Blessures di baby80 (/viewuser.php?uid=92588)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Oblio ***
Capitolo 2: *** Cosa si prova ad essere vivi ***
Capitolo 3: *** Danza macabra ***
Capitolo 4: *** L'ultimo passo ***
Capitolo 5: *** Rue de la Lingerie ***
Capitolo 6: *** Cantaride ***
Capitolo 7: *** Maschere ***
Capitolo 8: *** Medusa e Perseo ***
Capitolo 9: *** Cicadidae ***
Capitolo 10: *** È infatti il cuore che rende eloquenti ***
Capitolo 11: *** 27 giugno 1789 ***
Capitolo 12: *** Le voile ***
Capitolo 1 *** Oblio ***
Apro gli
occhi e ciò che
vedo è un soffitto così basso che pare volermi
schiacciare da un
momento all'altro. Lascio che le palpebre accarezzino il mio sguardo
confuso, quel tanto che serve a spazzar via la nebbia dello
smarrimento, e quando riporto la percezione alle mie iridi è
nuovamente li, quel soffitto opprimente, madido di quella
umidità
che posso odorare nell'aria.
Dove mi trovo? E' giorno o
notte? E perché la testa mi duole dannatamente?
Porto i palmi delle mani sul
viso alla ricerca di ricordi che non mi riesce di rammentare, ma
tutto quello che ottengo è il godimento della mia fronte
bollente,
deliziata dalla frescura delle dita.
Respiro profondamente il
puzzo che aleggia nella stanza, e quando non vi è
più modo di andar
oltre lascio che il fiato scivoli sulle mie labbra in un soffio
leggero, che muta, quasi senza averne controllo, in un ringhio di
rabbia.
Punto le mani sul materasso
e mi sollevo a sedere, tastando le lenzuola che posseggono il
medesimo colore dei muri che mi circondano, di un giallo consunto, e
mi accorgo di aver indosso gli stivali, insudiciati da della
fanghiglia ancora fresca, ma d'essere orfana della giacca
dell'uniforme.
Scruto l'ambiente che mi
circonda alla ricerca dell'indumento mancante e di un qualunque
indizio che possa venire in aiuto alla mia mente, sgombra di quella
memoria che bramo più d'ogni altra cosa al mondo.
Vi è un piccolo mobiletto
accanto al letto, un pezzo di poco valore, guastato dal tempo e dai
tarli che vi hanno banchettato al suo interno. Una sedia con una
gamba più corta rispetto alle altre tre, nell'angolo, una
finestra a
cui manca un una porzione di vetro, con gli scuri accostati, privi
anch'essi di qualche tassello, e null'altro.
Nient'altro cattura la mia
attenzione, così, ormai spazientita, conduco le gambe oltre
il bordo
del giaciglio e quando i piedi si posano sul pavimento percepisco al
di sotto un cumulo di stoffa. Il mistero è svelato, mi chino
leggermente a raccogliere la giacca perduta, che scopro bagnata, come
qualsiasi cosa in questo maledetto luogo.
Impongo al mio corpo un
ulteriore sforzo per trovare una posizione finalmente eretta e
lasciare il tugurio in cui mi trovo, e non è impresa facile
per le
mie gambe malferme e per l'equilibrio che ha deciso di abbandonarmi.
Cosa diavolo mi è accaduto?
Quale potente droga hanno usato per ridurmi in un tale stato? Che sia
stata colpita?
Porto una mano alla testa e
mi aspetto di trovarvi una ferita, una protuberanza, un dolore che
possa dare una conferma alla supposizione formulata poc'anzi, ma non
avverto nulla e l'ira si fa sempre più vigorosa, la sento
serrarmi
le viscere e farsi strada in ogni nerbo del mio essere, fino a farmi
ribollire il sangue nelle vene.
Devo andarmene da questo
alloggio, immediatamente. Porto un piede dinnanzi all'altro, con
decisione, con la baldanza che contraddistingue il mio incidere da
che ne ho memoria, incurante del tremore che striscia al di sotto dei
muscoli delle mie gambe, ed è così che mi ritrovo
nella stanza
principale di quella che fatico a definire casa.
Scopro un locale poco più
grande della camera da letto, ne osservo lo scarno arredamento e quei
dettagli che mi fanno agognare la fuga, ed ancor prima che la ragione
possa impartirne l'ordine, i miei piedi hanno di già
compiuto i
movimenti che mi stanno conducendo verso l'uscita, ma è nel
tragitto
che mi divide dalla porta che il mio passo colpisce qualcosa.
Un tintinnio, che ruzzola
per rincorrere un suono gemello, parla al mio orecchio raccontando
una ovvietà che i miei occhi non hanno bisogno di guardare,
per
averne conferma.
Una bottiglia di vino
scadente e un calice di vetro scheggiato.
Ecco la mia droga, la rossa
maliarda che da tempo immemore ha il potere di affascinare i miei
sensi, carpendo ogni ombra d'intelletto, fino al completo
stordimento. Una dolce morte che mai delude le proprie promesse,
deliziando la lingua con il suo dolce nettare e uccidendo senza
rimorso le voci che straziano l'anima, il cuore e la mente.
Debbo ammettere che questa
volta pare aver svolto il proprio lavoro con lodevole dedizione,
poiché sembra esservi l'oblio nella mia memoria, o forse
sono io a
non voler scorgere la verità? Chi può dirlo.
Arresto la mia fuga e mi
seggo sulla sola poltrona che vi è nella stanza, usurata
anch'essa
come qualsiasi oggetto che dimora in questa abitazione, ma non
m'importa, ho smesso d'essere esigente tanto tempo fa. Poggio i
gomiti sulle ginocchia e lascio che i palmi avvolgano, in una
delicata morsa, le tempie e il capo, mentre fisso scioccamente
incantata i miei lunghi riccioli biondi ricadermi dinnanzi agli
occhi. E qualcosa torna alla mente, un ricordo o l'ultima vestigia di
un sogno?
Suppongo di aver paura di
scoprirlo, perché ciò che la mia testa rammenta
è qualcosa che
spero sia soltanto la visione mostruosa di un incubo.
No non può essere vero, non
può essere accaduto.
“Tradimento”
“Non
devi aver paura, io ti ucciderò chiedendo perdono a
Dio...”
“...non
importa, tanto
la mia vita è finita ormai.”
Allontano
la luce dai miei occhi premendovi contro le mani, divenute gelide,
come toccate dall'alito della morte. Se fossi morta e questo fosse il
purgatorio?
Sorrido
della mia insensatezza, da quando il comandante Oscar Francois De
Jarjayes consente all'irrazionalità di prendere il
sopravvento sulla
ragione?
Vi è
ancora, dietro questa vecchia maschera incrinata, il comandante
forgiato da anni e anni di duro lavoro e regole morali?
Forse
solo un lieve rimpianto, offuscato dalla consapevolezza d'essere
fallibile e di compiacersene, poiché non vi è
peccato nella paura,
nell'errore, e nell'amore, ma solo la dimostrazione della
molteplicità e la bellezza dell'animo umano.
Ho
gioito di questa vittoria, ne ho pianto di felicità, eppure
ora
darei qualunque cosa per un istante di stordimento, baratterei
qualsiasi cosa per un altro sorso di vino. Ma non mi è
possibile
esaudire questo desiderio, e non posso far altro che rimanere nella
medesima posizione sperando, o temendo, che uno spiraglio di
lucidità
porti ordine dove ora vi dimora il caos.
Immobile
nella mia postura seguito a velare le mie azzurre iridi con il nero
dell'oscurità, la pesantezza del capo riversata sui palmi e
mi par
quasi di aver trovato la pace, ma è in questo momento di
calma che
sento una mano afferrarmi il polso, con fermezza, e l'istinto del
soldato mi porta a tentare di liberarmi della presa e ad innalzare la
testa, volgendo il viso verso il nemico.
“Oscar,
ti senti bene? Sono stato da Bernard, possiamo contare sul suo aiuto,
non vi saranno problemi per...”
ti vedo,
odo la tua voce, ma credo di aver smesso di ascoltare ciò
che stai
dicendo.
Sento le
tue dita stringere il mio polso ed ora rammento.
“André
vattene via,
vattente!”
“...non vi muovete
perché io adesso andrò via assieme ad
Oscar”
Ora
ricordo ogni cosa.
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Capitolo 2 *** Cosa si prova ad essere vivi ***
Si dice che, poco prima di
abbandonare il mondo terreno, tutta la propria esistenza si figuri
davanti agli occhi, come un racconto del passato o uno spettacolo di
commedianti.
Ne avevo letto in innumerevoli libri, ed ogni volta avevo avuto per
quella fantasia un sentimento di curiosità e scetticismo,
è mai possibile che un uomo in punto di morte, consapevole
di avere meno di un battito di ciglia da vivere, senta il desiderio di
ripercorrere ogni momento della sua stessa vita? È un'azione
che si compie coscientemente oppure è l'intelletto a gettare
sul cuore un tale fardello?
Furono questi i pensieri che mi riempirono la mente quando mio padre
decise che era giunta l'ora di correggere l'errore che io, il figlio
prediletto del generale Jarjayes, avevo osato compiere contro la
famiglia Reale.
Mi parve ovvio, quindi, smentire le teorie che tendevano a romanzare
l'attimo che precede la morte, poiché non vi era nulla di
poetico nella venuta della dama con la falce, o quantomeno non fu
così per me.
Non mi riuscì di pensare a nulla, ci provai, tentai con
tutta me stessa di condurre al mio cuore anche il più
piccolo granello di memoria; il volto di mia madre, il profumo dei
biscotti di Nanny, il calore del sole sulle colline di Arras, ma non vi
fu verso, non successe alcunché.
Credetti di aver smarrito anche l'ultimo velo di umanità,
poiché mi parve che perfino il sangue avesse smesso di
scorrermi nelle vece.
Cosa mi stava accadendo? Eppure un istante prima avevo supplicato il
perdono, chiedendo che mi venisse risparmiata la vita, non per me
stessa, certo, ma per i dodici soldati del mio reggimento, coloro che
non avevano esitato a dimostrare per me la più cieca
fedeltà.
Seguitai a rimanere nella medesima posizione, su di una sedia che era
stata scelta per divenire il patibolo della mia esecuzione,
così mi rassegnai al mio destino e in silenzio ascoltai
ciò che il boia aveva da dire.
“Non posso perdonarti. E poi qualunque cosa tu facessi
sarebbe inutile, quando in una famiglia notoriamente devota al Re
c'è un traditore l'unica soluzione è la morte.
Non devi aver paura, io ti ucciderò chiedendo perdono a Dio
e poi ti seguirò.”
le parole scivolarono fuori con una pesantezza millenaria, la stessa
ch'io avvertivo comprimermi l'anima e fu allora che qualcosa si sciolse
dentro di me, gettandosi ai margini del mio sguardo.
Le lacrime mi bruciarono gli occhi e la loro venuta rese vacua la
visione del piccolo mondo che avevo davanti, e non potei trattenere la
lingua quando confessò il rispetto che nutrivo per lui, per
quel genitore imperfetto e severo, ma che ancora possedeva la mia
stima.
Aveva mutato la propria figura nel più spietato degli
assassini, avrei dovuto odiarlo e gettargli addosso tutto il disprezzo
e il rancore di un'intera vita, ma contrariamente a ciò che
la ragione suggeriva, ebbi per lui un sentimento novello, e provai pena
per l'uomo che, nell'antiquata posa del soldato, così
difettosa quella sera come mai lo era stata, brandiva la spada in una
mano malferma.
“Sarebbe la peggiore delle soluzioni, perché sarei
la causa della vostra morte padre.”
parlai con franchezza permettendo al rimpianto di scivolare lungo le
gote, e fu un pianto sommesso, impercettibile, così
dolorosamente taciuto da sembrar fasullo.
Non fu il comandante Oscar Francois De Jarjayes a enunciare tal verbo,
ma quella ragazzina lontana che tempo addietro accettò il
proprio destino per compiacere colui che, nel suo animo incorrotto, era
al di sopra di qualsiasi Dio, e che quella sera d'estate era riemersa
per gridargli, senza urla, l'amore che non era più possibile
portare in sé, e dirgli addio.
Perché ormai non vi erano più eroi da seguire.
“Non importa, tanto la mia vita è finita
ormai.”
sentenziò con il pianto ad incrinargli quel timbro che alle
mie orecchie era sempre stato imperioso.
Mi parve quasi di udire, tra le righe, un rimprovero per se stesso.
Dove avete sbagliato
padre? È questo che vi state domandando non è
vero? Io stessa potrei rivolgervi la medesima supplica, dove abbiamo
sbagliato? Cosa stiamo diventando?
Placatevi padre,
perdonate voi stesso, così come io sto facendo.
Non mi era possibile vederlo ma percepii un alito d'aria alle spalle,
un leggero soffio che smosse i capelli e sotto i quali si
infilò, per lambire il collo quel tanto da suscitarmi un
mortale tremito lungo la schiena.
Ero pronta a morire.
No, in verità non lo ero affatto e maledissi la mia sete di
vita perché ero certa che avrebbe combattuto fino all'ultimo
respiro. Il corpo, i sensi, ogni fibra della mia persona si sarebbe
aggrappata a qualunque cosa prima di arrendersi, al diavolo in persona
se mi si fosse parato dinnanzi, e questo significava che, se il
generale avesse sferrato il colpo con l'esitazione che un animo turbato
è legittimato a provare, per me sarebbe iniziata una
interminabile agonia.
Sussurrai senza voce una litania che mai nessuno avrebbe ascoltato, e
desiderai l'odio di mio padre, quello che lo avrebbe condotto nel
turbinio di una furia priva d'incertezza, e d'una forza tale da
uccidermi senza riserve.
Colpitemi senza
pietà, fatelo subito perché non sono sicura di
poter oppormi ancora per molto al fuoco che m'infiamma il petto e che
sta urlando di alzarmi da questa dannata sedia e cominciare a
combattere.
Lo ripetei dieci, cento, mille volte, nell'attesa che la lama si
poggiasse a ridosso del mio collo, gelida e incandescente al tempo
stesso, ma i secondi divennero ore e le ore secoli, forse avevo perduto
la cognizione del tempo, o magari, pensai, la morte si era
già impossessata di me.
Poi vi fu il boato del tuono, che giunse un istante prima della
pioggia, imperiosa fin dal principio e, nell'attimo che mi ci volle per
serrare e riaprire le palpebre, il grande lampadario al centro della
stanza prese ad oscillare, tintinnando una folle melodia, ed il velo
dell'oscurità si posò leggero su ogni dove.
Percepii il tipico odore delle candele spente, un'essenza di zolfo che
mi condusse in certi meandri nascosti della memoria che ignorai
volutamente, poiché non era quello il tempo per i
sentimentalismi.
Qualcosa attirò la mia attenzione, un nuovo rumore, ed una
voce che avrei potuto riconoscere senza ombra di dubbio nel pieno
centro d'una folla.
“No, non lo fate!”
fu un grido poderoso e asciutto, privo d'ogni timore, quello che
André condusse nella stanza.
“André ma che cosa vuoi fare? Vattene!
Vattene!”
“No non me ne vado Signor Generale, non me ne vado. Non vi
permetterò di uccidere Oscar!”
lui non lo avrebbe permesso!
Mai prima d'allora vi era stata una tale insolenza nei riguardi di mio
padre, il fidato André eternamente garbato ed ossequioso
servì, a quello che era stato il suo padrone, quel lato
nascosto ed oscuro di sé contro cui mi imbattei io stessa,
una sera di qualche anno addietro.
Il bagliore del lampo si infranse contro la grande vetrata donandoci
quella luce che era venuta meno, là dove vi era in corso la
tragedia d'un tradimento, e potei così scorgere dalla
sommità della mia altezza lo scontro tra le due figure
maschili che erano tutta la mia vita.
Come fu che mi ritrovai sui piedi non me lo spiegai, avevo abbandonato
la seduta senza rendermene conto, ma nuovamente mi era impossibile
muovere anche un singolo passo.
Immobile testimone in attesa del colpo di scena seguente, esaminai con
attenzione l'alterco che stava riempendomi la vista, e mi soffermai
sulle mani di André, strette attorno alle braccia del mio
sicario, il viso premuto contro il suo petto, in una posa che, se la
scena non fosse stata tragica, avrebbe assunto il colore della burla,
ma non fu il riso ad increspare le mie labbra.
“Badate sono pronto a sparare, non vi muovete
perché io adesso andrò via assieme ad
Oscar.”
dichiarò André con decisione, con un tono che non
avrebbe ammesso repliche, ed il mio cuore ignorò di battere
e temetti si sarebbe fermato del tutto quando udii con chiarezza il
suono della sicura della pistola.
Stai facendo sul serio, non è così
André?
“Cosa? Tu vorresti scappare con Oscar?”
domandò mio padre con la spavalderia di chi conosce di
già la replica ma, non pago di ciò, esige
l'impossibile dal proprio avversario. E la risposta di André
non tardò.
“Si.”
la battuta fu lapidaria nella sua brevità, eppure quella
semplice affermazione ebbe il potere di colmare l'intera stanza d'una
forza che io non possedevo più.
“E magari vorresti sposarla. Non è vero?”
chiese il generale abbassando gli occhi, così simili ai
miei, sull'uomo che lo stava minacciando con un'arma, un uomo che
probabilmente nulla più aveva da spartire con il ragazzo che
aveva accolto dio solo sa quanti anni prima nella propria casa, e che
scioccamente pensava di conoscere.
Ciò che sorprese me fu scoprire che, per mio padre, l'idea
che André nutrisse il desiderio di sposarmi non fosse una
rivelazione così sconcertante, come contrariamente lo fu per
me.
Da quando, padre, covava
in voi il sospetto? Quando avete capito che l'attendente era divenuto
un prigioniero d'amore?
Lo avete capito prima di
tutti noi, non è vero? È questo che temevate ogni
qualvolta il vostro sguardo ci scopriva insieme?
Eppure è
stata anche vostra la colpa, poiché voi avete deciso di
metterlo al mio fianco, come un'ombra, foraggiando una
complicità che ha attecchito nel profondo, contro ogni
previsione.
Assorta in quel subbuglio di congetture trascurai la realtà
che era pregna d'una tensione che sarebbe potuta sfociare
nell'irreparabile, da un momento all'altro.
“No, sarebbe una grossa sciocchezza
perché...”
cominciai ad udire quella che mi parve fin dal principio una ferma
obiezione, ma il seguito sfuggì al mio orecchio, divenni
sorda quando percepii le dita di André stringersi attorno al
mio polso. Volsi il viso nella sua direzione e vi trovai il profilo, e
mi attardai sui capelli che aveva seguitato a tagliare da che era stato
costretto a reciderli per impersonare il cavaliere nero, e sul contorno
del naso, la forma delle labbra e la mascella importante, ben
delineata, i cui muscoli vedevo contrarsi ritmicamente, agitati dalla
irrequietezza del momento.
Ti ho portato fino a
questo punto?
Le ferite sono ormai
aperte, possiamo fermare il sangue?
Lasciamole sanguinare.
Il sangue purifica il
dolore.
È giunto il
momento di alzarci e cambiare questo mondo.
Seguitai ad osservare il suo volto sussurrando quelle parole che
l'anima scambiò per un infantile incantesimo, ma lui non le
udii, distratto dalle urla del generale e, probabilmente, dalla paura
ch'io mi potessi rifiutare di seguirlo. La presa attorno al mio polso
si fece impetuosa, quasi violenta, ed anche quando iniziai ad agitare
il braccio, per trovare una via di fuga, lui non abbandonò
la figura di mio padre. Fu quando riuscii ad eludere la sua mano che
potei scorgere finalmente il suo volto, trasfigurato da quella che mi
sembrò l'espressione gemella d'una antica rabbia, ma ancora
non possedevo il suo interesse.
“Mi dispiace non posso perdonarvi!”
sentenziò colui che aveva vestito ancora una volta i panni
dell'ingannato.
Potei quasi vedere il respiro che oltrepassò la bocca di
André, pesante come un macigno, e vi furono ancora le sue
dita a rapire il mio esile polso, e la mia mano furiosa che trovava
l'agio, solo per un istante, il tempo di afferrare la sua mano e
intrecciare le mie dita alle sue.
Fu allora che ebbi la sua piena attenzione.
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Capitolo 3 *** Danza macabra ***
Un rumoreggiare lontano mi conduce alla realtà con una
sveltezza disarmante, lasciandomi stordita e quasi senza fiato.
Fisso lo sguardo in un punto indefinito davanti a me, so d'avere gli
occhi aperti ma è come se fossi divenuta cieca,
perché la mente è incantata nel ricordo che da
poco ho abbandonato.
Priva della vista ma non dell'udito odo il vociare delle persone che
stanno vivendo al di fuori di questa casa e mi domando che ora del
giorno possa mai essere, primo mattino o tardo pomeriggio? Poi qualcosa
attira la mia attenzione, appagando senza ch'io l'abbia chiesto la
curiosità di un istante prima. Dischiudo le labbra e volgo
il capo incontro a quel suono, in un movimento quasi impercettibile che
mi consente, però, di origliare la vita che c'è
al di fuori di queste luride mura e che mi si presenta sotto forma di
urla d'ogni genere, dalle oscenità dei pescivendoli, a
quelle più delicate delle venditrici di fiori e dal vocio
sommesso dei bambini che, mi pare, si stiano offrendo per
chissà quale servigio.
Immagino quindi che queste altro non siano che solo le prime ore del
giorno e che mi trovi, quasi con certezza, in prossimità
d'un luogo di scambio, un mercato, in un quartiere di Parigi, dio solo
sa quale, tra i tanti sorti negli ultimi tempi, ma non voglio
soffermarmi su questo, non ora.
Mi sollevo dalla seduta con fin troppa forza da spingere la poltrona
all'indietro, producendo un rumore irritante, mai quanto la sensazione
che provano i miei piedi nudi a contatto con il pavimento, d'un legno
grezzo e sporco da far accapponare la pelle.
“Stai bene Oscar?”
mi domanda André con un velo d'apprensione, spaventandomi a
morte. Neppure rammentavo la sua presenza qui, strano,
perché la sua figura è ad un soffio dalla mia.
Poggia la mano sulla mia spalla per indurmi a parlare ed io perpetuo il
mio mutismo, e lui la propria verbosità, pronunciando per
l'ennesima volta il mio nome.
Si sto bene André, dammi solo un istante per riordinare i
pensieri, credo di aver bevuto come mai prima d'ora, durante la notte
appena trascorsa, dammi un momento, te ne prego.
Innalzo il viso verso il suo, muovendo la teste su e giù un
paio di volte, un segno per rassicurare la sua apprensione e mettere
fine ad un interrogatorio che non ho intenzione di subire e lui pare
rasserenarsi un poco, quel tanto da cancellare il contatto della sua
mano e liberarmi da quella costrizione.
Mi lascio cadere sulla poltrona, ancora, soffiando fuori il respiro
mentre adagio le braccia sulle gambe.
“Dove siamo?”
mormoro, seguendo con gli occhi la corsa di un piccolo scarafaggio
nero, tra i pannelli di legno del pavimento.
“Siamo a Les Halles, non te lo ricordi Oscar?”
mi rispondi con l'ovvio in ogni sfumatura della voce, mentre ti sento
camminare per la stanza, e nonostante non ti stia guardando comprendo i
tuoi movimenti dallo scricchiolio degli scuri delle finestre che si
aprono, facendo penetrare nella stanza ciò che avevo udito
un attimo fa, insieme ad un olezzo nauseante, una mescolanza di profumi
e odori che hanno sviluppato una fragranza mortale.
Il terrore mi si infilza nello stomaco e prego che tu non mi abbia
portata dove credo potremmo essere. No André, non qui.
Il ticchettio dei tuoi stivali si fa sempre più prossimo,
fino a quando anche la presenza fisica si palesa con l'immagine del tuo
passo sollevato, poco prima di spingersi al suolo ed arrestare il
cammino dell'insetto, poco distante dal mio piede destro.
“Dannati scarafaggi! Nelle camerate della caserma non
facciamo che lottare contro pulci e pidocchi ed ora anche questo! Non
ne posso più, davvero!”
si lamenta André, strisciando la scarpa sul tavolato nel
tentativo di liberarsi dei resti della blatta.
Sollevo le gambe verso la seduta del sofà poggiando i piedi
sul cuscino e lascio che la postura si porti verso il bordo,
così da consentire alla schiena di adagiarsi contro lo
schienale e permettermi di reclinare la testa all'indietro,
stancamente. Una nuova visione si presenta al cospetto delle mie iridi,
sotto forma di un soffitto ingiallito e pregno d'umidità,
impreziosito di tanto in tanto da qualche ragnatela.
Rifletto sulle informazioni avute da André e sugli indizi
che sono emersi, come fossero funghi, dall'ambiente circostante, e non
mi rimane che giungere ad una evidente conclusione riguardante la zona
che ci ospita.
“Ci troviamo nei dintorni del Mercato degli Innocenti, non
è vero?”
ti chiedo, anche se conosco di già la risposta. Dove altro
potrebbe esserci un tale puzzo di morte, fango ed un ventaglio
così differente di individui?
E questo fastidioso rumore di morte, lo senti anche tu
André? Non molto distante da qui mi sembra di udire i versi
degli animali più disparati; galline, cavalli, asini e
maiali. Il grugnito d'un maiale mi sta togliendo la ragione, non si
può nemmeno definire un verso, no, è un lamento,
un grido disperato.
Serro gli occhi sperando di cacciare dalle mie orecchie quello che da
grido è mutato in un urlo soffocato, quasi gutturale, che
troverà il proprio epilogo in una sola spiegazione: il
povero animale è alla mercé di uno dei tanti
macellai della zona e quello straziante suono altro non è
che il suo ultimo istante di vita, mentre, dopo essere stato sgozzato,
tenta di implorare pietà.
Assistetti ad una scena analoga durante una vacanza estiva ad Arras, io
ed André eravamo soliti perlustrare i luoghi sconosciuti
della zona, che erano anche quelli a noi proibiti, e ci imbattemmo in
un piccolo villaggio di contadini, molto caratteristico. Ci
intrufolammo in una stalla con la speranza di trovarvi dei conigli ma
ciò che ci si parò dinnanzi nulla aveva a che
vedere con la delicatezza che poteva regalarci il soffice manto d'un
coniglio, vi trovammo invece un grosso maiale tenuto fermo da quattro
uomini, ed un altro, il quinto, gli stava di fronte con un coltello
stretto nella mano destra. Non avemmo il tempo di fare
alcunché, che fosse scappare o gridare il nostro sgomento,
perché tutto avvenne in un battito di ciglia: l'uomo che
impugnava l'arma tra le mani, con un movimento rapido,
conficcò la lama nella gola dell'animale, incidendola fin
dentro la carne, e quando la estrasse con essa venne fuori un fiume di
sangue e da quello stesso punto anche il grido soffocato e vischioso
del povero maiale.
André ed io scappammo appena riuscimmo a rinsavire e
corremmo come folli senza quasi trarre respiro, ma continuavamo ad
udire quel lamento, ancora e ancora, riuscimmo a farlo smettere solo
tappandoci le orecchie con i palmi delle mani.
Quella scena mi colpì fin dentro l'anima ed ancora oggi
è in grado di rivoltarmi lo stomaco.
“Si, Oscar. Non siamo molto distanti dal Mercato degli
Innocenti e...”
confessi quasi con imbarazzo, lo sento dalla flessione che rende lievi
le parole man mano che queste abbandonano la tua lingua ed ho quasi
timore che perderai la voce una volta terminato il discorso, ma non ti
do modo di proseguire. Mi alzo in piedi con decisione e con la medesima
foga ti urto con l'intento di crearmi un varco per raggiungere la porta
d'entrata.
Afferro la maniglia e compio l'esatto numero di passi che mi permette
di imboccare il vicolo, incurante della ragionevolezza che, data la
fanghiglia che mi sta insudiciando i piedi fin quasi alle caviglie, mi
avrebbe ricordato di indossare un paio di scarpe. Osservo ogni
dettaglio della via, le persone che mi cammina accanto, le insegne
delle locande, i banchetti del mercato poco lontano dalla mia visuale,
ma ciò che desidero sapere è dove ci troviamo con
esattezza.
“Rue de la Lingerie...”
sussurro appena e comprendo d'essere finita nel pieno centro
dell'inferno Parigino.
Siamo realmente qui? Nel sobborgo più disgraziato di Parigi,
dove un tempo si ergeva il suo cimitero più grande?
Il cimitero, raso al suolo meno di un anno prima e rimpiazzato
dall'ampliamento dei mercati, ha barattato la propria luttuosa
sporcizia, fatta di liquami maleodoranti e brandelli di cadaveri, con
un velo di fasullo splendore. Io stessa ho avuto per le mani i progetti
di tal lavoro e fu chiaro fin dal principio che si sarebbe potuto
scavare fin solo ad un certo livello, il che, per logica, spiega il
motivo per cui fra queste strade aleggia il medesimo fetore d'un tempo.
Molti corpi sono ancora qui, sotto i nostri piedi, al di sotto dei
rinnovati selciati.
Proprio lungo la Rue de Lingerie si ergeva uno dei muri che
circondavano il camposanto, su cui vennero aggiunti in seguito degli
ossari sovrastati dai charniers, degli archi che servivano a ripararli.
Mi soffermo un istante a riflettere sulla macabra ironia del caso che
ci ha visti trovar rifugio, dopo essere scampati alla morte per mano di
mio padre, in quella che era stata la tomba di Parigi per eccellenza.
Alla morte siamo fuggiti e nella morte ci ritroviamo. Memento mori (1),
rammentava un antico affresco.
Un improvviso tremore mi solletica le braccia malgrado la calura
estiva, colpa dei pensieri funesti che cerco di allontanare dalla
mente, in fin dei conti sono viva, siamo vivi, ed è questo
ciò che realmente ha importanza.
Ripercorro il tratto calpestato poc'anzi e li dove lo avevo lasciato vi
ritrovo André, seduto sulla poltrona, a copiare la mia
postura, perso anche lui in chissà quale preoccupazione. Lo
intuisco dal capo abbandonato sui palmi e dalla presa delle dita tra le
ciocche dei suoi capelli, che si fa più serrata di secondo
in secondo.
Giungo a ridosso della seduta lasciando alle mie spalle impronte di
sporcizia, delle quali non mi do pensiero, non sarà questa
mia noncuranza a guastare la reputazione della casa. Blocco poi il
cammino flettendo lievemente la mia figura di modo che possa trovarmi
quasi allo stesso livello del volto di André e prima che
l'intelletto possa farmi desistere poso la mano sul dorso della sua a
testimonianza d'un affetto lontano. La conseguenza di questo mio gesto
è una reazione che non avevo previsto, una debolezza che mi
coglie impreparata quando dopo aver colpito la mia mano con un gesto
iroso della sua, me lo ritrovo davanti, a pochi centimetri dal viso.
Così vicino da percepire sulla mia bocca il calore del suo
respiro.
“Non devi toccarmi Oscar.”
sputa veleno sotto mentite spoglie, quello che risponde al nome di
André Grandier, ma che fatico a riconoscere.
Non devo toccarti? Per quale bizzarro motivo non dovrei farlo quando
sei tu che non fai altro da quando mi sono destata in questa
catapecchia? Ho intrecciato le mie dita alle tue qualche ora addietro,
confermandoti che ti avrei seguito con piena fiducia e ora tu... tu mi
stai dicendo, anzi me lo stai ordinando, di non toccarti.
Sono esausta ma non ho alcuna intenzione di vestire i panni della
donnicciola sottomessa, perché poi mi stia paragonando ad
una figura del genere non riesco a comprenderlo, sarà dipeso
dalla mia decisione di seguire André, come una qualunque
fanciulla seguirebbe un principe? Spazzo via questi sciocchi
vaneggiamenti e sono di già pronta a sferrare il mio attacco.
“Cosa vorresti dire con...”
tento di proferire il mio disappunto, che rimane però in
bilico tra la lingua e le labbra, arrestato sul nascere dalla mossa di
André nell'istante in cui mi afferra per le braccia con una
veemenza tale da farmi mancare un respiro.
E prima ch'io possa ribattere in qualche modo è lui ad
esporre le condizioni della guerra.
“Pensavo d'essere stato sufficientemente chiaro questa notte.
Sbagliavo, ma voglio essere buono e ripeterlo un'altra volta, ma bada
bene che sarà l'ultima.
Non devi toccarmi Oscar, a meno che non sia io a permetterlo.”
ascolto senza fiatare, con le labbra socchiuse e lo sguardo vacuo,
mentre cerco con tutta me stessa di ritrovare il capo nel groviglio dei
ricordi ma è l'ennesimo verso di un animale che ha il potere
di dipanare la nebbia.
Il banale nitrito di un cavallo mi restituisce a Palazzo Jarjayes in un
salto a ritroso nel tempo, tra le ombre più celate della mia
anima, la dove con piena coscienza m'ero strappata di dosso il titolo
nobiliare e tutte quelle definizioni che avevano fatto di me, fino ad
allora, solo un nobile soldatino. Null'altro.
Nel preciso istante in cui voltai le spalle a tutta la mia esistenza e
scelsi di seguire André, trascurando ingenuamente
ciò che quella mia scelta avrebbe comportato.
(1) memento mori (ricordati che devi morire) è un
riferimento al significato di una antica raffigurazione, la Danza
Macabra. Una delle più antiche raffigurazioni conosciute
della "Danza macabra" è senza dubbio quella che venne
realizzata, a Parigi, lungo una delle mura del vecchio Cimitero degli
Innocenti, nel 1424.
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Capitolo 4 *** L'ultimo passo ***
Successe tutto d'improvviso, mio padre, forse accecato dal livore e
dalla notte che si era introdotta nella stanza privandola perfino del
più minuscolo barlume di luce, sembrò aver
trovato requie, quando e per quale reale motivo accadde non potei
stabilirlo, ma fu in quell'istante che io ed André attuammo
la nostra fuga.
Non vi furono parole o sguardi, solo una maggiore pressione delle
nostre dita e la tacita consapevolezza di dover sfruttare quella
distrazione, e quando il generale si destò dal torpore
puntandoci addosso il ghiaccio dei suoi occhi, la mano di
André si legò se possibile ancor di
più alla mia. I nostri passi si fecero impazienti ed io che
fino a quel momento avevo mantenuto il mio consueto rigore, quella
impassibilità che portava in me il controllo nelle
situazioni più ostiche, ebbe la malaugurata idea di venir
meno.
Esitai, solo un secondo, ma in quel palpito di cuore la mia figura
venne rimpiazzata da un fantoccio imbottito di paglia e mi bloccai,
impotente di fronte a quella disubbidienza della mia stessa carne.
“Oscar...”
un richiamo preciso quello di André che, nel sottinteso
delle parole non pronunziate, m'impose di continuare a camminare ed io
lo feci senza più alcun timore.
Quando fummo certi d'essere ad una distanza sufficientemente sicura
voltammo le spalle a colui che sarebbe potuto diventare il nostro
assassino ed una volta oltrepassata la soglia ci accorgemmo di una
figura tremante e minuscola. La mia governante era scivolata al suolo,
nello spiraglio che si era venuto a formare tra un battente e l'altro
della grande porta di legno intarsiato della stanza, le passammo
accanto e so per certo che André la vide eppure
proseguì oltre come se nulla fosse ed io che ero legata a
lui dovetti seguitare a copiarne i passi, ma prima di non aver
più modo di farlo, mi voltai per lasciare un'ultima volta lo
sguardo sulla vecchia Nanny, e lei fece lo stesso, con gli occhi colmi
di lacrime e le mani premute sulla bocca, in una sorta di preghiera.
Avrei voluto rivolgerle una parola di conforto e domandarle perdono per
l'affronto che io e suo nipote stavamo perpetuando nei suoi riguardi,
ma in verità stavo mentendo, implicando anche lui in un
peccato che soltanto io sentivo di star compiendo.
Mi augurai che lei potesse assolverci, lui, per aver offerto corpo e
spirito in nome di un amore che pareva essere sbagliato al mondo
intero, e me, poiché non era mai stata mia intenzione
entrare così a fondo nell'anima dell'uomo che mi aveva
salvato la vita, tanto da lacerarne la fibra.
Eppure era accaduto e non vi era più modo di tornare
indietro.
Era tempo di andare avanti.
Ci precipitammo, quasi, lungo la scalinata al centro dell'entrata
principale di palazzo Jarjayes, calpestando i gradini di marmo rosa che
avevano sostenuto i nostri passi fin dall'infanzia e mi sorpresi a
compiere uno sciocco gioco che ero solita fare da bambina, e mi
ritrovai a contare i gradini come fosse stata la prima volta.
Cinquantotto, quello era il numero esatto, cinquantotto più
uno a dire il vero, dimenticavo sempre l'ultimo scalino che stava sul
fondo, quello che era venuto al mondo con un difetto d'altezza che
rendeva inesistente la sua presenza, ragion per cui nessuno di noi era
solito posarvi il piede al di sopra, ma quel giorno me ne rammentai e,
cancellando anni di noncuranza, vi adagia il mio ultimo passo.
Corremmo poi verso la zona della servitù e proseguimmo per
raggiungere le cucine, dove bloccammo il nostro incidere nel tentativo
di schiudere la porta che, mai come quella sera, ci diede filo da
torcere.
“Maledizione! Avevo detto a Jean-Paul di occuparsene mesi fa,
ma pare proprio che abbia deciso di impiegare il tempo in
chissà quale altro modo... se solo lo avessi tra le mani,
io...”
le prime parole che gli sentii pronunciare da quando aveva annunciato
la nostra partenza furono un fiume di rabbia che vide il proprio apice
quando, abbandonata la mia mano, prese a colpire con calci e pugni il
battente di legno finché non ebbe la meglio sul vecchio
uscio, conquistandone finalmente l'apertura.
Lo sentii emettere un accento di soddisfazione e mi aspettai
d'incontrare il suo sorriso, ma nessuna mia aspettativa venne
soddisfatta, non mostrò il suo volto e neppure finse per un
attimo di girare la propria figura la dove vi era la mia, semplicemente
mi prese la mano e ci condusse fuori, sulla ghiaia del cortile esterno.
Uno schiaffo di vento gelido e di pioggia m'investì senza
preavviso, strappandomi il fiato dai polmoni nonostante fossimo nel
pieno dell'estate, le gocce di pioggia erano talmente impetuose che
ebbi la sensazione mi stessero penetrando nella carne, come spilli
arroventati.
Faticavo a tenere le palpebre aperte tanto era la furia del piovasco
che oramai era maturato in vero e proprio acquazzone, tuttavia
paradossalmente ne godetti, avevo sempre amato i repentini mutamenti
del cielo estivo ed anche in quella circostanza permisi ai sensi di
nutrirsene.
Serrai gli occhi e mi affidai ad André come un cieco al
proprio curatore e concentrai l'attenzione sulla goccia che, dalla cima
del capo scivolò sulla mia fronte, scavalcò le
ciglia e terminò poi il proprio pellegrinaggio in una umida
carezza lungo la gota. E come essa ne sopraggiunsero altre che
assaporai dalle labbra, trovandole d'un gusto delizioso, ed altre
ancora che solleticarono quel delicato lembo di pelle tra l'incavo
della gola e la sinuosità che da tempo avevo smesso di
mortificare, finché non vi fu più d'asciutto
nemmeno un brandello di me stessa.
Il nitrito dei cavalli mi strappò alla distrazione che m'ero
concessa, gettandomisi addosso con arroganza, quando arrivammo in
prossimità delle scuderie. Il cavallo di André
sostava all'esterno, legato alla palizzata che solitamente veniva usata
dagli ospiti in visita al palazzo, il che mi fece comprendere che la
sua presenza fosse nata per essere soltanto momentanea. Che avesse
avuto il sentore di una sventura?
“Prendi César, e fallo il più
velocemente possibile.”
ancora quel tono, urgente e profondo, mi sorprese per la sfumatura che
non contemplava obiezioni, ed io non ne ebbi alcuna, procedetti verso
la baracca con passo deciso e vi entrai.
Una volta all'interno presi la sella, il morso e tutto l'occorrente che
mi sarebbe servito per sellare il cavallo, ma quando giunse il momento
di compiere quei gesti che avevo fatto da che ero stata in grado di
reggermi sulle gambe, tutto mi apparve impossibile. Le mani tremavano
come foglie e seguitarono a tentennare anche quando provai a
distenderle, e così anche il cuore mi si rivoltò
contro accelerando i battiti al limite della follia, estirpandomi dai
polmoni ogni traccia d'ossigeno. Mi sentii soffocare in un mare
d'angustia, temetti che il cuore mi sarebbe scoppiato nel petto da un
momento all'altro, poiché ne potevo sentire i colpi
frenetici fin dentro le orecchie.
“Oscar, andiamo... cosa stai facendo? Non c'è
tempo!”
la voce di André varcò la soglia delle scuderie
ed ebbe lo stesso effetto d'un manrovescio in pieno volto. Sussultai e
le mani fecero ciò che dovevano fare. In me difettava la
calma e nello stomaco vi era ancora il tumulto dell'inquietudine, ma le
dita presero a muoversi incuranti della propria fragilità,
portando a termine il compito stabilito.
Uscii dalla stalla tenendo César ben stretto per le briglie
e scoprii André già in groppa al suo cavallo, a
malapena mi guardò, troppo occupato a sincerarsi di non aver
nessuno alle calcagna ed io, per la prima volta da che avevamo eluso la
prigionia del generale, mi chiesi come era possibile che lui non ci
stesse tallonando come un animale furioso.
“Dobbiamo andarcene, ora. Ho sentito un rumore di zoccoli in
lontananza, probabilmente all'entrata principale del palazzo,
potrebbero essere notizie provenienti dalla Reggia, e sai cosa
significherebbe se fossero cattive...”
la voce di André mi parve tornata quella di un tempo,
confidenziale e pacata, ma con un implicito che sapeva di terrore.
Ero ben cosciente di ciò che mi sarebbe toccato se le Loro
Maestà, o soltanto la Regina, avessero deciso di seguire il
codice d'onore che ogni militare è chiamato a rispettare,
come lo stesso è per ogni famiglia nobile di Francia.
Per me vi sarebbe stato l'arresto, il carcere, il processo militare e
con un'elevata possibilità la morte.
Raccolsi la poca lucidità che mi era rimasta nella
confusione della mente e poggiai un piede sulla staffa mentre con
l'altro feci leva per issarmi in groppa a César, o per
meglio dire tentai un'azione che non mi riuscì di assolvere
appieno. Un bagliore inatteso rischiarò ogni cosa attorno a
noi, come fosse stato pieno giorno e ancor prima di poter batter ciglia
un tuono fragoroso, come non ne avevo mai udito, si portò
via un alito di respiro.
Per la prima volta da che ne avevo ricordo ebbi la fortuna, se tale si
può definire, di assistere alla venuta di un fulmine, che
con chiarezza vidi originarsi da una nuvola e precipitare al suolo,
penetrando con violenza un vecchio moncone di tronco che indefiniti
anni addietro era stato un maestoso albero. E dalla furia di quella
natività vi furono scintille e fuoco, grida lontane e
attigue, io stessa ne rimasi così sgomenta da trascurare un
dettaglio fondamentale: mai allentare la presa attorno alle briglie
dell'animale quando attorno vi è un qualsivoglia elemento di
disturbo.
Lo stivale abbandonò la staffa quando César si
levò sulle zampe posteriori e persi l'appiglio attorno alle
redini, le sentii scappar via in una fuga dolorosa tra la carne delle
mie dita prive della protezione dei guanti, e nulla potei fare contro
il terrore del mio cavallo che scappò
nell'oscurità del boschetto ai confini del nostro podere.
“Maledizione! César, torna qui... torna qui
bello...!”
urlai, fischiai, e quando non vi fu alcun riscontro decisi che sarei
andata a riprenderlo, ma la concretezza, nella sua infinita
crudeltà, mi mozzò le gambe.
“Ormai è andato, non c'è modo di
ricondurlo indietro. Tornerà alle scuderie quando si
sentirà al sicuro.”
tentò di quietarmi André, con scadenti risultati.
“Non lascerò César da solo in mezzo al
bosco e poi ho bisogno di un cavallo, io...”
decisa a ribattere a ciò che avevo appena udito, elevai la
voce di un tono superiore.
“Oscar, no. Non c'è tempo, loro non ce lo daranno.
Dobbiamo andare via di qui, ora. Abbiamo un cavallo ed è
più che sufficiente.”
così dicendo lui si girò appena in direzione del
palazzo, indicando delle figure ignote che stavano guadagnando terreno
verso di noi.
Portai la mano alla fronte, infilando le dita tra i capelli e li
scostai all'indietro, in un gesto che aveva in sé tutta
l'indecisione del mondo.
“Non fare la stupida Oscar, sali immediatamente su questo
cavallo!”
e così dicendo André mi porse la mano,
invitandomi senza troppi convenevoli a montare in sella. La
ragionevolezza mi diceva di ascoltare il mio vecchio attendente, ma la
fierezza mi tratteneva a terra come una mula testarda.
Ero ben conscia della gravità che pesava sulla mia schiena,
anzi su quelle di entrambi, ma il soldato che ero non poteva accettare
anche solo l'ipotesi di farsi condurre da un altro fantino, lo avrebbe
concesso solo a fronte d'una grave menomazione fisica, un malore, e per
nessun altro motivo.
Tuttalpiù avrei potuto contemplare d'esser io a scortare
qualcuno su di un cavallo, come già avevo fatto nel passato
con i figli delle mie sorelle e addirittura con la Regina Maria
Antonietta, ma non l'opposto. Io non avevo mai cavalcato con qualcuno,
mai, neppure quando fui iniziata all'arte dell'equitazione, seppur
avessi da poco abbandonato la postura da quadrupede.
La pioggia non dava segni di voler cessare il proprio lacrimare e il
vociare in lontananza si stava facendo sempre più prossimo,
quale altra scelta avevo? Addentrarmi nel bosco e rischiare di farmi
trovare da coloro che si stavano avvicinando o magari gettare alle
spalle la dignità e tornare dal generale con la coda fra le
gambe?
Davvero stavo mettendo in pericolo me ed André per una
insensata questione d'orgoglio? Ma si trattava realmente di quello o vi
era altro celato al di sotto del tremore che m'agitava il cuore?
Trassi un profondo respiro e, afferrata la sua mano, con la medesima
decisione posai il piede nella staffa e mi tirai su raggiungendo infine
la sella.
D'istinto portai le mani alle briglie, o quantomeno tentai di farlo,
poco prima del giungere di quelle di André che si strinsero
attorno al cuoio con decisione, ed io sperimentai un ignoto senso di
smarrimento. Cosa avrei dovuto fare? Come avrei dovuto accomodarmi e,
dove, mettere le mani? Non ebbi modo di crucciarmi molto
poiché i miei interrogativi vennero ampiamente chiariti da
ciò che lui fece.
Inizialmente vi fu il suono ovattato del predellino che sferzava un
colpo contro il costato del cavallo e l'incitamento della voce, il cui
vibrare mi si insinuò tra i capelli come uno spiffero
d'aria. Poi arrivarono le sue braccia ad assediare le mie fin quasi a
serrarle, per avere un maggior appiglio sulle redini, ed infine il suo
corpo si lasciò andare contro il mio, spingendosi fin oltre
il limite del possibile. Esalai un sospiro di stupore e m'aggrappai al
pomolo del sellino, incapace di dire o fare alcunché.
André aizzò l'animale al trotto e lo condusse poi
al galoppo quando oltrepassammo la cancellata di palazzo Jarjayes e per
me fu tutto più chiaro, compresi la ragione di quel mio
temporeggiare che nulla centrava con l'amor proprio o qualsiasi altro
elevato principio morale, tutt'altro.
L'inquietudine che mi aveva tenuta immobilizzata a terra e ch'io stessa
avevo scambiato per semplice testardaggine possedeva invece un volto
differente, un aspetto concepito nella profondità d'una
essenza primordiale, una percezione nel pieno centro delle viscere che
portava su di sé un nome che fino ad allora avevo rifiutato
di comprendere, ma che durante il tragitto che percorremmo dalla casa
che oramai non avevamo più alcun diritto di dir nostra, alle
porte di Parigi, non potei far a meno d'ascoltare.
La vicinanza di André mi turbava, ad un punto tale che mi
vidi costretta ad abbassare il capo dinnanzi a quei sensi che presero a
narrare la vittoria d'un desiderio che m'era strisciato al di sotto
delle carne, infuocando ogni lembo di pelle.
La verità aveva vinto la guerra.
Desideravo, e quella nuova coscienza mi spaventava a morte, ma
ciononostante fu la prima battaglia che amai perdere.
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Capitolo 5 *** Rue de la Lingerie ***
Arrivammo a Parigi che era ormai passata la mezza e la pioggia, di
grazia, sembrava averci concesso un momento di quiete dopo ore di
incessante lacrimare.
In me non vi era più nulla di asciutto, i capelli mi
ricadevano mollemente sul volto gocciolando perle di quel diluvio
appena passato e gli indumenti che indossavo erano così
profondamente zuppi da pesarmi sul corpo come se fossero stati
confezionati con la pietra. Mi sentivo esausta per il viaggio ed
anelavo solamente un riparo di qualunque tipo e del fuoco davanti al
quale asciugarmi le vesti, ed ancora, ma forse la mia mente stava
osando troppo, una tinozza dove poter lavar via il disgusto della sera
appena trascorsa. Ma quando vidi dove eravamo diretti mi ricaccia nelle
meningi le neonate aspirazioni.
Nel quartiere che oramai era stato varcato non solo non ci sarebbe
stato un camino con del fuoco vivo al suo interno, e tanto meno una
vasca per il bagno, ma dubitai perfino che avremmo trovato una casa con
tutte le travi sul soffitto e quel pensiero mi fece sentire male.
Non ero mai stata una persona con la puzza sotto il naso, per il tipo
di educazione che avevo ricevuto il mio carattere era stato forgiato
per sopportare ogni genere di situazione, anche la più
avversa, eppure mi sorpresi insofferente davanti a quella circostanza.
Lasciammo la strada principale e ci addentrammo lungo la Senna, verso
una via secondaria che riconobbi immediatamente, ci trovavamo nel
sobborgo di Les Halles e quel posto mi colpì da subito col
fetore delle proprie interiora. Il nostro cavallo era stato invitato a
seguire un movimento lento, al passo, così che ebbi modo di
guardare con attenzione ciò che mi stava attorno, ero
già stata in quel luogo durante una ronda giornaliera con i
soldati del mio reggimento, per tenere a bada i disordini divenuti una
quotidiana consuetudine nelle strade di Parigi, tuttavia non
ricordavo tutta quella bruttura.
Abbassi lo sguardo sul selciato che stavamo percorrendo e mi accorsi di
quanta sporcizia e letame vi fosse al di sopra, una quantità
tale da serrarmi la gola.
“Qualcuno dovrebbe occuparsi di tutta questa
sporcizia.”
ritrovai le parole che durante il tragitto da palazzo Jarjayes a Parigi
erano sparite. Nessuno dei due aveva aperto bocca in quelle ore, io non
avevo chiesto quali sarebbero state le sue intenzioni e lui non si
premurò di informarmi su alcunché.
“Tu dici, Oscar? Ho sentito dire che la nobiltà
gradisce un selciato molle per le carrozze.”
mi rispose di rimando André, con un tono sprezzante della
voce ed io non seppi ribattere, conscia della stupidaggine che, per i
tempi che stavamo vivendo, non avrebbe dovuto neppure sfiorarmi la
mente. E forse perché anch'io facevo parte di quella
nobiltà che guardava ma non vedeva cosa stava accadendo al
popolo francese.
Mi irrigidii, raddrizzai la schiena e nel compiere quel movimento urtai
contro il torace di André, rammentando quanto poco spazio vi
fosse tra di noi e, mentre cercavo di condurre la ragione al di fuori
della pelle, lo sentii spingermisi addosso così strettamente
da provare un senso d'oppressione. Presi in considerazione la
prospettiva di scivolare io stessa più avanti, ma non vi era
più neppure un lembo di seggiola da occupare, per cui rimasi
immobile, attenta a respirare il più lentamente possibile
poiché anche quella manovra rendeva i nostri corpi ancora
più serrati.
“Dove siamo diretti? Hai intenzione di alloggiare in qualche
locanda?”
domandai quasi senza averne coscienza, ferma nella medesima postura.
“Una locanda è fuori discussione, a quest'ora
della notte nessun oste ci farebbe entrare, a meno che...”
sentii il soffio di quelle parole sulla guancia destra e fu un primo
colpo alla mia fortezza, ma non crollai, per nulla al mondo avrei
mostrato quel cedimento. Non dopo le interminabili ore di cammino, che
erano state croce e delizia d'una giornata paradossale.
Era stato un viaggio difficile il nostro, perché se avevo
odiato il ridestarsi della mia femminilità ancor di
più avevo maledetto il suo essere uomo, che non mi diede
tregua, palesandosi con prepotenza in ogni suo gesto. Quando, dopo aver
messo parecchia strada tra noi e palazzo Jarjayes, allarmato forse da
un rumore proveniente dalla boscaglia al margine della strada, vidi le
mani di André agguantare con forza le redini e subito dopo
lo sentii poggiare il petto sulla mia schiena, invitandomi senza
domandarlo ad assumere una posizione prona. Quella che si prende quando
si ha l'intenzione di spingere l'animale oltre il limite del galoppo.
Capii subito le sue mire e non opposi resistenza, mi adattai alla sua
forma e mi tenni il più stretta possibile
all'estremità della sella, e prima che potessi anche solo
formulare un nuovo pensiero le sue braccia mi si chiusero attorno e
così pure le gambe, a ridosso delle mie cosce.
Vorrei poter raccontare, come declamerebbe un commediante, di brividi e
palpiti d'amore, ma così facendo mentirei soltanto nel
tentativo di occultare qualcosa di più terreno, che nulla ha
da invidiare al romanticismo, ma che possiede a suo vantaggio un
elemento più appagante.
Lo stomaco prese a dolermi senza strazio, come se un'invisibile mano vi
fosse comparsa all'interno per agguantare le viscere, e li, in una
profondità del ventre, qualcosa al suo interno si contrasse.
Una fitta, che non fu amara e neppur tenue, mi fece dono d'una movenza
liquefatta che cominciò a pulsare nell'abisso del mio grembo.
Era dunque quello il piacere a cui innumerevoli poeti avevano dedicato
poemi? O si trattava forse di quella bramosia che m'ero premurata di
rifuggire da quando le fattezze di bambina m'avevano abbandonato?
Durante tutta la peregrinazione decisi di godere della vicinanza di
colui che conoscevo da una vita intera e, sopra ogni altra cosa, mi
lasciai guidare dall'ondeggiare del cavallo, così
deliziosamente malevolo che mi ritrovai ad apprendere ciò
che non mi era stato insegnato, rincorrendo l'andare e venire delle
nostre forme, al fine di aumentare il diletto appena scoperto.
“...tutte le locande sono chiuse, perfino la taverna dei
“Tre cavalieri”. Strano, solitamente c'è
sempre qualcuno che tenta di portare all'interno qualche
cliente...”
mi accorsi che André aveva seguitato nel chiacchierare solo
quando fermò il cavallo ed io mi ridestai dalla visione dei
miei pensieri. Seguii la direzione della sua mano che indicava una
vecchia insegna di legno, sulla quale vi erano raffigurati tre
cavalieri a cavallo e tre scheletri che stavano loro davanti, e
riconobbi in quella illustrazione una leggenda medievale, quella dei
Tre morti e dei tre vivi (1).
Mi sfuggì un sorriso, riflettendo sull'ennesima ironia di
quella notte e provai a trovare un ordine nel garbuglio dei discorsi
che, distratta, avevo ignorato.
“A meno che? A quale condizione ci si aprirebbero le porte
delle taverne?”
domandai, ricordando una frase lasciata in sospeso chissà
quanto tempo addietro, troppo mi venne da pensare, perché
lui impiegò un'eternità per rispondere.
Ruotai il capo alla ricerca d'una replica che non voleva giungere e
trovai sul volto di André un'espressione dubbiosa, le
sopracciglia erano corrucciate e la bocca lievemente dischiusa, poi
sembrò riaversi, come fosse stato pungolato da uno spillo.
“Se fossimo due uomini in cerca di compagnia e con del denaro
sonante nelle tasche, Oscar.”
la mia curiosità fu soddisfatta più di quel che
avrei voluto.
“Allora cosa stiamo aspettando? Ho del denaro e...”
proposi, decisa a porre fine al tormento che il suo corpo mi stava
infliggendo.
“Non mi pare il caso Oscar. Se l'oste decidesse di aprirci le
porte, e sottolineo se, non lo farebbe per alloggiare un paio di uomini
per la notte. No, quel disturbo implicherebbe il pagamento di una
stanza e la compagnia d'una donna. E non ci potranno essere
giustificazioni per declinare l'offerta, e perdonami, ma questa notte
non ho alcuna voglia di fare a botte.”
replicò prontamente, esponendo quel che sarebbe dovuto
essere ovvio anche per me.
Avrei voluto trovare una soluzione ma la resa mi serrò le
labbra, permettendo solo ad uno sbuffo di discorrere al mio posto.
“Non darti pensiero Oscar, c'è un posto, non molto
distante da qui, dove possiamo andare.”
il tempo che impiegò a concludere la frase fu quello che ci
volle per giungere a destinazione.
Terminammo il nostro cammino in Rue de la Lingerie e più
precisamente in un appartamento che stava dirimpetto ad una bottega di
cucitrici. Le cucitrici di bianco, enunciava l'insegna impreziosita da
un bordo di pizzo finemente lavorato.
Avevo sentito parlare di quelle botteghe durante uno dei tanti discorsi
che venivano pronunciati alla Reggia di Versailles, era li che le dame
di compagnia, le preferite, o per meglio dire le galoppine delle
virtuose nobildonne, si recavano a comperare cuffiette, scialli ed
altri fronzoli alla moda. Si vociferava che le ragazze prese come
apprendiste fossero rinomate per la loro bellezza e, tra le molteplici
maldicenze, di non aver fama d'essere particolarmente virtuose. Mi
attardai a riflettere su quel particolare così
fastidiosamente futile; una donna, a cui la provvidenza ha fatto dono
della bellezza, sarà irrimediabilmente destinata a perdere
l'onestà e darsi al vizio?
“Hai intenzione di rimanere fuori tutta la notte?”
la voce di André, così come la sua mano che mi
invitava ad entrare, mi riportarono all'afosa notte parigina.
Varcai la soglia e studiai il nuovo ambiente, che mi si
mostrò da subito per quel che era; uno stanzone spoglio che,
con molta probabilità, comprendeva l'intera planimetria
dell'appartamento. Non vi era divisione tra quello che avrebbe dovuto
essere il salotto e la cucina, riconoscibili soltanto dal mobilio
differente che ne caratterizzava la funzione e, oltre la sola apertura
che era priva però dei battenti d'una porta, azzardai vi
fosse una camera da letto.
Malgrado la sistemazione di fortuna ringrazia il cielo d'avere un tetto
sopra la testa, ma neppure quello riuscì a placare
l'apprensione che mi agitava le mani.
La preoccupazione virò ai soldati della guardia, ai dodici
uomini che erano ancora rinchiusi nella prigione per una scelta che,
seppure presa in piena coscienza, mi pesava sul cuore come un macigno.
Non ero morta, e non sarebbero morti neppure loro poiché
avrei fatto qualsiasi cosa per salvarli.
Girai i tacchi e calpestai alla rovescia i passi che avevo compiuto
poco prima, pronta a lasciare quella casa per fare ciò che
andava fatto.
“Oscar, dove stai andando?”
lo stupore e la stanchezza, li riconobbi già quando gli
sentii articolare il mio nome.
“Devo parlare con Bernard, sono sicura che lui
potrà fare qualcosa per salvare i miei soldati...”
rivelai con una determinazione tale d'essere riuscita a convincere
anche me stessa.
“Domani, ci andrai domani. Forse non te ne sei accorta, ma la
mezza è passata da un pezzo e sarebbe indelicato presentarsi
a quest'ora alla porta di un uomo sposato.”
André aveva la capacità di smorzare qualsivoglia
entusiasmo, con la delicatezza d'un pachiderma. Ma indubbiamente aveva
ragione, il momento sarebbe stato inopportuno.
Non mi voltai subito, di proposito scelsi di mostrargli le spalle,
perché mi terrorizzava il pensiero di vedere sul suo volto
il velo del rammarico.
Bernard, che ti è così similare nelle fattezze,
colui che ti ha privato della luce di un'iride, ha abbracciato l'amore
ed ora può dirsi, nel bene e nel male, d'essere un uomo
sposato.
E tu, vorresti la stessa cosa? È quello che vorresti per noi?
Nel pronunciare quel Noi, nel segreto della mia mente, percepii le
guance ardere con prepotenza.
Trassi un respiro profondo e mi obbligai ad affrontare il suo sguardo,
augurandomi che il rossore delle gote si fosse dissolto, anche se il
calore al di sotto della pelle era ancora vivo.
“Credi che potrebbe esserci qualcosa da mangiare?”
chiesi per togliermi da un imbarazzo che soltanto io sapevo esistere,
con un accenno di disagio per quella richiesta che mi parve fastidiosa.
Vi erano questioni di vitale importanza da risolvere, come l'ira di mio
padre, il destino dei miei soldati, o il fardello del tradimento Reale,
ed io stavo mettendo al di sopra di ogni cosa i richiami del mio
stomaco. Mi domandai con quale forza la povera gente riusciva a
seguitare a vivere, ogni dannato giorno creato dal signore, con i morsi
della fame.
Avrei voluto piangere, non per me stessa, ma per la disumana condizione
che stava prosciugando la mia amata Parigi, ma ricacciai indietro le
lacrime e tallonai André, già all'opera nella
vana ricerca di viveri.
Intraprese una comica caccia al tesoro rovistando nei cassetti e nelle
ante della credenza, e perfino nel comò in quella che avevo
giustamente immaginato fosse la stanza da letto, ma non
trovò nulla di commestibile, neppure un tozzo di pane
raffermo. Scovò invece, sul fondo d'un cassone, una
fornitissima riserva di vino, di mediocre qualità.
“Non è pane e formaggio, ma ci riempirà
lo stomaco ugualmente.”
sentenziò André, e così dicendo
afferrò una bottiglia, prese un paio di bicchieri dalla
dispensa e, poggiati sul tavolo, li riempì fino all'orlo.
Si sedette su una delle sole due sedie che vi erano ai capi opposti del
piccolo tavolo, invitandomi a favorire di quell'insolito desinare,
spingendo il calice nella mia direzione.
Quella di ingurgitare del vino scadente a stomaco vuoto fu una pessima
idea, ma l'appetito si stava facendo insopportabile e, al diavolo,
persino la ragione reclamava un po' di stordimento.
Da principio ne bevvi a piccoli sorsi, per permettere alla bocca di
abituarsi ad un gusto nuovo, non cattivo, quello no, ma differente. Con
una punta di acredine che tanto somigliava a quella nuova vita.
“Dunque, di chi è questo appartamento?”
gli chiesi, rimanendo in piedi, addossata alla vecchia credenza
praticamente vuota.
“Si potrebbe definire un appartamento d'appoggio, per quei
soldati che non hanno una casa. Lo si può affittare per
pochi soldi.”
rispose atono, gingillandosi col tappo di sughero della bottiglia, che
correva avanti e indietro, tra le sue dita.
“E tu non ce l'hai una casa, André?”
si vestirono col presagio del dubbio, le mie parole. Temevo la
verità ma nel contempo ero impaziente di conoscerla.
“Ci sono stati molti cambiamenti nella mia vita. Ed uno di
questi è che non mi sento più a casa, a Palazzo
Jarjayes.”
così dicendo sollevò il volto dal proprio gioco e
mi guardò, come non aveva più fatto da anni. E
nel suo unico occhio sano lessi qualcosa che mi straziò il
cuore. E dovetti abbassare le palpebre per nascondere la vergogna.
(1) La leggenda sembra derivare da un racconto incluso nei "Dits
moraux" scritto da Baudoin de Condé. Essa narra di tre
giovani cavalieri durante una partita di caccia che scoprirono tre
cadaveri. Essi sono atterriti da questo "specchio..", che risulta
però benefico, in quanto i tre morti ammoniscono sulla
vanità dei piaceri terreni. Alcune varianti aggiungono che i
tre morti si rivolgono a turno ai tre cavalieri dicendo : "Io fui
Papa", dice il primo ; "Io fui Cardinale", dice il secondo ; "Io fui
Notaio apostolico", dice il terzo : E poi, tutti assieme :"Voi sarete
come noi : potere, onore, ricchezza sono vani". I cavalieri fuggono via
ma, poco dopo, essendo loro apparsa una croce, si rendono conto di aver
avuto un avviso dal cielo. Spesso, nella versione italiana del
soggetto, all'apparizione dei tre morti è presente anche il
monaco Macario, che reca in mano un cartiglio in cui è
scritto l'ammonimento "Voi sarete quel che noi siamo".
La figurazione del Camposanto di Pisa è tra le prime
manifestazioni del tema nella grande arte, mentre le sculture del
portale della chiesa degli Innocenti a Parigi, con il medesimo
soggetto, fatte eseguire nel 1408 dal Duca di Berry, e che andarono
perdute nel Seicento con la demolizione del portico, furono la
rappresentazione più popolare che il Medioevo avesse avuto
della Morte.
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Capitolo 6 *** Cantaride ***
Tenni gli occhi fissi sul pavimento per un tempo che mi parve infinito
e li ricondussi alla giusta altezza solo quando il fluire d'un suono
liquido attirò la mia attenzione e, nel seguirne la melodia,
incrociai nuovamente quello sguardo che speravo essere ormai perduto.
Sostenni la sua vista fingendo indifferenza, come un perfetto soldato
dinnanzi al proprio nemico, osservandolo riboccarsi l'ennesimo
bicchiere di vino.
“Quindi, vivi qui ora?”
ostinata come solo io riuscivo ad essere, pretendevo una nuova risposta
quando l'ultima stoccata di André ancora mi risuonava nelle
orecchie, come un rumore fastidioso.
“Di tanto in tanto.”
fu la sua risposta, vaga come tutte le parole che gli avevo sentito
pronunciare dall'inizio della nostra fuga.
“Capisco.”
ribattei distrattamente, allontanandomi dalla credenza per versarmi
dell'altro vino, che bevvi tutto d'un fiato, ed ancora una volta copiai
la medesima azione, ed una seconda, vi fu perfino una terza. La
brodaglia era pessima, ma faceva il suo dovere. La fermezza dell'alcol
prese a mescolarsi col sangue, al di sotto delle vene, rendendo
cedevole ogni singolo muscolo del mio corpo.
Un calore improvviso mi si avvinghiò alle viscere,
stordendomi. Mai bere a stomaco vuoto, sussurrai appena, ma non permisi
al malessere di sopraffarmi e caparbiamente intentai una lotta contro i
bottoni della giubba, nel tentativo di liberarli dalla costrizione
delle asole. L'impresa si rivelò alquanto ardua, ma riuscii
a portarla a termine, togliendomi di dosso l'indumento umido di pioggia
e gettandolo poi a terra con noncuranza. Riservai lo stesso trattamento
alla mia fedele spada, che ritrovai come sempre sul fianco sinistro.
Slegai la cintura con un veloce gesto della mano e l'adagiai sul tavolo.
“Credi che la Regina...”
domandai lasciando incompiuta una frase che non aveva bisogno d'essere
conclusa, poiché quel timore, che era stato lo stesso di mio
padre, aveva quasi ucciso entrambi. Avrei dovuto preoccuparmi del mio
destino, ma riuscivo a pensare soltanto a ciò che avevo
udito un attimo prima. André aveva dimorato li, pagando del
denaro ad un affittacamere come un qualsiasi soldato senza casa. Avevo
affermato di capire, ma era stata solo una bieca menzogna per ignorare
la verità. Non lo accettavo, perché riconoscerlo
avrebbe significato affrontare quella parte di colpa che mi spettava di
diritto. E, allora, non era mia intenzione farlo.
“Che differenza vuoi che faccia ora. Ti rendi conto di quello
che abbiamo fatto?”
il pragmatismo di André mi colse inaspettatamente, come un
manrovescio ben assestato, chiarendo che, quella scelta che per me
aveva ancora l'aspetto dell'errore, era stata compiuta da entrambi. E
che recriminare non ci avrebbe portato da nessuna parte.
Ero pienamente cosciente di ciò che avevamo fatto, ma in
quel luogo, nella desolazione del centro di Parigi, tutto mi parve
improvvisamente lontano. Perfino la sofferenza divenne quasi dolce,
quasi, perché mi bastò udire un tuono solitario
per ricadere nell'inquietudine di quella giornata.
“Vuoi dire che non si potrà più tornare
indietro? È questo che mi stai dicendo?”
quasi mi stupii nell'udire la mia voce proferir tali parole. Dopotutto
desideravo tornare a palazzo Jarjayes? Davvero ero disposta a chinare
il capo dinnanzi a mio padre, dopo averlo oltraggiato? Era
così forte la paura dell'ignoto, di tutto ciò che
per me era sconosciuto, da superare perfino la dignità?
Non seppi, o non volli colmare quell'interrogativo e André
non mi venne in aiuto. Se ne stava immobile al capo del tavolo, con la
bottiglia di rosso stretta nella mano, meditabondo sul da fare, cedere
all'oblio della sbronza o difendere la ragione?
Io optai per l'oscurità della mente. Tracannai l'ennesimo
bicchiere di vino, tralasciando quel garbo che era stato l'orgoglio dei
miei modi e per il quale avevo ricevuto complimenti e ammirazione, per
abbracciare un lato decisamente più ruvido del mio essere.
Una goccia di liquido scarlatto sfuggì alla lingua, la
sentii rovesciarsi all'angolo della bocca e scivolare oltre le labbra,
in una corsa che avrebbe visto la propria conclusione alla fine del
volto, ma ch'io bloccai con il dorso della mano.
“Dovresti darci un taglio, Oscar.”
mormorò appena André, e quel suo riguardo mi
risultò stomachevole, più del beverone che mi
stava riempendo lo stomaco.
Determinata ad avere un confronto diretto con lui, compii qualche passo
per raggiungere quel lato della tavolata che mi avrebbe dato modo di
fronteggiarlo. Posai le mani sul pianale e mi impossessai del suo
calice, dissetandomi con quel liquido che a lui non interessava
più, ed una volta svuotato lo rimisi al proprio posto.
Lui non reagì in alcun modo, non tentò neppure di
fermarmi, rimase seduto con lo sguardo fisso su di me. Quella sua
compostezza, che rasentava la perfezione, mi irritò
oltremodo e, riacquistata una posizione eretta, gli strappai la
bottiglia dalla mano e mi ci attaccai.
Ingollai quel che rimaneva del contenuto e poi la lasciai cadere a
terra, con aria di sfida. Ero in attesa d'una sua reazione e quando fui
certa che non ci sarebbe stata alcuna replica, mi arresi, vinta
dall'impossibilità di sfogare il tumulto che m'agitava i
nervi.
L'ebrezza alcolica mi stava dando alla testa quasi quanto il terrore
per le naturali conseguenze che, la mia scelta, avrebbe portato con
sé. Potevo salvare i miei soldati, ma cosa ne sarebbe stato
di me stessa? Vivevo in un mondo fatuo, nel quale ero stata privata
d'ogni genere d'orpello: il nome, il rango, il titolo, una carriera,
divenendo soltanto un mucchio d'ossa e di carne.
Il cuore mancò un battito a quella visione, concepita dalla
sbronza ormai alle porte della lucidità, eppure, al di
là dell'allucinazione, mi sentivo realmente in trappola.
Come un animale selvatico imprigionata in un posto forestiero, senza
via d'uscita, con un uomo che non potevo guardare, perché la
sua sola presenza risvegliava quella parte di me che avevo impiegato
anni a soffocare.
Presi una decisione, se dovevo fare qualcosa l'avrei fatta bene: mi
diressi verso la panca che conteneva la riserva d'alcol ed agguantai
una fiaschetta di quello che riconobbi essere del liquore, d'una certa
qualità a dir il vero. Tolsi il tappo e ne assaporai un paio
di sorsi, beandomi d'un gusto invitante e piacevolmente violento, che
mi fece quasi cedere le gambe.
Sentii di aver bisogno di camminare per far defluire il sangue, girai
su me stessa e mi imbattei nella figura di André, ad un
palmo dalla mia.
“Hai bevuto abbastanza, dai qui!”
gli sentii dire nel momento in cui si portò via il liquore e
l'ultimo velo della mia pazienza. Non persi tempo con inutili proteste
verbali, mi ripresi la bottiglia con una rapida mossa e, dopo aver
incollato le labbra al bordo, ne succhiai il contenuto
finché mi riuscì. Fino a quando le budella non mi
si contorsero.
“Tu, hai bevuto abbastanza!”
sibilai quasi a ridosso della sua bocca con lo sguardo rimpicciolito
dall'ira e lo lasciai li dov'era, sorpassandolo senza più
curarmene.
Ero impazzita, irrimediabilmente persa nel fumo che preannunciava il
divampare di un incendio, che ne fui sicura fin dal principio, mi
avrebbe trascinata in mezzo alla sventura.
Mi aggiravo nell'ambiente circostante con passo malfermo, con il collo
della bottiglia stretto nella mano sinistra, impegnata ad osservare gli
elementi più insignificanti che mi stavano attorno,
immaginando quanti e quali individui avessero calpestato quello stesso
suolo.
Qualcuno dei miei soldati? Alain? E magari delle donzelle compiacenti
che...
Stroncai qualsiasi supposizione riempendomi la gola con dell'altro
medicamento e ricominciai la singolare ronda.
La stanza principale era fornita di un piccolo camino, ricavato con del
grezzo mattone rossastro e, sulla mensola di pietra grossolana, vi
erano adagiate dei mocci di candela consumati ed un libro. Sfiorai con
la punta delle dita la copertina, il bordo, l'angolo esterno, fino ad
aprirlo. Ne sfogliai le prime pagine lanciando occhiate superficiali
tra le scritte fitte ed ordinate, finché una leggera
sottolineatura non attirò la mia curiosità.
“Trovare una forma di
associazione che difenda e protegga, mediante tutta la forza comune, la
persona e i beni di ciascun associato e per mezzo della quale ognuno,
unendosi a tutti, non obbedisca tuttavia che a se stesso e rimanga
libero come prima.” (1)
Conoscevo quel testo, così come il proprietario del volume,
ma ne ebbi la conferma quando ne ispezionai il frontespizio;
André Grandier,
Versailles 22 aprile 1786
Quello di apporre la firma e la data su ogni libro letto era uno dei
pochi vezzi che si potevano attribuire ad André, una
bizzarria che poco si confaceva con il suo stato di servo, prima, e di
attendente in seguito. Per quel che mi riguardava non vi era nulla di
strano, al contrario, quella premura così sentimentale lo
aveva reso, da subito, affine al mio modo d'essere.
Da che ne avevo memoria era rassicurante, per me, ritrovarlo tra le
facciate dei libri che tanto avevo amato.
Conforto che non provai quella notte.
Richiusi il tomo lasciandomi alle spalle il salotto, o in qualsiasi
altro modo si sarebbe potuta descrivere la stanza, e mi affrettai ad
irrompere nella camera da letto. Subito mi balzò agli occhi
il grande talamo, con le lenzuola disordinate, i guanciali abbandonati
sul fondo del materasso, e, tra una piega e l'altra d'una coperta due
scatoline di latta. La prima, aperta, conteneva quello che mi parve del
fattibello (2), lo identificai facilmente poiché era stato
oggetto di una furiosa discussione la sera del mio ballo a Versailles,
in abiti femminili. La vecchia governante scomodò tutti i
santi del paradiso, e il diavolo in persona, per persuadermi a farne
uso, ma fui irremovibile nel mio diniego, impedendole di usarlo.
La seconda era decisamente più consunta, ne forzai il
coperchio trovando al suo interno una finissima polvere trasparente e
un lembo di carta piegato, lo svolsi; Cantaridina (3), riportava la
scritta, insieme alle dosi di somministrazione. La mente mi si
colmò di vergognosi scenari, che mi stupii d'essere capace
anche solo d'immaginare, ed un sorriso mi dischiuse le labbra. Gettai
il capo all'indietro e presi a ridere come non ricordavo d'aver fatto
da secoli.
Proseguii nella mia esplorazione e mi trovai dinnanzi ad un
comò di poco valore, sul quale la mancanza d'una specchiera
era più che evidente, al suo posto era stato poggiato un
pezzo di vetro, della dimensione sufficiente a catturare uno scorcio di
viso.
Il mio.
Osservai la metà del volto visibile nel sudicio specchio e
nell'effige che rimandava scorsi tutti i miei dubbi.
Chi dovevo essere? Il soldato del quale era rimasta solo l'ombra o la
donna dall'altra parte del cristallo?
Aprii la mano destra dentro cui vi avevo trattenuto la latta di
belletto e, nella macchia colore vermiglio, vi immersi il dito,
avvertendo una consistenza insolita, paragonabile alla morbidezza del
velluto. Col polpastrello imbrattato disegnai il contorno delle labbra,
rendendole rosse, piene.
Guardai la mia bocca riflessa nel coccio di vetro assumere
un'espressione impertinente, e mi domandai se una semplice chiazza di
colore potesse rendere una persona dissimile, nel fondo dell'anima, da
ciò che era sempre stata.
Rispondevo ancora al nome di Oscar Francois ma qualcosa dentro di me
era stato liberato, forse la colpa era da attribuire a tutto l'alcol
bevuto, perché in nessun altro modo avrei potuto spiegare
l'audacia che mi stava scivolando sulla pelle.
All'erede dei Jarjayes era stata concessa un'esistenza pregna di
libertà, un'istruzione elevata e innumerevoli benefici, ma
per quel che riguardava il cuore la prigionia era stata delle
più crudeli. Come ultima figlia femmina della famiglia
Jarjayes, invece, mi sarebbe stata consentita qualsiasi debolezza e
persino la più odiosa delle frivolezze.
Una vertigine mi colse d'improvviso confondendomi maggiormente la
mente.
Avevo bisogno di bere.
Girai i tacchi, misi un piede davanti all'altro per compiere quei passi
che mi sarebbero serviti per lasciare la camera e raggiungere la
cucina, ma quando arrivai all'uscita vi trovai André a
bloccarne il passaggio.
“Che cosa mi nascondi?”(4)
l'inaspettato mi colse di sorpresa, come colpì anche lui.
Non mi sfuggì il suo stupore quando abbassò lo
sguardo sulle mie labbra.
Cosa vuoi che ti risponda André? Cosa vuoi sentirmi
confessare?
Che devo convivere ogni maledetto giorno con la consapevolezza d'essere
la causa di dolori, e dispiaceri, per le persone che stanno al mio
fianco? Tu hai perduto un occhio, mio padre la ragione.
Cosa debbo essere, per spazzar via tutto questo strazio?
“Niente, Andrè. Ora se vuoi scusarmi,
vorrei...”
non mi diede il tempo di terminare, inchiodò le mani allo
stipite del varco e concluse la frase al mio posto.
“...andare a bere? Ora basta, Oscar. Credi davvero che tutta
questa situazione sia complicata solo per te? Ti sei fermata a pensare,
anche solo per un istante, che anch'io ho messo in gioco la mia
vita?”
non vi era amarezza nella voce, delusione forse, stanchezza senza ombra
di dubbio.
“Avresti dovuto lasciare che mi uccidesse.”
gli gettai addosso quel fardello con una severità che non
seppi spiegarmi.
“Taci...”
sussurrò appena, mutando la sfumatura della propria
tonalità. Un avvertimento a non osare oltre.
“Cosa dovrei fare ora, essere la donna che tu vuoi che
sia?”
fissai i miei occhi al suo sguardo, lasciando discorrere finalmente il
cuore.
“Semplicemente dire, grazie André, ti è
troppo difficile?”
eluse la mia domanda offrendomene una nuova. Un gioco che mi ricordava
i nostri duelli, ma dove le armi erano più letali della lama
d'una spada.
“E in che modo dovrei ringraziarti André? Com
è che dovrebbe ringraziare... una moglie?”
mi feci così vicina da percepire il profumo alcolico del suo
respiro. Innalzai il mento per mostrare tutta la mia risolutezza.
“Ti stai comportando in modo ridicolo, Oscar.”
anche lui, se possibile, cancellò la poca distanza che vi
era tra noi. Scandì quasi ogni singola parola, marcando con
la promessa della furia il mio nome.
“Avresti dovuto lasciare che...”
lo sfidai, incollerita. O quantomeno ci provai, la mia mossa venne
intercettata e fu lui ad attaccare me.
“Taci... taci...”
il palmo della sua mano mi sigillò le labbra, piantandomisi
addosso con una tale veemenza da farmi indietreggiare, quasi perdendo
l'equilibrio. Ma non successe, il suo braccio mi cinse la vita e la
mano libera si puntò al centro della mia schiena, tenendomi
salda e legata a lui.
Lo sentivo ringhiare contro il dorso della propria mano, ordinarmi di
tacere.
Ubbidii, la mia gola divenne muta e gli arti, abbandonati mollemente
lungo i fianchi, non opposero resistenza.
Poi d'improvviso mi lasciò andare, il nostro abbraccio si
allentò e la mano che mi era stata premuta sul viso divenne
leggera. Le dita mi percorsero la bocca e con una prepotenza inattesa
si portarono via il belletto.
“Non voglio che tu sia diversa da come sei. Non mi aspetto
alcun ringraziamento. Ma non provocarmi con queste sciocchezze,
Oscar.”
parlò guardandomi dall'alto della sua statura, nettandosi la
mano macchiata di rosso sulle braghe della divisa. E nel non detto
rimasto a mezz'aria odorai l'ennesimo ammonimento.
“Cosa succederebbe se invece lo facessi...?”
bacco annunciò quella follia, ma fui io, in piena coscienza,
a trasformare in gesti le parole appena pronunziate.
Sollevai la mano verso la sua fronte sfiorandola appena, infilai le
dita tra le ciocche di capelli che nascondevano l'occhio ferito e li
scostai. Arrestai il palmo sul capo, giusto il tempo d'un sospiro, e
subito dopo lo lasciai scorrere verso il basso, dove le dita gli
carezzarono con pesantezza la guancia, ed il pollice
osò inseguire le labbra, precipitando infine oltre il mento.
Dove vi era stata il tocco andò il mio volto, ricalcandone
la scia, e fu così che ci ritrovammo fronte contro fronte,
così vicini da poter respirare l'alito dell'altro.
“Grazie...”
sussurrai appena, ai margini della sua bocca.
(1) Il contratto sociale – Jean-Jacques Rousseau - 1762
(2) L'antenato del rossetto, una sostanza di allume, gomma arabica e
insetti schiacciati.
(3) La polvere o la tintura di cantaride usata come afrodisiaco e
abortivo; se assunta in forti dosi può essere letale. La sua
azione vescicante e fortemente irritante dell'apparato urinario poteva
provocare sicuramente un'erezione che però veniva pagata
dall'utilizzatore con danni renali e purtroppo a volte anche con la
morte per insufficienza renale acuta.
(4) Domanda che André rivolge ad Oscar nell'episodio 36
dell'anime.
Un ringraziamento speciale a Crissi, per avermi imboccata sulla retta via (o era la giusta...), durante una delle nostre folli conversazioni. Grazie!
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Capitolo 7 *** Maschere ***
Si, ora rammento ogni cosa e mi domando come è che non abbia
ricordato tutto destandomi questa mattina, ma forse è vero
quel che si dice, che la memoria cancella ciò che la mente
non può sopportare. Come un dolore troppo forte.
Ed io lo sento, quel dolore, vivido come la presa delle mani di
André sulle mie braccia, un'inezia paragonato alla
sofferenza del cuore, della notte appena lasciata.
Lui non si mosse e non proferì verbo, quando lo ringraziai,
la rabbia che lo aveva portato a bloccare la mia crudele sfida sembrava
non essere mai esistita. Eppure l'avevo veduta montare nel verde del
suo sguardo, bruciandolo fino a velarlo con una tonalità
cupa e spaventosa, e l'avevo sentita nella sua carne, quando mi
toccò come non aveva mai fatto. Nel palmo della sua mano
percepii tutta la sua ambivalenza, desiderava farmi male per quel che
la mia bocca, lordata dal belletto, aveva osato dire, ma al tempo
stesso vi era un ardore che nulla aveva a che spartire con l'ira.
Quelle dita premute sul viso e così pur il tocco della mano
che m'aveva impedito di perdere l'equilibrio, narravano una storia
differente. Di una brama che deve essere incatenata, per non far
scempio della preda.
Amore e odio. Istinto e ragionevolezza.
Non compresi le sue ragioni, non subito almeno, mi limitai ad ascoltare
le mie. Staccai la fronte dalla sua e abbassai gli occhi sulla bocca,
che il mio respiro fattosi parola aveva lambito d'una gratitudine
incerta, e su di essa mi persi. Ne osservai i contorni ben definiti, la
forma piena, il colore, d'un rosso intenso, umido, forse a causa del
vino, e mi resi conto di non averne memoria negli occhi, ma in un bacio
violento e disperato. Dovetti mordermi il labbro per placare il piacere
che provai, anche solo guardandolo.
Proseguii la mia esplorazione oltre il mento, dove vi era un filo di
barba e giù lungo il collo, visibile solo in parte nello
spazio creatosi tra un lembo e l'altro della camicia. E proprio sul
tessuto di mussola posai le mani, stringendole attorno al colletto, con
una flemma inattesa, imperturbabilità che mancò
ad André. Il suo pomo di adamo, un particolare che, negli
occhi degli individui più attenti avrebbe palesato con la
propria presenza il suo essere uomo, e nella sua assenza su di me il
mio essere donna, prese a muoversi su e giù, per inghiottire
la sorpresa di quel mio osare.
Lasciai che le dita scivolassero verso il basso fino ai bottoni, dove
cominciarono a scioglierli dalle asole, sfiorando appena la pelle del
torace ogni qualvolta i lembi dell'indumento venivano disgiunti.
“Fermati.”
la sua voce arrivò quando giunsi all'altezza del ventre,
dove mi arrestai, a capo chino.
“Guardami, Oscar.”
non mi allontanò, non tentò neppure di forzare
quella richiesta, bastò la sua voce nuovamente altera a
farmi innalzare il viso. Lo guardavo con le mani ancora aggrappate al
bordo della camicia ormai quasi completamente aperta.
“Ti sto ringraziando, permettimi di farlo...”
gli rivelai il mio intento priva di vergogna, tirai la camicia al di
fuori dei pantaloni e ne forzai gli ultimi bottoni. Posai le mani sul
suo addome accaldato, pelle contro pelle, e lo sentii respirare
profondamente.
“Non negare che è quello che vuoi...”
lo incalzai nel tentativo di condurlo dalla mia parte, in un luogo dove
eravamo già stati tanto tempo addietro, forse una vita fa.
“Credi davvero che voglia questo? Del mero appagamento della
carne? Per averlo mi basterebbe attraversare la via.”
Divenni sorda alla sue parole, coscientemente decisi di ignorarle.
Forse fu l'alcol a corrodere l'ultima ritrosia virginale,
trasformandomi in un essere privo di coscienza, come un animale
famelico che farebbe qualunque cosa pur di riempirsi lo stomaco,
perché l'azione che compii di li a poco fu l'apice della
follia di quella notte. Gli nascosi i miei occhi e cominciai a
slacciare la cintura delle sue braghe.
Mi afferrò per le braccia prima che avessi modo di aprire la
patta, mi scostò e si fece serio. Le dita m'impugnavano gli
avambracci con forza, dovetti serrare le labbra per impedire la
fuoriuscita di un lamento, ma non vi riuscii per molto. Mi
strattonò finché sputai un alito di fiato, che
fino a quel momento, testardamente, m'ero premurata di trattenere.
“Credi che mi approfitterei della situazione? Per chi mi hai
preso, Oscar?”
mi urlò addosso, strattonandomi ancora, senza più
alcun riguardo.
“Per un uomo che ha affermato di volermi sposare, prima
ancora di domandarlo a me!”
urlai anch'io per sovrastare la sua voce, gettandogli addosso il mio
sguardo più crudele. E subito me ne pentii,
perché mai mi ero ritrovata nuovamente a rinfacciarglielo?
“Vuoi sposarmi, Oscar?”
mi chiese, con un sorriso pungente, prendendosi gioco di me.
“Io...”
tutto ciò che avevo avuto nella testa fino a quel
momento scomparve e la sola parola sopravvissuta si
gettò oltre le labbra, debole e priva di consistenza.
“Io... André, io... non ne posso più di
sentirtelo ripete. Smettiamola di prenderci in giro, vuoi? Ho detto di
volerti sposare, non perché mi aspettassi una tua risposta,
ma per potermi sentire finalmente libero.”
esitò qualche secondo, staccò le mani dalle mie
braccia e continuò a parlare.
“E non provare a dire che hai cercato di...”
dove non giunse la voce arrivarono i gesti, abbassò il capo
e presa ad allacciare la cintura dei pantaloni.
“...solo perché hai creduto che io pretendessi
qualcosa da te, dopo la confessione a tuo padre. Stai offendendo la mia
intelligenza Oscar. Tutto quello che hai fatto stanotte, dalla
più piccola sciocchezza, riguarda solo te. Ti amo,
è vero, ma sono stanco d'essere lo sfogo per i tuoi
problemi.”
ritrovò la tranquillità perduta nella pacatezza
che aveva accompagnato la predica, ma che mancò nel tocco,
quando, ancora una volta, mi afferrò per il braccio e mi
condusse davanti al vecchio comò della camera da letto.
Sistemò il pezzo di vetro di modo che mi ci potessi
riflettere e lo scorcio di immagine che vidi mi squarciò il
cuore.
Vedevo la mia figura ma non riuscivo a riconoscermi; i capelli in
disordine mi incorniciavano il volto così pericolosamente
bianco da sembrare quasi diafano, l'azzurro degli occhi, ridotti a
delle fessure, mi parve pallido come quello d'uno sguardo morente.
Sbattei le palpebre un paio di volte per ritrovarne la
lucidità ma non ci fu mutamento, rimase la
vacuità alcolica e null'altro.
Infine le labbra, che avevo ornato col colore dell'ardire, mostrarono i
segni dell'oltraggio subito. Gran parte del belletto era stato rimosso
dal gesto di André e il restante era sbavato lungo la
guancia, a marcarne il peccato.
Per secondi che sembrarono ore progettai di fuggire da quella visione,
mi sarebbe bastato muovere un passo, uno soltanto, il secondo ne
avrebbe copiato la movenza e sarei stata lontano da li, ma non ne ebbi
il tempo. La sua immagine comparve nel brandello di vetro e le sue mani
mi si posarono addosso, in un punto tra le spalle e il collo.
“Chi sei?”
guardai le sue labbra scandire la domanda ed il suo volto addossarsi al
mio, la barba mi punse la gota sinistra, ma non mi allontanai.
“Oscar.”
risposi semplicemente, come se quella richiesta fosse lecita, quando
invece era ciò che più si avvicinava ad uno
schiaffo.
“No, non la Oscar che conosco. Io vedo soltanto una
bugiarda.”
la sua voce raggiunse una tonalità rabbiosa, pur rimanendo
paradossalmente pacata. Aprii la bocca per replicare ma le sue parole
precedettero il mio intento.
“Hai indossato una nuova maschera, è cambiata
l'ambientazione ma la storia è la medesima. Quale ruolo
avevi intenzione di interpretare questa volta? Scappare non
risolverà i tuoi problemi e di certo non aiuterà
la nostra situazione. Guardati... cosa ti eri messa in testa di fare?
Tu non sei questa donna. Vorrei soltanto che tu fossi qui,
perché ho bisogno di te.”
ascoltai senza ribattere e quasi non mi accorsi del pianto che prese a
riempirmi lo sguardo. Guardai le lacrime scavalcare le ciglia e
abbandonarsi sulle guance, anche lui le vide e le sentì,
perché una di queste si insinuò tra la sua e la
mia gota.
Avrei voluto dirgli che si sbagliava, io ero quella donna o almeno una
parte di essa, nascosta sotto il cumulo di sciocchezze e esagerazioni
alcoliche. E quella donna aveva una paura del diavolo, il nome, il
titolo, la carriera, avevano fatto di lei la persona che era sempre
stata, ma ora, denudata di tutto era soltanto una donna spaventata per
aver scoperto di provare dei sentimenti che faticava a comprendere. Ma
qualcosa sapevo, anch'io avevo bisogno di lui.
Elusi la sua presa e ci ritrovammo faccia a faccia, sollevai le mani e
le posai sul suo volto senza alcun inganno, sperando che quel
mio gesto potesse rimpiazzare le parole che mi era impossibile
pronunziare. Io c'ero, vera, reale, con tutte le mie imperfezioni, ma
ero li. Per lui. Avevo scelto di seguirlo perché di nessun
altra persona mi sarei potuta fidare così ciecamente, in fin
dei conti aveva rischiato la vita per me, ma la verità era
che non avrei potuto fare altrimenti, da quando l'amico di sempre era
divenuto il mio André.
Cercai di ringraziarlo così come avrei dovuto fare fin dal
principio.
Fallii su ogni fronte.
“Direi che per questa notte hai fatto fin troppe idiozie. Non
devi toccarmi Oscar, non devi, a meno che non sia io a permetterlo.
Sono stato abbastanza chiaro?”
neppure lui mi toccò, staccai le mani dalle sue guance e mi
voltai, dandogli le spalle, augurandomi che se ne andasse in fretta.
“Vai a dormire Oscar, ne hai bisogno.”
fu tutto quello che mi disse prima di lasciare la stanza, quello che
feci io fu gettarmi sul letto, incurante della sporcizia sopra di esso.
Mi misi su un fianco, raggomitolata nella posizione che assumevo da
bambina quando qualcosa mi turbava i pensieri, ma quella notte vi era
una sofferenza diversa, un dolore che stava scavando nel profondo
dell'anima.
Permisi al male di venir fuori come forse non era mai accaduto e lui
violò il mio corpo con violenza. Il rimpianto per tutto
quello che non avevo fatto e detto sferrò il primo colpo in
pieno petto, l'impotenza per il destino dei miei soldati si
scagliò come una frustata su ogni lembo di pelle, e la
paura, colei che teneva i miei polsi legati con catene di ferro, mi
lacerò la carne fino a dissanguarmi. Mi arresi alle lacrime
e piansi sommessamente, attenta che non mi si potesse udire, poi non
potei trattenermi oltre e i singulti si presero la voce.
Mi addormentai senza averne coscienza, stremata, ma nel pieno della
notte qualcosa mi destò, o quantomeno mi parve,
poiché non posso affermare con certezza se si
trattò di un sogno o di realtà. Una lieve carezza
mi si posò sulla fronte, sul capo, in una lusinga perpetua e
rassicurante, ma non mi voltai e non aprii gli occhi, immaginando fosse
opera di Morfeo, ma sperando con tutta me stessa che fosse la premura
dell'uomo che era al mio fianco da una vita intera.
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Capitolo 8 *** Medusa e Perseo ***
“Pensavo d'essere
stato sufficientemente chiaro questa notte. Sbagliavo, ma voglio essere
buono e ripeterlo un'altra volta, ma bada bene che sarà
l'ultima.
Non devi toccarmi Oscar,
a meno che non sia io a permetterlo.”
Sento le parole di André aleggiare nell'aria, ma non ho idea
di quanto tempo sia trascorso da quando sono state pronunciate, ho come
l'impressione che siano passati un centinaio d'anni, eppure sono ancora
qui nell'appartamento di Les Halles, in Rue de la Lingerie. Onestamente
preferirei essere da tutt'altra parte, dopo aver ricordato ogni
più piccolo dettaglio della notte appena trascorsa. Ma non
mi è possibile allontanarmi perché la sua presa
attorno alle mie braccia non accenna ad allentarsi, al contrario, si
sta facendo sempre più forte.
Decido di non proferir verbo, più per codardia che per
riguardo nei suoi confronti, limitandomi ad acconsentire col capo,
muovendolo su e giù, confermando che si, ho compreso tutto e
che non vi sarà più bisogno di ripetere
alcunché. Ed è in questo istante che
André mi lascia libera, anch'esso senza parole.
Mi allontano lentamente voltandogli la schiena, non potrei sopportare
ancora una volta il suo sguardo su di me, non ora che la memoria si
è degnata di ristabilirsi nella mia mente, come una corona
di spine. Seguito a trascinarmi per la stanza senza coscienza di
ciò che sto facendo, forse perché non voglio
ammettere quel che in realtà dovrei fare.
Dovrei scusarmi ma non me la sento, perché farlo
significherebbe rendere reale il peccato di qualche ora fa. Penso bene,
invece, di sistemare il disordine che la mia follia ha lasciato;
raccolgo le bottiglie di vino dal pavimento, i bicchieri, perfino i
cocci di vetro dell'ennesimo alcolico ingurgitato. Mi accovaccio per
facilitare l'azione, raccolgo i pezzi con una mano e li poso poi nel
palmo dell'altra, con indolenza, persa in pensieri complicati,
così lontana dal presente da non accorgermi d'essermi
ferita. Non provo dolore, come se tutto il mio essere fosse
anestetizzato; il cuore, l'anima, la carne, ed è proprio
quest'ultima a sanguinare. Osservo la macchia allargarsi nel centro del
palmo ed un rivolo scivolare oltre il bordo e precipitare verso il
suolo, seguito da altre gocce gemelle. In un istante compare una
piccola pozza accanto al mio piede, dove dei minuscoli schizzi sembrano
creare un disegno, sulla mattonella rotta e sudicia.
“Stai sanguinando...”
la voce di André arriva appena al mio orecchio, la sento
lontana, lieve, o forse sono io a non volerla ascoltare.
Resto immobile a guardare il liquido scarlatto che fuoriesce dal taglio
e non me ne curo, ma lui non ha alcuna intenzione di fare lo stesso. Mi
prende la mano per togliere le schegge di vetro, una ad una, fino ad
arrivare a quella che, ora posso vedere chiaramente, è per
metà conficcata nella mia pelle. La estrae con delicatezza,
incurante del sangue che sta sporcandogli le dita.
“La ferita è profonda, bisogna fermare il
sangue.”
così dicendo, e senza tanti complimenti, afferra il mio
braccio e mi fa sollevare dalla posizione in cui mi trovo,
trascinandomi con lui in direzione della cucina. Abbandona la mano
offesa giusto il tempo di trovare una brocca e di riempire una
bacinella d'acqua, dentro cui vi immerge un canovaccio. Ed è
nuovamente al mio fianco. Sostiene il dorso della mia mano premendo sul
palmo lo straccio bagnato.
“Posso fare da sola...”
rinsavisco dal torpore che s'era impossessato della mia attenzione,
tornando ad essere lucida. Strappo la mano dalla presa di
André, schivando il suo sguardo, e la faccio affondare nella
bacinella. Posso sentire l'acqua penetrare nella carne recisa,
tagliente come la lama di un coltello, e poco dopo una fitta di dolore
irradiarsi fino a metà braccio. Serro le labbra fin quasi a
farmi male e così pure gli occhi, nel tentativo di scacciare
lo strazio che ostinatamente mi sto procurando da sola. Bella trovata
Oscar. Mai gettare del liquido su una lacerazione aperta.
Riapro le palpebre e mi accorgo che l'acqua ha perduto la propria
limpidezza per acquisire una tonalità più oscura,
torbida, colorandosi col rosso delle mie vene.
Sollevo il braccio, rubo il cencio ad André e lo avvolgo
attorno alla mano.
“Hai detto di essere stato da Bernard, in che modo
può aiutarci?”
Domando sinceramente interessata, seguitando a puntare gli occhi sulla
fasciatura di fortuna che già si sta macchiando.
“Radunando il maggior numero di cittadini e raggiungendo la
prigione dell'abazia. Non sarà facile ma Bernard
è un uomo che sa come convincere le persone.”
C'è stima nelle sue parole, nonostante l'uomo del quale sta
tessendo le lodi sia lo stesso che lo ha privato della vita di un
occhio. André non conosce il rancore, ha la
capacità di vedere l'essenza di un individuo al di
là delle apparenze. Mi piacerebbe poter essere anche solo in
minima parte come lui, se così fosse non avrei alcun timore
a proferire le scuse che gli debbo. Ma sono dannatamente caparbia ed
orgogliosa, tanto da non aver ancora sollevato il viso. Cosa mai
potrebbe succedere se lo guardassi? Verrei trasformata in pietra come
coloro che incrociavano il proprio sguardo con una delle tre Gorgoni?
Sorrido ripensando alla mitologia greca che tanto ci aveva affascinato
in giovane età, ed alle volte che avevamo giocato a
Medusa(1) e Perseo nei giardini di Palazzo Jarjayes, facendo quasi
morire di crepacuore la povera Nanny, quando giungeva il momento della
decapitazione della ninfa dai capelli di serpenti.
“Oscar... hai sentito cosa ho detto?”
trovo infine il coraggio di guardarlo, con un lieve riso sulle labbra.
Meravigliandomi, ancora, di come la mente abbia la capacità
di riesumare certi ricordi, nelle situazioni meno opportune.
“André, ricordi quando da bambini bisticciavamo
furiosamente, per decidere chi di noi due avrebbe dovuto impersonare
Perseo?”
domando con una naturalezza disarmante, come se non avessimo discusso
d'altro fino a quel momento. Debbo essere impazzita, non vi
è altra spiegazione.
“Si... certo, lo rammento ma... sei sicura di sentirti bene
Oscar?”
“Immagino di no, André.”
replico senza allontanare i miei occhi da lui, consapevole di non poter
rimandare oltre l'ammissione del mio sbaglio. Anche se, davvero si
è trattato di un errore?
Forse. O magari, semplicemente, è stata la sola maniera che
il mio goffo cuore ha ritenuto più adatta, per spogliarsi di
quel sentimento che mi toglie il fiato, e mi spaventa in egual misura.
Mostrarsi forti e risoluti davanti al nemico è una delle
prime lezioni che ho imparato, quando mio padre ha cominciato a
forgiare il soldato che sono diventata. Attaccare prima d'essere
attaccati. Strategie efficaci in battaglia, ma non in amore. E di amore
si tratta, non vi sono più dubbi.
Respiro profondamente riempiendomi i polmoni, decisa a parlare delle
ore oscure che hanno mostrato una Oscar differente. Dischiudo le
labbra, ma il suo nome resta prigioniero sulla lingua, come l'intento
del perdono.
Udiamo bussare alla porta di già aperta e sull'uscio si
palesa la figura di Bernard. Non ci vediamo dai tempi del Cavaliere
Nero e in lui scorgo del cambiamento. Mi appare cresciuto, ormai un
uomo.
“Bernard, ti trovo bene.”
una frase di circostanza questa mia, ma che ha in sé tutta
la sincerità di un lontano rispetto. Il giovane Chatelet ha
dimostrato di possedere il coraggio che solo la sete di giustizia
può concepire. La sua breve carriera di ladro ha portato via
qualcosa a me caro, ragion per cui ho nutrito nei suo confronti, per
molto tempo, un feroce rancore. Astio che è andato
diminuendo col trascorrere dei giorni, delle settimane, dei mesi,
alimentato dall'apprezzamento che André, invece, aveva per
lui.
Come dissi una volta, un ladro è sempre un ladro, ma adesso
comprendo le cause che possono portare a tale scelta. E le motivazioni
del Cavaliere Nero erano giuste, onorevoli.
Compio qualche passo per andar incontro al nostro ospite, titolo che
suona insolito alle mie orecchie, ma non errato. Temo che questo
alloggio diventerà la nostra casa, o sarebbe più
corretto definirlo rifugio, per un po'.
“Oscar, sono felice di rivedervi dopo tutto questo tempo. Mi
rammarico soltanto che sia in circostanze così poco
liete.”
mi si avvicina con eleganza, porgendomi la mano. Indugio nel compiere
un gesto simile, preoccupata di poterlo insudiciare con il sangue che
ricopre gran parte della mia mano illesa. Ma non vi è
titubanza in Bernard. Mi sorride con premura e posa le dita attorno al
mio polso, stringendolo appena, in segno di saluto.
“André... incontrarci sta divenendo una bizzarra
consuetudine...”
ride di gusto Bernard e con lui André, come farebbero due
amici. Credo che lo siano, in fin dei conti conosco così
poco le abitudini del mio vecchio attendente. Ne sarei lieta se non mi
sbagliassi sulla loro amicizia.
Li osservo come non mi sono mai fermata a fare, constatando quanta
somiglianza ci sia tra loro. Una similitudine così forte da
annebbiare le minuzie che realmente li differenzia.
“Vogliate perdonare il disturbo, ma ho creduto vi potessero
servire degli indumenti, come dire, più comuni. E del cibo.
Spero di non aver fatto cosa sgradita.”
“Tutt'altro, sei stato lungimirante, le uniformi
attirerebbero troppo l'attenzione. E confesso che la fame si sta
facendo sentire, dopo un giorno di digiuno. Non possiamo che
ringraziarti.”
parla per entrambi, André, prendendo l'involto di stoffa che
Bernard gli sta porgendo e il cestino di saggina che contiene della
frutta e del pane.
“Grazie, Bernard. Stai facendo più del necessario,
so bene che il cibo scarseggia a Parigi e...”
vorrei proseguire dicendo che non avrebbe dovuto privarsi di tutti quei
viveri per sfamare noi. Un paio di giorni di rinuncia sono una
sciocchezza paragonata alla fame, vera e devastante, che aleggia per le
strade di questa desolata città. Lo si può
percepire chiaramente, come se la carestia avesse un corpo ed un volto,
addirittura un odore. Credo di averla scorta sui volti dei bambini, nei
loro occhi che appaiono smisurati, sulle gote scarne. E ancora, nel
lividore degli adulti che si privano del nutrimento per cederlo ai
propri figli. Ed infine, nel fetore di questo quartiere, dove la
povertà e la morte possiedono lo stesso aspetto. Le
sembianze d'una nobiltà cieca e sorda dinnanzi alla
realtà.
Vorrei scusarmi anche per questo, ma non ne ho modo. Le parole di
Bernard interrompono le mie.
“Voi avreste fatto lo stesso per me. È un piacere
potervi essere d'aiuto, e d'altronde non avrei potuto fare altrimenti.
Rosalie non si sarebbe data pace, e non ne avrebbe dato a me, se non
fossi venuto qui, oggi.”
una risata cristallina invade Bernard, riempendomi il cuore. La piccola
Rosalie, a quanto pare, è rimasta la stessa di un tempo. E
l'amore che quest'uomo nutre per lei è chiaro come la luce
che gli illumina lo sguardo, quando la nomina semplicemente.
Rido anch'io, sommessamente, ma l'ilarità del momento ha
vita breve. Il sorriso muore rapidamente sulla bocca di Bernard,
preannunciando infauste notizie.
“Non siate così affrettati con i ringraziamenti.
Purtroppo non vi porto buone nuove. Al contrario. Dopo la visita di
André ho contattato certe persone, ho fatto qualche domanda
qua e la, con discrezione. Ma sopratutto ho rubato certi pettegolezzi,
sussurrati nella convinzione di coloro che credono di non essere uditi.
Vestire i panni del Cavaliere Nero mi ha insegnato a diventare
invisibile in mezzo alla folla...”
“Quali sono queste cattive notizie?”
Erompe André, sollecitando Bernard a procedere con maggior
prontezza. Stringe le mani in pugni, con tanta forza da tremare.
“Mi hai raccontato che, mentre stavate fuggendo da palazzo
Jarjayes, vi è parso di veder giungere qualcuno. Ebbene non
vi sbagliavate, era un messaggero della famiglia Reale. Stando a quanto
riferiscono le voci, pare che Sua Maestà la Regina Maria
Antonietta, avesse concesso il perdono ad Oscar, ma...”
prende fiato, Bernard, e la forza di dover farsi portavoce di una
scomoda confessione.
“...non mi è chiaro come sia possibile, eppure in
certi ambienti, tra diversi esponenti della nobiltà, si
è di già saputo della vostra fuga. Vi
è stata di mezzo una sola notte, ma a Versailles le
maldicenze si destano ancor prima del sorgere del sole.”
l'ormai estinto Cavaliere Nero mi scruta con insistenza, in attesa
d'una mia reazione. Non posso accontentarlo, poiché io per
prima sto aspettando il proseguo del suo racconto.
“Mi duole dover riferire ciò... e badate che nulla
vi è di certo, ma... si parla di una revocazione della
grazia e di un possibile esilio, o peggio, la prigionia.”
“E di André, cosa sai?”
invoco la sentenza che potrebbe condannare colui che, di fatto, mi ha
salvato la vita. Non soltanto dalla furia di mio padre, ma in mille
altri modi nel corso della mia esistenza.
“Poco e nulla. Ufficialmente per lui non è stata
presa alcuna decisione. In fin dei conti, in merito
all'insubordinazione durante gli Stati Generali, solo voi Oscar, e i
soldati che vi hanno seguita, siete implicati nel tradimento.
Ma...”
la sicurezza di Bernard vacilla, così come la sua voce. Ed
è proprio questa indecisione che mi fa temere il peggio.
Sposto l'attenzione delle mie iridi da lui ad André. A capo
chino fissa un punto imprecisato del pavimento, il corpo poggiato
pesantemente al lavatoio della cucina e le braccia incrociate contro il
petto, serafico. Trovo in quella insolita tranquillità una
maldestra finzione, che mi si rivela nei muscoli della mascella, che si
contraggono in una cadenza ossessiva.
Cosa ti preoccupa André? La tua o la mia sorte?
Conosco di già la risposta, eppure sono così
sciocca da dubitarne, in buona fede, certo. Ha sempre anteposto la mia
vita alla sua e, se dovesse pagare per questo, non sarei in grado di
perdonarmelo.
“...come vi ho detto poc'anzi, stanno circolando delle
chiacchiere sulla vostra fuga. Quello che non sapete è che
questa storia, riportata di bocca in bocca, ha oramai assunto le
fattezze d'una farsa. André è stato trasformato
nello scellerato servo che ha rapito la figlia del Generale Jarjayes e,
in altre versioni, l'uomo perverso che ha corrotto l'ultima figlia di
uno dei casati più vicini alla Famiglia Reale.”
“È una follia...”
è tutto ciò che mi riesce di dire.
“Follia? È Versailles mia cara Oscar. E voi avete
la sfortuna di possedere l'intelletto e d'essere donna. Non importa
cosa avete fatto, quanto sudore e sangue avete versato per diventare
l'eccellente soldato che siete, al primo passo falso vi vedranno
semplicemente come una dama indifesa e stupida.
Credete che se fosse stato un nobile uomo a scappare con una servetta,
avrebbe suscitato tanto scalpore? No. Non si sarebbe sprecata mezza
parola in tal proposito. Per un aristocratico è ritenuto
normale intrattenere rapporti, di qualsiasi natura e genere, con
fanciulle al proprio servizio. È accettato, come
qualsivoglia altra attività ricreativa.”
la tonalità non ha mutato di volume, ma il livore che ne ha
marcato i contorni, palesa il risentimento che Bernard nutre per
l'aristocrazia.
Per quel che mi riguarda, se avessi dalla mia la forza necessaria e il
nulla da poter perdere, passerei con la lama della mia spada tutte le
malelingue che hanno osato pronunciare il mio nome. Ma non posso. Non
posso perché ho qualcosa da perdere. Qualcuno che mi
è caro più di me stessa, e che ho intenzione di
proteggere, a qualunque costo.
“E quale sarebbe la punizione per questo crimine?”
la voce di André è fioca, calma, addirittura
atona.
“Darvi una risposta è alquanto difficile. Tutto
dipenderà dalla magnanimità dei sovrani, e
dall'interpretazione che vorranno dare a ciò che
è accaduto. Ma... tra i numerosi bisbigli ho udito parlare
di: punizioni corporali, di forca, di matrimonio forzato se la
fanciulla è stata disonorata e compromessa. Fino alle
più becere assurdità. Io prevedo un richiamo e,
alla peggio, l'allontanamento dalla guardia nazionale.”
avverto della rassicurazione nel suo discorso. Il giovane Chatelet mi
afferra la mano, che ho abbandonato mollemente lungo il fianco,
dimentica della ferita e della fasciatura ormai del tutto sfatta. Ed
è proprio quella che lui mi avvolge intorno al palmo,
indifferente al sangue che lo sta imbrattando.
“Non datevi pena. A tempo debito si deciderà come
agire. Vi suggerisco la massima prudenza, promettetemi che non farete
nulla di azzardato. Per qualche giorno sarebbe saggio non allontanarsi
dal quartiere.”
si raccomanda ad entrambi, ma è ai miei occhi che sta
parlando.
“Grazie, Bernard. Per tutto. Seguiremo il tuo consiglio,
stanne pur certo.”
André pare aver ritrovato la propria calma.
“Bene, debbo lasciarvi. Verrò a portarvi
dell'altro cibo quanto prima, e se ve ne saranno maggiori notizie. Ah,
quasi dimenticavo, Rosalie si è assicurata che vi avrei
invitati a farci visita, con la dovuta prudenza naturalmente. Le
farebbe piacere rivedervi, specialmente voi Oscar, e... desidera, anzi
desideriamo, presentarvi una persona. Il piccolo Francois
Chatelet.”(2)
un immenso sorriso lo illumina, ed ora chiamarlo giovane Chatelet mi
par irriguardoso. Ho dinnanzi un uomo, un marito e un padre. La gioia
di saper lui e Rosalie genitori, mi riempie il cuore, scacciando per un
istante il buio di questi ultimi giorni.
André ci raggiunge, cattura la mano di Bernard in una
stretta decisa, congratulandosi e rassicurandolo che si, andremo a
fargli visita. Annuisco confermando l'impegno dato. Quello soltanto,
poiché non potrò mantenere la promessa di vivere
i giorni a venire in attesa d'un verdetto.
Ho bisogno di conoscere il nostro destino, mio e di André,
così da non sprecare ancor di più quel tempo che,
in passato, ho di già gettato tra i rovi.
Guardo André senza essere vista, mentre lui e Bernard
scambiano le ultime parole di commiato, ma sono impassibile ai loro
discorsi. Nella mente galleggiano le immagini d'una me fanciullesca,
orgogliosamente fiera per aver avuto la meglio durante una discussione
col proprio migliore amico.
Lo ricordo perfettamente; sono sempre stata io ad impersonare Perseo.
Ed oggi non sarà diverso.
Afferrerò il falcetto adamantino, calzerò i
sandali alati ed affronterò qualsiasi creatura mitologica mi
si parerà dinnanzi.
Troverò il modo di incontrare la Regina Maria Antonietta,
prima che sia troppo tardi.
(1) è una figura della mitologia greca.
Insieme con Steno ed Euriale, è
una delle tre Gorgoni, figlie delle divinità
marine Forco e Ceto. Secondo il mito le
Gorgoni avevano il potere di pietrificare chiunque avesse incrociato il
loro sguardo e, delle tre, Medusa era l'unica a non
essere immortale; nella maggioranza delle versioni
viene decapitata da Perseo
(2) Francois Chatelet, è un personaggio
immaginario e uno dei
principali protagonisti della prima parte della
serie manga Eroica - La gloria di Napoleone, il
seguito di Lady Oscar, creato da Riyoko
Ikeda
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Capitolo 9 *** Cicadidae ***
Sono passati due giorni dalla visita di Bernard, le giornate
trascorrono lente, monotone, in un susseguirsi di azioni ripetute
all'infinito.
André ed io a stento ci siamo rivolti la parola, giusto
qualche frase di cortesia per decidere sul da farsi in determinate
situazioni; chi avrebbe dormito nella camera da letto, quale frutto
mangiare all'ora del desinare, quanto pane consumare per non rischiare
di rimanerne sprovvisti. Lo stretto necessario. Nulla di più
oltre quello.
O almeno fino a ieri sera, quando il caldo insopportabile, il fetore
del quartiere e l'immobile prigionia alla quale siamo costretti, hanno
spezzato le ultime fila di una corda già logora.
Fu la mia pazienza a vacillare per prima, durante la cena, frugale come
ormai di consuetudine.
Sulla tavola ciò che più abbondava era il vino,
di cui vi è una smodata riserva, che colmava i bicchieri
fino all'orlo, il resto del pasto era composto da un paio di pere
ammaccate e da del pane raffermo. La mancanza di cibo non mi dava
pensiero, l'appetito ha abbandonato il mio stomaco dalla sera della
fuga, ragion per cui nutrirmi è più un obbligo
che un bisogno.
Mangiai a fatica il frutto che avevo nel piatto e non provai nemmeno a
fare lo stesso col tozzo di pane, che cedetti ad André senza
indugio alcuno.
La sua fame, invece, sembrava non trovare pace. Comprensibile per un
uomo sano e robusto.
Da principio tentò di rifiutare il mio dono, asserendo che
avrei dovuto sforzarmi, rimanere in forze, e mille altre parole che non
ascoltai, finché anche lui smise di ciarlare, e cedette,
vinto dai morsi del languore.
“Quando credi che tornerà Bernard?”
domandai prima di portare alla bocca l'ultimo pezzo di pera,
così dolce da essere quasi stomachevole. Lo masticai
più del necessario, rimandando il momento in cui avrei
dovuto ingoiarne il boccone. E quando infine fui costretta a farlo,
sentii le interiora rivoltarsi.
“Non saprei. Quando ne avrà la
possibilità, immagino. Temi che mancherà la
parola data?”
“No, certo che no...”
tentennai un poco, indecisa se tacere o proseguire.
“Ma...?”
mi sollecitò André, mentre poggiava le posate nel
piatto ormai vuoto, concedendomi così la sua piena
attenzione.
“Non mi piace dover dipendere da qualcuno, anche per le cose
più banali. Come un pasto sulla tavola.”
riuscii finalmente a dar voce all'inquietudine che mi tormentava la
mente, dall'intera giornata.
“Andiamo Oscar, hai sempre dipeso da qualcuno. La differenza
è che a palazzo Jarjayes vi erano pietanze in abbondanza,
ragion per cui non hai mai dovuto attendere per averle.”
“È vero, sono cresciuta con uno stuolo di
servitori pronti a fare qualunque cosa al mio posto, ma ti sbagli, non
è l'impazienza che mi turba.”
ribattei con una insolita tranquillità, che forse avrei
dovuto temere, come la quiete prima del giungere della tempesta. E la
reazione di André a quelle parole non fece altro che
accrescere la mia ira. Mi guardò come era solito fare un
tempo, con la medesima sfrontatezza della nostra gioventù;
le mani sotto al mento, un sopracciglio inarcato e un mezzo sorriso
pronto a schernire senza suono ciò che avevo asserito un
istante prima.
Odiavo quello sguardo che era capace di pungolarmi la dove sapeva
esservi già un prurito, così da condurmi al
tormento. E quella bocca priva di riso, di verbo, eppure colma di
sfida, nella propria sfacciata curvatura.
“Non sopporto che il mio destino sia nelle mani di qualcun
altro! E si, mi sento in gabbia!”
confessai infine, battendo il pugno sulla tavola. Le posate
tintinnarono nei piatti ed il vino prese ad ondeggiare pericolosamente
all'interno dei bicchieri. La tempesta era dunque arrivata, ed ebbi
paura di non poterla placare.
Presi un lungo respiro e parlai prima che potesse farlo
André, perché se solo ne avesse avuto la
possibilità mi avrebbe ferita come solo lui era capace.
Scoprendo il motivo di quella mia irrequietezza. Una verità
che avrebbe fatto male ad entrambi.
Decisi invece di accampare delle futili scuse, a discolpa di quel mio
comportamento. Tutto pur di non confessare che si, sapere la mia
esistenza in mani altrui aveva agitato i miei nervi, ma ciò
che davvero mi turbava era l'incognita sul destino di André.
Ancora una volta, seppur involontariamente, stavo mettendo in pericolo
la sua vita.
Il suo amore era così dannatamente forte da diventare cieco
dinnanzi al rischio. E il mio amore? Era amore quello che credevo di
provare per il compagno di una vita? Ebbi dei dubbi quella sera.
Il pensiero di dover restare un altro giorno in quell'appartamento con
André mi spaventava da morire, così, allo stesso
modo, immaginare d'essere distanti.
La sua presenza risultava quasi opprimente, al limite del fastidio, ma
il saperlo lontano mi straziava le viscere.
Cosa mi stava succedendo? Quale follia si era impossessata della mia
mente? Perché solo con la pazzia potevo dare un senso a quel
delirio.
Ero terrorizzata all'idea di averlo vicino e al tempo stesso di non
averlo accanto.
Mi portai il pugno serrato alla fronte, socchiudendo appena gli occhi,
nella speranza di ricondurre in me un briciolo di buonsenso. Non vi
riuscii. L'insensatezza o forse l'istinto di sopravvivenza,
lasciò scorrere sulla lingua parole senza coscienza,
concepite col preciso intento di sviare il discorso appena sfiorato.
“Perdonami non era mia intenzione alzare la voce, ma sono
così stanca... Se solo potessi farmi un bagno, e togliermi
di dosso la puzza di questo quartiere!”
l'insofferenza stava mutando ogni aspetto di me. Quasi non riconobbi la
mia voce pronunciare quel lamento, così come il gesticolare
delle mani, stizzito e frenetico.
Avrei voluto riacquistare il controllo, ma avevo ormai superato il
limite di guardia, oltrepassando il confine del ciò che
è buona creanza fare, e dire, e ciò che non lo
è.
Ma in fin dei conti perché mai avrei dovuto preoccuparmi di
mantenere una buona condotta, in quel luogo dimenticato da Dio? Sentii
di poter essere inopportuna, fallibile e addirittura sciocca. Mi
permisi d'essere indolente.
“Mi rincresce ricordarti che in questa parte di Parigi le
case non hanno una camera da bagno, ma qualche volta anche i soldati
desiderano darsi una ripulita. Nella corte interna c'è una
tinozza, di solito è lì che ci si
lava...”
mi informò André, con una insolita inclinazione
della voce, indicando la piccola porta accanto al lavatoio della
cucina.
Gli occhi seguirono il cenno della sua mano e le gambe ne calpestarono
l'invisibile percorso, raggiungendo il cortile che aveva le dimensioni
d'un salone dei palazzi nobiliari. E quel luogo, seppur all'aperto, mi
fece sentire nuovamente in trappola. O forse ero io stessa, prigioniera
della mia mente.
Osservai le mura delle abitazioni confinanti il nostro appartamento,
molte delle quali non avevano scuri alle finestre, ma dei lembi di
tessuto sgualcito e quella che mi parve semplice carta, unta da
ciò che immaginai olio.
Il cielo si era già fatto scuro, illuminato soltanto dalla
luna, piena, velata dalla calura di giugno.
“Quello è stato fatto per le signore che
frequentano la casa...”
André si palesò d'improvviso alle mie spalle.
Ciò di cui mi mise a conoscenza era una sorta di paravento.
La costruzione era rozza, approssimativa, ma somigliante all'idea che
doveva replicare; su degli uncini, alle pareti laterali di un angolo,
era stata fissata una corda. Sulla quale, a sua volta, vi era
agganciato alla bene e meglio un vecchio lenzuolo.
“L'acqua la si prende da quel piccolo pozzo, lo vedi?
Laggiù, accanto al cumulo di legna. Sotto al lavatoio
c'è un pezzo di sapone da bucato e una grossa pentola, per
riscaldare l'acqua. Ma con questo caldo non credo sia
necessario.”
la sua voce lieve giunse al mio orecchio con chiarezza, elencando
semplici istruzioni come fosse stato un comando. Come io avrei fatto
con i miei soldati.
Mi resi conto di quanta poca conoscenza avessi del mondo reale, o per
meglio dire, d'una realtà dove come dicevano i latini Mater artium necessitas,
“la necessità è la madre delle
abilità”.
Ed io avevo molto da imparare.
Mi girai per ritrovare il viso di André, compii l'azione
nello stesso momento in cui lui lasciò fuoriuscire un
respiro dalle proprie labbra. Lo sentii posarmisi sulla gota, sulla
bocca. Un alito caldo che assurdamente mi fece rabbrividire,
intirizzendo ogni frammento di carne.
Sollevai lo sguardo per incontrare il suo, comprendendo ancor
più chiaramente la diversità tra le nostre
altezze. Priva degli stivali il divario tra di noi era più
che evidente.
Provai uno strano senso di fragilità.
“Se tutto questo non ha avvilito il tuo desiderio di lavarti,
io toglierei il disturbo. Sarò qui fuori a fare due passi
lungo la via.”
così dicendo sparì nell'oscurità
dell'appartamento, ed io rimasi li immobile, con la sola compagnia
della luna e del calore estivo. O almeno così sperai.
Mi armai di buona volontà, decisa a vivere appieno la nuova
condizione di cui ormai facevo parte. Seguii le direttive di
André alla lettera, come si confaceva ad un perfetto
soldato; presi il pentolone di rame dalla cucina e lo riempii con
l'acqua che raccolsi dal pozzo in cortile. Poi mi diressi verso quella
che sarebbe diventata la mia stanza da bagno, che consisteva
semplicemente in una tinozza di legno ormai gonfio e scheggiato, grande
a malapena per contenere un bambino.
Osservai il catino tentando di capire in quale modo avrei dovuto
usarlo, finché non giunsi ad una scomoda soluzione. In
piedi, il solo modo per farlo sarebbe stato stando in piedi.
Esattamente come un cavallo, pensai.
Sollevai la pentola e ne versai il contenuto nella tinozza, quasi fino
al bordo e controllai di avere tutto il necessario; sapone, straccio ed
una ciotola. Non mi restava altro da fare se non togliermi gli abiti di
dosso.
“È una follia. A Nanny verrebbe un colpo se mi
vedesse ora...”
parlai ad alta voce, strappandomi un lieve riso al pensiero della mia
vecchia governante. Lei che si era sempre premurata di mantenere la
più rigida riservatezza attorno alla mia stanza da bagno. A
nessuno era permesso entrarvi in mia presenza, all'infuori della sua
persona.
Lei e il dottor Lasonne erano i soli ad aver veduto la mia vera natura,
senza abiti, così come ero venuta al mondo.
Mentivo. Persino i miei pensieri mentivano. Qualcun altro aveva scorto
senza consenso un briciolo della donna che ero, in un istante che
rovesciò tutto, in me e nel mondo che avevo conosciuto fino
a quel momento.
Scacciai quelle immagini e mi liberai degli indumenti, in fretta, senza
indugio alcuno.
Infilai un piede dopo l'altro nel bacile, dentro l'acqua fredda che mi
bloccò il fiato nel petto, ma fu un fastidio passeggero. Non
trascorse molto tempo che inizia a bearmi di quella liquida frescura.
Mi impratichii velocemente, alternando un gesto dopo l'altro;
insaponavo la pezza, la passavo sul corpo, tra i capelli, raccoglievo
l'acqua con la scodella e la versavo la dove vi era la schiuma,
sciacquando via la sporcizia e il malumore di quei giorni.
Gettai la testa all'indietro e lasciai scorrere l'ultimo fiotto di
acqua sul capo, seguendo con i sensi il suo intero percorso lungo i
capelli, la base della schiena, le gambe, per arrivare ancora una volta
la dove era partita.
Guardai la mia figura con gli occhi della notte, trovandola uguale
nella forma, e differente nel profondo. Forse fu la fresca
umidità sulla pelle ad ingannarmi, o magari il profumo di
pulito, ma in quell'ora sconosciuta della sera, mi sentii calma e
libera da ogni preoccupazione.
Scordai mio padre, le conseguenze della fuga, i soldati rinchiusi nella
prigione e perfino André.
C'ero solo io, esposta, indifesa, eppure forte come non sentivo
d'essere da tempo.
Uscii dalla tinozza, spostai i capelli su di un lato e li strinsi
ripetutamente tra le mani, liberandoli dall'acqua in eccesso, per poi
ricondurli all'indietro, contro la schiena.
Non mi rivestii subito, preferendo il gaudio che, il mio corpo
imperlato di minuscolo gocce d'acqua mi concesse con l'aiuto d'una
lieve brezza, alla rassicurante difesa degli indumenti.
Il silenzio di quel luogo era quasi irreale, così dissimile
dalla confusione che vi era nel quartiere a qualsiasi ora del giorno e
della notte. Solo di tanto in tanto udivo del vociare, lontano,
ovattato, proveniente dal davanti della casa.
Un frastuono improvvisò spezzò l'idillio, un
gatto nella sua folle corsa urtò il cumulo di legname,
facendo rovinare a terra un numero imprecisato di ciocchi. Mi parve il
caso allora di ritornare in me, indossai i calzoni, la camicia, e fu
poco prima di iniziare ad occuparmi dei suoi lacci che mi accorsi
d'essere osservata.
Da una delle finestre d'un appartamento ad un piano superiore rispetto
al nostro, scorsi una figura, nascosta tra il tendaggio logoro e
l'oscurità della stanza. Da principio ne fui scossa, il
rigido soldato che ero stata e che ancora risiedeva in minima parte in
me si irrigidì, ma la donna che ero prese il sopravvento.
Abbassai la testa e i capelli mi celarono il viso, mentre le dita
presero ad accostare i lembi della camicia e legarne i lacci, con
estrema lentezza.
Permisi a quella misteriosa figura di guardarmi, priva di colpa e di
vergogna, cominciando ad accettare finalmente la mia nuova pelle.
Quando rientrai in casa fui accolta dalla confusione della strada,
nonostante l'ora tarda il sobborgo era più vivo che mai. Il
caldo rendeva difficile poter dormire, i bambini diventavano irrequieti
e i giovani smaniavano per qualche momento con i compagni o con qualche
amore. Perfino chi era costretto a destarsi all'alba per cominciare il
lavoro preferiva rubare qualche ora al sonno e concederne di
più alla letizia.
La porta d'ingresso era aperta completamente, ecco spiegato il suono
così nitido della via. Sull'uscio riconobbi la figura di
André, di spalle, e poco distante quella di una donna. Lo
vedevo gesticolare, come era solito fare quando si affaccendava a
narrare un fatto, lo udii persino ridere e così anche la
fanciulla che gli stava dinnanzi.
Camminai a piedi nudi per raggiungere l'entrata, con passo leggero ma
deciso, e quando fui ad una distanza ragionevole non potei fare a meno
di posare gli occhi sulla donna che avevo solo intravisto da lontano.
“Madame...”
mi rivolsi a lei con un saluto incerto, ignorando la sua
età, la sua condizione, anche se mi parve giovane, ma
avrebbe potuto essere maritata, per quel che ne potevo sapere.
Di rimando alla mia attenzione, mi rivolse un sorriso, un lieve cenno
della testa e un semplice buonasera.
Era piuttosto minuta, di media altezza, i capelli castani raccolti in
una acconciatura elaborata. Indossava un abito azzurro chiaro e un
grembiale di ottima fattura, con bordi di quello che sembrava pizzo
pregiato. Avevo già veduto qualcosa di simile, a Versailles
si, sicuramente. Ma non mi riuscì di ricordare altro.
“Ho terminato, se vuoi...”
dissi ad André, accordandogli il permesso di rientrare. Si
girò con indolenza, perso nel divertente cicalio intrapreso
con quella sua spettatrice. Mi infastidii, ma non lo diedi a vedere.
“Oscar... si, certo... arrivo tra un attimo...”
si limitò a dire con il riso tra le parole. Poi vi fu un
mutamento inatteso in lui, quando infine focalizzò il suo
sguardo su di me.
Il sorriso gli abbandonò le labbra restituendo al suo volto
la serietà degli ultimi giorni, e non potrei affermarlo con
certezza, ma sembrò smettere di respirare.
Percepii addosso l'attenzione del suo unico occhio, posarmisi sul viso,
lungo il collo, e giù verso la camicia. Non capii. Non
subito almeno.
Abbassai il mio stesso sguardo e vidi ciò che lui aveva
scorto; i miei lunghi riccioli stavano gocciolando piccole scie
d'acqua, bagnando la stoffa sulla quale erano poggiati. Le macchie
umide avevano reso trasparente l'indumento, rendendo esplicita la
presenza della pelle nuda al di sotto.
Inspirai ma il fiato decise di non oltrepassare la gola, lasciandomi
senza aria. Tentai l'impossibile e ritornai in me, mi congedai
velocemente augurando la buonanotte ad André e alla sua
compagnia.
“Buonanotte Monsieur...”
porse a sua volta i propri saluti rivolgendomisi al maschile, con tono
flebile, la fanciulla di cui ignoravo il nome. Mi voltai in fretta,
constatando che André era stato il solo a notare
l'inconveniente della casacca.
Quella notte dormii poco e male.
Quando André rientrò ero di già a
letto, le braccia incrociate sotto la testa e le palpebre sbarrare ad
osservare il nulla. Lui si attardò in cucina per riordinare
la dove avevamo cenato, ma qualcosa non andava. Vi era della tensione
in ciò che stava facendo, le stoviglie sbattevano una contro
l'altra, le sedie brontolavano trascinate senza riguardo sul pavimento.
Mi domandai quale fosse la causa di quella che aveva tutto l'aria
d'essere rabbia, forse l'aver interrotto la conversazione con la donna
senza nome? O semplicemente la mia presenza?
Appoggia il braccio sugli occhi, premendo così forte da
procurarmi dolore, ma cos'altro avrei potuto fare per cacciare quelle
parole che avevano preso a sussurrarmi alle orecchie?
Se solo mi fosse riuscito di dormire.
Maledissi la notte, falsamente silenziosa e maliarda, capace di sedurre
con i dubbi più subdoli.
Tentai di ignorarla ma non fui abbastanza determinata. Ero oramai
corrotta dalle tenebre e dalla sua nenia che quasi mi condusse alla
pazzia.
Chi era quella fanciulla? A lei apparteneva il fattibello che trovai in
quella stessa camera la sera della fuga? Era lei una delle donne per le
quali era stato allestito il paravento nella corte?
La mente prese a figurarsi scenari torbidi ed immorali, i cui
protagonisti erano André e la dolce ragazza minuta.
Ebbi voglia di piangere, ma ricacciai indietro le lacrime, provando a
focalizzare l'attenzione su altro. Il frinire d'una cicala(1) venne in
mio aiuto. Serrai gli occhi e ne ascoltai il suono, convincendomi che
fosse un segno, una profezia; la cicala vive una sola estate, ma le sue
larve rinascono in quella successiva direttamente dalla terra, facendo
di essa il simbolo della resurrezione. O quantomeno era ciò
che avevo imparato, nei miti e nelle leggende legati a quel piccolo
insetto(2), e quella notte volli aggrapparmi ad una favola per placare
il cuore.
Mi destai che era ancora scuro, udii i rintocchi di Notre-Dame, cinque,
come le ore di quel nuovo giorno. Si dice che il sonno è
portatore di buoni consigli, e se così fu, io non gli diedi
ascolto.
La calma della sera precedente era ormai un fantasma lontano, come
aprii gli occhi tutte le preoccupazioni tornarono a farmi visita. Il
destino dei miei soldati e sopra ogni altra cosa, André.
Uscii dall'appartamento con gli stivali stretti contro il petto, li
calzai solo quando mi trovai sul selciato della strada. Presi il nostro
unico cavallo e lo spinsi al galoppo.
Dovevo raggiungere Versailles il più velocemente possibile.
Sono arrivata alla Reggia da pochi minuti e mi pare d'esservi stata
lontana per anni. Il paesaggio è immutato eppure fatico a
riconoscerlo, sarà per l'assenza di luce o per la fitta
bruma che proviene dal terreno, ma provo una sinistra sensazione. Come
se lo scenario che ho dinnanzi fosse il presagio di un imminente
futuro. Il solo pensiero mi mette i brividi.
Smonto da cavallo e, dal cortile Reale, raggiungo l'ampio vestibolo
ornato di colonne con molta facilità. A quest'ora del
mattino chi risiede a Versailles è ancora nel pieno del
riposo, ragion per cui la mia presenza è come quella d'uno
spettro.
Cammino fino alla grande porta che vi è sulla destra e che
conduce là dove desidero andare; alla Cappella Reale.
Marcio lungo la navata, calpestando il pavimento di marmo con passo
quasi inconsistente, così da non farmi udire. Ma son certa
che lei non mi sentirebbe nemmeno se entrassi qui dentro in sella ad un
cavallo.
Ed eccola la, inginocchiata ai piedi dell'altare dedicato a San Luigi,
col capo chino e le mani giunte in preghiera.
Sapevo che l'avrei trovata qui, sola, lontano dal chiasso della Reggia.
Non è trascorso molto tempo dalla morte del piccolo Luis
Joseph(3) e da allora la nostra Regina si raccoglie in preghiera, ancor
prima del giungere dell'alba.
Dovrei onorare questo suo intimo momento col Signore, ma non posso
attendere, la vita non può farlo.
Compio gli ultimi passi che mi distanziano da Maria Antonietta e
seppure senza rumore lei percepisce la mia presenza.
“Oscar... siete voi...”
lo stupore ha alzato il tono della sua voce, facendo riecheggiare il
mio nome tra le volte della chiesa. Prima ch'io posso fare anche solo
un cenno, la vedo alzarsi dalla propria posizione ed avanzare nella mia
direzione. Ed io mi ritrovo a prostrarmi dinnanzi alla sua figura.
“Alzatevi, non è il caso. In questo luogo io non
sono nessuno. Dio è il solo davanti al quale doversi
inchinare.”
ed io obbedisco, come ho sempre fatto.
“Oscar sono stata in pena per voi. Cosa vi è
accaduto? Dove siete stata?”
è sempre bellissima la mia Regina, ma le ferite della vita
le hanno lasciato dei profondi segni sul volto, ed una stanchezza che
ha spento il bagliore che le illuminava lo sguardo.
Mi domando quante lacrime abbia dovuto mascherare col sorriso e le
sciocche chiacchiere, e quante ancora ha versato, nella solitudine
della propria anima.
Il cuore mi si stringe in una morsa feroce, immaginando il vuoto che
sta riempiendo quello di questa piccola donna, che ha sulle spalle il
destino d'un intero paese.
E se tutto ciò non bastasse, vi è anche la
preoccupazione per me, che l'ha sinceramente angustiata. È
facile comprenderlo dall'urgenza delle parole che ha liberato poc'anzi.
Vorrei poterla confortare ma prima di trovare il coraggio, è
nuovamente lei a parlare.
“Oscar, perché siete fuggita? Ditemi la
verità, ve ne prego.”
si avvicina con sveltezza, prende le mie mani e le stringe forte tra le
sue. Dovrei rispondere alla supplica della mia sovrana, ma la sua
richiesta è una farsa. Concepita da qualcuno che crede di
conoscerne già la replica. Allora perché
inscenare questa pantomima?
Cosa vorrebbe sentirsi dire? Che non è possibile vivere
senza il proprio cuore e il mio è dove vi è lui,
André.
Mi sciolgo dalla costrizione della sua presa, delicatamente.
“Datemi la punizione che ritenete più giusta, ma
non domandatemi nulla.”
affermo risoluta, pronta a sacrificare me stessa per salvare colui che
possiede una sola ed unica colpa. Amarmi.
(1) Cicadidae
(2) Questa interpretazione è una delle mie preferite:
Platone, nel dialogo Fedro, espone il mito
delle cicale, secondo cui esse sarebbero nate, per mano divina, dalla
metamorfosi di antichi artisti, specie nel campo musicale e
dell'eloquenza, che avevano smesso di mangiare e accoppiarsi per amore
della propria disciplina.
(3) 4 giugno 1789 muore Louis Joseph Francois Xavier, conte
di Viennois, all'età di 7 anni.
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Capitolo 10 *** È infatti il cuore che rende eloquenti ***
È infatti il cuore che rende
eloquenti
Le parole pronunziate
poc'anzi sembrano riecheggiare ancora all'interno della cappella, su,
lungo le colonne di pietra bianca, attraverso l'alto matroneo, fino a
giungere al soffitto a volte della navata centrale. Ed è li,
tra i colori dell'affresco ove il Padreterno
annuncia la venuta del Messia(1), che le odo morire.
Precipitano giù come gocce, piccole perle silenziose prive
di consistenza, così vuote da mutare in lievi spifferi che
mi sfiorano le gote come lacrime invisibili.
Attendo che la donna che ho di fronte emetta la propria sentenza, che
sia buona o cattiva poco importa, purché qualcosa si decida.
“Avevo già preso la mia decisione, Oscar. Un
messaggero si è recato da voi quelle sera stessa, per
comunicarvi il mio perdono. Ma il giorno seguente vostro padre, il
generale Jarjayes, ha chiesto udienza.”
la replica alla mia richiesta d'una qualsivoglia penitenza, giunge come
un fulmine a ciel sereno, rivelando una scomoda verità.
“Mio padre...?”
i polmoni cercano aria, ma invece di trarne a sé, lasciano
fuoriuscire quel poco che ancora vi è al loro interno. E col
respiro anche le parole sfuggono alle mie labbra. Così
misere che io stessa fatico a sentirle.
“Ho creduto volesse porgere la propria gratitudine per la
grazia concessavi, ma vi era dell'altro. Con lo strazio nel cuore ha
confessato di non sapere dove foste andata, né se sareste
mai tornata. E che la colpa era soltanto sua.”
“Dunque, vi ha raccontato ogni cosa...”
distolgo lo sguardo da Maria Antonietta, distratta da uno spicchio di
luce che è penetrato all'interno della chiesa buia. Si sta
facendo giorno e col sole, tra poco, comincerà la consueta
frenesia del luogo.
Ho premura di portare a termine questo incontro, come in egual modo
desidero abbandonare questo posto.
“Mi rincresce doverlo dire, ma ciò che mi ha
confidato vostro padre è giunto alle orecchie di tutta
Versailles e del Re in persona. Si stanno valutando le possibili
conseguenze.”
vorrei chiedere quale versione della realtà, dopo essere
passata di bocca in bocca, sia infine arrivata alla maestosa
Versailles. Posso solo immaginare quali infamie possano essere state
sputate sulla storia d'origine; certamente tutti i pettegolezzi che
negli anni trascorsi alla Reggia sono stati mormorati alle mie spalle.
“Sua Maestà il Re non ha preso bene tale notizia,
o per meglio dire, non lo hanno fatto coloro che stanno al suo fianco.
La Francia sta attraversando un momento difficile e mostrarsi troppo
magnanimi sarebbe sintomo di debolezza. A maggior ragione se la persona
a cui si sta concedendo la grazia per l'ennesima volta, commette un
nuovo errore. Sarò franca con voi, mia cara amica,
potrò ben poco per placare il vostro castigo.”
“Non mi importa quale decisione prenderanno nei miei
riguardi, non ho paura di affrontare il plotone di esecuzione. Ma...
cosa succederà ad André?”
mi muovo verso Maria Antonietta, compiendo il numero di passi necessari
a fronteggiarla. La supero in altezza di una spanna, il che mi mette in
una posizione di superiorità.
Sono consapevole dell'insania di questo mio gesto, solo uno stolto
oserebbe anche solo immaginare di tener testa ad un sovrano, ma il buon
senso mi è d'ostacolo.
Il tempo mi è nemico e la ragione, la diplomazia, il
servilismo, principi nobili e sicuri, nulla servirebbero al mio scopo.
Se non a dilatare quella che è di già un'agonia.
Pretendo delle risposte, ora, subito e voglio che lei lo comprenda
molto chiaramente.
“Oscar, voi...”
il mio intento non ha l'esisto sperato. Nello sguardo della mia Regina
tutto vi è fuorché il turbamento che speravo di
provocare.
Mi guarda con uno stupore gentile, dal basso verso l'alto, e per la
seconda volta da quando ho messo piede nella cappella, mi cattura le
mani tra le sue.
Tento di sfuggire al suo appiglio ma lei non si fa sorprendere, seguita
a trattenere le mie dita nella sua presa, con una forza inaspettata. Ed
io vorrei soltanto dirle che non ho bisogno di quelle sciocchezze da
donnicciole, e neppure dell'intonazione che ha preso la sua voce,
così melensa da far venire il voltastomaco.
Oscar, voi...
io cosa? Cosa volete dire?
“Posso fare in modo che vi possiate sposare, se solo voi lo
desiderate...”
la stretta delle sue mani si fa più lieve, ma non si
scioglie, muta in una carezza perpetua che mi confonde. Tanto quanto
l'espressione che ha negli occhi, una mescolanza di euforia e pena,
mentre il nulla lasciato a mezz'aria tra la lingua e le labbra,
racconta più delle parole che le ho sentito sillabare.
A quanto pare anche lei ha fantasticato di tanto in tanto sulla mia
esistenza, allestendo scenari alternativi rispetto all'algida vita che
ho condotto nei panni dell'erede del casato De Jarjayes.
Ma la commedia che si è figurata nella mente nulla ha di che
spartire con ciò che è accaduto, e forse in fondo
anche lei ne è consapevole. Perché nell'azzurro
delle sue iridi riconosco la compassione di chi sa che, se anche vi
fosse amore tra l'aristocratica ed il servo, la storia prenderebbe
irrimediabilmente le fattezze di un dramma.
“No, io... io desidero soltanto che lui non venga punito in
alcun modo.”
ribatto eludendo il nome di colui che nessuna delle due pare voler
pronunciare, d'altronde non ve ne sarebbe motivo, la sua presenza,
già così, pesa su di noi come un macigno. Io
stessa ne sono sopraffatta e dio solo sa quanto abbia tentato di
ignorarlo, con ogni mezzo a mia disposizione; il rigore del soldato, la
disciplina, il pragmatismo. Nulla è servito. Lui ha la
capacità di sedurre qualsiasi mio pensiero, riflessione,
ricordo, tutto ciò che gli è estraneo, di modo
che la mia attenzione volga nuovamente alla sua persona.
“Capisco, ma temo di non potervi accontentare. Il fatto si
è già saputo. La prigionia sarà la
pena minore per un tale reato.”
Maria Antonietta evita il mio sguardo come una ladra scoperta a rubare,
lei che con un sol gesto potrebbe mandare a morte me e l'intera
Francia, teme il mio giudizio per una scelta che oramai non
è più di sua spettanza.
“Reato? Noi...”
nulla posso per fermare la collera che m'infiamma le membra,
l'assecondo permettendole di fuggire dalle labbra e mostrare il proprio
sdegno con la voce. D'un tono che rasenta il grido.
“Non ci sarà alcun Voi, Oscar. La colpa
ricadrà interamente su André. Siete stata
capitano delle guardie reali, comandante dei soldati della guardia, ma
per gli uomini di questo mondo, in una simile situazione, siete
soltanto una donna indifesa.”
allontano le mani dalle sue e non vi sono ostacoli nella fuga. Mi
lascia andare. Qualcosa si è è rotto tra di noi,
qualcosa che va al di là della nostra ventennale amicizia.
Siamo simili e diverse. Uguali nella natura del nostro sesso, nei
nobili natali che ci hanno viste venire al mondo, e in alcune
emarginazioni riservate a questa condizione, eppur dissimili nella
strada che abbiamo deciso di percorrere in quest'epoca oscura.
Lei ha scelto il dovere, io, forse per la prima volta, il cuore.
“Maledizione...”
la protesta mi sgorga dalla gola come un conato, ed ha il sapore
dell'imprecazione più feroce, anche se per rispetto verso
colei che abita con me questo santuario, arresto la furia che mi
ribolle al di sotto delle vene.
Sento su di me l'attenzione d'ogni statua, affresco, quadro, presente
in questo sacrario. Le pupille dei santi, degli angeli, di Dio e della
Vergine, mi puntano addosso come rovi di spine sulla pelle.
Null'altro ho da domandare o discorrere, ragion per cui è
ormai giunto il momento di congedarmi. Mi inchino dinnanzi a sua
grazia, col capo chino e la mano sul cuore.
“Vi ringrazio per tutto ciò che avete fatto per me
e vi supplico di non tormentarvi se nulla potrete per noi. La mia stima
nei vostri riguardi rimarrà immutata. Mi auguro di poterci
rivedere un giorno.”
affermo con l'affetto in ogni parola proferita e con una melanconia che
mi brucia gli occhi, scortando le lacrime ai margini delle ciglia. Ho
il presentimento che questo sarà il nostro ultimo incontro.
Un addio.
Ne sono talmente addolorata da dimenticarmi d'essere ancora
inginocchiata, me ne rammento quando un tocco deciso sulle braccia mi
invita ad alzarmi da terra. Sollevo il viso e vi trovo la mia Regina,
al mio medesimo livello, come forse non si è mai trovata a
stare.
Riacquisto la mia posizione eretta e l'inaspettato mi sorprende ancora
una volta regalandomi l'abbraccio serrato di Maria Antonietta. Mi tiene
contro di sé con una tale urgenza da farmi mancare il fiato,
i palmi premono sulla mia schiena come a voler oltrepassarmi le carni.
Finché uno di questi si dilegua per raggiungere il capo,
dove le dita mi impugnano i capelli.
“Vi voglio bene mia cara ed unica amica. Siete stata il punto
fermo di questa mia esistenza incerta, in un paese straniero, e
credetemi quando vi dico che vi porterò sempre nel cuore.
Abbiate cura di voi stessa e... Oscar, avete la possibilità
di cambiare la vostra vita, non sprecatela.”
mi confida in un sussurro sommesso lasciandomi sbigottita, ma
abbastanza attenta da copiare il suo stesso comportamento.
L'abbraccio che ci unisce non ha ruoli, titoli, etichette, gerarchie,
nulla di tutto ciò, è unicamente il saluto tra
due donne con lo stesso cuore.
Percepisco il pianto caldo della Regina bagnarmi la guancia e parte del
collo, anche il mio volto è umido della stessa tristezza.
Piangiamo, ridiamo, tardando il momento dell'abbandono e quando
troviamo la forza di dividerci non vi sono parole. Mi allontano
voltandole le spalle, lasciandola dietro di me, insieme ad un passato
che, seppure non rinnegato, d'ora in avanti non farà
più parte di me.
Accedo in Rue de la Lingerie col giungere delle sera, ho rallentato il
mio ritorno di proposito, attardandomi sulla strada che da Versailles
porta nel centro di Parigi.
Avevo bisogno di qualche istante di pace, soltanto io e il silenzio dei
campi di cui potrei tratteggiare ogni singolo filo d'erba.
Ma il posto al quale ho concesso la maggior parte del tempo
è stato Palazzo Jarjayes, si, proprio così. Dopo
aver fermato Cèsar a ridosso del muretto che circonda
l'appezzamento di famiglia, ho osservato la vita che ha seguitato a
proseguire nonostante la mia assenza. L'andirivieni dei lavoranti negli
agri coltivati, il viavai della servitù, e in quel
susseguirsi di individui è comparsa la vecchia Nanny,
indaffarata come al solito. Prima d'essere colta dalla nostalgia ho
ripensato alle parole di Maria Antonietta e riprendere il cammino per
Les Halles è stata la conseguenza naturale delle ragioni del
cuore.
Ora non mi resta che recuperare un po' del vecchio coraggio per
affrontare il disappunto che mi accoglierà non appena
oltrepasserò l'uscio dell'appartamento.
Traggo un lungo respiro e sono dentro.
Nella cucina trovo André e Bernard occupati a conversare tra
loro.
“Bernard, mi fa piacere rivederti.”
mi ritrovo a dire, forse per anticipare il richiamo che mi aspetto da
Andrè per essermi allontanata senza dire una parola. Ma da
lui non scaturisce neppure un fiato, si limita a guardarmi con fastidio.
“È lo stesso per me. Ma avrei preferito che non ti
fossi allontanata, Oscar.”
è Bernard a rimproverarmi, ma poco importa. Non voglio
giustificarmi in alcun modo, questa mia disobbedienza andava fatta.
“Vi ho portato del cibo e con esso, purtroppo, delle
novità che non vi piaceranno.”
mi avvicino ai due. Ora siamo tutti e tre attorno al tavolo, in piedi,
in allerta.
“Ho avuto modo di trovarmi a Palazzo Reale, nel salotto che
il Duca d'Orleans mette a disposizione per i giovani giornalisti,
scrittori, politici e, tra un discorso liberale e filosofico, ho
carpito qualche informazione proveniente da Versailles.”
“Dunque, cosa hai scoperto?”
lo sollecito con calma, camuffando l'agitazione.
“Ebbene, ho saputo che Oscar sarà destituita dalla
carica di comandante dei soldati della guardia. È
André quello che potrebbe avere la peggio, il male minore
è il carcere. In alternativa, e a quanto pare l'ipotesi
più accreditata, pare essere la forca. Innumerevoli persone
hanno messo in dubbio il suo gesto, bollandolo come rapimento, e se la
nobildonna è stata irretita o addirittura compromessa, non
vi è altra alternativa che quella. Senza dimenticare che ha
minacciato con una pistola il suo vecchio padrone, nonché
aristocratico. Purtroppo la Regina non ha più alcuna voce in
merito, il Re, sotto stretto consiglio di chi gli sta accanto, crede
che sia giusto punire in modo esemplare un'azione del genere, per dare
una sorta di esempio.”
le orecchie hanno cominciato a fischiare dopo aver udito la parola
“forca” ed ora le gambe hanno preso a tremare. Non
voglio credere a nulla di tutto quello che ho sentito.
“L'unica soluzione è scappare.”
è la voce di André che riconduce in me l'udito.
“Non posso lasciare Parigi. Ci sono i miei soldati da portare
in salvo.”
manifesto la mia posizione, ferma, dando per scontato che nella sua
fuga fosse contemplata anche la mia presenza.
“Se sarà necessario andrò via da
solo.”
annuncia infine André, con una fermezza che non include
obiezioni. Mi sento mancare, l'aria mi si blocca in gola, soffocandomi
come una mano serrata attorno al collo.
“Sposiamoci.”
dico a voce alta, puntando i palmi delle mani sul tavolo,
attirando su di me l'attenzione di entrambi.
(1) Ad opera di Antoine Coypel, pittore e decoratore francese. La sua
opera più rappresentativa è stata appunto la
decorazione del soffitto della cappella di Versailles, terminata nel
1716 e realizzata in chiaro stile barocco romano.
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Capitolo 11 *** 27 giugno 1789 ***
Sono trascorsi solo una
manciata di secondi da quando la mia lingua ha pronunciato parole che
mai avrei immaginato di proferire a voce alta, e in presenza di
qualcuno. Il tempo pare essere trascorso più velocemente,
trasformando i secondi in ore, dilatando così la
sconsideratezza del mio gesto.
Ma non vi è modo di tornare indietro, quel che è
fatto è fatto, e sopratutto quel che è detto
è detto. Consapevolmente o meno, poco importa, non posso far
altro che affrontarne le conseguenze e, a giudicare dall'espressione
sui volti dei due uomini attorno a questo tavolo, non avrò
da loro alcun sconto della pena.
“Prego?”
è André il prima ad interrogarmi, col tono di chi
è certo d'aver compreso male, tradito forse dal proprio
udito.
“Sposiamoci.”
ripeto con maggior sicurezza, innalzando il livello della voce
così da rendere più chiara la mia intenzione.
“Stai scherzando...”
posa il suo unico occhio sano su di me, distrattamente, accennando la
promessa d'un sorriso nella speranza di vederne uno simile sulle mie
labbra. Poi, ormai certo di non trovare sul mio volto alcun segno di
scherno, rivolge l'attenzione a Bernard.
“Non dice sul serio...”
l'estinto cavaliere nero rifugge lo sguardo di André per
ricercare il mio, e quella spiegazione che non tardo a concedere ad
entrambi.
“Vogliono incarcerare un servo che ha irretito una nobile,
forse addirittura compromessa. Noi gli daremo un uomo che ha sposato
un'aristocratica, col suo pieno consenso. A quel punto non potranno far
nulla. O quantomeno è ciò che spero.”
mi ritrovo ad esporre il piano con il medesimo tono e gli stessi modi
che userei con i soldati del mio reggimento.
“È una buona idea. Oscar ha ragione. Si, potrebbe
funzionare.”
il giovane Chatelet da prova del proprio assenso annuendo con fermezza
alla prospettiva d'un inusuale sposalizio, con l'entusiasmo che manca a
noi due, incerti sposi.
Seguita poi a dire, col piglio del giornalista e del trascinatore quale
è.
“Il matrimonio morganatico(1), più comunemente
detto matrimonio segreto, è contratto tra persone di ranghi
differenti e...”
“No.”
il diniego forte e perentorio di André irrompe nella stanza
con una tonalità gelida, che non ammette repliche.
“André, cerca d'essere ragionevole. Questo tipo di
matrimonio verrà riconosciuto come tale, dalla chiesa e
dall'aristocrazia. In alcuni paesi d'Europa è un'opzione a
cui molti reali e nobili sono ricorsi per i più svariati
motivi, come ad esempio...”
il proposito d'una discussione ha esistenza breve, freddato sul nascere
da uno strano malgarbo.
“Conosco la definizione di matrimonio morganatico.”
così, con una frase apparentemente innocua, André
interrompe e zittisce il buon Bernard e qualsiasi opera di
convincimento. Ne cancella la presenza.
Non esiste altro all'infuori di noi due, in questa malridotta cucina,
in Rue de la Lingerie e nell'intera Parigi.
“E se nonostante tutto perdessi il tuo titolo e
ciò che ti spetta di diritto? Hai pensato a
questo?”
Mi raggiunge con un paio di falcate e mi osserva dall'alto, palesando
la rabbia che ha di già preso ad agitargli i movimenti. Non
mi faccio intimorire, sostengo la sua vista e compio io stessa il passo
che mi avvicina maggiormente alla sua persona.
“Non mi importa. Immagino di averlo perduto quando ho preso
la decisione di scappare da palazzo Jarjayes. E ad ogni modo, credo di
non averne più bisogno.”
affermo con sincerità, dipanando di un poco la confusione
che da giorni m'avvolge la ragione.
“Non cambierà nulla. Servirà soltanto
ad evitarti la prigione o qualcosa di peggio...”
tento di rassicurare André per quel che mi è
possibile, immaginando che tutto desideri, ora, fuorché
avermi come sposa. Il suo volto si incupisce d'improvviso, come se il
velo dell'oscurità gli si fosse chiuso attorno. Dalla mia
gola fugge quello che sarebbe dovuto essere un respiro, ma che,
superate le labbra, ha preso le sembianze d'un lamento.
Vorrei essere per lui una sorta di conforto, più che mai in
questa difficile ora, ma sembra ch'io sia capace solamente di
procurargli dolore.
Quante ferite sono state cucite con le fila del mio nome?
“André perdonami, ma non è tempo
d'essere lezioso. Non si prospettano per te molte alternative, se non
quella d'un matrimonio che ti salverebbe il deretano, domando scusa
Oscar. O la galera, ovvero l'anticamera della morte. A te la scelta,
amico.”
“Potrei sempre fuggire in un altro paese...”
le parole che udiamo paiono reali, risolute. Lo sarebbero maggiormente
se il resto di lui possedesse la stessa determinazione, invece sono
proprio i suoi gesti frenetici a tradirlo.
“Certamente, ma sei pronto ad abbandonare ogni cosa?
Perché forse non ti è chiaro che, una volta
fuggito non potrai più tornare indietro.”
La voce di Bernard mi risulta sgradevole, come mai era stata, neppure
in passato quando vestiva le sembianze del cavaliere nero. Ricacciargli
in gola le frasi formulate poc'anzi è ciò che
più desidero in questo istante. Nonostante sappia che la
fuga, forse, sarebbe la soluzione più sensata.
Basterebbe un semplice mio gesto, una parola, per liberare
André dal futuro funesto che sta parandoglisi dinnanzi.
La mia vita è legata ad un cappio sottile, ma
così crudele che mi spezzerebbe il collo col leggero
sussurro della sua voce, se la sua decisione sarà quella che
non voglio udire.
Deglutisco a fatica come se vi fosse davvero qualcosa a premermi sul
gozzo. E prego, supplico, imploro un qualsiasi Dio, che lui non voglia
andarsene veramente.
Ma se così fosse, poco potrei per impedirglielo. E tremo al
sol pensiero che lui esca da questo appartamento, per scomparire nel
nulla.
“Immagino di non aver altra scelta. Ora, se volete
scusarmi.”
così dicendo, con una freddezza che difficilmente
può essere spiegata a parole, André si congeda da
noi e raggiunge velocemente la porta. Oltrepassa la soglia chiudendosi
il battente alle spalle, lasciando qui il silenzio più
rumoroso ch'io abbia mai sentito. Eppure, nonostante l'incertezza di
questo suo abbandono io ritorno a respirare, inalando aria
con ingordigia.
Per lui forse vi sarà una speranza.
I giorni a seguire furono il purgatorio in terra. La presenza di
André in casa era mutevole, un andare e venire privo di
logica; trascorreva le ore del giorno addormentato sulla vecchia
poltrona del salotto e quelle notturne a vagare dio solo sa dove, come
un moderno vampiro ridestato dal calar delle tenebre.
Non tentai neppure di conversare con lui o provare a chiedere in che
modo impiegasse il suo tempo per le vie di Les Halles, fu difficile, ma
convenni con me stessa che quella fosse la strategia più
appropriata per mantenere il quieto vivere.
Prudenza che è servita a giungere fino ad oggi, 26 giugno
1789.
È venerdì, un giorno come un altro d'un mese di
giugno tra i più torridi che la mia mente riesce a
ricordare, e come ogni sera mi ritrovo a desinare da sola.
André è ancora sopito. Osservo la sua figura
allungata con indolenza sulla poltrona; il capo leggermente reclinato
oltre il bordo dello schienale, i capelli mossi, liberi dall'abituale
posizione, lasciano esposta quella porzione di volto che da tempo viene
celata. La cicatrice segna con prepotenza la metà esatta del
suo occhio morto, ma non è quella a turbarmi,
bensì i solchi scuri che spiccano al di sotto delle palpebre
serrate.
Inevitabilmente mi domando cosa possa aver causato tal lividore,
provocando i pensieri più torbidi.
L'alcol? Una donna compiacente? O semplicemente il tormento?
Avvicino il viso al suo per cercare una risposta e mi rendo conto che
quello è il solo contatto che posso concedermi; vegliare il
suo sonno, respirare il profumo della sua pelle, rubare ciò
che prima mi era concesso senza riserve.
Sciocca, ripeto come una cantilena, una sciocca che non sapeva quale
fortuna avesse tra le mani fino a qualche giorno addietro. Una sciocca
che ora non ha altro che un mucchio di mosche morte tra le dita.
Colpi decisi alla porta mi trascinano lontano dai miei contorti
ragionamenti. Raggiungo il rumore e la voce di Bernard precede
qualsiasi mia azione. Entra annunciando la sua venuta e nel medesimo
momento anche André si desta.
Quello che è divenuto il nostro ambasciatore porta con
sé delle buone nuove. Dopo tanto ricercare pare aver trovato
un prete disposto a sposarci dal giorno alla notte, senza troppe
domande.
Il tempo a nostra disposizione è un'illusione, la
priorità su qualunque altra cosa è diventare
marito e moglie il prima possibile. Ne va della vita di
André e di quella dei miei soldati, ragion per cui le
condizioni dello sposalizio sono più che ottimali.
La cerimonia verrà celebrata questa sera, poco prima della
mezzanotte, così da non incorrere in presenze scomode
all'interno della chiesa.
“Io e Rosalie vi attenderemo alla Chiesa di San Rocco, in rue
Saint-Honoré, prima della mezza. Siate puntuali.”
annuiamo col capo alle indicazioni di Bernard, muti davanti al destino
al quale stiamo andando incontro. E con lo stesso silenzio
attraversiamo le vie chiassose del quartiere, André mi
precede di qualche passo ed io calpesto il suo cammino, a testa bassa,
immersa nei dubbi più scuri.
Mancano ormai una dozzina di minuti al nuovo giorno quando ci troviamo
davanti un imponente edificio, troppa opulenza per questo genere di
faubourg, e li, sui primi gradini della chiesa vi sono Bernard e
Rosalie.
La piccola Rosalie mi viene incontro con grazia, con quelle movenze che
l'hanno resa donna in questi anni di lontananza, prende le mie mani tra
le sue prima di abbandonarsi ad un abbraccio così stretto da
bloccarmi il respiro.
“Madamigella Oscar... oh, Madamigella Oscar...”
ripete con commozione, ma priva di lacrime.
“Rosalie, sono felice di rivederti. Ti trovo bene, sei
diventata una magnifica donna e, a quanto mi hanno detto, una
madre.”
le sussurro appena dopo averla stretta a me. Sorridiamo entrambe,
sinceramente liete di esserci ritrovate nella titubanza di quest'epoca.
“Desolato di dover interrompere questo momento, ma dobbiamo
andare.”
Bernard ci fa strada verso il lato esterno della chiesa, in rue
Saint-Roch, a quanto pare per certe particolari situazioni, si sceglie
una via più discreta per accedervi.
Veniamo accolti da una piacevole frescura, in contrasto col calore che
sta soffocando la città, e dall'oscurità che
caratterizza ogni luogo di culto, spezzata da qualche flebile fiamma di
candela.
Ed è proprio la luce d'un moccio di candela a mostrare al
mio sguardo, in una nicchia accanto al piccolo altare, la
raffigurazione d'un cristo morente, che viene deposto a terra da un
paio di uomini. L'immagine meno indicata per il giubilo che dovrebbe
esservi per un matrimonio. Ma d'altronde questo sarà
soltanto una farsa.
“I due giovani si avvicinino.”
dal centro del transetto(2) la voce del curato, rigorosa, echeggia
lungo le navate.
André ed io ci muoviamo con malcelata titubanza.
“Uscite di qui! Subito!”
il tono rigido del prete ha preso un'inflessione differente, passando
dall'ira alle urla. Ci blocchiamo interdetti, senza sapere quale sia la
nostra colpa.
“Sono stufo di voi soldati. Non fate altro che entrare nella
casa del Signore e prendervi gioco di me. Dove credete di essere, eh?
Andate a divertirvi in qualcuno di quei bordelli che tanto vi piace
frequentare. Ed ora sparite. Fuori di qui! Malnati!”
la rabbia del sacerdote si fa sempre più prepotente, quanto
a noi non ci riesce di comprendere la colpa che ci viene attribuita.
“Monsieur Marduel, vi prego... noi non...”
Bernard si fa voce dei nostri dubbi.
“Voi non...? Cosa avevate in mente di fare giovanotto,
prendere per il naso un vecchio parroco facendomi celebrare un
matrimonio tra due uomini? Qui non si fanno queste cose. No.”
e così fu svelato il mistero di tanto astio. I miei abiti
maschili, come è naturale che sia, hanno tratto in inganno
gli occhi del povero prete, pensando che ci stessimo burlando di lui o
ancor peggio, che fossimo un gruppo di depravati.
Che questo sia il segno che il matrimonio non si debba fare? Da quando
il mio intelletto cede alle lusinghe della superstizione?
Non è tempo di badare a certe sciocchezze, decido invece di
raggiungere Monsieur Marduel per mettere fine alle supposizioni.
“Non c'è in noi nessuna intenzione di prendere in
giro voi e questo luogo. Indosso questi abiti da uomo, ma io sono una
donna. Donna dalla nascita. E voi dovete assolutamente sposarci questa
notte.”
i miei modi inizialmente pacati hanno assunto l'algido piglio del
comando con l'epilogo della frase, più per paura di perdere
quest'unica occasione di salvare André, che per l'abitudine
all'autorità.
“Perché avete così tanta urgenza di
contrarre matrimonio? C'è di mezzo un figlio
bastardo?”
la carità cristiana di quest'uomo deve essersi perduta molti
anni addietro, poiché in lui non vi è
più nemmeno un granello della compassione che dovrebbe
essere innata in un servo di Dio.
Eppure non vi do peso, non posso permettermi il lusso di farlo in
questo momento.
“È questione di vita o di morte.”
sto quasi supplicando.
“Siete entrata qui mascherata da uomo e di già
questo è un oltraggio al luogo che state occupando. E poi...
se c'è un bastardo fuori dal matrimonio... No no
no...”
la mia pazienza sta venendo meno, i palmi delle mani hanno preso a
formicolare pericolosamente, ma il buon senso deve avere la meglio. Per
ora.
L'individuo che veste i panni di un uomo di chiesa somiglia ad uno dei
commedianti che ho veduto a teatro innumerevoli volte, ma ancora di
più mi rammenta un figuro ambiguo e di dubbia
moralità; il cardinale di Rohan.
Infilo la mano nella tasca delle braghe e afferro qualcosa che tengo
con me dal giorno della fuga da palazzo Jarjayes, qualcosa che sapevo
mi sarebbe tornata utile, come merce di scambio.
Afferro la mano del parroco e vi poso al centro la croce dell'ordine di
San Luigi(3). All'uomo basta una sola occhiata per riconoscere il
valore di tale oggetto e sul volto gli si dipinge un sorriso colmo di
dolcezza e benevolenza.
Ci invita ad attendere qualche minuto, giusto il tempo di prendere il
necessario per la funzione e di li a poco saremo maritati.
Il rintocco delle campane di Notre-Dame annuncia il nascere di un nuovo
giorno. Il 27 giugno 1789.
Il giorno in cui diventerò la moglie di André
Grandier.
(1) Un matrimonio morganatico è un tipo
di matrimonio che può essere contratto in
alcune nazioni, solitamente tra persone di diverso rango sociale
(unebenbürtig in tedesco), che impedisce il
passaggio alla moglie dei titoli e dei privilegi del marito.
L'equivalente francese era detto matrimonio segreto.
(2) Il transetto, negli edifici di culto cristiani,
corrisponde a un corpo architettonico che interseca perpendicolarmente
all'altezza
del presbiterio la navata centrale
o tutte le navate. Ha in genere la stessa altezza della navata centrale
e può essere diviso a sua volta in più navate
(solitamente tre). Il nome deriva dal
latino trans (oltre)
e saeptum (recinto): con ciò s'intende
indicare il braccio che interseca trasversalmente quello longitudinale
della basilica cristiana, ai due terzi o al termine
dello stesso, costituendo così simbolicamente la forma di
una croce.
(3) Presumibilmente quella croce che Oscar si strappa dalla giacca
dell'uniforme, dopo che il principe di Lambesc, comandante dei Royal
Allemand, le chiede grado e titolo. Lei risponde:
“Il mio nome è Oscar Francois, ora io non ho
più grado ne titolo.”
https://it.wikipedia.org/wiki/Ordine_di_San_Luigi#/media/File:Ordre_de_Saint-Louis_GTColl.jpg
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Capitolo 12 *** Le voile ***
Il fumo di candela
è ciò che maggiormente mi ricorderà
questo giorno negli anni a venire. Quello e il suono sordo delle dita
di André che battono freneticamente sulla sua gamba, senza
un istante di tregua.
Guardo il vecchio parroco che, lasciata la sacrestia, si aggira per la
chiesa con fare furtivo per spegnere i ceri che fino a qualche istante
fa illuminavano questo luogo. Luce di cui ora non vi è
più bisogno, perché mai sprecare tale
illuminazione per un matrimonio come il nostro? Un'unione di poco conto
a quanto sembra, tanto da non meritar nemmeno il chiarore d'una
manciata di mocci.
E ancora una volta la mia mente viene rapita da futili distrazioni,
come il ciarlare della vita al di là di queste mura, che
posseggono l'abilità di proteggersi dalla calura estiva, ma
non dagli istinti umani. Che si fanno udire con le risate dei soldati,
in cerca d'un frammento di requie negli angoli delle strade, dove le
dame con le mantelle rosse(1) concedono quel calore che manca loro da
tempo.
Mi sorprendo che vi siano questi sciocchi pensieri a riempirmi la
testa, quando invece dovrei trovarvi differenti e più
ragionevoli timori, ma se così fosse, se ascoltassi le reali
inquietudini dell'anima, forse sarei già fuggita.
Questo matrimonio è uno sbaglio, lo so, ne ho coscienza fin
dal principio. Se fossi meno caparbia e l'orgoglio cessasse di
scorrermi nelle vene, con molta probabilità racconterei
finalmente la verità.
Sono un falso, un impostore, la più spietata delle
mentitrici, la peggiore delle commedianti. Si, dico il vero,
è così dannatamente ingannevole il cuore da
avermi persuaso a tal punto da convincermi che, questo insano
sposalizio, fosse un gesto caritatevole. La sola ed unica speranza per
veder salva la vita di colui che ho di più caro.
Balle. Sono una sporca bugiarda. Lasciare Parigi, quella sarebbe stata
la soluzione migliore per André, per se stesso, per evitare
una probabile sentenza di morte e per sperare in un futuro migliore.
Futuro che il mio egoismo gli sta negando.
Inspiro profondamente l'aria stantia che aleggia in questo angolo della
chiesa, una mescolanza di pungente odore di zolfo, d'incenso, e di quel
sentore di marcio che proviene dai vasi ricolmi di fiori ai piedi degli
altari. Sono così belli in apparenza, rigogliosi di fogliame
e dai colori brillanti, ma al di sotto, l'acqua guastata dall'inganno
dell'estate, sarà la loro più crudele assassina.
Sento lo stomaco rivoltarmisi, ho sempre odiato il puzzo di marciume,
così simile all'olezzo che è presenza costante
nei cimiteri, quando le carcasse cominciano ad andare in putrefazione.
Sorrido senza movimento, le labbra restano immobili, pensando che la
morte e tutto ciò che ad essa è accomunato, non
ha fatto altro che rincorrerci da quando siamo scappati da palazzo
Jarjayes.
Poso lo sguardo nella direzione del mio futuro sposo, sul suo profilo
perfetto. Ha il capo lievemente abbassato, i muscoli della mascella si
contraggono in un chiaro segno di irrequietezza e l'occhio sano corre
sul pavimento del sagrato. Le dita hanno smesso di martellare contro la
gamba ed è ora il piede destro a dar sfogo al proprio
nervosismo, accanendosi sulla macchia d'una mattonella.
Prego Dio, qui dove forse potrà udirmi con maggior
chiarezza, di darmi la forza per cessare questa follia. Cosa potrei
offrire all'uomo che persino oggi mi è accanto,
così come è stato da vent'anni a questa parte; la
vita? Quale vita sarebbe accanto a me, io, un essere che è
donna e uomo e che non è né l'una né
l'altro. Un soldato che ha perduto il proprio coraggio e una fanciulla
che diffida del proprio cuore.
In quale dannazione ci sto trascinando, André?
Sono ora le mie mani a tremare, premo con forza i pugni, per annientare
questa loro debolezza. Stringo senza controllo spingendo le unghie
nella carne dei palmi. Non provo dolore, al contrario, il male fisico
sembra lenire la sofferenza della mente.
Mormoro un'implorazione al Signore, un segno che mi induca a metter
fine a tutto ciò. Ma vi è solo quiete; le statue
dei santi, con le loro bocche mute e gli occhi vitrei, sono immutabili
nella propria rigidità. Non verrà alcun segno. E
quand'anche scendesse qui dinnanzi il padreterno, negherei la sua
presenza.
Falserei la mia supplica, fingendo di non averla mia pronunziata e
maledirei il buonsenso perché nella sua saggezza condurrebbe
André via con sé. E la sua dipartita mi
dilanierebbe più della morte.
Saperlo lontano, sciolto da ogni vincolo col passato, libero di crearsi
una nuova esistenza e...
“Dovremmo cominciare. L'ora si è fatta tarda e
l'età non mi consente più di rubare ore al
riposo. Voi comprenderete vero?”
il curato cancella il brusio dei miei tormenti con la propria voce
stridula e oltremodo fastidiosa, ma efficace nel ricondurmi al presente.
Non è più possibile tornare indietro, non dopo
aver rovesciato il cielo e la terra per arrivare sino a questo punto.
Gli sguardi di tutti i presenti mi puntano addosso, ognuno con delle
aspettative differenti. Rosalie, Bernard, André, persino
l'officiante di questo matrimonio pretende ch'io porti a termine
ciò per cui ho implorato.
E così sia.
Annuisco col capo, lievemente, acconsentendo che il rito abbia inizio.
“Avvicinatevi e porgetemi la mano destra.”
entrambi posiamo la mano su quella del prete, con l'incertezza di chi
è all'oscuro di ciò che sta per accadere. Ho
presenziato a molti matrimoni a Versailles, compresi quelli delle mie
sorelle, ma a quanto pare mai così attentamente da
rammentarne i passaggi.
Monsieur Marduel congiunge le nostre mani tra le sue, assicurandosi che
la stretta sia ben salda, per poi abbandonarle e depositare su di esse
un velo leggero. (2)
“André e... e...”
il parroco si schiarisce la voce, palesemente a disagio, quasi
infastidito. Se per la propria dimenticanza o per l'inconsueta
situazione, non è dato saperlo, ma è evidente ad
ognuno dei presenti l'imbarazzo che è calata sulle nostre
teste.
“Come avete detto di chiamarvi, mia cara?”
il tono assume un'intonazione differente, quasi ilare, sul giungere
delle ultime parole. Non vi do peso, ignorando il sottinteso che da
sempre ha accompagnato la pronunzia della mia nomea, ma qualcuno al
contrario pare esserne seccato. Il dorso della mano di
André, al di sotto del mio palmo, è un tremolio
di nervi che si contraggono con veemenza.
“Oscar. Oscar Francois.”
replico alla domanda con fierezza e con la medesima naturalezza che
ciascuno dovrebbe avere sulla lingua, enunciando il proprio nome. E con
la stessa semplicità mi ritrovo a serrare le dita attorno
alla mano dell'uomo che mi è al fianco, con fare leggero,
come una carezza che col medesimo gesto vuole rassicurare, e trattenere
la furia che sta per venire alla luce. Il tutto nascosto al di sotto
del velo di tessuto che copre le nostre destre, nessuno sa, nessuno
può vedere quale battaglia sta compiendosi sulla nostra
pelle. E nei nostri cuori.
“Oscar e André siete venuti a celebrare il
matrimonio senza alcuna costrizione, in piena libertà e
consapevoli del significato della vostra decisione?”
mai domanda potrebbe essere più incomoda di questa. Potrei
riderne, se non fosse tutto così dannatamente crudele.
Ricaccio in gola una risata amara, obbligandomi a non sollevare mai lo
sguardo, così da non dover incontrare quello di colui che a
breve diverrà mio consorte.
Eppure giungerà il momento che mi vedrà obbligata
a farlo, e sarà nel verde del suo unico occhio che vi
leggerò il mio peccato. Ho creduto, con la scelta del
matrimonio, di preservare André dalla detenzione, ma col mio
gesto lo condurrò in una analoga prigionia. Forse
addirittura peggiore.
In questo tempo che sta mutando verso un'era di cambiamento, io mi
ritrovo a commettere i medesimi errori, legando a me qualcuno alla
stregua d'uno schiavo.
Cosa ti sto facendo André? A te, che ci vorresti tutti
liberi e uguali, sciolti d'ogni costrizione.
Debbo trovare il coraggio di interrompere questo inganno. Ora,
ritroverò il suono della ragione che ti renderà
salvo.
“Si.”
è invece la voce di André a precedere la mia.
L'affermazione irrompe nella chiesa spezzandone il silenzio, il vigore
del tono è tale da risonare con violenza contro la navata,
concependo un eco che pare non debba più aver fine.
D'istinto sollevo la testa per scrutare il suo viso, sul quale mi
auguro di trovarvi il vero, ma la mia preghiera non trova accoglimento.
Nell'istante in cui io ho innalzato il mento, il suo ha compiuto il
movimento opposto, celando ai miei occhi l'obiettività del
suo volto.
Come potrò comprendere la natura dell'affermazione appena
pronunziata?
Un colpo di tosse secco incalza la mia replica. Il parroco ha premura
di vederci fuori dalla sua dimora ed oramai non ha più cura
di farne mistero.
“Si.”
rispondo indecisa come forse non lo sono mai stata in tutta la mia
esistenza.
“André, vuoi accogliere Oscar come tua
sposa nel Signore, promettendo di esserle fedele sempre,
nella gioia e nel dolore, nella salute e nella malattia, e di amarla e
onorarla tutti i giorni della tua vita? Se dunque questo è
tuo desiderio, ripeti dopo di me; con la grazia di Dio, lo
voglio.”
guardo Monsieur Marduel, le sue labbra sottili, bagnate da un ammasso
di bava agli angoli della bocca, scandire la formula come un censore
enuncerebbe una sentenza di morte.
“Sì, con la grazia di Dio, lo
voglio.”
la sua voce, inflessibile e piacevole come quella d'un tempo andato,
precede qualsiasi intento. Il mio cuore accelera il proprio pulsare e
poi pare arrestarsi d'improvviso. Sono sopraffatta, ma possiedo ancora
quel frantume di lucidità che mi permette di intravedere
André.
Vedo in lui l'amore e l'odio, con una nitidezza che colpisce con
spietata ferocia. Mi guarda, per un tempo così effimero da
essere più breve d'un colpo di ciglia. Ma in quel fuggevole
istante, il suo struggimento e la sua collera, riescono a penetrarmi
fin nel profondo dell'anima, macchiandomi le guance d'un casto rossore.
Mi ami ancora André? Oppure la brama che mi par di scorgere,
altro non è che voglia di farmi male? È
così, non è vero? Vorresti afferrarmi per le
braccia e premervi attorno le dita, fino a sentire la carne deformarsi
sotto di esse. E scuotermi, una, due, mille volte, alla ricerca di un
po' di quel buonsenso perduto e di quella umanità che mi
terrorizza più degli inferi.
Oh, ne avresti tutte le ragioni, caro André.
Dovresti farlo.
Fallo, te ne prego. Liberami da me stessa. E poi scappa il
più lontano possibile, senza mai guardarti alle spalle.
“Oscar, vuoi
accogliere André come tuo sposo nel
Signore, promettendo di essergli fedele sempre, nella gioia e nel
dolore, nella salute e nella malattia, e di amarlo e onorarlo tutti i
giorni della tua vita?”
no, come potrei pensare di eguagliare anche solo in parte l'amore che
André mi ha donato da sempre. Io che di amore so poco e
nulla. Ed è amore ciò che provo per lui o
soltanto smania di possesso?
Sciocca, ecco cosa sono. Una stupida che ha creduto di poter rammendare
un'armatura con un filo di seta.
Dischiudo le labbra. La lingua genera parole mute, lievi come un
sospiro. Esito e, ancora prima di decidere, la mia mano destra si sta
di già muovendo, per sciogliersi dall'unione con quella di
André.
E il dorso della sua, al di sotto del mio palmo, ruota su se stessa per
impedirmi di andar via. Le dita mi afferrano il polso, fermando la
ritirata. Clandestini al di sotto del velo di tessuto.
Non vi è clemenza sulla sua bocca, come non c'è
nel verde della sua iride, eppure la presa seguita nella propria mira.
“Sì, con la grazia di Dio, lo voglio.”
mormoro con un filo di voce, così sottile che anch'io fatico
ad udire me stessa.
“Il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe, il
Dio che nel paradiso ha unito Adamo ed Eva confermi in Cristo il
consenso che avete manifestato davanti alla Chiesa e vi sostenga con la
sua benedizione.
L’uomo non osi separare ciò che Dio unisce.
Amen.”
Il prete allarga le braccia e solleva le mani su di noi, benedicendo il
novello giuramento, con ben poca convinzione. Poco male,
poiché l'intera situazione ha il peso d'una pantomima.
“Signore, benedici e santifica l'amore di questi sposi:
l’anello che porteranno come simbolo di fedeltà li
richiami continuamente al vicendevole amore.
Per Cristo nostro Signore.”
così annunciando, il parroco svela le nostre destre
lasciando cadere a terra il tessuto che le aveva tenute al riparo dagli
occhi dei presenti. Le dita di André serrano ancora il mio
polso, con uguale tempra di un respiro fa. L'unico impiccio ora,
è che lo spettacolo è alla mercé
d'ogni partecipante alla funzione.
Non odo commento alcuno, tuttavia le opinioni di ciascuno sono su di
noi pesanti come macigni.
“Perdonate André, l'anello...”
Non esiste anello, nessuno di noi si è preso il fastidio di
occuparsi di quel dettaglio. André slega la mia mano,
cercando nei miei occhi la soluzione ch'io non posso dargli.
Che sia l'ennesimo sentore che l'unione non debba essere condotta al
termine? Se solo Dio volesse dispensarmi da un tale fardello, sarebbe
per me una benedizione.
Un rumore di passi alle mie spalle attira la nostra attenzione, volgo
verso il fondo della cappella dove vedo la figura di Rosalie camminare
con discrezione e, una volta giunta a pochi passi dalla mia persona,
avvicinare le labbra ad un soffio dal mio orecchio.
“Una dimenticanza imperdonabile, Oscar. Scusate. Prendete il
mio anello, ve ne prego.”
sussurra la giovane Rosalie sfilandosi il piccolo cerchio dorato dal
dito.
“No, non posso accettare la tua fede nuziale.”
con ritrovata risolutezza tento di declinare l'offerta.
“Oscar, questo anello serve più a voi che a me.
Non ho bisogno di un gioiello per manifestare l'unione tra me e
Bernard. Voi invece si.”
così dicendo, perentoria come mai l'ho udita fino ad oggi,
afferra la mia mano posandovi la fede al centro del palmo.
Immediatamente compio una mossa gemella, passando ad André
l'oggetto che sancirà questo legame. Ed io mendico, priva di
parola, una qualsivoglia indicazione su ciò che dovrei fare.
Ad ogni modo è André a condurre la partita,
dolcemente agguanta la mia mano sinistra, infilandomi senza alcun
impedimento la fede al dito.
Traggo un lungo e pesante sospiro.
“Fratelli e sorelle, invochiamo su questi sposi la
benedizione di Dio:
egli, che oggi li ricolma di grazia con il sacramento del Matrimonio,
li accompagni sempre con la sua protezione.”
Percepisco la consacrazione di Monsieur Marduel, ma la sola parola che
riesco a comprendere è “sposi”. Siamo
due sposi, io e André, marito e moglie.
I polmoni divengono pietre al di sotto del petto. Voglio respirare ma
non c'è più aria in gola.
“Il Signore Gesù, che santificò le
nozze di Cana, benedica voi, i vostri parenti e i vostri amici.
E su voi tutti, che avete partecipato a questa liturgia
nuziale, scenda la benedizione di Dio onnipotente, Padre e Figlio e
Spirito Santo.
Amen.”
Con voci differenti pronunziamo la risposta alla benedizione. Io stessa
ottengo un sibilo di fiato dal torace, quel tanto che mi è
concesso per ribattere alla fine della funzione.
Quel che fatto è fatto, non vi sarà
più modo di tornare indietro.
Così sia.
“André, figliolo. Ora puoi baciare la
sposa.”
il curato annuncia questo ultimo e inaspettato passo degli sponsali,
con un malsano prurito nella voce.
Nessuno di noi era pronto a questa incombenza, lo si evince dallo
stupore sul viso dei testimoni, così come deve essere sul
mio. André è il solo ad essere impassibile.
Con una calma innaturale procede nella mia direzione, spoglio
d'espressione, indecifrabile. Disgiungo la bocca per convenire con lui
sulla sciocchezza di tale pretesa, ma non ne ho modo. André,
oramai a poca distanza, mi prende il viso tra le mani e, sulle mie
labbra innocentemente accessibili, vi preme le sue. Che sono umide,
sfrontate, torride come questa notte d'estate.
È un bacio furioso il suo, paragonabile a quello d'una notte
di un'altra vita.
Al silenzio si aggiunge altro silenzio, parrebbe impossibile ma
così è. C'è solo il fluire del sangue
che mi pulsa nelle tempie e il suono umido delle nostre bocche, nel
momento in cui lui abbandona le mie labbra.
“Hai ottenuto ciò che volevi, ma neppure immagini
le conseguenze che avrà questa tua decisione.”
mormora un attimo prima di allontanarsi da me, come se nulla fosse
accaduto.
(1) La mantella rossa era un segno distintivo del mestiere della
meretrice, nella Francia del XVII secolo.
(2) Nel nord della Francia, in Inghilterra, in Irlanda, in Danimarca
per tutto il medioevo durante la solenne benedizione un grande drappo
nuziale (pallium, pannum, mappa, linteus) è tenuto da due o
quattro persone sul capo degli sposi, a significare che ambedue
costituiscono la Chiesa sposa di Cristo. Nella Francia meridionale,
nella Spagna, in molte regioni dell'Italia un velo più
leggero (velum, velamen, stola) è posto sul capo della sposa
e sulle spalle dello sposo, o anche sul capo o sulle spalle di ambedue.
In Francia nel secolo XVIII la velatio nuptialis è ancora
relativamente comune.
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