Beauty and the Beast

di LaniePaciock
(/viewuser.php?uid=136308)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Temporale ***
Capitolo 3: *** La Bestia ***
Capitolo 4: *** Richard Castle ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


N.d.A.: Xiao! 😃 Dopo tanto (troppo?) tempo sono tornata a scrivere e lo faccio su una storia che mi è stata proposta da Katia R e che da tempo immemore ho iniziato. Avevo fatto una promessa, ovvero che avrei pubblicato questa storia prima che uscisse il film live-action della Bella e la Bestia e così, anche se al pelo, eccomi qui! Vi avverto già da subito: ho iniziato a scrivere, ma 1) la storia non è ancora completa 2) probabilmente pubblicherò per il momento ogni 2 settimane perché sono un po’ incasinata (ultimo esame, tesi, cose del genere…)
Anyway, enjoy the story! 😉
Lanie  

Prologo
 
Erano passati anni dall’ultima volta in cui si era sentito così. O meglio, quel misto di scoraggiamento e rabbia gli erano sempre fluiti nelle vene insieme al sangue da quel maledetto giorno. Ma da qualche settimana… da qualche settimana c’era qualcosa di diverso, di nuovo. Qualcosa che non avrebbe mai creduto possibile essere ancora presente in lui. Qualcosa che non riusciva a definire e che rimaneva lì, latente, quasi invisibile, ma insieme pesante come un macigno. Poteva essere speranza? Poteva essere amore?
Grugnì rabbioso e si scagliò senza pensarci contro un mobile già a pezzi nella camera buia piena di oggetti distrutti. Schegge di legno volarono ovunque, arrivando anche a ferirlo alle mani e al viso. Lui però non sentì nulla. Tagli così se ne procurava in continuazione e non erano niente rispetto al dolore costante che provava da anni. Anzi erano quasi un sollievo, un modo per pensare ad altro.
Osservò distrattamente un frammento di legno incastrato tra il dito indice e il medio. Con l’altra mano lo tirò fuori con un solo movimento, senza neanche una smorfia, pensieroso. Doveva liberarsi di qualunque cosa stesse rinascendo in lui. Doveva liberarsene come si era appena liberato di quel pezzetto di legno nella sua carne. Non era più l’uomo di cinque anni prima. Non poteva più provare qualcosa di così… Come poteva definirlo? Normale?
Scosse la testa con decisione e si mise a camminare nervosamente per la stanza dove si era auto-rinchiuso da tempo. Era cambiato allo stesso modo in cui era cambiata la camera attorno a lui, rifletté. Anni prima quella era stata una bella stanza matrimoniale, grande, pulita, luminosa, con un morbido letto a baldacchino pieno di soffici cuscini, un ampio divano e mobili antichi. Ora non era altro che un buco sempre oscurato pieno di polvere, stracci e oggetti spaccati. Come lui, quella camera non era altro che una pallida eco di sé stessa.
Si scostò i capelli lunghi dagli occhi e grugnì. Era diventato un mostro. Una bestia. Aveva anche paura a guardarsi allo specchio. Non voleva sapere come si era ridotto, non avrebbe sopportato la vista delle carni pendenti e sfaldate che popolavano i suoi incubi.
In quel momento però il suo sguardo si bloccò su un pezzo di vetro appartenente a uno specchio che aveva distrutto tempo prima. Quasi come uno crudele scherzo del destino, vide uno scorcio del suo viso, solo parte del naso e uno dei suoi occhi. Per un attimo osservò quella sua iride blu, lampante come una lanterna contro la sua pelle grigiastra, così diversa da come la ricordava. L’elettricità che la pervadeva un tempo, era stata spenta, soffocata.
Non riuscì a reggere oltre lo sguardo di sé stesso e voltò la testa con rabbia, prendendo e scagliando nel contempo quel misero pezzetto di vetro dall’altra parte della stanza. Il bordo tagliente che lo ferì alla mano quasi lo fece sorridere. Abbassò lo sguardo: anche alla debole luce della Luna che illuminava la stanza poté vedere la sottile linea scura che si era formata sul suo palmo. Si sorprese a notare quanto i suoi occhi si fossero abituati all’oscurità dopo tutto il tempo che aveva passato al buio.
In un gesto involontario, chiuse la mano mentre un pensiero sconfortante lo sfiorava: sua figlia avrebbe visto quel taglio. E anche le altre ferite che si era procurato poco prima. La sua piccola avrebbe visto che ancora una volta non aveva saputo controllarsi, che nuovamente si era abbandonato a quella sua rabbia distruttrice che lo prendeva sempre più spesso. Aveva cercato in tutti i modi di trattenersi, ma era difficile, quasi impossibile a volte. Inoltre ora non c’era più solo la sua bambina a cui nascondere la cosa, c’era anche lei
Scosse di nuovo la testa con forza, questa volta per togliersi quella donna dalla mente, ma fu tutto inutile. I suoi occhi color nocciola con quelle pagliuzze verdi, il suo corpo sinuoso e atletico, il suo sorriso che poteva illuminare un mondo erano ormai costantemente nei suoi pensieri. Ed erano come un macigno nel suo petto.
Strinse la mascella fino a farsi male e ricominciò a camminare freneticamente su e giù per la camera, non facendo neanche attenzione ai detriti di precedenti distruzioni che calpestava. Non doveva più pensarla. Non poteva più permettersi di farlo. Se all’inizio forse era stata curiosità verso qualcuno di estraneo, un contatto con il mondo esterno che non fosse passato attraverso la sua famiglia o i domestici, ora non lo era più. Era altro. E non poteva farlo andare oltre. Perché qualunque oltre a cui avesse pensato, avrebbe voluto dire anche la speranza di altro. E lui di speranze non ne aveva più.
Sospirò pesantemente, d’improvviso distrutto, e andò ad appollaiarsi sul suo posto preferito sopra il davanzale della finestra. Gli piaceva stare lì, in bilico tra camera e vuoto, tra dentro e fuori. Era uno dei pochi momenti in cui, la notte, si concedeva di respirare un po’ d’aria pura, al riparo da occhi indiscreti.
Alzò gli occhi a osservare il cielo. La Luna era piena era quella sera, luminosa e senza neanche un velo di nuvole a farle da contorno. Poi qualcosa attirò di nuovo il suo sguardo verso l’interno della stanza, come un magnete. E infatti i suoi occhi trovarono subito il piccolo quadro inondato di luce lunare che troneggiava tranquillo sulla parete opposta della camera. Era l’unico oggetto là dentro che non avrebbe mai scalfito. Molto semplice, una cornice in metallo proteggeva nient’altro che un foglio da disegno. L’unica cosa rappresentata era lo schizzo di una rosa rossa, rigogliosa e sbocciata.
La rosa con il lungo gambo era piuttosto stilizzata, ma a lui sarebbe sempre sembrata un’opera d’arte. L’aveva creata sua figlia per lui quando si era ammalato, quando quell’incubo era iniziato. Quando era diventato il mostro, la bestia che era. Era una delle poche cose che riuscivano a ricondurlo alla ragione dalla furia che lo pervadeva. Gli bastava guardare quel fiore, pensare a sua figlia e all’improvviso la rabbia che lo aveva travolto scemava fino a lasciarlo spossato e un po’ imbarazzato per lo sfogo che aveva avuto. Era forse l’unica scintilla di speranza, quasi inconsapevole, che si permetteva di mantenere nella parte più profonda della sua testa e del suo cuore per non impazzire del tutto. Ma ora quella donna era arrivata a sconvolgere il suo già precario equilibrio.
Riportò lo sguardo fuori dalla finestra. Poi con un balzo improvviso si slanciò verso l’esterno, tenendosi con una mano al telaio della finestra e sfruttandolo come perno per arrivare ad attaccarsi alla parete. Quindi allungò una mano verso l’alto, si aggrappò al cornicione del tetto e si tirò su. L’aveva fatto così tante volte che ormai non sentiva più neanche lo sforzo.
Gli piaceva il tetto. Isolato, alto e praticamente insonorizzato. Aveva già fatto la prova. Nessuno poteva sentirlo da dentro la casa e nessuno poteva vederlo dai dintorni a causa delle alte ali laterali del tetto della villa. L’unico parte libera era davanti a lui, verso il mare. Da quel punto poteva vedere perfettamente la spiaggia oltre la collinetta davanti alla casa e la sottile spuma di mare notturna. Era l’unico posto in cui poteva sentirsi al sicuro dal mondo e libero dalle quattro mura che lo rinchiudevano tutto il giorno, tutti i giorni, da anni.
Il suo sguardo spaziò verso l’oceano e fece un respiro profondo. L’odore di salsedine lo avvolse, confortandolo. Allo stesso tempo però, quella vista magnifica gli diede una morsa allo stomaco. Non avrebbe mai potuto camminare su quella sabbia chiara insieme alla donna dei suoi pensieri o nuotare in quell’acqua fredda e cristallina con lei. Non avrebbe mai potuto fare nulla con lei.
Scosse la testa con furia. Doveva dimenticarla. Non avrebbe sopportato di veder nascere una nuova speranza, osservarla volare libera per poi guardarla spezzarsi e cadere davanti ai suoi occhi. L’aveva già vissuto troppe volte dall’inizio del suo personale incubo e non avrebbe potuto sopportarlo ancora. Non di nuovo. Non ora che era finalmente riuscito a rassegnarsi alla sua situazione.
Come un animale in gabbia, si mosse a passi veloci in cerchio sentendosi per la prima volta come rinchiuso su quel tetto. Quindi si bloccò e cacciò un urlo rabbioso verso la Luna, tutti i muscoli in tensione per lo sforzo. Forse questa volta lo avrebbero sentito anche da dentro la villa, ma non gli importava. Doveva buttare fuori la sua rabbia, la sua frustrazione, la sua malinconia, la sua impotenza verso la sua condizione.
Quando smise di urlare, diversi secondi dopo, le gambe gli cedettero e cadde seduto sul tetto, ansante. Si sentiva svuotato, stanco. Si rannicchiò su sé stesso, abbracciandosi le gambe e nascondendo la testa tra le ginocchia. Gli ci volle qualche secondo per accorgersi che stava silenziosamente piangendo mentre una domanda gli pulsava dolorosamente in testa. Chi avrebbe mai potuto amare una bestia?

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Temporale ***


Cap.1 Temporale

La pioggia cadeva senza sosta ormai da più di un’ora. Il tempo si era fatto cupo nel pomeriggio, a dispetto del bel Sole che c’era stato in mattinata e le nuvole, che erano arrivate bianche e tranquille, si erano fatte in poche ore minacciose e grigie. Il vento si era alzato bruscamente e tutti i turisti giunti in mattinata a godersi le ultime belle giornate autunnali in spiaggia erano fuggiti poco dopo pranzo. Kate Beckett e suo padre Jim invece erano rimasti. Il lavoro portava sempre via tanto tempo a entrambi, così avevano deciso di restare sulle coste degli Hamptons fino all’ultimo momento possibile (ovvero finché non era iniziata quella pioggia scrosciante) per poter passare qualche ora di più insieme all’aria aperta.
Kate lanciò un’occhiata allarmata al cielo scuro attraverso il parabrezza coperto continuamente d’acqua. Neppure il tergicristallo riusciva a liberare abbastanza la visuale per poter vedere chiaramente la strada. Sbuffò contrariata: non gli piaceva per niente quello che vedeva. Lì dove avrebbe dovuto esserci un tramonto spettacolare sul mare, si stendeva invece una coltre di nuvole basse e nere. Guidava piano, con prudenza, sia perché vento e pioggia non permettevano un’andatura sostenuta, sia perché non conosceva bene la zona. Jim invece non avrebbe avuto problemi a orientarsi: conosceva quei luoghi come le sue tasche e li sfruttava almeno una volta al mese per andarci a pesca con un suo amico. In quel momento però non voleva turbare suo padre più di quanto non lo fosse già.
Kate gli lanciò un’occhiata veloce, preoccupata, cercando di non farsi notare. Era iniziato tutto meravigliosamente quella mattina. Si erano alzati con calma, avevano fatto colazione insieme al bar e si erano fatti un’ora di macchina verso gli Hamptons perché suo padre voleva mostrarle da tempo un posticino tranquillo e privato che aveva trovato in un’insenatura naturale della costa. Era stata una giornata rilassante e divertente e avevano anche passeggiato nell’acqua cristallina per poi inzupparsi di acqua a vicenda ridendo come quando lei aveva cinque anni. Tutto fantastico, finché il tempo non era peggiorato.
“Avremmo dovuto dare più ascolto alle previsioni…” mormorò Kate, più a sé stessa che a Jim accanto a lei. In quel momento, quasi a darle ragione, un fulmine si abbatte sul mare illuminando a giorno la strada e il tuono fragoroso che seguì la fece quasi sobbalzare sul sedile.
“Quelli sbagliano sempre, lo sai.” borbottò suo padre in risposta, semi rannicchiato sul sedile del passeggero con il viso rivolto al finestrino. Da quando si erano rimessi in auto, quasi mezz’ora prima, era stranamente silenzioso. Tranne per qualche accenno di tosse che non le piaceva per niente. “Hai visto anche tu che in cielo non c’era una nuvola stamattina” continuò Jim “E poi…” Il resto della frase fu interrotto da un’improvvisa e violenta tosse. Kate si voltò di scatto verso di lui, allarmata.
“Papà, stai bene?” chiese preoccupata, allungando una mano verso di lui, ma tornando a osservare la strada per evitare di sbandare. Quando suo padre le strinse la mano per rassicurarla la sentì ghiacciata.
“Sì, sì, Katie, tranquilla.” rispose con voce un po’ raschiante. Si schiarì la gola brevemente quindi continuò. “Avrò preso solo un po’ di…” Un altro eccesso di tosse lo bloccò, facendolo quasi piegare in due su sé stesso.
“Papà!” lo chiamò Kate con un tono più stridulo di quanto avesse voluto. Probabilmente Jim era rimasto in silenzio tutto quel tempo per cercare di trattenere in qualche modo la tosse per far sì che sua figlia non capisse che stava male.
Automaticamente, Kate pigiò un po’ di più sull’acceleratore, abbastanza per aumentare l’andatura senza rischiare di ammazzarsi a causa del tempo. Dovevano arrivare a casa il più presto possibile per mettere al caldo suo padre. Nel frattempo accese il riscaldamento al massimo.
“Katie, vai piano.” la rimproverò subito Jim, sentendo l’accelerazione. Ansimava leggermente per lo sforzo di contrastare la tosse. “Va tutto…” un altro forte colpo di tosse tranciò la sua frase. “…bene.” gli uscì alla fine in un mormorio soffocato.
“Papà, non scherzare.” ribatté lei seria. “Non va bene per niente quella tosse.”
“Ho solo preso freddo…” replicò suo padre prima che lo colpisse l’ennesimo attacco, costringendolo a fermarsi anche solo per riprendere a respirare.
“Ok, basta.” esclamò Kate risoluta a un certo punto. “Ci vuole troppo a tornare a casa, ti porto all’ospedale più vicino. Sai dove si trova?”
“Katie, non…”
“Non dirmi che non ce n’è bisogno!” lo interruppe seccata, quasi rabbiosa. “Stai peggiorando a vista d’occhio! Se fosse stata solo un po’ di tosse non mi sarei preoccupata, ma papà questa sembra grave. E’ stata troppo veloce. E ora che ci penso non vorrei che inoltre…” Senza togliere gli occhi dalla strada, Kate allungò una mano e la premette sulla fronte del padre. Le ci volle un secondo per sentire che era molto più calda del normale. “Come pensavo: ti sta venendo la febbre.” La cosa peggiore fu non sentire un altro rimprovero di Jim, ma un suo respiro rauco.
Senza dire altro, Kate si mise a trafficare con il navigatore dell’auto per cercare l’ospedale più vicino. Le si chiuse la gola quando la voce artificiale del computer le indicò che ci sarebbero voluti 40 minuti. E in più era dalla parte opposta a quella dove erano diretti.
Frenò bruscamente, per quanto fu possibile con quell’asfalto bagnato, e fece inversione di marcia.
“Ma cosa… dove…?” mormorò il padre confuso guardando fuori dal finestrino.
“L’ospedale è dall’altra parte.” rispose Kate, intuendo la sua domanda. Passarono 5 minuti interminabili, poi 10, poi 15. Kate continuava a dividere la sua preoccupazione tra la strada e suo padre. Nonostante il riscaldamento al massimo che le imperlava la fronte di sudore, notò che Jim aveva iniziato a tremare.
“Ancora un po’ e ci siamo, papà.” disse Kate lanciando l’ennesima occhiata al padre. “Solo altri venti minuti.” L’unica risposta che ricevette fu un lieve cenno della testa.
Nervosamente, Kate dovette alzare leggermente il piede dall’acceleratore. Era sempre più buio per la sera che avanzava e la pioggia continuava a non facilitare il percorso. Ad un tratto, dopo una curva, entrarono in una strada ampia ma poco illuminata, circondati da alte recinzioni che chiudevano chissà quali proprietà. Kate socchiuse gli occhi. Perfino con i fari sparati non riusciva a vedere più di qualche metro davanti all’auto, talmente si era infittita la pioggia. Infatti sorpassò quasi senza notarlo un cartello stradale, tanto che voltò la testa per riuscire a capire con la coda dell’occhio cosa diceva. Fu in quel momento che una macchina, probabilmente un grosso pick-up visti gli alti fari, sbucò fuori da una strada laterale accecandola all’improvviso.
Kate distolse lo sguardo d’istinto e frenò mentre quello le passava accanto suonando il clacson rabbioso. Le ruote dell’auto però questa volta non bastarono a fermare il veicolo, tanto che iniziò a slittare senza controllo sull’asfalto. Kate tentò di raddrizzare lo sterzo con un misto di adrenalina e panico nelle vene, ma prima che riuscisse a recuperare la macchina questa si andò a bloccare con uno schianto, mozzandole il respiro e facendole esplodere l’air-bag davanti alla faccia.
Kate alzò la testa lentamente e sbatté le palpebre più volte, frastornata e indolenzita. Alzò una mano verso la fronte, che aveva iniziato a pulsarle dolorosamente, e sentì qualcosa colarle verso la guancia. Si voltò piano verso suo padre.
“Papà…” mormorò Kate. Jim non si mosse. Era ancora rannicchiato contro il sedile e Kate notò che anche davanti a lui si era aperto l’airbag. Cercò di sporgersi verso di lui, ma la cintura la trattenne. Se la slacciò con qualche difficoltà e si allungò di nuovo verso il padre, cercando di scuoterlo leggermente per una spalla. “Papà?” lo chiamò ancora. Nulla. “Papà??” ripeté in tono più allarmato, scollandolo con più forza. “PAPA’!!” In quel momento Jim sussultò e gli scappò un colpo di tosse rauco. Per la prima volta Kate fu grata di sentire quella tosse.
“Katie…” mormorò il padre guardandosi intorno. “Cosa è… cosa è success…” Un altro attacco di tosse lo fece bloccare.
“Credo che abbiamo avuto un incidente.” rispose Kate, lanciando un’occhiata fuori dal parabrezza e notando, tra la pioggia, che si erano schiantati contro un albero. “Dobbiamo cercare aiuto” Provò a individuare il telefono ma non lo trovò. Solo dopo qualche secondo ricordò che lo aveva appoggiato sul cruscotto quindi in quel momento poteva essere ovunque. Non potevano contare neanche sul telefono del padre. Quando faceva quelle uscite fuori porta gli piaceva lasciare a casa il cellulare. “Non trovo il telefono. Dovremo uscire fuori, forse qui intorno qualcuno ci farà fare una chiamata. Ce la fai a muoverti?”
“Io…” rispose lentamente il padre, insicuro, la voce sempre più rauca. “Io sì… credo...”
“Bene.” replicò Kate. Quindi con uno sforzo aprì la portiera e scese dall’auto. Dovette appoggiarsi alla macchina per evitare di rovinare a terra, ma la pioggia fredda che la investì la aiutò a riprendersi velocemente dalle vertigini. Non si fermò neanche un momento a controllare i danni, non erano la sua priorità. Fece invece il giro dell’auto e aiutò suo padre a scendere.
Jim le si appoggiò con tutto il peso sulla spalla, tossendo più di prima. Solo a quel punto Kate si guardò intorno, cercando di capire dov’era. Ovviamente non ne aveva idea. Non riconosceva niente e non sapeva dove andare. La strada davanti a loro era dritta e semibuia da entrambe le parti. Aveva sperato di trovare una casa per far riparare almeno suo padre e chiamare un’ambulanza, ma aveva dimenticato che negli Hamptons le abitazioni erano costruite molto lontane le une dalle altre per dare maggior riservatezza e spazio agli abbienti residenti.
Disperata, Kate cercò di osservare meglio tra la pioggia, socchiudendo gli occhi per un qualsiasi cenno di abitazione, e alla fine i suoi sforzi furono premiati. Diversi metri più in là, dall’altra parte della strada e quasi invisibile, una lucina sporgeva sulla strada illuminando un cancello.
Kate strinse di più la presa sul padre e iniziò ad arrancare con lui verso quella flebile luce. Dovette spostarsi più volte i capelli fradici dagli occhi per vedere dove andava. I vestiti inoltre le si erano incollati addosso e le impedivano i movimenti. Solo in quel momento iniziò a sentire con dolore i colpi che la macchina le aveva procurato. Fece una smorfia e continuò a camminare verso la luce mentre i piedi le sguazzavano nelle scarpe sportive che indossava.
Quando Jim ebbe un attacco di tosse più forte degli altri, Kate rimpianse di averlo trascinato fuori dall’auto senza prima aver cercato aiuto. Suo padre sarebbe rimasto solo per qualche minuto, ma almeno sarebbe rimasto al caldo e all’asciutto.
Avanzarono lentamente e con fatica. Kate tenne per tutto il tempo gli occhi fissi sulla luce, come per paura che potesse svanire se solo l’avesse persa di vista. Man mano che si avvicinavano però, la fonte luminosa aumentò di intensità e prese la forma di una piccola lampada vecchio stile. Era appesa a lato di un vecchio cancello in ferro battuto piuttosto articolato nei disegni. Le mura intorno invece, che probabilmente circondavano l’intera proprietà, erano molto semplici, in mattoni a vista, ma alte abbastanza da non dare alcuna possibilità di sbirciare all’interno e con dei cocci aguzzi disseminati al di sopra. Non sembrava molto ospitale, pensò Kate mordendosi il labbro. Sperò solo che la sua prima impressione fosse sbagliata.  
Una volta davanti al cancello, Kate fece appoggiare suo padre al muro, quindi cercò un campanello su cui suonare. Dopo un minuto di infruttuosa ricerca lanciò un gemito sommesso. Spostarsi da lì sarebbe stato impossibile: Jim ormai si reggeva a stento in piedi e le sue condizioni continuavano a peggiorare.
Kate spostò nervosamente i capelli lontano dagli occhi, quindi, sconfitta dal campanello ma decisa a trovare un telefono, si aggrappò al cancello per capire quanto fosse resistente e se avrebbe potuto sfondarlo in qualche modo o scavalcarlo. Con sua sorpresa però, l’inferriata si mosse immediatamente sotto le sue mani con un cigolio sinistro e forte. Più per la sorpresa che per lo spavento, Kate lasciò andare immediatamente la presa e quello subito tornò al suo posto con un forte clangore, facendola stavolta sobbalzare.
Prendendo un respiro profondo per cercare di calmare i battiti del cuore, riprovò a spingere il cancello, stavolta più delicatamente. L’inferriata si mosse nuovamente sotto il suo tocco, ripetendo il suo cigolio sinistro. Non era invitante, ma era aperto.
Non curandosi del brivido freddo che le scese lungo la schiena, Kate aiutò suo padre a rimettersi in piedi.
“Papà andiamo.” disse a voce alta, in modo da farsi sentire anche sotto la pioggia e i tuoni che avevano ricominciato a imperversare. “Tra poco saremo al caldo.” L’unica risposta di Jim fu un cenno affermativo della testa. Gli circondò la vita con un braccio e lo aiutò a camminare. Lo sentì tremare contro il suo fianco.
Con il cuore che le batteva forte, Kate cercò di aguzzare la vista per scorgere la casa o villa che avrebbe dovuto essere presente nella proprietà. Non vide nulla. Non c’era una luce o una presenza. Solo pioggia grigia sopra un piatto prato scuro. L’unica cosa che notò fu la stradina acciottolata che si snodava davanti a loro. Da qualche parte avrebbe pur dovuto condurli, quindi la seguirono.
Kate e Jim continuarono a camminare lentamente su quel viottolo per quasi un minuto. Solo a quel punto finalmente si delineò davanti a loro il profilo di una casa. Man mano che si avvicinavano, Kate vide che era una villa a due o tre piani, molto larga, con un ampio portico davanti e uno strano tetto che sembrava avere più punte. Nessuna luce si intravedeva dalle finestre.
Per un momento Kate si chiese ansiosamente se non avesse fatto un errore. Magari la casa era abbandonata o forse abitata solo d’estate. E forse non solo non c’erano persone ma neanche telefoni. In quel caso come avrebbe fatto a chiamare qualcuno? Se fosse riuscita ad aprire la porta avrebbe potuto almeno lasciare suo padre dentro e cercare di nuovo aiuto in un’altra casa. Sarebbe stata violazione di domicilio, ma quella era un’emergenza.
Scosse la testa con forza per non concentrarsi su quei pensieri e una fitta dolorosa le attraversò le tempie, facendola grugnire per il dolore. Suo padre mormorò debolmente il suo nome, ma non riuscì a dire nulla di più.
Arrancarono gli ultimi metri fino al portico e finalmente, dopo aver salito un paio di gradini, furono al riparo dalla pioggia battente. Appena si fermarono, Jim si accasciò a lato della porta, tremante, fradicio e con il respiro rauco e intermittente. Kate, altrettanto stremata, batté un pugno più volte sulla porta, sperando che ci fosse qualcuno all’interno che la sentisse. Il temporale e il vento però facevano talmente rumore che le parve quasi di non aver bussato. Iniziò allora a cercare un campanello. Una villa di quelle dimensioni doveva averne almeno uno.
Dopo qualche secondo Kate si accorse con un certo sgomento che il punto in cui avrebbe dovuto probabilmente esserci il campanello era stato sostituito da un pezzo di legno rettangolare con su scritto ALLA LARGA! NON CI INTERESSA NIENTE! Lo guardò stranita, le sopracciglia alzate. Per un attimo si chiese se non fossero finiti al deposito di Zio Paperone. Chi diavolo metteva dei cartelli alla porta con su scritto ‘alla larga’??
Kate sbatté le palpebre stupita, quindi scosse la testa e riprese a battere il pugno sulla porta. Si accorse che anche lei stava tremando per il freddo che le aveva provocato la pioggia. Ancora nessuno venne ad aprirgli. Kate si morse il labbro inferiore nervosa, quindi si chiese se per caso non avrebbe avuto un nuovo colpo di fortuna cercando di aprire semplicemente la porta. Beh, magari non esattamente ruotando la maniglia, ma forse una spallata per assestata sarebbe comunque bastata. Però…
Senza pensarci ulteriormente, prese la maniglia tra le mani e la ruotò di scatto. Non avrebbe mai davvero immaginato che la porta si sarebbe aperta senza alcun impedimento davanti a lei. Guardò a bocca aperta l’uscio spalancato, incredula. Che senso aveva usare un cartello che allontanava la gente se poi si lasciava cancello e porta aperta?
La sua fortuna iniziò a puzzarle. Forse era svenuta in auto e ora stava solo sognando di essere finita in un qualche strano film, probabilmente horror. C’era qualcosa che non tornava. Tutto sembrava abbandonato, ma allo stesso tempo c’erano la accesa luce al cancello, il prato ben tagliato e pulito e quel cartello alla porta che davano esattamente l’idea opposta di abbandono. Il freddo e la stanchezza accumulata comunque alla fine ebbero la meglio su di lei e, senza farsi altre domande, mise un piede nella casa buia per controllare se effettivamente fosse disabitata. Un forte attacco di tosse di suo padre dissolse gli ultimi dubbi che aveva. Mandò al diavolo la prudenza e aiutò Jim a entrare.
Solo dopo aver chiuso la porta dietro di sé si accorse che la casa era calda, asciutta e con un leggero profumo di carne cotta che aleggiava nell’aria. Decisamente poco comune per un posto disabitato.
“C’è nessuno?” domandò al buio. Fece qualche passo all’interno con Jim, ma a quel punto le gambe non lo ressero più e suo padre cadde con un tonfo a terra, quasi trascinando Kate con sé.
“PAPA’!” gridò, ma neanche si sentì poiché nello stesso istante un lampo squarciò il cielo, illuminando la stanza attraverso una grande vetrata dall’altra parte della stanza e il tuono forte e lacerante rimbombò quasi contemporaneamente. Nonostante si fosse precipitata su Jim, Kate riuscì comunque a vedere per un attimo la stanza: era un soggiorno con divani, poltrone, vasi di piante, un tavolo e sedie. A lato intravide una scalinata per un piano superiore.
Con la porta chiusa il rumore la pioggia si era fatta più ovattato e quindi fu solo a quel punto che Kate, piegata su suo padre, sentì come dei bisbigli. Si bloccò e drizzò la testa. Forse si era sbagliata. Forse la stanchezza, la preoccupazione e il respiro rauco di suo padre le avevano giocato un brutto scherzo. Attese cinque secondi, in cui sentì solo lo scrosciare della pioggia, quindi tornò a concentrarsi su Jim. Ma stavolta dei passi pesanti, non lontani e provenienti dall’interno della casa, la fecero scattare in piedi.
Kate si voltò verso la fonte del rumore, un punto buio in fondo alla sala, con tutti i sensi all’erta. Il cuore le batteva forte nelle orecchie e sentì chiaramente un rivolo di sudore freddo (o forse acqua gelata dei vestiti bagnati) attraversarle la schiena. Senza accorgersene, d’istinto, si portò davanti a Jim. Sapeva che dovevano essere solo gli abitanti della casa che finalmente si facevano vedere, ma era terrorizzata dalla possibilità che potessero buttarli fuori casa, soprattutto con suo padre in quelle condizioni.
In pochi secondi il rumore di passi e i bisbigli aumentarono di intensità fino a diventare un vociare indistinto mentre Kate restava immobile. Poi una porta si spalancò all’improvviso e un forte fascio di luce investì lei e suo padre, accecandola per un momento.
“Quella maledetta porta! Te l’ho detto mille volte che dobbiamo comprare una serratura nuova!” esclamò una voce maschile seccata appartenente a una figura nera che si stagliava contro la forte luce proveniente dall’interno della porta. “Ma il padrone no! ‘Metti a posto questa’ dice!” aggiunse, imitando una voce più bassa e scura. “E che sono io? Un carpentiere? Come cavolo pensa che…” Il resto della frase gli morì in gola quando si accorse che pochi passi davanti a lui c’erano due estranei. Rimase immobile, probabilmente a fissarli basito. Essendo in controluce, Kate non riusciva ancora a scorgere la sua faccia. “Chi diavolo siete voi??” domandò poi l’uomo con voce bassa e frettolosa, facendo qualche passo in avanti. Finalmente Kate poté osservare che la figura uscita dai meandri della casa era un uomo dalla pelle olivastra, forse sudamericano, con i capelli tagliati stile militare e vestito con solo un paio di boxer rossi con sopra disegnati simpatici orsetti. Se non fosse stata in allarme, probabilmente gli avrebbe riso in faccia. “Non avete letto il cartello?? E come cavolo siete entrati??”
“Vi prego, mio padre sta male!” replicò Kate, ignorando le sue domande. “Potreste solo…”
“Javier, tutto bene?” chiamò all’improvviso una voce femminile dall’interno della casa. Poi un’altra figura nera emerse dalla porta illuminata. “Hai smesso di urlare e…” Si bloccò anche lei non appena vide Jim e Kate. “Ma che…”
“Vi prego!” ripeté Beckett con tono di supplica, non lasciando continuare l’altra donna. “Mio padre sta male! Ha bisogno di cure! Mi spiace essermi introdotta così, ma la porta era aperta e non c’era nessuno e io volevo solo chiamare un’ambulanza, ma…”
“Non potete stare qui!” la bloccò la figura femminile con tono nervoso. Quando si avvicinò, Kate vide che era una donna di colore, afroamericana, bassina e con una vestaglia piuttosto provocatoria indosso che le metteva in risalto il seno piuttosto prorompente. Probabilmente avevano la stessa età. “Dovete andarvene. Subito.” aggiunse la donna, prendendo Beckett per un braccio.
“Ma…” balbettò Kate allibita. “Non vedete mio padre??” esclamò disperata, strattonando via il braccio dalla presa dell’altra per indicarle il padre a terra. “Vi prego, una sola telefonata è tutto ciò che chiedo!”
A quelle implorazioni, l’uomo e la donna si scambiarono uno sguardo strano che Beckett non riuscì a decifrare. Aveva le lacrime agli occhi tanto era la preoccupazione per Jim, che ormai tremava visibilmente accasciato sul pavimento. Sperò solo che quello sguardo significasse qualcosa di buono per loro. Ma poi perché si ostinavano tanto a non volerla aiutare? Dio santo, aveva solo chiesto un telefono, non di essere teletrasportata sull’Enterprise!
All’improvviso Jim ebbe una violenta crisi di tosse, che lo fece contorcere e raggomitolare ancora di più a terra, e Kate non poté far altro che precipitarsi accanto a lui e tenergli la testa perché non la sbattesse sul pavimento.
“Quest’uomo ha bisogno di cure. Subito.” disse la donna afroamericana, raggiungendo Beckett e abbassandosi su Jim.
“Lanie, noi non…” iniziò a dire l’uomo, ma lei lo bloccò con un gesto.
“Chiama Josh!” esclamò invece, iniziando ad aprire i bottoni della camicia di Jim per farlo respirare meglio.
“Passeremo dei guai!” borbottò stizzito l’uomo.
“Muoviti, Javi!” L’ordine imperioso stavolta fu eseguito e l’uomo corse verso la porta luminosa, anche se piuttosto nervosamente. “Tu,” disse poi la donna chiamata Lanie a Kate. “Aiutami a portarlo a quel divano.” Non se lo fece ripetere due volte. Le due donne presero Jim per le ascelle e di peso lo trascinarono fino al divano più vicino, dove lo stesero a pancia in su.
“Scusaci.” mormorò la donna con un mezzo sorriso a Kate. “Non abbiamo molto spesso ospiti e non sappiamo più come comportarci.” Lanie poi si allontanò per un momento, ma Beckett non fece neanche in tempo a mormorare a Jim ‘Andrà tutto bene, papà’ che la donna era già tornata con uno stetoscopio in mano. “Il dottor Davidson è un ottimo medico.” le disse poi iniziando ad ascoltare il petto di Jim. “Saprà prendersi buona cura di tuo padre.” Kate annuì piano e, mentre stringeva la mano del padre, si chiese come mai in quella casa ci fossero due dottori. Era ovvio infatti che Lanie avesse studiato medicina, ma da quanto aveva detto l’uomo, Javi, aveva capito che non erano loro i padroni di casa. Forse era quel dottor Davidson? Ma allora perché tenere un secondo medico?
“Come si chiama tuo padre?” le chiese all’improvviso Lanie.
“Jim.” rispose. “Jim Beckett.”
“Signor Beckett, mi sente? Jim?” lo chiamò allora la donna. Jim aprì gli occhi a fatica e ci mise qualche momento a concentrarli su Lanie. Cercò di parlare, ma quando aprì la bocca ne uscì solo un suono rauco e basso che fece venire un nodo alla gola a Kate. “Non parli signor Beckett, l’importante è che mi ascolti, ok?” Jim annuì piano. “Ora arriverà il dottor Davidson a controllare le sue condizioni e decideremo il da farsi. Spero non abbia nulla in contrario a farsi curare qui, il dottore è primario all’ospedale ed è molto competente.” Jim annuì di nuovo. “È una fortuna che questa notte si sia fermato a dormire qui…” aggiunse poi sovrappensiero Lanie.
In quel momento tornò Javier con un altro uomo con una valigetta già alla mano e pronta all’uso. Il dottor Josh Davidson era davvero un uomo di bell’aspetto. Kate se ne stupì anche un po’, perché si immaginava il medico come un signore di una certa età, mentre davanti a lei c’era un uomo che al massimo avrà avuto trentacinque o quaranta anni e sembrava appena uscito da uno spot pubblicitario per una marca di profumi. Alto, moro e muscoloso, sembrava più uno sportivo o un motociclista che un dottore.
Entrando, Javier accese la luce e finalmente Kate poté vedere bene il salone in cui si trovava e gli abitanti della casa.
“Sono il dottor Josh Davidson.” si presentò sbrigativamente il medico, ma con un sorriso calmo e rassicurante. “Che mi sa dire su di lui? Cosa gli è successo?” aggiunse poi avvicinandosi a Jim e poggiandogli accanto la valigetta per esaminarlo insieme a Lanie.
“Stamattina siamo andati a fare una passeggiata al mare, ma poi il temporale ci ha sorpreso.” rispose Beckett nervosamente, osservando intanto il dottore e la donna controllare di nuovo il respiro di Jim e la sua temperatura. “Quando abbiamo deciso di andare via, sembrava che mio padre stesse bene, ma in macchina ha iniziato a tossire e nel giro di poco la tosse è peggiorata di molto. Faceva molta fatica a respirare e la fronte gli scottava quando siamo arrivati qui…”
“Eravate bagnati quando è iniziato il vento?” chiese ancora il dottore senza staccare gli occhi dal suo paziente. Kate ci pensò per un momento, quindi annuì.
“Non ci sembrava così terribile.” rispose angosciata. “Abbiamo fatto altre volte il bagno con la pioggia. Però il vento ci ha preso alla sprovvista.”
“Ha avuto altre malattie di recente?” domandò poi Davidson, controllandogli la gola e gli occhi con una piccola torcia.
“In realtà aveva la bronchite fino a pochi giorni fa.” dichiarò alla fine Beckett con tono basso, quasi vergognoso, spostando lo sguardo a terra. “Abbiamo sempre poco tempo da passare insieme e lui voleva portarmi negli Hamptons. Gli ho detto che potevamo andarci un’altra volta, ma non ha voluto sentire ragioni. Diceva che se non andavamo ora, poi sarebbe stato troppo freddo. Così alla fine siamo venuti.” Poi si rivolse a Lanie. “Per questo ho insistito tanto prima per chiamare un’ambulanza e per portarlo in ospedale. Avevo paura che la bronchite avesse avuto una ricaduta o qualcosa di peggio.”
“Beh, forse lo abbiamo preso appena in tempo perché non diventi niente di peggio.” commentò il medico, finendo visitare Jim. “È allergico a qualcosa?”
“No, non mi pare.” replicò Kate.
Stava per chiedere cosa poteva fare per suo padre quando delle voci sommesse le arrivarono alle orecchie dalla porta e quando si voltò vide due persone, un uomo e una donna, fermi sulla soglia. Erano entrambi di carnagione chiara, capelli biondi e occhi azzurri, chiaramente di origini irlandesi. In quel momento un’altra donna si aggiunse a loro, più anziana dei presenti, con una folta capigliatura rossa e una vestaglia a dir poco appariscente. Kate si chiese quanta gente effettivamente vivesse in quella casa.
“Che sta succedendo qui?” chiese l’ultima arrivata.
“Per favore, ho bisogno che mi portiate indumenti e coperte calde e asciutte per quest’uomo.” disse il dottor Davidson, ignorando la domanda appena fatta e facendo poi un cenno a Javier e all’uomo irlandese. “Aiutatemi a spostarlo nella Camera d’Ospedale”
“Dove?” chiese Kate confusa.
“Stai tranquilla, è solo una camera attrezzata come in un ospedale.” Le rispose Lanie mentre lasciava posto agli altri perché spostassero di peso suo padre. “C’è un letto e ci sono gli antibiotici necessari.” Poi le lanciò un’occhiata ai vestiti. “Direi che anche tu hai bisogno di qualcosa di asciutto. Aspetta qui un momento.” Quindi si allontanò verso le due donne alla porta per spiegare loro la situazione e per aiutarla a recuperare tutto quello di cui c’era bisogno.
Beckett rimase per un momento spaesata, non sapendo bene cosa fare. Nonostante Lanie le avesse detto di aspettare, lei voleva stare con suo padre. Dopo due secondi si decise comunque ad inseguire i tre uomini e Jim. Non riuscì però a fare più di due passi che una voce cavernosa e bassa proveniente dalle scale che portavano al piano superiore fece bloccare tutti sul posto.
“Che sta succedendo laggiù?” domandò la voce con tono seccato. “Cosa sono tutti questi rumori?” Per un attimo nessuno fiatò. Kate vide Lanie e Javier scambiarsi un’occhiata allarmata.
“Signore abbiamo… abbiamo ospiti.” replicò, piuttosto incerta, Lanie. Il silenzio che ne seguì per qualche motivo fece gelare a Beckett il sangue. Quindi Kate sentì qualcosa cadere e rompersi al piano superiore, poi una serie di passi pesanti iniziò a camminare sopra le loro teste e poi a scendere i gradini. Beckett puntò gli occhi sulle scale, ma per qualche motivo la luce della camera non arrivava a raggiungere più di un certo numero di gradini alla base, lasciando gli altri in ombra. Spostò nervosamente il peso da un piede all’altro. Doveva essere lui il famoso padrone di casa. Lui era l’uomo che doveva convincere perché mantenessero all’asciutto suo padre e lo curassero. Da come si gli altri si stavano comportando, aveva paura che non sarebbe stato facile.
Dopo qualche secondo, aguzzando la vista, Kate riuscì a scorgere una figura nera fermarsi a metà scala. Anche solo osservando il contorno, notò che c’era qualcosa che non andava. Era troppo grosso per essere una persona normale.
Una goccia d’acqua le scivolò dai capelli alla schiena, tracciando un rivolo di acqua gelata che la fece rabbrividire leggermente. Però strinse i pugni e si preparò a fronteggiare il nuovo venuto. Nonostante questo, non poté fare a meno di sobbalzare quando il padrone di casa quasi le ruggì addosso con voce forte e irata.
“CHE COSA CI FA LEI QUI?”

---------------------------------------------------
Xiao a tutti! :) Scusatemi se ci ho messo una vita a pubblicare, ma sono in un momento piuttosto incasinato e in più Word ha deciso di scioperare per qualche sera, il che non ha facilitato il compito… -.-
Anyway, spero vi sia piaciuto il capitolo anche se ammetto che, visto che ho la testa altrove in questo periodo, forse non sarà il massimo… Va beh, fatemi sapere!
A presto! :)
Lanie

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** La Bestia ***


Cap.2 La Bestia

“CHE COSA CI FA LEI QUI?”
Quelle poche parole, dette con tanta rabbia da quello sconosciuto, colpirono Kate come un pugno.
“Mi… mi dispiace essermi introdotta in questo modo in casa sua.” riuscì a dire dopo qualche secondo, ancora stordita dall’odio che le era arrivato addosso. “Ma mio padre sta male. Abbiamo trovato il cancello e la porta aperti e così avevo pensato che…”
Aperti?” esclamò seccato l’enorme uomo sulle scale. Era ancora nascosto in buona parte nell’ombra e Kate non riusciva a farsi un’idea di lui. La sua mole comunque non gli impedì di fare uno scatto verso Javier, quasi volesse saltare la ringhiera delle scale per balzargli addosso. All’ultimo però si trattenne, ancorando le mani al corrimano in legno con tanta forza che questo scricchiolò.
“La tempesta è forte.” borbottò Javier nervosamente. “Avevo detto che dovevamo cambiare le serrature.”
“Con te farò i conti più tardi…” sibilò allora la figura nera sulle scale con tono minaccioso. Quindi scese qualche gradino con una calma che fece venire la pelle d’oca a Kate. Man mano che l’uomo scendeva però, la luce della stanza iniziò a illuminarlo. Beckett notò che non era grosso come aveva pensato all’inizio: vide che era avvolto da qualcosa come tre coperte pesanti che lo facevano sembrare grosso il doppio. Era un uomo alto e dalle spalle larghe, questo era certo, ma non grande come un orso come era stata la sua prima impressione. Le ombre inoltre avevano dato l’illusione di ingrandirlo ulteriormente.
Il padrone di casa (perché solo lui poteva essere, da come trattava gli altri abitanti della villa) si fermò che mancavano pochi gradini al pianterreno in modo che buona parte delle spalle e la testa gli rimanessero in ombra.
“Se ne vada.” disse poi in tono imperioso rivolto a Kate. “Lei e suo padre. Non siete i benvenuti qui dentro.” Ci fu un momento di assoluto silenzio. Beckett era immobile, scioccata e con la bocca spalancata. D’accordo, era entrata senza permesso in casa, ma suo padre stava male e pensava che almeno gli avrebbero offerto rifugio per quella notte.
Fu solo quando l’uomo si girò e mise il piede sul primo gradino per risalire la scala che Kate finalmente si scosse.
“Lei non può farlo!” urlò. Sapeva di non averne diritto, ma lo fece lo stesso. La figura oscura si bloccò sulle scale, quindi si voltò lentamente verso di lei. Kate si preparò a fronteggiarlo, i pugni chiusi, determinata ad avere almeno un aiuto per suo padre. Solo un colpo di tosse di Jim le fece notare che gli unici rumori nella sala erano il suo respiro pesante e lo scrosciare della pioggia. Tutti gli altri si erano ammutoliti e parevano quasi non respirare.
“La prego,” continuò Beckett stringendo tanto le mani da conficcarsi le unghie nei palmi. C’era una nota di supplica nella sua voce che non riuscì a trattenere. “Mio padre sta male. Si è sentito male in auto e volevo portarlo in ospedale, ma a causa della pioggia ho perso il controllo della macchina e siamo finiti contro un albero. Ho perso il telefono e cercavo solo un posto per ripararci e chiamare un’ambulanza. Le chiedo solo ospitalità per questa notte o per lo meno permettetemi di chiamare qualcuno che venga a soccorrerlo! Io non… non voglio perderlo. Vi chiedo solo questo. Per favore.”
Ci furono attimi di puro silenzio. Poi l’uomo parlò di nuovo.
“Andatevene.” E ricominciò a salire le scale.
Le speranze di Kate si frantumarono.
“Lei è una bestia…” mormorò rabbiosa prima che potesse trattenersi. Sentì le altre persone nella stanza trattenere il respiro rumorosamente a quella affermazione. Il padrone di casa si bloccò ancora una volta sulle scale, immobile come una statua. Poi si voltò con una lentezza esasperante. Poteva quasi sentirlo fremere di rabbia contro di lei e per un momento ebbe quasi paura di un attacco fisico da parte sua.
In quell’istante però, un fulmine squarciò il cielo illuminando a giorno la stanza attraverso alcune grandi finestre del salone che dovevano portare al giardino sul retro della casa. E Kate vide finalmente l’uomo. Se uomo poteva chiamarlo. Spalancò gli occhi sorpresa. Forse aveva visto male. La forte luce aveva illuminato solo per un secondo il padrone di casa, ma le era parso che la sua pelle fosse… strana. E non solo quella del viso. Tra le coperte che lo avvolgevano infatti le era parso di vedere una parte del petto, evidentemente nudo sotto di esse, con qualcosa di particolare che non era ben riuscita a focalizzare e lo stesso era stato per le mani. Era come se fossero state frastagliate e non lisce come avrebbero dovuto essere.
L’attimo di chiarore però era stato troppo breve per poter ben capire cosa Kate avesse davvero visto. Magari era stato uno scherzo stesso della luce ai suoi occhi.
Batté più volte le palpebre e scosse la testa. Quindi si passò una mano sulla faccia, chiedendosi se la stanchezza non le avesse giocato brutti tiri. Nel farlo però si trovò a toccare il taglio che aveva sulla testa, e di cui si era scordata, che le imbrattò di sangue le dita e le fece fare una smorfia di dolore.
“Ahi…” borbottò, all’improvviso stanca come le sembrava di non essere mai stata. L’attimo di rabbia era passato. In quel momento si sentiva solo sconfitta.
Kate prese un lungo respiro, quindi si voltò per andare verso suo padre, sdraiato sul divano dove lo avevano lasciato. Non aveva più voglia di litigare. Se non volevano aiutarla lì, allora avrebbe chiesto aiuto altrove. Era inutile perdere tempo.
“Fermati!” le ordinò all’improvviso il padrone di casa con quella sua voce bassa e roca. Però in qualche modo non sembrava più rabbioso come prima. Le pareva nervoso o seccato, non riusciva bene a capirlo.
Kate si voltò di nuovo verso di lui, non sapendo bene cosa aspettarsi.  
“Dottor Davidson,” disse poi l’uomo rivolto al medico. “Secondo lei che cos’ha?”
“Bronchite acuta.” replicò subito il dottore. “Dovremmo iniziare subito la cura. La signorina qui presente mi ha detto che ha già contratto problemi ai polmoni e questa probabilmente è una ricaduta. Potrebbe trasformarsi in broncopolmonite nel giro di poco. Se non interveniamo immediatamente sarà più difficile curarlo e un uomo della sua età, già debilitato fisicamente, potrebbe riportare seri danni ai polmoni se non… peggio.” Quel peggio fece drizzare i peli sulla nuca a Kate.
Ci fu un altro momento di silenzio tombale. Poi il padrone di casa parlò di nuovo.
“Curalo.” disse solo, quasi con tono stanco. “Miss Parish, la signorina ha bisogno che qualcuno le richiuda quel taglio sulla testa. Miss Ryan provveda lei a dar loro abiti asciutti e tutto quello che gli servirà. Esposito, tu vedi di bloccare cancello e porta, almeno per stanotte.” Quindi senza aggiungere altro l’uomo tornò a salire le scale senza più fermarsi, svanendo nelle ombre così come era arrivato.
Kate era immobile, gli occhi spalancati, incredula. Potevano restare. Potevano curare suo padre!
Fu solo in quel momento che sentì la testa pulsarle dolorosamente e una stanchezza profonda si impadronì di lei, tanto che vacillò sulle gambe.
“Appoggiati a me.” le disse Lanie apparendo di lato a lei e prendendola gentilmente per un braccio. “Dovevi essere piena di adrenalina se ora crolli così all’improvviso.” Kate si guardò intorno, cercando di riacquistare l’equilibrio. Il dottore e gli altri due uomini avevano di nuovo preso di peso suo padre per portarlo in un’altra stanza, mentre le altre due donne sparivano da qualche parte nel piano a prendere ciò che era stato detto. Nonostante ciò Beckett non riusciva ancora a crederci. Avrebbero aiutato suo padre.
 
Cosa lo aveva fermato?
Quella domanda continuava a turbinargli nella testa mentre saliva gli ultimi gradini che lo separavano dal primo piano. Le scale e il pianerottolo erano completamente al buio, ma lui riusciva a riconoscere comunque gli oggetti che lo circondavano. Non era solo a causa della familiarità con il luogo in cui aveva passato gli ultimi anni, ma anche perché preferiva l’oscurità. Nessuno avrebbe potuto vederlo nel buio, ma lui poteva vedere gli altri. Ormai i suoi occhi si erano abituati alla sua scelta. Inoltre le poche volte che era costretto a muoversi con la luce lo faceva sempre con un cappuccio calato sulla testa. Sua figlia odiava vederlo così, ma lui preferiva farsi odiare piuttosto che mostrarle quanto era diventato mostruoso.
Mostruoso… Lei è un mostro… “Lei è una bestia”.
Quelle parole gli risuonarono nelle orecchie con forza, tanto che scosse la testa come se avesse potuto scacciarle come insetti fastidiosi.
Non appena mise piede sull’ultimo gradino, un lampo illuminò una finestra davanti a lui. Nonostante le tende scure che coprivano il vetro fu costretto a chiudere di scatto gli occhi, accecato. Ma era stato lento. Sulla retina gli danzava ancora la figura illuminata della finestra e dovette sbattere le palpebre più volte per riuscire a farla sparire.
Con passo pesante tornò nella sua camera, ancora rimuginando sulle parole della donna e sulla sua decisione di farla restare. Buttò a terra, senza neppure guardare dove, la selva di coperte che si era buttato addosso alla rinfusa prima per scendere velocemente al piano di sotto, rimanendo di fatto solo con i pantaloni della tuta addosso e il torso nudo.
Abbasso lo sguardo e si osservò il petto grigiastro e frastagliato, sfiorando lentamente la pelle dello stomaco irregolare e ruvida sotto le sue dita. Chissà se la donna aveva visto come era fatto davvero in quel lampo di luce. Forse aveva pensato di essersi sbagliata. Ma allora perché lui aveva voluto rischiare ulteriormente? Perché aveva lasciato che quella donna restasse in casa sua? Perché non aveva impedito alla radice che un’estranea scoprisse e raccontasse al mondo la sua disgrazia? Un’estranea che avrebbe potuto fargli portare via sua figlia. Un’estranea che…
Chiuse a pugno la mano e frenò quel treno di pensieri prima che prendesse il sopravvento su di lui. Quindi prese un respiro profondo e si andò a buttare di peso sul letto, allungandosi di traverso sopra le lenzuola aggrovigliate, le mani intrecciate dietro la nuca. Puntando lo sguardo al soffitto nero, ci mise qualche secondo ad accorgersi che l’immagine della finestra illuminata era ancora sulla sua retina. Aveva perso i contorni definiti che aveva all’inizio e ormai quasi era invisibile, ma era ancora lì. Come il volto di quella donna.
Le domande che si era posto poco prima tornarono a tormentarlo. Cosa lo aveva fermato? Perché aveva lasciato entrare un’estranea e suo padre senza sapere le loro reali intenzioni? Magari non gli serviva davvero aiuto. Forse era tutta una finta.
Nella sua testa rivide la scena: il vecchio uomo steso sul divano attorniato dal dottor Davidson, da Esposito e da Ryan e la donna invece solo pochi metri davanti a lui, al centro della sala, supplicante prima e rabbiosa poi.
Sospirò piano. Non stavano fingendo. Erano davvero messi male, il padre più di lei. Aveva sentito la sua tosse forte anche dal primo piano e il dottor Davidson non avrebbe mentito così spudoratamente per uno sconosciuto. E soprattutto gli occhi di lei non avrebbero potuto mentire così bene.
Quel pensiero lo colpì all’improvviso. Erano stati gli occhi della donna a convincerlo. I suoi occhi erano stati così espressivi e le sue parole così forti che inconsciamente non aveva potuto far altro che fidarsi e accoglierli. E poi il suo volto…
Senza pensarci si passò una mano sulla fronte, in corrispondenza a dove aveva visto la ferita sul viso della donna. Sovrappensiero, quasi si stupì di non sentire la pelle liscia di lei con una singola fenditura, ma la sua, secca e irregolare.
Abbassò la mano e sospirò pesantemente dalle narici, quindi chiuse gli occhi. Aveva deciso di fidarsi, ma questo non avrebbe voluto dire che non avrebbe controllato quei due. Non voleva avere problemi di nessun tipo. In ogni caso sarebbero rimasti per poco, giusto il tempo per il Dottor Davidson di curare il padre della ragazza. Non li avrebbe cacciati via prima che il dottore avesse dato il suo benestare. In fondo poteva essere una bestia, ma non era un mostro.
 
“Chi era lui?” si domandò Kate soprappensiero, la mente divisa tra la preoccupazione per Jim e l’inquietante padrone di casa. Non riuscì a chiederlo più ad alta voce però. Stava osservando i movimenti del dottor Davidson attorno a suo padre mentre faceva gli ultimi controlli prima di iniziare la terapia antibiotica e non voleva disturbarlo.
Lanie (o meglio, la dottoressa Lanie Parish come le si era presentata poco prima) avrebbe dovuto portarla in un’altra stanza per metterle dei punti alla ferita, ma Kate non aveva voluto sentire ragioni. Si sarebbe mossa solo quando il dottore l’avrebbe cacciata dalla stanza di suo padre. Siccome in quel momento l’aiuto di Lanie serviva più al medico che a lei, la dottoressa le aveva lasciato una garza attaccata con del nastro adesivo per tamponare la ferita ed era andata ad aiutarlo.
La donna bionda, che le si era presentata poco prima come Jenny Ryan, entrò in quell’istante con una pila di vestiti in mano e l’uomo biondo, ovvero Kevin, suo marito, la seguì con lenzuola pulite e una coperta.
“Ti conviene indossare qualcosa di asciutto.” disse Jenny a Kate, porgendole con un sorriso dolce un paio di pantaloni di una tuta, una maglietta a maniche corte e una felpa. Beckett ringraziò e prese gli abiti mentre la donna poggiava gli altri su uno sgabello per suo padre. Lo avrebbero cambiato non appena il medico lo avrebbe permesso.
“Lenzuola e coperta li lascio qui o nell’altra camera degli ospiti?” chiese Kevin a Lanie.
“Meglio qui.” replicò la dottoressa, mentre prendeva una siringa e una boccetta piena di liquido trasparente per fare un’iniezione a Jim. “Non credo sarà in grado di muoversi per un po’.”
Sentendo quelle parole, Kate ebbe un tuffo al cuore, ma poi prese un respiro profondo per calmarsi. La dottoressa Parish e il dottor Davidson sembrava sapessero il fatto loro e non pensava di star facendo male a fidarsi.
“Kate, puoi cambiarti là dietro, se vuoi.” le disse Jenny indicandole un paravento azzurro chiaro in un angolo della stanza. Ormai avevano rinunciato a chiederle di lasciare la camera, anche solo per cambiarsi.
Avviandosi al paravento, Beckett si mise a osservare con curiosità la stanza che i suoi anfitrioni avevano chiamato Camera d’Ospedale. In effetti capiva perché le avevano affibbiato quel nome. Pareva in tutto e per tutto una camera di un ospedale, con tanto di muri color verde chiaro e puzza di candeggina e medicinali. Nel mezzo c’era un lettino con due alte sponde metalliche, dove in quel momento era sdraiato suo padre, e tutt’intorno macchinari e strumenti che parevano poter far fronte a una qualunque emergenza medica. C’era persino un piccolo lavabo in un angolo e uno di quegli schermi luminosi appesi alla parete grazie a cui si potevano osservare le lastre dei pazienti.
Kate cercò di cambiarsi velocemente, facendo attenzione a non spostare la garza sulla testa, ma si accorse che i suoi movimenti erano goffi e irrigiditi e ognuno pareva portare con sé una fitta di dolore. Quando finalmente ebbe indossato gli abiti caldi e asciutti si sentì un po’ meglio. Almeno la sensazione di essere n pulcino bagnato era sparita.
“Stai bene, cara?” le domandò la donna più anziana dai capelli rossi, che doveva essere entrata mentre lei era dietro il paravento. Le era stata presentata come Martha Rodgers, ma ora che era più lucida, Kate notò che aveva qualcosa di familiare. Non riusciva però a capire bene cosa.
“Sono stata meglio.” replicò con un mezzo sorriso, tornando a osservare suo padre. I due dottori dovevano aver finito perché stavano ritirando gli strumenti e in più suo padre era già coperto da un maglione. Kate doveva aver perso più tempo di quello che pensava a cambiarsi.
“Lanie e Josh sanno il fatto loro.” la rassicurò ancora la signora Rodgers. “Vedrai che rimetteranno tuo padre in piedi in un attimo!”
“Adesso può avvicinarsi, signorina Beckett.” disse il dottor Davidson, facendole insieme segno di accostarsi al letto. “Gli ho dato un sonnifero e antibiotici per aiutarlo a riposare. Dovrà stare ben coperto nelle prossime ore e dovremo sorvegliarlo, ma sono certo che nel giro di una settimana, massimo due, starà di nuovo bene.”
Kate si avvicinò a suo padre in punta di piedi, quasi avesse paura di svegliarlo. Jim dormiva con la bocca semiaperta e il respiro rauco, ma il suo volto era già un po’ più rilassato di quanto non lo fosse stato un’ora prima. Senza dire nulla, Kate gli passò delicatamente una mano sulla fronte. Era ancora bollente, ma sapeva che non lo sarebbe stato ancora per molto. Automaticamente prese la coperta che Ryan aveva lasciato sullo sgabello lì accanto e la stese sulle gambe di suo padre, quindi si allontanò di un passo dal letto non volendo disturbare oltre Jim.
“Kate, è ora di rimettere in sesto te.” disse dolcemente la dottoressa Parish, poggiandole una mano sul braccio. “Martha ti accompagnerà nella stanza degli ospiti. Io prendo un paio di cose e vengo a ricucirti quel taglio alla testa.” Beckett tentennò un momento prima di riuscire a muoversi.
“Non preoccuparti, cara.” la rassicurò subito la signora Rodgers, affiancandola. “La tua camera è proprio accanto a questa. Non sarai troppo lontana da tuo padre.” Quelle parole convinsero Kate a muoversi.
Seguì docilmente la donna, che effettivamente la portò nella stanza subito accanto alla Camera d’Ospedale, e si ritrovò in una camera già preparata con un grosso letto matrimoniale. Si accorse che c’era un vago odore di chiuso e di umido, come se la stanza fosse stata chiusa per tanto tempo e solo poco prima avessero aperto la grande finestra davanti a lei per far arieggiare. Attraverso il vetro e la tendina sottile che la copriva si potevano ben vedere i lampi che ancora squarciavano il cielo di tanto in tanto. Il rumore della pioggia contro il vetro però pareva non essersi ancora attenuato. Oltre al letto, gli unici arredi della stanza erano un armadio a due ante addossato a una parete, uno specchio appeso al muro e un comodino con una piccola lampada da lettura sopra.
“Siediti qui un momento.” disse Lanie, entrando in quel momento nella camera e indicandole il letto. “Devo chiuderti subito quel taglio. Dopo ti converrà fare una doccia calda se non vuoi prenderti qualcosa anche tu. Dovrai solo fare attenzione a non bagnare i punti, ok?” Beckett annuì piano, fermandosi per la prima volta a osservare per bene le due donne mentre la dottoressa iniziava ad armeggiare con la garza sulla sua tempia.
“Allora…” cominciò Kate, cercando di mantenere un tono indifferente. “Chi… chi era l’uomo sulle scale? E che posto sarebbe questo?”
“Una camera?” replicò la signora Rodgers divertita, facendo ridacchiare Lanie. Beckett arrossì e sbuffò.
“No, intendevo… intendevo dire dove siamo? Non sono così certa di dove ci siamo fermati con l’auto e – AHI!” esclamò all’improvviso quando la dottoressa Parish le sfiorò il taglio sulla fronte con un batuffolo di cotone imbevuto di disinfettante.
“Scusami, Kate.” disse la donna. “Ma devo fare il mio lavoro, quindi vedi di stare ferma.”
“Siamo ancora nella zona degli Hamptons.” rispose a quel punto la signora Rodgers. “Se non ci fosse questo temporale dalla finestra potresti anche vedere il mare.”
“Wow, una casa vista mare…” mormorò Beckett. In realtà non avrebbe dovuto essere così stupita visto che quasi tutte le ville di quella zona erano costruite a un passo dalla spiaggia, ma in quel momento le era difficile pensare logicamente. Era stanca, curiosa e dolorante e le sue ultime energie le stava spendendo per riuscire a restare sveglia e con la testa dritta per facilitare il complito alla dottoressa. “Complimenti comunque, questa villa sembra enorme. Ma per caso l’uomo di prima è il prop– AHI!”
“Ragazza, puoi stare zitta e ferma per dieci secondi?” sbottò seccata Lanie, le mani sui fianchi. “Dieci secondi, non chiedo altro! Ho a malapena pulito e disinfettato la ferita e ora devo metterti i punti.” Kate si morse il labbro inferiore e abbassò lo sguardo, colpevole, cercando di restare il più immobile possibile.
“Tutto bene qui?” domandò all’improvviso la signora Ryan affacciandosi sulla porta. “Vi serve una mano?”
“Sì, a legarla.” borbottò Lanie, lanciando un’occhiataccia alla sua paziente. La donna ridacchiò insieme alla signora Rodgers.
“Non far mai arrabbiare la dottoressa Parish.” dichiarò una voce maschile ghignante da fuori la camera che Kate riconobbe come quella di Javier. “Potrebbe portarti dei guai. E credimi, io ne so qualcosa.” Lui e Kevin spuntarono davanti alla porta. Notò che entrambi gli uomini avevano un giaccone antipioggia in dosso e i capelli fradici di acqua. Dovevano essere usciti per bloccare il cancello come era stato richiesto dall’uomo sulle scale.
Kate osservò i presenti uno a uno, cercando di cogliere il loro carattere con uno sguardo. Sembravano tutte brave persone, e in fondo avevano aiutato lei e suo padre, ma sapeva che non era mai un bene giudicare un libro dalla copertina. Inoltre che tipo era l’uomo al piano di sopra, il padrone di casa? Avrebbe potuto cambiare idea e cacciarli via?
“Posso chiedervi una cosa?” domandò alla fine Kate piano, cercando di muoversi il meno possibile per non irritare la dottoressa Parish che le stava ricucendo la tempia. Il movimento dell’ago e del filo dentro la pelle la stava facendo rabbrividire e aveva bisogno di concentrarsi su altro. “Chi era il… un momento!” disse poi bloccandosi all’improvviso mentre osservava la signora Rodgers. “Ma io la conosco! Lei è un’attrice di Broadway!” Finalmente le era venuto in mente dove aveva già visto la donna e perché le era così familiare.
Martha fece un gesto con la mano come a schermirsi, ma si vedeva che era compiaciuta nell’essere stata riconosciuta.
“Ferma!” la redarguì subito Lanie, lanciandole un’occhiata omicida. Kate si calmò subito. In effetti la dottoressa con un ago in mano e quello sguardo cattivo pareva più pericolosa di un serial killer con un’ascia.
“Dammi pure del tu, cara.” replicò Martha con un sorriso enorme.
“Mio padre è un tuo grande fan.” continuò allora Kate, cercando nel mentre di trasformarsi in statua. “Ama il teatro e pensa che tu sia una delle più grandi attrici esistenti. Credo mi abbia portato a vedere quasi ogni spettacolo in cui ha recitato.”
“Beh, allora appena si riprenderà sarò davvero lieta di fare la sua conoscenza.” commentò la signora Rodgers allegramente, lanciandole una strizzatina d’occhio.
“Gli prenderà un colpo quando saprà che Martha Rodgers è a pochi passi da lui…” mormorò Kate con un sorriso.
“Vorrà dire che lo terrò sotto controllo io quando questo incontro avverrà.” commentò in quel momento una voce profonda con un vago tono divertito. Il dottor Davidson entrò infatti nella stanza con un sorriso affascinante. Si portò accanto a Kate nell’esatto istante in cui Lanie finiva di rattopparle la testa. “Non credo di essermi presentato come si deve prima, sono il dottor Josh Davidson.” disse allungando una mano che Beckett strinse prontamente. Notò che la sua mano aveva una presa forte e sicura. Arrossendo leggermente, Kate non poté fare a meno di iniziare a tormentarsi una ciocca di capelli come una ragazzina al primo anno di liceo con davanti il bello della scuola. Il dottore, oltre a essere altamente attraente, aveva anche qualcosa di magnetico che doveva attirare ogni donna che avesse la fortuna di passargli accanto.
“Finendo il giro delle presentazioni migliorate,” si inserì allegramente il biondo della compagnia, facendo bonariamente il verso al medico. “Io sono Kevin Ryan.” si presentò con un buffo inchino, schizzando goccioline d’acqua da ogni parte. “Sono il maggiordomo di casa. Qualunque cosa ti serva, chiedi pure a me. E giusto perché tu sappia le nostre mansioni, mia moglie Jenny è cuoca, ma mi aiuta anche con le pulizie. Brontolo dietro di me invece, ovvero Javier, è il nostro giardiniere tutto-fare.”
“Ehi!” sbottò Esposito. “Io non sono Brontolo!”
“Tranquillo dolcezza, non riveleremo mai a nessuno il tuo vero nome.” replicò Lanie divertita, facendo l’occhiolino a Kate.
“Ah, ecco…” borbottò Javier in risposta prima di comprendere la presa in giro della dottoressa. “Aspetta cosa??”
“E tu sei Kate, ho capito bene il nome, cara?” chiese in quel momento Martha, mettendo fine alle risatine dei presenti e al basso brontolio di Esposito.
“Sì, Kate Beckett… Katherine in realtà.” replicò Beckett, tastandosi piano i punti che le aveva messo Lanie sentendoli tirare.
“Non toccarli.” l’avvertì la dottoressa. “Dammi il tempo di metterti una benda così ci saranno meno possibilità di sporcare la ferita.” Kate annuì.
Mentre compiva quell’ultima operazione, il dottor Davidson dichiarò che si ritirava per dormire. Salutò i presenti e se ne andò, seguito successivamente da Martha, Javier, Kevin e Jenny. Alla fine rimasero solo Beckett e la dottoressa Parish.
“Ma dormite sempre tutti qui?” domandò Kate confusa.
“Non sempre.” replicò Lanie sovrappensiero, finendo di applicarle il nastro alla testa per tenere la garza. “Il dottor Davidson resta solo in alcuni casi, ad esempio se c’è un’emergenza o quando, come oggi, c’è un temporale dentro cui sarebbe poco raccomandabile addentrarsi.” Emergenza? pensò Kate ascoltando quelle parole. Devono avere qualcuno di molto malato se il medico ormai è di casa qui. “E anche Martha resta solo occasionalmente.” continuò Lanie con un’alzata di spalle. “Noi altri invece abitiamo tutti qui. Ecco, finito.” aggiunse alla fine, osservando con aria soddisfatta la benda attaccata sulla tempia di Kate. “Laggiù c’è il bagno.” aggiunse poi indicandole una porta nascosta dietro l’armadio che Beckett prima non aveva notato. “Fatti una doccia calda, che dalla tua faccia ne hai proprio bisogno. In bagno dovrebbero già esserci gli asciugamani puliti e l’occorrente per lavarsi. Io ti aspetto qui. Perdonami, ma non mi fido a lasciarti completamente sola, non vorrei che il colpo che hai subito fosse stato più forte del previsto e ti sentissi male.”
Kate annuì, quindi si alzò, ma dovette subito fermarsi e prendere un respiro profondo prima di avviarsi al bagno. La stanza per un momento aveva iniziato a girarle intorno, destabilizzandola. Forse non era una così cattiva idea che la dottoressa restasse nei paraggi.
“Grazie.” mormorò Kate con un mezzo sorriso prima di entrare in bagno.
“Non bagnare la benda.” le ricordò Lanie sedendosi sul letto per aspettarla.
Una volta chiusa in bagno, Beckett si appoggiò per un momento con la schiena alla porta. Si sentiva stremata. Aspettò qualche secondo, quindi si avviò con passo malfermo alla doccia, aprì la porta vetro e girò la manopola per far uscire l’acqua calda. Notò solo distrattamente che quel bagno privato doveva essere grosso poco meno della stanza da cui era appena uscita.
Mentre si spogliava, Kate si chiese quante persone fossero radunate davvero in quella villa. Per una casa così grande poteva capire i ruoli di maggiordomo, cuoca e giardiniere, ma quello che non comprendeva era perché dovesse rimanere la dottoressa Parish. Chi era in quella casa che stava così male da dover mantenere un medico 24 ore su 24? E inoltre non riusciva a capacitarsi del perché dovessero vivere tutti nella villa. Alla fine erano negli Hamptons del XXI secolo e tutti bene o male avevano una macchina per andare a lavoro, mentre lì pareva di essere piombati all’improvviso in un castello dell’aristocrazia inglese del 1800 dove spopolavano tate e camerieri che dovevano per forza vivere in casa.
Sfilandosi il reggiseno, un momento prima di infilarsi nella doccia da cui ormai uscivano spirali di vapore, Kate si accorse che nessuno le aveva ancora detto il nome del padrone di casa. Si chiese se i domestici e i dottori avessero volutamente omesso quel particolare. In effetti ripensandoci pareva proprio che avessero evitato accuratamente di parlare di lui. Ogni volta che lo aveva nominato era stata distratta da altro.
Kate sorrise nervosamente mentre il getto d’acqua calda iniziava a scorrerle lungo le spalle. Il padrone-che-non-deve-essere-nominato. Si chiese se per caso non fosse incappata con suo padre nella casa di un novello Voldemort. 


--------------------------------------------
Xiao! :) Scusate l'ulteriore ritardo, ma sono davvero in un periodo di cacca e più velocemente di così non riesco a pubblicare. Mea culpa. 
Allora, Kate e suo padre sono in una villa degli Hamptons, ma chi sarà il misterioso padrone di casa? E cosa avrà mai? *musichetta misteriosa*
(va beh, in realtà lo avrete già capito chi è, ma sopportatemi XD)
Spero che il capitolo vi sia piaciuto! 
A presto! 
Lanie

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Richard Castle ***


Cap.3 Richard Castle

Kate rimase sotto la doccia per una buona mezz’ora, cercando di togliersi di dosso tutta la tensione delle ultime ore. L’acqua calda le scivolava sulla pelle del collo e del petto rilassandola e scaldandola. Pareva quasi che quel comune liquido avesse il potere di far scivolare via dalla sua mente e dal suo corpo i segni dell’incidente in auto, il freddo del temporale, la paura per suo padre e l’incertezza per l’incontro con il misterioso padrone della villa e i suoi domestici.
Dovette decidersi a uscire dalla doccia quando Lanie iniziò a bussare con insistenza alla porta del bagno, chiedendole se era ancora in piedi. Chiuse la manopola e si gustò ancora per un momento il calore del vapore che aveva ormai invaso la stanza. Ce ne era tanto che lo specchio sopra il lavandino e la piccola finestra del bagno erano completamente opachi.
Kate prese un grande asciugamano, che era stato preparato per lei, si asciugò velocemente e se lo legò intorno al corpo. Prima di tornare in camera, aprì la finestra per far uscire il vapore. In quell’istante un lampo illuminò il retro della villa, mostrandole un prato curato reso oscuro dal tempo e dalle nuvole nere sopra la casa. Non aveva ancora smesso di piovere e il vento era ancora abbastanza forte da quasi farle volare di mano la finestra stessa. Le venne in mente che Martha le aveva detto che, se non fosse stato per il tempo, si sarebbe potuto vedere il mare dalla villa.
Curiosa, Kate allungò il collo verso l’esterno, ma l’unica cosa che vide fu il buio. Sarebbe stato impossibile vedere più di qualche metro in là. Un po’ delusa, Beckett si tirò indietro e fece per chiudere l’anta della finestra quando un altro lampo che squarciò il cielo la fece bloccare. Le era sembrato di vedere qualcosa. Una figura nera nel prato.
Kate si mosse nervosamente sul posto. Forse c’era qualcuno là fuori. Stava per avvertire la dottoressa Parish quando un altro fulmine illuminò nuovamente lo spiazzo. Stavolta Beckett riconobbe, anche se a fatica, la possente figura maschile che aveva appena imparato ad associare al padrone della villa. Ma che stava facendo quell’uomo fuori di casa a quest’ora e con quel temporale?
Socchiudendo gli occhi, Kate riuscì a stento a vederlo camminare verso il mare. Nonostante il vento gli facesse attorcigliare e sbattere quella specie di mantello che aveva indosso contro le gambe con forza, sembrava a suo agio nella tempesta. Riuscì a osservarlo solo per pochi secondi, poi l’uomo sparì nella notte.
Un forte bussare alla porta del bagno la fece sobbalzare.
“Kate Beckett??” La voce di Lanie la fece tornare bruscamente alla realtà. Si accorse che stava tremando leggermente. Si ricordò che era ancora davanti a una finestra aperta e che lei era in buona parte scoperta, quindi si affrettò a chiudere l’anta. Nel movimento, alcune goccioline d’acqua fredda le caddero sulla pelle ancora calda facendola rabbrividire ulteriormente.
Kate si prese un paio di secondi per riabituarsi al piacevole caldo del bagno, anche se era in parte uscito dalla finestra, quindi si aggiustò l’asciugamano in modo che non si aprisse sul seno e uscì dal bagno. La dottoressa Parish la stava aspettando con lo sguardo torvo e le braccia conserte, tamburellando nervosamente un piede. Per un momento a Kate venne da ridere: le sembrava quasi un cartone animato.
“Te la sei presa comoda.” borbottò Lanie seccata. “Stavo già per chiamare una squadra di soccorso.”
“Scusami, sono rimasta conquistata dalla doccia.” replicò Kate con un mezzo sorriso.
“Hai fatto attenzione a non bagnare la fasciatura?” chiese poi la dottoressa, controllando personalmente il cerotto sulla testa della donna senza aspettare una sua risposta. “Insomma… diciamo che sei stata abbastanza attenta, ma non allarghiamoci nei complimenti.” si rispose da sola Lanie con un sospiro e una smorfia.
“Dottoressa, posso…” cercò di chiedere Kate avvicinandosi al letto per prendere gli abiti puliti che le aveva lasciato Jenny Ryan.
“Chiamami Lanie.” la bloccò lei con un sorriso. “Quando non metto bende o ricucio ferite sono solo Lanie.”
“Lanie,” ripeté Kate annuendo. “Posso farti una domanda?”
“Certo.”
Beckett si vestì velocemente, prendendo intanto qualche secondo di tempo prima di farle la domanda che la incuriosiva tanto.
“Chi è il proprietario di questa villa?”
Lanie la osservò per qualche secondo in silenzio, indecisa forse su cosa dirle.
“Perché mi fai questa domanda? Non ti basta che abbia accettato di aiutare te e tuo padre?” Per la prima volta da quando l’aveva conosciuta la dottoressa rispose sulla difensiva, quasi in malo modo.
“Mi dispiace,” replicò allora Kate imbarazzata, sedendosi sul letto. “Non volevo essere indiscreta o pettegola. Non c’era nome sul cancello e neppure alla porta e quando lui si è… diciamo presentato, mi è parso volesse nascondere qualcosa. Inoltre ho visto quello strano cartello all’ingresso che diceva di andarsene e il modo in cui ci ha trattati all’inizio... Insomma è chiaro che non vuole ospiti, ma mi chiedevo perché. Però hai ragione, non sono affari miei e non dovrei neanche chiedere visto che ci avete accolto in casa e che avete aiutato mio padre. Ero solo curiosa.”
“Lo sai che la curiosità uccide il gatto, vero?” commentò Lanie, stavolta con un mezzo sorriso. Non sembrava più seccata, però sembrava lo stesso incerta. Spostò per qualche secondo il peso da un piede all’altro, quindi con un sospiro si andò a sedere accanto a Beckett.
“C’è un motivo per cui il padrone non vuole avere ospiti in casa.” disse alla fine. “Però non posso dirti qual è. E non posso dirti neanche il suo nome, mi spiace. Non è compito mio istruirti su questo e se vorrà sarà lui stesso a farlo.” Kate abbassò lo sguardo delusa e ancora più curiosa di prima. Non fece in tempo però a chiedere nulla perché Lanie continuò a parlare. “In ogni caso devi sapere una cosa: lui non ha scelto di vivere così. È stato… diciamo costretto a farlo, ma non da una persona esterna. Si è auto-imposto di restare un recluso. Non vuole che nessuno lo veda nel suo stato attuale perché ha paura di perdere ciò che più gli è caro.”
“Il suo stato attuale?” ripeté Kate confusa. “E cosa ha paura di perdere?”
Lanie si morse il labbro inferiore e scosse la testa.
“Mi spiace, ho già parlato troppo.” le comunicò alzandosi in fretta dal letto e avviandosi alla porta con aria colpevole. Prima di uscire però rimase per un momento sulla soglia, indecisa. “Quello che volevo farti capire,” aggiunse poi con lo sguardo perso al pavimento. “È che il padrone non è una cattiva persona. Gli eventi lo hanno portato a sembrare la bestia che in realtà non è.” Alla fine, Lanie rialzò il capo e fece a Kate un piccolo sorriso. “Hai avuto una giornata piuttosto complicata oggi. Ti conviene riposare un po’. Sono certa che domattina, dopo un buon sonno e un’ottima colazione tutto assumerà un aspetto migliore.”
Non aveva neanche finito di parlare che la dottoressa si batté una mano sulla fronte.
“Oh, a proposito! Non ti abbiamo neanche chiesto se avevi fame!” Kate ci mise qualche secondo a registrare il repentino cambio di conversazione.
“No, io… sono a posto, grazie.” rispose. Lanie annuì, quindi le diede la buonanotte e uscì dalla camera chiudendosi la porta alle spalle. Beckett rimase sola, con le sue mille domande inespresse in testa e con le parole della dottoressa che le vorticavano in mente. Raccolse le gambe al petto e si acciambellò su un angolo del letto, cercando di dare un senso a quello che aveva visto e sentito. Ma Lanie aveva ragione: la sua giornata era stata lunga e pesante e ora sentiva il peso di quelle ore sugli occhi. Nell’arco di cinque minuti si accorse che sarebbe stato meglio stendersi a dormire piuttosto che continuare a rimuginare e dormicchiare su un angolo del letto rischiando di volare a terra.
Si nascose quindi sotto le coperte, fregandosene dei capelli ancora umidi per la doccia, e chiuse gli occhi. I suoi ultimi pensieri prima di addormentarsi furono rivolti a suo padre nella camera accanto e alla figura nera del padrone di casa sotto la pioggia.   
 
Non era riuscito a prendere sonno per un’ora intera. Per questo aveva deciso di alzarsi, infilarsi una mantella con il cappuccio, rimanendo comunque a torso nudo, e uscire nella tempesta. La pioggia non aveva ancora cessato di battere, anche se aveva meno forza di prima, mentre i tuoni non si erano ancora interrotti così come il vento che continuava a ululare senza tregua.
Uscì dalla porta sul retro e lentamente si incamminò verso la spiaggia. Non era la prima volta che usciva con quel tempo. Sua figlia e sua madre lo avevano sgridato più di una volta per quello, ma lui amava osservare il mare mosso, le onde alte, il rumore che producevano quando si infrangevano contro gli scogli, la spuma bianca che si lasciavano dietro, l’odore forte di sale. La forza di quella scena, per una strana ironia, lo rilassava. Sarebbe potuto rimanere anche per delle ore a fissare il mare agitato.
Si era appena allontanato dalla porta quando, mentre attraversava il prato verde e ben curato da Esposito, sentì come un formicolio alla nuca. Senza fermarsi, voltò leggermente la testa di lato, il cappuccio ben calato sul capo, e con la coda dell’occhio vide una luce accesa al primo piano. Conosceva la sua casa in ogni più piccolo anfratto e capì immediatamente che la finestra illuminata apparteneva al bagno della camera degli ospiti. Quando una figura nera passò davanti alla luce, intuì in meno di un secondo a chi appartenesse, senza neanche l’aiuto del lampo che si abbatté in quel momento e che rischiarò il prato e la villa. Di nuovo quella donna.
Senza indugiare oltre, si girò nuovamente verso il mare e accelerò il passo. Il mantello a causa del vento gli sbatteva selvaggiamente contro le gambe, ma lui non se ne preoccupava. Continuò a muoversi finché non seppe con certezza che aveva superato la collinetta e che ormai era completamente fuori vista dal pian terreno della villa. Era una fortuna che il retro della casa digradasse verso il mare, nascondendo la spiaggia dall’abitazione.
Con un sospiro di sollievo rallentò l’andatura fino ad arrestarsi sulla battigia, scura per la pioggia recente. Dovette restare piuttosto indietro perché le onde erano arrivate a bagnare diversi metri di spiaggia. Si tolse le scarpe e le gettò dietro di sé, restando a piedi nudi sulla sabbia fredda e umida senza esserne troppo infastidito. Non era la prima volta che lo faceva e in ogni caso non gli era mai successo di ammalarsi per quello. Almeno non da quando quel morbo che gli distruggeva la pelle lo aveva infettato. Su quello se non altro non aveva di che lamentarsi. Era come se quel virus da solo eliminasse tutti gli altri. E faceva anche altro: tipo neutralizzare nel giro di venti minuti l’effetto di qualsiasi antidolorifico.
Rimase diversi minuti in piedi, immobile contro le raffiche di vento e la pioggia, a osservare il mare agitato e le nuvole nere tagliate di tanto in tanto da qualche fulmine passeggero. Una folata più forte delle altre gli fece volare indietro il cappuccio, ma lui non se ne curò. A quell’ora e con quel tempo non c’era nessuno in giro che potesse vederlo. I capelli, piuttosto lunghi, cominciarono a muoversi liberi sulle sue spalle. Era un po’ di tempo che non li tagliava e iniziavano ad infastidirlo, ma preferiva tenerli così: almeno poteva avere una scusa per nascondersi il volto anche quando la sua bambina gli chiedeva di togliersi il cappuccio. Sapeva che Alexis, nonostante avesse solo 7 anni quando lui aveva contratto la malattia, non aveva mai avuto paura di lui e di quello che gli era successo. Anche se ormai erano passati cinque anni da quel fatidico giorno però, lui ancora detestava farsi vedere in quello stato da sua figlia.
Non riuscì a reprimere un mezzo sorriso triste quando ripensò a quanto la sua bambina gli avesse fatto forza in tutti quegli anni. Certo, Martha l’aveva aiutato parecchio, ma se non fosse stato per l’esistenza di Alexis probabilmente l’avrebbe fatta finita anni fa, quando gli dissero che non esisteva cura per la sua malattia. Anche perché era meglio non parlare delle reazioni delle sue ex-mogli Meredith, la madre di Alexis, e Gina. Come al solito non erano riuscite a vedere al di là di quello che era davanti al loro naso. All’epoca sapevano che l’uomo all’interno del mostro non era cambiato, ma a nessuna delle due era importato molto. Si erano dispiaciute, questo sì, ma non abbastanza da restargli vicino. Se non altro erano state di parola quando avevano giurato di non rivelare niente ai giornali e alle autorità. Per il mondo, il famoso scrittore Richard Castle aveva avuto un crollo nervoso per il troppo successo e si era ritirato a vita privata in una qualche isola sperduta del Mediterraneo. In realtà il suo terrore più grande non era rivolto verso sé stesso, ma, piuttosto egoisticamente, verso Alexis. Aveva paura anche solo pensare che se altri avessero saputo, forse avrebbero potuto levargli l’affidamento di sua figlia, anche se il suo male non era contagioso. E lui questo non avrebbe mai potuto permetterlo.  
Per un momento abbassò lo sguardo sulle sue mani, sulla sua pelle secca e piagata, che gli provocava spesso dolori atroci e sbalzi d’umore terribili ogni giorno peggiori. Era a causa della sua pelle che si nascondeva in casa da cinque anni. Era a causa della sua malattia non aveva più avuto un contatto con l’esterno che non fossero la sua famiglia, i domestici che aveva assunto, il dottor Davidson o la dottoressa Parish. Era a causa di un semplice frutto che lui era diventato così. Nessuno avrebbe mai dovuto vederlo in quel modo e ora stava rischiando tutto ciò che gli era più caro per due estranei. Aveva davvero fatto bene ad accoglierli?
Scosse la testa per scacciare quei pensieri e tornò a fissare il mare agitato. Il vento stava peggiorando. Poteva sentirlo spingerlo dietro di lui, come se avesse avuto una mano invisibile premuta contro la schiena. Probabilmente, se non avesse avuto una buona stazza e i piedi ben piantati nella sabbia, il vento lo avrebbe trascinato via dentro quelle onde furiose. Quando una delle onde arrivò a bagnargli i piedi, subito si ritrasse come scottato, imprecando. L’acqua di mare sulla sua pelle aveva lo stesso effetto di un carbone ardente.
Rimase ancora qualche minuto immobile, cercando di far scemare il dolore, lo sguardo cupo quanto il tempo. Quindi recuperò le scarpe e si avviò di nuovo verso casa. Avvicinandosi, notò che non c’erano più luci accese alle finestre. Tutto era buio e silenzioso nella grande villa.
Con il passo felpato appreso negli anni, entrò dalla porta sul retro e iniziò a muoversi per le stanze e i corridoi senza il minimo suono. L’unico rumore che produceva era creato dalle goccioline d’acqua che scivolavano a terra dal suo mantello. Stava per salire al piano di sopra quando qualcosa lo fermò. Lentamente, si voltò a dare un’occhiata alla porta che dava accesso alla camera degli ospiti, proprio accanto alla Camera d’Ospedale. Per un istante rimase immobile, quindi, maledicendosi da solo, si tirò di nuovo il cappuccio del mantello sulla testa e, il più lentamente e silenziosamente possibile, si avvicinò alla porta.
Facendo molta attenzione ruotò la maniglia e aprì l’uscio di un millimetro. Sentì immediatamente il respiro lento e regolare della donna. Stava dormendo.
Si arrischiò ad aprire ancora di qualche centimetro la porta. Non voleva svegliarla né spaventarla. Non sapeva neppure lui perché fosse lì. Forse perché erano anni che non vedeva un altro essere umano da vicino, non contando ovviamente la sua famiglia e i domestici. O forse semplicemente perché era una bella donna e, nonostante la sua malattia, era ancora attratto dal sesso femminile. O forse ancora c’era qualcos’altro in lei. Qualcosa di combattivo e dolce insieme. Quel qualcosa che l’aveva portata a discutere con lui e che l’aveva convinto a cedere e a lasciarla rimanere.
Trattenendo il fiato, fece qualche passo in avanti, verso il letto. D’un tratto si immobilizzò. La donna si stava muovendo, agitandosi e mugugnando leggermente. Il respiro le si era fatto irregolare, quasi ansimante. Per un attimo provò l’impulso di posarle una mano sulla tempia e carezzarle i capelli, come faceva con Alexis quando aveva un incubo. Però poi si trattenne, dandosi dell’idiota.
Dopo qualche secondo comunque la donna smise di combattere contro il suo immaginario nemico e tornò tranquilla, voltandosi a dormire sulla schiena con un gran sospiro. Lui non faticò a notare, alla luce della finestra, la piccola ruga di espressione che le si era formata in mezzo alle sopracciglia. Inclinò leggermente la testa per osservarla meglio e un vago sorriso gli si formò sulle labbra. Carina.
Quando la donna si mosse di nuovo, decise che aveva già rischiato abbastanza facendo la parte del guardone inquietante. Tornò indietro lentamente e si richiuse silenziosamente l’uscio alle spalle.
 
Il mattino seguente Kate si svegliò di soprassalto. Aveva sognato di essere ancora a casa e di stare pranzando con suo padre quando un’auto aveva sfondato il muro e li aveva investiti. In un attimo si era ritrovata circondata da pezzi di cemento e metallo, però non aveva sentito alcun dolore. L’unica cosa che aveva provato era stato un grande peso sul petto. Allora, preoccupata, aveva iniziato a gridare il nome di suo padre e poco dopo aveva intravisto la mano di Jim spuntare tra due travi, inerte. Terrorizzata, aveva tentato di allungarsi per prenderla, notando solo dopo che le macerie erano diventate sabbie mobili che la trascinavano verso il basso. Più si muoveva, tentando di aggrapparsi a qualcosa di solido, e più la presa le scivolava via dalle dita. In quel momento però un uomo con un mantello nero era entrato dal buco nel muro e subito aveva iniziato a scavare per tirarli fuori. Ma tanto più lo sconosciuto tentava di aiutarli, tanto più lei e suo padre sprofondavano nel pavimento, sommersi dal caos di detriti e polvere. Ricordava di aver cercato di gridargli di fermarsi prima che le macerie la sommergessero e lei piombasse nel buio.  
Kate rimase per qualche momento immobile nel grande letto, ansante, gli occhi ben aperti e fissi al soffitto. Aveva paura di ripiombare in quell’incubo se solo li avesse socchiusi. Il cuore le martellava forte nel petto e sentiva un velo di sudore freddo sulla pelle. Le era parso tutto così spaventosamente reale…
Un lieve bussare alla porta la fece trasalire e automaticamente tirò su le lenzuola fino al mento, anche se ovviamente aveva addosso i vestiti che le avevano prestato.
“Signorina Beckett?” la chiamò qualcuno dall’esterno con tono basso. “Sei sveglia?” Kate cercò di ricordare a chi appartenesse quella voce e l’immagine di un uomo dai capelli biondi fece capolino nella sua memoria.
“Sì, uhm… sì, Ryan!” rispose dopo qualche secondo, non appena il nome del maggiordomo le tornò in mente.
“Oh, bene!” replicò lui allegro, alzando la voce a un livello normale. Doveva essere già passato a chiamarla, ma lei probabilmente non lo aveva sentito. “Posso entrare un momento?”
“Sì, certo.” rispose Kate, mettendosi a sedere. Il maggiordomo aprì uno spiraglio nella porta, quel tanto che bastava a far entrare la testa.
“Come stai stamattina?” le chiese con un sorriso gentile.
“Meglio, grazie.” I punti sulla fronte le dolevano un po’ e sentiva di avere qualche livido che la infastidiva, ma nel complesso il sonno le aveva fatto davvero bene, tralasciando la parte dell’incubo.
“Mio padre?” chiese a quel punto, con un leggero nervosismo.
“Il dottore lo ha già visitato e a quanto ho capito gli antibiotici hanno ben fatto il loro lavoro.” rispose Ryan. “Comunque potrai chiedere di persona a Lanie tra poco e potrai anche vedere tuo padre. A proposito, vuoi qualcosa di particolare per la colazione? Abbiamo thè, caffè, latte, succo d’arancia…”
“Un caffè sarebbe perfetto, grazie. Però non vorrei disturbare più di quanto sto già facendo.”
“Nessun disturbo!” esclamò il maggiordomo allegro. “Non abbiamo mai ospiti qui, il che dopo un po’ diventa piuttosto noioso. Da mangiare abbiamo più o meno qualsiasi cosa, quindi potrai fornirti da te in salone. O preferisci la colazione in camera?”
“No, no, vengo di là. Grazie mille.” disse alla fine Kate con un sorriso grato.
“Al vostro servizio!” replicò Ryan con un mezzo inchino divertito prima tirarsi indietro e richiudere la porta.
Quando i passi del maggiordomo sparirono nella casa, Beckett si convinse a uscire dal letto per alzarsi. Con un gesto scostò il lenzuolo e buttò le gambe fuori dal materasso, ma dovette bloccarsi per un attimo. Evidentemente stava meno bene di quello che credeva perché la camera aveva all’improvviso iniziato a girarle intorno. Si prese qualche secondo, quindi lentamente si alzò in piedi. Con suo gran sollievo, tutto rimase fermo al suo posto.
Prima di andare in salone, Kate passo in bagno e ne approfittò per sciacquarsi la faccia con acqua fredda per svegliarsi completamente, stando bene attenta a non toccare le bende sulla testa. Avviandosi alla porta, notò che i suoi vestiti ormai erano asciutti anche se parecchio stropicciati. Inoltre, lanciando un’occhiata alla finestra, vide che il tempo era pure migliorato: era ancora nuvoloso e grigio, ma non pioveva più, il vento era di molto diminuito e si intravedevano anche tracce di luce chiara tra le nubi. A quel punto, ancora vestita con i pantaloni della tuta e la maglietta, si avviò fuori dalla camera.
Non appena aprì la porta, Kate iniziò subito a sentire un vociare allegro provenire dalla sala d’ingresso insieme a un rumore di piatti e posate sbattute. Quando vi entrò notò un assiepamento di gente su un grosso tavolo che aveva visto la sera prima e che evidentemente usavano per mangiare. Vide la cucina dall’altra parte della sala da cui si accedeva da una porta laterale distante solo un paio di metri dal tavolo.
Kate ci mise un paio di secondi a capire che c’era qualcosa che non le tornava. E quando lo capì rimase piuttosto stupita. Infatti non si sarebbe mai aspettata di vedere due bambine sedute tranquille al tavolo della cucina di quella casa. Una era più grande, sui dodici anni, con i capelli rosso fuoco e la carnagione chiara. L’altra invece era più piccola, probabilmente non aveva più di cinque anni, con i capelli biondi divisi in due codine sopra la testa. Entrambe stavano serenamente mangiando l’una con pane e marmellata e l’altra con i cereali.
A quella vista, Beckett sentì la tensione, che non si era accorta di avere, scivolare via da sé. Non potevano essere cattive persone se avevano bambini allegri e in salute in giro per casa, giusto?
“Oh, buongiorno Kate!” la salutò Lanie con un sorriso non appena la notò ferma e indecisa all’entrata del salone. A quelle parole tutti i presenti si voltarono a guardarla. Le bambine si girarono subito a squadrarla con curiosità, la più piccola dimenticando anche il cucchiaio di cereali a mezz’aria.
“Vieni siediti, qui.” le indicò gentilmente Kevin, spostandole una sedia per indicarle il suo posto a tavola tra Lanie e Martha. Oltre a loro e alle bambine, erano seduti a tavola anche Esposito e Jenny.
Kate si avvicinò un po’ imbarazzata, accettando il buongiorno di tutti e ricambiando con gli occhi bassi.
“Come ti senti stamattina, cara?” le chiese subito Martha, posando sul tavolo lo strano intruglio verde che stava bevendo per potersi concentrare su di lei.
“Ti fanno male i punti?” domandò invece Lanie.
“Sto abbastanza bene, grazie.” rispose alle due, sorridendo però in ringraziamento a Ryan per averle messo davanti una tazza di caffè nero bollente. “Mio padre?”
“Il dottor Davidson lo ha monitorato a intervalli di un’ora tutta la notte e ancora mezz’ora fa prima di andare.” replicò Lanie. “È stabile al momento, non ansima più come ieri sera e dorme come un bambino. Vedrai che migliorerà nel giro di qualche giorno.” Kate annuì lentamente, mordendosi il labbro inferiore senza neanche accorgersene.
“Posso vederlo?” domandò quindi, dando un sorso alla sua tazza di caffè. Era davvero ottimo.
“In realtà dormirà ancora per un po’.” la avvisò la dottoressa Parish. “Ti conviene mangiare qualcosa prima, poi ti accompagno a vederlo. Dopo la giornata di ieri sarebbe il caso ti rimettessi in forze anche tu.”
Nonostante fremesse per andare a controllare le condizioni di suo padre, Kate si convinse a prendere qualcosa dalla tavola. C’era solo l’imbarazzo della scelta tra frutta, cereali, biscotti, pane, marmellata, pancakes e sciroppo d’acero. Decise di andare sul tranquillo e prendere una mela.
Stava tagliando la sua frutta quando una vocetta dall’altra parte del tavolo le fece alzare gli occhi confusa.
“Come fa a piacerti?” chiese la più piccola delle due bambine con una smorfia. Kate guardò la mela.
“Beh, è molto dolce questa varietà.” replicò con un sorriso divertito.
“No, dico il caffè!” specificò la biondina, indicandoglielo. “È amarissimo! Papà me lo ha fatto assaggiare.” aggiunse indicando Kevin. “E fa schif…”
“Sarah!” la ammonì Jenny con un’occhiata severa. “Solo perché a te non piace una cosa, non significa che devi dire che fa schifo.”
“Sì, mamma.” borbottò la piccola mettendo su un broncetto e abbassando lo sguardo sulla sua tazza di cereali.
“Scusala,” disse Kevin rivolto a Beckett. “Non ti abbiamo ancora presentato la nostra piccola peste. Vuoi dire tu come ti chiami, tesoro?” aggiunse poi rivolto alla bambina.
“Sarah Grace!” rispose quella allegra, come se il musetto rimproverato di un attimo prima non fosse mai esistito. “Ho cinque anni e mezzo!”
“Ah, ma sei già grande!” replicò Kate divertita.
“E tu come ti chiami?” chiese a quel punto la piccola. Si notava che era da quando era entrata che non aspettava altro che chiederglielo. “Quando sei arrivata? Come sei…”
“Sarah…” iniziò a rimproverarla Jenny, ma lei subito scosse la testa.
“Sì, sì, lo so.” mugugnò controvoglia. “Una domanda e aspetto la risposta. Non devo sommergere la persona di domande.” disse come un mantra imparato a memoria. Evidentemente non era la prima volta che le facevano quell’obiezione.
“Allora, mi chiamo Kate Beckett e sono arrivata ieri sera.” rispose Kate cercando di non mettersi a ridere per la scena. “Ho avuto un incidente con la macchina lungo la strada e i tuoi genitori e il proprietario di casa sono stati così gentili da dare riparo a me e a mio padre, che inoltre non stava tanto bene.”
“L’uomo nella Camera d’Ospedale?” chiese stavolta la ragazza dai capelli rossi. Era la prima volta che parlava. Guardandola, Kate si accorse che aveva due occhi azzurro chiaro che parevano proprio non essere molto convinti della sua presenza lì. Annuì.
“Come si chiama?” chiese ancora la più piccola, questa volta riuscendo a fermarsi a una sola domanda.
“Jim.”
“Beh, allora visto che pare io sia l’unica che non si è ancora presentata,” disse in quel momento la ragazza dai capelli rossi prima che Sarah potesse di nuovo chiedere qualcosa a Kate. “Io sono Alexis.”
“Lei è mia nipote.” disse con orgoglio Martha.
“Kate, ma perché…” La bambina stava ripartendo a fare domande, ma stavolta fu il padre a bloccarla tirandole scherzosamente uno dei due codini sulla sua testa.
“Taci e mangia, mostriciattolo.” disse Kevin divertito.
“Finisci i tuoi cereali, amore, e lascia in pace la nostra ospite.” ribadì Jenny dolcemente, bloccando sul nascere altre proteste. La bimba sbuffò, ma finalmente riprese a mangiare la colazione che aveva lasciato a metà.
“Il latte è freddo…” borbottò.
“La prossima volta parla di meno.” commentò Ryan ridacchiando e stampandole un bacio sulla guancia.
“È una bambina adorabile.” mormorò Kate a Jenny, allungandosi un po’ sul tavolo per parlare con lei seduta oltre Martha, mentre il maggiordomo e la bimba continuavano a battibeccare allegramente. La signora Ryan annuì con un piccolo sorriso sulle labbra.
“È una peste a volte, ma non potremmo vivere senza di lei.” replicò la donna. In quel momento il suono di qualcosa che si rovesciava e un urletto fecero voltare tutti verso padre e figlia. La tazza di latte era ormai per metà irrimediabilmente persa sul tavolo.
“Non sono stato io!” si difese subito Kevin, mollando il cucchiaio che aveva fregato alla piccola e alzando le mani.
“Non è vero! Lo hai rovesciato tu con il braccio!” replicò subito la piccola Sarah.
“Non è vero!” fu la risposta pronta del padre. “Se tu non avessi intralciato il mio aeroplanino di cereali, non si sarebbe schiantato nella tazza come è successo!”
“Ma io non volevo l’aeroplanino, io volevo il cucchiaio per continuare a mangiare!”
“Beh,” commentò Jenny con un sospiro. “In effetti a volte non ho un marito e una figlia, ma due bambini bisticcianti, ma che vogliamo farci?” Tutti scoppiarono a ridere mentre i due litiganti si facevano la linguaccia a vicenda e la signora Ryan recuperava uno straccio per pulire il latte e i cereali versati sul tavolo e che avevano cominciato a gocciolare sul pavimento.
“Beh, direi che è ora di andare.” disse a quel punto Esposito, infilandosi in bocca un ultimo biscotto e alzandosi. “Signorina Beckett, stamattina mi sono permesso di chiamare un carrozziere per la tua auto. Tra un’ora dovrei incontrarlo alla macchina. Spero che vada bene.”
“Oh, grazie mille.” replicò Kate con un sospiro sollevato. In effetti non aveva pensato per niente alla sua macchina distrutta fino a che non ne aveva parlato poco prima. “Però per favore chiamatemi semplicemente Kate o al più Beckett.”
“Nessun problema, Beckett.” rispose Javier con un mezzo sorriso. “Mi farò dare un po’ di informazioni sul danno e su quanto ci vorrà a sistemarla. Sarà una cosa breve spero.” Quindi si rivolse alla signora Rodgers. “Martha, io devo passare in città prima, vuoi un passaggio?”
“Oh, sì, visto che sei di strada ne approfitto volentieri!” esclamò Martha. Finì il suo beverone verdognolo, si alzò e baciò la ragazza dai capelli rossi sulla nuca. Quindi salutò tutti e si avviò con il tuttofare all’ingresso.
“Posso chiederti una cosa?” domandò a quel punto Alexis curiosa quando la porta di casa si chiuse dietro la nonna ed Esposito. “Come siete arrivati qui tu e tuo padre? Voglio dire, lo so, a causa dell’incidente, ma se non sono troppo indiscreta perché eravate qui negli Hamptons?”
“Non stressarla, Lex.” la fermò Jenny, finendo di ripulire il danno di marito e figlia.
“No, va bene.” dichiarò Kate. Quindi tornò a rivolgersi alla ragazza. “Io e mio padre eravamo venuti negli Hamptons per fare una gita, ma nel pomeriggio il tempo ci si è rivoltato contro. Quando abbiamo deciso di andarcene purtroppo mio padre non stava già bene. Doveva essere una giornata tranquilla e…” Si bloccò, ma non per la storia. Aveva sentito qualcosa. Come un rumore di sottofondo o un formicolio sul collo. Voltò la testa per controllare, ma non vide nessuno, solo il grande salone vuoto e le scale buie che portavano al piano superiore. Eppure sentiva che c’era qualcosa…
“Tutto bene?” chiese Alexis, voltandosi anche lei per capire cosa avesse attirato l’attenzione di Kate.
“Sì, io… niente, mi era sembrato di sentire qualcosa.” mormorò alla fine, passandosi una mano sul collo per far passare quella sensazione. Notò di sfuggita Jenny, Ryan e Lanie lanciarsi un’occhiata prima di tornare a concentrarsi su di lei. Beckett si schiarì leggermente la gola, quindi continuò a raccontare mentre finiva di tagliare la sua mela prima di mangiarla. “Dicevo…”
 
Imprecò mentalmente dal suo nascondiglio in cima alle scale. Sapeva benissimo che il terzo scalino dall’alto scricchiolava, ma l’aveva dimenticato tanto era stato curioso di vedere di nuovo la donna e di sentire quello che stava dicendo.
Come sempre, dopo essere passato dalla cucina a sgraffignare qualcosa da mangiare, aveva aspettato nel suo angolo buio dalle 7 del mattino, quando i Ryan si erano svegliati per iniziare a preparare la colazione per tutti. La scalinata che dava sul salone era uno dei suoi punti preferiti. A quell’ora del giorno era completamente avvolta dal buio, grazie alle finestre oscurate del piano di sopra, e poteva tranquillamente spiare la sua famiglia a colazione, immaginando in qualche modo di essere lì con loro. Avrebbe voluto mille volte scendere quegli ultimi gradini per stare accanto alla sua bambina, ma si era sempre trattenuto. Anche nei giorni in cui era Alexis a pregarlo di scendere. La sua paura più grande era che prima o poi la sua piccola, che ormai tanto piccola non era più, lo vedesse per il mostro che era e smettesse di volerlo intorno. Lei gli aveva più volte detto che non si sarebbe mai stancata di lui, anche conciato com’era, ma in fondo era lui a non avere la forza di farsi vedere in quello stato da lei. E inoltre non voleva pensare a cosa sarebbe potuto accadere se per caso gli fosse arrivato uno dei suoi violenti sbalzi d’umore mentre era accanto a lei…
Quella mattina era stato strano vedere qualcun altro insieme ad Alexis, Martha e agli altri. La vista di quella donna, così vicino alla sua bambina, in un primo momento lo aveva innervosito. Era stato pronto a scattare in caso di problemi, ma per fortuna lei, Kate Beckett, pareva non essere una minaccia per loro. Il siparietto di Sarah Grace e Kevin poi era stato molto utile per allentare la tensione. Perfino lui non era riuscito a reprimere un sorrisetto osservando padre e figlia farsi la linguaccia di nascosto da Jenny. Allo stesso tempo però aveva sentito una morsa nel petto: erano anni che non giocava e non si divertiva più così con Alexis. Gli mancavano terribilmente quei momenti con lei, quegli attimi solo per loro. Ma ormai erano passati cinque anni dall’ultima volta che avevano scherzato in quel modo, così spontaneo e naturale. Cinque anni in cui lei era diventata una giovane donna. Cinque anni della sua infanzia che lui non avrebbe mai più avuto modo di recuperare.
Quando la donna, Kate, aveva iniziato a raccontare di lei e del padre, lui si era incuriosito e, inconsciamente, aveva fatto un movimento di troppo facendo scricchiolare l’asse della scala sotto di lui. Probabilmente quello era il prezzo da pagare non vedendo nessuno per anni a parte i tuoi familiari e i tuoi amici: una terribile voglia di sapere un qualunque fatto nuovo dall’esterno. Anche una semplice giornata al mare di un’estranea. Non che ne avesse abbastanza degli altri: era loro più che grato che ancora non lo avessero mollato solo come un cane ed erano sempre stati un’ottima compagnia. Ma una faccia nuova, con nuovi fatti, era come una ventata di aria fresca in un mondo ormai troppo uguale e prevedibile.
Immobile, cercò quasi di non respirare quando la vide girarsi all’indietro verso di lui. In realtà lo stava guardando nel buio, ma lei non poteva saperlo. Dovette intuirlo però, perché il suo sguardo passò più volte dal punto in cui era nascosto prima che la sua attenzione venisse riportata alla conversazione.
Sospirò sollevato quando la donna volse di nuovo lo sguardo verso gli altri occupanti della tavola. Quindi lui, con i movimenti lenti e misurati che aveva imparato negli anni per gironzolare nella casa senza essere notato, si sedette su uno degli scalini e si mise ad ascoltare e osservare Kate. La sua voce era tranquilla, ma alle sue orecchie non poteva sfuggire una nota di tensione. Si chiese se era per la sua “rumorosa” apparizione o per il padre malato. Probabilmente un mix di entrambi.
Appoggiò la testa al corrimano e per un momento chiuse gli occhi, immaginando di essere lì con loro ad abbracciare la sua Alexis per le spalle mentre ascoltava con attenzione la donna raccontare.

------------------------------------------------------
Xiao! :) 
Scusate il ritardo, ma putroppo tra casini vari prima di così non riesco a fare. 
Spero che il capitolo vi sia piaciuto e nel caso fatemi sapere! (Anche se non vi è piaciuto fatemi sapere comunque eh, non mi offendo)
Tornando alla storia: finalmente abbiamo scoperto chi è il misterioso padrone di casa (anche se probabilmente l'avevate già intuito ;D), mentre Kate ancora non sa nulla di lui tranne che ha un qualche problema che lo costringe in casa... E noi d'altronde ancora non sappiamo cosa gli sia successo a quel figo di Castle. Ma tutto verrà chiarito a tempo debito! :)
A presto!
Lanie

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3649356