire lui sembrava un gioco da ragazzi. Per non menzionare la leggerezza con cui discorreva della documentazione scottante. Mettere le mani nei forzieri del Lord e arraffare il possibile era allettante, ma ricattarlo restava indubbiamente più vantaggioso. Tuttavia l’altro non sembrava curarsene. Sospirò e scosse la testa. A volte si chiedeva se Calardir fosse sciocco, temerario o semplicemente in gamba. Propendeva per l’ultima, nonostante l’evidente debolezza per la carne. Al ritrovamento delle prove, comunque, non si sarebbe astenuto dal mettere in chiaro un paio di cosucce. O a tagliare la corda col prezioso malloppo. Inoltre c’era qualcosa che non gli tornava. Nei panni di Sulescu avrebbe immantinente eliminato l’artefice del falso attentato. Questo e altro, pur di mantenere al sicuro le chiappe impomatate. Doveva tenere d’occhio quel Gutter...
“Se Gutter conosce il palazzo entrare e uscire sarà più semplice. Certo sarei più a mio agio con la planimetria del maniero fra le mani,” commentò poi. “Intanto non mi hai ancora spiegato a cosa serve la ragazzina.”
“È la nuova dama di compagnia di Ilyana Sulescu. Ho sostituito la guardia che doveva accompagnarla a palazzo. È il mio lasciapassare, insomma. Gutter si è occupato di far sparire l’incaricato. Probabile che sia cibo per i pesci, ormai. Ad Arthia indosserò l’armatura e le insegne dei Sulescu per entrare dal portone principale. Tu mi raggiungerai invece attraverso il passaggio sotterraneo che sbuca oltre le colline. Di norma è utilizzato in caso di emergenza per abbandonare il palazzo, ma tornerà utile anche a ritroso. Ti faremo strada dall’interno.”
“Bene. Vorrà dire che nel frattempo ci dormirò sopra. E ricordami di rubare altra pergamena. Avrò bisogno di prendere appunti. Parecchi.”
Calardir annuì e sorrise; poi scoprì un lembo del letto e si infilò sotto le coperte. Sembrava un ragazzo umano come tanti. Anzi, quasi più ingenuo degli altri; ma non lo era. Intanto non si faceva scrupoli ad usare tutto e tutti pur di raggiungere lo scopo. Destro tralasciò la questione con una scrollata di spalle. Non era migliore di lui, dopotutto. Di rimando scivolò giù dalla sedia e si approssimò al comodino disposto accanto al giaciglio. Soffiò e spense la candela.
 
***
 
Gli mancava il fiato e il cuore gli rimbombava perfino nelle orecchie, le membra nude che rabbrividivano per il freddo. Lo spazio non aveva forma e si limitava a una distesa sconfinata di buio. Calardir non sapeva neppure dove stava mettendo i piedi, ma continuò a correre all’impazzata. Si guardò freneticamente attorno. Non c’erano vie d’uscita. O posti dove nascondersi. Di conseguenza il terrore gli si arrampicò pungente lungo le membra esposte e gli conficcò gli artigli nella bocca dello stomaco.
Una finestra rettangolare s’aprì innanzi a lui, lì dove avrebbe dovuto esserci il pavimento. S’arrestò, esausto, il petto che gli si alzava e abbassava in cerca d’aria. Tentennò e si spostò lateralmente. Non si fidava ma non c’erano alternative. Si avvicinò, infine. Attraverso l’apertura s’intravedeva la luce. Distese appena i lineamenti. Cadde in ginocchio e s’affacciò febbrilmente su di essa, ma lo specchiò gli rimandò unicamente l’immagine disperata di sé.
Lasciò andare le iridi sui propri lineamenti. Gli occhi sgranati, le sopracciglia corrucciate e la bocca dischiusa in una smorfia pietosa. Il ritratto della paura. Oltre si stendeva uno spazio di luce che quasi feriva le pupille. Con sgomento sempre maggiore vide il riflesso dapprima identico distendere la fronte e sorridergli di rimando, quasi beffardo nella sua nuova guisa. Tremò e si ritrasse appena, mentre le fattezze mutavano e divenivano femminili, bellissime. I capelli in principio biondi si tinsero d’inchiostro e scesero a incorniciare le forme tornite dei seni e dei fianchi, che nudi gli si offrivano alla vista. Due occhi viola lo scrutavano invece senza pudori, ametista nell’ametista.
Calardir ingollò a vuoto, incapace di distogliere lo sguardo. Tremò ancora e sentì le viscere contrarsi; mentre le labbra della donna si muovevano, mute. Eppure, dentro di sé percepì distintamente: “vieni”.
Uno strillo acuto gli risuonò nella mente. Spalancò gli occhi, la bocca e con un sordo rantolo scattò a sedere sul letto. Pellegrino…? Gli mancava il fiato. Si piegò in due e trasse profonde boccate d’aria, il sudore che gli bagnava la fronte e la schiena. Dentro il calore ribolliva e si propagava senza controllo. Ingollò e gemette. Serrò le palpebre e le lacrime gli solcarono le gote. Doveva respirare e riacquistare il controllo. Doveva calmarsi. E in fretta. Sobbalzò quando qualcuno gli mise la mano sulla spalla e lo scosse vigorosamente.
“Che succede? Mi hai fatto prendere un colpo! Ehi!”
Destro. Era troppo vicino. E quella… cosa era troppo irrequieta. Ed esuberante. Incontenibile. Ma cedere al panico sarebbe risultato controproducente. Serrò anche le labbra e represse il secondo gemito. La testa gli scoppiava, le orecchie gli ronzavano. E il petto bruciava, strappandogli ossigeno e fitte di agonia. Si portò la mano lì dove sentiva dolore e strinse sulla stoffa dei vestiti fino a farsi sbiancare le nocche. C’era da impazzire, ma non poteva semplicemente lasciarsi andare.
“Vattene.”
“Non dire stronzate! Mi stai spaventando. E di là ho sentito dei rumori. Alzati o stavolta ci giochiamo la mocciosa!”
Deglutì e inspirò a fondo, combattendo contro il magma che gli si agitava in corpo. Che razza di situazione…
“Calardir!”
“Un istante! Un istante… ancora,” ringhiò.
Di rimando le dita del mezzuomo gli si strinsero sulla spalla come ganasce. L’altro aveva paura. E faceva bene ad averne. Tuttavia in quella stretta c’era una dose di sicurezza che non si sarebbe aspettato. Non in una situazione del genere. Calardir si concentrò sul respiro, rassicurato dalla presenza inaspettata. Dentro e fuori. Dentro e fuori. Il silenzio si protrasse per un lasso di tempo che non riuscì a quantificare, unicamente interrotto dal suo frenetico ansimare. Poi, man mano, l’oppressione al petto scemò, il dolore s’affievolì e la cosa tornò a gorgogliare blandamente in una piccola parte di sé.
Lentamente schiuse le palpebre, sollevò di poco il busto e si asciugò le lacrime con il dorso della mano. Alzò le iridi su Destro, una sagoma scura ai piedi del letto. Nel buio gli sembrò che annuisse. Poi il mezzuomo ritrasse il braccio e si allontanò celermente. Calardir tese le orecchie e percepì un tonfo provenire dalla stanza attigua. Non se ne stupì. Primo fra tutti era stato Pellegrino ad avvertirlo del pericolo. Di conseguenza si alzò, abbandonò la stanza e si avviò lungo il corridoio. Si concentrò e sfruttò il legame che aveva col falco per osservare la situazione dall’esterno, attraverso i suoi occhi. Le immagini gli giunsero rapide e sfocate. I tetti delle case, la faccia della luna stagliata nel cielo e le piccole creature notturne che si spostavano fra le ombre. Tra le varie proiezioni intravide due sagome muoversi furiosamente innanzi alla finestra di Dar’ya. Accelerò il passo; ma Destro l’agguantò per il braccio. Si volse, interrogativo, e l’altro gli passò il mantello. Sulle prime non capì; finché notò il balestrino che imbracciava. Attirare l’attenzione altrove e agire di soppiatto. Annuì in segno d’intesa. Poi indossò la cappa e proseguì lasciandosi il mezzuomo alle spalle. A giudicare dai rumori stava ricaricando l’arma.
Calardir giunse all’ingresso e notò che la porta della stanza era semiaperta. Ovviamente non si preoccupò di passare inosservato. Anzi. Aspettò Destro e schiuse completamente l’uscio. Entrò, sollevò il braccio e puntò l’indice contro l’intruso; premurandosi di ottenere uno svolazzo considerevole da parte del mantello.
“Fermo!” ingiunse.
La camera era in penombra, ma le sagome si disegnavano perfettamente contro la finestra, l’una accanto all’altra. Il tiepido fascio di luce illuminava il pavimento ed evidenziava il disordine. Libri gettati alla rinfusa, coperte arrotolate. Perfino la candela giaceva a terra, ormai spenta e ridotta a un cumulo di cera informe. Subito riconobbe lo smilzo nella figura più alta e allampanata. Il riverbero della luce rendeva i suoi occhi luminosi. Folli. Le lacrime disegnavano invece scie traslucide sulla pelle di Dar’ya, facendole risaltare i lineamenti contratti dalla paura. Tremava, i pugni stretti alla camicia da notte. Probabile che lo fissasse nell’ombra, supplicandolo in silenzio. Calardir ingollò a vuoto, dacché l’altro la strattonò per il braccio e la strinse maggiormente a sé. Di conseguenza il riflesso della lama che le puntava alla gola balenò nella semioscurità.
Lo stregone alzò le mani, le mostrò chiaramente e fece un passo avanti. L’aggressore arretrò, trascinandosi dietro la ragazzina. Dar’ya singhiozzò. Tuttavia Calardir si concentrò altrove. Non poteva leggergli con chiarezza i tratti, ma lo smilzo sudava copiosamente e in controluce la sua pelle acquisiva una consistenza quasi viscida. In più continuava a muovere freneticamente le dita sull’elsa. Nervosismo. Era un baro, sì. E un ladro. Ma non era un assassino e quei panni gli stavano stretti.
“Dammi i miei soldi!” fece quello, quasi in falsetto. “Ti ho visto in taverna. Ci tieni, no?” chiese. “No?!” reiterò poi, spingendo la lama più a fondo. “Dammeli o giuro che la sgozzo come una scrofa! Anzi, dammi tutti i tuoi cazzo di soldi!”
Lo stregone non badò al ricatto, né allo strepito di Dar’ya. Non poteva e non voleva fare il suo gioco. Doveva solo guadagnare istanti preziosi; e nel frattempo preferiva di gran lunga atterrirlo. E per farlo non gli serviva la magia. Scosse la testa e si concesse un sorriso sbieco. Dopodiché puntò l’altro con una tranquillità che strideva terribilmente con l’atmosfera generale.
“Potrei darti ciò che vuoi. E tu potresti comunque ucciderla. Non c’è certezza nelle condizioni che proponi,” obiettò. “Vedi, minacciare qualcuno è come giocare d’azzardo. Non sai mai chi può capitarti davanti. E tu hai fatto male i conti. Hai creduto che m’importasse di lei più di quanto m’importi dei soldi.”
“Spergiuro! Traditore!” lo insultò la diretta interessata, divincolandosi.
Lo smilzo la strattonò ancora e le strappò un gemito strozzato. Probabile che le avesse torto il braccio. La cosa dentro Calardir accusò un sobbalzo e gorgogliò più forte. Lo stregone serrò la mandibola e si costrinse a distendere le braccia lungo i fianchi, invece di assecondare l’istinto e prendere lo stolto aggressore direttamente a pugni. O peggio. Trasse un respiro più profondo, respinse il calore e si strinse nelle spalle, come sordo ai singhiozzi di Dar’ya.
“Sentito? Una descrizione calzante,” continuò, senza distogliere lo sguardo dallo smilzo. “Perciò non ti darò un bel niente. Il più scaltro incassa, dopotutto. Ma fidati quando dico che se le apri la gola non ci sarà più nulla fra me, te e quello che io ti farò.”
Il diretto interessato deglutì rumorosamente, come se avesse ingoiato un limone per intero. L’aveva spiazzato e intimidito. E intanto aveva guadagnato tempo. Inoltre il trambusto non era di certo passato inosservato. Lo smilzo aveva commesso una pazzia e presto o tardi ne avrebbe pagato le conseguenze. Non fece in tempo a pensarlo che sentì vociare e rumore di passi provenire dal corridoio. Calardir s’irrigidì. A quel punto il panico avrebbe preso il sopravvento sulle minacce, rendendo l’uomo imprevedibile. E più pericoloso di quanto non fosse.
Uno schiocco, un breve sibilo e lo smilzo si piegò in avanti con un quadrello conficcato nella coscia. Di rimando Dar’ya morse il braccio attentatore e disarmò l’aggressore. Il pugnale cadde a terra con un tonfo fra le urla dello smilzo. Calardir ne approfittò per individuare la sagoma di Destro, in quel momento disteso sotto il letto col balestrino puntato sul bersaglio. Ne aveva fatta di strada con la sola copertura del mantello! Arricciò le labbra verso l’alto e rilassò i muscoli. Poi si avvicinò e scalciò la lama il più lontano possibile, mentre Dar’ya si sbrodolava in singhiozzi, insulti e sonore pedate ai danni dell’aggressore. Decisamente un ottimo metodo per scaricare la tensione. Sorpassò lo smilzo raggomitolato a terra e l’afferrò per le spalle con tutta l’intenzione di portarla via. Dar’ya si irrigidì e si divincolò fra i singhiozzi.
“Sssh,” le sussurrò.
Non voleva stringerla troppo, non dopo quanto aveva passato. La ragazza lo spintonò una volta. Una seconda. Calardir arretrò di un passo e ritrasse le mani. Il viso di Dar’ya era una maschera di sofferenza. La bocca le tremava, le lacrime le scendevano copiose lungo le guance, ma gli occhi lo accusavano in silenzio. Profondi, pungenti, cupi, le sopracciglia aggrottate che ne acuivano la gravità. Esprimevano delusione, forse disprezzo.
“Sei un miserabile. Non t’importa niente di me. Non t’importa… non voglio più saperne! Ti odio! Portami ad Arthia e sparisci!” Lo colpì al petto. “Sparisci! Non voglio più vederti! Mai più! Mi fai schifo!” reiterò, colpendolo ancora.
Lo stregone non si mosse, né replicò. Semplicemente la lasciò fare. Poi le energie l’abbandonarono e la ragazzina divenne molle come burro. Scattò e la sostenne prima che potesse finire a terra, passandole le braccia sotto le ascelle. Lentamente, cautamente l’abbracciò e Dar’ya gli si strinse al petto, sopraffatta dal pianto e dai singhiozzi. Poteva sentirla tremare, mentre serrava disperatamente le dita ai suoi vestiti.
“Sssh,” fece ancora, carezzandole i capelli.
La stanza si rischiarò, fra rumore di passi e commenti vari. Non sapeva quante persone fossero infine sopraggiunte, ma il locandiere gli passò frettolosamente accanto. Indossava la camicia da notte e in mano teneva una lampada a olio. Calardir socchiuse le palpebre e l’osservò mentre andava con lo sguardo da Dar’ya a Destro. Il mezzuomo era sullo smilzo e gli torceva ambo le braccia dietro la schiena, le labbra piegate verso l’alto.
“Uno sporco ladro,” spiegò Destro.
Allo stregone sembrò che godesse un po’ ad infierire; ciononostante risultava estremamente buffo, piccolo e agguerrito com’era. Il diretto accusato gemette e scosse violentemente la testa, ma il locandiere lo raggiunse e l’agguantò per il bavero.
“Bene. Fortuna che non s’è fatto male nessuno. Ci penserà la milizia a questo qua. Non si dica mai che i miei gentili ospiti non possano dormire sonni tranquilli!” fece. “Cammina!”
Lo smilzo gemette e s’agitò, ma l’uomo lo trascinò via ugualmente sotto gli occhi di tutti.
“Su, su, non c’è nulla da vedere. Tornatevene a dormire!” soggiunse Destro, scacciando i restanti curiosi con rapidi cenni delle mani.
Calardir lo seguì con lo sguardo mentre spingeva un paio d’avventori fuori dalla porta. Il mezzuomo ricambiò l’occhiata e si chiuse la porta alle spalle. Il vociare e il rumore di passi si allontanò man mano. Infine non restarono che i singhiozzi di Dar’ya, ancora stretta a lui come un naufrago a uno scoglio. Aspettò finché il respiro le tornò regolare. Poi cercò di scostarla da sé. Incontrò resistenza.
“Non lasciarmi da sola.”
Aveva paura.
“Non ti lascio da sola,” fece eco.
Dar’ya si staccò e sollevò il capo per guardarlo. Le carezzò ancora i capelli e ricambiò con estrema tranquillità, abbozzando un sorriso.
“Torna a letto e cerca di dormire. Domattina ripartiamo presto,” fece, interrompendo il contatto e distendendo le braccia lungo i fianchi. “Io sto qui,” ribadì.
Lei restò in silenzio. Forse non si fidava. Poi annuì debolmente e obbedì. Poco dopo la vide scomparire sotto le coperte. Di rimando Calardir si trovò un cantuccio per sé sul pavimento. Sedette e si avvolse nel mantello. Da lì avrebbe potuto vegliarla mentre dormiva. Dal fagotto di coperte che stava sulla sommità del letto spuntò la testa di Dar’ya. Una volta, due volte per controllare. Poi niente. Calardir sperò che dormisse. Poi sospirò, si portò le mani alla testa e si chiese cosa diavolo stesse facendo. Era davvero stanco e pensare ai pro e ai contro della situazione gli pesava terribilmente; ma solo l’idea di chiudere gli occhi lo spaventava terribilmente. Meglio passare la notte in bianco con lo sguardo fisso nel buio, che scorgere la luce e sognare lei.
Riecchime. ^^ Innanzi tutto volevo ringraziare la Lady666 per i pareri che mi lascia e che mi aiutano a capire che effetto hanno più o meno i miei capitoli. Lol. E poi perché fa sempre piacere sapere che c'è qualcuno cui interessa la storia! *w* Per il resto... boh, pian piano sto cercando di costruire ambientazione e personaggi. Nonché delineare la trama con i suoi misteri e i suoi risvolti. Credo che ci vorrà un po' per scoprire tutte le carte, dato che ci sono ancora parecchi personaggi e parecchie situazioni da raccontare. Spero che abbiate la pazienza di aspettare. Intanto Calardir e Destro si danno da fare con la loro particolare "società". Ma ci sono cose che il mezzuomo non può immaginare... Che cosa nasconde lo stregone? Non vi state consumando dalla curiosità? xP *e l'autrice si prese i pomodori marci in faccia* °A°
Grazie per essere giunti fin qui. Alla prossima!
CompaH

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Capitolo 4
*** Capitolo 3 - La Cerca ***


 Capitolo 3 - La Cerca
“Aiuto! Aiutatemi per favore! Non voglio morire così! Aiuto!”
Una coppia di tordi schizzò fuori dagli arbusti e spiccò il volo, dileguandosi attraverso le fronde degli alberi. Velkan invece arrestò il passo, sollevò il capo e drizzò le orecchie.
Era allarmato, lo sentiva. Di rimando Nadire si pose sottovento e s’acquattò dietro una grossa roccia ricoperta di muschio. In lontananza percepiva ancora il richiamo di uno scoiattolo; uno squittio acuto, costante, talvolta modulato in un breve gorgheggio. Il resto della fauna taceva. Le foglie invece stormivano di tanto in tanto, cullate dalla brezza.
Velkan non si attardò oltre e si dileguò nel sottobosco con la coda ondeggiante e il muso basso.
“Aiuto, vi prego! Mi fa male la caviglia! Aiutatemi, vi assicuro che non lo farò più! Sarò bravo! Chiederò scusa a Maksim e terrò le mani a posto!”
Nadire scivolò lentamente fra le foglie cadute, il baricentro basso, la sinistra poggiata al suolo e la destra stretta sull’elsa del pugnale. A giudicare dalla voce doveva essere un ragazzino; umano di sicuro, considerando la zona.
Non si fidava. Chiedere aiuto era spesso un mero trucco per attirare i gonzi nelle imboscate. Possibile che avesse altri compari nascosti tra la vegetazione.
Si mantenne bassa e si spostò ancora, distendendo cautamente le gambe con la leggerezza di un ragno. Nel mentre analizzò il terriccio e notò una scia di foglie smosse. S’inoltrava nel bosco, lì da dove provenivano le urla. S’avvicinò ulteriormente alla pista e la studiò, scansando con le dita i sassi, gli arbusti e il muschio che le erano d’intralcio. C’erano due serie d’impronte che s’incrociavano.
La prima era di un bipede. L’umano. La seconda apparteneva a un cinghiale. Di taglia considerevole, almeno a giudicare dalla profondità delle tracce. Più avanti c’erano invece segni confusi, di trascinamento.
S’immaginò la scena. Il ragazzo doveva essere caduto proprio lì. Aveva poi arrancato con le mani e con i piedi per rialzarsi e continuare a scappare. Era indubbiamente passato attraverso il pungitopo che stava più avanti con la bestia alle calcagna, come suggerivano i rami spezzati e ormai divelti dell’arbusto. Impronte di altri umani erano invece assenti.
“No! No! Aiuto! Non ti avvicinare! No! Stai indietro, bestiaccia! Stai indietro!”
Velkan.
Nadire sospirò e lasciò l’elsa del pugnale, rilassando le membra. Il ragazzo era indubbiamente sfuggito alla carica, se aveva ancora tanto fiato da sprecare. Si concentrò e sfruttò il legame col lupo per osservare la situazione dal suo punto di vista.
Le immagini le arrivarono alla mente rapide e sfocate, ma rivelatrici. Il terriccio, le fronde, l’improvviso dislivello roccioso, da cui l’animale s’affacciava. L’umano stava seduto tra le foglie e i sassi, sul fondo dell’avvallamento. Un salto di quattro metri al massimo. Agitava le braccia in aria nel tentativo di scacciare il lupo e faceva goffamente leva con la gamba destra per arretrare. Evitava invece di poggiare il piede sinistro.
Si alzò, sistemò meglio arco e faretra dietro la schiena e si diresse da quella parte. Velkan la stava già aspettando ai margini del dirupo, le orecchie dritte e gli occhi ambrati puntati su di lei. Dal fondo del dislivello risalivano invece gli strepiti del ragazzino.
Nadire serrò le labbra in una linea dura. Che fastidio. Raggiunse il bordo e s’affacciò oltre, adocchiando con freddezza la causa del trambusto. Quello sollevò la testa e la fissò di rimando, con un misto di sorpresa e speranza impresso negli occhi. Lo vide deglutire, distendere la fronte e dischiudere le labbra. Una, due volte prima di riuscire a parlare.
“Un… un elfo?”
Non rispose. Né si mosse. Quello deglutì un’altra volta, forse indeciso sul da farsi.
“T-ti prego. Tirami fuori da qui,” la supplicò poi.
Era sporco, magro e vestito di stracci, con i capelli arruffati incollati al viso. Non aveva più di tredici anni, constatò; e non portava armi. Neppure un pugnale, poiché tra sé e il lupo aveva interposto solo le braccia. Quindi non si era inoltrato nel bosco per cacciare. Il cinghiale meno che mai.
Gracile com’era poteva sperare di acchiappare qualche lepre a mani nude, ma contro una bestia di tale portata non avrebbe avuto possibilità anche armato di lancia. Dalla sua borsa, poi, spuntavano carote e melanzane. Non funghi, come sarebbe stato più ovvio in un contesto boscoso. Ciò cancellò dalla mente di Nadire l’idea residua del cacciatore e tratteggiò senza ulteriori dubbi quella del ladruncolo.
“Sei di Melcent?” domandò, secca.
“Come? I-io… non lasciarmi qui. Morirò. Non riesco a poggiare il piede a terra, sono caduto e…”
“Rispondi.”
Il ragazzino sussultò e sbatté le palpebre come se l’avesse schiaffeggiato. Poi tornò con lo sguardo a lei, si fece più piccolo e annuì.
“Hai visto uno straniero biondo, circa venticinque anni, con della pittura simile alla mia sul viso?”
“No,” rispose l’altro, riavviandosi i capelli, “ma forse Erofey sì. Non so se è il tizio che dici tu, ma una settimana fa l’ho sentito urlare. Tutta Melcent l’ha sentito. A proposito di uno straniero che ha infilato le mani nelle sottane di sua cugina.”
Serrò le labbra in una linea ancora più dura. Era lui. Non le servivano altri dettagli. Arretrò e si diresse all’albero più vicino.
“No! Aspetta! Non andare! Non lasciarmi da solo con questa bestia! Digli di non mangiarmi! Diglielo!”
Velkan ringhiò e il ragazzino strillò.
Nadire scosse la testa. Era rumoroso ed era un umano; ma forse poteva tornarle utile come lei sarebbe tornata utile a lui. Uno scambio equo.
Raggiunse la quercia, ai cui piedi pose arco e faretra. Estrasse la corda dalla sacca che portava a tracolla e l’avvolse rapidamente attorno al tronco, cui l’assicurò con un nodo ben saldo. Tornò al margine dell’avvallamento e se la passò fra le gambe, la schiena rivolta alla frattura. Avvolse il capo libero della fune attorno alla coscia sinistra e se lo fece risalire lungo il petto. Infine lo piegò sulla spalla destra dimodoché penzolasse lungo la schiena e lo agguantò saldamente con la mano libera.
Così imbracata si calò agilmente, lasciando che la fune scorresse sugli arti e ne sostenesse il peso durante la discesa. Velkan l’osservò dall’alto, seduto al margine del dislivello con la testa inclinata e l’espressione attenta, curiosa.
Nadire lasciò andare la corda quando poggiò i piedi sul fondo. A passo di marcia raggiunse il ragazzo e s’inginocchiò accanto a lui per constatarne le condizioni. Ora che lo vedeva da vicino poteva notare i graffi e le abrasioni che aveva su viso, mani e avambracci.
“C-che fai?”
Gli scoccò un’occhiataccia. Poi allungò le mani e gli afferrò la gamba. Quello s’irrigidì appena, ma le lasciò ugualmente saggiare le condizioni dell’arto.
Palpò la coscia, il ginocchio e lo stinco, strappandogli un sussulto e qualche sibilo solo in prossimità della caviglia. Era gonfia e dolorante, ma non le sembrava che ci fosse qualcosa di rotto. Probabile che si trattasse di una mera distorsione.
“Pensi che guarirà?” le domandò il ragazzino, la fronte aggrottata e le sopracciglia piegate in un’espressione preoccupata. “Le gambe mi servono. Se non corro non mangio. Non è mica semplice il mio mestiere. Sempre a guardarsi le spalle! È per questo che sono finito addosso al cinghiale. Ero così impegnato a controllare dietro che non ho controllato avanti.”
Poco ma sicuro. Dopotutto per scappare non aveva guardato nemmeno dove stava dirigendosi; e il pavimento gli era mancato da sotto i piedi.
“Non ci credi? Guarda che me la sono vista davvero brutta! Magari quel mostro è ancora nei paraggi. Avresti dovuto vederlo! Era enorme! Aveva occhi piccoli e luminosi. Malvagi. E due zanne grosse così!”
“Stai fermo. E zitto,” ribatté.
Le chiacchiere non le interessavano. Specie se erano le farneticazioni di un ladruncolo da quattro soldi. Il diretto interessato obbedì, ma continuò a fissarla con insistenza mentre frugava nella sacca e recuperava le bende. E se in principio il ragazzino l’era parso spaventato, ora le sembrava unicamente incuriosito. Forse non aveva mai visto un mezzelfo. Non c’era da stupirsi, dacché era molto giovane e conosceva ancora così poco della vita. Beh, almeno aveva imparato che non bisognava mai disturbare i cinghiali.
“Mi chiamo Orest,” si presentò inaspettatamente quello, contravvenendo all’ordine di tacere.
Nadire non rispose; non lo guardò nemmeno. Invece gli arrotolò la stoffa dei calzoni sul polpaccio e gli mise completamente a nudo la caviglia tumida.
Faccia da mantide. È così che vi chiamano,” continuò Orest. “Io no, eh! E poi tu sei a posto. Cioè, non sembri un insetto. Non hai quelle… cose!” soggiunse, muovendo freneticamente le mani innanzi a sé nella goffa imitazione di una mantide. “Soprattutto non sei verde. Sarà per gli occhi, forse… o per la mascella allungata, chissà. Io trovo che siano eleganti. Particolari.”
Nadire inarcò le sopracciglia e spiegò il lembo della benda con un gesto secco. Questa non l’aveva ancora sentita, più abituata a epiteti come selvaggi o mangia bacche.
“Cos’hai usato per dipingere il viso e le braccia? Terra? Deve essere utile per mimetizzarsi. Voi vivete nei boschi, no? Ho sentito che alcuni di voi si sono integrati, più a Nord. Scommetto che a te il cinghiale non t’avrebbe visto. Dici che se mi sporco la faccia di fango posso fregare i cani di Maksim?”
Che idiozia! Stavolta non lo zittì. Né gli scoccò un’occhiataccia. Semplicemente gli afferrò la caviglia dolorante senza un minimo di delicatezza e cominciò a fasciargliela stretta il più possibile. Quello strizzò gli occhi, incassò la testa nelle spalle e sibilò di dolore. Soprattutto chiuse il becco.
Nuovamente cullata dallo stormire delle fronde la mezzelfa terminò il bendaggio, l’annodò per bene e si sollevò. In quella maniera il moccioso avrebbe quantomeno potuto poggiare il piede a terra.
“Alzati,” sentenziò.
Non aspettò. L’afferrò saldamente per il bavero e lo trasse a sé. Orest saltò in piedi e ondeggiò leggermente prima di riacquistare l’equilibrio. Non era molto più basso di lei, constatò.
Nadire gli diede le spalle e tornò alla corda. Forse più avanti l’avvallamento si ammorbidiva, ma non aveva il tempo di prendersela comoda e di costeggiarlo per tutta la lunghezza. Per sicurezza afferrò la fune e se la strinse attorno alla vita; poi piantò mani e piedi sulle asperità della roccia e risalì lentamente, sfruttando gli appigli disponibili.
Appena raggiunse la cima Velkan le andò incontro e l’annusò. Nadire gli riservò un veloce buffetto; dopodiché tornò a rivolgersi al moccioso, che la fissava dal basso con l’espressione stupita di chi aveva appena assistito a un prodigio. Si tolse l’imbracatura, fece un cappio sull’estremità libera della corda e gliela lanciò.
“Infilaci le braccia e stringilo attorno al petto.”
Orest zoppicò fino alla fune, afferrò il cappio ed eseguì con riluttanza. Poi la guardò e corrucciò le sopracciglia.
“Non posso scalarla! Mica sono nato e cresciuto in una foresta! Qui ci sono finito per caso. Che ne so io di come si fanno ‘ste cose? Frego le uova, le verdure e qualche pollo, quando ci riesco. Tutto qua!”
Che fosse estraneo a quei luoghi l’aveva capito da subito; ma erano problemi suoi.
Aveva già perso troppo tempo con lui e insegnargli a scalare le pareti rocciose era l’ultima delle sue intenzioni, ammesso di riuscirci. Perciò afferrò la fune e se l’avvolse per due volte sul palmo della mano. Tirò e face pressione sui piedi, sfruttando soprattutto il peso del corpo. La fune si tese e il carico del ragazzino si fece sentire nella sua completezza.
Strilla e imprecazioni risalirono il dislivello, ma le ignorò. Nadire raggiunse la quercia cui era assicurata la fune, i piedi che le affondavano nel terriccio a ogni, faticoso passo. Scivolò una, due volte per via dell’umidità. Infine piegò l’estremità che teneva fra le dita sul tronco dell’albero, così da ricavare appoggio e un minimo di sollievo. Tese ulteriormente i muscoli, strinse i denti e fece scorrere la fune su di esso a più riprese, il sudore che le si addensava sulla fronte, sul petto e lungo la schiena.
“No! Fermo! Va’ via! Via! Stupida bestiaccia! Stai lontano da me!” strillò il moccioso.
Girò la corda attorno al tronco e si sporse a guardare.
Orest aveva raggiunto la cima e Velkan l’aveva agguantato per la casacca, tirandolo verso la cresta con le ganasce. Dal canto suo Nadire avrebbe avuto molto da dire sull’effettiva intelligenza dell’uno e dell’altro, ma evitò il superfluo e fermò la fune all’albero.
Tornò al margine del dislivello e aiutò il lupo, mentre Orest cercava di aggrapparsi con le unghie e con i denti a qualsiasi cosa, sassi, foglie e terra, forse terrorizzato dall’idea di precipitare una seconda volta.
Lo tirò agilmente su e il moccioso rotolò sulla cima, posizionandosi supino lungo il margine dell’avvallamento. Ansimava ed era tutto sudato, quasi a faticare fosse stato lui e non viceversa.
Pappamolle.
Lo lasciò fare, concedendogli qualche istante per allentare la tensione. Raccolse la ciocca ribelle che le era scivolata sul viso e se la portò sulla sommità della testa. La sistemò fra le chiome intrecciate e la fermò nuovamente sulla nuca con uno dei tanti rametti che le adornavano il capo.
Ne approfittò anche per controllare l’equipaggiamento. L’armatura di cuoio era a posto, constatò saggiando gli spallacci e le protezioni degli avambracci. Passò le dita sul pugnale che teneva in vita. Si chinò e fece altrettanto con il coltellino che nascondeva nello stivale per qualsiasi evenienza. Erano a posto. Si aggiustò le imbottiture di pelliccia, umide di sudore, e strinse meglio la cintura intrecciata di pelle. Infine recuperò l’arco, la faretra che aveva lasciato tra le radici della quercia e si premurò di raccattare anche la corda.
Sciolse i nodi e valutò i danni che la canapa aveva riportato, sfilacciandosi in più punti per via della frizione. Avrebbe dovuto procurarsene un’altra il prima possibile.
“In piedi, forza,” fece, osservando distrattamente Orest.
Quello si era coperto gli occhi con l’avambraccio ed era rimasto immobile da che era risalito. Gli si avvicinò e lo colpì sul fianco un paio di volte con la punta dello stivale. Il ragazzino mugugnò e non si mosse. Velkan giunse a darle manforte e gli lappò invece la faccia.
Soltanto allora Orest balzò a sedere, permettendole di sfilargli il cappio e di riporre così la corda.
“Lupi, cinghiali, dirupi!” protestò quello nel frattempo; poi sputazzò un paio di volte. “È la prima e ultima volta che mi nascondo in un bosco! Meglio la gattabuia! Mangio gratis e senza rimetterci l’osso del collo!”
“In piedi,” reiterò, insensibile ai lamenti. “Devi portarmi da questo Erofey.”
Orest si passò la mano fra i capelli e la fissò dal basso col sopracciglio alzato.
“Sicura?” chiese poi.
Non rispose. Tese il braccio e cercò di acchiapparlo nuovamente per il bavero, intenzionata a rimetterlo in piedi. Tuttavia il ragazzino si ritrasse e frappose le mani nel mezzo, i palmi esposti.
“Ho capito, ho capito! Faccio da solo,” disse; poi si alzò goffamente. “Tutto sommato credo che tu non corra rischi. Certo, lui è un uomo ed è molto più grosso di te. Ma è stupido. E in quanto a forza bruta nemmeno tu scherzi. Le maniere, invece… non so chi sia messo meglio!”
Nadire s’accigliò, lanciandogli l’ennesima occhiataccia. Di rimando l’altro si fece più piccolo.
“Non mi hai detto come ti chiami,” si giustificò, stretto nelle spalle.
“Nadire,” borbottò la mezzelfa.
 Orest sollevò il capo e le sorrise. Sembrò illuminarsi.
“È un bel nome. Un nome da elfo!”
Moccioso! Gli diede le spalle e s’incamminò.
Velkan le trotterellò accanto e la sorpassò, scomparendo più avanti nella boscaglia. Probabile che stesse perlustrando la zona. Il moccioso invece le strillò di aspettare, ma l’ignorò. Scansò un nugolo di funghi e proseguì, facendosi strada tra gli arbusti. Il passo dell’altro era pesante e discontinuo, dietro di lei; e sempre più lontano.
Nadire incappò in un cespuglio di biancospino, con i candidi fiori che facevano capolino fra gli aculei. Il limitare del bosco non doveva essere lontano, ormai. Ciononostante si poggiò sul ginocchio, estrasse il pugnale e si fermò a raccogliere i boccioli, premurandosi di non intaccare l’arbusto più del necessario. Le sarebbero tornati utili come rimedio. In più non avrebbe seminato la sua guida.
Dei lievi fruscii l’avvisarono del ritorno di Velkan. Il lupo sgusciò fra la vegetazione e si fermò a una decina di passi da lei, il capo eretto e le orecchie dritte. La stava aspettando. Riprese il cammino e Velkan scomparve nello stesso cespuglio da cui era sbucato.
Lo ritrovò ai margini del bosco che fissava i dintorni, seduto sulle zampe posteriori. A giudicare dalla posizione del sole mancava poco a mezzogiorno. Nadire l’affiancò, si schermò il viso con le dita e strinse gli occhi.
Oltre si stendevano prati e campi ben delineati, frazionati dagli sterrati che collegavano le abitazioni contadine al fulcro del villaggio. Alcune macchie verdi indicavano invece i frutteti della zona. I tetti di Melcent prendevano posto più in là, sulla via principale, stretti gli uni agli altri a formare un agglomerato di paglia. Tutt’attorno brulicavano piccole sagome in movimento. Umani.
I passi incerti e pesanti di Orest ne preannunciarono l’arrivo. Non attese oltre.
“Resta qui,” fece, il tono basso e cupo.
“Non dici a me, vero?!” esclamò il moccioso.
Nadire mandò gli occhi al cielo e riprese il cammino. Velkan non si mosse, ma quando s’allontanò lo sentì guaire. Non si voltò. A passo di marcia discese il leggero pendio e tagliò per i prati, seguita dalle proteste di Orest.
“Fermati! Non dovevo essere io a fare strada?”
Dai campi le teste di molti si sollevarono a guardare. Qualcuno esclamò da lontano, qualcun altro si sbracciò, ma non capì le parole. Né si premurò di approfondire. Il ragazzino urlò qualcosa in risposta.
Raggiunse la strada che il sole era alto nel cielo. Lungo il percorso incappò in un carro colmo di fieno e trainato da buoi. Ondeggiava, complici le ruote che di tanto in tanto deviavano sui vecchi solchi scavati nel terreno.
“Salta su!” suggerì il ragazzino. “E poi dammi una mano a salire. Non ce la faccio più!”
Era la prima idea decente che gli veniva in mente; perciò raggiunse il carro, vi poggiò i palmi e si issò, prendendo posto a sedere senza che il conducente se ne accorgesse, vuoi per l’ingombro costituto dal carico, vuoi per il rumore delle ruote che battevano lo sterrato.
Orest aveva allungato il passo, ma arrancava malamente lungo il cammino, zoppicando e sibilando di dolore. Sudava; e tanto. Nadire l’agguatò per gli avambracci appena possibile e lo trasse a sé, facendogli posto. Quello s’aggrappò al margine del carro e s’issò, assecondando il movimento. Poi si lasciò andare sul fieno, trasse un profondo, lungo sospiro e giacque inerte a occhi chiusi. Doveva essere esausto.
Durante il tragitto il ragazzino si lasciò scappare più di un grugnito, ma quando le prime abitazioni di Melcent le sfilarono accanto gli assestò un colpo nel costato, stavolta col gomito.
“Portami da Erofey,” reiterò.
Quello si svegliò di soprassalto e si guardò freneticamente attorno, manco temesse un attacco. Poi la fissò, realizzò e ricadde supino sul fieno.
“Erofey, sì. Dammi un istante ancora. La caviglia pulsa da impazzire.”
Nadire pazientò. Si guardò attorno e analizzò le casupole del villaggio.
Erano di legno, fango e paglia. La maggior parte degli abitanti era invece costituita da vecchi, donne e bambini. Gli uomini dovevano essere per la maggior parte sui campi, a lavorare la terra. Capre e polli scorrazzavano per i vicoli. Lungo una delle strade intercettò delle piccole bancarelle, con le tende colorate che spiccavano sul livore generale. Lì la concentrazione di umani era maggiore, soprattutto a giudicare dal vociare.
Non si stupì quando incappò in facce curiose che la fissavano di rimando, analizzandola come lei stava analizzando i dintorni. Doveva apparir loro fuori luogo. Dopotutto quanto la circondava la faceva sentire proprio così. Di conseguenza si domandò cosa lui fosse venuto a fare in un posto simile. Sospirò.
“Ci siamo,” le comunicò d’improvviso Orest.
Il ragazzino balzò giù dal carro in movimento e barcollò in avanti, sbracciando goffamente nel tentativo di non cadere. L’imitò, ma a differenza del moccioso atterrò agilmente e trovò perfino il tempo di afferrarlo per i vestiti e aiutarlo così a riacquistare l’equilibrio. Con un cenno del capo Orest le indicò la forgia che stava sul lato della strada.
Si sviluppava come estensione di una modesta abitazione e prendeva posto su una piattaforma di legno, pietra e fango. Era delimitata da una staccionata e coperta da una tettoia di paglia, mentre grossi tronchi sorreggevano l’intera struttura. Del fumo usciva dal comignolo sulla sommità.
Un uomo sulla trentina con un grembiule di cuoio stretto in vita armeggiava col mantice, i tizzoni che si ravvivano all’interno della fucina a ogni, poderoso soffio. Il riverbero della luce gli metteva in evidenza le masse muscolari madide di sudore di braccia e schiena. Era grosso, probabilmente forte come un toro.
Istintivamente Nadire schioccò il collo con un rapido movimento del capo e serrò la mandibola. Poi si lasciò Orest alle spalle a salì i gradini della pedana.
Erofey non l’aveva vista. Si avvicinò, mentre l’altro batteva il ferro. Prima su un lato, poi sull’incudine e infine sull’altro lato, mantenendo il ritmo costante e serrato. Sfruttò il frastuono e raggiunse le spalle dell’omaccione senza farsi notare. Si era messa anche sottovento, notò. Scosse leggermente la testa. Le veniva così naturale che quasi non se n’era accorta.
“Ehi!” chiamò, mani sui fianchi.
Erofey sollevò il capo, come se avesse sentito una mosca ronzargli nell’orecchio. Poi raddrizzò la schiena, tralasciò il lavoro e si voltò a fronteggiarla, martello alla mano. Da vicino era ancora più alto e più massiccio di quanto avesse calcolato in principio. Per guardarlo in faccia fu infatti costretta a sollevare la testa.
L’uomo aveva capelli e barba incolti, faccia squadrata e occhi piccoli, sotto un unico, imponente ciuffo di sopracciglia nere che quasi li faceva scomparire. Il collo era massiccio come quello di un toro. Puzzava anche come uno di quelli. E la guardava con durezza. Si lasciò squadrare in lungo e in largo, affatto turbata; poi quello grugnì e sfoderò un sogghigno sghembo.
La mezzelfa inarcò il sopracciglio.
“Orecchie a punta, eh! Non se ne vedono molti,” esordì quello, adoperando l’ennesimo modo di dire. “Beh, non m’interessa. Ma se ti serve qualcosa devi parlare col mio vecchio. È in casa. Perciò vattene e lasciami lavorare.”
Ciò specificato l’omaccione fece per tornare all’incudine e al pezzo di metallo appena abbozzato che vi stava sopra. Non gliene diede il tempo. Nadire allungò il braccio e l’afferrò vigorosamente per la spalla. Quello s’irrigidì e la puntò nuovamente, fronte aggrottata.
“Si può sapere che vuoi?”
“Giorni fa hai incontrato un uomo biondo con della pittura sul viso. Dimmi com’è andata.”
Aveva premura. Molta. E non si era fatta scrupolo a stringere, tradendo forse l’impazienza. Quell’Erofey era l’unico tramite che aveva e non poteva lasciarselo sfuggire.
Il diretto interessato grugnì una seconda volta, indurì l’espressione e con la mano libera si disfò bruscamente della presa. Poi avanzò di un passo. Era grosso. Incombente. E la superava in altezza tanto del petto quanto della testa. Ciononostante la mezzelfa non indietreggiò. Anzi, continuò a fissarlo dritto negli occhi con determinazione.
“Sempre la stessa storia. Prima quelli di Helientar, ora tu. Ma a quanto pare non sei una sacerdotessa,” sibilò l’uomo. “Perché lo stai cercando, eh? Faccia da mantide. Voi selvaggi siete originari delle foreste a Nord e siete dei cacciatori. Perlopiù, almeno. Ma chissà… forse fra voi c’è chi s’intende di sortilegi. Di magia. E questo spiega che cosa ci fai qui,” fece una pausa e avanzò di un altro passo, “non è così… strega?”
Nadire sgranò gli occhi, colta alla sprovvista. E non perché l’energumeno avesse nominato i sacerdoti del Luminoso. Aveva messo in conto delle grane. E sapeva che gli umani erano sciocchi. Ma mai si sarebbe aspettata simili illazioni.
Istintivamente si guardò attorno e si assicurò che nessuno avesse sentito. Tanto più che un capannello di curiosi stava adocchiandola di lontano, lungo lo sterrato. Fra essi riconobbe Orest.
Non sapeva come si erano svolti i fatti riguardanti la cugina, ma l’allusione di Erofey poteva significare solo due cose. Guai. E che lui non s’era premurato di nascondere la propria natura.
“Non sono una strega.”
Lo sottolineò con calma, ma l’interlocutore non le parve convinto. A ragione, in effetti, dacché nessuna strega avrebbe confermato di essere una strega, con l’eventualità di essere bruciata viva.
Erofey sbuffò dalle narici come un toro arrabbiato e rinsaldò la stretta sul martello, indeciso sul da farsi e nondimeno ostile.
La mezzelfa diresse lo sguardo nuovamente alla folla, poi ancora sul fabbro. Infine indirizzò la destra alla borsa; ma Erofey interpretò il gesto come pericoloso, perché giunse improvvisamente a capo dei dubbi e sollevò il braccio armato.
L’ombra le si proiettò sul viso prima ancora del colpo. Un brivido le scivolò lungo la colonna vertebrale. Nadire contrasse i muscoli delle gambe, piantò i piedi a terra e scartò di lato. Il martello le fischiò accanto e concluse il suo arco nel vuoto. Erofey si bilanciò in avanti, assecondando lo slancio, e le offrì suo malgrado il fianco e la schiena. Non era un combattente, valutò; ma era forte, probabilmente resistente. E sottovalutarlo sarebbe stato un azzardo.
Gli assestò una pedata sul sedere, allontanandolo da sé. L’omaccione caracollò in avanti e impattò contro la staccionata che delimitava la piattaforma della forgia, emettendo un sonoro grugnito. Il legno invece tremò e scricchiolò sotto la mole dell’uomo e quasi pensò che si sarebbe spezzato.
Erofey impiegò poco per riacquistare l’equilibrio. La fronteggiò, raddrizzò le spalle e gonfiò il petto. Era più furioso di prima e le vene gonfie del collo, le sopracciglia inarcate, il colorito rossastro del viso lasciavano poco ai dubbi. Tuttavia nei suoi occhi c’era una luce diversa, che invero rivelava incertezza. E paura.
Nadire si spostò cautamente indietro e pose l’incudine fra sé e il fabbro, senza mai perderlo di vista.
“Sono qui per parlare,” affermò; e fece un altro passo indietro.
Il tacco dello stivale impattò contro qualcosa.
“Chiudi la bocca!” ringhiò l’altro. “Pensi che sia uno stupido? Non ci casco più! Niente trucchi, stavolta! Niente chiacchiere, niente gesti, niente… polveri strane!”
Erofey avanzò a grandi falcate, macinando la distanza che li separava. Nadire poteva sentirne il fiato grosso, il tonfo dei piedi sulla piattaforma di legno e l’odore pungente della pelle, accaldata e madida di sudore. E ancora una volta si chiese cosa lui avesse combinato per scatenare in quell’uomo una tale avversione.
Probabilmente con una o due botte in testa il bestione si sarebbe calmato, ma azzuffarsi non rientrava propriamente nei suoi primari obbiettivi. Senza contare che di quel passo avrebbe finito per inimicarsi l’intera comunità.
La mezzelfa abbassò il baricentro, tenne i riflessi pronti e lanciò un’occhiata ai suoi piedi. Adesa allo stivale c’era una tinozza colma d’acqua. Serrò la mandibola e puntò l’avversario. Ormai prossimo, Erofey scattò, aggirò l’incudine e sferrò un’altra, rude martellata.
Nadire scavalcò la tinozza e saettò oltre la traiettoria del colpo, mentre l’omaccione si sbilanciava nuovamente in avanti e finiva col piede dentro il recipiente. Il fabbro sbandò, pestò la tinozza a terra e avanzò goffamente di qualche altro passo. Finché con un tonfo e un gemito strozzato crollò lungo disteso. Il martello gli sfuggì di mano e scivolò lontano.
Nadire rilasciò il fiato e andò con lo sguardo ai curiosi più intraprendenti, che si erano avvicinati alla staccionata per controllare meglio la situazione. Qualcosa l’agguantò per la caviglia; e sentì il pavimento mancarle da sotto i piedi, vide il mondo vorticarle furiosamente attorno.
Impattò al suolo l’istante successivo. Strinse i denti e sibilò di dolore, dirigendo le iridi dorate su ciò che l’aveva trascinata a terra. Erofey la fissava di rimando con le narici dilatate e i denti scoperti in una sottospecie di ringhio, non fosse per i baffoni che andavano a nascondergli le gengive. Teneva la mano stretta alla sua caviglia e nei suoi occhi lampeggiava un solo, terribile intento.
Esitò, indecisa sul da farsi. L’omaccione ne approfittò e la trascinò sulle assi del portico. La mezzelfa cercò appiglio con le dita, percepì il legno grezzamente lavorato scorrerle sotto i palmi, sotto i polpastrelli e le schegge infilarsi nella pelle, ma non riuscì nell’intento. Erofey la sovrastò con la sua mole e l’afferrò per la gola, schiacciandola al suolo e strozzandole il respiro.
Gemette e portò le mani al braccio attentatore, cercando di sfuggire alla morsa. Il fabbro invece andò con la mano libera al fodero di cuoio che teneva assicurato in vita e le sottrasse il pugnale, che sollevò prontamente sopra la testa.
Nadire osservò con orrore la lama puntare contro di lei e sentì lo stomacò contrarsi, i brividi scivolarle lungo la colonna vertebrale. Poi il colpo calò, dritto contro il suo ventre. Serrò i denti fino a farli scricchiolare. Si contorse, sfuggì alla morsa che la teneva bloccata e con uno scatto si girò sul fianco. Seguì uno schianto secco che le si conficcò soprattutto nella coscienza, mentre il sudore le scivolava gelido lungo la schiena.
Stavolta non esitò, nemmeno pensò alle eventuali conseguenze. L’istinto era più forte della ragione; e il desiderio di pestare l’aggressore era ormai diventato una necessità.
Con un colpo di reni assestò una decisa testata sul naso dell’uomo. Quello strabuzzò gli occhi, batté le palpebre e vacillò, forse colto di sorpresa. Di sicuro frastornato dal colpo.
La mezzelfa ne approfittò. Piegò il ginocchio, glielo piantò sullo sterno e spinse. Lo scaraventò di lato, in un capovolgimento delle posizioni, e lo sovrastò ponendosi a cavalcioni del suo corpo con la sua più minuta stazza.
Lo sforzo l’insidiò e il mondo le vorticò attorno come impazzito, vuoi per la testata, vuoi per la stanchezza. Il fabbro l’osservò di rimando dal basso e sollevò con urgenza una delle grosse braccia, probabilmente nel tentativo di colpirla alla bene e meglio e togliersela di dosso.
Nadire strinse i denti, frappose l’avambraccio sinistro nel mezzo e intercettò l’arto attentatore; dopodiché caricò il pugno col destro e glielo schiantò direttamente sul grugno. All’impatto seguì un grugnito di dolore e del formicolio che le si propagò dalla mano fino alla spalla. Ciononostante non esitò e lo colpì ancora e ancora, finché il naso di Erofey divenne un grosso grumo rosso e viola.
La mezzelfa percepì appena il bruciore diffondersi all’altezza delle nocche. Sotto di lei, l’omaccione s’inarcò, si contorse nel tentativo di liberarsi. Nadire ondeggiò e con orrore vide le dita dell’uomo correre al pugnale infisso nelle assi.
Fu più veloce, afferrò l’arma, l’estrasse e gliela pose di taglio lungo la gola, quel tanto da recidergli la pelle soltanto; e un rivolo cremisi scivolò lungo la linea del collo taurino.
Di conseguenza sentì le membra sottostanti irrigidirsi, mentre il petto del fabbro si alzava e si abbassava vistosamente in cerca d’aria. Erofey rilasciò anche le braccia e le adagiò sul pavimento, perpendicolari rispetto al corpo. Nei suoi occhi, però, bruciava ancora il fuoco della rivalsa. E anche un pizzico di disprezzo.
Col mento alto e la mandibola contratta, Nadire continuò a fissarlo di traverso dalla posizione sopraelevata, senza spostare la lama. Avrebbe potuto sgozzarlo come un capriolo… La mano le tremò, mentre il sudore le si asciugava addosso e i muscoli spasimavano al di sotto della pelle, carichi d’anticipazione. Deglutì. Il vociare degli astanti la richiamò all’attenzione quel tanto da scuoterla dai primari istinti.  
“Ora mi lascerai infilare la mano nella sacca e guarderai quanto ho da mostrarti. Poi mi dirai quello che voglio sapere,” sentenziò, fissandolo dritto negli occhi con freddezza. “Ti è chiaro?”
Premette un po’ di più sulla gola del fabbro, come incentivo. L’altro s’accigliò maggiormente, ammesso e non concesso che fosse possibile, e perseverò in silenzio per qualche istante. Infine annuì con un grugnito.
Una strega l’avrebbe molto probabilmente già arrostito, per cui riteneva lampante come il sole che lei non rientrava nella categoria; ma con quell’individuo era meglio non dare nulla per scontato.
La mezzelfa allentò leggermente la pressione della lama e infilò la mano libera nella sacca di cuoio. Individuò a tentoni la pergamena che cercava e l’estrasse con un gesto secco. La pose innanzi agli occhi di Erofey, dimodoché potesse constatare di persona il contenuto del documento; e vide chiaramente i lineamenti dell’omaccione distendersi in un’espressione di stupore.
“Questo…” il fabbro si umettò le labbra spaccate e andò con lo sguardo dalla pergamena a lei. “Questo è…”
Annuì, constatando che l’altro aveva riconosciuto il viso ivi ritratto alla prima occhiata.
Dunque non c’erano più dubbi: l’uomo che aveva infastidito la cugina di Erofey era proprio lui. E ancora una volta l’aveva mancato di un soffio. Incurvò ulteriormente le labbra verso il basso, in un’espressione di puro disappunto. E frustrazione.
Nadire rilasciò il fiato, esitò ancora un po’ a lama sguainata e infine rinfoderò anche il pugnale. Si alzò e barcollò suo malgrado da un lato, lasciando l’altro libero di muoversi. Quella testata non era stata uno scherzo nemmeno per lei.
“Una cacciatrice di taglie, uh,” constatò il fabbro, adocchiandola dal basso.
C’era ancora del sospetto nel suo sguardo. E del rancore. Poteva bene immaginare perché; e il sangue gli scendeva a fiotti dalle narici, raggrumandosi sui baffi e ai lati della bocca.
Dal canto suo la mezzelfa aprì la mano e la richiuse una, due volte, cercando di scacciare l’intorpidimento e il bruciore. Si era sbucciata le nocche, constatò. Il fabbro invece si mise a sedere sulle assi e scrollò la testa come un cane bagnato avrebbe fatto col proprio pelo, forse nel tentativo di riacquistare lucidità.
Nadire percepì dei passi avvicinarsi e girò leggermente il capo da quella parte, adocchiando la situazione da sopra la spalla. Il gruppo di curiosi si era fatto ancora più prossimo e uno di essi, un uomo sulla quarantina col viso segnato dal sole, li aveva praticamente raggiunti sulla piattaforma; e andava freneticamente con gli occhi dall’uno all’altra.
“È tutto a posto? Dobbiamo… chiamare la milizia?” chiese il nuovo venuto, riferendosi al fabbro e aspettandone il responso.
Nadire s’irrigidì. In quel caso la situazione sarebbe degenerata ulteriormente, tanto più che erano volate affermazioni pesanti da parte di Erofey; e se la maggioranza l’avesse ritenuta una strega avrebbe fatto una fine a dir poco spiacevole. E la ragione poco poteva contro la paura.
Istintivamente tornò con le dita all’elsa del pugnale. Tuttavia il fabbro s’alzò in tutta la sua considerevole altezza, la superò barcollando e si frappose nel mezzo. Il nuovo venuto fece un passo indietro.
“Non ho bisogno d’aiuto,” stabilì Erofey; e si passò il dorso della mano sulla bocca. “Io e faccia da mantide la risolviamo fra noi, a modo nostro. Fuori dai piedi!”
Per un attimo si chiese se a parlare per lui fosse l’orgoglio; di maschio e di umano messo di recente a tappeto da un mezzelfo femmina. Probabile, sancì, ma non gli interessava finché la questione poteva tornarle utile.
Osservò con durezza il terzo incomodo allontanarsi e ricongiungersi al gruppetto che stava più in là, sullo sterrato ai piedi dei gradini. Non riuscì a capire le parole, ma quando quello finì di parlare i curiosi cominciarono a disperdersi. Di rimando Nadire allontanò le dita dal pugnale, sciolse di poco la morsa dei muscoli e tornò a concentrarsi esclusivamente su Erofey.
Quest’ultimo ricambiò con ostilità, il grosso monociglio inarcato; poi tirò sonoramente su col naso, sfoderò una smorfia e scatarrò. Il grumo di sangue le mancò di pochissimo gli stivali. La mezzelfa non rispose alla provocazione, impassibile; e perseverò in attesa di quanto voleva sapere.
“Non mi piaci. Affatto. Ma sei fortunata, perché quello stronzo lì,” il fabbro fece un cenno in direzione della pergamena che stringeva fra le dita, “beh, quello mi piace ancora di meno. E se avessi saputo che era ricercato dalla Baronia dell’Anguilla Nera, stai certa che a quest’ora eri disoccupata. Signorina.”
Nadire inarcò il sopracciglio. Erano parole audaci che ne rivelavano unicamente l’ignoranza. Poteva dimostrarsi spavaldo per lenire la precedente sconfitta, ma se l’avesse conosciuto come lo conosceva lei non si sarebbe mai espresso in quella maniera, per quanto i Reali offerti potessero fargli gola.
“Raccontami di lui.”
Erofey si strinse nelle spalle. Si allontanò, passò accanto alla forgia e si diresse verso l’angolo più estremo del portico. La mezzelfa l’osservò chinarsi. Quando il fabbro riacquisì posa eretta, impugnava nuovamente il suo martello.
“Mio zio l’ha trovato con le mani fra le sottane di mia cugina. L’ha stuprata. Così gli ho dato un pugno e l’ho sbattuto in cella. Lui non ha reagito.” Erofey tornò al pezzo di ferro abbandonato sull’incudine. “Pensavo che fosse della capitale. Uno di quei bastardi Thyatiani che s’atteggiano a padroni del mondo quando non sanno nemmeno allacciarsi le scarpe. Mi sbagliavo.”
“Dov’è tua cugina?”
Parlarle le sarebbe servito per racimolare altri dettagli. Erofey non sollevò lo sguardo da quanto stava facendo. Scrollò le spalle, agguantò l’estremità del pezzo di ferro con un panno tutto chiazzato e l’infilò fra i tizzoni ardenti.
“A Tilmit, dall’altra parte del Verdarzillo. Per fortuna il suo promesso sposo si è dimostrato comprensivo e non l’ha ripudiata.” Il fabbro azionò il mantice e i tizzoni all’interno della fornace avvamparono, colorandosi di nuovo rossore; poi l’adocchiò da sopra la spalla. “Senti, quel… tizio è sparito la sera stessa. Ha usato le sue diavolerie e ha lasciato Melcent assieme a un mezzuomo, un ladruncolo da quattro soldi con la voce stridula. Non so altro. E mia cugina nemmeno. Perciò adesso togliti dai piedi e lasciami lavorare. Io non mangio bacche per sopravvivere.”
Nadire s’accigliò ulteriormente a quell’ultima battuta, ma non replicò. Dopotutto anche lei era solita ai luoghi comuni e riteneva gli umani poco più di caproni puzzolenti; e le eccezioni si contavano sulle dita di una mano.
E così… lui era apparso in quel paesino e si era trattenuto una sola giornata. Ancora una volta la domanda le si delineò nella mente: perché? Su quel punto il fabbro non era stato di grande aiuto e dubitava che la risposta risiedesse nel mero interesse carnale per la cugina di quest’ultimo.
Strinse i pugni, la mascella e osservò Erofey ancora per un po’, mentre estraeva il ferro incandescente, lo posizionava nuovamente sull’incudine e afferrava il martello con la mano libera. Indugiare non serviva a niente, se non ad aumentare il distacco fra e lei e lui.
Diede le spalle alla forgia e si allontanò in direzione dei pochi scalini che la separavano dallo sterrato.
“Ehi, faccia da mantide!” La voce grossa di Erofey le arrestò il passo che aveva appena disceso il primo gradino. “Quell’essere merita di bruciare assieme a quelli come lui. Ma la sua testa in particolare vale 100 Reali d’oro. Che cosa ha fatto?”
Nadire trasse un profondo respiro e si umettò le labbra, senza voltarsi; poi strinse i pugni e disse: “Si è intrufolato nel palazzo di Caleb Sempernus, il Primo Consigliere del Barone Ludwig. Ha sgozzato sua moglie e i suoi figli dinanzi ai suoi occhi, gli ha mozzato mani e piedi e l’ha lasciato a dissanguarsi sul pavimento… mentre il feudo tutto ardeva e anneriva fino a consumarsi.”
Il silenzio seguì l’affermazione, perlomeno da parte di Erofey. E la mezzelfa immaginò perfettamente l’orrore nascere e crescere sul viso massiccio dell’altro assieme alla consapevolezza di averla scampata brutta.
Solo poi – dopo interminabili attimi, uno più greve dell’altro – il battere cadenzato del martello sancì il termine dell’incontro. Nadire deglutì dolorosamente, ancora immobile sulle scale. Infine rilasciò la morsa delle dita, rilassò i muscoli di braccia e mascella e raggiunse lo sterrato.
Si concesse anche un sospiro, guardandosi attorno e riflettendo sul da farsi. Un capannello di cinque donne le passò accanto, facendosi strada fra i polli che scorrazzavano per l’aia, e la squadrò da capo a piedi. Le sentì ridacchiare, ma non capì di cosa stessero parlando. Forse la mossa più logica era chiedere informazioni presso la taverna, dove probabilmente lui si era fermato per mangiare e bere un boccale di birra.
Non fece in tempo a pensarlo che Orest le si affiancò, con gli occhi grandi e colmi di sorpresa. Il sorriso gli illuminava il viso sporco, rivelando gli incisivi grandi e accavallati l’uno all’altro. La mezzelfa batté le palpebre e inarcò il sopracciglio, domandandosi cosa avesse da essere così… entusiasta, ecco.
“Gliele hai suonate!” esordì il ragazzino; e spiò in direzione della forgia, facendosi scudo di lei. “Nemmeno ci credo! A Melcent se ne parlerà per mesi. Lo sai quanti scappellotti mi ha dato quel bastardo? Sarei potuto diventare scemo! In molti avrebbero voluto dargli una lezione. Dovresti vedere quando quello perde ai dadi, è…”
Nadire non aspettò che il moccioso finisse di parlare e si allontanò. Non le interessavano i pettegolezzi di paese, né che tipo di persona fosse quell’Erofey quando perdeva ai dadi. E il fabbro era già stato fortunato che non gli aveva spaccato la faccia a suon di pugni.
Istintivamente, mentre s’allontanava a grandi passi, si portò la mano al ventre, lì doveva aveva rischiato di essere accoltellata, e indugiò in una carezza. Sospirò nuovamente. Dietro di lei, sentì distintamente i passi del ragazzino seguirla da presso. Aggrottò le sopracciglia.
“Togliti di torno, moccioso,” lo redarguì senza nemmeno fermarsi; erano pari, dopotutto, e non c’era motivo di proseguire per la stessa strada.
Il diretto interessato fischiò, ma non smise di andarle dietro, almeno a giudicare dai passi irregolari e leggermente strascicati.
“Sul serio sei femmina? La differenza fra te ed Erofey sta nei peli. Ma per il batacchio non ci metterei la mano sul fuoco,” commentò l’altro, strappandole un piccolo sbuffo d’insofferenza; eppure le era sembrato di essere stata abbastanza chiara nei confronti degli scocciatori. “E poi sei sicura che sai dove stai andando? Sei una forestiera, dopotutto.”
“Questa non è Mirroden. Troverò la strada,” ribatté.
Un sibilo le raggiunse improvvisamente l’orecchio, facendole palpitare le palpebre inferiori. Ne seguì un altro, cui Nadire riservò più attenzione.
Voltò il capo da quella parte. Sullo sterrato si apriva un vicolo laterale, situato fra due abitazioni di pietra e fango che lo schermavano dai raggi del sole. Assottigliò lo sguardo e perlustrò la penombra del passaggio.
Scorse una catasta di legna da ardere, descrisse con disgusto il rigagnolo giallognolo che solcava la polvere del vicolo e intercettò la sagoma furtiva di un ratto. Solo poi si accorse che il mucchio di stracci abbandonato lungo la parete non era spazzatura. Un vecchio sdentato e dai capelli arruffati la fissava di rimando con occhi piccoli e attenti. Brillanti. E il sorriso sghembo che gli piegava le labbra le lasciò intuire che volesse qualcosa proprio da lei.
La mezzelfa esitò, immobile sullo sbocco fra le abitazioni. Lo straccione sollevò il braccio scheletrico e le fece cenno d’avvicinarsi con la mano. Qualcosa, invece, le finì contro l’istante successivo. Orest. Nemmeno si spostò e mandò gli occhi al cielo, mentre il ragazzino si lamentava dietro di lei.
“Sei di pietra!” piagnucolò.
Nadire l’ignorò e s’infilò all’ombra del vicolo, gli occhi puntati sul viso sornione del vecchio. Il lezzo d’urina le fece arricciare il naso prima ancora di raggiungerlo, ma quando gli fu a pochi passi l’odore dell’alcol e di sudore raffermo la fecero addirittura vacillare; e quasi si portò la mano davanti a naso e bocca.
Il vecchio non vi badò, tossì e s’incurvò come se dovesse ricacciare perfino i polmoni; dopodiché sputò a terra e tornò a fissarla dal basso. Il suo viso rugoso e macchiato dall’età era incrostato di fango e polvere.
“Ho sentito che cerchi uno straniero biondo. Perché non fai vedere anche a me quello che hai fatto vedere al fabbro? Non sono giovane e piazzato come lui, ma di cervello sono molto più lesto… e se mi offri da bere, scoprirai che la mia lingua lo è ancora di più.”
“Se ti offro ancora da bere non riuscirò a distinguere il tuo biascicare.”
Il vecchio si strinse nelle spalle e sollevò le sopracciglia. Spesse rughe d’espressione andarono a segnargli la fronte.
“È un rischio,” si grattò il mento ispido con la delicatezza di un cane pulcioso, “ma sottovaluti la mia esperienza in campo. Intanto la prospettiva è soggettiva. E io sono più lucido da ubriaco. Di sicuro più sincero e bendisposto.”
Nadire scosse leggermente il capo e incrociò le braccia al petto, soffermandosi ad analizzare l’uomo, la situazione e la presunta proposta.
Poteva essere un millantatore, ansioso di tracannare un goccio in più e per questo disposto a spergiurare qualsiasi sciocchezza. Oppure poteva davvero aver visto o sentito qualcosa di rilevante. Dopotutto non si era lasciato sfuggire nemmeno la discussione alla forgia… e lei non riteneva la moneta degli uomini così preziosa.
Orest la raggiunse suo malgrado e le si pose di fianco, mani sui fianchi.
“E questo è Cheslav, il nostro cantastorie di fiducia. Perché quando beve troppo canta a squarciagola. E dato che beve tutto il giorno, canta tutto il giorno. Più che cantare gracchia, però,” spiegò il ragazzino. “Che ti ha chiesto in cambio di una ballata? Quelle che conosce lui sono tutte sconce, comunque. La sua preferita è ‘Le zinne di Donna Rosa, fiore di nome ma non di fatto’. Ma ‘sta tizia non esiste, se l’è inventata lui.”
Il vecchio tossì e sputò.
“L’unico che lavora di fantasia sei tu, bamboccio mio. E a parte le rime, il resto è tutto vero. In carne, ossa e zinne!”
Nadire mandò gli occhi al cielo per la seconda volta. Cominciava a essere stufa della situazione, della perdita di tempo e degli umani in particolare. A volte erano talmente elementari, istintivi, da confondersi col resto della fauna per gli atteggiamenti primordiali. E Velkan sapeva controllarsi di più, se si considerava che mai si sarebbe scagliato contro i suoi stessi simili. E poi chiamavano gli elfi selvaggi…
Rilasciò il fiato e infilò la mano nella borsa. Afferrò il rotolo e lo porse a Cheslav. Quello inarcò il sopracciglio. C’era scetticismo sui lineamenti spigolosi del suo viso e anche un pizzico di disappunto.
“La moneta, prima,” precisò il vecchio, sollevando il mento.
Nadire strinse la mascella e continuò a fissarlo imperturbabile, espressione severa, inamovibile; finché l’altro scrollò il capo, rantolò e le strappò di mano quanto stava porgendogli. Il vecchio si portò il foglio innanzi alla faccia, ridusse gli occhi a due fessure e quasi ci finì contro col naso, tanto vi si era avvicinato. Probabile che non ci vedesse poi questo granché.
“È lui,” commentò infine. “Qui è più giovane, ha le guance piene e lineamenti meno marcati. Ma è lui senza dubbi. Anche senza quella roba sulla faccia.”
Roba?”
“Sì. Insomma, quel segno nero sugli occhi. Così, di traverso,” precisò Cheslav, accompagnando la spiegazione passandosi orizzontalmente indice e medio sulle palpebre. “Un po’ come quelli che hai tu sulla fronte e sulle braccia. Per la Grande Tenebra, sembra che tu ti sia rotolata nel fango assieme ai maiali!” commentò infine, sciorinando il bando per aria. 
La mezzelfa captò a stento l’ultima illazione. Schiuse le labbra, deglutì e le richiuse. Possibile che…? Fremette da capo a piedi, allungò il braccio e si riappropriò bruscamente della pergamena, strappandola dalle mani adunche del vecchio. Strinse i pugni e il foglio s’accartocciò fra le sue dita.
“Sei sicuro che fosse… nero?” sibilò.
Il vecchio batté le palpebre, la fronte distesa a una tavola piatta e il braccio scheletrico ancora per aria. Poi Cheslav lasciò cadere l’arto lungo il fianco e annuì, senza mai distogliere gli occhi dai suoi. Sembrava serio. E sincero; ma ciò non l’aiutò a rassicurarsi. Accanto a lei, Orest fece un passo avanti e andò con lo sguardo dall’una all’altro.
“Perché, che c’è di strano? Non che trovi normale sporcarsi di proposito, eh!” blaterò il moccioso, grattandosi la testa.
“Che altro sai di lui?” chiese Nadire, senza degnare il più giovane di uno sguardo.
“Era il mio dirimpettaio,” rispose Cheslav, facendo spallucce. “Di cella, s’intende. Tipo belloccio, sì. Di sicuro Erofey ti avrà già raccontato di come si è dato da fare con la sua impulsiva e ardimentosa cuginetta dietro la locanda, no? Comunque se n’è andato. Lui e quel nanerottolo, il borseggiatore. Sono usciti di prigione come niente fosse, alla faccia di noialtri poveracci. E poi è successo un fatto strano…”
Nadire s’accigliò maggiormente e, ammesso che fosse possibile, sfoderò un’espressione ancora più dura. E attenta.
“Non ci vedo granché, ma ci sento benissimo,” precisò il vecchio “Certo, non ero lì, ma quella voce non la dimenticherò così facilmente. Mi ha messo i brividi; e solo il Luminoso sa in che lingua parlava! Poi le guardie hanno smesso di urlare, non so se mi spiego,” il vecchio si umettò le labbra e scosse la testa, come se stesse esitando o ricacciando il timore; poi strabuzzò gli occhi, li appuntò dritti su di lei e soggiunse. “È davvero… un mezzosangue?”
Nadire serrò la bocca in una linea sottile e continuò a fissare l’interlocutore dall’alto in basso con estrema freddezza, affatto intenzionata a corrispondere alle aspettative. Tanto più che l’altro aveva ampiamente dato aria alla bocca senza tuttavia riferirle nulla che non avesse già immaginato da sé; e a giudicare dalla reazione di Erofey non c’erano dubbi in proposito: lui aveva usato il suo potere senza curarsi delle conseguenze.
“Le tue informazioni non valgono nemmeno il tempo che hai impiegato per riferirle,” sentenziò in risposta; e ripose la pergamena accartocciata in borsa.
Allo stesso modo diede le spalle a Cheslav, al vicolo, e s’incamminò da dove era venuta. Nel farlo assestò una brusca spallata a Orest, che barcollò all’indietro e finì col sedere per terra, pronunciando un sonoro e avvilito “ehi” di protesta. Non si fermò, capo eretto e sguardo dritto innanzi a sé.
“Ah-ha. La signorina è frettolosa come i sacerdoti di Helientar che sono passati prima di lei,” la voce melliflua del vecchio l’inseguì e la raggiunse che stava per mettere piede sullo sterrato principale. “Non ti ho forse detto che ci sento benissimo? Ciò che non sai è che in questo buco dimenticato dagli Dei io conosco tutti e tutti mi conoscono. Non vuoi sapere che cos’altro hanno sentito queste vecchie e stanche orecchie? Perché io a quel bicchiere di birra ci tengo moltissimo. E quei cazzoni che campano a pane, fede e acqua non mi hanno sganciato nemmeno un pezzo di bronzo.”
La mezzelfa arrestò il passo e voltò leggermente il capo all’indietro, quel tanto che le bastava per lanciare al vecchio un’eloquente occhiata da sopra la spalla.
“Ultima occasione, vediamo se riesci a convincermi,” decise; ma non tornò sui propri passi.
L’altro ricambiò con uno sguardo malizioso altrettanto intenso e si aprì in un sorriso sdentato. Nella penombra del vicolo i suoi occhi sembravano addirittura brillare sotto alle spesse e irsute sopracciglia.
“Il tuo bello se n’è andato quella notte. Non so se sia ancora in compagnia del mezzuomo, ma è probabile che abbiano attraversato il Verdarzillo assieme. E non è finita qui… perché c’è una terza persona che ha abbandonato Melcent quella stessa notte. Dar’ya Rakova, la figlia del mugnaio. Sua madre era una brava donna, intelligente, soprattutto. Ed era la dama di compagnia di Lady Ilyana, la signora di Arthia. Suo padre dice che quella sera la guardia incaricata è venuta a prenderla per portarla a palazzo,” Cheslav si strinse nelle spalle, “non so tu, ma se io dovessi dirigere i piedi da qualche parte, andrei lì. Dai Sulescu.”
Arthia.
Nadire arricciò impercettibilmente gli angoli della bocca verso l’alto. Infilò la mano dentro la sacca e stavolta ne estrasse un pugno di monete. Nemmeno le contò; semplicemente le lanciò in direzione del vecchio e di Orest, ancora seduto fra la polvere a gambe divaricate.
Si allontanò definitivamente che il ragazzino stava strillando qualcosa a proposito di dividere il profitto, dacché era stato lui a condurla lì. L’aria pulita della strada principale l’accolse e arrecò sollievo tanto al suo olfatto quanto ai suoi polmoni. E così i sacerdoti l’avevano preceduta; senza tuttavia accaparrarsi quel piccolo, rilevante dettaglio. Buon per lei.
Accelerò il passo, incupì lo sguardo e puntò all’orizzonte. Oltre i tetti di paglia di Melcent s’intravedeva il colle e la foresta che aveva attraversato, dove Velkan la stava aspettando. Più su il cielo appariva così terso da ferirle gli occhi. Al solo pensiero sentì le membra rilassarsi, a dispetto degli sguardi e dei commenti che le persone le lanciavano dietro al semplice passaggio.
Doveva sbrigarsi. Non sapeva che cosa avesse intenzione di fare con Dar’ya Rakova o perché c’entrassero i Sulescu, ma se lui si era allontanato in compagnia di così tante persone rintracciarlo sarebbe stato più semplice. Senza contare che un tizio con della pittura nera sulla faccia era facilmente individuabile. Un comportamento assai imprudente. Scosse la testa e stavolta sospirò. Quindi aveva davvero intenzione di…
Gli occhi del cacciatore non guardano al futuro, puntano nel buio e all’oscuro traguardo che l’attende al termine della cerca.
La definizione le tornò alla mente d’improvviso e quasi la stordì col suo significato. Sentì il petto gonfiarsi, la gola serrarsi in un saldo nodo e gli occhi pungere; ma non permise a una sola emozione di oltrepassare il suo ferreo autocontrollo. E l’espressione del suo viso restò impassibile.
Ciononostante, mentre sfrecciava fra le abitazioni e gli abitanti del piccolo villaggio, tornò con la mano al ventre e lo carezzò. E il cuore le fece male una volta di più.
Ok, stavolta ci ho messo davvero una vita per pubblicare, lol. Sto cercando d'introdurre pian piano personaggi e dettagli di trama e di ambientazione, spero in maniera uniforme e, soprattutto, non troppo noiosa. >-<
La trama forse fatica a venire fuori, me ne rendo conto, ma ci sono così tanti avvenimenti in ballo che scegliere cosa mostrare e cosa no è davvero difficile. E mentre Calardir persegue i propri obbiettivi, qualcun altro è invece sulle sue tracce, perseguendo i propri.
Non vorrei spiegare troppo e vorrei che a parlare per me fossero le righe della storia, per cui la smetto qui, con la sola anticipazione che prima o poi il quadro diverrà più chiaro, seppur più ampio, e che eventi e personaggi si ritroveranno nel quadro generale (*Iblys saluta con la mano scheletrica* Mi annoio... =w= ndIblys). O almeno questo è ciò che mi propongo di fare. xD
Se vi va, fatemi sapere cosa ne pensate finora... o se ci sono eventuali errori, passaggi poco chiari o altro. :) Alla prossima!
CompaH

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Capitolo 5
*** Capitolo 4 - Zemilos Sulescu ***


 Capitolo 4 - Zemilos Sulescu
“Con questo approvate il rifornimento di armi per I Senza Re, mio signore.”
Zemilos impugnò la piuma d’oca e l’imbevve nel calamaio. Con la mano libera mantenne il foglio ben disteso sulla scrivania e vergò la propria, elegante firma su di esso. Ripose la piuma nell’apposito sostegno e scorse la lunga lista di armi lì elencate per l’ultima volta, aspettando che l’inchiostro si asciugasse.
Il documento era preciso e dettagliato e autorizzava il prelevamento di scudi, spade e lance dall’armeria dei Sulescu per rimpinguare le difese di Kratos alle mura Nord-Ovest, tanto care ad Abadon Encratis. Una motivazione più che sufficiente per giustificare una spedizione e inserire di straforo armamenti in più per i ribelli e vite umane da consegnare all’Anello d’Acciaio.
Zemilos sollevò lo sguardo su Pavel, impalato di fronte alla massiccia scrivania cui sedeva. Sul viso slavato e quasi glabro del suo tesoriere, gli occhi di un azzurro cinerino sembravano ancora più spenti, dandogli la parvenza di un pesce lesso. Soprattutto quando si ostinava a fissare la parete retrostante con la testa fra le nuvole.
Il Conte raddrizzò la schiena, le mani ai lati del documento, e si schiarì la gola. Di rimando il tesoriere sobbalzò e un guizzo di vita ne attraversò lo sguardo, che si spostò di scatto su di lui.
“C’è qualcosa che ti turba?” domandò Zemilos, fermo nel tono e nella postura.
Il pomo di Pavel si alzò e si abbassò rapidamente lungo la trachea.
“È lo specchio alle vostre spalle, mio signore,” confessò quindi. Stretto ai documenti, nei suoi vestiti scuri e sobri, il tesoriere sembrava ancora più sottile e dinoccolato. “Mi mette a disagio, come se…”
Il lord di Arthia inarcò il sopracciglio.
“Come se…?” l’incalzò. Per tutta risposta il pomo di Pavel si alzò e si abbassò nuovamente. “È uno specchio, Pavel, non farmi perdere tempo,” sottolineò quindi il conte, tornando alla documentazione.
Piegò in tre parti il foglio e afferrò il pezzo di ceralacca, che arroventò sulla fiamma della candela disposta lì di fianco, pronto ad apporre l’ennesimo sigillo della mattinata. E dopo ore passate alla scrivania desiderava solo abbandonare lo studio e dedicarsi ad altre questioni, più importanti della mera burocrazia.
Inoltre era da un po’ che non andava a trovare Heian, fin troppo impegnato a gestire i suoi proficui traffici e le tediose lamentele degli abitanti di Arthia per concedersi un po’ di svago.
Lasciò colare la cera sui lembi di carta e con l’anello andò a sigillare la comanda, imprimendo il simbolo dei Sulescu, il cinghiale rampante, sulla materia che si plasmò senza resistenze sotto il metallo. Contemporaneamente catturò con la coda dell’occhio la figura del tesoriere muoversi nervosamente da un piede all’altro innanzi alla scrivania.
“È come se guardandolo riesca a guardarti a sua volta,” disse infine Pavel. “Sembra che possa… risucchiarti…”
Zemilos inspirò profondamente e sollevò lo sguardo sul diretto interessato, che stava nuovamente fissando lo specchio alle sue spalle.
“Dite che il mio riflesso potrebbe prendere vita e attraversare la superficie fra questo mondo e… l’altro?”
Il conte si spostò sulla sedia imbottita, che scricchiolò nell’assestarsi sotto il peso massiccio del corpo. Voltò il capo e puntò lo specchio da sopra la spalla. Prevedibilmente il suo volto si delineò sul piano verticale e lo puntò di rimando, nitido come si aspettava. E forse anche un po’ di più.
Era uno specchio grosso, alto e largo come una porta. Come un passaggio, in effetti, perfettamente collocato fra le due librerie retrostanti. Silenzioso e immobile e innocuo, soltanto più lucido e meno sfocato delle altre lastre d’argento presenti nel suo palazzo. Anche più bello, con la spessa cornice rettangolare arricchita dalla filigrana floreale.
Zemilos scrutò la propria immagine mentre quella lo scrutava a sua volta, proprio come aveva detto Pavel. Le sopracciglia folte, la mandibola squadrata, la barba curata. Con il diadema a cingergli la fronte, simbolo del proprio lignaggio, e la pelliccia di volpe a coprirgli le spalle, era né più né meno che la rappresentazione di quanto si aspettava.
Non fosse per i lineamenti tirati e gli occhi incavati, che gli davano un aspetto meno nobile e più malsano. S’incupì a quella vista, si portò la mano stretta a pugno innanzi alla bocca e accusò due colpi di tosse, mentre andava a concentrarsi sull’intensità dello sguardo del proprio riflesso.
Aveva una profondità innaturale, dovette ammettere quando un piccolo brivido gli fece drizzare i peli alla base del collo. Una sensazione, più che un dato di fatto, che non si estendeva unicamente alla figura riproposta dallo specchio, ma anche all’ambiente dello studio riflesso sulla superficie in ogni dettaglio. Come se potesse allungare la mano e afferrare le suppellettili disposte su quella scrivania, o i tomi allineati su quelle librerie.
Zemilos ripose l’anello sul piano della scrivania e si spostò ancora una volta sulla sedia, accompagnato dai soliti scricchiolii. Dall’altra parte del tavolo il tesoriere sembrava attendere un responso, le dita ossute strette alla risma di incartamenti e le labbra sottili talmente tirate da sembrare un’unica linea trasversale sul viso altrettanto allungato. Rughe di preoccupazione gli solcavano la fronte stempiata.
Per tutta risposta il Lord di Arthia prese la lista di armi siglata e sigillata di fresco e gliel’allungò con nonchalance.
Tuttavia quando Pavel obbedì all’ordine implicito e strinse le dita sulla carta per aggiungere l’ultima dichiarazione alla sua già folta pila, Zemilos rafforzò la presa sul documento e lo trattenne per alcuni istanti ancora.
“È uno specchio, Pavel, uno specchio di ottima fattura,” sottolineò. “Non farti suggestionare, mi hai capito?”
Permise al tesoriere di ritirare il documento e si rilasciò pesantemente sullo schienale della sedia, le dita intrecciate sulla scrivania innanzi a sé, in attesa del segno d’intesa che pretendeva. E che avrebbe definitivamente chiuso la questione senza ulteriori spiegazioni.
Pavel chinò il capo, deglutì ancora e si umettò le labbra, infilando il foglio tra gli altri con una flemma tale da suggerirgli che stesse prendendo tempo. E forse era proprio così.
“Mio signore, sapete che vi sono fedele da sempre e che i vostri segreti sono al sicuro con me,” disse infine, tornando a guardarlo dritto in faccia, “ma con tutto il rispetto stavolta ritengo di dovervi contraddire.”
Zemilos restò immobile, ma le dita disposte sul tavolo in posizione di riposo s’irrigidirono alla sola prospettiva e divennero una morsa, di già infastidito dal mancato – e dovuto – assenso del sottoposto. Allo stesso modo le sue sopracciglia si fecero più grevi, proiettando ombre più scure sui tratti già ruvidi e massicci del viso.
Il Conte non amava essere contraddetto. Mai.
Pavel strabuzzò gli occhi. La preoccupazione era ormai così estesa ed evidente nella sua espressione da renderlo sciocco nelle fattezze, oltre che scialbo. Il labbro inferiore gli tremò, prima che riuscisse a dar seguito al discorso.
“Trattenete la collera, vi prego, non direi mai nulla che possa danneggiarvi,” si schermì, col tono di voce leggermente più acuto.
Zemilos perseverò immobile, ma non più morbido, concedendogli il privilegio di esprimersi col semplice silenzio. Dopotutto Pavel diceva il vero, lo serviva fedelmente da anni e si era sempre premurato di mantenere il segreto sui piccoli traffici illeciti di cui si occupava, in qualità di complice e di contabile. Questo l’aveva anche arricchito – un risvolto più che conveniente per il mero figlio illegittimo di un valvassino poco importante – ma lo rendeva piuttosto affidabile e intuitivo se si parlava di mantenersi al sicuro. 
“Avete riposto la vostra fiducia in,” il tesoriere si umettò nuovamente le labbra, forse cercando il modo migliore per descriverlo, “in quell’uomo,” decise infine, “ma la verità è che non lo conoscete. Il Barone dell’Anguilla Nera si dice vostro amico e finora ha rispettato i patti, ma, ecco… un Tessitore di Trama?! Arthia non ha bisogno di un mago, non ne ha mai avuto bisogno, il Lord vostro padre era Kratossiano e noi di Kratos non facciamo affidamento sulla magia per difendere le nostre terre né scendiamo a patti con i Thyatiani!”
“Mio padre era Kratossiano quando la schiavitù era la norma e sul trono di Kratos sedeva uno di noi,” puntualizzò Lord Zemilos. “E ora guardami, costretto a chinare il capo davanti all’invasore e a rischiare la posizione che è mia per insindacabile diritto di nascita solo per mantenere uno stralcio della nostra identità! Perciò non venirmi a parlare di cosa avrebbe o non avrebbe fatto mio padre!” tuonò, sciogliendo l’intreccio delle dita solo per alzarsi di scatto e battere ambo i palmi sulla scrivania.
L’eccesso d’ira gli provocò due profondi colpi di tosse che lo scossero fin nel profondo a dispetto della stazza, costringendolo a piegarsi in due con la mano stretta al petto.
Pavel fece un passo in avanti, ma Zemilos s’affrettò a mettere l’altra mano nel mezzo, bloccandolo sul posto prima che potesse offrirgli aiuto. L’ultima cosa che gli serviva era qualcuno nella corte che si interessasse alla sua tosse, dando adito a pettegolezzi e speculazioni. Pertanto si schiarì la gola, deglutì assaporando il sangue e tornò a sedere solennemente come se nulla fosse accaduto.
“Io so quello che faccio, Pavel, e a questo mondo esistono mali necessari,” disse con più calma.
“Lo capisco, ma gli specchi che vi ha donato sono… strani. Non metto in dubbio che la presenza del mago sia necessaria come dite, né il vostro giudizio in merito, ma è delle sue intenzioni che diffido. Non temete che possa nascondervi qualcosa? Che possa spiarvi con occhi non umani? O magari succhiare via la vostra linfa o l’anima di chi poggia lo sguardo sui suoi artefatti!”
A quell’ultima insinuazione – che alludeva vagamente al malore di pocanzi – gli occhi di Zemilos Sulescu lampeggiarono nuovamente d’ira, se possibile più viscerale della precedente. Di rimando il tesoriere richiuse la bocca in un colpo e distolse perfino lo sguardo, dirigendo l’attenzione sulla punta delle scarpe.
Di sicuro il fido Pavel non aveva dimenticato l’incidente nella stalla, uno dei tanti segreti che condividevano, e di come il badile fosse calato sul cranio del mastro di caccia, ancora e ancora e ancora, finché del suo cranio non era rimasto che gelatina. Anche la buonanima l’aveva contraddetto, risparmiando il cane zoppo che aveva ordinato di abbattere.
“Adesso basta,” sibilò il Conte, “hai delle mansioni di cui occuparti, una carovana e delle merci da preparare, soprattutto degli uomini da istruire. Stavolta gradirei che non ci fossero incidenti alla consegna, né preziosa merce sfuggita e cacciata per i boschi alla stregua di selvaggina. I corpi sono prove,” sentenziò. “Aspetterò un resoconto dettagliato delle entrate e delle uscite sulla mia scrivania.”
“Sì, mio signore,” rispose Pavel, gli occhi puntati a terra e l’espressione spenta, forse anche un po’ atterrita se si consideravano i solchi sulla fronte.
Ciò detto il tesoriere chinò il capo per congedarsi, avviluppandosi maggiormente al fascio di documenti stretti al petto, e si ritrasse in silenzio, i passi attutiti dalla consistenza del tappeto ricamato che si estendeva per quasi tutta la pavimentazione della stanza. Poco dopo scomparì oltre l’uscio dello studio.  
Rimasto solo, Zemilos si concesse un lungo sospiro, sprofondando nella sedia e allungando i piedi sotto la scrivania. Piegò il capo fin quasi a toccarsi il petto col mento e si sfilò anche il diadema, simbolo di potere, per passarsi le dita fra i radi capelli e riallinearli perfettamente dalla calotta alla nuca, dove si soffermò in una stretta. Gli faceva male il collo, considerò massaggiandosi la parte in questione, forse per via del troppo lavoro o dei pensieri assillanti o delle noie costituite dagli abitanti del palazzo. O per tutte e tre le cose insieme.
Nel silenzio della stanza, interrotto appena dal cinguettare allegro proveniente dall’unica apertura verso l’esterno, il Conte voltò nuovamente il torso e la testa verso la parete retrostante, osservando il proprio riflesso impresso sulla superficie cristallina dello specchio. Sembrava quasi che la copia dovesse agire di proprio conto da un momento all’altro, tanto per cominciare riservandogli un sinistro e beffardo sorriso.
Non c’era bisogno che a dirglielo fosse il tesoriere, non era certo uno sprovveduto e da bravo Kratossiano non aveva mai riposto la propria fiducia nelle diavolerie di maghi o, peggio ancora, stregoni. Ciononostante la necessità talvolta superava di gran lunga la prudenza – la superstizione – e c’erano cose, limiti, che i semplici uomini non potevano prescindere.
Ciò non significava che si sarebbe lasciato imbrogliare...
Passò un’ultima volta le dita tra i fili neri e grigi dei capelli e riposizionò il diadema al suo legittimo posto: sulla fronte del Lord di Arthia.
Aprì il cassetto della scrivania e lo svuotò del contenuto, carta da lettere, tagliacarte e piume d’oca, che presero posto fra le altre suppellettili del piano. Inclinò il fondo del vano e lo sfilò abilmente, rivelando il doppio fondo ivi celato e i suoi scottanti segreti: i resoconti commerciali dell’ultimo anno. Il più proficuo mai avuto, a dire di Pavel.
Raggruppò i documenti sparpagliati sulla scrivania e l’infilò nel cassetto. Stessa sorte toccò al registro dell’anno in corso, piuttosto nuovo se paragonato al precedente, con la copertina di pelle nera così lucida da sembrare intonsa e il segnalibro dorato appena sfilacciato dall’uso.
Occultò nuovamente il tutto e reinserì nel vano così truccato ciò che aveva spostato sulla scrivania, lasciando il cassetto come l’aveva trovato. Lo spinse dentro, sfilò la chiave dalla tasca della tunica e lo chiuse per bene, rigirando più volte nella toppa.
Era quasi ora di pranzo, ma contava di concedersi un po’ di svago prima che il corno suonasse e raggruppasse la famiglia attorno al desco. Perciò scostò la sedia e si alzò dalla scrivania con tutta l’intenzione di raggiungere le stanze di Heian. Il pensiero riuscì a caricarlo d’anticipazione e sogghignò.
Non sarebbe stato facile, non lo era mai in principio, ma c’era un punto nei loro incontri, quando ogni resistenza risultava vana, che riusciva ad appagarlo più di qualsiasi altra cosa al mondo. Neanche se ne accorse, ma saettò con la lingua fra le labbra e le inumidì, di già accarezzando l’attimo.
Percorse la distanza che lo separava dalla libreria accanto alla porta e allungò le dita verso le coste dei libri, soffermandosi nei pressi di un grosso tomo dalla copertina rossa: trattato di architettura civile e militare post Grande Tenebra. L’estrasse e lo sfogliò, finché incappò nello spazio ritagliato nelle pagine. Lì infilò la chiave del tiretto.
Richiuse il libro con un tonfo e lo ripose nel varco lasciato vuoto sullo scaffale, lì dove Pavel avrebbe potuto facilmente trovarlo in caso di necessità.
Zemilos si sistemò rapidamente le pieghe di calzoni e tunica, tirò su con ambo le mani la grossa cintura dalle rifiniture in oro che teneva stretta in vita e constatò suo malgrado che la pancetta stava aumentando con l’età, conferendogli una stazza sempre più importante.
Abbandonò lo studio e percorse i corridoi del proprio palazzo di gran carriera, col solo obbiettivo di rispettare i tempi dovuti dal ruolo che ricopriva in qualità di Conte; ma sul tragitto intercettò una delle servette di sua moglie. Poco ma sicuro: non si trovava lì per caso – non senza il permesso del Lord, poco propenso alle trasgressioni – e la sua presenza poteva significare solo nuove incombenze in vista.
Quando la ragazza l’arrestò lungo il corridoio e chinò il capo in segno di rispetto, pronta a comunicargli quanto aveva da dire, Zemilos sospirò.
“Lady Ilyana chiede di voi, vi sta aspettando nelle sue stanze, Milord,” riferì la servetta continuando a fissare il pavimento. “Dice che vuole presentarvi la nuova dama di compagnia e che è arrivata una missiva per voi da parte di Lord Davus Ferinor.”
Il conte lasciò scivolare i denti gli uni sugli altri, soppesando il significato e il valore del messaggio. Cambiare rotta e recarsi negli appartamenti di Lady Ilyana gli avrebbe fatto perdere un mucchio di tempo in convenevoli, tempo che avrebbe invece potuto dedicare a se stesso e a Heian. In più Lord Davus non aveva nulla d’importante da dirgli, perché i Thyatiani erano soliti perdersi in facezie, forse resi molli dalla patria soleggiata, fertile e ricca di materie prime che li aveva visti nascere e crescere.
Poteva già immaginare il contenuto della missiva, vergata dall’elegante e nobile mano del Lord invasore, che discorreva del tempo, dei soggiorni estivi condivisi in riva al mare e della prossima caccia al cervo, senza mai dimenticare le lodi per la nipote Ilyana.
Zemilos arricciò leggermente le labbra verso il basso, invero celando una smorfia. Ciononostante ignorare la parentela acquisita e l’invito della consorte sarebbe servito unicamente a indisporre quest’ultima, di per sé fragile di nervi. E se c’era qualcosa che l’infastidiva più dell’insubordinazione erano le scenate isteriche di sua moglie.
Spesso, nell’intimità della notte o durante i litigi, aveva immaginato di stringere le dita sulla sua candida gola e di guardarla illividire finché avesse smesso di gridare, dicendogli cosa doveva o non doveva fare… peccato che la donna possedesse più ascendente di lui sulla popolazione di Arthia, ansiosa com’era di prodigarsi per i meno abbienti con questa o quella richiesta di sovvenzioni, come se il denaro crescesse sugli alberi.
“Va’, riferisci a Lady Ilyana che passerò dalle sue stanze,” stabilì infine, concedendo alla servetta un freddo e rapido sorriso.
La ragazza accennò un inchino e corse via, tradendo forse troppa premura. L’ignorò, dopotutto preferiva essere temuto che non rispettato.
Riprese la marcia attraverso gli anditi del palazzo e raggiunse le stanze private della Lady sua moglie poco più tardi, certo che la dama fosse già stata informata del suo arrivo. Le guardie non si mossero al suo passaggio, imponenti ed eleganti ai margini dell’ingresso. Nelle armature ben lucidate e nei colori bianco e verde scuro dei Sulescu sembravano più statue che uomini.
Ad accoglierlo per prima nel salotto fu la calda risata di Lady Ilyana, che ne stava seduta su di uno dei divani vicino al camino, attorniata da una moltitudine di cuscini. Alle spalle di sua moglie sovrintendeva Ser Khristofor, il Capitano delle guardie, col sorriso ad ammorbidirne i tratti e la mano discintamente poggiata allo schienale della seduta, fin troppo prossima alle spalle della donna. Soprattutto quando le chiome dorate ritirate sopra la testa di lei mettevano in risalto la linea bianca del collo.
“Mia cara, dico davvero,” stava discorrendo sua moglie, “non c’è bisogno di agitarsi, il tuo dev’essere stato un viaggio lungo e stancante, è ovvio sentirsi prostrati. Darò ordine di prepararti subito qualcosa da mangiare.”
Si rivolgeva all’ospite seduta sul divano dirimpetto, la nuova dama di compagnia, che in quel momento dava le spalle all’ingresso per via della posizione sfavorevole dell’arredo. Dall’uscio Zemilos notò solo il ciuffo di capelli castani che spuntava oltre lo schienale, malamente tenuto sulla nuca, e pensò che la giovane dovesse anche sciacquarsi e cambiarsi d’abito, prima ancora di mangiare.
“Perdonatemi per il rumore, mia signora, non si tratta di fame. Ho lo stomaco in subbuglio, non sono mai stata così lontano da casa e… ecco, voi siete così bella, qui è tutto così bello che,” la ragazza si strinse nelle spalle e agitò improvvisamente le mani innanzi a sé, “ma non rifiuterei mai la scodella di zuppa che mi state offrendo!”
Per tutta risposta Lady Ilyana si profuse in una seconda, più piena risata, sollevando il mento in direzione di Khristofor, probabilmente per incrociarne le iridi in un gesto automatico di condivisione. Così facendo la donna si accorse della sua presenza nei pressi dell’uscio e fece in fretta a cambiare il destinatario delle proprie attenzioni, appuntandogli addosso i suoi grandi occhi azzurri, le palpebre leggermente più schiuse del normale.
Sul viso liscio, bianco e pingue di sua moglie c’era sorpresa – probabile che non si aspettasse partecipazione nonostante l’invito – e le labbra schiuse in una perfetta “o” tradivano forse un filo di preoccupazione che la diceva assai lunga sulle momentanee circostanze, oltre a farla rassomigliare ad un grosso e sgraziato pesce palla.
“Mio Lord,” esordì, aprendosi subito dopo in un sorriso cordiale, “vedervi mi allieta. Vi siete affrancato dai doveri mattutini?”
Khristofor ritrasse sospettosamente la mano e si fece appena più indietro, prima di disporsi sull’attenti. Ciò che colpì il signore di Arthia fu la scioltezza con cui agì, nient’affatto impensierito dal giudizio di chi amministrava la vita e la morte nel feudo. Evidentemente considerava la posizione che ricopriva per nascita – secondogenito di Yuri Serkoff, uno dei suoi valvassini più fedeli e potenti – una protezione sufficiente. O forse erano la giovinezza e la carica insignitagli da lui stesso in persona ad annebbiargli l’intelletto.
 
“Non ancora, mia Lady,” rispose Zemilos brevemente, invero puntando gli occhi su Khristofor. “Capitano, mi fa piacere che tu tenga alla sicurezza di Lady Ilyana, ma suppongo che il ruolo che ricopri t’imponga di sovrintendere a questioni più urgenti e più importanti di mere chiacchiere da salotto.”
Serkoff non batté ciglio all’osservazione. Fermo alle spalle di sua moglie, col capo eretto e la schiena dritta, gli si rivolgeva con espressione tranquilla. Quasi fiera, vuoi per l’armatura, vuoi per la cappa bianca che gli avvolgeva le spalle giungendo fino a terra, vuoi per la spada che gli pendeva marziale dal fianco, col pomolo a forma di testa di cinghiale che gli si rivolgeva minaccioso nella sua dovizia di dettagli.
Ciò l’irritò, ma non per la refrattarietà dimostrata dal sottoposto. In qualche modo gli sembrava di trovarsi innanzi a uno specchio, che gli rimandava senza pietà l’immagine del giovane e forte Kratossiano che avrebbe dovuto essere. E che era stato un tempo, quando aveva visto meno inverni e aveva accettato meno compromessi.
“La sicurezza di Lady Ilyana non è secondaria a quella della vostra roccaforte, mio signore, e tutto ciò cui tenete è mio dovere difendere,” ribatté Khristofor in tono fermo. “Inoltre ho già effettuato la mia ronda e mi sono assicurato che tutto fosse in ordine. Il tenente maggiore è stato incaricato di verificare lo svolgimento delle operazioni giornaliere in mia assenza e, come sapete, è uomo di grande zelo.”
“Mio Lord, sono stata io a chiedere a Ser Khristofor di raggiungermi,” interloquì Ilyana, andando freneticamente con lo sguardo dall’uno all’altro. “Desideravo che riconoscesse l’impegno del soldato mandato a Melcent come scorta per Dar’ya Rakova. Ricordi? La figlia della signora Svetlana…”
“Oh!” esclamò Zemilos, ricollegando piano nomi e avvenimenti; e il soldato di cui parlava sua moglie era in effetti in un angolo della stanza, logoro e polveroso negli abiti con cui aveva affrontato il viaggio. Dei Sulescu aveva solo la fascia verde e bianco a tracolla col simbolo della Casa ben appuntato sul petto. Perciò in disparte com’era, a capo chino, sulle prime non l’aveva neanche notato.
Ciò non placava la sua irritazione né giustificava l’atteggiamento del Capitano, ovviamente, soprattutto quando si rivolgeva al suo signore in maniera così diretta e ne rifiutava perfino gli ordini impliciti – anche se l’aveva scelto esattamente per questo, per l’indole sicura e ferma che ogni leader necessitava per guidare un esercito. Un’arma a doppio taglio con cui non aveva fatto bene i conti.
Zemilos si approssimò al salotto, lentamente, con le mani dietro la schiena e gli occhi di moglie e Capitano addosso. La piccola Dar’ya Rakova si strinse nelle spalle a sua volta e si girò di rimando, prendendo a osservarlo di sottecchi dalla sua postazione. Il Conte non mancò di notare come si torturasse le dita, forse tormentata dall’incertezza di cosa sarebbe accaduto da che aveva fatto il suo ingresso.
“Dimenticavo quanto nobile sia l’animo della mia consorte,” asserì quindi il Lord di Arthia, ammorbidendo appena l’espressione e approssimandosi al soldato senza nome. Uno dei tanti che vedeva sfilare per il suo palazzo ogni giorno durante il turno di guardia o che sostavano per ore innanzi a questo o quell’ingresso, pressoché invisibili. “Di come tenga in grande considerazione chiunque s’impegni e sappia portare a termine gli incarichi affidati. Ti ringrazio personalmente per aver protetto e guidato a palazzo la signorina Rakova, per questo disporrò che tu venga ricompensato. Ma ricorda che la fiducia accordata reca grandi responsabilità oltre all’indubbio onore,” continuò, arrestandosi innanzi all’uomo.
Era giovane, biondo, di bell’aspetto, col naso dritto e la mandibola volitiva. Fra le ciglia tenute basse – almeno qualcuno ricordava ancora cos’era il rispetto e la soggezione dovuta al signore di Arthia – brillavano pagliuzze di un colore insolito, più simile al viola che al blu. Forse un’impressione, uno scherzo voluto dalla luce che si rifrangeva in maniera singolare sul viso del sottoposto e che gl’ingannava la vista.
Non fosse per l’altezza, il colore dei capelli e la regolarità dei tratti tipicamente Thyatiani l’avrebbe trovato addirittura attraente. Zemilos inclinò il capo e non visto si soffermò sulle labbra piene del soldato, concedendosi il lusso d’immaginarne la consistenza.
Tuttavia egli non era che un mezzo per raggiungere lo scopo, né più né meno. Avrebbe quasi dovuto ringraziare Lady Ilyana e la scelleratezza con cui permetteva a chiunque di entrare nelle sue stanze, tra sporchi soldati semplici o volgari e ignoranti contadinotte che pretendeva di far passare per dame di compagnia. Peccato che fosse lei la diretta causa del problema; e per gli stessi punti sopra elencati.
“Per distinguersi non bisogna mai dimenticare da dove si viene e chi si serve, né crogiolarsi nella vanagloria dei risultati conseguiti,” continuò. “Ma sono certo che il Capitano Serkoff saprà meglio spiegarti quali sono o non sono i doveri di chi presta servizio nell’arma dei Sulescu, dico bene?”
“Benissimo, mio signore,” rispose prontamente Khristofor.
Faccia a faccia col soldato non poteva vederlo, ma era sicuro che il messaggio fosse arrivato forte e chiaro. Tanto più che Serkoff era tutto fuorché stupido.
Il giovane biondo ringraziò per la generosità e chinò ulteriormente il capo innanzi al Lord.
Zemilos se ne compiacque e tornò a fronteggiare il salotto, affrettandosi a dirigere lo sguardo da quella parte. Il Capitano lo fissava di rimando, immobile e dritto come una statua alle spalle di sua moglie esattamente come l’aveva lasciato, ma a differenza di prima un’ombra gli appesantiva i tratti.
Di sicuro c’era qualcosa che avrebbe voluto aggiungere, un peso sullo stomaco di cui avrebbe voluto liberarsi, ma non poteva. Non senza esporsi, sorpassare la linea e compromettere definitivamente la sua posizione – e dubitava che Yuri Serkoff avrebbe tollerato infamia da parte del figlio. E c’era un che di delizioso nell’osservare un così fiero condottiero ingoiare il rospo e obbedire senza replica.
“Lady Ilyana ha grande considerazione di te, Khristofor,” riprese il Conte, aggirando lentamente il divano cui sedeva Dar’ya Rakova per posizionarsi al centro della stanza, nella fattispecie accanto alla moglie. “Perciò ricompensa pure il tuo sottoposto nella maniera che ritieni opportuna,” stabilì.
“Ha svolto per me un compito importante,” intervenne Lady Ilyana, accondiscendente come al solito. “Ti sarei grata se lo trattassi con tutti i riguardi.”
Khristofor Serkoff si portò il pugno al petto e chinò appena il capo, sull’attenti.
“Come desiderate, mia signora,” rispose; dopodiché si allontanò di gran carriera, il mantello bianco che si alzava in vaporose pieghe lungo il tragitto e l’armatura che ne accompagnava il portamento deciso, quasi altero, con inevitabile rumore metallico.
Zemilos seguì con la coda dell’occhio le figure di Capitano e soldato semplice che si allontanavano dal salotto fino a scomparire oltre l’uscio, considerando quanto la situazione sfavorevole al superiore in rango avesse invece avvantaggiato quest’ultimo. Ironia della sorte, probabilmente.
Arricciò leggermente le labbra al di sotto dei folti baffi, afferrò con ambo le mani la cintura stretta in vita e si accomodò accanto alla consorte con un profondo e soddisfatto sospiro, facendosi largo fra la moltitudine di cuscini. Di conseguenza il divano scricchiolò sotto il peso delle massicce membra.
Subito Ilyana allungò la mano e la strinse su quella del marito, rilasciata incautamente sulla propria gamba. Zemilos s’irrigidì sotto il tocco inaspettato, ma non si sottrasse. Non ricambiò nemmeno, comunque, concentrandosi piuttosto sulla giovane accomodata dirimpetto.
Dar’ya Rakova non lo guardava, le dita in grembo che si ritorcevano come vermi, aggrovigliate fra loro per il nervosismo. Era minuta, con i capelli castani e la pelle ambrata tipica dei Kratossiani, ma tutto di lei ne faceva intendere le origini modeste, dall’abbigliamento rozzo ed essenziale alla postura nient’affatto elegante; e stretta nelle spalle sedeva addirittura ricurva, più come una bestiolina ferita e spaventata che come la dama di compagnia di Lady Ilyana Sulescu.
Era figlia di contadini, dopotutto; e su quel divano, fra i cuscini di velluto ricamati in oro e argento, sembrava ancora più misera, oltre che fuori luogo. Dai lineamenti tirati del viso e dalla postura rigida doveva saperlo perfettamente anche lei, comunque, perché trasmetteva chiaramente il desiderio di volersi trovare altrove. Ovunque eccetto che lì, dinanzi allo sguardo di Lady e Lord Sulescu di Arthia.
Punto su cui erano pienamente d’accordo, checché ne pensasse la consorte, sempre disposta a dispensare favori a chiunque ne suscitasse l’interesse: esisteva un ordine ed esisteva per un motivo. E da che il mondo era tale i nobili non sedevano in compagnia dei popolani.
“Svetlana Rakova,” esordì infine Zemilos, rispettando i dovuti convenevoli, “mi spiace che sia venuta a mancare, era una donna umile ma piena di risorse. Sapeva leggere e fare di conto, soprattutto non temeva la fatica,” enunciò, sventolando pigramente la mano libera per aria mentre tesseva le lodi della vecchia.
Ancora di più ne ricordava le pieghe e le macchie del viso, la pelle cotta dal sole, le mani nodose per il troppo lavoro e ruvide come la corteccia, il sorriso scuro e storto, dettagli che gliel’avevano sempre resa grottesca e insopportabile alla vista, soprattutto negli abiti eleganti indossati nel periodo passato a corte. Quando il massimo cui avrebbe potuto aspirare sarebbe stato un posto nelle cucine in qualità di sguattera.
Fortunatamente la giovinezza della prole rendeva il quadro decisamente più accettabile e ricoperta di broccato Dar’ya Rakova sarebbe risultata meno stonata della genitrice.
“Non puoi immaginare quanto mi sia stata di conforto negli anni,” soggiunse invece Lady Ilyana, aprendosi in un sorriso malinconico. “Aveva sempre un saggio consiglio o una massima popolare per tutti. E per ogni situazione. Soprattutto sapeva come prendere la vita con ironia, dote che, ahimè, mi è sempre mancata. Si può dire, quindi, che abbia imparato molto da lei…”
Dar’ya Rakova si spostò nervosamente sul divano e, senza smorzare la stretta o la curva delle spalle, sollevò lo sguardo sugli interlocutori. Sul viso di ragazzina spiccava un timido sorriso che la faceva sembrare ancora più piccola e smarrita al cospetto dei blasonati.
“Mia madre sarebbe contenta di parole così belle,” disse, “ne sono contenta anch’io e mi piacerebbe sentirne ancora. Vorrei,” incassò leggermente la testa fra le spalle, “vorrei saperne di più su di lei, capire che tipo di persona fosse. Ero molto piccola quando lasciò Melcent per servire a palazzo, così…”
“Oh,” esclamò Ilyana, portandosi le dita innanzi alla bocca in segno di cordoglio, le sopracciglia corrucciate sulla fronte bianca e liscia, “povera cara, ma certo. Avremo modo di conoscerci meglio e di discorrere anche di questo, di come ci siamo incontrate e quali vicissitudini abbiamo condiviso. Per ora voglio solo che tu sappia che siamo molto felici di averti qui, è come se Svetlana non ci avesse mai lasciati.”
Zemilos inspirò profondamente, esasperato dalle ultime parole. Di rimando si raddrizzò e assunse una posizione più imponente e austera, seccato per la perdita di tempo e per quei discorsi patetici che poco avevano a che vedere con ciò che effettivamente stava accadendo in quel momento. E con quanto d’importante c’era da puntualizzare in merito.
“Tua madre si è guadagnata il favore del nostro Casato, di per sé avvenimento raro se si considera che la corte è costituita da dame e cavalieri,” intervenne quindi, “perciò quello che ti viene concesso oggi è addirittura un privilegio senza pari. Mi auguro che saprai dimostrarti grata e all’altezza della fiducia che ti viene accordata.”
La ragazza si strinse ulteriormente nelle spalle, ammesso e non concesso che fosse possibile, e lo puntò con occhi grandi. Zemilos la guardò deglutire con fatica, rumorosamente. Perfino lo stomaco le gorgogliò. Il peso delle responsabilità sembrava essere palpabile, tanto gravava sulle esili membra della ragazza, ma non provò tenerezza né per la sua giovane età, né per lo smarrimento insito nei suoi occhi, né per i concetti espressi senza ulteriori giri di parole.
Si trattava di affari, un accordo dai termini ben precisi. Era così per tutto, che si trattasse di matrimonio, di amicizia o di lavoro. Ed era bene che capisse subito quale fosse il suo posto all’interno della cerchia, ammesso e non concesso che non fosse di per sé evidente.
Le dita di Ilyana strinsero con decisione la mano lasciata inerte sulla coscia, in un richiamo implicito che non passò di certo inosservato. O gradito.  
Lentamente il Conte voltò il capo in quella direzione, appuntando iridi cupe sul volto della moglie, che gli si rivolgeva invero senza preoccupazioni. Sapeva di essere intoccabile, se non nella reputazione dei Ferinor.
“Non temere, sono sicura che Dar’ya non ci deluderà, mio Lord,” affermò quindi, tagliando di netto il discorso.
Zemilos sollevò impercettibilmente il mento, piccato, e per alcuni istanti perseverò con le iridi piantante in quelle della consorte.
“Nossignore, non vi deluderò,” rincarò Dar’ya Rakova, una piccola macchia tremante su di un lato della vista periferica. “Vi chiedo scusa se ho parlato senza permesso, ma imparerò presto a comportarmi e non vi farò vergognare, lo giuro. Vi ringrazio moltissimo per tutto quello che fate per me.”
Il signore di Arthia rilasciò il fiato, sfilò la possente mano dalla stretta di Lady Ilyana e tornò a volgersi con solennità alla piccola villica di Melcent.
Le dita che aveva tenuto intrecciate in grembo ora le carezzavano l’addome, lì dove il nervosismo doveva farle dolere le viscere. E forse Ilyana aveva ragione, la ragazza aveva bisogno di mettere qualcosa sotto i denti così da calmare lo stomaco, prima almeno che perdesse i sensi alla stregua di una svenevole donnicciola. E da come sudava freddo, valutò osservando le piccole goccioline che le imperlavano la fronte, come possibilità non era così remota.
Zemilos rilassò le membra, ammorbidì l’espressione e soprattutto sfoderò un sorriso compiacente.
“Molto bene,” stabilì quindi, battendo i palmi sulle ginocchia, “ora devi pensare a rifocillarti, sono certo che il viaggio sia stato lungo e stancante. Darò ordine di preparare qualcosa, dopotutto è quasi ora di pranzo e in cucina ci sarà già un gran daffare. Nel frattempo la servitù ti illustrerà dove sciacquarti e cosa indossare, di certo non puoi girare per le stanze di Lady Ilyana coperta di polvere dalla testa ai piedi.”
“Sì, mio signore,” fece eco la nuova dama di compagnia.
Ciò stabilito il Conte si alzò dal divano e fece per incamminarsi altrove, finalmente lì dove avrebbe potuto svuotare la mente e rilassarsi un po’. Tuttavia riuscì a compiere appena due passi che la voce di sua moglie gli arrivò insopportabile alle orecchie, trattenendolo ulteriormente nel salotto.
“Mio Lord, non volete sapere cosa scrive mio zio, Lord Davus?”
Non visto – spalle ormai rivolte alle interlocutrici – Zemilos inclinò leggermente il capo all’indietro, socchiuse le palpebre e rilasciò anche le braccia lungo i fianchi, colto alla sprovvista dalla futile incombenza che aveva letteralmente cancellato dalla memoria. Senza contare che non aveva interesse a sapere cosa il Thyatiano in questione avesse da dirgli. Sciocchezze, probabilmente.
“Ma certo, è da un po’ che non sentiamo il Lord tuo zio, di certo starà organizzando la prossima battuta di caccia,” rispose, tornando sui propri passi solo per intercettare il braccio già teso di sua moglie nell’atto di porgergli la missiva. “Potremmo unirci ai Ferinor lla fine del mese prossimo, il tempo di definire alcune questioni con i nostri valvassini, preparare i bagagli, la carrozza…”
Il Conte si portò il foglio con la ceralacca infranta innanzi al viso e lasciò scorrere le iridi sulle righe scritte da Davus in persona, cogliendone perlopiù i concetti chiave. Caccia al cervo, manco a farlo apposta.
Evitò di palesare il fastidio nel constatare le sue più nere previsioni e ripiegò il foglio in tre parti con grande scioltezza, pronto a riconsegnarlo alla consorte.
“Passare del tempo con i tuoi cugini gioverà al tuo umore,” stabilì infine, tendendo il braccio da quella parte.
Alla prospettiva Lady Ilyana s’illuminò, letteralmente. Le guance piene si tesero a rivelarne il sorriso bianco, le piccole rughe attorno agli occhi s’incresparono gradevolmente e le iridi celesti della donna divennero addirittura brillanti come zaffiri. Strano a dirsi, ma il Conte trovò che fosse addirittura piacente con quell’espressione sul viso.
Persino il corpo rotondo della consorte – dapprima rilasciato sulla coltre dei cuscini – si raddrizzò in una volta dalla contentezza e quasi s’aspettò che battesse le mani, eccitata come una bambina.
Buon per lui, con una sola mossa avrebbe consolidato l’alleanza con i Ferinor e si sarebbe tenuto buona sua moglie. Almeno fino alla prossima sfuriata, dacché sempre insoddisfatta di questo o di quello.
Pervasa da nuova energia, Ilyana recuperò la missiva e la dispose nuovamente sul piccolo ripiano accanto al divano, lì dove faceva mostra anche un piccolo contenitore di legno che sulle prime non aveva notato.
Zemilos aggrottò le sopracciglia quando la Lady ne schiuse il coperchio e ne estrasse un lungo ed acuminato pezzo di metallo.
“Un dono,” spiegò la donna, “una spilla in filigrana d’oro e pietre preziose lavorata dalle abili mani degli artigiani di Mirroden. Me l’ha consegnata il messo, da parte di mio zio. Deve averla presa per te durante il suo ultimo viaggio alla corte degli Encratis.”
Un dono regale, pensò il Conte. Pertanto rifiutarlo, per quanto non riscontrasse personale attrattiva per gli orpelli, sarebbe equivalso a un insulto vero e proprio. Tant’è che quando Lady Ilyana abbandonò il divano per appuntargli il gioiello sulla cappa di pelliccia non mosse muscolo e la lasciò fare.
Mandò lo sguardo dall’espressione entusiasta di sua moglie al prezioso che gli stava sul petto, perfetto nella sua linea semplice ma elegante. La filigrana oro e argento si rincorreva e si ritrovava dando forma allo stemma del casato Sulescu, un cinghiale su sfondo floreale. Piccoli punti luce costituiti da smeraldi arricchivano invece lo spillone e richiamavano i colori del Casato.
“Un dono degno di un re,” commentò, sforzandosi di sorridere. “Per ricambiare stavolta dovremo ingegnarci e dar fondo ai nostri forzieri,” disse, non senza un minimo di sarcasmo.
“Non ce ne sarà bisogno, mio Lord,” intervenne Ilyana, indugiando sulla cappa di pelliccia e sullo spillone in una carezza inaspettata, le dita affondate nella volpe. “Il mastro dei cani dice che la cagna sta per partorire e sai quanto mio zio invidi i tuoi bracchi, specie il fiuto di quest’ultima. Quando andremo a trovarlo per la caccia al cervo potremmo portargli in dono uno o due dei suoi cuccioli.”
Era una buona idea, ammise. Un modo rapido e pulito per togliersi d’impaccio. Soprattutto poco dispendioso, dacché odiava terribilmente sprecare Reali per futili formalità, anche quelle da mero salotto come la farsa sostenuta fino a quel momento o l’inutile orpello che brillava sul suo petto.
Zemilos abbozzò l’ennesimo sorriso, afferrò la mano di sua moglie e la scansò da sé, cercando di essere il meno brusco possibile.
“Eccellente,” stabilì, “perciò se non c’è altro andrei, devo occuparmi di alcune questioni urgenti cui solo il Lord di Arthia può ottemperare.”
Lady Ilyana annuì e fece un passo indietro, il viso leggermente meno luminoso. Di rimando Zemilos scoccò un’ultima occhiata alla nuova dama di compagnia, ormai dimenticata in un angolo del divano e della sua mente, e si allontanò a passo svelto dal salotto.
Uscì dalle stanze di Lady Ilyana seguito dallo sguardo delle guardie poste ai lati dell’ingresso e percorse il tragitto a ritroso, finché deviò verso la parte del sotterraneo adibita a segrete.
Raggiunse l’uscio in questione, oltrepassò altre due guardie poste a protezione e scese le ripide scale a chiocciola che l’avrebbero condotto al piano inferiore. Ad accompagnarlo c’era il rimbombare costante dei suoi passi e il tremolio delle lanterne a olio, fisse alle pareti e suscettibili agli spifferi che riuscivano a eluderne la rozza schermatura. E la sua ombra si muoveva, ondeggiando sui gradini di pietra o allungandosi a dismisura sulla curva della parete, mano a mano che scendeva.
Giunto al piano si fermò appena per riprendere fiato, constatando che la temperatura lì sotto era più rigida. Di sicuro pungente. Si fregò le mani sulla porzione di braccia che fuoriusciva oltre la cappa di pelliccia e proseguì, inoltrandosi lungo il corridoio sui cui lati spiccavano le celle.
Grate sporche e arrugginite si aprivano su alcove vuote e silenziose, dove le ombre s’addensavano assieme allo sporco e calamitavano lo sguardo, alla ricerca di chissà quale orrore in agguato. Fra esse si distingueva soltanto la prima della fila, illuminata all’interno. La luce si proiettava sul camminamento e disegnava uno stacco netto fra inizio e fine del corridoio.
Zemilos si appropinquò da quella parte, affacciandosi oltre l’inferriata cui invero mancava la porta. Oltre gli si presentò la dimora del carceriere, dove una logora scrivania prendeva posto sul lato destro, disposta verticalmente rispetto alla parete. Sul piano stavano una lampada a olio e un gatto a nove code, accuratamente arrotolato in un angolo. Al di sotto di esso le braci occhieggiavano invitanti, raccolte in un caldano di rame.
Sulla parete in fondo stavano invece appesi gli altri attrezzi per la tortura, fra pinze, tenaglie, maschere di ferro e ceppi. Accanto ad essi, nell’angolo sinistro della stanza, s’innalzava la gogna, in quel momento vuota. Tuttavia l’alone scuro attorno ai buchi per braccia e testa lasciava ben poco ai dubbi.
L’ometto basso e rubicondo che se ne stava seduto alla scrivania quasi saltò sulla sedia quando lo vide comparire sull’uscio. Batté più volte le palpebre e si grattò la testa pelata, con un rumore secco e rasposo che dava alla sua pelle la parvenza della cotenna.  Se si considerava il naso porcino che prendeva posto sul volto tozzo e rotondo dell’uomo la similitudine era più che ovvia.
“Mio signore,” interloquì quello, saltando giù dalla sedia e abbandonando così il conforto del braciere, “non mi aspettavo una vostra visita, sono giorni che non scendete e non pensavo di dover preparare la stanza… perciò, ecco…”
Zemilos non mancò di notare le goccioline di sudore addensarsi sulla fronte ampia e spianata del carceriere man mano che gli si avvicinava, né il movimento delle tozze mani, che sfregavano rumorosamente fra loro come due foglie d’ortica, forse per l’agitazione, forse per l’effettivo clima delle segrete.
“Ha mangiato?” domandò il conte, ignorando completamente le preoccupazioni dell’altro.  
“Non di sua volontà,” riferì l’ometto, “ma ho fatto in modo che prendesse la sua… medicina,” concluse con un’eloquente occhiata. “Ho aumentato leggermente la dose, per cui al momento dovrebbe essere docile come un agnello, mio signore.”
Le labbra di Zemilos si tesero da un lato, tradendo l’accenno di un sogghigno. Più che altro una spontanea reazione di scherno alle audaci promesse del millantatore. Docile e agnello erano due concetti che stridevano terribilmente con il selvaggio di cui si parlava. Medicina o non medicina. Tanto più che la dose – per suo espresso ordine – non era mai così elevata da renderlo incosciente – non era eccitante, altrimenti; e solo in quel caso il conte avrebbe potuto convenire sulla presunta docilità.
L’altro sembrò leggergli lo scetticismo in faccia perché spianò i lineamenti fino a rendere il viso una tavola bianca e frappose le manine nel mezzo, agitandole a mezzaria.
“Naturalmente ho provveduto a sgombrare la stanza, mio Lord, né utensili, né piatti,” elencò il carceriere.
Zemilos non lasciò che terminasse il resoconto, gli diede le spalle, abbandonò l’antro e proseguì lungo il corridoio delle celle. Dopotutto era già stato messo a parte di quanto necessitava. La penombra l’avvolse di rimando, rendendo i contorni appena distinguibili. Ciononostante individuò senza margine d’errore lo spesso portone sul fondo, una macchia ampia e scura che s’innalzava innanzi a sé: la stanza del suo amatissimo Heian.
L’anticipazione lo fece fremere, chiudendogli lo stomaco in una morsa e facendogli aumentare il battito cardiaco, e lo spinse ad affrettarsi, il rimbombare dei passi ad accompagnarlo.
Finalmente a portata, lasciò indugiare la mano sull’anello di ferro battuto, assaporandone lo spessore fra le dita mentre si prendeva il tempo di tendere le orecchie ai rumori per captare qualsiasi movimento sospetto di là dell’uscio. L’unico suono che ascoltò fu il silenzio, ciononostante non s’illuse.
Tirò il battente e la porta si discostò, cedendogli il passo verso l’antro così agognato. Immediatamente il lezzo di urina e di feci andò a insidiargli l’olfatto, facendogli arricciare le narici in segno di disgusto. Mentalmente si appuntò di punire il carceriere per aver rimandato così a lungo la pulizia della cella, approfittato della sua prolungata assenza unicamente per poltrire.
Tuttavia al momento c’erano questioni più urgenti cui badare. E contrariamente alle aspettative il buio si stendeva oltre l’ingresso ancora più vischioso, più insidioso, rispetto al resto delle segrete. Salvo per i punti rossi costituiti dalla brace, che occhieggiavano pigramente in due punti diversi della stanza, lì dove erano posizionati i bracieri atti a riscaldarla.
Zemilos trattenne un sospiro: come volevasi dimostrare. Se c’era una cosa che non riusciva a domare era lo spirito combattivo di quel selvaggio che certamente lo stava osservando con occhi attenti, in agguato nell’ombra come un lupo.
Avrebbe potuto recuperare la lampada e diradare assieme all’oscurità anche le mire dello schiavo, avrebbe potuto chiamare quel pigro maiale vestito da uomo che aspettava all’ingresso e ordinargli di ammansire ulteriormente il selvaggio, con questo o quel metodo, ma l’idea della caccia lo stuzzicava nel profondo e non c’erano mani eccetto le sue che preferiva addosso ad Heian.
Perciò, solleticato dal rischio, aspettò che gli occhi si abituassero alla scarsa illuminazione e fece un passo all’interno, un solo, singolo passo per permettere alla vista di spaziare per quel che le era concesso.
Si trattò di un passo di troppo.
Sentì il suono metallico della catena che strisciava sulla pietra alla sua destra. Sì voltò e frappose istintivamente le mani nel mezzo, certo che l’altro gli sarebbe arrivato addosso da quella parte. Seguirono rapidi, leggeri tonfi, e il peso gli piombò invece sulle spalle dall’alto, così come non si era aspettato.
Zemilos barcollò in avanti, mentre il corpo dello schiavo aderiva al suo e gli s’agganciava mani e piedi al tronco, passandogli le gambe attorno alla vita con incredibile rapidità. Di rimando il freddo del metallo gli morse la gola, dandogli la chiara percezione della catena che gli circondava il collo e che di lì a breve l’avrebbe soffocato. Corse con le dita e riuscì a infilarle fra sé e il ferro un secondo prima del fatale strattone, imprimendo invece una forza uguale e contraria per allentare la morsa.
Heian gemette nell’oscurità e Zemilos sentì tutto il suo essere contrarsi e tremare su di sé per via dello sforzo. Il conte tese le braccia e digrignò i denti nel tentativo di resistere, riacquistò posa eretta e si lanciò di schiena contro la parete più vicina, schiacciando l’altro fra sé e il muro. Una, due volte, finché il dolore e la debolezza ebbero la meglio sull’ostinazione dello schiavo.
La catena cadde a terra con un schianto metallico. Stessa sorte toccò a Heian, che lasciò la presa tutto d’un tratto e s’abbatté al suolo, ansimando sommessamente in un punto imprecisato della stanza.
Finalmente libero, Zemilos accusò due colpi di tosse e barcollò senza fiato in direzione della scrivania, in quel momento una sagoma scura che si delineava appena nell’oscurità. Si appoggiò pesantemente al margine del piano con la sinistra e vagò freneticamente su di esso con la destra finché incappò nel sottile bastoncino di legno che gli occorreva per donare luce all’ambiente. Ne immerse la punta fra le braci e una piccola fiammella prese posto sulla sua estremità, sicché il conte poté allungarlo verso lo stoppino della lampada – lo schermo era già aperto, dandogli la certezza che era stata spenta di proposito.
L’olio prese immediatamente fuoco e una fiamma viva e brillante divampò dallo stoppino, costringendolo a serrare le palpebre per alcuni attimi. Dietro di sé l’ansimare di Heian era diventato ancora più sommesso, ma gli dava l’esatta percezione di dove e in che condizioni si trovasse. E doveva essere sfinito, succube dello sforzo compiuto a dispetto della sua medicina. Da quale punto di vista la sua tenacia era addirittura commovente, oltre che ammirevole.
Zemilos tossicchiò ancora un po’, portandosi la mano chiusa a pugno innanzi alla bocca. Il sudore gli si addensava sulla fronte, sul petto e lungo la schiena, mentre il calore sembrava addirittura avvamparlo e le guance gli scottavano. L’esercizio non aveva sfibrato soltanto lo schiavo, ammise con frustrazione, sfilandosi il diadema per riavviarsi i radi capelli.
Riacquistato il contegno dovuto dal Lord di Arthia, il conte si voltò e fronteggiò lo schiavo. Il suo bellissimo, proibito passatempo.
Heian stava rannicchiato a terra, sul tappeto che ricopriva il pavimento della sua cella quasi per intero. I lunghi capelli corvini gli si adagiavano sulle spalle, gli coprivano il viso e ricadevano al suolo scomposti, come una massa incolta e tumultuosa. Il petto gli si alzava e abbassava rapidamente in cerca d’aria e sul davanti della camicia prendeva posto una macchia fresca di quella che aveva tutta l’aria di essere zuppa. Poteva immaginare lo sforzo compiuto dal carceriere per nutrirlo e più di una volta l’uomo aveva suggerito di cavargli via tutti i denti.
“Non imparerai mai la lezione, vero?” domandò, retorico, abbandonando l’appoggio della scrivania per dirigersi alla più comoda poltrona, posizionata di fianco al letto.
Lasciò scorrere le iridi sulle membra dello schiavo dalle spalle, alla vita, alle gambe ripiegate in posizione di difesa. Era davvero un selvaggio; e più che una persona sembrava una bestia ferita, messa alle strette e pronta allo scatto. E come una bestia era legato, né più né meno. Un anello di ferro gli cingeva la caviglia, collegato a una lunga catena assicurata direttamente alla parete sul fondo. Al di sotto del ceppo, fra le bende poste a protezione dell’arto, si aprivano dei fiori scarlatti che lasciavano poco ai dubbi.  
Heian non rispose, se non piantando le unghie nel tappeto; e anche se il conte non poteva vedergli il viso, nascosto dalla matassa di capelli, non mancò di notare il movimento del suo capo mano a mano che attraversava la stanza e raggiungeva la poltrona: lo seguiva, proprio come avrebbe fatto un animale selvatico con la preda.  
Zemilos sedette con un sospiro e congiunse le mani in grembo, nient’affatto intimorito dalle intenzioni dell’altro. Dopotutto non era una novità e i loro incontri potevano riassumersi più o meno così: Heian faceva il ritroso finché ogni tentativo capitolava per il suo personale piacere.
La sola prospettiva bastò a disegnare un sogghigno compiaciuto sul volto del conte.
“Dovresti ringraziarmi per la cortesia che ti riservo,” sentenziò quindi. “Sbarazzarmi di te sarebbe molto più comodo. Più sicuro, se non altro,” disse, indugiando con lo sguardo sul viso coperto dell’altro, col desiderio di captare qualsivoglia sua reazione. E moriva letteralmente dal desiderio di saperlo spezzato, non solo nel corpo. “Sei un animale testardo, Heian. Credi che resistendo il più possibile uscirai fuori da qui? Che ci sia un futuro diverso da questo per te? Per curiosità, dopo avermi strangolato con quella catena, che cosa pianificavi di fare?”
Le domande caddero nel vuoto e sfumarono nel silenzio, prive di risposta ma non di ascolto. Scosse dolentemente il capo, come se avesse a che fare con un bambino capriccioso.
“Nessuno verrà a salvarti, il tuo corpo è stato ufficialmente ritrovato insieme a quello degli altri. La carcassa stessa di Lauthian Glantreth, la futura Guida, è stata riconsegnata agli eletti della Dea, trucidato dai miei soldati, sfigurato e irriconoscibile come un pezzo di carne. E che cosa ha fatto la tua gente? Niente,” sottolineò. “Si sono accontentati delle scuse di quel pagliaccio di Abadon Encratis e mentre piangono la dipartita del loro adorato principe dei selvaggi, tu sei qui a marcire nel mio sotterraneo. Perciò la tua vita vale meno di questo, meno di una banale scusa.”
Zemilos percepì l’esitazione e lo sconforto di Heian dalle piccole e inconsce reazioni del corpo. Le spalle che si stringevano, le dita che tremavano, affondate maggiormente nel tappeto con un vigore che sapeva di disperazione, il capo che si chinava inesorabilmente verso il pavimento, sovrastato da un peso troppo grande da essere sostenuto. Ecco, era così che gli piaceva, sottomesso a un destino più forte di lui. Sottomesso a Zemilos Sulescu, signore di Arthia. E la mera forza di volontà poco avrebbe potuto contro la concretezza del ferro che gli tratteneva la caviglia, così come sarebbe valsa a niente contro di lui e il potere di vita e di morte che esercitava nel suo feudo.
Distese le braccia lungo i braccioli e si rilassò sulla poltrona allungando anche le gambe, mentre godeva della prostrazione dell’altro.
“Sei patetico,” infierì con freddezza, guardando lo schiavo schiacciato a terra dall’alto in basso, forte della propria supremazia e della postazione privilegiata. “Una volta eri un guerriero, eri fiero, eri abile e rispettato dalla tua gente. Perfino temuto,” rise, lisciandosi la barba che gli ricopriva il mento con indice e medio. “Adesso non sei che la mia puttana.”
L’insulto sortì il suo effetto perché Heian smise di tremare, contrasse i muscoli delle braccia e raddrizzò perfino le spalle. Quasi gli sembrò di sentire lo scricchiolio dei suoi denti. Era un guerriero, lo era nell’anima e in ogni fibra del corpo, e la volontà di combattere era forse il primo e suo più forte istinto. E quando l’aveva rinchiuso c’erano voluti non meno di sei soldati per trascinarlo fin laggiù.
Il ricordo della prima volta in assoluto che l’aveva preteso per sé andò a stuzzicarlo e riuscì largamente ad arroventargli le membra, facendogli sembrare il cavallo dei calzoni quanto mai stretto. Il conte inspirò profondamente, piantò le unghie nei braccioli e deglutì, gli occhi che si facevano cupi e colmi di desiderio, puntati inesorabilmente sull’oggetto delle sue fantasie più recondite.
A dispetto di ciò – invero a dispetto di tutto – Heian sollevò nuovamente il capo verso di lui; e attraverso la matassa di capelli scuri da cui spuntavano solo il mento e le labbra sporche di zuppa – quelle labbra per cui sarebbe valso scatenare una guerra – Zemilos fu certo che stesse guardandolo di rimando, con odio impresso nelle iridi. Ma se era vero che adorava farlo a pezzi, era anche vero che era proprio quel suo resistergli strenuamente a rendere il gioco così eccitante.
Un brivido più intenso degli altri gli risalì la schiena e lo indusse ad abbandonare la poltrona per dirigersi lì dove lo schiavo stava abbandonato. Preso dall’impulso del momento il conte poggiò il ginocchio a terra, si chinò su di lui e l’afferrò per il mento, desideroso di portare alla luce i lineamenti celati dalle lunghe e selvagge chiome.
Heian cercò di scansarsi, di voltare il capo dall’altro lato o di allontanare da sé con blande e inefficaci spinte la mano che lo teneva fermo, ma complice la droga che l’intontiva non poté impedirgli di scansargli i capelli dalla faccia.
Ad attendere Zemilos sotto gli arruffati fili corvini c’erano gli occhi che ricordava, verdi come il mare e carichi di un oscuro, ardente desiderio che non aveva nulla a che vedere né con la paura né con la rassegnazione. No, quello sguardo sembrava volergli scavare dentro per giocare con le sue viscere ancora calde. Erano spiragli pieni d’odio e promesse di morte che s’aprivano su di un viso dai lineamenti esotici – gli occhi a mandorla, le sopracciglia sottili e leggermente arcuate, gli zigomi alti e la mascella triangolare tipica degli elfi – e di una bellezza senza pari, almeno per i suoi personali gusti.
“Eccoli qui,” disse, in adorazione di quelle iridi, “gli occhi di quella notte. Ricordi? Ti stavi allenando con le lame gemelle sotto la luna, pensando di non essere visto,” suggerì.
Per tutta risposta Heian strattonò la testa all’indietro, serrando per contrasto le dita sul suo avambraccio e spingendolo in avanti nel tentativo di scansarlo da sé, ma se gli era rimasta della forza l’aveva già sprecata per tendergli l’agguato. Zemilos sorrise.
“Sembrava baciarti, mentre volteggiavi nell’arena, come se Celenes in persona accompagnasse i tuoi passi,” continuò, scivolando col pollice su quella bocca impertinente, punita nella peggiore delle maniere in un passato non troppo lontano.
Ma anche se aveva impedito a Heian d’insultarlo o di rispondergli a tono – dettaglio che gli mancava terribilmente da che la rabbia del momento era sfumata in un silenzio tanto perenne quanto pesante da ascoltare – erano gli occhi che comunicavano per lui. E in quel momento come in passato lo disprezzavano dal più profondo del cuore, come se da quella sera nell’arena non fosse trascorso un solo giorno.
“Quando ti accorgesti di non essere solo, mi guardasti con sprezzo e mi desti le spalle, sottraendoti alla mia vista,” sottolineò, ripulendo con un rapido gesto i rimasugli di zuppa ai margini delle sue labbra. “Un comportamento inaccettabile e inappropriato nei confronti del signore di Arthia, non trovi? Specie se in visita diplomatica presso il limitrofo villaggio di sporchi selvaggi.”
E se era stata l’insonnia a spingerlo fuori dal giaciglio messo a disposizione e a condurlo lungo gli sterrati fra le capanne elfiche in cerca di pace, era stato invece quell’incontro inaspettato e quasi mistico a strappargli definitivamente via il sonno; e per le notti a venire, popolando i suoi sogni con l’immagine di un giovane elfo che danzava armato di sciabole sotto la luce della luna. Un fascio di muscoli e nervi scattanti in totale armonia di forme e di movimenti, le cui membra erano un tutt’uno con il metallo costituito dalle lame e con l’argento proiettato dalla luna. E che gli aveva dilaniato cuore e orgoglio con un solo sguardo, rendendo la pace tanto agognata null’altro che un lontano e vacuo miraggio.
“Così bello,” sussurrò, indugiando in contemplazione dei suoi tratti, “e così crudele. Selvaggio.”
Zemilos ritrasse il pollice con cui stava delineandogli la bocca l’istante successivo, prima almeno che Heian potesse assestargli un morso; e non sarebbe stata la prima volta, soprattutto quando i ricordi prendevano il sopravvento e lo rendevano malleabile, oltre che distratto. Non doveva mai dimenticare che la creatura che aveva innanzi era più simile a un animale selvatico che a una persona e che come tale andava trattata.  
Gli lasciò andare il viso. Di rimando Heian chinò il capo e alcune ciocche tornarono a coprirgli la faccia. Lo lasciò fare e gli passò invece il braccio attorno alla vita, posizionando la mano maestra fra le scapole dell’elfo. Era dimagrito, constatò brevemente quando percepì le ossa sotto i polpastrelli, senza provare effettiva preoccupazione per il fisico debilitato dell’altro.
Lo schiavo invece s’irrigidì e mugugnò qualcosa d’incomprensibile, sicuramente conscio di quanto voleva da lui. Gli piantò ambo le mani sul petto e cercò di spingerlo via per l’ennesima volta, ma non riuscì a smuoverlo di un millimetro. Non se si considerava che il conte pesava almeno il doppio dell’elfo.
Zemilos si alzò dal pavimento e trascinò Heian con sé con l’ausilio di un braccio solo. Impiegò invece la mancina per afferrargli i polsi ed evitare così che cercasse di cavargli gli occhi, ammesso e non concesso che trovasse nuova linfa per reagire. E lo schiavo già slittava coi piedi per terra nel tentativo di acquisire posa eretta.
Non aspettò che avesse ragione del proprio corpo intontito, il signore di Arthia ignorò il letto e si diresse senza ulteriori indugi alla scrivania cui solo qualche tempo prima si era appoggiato per riprendere fiato e donare luce all’ambiente.
Intrappolò lo schiavo fra sé e il piano e lasciò scivolare la mano con cui lo sosteneva dalle scapole al coccige, infilando le dita sotto la camicia lercia di zuppa. Intercettò il margine dei calzoni e l’oltrepassò, sfiorando la pelle lì nascosta.
Heian accusò un guizzo esasperato, contorcendosi sotto di sé. Zemilos godé del panico provocato; e gli occhi dello schiavo, due smeraldi appena visibili attraverso i fili corvini e arruffati che gli scendevano sulla fronte, saettavano da una parte all’altra senza requie alla ricerca di una scappatoia che non esisteva.
Sogghignò e si protese maggiormente su di lui.
“A te la scelta, puoi optare per le cattive,” disse, sfiorandogli l’orecchio con le labbra, “o le buone, tanto per cambiare.”
Heian digrignò i denti, senza che potesse effettivamente rispondergli. Anche così Zemilos immaginò tranquillamente gli insulti a lui rivolti e quale delle alternative fosse la prescelta. Ciononostante non godé ulteriormente della supremazia, perché con uno scatto e una torsione ben impressi l’elfo liberò la sinistra dalla morsa preventiva e corse con le dita alla cappa di pelliccia che indossava.
L’azione fu più rapida del pensiero perché Zemilos boccheggiò per una manciata di secondi a bocca aperta, confuso dall’avvenimento inaspettato e inconsapevole di quanto stesse effettivamente accadendo. Il braccio dell’elfo si tese e scattò nuovamente verso il basso. Contemporaneamente, con una torsione della destra ribaltò la presa, l’afferrò per il polso e gli schiacciò la mano sulla scrivania.
Zemilos captò il baluginio argentato del colpo che calava sull’arto così esposto troppo tardi; e la spilla donatagli da Lord Davus – la spilla appuntatagli sul petto da Lady Ilyana in persona, l’unico dettaglio fuori posto e che aveva dimenticato di calcolare quando aveva messo piede in quella stanza – gli si conficcò di netto sul dorso della mano, inchiodandolo al piano di legno.
Il dolore l’accecò per attimi che parvero infiniti. Urlò, piegandosi in due sul piano e tenendosi l’estremità ferita con quella rimasta sana. Urlò ancora e appoggiò la fronte contro il legno, mentre le vene del collo gli si gonfiavano a dismisura e il sudore l’avvolgeva da capo a piedi, gelido.
Le catene che strisciavano sul pavimento gli diedero la vaga percezione di dove quel piccolo, sporco elfo fosse andato; ma nell’incertezza di ciò che sarebbe potuto accadere non poteva concedersi il lusso di dargli le spalle più del dovuto.
Batté le palpebre per ricacciare le lacrime e mettere a fuoco la vista. Si raddrizzò con sommo sforzo, serrò la mascella e afferrò lo spillone conficcato nella scrivania, estraendolo con un unico, stizzito gesto. Di conseguenza il sangue fluì più copioso e si riversò sulle venature della mano, sulle dita e fin sull’avambraccio.
Il conte lanciò l’orpello dorato in un angolo della stanza, troppo furibondo per pensare di sistemarlo altrimenti, e si voltò in direzione dello schiavo col braccio teso. Il manrovescio colpì Heian che l’elfo stava goffamente muovendosi da quella parte, probabilmente per recuperare l’unica arma a disposizione che avesse da mesi – almeno da quando il carceriere aveva saggiamente smesso di lasciare nella sua cella utensili da usare impropriamente.
Lo schiavo cadde a terra con un gemito strozzato, prono sui gomiti e sulle ginocchia. Gattonò malamente sul tappeto per portarsi il più lontano possibile, ma Zemilos pestò la catena col proprio stivale e ne arrestò il fluire mano a mano che l’altro si spostava. Di rimando l’elfo subì uno strattone improvviso e finì di lungo sul pavimento per alcuni, fatali istanti; quel tanto che servì al conte per annullare la distanza, acciuffarlo rudemente per i capelli e trascinarlo nuovamente alla scrivania.
Zemilos lo sbatté sul piano e gli assestò due decisi pugni in faccia. Se la droga era insufficiente, ci avrebbe pensato lui ad ammorbidirlo alla vecchia, infallibile maniera.
“Cattive siano,” sibilò quindi, contraendo le bocca in una smorfia di disgusto, gli occhi ridotti a due implacabili fessure. “Finora sono stato fin troppo buono con te, ti ho dato la possibilità di vivere, una stanza confortevole e due pasti assicurati al giorno. Invece sei un animale come gli altri e come gli altri avrei dovuto fare di te carne da macello!”
Con orribile schianto il conte gli assestò un altro pugno; e un altro ancora, finché persino la mano buona cominciò a pulsargli di dolore ed Heian smise di divincolarsi, restando finalmente inerte sulla scrivania. Un sordo fischio gli risaliva dal naso, forse gli aveva rotto qualcosa e di sicuro il labbro gli si era spaccato sotto le nocche, perché il sangue fluiva dalla matassa incolta di capelli per riversarsi sul piano in piccole, dense pozze ogni volta che tossiva.
Ancora affannato per lo sforzo, Zemilos si asciugò il sudore che gl’imperlava la fronte con la manica della camicia e continuò a fissare il suo operato, indugiando sul corpo abbandonato ed esanime sotto di sé. L’elfo aveva un che di eccitante, anche nell’incoscienza. Gli indumenti spiegazzati dalla colluttazione gli lasciavano scoperti il collo, la spalla e parte del pettorale. La lampada a olio, invece, sembrava carezzare gradevolmente ciascuna di quelle curve, riverberando sul velo di sudore e rendendole addirittura morbide, come fossero accaldate di piacere e in attesa di lui.
Peccato che a rovinare il quadro ci fosse il viso tumido e livido dello schiavo, che gli rimandava senza margine d’errore ai reali termini di quell’incontro. Che seccatura
Ciononostante il signore di Arthia non si scoraggiò né si fece scrupoli. Semplicemente lo girò a pancia in giù sul piano, tirò fuori la propria virilità e gli abbassò le brache. 
Ed eccoci qua, la vicenda prosegue, altri personaggi fanno il loro ingresso in scena e aggiungono nuovi dettagli. Lol. Sono davvero tanti e in proposito sono davvero insicura, dacché temo che cambiare così spesso il punto di vista possa spezzare la narrazione e confondere il lettore. Ciononostante per rendere tutto ciò che accade non ho altro modo. >-< Mah!
Nelle note ho aggiunto la dicitura "non-con". Non descriverò mai l'atto in sé, ma credo che data la situazione servisse in ogni caso. ^^' Nel prossimo capitolo Calardir e Destro faranno il loro trionfale (mmaddeché? ndTutti) ritorno. Per il resto, al solito, se c'è qualche critica, consiglio o parere non esitate a farmelo sapere. Mi farebbe piacere. ^^ Alla prossima!
CompaH

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