There's no death, no end of time when I'm facing it with you.

di Birra fredda
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo. ***
Capitolo 2: *** one. ***
Capitolo 3: *** two. ***
Capitolo 4: *** three. ***
Capitolo 5: *** four. ***



Capitolo 1
*** Prologo. ***


I personaggi non mi appartengono, è tutto frutto della mia mente malata e avete capito.



Nathan era rincasato anche quella notte all’alba. Matt lo aveva sentito chiaramente rientrare e lo aveva sentito inciampare in successione nei primi due gradini che portavano al primo piano della casa. Così era andato ad aiutarlo.
Lo aveva trovato in preda al panico seduto in fondo alla scalinata, con addosso una puzza di marijuana non indifferente e l’alito di chi ha bevuto decisamente troppo.
“Papà sto bene, torna a dormire” gli aveva detto suo figlio, con la voce strascicata, guardandolo con degli occhi rossi e gonfi da far impressione.
Adesso lo osservava dormire.
Lo aveva preso tra le braccia come faceva con sua moglie e sua figlia quando voleva dimostrare loro ch’era forte come a trent’anni, lo aveva portato in camera sua, spogliato di scarpe e jeans per farlo stare più comodo, e lo aveva messo a letto.
Benché fosse adirato con lui e ogni tanto volesse scrollarselo di dosso, neanche fosse una mollica di pane, gli voleva un bene che non sapeva come spiegare. Un bene diverso da quello che voleva ad Alicia, un bene quasi come quello che voleva ai suoi amici ma arricchito dal senso di protezione e di dovere di controllo che aveva nei suoi confronti.
Non era sicuramente il figlio maschio che immaginava di avere, ma andava bene così. Non gli importava se non gli faceva compagnia in palestra e non poteva chiedergli di aiutarlo a spostare roba pesante data la sua stazza gracile. Non gli importava se non aveva spalle larghe, braccia e gambe toniche e tartaruga. Non gli importava se ai concerti degli Avenged Sevenfold non si gettava insieme a Nicole, Connor e Cherie nel pit e non pogava e non partecipava ai wall of death o ai circle pit. Davvero, non importava.
Gli voleva bene per quello che era.
Gli voleva bene per il suo essere un diciassettenne minuto che ancora riusciva a prendere il braccio come se avesse sette anni, per il suo essere un ragazzino problematico, casinista, una pulce talvolta insopportabile e fin troppo spesso assente.
Non voleva che si allontanasse troppo da lui e da Val.
Con Alicia l’adolescenza era stata diversa. Lei era sempre stata calma e responsabile, non era mai stato difficile o problematico avere a che fare con lei, e le litigate erano state poche, lei era sempre stata quella che si prendeva cura di tutti loro quando qualcosa non andava e adesso non c’era. Adesso erano solo lui e sua moglie a dover affrontare quell’adolescente così simile a lui alla sua età, troppo simile.
Dormiva abbracciato al cuscino, Nathan, profondamente assopito e con la bocca leggermente aperta come faceva anche da bambino.
Del bambino che era, era rimasto in lui molto. Aveva ancora lo stesso sguardo di quando era piccolo, quando era sorpreso per qualcosa o incuriosito. Spalancava quei fanali verdi dalle fitte sopracciglia e sembrava così ingenuo e così fragile, così fottutamente delicato al pari del Mondo in cui viveva e che ogni giorno lottava per abbatterlo.
Matt avrebbe voluto fargli da scudo contro ogni male, ma sapeva che non poteva e non doveva farlo.
Doveva lasciare che suo figlio sbagliasse anche, doveva lasciare che capisse da solo, doveva lasciarlo andare almeno un po’ senza mai perderlo di vista. Non avrebbe comunque potuto evitare che si ferisse e che si lasciasse fare del male, non poteva evitare che soffrisse. Non lo avrebbe mai abbandonato a se stesso, mai e poi mai, ma voleva che capisse che stava sprofondando in un mare di merda e doveva riemergerne per lo più da solo, con le sue forze e la sua forza di volontà, se non voleva finire troppo in basso e non riuscire più a respirare.
Nathan ormai aveva diciassette anni e, di lì a poco, avrebbe dovuto cominciare a prendere decisioni serie sul suo futuro. Non voleva che arrivasse impreparato a quel momento, voleva che fosse pronto e forte per affrontare ciò che c’era dopo il liceo, voleva che si rimboccasse le maniche e desse una bella svolta alla sua vita.










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Sono tornata dopo un'infinità di tempo e con un nuovo nome, ma sono sempre la vecchia Echelon_Sun.
Come state? Vi sono mancata?
Ho scritto tante nuove cosucce in questo lungo periodo di assenza, ma forse troppo personali per un sito internet, Quindi eccovi la mia nuova ff!
Si può considerare una sorta di sequel di New Generation, anche se il protagonista non sarà più Nicole ma sarà Nathan (se non l'avete letta vi basterà leggervi il primo capitolo per avere un'idea su chi è figlio di chi. Se la leggerete per intero mi farete felice).
Spero vi intrighi questo prologo e, boh, io ce lo vedo troppo Matt a fare il papà in crisi di un ragazzo in piena adolescenza.
Lasciatemi recenzioni pls,
Birra Fredda

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Capitolo 2
*** one. ***


Quando Nathan scese per pranzo (non si era svegliato abbastanza presto per la colazione) trovò solo suo padre seduto sul divano a giocare a call of duty.
“Partitella?” propose allegro, strofinandosi un occhio per cacciare via il sonno.
Matt si girò a guardarlo.
Era sceso così come lo aveva messo a letto: in boxer, calzini e maglietta nera. Non si era neanche lavato la faccia e i denti.
“Magari più tardi” rispose l’uomo.
Nathan si strinse appena nelle spalle e pensò che aveva una fame assurda e, se non avrebbero giocato, almeno avrebbero potuto mangiare.
“Dov’è mamma?” chiese, al posto di esprimere i suoi reali pensieri.
“È uscita con zia Mich, sarebbero andate dalla parrucchiera e poi a fare shopping. Probabilmente non tornerà neanche per cena.”
Nathan capì che c’era qualcosa che non andava, a quel punto.
Sua madre era uscita con la sorella e sarebbe stata fuori tutto il giorno, nessuno aveva pensato di cucinare qualcosa e suo padre era così dannatamente strano e aveva rifiutato una partita al suo videogioco preferito.
Qualcosa non tornava.
“È successo qualcosa?”
“A che ora sei tornato questa notte?”
Il ragazzo cominciò a capire. Non se lo ricordava, non ricordava come fosse tornato a casa, come fosse rientrato o come fosse arrivato fino alla sua stanza. Figuriamoci ricordarsi l’orario.
“Non lo so...”
Matt sospirò.
“Non so neanche più come punirti” disse stancamente. “E sono stufo di incazzarmi e urlare.”
Nathan mosse un paio di passi in avanti. Avrebbe voluto scusarsi, sedersi al fianco di suo padre e lasciarsi andare a una marea di parole. Avrebbe tanto voluto che suo padre non avesse più in viso quell’espressione delusa, frustrata, spossata, ferita.
Lui e sua madre cercavano in ogni modo di indirizzarlo verso strade più propizie, rispetto a quelle che stava intraprendendo di sua spontanea volontà, ma lui ogni volta li deludeva, sbagliava, tornava indietro al pub, ignorava le loro regole e le loro imposizioni e le loro punizioni. Ogni volta si impegnava nel non essere un buon figlio che rispetta i suoi genitori. Ogni volta li feriva.
Sarebbe voluto essere in grado non farlo.
“Che devo dirti, Nate?” continuò suo padre, sospirando. “Ormai credo che tu possa sgridarti da solo. Devo toglierti di nuovo il cellulare? La moto? Devo perquisire la tua stanza?” disse ancora, spostandosi verso il bordo del divano. “Non lo so. Ho provato di tutto, non ho più idee se non quella di stenderti sulle mie ginocchia e sculacciarti come un bambino, dato che ti comporti come tale.”
Il ragazzo fece un passo indietro, pensando che suo padre a quel punto potesse davvero afferrarlo per un braccio, tirarselo addosso e suonargliele fino a che il suo sedere non fosse diventato viola.
Però Matt non diceva troppo sul serio, e si lasciò andare all’indietro, con schiena e testa contro lo schienale del divano, chiuse per un momento gli occhi e poi si alzò di scatto.
Nathan trasalì e si fece da parte, temendo una reazione avventata dell’uomo, che però gli passò accanto e tirò dritto fino alla cucina.
“Papà?”
“Cosa?”
“Tutto qui?”
Matt si affacciò con una padella in mano. Lo guardò a lungo, percorrendo con lo sguardo quel corpo minuto. Avrebbe davvero voluto picchiarlo a suon di sculacciate a mano aperta, per sfogarsi e per fargli capire la gravità di ciò che faceva. Ma non era più un bambino, era ormai un ragazzo che fin troppo presto sarebbe diventato un adulto, sebbene non si comportasse come tale. Avrebbe voluto lasciarlo dolorante, col culo in fiamme, steso sul divano per riflettere sulle sue azioni.
Ma non poteva e non doveva farlo.
“Dammi qualche idea per punirti, Nate, perché io ne sono rimasto a corto” disse l’uomo, senza smettere di guardarlo.
Il ragazzo andò verso di lui, mentre Matt si dirigeva verso i fornelli. Non capiva se era ironico e serio, ma provò comunque ad abbozzare qualcosa:
“Penso che dovresti vietarmi di uscire per un po’ e...”
Uno schiaffo lo raggiunse all’improvviso, cogliendolo di sorpresa. Non lo aveva preso in piena faccia, ma tra la guancia e l’orecchio.
Suo padre non l’aveva mai picchiato.
Okay, l’aveva picchiato solo una volta, quando aveva circa otto o nove anni. Stava per attraversare la strada per rincorrere il pallone che gli era sfuggito, senza guardare le auto, e se lo avesse fatto sarebbe sicuramente morto o rimasto ferito gravemente. Matt si era spaventato al punto tale che lo aveva afferrato con forza per un braccio, lo aveva scosso con violenza e poi gli aveva dato un ceffone così forte che gli era rimasto il livido per quasi una settimana.
Il ragazzo portò istintivamente le mani al viso, riparandolo. Non era stata una sberla forte, ma era stata sicuramente inaspettata e Nathan guardò suo padre come se fosse impazzito.
“Sono stanco di avere a che fare con te!” gridò l’uomo a pieni polmoni, alzando le braccia al cielo e facendo indietreggiare il figlio, il quale temeva potesse picchiarlo di nuovo. “Sono stanco di doverti venire a recuperare sul portico o sulle scale perché non riesci ad arrivare da solo in camera tua, di doverti spogliare e mettere a letto e poi mettere a fare la lavatrice per non far sentire a tua madre la puzza di marijuana.”
Ah, cazzo, quindi si sentiva?
“Sono stanco di punirti e di darti sempre nuovi limiti che tanto non rispetti, di scusarmi con la preside almeno una volta a settimana per i tuoi atti di vandalismo, i tuoi voti vergognosi, le tue risse e le tue assenza” continuò Matt, alzando ulteriormente il tono di voce. “Fai come cazzo credi, cavatela da solo, dato che ti credi tanto superiore a me e a Val da ignorarci completamente!”
Si guardarono negli occhi identici per qualche secondo, occhi di rabbia in occhi di timore.
Poi il padre si girò di scatto e andò al frigo per prendere due hamburger.
Nathan si appoggiò al muro e cercò di non cominciare a frignare. Doveva essere forte, non mostrarsi debole per l’ennesima volta. Doveva essere forte.
Non poteva dire sul serio.
Suo padre non poteva pensare davvero che se la sarebbe cavata da solo. Sapeva benissimo che non ce l’avrebbe fatta, che sarebbe andato tutto ancora peggio, che si sarebbe lasciato andare ancora di più e che, senza il suo aiuto e le sue dritte, non sarebbe mai riuscito a risollevarsi. Doveva aver parlato solo in preda al nervosismo, non pensando realmente neanche una delle parole che aveva pronunciato. Doveva essere così.
Lo osservò mentre cucinava.
Tutte le volte in cui suo padre l’aveva punito, gli aveva sbraitato contro, lo aveva afferrato per un braccio e strattonato, tutte le volte in cui era piombato nella sua camera e l’aveva rivoltata come un calzino alla ricerca di qualcosa che non ci sarebbe dovuto essere, tutte le volte che lo aveva immobilizzato e gli aveva preso il cellulare o le chiavi del motorino dalle tasche, in tutte queste occasioni Nathan si era incazzato con lui. Si era sentito impotente e trattato da ragazzino, non da adolescente. Si era sentito poco rispettato per la persona che era.
Eppure, in qualche modo, nel profondo, non l’avrebbe mai e poi mai ammesso a voce alta, si era sempre sentito anche grato nei confronti dei suoi genitori.
Perché non mollavano, con lui.
Se si incazzavano fino a tal punto, era perché ci tenevano a lui e non volevano che andasse troppo oltre. Se lo punivano e gli proibivano di uscire e gli urlavano contro, era perché gli volevano bene e il suo comportamento li faceva stare male e li faceva preoccupare.
Questa volta suo padre aveva perso la pazienza, aveva urlato ma non per dirgli le solite cose. Non per dirgli che si stava rovinando, che continuando così sarebbe stato sempre peggio, non per dirgli che doveva riprendere in mano la sua vita o per comunicargli qualche divieto.
No. Aveva gridato che era stanco di lui e non aveva più intenzione di incazzarsi e di sforzarsi di rimetterlo in riga.
Forse non gli voleva più il bene che gli voleva prima, forse ci teneva di meno a lui. Era diventato un essere così insulso che i suoi genitori non si curavano più neanche di infuriarsi per le sue azioni.
Suo padre gli aveva dato quello schiaffo in uno scatto d’ira. Non uno schiaffo pensato, ragionato, dato con criterio. Solo di rabbia, di profonda frustrazione.
Adesso doveva cavarsela da solo, a quanto pareva. E sapeva già che avrebbe fallito.
Falliva sempre. Non poteva farne a meno. Anche quando non voleva, anche quando voleva rispettare le regole date dai suoi genitori, alla fine faceva qualcosa di sbagliato e falliva.
Avrebbe tanto voluto che suo padre si girasse a guardarlo e gli ordinasse di consegnarli le chiavi del motorino, di andare in camera sua senza pranzo e di mettersi a studiare, di scordarsi di mettere piede fuori casa per l’intero mese dopo essere rincasato da scuola. Invece suo padre si girò e gli disse che il pranzo era pronto.






















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Ecco a voi il primo capitolo!
Non ce lo vedete anche voi quell'armadio di Matt in crisi nera con un figlio adolescente? Io troppo!
Nei prossimi capitoli vi giuro che cominceranno a comparire anche gli altri e soprattutto vorrei inserire a pieno titolo lo zio Brian (che oggi fa anche il compleanno, TANTI AUGURI SYN).

Okay, spero vi piaccia il capitolo e spero che continuerete a seguire la storia. Mi farebbe molto piacere ricevere consigli, critiche e idee.
Birra Fredda.
 

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Capitolo 3
*** two. ***


Quel pomeriggio Nathan andò a casa Haner-Baker, come quasi tutti i pomeriggi, ma prima si fermò in un parco a fumarsi uno spinello. Da quando avevano tirato su una band, passava con i gemelli Haner, Lorenz e Patrick la maggior parte del suo tempo. Se non erano in casa a suonare, erano in qualche locale a suonare o a bere, o al massimo erano in giro per Huntington Beach.
Nicole stava sempre meglio e il fatto che la relazione con Lorenz procedesse a gonfie vele aiutava molto. Ormai stavano insieme da un anno e mezzo, erano affiatati come se stessero insieme da qualche settimana e innamoratissimi. Persino Brian non aveva più nulla da ridire sul loro fidanzamento, tanto che spesso si ritrovava a dire a sua figlia di invitare il fidanzato a cenare con loro.
Connor se la passava leggermente peggio, perché aveva avuto una storia d’amore piuttosto duratura finita male. Lei lo aveva tradito con un altro e solite cose, così da qualche tempo si era legato tantissimo a Patrick e insieme ne combinavano di tutti i colori, trascinandosi dietro anche Nathan.
Ecco, la verità era che Nathan peggiorava sempre di più per via di Connor. Da quando era stato lasciato, il suo amico era sempre giù di morale e alla ricerca di emozioni forti, quindi scriveva continuamente a Patrick e Nathan di andare da qualche parte, fare sempre nuove cose, cercare quel pusher che una volta aveva dato loro quelle pasticche meravigliose. Insomma, cose così. Non riusciva mai a dirgli di no, quando il primo chitarrista gli proponeva di non entrare a scuola e vagare a zonzo per la città, quando gli diceva di uscire e rimorchiare qualcuna, quando lo trascinava tutta la sera e tutta la notte da un locale all’altro.
Più volte era stato anche costretto a mettersi in mezzo alle risse che scatenava, per evitare che si facesse troppo male o ne facesse ad altri. Connor non era affatto robusto, ma era piuttosto alto e, con un po’ di impegno e altrettanta fortuna, poteva anche far male. Di solito, però, le prendeva, e non le prendeva abbastanza perché Nathan si metteva in mezzo e lo trascinava via prima che la situazione degenerasse. Così, inevitabilmente, finivano ambedue nell’ufficio della preside anche se lui non c’entrava niente, e puntualmente quello che si beccava le strigliate dal genitore era comunque sempre e solo lui.
Non solo Connor era all’ultimo anno e i suoi voti facevano pena, ma a scuola aveva anche un comportamento di quelli che sembrano venir fuori da famigli disastrate e ignoranti, che già è tanto avere l’acqua in casa, pretendere anche una buona educazione per i figli è decisamente troppo. Nonostante questo, in ogni caso, suo padre non sembrava troppo propenso all’incazzarsi con lui, al rimproverarlo o anche solo a fingere di farlo quando doveva andare a riprenderlo a scuola e doveva abbozzare qualcosa con la preside.
Nathan stava ancora fumando con calma il suo spinello, nella quiete del parco vuoto e silenzioso alle tre del pomeriggio. Stava pensando così tanto che temeva potesse esplodergli la testa, ma non riusciva a smettere di lasciare che il suo cervello fosse attraversato da quelle riflessioni.
Non era giusto, che Connor si mettesse nei casini e ci trascinasse anche lui, e poi era solo lui quello che ne subiva le conseguenze.
E non era giusto neanche che dovesse essere lui, a sedici anni, a dover badare a suo cugino che aveva una fottutissima famiglia che avrebbe potuto, e dovuto, farlo. D’accordo, con Michelle non correvano buon sangue da un po’, ormai, ma Connor aveva comunque una sorella gemella che teneva a lui più di a chiunque altro al mondo, un fratello maggiore che, sì, era al college, ma con cui avrebbe potuto comunque parlare e sfogarsi, e soprattutto aveva un cazzo di padre.
Inspirando lentamente la droga, lasciandola scendere lungo la gola, Nathan per un momento pensò che doveva parlare con suo zio Brian. Dirgli di quello che stava accadendo a suo figlio, anche se era così palese che c’era qualcosa che non andava che non aveva proprio idea di come facesse suo zio a non rendersene conto, e dirgli che doveva occuparsene lui, aiutarlo, farlo parlare, controllarlo, perché era il suo fottutissimo padre e lui era solo suo cugino ed era stanco di dovergli stare dietro e sorbirsi la rabbia dei suoi genitori per questo.
Non biasimava certo sua madre e suo padre per come si stavano comportando nei suoi confronti, anzi, ne era felice. Era contento di sapere che, quando finiva nei guai, combinava qualcosa o faceva cazzate, i suoi genitori erano lì per rimetterlo sulla retta via. O almeno, così era stato fino a quel momento.
Avrebbe voluto chiedere a suo padre almeno una dozzina di volte di ritirare quello che gli aveva detto, di non lasciare che se la cavasse da solo, perché di sicuro non ne sarebbe stato in grado, ma poi non aveva mai trovato il coraggio di aprir bocca, era salito a lavarsi e vestirsi, aveva preso il suo spinello e si era avviato verso casa Haner-Baker.
Aveva finito di fumare, così si alzò in piedi, allargò appena le braccia per tenersi in equilibrio e si riavviò verso la sua meta. Era piuttosto stanco di quella situazione e del fatto che fosse l’unico a gestirla. Sì, certo, c’era anche Patrick, ma il bassista non sembrava troppo propenso a tirare Connor fuori dai guai, quando a ficcarcelo. Se non era Connor, a mettersi nei guai, era infatti Patrick a trascinarcelo, per la gioia di entrambi. Il bassista era stato l’ultimo a inserirsi nel loro gruppo, ma tutti loro lo avevano immediatamente preso in simpatia e si erano affezionati a lui nel giro di pochissimo tempo. Era un ragazzo alla mano e simpaticissimo, di quelli che se vogliono possono diventare amici di chiunque e spesso lo sono. E proprio per questo aveva anche i migliori agganci nel mondo della droga, motivo per cui la reperivano sempre con facilità, buona e a prezzi convenienti.
Nathan avrebbe voluto chiamare sua sorella, in quel momento, e dirle che le mancava tantissimo e sarebbe voluto assomigliare di più a lei, in quei momenti. Alicia, era risaputo, era quella che più di tutti ci sapeva fare con la gestione di queste situazioni. Sapeva sempre come prendere le persone, come aiutarle e sostenerle nel modo migliore, sapeva sempre quando dire le cose e come dirle. Si appigliavano sempre tutti a lei, quando qualcosa non andava, ma adesso lei non c’era e lui era solo e stava mandando tutto a puttane.
Era arrivato, così suonò il campanello, si decise ad interrompere il flusso dei pensieri e si sforzò di stamparsi in faccia un sorriso per chiunque avesse aperto la porta.
Aprì Zack col busto ricoperto quasi interamente di farina. Era piuttosto bravo a cucinare, soprattutto i dolci, ma non era in grado di farlo senza sporcarsi come un bambino di quattro anni.
“Che cucini?” domandò il ragazzo entrando in casa, col suo sorriso falsissimo ancora incollato sulle labbra.
“Torta nutella e crema” rispose l’uomo facendogli cenno di seguirlo in cucina. “Nicole ha il ciclo e Connor è in perenne fase chimica, quindi mi sono adeguato alla situazione” spiegò allegro, mostrandogli la cucina sporca come se ci fossi stata una battaglia di cibo, poi gli indicò con la mano la torta in forno e sorrise fiero della sua opera.
“Fantastico” rispose il ragazzo, che aveva perso un po’ del suo sorriso smagliante dopo aver sentito di Connor in perenne fame chimica. Se sapevano, perché non facevano niente? “Non vado via senza averla assaggiata, sappilo” aggiunse.
“Nessuno va via senza averla assaggiata” ribatté Zack con una risata. “Ma adesso vai, che sei in ritardo e, come ti ho detto, Nicole ha il ciclo e non vorrei ti linciasse.”
 
Le prove erano andate abbastanza bene. Nicole era un po’ giù di tono, quindi avevano perlopiù provato delle parti strumentali, ma tutto sommato erano andate bene e si erano tutti divertiti come al solito. Stavano condividendo un pezzo di torta ci Zacky radunati attorno al tavolo della sala, quando Connor propose di uscire per un giro in centro.
Nathan pensò immediatamente a quello che gli aveva detto suo padre. Non poteva permettere che suo cugino lo trascinasse di nuovo nei guai, non questa volta che i suoi genitori avevano deciso che non si sarebbero occupati più di lui. Non li avrebbe delusi, non poteva e non voleva farlo. Non avrebbe assecondato Connor, mettendo in secondo piano se stesso e la pace all’interno di casa sua. Non era giusto, cazzo, che dovesse mettersi sempre in secondo piano rispetto a qualcun altro, e non lo era soprattutto perché poi a finire nei guai era lui, e non Connor.
“Nate, tu vieni?” chiese Patrick, mollandogli un calcio sotto il tavolo per attirare la sua attenzione.
“No, non posso oggi” rispose lui, evitando gli sguardi di tutti.
“Ma come?” esalò Connor, neanche gli avesse comunicato che un pirata della strada lo aveva investito qualche giorno prima. “Torniamo a casa prima di cena, lo giuro. Forza, vieni con noi!”
“Solo se torniamo presto” lo rimbeccò velocemente il più piccolo, lanciandogli un lungo sguardo eloquente.
“Ma sicuro!”







































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Ebbene, ogni tanto mi faccio viva anch'io. Sarà perché i sevenfold hanno annunciato un concerto al quale non parteciperò al 99%, sarà perché sto preparando un esame che mi sta facendo andare fuori di testa, sarà perché è estate e quando non studio, o non guardo serie tv, sono giro a sbronzarmi, sarà che non ero ispirata, ma questo capitolo si è fatto attendere un bel po' prima di venir fuori. Ma eccolo, finalmente, sebbene non sia granché e sia una sorta di capitolo "di passaggio" solo per chiarire come stanno le cose.

Giusto per fare ordine:
Nicole e Connor sono i figli di Brian e Michelle e sono due gemelli, inoltre c'è anche un terzo figlio maggiore di un anno, che è al college: Jimmy.
Nathan e Alicia (anche lei al college) sono i figli di Matt e Valary.
Cherie (college too) è figlia di Zack e Gena.
Brian e Zack sono separati dalle mogli e convivono come compagni.
Lorenz è il fidanzato di Nicole e il batterista della band che hanno messo su lei, Connor e Nathan. Patrick è il bassista.

Ripeto (perché lo avevo già detto, almeno credo) che questa long è il sequel di New Generation, sebbene la protagonista non sia più Nicole come nell'altra storia. Se non avete letto New Generation o il suo prequel non fa niente, dovreste capirci tutto lo stesso.
In ogni caso, se volete leggerle vi lascio i link.
New Generation: 
http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=1944466&i=1
Somehow we still carry on: http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=2142689&i=1

Spero sia tutto chiaro, recensite per qualunque cosa, anche per criticarmi (sono aperta alle critiche e, anzi, le desidero per migliorarmi). Spero che stiate tutti bene e che vi interessi questa nuova long. La vostra,
Birra Fredda

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Capitolo 4
*** three. ***


Non tornarono presto, ovviamente.
Anzi, non tornarono affatto.
Proprio quel pomeriggio aveva fatto ritorno ad Huntington Beach un vecchio amico di Patrick che aveva passato gli ultimi mesi nel carcere minorile per spaccio e tentativo fallito di derubare un negozio di alimentari. Patrick era felicissimo e trascino Connor e Nathan in ogni angolo delle zone più malfamate di HB per trovarlo, dato che aveva saputo che era stato rimesso in libertà ed era immediatamente tornato a lavorare, dando anche assaggi gratis ai vecchi clienti che non si era scordati di lui.
Per la prima volta, Nathan provò la droga iniettata nelle vene. Non lo aveva mai fatto prima, nonostante le insistenze dei suoi amici, perché gli aghi non gli piacevano molto e aveva troppa paura, ma quella sera era già abbastanza fatto e protestò davvero pochissimo, quando un tizio dai contorni sfocati gli mise il laccio emostatico attorno al braccio e lo bucò.
“Nate!”
Un paio di schiaffi raggiunsero la sua faccia.
“Terra chiama Nathan.”
Un altro schiaffo.
Il ragazzo aprì lentamente gli occhi e mise a fuoco il viso di suo zio Brian. Si rese conto di essere allungato a terra, sull’asfalto, quindi si mosse velocemente per mettersi seduto, ma una fitta alla testa glielo impedì.
“Non così in fretta, ragazzino” lo canzonò l’uomo. “Ti aiuto” continuò, afferrandolo per le braccia e tirandolo lentamente su fino a farlo sedere.
“Che ore sono?” chiese in un soffio.
“Decisamente tardi” rispose suo zio. “Ma almeno Johnny ha trovato Connor, quindi chiamo Zacky e gli dico che per pranzo ce la facciamo. Andiamo?” chiese alla fine, sfoderando un sorriso.
Spontaneamente, Nathan chinò lo sguardo alla ricerca del segno che aveva sul braccio dopo essersi bucato. Anche un miope senza occhiali l’avrebbe visto, quel segno, ma suo zio no. O aveva finto di non vederlo. Non lo stava sgridando né gli aveva rivolto anche solo un vago sguardo di rimprovero. Qualcosa non andava.
“Sì, andiamo” rispose piano il ragazzo, lasciandosi aiutare per mettersi in piedi.
Aveva dormito sull’asfalto, quindi sentiva tutto il corpo indolenzito e aveva la schiena a pezzi. Il mal di testa e il senso di nausea non aiutavano.
Camminando verso l’auto si rese conto che ricordava pochissimo, della notte appena trascorsa. Ricordava vagamente di aver vomitato una volta, ricordava tante risate, il corpo di Connor stretto al suo, il sorriso di Patrick, ricordava che a un certo punto la testa si era fatta troppo pesante, davvero troppo, e così si era steso a terra e aveva deciso che era arrivato il momento di dormire. Ma non era abbastanza.
Aveva troppi vuoti, troppi buchi neri, e non andava bene.
“Dico a tuo padre che ti sto riportando a casa?” domandò Brian a suo nipote mentre lo aiutava a salire in auto. Nel ragazzo lampeggiò un bagliore di terrore.
“No” disse velocemente, seccamente. “Per favore, posso restare da te e Zack oggi?” chiese poi, ammorbidendo il tono di voce.
Non avrebbe dovuto annuire. Matt gli aveva detto di non farlo, di non prendersi in casa Nathan solo perché lui e Val avevano deciso che doveva cominciare a cavarsela da solo. Non avrebbe dovuto dirgli che andava bene, ma si disse che se lo lasciava restare solo per un pranzo non sarebbe finito il mondo. O forse sì, conoscendo il suo cantante, ma a Matt prima o poi sarebbe passata e quel ragazzino aveva bisogno di un po’ di sostegno.
“Certo, ma mandiamo un messaggio ai tuoi” gli disse. “Non voglio rischiare la morte.”
Almeno, lo fece ridere.
Brian mandò un messaggio a Matt, dicendogli che aveva trovato suo figlio salvo e abbastanza sano, che sarebbe rimasto da loro a pranzo e sicuramente lo avrebbe rispedito a casa verso ora di cena. Non uccidere né me né lui, se ti riesce, grazie, concluse, insieme a un cuore rosa.
Mentre andavano verso casa, chiamò Zack e gli disse che stava tornando con Nathan, mentre Johnny stava riportando Connor. Sarebbero rimasti tutti per pranzo, quindi avrebbe fatto bene a cucinare per tante persone.
In quel momento, Nathan pensò che aveva una nausea tale che avrebbe quasi preferito tornare a casa sua piuttosto che mangiare, ma poi si disse che tornare a casa era peggio ed era meglio stare zitti.
In auto non parlarono, perlopiù perché Brian aveva un auricolare nell’orecchio in cui Zacky stava sbraitando che era tardi per dirgli di cucinare per delle persone in più, non era pronto e non poteva avvisarlo così all’ultimo minuto. Ma anche perché Nathan si sentiva immensamente in colpa. Si era bucato, cazzo. Cazzo. Cazzo. Cazzo. Si era bucato, suo zio l’aveva visto e non aveva detto nulla. Ma lo aveva fatto comunque. E se i suoi genitori fossero venuti a saperlo non gliel’avrebbero mai perdonato, si sarebbe riconfermato essere il pessimo figlio che si dimostrava essere da un po’. Non voleva essere così. Davvero, voleva essere migliore.
Se non altro, Connor era ridotto peggio di lui.
Se ne rese conto immediatamente, Nathan, mentre parcheggiavano l’auto davanti casa. Johnny da solo non ce la faceva a trascinarlo, quindi Nicole era andato ad aiutarlo. Benché fossero in due, sembrava comunque molto faticoso trascinare un peso quasi morto, e per la prima volta il ragazzo notò quanto lo sguardo di suo zio apparisse allarmato dalla situazione. L’uomo non perse mai il controllo, però, come invece faceva suo padre. Non si affrettò per entrare in casa, non urlò, non gli tremarono le mani mentre lo prendeva in braccio suo figlio né la voce quando gli disse che lo avrebbe portato a letto per riposare.
Connor aveva un lembo di maglietta sporco di vomito, un buco nel braccio, pupille ancora come spilli, pelle lattea, puzzava e non riusciva a stare neanche seduto da solo. Eppure suo padre non si incazzò. Era preoccupato, d’accordo, ma lo si capiva solo dai suoi occhi, altrimenti sembrava normalissimo. Lo sollevò tra le braccia, lo portò nella sua camera da letto, lo spogliò, gli mise una t-shirt pulita e gli rimboccò le coperte con tanto di bacio sulla fronte.
Nathan non se ne capacitava.
Johnny e Zacky parevano neanche farci caso, dato che chiacchieravano e scherzavano allegramente davanti ai fornelli. E altrettanto Nicole, che stava cercando un angolo di frigo in cui nascondere il pezzo di torta avanzato dal giorno prima per poterlo riesumare dopo pranzo e mangiarlo prima che qualcuno lo trovasse prima di lei.
Sembravano vivere in una bolla, come in quei film in cui tutto sembra vero e finto contemporaneamente, non si sa cosa si sta guardando e non si capisce quasi nulla finché non si vede il film per la quinta volta. Sembravano tutti immersi in un mondo migliore di quello che c’era realmente, un mondo in cui probabilmente Connor era lì con loro in cucina e saltellava allegramente da una parte all’altra.
“Come sta Connor?” chiese Nathan a suo zio, quando lo vide tornare in sala.
“Ha solo bisogno di riposare” rispose Brian, stringendosi appena nelle spalle. “Quando si mangia?” chiese poi, spostando lo sguardo dal nipote al compagno, che si era affacciato a sua volta dalla cucina sentendolo parlare.
A quel punto, Nathan scattò.
Ci aveva provato, a far finta di niente. Aveva provato a comportarsi come tutti loro, vivendo nelle nuvole, ma non ci era riuscito. Aveva anche provato ad ignorarli e a fingere che si comportassero normalmente, ma non si comportavano normalmente e lui non riusciva a capacitarsene.
“Tuo figlio si è palesemente bucato e tu dici che ha solo bisogno di dormire?” chiese, con una punta isterica nella voce, guardando suo zio dritto negli occhi.
Zack, che stava per dire che era quasi pronto, richiuse di colpo la bocca. Il silenzio calò su tutti loro come se fosse divenuto tangibile, come una nube nera che, dal cielo, piomba di punto in bianco in un salotto disordinato.
Nathan si maledisse immediatamente. Voleva sicuramente dire quello che aveva effettivamente detto, ma non avrebbe mai voluto dirlo in quel modo. Rispettava suo zio e gli era grato di averlo, in quel caso, tenuto fuori dai guai con i suoi genitori. Non voleva offenderlo o insultarlo, voleva solo capire se c’era qualcosa che non sapeva e cosa gli passava per la testa, nulla di più. Non pretendeva che s’incazzasse come si incazzava suo padre, questo di sicuro non l’avrebbe mai augurato a nessuno, figuriamoci a suo cugino Connor a cui voleva un bene immenso, voleva solo che suo zio si assumesse la responsabilità di suo figlio, perché cazzo era suo padre ed era suo dovere farlo. In ogni caso, non avrebbe mai voluto dire quello che era venuto fuori dalla sua bocca, e di certo non avrebbe mai voluto dirlo con un tono di voce così rabbioso e denso di superiorità.
“Non volevo…” cercò di abbozzare, mentre tutti gli sguardi erano puntati verso punti indefiniti della stanza. Eccetto quello di suo zio, che lo fissava dritto negli occhi.
“Forse hai bisogno di dormire anche tu” sentenziò Brian dopo un lungo silenzio. Nathan era ancora molto imbarazzato dalla situazione e sentiva il corpo bollire e le guance rosse. Annuì appena, chinando lo sguardo.























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Ebbene, sono ancora viva! Ho avuto un po' di problemi personali per così dire, un gran bel blocco dello scrittore e la sessione invernale. Ma ora sono qui. Il capitolo c'era già da un po' ma non mi convinceva il finale, che ho modificato per giorni prima di decidermi a pubblicare (finalmente) il seguito della storia.
Non me la sento di far promesse che non posso mantenere, ma spero sinceramente che questa long prosegua perché mi intriga e voglio vedere dove potrebbe portarmi.
Quindi grazie a tutti quelli che ancora si ricordano di questa piccola storia partorita dalla mia mente mai troppo sana, spero stiate bene e vi auguro una buona serata,
Birra Fredda

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Capitolo 5
*** four. ***


La verità era che Brian era perfettamente consapevole di ciò che suo figlio stava facendo e avrebbe davvero voluto fare la cosa migliore per lui, ma non riusciva a fare nulla. O meglio, fare niente sembrava il meglio da fare. Connor era un adolescente con pochissimi amici, che era stato lasciato dalla sua prima fidanzata seria, di cui era innamoratissimo, il cui fratello maggiore era andato al college e se chiamava una volta a settimana per cinque minuti era anche troppo, i cui genitori erano divorziati e la cui madre era sparita e di tanto in tanto gli mandava un messaggio, facendolo solo infuriare ulteriormente.
Brian quindi aveva parlato con una psicologa della scuola, perché quando per la prima volta Connor era tornato a casa palesemente strafatto era stato indeciso se picchiarlo fino a mandarlo in coma, cacciarlo a calci da casa o metterlo a letto e pensare a dove aveva fallito come genitore (scelta che poi aveva fatto, portandolo a una lunga riflessione sulla relazione clandestina con Zacky e al matrimonio che non avrebbe mai dovuto avere con Michelle. Il che a sua volta lo aveva spinto a farlo suonare quasi ininterrottamente per tre giorni di seguito e a farlo litigare col suo compagno, incazzato perché vivevano insieme e a stento lo vedeva durante i pasti). Allora aveva deciso di chiedere consiglio a qualcuno, dato che suo figlio aveva bisogno di un genitore che reagisse decentemente ai suoi comportamenti. Ebbene, la psicologa gli aveva detto che, durante l’adolescenza, il fare uso di sostanze stupefacenti non porta per certo a una vita di devianza, ma l’uso non deve diventare abuso o dipendenza, e Connor andava tenuto sotto controllo e soprattutto andava fatto sentire bene.
La psicologa gli aveva detto che doveva dargli amore. Suo figlio, come qualunque adolescente occidentale nella norma, lo avrebbe allontanato e mandato a fanculo, ma non importava. Doveva fargli sentire che andava bene così, per quello che era, anche se a tutti gli effetti era un fallimento potenziale. Doveva accudirlo, baciarlo e dimostrargli tutto l’affetto paterno di cui era capace, anche se avrebbe voluto scrollarselo di dosso come se fosse una mollica di pane.
Brian l’aveva presa alla lettera.
Aveva parlato molte volte con suo figlio, sforzandosi di restare sempre su toni pacati, anche se qualche volta una piccola discussione c’era scappata. Aveva detto infinte volte a Connor che gli voleva bene e che voleva solo il meglio per lui, che doveva smetterla con la droga o almeno diminuire o anche solo ridursi alla marijuana e all’hashish, gli aveva detto fino a stancarsi di parlare che quello non era un modo sano di affrontare le delusioni, che era lì per lui se voleva parlare e sfogarsi o anche solo se voleva suonare qualcosa, gli aveva detto che c’erano anche Zack, Nicole, suo zio Matt e Johnny per lui, se non voleva parlarne proprio con suo padre. Gli aveva detto che gli avrebbe dato tutto l’aiuto da lui richiesto, se avesse voluto, e che potevano agire come gli pareva.
Ma nulla aveva funzionato.
Aveva anche provato, una volta, a vietargli di uscire.
Era stato Matt a dirgli di farlo. Quella mattina erano tutti in studio a provare una nuova canzone ed erano stati chiamati dalla scuola perché Connor e Nathan erano stati coinvolti in una rissa. Era già partita male come giornata, perché per vari motivi la canzone non collaborava, andava continuamente da una parte e dall’altra, pareva inafferrabile, Matt continuava ad andare fuori ritmo, l’assolo di chitarra era rimasto impantanato in un punto morto e tutti erano già abbastanza nervosi anche senza che i loro figli si mettessero nei guai.
Così erano dovuti andare a scuola, lui e il suo cantante, il quale per tutto il viaggio in auto non aveva fatto altro che tamburellare nervosamente con le dite sulle ginocchia e un certo punto gli aveva detto:
“Senti Bri io non voglio mettere in discussione la tua autorità genitoriale nei confronti di tuo figlio...”
Lui si era distratto dalla guida, colto alla sprovvista. Matt sapeva del colloquio con la psicologa e sapeva quanto stesse provando a fare il bene di Connor. Sapeva anche quanto fosse difficile, per lui, vedere suo figlio che si distruggeva e non poter fare di meglio di una chiacchierata e una carezza affettuosa.
“Ma?” chiese.
“Credo che dovremmo punirli allo stesso modo, quando si cacciano nei guai insieme e ci ritroviamo a doverli sgridare insieme” continuò Shadows senza guardarlo, con gli occhi puntati sulla strada. “Perché credo che Nathan si senta come messo alle strette da me e Val, punito ingiustamente e in modi troppi drastici, considerando il confronto con suo cugino.”
Brian fu sul punto di dirgli che non aveva la minima intenzione di perdere la voce per urlare contro suo figlio e aveva ancora meno intenzione di sequestrargli il cellulare e perquisirlo per vedere se aveva della droga nelle tasche. Però tacque, capendo quello che il suo amico gli stava dicendo. Sospirò e annuì appena con la testa.
“Lo so che hai parlato con la psicologa e lei ti ha detto di farlo sentire amato e tutte queste menate” continuò Matt, “ma per una volta prova a dare man forte a me e vediamo come va.”
Brian pensò che non funzionava così. Non si provavano le varie strategie d’azione per vedere quale funzionava e comunque i loro figli erano diversi, come erano diversi loro due. E Nathan stava affrontando l’adolescenza in una casa colma d’amore e d’affetto, mentre Connor la stava affrontando nel bel mezzo della distruzione della sua famiglia. Si disse che non era una buona idea, ma per una volta avrebbe dato retta a Matt.
Così aveva retto il gioco del cantante. Come lui si era incazzato con Connor e Nathan, come lui aveva sbraitato, aveva annuito mentre lui parlava ed era stato quasi sul punto di crederci fino in fondo, a quello che stavano facendo. Quasi. Quando Matt aveva afferrato i ragazzi per le orecchie e li aveva trascinati verso l’auto, non aveva battuto ciglio, aveva incrociato le braccia al petto e aveva lanciato ai due uno sguardo torvo.
Avevano deciso di proibire ai loro figli di uscire per la successiva settimana. E sarebbe andato tutto bene, se Connor non avesse dato di matto e il sabato sera non lo avessero ritrovato, ubriaco marcio e con troppi ansiolitici rubati dall’armadietto di Zack in corpo, a galleggiare a pelo d’acqua in piscina.
Si era ripreso quasi subito, avevano solo fortemente temuto che potesse affogare ma e quindi si erano tuffati tutti insieme in piscina per tirarlo fuori. Ma non stava troppo male e dopo un paio d’ore stava quasi bene.
La verità era che con suo figlio queste restrizioni non funzionavano, Brian lo sapeva bene. Tra tutti e tre i suoi figli, Connor era di sicuro quello che somigliava maggiormente a lui da adolescente: arrabbiato, ribelle, incontrollabile, curioso. Se da ragazzo non aveva capito quanto fosse ingestibile, ora lo capiva eccome, avendo a che fare giornalmente con la copia di un sé giovane, inesperto e spaesato.
La differenza tra il se stesso adolescente e Connor stava nel fatto che lui era solito ubriacarsi e fare uso di sostanze stupefacenti in compagnia dei suoi amici, trascorrendo serate sbronzi sulla spiaggia a cazzeggiare, suonare e parlare di tutto e niente. Connor, invece, pareva farne uso per via dell’assenza di persone da avere vicino. Assenza ingiustificata, perché aveva tutti loro che erano lì per lui e non avevano problemi a dirglielo.
E va bene che la sua prima fidanzata lo aveva lasciato in malo modo, ma la sua era una reazione esagerata fin troppo duratura. C’era il resto del mondo ad attenderlo, c’era la sua famiglia disposta ad aiutarlo, sostenerlo e farlo svagare, e lui preferiva annegare la sua solitudine nelle droghe.
 
“Papà...”
Brian alzò la testa di scatto e sorrise a suo figlio, che si era voltato su un lato e lo osservava con gli occhi socchiusi.
“Hey” gli disse, chinandosi sulle gambe e posandogli una mano sulla testa. “Stai meglio? Hai riposato bene?”
“Nate come sta?” chiese il ragazzo di rimando.
“Meglio di te. Ma non è ancora voluto tornare a casa.”
Connor annuì e sorrise, vagamente divertito. Sebbene suo padre si risparmiasse i cazziatoni, le lavate di capo e le scenate, non si poteva decisamente dire lo stesso di suo zio Matt, di cui bisogna sempre ricordare le dimensioni fisiche e il vocione. Non poteva di certo biasimare suo cugino, dunque, se voleva restare al sicuro il più a lungo possibile.
“Nate non era lucido quando l’hanno drogato” disse pianissimo. Suo padre lo guardava da molto vicino. “Eravamo tutti poco lucidi, in realtà, ma intendo che lui non era consenziente, non stava capendo cosa succedeva, non voleva bucarsi.”
Brian gli accarezzò lentamente i capelli. Tipico di suo figlio: era il primo ad essere in un mare di merda che rischiava di soffocarlo da un momento all’altro, ma quello a cui pensava era trarne fuori gli altri prima di se stesso.
“Devi dirlo a zio Matt e a zia Val, okay?” continuò Connor.
“Glielo dirò, non preoccuparti” lo tranquillizzò suo padre. “Vuoi alzarti? Così ti fai un bagno caldo e poi mangi qualcosa.”















































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Non avete idea di quanto io abbia penato per pubblicare questo capitolo! Prima il computer che non collabora, poi per sbaglio l'ho scritto e non si è salvato su word, poi il pc si è rotto, ora l'ho fatto riparare ed eccomi qui. In tutto questo mettiamoci anche che non mi convince molto e addio.
Mi scuso infinitamente per il ritardo, non è uno dei periodi migliori della mia vita, sono stanca e stressata e ho poca ispirazione. Voi siete magnifici, però, e sto ricevendo delle recensioni che mi hanno scaldato il cuore.
Grazie a tutti, vi abbraccio forte,
Birra Fredda

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