Dreamers

di SamuelRoth93
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1x01-Il mistero della fotografia ***
Capitolo 2: *** 1x02-Un sogno lungo tre giorni ***



Capitolo 1
*** 1x01-Il mistero della fotografia ***


CAPITOLO UNO

“I Had a Dream”

 

Una volta mia nonna mi disse che la vita è soltanto un sogno; che la morte è il momento in cui ci svegliamo davvero e viviamo per l’eternità.

Da questo, una domanda mi sorse spontanea: se la vita è soltanto un sogno e la morte non è altro che l'inizio della vita, cos’è un sogno?

E a proposito di questo, mi disse, con poche e semplici parole, che un sogno è come una piccola morte; nonché un piccolo assaggio della vita come non l’avevo mai conosciuta: un mondo dove tutto è possibile e nulla è… impossibile!

 

~

 

Quella mattina, Joanna si svegliò all’alba, avvolta dentro al suo piumone bianco. La sua camera era dominata da soli due colori: il bianco e il nero; giusto un accenno di beige, dato solo dalle cornici di qualche quadro. Era spaziosa, ariosa, i raggi del sole filtravano attraverso il lucernario posto sopra il suo letto; quelli stessi raggi così caldi e giocosi, le solleticarono il viso, svegliandola dolcemente. Era Domenica.

Fissò il soffitto per qualche minuto prima di alzarsi, come era solita fare, ripensando a cosa avesse sognato durante la notte.

Naturalmente, ricordare un sogno, richiede quasi sempre un immenso sforzo mentale per gli esseri umani; molto più di un qualsiasi sforzo fisico, a volte.

Allora, Joanna, continuò a sforzarsi di ricordare ogni minimo dettaglio, ripensando alle sensazioni provate; sensazioni piacevoli, che non provava da tempo. Si sforzò di ricordare mentre preparava il caffè, mentre leggeva il giornale a tavola, mentre sorseggiava quello stesso caffè, mentre si lavava i denti con il cane che gironzolava intorno alle sue gambe e, infine, mentre osservava allo specchio i suoi capelli lunghi, biondi e scompigliati.

La giovane e single, Joanna, si sforzò per quasi tutto il giorno di ricordare quel banale sogno: un sogno che decise di raccontare alla sua migliore amica nel momento in cui si ritrovarono a pranzo insieme nel loro solito ristorante.

La sua amica si chiamava Mona Bay ed era quel tipo di amica sempre diretta, che non aveva mai peli sulla lingua; quel tipo di amica che detestiamo perché ci dice sempre la verità, spesso pungente, ma di cui non possiamo fare a meno. Per tutta la vita aveva combattuto con i suoi problemi di peso e sopportato i commenti della gente, le risatine delle ragazze più popolari del liceo, quelle perfette, a cui nulla andava mai storto. Aveva collezionato diversi rifiuti da parte di ragazzi per cui lei moriva al solo incrociarsi dei loro sguardi; sguardi che, in realtà, incrociava solo lei, immaginando accadesse la stessa cosa anche all’altra persona. Quei rifiuti, spesso umilianti, fatti di scene patetiche, erano odierni teatri della sua vita. Ma, alla fine, dopo tutta quella sofferenza, ce la fece, non mollò: dimagrì tra l’estate dell’ultimo anno di college e l’inverno di quella che sarebbe stata la sua vita da adulta.

Mona ebbe sicuramente la sua rivincita, pur non avendo mai raggiunto quel risultato sperato; tuttavia, nessuno è perfetto fino in fondo: era questo il suo motto.

Ciò che non perse mai, invece, fu il suo carattere combattivo e determinato, che durante quegli anni, le permisero di sopravvivere a qualsiasi cosa.

Amava portare i capelli corti fino alle spalle, optando quasi sempre per un rosso acceso dalla sua parrucchiera di fiducia.

Era l’amica più divertente che Joanna avesse mai avuto. Un difetto? Si ritrovava quasi spesso a peccare di scetticismo. Era quel tipo di persona che: se non vedo, non credo. Persino davanti alle prove più schiaccianti, cercava di negare l’evidenza: scettica fino al midollo!

“Quindi, fammi capire, tu sei in questo luna park… - fece una pausa, masticando la carne che si era appena portata alla bocca con la forchetta  – incontri questo gruppo di amici, ridete, scherzate, tu vinci anche peluche e… - mandò finalmente giù il boccone – poi ti sei svegliata? Tutto qui il tuo sogno, Joanna?”

L’altra ci fantasticò ancora, completamente succube: “E’ assurdo dire che mi sono sentita bene, in quel sogno? Ero con questi amici ed era come se ci conoscessimo da sempre; sorridevamo, tiravamo freccette, dondolavamo sulla ruota panoramica e poi… - arrosì – c’era questo ragazzo fra loro, che mi piaceva proprio tanto. – sorrise come una stupida - Sai, Mona? Credo che ne fossi innamorata. – rettificò subito – Cioè, non io, ma la Joanna del sogno.”

“Quindi hai dei fantastici amici che non esistono e sei innamorata di un tizio che… Beh, non esiste nemmeno lui!” esclamò sarcastica, sottolineando l’assurdità delle sue parole con un sollevamento delle sopracciglia.

Joanna cadde dalle nubi, a quel punto, seccata dalle faccette che l’amica assunse: “La smetti, Mona? Ti sto raccontando il mio sogno, vorrei che mi prendessi sul serio.”

Quella poggiò le posate, come se avesse qualcosa da cacciar fuori con severità: “Ma io ti ascolto, Joanna. Ti ascolto sempre!”

“C’è qualcosa che devi dirmi?” sussultò sorpresa, rendendosi conto che Mona era infastidita da qualcosa.

“Sì, Joanna! Non fai altro che vivere nei sogni, quando puoi benissimo vivere qui, nel mondo reale. – le spiegò, cercando di essere il più delicata possibile – Non hai bisogno di un sogno per uscire con un ragazzo, o per fare nuove amicizie… - sospirò, mentre Joanna abbassava lo sguardo – Ascolta, lo so che non hai avuto un passato facile. Sei ancora ferita da ciò che ti è accaduto, ma ormai sono passati più di due anni da quella vicenda.”

“Per me non è più così facile fidarmi di qualcuno, lo sai meglio di chiunque altro.” replicò in maniera molto provata e sofferente.

“Non tutti sono come Kyle, tesoro. – cercò di darle il suo punto di vista, come aveva sempre fatto - Certo, ci sono molti altri ragazzi cattivi lì fuori, posso garantirtelo io stessa, ma ci sono anche ragazzi buoni: ragazzi che non ti farebbero mai quello che ti ha fatto lui.”

“Forse hai ragione…  – accennò un sorriso malinconico, gli occhi lucidi e testimoni di tanto dolore – Per colpa di Kyle mi sono così isolata, che ci è voluto uno strano sogno per farmi rendere conto di quanto sia ancora condizionata da quello che mi ha fatto. - provò rabbia in quel momento - Sai, l’altro giorno i miei colleghi in ufficio mi hanno invitata a bere qualcosa e io… beh, io non sono proprio riuscita ad unirmi a loro. Non ce l’ho fatta!”

“E invece dovevi! – le prese la mano, lungo il tavolo – Se continui ad allontanare il mondo da te stessa, Kyle vince, Joanna; nonostante il bastardo sia rinchiuso in una cella e sia lui ad essere quello lontano dal mondo per davvero. – gliela strinse, provando ad incoraggiandola – Tu sei libera adesso, non deve avere più potere su di te.”

“Hai ragione, sono libera adesso. In quel sogno mi sono sentita bene solo perché nulla di tutto ciò era reale. E quando qualcosa non esiste, non c’è minaccia.”

“È ora che tu faccia i conti con la realtà, con le persone che esistono davvero. – le sorrise – E vedrai che anche ciò che è reale può farti del bene: io ne sono la prova vivente, sono tua amica. Devi solo buttarti.”

Joanna ricambiò quel sorriso sincero, felice di avere quella solida ancora di salvezza in grado di farla riemergere dalle acque più profonde.

“Grazie, Mona.”

Subito dopo quel chiarimento, la conversazione tornò ad essere più leggera e allegra, e Mona era curiosa di sapere altro su quel sogno.

 “Allora, com’era questo bel fusto dei tuoi sogni?”

“E’ un vero peccato che tu non possa vederlo, la mia descrizione non gli renderebbe giustizia. – spiegò, ammaliata nel ricordarlo – La cosa buffa è che ci siamo scattati delle foto, sia con lui che con gli altri nostri amici. – rise – Te le farei vedere, ma non esistono.”

“Un vero peccato!” esclamò delusa, mettendo il broncio per un istante.

Improvvisamente, il telefono di Mona squillò e quella lo tirò fuori dalla borsa, osservando lo schermo.

“E’ mia sorella, le ho promesso di andare con lei in un negozio di antiquariato, giù a Grenview. – le fece sapere, arretrando con la sedia - Sta arredando il suo nuovo appartamento, perciò…”

“Ok ok, allora non ti trattengo oltre. – prese il portafoglio dalla sua borsa - Pago io il conto, stavolta!”

Mona le passò accanto, dandole di sfuggita un bacio sulla guancia: “Grazie, tesoro. E mi raccomando, esci dalla Dreamzone! Il mondo reale aspetta di conoscerti e tu sei troppo preziosa per non lasciarti vivere da chi ti merita.”

“Ma smettila!” esclamò ridendo, guardandola andare via in maniera goffa; quasi si scontrò con il cameriere per la fretta, facendo una delle sue solite figuracce, che avevano del comico alla fin fine.

Rimasta da sola, a quel tavolo, Joanna restò lì seduta a riflettere per qualche minuto sulle parole dell’amica. Tra il brusio di voci che la circondava, di gente che pranzava oltre l’ora di punta, decise di seguire il suo consiglio.

 

~

 

Più tardi, verso sera, Joanna era sdraiata sul suo letto; indossava una di quelle enormi magliette bianche con sopra una frase divertente; le sue gambe accavallate erano scoperte e luminose sotto la luce tenue delle sue lampade da notte.

Rilassata, iniziò a scambiarsi diversi messaggi con qualcuno tramite una delle più famosi applicazioni per incontri, ovvero Tinder; sembrò essere molto coinvolta.

 

Joanna: Quindi fai l’avvocato? Mmh, mi sarebbe piaciuto vedere una foto di te in giacca e cravatta.

Ruben: Se vuoi te la mando.

Joanna: Ok.

 

Joanna ricevette la foto. Ruben appariva come il classico uomo che corre tutte le mattine, che mangia cibi salutari, che ama i capi da figura professionale al punto da adorarsi allo specchio mentre essi li calzano a pennello e, infine, che ha molto da dire a livello intellettuale; ciò non escludeva, però, che potesse essere un donnaiolo, dato l’aspetto: un argentino con barba e muscoli, se lo poteva permettere.

 

Ruben: Allora? Sono carino?

Joanna: Molto! Ti preferisco in giacca e cravatta.

Ruben: Sono colpito! Molte altre mi preferiscono in addominali e basta.

Joanna: Beh, io non sono come le altre.

Ruben: Mi mandi una foto anche tu?

Joanna: Mi sembra equo. Ma ti avverto, non ti aspettare una foto in bikini e il sedere puntato verso la fotocamera: non sono una troietta.

Ruben: Aspetto…

 

Joanna cercò una foto nella galleria del suo telefono, una in cui fosse molto carina. Improvvisamente, mentre la stava cercando, ne trovò una che attirò la sua attenzione in maniera misteriosa; tanto da farle dimenticare del ragazzo con cui stava chattando.

“Non è possibile!” esclamò incredula, un filo di voce.

Quella che aveva davanti, era la stessa foto scattata nel sogno assieme a quel gruppo di amici al luna park.

 

Ruben: Ehi, ci sei ancora?

 

Joanna visualizzò quel messaggio, ma ormai aveva la testa altrove per poter continuare a flirtare con quel ragazzo; che, in fin dei conti, le era anche piaciuto.

Disorientata, si alzò e si infilò i pantaloni della tuta e una giacca pesante, a caso, dall’appendiabiti.

“Bluto?? – chiamò il cane - Forza, bello!”

Quello accorse immediatamente al suo richiamo, arrivando dall’altra stanza, e Joanna, dopo aver infilato il telefono in tasca, gli agganciò il guinzaglio, aprendo la porta di casa per uscire.

 

~

 

Scesa in strada, Joanna era al telefono con la sua amica Mona, raccontandole ciò che le era appena successo con molta agitazione.

“Hai ricevuto la foto che ti ho mandato?”

“Sì, e sono sconcertata dal fatto che tu abbia incontrato delle nuove persone senza di me. E che tu abbia fatto così in fretta, dopo il mio consiglio; a questo punto non so se essere fiera perché segui i miei consigli, oppure odiarti perché questa sarà la telefonata in cui mi scarichi per i tuoi nuovi amici esteticamente carini.”

“Mona, io non conosco quelle persone, ok? – le spiegò in maniera coincisa – Non noti qualcosa di familiare?”

L’altra sembrò non prenderla sul serio, come al solito: “Ehm… adoro la sciarpa che indossi, quando l’hai comprata? Aspetta, forse c’ero anch’io, era durante il Black Friday?”

“Non ho mai comprato quella sciarpa! – si innervosì - E comunque non mi riferivo ai vestiti, ma alla ruota panoramica!”

“Ok, e allora?”

“Il sogno, Mona! – cercò di accendere la lampadina del suo cervello - Nel sogno di cui ti ho parlato, io e quelle persone eravamo in un luna park.”

Finalmente il tono dell’amica si fece serio, come Joanna sperava: “Oookeeey… - si schiarì la voce – Allora, vediamo se ho capito bene: tu mi stai dicendo che nel tuo telefono hai trovato una foto scattata con persone che non hai mai incontrato nella tua vita, in un luna park in cui non sei mai stata, ma che questa foto non dovrebbe esistere perché, in realtà, è stata scattata in un sogno che hai fatto ieri?” chiese conferma del suo ragionamento con tono immancabilmente scettico e, perciò, interrogativo.

“Esatto! – buttò gli occhi al cielo - Finalmente!”

“Ok, Joanna, cosa vuoi che ti dica? Che questa cosa non è folle?”

L’altra si mise una mano trai capelli, disperata e confusa: “Non lo so, non riesco a capire. E’ inquetante!”

“Lo so che è inquietante, non dirlo a me! Pensavo che la cosa più inquetante che avessi sentito fosse la storia di mio cugino Andrew, inseguito dalle api rosa; il che mi sembrava inventato di sana pianta e infatti avevo ragione, due giorni dopo l’ho beccato alla marcia del gay pride vestito da ape rosa.”

“Vestito da ape rosa? – pensò di aver capito male, per poi tornare sul discorso principale con molta apprensione – Senti, Mona, che cosa faccio, adesso?”

“Ehm, andare a dormire per non arrivare in ritardo a lavoro, domani?” sbadigliò a tratti.

“Sicura che è il mio di lavoro per cui sei preoccupata? – si infuriò – O il tuo?”

Mona, ormai, aveva un tono esausto: “Joanna è tardi, domani apro io la botique. E tu devi arrivare in ufficio presto, quindi sono preoccupata anche per te. Devi dormire!”

“Caspita, Mona, ti ho appena mandato una foto che non esiste e tu pensi ad andare a dormire?”

“Beh, ieri ho sognato un cavallo parlante dentro una piscina, ok? – replicò isterica - Preferirei chiuderla qui, prima che le cose bizzarre che stanno accadendo a te, accadano anche a me!”

“Bene! Va’ pure, scarsa definizione di migliore amica!” esclamò offesa, chiudendole la chiamata in faccia.

Sbuffando, tirò il cane indietro: “Forza, Bluto! Torniamo a casa.”

 

~

 

Rientrata, Joanna pensò ancora a quella foto: ormai era un ossessione per lei. Quando si sedette sul letto, dopo essersi spogliata, provò a cercare i volti di quelle persone tramite internet, ma con scarsi risultati: il motore di ricerca non diede alcun risultato.

Arresa e stanca, poggiò il telefono sul comodino e spense la lampada. Sotto le coperte, finalmente si addormentò, illuminata dalla luce della luna, che filtrava attraverso il vetro del lucernario.

 

~

 

Sei ore più tardi, Joanna spalancò gli occhi: fece un nuovo sogno, le sembrò di essersi addormentata da un solo minuto. Era l’alba.

Per paura di dimenticarlo, si alzò in fretta e furia, prendendo carta e penna; iniziò a segnare tutto ciò che ricordava, come se questo le potesse servire a qualcosa.

Subito dopo, si fece una doccia, si vestì, riempì la ciotola del cane e uscì di corsa, stringendo quel foglio in una mano.

 

~

 

Alla solita caffetteria in centro, Joanna sedeva con Mona; le tese davanti agli occhi il foglio, aspettando che lo prendesse, mentre la cameriera poggiava le loro ordinazioni: due cornetti alla marmellata, un cappuccino e un caffè nero.

Mona roteò gli occhi sotto i suoi occhiali scuri, massaggiandosi una tempia, leggermente seccata e affamata: “Joanna, devo aprire la botique tra un quarto d’ora, vorrei godermi questo cappuccino con la schiuma a cuore; che tra l’altro ha pure una crepa: persino il barista si prende gioco della mia vita sentimentale.”

“Leggi!” le ordinò, scuotendo il foglio.

Finalmente Mona lo prese, accennando un espressione poco interessata: “… Ah, wow, hai di nuovo incontrato il ragazzo dei sogni che ti piaceva. – disse sarcastica, la voce scialba - Gli hai detto che la vostra non-foto è rimasta sul tuo telefono? No? Che peccato!” fece il suo monologo lampo, mirato a marcare il suo totale disinteresse.

“Mona, davvero non mi credi?”

“Non lo so, è tutto così assurdo, non credo a queste cose! – si dimostrò diffidente - Chi mi dice che tu non abbia incollato la tua faccia in quella foto e mi stia prendendo in giro?”

“Non è photoshop, Mona. – le disse con il cuore in mano e gli occhi lucidi – Te lo giuro sulla mia vita; dovessi tornare a rivivere quei giorni con Kyle se sto davvero mentendo: e lo sai perfettamente che non posso mentire su una cosa del genere, dopo quello che ho passato.”

Turbata, Mona sembrò crederle: “Oh mio Dio, Joanna… Com’è possibile tutto questo?”

“Non lo so, ma ti prego… - ancora una volta, scosse il foglio davanti ai suoi occhi – leggilo attentamente!”

Quella sospirò, ascoltandola: “Allora, qui hai scritto che lui si chiama Spencer… - prese una pausa per passare all'informazione successiva – Siete su una spiaggia a giocare a scarabeo; lui compone continuamente la parola SFPD, mentre tu hai i polsi incollati…”

“Non riuscivo a staccarli, ma nonostante ciò non mi sono spaventata.”

Mona abbassò il foglio, curiosa di scoprirne di più: “Ascolta, ma nel sogno tu sai di stare sognando?”

“No, lo so solo quando mi sveglio. Cioè, so di aver sognato, ma in quel momento non sono io ad avere il controllo delle mie azioni – si sentì improvvisamente confusa, mentre Mona era perplessa – Non so come spiegarlo, è complicato.”

“No, non è complicato. Anch’io mi sveglio sapendo che nel sogno non ero consapevole di stare sognando. A te l’ho chiesto perché potrebbe essere stato differente vista la situazione, ma a quanto pare no.”

“Che potrebbe significare SFPD, secondo te?”

“Potrebbe essere una sigla di qualcosa… mhh... - ci riflettè – Tipo… Polizia di San Francisco o…” e a quel punto sgranò gli occhi assieme a Joanna, nello stesso istante.

“Oh mio Dio, delle manette! – si sollevò dalla sedia, adrenalinica – I miei polsi erano incollati come quando ti mettono le manette: è questo che vuole dirmi il mio sogno!” esclamò con enfasi.

Tutti i clienti della caffetteria e qualche passante, puntarono subito lo sguardo sul loro tavolo, imbarazzando Joanna, che si risedette mortificata.

Mona riprese la conversazione, bisbigliando per via della figuraccia appena fatta: “Ok, il tuo sogno ti sta dicendo che finirai in prigione in stile Orange is the new black? Per caso hai visto una delle protagoniste nel tuo sogno? Sai, potrebbe essere un indizio.”

“O forse mi sta dicendo che devo rintracciare così le persone che ci sono nella foto, chiedendo aiuto alla polizia.”

“E cosa dirai: "Salve, agenti, per caso nel vostro database ci sono i miei amici immaginari."? - replicò sarcastica e realista – Non funziona così, tesoro. Finiresti a sniffare i tappi delle penne in qualche bizzarro manicomio con i corvi e il cielo grigio sullo sfondo.”

“E se non fossero immaginari? Se esistessero davvero? – pensò - Magari sono da qualche parte che si stanno facendo le mie stesse domande.”

“Quindi che vuoi fare? – chiese Mona, osservando l’ora sul suo orologio da polso – Seriamente, se non corro ad aprire la boutique, Natalie mi uccide.”

Joanna reagì con determinazione: “Se il mio sogno mi suggerisce di rivolgermi alla polizia, allora mi rivolgerò alla polizia. Magari questo ragazzo dei miei sogni è un poliziotto, tentare non costa nulla.”

“E gli altri ragazzi nella foto?”

“Una cosa alla volta, Mona; loro li ho visti solamente in un sogno, quello del luna park, mentre questo ragazzo… beh, l’ho visto per ben due volte.”

“Ok, se vuoi facciamo un salto al distretto verso l’ora di pranzo. – prese la borsa, pronta ad alzarsi – Ora devo proprio andare, perciò che mi dici?”

L’altra era molto pensierosa, lo sguardo fisso verso il basso: “…Ehm, ok, va benissimo. Più tardi andremo insieme.”

“Perfetto, però adesso corri in ufficio. – indossò i suoi occhiali da sole, che prima aveva poggiato, mandandole un bacio volante con il dito – A dopo!”

“Ciao, Mona.“ la salutò distrattamente.

Per Joanna, quella visita al distretto, rappresentava motivo di ansia. Non sapeva se avrebbe incontrato quel ragazzo dei sogni, oppure no, e la cosa la stava mandando letteralmente fuori di testa; le sembrò quasi di essere tornata indietro nel tempo, a quando l’unico problema era cosa mettersi per il ballo di fine anno.

 

~

 

Come tutti i giorni, Joanna arrivò in ritardo in ufficio; lavorava come reporter cronista allo Yell of news, una delle riviste più note di San Francisco, nata da pochi anni dal suo fondatore, Edward Yell.

Non appena uscì dall’ascensore, si sedette alla sua scrivania, liberandosi subito dall’ingombro del capotto e della borsa; quando si mise comoda sulla sedia, notò i suoi colleghi, non molto lontani da lei, riuniti in cerchio a parlare di qualcosa; del resto, era quello che facevano tutti i giorni: parlare del più e del meno, scherzare fra loro, scambiarsi informazioni. Joanna non aveva mai partecipato per scelta, restando sempre sulle sue.

Ora che Mona, però, le aveva fatto notare quanto fosse sola, Joanna si sentì esclusa per davvero e a quel punto, con i consigli della sua amica che le rimbombavano nella mente, si alzò in piedi, si sistemò il giacchetto e prese coraggio; si avvicinò a loro, girati di spalle, che nemmeno si accorsero della sua vicinanza. Joanna, però, non demorse e, dopo un piccolo sospiro, finalmente si fece sentire.

“Ehi, di che parlate?” domandò, sfoggiando un sorriso insicuro.

I suoi colleghi smisero di parlare, voltandosi simultaneamente: erano in tre. Uno di loro, Nigel Finnegan, padrone della scrivania attorno a cui gli altri due erano raccolti, prese parola, piacevolmente sorpreso.

Nigel appariva bello e brillante, il tipico ragazzo circondato da molte persone, sempre al centro dell’attenzione, socievole; ciò che lo distingueva particolarmente dagli altri, però, era la sua bontà d’animo nei confronti della gente.

“Ehi, Joanna. Ciao. – le sorrise, gentile - Niente, parlavamo del compleanno di Lambert, volevamo organizzare una festa a sorpresa per lui, qui in ufficio.”

“Lambert, il nostro redattore capo? Il burbero e severo Lambert? – sottolineò Joanna, cercando di fare conversazione – Non pensavo fosse il tipo da feste a sorpresa.”

Seguendo a ruota le parole di Nigel, fu il turno di Miranda Gibbins, in piedi accanto a Nigel; in ufficio, tutti sapevano che Miranda aveva una cotta per lui: pendeva letteralemente dalle sue labbra. Il suo carattere la portava spesso ad essere graffiante, quasi ostile, ma solo nei confronti di chi la ostacolava in qualcosa. Appariva esuberante, e, come ogni afroamericana che si rispetti, sfoggiava il suo cespuglio di capelli ricci con la stessa grazia di una modella che sa quali sono i suoi punti forti.

“Beh, Lambert è simpatico quando si apre. – la guardò dall’alto, uno sguardo di sufficienza - Pensavamo di fare anche una colletta per un regalino.”

“Fantastico, allora mi unisco! – esclamò Joanna, entusiasta – Vorrei conoscere anch’io questo lato simpatico di Lambert, quando non ci sgrida per le storie che li rifiliamo.”

Venne la volta di Geremia Westwick, il più giovane dei reporter; indossava sempre un papillon, abiti su misura e usava tanto gel per capelli. Timido, bassino, dai capelli rossi e frivolo nei modi, non nascondeva la sua evidente omosessualità.

“Sono Geremia! – le strinse subito la mano, felice di fare la sua conoscenza – Sono qui da un anno e credo che questa sia la prima volta che ti sento parlare.”

Era soprattutto schietto e diretto. Joanna era molto coinvolta dalla sua personalità elettrizzante.

“Il piacere è tutto mio, Geremia. – rise, divertita dal suo brio - Hai una stretta di mano molto energica!”

“Vado in palestra da soli due mesi, tra un anno conto di riuscire a piegare un cucchiaio.”

Joanna lo trovò davvero simpatico, condividendo il sorriso che le era stato appena strappato, assieme a Nigel; Miranda, invece, restò frigida, interpretando subito gli sguardi tra Joanna e Nigel come una minaccia.

“Allora vado a prendere il portafoglio, sapete già cosa regalarli?” chiese, volendo essere partecipe.

“Una penna, Joanna. – rispose Miranda, cinica – Lambert è ossessionato dalle penne, non hai visto la collezione che ha nel suo ufficio?”

“Ehm, non ci ho fatto caso…” disse intimidita, quasi mortificata nel non saperlo.

Miranda restò allibita, sottolineandolo con sconcerto: "Ne ha una mensola piena!"

“Dai, a pranzo metti la tua parte. – Nigel controllò l’orario – Ora dobbiamo metterci a lavoro.”

“No, a pranzo ho un altro impegno, mi dispiace. – spiegò Joanna, mentre Miranda si lasciò andare ad una piccola smorfia; come se fosse sorpresa dal fatto che avesse degli impegni – Ti do la mia parte adesso, ok?”

“Ok, Joanna.” le sorrise di nuovo Nigel, sempre con molta dolcezza.

Joanna ricambiò quel sorriso, poco prima di tornare alla sua scrivania. Miranda era sempre più irritata.

 

~

 

Più tardi, Mona e Joanna stavano salendo le gradinate del distretto; quest’ultima non perse occasione per condividere con lei la sua mattinata lavorativa.

“…Non pensavo di riuscire a farmi avanti, finchè non ho sentito la tua voce martellante nella testa, stile grillo parlante, e sono riuscita a rivolgere loro la parola, ci credi? - raccontò eccitata - Nigel e Geremia sono così simpatici e gentili, mentre Miranda devo ancora inquidrarla. Sono contenta." concluse con un sorriso raggiante.

“Sono così fiera di te, anche se la mia voce non è martellante, credo sia esagerato da parte tua. E poi, più che grillo parlante, sono più la tua fata madrina: ti porterò in boutique a comprare un abito carino per la festa a sorpresa di Lambert. Ovviamente, sconto amici!” le bisbigliò.

“Mona, è una festa a sopresa in ufficio, non una passeggiata sul red carpet: mi vestirò come al solito.”

“Per favore, non mettere quel maglione giallo sopra la camicia azzurra. – le pregò, disgustata – L’ultima volta non riuscivo a guardarti negli occhi.”

Joanna si fermò di colpo, all’ingresso, guardando l’amica con uno sguardo da cucciolo bastonato: “…Ma io volevo mettermi proprio quel maglione giallo assieme alla camicia azzurra.”

“Mi stai prendendo per il culo, vero?” sperò fosse così, basita.

Quell’altra subito sorrise, smentendo: “Certo, che ti sto prendendo per il culo. Non è il red carpet, ma ho una dignità ancora.”

Mona sorrise, sollevata dal fatto che scherzasse. Le due donne non persero altro tempo in chiacchiere: finalmente entrarono nel distretto.

 

~

 

Tra il caos dei telefoni che squillavano e agenti che facevano avanti e indietro negli uffici, Joanna e Mona si sentirono leggermente perse e fuori luogo; quest’ultima, però, decise di prendere le redini della situazione.

“Joanna, presto, dammi il tuo telefono con la foto al luna park!” le ordinò.

“Perché?”

Con gli occhi le indicò un uomo in divisa, dietro alla propria scrivania; molto attraente, alto e dalle spalle larghe: “Così chiedo a quel poliziotto laggiù, se conosce il tuo ragazzo dei sogni, ovviamente.”

Joanna diede una lunga occhiata all’uomo: “Ok, perché proprio lui?”

Arrendendosi con uno sbuffo, Mona si smascherò: “Sì, Joanna, è l’unico poliziotto che mi attira sessualmente, qui dentro! – la tirò per un braccio – Forza, andiamo!”

“Oh mio Dio, vuoi flirtare in un momento come questo?” le domandò a pochi passi da lui.

Senza risponderle, Mona le strappò il telefono dalle mani, impersonando una voce abbastanza impostata, fingendo totale indifferenza: “Salve, agente Tesler – lesse sulla targhetta, spostando la sua chioma dietro alle spalle con un rapido movimento della testa – Per caso conosce questo ragazzo nella foto? Credo che lavori qui.” tese il braccio in avanti, poggiando il dito indice sullo schermo, indicandoglielo.

L’agente si chinò in avanti per guardare meglio.

“Ehm… ma il suo dito indica una ragazza, a meno che prima non fosse un uomo e…” ribattè quello, insinuando un cambio di sesso.

Mona ritirò il telefono, riguardando la foto: “Cosa?”

“E’ quello accanto a me, Mona.” la riprese Joanna, imbarazzata.

“Lo so! – esclamò Mona, indispettita – Ho sbagliato, il mio dito è troppo grosso, abbiamo capito! – si girò verso l’agente, meno inviperita, fingendo un sorriso – Ehm, è il ragazzo con il maglione blu. - gli consegnò il telefono, ancora fresca di figuraccia e la voce piccola – Non credo ci sia bisogno che debba indicarglielo di nuovo.”

“No no, questo ragazzo non lavora qui. – riconsegnò il telefono alle ragazze – Però potete chiedere a lui! – indicò un altro agente – Lui saprà aiutarvi di sicuro, lo conosce.”

“Davvero?” sussultò Joanna, sgranando gli occhi.

“Oh mio Dio, allora è tutto vero!” esclamò Mona, spalancando la bocca in maniera esagerata, attirando subito una brutta occhiataccia da parte dell’amica.

“Sul serio, Mona? – le strappò via il telefono, furibonda – Grazie agente Tesler, ci è stato davvero utile. – accennò un sorriso per salutarlo, tornando subito ad un espressione arrabbiata quando Mona la fissò – Sei incredibile!” esclamò, infine, camminando verso la scrivania dell’altro agente.

Mona la fermò subito per un braccio, vendendola parecchio spedita e incosciente: “Ehi ehi, che stai per fare?”

“Sto andando da quel tizio, non hai sentito cosa ha detto l’agente che ti attira sessualmente?” ribattè Joanna, non accorgendosi di aver alzato un po’ troppo la voce.

Le due sgranarono gli occhi nello stesso istante, voltandosi lentamente: l’uomo le aveva sentite, restando a fissarle come uno stoccafisso.

Imbarazzata fino ai capelli, Mona strappò nuovamente via il telefono dalle mani dell’amica, scappando via come una tredicenne; Joanna, dopo un sorrisino mortificato a quell’agente, la seguì a ruota.

Il momento della verità era arrivato, le due erano di fronte all’uomo che, finalmente, avrebbe dato loro delle risposte.

“Scusi, salve! – esclamò Joanna in modo affannato, dopo che le due si erano accalcate l’un l’altra dopo la corsa – L’agente Tesler ha detto che lei può aiutarci.”

Quello spostò lo sguardo fra le due, poggiando le sue scartoffie, rendendosi subito disponibile: “Sì, che succede?”

“Ehm… - Mona sollevò il telefono con timore – Io e la mia amica ci chiedevamo se conosce questo ragazzo nella foto.”

L’agente Goodwin, così si chiamava, prese il telefono dalle sue mani, poi si lasciò scappare una risata: “Ma questo è mio fratello, che ci fa in un luna park con… - sprofondò immediatamente nella perplessità – Chi sono queste persone? – domandò loro – Conosco mio fratello, non si vestirebbe mai in questo modo. E sono certo che queste persone non facciano parte della sua vita.”

Joanna ebbe timore a chiedere: “P-perché?”

“Perché mio fratello è un tossico, non ha amici per bene come quelli nella foto; è uscito dalla clinica da almeno due settimane, mentre questo scatto ha la data di ieri. – riflettè sulla cosa, divertito – Mio fratello che sorride felice in un luna park: questo è senza dubbio photoshop!”

In quell’istante, era come se il tempo si fosse fermato per Joanna: l’uomo che aveva idealizzato tramite quei sogni, non coincideva con l’uomo che era nella realtà.

Nulla era più certo e Joanna non potè che restare lì in piedi, davanti a quell'agente, totalmente pietrificata.

Sarebbe stata disposta a incontrare Spencer Goodwin e scoprire il mistero dei suoi strani sogni?

 

CONTINUA NEL CAPITOLO DUE

 

Prestavolto:

Joanna Alldred (24 anni) – Melissa Benoist

Mona Bay (25 anni) – Andrea Bowen/Foto dell'attrice nel 2016

Nigel Finnegan (26 anni) – Alexander koch

Miranda Gibbins (25 anni) – Alisha Wainwright

Gerimia Westwick (22 anni) – K.J apa

Agente Derek Goodwin (31 anni) – Austin Nichols

Agente Jonathan Tesler (36 anni) – Sullivan Stapleton

Spencer Goodwin (27 anni) – Luke Mitchell/Foto dell'attore nel 2017

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 2
*** 1x02-Un sogno lungo tre giorni ***


CAPITOLO DUE
“Am I Just Dreaming?”
 
 
Non tutti i sogni sono fatti per essere ricordati; la maggior parte di essi non ha nemmeno un senso.
 
~
 
La sveglia non smise di suonare, incessante; quasi come volesse star lì a sottolineare una situazione anomala, caotica. E lo era.
Joanna aprì finalmente gli occhi, dalla voragine che aveva creato nel suo voluminoso piumone, sprofondandoci dentro la notte prima, probabilmente. Con una mano cercò subito di spegnere la sveglia alla cieca, riuscendoci dopo diversi tentativi andati a vuoto; la fece anche cadere a terra.
Che si fosse rotta o meno, Joanna era troppo frastornata per raccoglierla, così si prese ancora un secondo prima di sollevarsi iniziare la giornata.
Finalmente era in piedi, poco dopo, recuperando il telefono da sopra al comodino: 11 chiamate perse; una da parte di Nigel, suo collega di lavoro, e tutte le altre da parte di mona. C'erano anche dei messaggi.
 
Messaggi non letti:
 
Mona: Sono in ritardo, tra poco arrivo. [Lunedì, ore 07.36]
 
Mona: Carino da parte tua lasciarmi sola, stamattina. Mia sorella è riuscita ad incastrarmi con la faccenda del trasloco. Mi toccherà aiutarla, ti chiamo stasera. [Lunedì, ore 14.48]
 
Mona: Dove diavolo sei? Sono quasi due giorni che non ti vedo e non ti sento. Non sei nemmeno in casa, ho bussato per ore. [Martedì, ore 09.23]
 
Numero sconosciuto: Ehi, sono Nigel, scusa se ti disturbo, ma al lavoro non ci sei venuta, perciò volevo sapere se… beh, se volevi unirti a noi per comprare un regalo di compleanno a Lambert. Dopodomani gli facciamo una festa a sorpresa qui in ufficio. Memorizza il mio numero, fammi sapere. [Martedì, ore 16.01]
 
Mona: Mi prendi prendi il culo??? Joanna, cazzo, chiamo la polizia, ok? [Martedì, ore 23.12]
 
Joanna sbigottì con gradualità a ciascun messaggio letto, mettendosi una mano sulla fronte, stordita. Subito portò il telefono all'orecchio, effettuando una chiamata; non riusciva a capire cosa stesse succedendo ed era intenzionata a scoprirlo.
 
“Mona, pronto?”
 
“Scherzi, vero? Ti fai sentire dopo tre giorni?”
 
I-io non riesco a capire, ci siamo viste ieri… - si spostò in cucina, agitata, sforzandosi di ricordare dove fosse stata nei giorni precedenti - Penserei che sia uno dei tuoi scherzi, ma ho ricevuto dei messaggi anche da Nigel; non mi ha vista al lavoro.” spiegò ancora, con voce incredula, vittima di una strana surrealità.
 
“Joanna, nessuno ti ha vista! Compresa me! Ma che fine hai fatto?!”
 
“Nessuna fine, ieri ero con te! - si affannò nel riferirle la verità - Abbiamo parlato di quella faccenda del sogno, poi siamo andate alla centrale e abbiamo scoperto che Spencer esiste; che l’uomo dei miei sogni è reale, il tizio al luna park!”
 
“Uooo, uooo, frena ragazza! - esclamò, subito frastornata - Dimmi che non sei finita a Tijuana, strafatta in qualche vicolo. Seriamente, c'è qualcosa che non va, sei strana. Lo percepisco.”
 
“Non sono strafatta, sono nel mio appartamento! - urlò esasperata - Non capisco cosa stia succedendo, è tutto così assurdo. - si guardò intorno, accorgendosi dell'assenza del suo cane. - Ma dov’è Bluto?”
 
“Chi?”
 
“Il mio cane, Mona! - esclamò seccata, cercandolo in tutta la casa.”
 
“...Ok, se prima pensavo che c'era qualcosa che non va, ora ne sono convinta: chi diavolo è Bluto?”
 
Quella si sollevò da terra, dopo aver controllato sotto il letto: “La smetti di fare l’idiota? È il mio cane e non riesco a trovarlo.”
“Joanna, tesoro, tu non hai un cane… E, francamente, mi stai spaventando.” le confessò, esprimendo a pieno il suo disagio.
 
Joanna si fermò per un istante, le sue pareti non erano bianche come le ricordava, ma di uno sbiadito celeste: “... E non mi hai aiutato a ridipingere le pareti della mia camera, vero?”
 
“Sono mesi che dici di volerlo fare, ma non ti sei mai decisa a comprare la vernice e i pennelli.”
 
Sconcertata, Joanna lasciò scivolare lentamente il telefono lungo il viso: “Ti richiamo…” poi lo lasciò cadere a terra.
 
“Ma che mi sta succedendo?” provò paura, gli occhi e la bocca spalancati per l’angoscia di non sapere cosa le stesse capitando.
 
Si rese conto che qualcosa non andava per davvero, così corse in bagno a sciacquarsi la faccia, per poi guardarsi riflessa nello specchio.
 
“Sembrava così reale…” mormorò.
 
 
~
 
 
Verso sera, Joanna si ritrovò invitata a casa della sorella di Mona; aveva dato una cena per pochi intimi, in occasione del trasloco nella nuova abitazione.
 
Per tutto il giorno, Joanna ebbe provato a lasciarsi quella bizzarra vicenda alle spalle, ancora ignara di cosa fosse successo in realtà. Mentre tutti se ne stavano nel salottino a ridere e scherzare, Joanna restò in disparte con in mano il suo bicchiere di vino e un capo decisamente troppo elegante e troppo scomodo per i suoi gusti; del resto, era stata Mona a metterle quel completo nero con lo scollo sul seno, una gonna stretta fino alle ginocchia e dei tacchi decisamente alti.
 
“Tesoro, non ti diverti?” le si avvicinò Mona, diretta verso la cucina con in mano i piatti del dolce.
 
“Sono solo pensierosa…” ricambiò con un sorriso molto forzato, che riuscì a rassicurarla quanto basta.
 
“Scusa se sono andata alla polizia, ma non sapevo che altro fare o pensare. - si scusò ancora una volta, pensando fosse quello il motivo di tanto distacco - Fortuna che sei ricomparsa prima delle 48 ore standard di attesa.”
 
“Già, che fortuna!” marcò con un sollevamento delle sopracciglia, fingendo sollievo per la cosa.
 
Improvvisamente le squillò il telefono: era Nigel, quando controllò; la sua espressione scocciata attirò la curiosità di Mona.
 
“Chi ti sta chiamando?”
 
“È Nigel!” le rispose distrattamente, impegnata a decidere se rispondere o meno.
 
“Perchè non rispondi?”
 
“In ufficio organizzano una festa a sorpresa per Lambert, stanno facendo una colletta per il suo regalo.”
 
Le due si spostarono in cucina.
 
“Joanna, non dirmi che fai ancora l’asociale in ufficio? - si infuriò, mettendo i piatti nel lavello - Quante volte ti ho detto di farti avanti e superare questo muro che ti sei costruita attorno?”
 
“Non mi sento molto bene, ultimamente.” si giustificò, poco credibile.
 
“Non sarà che ti vergogni a parlare con Nigel? È questo che ti frena?”
 
“No!” esclamò in maniera sonora, per poi mettersi a braccia conserte con un broncio insicuro.
 
Mona capì di avere ragione, a quel punto: “Sono passati due anni, Joanna. Non credo che ti compatisca ancora. Nessuno lo fa.”
 
“E invece lui mi compatisce! - ribatté, convinta di questo - Del resto, sono la ragazza su cui ha scritto il suo primo articolo di esordio allo Yell of news.”
 
“Vuole solo essere gentile, sa cos’hai passato e ti tratta di conseguenza. E poi ho amato le parole che ha usato per descrivere quel mostro di Kyle, in quell’articolo; non avrei saputo usare parole migliori.”
 
“In ufficio sono tutti amici suoi, non riesco mai ad avvicinarmi. - sospirò - Ho paura che se provo a rivolgere loro la parola, tutti si gireranno a fissarmi per poi ricordare ciò che mi è accaduto e vedermi come una patetica e fragile ragazza che non ha saputo prevedere le conseguenze di quella relazione malsana. - esternò le sue paure - Preferisco fare il mio lavoro e tornare a casa mia, dove posso finalmente respirare e non dover affrontare nessuno.”
 
L'altra sorrise, trovandola stupida: “Joanna, tu vivi in un sogno se pensi che la vita sia davvero così difficile.”
 
“Un sogno, hai detto?” sgranò gli occhi a quella parola, leggermente turbata.
 
“Sì, Joanna! - la prese per le spalle, risoluta - Se c'è una cosa che ho imparato dalle mie esperienze, è che la vita non è difficile come crediamo: siamo noi a renderla così; lo facciamo con le nostre inutili paranoie e le nostre stupide incertezze. - le spiegò - Joanna, devi solo fare un passo e iniziare a parlare; di per sé, queste, sono azioni semplicissime, non credi?”
 
Joanna abbassò lo sguardo, riflettendo su quanto le era stato detto; forse Mona aveva ragione, forse siamo proprio noi stessi a rendere tutto così difficile.
 
Nell'altra stanza, poco dopo,Claire, suo marito e i loro amici, stavano indossando i cappotti. Prima di uscire, quella avvisò Mona.
 
“Sorellina, noi stiamo uscendo. Accompagnamo Denise a casa sua e torniamo.” si fece sentire dalla porta.
 
“Va bene, io e Joanna diamo una sistemata intanto. Ciao, ragazzi! Buonanotte!” salutò, facendosi sentire dalla cucina; quelli ricambiarono subito il saluto, per poi uscire.
 
Approfittando del fatto che erano rimaste sole, Joanna sputò il rospo sul suo strano atteggiamento; non riuscì proprio a placarsi.
 
“Ti ho mentito!” rivelò.
 
Mona si girò con la testa, mentre era intenta a lavare i piatti della cena: “Su cosa?”
 
“Oggi ti ho mentito, non era vero che sono stata dai miei genitori in Vermont negli ultimi tre giorni.”
 
“Ok, d’accordo… - chiuse il rubinetto, concedendole la sua attenzione - E dove saresti stata?”
 
Joanna faticò nel far uscire un suono dalla sua bocca, non sapeva come dirle la verità: “Io… I-io…”
 
“Tu, cosa?” le domandò, sulle spine.
 
“Io ho dormito! - esclamò, finalmente - Ho dormito per quasi tre giorni, senza svegliarmi”.
 
Mona si asciugò le mani con uno straccetto, leggermente perplessa e schiva con lo sguardo: “Ehm, ok… Dev'essere stanchezza, no? Sei andata dal medico?”
 
“Mona, non è stanchezza. - esternò con terrore - Sento che c'è qualcosa che non va.”
 
“Ok, allora che cos’hai? Spiegami!” le intimò.
 
“In questi ultimi tre giorni ho dormito, ma non ho percepito del tutto la differenza al mio risveglio; o almeno, non finchè non ho letto i messaggi.” provò a spiegare.
 
“Differenza tra cosa?” cercò di seguirla con fatica.
 
“Tra il sogno e la realtà! - esclamò con preoccupazione - Nel sogno che ho fatto, avevo un cane, le pareti che volevo dipingere di bianco erano bianche e io ho finalmente trovato il coraggio di parlare con Nigel e gli altri colleghi.”
 
“Perché segui i miei consigli solo da addormentata? Devi parlare con il Nigel della realtà e non quello dei sogni: comodo! - le fece subito una ramanzina, distaccandosi dall’atmosfera seria che Joanna creò - Per quanto riguarda le pareti, beh, sei pigra! Dovevi essere proprio pompata di steroidi in questo sogno, se ti sei finalmente decisa a ridipingerle. ”
 
“Mona, per favore, ascoltami! - esclamò isterica, catturando una sua smorfia sorpresa a quella reazione così esagerata - Era reale, quanto è reale questa conversazione, ok? - raccontò con più precisione - I secondi, i minuti e le ore passavano lentamente e ho vissuto ogni istante come se fosse quella la mia vita; infatti anche nel sogno sono passati tre giorni e li ho passati in parte con te, in parte in ufficio e poi a casa: come al solito.”
 
“Joanna, cosa c'è di strano in tutto questo? Si chiamano sogni lucidi, proprio perché sembrano veri.”
 
“Non avevo idea che in ufficio stessero organizzando una festa a sorpresa per Lambert. Come posso aver sognato di saperlo, se non lo sapevo?”
 
“L’avrai sentito distrattamente da qualcuno e il tuo cervello ha immagazzinato l’informazione.”
 
“Ti ho anche parlato di un sogno che ho fatto: ero in questo luna park con altre tre persone; sembrava ci conoscessimo da sempre. Poi, quando mi sono svegliata, c'era questa foto sul mio telefono e… - si fermò di colpo, sgranando gli occhi - Oh mio Dio, la foto!” tuonò, recuperando subito il suo cellulare dalla borsa, lì sul tavolo.
 
Mona sembrò sempre più confusa: “Un secondo, hai fatto un sogno, mentre stavi...sognando?” trovò bizzarro.
 
“Ehm, sì, più o meno… - le rispose distrattamente, cercando disperatamente quella foto - Ma dove diavolo è???”
 
“Forse non c'è?” puntualizzò, sottolineando la sua follia.
 
Joanna si fermò nel cercare, lanciandole una brutta occhiataccia.
 
“Che c'è? - reagì Mona, marcando il suo giusto scetticismo - Davvero stai cercando di trovare nel tuo telefono una foto che hai scattato nel sogno che hai fatto mentre sognavi?”
 
Joanna si rese conto che era fin troppo assurda come storia, così cercò di convincere Mona in un altro modo: “Ho ancora una possibilità per essere creduta. So che non sono credibile al momento, ma vieni con me al distretto di polizia e saprai che dico il vero.” le supplicò con lo sguardo.
 
“Cosa c'è al distretto per farmi cambiare idea?”
 
“Grazie al tuo aiuto, abbiamo decifrato un secondo sogno che ho fatto in una spiaggia; c'era uno dei tre ragazzi che era con me in quel primo sogno al luna park; sembravo avere una cotta per lui, o, meglio, la Joanna del sogno era innamorata di lui. Si chiama Spencer Goodwin.”
 
“Quindi troveremo questo Spencer in prigione?” pensò con logica.
 
“No, uno dei poliziotti è suo fratello. Da lui abbiamo scoperto che Spencer era un tossico.”
 
“Ti innamori sempre dei cattivi ragazzi, eh? - ricevette l’ennesima occhiataccia - Ehm, scusa.” si ammutolì.
 
Joanna piombò nuovamente nella paranoia: “Ho paura di stare sognando anche in questo momento. Magari tra due minuti mi sveglierò e dovrò ripeterti da capo tutto quanto.”
 
“Non essere drastica, prendo il cappotto!” esclamò, avviandosi.
 
Joanna, presa subito da un raptus, lanciò un bicchiere a terra. Mona si voltò, spaventata.
 
“Ma che diavolo ti è preso?”
 
Quella deglutì faticosamente, mortificata: “Scusa, volevo solo capire se sto sognando.”
 
“Buttando un bicchiere a terra?” replicò con tono sconvolto.
 
“Pensavo di svegliarmi, ma come vedi non è successo.” le sorrise, sperando sorvolasse su quanto appena accaduto.
 
“Ti prego, dimmi che la Mona del sogno trova tutto questo molto folle.”
 
“Altrochè!”
 
Mona cacciò fuori un sospiro, riprendendosi dallo spavento preso: “Bene, viva il #TeamMona!”
 
 
~

 
Al distretto, ancora infreddolite dall’ambiente esterno, le due ragazze erano in cerca dell’agente Goodwin.
 
“Il piano era questo, c'è la scrivania dell’agente Tesler, laggiù!” indicò Joanna all'amica, facendo da guida.
 
“E chi diavolo sarebbe?”
 
“La Mona del sogno è sessualmente attratta da lui.”
 
“Ah, sì?” pensò, curiosa.
 
In quell’istante, l’agente Tesler tornò alla sua scrivania. Mona poté finalmente vedere com'era.
 
“Mmh, la Mona del sogno sa il fatto suo.” ammiccò, trovandolo affascinante.
 
L'agente Tesler buttò un occhio sulle due, non appena avvertì la loro presenza; il suo sguardo incrociò subito quello di Mona, che gli sorrise ammaliata.
 
Joanna la tirò verso un'altra direzione, però, mettendo fine a quel momento: “Sì, ma non è lui con cui dobbiamo parlare. L'ultima volta che sono stata qui, nel sogno, lui mi ha indicato la scrivania di Derek Goodwin, il fratello di Spencer.”
 
Mona indicò subito un agente alla sua scrivania, poco lontano da loro: “Quel tipo, per caso?”
 
“Sì, lui.” confermò Joanna.
 
Le due rimasero lì impalate a fissarlo, timorose di avvicinarsi.
 
“Come hai intenzione di esordire? Dicendo: “Salve agente, ho conosciuto suo fratello in un sogno che ho fatto dentro un altro sogno”?
 
Joanna prese coraggio, avviandosi decisa: “Reggimi il gioco!”
 
L'altra rimase indietro, rincorrendola subito: “Ehi, aspetta, quale gioco? Io non sono brava nei giochi!” esclamò preoccupata.
 
Qualche secondo più tardi, erano davanti alla sua scrivania; nessuna delle due parlò, fissandolo e basta, a braccetto come due vecchiette. L'uomo alzò lo sguardo, impaziente.
 
“Sì?”
 
“Ehm, Salve agente… - le sembrò di aver iniziato come prospettato da Mona - Ehm, io…”
 
“Non sfidare la sorte…” le sussurrò l'amica con un angolo della bocca.
 
L'agente Goodwin restò lì a fissarle, trovandole strane.
 
“Siete qui per sporgere una denuncia o cosa?”
 
“Ouh, no no! - Joanna chiarì subito - Sono qui perché so che lei è il fratello di Spencer… - insieme a Mona osservò la sua reazione - non è così?” deglutì malamente, sudando freddo.
 
Finalmente l'agente disse qualcosa: “Sì, sono il fratello di Spencer. Quindi?”
 
Joanna sorrise, tirando un sospiro di sollievo. Mona, invece, restò a bocca aperta, incredula.
 
“Cazzo, non ci credo…” commentò sottovoce, ma non così tanto da non essere ascoltata.
 
L'agente Goodwin continuò a spostare lo sguardo fra le due, sempre più stranito.
 
Joanna riprese subito parola: “Io e Spencer eravamo nella stessa clinica. - inventò, basandosi con astuzia sulle informazioni che possedeva - Quando sono stata dimessa, ho perso il numero che mi aveva scritto e…”
 
“Ah, eravate nella stessa clinica… - borbottò con tono serio, l’argomento non sembrò fargli piacere - E che problema avevi?”
 
Joanna, i cui dubbi erano finalmente diventati certezze, continuò per quella via: “Ehm, mi facevo! - rispose, fingendo vergogna; Mona sgranò gli occhi ed impallidì, restando in silenzio - Non voglio entrare nei dettagli, se non le dispiace.”
 
“No no, nessuno lo vuole. - disse l’agente, osservando il suo orologio da polso - Quindi sei venuta fin qui, alle undici passate di sera, per chiedere un numero? - trovò bizzarro - E poi come fai a sapere chi sono?”
 
“Spencer mi ha raccontato di te, mi disse che facevi l'agente di polizia, qui a San Francisco; così mi sono ricordata ed eccomi qui.” spiegò prontamente.
 
“Non sapevo che mio fratello amasse parlare di me. - restò sorpreso - Sapete, non andiamo molto d'accordo; io sono un po’ il fratello che segue le regole, in famiglia, mentre lui è quello ribelle che non ascolta mai nessuno. - la cosa lo rendeva chiaramente triste - A dir la verità, mio fratello non ha mai dato grossi problemi… finché non è successo quello che è successo…” abbassò lo sguardo, facendo capire alle due che, dietro alla storia della tossicodipendenza, c'era molto di più.
 
Mona notò i suoi occhi improvvisamente lucidi, sincerandosi delle sue condizioni: “Tutto bene, agente?”
 
Quello fece un colpo di tosse, poi un suono mucoso col naso, riprendendosi subito: “Ehm, ora vi scrivo il numero. - prese carta e penna, fingendo di non aver avuto quel momento di debolezza - Inutile stare qui a parlare di cose legate al passato, no? - consegnò il numero a Joanna, forzando un sorriso ad entrambe - Se sei stata in clinica con lui, ti avrà già raccontato qualcosa della sua vita.”
 
A qualunque cosa si riferisse, Joanna non poteva saperla, ma finse ugualmente di sapere: “Certo, abbiamo parlato molto. Non ce l'avrei mai fatta senza di lui, ci siamo sostenuti a vicenda.”
 
“Mi raccomando, sembri una brava ragazza. E sei giovane. Non ricascarci più.” le suggerì Derek.
 
“Non succederà. - gli sorrise - E sono sicura che non succederà di nuovo nemmeno a Spencer.”
 
“Lo spero anch'io.” ribatté, cercando di essere fiducioso quanto lei.
 
Mona fece subito un intervento, carismatica come suo solito: “Stia tranquillo, agente Goodwin. La tengo d’occhio io!” esclamò, facendo anche un occhiolino.
 
L'uomo sollevò le sopracciglia, accennando un sorriso; le due si allontanarono dalla sua scrivania dopo averlo salutato.
 
Fuori dal distretto, sulle gradinate, Joanna rivolse subito un occhiataccia a Mona, irritata.
 
“La tengo d'occhio io? Seriamente?”
 
“Che c'è? Sei una tossica, no? - ribadì - Mi ha chiesto tu di reggerti il gioco.”
 
“Mh, hai ragione. - si placò, tirando fuori il numero di telefono dalla tasca, fissando il foglietto - Mio Dio, Mona: ce l'ho! Ho il numero di Spencer, era tutto vero.”
 
“O sei una stalker a livelli raccapriccianti o tutto questo è realmente vero.”
 
“Dici che lo devo chiamare?” chiese consiglio, improvvisamente ansiosa, l'aria gelida che le usciva dalla bocca per il freddo.
 
“Non ho portato il mio culo fin qui per sentirmi fare questa domanda, Joanna: certo che lo devi chiamare!”
 
“E come gli spiego tutto questo?”
 
“Ascolta, se si trattasse di me, io probabilmente non ti capirei; nessuno ti capirebbe, a dire il vero. Tu, però, mi hai detto che Spencer era in un sogno che hai fatto mentre sognavi durante gli ultimi tre giorni: magari sta accadendo la stessa cosa anche a lui. Provaci.”
 
“Ok, riaccompagnami a casa. - le sue parole la convinsero - Proverò a chiamarlo.”
 
“Bene, ora andiamo. - mise il suo braccio sotto quello di Joanna, rabbrividendo - Sto congelando!” e iniziarono a scendere i gradini, dirette all’auto.
 

~
 
 
SACRAMENTO, CALIFORNIA.
 
 
Davanti al bordo di un cavalcavia che si affacciava su un’autostrada, Spencer Goodwin era solo, con indosso una felpa nera e malandata, un giubbino sopra e dei jean; stava osservando una fotografia, stretta tra le mani, con le lacrime agli occhi: la foto raffigurava lui stesso assieme ad una ragazza; sembravano felici, forse innamorati.
 
Dopo averla messa in tasca, a seguito dell'ennesima occhiata sofferente, Spencer salì sul bordo, mentre le auto passavano veloci sotto di lui. Dopo aprì le braccia, come fosse un segno liberatorio, poi chiuse gli occhi: era pronto a farla finita.
 
Il suo cuore batteva forte, stava per farlo, ma, improvvisamente, il suo telefono squillò e perse l'equilibrio. Fortunatamente per lui, non cadde di sotto, ma solamente all'indietro; ancora a terra, il respiro rumoroso e il cuore a mille, recuperò il telefono: era un numero sconosciuto. Rispose.
 
“Pronto? Chi parla?”
 
D'altra parte del telefono, Joanna si sollevò di scatto dal letto, dove, sdraiata, aveva atteso una risposta fino a quel momento. Incredula e con il cuore in gola, finalmente disse qualcosa.
 
“Sto parlando con Spencer Goodwin?”
 
“Sì, chi mi cerca?” domandò, frastornato.
 
“Ehm, mi chiamo Joanna Alldred… - provò a trovare le parole per spiegare - Ehm, so che ti sembrerà strano, ma ho fatto un sogno in cui-”
 
Spencer sgranò gli occhi, interrompendola: “Sei quella del luna park, vero?”
 
“Sì! - esclamò subito, non riuscendo a credere alle sue orecchie - Anch'io ti ho conosciuto al luna park, eravamo insieme ad altre due persone ed era come se fossimo amici o, comunque, conoscenti.”
 
“La ragazza, quella con i capelli neri e mossi e il piercing al naso… credo si chiamasse Cassie.” raccontò, tornando in fretta alla sua auto.
 
Anche Joanna si sforzò di ricordare: “...Sì, mentre l'altro ragazzo, quello più giovane, di colore… se non sbaglio, il suo nome era Bradley.”
 
“Sì, ora mi ricordo. - entro in macchina, adrenalinico e pieno di domande - Ma come mi hai trovato?”
 
“E difficile da spiegare… - rispose, facendo avanti e indietro davanti alla finestra - So solo che dopo il sogno che ho fatto al luna park, ne ho fatto un altro dove eravamo su una spiaggia.”
 
Spencer fece mente locale, ritrovandosi anche in questo scenario: “Ok, anch’io ti ho sognata in una spiaggia, ma è solo un ricordo, non mi sembra di averti parlato.”
 
“Perché nei sogni non possiamo farlo, siamo solo spettatori. In qualche modo, però, ho scoperto da piccoli indizi che qualcuno a te caro lavorava al distretto di polizia, qui a San Francisco, dove vivo: tuo fratello.”
 
“Hai avuto da lui il mio numero?”
 
“Sì, ho finto di essere una tua amica. Ti sembrerà assurdo, ma i sogni che ho fatto su di te e sul luna park, li ho fatti mentre-”
 
Fu interrotta nuovamente: “Anche tu hai fatto un sogno dentro al sogno, non è vero? - sperò di ricevere una risposta affermativa - Ti prego, dimmi di sì, perché sento di stare impazzendo.”
 
Joanna si mise una mano sul petto, sollevata: “No, non sei pazzo. Ho dormito per quasi tre giorni, ma, mentre sognavo, credevo di essere nella realtà.”
 
“Ho dormito per tre giorni anch'io e quando mi sono svegliato, ho pensato di essermi fatto fino al limite e non riuscivo a capire cosa stesse accadendo; sai, devi sapere che sono un tossico e che due settimane fa sono stato dimesso dalla clinica in cui i miei genitori mi hanno portato.”
 
“Sì, lo so, me l'ha detto tuo fratello; cioè... tuo fratello del sogno, non quello reale.”
 
“Perchè, cosa ti fa credere che non sia un sogno anche questo?” ebbe dei seri dubbi a tal proposito.
 
“Perché stavolta non ho un cane, mentre nel sogno ce l'avevo. Persino le pareti della mia stanza sono diverse da quelle del sogno.”
 
“Anche tu ti sei accorta delle differenze? - fece caso - Nella versione del mio sogno, dopo essere uscito dalla clinica, sono tornato nel mio vecchio appartamento e sotto casa aveva aperto una nuova caffetteria. Nella realtà, invece, sono tornato a casa dei miei genitori perché avevano venduto il mio appartamento; volevano tenermi d'occhio, in modo che restassi pulito. Furioso, poi, sono andato a stare da un mio amico e mi sono risvegliato sullo stesso divano su cui mi ero addormentato.”
 
Joanna ebbe un’altra perplessità: “Sai, quando mi sono svegliata, credevo ancora di avere quel cane; ho creduto anche in molte conversazioni che non sono mai avvenute, finché non ho letto alcuni messaggi sul telefono e mi sono resa conto che avevo solo sognato.”
 
“Quei sogni si sono insinuati nella nostra mente, facendoci credere che fossero la realtà; quando mi sono svegliato a casa di quel mio amico, inizialmente non capivo perché non fossi nel mio appartamento.”
 
“Scusa, ma il tuo amico dov'è stato durante quei tre giorni?”
 
“Fuori città!” spiegò, per poi sospirare.
 
“D'accordo, ragioniamo un secondo… Entrambi abbiamo dormito per quasi tre giorni;  quando andavamo a dormire, sempre durante il sogno, abbiamo sognato il luna park e poi la spiaggia: non può essere una coincidenza. Dev'esserci successo qualcosa, se riusciamo a connetterci tramite i sogni.”
 
“Sì, ma cosa?” non aveva idea.
 
“Forse, prima, dovremmo provare a cercare Cassie e Bradley: se io e te siamo reali, sono reali anche loro. Insieme potremmo capire cosa ci è accaduto, se è accaduto anche a loro.”
 
Spencer annuì, scarno di parole: “Ottima idea, bene. Faremo così.”
 
Subito calò il silenzio sui due; non sapevano che altro dirsi.
 
Joanna, allora, riprese a parlare, trovando qualcos’altro da dire: “Scusa se ti ho chiamato a quest'ora. Spero di non aver interrotto nulla.”
 
L'altro sorrise, trovando quella frase alquanto paradossale rispetto a ciò che aveva realmente interrotto: “Non hai interrotto nulla di cui tu debba preoccuparti; anzi, mi hai salvato la vita.”
 
Joanna rise, imbarazzata: “Addirittura?”
 
Ovviamente non le disse cosa stesse realmente facendo, prima della telefonata: “Beh, sì, finalmente non sono più da solo in questa cosa. Un altro giorno e sarei finito in manicomio, perciò… grazie per aver chiamato nel momento giusto. Il tempismo sembra essere il tuo forte!”
 
“Forse sono brava solo in quello!” replicò con sarcasmo, nascondendo una triste vita colma di fallimenti clamorosi.
 
“Buonanotte, Joanna!” le disse dolcemente, un sorriso genuino che il suo volto non vedeva da tempo.
 
“Buonanotte, Spencer!” rispose con premura, un sorriso genuino che nemmeno il suo viso vedeva da tempo.
 
Entrambi chiusero la chiamata, e fu così che nel dramma delle loro vite, ancora sconosciute, Spencer e Joanna si erano trovati grazie ad un sogno; un sogno che per loro non aveva un senso, ma che era stato capace di unire i loro destini e dar loro una speranza, nonostante ci fossero più domande che risposte. Nel suo inizio, però, questo sogno aveva fatto molto di più di quanto appena detto: aveva appena cambiato il corso delle loro vite. Per sempre.
 
 
CONTINUA NEL CAPITOLO TRE
 
 
Prestavolto:
 
Claire Bay (36 anni) - Julie Benz
 
 
 
 
 
 

 

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

 

 

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