After The Storm

di Kat Logan
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Ghosts ***
Capitolo 2: *** Life, Love & Scars ***
Capitolo 3: *** Happy People & Stupid Flowers ***
Capitolo 4: *** Le prede ***
Capitolo 5: *** In trappola - Parte I ***
Capitolo 6: *** In trappola - Parte II ***
Capitolo 7: *** Rewind ***
Capitolo 8: *** Clan ***
Capitolo 9: *** White Lies ***
Capitolo 10: *** Stormbomb ***
Capitolo 11: *** Life is Change ***
Capitolo 12: *** Suicide Plan - Part I ***
Capitolo 13: *** Suicide Plan - Part II ***
Capitolo 14: *** Muddy Waters ***
Capitolo 15: *** Before The Storm ***
Capitolo 16: *** See You Again ***



Capitolo 1
*** Ghosts ***


After The Storm
 
 
 
 
All the demons 
Demons in my head 
Can you find me?
Can somebody here instead 
Instead of me 
Disappointed them to see
I walk in to the room, and I'm like, oh, hello 
See them demons watching me, like, oh, hello 
I'm walking to the room, and I'm like, oh, hello 
I laughed them in the faces, 'cause they never get my soul 
 
Hell.o – Lenny
 
 
 
 
Dopo il matrimonio del secolo – come lo definiva lei – era sparita dalla circolazione.
Non sapeva cosa le fosse accaduto ma le gambe avevano deciso per lei boicottando il cervello e il buon senso.
Non aveva lasciato biglietti o messaggi in segreteria. Era semplicemente andata in aeroporto, aveva chiuso gli occhi e poi scelto un volo a caso.
«Un biglietto per Oslo?» le aveva domandato l’hostess con un sorriso.
Rei non era certa della propria scelta ma annuì vigorosamente col capo.
Consegnò i documenti, passò i controlli al check - in e s’imbarcò senza voltarsi indietro.
 
«Qual è la nostra prossima destinazione?».
Rei distolse lo sguardo dal fondale del porto dove una miriade di stelle marine avevano trovato dimora.
La luce del tramonto colorò di tenui riflessi il mare del nord e una brezza frizzantina le scompigliò la lunga chioma nera.
Guardava ancora l’orizzonte quando decise di parlare.
«Ripetilo ancora…» la voce le uscì come un sibilo basso ma le scivolò ugualmente fuori dalle labbra.
«Ti ho chiesto…quale sarà la nostra prossima destinazione».
Rei si appellò alla ragione. Contò sino a dieci ma poi ebbe la sensazione di venir toccata sulla spalla e si decise a guardare sul molo in legno di fianco a sé.
Setsuna aveva l’aria incuriosita e smaniosa di chi muore di curiosità.
«Perché me lo chiedi? Tu non sei qui con me» la voce di Rei tremò nel dire quelle parole.
«Se non sono qui, come mai mi stai rispondendo?».
La morettina si morse il labbro.
Setsuna era morta, lei era riuscita a mettere in prigione i suoi assassini, eppure la sentiva lì, la vedeva. E per quanto sapesse non fosse possibile una cosa del genere Rei decise di lasciarsi andare. Di crogiolarsi in quello strano scherzo della mente che le spolverava la solitudine di dosso.
«Forse Bangkok…».
«Qualcosa di più romantico?».
«Giusto. Ormai sei troppo anziana per l’avventura. Ti ci vuole una vacanza più tranquilla».
«Ehy!».
Rei rise di gusto dopo tanto tempo e si sorprese nel constatare avesse dimenticato che suono avesse la propria risata, così, dal nulla come aveva trovato quell’allegria anomala cominciò a singhiozzare.
«Che c’è?!».
«C’è che non esisti più ma è come fossi qui. Perciò c’è che sto impazzendo!».
«Rei…» Setsuna si sporse e le cinse le spalle. «Io cesserò di esistere solo quando lo vorrai tu».
Gardenia, il profumo inconfondibile che era solita usare e che a casa aveva piano piano smesso d’impregnare le lenzuola.
«Okay».
Rei inspirò ed espirò a fondo. Si asciugò le lacrime col dorso della mano e si voltò verso il chioschetto del porto che offriva cene take away a quei passanti soliti mangiare passeggiando.
«Se rimani con me, andremo a Londra».
 
 
Era rientrata dall’ennesimo viaggio. La stanza, ancora immersa nell’oscurità nonostante fosse mattino inoltrato, giaceva nel caos più totale.
Una valigia aperta era riversa sul pavimento, montagne di abiti da lavare erano sparsi in qua e là e sul letto erano stati abbandonati una serie di itinerari e guide turistiche dai fogli svolazzanti.
«Agente Rei?!» Sadao bussò vigorosamente alla porta senza ricevere risposta.
Erano passati alcuni mesi dall’ultima volta che l’aveva vista. Un viaggio dopo l’altro avevano portato Rei lontana dalla centrale di polizia e quel giorno era il “gran giorno” e la sua mentore non poteva mancare.
Aveva avuto una soffiata sul suo ritorno a Tokyo e non c’erano scuse per non assistere alla cerimonia che vedeva entrare Haruka come membro effettivo del corpo di polizia.
«Rei?» il tono del ragazzo si fece più basso assumendo le sfumature della preoccupazione.
Un colpo secco alla maniglia e notò che la porta era aperta.
Sadao trattenne il fiato e varcò la soglia.
La voce di Rei proveniente da un’altra stanza dell’appartamento lo rassicurò sul fatto stesse bene.
Forse era al telefono e non l’aveva sentito arrivare oppure era semplicemente troppo impegnata in quella conversazione per rispondergli. Ma nessuno dei molteplici scenari che si affacciarono alla mente del giovane poliziotto avrebbe potuto coincidere con la realtà. Poiché quando dopo aver compiuto un passo dietro l’altro ed aver raggiunto la cucina – nella quale stava sostando Rei – si rese conto che la giovane era intenta in una conversazione a senso unico. E se dapprima la ragione cercò un appiglio per una spiegazione in un possibile auricolare o in un qualche monologo teatrale, presto dovette far i conti con una verità ben più tremenda quando dalle labbra di Rei scivolò fuori il nome di Setsuna.
Tutto il corpo di Sadao s’immobilizzò all’istante. Ogni suo muscolo s’irrigidì nell’indecisione sul da farsi.
«A-agente Hino?!».
Rei impugnò la pistola poggiata sul piano cottura e si voltò mostrandogli la canna lucente.
Sadao per tutta risposta alzò le mani ben in vista. Sudava freddo e se anche avesse voluto nascondere la testa sotto la sabbia come uno struzzo impaurito dovette affrontare la situazione.
«Dovremmo…dovremmo andare, ecco». Il cervello non riuscì a mettere insieme nessun’altra frase di senso compiuto, probabilmente perché forse lui era ben conscio del fatto che non ci fosse niente da dire di giusto.
«Dove?» gli occhi di Rei erano lontani quasi non lo riconoscessero.
«A-alla cerimonia. Di Haruka».
«Non posso sono indaffarata non lo vedi?».
Sadao piegò leggermente il capo, poi corrugò la fronte in un’espressione confusa.
«Forse…dovrebbe riposare. Da quanto non dorme agente Hino? Io…io potrei aiutarla in qualche modo. Insomma siamo una squadra, no? Se lo ricorda che…»
Il fiume di parole s’interruppe bruscamente una volta che Rei premette il grilletto.
 
 
 
 

Dopo il matrimonio Haruka aveva passato mesi a costruirsi una nuova vita. Voleva lasciarsi alle spalle la yakuza e ricominciare da zero con al suo fianco la donna che amava e i propri amici.
Aveva cominciato col ripulirsi la fedina penale collaborando con le forze dell’ordine e Setsuna contro il crimine e aveva proseguito su quella strada con estenuanti esercizi fisici, addestramenti ed esami vari.
Di certo tra i suoi giovani colleghi c’era chi la guardava torvo e i pregiudizi erano sempre dietro l’angolo, ma Haruka non si era lasciata intimidire e aveva continuato sempre a testa alta fino a quel giorno.
Michiru sedeva piena d’orgoglio per la compagna in seconda fila. I capelli in ordine e legati sul capo in un elegante chignon, un paio di perle alle orecchie e un semplice ma elegante abito blu indosso.
Al suo fianco Minako si agitava sulla sedia per l’emozione guardandosi attorno alla ricerca di Akira, il quale la raggiunse a breve facendo cenno ad Haruka con un dito sull’orologio.
Le voleva mettere fretta anche in quello che era il suo giorno ma per tutta risposta al moro gli mostrò una linguaccia.
«Ci hai messo tanto amore! Dov’eri finito?!» indagò Minako, spostando la borsa dalla seduta della sedia che aveva preservato per l’amato.
«Stanno finendo gli ultimi ritocchi per l’inaugurazione del ristorante. Sono preoccupato a lasciare il mio bambino nelle mani di quei disgraziati senza la mia supervisione!».
Akira, non accontentandosi dei posti in cui non poteva esprimere al meglio le proprie doti culinarie aveva optato per mettersi in proprio ed aprire un suo ristorante. Ma le sue manie di perfezione e l’agitazione che qualcosa potesse mandare in fumo il sogno della sua vita lo avevano reso più agitato che mai in quel periodo.
«Andrà benissimo Akira, non preoccuparti troppo» lo rassicurò Michiru con un sorriso.
«La cerimonia dovrebbe cominciare a minuti ma non vedo ancora il ragazzetto e l’agente Hino» osservò Minako storcendo le labbra in una strana smorfia nel pronunciare il cognome di Rei.
In fin dei conti i suoi incontri con la polizia non erano stati mai del tutto rosei considerando i trascorsi di Haruka e Akira, ma le loro vite si erano trasformate inesorabilmente, l’amica stava entrando ufficialmente nel corpo di polizia di Tokyo e per forza di cose avrebbe visto con altri occhi le forze dell’ordine. In fin dei conti non avevano più nulla da nascondere. Nessuno di loro. Se un tempo erano passati per i cattivi ora erano senz’ombra di dubbio da quella dei buoni.
«Siamo un po’ come quelli della Suicide Squad!» esclamò con convinzione.
Michiru e Akira le rivolsero uno sguardo interrogativo ma allo stesso tempo divertito.
«Dai su. Sul serio non l’avete visto? Sono i cattivi dei fumetti che in qualche modo sono poi i buoni della situazione!».
«Io buona lo sono sempre stata» affermò Michiru.
«Si ma stare con una dei delinquenti ti ha resa un po’ cattivella no?».
«Mina…credo che il discorso potrebbe degenerare in una conversazione tutt’altro che normale e difficile da sostenere!» ridacchiò Akira.
«O zitto! Ma che ne vuoi sapere tu!» ribatté con convinzione Minako per poi indicare Jadeite che di gran passo si accingeva ad accomodarsi nella fila davanti alla loro.
Akira lo salutò con un cenno del capo mentre Haruka nel vederlo alzò gli occhi al cielo dall’alto del palco che l’accoglieva assieme alle nuove reclute.
L’inno giapponese risuonò con fare trionfante e nello stesso momento un sms da parte di Ami proveniente dall’Aiiku Hospital venne silenziato dalla vibrazione del cellulare di Minako.
 




note dell'autrice:
Non è mai stata mia intenzione regalare un "terzo capitolo" alla storia di Stockholm Syndrome, eppure eccomi qua con il seguito di Kissing The Dragon. Non c'è stato nulla di premeditato, solo che dopo aver pubblicato il finale di Kissing The Dragon nella mia testa è saltata fuori una nuova avventura per i personaggi ai quali ormai sono irrimediabilmente affezionata. Spero che possiata apprezzarla e che vi tenga compagnia così come hanno fatto le due storie precedenti a questa. After The Storm, ancorauna volta, è un regalo che voglio fare col cuore a tutti i lettori che hanno perseverato in questi anni e non mi hanno mai abbandonata nonostante il mio assenteismo. 
Un abbraccio, Kat.


 
 
 
 
 

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Capitolo 2
*** Life, Love & Scars ***



 
 
 
Lately i've been chasing daylight cause
I don't wanna go
I don't wanna go without you
Think I loved you in another life
Even in the dark
Even when it's cold you stay true
Even hell would feel like heaven
Even hell would feel like heaven with you
 
Shaun Frank & KSHMR feat. Delaney Jane -Heaven
 
 
 
 

Le sirene spiegate dell’ambulanza l’avevano fermata.
Ami a fine turno si stava accingendo ad uscire dalla struttura ospedaliera per raggiungere la sorella e Minako alla cerimonia in onore di Haruka. Non arrivò mai, poiché la voce del paramedico che saltò giù dal mezzo la paralizzò sull’attenti.
«Abbiamo un giovane maschio con una ferita da arma da fuoco».
Gli occhi blu scivolarono sull’uniforme del ferito. Ami trattenne il respiro, strinse a sé la borsetta e poi lo riconobbe.
Aveva un’ottima memoria visiva ed era certa di conoscerlo.
Sadao Chiba aveva partecipato al matrimonio della sorella e aveva brindato con un timido “kampai” durante il taglio della torta, facendo collidere il proprio calice col suo.
«Dottoressa…»
«Come?!» Ami sempre reattiva sul lavoro e nello studio cadde dalle nuvole forse per la prima volta.
«Dobbiamo portarlo dentro. Avete una sala libera? Non c’è foro d’uscita».
«Si. Entriamo». Il coraggio a quattro mani e il passo spedito le fecero fare dietro front.
«Ami!» nell’atrio la voce di Mamoru la bloccò a ridosso dell’ascensore facendo stridere le rotelle della barella.
«Devo cambiarmi!» disse frettolosa lei alludendo alla mancanza del proprio camice.
«Da quante ore sei di turno? Dovresti andare…».
«Non importa. Posso rimanere, sul serio».
Ami chiamò l’ascensore con una spinta dell’indice apprestandosi a tirare fuori dalla tracolla la cuffietta che le permetteva di raccogliere i capelli.
«Davvero ci penso io» il suo mentore insistette gentile.
Ami sospirò ma allo spalancarsi delle porte metallizzate non volle demordere.
«Lo conosco. Rimango».
Mamoru salì al quinto piano con lei.
«Ci siamo già passati…» sospirò guardando i numeri illuminati indicanti i piani.
«Con Minako, intendo. Sei stata brava, ma non deve diventare un’abitudine».
«Non è colpa mia se la gente che conosco viene sempre ferita» Ami abbassò lo sguardo stirando le labbra in un mezzo sorriso che si portava dietro gli strascichi dell’amarezza.
«Sarà una cosa semplice vedrai. Se vuoi rimanere vai al decimo piano. A lui baderò io. Farò un bel lavoro, promesso!» con un pizzico d’ironia nella voce Mamoru non attese risposta e si occupò di portare in sala operatoria Sadao.
 
 
 
 
 
«Agente Ten’ō…» ripeté in un soffio, «suona così bene!». Michiru tirò per la cravatta Haruka con fare languido, mentre con le spalle spinse all’indietro la porta, avanzando nell’ingresso di schiena.
Subito dopo il matrimonio avevano lasciato la casa in stile tradizionale di proprietà della yakuza per trasferirsi in un appartamento tutto loro. Michiru non aveva perso tempo a rendere quel nido d’amore confortevole arredandolo con gusto e lasciando voce in capitolo ad Haruka solo per lo stretto indispensabile. In fin dei conti alla bionda bastava avere una playstation, un maxi schermo e una piccola biblioteca per i libri di suo padre per essere felice, anche perché il miglior pezzo della propria collezione era la sua donna.
«C’era bisogno di mettersi così in ghingheri? Non facevi che distrarmi con la gonna così corta. Non ho capito nemmeno una parola quando mi hanno consegnato il distintivo!».
«Lei è sempre distratta…agente!».
«Bada a come parli!».
«Altrimenti potresti ammanettarmi ora?!».
«Woo, Michiru!» esclamò Haruka avvertendo una vampata di calore e richiudendo l’uscio con un calcio.
«Devo preoccuparmi? Se è l’uniforme potresti far così con tutti i poliziotti che ti capitano sotto tiro».
Michiru ridacchiò dandole un pugno leggero sulla spalla per poi alzarsi sulle punte e darle un bacio sulla sommità del naso.
«Nessuno catturerebbe la mia attenzione. A me piace la divisa addosso a te!».
«Sicura…?» sospirò calda la bionda sul collo dell’altra.
«Ne sono certa».
«E io non ho intenzione di contraddirti». Le mani di Haruka scivolarono sui fianchi della sua attraente moglie per poi finire a carezzarle le cosce coperte dai collant.
«Sarà meglio…» sorrise Michiru prima di lasciarsi andare ad un leggero mugolio di piacere.
«Mancava tua sorella…».
Haruka si scostò appena per poi infilare due dita al di sotto del nodo della cravatta e allentarselo.
«Sarà stata bloccata in ospedale come al solito».  Michiru l’aiutò a toglierla e infilò le dita affusolate al di sotto della giacca dell’altra per poi lasciarla cadere a terra.
«Mancavano anche Rei e Sadao…».
«Sei stata attenta per una che si distrae per colpa del mio vestito…».
«Ops». Haruka ostentò uno sguardo colpevole accompagnato da un sorrisetto furbo e per nulla casto.
«Mi alleno solo a diventare una brava investigatrice».
Si avventò sulle labbra della compagna, saggiandone il gusto e ripassandone la forma a cuore con le proprie.
«E scoprirò ogni suo piccolo segreto signorina Kaiō».
Michiru rise sciogliendosi lo chignon con una mano per poi slacciare i bottoni della camicia ad Haruka.
«E comincerò partendo da cosa si nasconde sotto questo vestito!».
 
 
***
 
 
Minako dovette abbandonare Akira in preda agli isterismi in quello che sarebbe stato il suo locale e per un minuscolo istante si chiese se fosse davvero possibile che un essere umano – dotato di sanità mentale – riuscisse a mantenere il sangue freddo in mezzo alle pallottole e lo perdesse senza possibilità di recupero a causa di un ristorante.
 
Salì sulla metropolitana stando ben attenta a non pestare i piedi a nessuno e attese pazientemente la propria fermata. Risalì il sotto passaggio trovandosi in strada, attraversò l’incrocio vestita ancora di tutto punto per la cerimonia di Haruka e si specchiò nel riflesso di una vetrina che esponeva borse.
Un brivido le attraversò la schiena prendendola di sorpresa al ricordo dell’ultima volta che si era persa a fantasticare d’innanzi ad un negozio.
Si portò inconsciamente una mano all’altezza della propria cicatrice come a fermare una copiosa emorragia, ma subito si riprese nel vedere le dita pulite e smaltate.
Inspirò ed espirò. Stava bene. Stavano tutti quanti bene e avevano ricominciato dal principio.
Quello era il loro “dopo tempesta”. La bufera era cessata e tutti attendevano il loro raggio di sole personale che rischiarasse la propria esistenza.
Minako non era solita rimuginare sul passato e chiusa la paura dentro un cassetto.
Proseguì per la propria strada sino ad entrare in ospedale.
Il suo turno stava per cominciare, per tanto si diresse allo spogliatoio dove ripose i propri effetti personali all’interno dell’armadietto.
Indossò il suo camice, raccolse i capelli in una comoda coda e si accertò di spegnere il cellulare. Fu solo in quel momento che sul display lesse il messaggio di Ami.
 
 
 
Ami si riprese mentalmente per essere rimasta e non aver partecipato al grande momento di Haruka, decidendo di farsi perdonare l’indomani all’inaugurazione dell’attività di Akira.
La stanchezza le pesava sulle palpebre ma il senso di dovere la tenne ancora una volta sveglia.
Scivolò lungo i corridoi accennando qualche sorriso e cenni di saluto alle infermiere o ai medici con cui spesso aveva avuto a che fare fino a varcare la soglia del reparto dove l’aveva mandata Mamoru.
Il decimo piano era un territorio inesplorato ai più e lei non vi aveva mai messo piede sino a quel momento.
Sentì un nodo allo stomaco e uno sconosciuto senso d’inadeguatezza farsi strada in lei, sino a che un giovane dagli occhiali a fondo di bottiglia non bloccò la sua marcia che strada facendo era divenuta più indecisa.
«Lei è…».
«Ami Mizuno».
«Una specializzanda, avrei detto…».
Lo sguardo indagatorio le fece una radiografia veloce.
Il ragazzo arricciò il naso, sollevò un sopracciglio e aprì il palmo della mano in sua direzione.
«Mi consegni tutto ciò che potrebbe disturbare i pazienti o essere usato come arma impropria».
«Ho…» Ami si tastò indecisa per poi soffermarsi sul proprio taschino.
«Una penna» concluse per poi porgerla al ragazzo.
«Si potrebbe fare una tracheotomia d’emergenza perciò…suppongo possa essere potenzialmente pericolosa».
«Altro?».
«Ehm…no».
«Bene. Presti attenzione. In caso d’emergenza sarò qui nel corridoio».
Ami annuì. All’improvviso le parve di essere piombata in un carcere piuttosto che in psichiatria, ma senza farsi intimorire avanzò di qualche stanza per poi bussare alle 115.
Non ebbe risposta ma dopo aver contato fino a cinque entrò piano.
«Agente Hino, sono Ami. Si ricorda di me?».
Rei aveva lo sguardo fisso sulle imposte della finestra.
«Come si sente?».
Nessuna risposta.
«Io…» Ami tentennò.
«Dovrei solo accertarmi che stia bene e farle qualche domanda. È solo la prassi…».
Si avvicinò quasi timorosa al lettino tirandosi via dal collo lo stetoscopio.
«Se facesse qualche bel respiro per me…vorrei sentire come va il suo cuore».
Rei finalmente si voltò. Due occhi scuri come la notte s’inabissarono nel blu delle iridi di Ami.
Faticava a sentirlo, ma doveva ancora essere lì quello che Ami voleva ascoltare. Anche se aveva creduto che il cuore le si fosse fermato come un vecchio orologio alla notte in cui aveva abbracciato per l’ultima volta Setsuna.
«Non penso sentirai un gran che…» esalò per poi lasciarla fare.
Ami stirò le labbra in un sorriso rassicurante per poi ascoltarle il battito.
«Sembra andare tutto bene qui» le disse quasi a bassa voce, come se fosse più che altro un pensiero tra sé e sé che una vera e propria informazione.
«Dovrebbe compilarmi un questionario. Può farlo?».
«Come sta?».
«Sadao, oh…appena avrò notizie dal dottor Chiba le farò sapere! Fortuna c’era lei a soccorrerlo!».
Rei aggrottò la fronte confusa. Lo sguardo scivolò da Ami al lenzuolo per poi finire sulle proprie mani.
Come sta Setsuna?
Era scomparsa d’improvviso; svanita nel nulla dall’arrivo di Sadao.
Un chiacchericcio si diffuse per il corridoio dapprima silenzioso e due uomini in divisa si fermarono al di fuori della porta.
In quel momento Ami dovette fare i conti con qualcosa di cui non era stata informata e le si era palesata inaspettatamente come la realtà dei fatti.
Ebbe la sensazione di quando ci si sveglia sognando di cadere dal marciapiede o da un gradino. Sentì un improvviso vuoto sotto di sé, un senso di vertigine che la riportò bruscamente alla realtà.
 
«Sono io che ho sparato» confessò Rei.



Note dell'autrice:
Non so esattamente come doveva uscire il capitolo ma...questo è quanto! Spero solo non vi abbia annoiato troppo. Ovviamente il vivo dell'azione non poteva già essere qui ma credo che presto arriverà anche quello.
E niente, solitamente sono più logorroica ma credo mi rifarò sulla pagina fb. Ne approfitto per ringraziare ancora una volta chi ancora segue questa vicenda e mi dice la sua; è sempre bello parlare con voi dei nostri amati personaggi.
Xoxo
Kat

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Capitolo 3
*** Happy People & Stupid Flowers ***


“Meet me in the crowd
people, people
throw your love around
love me, love me
take it into town
happy, happy
put it in the ground
where the flowers grow
gold and silver shine”
 
R.E.M – Shiny Happy People
 
 
 


Ami trascinò i piedi lungo il corridoio asettico fino ad arrivare allo spogliatoio. Entrò nella penombra della stanza stiracchiandosi le braccia al di sopra del capo per distendere i muscoli tutti indolenziti. Era reduce da un intervento durato quattro ore senza contare la nottata di lavoro in pronto soccorso alle spalle.
Ma Ami amava quello che faceva, amava salvare vite umane e gli sguardi pieni di sollievo che riusciva a scatenare nei parenti dei pazienti quando ricevevano una buona notizia. Perciò tutta quell’energia spesa era il giusto scotto da pagare per lei.
Un sorriso a mezzo tra la soddisfazione e l’aria di chi sogna ad occhi aperti il proprio letto, poi uno sbadiglio.
«Resisti» si diede un pizzicotto all’interno del braccio e ripose il camice nel proprio armadietto.
Un’occhiata all’orologio. Le undici di un nuovo mattino la stavano attendendo al di fuori dell’enorme complesso ospedaliero.
Ami sospirò pesantemente col sonno a spingerle sulle palpebre. Si prese un minuto, si cambiò, si pettinò velocemente e sistemandosi i capelli corti dietro all’orecchio richiuse l’anta metallica dinnanzi a lei.
Uscì dalla stanza si diresse alla macchinetta del caffè. Intercettò la zazzera mora di Mamoru e i suoi lineamenti fini. Ne osservò il portamento, i gesti e il labiale.
Lui si accorse di essere osservato. Ripose la penna del taschino e la salutò. Ami sorrise di rimando, deglutì e decise di non fermarsi a parlargli o non sarebbe più uscita di lì. Un saluto a distanza, frettoloso, ma cordiale.
Ami buttò il bicchierino di plastica nel cestino e poi con una mano nella borsetta infilò gli auricolari alle orecchie e premette play.
La musica risuonò nelle cuffiette e i raggi del mattino inoltrato la colpirono in pieno viso.
Shiny happy people laughing.
Un’artista di strada intratteneva un campanello di gente facendola ridere di gusto nel mostrare le proprie doti comiche.
Meet me in the crowd...
Ami si distrasse nel guardare lo sconosciuto e prese contro una biondina che riconobbe come la giovane moglie di Mamoru. Inchinò il capo mortificata e procedette sino alla fermata dell’autobus salendo di corsa sul mezzo in partenza.
People, people.
Si fece spazio fra i passeggeri prendendo posto accanto al finestrino e poggiando la fronte al vetro.
…where the flowers grow gold and silver shine…
Riconobbe Makoto al di fuori del suo piccolo chiosco circolare intenta a sistemare delle margherite bianche tra gli altri fiori colorati in vendita.



Shiny happy people holding hands.
Le falangi di Haruka s’incastravano perfettamente a quelle di Michiru adornate della fede nuziale nell’attraversare la strada.
Shiny happy people holding hands, shiny happy people laughing.
Nello stesso momento Akira stritolava la mano di Minako in preda all’agitazione, mentre la fidanzata se la rideva nel vederlo in quello stato.
«E’ solo un’inaugurazione. Hai affrontato di peggio!» e con una spintarella tentò di fargli perdere un po’ di quella rigidità che si era impossessata di lui tanta era l’ansia per il lancio della propria attività.
Everyone around love them…
Ami scese dall’autobus e corse accanto alla sorella che le cinse le spalle con un braccio.
«Sei arrivata in tempo questa volta!» la punzecchiò Haruka che non l’aveva vista alla sua cerimonia.
«Mi sono fatta perdonare venendo oggi, no?!».
«Preferite tutte Akira, ditelo!».
«Ruka…» la riprese bonariamente Michiru.
Tutte e tre scoppiarono in una fragorosa risata nel momento in cui Akira tagliò il nastro davanti alla porta del suo ristorante.
Minako applaudì all’unisono con il gruppo di amici e la musica nelle orecchie di Ami si fermò.
 
 
***
 
 
«Allora come vi sembra?» Akira lo domandò per l’ennesima volta.
«Guarda che la risposta non cambia dall’antipasto al primo, eh?!» lo stroncò Haruka poggiando il gomito sulla tavola.
Michiru le diede un colpetto come a dirle di non esagerare e stare seduta in maniera corretta quasi fosse una bambina.
La bionda protestò con un mugolio e borbottò un «è tutto bello. Stai buono adesso e rilassati».
Minako si dondolò appena e portò alle labbra un altro calamaro fritto.
«Sono magnifici pure questi amore!».
L’ego di Akira venne solleticato dal complimento della fidanzata e il ragazzo si drizzò tronfio con il petto in fuori pieno di nuova energia e voglia di mostrare agli amici tutte le sue doti culinarie.
«Vado a prepararvi il piatto forte!» annunciò per poi scomparire nella sua nuova cucina.
«Ci rimpinzerà sino a domani mattina, vero?».
«Ovvio che sì!» esclamò per tutta risposta Minako pulendosi distrattamente qualche briciola dal viso.
«Non credo di poter resistere ancora per molto…» disse in un soffio Ami.
«Eeeh già dovresti proprio recuperare del sonno arretrato!» sentenziò la bionda incrociando le braccia al petto.
«Da quanto sei in piedi?» indagò Michiru arricciando leggermente le labbra con fare da sorella maggiore.
«Abbastanza da non presentarsi al mio evento!» non mancò di ricordare Haruka ancora una volta.
«Non me la perdonerai mai, eh?!».
«Oh ma non starla ad ascoltare, Ami!» intervenne pronta Michiru ancora una volta.
«MOGLIE! Mi togli tutto il divertimento!».
Michiru non poté trattenersi dal ridere così come le altre compari al tavolo con loro, ma l’atmosfera di spensieratezza s’incrinò al racconto di Ami.
«Non ho staccato per la faccenda di Rei e Sadao».
Haruka a quelle parole si drizzò sulla seduta della sedia.
«Non deve star bene per niente l’agente Hino. Ieri mi hanno mandata da lei. E’ in psichiatria».
«Per tutte le pietanze di Buddha!» esclamò spalancando la bocca Minako. «TI HANNO FATTA ENTRARE IN QUEL REPARTO?!».
«Shhhhttt abbassa la voce, Mina!!» le disse l’amica sventolandole una mano sotto al naso come se potesse aiutarla a zittirsi più velocemente.
«No, sul serio. Non capite!!!» disse in preda all’enfasi Minako. «E’ praticamente impossibile entrare lì dentro e uscirne senza aver riportato qualche ferita più o meno grave. Te lo ricordi Yuji?» ma la ragazza s’interruppe solamente per tirare mezzo fiato riprendendo poi a pieni polmoni il suo discorso.
«Era questo tizio del nostro corso…»
«Perché hai usato il termine “era” dobbiamo preoccuparci?» indagò Haruka corrugando la fronte.
«Amore, ti stai esercitando a fare gli interrogatori?» domandò ironica Michiru.
Minako si schiarì la voce per riportare su di lei l’attenzione delle presenti.
«Stavo dicendo. Yuji non era nemmeno l’ultimo scemo del villaggio. Non dico fosse intelligente come Ami – cosa praticamente impossibile – ma insomma, era uno che sapeva il fatto suo e aveva preso a studiare psichiatria perché aveva deciso che quella dei disturbi mentali poteva essere la sua strada. Morale della favola, qualche settimana fa, era stato chiamato dal suo strutturato per un consulto nel reparto d’igiene mentale e…» la ragazza stroncò il racconto poggiando i palmi alla tovaglia nera ricamata caricando di pathos l’atmosfera. Le aveva in pugno tutte e tre, come al campeggio da ragazzine quando si raccontano le storie del terrore con la torcia puntata sotto al mento e ci si prepara a fare qualche strano verso che nessuno si aspetta per spaventare i presenti.
«Ne è uscito su una barella».
«Mina dai. Aveva una gamba rotta e una costola incrinata!» sentenziò Ami.
«E dici poco! A momenti lo portavano diretto all’obitorio!».
«Non credo di aver compreso cos’è successo…» intervenne con aria annoiata Haruka.
«Il paziente a cui doveva fare il consulto lo ha spinto giù per le scale!».
«Ragazze, stiamo divagando» le richiamò a raccolta Michiru portandosi una mano alla fronte. Nemmeno i suoi studenti erano tanto indisciplinati.
«Wohoo, cosa sono quelle facce mie dolci fanciulle?» Akira arrivò con in mano due piatti fumanti che sistemò in mezzo al tavolo interrompendo la discussione.
«Rei ha sparato a Sadao» freddò tutti Ami senza giri di parole.
«CHE COSA?!» Akira e Haruka parvero gracchiare come due cornacchie in procinto di strozzarsi.
«Tesoro, siediti» lo invitò Minako.
«Non mi sto sentendo male» borbottò lui. «O forse sì» si apprestò ad aggiungere accomodandosi in loro compagnia.
«L’hai tenuta la pistola vero? Non l’hai venduta per qualche aragosta o roba simile».
«Haru, certo che l’ho tenuta! E non chiamare “roba simile” il mio fantastico pesce al cartoccio!».
 
 
***     
 
 
In centrale i telefoni sembravano impazziti. Trillavano senza sosta scatenando una serie di sonori sbuffi negli agenti più giovani che odiavano fare le veci di centralinista piuttosto che passare all’azione sul campo.
A Sadao non sarebbe dispiaciuto così tanto tirare su la cornetta invece; per lo meno fu il pensiero di Jadeite che con aria imbronciata pareva doversi tenere su la testa con una mano come se potesse cedergli sulla scrivania da un momento all’altro.
Compì mezzo giro con la sedia da ufficio dotata di rotelle, ignorando il fastidioso e continuo suono che riempiva la stanza.
Jadeite si annoiava a morte. Da quando non aveva più avuto modo di vedere Rei le sue giornate erano più grigie e lunghe. Era schiva e irritante, una vera sfida. Eppure lui aveva trovato un che di divertente nel collaborare – malgrado il disappunto e l’intolleranza di Rei nei suoi confronti – a quel caso che aveva ucciso il famigerato ispettore Meiō qualche mese addietro.
 
«Ispettore!» un giovanotto alle prime armi richiamò la sua attenzione con fare agitato.
«Che vuoi?» il biondo sbuffò irritato.
Anche Sadao era divertente. Impacciato e maldestro con la pistola, ma efficiente e timoroso di farsi valere anche quando la situazione sarebbe stata dalla sua parte. Tuttavia, Jadeite lo aveva notato. Negli ultimi tempi non era stato lo stesso senza Hino nei paraggi. Sadao aveva l’aria di essersi smarrito e aveva recuperato quella strana e buffa grinta solo nel momento in cui era venuto a sapere che Rei era rientrata in paese.
«Il telefono!».
«Risposta vaga. E noiosa» brontolò il biondo stiracchiandosi contro la seduta.
La notizia di Rei che aveva dato di matto si era diffusa a macchia d’olio in poche ore la notte precedente in centrale.
«Non smette di squillare…».
«Stacca il filo».
«No. Cioè, non posso».
Jadeite scrollò le spalle. Si alzò e si buttò la propria giacca sulle spalle.
«Dove va?!».
«A fare un giro in ospedale».
«Ma…continuano a chiamare!».
«Un altro gatto bloccato su un albero troppo alto? Occorrono i pompieri per quello».
Si fece spazio tra la porta e il corpo del suo interlocutore voltandogli le spalle.
«E’ per un incendio…» sibilò il giovane con fare confuso.
«POMPIERIIIII!» esclamò esasperato Jadeite un’ultima volta prima di scomparire in strada.
 
 
 
***
 
 
Budapest.
Gli affreschi che dipingevano il soffitto del caffè più elegante della città le toglievano il fiato.
Un quartetto d’archi allietava la sala gremita di gente e Rei vestiva con un elegante tubino rosso carminio. Non aveva più usato quel colore dalla dipartita dell’amata, ma quella sera era con lei perciò se lo era concesso.
«Domani cosa faremo?» domandò la mora a Setsuna che non dovette pensare troppo alla risposta.
«Andiamo a Bastione Dei Pescatori!».
«C’è una chiesa. Tu non vai in chiesa Sets» sostenne Rei con aria di finto rimprovero.
«Non c’è solo quella» rispose l’altra piccata. «Andremo a vedere la città dall’alto che si specchia con le sue luci sul Danubio».
«Poetico…» le labbra all’insù.
Il rumore del piattino poggiato sul tavolo dal cameriere la interruppe.
«Come dice madame?».
Rei sbatté le palpebre guardandolo con aria truce. Poi le note degli archi stonarono e le corde del violino sembrarono stridere d’improvviso. Non erano i musicisti e tanto meno gli strumenti. L’unica cosa guasta in quel quadro perfetto era lei.
Gli occhi persero la scintilla di rimprovero e si fecero confusi.
Il cameriere a disagio guardò altrove per poi sgomberare il tavolo accanto.
La presenza di Setsuna era svanita nel nulla così come la sua voce.
Una smorfia disperata e il respiro mozzato all’improvviso.
Un bruciore all’altezza del petto e il tentativo di scacciare quella lucidità che aveva perso troppo a lungo.
«Ti ho promesso Londra. Non puoi ancora andare…».
I denti stretti e le unghie conficcate nelle ginocchie.
 
«Ti ho detto che non puoi ancora andare».
Le iridi dai riflessi porpora si sgranarono all’improvviso accompagnati dalla propria voce che da un soffio divenne quasi un grido.
Gli occhi sondarono il soffitto per poi cadere sulla linea del proprio braccio. La vista appannata pian piano si fece più nitida e Rei notò che qualche studente incompetente le aveva martoriato la pelle per riuscire a infilarle la flebo.
Il silenzio si ruppe. Nel corridoio un cicaleccio si alzò sino ad arrivare alle sue orecchie.
Due figure si scostarono e la maniglia si abbassò per fino alla fine della sua corsa.
Setsuna.
Una vaga speranza.
Una zazzera bionda e un sorriso smagliante fecero capolino da dietro un mazzo gerbere arancioni e gialle.
«Ci si rivede finalmente, zuccherino».
Rei raccolse i pezzi di se stessa, alzò il mento e assunse una posizione più diritta per non sembrare una pazza indifesa costretta a letto.
«Nessuno ti ha invitato».
«Non ho bisogno di inviti, io».
«Già, nemmeno per prendersi l’ufficio degli altri e i casi degli altri».
Jadeite si avvicinò al lettino porgendole i fiori senza raccogliere provocazioni.
«Per te. Non si va a mani vuote da qualcuno».
«Tsk».
«Che c’è?» domandò poi «Preferivi le rose? Non ti facevo così classica».
Gliele aveva regalate al loro terzo mesiversario Setsuna. Erano rosse.
Il cuore di Rei perse un battito e con quello anche la sicurezza nei suoi occhi vacillò.
«Vattene».
Non lo sopportava.
«Sono appena arrivato!».
«Non ti ho chiamato io, vattene ho detto».
«Altrimenti?» sorrise beffardo. A lui le sfide piacevano e Rei era quella più interessante di tutte.
«Urlerò e dirò all’infermiera che hai tentato di molestarmi».
«Entrerebbero prima i due fuori dalla porta e l’infermiera probabilmente sederebbe te, non me» disse pacato lui, ignorando l’avviso della ragazza.
Si sedette all’altezza dei suoi piedi senza chiederle il permesso.
«Quindi? Lo hai ucciso?».
«Chi?».
«Il nanerottolo. Sadao…».
A Rei si strinse il cuore. Gli aveva davvero fatto del male?
«No. No-n credo. Spero».
Un dolore lancinante alla testa le fece strizzare le palpebre.
 
La Dodge con a bordo lei e Setsuna all’inseguimento di Haruka.
“Setsuna starai con me?”
E al suo risveglio Setsuna in ospedale al suo capezzale.
“Stai meglio?”
“Alla grande”.
 
Ma in quel momento Rei non stava alla grande e pensava che probabilmente non ci sarebbe mai più riuscita.
«Tutto okay?».
«Te ne vai?».
Jadeite sospirò. Magari sarebbe potuto andare a tediare Sadao e lasciarle un po’ di spazio.
«Sai perché sono qui i due omaccioni? Una parola: Commissario Anziano. Ti conviene fare la brava».
Jadeite le schioccò un occhiolino per poi andarsene.
Rei fissò le gerbere abbandonate sulle sue gambe.
«Che fiore stupido».
Ne staccò un petalo ma se ne pentì subito.
«Stupido e allegro».
Calò il silenzio.



Note dell'autrice:

Non sono scomparsa e non ho intenzione di farlo! Mi scuso per il periodo lunghissimo di pausa ma sono in una situazione in cui non ho il tempo nemmeno di vivere a momenti perciò mi riesce difficile aggiornare. Tuttavia spero e proverò a pubblicare con una cadenza più decente. Non vi abbandono nè abbandonerò tutti  miei protagonisti sfigatelli.
Anche qui non siamo nel vivo dell'azione, ma credo ci possano essere tante cose da raccontare e far succedere perciò io non ho fretta di movimentare il tutto. I capitoli non sono studiati a tavolino, fanno quello che vogliono e vengono fuori come vogliono perciò non so darvi indicazioni precise su ciò che accadrà e COME accadrà! Potete solo scoprirlo!! 
Un abbraccione a chi è sempre e nonostante tutto a seguirmi.
Luv ya.

 

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Capitolo 4
*** Le prede ***


“The ground beneath is shaking
The peace that we've been faking
The ground beneath is shaking
Who knew the silence was breaking.
The silence was breaking”.
 
Silence worth breaking - Brooke Annibale


 
 
 
 
Il dragone venne intrappolato sotto alla stoffa immacolata della camicia dal colletto ben stirato.
Haruka sospirò guardando il suo riflesso allo specchio. Indossò la giacca della propria divisa e il sorriso s’incrinò in una strana smorfia. Qualcosa di somigliante all’incredulità ma che nascondeva sfumature irriconoscibili anche a lei.
Mai avrebbe creduto di potersi vedere in quel modo; forse per una festa in maschera, ma non per davvero.
Nel suo profondo c’era uno scontro tra titani. Coesistevano due morali, due Haruka. L’una opposta all’altra e probabilmente avrebbero combattuto senza sosta sino a disintegrarla.
Si sentiva orgogliosa di quel traguardo; si sentiva degna di Michiru.
E allo stesso tempo credeva non le appartenesse l’immagine allo specchio. Il drago inciso sulla sua pelle non era stata solamente una menzogna per risultare credibile al clan. Per anni, aveva odiato quell’organizzazione con ogni respiro che aveva esalato. La Yakuza le aveva portato via suo padre e i bei ricordi dell’infanzia, eppure lei ne era diventata parte suo malgrado e per quanto lo detestasse sapeva di appartenere più a loro che a un rappresentate della giustizia.
Che stesse tradendo la sua stessa natura?
Le mani di Michiru che arrivarono dalla sua schiena a cingerle la vita interruppero quel turbine nero di pensieri.
«Sicura sia legale?» le domandò mordendosi il labbro inferiore e poggiandosi col mento nel mezzo delle sue scapole.
Haruka ridacchiò divertita.
«Sii più precisa, Michi».
«Tutto questo. Tu. E in particolare tu con questa divisa addosso».
Haruka era sempre stata un concentrato di bellezza agli occhi di Michiru. Abbagliante come il sole estivo.
Ma doveva ammettere che quel vestiario non l’aiutava. Vederla in divisa le dava alla testa.
«Me l’ha data lo stato, perciò è tutto regolare. Anche se detto da una come me suona come una balla atomica».
«Ooh ma dai!».
Haruka abbandonò il suo riflesso per voltarsi ed incrociare le profondità marine che nascondevano le iridi di Michiru.
Michiru si alzò sulle punte lasciandole un bacio sulle labbra.
«Sei sempre la mia Haruka» disse in un sospiro. «Ti amo in tutte le tue varianti, dovresti saperlo».
La bionda si sentì stranamente rincuorata da quelle parole e rinchiuse i suoi turbamenti dietro ad una porta blindata in qualche antro profondo di sé stessa. In fin dei conti Michiru aveva visto sin dal principio la parte peggiore di lei.  Se l’aveva sposata da delinquente non potevano che migliorare le cose.
 
«Il dovere mi chiama, moglie!» annunciò tronfia la bionda.
Michiru dovette concentrarsi per non scoppiare a ridere sguaiatamente.
«Anche il mio. Devo insegnare a delle allegre canaglie che la musica è bella in tutte le sue sfaccettature».
«Non fare innamorare troppi alunni».
Haruka le lasciò un bacio sulla punta del naso.
«E tu troppi delinquenti».
«Non posso prometterlo».
«Ruka…».
La bionda sfoggiò il sorrisetto più furbo di tutto il repertorio.
Michiru adorava quella faccia da schiaffi ma ne era tremendamente gelosa.
«Non è colpa mia se sono irresistibile!».
L’altra la pizzicò ad un fianco minacciandola con sguardo severo fino a farla indietreggiare sul pianerottolo.
«Attenta signora Kaiō».
«Cosa?! Come sarebbe a dire?! Io sono Ten’ō. Sei tu la signora Ten’ō ora, non sono io che ho cambiato cognome!» esclamò con uno schiocco di lingua la bionda.
«E questo chi lo ha deciso?!».
«Io!».
«Ahh, tu?!».
Michiru, accigliata, le lanciò le scarpe.
«No, Michiru dobbiamo parlarne!» protestò Haruka infilandosele ormai fuori dall’uscio con una sola mano mentre l’altra era troppo intenta a gesticolare per la questione appena sollevata.
Michiru le sorrise, ma non si trattava dell’incurvatura dolce che le riservava nei momenti di tenerezza. Era un sorriso da donna. Uno di quelli che non ammettono repliche, un silenzioso punto che chiudeva una faccenda sulla quale non era possibile avere un’opinione differente dalla sua perché si sarebbe dichiarata una guerra persa in partenza.
Non c’era che dire, tra le tante doti di miss Kaiō c’era anche quella di zittirla e metterla al proprio posto in cinque secondi.
 
 
***  
 
 
Sadao sprofondò con le scapole nel cuscino trovando un po’ di sollievo dal dolore.
Nei momenti ancora in preda all’anestesia, appena uscito dalla sala operatoria, tutto aggrovigliato su se stesso aveva tentato di aprire più volte gli occhi e in quelle immagini sfocate e distorte gli era parso di scrutare la sagoma di Rei fissarlo.
Non era arrabbiato con lei. Uno come lui d’altro canto non avrebbe mai potuto serbare rancore nemmeno se gli avessero amputato un arto.
Gli occhi rotearono dal soffitto per poi finire su una serie di riviste che alcuni amici gli avevano recapitato per passarsi il tempo in ospedale. Musica, moto e donne dagli abiti un po’ troppo succinti.
Ami aprì la porta senza annunciarsi e il ragazzo con un goffo tentativo cercò di nascondere sotto agli altri giornaletti quello un po’ più sconcio.
«Come andiamo signor Chiba?» domandò con tono garbato lei, richiudendosi la porta alle spalle.
«Uhm…» Sadao si sentì pieno di vergogna. Nemmeno nelle fasi più turbolente della pubertà si era ritrovato a sbirciare certe fotografie. Le donne gli piacevano certo, ma nel modo più puro e  ingenuo che ci si potesse aspettare da un tipo come lui. Provava un imbarazzo tanto profondo che il solo pensiero di passare per il vero proprietario di quel materiale gli paralizzò la lingua.
«Diamo una controllatina?» Ami si avvicinò cauta come se fosse in procinto di allungare una mano verso un’animale ferito.
Sadao tentò di tranquillizzarsi. Invocò tutti i santi da lui conosciuti scongiurando di passare indenne a quella visita senza risultare un maniaco sessuale.
Riuscì  a deglutire  e sillabò un timido: «Si-signor Chiba mi fa sentire un po’ vecchio».
Dalle labbra di Ami scappò fuori una risatina leggera.
«Sadao andrebbe meglio» puntualizzò lui. «In fin dei conti ci siamo già visti al matrimonio di tua sorella. Potremmo essere meno informali se non ti crea disturbo» e prima che la ragazza potesse rispondergli con anche solo un cenno di assenso si affrettò a scusarsi se fosse stato indiscreto con quella sua richiesta.
«Hai ragione, nessun problema» si affrettò a dire Ami per poi svolgere il suo lavoro.
Indossò due guanti puliti, assicurandosi di ricevere un muto permesso per procede.
«Cominciamo dal ventre, okay?». I suoi occhi chiari si scontrarono con quelli scuri di Sadao che ebbe un fremito.
Ami strappò con decisione la benda cerotto sotto alla quale si celava il rammendo impeccabile di Mamoru.
«Sembra non ci sia segno d’infezione. Guarirà bene, vedrai. E niente imbarazzi con le ragazze!». Ami si sbilanciò con un occhiolino e Sadao  tirò le labbra con fare sollevato.
«A meno che…» Ami pulì la ferita, la disinfettò soffiandoci sopra impercettibilmente come si fa con qualcuno con cui si è in profonda confidenza e coprì il tutto con un nuovo bendaggio. «Non frequenti di quelle che pensano siano sexy le cicatrici!».
Il giovane si sentì andare a fuoco. Partiva sempre come un formicolio dalla punta delle orecchie che diveniva rossore in pochi istanti e si palesava dai lobi alle gote sino a parte del collo.
Respirò a fondo tentando di scacciare l’indomabile curiosità che bussava inspiegabilmente al suo cervello.
 
Ami era una di quelle ragazze o no?
 
«Come sta lei?» trovò una strana pace in quella domanda.
Ami alzò lo sguardo dalle ferite del ragazzo per poi soffermarsi ad osservare la sua espressione.
Se qualcuno avesse sparato per ben due volte a lei, non era certa sarebbe riuscita a rimanere così tranquilla e ad informarsi sulle condizioni del suo aggressore. Questo nonostante Ami fosse dotata di grande empatia e sensibilità nei confronti altrui.
«Starà bene». Non si sbilanciò, conscia di non essere tenuta a dare informazioni riservate su altri pazienti ma parve percepire l’insofferenza dell’altro nel sondare il secondo colpo che gli aveva leso la spalla.
«Credo la dimetteranno a breve».
«Potrei…».
«Andare a trovarla?» l’anticipò Ami finendo il proprio operato.
Sadao si lasciò sfuggire un cenno impercettibile dal capo.
«Non credo sia una buona idea…».
 
 
E due piani sopra alle loro teste  la profezia di Jadeite si compì.
 
 
***
 
Il commissario anziano entrò seguito dai due poliziotti che avevano pattugliato per tutto il tempo dinnanzi alla porta della stanza di Rei.
La ragazza perse interesse per i fiori che le erano stati donati da Jadeite e senza alcun timore sostenne lo sguardo dell’uomo di fronte a lei.
Il supervisore in questione avrebbe fatto venir la tremarella a chiunque ma lei – sebbene non avesse perduto completamente il senno – non parve mostrare alcun segno di preoccupazione.
«Agente Hino…».
«Si, signore» così avrebbe risposto Setsuna e così fece lei.
«Ho sentito che l’era stato intimato un periodo di riposo. Era stata sollevata dall’ultimo incarico ma lei ha ben deciso di fare in altro modo…».
Rei dovette spegnere la miccia che s’accese minacciosa alla bocca dello stomaco. Era sempre stata dotata di una personalità accesa, alle volte poco diplomatica ma qualcosa la bloccò esattamente com’era solita fare Setsuna; capace di sedare il più delle volte il suo animo infuocato.
«Mi sono presa una vacanza subito dopo aver terminato il mio lavoro».
Il viso dell’uomo era una maschera rigida che non lasciava trapelare alcuna intenzione. Sfilò dal taschino della giacca un fazzoletto bianco e pulì rigorosamente le lenti dei propri occhiali riponendoli attentamente sul setto nasale dopo la silenziosa pausa che la propria persona aveva imposto.
«Non potrà tornare in servizio» disse senza mezzi termini.
Un’ istinto omicida si fece strada in Rei tanto che nemmeno una buona dose di valium le avrebbe impedito di saltargli alla gola, tuttavia qualcosa la fermò.
Un ricordo.
Un piccolo, lontano, insignificante ricordo. Quasi un abbaglio. Una sorta di miraggio che la memoria le ripropose facendo sì che il presente si placasse per un breve istante fino a bloccarsi.
Stand-by.
Setsuna che pettinava i sui lunghi capelli scuri davanti allo specchio del bagno e il pendente bordò che dal suo lobo si annodava ad una lunga ciocca facendole strizzare le palpebre in un moto di leggero fastidio.
Rei si era nascosta quella volta. Rimase dietro la porta socchiusa della stanza a spiarla divertita e a scommettere con se stessa quanto ci fosse voluto a farle perdere la pazienza.
«Ti ho vista. Lo so che sei nascosta lì dietro».
 
«Cosa?». Il ricordo sbiadì con la voce di Rei.
Setsuna non l’aveva mai scoperta in realtà.
«Agente Hino facciamo così» l’uomo sembrò intenzionato a darle un’ultima chance  e nonostante Rei pensasse di aver già perso tutto si diede un’altra possibilità ascoltandolo.
«Siccome mi è stato detto che lei è un’agente promettente e non voglio assumermi la responsabilità di stroncare un futuro talento delle forze dell’ordine dovrà impegnarsi a dovere. Distintivo e pistola le verranno restituite solo dopo un adeguato percorso. Quando la terapista riterrà opportuno il suo rientro allora potrà prestare nuovamente servizio. Non una sola seduta saltata, sono stato chiaro?».
 
Niente vie di fuga.
Prendere o lasciare. E faticosamente Rei si diede un’altra opportunità.
 
 
*** 
 
 
Haruka sorvolò sui bisbigli e le occhiate; aveva ormai imparato. Nel suo breve addestramento c’erano già stati i giudizi e le chiacchere alle sue spalle.
Ora che si trovava al distretto c’era già chi la conosceva per la sua collaborazione con la polizia per guadagnarsi la libertà anziché la prigione ed era inutile pensare che tutti l’avrebbero accolta come un’eroine dimenticandosi dall’oggi al domani del suo passato da criminale.
Sebbene si fosse guadagnata una bella pulizia della propria fedina penale, la divisa non le avrebbe reso la vita più facile. Anzi, probabilmente avrebbe dovuto sudare più di una normale leva per farsi accettare e rispettare.
Non posso credere di essere qui dentro di mia spontanea volontà. Un respiro profondo, il coraggio a raccolta e una serie di lunghi passi diretti all’ufficio che era stato per lungo tempo di Setsuna.
Sarebbe dovuta andare nell’ufficio del Keishi-sei [1] a presentarsi ma non curante delle regole come suo solito e guidata dall’abitudine procedette per il corridoio fermandosi appena dietro l’angolo.
Era cambiato tutto e allo stesso tempo niente. Il neon che emetteva il fastidioso sfarfallio era sempre presente con il suo ronzio, così come l’immancabile tazza sporca di caffè amaro sopra una pila di fogli macchiati giacenti sulla scrivania. Al posto però del capo reclinato di Setsuna, intenta a massaggiarsi le tempie per trovare la concentrazione anche negli orari più improponibili della notte, vi era la zazzera bionda di Jadeite e un sonoro sbadiglio.
«Non avresti voluto trovare me qui».
Haruka sobbalzò presa alla sprovvista.
Non conosceva bene il ragazzo ma non aveva mai avuto l’impressione fosse un tipo particolarmente attento.
«E scommetto anche non dovresti essere lì dietro ma altrove a fare già il tuo lavoro» aggiunge alzandosi quasi mal volentieri dalla sedia.
Jadeite si stiracchiò e mollemente la raggiunse.
Haruka alzò leggermente il mento nel trovarselo di fronte. Era poco più alto di lei e sebbene fossero due persone completamente agli opposti non poté fare a meno di pensare – come a sua insaputa aveva fatto Akira quando si ritrovò a chiedere aiuto al poliziotto – che potevano benissimo apparire come due gocce d’acqua.
«Non occorre presentarsi…».
«Direi di no» disse asciutta lei per poi riprendersi completamente da quella stasi mentale e fisica in cui si era ritrovata per qualche istante.
«Bene, farò le veci del nostro superiore. Tanto è uguale per tutti voi novellini».
Haruka dovette mordersi la lingua. Se l’avessero bendata sarebbe sicuramente riuscita a centrare più bersagli di lui con il numero minore di cartucce o almeno era quello che lei nella sua testa sosteneva.
«Sedia, monitor, scartoffie e telefono» indicò lui.
Altri quattro ragazzi erano appena arrivati come lei e tutti sembravano darsi tanto da fare come se ne andasse delle loro vite.
«So usare tutte quattro le cose. Le scartoffie forse sono quelle che prediligo meno, ma…okay».
«Una noia, vero?».
Haruka rispose con una scrollata di spalle e prese posto.
«Ho indetto una gara» disse tutto tronfio Jadeite.
La bionda lo guardò con l’aria di chi fissa un’idiota che non sa di esserlo e non si mostrò particolarmente interessata alla faccenda.  Ma lui, che parlava anche se gli altri non erano interessati a quello che aveva da dire, continuò.
«Vedi come sono tutti presi questi qui? E’ perché chi scova il caso migliore viene sul campo con me anziché rimanere chiuso qui un ufficio. Fossi in te comincerei a correre. Loro sono già in vantaggio!».
 
E con un altro sbadiglio si defilò lasciando Haruka con una vera e propria caccia al tesoro.
 
 
*** 
 
 
«CE L’HO!» gridò Misato alzando la mano come fosse a scuola. La schiena ritta e il rumore della sedia che striscia sul pavimento. Aveva rischiato di cadere all’indietro per la frenesia che aveva messo in quel gesto e con la cornetta ancora attaccata all’orecchio dava filo da torcere agli altri tre ragazzi in netta difficoltà
Haruka distolse gli occhi dalla marea di fogli che aveva sparso sul piano del tavolo senza dare troppo l’aria di chi s’interessa a quello che sta accadendo.
«Sentiamo.
Jadeite incrociò le braccia.
«Abbiamo uno scippatore! Ha rubato la borsetta ad una ragazza facendola cadere a terra sul binario della metropolitana. Alcuni passanti si sono fermati a prestarle soccorso e uno di loro ha visto l’uomo salire sulla linea 5 direzione Funabashi».
«Che noia».
Il luccichio negli occhi della ragazzetta si spense d’improvviso. Strinse i pugni, sbatté i piedi sotto alla scrivania e con un verso di disappunto si rimise all’opera.
Haruka la trovò forte e ridicola allo stesso tempo.
 
Gli squilli del telefono ricominciarono incessanti.
 
Questa volta fu Haruka a rispondere.
Tutti i presenti trattennero il fiato pronti a saltarle addosso se solo fosse stata la fortunata di quella stramba lotteria.
Jadeite la intimò a parlare con un’occhiata.
«Un’incendio» sillabò lei per poi riattaccare.
«Di nuovo?!» il biondo sbottò passandosi una mano tra i capelli.
Haruka molestò con i denti la matita che aveva usato per tutta la mattinata. Non era nervosa, ma solo pensierosa.
Qualcosa le stava dicendo di non lasciar perdere.
«Non è solo uno…».
Jadeite pronto ad andarsene per trovare qualcosa che servisse a sedare la noia di stare in centrale senza Sadao e Rei la guardò come se la cosa dovesse essere ovvia e priva d’importanza.
«Certo che non lo è. Ho già fatto mobilitare i vigili del fuoco per questa faccenda».
Haruka come presa da isterismo si mise a cercare tra i documenti e gli appunti che le erano stati dati, poi si alzò e corse alla mappa della città appesa alle proprie spalle. Infilzò con alcune puntine determinati punti della metropoli in corrispondenza dei quali si erano verificati gli incendi che i civili avevano segnalato alle autorità.
«Dì un po’ Jade» un sorrisetto irritante accompagnò il nomignolo coniato al momento per il suo superiore.
«Sai come funzionava la caccia un tempo?».
Il ragazzo tentennò. Era più che altro concentrato su quella punta di fastidio che le provocava il modo di fare della nuova arrivata.
«Si usava il fuoco per stanare gli animali…barbaro, non è vero?!».
Impauriti, erano costretti ad abbandonare le proprie tane…
«Non ti sto seguendo».
«Sto dicendo che questi incendi hanno una logica. Sono…una mappa nella mappa!».
«Un percorso…» Jadeite acquistò improvvisamente interesse e si sporse in avanti per guardare meglio il “disegno” di Haruka sulla pianta della città.
Venivano condotti esattamente nella direzione in cui il cacciatore voleva… la mente di Haruka era in continuo movimento, i pensieri non accennavano a sostare mentre le sue pupille guizzavano da una puntina all’altra in cerca della risposta all’enigma.
Il suo dito strisciò sulla carta lucida.
Il telefonò trillò ancora una volta.
Misato pronunciò il nome del nuovo posto in cui le fiamme erano state appiccate.
Jadeite segnalò il nuovo punto d’interesse e fu allora che Haruka ebbe in pugno la soluzione.
La risposta all’arcano che mai avrebbe voluto trovare.
«Cazzo…».
Il ragazzo la fissò.
Haruka dimenticò come si respira e si fiondò a recuperare la giacca abbandonata sulla spalliera della sedia.
«Le prede siamo noi».
 
 


Note dell'autrice:
 Lo ammetto, è stato un parto questo capitolo e nemmeno mi piace. Tuttavia ho deciso di postarlo perché starci a rimuginare sopra di più non sarebbe servito a molto e sarebbe passato almeno un mese, perciò...no. Sono tanto fuori di melone che non riesco nemmeno a fare un discorso compiuto ma spero mi perdonerete per questo. Voglio solo passar oltre e procedere col racconto, nonostante il tempo per scrivere inesistente. Vorrei che la mia testa potesse "mettere giù" i capitoli senza l'uso delle mie mani così sfornerei velocemente e soprattutto come lo immagino (perché metterlo giù a parole non è davvero la stessa cosa).
p.s. Jadeite sta venendo fuori più mongoloide del normale, poveretta Haruka che deve averci a che a fare!

[1] I gradi della polizia giapponese sono differenti da quelli italiani. Esistono traduzioni ufficiali in inglese (che non hanno corrispondenza con quelli giapponesi) e benché traducibili in italiano non hanno relazione con quelli della polizia nel nostro paese. Ergo…prendeteveli in originale :D

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Capitolo 5
*** In trappola - Parte I ***


Devil, devil
Clever devil, devil
How quickly they do sell their souls
For the feast and the promise of gold
But devil that won't be me
 
Devil Devil – Milck
 
 
 


I capelli sciolti sulle spalle scoperte di Minako le ricadevano morbidi sulle sue curve femminili.
Le pagine di un libro aperto sul suo ventre si sfogliavano da sole a causa della brezza che si era insinuata nella stanza per la porta a vetri aperta e quel vestito dai colori sgargianti, non eccedente in stoffa,  le scopriva sin troppo le gambe.
Se sua madre l’avesse vista in quella maniera le avrebbe dato della svergognata, mentre Akira – se solo non fosse stato troppo preso a parlare con se stesso e ad affettare minuziosamente quel potpourri di verdure – avrebbe abbandonato ogni pudore o galanteria per farla sua su quel divanetto.
«Akira…» miagolò lei abbandonandosi ancor di più tra i due cuscini lilla «ora che non usi più la pistola cucinerai per sempre?».
Il coltello arrestò il suo battere ritmato sul tagliere in legno.
Il moro parve fissare il fornello come a dover ponderare la sua risposta e abbandonando sul piano la lama si pulì le mani al grembiule allacciato in vita.
«Con per sempre intendi dire fino alla fine dei miei giorni o…?»
«Occuperà la tua mente, le tue mani, tutto te stesso, per la maggior parte del tempo?».
Gli occhi chiari sondarono il viso di lui, mai invecchiato o segnato dai giorni trascorsi dal loro primo incontro nonostante tutti gli avvenimenti che avevano scosso le loro vite. Era ancora bello e intrigante come lo era stato al primo sguardo, eppure, pur non sapendo descriverla, Minako aveva la sensazione che Akira fosse come offuscato. Come se tutta quella routine non gli si addicesse sino in fondo.
«Mina» alle lande gelide di lui non sfuggì la sua dea. La sua vera ragione di vita, il suo tutto. Entrambi legati tanto saldamente dal filo invisibile del destino che l’uno senza l’altro sarebbero svaniti dalla faccia della terra perché non avrebbero avuto senso d’esistere divisi.
«Mai nulla potrà distogliere la mia mente, il mio cuore, le mie mani e tutto quello che fa parte di me da te».
Ogni sillaba proferita giurava amore e fedeltà; lei non avrebbe mai potuto dubitare di lui.
Minako tacque. Ma lui sapeva leggerla come fosse il suo romanzo preferito e notò l’incurvatura delle sue labbra.
«A cosa pensi? Cosa c’è in quella testa bionda?».
«Credi durerà?».
L’antardide negli occhi di Akira si adombrò istantaneamente.
«Che cosa?».
«La quiete dopo la tempesta».
«Hai paura?».
Minako non ne aveva mai avuta. Nemmeno per un momento. Nemmeno tra le sue braccia in bilico tra la vita e la morte.
Lui si avvicinò. Gli bastarono un paio di falcate e le sue mani raggiunsero le gote di lei.
«Io ti proteggerò finché avrò respiro, lo sai».
«Lo so».
«E allora che c’è?».
«Penso dovremmo…» non poté finire la frase perché il viso paonazzo di Haruka comparve interrompendola.
 
«Oddio, siete vivi».
Jadeite spuntò alle sue spalle col fiato corto.
«Ciao anche a te» disse Akira lasciando un’ultima carezza sulla testa dell’amata che si drizzò all’arrivo degli altri due.
«Qual è il problema? Sentivi la mia mancanza il primo giorno di lavoro?» aggiunse un sorriso per punzecchiarla. A lui la complice mancava ma non l’avrebbe certo ammesso in quella sede e in quel momento.
«Scemo…».
«Credo la tua pista fosse sbagliata» intervenne Jadeite annusando l’aria. «Cos’è questo profumo?» aggiunse poi con fare da segugio.
Haruka lo guardò incredula «sul serio?!».
Jadeite alzò le spalle e Akira soppresse ogni dubbio culinario immediatamente. «Un condimento vegetale da accompagnare al granchio in salsa di guacamole da inserire nel menù di venerdì».
«Ci sono problemi?» chiese Minako avvicinandosi ad Haruka con il ciarlare in sottofondo dei due ragazzi.
«Dev’essere stato solo un abbaglio. Tranquilla…» la rassicurò l’altra prendendo un respiro profondo. Eppure quella sensazione non se ne andava. L’impressione di essere braccata le stava mordendo i garetti. Strizzò le palpebre, visualizzò mentalmente ancora una volta il tabellone in centrale cercando di cogliere una connessione che doveva in qualche modo esserle sfuggita.
«Ci siete voi vicino alla Nakagin Capsule Tower, io non capisco. Forse è l’ora sbagliata o…».
«Non so cosa tu stia cercando ma per essere esatti nei pressi c’è anche L’Ongaku Institute, proprio dietro l’angolo».
La bocca dello stomaco di Haruka cominciò a fare i capricci.
«E’ dove lavora Michiru» esalò un istante prima di precipitarsi in strada.
 
 
***
 
 
L’Ongaku Institute; una trappola mortale di diciassette piani.
Il cuore di Haruka si era trasformato in un martello pneumatico, faceva quasi male respirare e sapeva di non avere nemmeno il tempo di tirare il fiato.
Strinse i denti entrò nell’atrio del palazzo e scorse velocemente le insegne di un verde satinato indicanti gli esercizi presenti in ogni piano.
«Maledizione…».
Sentiva i piedi fremere, non riusciva a stare ferma.
«Haruka non c’è nulla qui. Un altro buco nell’acqua» la voce di Jadeite la raggiunse seguita da una mano sulla sua spalla.
A quel contatto la ragazza si scostò come colpita da una scarica elettrica.
«Sarà un buco nell’acqua quando mi sarò accertata che andrà tutto per il verso giusto» disse con voce macchiata dall’insofferenza per poi dirigersi verso l’ascensore.
«Vado al settimo».
«Vengo con te».
«No» Haruka bloccò le porte automatiche con un braccio lasciandolo fuori dalla cabina.
«Dovrei fare le scale?».
«Comincia a fare il cavaliere. E occupati dei primi sei».
Ora quello scocciato era Jadeite, ma in fin dei conti sapeva come si faceva ad essere un gentiluomo per quanto tenesse quella parte di sé stesso solo per le occasioni speciali.
«Mi devi un favore».
«O una bevuta» Haruka spinse il numero sette con foga e giurò di averlo sentito sibilare tra i denti un “non finisce qui”.
 
 
 
Al settimo piano un’orda di ragazzini su di giri la bloccarono nel bel mezzo del corridoio.
Come una carpa in fiume, controcorrente, Haruka si fece strada per uscire dal nugolo di divise tutte uguali che l’avevano assaltata.
Mocciosi.
Si domandò come faceva Michiru ad avere la pazienza di istruire un branco di scapestrati del genere tutti i giorni e indirizzarli verso la nobile arte della musica. Ma non ci volle molto ad Haruka per trovare una risposta in una veloce auto analisi. Michiru aveva già a che fare con lei di testa calda. Lo faceva tutto il tempo. E di sicuro riuscendo a tener testa a lei, degli adolescenti in piena crisi ormonale non dovevano rappresentare chissà quale ostacolo alla sua infinita pazienza.
 
Michiru nei suoi pensieri.
Il suo sorriso.
Il suo modo di scostarsi i capelli.
Il suo sguardo.
Il suo farle battere il cuore ogni volta come fosse la prima.
Michiru che si doveva ritrovare a salvare ogni volta come la principessa costantemente in pericolo delle fiabe.
Non era cambiato nulla in fin dei conti. Che lei fosse dalla parte dei buoni o dei cattivi si ritrovava sempre allo stesso punto.
Non è il momento, Haruka. Quel pensiero la rese nuovamente lucida. Il tempo per prendersela con se stessa avrebbe dovuto aspettare.
 
Le note di Shumann nell’aria.
Haruka le seguì come fossero le briciole di pollicino.
«Michiru».
Ma quando spalancò la porta nessuna cascata di capelli verde acqua l’accolse.
Le corde del violino stridettero interrompendosi e dietro due spesse lenti una ragazza la guardò con aria interrogativa.
«Cercava Kaiō Sama?».
«Si, l’hai vista?».
«Quaranta minuti fa».
«Dov’è ora?» la incalzò frenetica.
«Non lo so, mi spiace».
«Okay. Ragazzina…».
«Si?».
«Esci di qui, subito».
«Come? Perché?! Kaiō Sama è nei guai?» domandò quando mise a fuoco la divisa di Haruka.
 
«Mi auguro davvero di no» e con un sibilò la trascinò fuori dall’aula.
 
 
*** 
 
 
Lo stridere delle ruote sull’asfalto, il rumore delle lamiere piegate, l’esplodere di vetri e poi un boato e il suo eco.
Fiamme; lunghe lingue aranciate danzanti.
“Benvenuta all’inferno”.
 
Rei sgranò gli occhi ritrovandosi in un bagno di sudore.
Disorientata si guardò attorno riconoscendo la stanza d’ospedale dal carrello delle medicazioni accanto alla porta.
Era fuori dall’incubo, era scappata dall’inferno anche se alle volte credeva ancora di esserci con tutti i piedi dentro.
«Tutto bene?» due colpi leggeri alla porta e poi una zazzera blu a far capolino sulla soglia la ridestarono totalmente.
Ami tenne le mani nelle tasche del camice e si dondolò appena sul posto a debita distanza.
«Cos’hai lì?» domandò sospettosa Rei.
«Io…niente. Mi svuotano letteralmente le tasche!» la rassicurò Ami accennando un sorriso.
A star lì dentro sarebbe diventato paranoico chiunque, figurarsi una persona divorata da un trauma come il suo.
«Dovremmo andare».
«Dalla strizza cervelli che valuterà se posso fare ancora il mio lavoro?».
Ami non la contraddisse. In fondo le parole di Rei – sebbene la scelta di termini fosse poco appropriata – rispondevano a verità.
«Vuoi che chiami un’infermiera?».
 
«Eccola, eccola! LARGOOOO» la voce squillante di Minako arrivò prima della sua presenza.
«Pronta al vostro servizio. Ti faccio bella, Rei!» esultò come se dovesse prepararla al gran galà.
«Io…non…».
«Oh su, non vorrai mica andarci col camice come una derelitta?».
«MINA!» Ami sgranò gli occhi intimandola di essere un po’ meno sincera, ma con lei c’era poco da fare. Aveva la lingua che andava più veloce dei suoi pensieri e in fondo era una della cosa che la rendeva unica.
«Mi hanno tolto tutto questi psicoquelchesono ma non mi fregano. Tadan!!». Senza venir scalfita da commento alcuno Minako sfilò dalla propria crocchia un ferma capelli a pettinino e lo mostrò orgogliosa alle altre due per poi sistemare alla meglio le lunghe ciocche corvine di Rei.
Ami con lo stetoscopio ascoltò il battito leggermente accelerato di Rei che parve essersi acquietata sotto le cure dell’altra. Segnò i suoi parametri sulla sua cartelletta dopo di che le passò alcuni vestiti puliti che qualcuno aveva fatto recapitare per lei.
Rei dapprima guardò incuriosita la busta poi si lasciò andare ad un borbottio.
«Non credo sia per me».
«No no, sono proprio per te. Li hanno lasciati in accettazione ieri sera».
«Ma non sono miei» insistette.
Minako, senza farsi scrupoli, tirò fuori gli indumenti come se dovessero avere la sua approvazione per finire su una rivista di moda o in passerella.
«Ora lo sono» sentenziò staccando le etichette ancora a penzoloni dai capi.
Chi mai si sarebbe preso la briga di comprarmi dei vestiti?
E giù di deduzioni come solo un vero detective avrebbe fatto.
 
 
Rei nel suo nuovo completo nero e rosso camminava pensierosa per il corridoio.
Aveva scartato l’ipotesi dei suoi genitori. Chiunque fosse stato non aveva le chiavi di casa sua o avrebbe scelto dal suo guardaroba. Inoltre doveva trattarsi di qualcuno che conosceva la sua taglia o per lo meno che sapesse all’incirca come fosse fatta perché tutto le calzava a pennello.
Da tale lista aveva depennato Sadao, poiché essendo ricoverato lì dentro non sarebbe certo andato in negozio a fare shopping per lei.
Ami e Minako le camminavano a fianco in un continuo pigolare per condurla in pasto a chi avrebbe deciso del suo futuro.
«Quindi glielo hai detto ad Akira?».
«Non ancora».
«Ti è mancato il coraggio?» le domandò cauta Ami.
«NO! Mi ha interrotto Haruka».
«Cosa centra Haruka in tutto questo?».
«E’ comparsa tutta trafelata. Era preoccupata ci stesse accadendo qualcosa e…poi è andata a cercare Michiru».
Ami si portò una mano alla fronte inspirando ed espirando profondamente.
«Ancora guai? Dimmi di no ti prego. L’ultima volta sei quasi morta qui dentro».
«Si ma c’eri tu a salvarmi, no?! Toh. Guarda chi c’è! Il tuo amore segre-».
«Ssht Mina, ma sei impazzita?!».
«Hai una cotta per il tuo capo?» intervenne dal nulla Rei.
«Molto più di una cotta» commento maliziosa Minako strizzandole l’occhio e salutando come nulla fosse Mamoru che portava sotto braccio un plico di radiografie.
«Ma accidenti!» masticò sottovoce Ami.
 
«Ami Mizuno è attesa in accettazione» l’alto parlante la salvò dall’imbarazzo.
«Corri Ami. Scappa pure!» la prese in giro bonariamente Minako.
«Tu pensa per te!».
«Prima o poi la dovrai affrontare!».
«Pure tu con Akira».
«Auch». Minako mimò un colpo al cuore. «Colpita e affondata. Vai pure, penso io a Rei».
«Grazie» e con un sorriso Ami si dileguò.
 
 
***
 
 
Haruka aveva fatto evacuare il piano. Non rimaneva nessuno né aveva traccia di Michiru.
Salì all’ottavo e compose il numero di cellulare della compagna ma la voce dell’operatore telefonico la informò della sua impossibilità ad essere raggiunta.
La bionda non si diede per vinta, altri due piani erano adibiti alla scuola musicale.
L’avrebbe trovata. L’avrebbe fatto sempre.
Aprì una porta dietro l’altra e all’ennesima interruzione di lezione dove non vi trovò Michiru qualcosa l’allarmò.
Una cortina di fumo grigio e denso si levò per il corridoio.
«Oh no, no, no! Uscite. TUTTI! Forza è un’evacuazione!».
Il cellulare le squillò. Haruka con una mano davanti alla bocca tossì.
«Che c’è!?».
«Ho piacere di sentirti anche io» disse sarcastico Jadeite nel sentirla rispondere.
«Trovata?».
«SECONDO TE?!».
«Dalla tua frustrazione direi di no».
«Ok, Jadeite devi farmi incazzare? Non ci voglio morire qui dentro chiaro? Quindi chiudiamo in fretta la chiamata».
Dall’altro capo lo sentì sbuffare.
Ad Haruka bruciarono gli occhi e un’altra ondata di fumo la investì.
«Gli ultimi piani sono sfitti. Arriva fino al nono e poi torna giù. Ho già avvisato i pompieri ma…Haruka…».
«Cosa?!» tossì lei con la vista annebbiata.
«Non ci sono ancora fiamme».
La linea cadde e con quella il cellulare dalle mani di Haruka.
 
Un senso di stordimento le provocò un capogiro.
Haruka si poggiò ad una parete. La stanza le parve sotto sopra per un momento.
L’inferno rotante le tornò alla mente.
Setsuna che faceva scudo a Rei e lei che sbalzava dietro le loro figure.
«Dov’è il fuoco?» sibilò confusa.
 
«Povera, povera Haruka».
In quella fitta nebbia una sagoma si fece strada verso di lei.
Daisuke?
Impossibile.
Ken?
Lo aveva visto fare da scudo umano alla regina rossa.
«Credevo fossi più furba. Ma le aspettative spesso deludono».
La bionda cercò di mettere a fuoco, ma ogni disperato tentativo si stava rivelando un vero e proprio fallimento.
Una maschera antigas. Riuscì solo a riconoscere quella.
«Il fuoco arriverà».
«Che cazzo sta succedendo?».
Pure la rabbia stentava ad uscire.
Sentì le gambe venir meno e cedette con le ginocchia al pavimento.
Faceva un caldo infernale e oltre a quello riusciva a sentire solo la disperazione farsi strada in lei.
«Tra poco sarai nel mondo dei sogni quindi è inutile che ti stia a spiegare di fumogeni e gas nervino. Ehi, sveglia. Mi stai ascoltando?».
Le arrivò uno schiaffo in pieno volto, ma Haruka non riuscì a reagire.
«Odio che non mi si presti attenzione».
«Dov’è?».
«Non sei nella condizione di fare domande».
«Dov’è lei?» insistente fino alla fine, caparbia fino allo stremo.
Il suo interlocutore rise.
Ad Haruka sembrò di avere il deserto in gola e anche il braccio che aveva tentato di sorreggerla appoggiato a quel muro si fece pesante.
«Sei stupida. Non sei portata a fare la poliziotta. Sei finita dritto nella tua trappola».
Il fuoco stana le prede dei cacciatori.
Loro, lui, di chiunque si trattasse volevano essere trovati. Non stavano fuggendo. E lei li aveva accontentati era esattamente dove loro volevano che fosse.
«Michiru…» un ultimo filo di voce.
«Non è qui».
«Grazie a Dio».
«Io non ringrazierei» un’altra risata.
«Buona notte Haruka. Forse una notte eterna chissà».
Haruka scivolò distesa sul pavimento.
Intravide le suole del personaggio misterioso allontanarsi nella nebbia.
Poi uno scintillio e l’incendio fu appiccato nell’esatto momento in cui le sue palpebre si chiusero.


Note dell'autrice:
Ci volevano le stampelle per far sì che mi mettessi a scrivere e potessi pubblicare! Eccomi qui dunque. A furia di scrivere stava saltando fuori un poema quindi ho deciso di dividere il capitolo in due parti ma don't worry! La seconda parte mi metterò già a scriverla or ora e provvederò a pubblicarvela al più presto (SUL SERIO!).
Come sempre voglio soffermarmi a ringraziare chi ha sempre qualche parola per ciò che scrivo. Leggere le vostre recensioni è sempre un piacere! Ma grazie anche a chi segue in silenzio da una vita e a chi scopre ora questa saga. 
Per il resto, come sempre, vi aspetto per curiosità, scleri di vario genere e quant'altro sulla mia pagina.
A prestissimo.

 

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Capitolo 6
*** In trappola - Parte II ***


You'll never take me alive.
Do what it takes to survive,
'Cause I'm still here.
You'll never get me alive.
 
Kill all your friends – My Chemical Romance
 
 
 
 
Le porte dell’ospedale non accennavano a rimanere chiuse.
L’atrio si fece sempre più affollato.
Ami scese i gradini delle scale due a due, poiché gli ascensori erano tutti occupati e il caos sembrava essere esploso lì dentro con la potenza di una granata.
Fece passare una barella diretta in sala operatoria e un piccolo gruppo di medici di corsa verso il pronto soccorso.
Ami si bloccò a metà fra il reparto di cardiochirurgia e quello di rianimazione intensiva.
Salutò distrattamente una matricola e lo sguardo si posò su uno degli schermi in corridoio.
Un palazzo in fiamme. Il volume era stato tolto per non disturbare i pazienti e dovette far ricorso alle sole immagini per capirci qualcosa.
Che si trattasse di un attentato? Un incidente domestico? Un disastro di altra portata?
Assottigliò lo sguardo tentò di riconoscere la zona e quasi le prese un colpo nel riuscire ad indentificarla.
«Oddio…».
Andò alla ricerca del cellulare in una delle tasche del camice e quando lo trovò compose il numero della sorella in preda al panico.
«Michiru?!».
«Si sorellina, ti sto aspettando!».
«Oh stai bene, grazie al cielo».
«Certo che sto bene. Non capisco cosa sia successo Ami!».
«Non stai vedendo il telegiornale?».
«No, mi sono spostata in maternità. C’era troppo caos all’accettazione. Non volevo stare in mezzo ed era il posto più vicino. Ma cosa sta succedendo?».
Ami tirò un sospiro di sollievo nell’apprendere che la sorella non si trovava al lavoro ma a qualche piano di distanza da lei.
«Dev’essere per l’incendio. Rimani lì, ti raggiungo tra poco ok?».
Terminarono la chiamata e quando Ami fece per scendere le scale udì un rumore strano venire dalla sua destra.
Proveniva dai distributori e non potendo fare a meno di cercare risposte alle proprie perplessità si diresse in direzione di quelli per appurare cosa stesse succedendo.
 
 
 
Sadao era fuori di sé.
Il distributore di bevande fredde gli aveva appena sottratto una manciata di monete senza fargli avere nulla in cambio.
Lo colpì con una stampella e senza risolvere nulla provò dapprima con uno spintone e poi un calcio ben assestato.
«HEY!» Ami lo bloccò con solo l’ausilio dell’indice ben puntato in sua direzione.
Sadao si sentì colpevole come un malintenzionato beccato in flagrante e s’immobilizzò sul posto.
«Io – io…».
«TU, dovresti essere a letto. E poi, non ti facevo un maltrattatore di distributori questa è la mia fonte di sostentamento durante i turni interminabili!».
«Desolato».
«Che succede?». Ami assunse nuovamente un tono comprensivo.
«La tua fonte di sostentamento è una truffatrice».
«Niente resto?» inquisì lei.
«Niente bibita!» esclamò lui.
Ami si guardò attorno con fare furtivo dopo di che colpì ripetutamente su un lato il dispenser ottenendo una lattina di coca cola. Per un attimo si sentì una vera teppista ma quel suo “atto vandalico” era da considerarsi il prezzo da pagare per una buona azione.
«Tu non hai visto niente» gli disse con un sorriso per poi porgergli la bevanda gassata.
Sadao ringraziò con un cenno del capo stando ben attento a non far schiumare il tutto fuori dalla lattina.
«Queste cose ti sono categoricamente vietate».
«Solo i dottori possono prendere a botte i distributori?» domandò ridacchiando.
«No, è vietato a te per i punti. Devi stare attento».
«Va bene».
«Promesso?».
Sadao con lo sguardo di un bambino emozionato porse il mignolo ad Ami come faceva da piccolo per sigillare un giuramento.
Ami fece per “agganciarlo” al suo, quando un calo di tensione fece spegnere le luci dell’intero piano.
 
«Dovrebbero accendersi le luci d’emergenza» disse in un fiato Ami.
«T-tra quanto?».
«Tre, due, uno…».
Una luce verdastra apparve a schiarire il buio del corridoio.
«Ecco qua».
Sadao sorseggiò le sue bollicine.
«Ti riporto in camera?».
«Accetto volentieri un passaggio!» ridacchiò lui.
 
 
 
 
 
 
Michiru si sporse ancora un po’ per guardare oltre il vetro della nursery.
Una fila di otto culle ospitava i sogni di alcuni neonati. E per quanto Michiru ritenessi graziosi tutti i bambini, una sola attirò la sua attenzione. L’unica con due occhioni scuri spalancati e la manine sollevate in direzione del soffitto come a voler catturare l’aria con le sue microscopiche dita.
«Ooh come sei carina…» soffiò tra sé e sé ritrovandosi con un dito a battere piano sul vetro come a volerla raggiungere.
«Ma perché tu non hai un nome?».
Lo sguardo ceruleo vagò da culla a culla. Ognuna era dotata di una targhetta azzurra o rosa riportante il nome del neonato, ma quella della bambina in questione era vuota.
Michiru cominciò a fantasticare cercando di scorgerne meglio i tratti e pensare a quella nome le sarebbe stato meglio addosso.
«Forse…Noriko…? Mh, ti starebbe bene ma hai lo sguardo più da…» le luci si spensero facendo piombare il reparto neonatale nel buio più totale.
«Caspita, ma che succede?».
I bambini dormivano, ma Michiru riusciva a intravedere anche nel buio la sagoma della bambina.
«Hotaru» sibilò con il tono pieno di stupore di chi ha appena avuto una rivelazione.
La piccola Hotaru come una lucciola riusciva a risplendere nel buio.
 
 
***
 
 
L’aria si era fatta irrespirabile e densa di fumo.
Nel cortile del palazzo un nugolo di gente si era accalcata. Si trattava per lo più delle persone che erano state evacuate e di un esiguo numero di curiosi che non aveva potuto far a meno di riprendere la scena con i propri cellulari.
Era sopraggiunta anche una pattuglia di polizia e una troupe di giornalisti armata di microfoni e telecamere pronti a catturare lo scoop della giornata.
Jadeite guardò ancora dietro di sé e sbatté le arcate dentali in un impeto di frustrazione. I soccorsi non erano ancora arrivati, c’era solo qualche collega intento a tenere a bada le persone che volevano avvicinarsi troppo all’edificio.
Un altro gruppetto di persone uscì dalla porta principale. Si trattava di una donna e un paio di ragazzi che tossendo vigorosamente vennero raggiunti da Jadeite.
«Avete visto la mia collega?» domandò frettoloso senza accertarsi delle condizioni dei superstiti.
La donna prese un respiro a pieni polmoni e con voce rauca gli rispose.
«Eravamo all’ottavo. Ci ha fatto scendere appena in tempo».
«Non è scesa assieme a voi?!».
Un cenno di diniego e il peso delle responsabilità cominciò a farsi sentire sulle spalle del giovane.
«Porca miseria…» si levò la giacca e si aprì il colletto della camicia.
Prese un profondo respiro e mollò tutto in mano a Misato che allarmata cominciò a farfugliare in modo concitato.
«Che cosa fa?!».
«Vado a recuperare un membro della squadra cosa ti pare stia facendo!?».
«Ma…i pompieri…».
«L’avevo detto era un lavoro per loro, ma non ci sono!».
«Stanno per arrivare» l’avvisò un altro poliziotto con la ricetrasmittente in mano. «Erano imbottigliati nel traffico».
Jadeite rispose con un cenno del capo e Misato in piena crisi mistica urlò per avvisare tutti dell’arrivo dell’ambulanza.
«Ok. Vado».
«Ma…».
«Ci sono i soccorsi no?!».
Lei annuì poco convinta.
«Ricordati. Non si lascia mai nessuno indietro. Per quanto fastidioso sia» e senza che nessuno riuscisse a trattenerlo e o a fermarlo, Jadeite entrò nell’edificio in fiamme.
 
 
L’inferno sceso in terra era quello.
Abbandonato dal demonio, irrespirabile e rovente.
Jadeite salì più velocemente possibile le scale. Ogni gradino verso l’alto diventava un supplizio.
Nel vano scala trovò un estintore e arrivato all’ottavo ebbe l’impressione che le pareti si stessero accartocciando su se stesse.
Non sapeva quanto avrebbe resistito. Il fazzoletto sistemato alla meno peggio sulla bocca e il naso non sarebbe durato in eterno.
Avanzò di qualche passo quando una trave divorata dalle fiamme gli sbarrò la strada.
Fece un balzo all’indietro e prego di vedere comparire i pompieri da un momento all’altro, ma tutto quello che scorse fu Haruka abbandonata sul pavimento.
«Quella ragazzaccia…».
Il ragazzo sbloccò la valvola rompendo il sigillo dopo di che fece pressione sulla leva per liberare l’agente all’interno del serbatoio facendosi largo oltre la trave infuocata fino ad arrivare ad Haruka.
«Ok, svegliati idiota. SVEGLIA!» le mollò uno schiaffo in viso ma non ebbe risposta.
Qualcosa cigolò e il caldo si fece sempre più insopportabile tutto attorno a loro.
Jadeite estinse un’altra lingua di fuoco e con fatica si caricò Haruka in spalla con la netta sensazione che non sarebbero mai usciti vivi di lì.
 
 
***
 
 
Erano avanzati nel buio a passo lento poiché non voleva Sadao si affaticasse inutilmente e quando il cercapersone le vibrò una seconda volta nella tasca del camice si bloccò tentando di decifrare il messaggio che l’era stato inviato.
Ami strizzò gli occhi a causa della scarsa luce poi spostò l’aggeggio sotto al fascio flebile e verdastro della luce d’emergenza.
Rimase bloccata per un secondo in un’immobilità tanto irreale da far preoccupare il giovane al suo fianco.
«Guai in sala operatoria?» domandò lui con un filo di voce e tentando di ignorare il dolore alla ferita sull’addome.
Le pupille di Ami cercarono le sue. Deglutì rumorosamente e in un sussurro gli diede la risposta che mai avrebbe creduto di dover dire.
«È un protocollo di emergenza».
«Un’esercitazione?».
«No. Dura troppo per esserlo».
 
 
 
 
Mamoru si precipitò nella sala infermiere a ridosso dell’accettazione.
«Avete chiuso tutti gli accessi signore?».
«Si dottore. La capo sala ha fatto sì che nessuno possa entrare o uscire da qui fino ad emergenza conclusa».
«Ok, bene. Sapete dirmi qualcosa di più su cosa sta succedendo?» domandò cercando di mantenere la calma e un il tono più professionale possibile.
«Non ancora».
«Cercherò di informarmi io. Voi rimanete qui d’accordo?».
Le tre donne annuirono e il moro si richiuse la porta alle spalle.
Passò davanti alla sala ristoro dei chirurghi, buttò un’occhiata veloce al tabellone e intuì che quattro sale operatorie erano ancora occupate da medici con tanto di pazienti sul tavolo.
«Cosa cavolo sta succedendo?» parlò a bassa voce tra sé e sé e decise avrebbe controllato ogni reparto lui stesso sino ad avere più chiara la situazione e affrontare al meglio l’emergenza in corso.
Si diresse a passo svelto in maternità, la luce d’emergenza era attiva anche lì. Controllò velocemente un paio di stanze quando udì uno strano rumore provenire dalla nursery.
Un frugare concitato e irrequieto.
Mamoru trattenne il respiro, si appiattì con la schiena al muro per risultare più circospetto possibile quando notò la figura di una donna alla ricerca disperata di qualcosa.
«COSA STA FACENDO?!».
Michiru si voltò di scatto e se solo lui avesse potuto vederne chiaramente i tratti ne avrebbe scoperto la preoccupazione profonda in viso.
«Signorina Kaiō…».
«Io…o cavolo! Dottor Chiba! Grazie a Dio!».
«Non volevo esser così brusco ma…».
«Dottore la bambina ha qualcosa che non va! Non so cosa devo fare! Sono entrata per cercare di aiutarla perché non ho trovato nessuno e…».
Mamoru si avvicinò alla culla di quella che Michiru aveva soprannominato Hotaru.
«Ha una crisi respiratoria…».
Michiru si portò le mani alla bocca. Non aveva mai sentito quella sensazione di panico così vivida in vita sua.
 
 
 
 
«Okay, penso la tua seduta debba aspettare» sentenziò Minako cominciando a camminare in punta di piedi.
Il corridoio era buio e un silenzio inquietante era calato nel reparto di psichiatria.
Rei la fissò da capo a piedi come avrebbe fatto con un alieno. Incrociò le braccia e liberò un sonoro sbuffo.
«Cosa stiamo facendo?» le chiese anche se poco interessata alla risposta.
«Siamo circospette» le rispose l’altra acquattandosi dietro ad un muro.
«Si ma…perché?».
«Sicura di essere una poliziotta?» sbottò Minako riprendendo una posizione eretta.
Rei non rispose e si limitò ad un’occhiataccia.
Qualche passo echeggiò in loro direzione fino a che il fascio di una torcia non le colpì in viso.
Uno degli addetti alla sicurezza si parò dinnanzi a loro con fare frettoloso.
«Che ci fate in giro?!».
«Eravamo già in giro quando ci siamo ritrovate al buio. Che succede agente?» domandò la bionda facendo una leggera presa sul polso di Rei.
«Sembra che un paziente del reparto psichiatrico sia a zonzo…» fece un’espressione che sottolineava tante cose e aggiunse un «uno di quelli pericolosi».
«Fantastico» il sarcasmo macchiò la voce di Rei.
«Cercate di mettervi in sicurezza» ripeté la guardia.
«Dobbiamo trovare Ami» disse sottovoce Minako alla morettina.
Rei sospirò un’altra volta pensando al fatto di esser stata costretta a consegnare distintivo e arma ed esserne sprovvista in quel momento.
«Io convivo con uno yakuza da anni e so come cavarmela, ma Ami no. Dobbiamo trovarla, subito».
 
 
***
 
 
«Perché il protocollo di emergenza non richiede l’ausilio della normale illuminazione?» domandò incuriosito Sadao.
Era passato parecchio dal momento in cui aveva provato quella sensazione; quella in cui panico ed eccitazione s’intrecciano così saldamente da non riuscire più a distinguere l’una dall’altra. Forse l’ultima volta corrispondeva ai tempi della scuola di polizia o magari ancora prima al liceo.
Non che fosse mai stato uno studente spericolato, anzi, probabilmente aveva compiuto una sola “bravata” in tutta la sua carriera di ragazzino e per lo più persuaso da qualche compagno.
«Non so se sia normale» ammise Ami vergognandosi non poco per la scarna conoscenza su quell’argomento. Non era da lei non avere la risposta esatta e precisa ad una domanda.
«Forse c’è stato un guasto ed è scattata la riserva di energia per le sale operatorie o…».
«SSHHT!» Sadao la interruppe bruscamente spingendola verso la parete.
Non sapeva perché ma l’eccitazione provata poco prima era stata malamente soffocata da un sensazione di pericolo che ora gli batteva in petto.
Ami, con gli occhi sbarrati cercò il suo sguardo nel buio non trovandolo perché concentrato altrove.
«C’è qualcuno» sibilò lui.
«Un ospedale è pieno di gente» sottolineò lei con un filo di voce tanto basso da risultare quasi impercettibile.
Eppure all’improvviso pareva essersi svuotato.
Qualcosa riecheggiò.
Un fischiettio distorto.
Sadao corrugò la fronte. Chi mai avrebbe passeggiato tranquillo in una situazione del genere per lo più fischiettando?
D’istinto la sua cassa toracica si schiacciò di più contro quella di Ami. Se solo non fosse stato tanto preso dal domandarsi se si fosse assopito davanti a qualche film horror e di sognare di esserne il protagonista, avrebbe potuto sentire nitidamente il battito cardiaco di Ami confondersi col suo.
Qualcosa nell’ombra si mosse in loro direzione.
Sadao istintivamente portò le mani all’altezza della cintura ma non vi trovò alcuna pistola e a quella rivelazione prese a sudar freddo.
Ami, immobile riuscì a scorgere qualcosa.
Un particolare al polso di chi si stava avvicinando a loro.
Una manetta penzolante.
Ami dovette tapparsi la bocca per non emettere un fiato.
 
«Cucù, chi è la?».
 
Capelli cremisi raccolti in una lunga treccia.
Sadao ebbe un deja vù.
Eudial. Il suo primo vero caso. L’omicida di Setsuna, la causa del dolore di Rei.
La sua voce quasi pronunciò quel nome.
Eudial che non era Eudial; somigliante ma non la stessa.
«Petirol» Ami pronunciò il nome come ad informare Sadao su l’identità della donna. L’aveva letto sulla cartella clinica. Era stata ricoverata da poco e due guardie penitenziare si davano il cambio per sorvegliare la sua porta.
Ami non sapeva quale crimine avesse commesso, né era mai stato il suo dovere esserne a conoscenza.
 
 
***
 
«Ok, proviamo così». Mamoru per quanto fosse un chirurgo eccezionale,  stimato persino fuori dal paese, non era un medico di pediatria. La bambina non era una sua paziente e lui stava per sabotare tutti i protocolli vigenti in quella struttura. Per un momento gli tremarono le mani e avvertì la fronte imperlata di sudore.
«Così come?» domandò apprensiva Michiru, sentendosi un gran carico sulle spalle.
«Ho bisogno di canule più piccole. Guarda su quel carrello alla tua destra».
Le mani curate di Michiru vagarono nella penombra sino ad incontrare alcuni tubicini più sottili dei precedenti che passò frettolosamente al giovane.
«Ok. Ok…» Mamoru sembrò parlare con sé stesso per placarsi mentre magistralmente dotava la piccola di una sorta di mascherina.
«Ti serve quello portatile…»sentenziò lanciando un’occhiata all’ncpap alle spalle di Michiru. Quel macchinario era troppo ingombrante da portare in giro in una situazione del genere e nel bel mezzo di un’emergenza che lui non aveva ancora identificato a pieno.
«Dobbiamo…spostarla?» chiese con un filo di voce.
«Devi farlo tu» la istruì lui, avvolgendo la neonata in una coperta e sistemandogliela fra le braccia.
«Non so quanto duri la batteria e tu devi far piano e usare per forza le scale. Gli ascensori sono bloccati» la ragguagliò lui. «Ecco, tieni. Questa è quella sostituiva in caso si spenga. Portala in terapia intensiva, io faccio in modo di trovare qualcuno che possa occuparsi di lei non può stare qui ora».
Michiru teneva fra le sue braccia quella che gli parve la cosa più fragile del mondo e allo stesso tempo si sentì come l’unica in grado di poter portare a termine quel compito.
A fine giornata, quando avrebbe raccontato tutto ad Haruka, non le avrebbe quasi creduto. Tutto stava assumendo una sfumatura quasi troppo romanzesca per essere vera.
«Dottor Chiba…» mormorò lei carezzando la piccola testa della bambina. «E se per caso si sentisse nuovamente male? Cosa devo fare?».
«In quel caso…corra più veloce che può Michiru».
 
 
***
 
 
Michiru vagava per i corridoi con la piccola lucciola stretta al petto. Ogni suo passo era scandito dal suono elettronico e cadenzato che aiutava a respirare la bambina.
Era un suono lungo, un beep pronto ad entrarle nel cervello e che aveva il suo della rassicurazione.
Ogni beep era un suo passo.
Ogni beep era un battito di Ami a pochi piani di distanza da lei.
Ogni beep era un chilometro d’asfalto nero mangiato dai pneumatici dell’ambulanza sulla quale era stata caricata Haruka.
Ogni beep corrispondeva a un pugno sulla porta di Jadeite per far sì li facessero entrare.
E poi l’ultimo beep venne coperto da un altro suono a lei ormai familiare che aveva imparato non preannunciava mai nulla di buono.
Il rimbombo di uno sparo.



Note dell'autore:
Questo capitolo non accennava a terminare perciò ho dovuto tagliarlo malamente. Oltretutto si è trasformato in una roba degna di Grey's Anatomy...se perdete la pazienza a questo punto vi capisco!! Al prossimo ci diamo un taglio a questa situazione, giuro.

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Capitolo 7
*** Rewind ***


 
 
«E’ stato ASSOLUTAMENTE pazzesco» Minako ci mise tutto il suo fervore in quell’affermazione.
 
«Non ne dubito».
 
Dall’altra parte del tavolo un’agente stava tentando di avere una dichiarazione utile che gli permettesse di avere un quadro chiaro della situazione.
Minako si alzò dalla sedia. Sentiva l’adrenalina correrle ancora nelle vene e le gambe non le permettevano di stare ferma.
Non si preoccupò di risultare inopportuna o una scoppiata, si comportò esattamente come ci si sarebbe aspettati da lei.
Aprì la porta della saletta atta ad ospitare i medici nei turni più lunghi per dare loro ristoro e si affacciò sul corridoio fermando una matricola.
«Ehi tu! Me lo porti un Morinaga Pancake?».
La giovane studentessa la guardò stranita ma nel veder mutare gli occhi grandi di Minako in due strette fessure non si oppose alla richiesta e corse al distributore.
«Signorina…» l’agente fece in modo di ottenere nuovamente l’attenzione di Minako.
«Si, si un secondo solo. Ho bisogno di zuccheri. Sa…il cervello, la concentrazione o e…a proposito…lei…sarebbe?».
L’uomo s’irrigidì aggrottando le sopracciglia folte in una smorfia confusa e che rivelava arduo il mantenere ancora per molto la pazienza.
«Agente Itō».
«Si bene, ma voglio dire…qual è il suo grado? È più o meno importante di Jadeite? Di Haruka ci vuol poco…» bofonchiò per poi soffocare una risata.
«Vogliamo tornare a noi?».
«Si, ci siamo quasi. Sta tornando indietro. Allora? Mi risponde?».
«Sono di grado più basso» masticò tra i denti.
Minako sospirò. Prima di quel momento mai una volta si era fidata di un poliziotto. Nemmeno di Setsuna quando la interrogò su Akira ed Haruka ai tempi in cui facevano parte del clan.
La bionda nel ricevere la lattina che aveva richiesto provò un profondo senso di pace interiore e dopo un primo sorso e aver richiuso la porta si sentì pronta a raccontare l’avvenimento dei fatti.
Avvenimento che se fosse stato chiesto ad Ami non avrebbe saputo descrivere con certezza. Poiché Ami era sicura di tre cose soltanto: uno, in un primo momento si trovava schiacciata tra il muro e la cassa toracica di Sadao e per quanto questo potesse risultare strano si era sentita al sicuro. Due, un attimo dopo con la guancia poteva avvertire il freddo del pavimento e tre, quando la corrente parve tornare al suo cervello Sadao la raggiunse riverso a terra chiedendole come si sentiva.
Ma tutto era privo di connessione. Quei tre punti per Ami erano immersi in un’oscurità senza filo logico.
 
«Ami, tutto be-ne? Stai bene?» chiese a denti stretti lui.
Ami annuì, doveva aver preso un bel colpo ma sapeva di essere tutta intera.
«Piuttosto tu…».
Dei passi si avvicinarono a loro, ma non erano quelli di Petriol appartenevano ad un uomo.
«Sadao, stai sanguinando!» constatò allarmata per poi far leva sulle mani e portarsi più vicina a lui.
«Non…non è niente» provò a mentire anche se non era bravo con le bugie.
«Allora, ricominciamo»
Minako tirò un altro lungo sorso dalla lattina.
«Dall’inizio?» chiese deglutendo.
«Dall’inizio».
Si stiracchiò sulla sedia. Le dita giocherellarono con la confezione della bibita per poi abbandonarla definitivamente e picchiettare ritmicamente sulle ginocchia. Guardò le lancette dell’orologio a parete e per un momento parvero rallentare.
«Ero nel reparto di psichiatria con Rei Hino. Aveva una visita e nel tragitto è saltata la corrente. Si sono accese le spie d’emergenza e nel corridoio abbiamo incontrato un’agente della sicurezza».
«Può dirmi chi è?».
«Non conosco il nome e non ho visto il cartellino identificativo. Era buio e ci ha puntato contro la luce della torcia contro».
L’agente scarabocchiò qualcosa sul proprio taccuino e con uno sguardo le intimò di procedere con il suo racconto.
«Ho pensato a Ami» dichiarò Minako.
«È un genio sulla maggior parte delle cose di questo mondo ma posso assicurarle che non è davvero portata per l’auto difesa».
«Perciò era certa ci fosse un pericolo imminente…».
«C’era un protocollo di emergenza in corso e il tipo che ci ha fermato ha parlato di un paziente violento a zonzo per l’ospedale. Quindi sì, agente. Ho pensato a un pericolo imminente».
L’uomo emise un verso gutturale profondo e Minako non riuscì ad interpretare se si trattasse di un assenso o dello sbuffo di chi non crede alla versione del proprio testimone.
«Non c’è bisogno di tanta ostilità».
Una punta di fastidio intaccò il sistema nervoso della ragazza.
«Mi creda, questa non è ostilità. Ma se non mi fa avere un’altra di queste…» lo sguardo di Minako scivolò sulla lattina vuota.
«Allora sì che risulterò davvero sgradevole».
 
 
***
 
 
Nella stanza accanto un trambusto metallico fece mettere sull’attenti Jadeite col viso ancora sporco di fuliggine e la camicia bruciacchiata.
Rei si divincolò dalla presa ferrea dell’infermiera che tentò di fermarle i polsi con delle cinghie, ma il ragazzo – nonostante l’apparenza di uno che possiede tutt’altro le rotelle a posto – intervenne prontamente a fermare il donnone.
«Hey, hey quelle no» la intimò stringendo le propria dita a sua volta sul braccio della donna.
«Non occorrono queste cose. Non è certo lei la criminale violenta fuggitiva».
Rei si scostò i capelli disordinati dal viso scrollandosi la mano dell’estranea di dosso.
«Almeno un tranquillante…».
«Ho detto no» s’impuntò lui.
«È un parente?» chiese la donna indispettita.
Rei e Jadeite in coro gridarono un “NO” più che esauriente e l’infermiera, probabilmente esasperata, s’impuntò per andare a sentire l’opinione di un medico.
Al suo lasciare la stanza Jadeite tirò un lungo sospiro di sollievo. Con un una mano tentò di dare un contegno al lungo ciuffo biondo di capelli col risultato di rendersi ancor meno in ordine.
Chiuse gli occhi, si massaggiò le tempie e smise di preoccuparsi del suo aspetto trasandato. Era ridotto in quel modo perché aveva salvato una vita in fin dei conti, doveva andarne fiero non aver timore di giudizi altrui. Anche se sapeva bene che il giudizio di Rei non sarebbe stato uno dei tanti per lui.
«Ti sta bene il completo» mormorò lasciandosi cadere sulla sedia accanto al lettino.
«Sei stato tu» Rei lo disse come una rivelazione, perché fu proprio in quel momento che capì era stato lui la persona che gli aveva procurato qualcosa per rendersi presentabile e non una con l’aria da manicomio.
Jadeite sorrise fiero in cenno di assenso «come ti senti?».
«Okay» fu la risposta scarna di Rei. Stava ancora cercando di comprendere come si sentiva realmente ma non avrebbe parlato certo a cuore aperto con lui come fosse il suo più intimo confidente.
«Dolcezza…»
«Non chiamarmi dolcezza
«Bene. Brunetta…».
«Nemmeno!».
Jadeite sbuffò alzando gli occhi al cielo.
«Rei».
L’altra parve comunque contrariata.
«Hino…».
«Che c’è?».
«Devi raccontarmi com’è andata».
«E tu dovresti farti vedere…».
«Mh?» Jadeite ricambiò l’occhiata con uno sguardo di pura confusione.
«La bruciatura sul braccio…»
«Oh». Non se n’era nemmeno reso conto tanto era stato preso a portare in salvo la bionda dall’edificio in fiamme e a tentare di entrare in un ospedale completamente blindato.
 
«Polizia, APRITE» un pugno dietro l’altro contro al vetro della porta scorrevole che non accennava ad aprirsi.
Il paramedico dell’ambulanza provò un’altra volta i parametri vitali di Haruka.
«Il polso è debole» mormorò col collega.
Jadeite sembrò perdere le forze. Appoggiò tutto l’avambraccio al vetro e parte del capo. Inspirò ed espirò. Chiuse gli occhi, cercò di sincronizzare respiro e battito poi riprese a gridare come un dannato.
Dall’ambulanza arrivò una comunicazione che l’ospedale era in isolamento ma quello più vicino per loro era troppo lontano.
Jadeite tornò sul mezzo.
«Dannazione bionda, tieni duro». Si guardò attorno e sollevò il defibrillatore portatile.
«Questo serve?» domandò ai due paramedici.
«Beh…» parvero tentennare.
«Ok, ripeterò la domanda nel modo più chiaro possibile. SERVE ORA? A lei?».
Non aspettò oltre e lo scagliò contro il vetro.
 
Jadeite si scrollò da quei pensieri e guardò l’orologio da polso.
«Ho pagato quei bei vestiti e tu li hai completamente stropicciati. Mi devi una deposizione».
Rei arricciò il naso. Colpita e affondata.
«Di solito sono io a fare le domande…».
«Devi riavere il distintivo per farle. Al momento l’ho io qui dentro perciò…».
Rei schioccò la lingua con aria scocciata.
«Bene. Ero con Minako al piano di psichiatria. Abbiamo deciso di scendere a cercare Ami, la sorella di Michiru».
«Come l’avete trovata?».
«Abbiamo seguito il rumore…».
«Quale rumore?».
«Un battito continuo…» Rei poteva ancora sentirlo nella testa. «Metallico…».
 
 
«Lo senti?» Rei bloccò Minako nella tromba delle scale facendole cenno con un dito sulle labbra di tacere.
«E’…qualcosa che sbatte» sussurrò la bionda.
«Una mazza da baseball di quelle metalliche non in legno».
Si scambiarono un’occhiata nell’oscurità.
Delle voci.
Rei ne riconobbe una.
Era Sadao.
Corsero seguendo i suoni sino a che non si ritrovarono alle spalle di qualcuno.
Un uomo alto, massiccio che batteva ritmicamente una mazza contro le pareti.
Le due si bloccarono dietro la parete. Sadao era in piedi che cercava di convincere una donna rossa a non avvicinarsi.
Rei lo conosceva bene. Mai e poi mai avrebbe alzato le mani su una donna se non fosse stato necessario e stava cercando di farla indietreggiare in modo diplomatico.
«C’è anche Ami» sussurrò con un soffio Minako scorgendole in piedi accanto al ragazzo.
 
«Poi cos’avete fatto?» inquisì Jadeite quasi fosse preso da quel racconto come fosse un film giallo.
«Abbiamo temporeggiato. La donna rossa ha chiesto di Michiru. Ami non ha voluto dirle dove si trovasse la sorella. Non so se lo sapesse realmente. Allora la donna è scoppiata. Ha colpito Ami che è caduta a terra e Sadao ha reagito. Non aveva la pistola e l’ha spintonata per allontanarla da lei…».
Le pupille di Rei corsero nel vuoto alla ricerca dell’esatto incastro dei pezzi.
I ricordi dovevano essere più dettagliati possibile, lo sapeva bene ma era difficile ripercorrerli.
Era buio.
Poi…
 
Le tornò in mente Setsuna.
Quando Petirol si voltò verso l’uomo con la mazza e sorrise sadicamente Rei credette di vedere la regina rossa. La mandante di chi aveva ucciso Setsuna.
Fu tutto più veloce della ragione.
Sadao finì a terra colpito dalla mazza e Rei fu invasa dalle fiamme dell’odio.
 
 
***
 
«Gliel’ho detto. E’ stato assolutamente pazzesco» ripeté Minako lasciandosi andare con il risucchio di una cannuccia per prendere su l’ultimo goccio della seconda bevanda che si fece portare dal primo malcapitato passato in corridoio.
«Rei è scattata come una furia. Ha placcato Petirol o come diavolo si chiama. La letteralmente buttata a terra!».
Minako si prese una pausa sgranando gli occhi e gesticolando con le mani nell’aria.
«Allora la rossa le dice tipo…»
 
 
«Non ti basteranno le mosse imparate all’accademia».
Petirol si liberò dalla presa ferrea di Rei dandole una testata. Rise sguaiatamente quasi fosse una iena che gioca con la carcassa di un animale a terra e si fece passare dal compare la mazza.
«Non contro qualcuno che viene dalla strada».
La colpì alla gamba con il metallo, poi le diede un calcio allo sterno.
Rei tentò di reagire ma nella sua testa riusciva a vedere Setsuna che sbalzata fuori dall’abitacolo veniva aggredita dallo yakuza.
Il dolore era lontano, le faceva male solo il cuore in quel momento.
La faccia le venne rivoltata da un paio di ceffoni.
«Ne hai già abbastanza?» Petirol non contenta infierì anche a parole.
Rei riconobbe sulla lingua il sapore del sangue e nel suo campo visivo comparve lui.
Sadao si era alzato e anche se barcollante era balzato addosso all’uomo dalle spalle larghe.
 
«C’è stata una colluttazione tra loro due. L’uomo aveva una pistola con sé. Ha tentato di usarla, ma Sadao è riuscito a disarmarlo ed è partito uno sparo».
«Che aspetto aveva l’uomo?».
«Non lo so» Minako era brava con gli indovinelli ma a quello non aveva risposta perché l’uomo non aveva un volto.
«Aveva una maschera antigas addosso».
 
 
***
 
Michiru sedeva in sala d’attesa passandosi le mani sugli avambracci come per scaldarsi.
Da quando aveva lasciato Hotaru tra le braccia della pediatra aveva come avvertito una sensazione di freddo che l’era entrata nelle ossa.
Prese un respiro profondo e si piegò in avanti abbassando il capo fra le mani. Fu solo il rumore della porta che si apriva a farla riemergere da quel vuoto che la stava inghiottendo.
«Come sta?» chiese subito vedendo Ami uscire dalla stanza nella quale Haruka era stata portata.
«È tutto a posto. Deve solo riposare. Jadeite è stato davvero provvidenziale. Giusto in tempo».
Michiru si sentì più sollevata e poggiò la testa alla spalla della sorella che si sedette accanto a lei.
«Che giornata…».
«Puoi dirlo forte».
«Hey, la tua testa come va?» domandò Michiru alla più piccola.
«È ancora tutta intera e funzionante» sorrise Ami sentendo la stanchezza di quell’incubo piombarle addosso.
«Sadao?».
«È ancora con Chiba in sala operatoria».
«Andrà bene…» le sussurrò Michiru poggiando una mano su quella di Ami.
«Lo so» disse l’altra rincuorata da quella vicinanza.
 
Tutto parve essere tornato ancora una volta alla normalità. Le luci erano di nuovo accese e un via e vai di medici camminava lungo i corridoi.
E immersa nella quiete dopo la tempesta Michiru fece alla sorella minore quella domanda che la stava corrodendo piano piano.
«Perché la bambina non ha un nome?».
Ami cadde dalle nuvole.
«Cosa? Ah, la bambina che hai provvidenzialmente salvato?».
«Sei tu quella che salva vite!».
«Direi che oggi è stato il tuo turno!» ridacchiò Ami.
«Era l’unica a non averlo» sussurrò Michiru. Quel pensiero la rendeva triste. Senza un nome non hai un’identità, non sei nessuno. E Michiru non voleva che quella piccola lucciola si sentisse in quel modo.
«Non aveva un nome perché non ha ancora una mamma e un papà. È in adozione…».
Michiru schiuse la labbra rimanendo in silenzio.
«La coppia adottante doveva venire oggi…».
«Ma poi è successo il trambusto» disse Michiru alzando il capo e drizzandosi nuovamente. Qualcosa dentro di lei era incrinato senza che se lo sapesse spiegare.
«Già. Ma non verranno nemmeno questa sera. Hanno cambiato idea, non la vogliono una bambina debole di salute».
Si poteva davvero essere così? Era così facile abbandonare qualcuno? Forse sì. Sua madre in fin dei conti l’aveva fatto. L’aveva abbandonata così come aveva fatto con Yoshio e con Ami.
«Troverà qualcuno. Tranquilla. Adesso vado a vedere se ho notizie dell’intervento. Se vuoi puoi entrare. Ma solo cinque minuti!» le disse con finto tono di rimprovero.
«Si dottore! Agli ordini» le labbra di Michiru s’incurvarono nuovamente all’insù.
 
 
***   
 
 
«Bene, abbiamo finito» l’agente prese i suoi appunti, alzandosi dalla sedia.
«Anche il mio turno lo è» si stiracchiò lei salutando con un inchino frettoloso per poi aprire la porta.
Akira era lì, nella sua camicia a quadri neri e blu con le maniche arrotolate a metà braccio ad aspettarla.
«Stai bene?» domandò preoccupato per poi stringerla a sé.
«Come sempre» lo rassicurò lei allacciando le braccia alla sua vita.
Il poliziotto storse il naso nello scorgere le spira del dragone che Akira portava sul braccio.
Ma poco importò al ragazzo visto che la cosa più preziosa per lui era sana e salva, stretta a lui come una piccola piovra.
«Andiamo a casa?».
«Sì» mugolò lei strofinando il viso contro al suo collo.
«Sono affamata. Mi cucinerai qualcosa di buono? E magari anche un dolce?».
«Mina, ho intravisto tutta quella roba zuccherata lì dentro e non credo proprio sia del poliziotto».
La ragazza lo prese sotto braccio trascinandolo verso l’uscita dell’edificio.
«Stai insinuando che non ho realmente fame?!».
«Assolutamente no! Mi chiedo solo come tu faccia SUL SERIO ad avere fame!» rise lui.
L’aria serale sferzò in viso ad Akira ricordandogli la strana conversazione avuta quella mattina con la fidanzata.
Fece ancora qualche passo fermandosi davanti al negozietto di Makoto intenta a sistemare tutti i suoi fiori al sicuro per la notte.
«Mina…cosa volevi dirmi questa mattina prima che quella bestiola irrompesse senza preavviso?».
Minako avvertì il suo battito divenire irregolare e si domandò se persino Akira potesse sentire quel batticuore tanto frenetico.
«Sembrava importante…» le fece coraggio lui.
«Beh, ecco…» Minako si ritrovò a perdere la sua solita sicurezza avvertendo un misto di imbarazzo e frenesia per l’argomento.
Non aveva cambiato idea, era solamente stata presa in contropiede.
«Io…».
Akira portò le mani sulle sue spalle come a farle coraggio.
«Io» acquistò sicurezza nella voce. «Credo sia il momento di diventare una famiglia».
Akira come paralizzato riuscì solo a sbattere le ciglia.
«Per famiglia intendi…».
«Che voglio un bambino. Con te. O bambina. Sempre con te. Insomma, hai capito».
«Oh…».
«COSA VUOLE DIRE OH!?».
Akira era rimasto letteralmente senza parole. Non perché non desiderasse una famiglia con Minako, lei era la luce dei suoi occhi e renderla felice era la cosa che voleva di più al mondo solo che a conti fatti lui aveva paura. Paura perché conosceva il mondo in cui aveva vissuto.
«Mina…Mina…io…calma» farfugliò tentando di trovare le parole giuste da dire in quella situazione.
«Devo sapere una cosa prima» spiegò lui tentando di ritrovare un po’ di calma interiore che era andata a farsi benedire in qualche angolo di Tokyo.
«Che cosa?».
«Oggi. Quello che è successo. Devo preoccuparmi?».
«Mi stai chiedendo se li hanno presi?».
«Ti sto chiedendo se la mia famiglia sarà al sicuro Minako. Perché credimi, non c’è cosa che voglia di più nella vita ma per fare questo. Per aggiungere qualcun altro a quello che siamo io devo essere sicuro di potervi proteggere».
Minako sorrise.
«Quindi…è un sì?».
Akira sospirò e fece cenno a Makoto di fermarsi dal tirare giù la serranda.
Lasciò Minako sul marciapiede con la sua domanda ancora a metà per correre nel gabbiotto intriso del profumo dei fiori più svariati e scegliere una rosa di un rosso intenso come l’amore che provava per lei.
Pagò e corse nuovamente da lei inchinandosi sul selciato.
«È così che si fa una proposta…» disse porgendole il fiore «facciamo le cose per bene».
Minako gli buttò le braccia al collo baciandolo con la gioia di una prima volta.
 
 
***   
 
«Ruka…ti lascio sola un giorno e guarda cosa mi combini».
Michiru si accomodò nella stanza portandosi vicino al lettino dell’amata e baciandola sulla fronte.
«Hai già rovinato la tua divisa ed era solo il primo giorno» la riprese bonariamente soffiandole all’orecchio.
«Sei qui…».
«Certo. In quale altro posto vuoi che sia!».
«Stai bene Michi?».
«Sei tu quella in un letto d’ospedale. Tu che dici?» rise piano la compagna per poi carezzarle la nuca.
«Hai ragione» le sorrise di rimando l’altra.
«Non hai niente di rotto. Devi solo riposarti e poi si torna a casa. Domani pomeriggio ti vengo a prendere okay?».
Haruka sospirò. Era felice di vedere che la sua ragione di vita stesse bene, ma aveva come la sensazione di essere continuamente sotto tiro. Come se il pericolo in realtà non si fosse estinto ma solo acquattato dietro l’angolo.
«Non voglio vai a casa sola. Rimani qua» la pregò la bionda.
«D’accordo amore» disse in un soffio Michiru togliendosi le scarpe e distendendosi sul fianco accanto a lei.
«Sei preoccupata?» le domandò poi.
«Non lo so. Raccontami qualcosa di bello» mugugnò Haruka chiudendo gli occhi e beandosi del profumo della pelle di Michiru.
Le bastava averla accanto per essere felice e dimenticare l’inferno pronto ad inghiottire tutti quanti.


Note dell'autrice:

Ricordate Minako in Stockholm Syndrome quando ha il suo incontro ravvicinato con Setsuna? Ho voluto riprendere un pò quella scena e rinnovare la marea di schifezze che Mina ingurgita sotto stress o come dice lei..."per far andare meglio il cervello". La bevanda esiste davvero in Giappone, si chiama appunto Morinaga Pancake Drink e dicono sappia davvero di Pancake. Non riesco nemmeno a immaginare una cosa del genere...

Per il resto...Anche questo capitolo è saltato fuori più lungo del previsto. Spero non vi abbia annoiato e che si capisca qualcosa perché un'alternanza così di flashback e discorsi forse è chiara solo nella mia testa!! Come al solito immagino le cose come fossero sulla pellicola di un film e alle volte mi riesce difficile metterle giù a parole. Anyway...spero vi sia piaciuto anche questo capitolo e ringrazio chi come sempre mi lascia il suo parere. 
Come sempre rinnovo l'invito sulla mia pagina a chi ne volesse sapere qualcosa in più.
Kat Logan passa e chiude!

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Capitolo 8
*** Clan ***


You stopped watchin' me, you're scared
And I'm stronger than you already know
You try to hurt me, you fail
And I'm stronger than you already know
 
Stronger – Urban Strangers
 
 
 
 

Chiba – Carcere di Massima Sicurezza
 
Erano passati novantasei giorni.
Li contava dai segni sulle pareti.
Novantasei giorni passati in piedi, ammanettata e con la schiena poggiata al muro freddo.
Niente l’aveva mai piegata, niente l’avrebbe mai fatto.
Teneva le palpebre serrate come se stesse dormendo, mentre in realtà prestava più attenzione del solito.
 
Il pesante cancello si aprì con un cigolio.
Non erano i passi di una sola guardia.
Erano in tre. E quella terza persona stava dando loro un bel da fare.
Rideva. Nemmeno sotto ai colpi di manganello non smetteva di ridere in faccia ai due uomini che avevano oramai perso la pazienza.
Eudial si affacciò all’unica fessura sul mondo, ovvero la finestrella della cella che dava sul freddo corridoio.
Una chioma rossa carminio fluttuò davanti a lei.
Petirol si dimenò ancora una volta. Sgomitò, oppose resistenza per qualche minuto per poi finire nella cella accanto a quella di Eudial.
«Pazza psicopatica» sputò uno dei due uomini tirandole un ceffone.
«Un’altra scenata così e ti becchi l’isolamento. Dopo sì che ti passerà la voglia di ridere».
Eudial non udì risposta, solo il tintinnio metallico delle manette.
Lo stridere della porta indicò che la gabbia di Petirol fu chiusa a dovere e dopo una serie di fischi e botte contro le pareti conditi di qualche insulto, le guardia tornarono alla loro postazione al di là del corridoio.
Tutti pensavano di aver vinto ma una regina non è fatta per essere rinchiusa in una squallida torre e Eudial questo lo sapeva bene.


 
***
 
Haruka sgranò gli occhi interdetta mentre Jadeite le rifilò sotto al naso un sacchetto colmo di brioche ancora calde.
«Avevi paura di morire di fame durante un appostamento?».
Il ragazzo sbatté due volte le palpebre per poi prendere il suo palmo e farle afferrare il dolce bottino.
«Ah ah» mosse l’indice in segno di diniego.
«Nessun appostamento per te, Tenou» spiegò spostando poi lo sguardo al monitor del proprio computer. «Il tuo unico compito è di portarle in ospedale, possibilmente senza farti venire a salvare la pellaccia».
«Che razza di punizione è questa?! Non mi sono mica fatta il culo per finire a fare la cameriera!».
«È un lavoro più che onesto e…non è una punizione».
Haruka perse la pazienza. Stava per sbottare.
Jadeite non parve preoccuparsi del possibile scoppio della bionda e sospirando le domandò un asciutto «ancora qui?».
Lei respirò. Lo fece a fondo come se dovesse immergersi per lungo tempo cercando dentro di sé la forza per non aumentare il tono di voce.
Tirò sulle labbra un sorriso forzato e di circostanza per poi domandargli chi fosse il destinatario di tale strambo dono.
 
 
***
 
«Per te».
Haruka porse senza troppi complimenti il “pacco” al suo destinatario.
Rei arricciò il naso colpito dall’odore invitante proveniente dall’interno della confezione per poi alzare lo sguardo sull’altra ragazza.
«Questo per cosa sarebbe? Hai rapinato una pasticceria?».
«Io no. Il tuo fidanzato sì. E mi fa fare da portantino».
«Si chiama gavetta. E non è il mio fidanzato» rispose piccata la mora scoprendo il contenuto del sacchetto.
«Mio dio…diventerò grassa».
«O diabetica».
«Una buona prospettiva. Ma si può sapere perché tutta questa roba?».
«Credo sia una sorta di corteggiamento» ponderò Haruka poggiandosi con la schiena alla parete della stanza.
Rei non sapeva se sentirsi imbarazzata o sconcertata, ma di certo combatté contro la sensazione di sentirsi lusingata per tali attenzioni.
«Ci sta riuscendo?».
«A fare cosa?».
«Colpo. Devi ammetterlo, si sta impegnando anche se è strano forte».
Rei alzò gli occhi al cielo. Poi pescò con una mano e morse una mille foglie con crema chantilly che avrebbe fatto sciogliere anche il blocco di ghiaccio più grande dell’Antartide.
«Ovviamente no».
Un angolo della bocca di Haruka si tirò verso l’alto soddisfatto. Mai dare troppa soddisfazione ad uomo. Jadeite non avrebbe avuto facile se non avesse demorso a conquistare Rei.
«Rei, devo chiederti una cosa…».
Lo sguardo di Haruka si trasformò da burlone a serio in una frazione di secondo.
«Se devi chiedermi della gavetta ti dirò che avrai da fare ancora un bel po’ di fotocopie e lavoretti scomodi. Altrimenti per la deposizione ho già detto tutto ciò che sapevo ieri».
«Dov’è lei? Dov’è Eudial?».
L’improvviso appetito di Rei si placò.
«Ci ha pensato Sadao». Ed era vero. Loro erano state troppo occupate a non venir ammazzate e a identificare i corpi di Ken e i suoi compagni dopo aver arrestato la regina rossa per domandarsi quale sorte le fosse toccata.
Rei poi era partita per non doversi chiedere altro perché già riuscire a sopravvivere le costava troppo sforzo.
«Vuoi dirmi che ci siamo di nuovo dentro? Che è ricominciata?» le domandò Rei.
«In realtà, temo non sia mai finita».
 
 
 
***   
 
«Ne hai parlato con Haruka?» Ami indagò nello sguardo blu della sorella per carpire la realtà dei fatti. Michiru non mentiva mai, ma alle volte nascondeva le sue vere emozioni dietro un velo liquido nelle iridi e nelle proprie parole metteva solo la metà delle cose che aveva dentro.
Aveva imparato a farlo già da ragazzina per non ferire suo padre quando voleva parlare della madre che aveva preferito un’altra vita a loro.
Michiru sospirò, interrotta solo dall’arrivo del cameriere che poggiò sul la tavolo le loro ordinazioni.
«No…non so come reagirebbe».
Ami temporeggiò e verso nei bicchieri di entrambe una buona dose di tè verde fumante.
«Haruka farebbe l’impossibile per te».
«Questo lo so. Ma non voglio che mi accontenti solo. Vorrei lo desiderasse anche lei».
La minore temporeggiò e sistemò metodicamente anche la salsa di soia nei piccoli piattini a barchetta di porcellana decorata.
La vita era imprevedibile, riusciva sempre a sorprenderle e Michiru era stata investita da un desiderio imprevisto e impellente di diventare madre. Per tutta la notte, accanto ad Haruka, non era riuscita a mettere da parte la minuscola figura di Hotaru e il desiderio di proteggerla e crescerla come fosse sangue del suo sangue.
«Penso che prima cosa dovresti chiederglielo, Michi. Dopo di che potrete fare tutte le considerazioni del caso».
Michiru le sorrise grata di quel supporto, ma il dubbio che potessero avere necessità e priorità differenti nella vita continuava ad attanagliarla.
«Più che altro…» la voce della sorella placò momentaneamente lo scavare del tarlo del dubbio. «Dovrai affrontare papà in qualche modo. Insomma, se le cose andranno nel verso giusto si domanderà perché tuo “marito” non voglia darti un figlio suo».
«Oddio…e se gli venisse un altro infarto?».
«Michi, non puoi tenerglielo nascosto per sempre».
Ami aveva ragione su tutto e Michiru lo sapeva bene. Si era nascosta per la prima volta dietro troppe bugie e per essere una che non mentiva aveva già osato sin troppo. Doveva armarsi di coraggio e affrontare gli ostacoli della vita per rimanere la giovane donna di cui suo padre era sempre stato fiero.
«Sarà un disastro…» piagnucolò a bassa voce portandosi le mani alla testa.
«Forse non peggiore dell’aver sposato il tuo rapitore. Se ha accettato questa cosa il resto non potrà poi sconvolgerlo più di tanto, no?».
«Ami dovresti farmi coraggio tu!» ridacchiò anche se esasperata Michiru.
«Ti sarò accanto e in qualche modo tutti pezzi finiranno per combaciare».
Una sorella non poteva non avere fiducia nell’altra.
 
 
***
 
Se Haruka si metteva in testa qualcosa nessuno l’avrebbe di certo fermata.
Andò al piano nel quale era stato ricoverato Sadao e senza porsi il problema dell’aver portato o meno un dono per il paziente a cui stava per fare visita bussò due volte alla porta della stanza.
Non appena udì la voce all’interno in risposta al battere delle nocche entrò seguita da Rei.
Haruka accennò un cenno di saluto con un gesto frettoloso della mano per poi prendere possesso della sedia accanto al letto e sedersi con le braccia incrociate sullo schienale duro.
«Dovrebbero fare delle poltroncine più comode con tutto il tempo che si passa qui dentro» brontolò tra sé e sé fino a sistemarsi il più confortevolmente possibile.
Sadao schiuse le labbra in una smorfia sorpresa nel vedere Rei accogliendo entrambe con un sorriso.
Si sistemò più dritto possibile con la schiena nel letto per assumere una posa più virile possibile ma riuscendoci con scarsi risultati.
«A cosa devo questa visita? cominciavo a soffrire di solitudine!» disse gioviale e un po’ imbarazzato per non sapere come approcciarsi con la mora.
Rei sospirò pesantemente. Se solo l’avessero trovata in quella stanza avrebbe passato seri guai.
 
«Tu vieni o no?» l’aveva intimata la bionda.
Rei aggrottò la fronte restia a uscire dalla camera.
«Se sei in psichiatria non puoi permetterti di gironzolare come e quando vuoi per l’edificio senza un permesso lo sai? E soprattutto se hai aggredito qualcuno non credo sia un genialata farsi trovare nella sua stanza».
Haruka si era scrollata nelle spalle come se nulla fosse e poi le aveva posto una domanda senza troppi giri di parole come era solita fare.
«Lo volevi ammazzare sul serio Sadao?».
Rei non si offese per la sua indelicatezza e scosse il capo in segno di diniego.
«Allora penso che trovarsi nella stanza di chi hai quasi ammazzato e magari scusarsi sia una scusa più che buona».
 
«Bella mossa quella di farsi prendere a mazzate per far colpo su una donna» esordì la mora sforzandosi di sorridere. Era contenta di vederlo sano e salvo e probabilmente lottò contro la voglia di abbracciarlo come avrebbe fatto una sorella maggiore con un peso in meno sullo stomaco.
Sadao arrossì violentemente alle sue parole cercando qualcosa d’intelligente per tirarsi fuori da quel discorso ma non gli venne in mente nulla.
«Aaah hai fatto l’eroe!» rincarò la dose Haruka dimenticando per un momento le sue paturnie e il vero motivo per cui gli aveva fatto visita.
«Io ho fat-to solo il mio do-dovere!» balbettò sempre più paonazzo.
«Sono contenta tu stia bene» sputò senza fronzoli Rei.
Diretta e sincera, sarebbe sempre piaciuta così a Setsuna. E lei, sarebbe stata orgogliosa se fosse diventata uno di quegli agenti che si preoccupa per i propri sottoposti come facessero parte della propria famiglia.
«Senti, mi dispiace davvero per quello che è successo» sembrò dirlo senza respirare provando una profonda vergogna per aver perso il controllo e aver rischiato di ucciderlo.
«È tutto okay» rispose sincero il ragazzo.
Rei non aveva bisogno di scusarsi in alcun modo con lui.
Gli era bastato vederla preoccuparsi quando si era ritrovato riverso a terra dopo aver subito l’ennesimo colpo.
 
«SADAO!» Rei aveva urlato il suo nome senza nemmeno volerlo.
Quando fecero incursione gli addetti alla sicurezza per sedare Petirol e la montagna umana si fece di nebbia, la ragazza si precipitò verso il corpo del ragazzo riverso a terra in una pozza di sangue.
Ami gli tamponava la ferita dicendo a Minako di chiamare Mamoru per portarlo immediatamente in sala operatoria.
Rei rimase lì.
Gli diede dello stupido per poi sollevargli il capo sulle proprie gambe e forse senza rendersene conto gli strinse la mano.
«È tutto okay» gli sussurrò trattenendo le lacrime.
E Sadao raccolse il coraggio per sopravvivere un’altra volta.
 
Il ricordo se ne andò fugace così come gli era tornato alla mente a causa della voce di Haruka che insistente voleva arrivare al sodo della questione.
«Ora che siamo di nuovo tutti amici…»
«Non abbiamo mai litigato» precisò Rei venendo fulminata da un’occhiataccia.
«Dicevo…» riprese il discorso la bionda imperterrita. «Ora che è tutto a posto tu sei sano e salvo eccetera, ho bisogno tu mi dica una cosa Sadao».
Il ragazzo, un po’ stranito, s’indicò col medio per essere sicuro dovesse essere lui quello interpellato.
«Dove hai portato quella notte la regina rossa?».
Un brivido gli percorse la schiena.
Non era riuscito a dormire per due giorni di fila dopo averla portata alla prigione di Chiba. Quella donna era riuscito a terrorizzarlo per tutto il tempo del tragitto sul trasporto prigionieri con le sue minacce di vendetta.
«È stata tra-trasferita alla prigione di massima sicurezza di Chiba».
«L’hai vista entrare con i tuoi occhi?».
Sadao mosse il capo in un cenno di assenso.
«Perché me lo stai chiedendo ora?».
«Perché anche Petirol è stata portata lì».
«È una cosa brutta?».
«Gente come la regina rossa non si lascia spaventare da pareti più spesse del solito».
«E in giro c’è ancora quel tipo» aggiunse Rei facendo riferimento all’uomo di cui nessuno conosceva il volto.
Poteva essere chiunque. Anche un inserviente dell’ospedale per quel che ne sapevano loro.
«Perché credi che non sia finita?» chiese Sadao con un leggero acceleramento del battito cardiaco.
«Perché lei voleva il potere».
«Si ma tu non fai più parte della Yakuza» sentenziò la mora senza trovare una connessione nei sospetti di Haruka.
«No ma credo che per lei non faccia differenza. Voleva ci trovassimo tutti quanti qui per un motivo…».
«Voleva farci fuori tutti in un solo colpo?» chiese Rei.
«Si. Credo l’abbia presa sul personale…».
Sadao si torse le mani in modo nervoso.
«Non vi seguo. Cosa centriamo con la sua presa di potere?».
Haruka si grattò la zazzera bionda spettinandosela.
 
«Ci considera come un clan. Voi fate parte tutti del mio clan».



Note dell'autrice:
Eccoci di nuovo qui. A questo giro vi ho risparmiato un poema e fatto un capitolo più corto.
Un piccolo appunto: La prigione di Chiba che esiste nella realtà è simile ad una caserma non è una prigione di massima sicurezza come nella mia ff. Anche se il sistema carcerario giapponese è durissimo e probabilmente per questo la criminalità è quasi inesistente nel paese. 
Spero che anche questo capitolo vi sia piaciuto e vi anticipo che i guai da affrontare non saranno solo quelli con i malviventi ma anche quelli della vita quotidiana come forse qualcuno potrà aver intuito.

 

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Capitolo 9
*** White Lies ***


“On the summer day when I proposed
I made that wedding ring from dentist gold
And I asked her father, but her daddy said, "No
You can't marry my daughter"
She and I went on the run
Don't care about religion
I'm gonna marry the woman I love”
 
Nancy Mulligan – Ed Sheeran
 
 
 
 

 
Quando Haruka rientrò a casa le note del violino di Michiru inondavano il salotto.
La finestra aperta con le tende blu, danzanti al ritmo dettato dal venticello, parevano essere in sincronia con quella melodia.
La bionda scalzò le scarpe all’ingresso, tentando di far meno rumore possibile poiché non voleva interrompere l’esibizione dell’amata, ma una volta giunta alle sue spalle l’altra soffocò lentamente il suo brano.
Haruka batté le mani. Tre sciocchi secchi furono il suo applauso seguiti da un caldo bacio sul collo dell’altra.
«Sei sprecata per suonare qui dentro» sussurrò a Michiru scostandole i capelli dalla spalla per poi baciare anche quel lembo di pelle scoperto dalla canottiera che indossava l’altra.
«Il posto più adatto a te sarebbe un palcoscenico…e io sarei in prima fila per ascoltarti».
«Sembra un bel sogno…» constatò Michiru sorridendole.
Posò il violino nella sua custodia con gesti accorti e misurati per poi tornare dalla sua poliziotta preferita.
«Com’è andato il lavoro?» domandò circondandole il collo con le braccia per poi darle un bacio sulle labbra.
Haruka sospirò pesantemente.
«Quello da facchino o in centrale?» chiese ironicamente.
Michiru si lasciò scappare una risatina carezzandole il capo.
«Gavetta?».
«Sfruttamento oserei dire».
«Dai, amore ci si passa tutti…».
«Non ho fatto tanta fatica per portare in giro doni, spostare scatoloni piene di pratiche inutili e fare il caffè a mezzo dipartimento o commissioni per Jadeite».
Michiru rimase in silenzio ascoltando lo sfogo della bionda e cercando di addolcirle la giornata con qualche coccola.
Solitamente era così che funzionava. Haruka rientrava lamentandosi di qualcosa, grugniva, si sfogava un po’ sotto le carezze di Michiru per poi ritrovare il suo stato di calma piatta apparente. E come da manuale così accadde.
Sedettero sul divano, accendendo la televisione e rimanendo aggrovigliate per una decina di minuti sul divano.
Haruka – campionessa di zapping disinteressato – stava corrodendo lentamente la pazienza di Michiru che non sopportava quel cambio continuo d’immagini senza seguire davvero nulla.
Ma Michiru taceva. Cercando le parole per affrontare l’argomento famiglia con la bionda.
Forse per la prima volta era lei a tenersi qualcosa dentro, ad affondare nei propri turbamenti senza trovare la giusta via d’uscita. Ma lei non era fatta per mentire o tenere a lungo i segreti con Haruka ed Ami aveva ragione. Doveva affrontare la questione, nel bene o nel male.
Le cose vanno fatte nella maniera giusta. Così avevano vissuto le due sorelle fino ad allora, così era stato insegnato loro. E se Michiru voleva davvero essere una brava madre allora doveva prima essere una persona onesta con chi amava.
«Ruka…» Michiru attirò la sua attenzione posando una mano su quella dell’altra che continuava imperterrita a cambiare canale.
La bionda soppresse uno sbuffo tentando di giustificarsi con un «non c’è nulla d’interessante da vedere» ma Michiru non l’ascoltava, troppo intenta a prendere la rincorsa per partire col piede giusto.
«Devo parlarti» cadde in fallo e se ne rese contro dalla tensione che serpeggiò nello sguardo dell’altra.
Haruka si drizzò sul divano, forse seduta composta per la prima volta in vita sua.
Quando qualcuno comincia la frase con un “dobbiamo parlare” non è mai un buon segno. Precisò a se stessa sforzandosi di non cedere al panico.
«Cosa succede Michi?».
Ha un altro.
Haruka cominciò le sue congetture mentali.
Sono stata assente, faccio orari impossibili e si è stancata. Così ha trovato un altro, un uomo.
Panico. Sentì lo stomaco contorcersi nell’immediato.
Avrebbe vomitato e lei detestava farlo.
Michiru abbassò lo sguardo in cerca delle parole. Non era da lei temporeggiare in quel modo e ciò contribuì ad agitare ancor più Haruka.
Da dove comincio? Michiru si torse le dita affusolate attanagliata dall’ansia.
«Penso di…».
«Vuoi lasciare casa?» la interruppe la compagna senza riuscire a tenere più a freno la lingua.
«È?!».
«Vuoi lasciarmi e andare via di casa?».
«Ruka…».
«Oddio, lo sapevo!» Haruka si mise le mani nei capelli, incapace di fermare il trip paranoico nel quale era entrata.
«No, Ruka. Ma che stai dicendo?!» Michiru si alzò in piedi per stroncare sul nascere l’assurda congettura dell’altra.
«Credi davvero potrei farti una cosa del genere?».
Haruka provò imbarazzo. Non riusciva a controllarsi quando si trattava di lei, non era mai riuscita a farlo sin dal principio.
Respirò a fondo, strofinando la guancia nel palmo di Michiru che aveva raggiunto il suo visto per scrutarne meglio lo sguardo e tranquillizzarla.
«Non ti abbandonerei mai…» ribadì. «Quello che volevo dirti è che dovremmo parlare a mio padre».
Lo sguardo cobalto di Haruka si tuffò in quello ceruleo di Michiru.
«Credo sia ora di dirgli la verità su di noi. Non voglio mentirgli più…».
La bionda attese. Non disse nulla lasciando fosse la sua amata a continuare ciò che aveva da dire.
Doveva essere difficile affrontare quella questione poiché mai aveva visto quella splendida donna doversi sforzare in quel modo per trovare le parole.
«Probabilmente sarà una causa persa. Conosco mio padre come le mie tasche…».
«Già non mi sopportava pensandomi come un uomo…».
«Penso sia per il rapimento, sai com’è».
«Ma potrà odiarmi. Va bene, purché tu sia felice».
«Non voglio ti odi, Ruka…».
«Credo sarà inevitabile» un sorriso sconsolato si tirò sulle sue labbra.
«Io sarò al tuo fianco, però Michi…» le strinse la mano «perché proprio ora?».
Tacque.
Michiru tenne ancora un po’ Hotaru solo per sé.
 
 
***   
 
 
Ami stava per staccare dal proprio turno. Si diresse allo spogliatoio, infilò i propri jeans, una maglietta pulita e la giacchetta in eco pelle marrone comprata in un mercatino l’anno prima assieme a Minako. Allacciò in un paio di minuti entrambe le scarpe, si mise la borsa in spalla e con un sonoro “clack” chiuse l’armadietto.
Il corridoio era calmo a quell’ora. Qualche infermiera girava qua e là ma l’orario di visite era cessato. Aleggiava la quiete.
Passò da una stanza semi buia dove Mamoru studiava stanco alcune radiografie, busso piano sulla porta per salutarlo e senza perdersi in chiacchere raggiuse il reparto in cui Sadao era ancora ricoverato.
«Come va?» domandò sulla soglia dopo averlo visto sveglio nel proprio letto.
Il ragazzo le sorrise «spiaggiato».
«Peccato per la vista mare allora!».
«Vai via?».
Ami annuì con un cenno del capo.
«Allora…buona serata».
«Grazie. Lo spero, è una serata in famiglia ma…»
«Situazione complicata?» tirò ad indovinare lui.
«Esatto».
«Allora, beh, in questo caso…b-buona fortuna!» incespicò appena per poi staccare lo sguardo da lei e portarlo diritto verso il muro che aveva di fronte. All’improvviso le parole di Rei e Haruka che lo prendevano in giro sull’aver fatto l’eroe con Ami gli tornarono alla mente.
Cercò di non darci peso o si sarebbe imbarazzato e avrebbe preso fuoco come minimo di fronte a lei.
«Grazie».
«D-di nulla».
«Intendo dire…» Ami aveva un piede sulla soglia e l’altro in direzione dell’uscita. Pronta per la fuga.
«Grazie anche per l’altro giorno! Se non ci fossi stato tu…».
Sadao boccheggiò. Le dita si mossero stropicciando il lenzuolo in modo convulso.
«Nessun p-problema».
Imbecille.
Voleva colpirsi da solo ma aspettò che lei se ne andasse per farlo.
 
 
***
 
 
«Ehi, genio!» la voce di Minako richiamò l’attenzione di Ami che aveva rallentato il passo davanti la veranda del Moon bar.
«Ciao Mina» la salutò l’amica per raggiungerla allo sgabello sul quale sedeva.
«Ti fermi per un drink?».
«Io…oh si la cena! Siete al ristorante di Akira, no?! Perciò fermati a fare un aperitivo dai. Andiamo insieme dopo!».
Ami si lasciò circuire dall’amica che ordinò per entrambe lo stesso cocktail e prese posto accanto a lei.
«Non credi sarà troppo forte? Io non reggo l’alcol» disse con una nota di preoccupazione nella voce Ami.
«Tranquilla, i neuroni funzioneranno ancora a dovere dopo!». La bionda le diede una pacca sulla spalla giocherellando con uno degli stecchini che infilzavano alcune olive in un piccolo piattino.
«Hai parlato con Akira?».
Minako alzò il pollice quasi a farlo schiantare contro il naso dell’altra.
«Certo! E’ andata alla grande!».
Ami ridacchiò. «Sarai una mammina e sei qui a bere!?».
La bionda si drizzò sullo sgabello e tirò in fuori il petto con fare tronfio.
«Futura mammina» si portò una mano sul ventre piatto «qui dentro non c’è ancora nessuno quindi…posso bere quanto voglio!».
Il cameriere portò loro i Japanese Ice Tea ordinati dalla bionda.
Minako frugò nella borsa, afferrò il portafoglio e pagò per entrambe. Dopo di che mostrò orgogliosa il cellulare all’altra.
«La vedi questa?».
Ami prese tra le labbra la cannuccia e incuriosita guardò lo schermo.
«E’ un app per l’ovulazione!».
«ODDIO!» Ami rischiò di fare una figura barbina e di sputare metà cockatail addosso a qualche povero malcapitato.
«Beh che c’è?! E’ roba da donne…no?!».
«MA CHE DIAVOLO MI HAI ORDINATO?!!».
 
*** 
 
 
«Dritta. Devo staaaare assolutamenteee drit-taaah».
Ami tentò d’immaginare una linea retta dinnanzi a sé e di percorrerla come un’equilibrista su un filo teso. Ogni tentativo però risultò vano poiché barcollava pericolosamente anche se Minako cercava di farle da sostegno.
«Ma che diavolo di ore sono?!» chiese con voce impastata il caschetto blu senza riuscire a visualizzare l’orario segnalato dal suo digitale al polso.
«Ooh siamo in tempo niente paura!» la rassicurò Minako come se nulla fosse.
Non che rientrasse nella normalità vedere Ami sbronza ma se doveva essere shockata per qualcosa era per la poca tolleranza dell’amica all’alcool.
«Mi chiedo come si faccia ad ubriacarsi con così poco…». Diede voce ai pensieri per poi vedere all’altro lato della strada l’entrata del locale di Akira.
«Ma quello è mio…padre?!».
«Pare di sì».
Si bloccarono sul posto e Ami si toccò forsennatamente la faccia.
«Oddio. È mio padre».
«Lo hai già detto».
«Si ma…io…».
«È entrato. Non ci ha viste. Okay Amiiii».
«È importante Mina. È im-por-tan-te sta sera» cercò di scandire Ami.
Haruka parcheggiò proprio davanti l’entrata, aprì la portiera a Michiru che strinse la borsetta e le diede un bacio sulla fronte.
Minako le fissò e notò una certa tensione nei movimenti della sorella maggiore di Ami.
«Glielo dicono…» ebbe la rivelazione sotto agli occhi. «DICONO A YOSHIO DI LORO QUESTA SERA».
«Sssshhhhhtttt».
«Oddio e tu eri il supporto per Michi». Minako andò nel pallone e boccheggiò. Si fece aria con una mano ripetendosi di non svenire e che degli zuccheri sarebbero stati pronti all’uso nella cucina di Akira.
«Il retro Ami. Entriamo dal retro».
 
 
*** 
 

«Benvenuti» Akira accolse i suoi ospiti con un sorriso gioviale.
«Grazie per aver preso la prenotazione così all’ultimo» disse riconoscente Michiru.
«Figurati. Per gli amici c’è sempre posto. Vi porto al tavolo!».
Yoshio borbottò qualcosa e Michiru lo rassicurò dicendogli che Ami sarebbe arrivata a momenti.
Haruka cercò conforto nell’oscillare del codino nero di Akira legato dietro la nuca.
Nel suo locale, armato di grembiule bianco in vita, lui sembrava aver trovato la sua dimensione mentre lei si sentiva come fosse rimasta di venti passi indietro.
Una strana sensazione allo stomaco.
Lui sarebbe tornato indietro a tenderle la mano se ne avesse avuto bisogno?
 
I tre si accomodarono ad un tavolo tondo sistemato accanto ad una vetrata che si affacciava su un giardino dove al centro spiccava una fontana illuminata. La saletta era appartata e sebbene lei e Michiru avrebbero dovuto affrontare un argomento delicato tutta quella riservatezza mise ancora più tensione addosso ad Haruka.
«Intanto vi porto un po’ di sakè» disse Akira ripercorrendo il breve percorso a ritroso per poi dirigersi in cucina.
«Allora tesoro, stai bene?» domandò Yoshio alla figlia maggiore.
«Sì papà».
«E ora come fai col lavoro? Ho visto l’edificio dove insegni completamente bruciato. È una fortuna non ti trovassi lì».
«Al momento do lezioni ad alcuni studenti a casa».
«Anche se io credo che Michiru sia sprecata come insegnate» aggiunse Haruka.
«Hai ragione. Ho sempre sostenuto anche io che Michiru ha troppo talento per…».
«Papà…» lo interruppe la figlia sentendosi imbarazzata per tutti quegli elogi.
«Tesoro, sei una donna in gamba. Lascia che i tuoi uomini si stimino un po’. No?!».
 
Michiru portò una mano sotto al tavolo intrecciandola a quella di Haruka.
 
«Ma dov’è finita tua sorella? Non è da lei fare tardi a un appuntamento».
 
 
 
***
 
 
Un rumore di scatole e latta attirò l’attenzione di Akira rischiando di fargli versare fuori dai bicchierini il sakè.
Il ragazzo posò tutto sul vassoio e si affrettò ad andare verso i fornelli quando colse in flagrante la propria fidanzata.
«Woh, wooh, che succede qui?».
Ami tentava di lavarsi il viso con l’acqua più fredda di cui il lavandino disponesse mentre Minako aveva la bocca piena e sparso qualche briciola qua e là.
«Avevo bisogno di…» mandò giù un grosso pezzo di angel cake.
«Fammi indovinare. Zuccheri» disse Akira.
«Esatto. È un’emergenza».
«Fa che sia un’emergenza che mi metta nei guai. Ho il locale pieno».
«Certo amore» sorrise furba lei lasciandogli un bacio sulla guancia.
«Và, và… ci penso io qui».
Akira fece per tornare al suo vassoio da consegnare al tavolo di Haruka e Michiru quando strizzò gli occhi e tornò indietro.
«Che ci fa qui Ami?».
«È lei l’emergenza!» sorrise zuccherina Minako.
 
 
***
 
Sarà un vero disastro.
Akira riusciva a pensare solo a quello mentre con un sorriso forzato si dirigeva verso il tavolo dei Kaiō.
Improvvisamente si fece rigido e cominciò a camminare quasi avesse dei crampi alle lunghe gambe.
Haruka nel vederlo arrivare a quel modo gli riservò uno sguardo interrogativo mentre l’amico consegnava a loro il saké e qualche antipasto di mare offerto dalla casa.
Da quando in qua qualcosa non si paga al ristorante? Valutò Haruka nella sua testa.
Di solito è per scusarsi di qualcosa.
«Che succede?» domandò con un sibilo fra i denti quando il moro si chinò al suo fianco per posizionarle il piccolo bicchierino contenente la domanda.
«Andrà tutto bene» mascherò lui in un colpo di tosse.
Quando Akira faceva promesse era solito mantenerle, a meno che non fossero bugie bianche e allora - lui che aveva una strana concezione di quella tipologia di menzogna per un buon fine - c’era da preoccuparsi.
A Michiru che non sfuggiva nulla della complicità dei due distrasse suo padre indicando il piatto da portata colmo di crostini e stuzzichini.
«Oh guarda papà, c’è quello col calamaro che ti piace tanto!» lo servì amorevolmente per poi pizzicare sotto al tavolo la coscia di Haruka.
«Che succede amore?»
Haruka sobbalzò appena e accigliata le rispose con un «gli hai appena dato il mio preferito».
Si massaggiò la gamba ma venne immediatamente fulminata dallo sguardo della compagna.
 
 
Intanto in cucina Minako sembrava essersi tramutata nell’allenatore di un pugile massacrato di botte a bordo ring.
Massaggiò le spalle ad Ami e con convinzione la spronò ad andare.
«Vai tigre, puoi farcela!».
Ami le rivolse uno sguardo perplesso.
«Non mi sento per niente bene…» mugugnò con una mano allo stomaco.
«Oh si che stai bene. Devi solo rimpinzarti ben bene. Tra poco passa tutto ma devi andare ORA».
«Ma, io…».
«Ami, ehi, Ami!» Minako schioccò le dita davanti alle iridi celesti per valutarne il riflesso.
«Cinque per cinque…».
«Venticinque» rispose in un sospiro.
«Bene. Neuroblastoma?» chiese seria.
«Tumore che ha origine dalle cellule nervose del sistema autonomo».
Minako parve soddisfatta.
«Perfetto, sei pronta!».
«Io non credo che…».
«BASTA TEMPOREGGIARE».
La bionda, animata della sua prorompente energia vitale la trascinò letteralmente fuori dalla cucina ed entrambe si ritrovarono al centro della sala.
«Di là» le indicò stendendo il braccio e puntando il dito verso la zazzera color grano di Haruka.
 
«ECCOCI!» annunciò Minako mostrando tutta la dentatura in un sorriso quasi esagerato.
«Oh Ami, sei arrivata!» Yoshio si alzò per abbracciarla e scostarle la sedia.
«Ehm, si papà».
«Mi perdoni signor Kaiō, Ami ha fatto tardi per colpa mia» intervenne Minako facendo un cenno di saluto frettoloso alla coppia al tavolo.
«I turni sono allucinanti e non avevo ancora avuto modo di chiedere a sua figlia una spiegazione sul…».
«Neuroblastoma» sbiascicò Ami.
«Esatto! Io proprio non lo capisco e…vi lascio alla vostra cena!».
Ami si arpionò al braccio dell’amica.
«Resta…».
«Si, Minako. Rimani a farci compagnia» la invitò di buon grado Yoshio.
«Oh no, grazie. Cioè lo farei volentieri ma…devo andare di là! Ad aiutare il mio uomo e a…» parve doverci pensare su un attimo «studiare».
«Per il neurocoso?» domandò annoiata Haruka.
«Esattamente» rispose Minako prima di venire richiamata da Akira in cucina.
 
 
«Non è che lavori troppo Ami?» inquisì il padre.
«Sei molto intelligente credo potresti anche permetterti di rallentare o non avrai tempo per trovarti un bravo ragazzo».
Ami per poco non si ritrovò a sputare il boccone nel piatto e lo sguardo di Yoshio scivolò su Haruka come a sottolineare di non essere convinto a pieno che lei fosse un marito valido per Michiru.
«Papà…» Michiru si sporse verso la mano dell’uomo per poggiarci sopra il proprio palmo. «Non tediare così Ami, la imbarazzi lo sai. È molto riservata su certe faccende».
«Oh sì, signor Kaiō». Haruka infilzò del polipo marinato con le bacchette. «Non si preoccupi Ami ci sta già lavorando» aggiunse con un sorriso sornione.
Gli sguardi degli altri tre conversero su di lei.
«Intendo dire che frequenta un bravo ragazzo» masticò lentamente. «È un poliziotto anche lui».
Yoshio si drizzò tutto sulla sedia.
«Davvero Ami?».
«È solo un mio paziente papà. Credo che Haruka stia fantasticando».
Michiru non sapeva più da che parte prendere.
«In realtà penso che Haru volesse sottolineare quanto va fiera di essere entrata nelle forze dell’ordine».
Adesso l’attenzione del padre fu tutta per la figlia più grande.
«Si da molto da fare».
Ami emise uno sbuffo. Non riusciva ancora a controllarsi del tutto e aveva voglia di mettersi a cantare. Forse perché il pensiero solleticò nella sua testa l’immagine di Sadao.
«Mh» Yoshio squadrò Haruka e Michiru riconobbe quello sguardo. Suo padre stava per fare una domanda scomoda o forse una battutina per mettere in fallo la bionda. Perché lui era uno di quei padri che si era ritrovato a crescere da solo due figlie – di cui una nemmeno sua – e l’unico istinto che aveva era quello di proteggerle da tutto e da tutti fino alla fine.
Michiru avrebbe potuto presentargli persino un avvocato, un giudice o un valido politico, ma per quanto il suo partner potesse risultare una persona rispettabile agli occhi di tutti Yoshio non avrebbe ceduto in ogni caso facilmente le sue due bambine. I suoi tesori più grandi, ciò che davano realmente valore alla sua vita.
«E come l’hanno presa in dipartimento? Avere uno Yaku-».
Ami lo bloccò.
«Siamo qui per altro».
Michiru non seppe se ringraziare la sorella o mettersi a gridare.
Forse se Ami non fosse intervenuta lei non sarebbe riuscita a dire un bel niente anche in quell’occasione.
Forse era il suo carpe diem quello. Doveva cogliere l’attimo.
«E di cosa dovevate parlarmi?» domandò Yoshio lasciando cadere ogni malevolenza nei confronti di Haruka.
«Di noi. Di me e Haruka» la lingua di Michiru parve sbloccarsi all’improvviso.
«Non sono stata del tutto sincera con te papà e me ne dispiaccio».
«Devo preoccuparmi?» domandò l’uomo cercando di tenere un contegno.
Ami si chiese se al ristorante Akira avesse un defibrillatore portatile anche se non valutò l’ipotesi di non riuscire ad usarlo nel suo stato attuale.
«No papà, tranquillo».
«Sei malata?».
«No».
«Tenuō ti tradisce?».
«Per l’amore di Dio» soffiò Haruka con gli occhi al cielo.
«Michi penso dovresti tagliare corto» consigliò Ami.
Tagliente come la lama di un coltello valutò Haruka. Non era da Ami essere così diretta. Era sincera sì, ma aveva sempre avuto un gran tatto mentre quella sera era come se fosse priva d’inibizioni.
Ubriaca? Ma è ridicolo Haruka non è mica te!. La sua testa stava nuovamente ponderando congetture tanto che la bionda quasi dimenticò d’intervenire in qualche modo nella confessione della moglie.
Ma se lo avesse fatto – considerando l’astio che aveva Yoshio – nei suoi confronti avrebbe solo peggiorato le cose. Solo Michiru poteva dirlo nel modo giusto anche se a ben pensare forse un modo propriamente giusto o sbagliato non esisteva.
Anche Michiru aveva detto una bugia bianca a Yoshio o forse si trattava solo di omissione nel suo caso.
Qual è il vero confine?
«Papà è solo che…».
Cosa succede quando la verità prende il sopravvento su una bugia bianca?
«Haru è una donna».
La stretta più ferrea di Michiru attorno alle sue dita la ridestò dai pensieri.
Yoshio rimase impietrito e per un momento Haruka credette che l’intero locale stesse guardando solo loro e fosse rimasto con le posate a mezz’aria.
«Sono perdutamente innamorata di una donna papà».
 
Akira rimase con lo strofinaccio incastrato in un bicchiere a spiare da lontano la scena.
«Credi stia andando bene?» domandò a Minako.
«Non sta svenendo nessuno?».
«No».
«Nemmeno Ami?».
«Sembra a posto».
 
Yoshio dovette mettere insieme i pezzi.
Sua figlia era stata rapita. Il rapitore in questione era uno Yakuza. Lo Yakuza aveva sposato sua figlia e non era un uomo. E il fatto che il malvivente rendeva felice la gioia dei suoi occhi e non era più un poco di buono, ma una forza dell’ordine, passò in secondo piano. Il punto focale era che la sua Michiru, la figlia perfetta che aveva spiccato il volo, adesso non lo era più così tanto.
Come sua madre. Constatò per un momento anche se non avrebbe dovuto. Bugiarda come sua madre.
Eppure non l’aveva cresciuta così e lui sapeva bene nel profondo che Michiru non era come la donna che lo aveva abbandonato.
Dunque è colpa sua. Era lo Yakuza ad averla messa sulla cattiva strada.
«Papà dì qualcosa…» il tono di Michiru era una supplica ma in risposta solo silenzio.
«Signor Kaiō».
«Zitta tu». Non era mai stato un uomo maleducato, né aveva mai mostrato particolare autorità ma in quel momento era diverso. Forse perché non riconosceva più nessuno a quel tavolo.
Il blu delle iridi di Michiru si fece liquido e ad Haruka non sfuggì quel particolare.
Ami ruppe il silenzio con un sonoro sospiro.
«Quanto la fai lunga…» tutti gli sguardi si posarono su di lei.
«Michiru non vuole fare come la mamma. Ti sta dicendo le cose a cuore aperto per non farti del male come ti ha fatto lei e questo è il ringraziamento?».
Il viso di Yoshio assunse i tratti di una persona sconvolta.
Ami incrociò le braccia e scivolò un po’ di più sulla sedia. Sentiva un caldo infernale e voleva solo andarsene. Forse non era stata un’ottima idea bersi persino qualche bicchierino di sakè mentre tutti tentavano di tenere banco al tavolo.
«Ami ma…».
«Non ci sono ma. È così e basta. Nessun “ma” nessun “se” è come un dogma» blaterò.
«Un che?» domandò Haruka.
«Una verità assoluta. Una condizione che si prende per vera e che non si discute» precisò la più giovane.
«O almeno il diritto di chiedere perché?» Yoshio parve essersi placato.
«Si può con un dogma?» domandò seria la bionda guardando Ami.
«Perché ora?».
«Preferivi rimanerne all’oscuro?» tergiversò Michiru.
E in quel momento Haruka intuì che anche Michiru aveva qualcosa da nascondere.
Ami si alzò, poggiando le mani sul tavolo. Si accorse di essere stufa di tutti quei drammi e per la prima volta prese realmente consapevolezza di quel che voleva lei. Non le andava di essere lì. Non le andava di diventare un bersaglio e forse nella sua vita non lo sarebbe mai stato poiché era sempre in grado di far la cosa giusta, quella migliore. Ed era tremendamente noioso non sbagliare mai.
Decise di buttarsi e forse l’indomani se ne sarebbe pentita. In tal caso avrebbe provato per la prima volta il rimorso di un errore madornale.
«Vuole una famiglia».
Haruka batté le palpebre.
Michiru si rese conto di non saper gestire per la prima volta in vita sua una situazione del genere.
Yoshio stufo di dover chiedere spiegazioni invitò Ami a dire una volta per tutte la verità.
«Te lo sta dicendo adesso perché Michiru vuole una famiglia a tutti gli effetti. Vuole ne faccia parte anche tu. Ecco perché dovevi saperlo. Vuole diventare madre e che tu faccia il nonno».
Haruka e Yoshio spalancarono le labbra in sincrono per lo stupore.
Haruka non sapeva come catalogare quella bugia. Forse era pessima quanto Akira in quello.
Bugia bianca o meno?
Si accorse solamente di una cosa. Di qualunque categoria fosse quella bugia l’avrebbe fatta arrabbiare.



Note dell'autrice:
Scusate. MA HO ADORATO scrivere di Ami ubriaca e Minako che le fa da balia strampalata. E' a causa loro che tutta la vicenda si è dilungata fino a farmi scrivere quattordici pagine anzichè le sette che avevo progettato. Ma come ho detto sulla mia pagina quando i personaggi fanno tutto da soli non sarò certo io a fermarli.
I cattivi alle volte non bastano. E' colpa loro lo scompiglio. Colpa di Michiru che ha omesso con il papà il dettaglio riguardante la sua donna e di non essere riuscita a dire ad Haruka di Hotaru. Colpa di Ami che da ubriaca parla un pò troppo e chi più ne ha più ne metta. Penso però vi arrabbierete di più nel prossimo capitolo quindi macumbe nei miei confronti né ora né prossimamente, please.

Il Japanese Ice Tea è fatto con 
Vodka, Gin, il Rum bianco, il Midori e lo Sweet&Sour. Non so se ci si possa ubriacare con solo un bel bicchierone di quello ma Ami la vedo proprio come la più astemia del mondo. Per sicurezza le ho fatto sbevazzare pure del saké così non ci sbagliamo, ahahah!
Bene, smetto di blaterare e mi auguro non vi siate annoiate. Aspetto con ansia le vostre opinioni.
Alla prossima.
Kat

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Capitolo 10
*** Stormbomb ***


 
Si voltò a guardare giusto in tempo per vedere la pioggia che cominciava a cadere
come se il temporale si fosse finalmente deciso a piangere di vergogna per quello che aveva fatto loro.

James Dashner

 


«Dunque è per questo che volevi dirglielo adesso. E a me quando pensavi di parlarne?!» tuonò Haruka con in volto i segni della rabbia.
Non appena Ami aveva vuotato il sacco per aiutare la sorella col padre, Haruka, senza troppi complimenti  aveva letteralmente trascinato Michiru nel giardinetto sul quale dava la saletta nella quale Akira li aveva sistemati.
Il blu delle sue iridi era mutato improvvisamente. Non era più lo sguardo che cullava Michiru ogni volta che incontrava la sua figura, bensì era un mare in tempesta pronta ad inghiottirla.
«Dovevo prima affrontare mio padre» fu tutto quello che riuscì a dire in sua difesa.
«Certo» asserì asciutta Haruka. «Era una cosa di così poco peso che era giusto mettere in secondo piano per te».
Michiru s’irrigidì. Serrò le unghie smaltate in due pugni che le cadevano lungo i fianchi. Le sue labbra si tirarono e tenne testa allo sguardo di Haruka che la guardava in cagnesco.
Cos’altro poteva dire a sua discolpa? Nulla. Perché Haruka aveva pienamente ragione su tutto. Michiru non avrebbe dovuto temporeggiare e tenere segreto il voler diventare madre. Ad Haruka poteva dire tutto esattamente come aveva sempre fatto.
Solo lo sbuffo pesante della bionda e la sua mano alla fronte pronta a molestare la zazzera color grano la riportarono alla realtà, ma ancora una volta non proferì parola poiché fu l’altra a parlare nuovamente.
«Dio. Tu hai già deciso, vero?» la sua non era una domanda ma una constatazione di cui ebbe conferma nel momento in cui sua moglie abbassò il capo.
 Michiru si rese conto di non voler rinunciare alla piccola Hotaru. Perché per quanto folle e fuori dall’ordinario lei si sentiva legata indissolubilmente a quella bambina.
«Ruka, io…».
«Sì appunto. TU. Tu e ancora tu, Michiru. Si tratta sempre di te» sbottò senza riuscire più a starsene ferma sul posto.
Haruka si sentiva tradita.
Se Ami non avesse rivelato tutto forse sarebbe stata l’ultima della lista a saperlo. Come aveva potuto farle una cosa del genere?
«È così sbagliato volere costruire qualcosa con te?!» adesso era Michiru ad avere alzato i toni.
Haruka scosse il capo incredula.
La delusione venne soffocata dall’ondata di rabbia che avrebbe domato di lì ogni suo gesto o parola.
Vedeva rosso come un toro e non avrebbe ascoltato ragione alcuna.
«La cosa sbagliata è che non ti sia passato mai per un secondo nella testa il fatto di chiedermi se io fossi pronta per una cosa del genere».
«Ah perché tu hai sempre chiesto per ogni cosa vero?».
La bionda si accigliò.
«Cosa mi staresti rinfacciando?» il suo sguardo si assottigliò.
«Lascia perdere».
«No. Adesso me lo dici».
«HARUKA» Michiru la guardò in cagnesco. «Mollami subito il braccio» sibilò.
 
Haruka non si era nemmeno resa conto della presa ferrea sul polso dell’altra.
Le sue dita abbandonarono la pelle lattea di Michiru.
Nella sua testa ronzavano tutte le cose che avrebbe potuto sputargli addosso ma stava tenendo strette fra i denti.
Le stava rinfacciando di aver dovuto lasciare il suo lavoro ad Osaka o c’era dell’altro?
Dall’esterno il locale parve essere immerso nel silenzio.
Haruka ebbe la sensazione che tutti, a parte loro due, fossero immersi in una bolla di spensieratezza.
Minako portò una mano sul polso di Akira pronto col carrello dei dolci.
«Penso non lo prenderanno il dessert, tesoro».
Il ragazzo la guardò con aria stralunata.
«Ma ho fatto persino la creme brulèe!» esclamò per poi imbronciarsi.
La fidanzata non seppe se prenderlo a schiaffi o dargli una carezza consolatoria. Lo lasciò crogiolarsi nella sua disperazione culinaria mentre Yoshio con Ami a braccetto si avviarono alla cassa per pagare il conto.
 
 
***
 
 
Gli ultimi clienti avevano lasciato il loro tavolo e Minako chiuse la porta del locale abbassandone le luci.
Erano le due di notte passate e lei si occupò di ordinare le ultime cose per poi andarsi a coricare al piano di sopra dove con Akira aveva preso il suo primo vero appartamento.
Akira, intanto, sedeva con Haruka ad uno dei tavolini presente in veranda sottoponendole i dolci avanzati dalla serata.
«Quindi…è finita?» domandò incerto spingendole davanti un piattino con una fetta di torta alle fragole e panna.
Un po’ di dolcezza avrebbe certamente aiutato ad affrontare le pene d’amore.
Haruka la infilzò la fettina come si trattasse del suo nemico giurato e ignorando la smorfia di dissenso dell’amico se ne portò alla bocca un pezzetto.
«Ha detto che se volevo potevo tornarmene all’appartamento. Tanto lei poteva stare da suo padre» bofonchiò a bocca piena.
Akira alzò un sopracciglio.
«Ma…?».
«Le ho detto poteva tornarsene lei in quella stupida casa che io un posto dove andare lo avevo».
«Ah si?».
«Si, certo».
Haruka lo guardò come se la cosa fosse ovvia.
«Rimango qui con te. Cioè, voi» lo ragguagliò per poi prendere una cucchiaiata generosa di budino.
«Stai scherzando, vero?».
La bionda rimase con mezzo cucchiaio a penzoloni dalla bocca.
«Non siamo più amici?».
«Ma certo che lo siamo».
«E allora quale sarebbe il problema?»
«Che Minako è impazzita».
«È una donna» fece spallucce Haruka come se lei non appartenesse al genere femminile e potesse dispensare pregiudizi con leggerezza.
Akira la guardò come si fa con uno ricoverato in una casa d’igiene mentale.
«Ha un app che squilla…» spiegò «e quando lo fa non ci sono scuse. Bisogna che ci spogliamo in fretta e furia perché quella è l’ora giusta per fare un bambino».
Haruka storse la bocca mollando il cucchiaino sulla tovaglia. Improvvisamente non sentiva più il bisogno di ingozzarsi.
«Ma non è che il mio…».
«Wooh, Akira ti prego no. Le magiche avventure del tuo coso non sono pronta a saperle. Davvero ti voglio bene, ma santo cielo sto sudando al solo pensiero che tu possa descrivermi altro».
Il ragazzo alzò gli occhi al cielo. A volte dimenticava che anche Haruka poteva avere una decenza, o meglio, l’aveva solo quando faceva comodo a lei.
«Troverò un posto» gli posò una mano sulla spalla come se comprendesse il suo disagio.
«A comando non è bello».
«No, non lo è. Per niente» le diede corda lui.
«Sei mio amico lo stesso».
«Lo so».
«Anche se, bello, mi stai mollando proprio in mezzo alla strada».
Akira la guardò torvo.
«Che c’è? Ti perdono…sto dicendo» recuperò in fretta la bionda.
«Allora?».
«Allora che?» domandò Haruka incrociando le braccia al petto.
«Stai bene?» chiese lui sinceramente preoccupato.
«Sì» mentì lei a sé stessa. «Non ho nessuna intenzione di stare dietro a un poppante».
Il moro rimase in silenzio ad ascoltare l’amica. Haruka era dovuta crescere da sola in una situazione violenta e degradante, probabilmente non era strano il fatto che fosse restia a mettere su famiglia nonostante amasse profondamente Michiru.
«E poi avrebbe dovuto dirmelo».
«Già» lui le diede il suo supporto.
Michiru era una brava ragazza ma lui non avrebbe mai e poi mai lasciato il fianco di Haruka per nulla al mondo. Era un giuramento suggellato con i loro mignoli da quando erano bambini. Avrebbero affrontato ogni cosa superandola se fossero rimasti assieme per sempre.
«Invece no. Me lo ha nascosto e chissà per quanto ancora lo avrebbe fatto» la voce di Haruka s’incrinò leggermente.
 
Akira poté percepire i suoi denti battere gli uni contro gli altri per non piangere. Lei non si sarebbe mai permessa di versare lacrime per una donna.
«Quindi? Torta, creme brulèe o budino ai litchi?».
Haruka lo guardò di sbieco per poi sorridere.
«Budino».
«E budino sia».
 
 
***
 

Haruka e il suo maledetto orgoglio l’avevano tenuta sveglia tutta la notte, così Michiru si era rigirata sino all’alba in un letto che senza l’altra pareva essere troppo grande.
Per qualche minuto aveva dubitato di essere quella dalla parte del torto, ma poi l’idea si era dissolta nel nulla arrivando alla conclusione che non esisteva un vero e proprio colpevole; solo un desiderio che evidentemente Haruka non condivideva con lei.
Rimase a fissare il soffitto per qualche minuto prima di decidere come riempire la propria giornata. La scuola di musica era ancora chiusa a causa dell’incendio e lei con le lezioni private aveva tutta la mattinata libera.
«Oddio Michiru…quanto sei stupida» disse tra sé e sé, portandosi le mani sugli occhi come a coprirsi per la vergogna.
Forse si era comportata male. Forse avrebbe dovuto trovare il coraggio di parlare prima con lei e questo lo stava riconoscendo anche se a fatica.
«Avrebbe potuto perdonarmi però» sibilò ancora una volta mugugnando appena e scalciando il lenzuolo.
Respirò a fondo decisa a non cedere alle lacrime, eppure, in ogni istante sentiva la mancanza della bionda al suo fianco.
 
 
*** 
 
 
«Dunque, vuole parlarmi di come si sente agente Hinō?».
Rei stava affrontando l’ennesima seduta con la terapeuta che l’era stata assegnata. Odiava farsi analizzare di mattina presto e in generale era una di quelle persone che non si alzava certo col sorriso. Tutt’altro. Se qualcuno non si muniva di caffè nero bollente alla mano, allora era meglio starle alla larga.
«Annoiata» sputò fuori dai denti cercando di soffocare un ringhio d’insofferenza.
«Può essere più precisa?» la donna dal tono pacata pareva essere quella che rigira il coltello nella ferita.
Rei batté il piede destro per due volte. Tentò di fermare la gamba portando la medesima mano al ginocchio ma dopo qualche secondo fu tutto inutile.
«Come vuole che si senta qualcuno rinchiuso qui dentro?».
L’altra annotò qualcosa su un taccuino.
Rei scommise che la donna l’avesse additata su carta come un soggetto con difficoltà a gestire la rabbia o una calunniata simile.
«Agente…» fece una pausa «vorrei si sforzasse un po’ di più. Che guardasse al quadro generale. Non credo lei senta solo noia in questo momento».
«In effetti sono anche infastidita».
«Bene. Che altro?».
«Lo sono perché non amo parlare al mattino appena sveglia».
«Cosa le piace fare in questo momento della giornata?».
«Bere il mio caffè».
«Al bar?».
«Come può essere utile tutto questo?!» sbottò Rei smettendo di battere il piede e scalciando l’aria.
La donna rimase in silenzio ma la invitò a rispondere con lo sguardo.
«Non al bar» Rei distolse lo sguardo da quello dell’altra. «Mi piaceva berlo in casa. Sentirne il profumo venire dalla cucina mentre me ne stavo ancora qualche minuto sotto alle coperte…».
«Ne parla come qualcosa di cui sente una profonda malinconia».
«Lo faceva lei. Era Setsuna a preparare il caffè e a farmi uscire dal letto».
Sospirò. Un sospiro tanto profondo da avvertirlo dalla base del ventre sino ad arrivarle alle narici.
«Andavamo a correre al parco dopo. Prima di andare al lavoro. Lo facevamo sempre».
L’indice batté sul ginocchio e il braccialetto identificativo dell’ospedale scivolò un po’ di più sul suo polso snello.
«Così va meglio» sostenne la terapeuta.
«Così come? Con la malinconia?».
La donna scosse il capo in segno di diniego.
«Così. Con un’emozione vera».
 
 
***
 
 
Nonostante fosse l’ora di lavoro – l’unica in cui i prigionieri potevano scambiare parola assieme a quella ricreativa – non erano molte le conversazioni che allietavano la stanza. Probabilmente ognuno dei detenuti aveva perso la voglia di chiaccherare poiché non c’era molto da dire sulle proprie giornate.
Una guardia sorvegliava la porta e un’altra compilava una serie di scartoffie da dentro il proprio cabinotto.
Nel carcere di Chiba nell’ora di lavoro si producevano scarpe, ma nessuno di quei modelli soddisfava le aspettative di Eudial.
La giovane, con la scusa di fornirsi di un altro dei cataloghi di calzature si avvicinò a Petirol intenta ad incollare alcuni strass su un cinturino in cuoio grigio.
«Andata bene la gita?».
Petirol sembrò divertita, ma in fin dei conti aveva sempre quel risolino pronto sulla bocca.
«Mi sono saltate addosso. Meglio di così!».
Eudial non amava scherzare. Le piacevano i fatti e soprattutto voleva assicurarsi avvenissero nella maniera in cui lei desiderava.
Non ci aveva messo molto a far fuori suo marito per poi appropriarsi di un intero clan, per tanto ci avrebbe impiegato ancora meno a sbarazzarsi di chi risultava inutile alla sua causa.
«Petirol…» sussurrò Eudial prendendole il mento con due dita. «Mio piccolo pettirosso…» sbuffò a pochi centimetri dal suo viso e lasciò correre più distanza solo quando la guardia alla porta emise un gorgoglio in segno di divieto per il troppo contatto fisico.
«Ricordi qual è il mio desiderio?».
Petirol annuì quasi intimidita.
«Avere in pugno Tokyo oltre ad Osaka. Espandere il tuo potere» recitò quasi a memoria.
«Esatto. Perciò i clan rivali devono sparire, no?».
«Ma…».
«Sì loro sono usciti dal clan vero e proprio ma sanno essere un problema» la interruppe Eudial con voce grave.
«Ti sembra il posto adatto a me?».
«No».
«No, cosa?».
«No mia regina. Signora. No, Eudial».
La giovane si beò perché la voce dell’altra era impregnata di timore reverenziale. Persino in quel maledetto posto sapeva incutere timore e Eudial viveva di quella sensazione.
«Se non li avete sistemati uno per uno. Allora dovremo fare un’altra gita fuori di qui. Non trovi?».
Petirol deglutì annuendo.
«E tu sei brava ad andare fuori di testa» gongolò.
Eudial, era una vedova nera intenta sempre a tessere nuove tele dove intrappolare gli inutili insetti che la infastidivano.
 
***
 
 
«Allora com’è andata la serata?» Sadao lo domandò con tono ingenuo mentre lo sguardo scuro ricadeva indignato sui propri calzetti spaiati.
Sua madre non si era ancora premurata di portargliene un paio decente e lui era rimasto con quei due pezzi di stoffa di colori differenti a coprirgli i piedi.
Niente male per far colpo su una ragazza pensò tra sé e sé ormai arresosi all’idea di apparire un pagliaccio agli occhi di Ami.
«Non certo uno dei miei migliori successi» rispose Ami sospirando per poi avvolgerli al braccio destro la fascia e provargli la pressione.
«È andata seriamente così male?».
«Ero ubriaca».
Sadao rise senza riuscirsi a trattenersi nonostante fosse meravigliato ancor più che divertito. Non riusciva davvero a immaginarsela ubriaca.
«È così divertente?» domandò Ami arricciando le labbra.
«Oh scu-scusa. Io non volevo of-fenderti, solo che, beh, sì. Insomma…».
«Lascia stare!».
«No è che…io od-».
«Sadao, shht!».
Lui si zittì immediatamente.
«Devo sentirti il battito» chiarificò lei, infilando lo stetoscopio freddo sul petto del giovane.
Sadao rabbrividì e quasi trattenne il respiro.
«Va veloce» valutò lei guardandolo negli occhi.
Ma lui non rispose. Conscio che il suo cuore stava facendo le capriole perché lei lo stava toccando.
«Respira» sorrise lei, annotandosi i suoi parametri.
«È che…è freddo quello» mentì lui.
«Si, forse un pochino» annuì rigirandosi lo strumento fra le mani per poi sistemarselo in tasca.
«Starai attento?».
«Mh?».
«Non farai troppi sforzi fuori di qui, vero? Niente risse o cose del genere. Niente cose che facciano saltare nuovamente i punti…».
In risposta lui aggrottò solo la fronte.
«Penso potrai uscire domani. Ormai va tutto bene» chiarificò Ami. «Non c’è motivo di trattenerti ancora qui, pare tutto sotto controllo. Solo devi prestare attenzione».
«Oh…beh, okay».
«Non sembri entusiasta di tornare a casa».
«Mi sono abituato a star qui, più o meno».
«Rei starà bene» lo rassicurò la ragazza. «Vedrai che tra poco anche lei potrà andarsene. Basta solo si rechi qui per le sue sedute, ma la parola finale non l’avrò certo io!».
Sadao le sorrise in risposta. Tornare alla propria routine voleva dire vedere meno Ami, ma se solo avesse avuto più coraggio avrebbe potuto invitarla fuori.
La paura di un rifiuto, sempre dietro l’angolo però, gli faceva tirare continuamente il freno a mano.
«Adesso vado!» annunciò lei. «Finisco il giro e poi accompagnerò da Chiba mia sorella».
«Non sta bene?» domandò lui preoccupato.
«No. Vuole solo disperatamente diventare madre!».
«È una bella cosa!».
«Già. E io diventerei zia! Ma…» Ami parve incupirsi appena. «Credo di aver rovinato una famiglia».
«A causa dell’ubriacatura?».
«Non è stata proprio colpa mia».
«A causa della tua ubriacatura indotta da terzi?».
«Sadao…».
«Credo che nemmeno da ubriaca riusciresti a rovinare qualcosa. Tranquilla!».
Ad Ami piaceva il modo che aveva lui di rincuorarla e a Sadao piaceva guardarla quando lei inclinava la testa e stirava le labbra in un sorriso sollevato.
«Qu-quando uscirò di qui…»Sadao prese il coraggio a due mani. «Potremmo uscire a bere qualcosa».
«Agente ma che dice!» Ami si finse sconvolta. «Vuole forse mettermi alla prova per poi togliermi la patente o cose del genere?».
«NO! Solo…».
Vorrei vedere quanto sei carina col naso rosso e conoscerci meglio. Poi vorrei andare al cinema e farti scegliere il film, comprarti i popcorn e stringerti la mano nella sala buia. Poi portarti in sala giochi e vincere un orso gigante da farti portare a casa e…
«Okay» Ami interruppe quel flusso di pensieri in piena.
«Accetterò volentieri l’invito».
 
 
***
 

Minako la intercettò nel corridoio prima ancora che lo facesse la sorella.
La lunga chioma bionda svolazzò da una parte all’altra prima di placarsi solo quando le fu a meno di un metrò e si arrestò.
«Ciao Michiru».
«Ciao Mina».
L’espressione di Michiru parve sempre la solita, cordiale e gentile. Il suo abbigliamento sempre curato non pareva aver subito cambiamenti.
Era sempre lei.
«Tutto a posto?» chiese un po’ restia la biondina per paura di toccare un tasto dolente.
Non le piaceva schierarsi ma in questo caso si sentiva più affine a lei che ad Haruka che in ogni caso poteva contare sul supporto del suo ragazzo.
Michiru annuì con un cenno del capo. Sistemò qualche ciuffetto ribelle e poi prese un respiro profondo.
«Haruka è rimasta da voi questa notte?» chiese mordendosi il labbro inferiore.
«Non si è mossa di lì. Per un momento ho creduto di dover dormire in tre nello stesso letto, ma poi Akira l’ha sistemata nel divanetto in sala».
Michiru sorrise appena. Immaginando tutte le lamentele che la compagna doveva aver sollevato al mattino per la scomodità di dormire sul divano.
«Grazie. Anche se io posso andare da mio padre e lei potrebbe…».
«Dovreste fare pace e stare tutte e due nella vostra casa» la interruppe Minako facendo spallucce.
«È un osso duro, ma prima o poi tornerà ad essere un agnellino. È una testona Michiru e ci vorrà forse del tempo però…non lasciarla perdere».
 
L’avvicinarsi dei passi di Mamoru mise fine alla conversazione ma Michiru le diete una muta risposta con un cenno del capo.
«Ci vediamo di nuovo» le disse con un inchino del capo il moro per poi aprire la porta davanti la quale stavano sostando.
«Ami mi ha detto sarebbe venuta».
Michiru sorrise di rimando e si accomodò nella stanzetta, mentre Minako tornò ai suoi doveri.
«Allora…» Mamoru sfogliò un paio di cartelle e prese a giocherellare con la penna sempre appesa al taschino del proprio camice.
«Vorresti diventare mamma, vero?». Aveva assunto un tono informale, ma a Michiru non dispiacque. La faceva sentire più a suo agio, come se potesse confidarsi con un amico e non qualcuno che l’avrebbe potuta giudicare.
«Crede che…ci sia qualche possibilità?».
Mamoru la tranquillizzò con un sorriso.
«Non sono io a giudicare chi è idoneo o meno. Ma posso dire che ha salvato la vita di quella bambina. L’ha protetta. E sono tutte cose degne di una madre. Quindi, per quanto la mia opinione non valga nulla, credo non ci sia persona più adatta di lei».
Il cuore le si scaldò. Se la giornata era partita col vuoto dell’assenza di Haruka nel petto, ora Hotaru era l’unica medicina che avrebbe potuto colmarlo.
«Ci sono un po’ di moduli» le spiegò il dottor Chiba, passandole la penna nera.
«Si prenda tutto il tempo necessario e li compili da cima a fondo. Non salti nulla. Dopo di che ci penserò io a mettere una buona parola e passarli ai piani superiori!».
Michiru annuì, rinvigorita dal coraggio che solo una madre può tirare fuori. La tempesta della sera prima era offuscata dalla dedizione che avrebbe messo in quella nuova impresa.
Ce l’avrebbe fatta. In un modo o nell’altro avrebbe completato la sua vita.


 

Note dell'autrice:
Perdonatemi. Questo capitolo è veramente insipido. Non succede praticamente nulla a fatti compiuti anche se in realtà è un enorme cambiamento per molti dei personaggi di questa storia.
Per farmi perdonare ho già cominciato a scrivere il prossimo sperando che abbia un pò più di sostanza.

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Capitolo 11
*** Life is Change ***


I don’t even know myself at all
I thought I would be happy but now
The more I try to push it
I realize gonna let go of control
Gonna let it happen, gonna let it happen
 
Last Hope - Paramore
 
 


 
Era trascorsa una settimana da quando la sua vita era stata ribaltata una volta ancora.
Ad Haruka sembrava di non essere mai scesa da un giro di giostra che le aveva rimescolato le budella per tutto il tempo.
Senza Michiru non era in grado di farsi il nodo alla cravatta, perciò si presentava al distretto con l’aria più trasandata degli altri novellini.
Si passò una mano sul collo, alla base della nuca, massaggiandoselo insistentemente. Non ne poteva più di quel divano e probabilmente i suoi amici non ne potevano più di lei.
Minako sembrava dimenticarsi della sua presenza al mattino e ogni volta che si accingeva a infilarsi in bocca una fetta di pane in attesa  della colazione vera e propria, lo faceva in mutande. E puntuale come un orologio svizzero Akira accorreva urlante – per riparare alla sua sbadataggine - a coprirla con la prima cosa che trovava a portata di mano.
In tutto quel caos poi partivano le lamentele di Haruka per il risveglio brusco con frasi del tipo «credi mi sconvolgano due chiappe in perizoma?» e di lì seguivano le lotte per accaparrarsi l’unico bagno disponibile.
Come se non fosse sufficiente si aggiungeva l’insofferenza sempre più visibile di Minako che non poteva eseguire gli ordini perentori della propria app – che ormai squillava a vuoto -  e le ansie da prestazione di Akira, il quale temeva che l’amica potesse assistere a qualche scena sconveniente.
 
«Haru lo sai che ti voglio bene, ma tutto questo deve finire» il moro le passò una tazza ricolma di the verde fumante e un paio di mochi alla fragola sistemati sul piattino in ceramica blu e bianca.
«Ehi, i miei sono più piccoli!» mugugnò Haruka per poi indicare quelli serviti a Minako.
«Io sono la padrona di casa quindi ho dei privilegi in più di te!».
Minako lo urlò dall’altra stanza, con la testa ancora dentro all’armadio nella speranza di trovare il vestito giusto per la propria giornata.
Haruka alzò un sopracciglio.
«Ci sente davvero bene…» commentò.
Akira annuì filtrando una tisana per la propria ragazza e sistemandola all’interno di un termos.
«Solo quando si tratta dei suoi dolci» ridacchiò isterico.
«Comunque…» abbassò la voce e si sporse verso l’amica. «Sul serio, devi tornare a casa tua!».
«Sto rovinando la vostra vita di coppia?» indagò lei.
«No è che…».
«Che hai una moglie e il tuo posto non è qui» finì Minako per Akira raggiungendoli al tavolo e azzannando il proprio dolcetto.
Era inquietante che quella ragazza dall’aria ingenua nel suo vestito a rose rosse la stesse cacciando col sorriso sulle labbra.
Haruka sbuffò incrociando le braccia al petto per poi prendere a dondolandosi irrequieta sulla sedia.
«Non mi va di vederla». Mentì. Moriva dalla voglia di farlo e ogni volta le ricadeva lo sguardo sulla fede, ma non era ancora pronta a perdonarla.
Akira riprese in mano le redini della conversazione. «Haru, non devi andare per forza a casa, solo…».
«Devo levarmi di qui. Ho capito!».
«Magari andare da un’amica o…».
«Possibilmente non un’amica un po’ troia» Minako zittì entrambi con la sua schiettezza.
I due rimasero con la bocca aperta, lei non ci diede peso e  afferrò il termos infilandoselo nella borsa. Controllò di avere le chiavi di casa e si sporse a baciare sulle labbra Akira ancora di stucco.
«Cosa?» chiese Minako. «Che ho detto? È la verità».
I due amici si guardarono.
Haruka batté le palpebre allibita.
«Lo ha detto sul serio?».
«Pare di sì» le rispose il moro.
«A chi si starà riferendo?».
«A Mimì?» tentò il ragazzo.
«Ehi, non ci sono mai stata con lei in quel senso!».
«Però era…ehm…hai capito. Di professione» la ragguagliò lui.
«CIAO A TUTTI!» esclamò Minako uscendo e lasciandoli soli nella stanza.
Anche Haruka si alzò e si sistemò la camicia un po’ sgualcita. Un lembo le ricadeva fuori dai pantaloni a differenza del resto.
«Vado. E non preoccuparti sta sera non torno qui. Ti compro anche lo spazzolino nuovo».
«Lo sapevo hai usato il mio!».
Haruka gli fece l’occhiolino e salutò l’amico con un abbraccio frettoloso. Avrebbe voluto starci avvinghiata per almeno cinque minuti buoni ma mai e poi mai lo avrebbe dato a vedere.
«Vado a difendere i deboli».
«E io a sfamare gli affamati».
«Dio, ma che cosa siamo diventati noi due? Dei santi?».
Akira rise di gusto alla battuta dell’altra.
«Fai la brava».
«Come sempre!».
 
 E nessuna testa bionda rientrò più nell’orizzonte del ragazzo.
 
 
***
 
 
In centrale erano tutti indaffarati.
Le nuove reclute sembravano diventate centralinisti provetti e Jadeite aveva ripulito il tabellone delle indagini per un nuovo caso.
Haruka entrò sperando di non dover fare da segretaria di direzione perché non era dell’umore adatto per sfornare fotocopie o fare firme a destra e a manca.
«Boss…».
«È un grande giorno» si voltò il ragazzo guardandola negli occhi.
Haruka sentì l’eccitazione scalciarle in corpo. Forse il suo giorno era arrivato, quello doveva essere il suo momento. Jadeite stava per assegnarle un caso importante, qualcosa sul campo che le avrebbe fatto montare l’adrenalina in corpo.
«Ho un compito per te».
«Ah si, blond man?».
«Boss, era meglio».
«Un po’ da mafiosi forse ma…».
«Oddio sul serio? Le battute sulla mafia, bionda?!».
Haruka alzò gli occhi al cielo. Le stava passando il barlume di buon umore che le aveva scatenato la frase al suo arrivo.
Jadeite le passò una carpetta.
Haruka la prese tra le mani e cominciò a leggere.
«Stai facendo sul serio?».
«Cos’ha che non va?».
«Rumori molesti? Mi dai un caso di rumori molesti?! Sarebbe per questo un gran giorno?!».
Tutte le speranze della bionda andarono a farsi benedire e la cosa peggiore è che a fine giornata non avrebbe nemmeno potuto raccontare tutto a Michiru. O forse poteva chiamarla. In fin dei conti era sua moglie, una telefonata poteva essere un gesto carino da fare. Un ramoscello d’ulivo per spianare la via della riconciliazione.
«È un gran giorno perché Hinō esce dall’ospedale» la ragguagliò lui.
Fa davvero sul serio? Dio, è davvero il centro del suo mondo Rei.
E a quel pensiero, per quanto contenesse una venatura sarcastica, Haruka non rise tra sé e sé come avrebbe fatto. Non ci trovò nulla di comico.
Jadeite era nella posizione in cui stava chi s’innamorava, o di chi voleva accanto a sé qualcuno più di ogni altra cosa.
Anche lei e Michiru erano state così? E ora? Non erano più il sole l’una dell’altra?
Jadeite continuava a blaterare.
«Non potrà rientrare nel personale effettivo fino a quando non avrà l’okay della terapista, ma è un gran passo direi. Forse dovremmo mandarle dei fiori o qualcosa del genere. Magari organizzare una cena di bentornato».
«Ma non è ancora tornata in polizia» lo stroncò secca la bionda.
Nemmeno Michiru è tornata.
«Beh allora quello forse no. Sai che c’è Ten’ō? Fanculo gli schiamazzi molesti».
Jadeite le strappò di mano il fascicolo.
«Vai da Hinō. Valla a prendere, mi hai capito?».
Haruka sbuffò.
«Vengo stipendiata per queste cose, vero?».
«Sì. Sì. Senti, vai e indaga».
«Su che cosa?».
«Sui suoi fiori preferiti o quello che le piacerebbe ricevere, no!?».
«Bene. Blond boss. Consideralo come fatto» disse svogliata prima di prendere la porta e dirigersi dove ormai tutti sembravano collidere.
 
 
***
 
 
Sadao e Rei rimasero impalati nel bel mezzo del selciato che portava alle porte d’entrata dell’ospedale.
Entrambi fissavano col naso all’insù i piani dove avevano trascorso l’ultimo periodo delle loro vite.
Sadao con un braccio incastrato in un tutore che gli pendeva dal collo e Rei intatta fuori e con milioni di crepe aperte ancor all’interno.
«Lo so, è strano» commentò lui.
«Passerà?» chiese lei.
«La sensazione di smarrimento?».
Rei annuì. Si era ormai abituata al labirinto di corridoi e al via e vai di pazienti che gironzolavano qua e là.
«Non saprei…» esalò Sadao per poi scostare lo sguardo su di lei. «Io sono uscito da tre giorni ma ho ancora la sensazione di aver traslocato e non essermi abituato alla mia nuova casa».
«Fantastico» commentò cinica la mora.
«Forse è perché sono tornato dai miei genitori» corrugò la fronte lui.
«Perché anziché fare passi verso l’indipendenza fai il  contrario?».
«È temporaneo».
Rei alzò un sopracciglio poco convinta.
«Mi hanno staccato la corrente. Non ho pagato qualche bolletta. Ma presto tornerò a casa mia. QUELLA VERA».
La mora esternò un’espressione poco convinta ma solo quando si perse nel rumore del traffico si rese conto che anche la sua vera casa la stava aspettando. La casa nella quale aveva vissuto con Setsuna e anche se vuota, era ancora piena di lei. Forse anche lei avrebbe dovuto tornare dai propri genitori, oppure semplicemente cambiare appartamento.
Schiuse le labbra facendone uscire un respiro tanto profondo che Sadao non poté esentarsi dal chiedere se avesse bisogno di aiuto o si sentisse poco bene.
«Eccovi qua» una voce familiare lì sorprese alle spalle interrompendo lo strambo duo.
«Non dovresti essere in centrale?» farfugliò Sadao nel vedere Haruka dirigersi verso di loro con passo molle.
«E tu?».
Il ragazzo indicò il braccio malandato con quello sano.
«Io ho un certificato medico. E in ogni caso rientro do-domani».
«Ehi ehi, abbassa la cresta. Da dove sbuca fuori tutta questa sicurezza?».
Sadao arrossì violentemente e decise di prendere a guardare la punta delle proprie scarpe torturandosi il labbro inferiore.
«Miss Hino, come si sente?».
«Vuoi indagare anche sul mio congedo?».
«Naaa. Di te so tutto. Più o meno».
Rei non diede peso a quell’affermazione e intimò con lo sguardo la bionda per spiegare la propria presenza lì.
«Sono venuta per scortarti a casa. Ordini dei superiori».
«Non so se sentirmi lusingata o una sorta di sorvegliata a vista».
Haruka fece spallucce.
«Che fiori ti piacciono?».
Sadao e Rei la guardarono come si fa con qualcuno appena evaso da un manicomio.
«Che c’è?! Ho solo chiesto».
«C-certo che se-sei strana» balbettò Sadao.
«Pensa per te stramboide con un braccio solo».
«Ehi tu. Pensi di poter parlare così al mio sottoposto?» sbottò Rei. «Tecnicamente lui è di grado superiore persino a te» aggiunse con un sorrisetto la mora.
Haruka sentì una puntura di fastidio diventare sempre più insistente e propagarsi dalle dita dai piedi a quella delle mani.
«Come ti pare. Animale preferito?».
Rei la squadrò per poi ignorarla.
«Mi ci porti tu a casa, Sadao?».
Il ragazzo avrebbe detto di sì più che volentieri ma poi dovette ricordarsi di non poter guidare con il braccio leso.
«Po-posso portartici in autobus» le sussurrò un po’ imbarazzato e con una risatina nervosa a fior di labbra.
La bionda sbuffò sonoramente, ormai priva di autocontrollo.
Maledisse il momento e il motivo per cui aveva deciso di intraprendere la strada della poliziotta per poi ritrovarsi a fare da zerbino per un tizio ossigenato alle prese con i propri tormenti d’amore.
Poi la vide; la ragione di tutto.
In lontananza un guizzo blu di onde morbide si era librato poco lontano da loro per poi entrare nell’edificio.
Haruka dovette combattere contro l’impulso di mettersi a correre.
Serrò i pugni e soppresse le farfalle nello stomaco che avevano preso a sbattere le ali forsennatamente.
«Hino» le parole dirette alla mora e lo sguardo volto altrove.
«Per favore dimmi qualcosa che ti piace perché devo proprio scappare».
I capricci del cuore stavano avendo la meglio su tutto il resto.
Rei rispose per esasperazione.
«I corvi».
«Bene, i corvi. Recepito» blaterò distrattamente Haruka prima di dar retta al battito nel proprio petto.
 
 
***
 
 
«Dì un po’ sei depressa? Hai una faccia!». Minako puntò un indice accusatorio verso il viso dell’amica.
«Ma che dici!» minimizzò Ami, scuotendo una bustina di zucchero per poi versarne metà dei granelli dentro al cappuccino che la macchinetta le servì fumante.
 
Haruka si bloccò dietro la parete nel vederle entrambe conversare animatamente al punto di ristoro.
Se fosse passata di lì sicuramente si sarebbe fatta scoprire perciò temporeggiò cercando di camuffarsi dietro ad una delle riviste che trovò sul tavolino accanto alle seggiole della sala d’aspetto.
«Ooh non dirmi che…» la voce di Minako squillante come un campanello riecheggiò di nuovo per poi abbassarsi appena «sei dispiaciuta perché lui è stato dimesso!».
Ami boccheggiò mentre le sue guance assunsero i toni del porpora.
«Non è come credi solo che…».
«No no. Tutto torna!».
Haruka con aria confusa aprì il giornale di cui si era appropriata leggendone il titolo a caratteri cubitali “Oggi mamma”.
«Ma scherziamo?!» biascicò prendendone un altro.
“Io e il mio bambino”.
«Ma…che cavolo…» alzò lo sguardo dalle pagine patinate e tutto le fu più chiaro nel momento in cui lesse la dicitura del reparto in cui si trovava.
Aveva pedinato Michiru – sino a che non si era diretta nel bagno – senza rendersi conto di essere nel bel mezzo di maternità.
«Guarda che non siete più medico e paziente» la conversazione delle due amiche tornò ad essere l’attrattiva principale di Haruka che sfogliò il giornale senza perdersi a leggere una riga.
«Mina, pensa alla tua fertilità anziché…».
«Ai tuoi ormoni? I tuoi ormoni sono importanti Ami!».
Haruka soffocò una risata per poi nascondere il viso dietro l’immagina di un pancione nel momento in cui Michiru uscì dalla toilette per poi dirigersi nel corridoio dove le altre due sostavano.
«Eccoti!» esultarono entrambe nel vederla.
La più grande le salutò con un sorriso per poi stringere nervosa il manico della propria borsetta.
«Ė il giorno della verità?» domandò.
«Può darsi! L’ospedale non  può sostentare tutti i bambini del mondo» le rispose Minako buttando il cartoccio di biscotti nell’apposito contenitore.
«Ma io non so quante coppie ci sono in lista e…».
«Michi respira!» le ordinò la sorella.
La zazzera di Haruka si sporse di più dal suo angolo sicuro.
«L’accompagni tu da Chiba?» propose Ami a Minako che prontamente prese per mano Michiru.
«Ma certo. Andiamo!».
La maggiore non riuscì a proferire parola che venne trascinata verso l’ultima porta del reparto dalla bionda tutta pepe.
Ami sorrise per poi liberarsi del proprio bicchiere di plastica.
«Ti ho vista» scandì in direzione di Haruka che sputò una parolaccia tra i denti.
«Sei pessima con gli appostamenti. Lo sai?».
Punta sul vivo la bionda non seppe tacere.
«E tu sei pessima con la scelta degli alcolici».
«Certo sono astemia» fece spallucce Ami nonostante sapesse bene a cosa si riferisse l’altra.
«Glielo dirai?».
Ami scosse il capo in segno di diniego.
«Non sta a me farlo».
Haruka capì di avere ancora del rancore represso perché dovette soffocare una serie di battutacce sulla “bocca larga dell’altra”, per tanto si limitò a tacere.
«Beh, non sei curiosa?» domandò Ami.
La smorfia confusa di Haruka le diede da intendere che non sapeva minimamente a cosa si stesse riferendo.
«Guarda» Ami compì quattro passi verso una vetrata e ci poggiò l’indice puntando dritto verso una delle culle sistemate nella nursery.
«Ė quello per cui lei sta combattendo».
Gli occhi cobalto si scontrarono con quelli grandi e scuri della piccola che parve ipnotizzata da quelle iridi chiare che la stavano fissando per la prima volta.
Un riflesso porpora attirò l’attenzione della bionda. In quei due specchi scuri vi riconobbe inspiegabilmente qualcosa dello sguardo di Setsuna.
Fece un passo indietro come per allontanarsi da qualcosa di cui si ha paura.
«A Michiru avrebbe fatto piacere averti qui oggi» sussurrò Ami. «Soprattutto se non andrà be-».
«Non posso» la interruppe Haruka.
«Io non posso farlo».
Ami la fissò seria «hai fatto cose che la maggior parte di noi non può realmente fare. Forse questa volta non vuoi».
Haruka stava per controbattere quando il cellulare le suonò in tasca. Era in servizio perciò dovette rispondere.
«Ten’ō».
Ami si allontanò per tornare anche lei ai suoi doveri.
«Quindi cos’hai per me?».
«Corvi» rispose asciutta Haruka.
Jadeite all’altro capo del telefono parve strozzarsi con qualcosa.
«Cosa vuol dire?!».
Solo nel sentirlo così isterico Haruka ci rifletté. Il suo non era stato un grande indizio da dare al giovane.
«Di fiori non ne ha parlato. Ma i suoi animali preferiti sembrano essere i corvi».
«E dove li trovo?!».
Haruka si avvicinò nuovamente al vetro per incrociare quello sguardo tanto piccolo e immenso allo stesso tempo.
«Ten’ō muovi il culo e torna in centrale».
Haruka terminò la chiamata premendo inconsciamente la cornetta rossa.
 
Ė carina però.
Pensò Haruka senza sapere che la bambina avesse già il nome di una lucciola.
 
Il cellulare riprese a suonare.
Lei non prestò attenzione al numero sul display e rispose in automatico senza riuscire a staccare gli occhi da Hotaru.
«Si. Jade o meglio Jane perché sei più isterico di una donna in quel giorno del mese. Sto arrivando» disse tutto d’un fiato senza far alcuna pausa.
Dall’altro lato un messaggio automatico.
«Sta ricevendo una chiamata da un detenuto del carcere di Chiba. Premere uno per accettare la chiamata».
 
Haruka non emise più un fiato.
 


Note dell'autrice:
Non so se doveva uscire così questo capitolo o meno. Non so più un sacco di cose lo ammetto. Qui tutti fanno quello che vogliono e il filo della storia sta leggermente deviando... Cioè l'idea iniziale che avevo, visto che ormai io della trama decido ben poco ed è tutta colpa dei personaggi. In ogni caso, anche questo è molto di collegamento e più sentimentale che azione/avventura/botte come solito ma ormai siamo in ballo e bisogna ballare (?). E' il caldo...e niente, per un qualche settimana non riuscirò ad aggiornare perché sarò via. Quindi...buone vacanze! Posterò al mio rientro non appena avrò occasione di scrivere il resto.
 
 
 
 
 
 
 
 

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Capitolo 12
*** Suicide Plan - Part I ***


Cut my life into pieces
This is my last resort
 
Last Resort – Papa Roach
 
 
 


«A noi due».
Un guizzo chiaro sorvolò i fili d’erba che contornavano il lago del parco Ueno.
Jadeite, con gesto deciso, arrotolò le maniche della felpa sino ai gomiti per poi assumere una posizione accucciata col busto sporto tutto in avanti.
Il cielo tinto di un cupo grigiore e l’aria carica di umidità preannunciavano l’arrivo di un temporale. Era il momento ideale quello per trovarsi faccia a faccia con un corvo.
Era il suo giorno libero per tanto era arrivato di buon’ora.
Il suo giro di ricognizione era stato compiuto a passo di jogging. Aveva corso sotto ai rami semi spogli dei ciliegi e dei ginkgo biloba, ma s’interruppe subito dopo aver constatato la poca affluenza di cittadini nell’area verde.
Un battito d’ali fece cadere una manciata di foglie color ocra ai suoi piedi e in quel momento il suo sguardo captò l’immagine del corvide.
L’animale aprì il becco gracchiando sonoramente per poi svolazzare sul prato alla ricerca di cibo. Fu allora che Jadeite assunse quella che per lui era la posizione da predatore da tenere.
Braccia distese, corpo ricurvo in avanti e passo felpato.
Compì mezzo metro e l’uccello voltò nuovamente in sua direzione il capo ricolmo di piume nero pece.
«Fermo, da bravo…» sibilò.
Gli occhi del volatile puntati su di lui.
Jadeite deglutì. Un altro passo. Si drizzò appena e poi scattò in avanti.
Le dita afferrarono aria, il corvo balzò qualche metro più in là deciso a non farsi catturare mentre il ragazzo si ritrovò faccia a terra.
Sentì il gusto del terriccio sulle labbra, la pesantezza dell’aria prima della pioggia e quasi ringhiò. L’uccello lo stava fissando di nuovo e Jadeite ne era più che certo, stava ridendo di lui.
 
Il ragazzo soffiò. Palmi a terra fece forza sulle braccia rialzandosi per poi sedersi a gambe incrociate.
Forse doveva assumere un atteggiamento meno aggressivo ed essere più passivo.
Il corvo sembrò infischiarsene nuovamente della sua presenza e il biondo inspirò a fondo quasi fosse in meditazione.
Per Rei.
A Rei piacevano i corvi e lui gliene avrebbe procurato uno.
Perché mi sto prodigando in questo modo?
Il pensiero fu un fulmine a ciel sereno.
Al suo arrivo in centrale era stato snobbato alla grande dalla ragazza e il seguito non era stato dei migliori.
Un “cra cra” insistente lo distolse dalle proprie supposizioni. Non aveva importanza il motivo dei suoi gesti, sapeva solo di volerlo fare.
Un altro corvo al richiamo del primo atterrò nelle vicinanze del compagno.
Jadeite si scrollò un po’ di terra di dosso per poi alzarsi sulle caviglie e molleggiarsi sulle ginocchia, a metà tra la posizione eretta e quella seduta.
Il secondo arrivato, più diffidente del primo, abbandonò immediatamente il territorio mentre il primo si diresse verso lo specchio d’acqua. Fu allora che il cacciatore biondo passò nuovamente all’attacco.
Il ragazzo corse in direzione dell’ammasso di piume nere che si alzò da terra pronto a spiccare il volo. Riuscì a toccarlo e il corvo si voltò pronto a beccare la mano che aveva osato passare fra le sue penne.
Jadeite non si arrese, non sarebbe stato  nel suo stile. Saltò più in alto senza perdere la speranza di afferrarlo per la coda ma non badò a dove stava mettendo i piedi.
Fu un attimo. Perse l’equilibrio ritrovandosi ad affondare dentro al lago con tra le dite un altro fallimento.
 
 
 
***
 
 
«Michiru, credo dovresti prendere proprio questa!» Minako indicò con entusiasmo una culla tutta fronzoli dalle sfumature sul pesca.
Michiru non l’aveva mai immaginato così. Sin da ragazzina aveva creduto che un giorno si sarebbe ritrovata in un negozio per bambini, alle prese con un pancione ingombrante e il padre dei suoi figli a tenerle la mano.
Non era pentita di quel brusco cambio di rotta. Non era dispiaciuta che l’uomo alto della sua fantasia un giorno fosse stato sostituito da un’affascinante, giovane, donna dai capelli color grano.
Era grata ci fosse l’amica con lei, ma una punta di malinconia continuava a tormentarla.
Sarebbe stato perfetto con Haruka al suo fianco. Magari lei avrebbe storto il naso per il completino color rosa dicendo che anche una bambina aveva diritto ad essere una tosta sin dai suoi primi giorni.
«Ė tutto okay?».
Lo sguardo chiaro di Minako entrò in collisione con il suo. Doveva aver notato un cambio di espressione sul suo volto che probabilmente rivelava quanto le mancasse l’altra.
«Si» sorrise gentile Michiru. Tirò forse un po’ più del dovuto gli angoli della bocca ma non voleva apparire triste. In fondo aveva avuto una grande notizia. Era risultata idonea per fare la madre di quella che avrebbe ufficialmente chiamato Hotaru.
«Lei come sta? L’hai vista in questi giorni?» indagò sotto voce, carezzando la sponda in legno chiaro del lettino.
La bionda le portò una mano sulla spalla carezzandola piano.
«Se la cava. E sono certa che il muro d’orgoglio che ha tirato su tra poco si sgretolerà. A volte funziona davvero come un uomo…» ridacchiò per poi assicurarsi che anche Michiru tornasse serena.
«E il nuovo arrivo è previsto per…?».
«Settimana prossima. Mancano solo una manciata di giorni».
Michiru sospirò.
«Tu credi sia stata un’egoista ad andare avanti?».
L’altra si strinse nelle spalle.
«A volte bisogna esserlo per le cose giuste».
Il pensiero andò nuovamente ad Haruka. Avrebbe mai ceduto? Avrebbe mai accettato la cosa o il loro prossimo incontro avrebbe decretato la fine della loro storia una volta per tutte?
La faccenda aveva quasi dell’inverosimile. Era come se le cose si fossero complicate in maniera esorbitante da quando tutti erano riusciti a mettere le fondamenta per una vita normale.
«E quello non lo prendi? Avrai bisogno anche di un seggiolino tra qualche tempo!». Minako la strappò ancora una volta dai suoi pensieri facendola tornare con i piedi per terra.
«Dovrei?».
«Oh sì».
«E tu?» indagò Michiru. «Non dovresti prendere qualche vestito più largo?».
Minako arrossì violentemente.
«Non sono ancora incinta!».
«Ma magari accadrà presto e dovrai essere pronta con qualcosa di comodo!».
«Oddio...e se esploderò un giorno senza rendermene conto?».
«Ma cosa stai dicendo?» Michiru rise di gusto. «Sarai bellissima».
«E tu un’ottima mamma» ricambiò l’amica.
Michiru sperò ardentemente che quelle parole si rivelassero la più giusta delle profezie.
 

 
***
 
 
«Vorrei mi dicessi com’è stato tornare a casa».
Rei accavallò le gambe domandandosi la cosa giusta da dire.
Non aveva paura di vuotare il sacco, solo che le sue parole venissero giudicate come una sfilza di “sbagliato” e che non si potesse assicurare il proprio posto in centrale.
«Non saprei cosa dirle…» borbottò con poca convinzione alla terapista che aveva preso a fissarla da dietro un paio di occhialetti dalle lenti sottili e circolari.
«Potresti cominciare col dirmi come ti sei sentita».
«Come fossi entrata in un cimitero» sputò senza doverci troppo pensare sopra.
Ricordava perfettamente la sua mano sul pomello dopo aver girato le chiavi nella toppa. Il freddo del metallo tra le dita e lo sguardo fisso di Sadao su di lei che non accennava a far un passo né tanto meno a scostare la porta per intravedere la soglia del corridoio.
“Non ce la faccio” aveva esalato.
Sadao si era concesso di metterle una mano sulla spalla e lei si era ritratta di scatto perché per un momento aveva creduto si trattasse da Setsuna.
Una sensazione sinistra alla bocca dello stomaco.
Era stato come desiderare fosse vero e allo stesso tempo come se invece si trattasse solo di una persecuzione.
«Non ho dormito».
«Solo la prima notte?».
«No, tutte e tre le notti non ho chiuso occhio» puntualizzò la mora decidendo di non guardare direttamente l’altra donna.
Il letto non era solo troppo grande ma anche freddo. E ogni volta che si girava dalla parte di Setsuna era come ritrovarsi sulla lastra gelida di un obitorio e da lì una serie di macabri pensieri le offuscava la mente senza darle tregua.
«Il sonno è importante; ancor più nel tuo caso» la terapista lo disse strappando un foglietto per poi sporgersi verso Rei e porgerglielo.
Sonniferi che si aggiungevano alla lista di pastiglie entrate a far parte della sua dieta.
«Solo per questo primo periodo» sembrò cominciare un’opera di convincimento con quella frase e lo sguardo rassicurante.
La ragazza non proferì risposta. Era strano sentirsi costantemente esausti e non riuscire a riposare. E dentro di lei si combatteva una guerra ai limiti della follia. Una piccola parte credeva che ridursi sino allo stremo l’avesse portata a vedere Setsuna ancora una volta, mentre quella razionale s’imponeva di non cedere e reagire una volta per tutte per tornare in carreggiata.
«Parlami di ciò che è accaduto durante il tuo ricovero».
«Ho già deposto alla polizia la mia versione».
«No, Rei. Non voglio il racconto dei fatti o l’identikit di qualcuno. Vorrei capire cosa ti ha fatto scattare. Ė stato istinto di sopravvivenza, difesa o qualcosa di autodistruttivo? A cos’hai pensato quando hai reagito?».
«Ho fatto ciò che richiede il mio mestiere».
«Balle».
Rei si accigliò. Da quando in qua uno strizza cervelli sputava sentenze.
«Menti finché vuoi. Fallo con gli amici o a te stessa, ma non con me. Di gente come te ne passa a bizzeffe nel mio studio. E credimi, questo non ti aiuterà a tornare più velocemente al lavoro».
«E va bene» il tono della mora si fece grave e dovette sforzarsi per rimanere seduta e non scattare in piedi come una furia.
Le si stava gelando il sangue nelle vene al solo pensiero di dire palesemente quello che sulla punta della lingua spingeva contro le gengive.
«Lo cataloghi come vuole…» Rei lo ricordava bene cos’aveva provato. Si era quasi spaventata a ripensarci a mente lucida. «Non era autodifesa, né nient’altro di nobile…».
Puro istinto omicida. Follia.
«Era giustizia». Vendetta.
«Ma giustizia è già stata fatta. La responsabile si trova in pri-».
«Non mi parli di giustizia, di galera o di pena da scontare…». L’unica in gabbia era la stessa Rei e perdita e dolore erano i suoi peggiori carcerieri.
«Non l’avresti avuta comunque indietro. Nulla la riporterà indietro» la donna le presentò su un piatto d’argento la verità nuda e cruda.
A Rei mancò il respiro nel prendere consapevolezza di quelle parole.
Era uno schiaffo in faccia senza precedenti e se solo fosse stata in piedi e non ancorata ai braccioli della poltrona si sarebbe sentita mancare la terra sotto ai piedi.
«Ė come riprendere a camminare dopo che si è persa una gamba, Hino. Quella parte di te non esiste più, non ti verrà mai restituita eppure alle volte l’avvertirai. Sarà come se non se ne fosse mai andata, sentirai un dolore lancinante laddove prima c’era il polpaccio o la caviglia…».
E anche Setsuna sarebbe stata come la sindrome dell’arto fantasma.
«Non sarà facile. Non lo è mai. Sarai arrabbiata, triste, disperata. Cercherai di afferrare quello che non c’è più una, due, tre, quattro, cinque volte. Poi passerà. E senza che tu possa farci niente riprenderai a camminare anche senza la gamba che ti ha tenuto in piedi per tutto il tempo. Lo farai. A volte ti guarderai allo specchio e la cercherai…ma andrai avanti. Senza».
 
 
***
 
 

Haruka era stata a Chiba.
Aveva cercato di mettere a tacere quell’idea ma la convinzione che di lì a poco sarebbero stati tutti nuovamente sotto scacco era stata più forte del resto.
Era arrivata davanti al carcere nel quale Sadao aveva detto di aver scortato Eudial, per poi sostare a fissare le cancellate rinforzate col filo spinato.
Aveva l’aria di una fortezza inespugnabile e ben presto si rese conto che introdursi lì dentro era pressoché impossibile. E a uscire? Era a prova di evasione così come lo era entrare?
 
Alla bionda, arrivata alla guardiola del cancello vennero chieste le credenziali.
Mostrò il distintivo, ma non fu sufficiente e venne rispedita indietro di qualche metro.
Così studiò il perimetro, attese il cambio della guardia e provò una volta ancora spacciandosi per la parente di un detenuto. Scoprì in quel modo che nemmeno essere inserito in una lista era sufficiente, nessuno dei prigionieri poteva ricevere visite se non dal proprio legale che comunque doveva essere autorizzato da una documentazione infinita di cui lei non sapeva nemmeno l’esistenza.
 
Avrebbe dovuto sentirsi rincuorata. Tranquilla.
Eudial non poteva aver contatti con alcuna forma di vita proveniente dall’esterno e sarebbe marcita lì dentro.
Eppure la sensazione che potesse essere pericolosa e inarrestabile anche in quelle condizioni non l’aveva abbandonata.
Si era immaginata al di là di un vetro con la cornetta di un telefono all’orecchio a minacciarla e a sedare ogni barlume di persecuzione nei loro confronti, ma nulla di tutto ciò sarebbe avvenuto.
Lì dentro ci entravi solo se eri un detenuto. E fu in quel momento che Haruka ebbe la risposta a portata di mano.


 
***
 


«Akira dobbiamo attuare un piano. Solo tu ed io, come una volta!».
Ad Haruka sembravano passati secoli dall’ultima scorribanda fatta con l’amico. Poco tempo prima non dovevano nemmeno pensarci che erano direttamente i guai a trovare loro e non il contrario.
«Non dirmi che sei diventato un pappa molle» rincarò la bionda allo sguardo ricevuto in risposta dall’amico.
Il ragazzo teneva un coltello in mano ma più che l’aria da tipo pericoloso emanava un aura simile a quella di una casalinga disperata.
«Ho come un presentimento» disse annusando l’aria e sventolando la lama affilata prima di affondarla nella petto di un pollo spellato a dovere.
«Del tipo?» domandò Haruka appoggiandosi al mobilio della cucina con le braccia conserte.
«Che ti caccerai nei guai».
«Non ci sei forse abituato?».
Silenzio. Il moro speziò e pepò la carne dopo di che ripose il coltello al proprio posto e lavò le mani sotto il getto di acqua calda del lavandino.
Spesso aveva visto l’acqua che scorreva divenire rossastra e adesso le mani erano solo unte e piene di erbette aromatiche. Un cambiamento drastico, quasi innaturale. Akira dovette ponderare se fosse un bene o un male e si ritrovò distrattamente ad asciugarsi per poi abbandonare il grembiule macchiato sulla sedia di fronte a lui.
«Credo sia questo il problema. Forse non è più normale come un tempo far certe cose».
Haruka si morse il labbro inferiore.
«Abbiamo un conto ancora aperto».
«Per quanto mi riguarda i nostri debiti son stati più che saldati con quello che abbiamo passato l’ultima volta».
L’immagine di Minako sanguinante fra le sue braccia tornò a turbarlo. Forse fu proprio quell’evento a cambiarlo maggiormente senza nemmeno che se ne rendesse conto consciamente.
«Io…non sono tranquilla» rincarò la dose Haruka.
«Lo vedo. E il tuo calmante a un nome e comincia con la “M”».
«Non mettiamo in mezzo Michiru!» sbottò. Anche se sotto sotto era poco convinta di non voler entrare in argomento.
«Sul serio. Dovresti mettere a posto le cose».
«Lo dici perché hai paura torni a dormire sul tuo divano?».
«No, lo dico perché la cosa sta diventando ridicola, Haru».
«RIDICOLA?!».
«Vuoi la verità? Perché un amico è questo che fa te la dice anche quando ti farà incazzare e non vorrai sbatterci contro i denti». Akira lasciò perdere i fronzoli per essere diretto. A volte con Haruka sapeva volerci il pugno di ferro per farsi ascoltare.
La bionda fece per ribattere ma lui la zittì puntandole un mestolo sotto al naso.
«Senti. Michiru avrà sbagliato. Tu hai le tue convinzioni e va bene così. Ma questo silenzio, l’orgoglio e il rancore sono una cazzata bella e buona. Mi hai capita?! Perché se vuoi farla funzionare questa storia allora devi prenderti la briga di parlare a cuore aperto e vedere se si può aggiustare. Ma almeno devi provarci. E se è vero che l’ami allora passerai sopra anche agli errori e la perdonerai, così come lei ha fatto con te».
Lo sguardo grigio violentò quello azzurro di lei.
«Puoi abbassare quest’affare?» chiese in un brontolio Haruka.
Akira ubbidì e rimescolò del brodo in ebollizione.
«Quindi. Il tuo cruccio?» chiese come nulla fosse il moro.
«Lo sai ho un sesto senso per i guai. Non siamo ancora al sicuro. Per questo ci serve un piano» rispose criptica la bionda.
«Spiegati meglio ti prego e assaggia questo. Manca di sale?».
Haruka lo guardò incredula per poi mettersi in bocca il cucchiaio che lui le porse.
«Sei veramente diventato un uomo noioso. E’ ottimo. Mi domando perché ancora ti fai dei problemi sulla tua cucina. Sapevi cucinare bene persino un topo di fogna…».
«Wow, quanti complimenti. Continua».
«Con i complimenti?».
«No con il piano».
«Ha qualcuno all’esterno. Quando sono rimasta intrappolata nell’edificio quel tizio mi ha fatto capire chiaramente che siamo dei bersagli. Perciò Eudial deve aver preso sul personale il fatto che l’abbiamo sbattuta dietro alle sbarre o qualcosa di simile». Haruka prese fiato e ripensò alla sua non visita al carcere di Chiba.
«Sono andata dov’è rinchiusa».
Akira si bloccò. Un brivido gli percorse la schiena e non poté fare a meno di fissarla rigido come un blocco di marmo.
«Le hai parlato?».
«No. Il fatto è questo. Non sono nemmeno riuscita a varcare la soglia di quel posto. Non sono permesse visite».
«Io però sono confuso. Perché vuoi andarci?».
«Perché voglio tenerla d’occhio».
«Quindi è per questo che ti serve un piano? Per entrare?».
«Più o meno» Haruka mostrò un sorrisetto poco rassicurante per poi abbassare lo sguardo sui suoi indici che avevano preso a scontrarsi l’uno contro l’altro.
«So già come fare…».
Akira sospirò pesantemente.
«Non posso entrare come poliziotta. Non ho l’addestramento necessario né tanto meno le autorizzazioni per farlo. Quindi l’unica soluzione è…».
«Entrarci come detenuta».
La bionda asserì con un cenno del capo.
«Devo commettere un reato e farmi spedire nel carcere di massima sicurezza di quella bastarda».




Note della scrittrice:
Mi spiace perché il capitolo non è pregno di avvenimenti ma ho deciso in ogni modo di pubblicarlo visto che avete già atteso abbastanza e in questi giorni non avrò modo di continuarlo.
Dovevano succedere tre cosette ma le risparmio per il prossimo e non ce le perdiamo per strada. Rassicuro anche chi ha paura di non rivedere Michiru e Haruka assieme. S'incontreranno state tranquille.
Grazie a tutti voi che avete la pazienza di leggere, commentare e spesso e volentieri quella di aspettare.
 

 
 
 
 
 
 

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Capitolo 13
*** Suicide Plan - Part II ***


Did you give up when they shot you down?
Always trying to fight the feeling
Oh, but just falling, oh
Is it the end?
Or maybe the start?
Of something you never thought could happen in a million stars

But I won't give in, no
Oh, the future is now
No I won't give in, no
Time is waiting around
 
Safe Dream – Tep no
 
 
 


I polsi indolenziti e le mani ammanettate davanti al bacino. Ogni passo più pesante dell’altro nel procedere per il corridoio spoglio.
Il beep sinistro a segnalare lo sblocco del cancello e ogni leggerezza lasciata al di fuori di quelle mura inespugnabili.
Prigioniera dentro una fortezza nella quale aveva lei stesso deciso di barricarcisi e un groppo in gola tanto stretto da rischiare di soffocarla.
Haruka però teneva la testa alta.
Sapeva come funzionava lì dentro; a mostrare le proprie debolezze ci si sarebbe fatti sbranare. E lei non sarebbe stato l’ultimo pasto di nessuno lì.
 
26  ore prima
 
«Ma dici sul serio?! Tu vorresti rapinare una banca?» lo sguardo di ghiaccio di Akira da sottile si fece tanto grande che Haruka credette potesse esplodere e far schizzare le orbite altrove.
«E di grazia…» il moro prese un lungo respiro per poi far guizzare le pupille sulla sigaretta spenta che penzolava ancora dalle labbra della bionda.
«Perché non puoi rubare una bicicletta come fanno tutti in questo paese? Si finisce in prigione lo stesso, sai?».
«Non so se sia abbastanza» sbiascicò la bionda con aria di sufficienza.
«Se questo è un bislacco tentativo di farsi notare, beh cara mia…» Akira le diede una pacca sulla spalla facendo un secondo di pausa quasi volesse far durare il pathos della conversazione più del dovuto. «Ci riuscirai di certo».
«Lo scopo sarebbe quello di farsi azzuffare» tagliò corto lei. E nonostante apparisse tranquilla nel dirlo sapeva che la sua natura era sempre stata differente. Era l’istinto della fuga, la velocità, ad averla sempre accompagnata. Forse la vera sfida che avrebbe dovuto affrontare sarebbe stata combattere contro se stessa una volta per tutte e fare tutto il contrario di ciò che l’aveva tenuta in vita e al sicuro sino a quel momento.
«Ora che hai la fedina penale pulita. Haruka, mi sembra troppo estremo anche per te. Sul serio».
Sapeva di aver un osso duro davanti a sé ma Akira tentò lo stesso. Non gli piacevano i sensi unici, ogni situazione doveva avere almeno un’alternativa anche se nessuno dei due evidentemente riusciva a trovarla.
Haruka sbuffò. Giocherellò con la sigaretta spenta. Avvertì il sapore di tabacco sulle labbra e poi la ripose nel pacchetto malmesso nella tasca sul retro dei jeans.
«Hai fatto tanta fatica per redimerti. Sarebbe come aver fatto venti passi nel vuoto anziché in avanti. Io sono convinto delle tue buone intenzioni, per quanto idiote appaiano agli occhi dei comuni esseri mortali. Ma Haru, sul serio. Se vorrai tornare indietro dopo la malefatta come farai?».
«Non ce lo siamo mai chiesti» realizzò lei. «Non ci siamo mai preoccupati del dopo…».
Un tempo del dopo sarebbe importato a pochi o forse non avevano mai creduto di poterne avere uno.
Akira non poté controbattere eppure si sforzò.
«C’è sempre una prima volta…».
«Temo non dovrà essere questa» sorrise amaramente la giovane.
 
***     
 

Jadeite si sistemò il lungo ciuffo dorato che gli ricadeva sulla fronte e poi bussò due volte alla porta nonostante la presenza di un campanello.
Attese, sprofondando il mento nella sciarpa calda e di colpo si ritrovò a guardare il cielo sopra di lui.
Tokyo era immersa in un pallido grigiore che preannunciava un’unica cosa: neve. L’aria quel mattino era cambiata e schiaffeggiava forte le guance dei giapponesi.
«Oh» due labbra sottili si schiusero in una smorfia di sorpresa sulla soglia dell’abitazione, mentre il viso di Jadeite assunse un’espressione piuttosto contrariata.
«Che ci fai tu qui?» nemmeno un saluto, solo una nota di fastidio nella voce.
Sadao, appena ricurvo nelle proprie spalle sbatté le palpebre come se l’intruso fosse il biondo.
«Direi che ci abito, al momento per lo meno, si-signore».
Un uomo; no anzi: un mezz’uomo perché non ha nemmeno i peli della barba in viso che abita con una donna, all’incirca vedova, con cui non ha una relazione alla luce del sole…che diavolo di stramberia è questa?!
Quel pensiero attraversò tanto nitidamente la mente del biondo che se fosse stato possibile Sadao ne sarebbe quasi riuscito a scandire ogni sillaba soltanto guardando il viso dell’avventore.
«C’è Hino?» chiese tagliente Jadeite.
La giovane recluta accennò un gesto di timido assenso con il capo.
«Cos’è quello?» si lasciò sviare da curiosità.
«Un dono, che altro?!».
«Ma è un…».
«SADAO CHI E’?! L’ARIA E’ GELIDA!! CHIUDI QUELLA PORTA!».
La voce di Rei come tuono irruppe nella conversazione.
«o-oddio che sba-sbadato. Entri, signore. Fa freddo fuori!» e scostandosi dalla porta lasciò il passaggio libero al biondo col viso ancora corrucciato in quella smorfia di dissenso che pareva non volersene andare.
«Jadeite» Rei, a piedi nudi si bloccò tra il cucinotto e l’ingresso.
«Per te» senza troppi preamboli o fronzoli, esattamente come all’ospedale Jadeite le porse un regalo piuttosto singolare.
Un gracchiare insistente e un battito di ali infastidito provenne dalla gabbia che il giovane teneva sospesa tra il suo corpo e lo spazio che lo divideva dalla mora.
«Un corvo…».
«Già, lo è proprio» asserì Sadao inclinando il capo di lato e affiancandosi a lei.
Quella accoppiata fece saltare i nervi a Jadeite che odiava sentirsi il terzo incomodo. Lui era fatto per i riflettori, per risaltare in scena. Altrimenti si sarebbe piegato ad una stupida confezione di cioccolatini non a una cattura in piena regola nel bel mezzo del polmone verde della città.
«ESATTO EINSTEIN LO E’».
I due faticarono a non fare un passo indietro presi di sorpresa da un tono tanto alto di voce.
«I-io vado» borbottò piano Sadao infilando un paio di scarpe da ginnastica nere.
«Ehy attento a non scivolare con quelle. Credo nevicherà» lo ragguagliò Rei per poi tornare con lo sguardo puntato sulla figura di Jadeite.
Non riusciva a decifrarlo. Era un enigma che si era imposta di saltare a priori, prima per disinteresse ed ora perché aveva solamente dell’assurdo.
«To-torno presto».
«Fai con comodo. Con le donne non si può avere fretta!».
«Ha un appuntamento?» domandò schiarendosi finalmente la voce Jadeite.
«Lo avrà. Deve chiederlo».
«Sono ancora qui, non parlate di me come se me ne fossi già uscito!».
«Sbrigati. E fai attenzione» si raccomandò ancora una volta Rei.
«Le due cose cozzano» puntualizzò Jadeite.
«Come prego?».
Rei tornò a fissare il volatile intrappolato.
«Sbrigati e fai attenzione nella stessa frase. Non vanno d’accordo. Se gli metti fretta, non può essere anche prudente».
«E tu ti permetti di dare consigli? Hai un uccello con te…per me».
«Non è un uccello. È un corvo» sottolineò lui.
«Perché».
«Cosa».
«Perché proprio un corvo».
Sadao avvertì una certa tensione nell’aria e senza dilungarsi in ulteriori preparativi lasciò l’appartamento facendo il più piano possibile.
«Maledetta Ten’ō».
Rei scoppiò a ridere.
E quella risata fu qualcosa di tanto anomalo quanto magnifico alle orecchie di Jadeite, come se non avesse mai udito nessun’altro farlo.
«Ecco perché era così insistente» disse tra una sghignazzata e l’altra dandogli le spalle e avviandosi verso il piano della cucina.
«Vuoi un tè?».
Solitamente bevo solo birra Asahi.
«Certo».
Jadeite si scalzò le calzature per poi seguirla nella stanza.
«Quindi ha sbagliato o no?».
«Mi piacciono i corvi» sorrise Rei. «Ma non saprei dove metterlo, non è proprio piccolo da sistemare in un’abitazione».
«Potresti tenerlo lì» disse indicando la loggia oltre la finestra alle spalle di Rei.
«Se gli apri la gabbia e gli dai del mangime o dei semi, sono sicuro rimarrà. Oppure potresti prendere una voliera».
«Non è nato per essere prigioniero, soffrirebbe comunque in una voliera. Farò come hai detto e se vorrà rimanere qui libero o passare a trovarmi di tanto in tanto sarà il benvenuto».
Rei servì il tè fumante al suo ospite che un po’ titubante si apprestò a mettere l’animale in libertà.
«Sta qui il novellino?» Jadeite sviò il discorso, allungando un pezzo di pane al volatile che decise di sistemarsi sotto alla tettoia fissandoli con i suoi occhietti neri.
«Era tornato in casa con i genitori. Non volevo regredisse allo stadio di larva. Mi serve un aiutante sveglio».
«Per quello ci sono io» il biondo quasi gonfiò il petto a quelle parole.
«Tecnicamente sei il mio superiore, non il mio aiutante» borbottò lei fissando il liquido scuro nella propria tazza.
Un leggero sbuffo, più simile ad un sibilo scappò al di fuori delle labbra del biondo.
«Hanno così tanta importanza per te le scale gerarchiche?».
«Affatto» e il tono di Rei divenne da serio più leggero. Come se a pronunciare una parola dietro l’altra stesse diventando più semplice.
«Se così fosse non avrei fatto di testa mia e avrei fatto irruzione in quella serra. Avrei lasciato perdere, no?!».
«Se così fosse stato io non avrei avuto occasione di salvarti».
Gli occhi di Rei si puntarono nei riflessi chiari di Jadeite.
«Cosa ti fa pensare di avermi salvata? Io non avevo bisogno di aiuto!».
«Sadao sembrava ne avesse…».
Quel botta e risposta fece accigliare Rei che rimase con tanto di tazza a mezz’aria.
Era sempre stata lei la “polemica” con Setsuna. Quella che non voleva dargliene vinta nemmeno una e che aveva sempre la risposta pronta. Era sempre stata lei la testarda, l’osso duro della situazione. Setsuna e lei erano Yin e Yang, differenti ma complementari.
Lei e quel ragazzo amavano aver l’ultima parola sulla bocca. Erano fulmini e saette. Era chi tuonava più forte coprendo il rumore della pioggia che si era scatenata al di fuori dell’abitazione e batteva prepotentemente contro ai vetri.
Rei era fuoco, Jaeite benzina. Si alimentavano a vicenda creando solo esplosioni.
Che cosa diavolo potrebbe mai venirne fuori di buono?  Si chiese lei, senza accorgersi dei polpastrelli che a contatto con la ceramica della tazza bollente erano diventati rossi e di lì a poco avrebbe mollato la presa facendo cadere tutto e combinando un disastro.
Ma potevano esistere disastri più epocali di quello che era già la sua vita? Del tè bollente addosso sarebbe stato nulla al confronto.
«Prima o poi capita a tutti» Jadeite, si sporse verso lei sfiorandole il polso per poi poggiare la mano sulla sua.
«Prima o poi abbiamo tutti bisogno di essere salvati. In un modo o nell’altro, dolcezza». E Rei tenne il punto con le sue pupille nere. Tenne il punto per qualche secondo fino a che le falangi dell’altro non la costrinsero a poggiare la tazza sul tavolo e a liberare le sue da quella tortura bollente.
Non lo avrebbe mai ammesso. Non a voce, non davanti a lui. Non gli avrebbe mai dato la soddisfazione di dargli ragione, ma una lacrima lo fece solcando silenziosa la sua guancia. Rei con quel tocco si sentì finalmente libera.
 
 
*** 
 
 
«No, no, no. Quelle. Quelle bianche» disse quasi frenetico Sadao a Makoto che posò per l’ennesima volta nel vaso una tipologia differente di fiore.
Sadao sudava freddo. Che fiori andavano bene per chiedere di uscire ad una ragazza? E se poi ad Ami i fiori non fossero piaciuti? E se fosse stata allergica?
Il panico dell’indecisione gli si disegnò in viso e ne venne a conoscenza perché la giovane fioraia lo interrogò per venirgli in aiuto.
«Se posso chiedere…qual è l’occasione? Ogni fiore ha un significato particolare…».
Sadao sentì il calore diradarsi dal collo alle guance e il rendersi conto di star arrossendo come un peperone nonostante fosse un individuo di sesso maschile giocò un ulteriore brutto colpo alla sua autostima.
«È…è per un appuntamento».
«Un anniversario? Un primo appuntamento o…»
«In, in realtà non so nemmeno se ci sarà, si insomma…è il primo, in teoria».
Makoto sorrise. Provò tenerezza per il ragazzo magrolino che gli si stagliava di fronte in preda all’ansia per una cosa tanto semplice.
«Il bianco è senz’altro adatto…simboleggiano un sentimento puro e sincero. Non la vuole prendere in giro giusto?».
Sadao sgranò gli occhi, più che offeso sbigottito.
«Non è mia intenzione fare cose…malfatte, ecco».
Makoto rise. «Allora i gigli sono ottimi» disse prendendone tre e tagliandone una parte di stelo.
«Se posso dare un consiglio…».
Sadao accennò un sì col capo.
«Aggiungerei qualche ranuncolo rosa».
«Hanno un significato?» domandò visibilmente interessato il giovane mentre lo sguardo vagava su tutti i petali e ramoscelli che lo circondavano.
«Si racconta che Gesù donò le stelle a sua madre e le trasformò in ranuncoli. A una ragazza le stelle piacciono sempre» sospirò la fioraia per munirsi poi di carta e fiocco per mettersi all’opera con quella piccola e delicata composizione.
 
Le labbra di Sadao formarono una piccola “o” di sorpresa.
«Se accetterà…ti devo un favore! Non credo avrei scelto così bene senza il tuo aiuto».
«Dovere!» esclamò sorridente Makoto porgendogli lo scontrino.
Sadao pagò il mazzolino e una volta uscito dal chioscetto si sentì urlare alle spalle «CHE LE FRECCE DI CUPIDO SIANO CON TE!».
 
 
***
 
 
18 ore prima
 
Minako prese a braccetto Ami dalla postazione delle infermiere trascinandola sino allo spogliatoio.
«Hai finito il turno vero?». Ami notò il suo fare più saltellante del solito e un sorriso che avrebbe potuto accecare chiunque si fosse fermato a fissare quella sfilza di denti bianchi.
«Ehm si. Tu?» domandò Ami.
«Tra poco!».
«E…vieni già a cambiarti?» indagò senza comprendere il perché di tanta fretta ed entusiasmo.
Era sempre bello andare a casa, ma dopo turni interminabili come quello, Ami, alle volte, non sapeva davvero dove trovare la forza per sentirsi ancora un essere umano e non un’ameba che anelava solamente un letto caldo.
«Ti presto il mio lucidalabbra rosa sta sera!» disse Minako porgendo all’amica un piccolo tubetto glitterato quasi fosse una sacra reliquia.
«Mina…devo solo andare a casa!».
«Ah…ah» l’indice della bionda si spostò da sinistra a destra in segno di diniego «questa sera puoi scordarti la maratona di serie tv col pigiamone di flanella!».
Ami, anche se non seppe come, trovò la capacitò di sbattere le palpebre in un’espressione interrogativa.
«E va bene e va bene. Te lo dico se insisti» Minako faceva tutto da sola. «Hai un appuntamento».
Ami, senza riuscire a trattenersi, scoppiò a ridere. Lo fece tanto rumorosamente da non riconoscersi e per tutta risposta, l’altra, rimase impietrita da tale reazione mettendo su il muso.
«Ok, non ti aiuto allora».
«Che…cosa?».
«Se non mi credi fai tu. Ma sarai impreparata!».
Ami con ancora un mezzo sorriso stampato in viso tentò di arrivare ad una soluzione logica per la reazione che si ritrovava davanti.
«Non…è…uno scherzo?».
«MA TI PARE?! TI HO DATO IL MIO LUCIDALABBRA!!!».
«E con chi avrei questo fatidico appuntamento?».
«Dio santo, Aino…» la testa bionda scosse la chioma legata sul capo e fece scoppiare una bolla rosa dalle labbra.
L’aria profumò improvvisamente di fragola e Minako riprese a masticare il proprio chewing-gum.
«Credevo fossi tu quella intelligente tra noi due».
«Mina, svuota il sacco».
«E tu muoviti perché il bel poliziotto sta arrivando con dei fiori».
«CHE COSA?!» Ami non riuscì a trattenere il volume della propria voce. Un fremito le percorse tutta la spina dorsale e per un momento l’aria decise di non arrivare ai polmoni.
Non era abituata a quella sensazione. Alla frenesia che si prova al primo appuntamento. Lei era sempre stata troppo tempo china sui libri o a passeggiare per i corridoi delle biblioteche per provare l’ebbrezza dei primi amori.
«L’ho visto dalla finestra. Sono sicura siano per te e non per qualcuno rilegato qui in un lettino d’ospedale».
«Non ho idea di cosa si faccia!» disse mettendosi le mani tra i capelli Ami.
«Per questo ci sono io!».
Ami ebbe il tempo di intravedere l’occhiolino dell’amica prima di finire spintonata sotto la doccia.
 
***
 
 
«Esattamente come ai vecchi tempi!».
Haruka alzò il palmo per farlo scontrare con quello dell’amico che non aveva alcuna intenzione di accontentarla.
Akira era contrario, lo era estremamente.
Mise su il muso come un bambino che ha appena subito una ramanzina e tenne ben salde le braccia tatuate contro al proprio petto.
Nascondeva lo sguardo ghiaccio sotto ad un ciuffo corvino disordinato e tanto lungo che se Haruka non fosse stata presa dal suo piano folle lo avrebbe certamente deriso dandogli della ragazzina.
«Oh andiamo…» cantilenò la bionda sbattendo la portiera di un furgoncino grigio sgangherato.
«Non te la starai facendo mica sotto!».
Le aveva dato fin troppo corda e non aveva alcuna voglia di scherzarci sopra.
Akira era riluttante, ma lo stava facendo per amicizia nonostante significasse perderla e quello disegnato sul suo volto non era lo spettro di un capriccio quanto la presa di coscienza che sarebbe tutto finito. E lo avrebbe fatto nel peggiore dei modi.
«Te l’ho già detto che non sono d’accordo».
«Allora scendi».
«Sul serio?».
No che non era seria. Haruka probabilmente si sarebbe messa a singhiozzare se l’amico le avesse dato retta.
«Parti» sentenziò il moro. Mai e poi mai si sarebbe tirato indietro per lei. Erano cresciuti insieme e lo sarebbero stati fino alla fine.
«Pronto per un po’ di gas?» disse Haruka con un sorriso sghembo. Non si dovette sforzare per tirare all’insù l’estremità delle labbra. Nonostante la situazione lei si ricordava dei tempi delle corse clandestine, quelle che al suo fianco avevano sempre visto l’amico.
La ragazza pestò il pedale dell’acceleratore tanto bruscamente che Akira si sentì sbalzare all’indietro e fu costretto ad allacciarsi la cintura.
«Prendi» una mano sul volante e l’altra gli stava tendendo una cosa molliccia e informe.
«Ruka le mani sul volante!».
«Sì mamma».
«Hey!».
«Papà?».
«H-A-RRR, cazzo il camion!».
Haruka sterzò d’improvviso infilandosi in una stradina secondaria per poi prendere contro a due cassoni dell’immondizia.
«Rilassati».
Akira sbuffò.
«Sempre la solita».
«Prenditi sta cosa e metto l’altra mano sul volante giuro!» lo incitò lei.
Akira dubbioso le strappo di mano l’aggeggio informe per poi scoprire di aver tra le mani una maschera.
«Totoro. Sul serio?!».
«Quelle stile “la notte del giudizio” non le ho trovate. Accontentati!».
«Ma guarda che coincidenza!» commentò Akira non sapendo se mettersi a ridere o meno. «Niente selfie».
«Che guastafeste!».
La strada correva sotto alle loro ruote e Haruka rallentò appena la sua marcia.
«Tu quale hai?» chiese il moro guardando fuori dal finestrino e sentendo i battiti aumentare gradualmente nella cassa toracica.
«Super mario».
«Scommetto sarai una bomba sexy con i baffi».
«Ovviamente! Pronta per le telecamere!».
Un’altra svolta e una ancora. La strada come la loro vita si faceva sempre più insidiosa.
Akira frugò sotto il piumino slacciato.
«Prendila».
Haruka guardò con la coda dell’occhio la pistola lucente dell’amico.
«Non ho intenzione di ammazzare nessuno» borbottò lei.
«Si, ma io non ho intenzione che ammazzino te o ci vadano lontanamente vicini».
«Ho la pellaccia dura» Haruka con quel sorriso mentì. Cercò di ostentare sicurezza ma avvertì la paura stringerle le viscere fino a ridurle in poltiglia.
 
 
***
 
 
A Sadao sudavano le mani, o meglio, lo fece l’unica in grado di stringere il mazzolino di fiori che recava in dono.
Entrò in ascensore e prese un lungo respiro.
Si guardò allo specchio, mentre i numeri scorrevano nel monitor rossi scarlatti e attendeva di arrivare al piano dove sapeva si trovava solitamente Ami.
Forse avrebbe dovuto aspettare al di fuori delle porte d’ingresso, o forse sarebbe bastato fermarsi all’accettazione senza salire al piano. Troppi dubbi nella vita lo avevano fatto fuggire a gambe levate ma questa volta aveva deciso di portare a termine quel suo desiderio a costo di rimanerci scottato.
“La misura di un uomo è pari a quella del coraggio”; così gli aveva detto suo padre il giorno che era riuscito ad entrare in polizia. Forse lo immaginava già pronto a fare irruzione in qualche posto brulicante di delinquenti o ad arrestare i peggiori omicidi della città mentre gli sistemava la divisa. Senza immaginare che la maggior parte del tempo l’avrebbe trascorsa in centrale a correre dietro agli eroi veri. Quelli che sul campo ci stavano giorno e notte senza paura, quelli che non avevano orario, che confondevano il giorno con la notte perché la caccia al male non ha tregua, a quelli come Setsuna e molto probabilmente un giorno a quello che sarebbe divenuta Rei.
Rimase in apnea fino a diventare paonazzo e poi soffiò fuori tutta l’aria trattenuta nell’esatto momento in cui le porte scorrevoli si aprirono davanti a lui.
Un passo dietro l’altro come se stesse ancora imparando a camminare e intravide una massa di capelli dorati far capolino da quello che doveva essere lo spogliatoio delle specializzande.
«Ma guarda chi si vede!» il largo sorriso di Minako lo rassicurò. O almeno lo fece in parte, sino a che il cervello di Sadao non cominciò ad elaborare tutte le possibili reazioni che invece avrebbe potuto avere Ami nel vederlo lì.
«Co-come stai?» domandò con un sorriso intimidito.
«Alla grande! Se non fosse che non vedo da ore il mio uomo e che non posso tornarmene ancora a casa perché qualche pazzoide ha deciso di farsi ricoverare proprio qui!».
Sadao faticò a stare dietro a quel fiume di parole.
«Pazzoide co-co-come l’ultima volta?!».
«Oh spero di no. Mi auguro abbia le manette e che non sia armato in nessun modo. Forse siamo come in quel film, o era una serie tv?! Quella americana, quella di quel posto che attirava tutte le creature maligne…».
«Teen wolf? O Vampire diaries?» persino lo spirito nerd di Sadao era indeciso.
«Quello dei vampiri sì. Ma dimmi…quei bei fiori sono per…una persona speciale. Cioè una paziente? Sei venuto a trovare qualcuno?». Minako giocherellò alla finta tonta e sfoggiò la smorfia più ingenua del repertorio.
«Uhm…» Sadao deglutì rumorosamente mentre dall’altra parte della parete Ami stava mettendo i pratica tutti i consigli dell’amica per farsi trovare al meglio.
«No, beh io insomma…».
La misura di un uomo è pari a quella del suo coraggio.
 
Ami passò l’ultimo strato di lucidalabbra e uscì dalla stanza.
Incrociò direttamente lo sguardo buono e scuro di Sadao e si domandò come qualcuno potesse avere due occhi così. Traboccanti di tutte le cose belle che il mondo può offrire scartando quelle che fanno paura alla gente.
«Volevo chiedere ad Ami se le andava di uscire» non un balbettio incrinò la sua voce.
Sadao fece un passo in avanti verso Ami e superando di una falcata Minako che assistette alla scena con lo stesso godimento di un fan che arriva alla scena romantica del suo film preferito.
«E questi sono per te. Visto che non ho stelle da offrirti».
Ami arrossì violentemente nel prendere il mazzo di fiori e Sadao si sorprese subito dopo di quella sicurezza che aveva fatto uscire come un fulmine a ciel sereno.
«È una storia che mi ha raccontato la ragazza dei fiori…» ora stava tornando lui, insicuro e un po’ impacciato.
«Mi piacerebbe uscire, sì».
Il viso di Sadao s’illuminò. Era come aveva promesso il giorno prima di essere dimesso. Lei avrebbe accettato il suo invito e così fu.
 
*** 
 

L’inverno soffocava la luce del tardo pomeriggio, così come Haruka faceva con le cose belle della vita tramutando tutto in un vero disastro.
Appostò l’auto pensando di essere stata un’idiota. La più grande del pianeta probabilmente.
Si pentì del suo egoismo. Si pentì di aver allontanato Michiru e non aver dato una possibilità a quella bambina che aveva voluto tanto disperatamente.
Haruka battè il cranio due volte contro il poggia testa del sedile spingendo lontano da lei con le mani il volante. Strinse i denti scoprendone l’arcata e Akira rimase a guardarla in silenzio prima di dire qualsiasi cosa.
«Haru…».
«No» lo bloccò lei subito per poi gettargli le braccia al collo.
Akira le strinse la vita come a sostenerla e in quell’abbraccio caldo e confortevole Haruka ancora una volta trovò il coraggio che avrebbe rischiato di scivolarle via a causa della paura.
«Non dirmi che siamo ancora in tempo per tornare indietro» la voce di Haruka si fece incrinata ma il suo orgoglio non le avrebbe permesso di versare una sola lacrima.
«Devo farlo».
Akira rimase zitto.
«Così non siamo al sicuro. Nessuno di noi lo è».
«Ma così non lo sarai tu» soffiò lui contro il suo collo.
«Mettiti quella dannata maschera di Totoro» ribatté lei riprendendo quel poco di controllo che rimaneva.
«Non sei brava con i sacrifici, lo sai vero?».
«E tu fai schifo con gli addii amico mio» disse lei con mezzo sorriso, per poi togliere la sicura dalla pistola che le aveva dato Akira.
«Se puoi non fare un buco in testa a nessuno o la pena sarà infinita».
Probabilmente lo sarebbe stata in ogni caso ma Haruka tacque. Doveva entrare nel carcere di Chiba ad ogni costo e quello era l’ultimo favore che chiedeva all’amico.
«Dietro di me».
«Agli ordini mia regina» scherzò lui indossando lo strambo travestimento che l’amica gli aveva fatto avere.
Haruka balzò giù dal furgone con l’agilità di una gazzella brandendo l’arma per poi fare irruzione nella banca che aveva scelto per il suo piano folle.
«TUTTI A TERRA, IDIOTI BEN VESTITI!».
 
Akira avrebbe voluto darsi una manata in faccia.
Ha detto sul serio… “idioti ben vestiti”?
Nemmeno nei suoi giorni peggiori da Yakuza Haruka aveva mai usato un insulto tanto ridicolo.
«Tu bellezza. Metti quei bei soldoni per me nella borsa del mio amico». La bionda indicò con la canna della pistola una delle ragazze addette alla cassa.
Aveva l’età di Minako più o meno e Akira, porgendole la borsa che aveva preparato Haruka in macchina, pregò perché quella messa in scena finisse presto.
Non c’era l’eccitazione del colpo. L’adrenalina che esalta i poco di buono nel fare i loro colpi. Akira riusciva solo a pensare che stavano perdendo miseramente tutto quello per cui avevano combattuto così a lungo.
«Okay…rimanete tutti immobili come statuine fino a che non ce ne saremo andati se non volete che finisca male».
Haruka fece cenno ad Akira di uscire con i soldi.
«Occhi chiusi…contante tutti fino a venti e il vostro brutto sogno sarà finito».
Il suo era appena cominciato e per farlo partire le mancava solo un’ultima cosa da fare.
Tutti nella stanza ubbidirono. Lei voltò le spalle alla giovane cassiera e si levò dal volto la maschera di super Mario guardando dritto nella telecamera di sicurezza.
Adesso la polizia sapeva chi doveva catturare, adesso era di nuovo una ricercata.
 
 
***
 

 
«Guarda Ami, ha cominciato a nevicare!».
Sadao aprì il palmo della mano catturando un fiocco gelato.
Alzò lo sguardo incuriosito come un bambino che guarda per la prima volta le stelle cadenti e rimase per un momento in contemplazione del cielo scuro che mandava loro piume bianche di ghiaccio.
«Ti piace la neve?» domandò Ami.
«Si. Abitavo fuori città da bambino e alle volte rimanevamo bloccati se la precipitazione era abbondante. Quello era l’unico giorno di scuola che mi era concesso saltare ed era l’unico in cui mia madre diventava un po’ meno severa. Era come se la neve col suo candore riuscisse ad ammorbidirla, non so come dire…».
Ami lo ascoltò rapita. Le piacevano le storie degli altri. In ospedale le era capitato spesso che qualche paziente di lunga degenza le raccontasse stralci della propria vita, ma sentire la storia di qualcuno che si desidera conoscere era cento volte più interessante di un libro di anatomia o di qualunque altro racconto.
«Facevamo gli angeli. Sai quando ti sdrai e…» Sadao mimò il gesto con il braccio senza fasciatura nell’aria ed Ami scoppiò a ridere.
«S-si insomma. Non posso usare anche le gambe da in piedi!».
«Si, problemi tecnici!» continuò lei ridendo. «Tranquillo, hai reso benissimo l’idea».
Sadao si sentì felice. Non deriso come era stato a scuola. Solo felice, con lei.
«Andiamo in un posto più caldo a guardare la neve?».
«Ottima idea».
Ami si accostò a lui, camminarono all’unisono come le note di una stessa sinfonia.
 
 
 
Michiru cullò tra le braccia Hotaru. Scostò una tenda con la spalla appoggiandosi all’infisso della finestra. Era da anni che non vedeva la neve.
«Tu hai sonno, vero piccolina?» domandò con un sussurro, guardando le palpebre della piccola farsi sempre più pesanti sino a chiudersi.
«Siete un bel quadretto» disse una voce alle sue spalle.
Michiru si voltò posando lo sguardo chiaro in quello del padre.
«Adoro la mia nipotina…» sostenne Yoshio alzandosi pesantemente dal divano. L’età stava pesando sulla sua schiena e lui pareva ogni giorno un pochetto più ricurvo su se stesso.
La figlia si domandò se non fosse anche a causa sua, se non gli avesse messo un peso in più accanto ai numeri che ogni compleanno si facevano sempre più grandi.
«Ma…?» Michiru sapeva interpretare quel tono alla perfezione.
«Ma Hotaru si merita una famiglia al completo».
L’onda blu si spostò verso il basso. I capelli di Michiru si piegarono sulla culla posando il corpicino di Hotaru sotto le coperte calde e profumate.
«Probabilmente non ne capisco niente…» borbottò lui. «Ma credo sia il caso finiate questa inutile guerra se…» una breve pausa.
«Se vi amate».
Gli occhi cerulei della ragazza si spalancarono a quelle parole. Era sicura che suo padre le volesse ancora bene, ma mai avrebbe creduto l’avesse in qualche modo perdonata o che avesse potuto accettare Haruka come parte della famiglia.
L’amore di un genitore è immenso e Michiru lo stava sperimentando in quell’esatto momento.
«Dammi retta. Non vale la pena di finire come me e tua madre. Avete la possibilità di essere una famiglia…».
«Papà…» Michiru poggiò la mano sulla spalla del padre. «Anche noi lo siamo…».
«Certo mia cara».
Gli occhi di un padre guardavano dritti in quelli di una figlia.
«Fatelo meglio però». Le rughe del suo viso si tirarono in un sorriso.
«E adesso aiuta questo vecchio con la sua giacca! Non posso prendere freddo e attaccare un raffreddore anche a mia nipote».
«Papà! Non darti del vecchio».
«Oh su su, Michiru non contraddirmi! Mi basta tua sorella di saputella in famiglia».
Michiru rise di gusto aiutando il padre con la fila di bottoni da allacciare.
«Fai attenzione. Nevica».
«Sarò vecchio! Ma non ancora un rimbambito».
Yoshio, uscendo sulla porta, baciò sulla fronte una delle due cose più preziose che la vita gli aveva regalato.
 
***
 

«Ma queste ruote terranno?» domandò Akira lanciando un’occhiata allo specchietto.
Due auto della polizia a sirene spiegate li stavano inseguendo emettendo lampi rossi nell’etere.
«Lo faranno» commentò Haruka spingendo i tergicristalli ad una velocità più alta per scacciare la neve dal vetro.
«Che idea di merda, Haru».
Haruka non aveva tempo per i ripensamenti o badare alle lamentele del suo compare. Doveva mirare dritto al suo obbiettivo a tutta velocità.
«Rilassati».
«Rilassarmi?!».
«Akira prendi quella cazzo di pistola» sentenziò passando un semaforo sullo scattare del rosso.
Lo stridere di una frenata brusca e un paio di clacson si levarono alle loro spalle.
Lei guardava dritto, occhi fissi sulla strada.
«Quando te lo dico ti butti».
«Cosa?!».
«Sei diventato sordo Akira?!».
Finalmente gli occhi cobalto abbandonarono l’orizzonte e intercettarono lo sguardo ghiaccio smarrito.
«Non avrai mica pensato che ti avrei portato dentro con me no?!».
La lancetta della velocità oscillò bruscamente verso l’alto.
«Prendi quella dannata borsa, la tua pistola e fai lo stuntman fuori di qui. I soldi serviranno e servi anche tu lì fuori mentre io sarò dietro alle sbarre. Siamo una famiglia o no, Akira?!».
«Cazzo se lo siamo».
«Non le deve capitare niente, okay?».
«Stai tranquilla su questo ma…».
«Abbiamo poco tempo per gli addii e quello di prima era già sufficiente».
«No Haru è che…»
«Cosa?!» Haruka era sfinita. Quel senso di tristezza la stava distruggendo quell’andarsene forzato e quell’inutile fuga la stavano portando al limite.
Il furgone sobbalzò al contatto con un rallentatore.
Davanti a loro un ponte, poi una curva con un’infinità di alberi che si estendevano fuori città.
Col favore del buio non l’avrebbero visto e se proprio fosse andata male il fiume avrebbe risolto tutto.
«Tre…»
«Voglio dire Haru, i soldi?! Non sei un cazzo di poliziotto ora?!».
La bionda fu costretta a rallentare appena o lui si sarebbe ammazzato.
«Due…Akira non cazzeggiare devi prepararti».
«Mi stai mettendo ansia, rispondi».
«Dio, vuoi sia così la nostra ultima conversazione?».
Avevano passato ormai più della metà del ponte. Haruka girò a destra la manopola della radio e si sintonizzò sulla stazione della polizia.
La luna era alta nel cielo ma loro potevano vederne solo uno spicchio perché le sagome scure degli abeti erano ormai vicine.
«Uno…»
Akira doveva saltare, al via doveva mollarla su quel furgone da sola.
«Sono solo per metà un poliziotto, anzi meno di metà. Lo sai…sono un dragone. Come lo sei tu in fondo».
 
Kohai; pensò Akira. Fratelli.
 
La spinta. Quella della mano di Haruka contrò la sua spalla mentre curvava e faceva sbandare su un lastrone di ghiaccio una delle due volanti. Fu quello il tocco che sentì prima di fare a cazzotti con l’asfalto.
 
***
 
 
12 ore prima
 
C’era un piccolo camino in mattoni nel salotto che aveva conquistato Michiru quando avevano preso quell’appartamento.
Le fiamme scoppiettarono ancora una volta al suo interno anche se di lì a poco se non ravvivate sarebbero morte e l’unica loro traccia d’esistenza sarebbe stata cenere.
Michiru si strinse nel panno sulla poltrona accanto alla culla dalla quale proveniva solo il respiro della piccola lucciola che assieme a quello sfrigolare di scintille erano gli unici rumori in quella notte invernale.
 
Aveva scritto un sms ad Haruka che ancora non era stato inviato.
 
Torna a casa.
 
L’unico desiderio che voleva vedere esaudito. Strinse il display al petto e con quello sentì la solitudine mangiarla viva.
Un bagliore di fari si scontrò con i vetri della finestra.
Michiru riaprì gli occhi che aveva stretto per pochi istanti un po’ come si fa quando si soffia sulle candeline per il compleanno.
Era il momento di abbassare le difese, di scacciare l’orgoglio.
Una strana sensazione le attanagliò la bocca dello stomaco.
Scalza si avvicinò alla finestra.
C’era la neve; poi c’era lei.
Haruka era immobile con i fiocchi bianchi sopra al capo e fissava in alto.
Michiru seguì la linea delle sue labbra che pian piano si sollevò un sorriso e lei fece lo stesso.
Poggiò una mano sul vetro come a carezzarle il viso e il cuore si fece d’improvviso più leggero.
Michiru aprì la finestra e il gelo le schiaffeggiò le guance e la punta del naso fino a farle divenire di un rosa intenso.
 
«Che ci fai lì?».
«Ti guardo, principessa».
Forse per l’ultima volta.
 
Ad Haruka scoppiava il cuore e per Michiru era lo stesso.
Per una la gioia, per l’altra un mix esplosivo. Felicità, sollievo, terrore e disperazione stavano bombardando Haruka. La guerra emotiva era la peggiore da combattere. Era come quella reale, dove potevi soccombere o sopravvivere ma Haruka non sapeva se da quella emotiva se ne usciva realmente anche perdendo.
 
“Aspetta” mimò Michiru con le labbra senza sapere di non aver tempo.
Chiuse la finestra. Si sbarazzò della coperta. Infilò solamente le scarpe da tennis accanto alla porta. Erano di Haruka, ma non ci fece caso. Fece di corsa le scale, senza contare i gradini, ma sentendo ogni singolo scandire del suo cuore.
Non aveva nemmeno il cappotto, solo il pigiama addosso. Sarebbero state sufficienti le braccia di Haruka a riscaldarla. Lo avevano fatto ogni notte accanto a lei.
Michiru aprì il portone.
 
Haruka era ancora lì, immobile e sorrideva esattamente come aveva fatto nel vederla oltre al vetro.
La bionda aprì le braccia e Michiru non si lasciò fermare dallo strato bianco e scivoloso che ricopriva il suolo.
Corse e non appena sentì la terra mancarle sotto ai piedi si fermò grazie al corpo di Haruka che le impedì di cadere.
Le falangi dapprima sulle sue braccia per impedirle di rovinare al suolo e poi attorno alla sua vita.
Michiru si sentì al sicuro e nuovamente completa.
Haruka la strinse forte come fosse l’ultimo giorno sulla terra.
Quando Michiru con la guancia ancora nell’incavo del collo dell’altra riaprì gli occhi, le vide. Le luci blu e rosse lampeggianti avvicinarsi e l’eco di una sirena in lontananza si fece ancora più vivido.
Boccheggiò.
Improvvisamente sentì anche il gelo della neve che incessante non aveva smesso di cadere si di loro.
«Ruka…»
«Zitta» e con quel filo di voce la bionda poggiò le labbra sulle sue. La baciò. Lo fece come fosse la prima e l’ultima volta assieme, come se un terremoto, uno tsunami o qualsiasi catastrofe le stesse per cogliere. Lo fece come se avesse trovato la pace sulla terra e stesse per piombare all’inferno.
Haruka la baciò e incastrò le dita nelle onde blu profumate. Le rubò il respiro poi glielo restituì e sentì Michiru farò lo stesso.
 
Un poliziotto sbatté lo sportello e quel rumore le riportò alla realtà, a quel momento.
Nel mare blu di Michiru si agitava una tempesta. Aveva paura, Haruka glielo leggeva in volto.
Non si lasciarono. Nessuna delle due allentò la presa dal corpo dell’altra.
«Che hai fatto?» bisbigliò.
La bionda le accarezzò le guance.
«Prenderai freddo…»
«Ruka, sul serio».
«MANI IN ALTO!» gridò uno degli uomini in divisa.
Haruka non le avrebbe detto nulla, non avrebbe fatto di lei un testimone da spremere.
«Sarete al sicuro. Tu e la bambina…sarete al sicuro, lo prometto».
Michiru confusa non riuscì a proferire parola.
Haruka credette che le stesse incidendo sul suo braccio i propri polpastrelli come ricordo, poiché la sua presa si fece più salda.
«Per te».
 
«HO DETTO MANI IN ALTO».
«Cazzo. Ok, agente. Non c’è bisogno di armi io non ne ho e lei…beh lei non centra nulla!».
L’uomo scrutò Michiru e notandola in pigiama di certo non poteva essere la complice della rapina.
«Ok, Michi devo lasciarti andare».
«No, no, no. Ruka, no».
«Shht, principessa tutto okay. Tutto okay, non vorrai vedermi però con una pallottola piantata da qualche parte no? Devo alzare le mani come ha detto il signore».
«Haruka ma tu, tu sei…» Michiru la lasciò andare e il suo corpo perse un po’ di calore. «Sei un poliziotto. Diglielo…».
«No amore. No, più brava ad essere un dragone».
Haruka le diede le spalle. Sembrava uno scudo umano davanti a lei.
La neve prese a far rumore. Michiru poteva sentirsi ogni singolo fiocco posarsi sul terreno.
Poi la voce di Hotaru. Fu il suo pianto a ridestarla.
«Vai…».
Il poliziotto le si avvicinò tirando fuori un paio di manette, mentre un altro si accertò non avesse armi addosso.
«Vai da lei. Non si fa aspettare una ragazza che urla a in quel modo!».
Aveva la forza di scherzare. Era incorreggibile Haruka. E in qualche modo Michiru si sentì confortata da quel modo di fare. Come sei lei fosse sempre stata lì e non l’avesse mai persa. Come se niente potesse piegarla.
 
«Ogni cosa che dirai potrà essere usata contro di te» e Haruka disse l’unica cosa che avrebbero potuto usare come volevano perché mai sarebbe cambiata nella sua vita.
«Ti amo, Michi».
«Ti amo anche io».
 

***
 
 
Era passata l’intera notte. E in centrale era scoppiato il caos.
C’era chi non voleva mettere un poliziotto dietro alle sbarre e chi sosteneva lei non lo fosse mai stata. Per un processo ci sarebbe voluto troppo tempo e troppo poco sarebbe stato quello legale da farle passare dietro una celletta con qualche prostituta in attesa di una cauzione.
Era passata l’intera notte e per tutto il tempo lei non si era pentita di niente. Aveva pensato solamente a Michiru, al momento della loro riconciliazione. Al sapore di quell’ultimo bacio che ancora si trascinava dietro.
Per un momento si era appisolata e aveva giurato di poter sentire ancora il suo profumo e la presa delle sue dita sulle braccia. Poi un poliziotto sconosciuto l’aveva fatta alzare e l’avevano spinta su un furgone diretto al carcere di Chiba.
La neve aveva smesso di cadere ma fuori era tutto bianco. Quando l’imponente cancello li fece passare e lei poté finalmente scendere prese un lungo respiro di aria gelata.
Non sapeva quando lo avrebbe potuto rifare, non sapeva quando avrebbe sentito di nuovo sulla pelle i raggi del pallido sole e quel freddo pungente.
 
«Andiamo, detenuta». Una spinta e si ritrovò all’interno di quel posto di cui la prima volta non aveva nemmeno potuto varcare la soglia.
I poliziotti consegnarono alla guardiola le poche cose che aveva addosso e le chiusero dentro ad una scatola che avrebbe potuto rivedere solo una volta uscita di lì. Se mai fosse accaduto.
 
I polsi indolenziti e le mani ammanettate davanti al bacino. Ogni passo più pesante dell’altro nel procedere per il corridoio spoglio.
Il beep sinistro a segnalare lo sblocco del cancello e ogni leggerezza lasciata al di fuori di quelle mura inespugnabili.
Prigioniera dentro una fortezza nella quale aveva lei stesso deciso di barricarcisi e un groppo in gola tanto stretto da rischiare di soffocarla.
Haruka però teneva la testa alta.
Sapeva come funzionava lì dentro; a mostrare le proprie debolezze ci si sarebbe fatti sbranare. E lei non sarebbe stato l’ultimo pasto di nessuno lì.
«Katō aspetta qui con lei. Vado a prenderle un’uniforme».
 
«E poi ti faranno una bella perquisizione. D-e-t-e-n-u-t-a». Quella fu la cosa che la fece sobbalzare. Quella voce. Haruka poté ricordarla benissimo e lo fece anche la propria pelle, poiché poté avvertire la pelle d’oca.
Una massa di capelli rossi ricadevano sull’uniforme grigiastra che le si stava avvicinando scortata da tre agenti.
«Sei venuta a farmi visita, bellezza? Ti sei pentita di non aver colto l’occasione quando potevi avere tutto il potere che volevi?». La regina rossa non aveva perso la sua sicurezza era tale e quale all’ultima volta che l’aveva incontrata, solo il rossetto non era più al suo posto.
«Beh, troppo tardi…» Eudial sorrise malevola.
«Non l’ascoltare è fuori di testa questa stronza» le disse Katō.
Haruka ebbe un brutto presentimento.
La scorta di Eudial inserì la chiave nel cancello dal quale lei era appena entrata.
«Sto uscendo, dolcezza. Ma avrai sicuramente compagnia».
 
Haruka era incredula.
«Cosa vuol dire?».
«Dai su, cammina» incitò uno dei tre Eudial spintonandola fuori dal cancello.
«CHE COSA VUOI DIRE?!» urlò Haruka facendosi prendere dal panico.
La regina rossa smise di sorridere, lo fece solo per mandarle un bacio a distanza prima di venire trascinata altrove.
 
La guardia bloccò Haruka dicendole di calmarsi.
«Farai una bruttissima fine se cominci così». E Haruka finalmente né prese coscienza. Quello non era stato affatto un piano ben architettato, era una missione suicida.





Note dell'autrice:
 
Loganiane, è stata dura ma ci sono riuscita. Nonostante un cambio drastico di vita sono felicissima di essere riuscita a postarvi questo nuovo capitolo. Non so se si possa poi effettivamente chiamare capitolo, forse sono più 18 pagine di sclero e delirio vario. Ma come sempre sarò contentissima di sentire le vostre impressioni in merito. 
Posso dirvi che la parte finale relativo alla riconciliazione tra Haruka e Michiru l'ho scritto tutto di getto ascoltando due canzoni (una delle quali è l'intro del capitolo), io non so se sono riuscita a rendere l'idea perché era tutto un'enorme filmone nella mia testa con tanto di colonna sonora e a parole probabilmente non rende la metà, ma ehi...non so come farvi entrare nella mia scatola cranica! Come sempre sarò felice di trovarvi sulla pagina fb dove presto vi dirò qual'è l'altra canzone e vi svelerò un pò di simbolismi e robe varie relative a queste pagine.
Un salutone. Kat

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Capitolo 14
*** Muddy Waters ***


In the muddy water we’re crawling
Holds me down
Hold me now
Sold me out
In the muddy waters we’re falling
It is not clear why we choose the fire pathway
Where we end is not the way that we had planned

Muddy Waters – LP
 
 



«Così vicina. Ci sono così vicina, Haruka…».
Come una fiammata la cascata di capelli cremisi era ad un passo da lei. Haruka poteva vederla nitidamente; ne avvertiva i passi riecheggiare per quei corridoi asettici.
Il suo battito accelerò pericolosamente ed Haruka non fu più sicura se il cuore stesse per schizzarle fuori dal petto o direttamente dalle orecchie.
«Ci sono più vicina di te».
Eudial sorrise come solo lei sapeva fare. Con la bocca di un serpente pronto ad iniettare il proprio veleno mortale alla vittima prescelta.
Haruka sapeva non esserci antidoto e le sue gambe presero ad andare più veloci. Si mise a correre ma non riuscì a raggiungerla.
«Presa».
Eudial portò una mano alla spalla di Michiru e Haruka si svegliò di soprassalto da quell’incubo.
 
«Detenuta 233, in piedi».
Ci mise qualche secondo per comprendere a fondo il significato che la voce della guardia aveva dato alle parole appena pronunciate.
«Sei sorda o solo stupida, detenuta 233?».
Haruka si alzò con fare automatico dalla branda consunta e priva di biancheria per poi stagliarsi di fronte all’idiota che l’aveva richiamata all’ordine con quello stupido numero.
“Forza, di qua” la strattonò spingendola con l’ausilio del manganello facendola uscire dalla sua cella.
«Si è liberata la stanza del grand’hotel per te».
 
Da Osaka a Tokyo la stessa identica frase rimbombò davanti alle porte che potevano varcare solo gli addetti del reparto di psichiatria.
 
 
***
 
«Dio, non ci posso credere!» esclamò Ami in preda all’adrenalina o forse ai troppi caffè bevuti. «Ė la prima volta che faccio le sette di mattina senza essere andata a dormire e soprattutto…a casa!». Non si sentì stupida nel dirlo, ma solo emozionata. Lei aveva passato l’intera adolescenza a testa china sui libri per costruirsi un futuro brillante mentre i suoi coetanei bighellonavano per la città godendosi durante la notte.
Sadao sorrise. Nemmeno lui era stato un grande nottambulo. Forse per timidezza o forse soffocato dalla propria famiglia, aveva passato i suoi giorni di gioventù rinchiuso a casa.
 
E ora se l’erano presa quella notte e l’avevano vissuta a modo loro.
 
Erano andati a pattinare sul ghiaccio mentre i primi fiocchi discendevano in città e a sorpresa lui si era scoperto portatissimo per quell’attività.
Avevano passeggiato guardando le nuove luminarie natalizie e provato a vincere senza successo un paio di peluche alla sala giochi vicino casa di Ami.  Solo quando il freddo si era fatto troppo intenso, colorando ad entrambi di rosso la punta del naso e le gote erano entrati al caffè. Da lì avevano continuato a guardare la neve, a imparare qualcosa in più l’uno sull’altro e avevano deciso di provare tutto il menù dei più strampalati caffè di Tokyo senza accorgersi dello scorrere del tempo.
«Abbiamo l’ultimo Ami». Sadao tamburellò con l’indice sul ventesimo in lista. Era una coppa XXL con caffè, latte alla vaniglia, panna montata guarnita di granella alle nocciole e ciliegine candite.
«Potrebbe partirci una vena o qualcosa del genere?».
«Abbiamo diviso più o meno tutto e la quantità di caffè dentro a queste cose è minima…o almeno credo. Forse sono diventata immune alla caffeina con tutto quello che bevo all’osped-». Si bloccò spalancando le labbra.
«Oh mamma…».
«Cosa? Che succede?!» si agitò Sadao richiudendo subito il menù.
«Che ore abbiamo fatto?!».
«Le set-te. Le set-te e un qua-quarto precisamente. Ora».
«Devo attaccare!».
Sadao sbatté le palpebre ancora confuso. Cominciava ad avvertire la stanchezza e il cervello non funzionava più a dovere. Anche se probabilmente quello si era spento nel momento che l’aveva vista uscire dallo spogliatoio così bella la sera prima.
«In ospedale!».
«Ooh. T-ti accompagno».
Ami si alzò portando la mano sul braccio dell’altro che non era fasciato.
«No» le disse dolcemente. «O tu rischierai di fare tardi per salvare il mondo dai cattivi!». Rise piano, come fosse un segreto divertente che nessun altro al di fuori di loro due avrebbe mai capito.
Infilò il cappotto, prese il mazzo di fiori che lui le aveva recato in dono e prima di andare si chinò verso il ragazzo posando le labbra sulle sue.
Sadao sentì la scossa a quel contatto e il profumo di fragola del lucidalabbra di lei.
 
«Ci vediamo!» Ami corse via col cuore in gola.
 
 
***
 
 
Il dottor Chiba l’aveva spedita a casa. Minako era rimasta per l’intera notte a rigirarsi il cellulare tra le mani nell’aspettare il caso di psichiatria. Poi il suo Samsung aveva ceduto e con lui lo aveva fatto lei a causa della noia.
Niente più video di cuccioli da guardare e Akira non si era degnato di rispondere nemmeno a un messaggio.
Quando poi l’attesa era divenuta ormai insostenibile e i suoi occhi si stavano per chiudere sul banco dell’infermeria, Mamoru le aveva detto di andare.
Minako non si aspettava di vedere il mattino. Dovette coprirsi col palmo le iridi per non essere accecata da tutto quel bianco gelido che aveva ricoperto ogni cosa durante la notte.
«Peggio di un vampiro…» sostenne. «Un vampiro al contrario. Recluso di notte e libero di giorno. Però ora me ne vado a dormire col sole quindi sempre un vampiro sono diventata!» blaterò tra sé e sé, senza curarsi di chi poteva incrociarla e sorprenderla in quello strambo monologo.
 
Il furgone del penitenziario di Chiba accostò al marciapiede.
Il guidatore rimase sul veicolo mentre la guardia al posto del passeggero scese e aprì a quella nel retro.
Minako soffiò tra le sue monopole rosse e calde assistendo incuriosita alla scena.
I due “scaricarono” una giovane dai lunghi capelli cremisi nella sua tuta carceraria, ammanettata.
«Dai muoviti, non abbiamo tutta la mattina» la intimarono a procedere passando accanto a Minako.
«Bei guanti, biondina!» le disse la ragazza prima di venir spintonata all’interno dell’ospedale.
Minako non l’aveva mai vista, ma ebbe come un brutto presentimento.
Avvertì un dolore forte e netto alla sua cicatrice ma lo ignorò sentendo la voce di Ami rotta dal fiatone.
«Ce l’ho fatta. Sono in tempo. Sono in tempo! Ciao Mina!». L’amica portò le mani alle ginocchia tirando un lungo respiro. Tutto quel freddo faceva fare più fatica del dovuto ai suoi polmoni.
«In realtà ti sei appena persa una carcerata che si complimenta con me per i guanti» ridacchio Minako.
«Fatto le ore piccole?» indagò maliziosa.
«Mai andata a letto» le schioccò l’occhiolino con fare orgoglioso Ami.
«O-mio-Dio» Minako abbandonò ogni strano presentimento per lasciare spazio all’eccitazione. Le era passato persino il sonno a quella notizia.
«Si, ma Mina. Devo andare!» Ami tranciò le gambe ad ogni speranza dell’amica di ascoltare anche il solo più piccolo dettaglio del suo appuntamento.
«Guastafeste» Minako lasciò andare uno sbuffo e incrociò le braccia al petto. «Io ho appena staccato. E il caso di psichiatria è tutto per te. Ha appena varcato la soglia».
«Corro».
«Ehi fai attenzione ha le manette!!» la intimò Minako.
Ami stette attenta a non scivolare sul lastrone di ghiaccio e varcò le soglie dell’ospedale. Prese l’ascensore e una volta che le porte automatiche si aprirono salutò con un cenno frettoloso del capo Mamoru che teneva sottobraccio un plico di lastre.
I suoi occhi chiari intercettarono il bianco sterile del corridoio e prima che potesse chiudersi alle spalle la porta dello spogliatoio avvertì una sola frase.
 
«Si è liberata la stanza del grand’hotel per te».
 
 
***
 
 
Michiru aveva passato la notte in bianco. Non avrebbe certo potuto chiudere occhio sapendo dove sarebbe stata portata la sua adorata Haruka.
Non aveva idea di cosa accadesse all’interno di una prigione ma non ci voleva un genio per comprendere non si trattasse di un bel luogo.
Haruka era una donna forte, la più forte che Michiru avesse mai incontrato ma questo non la faceva stare meno in pena.
Aveva atteso che la piccola Hotaru si svegliasse, l’aveva nutrita, cambiata e cullandola tra le braccia le aveva parlato di Haruka.
«La devi assolutamente conoscere…» gli occhi scuri della bambina a quelle parola si sgranarono un po’ di più.
«E’ un po’ burbera all’inizio ma, ehy…è davvero speciale…».
Hotaru rispose con un versetto sollevando le piccole manine verso l’alto per poi afferrare una lunga ciocca color acqua marina.
Michiru sospirò.
Haruka ne aveva fatte tante in passato per essere arrestata, ma ora cosa le era passato per la testa di fare?
 
Il campanello suonò.
Michiru si alzò dalla poltrona andando ad aprire alla porta e salutò il padre.
«Grazie per essere venuto papà» la figlia gli era davvero grata.
Yoshio la salutò, si tolse il cappotto e tutto contento non tardò a voler la nipotina tutta per sé.
«Tesoro cosa succede? Sembravi piuttosto preoccupata».
«Tienimela tu, ti prego. Poi troverò qualcuno che mi aiuti».
Michiru indossò la propria giacca allacciandosi sino al collo i bottoni e avvolgendosi in una calda sciarpa blu notte.
«Problemi con Haruka?».
«In un certo senso» prese la borsa frettolosamente.
Non sapeva ancora dove fosse giusto andare. Akira o polizia, polizia o Akira. Le scelte erano due ma le parevano mille in quell’istante.
«Credo ti possa fidare del tuo vecchio ormai…».
«Mi fido papà, ma…».
L’uomo puntò il suo sguardo profondo in quello di Michiru.
«Non mi verrà un attacco di cuore».
«Risolverò tutto, okay? Se così non fosse allora chiederò aiuto a te e dirò tutto. Va bene?».
Yoshio borbottò qualcosa. Non gli andava a genio di scendere a compromessi, ma era meglio che niente. Poi preso dalla neonata decise di farsi i fatti suoi e concentrarsi sulla piccola creatura che gli aveva rapito il cuore.
«Fai attenzione. O la prenderò a calci quella ragazzaccia se ti succederà qualcosa».
 
Michiru gli soffiò un bacio dalla soglia e si richiuse la porta alle spalle.
 
 
***
 
«Cosa diavolo è successo a Ten’ō? Dov’è quella scansa fatiche?» la voce di Jadeite rimbombò per l’intera centrale.
«Ho salvato la vita a quella disgraziata e ora…».
«Ommioddio, questa faccenda deve aver pompato in maniera smisurata il tuo ego».
Jadeite alzò gli occhi dal monitor ritrovandosi davanti la persona che aveva parlato. Rei con la sua chioma corvina era in piedi davanti alla sua scrivania con le mani puntate sui fianchi.
«Che ci fai qui?».
«Buongiorno anche a te» schioccò la lingua Rei prima di aggiungere un: come sei fastidioso.
Solo allora Jadeite si rese conto di aver usato un tono che poteva esser mal interpretato. Non era scocciato di averla intorno, tutt’altro. Era soltanto stato preso in contropiede.
«Ti togli?».
Jadeite aggrottò la fronte senza capire.
«Da quella scrivania. Ti togli?».
«Non è tua questa postazione, lo sai?».
Rei parve accigliata.
«Beh, tecnicamente nemmeno tua se è per questo».
Ci risiamo pensò il biondo.
«E’ di…».
«Era» controbatté infastidito.
Rei si dovette mordere la lingua per non esplodere.
«Che suc-cede qui?!» Sadao interruppe sul nascere il litigio e spalancò la bocca nel riconoscere la figura di Rei nell’ufficio.
«Sei tornata!».
«Alla buon ora. Anche tu. Credevo di doverti catalogare come persona scomparsa! Dove sei stato tutta la notte?» chiese Rei, levandosi una volta per tutte il cappotto in panno rosso.
«Al mio ap-puntamento» Sadao sentì le guance avvampare e abbassò lo sguardo in automatico sul proprio braccio ancora malconcio.
«Bene casanova. Vedo hai fatto colpo. La prossima volta però chiama!».
«Non sei mica sua madre…» borbottò Jadeite. Non sapeva se essere più infastidito da tutto l’interesse che Rei mostrava nei confronti del suo protetto o per il fantasma di Setsuna, presente in ogni conversazione. Odiava sentirsi fuori posto, a lui piaceva essere al centro dell’attenzione e non il guastafeste di turno. No signore, lui era la festa semmai.
 
La risatina nervosa del più giovane placò ancora una volta la bomba ad orologeria che gli altri due parevano esser sempre sul punto di fare esplodere.
«Beh, bentornata» sorrise giovialmente Sadao.
«Non sono proprio tornata» confessò Rei.
Sadao e Jadeite si ritrovarono nello stesso momento a puntarle gli occhi addosso.
«Credo di voler cambiare divisione, ammesso mi accettino».
«Dio, no» Jadeite si portò una mano al viso con fare disperato. «Sarò io e i novellini per l’eternità?».
«Sadao non è proprio un novellino». Eccola che riprendeva le difese del giovane che ora la guardava con lo sguardo di una pecorella smarrita incapace di dire qualsiasi cosa.
Prima era stato scelto da Setsuna e lei era morta. Ora sembrava essere stato scelto da Rei e lei se ne andava.
«Oh andiamo, non sa nemmeno colpire un bersaglio!».
«HEY!» sbottò Sadao offeso.
«Non lo sa fare perché tu non gliene dai l’opportunità. Razza di egoista, narcisista…BIONDO!».
Rei sembrò buttare lì l’ultima parole come un insulto e Jadeite rimase spiazzato perché non sapeva se sentirsi realmente offeso per il suo colore di capelli o meno.
Faceva un gran rumore quella morettina. Era come un fuoco d’artificio incontrollabile e per quanto gli dava sui nervi era allo stesso tempo una boccata di aria fresca. La odiava per due minuti e tutto il resto del tempo cercava di conquistarla anche se non sapeva più il motivo che lo spingesse a farlo.
Forse era autolesionista.
Rei sbatté la porta uscendo dalla stanza e ora il turno di aggredire Jadeite era quello di Sadao.
«Ecco l’hai fatta andare via!».
«Vuoi metterti a piangere, ora?».
«I-io non pi-piango!».
«Mammina è andata via e ti stai lamentando!».
La porta si riaprì immediatamente mostrando Rei paonazza in viso. «NON SONO SUA MADRE!».
«Beh lo…».
«SPOSTATI!» anche Sadao urlò. «To-to-togliti dalla tua NON postazione!».
«NE HO ABBASTANZA» Jadeite batté il pugno sulla scrivania esasperato.
«Non capisci ni-niente» Sadao non riuscì a trattenersi.
«Già» diede manforte Rei.
«Quel-lo è l’unico computer che può accedere a-ai dati fe-federali protetti».
 
Il silenzio calò nella stanza. Attorno a loro i centralini non smettevano di squillare e gli occhi di otto agenti erano fissi sulle imposte sgangherate dell’ufficio che era stato di Setsuna.
Ma lì dentro c’erano solo tre respiri e lo sfarfallio di un neon mai aggiustato che si portava con sé troppi ricordi perché Rei potesse ancora del tutto accantonare il suo passato.
 
E se Setsuna fosse stata ancora lì con loro avrebbe avuto un deja vù nel vedere Michiru Kaiō percorrere il corridoio e arrivare lì nella sua stanza.
 
 
***
 
Haruka era sfinita.
La stessa canzone veniva canticchiata da qualcuno con la voce da usignolo strozzato per l’ennesima volta.
«Ti prego, finiscila. Per l’amor del cielo!» batté sul muro della sua cella per essere più concisa nella sua richiesta.
«Che c’è non ti piace la buona musica?» rispose la voce con un risolino a seguito di quel quesito.
«E’ già difficile stare qui dentro così. Non vorrei anche diventare pazza per colpa tua».
«Come credi abbia fatto lei?».
La bionda sospirò inclinando il capo contro al muro e massaggiandosi i polsi doloranti.
Non aveva voglia di fare conversazione, né tanto meno rispondere agli indovinelli.
Era umida quella cella, il freddo le stava entrando nelle ossa perché la divisa non era calda abbastanza. Seguì con gli occhi una fila di macchie proseguire da metà della parete per poi finire sul soffitto doveva aveva piantato le sue perle cobalto.
«Ehilààà…» sembrava ancora canticchiare.
«Che c’è. Non ho voglia di parlare» sputò seccata.
«Nemmeno di Eudial?».
D’improvviso il nome accese l’interesse della bionda.
Haruka si alzò in piedi come colpita da una scossa elettrica e si diresse contro le sbarre fredde arpionandole con le dita.
«Chi sei? Fatti vedere».
Una testa rossa fece capolino dalla cella a fianco.
«Petirol» fu la risposta dietro un sorrisetto inquietante. «Allora…hai cambiato idea?» la incalzò.
Haruka dovette respirare a fondo. Non si avevano risposte gratuite, soprattutto su gente pericolosa come Eudial.
Ponderò di essersi cacciata in un pasticcio e che per lo più tutto si stava rivelando del tutto inutile, ma forse era arrivata. L’occasione di risollevare le sorti di quel gioco pericolosamente malato poteva essere quella.
«Cosa vuoi in cambio?» dritta al punto. Tagliente come la lama di un coltello.
Petirol sbatté le lunghe ciglia dalla sua gabbia. Non era abituata a ricevere qualcosa indietro visto che il suo Oyabun si era sempre rivelato senza scrupoli e di un egocentrismo troppo ingombrante per tollerare le richieste di qualunque tirapiedi.
«Tu mi fai cinque domande e ottieni le tue risposte, io faccio altrettanto».
Ad Haruka parve uno scambio equo anche se non aveva idea che cosa potesse trarne l’altra da tutto quel ciarlare.
«Ok».
«Tra due ore alla mensa».
 
 
***
 
Michiru non era sicura di quella scelta. Ma Akira e Minako in qualche modo erano diventati la sua famiglia e aveva deciso di lasciarli fuori da quella faccenda, al sicuro. Se ne sarebbero occupate le forze dell’ordine o ancora meglio un avvocato.
Entrare nella stessa centrale di cui aveva varcato la soglia la prima volta in quella notte piovosa per salvare la vita ad Haruka le fece uno strano effetto.
Dovette poggiarsi allo stipite della porta con una mano come se quel gesto potesse aiutarla ad arginare lo tsunami di ricordi di cui fu preda.
«Signora…ehm…» Kaiō o Ten’ō?  Si ritrovò a pensare in preda al panico Jadeite. Non voleva fare brutte figure, non davanti a quell’irriverente di Rei o gliel’avrebbe fatta pagare sino all’eternità.
«Ten’ō» optò poi. «Ha notizie della sua compagna?». Avrebbe dovuto dire marito?
Michiru si ridestò dall’ondata di emozioni da cui fu pervasa.
«Si, io non…capisco…» improvvisamente si ritrovò confusa e tutti gli occhi dei presenti furono puntati su di lei.
«Che è successo?» intervenne Rei.
«Haruka. L’hanno arrestata questa notte».
Jadeite si fece scappare un grugnito di disapprovazione, come un padre farebbe davanti all’ennesimo casino combinato da un adolescente ribelle e pianta grane.
«Non so per quale motivo. Non ha avuto il tempo di spiegarmi nulla. Ma sono venuti a prenderla».
«Ok, calma Michiru» Rei prese in mano la situazione facendola sedere.
«Non possono portare qualcuno in prigione senza un processo e delle prove valide».
«Aveva bevuto? Ha fatto qualche schiamazzo di troppo forse?» chiese senza troppo tatto Jadeite guadagnandosi un’occhiataccia da parte della mora e di Sadao.
Michiru parve rinsavire. «Il furgone» deglutì. «Il furgone non era suo. Forse per qualche strano motivo ha rubato un veicolo…».
Strano motivo? Ma ti senti Michiru? E’ strano che scambi la valigetta ventiquattr’ore con quella identica di un altro uomo d’affari. Non che sei colpevole di furto.
«Ok, ok. Vediamo di risalire a tutta questa faccenda» disse Jadeite con tono professionale.
Digitò sulla tastiera la password del distretto e fece un veloce controllo.
«Sadao potresti guardare le ultime denunce di furto riguardanti furgoni?» chiese distrattamente senza staccare gli occhi dal monitor.
Il giovane ubbidì, ma maldestramente il blocco di documenti gli cadde per terra a causa della mano inabile.
Rei lo guardò torva ma si chinò fulminea per rimediare quel macello.
«Vediamo…» borbottò Jadeite.
«Niente» aggiunse Sadao.
«Cosa vuol dire niente?» lo incalzò il biondo.
«Non ci sono denunce di furto».
«Ma c’è la denuncia per danni di un furgone noleggiato ieri» chiarificò Rei.
«Lo ha riportato una pattuglia questa notte»
«E Haruka è stata qua» la interruppe Jadeite con un ulteriore click del mouse.
«E perché diavolo non è ancora nella nostra cella qui in centrale allora?».
Le iridi di Michiru rimbalzarono sui tre alla ricerca di risposte quanto lei quando la vibrazione del cellulare attirò la sua attenzione.
Aprì l’sms inviato dal numero di Akira.
 
“Bank for International Settlements”.
 
Michiru dovette sbattere un paio di volte le palpebre per arrivare a capo di quello sembrava un vero e proprio rebus.





Note dell'autrice:
Anche a questo giro il capitolo mi stava sfuggendo di mano. Per evitare venisse troppo lungo e di annoiarvi ho deciso di terminarlo così. Mi ero prefissata un paio di altri capitoli per arrivare alla fine di tutto, ma temo ci vorrà qualcosa in più visto che ogni volta mi dilungo come se non ci fosse un domani. Chiedo scusa, non ho più le mie doti di "compattamento storia".
Mi rendo anche conto di star dando quasi più spazio ai personaggi secondari che a Michiru e Haruka, ma cosa volete che vi dica, mi pare doveroso parlare anche di loro e approfondire le loro vicende essendo infondo tutti collegati! 
Ammetto di adorare il rapporto (continuo battibecco) tra Jadeite, Rei e quello sfigatino di Sadao. Perdonatemi dunque se mi dilungo con loro!
Come sempre grazie di tutta la pazienza che nutrite nell'aspettare gli aggiornamenti.

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Capitolo 15
*** Before The Storm ***


Still I want you, but not for your devil side
Not for your haunted life, just for you
So tell me why I deal with your devil side
I deal with your dangerous mind, but never with you
Who’s gonna save you now, who’s gonna save you?
 
Devil Side - Foxes
 
 
 
 


Quello che Petirol aveva definito mensa non era altro che uno stanzone con panche e lunghi tavoli spogli.
Haruka tentennò sulla soglia e la sua attenzione venne catturata dall’unico manifesto appeso alle nudi pareti fredde.
Come intirizzita non poté fare a meno di pensare che tutto lì dentro era di un grigiore e di un’umidità capace d’insinuare il gelo non solo nelle ossa ma anche nella mente delle persone. Forse era per quello che alcuni impazzivano. Per la reclusione in un posto privo di calore e colori, tanto spoglio e vuoto da farti dimenticare di com’è fatto il mondo al di fuori da quelle mura.
Si avvicinò svogliata al pezzo di carta, attenta a non urtare nessuna delle detenute per evitare di incappare in una rissa senza senso o farsi ulteriori nemici.
«Sono le regole» la voce piatta di un giovane in uniforme intento a sgranocchiare una mela la illuminò sul poster.
A quella risposta la bionda si lasciò andare ad uno sbuffo di delusione. Non che avesse pensato potesse trattarsi del manifesto di una band, ma in cuor suo, aveva sperato che quell’unico addobbo possedesse il potere di distrarla.
Si morse il labbro e dovette trattenersi dal colpirsi un lato della testa. Altro che distrazioni, doveva rimanere lucida e concentrata. Quello non era il momento di lasciarsi andare.
Con lo sguardo vagò in cerca di Petirol e ancora una volta venne incalzata dal poliziotto.
«Detenuta o prendi da mangiare o torni in cella. Qui non puoi stare a ciondolare. Le hai lette le regole?».
«Sì» mentì Haruka.
«Allora muovi il culo da qui».
Uno schioccò di lingua fu la manifestazione del suo fastidio, poiché una voce dentro di lei le ordinò di tenere un profilo basso ed evitare ulteriori grane.
Quel posto le aveva fatto passare la fame. Tutto aveva l’odore di marciume lì dentro.
La bionda si diresse ugualmente verso il banco della mensa, prese un vassoio di metallo e lo fece strisciare davanti alla massiccia donna con la retina in testa che serviva i pasti.
«Sei nuova» borbottò quella, studiando il viso di Haruka come a volerle fare una radiografia.
«Beh, mia cara…oggi hai l’onore di provare la nostra sbobba» sentenziò porgendo ad Haruka una scodella colma di un liquido melmoso e verdastro.
Haruka trattenne un conato di disgusto e si limitò a tirare le labbra mentre il cervello le ripeteva di non respirare né con il naso né con la bocca.
«Anche domani sarà lo stesso. Magari di un altro colore».
«Fantastico» si lasciò sfuggire a denti stretti dandole le spalle e sondando una volta ancora l’intera stanza.
Le ci volle poco più di qualche secondo perché il rosso dei capelli di Petirol, rosso sangue come quelli di Eudial, stilettarono la sua vista.
Haruka si diresse verso Petirol stretta nella sua divisa che giocherellava con un frutto.
Le parve un uccellino tanto era esile e con le spalle strette e ricurve verso il piano del tavolo.
Mai badare alle apparenze.
Haruka si sedette di fronte alla rosse facendo sbattere forse troppo violentemente il vassoio sul piano logorato da qualche incisione di nomi, numeri e simboli.
«Perché io ho questa merda e tu quello?».
Petirol sfoggiò un’espressione furba.
«L’ho conservato dall’altra mattina. Il mercoledì è il giorno della frutta» spiegò puntando le pupille nere in quelle di Ruka.
«La vuoi tu?» chiese giocherellando un’ultima volta con l’arancia.
«No».
«Voglio tu mi dia risposte».
«Hai quattro domande» le ricordò la rossa.
«Avevamo un accordo per cinque. Non barare».
«Una l’hai già fatta. Era quella sul perché tu avessi quella roba nel piatto e io no».
Che fregatura, pensò Haruka senza più protestare per attirare meno attenzioni possibili.
«Anche tu sei a quattro» precisò poi la bionda.
Petirol non sembrò volerla contraddire e si strinse nelle spalle smettendo di far rotolare l’agrume da una mano all’altra come fosse una pallina.
«Hai detto che è uscita. Che le hai detto come fare per andarsene. Come avrebbe fatto?».
Le labbra carnose dell’altra formarono un archetto verso le gote. Pareva orgogliosa di quello che stava per dire.
«La pazza».
«Che cosa?! Cosa vuol dire?».
«Ah ah. Hai sprecato un’altra domanda» la riprese Petirol. «Non sei molto brava a questo gioco. Eudial è più furba di te».
Haruka dovette combattere con tutta se stessa per non saltare sul tavolo e metterle le mani al collo.
Calma. Stai calma.
Forse a stare lì dentro stava diventando un mostro come chi si ritrovava al suo fianco.
«La nostra infermeria è al pari di quella di una scuola. Per i postumi di una rissa può andare, ma se sei fuori di testa, a parte con un calmante per cavalli, non ti possono aiutare in alcun modo. Le ho insegnato come fare…in fondo io sono riuscita a farmi portare all’ospedale dove c’erano i tuoi amici».
Gli occhi blu di Haruka si sgranarono. Era rabbia mista a terrore quella che ora si rispecchiava nelle sue iridi.
Non badò al fatto che aveva solo due domande. Ne sprecò un’altra.
«L’hanno riportata lì?».
«Non ho la sfera di cristallo. Non lo so. Ma se la caverà vedrai!».
«Non è per lei che mi preoccupo».
«Ah, no?!» un sorrisetto si fece strada sul viso di Petirol.
 
«Dovresti».
 
 
***
 
 
A volte capitava che la gente sparisse nel nulla. Ma difficilmente si trattava di un’agente di polizia, a meno che non ci fosse lo zampino della mafia.
Ma per Haruka come poteva funzionare? Era stata una parte importante della Yakuza locale, poi si era schierata dalla parte della polizia e ora, ora che doveva essere più al sicuro che mai nella squadra dei buoni pareva essersi fatta di nebbia.
Jadeite non ci stava. Non era il tipo che si perdeva d’animo quando i puzzle non combaciavano.
Non nutriva particolare affetto per la bionda ma decise di agire come se si trattasse di solo lavoro, senza rimuginare troppo sul fatto che invece Rei avrebbe scalato una montagna per arrivare alla verità. Non che a Jadeite paresse fossero migliori amiche, tutt’altro. Rei sembrava nutrire un sentimento rancoroso e maldestro nei confronti di Haruka, ma faceva lo stesso col resto del mondo a meno che non comprendesse quella frana vivente di Sadao o lo spettro di Setsuna.
«Sadao, trova chi era di turno quando Haruka è stata portata via. Fai domande e trova risposte».
«Signor sì» disse il giovane procedendo più veloce della luce.
Michiru era stata intimata di farsi da parte per non ostacolare le indagini e ne aveva approfittato per attaccarsi al telefono.
Il numero di Akira non squillava, solo un messaggio automatico che diceva non essere raggiungibile rispondeva al suo posto.
Michiru respirò a fondo e digitò sul motore di ricerca dello smartphone l’indizio ricevuto dall’amico.
«Bingo» sussurrò tra sé e sé. Si trattava dell’istituzione finanziaria più antica internazionale e si trovava a Basilea.
«Perché cavolo mi parli della Svizzera Akira?». Con un sospiro pesante e una mano alla fronte Michiru provò a pensare.
Akira e Haruka avevano un codice. Un modo di comunicare e fare tutto loro, qualcosa che nessuno avrebbe mai compreso se non fosse stato semplicemente al corrente di tutto e Michiru aveva la certezza più assoluta di non esserlo.
Minako. E il dito non perse tempo a cliccare sul suo nominativo in rubrica.
 
 
***
 
 
Quello era uno di quei casi in cui si dice “essere nel posto sbagliato al momento sbagliato”. Ami era a conoscenza che la sua professione richiedeva lucidità, ma oltre ad essere reduce da un turno apocalittico lo era anche da una nottata senza sonno. Non sarebbe dovuta essere lì, avrebbe dovuto trovare un pretesto e farsi una sana dormita o sarebbe finita lei stessa su una barella.
Si lavò ancora una volta la faccia con l’acqua fredda per assicurarsi di tener gli occhi ben aperti e non cedere alla stanchezza che inesorabilmente si sarebbe fatta sentire di lì a poco. Ogni corpo cede senza sonno, lo avrebbe fatto anche il suo.
Si sistemò il camice, appese il proprio badge al taschino bianco e si richiuse alle spalle la porta dello spogliatoio.
Salutò con un cenno del capo l’infermiera e uno dei medici di turno dopo di che prese l’ascensore per il reparto di psichiatria.
 
 
«Consegna degli oggetti» disse svogliatamente il tirocinante all’ingresso indicando un contenitore di plastica sul banco di fronte a sé.
Stava leggendo un libro e nemmeno l’aveva guardata in faccia. Ami, si chiese dunque, cosa potesse di essere tanto interessante da assorbirlo in quel modo. Ma non aveva nemmeno la forza per indagare di cosa si trattasse e con gesto quasi automatico lasciò i pochi oggetti che aveva indosso al giovane.
Procedette con passo più lento del solito ma col sorriso in viso per la nottata appena trascorsa, solo quando scorse due figure in divisa davanti a una stanza si fece più seria per apparire più professionale.
I due la guardarono dall’alto al basso senza apparire con l’intenzione di farla procedere oltre.
«È da massima sicurezza» sbiascicò il più grosso dei due, senza abbandonare la fondina con la mano.
«A me interessa il motivo per cui è qui» sentenziò per tutta risposta Ami.
«Non sono la psichiatra, ma devo prenderle tutti i valori» i suoi occhi azzurri si puntarono in quelli minacciosi del carcerario che aveva proferito parola.
«Ha inghiottito una lametta. E non è la prima volta che lo fa. Oltre ad andare fuori di testa ogni tre per due e fare cose dell’altro mondo».
Ami inorridì al solo pensiero. Non rispose ed entrò nella stanza senza ancora capire che inghiottire una lametta era il minor dei danni che Eudial potesse compiere.
 
 
***
 
 
Al suo rientro Minako non aveva trovato traccia di Akira in casa. Gli aveva mandato un sms convinta fosse alle prese con i fornelli del ristorante e che non gli avrebbe risposto se non prima di aver trovato il giusto bilanciamento di aromi per il nuovo piatto da inserire nel menù.
Era meglio prima. Si ritrovò a pensare mettendo in silenzioso il cellulare per poi spogliarsi degli abiti con cui era rientrata.
Certo, il più delle volte si ritrovava a ricucire ferite da taglio, estrarre pallottole o curare parti del corpo tumefatte ma Akira e Haruka li ritrovava sempre. E non occorreva un gps per sapere in quale posizione losca fosse il fidanzato quando malamente tentava di tenerla fuori dagli affari più pericolosi.
Stupido ristorante. Non aveva la forza di farsi la doccia. Sfiorò la cicatrice sul ventre provando per la prima volta una strana nostalgia piuttosto che dolore o paura. Quello era l’ultimo segno che le ricordava la vita di un tempo.
Infilò una maglietta e si buttò nel letto come un tuffatore fa dal trampolino. Non fece nemmeno in tempo a coprirsi del tutto con la coperta perché era già caduta tra le braccia di morfeo, mentre Michiru appendeva ogni speranza al segnale libero che il cellulare di Minako continuava a mandare.
 
 
Se non fosse stata così garbata Michiru avrebbe snocciolato un corollario di coloriti insulti all’ennesimo tentativo di contatto nei confronti della coppia amica.
Respirò a fondo tentando di non cedere alla sensazione d’inutilità e fallimento che sembrava volerla prendere a tutti costi, quando Sadao – paonazzo in viso come reduce da una maratona – si precipitò nell’ufficio di Jadeite.
«So-s-so DOVE SI TROVA!».
Michiru parve aver preso la scossa e si affacciò sulla soglia raggiunta anche da Rei che aveva appena abbandonato l’ufficio del suo superiore.
«C-CHIBA. Il carcere di massima sicurezza».
«Fantastico. Una fortezza inespugnabile» commentò Jadeite, mentre Michiru combatteva con le proprie gambe per rimanere in piedi e non svenire.
«Non pare proprio una coincidenza» soffiò Sadao trovando lo sguardo di Rei. «È lo stesso dove ho scortato Eudial».
«Mi state dicendo…» la voce di Michiru da sottile si alzò sempre di più ad ogni singola parola. «che la mia Ruka si trova rinchiusa con quella FOLLE?!».
«Proprio così» una quinta voce si aggiunse alla conversazione.
Michiru si voltò di scatto riconoscendola all’istante. Era la prima voce che udì quando si ritrovò per la prima volta terrorizzata e spaesata. La stessa voce che le aveva dato coraggio e si era sempre rivolta a lei in modo carezzevole persino quando si erano ritrovati su due versanti opposti. Buoni e cattivi. E adesso Michiru non aveva più idea a quale schiera appartenessero tutti loro, ma riuscì solo a buttare le braccia al collo di Akira.
«Perché fate sempre cose così idiote?» domandò col mento che affondava nel cappotto dell’altro.
«Perché mi lascio sempre convincere dalla mia migliore amica a farle».
«Dobbiamo tirarla fuori di lì» commentò Michiru come rinvigorita da quell’abbraccio caldo. Erano come quelli di Haruka, avvolgenti e protettivi.
«Si, ma come? Io ho potuto a malapena varcare il cancello d’entrata. Non avevo quasi l’autorizzazione per arrivare in portineria» disse con fare deluso Sadao.
 

Rei ripensò a Setsuna. Alle sue parole. Al fatto che in un momento come quello, nel suo ultimo istante di vita avesse parlato in favore di Haruka. E dopo tutto quel tempo, ancora una volta, Rei non riusciva a vedere quello che Setsuna aveva intravisto nella bionda. Probabilmente non sarebbe mai riuscita a farlo. Di una cosa era certa, però. Che per quanto Setsuna fosse ligia al suo ruolo, alle regole e al sistema non se ne sarebbe tirata fuori. E ancora una volta Rei non si volle trovare nella posizione di deluderla.
«Posso farlo io» disse in tono piatto.
Jadeite e Sadao le lanciarono uno sguardo interrogativo.
«Sono appena entrata nella squadra anti sommossa» spiegò brevemente. Era l’unica cosa che poteva fare nel suo stato. Incanalare tutte le sue emozioni nel fermare i disordini così come avrebbe dovuto riuscire a farlo con i suoi sentimenti e gli strascichi che Setsuna aveva lasciato dentro di lei.
«Mi basta solo che faccia scoppiare una rivolta. Chiba chiama il nostro distretto. Io vado con la squadra a sedare i disordini e la faccio uscire».
Sadao sentì la mascella cedergli e non poté fare a meno di spalancare la bocca senza riuscire a dire altro.
Akira fece spostare Michiru nel corridoio poggiandole le mani sulle spalle.
«Ascolta…» la sua voce era un sussurro e i suoi occhi grigi sembrarono voler sprofondare oltre le sue iridi blu. Lanciò un’occhiata ai tre agenti come a sincerarsi non stessero ascoltando e poi le diede in mano la chiave per l’unica via d’uscita possibile.
«Se riusciamo a farla uscire Michiru. Avrete una sola possibilità e non sarà facile».
La premessa non era un granché ma Michiru non lo fermò.
«Ho preparato tutto. Nel posto dell’sms troverete abbastanza denaro per andarvene. Dovrete sparire. Farlo per un bel pò».
«Ma…».
«So che non è quello che hai sempre sognato. Probabilmente non andrebbe bene nemmeno a quella mattacchiona di Minako, ma è l’unico modo. Niente contatti. Con nessuno Michi. Voi tre e una nuova vita. Lontano da qui, dai guai».
«Akira…» la mano di Michiru gli strinse l’avambraccio e con lo sguardo sembrava implorarlo di trovare un’altra soluzione.
«Sei una madre ora oltre che una moglie. Se vuoi rimanere con lei devi pensare anche a questo e fare la scelta giusta».
Lui sorrise. Michiru non seppe come Akira riuscisse a farlo in quel momento, ma ringraziò tutti gli dei esistenti per averlo incontrato.





Note dell'autrice:

Bella gente è stata dura, ma siamo di nuovo qui. Capisco che questo capitolo sia tutto fumo e niente arrosto. Nel senso che...si parla, si parla e si parla e basta. Ma il prossimo sarà movimentato dall'inizio alla fine da quello che potete intuire da tutti questi dialoghi. 

(!!!) mi sono resa conto nello scrivere che c'è la cosa più irreale di questo mondo nel capitolo. Ovvero il rientro di Akira che temporalmente non sarebbe potuto avvenire. Non badateci per favore. Volevo che Akira fosse con Michiru in quel momento e non sapevo come altro farlo essere presente fisicamente se non sovvertendo le leggi dello spazio/tempo XD
 

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Capitolo 16
*** See You Again ***


ATTENZIONE: Inutile dirlo (forse), ma il capitolo contiene scene di violenza. Se vi va potete leggere l'ultima parte, quella dell'epilogo, con il sottofondo musicale che vi ho proposto.
Detto questo, buona lettura. Spero possiate godervi quest'ultimo capitolo.

 



«Ok, credo sia il momento di fare una radiografia per controllare la posizione di ciò che hai ingerito» sentenziò Ami dopo aver provveduto a controllare cautamente l’addome della propria paziente.
Eudial non aveva proferito parola. Era rimasta per tutto il tempo in contemplazione della giovane dottoressa per essere sicura si trattasse della sorella di Michiru.
Sapeva bene che per un buon effetto sorpresa c’era bisogno di un precedente e meticoloso studio della situazione.
Eudial aveva l’ottimo intuito di una cacciatrice esperta, incapace di tornarsene a casa dopo una battuta di caccia a mani vuote.
Ami tolse i guanti in lattice per poi buttarli nel cestino accanto al lettino.
«Posso chiederti una cosa?».
Eudial parve sorpresa da quella domanda.
«Se i due lì fuori te lo permettono…» canzonò Eudial.
«Qui dentro comando io, non loro» si lasciò sfuggire una risatina per poi sorvolare con lo sguardo sui polsi ammanettati della propria paziente.
«Perché hai fatto una cosa del genere?».
«Intendi…ingoiare una lametta o finire in carcere?» e il sorriso luciferino apparve sul suo volto.
«La prima».
«Pensi che una come me abbia paura di morire?».
Ami tentennò. Pensava che tutti al mondo ne avessero. Anche chi aveva il sangue freddo di andare a comprare un manuale per il perfetto suicida in libreria pensava potesse averne. Per lei, la vita era un dono talmente prezioso che si trovava incapace di comprendere chi voleva sciuparlo.
«Forse sono stata indiscreta. Ti prego di scusarmi per la mia domanda» piegò gli angoli della bocca in una smorfia imbarazzata e fece per uscire dalla stanza, quando la voce della rossa la bloccò sulla porta.
«Non hai risposto alla mia domanda. Pensi ne abbia?».
Perché Ami aveva cominciato quella conversazione? La stanchezza doveva averle offuscato la mente per tirar fuori certi argomenti con una criminale ricoverata in psichiatria.
«No, affatto» tagliò corto con la mano sulla maniglia.
«E tu ne hai? Mizuno?».
Un brivido percorse la schiena di Ami. Una strana agitazione si fece strada dentro di lei.
Come fa a sapere il mio cognome?
Una mano sfiorò il taschino del camice, mentre un capogiro la colse impreparata.
Deve aver letto il cartellino.
Qualcuno aprì la porta dall’esterno.
«Tutto bene Ami?» la voce di Mamoru la trascinò fuori da quella bolla di ansia che l’aveva inglobata improvvisamente.
Ami riprese coscienza di sé stessa dando la colpa all’eccessiva stanchezza, rispondendo con un segno d’assenso del capo al suo superiore.
«Ci hai messo un po’» spiegò il dottor Chiba, facendo spostare la propria specializzanda in corridoio, chiudendo poi la porta alle spalle della giovane. «Ero solo venuto a controllare».
«Tutto okay e poi ci sono le guardie qui fuori…».
Ami fece più presa sulla stoffa bianca che indossava. Il cartellino non c’era. Lo aveva lasciato all’ingresso dal ragazzo che leggeva.
«C’è bisogno dei raggi, per controllare il corpo ingerito e…».
«Ami, è tutto okay davvero?» la interruppe ancora una volta Mamoru vedendola con lo sguardo perso nel vuoto.
«Sì. E’ solo un po’ di stanchezza. Sul serio» lo rassicurò lei.
«Va bene. Puoi occupartene tu allora? Te la senti?».
«Sì. Però…mi occorrerebbero i suoi dati».
«La cartella clinica si trova in carcere. Faccio fare una chiamata a uno dei due poliziotti e la faccio mandare subito».
Ami annuì. Tornò all’atrio per prendere alla macchinetta una bottiglietta d’acqua e ritirò il proprio cellulare mentre Mamoru si occupava della burocrazia.
Le dita fecero per digitare un messaggio veloce al numero di Sadao, ma che venne prontamente cancellato non appena i passi del suo superiore si fecero nuovamente vicini.
«Ci vorranno una ventina di minuti, puoi prepararla?».
Ami scacciò l’ennesimo brutto presentimento che s’insinuò in lei.
Era una paziente come un’altra. Una vita come un’altra. E lei doveva aiutarla.
 
 
«C’è la necessità di una radiografia per capire il posizionamento della lametta» cominciò a dire ai due poliziotti che si pararono un’ulteriore volta davanti alla porta di Eudial. Persino Ami, la persona più paziente dell’intera Tokyo, cominciava ad averne abbastanza di quei due. Si sentiva come se il pericolo fosse lei e cominciava a stufarsi di dover dare ogni singola spiegazione a quelli che sicuramente non erano i parenti della paziente.
«Devo spostarla e portarla al reparto».
«Vi scortiamo allora».
«Bene, fantastico» schioccò la lingua aprendo la porta per avvicinarsi al lettino.
Eudial appariva leggermente più pallida, ma il luccichio sinistro nei suoi occhi era ancora lì ad aspettare Ami.
«Devi averla fatta grossa» bofonchiò tra sé e sé la giovane dottoressa, spostando il carrello delle medicazioni per poi cominciare a spingere il lettino dotato di ruote.
«Non immagini quanto» rispose Eudial con sorriso tronfio. «Vuoi saperle tutte?».
«Non ne sono sicura…» indugiò sempre con delicatezza Ami per poi arrivare a metà del reparto e far passare un’inserviente con l’ingombrante carico della lavanderia.
Sentiva alle sue spalle i poliziotti armati e furono quasi i due a darle la pelle d’oca piuttosto che la prigioniera.
«Estorsione di denaro…» cominciò la rossa.
«Traffico illecito…» continuò con la leggerezza di chi fa la lista della spesa.
«Di cosa?» la curiosità prese in contropiede il raziocinio di Ami.
«Molte cose. Droga, animali, armi…».
La targhetta attaccata alla penultima porta del corridoio fu l’indizio del loro arrivo.
«Credo possa bastare» disse con la voce spezzata da una risatina imbarazzata.
Fraternizzare con una criminale non era una grande idea, ma la stanchezza faceva brutti scherzi. Inoltre Ami aveva imparato a non fare di tutta l’erba un fascio dopo aver conosciuto Haruka e Akira che tutto si poteva dire sui due tranne che fossero dei santi, nonostante il loro buon cuore.
Ami aiutò a scendere dalla barella Eudial facendola accomodare sul lettino al di sotto del macchinario per i raggi.
«Le manette» indicò Ami al poliziotto più giovane.
«Ho bisogno le togliate per i raggi».
Lo sguardo dell’uomo si fece contrariato e Ami rimase ferma sulla propria posizione.
Seguirono dei borbottii e la ricerca delle chiavi per aprire i due anelli metallici.
Mamoru si sporse sulla soglia con la cartella del carcere e la sventolò per attirare l’attenzione di Ami che lo raggiunse ringraziandolo.
«Abbiamo fatto?» indagò lei mostrando loro la porta dalla quale uscire.
«Devo dirle che non è un’ottima idea» la ragguagliò lo stesso che l’aveva guardata come se fosse un insetto da schiacciare.
«Nemmeno quella di stare nel reparto di psichiatria con una pistola lo è».
L’uomo emise un rumore rauco dal fondo della gola e uscì.
«Tu puoi stare nella cabina dell’operatore con me. In due dovremmo riuscire».
Non aveva mai dato così tanti ordini in vita sua come in quei due minuti.
Il poliziotto si allontanò ed Ami aprì la cartella contenente la storia clinica della sua paziente.
«Dottoressa…»
«Si?» rispose distrattamente Ami scorrendo con un dito il foglio scritto a computer.
Un nome saettò dalla pagina al suo cervello. Non l’aveva mai incontrata ma era impossibile non averne sentito parlare da sua sorella, Haruka, Akira o Minako.
Impossibile.
Le mani improvvisamente presero a sudarle.
«Dottoressa…» insistette Eudial vedendo l’espressione facciale di Ami farsi più inquieta mentre con uno schiocco richiudeva la cartella.
«Non le ho finito l’elenco».
«Possiamo farlo dopo, ora cerca di stare ferma, ci vorrà solo un minu-».
«Omicidio. Plurimo. Da mio marito a tanti altri. Tra cui, anche se indirettamente, quello dell’agente Meiō».
Ami, pietrificata, smise di respirare.
«Poi…aggressione. Una biondina con una chiacchera spaventosa».
Minako. Ora il viso di Ami si era tramutato in una maschera di orrore. E tutto il panico di quella notte tornò a galla come se avesse nuovamente davanti agli occhi Akira con la maglia rossa di sangue e l’amica incosciente tra le braccia.
Ma Eudial come un clown del terrore doveva ancora tirar fuori dal suo cappello l’ultimo dei suoi trucchi.
«Ci possiamo mettere anche il rapimento».
Ami mosse un passo all’indietro.
«Prima quello di Haruka, poi quello di Michiru. Le conosce dottoressa, non è così?».
«Ora facciamo le radiografie» le uscì un sussurro. La coda dell’occhio cercò il poliziotto nel cabinotto, ma di lui nessuna traccia.
Eudial balzò giù dal lettino. Aggredì Ami alle spalle, facendo scivolare giù dalla manica del camice il tubo di una flebo che le strinse attorno al collo.
Ami si divincolò. Le diede una gomitata e le labbra le si spalancarono in cerca di ossigeno, portando le dita al collo e cercando di insinuarsi nello spazio ormai inesistente tra la pelle e il tubo trasparente.
«Fortuna mi hai fatto togliere le manette dolcezza. Sarebbe stato più scomodo farlo con quelle» le bisbigliò Eudial all’orecchio.
Ami reclinò la testa indietro, vide il soffitto, cercò un briciolo d’ossigeno al quale aggrapparsi e tentò ancora una volta di liberarsi da quella presa.
Persero l’equilibrio, cadendo a terra. La presa al collo si fece più lenta nello strattone e recuperò aria. Ma Eudial non mollava, era senza scrupoli e non se ne sarebbe andata senza una scia di cadaveri al suo seguito.
La mano destra si aprì a palmo aperto sul pavimento. Ami intercettò il cellulare riuscendo a sbloccarlo.
«Per chi è l’ultima chiamata?» chiese ridendosela Eudial tornando a stringere più forte.
«Sss-» la voce di Ami era ormai un sibilo.
«Comincia con…?».
Eudial che amava giocare come facevano i gatti con i topi allentò nuovamente la presa per ascoltare meglio.
«Ss-Sadao» il comando vocale riuscì ad attivare la chiamata.
Ami questa volta col gomito puntò al collo dell’altra.
Eudial emise un rantolo ed Ami riuscì a liberarsi dalla trappola mortale che le aveva teso.
Incespicò a gattoni, si aggrappò al lettino per rialzarsi e Eudial la ritirò a terra.
Dall’altro capo del telefono la voce di Sadao rispose.
Ami non lasciò la presa e scalciò lontana quel che bastava Eudial per rialzarsi.
«E’ qui. EUDIAL!» urlò senza articolare una vera frase, con il fiato grosso e il cuore in gola. Si precipitò alla cabina con Eudial di nuovo su due gambe.
Ami arrivò al bottone per la chiusura della porta e dall’altre parte del vetro rimase la regina rossa a guardarla con tutto il rancore di un serial killer.
 
 
*** 
 
 
«Funzionerà?».
«Deve funzionare».
 
Con quello scambio di battute Michiru e Akira si erano divisi. Lui era corso a noleggiare un nuovo furgone e lei si era precipitata a ripescare i documenti e a preparare i bagagli per una fuga da film.
Ci fu un momento di totale immobilità per Michiru. Si era fermata davanti all’armadio con le ante spalancate a fissare la fila di abiti appesi.
Sarebbe bastato quello? Un paio di vestiti per ricominciare un’intera vita? E tutte le loro cose sparse per casa? Le fotografie, i quadri appesi alle pareti? Michiru era una che faceva il nido. Che rametto dopo rametto intrecciava ogni cosa per rendere confortevole e calda la propria casa. Era un uccellino operoso che aveva costruito con cura un mondo intero per lei e chi amava. Ora doveva abbandonarlo. Doveva abbandonare tutti.
Respirò. Lo fece profondamente e con un suono profondo che non le si addiceva.
Dovette ripescare ogni particella di aria dal fondo dello stomaco per riuscire in quell’ennesima sfida.
Michiru era una che restava e non abbandonava, ma Michiru era anche una che avrebbe fatto ogni cosa per amore.
 
«Ce la fai…» si disse tra sé e sé.
«Si che ce la fai» rispose una voce alle sue spalle fin troppo familiare.
Minako era entrata in punta di piedi e con sé recava due enormi buste di carta.
«Ma anche una fuga ha bisogno di stile!» il sorriso sul suo volto era quasi esultante e Michiru non poté trattenersi oltre dal correre ad abbracciarla.
I doni di Minako caddero a terra per rispondere alla stretta affettuosa dell’amica.
«Promettimi una cosa» sibilò Michiru col volto poggiato sulla spalla dell’altra.
«Promettimi che starai vicina ad Ami. Che ti prenderai cura di lei».
«Promesso».
Un altro macigno sembrò scollarsi dalla pila che pesava sul cuore di Michiru.
Anche una fuga aveva bisogno di alleati e lei e Haruka ne avevano da vendere.
«Ora pensiamo alla vostra lunga vacanza d’accordo?».
Michiru annuì con un gesto lento e misurato del capo preparandosi a raccimolare solo lo stretto necessario.
«Con la Yakuza si viaggia leggeri. Niente valige ingombranti» ne convenne Minako.
«Non so se mi è mancata la parola Yakuza».
«Ti mancate eccome» sospirò con leggerezza Minako. «Credo tu debba arrenderti Michiru…perché la tua famiglia è questo. La parentesi vita normale devi ammettere che non è nelle nostre corde!».
«Ne devo convenire».
«Non puoi dire di annoiarti!».
«Questo mai!».
 
***
 

Tutto era pronto. O almeno era quello che Akira sperava.
Aveva di nuovo la sua “bambina” lucente incastrata tra la vita e i pantaloni giusto per prevenzione anche se un’arma era la cosa meno raccomandabile da introdurre in una prigione.
Lo scarico del furgoncino borbottò ancora una volta all’entrata dell’imponente cancello e la guardia decise di liberarsi in modo svogliato del chewingum che stava masticando da ormai troppo tempo.
«Il furgone non è il solito…» commentò la poliziotta più tonda che alta alla guardiola.
«Quello della compagnia è a far manutenzione» borbottò tentando di essere il più convincente possibile Akira senza però guardarla negli occhi.
«Mmh» fu l’affermazione ancora poco convinta della donna.
«Vuole che li chiami?» due battiti di dita sul volante e il suo sguardo ghiaccio assunse l’espressione di chi è certo della sentenza che sta per sputare. «Se vuole lo faccio. Però il mio supervisore non sarà felice della telefonata e passeremo momenti poco piacevoli entrambi…».
La donna non sembrava essere una che amava essere richiamata o a cui piaceva subire una lavata di capo inutile.
«Le apro il vano, così può controllare».
Akira con un tasto sbloccò le portiere posteriori del furgone e scese spegnendo il motore per rendersi utile.
«Vede?» indicò l’ultima pila di scatoloni sulla destra. «In quelle scatole ci sono fagioli in scatola, piselli e pelati».
La guardia, appoggiò pesantemente la pianta del piede sul furgone e si diede una spinta letargica per salire.
Indossò un paio di guanti in lattice con tanto di schioccò e analizzo alcune delle casse in legno sulla sinistra.
«Lì invece c’è la verdure e la frutta fresca» puntualizzò Akira.
«E il pasto pronto?» lo interrogò con aria dubbiosa mentre spostava alcune rape e analizzava un paio di sacchi di patate dolci.
«La sbobba?» Akira imitò il tono sarcastico di chi sa benissimo di cosa sta parlando.
«Esattamente davanti a lei. Ci andrei piano con le dita, potrebbe essere una brodaglia radio attiva!».
«Tanto meglio…» disse lei con tono piatto, decidendo che l’ispezione fatta era sufficiente.
«Se così fosse ci libereremmo più velocemente di queste canaglie».
Akira provò a sorridere come se fosse d’accordo su ogni singola sillaba proferita dalle labbra leggermente irregolari e carnose della sua interlocutrice.
«Apro il cancello».
«Grazie, metto in moto».
Risalì al posto di guida girando la chiave per poi inserire la marcia e attendere di poter entrare. Accennò un saluto col capo coperto da un cappellino rosso e si diresse verso il retro della cucina.
 
 
Quando entrò rabbrividì. Mai, se lui ne fosse stato il proprietario, avrebbe permesso che una cucina si riducesse in quello stato o che la dispensa proponesse solo scatolame di bassa qualità piuttosto che materie fresche.
Tentò di cancellare il disappunto dal suo volto e richiamò l’attenzione di una delle responsabili che mandò un paio di detenute a scaricare, sotto stretta sorveglianza, le casse di alimenti dal furgoncino.
Akira si munì di uno dei contenitori pieni di brodaglia da portare al banco della mensa.
Qualcuno si lamentò per il ritardo dell’arrivo delle cibarie, ma lui sfoggiò il proprio sorriso perfetto offrendosi di dare una mano. Non ricevendo alcuna opzione si munì di guanti mono uso e tenne gli occhi fissi sulla porta della mensa. Entrarono alcune prigioniere, poi un’esile fiamma rossastra dagli occhi spiritati.
Trattenne il respiro e prese un piatto nella mano sinistra e poi il mestolo nella destra.
«Andiamo Ruka…»sibilò tra i denti, stringendo i canini come una fiera pronta a ruggire.
Una donna tatuata attirò la sua attenzione battendo il palmo due volte sotto al suo naso richiedendo la sua porzione giornaliera.
«Bella faccia sei nuovo?» lo interrogò cercando di cogliere il suo sguardo al di sotto della visiera rossa calata sul viso.
«Può darsi…».
Akira le porse il piatto, lo fece come al rallentatore per osservare meglio il tatuaggio dell’altra e vi colse i segni della Yakuza.
«Che c’è?» brontolò lei tentando di avere il suo pasto quando Akira lo ritrasse verso il proprio petto.
«Ten’ō».
L’altra aggrottò la fronte.
«La voltafaccia?».
«Ne abbiamo tanti tra le forze dell’ordine e non sono voltafaccia per noi, ma per lo stato. Ne abbiamo anche tra gli avvocati…siamo ovunque…».
L’altra non parve convinta e Akira non aveva intenzione di cominciare un’arringa in difesa dell’amica con un cervello ottuso come quello che si trovava di fronte.
Si limitò a passare il piatto ad un’altra carcerata in fila dopo quella con cui stava parlando.
Voleva mangiare. Lo avrebbe avuto solo se le avesse detto di Haruka.
«Hei, ma…».
Akira le sorrise amabilmente «avanti la prossima!».
 
 
*** 
 
 
«Io voto contro» Jadeite irremovibile stava esaurendo la pazienza di Rei che si assicurava di aver tutto in ordine per la sua entrata in scena.
«Io non ti capisco» continuò il biondo in quella discussione a senso unico.
Rei gli dava le spalle, impegnata a legarsi i lunghi capelli corvini in una sorta di acconciatura che le avrebbe reso più semplice infilarsi il caschetto.
Jadeite, mai ignorato nella sua vita perse il controllo.
Si alzò come una furia dalla panca e batté il pugno contro l’armadietto facendo sobbalzare Rei.
«MI STAI ASCOLTANDO?!».
La mora dovette chiudere gli occhi e concentrarsi sul proprio respiro. Era stato l’armadietto non l’ultimo colpo di pistola che riecheggiava nell’aria dopo quello stupido inseguimento in cui una parte di lei era morta.
«REI!».
«Piantala» i suoi occhi scuri saettarono in quelli cerulei del biondo.
«No» ribatté l’altro.
«Diavolo, perché te ne importa tanto?».
«Perché m’importa di te, stupida idiota».
«Galante…» commentò piatta Rei chiudendo con la stessa forza che ci avevo messo lui il suo armadietto.
Jadeite non sapeva assolutamente come prenderla, come decifrare l’enigma che aveva davanti. Faceva un passo avanti e si allontanavano di cinque.
Lui respirò a fondo. L’aveva sempre chiamata con nomignoli carini che lei sembrava odiare visceralmente e ora pareva offesa perché la lingua aveva sputato quelle due parola sull’onda della rabbia.
Era una stupida, un’idiota, una giovane detestabile e una bellissima incosciente. E lo faceva dannare in continuazione.
«Senti…» provò a rimediare, ma lei lo interruppe subito.
«È probabilmente la prima cosa vera che ti esce di bocca, non occorrono scuse».
«Io non ti capisco proprio» era tormentato. Più si arrovellava, meno capiva e trovava un senso logico a tutta quella faccenda, al comportamento di lei.
«Lo so che non capisci. Quindi è inutile che io mi spieghi e smettila di tormentarmi una buona volta per tutte».
Jadeite dovette fare appello a tutto il suo buon senso. Sentiva ribollire il sangue fino alle tempie. Lui non accettava una sconfitta, lui non sapeva nemmeno come si faceva a perdere.
Gli avevano insegnato a non demordere, a non fuggire mai, a non mollare.
«Ora puoi andartene?» chiese lei nervosa portando le dita sul bottone dei pantaloni per cambiarsi e mettere la divisa anti-sommossa.
«Non è lo spogliatoio femminile» rispose dispettoso.
«Non mi va che tu mi veda» ribatté stizzita lei.
«Sono affari tuoi».
«LEVATI DI TORNO».
Jadeite non si mosse. Forse se fosse rimasto lì lei non si sarebbe cambiata e non sarebbe andata a Chiba a rischiare il collo.
Ma Rei era un toro impazzito che continuava a vedere rosso. Era un treno pronto a deragliare pur di non dare a lui, né a qualcun altro, la possibilità di fermarla.
«Bene, come ti pare» slacciò il bottone e tirò giù la zip sempre dandogli le spalle.
«Tanto siamo tutti grandi e vaccinati. E un culo in vita tua l’avrai pure visto» era arrabbiata e una nota di sfinimento macchiò tutto quell’astio che stava vomitando malamente su di lui.
«Smettila» ordinò lui, ma con un tono che mai aveva usato prima.
Pareva una supplica quella di Jadeite, mentre poggiava il petto contro le sue scapole e portava le mani sulle sue come a fermarla.
«Io non ti capisco…» le soffiò all’orecchio.
Sentì Rei irrigidirsi e tentare di sfuggire a quella presa tutt’altro che ferrea.
«Io non ti capisco, ma voglio che mi spieghi».
La mora sospirò sentendo di dover smettere di combattere quell’inutile ed estenuante guerra.
Jadeite la costrinse a girarsi e per la prima volta Rei abbassò lo sguardo.
Si ricordò di quel sogno. Quello tra le fiamme, quello in cui il cuore alle sue spalle che batteva non era di Setsuna bensì di Jadeite.
«Ne vale sul serio la pena?» chiese lui sottovoce come se le stesse domandando di un segreto.
«Di perdere tutto. Ne vale davvero la pena per loro?».
Rei non rispose, ma alzò il viso con gli occhi lucidi da apparire una notte stellata a Jedeite.
Lui lasciò cadere l’ascia di guerra e lei abbassò ogni difesa. E Rei si sentì liberata di ogni peso mentre le loro labbra si sfiorarono per incontrarsi la prima volta.
 
***
 
 
Akira quasi fece fatica a riconoscerla quando entrò nel refettorio con le spalle ricurve, ma mai avrebbe dimenticato quella zazzera bionda e scompigliata.
La Yakuza tatuata per avere il suo piatto di minestra gli aveva fatto sapere che Haruka si sarebbe presentata. Lo faceva in ritardo ma arrivava sempre.
Ed eccola lì con l’aria svogliata che faceva trascinare sul piano il vassoio di plastica consunto.
«Hey bionda».
Haruka si bloccò.
Ecco ci siamo, pensò con uno sbuffo e strizzando appena le palpebre. Doveva aver le traveggole. Eppure non si aspettava di cominciare così presto ad impazzire in quel posto, ma avrebbe giurati di aver sentito la voce di Akira.
«Ha-ru-ka» Akira si sforzò di farsi sentire dall’altra ma senza parlare troppo a voce alta, anche se il baccano delle detenute con i loro piatti e bicchieri attutiva sicuramente ogni tipo di conversazione.
«Akira?» Haruka parve svegliarsi tutta in una volta alzando gli occhi blu per incrociare le tanto familiari lande ghiacciate dell’amico.
«Che cosa ci f-».
«Non la mangiare questa schifezza, ti prego. Credo ti farà stare sul gabinetto per un’ora se lo fai e penso che non sia come quella del grand’hotel la tazza qui» disse tutto d’un fiato Akira, armandosi di condimento per prendere tempo e allungare la brodaglia da servirle.
«No fa schifo proprio, ma quando mai siamo stati al bagno del grand’hotel?».
«È un modo di dire…».
«Ok, penso di non saper più fare conversazione» constatò confusa Haruka.
«Non sei mai stata una cima in questo. Di solito eri tutta sbuffi, parolacce e grugniti» la ragguagliò Akira.
Come un fulmine a ciel sereno, il tormento che l’aveva tenuta sveglia per tutto il tempo squarciò l’allegria ritrovata nel vedere la faccia amica.
Haruka prese a sudare freddo.
«Akira, Michiru. Michiru sta bene? Eudial è uscita di qui e…».
«HEY TU!» una voce dalla cucina richiamò l’attenzione di Akira prima che potesse rispondere.
«Si proprio tu capellino rosso».
Akira istintivamente portò la mano alla cintura nella quale era incastrata la pistola.
Erano già stati scoperti? Non aveva ancora avvertito Haruka. Avrebbe dovuto sparare?
«Che cavolo ti salta in mente?!».
«Come prego?» domandò indeciso sul da farsi lui.
Sentiva gli occhi di Haruka sulle proprie spalle, vigili.
«Cosa credi di fare…» l’inserviente ai fornelli lo guardava con aria minacciosa «con quel cappellino?!».
Akira tirò un sospiro di sollievo e il cervello diede il comando ad ogni muscolo di rilassarsi.
«Metti questa. Capelli raccolti nella cuffietta usa e getta. E’ la prassi».
«Si, signora» rispose forse con un po’ troppo vigore, ma era quasi entusiasta di poter mettere quel copricapo piuttosto che cominciare con uno scontro a fuoco ancor prima di mettere in guardia l’amica.
«Sexy…» commentò Haruka prendendolo in giro.
«Lo so anche Mina, me lo dice sempre!» gli schioccò un occhiolino frettoloso e poi prendendo il mestolo si adoperò per servirle il pranzo.
«Allora, Michiru?!» insistette di nuovo la bionda.
«È a posto Eudial non si è fatta vedere».
«Devi starle addosso» insistette Haruka con gli occhi quasi fuori dalle orbite per la tensione.
«Haru, ascoltami…» deviò il discorso Akira.  «Abbiamo poco tempo. Devi fare una cosa che ti riesce molto bene».
«Si, ma…».
«Michiru è okay, non preoccuparti di questo» le passò il piatto come se fosse un’operazione certosina da fare.
«Devi provocare una rivolta».
Haruka tentennò. Avevano così pochi minuti di aria libera che doveva davvero impegnarsi per fare una cosa del genere.
«Qualcosa di grosso…qualcosa per cui debbano chiamare l’antisommossa…».
«Ooh abbiamo fame!» una prigioniera interruppe la loro conversazione lamentandosi per la lentezza.
Akira gli lanciò uno sguardo torvo per zittirla.
«Fidati, fallo. E resta fuori dalle sbarre per più tempo che riesci».
Haruka strinse il vassoio. Vi arpionò le dita come fosse l’unica ancora a poterla tenere a galla in quel mare di guai.
«Carpe Diem» disse con un sorriso.
Akira non comprese a pieno quelle parole e la guardò interrogativo. La vicina di Haruka perse la pazienza e reclamò selvaggiamente la sua porzione per il pranzo.
Haruka la guardò, assottigliando lo sguardo.
«Che hai da guardare tu».
Akira deglutì.
«Ha-Haru…» biascicò a voce bassa.
«Ti servo il pranzo, stronza» annunciò Haruka mollando vassoio e piatto sulla faccia della criminale.
 
«Non adesso Haruka!! Troppo presto!».
 
 
***
 

Sadao si precipitò letteralmente oltre le porte automatiche dell’ospedale. Prese contro ad un paio di persone e ad un infermiera, poiché la preoccupazione non gli permetteva di perdere tempo a guardare chi aveva intorno.
Salì le scale con il braccio buono teso verso la fondina della pistola, lanciando solamente un’occhiata frettolosa alle indicazioni dei reparti.
Ci aveva passato sin troppo tempo lì dentro e guardare i cartelli era un’operazione superflua ma in qualche modo riusciva a placare il terrore di trovare Ami troppo tardi.
Spinse le porte d’entrata al piano di psichiatria ignorando il ragazzo alla guardiola che chiedeva di depositare qualsiasi oggetto potenzialmente pericoloso.
«Signore!».
Sadao sentiva solo il suo respiro e lanciava occhiate dentro ogni porta del reparto.
«Signore aspetti!».
Alle sue spalle quel richiamo gli stava facendo ribollire il cervello.
«Signore sarò costretto a chiamare la sicurezza se non si ferma e non consegna…».
Sadao si arrestò, ritrovandosi il giovane inserviente addosso perché non aveva previsto quella brusca fermata.
«La sicurezza sono io». Sadao insipirò ed espirò cercando un po’ di calma. Non era da lui essere una persona prepotente.
Mostrò il proprio distintivo come ad avvisare il poveretto che sarebbe andato dritto in centrale se avesse insistito ad infastidirlo.
«Dov’è la dottoressa Mizuno?».
Il giovane deglutì indicando con il dito la propria desta.
«Radiografia. Giù di là».
«G-grazie».
Sadao si ricompose e tornò alla ricerca di Ami.
 
Impiegò solo un paio di minuti per trovarla. Era seduta a pochi metri da lui su una delle scomode sedie in plastica solitamente usate dai pazienti o dai loro cari con un paio di infermieri attorno e il dottor Chiba chino all’altezza delle sue ginocchia intento a sincerarsi delle sue condizioni.
Sadao provò una fitta di gelosia allo stomaco per quell’uomo che era arrivato prima di lui a prendersi cura di Ami, ma fu una sensazione fugace come un lampo. Svanita all’improvviso nel momento in cui la ragazza lo intravide e non indugiò ad alzarsi e a corrergli incontro.
«S-stai bene?!» domandò preoccupato mentre la fronte di Ami non parve poter aspettare oltre per incastrarsi nell’incavo del suo collo.
Un flebile sì arrivò all’orecchio di Sadao e la sua mano strisciò sulla schiena della ragazza in una carezza di conforto.
«Non l’avevo im-imaginato così il nostro se-secondo appuntamento!».
Ami ridacchiò sentendosi ristorata dal calore del ragazzo.
«Si può sempre rimediare» sussurrò per poi distaccarsi con un gesto lento dalla divisa dell’altro.
«È un invito?» ma il sorriso di Sadao s’incrinò nel vedere i segni rossi sul collo pallido del giovane medico.
Ami se ne rese conto e portò una mano sulla pelle segnata.
«È tutto okay, non-».
«N-no. Non è okay un bel niente!» esclamò lui posando piano il suo palmo sul dorso della mano di Ami e scostandogliela piano dall’ematoma che si stava formando.
«È stata quel demonio?».
Ami annuì con un cenno del capo.
«Ma dove cavolo era la sicurezza?!» lui aveva smesso a balbettare d’improvviso, troppo arrabbiato per trascinarsi nella voce le sue insicurezze.
«Sadao non…»
«Non dirmi di non preoccuparmi Ami, non posso farlo questo».
Ami sospirò pesantemente portando una mano sul braccio ancora leso di Sadao.
«Dov’è?».
«In stanza ora. Con le guardie alla porta».
«La riporto dritta a Chiba».
«Ha bisogno di un intervento, Sadao».
«Se devi farlo tu, voglio essere lì anche io. Non ti lascio più sola con quella».
Ami stava per ribattere pacatamente quando la ricetrasmittente di Sadao gracchiò qualcosa.
Il giovane poliziotto corrugò la fronte chiedendo di ripetere il codice.
«Che succede?» domandò Ami.
 
«Serve la squadra antisommossa alla prigione di Chiba».
 
 
***
 
 
Il caos era esploso all’interno del carcere di massima sicurezza.
La scintilla che aveva instillato Haruka era presto degenerata in una vera e propria esplosione sotto allo sguardo incredulo di Akira.
La vicina della bionda al banco refettorio non parve gradire la portata del pranzo in faccia e schiava della rabbia cieca che l’aveva improvvisamente montata spintonò malamente la sua aggreditrice.
Haruka rispose con stizza a quel contatto e le due finirono per scontrarsi con un’altra prigioniera che non tardò ad unirsi alla zuffa.
Nella mensa si alzarono cori d’incitamento mentre quello scontro prese a diffondersi come un virus mortale, intaccando chiunque si trovasse nelle vicinanze.
 
Tra il rumore sordo dei piedi che battevano sotto ai tavoli, il percuotere di vassoi e le grida che si erano levate da una parte all’altra della stanza, un paio di guardie tentarono di sedare la rivolta appena cominciata.
Akira, senza più temporeggiare, scavalcò il banco della cucina, posizionandosi nell’angolo cieco del locale per poi sparare alla telecamera.
Il colpo di canna fece abbassare a terra tutti quanti, carcerieri compresi. E in quella frazione di secondo il suo sguardo incrociò nuovamente quello dell’amica a cui fece cenno di varcare le porte della stanza e correre altrove.
 
Haruka non dovette farselo ripetere due volte. Il desiderio di evadere da quelle quattro mura e rivedere Michiru era più forte di ogni cosa.
Corse contro corrente, passando a spallate contro le prigioniere attirate dal caos esploso al refettorio. Nessuna si sarebbe fatta scappare un’ occasione per menare le mani o prendere il comando di quel posto.
Le parve di non aver mai visto così tante persone condensate in un unico spazio così ristretto nonostante Tokyo non fosse certo famose per le strade sgombre o grandi distese di praterie.
 
«Ambarabacci, ciccì, co-cò…» mentre Haruka si dirigeva nei bagni una voce cantilenante l’aveva cominciata a seguire.
«chi dal carcere scappò…».
Non ci mise subito a riconoscerla. Solo Petirol era capace di rendere ogni cosa una vera e propria nenia.
Svoltò quasi furtiva, aprendo la porta che dava sulle docce comuni in pessime condizioni.
«Cosa vuoi?» le diede alle spalle per poi fissare le piastrelle macchiate e sbeccate che rattoppavano le mura attorno a lei.
«Vengo con te».
Haruka dovette respirare a fondo per non esplodere.
«Tu…cosa?».
«Sembra che sulla giostra ora il mago della fuga sia tu!» esclamò estasiata l’altra.
Non doveva starci tutta con la testa, ma forse era proprio quello che le aveva fatto vincere un viaggio in psichiatria all’ospedale dove lavorava Ami e che aveva ispirato Eudial per la sua libera uscita.
«Non credo proprio».
«Perché no?». La voce di Petirol aveva assunto una note infantile quasi fosse una bimbetta di sette anni.
«Credo sia sufficiente il piccolo dettaglio che forse non ricordi più…» Haruka la fulminò con lo sguardo. «Sei affiliata con chi ha tentato di distruggere quella che è la mia famiglia».
Haruka non era brava col perdono. Quella capace di tanto sarebbe stata Michiru, non certo lei.
 
 
***
 
 
Quando Rei si ritrovò davanti al cancello d’entrata alla prigione di Chiba, l’agente alla guardiola era nel panico.
«Qual è la situazione?» chiese frettolosa la morettina prima di dare il via alla squadra di scendere dalla camionetta.
«Sono indemoniate» commentò la donna, asciugandosi con il dorso della manica la fronte imperlata di sudore.
«Due giovani agenti se la sono data a gambe. Due sono stati presi in ostaggio e degli altri tre non ricevo notizie. Nessuna però è evasa. Non conoscono i codici di sblocco della cancellata, ma è questione di tempo che qualcuna nel cortile tenti di trovare una via di fuga».
«Sistemiamo tutto noi» disse Rei abbassandosi la visiera del caschetto mentre il veicolo oltrepassava la sbarra d’ingresso.
Si fermarono davanti all’entrata e nel balzare giù dal mezzo Rei sentì rimbombare il suo cuore nel petto.
Le parole di Jadeite erano un’eco nella testa e con loro quel bacio inaspettato tormentava ancora le sue labbra.
«Un uomo per ogni lato della struttura» ordinò con fare militaresco.
 
Setsuna sarebbe stata fiera di lei.
 
«Tu e tu…» indicò due uomini grossi come armadi «dentro con me».
Con la coda dell’occhio un’auto sportiva con a bordo due donne in occhiali da sole e foulard tra i capelli, si appostarono spegnendo il motore poco lontano dalla cancellata sul retro.
Rei si ritrovò a sorridere flebilmente nel riconoscerle.
 
A volte la giustizia si presentava sotto strane forme. A volte quello che appariva come una cosa sbagliata era quella giusta da fare.
 
Rei contò fino a tre per poi entrare seguita dai due uomini all’interno del carcere.
Il corridoio oltre la cancellata appariva come un girone infernale.
C’erano pezzi di volantini ovunque tranne che alle pareti. Strisce di carta igenica sparsa ovunque come dopo una nottata da leoni all’interno di una confraternita.
«Entriamo e chiudiamoci dentro con loro» disse prendendo un respiro più profondo del primo.
«Non sparate se non è necessario» ragguagliò i due accompagnatori prima di procedere oltre.
Il rumore metallico del cancello attirò l’attenzione di qualcuno.
Setsuna, aiutami a trovarla. Tu l’avresti trovata…
Un campanello di detenute si schierò dinnanzi a loro.
«Rinforzi all’interno tra meno di un minuto» annunciò Rei alla radiolina.
E come tori infuriati, il gruppo di donne si scagliò contro di loro.
 
 
***
 
 
Akira ad ogni angolo metteva fuori uso una telecamera della video sorveglianza.
Ormai gli erano rimaste ben poche pallottole ma il suo intento era quello di ritrovare Haruka per portarla fuori di lì il più presto possibile.
Nel corridoio incrociò un agente che con la mano sulla propria fondina avanzava verso di lui con fare minaccioso.
«Ehi tu. Che ci fai qui?».
«Amico, di là è la guerra» lo ragguagliò Akira.
«Si ma tu cosa ci fai qui! Non ci puoi sta-» Akira gli arrivò tanto vicino da prenderlo per un braccio e costringerlo contro il suo petto puntandogli la pistola alla tempia. Non aveva intenzione di sparare ma doveva fare in fretta e non finirci lui dentro a quel delirio.
«Sei lento per un poliziotto» disse col sorriso mentre l’altro appariva molto meno divertito.
«Credimi ti sto facendo un favore».
Akira lo trascinò dentro al gabinetto alle loro spalle dove vi trovò Haruka intenta a sondare tombini o vie di fuga libere disponibili.
«È arrivata la squadra antisommossa!» polemizzò riuscendo a sbirciare da una piccola feritoia.
«Sono i soccorsi» la ragguagliò Akira.
Haruka aveva smesso di provare a capire. Si era persa fin troppe cose e recuperarle tutte alla velocità della luce era pressoché impossibile.
«Cosa ci fai con quello?» domandò indicando l’agente sempre più irritato per la situazione.
«Ti ho portato la copertura!».
Akira lo colpì col calcio della pistola.
«Ecco. Fuori uso per un pò».
«Come ai vecchi tempi…» rise Haruka.
«Come ai vecchi tempi».
 
 
Nel corridoio A, Rei si riparava da una pioggia di corpi con il proprio scudo.
Avanzava lentamente, sentendo scricchiolare giunture e mascelle tra insulti e urla di rabbia che grattavano in gola alla folla inferocita.
«Ci dividiamo!».
 
Fai sia la via giusta, fai che sia la via giusta.
 
«Io procedo dritta e voi verso i dormitori».
 
E senza indugiare riuscì a divincolarsi da quel groviglio di persone dando l’impressione di chi vuole sedare una rivolta piuttosto che di una che svoltato l’angolo si sarebbe messa a correre.
Ma Rei non correva per la paura, correva per la cosa giusta da fare.
E solo incrociando un cappellino rosso e una zazzera bionda in uniforme capì di averla raggiunta e aver assolto con il suo compito anche il desiderio di Setsuna.
 
«Siete qui» disse col fiatone e la voce leggermente ovattata da tutto il bardamento che aveva addosso.
«Muoviti, prima che cambi idea. C’è un auto che aspetta».
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
EPILOGO
 
 
 
 
It’s been a long day without you my friend
And I’ll tell you all about it when I see you again
We’ve come a long way from where we began
Oh I’ll tell you all about it when I see you again
When I see you again
Damn who knew all the planes we flew
Good things we’ve been through
That I’ll be standing right here
Talking to you about another path I
Know we loved to hit the road and laugh
But something told me that it wouldn’t last
Had to switch up look at things different see the bigger picture
Those were the days
hard work forever pays
now I see you in a better place 
How could we not talk about family when family’s all that we got?
Everything I went through you were standing there by my side
And now you gonna be with me for the last ride
It’s been a long day without you my friend
And I’ll tell you all about it when I see you again
We’ve come a long way from where we began
Oh I’ll tell you all about it when I see you again
when I see you again
 
See You Again – Wiz Khalifa & Charlie Puth
 
 
 
 
 
A volte ancora lo sognava.
Il momento in cui aveva incontrato di nuovo gli occhi di Michiru sull’auto rossa sportiva che aveva portato entrambe lontano dal trambusto delle loro vite.
 
Tokyo risucchiava le esistenze dei suoi abitanti e Haruka si era tirata indietro dal suo sadico gioco.
 
Sembravano avere una nuova luce le iridi celesti tra le onde acqua marina legate al di sotto di un foulard dai colori sgargianti come la personalità dell’amica Minako.
Poi c’era stato il bentornato di Hotaru. Del nuovo piccolo angelo in famiglia che l’aveva accolta prendendole un dito tra le sue manine portandolo direttamente alla bocca, per poi dichiararlo sua proprietà.
 
 
Haruka ancora lo sognava. Lo avvertiva distintamente il bacio frettoloso di Michiru, salato, perché bagnato dalle lacrime di gioia che non era riuscita a trattenere nel ritrovarla accanto a sé.
E ancora nel petto le rimbombava l’amarezza di un addio frettoloso al fratello che aveva trovato in un’infanzia difficile e violenta, fino al momento di quella fuga in grande stile che le aveva condotte troppo lontane da chiunque per essere trovate.
Haruka mugugnò appena. E sotto le sue palpebre le pupille rincorrevano la chioma scura di Rei che l’aveva portata fuori da quell’inferno di cemento. Quando si era tolta il casco, Haruka aveva stentato a riconoscerla. Aveva in viso un’espressione differente da quella che aveva conosciuto la prima volta. Aveva nello sguardo la scintilla che aveva scovato in Setsuna ai tempi in cui era lei quella da catturare. Haruka, guardando Rei quell’ultima volta, si era ritrovata davanti a sé qualcuno che era diventata una donna e aveva trovato la sua strada.
 
Era passato un anno da tutte quelle separazioni.
 
Michiru, vestita in un abito a fiori, sorrideva tenendo alte le piccole mani di Hotaru che stava muovendo i primi passi su un prato verde, immerso nelle colline ocra e le alte file di cipressi della maremma toscana.
Sotto il cielo azzurro, spruzzato solo di qualche nuvola bianca qua e là, Michiru, Haruka e Hotaru avevano trovato la loro pace.
 
«Ruka…» la voce calda di Michiru era una dolce melodia.
«Ruka, così ti brucerai tutta» le soffiò all’orecchio Michiru, avvicinandosi allo sdraio sul quale Haruka si era addormentata.
Il sole di quel pomeriggio italiano avrebbe scottato la pelle chiara della teppista bionda a cui Michiru aveva donato il cuore.
«Mmh» fu la risposta dell’altra che strofinò a forza le palpebre per far svanire le immagini di quei ricordi lontani ma allo stesso tempo sempre vicini.
«Dov’è la mia bambina?» brontolò allungando poi le mani nel vento caldo estivo.
Michiru rise mettendole tra le braccia Hotaru, che incuriosita dalla camicia semi aperta di Haruka prese a giocare con i lembi di stoffa.
«Li stavo sognando…» svelò piano all’amore della sua vita. «Li ho sognati tutti ancora una volta».
Haruka era felice ma ne parlava sempre con una nota di malinconia nella voce.
Michiru strinse una mano alla sua.
«Sarai contenta allora di sapere che è arrivata una lettera da mia sorella».
«Ti ha…contattata?».
Michiru annuì piano, passandole le dita tra la frangia color miele per tranquillizzarla.
«La leggiamo insieme?».
Haruka fece un cenno d’assenso col capo, godendosi quelle righe pronunciate dalla voce della sua Dea di Osaka.
 
Carissima sorella,
il tempo corre e sai benissimo che in un anno possono accadere un mucchio di cose, soprattutto in una città come questa incapace di perdere persino qualche ora per dormire.
Da dove potrei cominciare?
Mi manchi. E forse a più di chiunque altro manchi a papà.
 
La voce di Michiru s’incrinò appena per poi continuare.
 
Papà ha conosciuto Sadao e gli ha presentato una lista infinita di comportamenti che deve tenere per essere il degno futuro marito della sua figlia più piccola. Futuro marito, perché mi ha chiesto di sposarlo e a cui io ho risposto di sì.
Inutile dire che Minako sta organizzando questo matrimonio come fosse il suo. Vorrei tanto che tu, Haruka e la mia nipotina poteste partecipare. Ci sposeremo a giugno prossimo nei pressi della baia di Tokyo.
 
Michiru sospirò.
«Potremmo andare?».
Haruka lesse una supplica nei suoi occhi azzurri come il cielo sopra le loro teste.
Per un solo giorno non sarebbe successo nulla, tranne che essere nuovamente felici tutti quanti assieme.
«Potremmo andare» la rassicurò sottovoce, come fosse un segreto.
«Continui a leggere tu?» chiese Michiru porgendo alla moglie la lettera scritta a mano come un tempo.
 
Saresti fiera di me, Michi…
 
Continuò Haruka.
 
Ho superato una marea di esami e ora opero da sola. Anche se la strada per diventare un grande medico è ancora lunga.
Minako è un’infermiera capace. Alle volte esagera un po’ con le chiacchere ma i pazienti spesso trovano conforto in questo e non rischiano di annoiarsi. Un’altra novità è che finalmente sembra essere riuscita ad esaudire il suo desiderio di formare una famiglia con Akira.
Sembra che tra cinque mesi diverranno anche loro genitori.
 
«Sarà un grande papà Akira» sospirò Haruka. Senza di lui probabilmente non sarebbe sopravvissuta abbastanza da conoscere Michiru.
«Sì, credo sarà bravissimo» le diede manforte la compagna.
 
Rei sta facendo carriera in polizia e Jadeite continua a farla una corte spietata. Nessuno sa come finirà tra loro. Sembrano sempre fuoco e fiamme, ma forse è proprio questo il loro bello.
Haruka, Michiru, siete sempre nei nostri pensieri. Ogni giorno, ogni istante… e sono sicura di poterlo dire a nome di tutti: “non aspettiamo altro che il momento in cui poterci vedere di nuovo”.








ULTIME note dell'autrice:
Come sempre per me è doveroso ringraziarvi. Grazie a chi c'è stato sin dal principio, da Stockholm Syndrome. Grazie a chi è arrivato dopo e si è appassionato a questa serie. Grazie a chi è arrivato e se ne è andato e grazie specialmente a chi ha sempre perso un pò del proprio tempo per commentare (sia in modo costruttivo, sia a 'mo di sclero) perché ogni vostra parola è stata importante. Grazie per il sostegno e la pazienza che a questo mondo spesso e volentieri è una cosa rara. Grazie a chi è rimasto sino alla fine. Spero solo di non avervi deluso anche se io un pò delusa lo sono. Purtroppo mi rendo conto che la storia è andata in calando, ma bella come Stockholm per me non ce ne sono state altre e probabilmente lo si è sempre avvertito. Tuttavia non era ancora il momento per me di lasciare andare i nostri eroi e mi scuso per il finale agro dolce, ma l'happy ending puro proprio non mi veniva fuori. 
Per chi vuole farci un salto sa benissimo che troverà qualcosa in più su questo capitolo sulla mia pagina fb.
Ancora grazie, dal profondo del cuore.

Kat

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