The wish of a lost soul

di gattina04
(/viewuser.php?uid=172747)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1. Desiderio di compleanno ***
Capitolo 2: *** 2. Improvvisamente ***
Capitolo 3: *** 3. Nuove realtà ***
Capitolo 4: *** 4. Chi possiede le risposte? ***
Capitolo 5: *** 5. Partire o restare ***
Capitolo 6: *** 6. Il mio tutto ***
Capitolo 7: *** 7. Vento di ricordi ***
Capitolo 8: *** 8. Amare verità ***
Capitolo 9: *** 9. Vicini e lontani ***
Capitolo 10: *** 10. Trovare la strada ***
Capitolo 11: *** 11. Scelte difficili ***
Capitolo 12: *** 12. L’inizio del viaggio ***
Capitolo 13: *** 13. E alla fine la verità ***
Capitolo 14: *** 14. Non entrare in quel portale ***
Capitolo 15: *** 15. L’incubo nel passato ***
Capitolo 16: *** 16. Sono qui adesso ***
Capitolo 17: *** 17. Ognuno ha il suo interesse ***
Capitolo 18: *** 18. L’importanza di essere onesti ***
Capitolo 19: *** 19. Messaggio ricevuto ***
Capitolo 20: *** 20. È il momento ***
Capitolo 21: *** 21. Vero Amore significa essere sinceri ***
Capitolo 22: *** 22. Facciamolo adesso ***
Capitolo 23: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** 1. Desiderio di compleanno ***


1. Desiderio di compleanno
 
Era tutto tremendamente buio, freddo e lontano, era un posto che non avevo mai visto prima: metteva i brividi. Non era qualcosa di tangibile, era come una sensazione che ti faceva accapponare la pelle e salire i brividi lungo la schiena. Non mi sarei mai voluto trovare lì per nessuna ragione al mondo; tutto il mio corpo mi gridava a gran voce di scappare. Eppure i miei piedi continuavano a restare ben saldati a terra, come se avessi perso ogni facoltà di muovermi.
«Emma sei qui?», mormorai titubante. La mia voce sembrò rimbombare e perdersi nell’infinità di quel luogo. Nessuna risposta mi giunse all’orecchio, lasciandomi una strana sensazione di inquietudine. Mi guardai intorno cercando di distinguere qualcosa, qualsiasi cosa che non fosse basato sul mio sesto senso.
All’improvviso, però, fui colto dalla consapevolezza di non essere realmente in quel luogo; cioè non ero io ad essere lì, era come se invece vi stessi cercando qualcuno. Ma chi mai poteva stare in un posto che emanava solo sofferenza e solitudine? La risposta alla mia domanda mi apparve subito ovvia dopo averla formulata nella mia mente. Nessuno poteva rimanere lì di sua spontanea volontà, doveva trovarsi come imprigionato, senza alcuna possibilità di fuga.
Poi a poco a poco qualcosa cambiò, o meglio la scena cambiò. Ero di nuovo sulla Jolly Roger, al sicuro, ma c’era qualcosa di strano, qualcosa che non tornava. Tenevo tra le braccia una piccola bambina bionda, una tenera e vivace neonata. Il modo in cui la tenevo, in cui lei mi guardava, faceva presupporre un legame intenso tra me e quella creaturina.
Era una scena talmente paradossale che sentii lo stomaco attorcigliarsi. Ero Capitan Uncino, sicuramente una figura difficilmente associabile alla parola “padre”; eppure quella bambina aveva una somiglianza incredibile con Emma. Chi altro sarebbe potuta essere?
Sentii il cuore partire all’impazzata, mentre la mia mente andava a mille e il panico cresceva dentro di me. Tre parole continuavano a ronzarmi nella testa: “non sono pronto”. Non ero preparato a tutto quello, non ero mai stato padre e non mi ero mai dovuto occupare di un bambino, o meglio di un neonato. Era ovvio che avessi pensato all’idea di avere dei figli con Emma, ma data la velocità con cui progrediva la nostra storia, non mi ero aspettato niente di così immediato.
“Non adesso, non ancora, non sono pronto”.
All’improvviso però un’idea rassicurante si fece breccia tra il panico che mi aveva completamente raggelato. Quella scena non poteva essere reale, era senza senso: una gravidanza durava nove mesi, non c’era niente di così improvviso. Era solo un sogno che al risveglio mi sarebbe sembrato ridicolo. Era ovvio che dovesse essere solo di un sogno ma per un attimo mi chiesi se non poteva trattarsi anche di qualcosa di più.
 
Il rumore di qualcuno che si agitava accanto a me, mi svegliò nel cuore della notte. Killian non si muoveva quasi mai quando dormiva e quella differenza fu sufficiente a ridestarmi dal mondo dei sogni e a riportarmi alla realtà. Mi rigirai verso di lui, cercando di distinguere qualcosa nell’oscurità.
«Killian?». Riuscii a scorgere la sua figura seduta sul letto proprio accanto a me. «Stai bene?».
Le sue spalle si alzavano e si abbassavano, segno evidente che aveva il respiro affannato. «Sì», balbettò. «Mi dispiace di averti svegliata».
«Che cosa è successo?». Mi sedetti anch’io e con un gesto della mano accesi le luci nella stanza. Certe volte saper usare la magia era davvero comodo.
«Niente». Mi avvicinai a lui, accarezzandogli una guancia; a quel mio contatto chiuse gli occhi, cercando di rilassarsi. Aveva la pelle velata di sudore e aveva ancora il respiro corto.
«Hai fratto un brutto sogno?», gli domandai passandogli le dita nei capelli. Era davvero strano vederlo perdere il controllo per così poco, ma del resto dovevo ancora abituarmi a molto di lui. Era la prima volta che lo vedevo alle prese con un incubo, di solito ero io quella che faceva brutti sogni.
«Sei incinta?», mi chiese all’improvviso. La domanda mi lasciò del tutto basita al tal punto da credere di aver capito male.
«Come scusa?». Mi sistemai meglio, sedendomi sulle ginocchia e lo guardai confusa.
«Oddio perdonami, devo suonare ridicolo». Si passò la mano tra i capelli ributtandosi giù disteso.
«Mi vuoi spiegare cosa succede? E perché mi hai chiesto se sono incinta?».
«Beh lo sei?». Non stava rispondendo alla mia domanda ed iniziava a farmi innervosire.
«Certo che no», proruppi. «Cosa diavolo te lo fa pensare?».
«Beh non lo so, non è che siamo stati molto attenti». Lo sapevo benissimo, come sapevo con altrettanta certezza che non ero in stato interessante.
«Non aspetto nessun bambino Killian, ne sono certa. Adesso sarà bene che tu mi dia qualche spiegazione prima che mi arrabbi sul serio».
«D’accordo». Si posò il braccio sugli occhi, nascondendomi così la sua espressione, ma almeno si decise a parlare. «Ho un fatto un sogno molto strano, prima ero in un luogo che metteva i brividi. Beh non so se ci ero veramente o se tu eri lì, e poi mi sono ritrovato con una bambina tra le braccia. Mi è preso il panico e mi sono svegliato con le palpitazioni». Sentirgli dire che si era spaventato era un evento più unico che raro, ma almeno adesso le sue domande avevano un senso.
«Ti sei impaurito all’idea di poter aver un figlio?», conclusi e senza volerlo scoppiai a ridere.
«Ehi!». Si tolse la mano da sopra il viso per lanciarmi un’occhiataccia. «Cosa ci trovi di tanto divertente?».
«Oddio», ridacchiai, «non sto ridendo di te. È solo che… beh è davvero un sollievo». Mi distesi di nuovo anch’io, mentre lui non aggiunse altro aspettando che fossi io ad andare avanti con le mie spiegazioni.
«Oh Killian di solito sono io quella che si agita e si fa prendere dal panico. Se ci abbiamo messo così tanto per riuscire ad arrivare a questo punto nella nostra relazione buona parte è per colpa mia. È davvero un sollievo sapere che per una volta anche tu non sei così dannatamente maturo per quanto riguarda il nostro futuro».
«Non è che non voglia», borbottò a mezza voce. Avevo capito anche se non aveva specificato.
«Lo so, ma è davvero confortante sapere che se adesso fossi davvero incinta non sarei l’unica a dare in escandescenze».
«Anche tu sei terrorizzata all’idea?». Sapevo cosa mi stava domandando anche se non me l’aveva chiesto direttamente.
«Adesso sì, ma probabilmente tra un po’ di tempo potrei sentirmi… anzi potremo sentirci pronti».
«D’accordo». Voltò la testa per guardare l’ora sulla sveglia del suo comodino e subito dopo si girò verso di me, mettendosi su un fianco e appoggiando la testa alla mano. Mi girai anch’io, mentre con l’uncino mi sfiorava un fianco da sotto le coperte.
«Sono ufficialmente un pessimo fidanzato», dichiarò. Lo guardai perplessa aspettando che si spiegasse. «Non solo ti ho svegliata nel cuore della notte, ma mi sono anche dimenticato di farti gli auguri». Feci una smorfia capendo dove volesse andare a parare.
«Beh non mi hai fatto aspettare mezzanotte, ma adesso posso dirtelo: buon compleanno Emma. Tanti auguri amore».
«Grazie», sussurrai appena. Non amavo particolarmente il giorno del mio compleanno, ma era comprensibile visto che l’avevo passato per la maggior parte della mia vita da sola.
«Guardiamo se riesco a farmi perdonare». Si avvicinò, portandosi sopra di me e baciandomi dolcemente. La reazione del mio corpo fu istantanea e decisamente esagerata. Le mie labbra si schiusero in modo tale che la sua lingua potesse incontrare la mia, le mie mani iniziarono a risalire su lungo la sua schiena, insinuandosi sotto la maglia del pigiama; le mie gambe si intrecciarono alle sue, costringendolo a non lasciare neanche un centimetro di distanza tra i nostri corpi, col piede gli accarezzai il polpaccio, sollevandogli i pantaloni del pigiama. Quando la sua bocca si spostò lungo il mio collo, depositando una scia di roventi baci, la mia mente si scollegò del tutto e un gemito di piacere mi uscì dalle labbra.
«Bene», sussurrò prima di baciarmi sulla bocca un’ultima volta per poi staccarsi e tornare al suo posto. Lo fissai imbronciata per quel repentino cambiamento e lui scoppiò a ridere.
«Aspetta Swan», mi disse accarezzandomi con l’uncino. «Adesso è il momento del tuo regalo».
Feci una smorfia sentendo la parola “regalo”, ma fui pronta a ribattere. «Beh spero che almeno preveda la presenza di un pirata nudo nel mio letto».
Rise e il mio cuore partì a mille. Amavo tremendamente la sua risata, ogni volta mi faceva sentire le farfalle nello stomaco. «Quella tesoro è la seconda parte, dovrai avere un po’ di pazienza». Per tutta risposta gli feci una linguaccia incrociando le braccia al petto; era un gesto infantile, ma lui mi aveva fatto infiammare, lasciandomi poi a bocca asciutta.
«Sii paziente. Lo so che mi avevi detto di non volere regali, ma è il tuo compleanno». Si era messo seduto e con le dita mi stava sfiorando il labbro. Non ero infastidita per il regalo in sé, sapevo benissimo che non mi avrebbe dato ascolto; era una vecchia abitudine quella di non voler festeggiare ed era difficile togliermela di dosso. E poi si aggiungeva il fatto che in sua presenza fossi del tutto preda del mio corpo; era irritante non riuscire a controllare i miei istinti quando lui iniziava a baciarmi in maniera un pochino più spinta.
«E va bene», sospirai, mettendomi anch’io a sedere. «Dammi questa sorpresa».
Il suo sorriso si allargò, i suoi occhi si fecero ancora più chiari e qualsiasi irritazione avessi provato nei suoi confronti si sciolse come neve al sole. Aveva un tale effetto su di me, tanto che bastava uno sguardo che io perdevo del tutto le mie facoltà mentali.
«Prima però», aggiunse intrecciando la sue dita alle mie, «devi promettermi che non darai di matto».
«Cosa?». Avevo urlato e mi costrinsi ad abbassare il tono, visto che eravamo nel cuore della notte. «Potrei dare di matto?».
«Beh sì». Mi lanciò uno sguardo colpevole da sotto le folte ciglia nere. Sapeva benissimo il potere che i suoi occhi avevano su di me, stava giocando sporco, ma io non mi sarei fatta abbindolare.
«Hook!», gemetti.
«Beh Swan devi solo promettermi che non andrai fuori di testa subito, ma che mi lascerai spiegare. Andrà tutto bene tesoro ne sono sicuro, devi solo lasciarmi parlare». Non capivo cosa dovesse andare tutto bene, ma non mi restava altro che acconsentire. Non avevo molta scelta.
«D’accordo lo prometto», mormorai incrociando le braccia al petto. Il sorriso che gli comparve sulla faccia, mi fece di nuovo dimenticare di tutto. Avrei dato qualsiasi cosa pur di vederlo sorridere così sempre.
Si girò e prese qualcosa dal cassetto del comodino. Quando tornò a guardarmi, notai che nella mano stringeva una piccola scatolina di velluto. Il mio cuore perse un colpo e poi iniziò a battere all’impazzata; lo sentivo martellarmi nelle orecchie mentre realizzavo quello che stava succedendo. Era una scatolina troppo grande per contenere dei semplici orecchini e allo stesso tempo troppo piccola per contenere qualsiasi altro gioiello. Era ovvio che ci fosse un anello dentro, non c’era altra possibilità.
Quando nel mio cervello si fece strada la consapevolezza che mi stesse chiedendo di sposarlo, entrai nel panico. Me lo stava davvero chiedendo il giorno del mio compleanno? Oh mio Dio!  Eravamo davvero pronti per quel passo? Certo ormai convivevamo da un po’, eravamo una coppia stabile, ma l’idea di un matrimonio, di un qualcosa di così solenne…
Era ovvio che l’avrei voluto sposare un giorno, ma così su due piedi era tutta un’altra storia. E proprio lui che pochi minuti prima era entrato nel panico all’idea di avere un figlio, adesso mi chiedeva di sposarlo? Era paradossale!
«Calma Emma, respira». Non mi ero accorta di aver trattenuto il fiato, ma probabilmente era così visto che lui stava studiando attentamente ogni mia reazione. Feci un respiro profondo, trovando la forza di alzare lo sguardo da quella scatolina e riportarlo su di lui. I suoi occhi erano così chiari e così tranquilli, sembrava che quella mia reazione non l’avesse per nulla sorpreso.
«Io… io…». Tentai di articolare una frase ma non ci riuscii.
«Tranquilla Swan». Mi tese la scatolina in modo tale che la potessi prendere. Sentii le dita formicolare mentre afferravo quel piccolo astuccio di velluto. «Perché adesso non lo apri e ascolti quello che ho da dire?».
Il mio primo istinto sarebbe stato scappare o come minimo iniziare a camminare urlando per la stanza. Ma gli avevo promesso di non dare di matto, ed io mantenevo sempre la parola data. Con molta fatica, andando contro ai miei istinti, aprii la scatolina. Come avevo immaginato all’interno c’era un anello: era bellissimo, semplice e stupendo, un diamante senza particolari rifiniture. Era sorprendentemente adatto a me, eppure sentivo ancora crescere la paura.
«Io… Killian…», tentai di nuovo, ma questa volta fu lui a fermarmi.
«Lasciami spiegare Emma». Mi prese la mano libera con la sua, stringendola forte, mentre i suoi occhi si incatenavano ai miei. «Non ti sto chiedendo di sposarmi Emma, o meglio non te lo sto chiedendo adesso. Non voglio nessuna risposta da te in questo momento, né voglio che tu ci pensi ora. Questo anello è come un promemoria».
«Un promemoria?», mormorai sbattendo gli occhi.
«Sì, perché un giorno Emma ti sposerò. È questo quello che ti aspetta, non ci sono alternative. So che adesso l’idea ti spaventa, come d’altronde qualsiasi novità nella nostra relazione».
«Questo non è vero», ribattei.
Lui alzò un sopracciglio e mi fisso con uno sguardo che fece vacillare qualsiasi mia certezza. «Beh Emma ci stiamo andando piano, stiamo andando al rallentatore e questo per la maggior parte è dovuto a te». Sapevo che era vero, però non pensavo che per lui fosse un peso.
«Questo ti da fastidio? È un problema per te?».
«No Emma, certo che no». Mi scostò una ciocca di capelli con l’uncino portandomela dietro l’orecchio. «È per questo che ti sto dando questo anello adesso».
«Non capisco».
«Così avrai tutto il tempo di prepararti all’idea di diventare mia moglie. Così quando te lo chiederò, perché un giorno te lo chiederò di nuovo Emma, tu mi risponderai di sì senza nessuna esitazione. E lo sai perché non esiterai? Perché avrai avuto tutto il tempo di capire che per noi due non c’è nessun’altra possibilità oltre allo stare insieme per sempre. E quale modo migliore e più tradizionale se non sposarsi?».
Per la prima volta da quando avevo visto quella scatolina riuscii a sorridere. Il mio cuore rallentò anche se le sue parole erano riuscite a farmi emozionare. Avevo capito cosa intendeva e la cosa mi andava più che bene, anzi era in qualche modo giusto. Killian ci sapeva proprio fare quando ci si metteva. Il suo era stato un gesto molto dolce; avrebbe mai smesso di sorprendermi in quel modo? Speravo proprio di no.
«Grazie», sussurrai rivolgendogli il mio migliore sorriso. «Questa è la migliore non proposta che io abbia mai ricevuto».
Ridacchiò, accarezzandomi il dorso della mano con il pollice. «Sono contento che tu abbia capito».
«Ti amo», mormorai baciandolo.
«Ti amo anch’io». Mi fece di nuovo distendere, portandosi sopra di me. Ci baciammo dolcemente e lentamente, assaporandoci l’un l’altro. Lasciai perdere l’anello, iniziando ad accarezzargli la schiena, toccando ogni suo muscolo, ogni centimetro di pelle, mentre lui faceva lo stesso con me.
«Credo», sussurrò ad un centimetro dalla mia bocca, «di potermi riprendere questo per il momento». Stringeva nella mano la scatolina che io avevo sbadatamente lasciato andare. «Come promesso niente regali per te Swan». Sorrisi e lo baciai di nuovo, non riuscendo più a resistere ai miei istinti.
«Ovviamente», si fermò di nuovo per poter riporre l’anello al suo posto nel comodino, «stiamo parlando di regali materiali». Posò la mano, finalmente libera, sul mio fianco, tirandomi su la maglietta del pigiama. Le mie mani erano già alle prese con i suoi pantaloni.
«Perché Swan», continuò accarezzandomi il seno e stuzzicandomi un capezzolo, «ho tutta l’intenzione di regalarti uno degli orgasmi più potenti che tu abbia mai avuto in tutta la tua vita». Un fremito mi risalì dal basso ventre, incendiandomi. Se prima ero accaldata, adesso stavo andando letteralmente a fuoco.
La voce mi uscì arrochita dal desiderio quando gli risposi. «Beh era l’ora Capitano».
 
Ovviamente chiedere a mia madre di non organizzare niente era stato del tutto inutile. Come poteva Biancaneve non festeggiare il compleanno della sua meravigliosa figlia? L’unica consolazione era il fatto che fossi riuscita a contenere la sua esultanza, limitandola ad organizzare una piccola festicciola in famiglia al loft. C’erano comunque troppi invitati e troppi regali da scartare, ma non era una celebrazione in pompa magna.
 Per fortuna anche nel loft avevo i miei nascondigli per proteggermi dall’euforia di mia madre, almeno finché non fossero arrivati Henry o Killian, o tutti gli altri ospiti. Non avevo di certo accolto con i salti di gioia il giorno di ferie che mi aveva costretto a prendere mio padre. Lavoravo molto, era vero, sempre alle prese con magie, sortilegi, mostri e cattivi, ma non c’era nessun motivo per cui non potessi fare il mio dovere anche quel giorno, soprattutto quando mia madre mi aveva detto espressamente di non voler nessun aiuto. Oddio! Non avevo proprio il coraggio di scendere di sotto per vedere cosa avesse combinato.
«Emma? Sei qui?». La voce di mia madre alle mie spalle mi fece capire che il mio nascondiglio non era poi così ben architettato. «Cosa diavolo ci fai seduta per terra?».
«Io…». Cercai di trovare una scusa plausibile, ma il mio cervello sembrava non voler collaborare.
«Lo so che ti stai nascondendo da me».
«Ma no! Non è affatto vero». Feci per alzarmi ma lei mi fermò, appoggiandosi a me per poi mettersi a sedere proprio al mio fianco.
«Invece è così, sono tua madre non puoi mentirmi».
«Scusa se mi sono rifugiata quassù, è che questo giorno…».
«Non fa nulla, ormai è quasi tutto pronto. Possiamo starcene un po’ qua a fare una chiacchierata tra madre e figlia». Non sapevo cosa fosse peggio, forse la festa non era la cosa più brutta.
«Non hai molta voglia di festeggiare il tuo compleanno», affermò visto che io restavo in silenzio. «Spiegami perché? È per lo stare al centro dell’attenzione?».
«No, non è per quello», risposi sinceramente. «Sono la Salvatrice, sono abituata a stare al centro dell’attenzione». Il problema, però, sarebbe stato spiegarle il vero motivo.
«E allora cosa c’è che non va Emma? Stamattina sembravi felice, quando sei arrivata con Hook eri così rilassata e contenta, adesso invece sembri solo nervosa e contrariata».
«È difficile da spiegare», risposi. «Soprattutto a te».
«Beh provaci».
«Non vorrei che tu…».
Mi interruppe non lasciandomi finire. «Smettila di pensare a me e dimmi la verità». Posò la mano sulla mia stringendomela forte.
«Non ho mai festeggiato il mio compleanno», ammisi, «almeno non con una festa e con degli amici».
«D’accordo», cercò di seguire il mio ragionamento. «E perché il fatto di poterlo finalmente fare ti infastidisce?».
«Non è questo, è che odio questo giorno, lo odio con tutta me stessa». La guardai per poter osservare la sua reazione; mi fissava stupita, non aspettandosi quelle mie parole. Potevo benissimo scorgere sul suo volto le mille domande che aveva in mente; tuttavia non disse nulla, lasciandomi il tempo e il modo per poter elaborare la cosa.
«Vedi…», iniziai non sapendo bene come continuare, «non è una cosa che riesco a controllare, è che il giorno del mio compleanno è sempre stato il più brutto dell’anno. Anche se adesso è diverso, non riesco a scrollarmi di dosso quella sensazione».
«Perché? Perché era il giorno più brutto dell’anno?». Sapevo che me l’avrebbe chiesto, anche se speravo che non lo facesse. La risposta le avrebbe fatto male, ma meritava la mia sincerità.
«Perché ero sola, non avevo nessuno. Stavo sola tutto l’anno, ma la solitudine quel giorno diventava più opprimente, era palese il fatto che nessuno tenesse a me. Quando ero alla casa famiglia c’erano gli altri bambini, ma erano pochi quelli che festeggiavano più di un compleanno lì dentro. Anno dopo anno diventava evidente che nessuno mi voleva. Ovviamente c’erano periodi più felici, come il periodo con Ingrid o con Neal, ma il giorno del mio compleanno non è mai stato uno di quelli». Mentre parlavo cominciai a torturarmi le mani, concentrandomi sulle mie dita per evitare di incrociare il suo sguardo.
«Scusa», sussurrò dopo un secondo, «non avevo pensato al fatto che il giorno della tua nascita è anche il giorno in cui ti ho abbandonata».
«Tu non mi hai abbandonata», protestai non riuscendo ancora ad alzare lo sguardo.
«No è vero, però tu l’hai creduto per ventotto anni, per quasi tutta la tua vita». Mi posò la mano sotto il mento in modo tale da alzarmi il viso e farmi incrociare il suo sguardo. Nei suoi occhi non c’era la minima traccia di offesa, c’era solo tenerezza e forse rimpianto.
«Emma», mi disse tenendomi inchiodata ai suoi occhi, «ho capito perché ti senti così e vorrei tanto poter cancellare questa tua sensazione. Però adesso le cose sono diverse, ci sono molte persone che ti amano e che tengono a te e che vogliono festeggiare il tuo compleanno. Io ho ascoltato le tue ragioni, adesso lascia che sia io a spiegarti le mie».
Annuii. «D’accordo».
«Avrei voluto davvero festeggiare ogni tuo compleanno, ma non ho avuto nulla, non abbiamo avuto nulla. Avrei fatto delle feste stupende dove tu saresti stata la principessa, avrei voluto davvero condividere con te ogni momento, ogni anno, vederti crescere, andare a scuola, diventare grande, condividere anche quei momenti imbarazzanti dove tu non avresti più voluto la mia intromissione. Per tutti questi motivi permetti di recuperare almeno in parte il tempo perso con questa specie di festa, anche se non potrà mai compensare una vita passata lontano».
Lo capivo, riuscivo a capirlo benissimo e per quanto fossi diventata la donna che ero affrontando tutte le peripezie che mi erano capitate, avrei preferito che le cose fossero andate diversamente.  Certe volte mi dimenticavo di non essere stata l’unica a soffrire per colpa di quel sortilegio. Certo grazie a quello avevo avuto conosciuto Neal, avuto Henry e in qualche modo poi avevo potuto conoscere Hook, però era stato doloroso. Avevo pensato molte volte a come sarebbe potuta essere la mia vita se le cose fossero andate diversamente e ancora non avevo una risposta. Restava il fatto che il passato non poteva essere cambiato e che adesso  non avrei più voluto modificare nulla della mia vita. Avevo la mia famiglia, avevo Henry, tanti amici e soprattutto avevo Killian.
«Certo», affermai abbracciandola. «Ti voglio bene mamma».
«Ti voglio bene anch’io», rispose ricambiando il mio abbraccio.
«Per quanto può valere», dissi staccandomi da lei, «vorrei davvero tanto che avessi avuto la possibilità di vedermi crescere, di festeggiare con me ogni mio compleanno».
«Lo so». Si alzò tendendomi la mano per aiutarmi a sollevare. «Adesso che ne dici di iniziare a prepararti? Tra poco gli ospiti cominceranno ad arrivare». Presi la sua mano rivolgendole un sorriso, pronta ad affrontare con uno stato d’animo diverso quella serata.
Fu così che mi ritrovai qualche ora dopo in mezzo a tutti i miei amici, con il braccio di Killian intorno alla vita, pronta a spegnere le candeline sulla torta.
«Ti stai comportando benissimo Swan», mi sussurrò Killian all’orecchio. Gli sorrisi accarezzandogli l’uncino che aveva posato sul mio fianco.
«Sono molto fiero di te», continuò, «credevo che non l’avresti presa così bene l’idea della festa. Credo proprio che dovresti essere ricompensata e penso che troverò un modo piuttosto piacevole per farlo più tardi». Arrossii involontariamente, mentre lui mi depositava un bacio sotto il lobo.
«Allora Hook», intervenne mio padre, che evidentemente aveva notato quel nostro piccolo scambio di effusioni. «Che cosa hai regalato ad Emma?». Killian si staccò leggermente da me, in modo da poter guardare David negli occhi.
«Le ho regalato…».
«Killian non mi ha regalato niente come avevo chiesto a lui e a tutti voi», intervenni prontamente, fermandolo prima che potesse aggiungere qualcosa di compromettente. Non ero sicura che mio padre avrebbe apprezzato l’idea molto romantica che Killian aveva avuto riguardo all’anello. Anzi probabilmente avrebbe iniziato a dare di matto più di quanto avessi già fatto io.
«Come non le hai regalato niente?», continuò David, come se avesse appena colto in fallo Hook.
«Beh papà», lo difesi prima che potesse farlo da solo, «almeno lui mi ha dato ascolto non credi?». Non sopportavo quando faceva così, quando mi trattava ancora da bambina e cercava di difendere in qualche modo la mia virtù. Sapevo che ormai accettava Killian e che loro erano per così dire “amici”, però certe volte l’istinto protettivo prendeva il sopravvento e si dimenticava di ciò che veramente c’era tra me e Hook. Era Vero Amore, come fra lui e la mamma, ma a volte sembrava dimenticarsene.
«D’accordo», sospirò sentendo la mia brusca risposta. «Vado a vedere a che punto è tua madre con la torta».
«Beh Swan almeno potevi inventarti una scusa migliore», mi rimproverò Hook una volta che si fu allontanato.
«Come scusa?».
«Beh potevi inventarti una qualche sciocchezza? Uno stupido regalo, non so… qualcosa. Credo che David l’avrebbe gradito di più della tua rispostaccia».
«Come?», lo fissai sbalordita. «Io ti ho appena difeso e tu difendi mio padre?». Ero più divertita che infastidita.
«Beh tesoro so difendermi da solo», mi corresse, «e soprattutto da un principe azzurro qualsiasi. Iniziavo a piacere a tuo padre, non vorrai rovinare tutto ciò che ho faticosamente costruito?».
Sorrisi e scossi la testa, ma non feci a tempo a ribattere perché mia madre si avvicinò portando tra le mani una gigantesca torta al cioccolato.  La depositò sul tavolo, mentre io mi avvicinavo e tutti gli invitati mi facevano spazio. Sopra la scritta “buon compleanno Emma” erano state posizionate molte candeline, che però erano ancora spente.
«Ci penso io», disse Regina come leggendomi nel pensiero. Con un gesto della mano spense la luce e accese le candeline. Dopo ci fu il momento più imbarazzante: ecco forse era quello il momento peggiore dei compleanni. Tutti che ti guardano, cantando tanti auguri, mentre tu spegni delle dannate candeline. Ma come tutti i momenti imbarazzanti terminò in fretta.
«Esprimi un desiderio mamma», disse Henry appena finito di cantare. Alzai lo sguardo su di lui e assecondai le sue parole: esprimere un desiderio. Beh non era certo una cosa facile.
Per la prima volta nella mia vita ero arrivata ad un momento in cui non avevo davvero più nulla da chiedere. Possedevo tutto quello che avevo sempre voluto e anche se la mia vita non era proprio perfetta andava bene così.
Avevo un figlio che stava pian piano diventando un uomo e che mi rendeva orgogliosa. Lo guardai per un attimo e sorrisi pensando che quello era anche l’anniversario del giorno in cui l’avevo conosciuto; il giorno che mi aveva radicalmente cambiato la vita. Mi era comparso davanti così piccolo e impertinente e adesso era così cresciuto, diventato già quasi più alto di me. Era grazie a lui se avevo ottenuto tutto ciò che desideravo.
Avevo anche molti amici, e soprattutto ero riuscita a trovare un’amica in quella che all’inizio era stata la mia peggior nemica. Non l’avrei mai ammesso di fronte a Regina, né lei avrebbe fatto altrettanto, ma lei era diventata la mia migliore amica e una persona di cui avrei potuto fidarmi al cento per cento.
E poi avevo finalmente ritrovato quei genitori che avevo cercato per tutta la vita e con cui ero stata arrabbiata per buona parte di essa. Avevo capito cosa era accaduto e li avevo perdonati. Loro mi amavano, erano la mia famiglia ed io amavo loro in egual misura.
E poi c’era Hook. Non avevo mai pensato di poter trovare anche qualcuno che mi potesse amare come faceva lui, eppure eccolo lì al mio fianco. Era Vero Amore ed io stentavo ancora a crederci; facevo ancora fatica a realizzare quanto io potessi amarlo e quanto lui potesse amare me.
Per questo non desideravo niente di più: avevo la mia famiglia, i miei amici e l’amore della mia vita e tutto questo mi bastava.
«Forza Emma esprimi un desiderio», mi incitò mia madre, ridestandomi dai miei pensieri. Mi voltai un attimo a guardarla, riuscendo a scorgere l’emozione nei suoi occhi. Era così felice e per così poco, solo perché aveva la possibilità di condividere quel piccolo momento con me.
Ecco, una cosa che desideravo c’era: avrei voluto concedere a mia madre la possibilità di vedermi crescere. Tuttavia il passato non si poteva cambiare ed io ero diventata ciò che ero anche grazie a quello che avevo trascorso durante la mia infanzia. Purtroppo sia io che lei avevamo perso molto, ma avremo avuto una vita per recuperare.
Con un soffio spensi le candeline, pur sapendo che il mio desiderio sarebbe stato irrealizzabile. Ma mi andava bene così, perché mi ero resa conto di essere felice come non lo ero mai stata. Spensi le candeline pensando che non sarebbe cambiato niente e che tutto sarebbe rimasto perfetto come era.
Beh mi sbagliavo. I desideri si realizzano sempre e come ogni magia hanno sempre un prezzo.
Accadde in un attimo, prima che il buio potesse inghiottirmi, prima che potessi riaprire gli occhi: un istante ero lì, quello dopo non c’ero più.


 
Angolo dell'autrice:
Ciao a tutti! Come promesso sono tornata: anno nuovo, storia nuova. Ancora non so come verrà fuori questa mia pazza idea, ma intanto ho cominciato a buttare giù qualcosa e poi vedremo capitolo dopo capitolo come si evolverà la vicenda.
Bene, iniziamo col commentare il primo capitolo: ovviamente l'attesa di marzo mi sta sfiancando e l'effetto del promo della prossima puntata ha portato a questo. Una proposta/non proposta da parte di Killian. Chissà se sarà realmente così anche nella serie...
Quindi tornando al punto, è il compleanno di Emma e dopo la chiacchierata tra madre e figlia lei è piuttosto propensa ad affrontare questo giorno. Ormai la sua vita è, se non proprio perfetta, quasi. Ha tutto ciò che vuole, ha solo il rimpianto di aver perso molti momenti importanti con sua madre. E poi bum... cosa sarà successo? Lo scoprirete nel prossimo capitolo ;)
Beh fatemi sapere cosa ne pensate, se la mia idea vi piace e se vi incuriosisce. Fatemi capire se sto andando nella direzione giusta!
Io intanto vi prometto di pubblicare il prossimo capitolo nel prossimo finesettimana!
Un bacione
Sara
 

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** 2. Improvvisamente ***


2. Improvvisamente
 
POV Emma
Un istante, lungo come un battito di ciglia, fu sufficiente perché tutto accadesse. Il tempo di spegnere le candeline fu abbastanza lungo da riuscire a catapultarmi da tutta un’altra parte; un secondo bastò per esprimere il mio desiderio, ma fu troppo corto per permettermi di capire ciò che stava realmente avvenendo.
Quando riaprii gli occhi invece di ritrovarmi circondata dall’affetto dei miei cari, fui accerchiata dalle tenebre più oscure. Un freddo agghiacciante mi penetrò fin dentro le ossa e un brivido mi salì lungo la schiena. Sbattei più volte le palpebre per accertarmi che quello che vedessi, o meglio quello che non vedessi, fosse reale.
«Cosa…?», balbettai e la mia voce rimbombò intorno a me in maniera talmente assordante da riuscire a zittirmi di colpo. Tentai di guardarmi attorno cercando una spiegazione logica per ciò che i miei sensi percepivano; non mi ci volle molto per capire che non ero più a Storybrooke e che doveva essere irrimediabilmente accaduto qualcosa.
«Mamma? Killian?», riprovai, ma anche lo stesso suono della mia voce riusciva a mettermi i brividi.
Cercai di muovere un passo, provando ad orientarmi nell’oscurità. Era già difficile muoversi nel buio più totale, farlo in un luogo di cui ignoravo la collocazione era quasi impossibile.
Dopo qualche minuto i miei occhi cominciarono ad abituarsi all’oscurità, ma non quel tanto da permettermi di capire dove diavolo fossi. Camminai a tentoni cercando di ritrovare qualcosa intorno a me, un muro o un oggetto qualunque, ma era come se non ci fosse niente. Nessuna parete, nessuna cosa che potesse minimamente aiutarmi nel mio percorso. Era come se intorno a me ci fossero solo tenebre e nient’altro.
All’improvviso un soffio di aria gelida mi fece rabbrividire. Per la festa avevo indossato un vestito elegante e carino, come aveva voluto mia madre, ma adesso ne pagavo le conseguenze; oltre a morire di freddo non ero libera di muovermi come avrei voluto, anche considerando il tacco spropositatamente alto che portavo ai piedi.
Mi fermai un attimo per ragionare. Se avevo sentito un vento gelido voleva dire che ci doveva essere una sorta di apertura, una qualche via di uscita che mi avrebbe permesso di risolvere quell’intricato mistero. Innanzitutto dovevo capire dove fossi finita e in base a quello avrei calcolato quanto sarebbe stato difficile tornare a casa. Avevo l’impressione di non essere più nel mio mondo e che non sarebbe stato sufficiente materializzarmi con la magia.
Un sorriso si fece strada sulle mie labbra non appena formulai quel pensiero. Per un momento mi ero quasi dimenticata di possedere la magia e quella sicuramente era un’arma che potevo sfruttare a mio vantaggio. Ero quasi certa che non sarei riuscita a teletrasportarmi a casa, ma valeva comunque la pena provare.
Mi concentrai e, come mi ero aspettata, non successe assolutamente niente. Nessun cambiamento anche se ce l’avevo davvero messa tutta.
«Accidenti», sussurrai e la mia voce rimbombò di nuovo nell’oscurità. Non sarei tornata al loft così in fretta, ma almeno potevo sfruttare i miei poteri per cambiarmi d’abito ed indossare qualcosa di più comodo. Rimpiangevo amaramente la mia adorata giacca di pelle rossa.
Mi concentrai e… non accadde assolutamente niente. Indossavo ancora quel ridicolo vestito, quelle maledette scarpe e stavo ancora congelando. Ritentai una seconda volta, ma il risultato fu lo stesso. Fui presa dal panico perchè era da davvero troppo tempo che non mi capitava di perdere la funzionalità della mia magia. Ero così abituata ad averla che mi sentii quasi menomata.
«Calma, Emma stai calma», mi dissi e solo dopo mi ricordai che avrei fatto meglio a non parlare. Provai un’ultima volta a scaldarmi, utilizzando solo un briciolo di quelle che erano le mie potenzialità, ma ancora una volta non accadde nulla. Era abbastanza evidente che ero finita chissà dove e per di più senza poteri magici.
Mi portai una mano sul cuore cercando di tranquillizzarmi e di recuperare il mio spirito di sopravvivenza e la mia mente fredda. Poco prima avevo sentito un vento gelido e avevo calcolato la possibilità di un apertura. Dovevo solo incamminarmi in quella direzione e sperare che, a poco a poco, le tenebre si sarebbero dissolte.
Feci un respiro profondo e mossi i primi passi nella direzione in cui mi era sembrato provenisse quella brezza ghiacciata. Ero completamente cieca e arrancavo tendendo le mani avanti, cercando di mettere i piedi uno davanti all’altro con una certa sicurezza.
Non avevo mai avuto paura del buio, ma in quel momento iniziai fermamente a ricredermi. Non solo ero senza magia, ma lì ero anche senza vista ed ero sola, chiunque avrebbe potuto uccidermi senza che io nemmeno lo vedessi. Ero una fragile preda, debole e spaventata, ed io odiavo sentirmi così.
Cercai di regolarizzare i miei respiri e continuai lentamente ad avanzare seguendo una direzione. Mentre procedevo provai a concentrarmi per riuscire ad affinare gli altri pochi sensi che mi rimanevano. Inspirai a fondo e arricciai immediatamente il naso: c’era un forte odore di muffa e qualcos’altro di altrettanto forte. Decisi di lasciar perdere l’olfatto e tesi invece le orecchie. All’inizio non percepii nulla di diverso: sentivo solo il rumore dei miei passi e i tonfi sordi del mio cuore che batteva all’impazzata. Poi lentamente, via via che andavo avanti, iniziai a sentire una sorta di suono. Non capii subito di cosa si trattasse ma proseguendo nel mio cammino si fece più distinto.
Rabbrividii ancora di più quando realizzai che doveva trattarsi di una specie di lamento; sicuramente una sola persona non sarebbe stata capace di generare tutto quel rumore, quindi dovevano essere i gemiti di decine di persone. Dove diavolo ero finita e che cosa mi era successo?
Nonostante quel suono non fosse per niente incoraggiante, proseguii imperterrita nel mio cammino ritrovando il coraggio che mi aveva sempre contraddistinto. Non mi ero mai spaventata di fronte al pericolo, né tantomeno l’avrei fatto ora quando avevo persone care da cui tornare. Avevo un obiettivo e tanto bastava per spingermi ad andare avanti.
Mentre avanzavo notai che le tenebre sembravano farsi via via meno buie. All’inizio pensai che si trattasse solo del mio inconscio che mi stava giocando brutti scherzi, ma poi capii che avevo davvero ragione. Non vedevo ancora niente, eppure sembrava che ci fosse una sorta di bagliore.
Affrettai il passo e lentamente iniziai a distinguere quella che pareva una zona con più luce. Affrettai il passo in quella direzione ed inciampai per via dei tacchi. Con un gesto automatico li tolsi e proseguii scalza. Il pavimento era freddo e ruvido, e sicuramente mi avrebbe lasciato un  bel po’ di graffi, ma non potevo proseguire con quel tacco dodici.
Mentre mi avvicinavo a passo spedito verso la fonte di luce, iniziai a distinguere delle pareti rocciose intorno a me; probabilmente dovevo trovarmi in una grotta gigantesca o qualcosa del genere. Oltre a questo i lamenti si fecero via via sempre più forti. Sembrava che centinaia di persone stessero soffrendo per una qualche pena terribile da cui non potevano scappare. Provai a non preoccuparmi anche di quello: prima di tutto dovevo capire dove fossi, quella era la priorità, poi avrei pensato al resto.
Quando intorno a me si fu rischiarato abbastanza mi misi a correre in direzione della luce, e quindi dei lamenti, nonostante che il mio istinto mi dicesse di scappare in direzione opposta, e finalmente arrivai a quella che doveva essere l’entrata di quell’enorme caverna. Ciò che vidi però mi lasciò completamente paralizzata.
C’erano decine di persone dall’aspetto trasandato e da un pallore spettrale che si trascinavano in quelle che dovevano essere delle specie di strade. Non riuscivo neanche a capire se si trattasse di una città o di qualcos’altro: tutto aveva un aspetto così fatiscente e sembrava sul punto di sgretolarsi al minimo contatto. Quelle persone non sembravano neanche più esseri umani; parevano profondamente malate, in preda alle sofferenze più grandi, non parevano più neanche avere coscienza di loro stessi. Forse forse le tenebre non erano poi così male rispetto a quella visione. E poi c’erano i lamenti che si facevano sempre più pressanti, sempre più opprimenti, ti penetravano il cervello e ti facevano venir voglia di urlare di dolore.
Mi strinsi le braccia intorno al petto cercando di infondermi una sorta di coraggio. Sicuramente l’aria gelida non era dovuta a nessun vento, era tutta quella scena che metteva i brividi. Tuttavia dovevo riuscire a capire dove fossi e per farlo avrei dovuto chiederlo a quelle persone.
Mossi un passo in avanti e feci una smorfia quando il mio piede poggiò su qualcosa di bagnato e scivoloso. Il pavimento non era più quello della grotta, era completamente bagnato e quasi melmoso. Mi maledissi mentalmente per essermi tolta le scarpe, ma certamente non sarebbe bastato così poco per fermarmi. Cercando di non pensare a cosa stessi calpestando, avanzai verso un primo gruppo di persone.
«Scusatemi?», iniziai. «Sapreste dirmi dove mi trovo?». Non sembrarono neanche sentirmi, continuarono il loro percorso aggirandomi, come se non mi avessero nemmeno vista.
Provai con un altro gruppo. «Scusate? Potreste fermarvi un momento?». Ancora niente.
Tentai di nuovo. «Per favore potreste dirmi dove mi trovo?». Il risultato fu sempre lo stesso. Sospirai, cercando di non perdere la pazienza e mi avviai verso un punto dove sembravano essere raccolte più persone.
«Scusate mi sentite? Potreste aiutarmi? Voglio farvi solo una domanda? Dove diavolo accidenti mi trovo?». Continuavo a rigirarmi e a porre a decine di persone sempre le stesse domande. Quelli erano decisamente individui tutti diversi tra loro, ma avevano tutti la stessa medesima espressione, come se fossero completamente persi anche loro. Il panico iniziò di nuovo a farsi strada dentro me, insieme allo sconforto; sembrava che nessuno mi sentisse. Provai ad afferrare il braccio di una donna, ma appena lo toccai lo lasciai subito andare: era ghiacciato, solido e reale, ma ghiacciato.
«Perché nessuno vuole aiutarmi? Vi prego». Non era da me abbattermi o comportarmi da femminuccia, ma avrei avuto tanta voglia di scoppiare a piangere. Non mi capacitavo ancora come in un secondo fosse potuto succedere tutto. Meno di un ora prima ero stretta a Killian, circondata da parenti e amici riuniti per festeggiare il mio compleanno, mentre adesso ero in quel luogo spettrale.
Mi lisciai il vestito con le mani, cercando di riprendere il controllo di me stessa, mentre quelle persone continuavano a vorticarmi intorno con quella loro aria cadaverica e quei lamenti strazianti.
Sentivo che avrei presto avuto un attacco di panico se non avessi trovato un modo di risolvere la situazione. Stavo per accovacciarmi, stringendomi le ginocchia al petto, quando qualcuno pronunciò il mio nome. Fu come ricevere un salvagente in mare aperto; la speranza e la fiducia rifiorirono in me in meno di un secondo.
«Emma?». Mi voltai di scatto nella direzione della voce e colui che vidi mi lasciò letteralmente senza fiato. Spalancai la bocca per dire qualcosa, ma non ne uscii alcun suono.
«Emma mio Dio! Sei proprio tu?». Robin si fece avanti, passando tra quelle anime inquiete per raggiungermi. Io rimasi paralizzata non riuscendo a credere ai miei occhi, non sapevo più neanche se fosse reale o meno. Magari stavo lentamente impazzendo e quello era solo il frutto della mia immaginazione.
«Emma?», continuò facendosi sempre più vicino. Ormai era a meno di un metro da me.
«Robin?», mi sforzai di parlare. Il mio fu solo un sussurro ma lui lo sentì lo stesso.
«Emma, non ci posso credere. Sei tu!». A quel punto reagii di impulso: non l’avevo previsto, ma il mio corpo si mosse da solo annullando la poca distanza che ci separava e travolgendolo in un abbraccio. Gli gettai le braccia al collo, affondando la testa sulla sua spalla, costatando che quello era il vero Robin Hood, vivo e vegeto esattamente come era prima che Ade lo annientasse.
Robin rimase spiazzato dal mio gesto e solo dopo qualche secondo ricambiò goffamente il mio abbraccio. Non era proprio da me lasciarmi andare a quel genere di manifestazioni, soprattutto con chi non fosse Killian o la mia famiglia, però ne avevo davvero bisogno. Mi ero trovata all’improvviso sola e scoraggiata in quel mondo e ritrovarlo, vedere che stava bene, dopo tutto ciò che io stessa avevo causato per salvare Hook, mi aveva letteralmente sopraffatto.
«Come diavolo sei finita qui?», mi chiese quando lo lasciai andare. Bella domanda, peccato non avessi una risposta.
«Potrei chiederti la stessa cosa», replicai. «Credevo che tu… tutti credevamo che tu… Ade ti ha annientato».
«Non qui», mi disse fermandomi con un gesto della mano. «Questo non è un luogo sicuro per parlare». Senza aggiungere altro mi trascinò via, lontano dalla folla. Percorremmo insieme quelle che sembravano delle strade diroccate, sempre piene di quei cadaverici individui. Lo guardai mentre mi guidava da un vicolo all’altro: lui non pareva aver l’aspetto di quelle persone, anche se non sembrava più neanche lo stesso. Era più pallido e più magro di quanto ricordassi, aveva profonde occhiaie e quando l’avevo abbracciato mi era sembrato molto più freddo di quanto sarebbe stata una persona normale. Però a parte queste piccole differenze, sembrava ancora il vecchio Robin che conoscevo.
«Dove stiamo andando?», gli domandai ad un certo punto, notando che il numero di persone che incrociavamo andava man mano diminuendo.
«In un posto sicuro», rispose continuando a camminare. Si guardava intorno con aria furtiva, come per controllare che nessuno stesse facendo caso a noi.
«Sicuro? Perché qui siamo in pericolo?». Non capivo da cosa dovessimo nasconderci; quelle persone mettevano i brividi, ma non mi erano sembrate pericolose.
«Tu non sai quanto», mi rispose laconico.
«Robin dove siamo esattamente?», gli domandai bloccandomi di colpo.
Si fermò e trasse un profondo respiro. «Benvenuta nel mondo delle anime perse Emma».
 
POV Killian
Emma era bellissima quella sera, tutta elegante con addosso quel vestito che avevo desiderato toglierle fin dal primo momento in cui l’avevo visto. Era perfetta anche con la sua giacca di pelle, ma quella sera mi stava facendo letteralmente perdere la testa. Probabilmente l’aveva notato anche lei, visto che le ero rimasto incollato, con il mio braccio intorno alla sua vita, senza mollarla per un solo istante. Il fatto che si stesse comportando in modo ancora più impeccabile, nonostante i miei dubbi, rendeva la serata ancora più perfetta. Ero felice che almeno uno dei suoi compleanni fosse trascorso in quel modo. Ne aveva passati troppi brutti, meritava un po’ di serenità e di felicità.
La osservai mentre si apprestava a spegnere le candeline e un sorriso mi nacque spontaneo sulle labbra. Emma si portò istintivamente una ciocca di capelli dietro l’orecchio e si morse un labbro riflettendo sul desiderio da esprimere; si trattava di un gesto semplice ma tremendamente sensuale. Quella donna mi stava facendo letteralmente impazzire anche senza volerlo. Mi ritrovai inevitabilmente a pensare che la festa avrebbe dovuto finire al più presto, o al massimo terminare nella nostra camera da letto, con solo io e lei come invitati.
«Forza Emma esprimi un desiderio», la incitò nuovamente sua madre. Emma alzò lo sguardo verso di lei e le rivolse un enorme sorriso. Tornò a fissare la torta e finalmente, chiudendo gli occhi, si decise a soffiare le candeline. Nello stesso istante in cui quelle piccole fiammelle si spensero, una luce accecante invase la stanza costringendoci a chiudere gli occhi. Mi portai di scatto la mano sul viso per impedire a quella luce abbagliante di accecarmi. Non durò molto, forse un paio di secondi, dopo di che il bagliore cessò e tutto tornò normale.
«Cosa diavolo è successo?», domandai riaprendo gli occhi. Sbattei le palpebre per mettere a fuoco quello che avevo davanti: eravamo ancora nel loft e tutto sembrava uguale a prima. Ad una prima occhiata non sembrava successo niente che spiegasse l’accaduto.
«Non ne ho la minima idea», mi rispose Regina, che come me stava faticosamente riaprendo gli occhi.
Mi voltai verso Emma per assicurarmi che stesse bene, ma ciò che vidi, o meglio ciò che non vidi, mi lasciò senza fiato. La torta era lì, le candeline erano spente, ma lei non c’era più. Era ovvio che non avesse avuto il tempo di spostarsi e il fatto che non fosse dove era fino ad un attimo prima non lasciava presagire niente di buono.
«Emma?», la cercai, ma sembrò più un grido disperato. Anche tutti gli altri, sentendo quel nome, si voltarono nel punto in cui fino ad un attimo prima si trovava la festeggiata e come me restarono sbalorditi notando la sua assenza.
«Cos’è successo? Dove è finita?», chiese David cominciando ad agitarsi.
«Oh mio Dio!», esclamò Mary Margaret, portandosi una mano alla bocca. Lei era la più vicina al punto in cui si trovava Emma, quasi al di là del tavolo, e stava fissando il pavimento vicino ai suoi piedi con aria sconvolta. Bastò un attimo per farmi arrivare alla conclusione che Emma fosse a terra priva di sensi, o peggio, e che i mobili di quella maledetta casa mi stessero momentaneamente impedendo di vederla.
«Emma!», scattai in avanti.
«Mamma!».
«Emma!». Anche David ed Henry avevano avuto la mia stessa intuizione e perciò ci ritrovammo a scontrarci l’un l’altro nel tentativo di avvicinarci. Biancaneve, come se non si fosse accorta della nostra reazione, si chinò a raccogliere qualcosa e quando si rialzò ciò che teneva tra le braccia sarebbe bastato a farmi venire un infarto. Era una bambina, anzi non una bambina qualunque: era la neonata del mio sogno. Era esattamente la stessa, sapevo di non sbagliarmi. Sbiancai e dovetti appoggiarmi ad una sedia per non cadere a terra.
«Cosa diavolo è successo?». Regina fu la prima a parlare e a riprendersi dallo stupore generale.
«Dov’è la mamma?», domandò Henry, cercando di non credere a ciò che il buon senso gli stava suggerendo.
«È Emma», sussurrò Mary Margaret cullando tra le braccia quella strana bambina.
«Come è possibile?», domandò Belle; mi ero quasi scordato che anche lei si trovava lì con noi. Per fortuna non c’era nessun altro: Zelena era andata ad occuparsi di sua figlia, i nani sarebbero arrivati solo in seguito, a festa già quasi conclusa, e Granny doveva occuparsi del locale. C’erano già troppe persone ad assistere a quel caos.
«È assurdo», proseguì Belle.
«Non è Emma», mi sentii pronunciare. Mi ritrovai a scuotere la testa, cercando di negare ciò che Biancaneve aveva appena affermato.
«Hook», mi contraddisse puntando lo sguardo su di me, «è Emma».
«No che non è lei», gridai senza neanche accorgermene.
«Hook anche noi ne sappiamo quanto te, ma forse dovresti evitare di urlarci contro», intervenne David. Se non fossi stato tanto sconvolto gli avrei tirato un pugno dritto in faccia.
«Killian», continuò Mary Margaret, lanciando un’occhiataccia al marito. «Lo so che sembra impossibile, ma so riconoscere mia figlia». Ne dubitavo ampiamente, visto che l’aveva messa in un albero magico appena nata; mi trattenni comunque dal dirglielo in faccia.
«No», continuai a  negare. Accettare ciò che mi stava dicendo sarebbe stato troppo doloroso.
«Beh se quella è Emma», intervenne Regina, «dobbiamo cercare di capire cosa le è successo così da riuscire a farla tornare come prima».
«Quella non è Emma», gridai imperterrito, facendo scoppiare a piangere la bambina.
«Hook!». Furono in molti a rimproverarmi, ma non mi importava. Non potevo accettare che fosse Emma, che la donna meravigliosa che amavo con tutto me stesso, si fosse trasformata in quella bambina. In più c’era dell’altro: la mia mente continuava a ritornare sul sogno che avevo fatto. Se avevo sognato quella bambina, forse anche l’altra parte di quell’incubo si sarebbe realizzata. Quel posto metteva i brividi e non volevo per niente al mondo averci a che fare.
«Non può essere! Non può!», continuai a vaneggiare, sovrastando il pianto della neonata e iniziando a camminare in su e giù per la stanza. «No, no, no». Se avessi ammesso quella verità, avrei dovuto fare i conti con il fatto che farla tornare come prima non sarebbe stato affatto facile, ne ero certo. Regina mi era sembrata ottimista, ma io sapevo che si sbagliava.
«Hook». Henry mi si avvicinò posandomi una mano sul braccio. «Troveremo il modo di farla tornare quella di prima». Anche se cercava di infondermi fiducia, sapevo che anche lui era spaventato quanto me.
«Emma, la mia Emma…», prosegui nonostante tutto, «ha una voglia sul sedere, se è lei…». Vidi David irrigidirsi per la velata allusione di aver visto sua figlia nuda migliaia di volte, mentre Regina alzò gli occhi al cielo.
«Oh andiamo pirata! Chi altro potrebbe essere questa bambina? Forse non l’hai guardata abbastanza da notare che ha i capelli biondi e gli occhi verdi. Non è questo il momento di comportarsi da stupidi».
«Lascialo stare Regina», la fermò Mary Margaret, cullando la piccola in un vano tentativo di farla smettere di piangere. «Se gli serve un’ulteriore conferma, non vedo quale sia il problema». Senza aspettare altro, appoggiò la bambina sul tavolo cominciando a scostarle la copertina con cui era apparsa. Quell’esserino non ne voleva sapere di smettere di piangere e appena Mary Margaret iniziò a scoprirla cominciò a gridare di più.
Io d’altra parte non riuscii a guardare, mi voltai dandole le spalle. Non volevo ammetterlo, ma capivo che le probabilità che non fosse lei erano quasi uguali a zero. Beh se mi spaventava l’idea di dover essere padre, il solo pensiero di doverlo quasi essere per Emma mi metteva i brividi. Era contro natura, ciò che provavo per lei non era adatto ad una neonata.
«Allora?», domandò spazientito David.
«Killian». Mary Margaret mi prese per un braccio facendomi voltare. La bambina era a pancia in giù e là sul suo sederino spiccava la stessa identica voglia che ormai conoscevo bene. Avevo baciato, accarezzato, tracciato con le dita, quella macchiolina decine di volte e adesso me la ritrovavo lì, come una prova inconfutabile di ciò che era accaduto.
«Sei convinto adesso?», protestò Regina. «Possiamo concentrarci su come risolvere la situazione? E per favore Bianca, falla smettere di piangere». In effetti, per essere piccola aveva proprio due bei polmoni, visto che, da quando aveva iniziato, non aveva smesso di gridare neanche per mezzo secondo.
«Non ho mai sentito di una cosa del genere», intervenne Belle che era rimasta in disparte fino a quel momento. Mary Margaret si affrettò a rivestire la piccola, cercando in qualche modo di tranquillizzarla.
«È successo quando ha spento le candeline», fece notare Henry.
«Come diavolo è potuto accadere?». La mia non era una domanda molto costruttiva, ma non riuscivo ancora a capacitarmi della situazione.
«Non può certo aver espresso il desiderio di tornare neonata!». Proprio mentre Regina pronunciava quella frase la bambina urlò più forte. La vidi fremere, nel vano tentativo di ignorarla. Tentai di fare lo stesso; Regina aveva ragione: Emma non poteva aver desiderato niente di simile. Doveva trattarsi di qualcos’altro.
«Io sapevo della possibilità di far invecchiare più velocemente», continuò Belle, «come per la mia gravidanza, ma non il contrario. Non si può tornare indietro nel tempo».
«Beh a quanto pare non è così», ribattei brusco, «visto che è tornata ad essere una neonata».
«Dovrà pur esserci una spiegazione», intervenne David.
«Non credo che adesso le spiegazioni siano fondamentali», replicai. «Cerchiamo il modo di farla tornare come prima il più velocemente possibile».
«Invece sapere com’è successo è importante; ci aiuterebbe a capire come poterla far tornare adulta», si frappose Regina alzando la voce per sovrastare il pianto di Emma. Mary Margaret nel frattempo stava cercando in tutti i modi di calmarla, ma con scarsi risultati. Beh una cosa era certa: adulta o neonata che fosse la mia Swan aveva un bel caratterino e rimaneva la solita testa dura.
«Beh penso che non dovremmo perdere tempo qui a parlarne», dissi a denti stretti.
«E cosa diavolo pensi di fare pirata?».
«Qualsiasi cosa, sono disposto anche a sentire il coccodrillo pur di risolvere questa situazione al più presto». Non volevo sprecare tempo a litigare, ma Regina mi stava proprio facendo perdere la pazienza.
«Non credo che Tremotino saprebbe cosa fare», intervenne Belle, «o sarebbe disposto ad aiutarci senza qualcosa in cambio». Almeno era la prima a riconoscere di che pasta era fatto suo marito.
«Beh non vedo il motivo di tutta questa fretta», proseguì Regina. «Emma sarà anche una neonata, ma ora come ora non è certo in pericolo di vita». Stava alzando la voce, un po’ per sovrastare il pianto della bambina, un po’ perché si stava infervorando.
«Certo che c’è fretta», ribadii urlando anch’io. «Non vorrai lasciarla così?».
«Adesso basta!». La voce di Henry risuonò al di sopra del resto. Emma smise per un secondo di piangere per poi riprendere ancora più forte. «Litigare non servirà a nulla».
«Henry ha ragione», sospirò Regina. «Oh per l’amor del cielo Biancaneve! Fai smettere di piangere tua figlia». Si girò verso di lei con aria esasperata.
«Non ci riesco», rispose Mary Margaret, cullando Emma tra le braccia. «Non riesco a calmarla, le sto provando di tutte. Con Neal non è così difficile».
«Dammi a me, provo io». David le si avvicinò e le tolse la bambina di braccio. Il risultato fu lo stesso, anzi se era possibile la bambina sembrò iniziare a piangere con più foga.
«Che cosa ha? Magari sta male o ha fame?», azzardò Henry.
«Non credo che abbia fame», rispose Biancaneve.
«Che cosa è che riesce a calmarla di solito?», domandò Belle. Regina, Mary Margaret ed Henry si voltarono istantaneamente a guardarmi. Sbattei le palpebre cercando di capire ciò che mi stavano suggerendo.
«Dammi». Biancaneve riprese la bambina dalle braccia del marito e mi si avvicinò. «Hook prova a prenderla tu in braccio».
«Cosa? Stai scherzando?». Mossi istintivamente un passo indietro per evitare quella eventualità.
«Oh andiamo Hook», si intromise Regina, «tu sei l’unico che di solito riesce a farla ragionare».
«E perché diavolo credete che riuscirei a farla smettere di piangere adesso?».
«Beh è ovvio l’effetto che hai su di lei», continuò Mary Margaret.
«Magari ha solo bisogno di sentirti», rincarò anche Belle.
«No». Non volevo prenderla, non volevo collegare quella bambina ad Emma in nessun modo. Potevo accettare che fosse lei, ma nulla di più. Non potevo permettere che quello che provavo per Emma fosse traslato su quella neonata.
«Avanti Hook, provaci», insistette Henry. Indietreggiai ancora fino ad andare a sbattere con la schiena contro un dannato mobile.
«Coraggio». Mary Margaret mi si avvicinò di nuovo porgendomi quella bambina urlante.
«Non fare lo stupido, pirata», mi rimproverò Regina. «Dannazione prendi la tua fidanzata in braccio e non fare storie». Le lanciai un’occhiataccia, ma ormai ero con le spalle al muro. Ero da solo contro tutti, solamente David non aveva insistito oltre, ma non ero  proprio sicuro che le sue motivazioni fossero a mio vantaggio.
«Non so come fare», balbettai in un tono appena udibile, tanto che pensavo che nessuno mi avrebbe sentito, soprattutto considerando il pianto ininterrotto della piccola Swan.
«È facile», mi rispose invece Biancaneve. «Devi tenerle la testa». Lentamente mi passò la bambina e mi aiutò a prenderla in braccio. Anche se dentro di me sarei voluto scappare, mi costrinsi a fare ciò che lei mi diceva. Mi sentivo un po’ impacciato, considerando anche il fatto che avevo un uncino al posto della mano; non volevo farle male e tenerla utilizzando un braccio e una mano sola non era poi così semplice.
«Coraggio Swan, smettila di piangere», mormorai stringendola. All’inizio quel cambiamento sembrò non sortire alcun effetto: Emma non pareva per niente intenzionata a calmarsi. Ma poi lentamente, mentre continuavo a cullarla tra le braccia, i suoi lamenti si fecero meno forti, fino a cessare del tutto.
«Ha funzionato», sospirò grata Regina.
«Aveva solo bisogno di sentirti vicino», mi disse Mary Margaret. La guardai per un secondo, per poi tornare ad osservare la creaturina che avevo tra le braccia. Quella era la mia Emma, ed era bellissima anche in fasce. Istintivamente le accarezzai una guancia con l’uncino; a quel contatto lei mi inchiodò con i suoi meravigliosi occhi verdi, identici nonostante l’età. Era lei, ma allo stesso tempo non lo era, ciò che provavo, il tumulto di sensazioni che sentivo, mi confondeva e mi spaventava.
«Adesso cosa facciamo?», domandò David.
«Cerchiamo di capirci qualcosa», rispose Regina.
«Credo che per prima cosa», continuò Belle, «dovremo andare a parlare con la fata Turchina».


 
Angolo dell’autrice:
Ciao a tutti! Come promesso eccomi qua, a riprendere i miei immancabili appuntamenti della domenica ;)
Bene detto questo, direi solo che il capitolo è stato pieno di sorprese e che possiamo riassumerlo con un grosso “BUM”. Non so se vi aspettavate questa comparsa improvvisa, ma ecco che da una parte spunta Robin e dall’altra Emma sembra tornata in fasce. Cosa sarà successo? Ad essere sincera sto ancora elaborando io stessa la cosa, quindi sarà una scoperta sia per voi che per me.
Voglio ringraziare chi ha recensito, chi ha inserito la storia nelle varie raccolte, ma anche chi legge silenziosamente. Continuate a seguirmi e continuate a farmi sapere che cosa ne pensate.
Un bacione e alla prossima settimana.
Sara
 

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** 3. Nuove realtà ***


3. Nuove realtà
 
POV Emma
«Benvenuta nel mondo delle anime perse Emma». Sentire quelle parole mi fece venire la pelle d’oca, riuscendo completamente a raggelarmi; ma, nonostante ciò, mi costrinsi a seguirlo senza aggiungere altro. In seguito avrei avuto tutto il tempo per porgli le centinaia di domande che avevo in testa, prima però dovevamo arrivare nel luogo che lui definiva sicuro. Avevo come la sensazione di aver sottovalutato la pericolosità di quel mondo.
Camminammo ancora un po’, superando quelle anime in pena, fino ad arrivare ad uno stretto vicolo cieco. Robin si fermò per guardarsi intorno ed accertarsi che nessuno ci stesse osservando, anche se in effetti dubitavo che quelle persone sarebbero state in grado anche solo di vederci.
«Bene, per di qua». Robin si chinò ed aprì una botola nel terreno. Non avevo nemmeno notato che ci fosse un’apertura, e tanto meno avrei pensato di dovermici calare dentro.
«Sul serio?», domandai quando mi fece cenno di entrare. Mi lanciò uno sguardo che non ammetteva repliche e attese che eseguissi il suo ordine; sospirai e, senza protestare ulteriormente, feci come mi aveva detto. Mi calai in quella apertura e rimasi sorpresa quando sentii dei pioli sotto i miei piedi. Cominciai lentamente a scendere per quanto me lo permettesse il vestito, ma la discesa non fu lunga, un paio di metri circa.
Sull’ultimo gradino sentii la gonna del mio vestito strapparsi. «Merda!», borbottai a denti stretti.
«Che succede?». Robin atterrò accanto a me e mi squadrò preoccupato.
«Il mio vestito…». Mi guardai per poter costatare il danno, anche se la luce all’interno non era molta. Robin aveva richiuso l’apertura, ma l’ambiente era comunque rischiarato da alcune torce. Mi osservai le gambe e, come sospettavo, vidi un profondo squarcio che risaliva tutta la coscia: praticamente avevo uno spacco che lasciava vedere molto di più di quello che avrei voluto.
“È l’ultima volta che mi lascio convincere da mia madre ad indossare un vestito del genere”, pensai. Alzai gli occhi e trovai Robin che mi fissava ed il suo sguardo era un po’ troppo in basso per i miei gusti. Mi affrettai a coprirmi come meglio potevo e a girarmi dall’altra parte.
«Sono sicuro che troveremo qualcosa da metterti», borbottò arrossendo e distogliendo lo sguardo. «Da questa parte». Ricominciò a camminare, seguendo quella che sembrava una stradina sotterranea.
«Dove stiamo andando?», gli domandai dopo un po’. Quel posto doveva essere sicuramente più sicuro e lui poteva cominciare a rispondere a qualche domanda.
«Al rifugio», mi rivelò continuando a camminare. «È il luogo che utilizziamo come nascondiglio».
«Utilizziamo?». Avevo notato l’uso del plurale.
«Già. Non sono solo, è difficile da spiegare. Ci sono cose qua Emma… hai visto quelle persone, no? Bisogna far attenzione per non diventare come loro».
Rimasi in silenzio, non perché avessi finito le domande ma perché cominciavo a sentirmi confusa: non ci stavo capendo più niente. Come ci era finito Robin lì e cosa era successo a quelle persone? Ed io come ero giunta nel loro mondo?
«Siamo quasi arrivati», mi disse all’improvviso. «Dobbiamo solo risalire e poi ci siamo».
«Risalire? Perché siamo scesi allora?», mi lamentai con un tono di voce un po’ troppo alto.
«Perché è più sicuro passare da qua sotto che da là sopra». Sospirai e mi apprestai a risalire. Ero infreddolita, mezza nuda, senza scarpe e non vedevo l’ora di arrivare a quel così detto rifugio.
Questa volta Robin salì prima di me e si apprestò a controllare l’uscita; solo quando fu sicuro mi fece cenno di seguirlo. Sbucammo nuovamente in un vicolo, questo sembrava addirittura più appartato del primo, non si vedeva anima viva in giro e ciò mi fece pensare che probabilmente doveva trovarsi in una zona più periferica.
La stradina in cui eravamo sbucati era circondata da tre muri di mattoni, mentre dal quarto lato incrociava una strada più grande. Pensai che Robin si dirigesse verso di essa, invece si avvicinò ad una delle pareti e bussò sul muro per tre volte.
All’improvviso da quello che mi era sembrato un semplice blocco di mattoni si aprì una porta e Robin si affrettò a farmi entrare richiudendosela subito alle spalle. Una volta dentro procedetti lungo un corridoio e solo dopo pochi passi percepii un paio di occhi su di me. Mi guardai intorno finché non individuai una ragazza proprio dietro la porta; probabilmente era stata lei ad aprirci. Era giovane, molto giovane, forse sui vent’anni, mora, occhi scuri e vigili. Anche lei era pallida come Robin ma a sua volta completamente diversa da quelle anime tormentate che avevo visto prima.
«Ne hai trovata un’altra?», domandò a Robin.
«Non proprio, è una lunga storia Lizzy. Lei dov’è?».
«È uscita da un po’, dovrebbe rientrare a momenti». Mi domandai chi fosse la “lei” a cui si stavano riferendo. Se non altro avevo scoperto che la ragazzina si chiamava Lizzy.
Robin tornò a guardarmi e mi rivolse un sorriso tirato. «Bene Emma, benvenuta nel nostro nascondiglio. Vieni ti faccio strada». Mi passò avanti e mi guidò in una stanza più grande da cui si affacciavano altre due porte; era una specie di salotto, anche se le peggiori topaie a New York erano messe meglio. Era una casa fatiscente, come lo era del resto anche tutto quel mondo.
Là, seduto su un consunto divano, c’era un uomo sulla cinquantina. Se Robin mi aveva guardata in maniera un po’ sfacciata prima, lui mi divorò letteralmente con gli occhi. Cercai di tirare il vestito in modo da coprirmi il più possibile e arrossii involontariamente. Mi sentii estremamente vulnerabile, ma fu solo per un secondo, perché subito dopo ricambiai lo sguardo di quell’uomo con un gesto di sfida.
«Bene lei è Emma», mi presentò Robin. «Loro sono Lizzy e Mark, e per l’amor del cielo Mark smettila di guardarla in quel modo». L’uomo sembrò accorgersi solo allora dello sguardo inebetito con qui mi stava squadrando e si affrettò a distogliere lo sguardo.
«Molto piacere sono Elizabeth, ma tutti mi chiamano Lizzy». La ragazzina si apprestò a raggiungermi e a porgermi la mano.
«Emma Swan», risposi stringendogliela.
Proprio in quel momento altri due uomini entrarono nella stanza. «Ehi Robin sei tornato?». Quando mi videro si fermarono, ma ebbero almeno il buon senso di non soffermarsi sul mio corpo.
«Hai trovato qualcun altro?», domandò uno dei due, il più giovane, avvicinandosi a Robin per dargli una pacca sulle spalle.
«Beh diciamo di sì, anche se è una lunga storia. Lei è Emma. Loro sono Charlie e Joe». Charlie era un uomo all’incirca della mia età, con folti capelli neri e occhi altrettanto scuri. Era alto e muscoloso ed era sicuramente un gran bel ragazzo. Joe invece era più anziano, forse il più anziano di tutti: aveva i capelli bianchi e profonde rughe gli cerchiavano gli occhi. Era più in carne e aveva l’aspetto di un nonno bonario, uno di quelli che avrei sempre voluto avere.
«Piacere». Charlie mi strinse vigorosamente la mano, rivolgendomi un sorriso.
«Lizzy cara, perché non trovi ad Emma qualcosa di più adatto da indossare?». Joe mi sorrise benevolo e io lo ricambiai più che spontaneamente.
«Grazie», sospirai. Lizzy si affrettò a sparire attraverso una delle due porte ed io sperai che facesse in fretta. In effetti l’avrei seguita piuttosto volentieri, ma non sapevo esattamente come comportarmi. Avrei dovuto seguirla o aspettarla lì?
Proprio in quel momento qualcuno bussò alla porta. Erano gli stessi tre colpi che aveva usato prima Robin, doveva essere una sorta di loro segnale di riconoscimento.
«Bene», fece quest’ultimo, «è arrivata anche l’ultima componente del nostro piccolo gruppo. Sono sicuro che ti troverai subito a tuo agio con lei, ho come l’impressione che siate molto simili». Si avviò lungo il corridoio, mentre io restai in piedi di fronte a quei tre uomini senza sapere bene cosa dire o fare. Spostai il peso da un piede all’altro, cercando di concentrarmi su altro o di trovare qualcosa da dire.
«Lizzy, trova anche un paio di scarpe», gridò Joe rivolto all’altra stanza. Aveva notato i miei piedi e probabilmente si stava domandando che cosa diavolo avessi combinato per essere conciata in quella maniera.
Subito dopo la voce di Robin penetrò distintamente nella stanza. Stava spiegando alla nuova arrivata la mia presenza e avevo come la netta impressione che il giudizio di quella nuova sconosciuta fosse il più importante di tutti. Doveva essere forse la loro leader?
«Beh è una storia lunga, io già la conoscevo», stava dicendo. «Comunque sono sicuro che ti piacerà».
«Una persona in più ci farà comodo», rispose una voce femminile. «Dopo che abbiamo perso Vincent…».
«Infatti», proseguì Robin entrando. «Questa è Emma. Emma lei è…».
«Milah». Avevo parlato prima che lui potesse finire la frase, ma la donna che mi ero ritrovata davanti mi aveva lasciata del tutto sbalordita.
«Emma?», fece lei sorpresa quanto me.
«Voi due vi conoscete?», ci domandò Robin altrettanto perplesso. Come diavolo era possibile che Robin Hood non sapesse chi era Milah? Mi ricordai però che nell’Oltretomba eravamo stati solo io e Tremotino ad incontrarla. Se lei non gli aveva parlato del suo passato era probabile che lui non avesse ricollegato il suo nome ad Hook.
«Lei è Milah», cercai di spiegarmi. Ormai non c’era più tempo per i segreti, perciò continuai. «È la prima moglie di Tremotino, la madre di Bealfire, è l’ex amante di Hook».
Robin assunse un’espressione stupita, ma sembrò capire. «Tu sei quella Milah? Non credevo… io non ho pensato che tu… non avevo ricollegato il tuo nome».
«Robin tu sai chi sono?», domandò Milah sospettosa. Era ovvio che lei non potesse invece conoscere lui.
«Robin era… è un mio amico», mi affrettai a spiegare. «Mio e di Killian».
«Tu conosci Killian?». I suoi occhi si illuminarono mentre rivolgeva quella domanda a Robin.
«Sì certo. E conosco anche il tuo ex marito se è per questo».
«Scusate», intervenne Charlie. «Cosa sta succedendo? Vorreste essere così gentili da spiegarlo anche a noi?». Era naturale che gli altri membri del gruppo non stessero capendo assolutamente nulla dell’accaduto, ma anche io faticavo ancora a credere che davanti a me ci fosse quella stessa Milah che credevo persa per sempre.
«Avete ragione», convenne Robin.«Adesso vi spiegheremo tutto».
«Prima però», intervenne Lizzy, che era rientrata nella stanza, «credo che dovremo concedere ad Emma il tempo di cambiarsi». Sospirai grata a quella notizia e mi affrettai a seguirla attraverso la porta. Scoprii che quella portava ad altre due stanze, due camere per l’esattezza. Non c’erano dei veri e propri letti, ma erano organizzati con delle specie di brandine. Sembrava più un accampamento provvisorio che una vera e propria casa.
«Questi dovrebbero andarti bene», mi disse Lizzy porgendomi dei vestiti. «Non è facile trovarli quaggiù, è tutto quello che abbiamo».
«Va bene lo stesso, grazie». Annuì e si affrettò ad uscire dalla stanza per darmi la possibilità di cambiarmi. C’erano dei pantaloni, che mi stavano un po’ stretti, e una felpa che invece mi stava un po’ troppo larga. Prima di infilarmi le scarpe andai alla ricerca del bagno, che trovai proprio lì accanto, per riuscire a pulirmi i piedi; il solo pensiero di ciò che avevo calpestato mi metteva i brividi. Scoprii presto che almeno le scarpe da ginnastica mi calzavano perfette, erano l’unica cosa giusta di quel mio nuovo abbigliamento, ma non potevo certo lamentarmi. Erano sicuramente meglio del vestito strappato che avevo indossato fino ad allora.
Quando rientrai nel salotto non c’era più nessuno. Erano spariti tutti.
«Robin?», cercai titubante.
«Siamo di qua Emma». La sua voce mi giunse da quella che doveva essere un’ulteriore stanza. Varcai l’altra porta, quella che ancora non avevo esplorato, e mi ritrovai in una minuscola cucina. Erano tutti lì riuniti. Robin, Milah, Joe sedevano ad un misero tavolo, mentre Charlie, Lizzy e Mark erano appoggiati al bancone dietro di loro.
«Accomodati», mi fece Joe indicandomi l’unica sedia libera accanto a lui. «Immagino che tu sia molto confusa, che abbia molte domande. Robin ci ha spiegato velocemente la tua storia».
«Sì», balbettai, non sapendo da che parte iniziare.
Milah mi interruppe prima che potessi anche solo cominciare. «Cos’è ti è successo?».
«Bella domanda», sbuffai. «Io francamente non lo so».
«Anche Killian è qua? Non sei riuscita a salvarlo?». Né lei né Robin sapevano che Killian era letteralmente tornato dal mondo dei morti essendo entrambi scomparsi prima. Sebbene le sue domande fossero del tutto legittime, sentii una punta di gelosia divampare dentro di me. Tutta quella preoccupazione per il mio pirata, non era lecita anche se un tempo era stato il suo pirata.
«Beh in realtà sono riuscita a salvarlo», mi costrinsi a risponderle. «O meglio diciamo che si è salvato da solo». Mi voltai verso Robin. «Dopo che Ade ti ha annientato, lui ci ha aiutato a sconfiggerlo, e come premio Zeus lo ha riportato a Storybrooke. Suona un po’ assurdo lo so…».
«Anche lui è qua?», continuò Milah beccandosi un’occhiataccia da parte degli altri. Era ovvio che stesse dirottando la conversazione dall’argomento principale.
Non ne avevo la certezza assoluta, ma la risposta era abbastanza scontata. «No, non credo. Ci sono solo io».
«Emma», intervenne Robin, «ci dispiace assillarti con tutte queste domande quando sappiamo che tu ne avresti altrettanto. Tuttavia dicci solo un’altra cosa, e scusami se sono così diretto, ma… come sei morta?».
Per un attimo pensai di non aver sentito bene, ma poi vidi sei paia di occhi puntati su di me, in attesa di una risposta. «Cosa? Io non sono morta!». Me ne sarei dovuta accorgere se lo fossi stata, e poi non sarei dovuta andare nell’Oltretomba?
«Emma…». Robin cercò le parole giuste per dirmelo, senza però trovarle realmente.
«Cara», intervenne Joe, «forse devi ancora elaborare la cosa, ma questo mondo non è destinato ai vivi».
«No!». Mi alzai di scatto, non riuscendo più a stare seduta. «Io non sono morta! Non so come sono arrivata qui, ma non sono morta».
«Emma», intervenne Milah posandomi una mano sulla spalla. «Pensaci un attimo. So che non conosci gli altri, ma sai cosa è successo a me e a Robin». Riflettei su quello che mi aveva detto, ma la mia mente si rifiutava di crederle.
«No, no», seguitai scuotendo la testa.
«Io sono stato annientato da Ade, Emma», proseguì Robin. «Lui mi ha ucciso».
«Ed io», continuò Milah, «io… lo sai cosa mi è successo Emma?».
«Sei caduta nel fiume delle anime perse». Nello stesso istante in cui pronunciai quel nome, lo ricollegai subito a quello che mi aveva detto Robin poco prima. «No, non può essere...».
«Vieni con me Emma». Milah mi guidò di nuovo verso la porta d’ingresso e dopo aver guardato da uno spioncino, l’aprì leggermente. «Sono sicura che tu non abbia fatto ancora caso al cielo».
Mi fece posto, in modo tale che potessi alzare lo sguardo verso l’alto, quel tanto che bastava da poter vedere il cielo. Ma al posto dell’azzurro e delle nuvole c’era una sorta di corrente verdognola, come se fosse composto interamente da acqua. Sembrava di essere quasi in fondo al mare, o forse avrei fatto meglio a dire fiume.
«Siamo nel fiume dell’anime perse?», domandai sgomenta.
«Già, noi lo chiamiamo Lete». Robin ci aveva seguito ed era alle nostre spalle. Milah mi fece rientrare, mentre io ancora stentavo a credere a ciò che mi stavano dicendo.
«Non posso essere morta», sussurrai, «il mio cuore batte ancora». Come potevo non essermi accorta di una cosa del genere?
«Come?». Milah si fermò di colpo sentendo le mie parole.
«Il mio cuore batte ancora», ripetei come un automa.
Mi fece girare nella sua direzione, mettendomi una mano sul petto. Robin nel frattempo mi aveva preso il polso.
«Oh mio Dio! Ha ragione», sussurrò quest’ultimo.
Milah mi fissò sgomenta. «Come diavolo sei finita qua se sei ancora viva?».
 
POV Killian
Cullai la piccola tra le braccia, cercando il modo migliore per tenerla. «Credi davvero che andare a parlare con la fata Turchina sia la soluzione?», domandai perplesso. Vidi la stessa titubanza dipinta anche sul volto di Regina. Né io né lei avevamo mai avuto molta fiducia nelle così dette fate.
«Beh non lo so, ma è comunque un punto di partenza», rispose Belle. In effetti aveva ragione; dovevamo pur iniziare da qualche parte per riuscire a capire cosa diavolo fosse successo e quello era sicuramente un punto di partenza come un altro.
«Bene», acconsentì David. «Cosa stiamo aspettando allora?».
«Cosa ne faccio di lei?», dissi accennando alla bambina.
Mary Margaret si allungò per spiarla da sopra la mia spalla. «Io la riprenderei, ma temo che inizierebbe di nuovo a piangere. Sembra così tranquilla in braccio a te».
Abbassai lo sguardo per poterla osservare con più attenzione. Mi stava ancora guardando con i suoi occhioni verdi e mio malgrado mi stava sbavando sulla camicia. Era vispa e attenta e sembrava adorare stare tra le mie braccia, come la vera Emma d’altronde. Non sapevo se fosse la mia presenza o semplicemente il mio odore a tenerla calma, ma sembrava funzionare.
«Mi pare ovvio», intervenne Regina. «Tu rimani qui con lei e noi andiamo a parlare con la fata Turchina».
«Puoi scordartelo», proruppi alzando il tono. Emma emise un gemito contrariato, che mi costrinse ad abbassare il volume per evitare di farla di nuovo piangere. «Io non rimarrò qui a fare la bambinaia».
«Beh si da il caso che adesso è proprio quello che ci serva», ribatté lei.
«Non mi escluderai da questa cosa», soffiai tra i denti.
«Per quanto mi dispiace lasciarti mia figlia», si intromise David, «credo che Regina abbia ragione. Mio malgrado tu riesci a farla stare calma e l’hai detto tu stesso non dobbiamo perdere tempo».
Aprii la bocca e poi la richiusi non sapendo come rispondergli. Aveva ragione anche se non volevo ammetterlo. Non avrei dovuto protestare, ma non sopportavo di restarmene lì senza far nulla e senza sapere le ultime novità. «Non voglio essere lasciato in disparte», confessai amaramente.
«Lo so, e credimi se riuscissi a calmare Emma, resterei io qua con lei. Ma non puoi venire con noi, portandotela dietro come se fosse un sacco di patate».
«Non la tengo come un sacco di patate», protestai a bassa voce. «Prova tu a tenerla con un braccio solo».
David non mi sentii, ma Mary Margaret accennò un sorriso udendo le mie parole. «Stai andando benissimo Hook». Mi mise una mano sulla spalla in un gesto rassicurante. «Comunque credo di aver appena avuto un’idea che ti permetterà di venire con noi. Aspettatemi qui, torno subito».
 «Cosa…?». Non feci neanche a tempo a completare la mia domanda che lei sparì andando nell’altra stanza.  Regina sbuffò ma si trattenne dal protestare; Henry invece si avvicinò per giocherellare un po’ con sua madre. Emma all’inizio lo studiò attentamente e poi gli rivolse un ampio sorriso, emettendo un piccolo gorgoglio.
«Gli piaci», disse David avvicinandosi a sua volta. «Prova a prenderla, magari sta buona anche con te». Henry fece per togliermela dalle braccia, ma la piccola iniziò di nuovo ad agitarsi e la sua faccia si arrossò come se potesse  iniziare a piangere da un momento all’altro.
«Credo che la piccola miss Swan abbia l’idee molto chiare; sa benissimo con chi vuole stare», commentò Regina.
«Non è mai stata così chiara in tutta la sua vita», constatai mio malgrado, stringendomela di nuovo al petto.
«Ecco qua». Mary Margaret ricomparve nella stanza con un oggetto in mano. «Ho preso il marsupio di Neal, dovrebbe andarle bene, così potrai portarla più facilmente. In più potremo mostrarla subito a Turchina, credo che sia meglio farle vedere lì per lì con i suoi occhi cosa è successo».
«E Neal?», domandò David.
«Ho chiamato Granny, sarà qui a momenti. Vieni Hook metti questo». Mi si avvicinò e con un gesto esperto mi tolse Emma di braccio; ovviamente quel cambiamento repentino non piacque alla piccola, che iniziò ad agitarsi e a lamentarsi, sporgendosi verso di me.
Con un gesto rapido afferrai lo strano oggetto che Biancaneve aveva portato, cercando di capire come diavolo funzionasse. Non mi ero mai interessato di bambini, e tanto meno delle cose dei bambini; non ero esperto e, dopo la chiacchierata avuta con Emma, pensavo che non lo sarei stato ancora per un po’ di tempo.
«Ah dai qua», sbuffò David, venendomi a dare una mano. In men che non si dica riuscì a farmi indossare quella specie di zainetto. Mary Margaret vi adagiò la piccola in modo tale che potesse guardarmi e appoggiare la testa sul mio petto. Quasi magicamente Emma si calmò all’istante non appena capì di essere di nuovo a stretto contatto con me.  Anche se la mia Swan non aveva mai ammesso apertamente la sua dipendenza nei miei confronti, in quel momento risultava chiaro e cristallino. Era ovvio che il ritorno in fasce le avesse fatto mettere a nudo i suoi bisogni più nascosti.
«Vogliamo andare?», sentenziò Regina.  Annuii e inconsciamente appoggiai una mano sulla schiena di Emma, come per sorreggerla. Lei mi guardò, con quei suoi meravigliosi occhi e con le guanciotte paffute, e mi rivolse un enorme sorriso. Sembrava che le piacesse stare in quel coso e soprattutto che le piacesse guardarmi. Ma per quanto potessi essere lusingato dal suo sguardo, dovevamo trovare al più presto un modo per farla tornare adulta. Dovevamo riuscirci prima che il suo attaccamento nei miei confronti diventasse qualcosa di diverso dal quello che oramai noi due condividevamo, il così detto Vero Amore.
 
Poco tempo dopo eravamo tutti riuniti in una stanza del convento insieme alla madre superiora.
«È davvero sorprendente», disse Turchina, studiando attentamente la bambina ancora adagiata nel marsupio.
«Cosa pensi che le sia successo?», le domandò Belle.
«Credo che debba trattarsi di magia di luce, non penso che nessun altro tipo di magia ci riuscirebbe».
«Davvero?», intervenne Henry. «Come è stato possibile?».
«Io l’ho fatto con Pinocchio», affermò.
A quella rivelazione mi illuminai. Se l’aveva già fatto, probabilmente sapeva anche come invertire il processo. «Allora sai come farla tornare come prima?», esultai. Forse avevo sottovalutato i poteri di quella fata.
«Beh è diverso in questo caso», affermò. «Non sono stata io a compiere la magia e non posso perciò annullarla». Come non detto.
«Allora chi o cosa è stato a farla diventare così?», domandò David.
«Avete detto che è successo mentre stava spegnendo le candeline?».
«In quello stesso istante», precisò Regina.
«Beh allora credo che sia stato il desiderio che Emma ha espresso». Quell’ipotesi mi sembrò del tutto assurda.
«Oh andiamo», proruppi. «Non può aver certo desiderato di tornare bambina». Emma si agitò notando il mio repentino cambiamento di umore, e cominciò a sporgere le manine verso di me. Senza accorgermene le offrii la mano, in modo tale che potesse stringere il mio dito.
«Beh i desideri sono magie molto particolari», sentenziò Turchina.
«Credi davvero che un desiderio abbia avuto il potere di trasformarla?», intervenne Regina.
«Come dicevo i desideri sono magie molto particolari e molto potenti».
«Per il suo ventottesimo compleanno», si intromise Henry, «la mamma ha desiderato di non essere più sola; subito dopo sono arrivato io e così è stato».
«Infatti», confermò la fata. «Il problema con i desideri è che possono essere facilmente fraintesi. Sicuramente Emma non ha desiderato questo, ma se non si è chiari può succedere di tutto. Ogni magia ha sempre un prezzo». E sicuramente Emma non si sarebbe mai aspettata che il suo desiderio di compleanno si realizzasse.
«Quindi è un po’ come succede con i desideri dei geni», sentenziò David. Capitan ovvio. Stavo per lanciargli una frecciatina quando vidi al suo fianco l’espressione pensierosa e preoccupata di Mary Margaret. Sembrava quasi angosciata, come se avesse capito qualcosa che a noi altri ancora sfuggiva.
«Biancaneve?», la chiamai attirando la sua attenzione. «Cosa succede?».
Lei alzò la testa di scatto e mi guardò con aria triste, come se non volesse ammettere quello che stava per dire.
«Oggi pomeriggio», emise con un sospiro, «io ed Emma abbiamo parlato. Ci siamo un po’ chiarite, sul perché la festa di stasera fosse importante per me e perché lei fosse invece così contraria». Ecco spiegato il comportamento impeccabile che Emma aveva avuto, nonostante i miei numerosi dubbi. La chiacchierata con sua madre doveva esserle servita.
«D’accordo e con questo?», le domandò Regina.
«Credo di sapere cosa ha desiderato Emma», confessò. Con quelle parole riuscì ad attirare tutta la nostra attenzione. La fissammo tutti aspettando che continuasse, ma non aggiunse altro.
«Allora?», la incalzai.
Invece di rispondermi si rivolse alla fata Turchina. «È possibile che il suo fosse più un rimpianto che un desiderio?».
«Che cosa intendi dire Biancaneve?».
«Credo che lei avrebbe voluto concedermi l’opportunità di vederla crescere», ammise infine. Sbattei le palpebre cercando di capire cosa diavolo stesse dicendo. Era assurdo, ma in un certo qual modo aveva un senso.
Emma nel frattempo aveva iniziato a succhiarmi il pollice, appoggiando una guancia sul mio petto. Non mi dava fastidio che il mio dito fosse nella sua bocca, c’era stato ben altro di me, era un gesto dolce e quasi possessivo. Dubitavo però che la piccola Emma la vedesse allo stesso modo: sembrava proprio che avesse voglia di succhiare qualcosa e probabilmente l’avrebbe fatto con qualsiasi altra cosa a portata di bocca.
«Aspetta fammi capire?», intervenne Regina cercando di fare chiarezza. «Tu credi che abbia desiderato di farti rivivere i momenti della sua infanzia?».
«Non credo che sia così semplice», rispose Mary Margaret. «Io penso che non abbia espresso un vero e proprio desiderio, ma c’è stato un momento prima che spegnesse le candeline in cui mi ha guardato e mi ha sorriso. Era dispiaciuta perché noi due in fondo abbiamo perso tutto, ogni singolo momento cruciale della sua infanzia e della sua giovinezza, ogni singola cosa che di solito madre e figlia condividono. Emma avrebbe voluto che le cose fossero andate diversamente, che io avessi avuto la possibilità di crescerla e lei di crescere con me. Era un rimpianto non un desiderio».
«Però potrebbe essere», intervenne Belle. «Se lo consideriamo una sorta di desiderio, adesso tu hai in qualche modo la possibilità di crescerla».
«Non ne sono sicura», sentenziò Turchina, «ma credo che tu possa aver ragione».
Aprii la bocca per dire qualcosa, ma poi la richiusi non sapendo cos’altro aggiungere. Era tipico di Emma, sacrificarsi per salvare gli altri e anche stavolta non era poi tanto diverso. Avrebbe voluto concedere a sua madre possibilità che non aveva avuto e, anche se la sua infanzia era stata difficile, Emma sapeva benissimo che non sarebbe stata la stessa persona senza le difficoltà che aveva vissuto; lei sarebbe stata diversa e lo sapeva. Per questo aveva imparato ad accettare il passato per quel che era perché alla fine aveva contribuito a farla diventare Emma Swan. Eppure ancora una volta aveva desiderato qualcosa che non sarebbe stato possibile, qualcosa che l’avrebbe completamente stravolta. Era la Salvatrice e non avrebbe mai smesso di esserlo.
«Credo che abbia fame», mormorai all’improvviso. Fu la prima cosa che mi venne in mente, la prima idiozia per rompere quel silenzio agghiacciante. Tuttavia Emma aveva cominciato a succhiarmi il dito con più avidità e sembrava davvero contrariata dal fatto che non uscisse nulla. Si stava iniziando ad agitare e ad essere irrequieta.
Mary Margaret si accostò sospirando e si sporse per osservare Emma. «Penso che tu abbia ragione».
«Tieni», anche Regina si avvicinò. «Prova con questo». Con un gesto della mano fece apparire un biberon colmo di latte che passò subito a Biancaneve.
«Comodo», commentai. Mary Margaret sorrise e farfugliando qualcosa alla piccola la prese in braccio. Questa volta Emma non si oppose e appena vide il biberon fu addirittura lieta di andare tra le braccia della madre.
«E quindi?», intervenne Henry, riportando la conversazione sull’argomento principale.
«Adesso sappiamo più o meno cosa è successo», continuò David.
«Sì è vero», confermò Turchina. «Tuttavia i desideri non si annullano, è una delle regole fondamentali. Un desiderio una volta espresso non può essere disfatto».
Sbiancai sentendo quelle parole e vidi anche gli altri trasalire. «Allora come diavolo facciamo a farla tornare come prima?».


 
Angolo dell’autrice:
Buona domenica a tutti! Eccomi qua con un nuovo capitolo.
Nuove sorprese anche stavolta e soprattutto ancora vecchie conoscenze. Come qualcuno aveva immaginato o sospettato, Emma si trova nel fiume delle anime perdute dell’Oltretomba, ed è per questo che Milah si trova là. Sul perché ci sia anche Robin ci sto ancora lavorando.
Dall’altra parte, grazie ad una Mary Margaret piuttosto perspicace ed una fata Turchina un po’ meno inutile, sono riusciti a capire cosa è accaduto, anche se non sanno ancora che la vera Emma adulta si trova intrappolata in un altro mondo.
Grazie come sempre a tutti coloro che leggono, seguono o recensiscono. Siete un ottimo incentivo per andare avanti e trovare nuove idee per questa mia storia.
Un bacione e alla prossima settimana!
Sara
 

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** 4. Chi possiede le risposte? ***


4. Chi possiede le risposte?
 
POV Emma
Senza neanche accorgermene mi ritrovai di nuovo seduta al tavolo della cucina: sei paia di occhi erano puntati su di me; qualcuno probabilmente mi stava parlando, ma io ero troppo sconvolta per prestare attenzione. Fatto restando che avevamo appena appurato che io ero ancora viva, il perché mi trovassi in quel mondo era ancora un mistero. Per qualche strano scherzo del destino ero finita in un luogo popolato da anime defunte e fino ad allora la mia mantenuta attività cardiaca non aveva fatto molta differenza. Avere un cuore pulsante non sembrava aver importanza visto che rimanevo intrappolata come Robin e tutti gli altri.
«Emma?». Qualcuno mi accarezzò la testa, ma non seppi capire di chi si trattasse. Il mio sguardo era rivolto ad un punto fisso sulla parete, ma non stavo veramente guardando là. La mia mente era lontana mille miglia. Cercai di pensare a cosa era successo, a cosa fosse scattato nel medesimo istante in cui avevo spento le candeline, perché era ovvio che fosse stato quel mio gesto a causare tutto. Avevo espresso un desiderio impossibile ma non poteva certo essersi avverato visto che, ancora una volta, mi ritrovavo sola senza mia madre.
«Credo sia sotto shock», disse una voce.
Eppure una spiegazione doveva pur esserci perché non potevo essere finita nel fiume dell’anime perse così per caso. Ero di nuovo lontano dalla mia famiglia, da Killian, in un mondo che metteva i brividi e da cui probabilmente era impossibile uscire; altrimenti Robin, Milah e tutti gli altri avrebbero trovato il modo di essersene andati già da tempo. Ma forse il fatto che loro erano inequivocabilmente morti era ciò che li teneva ancora imprigionati là dentro.
«Emma tesoro perché non ci parli? Capisco che tu sia sconvolta, ma perché non ci esponi quello che ti passa per la testa?». Era la voce di Joe e le sue parole avevano una certa logica. Restare chiusa nel mio mutismo non sarebbe servito a niente; se volevo capirci qualcosa, loro dovevano innanzitutto rispondere alle mie domande.
Sbattei le palpebre e cercai lo sguardo di Robin tra i presenti. Non so perché scelsi proprio lui, forse perché era la persona che in quella stanza conoscevo meglio. «Parlami di questo mondo, spiegami cosa succede a quelle persone là fuori e perché voi non siete come loro».
«Beh non so se riuscirò a rispondere a tutte le tue domande», iniziò lui. «Personalmente non conosco molto di questo mondo, non è come gli altri; qua il tempo sembra non scorrere mai, non c’è distinzione tra giorno e notte. Ed è anche difficile orientarsi, perdersi è più facile di quanto si possa pensare, ogni vicolo può sembrare uguale a un altro. È per questo che solo io e Milah usciamo in esplorazione da soli. Siamo gli unici in grado di tornare qua senza problemi».
«Come avete trovato questo posto?», chiesi cercando di riprendere il controllo della mia mente e di immagazzinare tutto ciò che mi stava dicendo.
«Beh non so dirtelo con precisione».
«Nessuno di noi sa come sia stato scoperto», intervenne Charlie. «Ognuno di noi è stato portato qui da un’altra persona, un po’ come Robin ha fatto con te».
«E gli altri adesso dove sono?». Temevo di conoscere la risposta alla mia domanda, ma avevo bisogno di sentirlo dire da loro.
«Sono persi», affermò Joe tristemente.
«Perché voi non siete come gli altri?», ripetei di nuovo. Che cosa era capitato a quelle anime in pena?
«Loro sono allo stadio successivo», mi rispose Robin. «È così che si finisce a forza di stare qui».
«Emma», intervenne Milah, «stare in questo mondo ti fa letteralmente impazzire, arrivi ad un punto in cui non trovi più nessuna ragione per andare avanti, per continuare ad opporti. Il tempo sembra non scorrere mai e stare a contatto con quelle persone non fa che velocizzare il processo».
«Voi finirete come quelle anime?». Era un destino orribile, senza considerare la consapevolezza di essere destinati a fare una fine del genere.
«Facciamo di tutto per evitare che accada», continuò Robin. «Stare in compagnia ci aiuta, ci facciamo forza a vicenda e nel frattempo cerchiamo una scappatoia, un qualcosa che ci permetta di conservare la speranza. Per questo andiamo in esplorazione, sia per trovare altre persone non ancora trasformate, sia per cercare un’uscita, un qualcosa che possa aiutarci a sopravvivere; anche se forse usare il termine sopravvivere non è corretto visto che siamo tutti morti».
«E ne trovate molti come voi?». Era quasi ovvio che non fosse così.
«No, non molti», rispose Milah. «Non da quando abbiamo trovato Robin». Ipotizzai che fosse correlato anche alla conseguente scomparsa di Ade. Fino a che aveva governato l’Oltretomba erano state molte le anime gettate nel fiume, anche del tutto ingiustamente. Milah ne era un esempio.
«Quando sono finita qua», riflettei, «sono comparsa in un enorme caverna oscura. È stato inquietante. Anche voi siete arrivati da là?».
«No», mi rispose Charlie, «noi siamo stati gettati nel fiume dall’Oltretomba, o siamo entrati in qualche modo in contatto con le sue acque. Siamo come caduti…».
«Robin è comparso lì», si intromise Lizzy. Mi voltai subito verso di lui aspettando una sua conferma.
«Sì, credo che sia dovuto al fatto che io non sono passato dall’Oltretomba, la mia anima è stata subito persa».
«È successo così anche a me», sussurrai. Non c’era stato nessun passaggio intermedio.
«Sì ma tu sei ancora viva», affermò Mark. Era la prima volta che lo sentivo parlare, non sapevo se fosse perché si sentiva ancora in imbarazzo per la scena di prima o perché semplicemente fosse un tipo taciturno.
«Emma tu potresti essere la soluzione», affermò all’improvviso Milah con lo sguardo acceso di emozione. Era come se la mia presenza le avesse svelato un possibile piano.
«In che senso?», domandai titubante.
«Tu sei viva», dichiarò, «ed anche se non posso saperlo con certezza, non penso che tu possa trasformarti in quelle anime. Il tuo cuore batte e questo fa la differenza». Beh io avevo pensato esattamente l’opposto: non mi sembrava che essere ancora in vita comportasse un gran vantaggio.
«E con ciò?». Continuavo a non capire: cosa potevo fare visto che ero intrappolata come loro?
«Tu puoi aiutarci ad andarcene. A noi basta solo tornare nell’Oltretomba, basta solo aver di nuovo la possibilità di andare in un posto migliore».
«Cosa ti fa pensare che io possa aiutarvi ad andarvene? Sono bloccata qui come voi. Potrei non trasformarmi in un anima persa, ma ciò non significa che non possa rimanere intrappolata qui per tutta la vita».
«Killian verrà a cercarti». A quell’affermazione sentii il mio cuore accelerare. «Se tu hai avuto la forza di scendere negli Inferi per salvarlo, vuol dire che quello che c’è tra voi è intenso. Conosco abbastanza Killian da sapere che non si arrenderà». Lei aveva ragione, ma non sarebbe stato facile nemmeno per lui trovarmi, visto che entrambi non avevamo la minima idea di cosa fosse successo.
«Tu sei la Salvatrice, Emma», intervenne Robin. «Se c’è qualcuno che può sottrarci a quel crudele destino sei proprio tu».
«Ma finora avete resistito», feci notare, «vuol dire che potete farcela anche da soli».
«Abbiamo resistito a stento», mi rispose Charlie. «Ogni giorno è sempre peggio, e l’abbiamo visto già succedere: più tempo rimaniamo qui, più ci trasformiamo in quegli esseri».
«Tu devi aiutarci, ti prego», mi supplicò Lizzy stringendomi le mani. Li guardai ad uno ad uno, tutti mi stavano pregando con gli occhi. Non capivo proprio il perché di tanta fiducia, non avevo fatto niente di particolare per meritarla.
«D’accordo», mormorai, «anche se non ho la minima idea di come potrei riuscirci». Ero la Salvatrice, ma in quel posto mi sentivo anch’io un’anima da salvare; soprattutto da quando avevo scoperto di essere senza magia.
«Ci penseremo insieme». Robin mi appoggiò una mano sulla spalla con fare comprensivo.
«Adesso però credo che dovremo riposarci tutti un po’», comunicò Joe. Lo guardai stupita, non aspettandomi certo quella inutile perdita di tempo da parte loro.
«Dormire un po’ ti farà bene», mi spiegò. «E poi serve anche a noi, dare una sorta di alternanza del tempo, ci aiuta a mantenerci lucidi».
«So che ti sembra assurdo, ma ti sentirai meglio più tardi», intervenne Milah. «Vieni ti mostro il tuo letto».
 
Dopo quella che mi sembrava un’infinità di tempo, mi stavo ancora rigirando cercando di addormentarmi. Non ero nel mio letto, ma non era quello il problema; c’era comunque troppa luce e, come mi avevano spiegato prima, nessun cambiamento che facesse presagire l’arrivo della notte, ma neanche quello era il problema. Sapevo benissimo cosa c’era che non andava, ma mi rifiutavo in tutti i modi di ammetterlo: era patetico. Ero diventata una stupida femminuccia.
Eppure era proprio così: mi mancava Killian. Ormai ero talmente abituata a dormire con lui, che non sentirlo al mio fianco mi agitava ancora di più.  Mi aveva viziata abituandomi a dormire tra le sue braccia; o comunque, anche se non ci stringevamo, una parte del mio corpo era sempre a contatto col suo, che fosse un piede, una mano o qualcos’altro. Un gesto così semplice e piccolo, riusciva a calmarmi e a cullarmi nel mondo dei sogni.
Ed ecco spiegato perché, nonostante tutte le novità e l’effettiva stanchezza che avevo provato appena distesa sul letto, avevo ancora gli occhi sgranati. Mi ero rifiutata di pensare a lui o alla mia famiglia o al fatto che fossero lontani, però adesso non riuscivo più a dividere la mia mente in compartimenti stagni. Cosa stavano facendo? Come mi stavano cercando? Era ovvio che fosse così, li conoscevo tutti fin troppo bene. Milah aveva ragione né Hook né la mia famiglia si sarebbero mai arresi.
Mi alzai cercando di fare meno rumore possibile e mi avviai verso quello che era il loro salotto. Tutti gli altri stavano dormendo e così potei sedermi con le ginocchia al petto sul quel decrepito divano, senza che nessuno mi osservasse.
Mi trovavo in una situazione orribile: ero in un mondo di cui non conoscevo nulla, con sei anime a cui avevo appena promesso un miracoloso salvataggio. Non ero solo senza magia, ma non avevo anche nessun riferimento e, in più, avevo promesso loro una cosa che non ero sicura di poter fare. Se fossi riuscita veramente a salvarle, avrei potuto concedere loro un finale migliore, ma se avessi fallito? Cosa avrei detto a Regina quando finalmente sarei riuscita a tornare a Storybrooke? Avevo trovato loro, non ero da sola, ma era come se lo fossi.
Killian avrebbe saputo cosa dirmi per rassicurarmi: lui avrebbe trovato le parole giuste per infondermi coraggio. Tuttavia il solo pensare a lui mi spezzava il cuore.
«Non riesci a dormire?». La voce di Milah mi fece voltare di scatto. Mi stava osservando appoggiata allo stipite della porta e la sua espressione era indecifrabile. Non risposi ma le feci semplicemente posto accanto a me sul divano.
«È difficile abituarsi a quest’ambiente», sentenziò.
«Già». Non aggiunsi altro e continuai a guardare un punto indefinito sul pavimento.
«Ti manca non è vero?». Non aveva avuto bisogno di specificare chi affinché io capissi. Il mio silenzio parlò per me. «Lo so, Killian ti entra dentro e resta incatenato nel profondo. Essere amate da lui è un’altalena di emozioni». Feci una smorfia sentendo quelle parole; non mi andava proprio giù che lei parlasse del mio uomo in quella maniera. Non ero mai stata gelosa, forse perché non ne avevo mai avuto motivo, Killian non mi aveva mai fatto dubitare di lui. Ma lei era diversa, era il suo primo amore e odiavo il fatto che rappresentasse per lui qualcosa di importante, qualcosa che io non sarei mai stata. Loro non si erano lasciati, lei era morta e Hook l’aveva amata per secoli cercando vendetta. Sapere che anche Milah provava lo stesso per lui mi mandava fuori di testa.
«Non dovresti parlarmi di lui così», sibilai sempre con lo sguardo puntato davanti a me. «Lui…».
«È tuo adesso, lo so», concluse al mio posto. «Emma, devi sapere che Killian non è mai stato la mia questione in sospeso».
«Ah no?». Una parte di me lo sapeva già, sapeva che era rimasta nell’Oltretomba per via di Neal, ma la mia parte gelosa si rifiutava di ammetterlo.
«No, l’amore per Killian non è mai stato il mio problema. L’ho amato ma è passato tanto tempo, posso amarlo abbastanza da essere felice che abbia smesso di soffrire per me e abbia incontrato te». Era molto più maturo dell’atteggiamento che avevo io in quel momento. «È per Bealfire, è sempre stato per lui, non avrei dovuto abbandonarlo anche se odiavo suo padre».
«Neal… Bealfire non ti odiava, era buono e soprattutto sapeva perdonare».
«Tu potrai essere gelosa di me Emma», disse dopo qualche secondo di silenzio, «ma sono io che ti invidio. E non per Killian, ma perché tu hai avuto la possibilità di conoscere mio figlio, di vedere l’uomo che è diventato nonostante i genitori orribili che ha avuto». La gelosia che provavo nei suoi confronti si sciolse come neve al sole; non era l’amante che l’avevo sempre considerata, era semplicemente una madre che non riusciva a perdonarsi per aver abbandonato suo figlio, lasciandolo solo con un padre come Tremotino.
«Quando ci hai aiutato a salvare Killian», iniziai, «quella era la tua possibilità di redimerti, saresti potuta andare in un posto migliore, magari da lui, invece Ade ti ha spedita quaggiù».
«Ade?», la sua voce uscì sorpresa. «Non è stato Ade a farmi cadere nel fiume, è stato Tremotino». Per un attimo pensai di non aver capito bene, ma poi tutta la mia sorpresa svanì. Non era una novità che Gold fosse un uomo riprovevole, non era poi così sorprendente che l’avesse condannata in quel modo.
«Fammi indovinare», continuò, «vi ha detto che era stato Ade a gettarmi nel fiume?».
«Beh sì», affermai sospirando. «E pensare che l’abbiamo anche ringraziato per averci aiutato».
«Avrei dovuto aspettarmelo, lui non è mai stato in grado di pensare ad altri se non a sé stesso».
«Avremo dovuto capirlo anche noi», mormorai non sapendo cosa altro aggiungere.
Passarono alcuni minuti di silenzio, dove entrambe rimanemmo perse nei nostri pensieri. C’erano davvero troppe preoccupazioni ed un futuro alquanto incerto; se io non riuscivo più a dormire senza Killian, lei non poteva dormire non sapendo quanto ancora avrebbe potuto farlo.
«Cosa pensi ti sia accaduto?», mi domandò all’improvviso rompendo il silenzio. «Come sei finita qua secondo te? Che idea ti sei fatta?».
«Non lo so», risposi riflettendoci. «Credo che sia difficile da capire: era il mio compleanno, stavo spegnendo le candeline, esprimendo uno stupido desiderio, e l’attimo dopo mi sono ritrovata nel buio più completo di quella caverna gigantesca. Non so perché, non so se c’è stato qualcosa che non ha funzionato nel desiderio, ma vorrei proprio saperlo. Perché se è davvero come dici e Killian mi sta cercando, vorrei tanto aiutarlo a trovarmi e capire cosa mi è capitato potrebbe essere il primo passo».
Milah sembrò ponderare bene le mie parole prima di parlare di nuovo. «Quando sono finita qua, è stata un’anima di nome Vincent a trovarmi e a portarmi al rifugio. Lui è stato una delle persone che ha resistito di più, era qua da molto tempo e mi ha raccontato una sorta di leggenda. Mi ha detto che ai margini della città, in un punto difficilmente raggiungibile, vive ormai da secoli una donna, che non si è ancora persa, tanto che molti hanno iniziato a credere che non sia mai morta e che la sua anima si trovi per scelta bloccata in questo posto. Secondo la storia, questa donna ha trovato in questo mondo la sua casa. All’inizio ho pensato che fosse una stupida leggenda e che me l’avesse raccontata per dimostrarmi che era possibile resistere. Da oggi la penso diversamente».
«Pensi che lei possa essere finita qua come me?», domandai sbattendo le palpebre.
«C’è dell’altro. Si dice anche che lei abbia col tempo sviluppato una sorta di potere, stando a contatto con tutte queste anime perse. Sembra che sia diventata una specie di sensitiva e che conosca questo mondo meglio di chiunque altro».
«Potrebbe avere tutte le risposte che stiamo cercando!», proruppi scattando in piedi. Mi voltai di scatto per poterla guardare. «Perché diavolo non siete andati a cercarla subito?».
«Perché è un viaggio rischioso e nessuna anima come noi è mai riuscita ad arrivare a lei senza perdersi prima; in più, visto che nessuno l’ha mai vista effettivamente, pensavo che si trattasse di una stupida leggenda».
«Ma se esistesse davvero e se riuscissi ad arrivare a lei, potrebbe sapere come andarcene da qua». Era una notizia meravigliosa, perché non me l’aveva data subito?
«Prima pensavo che esporsi per una stupida leggenda fosse da idioti, adesso però penso che potremo farcela, che tu potresti farcela e sono disposta a rischiare per questo. Sei pronta ad affrontare un viaggio Emma?».
 
POV Killian
Guardai fuori dalla finestra del loft in cerca di una qualche risposta. Era notte fonda e Storybrooke era avvolta nell’oscurità, in un silenzio quasi spettrale. Emma si era praticamente addormentata subito dopo aver mangiato, era crollata e non l’avrebbero svegliata neanche le cannonate.
Il ritorno al loft era stato veloce, così come rapida era stata la decisione di rimandare ogni ricerca all’indomani. Nessun avrebbe risolto nulla in una notte e in fondo qualche ora di sonno avrebbe fatto bene a tutti. Lo sapevo e lo capivo, ma la sola idea di dormire mi sembrava impossibile.
Mary Margaret e David erano andati a sistemare la piccola nell’altra stanza. La mia Swan era a pochi metri di distanza, con solo un muro a separarci, eppure mi sembrava che tra me e lei ci fosse un oceano intero. Era così vicina, ma allo stesso tempo così lontana. Era lei, ma non lo era veramente. Non aveva niente a che fare con la donna che amavo ad eccezione del suo minuscolo corpicino. Mi chiedevo se lo spirito della vera Emma fosse ancora lì dentro o fosse semplicemente scomparso come la sua versione adulta.
La piccola aveva dimostrato un attaccamento particolare verso di me e quello già dimostrava quanto fosse diversa dalla mia Swan; il suo legame nei miei confronti era una cosa che il mio cigno aveva ammesso solo dopo tanto tempo. Emma poteva avere ancora gli stessi sentimenti di prima, provare le stesse emozioni, ma la differenza era abissale. La piccola Emma era spontanea, era chiara, senza nessun filtro, come tutti i bambini d’altronde; la vera Emma era tutta un’altra questione, ma erano state proprio tutte le sue difese a farmi innamorare perdutamente di lei. Emma Swan senza i suoi muri non era la stessa e non avrei voluto che lo fosse. Le sue difficoltà erano parte di lei e quel ritorno all’infanzia era solo un modo per eliminarle tutte.
Dovevamo trovare al più presto una soluzione, un modo per riavere la mia metà. Mi sentivo perso senza di lei; era davvero diventata tutto il mio mondo: la mia famiglia, la mia amante, la mia confidente, la mia migliore amica. Quanto tempo ci sarebbe voluto prima che la piccola Emma cominciasse a vedermi in maniera diversa da ciò che ero? Ero il suo fidanzato, il suo uomo, per quanto tempo avrei dovuto continuare a farle da bambinaia prima che anche lei iniziasse a vedermi come una sorta di padre? Non volevo neanche pensare a quell’ipotesi.
«Hook?», la voce di David mi distolse dai miei pensieri. Lasciai perdere la Storybrooke addormentata fuori dalla finestra e mi voltai verso di lui. Anche David aveva l’aria stanca e preoccupata, potevo scorgere sul suo volto la stessa apprensione che c’era sul mio.
«Dobbiamo pensare ad un piano d’azione», mi disse prendendo posto ad un lato del tavolo. Gli fui estremamente grato per il fatto che avesse scartato senza problemi l’idea di dormire.
«Hai la minima idea di dove incominciare?», gli domandai sedendomi a mia volta.
«No purtroppo». Posò la fronte sulla mani ed emise un enorme sospiro. «Ti sembrerà strano ma non sei l’unico a percepire l’urgenza di farla tornare come prima. So che è mia figlia, e che potrei vivere con lei momenti che mi sono stati preclusi, ma non è giusto. È contro natura e non sarebbe la stessa cosa».
«Emma non sarebbe la stessa». Era ciò che non voleva ammettere, che il loro abbandono l’aveva resa una donna diversa, ma io non avevo problemi a farlo.
«Già. Emma non sarebbe stata la stessa persona se noi non l’avessimo lasciata».
«Non è solo questo», aggiunsi. «Quando l’hai messa nell’albero magico per farla andare in questo mondo, l’hai resa ciò che è oggi: la Salvatrice. Non potevi sapere cosa l’aspettava, né potevi evitarlo. Però con il tuo gesto l’hai resa quella che è adesso e, per quanto riguarda la bambina che c’è di là, non sono certo che diventerebbe la stessa persona».
«Già, nemmeno io. E non solo perché ha una strana ossessione nei tuoi confronti». Aveva  tentato di sdrammatizzare e di alleggerire il tono del discorso. Accennai un mezzo sorriso e continuai a riflettere sulle possibilità che avevamo.
«La fata dice che i desideri non possono essere annullati», ricordai.
«Un desiderio una volta espresso, non può essere disfatto».
«Utilizzare un altro desiderio?», proposi, pur sapendo che si trattava di una ipotesi da scartare.
«No, è troppo rischioso. Potremmo addirittura peggiorare la situazione, hai visto cosa è successo ad Emma, possono essere fraintesi troppo facilmente».
«Di sicuro non possiamo aspettare che cresca». Appoggiai la fronte sulla mano, massaggiandomi le tempie con le dita. Cercai di spremermi le meningi per farmi venire qualche buona idea, invece delle sciocchezze che avevo tirato fuori fino a quel momento. Ci doveva essere qualcosa che continuava a sfuggirmi e che avrebbe potuto dare una svolta alla situazione.
«Potremmo usare la polvere che Gold ha usato su Belle, per accelerale la gravidanza». Biancaneve era appoggiata allo stipite della porta e ci stava guardando; probabilmente aveva ascoltato buona parte della nostra conversazione.
«Non credo che funzionerebbe». L’idea non era male, ma avevo come la netta impressione che non sarebbe stato così facile. «E se anche funzionasse non abbiamo garanzie che sarebbe ancora lei una volta cresciuta. Non sappiamo cosa ricorda o cosa non ricorda».
«Lei lo sa Killian», ribatté Mary Margaret avvicinandosi al tavolo. «Hai visto come voleva solo stare accanto a te. Solo tu sei riuscito a calmarla».
«Il fatto che abbia bisogno di me non significa pertanto che ricordi realmente ciò che c’è tra noi». Era quella la cosa che mi faceva più paura; magari la piccola Emma aveva dimostrato uno strano attaccamento nei miei confronti, ma il nostro era Vero Amore non un semplice bisogno affettivo. In quel momento era troppo piccola per amarmi o anche solo per riuscire a capire l’intensità dei nostri sentimenti, non avevo garanzie che crescendo nuovamente i suoi sentimenti sarebbero rimasti immutati.
«Non credere che per noi la situazione sia più facile», disse David all’improvviso.
«Esatto». Biancaneve si sedette accanto a noi e posò la mano sul mio uncino. «Noi abbiamo perso la sua infanzia, ma non è così che dovremo viverla. Il passato non può essere cambiato e ce ne siamo fatti una ragione. Abbiamo imparato a conoscere e ad amare la donna che è diventata; e lei è meravigliosa ed è diventata così senza il nostro aiuto. È naturale che io non vorrei averla abbandonata, ma non sarebbe la stessa se io avessi scelto diversamente».
«Noi vogliamo bene ad Emma, non a quella che sarebbe potuta diventare», concluse David.
«Quindi come vedi Hook», proseguì Biancaneve, «siamo tutti nella stessa barca e vogliamo tutti la stessa cosa».
Stavo per parlare, anche se non sapevo esattamente cosa dire, quando il pianto di Emma si diffuse nella stanza. La mia idea che non si sarebbe svegliata neanche con le cannonate era decisamente sbagliata; aveva dormito molto meno di quanto che tutti ci aspettavamo.
Mary Margaret fece per alzarsi, ma senza neanche accorgermene la fermai. «Vado io». Volevo allontanarmi dalla coppia perfetta per un po’, ma probabilmente andare dalla bambina non era la scelta più giusta. Eppure l’avevo fatto lo stesso: mi ero appena proposto di andare a calmare la piccola Emma.
Sia Mary Margaret che David mi guardarono stupiti, non aspettandosi senz’altro quella mia offerta. Sinceramente non me l’aspettavo neanche io, ma avevo bisogno di un momento di solitudine.
Lei fu la prima a riprendersi. «Sei sicuro Hook?».
«Certo, d’altronde a quanto pare sono l’unico che riesce a calmarla». Così dicendo mi diressi verso l’altra stanza senza aspettare risposta. Emma continuava a piangere a pieni polmoni; la trovai sdraiata in quella che era stata la culla di Neal, ormai troppo piccola per lui, con le gote arrossate e il respiro sempre più affannato. Era probabile che non riprendesse neanche fiato per quanto urlava. Per fortuna avevano spostato Neal nell’altra stanza al piano di sopra, dove il pianto arrivava più attutito, altrimenti avrebbe svegliato anche lui.
«Ehi calma Swan». Le sfiorai la guancia con l’uncino e, a quel contatto, lei aprì i suoi meravigliosi occhioni ormai completamente arrossati. «Ssh va tutto bene». Le mie parole non sembrarono calmarla, anche se la mia presenza aveva fatto ridurre, anche se di poco, l’intensità del suo pianto.
Ero sicuro che Biancaneve e il principino stessero confabulando su di me nell’altra stanza e che presto, se Emma non avesse cessato di fare tutta quella confusione, sarebbero venuti a controllare. Ero andato dalla piccola proprio per allontanarmi un attimo da loro, dovevo in tutti i modi evitare che mi seguissero di nuovo.
«E va bene. Sei la solita testa dura», dissi rivolto alla bambina. Cercai di ricordare il modo in cui Mary Margaret mi aveva messo in braccio la piccola quella sera stessa e cosa mi aveva detto a riguardo. Dovevo tenerle la testa, o qualcosa del genere.
Aiutandomi con l’uncino e facendo attenzione a non farle male – sembrava talmente fragile che avrei potuto graffiarla anche solo sfiorandola – riuscii a prenderla in braccio. Il suo pianto diminuì ma non cessò.
«Sei un osso duro, non è vero Swan?». Cercai di cullarla come avevo fatto poco tempo prima, ma questa volta non sortì l’effetto desiderato. Sembrava che lei volesse averla vinta a tutti i costi.
Rigirandomi nella stanza, notai una vecchia sedia a dondolo in un angolo. Mi avvicinai e, cercando di sbilanciare Emma il meno possibile, mi sedetti. Iniziai a dondolarmi tenendo la bambina appoggiata al mio petto. Quella diversa combinazione sembrò finalmente sortire l’effetto desiderato. Le sue urla diminuirono fino a quando un piacevole silenzio piombò nella stanza.
«Ti piace il movimento eh?», le sussurrai «Sei proprio una signorina esigente». Quando mi resi conto di ciò che avevo appena fatto, e che avevo continuato a fare fino ad allora, scossi la testa sospirando.
«Come sono arrivato a questo punto? Il famigerato Capitan Uncino che sussurra smancerie ad una bambina». Ero proprio caduto in basso, peggio di così non poteva andare.
O forse poteva andare anche peggio. «Bene ora sto anche iniziando a parlare da solo». Sospirai, ma stavolta non aggiunsi altro. Emma continuava a guardarmi e lentamente il suo respiro si regolarizzò e si coordinò col mio. Il nostro lento movimento sembrava piacerle, ma forse anche il contatto con me le faceva un certo effetto.
Stare lì in quella stanza con lei in braccio faceva nascere in me sentimenti del tutto contrastanti. Da una parte non volevo altro che stare da solo con Emma, ma dall’altra non avrei voluto passare un attimo di più con quella bambina. C’erano il mio cuore e la mia mente in netto contrasto: il mio cuore mi portava da lei, la mia mente mi faceva notare che quel legame era del tutto malsano.
Mentre la cullavo, Emma sbadigliò e i suoi occhi cominciarono di nuovo a chiudersi. Era strano vederla addormentarsi tranquillamente tra le mie braccia. Era già successo molte volte: molto spesso dopo che avevamo fatto l’amore, restavo a guardarla fino a che non crollava stretta tra le mie braccia. Vederla dormire tranquilla sul mio petto era una scena che guidava anche me nel mondo dei sogni. Adesso però era completamente diverso.
«La vizierai se continui così». La voce di David mi riscosse dai miei pensieri. Sia lui che Mary Margaret erano in piedi sulla porta e mi stavano guardando. Mi avevano concesso più tempo di quanto pensassi.
«Però così si è di nuovo addormentata». Fu Biancaneve a replicare prima che potessi farlo io.
«È stata piuttosto esigente», gli feci notare. «Questo è stato l’unico modo per riuscire a calmarla. Non credo che all’orfanotrofio dove è cresciuta abbia avuto le stesse possibilità». Non volevo lanciar loro una frecciatina, ma in qualche modo le mie parole potevano essere mal interpretate.
«Hai ragione». Mary Margaret prese una copertina dalla culla e mi si avvicinò in modo tale da coprirla. Fissai la piccola addormentata tra le mie braccia: probabilmente se mi fossi mosso si sarebbe svegliata di nuovo e avrebbe ricominciato a piangere. Avrei dovuto passare tutta la notte così con lei; non che fosse una posizione scomoda, ma c’era qualcosa di sbagliato.
Come avevo appena fatto notare alla coppia Azzurra, dubitavo che all’orfanotrofio, quando era stata veramente piccola, l’avessero trattata con tale riguardo. Ero quasi certo che l’avessero lasciata piangere per ore senza nessuna considerazione e che avesse imparato presto che era meglio per lei rimanere in silenzio. D’altronde chi avrebbe potuto viziarla? Pinocchio forse? Ma anche lui se ne era andato lasciandola sola.
Quando pensai al bambino di legno, fu come se mi si accendesse una lampadina in testa. Come avevo fatto a non pensarci prima? Lui da adulto era tornato bambino e poi il coccodrillo lo aveva fatto tornare adulto. Se c’era riuscito con lui, perché non riuscirci con Emma?
«Pinocchio», mormorai alzando lo sguardo sugli altri due.
«Cosa?». Mary Margaret e David mi guardarono perplessi, forse pensando di non aver capito bene.
«Pinocchio», ripetei. «August l’amico di Emma». Lentamente vidi la comprensione disegnarsi sui loro volti, intuendo dove volessi andare a parare.
«Gold è riuscito a farlo tornare adulto», dichiarò David.
«Per quanto l’idea di chiedere aiuto al coccodrillo mi faccia accapponare la pelle, sono disposto a farlo se può davvero risolvere tutta questa soluzione».
«Ma avete sentito Turchina», ci fece notare Biancaneve. «Un desiderio non può essere annullato, se la magia di luce non può fare niente… non sono sicura che usare la magia oscura sia la soluzione migliore».
«Non importa come, l’importante è arrivare alla meta», dichiarai. «Non siamo degli sprovveduti, sappiamo che la magia ha sempre un prezzo e sappiamo anche di che pasta è fatto Tremotino. Non ci faremo ingannare».
«E poi Belle è dalla nostra parte e lei, per quanto le costi ammetterlo, sa come prenderlo», le fece notare David.
«E qualora Gold si rivelasse un buco nell’acqua», continuai, «sapremo da chi andare dopo: da l’uomo tornato bambino ridiventato uomo. Forse lui sa più cose di quante immaginiamo».
«Allora cosa ne dici?», le domandò David.
«Beh cosa posso dire?», rispose sospirando. «Non credo che abbiamo molte altre possibilità».


 
Angolo dell’autrice:
Buona domenica a tutti! Ecco a voi anche il quarto capitolo.
Direi che da entrambe le parti inizia a delinearsi una sorta di piano per mettere fine a tutta questa situazione. Ovviamente metterli in pratica non sarà poi così semplice.
Voglio fare una piccola parentesi su Milah: all’inizio odiavo profondamente il suo personaggio, mi sembrava solo un egoista senza nessuna giustificazione. Poi con la sua comparsa nell’Oltretomba nella quinta stagione, ho nettamente cambiato punto di vista; ho capito il perché di tante cose e ho iniziato a considerarla in modo diverso. Non mi è piaciuto il modo in cui è finita quella puntata per lei, ciò che Tremotino le ha fatto, ed è per questo che ho voluto inserirla nella mia storia.
Detto questo, ringrazio sempre chi legge e chi recensisce. Grazie infinite con tutto il cuore. <3
Un bacione e alla prossima settimana.
Sara
 

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** 5. Partire o restare ***


5. Partire o restare
 
POV Emma
«Non se ne parla proprio». Robin sbatté il pugno sul tavolo facendoci sobbalzare. «È troppo pericoloso». Io e Milah avevamo appena spiegato agli altri il nostro piano, ed era un buon piano, o almeno un buon punto di partenza; per questo non mi era aspettata di certo una reazione del genere da parte sua.
Io e lei saremo andate alla ricerca di quella donna misteriosa ai margini della Terra delle anime perse e, se Milah aveva effettivamente ragione, io sarei riuscita a tornare tutta intera con le informazioni giuste per poter salvare tutti quanti. Era ovvio che speravo che anche Milah ce la facesse, ma era stata una sua idea sacrificarsi per il bene degli altri; nessuno l’aveva costretta.
«Lo sappiamo benissimo che è pericoloso», ribatté Milah piccata. «È proprio per questo che voi dovete rimanere qua al sicuro. Non vale la pena rischiare la vita, diciamo così, di tutti».
«E per questo dovresti rischiare la tua e quella di Emma?». Era stato Joe a parlare, appoggiando una mano su quella di Milah con fare paterno.
«Se abbiamo ragione», intervenni, «io non corro nessun rischio. Non posso trasformarmi in quelle anime».
«Ed è ovvio», continuò l’altra, «che non può andarci da sola. Si perderebbe subito in questo mondo».
«È un’idea assurda», proseguì Robin. «Non siamo neanche certi che questa persona esista realmente! Fino a ieri pensavi che fosse una stupida leggenda, che cosa ti fa credere adesso che quella donna esista davvero?».
«Se non esiste ed è tutto una stupida invenzione, non ho più nulla in cui sperare Robin». Le parole di Milah furono dure ma andarono dritte al punto. Cosa altro le restava, o comunque restava a tutti loro, se negavano quella possibilità di salvezza? Solo l’attesa dell’inevitabile.
«Cosa vuoi fare Robin?», continuò Milah. «Restartene qui aspettando di diventare come quelle anime là fuori? Preferisco rischiare, anche con la possibilità di diventarlo prima del previsto, piuttosto che aspettare senza fare nulla».
Robin sospirò e non aggiunse altro, mentre le facce di tutti si fecero tese e preoccupate.
«Capisco cosa intendi», intervenne Charlie, «ma è troppo rischioso per voi due. Non potete andarci da sole».
«Certo», continuò Joe, «veniamo tutti con voi».
«Oh Joe». Milah strinse forte la sua mano rivolgendogli un sguardo commosso. «Lo sai che non puoi venire, sei qui da più tempo di tutti noi, sarebbe un suicido per te. Io non voglio sacrificare la salvezza di nessun altro. Io ed Emma ce la caveremo».
Ci fu un momento di silenzio in cui nessuno parlò. Tutti stavano riflettendo sulle possibilità di riuscita di quell’abbozzo di piano. Non avevamo molte informazioni, ci stavamo basando essenzialmente su una leggenda che poteva benissimo rivelarsi infondata. Quella donna poteva benissimo esistere come poteva essere frutto di una stupida credenza popolare; e anche se fosse esistita, non avevamo comunque la certezza che avesse le risposte alle nostre domande. Il fatto che la mia anima non potesse perdersi era un’altra supposizione. Tuttavia cos’altro potevamo fare? Era la nostra unica speranza, la nostra unica possibilità. Non avevamo indizi, stavamo partendo per una missione alla cieca, ma era pur sempre qualcosa per modificare la loro inevitabile fine.
«D’accordo», mormorò infine Robin. «Ad una condizione».
«Quale?», chiedemmo io e Milah contemporaneamente.
«Io vengo con voi e non accetto un no come risposta. Se tu puoi rischiare la tua vita per noi, io posso fare altrettanto. È una mia scelta e non puoi impedirmelo».
Sapevo fin da subito che Robin non avrebbe rinunciato ad un avventura anche se questa avesse comportato la sua salvezza. Era tipico di lui e non mi sarei aspettata niente di meno dal famigerato Robin Hood.
«D’accordo», acconsentimmo.
«Ed io verrò con voi». Era stato Charlie a parlare; ci stava osservando con uno sguardo determinato che non ammetteva repliche.
«Charlie…», iniziò Milah.
«Anche per me si tratta di libero arbitrio», la interruppe. «Non mi escluderete da questa storia».
«Anch’io voglio venire con voi», proruppe Lizzy. Per quanto l’apprezzassi, era davvero troppo giovane e inesperta per partecipare a quella missione suicida.
Charlie fu il primo ad intervenire. «Lizzy tu devi restare qua con Mark e Joe, hanno bisogno di una donna che si occupi di loro. Cosa farebbero altrimenti?».
«Giusto mica puoi lasciarci da soli?», continuò Joe. Lizzy sospirò e si arrese alla volontà generale.
«D’accordo io, Emma, Milah e Charlie partiremo oggi stesso e cercheremo di tornare il più presto possibile e possibilmente tutti interi. Credo che non ci sia tempo da perdere».
«Io, Joe e Lizzy vi aspetteremo qui», disse Mark in tono serio.
Milah gli si avvicinò posandogli una mano sulla spalla. «Tu occuperai tu di loro, vero?».
Le rivolse un sorriso tirato. «Tranquilla, sono in buone mani. Voi piuttosto state attenti e cercate di tornare tutti interi». Sorrisi iniziando ad intuire che tipo fosse Mark: era una persona di poche parole ma con un gran cuore come gli altri. Anche se avevo passato solo poche ore con loro, erano riusciti tutti quanti a farsi ben volere da me. Dovevo riuscire a salvarli, dovevamo riuscire a tornare tutti quanti da quella pericolosa missione. Non c’era possibilità di fallimento.
 
Poco tempo dopo eravamo tutti e quattro pronti a partire. Portammo con noi poche cose, giusto qualche oggetto per riuscire ad accamparci e qualche vivere, soprattutto per me che ero l’unica ancora con delle vere e proprie esigenze fisiologiche. Come avevo appreso nelle ultime ore, non c’era molto in quel mondo che garantisse la sopravvivenza. Ogni oggetto che essi possedevano era un vero e proprio tesoro che le anime che si erano susseguite avevano trovato e avevano tramandato fino a loro.
I saluti furono brevi ma intensi. Io me ne restai da una parte, quasi sentendomi un’intrusa nella privacy e nell’affetto di persone che effettivamente non conoscevo. Non sapevo che legami intercorressero tra di loro, ma di una cosa ero sicura: erano molto più simili ad una famiglia rispetto ad alcune famiglie reali.
«Possiamo andare», disse Charlie, dopo aver controllato dallo spioncino della porta. Sia lui che Robin avevano insistito per portar loro gli zaini, così io e Milah ci ritrovammo senza nessun peso, ma allo stesso tempo con una profonda responsabilità sulle spalle.
«Dovremmo prendere i tunnel sotterranei per il momento», annunciò Robin e gli altri due annuirono. Io purtroppo dovevo affidarmi completamente a loro; non conoscevo nulla di quel mondo e perdermi sarebbe stato facile come bere un bicchier d’acqua.
Molto velocemente aprimmo la botola attraverso la quale eravamo arrivati io e Robin e scendemmo in quei tetri cunicoli.
«Bene adesso da che parte andiamo?», chiesi una volta a terra. Gli altri due si voltarono a guardare Milah; doveva essere lei la navigatrice della situazione.
«Beh allora fatemi pensare…». Milah chiuse gli occhi per riuscire a concentrarsi. «La caverna è ad ovest ed è ai margini della città, noi qui siamo leggermente più a sud. Credo che dovremo attraversare l’intera città in direzione nord-est. Penso che il luogo di cui la leggenda parla dovrebbe essere da quella parte».
«Non mi piace quando usi il condizionale», le fece notare Charlie.
«Neanche a me», ammise lei, «ma purtroppo stiamo andando avanti a supposizioni. Per questo avrei evitato di farvi venire con noi, è davvero troppo rischioso».
«Se ho capito bene dobbiamo attraversare tutta la città?», domandò Robin.
«Sì».
«Beh possiamo proseguire qua sotto», mi intromisi. «È più sicuro».
«Purtroppo queste gallerie non arrivano tanto lontano», mi rivelò Milah. «Sbucano nel cuore esatto di questa terra».
«Emma», intervenne di nuovo Robin guardandomi serio, «che tu ci creda o no, non hai ancora visto niente di ciò che ti aspetta in questo mondo». Un brivido mi salì lungo la schiena; avevo pensato di essere preparata, di aver già visto il lato più oscuro di quella strana terra. Cosa altro poteva essere peggio?
Ignorai la mia paura e deglutii rumorosamente. «Beh cosa stiamo aspettando?». Gli altri annuirono ed iniziarono a camminare.
Proseguimmo per un po’ in fila indiana senza dire una parola. Fin da subito, però, il silenzio divenne opprimente; non mi dava fastidio non parlare con nessuno, ma così la mia mente era libera di vagare ed io avevo davvero troppe cose a cui pensare. Per una volta pensare era l’ultima cosa che volevo fare. Non volevo soffermarmi né su Killian, né sulla mia famiglia, né su quel viaggio impossibile e tanto meno sui pericoli a cui stavamo andando incontro.
All’improvviso, quasi percependo il mio disagio, Charlie iniziò a fischiettare un insulso motivetto, che servì ad alleggerire la tensione di tutti. Gli fui eternamente grata per quel gesto: era qualcosa di semplice, ma di cui avevo davvero bisogno. Lentamente l’atmosfera si fece meno pesante, quei corridoi, senza più quel silenzio opprimente, si fecero, per quanto possibile, più ospitali.
Ad un certo punto mi fermai un attimo per allacciarmi una scarpa e Robin ne approfittò per rallentare ed iniziare a camminare al mio fianco. Per alcuni minuti non disse niente, come se stesse riflettendo sulle parole da usare; sembrava concentrato sulla canzoncina di Charlie, ma ormai lo conoscevo abbastanza da sapere che pensava a tutt’altro. E immaginavo anche di conoscere di cosa si trattasse. Era una parola che iniziava con la lettera “r” e finiva con la “a”.
«Come sta Regina?», riuscì finalmente a chiedermi.
«Diciamo che va avanti. Starà bene, ma le manchi tanto», ammisi.
Sospirò sentendo le mie parole. «Manca anche a me». Non doveva essere facile nemmeno per lui, anzi doveva essere terribile.
«È stata dura per lei», continuai. Non aveva bisogno di chiedere affinché io raccontassi. «Si è separata dalla sua parte oscura, dalla Regina Cattiva, ha fatto la scelta giusta anche se aveva il cuore a pezzi. Non è stato facile per lei aver perso anche te; avrebbe fatto di tutto per salvarti. Mi sono sentita così in colpa per ciò che Ade ti ha fatto, soprattutto quando Hook è riuscito a tornare dall’Oltretomba».
«Non è stata colpa tua Emma, non ho mai pensato che lo fosse».
«Lo so, ma sono stata io a portarti laggiù e a mettere a repentaglio la vita di tutti». Sapevo che non era colpa mia, ma ero stata parte integrante in tutto ciò che era successo.
«E Roland e mia figlia?», domandò poi.
«Roland è tornato nella Foresta Incantata con Little John e l’Allegra Brigata. Regina l’avrebbe tenuto volentieri, ma non era la cosa migliore per lui restare a Storybrooke. Ha già sofferto troppo per essere un bambino. Beh per quanto riguarda la piccola Robin…».
«Robin?». Un sorriso commosso si disegnò sul suo volto sentendo per la prima volta il nome di sua figlia.
«Zelena ha pensato che non ci fosse nome più appropriato».
«Forse è la prima volta che sono felice per una decisione di Zelena».
Accennai un sorriso. «Loro due se la cavano, in fondo lei resta pur sempre sua madre e la ama anche se nel suo modo contorto». Non mi chiese altro forse riflettendo su tutte le informazioni che gli avevo dato. Era certa che le sue domande non fossero finite lì, ma capivo anche che per lui fosse altrettanto doloroso parlarne, sapendo l’impossibilità di poter tornare da loro.
«Sarà meglio che vada avanti da Milah», disse dopo un altro minuto di silenzio. «Conosco queste gallerie quasi meglio di lei». Così dicendo allungo il passo e mi lasciò di nuovo sola.
Non passò molto tempo prima che qualcun altro iniziasse a camminare al mio fianco.
«Quindi tu sei Emma Swan, la Salvatrice». Charlie mi studiò attentamente, cercando di cogliere in me qualche aspetto che potesse accertare effettivamente quel titolo.
«Così dicono». Alzai il mento in modo fiero e lo guardai dritto negli occhi.
«Parlami di te Emma Swan la Salvatrice». Mi rivolse un sorriso radioso, uno di quelli che avrebbe fatto cascare mille donne ai suoi piedi. Per mia fortuna non rientravo nella categoria, esisteva un solo uomo capace di mandarmi in tilt il cervello con un solo sorriso.
«Beh perché non mi dici prima tu qualcosa di te, Charlie…». Lasciai la frase in sospeso aspettando che lui mi rivelasse il suo cognome.
Ridacchiò, ma si affrettò a rispondermi. «Charlie Stevens».
«Bene, Charlie Stevens parlami di te». Riutilizzai le sue stesse parole solo per punzecchiarlo un po’. Quel ragazzo era simpatico: aveva l’atteggiamento tipico di chi è consapevole di aver un certo fascino e anche un indiscusso ascendente sulle donne. Mi ricordava molto lo spirito intraprendente di Killian; chissà se anche Milah lo aveva notato.
«Beh non credo che la mia storia sia interessante quanto la tua», mi liquidò con un gesto della mano.
«Lascia che sia io a giudicare». Non avrei certo perso quella battaglia verbale. Era un ragazzo sveglio e intelligente, ma io non ero da meno.
«D’accordo». Si voltò ed iniziò a camminare all’indietro in modo tale da potermi guardare mentre parlava. Aveva le mani dietro la nuca con i gomiti alti ed in quella posizione riuscivo benissimo a scorgere i muscoli tesi sotto la maglietta. Probabilmente ne era del tutto cosciente e lo aveva fatto solo per mettersi ulteriormente in mostra.
«Da dove posso partire? Ecco diciamo che vivevo nella Foresta Incantata, facevo il taglialegna; un giorno sono andato nel bosco e sono stato colpito da una freccia avvelenata. Così sono finito nell’Oltretomba, ho fatto arrabbiare Ade e lui mi ha spedito qui. Fine». Aveva detto praticamente tutto e nulla.
«Adesso tocca a te», aggiunse sfoderando un sorriso furbesco.
«Beh ma non vale!», protestai. «La tua storia è stata molto approssimativa».
«In realtà ti ho detto ben quattro cose, anzi cinque. Come mi chiamo, dove vivevo, cosa facevo, come sono morto e come sono finito nel fiume. Ho diritto a cinque domande». Non era affatto vero, ma d’altronde potevo usare la stessa tecnica nel rispondergli.
«D’accordo», stetti al gioco. «Spara. Risponderò alle tue cinque domande».
Il suo sorriso si allargò ulteriormente, mentre rifletteva attentamente su cosa chiedermi. Per un attimo mi domandai come facesse a non andare a sbattere contro qualcosa continuando a camminare all’indietro; tuttavia lasciai perdere e tornai a studiare la sua espressione.
«Ci sono! Prima domanda: che cosa fa una Salvatrice esattamente? In che cosa consiste il tuo lavoro?».
«Tecnicamente sarebbero due domande», gli feci notare. «Ma sarò buona e ti risponderò comunque. Beh come dice anche il nome salvo le persone in difficoltà, cioè tento di dar loro il lieto fine. Comunque essere la “Salvatrice” non è il mio lavoro. In realtà sono lo sceriffo di Storybrooke».
«Sceriffo accidenti! Bene, domanda numero due: parlami della tua famiglia». Molto scorretto: voleva che gli rivelassi molti più particolari di quelli che mia aveva dato lui.
«Beh sono la figlia di Biancaneve e il Principe Azzurro, anche se non sono effettivamente cresciuta con loro. Ho un fratellino piccolo di nome Neal e un figlio di nome Henry».
«Bene, la terza domanda è questa: dove sei cresciuta?».
«In America, in una terra senza Magia. Ho girato parecchio, solo da poco tempo Storybrooke è diventata la mia casa».
«Hai detto di avere un figlio di nome Henry. Dov’è il padre?». Sapevo che dietro a quella domanda c’era nascosto ben altro, ma non l’avrebbe certo capito dalla mia risposta. Se voleva chiedermelo doveva farlo direttamente, visto ciò che stava facendo; era fin troppo chiaro ed evidente. Stava flirtando con me e, anche se io non ero interessata, era davvero tanto tempo che qualcuno non lo faceva. Ed era altrettanto incredibile che, nonostante la spada di Damocle che pendeva sul suo capo, riuscisse ancora ad avere lo spirito per mantenere un simile atteggiamento.
«È morto, non è una bella storia», risposi. Non gli avrei rivelato che il padre di mio figlio era  pure il figlio di Milah. Se avessi dovuto davvero raccontargli tutto, l’intero viaggio non mi sarebbe bastato.
Mi sorrise di nuovo e si mordicchiò un labbro. «D’accordo mi costringi ad usare la mia ultima domanda per scoprirlo. C’è qualcun’altro che ti aspetta a Storybrooke?». Mi guardò da sotto le ciglia scure, con uno sguardo talmente intenso da non poter essere frainteso. Era ovvio ciò che intendesse ed era altrettanto chiaro che avrebbe preferito una risposta negativa.
«Sì c’è», risposi sorridendo. Lo guardai attentamente per poter osservare la sua reazione.
Charlie non batté ciglio e continuò a fissarmi con aria gioviale. «Si tratta di quel tale, quel Killian di cui parlava Milah?».
«Non ti risponderò Charlie», dichiarai. «Mi dispiace ma hai esaurito le domande». Stava per ribattere, ma proprio in quel momento raggiungemmo gli altri che si erano fermati ai piedi di una scala.
«La passeggiata è finita», disse Milah. «D’ora in poi niente sarà così semplice». Non aspettò una risposta ed iniziò ad arrampicarsi sulla scala seguita dagli altri. Io fui l’ultima a salire, ma quando rimisi piede a terra e alzai lo sguardo su ciò che ci circondava, quello che vidi mi lasciò letteralmente senza fiato.
 
POV Killian
«Questa cosa non mi piace per niente», mormorai osservando attentamente la porta del negozio di Gold.
«Neanche a me, nemmeno un po’», concordò Regina.
«Non credo che abbiamo molte altre possibilità», ci fece notare David.
«Sono qui per questo no?», aggiunse Belle. «Purtroppo so come gestirlo».
«Spero per noi che tu abbia ragione», conclusi. Noi quattro ci eravamo fermati davanti all’entrata del negozio in attesa che un’idea geniale, del tutto inaspettata, ci impedisse di fare quello che stavamo effettivamente facendo. Chiedere aiuto al coccodrillo: era l’ultima cosa che tutti volevamo e purtroppo anche la prima, e forse l’unica, che dovevamo compiere.
Senza più esitare aprii la porta, facendo scattare il campanello di ingresso. Gold, che era dietro al bancone, alzò la testa di scatto sentendo quel suono e ci fissò con un espressione incuriosita.
«A cosa devo l’onore di tutto questo drappello di persone?».
«Abbiamo un problema», parlò Belle prima che potessimo farlo noi altri. «Siamo venuti a chiedere il tuo aiuto».
«Forse tu potrai volere il mio aiuto, ma, dall’espressione del pirata, non credo che lui sia altrettanto d’accordo».
Trassi un profondo respiro e cercai di trattenere la rabbia. La mia mano iniziò a tremare, ma la strinsi a pugno tentando di ingoiare l’enorme voglia che già avevo di riempirlo di botte. «Belle ha ragione, ci serve il tuo aiuto».
«Visto che la signorina Swan non fa parte del vostro capannello, credo di intuire che le sia capitato qualcosa. Tuttavia non mi è parso di sentire nessuno “per favore”». Dovetti far fronte al tutto al mio autocontrollo per evitare di rispondergli. Dovevo ricordarmi che lo stavo facendo solo ed esclusivamente per Emma.
«Tremo…», intervenne Belle con tono di rimprovero. «Ti prego».
«Belle non mi serve sentirlo da parte tua». Mi fissò con aria presuntuosa, sfidandomi apertamente.
«Per favore», sussurrai in un tono che potesse udire anche lui. Odiavo essere alla sua mercé in quel modo, ma se lui poteva risolvere la situazione cos’altro dovevo fare?
«Bene, accomodatevi pure e spiegatemi cosa è successo». Ci guidò nel retrobottega e ci fece sedere ad un piccolo tavolo quadrato. Io restai in piedi appoggiato contro una libreria, con le braccia incrociate intorno al petto.
Molto brevemente David gli descrisse la situazione, partendo da quello che era accaduto fino ad arrivare a ciò che avevamo compreso, incluso la chiacchierata con Turchina.
«Quindi fatemi capire? Emma adesso sarebbe tornata una bambina?».
«Esatto». David estrasse il cellulare e gli mostrò una foto che le avevamo fatto. «È lei». Avevamo deciso che era meglio evitare di portarla subito da Gold; solo quando avremo avuto la sua disponibilità gli avremo concesso di incontrarla. E per quanto io fossi la sua bambinaia preferita ero riuscito a farmi includere in quella missione, lasciando l’onere a Mary Margaret di occuparsi di sua figlia.
«Questa storia è davvero incredibile», sentenziò il coccodrillo. «È assurdo cosa può fare un desiderio mal espresso».
«Quindi?», domandai. «Puoi aiutarci?».
«Cosa volete che faccia esattamente? Perché a parte notare che la signorina Swan è davvero una graziosa bimba non posso fare altro».
«Tu l’hai già fatto con Pinocchio», intervenne David. «Sei riuscito a farlo tornare uomo nonostante che Turchina l’avesse reso di nuovo bambino».
«Oh ma quella era una situazione del tutto diversa», sentenziò. «Contrastare il semplice incantesimo di una fata è una cosa semplice in confronto allo spezzare un desiderio».
«Non è poi così diverso», insistetti.
«Invece lo è. Il quantitativo di magia di luce che dovrei contrastare è mille volte superiore».
«Ma tu sei mille volte più potente», gli fece notare Regina. «Non sei più lo stesso signore Oscuro lo sappiamo tutti. Hai molto più potere di quanto tu voglia farci credere».
«Ti prego Tremotino», intervenne Belle. «Fai almeno un tentativo». Gold la fissò attentamente per un secondo prima di emettere un sospiro. Ero sicuro che in quella frazione di secondo lei gli avesse comunicato più di quanto aveva fatto a parole.
«D’accordo, ma non vi prometto niente. Se fossi in voi non mi farei molte illusioni».
 
Così poco tempo dopo avevamo fatto tutti ritorno al loft, nella speranza di poter risolvere definitivamente la questione. Anche se Tremotino si era mostrato scettico, io non potevo pensare all’idea di un fallimento. L’avrei preso in considerazione solo quando non sarebbe stato più inevitabile, a fatto compiuto.
«Allora?», ci assalì Mary Margaret vedendoci rientrare in casa. Teneva in braccio la bambina ed Henry la seguiva con un biberon in mano. La  piccola Emma aveva un’espressione contrariata e cercava di sporgersi verso il biberon. Accennai un sorriso pensando al fatto che la voracità di Emma fosse rimasta più o meno invariata.
«Il nonno ci aiuterà?», domandò Henry contemporaneamente.
«Cercherò di fare il possibile», rispose Tremotino entrando in casa seguito dagli altri «Anche se non credo che potrò essere di molto aiuto». Si avvicinò a Mary Margaret e guardò la bambina. «È davvero sorprendente».
«Beh direi piuttosto inquietante», ribattei facendo un passo per prendere di mano il biberon che Henry continuava a tenere. Senza neanche rendermene conto presi Emma tra  le braccia di Mary Margaret e tenendola con il braccio destro iniziai a darle la pappa. Ormai conoscevo così bene Emma da sapere che aveva fame sempre nei momenti meno opportuni. Sorrisi di nuovo tra me mentre il ricordo uno di quei momenti si faceva strada nella mia mente.
 
Se avessi dovuto descrivere come mi sentivo in quel preciso istante avrei utilizzato una sola parola: pace. Ero in assoluta pace. Emma era stretta nel mio abbraccio, la testa appoggiata sul mio petto, il respiro che si stava pian piano regolarizzando dopo l’orgasmo che avevamo avuto. Poter sfiorare il suo corpo nudo con la mano, annusare l’intenso odore dei suoi capelli, sentire la sua pelle calda e sudata appiccicata alla mia era l’assoluta perfezione. Ero in completa armonia, con me stesso e con il mondo. Non c’era niente che avrebbe potuto disturbarmi in quel momento.
Lentamente, mentre ascoltavo il respiro calmo e regolare di Emma, i miei occhi cominciarono a chiudersi e fui cullato dolcemente nel mondo dei sogni, anche se in quel momento la realtà era alquanto perfetta. La stanchezza accumulata iniziò piano piano a farsi sentire e lentamente mi addormentai.
«Kill?». La voce di Emma dopo poco mi riportò a galla, rispedendomi di nuovo nel presente. «Dormi?».
«Mmm», mugolai cercando di articolare una risposta. «Sì… mmm cioè no».
«Scusa, non volevo svegliarti. Torna a dormire».
«Che c’è Swan?», biascicai stringendola di più tra le braccia.
«Niente, non ha importanza», sussurrò accoccolandosi ancora di più contro di me.
«Perché mi hai svegliato?», mormorai. «Mi merito una spiegazione».
«Niente, è una cosa stupida». La sua voce era solo un sussurro, come se non volesse ammettere ciò che mi stava per chiedere.
«Adesso parla». Riuscii ad usare un tono, per quanto assonnato, che non ammetteva repliche.
«È una cosa dolce e sciocca, non è proprio da me». Beh se era così, valeva davvero la pena sentirla.
«Allora? Me la dici con le buone o devo costringerti con le cattive?».
Sospirò e si arrese. «Volevo solo dirti che sono felice e che ti amo». Sorrisi sentendo la sua dichiarazione. Quella era la mia dolce Emma, la donna che si vergognava ad usare certe frasi romantiche con me!
«Sono felice e ti amo anch’io, ma adesso dormi». Le posai la mano sulla schiena e chiusi di nuovo gli occhi. Emma sospirò felice e si allungò per darmi un bacio sul mento, per poi tornare nella sua posizione iniziale, stretta tra le mie braccia. Mi rilassai di nuovo e tornai ad abbandonarmi al sonno.
Non passò molto tempo prima che Emma parlasse nuovamente. «Killian?».
«Che c’è adesso Swan?», replicai con una punta di fastidio.
«Ho fame», mi confessò. «Il mio stomaco sta brontolando».
Ridacchiai, costringendomi così a svegliarmi e mi misi a sedere, tirandola su con me. «D’accordo», le dissi dandole un dolce bacio. «Perché non ci alziamo e andiamo in cucina a trovare qualcosa da mettere sotto i denti?».
 
«Beh direi che questo è piuttosto inquietante», replicò il coccodrillo facendomi tornare con la mente al presente. Solo allora notai il gesto che avevo appena compiuto: Emma tra le mie braccia ed io le stavo dando la pappa come avrebbe dovuto fare un genitore. Guardai la piccola mangiare voracemente stretta al mio petto e sbattei le palpebre cercando di capire perché diavolo lo avessi fatto. Era stato un gesto del tutto istintivo che mi era venuto naturale. Non avevo avuto problemi a prenderla e a tenerla con l’uncino per permettere di soddisfare le sue esigenze. Era vero che avrei voluto vedere la mia Swan sempre felice, ma questo era fin troppo strano e sicuramente malsano.
«Avrebbe iniziato a piangere», mi giustificai, cercando di spostare l’attenzione su altro dato che tutti mi stavano fissando. «Piuttosto perché non ti sbrighi a fare ciò per cui ti abbiamo chiamato».
«Credo che dovremo lasciare che Emma finisca di mangiare», intervenne Regina, «visto che ormai il pirata l’ha fatta iniziare».
«D’accordo», borbottai, continuando a reggere il biberon in modo tale che Emma riuscisse a bere.
Una volta finito e sistemato tutto – è incredibile come i bambini siano delicati e abbiano bisogno di continue attenzioni una dietro l’altra – distendemmo la piccola su una coperta appoggiata sopra il tavolo e lasciammo che Tremotino le si avvicinasse. Anche se il mio istinto mi gridava di non lasciarglielo fare, dovetti metterlo a tacere, sapendo che purtroppo quella era la nostra unica possibilità.
«Bene iniziamo». Tirò fuori il suo pugnale da sotto la giacca e a quella vista la mia mano si strinse a pugno. «Non sono sicuro di ciò che ne verrà fuori».
«Questo l’hai già detto», gli fece notare David.
«Non ti facevo così pieno di premure», intervene Regina. «Provaci e basta». Annuì e senza aggiungere altro si apprestò a fare quello che gli avevamo chiesto. Chiusi gli occhi e sperai con tutto me stesso che potesse funzionare; avevo davvero troppa voglia di abbracciare e baciare la mia Emma. Mi mancava da morire, la sua forma bambina non l’avrebbe potuta mai sostituire.
Anche con le palpebre chiuse riuscii a scorgere un intenso bagliore, sintomo che l’incantesimo stava effettivamente funzionando. Non appena fu cessato mi apprestai a riaprire gli occhi per poter osservare la mia Swan in tutta la sua bellezza.
Quello che vidi, però, non corrispose neanche lontanamente a ciò che mi aspettavo. Non era cambiato nulla, o meglio qualcosa era cambiato ma eravamo precisamente nella stessa situazione di prima. Quella che si trovava sul tavolo in quel momento era una bambina un po’ più grande di quella che avevo tenuto tra le braccia fino a qualche attimo prima. Poteva avere all’incirca un anno e mezzo, forse due, non me ne intendevo molto di bambini. Era la solita Emma, con i capelli biondi già più lunghi ed i vivaci occhi verdi, ma non era la mia Emma.
«Non ha funzionato», mormorai.
«Ho usato tutta la magia di cui sono capace e sono riuscito solo a farla crescere di qualche mese», disse Tremotino. «Lo sospettavo».
«Puoi riprovarci?», gli domandò Henry.
«Non credo che servirebbe a molto». Era la risposta che mi aspettavo, eppure sentirla faceva un male cane. Era stato un buco nell’acqua come il coccodrillo ci aveva prospettato, eppure tutti noi avevamo sperato che funzionasse. Ci avevamo creduto così tanto che adesso che ci trovavamo di fronte all’evidenza nessuno sapeva cos’altro dire. Tra di noi calò il silenzio, mentre ci arrendevamo al fatto che la mia cara Swan ancora non era tornata tra noi e chissà tra quanto avremo potuto riabbracciarla. Mi cominciavo a chiedere se avremmo mai trovato una soluzione, oltre a quella evidente di farla crescere e di farla inevitabilmente diventare un’altra persona.
Osservai quella nuova Emma, cercando di scorgere in lei qualcosa che mi riportasse alla mente la donna che un tempo era stata e che dovevo a tutti costi far tornare. Ci stava fissando tutti con sguardo curioso, come se ci stesse studiando ad uno ad uno. Aveva le manine in bocca e per quanto potesse essere tenera e dolce ed ispirare amore da ogni poro, io la odiavo per questo. Non volevo odiarla, ma non volevo neanche amarla perché lei non era il mio Vero Amore, ma bensì colei che me l’aveva tolto dalle mani.
All’improvviso puntò lo sguardo su Mary Margaret e poi successe una cosa che nessuno si era aspettato: Emma parlò. «Ma-ma». Era solo una parola, pronunciata in maniera titubante ma era quella giusta, quella che Biancaneve non avrebbe mai sperato di sentire. Vidi Mary Margaret sobbalzare per poi emozionarsi, portandosi una mano davanti alla bocca. Era la prima parola di Emma, o almeno era come se lo fosse; era qualcosa che Biancaneve si era persa ed adesso, chissà come, era riuscita a rivivere. Non sarebbe dovuta andare così: ciò che era perso doveva restare tale senza alcuna possibilità di cambiamento.
«Oh mio Dio ha parlato», sospirò Mary Margaret avvicinandosi alla piccola. «Hai detto mamma!». Anche David le si avvicinò, rivolgendo paroline dolci alla bambina e rompendo così l’immobilità che si era creata. Senza più esitazioni anche gli altri si mossero avvicinandosi ad Emma, mentre la coppia Azzurra studiava la loro nuova bambina.
Per quanto sia Mary Margaret che David mi avessero detto che eravamo tutti sulla stessa barca, che anche loro volevano far tornare Emma almeno quanto me, in quel momento capii che non era affatto vero. Non eravamo assolutamente nella stessa situazione: bastava vedere lo sguardo con cui fissavano la piccola per capirlo. Forse era vero il fatto che volevano che Emma tornasse come prima, ma loro da quella storia avevano solo da riguadagnare. Ero solo io quello che aveva perso tutto, quello che, se la situazione sarebbe rimasta tale, ne sarebbe uscito devastato. Bastava guardarli dopo che Emma aveva pronunciato la sua prima parola! L’emozione dipinta sui loro volti era così palese: era un sentimento che non avrebbero dovuto provare, che avevano perso e adesso li era stato concesso, era una cosa a cui io non avrei dovuto assistere e che era riuscita a rendere inutili i miei alleati.
Non eravamo più sulla stessa barca perché il mio mondo stava crollando distruggendomi, mentre a loro concedeva possibilità inaspettate. Non sarebbero morti dal dolore se il desiderio si fosse rivelato irreversibile. Io probabilmente sì.
Mi voltai di scatto con l’intenzione di allontanarmi il più possibile da quella scena. Era l’unica cosa che volevo, non potevo più restare là dentro. Avrei trovato la soluzione da solo anche al costo della mia stessa vita, perché non avevo proprio più nulla da perdere e non c’era nessun altro in quella stanza che avrebbe potuto affermare altrettanto.
Proprio mentre stavo aprendo la porta per andarmene da quel maledetto loft, la sua voce mi arrivò chiara all’orecchio. «Kiill». Mi immobilizzai pietrificandomi, sentendo ciò che aveva appena pronunciato. Per gli altri poteva benissimo essere il mio nome abbreviato, come se non riuscisse a pronunciarlo tutto, ma per me aveva un significato diverso.
Mi voltai di nuovo e la guardai, non riuscendo più a capire se dietro quella bambina ci fosse ancora qualcosa della vera Emma. Lei mi stava guardando e sembrava volermi dire un milione di cose. Proprio quando avevo iniziato a staccarmi da lei, credendo che la mia Swan non potesse essere la stessa sottoforma di bambina, lei veniva a sconvolgere di nuovo tutto il  mio mondo. Perché c’erano solo due possibilità: o credere a ciò che pensavano anche gli altri, a una pronuncia imprecisa del mio nome, o che mi avesse davvero chiamato in quel modo. Solo lei mi chiamava Kill e solo noi sapevamo che aveva un significato tutto particolare; era un nomignolo dolce che Emma usava nei nostri momenti di intimità. Emma non era una di quelle donne sdolcinate, per questo odiava qualsiasi tipo di sopranome e aveva trovato nell’accorciare il mio nome il perfetto compromesso. Quando mi chiamava così sapevo che avevo di fronte a me una parte di lei che lasciava vedere solo al sottoscritto. Era il suo equivalente di amore o tesoro, ma con molto più significato.
Il mio cuore aveva accelerato i battiti, mentre la mia mente riusciva solo a concentrarsi su di lei, cancellando tutte le altre persone nella stanza. C’eravamo solo io e lei, ma era esattamente la cosa che avevo temuto sin dall’inizio.
Avevo solo due possibilità: credere, restare ed amarla o non credere, andarmene ed odiarla. Io scelsi la seconda perché la prima era una scelta che non avrei potuto sopportare. Se non volevo rompermi e volevo continuare a tentare di salvarla, dovevo per forza allontanarmi da quella stanza.
«No», sussurrai scuotendo la testa. Senza più esitazioni mi voltai e corsi via da quella casa, mettendo quanti più metri di distanza che potevo da quella scena.


 
Angolo dell’autrice:
Buona domenica a tutti! Per un attimo ho temuto di ritardare! Ma invece ce l’ho fatta :)
Da una parte il viaggio e l’avventura stanno iniziando e piano piano questioni in sospeso e nuovi personaggi vengono fuori. Che mi dite di Charlie? Cosa ne pensate?
Dall’altra parte il tentativo di Tremotino non è servito a un granché. Il ricordo di Killian è un piccolo momento fluff che ho voluto aggiungere: mi ci voleva proprio qualcosa di dolce. Spero che sia piaciuto anche a voi. Ed infine la scelta di Killian era inevitabile.
Grazie come sempre a tutti quanti, continuate a leggere e a recensire!
Un bacione e alla prossima settimana
Sara

 

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** 6. Il mio tutto ***


6. Il mio tutto
 
POV Emma
Avevo pensato che le anime che avevo incontrato al di fuori dalla caverna oscura fossero tantissime; invece non erano niente in confronto a quelle che si trovavano là e che adesso sfilavano davanti ai miei occhi.
Attraverso i vicoli sotterranei eravamo sbucati in quella che sembrava una gigantesca piazza, gremita di anime perse. Tuttavia c’era qualcosa che mi rendeva alquanto perplessa: era una sensazione e allo stesso tempo una certezza. Tutte quelle anime che avevo di fronte agli occhi erano ovviamente diverse da Robin e dagli altri, ma non sembravano neanche come le persone tormentate che avevo incontrato all’inizio di quella mia assurda avventura. Non riuscivo a capire cosa le differenziasse, ma c’era qualcosa che mi portava a credere che mi trovassi di fronte a qualcosa di diverso.
Avevo pensato che il passaggio ad anima persa fosse un qualcosa di repentino, stile tutto o nulla; invece, considerando ciò che avevo davanti agli occhi, capii che doveva trattarsi di qualcosa di più graduale. Era come se avessi davanti a me tanti stadi diversi che alla fine portavano allo stessa conclusione. Era strano ed era in qualche modo anche inquietante.
«Dobbiamo restare uniti», mormorò Milah. «Non distanziatevi gli uni dagli altri per nessuna ragione».
«Dove dobbiamo andare?», sussurrò Robin, in un tono appena udibile.
«Esattamente dall’altra parte della piazza». Osservai il punto verso cui era rivolto lo sguardo di Milah, cercando di capire il percorso che avremo dovuto affrontare. Proprio dalla parte diametralmente opposta della piazza sembrava esserci una specie di gigantesca porta in stile medievale. Non era difficile da individuare, date le sue dimensioni, ma per raggiungerla saremo dovuti passare proprio in mezzo a quella ressa; ciò che rendeva l’impresa alquanto ardua era il fatto che tutte quelle persone erano così unite da sembrare quasi un muro invalicabile.
«Cosa c’è oltre la porta?», domandai abbassando la voce a mia volta.
«Non preoccuparti di quello adesso», replicò Milah, «pensiamo prima a raggiungerla». Non mi aveva risposto, ma le sue parole non lasciavano intendere niente di buono.
«Muoviamoci allora», proruppe Charlie.
«Sì ma mi raccomando restiamo uniti», concordò Robin. Senza più aspettare iniziammo ad avviarci verso quella marea di persone. Avevo sempre odiato i luoghi affollati e odiavo ancora di più il fatto di dover passare in mezzo a quella calca. Eppure non c’era altra scelta.
Iniziammo a camminare lentamente, scansando vari gruppi di anime e solo dopo alcuni metri riuscii finalmente a capire quale era effettivamente la differenza: i lamenti che avevo sentito e che mi avevano guidato fuori dalla caverna erano del tutto cessati. Le persone che avevamo di fronte non sembravano così disperate come quelle che avevo incontrato fino a quel momento. Allora perché Milah, Robin e Charlie erano così preoccupati e così convinti della loro pericolosità?
Arrivai alla conclusione che doveva esserci dell’altro sotto, qualcosa che probabilmente non avevo ancora scoperto. Qualunque fosse la situazione, era meglio raggiungere velocemente la porta senza fare troppe domande anche se, ad ogni passo, continuavano ad aumentare nella mia testa. Come si faceva a passare da anima consapevole ad anima persa? Quelle persone si erano rese conto di ciò che le stava accadendo? E perché mi sembrava che le anime riunite in piazza non soffrissero quanto quelle alla periferia della città?
Ne avevo molte altre, ma c’erano talmente tante cose che non sapevo e quello non era sicuramente il momento adatto per chiedere. Dovevo aspettare, anche se andare incontro all’ignoto senza conoscere nulla di ciò che mi circondava mi faceva diventare matta.
Mentre passavamo tra un gruppo di gente e l’altro, sentii qualcuno sfiorarmi il braccio con delle dita gelide. Quel contatto fu del tutto inaspettato e mi fece accapponare la pelle. Non mi ero aspettata niente di simile, visto che il resto delle anime con cui avevo avuto contatti mi aveva a stento visto. Quella era un’altra differenza: queste persone erano consapevoli della nostra presenza, sembravano capire che ci trovavamo esattamente accanto alloro e che stavamo tentando di superarli.
All’improvviso una donna mi afferrò il braccio e puntò i suoi occhi dritti nei miei. Anche se sembrava fisicamente cosciente, il suo sguardo era vacuo, pareva completamente svuotata. Era terribile vedere una cosa del genere ed era così inquietante che non riuscii più a distogliere lo sguardo. Senza volerlo mi fermai e mi ritrovai ad annaspare alla ricerca di aria.
«Emma, non ti fermare». La voce di Charlie mi riportò con i piedi per terra, mentre la sua mano scacciò quella gelida che si era posata sul mio braccio. «Non permettere loro di avvicinarsi».
Annuii senza pronunciare una parola e lasciai che mi prendesse per mano, portandomi via da là. La sua pelle era più calda di quella che mi aveva appena toccato, anche se più fredda della mia, e quel contatto era in qualche modo confortante. Era abituata a stare mano nella mano con Killian, ma quel gesto era completamente diverso. Con il mio pirata era una cosa semplice e naturale, un modo per tenerlo vicino che faceva stare entrambi tranquilli; Charlie invece non solo mi guidava e mi tirava, ma riusciva in qualche modo ad infondermi coraggio senza dire una sola parola. Erano poche le persone in grado di farlo, questo glielo dovevo riconoscere.
Proseguimmo per un altro po’ in quel modo, lui davanti e io dietro, le mie dita strette nelle sue. Non ero sicura di come Hook avrebbe reagito se avesse saputo della cosa, ma d’altra parte lui non era lì e non avrebbe potuto fare niente per aiutarmi.
Durante il nostro percorso le anime tentarono ancora di toccarmi, tuttavia non permisi più loro di farlo, proprio come mi aveva suggerito Charlie poco prima. Stavo infatti scacciando via una donna con una spallata quando questa mi colse alla sprovvista iniziando a parlare.
«È qui». La sua voce era solo un sussurro, ma mi arrivò chiara all’orecchio. Non aveva un accento lamentoso, sembrava invece sicura di ciò che diceva; il suo tono era persuasivo e così naturale da confondermi ancora di più.
Scossi la testa e cercando di passare sopra a quella voce e mossi un altro passo avanti. Ma quella donna non aveva nessuna intenzione di mollare e nonostante l’avessi superata continuò a parlare, facendo crollare tutte le mie difese con una semplice frase.
«Lui è qui». A quelle parole mi bloccai e istintivamente lasciai andare la mano di Charlie. Non avevo la minima idea di chi fosse il lui a cui si riferiva, eppure mi convinsi all’istante che non poteva trattarsi di nessun altro. Chi altro poteva essere se non Killian? Non l’aveva detto, ma il mio cuore sapeva che si trattava di lui.
«Cosa?», sussurrai voltandomi indietro. La donna mi si avvicinò di nuovo muovendosi con un passo ondeggiante e la testa bassa.
«Lui è qui», ripeté afferrandomi le mani. «Ti sta cercando». Il mio cuore partì all’impazzata sentendo quelle parole, confermando ciò che già prima avevo capito. Perché in fondo era quello ciò di cui che avevo bisogno. Chi credevo di prendere in giro? Cercavo di fare la coraggiosa, di non cadere in pezzi ma l’unica cosa che volevo sapere era che Killian mi stava cercando, che lui era lì per me. Ironia della sorte: ero una salvatrice che voleva essere salvata.
«Killian è qui?», balbettai speranzosa.
«Emma!». Nello stesso istante la voce di Charlie fece da sottofondo alle mie parole.
«Certo che è qui», rispose la donna. «Vieni con me, ti porterò da lui». Proprio mentre lei mi cominciava a tirare per un braccio, Charlie mi afferrò per l’altro trascinandomi indietro.
«Emma!», proruppe. «Maledizione! Cosa ti ho appena detto?».
Mi voltai verso di lui quel tanto che bastava per potergli spiegare la situazione. «Lui è qui, Killian è qui. Lei sa dov’è».
«Cosa diavolo stai dicendo?». Charlie tentò di incrociare il mio sguardo, ma io voltai la testa per assicurarmi che la donna non scappasse via. «Emma niente di tutto questo è vero».
«No», scossi il capo e tornai a guardarlo. «Tu non lo conosci, lui è qui, lui ci salverà tutti». Era davvero patetico quello che stavo dicendo, ma sapevo che Killian era in grado di farlo, che lui mi avrebbe cercata fin da subito e che non si sarebbe arreso finché non mi avesse trovata. Ed ora c’eravamo quasi, io dovevo in qualche modo dargli una mano e riuscire ad arrivare da lui.
«Emma! Ascoltati», tentò di nuovo Charlie. «È ridicolo!».
«Devo andare», sussurrai liberandomi dalla sua presa e facendo un passo verso la donna. Quella missione verso l’ignoto poteva aspettare visto che Killian era là. Avremo potuto farla insieme, una volta ritrovati. Forse non ci sarebbe stato bisogno di andare a cercare quella leggendaria donna, Killian poteva avere la soluzione.
«Maledizione. Milah! Robin!». Charlie mi afferrò mettendomi un braccio sotto il petto placcandomi e impedendomi di seguire quella donna. Per fortuna lei non sembrava aver fretta e mi stava ancora aspettando nonostante quella ridicola scena che il mio nuovo amico aveva messo in atto.
«Vieni», pronunciò muovendo appena le labbra. Anche se non ero ancora riuscita a guardarla negli occhi, che erano in parte coperti da una ciocca di capelli, ero certa della sua sincerità.
«Che succede?». All’improvviso mi ritrovai Milah davanti a coprirmi completamente la visuale.
«Killian è qui», balbettai cercando in qualche modo di liberarmi dalla presa di Charlie che continuava a tenermi imprigionata contro il suo petto.
«Cosa?». Milah e Robin parlarono contemporaneamente.
«Killian è qui, lei sa dov’è. Può portarmi da lui».
Robin si girò solo un istante per poter osservare quella donna. «Ti sta mentendo Emma».
«No invece», mi divincolai. «Charlie lasciami. Devo andare». Lacrime di frustrazione iniziarono a rigarmi le guance. Perché nessuno capiva che dovevamo seguirla? Era importante! Ero sempre stata brava a scoprire i bugiardi e, anche se non avevo avuto la possibilità di incrociare lo sguardo di quella donna, non potevo sbagliarmi.
«Emma ascoltami». Milah mi posò entrambe le mani sulle guance costringendomi a guardarla negli occhi. «Loro sono in grado di entrarti dentro e di sfruttare le tue debolezze. Lui non è qui, non può essere qui».
«Invece sì», singhiozzai. Perché nessuno capiva di cosa era capace il mio Killian?
«No, Emma non è così, è solo quello che vogliono farti credere per poter prendere la tua anima». Scossi la testa rifiutando di credere a ciò che aveva appena detto. Non poteva essere davvero così. Io avevo davvero bisogno di sapere che Hook era là, ne avevo così bisogno da prestare fede anche ad un’assurda bugia.
«Si stanno avvicinando». La voce di Robin servì per riportarmi un altro po’ più vicino alla realtà.
«No», sussurrai. Se prima piangevo per la frustrazione, in quel momento le mie lacrime si stavano in qualche modo trasformando in dolore. Era come se le prime avessero aperto la strada per tutte le altre: la diga che tentavo di tenere in piedi dentro di me, stava praticamente crollando a pezzi, lasciando uscire un fiume in piena.
«Abbiamo attirato troppo l’attenzione», sussurrò Milah. Sentendo quelle parole alzai lo sguardo e attraverso le lacrime vidi che lo spazio intorno a noi si era ristretto. Le anime si stavano pian piano avvicinando circondandoci completamente.
«Mi dispiace», singhiozzai smettendo di divincolarmi. All’improvviso capii quanto ero stata sciocca. La sola idea che Killian fosse arrivato fino a là e che avesse mandato quella donna a cercarmi era ridicola. Come avevo potuto credere ad una cosa così stupida? Avevo appena messo in pericolo tutti quanti senza neanche accorgermene.
«Dobbiamo andare», disse Robin. «Forza Emma».
Invece di obbedire e di aiutarli in qualche modo ad uscire da quella situazione di cui io stessa ero la causa, mi accovacciai appoggiando la testa sulle ginocchia. Iniziai a piangere silenziosamente, non riuscendo più a calmarmi. Non era una reazione da me: io ero sempre fredda e coraggiosa di fronte al pericolo. Invece in quel momento mi sentivo tremendamente debole, così fragile da non riuscire neanche a smettere di singhiozzare. Ero appena diventata il perfetto cliché della pulzella in pericolo che deve essere salvata dal principe sul suo cavallo bianco.
«Merda! Non si muoverà», inveì Milah.
«Prendimi lo zaino». La voce di Charlie fu sicura ed autoritaria. «Forza Emma andiamo». Meno di un secondo dopo mi sentii sollevare e mi ritrovai sulla spalla di Charlie, con le gambe sul suo petto e la testa rivolta verso la sua schiena. Non provai neanche a divincolarmi e lasciai che lui mi portasse via di lì. Per quella volta lasciai che Charlie fosse il mio principe dal cavallo bianco, anche se avrei preferito con tutta me stessa essere salvata da un pirata con un uncino al posto della mano.
Ero stata proprio una stupida. Come avevo potuto farmi raggirare così? Quella donna non mi aveva neanche detto a chi si riferisse ed io ero saltata alla conclusione che si trattasse di Killian. Ed il motivo era chiaro: mi mancava così tanto da far male. Mi mancava più di mio figlio e dei miei genitori, della mia stessa famiglia. Era orribile e allo stesso tempo naturale: da molto tempo era diventato lui il mio tutto. Lui era il primo con cui volevo condividere una notizia, il primo da cui correvo se ero triste, l’unico che capiva quando stavo mentendo e quando invece ero seria. Era l’unico che sapeva farmi sorridere nei momenti brutti ed era uno dei pochi che mi infondeva costantemente fiducia.
Avevo tentato di negarlo fin da quando ero arrivata ma adesso non potevo più nasconderlo. Avevo una voragine al posto del cuore al solo pensiero di essere intrappolata là, senza possibilità per lui di sapere dove fossi e come raggiungermi. Ero stata brava fino a quel momento a tenerlo relegato in fondo alla mia mente, ma quella donna con quella semplice affermazione “lui è qui” mi aveva fatto crollare.
Mi odiavo per aver messo tutti in pericolo, per essere stata così stupida, per non riuscire a smettere di piangere e per essermi dimostrata più un peso che d’aiuto in quella missione già alquanto pericolosa. Di solito non ero io la principessa debole e spaventata, non lo ero mai stata; nonostante tutte le difficoltà non ero mai scoppiata a piangere in quel modo. Ero sempre in prima linea a combattere, pronta a salvare tutto e tutti. Non era quella che scoppia in lacrime e non riesce più a fermarsi. Non mi riconoscevo e sembrava che la frustrazione e il dolore si mescolassero insieme in un mix micidiale. Piangevo per la rabbia e perché mi sentivo sola e spaventata. Era successo tutto all’improvviso, quando stavo vivendo uno dei momenti più felici della mia vita. Quel cambiamento repentino mi aveva colto alla sprovvista, devastandomi completamente.
Non so esattamente quanto tempo dopo, ma l’andatura di Charlie iniziò improvvisamente a rallentare, fino a fermarsi del tutto. Non avevo alzato più la testa da quando mi aveva sollevato, pur sentendolo correre nonostante il mio peso. Mi vergognavo per ciò che avevo fatto e mi sentivo anche in colpa. Dovevano assolutamente togliermi il titolo di Salvatrice per darlo a lui.
«Qui va bene». La voce di Milah mi giunse dalla mia destra. «Possiamo riposarci un attimo».
Senza aggiungere una parola Charlie mi rimise a terra, riprendendo fiato e aiutandomi a rimettermi in piedi. Notai che avevamo raggiunto la porta e che eravamo esattamente ad un lato del suo enorme arco. Era un posto appartato, dove le anime passavano senza però vederci.
«Mi dispiace», sussurrai asciugandomi le lacrime. «Mi dispiace così tanto».
«È stato molto stupido da parte tua», mi rimproverò Milah. «Hai messo in pericolo tutti quanti, noi più di te. Forse non hai capito quanto stiamo rischiando!».
«Hai ragione», mormorai puntando lo sguardo a terra. «Sono stata una sciocca».
«Beh sciocca è dir poco», continuò.
«Milah!». Sia Robin che Charlie vennero in mio soccorso.
«No è vero». Trassi un profondo respiro e alzai lo sguardo su di lei. «Lo so che non è una giustificazione, ma mi manca da morire».
La vidi sospirare e cambiare espressione, passando dalla rabbia alla comprensione. «Lo so e sapevo che prima o poi saresti crollata, solo speravo che non lo facessi in mezzo al pericolo».
«Emma», intervenne Robin, «tutti noi ci aspettavamo che prima o poi tu reagissi in qualche modo. Sei sempre stata così calma e pacata rispetto alla proporzione di ciò che ti è capitato. Pensavamo che saresti esplosa quando hai scoperto dove ti trovavi, ma non hai reagito così male. Rabbia, dolore, disperazione sono sensazioni che abbiamo provato tutti».
«Sai cominciavo a crederti una donna bionica», scherzò Charlie, «così capace di controllare le sue emozioni. Avevo pensato che ti saresti messa ad urlare e non a piangere, ma va bene lo stesso. Fa bene sfogarsi». Mi asciugò le lacrime con un dito mentre io tiravo su col naso. Aveva perfettamente ragione, non era servito a nulla eppure piangere mi aveva in qualche modo riportato nella giusta direzione.
«Tornerai da Hook, Emma», mi disse Robin appoggiandomi una mano sulla spalla. «Tornerai a Storybrooke sana e salva. Altrimenti come farai a dire a Regina che io sto bene e che non deve preoccuparsi per la mia anima?».
Accennai un sorriso e mi asciugai con la mano le ultime lacrime. Avevo ripreso lentamente il controllo sul mio respiro e sul mio corpo; per il momento avevo pianto abbastanza. Era giunta l’ora di mostrare a quel mondo cosa volesse dire essere la Salvatrice e di cosa ero capace, anche senza magia.
«Sei pronta per ripartire?», mi domandò Milah.
«Sì, e questa volta prometto che non sarò di intralcio. Farò tutto ciò che è necessario per portarvi tutti via di qui sani e salvi, vi do la mia parola». Ed io mantenevo sempre la parola data, a qualunque costo.
 
POV Killian
Sebbene avessi bisogno di risolvere al più presto quell’intricata matassa, dovevo prima tentare di calmarmi e di mettere ordine nella mia testa. Aver preso le distanze da quella bambina non significava di pari passo smettere di pensare a lei; anzi era tutt’altro. Il mio nome pronunciato dalle sue labbra non faceva altro che ronzarmi in testa, insinuando il dubbio nella mia mente. Potevo essermi sbagliato? Forse la mia Emma esisteva ancora nella sua forma bambina, forse non era tutto così nero come mi sembrava ed io potevo rimanere con lei senza compromettere la purezza di quello che c’era tra noi.
Tuttavia, se da una parte non desideravo altro che fosse vero in modo tale da poter tornare da lei, non potevo farlo perché ormai avevo fatto la mia scelta ed avevo optato per ciò che sarei riuscito a sopportare. Stare insieme alla piccola Emma, per quanto potesse nascondere la mia Swan, non avrebbe fatto altro che uccidermi lentamente. Per questo dovevo trovare una soluzione il più velocemente possibile, senza perdere tempo.
Prima, però, dovevo calmarmi e cercare di mettere a tacere la battaglia che infervorava in me tra testa e cuore. Ero un groviglio di emozioni, un fascio di nervi; avrei voluto fare a pugni con qualcuno, urlare a squarciagola tanto per sfogarmi un po’. Mi mancava Emma e non sapevo come fare a sopportare quella dannata solitudine. Emma era la mia famiglia, il mio tutto, ed ora quel tutto si era ridotto ad una bambina a cui non potevo stare accanto per non sentirmi sporco o di peggio.
C’era solo una cosa che riusciva sempre a calmarmi e a mettere a tacere le mille voci nella mia testa; per questo, quasi inconsciamente, mi diressi verso il porto e una volta là mi misi a sedere sul molo, fissando un punto indistinto all’orizzonte.
Avevo appena scelto di allontanarmi dalla piccola Emma eppure dentro di me sentivo quasi il bisogno di tornare da lei. Sapevo a cosa era dovuto: avevo bisogno di stare con Emma, ma non era la bambina quella con cui sarei dovuto stare. Se fossi tornato mi sarei sentito meglio sul momento, ma sarebbe stato l’inizio della fine. Come potevo guardarla sapendo l’intensità dei miei sentimenti? Io non ero un uomo che si innamora facilmente, ma quando lo facevo mi lasciavo completamente travolgere; e per quanto odiassi ammetterlo io ero completamente suo e senza Emma non ero più niente. Tornare da lei sarebbe stato facile sul momento ma non era la scelta praticabile.
Ero rimasto solo in quella lotta contro quello che rimaneva uno stupido maledetto desiderio. Io avrei riportato indietro Emma a qualsiasi costo e quel costo comportava tagliare i ponti con colei che l’aveva sostituita. Non mi sarebbe bastato aspettare e vederla crescere, perché la probabilità che fosse la stessa era pari a zero, o almeno così credevo. L’unica persona che avrebbe potuto confermare la mia ipotesi era Pinocchio, e doveva essere proprio lui il mio punto di partenza. Gli altri potevano anche divertirsi a fare l’allegra famigliola felice, io avrei continuato per la mia strada.
«Sapevo di trovarti qui». Una voce mi riportò alla realtà mettendo momentaneamente a tacere la confusione dentro la mia testa.
Continuai a guardare l’oceano senza dire una parola e non mi voltai neanche quando Henry si sedette al mio fianco.
«So che non è…», mi disse una volta seduto, ma io non lo lasciai continuare.
«Henry, ti prego non serve».
«No», ribatté, «lasciami finire. So che non è facile per te vedere la mamma così, ma non è facile neanche per me. È mia mamma non dovrebbe sembrare la mia sorellina!». Aveva ragione: per un momento mi ero dimenticato che c’era qualcun altro che come me stava perdendo tutto. Per me era difficile, ma non era una passeggiata nemmeno per lui.
«Capisco», continuò, «il motivo per cui te ne sei andato e sono d’accordo con te. Tutti capiamo cosa stai provando…».
«No, non credo che ci riusciate». Scossi la testa amaramente.
«Sì invece. Deve essere terribile vederla così, è terribile per me ed io ho anche un’altra mamma. Io lo so quello che provi per lei e so anche quello che lei prova per te e per quanto la piccola Emma abbia dimostrato un forte attaccamento nei tuoi confronti non è la stessa cosa. Questo lo sappiamo tutti».
«Henry quello che provo in questo momento è alquanto confuso, e so che se non risolvo questa matassa al più presto io finirò per andare fuori di testa».
«Certo ed è per questo che io sono qua adesso. Io voglio aiutarti: chi altri potrebbe essere motivato come te se non io per far tornare la mamma come prima?». In effetti non aveva tutti i torti e dovevo riconoscere che era molto più maturo di quanto pensassi.
«Lo sai che hai bisogno del mio aiuto», insistette, «ed è quello che ti sto offrendo». Anche se non volevo ammetterlo, certe volte quel ragazzino aveva dei colpi di genio che mi sarebbero stati utili. Ed in fondo non avevo nulla contro di lui, anche Henry era una vittima che non guadagnava nulla da quella situazione.
«D’accordo», acconsentii. Senza aggiungere altro mi alzai, pronto per mettermi in azione. «Allora andiamo?».
«Dove?», mi domandò alzandosi a sua volta.
«Da Pinocchio». Parlare con il bambino di legno era praticamente l’unica certezza che mi restava. «Non saprei cosa altro fare».
«Beh mi sembra un buon punto di partenza». Senza aggiungere altro ci incamminammo di nuovo verso il centro di Storybrooke diretti alla bottega di Geppetto. Eravamo quasi certi di poterlo trovare là con suo padre, intento a portare avanti la tradizione di famiglia.
«Hook?». Henry mi chiamò rompendo il silenzio che si era creato. Continuò a camminare al mio fianco, ma notai che mi stava studiando attentamente.
«Che c’è ragazzino?».
«Lo so che pensi che i nonni non siano motivati quanto te o me, ma non è così». L’avevo pensato all’inizio, ma mi ero ricreduto quando avevo visto lo sguardo di Mary Margaret e David dopo che la piccola aveva parlato.
«Beh non credo», ribattei amaramente. «Henry li abbiamo persi quando Emma ha parlato».
«No, non è vero», replicò alzando leggermente la voce. «Beh Hook prova a metterti nei loro panni? Come avrebbero potuto rimanere indifferenti? Ma sicuramente vogliono riabbracciare la vera Emma almeno quanto noi». C’era un fondo di verità nelle sue parole, però non cambiava la situazione: loro avevano guadagnato una figlia ed io avevo perso il mio Vero Amore, così come Henry aveva perso sua madre.
«Henry», gli chiesi dopo un po’, «tu credi che Emma sia sempre là dentro? Credi che nel profondo la piccola possa ricordare ciò che era?».
«Non lo so, ma è anche per questo che stiamo andando a parlare con August no?». Già era proprio per quello e se, da una parte non vedevo l’ora di sapere la risposta a quella domanda, dall’altra temevo la verità più di ogni altra cosa. Cosa avrei fatto se la vera Emma fosse stata persa per sempre? O come sarei riuscito a starle vicino se invece fosse stato tutto il contrario? Tuttavia, una cosa era certa quella situazione di incertezza mi stava uccidendo, così come mi avrebbe ferito qualsiasi risposta avessimo ricevuto.
«Comunque», continuò Henry, «conosci la mamma, non basterà un semplice desiderio per fermarla. Qualsiasi cosa sia successa noi non ci fermeremo, ma sono sicuro che la cosa è reciproca. La mamma troverà il modo per venir fuori». Aveva ragione anche se il suo discorso non aveva molto senso logico.
Lasciai che la speranza di Henry prendesse corpo dentro di me e mi lasciai guidare per le vie di Storybrooke cercando di mantenere la mente più sgombra possibile. Per fortuna il tragitto fu breve e dopo poco arrivammo di fronte alla bottega di Geppetto; lo trovammo là fuori intento ad intagliare un grosso pezzo di legno.
«Ciao Marco», lo salutò Henry. «C’è August? Avremo bisogno di parlare con lui».
«Ciao Henry! Hook», ci salutò a sua volta. «August è dentro, accomodatevi pure». Entrammo nella piccola bottega e trovammo subito l’ex bambino di legno, seduto ad un vecchio tavolo con lo sguardo su un libro. Appena sentì i nostri passi alzò la testa e ci fissò con aria perplessa.
«Immagino che questa non sia una visita di cortesia», ci disse prima che potessimo aprire bocca. «Se siete qua vuol dire che è successo qualcosa». Annuimmo con un sospiro e notando la nostra espressione anche il suo sguardo si fece più serio. Feci per parlare ma il rumore di un martello mi interruppe, facendomi dimenticare il discorso coerente che avevo preparato per spiegargli la situazione.
«Credo che dovremo andare in un posto più tranquillo per parlare», ci propose. Annuimmo e senza aggiungere altro lo seguimmo fuori dal negozio.
 
Studiai l’espressione di August cercando di intuire a cosa diavolo stesse pensando. Eravamo seduti ad un tavolo da Granny e avevamo appena finito di spiegargli l’accaduto. Si portò una mano sotto il mento e si sfregò la guancia riflettendo su cosa dire.
«Allora?», domandai impaziente.
«Beh dammi un momento», ribatté. «È una notizia abbastanza sconvolgente e anche difficile da credere».
«Lo sappiamo», intervenne Henry. «Forse questa potrà aiutarti». Estrasse dalla tasca il suo marchingegno per parlare e mostrò ad August la foto che avevamo fatto alla piccola Emma.
«Oh mio Dio! È proprio lei», ammise Pinocchio sospirando.«Potrei riconoscerla ovunque. È come la piccola che ho portato all’orfanotrofio più di trent’anni fa». Sentii una punta di gelosia farsi strada dentro di me a quelle parole, ma fu subito sostituita dalla rabbia. Era vero: lui la conosceva da molto più tempo di me ed era stato suo amico quando ancora non aveva nessuno, ma quando erano piccoli anche lui non aveva esitato ad abbandonarla.
«Non pensavo che potesse succedere una cosa del genere», disse dopo qualche secondo. «Credevo che fosse capitato solo a me».
«Turchina ci ha detto che la situazione è diversa stavolta. Il suo cambiamento è dovuto ad un desiderio, non è facile trovare una soluzione. Lei non può aiutarci e neanche il nonno». Notai che Henry non aveva usato le stesse parole di Turchina: non può essere annullato; gli fui enormemente grato per quello.
«Non capisco», continuò August, «credete che io possa aiutarvi?».
«Forse, ma prima abbiamo bisogno di sapere una cosa», risposi. «E tu sei l’unico in grado di darci una risposta». Presi fiato e poi buttai fuori tutto insieme. «Lei è ancora lì dentro? Voglio dire quando tu sei tornato bambino ti ricordavi dell’uomo che eri stato? Non intendo ricordare in senso stretto, ma magari avevi la sensazione che ci fosse dell’altro che tu fossi qualcosa di più di un semplice bambino. Non so come spiegarlo…».
«Ho capito Hook», mi fermò. «Vorrei poterti dire che in fondo sapevo di essere stato un uomo un tempo, ma non è così. Non c’era niente che mi desse anche solo un sentore del mio passato, non mi ricordavo niente finché Gold non mi ha ritrasformato».
Strinsi forte il pugno che avevo appoggiato sul tavolo e cercai di digerire la notizia che avevo appena ricevuto. Faceva più male di quanto sospettassi: voleva dire che Emma non c’era più e solo allora capii che non era la risposta che volevo. Avrei preferito starle accanto pur in veste di bambinaia e sapere che la mia Emma era ancora lì, piuttosto che vederla scomparire per sempre.
«Quindi la mamma non c’è più? Non si ricorda di me… non si ricorda di niente». Henry era sconvolto almeno quanto me e non era giusto. Era solo un ragazzino e se io faticavo a digerire la notizia, come poteva farlo lui? Senza pensarci due volte feci una delle cose che un pirata sa fare meglio: mentire.
«Henry, forse non è così». Posai la mia mano sulla sua cercando di calmarlo. «La situazione di Emma è completamente diversa da quella di August, l’ha detto anche Turchina. Sono certo che lei si ricorda di te, di tutti noi, e anche se magari adesso non è così, sono sicuro che non potrà mai dimenticarci. La faremo tornare, perché lei è ancora là e sono convinto che se potesse ci griderebbe a gran voce di aiutarla».
«Hook ha ragione», mi appoggiò August. «Non pensare a ciò che ho detto. Emma è molto più forte di me, è più forte di chiunque altro, non è la stessa situazione».
«Dobbiamo farla tornare», disse Henry stringendo il pugno sotto la mia mano. «Ho bisogno che la mamma torni quella di prima, al più presto».
«È anche per questo che siamo qui», continuai, approfittando di ciò che aveva appena detto Henry. «Devi aiutarci August, non te lo chiederei se non fossi davvero disperato». Ed era la pura verità. Anche se non avevo nessun dubbio sui sentimenti di Emma, lui rimaneva comunque una sorta di rivale; era più forte di me anche se sapevo che era un idea del tutto infondata.
«Se c’è qualcuno che può trovare una soluzione a questa storia», proseguii, «quel qualcuno sei tu».
«Chi meglio di te può aiutarci a far tornare la mamma come prima?», mi appoggiò Henry. «Tu eri un uomo e sei tornato bambino per poi ridiventare uomo. Anche se non è la stessa situazione, sei l’unica persona che conosciamo che ha vissuto un’esperienza in qualche modo simile».
«Beh io non saprei da che parte cominciare», ci rispose August.
«Neanche noi», affermai. «Possiamo iniziare a capirlo insieme. Che ne dici?». August rifletté sulle mie parole, cercando forse di afferrare in cosa potesse esserci utile. In realtà non lo sapevo neanche io, ma avevo la netta sensazione che sarebbe stato un elemento fondamentale. In fondo era meglio contare su tutto l’aiuto possibile e lui conosceva molte cose sui sortilegi e sulla magia, molto più di quanto tendesse a far credere. Sentivo che lui doveva essere parte integrante dei nostri piani per riuscire a salvare la mia Emma, anche se la cosa non mi rendeva esattamente felice.
«Va bene», acconsentì alla fine. «Non posso certo lasciarvi da soli ad affrontare questa situazione. Anch’io voglio che la nostra Emma torni tra noi». Cercai di non pensare molto a quel “nostra” e allungai la mano verso di lui.
«Siamo d’accordo allora?».
Strinse la mia mano con una presa ben salda. «Siamo d’accordo».
«Grazie», sussurrai in un tono che non ero certo potesse sentire. Il sorriso appena accennato che si disegnò sulle sue labbra, però, mi confermò che al contrario il mio ringraziamento era giunto chiaro all’orecchio del destinatario.


 
Angolo dell’autrice:
Buona domenica a tutti! Sono nettamente in ritardo rispetto al solito, ma ce l’ho fatta per il rotto della cuffia.
Comunque ecco qua un altro passo avanti: da una parte il crollo emotivo di Emma – c’era da capirla nonostante non sia proprio il suo carattere – dall’altra nuove/vecchie alleanze. L’idea di aggiungere August alla storia e stata improvvisa, scrivendo mi è venuto naturale.
GRAZIE (ancora una volta) di leggere la mia storia e di recensire. Come sempre sono curiosa di sentire le vostre opinioni!
Un bacio e alla prossima settimana.
Sara  
 

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** 7. Vento di ricordi ***


7. Vento di ricordi
 
POV Emma
«Che cosa c’è oltre questa porta?», domandai cercando di scrollarmi di dosso tutte le emozioni provate fino ad allora. Mi ero ripromessa che non sarei più stata debole e ciò comportava l’affrontare al meglio tutti i problemi futuri. «Perché non hai voluto dirmelo quando te l’ho chiesto prima?». Mi voltai verso Milah ed aspettai una sua risposta.
«Perché non lo so», ammise amaramente. «Nessuno di noi si è mai spinto così oltre».
«Cosa?», esclamai allibita. «Allora come sai che questa è la direzione giusta? Qualcuno ti avrà parlato di questo posto, almeno spero!».
«Beh sto andando a supposizioni», rispose sulla difensiva. «Al momento è l’unica cosa che abbiamo».
«Io direi di accantonare questi dilemmi esistenziali al momento», intervenne Robin. «Dobbiamo riprendere il cammino prima di attirare di nuovo l’attenzione»
«Tanto è inutile discutere», si intromise Charlie, «sapremo se stiamo andando nella giusta direzione solo una volta arrivati alla meta. Tanto vale mettersi in viaggio, potrebbe esserci parecchio da camminare».
Sia io che Milah sospirammo e senza più aggiungere nulla, seguimmo gli altri due attraverso quella gigantesca porta medievale. Al di là di essa scoprimmo esserci meno anime di quante avessimo immaginato. Dalla strada principale che proseguiva oltre la porta si diramavano di nuovo un’infinità di vicoli, ma la concentrazione di persone diminuiva via via che ci allontanavamo dalla piazza.
Questa volta camminammo tutti e quattro uniti, a poca distanza gli uni dagli altri: io e Robin dietro, e Milah e Charlie davanti. Io sapevo che non avrei più reagito nel modo spropositato di poco prima, ma evidentemente gli altri non volevano più correre alcun rischio. Tuttavia, formare quel gruppo compatto sarebbe servito a tenerci tutti d’occhio e ad impedire ad altre anime di avvicinarci.
«Stare qua», sussurrò all’improvviso Robin, puntando lo sguardo su di me, «sapendo chi hai lasciato a Storybrooke, ti fa impazzire alle volte».
«Già l’ho notato», ammisi amaramente.
«Non devi sorprenderti della tua reazione Emma», continuò. «Non vuol dire che tu sia debole».
«Lo so».
«È un po’ più facile se hai passato del tempo nell’Oltretomba», intervenne Charlie. «Solo un po’ però. È difficile per tutti».
«Ti ho detto», intervenne Milah, «che la tua anima non poteva andare persa, ma questo non toglie il fatto che tu non possa impazzire qua dentro. È umano».
«Già», sospirai non sapendo cos’altro aggiungere.
«Beh considerala così», disse Charlie, «ogni minuto che passa noi lottiamo per non essere annientati, tu devi fare altrettanto per mantenere la tua lucidità mentale».
«Tu la fai molto più facile di come sia realmente». Sorrisi e lo ringraziai mentalmente per aver tentato di alleggerire solo in parte l’atmosfera. Nel frattempo avevamo imboccato uno di quelle tante stradine e continuavamo a camminare, scansando le sempre più poche anime che tentavano di avvicinarsi.
«Cosa vi fa resistere?», domandai all’improvviso. «Voglio dire cosa vi da la forza di lottare, di non perdervi?».
«Beh credo che siano i ricordi», rispose Robin. «Il ricordo di Regina, di mio figlio, anzi dei miei figli. So che non potrò rivederli ma sto lottando per loro, perché, se un giorno riuscirò ad andare in un posto migliore, forse potrò ritrovarli quando anche loro arriveranno là. Ho davvero bisogno di credere che sarà così». Mi si spezzò il cuore sentendo le parole di Robin; il suo era stato un destino crudele, era ovvio che non si sarebbe arreso così facilmente.
«Per me non sono i ricordi», ribatté Milah. «Nel mio caso ciò che mi tiene ancorata alla realtà è la rabbia. Io sono terribilmente infuriata, sono furibonda».
«Con Tremotino?». Sarebbe stato più che comprensibile.
«Beh anche. Sono arrabbiata perché ero quasi arrivata al punto di svolta. Quello che mi avevi detto su Bealfire mi aveva fatto ritrovare un po’ di pace e sarei finalmente riuscita ad andare avanti. Invece sono stata così stupida da fidarmi nuovamente del mio ex-marito ed ora eccomi qui. Se c’è qualcosa che mi spinge a rimanere me stessa è la rabbia. Voglio uscire da questo posto e avere quello che mi spetta». Era strano vedere come due caratteri differenti reagissero diversamente di fronte alla stessa ingiustizia: Robin rimaneva attaccato ai ricordi e alla speranza, Milah si riempiva di rabbia. Avevo sempre pensato di essere più simile al carattere di Milah ed invece avevo scoperto, a mie e a loro spese, che reagivo in un modo ancora differente: piangevo.
«E tu Charlie?», domandai. «Cosa ti aiuta a mantenere la lucidità?».
«Avere qualcosa che appartenga al tuo passato aiuta», glissò la mia domanda. Cercai di studiare la sua espressione nonostante lui si trovasse davanti ed io dietro; aveva la mascella contratta e sembrava essersi irrigidito sentendosi chiamato in causa. Qualunque fosse la sua storia e la sua questione in sospeso era evidente che non ne volesse parlare.
«Charlie ha ragione», intervenne Robin, salvandolo così dalla mia curiosità. «Sei arrivata qua con i vestiti che avevi Storybrooke, non hai tenuto niente?».
«No». Non c’era niente che valesse la pena tenere.
«Non avevi niente di…». Milah non terminò la frase ma non ce n’era bisogno affinché io capissi.
«Quando siamo scesi nell’Oltretomba», continuò Robin, «avevi quell’anello, quello nella catena. Sembrava ti aiutasse...». Sapevo a cosa si riferiva: all’anello di Liam. Purtroppo da brava stupida, non l’avevo indossato quella sera. Era rimasto nella mia borsa: non me ne separavo mai e visto che mia madre aveva detto che non stava bene col vestito l’avevo riposto in un luogo dove l’avrei potuto comunque avere vicino. Solo che la mia borsa non mi aveva seguita nel mio viaggio.
«Non ce l’avevo al collo», risposi rattristandomi. Se l’avessi avuto avrei potuto sentire Killian più vicino, quello era ovvio. Le parole che mi aveva rivolto quando me l’aveva dato erano incise nella mia mente in maniera indelebile. Potevo sentirlo ancora nella mia testa, esattamente come se fosse stato allora.
“Stai calma Swan”, mi aveva detto, “non ti chiedo di sposarmi. Sai che sono un sopravvissuto, questo anello ne è la ragione; ce l’ho da molti anni, è il motivo per cui sono vivo o potrebbe esserlo, chi lo sa?”.
“Sai che non morirò oggi, sono immortale ora”.
“La Signora Oscura è immortale, Emma non lo è. Riportala da me e se non altro ti ricorderà che qui c’è un attraente pirata dallo sguardo penetrante che ti ama”.
Sbattei le palpebre cercando di sgombrare la mente da quel ricordo ed evitare così che nuove lacrime mi salissero agli occhi. Forse avere quell’anello con me sarebbe servito anche in quella situazione per indicarmi la strada per tornare da lui; o almeno per ricordarmi che lui era a Storybrooke e che avrebbe lottato per me fino all’ultimo respiro.
«Scusate», intervenne Charlie, cambiando prontamente argomento, «non vi sembra strana questa situazione?».
Gli fui di nuovo immensamente grata per quel cambio di scena e perciò colsi la palla al balzo. «In che senso strana?».
«Non c’è quasi più nessuno ed è tutto troppo tranquillo». In effetti se da una parte la presenza di centinaia di anime mi aveva messo i brividi, anche la totale assenza era un fatto altrettanto inquietante. Non avrebbe dovuto essere così facile.
«Già, l’ho notato anche io», rispose Milah, «e la cosa non mi piace affatto».
«Ormai è passato qualche minuto dall’ultima anima che abbiamo incontrato», ci fece notare Robin.
«Non è un buon segno», sussurrai, «sembra il silenzio prima della tempesta». Istintivamente ci stringemmo ancora di più, avvicinandoci gli uni agli altri. Ormai ci stavamo tutti sfiorando.
«Non è possibile che non ci sia più nessuno», continuò Robin, «anche alla periferia di questa strana città si incontrano comunque delle anime».
«E qua non siamo nemmeno così distanti dal centro», convenne Milah.
All’improvviso un vento gelido si sollevò dalle nostre spalle facendoci rabbrividire. I miei capelli cominciarono a svolazzare finendomi in bocca e scompigliandomi. Era come se senza nessun preavviso si fosse scatenato un tornado e ciò non faceva altro che peggiorare i nostri timori.
Senza commentare ulteriormente quell’assurda situazione proseguimmo imperterriti, prestando ancora più attenzione a ciò che ci circondava. Le strade che si erano poco prima restrinte si stavano di nuovo riallargando, lasciandoci ancora più perplessi. Ci aspettavamo un attacco da un momento all’altro. Eravamo pronti e in allerta, non sarebbe stato facile coglierci di sorpresa.
«Ma cosa diavolo c’è là?». Le parole di Charlie attirarono di nuovo la nostra attenzione. Si era fermato all’improvviso e si era portato una mano sopra gli occhi in modo tale da riuscire a vedere meglio in lontananza. All’inizio non scorsi nulla di così insolito rispetto a quello che già c’era, ma poi capii cosa aveva attratto la sua attenzione.
Di fronte a noi si scorgeva il proseguimento della città, ma non era quello a doverci preoccupare. Ad un centinaio di metri si poteva intravedere un immenso precipizio. Era come se la parte della città in cui stavamo tentando di andare fosse completamente staccata da quella in cui ci trovavamo. A separarle c’era un dirupo che a giudicare dalle dimensioni doveva essere incredibilmente profondo.
«Come diavolo è possibile una cosa del genere?», domandò Robin. «Tu lo sapevi?». Si voltò verso Milah, che a giudicare dall’espressione era sorpresa e spiazzata almeno quanto noi.
«Certo che no», rispose. «È come se ci fosse stato un enorme terremoto così potente da separare le due parti della città».
«Forse è per questo che qua non c’è nessuno», suggerii. Almeno un mistero era spiegato.
«Sì, ma come facciamo ad andare dall’altra parte?». Charlie aveva posto la domanda che nessuno aveva il coraggio di pronunciare.
«Lo so che non sai con precisione dove andiamo, ma sei sicura che dobbiamo proprio andare là?». C’era una possibilità che non dovessimo per forza superare un dirupo alto centinaia di metri?
«Purtroppo è così», sospirò Milah dopo alcuni secondi di riflessione. «Vedete laggiù? Mi sembra di scorgere i confini della città o sbaglio?». Aguzzai lo sguardo ed effettivamente dall’altra parte si scorgeva quella che doveva essere una foresta o qualcosa del genere, visto e considerato che comunque ci trovavamo in fondo a quello che doveva essere un fiume, anche se di anime perse.
«Sì, li vedo anch’io», confermò Charlie.
«Secondo la leggenda, la donna che stiamo cercando ha abbandonato la città per vivere al di fuori di essa. Mi dispiace dirlo ma è là che dobbiamo andare e per questo abbiamo un problema». Milah sospirò, ma non parve scoraggiata. Probabilmente era preparata a qualsiasi inconveniente.
«Proviamo ad avvicinarci», propose Robin, «magari da più vicino riusciremo a scorgere una qualche soluzione». Annuimmo e senza più indugiare ricominciammo a camminare.
Facemmo giusto due e tre passi prima che il vento aumentasse improvvisamente. Prima era abbastanza forte da scompigliarmi i capelli, la folata che invece ci colpì alle spalle fu in grado di alzarci di peso e di trascinarci dritti dritti verso il dirupo.
«Maledizione», gridai crollando al suolo e continuando ad essere trascinata per terra verso lo strapiombo. Era come se una forza invisibile stesse cercando di risucchiarci attirandoci nel precipizio senza nessuna possibilità di scampo.
Il mio primo istinto fu di usare la magia per oppormi a quella potente ondata di energia; subito dopo però mi ricordai di esserne momentaneamente sprovvista. Mi rigirai e tentai di artigliarmi, affondando le unghie nel terreno e cercando così di rallentare la mia corsa verso il dirupo. Vidi che anche gli altri avevano fatto altrettanto, cercando in qualche modo di non essere risucchiati da quella forza invisibile.
Il vento continuava a soffiare imperterrito con la stessa violenza e sembrava non avesse alcuna intenzione di placarsi. Era come se avessimo superato una sorta di confine, al di là del quale ogni cosa veniva inghiottita.
«Tenetevi, non lasciate ciò a cui vi state aggrappando per nessun motivo». La voce di Milah mi arrivò all’orecchio. Non c’era bisogno che me lo dicesse, ma alle sue parole affondai ancora di più le unghie nella terra riuscendo in qualche modo ad arrestare il mio movimento. Scorsi Robin alla mia destra che si era ancorato con una freccia al terreno e continuava a reggersi a quella. Dove diavolo aveva trovato una freccia?
Non feci a tempo a formulare quella domanda che la voce di Charlie mi fece voltare subito dall’altra parte. «Merda! Merda!».
Cercai di scorgerlo alla mia sinistra ma individuai soltanto Milah, nella mia stessa identica situazione. Mi voltai indietro verso il dirupo e quel che vidi mi fece istintivamente scattare. Charlie era quasi sull’orlo del precipizio e stava tentando in tutti i modi di aggrapparsi al terreno ma con scarsi risultati. Aveva di nuovo lo zaino in spalla e ciò conferiva un ulteriore ostacolo, visto che aumentava la superficie a disposizione del vento per poterlo trainare giù. Vederlo là in pericolo fece rinascere in me l’istinto della Salvatrice: sapevo esattamente cosa dovevo fare. Era una mossa avventata ma non avevo altra scelta se volevo salvarlo.
Allentai la presa che avevo sul terreno e lasciai che il vento mi rigirasse e mi trasportasse sul margine del baratro. Charlie stava tentando di attaccarsi alla parete del precipizio, ma ormai era quasi completamente sospeso nel vuoto.
«Afferra la mia mano», gridai ad un metro da lui. Riuscii a trovare un punto dove potermi tenere e allo stesso tempo allungare una mano verso di lui. Charlie mi guardò con occhi pieni di panico, sorpreso di trovarmi là e allo stesso tempo grato di non essere più solo. Gli ci volle semplicemente un istante per decidere di afferrare le mie dita proprio come gli avevo ordinato.
Se fossi stata una persona più prudente forse avrei considerato la possibilità che in quel modo non sarebbe caduto solo lui, ma entrambi. E se da una parte io ero ancora viva, probabilmente non lo sarei più stata dopo un volo di centinaia di metri. Charlie era completamente sospeso nel baratro e il vento stava tentando di spingere giù anche me. Ancorarmi con una mano e con i piedi non sembrava essere abbastanza e probabilmente presto non sarei più stata in grado di reggerlo, visto che sarei stata io nella sua stessa posizione.
«Lasciami andare». Charlie mi fissò negli occhi, ma se da una parte le sue parole mi chiedevano una cosa, dall’altra il suo sguardo mi diceva tutt’altro. Non voleva che lo lasciassi, e anche se me l’aveva chiesto a parole, mi implorava con lo sguardo di non dargli ascolto.
«No! Togliti lo zaino svelto». Lo zaino era soltanto un peso in più che non faceva altro che affaticarmi ulteriormente.
«Cosa…?», tentò di protestare.
«Sbrigati e fai come ti dico». Non c’era tempo da perdere, visto che stavo lottando con tutte le mie forze contro quel tifone infernale. Doveva obbedirmi senza protestare.
«Va bene». Si tolse lo zaino dal braccio che aveva libero e nel farlo oscillò pericolosamente, risultando ancora più pesante di quanto già non fosse. Subito dopo afferrò la mia mano con l’altro braccio e lasciò che lo zaino gli scivolasse giù dalla spalla.
L’istante dopo accaddero più cose contemporaneamente o comunque in rapida successione: lo zaino precipitò nel baratro, di cui mi accorsi solo in quell’istante non riuscivo a scorgere la fine; la mano di Charlie scivolò sulla mia visto che, avendo cambiato braccio, la presa non era più salda e le mie dita erano diventate sudate e scivolose. E poi il vento cessò inaspettatamente; così come era arrivato sparì di colpo, facendo sì che potessi smettere di lottare almeno contro di quello.
Fu quando mi rilassai per quell’improvviso cambiamento che le dita di Charlie scivolarono del tutto dalle mie, mollando completamente la presa.
«No! No!». Chiusi istintivamente gli occhi ma li riaprii subito, giusto in tempo per scorgere Robin accanto a me che aveva afferrato Charlie proprio per un soffio, impendendo così quella che sembrava una fine inevitabile.
Sospirai sollevata e aiutai Robin a riportarlo con i piedi per terra. Una volta che lui fu di nuovo sulla terra ferma, indietreggiai di qualche metro e mi accasciai al suolo completamente sfinita. Avevo usato tutte le forze che possedevo e per fortuna ne era valsa la pena.
«Grazie Emma». La voce di Charlie mi costrinse a riaprire gli occhi che avevo momentaneamente chiuso. Mi stava fissando con uno sguardo pieno di gratitudine. «Mi hai salvato».
«Non c’è di che», risposi ansimando. «Adesso siamo pari».
«Beh non credo, quello che hai fatto è stato…». Lasciò la frase in sospeso non sapendo come continuare.
«Enormemente stupido», finì Milah per lui, «ma grazie per averlo fatto». Voltai leggermente la testa per poterla osservare; anche lei mi stava guardando e anche i suoi occhi erano pieni di gratitudine. Non mi ci volle molto per capirne il perché: quelle persone non erano per lei semplicemente degli amici, erano diventati la sua famiglia. Ed in quel momento io avevo appena salvato un membro della sua famiglia.
«Scusate», intervenne Robin, «non vorrei mettervi fretta, ma direi che stare qua non è sicuro. Dobbiamo trovare il modo per attraversare questo precipizio prima che quel vento ricominci e ci spedisca tutti chissà dove in fondo al baratro». Aveva perfettamente ragione: non avevamo tempo da perdere e dovevamo arrivare dall’altra parte prima che qualsiasi altro pericolo avesse potuto mettere a repentaglio la nostra missione.
 
POV Killian
Erano passate esattamente trenta ore e cinquantasei minuti dall’ultima volta che avevo visto la piccola Emma. Trenta ore e cinquantasei minuti in cui ero riuscito a convincere August ad aiutarmi ed in cui avevamo iniziato le nostre ricerche, senza però ottenere alcun risultato. Non era mia intenzione contare il tempo in cui restavamo lontani – era assurdo visto che non era nemmeno la mia Emma – eppure era successo e in quel momento sapevo che erano passate esattamente trenta ore e cinquantasei minuti da quando avevo scelto di andarmene e di percorrere la strada che ritenevo più facile.
Potevo concentrarmi sul tempo che scorreva e che aumentava la nostra lontananza, oppure sul fatto che un giorno di ricerche non ci aveva praticamente portato a niente. Non che riponessi molta fiducia nei libri, non quanto Henry ed August, ma avevo sperato che almeno ci aprissero la strada verso qualche nuova possibile idea. Invece non avevamo niente: eravamo esattamente al punto di partenza, senza la minima idea di cosa fare. Era peggio che andare alla cieca perché non sapevamo nemmeno da che parte andare.
Chiusi un libro rumorosamente e sospirai; ciò non servì a deconcentrare i miei due alleati. Erano così presi nella lettura che avevano completamente dimenticato il mondo circostante. Erano certi che prima o poi la risposta sarebbe saltata fuori; io non ne ero altrettanto convinto, o almeno non pensavo che un libro avrebbe potuto aiutarci. Tuttavia che altre opzioni ci restavano?
Sentii il mio parlofono vibrare sul tavolo, dove l’avevo appoggiato poco prima, e osservai il nome sullo schermo: Mary Margaret. Lasciai che continuasse a vibrare senza nessuna intenzione di rispondere; la coppia Azzurra aveva provato più volte a contattarmi ma con scarsi risultati.
«Potresti almeno silenziare la chiamata». La voce di Regina mi fece voltare la testa verso di lei. Ah giusto: anche lei si era unita alla nostra allegra brigata di topi di biblioteca.
«Non potrai evitarli per sempre». E dove c’erano libri era ovvio che ci fosse anche Belle.
«Non sto evitando proprio nessuno», risposi posando il libro che avevo appena chiuso insieme ad altri già visionati, e anch’essi del tutto inutili. «Sono impegnato al momento».
«Saresti più produttivo come bambinaia che qui con noi», ribatté Regina. Feci una smorfia, perché quello era proprio il motivo per cui evitavo tutte le loro chiamate.
«Non credo che starle lontano ti aiuterà in qualche modo», intervenne Belle.
«Averla vicino non mi aiuterà di certo, e non farà bene neanche a lei. Per il momento lascio che il principino e la sua consorte abbiano la loro famigliola felice».
«Oh andiamo Hook!». Il tono di Regina era stato duro. «Non è questa la famiglia che vogliono, dovresti toglierti quell’espressione imbronciata dalla faccia e dovresti smetterla di pensare che loro due siano schierati contro di te. Tutti vogliamo la stessa cosa e la vogliamo tutti nella stessa identica maniera».
Non risposi e presi un altro libro dal mucchio, iniziandolo a sfogliare distrattamente. Regina aveva ragione, ma non volevo darle la soddisfazione di ammetterlo.
Lessi alcune pagine del tutto inutili e cercai in tutti i modi di concentrarmi; tuttavia la mia mente tornava ad Emma. Perché se erano passate trentuno ore da quando avevo lasciato la piccola, ormai erano più di quarantatre ore che non abbracciavo o anche solo vedevo la mia vera Emma. Mi sentivo svuotato e mi mancava da morire; avevo l’impressione che lei non fosse semplicemente ringiovanita, ma che fosse sparita del tutto. Era come se lei non si trovasse più a Storybrooke, anche se in realtà la baby Emma rimaneva comunque qua con noi. Era una sensazione contrastante e sconcertante, che non sapevo né volevo spiegare.
Il mio telefono vibrò di nuovo: questa volta apparve il nome di David sullo schermo. Lo ignorai come sempre e continuai a sfogliare le pagine.
«Bene, allora funziona». La sua voce alle mie spalle mi fece sobbalzare. «Credevo che Emma ti avesse spiegato a cosa serve un cellulare: quando ti chiamano dovresti rispondere».
Mi voltai verso di lui, assumendo un’aria sprezzante. «Cosa diavolo vuoi David?».
«Non sarei qui se non fosse del tutto necessario», mi rispose in un tono altrettanto duro. «Per quanto mi costi ammetterlo, io e Mary Margaret abbiamo bisogno di te. Emma ha bisogno di te».
Stavo per ribattere che quella non era effettivamente la mia Emma, ma mi trattenni. Mi voltai di nuovo e ricominciai a sfogliare il libro che avevo davanti. «Sono impegnato al momento».
«Oh andiamo smettila di fare lo stupido». David mi si avvicinò in modo da poter di nuovo guardarmi in faccia.
«Non sto facendo lo stupido, sto cercando un modo per salvare Emma».
David chiuse il libro che avevo davanti agli occhi con un tonfo. «Pensavo che mia figlia valesse di più per te!».
Sentendo quelle parole mi alzai di scatto. «Non ti azzardare a mettere in dubbio quanto Emma sia importante per me». Lo afferrai per il bavero della giacca facendolo indietreggiare.
«Calmatevi tutti e due». Regina si alzò e con uno sguardo autoritario ci costrinse a dividerci.
«Ti cerca», sussurrò David tra i denti. «Mio malgrado ti cerca, continua a ripetere il tuo nome. È irrequieta, non dorme, non vuole mangiare e tutto ciò che continua a pronunciare è solo il tuo nome. Perciò o vieni con me con le buone o ci vieni con le cattive, perché in questo momento sto solo facendo il bene di mia figlia. E non me ne frega niente se per te è un problema stare con lei adesso, perché lei ora ha assoluto bisogno di vederti».
Lasciai ricadere le braccia lungo i fianchi completamente annientato dalle sue parole. Il fatto che Emma mi cercasse riaccese una piccola speranza in fondo al mio cuore. Il suo bisogno di me era confortante, ma allo stesso tempo era spaventoso. Tuttavia dopo ciò che aveva detto David non potevo più restare indifferente, non potevo più restarle lontano: era troppo difficile sia per lei che per me.
Senza dire una parola afferrai il cellulare sul tavolo e prendendo la giacca che avevo attaccato alla sedia mi diressi verso l’uscita della biblioteca. David mi seguì altrettanto silenziosamente, mentre tutti gli altri tornarono a concentrarsi sui libri, probabilmente pensando che non ero una grande perdita per la loro squadra.
Attraversammo le vie di Storybrooke silenziosamente e arrivammo al loft senza dire neanche una parola. David aprì la porta e mi fece entrare; Mary Margaret era seduta con la piccola sulle gambe, lo sguardo rivolto verso la scatola magica. Sapevo esattamente cosa stavano guardando e ricordavo con altrettanta esattezza la prima volta che l’avevo visto con Emma, seduti su quello stesso divano, di fronte alla stessa scatola.
 
Emma si accomodò accanto a me, appoggiando sul tavolino di fronte a noi un’enorme ciotola di quello che aveva chiamato pop-corn. Istintivamente portai un braccio sulle sue spalle, avvicinandola di più al mio petto. Se dovevamo guardare quello strano aggeggio, nonostante fossimo miracolosamente soli, era meglio sfruttare tutti i vantaggi che potevo trarne.
«Voglio che tu sia preparato», mi disse Emma, prendendo la bacchetta magica di quell’arnese.
«Beh non credo che ci sia molto da prepararsi stiamo per guardare la tele…comesichiama».
«Televisione», mi corresse. «Comunque è un cartone animato e devi capire che non è proprio come potresti aspettarti».
«Oh andiamo Swan, me l’hai già detto. Si intitola “Le avventure di Peter Pan” no? Posso immaginare che non sia proprio come me l’aspetti».
«D’accordo», acconsentì, «volevo solo che capissi che prima di incontrarti, anch’io credevo che questa fosse la vera storia. Una volta vista la versione effettiva però ho scoperto che la realtà mi piace molto di più». Si avvicinò per darmi un bacio, ma quando si allontanò non glielo permisi.
«Sei sicura di voler vedere questa cosa?», le suggerii sfiorandole le labbra con le mie e portandole una ciocca di capelli dietro l’orecchio. «Siamo soli adesso».
«Non correre Capitano». Mi baciò di nuovo per poi accucciarsi nuovamente al mio fianco. Sospirai e mi preparai a fare ciò che voleva lei. Scoprii fin da subito cosa intendesse dire con cartone animato e che la storia era proprio del tutto sbagliata. Peter Pan buono? Ma quando mai! Davvero in quel mondo credevano ad una cosa del genere?
Erano passati giusto cinque minuti quando percepii lo sguardo di Emma addosso. Mi voltai verso di lei e come avevo immaginato mi stava squadrando con i suoi meravigliosi occhi verdi.
«Non dovevamo guardare la scatola magica? So di essere irresistibile, ma perché mi stai fissando quando sei stata tu ad insistere per fare questa cosa?». Con la mano indicai noi due e l’aggeggio di fronte a noi.
«Beh ad essere sincera voglio solo vedere la tua reazione». Mi sorrise e mi accarezzò i capelli con la mano.
«Come diavolo dovrei reagire? È solo una finzione». Non capivo che razza di comportamento si aspettasse da me. In fondo quello che stavamo guardando non era niente di trascendentale: una storia del tutto inventata con personaggi reali, me compreso. In effetti, l’unica cosa che mi incuriosiva era vedere come mi avessero ben rappresentato.
«Aspetta e vedrai». Si morse il labbro e mi rivolse un altro meraviglioso sorriso. Lasciai perdere e tornai a guardare il cartone giusto in tempo per cogliere l’entrata in scena del mio personaggio. Quando finalmente Capitan Uncino comparve sullo schermo la mia espressione cambio di colpo. Mi sporsi in avanti e sbattei le palpebre cercando di assimilare ciò che stavo vedendo. Come diavolo avevano potuto immaginare che io fossi in quella maniera?
«Stai scherzando?». Mi voltai verso Emma con un’espressione sconcertata dipinta sul viso. Ero sia incredulo, sia in parte offeso e completamente disorientato. Certo adesso le parole di Emma avevano un senso.
«Te l’avevo detto di aspettare», rispose semplicemente.
«Come diavolo vi è venuto in mente? Dio come… è una cosa…». Ero così allibito che non riuscivo a trovare le parole per esprimermi.
«Sì lo so, questo mondo non ti ha reso giustizia».
«Non mi ha reso giustizia? Ma l’hai visto Swan?». Non riuscivo ad elaborare la cosa anche perché un conto era sbagliarsi sulla cattiveria di Peter Pan, un altro era dipingere un grande capitano come me in un modo così ridicolo. Se quella era la versione ufficiale di quel mondo, voleva dire che tutti là pensavano a Capitan Uncino come un vecchio decrepito e con uno stile decisamente opinabile.
«Aspetta un attimo». Un idea si fece largo nella mia mente lasciandomi ancora più sconcertato. «Tu prima di incontrarmi credevi che fossi così?». Indicai lo schermo con l’uncino e poi la fissai allibito.
«Beh sì, essendo cresciuta in questo mondo non conoscevo nessun’altra versione». Feci per ribattere ma le parole mi morirono sulle labbra. Strinsi le braccia al petto e assunsi un’espressione imbronciata; adesso che avevo scoperto la verità sicuramente non volevo più guardare quell’obbrobrio. Non sapevo neanche perché Emma avesse voluto mostrarmelo: cosa diavolo voleva dirmi?
«Killian», mi chiamò ridestandomi dal mio mutismo. Mi prese il viso tra le mani e mi fece incontrare il suo sguardo. «La stai prendendo un po’ troppo sul personale». Non dissi nulla e lasciai che la mia espressione parlasse da sé.
«Beh quando ti ho proposto di vedere questo cartone», continuò, «non avevo intenzione di offenderti o di farti arrabbiare. Questo non ha niente a che fare con te; l’hai detto tu prima, è solo una finzione. Sì è vero, io credevo che Capitan Uncino fosse un vecchio riccioluto e con i baffi e quando, nella Foresta Incantata, mi hai rivelato la tua identità ne sono rimasta sorpresa; piacevolmente sorpresa».
«Sì lo so ma…», feci per protestare, ma lei mi fermò posandomi un dito sulle labbra.
«Shh, fammi finire. Quello che voglio dire è che non conta come questo mondo ti rappresenta, ma come sei realmente. E a me piace tanto il vero Capitan Uncino». Sentendo le sue parole un sorriso mi si disegno sulle labbra e il mio cuore iniziò ad accelerare, cancellando qualsiasi altra sensazione. Era talmente raro sentirla parlare così che quando succedeva potevo benissimo scordarmi di tutto.
«Credo che ti bacerò adesso», le rivelai avvicinando il mio viso al suo. Le nostre labbra aderirono perfettamente, dando vita ad un bacio dolce ma pieno di passione. Lentamente mi portai sopra di lei facendola distendere sul divano, mentre con la mano iniziai ad esplorare ogni centimetro del suo corpo.
«D’accordo», sospirò quando la mia bocca si spostò sulla sua guancia e poi sul suo collo, lasciando una scia di baci. «Credo che potremo anche passare così il resto della serata». Ridacchiai e ripresi da dove ero rimasto.
 
«Questo è stato l’unico modo per tenerla buona», mi sussurrò David in un orecchio ridestandomi dai miei pensieri. Proprio nello stesso istante Mary Margaret si voltò per osservarci, in modo tale che anche la piccola potesse vederci. La reazione della baby Emma fu spropositata: appena si accorse della mia presenza i suoi occhi si spalancarono, iniziò a balbettare il mio nome e a tendere le braccia verso di me come se fossero passati dei secoli da quando l’avevo lasciata.
Sospirai e senza più esitare mi avvicinai a Biancaneve per poterla prendere in braccio. Lei si slanciò talmente tanto da rischiare di cadere, ma per fortuna la ripresi all’ultimo istante. Quando la strinsi al mio petto afferrò con il suo piccolo pugno la mia camicia e scoppiò a piangere. Tuttavia non era un pianto disperato, era di felicità come se il rivedermi, il solo fatto di essere lì, riuscisse a farla stare bene e a liberarla da tutta la sofferenza.
«Shh calma Swan, mi sei mancata anche tu». Le accarezzai la testa, cullandola tra le mie braccia, aspettando che si calmasse.
«Kill…», mormorò contro la mia spalla. «Esta co me». Sbattei le palpebre non aspettandomi che fosse in grado di pronunciare intere frasi e soprattutto quel tipo di frasi, come se sapesse effettivamente ciò che eravamo.
«Parlotta da quando Gold l’ha trasformata», mi spiegò Mary Margaret, notando il mio sguardo sorpreso.
«Lo sapresti se non te ne fossi andato senza voltarti l’altro giorno». David mi lanciò una frecciatina ma ci pensò sua moglie a tirargli una gomitata da parte mia.
«Diciamo», continuò lei, «che quelle che hai sentito tu l’altro giorno non erano le sue prime parole, lo erano solo per noi».
«Mi dispiace per essermene andato», mi ritrovai a sussurrare sorprendendo anche me stesso. Emma non disse più nulla ma adagiò la testa sulla mia spalla, assecondando il mio movimento.
«Guarda se riesci a farla mangiare», mi disse aspramente David. Capivo il perché fosse geloso, era ovvio: era lui suo padre ma era come se alla piccola Emma non importasse. Le importava solo di me e questo mi scaldava il cuore. Perché chi volevo prendere in giro? Che fosse o non fosse la mia Emma mi sarebbe sempre importato di lei, sempre e comunque. Non potevo allontanarmene senza distruggere me ed evidentemente distruggere anche lei.
Lasciai che David si sfogasse con me, anche solo a parole, e seguii Mary Margaret in cucina per dare da mangiare alla piccola. Fu un impresa più facile del previsto: seduta sul suo seggiolone Emma non aspettava altro che essere imboccata da me. Ero una bambinaia più brava di molti altri genitori. In un certo senso potevo considerarla una sorta di prova generale per quando fossimo stati io ed Emma a diventare dei veri e propri genitori. Ero stato così impaurito da quella eventualità, ma adesso non avevo più nessun timore. Perché se una cosa era certa era che avrei riavuto Emma e noi due ci saremo sposati e avremo formato la nostra famiglia. Non mi sarei arreso finché non ci fossimo riusciti.
Fu verso sera, dopo aver passato un po’ di tempo a giocherellare con la bambina, che la porta del loft si spalancò di colpo e sulla soglia comparvero Henry, Regina, August e Belle.
«Che succede?», chiedemmo contemporaneamente David, Mary Margaret ed io.
«Abbiamo scoperto qualcosa», annunciò Henry. Normalmente avrei gioito ad una notizia del genere, ma le loro espressioni spensero ogni tipo di entusiasmo. Di qualunque cosa si trattasse non lasciava presagire niente di buono.


 
Angolo dell’autrice:
Buona domenica a tutti!
Non posso ancora credere che stasera/domani tornerà OUAT. Non vedo l’ora! Tuttavia per il momento dovrete accontentarvi di un mio capitolo.
Come da voi richiesto, ho aggiunto una serie di momenti fluff Capitain Swan. Perché è vero che per il momento sono divisi, ma mi mancano molto quei teneri istanti dei nostri due protagonisti. Spero che siate d’accordo con me.
Quindi da una parte il viaggio si sta rivelando pieno d’insidie, dall’altra Hook è tornato dalla baby Emma, ma le notizie che arrivano dal fronte di ricerca non sembrano essere delle più rosee.
Vi ringrazio come sempre. Grazie ai lettori, ai recensori, a tutti!
Un bacione e alla prossima settimana.
Sara

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** 8. Amare verità ***


8. Amare verità
 
POV Emma
Guardai il baratro davanti a me cercando di capire come diavolo saremo arrivati dall’altra parte. Non avevamo tempo da perdere, ogni secondo era fatale, ma per risolvere quel dilemma ci sarebbero voluti più di cinque minuti.
Se avessi avuto ancora la magia non ci sarebbe stato nessun problema. Tuttavia ne ero ancora sprovvista e probabilmente lo sarei stata fino al mio ritorno a Storybrooke. Evidentemente quel mondo e la mia magia non andavano molto d’accordo.
Tentati di focalizzarla per un’ultima volta sulla mia mano, ma non accadde proprio niente, come mi ero immaginata. L’opzione magia era ufficialmente scartata. Quali altre alternative ci restavano?
«Emma non potresti usare…». Robin era arrivato alla mia stessa conclusione: solo qualcosa di sovrannaturale ci avrebbe fatto superare quel baratro.
«Non ce l’ho», lo interruppi prima che finisse. «Non ho più la mia magia da quando sono qui». La sua espressione si incupì, così come quella degli altri.
«Forse potremo scendere e poi risalire», suggerì Milah.
«Sarà alto centinaia di metri», rispose Charlie, «te lo dico per esperienza. Potrebbe anche non finire più per quello che ne sappiamo».
«Non possiamo continuare a restare qua», mormorò Robin andando avanti ed indietro. «Il vento si è placato, ma ho come l’impressione che potrebbe riprendere in ogni momento».
«L’unica soluzione è proseguire da un lato», conclusi, «e vedere se in un punto la voragine diminuisce. Basta che i due lembi di terra si avvicinino quel tanto da farci passare o che ci sia un ponte o qualcosa del genere».
«Già credo che sia la soluzione migliore», convenne Milah. Anche gli altri annuirono e senza più esitare ci rimettemmo tutti in marcia. Decidemmo di allontanarci il più possibile dall’orlo del precipizio, pur mantenendo una visione ottimale. Avevamo il cinquanta per cento di probabilità di scegliere il lato giusto e di arrivare così alla nostra possibilità di attraversare e il cinquanta per cento di sbagliare. Era solo una questione di fortuna.
Scegliemmo di dirigerci verso destra, verso la zona in cui dall’altra parte scorgevamo quella specie di foresta. Camminammo silenziosamente, nessuno aveva più voglia di parlare dopo ciò che era appena successo. Io d’altro canto ero sfinita: avevo impiegato tutte le mie energie nel salvare Charlie e, sebbene non mi lamentassi, presto avrei avuto bisogno di una pausa. Tentavo di fare la dura, ma fermarmi un attimo a riprendere l’energie sprecate sarebbe stato davvero meraviglioso.
All’improvviso, mentre cercavo di farmi forza mentalmente per evitare di ritardare gli altri, una mano strinse forte la mia. Alzai la testa e mi trovai Charlie intento a studiarmi con aria preoccupata. I suoi occhi erano così neri e così intensi che mi ritrovai involontariamente ad annaspare alla ricerca d’aria. Il mio cuore accelerò e mi odiai per il fatto che il mio corpo avesse reagito così. D’altronde non era una cosa che avrei potuto controllare.
Sciolsi la mia mano dalla sua e distolsi lo sguardo senza dire una parola. Anche se non potevo controllare le reazioni del mio corpo, potevo mettere un limite ai suoi gesti e a quello che era o non era consentito fare. Tenersi per mano, come una coppietta in amore, non rientrava assolutamente tra i gesti permessi.
Tuttavia Charlie non si arrese e non appena le mie dita ebbero lasciato le sue, lui ne approfittò per riprenderle, lanciandomi uno sguardo deciso e risoluto.
«No», protestai, sciogliendo nuovamente la presa.
«Smettila di fare la cocciuta». La sua mano strinse di nuovo la mia, in una presa decisamente più forte e dalla quale non potevo liberarmi.
«So che sei sfinita», aggiunse in un tono di voce che potevo sentire soltanto io. «Lascia che sia io a trainarti per un po’. In fondo è per me che hai sprecato tutte le tue forze».
«Non posso tenerti per mano», sussurrai. Non c’era bisogno che gli spiegassi il motivo.
«Lo so, ma fammelo fare per stavolta. Non è niente in fondo, è solo un gesto come un altro». Non protestai, anche perché sapevo che non si sarebbe arreso. Tuttavia non ero d’accordo con ciò che aveva detto: non era solo un gesto come un altro; tra me e Killian non lo era mai stato. Era sempre stato un modo per sentirlo vicino, per infonderci coraggio a vicenda, per ricordarci che non eravamo più soli, ma che finalmente eravamo insieme. Ed era molto di più: per Killian, che aveva una sola mano, concedermi la possibilità di stringerla era come concedermi tutto sé stesso. Senza la sua mano a disposizione, avvinghiata alle mie dita, non gli restava che un uncino con il quale affrontare il mondo circostante. Ci sono un’infinità di gesti che una persona può compiere, anche senza accorgersene, con una sola mano e lui se ne privava solo per stringere forte la mia. Era un gesto semplice, ma significava tutto per noi. Tenere Charlie per mano era sbagliato, l’avevo capito la prima volta che l’aveva fatto e lo capivo meglio ora che mi ero costretta a pensare a Killian. Era sbagliato però non riuscivo ad oppormi; ero davvero molto stanca ed essere in qualche modo tirata avanti era un vero sollievo.
Camminammo ancora un po’ prima che Robin si fermasse di colpo davanti a noi. «Lo vedete anche voi?», sussurrò allibito. Di fronte a noi, ad un centinaio di metri, si trovava un ponte pericolante che collegava i due lati del dirupo. Sembrava troppo bello per essere vero.
«Sì», sussurrai senza accorgermene.
«Non sembra molto stabile», commentò Charlie.
«Potrebbe essere un’altra trappola», aggiunse Milah. «Sarebbe troppo facile».
«Già, ma non credo che ci restino molte alternative, se vogliamo passare dall’altra parte». Sfortunatamente non avevamo opzioni: o rischiavamo la vita passando da quel ponte o probabilmente avremo rischiato di non passare.
«Purtroppo Emma ha ragione, dobbiamo tentare». Senza aspettare ulteriormente, Robin incominciò ad avvicinarsi verso di esso; questa volta facemmo più attenzione e proseguimmo lentamente, aspettandoci una trappola da un momento all’altro. Il vento poteva ricominciare, così come poteva farsi vivo quando eravamo nel bel mezzo del burrone.
Per fortuna riuscimmo ad arrivare ad un lato del ponte senza che accadesse nulla di improvviso e imprevisto. Purtroppo a vederlo da vicino sembrava ancora più instabile di come ci era sembrato: poteva reggerci o sfasciarsi benissimo sotto il nostro peso.
«Provo io», si offrì Milah.
«No, forse non è una buona idea». Robin sembrava titubante e sicuramente ne aveva tutti i motivi.
«No, dobbiamo provare», ribatté lei zittendolo. «Andremo uno alla volta, non salite finché non sarò arrivata dall’altra parte». Senza aspettare oltre mosse un primo passo su quelle assi di legno che sotto il suo peso iniziarono a cigolare. Dopo un primo passo ne mosse un secondo: fortunatamente oltre ai cigolii il ponte sembrava non dare altri segni di cedimento.
Milah cominciò lentamente ad attraversare e ben presto si trovo a metà del ponte e dopo un tempo infinitamente lungo arrivò dall’altra parte. Avevo trattenuto il fiato per tutto il suo percorso e sospirai rumorosamente quando atterrò sana e salva sulla terra ferma.
«Vado io», suggerì Robin. Anche sotto il suo peso il ponte cigolò ma sembro resistere bene. Forse avevamo sottovalutato le potenzialità di quel passaggio.
Robin era quasi a metà quando percepii una sorta di sibilo alle nostre spalle. Mi voltai ma non scorsi niente; ciò nonostante quel rumore, all’inizio appena percettibile, sembrava lentamente aumentare. Quando capii di cosa si trattasse mi si accapponò la pelle.
«Vai, vai, vai!». Spinsi Charlie sul ponte anche se Robin non era ancora arrivato; tuttavia ne ero certa: il vento stava per ricominciare e, se non ci davamo una mossa, non avremo più avuto la possibilità di attraversare.
«Corri Charlie! Maledizione corri». Non protestò oltre e iniziò a correre lungo il ponte mentre io lo seguivo a ruota. Purtroppo i nostri passi affrettati fecero oscillare pericolosamente quella già pericolante passerella, compromettendo ulteriormente la nostra stabilità. Tuttavia dopo un secondo, una potente raffica di vento sferzò l’aria proprio come avevo previsto. Lo stesso tornado che ci aveva investito poco prima si abbatté su di noi facendo tremare i vari ormeggi.
Mi voltai un secondo giusto per vedere il ponte alle mie spalle crollare inesorabilmente, rimanendo così attaccato solo dal lato verso il quale ci stavamo dirigendo.
«Corr!i». Spinsi Charlie per indurlo ad affrettarsi ancora di più. Avevamo già superato tre quarti del percorso, ma non saremmo mai arrivati in tempo dall’altra parte. Infatti quando sentii le assi di legno cedere sotto i miei piedi non potei fare altro che reggermi al tirante di corda che rimaneva fissato alla rupe sopra di noi. Sbattei contro la parete rocciosa e chiusi istintivamente gli occhi sentendomi penzolare nel vuoto.
«Resisti Emma», la voce di Charlie era molto vicina a me. Riuscii a riaprire gli occhi e a scorgerlo al mio fianco un metro più su rispetto a dove mi trovavo io.
«Grazie a Dio state bene». La voce di Robin arrivò da sopra le nostre teste. «Resistete che vi tiriamo su».
«Prima pensa a Emma», ordinò Charlie. «È stanca e non resisterà a lungo». In una situazione normale mi sarei offesa per quella considerazione: mi stava forse dando della debole? Ma in quel momento era la pura verità; per quel giorno avevo sprecato fin troppe forze. Ero davvero al limite.
Sentii che la corda a cui ero aggrappata veniva lentamente tirata su e ben presto mi ritrovai di nuovo con i piedi per terra. Milah e Robin mi fecero risalire completamente e poi andarono ad occuparsi di Charlie, mentre io cercavo di regolarizzare il mio respiro e il battito del mio cuore.
«Direi che per oggi sono stato un po’ troppe volte sospeso nel vuoto», scherzò Charlie quando anche lui fu in salvo.
Sorrisi e mi rialzai in piedi, osservando il dirupo di fronte a noi. «Adesso non abbiamo più un ponte, sarà un problema quando dovremo tornare indietro».
«Beh inutile preoccuparcene adesso», sospirò Milah. «Ci penseremo quando sarà il momento».
«Credo che dovremo fermarci a riposare», disse Charlie, ed il suo non era un semplice suggerimento. «Farà bene a tutti».
«Sì», convenne Milah. «Solo allontaniamoci da questo posto. Non lo voglio più vedere per un po’».
 
Poco tempo dopo ci accampammo in un luogo abbastanza appartato e in apparenza anche abbastanza sicuro. Decidemmo di fare dei turni di guardia, in modo tale da riuscire a riposare un po’ tutti. A me fu concesso l’ultimo in modo che potessi riposare al meglio; in realtà fu Charlie a pretenderlo per me senza che nessun altro potesse protestare, nemmeno io stessa.
Nonostante fossi sfinita non riuscii ad addormentarmi subito: ancora una volta mi mancava Killian accanto e risentivo tremendamente della distanza che ci separava. Tuttavia anche quando mi fui addormentata, il mio sonno fu agitato e per niente riposante. Sognai Killian e l’impossibilità di raggiungerlo e alla fine mi svegliai di soprassalto.
Anche se con molta probabilità avevo dormito poco, non volevo più riaddormentarmi per il momento, soprattutto se avevo incubi che facevano aumentare la mia paura di non vederlo mai più. Preferivo restare sveglia piuttosto che fare sogni del genere.
Mi alzai lentamente e notai Charlie seduto con lo sguardo rivolto verso quello strano cielo. Doveva essere il suo turno di guardia e potevo approfittarne per sostituirlo o per fargli compagnia.
«Ehi». Mi sedetti accanto a lui, mettendomi nella sua stessa posizione. «Che cosa guardi?».
«Ehi. Ciao». Abbassò lo sguardo e puntò i suoi occhi neri come la pece dritti nei miei. «Sto solo guardando lassù cercando di immaginare come se la stanno passando nell’Oltretomba. Visto da quaggiù non sembra più tanto male, non credi? Comunque tu non dovresti riposare?».
«Non ci riesco. Ho dormito poco e male, ma so che non riuscirei comunque a riaddormentarmi». Chiudere gli occhi significava soffermarsi a pensare a quanto Killian fosse lontano e non volevo concentrarmi sulla voragine che avevo nel petto al solo pensiero.
«Ti manca lui». Non era una domanda, ma io risposi comunque.
«Sì mi manca». Non c’era altro da aggiungere.
«Parlami di lui», suggerì dopo qualche secondo. Mi studiò attentamente da sotto le folte ciglia nere con uno sguardo da togliere il fiato. «Sempre se te la senti».
Normalmente avrei risposto di no, che non volevo; ma in quel momento parlargli di Killian mi sembrò una sorta di liberazione. In quel modo Charlie poteva capire che non aveva la minima possibilità con me ed anch’io potevo sentire il mio pirata più vicino senza che facesse eccessivamente male. «Sì posso farlo».
Presi un profondo respiro cercando di raccogliere l’idee. «Killian è un pirata, forse lo conosci con il nome di Hook. Suona strano, ma sono la fidanzata di Capitan Uncino».
«Vuoi dire che ha davvero un uncino al posto della mano?».
«Sì ce l’ha, ma non è un problema né per me, né per lui. Vedi per quanto possa considerarsi un pirata, questo termine è del tutto sbagliato per descriverlo. Lui è un uomo di onore, con me lo è sempre stato; non si è mai arreso e questo è stato fondamentale: non gli ho reso la vita facile. Prima di incontrarlo ero chiusa dentro la mia armatura, lui è riuscito a farsi strada attraverso la mia corazza. È difficile da spiegare… lui mi ha visto subito per ciò che ero realmente. Non dovevo essere la Salvatrice con lui, ma soltanto Emma Swan con tutti i suoi problemi e i suoi muri».
«Insomma lo ami», concluse.
«Già lo amo e tanto. Non avrei mai pensato di provare un sentimento così profondo per qualcuno. Ero stata innamorata in passato, ma nessuno era Vero Amore; non so se riesci a capire… è una cosa nuova anche per me».
«Capisco», rispose soltanto. Alzò lo sguardo verso quell’assurdo cielo, ma più che osservare l’orizzonte sembrava perso nei suoi pensieri. Rimasi in silenzio anch’io e mi distesi sui gomiti, perdendomi nelle strane forme che si disegnavano sopra nelle nostre teste.
«Stavo per sposarmi», disse all’improvviso, facendomi voltare la testa verso di lui. Aveva ancora lo sguardo rivolto verso l’alto, ma la sua espressione si era di colpo rattristata. «Quando ero vivo intendo».
«E poi cosa è successo?», domandai incerta. Finora lui era stato molto vago sul suo passato, come se preferisse non parlarne. Ero titubante ad insistere, ma d’altronde lui aveva appena detto quella frase come per incoraggiarmi a domandare.
«Lei è morta». Mi pentii immediatamente della mia curiosità; dovevo saperlo che se non voleva parlare del suo passato, probabilmente non era una storia felice. Chi poteva capirlo meglio di me che ero stata sola e abbandonata per buona parte della mia vita? Perciò rimasi in silenzio, lasciando a lui la decisione di continuare o meno.
«Si chiamava Hanna», disse dopo un po’. «Dovevamo sposarci la settimana dopo, eravamo felici. Eravamo andati in città per alcune faccende, non ricordo neanche quali. Poi all’improvviso siamo stati coinvolti in un inseguimento, una sorta di brigantaggio. Non so come ma all’improvviso un uomo le ha puntato il coltello al collo e… È morta tra le mie braccia».
«Mio Dio, è terribile; mi dispiace tanto». Non potevo pensare a come potesse essersi sentito.
«È quello che di solito mi dicono tutti. Da te mi aspettavo qualcosa di meglio». Aveva usato ancora quel tono giocoso; tuttavia avevo capito da tempo che quell’aria sfacciata, impertinente e scherzosa era solo una maschera. Dietro c’era molto altro.
«Non dimenticherò mai il suo volto», continuò rabbrividendo. «Hanna che emana il suo ultimo respiro… E c’è un’altra cosa che non dimenticherò mai: il volto del suo assassino. Aveva un’enorme cicatrice che gli sfregiava il viso da parte a parte, era inconfondibile».
Fece un profondo respiro e poi riprese senza che io aggiungessi altro. «Dopo la sua morte c’era solo una cosa a cui pensassi: la vendetta. Volevo solo trovarlo e fargliela pagare. Ho passato i due anni successivi cercandolo in tutta la Foresta Incantata, ma sembrava sparito nel nulla. Poi finalmente riuscii a trovarlo; scoprii che si era rifugiato a vivere in un villaggio, probabilmente abbandonando la malavita, ma non mi importava: doveva solo pagare per ciò che aveva fatto. Trovai la sua casa e studiai le sue abitudini per qualche giorno. Sembrava vivere da solo e perciò una sera dopo che fu andato a dormire appiccai il fuoco alla sua casa. Restai seduto per ore su una collina in lontananza a vedere la sua fattoria bruciare e i soccorsi arrivare troppo tardi.
La mattina dopo passai di là per informarmi sulla versione che circolava nel villaggio. E fu così che feci un’amara scoperta: avevo ucciso il mio assassino, era bruciato vivo, ma nella sua soffitta viveva una ragazza. Il fuoco non era arrivato a lei tuttavia era morta soffocata dal fumo. Scoprii che era sua figlia e che probabilmente lui era stato costretto a rubare per riuscire a mantenerla, forse era stato anche divorato dai sensi di colpa per aver ucciso Hanna, chi può saperlo?».
«Mio Dio..». Adesso cominciavo a capire quale fosse la sua questione in sospeso. Gli posai una mano sulla spalla e cercai le parole adatte. «Charlie anch’io ho ucciso una persona…».
«Aspetta, la storia non è finita», mi fermò. «Andai a vedere il corpo di quella ragazza che era esposto nella chiesa del paese. Ecco un’altra cosa che non dimenticherò mai: il suo volto, era ancora perfetto. Dopo quell’evento ero talmente sconvolto che mi ritirai a fare il taglialegna nel bel mezzo del bosco, facendo una vita solitaria, finché un giorno una freccia dei cavalieri della Regina mi colpì. Morì lentamente dissanguato, ma fu una liberazione. Così mi ritrovai nell’Oltretomba con mille questioni in sospeso; fu un sollievo sapere che Hanna non era là ma in un posto migliore e fu una sorpresa incontrare nel locale della strega cieca proprio la mia vittima innocente. Ero rimasto a bocca aperta a fissarla, non credendo ai miei occhi, e lei semplicemente mi si avvicinò e mi disse. “Tu sei nuovo di qui, giusto? Piacere di conoscerti sono Elisabeth ma tutti mi chiamano Lizzy”».
«Lizzy!». Dovetti sforzarmi per non urlare e non svegliare Robin e Milah. «Quella Lizzy?». Annuì portandosi una mano a coprirsi la faccia. «E lei lo sa che tu sei…?».
«Il suo assassino? No». Sospirò e dopo qualche secondo riprese. «Lo sai qual è la sua questione in sospeso? Quella di non essere riuscita a ribellarsi ad un padre prepotente e protettivo e di non aver vissuto, letteralmente di non aver vissuto. Non capisco neanche come sia potuta rimanere nell’Oltretomba così a lungo; forse solo per darmi l’opportunità di ripagare ai miei errori».
«Come siete finiti entrambi quaggiù?», domandai cercando di incamerare tutte quelle informazioni.
«Beh quando l’ho vista, ho subito deciso di cercare di rimediare. Volevo farla andare in un posto migliore, forse dopo mi sarei sentito meglio con me stesso. C’ero quasi riuscito: in Lizzy era nata la speranza di poter trovare, anche dopo la morte, la possibilità di “vivere”. La speranza non era ben vista da Ade: un giorno eravamo sul molo e lui semplicemente arrivò e la gettò in acqua. Stupidamente mi avventai su di lui per affrontarlo col solo risultato di far cadere in acqua anche me. Prima mi hai chiesto che cosa mi spinge a resistere: è Lizzy. Non posso arrendermi, non fino a quando non saprò che lei starà bene. Io merito di stare qua sotto, ma lei no. Lotterò con tutte le mie forze per salvarla e non posso permettere che la mia anima si perda prima di esserci riuscito».
Era nobile da parte sua. Capivo ciò che provava e probabilmente si colpevolizzava eccessivamente; come al solito il nocciolo della questione era riuscire a perdonare sé stesso e lui non ci sarebbe riuscito se non avesse salvato Lizzy.
«Non avevo mai raccontato a nessuno la versione completa di questa storia», mi confesso dopo qualche minuto di silenzio.
«Grazie per averla condivisa con me». Appoggiai la mano sulla sua e gli rivolsi un sorriso.
«Non c’è di che. Adesso dovrai raccontarmi qualcosa di altrettanto scottante per pareggiare». Ed ecco che in un secondo era tornato ad essere il solito bel ragazzo scherzoso.
«Forse», risposi. «Ma adesso direi di svegliare gli altri e di rimetterci in viaggio». Il momento delle confessioni era finito ed era giunta l’ora di riprendere l’avventura.
 
POV Killian
«Parla ragazzino». Avevamo appena messo a letto la baby Emma e ci eravamo tutti accomodati nella piccola cucina del loft. Sapevo che le notizie di Henry non erano buone, bastava vedere la sua espressione per capirlo. Eppure, pur sapendo che mi avrebbero solo fatto male, non volevo altro che ascoltarle; perché in fondo era pur sempre qualcosa, un passo in avanti in quell’intricato mistero.
«Abbiamo trovato un libro», sospirò Henry, «un libro che parla degli effetti del ringiovanimento. In realtà c’è un capitolo che parla degli effetti a lungo termine nel caso avvenga un cambiamento marcato».
«Proprio come è avvenuto con Emma», aggiunse Regina.
«E cosa dice?», domandò Mary Margaret con voce tremante.
«Forse è meglio se ve lo leggiamo», intervenne August tirando fuori dalla sacca di Henry un grosso libro. L’aprì in un punto in cui evidentemente avevano lasciato un segno e trasse un profondo respiro prima di cominciare a leggere.
«Ci sono casi in cui il cambiamento di età diventa troppo marcato; le cause possono essere molteplici e che sia esso voluto o indesiderato le conseguenze restano univoche. Per quanto il corpo subisca il ringiovanimento non avviene lo stesso per l’anima, cioè lo spirito della persona vissuta fino a quel momento. L’anima viene distaccata dal corpo: non sono più entità inscindibili ma ad ognuna di essa è riservato un diverso destino. Il corpo è destinato a invecchiare nuovamente. L’anima viene immancabilmente persa e sostituita: non si trova più in quel corpo ma resta confinata in una specie di limbo. Non essendoci molti casi di questo tipo, non è certo ciò che avvenga, considerando anche il fatto che ogni caso ha caratteristiche uniche ed irripetibili. Tuttavia più il corpo ricomincia a crescere, più è difficile ricollegare anima e corpo».
August smise di leggere e alzò lo sguardo verso di noi.
«Che cosa significa di preciso?», domandò David.
«Quello che già sapevamo», sospirai, «la piccola Emma non diventerà mai l’Emma che conosciamo noi. Farla crescere non basterà».
«Non è solo questo», intervenne Regina. «L’anima di Emma non è più nel suo corpo e ogni secondo che passa diventa più difficile riportarla indietro. Non so se il libro abbia ragione ed adesso lei si trovi in una specie di limbo, ma a questo punto la tempistica diventa fondamentale».
«Per quanto, io sia ringiovanito come Emma», continuò August, «il mio caso non può essere comparabile al suo, per questo non ne sapevo niente. Ho parlato con la fata Turchina prima di venire qua e lei mi ha spiegato che nel mio caso era lei a gestire tutto, ed in fondo io sono sempre stato solo un pezzo di legno che è diventato umano».
«Quindi in fin dei conti non sappiamo se il libro ha ragione o meno», esordì Mary Margaret.
«Nel dubbio non possiamo far altro che prendere per vere le sue parole», ribadii. Dovevamo pensare all’ipotesi peggiore visto che non avevamo altro che supposizioni e non potevamo lasciare niente al caso.
«C’è un’altra cosa», intervenne Henry. La sua espressione si fece ancora più cupa e ciò non era sicuramente un buon segno. «Quando il nonno ha provato a ritrasformare la mamma, l’ha fatta crescere anche se di poco».
Assimilai le sue parole e arrivai alla conclusione da solo. «Più Emma cresce, più la sua anima viene persa».
«Dovunque essa si trovi, più tempo passa là più sarà difficile riportarla indietro», continuò August.
«Quindi in conclusione non abbiamo nessuna idea su come salvarla, se essa si trovi davvero bloccata da  qualche parte e, oltre a questo, più il tempo passa più sarà difficile farla tornare come prima». Mi alzai e appoggiai la fronte sulla mano. «Merda!». Se prima non avevamo niente adesso mi sembrava di avere ancora meno. Di sicuro quello che stava diminuendo era il tempo a nostra disposizione.
Iniziai a camminare avanti ed indietro cercando di pensare a qualcosa di utile. Tuttavia la mia mente riusciva solo a concentrarsi su cose superflue e sull’enorme voragine che inevitabilmente mi ritrovavo nel petto.
«Secondo quel libro Emma si trova intrappolata da qualche parte?», domandò di nuovo David. «Se sapessimo dov’è potremmo raggiungerla?».
«Forse», rispose Belle, «tuttavia non sappiamo se intenda un luogo fisico raggiungibile o qualcosa di più spirituale, tipo una sorta di limbo nella mente della bambina. Potrebbe essere un luogo come quello dove vanno le persone vittime dell’incantesimo del sonno. In quel caso non ci sarebbe possibilità di raggiungerla».
«Ma se non fosse così, se fosse in un altro luogo…», mormorai. Sarei potuto andare da lei.
«È per questo che abbiamo richiamato il nonno», intervenne Henry. «Dovrebbe portare il mappamondo, se è in qualche mondo reale scopriremo dove e andremo da lei». Proprio in quel momento qualcuno bussò alla porta; Tremotino era arrivato proprio mentre stavamo parlando di lui. Come si dice: parli del diavolo e spunta le corna.
Visto che ero già in piedi andai ad aprire, lasciando che il Coccodrillo si unisse alla nostra combriccola. Come aveva detto Henry, aveva portato con sé il mappamondo magico e per una volta sembrava pronto ad aiutarci.
«Devo avvertirvi», disse prima di iniziare, «per quanto potente possa essere questo mappamondo non riesce ad individuare tutti i mondi, soprattutto se frutto di un desiderio o di uno stato mentale. È probabile che non compaia nulla. Detto questo chi vuole avere l’onore?».
«Io», dissero contemporaneamente David e Mary Margaret.
«No», protestò Henry, «sarò io a farlo». Il suo sguardo era talmente deciso che nessuno osò replicare. Avvicinò la mano a quello strano oggetto e si punse il dito con l’ago. Il sangue affluì al centro del mappamondo, disegnando degli strani ghirigori e cercando in qualche modo di prendere forma. Smisi di respirare nell’attesa che l’immagine si stabilizzasse, ma purtroppo, così come era apparso, il colore si dissolse senza che fosse comparso niente di identificabile.
«Come immaginavo», proferì il Coccodrillo.
«Significa che Emma non si trova in nessun posto tangibile?», domandò Mary Margaret.
«Non è detto».
«In che senso?», sbottai. «Per una volta potresti parlare chiaro e non in maniera criptica?».
«Conosco un altro modo che potrebbe metterci in contatto con l’anima di Emma».
«E allora cosa diavolo stiamo aspettando?». Lo guardai esasperato, non capendo perché stesse perdendo tempo quando in realtà non ne avevamo.
«Non so se avrai tutto questo entusiasmo dopo che ti avrò detto di cosa si tratta».
«Parla», ringhiò David, esasperato quanto me.
«Se consideriamo il fatto che vogliamo entrare in contatto con la sua anima, dobbiamo innanzitutto pensare che c’è solo una persona che può farlo».
«E chi diavolo sarebbe?». Gli avrei ben presto tirato un pugno se avesse continuato così.
«Tu». In un attimo mi ritrovai gli occhi di tutti puntati addosso.
«Perché lui?», domandò David infastidito.
«Già, perché io?».
«Perché voi due siete innamorati», rispose Regina al posto di Gold. «Se c’è qualcuno che può avere un contatto con la sua anima quello sei tu».
«Esatto», confermò Tremotino, «senza considerare tutta la potenza del Vero Amore».
«E cosa dovrei fare?». Ero disposto a tutto, non mi sarei certo tirato indietro. Se potevo contattare Emma avrei fatto qualsiasi cosa.
«Qua viene la parte difficile», proseguì Gold. «In teoria tu non devi fare niente di particolare, io però posso realizzare un incantesimo per separare momentaneamente la tua anima dal corpo. Durerà solo pochi secondi, ma ti saranno sufficienti per vederla e capire qualcosa di più».
«Bene. Ci sto!», esultai. «Cosa stiamo aspettando?».
Il Coccodrillo mi lanciò uno sguardo serio prima di continuare. «Per separare la tua anima dal corpo è necessario che tu muoia». La mia bocca si spalancò sentendo le sue parole, mentre gli altri esordirono in cori di disapprovazione. Beh morire era una parola forte; sarei morto per salvare Emma, l’avevo già fatto, ma farlo solo per contattarla era decisamente autolesionista e stupido.
«In realtà si tratta solo di pochi secondi», aggiunse poi, «posso fermare il tuo cuore per il tempo necessario a contattarla e poi posso farlo ripartire». Maledetto! Probabilmente si era divertito a farmi prendere un colpo! Se si trattava di una morte momentanea potevamo discuterne, anche se affidare il mio cuore nelle mani del coccodrillo non mi piaceva affatto.
«Fammi capire», intervenne Regina, «tu puoi fermare il cuore di Hook in modo che la sua anima si separi dal corpo e che raggiunga Emma giusto per vederla qualche secondo? E poi come facciamo ad essere sicuri che riuscirà a raggiungerla?».
«C’è l’incantesimo per questo», rispose. «Il problema principale è che fermare e far ripartire un cuore non è una cosa facile; potrei lasciar passare troppo tempo e non riuscire a risvegliarlo o potrei d’altra parte far passare poco tempo mandando tutto all’aria».
«È troppo rischioso», intervenne Mary Margaret. «Hook non lo farà».
La ringraziai con lo sguardo per quelle parole accalorate, ma avevo davvero una scelta? Se non collaboravo che altra via ci restava? Tuttavia non mi fidavo di Gold e ancor meno del suo piano. Lasciarlo giocherellare con la mia vita non era certo nella lista di cose che avevo intenzione di fare.
Tuttavia non dovevamo perdere tempo e riuscire a contattare la vera Emma, visto che avevamo stabilito che era finita da qualche parte chissà dove, che fosse un luogo fisico o mentale, era la nostra priorità.
«Hook non devi farlo», concordò Henry. «È troppo pericoloso».
«Che altre opzioni abbiamo?», ribattei esasperato.
«Riflettici un attimo, prenditi un momento», mi propose Belle. Beh non avevo molto da riflettere, tuttavia annuii e senza dire una parola salii in quella che era stata la vecchia camera di Emma. Da lì potevo ancora sentirli confabulare, chi con o chi contro quell’assurdo piano, ma almeno avevo la giusta privacy che mi serviva.
Ero disposto a tutto, l’avevo appena detto, tuttavia la possibilità di morire era una remora sufficiente. Se avessimo fallito cosa avrebbe fatto Emma? Se gli altri fossero riusciti a salvarla come avrebbe potuto sopportare di nuovo la mia perdita? Ci eravamo già passati: la mia morte era stata troppo dolorosa sia per me che per lei. Un conto era morire per un salvataggio concreto, un altro invece era farlo per riuscire soltanto a vederla per pochi secondi. Mi mancava, vederla sarebbe stato meraviglioso e soprattutto avrebbe potuto darci informazioni importanti, ma il rischio era elevato.
Dire sì alla proposta del coccodrillo, significava fidarmi di lui ed io purtroppo non mi fidavo per niente. Era troppo infido, troppo doppiogiochista, troppo manipolatore; ci aveva tradito troppe volte per meritare la nostra fiducia.
Mi sedetti sul letto portandomi la mano sulla faccia e subito percepii qualcosa di duro sotto di me. Mi rialzai quel tanto che bastava per poter scorgere la borsa di Emma, esattamente dove mi ero appena seduto. Doveva essere rimasta là dalla sera della festa, come se fosse stata dimenticata da tutto e da tutti. Emma di solito non portava molte borse, ma quella sera era stato diverso, lei era stata completamente diversa pur di compiacere sua madre.
Presi la borsa e me la portai sulle gambe, accarezzando con l’uncino il gancio che la chiudeva. Probabilmente dentro non ci sarebbe stato niente di che, eppure avevo davvero bisogno di vedere e toccare qualcosa che mi legasse a lei, che me la rendesse più vicina.
Con un sospiro l’aprii e infilai la mano dentro. La prima cosa che afferrai fu il suo parlofono. Era spento ma Emma mi aveva insegnato ad accenderlo; appena lo schermo si illuminò comparve sullo sfondo un immagine di me ed Henry sulla Jolly Roger. Non sapevo che Emma ce l’avesse scattata e non sapevo neanche come diavolo avesse fatto a metterla là dentro. Eppure ogni volta che Emma guardava il cellulare evidentemente doveva vedere quella foto: era una cosa dolce che mi faceva sentire ancora di più la sua mancanza.
Chiusi gli occhi sentendo la voragine nel mio petto aumentare. Con l’incantesimo di Gold avevo la possibilità di vederla e forse di parlarle: cosa diavolo stavo aspettando? Mi mancava da morire ogni minima parte di lei. La sua voce, la sua risata, il suo sorriso: tutto.
Senza neanche rendermene conto tirai fuori il mio parlofono e pigiai il tasto di Emma. Il suo telefono, che avevo appoggiato accanto a me sul letto, iniziò a vibrare fino a quando non entrò la segreteria.
«Risponde la segreteria telefonica di Emma Swan; al momento non sono raggiungibile, vi prego di lasciare un messaggio dopo il segnale acustico». Chiusi gli occhi sentendo la sua voce forte e squillante. In un attimo mi fu tutto chiaro: se avevo anche solo una piccolissima possibilità di vederla dovevo sfruttarla, anche se la probabilità di fallimento era maggiore di quella di successo.
Non avevo mai pensato di non accettare il piano di Gold, tuttavia sentire la voce di Emma mi era stato utile per ricordarmi ciò che effettivamente stavo perdendo.
Rimisi il telefono di Emma nella borsa e stavo per chiuderla quando la mia mano sfiorò qualcosa di famigliare. Afferrai quella che sembrava una catena sparsa all’interno della sua borsa e tirai fuori l’oggetto misterioso.
Il mio respirò si fermò quando il mio cervello realizzò ciò che avevo davanti agli occhi: l’anello di Liam. Non mi ero aspettato di trovarlo là dentro, pensavo che fosse con Emma, come un collegamento inscindibile tra me e lei. Invece eccolo là a separarci definitivamente.
In effetti ora che ci pensavo bene Emma non lo indossava la sera del suo compleanno. Non se ne separava mai da quando glielo avevo dato, eppure quella sera non l’aveva messo, lasciandolo segregato nella borsa.
Cercai di respirare con calma, cercando di razionalizzare la mia reazione. Non era niente di che, era solo un anello; eppure lei doveva averlo. Era il nostro tacito patto di sopravvivenza, era ciò che mi teneva vicino a lei anche quando eravamo lontani. Adesso lei era chissà dove e non aveva neanche quel semplice anello a ricordarle di me. Era una parte di me e lei doveva tenermi con sé. Sapevo che la mia reazione era esagerata ma non potevo farci niente.
In un attimo la mia decisione di mettere a repentaglio la mia vita pur di incontrarla, anche se per pochi secondi, si fece ancora più salda. Se avesse funzionato avrei potuto provare a portare l’anello con me. Sarebbe tornato alla sua legittima proprietaria, prima ancora di riaverla tra le braccia.
Senza più aspettare, infilai l’anello in tasca, chiusi la borsa e mi diressi verso le scale, tornando dagli altri. Si zittirono di colpo vedendomi arrivare, aspettando tutti il mio responso.
«D’accordo, ci sto. Facciamolo». 


 
Angolo dell’autrice:
Buona domenica a tutti quanti! Ed ecco a voi l’ottavo capitolo!
Devo dire che questo capitolo è davvero bello denso e ricco di novità, sia da una parte che dall’altra. Prima di tutto Emma e gli altri sono riusciti ad attraversare il ponte e abbiamo scoperto la vera storia di Charlie. Dall’altra Killian è costretto a mettere a repentaglio la sua vita per riuscire a dare una svolta alla situazione.
Grazie come sempre a tutti!
Un bacione
Sara

 

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** 9. Vicini e lontani ***


9. Vicini e lontani
 
POV Emma
Sicuramente la città che stava dall’altra parte poteva considerarsi del tutto diversa da quella che avevamo affrontato fino ad allora. Non era molto affollata, come per esempio lo era stata la piazza che avevamo attraversato. C’erano poche persone e per la maggior parte vagano sole senza una meta precisa. Erano anime perse, ma non emettevano nessun lamento né interferivano con il nostro cammino. Era come se si fossero ormai rassegnate a quella condizione e non avessero più nessuna speranza. Era triste, ma almeno non era inquietante.
Fu un sollievo raggiungere il limitare di quella che avevamo erroneamente chiamato foresta. In realtà gli alberi, che avevamo creduto di scorgere, erano degli ammassi informi, sembravano più dell’alghe giganti che veri e propri alberi. Ed in effetti aveva una certa logica visto che ci trovavamo in fondo ad un fiume.
Quella strana vegetazione era all’inizio più diradata e si infittiva via via che si allontanava dalla città, dando vita ad una massa intricata di piante. Tuttavia solo quando fummo arrivati al limitare dei primi alberi, ci accorgemmo di quanto quella strana foresta fosse vasta. Se la donna che stavamo cercando si nascondeva là dentro, avremo potuto cercarla per giorni senza trovarla realmente. Capivo perché aveva scelto proprio quel posto: se era un nascondiglio che cercava non avrebbe potuto trovare di meglio. La parte più difficile spettava a noi che volevamo raggiungerla.
«Direi che abbiamo un problema», sentenziò Charlie grattandosi la testa con la mano. «Questa cosa è così intricata che se entriamo là dentro rischiamo di non uscire più».
«Fosse solo il problema di trovare di nuovo l’uscita», mormorò Milah. «Come diavolo facciamo a scovare una persona là dentro?».
«Anche se lei esiste realmente e non stiamo dando retta ad una stupida leggenda», continuò Robin, «chiunque, una volta entrato là, perderebbe la fiducia dopo un po’».
«Beh pensateci. È il nascondiglio perfetto». Indicai con la mano le piante di fronte a me come se la cosa fosse ovvia. «È naturale che lei sia lì».
«Esatto», convenne Milah. «Dobbiamo solo capire come trovarla».
«Per fortuna avete con voi un ladro che ha passato la maggior parte della sua vita vivendo in una foresta». Robin sorrise compiaciuto di sé. «Ho imparato a seguire le tracce. Se lei è qui, la troverò».
«Credi davvero di poterti orientare là dentro?», gli domandai titubante. Non che mettessi in dubbio le sue capacità, ma dovevamo essere il più possibile sicuri.
«Sì penso di riuscirci. È una persona, deve pur aver lasciato qualche indizio da seguire».
«Robin ha ragione», concordò Charlie. «Credo che nessuno si sia mai spinto così oltre solo per vederla. Non sarà così accorta nel nascondere le sue tracce se nessuno è mai andato a cercarla».
Il loro ragionamento aveva senso, ed in fondo eravamo arrivati fino a là e non potevamo di certo tirarci indietro.
«Potremo marcare gli alberi che superiamo», suggerì Milah.
«Non sono propriamente alberi», ribattei senza neanche accorgermene.
«Insomma quello che sono». Milah scosse le braccia in un gesto esasperato. «Così potremo sapere se siamo già passati da quel punto e potremo seguire il percorso a ritroso per uscire».
«È un ottima idea», convenne Robin. «Guardiamo se sono abbastanza resistenti». Senza aspettare oltre, poggiò lo zaino che aveva sulle spalle a terra e ne estrasse una freccia.
«Dove l’hai presa quella?», chiesi istintivamente.
«È una delle poche cose che avevo ancora quando sono arrivato qua». Beh almeno lui aveva qualcosa che gli ricordasse chi era, non potevo pensare all’anello di Liam senza sentirmi male.
Robin prese la freccia e ne pigiò la punta su quegli strani alberi. Anche se sembravano decisamente delicati, dovette fare parecchia pressione per riuscire a disegnarci sopra una ics.
«Va bene», convenne infine, «sembrano diversi ma sono esattamente come alberi normali».
«Non hanno una corteccia eppure sono solidi». Charlie aveva allungato la mano e stava toccando quella strana pianta.
«Charlie!», gridammo io e Milah contemporaneamente.
«Che c’è?». Ci guardò come se non capisse il perché di quel rimprovero.
«Potrebbero essere velenosi o pericolosi», aggiunsi come se fosse ovvio. «O chissà cos’altro».
Alzò le spalle con un gesto non curante. «Beh adesso sappiamo che non lo sono. Sono solo piante».
«Evidentemente tu non sei abituato ad avere a che fare con stranezze di ogni tipo». Era estenuante vedere un possibile pericolo anche nella più semplice cosa. Per esempio non era più nemmeno sicuro spengere delle candeline per il proprio compleanno.
«Ero un taglialegna, non potrò mai avere paura di due o tre alberelli».
«Non sono proprio due o tre», ribatté Milah.
«E non sono propriamente alberelli», continuai.
«Ah lasciatolo stare voi due», intervenne Robin.
«Esatto», convenne Charlie. «Diamoci una mossa piuttosto».
«Direi di procedere in fila indiana», propose Robin. «Io e Charlie staremo davanti in modo tale da farci strada, cercheremo di creare un percorso. Voi due starete dietro e l’ultima segnerà gli alberi da cui siamo passati».
«Segno io». Presi la freccia dalla mano di Robin senza lasciare a nessuno il tempo di protestare.
«Mi raccomando. Non lasciar passare troppi alberi senza che siano segnati».
«Robin so come si fa», sbottai.
«Bene allora muoviamoci», concluse Milah.
Iniziammo a camminare in fila indiana addentrandoci sempre più all’interno di quella strana vegetazione. Più procedevamo più il paesaggio intorno a noi si faceva strano. Quelle piante erano gigantesche, eppure la luce che filtrava all’interno di quel bosco era la stessa che c’era all’esterno, se non di più. Era come se quelle piante convogliassero la luce circostante all’interno di quella particolare foresta. Inoltre, al contrario dei boschi a cui tutti eravamo abituati, là non si sentiva nessun fruscio, nessun suono: solo un assoluto silenzio interrotto dal rumore dei nostri passi.
Proseguimmo per un po’ senza intoppi; il terreno non era così accidentale come in un bosco normale e questo ci faceva procedere più spediti. Sembrava non esserci nessuna forma di vita là dentro, a parte noi, e per il momento non avevamo trovato niente che ci indicasse la presenza della donna che stavamo cercando. Nessuno di noi aveva pensato di poterla trovare così in fretta e quindi in un certo senso eravamo preparati. Nessuno si demoralizzò e continuammo a camminare con la stessa motivazione di prima.
Stavamo camminando da un paio d’ore, quando all’improvviso sentii una strana fitta al petto. Fu solo un momento, ma era come se inconsciamente percepissi che stava per accadere qualcosa o che qualcosa era appena accaduto. Era solo una sensazione, ma sembrava che il mio istinto mi stesse suggerendo qualcosa che io non riuscivo ancora a capire. Era come un presentimento ma non sapevo di cosa.
Scossi la testa per scacciare quei pensieri e continuai a camminare, lasciando perdere le sensazioni che il mio inconscio mi stava suggerendo. E poi all’improvviso lo sentii.
«Emma!». Mi immobilizzai udendo la sua voce, così chiara e distinta da pensare che si trovasse esattamente dietro di me. Era troppo reale perché fosse frutto della mia immaginazione; era perfetta, con il suo accento particolare, con quel tono che mi scaldava il cuore.
Mi voltai di scatto e quel che vidi mi fece completamente perdere il controllo del mio corpo. Lasciai cadere la freccia che tenevo tra le mani e le mie gambe cominciarono a tremare; le farfalle mi riempirono lo stomaco, il mio cuore accelerò al massimo, sbattendo all’impazzata al centro del mio petto, e per un attimo non riuscii più a ricordare come si facesse a respirare.
Killian era davanti a me, perfetto come sempre, con gli occhi spalancati e con quello sguardo che mi faceva letteralmente cadere ai suoi piedi. Mi fissava come se non credesse ai suoi occhi ed io dovevo avere esattamente la stessa espressione.
«Killian», sussurrai stentando a crederci. Sarei voluta correre da lui, ma ero come pietrificata. Dovevo sapere che niente in quel mondo era come poteva sembrare.
«Mio Dio stai bene». Il sollievo che si dipinse sul suo volto, fece crollare tutte le difese che mi restavano.
Mossi qualche passo in avanti avvicinandomi a lui fino a stringere la sua mano. «Come sei arrivato qui?». La sua pelle era liscia e calda, esattamente come la ricordavo. Le sue dita istintivamente si intrecciarono alle mie come per non lasciarmi più andare, mentre io naufragavo nell’oceano dei suoi occhi.
«Non c’è tempo», rispose zittendomi. «Dimmi dove sei?». Mi scostò una ciocca di capelli dal viso e mi accarezzò la guancia con l’uncino. Con quel semplice gesto mandò in tilt tutte le mie capacità cognitive, mentre sul mio viso si disegnava un sorriso ebete.
Non feci a tempo a riprendermi per rispondere alla sua domanda, che qualcuno si avvicinò a noi, probabilmente chiedendosi perché mi fossi fermata. «Emma che succede?». Milah si avvicinò da dietro le mie spalle e, anche se non potevo vederla, riuscii a scorgere dal volto di Hook l’esatto istante in cui i loro sguardi si incrociarono. La bocca di Killian si spalancò e nei suoi occhi potei leggere un sentimento simile a quello che mostrava per me.
«Killian?», balbettò Milah, confermando che il bellissimo uomo a cui stringevo la mano non era solo il frutto della mia immaginazione. Hook la guardò incredulo per un altro istante per poi perdersi nuovamente nei miei occhi. Di sicuro non si era aspettato di trovare la sua ex amante proprio insieme a me. Riuscivo quasi a sentire il flusso dei suoi pensieri e di tutte le implicazioni che potevano passargli per la mente in quel momento. In fondo era stata il suo primo amore e l’aveva amata per secoli, era ovvio che il loro incontro non potesse lasciarlo indifferente.
E poi esattamente come era apparso Killian sparì. Un attimo prima stringevo forte le sue dita e l’istante dopo nella mia mano restava soltanto aria.
«Killian!», gridai sconvolta. Voltai la testa cercandolo intorno a me, ma non c’era più da nessuna parte. Era come se non fosse mai stato lì.
«Dove è andato?», chiesi a Milah sentendomi sull’orlo di una crisi di nervi.
«Non lo so», rispose, rimanendo ancora pietrificata.
«Ma l’hai visto anche tu vero?». Cominciavo a chiedermi se non stessi impazzendo; se la mancanza che sentivo di lui non stesse influendo in qualche modo sulla mia sanità mentale.
«Sì, certo che l’ho visto». Milah non riusciva ancora a muoversi. Aver visto Killian anche solo per qualche secondo doveva averla sconvolta, esattamente come aveva sconvolto me.
«Ragazze che succede?». La voce di Robin giunse dalle nostre spalle.
«Perché vi siete fermate?», domandò Charlie comparendomi davanti ed oscurandomi la visuale del resto della foresta.
«Killian è qui», balbettai. «Era qui».
«Emma…». Robin usò un tono di voce condiscendente come di solito si usa con i pazzi.
«È vero», urlai senza neanche rendermene conto. «Hook è stato qui, l’abbiamo visto. Anche Milah l’ha visto». Non sapevo se mettermi ad urlare dalla rabbia oppure scoppiare a piangere.
«Era qui», ripeté Milah con tono inebetito, ancora sotto shock.
«Che diavolo succede?», chiese Charlie, ma sembrava che la domanda fosse solo rivolta a Robin.  «Che cos’ha Milah?».
«Beh devi sapere che Hook è l’ex amante di Milah. È per questo che adesso sono entrambe sotto shock».
«Io non sono sotto shock». Mi voltai verso Robin e gli puntai un dito contro. «So cosa ho visto. Sono abbastanza esperta da sapere ciò che è reale e ciò che invece è solo un trucco della magia. E lui era reale. Era qui esattamente come lo siamo io e te».
Robin alzò le mani in un gesto di difesa. «D’accordo Emma, ma se lui è qui, dov’è adesso?».
«Io non lo so». Dal mio tono poté percepire tutta la mia preoccupazione. Dove poteva essere finito? Perché era apparso e poi scomparso? Si trovava veramente lì o forse era solo una cosa momentanea? Non sapevo rispondere neanche ad una di quelle domande e questo mi mandava fuori di testa.
Iniziai a camminare avanti e indietro portandomi le mani tra i capelli, non capendo più cosa fare né tantomeno ciò che stava succedendo. All’improvviso con il piede calpestai qualcosa di duro, sicuramente diverso dal piatto terreno che ci circondava; mi fermai di colpo e abbassai lo sguardo per poter osservare di cosa si trattasse e lì il mio cuore perse un altro colpo. Mi accucciai e raccolsi quell’oggetto che mi era talmente caro da averne sentito la mancanza come fosse stata una parte del mio corpo. L’anello di Liam splendeva nella mia mano, sempre legato a quella resistente catena. Quella era la prova che non ci eravamo immaginate tutto, che lui era stato veramente là. Come poteva essere altrimenti? Come poteva se no quell’anello, che era rimasto sicuramente a Storybrooke, trovarsi tra le mie mani in quel momento?
«Emma che cosa c’è?», mi domandò Charlie vedendomi accucciata a terra.
Mi alzai di nuovo e mostrai agli altri la catena con l’anello che tenevo tra le dita. «Guardate».
Milah sbatté le palpebre cercando di mettere a fuoco l’oggetto che avevo fra le mani e allo stesso tempo di riprendere il controllo di sé stessa. «È l’anello di Liam?». Non dovevo essere sorpresa che lei sapesse di cosa si trattasse, tuttavia quel fatto mi fece infastidire. Era una cosa tra me e Killian, lei non doveva farne parte.
«Sì, Hook me l’ha dato per tenermi al sicuro. Secondo lui è grazie a questo che è sopravvissuto per tutti quei secoli».
«Come è arrivato qua?», domandò Robin, cominciando a ricredersi sulla versione della nostra storia.
«Era a Storybrooke, ne sono certa. Killian è stato qua».
«È assurdo», dichiarò Charlie.
«Cosa non è assurdo in questo mondo?», gli fece notare Milah.
«Era questo che cercavo, l’oggetto che mi avrebbe permesso di non perdere la testa. Killian lo sapeva perciò ha fatto in modo che lo avessi».
«Sì, ma come diavolo è arrivato fino a qua? E adesso lui dov’è?». Capivo il perché delle domande di Robin. Se lui era arrivato in quel mondo, forse poteva trovare il modo di tirarci fuori da lì senza stare ad inseguire fantomatiche donne leggendarie.
«Non lo so», risposi. «Ma forse dovremo rimanere qua. Dovremo aspettarlo».
«Cosa?». Questa volta Charlie e Robin parlarono contemporaneamente.
«È assurdo!», continuò Charlie. «Come puoi credere che stare qui fermi sia una buona idea? Come puoi essere sicura che lui tornerà?».
«Lui tornerà!». Gli urlai contro, in un tono rabbioso. Non avrei voluto farlo, ma mi aveva fatta arrabbiare. Come poteva mettere in dubbio il mio Hook senza neanche conoscerlo? Nessuno poteva farlo, tantomeno un presuntuoso ragazzotto che non l’aveva neanche mai visto.
«Emma ha ragione», convenne Milah sorprendendomi. «Conosco Killian e lui troverà il modo per tornare».
«Allora è deciso noi ci fermiamo», continuai puntando i piedi e incrociando le braccia al petto. «Voi proseguite pure se volete».
«Oh andiamo Emma non essere ridicola», protestò Robin.
«Noi lo aspetteremo, è la cosa giusta da fare», replicai. «Lui tornerà da me».
«Non credo che vi convenga aspettare qua, nel pieno centro della foresta». Una voce alle nostre spalle ci fece voltare di scatto. Una donna ci stava osservando ai piedi di una di quelle gigantesche piante. Era mora, indossava un vestito lacero ed era scalza; i suoi occhi erano grigi ed erano così profondi che sembravano racchiudere un’infinita conoscenza e anche una struggente sofferenza.
«Lui non tornerà», continuò. «Non è più in questo mondo adesso. In fondo siete arrivati qua per me, dovreste lasciare perdere il resto per il momento».
«Sei la donna della leggenda?», domandò Milah titubante.
«Si dicono molte cose su di me», tergiversò. «Seguitemi e vi dirò ciò che volete sapere». Restò là in attesa mentre noi ci consultavamo con lo sguardo. Era ovvio che fosse la donna che stavamo cercando; chi altro poteva trovarsi là dentro? Tuttavia potevamo davvero fidarci? Ormai avevamo imparato da tempo che quel mondo riservava solo brutte sorprese. Certo seguirla era la cosa più logica da fare, però dovevamo comunque stare attenti e mantenere la guardia costantemente.
Lessi nello sguardo dei miei compagni le stesse intuizioni e annuii in segno di assenso. Non era da me fidarmi di una sconosciuta apparsa all’improvviso, ma mi sarei comunque dovuta adeguare. Anche se volevo restare ad aspettare Killian sapevo che al momento dovevamo invece seguire quella donna. Era per lei che ci eravamo spinti tanto oltre, sarebbe stato da stupidi rifiutare una simile offerta. Ed in più lei sembrava conoscere molte cose: non aveva appena detto che Killian non era più in quel mondo? Dovevo assolutamente scoprire come faceva a saperlo con tanta sicurezza.
«Va bene, ti seguiamo», disse Robin per tutti.
«Perfetto». La donna si voltò ed iniziò a camminare seguendo una meta ben precisa. «Per favore chiamatemi pure Euridice».
 
POV Killian
Continuavo a rigirarmi l’anello di mio fratello tra le dita mentre aspettavo che il Coccodrillo tornasse dal suo negozio. Ero salito di nuovo nella vecchia stanza di Emma e mi ero seduto ancora una volta sul suo letto. Se l’incantesimo di Gold avesse funzionato presto avrei rivisto Emma, anche se solo per pochi secondi. Avrei potuto chiederle se stava bene e dove diavolo fosse finita. Mi mancava da morire e non potevo credere di aver accettato di correre un simile rischio assecondando il bisogno che avevo di lei. Non ero certo un codardo, però da quando io ed Emma avevamo costruito una sorta di famiglia, avevo smesso di pensare solo a me, per iniziare a considerare ciò che era meglio per noi. Se mi fosse successo qualcosa Emma ne sarebbe uscita distrutta di nuovo; d’altra parte se non lo facevo non avremo avuto nessuna possibilità di trovarla.
«Non devi sentirti obbligato a farlo. La mamma non vorrebbe». Henry era sulla soglia della porta e mi stava osservando tenendo in braccio la baby Emma.
«Non sono obbligato», risposi rimettendo l’anello in tasca e facendogli cenno di avvicinarsi. «E poi questa è la migliore possibilità che abbiamo».
«Sì lo so bene, ma so anche quanto potrebbe essere rischioso. Non voglio una missione Oltretomba seconda parte».
«Che ci fai con lei?», domandai per cambiare argomento, indicando la bambina. Henry si sedette sul letto accanto a me e la baby Emma si sporse per venirmi in braccio.
«Ho pensato che ti avrebbe fatto piacere tenerla un po’ prima di iniziare». Lasciò che io prendessi la bambina e iniziò a giocherellarci sporgendosi sopra di me.
«Hai letto il libro Henry. Lei non è più qui». Indicai con lo sguardo la piccola, come ad indicare che quello che rimaneva della mia Emma era solo un guscio voto.
«Kill…», mugugnò la bimba stringendosi contro il mio petto, quasi intuendo il significato delle mie parole.
«Beh non puoi saperlo con certezza, non finché il nonno non tornerà» ribatté Henry. Aveva ragione, ma più di una volta avevo avuto la sensazione che la mia Emma fosse sparita e che la piccola c’entrasse poco con lei.
«In fondo questo resta sempre il suo corpo». Un corpo che non potevo amare come avrei voluto.
«Kill goca co me», balbettò Emma, tirando su la testina per guardarmi.
«Non credo che sia il momento di giocare». Una voce alle nostre spalle ci fece voltare. Mary Margaret era entrata nella stanza ed aveva sul volto un’espressione preoccupata. «Gold è tornato».
«Scendiamo subito». Mi alzai tenendo in braccio la bambina e mi avvicinai a lei.
«Ha detto che puoi rimanere qua, è meglio se stai disteso durante l’incantesimo. Dammi la bambina, noi saliamo tra un secondo». Detto ciò mi tolse la baby Emma dalle braccia e la portò di nuovo di sotto. Io ed Henry rimanemmo in silenzio nell’attesa che gli altri tornassero e che Gold si mettesse così a giocherellare con il mio cuore.
Non passò molto tempo che sulla soglia della porta apparve il Coccodrillo seguito da Regina e Mary Margaret.
«Bene, pirata sei pronto?», mi domandò studiando apertamente la mia espressione.
«Sì». Gli lanciai uno sguardo truce che valeva molto più di mille parole.
«Bene per prima cosa ho bisogno che tu scelga qualcuno che ti riporterà indietro».
«In che senso?», domandai cercando di capire.
«Qualcuno che ti chiami e che ti faccia in qualche modo risvegliare. So che la persona più indicata sarebbe Emma, ma visto che stiamo cercando di contattare proprio lei dovrai scegliere qualcun altro».
Non dovetti neanche pensarci molto, mi venne istintivo, naturale. «Henry». Lo guardai cercando il suo consenso: lui spalancò gli occhi non aspettandosi di essere scelto ma poi annuì leggermente accettando quell’incarico. Vidi Regina storcere la bocca; sapevo che, se qualcosa fosse andato storto, Henry si sarebbe sentito in parte responsabile, ma se c’era qualcuno che poteva riuscire ad allontanarmi di nuovo da Emma quello era lui.
«Bene», disse Gold. «Direi che voi due potete anche andare». Indicò le due donne che lo fulminarono con lo sguardo.
«Neanche per sogno», protestò Regina, «non ti lascerò certo da solo a giocare con la vita del pirata di fronte a mio figlio».
«Esatto», confermò Mary Margaret. «Non me ne vado neanche io».
«D’accordo. Allora cominciamo». Gold estrasse dalla tasca una piccola fialetta e me la passò. «Prima di tutto bevi questa e distenditi sul letto».
«Che cos’è?», domandai prendendola.
«Collegherà la tua anima a quella di Emma. Bevila». La cosa non mi piaceva, ma avevo preso la mia decisione già da tempo. Con il pollice stappai la fiala e la buttai giù tutta di un fiato. Aveva un sapore orribile che mi fece storcere la bocca.
«Bene adesso distenditi», mi ordinò. Feci come mi aveva ordinato e mi sistemai al centro del letto. Henry si mise alla mia sinistra, stringendomi l’uncino, mentre inaspettatamente Mary Margaret dall’altro lato afferrò la mia mano.
«Adesso chiudi gli occhi e cerca di rilassarti». La faceva facile lui: al Coccodrillo spettava solo il divertimento, era il mio cuore quello che si stava per fermare.
Ciò nonostante chiusi gli occhi e sospirai cercando di rilassarmi; ovviamente non ci riuscii. Riuscivo a sentire il battito accelerato del mio cuore fin dentro le orecchie. Sapevo benissimo che non mi agitavo perché avevo paura, ma perché semplicemente stavo per vederla e non volevo altro da giorni. In quel momento le sarei stato più vicino di quanto avessi potuto fare da quando era scomparsa. Pensare ad Emma, alla possibilità di incontrarla mi faceva letteralmente impazzire, così tanto che non riuscivo neanche a gestire i battiti del mio cuore.
«Che diavolo, pirata!», proruppe Tremotino. «Dovresti calmarti, non posso fare nulla se tu non ti rilassi».
«Tranquillo Killian, andrà tutto bene». Mary Margaret mi accarezzò la mano che teneva tra le sue, cercando di rassicurarmi. Io sospirai e cercai di nuovo di rallentare i battiti del mio cuore, ma ancora una volta lo sentii pulsare fin dentro le orecchie.
«Non ci riesco», ammisi amaramente a denti stretti, riaprendo gli occhi.
«Forse so io quello che ti serve», intervenne Henry. Voltai la testa verso di lui fissandolo in attesa che continuasse. «Perché non chiudi gli occhi e provi a parlarmi della mamma?».
Lo guardai perplesso. «Cosa vuoi che ti dica?».
«Scegli tu, raccontami qualcosa». Annuii assecondando anche quel tentativo.
Richiusi gli occhi e respirai a fondo, cercando uno dei tanti ricordi felici passati con lei. «Quando abbiamo fatto il viaggio nel tempo», iniziai, «tua madre ha combinato un disastro impedendo l’incontro dei tuoi nonni. Per questo ci siamo dovuti rivolgere a Tremotino e alla fine siamo finiti ad un ballo a casa di re Mida. Lei indossava un vestito rosso ed era così bella… era assurdo che non si fosse mai sentita una principessa. Quella è stata la prima volta che ho ballato con lei e forse anche la prima volta che ha lasciato che fossi io a condurre. Mi ricordo di averle detto che era nata per quello, perché nonostante lei si sentisse soltanto la Salvatrice, lei era pur sempre la figlia di Biancaneve e del Principe Azzurro, ce l’aveva nel sangue. Era quello il suo posto, anche se purtroppo non aveva mai potuto farne parte». Lentamente mentre parlavo sentii il mio cuore rallentare, i miei sensi farsi più deboli, gli occhi sempre più pesanti fino a quando mettere in fila una parola dietro l’altra divenne troppo difficile e il silenzio assoluto piombò intorno a me.
Quando riaprii gli occhi, mi ritrovai in piedi nel bel mezzo di una strana foresta. Avevo visitato centinaia di luoghi ma nessuno era come quello. La vegetazione in quel posto era talmente strana da mettere i brividi, per non considerare l’atmosfera alquanto inquietante. Mi guardai intorno cercando di individuare la mia Emma, fino a quando non la vidi. Stava camminando dandomi le spalle ed era esattamente di fronte a me. I capelli le ricadevano sulla schiena in maniera disordinata, il suo corpo era così perfetto che avrei potuto riconoscerla anche in mezzo a migliaia di persone.
«Emma!», gridai sollevato. Sentendo la mia voce lei si immobilizzò, probabilmente non aspettandosi di trovarmi lì. Si voltò di scatto e posò lo sguardo su di me; i suoi occhi si allargarono riempiendosi di stupore e di emozione e rendendola ancora più bella. Dio! Non potevo credere di averla finalmente così vicino. Era davvero troppo bello per essere vero.
E se da una parte avrei voluto correre da lei e baciarla fino a farle mancare il respiro, dall’altra avevo paura che ogni mio minimo gesto potesse spezzare quel già fragile incantesimo e che sarei potuto tornare a Storybrooke senza aver concluso niente.
«Killian», sussurrò con un tono che mi fece ancora di più venir voglia di baciarla.
«Mio Dio stai bene», balbettai invece tenendo a bada i miei istinti.
Emma, quasi leggendo e rispecchiando i miei pensieri, mi si avvicinò e mi strinse la mano. Quel contatto mi fece ribollire il sangue nelle vene: per giorni non avevo desiderato altro che ritrovare la mia Emma ed adesso le tenevo la mano. Intrecciai le mie dita alle sue e non avrei davvero più voluto lasciarla andare. Nello stesso istante incatenai i miei occhi ai suoi, perdendomi in quell’immenso prato verde.
«Come sei arrivato qui?», mi chiese sbattendo le ciglia.
«Non c’è tempo», la fermai. Dovetti usare tutta la mia determinazione per fare ciò per cui ero venuto, lasciando perdere ogni mia altra emozione. «Dimmi dove sei?». Le scostai una ciocca di capelli dal viso e le accarezzai la guancia con l’uncino: era questo il massimo che potevo permettermi nell’attesa della sua risposta.
Tuttavia non fece a tempo ad aprire bocca, che qualcuno si avvicinò a noi, da dietro le spalle di Emma. Sentii chiaramente i passi, ma ero così concentrato sul mio cigno da non preoccuparmene.
«Emma che succede?», domandò una voce femminile alquanto familiare. Alzai la testa, costringendomi ad abbandonare con lo sguardo il volto della mia adorata Emma per osservare la persona che ci aveva raggiunti. Tuttavia colei che vidi mi fece letteralmente rimanere senza fiato; la mia bocca si spalancò per la sorpresa ed ogni mio muscolo si pietrificò.
Quella che avevo davanti era Milah, la mia Milah. Non la vedevo da secoli ormai, e l’ultima volta io tenevo tra le braccia il suo corpo privo di vita. Era stata parte integrante della maggior parte della mia vita, avevo un tatuaggio con il suo nome sul braccio, per lei avevo perso la mia mano e cercato vendetta per anni; era naturale che la sua presenza mi facesse provare un tumulto di emozioni.
«Killian?», balbettò Milah, sorpresa quanto me. La guardai di nuovo non capendo cosa diavolo ci facesse lei con Emma, per poi tornare ad osservare di nuovo il mio cigno. Ero certo di avere un’espressione incredula e disorientata, ma la presenza del mio primo amore, insieme alla padrona attuale del mio cuore, mi aveva del tutto sconvolto. Avevo persino scordato il perché fossi arrivato fino là, o il fatto che non mi rimaneva più molto tempo. Il coccodrillo avrebbe potuto risvegliarmi da un momento all’altro.
Quello che provavo per Milah non era mai scomparso dentro di me; non c’era stata semplicemente una fine tra noi e, se anche adesso il mio cuore era di un’altra, era naturale che mi preoccupassi sempre per lei. Avrei voluto abbracciarla, chiederle se stava bene, dirle che mi dispiaceva per ciò che le era accaduto. Avrei avuto mille domande da farle e avrei davvero voluto avere il tempo per poter sentire le sue risposte, o anche semplicemente per ascoltare ciò che anche lei avrebbe voluto dirmi.
Tuttavia sentii qualcosa ai margini della mia mente, come un flebile sussurro che tentava di strapparmi da quel luogo particolare.
«Hook». Cercai di non prestarci attenzione e di articolare invece qualcosa di intelligente da dire. Eppure nonostante la mia mente fosse affollata di pensieri non riuscivo ad esprimerne neanche uno ad alta voce.
«Killian ti prego». La voce supplicante di Henry arrivò dai confini più remoti della mia mente. Sbattei le palpebre cercando di concentrarmi e quello bastò per riportarmi dritto a Storybrooke. L’unica cosa che riuscii a fare, prima di andarmene del tutto, fu quella di far cadere a terra ciò che avevo portato con me: l’anello di Liam. Sapevo che Emma l’avrebbe trovato.
Quando poi riaprii gli occhi la strana vegetazione che mi aveva circondato era scomparsa ed io ero di nuovo sdraiato sul letto nella vecchia camera di Emma.
«Grazie a Dio», sentii mormorare Mary Margaret.
«C’è mancato poco», sospirò Regina con un certo sollievo.
Mi misi a sedere sul letto ed Henry mi travolse in un abbraccio. «Per fortuna stai bene. Non riuscivo a svegliarti».
«Va tutto bene ragazzino», riuscii a stento a balbettare, scompigliandogli i capelli con l’uncino.
«Non me lo sarei mai perdonato se ti fosse successo qualcosa».
Cercai di regolarizzare il mio respiro dando un senso a tutto ciò che avevo appena visto. La presenza di Milah aveva messo sottosopra ogni singola parte del mio corpo.
«Allora ha funzionato?». Era la voce del Coccodrillo, ma ero troppo distratto per prestare attenzione alle sue parole. Il pensiero che Milah si trovasse con Emma era un’idea che non mi era mai passata per la testa. Erano diventate amiche? Era possibile? Quando avevo guardato Emma negli occhi chiedendole tacitamente cosa diavolo ci facesse l’altra là, lei non era stata sorpresa della sua presenza. Era un particolare che non avevo notato in quel momento, ma ripensandoci adesso risultava evidente.
Se si trovavano insieme, voleva dire che… cercai per un attimo di scacciare quel collegamento dalla mia mente. Portava con sé troppe implicazioni negative per riuscire ad affrontarlo subito.
Cercai di nuovo di concentrarmi su Milah. Avevo letto mille cose nel suo sguardo; un tempo riuscivo a capirla come un libro aperto, ma la donna che avevo scorto in quel luogo non era più la stessa Milah che conoscevo io. L’aver passato secoli nell’Oltretomba doveva averla cambiata; quel luogo cambiava tutti. Avrei tanto voluto sapere cosa pensasse in quel momento di me ed era stupido, ma in qualche modo, avrei voluto che fosse orgogliosa del mio cambiamento. La sua opinione non avrebbe cambiato niente, eppure era importante per me, avrebbe influito su quello che provavo io. Era incredibile come a distanza di secoli, io tenessi ancora così tanto al suo giudizio. Sapere che accettava Emma, che in qualche modo ci dava la sua benedizione, era qualcosa a cui avevo sempre tenuto, ma a cui avevo rinunciato da quando l’avevo creduta persa per sempre.
«Hook!». Qualcuno mi scosse violentemente ridestandomi dai miei pensieri.
«Eh?». Mi guardai intorno realizzando solo in quel momento che gli altri tre mi stavano fissando preoccupati.
«Sei sicuro di non avergli causato qualche deficit mentale?», domandò Regina rivolta a Gold.
«Io di questo non sono responsabile, il deficit mentale del pirata è una dote naturale».
«Sto bene», ribattei piccato. «Non ho nessun problema mentale, ero solo sovrappensiero».
«Ti abbiamo chiamato più volte», mi spiegò Mary Margaret dolcemente. «Allora ha funzionato? L’hai vista?».
«Sì», sussurrai. «L’ho vista». Ed era stata una visione meravigliosa.
«Davvero?». Sia gli occhi di Biancaneve che di Henry si illuminarono.
«Sì, credo che stia bene».
«E ti ha detto dove si trova?», mi domandò Regina.
«No», mormorai, «non ha fatto in tempo».
La delusione si diffuse nella stanza ancor prima che io potessi continuare. «Però so dove si trova».
«Cosa? Come?».
«Non conosco quel luogo», spiegai. «Era una specie di strana foresta, però con lei c’era un’altra persona. Con lei c’era Milah». Vidi il Coccodrillo irrigidirsi sentendo quella mia rivelazione. Dopo tutto ciò che le aveva fatto passare era naturale che i rapporti con la sua ex moglie non fossero rosei; tuttavia sembrava che ci fosse qualcosa di più sotto.
«Milah? Quella Milah?», domandò Mary Margaret.
«Sì, la mia ex amante, la moglie di Tremotino, la madre di Bealfire».
«Mia nonna?», domandò Henry. «Ma la nonna è stata gettata da Ade nel fiume dell’anime perse, quello che si trova nell’Oltretomba».
«Già», risposi amaramente. «Pensateci, ha una certa logica. Finché non riusciamo a far tornare il corpo di Emma come prima, la sua anima è persa. In quale altro posto potrebbe trovarsi se non in quello dove vengono spedite tutte le anime smarrite?».
«Ma in teoria», intervenne Regina, «ho sempre pensato che una volta entrati in contatto con le acque di quel fiume le anime cessassero semplicemente di esistere o di essere loro stesse».
«Un tempo pensavamo che anche dopo la morte non ci fosse niente», le feci notare. «Poi abbiamo scoperto l’Oltretomba».
«Tu credi che sia possibile?», domandò Mary Margaret a Tremotino che si era zittito da quando avevo nominato Milah.
«Tutto può essere», scrollò le spalle riconquistando il suo atteggiamento presuntuoso.
«È così, ne sono certo», conclusi. «La domanda adesso è: come diavolo facciamo a tirarla fuori da là?».


 
Angolo dell’autrice:
Buona domenica a tutti!
Ho voluto dedicare questo capitolo a due punti di vista differenti dello stesso evento. Mi sembrava giusto descrivere sia le sensazioni di Emma che quelle di Killian riguardo il loro breve incontro.
Quindi riassumendo: da una parte l’incantesimo di Gold ha funzionato e, grazie all’improvvisa apparizione di Milah, adesso sanno dove si trova Emma. Dall’altra parte finalmente sembrano essere arrivati alla meta: anche se non hanno trovato la donna leggendaria, è stata lei a trovare loro. E sorpresa: è Euridice. Mi è sempre piaciuta la storia di Orfeo e Uridice, quindi ho pensato bene di infilarci in qualche modo il suo personaggio. Chissà adesso cosa dirà ai nostri quattro avventurieri!
Grazie a tutti coloro che leggono, seguono e recensiscono la mia storia. Grazie di cuore! <3
Un bacione e alla prossima settimana!
Sara
 

Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** 10. Trovare la strada ***


10. Trovare la strada
 
POV Emma
Euridice ci guidò in una strana radura posta proprio nel mezzo di quell’intricata vegetazione. Là si trovava in una specie di accampamento, dove probabilmente lei viveva da anni. Non era un granché ma si poteva in qualche modo definire una sorta di casa.
«Accomodatevi», ci disse indicando delle pietre che potevano fungere da sedie. «Risponderò a tutte le vostre domande».
«Perché?», le chiesi, non approfittando di quella cordialità e rimanendo perciò in piedi. «Perché vuoi aiutarci così spontaneamente? Ognuno possiede un proprio tornaconto».
Euridice mi sorrise e mi guardò con uno sguardo serio. «Lo so che può sembrare strano, ma non ho davvero nessuna richiesta da farvi. In fondo avete fatto tanta strada solo per questo, per chiedere il mio aiuto. Per una volta puoi provare semplicemente a fidarti Emma».
Sbattei le palpebre sorpresa che conoscesse il mio nome; nessuno degli altri l’aveva pronunciato e lei non avrebbe potuto saperlo. Solo poche persone erano così informate; quel dettaglio non fece che aumentare i miei dubbi.
«Come conosci il mio nome?», le domandai continuando a non sedermi.
«So molte cose di te Emma, e anche di tutti voi». Indicò i miei compagni che, come me, erano rimasti in piedi e stavano osservando silenziosamente il nostro scambio di battute.
«Posso solo dirti», continuò la donna, «che mi ricordi me stessa, come ero molto molto tempo fa. Ti può bastare come incentivo per fidarti di me e permettermi di darvi una mano? Voglio solo aiutare delle anime così coraggiose da aver affrontato un viaggio come il vostro pur di salvarsi». La studiai attentamente cercando di capire se ci stesse o meno nascondendo qualcosa. Pensavo di scorgere bugie ad ogni sua parola, ma il mio istinto e il mio super poter mi suggerirono invece di fidarmi. Sembrava sincera e arrivai alla conclusione che forse lo era davvero.
«D’accordo», acconsentii sedendomi. Notai che anche gli altri mi imitarono, prendendo posizione accanto a me. «Prima però potresti dirci come sei finita qua e cosa ci fai tutta sola in questa strana foresta». Non erano delle domande bensì delle richieste.
Euridice mi sorrise benevola, forse aspettandosi quelle mie pretese. «Beh guardiamo come posso risponderti: conoscete qualcosa della mia storia?».
«Ti riferisci al mito di Orfeo ed Euridice?», domandò Robin.
«Non è proprio un mito, visto che si tratta della mia vita. Comunque sì; in pratica ciò che avvenne fu questo: io fui ingiustamente strappata ad Orfeo, ancora troppo giovane, così lui disperato scese nell’Oltretomba per salvarmi. Riuscii a procurarsi l’ambrosia, un frutto talmente raro che avrebbe potuto riportarmi in vita. Purtroppo ciò fece infuriare Ade che lanciò una sorta di clausola sulla mia salvezza. Orfeo non avrebbe dovuto guardarmi fino a che non fossimo stati entrambi sulla terra. Se conoscete la mia storia sapete che non ci è riuscito. La mia anima è stata spedita direttamente qua». Beh dal suo punto di vista era leggermente diversa da come ce l’aveva raccontata Ade. Ma cosa altro mi sarei potuta aspettare da un mostro come lui?
«E dopo cos’è successo?», le chiese Milah.
«Io sono finita qua ed ho capito subito di essere diversa dal resto dell’anime di questo mondo. L’ambrosia mi aveva riportato in vita, ma purtroppo la mia anima era stata persa».
«Tu sei ancora viva?», domandai di scatto. «Dopo tutti questi anni? Sei intrappolata qui come me?».
«Diciamo di sì, anche se non credo che userai il termine intrappolata dopo che avrai sentito il finale della mia storia. Infatti, stavo dicendo che mentre io sono finita qua Orfeo è tornato nel mondo dei vivi senza di me. Non so come sia successo, non ha mai voluto dirmelo, ma quando è morto è finito anche lui nell’Oltretomba. Ade era una persona vendicativa, una volta nel suo regno ha fatto in modo che la sua anima fosse perduta e non potesse passare oltre».
Potevo immaginare come continuasse la storia. «Tuttavia non sapeva che tu eri qua».
«Già. Non potete immaginare la mia gioia quando l’ho visto, spaesato in mezzo a tutte queste anime in pena. Tuttavia lui non era come me e lo stare qui lo ha lentamente annientato, cancellando l’Orfeo che conoscevo. A quel punto ho voluto allontanarmi da tutto il resto ed isolarmi qua dentro». Era una storia molto triste, ma avevo ancora troppe domande al riguardo. Perché non se ne era andata? Come riusciva a sapere così tanto di noi? Aveva la magia, qualche particolare potere?
«Risponderò a tutte le tue domande Emma», mi disse come se mi leggesse nel pensiero. Un momento: forse era in grado di leggermi nel pensiero? Questo avrebbe spiegato molte cose.
«Non sono in grado di leggerti nella mente», affermò facendomi però credere tutto il contrario. «Si dice che l’ambrosia sia il cibo degli dei. Avrebbe dovuto riportarmi in vita, ma visto che così non è stato, ha avuto su di me un effetto particolare. Mi ha reso, tra le tante, una specie di sensitiva».
«Deve essere terribile», affermò all’improvviso Milah sorprendendomi. «Adesso capisco perché tu ti sia ritirata in questo luogo».
«Non mi aspettavo che qualcuno ci potesse arrivare così velocemente», affermò Euridice sorpresa, voltandosi verso di lei.
«Non capisco», ammise Charlie prima che potessi farlo io, «perché deve essere terribile?».
«Pensaci Charlie», rispose Milah di getto. «Se lei è una sorta di sensitiva, riesce a percepire la sofferenza di tutte quelle anime in pena. Già è straziante per noi, immagina come deve essere riuscire a sentire costantemente tutto quel dolore». Era una spiegazione più che valida e che motivava la scelta del suo isolamento. Era logico che si fosse allontanata da quella orrenda città.
«Perché non sei scappata da qui se questo posto ti fa stare così male?», domandai. «Vuol dire che non c’è una via d’uscita?». Chiunque sano di mente sarebbe scappato; se lei non l’aveva fatto le opzioni erano solo due: o lei era pazza o non c’era nessun modo per andarsene.
«No, non è così. Non preoccupatevi, c’è una via d’uscita. Non sono scappata perché lassù non ho più niente, tutto ciò che mi rimane è quaggiù. Guardate, forse così capirete». Si alzò e, non aggiungendo altro, andò a scostare l’enorme fronda di una pianta. Dietro di essa si ergeva quello che sembrava un gigantesco bozzolo, al centro del quale si trovava imprigionato un uomo, o meglio l’anima di un uomo. Sembrava come addormentato, completamente rinchiuso nella pianta.
«È Orfeo?», chiesi pur sapendo di aver ragione.
«Sì, ma non chiedetemi altro su di lui, vi prego. È troppo doloroso», disse rimettendo tutto come prima e tornando a sedersi di nuovo di fronte a noi. «Emma prima mi hai chiesto come mai sono disposta ad aiutarti senza volere niente in cambio. Beh tu hai avuto il coraggio di scendere nell’Oltretomba e di lottare per il tuo amore; e grazie a te Ade ha avuto quello che si meritava. So cosa significa essere allo stesso tempo vicini ma anche lontani: è quello che è successo a me e ad Orfeo ed è quello che sta succedendo a te e al tuo Hook. Non voglio che la storia si ripeta nuovamente». Era un’affermazione forte e riuscivo a percepire la sua sincerità ad ogni parola.
«Tu puoi davvero aiutarci ad uscire da qui?», sussurrai.
«Sì e vi dirò come». Sentii la tensione salire fino a rendersi percepibile perfino nell’aria intorno a noi. Era quello che ci serviva, era quello che ci avrebbe permesso di salvarci tutti quanti. Era il motivo della nostra avventura; non avevamo fatto un viaggio a vuoto.
«Ti prego parla», la incalzò Robin per tutti.
«Certo, capisco la vostra impazienza. Dovete sapere che sono qui da così tanto da conoscere ogni luogo di questa terra desolata. Ho cercato una via di uscita per molto tempo, prima che arrivasse Orfeo e dopo il suo arrivo; purtroppo l’ho trovata troppo tardi. Ormai non era più lui e non era più in grado di riconoscermi, figuriamoci di seguirmi e di scappare».
«Dove si trova?». La mia voce era così flebile, che avrebbe anche potuto non sentirmi.
«Nella grotta oscura».
Fino ad allora conoscevo solo un posto che avrebbe potuto avere quel nome. «Quella dove siamo comparsi io e Robin?».
«Sì, esatto. Dovete sapere che in fondo a quella grotta, nella zona diametralmente opposta all’uscita, l’ampiezza della caverna va restringendosi. Quella grotta che sembra infinita in realtà nasconde nel suo angolo più remoto un passaggio segreto. È nascosto, non visibile, ma c’è».
«E dove conduce questo passaggio segreto?». Per un attimo mi chiesi come facesse a sapere tutto quelle cose e come diavolo avesse fatto a non sfruttarle. Bisognava essere tremendamente stupidi per restarsene in quel mondo o, come nel suo caso, tremendamente innamorati.
«Beh su questo non ne sono certa. Non sono mai arrivata così oltre, ma posso dirvi tutto quello che so. Per accedervi è necessario un cuore che batte ancora, qualcuno come te Emma. È una clausola che impedisce anche alle anime più temerarie di lasciare questo dannato fiume. Però tu sei qui e può funzionare».
«Intendi che così posso portare tutti loro con me?». Sarebbe stato fantastico, sarei stata la Salvatrice per tutti i miei nuovi, e vecchi, amici. Era il mio compito e avrei potuto svolgerlo anche lì.
«Sì. Dovrai portarli uno ad uno, non potranno lasciarti se vorranno passare e arrivare sani e salvi dall’altra parte».
«E dove credi che sia quest’altra parte?», domandò Milah.
«Nell’Oltretomba».
«Quando ero là», aggiunse Charlie all’improvviso, «ho sentito dire che in mezzo alla foresta si trovava una specie di pozzo e che era da quello che nascevano le acque di questo fiume maledetto».
«Il corrispettivo del pozzo dei desideri di Storybrooke, c’era da aspettarselo», commentai. Solo Robin annuì, mentre gli altri sorvolarono sulle mie parole.
«Può darsi che sbuchi là», continuò Charlie.
«Potrebbe essere», confermò Euridice. «Comunque una volta che sarete passati vi troverete davanti a una serie di prove. Una di queste consiste in un bivio: dovrete scegliere la strada esatta, altrimenti non so cosa potrebbe accadere. Non so quale sia la scelta giusta, ma posso solo dire che l’apparenza non conta. Ricordate le mie parole: non date niente per scontato, ciò che luccica non è sempre oro».
«D’accordo», acconsentii, incamerando le sue parole. «Quindi sarà necessario trovare questo passaggio segreto e poi semplicemente portarli tutti con me? Dovremo affrontare delle prove ma poi arriveremo nell’Oltretomba».
«Non solo. Ho detto che per passare è necessario un cuore che batte, ma non basta. Per trovare il passaggio segreto è necessaria la magia». A quelle parole tutte le mie speranze crollarono in mille pezzi. Era proprio quello che mi mancava. Potevamo affrontare tutte le prove del mondo, ma sarebbe stato inutile se non potevamo arrivare a quel punto senza magia.
«Io non ce l’ho», ammisi amaramente. «Pensavo lo sapessi?». Non conosceva tutto? Come poteva esserle sfuggito quel particolare?
«No, non è vero. Credi di non averla più, ma la magia è sempre dentro di te, devi solo riuscire ad esprimerla in questo mondo».
«Non ci riesco, ci ho provato». Eccome se ci avevo provato, mi sentivo quasi monca senza, eppure non avevo ottenuto risultati.
Euridice rise amaramente. «Credo che tu non ci abbia provato nel modo giusto. Penso che dovrai proprio allenarti prima di iniziare il vostro viaggio di ritorno».
 
Tentai per l’ennesima volta di concentrarmi per focalizzare la magia nella mia mano, ma, come era successo fino ad allora, non riuscii nel mio intento. Ero arrivata al massimo a sentire un leggero formicolio nel braccio, ma probabilmente era stata solo una mia suggestione e nient’altro. Per quanto potesse dirne Euridice, la mia magia sembrava essersene andata per sempre.
Dopo tutto ciò che ci aveva rivelato, Euridice si era semplicemente alzata invitando gli altri a rifocillarsi e costringendomi invece a sforzarmi per ritrovare la mia magia. Avrei davvero fatto di tutto per poterla riavere anche in quel mondo, ma ogni mio sforzo era risultato vano; mi sembrava inutile starmene lì a sforzarmi per qualcosa che sentivo benissimo di non riuscire a fare. Probabilmente stavo sbagliando approccio, ma lei avrebbe potuto darmi qualche suggerimento in più, visto che sapeva così tante cose.
«Ancora niente?». Charlie si sedette a terra accanto a me, incrociando le gambe.
«No», sbuffai infastidita. Non sapevo più cosa fare; avevo provato di tutto e mi sentivo esausta.
Strinsi forte l’anello di Liam, che avevo al collo, cercando di concentrarmi su Killian. Era sempre stato lui a spingermi e a incoraggiarmi: poteva riuscire a farmi ritrovare la mia magia. Avevo provato a pensare a lui, ad Henry, alla mia famiglia, a tutti quelli che mi incoraggiavano, ma niente.
«Cosa dovresti riuscire a fare in teoria?», mi chiese Charlie studiando la mia espressione.
«Molte cose», sbuffai. «In questo momento mi basterebbe focalizzare un po’ del mio potere sulla mano. Mi sembra di essere tornata a quando stavo imparando a conoscere la mia magia».
«È stato tanto tempo fa?», continuò.
«Non più di tanto. Solo che adesso ho molto più potere di prima. In teoria almeno».
«Ed è difficile usare la magia?».
«Beh sarebbe più facile se tu la smettessi di farmi domande e mi lasciassi concentrare», risposi brusca. La sua espressione mutò di colpo, rattristandosi per quel mio rimprovero.
«Scusa», sussurrai. «Sono solo nervosa e stanca. Tuttavia è necessaria la magia per andarsene da questo posto ed io risulto essere l’unica che prima di arrivare qua ne fosse provvista. Adesso non riesco neanche a farla arrivare alla mano».
«Credo che tu stia sbagliando approccio». La voce di Euridice alle mie spalle mi fece voltare. «Stai tentando di convogliarla nel tuo corpo, ma in questo momento tu sei un’anima esattamente come tutti gli abitanti di questo mondo».
La guardai esasperata: poteva almeno dirmelo subito e non dopo ore di allenamento! Lasciai perdere e cercai di capire cosa mi stesse suggerendo. Avevo sempre convogliato la mia magia dalla mente a una parte fisica del mio corpo; se lì non era possibile come avrei potuto sfruttare il mio potere?
«Emma», mi domandò vedendo la mia espressione confusa, «sai perché sei finita qua?»,
«No». Non con certezza almeno. «Credo che sia stato per un desiderio che non si è realizzato nel modo corretto».
La sua espressione si fece più seria. «No, mia cara, è proprio il contrario». Si sedette di fronte a me e sospirò stancamente. «Credo di doverti mostrare una cosa».
«Cosa?». Continuavo a non capire a cosa si riferisse. Cosa mi aveva portato là se la mia teoria era sbagliata?
Euridice mi poggiò le mani sulle spalle e mi catturò con lo sguardo. «Chiudi gli occhi, cerca di concentrarti sul tuo corpo, e aprili soltanto quando te lo dirò io». Anche se ero perplessa, feci come mi aveva detto. Sentii gli occhi di tutti fissi su di me, ma non vi badai e mi apprestai ad obbedire.
Mi concentrai sul mio corpo, su ogni piccola sensazione che riuscivo a catturare con i miei sensi rimanenti. Tenere gli occhi chiusi amplificava tutto ciò che sentivo: percepivo ogni centimetro del mio corpo seduto sul terreno freddo e duro, ogni millimetro delle sue mani posate sulle sue spalle, ogni mio battito cardiaco, ogni mio respiro.
«Adesso aprili». Feci come mi aveva detto e quando li riaprii davanti a me non c’era più Euridice e quella particolare foresta. Sapevo esattamente dove ero: nel loft e le persone che avevo davanti erano semplicemente la mia famiglia. Il primo che notai fu Killian, che andava avanti e indietro come un pazzo: stava parlando ma non riuscivo a capire le sue parole. Poi vidi i miei genitori: mio padre era accanto a Hook e teneva per mano mia madre. Regina era seduta al tavolo e stranamente accanto a lei c’erano Belle, Gold ed August. Cosa diavolo ci facevano tutti lì?
Qualcosa sfiorò la mia mano e solo allora vidi Henry seduto per terra accanto a me. Fu allora che notai quello che probabilmente Euridice voleva mostrarmi. Per la prima volta da quando avevo riaperto gli occhi, feci caso al mio corpo: le mie mani erano piccole, tutto il mio corpo era minuscolo, mentre tutti gli altri risultavano troppo grandi, sproporzionati rispetto alle mie dimensioni. Quello non era il mio corpo, o meglio, lo era ma non come lo ricordavo io. Era come se fossi tornata in un istante a quando ero una piccola e innocente bambina.
Tentai di parlare e di chiamare Killian per avvertirlo, ma ciò che uscii dalla mia bocca fu solo un balbettio indistinto del suo nome, mentre senza neanche accorgermene scoppiavo a piangere.
Con la stessa velocità con cui ero arrivata mi sentii tirare indietro e dopo un battito di ciglia mi ritrovai di nuovo nel mio vero corpo di fronte ad Euridice e a tutti gli altri.
«Cosa diavolo è successo?», domandai riprendendo fiato. «Come diavolo hai fatto?».
«Beh diciamo che è un altro dono speciale dell’ambrosia», mi rispose scrollando le spalle e tornando subito a guardarmi con sguardo serio. «Ciò che conta è che tu abbia capito quello che volevo mostrarti: il tuo desiderio si è avverato. Adesso capisci perché la tua anima si è persa?».
Non risposi e continuai a guardarla sconvolta. Sentivo il mio corpo e lo percepivo esattamente come prima, ma secondo ciò che avevo appena visto significava che non era più così. Ciò che rimaneva di me a Storybrooke era un corpo di una bambina che un tempo potevo essere io? Era assurdo eppure avrebbe spiegato tante cose. Il desiderio si era realizzato e per questo ero stata spedita lì. Ma se accettavo quello che avevo visto come la pura e semplice verità, avrebbe voluto dire che di me non rimaneva altro che un’anima senza nessun posto dove poter tornare. Era ovvio che Killian stesse agendo in senso contrario per cambiare la situazione, ma la questione non cambiava. Ero un’anima ancora viva ed incredibilmente ero più persa delle altre già morte. Cosa ne sarebbe stato di me se non fossi riuscita a recuperare il mio corpo? Cosa ne sarebbe stato della mia famiglia e di mio figlio? E di Killian e del nostro futuro?
Adesso era ovvio perché non riuscissi ad usare la magia. Tentavo di convogliarla nel mio corpo ma evidentemente, per quanto potesse essere assurdo, in quel momento non ne avevo propriamente uno. Ero solo un’insieme di emozioni, sentimenti e ricordi. Ero ciò che mi rendeva Emma Swan, ciò che ero stata e che sarei sempre rimasta.
«Emma guarda le tue mani», sussurrò Euridice.
Abbassai lo sguardo e vidi un alone bianco di magia circondare le mie dita. Con un solo battito di ciglia riuscii facilmente a trasformarlo in una tenue fiammella, come avevo fatto milioni di volte in passato.
«Guarda un po’», disse Charlie sorridendo, «qualcuno si è appena sbloccato».
 
POV Killian
Mi portai la mano tra i capelli, continuando ad andare su e giù per la stanza. Non c’era altra soluzione, io lo sapevo, e presto avrebbero dovuto riconoscerlo anche gli altri. Anche se continuavano a protestare, sapevo che se volevamo salvare Emma c’era solo una cosa da fare.
«Oh insomma Hook è ridicolo», proruppe Regina.
«Già. Non è sicuramente questa la soluzione», l’appoggiò Mary Margaret.
«Per quanto desideri salvare nostra figlia, non possiamo farlo», continuò David.
«Voi forse non potete», ribattei. «Ma io sì».
«Killian…». Anche Henry provò a protestare, ma lo fermai prima che potesse continuare.
«Mi pare ovvio che scendere nell’Oltretomba sia l’unica soluzione. Lei è là, cos’altro dobbiamo fare?».
«Beh non è tecnicamente là», mi fece notare Belle.
«E poi pirata cosa vorresti fare una volta sceso là sotto?». Ci si metteva anche il Coccodrillo a dare manforte a tutta quella combriccola? «Si trova in un fiume di anime perse, non è un luogo per i vivi. Dovresti ringraziare il fatto che tu lo sia di nuovo».
«Beh anche Emma è viva e non dovrebbe trovarsi là. Non dovrebbe per nessuna ragione essere imprigionata in un luogo come quello».
«Lo sappiamo», convenne Mary Margaret. «Ma il suo corpo è qui adesso, lei non è propriamente viva. Non come lo saresti tu là sotto». Sapevo ciò che voleva dire; non conoscevamo il modo per entrare nel fiume senza morire, ma il solo fatto di non conoscerlo non significava che non ci fosse.
«Beh questo lo so, ma intanto dovremo andare là e trovare un modo di tirarla fuori da quel dannato fiume».
«Hook», proruppe Regina, puntandomi un dito contro. «L’ultima volta che siamo scesi là sotto Robin è morto per questo. Avevamo un piano, un piano ben congegnato, ma alla fine chi ne ha pagato le conseguenze è stato lui. Ed è vero che adesso Ade non c’è più, ma non ti permetterò in nessun modo di riportarci in un luogo simile». Sospirai capendo le sue ragioni; erano lecite, ma lei doveva capire le mie.
«Voi non l’avete vista», sussurrai, fermandomi di colpo e guardandoli uno ad uno. «Era là, forte come sempre, ma io la conosco: quello è il suo modo di fare. Ha paura e le manchiamo, le manchiamo da morire. Ed anch’io ho paura; ho paura che se non scendiamo nell’Oltretomba ora non troveremo più il modo di salvarla. Ogni minuto che passa la baby Emma cresce e contemporaneamente l’anima di Emma si perde un po’ di più. Noi dobbiamo andare là».
Mary Margaret mi si avvicinò e mi posò una mano sulla spalla. «Lo so Killian, ma non possiamo andare alla cieca, non possiamo scendere nell’Oltretomba senza sapere come salvarla».
Alzai lo sguardo per osservare l’espressione di tutti. In quella stanza nessuno mi avrebbe appoggiato: Regina era troppo spaventata all’idea di scendere nel luogo che aveva in qualche modo decretato la fine del suo Vero Amore. Sulla collaborazione del Coccodrillo non avevo mai veramente contato e con lui perdevo anche l’appoggio di Belle: era una donna forte ed intelligente ma Tremotino non avrebbe mai permesso un suo coinvolgimento in qualcosa di così pericoloso. La coppia Azzurra, per quanto potesse rivolere la loro adorata figlia, non avrebbe messo in repentaglio altre vite innocenti. Erano d’accordo con Regina, c’erano troppe variabili irrisolte, troppi pericoli, troppi intoppi. La mia idea perdeva senso di fronte a tutto il resto.
Poi c’era Henry. Era seduto per terra e stava giocherellando con la piccola Emma. Sapevo che lui sarebbe stato forse l’unico d’accordo con la mia folle idea, ma non poteva certo opporsi alla volontà di tutti gli altri, compreso quella della sua madre adottiva. L’avrebbe fatto, forse mi avrebbe appoggiato, ma sicuramente l’avrebbe fatto in segreto. Sapevamo entrambi che se avesse provato a schierarsi dalla mia parte non sarebbe finita bene né per lui né per me.
«Io penso che Hook possa avere ragione». Mi voltai di scatto osservando l’unica persona su cui ancora non mi ero soffermato. Pinocchio mi stava osservando con sguardo pensieroso, mentre con una mano si sfiorava il mento; con le sue parole aveva attirato l’attenzione di tutti, creando un silenzio assoluto nell’attesa di un suo chiarimento.
«Cioè», provò a spiegarsi, «quello che voglio dire è che quassù non troveremo mai il modo di salvarla. Ho letto e sfogliato molti libri della biblioteca di Storybrooke e penso che nessuno possa trattare un argomento del genere. Se parlano di quel fiume è solo in termini metaforici o di semplici accenni; non ci basterà un accenno per tirarla fuori da là».
«Beh non sappiamo cosa possiamo trovare nella biblioteca», protestò Belle. «Ci sono davvero tanti libri, senza considerare quelli che ci si trovano nella casa dell’Autore».
«Però August ha ragione», intervenne Henry, guadagnandosi un’occhiataccia da parte di sua madre. «Nell’Oltretomba c’era un corrispettivo della nostra biblioteca. Se consideriamo che i libri che si trovano qua parlano del nostro mondo, vuol dire che quelli che si trovano là parlano di quel mondo. È molto più probabile che la soluzione per salvare la mamma si trovi in quei libri e non in questi». Annuii e gli lanciai uno sguardo riconoscente, grato che anche lui si fosse schierato apertamente dalla mia parte.
«Penso che voi stiate correndo troppo», intervenne Regina. «Vi state forse dimenticando che se ci troviamo in questa situazione è colpa di un desiderio. Non ci serve sapere come tirare fuori Emma dal fiume delle anime perse se prima non sappiamo come far tornare il suo corpo come prima».
«Regina ha ragione», intervenne Gold. «In questo momento state dimenticando il fatto evidente che l’anima e il corpo di Emma Swan sono due entità separate. Non ci serve a nulla sapere come salvare la sua anima se non abbiamo un corpo in cui farla tornare».
Gli lanciai uno sguardo pieno di disprezzo anche se riconoscevo che la sua obbiezione era più che valida. Quell’affermazione, anche se non era riuscita a convincermi e a destabilizzare le mie intenzioni, riuscii a far vacillare i miei già deboli alleati. Dopo aver messo in chiaro quella cosa né August né Henry trovarono un appiglio per ribattere. Fui di nuovo schierato da solo contro tutti.
Ricominciai a camminare su e in giù per la stanza, tentando di smorzare la tensione. Ero sempre dell’idea che la soluzione si trovasse nell’Oltretomba e che una volta là avremo anche capito come annullare il desiderio. Finora i tentativi fatti a Storybrooke non avevano portato a granché, era ovvio che dovessimo scendere in u altro mondo per ottenere delle risposte.
Feci un respiro profondo e continuando a camminare cercai di spiegare civilmente il mio punto di vista. «Credetemi neanche io smanio dalla voglia di tornare nell’Oltretomba, ma ogni minuto è prezioso e qua a Storybrooke mi sembra di continuare a perdere tempo. Non vi sto chiedendo di venire con me, non voglio che nessuno mi segua se non se la sente, ma io devo scendere laggiù, lo devo fare per lei». Lei aveva fatto lo stesso per me ed io sentivo che quella era la strada giusta da percorrere. Ne ero certo anche se non ne conoscevo il motivo.
«Oh andiamo Hook», intervenne Mary Margaret, «lo sai che non ti lasceremo mai scendere nell’Oltretomba da solo». Ero felice di saperlo, ma allo stesso tempo non avrei voluto mettere in pericolo la vita di nessun altro. Emma non l’avrebbe voluto e perciò neanche io.
«Stai dimenticando pirata», continuò Gold, «che per scendere là sotto hai bisogno del mio potere. Non sei più un Signore Oscuro ormai, ed io non aprirò di nuovo quella porta». E questo era proprio ciò che non volevo sentirmi dire. Che diavolo! Ero disposto a mettere a repentaglio solo la mia vita. Cosa gli sarebbe costato darmi una mano?  Aprire un dannato passaggio e poi richiuderlo non l’avrebbe danneggiato di certo.
Stavo per avventarmi sul Coccodrillo, per scaricare così un po’ di tensione, quando la baby Emma iniziò improvvisamente a piangere.
«Kill…». Era stato del tutto inaspettato, fino ad un attimo prima stava giocherellando con le mani di Henry ed in un secondo era scoppiata in un pianto disperato, balbettando incessantemente il mio nome. Se non avessi saputo che l’anima di Emma si trovava altrove, avrei pensato ad un gesto disperato per farmi capire che non dovevo andare. Ma quella non era la mia Emma, non c’era nessun significato nascosto, nessun messaggio celato; quella era solo la bizza di un bambino come tanti.
Sospirai e, contraddicendo alla mia volontà, mi diressi verso di lei. Mi accucciai e la presi in braccio, riconoscendo che purtroppo ero l’unico in grado di calmarla in poco tempo. Emma si sporse subito verso di me e appoggiò la testa sulla mia spalla continuando a singhiozzare. Le accarezzai la schiena con l’uncino cercando di tranquillizzarla e sentii il suo respiro rallentare fino a regolarizzarsi.
«Lo vedete», mormorai quando la bambina si fu calmata, «non è lei; non è la nostra Emma. Io l’ho vista, anche se è stato solo per pochi secondi. Lei è là e ha bisogno di essere salvata, per una volta ha bisogno di non essere lei la Salvatrice».
«Lo sappiamo questo», ribatte David brusco. «Siamo tutti preoccupati non c’è bisogno che tu ce lo dica».
«Killian quello che David vuole dire», intervenne Mary Margaret, «è che capiamo le tue ragioni e sappiamo che le tue intenzioni sono le migliori. Siamo d’accordo tutti su questo, ma…».
«Ma non mi appoggerete lo stesso», continuai io prima che potesse finire. L’avevo già compreso e sapevo anche cosa avrei dovuto fare a quel punto. Avevo ben chiara quale sarebbe stata la mia mossa successiva.
«Beh allora credo che sia inutile per me restare qua». Mi avvicinai a Biancaneve e le passai la piccola, che nel frattempo si era completamente calmata. Mary Margaret la prese e mi guardò con uno sguardo contrito, chiedendomi tacitamente di cambiare idea. Ma niente avrebbe potuto dissuadermi dalla mia decisione.
Uscii da quella casa come avevo già fatto una volta, ma in questo caso niente mi avrebbe fatto cambiare idea. Se loro non volevano aiutarmi, avrei trovato chi poteva farlo al loro posto. Sarei riuscito ad arrivare nell’Oltretomba anche senza di loro e una volta là avrei scoperto come tirare Emma fuori da quel dannato fiume e come rimettere la sua anima nel suo corpo.
Sapevo di non avere un piano e non ero arrabbiato con gli altri per aver scelto la strada più sicura. Riconoscevo la validità delle loro paure e anch’io capivo benissimo quanto stessi rischiando con quella mia assurda pretesa. Tuttavia loro non avevano visto lo sguardo di Emma; in quei pochi secondi in cui l’avevo rincontrata non ero rimasto sconvolto solo dalla vista di Milah, ma anche da ciò che avevo letto nello sguardo del mio cigno. Anche se non parlava, ormai riuscivo a capire la mia Swan semplicemente osservandola; avevo colto il suo sguardo e capito come realmente si sentisse senza che mi dicesse una parola. Era impaurita e le mancavo, esattamente come lei mancava a me, ed era sola. In realtà, visto che Milah era con lei, sapevo che non era propriamente sola, però capivo la sensazione. Anch’io mi sentivo solo senza di lei: potevo stare con la baby Emma, potevo stare con Henry e con tutti gli altri ma restavo comunque solo senza la mia metà.
Era per questo che le avevo lasciato l’anello di Liam: io avevo tante cose che mi permettevano di tenerla vicina in ogni istante, ma lei era sola in un mondo del tutto sconosciuto, senza niente che potesse ricordarle casa. Se era terribile per me, doveva essere centomila volte peggiore per lei. L’anello le avrebbe dato una parte di me, le avrebbe fatto trovare il coraggio che le serviva e le avrebbe fatto sapere che io non mi stavo arrendendo, ma che avrei lottato per lei fino all’ultimo respiro, fino a che non sarebbe stata di nuovo tra le mie braccia.
Anche se Emma rimaneva comunque la Salvatrice, nell’istante in cui i suoi stupendi occhi verdi si erano posati su di me, mi aveva chiesto tacitamente di aiutarla a salvarsi. Lei stava lottando, lo sapevo, non sarebbe stato da lei arrendersi, ma ciò richiedeva che anch’io facessi altrettanto e non mi arrendessi.
Restare qua a spulciare libri per me avrebbe solo significato arrendersi. Il tempo non era dalla nostra parte ed io dovevo tentare il tutto per tutto. Visto che per scendere nell’Oltretomba mi sarebbe servito l’aiuto di Gold, dovevo trovare qualcun altro che potesse garantirmi la soluzione per un portale con la giusta direzione. C’era solo una persona in tutta Storybrooke che poteva conoscere abbastanza cose da potermi aiutare e da essere abbastanza egoista da non impedirmi di affrontare un viaggio così pericoloso. Non mi piaceva l’idea, come non mi era piaciuta l’idea di coinvolgere il Coccodrillo, ma d’altra parte non vedevo alternative.
Per questo non persi tempo a vagare per le vie di Storybrooke, ma una volta uscito dal loft sapevo benissimo verso che direzione dirigermi. Arrivai a destinazione in poco tempo e senza esitare, e prima di cambiare idea, bussai a quella che era l’ultima porta a cui avrei pensato di bussare.
«Hook?». L’espressione sorpresa e il ghigno stupito della Strega Perfida mi fece capire che avevo fatto la scelta giusta. «Che diavolo ci fai tu qui?».
«Non avrei mai pensato di dirlo, ma… ho bisogno del tuo aiuto Zelena».
«Bene pirata, accomodati. È sempre un piacere sapere di essere indispensabile». Così dicendo mi fece passare e accomodare nella cucina della sua casa isolata. Ero certo che gli altri, anche se mi avessero cercato, non avrebbero mai potuto immaginare che io mi trovassi proprio là.
«Raccontami tutto», mi disse facendomi sedere al tavolo di fronte a lei. «E fai piano la piccola Robin dorme».
In poco tempo le spiegai quel poco che c’era da conoscere, che sapevo dove fosse Emma e che credevo che l’unica soluzione per il momento fosse scendere nell’Oltretomba. Zelena rimase zitta per tutto il tempo e, anche dopo che ebbi concluso, rimase in silenzio assumendo uno sguardo pensieroso.
«Non mi dire che anche tu sei d’accordo con gli altri?», proruppi esasperato dalla sua assenza di reazioni.
«Oh no, credimi Capitano, purché non coinvolga me o mia figlia, non mi interessa se tu hai intenzione di rischiare la tua vita scendendo nell’Oltretomba».
«E questo cosa significa? Mi aiuterai?». Era un sì o un no?
«Sì lo farò, anche solo per dare contro a mia sorella e dimostrarle che non ha sempre ragione».
«Pensi che Regina stia sbagliando?». Non ero sorpreso tanto dal fatto che avesse accettato di aiutarmi: ero andato lì per quello, sapevo di trovare un alleato abbastanza collaborativo. Ciò che mi stupiva era che mi stesse effettivamente dando ragione.
«Oh non ti allargare pirata», ribatté. «Credo che Regina abbia tutte le ragioni per non voler appoggiare la tua pretesa di andare nell’Oltretomba, ma credo anche che se volete avere una speranza di salvare Emma Swan sia proprio quella l’unica soluzione».
«Quindi che cosa proponi di fare?». Qual era la sua idea? Come avrebbe gestito la situazione?
«Beh credo di poter riuscire a farti arrivare là senza ucciderti e anche senza ricorrere al Signore Oscuro».
Beh se le sue parole fossero state vere e sincere sarebbe stato perfetto. «Parla strega».
«Non so se te lo hanno raccontato, ma io, Belle e la piccola Robin non siamo scesi nell’Oltretomba insieme gli altri. Noi non siamo state traghettate, siamo passate attraverso un portale».
«Credi di poter creare quel genere di portale?».
«Sì, ovvio. Sono una strega molto dotata», si vantò. «Tuttavia ci sono altre cose che non posso fare: non posso riportarti qui una volta che sarai laggiù, dovrai trovare da solo la soluzione, così come dovrai trovare da solo il modo di tirarla fuori dal fiume. Quello che ti propongo è un viaggio di sola andata, il mondo in cui tu tornerai qua a Storybrooke non sarà affar mio».
«Ci sto», accettai. «Non ti ho mai chiesto niente di più». Sapevo già che il ritorno non sarebbe stato compreso nel viaggio d’andata; ero a conoscenza del fatto che una volta là avrei dovuto affrontare molte difficoltà e molti pericoli. Anche se Ade era morto e non governava più l’Oltretomba, quello non era mai stato un bel posto. La missione che stavo per intraprendere non sarebbe stata una passeggiata, ma era giusto che corressi quei pericoli. Erano molte le incognite e poche le certezze, non sapevo se avrei trovato la soluzione di tutti i nostri problemi là sotto, ma potevo iniziare a cercarle. In più avrei ridotto la distanza che mi separava da Emma: il resto non aveva importanza. Sentivo che era quella la strada giusta.
Stavo per intraprendere quel viaggio da solo e ne ero felice. Non avrei chiesto a nessuno di accompagnarmi, di certo non a lei che aveva una figlia di cui occuparsi. Non l’avrei mai chiesto neanche agli altri, era quello che Regina non aveva capito: non chiedevo loro di rischiare la propria vita per una mia idea, avevo solo chiesto loro di appoggiare la mia decisione. Sapevo che l’unico che si sarebbe infuriato sapendo ciò che avevo fatto sarebbe stato Henry; non si sarebbe arrabbiato perché credeva la mia idea stupida, ma perché rischiavo il tutto per tutto per salvare sua madre senza coinvolgerlo. Ma era giusto così: era ciò che avrebbe voluto Emma. In fondo io ero l’unico che non aveva proprio più niente da perdere.
«Bene», affermai sorridendo. «Quando puoi cominciare?».
«Beh pirata», ammise Zelena soddisfatta. «Credo proprio che per intraprendere questo tuo assurdo viaggio dovremo fare prima una capatina alla cripta di mia sorella». Si alzò e mi invitò a seguirla con lo sguardo.
«Alla cripta di Regina?». Feci come mi aveva detto senza esitare. Non l’avrei certo distolta dall’aiutarmi tirando fuori il mio solito caratteraccio.
«Sì è giunto il momento di dilapidare un po’ la scorta di pozioni della mia amata sorellina». 


 
Angolo dell’autrice:
Buongiorno a tutti! Eccomi qua di nuovo.
Questo capitolo ha sorpreso un po’ anche me. Per quanto riguarda la parte di Euridice, l’avevo già immaginata e quindi alla fine è stata piuttosto facile da scrivere. Lei è riuscita a indicare a tutti la via d’uscita ed è riuscita anche a far capire ad Emma perché effettivamente sia finita lì, facendole riacquistare la sua magia.
Invece la parte di Killian è stata una vera e propria rivelazione: non avevo previsto l’intervento di Zelena, mi è uscito fuori mentre scrivevo. Non pensavo di farlo scendere nell’Oltretomba, il mio piano originario era piuttosto diverso, ma adesso ho cambiato idea e so con certezza cosa accadrà.
GRAZIE a tutti i lettori e i recensori. Grazie ancora una volta di seguire la mia storia!
Un bacio e alla prossima settimana.
Sara
 

Ritorna all'indice


Capitolo 11
*** 11. Scelte difficili ***


11. Scelte difficili
 
POV Emma
Stiracchiai le dita e lanciai una palla di magia verso una di quelle strane piante. Saltellai eccitata quando si infranse in decine di scintille luminose, felice di aver ritrovato una parte del mio essere. Senza aspettare neanche un secondo accesi una nuova palla infuocata nell’altra mano e la lanciai di nuovo; quando si infranse, decisi di provare con qualcosa di più complesso. Cercai di concentrarmi per riuscire a spostarmi accanto a Charlie che continuava a guardarmi divertito; in meno di un secondo mi ritrovai esattamente dove volevo essere. Sorrisi ancora di più e continuai a spostarmi con la magia da una parte all’altra della radura.
Sapevo che c’era poco da essere felici dopo quello che Euridice mi aveva rivelato, però era più forte di me. Ero solo una povera anima senza un corpo in cui tornare, ma in quel momento, aver ritrovato la mia magia, mi sembrava la più bella notizia del mondo. Era come aver ritrovato la capacità di camminare dopo un periodo di infermità; era diventata una parte integrante di me. Era confortevole poter contare sulla mia magia e starne senza mi era sembrato un’agonia. Ero così eccitata da dimenticarmi persino di tenere a freno il mio comportamento; non era certo da me lasciarmi andare a tutta quella esultanza.
«Ma guardati», commentò Charlie, quando apparsi di nuovo vicino a lui. «Sembri una bambina».
«È troppo bello», ammisi sorridendo. «Mi sento di nuovo me stessa; è meraviglioso».
«Beh lo vedo, anche se non capisco cosa ci sia di così speciale».
«Oh andiamo. Così capirai». Senza la minima esitazione lo afferrai per un braccio e provai a portarlo con me. Potevo considerarla una specie di prova generale: se fossi riuscita a portare anche lui, probabilmente sarei riuscita a teletrasportare tutti. Ciò voleva dire tornare a casa dagli altri senza dover riaffrontare quel viaggio terrificante.
Chiusi gli occhi e mi concentrai al massimo: un secondo dopo eravamo entrambi esattamente dalla parte opposta della radura.
«Oh», commentò Charlie. Un enorme sorriso spuntò sulla sua faccia, segno che il mio esperimento gli era piaciuto. «Fallo ancora». Sorrisi e iniziai a teletrasportarci da una parte all’altra, lasciandogli ogni volta giusto il tempo di capire dove ci eravamo materializzati.
«Quando voi bambini avete finito di giocare che ne dite di intraprendere il viaggio di ritorno?». La voce di Milah interruppe il nostro divertimento e ci fece tornare con i piedi per terra.
«Scusa hai ragione», dissi raggiungendola a piedi. «Mi sono lasciata un po’ prendere la mano».
«Beh non ti avevo mai vista così», commentò Robin.
«Diciamo che non è una parte di me che lascio uscire molto spesso», commentai. «Comunque visto che la mia magia funziona, posso portarci tutti a casa in men che non si dica».
«Beh questo è già molto», sospirò Milah, «così dopo potremo andarcene tutti da questo posto infernale».
Mi voltai verso Euridice che aveva osservato in disparte tutta la scena. «Grazie! Grazie di tutto».
Si avvicinò a noi con un dolce sorriso stampato sul volto. «Non c’è di che. Sarò lieta di sapere che almeno qualcuno è riuscito a lasciare questo maledetto fiume».
«Potresti venire con noi», le proposi. «Potresti ricominciare». Sapevo già in partenza che non avrebbe accettato. Tuttavia lasciarla là mi sembrava comunque sbagliato: nessuno sarebbe dovuto rimanere in quel posto, nemmeno di propria volontà.
«No ti ringrazio, ma non posso». Euridice mi si avvicinò e mi prese la mano. «Il mio posto ormai è questo. Lo so che può sembrare strano, ma ormai faccio parte di questo mondo e andarmene mi distruggerebbe».
«Sei proprio sicura?», tentai un’ultima volta.
«Sì. Non posso più salvare Orfeo ma posso restare con lui per il resto dell’eternità».
«Il vostro è un amore molto forte», commentò Milah avvicinandosi a lei per salutarla. «Vorrei davvero che ci fosse un modo per salvarlo, per salvare tutte queste anime».
«Lo vorrei anch’io», commentò abbracciandola.
«Forse un giorno potrai trovarlo», intervenne Charlie. «Non è mai detta l’ultima parola». Non avevo mai pensato a quella possibilità, al fatto che lei stesse in qualche modo continuando a cercare una maniera per salvare Orfeo. Ovviamente lasciare quel mondo avrebbe significato abbandonare tutte le speranze. In un certo qual modo aveva senso e probabilmente se fossi stata al suo posto e avessi avuto soltanto Hook, senza la mia famiglia e miei amici, avrei fatto lo stesso.
«Forse un giorno», confermò Euridice con un leggero sorriso.
«Grazie davvero per ciò che hai fatto per noi», si accomiatò Robin.
«Credo che adesso sia arrivato il momento di andare», dissi una volta conclusi i saluti, cominciando a radunare tutte le mie energie. Un conto era stato spostarmi di un paio di metri portandomi dietro Charlie, un altro sarebbe stato arrivare fino al loro rifugio tutti sani e salvi.
«Cosa dobbiamo fare Emma?», mi chiese Charlie.
«State vicini a me, questo dovrebbe bastare». Obbedirono tutti e tre all’istante accerchiandomi. Stavo radunando tutto il mio potere quando, all’improvviso, la voce di Euridice mi fece di nuovo alzare la testa verso di lei.
«Emma». Il suo richiamo era arrivato chiaro e distinto alle mie orecchie, come se lei fosse stata ad un centimetro di distanza e non ad una decina di metri.
«Emma prima che tu vada, devo dirti una cosa molto importante». Le sue parole risuonarono nella mia testa ma non vidi le sue labbra muoversi.
«Cosa?», balbettai. Vidi gli altri guardarmi perplessa, non capendo cosa diavolo mi stesse succedendo. Intuendo la verità, scossi la testa e alzai le spalle. «Niente».
«Ho bisogno che tu sappia una cosa». Di nuovo la sua voce nella mia testa: era ovvio che lei stesse in qualche modo comunicando con me senza che gli altri potessero udire le sue parole. Qualunque cosa volesse dirmi era destinata solo a me, solo io dovevo saperlo. Era qualcosa che non voleva che gli altri conoscessero per chissà quale motivo.
La guardai annuendo leggermente e invitandola a continuare.
«In fondo alla grotta, accanto all’ingresso con il passaggio segreto troverai un altro passaggio. Lo distinguerai dall’altro stai tranquilla, il tuo istinto e la tua magia ti aiuteranno. Dietro questo ingresso c’è un piccolo cunicolo che scende in profondità; in fondo a questo si trova un albero di ambrosia».
Spalancai gli occhi sentendo quella parola. Mi stava forse dicendo che avrei potuto cogliere l’ambrosia per far tornare in vita i miei compagni? Avrei potuto far tornare in vita Robin? Riportarlo a Storybrooke?
«Esatto. Devi fare attenzione però, solo chi è ancora in vita può coglierne i frutti».
“Va bene”, pensai. “Io posso farlo”.
«Aspetta però. Se ne coglierai i frutti c’è il rischio che il passaggio segreto per l’Oltretomba si chiuda, non sarà più facile passare, sarà una corsa contro il tempo. È come se prendendo l’ambrosia, tu staccassi la valvola di sicurezza e mettessi in allerta il vostro tentativo di fuga».
“Tu come fai a saperlo?”. Era la domanda che mi ponevo sempre: come faceva ad essere così onnisciente?
«Lo so e basta. Hai capito cosa ti sto dicendo? Non potrai portarli tutti nell’Oltretomba se decidi di cogliere l’ambrosia. Sta a te la scelta, dipende tutto da te». Adesso capivo perché avesse scelto di dirlo solo a me: era un peso enorme da sopportare e una scelta difficile da prendere. Se gli altri l’avessero saputo probabilmente si sarebbero schierati gli uni contro gli altri. La domanda era chiara: rischiare tutto per tornare di nuovo in vita oppure accontentarsi di tornare in quella specie di limbo che era l’Oltretomba? Era una decisione troppo personale e troppo importante da prendere.
«Emma va tutto bene?», mi riportò alla realtà Charlie. «Ce la fai?».
«Sì, sì. Ce la faccio», sussurrai cercando di avere un tono abbastanza naturale.
«Ho voluto dirtelo», concluse Euridice. «Perché è giusto che tu sappia quali sono effettivamente le tue possibilità. Adesso però è ora che tu vada; in bocca al lupo».
Annuii e, nonostante l’improvviso peso sul cuore, chiusi gli occhi e mi concentrai per visualizzare la porta del loro lontano rifugio. Quando li riaprii fui lieta di ritrovarmi esattamente dove volevo e con accanto a me anche tutti e tre i miei amici.
«Ce l’hai fatta!», esultò Robin.
«Siamo a casa», confermò Charlie.
«Beh la chiameremo casa ancora per poco», convenne Milah. «Finalmente potremo andarcene». Non aspettò oltre e andò a bussare alla porta, utilizzando il loro particolare codice segreto. In un istante l’uscio si spalancò e sulla soglia comparve Lizzy. I suoi occhi si spalancarono vedendoci e subito dopo corse tra le braccia di Charlie scoppiando a piangere.
«Oh mio Dio! Siete tornati», singhiozzò contro il suo petto.
«Calma Lizzy, va tutto bene», cercò di tranquillizzarla lui passandole una mano sulla schiena.
«Ehi piccola tranquilla», convenne Robin, avvicinandosi a lei per passarle una mano sulla testa.
«Su Lizzy. Siamo qui e stiamo bene. Che ne dici di lasciarci entrare?». Le parole di Milah servirono a convincerla e a farla rientrare in casa, con tutti noi al seguito.
«Lizzy che succede?». La voce di Joe arrivò chiara alle nostre orecchie mentre stavamo entrando in quel loro minuscolo salottino. Era in piedi vicino ad una delle due porte e non appena ci vide i suoi occhi si spalancarono dalla sorpresa e si riempirono di gioia. «Oh mio Dio! State tutti bene!».
Milah corse subito ad abbracciarlo, mentre Lizzy tornò a stringersi contro il petto di Charlie. Adesso che conoscevo la loro storia, potevo guardarli con occhi diversi. Lei doveva considerarlo una sorta di fratello maggiore, ma mi chiesi come poteva sentirsi lui. Chissà quante volte si era domandato cosa sarebbe accaduto al loro rapporto se Lizzy avesse conosciuto la verità. Il senso di colpa doveva essere opprimente e come al solito la questione non era tanto riuscire ad essere perdonati ma perdonare sé stessi.
«Dove è Mark?», chiese Robin dopo aver salutato Joe. Lizzy scoppio di nuovo a piangere mentre gli occhi di Joe si riempirono di tristezza. Non fu necessario che parlasse, bastò solo un piccolo cenno del capo.
«No!», sussurrò Milah, portandosi una mano alla bocca. I suoi occhi si riempirono di lacrime, dimostrando un attaccamento che non avevo colto fino ad allora. Ma dovevo capirlo: quelle persone erano diventate la sua famiglia, era ovvio che soffrisse nel perderle.
«Maledizione!». Robin iniziò a camminare su e giù per la stanza, passandosi una mano nei capelli. Charlie invece strinse Lizzy più forte, sussurrandole qualcosa nell’orecchio che non riuscii a comprendere.
Era davvero terribile: noi avevamo rischiato la vita e alla fine quello che si era perso era stato colui che era rimasto nella sicurezza del loro rifugio. Ora più che mai era palese il bisogno di andarsene al più presto; non c’era niente che garantiva loro di rimanere lucidi anche tra quelle quattro pareti. Per fortuna avevamo tutte le carte in regola per lasciare quell’inferno.
«Mi dispiace», dissi dopo qualche minuto di silenzio. Trassi un profondo respiro cercando di prendere coraggio. «Non sarebbe dovuto succedere. Proprio per questo però credo che dovremo tutti andarcene da questo posto. Abbiamo trovato il modo e possiamo salvarci tutti; non dobbiamo più perdere tempo. Non dobbiamo più perdere nessuno».
«Emma ha ragione, dobbiamo andarcene da qui e dobbiamo farlo tutti». Milah si asciugò gli occhi e torno ad assumere il suo carattere autoritario.
«Bene», convenne Robin, «prendiamoci giusto il tempo per riposarci un secondo e prepararci a partire. Vi spiegheremo tutto mentre completiamo gli ultimi preparativi. Ragazzi fate le valige perché ce ne andremo da questo inferno oggi stesso».
 
Sospirai profondamente appoggiando la testa sulle ginocchia. Ero uscita fuori nel vicolo dove affacciava il loro rifugio e mi ero seduta per terra. Sapevo che non avrei dovuto farlo, che poteva essere pericoloso, ma avevo davvero bisogno di un momento di solitudine mentre loro finivano di prepararsi e di mettere al corrente Joe e Lizzy. D’altronde in quel punto non sembrava esserci nessun’altra anima, non poteva essere eccessivamente pericoloso.
Ciò che mi aveva rivelato Euridice mi aveva completamente sconvolto. Dopo tutto ciò che avevo visto laggiù non potevo credere che in quella terra desolata esistesse l’ambrosia. E, stando a ciò che lei aveva detto, solo io sarei stata in grado di coglierla Eppure questo non bastava, perché, se l’avessi fatto, avrei potuto mandare a monte la salvezza di tutti condannandoli a subire la stessa sorte di Mark e delle migliaia di anime che si trovavano nel fiume. Potevo scegliere la strada più sicura, facendoli arrivare sani e salvi nell’Oltretomba dove il loro destino sarebbe stato ancora da decidere, oppure sceglie l’incerto, una strada piena di pericoli.
La decisione era facile e difficile allo stesso tempo. Nell’Oltretomba sarebbero potuti andare avanti, avere il loro lieto fine, era un qualcosa di certo e sicuro. Ma poi pensavo a Robin: era morto per colpa mia, anche se indirettamente, Regina aveva sofferto per avermi aiutato a ritrovare Hook. Lui meritava di più di una semplice fine, Regina meritava di più. E non solo lui: c’era Lizzy, così giovane, così innocente. Non meritava anche lei di vivere la propria vita? E anche tutti gli altri: Charlie, Joe, persino Milah. Cosa avrebbe detto Killian vedendola? Non ne avevo idea e anche se ero in qualche modo gelosa di lei, sapevo che non sarebbe stato un problema per me, per noi.
Quindi tentare di trovare l’ambrosia sembrava un sogno e anche legittimo. Tuttavia se come aveva detto Euridice cogliendola avessi buttato all’aria la loro unica possibilità di lasciare quel fiume? Non potevo dar loro l’ambrosia senza averli riportati nell’Oltretomba; sarebbero diventati come Euridice e probabilmente non avrebbero resistito sentendo il peso di tutta quella sofferenza.
Dovevo prendere una decisione ed era davvero la scelta più difficile che avessi fatto in vita mia. Anche perché non si trattava della mia vita ma quella di persone a cui mi ero affezionata e a cui volevo bene. Ero la Salvatrice, ma in quel caso non sapevo se sarebbe bastato semplicemente portarli via da là. Potevo essere considerata ancora la Salvatrice se facevo finta di non sapere dell’ambrosia? Conoscevo un modo che se avesse funzionato poteva salvarli del tutto: potevo io salvarli solo a metà? Ma d’altronde non rischiavo solo io e percorrere la strada più sicura sembrava l’unica soluzione.
«Che diavolo ci fai qua fuori?». La voce di Charlie alle mie spalle mi fece sobbalzare. «È pericoloso!».
«Non c’è nessuno in questo vicolo e avevo bisogno di un attimo di tranquillità e di solitudine». Charlie si guardo intorno con aria preoccupata e poi venne a sedersi accanto a me. «Va tutto bene?».
«Sì, penso di sì», risposi sinceramente. «Spero solo di riuscire a portarvi tutti via da qui».
«Andrà tutto bene», confermò pieno del suo solito ottimismo.
«Sperò che tu abbia ragione. Mi sento addosso una grande responsabilità». Dipendeva tutto da me, lo sapevo bene ormai.
«Sei all’altezza, tu sei la Salvatrice e ci stai salvando». Sospirai e non risposi, concentrandomi invece sulla punta delle mie scarpe. Certe volte avere il titolo di Salvatrice sembrava un fardello non indifferente. Non era così semplice e così fantastico come poteva sembrare.
«Emma». Charlie richiamò di nuovo la mia attenzione facendomi voltare la testa verso di lui. «Volevo ringraziarti».
«Per cosa?». Ancora non avevo fatto nulla.
«Grazie per aver intrapreso questo viaggio e per cercare di salvarci. Te ne sono enormemente grato».
«Beh chiunque l’avrebbe fatto». Ogni eroe al mio posto avrebbe fatto esattamente la stessa cosa.
«No, non tutti. Non dopo aver saputo chi hai davanti realmente». Sapevo che si riferiva a sé stesso, ma aveva una visione un po’ sbagliata di ciò che effettivamente era.
«No questo non è vero. Tutti meritano di essere salvati Charlie, come tutti meritano la possibilità di redimersi. E tu lo stai facendo».
«Io», sussurrò dopo un secondo, «non credo che andrò mai in un posto migliore anche se torneremo nell’Oltretomba. Non dopo quello che ho fatto».
«Certo che andrai in un posto migliore», proruppi. «Ti sei pentito e adesso stai facendo di tutto per salvarla!». Non dissi il nome di Lizzy per paura che qualcuno ci stesse ascoltando, ma il riferimento a lei era palese.
«Non lo so», mormorò. «Penso che le azioni che ho compiuto mi perseguiteranno per sempre».
«Questo è perché non riesci a perdonare te stesso, ma non sei più quella persona. Anzi dubito che tu lo sia mai stato. Il senso di colpa non ti divorerebbe altrimenti».
«Io sono una persona cattiva», affermò. «Le mie azioni parlano per me».
«Charlie ascoltami bene». Mi voltai di più verso di lui e gli poggiai le mani sulle spalle. Lui alzò la testa e mi squadrò con i suoi occhi neri come la pece. «Se ho imparato una cosa in questi anni è che non esiste nessuno completamente buono, né qualcuno completamente cattivo. Non si nasce cattivi, lo si diventa; ma una volta diventati tali non lo si resta per sempre. Quello che hai fatto non ha macchiato il tuo cuore in maniera indelebile; se ti ostini a continuare a colpevolizzarti sarà quello che lo macchierà. Devi capire che non sei più quella persona, che il solo fatto di esserti pentito non ti rende più quella persona. Tu non sei un cattivo Charlie, tu fai parte dei buoni».
I suoi occhi si illuminarono sentendo le mie parole e, senza neanche accorgermene,  mi ritrovai a naufragarci dentro. Erano due pozzi neri senza fondo, così emozionati e così pieni di sentimento. Forse se non fossi stata così ingenua, avrei potuto leggervi prima quel luccichio particolare che poteva portare solo ad una cosa. Accadde tutto in un secondo: un attimo prima ci stavamo guardando negli occhi e quello dopo lui mi stava baciando. Le sue labbra calde si appoggiarono sulle mie, sperando di scatenare una qualche reazione. Invece l’unica cosa che ottennero fu quella di farmi irrigidire e di far scattare la mia mente verso una sola idea: Killian. La sua bocca si posò sulla mia sperando di schiuderla, mentre ciò che provocò fu solo farmi notare l’evidente differenza con il mio pirata.
«No». Lo spinsi via cercando di allontanarlo, anche se lui risultava più forte di me. «No ti prego».
Alla mia supplica Charlie sembrò riprendersi, quasi accorgendosi solo in quel momento di ciò che aveva fatto.
«Io…», tentò di parlare.
«No». Mi alzai di scatto allontanandomi da lui. «Perché lo hai fatto?». Sentii la rabbia crescere; ero furiosa, non tanto per il bacio quanto perché lui aveva appena rovinato l’amicizia che era nata tra noi. Come potevamo tornare ad avere quel rapporto dopo ciò che era appena successo?
«Io pensavo che…». Non terminò la frase capendo che le sue parole non avrebbero avuto senso.
«No tu proprio non hai pensato», ribattei brusca. «Charlie mi dispiace se tu hai iniziato a provare dei sentimenti per me. Ma io non ti ho lasciato intendere in nessun modo che potessi ricambiarli e se l’ho fatto mi dispiace; lo sai benissimo che il mio cuore appartiene completamente ad un altro e te l’ho detto, più di una volta. Proprio non dovevi fare una cosa del genere. Eri mio amico! Credevo che ti bastasse. Doveva bastarti! Adesso invece hai rovinato tutto!». Rientrai in casa come una furia, più sconvolta di quando ne ero uscita e con l’animo ancora più in subbuglio.
Nonostante avessi sbattuto forte la porta alle mie spalle, non potei evitare di sentire comunque le sue parole. «Mi dispiace tanto Emma».
 
POV Killian
«Cosa stiamo cercando esattamente?», domandai afferrando uno strano oggetto rotondo, da un baule disseminato nella cripta.
«Posalo immediatamente». Zelena mi puntò un dito contro con fare minaccioso. «Tieni il tuo uncino a posto e non toccare niente».
«D’accordo», acconsentii con un’alzata di spalle. «Non toccherò niente. Se magari mi spiegassi cosa ti serve…».
«Mi serve che tu faccia silenzio e che tu stia alla porta. Controlla che non arrivi nessuno, non vorrei che mia sorella ci cogliesse in fragrante».
«Ai suoi ordini signora», biascicai andando a controllare le scale che riportavano di sopra. «Anche se non penso che Regina si possa aggirare nel cimitero a tarda sera».
«Beh potrebbe venire a cercare qualcosa nella cripta», ribatté piccata. «Non dovrei spiegartelo io, ma se ci scopre non mi permetterà più di aiutarti in questa tua folle missione».
«Lo so». Purtroppo aveva ragione e, data l’imminente situazione con la baby Emma, non era del tutto escluso che Regina potesse venire a cercare qualcosa là sotto anche di sera.
«Tuttavia», continuai fissando le scale, «lei potrebbe benissimo materializzarsi qua dentro ed allora sarà stato inutile l’avermi messo a fare il palo».
«Beh sei proprio ingenuo se pensi che non abbia protetto la sua cripta da questo genere di trucchetti. Altrimenti chiunque potrebbe benissimo entrare e frugare tra le sue scorte di pozioni».
Non risposi e continuai a svolgere quel mio inutile compito in silenzio. Era evidente che non sarebbe arrivato nessuno: non c’era nessun altro rumore a parte quello provocato da Zelena. A chi sarebbe venuto in mente di entrare nella cripta a quell’ora?
All’improvviso sentii un tonfo sordo alle mie spalle, proveniente esattamente da dove si trovava la strega. Lasciai perdere le scale e mi sporsi per osservare cosa stesse combinando; era accucciata a terra e stava frugando in uno dei tanti bauli. Non c’era niente che potesse giustificare il rumore che avevo appena sentito, ma comunque lei sembrava non essersene neanche accorta
«Dove diavolo l’avrà messa?», mormorò fra sé.
«Se mi dicessi cosa stiamo cercando, forse potrei aiutarti», le feci notare.
«Sta zitto pirata e lasciami pensare».
«Certo che tua sorella sa nascondere bene le proprie cose», la stuzzicai, «visto che ancora non sei riuscita a trovare ciò che ci serve».
Zelena mi lanciò un occhiata alzando un sopracciglio. «Farei attenzione a non provocarmi se fossi in te, visto che sono l’unica che ha intenzione di aiutarti». Colpito e affondato. La sua era un’osservazione più che giusta.
Senza più aggiungere altro, tornai a guardare le scale giusto in tempo per accorgermi di un’ombra e del rumore di alcuni passi che si avvicinavano.
«Arriva qualcuno», bisbigliai, preparandomi a fronteggiare chiunque fosse stato il nuovo arrivato. Zelena si alzò di scatto e fece apparire una palla di fuoco magico nella sua mano. Molto probabilmente l’unica che poteva scendere là sotto era Regina stessa, ma comunque era meglio prepararsi al peggio.
I passi si fecero sempre più vicini fino a quando una figura slanciata con una capigliatura castana non comparve sulla soglia.
«Henry», esclamai abbassando l’uncino. «Cosa diavolo ci fai qui?». Anche Zelena sospirò e, facendo scomparire la palla magica, aprì le mani in un gesto esasperato.
«Beh sono venuto a darvi una mano, mi pare evidente».
«Come diavolo hai fatto a trovarci?». Credevo che nessuno fosse a conoscenza del fatto che avessi chiesto aiuto a Zelena o che noi stessimo trafugando qualcosa dalla cripta di sua sorella.
«Oh andiamo!», rispose scrollando le spalle. «Sono l’Autore! Con la mia penna non potrò interferire nelle vostre storie, ma so come trovarvi quando tentate di nascondervi». In effetti non avevo considerato che lui potesse usare la sua penna magica per rintracciarmi; d’altra parte l’essere l’Autore non era di nessuna utilità visto le centinaia di regole a cui Henry doveva sottostare. Se avesse potuto Henry non avrebbe esitato a far tornare sua madre quella di prima.
«Quindi ditemi», continuò sedendosi sopra una scatola, «cosa state facendo qua sotto? Qual è il piano?».
«Tua madre sa che sei qui?», intervenne Zelena prima che potessi farlo io.
«Sono andato da solo a Boston quando avevo dieci anni senza che lei se ne accorgesse. Pensi davvero che mi farei scoprire adesso?».
Zelena scrollò le testa a quella risposta e tornò a cercare quello per cui eravamo venuti.
«Allora», insisté Henry, «cosa avete intenzione di fare?».
«Henry…», iniziai. Non che non volessi rivelargli il mio piano, ma sapevo che avrebbe voluto partecipare o che alla fine avrebbe avvisato gli altri ed io non volevo nessuna interferenza.
«Hook», mi fermò prima che potessi continuare. «Non sono più un ragazzino, so gestire la cosa. Quindi non trattarmi come un bambino soprattutto quando la questione riguarda mia madre».
Erano state parole forti e decise e ci voleva anche una certa maturità per pronunciarle. Tuttavia era davvero rischioso metterlo al corrente del mio piano, perché lo conoscevo troppo bene da sapere che non sarebbe voluto rimanere in disparte. «Lo so, ma non vorrei…».
Di nuovo non mi lasciò finire. «Non mi sono stupito di trovarti qui con Zelena. So che stai escogitando qualcosa, quindi evita tutta la parte in cui dici di non volermi coinvolgere perché io sono qui e sono già coinvolto».
«D’accordo», mi arresi. «Zelena mi aprirà un portale per l’Oltretomba. Non è un piano ben congegnato, ma mi permetterà di avvicinarmi ad Emma. Non so altro, so solo che non posso restare qua se vogliamo avere la possibilità di salvarla».
Henry assimilò le mie parole mantenendo un’espressione seria. «D’accordo».
«Solo questo?», gli domandai sorpreso che non aggiungesse altro.
«Beh sì solo questo. Sono d’accordo con te sul fatto che non possiamo trovare la soluzione restando qua». Ero davvero lieto di averlo dalla mia parte, anche se la sua alleanza non avrebbe comportato granché non appena Regina l’avesse scoperto.
«Quindi», continuò Henry, «cosa stiamo cercando esattamente?».
Stavo per rispondergli che non ne avevo la minima idea, quando Zelena mi anticipò. «La bacchetta dello Stregone, so che tua madre la tiene qui nascosta da qualche parte».
Mi voltai verso di lei stupito che finalmente mi avesse rivelato i suoi piani. «È quella che stiamo cercando? Per creare il portale serve solo la bacchetta?».
«Beh più o meno sì. Principalmente mi serve quella dannata bacchetta, ma non riesco a trovarla e non posso usare la mia magia per cercarla». Continuò a frugare in mezzo alle cose di Regina assumendo un’espressione accigliata.
«Beh non la troverai là», commentò Henry. Sia io che Zelena ci voltammo contemporaneamente verso di lui.
«Tu sai dov’è?», gli chiesi. Non ero stupito, sapevo che quel ragazzino ci sarebbe stato utile.
«Sì», rispose Henry avvicinandosi alla strega. «La mamma l’ha nascosta in uno scompartimento segreto. Io ero presente quando l’ha fatto».
Zelena si tirò indietro e lasciò che Henry armeggiasse con uno dei tanti bauli fino a che non si aprì uno sportellino nella fodera che noi non avremo mai potuto trovare. La bacchetta rotolò fuori e cadde per terra, mostrandosi in tutta la sua bellezza. Non potevo davvero credere che fosse stato così facile.
«Visto», commentò Henry raccattandola. «Cosa avreste fatto senza di me!».
«Grazie». Gli lanciai un sorriso riconoscente, mentre Zelena allungava la mano per ricevere la bacchetta.
«Bene ragazzino adesso dammela».
«No», rispose tranquillamente. Lo guardai perplesso, stentando a credere alle mie orecchie. Anche Zelena lo fissò sorpresa mentre un cipiglio infastidito si disegnava sulla sua faccia.
«Credete davvero che sia così ingenuo?», continuò Henry. «Non vi darò la bacchetta, non finché non accetterete le mie condizioni».
«Che condizioni?». Temevo di sapere ciò che avrebbe richiesto e non sapevo proprio come avrei fatto a dirgli di no.
«Voglio venire con te. Non mi puoi lasciare qui».
Sospirai capendo che i miei timori erano fondati. «Senti Henry so che vuoi salvare tua madre, ma…».
«Niente ma», mi fermò. «Lo so che è rischioso ma non posso restare qui. Lo sai bene quanto me che non posso restare qua sapendo che la mamma è laggiù».
«Senti Henry», intervenne Zelena. «O mi dai la bacchetta con le buone o non esiterò a riprendermela usando la magia».
«Sono l’Autore, cosa potrebbe impedirmi di rubartela di nuovo o di fermarti in qualsiasi altro modo?». Non credevo che lui sarebbe mai arrivato a tanto, ma aveva comunque le potenzialità per farlo. C’era il rischio che un nostro rifiuto netto lo spingesse troppo oltre.
«Ascoltami Henry», tentai. «Zelena mi aprirà un portale per l’Oltretomba, ma tu l’hai visto com’è là sotto? È rischioso e quello che Zelena mi sta garantendo è solo un viaggio di andata. Non so come tornerò qua a Storybrooke, non so neanche se ci riuscirò. È troppo rischioso, tua madre mi ucciderà se ti porto con me. Anzi entrambi le tue madri mi uccideranno».
«Certo lo so che è rischioso», ribatté dimostrando una testa dura come quella di sua madre. «E lo so che le mamme si arrabbieranno, ma non sono più un bambino e non possono decidere per me. Io voglio venire con te. Ti servirò là sotto, tu sai che avrai bisogno di me una volta arrivato laggiù!».
Eravamo arrivati ad un punto di stallo. Non sapevo più come ribattere o come evitare di fargli intraprendere una missione così rischiosa. Solo una cosa era certa: io avrei fatto quel viaggio da solo e Henry sarebbe rimasto a Storybrooke a qualsiasi costo. Tuttavia lui stringeva ancora in mano la bacchetta e non aveva nessuna intenzione di lasciarla andare. Non potevo usare la forza, né Zelena la magia: si sarebbe spinto troppo oltre, avrebbe usato il suo potere di Autore in maniera del tutto scorretta.
«D’accordo, hai vinto», affermò Zelena sorprendendomi.
«Cosa? No!», ribattei. Era impazzita? Si trattava pur sempre di suo nipote! Voleva mandarlo nell’Oltretomba in una missione così azzardata? Regina l’avrebbe uccisa davvero stavolta.
«Sul serio?» Henry sembrò sorpreso quanto me.
«Sì potrai andare con il pirata se è questo che vuoi. Adesso dammi la bacchetta».
«Ho la tua parola?». Continuavo a guardare la scena basito non sapendo come invertire la situazione.
«Hai la mia parola stanne certo. Adesso dammi la bacchetta». Henry la studiò a lungo cercando di capire se fosse più o meno sincera. Alla fine, però, allungò la mano che stringeva la bacchetta e la passò a Zelena.
«Cosa? No!», ripetei. «Sei forse impazzita? Lui non passerà in nessun portale!».
«Non è una tua decisione», ribatté Zelena scrollando le spalle.
«Esatto», concordò Henry.
«Fidati di me pirata», aggiunse la strega fissandomi dritto negli occhi. I suoi occhi così chiari mi suggerirono solo una cosa: lei aveva un piano. Mi stava dicendo che l’avrebbe fermato e che io dovevo solo fidarmi di lei. Peccato che in tutti questi anni non avesse dimostrato di meritare una grande fiducia.
«D’accordo», finsi di acconsentire. «Se Emma mi ucciderà per questo, sappiate solo che è colpa vostra».
 
Poco tempo dopo avevamo fatto tutti e tre ritorno a casa di Zelena. Oltre alla bacchetta aveva preso altre due o tre fialette, contenenti chissà cosa. Io, d’altra parte, non avevo più detto una parola. Mentre Zelena si preparava per i suoi giochetti da strega, io me ne ero rimasto muto in disparte. Non ero d’accordo con la decisione di Henry, e lui lo sapeva, e  perciò non avevo più niente da aggiungere. Speravo solo che quello di Zelena fosse un piano ben congegnato.
«Bene», disse la strega, dopo aver consultato un libro. «Credo che sia ora d’iniziare».
«Come funziona?», domandò Henry. «Cosa farai adesso?».
«Prima di tutto, vi darò una pozione», affermò Zelena.
«Che pozione?», biascicai imbronciato.
«Non è servita una pozione quando siamo scesi giù la prima volta», le fece notare Henry.
«Oh lo so, ma questa è una situazione particolare. La pozione che ho preparato vi impedirà di perdervi. È come se rafforzasse il legame con la terra, vi servirà se volete tornare indietro. Consideratela una sorta di garanzia: quando avrete trovato Emma e troverete il modo di tornare a Storybrooke, grazie a questa pozione sarà più facile».
«E perché diavolo non me ne hai parlato prima?», inveii. Perché me lo diceva solo adesso? Forse perché era coinvolto anche Henry? Aveva deciso di vuotare il sacco solo perché c’era lui? Quando ero coinvolto solo io, aveva omesso tutti quei particolari!
«Perché non ne conoscevo l’esistenza», rispose scrollando le spalle. «L’ho trovato in un libro di Regina».
«D’accordo», continuò Henry. «E dopo che avremo bevuto la pozione?».
«Aprirò il portale che vi condurrà nell’Oltretomba». Era un piano piuttosto semplice e basilare. Il peggio sarebbe venuto solo dopo, una volta scesi là sotto.
«Va bene cominciamo», esultò Henry eccitato.
«Certo». Fece apparire sul tavolo di fronte a lei due fialette contenenti un liquido scuro. «Bevete queste». Henry ne prese subito una, mentre io afferrai titubante l’altra. Avevo bevuto un po’ troppe pozioni in quell’ultimo periodo.
«Sei sicura che funzionerà?», domandai incerto.
«Tu bevi. Prova a fidarti di me per una volta». Lasciai perdere i miei dubbi e feci come mi aveva detto. Non mi piaceva per nulla bere quegli strani intrugli, ma d’altra parte non avevo molta scelta.
Vidi Henry buttare giù tutto di un fiato la sua e quindi mi apprestai ad imitarlo. Non potevo certo lasciarlo da solo, dovevo andare in fondo a quella storia, anche se non mi piaceva per niente. Stappai la fiala e la trangugiai velocemente, aspettandomi un sapore orrendo come aveva quella che mi aveva dato Gold. Invece rimasi perplesso riconoscendo il palese sapore di ruhm.
«Ma che diavolo…». Non feci a tempo a terminare la frase che Henry cadde a terra di colpo, privo di sensi.
«Henry!». Mi apprestai ad andare da lui e a scuoterlo, ma non accadde niente e lui restò in terra senza dare nessun segno di vita. «Cosa hai fatto?». Mi voltai verso Zelena e la fulminai con uno sguardo di fuoco.
«Tranquillo pirata», mi rispose avvicinandosi. «Sta solo dormendo, te l’avevo detto di fidarti di me». Con un gesto della mano spostò il corpo di Henry adagiandolo sul divano.
«Cosa gli hai dato?», domandai iniziando a capire ciò che aveva appena fatto.
«Un sonnifero bello potente. Non potevo certo permettere che lui partisse con te in questa missione suicida. Regina mi avrebbe ucciso».
«Beh non potevi dirmelo invece di farmi credere che ti fossi completamente bevuta il cervello?».
«Sì certo e quando?», ribatté piccata. «Avrebbe sospettato qualcosa, Henry doveva credermi dalla sua parte». Aveva completamente ragione, solo non volevo ammetterlo.
«Quindi non esiste nessuna pozione?». Per questo quello che avevo bevuto mi era sembrato semplice rhum.
«No ovvio. Ti avevo già detto che non c’è nulla che possa fare per facilitare il tuo ritorno a Storybrooke. Il mio compito si limita solo a creare un portale, per il resto dovrai pensarci da solo. E per quanto riguarda Henry sarà furioso, ma sarà al sicuro qua a Storybrooke».
«Grazie». Non era una parola che usavo spesso soprattutto con lei, ma in quel momento dovevo farlo. Non la stavo solo ringraziando per l’aiuto che mi stava dando nell’affrontare quella missione impossibile, ma la stavo ringraziando per aver impedito ad Henry di seguirmi, assumendosi lei tutta la responsabilità. Aveva pensato a lui prima di pensare a sé stessa e di questo gliene ero grato.
«Non c’è di che pirata. Che ne dici di iniziare veramente adesso?». Annuii e senza esitazioni la seguii fuori di casa, nel cortile su cui affacciava un lato dell’edificio.
«Bene questo mi sembra il posto giusto per creare un portale». Si fermò proprio al centro e chiuse gli occhi per concentrarsi. Iniziò a muovere la bacchetta con un movimento circolare e subito dopo un vortice comparve sul terreno davanti ai suoi piedi. Un vento travolgente si alzò, indicando che l’incantesimo aveva funzionato alla perfezione.
«Ecco fatto Hook, ecco a te il tuo portale», affermò Zelena riaprendo gli occhi.
«Funzionerà?». Mi avrebbe condotto davvero nell’Oltretomba?
«Al cento per cento».
«D’accordo». Presi un profondo respiro preparandomi a tuffarmici dentro.
«D’ora in poi tocca a te», mormorò Zelena. «In bocca al lupo Capitano».
«Crepi». Senza più esitare trassi un ultimo respiro e saltai dentro il portale, pronto ad affrontare tutto ciò che sarebbe potuto accadere.


 
Angolo dell’autrice:
Buona domenica a tutti!
Sono ancora sconvolta dall’ultima puntata e non vedo l’ora di vedere quella di domani. Nonostante ciò non potuto fare a meno di notare che mentre nella serie mi stanno separando i Captain Swan io sto lentamente facendoli riavvicinare.
Ma arriviamo a noi: sono successe un bel po’ di cose. Forse non vi aspettavate dell’ambrosia, ma il bacio di Charlie forse potevate immaginarvelo. E così Emma si trova con dei bei grattacapi da risolvere: cogliere o meno l’ambrosia, salvarli del tutto o solo a metà e aggiungiamoci anche la questione Charlie.
Dall’altra parte, nonostante la testardaggine di Henry, Hook è riuscito a partire da solo per l’Oltretomba grazie all’immenso e inaspettato aiuto di Zelena.
Ancora una volta, grazie a chi legge la mia storia e a chi la recensisce. Fatemi sapere cosa ne pensate.
Un bacione e alla prossima settimana.
Sara
 

Ritorna all'indice


Capitolo 12
*** 12. L’inizio del viaggio ***


12. L’inizio del viaggio
 
POV Emma
Rientrai in casa di corsa cercando di non pensare a ciò che era appena successo là fuori. Avevo già fin troppi problemi per aggiungerci anche il carico sentimentale che Charlie aveva appena riversato su di me. Ero così furiosa con lui e allo stesso tempo altrettanto triste.
Tuttavia sapevo una cosa: se volevo svolgere il mio ruolo di Salvatrice e portarli tutti via da là, dovevo rinchiudere Charlie e il suo bacio in un angolino remoto della mia mente e concentrarmi invece sulla nostra missione.
«Emma che succede?». Solo sentendo la sua voce mi accorsi che Milah mi stava osservando; dalla sua espressione era chiaro che mi si leggeva in faccia il mio tumulto interiore.
«Niente, assolutamente niente». Le mie parole suonarono false persino a me, ma nonostante ciò assunsi la mia espressione più decisa. Ormai ero un’esperta nel erigere muri per nascondere i miei reali sentimenti.
«Dove eri finita?», continuò lei non del tutto convinta.
«Qua in giro», risposi rimanendo sul vago e cambiando subito argomento. «Allora siete pronti a partire?».
«Sì, credo di sì». Finse di credere alle mie parole e, voltandosi, tornò rapidamente nel salottino dove erano radunati tutti gli altri. Io la seguii rimanendo in silenzio, più che lieta di iniziare la nostra avventura che mi avrebbe in qualche modo permesso di non pensare a ciò che era appena accaduto.
«Dov’è Charlie?», ci chiese Robin, vedendoci arrivare e notando che l’altro era l’unico che mancava all’appello.
«Non era con voi?», domandò di rimando Milah.
Una voce alle mie spalle, fermò Robin prima che potesse rispondere. «Sono qua». Non potei evitare di sobbalzare, percependo improvvisamente la presenza di Charlie dietro di me.
Milah si voltò, sorpresa di vederlo arrivare dalla nostra stessa direzione. Vidi un lampo passare sul suo viso mentre studiava l’espressione del suo amico, come se da una sola occhiata avesse intuito tutto. Io, d’altro canto, non avevo il coraggio di voltarmi e di capire se Charlie, con la sua maledetta facciaccia, avesse mandato a monte tutta la mia copertura.
«Bene», dissi cercando di superare quel momento di impasse. «Se siete tutti pronti io direi di andare».
«Certo», confermò Milah. «Vogliamo tutti lasciarci alle spalle questo fiume al più presto».
«So che questo è un viaggio pericoloso», continuai, «ma vi prometto che vi porterò tutti sani e salvi nell’Oltretomba». Gli altri annuirono assimilando le mie parole. Era una promessa ed ero sicura che sarei riuscita a mantenerla, anche a costo della mia stessa vita. E forse avrei fatto anche di più; non avevo certo dimenticato l’ambrosia. Non avevo ancora deciso cosa fare, come affrontare la cosa e speravo che, una volta arrivata là, il mio intuito mi avrebbe indicato la strada giusta. Tuttavia rimaneva quella possibilità ed io volevo con tutte le mie forze dar loro di più oltre ad un semplice “andare avanti”.
«Emma come hai intenzione di agire?», mi domandò Robin spezzando il silenzio che si era creato.
«Innanzitutto ho intenzione di teletrasportarvi tutti all’ingresso della caverna, così ci risparmieremo un bel tratto di strada. Poi staremo a vedere; purtroppo non sappiamo molto ed è in tutti i sensi un viaggio alla cieca».
«Credi di potercela fare?», mi chiese Joe lanciandomi uno sguardo premuroso. «Non ti stancherai troppo?».
«No». Sorrisi per la sua dolce apprensione. «Ci vuole ben altro per stancarmi». Gli passai una mano sulla spalla facendogli capire quanto vere fossero le mie parole.
«Bene», continuai. «Direi che potete venire tutti intorno a me». Obbedirono senza nessuna esitazione disponendosi in un cerchio perfetto, in cui io rimasi al centro. Riuscivo a sentire i loro respiri sulla pelle, ma era meglio così perché in quel modo potevo concentrarmi con più precisione.
Chiusi gli occhi e cercai di visualizzare l’ingresso della caverna. Non avevo fatto molta attenzione ai particolari la prima e unica volta che ci ero passata; ero stata più preoccupata di capire dove fossi finita e chi fossero le anime in pena che mi ero ritrovata davanti. Tuttavia quando riaprii gli occhi, ci ritrovammo tutti esattamente dove avevo previsto. Alle nostre spalle si ergeva quella caverna gigantesca e davanti ai nostri occhi sfilavano decine di anime in pena. I loro lamenti mi arrivarono chiari all’orecchie, facendomi contorcere lo stomaco.
«Wow», esclamò Lizzy eccitata. «È stato fantastico». Iniziò a saltellare sul posto, emozionata come Charlie la prima volta che l’avevo portato con me. Sentii una fitta al cuore ripensando a come era potuto cambiare tutto tra noi in meno di un minuto.
«Credo che dovremo toglierci da qua al più presto», mormorò Milah prima che qualcun altro potesse parlare. «Non mi piace per nulla stare in mezzo a tutte queste anime perse». Capivo qual era la sua preoccupazione: loro potevano perdersi in qualsiasi momento, restare a contatto con quelle anime poteva far accadere l’inevitabile.
«Giusto, muoviamoci», confermai. Percorremmo una decina di metri iniziando ad entrare nella caverna e allontanandoci lentamente da quel mondo orribile.
«Come faremo a vedere qua dentro?», sussurrò Robin, quando la luce cominciò lentamente a diminuire. Giusta osservazione, ma ora che avevo ritrovato la mia magia era un problema che potevo benissimo risolvere.
«Beh grazie a questa». Feci apparire una torcia di legno che con il suo bagliore illuminò la zona circostante. Purtroppo però, non feci a tempo a passarla a Robin che una folata di vento gelido la spense. Con una smorfia la riaccesi, ma una nuova raffica sortì lo stesso effetto di prima.
«Credo che il fuoco non riesca a restare acceso qua sotto», commentò Joe, ed in effetti il suo ragionamento poteva anche avere una logica. Ci trovavamo in un fiume dopotutto.
Mi portai una mano sul mento cercando di riflettere. Quello era un bel problema, e dovevamo risolverlo assolutamente perché non potevamo certo proseguire in quella oscurità. Tuttavia se da una parte non riuscivamo ad usare il fuoco, dall’altra forse qualcosa di più moderno avrebbe potuto funzionare.
«D’accordo», dissi, «Proviamo con questa». Feci apparire nella mia mano una torcia elettrica, non sapendo se avrebbe funzionato o meno. L’accesi e per nostra fortuna la luce tremolò incerta ma alla fine non si spense.
«Chi avrebbe mai pensato che la tecnologia avrebbe funzionato qua sotto!», commentò Robin afferrando la torcia che gli stavo porgendo. Ne feci apparire altre tre: ne consegnai una a Milah, una a Lizzy e stavo per tenere l’ultima per me quando una mano calda me la tolse dalle dita. Sapevo anche senza alzare lo sguardo a chi appartenesse quella mano.
«La tengo io», sussurrò deciso. Non ribattei e lasciai che la pila scivolasse dalle mie alle sue mani.
«Bene», balbettai. «Andiamo». Charlie e Robin si posizionarono davanti in modo tale da aprirci la strada, mentre Milah, con Joe al braccio rimase leggermente più indietro. A me non restò altro che camminare nel mezzo accanto a Lizzy.
Per un po’ nessuno disse niente. Sentivamo la tensione crescere ad ogni passo: presto avremo saputo se ciò che ci aveva rivelato Euridice corrispondeva veramente a verità. Nonostante la sua certezza e la fiducia che avevamo riposto in lei, era ovvio che ci fosse sempre un minimo di dubbio e di incertezza.
«Questa grotta è gigantesca», commentò Lizzy guardandosi intorno con la torcia e spezzando così il silenzio che si era creato. A parte il bagliore fioco prodotto dalle nostre pile, riuscivamo comunque a vedere ben poco. Ricordavo quando ero apparsa lì dentro e di come mi fossi sentita praticamente cieca. Era stata la sensazione più brutta che avessi mai provato.
«Come facciamo a sapere se stiamo andando dalla parte giusta?». Ancora una volta quella ragazzina aveva dato voce a tutte le nostre preoccupazioni.
«Non lo sappiamo», risposi, «lo sapremo solo quando troveremo il passaggio». Era un salto nel buio nel vero senso della parola.
«Non ti preoccupare piccola. Stiamo andando bene». Charlie smentì subito le mie parole e, anche se capivo il suo volerla rassicurare, non potetti evitare di fare una smorfia di disapprovazione. Non ero il tipo capace di dare false speranze; per me era sempre meglio che tutti sapessero della pericolosità e dell’incertezza della nostra missione.
«Elizabeth», intervenne Joe, «so che questo posto fa paura, ma lascia fare ad Emma. Sono sicuro che lei sa ciò che fa». In realtà non lo sapevo, ma gli ero grata per tutta quella fiducia. Non mi conosceva neanche, eppure non aveva esitato nemmeno un attimo nel credere alle mie parole e nell’affidarmi completamente la sua salvezza.
«Grazie Joe», sussurrai così piano da non sapere se lui mi avesse effettivamente sentito.
«Questo posto mette i brividi», continuò Lizzy. «Non so davvero come tu e Robin abbiate fatto ad uscire da qua».
«Lizzy potresti stare zitta», la rimproverò Milah. «Ogni rumore rimbomba qua dentro e non possiamo sapere cosa effettivamente ci sia in fondo a questa grotta». Era stata brusca ma il suo rimprovero aveva un senso. Con le nostre luci eravamo già un bersaglio facile, senza considerare il suono delle nostre voci.
«Meglio che nessuno sappia la nostra posizione con certezza, piccola», intervenne Charlie, cercando di mediare le parole dure di Milah. Ecco odiavo proprio quando lui faceva così: era protettivo e dolce, proprio come l’uomo e l’amico che avevo imparato a conoscere. Riusciva ad essere così perfetto, eppure aveva rovinato tutto solo per seguire l’impulso dei suoi stupidi ormoni.
Tuttavia dopo quel rimprovero Lizzy rimase in silenzio e noi procedemmo imperterriti senza più parlare. Via via che proseguivamo, notai che le pareti di quell’enorme caverna andavano restringendosi. La dimensione di quell’antro sembrava dimunire, segno evidente che Euridice aveva ragione e che presto saremo arrivati alla fine di quella che era una grotta interminabile.
Fu quasi un sollievo riuscire a scorgere all’improvviso il soffitto sopra le nostre teste; era abbastanza alto da permetterci di proseguire in piedi, ma era comunque qualcosa di fisico e di tangibile. Dopo un altro paio di minuti fummo costretti a deviare a destra, seguendo una parete rocciosa e sperando in qualche modo di trovarne presto una dall’altra parte. Secondo la nostra mitologica guida il passaggio segreto si trovava proprio in fondo.
Trassi un altro respiro di sollievo quando finalmente riuscii a scorgere una seconda gigantesca parete, proprio sulla nostra sinistra, esattamente dove doveva essere.
«Siamo in fondo», commentò Robin fermandosi pochi metri dopo di fronte ad una terza parete proprio davanti a noi. Eravamo praticamente circondati da roccia su tre lati.
«Ma qua non c’è niente». Le parole di Charlie erano state solo un sussurro, ma erano piene di delusione.
«Aspetta fammi vedere». Mi feci avanti, passando tra lui e Robin e ritrovandomi praticamente di fronte a quell’ammasso roccioso. «Dammi la torcia». Mi voltai dalla parte di Robin e allungai la mano verso di lui, in modo da evitare ogni minimo contatto con l’altro.
Mi girai di nuovo verso le rocce iniziando a studiarle attentamente. Dal fioco bagliore che emetteva quella piccola pila riuscivo solo a scorgere la superficie irregolare che si trovava di fronte a me. Provai a bussare sulla parete e il suono che ne venne fuori fece fare le capriole al mio stomaco: era un rumore inequivocabile.
«È qui dietro», esclamai con enorme sollievo. «Devo solo capire come aprirlo». Mi guardai intorno studiando ogni minimo particolare di ciò che ci circondava. Anche gli altri sembrarono fare lo stesso; non ero sicura che loro potessero cogliere qualche particolare fondamentale, ma erano sempre occhi in più. Euridice aveva affermato che solo chi era dotato di magia poteva aprirlo; era evidente che grazie ai miei poteri avrei compreso come fare. Sapevo che ogni incantesimo aveva qualche caratteristica di riconoscimento, dovevo essere solo capace di trovarla; il resto sarebbe stato un gioco da ragazzi.
All’improvviso la mia attenzione fu attratta da una strana roccia che si trovava proprio all’angolo tra le due pareti. Era come una mezza colonna ed aveva una forma troppo delineata e troppo precisa per essere del tutto naturale. Mi ci avvicinai con cautela e quando fui a pochi centimetri di distanza riuscii a percepire l’ondata di potere che scaturiva. Riuscivo a sentire la mia magia vibrare sotto pelle per la vicinanza di quella enorme fonte di potere.
«È questa, ci siamo», mormorai emozionata.
Stavo per appoggiarci sopra la mano quando Milah mi fermò. «Aspetta! Ce n’è un’altra anche da questa parte». Mi fermai di scatto sentendo le sue parole e mi voltai lentamente. Esattamente all’altro angolo, c’era la stessa identica mezza colonna e purtroppo sapevo cosa significava. Euridice me l’aveva detto e adesso lo vedevo con i miei occhi. In un solo istante la decisione incombente che dovevo prendere mi piombò addosso spezzandomi il respiro.
Finora la mia scelta era stata solo un’ipotesi, adesso stava diventando qualcosa di fisico e di tangibile. La parte verso cui decidevo di andare avrebbe segnato il destino dei miei amici. Cogliere l’ambrosia o avere la certezza di salvarli?
Con quel peso sul cuore mi avvicinai a Milah, che si trovava esattamente dell’altra parte, sperando di non sentire quel potenziale magico che avevo scorto poco prima. Non ci credevo neanche io e quando, avvicinandomi, provai esattamente le stesse sensazioni non fu una sorpresa.
«Da che parte andiamo?», mi domandò Robin.
Alzai una mano verso di lui, facendogli cenno di tacere e di farmi riflettere. Mi accucciai per esaminare la colonna più attentamente; avvicinai la torcia in modo da studiare la superficie ruvida con maggiore attenzione. Solamente quando la illuminai più da vicino notai una piccola incisione proprio sulla base: sembrava una parola, ma ovviamente era scritta in un’altra lingua. Mi alzai e corsi ad esaminare anche l’altra mezza colonna. Anche lì c’era un’incisione ed ovviamente era nella stessa incomprensibile lingua. Ricordavo di aver visto quei geroglifici nell’Oltretomba e ricordavo anche come, o meglio chi, era riuscito a decifrarli. Avrei proprio avuto bisogno del mio Killian in quel momento.
Potevo anche riuscire ad aprire il passaggio ma se non sapevo da che parte portava come avrei fatto a scegliere? Non potevo basare la mia decisione sul caso: qualunque strada avessi percorso non sarebbe stata per una semplice fatalità. Avevo il cinquanta per cento di probabilità di andare verso l’ambrosia e il cinquanta per cento di andare verso l’Oltretomba. Non potevo basarmi solo sulla statistica, doveva essere una mia decisione non un caso.
«Credo che ci sia scritto vita». La voce di Milah mi distrasse dai miei pensieri.
Mi voltai di nuovo verso di lei e la fissai con uno sguardo sbalordito. «Tu sai leggerli?».
«Non lo so… forse. Non ne sono sicura». Tornò a fissare l’incisione che era riportata sulla colonna vicino a lei, sfregandosi le tempie con le mani. «Non ricordo bene, è passato tanto tempo…».
«Nessun altro sa leggere quelle scritte?» domandai sapendo già la risposta. Tutti scossero il capo rattristati.
«Va bene Milah», sospirai allora. «Prenditi tutto il tempo che ti serve e dimmi cosa c’è scritto secondo te».
«Va bene». La sua voce tremava e ne fui sorpresa perché era davvero la prima volta che lasciava trasparire la sua insicurezza. Era ovvio che fosse così: credeva che dalla sua interpretazione dipendesse la salvezza di tutti noi, ed in un certo senso aveva ragione.
«Sì… qui penso che ci sia scritto vita». Si alzò e lentamente mi raggiunse all’altra colonna. Lasciai che si accucciasse al mio posto e che studiasse l’altra incisione.
«Dove hai imparato a farlo?», le domandò Lizzy, distraendola dal suo compito. Le avrei lanciato un’occhiataccia se non fosse stato per il fatto che anch’io ero curiosa di saperlo.
«Me lo ha insegnato Killian; ma è stato tanto tempo fa ed ho imparato solo le basi». Non avrei dovuto sorprendermi nell’apprendere chi fosse stato il suo maestro. Chi altro poteva essere? Tuttavia non potei fare a meno di sentire una piccola fitta di gelosia. La loro storia continuava ad aleggiare su di noi anche se era finita da secoli e non potevo farci assolutamente niente.
«Okay». Milah si alzò in piedi e si voltò verso di me. «Credo che qui invece ci sia scritto morte». Si passò una mano sulla faccia tirandosi indietro i capelli. «Io però potrei sbagliarmi… Dio! È una questione troppo importante».
«Milah». Le appoggiai una mano sulla spalla tentando di calmarla. «Va bene così, credo che tu abbia ragione. Ha un senso». Aveva più che un senso: avevo capito che Milah aveva dato la corretta interpretazione non appena aveva pronunciato la seconda parola. Era logico e adesso la mia decisione incombeva su di me e sul destino di tutti gli altri.
La parola vita poteva solo significare che da quella parte si trovava l’ambrosia, la loro possibilità di tornare letteralmente in vita. La parola morte invece stava ad indicare l’Oltretomba, il luogo attraverso cui passavano tutte le anime morte. Le due strade erano chiare, evidenti: decidere quale percorrere spettava solo a me.
Potevo scegliere l’ambrosia e rischiare, oppure potevo scegliere la via più sicura. Guardai i miei compagni ad uno ad uno, mentre tutti aspettavano che io aggiungessi qualcos’altro. C’era Robin: potevo salvarlo senza riportarlo da Regina? Come avrei fatto a guardarla negli occhi, sapendo di aver avuto la possibilità di riportarle il suo Vero Amore? Poi c’era Milah: per quanto ne fossi un po’ gelosa, sapevo che il destino era stato crudele con lei. Tuttavia, lei voleva solo andare avanti, riunirsi a Neal. L’ambrosia non le sarebbe servita, già lo sapevo. Dopo c’era Joe: non lo conoscevo abbastanza da sapere cosa volesse o meno, ma sembrava così buono; l’avrei davvero visto bene a Storybrooke. Sarebbe stato il nonno che non avevo mai avuto.
Il mio sguardo si spostò lentamente su Lizzy: lei era solo una ragazzina, non aveva fatto a tempo a vivere la sua vita. Come potevo far finta di niente e lasciarla semplicemente nell’Oltretomba? Probabilmente non aveva mai amato nessuno, non aveva sentito le farfalle nello stomaco, non aveva vissuto tutte quelle emozioni fondamentali che una ragazza della sua età avrebbe dovuto provare. Non era giusto e non potevo far finta che lo fosse.
E infine c’era Charlie. Sentivo il suo sguardo addosso, e a me non serviva guardarlo per sapere ciò che era giusto per lui. Si considerava un cattivo e aveva detto che non sarebbe andato in un posto migliore, una volta giunto nell’Oltretomba. Beh cosa c’era di meglio di una nuova vita per redimersi?
Tuttavia le parole di Euridice mi rimbombavano in testa: scegliere l’ambrosia avrebbe fatto scattare la valvola di sicurezza e chissà cosa effettivamente avrebbe causato. Fossi stata da sola, la decisione sarebbe stata diversa, ma dovevo ancora portarli in salvo e non potevo rischiare così tanto. Non ero il tipo che si tira indietro di fronte alle sfide o che ha paura di fare la scelta più pericolosa; ma là non si trattava solo di me, si stava parlando di tutti loro. Di Joe, di Robin, di Milah, di Charlie, di Lizzy e della possibilità di perderli per sempre solo per aver desiderato di più.
«È questa», sussurrai, indicando la colonna accanto a cui mi trovavo.
«Ma c’è scritto morte!», esclamò Robin.
«Lo so», sussurrai ingoiando il groppo che avevo in gola. «Ma ne sono certa».
«Cosa te lo fa pensare?», mi domandò Joe.
«Euridice ci ha detto di non scegliere quella che sembra la strada migliore. E a parte questo resta il fatto ovvio che l’Oltretomba non è altro che questo: morte». Speravo che le mie spiegazioni bastassero e che non indagassero oltre.
«Ne sei certa?», chiese Milah ulteriormente. Annuii senza parlare. «Bene allora fallo».
Senza più esitare poggiai la mano sopra la colonna, cercando di far affluire il mio potere alle dita, anche se, come avevo scoperto, non avevo propriamente un corpo. Sentii l’energia travolgermi in pieno, ma dopo quella prima ondata riuscii ad incanalarla e a rimandarla direttamente alla sorgente, respingendola nella pietra. Quando alzai la mano, le rocce di fronte a me si mossero creando un’arcata; dietro di essa si poteva intravedere un lungo corridoio, il quale ci avrebbe condotto finalmente fuori da quel dannato fiume.
 
POV Killian
Atterrai con un tonfo su un terreno freddo ed umido, non riuscendo a rimanere in piedi e battendo rumorosamente la spalla. Quando riuscii ad aprire gli occhi potei notare, con mio enorme sollievo, la strana atmosfera rossastra che aleggiava intorno a me; c’era solo un posto così: l’Oltretomba.
Il sollievo e l’euforia di essere giunto nel posto giusto, furono subito sostituite dalla preoccupazione per la pericolosità di quel luogo. Era stato davvero un miracolo andarmene la prima volta, chissà come avrei potuto riuscirci una seconda. Ma non era tanto la via di fuga a preoccuparmi, quanto il riuscire a portare in salvo la mia adorata Emma. Non sapevo minimamente cosa fare, ma dovevo riuscirci ad ogni costo.
Mi rialzai, spolverandomi i vestiti, e mi presi un momento per osservare meglio ciò che mi circondava. Ero atterrato nel bosco, nei dintorni della cittadina. Siccome quello strano mondo era del tutto uguale a Storybrooke non avrei avuto difficoltà a ritrovare la giusta via. Una volta capito in che direzione si trovava l’Oltrebrooke avrei potuto giungerci in poco tempo.
Per prima cosa c’era in assoluto un posto in cui dovevo andare, o meglio una persona che dovevo incontrare. Ricordavo bene il mio ultimo giorno trascorso là sotto e chi mi aveva aiutato a salvare Emma ed anche me stesso. Stando a quello che mi aveva detto, lui doveva essere ancora qua, a governare il suo regno spezzato. E chi meglio di un re poteva aiutarmi nella mia missione impossibile?
Con quella determinazione iniziai a vagare nel bosco, alla ricerca di un punto di riferimento. Camminai per un po’ fino a giungere al corrispondente del pozzo dei desideri di Storybrooke. Mi fermai un attimo sollevato dall’aver finalmente trovato un qualcosa di famigliare e mi trattenni un momento per osservare meglio quel pozzo. Quando ero stato prigioniero di Ade avevo saputo che era da lì che il fiume delle anime perse prendeva le sue origini, o meglio, le acque di quel pozzo erano state le prime a determinare quegli effetti nefasti. Avevo come la netta impressione che per riuscire a tirare fuori Emma da quel dannato fiume avrei, prima o poi, dovuto fare i conti con quel maledetto pozzo. Era come se avessi il presentimento che quello fosse la chiave di tutto. Certo non potevo scoprirlo restando ad osservarlo inebetito.
Scrollai la testa con decisione e mi decisi a proseguire. Dal pozzo, ritrovare la strada per il centro dell’Oltrebrooke fu estremamente semplice e anche piuttosto veloce. Una volta là, potei notare come niente in effetti fosse cambiato: c’era ancora la torre caduta al centro della piazza, l’orologio apparentemente fermo. Le persone avevano più o meno lo stesso atteggiamento di prima: vivevano quella falsa vita in attesa di passare oltre. Comportamenti normali in un posto del tutto al di fuori del normale. Ciò che invece non si percepiva più era quella tensione che la tirannia di Ade comportava; era evidente come il regno di Artù avesse almeno cambiato quell’aspetto in meglio.
Senza più perdere tempo mi diressi verso l’unico posto dove mi aspettavo di trovare il mio vecchio, e da una parte nuovo, amico: l’ufficio del sindaco. Dove poteva trovarsi un re se non nel posto dove gestire tutto il proprio potere e il proprio controllo?
Quando giunsi a quella porta famigliare, trassi un profondo respiro ed incrociai mentalmente le dita. Dal vetro opaco riuscivo solo ad intravedere qualcuno all’interno dell’ufficio, ma non potevo distinguere chi fosse. Sperai con tutto me stesso che fosse l’uomo che cercavo.
Con il cuore in gola mi apprestai a bussare in maniera decisa e quando la voce di Artù mi rispose, il mio stomaco si sciolse dalla morsa in cui si trovava. «Avanti».
Aprii la porta con gesto deciso, riuscendo finalmente a scorgere Artù seduto alla scrivania con la testa china su alcuni documenti. Non si rese conto che fossi io, fino a che il mio silenzio non lo costrinse ad alzare lo sguardo.
«Ditemi pure, cosa posso fare per…». Le parole gli morirono sulle labbra, lasciando il posto ad un’espressione sorpresa ed esterrefatta.
«Hook? Sei proprio tu?». Si alzò cercando di riprendersi dalla sorpresa e di riassumere l’atteggiamento impeccabile che si addice ad un re.
«Già, sono proprio io. In carne ed ossa». Mi avvicinai a lui e lasciai che mi stringesse la mano, dandogli una pacca sulla spalla, in un gesto d’amicizia e fratellanza.
«Dio! Che sorpresa! Credevi che fossi riuscito a tornare a Storybrooke, dalla tua regina…».
«Ed è stato così», confermai.
Sembrò alla ricerca delle parole giuste per continuare. «E come… sei finito di nuovo qua?». Capii subito cosa potesse aver pensato, ma per fortuna quell’eventualità non si era ancora realizzata. Come avevo ripetuto più volte ad Emma, ero un sopravvissuto e il fatto di essere tornato indietro dalla morte lo dimostrava.
«Oh no», lo tranquillizzai. «Non sono morto, non ancora almeno».
«Allora come mai sei qui?». Era ovvio che la mia presenza in quel mondo fosse un avvenimento piuttosto strano. Quando mai qualcuno di vivo poteva avere il coraggio di scendere in un mondo come quello? Beh quando c’era in ballo il Vero Amore. Io ed  Emma ne eravamo la prova tangibile.
«È una storia piuttosto lunga», risposi, «ma in sostanza mi serve il tuo aiuto».
 
Poco tempo dopo eravamo seduti ad un tavolo nel locale della strega cieca ed io stavo tentando di spiegare ad Artù tutta quella intricata situazione. Non era affatto facile riuscire a far comprendere quella matassa complicata a qualcuno del tutto al di fuori della storia.
«Fammi capire bene», intervenne Artù verso la fine del mio racconto, «mentre il corpo di Emma si trova nella vostra cittadina sottoforma di bambina, la sua anima si trova nel fiume delle anime perse?».
«Esattamente». Lo fissai aspettando che assimilasse tutta la verità delle parole che lui stesso aveva pronunciato.
«E tu vorresti che io ti dessi una mano a tirarla fuori da là?». Nel suo tono c’era sia scetticismo che incredulità. Beh non mi sembrava una proposta così tanto azzardata. Cosa gli costava in fondo darmi una mano? La gestione di quell’insulso regno non doveva essere poi così complicata; poteva prendersi un po’ di tempo per aiutare un vecchio amico. In fondo era merito mio se lui aveva capito di voler governare quel posto.
«Proprio così», confermai mantenendo lo sguardo fisso su di lui. Lui mi fissò a sua volta, ma io ero troppo determinato per perdere quella battaglia di sguardi. Non avevo certo fatto tutta quella strada per niente.
«E come diavolo pensi di fare a tirarla fuori? Sai benissimo che non possiamo avvicinarci a quelle acque senza rischiare di esserne risucchiati».
«Beh è proprio per questo che ti sto chiedendo una mano. Devi aiutarmi a cercare un modo per aggirare il problema».
Artù sembrò riflettere sulle mie parole, iniziando a massaggiarsi una tempia. «Va bene. Mettiamo il caso di riuscire davvero a tirarla fuori da là, come credi di poterla riportare a Storybrooke se il suo corpo è ritornato in fasce?»
«Beh non lo so», sbottai. «Affrontiamo un problema alla volta».
«Hook, tu sei sceso qua sotto senza sapere minimamente cosa poter fare una volta arrivato? Senza aver uno straccio di piano né un modo per tornare nel tuo mondo?».
Mi bruciava ammetterlo ma era così. «Già».
«È da pazzi!». Il suo commento mi bruciò abbastanza, ma non ero di certo il tipo da farsi intimidire da un fantoccio di re come lui. Ero il grande Killian Jones e in ballo c’era l’amore della mia vita: potevo affrontare di tutto e chiunque si fosse trovato nel mezzo del mio cammino.
«Allora mi aiuterai?». Il mio tono fu duro e non lasciò il tempo per nessun fraintendimento: o era con me o era contro di me. Potevo benissimo cavarmela senza di lui, anche se un paio di mani  in più non sarebbero state male.
«Certo che ti aiuterò», mi rispose sorprendendomi. «Non mi sono mai tirato indietro di fronte ad una sfida del genere».
Trassi un sospiro di sollievo e gli rivolsi un cenno di gratitudine. «Da dove credi che ci convenga iniziare? Pensi che nella vostra biblioteca troveremo qualcosa che ci possa aiutare?».
«Beh per quanto sia stato allievo di Merlino e possa amare i libri, credo che prima di tutto dovremo parlare con una persona».
«Una persona?». Alzai un sopracciglio sorpreso dalla piega che stavano prendendo gli eventi.
«Sì. È in assoluto l’anima più antica che si trova intrappolata qua sotto. Se c’è qualcuno che può conoscere i segreti di quel fiume è proprio lui».
«D’accordo». Mi alzai non stando più nella pelle. Finalmente stavamo facendo qualcosa di concreto e potevo percepire come la vicinanza tra me ed Emma si stesse lentamente accorciando. «Che cosa stiamo aspettando?».
 
Quando Artù mi aveva detto di voler andare a parlare con una persona, non mi ero di certo aspettato che mi portasse in quello che a Storybrooke era il convento gestito dalla fata Turchina. Ad Oltrebrooke invece, quell’edificio sembrava essere adibito ad una specie di casa di riposo, gestita da molte dell’anime che in quel modo cercavano di espiare le loro pene.
E sicuramente quando Artù mi aveva parlato di un’anima antica, non mi ero aspettato che fosse letteralmente antica nel vero senso della parola. Quello di fronte a cui mi trovavo era un povero vecchio decrepito, che dall’aspetto sembrava stentare anche a ricordare il proprio nome. Era davvero lui la persona a cui si affidava Artù? Beh all’apparenza quel vecchio sembrava che non potesse aiutare nessuno, persino sé stesso.
«Salve Abraham, come va oggi?», gli domandò Artù sedendosi accanto a lui, nella sua misera stanzetta. Almeno il nome era appropriato: rispecchiava esattamente gli anni che portava.
«Come al solito ragazzo mio, come al solito». La sua voce risuonò più sicura e più forte di quanto potesse suggerire il suo aspetto. «A cosa devo l’onore della tua visita?».
«Beh sono qui con un amico». Mi fece cenno di venire più avanti, segno evidente che il vecchio aveva anche problemi di vista. Probabilmente ne aveva anche di udito. Perché stavamo perdendo tempo con quella mummia?
«Salve mi chiamo Killian Jones».
«Oh». La bocca del vecchio si spalancò formando una piccola “o” di sorpresa. «Il famoso Capitan Hook».
«Come fa a conoscermi?», chiesi più ad Artù che all’altro.
«Non è da tutti riuscire a lasciare l’Oltretomba ed essere vivi per raccontarlo», mi rispose invece Abraham. La sua riposta mi lasciò del tutto basito, facendomi ricredere su colui che avevo davanti. Forse mi ero proprio sbagliato a giudicare il vecchietto in base all’apparenze.
«Cosa posso fare per te figliolo?», continuò lui imperterrito.
«Beh vorremo che ci dicessi tutto quello che sai sul fiume delle anime perse», rispose Artù al mio posto. «La fidanzata di Hook, si trova intrappolata là sotto e noi vorremo sapere se esiste un modo per liberarla e riportarla qua».
«Mmm». Abraham si portò una mano rugosa sul mento, infilando le dita nella folta barba bianca. «Si tratta di una faccenda piuttosto spinosa».
«È per questo che siamo venuti da te», ribadii Artù.
«Ti prego». Erano due parole che non dicevo spesso, ma avrei implorato chiunque avesse potuto darci una mano a salvare Emma. Non mi importava di sembrare patetico perché a tutti gli effetti lo ero, ma non potevo vivere senza il mio cigno.
«Beh non so se vi sarà d’aiuto, ma vi dirò tutto quello che so su quel fiume».
«Grazie», sospirai di sollievo. Era comunque un punto di partenza e quel vecchio, nonostante il suo aspetto decrepito, sembrava sapere molte cose che avrebbero potuto dimostrarsi utili.
Mi sedetti di fronte a lui e aspettai che iniziasse il suo racconto, sentendo il cuore martellarmi nel petto. Era davvero confortante riuscire a sentirlo battere anche là sotto.
«Per quel che ne so», iniziò, «il fiume delle anime perse è stato creato da Ade in persona, era un modo per scaricare la sua ira sulle anime bloccate in questo mondo. Come sapete una volta qua, tutte le anime possono andare in un posto migliore o in un posto peggiore. Ad Ade non andava giù il fatto che alcuni riuscissero in qualche modo a risolvere le loro questioni in sospeso. Il fiume serviva a questo: ad alimentare la sua sete di potere. Non so come sia riuscito a crearlo, né cosa ci sia all’interno, però posso dirvi dell’altro».
«Cos’altro?». Finora ciò che ci aveva detto era stato interessante, ma purtroppo di nessuna utilità.
«Non tutte le anime che cadono nel fiume sono perse subito. C’è una sorta di transizione, il tempo là scorre in maniera diversa: più rimani là sotto più la tua anima si perde». Questo era sicuramente un male, voleva dire che stavamo combattendo una corsa contro il tempo. Emma era là sotto da troppo e chissà quanto avrebbe potuto resistere!
«Che tu sappia c’è una sorta via di uscita?», domandò Artù.
«Sì c’è». Il mio cuore perse un colpo sentendo quelle parole. «C’è un modo per tornare qua una volta finiti là dentro, ma è quasi impossibile da percorrere. Da quel che ne so, una volta là sotto, riuscire a mantenere la lucidità per trovare la via di uscita è quasi del tutto impossibile».
«Ma se esiste un modo per le anime di uscire, vuol dire che c’è anche un modo per noi per entrare». La mia non era una domanda, ma una semplice affermazione.
«No, mi dispiace figliolo». Alzò una mano rugosa posandomela sulla spalla. «Ho detto che c’è una via di uscita per coloro che sono finiti là dentro, ma è del tutto impossibile per noi fare il contrario».
«Perché?». Se c’era un passaggio perché non potevamo sfruttarlo in entrambi i sensi?
«Perché anime morte come noi, finirebbero là dentro e come ti ho detto mantenere la lucidità là sotto non è facile. Finireste per perdervi e basta».
Mi alzai di scatto, sentendo la rabbia crescere dentro di me. «Ma Emma è là sotto e forse si sta perdendo anche lei. Io devo trovare un modo per recuperarla e, riuscire a raggiungerla, mi sembra l’unica soluzione».
«Beh potresti anche raggiungerla ma che senso avrebbe se una volta là uno di voi due non fosse più in grado di riconoscere l’altro?». Mi bloccai di colpo raggelato dalle sue parole. Era quello ciò che le stava succedendo là sotto? C’era il rischio che lei non si ricordasse più di me? Che razza di mondo era quello in cui neppure i propri ricordi erano al sicuro?
Quando avevo visto Emma l’ultima volta, solo per pochi secondi, lei era rimasta la solita: la mia dolce e allo stesso tempo dura Swan. Adesso poteva essere diverso? I minuti continuavano a scorrere, ed ogni secondo che passava poteva forse riuscire a cancellare ogni singolo ricordo che lei aveva di noi? Mi rifiutavo di crederlo; io e lei eravamo più forti di tutto, il nostro era Vero Amore. Eppure non potevo che temere che le parole di Abraham fossero vere. Non potevo scartare l’ipotesi a priori, ma la sola possibilità che fosse realmente così mi metteva i brividi.
«Abraham», intervenne Artù interrompendo il silenzio che si era creato. «Permettici solo di farti un’ultima domanda. Qualcuno è mai riuscito ad uscire dal fiume?». Era la domanda giusta, eppure temevo di sentire la risposta. Da come ci aveva parlato fino a quel momento sembrava ovvio che la sentenza dovesse essere negativa.
«Sì, qualcuno c’è riuscito». Fu naturale che spalancassi gli occhi sentendo invece quelle parole.
«Cosa?», esclamammo io e Artù contemporaneamente.
«Sono in pochi a conoscere questa storia. Penso di essere l’unico ancora qua sotto a conoscere la verità. Nemmeno Ade lo sapeva, non credo avrebbe reagito bene se avesse scoperto che anche il suo adorato fiume presentava una falla nel sistema».
«Salta i convenevoli», esclamai con impazienza. «Chi?».
«Si è trattato di una donna, il suo nome era Dafne».
La mia voce tremò mentre pronunciavo la domanda più importante di tutte. «E dove si trova adesso?».
«È passata oltre da moltissimo tempo ormai». Era ovvio che ci dovesse essere una fregatura, l’unica donna che poteva darci un aiuto concreto adesso si trovava chissà dove in pace con sé stessa.
«Tuttavia», aggiunse Abraham, «posso dirvi dove potete trovare la sua storia».



 
Angolo dell’autrice:
Eccomi di nuovo qua, e come sempre buona domenica!
In questo capitolo sia da un lato che dall’altro ci sono stati dei notevoli passi avanti e possiamo dire che sia Emma sia Killian stanno facendo di tutto per riuscire a ricongiungersi. Da una parte Emma ha scelto la strada più sicura per salvare i suoi compagni: vi aspettavate una decisione del genere? Oppure credete che non sia ancora detta l’ultima parola?
Dall’altra ho voluto aggiungere il personaggio di Artù. Non mi era molto simpatico nella serie, però qua ci voleva qualcuno che desse una mano al nostro pirata. E sembra proprio che finalmente anche le sue ricerche stiano dando i suoi frutti.
GRAZIE di cuore a tutti i lettori. E un grazie particolare a chi recensisce!
Un bacione e alla prossima settimana
Sara  
 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 13
*** 13. E alla fine la verità ***


13. E alla fine la verità
 
POV Emma
«Oh mio Dio! Ce l’hai fatta». La voce di Milah tremò pronunciando quelle parole. Anche se eravamo immersi nell’oscurità riuscii a scorgere i suoi occhi brillare.
«Aspetta a cantare vittoria», sussurrai, cercando di frenare la sua euforia. «Non è ancora finita». Purtroppo sapevo che l’aver trovato l’ingresso del passaggio segreto non significava essere già sani e salvi. Ci aspettavano altre prove da affrontare ed Euridice ce l’aveva detto.
«Lo so, ma è già molto di più di quanto potessimo sperare senza il tuo aiuto». Era la prima volta che riuscivo a scorgere nel suo tono la genuina e pura gratitudine che provava nei miei confronti. Ma forse era dovuto semplicemente al fatto che non ero mai stata del tutto bendisposta nei suoi confronti. La rivalità tra di noi c’era, era palpabile, e non potevo negarla; non ero in preda ad una gelosia irascibile, ma non ero nemmeno del tutto tranquilla conoscendo il suo passato con Killian.
«Che cosa stiamo aspettando?», ci domandò Robin muovendo un passo in avanti. Anche nella sua voce l’emozione era l’elemento predominante.
«Aspetta», lo fermai. Allungai un braccio davanti a lui in modo tale che non potesse superarmi. «Visto che sono stata io ad aprirlo è meglio se vado per prima. Potrebbe esserci ancora qualche trucchetto magico». Percependo la possibile verità nelle mie parole, gli altri annuirono con solennità e lasciarono che fossi io ad affrontare quella prima prova.
Mossi un passo in avanti e facendo un profondo respiro mi apprestai a varcare quell’arco, apparso magicamente davanti ai nostri occhi. Lo varcai sentendomi pronta ad affrontare qualsiasi cosa, a respingere ondate di potere, a scansare qualche trappola improvvisa, invece quando lo attraversai non successe assolutamente niente.
Una volta stabilita la mia incolumità, mi voltai verso i miei compagni e accennai loro un sorriso. «Potete passare, non credo ci sia nulla». Questo non significava che ce la saremo cavati sempre così facilmente, ma per il momento non dovevamo preoccuparci.
Robin fu il primo a farsi avanti con un espressione entusiasta sul viso, ma quando fu proprio sotto l’arcata sembrò scontrarsi con un muro invisibile.
«Ma che diavolo…?». Tentò di nuovo di passare ma era come se tra me e lui fosse improvvisamente calato un vetro trasparente a separarci. Poggiò la mano sulla soglia dell’arcata e provò a spingere: non riuscì a permettere alle proprie dita di avvicinarsi di un millimetro. Anche Milah si avvicinò a Robin per provare a passare, ma ottenne lo stesso risultato.
«Non possiamo entrare?», domandò Lizzy con una punta di panico nella voce.
Cercai di non perdere la calma e tornai indietro; se c’era qualcosa di diverso l’avrei sentito. Invece superai l’arcata senza problemi, esattamente come quando c’ero passata pochi istanti prima. Tornai di nuovo sotto l’arco, ma per me ciò che si trovava là nel mezzo era soltanto aria.
«Perché solo Emma riesce a passare?», ci chiese Joe, sperando che noi avessimo la risposta. Provai a riflettere e tentai di ricordare ciò che ci aveva detto Euridice. Aveva detto che io avrei dovuto aiutarli a passare; forse era proprio questo che intendeva. Aiutarli a passare nel vero senso fisico del termine, avevo sempre creduto che si riferisse a qualcosa di più intuitivo.
«Ricordate cosa ci ha detto Euridice?», dichiarai «Avrei dovuto aiutarvi a passare. Credo che possiate attraversare l’arco solo grazie a me».
«Che cosa intendi?», mi domandò Milah. «Cosa pensi di fare?».
Alzai lo sguardo su di lei e la fissai seria. «Ricordi quando ci siamo incontrate nell’Oltretomba? Tremotino ci ha fatto passare attraverso la porta della mia casa tenendoti per mano. Credo che dovremmo semplicemente tenerci per mano». Allungai le dita verso di lei e la guardai con un’espressione decisa per spingerla ad afferrarle. Senza indugiare le strinse e subito dopo prese per mano Robin e così anche tutti gli altri si unirono formando una lunga catena.
Trassi un profondo respiro e mi preparai a varcare di nuovo l’arcata. Questa volta quando la mia mano, che teneva quella di Milah, si trovò sulla soglia non ebbe nessun impedimento e così prima il suo braccio e poi il suo corpo si ritrovarono dall’altra parte.
«Ahi». Mi voltai di scatto sentendo quell’esclamazione e vidi Robin massaggiarsi la spalla ancora una volta dalla parte opposta a quella dove avrebbe dovuto essere.
«Credo che tu debba farlo singolarmente», mi suggerì Milah, staccando le sue dita dalle mie. Lei stava bene ed era passata attraverso l’arcata senza nessun problema; era evidente che dovevo essere l’accompagnatrice di ciascuno di loro.
«Eh già», sbuffai tornando indietro. Afferrai la mano di Robin e mi affrettai a ripetere quel piccolo percorso; dopo fu il turno di Joe e poi quello di Lizzy. Quando tornai indietro per effettuare l’ultimo passaggio sentii il cuore in gola. Anche se era stato tutto molto rapido, avevo avuto fin da subito la consapevolezza che avrei dovuto prendere Charlie per mano. Mentre con gli altri non avevo avuto problemi, con lui quel semplice gesto assumeva tutto un altro significato; era pieno di consapevolezze e di cose non dette. Sapere ciò che provava per me lo rendeva ancora più sbagliato di quando l’aveva fatto durante la nostra avventura in quel caotico mondo. Tuttavia, se volevo essere la Salvatrice, dovevo farlo.
Senza alzare lo sguardo su di lui afferrai in fretta le sue dita e lo trascinai verso quella strana porta. Sentii la sua mano stringere la mia e il suo pollice strusciare delicatamente sulla mia pelle. Mi voltai di scatto come se il suo tocco mi avesse dato la scossa. La mia mano bruciava come se stesse andando letteralmente a fuoco.
«No», mimai con le labbra lanciandogli uno sguardo infuriato. Non potevo parlare senza che gli altri capissero, ma i miei occhi furono altrettanto esplicativi. Ero tremendamente arrabbiata con lui ed era meglio che non facesse uscire quel lato di me. La sua espressione si incupì di colpo, ma almeno le sue dita tornarono ad essere inermi tra le mie.
Una volta superata l’arcata lo lasciai andare immediatamente e senza aggiungere una parola tornai in cima al gruppo. Ero pronta a guidarli verso l’Oltretomba e a tenermi a debita distanza da Charlie
«Andiamo». Recuperai una torcia dalla mano di Milah e mi affrettai a proseguire, aprendo così la fila. D’altra parte lei mi lanciò un’occhiata profonda, inducendomi a pensare che probabilmente era riuscita a capire tutto. Milah non era stupida e se c’era qualcuno che poteva ricollegare la tensione tra me e Charlie a quello che era successo al di fuori del loro nascondiglio, era proprio lei. Nonostante ciò, non disse una parola e si apprestò a seguirmi, insieme a tutti gli altri.
Camminammo in silenzio per una decina di minuti. Quel corridoio roccioso sembrava un percorso infinito; se consideravamo la grandezza della caverna da cui eravamo partiti, avremmo potuto benissimo camminare per delle ore. Quel tunnel non si andava né restringendosi né allargandosi, per quanto noi proseguissimo continuava a restare tale. I miei sensi si fecero ad ogni passo sempre più attenti: ero certa che le nostre avventure non sarebbero finite lì e mi sentivo pronta per affrontare qualsiasi nuovo pericolo mi si fosse presentato davanti.
All’improvviso, tuttavia, le dimensioni del tunnel cominciarono ad allargarsi, fino a quando non arrivammo in uno spiazzo sufficientemente largo da permetterci di stare uno accanto all’altro. La luce in quel salone era decisamente più forte, come se non fosse del tutto naturale e ci  permise di vedere ciò che avevamo davanti. Di fronte a noi c’era un gigantesco burrone e ad una decina di metri dall’altra parte il proseguimento del tunnel.
«Ma state scherzando?!». Era stato Charlie a parlare. «Direi che ne ho fin sopra i capelli di questi burroni». Se non fossi stata arrabbiata con lui, probabilmente avrei sorriso per la sua uscita. Tuttavia mi morsi le labbra e finsi di non averlo sentito.
«Beh non credo che ci siano problemi», intervenni. «Posso portarvi di là usando la magia». Così dicendo, mi apprestai a chiudere gli occhi per concentrarmi, ma immediatamente percepii qualcosa di diverso. Era come se la mia magia fosse in qualche modo imprigionata e non riuscisse a scaturire al di fuori del mio corpo.
«Merda», sussurrai tornando a guardare il burrone con occhi sgranati.
«Che succede?», mi domandò Robin.
«Credo di non riuscire ad usare la magia qua sotto». Avrei dovuto capirlo subito: sarebbe stato tutto molto semplice se avessi potuto ricorrere ad un trucchetto del genere. Probabilmente il fatto che avessi aperto il passaggio aveva in qualche modo messo un freno ai miei poteri. Era stato stupido aver pensato di potercela cavare così facilmente.
«E quindi come facciamo ad arrivare dall’altra parte?», ci domandò Lizzy. La sua voce era piena di fiducia e di speranza, come se fosse facile per noi tirare fuori un’idea geniale che ci avrebbe permesso di proseguire. Tuttavia il problema di fronte a cui ci trovavamo era piuttosto complicato; senza magia e senza strade alternative eravamo come bloccati.
«Sembra molto profondo», commentò Robin che nel frattempo si era inginocchiato per riuscire ad osservare meglio il baratro di fronte a noi.
«Ma certo mi pare ovvio!», sbottò Charlie. «Non può esserci solo un semplice e piccolo fossato!». Con il piede tirò un calcio ad uno dei sassolini presenti sul terreno, in un tentativo di riuscire a scaricare la tensione. Fu un gesto semplice, come tanti altri, e non ci avrei fatto nemmeno caso se qualcosa non avesse attratto la mia attenzione. Quando Charlie aveva spinto il sassolino nel burrone, questo era rimbalzato in un punto in cui non c’era assolutamente niente. Per un attimo mi chiesi se fosse stata solo la mia immaginazione, ma secondo ciò che avevo appena visto ci trovavamo di fronte a qualcosa di invisibile. Era come se ci fosse stata un’altra parte di terreno che noi però non riuscivamo a vedere.
«Aspettate». Mi chinai a terra e raccolsi un altro piccolo sassolino, sentendo il peso del semplice gesto che stavo per compiere. Se avevo ragione avevo appena trovato il modo di proseguire.
Mi avvicinai al punto in cui si trovava Charlie e lanciai il sasso esattamente nella stessa direzione in cui l’aveva tirato lui, utilizzando però molta meno forza. Come avevo previsto il sasso rimbalzò di poco e poi rimase sospeso nell’aria.
«Ma che diavolo…?». Robin non finì la frase continuando ad osservare allibito ciò che avevo appena fatto.
«Non c’è mai stato bisogno di utilizzare la magia», spiegai con un certo sollievo. «La strada per arrivare dall’altra parte è sempre stata di fronte a noi, solo che non riusciamo a vederla».
«Beh è ingegnoso», commentò Milah. «Non riuscire a vedere la strada scoraggerebbe anche le anime più intrepide».
«Già». Mi avvicinai sempre più all’orlo del precipizio e sentii il mio cuore partire a mille. Non era certo facile dover camminare su una strada invisibile: un solo passo sbagliato e saremo finiti spiaccicati sul fondo del burrone.
«Adesso fate attenzione e mettete i piedi esattamente dove li metto io». Calò un silenzio di tomba mentre, con il cuore in gola, mi apprestavo a compiere un primo passo nel vuoto. Per fortuna come avevo previsto il mio piede si scontrò con qualcosa di duro che i miei occhi non riuscivano a vedere. Lentamente mossi un altro passo in avanti, mentre tutti gli altri si mettevano in fila dietro di me.
Procedetti di qualche metro con una lentezza esorbitante. Non avevo mai sofferto di vertigini, ma trovarmi nel bel mezzo di un baratro senza niente di visibile sotto i piedi metteva in serio dubbio le mie capacità. Sentii la testa girarmi e dovetti chiudere gli occhi e respirare profondamente per non cedere al panico.
«Non guardare sotto Emma, concentrati sui passi». La voce di Charlie era proprio dietro di me e, nonostante ce l’avessi ancora con lui, gli fui estremamente grata per quelle parole. Riuscii in qualche modo a calmarmi e a ricordarmi che anche lui e tutti gli altri erano esattamente nella mia stessa situazione.
Proseguii via via sentendomi più sicura, mettendo un piede dopo l’altro. All’improvviso mi resi conto il mio piede sinistro stava cedendo leggermente, segno evidente che mi ero spostata troppo da quella parte. Ondeggiai ma quasi subito sentii una mano calda sorreggermi il fianco. Charlie era talmente vicino che riuscivo a sentire il rumore del suo respiro, e per quanto odiassi quella situazione sapevo di non poterci fare nulla e che dovevo essergli addirittura riconoscente.
Una volta ritrovato il giusto equilibrio mi spostai leggermente a destra e mossi un altro passo, in modo tale da distanziarmi dalla mano calda di Charlie che era ancora posata sul mio fianco.
Gli ultimi metri furono relativamente più semplici e quando finalmente atterrai sul terreno visibile dall’altra parte, trassi un enorme respiro di sollievo. Vidi lo stesso conforto dipinto sul volto dei miei compagni via via che arrivavano di nuovo su una parte di terreno distinguibile.
Era stato difficile, ma alla fine ce l’avevamo fatta tutti quanti. Dovevamo solo proseguire ed avevo come la netta impressione che presto saremo arrivati a destinazione.
Dopo che tutti avemmo ripreso fiato ci rimettemmo in marcia, seguendo quello che era il percorso obbligato disegnato dal nostro corridoio di pietra. Non passò molto tempo prima che di fronte a noi comparisse una biforcazione; la strada praticamente si divideva in due, stava solo a noi capire quale fosse quella giusta da seguire.
«Da quale parte andiamo?», domandò Lizzy, dando voce ai nostri pensieri.
Fu Milah a rispondere per prima. «Se seguiamo il ragionamento che abbiamo fatto all’entrata e ciò che ci ha detto Euridice, dovremmo prendere il percorso meno invitante». Essendo completamente d’accordo con le sue parole, mi apprestai ad osservare attentamente le due strade davanti a noi, illuminandole con la torcia, per capire meglio le differenze che potevano esserci. Da una parte il corridoio si allargava dando vita ad una strada semplice e regolare, dall’altra sembrava invece compiere un percorso tortuoso.
«Da questa parte allora», dissi seguendo il ragionamento di Milah. Gli altri annuirono senza aggiungere altro. Scoprimmo presto che il corridoio che avevamo scelto non era certo uno dei più invitanti, continuava, oltre a restringersi, a scendere e a risalire, compiendo un percorso piuttosto difficoltoso.
Ero appena arrivata in cima a quella che sembrava la salita più ripida che avessimo percorso fino ad allora, quando di fronte a me si presentò un altro bivio.
«Ancora!», esclamò Charlie alle mie spalle. Quasi sicuramente quello che stavamo percorrendo era un intricato labirinto e quelle ramificazioni servivano solo a far perdere il senso dell’orientamento a chiunque fosse penetrato fino a là.
Questa volta non consultai neanche i miei compagni e scelsi subito la strada più impervia. Continuammo così per un po’ salendo e scendendo e incontrando biforcazioni. Ogni volta sceglievo la strada più brutta e ogni volta il corridoio andava rimpicciolendosi.
Arrivammo in un punto in cui Charlie e Robin dovettero piegarsi per riuscire a passare ed io sentivo il soffitto ad un centimetro dalla mia testa, le pareti sempre più vicine alle mie spalle.
«Manca l’aria qua dentro», mormorò Lizzy.
«Lo so piccola», intervenne subito Charlie, «ma vedrai che presto saremo arrivati. Non possiamo continuare a camminare per sempre».
«Ho sempre odiato i luoghi chiusi e soffocanti», intervenne Milah. Beh sicuramente quello non era il massimo per chiunque fosse stato anche solo leggermente claustrofobico.
«Beh almeno tu riesci a camminare dritta», le fece notare Robin.
«Sai che consolazione, mi sento peggio ad ogni passo».
«Resisti cara», intervenne Joe. «Come ha detto Charlie non deve mancare molto».
Smisi di ascoltare la loro conversazione e cercai di concentrarmi su ciò che avevo davanti. La luce della torcia non era sufficiente a farmi vedere a lunga distanza; scorgevo solo quell’angusto corridoio, ma non sapevo decifrare quanto fosse ancora lungo. Piano piano Iniziai ad avere seri dubbi sul nostro percorso: e se ci fossimo sbagliati? Magari anche solo per un bivio. Forse Euridice si era confusa; eppure ciò che ci aveva rivelato era sempre stato vero, non una sola cosa si era rivelata falsa. Quel percorso infinito sembrava proprio creato per far vacillare anche le persone più incerte ed il fatto che non riuscissi ancora ad usare la mia magia mi destabilizzava ancora di più.
Stavo quasi per perdere la speranza quando mi parve di scorgere un leggero bagliore provenire da un punto davanti a me. Affrettai il passo sentendo il mio cuore accelerare fino a quando non riuscii a scorgere una sorta di slargo, come quello dove avevamo trovato il burrone. Tuttavia, avevo la netta sensazione che stavolta avremo trovato ben altro ad aspettarci.
«Ci siamo», mormorai. Non ne avevo la certezza, ma tutto dentro di me mi stava gridando che finalmente eravamo arrivati alla fine di quel tremendo percorso.  Mi misi a correre per gli ultimi metri che mi separavano da quello spiazzo e quando ci arrivai ciò che vidi confermò il mio intuito. Sentii delle lacrime di sollievo salirmi agli occhi ma tentai di rimandarle indietro. Avrei potuto piangere di felicità una volta al sicuro nell’Oltretomba.
In una parte della grotta più grande e più alta di quella che avevamo appena percorso si trovava una porta. Non era una porta qualunque perché nel mezzo di essa si trovava esattamente la fonte luminosa che rischiarava tutto l’ambiente, la magia che ci avrebbe permesso di lasciare quel fiume. Finalmente eravamo di fronte al portale che ci avrebbe salvati tutti.
«Oh mio Dio!», sentii Milah mormorare, quando finalmente vide ciò davanti a cui mi ero fermata.
«È quello che sembra?», chiese Robin incredulo.
«Sì. È proprio quello che sembra: è un portale». Ed in quel momento era anche il più bel portale che avessi mai visto in tutta la mia vita. Ritornare nell’Oltretomba significava tutto: voleva dire tornare in un posto dove era stato difficile andarsene una volta, ma dove ci ero comunque già riuscita. Voleva dire essere più vicino a Killian e alla mia famiglia. Istintivamente toccai l’anello di Liam che avevo appeso al collo, ricordandomi di come Hook aveva fatto in modo che io lo avessi.
«E ci porterà davvero nell’Oltretomba?», domandò Joe. «Ne sei sicura?».
Non ne ero sicura al cento per cento, ma sapevo che non mi sarei sbagliata. Il mio istinto mi stava gridando quella stupenda verità. «So che è così, fidatevi di me».
«Va bene», acconsentì Robin. «Che stiamo aspettando allora?».
«Giusto», convenne Milah. «Vado io per prima, non si può mai sapere…». Senza aspettare risposta mi superò e senza esitare un solo istante mosse un passo dentro il portale. Trattenemmo tutti il fiato fino a che il suo corpo non scomparve, trasportato da un’altra parte. Quella era la conferma che non stavamo sognando e che eravamo davvero davanti a ciò che ci avrebbe garantito la salvezza.
«Tocca me», esultò Robin, apprestandosi a seguirla. Dopo fu il turno di Joe e poi di Lizzy. Da ultimo restammo solo io e Charlie, lui già pronto a varcare quella soglia magica e a lasciarsi alle spalle quell’orribile fiume.
Fu proprio in quel momento, stringendo l’anello di Liam tra le mani, che realizzai ciò che avevo appena fatto. Mi ero comportata da eroina, avevo concesso loro di tornare nell’Oltretomba, ma in quella circostanza non ero stata la Salvatrice. Poteva essere l’Oltretomba una salvezza quando sapevo che avrei potuto dar loro l’ambrosia?
In quel momento io avevo fatto il mio dovere: li avevo portati al sicuro, ma avrei potuto convivere con me stessa, sapendo di aver rinunciato a salvarli definitivamente? Non sempre salvezza e sicurezza sono la stessa cosa. E in quell’istante io avevo la possibilità di cambiare le cose: adesso non si trattava più di mettere in pericolo i miei amici, si trattava solo di me stessa.
Avevo pensato poco prima al fatto di essere in qualche modo più vicina a Killian, ed era vero: se attraversavo quel portale senza l’ambrosia sarei stata l’unica ad aver la possibilità di tornare a Storybrooke, l’unica che avrebbe in qualche modo continuato a vivere. E non era affatto giusto.
Per quanto mi mancasse Killian e non vedessi l’ora di riabbracciarlo, non potevo andarmene da quel fiume senza la salvezza per i miei amici. Sapevo che ciò avrebbe forse compromesso la mia possibilità di tornare nell’Oltretomba, ma sapevo che Killian stava facendo tutto ciò che era nelle sue possibilità per salvarmi. Quindi in un certo senso io avevo qualcuno che avrebbe continuato a lottare fino alla fine per me, ma chi avrebbe lottato per quelli che adesso erano i miei amici?
«Emma?». La voce di Charlie mi riportò alla realtà facendomi alzare la testa verso di lui. Era quasi dentro il portale, un passo e sarebbe stato al sicuro. «Cosa stai aspettando? Andiamo?».
«Sì», balbettai. Non riuscii ad evitare il suo sguardo e per quanto tentassi di alzare i miei muri, non seppi quanto lui riuscì a scorgervi dentro. «Arrivo». Quella parola mi uscì con un sussurro, perché la consapevolezza di ciò che stavo per fare mi aveva completamente schiacciato.
Aspettai che Charlie si voltasse, con uno sguardo ancora poco convinto, prima di arretrare di un passo, poi di un altro, ormai sicura della mia decisione.
«Mi dispiace Killian», sussurrai stringendo l’anello di Liam nella mano. «Non posso andarmene di qui senza l’ambrosia, dovrai aver ancora un po’ di pazienza con me». Così dicendo, mi voltai iniziando a correre nella stessa direzione da cui eravamo appena arrivati.
 
POV Killian
«Sei certo che siamo nel posto giusto?», domandai studiando attentamente ciò che ci circondava. Eravamo in una vecchia casa abbandonata, ai margini dell’Oltrebrooke, là dove il vecchio ci aveva detto di poter trovare la storia di quella Dafne. Se davvero lei era riuscita ad uscire dal fiume delle anime perse, dovevo scoprire a  tutti i costi come diavolo aveva fatto e dovevo riuscire a comunicarlo ad Emma. La sua salvezza dipendeva da quello e perciò non mi piaceva molto il fatto di trovarmi una vecchia catapecchia abbandonata, che sembrava poter crollare da un momento all’altro.
«Hai sentito cosa ha detto Abraham», confermò Artù. «Come tutti ognuno ha la sua storia raccontata in un libro e a quanto pare lei ha nascosto le pagine che la riguardano proprio qui».
«Non è per sembrare scettico», puntualizzai, creando con l’uncino un solco tra la polvere, «ma questo non sembra il luogo adatto per nascondere qualcosa. Credi davvero che Ade non possa aver scoperto l’esistenza di quelle pagine prima di noi?».
«È proprio qui che ti sbagli. Questo è il luogo perfetto per nascondere qualcosa». Cominciò a cercare, spostando alcune scatole e facendo alzare un’enorme nuvola di polvere.
«E poi non dimenticarti», continuò, «che molto probabilmente nessun altro conosce l’importanza di quelle pagine».
«Beh spero che tu abbia ragione», sospirai.
«Smettila di lamentarti e inizia a cercare». Anche se non ero abituato a ricevere ordini, feci come mi aveva detto e mi misi alla ricerca di quelle dannatissime pagine. Come mai nella mia vita si riduceva tutto a delle stramaledette pagine di un ancora più stramaledetto libro?
Non ci volle molto tempo per capire che in quella vecchia catapecchia c’era davvero di tutto. Oltre a quintali di polvere, c’erano decine di scatole ripiene degli oggetti più disparati. Era come se quella casa fosse diventata con il tempo una sorta di discarica; c’erano vestiti, oggetti da cucina, scarpe, decine di giornali. Che diavolo di giornale usciva nell’Oltretomba? La Gazzetta del defunto? Che razza di novità ci potevano mai essere in un posto come quello?
Tutti quegli oggetti, accatastati là senza un preciso ordine né alcun senso logico, erano evidentemente stati abbandonati, come le pagine che stavamo cercando. Su una cosa però dovetti riconoscere che Artù aveva ragione: era veramente l’ultimo posto dove andare a cercare qualcosa di prezioso, ragione per cui potevamo avere la certezza di star seguendo la pista giusta.
Continuammo a cercare per un po’ di tempo senza dire una parola. Artù si era messo ad esaminare dei fogli sperando di scorgere in qualche riga la storia di Dafne, io invece continuavo a spostare roba, senza neanche rendermi conto di ciò che effettivamente stavo facendo. Era più un’azione meccanica di spostare ciò che sicuramente non era di nostro interesse; la mia mente era presa da tutt’altri pensieri. C’era solo una parola, una persona, che poteva occuparla: Emma.
All’improvviso mi capitò tra le mani una piccola scatola di velluto. La mia mente volò subito a quella che attendeva me ed Emma a Storybrooke; nonostante tutto, non avevo certo dimenticato ciò che ci aspettava una volta che lei fosse stata pronta. Glielo avevo promesso per il suo compleanno, prima che tutto quel casino iniziasse: lei sarebbe stata mia moglie. Era così facile tornare con la mente a quella notte felice, a quelle ore in cui ancora non sapevo che presto mi sarebbe stata portata via.
 
Appoggiai la testa sul suo petto e ascoltai i nostri respiri rallentare e regolarizzarsi. Le sue dita si infilarono dolcemente tra i miei capelli, mentre contro il mio orecchio il suo cuore tornò lentamente a battere in maniera regolare.
«Questo sì che è un regalo di compleanno come si deve», sospirò soddisfatta dopo un po’. Ridacchiai stringendola a me e seguendo la linea del suo fianco con l’uncino.
«Il riuscire ad appagarti Swan è una dote del tutto naturale».
La sua risata risuonò attraverso il suo petto facendolo vibrare e riuscendo ad insinuarsi fin dentro al mio cuore. «Non credo di poter aggiungere altro senza evitare di gonfiare ulteriormente il tuo ego Capitano». Le sue dita continuarono a tracciare cerchi concentrici tra i miei capelli, facendomi rilassare ed eccitare allo stesso tempo.
«Non c’è bisogno che tu dica niente amore, lo so l’effetto che ho su di te». Ormai avevo imparato a riconoscere da tempo ogni sua reazione e sapevo che, quando eravamo insieme, lei reagiva esattamente come me. Ci attraevamo a vicenda, come due calamite.
«Sono contento comunque che questa parte del regalo ti sia piaciuta», aggiunsi. Passai le dita sul suo seno iniziando a creare un disegno immaginario sulla sua pelle. Il contatto con la mia mano la fece rilassare ancora di più e seppi, anche senza vederla, che aveva appena chiuso gli occhi per godersi a pieno le mie coccole.
«Anche l’anello mi è piaciuto», disse dopo qualche secondo di silenzio. A quelle parole mi tirai più su, appoggiando la testa sul cuscino accanto a lei, e la guardai dritta negli occhi.
«Mi è piaciuto davvero», aggiunse sentendo la pressione del mio sguardo. Mi guardò con intensità e mi rivolse un dolce sorriso.
«L’attacco di panico che hai avuto quando te l’ho dato dice tutto il contrario». Non mi ero certo offeso per quella reazione, anzi era stata esattamente quello che mi aspettavo. Per questo le avevo fatto la mia non proposta.
«È solo che è stato inaspettato», si difese.
«Davvero?». Alzai un sopracciglio e le lanciai uno sguardo scettico. «Beh certo considerando il fatto che ci amiamo, che daremmo letteralmente la vita l’uno per l’altra, che ormai viviamo insieme, mi pare ovvio come potesse essere del tutto inaspettato».
«Dai lo sai cosa voglio dire». Si accoccolò tra le mie braccia, nascondendo il viso contro la mia spalla. «Non sono abituata a questo genere di cose».
«Lo so amore. Ed è proprio per questo che ho voluto prepararti per quello che sarà il nostro futuro». Era una delle parti che amavo più di lei: la piccola ragazza che non è abituata ad essere amata così tanto. Nonostante fosse una donna forte e coraggiosa, alcune sue insicurezze rimanevano comunque; era davvero un sollievo essere l’unico in grado di vederle e di eliminarle.
«Non avevo mai voluto prima questo genere di cose». Le sue parole furono solo un sussurro contro la mia pelle, ma io le sentii comunque.
«Beh neanche io, se è per questo. Non ci sono molti pirati che pensano a mettere su famiglia».
«Credo che nessun Salvatore abbia il tempo di metter su famiglia».
Trattenni un sorriso e la strinsi più forte a me. «Penso proprio che noi lo troveremo Swan».
«Già penso anch’io», sospirò felice contro il mio petto.
«Questo mi fa credere che quando ti chiederò veramente di sposarmi mi risponderai di sì?». Era una domanda, ma in fondo conoscevo già la risposta.
«Certo che ti risponderò di sì». Alzò la testa dalla mia spalla e puntò i suoi occhi verdi dritti nei miei. «Ti avrei risposto di sì, anche se mi avessi costretta a farlo ora».
«Davvero?». Il mio tono era divertito più che sorpreso.
«Beh sì. Purtroppo ti amo così tanto che non potrei pensare di perderti solo per la mia paura di impegnarmi per tutta la vita».
«Ah sì?». Assunsi il mio sorriso migliore e sfiorai le sue labbra con le mie. «Purtroppo hai detto?».   
«Già purtroppo». Un enorme sorriso comparve sul suo bellissimo viso, riuscendo ad illuminare i suoi meravigliosi occhi.
«Beh che cosa mi impedisce di girarmi e di tirare fuori l’anello in questo istante, legandoti per sempre a me?». Stavo scherzando e lei lo sapeva.
«No!». Mi strinse forte a sé, circondandomi con le braccia e con le gambe, impedendo così di portare a termine la mia minaccia.
«Ti amo Swan», sussurrai ad un centimetro dalla sua bocca.
«Ti amo anch’io».
 
Restai a fissare quel cofanetto, ripensando a quel meraviglioso momento felice. Era davvero strano trovare un oggetto del genere in un posto come quello. Era un controsenso vivente: là dove la vita non andava più avanti, c’era un oggetto che invece faceva crescere due persone.
Quasi inconsciamente aprii la scatolina ma, come a dimostrarmi che i miei pensieri non erano del tutto sbagliati, dentro non trovai assolutamente niente. E mentre la mia mente coglieva quell’ineluttabile mancanza, mi sentii esattamente come quel cofanetto: vuoto.
Mi mancava la mia Swan e mi mancava terribilmente. Per quanto avessi passato del tempo con la baby Emma, non aveva significato assolutamente nulla, perché quella piccola bambina paffuta non era il mio cigno e non lo sarebbe mai stato. Anche averla vista per solo pochi secondi non aveva alleviato il mio dolore, anzi era soltanto servito a farmi stare peggio. Era bastato guardarla negli occhi per farmi capire quanto effettivamente mi sentissi solo là a Storybrooke. Emma era la mia famiglia, la mia casa ed era colei che aveva completamente cambiato il mio mondo. Prima di lei non mi era mai pesato avere come unica costante la mia nave e un mare dove navigare, non avevo mai desiderato veramente di più. Con lei invece era stato naturale, semplice, proprio come respirare.
«Hook? Che stai facendo?». La voce di Artù mi riportò alla realtà, facendomi accorgere di essermi momentaneamente imbambolato ed estraniato.
«Mi manca», mormorai, e sapevo che quella era una spiegazione sufficiente. Mi mancava la sua risata, i suoi meravigliosi occhi, la sua aria imbronciata, le sue labbra, il suo corpo. Mi mancavano persino i suoi muri, quelli che solo io riuscivo ad abbattere. Il luccichio dei suoi occhi quando mi mostrava una parte di lei che non faceva mai vedere a nessun altro era qualcosa di unico, di speciale.
«Hook lo so che è difficile; ma ce la faremo». Artù lasciò perdere ciò che stava facendo e venne accanto a me, posandomi una mano sulla spalla.
«Solo che mi sembra sempre di stare annaspando. Anche se troviamo queste pagine ci saranno decine e decine di problemi da dover risolvere. E a me sembra di non avere più tempo».
«Beh non puoi certo arrenderti adesso», ribatté infervorandosi. «Sei venuto fin quaggiù sapendo di non aver uno straccio di piano e adesso invece stiamo facendo dei passi avanti; anche se sono piccoli, sono pur sempre qualcosa».
Aveva perfettamente ragione, ma le parole di Abraham mi ero rimaste impresse nella mente e non erano più andate via. «Il vecchio ha detto che una volta nel fiume e facile perdersi completamente».
«Beh lo ha detto è vero. Ma io conosco Emma: era la Signora Oscura ed ha affrontato di tutto. Non si perderà ne sono certo». Sapevo che le sue parole erano vere, era quello che credevo anch’io, però avevo davvero bisogno che qualcuno me lo dicesse.
«Grazie», sussurrai, posando la scatolina e tornando a lavoro. Dovevo scuotermi da quei pensieri e tornare a concentrarmi sulla mia missione; come avevo appena ricordato ogni secondo era prezioso ed io non dovevo sprecare neanche un istante per piangermi addosso.
All’improvviso, scuotendo un voluminoso libro, vidi delle pagine volare a terra. Mi chinai subito a raccoglierle e persi un battito quando riconobbi la grafia antica tipica dei libri di Henry. Sapevo ancor prima di leggerle che quelle erano le pagine che stavamo cercando.
«Le ho trovate», mormorai, quando fui certo del mio risultato. Artù lasciò immediatamente cadere ciò che aveva tra le mani e mi raggiunse di nuovo studiando i fogli che tenevo tra le dita.
Tentai di leggere e di assimilare tutto ciò che vi era scritto, ma in un primo momento non ci riuscii. Erano davvero troppe informazioni e sapevo che a me non sarebbe servito a niente conoscerle. Era però qualcosa che sarebbe stato molto utile ad Emma e che le avrebbe permesso di tornare da me. Come al solito tutto si riduceva al fatto che Emma era in grado ogni volta di salvarsi da sola, e probabilmente, conoscendo quelle informazioni, l’avrebbe fatto di nuovo.
«Allora che cosa dice?», mi spronò Artù. Dovevo essere rimasto imbambolato a fissare le parole scritte sul foglio, senza dargli la possibilità di leggere a sua volta.
Rilessi con attenzione la prima pagina prima di parlare. «In sostanza dice che Dafne un tempo faceva parte della corte di Zeus e fu in parte responsabile dell’aver intrappolato Ade qua sotto. Per questo lui giurò di vendicarsi e le promise che l’avrebbe intrappolata nell’Oltretomba con lui senza via di scampo. Ovviamente riuscii nel suo intento, anche se non poteva interferire direttamente nella sua storia. Riuscii a far scatenare ingiustamente l’ira di Zeus su di lei e a farla spedire qua sotto».
Girai la pagina e rilessi la seconda. «Fu una volta arrivata qua, imprigionata ingiustamente, che Ade la spedì nel fiume delle anime perse, dove credeva non ci sarebbe più stato scampo per lei. Tuttavia Dafne aveva ancora in parte la sua magia e nonostante quel posto fosse orribile, la sua anima non si perse come le altre. Riuscì a trovare un passaggio».
«Un passaggio?», domandò Artù cercando di seguire le mie parole.
«Sì. Qua dice che come ogni magia anche quel regno aveva una via di fuga. Il fiume era stato creato per intrappolare anime senza più speranza, erano pericolose e la terrorizzavano. Però lei sapeva di essere diversa e trovò un passaggio segreto – qua dice una specie di tunnel – una scappatoia insomma dove solo qualcuno dotato di magia poteva passare».
«E quindi è riuscita a tornare qua?».
«Non proprio», mormorai, leggendo le righe successive. «Alla fine di quel passaggio, dopo aver superato varie prove, trovò un portale e pensò di essere riuscita nel proprio intento, ma Ade era stato più furbo di lei. Conosceva fin dal principio le pecche del suo fiume e fu proprio per questo che creò un portale che l’avrebbe condotta nel proprio inferno personale. Secondo la storia Dafne si ritrovò catapultata in un mondo in cui tutte le sue paure erano diventate reali».
Alzai lo sguardo su Artù e lo guardai con un’espressione preoccupata e sconcertata. Le parole che c’erano scritte dopo erano in assoluto le più importanti di tutte. Erano quelle che dovevo in qualche modo far conoscere ad Emma: non poteva salvarsi senza sapere quel dettaglio fondamentale.
«E cosa è successo dopo? Abraham si è sbagliato quando ha detto che è riuscita ad uscire dal fiume?». La curiosità di Artù era del tutto comprensibile, visto che io stavo continuando a tenere per me le informazioni basilari.
«No, non si è sbagliato. Qua c’è scritto che Dafne rimase intrappolata nella prigione creata appositamente per lei da Ade per secoli, rivivendo le sue peggiori paure. Era un incubo che si ripeteva incessantemente. Tuttavia Dafne non si arrese e le ci volle una forza di volontà immensa per riuscire ad uscire da quell’inferno in cui si trovava. Una volta rotto l’incantesimo riuscì a ritrovare il portale e a tornare nel fiume».
«E come diavolo a fatto ad uscire poi?».
«Il portale era solo là per ingannarla, per farle credere che sarebbe stato quello a portarla nell’Oltretomba». Trassi un profondo respiro e continuai leggendo direttamente le parole della storia. «”Dietro di esso, nascosto nell’ombra, c’era la vera via di uscita. Era sempre stata là, solo che Dafne distratta dal portale non l’aveva notata. Tuttavia una volta uscita dal suo inferno, scoprì dietro di esso una scala che la condusse nell’Oltretomba”. Ad essere precisi credo che sia uscita dal pozzo dei desideri».
«Non l’aveva vista? Com’è possibile?». Me l’ero chiesto anch’io ma ero arrivato ad una spiegazione piuttosto sensata.
«Se ti trovi davanti ad un portale che ha tutta l’aria di portarti lontano da un posto infernale, penseresti mai che possa portarti in un posto ancora peggiore?».
«Non hai tutti i torti. Io non perderei certo tempo a guardare in tutti gli angoli un possibile tranello. Vorrei andarmene il più in fretta possibile». Già e probabilmente era il ragionamento che avrebbe fatto anche Emma. Sapevo che lei stava agendo là sotto, che stava trovando il modo di tornare da me e che probabilmente Milah era con lei e la stava aiutando. Non avevo dubbi su questo, sapevo fin troppo bene che nessuna delle due sarebbe stata con le mani in mano, né tantomeno si sarebbe arresa. Dovevo avvertirle del pericolo prima che fosse troppo tardi.
«Quindi adesso che facciamo?», mi domando Artù quando abbassai i fogli e li strinsi nel pugno.
«Dobbiamo trovare il modo di avvertire Emma. Non deve per nessuna ragione entrare in quel portale».


 
Angolo dell’autrice:
Scusate il ritardo ma eccomi qua. Prima di tutto buona Pasqua e buona Pasquetta, purtroppo non ce l’ho fatta a pubblicare ieri, ma spero che possiate perdonare il mio giorno di ritardo. Per incentivarvi a farlo ho messo apposta per voi un momento fluff CaptainSwan.
Comunque momenti dolci a parte, la fine di questo capitolo è piuttosto pesa. È nata esattamente poche ore fa, perché non avevo nessuna intenzione di rendere la vita dei nostri amici ancora più difficile. Pensavo che la loro avventura verso l’Oltretomba si sarebbe felicemente conclusa, invece mentre scrivevo il pov di Killian mi è venuta fuori questa malaugurata idea. Chiedo perdono!
Come sempre vi ringrazio di leggere e recensire. Un bacione e alla prossima settimana!
Sara
PS visto che è lunedì oltre che buona Pasqua, buon OUAT-day. 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 14
*** 14. Non entrare in quel portale ***


14. Non entrare in quel portale
 
POV Emma
Sentivo il cuore martellarmi forte nel petto mentre, stringendo l’anello di Liam in una mano e la torcia nell’altra, correvo a perdifiato lungo il corridoio dal quale eravamo appena passati. Avevo preso la mia decisione ed ero assolutamente convinta di ciò che stavo facendo. Stavo mettendo in pericolo la mia vita, ma seguivo pur sempre il mio istinto; non avrei potuto convivere con me stessa se non ci avessi nemmeno provato. Era la cosa giusta da fare: adesso che tutti erano al sicuro potevo pensare ed agire liberamente senza il terrore di sacrificare il loro avvenire.
«Emma! Emma maledizione!». All’improvviso una voce rimbombò attraverso lo stretto corridoio, il volume amplificato dalle opprimenti pareti di pietra. Sapevo benissimo a chi apparteneva e mi si gelò il sangue nelle vene al pensiero di colui che mi stava inseguendo. Purtroppo per me, prima di guadagnare la sua salvezza, doveva aver notato la mia espressione e aver visto la mia ritirata.
«Dove diavolo stai andando? Fermati». Sentii Charlie arrancare alle mie spalle, probabilmente in difficoltà nel corrermi dietro attraverso quel basso soffitto di pietra.
«Torna indietro Charlie!», urlai ansimando. «Io arrivo, devo solo fare una cosa». Continuai a correre sperando che le mie parole potessero in qualche modo convincerlo. Tuttavia sapevo che non l’avrebbero fatto; lui non mi avrebbe mai lasciato andare senza una spiegazione.
«Fermati!». Il suo tono era rabbioso e pieno di collera. «Maledizione Emma! Ti prego aspettami». Non fu tanto la sua supplica a farmi inchiodare quanto il tono della sua voce. Era passato dalla rabbia alla paura in meno di un secondo e non era preoccupato per sé ma lo era per me. Quel “ti prego” pronunciato con quell’intensità aveva avuto effetto più di mille altre parole.
Il rumore dei suoi passi si fece via via più intenso fino a quando non comparve davanti a me, con il respiro affannato e l’espressione sconcertata.
«Oh mio Dio!», ansimò fermandosi e portandosi una mano al petto. «Cosa stai facendo?».
«Charlie torna indietro ti prego, io ti raggiungerò te lo prometto. Devo solo fare una cosa importante prima, vai al sicuro con gli altri».
«Sei per caso impazzita?». La rabbia sostituì di nuovo lo stupore. «Pensi che me ne torni indietro e che ti lasci qui da sola? Non ti basteranno due parole per riuscire a convincermi. Quindi se non vuoi che ti riporti di peso al portale, dimmi cosa diavolo sta succedendo».
Mi morsi le labbra valutando le opzioni che avevo, mentre gli occhi neri di Charlie dardeggiavano nei miei. Non ci sarebbe stato modo di convincerlo se non dirgli la verità; ma anche se fossi stata sincera dubitavo che avrebbe acconsentito a lasciarmi andare da sola. Purtroppo avevo tentennato e avevo permesso a Charlie di vedere oltre i miei muri. La dura e impenetrabile Emma era sparita da tempo e adesso a pagarne le conseguenze era rimasto soltanto il mio nuovo amico.
«Euridice mi ha rivelato un segreto», confessai, «prima di ripartire. Mi ha detto una cosa molto importante ed io devo farlo. Ho bisogno che tu mi lasci andare adesso».
«Emma maledizione parla chiaro!». La sua espressione mi convinse a cedere del tutto.
Presi un profondo respiro e mi preparai a dire tutta la verità. «C’è l’ambrosia, qua sotto c’è l’ambrosia». Vidi il suo volto passare dallo stupore alla speranza, segno evidente che sapeva quali effetti avrebbe potuto avere quel magico frutto. Era proprio per quella speranza che avevo deciso di tornare indietro e di rischiare la mia vita.
«E perché diavolo non ce l’hai detto prima?». Ecco la domanda del secolo.
«Perché coglierla potrebbe far saltare tutto, potrebbe far scattare la valvola di sicurezza di questo dannato posto».
«Potrebbe far sparire il portale», affermò capendo le conseguenze di ciò che mi stavo accingendo a fare. Non sapevo se avrebbe chiuso il portale, ma secondo Euridice non avrei avuto più molto tempo per tornare indietro.
«D’accordo», aggiunse fissandomi con uno sguardo deciso. «Allora sbrighiamoci».
«Senti Charlie, tu non puoi…».
«Emma», mi fermò prima che potessi continuare. I suoi occhi si incatenarono ai miei, fissandomi con un’intensità tale da farmi mancare il respiro. «In nessun caso ti impedirò di andare, ma non ti lascerò da sola. Per tutta la vita mi sono sentito responsabile delle mie azioni e adesso mi stai dicendo che c’è un modo perché quella splendida ragazza, che tu hai appena contribuito a mettere in salvo, possa riavere la sua vita. Io non ti permetterò di escludermi perché io ho davvero bisogno di farlo». Era la sua possibilità di redenzione, lo capivo e lo rispettavo ancora di più per questo.
«Va bene», acconsentii. «Però sbrighiamoci». Mi voltai e ricominciai a camminare a passo spedito verso l’entrata di quel tortuoso corridoio. Lasciai che il silenzio calasse tra di noi e mi concentrai invece solo sulla strada da seguire. Sapevo che presto saremo arrivati al burrone col ponte invisibile e il solo pensiero di ripercorrerlo altre due volte mi metteva i brividi.
D’altro canto anche Charlie non sembrava in vena di fare conversazione, soprattutto dopo quello che c’era stato tra di noi. Avevo accettato la sua presenza, ma non avevo certo dimenticato il limite che lui stesso aveva superato. E di sicuro non poteva non essersi accorto della freddezza con cui l’avevo trattato fino ad allora.
Senza dire una parola arrivammo al ponte invisibile e altrettanto silenziosamente ci apprestammo a superare quell’ostacolo. Mi chiesi cosa stessero facendo Robin e gli altri nel frattempo, se si stessero domandando cosa ci era successo, ma accantonai quel pensiero per concentrarmi sui miei passi. Era probabile che fossero tutti preoccupati, ma Milah era abbastanza intelligente da impedire a chiunque di tornare indietro. Su questo potevo essere certa.
Quando arrivai dall’altra parte sana e salva, mi fermai solo un attimo per verificare che anche Charlie avesse superato quell’ostacolo e poi ripresi a camminare con determinazione.
Sentii il cuore battermi all’impazzata nel petto e mi parve di avere lo stomaco sottosopra. Sapevo cosa stavo per affrontare e speravo soltanto che almeno quello non fosse un buco nell’acqua come lo era stato la ricerca dell’ambrosia per Killian nell’Oltretomba.
«Emma». La voce di Charlie mi fece sobbalzare. «So che mi stai evitando per ciò che è successo tra noi…». Non mi voltai, ma dal suo tono potevo intuire che stesse cercando le parole giuste per continuare.
«Mi dispiace», sussurrò non sapendo cos’altro aggiungere.
«Lo so». Ed era vero: anche se continuavo ad essere arrabbiata con lui, sapevo che Charlie stava soffrendo per i sentimenti contrastanti che provava.
«Era da molto tempo che non trovavo qualcuno capace di smuovermi come hai fatto tu».
Mi voltai di colpo sentendo quelle parole, costringendolo ad inchiodare per non venirmi addosso. «Charlie te l’ho ripetuto più di una volta: tu hai una visione completamente sbagliata di te stesso. Dovresti imparare a perdonarti, davvero. Io penso che tu sia una bella persona, però ciò non significa che io ricambi i tuoi sentimenti».
«Lo so». Questa volta fu lui a doverlo ammettere.
«Quello che sto cercando di dirti», continuai, «è che per me sei un buon amico, potresti essere un ottimo amico, ma non potrai mai essere di più. Non hai nessuna speranza di poter competere per il mio cuore perché non c’è mai stata alcuna competizione. C’è Killian ed io sono completamente e totalmente innamorata di lui; però se continui così non avrai neanche la speranza di restarmi amico». Avevo detto le cose in maniera chiara e diretta, non avevamo più tempo per i giri di parole.
«Sì l’ho capito», ribatté, «ed è per questo che ti sto cercando di chiederti scusa. Non oltrepasserò più il limite, cercherò di essere un buon amico, te lo prometto».
Studiai la sua espressione per capire se fosse sincero. Il mio superpotere non sbagliava mai e anche in quel momento potevo sapere con certezza che mi stava dicendo la verità o che almeno ci stava provando. «D’accordo».
Feci per voltarmi, ma mi fermò stendendo una mano davanti a me. «Amici?».
Esaminai ancora la sua espressione prima di stringere la sua mano. «Amici». Mi voltai e ripresi a camminare, decisamente più sollevata dopo quel nostro piccolo chiarimento. La situazione con Charlie era stata tesa fin da quando mi aveva baciata e stranamente faticavo a mantenere il mio aspetto freddo e distaccato con lui. Era una delle poche persone che riusciva a tirarmi fuori dal mio guscio; probabilmente, se avessimo trovato l’ambrosia e se lui fosse venuto a Storybrooke, avrebbe continuato ad essere quell’amico a cui avevo imparato a volere bene.
Non ci occorse molto tempo per riuscire a tornare all’arcata, là dove avevamo trovato le due mezze colonne. Era tutto esattamente identico a prima e non sapevo quali effetti avrebbe comportato l’aprire il passaggio verso l’ambrosia. Beh sicuramente l’avremo scoperto presto.
«Adesso che facciamo?», mi chiese Charlie, fermandosi davanti all’arco attraverso cui era riuscito ad uscire anche senza il mio aiuto. «Dov’è l’ambrosia?».
«Qua». Senza aggiungere altro mi diressi verso l’altra mezza colonna. Come avevo previsto la mia magia era tornata ad essere funzionante non appena uscita da quella magica porta di pietra. Probabilmente anche per l’altro passaggio sarebbe stato lo stesso. Potevo usare i miei poteri per aprire quella che doveva essere una seconda porta, ma una volta dentro sarei tornata ad essere uguale a tutti gli altri.
Senza perdere tempo mi apprestai a convogliare la mia magia, come avevo fatto in precedenza. Esattamente come per l’altro passaggio, una volta svolto il mio compito, comparve davanti a noi una seconda arcata del tutto identica a quella che ci aveva condotto al portale.
«Bene andiamo». Feci per passarvi attraverso, ma sentii una forza invisibile opporre resistenza, impedendomi così il passaggio.
«Ma che diavolo…?». Non terminai la frase, ma appoggiai invece le mani sulla soglia. Era come se ci fosse un muro invisibile a impedirmi di passare, proprio come era successo a Robin dall’altra parte.
«Che succede?», mi domandò Charlie avvicinandosi. «Non possiamo entrare?».
«Non ci riesco», mormorai assumendo un’espressione accigliata.
«Fa provare me». Stavo per ribattere che sarebbe stato del tutto inutile e che se non riuscivo a passare io dubitavo che ci sarebbe riuscito lui, quando Charlie con un solo passo attraversò l’arco senza incontrare la minima resistenza.  
«Andiamo?». Si voltò verso di me e allungò una mano nella mia direzione. Afferrai le sue dita con una smorfia, costando però che l’impedimento era magicamente sparito e che il contatto con Charlie era servito a farmi varcare la soglia. In un certo senso era logico: solo chi era ancora in vita poteva passare per tornare all’Oltretomba e solo chi era morto poteva andare a cercare l’ambrosia.
«E tu che non volevi farmi venire!», commentò quando lasciai la sua mano. «Cosa avresti fatto senza di me?». Aveva ragione, ma io non gli avrei dato la soddisfazione di ammetterlo.
«Cammina», sbottai riprendendo il mio posto davanti a lui.
Come mi aveva detto Euridice, quel secondo corridoio sembrava scendere nelle viscere di quel dannato mondo. Era un vicolo tortuoso, ma avevo la sensazione che non sarebbe stato lungo come l’altro. Ad ogni nuova curva, sentivo il cuore accelerare per la consapevolezza di essere ad un passo più vicino alla vera e propria salvezza. Non pensavo a cosa sarebbe accaduto dopo, a come avremo fatto a ritornare al portale; per il momento preferivo concentrarmi sul presente. Era meglio affrontare un problema alla volta visto che di imprevisti ne avevamo avuti a bizzeffe.
Poi improvvisamente, senza quasi rendermene conto me lo ritrovai davanti. Proprio dietro una curva stretta c’era uno spiazzo occupato quasi interamente da un gigantesco albero. L’albero era così splendente da riuscire ad illuminare l’intera caverna. Sprizzava magia da ogni foglia ed era in assoluto la cosa più bella che avessi mai visto. Non era solo la magia a lasciarmi a bocca aperta, ma il fatto che quella pianta fosse nata e cresciuta in un luogo talmente desolato da mettere i brividi; sembrava quasi impossibile che una cosa tanto speciale potesse trovarsi là sotto.
«Oh mio Dio!». Charlie espresse tutto il suo sgomento con quelle tre parole.
«Già. Oh mio Dio!». Era proprio la frase adatta. Avevamo davanti a noi un albero che emanava luce propria, con le foglie brillanti e meravigliosi frutti d’oro. Era come se emanasse speranza da ogni stoma: ci concedeva infinite possibilità. Permetteva di rimediare ai propri errori, di redimersi, di avere nuove occasioni, nuove esperienze, di poter riprendere la vita da dove era stata interrotta. Era la salvezza nel vero e proprio senso della parola. Era un Salvatore sotto forma di albero.
«Cosa stiamo aspettando?», mi domandò Charlie non stando più nella pelle. Mi ridestai dai miei pensieri ed annuii silenziosamente. Non avevamo fatto certo tutta quella strada per restare ad osservare un albero magico!
Con cautela mi avvicinai ad un ramo, aspettandomi una trappola da un momento all’altro. Tuttavia non accadde nulla, neanche quando con titubanza allungai la mano per afferrare uno di quei miracolosi frutti. Erano lisci, incredibilmente freddi e molto più morbidi di quanto mi fossi aspettata. Con un colpo secco ne staccai uno dall’albero, ma ancora una volta a quel mio gesto non seguì nessuna conseguenza. Anche Charlie si avvicinò per staccarne alcuni e il sorriso dipinto sul suo viso fu sufficiente a farmi capire che avevo fatto la scelta giusta. La sicurezza non sarebbe mai bastata per lui: ciò che gli stavo offrendo era la possibilità di redenzione.
«Dove li mettiamo?», mi chiese quando entrambi avemmo le mani piene.
«Non lo so». Purtroppo non avevamo né borse, né tasche abbastanza grandi, né niente che potesse aiutarci ad avere le mani libere durante la risalita.
«Aspetta ho un idea». Senza attendere una mia risposta, posò i frutti che aveva colto a terra e con un gesto repentino si sfilò la maglietta.
«Che diavolo stai facendo?». Voltai la testa di scatto dall’altra parte per non guardare i suoi addominali, ma era logico che li avessi notati. Charlie aveva un fisico prestante e non ero certo cieca; potevo ammetterlo anche se preferivo comunque il fisico prestante del mio pirata.
«Non ti scandalizzare Emma, sto solo cercando un modo di portare al portale questi frutti senza troppi problemi».
«E il toglierti la maglietta come potrebbe esserci di aiuto?». Strinsi le braccia al petto per quanto potessero permettermelo i frutti che tenevo tra le mani.
«Sono solo un po’ di muscoli», rispose scherzosamente. «O hai paura che il tuo pirata non regga il confronto?».
«Killian regge benissimo il confronto», ribattei osservandolo con la coda dell’occhio. «Ma non mi sembra il gesto più appropriato da fare dopo ciò di cui abbiamo parlato prima».
«Ecco fatto». Probabilmente non aveva ascoltato neanche una parola di ciò che gli avevo detto, ma non aveva importanza perché aveva appena annodato la sua maglia formare una specie di sacca che portava legata in vita. Era stato ingegnoso e molto probabilmente ci avrebbe aiutato a portare più frutti possibili al portale. Sapevo come minimo ne sarebbero serviti cinque ma forse era meglio prenderne quanti più potevamo.
Non aggiungendo altro, né dandogli alcuna soddisfazione, adagiai i frutti in quella specie di sacca, sistemandoli con cautela per evitare che si schiacciassero.
«Direi che possiamo andare», affermai depositando l’ultimo. Non feci a tempo a pronunciare quelle parole né a muovere il primo passo che sentii tremare la terra sotto i piedi. Eccolo finalmente il segno che stavamo aspettando. Euridice aveva avuto ragione: eccola là la valvola di sicurezza.
«Che succede?», mi domandò Charlie, sorpreso dalla violenza della scossa.
«Corri Charlie. Corri più veloce che puoi». Non aspettai neanche un secondo, ma partii immediatamente risalendo quel tortuoso corridoio che ci aveva condotti fin lì. Via via che avanzavamo le scosse si facevano sempre più violente, come se tutte quelle caverne e quei cunicoli volessero crollare da un momento all’altro. Già non era facile muoversi velocemente per quei corridoi in salita e con il terreno instabile sotto i piedi era quasi un’impresa impossibile.
Scivolai a terra ma mi rialzai prontamente, ricominciando subito la mia volata verso l’uscita. Per fortuna la lunghezza di quel corridoio non era molta e ben presto mi ritrovai nell’enorme caverna. Il fatto che mi fosse caduta la torcia e che non riuscissi più a vedere niente non era certo di aiuto.
All’improvviso un bagliore arrivò da dietro alle mie spalle. Mi voltai solo per scontrarmi con Charlie: l’ambrosia che portava nella sacca era così brillante da rischiarare leggermente l’ambiente intorno a noi. Era una fortuna che non avevo previsto.
Tuttavia quel momento di sollievo durò ben poco perché, mentre le scosse continuavano, la fioca luce ci permise di vedere l’arcata che conduceva al portale richiudersi lentamente, tornando ad essere semplicemente una parete di pietra, come lo era stata per molto tempo.
«Merda». Afferrai la mano di Charlie e lo tirai verso l’entrata. Mi abbassai per riuscire a passare e fu solo per un soffio che anche Charlie non rimase chiuso dall’altra parte.
«Ce l’abbiamo fatta?», mi chiese con il fiato corto.
«Non è ancora finita». Il terreno continuava a tremare sotto i nostri piedi, anche se meno di prima; tuttavia come avevo previsto vidi la parete rocciosa crollare verso di noi, come se volesse sigillare in maniera definitiva quel passaggio.
«Muoviti», gridai di nuovo, riprendendo quella frenetica corsa verso la salvezza. Purtroppo sapevo  a cosa stavamo andando incontro e sentivo la paura crescere ad ogni passo. Il burrone con il ponte invisibile ci stava aspettando e sarebbe stato un suicidio farlo di corsa e con un terremoto in atto. Anche Charlie doveva star pensando la stessa cosa e sperai davvero che avesse una qualche idea geniale per salvare la vita di entrambi.
Come avevo previsto mi bloccai di fronte al burrone, sentendo il rumore delle rocce crollare alle mie spalle. Avevo il fiato corto e sapevo anche di non aver molto tempo, ma in quelle condizioni fare un passo nel vuoto mi avrebbe fatto quasi sicuramente cadere nel baratro.
«Forza Emma vieni». Charlie mi superò e mi afferrò per la mano tirandomi verso il terreno invisibile di fronte a noi.
«Ci ammazzeremo Charlie», protestai puntando i piedi. Sapevo che non avevamo molta scelta, ma doveva esserci una soluzione che ci permettesse di passare illesi.
«Beh ci ammazzerà anche la parete alle nostre spalle se non ti muovi». Mi incatenò con il suo sguardo, cercando di infondermi coraggio e di convincermi a muovere il primo passo.
«Fidati di me». A quelle parole lasciai che fosse lui a guidarmi e mi decisi a iniziare quel percorso suicida. Mi affidai completamente a lui ed era una cosa che non facevo mai.
Sentendo il cuore in gola e stringendo la mano di Charlie percorsi un metro dietro l’altro sentendomi instabile ogni passo sempre di più.
Fu esattamente quando arrivammo dall’altra parte che con un enorme boato la parete alle nostre spalle crollò e la terra smise di tremare. La strada da cui eravamo appena venuti era sparita sotto un cumolo di macerie. Da quello che riuscimmo a scorgere, non c’era più niente se non ammassi di pietre le une sull’altre. Invece il percorso davanti a noi sembrava intatto e sicuro.
«Ce l’abbiamo fatta? È finita?», chiese Charlie ansimando.
«Non lo so ma muoviamoci». Era meglio sbrigarsi prima che un altro imprevisto ci sorprendesse.
Riprendemmo a camminare e fu proprio in quel momento che lo sentii.
«Emma? Emma, mi senti?». Mi bloccai riconoscendo immediatamente la sua voce e chiedendomi se non fossi di nuovo impazzita del tutto. Quelle parole erano state pronunciate così vicino a me che avrei potuto averle dette io se non fosse stato per la voce possente del mio pirata.
«Emma?». I battiti del mio cuore divennero così forti che lo sentii martellare fin dentro le orecchie.
«Chi è?». Charlie si era voltato verso di me e mi stava guardando con sguardo confuso. Era evidente che anche lui l’aveva sentito e che quindi io non mi ero del tutto bevuta il cervello.
«Killian?». La mia voce si sciolse pronunciando quel semplice nome.
«Emma, spero che tu riesca a sentirmi». All’improvviso capii da dove provenisse la sua voce: dall’anello di Liam che portavo appeso al collo. Afferrai la catena e me lo portai davanti agli occhi, non potendo credere a ciò che stava succedendo.
«Devi ascoltarmi attentamente Swan, non abbiamo molto tempo». La voce arrivò più distinta, confermando che in un certo senso era proprio l’anello a parlare. «Ti conosco amore e so che stai lottando là sotto per tornare a casa, so che ci riuscirai, ma devi fare attenzione».
«È il tuo….?». Charlie fece per parlare ma lo bloccai subito con un gesto della mano.
«Zitto!». 
«C’è un passaggio per tornare nell’Oltretomba, non so se lo sai già. Ma questo non è importante perché so che tu lo troverai. In fondo a quel passaggio c’è un portale: Emma ti prego non entrare in quel portale. Non prendere quel portale, ti scongiuro. È un inganno, conduce solo in un posto peggiore dove è difficile, quasi impossibile, uscire. La vera strada per l’Oltretomba è nascosta dietro di esso, è solo una scala ma ti prego percorrila e torna da me». Il mio respiro si era lentamente bloccato, mentre la mia mente realizzava ciò che lui ci aveva appena rivelato.
«Ti amo Emma». Furono le ultime parole che riuscì a comunicarmi. Anche se non potevo saperlo, intuivo che fosse così. Ma per una volta non avevano importanza perché ci aveva appena annunciato che avevamo condannato a morte tutti i nostri amici.
Lo sguardo di Charlie saettò dall’anello al mio viso, mentre realizzava anche lui ciò che era realmente accaduto. «Lizzy!». Partì di corsa diretto verso l’unica direzione possibile.
«Charlie! Aspetta!». Lo seguii a ruota iniziando a correre attraverso i cunicoli e le biforcazioni che avevamo già superato una volta. Capivo esattamente ciò che stava per fare e non sapevo proprio come fermarlo. A dir la verità non sapevo neanche io cosa avrei fatto. Ero stata così sicura del portale ed era quindi solo colpa mia se adesso i nostri amici erano finiti in un posto peggiore. Che razza di Salvatrice ero?
Killian mi aveva pregato di non attraversare il portale ma come potevo non farlo? Come potevo andarmene, trascinare Charlie con me, senza tentare di salvarli?
Il percorso a ritroso mi sembrò centomila volte più breve e meno tortuoso. In un attimo fummo di nuovo di fronte a quella visione effimera che ci aveva precedentemente ingannato.
«Charlie ti prego». Lo afferrai per la mano proprio davanti al portale. «Non puoi entrare! Non farlo».
Cercò di divincolarsi ma la mia presa era salda. «Lizzy!». Era solo una parola, ma era sufficiente. Si voltò a guardarmi e il suo sguardo pieno di dolore mi trafisse come centomila spade. In un attimo presi la mia decisione.
Allentai la presa e con uno scatto raccolsi una pietra piuttosto grande, vicino al mio piede. Mi mossi con estrema velocità e lo colpii alla testa prima che potesse entrare nel portale, facendogli perdere i sensi.
«Scusa Charlie, non posso permettere che tu metta a repentaglio la tua vita». Senza indugiare trascinai il suo corpo verso un lato di quella caverna e solo allora notai una ripida scala a chiocciola. La scala della nostra salvezza.
Tuttavia non era arrivato ancora il momento di percorrerla. Strappai un pezzo ti tessuto alla mia maglia e legai le mani e i piedi di Charlie in modo che non potesse muoversi anche se avesse ripreso i sensi. Sapevo che non avrebbe preso la scala da solo ed era troppo pesante per trascinarlo fino in cima. Il mio piano improvvisato consisteva solo nel liberarlo una volta salvato gli altri. Sempre se fossi riuscita nel mio intento.
Tornai davanti al portale e, stringendo l’anello tra le mani, sentii il mio cuore frantumarsi. «Mi dispiace Killian», sussurrai. «Non posso fare ciò che mi hai chiesto. Ti prego perdonami. Ti amo anch’io». Due lacrime mi rigarono le guance mentre con un passo andavo direttamente incontro all’inferno.
 
POV Killian
Seguii Artù senza avere la minima idea di dove stesse andando. Non appena gli avevo comunicato la mia intenzione di avvisare Emma del pericolo che stava correndo, Artù era partito deciso diretto verso il centro dell’Oltrebrooke, intimandomi di seguirlo. Non aveva aggiunto una sola parola, ma intuivo che avesse un piano o almeno speravo che ne avesse uno.
«Che diavolo ci facciamo qua?», gli domandai quando entrammo nel locale della strega cieca.
«Beh conosco solo una persona che sa abbastanza cose da poter darci una mano». Scrollò le spalle e si diresse ad uno dei tavoli all’interno del locale.
«Ehi zuccherino che succede?». Crudelia alzò lo sguardo su di noi non appena ci fermammo accanto a lei. «E guarda un po’ chi è tornato: un altro buon bocconcino».
«Per mille velieri…». Afferrai Artù per un braccio e lo trascinai un paio di metri indietro. «Cosa diavolo ti salta in mente? Perché siamo venuti qui? Non sarà certo per chiedere aiuto a lei?».
«Hook ti sorprenderà sapere quante cose sa sull’Oltretomba». Beh quella non era certo una spiegazione sufficiente, non dopo che era stata una vera e propria spina nel fianco per tutto il tempo in cui Emma e gli altri erano stati laggiù.
«E credi davvero che ci aiuterà? Povero illuso».
«Beh so che lo farà». Mi lanciò uno sguardo esplicativo facendomi capire che non era certo Crudelia il problema.
«Oh mio Dio amico! Vai a letto con lei?». Non avevo bisogno di una conferma esplicita per sapere che era proprio così.
«Un re deve riuscire a conquistare i giusti alleati. E credimi lei è proprio quello che ci serve». Senza aspettare una mia risposta tornò da lei e si sedette al tavolo. Non mi restò altro da fare che imitarlo e prendere posto davanti a loro.
Impiegammo un po’ di tempo per spiegarle ciò che effettivamente era successo; in fin dei conti era una storia piuttosto intricata. Alla fine però la domanda fondamentale era solo una: conosceva un modo per comunicare con le anime perse di quel dannato fiume? Se c’era stato un tempo in cui i telefoni dell’Oltrebrook avevano collegato le anime ai vivi, forse c’era un modo anche per fare ciò che occorreva a noi.
«È piuttosto complicato», esordì infine. «E non vedo perché debba aiutarvi a salvare colei che in fin dei conti mi ha ucciso». Avevo voglia di gridare in faccia ad Artù un “te l’avevo detto”, ma mi trattenni.
«Crudelia, lo sai che il tuo aiuto è fondamentale per noi». Lui le prese la mano e a me venne il voltastomaco. Ovviamente se in cambio di favori sessuali avessi ottenuto ciò che ci serviva, sarei stato il primo a mettere Artù a disposizione come gigolo.
«Beh ci sarebbe un modo», tentennò lei.
«Che modo?», la incalzai, non aspettandomi una resa così immediata.
«Un incantesimo. Tuttavia io non posso aiutarvi con quello». Ci aveva praticamente detto tutto e niente.
«Posso farlo io però». Una voce alle nostre spalle ci fece voltare; la Strega Cieca era in piedi esattamente dietro al nostro tavolo.
«Hai ascoltato?», le domandai sorpreso che fosse interessata alla nostra conversazione.
«Sono cieca non sorda», ribatté piccata. «Sì comunque e penso di conoscere l’incantesimo di cui avete bisogno».
«E puoi farlo?». Non era certo famosa per le sue doti magiche visto che si era fatta fregare da due bambini.
«Dovreste sapere che nessuno da niente per niente. Però possiamo fare un accordo». Di certo non mi ero aspettato che lo facesse per la sua bontà d’animo.
«E cosa vuoi?», le chiesi titubante.
«Oh niente da te, non hai nulla che mi interessa; ma pensò che Artù possa fare qualcosa per rendere la mia vita oltre la morte decisamente più confortevole».
 
Qualche discussione e controversia dopo avevamo trovato un accordo abbastanza vantaggioso da far sì che la Strega Cieca ci aiutasse. Non voleva granché in fin dei conti, se non una maggiore considerazione, e fui grato ad Artù per avergliela concessa solo per aiutarmi. Dovevo ricredermi del tutto su di lui: rispetto a come si era comportato a Camelot era decisamente cambiato.
«Bene, direi che possiamo cominciare». Crudiela era appena tornata con un grosso libro tra le mani e la strega aveva appena chiuso il suo locale per permetterci di cominciare.
«Prima di tutto», disse, «se vuoi contattare Emma bisogna che lei abbia qualcosa di tangibile, qualcosa che la leghi a te».
«Cosa?». Fu Artù a scattare. «Questo non ce l’avevi detto prima».
«Beh forse è un particolare che mi è sfuggito».
«Ti è sfuggito? È fondamentale. Puoi considerare il nostro accordo nullo». Appoggiai l’uncino sulla spalla di Artù per fermarlo prima che dicesse altro. Era vero: era un particolare fondamentale, ma stranamente non rappresentava un problema. Per una volta ero riuscito a far avere ad Emma esattamente ciò che ci serviva.
«Ce l’ho», affermai. «Emma ha un anello».
«Un anello di fidanzamento?», si informò Crudelia. «Non credevo che i pirati amassero impegnarsi».
«Beh non è proprio un anello di fidanzamento». Non ancora almeno. «È l’anello di mio fratello».
«Che cosa strana», commentò Crudelia. «Ricordo il tuo amato fratellone, ci sapeva fare con i drink».
«Basta perdere tempo in chiacchiere», conclusi. «Ti può andare bene quell’anello?».
«Se lo ha lei, penso che non ci saranno problemi».
«È la prima volta che contattiamo qualcuno che si trova in quel fiume, ho sempre pensato che non potesse esserci nessuno ancora sano di mente là sotto», continuò la svitata numero uno.
«Per favore, sta zitta», intervenne Artù prima che potessi farlo io.
«A cosa serve l’anello?», domandai.
«Qua dice che sarà attraverso quello che comunicherai», mi rispose di nuovo Crudelia. Avevo decisamente l’istinto di tirarle un pugno in faccia.
«Cosa diavolo ci fai lei ancora qua?», domandai agli altri due. Era senza magia, quindi in quel frangente era del tutto inutile.
«Beh Hook, forse ti è sfuggito il particolare che la mia cara amica qui presente è cieca. Sono io che interpreto il libro per lei, in fondo di magia me ne intendo sicuramente più di voi due». Borbottai qualcosa, ma non protestai oltre.
«Se vuoi che riuscire a comunicare con lei», continuò come se nulla fosse, «dovrai concentrarti su un ricordo che leghi voi due a quell’anello. Pensi di farcela?».
Beh almeno quello era facile. «Certo».
«E fai che sia intenso», intervenne la strega. «Ho bisogno di un ricordo intenso per metterti in comunicazione con lei». Logico: i suoi poteri erano limitati e sapevo che se non ci fosse riuscita avrebbe dato la colpa a me e al mio ricordo.
«Come farò a sapere se lei riesce a sentirmi?». Dovevo avere la sicurezza che il mio messaggio arrivasse a destinazione, ci doveva essere un qualche riscontro.
«Lo saprai, se funziona lo capirai». Mi ero aspettato una risposta da Crudelia invece era stata l’altra a parlare.
«Bene allora direi che possiamo cominciare», conclusi, sperando che non fosse già troppo tardi.
 
Emma era accoccolata addosso a me sul divano di casa nostra. Mi faceva ancora un certo effetto chiamare quel luogo così. Ero stato abituato a definire casa soltanto la Jolly Roger, era strano essere legato ad un qualcosa di stabile e completamente diverso.
Le dita di Emma stavano giocando con l’anello di Liam che portava al collo. Adoravo il fatto che non se lo togliesse, era come una sorta di simbolo. Significava in un certo qual modo che Emma ormai mi apparteneva, esattamente come io appartenevo a lei. Eravamo due sopravvissuti e quella semplice catena serviva a ricordare ad entrambi che avevamo qualcuno che ci aspettava e da cui dovevamo ritornare.
Sfiorai con l’uncino il suo fianco, mentre le mie dita si intrecciarono alle sue, stringendo a loro volta l’anello. Sentii la sua superficie liscia, ormai calda per il contatto con le nostre mani e proprio mentre mi apprestavo a stringere l’anello, percepii le dita di Emma spostarsi sul dorso della mia mano.
Nello stesso istante le sue labbra lasciarono un dolce bacio sul mio collo, facendo chiudere i miei occhi e concedendomi la possibilità di rilassarmi completamente. Non avevamo molti momenti tranquilli, ma quello sicuramente lo era. Finalmente potevamo rilassarci e stare un attimo per conto nostro, solo io e lei.
 
«Non va bene». La voce della Strega Cieca mi riportò alla realtà. «Non va assolutamente bene, non è neanche lontanamente intenso». Mi stava stringendo la mano e non capivo se riusciva anche lei a scorgere i miei ricordi esattamente come li stavo rivivendo io nella mia mente.
Aprii la bocca per parlare, ma la richiusi non sapendo cosa dire. Era uno dei ricordi più distinti che avevo di noi due insieme all’anello. In fondo mi aveva appena detto che era quello ciò a cui avrei dovuto pensare. In che senso non andava bene?
«Non ti stai impegnando», mi rimproverò. «Non riuscirò a fare l’incantesimo se tu non collabori».
«Sto collaborando», protestai con una smorfia. Non era certo colpa mia se lei era una strega del tutto incapace.
«Beh pirata a quanto pare non abbastanza». Voltai la testa di scatto lanciando un’occhiataccia a Crudelia. Ci mancavano solo le sue frecciatine!
«A cosa dovrei pensare?», domandai non capendo. «Mi hai detto di pensare ad Emma e a me con l’anello ed è esattamente quello che sto facendo».
«Non è quello che ho detto», protestò Crudelia. Se la strega non avesse tenuto stretta la mia mano, mi sarei alzato di scatto per andare ad afferrare quella costosa pelliccia che indossava.
«Cercate di spiegarvi meglio», intervenne Artù tentando di mediare la situazione.
«Deve essere un ricordo intenso, un momento importante della vostra vita che riguardi voi e l’anello». Provai a riflettere sulle sue parole e a ricercare nella mia mente il momento adatto. Potevo pensare a quando gliel’avevo dato, ma avevo come la netta sensazione che non sarebbe stato sufficiente. Non rappresentava nessun punto di svolta, se non il fatto che il nostro amore era ormai consolidato e che avrebbe resistito a tutto. Forse poteva essere il ricordo giusto ma avevo come la sensazione che non lo sarebbe stato. Però c’era stato un altro momento importante, o almeno lo era stato per me.
«Ci sarebbe un ricordo», sussurrai. «Ma non riguarda propriamente la nostra storia o l’anello. È qualcosa che è successo prima che noi due ci innamorassimo».
«È stato un momento importante per te?».
«È stato fondamentale». Forse più di ogni altra cosa.
«Bene allora proviamo». Con un sospiro chiusi gli occhi e tornai indietro con la mente, direttamente sull’Isola che non c’è.
 
Continuavo ad andare avanti e indietro, senza riuscire a fermarmi. Cercare di dormire era del tutto impossibile, non dopo quello che era successo. La mia mente continuava a tornare là ancora e ancora: a quel dannato bacio. Era estenuante e mi rifiutavo di dar retta a quegli assurdi pensieri che mi vorticavano in testa.
L’avevo intuito, era ovvio che l’avessi fatto; ma adesso quel bacio aveva reso tutto molto più chiaro. Era come se la patata bollente fosse finita direttamente nella mia mano; spettava solo a me la scelta. Era solo mia la decisione e sarebbe bastato un attimo per cambiare radicalmente la mia vita, per cancellare ciò che avevo provato per interi secoli. Potevo scegliere e questa cosa mi mandava del tutto fuori di testa.
Inconsciamente strinsi tra le dita l’anello di Liam che portavo appeso al collo. Speravo che lui mi aiutasse a decidere cosa fare, perché in quel momento avrei davvero avuto bisogno di lui. Ero debole e, nonostante fossi un pirata sprezzante, mi sentivo un codardo.
Emma mi aveva baciato e in un solo istante era parso evidente ciò che avevo invece tentato di negare con tutte le mie forze. In un solo secondo avevo capito che mi sarei potuto innamorare di lei, se solo me ne fossi concesso la possibilità, ed era davvero una possibilità spaventosa. Avevo passato secoli evitando di coinvolgere il mio cuore nelle mie azioni. Dopo Milah, dopo ciò che era accaduto, non ne ero uscito menomato solo fisicamente. C’era un motivo se il grande Capitano Uncino aveva avuto schiere di donne ai suoi servigi, ma mai nessun’altra veramente importante.
E adesso arrivava lei; una biondina, con un tremendo caratteraccio e piena di sorprese da riuscire a scalfire l’armatura dentro la quale mi stavo nascondendo. Mi aveva travolto come un uragano, mi aveva fatto sentire come non mi ero sentito per secoli; aveva visto una parte di me che nessuno vedeva mai, mi aveva capito e sorprendentemente anch’io avevo scorto una parte di lei che probabilmente non mostrava. Dio! Dovevano esserci un’infinità di parti che teneva celate dietro la sua armatura ed io non volevo altro che scoprirle.
Un solo bacio era bastato per farmi sentire come sulla vetta più alta del paradiso e allo stesso tempo avvolto nelle fiamme dell’inferno. Mi chiesi cosa avrei provato avendo di più, stando con lei.
Sapevo che la decisione era semplice, che buttarmi era la scelta giusta. Liam me l’avrebbe detto, non mi avrebbe permesso di comportarmi da codardo. Tuttavia quando ripensavo a Milah, a come l’avevo amata disperatamente, tornavano a galla anche secoli di dolore, di vendetta. Vederla morire tra le mie braccia mi aveva devastato così tanto che avevo giurato di non permettere più a nessuno di farmi tanto male. Avevo scoperto che amare significava soffrire ed io non volevo più soffrire; per questo avevo semplicemente smesso di amare.
Senza che me ne fossi accorto avevo vagato per il nostro accampamento improvvisato e mi ero fermato proprio vicino a lei. Stava riposando e la sua espressione dura e preoccupata era sostituita da un sorriso tranquillo. Qualsiasi cosa stesse sognando doveva essere un bel sogno; per un momento sperai davvero di farne parte.
Mi accucciai accanto a lei e la guardai dormire. La mia dita erano sempre intente a giocherellare con quell’antico anello, come cercando di scovare una risposta che solo mio fratello avrebbe potuto darmi. Inconsciamente allungai l’uncino per scostarle una ciocca di capelli dalla guancia, ma mi fermai per paura di poterla svegliare. Come diavolo gliel’avrei spiegato poi? Guardarla dormire rientrava sicuramente in un tipico comportamento da maniaco. Eppure se fosse stata mia, avrei passato ore ad osservarla dormire, magari stringendola tra le braccia.
Oddio! Chi volevo prendere in giro? Era solo questo che volevo, dovevo avere solo il coraggio di lottare per averla. Stavo per buttarmi a capofitto in qualcosa di così grande da fare paura, ma se non l’avessi fatto avrei semplicemente continuato a sopravvivere. Erano secoli che sopravvivevo, ma era anche da secoli che non vivevo veramente.
Mi rialzai capendo che ormai la mia decisione era presa. Probabilmente non avevo mai neanche avuto una scelta ed era semplicemente capitato. Emma era riuscita senza neanche saperlo a darmi una seconda possibilità: mi sarei concesso di innamorarmi perché se c’era qualcuna che poteva far battere il mio cuore all’impazzata quella era sicuramente lei. Ero pronto ad affrontare tutte le conseguenze della mia scelta, che fossero state positive o negative. Era un cliché ma come molta probabilità la Salvatrice era l’unica che avrebbe potuto salvarmi dal più grande pericolo che c’era: me stesso.
Con il cuore in subbuglio mi allontanai per andare a controllare la zona. Pan non se ne sarebbe stato buono nell’ombra, ero certo che stesse architettando qualcosa anche in quel momento; e sicuramente non sarebbe stato niente di buono. Avevo scoperto da tempo che Peter Pan era l’asso per mettermi i bastoni tra le ruote.
 
La mia mente era così concentrata su quel ricordo da isolarmi completamente. Non c’erano più né Artù né Crudelia né la Strega cieca; c’ero solo io e quello che avevo provato tanto tempo prima.
All’improvviso percepii un battito cardiaco diverso dal mio: era accelerato come sotto sforzo ma avrei potuto riconoscerlo ovunque. Sapevo che si trattava di Emma anche solo percependo il suo cuore ad un mondo di distanza.
L’incantesimo stava funzionando; se volevo comunicare con lei dovevo farlo in quel momento, prima che fosse troppo tardi.  
«Emma? Emma, mi senti?». Pronunciai quelle parole con gli occhi chiusi, sentendomi uno stupido nel parlare così a vuoto. «Emma?». Tuttavia il battito ai margini della mia mente divenne più forte e più intenso come se lei fosse riuscita davvero a sentire le mie parole. Percependo quel cuore accelerare ebbi la certezza di esserci riuscito: ero in contatto con lei. Io non potevo sentirla, ma lei riusciva ad ascoltare me e questo era l’importante.
«Emma, spero che tu riesca a sentirmi». Mi tremò la voce per l’emozione, ma mi sforzai di continuare prima di perdere quel contatto importante. Dovevo metterla in guardia ed aiutarla a salvarsi. Avrei avuto tutto il tempo dopo per ripeterle quanto mi era mancata e quanto l’amavo.
«Devi ascoltarmi attentamente Swan, non abbiamo molto tempo. Ti conosco amore e so che stai lottando là sotto per tornare a casa, so che ci riuscirai, ma devi fare attenzione. C’è un passaggio per tornare nell’Oltretomba, non so se lo sai già. Ma questo non è importante perché so che tu lo troverai. In fondo a quel passaggio c’è un portale: Emma ti prego non entrare in quel portale. Non prendere quel portale, ti scongiuro. È un inganno, conduce solo in un posto peggiore dove è difficile, quasi impossibile, uscire. La vera strada per l’Oltretomba è nascosta dietro di esso, è solo una scala ma ti prego percorrila e torna da me».
«Ti amo Emma», aggiunsi prima di sentire il battito del suo cuore affievolirsi fino a sparire del tutto.
Quando riaprii gli occhi, gli altri mi stavano fissando aspettando un mio responso.
«È fatta», dissi. Non mi ero accorto di aver trattenuto il fiato per quasi tutto il tempo.


 
Angolo dell’autrice:
Buona domenica a tutti!
Premetto che questo capitolo mi è venuto particolarmente lungo, ma non potevo tralasciare niente, compresi i momenti CaptainSwan.
So che sono stata cattiva con i nostri protagonisti, ritardando il loro ricongiungimento, ma vi prometto che non manca molto. Nel frattempo c’è stato un chiarimento con Charlie e una missione ambrosia andata a buon fine. Adesso bisogna solo vedere se Emma riuscirà a salvare anche tutti gli altri.
Ringrazio chiunque legga la mia storia e la recensisca.
Un bacione e alla prossima settimana!
Sara
 

Ritorna all'indice


Capitolo 15
*** 15. L’incubo nel passato ***


15. L’incubo nel passato
 
POV Emma
Quando riaprii gli occhi mi ritrovai esattamente dove volevo essere: a Storybrooke. Non ricordavo come fossi arrivata là, ma rammentavo con molta chiarezza ciò che era successo. Non avrei mai potuto dimenticare quegli istanti, non mi sarebbe bastato un’intera vita per farlo. Un attimo prima quel piccolo ragazzino testardo mi stava urlando contro, ordinandomi di non mangiare ciò che mi aveva preparato Regina, e un attimo dopo lui era a terra privo di sensi. Sembrava l’ennesima dimostrazione che le sue teorie erano fondate.
E adesso ero lì che correvo accanto al suo letto nell’ospedale di quella assurda cittadina, sperando con tutte le mie forze che il mio bambino si svegliasse.
«Henry mi senti? Henry svegliati, ti prego!». Nella mia voce c’era solo il panico, la paura tremenda di aver perso l’unica persona che aveva sempre creduto in me.
Qualcuno cercò di allontanarmi dal suo capezzale, tirandomi per la spalla. «Signora deve uscire».
Sicuramente non aveva considerato bene con chi avesse a che fare. «Non vado da nessuna parte». Me la scrollai di dosso e tornai a guardare il corpo inerme del mio ragazzino mentre il dottor Whale continuava ad esaminarlo. Stava osservando le sue pupille con una piccola torcia ed era una scena talmente orribile che mi sentivo sul punto di crollare. Nessun bambino sarebbe dovuto mai essere in quelle condizioni, tantomeno il mio.
«Che cosa è successo? Ha sbattuto la testa?», mi chiese il dottore. Beh di sicuro non era facile rispondere alle sue domande, soprattutto quando neanche io avevo del tutto compreso cosa fosse accaduto.
«Ha mangiato questo!». Alzai la busta con il triangolino incriminato, sperando così di iniziare a fare chiarezza su quel malore improvviso. «Forse è avvelenato»
«Le vie aeree sono libere», continuò il dottore. Alzò lo sguardo su di me probabilmente aspettandosi che fornissi ulteriori spiegazioni; il problema era che io non ne avevo. «Ha avuto vomito, convulsioni, disorientamento?».
«Ha dato un morso a questo ed è svenuto», ribattei infervorandomi. «Controllate subito se è veleno per topi, acido o qualcosa del genere». Era così ovvio! Perché non si dava una mossa? Prima di mordere quell’affare Henry stava litigando con me e l’attimo dopo era a terra privo di sensi. Cosa altro poteva essere stato?
«I sintomi non indicano in alcun modo ingestione di neurotossine», protestò Whale. «Non so cosa succede ma non è questo dolce la causa». Sembrava sicuro di ciò che diceva, eppure quello che avevo visto era stato altrettanto chiaro.
«Cos’altro può essere?», domandai con voce tremante.
«Non lo so». Ecco le parole più brutte che avessi mai sentito in tutta la mia vita. «Sto cercando di scoprirlo».
Fu allora che posi la domanda più importante di tutte. «Ma se la caverà giusto?». Il mio ragazzino ce l’avrebbe fatta, vero? Perché che razza di mondo era quello dove un bambino di dieci anni moriva così all’improvviso?
«Adesso dobbiamo stabilizzarlo oppure rischiamo di perderlo». Anche Whale sembrava preoccupato e questo non era sicuramente un bene. «C’è qualcos’altro che puoi dirmi sull’accaduto? Un dettaglio qualsiasi…».
«Ti ho già detto tutto», ringhiai. «Ora rimboccati le maniche». Afferrai lo zaino di Henry e iniziai a svuotarlo su un letto vuoto lì vicino.
Nonostante non gli prestassi più attenzione, Whale continuò a parlarmi, come se credesse davvero che io potessi starlo ad ascoltare in un momento del genere. «Emma so che adesso sei nel panico, è comprensibile, ma mi serve qualcosa su cui lavorare. Per ora non ho alcuna spiegazione logica. È come…». Non finì la frase perché non c’era niente che potesse spiegarlo, niente tranne…
Osservai il libro di Henry, quello contenente tutte le sue storie, quelle che pensava che fossero reali. Biancaneve, il Principe Azzurro, la Regina Cattiva. E se lui avesse avuto ragione? E se mi avesse gridato la verità per tutto quel tempo ed io mi fossi solo rifiutata di ascoltarla? Cos’altro poteva spiegare il fatto che adesso la sua vita fosse in pericolo se non la magia? Era assurdo, ma sembrava l’unica spiegazione. La Regina Cattiva aveva appena tentato di liberarsi di me perché io ero l’unica in grado di contrastarla. Solo che non aveva potuto immaginare che Henry avrebbe mangiato il suo malefico dolce. Suonava logico, no? Nella sua assurdità aveva un senso.
«Se fosse magia…», sussurrai più a me stessa che a qualcuno in particolare. Dirlo ad alta voce sembrava ancora più da pazzi. Eppure sapevo che c’era un’unica colpevole in tutta quella storia.
E neanche a farlo apposta, la sua voce mi arrivò da dietro le spalle. «Dov’è mio figlio?».
Come osava chiedere di suo figlio quando era in assoluto tutta colpa sua? Non potevo averne la certezza eppure lo sapevo. Non avrei mai trovato spiegazione migliore, perché non ce n’erano.
«È stata lei». Mi voltai di scatto avventandomi su Regina, afferrandola per un braccio come una furia. La trascinai in uno stanzino dove avrei potuto costringerla a parlare, con le buone o con le cattive, e la scaraventai  su uno scaffale.
«È stata lei», ripetei, mentre la rabbia mi accecava completamente. Gliela avrei fatta pagare per ciò che aveva fatto al mio bambino e, se era tutto vero, anche alla mia famiglia.
«Si fermi, mio figlio…», mi implorò Regina. Le sue parole non potevano fermarmi, non quando avevo capito tutto; per questo la spinsi contro un armadietto puntandole un braccio alla gola.
«Sta male a causa sua, ha mangiato il dolce che mi ha dato».
«Cosa?». Regina mi guardò non capendo ma io avevo in testa solo la mia idea. Era la Regina Cattiva ed aveva tentato di uccidermi, avvelenando il mio ragazzino testa dura.
«Ha mangiato il dolce che mi ha dato!», ripetei spingendola ancora di più contro l’armadietto. L’avrei soffocata con le mie stesse mani se non avessi saputo che lei era l’unica in grado di spegnere ciò che aveva iniziato.
«E con questo?». La voce di Regina arrivo flebile, segno evidente che la mia presa le stava facendo mancare l’aria.
«Che razza di magia ci ha messo dentro?». Il mio tono non suonò rabbioso quanto volevo, mi uscì più lamentoso del previsto. Ma lei doveva confessare, doveva salvare il mio bambino.
«Cosa sta dicendo?». La faccia di Regina fu talmente sconvolta e spaesata che pur un attimo considerai l’idea di allentare la presa.
«Confessi!». Il mio urlo rimbombò nella stanzina, ma era l’unico modo per indurla a dire la verità.
«Cosa dovrei confessare?», sospirò con la poca voce che le restava. Due lacrime le rigarono le guance e i suoi occhi pieni di dolore mi lasciarono del tutto interdetta.
Senza rendermene conto mi scostai da lei, lasciandole la possibilità di rimettersi in piedi e di riprendere fiato.
«Lui ha mangiato questo». Alzai la busta contenente il dolce e mi sorpresi di sentire in bocca il sapore salato delle lacrime. Era una vita che non piangevo: io non piangevo mai, ero così brava a non farlo, a nascondermi dietro la mia armatura. Ed adesso invece crollavo come una stupida!
«Lei deve essere la Regina Cattiva», continuai, «deve esserlo per forza». Henry aveva ragione e quello era tutta opera della magia e tutto poteva essere risolto solo con un’altra magia.
«Signorina Swan, capisco che è sconvolta. Lo sono anch’io: mio figlio è di là e lei non mi ha dato neanche il tempo di vederlo!». Era il suo turno attaccare e il mio di subire. «Quello che sta dicendo è del tutto assurdo. E adesso mi lasci andare da mio figlio».
«No». Mi misi davanti alla porta, sbarrandole la strada. «Deve essere così! Non ci sono altre spiegazioni».
«Senta, non so di cosa mi stia accusando di preciso. Ma Henry è solo un bambino molto fantasioso, non posso credere che lei dia adito alle sue idee. La credevo più intelligente di così. Adesso mi lasci andare da mio figlio se non vuole che le metta le mani addosso».
«No», ripetei. Regina Mills nel suo abito firmato non mi faceva certo paura, sapevo che in uno scontro fisico io avrei sicuramente avuto la meglio. Ed evidentemente lo sapeva anche lei.
«D’accordo». Invece di attaccarmi in qualche modo, mi strappò di mano il sacchetto; in un solo secondo estrasse il dolce e me lo portò davanti agli occhi.
«Vuole una prova? Ecco la sua prova». Senza aspettare una mia risposta dette un morso al triangolino, sorprendendomi talmente tanto da lasciarmi a bocca aperta. Ciò che accadde dopo fu la cosa più deplorevole che potesse accadere: non successe proprio niente. Quella era la dimostrazione che tutte le mie ipotesi non erano solo sbagliate ma anche assurde.
«Io… io…». Non sapevo cosa dire; sentivo le guance in fiamme ed un dolore opprimente schiacciarmi il petto.
«Adesso mi lasci passare». Mi scansai subito, permettendole di aprire la porta e di tornare al capezzale di Henry. D’altronde non potevo fare altrimenti, visto che mi ero appena resa ridicola di fronte a lei.
Avevo davvero pensato che Henry potesse aver ragione, perché in fondo cos’altro volevo? Quel ragazzino mi stava dando la possibilità di dare un senso a tutto il caos che c’era stato nella mia vita. Quei genitori che mi avevano abbandonata in fasce in mezzo ad un bosco diventavano, in quella assurda favola, il Principe Azzurro e Biancaneve, costretti ad abbandonare la loro adorata figlia e a farla crescere senza di loro. La solitudine che avevo provato in tutta la mia vita diventava un semplice effetto collaterale del sortilegio. E poi come in tutte le fiabe c’era un cattivo, Regina in questo caso, a cui dare tutta la colpa. Sarebbe stato bello, e soprattutto sarebbe stato fantastico poter risvegliare il mio bambino con qualcosa di magico, qualcosa che andava ben oltre la scienza.
Non avevo creduto ad Henry fino a che non l’avevo visto a terra privo di sensi. Non avevo creduto alla magia fino a quando non avevo avuto davvero bisogno di un miracolo per salvarlo. Ma io non ero la Salvatrice, come il mio ragazzino invece sosteneva, ed io non ero capace di fare niente. Solo il dottor Whale poteva salvarlo ed ero stata davvero una sciocca a credere in quell’assurda fantasia. Mi ero ridicolizzata di fronte ad una persona che già mi odiava; per cosa poi? Per niente.
Stringendomi le braccia intorno al petto, tornai di là, cercando di farmi forza. Non mi ero mai sentita più debole di così. Henry era riuscito a scalfire la mia dura armatura e mi odiavo per averglielo permesso. Avevo già sofferto abbastanza nella mia vita, avrei dovuto imparare ad escludere tutti e tutto. Eppure quel bambino, il mio bambino, sangue del mio sangue, era riuscito ad insinuarsi nel mio cuore. Era forse l’unica persona che avessi mai trovato che fosse in grado di volermi bene incondizionatamente e adesso stavo per perderla. Una nuova perdita, un nuovo abbandono.
Quando rientrai nella stanza, sperando in qualche cambiamento positivo, vidi Regina seduta sul letto accanto al piccolo, i singhiozzi che le facevano alzare e abbassare le spalle. Era ovvio che non fosse cambiato niente e che il dottore continuasse ancora a non capire cosa avesse Henry. Restai in disparte permettendo a Regina di avere quel momento di privacy con suo figlio, perché in fondo poteva considerarsi più figlio suo che mio. Lei l’aveva cresciuto e, per quanto la odiassi, aveva ragione su una cosa: io avevo rinunciato ad Henry quando l’avevo abbandonato e non avevo più nessun diritto su di lui. Sapevo che Regina gli voleva bene, ma non riusciva a dimostrarlo nel modo giusto; forse la fantasia sfrenata di Henry era proprio dovuta a questo.
All’improvviso quei complessi macchinari che il dottore aveva collegato al minuscolo corpo del mio ragazzino cominciarono a suonare, facendo accorrere subito medici ed infermieri nella sua stanza. Tentai di avvicinarmi anch’io al letto per poter anche solo stringere la mano del mio piccolo lottatore, ma fui bruscamente spinta via e allontanata.
«Portatele via», sentii qualcuno gridare. «Fatele uscire immediatamente». Tentai di resistere ma due braccia più forti di me mi afferrarono e mi trascinarono fuori. Notai che anche Regina era nella mia stessa identica situazione, costretta ad uscire dall’unica stanza in cui entrambe avremmo voluto restare.
«Signore non lo aiutate se continuate ad intralciarci». Furono quelle parole a farci smettere di combattere. Volevamo solo che Henry si svegliasse e se avrebbe aiutato l’averci lontano, avremmo sopportato quella terribile separazione.
Non ero mai stata madre, non avevo voluto esserlo, non mi ero sentita pronta, ma adesso sapevo cosa significava. Amare qualcuno più di sé stessi non aveva mai avuto senso per me fino a quando lui non era venuto a prendermi. Solo in quel momento, quando avrei dato la mia stessa vita per salvare mio figlio, mi resi conto che senza volerlo lo ero diventato. Ero madre ed era un sentimento talmente forte da riuscire a stravolgermi completamente.
Attraverso il vetro osservai i medici e gli infermieri affannarsi sul corpo inerme di mio figlio, mentre Regina singhiozzava al mio fianco, cercando di non guardare la terribile scena che aveva davanti. Io invece non riuscivo a distogliere lo sguardo da quel macabro spettacolo. Non riuscivo a staccare gli occhi da quel vetro, dalle mani che massaggiavano il petto del mio bambino, da Whale che preparava le piastre, dall’infermiere che spingeva l’aria nel petto di mio figlio, dai monitor che lampeggiavano e suonavano. Era una scena raccapricciante; ogni cellula del mio corpo mi gridava di non guardare, di distogliere lo sguardo per evitare di vedere ciò che sembrava inevitabile e ciò che mi avrebbe sconvolto per sempre. Eppure io non potevo muovermi, dovevo osservare fino alla fine, dovevo individuare l’esatto istante in cui il mio cuore si sarebbe ridotto in mille pezzi.
E poi accadde: le linee sul monitor divennero piatte, l’agitazione accanto al corpo di mio figlio diminuì per lasciare il posto allo sconforto. Notai esattamente il cambio di espressione sul volto di tutti i presenti: quel dolore misto a pietà che odiavo con tutta me stessa.
Per capire non avevo bisogno che Whale uscisse fuori, con un’espressione contrita dipinta sul volto. E non avevo bisogno nemmeno delle sue parole. «Ho fatto tutto il possibile… mi dispiace».
«No!». Sentii l’urlo di dolore di Regina, la stessa mia disperazione che traspariva da una sola sillaba. Per quanto detestassi ammetterlo si erano appena infranti due cuori: il mio e il suo. Avevo promesso di non farmi più spezzare da nessuno, invece quel ragazzino era riuscito nell’impossibile.
Come un automa mi avvicinai a lui, entrando nella stanza. Arrivai al fianco del suo letto e gli sfiorai una manina con la mia. Era possibile che mi sembrasse già freddo?
Sentivo in bocca il sapore delle lacrime e per quanto tentassi non riuscivo a fermarle. Era come se avessi rotto l’armatura che mi teneva insieme, frantumandomi così in mille pezzi. Mi chinai per sfiorare la sua fronte con le mie labbra, sperando in qualcosa di impossibile, in qualcosa che non si sarebbe mai potuto realizzare.
«Ti voglio bene Henry». Lasciai un dolce bacio sulla sua fronte e come era ovvio non accadde niente. Lui non si mosse, lui non si svegliò e l’inferno in cui ero precipitata continuò a rimanere tale. Non sapevo neanche il motivo, ma avevo sperato che il mio gesto potesse cambiare tutto. Che assurdità! Quasi quanto quella di aver creduto alle fantasie del mio bambino!
Solo quando ripensai alle favole di Henry fui travolta dalla consapevolezza che non avrei più sentito la sua voce, né tantomeno avrei visto la sua testolina spuntare da quell’enorme libro.
Mi accasciai a terra, travolta da singhiozzi, realizzando di aver perso tutto. Henry era diventato negli ultimi mesi il mio tutto e io adesso mi ritrovavo di nuovo sola. Era di nuovo la povera orfanella che non aveva nessuno; avevo appena perso l’unica persona che avesse creduto in me, l’unico che nonostante la sua età fosse riuscito a smuovermi.
Odiavo essere Emma l’orfanella, Emma la bimba sperduta, ma in quel momento mi sentivo di nuovo così. Non sapevo a chi dare la colpa, ma di nuovo mi era stato portato via la parte migliore di me, di nuovo il mio cuore era a pezzi e io non avevo nessuno che potesse rimetterlo insieme. Ero riuscita a stento a tornare in piedi dopo Neal, come potevo rialzarmi di nuovo dopo una batosta del genere? Non c’era una giustizia in quel dannato mondo! Come poteva esserci se un bambino di dieci anni moriva così all’improvviso? Come poteva esistere tanto dolore?
Mentre tentavo di stringermi con le braccia sentii qualcosa di metallico premere tra il mio petto e la mia mano. Cercai di sbattere le palpebre per cercare di vedere, ma la mia vista era troppo appannata; c’erano troppe lacrime a coprire la mia visuale. Mi passai un palmo sul viso e cercai di nuovo di mettere a fuoco quell’oggetto indefinito.
Appeso al mio collo c’era una catena nella quale era inserito un grosso anello. Lo fissai perplessa non capendo da dove saltasse fuori; io non avevo niente del genere, ne ero certa. Da dove diavolo sbucava? Ebbi la sensazione che ci fosse qualcosa di sbagliato, ma non era la presenza dell’anello ad essere errata; era come se l’intera scena fosse scorretta.
Con mano tremante afferrai l’anello e lo strinsi tra le dita osservandolo. Il contatto con il metallo mi fece salire un brivido lungo la schiena e mi fece girare la testa. Era come se davanti agli occhi mi passasse una vita intera: un’altra vita che avevo già vissuto, con persone vere che mi avevano amato e avevano tenuto a me veramente.
All’improvviso voci diverse si affacciarono nella mia mente, ricordandomi ciò che era stato, come questo mi aveva aiutato a cambiare e chi ero finalmente diventata.
Una voce femminile fu quella che distinsi per prima. Adesso, cerco nostra figlia.
Allora è vero?
Tu ci hai trovato Emma. Sapevo a chi apparteneva quella voce; era di Mary Margaret ed era così chiara e cristallina come se fosse stata accanto a me. Non furano tanto le parole, ma fu l’emozione che trapelava a travolgermi: era come se Henry avesse sempre avuto ragione.
Emma io non smetterò mai e poi mai di proteggerti.
Non sono abituata ad essere importante per qualcuno. Ed era così: nessuno, ad eccezione di Henry, aveva tenuto veramente a me. Non avevo mai avuto qualcuno che mi amasse incondizionatamente. Eppure quelle frasi sembravano gridarmi tutto il contrario.
E poi, tra il tumulto di voci che affollavano la mia testa una si distinse tra le altre. Era forte e particolare; non l’avevo mai sentita prima eppure era come se la conoscessi da sempre. Ascoltarla era come tornare a casa.
Sei un pirata.
Sì è vero. Ma credo anche nella correttezza; così quando ti conquisterò Emma, e so che ci riuscirò, non sarà grazie all’inganno. Sarà perché tu vuoi me. Quelle parole, rivolte a me chissà quando e chissà da chi, erano talmente sincere e reali da farmi battere il cuore all’impazzata.
L’unica cosa che devo scegliere è il modo di salvare mio figlio. Era la mia voce, ed era preoccupata e determinata. Lei mie parole non avevano senso: avevo appena perso l’opportunità di salvarlo. Non ci sarebbero state altre possibilità.
Ci riuscirai. Di nuovo quella voce forte.
Tu credi?
Non ti ho ancora mai visto fallire. Non ricordavo di aver pronunciato quelle parole, di aver avuto quel dialogo, eppure ogni frase sembrava portarmi sempre più vicina alla persona che ero.
Fu grazie a quella voce che ogni istante divenne più nitido nella mia mente. Ogni parola, ogni sillaba risvegliava una parte di me che non credevo di avere. Non passerà giorno senza che io pensi a te. Era una promessa e una parte di me sapeva che, a prescindere da chiunque avesse stretto quel giuramento, l’avrebbe mantenuta.
E insieme a quella voce c’era la mia, che continuava a porre domande che non ricordavo di aver pronunciato. Sei felice di sapere che ho il cuore spezzato? Una semplice richiesta che poteva adattarsi anche a quel momento.
Se può essere spezzato vuol dire che funziona ancora. Era vero, sentivo il cuore in mille pezzi eppure non mi ero sentita così viva da anni.
Mentre ascoltavo le sue parole, qualcosa cambiò dentro di me, come se fosse scattato all’improvviso un interruttore. Tutto ad un tratto non ebbi più problemi ad identificare la voce, sapevo chi era e riuscii a visualizzarlo come se fosse stato realmente davanti ai miei occhi. Era il mio pirata e quella era la mia vita, i momenti importanti che avevo vissuto e che non avrei mai potuto dimenticare.
Hai abbandonato la tua nave per me? La sua affermazione mi aveva talmente sorpresa da spingermi a gettarmi in qualcosa che mi terrorizzava. Il fatto che mi guardasse come se non si sentisse affatto un eroe mi aveva spinto a baciarlo per quella che poteva essere considerata la nostra prima volta.
Lui era sempre stato lì, così sicuro e così protettivo; aveva spazzato via tutti i miei dubbi ed incredibilmente lo stava facendo di nuovo. Amore mio non preoccuparti per me. Se c’è una cosa in cui sono bravo è sopravvivere.
Dopo quella rammentai un’altra confessione, due semplici parole che erano riuscite a sciogliermi completamente. Ricordavo benissimo cosa gli avevo domandato e la sua risposta mi aveva fatto commuovere. Se hai davvero paura di perdere il tuo lieto fine vuol dire che l’hai trovato. Qual è?
Non lo sai Emma? Sei tu. Non avevo mai pensato di essere il lieto fine di qualcuno, né tanto meno avevo sperato di poter innamorarmi in quel modo.
Quello che provavamo andava ben oltre il semplice significato della parola amore. Il Vero Amore. Emma tu hai scelto me. Quando dicevamo di amarci sapevamo entrambi che quello che provavamo era un sentimento che ci aveva completamente travolti. Non era vita quella lontana da Killian Jones e per lui era lo stesso.
E noi lo sapevamo bene. Ce n’erano stati di momenti brutti, ma li avevamo affrontati uno dopo l’altro. Ricordavo bene il dolore ma anche quello aveva significato vivere. Non so come si dice addio.
Allora non farlo. Promettimi solo una cosa: se ti ho aiutata a togliere quell’armatura allora non rimetterla soltanto perché mi perderai. Perderlo era stata la cosa più orribile e più difficile che avessi mai affrontato, ma alla fine non aveva fatto altro che rafforzare i nostri sentimenti. Neanche la morte ci aveva divisi. E niente ci sarebbe riuscito e la prova era di fronte ai miei occhi.
Dopo quello che abbiamo passato, l’Oscurità, Ade, essere separati in mondi diversi, volevo solo dirti una cosa… adesso che non siamo in mezzo ad una battaglia o che uno dei due non rischia di morire. Ora che è tutto normale.
Che cosa c’è Swan?
Ti amo. Due parole bastarono per risvegliare tutto dentro di me. Quella che stavo vivendo non era la realtà, le cose erano andate in un modo completamente diverso. Il mio ragazzino non era morto ed io non ero sola. Non lo ero più stata da quando mi aveva trovata.
Henry aveva sempre avuto ragione, esisteva la magia ed io ero la Salvatrice; avevo una famiglia che mi voleva bene, degli amici, Regina era cambiata e avevo trovato un pirata dal cuore immenso che amavo con tutta me stessa.
Quel dolore che provavo, quelle lacrime che mi rigavano le guance non erano vere. Erano solo un’illusione, il mio inferno personale. Tuttavia c’era un punto che nessuno aveva considerato: io avevo qualcuno a cui aggrapparmi e da cui tornare, non mi sarei fatta ingannare oltre. Avevo una missione da compiere e l’avrei portata a termine al più presto. C’erano delle persone che mi stavano aspettando ed io non vedevo l’ora di perdermi di nuovo nel mio oceano personale.
Ma non c’era solo Killian; Henry non era morto, era Storybrooke ed io dovevo tornare anche da lui. Con quella convinzione rialzai di nuovo la testa e osservai il mondo che mi circondava. Quando la consapevolezza che nulla era reale si consolidò nella mia mente, vidi la stanza intorno a me sgretolarsi, cadere letteralmente in mille pezzi e rivelare la vera realtà che mi circondava.
Ero di nuovo in una specie di grotta, il portale era alle mie spalle ed illuminava l’area di fronte a me. Ciò che era appena successo era accaduto solo nella mia mente ed era stato solo grazie all’anello di Liam se ero riuscita a rompere quella maledizione. La stessa fortuna però non era capitata ai miei quattro amici, che erano invece accasciati a terra sparsi ai lati opposti di quella stanza di pietra. Se volevo portarli in salvo dovevo cercare di spezzare anche i loro incubi e non avevo la minima idea di come riuscirci.
Senza esitare mi avvicinai a Milah che era anche quella che si trovava più vicino a me. Sembrava apparentemente priva di sensi, ma le sue labbra tremavano, rivelando l’effettiva sofferenza in cui si trovava.
«Milah? Milah riesci a sentirmi?». Provai a scuoterla, ma era evidente che non fosse sufficiente. Lei continuava ad essere rinchiusa nel suo incubo, senza possibilità di essere svegliata. Intuii che ognuno doveva riuscire da solo a rendersi conto dell’inganno; tuttavia non era detto che io non potessi dar loro una mano.
Se riuscivano a percepire le mie parole, dovevo solo trovare il tasto giusto perché realizzassero l’effettiva situazione. Era l’unica cosa che potevo fare se non volevo caricarmeli uno ad uno in spalla e portarli fuori da quel portale. Poteva essere un’idea ma se una volta rientrata nel portale fossi ricaduta nel mio inferno personale? Non era sicuramente un’esperienza che anelavo rivivere. Riuscire a svegliare almeno Milah e Robin era ciò che mi serviva.
Provai a riflettere su quale potesse essere l’incubo di Milah. C’entrava forse Tremotino? O forse Killian? Sapevo che la risposta ad entrambe le domande era negativa. C’era solo una persona che potesse comportare sia l’inferno che il paradiso di Milah: Neal.
«Milah, non so se riesci a sentirmi, ma devi ricordarti. Baelfire sta bene, lui è in un posto migliore ed è un eroe». Non accadde nulla che potesse anche solo farmi credere che lei avesse percepito lei mie parole; tuttavia non mi arresi e continuai. «Lui è diventato un grande uomo, coraggioso, forte, dal cuore d’oro. È riuscito a perdonare suo padre e ha perdonato anche te. Non ti ha mai odiato, ne sono sicura». Mi sembrò che le sue labbra avessero smesso di tremare, anche se solo per un attimo, però poteva essere anche stata la mia immaginazione. Sapevo di poter essere facilmente suggestionata in una situazione del genere.
«Oh Milah!», inveii. «Volevi tornare nell’Oltretomba per avere la possibilità di passare oltre e di andare da Baelfire. Se non ti svegli, se non apri gli occhi e scopri la verità non potrai mai raggiungerlo».
Stavo quasi per arrendermi e iniziare con  il piano b, quando la sua flebile voce mi giunse all’orecchie. «Bae».
«Milah!». Mi scaraventai su di lei, afferrandola per le spalle.
«Emma?». Con mio grande sollievo la vidi sbattere le palpebre e riaprire gli occhi.
«Va tutto bene», la tranquillizzai. «Adesso stai bene».
«Cosa diavolo è successo?». Si mise a sedere faticosamente e si guardò intorno spaesata.
«È una lunga storia, diciamo che siamo caduti in un tranello. Adesso alzati ed aiutami a svegliare gli altri, dobbiamo andarcene da qua». Una spiegazione più dettagliata poteva aspettare un secondo momento; nel frattempo le avevo dato le informazioni fondamentali.
Mi rialzai e corsi da Robin. Sapevo esattamente quali tasti premere per poterlo svegliare: erano Regina e i suoi figli. Non sapevo in che incubo si trovasse ma ero sicura che riguardasse loro. Ed infatti bastò ricordargli che le persone a lui care erano al sicuro a Storybrooke e che lo amavano immensamente. Bastò quella sicurezza per riportarlo indietro e ciò mi fece stringere il cuore. Non vedevo l’ora di osservare la sua faccia una volta che avesse scoperto dell’ambrosia.
«Emma?». Anche lui era spaesato e confuso. «Dove diavolo siamo finiti?».
«Te lo spiego dopo». Lo aiutai a rialzarsi e corsi verso Milah che era accucciata accanto al corpo di Joe.
«Non ci riesco», sospirò. «Tu come hai fatto con me?».
«Non è stato semplice», confessai. «Devi toccare le corde giuste, capire quale il suo peggior incubo e cercare di rassicurarlo».
«Beh io non ne ho idea», ammise. «Ognuno di noi ha i suoi demoni, ma nessuno ne parla volentieri. Non lo conosco così bene».
Lo immaginavo, ma adesso che lei e Robin erano svegli non sarebbe stato un problema trascinare gli altri due fuori da quell’inferno.
«Robin credi di riuscire a prendere Joe in spalla?». Mi voltai verso di lui, che nel frattempo si era accostato al corpo di Lizzy.
«Sì certo». Si avvicinò a noi, con aria perplessa, ma nonostante l’evidente confusione obbedì ai miei ordini.
«Bene. Milah tu aiutalo, io penso a Lizzy». Mi diressi verso il corpo minuto di Elizabeth. Era una ragazzina così esile, che non avrei avuto problemi a sollevarla, ed infatti fu così. Quando l’ebbi presa in braccio mi diressi verso il portale, aspettando che anche gli altri due mi raggiungessero.
«Siete pronti?». La mia era sicuramente una domanda retorica.
Stavo per muovere il primo passo, ma Milah mi fermò. «Aspetta un attimo. Dov’è Charlie?».
«Al sicuro, fuori da qua. Come ti ho detto è una lunga storia e vi spiegherò tutto una volta che saremo al sicuro nell’Oltretomba». La vidi annuire con la coda dell’occhio e quello fu sufficiente per capire che avevo il suo benestare. Senza aspettare oltre varcai il portale con passo deciso, ritornando con mio grande sollievo nella sala in cui avevo lasciato Charlie.
Aggirai il portale per vedere se fosse ancora privo di sensi, ma ciò che trovai fu un Charlie molto agitato che tentava di liberarsi dimenandosi. Per fortuna Killian mi aveva insegnato a fare dei nodi ben stretti. Quando si suoi occhi mi videro sul suo voltò si mescolarono rabbia e sollievo in egual misura.
«Emma! Dannazione! Io ti…». Le parole gli morirono in gola e la sua espressione cambiò di colpo non appena notò colei che tenevo in braccio. I suoi occhi si riempirono di paura e le sue labbra pronunciarono solo una parola: «Lizzy!». Iniziò a dimenarsi di più, non migliorando affatto la situazione e rimanendo invece legato come un salame.
«Charlie!». Milah accorse da lui con aria preoccupata, mentre Robin depositava Joe a terra accanto a me.
«Chi diavolo ti ha legato in questo modo?», gli domandò, iniziando a liberarlo.
«Emma».
«Cosa?». Sia Milah che Robin si voltarono a guardarmi, non capendo se Charlie mi stesse accusando oppure se volesse una mia spiegazione.
«Beh ve l’ho detto che era una lunga storia», feci spallucce. «Non avrei voluto farlo ma era l’unico modo per impedirgli di fare lo stupido e di entrare anche lui in quel maledetto portale». Doveva essermi grato anziché arrabbiato.
Smisi di preoccuparmi per lui e adagiai Lizzy a terra; tuttavia non feci a tempo a lasciarla che Charlie si era già avventato su di lei. Una volta sciolto dai nodi, era scattato verso l’unica persona che in quel momento occupava la sua mente.
«Lizzy piccola, mi senti?». Al di fuori del portale, tornati nella nostra grotta “sicura”, fu sufficiente chiamarla e scrollarla per far sì che lei si risvegliasse.
«Charlie?», mormorò, rassicurando tutti. Potei sentire un sospiro di sollievo levarsi da ognuno di noi.
«Sono qui, va tutto bene». La fece sedere e la strinse in un forte abbraccio. Lei ricambiò subito e nello stesso istante iniziò a piangere. Era una reazione più che comprensibile, dato che era appena uscita da una realtà infernale.
«Oh Charlie», singhiozzò contro la sua spalla. Lasciai che loro vivessero quel momento di intimità e mi voltai invece a guardare Joe. Anche lui nel frattempo si era svegliato e come gli altri, poco prima, si stava guardando attorno con aria confusa.
Fu in quel momento che realizzai che ce l’avevo fatta. Avevamo l’ambrosia ed ero riuscita incredibilmente a tirarli fuori tutti quanti da quell’inferno. Solo una scala ci separava dall’Oltretomba e dalla salvezza; una volta là, tornare a Storybrooke sarebbe stato una passeggiata dopo quello che avevamo affrontato lì sotto.
«Ragazzi», li richiamai, «non vorrei mettervi fretta. Ma cosa ne dite di andarcene per sempre da questo fiume? Adesso so quel è la strada giusta; non sbaglierò più ve lo prometto». Quelle parole servirono ad attirare subito l’attenzione dei miei compagni. Tutti si rialzarono e, senza fare domande, aspettarono che io li guidassi via da lì.
«Per di qua», dissi sorridendo. Li condussi alla scala che avevo scorto poco prima di entrare nel portale e mi fermai per osservarla in tutta la sua bellezza.
«È sempre stata qui?», domandò Milah scrutandola.
«Eravamo tutti così presi dal portale che non abbiamo notato altro. Pensavamo tutti che la via d’uscita di questo posto fosse un qualcosa di magico, invece sono solo dei gradini». Era una cosa così sciocca eppure non ci avrei mai pensato se Killian non mi avesse avvisato.
«Dovrai spiegarci molte cose», dichiarò Robin.
«Oh non sai quante amico», confermò Charlie, riferendosi ovviamente all’ambrosia.
«Ci sarà tempo. Adesso ci sarà tempo. Muoviamoci ». Percorsi i primi gradini di quella che era una scala ricavata dalla parete rocciosa con il cuore che mi martellava nel petto. Mentre salivamo la scala si fece più ripida e alla fine si trasformò in dei veri e propri pioli. Ero certa di sapere da che parte sbucasse e ne ebbi la conferma quando la mia testa spuntò dal pozzo dei desideri in mezzo alla foresta dell’Oltrebrooke. Fu la prima volta che vedere quell’ambiente rossastro, uscito direttamente dai filtri peggiori di instagram, mi rassicurò, facendomi provare un enorme sollievo.
All’improvviso sentii le lacrime premere per uscire; ero talmente sollevata da piangere di gioia. Era la prima volta che portare a termine il mio compito di Salvatrice mi faceva sentire così bene.
Osservai la foresta che mi circondava cercando di non dare spago al mio sentimentalismo, e di rimanere invece impassibile, mentre gli altri ad uno ad uno uscivano dal pozzo.
«Grazie». Milah mi raggiunse e si posizionò al mio fianco, asciugandosi una lacrima con la mano. «Se non fosse stato per te non ce l’avremmo fatta».
«Beh grazie anche a te», ammisi. «Non ce l’avrei fatta da sola».
«Ci siamo», ci informò Robin, dopo aver aiutato a Joe ad uscire.
«Sembra così bello qui adesso», sospirò Lizzy.
«Già non è mai stato più bello di così», confermò Charlie.
«Oddio siamo salvi», mormorò Joe. Era una fine ed anche un inizio: la fine di quell’intricata avventura e l’inizio della loro rivalsa. L’ambrosia era l’inizio e io non vedevo l’ora di dir loro la verità.
«Che ne dite di un pranzo come si deve al locale della strega cieca?», mi anticipò Charlie.
«Sono d’accordo», convenne Robin. «Sono sicuro che potremo ascoltare Emma con più attenzione seduti ad un tavolo con un piatto di cibo fumante davanti».
Sorrisi e acconsentii ai loro desideri. «Va bene».
«Da questa parte gente», esultò Robin. «Conosco questi boschi come le mie tasche, arriveremo in città in un attimo». Scoppiammo a ridere e con grande euforia generale ci avviammo verso il centro dell’Oltrebrooke.
Mi ritrovai a sorridere nonostante il mio destino ancora incerto e la lontananza dalla mia famiglia. In fondo eravamo appena scampati ad un fiume di anime perdute, ad un mondo fatto di incubi ed inferni personali, a prove su prove. Potevamo dire di essere sopravvissuti all’impossibile e presto avrei potuto dare a tutti loro un futuro. Cosa volevo di più?
Fu quando entrai nel locale della strega cieca che capii che per una volta il destino mi stava dando veramente di più. Fui la prima a spingere la porta d’ingresso per entrare e fui la prima a notarlo nel locale poco affollato. Era in piedi, di spalle, la mano a grattarsi la testa e l’uncino appoggiato al fianco. L’avrei riconosciuto anche se non avesse avuto quella sua appendice e anche in mezzo a decine di persone. Avrei dato la colpa alla mia immaginazione se non avessi sentito fino in dentro le ossa la consapevolezza che lui era lì. Killian era lì ed in cuor mio avevo sempre saputo che avrebbe fatto di tutto pur di raggiungermi, anche scendere nell’Oltretomba come io avevo fatto per lui.
Realizzando quanto lui fosse vicino il mio battito iniziò ad accelerare, le mie ginocchia tremarono e il mio stomaco cominciò a fare le capriole. In un attimo il mio cuore che era stato a pezzi per giorni si riparò all’istante, tornando solido e funzionante a palpitare solo per il mio Vero Amore.
Sentii la mia voce tremare pronunciando il suo nome e rivelandogli così la mia presenza. «Killian…». Ero certa che l’espressione che mi avrebbe rivolto avrebbe fatto crollare di nuovo tutte le mie difese come accadeva ogni singola volta. Tuttavia non ero mai stata così felice di perdere la mia armatura come in quel momento. 


 
Angolo dell’autrice:
Buona domenica a tutti! E come sempre ecco a voi un capitolo.
Questa settimana ho voluto mettere da parte il POV di Killian e dedicarmi completamente ad Emma e alla sua missione di salvataggio. In questo modo finalmente ho fatto tornare tutti nell’Oltretomba e ho riunito i nostri eroi.
Come avrete capito, questo capitolo è dedicato alle stagioni passate di OUAT. All’inizio non sapevo come rappresentare l’inferno personale di Emma; poi semplicemente mi è uscita questa idea. Quale destino sarebbe stato peggiore per Emma se non perdere Henry e continuare ad essere sola senza nessuna famiglia? E soprattutto senza mai conoscere il Vero Amore! In più ho voluto ricordare alcuni momenti importanti della serie che mi hanno fatto emozionare davvero tanto.
Grazie a chiunque legga e recensisca. Siete un grande sostegno, ed un input per andare avanti e trovare sempre più nuove idee.
Un bacione e a domenica prossima!
Sara  
 

Ritorna all'indice


Capitolo 16
*** 16. Sono qui adesso ***


16. Sono qui adesso
 
POV Killian
Sentivo ancora il battito del suo cuore nelle orecchie e non sapevo come riuscire a scacciare quell’orribile sensazione che avevo alla bocca dello stomaco. Emma non mi era mai sembrata più vicina di allora; anche se non l’avevo vista era stato sicuramente un momento più intenso di quando le ero apparso davanti per darle l’anello di Liam. L’avevo vissuta nel vero senso della parola; sentire il suo cuore battere e accelerare era stata la sensazione più intensa che avessi provato da quando quel maledetto desiderio ci aveva separati.
Tuttavia anche se avevo avvertito Emma sapevo che non era ancora finita. Avevo fatto il mio dovere, ma non me ne sarei certo rimasto senza far nulla semplicemente aspettando di vederla comparire da un momento all’altro. Non poter fare di più, non poter scendere ad aiutarla era terribile, ma l’avrei dato comunque tutto l’appoggio che potevo e di cui aveva bisogno.
«E adesso che facciamo?». Artù espresse ad alta voce la domanda che mi frullava in testa da quando avevo sentito affievolirsi il battito del cuore del mio cigno.
«Non ne ho la minima idea», risposi, «ma so che dobbiamo continuare a cercare. Non voglio lasciare nulla di intentato. So che Emma è in grado di salvarsi da sola, ma ciò non significa che non posso aiutarla ancora».
«Beh io non so cosa farete voi», ci interruppe la Strega Cieca. «Io però vado a riaprire il mio locale. Ho già perso troppi clienti per oggi». Non aspettò una nostra risposta e tornò a svolgere il suo compito di locandiera.
«Anch’io ho altre cose da fare», intervenne Crudelia. Si alzò dalla sedia su chi si era posizionata e fece per andarsene.
«Aspetta», la fermai alzando la mano. «Non puoi andartene».
Alzò un sopracciglio rivolgendomi un’espressione incredula. «Certo che posso, vi ho già aiutato abbastanza per oggi. Ti ho aiutato a salvare colei che mi ha tolto la vita, ricordatelo pirata».
«Beh pensavo l’avessimo superata», sbottai. Quante altre volte avrebbe tirato fuori il fatto che Emma l’avesse uccisa? Aveva sbagliato e se ne era fatta una colpa fin da subito.
«Superata?». La sua risata risuonò in tutto il locale deserto. «Sono ancora qua! Secondo te come avrei potuto superarla?».
«D’accordo, calmatevi voi due», intervenne Artù. «Hook, Crudelia ha ragione, ha già fatto abbastanza per oggi». Lo guardai male, infastidito dal fatto che avesse preso le sue parti. D’altronde cosa potevo aspettarmi? La gratificazione sessuale era sicuramente un punto a suo vantaggio a cui io non avrei di certo potuto sopperire.
«Va bene», mi arresi. «Puoi solo dirci dove hai trovato questo libro di incantesimi?». Sollevai il volume che era rimasto incustodito sul tavolo dove eravamo seduti io e la strega.
«Potrei…», mi pungolò.
«Crudelia». Il rimprovero di Artù servì per farla parlare.
«In fondo alla biblioteca, proprio nell’ultimo scaffale, in mezzo ad una serie di libri scritti in una lingua incomprensibile». Quell’ultime parole attrassero subito la mia attenzione.
«Grazie», disse Artù anche al mio posto.
«Non c’è di che bocconcino. Quando ti sarai stancato di giocare all’eroe con il pirata vienimi pure a cercare». Uscì ancheggiando e stringendosi nella sua costosa pelliccia.
«Quindi qual è il piano?». Artù si voltò di nuovo verso di me e aspettò che fossi io a decidere cosa fare.
«Beh direi che potremo dare un’occhiata ai libri di cui ha parlato Crudelia». Avevo uno strano presentimento e per una volta era una sensazione positiva. Era come se avessi saputo che io sarei riuscito a leggere quei libri. Era come se avessi la certezza che quelli sarebbero stati la chiave di tutto.
Proprio per questo, ci dirigemmo alla biblioteca e, esattamente dove aveva detto Crudelia, trovammo una decina di libri scritti in una strana lingua. Tuttavia aver fatto la marina militare per una volta mi avrebbe portato un enorme vantaggio: io sapevo tradurli, o almeno potevo provarci. L’avevo già fatto quando io ed Emma avevamo provato a cercare l’ambrosia. Adesso, però, non si trattava di una sola frase ma di intere pagine che forse avrebbero potuto esserci utili.
Non sapevo bene cosa cercare, ma una cosa era certa: quando Emma fosse uscita da quel dannato fiume, sarebbe rimasto sempre un problema; a Storybrooke c’era una bambina che rendeva materialmente impossibile il ritorno a casa della mia Swan. Forse quei libri potevano contenere un incantesimo, o qualsiasi informazione, che avrebbe potuto farci eliminare quell’ostacolo.
Non sapendo quale libri poter scartare, li prendemmo tutti quanti e tornammo alla tavola calda. Occupammo un intero tavolo, con disapprovazione della Strega Cieca, e iniziammo quella immensa opera di traduzione. O meglio io iniziai quell’arduo compito, Artù si limitò a segnare e trascrivere alcune cose che avrebbero potuto dimostrarsi utile.
Tuttavia leggere quei libri non si dimostrò affatto facile; ero arrugginito e stentavo a ricordarmi le parole. In fin dei conti era comprensibile: erano passati secoli da quando l’avevo studiato. E poi io non ero mai stato portato a stare sui libri, ero un uomo d’azione non un topo da biblioteca.
Dopo quella che mi sembrò un’eternità, mi alzai e mi stiracchiai. Mi scoppiava la testa e non avevo ancora trovato niente di interessante. C’erano incantesimi, storie e altri racconti, ma niente che potesse minimamente interessarci.
«Devo fare una pausa», mormorai osservando la porta d’ingresso del locale. Il cielo era decisamente più scuro, anche se rossastro come al solito, segno evidente che ormai si era fatto sera.
«Mi piacerebbe poterti aiutare di più», ammise Artù. Spostai di nuovo lo sguardo su di lui e accennai un mezzo sorriso.
«Beh hai già fatto molto. E poi potrebbe essere tutto un buco nell’acqua». Era la mia paura più grande anche se non volevo ammetterlo. A dispetto delle mie sensazioni, l’idea di stare solo perdendo tempo mi terrorizzava, soprattutto quando non avevamo più tempo da perdere.
«Credo invece che troverai quello che cerchi», disse con tono sicuro. «Inoltre non penso che potremmo fare di più per Emma. Le hai detto ciò che le serviva».
«Sì lo so, ma l’idea di non poter fare nient’altro mi uccide». Mi portai una mano alla testa, infilando le dita tra i capelli. «Se solo potessi scendere là sotto. Se avessi la possibilità di andare là e di raggiungerla non esiterei a gettarmi in quel fiume».
«Ma non è così, non ti riunirai a lei facendo una sciocchezza simile».
«Lo so», sospirai. Sentii il campanello della porta suonare alle mie spalle e cercai di concentrarmi su quello per evitare che lo sconforto prendesse il sopravvento.
«Solo che», continuai, «sono passate delle ore e, anche se ho fatto di tutto pur di non pensarci, ancora non è successo niente. Lei non è salva ed è ancora là, il tempo passa ed io mi chiedo se sono arrivato in tempo o quanto dovrò aspettare. Io odio aspettare e stare qua mi sembra ogni istante più inutile». Temevo di non essere riuscito nella mia impresa, anche se al momento ero stato certo del contrario e quel senso di impotenza mi stava lentamente distruggendo. Facevo di tutto per non pensarci, ma quella sensazione rimaneva là a chiudermi la bocca dello stomaco.
«Vorrei solo un segno», conclusi. «Vorrei solo che lei fosse qui».
«Killian». La sua voce arrivò da dietro di me nell’esatto istante in cui espressi quel desiderio. L’avevo sentita milioni di volte e sapevo riconoscerla all’istante ma mi ci volle un secondo per rendermi conto di ciò che stava accadendo.
Mi voltai di scatto e ciò che vidi fu in assoluto la perfezione. Emma mi stava fissando con occhi sgranati proprio davanti alla porta d’ingresso; la sua espressione era un misto di incredulità, di sollievo e di gratitudine ed ero certo che potesse rispecchiare esattamente quella presente sul mio viso.
«Emma». Corsi da lei, aggirando tavoli e clienti, mentre lei faceva lo stesso. Si gettò tra le mie braccia, nell’esatto istante in cui io le allargavo per poterla stringere forte al mio petto.
«Sei qui», mormorò affondando la testa sulla mia spalla. Le passai la mano tra i capelli, mentre con l’uncino spingevo i suoi fianchi contro i miei.
Alzò la testa e mi fissò con quello sguardo che mi faceva perdere la testa. Aveva gli occhi lucidi e mi stava trafiggendo con uno sguardo talmente intenso da farmi mancare il respiro. «Oddio! Sei qui! Non posso crederci, è da pazzi. Tu sei… non sei… vero?». Per un attimo la sua espressione si fece preoccupata, ma io avevo capito cosa intendeva e sapevo benissimo come tranquillizzarla.
«No, Swan sono qua solo per te». Il sorriso che le si disegnò sul volto riuscì a cancellare ogni dolore avessi provato in sua assenza.
«Dio! Sei sceso qua sotto solo per me; dopo tutto quello che abbiamo passato per via di Ade non posso credere che tu sia stato tanto sciocco da tornare quaggiù solo per venirmi a cercare». Sapevo che dietro le sue parole in realtà mi stava ringraziando. Era il suo modo per dirmi che non mi avrebbe mai chiesto di farlo, ma che mi era enormemente grata di averlo invece fatto. Era quello di cui aveva bisogno anche se non l’ammetteva.
«Tu sei scesa per salvarmi Emma, dovevo fare lo stesso». Non mi lasciò continuare perché premette le labbra sulle mie, stringendomi ancora di più a sé. Ricambiai prontamente assaporando il suo dolce sapore e ritrovando finalmente il mio amato cigno. Mi sembrava passata una vita dall’ultima volta in cui l’avevo baciata.
Se c’era una cosa di cui ero certo era che la mia immaginazione non avrebbe mai potuto rendere giustizia ai baci di Emma: non era nemmeno minimamente paragonabile. Le sue labbra si muovevano sulle mie, mentre la sua lingua si faceva strada nella mia bocca, dimostrando lo stesso identico bisogno che provavo io. Il suo sapore era esattamente come lo ricordavo: fantastico ed indescrivibile. Le sue braccia si strinsero sempre più intorno al mio collo, mentre le sue dita si infilarono nei miei capelli, accarezzando e tirando alcune ciocche. Attraverso il suo petto, premuto contro il mio, riuscivo a sentire il suo cuore battere all’impazzata quasi a volerle uscire dal petto, dimostrandomi che non ero l’unico a reagire in quel modo alla presenza dell’altro.
Alla fine, con mio enorme dispiacere, si staccò dalla mia bocca per riprendere fiato, appoggiando la sua fronte sulla mia. I suoi occhi erano lucidi e mi stavano scrutando, non perdendosi neanche un minimo particolare; d’altronde io facevo lo stesso. Le accarezzai la guancia con l’uncino e a quel mio gesto le sue labbra tremarono lasciandosi sfuggire un singhiozzo. Affondò subito la testa sulla mia spalla, per impedirmi di vedere quella sua debolezza, anche se sapeva di non doversi nascondere con me.
«Shh, va tutto bene amore».  Sfiorai i suoi capelli con l’uncino e poggiai la mano sulla sua schiena, premendola contro di me. Il suo respiro era accelerato anche se stava tentando con tutte le sue forze di ricomporsi; ormai la conoscevo talmente bene da capire quanto odiasse mostrarsi vulnerabile. Evidentemente quello che aveva affrontato nel fiume delle anime perse doveva essere stato terribile, non sarebbe scoppiata così altrimenti. Non avevo idea di cosa avesse vissuto là sotto, ma di certo doveva averla scossa parecchio; per non parlare poi della nostra separazione e della lontananza dalla sua famiglia. Era ovvio che il ritrovarmi l’avesse in qualche modo fatta scoppiare.
Lasciai un dolce bacio sulla sua testa, mentre lei riprendeva fiato, e solo allora mi ricordai di dove eravamo e di chi ci circondava. Vederla mi aveva fatto completamente dimenticare il mondo circostante: eravamo solo io e lei, nessun altro. Mentre ci baciavamo il locale intorno a noi era scomparso così come tutti gli abitanti dell’Oltretomba presenti in quel momento. Non esistevamo altro che noi nella nostra bolla di felicità. Non aveva più importanza né il luogo né il futuro incerto: contava solo quel momento.
Tuttavia adesso che l’avevo ritrovata e che la stringevo forte tra le braccia potevo mettere a fuoco il mondo circostante e coloro che stavano assistendo alla nostra scena. Fu quando alzai la testa in direzione della porta di ingresso che la vidi. Sarebbe stato meglio dire che li vidi, tuttavia fu solo una persona ad attrarre tutta la mia attenzione.
Il mio corpo si irrigidì mentre i miei occhi incontravano i suoi e lei mi incatenava con lo sguardo. Erano passati letteralmente dei secoli dall’ultima volta che l’avevo vista, faccia a faccia, realmente, se escludevamo la mia breve e momentanea apparizione nel fiume. Non potevo dimenticare l’ultimo sguardo che mi aveva rivolto prima di morire: era impresso a fuoco nella mia memoria. E adesso me la ritrovavo davanti e non sapevo cosa fare; se da una parte avrei avuto un milione di cose da dirle, dall’altra non sapevo da che parte iniziare.
Emma dovette accorgersi del cambiamento del mio corpo perché alzò la testa, sfiorandomi il collo con il naso, e lanciò uno sguardo alle sue spalle. Sicuramente sapeva a chi fosse dovuta la mia reazione, tuttavia quel piccolo movimento le confermò i suoi presentimenti.
«Va tutto bene Killian», mi sussurrò all’orecchio. «Vai da lei». Distolsi lo sguardo da quello di Milah e fissai Emma sbigottito non sapendo cosa rispondere.
«Io…», balbettai non riuscendo ad articolare una frase.
«Va bene Killian», confermò incatenandomi coi suoi occhi verdi. «Vai a salutarla». Allentò la presa intorno alla mia vita in modo tale che io potessi andare da Milah. Sapevo che l’idea di staccarsi da me e di mandarmi letteralmente incontro al mio primo amore non le piaceva – a chi sarebbe piaciuta? – ma lo stava facendo per me ed io dovevo esserle grato.
Con un sospiro la lasciai andare e mossi i primi passi verso l’altra donna che era stata padrona del mio cuore.
«Ciao», mormorò lei, evidentemente a corto di parole quanto me.
«Ciao». Poi semplicemente annullai la distanza tra di noi e l’abbracciai stringendola a me. Era un gesto che non compivo da secoli ma in quel momento mi sembrò del tutto naturale. Milah ricambiò la mia stretta e affondò la testa sulla mia spalla.
«È così bello rivederti Killian», mormorò in un tono appena udibile.
«Sono contento che tu stia bene». Era una tipica frase di circostanza ed era più vera di qualsiasi altra cosa avessi potuto dirle. Raccoglieva dentro di sé il succo delle miriadi di parole che mi frullavano in testa.
«Lo so». Si staccò da me e mi rivolse un sorriso, facendomi intuire che aveva compreso il significato che si celava dietro le mie parole. Sicuramente avevamo entrambi molte cose da dirci e di cui parlare, ma potevamo pensarci in un secondo momento; non era quello né il luogo né la situazione adatta per i nostri chiarimenti. In fondo, anche se temporaneamente, ci eravamo appena ritrovati e avremo avuto tempo prima di salutarci definitivamente.
Quando la questione Milah fu momentaneamente risolta ed accantonata potei concentrarmi anche sulle altre persone che erano arrivate insieme ad Emma e che in quel momento stavano osservando la scena senza dire una parola.
«Robin!». Ero più che sorpreso di vederlo e allo stesso tempo ero davvero felice che la sua anima si trovasse là e non disintegrata come aveva professato Ade.
«Hook!». Mi dette una pacca sulla spalla e ci scambiammo un goffo abbraccio.
«È davvero una sorpresa vederti», ammisi.
«Potrei dire lo stesso se non avessi saputo fin da quando ho incontrato Emma che saresti venuto a riprendertela». Proprio in quel momento il mio cigno comparve al mio fianco e strinse il mio uncino tra le sue dita.
«Lascia che ti presenti gli altri miei compagni di avventura», intervenne rivolgendo loro un ampio sorriso. Mi indicò prima un signore piuttosto anziano e una ragazza invece molto giovane. «Loro sono Joe ed Elizabeth, detta Lizzy. Lui è Killian, il mio fidanzato». Cercai di mascherare la capriola che il mio cuore aveva fatto alla parola fidanzato e strinsi la mano ad entrambi.
Dopo queste prime presentazioni, Emma si girò verso l’ultimo membro del loro assortito gruppo. «E questo è Charlie». Era un uomo che poteva avere la stessa età di Emma, con capelli ed occhi neri e che ci stava guardando con uno sguardo indecifrabile. Avrei detto che fosse accigliato ma non ne sapevo il motivo; sicuramente però guardava Emma un po’ troppo intensamente per i miei gusti. Il fatto che fosse a petto scoperto mettendo in bella mostra il suo fisico scolpito era un altro punto che non andava a suo favore. Non aveva una dannata maglia?
Nonostante questa prima impressione, allungai la mano e strinsi la sua con forza. «Piacere Killian Jones».
Ricambiò la stretta con altrettanta forza e guardandomi dritto negli occhi. «Piacere Charlie Stevens». Non abbassai lo sguardo e continuai quella battaglia visiva, sapendo bene che non sarei stato il primo a cedere.
«Bene», intervenne Emma, «perché non ci sediamo? Abbiamo tante cose di cui discutere». Fu solo perché lei mi tirò per l’uncino che distolsi lo sguardo e la seguii al tavolo dove Artù era rimasto ad osservare la scena. Lasciai che lei e gli altri lo salutassero, ma continuai a lanciare occhiate furtive a quel tipo. L’idea che Emma nel fiume avesse passato tutto il tempo con quel pomposo non mi piaceva per niente. Non lo conoscevo, ma il mio istinto mi diceva di non sottovalutarlo. Il modo con cui guardava Emma era stato palese fin dal primo istante; lei poteva non essersene accorta, oppure poteva passarci sopra, ma io dovevo fargli capire fin da subito con chi aveva a che fare. Nessuno poteva toccare la donna di Capitan Uncino, tantomeno un bamboccio uscito da un fiume di anime perse.
E proprio per questo glielo dimostrai subito. Visto che eravamo in tanti e il tavolo non era molto grande, e data l’impossibilità di occupare un altro tavolo senza incorrere nell’ira della Strega Cieca, mi infilai sul divanetto facendo sedere Emma sopra le mie gambe. La vidi alzare gli occhi al cielo, ma non protestò per quel mio gesto. D’altronde il bisogno che sentivamo l’uno per l’altra era più forte di qualsiasi altro senso del pudore che solitamente l’avrebbe trattenuta.
La mia mano risalì lungo il suo fianco fino a posarsi esattamente sotto il suo seno, premendola contro di me. Sfiorai il naso sul suo collo e le lasciai un dolce bacio proprio mentre Charlie si sistemava di fronte a noi.
Emma si voltò leggermente verso di me per potermi guardare negli occhi. «Hai finito di marchiare il territorio?», sussurrò in modo tale che solo io potessi sentirla. Non era arrabbiata; il suo tono era più che altro divertito.
«Non finirò mai amore».
«Beh adesso dovrai piantarla. Abbiamo molto di cui parlare». Si sistemò meglio, trovando la posizione più comoda sopra le mie gambe e poi tornò a guardare gli altri con stampato in faccia un meraviglioso sorriso.
«Va bene Swan», sussurrai, «sono tutto orecchie».
 
POV Emma
Avrei dovuto rimproverare Killian per il suo comportamento da maschio alfa, ma mi era mancato talmente tanto che desideravo le sue attenzioni come mai prima di allora. Avrei dovuto sentirmi in imbarazzo visto che ero seduta sulle sue gambe e che la sua mano continuava a vagare per il mio corpo in maniera più che palese. Eppure non mi ero mai sentita meglio; era esattamente ciò di cui avevo bisogno. Volevo solo sentirlo vicino e non lasciarlo più andare.
Proprio per questo riuscire a mantenere un filo del discorso logico non era affatto facile; sentire le sue dita infilarsi sotto la mia maglia, il suo uncino tracciare la linea del mio seno e percepire il suo respiro caldo sul collo, non facilitavano certo la mia concentrazione. Nonostante ciò riuscii a raccontargli parte delle nostre avventure nel fiume, scremando al minimo gli eventi. Non volevo che sapesse quanto era stato terribile essere confinata in quel mondo e quanto mi fossi sentita vulnerabile. Sapevo che in fondo l’avrebbe capito comunque, ma non volevo essere io a rivelarglielo direttamente. Fui grata agli altri per il loro silenzio e per avermi così lasciato decidere cosa raccontargli.
«Bene adesso che abbiamo aggiornato Killian delle nostre avventure», intervenne Milah alla fine del mio discorso. «Perché non ci spieghi cosa diavolo è successo in quel portale?».
Hook scattò subito. «Portale? Swan ti avevo detto di non entrare in quel maledetto portale!».
Alzai gli occhi al cielo e mi voltai verso di lui. «È una lunga storia, ma non ti preoccupare. Sono qui adesso».
Mi riaccomodai di nuovo nella posizione di prima e tornai a fissare glia altri. «Ci stavo arrivando. Dovete sapere che ci sono alcune cose che non vi ho detto».
«Questo lo sapevamo», mi interruppe Robin. «Per esempio perché hai legato Charlie come un salame?».
Sentii Killian ridacchiare sentendo la domanda di Robin e le sue labbra avvicinarsi di più al mio orecchio. «E così hai incatenato quel bamboccio? Scommetto che se lo meritava».
«Beh se non mi sbaglio ho ammanettato anche te. Più volte». La mia voce fu talmente flebile che fui sicura che solo lui potesse avermi sentito. E fui altrettanto certa che la sua espressione fosse cambiata di colpo udendo quelle parole.
«Giusto», continuò Lizzy ignara di quel nostro scambio di battute, «e perché Charlie è senza maglietta?».
«Me lo chiedo anch’io», commentò Hook meritandosi una gomitata nelle costole.
«Questo mi sembra irrilevante», continuò Milah. «Piuttosto perché Charlie era fuori del portale e tu come hai scoperto della scala?».
«Se mi lasciaste parlare», proruppi facendo tacere tutti quanti, «forse potrei spiegarvi».
«Bene», aggiunsi quando fu calato il silenzio e l’attenzione di tutti fu rivolta su di me. «Come vi dicevo ci sono alcune cose che non vi ho detto. Prima di lasciare Euridice lei mi ha rivelato un segreto, mi ha chiesto di fare una scelta e ha voluto che fossi solo io a decidere. Voleva darmi la possibilità di salvarvi, di salvarvi veramente».
«Ma tu ci hai salvato», replicò Joe allungando una mano verso di me.
«No». Presi un enorme respiro e puntai lo sguardo sull’unica altra persona a conoscenza della verità. «Charlie?». Non dovetti aggiungere altro perché lui capisse; armeggiando sotto il tavolo afferrò la nostra borsa improvvisata e l’appoggiò sul piano. La maglietta si era rigirata ed impediva a chiunque di vedere cosa ci fosse all’interno e forse era meglio così. Eravamo pur sempre in un locale affollato.
«Cosa c’è là dentro?», mi domandò Milah fissandomi con uno sguardo intenso.
«Vi ricordate le due mezze colonne, quelle che tu Milah mi hai aiutato a tradurre? Sapevo benissimo dove conduceva l’altra; ho sempre saputo che c’erano due strade e conoscevo anche a cosa ci avrebbero condotto. Ora non ero a conoscenza dell’inganno del portale, ma sapevo quale era la mia scelta: l’Oltretomba o la vita, proprio come c’era scritto. Euridice mi ha rivelato cosa c’era dall’altra parte, ma non potevo portarvi con me. Era troppo rischioso e per questo ho aspettato fino a che non vi ho creduto al sicuro nel portale. Una volta che tutti, o meglio quasi tutti eravate passati, credendovi ormai salvi, sono tornata indietro e ho aperto l’altro passaggio. Charlie però mi ha visto e mi ha seguita, cercando prima di fermarmi e poi venendo con me».
Presi un altro respiro e continuai. «Non vi ho portato con me perché prendere ciò che si trovava in fondo all’altro tunnel avrebbe fatto scattare una sorta di allarme e di valvola di sicurezza. Ed è stato così; non è stato per niente facile tornare indietro e ce l’abbiamo fatta solo per un soffio. Se fossimo andati insieme non saremmo adesso tutti qua a raccontarlo».
«Emma cosa c’è la dentro?». Milah mi pose la stessa domanda di prima, ma adesso potevo darle la risposta che voleva. Avevo dato loro abbastanza informazioni da comprendere la sacralità di quel momento.
Prima di pronunciare quella parola magica, mi voltai verso l’unico di cui desideravo osservare l’espressione. Non volevo perdermi l’attimo in cui Robin avrebbe realizzato ciò che gli stavo offrendo. «L’ambrosia», annunciai con emozione. Vidi una miriade di sentimenti alternarsi sul suo volto: prima ci fu la sorpresa, poi ci fu l’illuminazione, la consapevolezza degli effetti che l’ambrosia avrebbe avuto. Infine giunsero la gioia e la gratitudine. I suoi occhi mi guardarono colmi di commozione ed ebbi la certezza che ne era valsa la pena. Avrei affrontato di nuovo tutto per poter osservare quella miriade di emozioni sul suo volto.
«Hai rischiato la tua vita per noi?», sussurrò.
«Sì, ho sempre saputo che riportarvi nell’Oltretomba non era sufficiente. Volevo fare di più per tutti voi».
«E ci sei riuscita», commentò Charlie guardandomi con uno sguardo altrettanto intenso.
«Con l’ambrosia potremo tornare in vita, giusto?», intervenne Lizzy con tono incredula.
«Già piccola ci riprenderemo la nostra vita». Charlie le passò un braccio intorno alle spalle tirandola verso di sé.
«Non posso credere che tu abbia rischiato così tanto. Grazie Emma», mi disse Joe, allungando di nuovo una mano verso di me.
«Io invece ne ero certo», sussurrò Killian contro il mio orecchio. «Non avevo dubbi sul fatto che avresti salvato tutti, come sempre d’altronde». Con l’uncino mi fece voltare la testa e posò dolcemente le labbra sulle mie.
Quando mi staccai da lui, mi voltai verso l’unica persona ad eccezione di Artù che ancora non aveva parlato. Milah non ci stava guardando, stava invece fissando le sue dita sopra il tavolo che erano intente ad attorcigliarsi. Sembrava pensierosa e la sua espressione lasciava trasparire un che di tristezza. Era l’unica ad aver reagito in quel modo ed io credevo di conoscerne il motivo; lei era in assoluto la sola che non avrebbe guadagnato nulla nel tornare in vita. Cosa avrebbe trovato? Un ex marito che l’aveva uccisa e un uomo che un tempo l’amava ma che adesso era perdutamente innamorato della sottoscritta.
«Milah?». Fu Killian ad attrarre la sua attenzione; lei alzò la testa di scatto ridestandosi dai suoi pensieri e ci fissò con sguardo disorientato.
«Grazie», disse soltanto.
Fu Lizzy ad interrompere quello strano momento con la sua solita euforia. «Possiamo vederla?», ci domandò allungandosi sul tavolo per aprire la nostra borsa improvvisata.
«Aspetta», la fermò Artù che fino a quel momento non aveva aperto bocca. «Credo che non dovremo farlo qua». Si guardò intorno con aria sospetta; nessuno sembrava prestare caso a noi, però sapevo dove voleva andare a parare.
«Artù ha ragione», confermai, «non credo che questo sia il luogo più adatto». L’ambrosia era un oggetto talmente raro che se si fosse spanta la voce,  avremo rischiato di mandare tutto a monte. Se nessun altro ne avesse saputo l’esistenza, avremo sicuramente evitato di trovarci a che fare dei possibili ladri.
«Sarà opportuno nasconderla, prima che voi possiate usufruirne dei benefici», dichiarò Killian.
«Conosco il luogo perfetto», continuò Artù.
Mi voltai verso Killian per chiedergli tacitamente se potessimo fidarci o meno. Dal suo sguardo capii che lui non aveva nessun dubbio sulla lealtà di Artù.
Se Killian si fidava, allora mi sarei fidata anch’io. «D’accordo, dopo ti accompagneremo e ci occuperemo della faccenda».
«Adesso», intervenne Robin, «perché non continui la tua storia e non ci dici come tu e Charlie avete saputo del portale?».
«A questa domanda posso rispondere io», intervenne Killian prima che potessi proseguire. «Artù ed io abbiamo scoperto, grazie a varie ricerche, che il portale era un inganno e grazie all’aiuto della Strega Cieca e di Crudelia siamo riusciti a comunicarlo ad Emma».
«Purtroppo però era troppo tardi», continuai. «Voi eravate già entrati ed io e Charlie stavamo tornando indietro. Siamo corsi al portale e…».
«E là mi ha colpito con una pietra», mi interruppe Charlie. «E dopo mi ha legato come un salame».
«Beh era l’unico modo per impedirti di seguirmi là dentro», protestai.
Sentii Killian irrigidirsi, intuendo quello che c’era nascosto dietro le mie parole. «Ti avevo pregato di non entrare», sussurrò così piano che solo io riuscii a sentirlo.
Mi girai di nuovo e gli presi il volto tra le mani. «Dovevo farlo Killian, ero stata io a mandarli là dentro non potevo abbandonarli. E poi adesso sono qui». I suoi occhi erano cupi, ma doveva capire che non avevo avuto altra scelta.
«Non voglio che tu soffra», ammise, rivolgendomi uno sguardo carico di emozione. Era una semplice frase, ma riassumeva benissimo tutta la situazione.
«Lo so». Non mi chiese che cosa avessi visto, che cosa avessi dovuto affrontare nel mio inferno personale, semplicemente appoggiò la fronte sulla mia chiudendo gli occhi. Anche se avrebbe voluto sapere tutto, capiva benissimo che stava a me decidere se raccontarglielo o se tenerlo per me.
«È stato l’anello di Liam a risvegliarmi», dichiarai, «a farmi capire che era tutto sbagliato. Il resto poi lo sapete anche voi».
 «Allora dovremo ringraziare anche voi per l’aiuto che ci avete dato», intervenne Joe, facendomi sorridere per la sua estrema gentilezza. «Non sapremo mai come sdebitarci».
«Beh credo che potrete aiutarci adesso», intervenne di nuovo Killian battendomi sul tempo. «Emma non so se sei a conoscenza di ciò che ti è successo a Storybrooke…».
«Euridice mi ha accennato qualcosa…».
Killian sospirò ed iniziò a raccontare quello che era successo da quando avevo espresso il mio desiderio e di come era sceso nell’Oltretomba. Era una parte della storia che mi mancava e probabilmente anche lui avrebbe filtrato le informazioni come avevo fatto io poco prima.
«Quindi adesso con i miei genitori c’è una bambina che dovrebbe essere me?», domandai alla fine per conferma. Sapevo che era così, l’avevo visto e provato con i miei occhi, ma era ancora difficile da credere. Non mi sentivo come se fossi senza corpo, soprattutto stando così vicino a Killian. Riuscivo benissimo a percepire il bisogno fisico che avevo di lui; eppure non avrei dovuto sentirlo, giusto?
«Già», ammise a mezza voce. «Proprio per questo io e Artù stavamo cercando un modo per farti tornare nel tuo vero corpo. Mi pare ovvio che non puoi semplicemente tornare a Storybrooke se non hai più un corpo adatto dove tornare. Ci manca solo che tu mi resti una bambina per sempre».
«Abbiamo trovato qualcosa in biblioteca», intervenne Artù, indicandoci una pila di libri al lato del tavolo. «Sono scritti in una strana lingua, ma Hook li sa tradurre. Speriamo di trovare la soluzione là dentro». Era pur sempre un inizio anche se piuttosto limitato; di certo come aveva appena dichiarato il mio pirata non potevo rischiare di tornare bambina, non quando l’unica bambina che avrebbe potuto mettersi tra di noi sarebbe stata nostra figlia. Era più pronta a fare da madre che a tornare ad un’età in cui dipendere al cento per cento dai miei genitori.
«Forse anche Milah li sa tradurre», ammisi, ricordando la sua capacità di leggere le parole sulle mezze colonne.
«Ti ho insegnato sulla Jolly Roger», confermò Killian. «Certo ne è passato di tempo, non so se ti ricordi ancora».
«Posso provarci», replicò con un mezzo sorriso. «Posso farlo».
«Certo possiamo farlo tutti», intervenne Charlie. «Mi pare ovvio che non ce ne andremo di qui fino a che Emma non potrà venire con noi. È il minimo che possiamo fare». Il suo tono era così accalorato che sentii un moto di gratitudine nei suoi confronti.
«Torneremo a Storybrooke tutti insieme», confermò Robin.
«E fino ad allora sarà bene mettere l’ambrosia al sicuro», concluse l’altro. «Nessuno la prenderà fino a che non avremo trovato un modo di salvarti».
«Grazie», mormorai commossa.
«Nessuno di noi si salverà», concluse Milah, «fino a che non avremo trovato il modo di farti tornare nel tuo corpo e avremo aperto un portale per il vostro mondo». Il suo tono era strano e lo era anche il modo in cui aveva pronunciato “vostro”. L’aveva detto come se non pensasse che sarebbe diventato anche il suo e probabilmente forse era così. La studiai attentamente cercando di intuire i suoi pensieri; vidi la determinazione nel suo sguardo e capii che ormai lei aveva già fatto la sua scelta e con molta probabilità non sarebbe stata come quella di tutti gli altri. Non sapevo cosa provare a riguardo: era da una parte un sollievo, ma dall’altra era comunque una scelta triste.
Notai che anche Killian la stava fissando e mi chiesi se avesse intuito anche lui la decisione di Milah. Avrei voluto essere dentro la sua testa per capire cosa diavolo stesse pensando. Sapevo che il loro incontro non si sarebbe basato soltanto su quel goffo abbraccio di poco prima; dovevano parlarsi e avrebbero avuto bisogno di un momento di privacy solo per loro ed io purtroppo non avrei potuto assistere. Era giusto così ed era necessario per chiudere per sempre quella loro tormentata storia. Tuttavia il fatto che lui l’amasse ancora – sapevo che era così, provavo lo stesso per Neal – mi rendeva un po’ ansiosa e un tantino gelosa, due aspetti di me che non credevo di avere.
«Direi che per stasera abbiamo già fatto abbastanza». Artù mi ridestò dai miei pensieri, catturando l’attenzione di tutti. «Credo che sia giunto il momento di mostrarvi il mio nascondiglio segreto e poi penso che abbiate tutti davvero bisogno di una bella dormita. Dopo aver riposato un po’ saremo tutti più lucidi».
«Sì», confermai. «Credo proprio che sia ciò di cui abbiamo bisogno. Domani inizieremo le nostre ricerche e torneremo tutti al più presto a casa». Così dicendo mi alzai e lasciai che gli altri mi imitassero. Killian mi prese subito per mano, intrecciando le sue dita alle mie. Quel gesto così semplice mi fece subito notare l’enorme differenza che c’era rispetto a quando era stato Charlie a farlo. Assumeva tutto un altro significato: simboleggiava il nostro amore, il fatto che dopo essere stati tanto lontani non riuscivamo più a staccarci l’uno dall’altra. Era il gesto più semplice e allo stesso tempo più intimo che avevamo per amarci. Nessun bacio avrebbe mai simboleggiato ciò che rappresentavano le nostre mani intrecciate: noi uniti contro tutto e contro tutti.
Quando uscimmo fuori dal locale Killian rallentò il passo per far sì che gli altri proseguissero seguendo Artù e che noi rimanessimo indietro. Si fermò proprio quando gli altri furono ormai a qualche metro di distanza e non potevano più accorgersi della nostra scomparsa.
«Che c’è?», gli domandai voltandomi verso di lui.
I suoi occhi erano così chiari da potercisi specchiare dentro. «Mi sei mancata tanto».
«Anche tu mi sei mancato Killian, non sai quanto». Ogni istante senza di lui era stato una vera e propria agonia; solo adesso che lo avevo di nuovo al mio fianco me ne rendevo realmente conto.
«Ti amo». Con sole due parole riuscì a mandare in tilt sia il mio cuore che il mio cervello.
«Ti amo anch’io». Mi alzai sulle punte dei piedi e lo baciai, posandogli una mano sulla guancia. Sembrava una scena già vista milioni di volte: io e lui che ci baciavamo in mezzo alla strada davanti alla tavola calda; eppure ogni volta assumeva un significato diverso. In quel momento il nostro bacio sanciva la nostra riconciliazione. Finalmente ci eravamo ritrovati, dopo tutte le peripezie che avevamo dovuto affrontare, e da quel momento avremo combattuto insieme le restanti battaglie che ci separavano dal nostro lieto fine. Ora che eravamo insieme non avevo più dubbi: avremo superato tutto e saremo usciti vincitori.


 
Angolo dell’autrice:
Buona domenica! E come al solito ecco il mio aggiornamento.
Questo capitolo è stato un po’ meno denso di eventi: diciamo che è uno di quei capitoli di passaggio necessario per il proseguimento della storia. Comunque nonostante ciò finalmente Emma ed Hook si sono ritrovati. <3 Visto che la puntata con il loro matrimonio è alle porte, io non potevo lasciarli separati più a lungo!
Come sempre un grazie enorme a chiunque legga e/o recensisca!
Un bacione e alla prossima settimana.
Sara
 

Ritorna all'indice


Capitolo 17
*** 17. Ognuno ha il suo interesse ***


17. Ognuno ha il suo interesse
 
POV Emma
Quella di andare a riposare per riuscire ad essere più produttivi il giorno dopo era sicuramente una buona idea; peccato che nel caso mio e di Killian era impossibile da praticare. Appena ci ritrovammo soli, al sicuro tra le quattro mura di quella che era casa nostra nell’Oltrebrooke, ogni buon senso scomparve, lasciando via libera ai nostri più profondi impulsi. Non feci neanche a tempo a chiudermi la porta alle spalle che subito Killian mi fu addosso, le sue labbra sulle mie, la sua mano che già esplorava libera il mio corpo. E dopo fu solo un groviglio di braccia e gambe, di vestiti che volavano da una parte all’altra della stanza e di baci sempre più intensi e più vogliosi. Quando Killian mi baciava così riusciva a farmi perdere qualsiasi freno inibitorio; non che ne avessi molti, dato che da quando ci eravamo riuniti, una parte della mia mente era stata concentrata solo su quello. Tuttavia l’idea di fermarsi risultava impossibile e addirittura dolorosa.
Fu così che trascorremmo quella notte, a fare l’amore fino a che entrambi non fummo sfiniti, ritrovandoci e godendoci quel momento tranquillo prima di affrontare un’altra importante battaglia. E fu così che mi ritrovai accoccolata sul suo petto nel bel mezzo del salotto – non eravamo riusciti ad arrivare fino in camera – con la fronte posata sulla sua e gli occhi persi in quel profondo oceano. Killian, con la schiena appoggiata al divano, mi accarezzava le labbra con il pollice, tracciandone lentamente il contorno e riuscendo a farmele percepire più gonfie e rosse del solito. Le mie dita invece si spostavano delicate tra i suoi capelli massaggiandogli la testa, mentre l’altra mia mano era appoggiata sul suo petto che continuava ad alzarsi e abbassarsi regolarmente. I nostri respiri stavano pian piano rallentando e l’unico suono nella stanza rimaneva il battito accelerato dei nostri cuori.
I nostri occhi erano incatenati gli uni con gli altri ed entrambi non riuscivamo a distogliere lo sguardo. Io stavo naufragando nel mio oceano personale ed era in assoluto l’unico mare in cui avrei voluto perdermi per sempre. Non ci servivano le parole per comunicare, i nostri sguardi erano già altrettanto esplicativi. In fin dei conti non avevamo parlato granché ma, anche così, conoscevamo già tutto quello che ci occorreva sapere. Riuscivo a leggere nei suoi occhi ogni sentimento provato durante la nostra lontananza: paura, dolore, solitudine e amore infinito. Non c’era bisogno di spiegazioni perché avevamo provato esattamente le stesse emozioni.
Sospirai mentre le sue labbra si avvicinavano di nuovo per baciarmi. Non avrei voluto fare altro, anche se sapevo che presto avremo avuto ben altro a cui pensare. Probabilmente avremmo dovuto pensarci anche in quel momento, invece di perdere tempo con una mera gratificazione fisica. Tuttavia mi era impossibile resistere ai baci di Killian e non avevo neanche la minima intenzione di opporre resistenza.
«Ce la faremo amore», mi sussurrò spostando la bocca vicino al mio orecchio. «Noi ce la facciamo sempre».
«Lo so», ammisi, «vorrei solo che fosse tutto già finito e che questo momento potesse durare per sempre». Magari avessimo potuto trascorre del tempo così senza la preoccupazione di un imminente problema da affrontare e da risolvere.
La sua voce si fece più roca, allontanandosi dal mio orecchio. «Tra poco saremo a Storybrooke e farò in modo che ogni notte sia come questa». Mi baciò sulla fronte e lasciò che appoggiassi la testa sulla sua spalla.
«È una promessa?», domandai, passando le dita sul suo uncino.
«Certo Swan». Sorrisi e mi accoccolai di più contro di lui. Non vedevo l’ora di tornare a Storybrooke e di riprendere la mia solita routine. Non che la mia vita avesse mai avuto una parvenza regolare, ma almeno potevo fingere che fosse così, anche solo in parte.
«Mi manca Henry», sussurrai all’improvviso nel silenzio. Non avevo previsto di dirlo ad alta voce, ma quel pensiero era sbucato così dal nulla ed avevo sentito il disperato bisogno di condividerlo con lui.
«Henry sta bene, amore. Sarà furioso con me e con Zelena, ma è al sicuro a Storybrooke e sono sicuro che starà facendo di tutto pur di aiutarci».
«Perché dovrebbe essere arrabbiato con te e con Zelena?». Alzai la testa dalla sua spalla e lo fissai negli occhi, lasciando che fosse anche il suo sguardo a parlare oltre che le sue parole.
«Beh ti ho detto che Zelena ha aperto il portale che mi ha condotto qui. Quello che non ti ho detto è che lui voleva a tutti i costi venire con me. Io e la strega non gliel’abbiamo permesso, lo abbiamo in qualche modo ingannato».
«Grazie», mormorai, «per averlo protetto». Appoggiai di nuovo la testa sulla sua spalla e chiusi gli occhi. La sua mano iniziò a disegnare ghirigori sul mio seno, facendomi inturgidire i capezzoli. Era estremamente rilassante sentirlo così vicino; era uno dei momenti in cui qualsiasi armatura cadeva e non restavamo altro che noi. Ed infatti, all’improvviso senza neanche rendermene conto, mi ritrovai a parlare di ciò che non pensavo sarei mai riuscita a raccontargli.
«Quando sono entrata nel portale», iniziai con un sussurro, «mi sono ritrovata in una sorta di realtà parallela. Era come se fossi stata catapultata indietro nel tempo a quando ancora non credevo nella magia e pensavo che Henry avesse solo una fervida immaginazione. Sono stata trasportata nel momento in cui lui ha rischiato di morire… solo che in quella realtà non esisteva la magia e lui…». Non riuscii a completare la frase, ma sapevo che Hook aveva capito.
Sentii un brivido salirmi lungo la schiena e Killian istintivamente mi coprì con la sua camicia, che si trovava per terra vicino a noi. «Perderlo», continuai, «mi ha fatto rivivere tante cose, tante paure che non provavo da tempo. Ero di nuovo sola, abbandonata a me stessa, e avevo di nuovo perso l’unica persona che era stata in grado di amarmi incondizionatamente. Non avevo una famiglia, come non l’avevo mai avuta, non avevo una spiegazione per la mia solitudine e questo mi spezzava completamente. Non voglio più sentirmi in quel modo».
«Non dovrai più sentirti in quel modo amore», mi rassicurò, stringendomi di più. «Hai molte persone che ti amano incondizionatamente adesso ed Henry è una di queste. E poi ci sono io Swan, non ti libererai di me così facilmente. Per il resto dell’eternità amore, è una promessa».
Strinsi il suo uncino tra le dita e sospirai. «Non è facile metterselo in testa, dopo aver trascorso tutta la vita da soli».
«Posso supplire anche a questo: farò in modo di ricordanti ogni giorno quanto io ti ami». Sorrisi e strofinai il naso contro la sua spalla.
«È paradossale come il mio incubo peggiore, il mio inferno personale, si riduca al sentirmi sola e abbandonata».
«Non credo sia solo questo», ribatté. «Penso che sia legato tutto alla possibilità che possa accadere qualcosa ad Henry». Aveva ragione ma non ero certa che sarei riuscita a spiegargli il motivo.
«Io l’ho abbandonato Killian», mormorai. «Non sono stata abbastanza coraggiosa da tenerlo con me. Sono stata io stessa a rinunciare alla possibilità di avere una famiglia. Poi lui mi ha trovato ed è stato abbastanza forte per entrambi».
«È stato il primo in grado di scalfire la tua armatura; ho sempre saputo di non poter vantare quel primato Swan». Era proprio così ed anche se amavo Killian con tutta me stessa, quello che provavo per Henry era un amore altrettanto intenso. Erano due forme diverse di amore e non erano paragonabili. Non avrei potuto scegliere né avrei potuto sopravvivere senza; sapevo soltanto che non sarei stata la stessa senza di loro.
Non aggiunsi altro e rimasi aggrappata a Killian, facendomi cullare dolcemente. Passai di nuovo le dita sul suo petto, disegnando un ghirigoro immaginario, e mi fermai proprio sopra il suo cuore. Appoggiai il palmo su quel punto, in modo da percepire il suo battito attraverso la pelle e potermi così perdere in quel ritmo veloce e armonioso. Era un rumore così familiare che mi domandai come avessi fatto a resistere senza; riusciva in qualche modo a calmarmi, guidandomi lentamente in un sonno ristoratore.
«Non ho più paura Emma», sussurrò Hook dopo un po’, ridestandomi dal mio torpore.
«Di cosa?», domandai ancora ad occhi chiusi.
«Di avere un figlio con te». Sbattei le palpebre e alzai la testa per poterlo osservare negli occhi. Il suo sguardo era fisso davanti a sé con le iridi ancora più chiare del solito. Per un attimo avevo pensato di aver capito male, ma quel suo sguardo era inequivocabile.
«Cosa ti ha fatto cambiare idea?». Passai le dita sulla sua guancia, cercando di studiare la sua espressione. Killian era così: certe volte era un libro aperto, altre tirava fuori qualcosa di assolutamente inaspettato.
«Non lo so», rispose con lo sguardo sempre rivolto alla parete. «So solo che dopo la lontananza e l’aver visto la baby Emma, io non ho più paura. Non sarebbe una tragedia se noi avessimo un bambino, anzi forse non farebbe che riconfermare quello che proviamo». Anche se non l’aveva detto apertamente avevo capito quello che intendeva: ci avrebbe legato indissolubilmente, come nessun altro avrebbe potuto fare.
«Neanche io ho più paura Killian», ammisi. Gli feci girare la testa verso di me e lo baciai dolcemente. Eravamo maturati tanto insieme e anche se lui si riferiva ad un possibile bambino, io avevo in mente anche altro. Non avevo più paura di sposarlo, anzi non capivo proprio perché avessi reagito in quel modo il giorno del mio compleanno. Non avrei esitato un secondo a dire di sì, solo in quel momento me ne rendevo conto. Non potevo essere certa di quando fosse avvenuto un tale cambiamento nella mia testa, ma qualcosa in quel fiume, nella nostra lontananza, aveva fatto scattare la molla che continuava a mettere in contrasto il mio cuore e il mio cervello. Adesso invece erano completamente allineati e volevano solo lui per tutta la vita.
«Credo che dovremo alzarci e vestirci», sussurrò interrompendo i nostri baci ed anche i miei pensieri. Mugolai in protesta ma la parte razionale che ancora mi restava sapeva che aveva ragione.
«Lo so amore», sorrise, sistemandomi una ciocca di capelli dietro l’orecchio. «Se dipendesse da me non usciremmo più da questa stanza. Vederti rimettere i vestiti è l’ultima cosa che vorrei, però dobbiamo incontrare gli altri e trovare un modo per tornare a casa tutti insieme. Non vedo l’ora di poter passare altre notti come questa nella nostra vera casa a Storybrooke, ma dobbiamo metterci a lavoro per farlo».
Sospirai e senza protestare oltre mi alzai, lasciando anche a lui la possibilità di rimettersi in piedi. «Perché quando sono con te perdo la razionalità che di solito mi contraddistingue?».
«Perché sono un pirata estremamente sexy», rispose scrollando le spalle.
«Bene mio bel pirata vedi di aiutarmi a ritrovare tutti i miei vestiti Ho solo quelli e non credo che gradiresti molto la possibilità che io vada in giro nuda». Così dicendo gli lanciai i suoi pantaloni ed iniziai a raccattare tutti gli indumenti che erano sparsi a giro per la stanza.
 
Poco tempo dopo arrivammo al locale della strega cieca, dove gli altri erano già tutti riuniti ad aspettarci.
«Era l’ora!», protestò Artù, lanciandoci uno sguardo di rimprovero.
«Scusa», rispose Killian, «abbiamo perso la cognizione del tempo». Dio! Poteva essere più esplicito di così, anche non dicendo nulla? Sentii le guance avvampare e cercai di non prestare troppo caso a tutti gli sguardi che avevamo puntati addosso. Vidi Robin ridacchiare e Milah scuotere la testa, trattenendo quello che forse poteva dirsi un sorriso?
«Bene», cercai di cambiare argomento. «Adesso siamo qui. Cosa stavate facendo?». Osservai il libro che era aperto sul tavolo davanti a Milah, ed altri ancora chiusi accanto a lei.
«Stavo cercando di tradurre, ma non è che mi ricordi granché». La sua espressione era più accigliata che sconfortata. Anche Milah non era abituata a sentirsi inutile e impotente; immaginai che avesse sempre preso lei tutte le decisioni quando era in vita.
«Fa vedere». Killian si sedette sul divanetto accanto a lei, facendola scorrere più in là per fargli spazio. Appoggiò un braccio sullo schienale circondandole le spalle in quello che doveva essere un gesto automatico ma che mi fece comunque infastidire. Sentii una fitta di gelosia farsi strada dentro me e cercai di ricacciarla indietro. Sapevo che non voleva dire niente, soprattutto dopo la notte che avevamo appena trascorso, tuttavia non potevo evitarlo; era più forte di me.
«Allora amore ti siedi?». Killian mi ridestò dalle mie elucubrazioni, facendomi segno di mettermi accanto a lui. Accettai subito il suo invito e mi appiccicai al suo fianco, premendo la mia coscia contro la sua e stringendogli il ginocchio da sotto al tavolo. Lo vidi trattenere un sorriso e lanciarmi uno sguardo divertito, probabilmente intuendo i miei pensieri, ma non mi importava che sapesse. Ero gelosa e lui se voleva poteva festeggiare l’evento con le sue espressioni migliori.
Tuttavia Killian non aggiunse altro a riguardo e si concentrò invece sul libro che aveva davanti agli occhi. Io d’altro canto non potei fare altro che limitarmi a sbirciare da sopra la sua spalla quelle pagine piene di geroglifici per me incomprensibili.
«Noi pensavamo di andare a dare un’occhiata agli altri libri nella biblioteca», intervenne Robin dopo un po’. Alzai lo sguardo su di lui e notai che si era alzato in piedi e che alle sue spalle Artù aveva fatto lo stesso.
«D’accordo», dissi non sapendo se unirmi anch’io alla comitiva. Mi sentivo piuttosto inutile in quel momento ma non volevo certo lasciare Killian. Sapevo che avrebbe avuto bisogno di un momento di privacy con Milah, ma era decisamente troppo presto e per quel giorno la parte possessiva di me stava decisamente prendendo il sopravvento.
«Vengo anch’io», esultò Lizzy alzandosi. Sembrava piuttosto annoiata e l’idea di fare qualcosa di leggermente diverso la elettrizzava. Vidi anche Joe alzarsi per seguirli.
«Io rimango qui invece», annunciò Charlie lanciandomi un’occhiata intensa. Aveva forse già dimenticato quello di cui avevamo parlato nella caverna? Dove era finito il nostro accordo di pace?
Ovviamente dopo quelle parole la mia decisione non poteva che essere una sola. «Anch’io resto qua. Se scoprite qualcosa di utile non esitate a chiamarci». Annuirono e se ne andarono lasciandoci da soli.
Per chiunque entrasse nella locanda in quel momento quella che gli si prospettava davanti era una scena piuttosto singolare. Killian, Milah ed io eravamo stretti in una panca, Charlie stava invece bello comodo di fronte a noi; e mentre i primi due erano intenti a decifrare quello strano libro, io e Charlie stavamo intrattenendo una battaglia di sguardi. Io stavo tacitamente ricordandogli la promessa che mi aveva fatto e lui semplicemente mi faceva gli occhi da cucciolo innocente. Se non fossi stata già nervosa per la vicinanza di Hook e Milah, Killian avrebbe notato la differenza. Il suo comportamento da vittima innocente mi faceva imbestialire; avrei dovuto fargli un discorsetto una volta rimasti da soli.
Per fortuna Killian era troppo occupato a tradurre quel dannato libro per accorgersi dello sguardo di Charlie; ciò nonostante vidi Milah alzare la testa e subito dopo intercettare le nostre occhiate. Sapevo che lei aveva capito a grandi linee quello che poteva essere successo tra noi, tuttavia, con mia enorme sorpresa, la vidi lanciare uno sguardo di rimprovero a Charlie. Beh di sicuro non mi ero aspettata che prendesse le mie parti; anzi mi ero preparata per ricevere io quell’occhiataccia.
Stavo ancora cercando di capire cosa passasse nella testa della mia compagna di avventura quando il suono di un paio di tacchi che si avvicinavano mi fece voltare la testa.
Crudelia avvolta nella sua costosa pelliccia si era avvicinata a noi e si era fermata proprio davanti al nostro tavolo. Era l’ultima persona che mi sarei aspettata di vedere, soprattutto dopo quello che le avevo fatto, ma d’altra parte Killian mi aveva detto che l’aveva in qualche modo aiutato.
«Cosa vuoi?», le domandò Hook senza troppi preamboli. Il rumore dei suoi tacchi l’aveva distratto dal suo lavoro e adesso la stava guardando con sguardo piuttosto ostile.
«Non troverete niente in quel libro, né in nessun altro», sentenziò.
«Beh peccato che tu non sappia leggerlo e che la tua opinione sia del tutto superflua». Senza aggiungere altro tornò a sfogliare quelle pagine, senza degnarla più di uno sguardo.
«Peccato», aggiunse Crudelia. «Mi dispiace che tu sia così poco collaborativo, soprattutto dato che so come potete far tornare Emma nel suo vero corpo».
«Cosa?». La reazione fu generale: tutti e quattro voltammo la testa di scatto verso di lei assumendo espressioni sconcertate. Stava davvero dicendo sul serio?
«Aspetta un attimo». Killian fu il primo a riprendersi. «Avevi detto di non aver la minima idea di come aiutarmi».
«Vero, ma ho mentito». Alzò le spalle e si lisciò la pelliccia. «Si da il caso che la situazione sia cambiata».
«Che cosa intendi dire?», domandai titubante.
«Beh mia cara, prima non avrei mai facilitato il tuo ritorno tra i vivi; non dopo quello che mi hai fatto. È già tanto che abbia aiutato il tuo pirata perché me l’ha chiesto Artù». Era comprensibile, ed era esattamente quello che mi sarei aspettata da lei.
«Tuttavia», continuò, «voi adesso avete qualcosa che mi interessa». Era un accordo quello che ci stava proponendo?
«Che cosa?», chiesi prima che potessero farlo gli altri.
«Oh facile». Un sorriso furbo comparve sul suo viso prima di rivelare quale fosse l’oggetto in nostro possesso che desiderava tanto. «L’ambrosia».
 
POV Killian
«L’ambrosia». Pronunciò quella parola come se fosse ovvio ed, in effetti, poteva esserlo. Mi chiesi come diavolo avesse fatto a scoprire dell’ambrosia. Se era stato Artù a dirglielo gliel’avrei fatta pagare cara; tuttavia lui non era sembrato interessato all’opportunità di tornare in vita, non come lei in quel momento.
Comunque la cosa più importante non era ciò che voleva, ma ciò che ci aveva promesso in cambio. Il suo ragionamento non faceva una piega: era naturale che non volesse aiutare Emma e che si fosse decisa a parlare solo quando su era presentata una possibilità per il suo tornaconto. Tuttavia poteva trattarsi solo di un bluff?
«Come hai saputo dell’ambrosia?», chiese Milah.
«Oh davvero credevate di essere stati così discreti? Ho lei mie fonti e il fatto che voi non abbiate negato significa che sono corrette». Dannazione! Era più furba di quanto pensassi.
«Artù?», domandai per scrupolo.
«No lui non sa che sono qui. Lui non c’entra assolutamente niente con questa storia. Consideratelo un accordo tra me e voi».
«Non avrai l’ambrosia», affermò Charlie e per la prima volta mi ritrovai ad essere d’accordo con lui.
«Beh allora continuate pure con i vostri buchi nell’acqua». Girò sui tacchi facendo svolazzare la sua costosa pelliccia e incamminandosi verso l’uscita.
«Aspetta». Era stata Emma a parlare e a fermarla prima che potesse allontanarsi troppo. Crudelia si voltò e la fissò alzando un sopracciglio.
«Credo che possiamo parlarne», continuò Emma voltandosi verso di lei e ricambiando lo sguardo. «Perché non ti siedi?». Stavo per protestare ma la mano del mio cigno sul mio ginocchio aumentò la stretta, facendomi capire di dover tacere.
«Finalmente qualcuno di ragionevole», commentò Crudelia accomodandosi accanto Charlie.
«Come è possibile», iniziò Emma, «che tu sia a conoscenza di ciò che ci occorre sapere per tornare a Storybrooke?».
«Ho le mie fonti ve lo già detto. E non devo certo ricordarvi che ho passato più tempo di voi qua sotto e ormai conosco la maggior parte dei segreti di questo posto».
«Non più tempo di me», ribatté Milah al mio fianco. «Com’è possibile che io non conosca niente che sia in grado di aiutare Emma?».
«Oh perché tu non hai mai fatto niente per scoprire i segreti di questo luogo. Ti sei adatta alla monotonia della vita qua sotto senza guardarti minimamente intorno. Cos’è che facevi? Aiutavi i bambini ad attraversare?».
Con la coda dell’occhio notai Milah fare una smorfia e mi sentii subito chiamato ad intervenire. «E anche se fosse, come facciamo a sapere che tu non stai mentendo spudoratamente? Non sarebbe la prima volta…».
«Cosa ne guadagnerei a mentire?», rispose lei schiettamente. «Non vi reputo così sciocchi da consegnarmi l’ambrosia prima di aver verificato le mie fonti ed Artù, per quanto mi costi ammetterlo, non mi dirà mai dove l’avete nascosta». Dovetti riconoscere una seconda volta che il suo ragionamento non faceva una piega.
«Beh non daremo a te l’ambrosia», proruppe Charlie. «Per quel che ho visto stando qua sotto, tu non sei una santa e…».
Stava per continuare quando Crudelia lo interruppe. «Neanche tu se è per questo, senti da che pulpito viene la predica. Ti credi migliore di me e per questo pensi di aver diritto all’ambrosia?». L’altro si raggelò sentendo quelle parole e il discorso che si era preparato gli morì sulle labbra. Mi domandai cosa diavolo avesse fatto di tanto terribile per finire là sotto? Evidentemente le sue questioni in sospeso dovevano essere più losche di quanto la sua apparenza potesse dimostrare. L’avevo detto fin da subito che quello era un tipo poco raccomandabile.
«Non stiamo discutendo se Crudelia può avere o meno l’ambrosia», intervenne Emma che era rimasta in silenzio fino a quel momento.
«Ah no?», domandammo io e Crudelia contemporaneamente.
«No», convenne. «È ovvio che potrà averla se mi aiuterà a riappropriarmi del mio corpo».
«Swan…», iniziai.
«No Killian». Spostò la sua mano sulla mia per farmi tacere. «È così, se lei sa quello che ci occorre, non perderemo altro tempo a discutere. Voglio tornare a casa il più presto possibile, anche se questo implica portare anche lei con noi».
«Emma…», tentai di nuovo. Capivo il suo punto di vista, ma era davvero questa la ragione per cui lo stava facendo? O stava cercando in qualche modo di alleviare il senso di colpa per averla uccisa? Crudelia poteva dimostrarsi utile ma il più delle volte era una spina nel fianco non indifferente.
«Hook». Si voltò verso di me e mi inchiodò con i suoi occhi verdi. Era testarda e la sua espressione mi fece intendere che aveva già deciso e che quindi era inutile tentare di farle cambiare idea.
«D’accordo», borbottai a mezza voce. «Quale sarebbe il tuo fantastico piano per salvare Emma? Se vuoi l’ambrosia vedi di meritartela».
«Bene. Vedo che un po’ di buonsenso vi è rimasto», commentò lei sorridendo.
«Sia ben chiaro», intervenne Emma, «non lascerai questo posto se non potrò farlo anch’io. Non avrai l’ambrosia se il tuo piano non funziona».
«Mi pare giusto. Però se le informazioni di cui sono in possesso dovessero funzionare, voglio la tua parola che mi darai ciò che desidero».
«Certo. Hai la mia parola», si affrettò a rispondere Emma. Allungò la mano sul tavolo e lasciò che lei gliela stringesse.
«Senza nessuna intromissione», continuò l’altra, incrociando le mani di fronte a lei e fissandomi con sguardo divertito. Ovviamente le piaceva vedermi messo alle strette.
Emma mi diede una gomitata invitandomi a parlare. «D’accordo, senza intromissioni».
«Anche da parte di loro due, non si sa mai…». Sentii distintamente Charlie ringhiare e dovetti ancora una volta convenire con lui. L’antipatia nei confronti di Crudelia era sicuramente uno dei pochi punti di contatto che avremo mai potuto avere, ad eccezione forse dell’evidente interesse per Emma. Dovetti reprimere quel pensiero per evitare di arrovellarmi il cervello anche su quello.
«Hai la nostra parola», disse Milah, mentre il bamboccio si limitò a sibilare un “sì” a denti stretti.
«Bene», concluse Emma. «Adesso dicci quello che sai».
«Prima di tutto so che tu sei stata separata dal tuo corpo da un desiderio e che adesso al tuo posto a Storybrooke c’è una bella e bionda bambina».
«Questo lo sapevamo anche noi», sbottai. «Sentiti pure libera di saltare i preamboli e di arrivare dritta al punto».
«Con calma pirata». Come per farmi rabbia estrasse da una tasca della sua costosa pelliccia, l’accendino e una sigaretta che si premurò di accendere con tutta calma.
«Non c’è il divieto di fumare qua dentro?», protestai.
«Io e la strega Cieca siamo molto amiche», rispose traendo una lunga boccata. «Può chiudere un occhio per me». Rise della sua stessa battuta e tornò a fissarci. Era evidente che tutti e quattro fossimo sulle spine e che non aspettavamo altro che sapere ciò che ci stava nascondendo. Ed era altrettanto chiaro che tormentarci la divertiva parecchio.
«Da quando Ade se n’è andato», continuò dopo un’altra boccata, «ho avuto l’opportunità di esplorare con più accuratezza i canali che ci sono qua sotto. Ricordate quelli dove scorre il fiume delle anime perse? Credo che Ade ti abbia tenuto prigioniero la sotto». Feci una smorfia, ma continuai a fissarla senza dire una parola in modo che proseguisse col suo racconto.
«Bene. È davvero curioso cosa si possa trovare là sotto». Non aggiunse altro e sentii la frustrazione salire alle stelle; dovetti usare tutta la mia forza di volontà per non saltarle addosso. Sentii la mano di Emma stringere di più la mia, intimandomi di stare calmo, e dall’altra parte percepii le dita di Milah posarsi sul mio braccio, chiedendomi di fare la medesima cosa. Era davvero paradossale, ma solo in quel momento mi accorsi di stare seduto in mezzo alle due donne più importanti della mia vita. Il passato e il futuro che si incontravano in quell’assurdo presente.
«E che cosa hai trovato?», le domandò Emma con tono calmo.
«Uno specchio».
«Uno specchio?». Questa volta il tono di Emma fece percepire tutta la sua frustrazione.
«Esatto! Ho reagito anch’io così quando l’ho visto», convenne l’altra, gesticolando con la sigaretta in mano. «Mi sono detta: “che diavolo ci fa uno specchio qua sotto?”. Ma poi ho fatto delle ricerche e ho trovato questo». Estrasse da sotto la pelliccia dei fogli spiegazzati. Li dispose sul tavolo dove ci fiondammo subito ad esaminarli.
«Se te lo stai chiedendo», continuò rivolta a me, «erano nel libro di incantesimi che abbiamo usato per contattare Emma. Non erano pagine di quel libro, per questo non hai notato niente di insolito, erano solo lì dentro». Non mi importava dove diavolo le avesse trovate, l’importante era il loro contenuto che in quel momento non riuscivo ad identificare.
Emma mi anticipò afferrando le pagine prima che potessi farlo io e iniziando a leggerle, impedendo così a me e a tutti gli altri di fare altrettanto.
«Che cosa dice?», proruppe Charlie, frustato quanto me.
Per tutta risposta Emma alzò una mano intimandogli di tacere. Continuò a leggere, passando poi alla pagina successiva senza aggiungere una sola parola.
«Allora?», esclamai quando ebbe finito. Non sopportavo tutto quel mistero e quell’incertezza.
Invece di rispondermi Emma alzò la testa e si rivolse a Crudelia. «È quello che penso?».
«Esattamente», confermò l’altra, facendomi innervosire ancora di più.
«Insomma Swan ci vuoi dire cosa diavolo c’è scritto?», sbottai.
«È un incantesimo», borbottò, quasi accorgendosi solo in quel momento di averci tenuto completamente all’oscuro. «Un incantesimo che permette di riunire l’anima al corpo se questi sono abbastanza vicini tra loro. Da quello che c’è scritto veniva usato nell’antichità per impedire il passaggio dell’anima nell’Oltretomba».
«Proprio così», concordò l’altra.
«E questo come ci potrebbe aiutare?», domandò Charlie risparmiandomi una domanda. Non ci avevo mai capito molto di incantesimi, dovevano entrambe essere più specifiche per permetterci di comprendere la situazione.
«Beh. Ogni incantesimo ha una sua interpretazione», tentò di spiegarmi Emma. «Credo che possa essere utilizzato anche nel mio caso».
«Quindi possiamo utilizzare questo incantesimo per riunirti con il tuo corpo?», le chiese Milah.
«Sì penso di sì». Vidi un piccolo sorriso disegnarsi sulle sue labbra. Tuttavia prima di festeggiare c’erano ancora un bel po’ di punti da chiarire.
«Aspettate», frenai la loro euforia sul nascere. «Ci sono alcune cose che non avete considerato. Prima di tutto il corpo di Emma non è qui e secondo il suo corpo adesso avrà all’incirca due anni. Quello che vogliamo evitare è proprio che la sua anima sia legata a quella bambina». Dio! Volevo riavere la mia compagna non quella che poteva essere mia figlia!
Emma però non si scompose di fronte alle mie più che coerenti proteste e invece alzò lo sguardo verso Crudelia. «C’è dell’altro non è vero?».
«Certo», rispose l’altra scrollando le spalle. «Perché se no vi avrei parlato dello specchio?». Di nuovo la mia attenzione fu attratta da quell’eccentrica donna. Non poteva dirci tutto insieme invece di svelarci la verità un pezzetto alla volta?
«Lo specchio che ho trovato non è una semplice superficie riflettente», continuò. «All’inizio pensavo che lo fosse ma poi mi ha mostrato tutt’altro. Quello specchio è in grado di mostrare dove si trova il corpo di ogni anima e credimi la mia è stata una visione piuttosto raccapricciante; non ci sono dubbi sul perché l’abbiano nascosto là sotto. Il mio povero corpo era in condizioni pietose…».
«Quindi lo specchio mostrerebbe il mio corpo», convenne Emma. «Potremmo fare l’incantesimo di fronte a quello».
«Questo risolverebbe il primo problema, ma non il secondo», puntualizzai.
«In realtà non dobbiamo preoccuparci per quello», continuò Emma. «In questi incantesimi c’è sempre una componente legata alla magia. Non finirò nel corpo della bambina».
«Come fai a saperlo?», proruppi preoccupato. «È troppo pericoloso, non possiamo rischiare».
«Killian». Si voltò verso di me. «Fidati di me quando ti dico che non finirò nel mio corpo di bambina. C’è un equilibrio ben preciso negli incantesimi e prevale sempre la parte più forte. Ed io sono la parte più forte, non mi sembra neanche di essere senza un corpo. Non sarò io a scomparire, sarà lei». La sicurezza nei suoi occhi era così sincera che tutti i miei dubbi si sciolsero come neve al sole. Se lei ne era certa, mi sarei fidato. Non mi piaceva l’idea di rischiare e di andare a tentoni, ma non avevo molta scelta. Sapevo che Emma ce la poteva fare e sperai con tutto il cuore che le informazioni che ci aveva fornito Crudelia fossero esatte.
«Allora che cosa stiamo aspettando?», esclamò Charlie alzandosi. Dovetti riconoscere per la terza volta di essere completamente d’accordo con lui.
«Infatti». Mi alzai a mia volta e lasciai che anche le due donne sedute accanto a me facessero altrettanto.
«Credete che dovremmo avvisare gli altri?», domandò Milah.
«Io voglio solo chiudere questa storia al più presto», convenni.
«Già, non perdiamo altro tempo», concordò Charlie.
«Li avviseremo quando tutto sarà concluso», acconsentì Emma afferrando le pagine e fissando Crudelia. «Accompagnaci allo specchio e se tutto fila liscio, preparati a lasciarti alle spalle l’Oltretomba, almeno per un po’».
 
Pochi minuti dopo ci ritrovammo tutti e cinque nel salotto di casa nostra, in quello stesso salotto dove poche ore prima io ed Emma ci trovavamo in atteggiamenti molto più disdicevoli. La porta che avrebbe dovuto portare in cantina non era mai stata una semplice porta neanche a Storybrooke, figuriamoci là nell’Oltrebrooke. Ed infatti rappresentava ancora una volta la soglia della nostra salvezza.
La mano di Emma strinse forte la mia, intrecciando le sue dita alle mie. Da quel semplice contatto riuscivo a percepire la sua ansia, ma anche la sua sicurezza; aveva paura, ma non aveva nessun dubbio sul fatto che avrebbe funzionato. Sembrava impossibile ma stavamo per mettere la parola fine a tutta quella intricata vicenda.
«Andiamo?», la incoraggiai, accarezzandole il pollice con il mio.
«Andiamo», confermò spalancando la porta. Varcammo la soglia sempre tenendoci per mano e cominciammo a scendere per quei cunicoli con Crudelia, Milah ed il bamboccio al seguito.
Fin da subito notai che qualcosa non andava. Sentii un peso opprimermi il petto, impedendomi di respirare regolarmente. Incamerare aria divenne sempre più difficile passo dopo passo, tanto che fui costretto a lasciare la mano di Emma per portarmela alla gola.
«Killian che succede?». Si voltò verso di me con uno sguardo preoccupato, intuendo che ci fosse qualcosa che non andava.
«Non… ri…». Tentai di articolare una frase, ma non riuscivo a respirare e la mancanza d’aria rendeva difficile anche parlare. Tentai di fare respiri più profondi cercando di aprire tutta la bocca, ma ancora una volta l’aria che arrivava ai miei polmoni non era sufficiente. Caddi in ginocchio, stringendomi la mano intorno alla gola.
«Credo che non riesca a respirare», intervenne Milah, accorrendo al mio fianco.
«Cosa? Perché?». Anche Emma si accucciò al mio fianco, lo sguardo carico di paura.
«Probabilmente perché è l’unico in vita qua sotto», intervenne Crudelia. «Non è legato in nessun modo all’Oltretomba; non penso che possa venire con noi».
«Perché diavolo non ce l’hai detto subito?», ringhiò Emma o forse si trattava di Milah? La mancanza di ossigeno al mio cervello cominciava a farsi sentire. Non sapevo per quanto ancora sarei riuscito a restare cosciente. Di sicuro non per molto, dato che già cominciava a girarmi la testa e la vista si andava pian piano offuscando.
«Lo riporto di sopra», disse qualcuno cercando di farmi alzare. Cercai di dare una mano, ma sentivo il corpo pesante e non era affatto facile riuscire a reggermi in piedi, nemmeno appoggiandomi completamente ad un’altra persona.
«Killian». All’improvviso il volto di Emma apparve di fronte ai miei occhi. «Ti prometto che andrà tutto bene e che tornerò presto da te. Ce la faremo amore». Posò le labbra sulle mie, soffiando l’aria che teneva immagazzinata nei suoi polmoni. Non feci a tempo neanche a ricambiare il suo bacio, con quel poco di forza e di lucidità che ancora mi restavano, che qualcuno mi trascinò via.
Non avevamo fatto che pochi metri, quindi tornare indietro fu relativamente semplice anche se quel tratto mi sembrò durare un’eternità. Stavo per svenire quando giunsi sulla soglia e sentii i miei polmoni riempirsi di nuovo. Crollai a terra immagazzinando quanta più aria potevo e trascinando con me la persona che mi aveva accompagnato. Con il respiro accelerato mi trascinai sul pavimento fino a che non sentii la porta richiudersi alle mie spalle. Fu allora che realizzai che ancora una volta non potevo combattere al fianco di Emma e che dovevo lasciarla sola ad affrontare le sue battaglie. Invece di essere in prima fila, dovevo attendere impaziente senza poter fare niente per aiutare il mio dolce cigno.
Fu quando ebbi incamerato abbastanza aria da riprendermi che misi a fuoco colei che mi aveva accompagnato. Milah mi stava studiando con sguardo preoccupato, accucciata sul pavimento accanto a me, dove io stesso l’avevo trascinata.
«Grazie», sussurrai intercettando il suo sguardo.
«Dovevo farlo», rispose semplicemente. Non avevo bisogno di chiederle il motivo, sapevo già che era arrivato il momento dei chiarimenti. Qualsiasi cosa ci fosse tra noi non poteva aspettare oltre e sicuramente non avremmo trovato momento migliore per affrontare i nostri demoni. Era giunta l’ora del faccia a faccia che avevo temuto e desiderato da oltre due secoli.


 
Angolo dell’autrice:
Buona domenica a tutti e buon capitolo!
Nell’attesa della puntata finale di OUAT ecco a voi un bel po’ di momenti fluff per i nostri due protagonisti. Visto che con l’addio di Jennifer non ce ne saranno altri nella settima stagione, dovevo per forza rimediare e crearne a più non posso adesso.
Comunque a parte la particolare nottata di Killian ed Emma, stiamo piano piano arrivando alla soluzione di tutta questa intricata vicenda. Crudelia si è rivelata utile, anche se solo per soddisfare quelli che sono i suoi desideri. Ed infine ho impedito a Killian di seguire Emma in questa sua piccola missione, perdonatemi ma dovevo per forza lasciarlo un po’ da solo con Milah.
Grazie come sempre a tutti colore che leggono e recensiscono!
Un bacione e alla prossima settimana!
Sara
 

Ritorna all'indice


Capitolo 18
*** 18. L’importanza di essere onesti ***


18. L’importanza di essere onesti
 
POV Killian
Non appena mi fui ripreso abbastanza dal mio quasi soffocamento mi alzai e mi diressi verso la cucina. I ricordi della notte precedente erano ancora impressi nella mia mente ed erano troppo legati a quel salotto; per affrontare Milah, e ciò che era rimasto in sospeso tra noi, dovevo scegliere un territorio neutrale, senza contare il fatto che quella casa, anche se non era la stessa, continuava ad essere un incessante promemoria del mio cigno. Tuttavia, in quel momento non si trattava di Emma, era solo una questione tra me e Milah.
Mi sedetti al tavolo senza dire una parola e aspettai che lei facesse altrettanto, prendendo posto davanti a me. La osservai cercando di capire da che parte iniziare, ma ero alquanto confuso, non solo su ciò che provavo, e iniziare un discorso non era affatto facile. Anche lei, d’altra parte, non sembrava cavarsela meglio di me; si torceva le mani e non alzava lo sguardo da quelle. D’altronde quell’imbarazzo era più che comprensibile; erano passati secoli da quando eravamo stati soli in una stanza e il fatto che i miei sentimenti fossero in qualche modo diversi rendeva le cose ancora più complicate. Del resto un paio di secoli prima, il ritrovarci finalmente soli, senza nessuno della ciurma intorno, avrebbe fatto scattare i miei stinti più animaleschi e ci saremmo ritrovati ben presto senza vestiti. Invece adesso come potevo definire la donna che avevo di fronte? Non era più la mia amante, ma era ancora mia amica, anche se chiamarla “amica” sembrava una definizione abbastanza riduttiva rispetto a ciò che provavo per lei.
All’improvviso Milah scoppiò a ridere nervosamente. «Oddio Killian, non c’è mai stato tanto imbarazzo tra di noi», mormorò con una specie di risata isterica.
Quelle parole servirono ad allentare un po’ la tensione e a farmi rilassare quel tanto che bastava da sciogliermi la lingua. «È vero, ma sono passati dei secoli ed io non avrei mai creduto di poterti rincontrare».
«Già nemmeno io», ammise alzando lo sguardo su di me, quello stesso sguardo che un tempo mi sapeva leggere come un libro aperto.
«Mi sei mancata tanto», confessai. Era la persona che mi era mancata di più in tutta la mia vita. Avevo passato centinaia di anni pensando a lei.
«Lo so e mi sei mancato anche tu». Posò la sua mano sulla mia stringendola forte.
«Ho passato secoli cercando vendetta per ciò che Tremotino ti ha fatto… ci ha fatto».
«So anche questo e non avresti dovuto farlo. Non volevo che oscurassi così la tua vita».
«Lo so». Questa volta fui ad ammetterlo. «Ma la rabbia e la voglia di vendetta erano comunque meglio di quel dolore lancinante…». Perderla era stata in assoluto una delle cose peggiori che mi fosse successa; per come ero fatto allora, per ciò che già avevo affrontato, la sua morte era stato come perdere tutto, perdere quell’ancora che mi tratteneva dall’essere un vero e proprio cattivo. Però non ero più quella persona, ero maturato ed ero diventato un uomo migliore.
«Mi dispiace che tu abbia sofferto per me Killian».
«A me no», mi ritrovai ad ammettere. «Non mi pento di un solo secondo passato con te. C’è stato un tempo in cui ho pensato che sarebbe stato meglio non averti conosciuta e non averti donato il mio cuore; ma se non l’avessi fatto oggi non sarei qui, non sarei una persona diversa, non avrei capito i miei errori e non…».
«Non avresti incontrato Emma», concluse lei per me. Non sarei stato io ad ammetterlo così spudoratamente ma era vero. Se non avessi cercato per secoli di uccidere il Coccodrillo, non avrei mai incontrato Emma Swan, la salvatrice del mio cuore.
«Già», ammisi studiando la sua reazione.
«Lei mi piace Killian», mi confesso, «e ti ama. Mi costa ammetterlo, ma ti può offrire molto più di ciò che avrei potuto darti io».
«Anch’io la amo», mormorai. «Ma c’è voluto tanto tempo per provare di nuovo un sentimento così forte verso qualcuno che non fossi tu».
«Sono contenta che tu ce l’abbia fatta, sono felice che tu abbia lei adesso».
«Davvero?». Il mio tono fu sorpreso, ma ero sicuro che lei riuscisse a leggere dal mio sguardo quanto ciò fosse importante per me. Non avevo bisogno della sua approvazione, ma era un qualcosa che comunque avrei voluto.
«Sì Killian. Sono davvero felice che tu abbia trovato qualcuno che possa amarti come meriti». Posò di nuovo la mano sulla mia ed io istintivamente la strinsi.
«Non è stato facile», sorrisi. «Emma è così testarda ed era così chiusa nei suoi muri. Riuscire ad abbatterli è stata una vera e propria faticaccia».
«Ti sono sempre piaciute le sfide», commentò.
«Beh sì, me lo ricordo bene. Anche tu non sei stata da meno». Milah rise riconoscendo che avevo ragione. Una ciocca di capelli le ricadde sugli occhi ed io istintivamente allungai l’uncino per scostarla. Tuttavia la vidi irrigidirsi e solo in quel momento mi ricordai che lei non aveva mai visto quella mia appendice. Avevo perso la mano lo stesso giorno in cui avevo perso lei: come avevo potuto dimenticarlo?
«Io…», iniziai non sapendo bene cosa dire.
«Posso?», mi domandò invece lasciandomi la mano e prendendomi l’altro braccio.
«Eh… sì». Non sapevo bene come reagire, non era stato mai facile lasciare a qualcuno campo libero con il mio braccio sinistro. Era qualcosa di istintivo, non ne capivo neanche il motivo, ma non volevo che la gente si soffermasse su ciò che mi mancava invece di vedere il resto.
Tuttavia Milah non si fece scrupoli. Non mi disse che le dispiaceva per la mia mano, come la maggior parte delle persone, non ce n’era bisogno. Senza aspettare il mio permesso, accarezzò l’uncino e lo studiò fino a che non riuscì a sganciarlo dal suo supporto e ad appoggiarlo sul tavolo accanto a noi.
Mi accorsi di star trattenendo il fiato e probabilmente dovette rendersene conto anche lei perché alzò lo sguardo su di me e mi chiese tacitamente il permesso di continuare. I suoi occhi erano così intensi che senza neanche accorgermene mi ritrovai a deglutire e ad annuire.
Lei sganciò il polsino della mia camicia e mi tirò su la manica, scoprendo così il mio tatuaggio, o meglio il suo tatuaggio. Non sapevo come avrebbe reagito, avrei voluto spiegarle ma le parole mi morirono in gola e non trovai più il coraggio di parlare.
«Oh Killian», mormorò semplicemente, accarezzando il suo nome inciso sulla mia pelle. Io non risposi e chiusi gli occhi cercando di rilassarmi alle sue carezze. Milah non aggiunse altro, ma continuò ad accarezzarmi il moncone come se fosse stata una cosa del tutto naturale, anzi come se fosse la cosa più semplice del mondo. Solo un’altra donna era riuscita a fare altrettanto, a farmi sentire intero anche nel mio corpo spezzato.
 
Le dita di Emma scorrevano lentamente su e giù lungo il mio braccio, sensibilizzando ogni parte della mia pelle con il solo tocco delle sue dita. I suoi polpastrelli salirono su fino alla mia spalla, scesero sul mio petto e salirono di nuovo sull’altra spalla, aprendosi il percorso verso il mio braccio sinistro. Non avevo ancora fatto l’abitudine a quella Emma, a quella parte di lei dolce e tenera che era solita accarezzarmi e coccolarmi; beh era una parte di sé che riusciva a tenere nascosta molto bene e che mi aveva cominciato a mostrare solo da poco.
«Ti da fastidio?». La sua voce mi fece riaprire gli occhi per ritrovarmi direttamente catapultato nell’immenso prato di quelli di Emma.
«Cosa?», domandai non capendo.
«Se ti tocco». Si fermo giusto un attimo per abbassare lo sguardo verso il mio moncone e riportarlo subito nel mio. «Ti irrigidisci sempre quando lo faccio». Non mi ero accorto di farlo, ma d’altronde era comprensibile: non avevo mai permesso a nessuna altra donna di vedermi senza uncino, o senza il suo supporto comunque.
«Non lo so», ammisi con sincerità.
«Beh dovresti dirmelo se non vuoi che io ti tocchi là. Non è un problema, davvero; magari ci possiamo arrivare per gradi».
«No, non credo che sia necessario; non mi accorgo neanche di irrigidirmi. È solo strano».
«Non è strano Killian», sussurrò sfiorando le labbra sulle mie. «È una parte del tuo corpo».
«Beh più che una parte direi una mancanza del mio corpo», mormorai a denti stretti. Molte volte avrei voluto avere ancora due mani, soprattutto con Emma. Ci ero abituato e non ci facevo più caso, ma ciò non significava che non potessi anche sentire nostalgia della mia mano sinistra.
«Non è vero Killian», ribatté allontanandosi di qualche centimetro da me. «Sei tu; che tu sia con o senza mano resti sempre tu. Non c’è nessuna mancanza, non per me almeno. Mi piace ogni parte di te». Sottolineò la parola parte avvicinandosi di nuovo e baciandomi.
«È che sei la prima donna a cui lo permetto», sussurrai quando le sue labbra si staccarono. Non dovetti specificare oltre, era chiaro che mi riferissi al mio moncone.
«Oh». Vedi lo stupore disegnarsi sul suo volto, sostituito subito da un dolce sorriso.
«Allora lascia che faccia le cose per bene», affermò accarezzandomi una guancia e poi tirandomi subito il braccio verso di lei. «Posso?».
Annuii e per tutta risposta chiusi gli occhi, lasciando che lei mi accarezzasse. Emma iniziò prima delicatamente, per poi cominciare a massaggiarmi il moncone con estrema precisione, allentando la tensione nei miei muscoli e riuscendo a farmi rilassare. Posò un bacio là dove un tempo era stata attaccata la mia mano ed io sentii un brivido risalirmi lungo la schiena; ma non si trattava di una sensazione negativa, anzi tutt’altro.
Continuò così per un po’, massaggiando, baciando e accarezzando e facendomi assolutamente ricredere sul mio moncone. Avrei voluto che Emma fosse così con me sempre.
«La senti ancora?», mi domandò improvvisamente, rompendo il silenzio che si era creato. «La mano intendo. Sai il così detto arto fantasma?».
«Adesso non più, all’inizio però sì ed era terribile. Mi capitava di svegliarmi nel cuore della notte perché mi prudeva una mano che non c’era. Col tempo è scomparso, o forse ci ho fatto semplicemente l’abitudine».
«Avrei voluto essere lì per permetterti di rilassarti come adesso», sussurrò.
Un enorme sorriso mi si dipinse sul viso mentre incatenavo di nuovo il suo sguardo al mio e mi avvicinavo nuovamente alle sue labbra. «Penso che sia una delle cose più dolci che tu mi abbia mai detto».
«Beh credo che dovremo farci entrambi l’abitudine». Si morse il labbro cercando di mascherare almeno in parte i suoi sentimenti ed io ne approfittai per stringerla ancora di più contro il mio petto e baciarla appassionatamente.
 
«Grazie». La voce di Milah mi riportò al presente, facendomi ricordare che in quel momento era tutt’altra donna quella che mi stava accarezzando.
«Per così poco?», le domandai ritirando il braccio e rimettendo l’uncino al suo posto.
«Non solo per questo momento, parlo anche del tatuaggio. Ti sei impresso il mio nome sulla pelle, ti sei marchiato a fuoco».
«Tu mi hai marchiato a fuoco Milah», ammisi. «Non riuscivo più ad andare avanti».
«So cosa vuoi dire. Tra di noi è come se non ci fosse mai stata una fine». Era esattamente quello che avevo provato per secoli: tra noi non era semplicemente finita, lei era stata uccisa e non era stata colpa del nostro amore che si era affievolito.
«Quello che c’è stato tra noi è rimasto in sospeso per tanto tempo».
«Già, e a proposito di questioni in sospeso», continuò titubante. «Lo so che per te io lo sono stata per molti secoli, ma devi sapere che qua sotto tu non sei mai stato il motivo per cui non sono riuscita a passare oltre».
«Lo so». Non avevo bisogno che me lo dicesse per capirlo. Sapevo che si trattava di Baelfire fin da quando avevo scoperto che era ancora prigioniera dell’Oltretomba.
«Ah sì?». Era stupita, eppure doveva saperlo che io ero la persona che la conosceva meglio al mondo, meglio addirittura di suo marito.
«Sì, è per tuo figlio o sbaglio?».
«Già. Mi sono sempre sentita in colpa per averlo abbandonato lasciandolo solo con Tremotino. Non sarei dovuta andarmene solo perché odiavo suo padre».
«Ho conosciuto Baelfire», confessai. «Ti avrebbe perdonato, ne sono sicuro».
«Pare che tutti siano riusciti a conoscere l’uomo che mio figlio è diventato, tranne la sottoscritta».
Non seppi cosa replicare anche perché era un affermazione fatta con molta amarezza e non era certo facile rispondere a qualcosa del genere. Capivo la sua tristezza, ma non potevo comunque farci nulla.
Fu Milah comunque a continuare, non aspettandosi evidentemente una mia risposta. «È per questo che non posso prendere l’ambrosia Killian». Appoggiò entrambe le mani sulla mia e mi guardò implorante. «Non c’è nulla per me lassù; non ha senso che io torni in vita».
La fissai cercando di assimilare ciò che mi aveva rivelato e allo stesso tempo di trovare le parole giuste. Capivo il suo punto di vista, ma anch’io in passato avevo creduto di non meritare di essere salvato, di non meritare un’altra opportunità. «Lo so che adesso la pensi così», provai, «ma una volta a Storybrooke potresti fare tutto ciò che vuoi».
«No Killian. So che credi di potermi convincere, ma io ho già deciso. Ho bisogno che tu lo capisca. Non voglio tornare in vita per avere nuove possibilità, voglio solo andare avanti e poter ritrovare mio figlio».
«Anch’io in passato ho pensato…», iniziai ma lei mi fermò.
«No. Tu avevi Emma ad aspettarti. Io ho solo Baelfire ma non è a Storybrooke che lo troverò». Riflettei sulle sue parole e lentamente capii che aveva ragione. Le nostre situazioni non erano affatto paragonabili e capivo perfettamente il motivo della sua scelta. Al suo posto io avrei fatto esattamente lo stesso.
«Mi mancherai», sospirai infine, accettando quella triste decisione.
«Grazie per aver capito», rispose rivolgendomi un piccolo sorriso.
«È sempre stato tuo figlio. È sempre stato lui uno dei tuoi principali pensieri».
«Mi manca così tanto Killian. Vorrei solo poterlo conoscere, poter guadagnare il suo perdono. Ed Emma mi ha detto che lui è in un posto migliore ed io non posso fare altro che provare a raggiungerlo».
«E quindi adesso che farai?».
«Spero che aiutando Emma e tutti voi a tornare a Storybrooke possa riscattarmi e possa finalmente andare avanti».
«Sarà così vedrai», affermai certo. Cosa avrebbe dovuto fare di più? «Ed io ti accompagnerò sulla rupe dove potrò vederti andare incontro alla così detta luce o quel che è».
«Grazie», sospirò. «Non so neanche come farò a dirlo agli altri, come farò a dire loro che dopo tante avventure non li seguirò anche in questa».
«Ti aiuterò io e loro capiranno. Se l’ho capito io, lo faranno anche loro».
«Grazie», ripeté di nuovo.
«Killian», riprese dopo un momento di silenzio, «questo non vuol dire che tu non sia stato una delle persone più importanti della mia vita, se non forse la più importante, quella che è riuscita a farmi sentire viva».
«Anche tu sei stata una delle persone più importanti della mia vita».
«Solo che questa volta non posso commettere lo stesso errore che ho fatto in passato. Ho bisogno di scegliere mio figlio invece di me stessa».
Annuii e le accarezzai la guancia con l’uncino, sapendo che non c’era più nulla da aggiungere.
«Mi mancherai da morire», mormorò ed una lacrima le rigò il volto. Mi affrettai ad asciugarla con il pollice, avvicinando il mio viso al suo.
«Anche tu, ma è quello che ci vuole. Per entrambi; è la fine che aspettavamo da secoli». Istintivamente chiusi gli occhi ed appoggiai le labbra sulle sue baciandola. Fu un bacio semplice, diverso da quelli che ci eravamo scambiati in passato. Niente di troppo, solo un modo per lasciarla andare definitivamente.
Con quel bacio non stavo tradendo Emma, stavo semplicemente dicendo addio ad una parte di me. Stavo salutando una donna che in fin dei conti amavo ancora e che non avrei mai smesso di amare; non c’entrava niente Emma o quello che provavo per lei, perché erano due cose completamente diverse.
«Se solo ti avessi conosciuto prima di incontrare Tremotino», sospirò staccandosi da me e accennando un piccolo sorriso. «Saremo potuti essere felici e avrei potuto darti tutto ciò che avresti meritato».
«Mi hai dato abbastanza Milah», affermai accarezzandole una guancia. «Sapevo fin dal primo giorno in cui ho iniziato ad innamorarmi di te in che guaio mi stavo cacciando. Sapevo che ci sarebbe sempre stato un vuoto che io non avrei potuto colmare».
«Invece ci riuscivi Killian, ci riuscivi sempre». Proprio in quel momento delle voci nella stanza accanto ci fecero sussultare, facendoci allontanare di scatto. Mi alzai subito ma non feci a tempo a scostare la sedia che Emma comparve subito sulla soglia della cucina. I suoi occhi brillarono vedendomi e sul suo volto si disegnò un meraviglioso sorriso. Dietro di lei Charlie e Crudelia la seguivano come due guardie del corpo.
«È fatta», disse, e mai due parole furono altrettanto belle quanto quelle.
 
POV Emma
Restai a fissare il corridoio davanti a me e la porta che si era appena richiusa per un tempo che mi sembrò interminabile. L’immagine di Killian con le mani alla gola che faticava a respirare era ancora impressa nella mia mente e non riuscivo proprio a cancellarla. Mi si attanagliava lo stomaco dalla paura; sarei voluta correre da lui e assicurarmi sulla sua salute ed invece dovevo voltarmi dall’altra parte ed andare avanti. Ancora una volta il destino ci aveva costretto a separarci e mi stava obbligando ad affrontare un’altra sfida senza di lui.
«Emma starà bene». La voce di Charlie mi fece sussultare, facendomi realizzare che non c’era niente che potessi fare. «C’è Milah con lui».
«Lo so ma…», sussurrai. Sentivo il cuore stretto in una morsa e il fatto che ci fosse l’altro amore della sua vita ad occuparsi di lui non mi faceva certo stare meglio.
«Il tuo pirata se la caverà alla grande», intervenne Crudelia. «Ha la pelle dura. Adesso perché non ti dai una mossa? L’umidità qua sotto rovina il pelo della mia pelliccia».
Sospirai e mi voltai di nuovo verso di loro. Capivo che avevano ragione: dovevo solo pensare che prima saremmo arrivati allo specchio, prima avrei potuto fare l’incantesimo e sarei potuta tornare da Killian. «D’accordo, andiamo. Portaci a questo dannato specchio».
Lasciai che Crudelia ci precedesse in quei corridoi e iniziai a camminare al fianco di Charlie, che continuava a studiarmi con circospezione per assicurarsi che stessi bene. Mi faceva piacere che si preoccupasse per me, ma non potevo certo dimenticare le occhiate che mi aveva lanciato alla tavola calda.
«Non stai tenendo fede al tuo accordo», sussurrai in modo che Crudelia non ci sentisse.
«Perché mai?». Il suo tono era del tutto innocente, come se non sapesse di cosa diavolo stessi parlando.
«Vuoi davvero che te lo spieghi? Charlie pensavo di essere stata chiara». Abbassai ancora di più il tono fissando con attenzione la schiena di Crudelia. «Siamo solo amici».
«Lo so, ma non è facile».
«Beh non ti stai sforzando abbastanza», ribattei piccata un’ottava sopra al dovuto. Per fortuna Crudelia non sembrava aver sentito o comunque non l’aveva dato a vedere.
«Lo so». Stavo per replicare quando afferrai il senso delle sue parole. Non mi ero aspettata che lo ammettesse, anzi ero quasi certa che avrebbe negato tutto.
La sua riposta mi aveva lasciata un attimo interdetta, tuttavia mi affrettai a concludere. «Bene, spero che ti impegnerai di più da ora in poi».
«Ci proverò. D’altronde quando saremo a Storybrooke dovrò imparare a convivere con voi due».
«Già, dovrai proprio farlo». Sarebbe stato ancora più difficile se non si fosse impegnato; sapevo che una volta a casa le cose tra me e Killian sarebbero solo andate progredendo e di sicuro non in favore di Charlie.
«È carina la vostra cittadina?», mi chiese dopo un secondo di silenzio, cambiando del tutto argomento.
«Beh non è male». Quando ero arrivata là mi era sembrata terribilmente provinciale ma adesso era casa. Nessun posto sarebbe stato come quella piccola e sperduta cittadina nel Maine. «Sono sicura che ti ci abituerai».
«Credi che Lizzy si ambienterà facilmente?». Era davvero tenero il suo continuo preoccuparsi di quella ragazzina, anche se forse era un po’ masochistico da parte sua.
«Sì lo farà. È una ragazza forte, in fin dei conti. Penso che lei starà bene là». Si sarebbe trovata più che bene e avrebbe potuto finalmente avere una vita vera e propria. La mia preoccupazione riguardava più Charlie stesso che Lizzy in realtà; avevo paura che per lui non sarebbe stato facile come per l’altra e non solo per via di me e Killian.
Lasciai che il silenzio calasse tra noi proseguendo per quei tetri corridoi. L’accenno di Lizzy mi aveva riportato alla mente un pensiero che avevo continuato ad avere fin da quando Charlie mi aveva rivelato la sua storia. Lizzy non sapeva chi realmente fosse il suo migliore amico, non sapeva che lui era anche il suo assassino, e non credevo certo che fosse un bene. Lui non gli aveva mentito, aveva semplicemente omesso alcune cose, ma io sapevo che ciò non portava nulla di buono. La sincerità era la migliore strada da seguire e avevo paura che quei segreti avrebbero potuto rivoltarsi contro Charlie stesso. Capivo le sue motivazioni, lui la voleva proteggere, ma non era giusto nei confronti di nessuno, tantomeno di Lizzy; lei era abbastanza forte da sopportare la verità.
«Credo che dovresti dirglielo», mormorai all’improvviso dopo qualche minuto.
«Cosa? E a chi?». Charlie voltò leggermente la testa verso di me, fissandomi con sguardo interrogativo.
«A Lizzy intendo. Dovresti dirle la verità».
«No». La sua risposta fu secca e brusca. Lo sentii irrigidirsi al mio fianco e vidi i suoi muscoli tendersi per la tensione.
«Non va bene Charlie», continuai, «non va affatto bene. Lei ti crede il suo migliore amico, tu  non puoi nasconderle una cosa così importante». Vidi Crudelia rallentare il passo, forse per captare la nostra conversazione; per fortuna non avevo detto niente di specifico.
«Proprio perché sono il suo migliore amico non posso dirle la verità. La distruggerebbe».
«Davvero? Lei è più forte di quanto credi». Presi un profondo respiro e buttai fuori il dubbio che mi assillava. «Charlie non le dici chi sei veramente per non sconvolgerla o perché hai paura che lei potrebbe odiarti una volta saputa la verità? Lo stai facendo per lei o per te stesso?».
Non rispose e fu evidente che con la mia domanda avevo colto nel segno. Tuttavia non sapeva che anch’io mi ero ritrovata in una situazione simile e che potevo capirlo benissimo.
«Una volta», iniziai cercando le parole adatte, «ho fatto una cosa terribile. Per non perdere Killian l’ho trasformato nella cosa che odiava di più e per non permettere che lo scoprisse ho cancellato la memoria di tutti. Continuavo a non dire niente e a cercare una soluzione da sola, non capendo che dire la verità avrebbe reso tutto più facile. Alla fine lui l’ha scoperto lo stesso ed è stato peggio perché non mi ero fidata abbastanza di lui da confessargli il mio terribile errore».
«Questo non c’entra niente con me e Lizzy», ribatte brusco. «È una storia completamente diversa».
«Quello che voglio dire è che scegliere di essere onesti è sempre la strada migliore. Se lei scoprisse la verità e capisse che tu l’hai sempre saputo…».
«Ma lei non lo scoprirà», sbottò alzando la voce. «Lo sappiamo solo io e te. Ed io non parlerò e se ti azzarderai a…».
«Lo sai che non lo farei». Tacqui per osservare Crudelia che anche se era di spalle sembrava non essersi persa nessuna parola di quella nostra ultima conversazione.
Rallentai il passo trattenendo Charlie per un braccio. «E comunque adesso immagino che lo sappia anche lei», sussurrai indicandola.
«Non sa a cosa ci riferiamo», mi liquidò.
«Ma so che stai nascondendo qualcosa alla tua amichetta». Fu Crudelia ad intervenire. «E dal tuo tono ho capito anche che è qualcosa che ti sta molto a cuore».
«Se ti azzardi a dirle qualcosa, a metterle la pulce nell’orecchio…». Charlie strinse forte i pugni e assunse un’espressione rabbiosa.
«Non lo farò. Non mi interessate tu e i tuoi problemi. Per il momento ho cose più importanti a cui pensare». In effetti non avrebbe guadagnato nulla da rivelare ciò che poteva aver intuito a Lizzy e per una volta volli fidarmi subito delle sue parole.
«Charlie», continuai prima che lui potesse chiudere la questione. «Voglio che tu rifletta su ciò che ti sto per dire. Voglio che tu ci pensi bene prima di decidere e voglio che tu sappia che qualsiasi decisione prenderai io starò al tuo fianco. Tuttavia devo farti un’altra domanda: tu hai paura di dirle la verità perché lei potrebbe odiarti o hai paura perché lei potrebbe perdonarti? Se sei davvero convinto che tacere sia la scelta migliore, d’accordo, ma sei sicuro di non farlo perché così puoi continuare a tormentarti con i tuoi pensieri autolesionistici? Pensaci: se lei non sa, non le dai la possibilità di odiarti, ma neanche di perdonarti; io conosco Lizzy e non penso che riuscirebbe ad odiare qualcuno, lei potrebbe assolverti dai tuoi peccati».
«Come potrebbe perdonarmi dopo ciò che le ho fatto?». Il suo tono non era più brusco ma sofferente.
«Potrebbe perché non l’ha fatto apposta e poi tu non sei più quella persona. Lei ha imparato a conoscerti, sei cambiato e lei conosce l’uomo che sei diventato. Secondo me non le stai dicendo la verità perché finché lei non lo sa, tu puoi continuare a non affrontare il problema principale».
«E quale sarebbe il problema principale?».
«Perdonare te stesso. Se lei ti perdona come farai tu a fare altrettanto con te stesso?».
«Emma non lo so», ammise. «Per il momento posso solo dirti che ci penserò, non posso prometterti altro». Sapevo di aver toccato il tasto giusto ed il fatto che avesse promesso di riflettere sulle mie parole era già una vittoria sufficiente. Sperai che prendesse la scelta giusta e che non perseverasse con la sua assurda idea di tacere. Almeno ero riuscita a fargli prendere in considerazione quella possibilità; forse la mia influenza avrebbe fatto cambiare idea a quella sua testaccia dura.
«Se avete smesso con i consigli spassionati», intervenne Crudelia fermandosi davanti ad una porta di pietra, «noi saremmo arrivati».
Non avevo prestato molta attenzione alla strada che avevamo percorso, ma da una parte essere giunti a destinazione era sia un sollievo che un tormento. Sentii la tensione risalirmi lungo la schiena e irrigidirmi le spalle: dietro quella porta si sarebbe deciso il mio destino ed io non ero certa di essere pronta al cento per cento. Avevo promesso a Killian che sarebbe andato tutto bene, che io non mi sarei ritrovata nel mio corpo di bambina, ma anche se mi ero mostrata sicura non lo ero poi così tanto. Avevo un buon presentimento ma stavo rischiando tutto ed era ovvio che fossi terrorizzata.
«Andrà tutto bene Emma». Charlie sembrò intuire i miei timori e mi passò una mano sulla spalla tentando di calmarmi.
«Sì certo», sospirai. «Entriamo». Superai Crudelia e aprii la porta di pietra davanti a noi. All’interno di essa si trovava una stanza di modeste dimensioni ed esattamente al centro di essa era posto un gigantesco specchio. Era enorme e siccome la luce là era abbastanza fioca, il suo riflesso rendeva la stanza ancora più cupa.
«Ecco a voi come promesso», sentenziò Crudelia, fermandosi ad un lato di esso. «Io non mi ci specchio dentro e non dovrebbe farlo neanche lui, ma tu sei libera di guardare il tuo corpo ancora in vita».
«È davvero gigantesco», commentò Charlie studiandolo.
«Non credo che siano le dimensioni a contare ma quello che mi mostrerà», replicai. Crudelia aveva ragione: fino ad allora aveva mantenuto la parola data; adesso dovevo solo sperare che lo specchio mi mostrasse la baby me come avevamo ipotizzato.
Feci un profondo respiro e mi preparai a tutto quello che lo specchio avrebbe potuto mostrarmi. Mossi un passo in avanti e mi posizionai proprio di fronte a quella gigantesca superficie riflettente. All’inizio ciò che vidi fu solo il mio riflesso; avevo un aspetto orribile, con le occhiaie, i capelli spettinati e i vestiti che non erano i miei. Poi l’immagine iniziò a cambiare e delle forme diverse si delinearono di fronte a me.
Lentamente riuscii ad interpretare ciò che stava apparendo sullo specchio e a capire che si trattava del loft dei miei genitori. Era la mia vecchia camera esattamente come l’avevo lasciata l’ultima volta che ero stata là. Poi piano piano iniziai a distinguere anche altre figure.
Il mio cuore batté più velocemente riconoscendo i miei genitori seduti sul letto, uno da una parte ed uno dall’altra. Erano intenti a giocare con una bambina che si trovava esattamente in mezzo a loro; era ovvio che fossi io e non solo per i capelli biondi e gli occhi verdi, ma anche perché nel mio piccolo pugno stringevo una conchiglia che ero certa appartenesse a Killian. Probabilmente i miei genitori avevano frugato nei cassetti di casa nostra; avrei dovuto chiederli spiegazioni una volta a Storybrooke.
Era una strana visone quella che avevo davanti agli occhi. Sembravamo una vera e propria famiglia felice ed era come se il mio desiderio si fosse realizzato. In effetti il desiderio che avevo espresso si era realizzato completamente stando a quell’immagine, solo che non ero propriamente io quella che lo stava vivendo.
Tuttavia più osservavo i miei genitori più notavo dei particolari che mi facevano capire quanto il mio desiderio fosse imperfetto. Entrambi avevano profonde occhiaie e le loro espressioni non si potevano certo dire serene, anzi erano tesi e preoccupati. Giocavano con la piccola me ma non come li avevo visti giocare con Neal; non c’era gioia c’era solo preoccupazione.
«Allora cosa vedi?». Fu Charlie il primo ad interrompere il silenzio non resistendo più alla curiosità.
«Me, la piccola me».
«Allora funziona!», esultò, facendomi sorridere. Avrei voluto essere così ottimista come lui, però adesso arrivava la parte difficile. Stava a me e solo i miei poteri e la mia magia avrebbero potuto risolvere quell’intricata situazione.
«Staremo a vedere», sospirai estraendo i fogli con l’incantesimo dalla tasca dei pantaloni.
«Credo che ti servirà questa». Crudelia tirò fuori dalla pelliccia una bacchetta che non avevo mai visto prima di allora.
«Dove l’hai presa?», le chiesi subito afferrandola.
«Ha importanza?», rispose scrollando le spalle. «So solo che con questa riuscirai a convogliare meglio la tua magia».
«Mi stai aiutando davvero?», non riuscii a resistere alla tentazione di chiederglielo.
«Beh ricordati che lo faccio principalmente per me».
«Grazie», risposi.
«Tu dovresti sapere meglio di chiunque altro che nessuno è completamente buono o completamente cattivo». Aveva ragione ed io ne ero la prova.
«Già. E proprio per questo mi dispiace per averti uccisa. Non so se te l’ho mai detto davvero; non avrei dovuto farlo, pensavo che Henry fosse in pericolo e non ho ragionato. È stata la cosa più orribile che abbia mai fatto». Guardai Charlie con la coda dell’occhio sperando che cogliesse il mio buon esempio e decidesse di essere sincero con Lizzy.
«Lo apprezzo», rispose Crudelia. «Adesso però vedi di muoverti, voglio lasciare questo limbo il prima possibile».
Trassi un profondo respiro e tornai a concentrarmi sull’incantesimo e sullo specchio. Lessi mentalmente le parole riportate nel foglio e convogliai la mia magia nella bacchetta. All’improvviso, mentre ripetevo le parole come un mantra nella mia testa, sentii il potere diffondere da ogni cellula del mio corpo e travolgermi in pieno come un’ondata. Chiusi gli occhi, sopraffatta dall’intensità di quel potere, e mi lasciai trasportare. Non ero più io a guidare l’incantesimo, ma l’incantesimo a guidare me; mi stava portando esattamente dove voleva.
All’improvviso il silenzio che si era creato nella stanza, fu sostituito da delle voci diverse, voci che non mi sarei mai aspettata di sentire.
«Credi che riuscirà ad aiutarla?». Era la voce di mia madre, non avevo alcun dubbio.
«Non lo so, ma lo spero davvero tanto», rispose mio padre. Aprii improvvisamente gli occhi e mi ritrovai in quella stessa camera che avevo osservato nello specchio. Loro due erano accanto a me ed io mi trovavo nel mezzo, ma ero del tutto sproporzionata. Non ebbi bisogno di osservare le mie mani per capire di essere appena tornata nel mio corpo di bambina. Il mio cuore accelerò, intuendo che l’incantesimo stava andando esattamente nella direzione che non volevo che prendesse. Aveva riunito la mia anima al mio corpo ma era proprio quest’ultimo ad essere sbagliato.
Trassi un profondo respiro e continuai a concentrarmi, ripetendo la formula magica come un mantra. Io ero più forte, la mia necessità di un corpo adulto era più forte di qualsiasi stupido incantesimo. Si trattava solo di una battaglia all’interno della mia testa ed io dovevo vincerla.
«Credi che sia riuscito a raggiungerla?», continuò mia madre, carezzandomi la testa con la mano.
«Tieni Emma». Mio padre mi passò la conchiglia che avevo lasciato cadere non appena ero stata catapultata in quel corpo. «Certo che l’ha raggiunta, conosci Hook».
Afferrai la conchiglia e mi concentrai su quella. Richiusi gli occhi e cercai di visualizzare Killian, noi due insieme, quello che doveva essere il nostro futuro; un futuro che non si sarebbe potuto realizzare se fossi rimasta in quel corpo. Io non ero una bambina, lo ero già stata ed avevo sofferto durante la mia infanzia, ma andava bene così. Non volevo più cambiare il passato perché il mio passato mi aveva guidato fino a quel momento e a me piaceva la donna che ero diventata. Certo c’era stata tanta sofferenza, ma c’erano stati anche momenti felici anche se non molti.
“Io sono Emma Swan e non è questo il mio passato, né sarà il mio futuro”. C’era solo un uomo che poteva far parte del mio futuro ed in quel momento mi stava aspettando ed io gli avevo promesso che sarei tornata da lui presto.
All’improvviso, mentre la consapevolezza di chi ero si faceva strada dentro di me, sentii il potere di nuovo fluire in tutto il mio corpo e guidarmi nella direzione opposta a quella di prima.
«Stiamo bene, torneremo presto», cercai di balbettare con la mia voce stentata di bambina prima che cedessi completamente al potere e abbandonassi definitivamente quel corpo. Non sapevo se fossi riuscita a pronunciare davvero quelle parole, ma potevo solo sperare di averlo fatto in modo da tranquillizzare i miei genitori.
Tenendo gli occhi chiusi mi lasciai invadere dalla magia, percependola come mai prima di allora e quando li riaprii mi ritrovai di nuovo di fronte allo specchio in quella stanza di pietra.
«Emma!». Charlie mi si fiondò addosso, abbracciandomi e stringendomi così forte da impedirmi di respirare.
«Charlie», gracchiai cercando di allontanarlo.
«Eri scomparsa», mi spiegò staccandosi da me, ma continuando ad accarezzarmi i capelli.
«Ha funzionato?». Crudelia non sembrava preoccupata quanto lui. Era evidente che fosse più in pensiero per la sua possibilità di avere l’ambrosia piuttosto che per la mia incolumità.
«Fammi controllare». Allontanai Charlie e mi riposizionai davanti allo specchio. Questa volta l’immagine con il mio riflesso non fu sostituita da nessun altra. Ero io, al cento per cento e senza nessuna bambina nel mezzo.
«Sì», sussurrai scoppiando a ridere per il sollievo. «Sì». Tuttavia la mia euforia fu all’improvviso spenta da qualcos’altro: come doveva essere successo a Killian non riuscii più a respirare normalmente e sentii mancarmi l’aria.
«Emma?». Charlie mi fissò interrogativo, intuendo ciò che stava accadendo. Io, d’altro canto, faticavo a respirare, ad incamerare semplicemente ossigeno nei polmoni, e quello era l’evidente sintomo che l’incantesimo era del tutto riuscito. La mia anima e il mio corpo erano stati riuniti ed il fatto che stessi soffocando ne era la prova tangibile.
Mi portai la mano alla gola, ma per fortuna io avevo ancora la magia dalla mia parte. Senza aspettare un secondo di più, e prima che la mancanza di ossigeno cominciasse ad offuscare le mie capacità mentali e magiche, agitai la mano e ci trasportai tutti nel salotto dove dovevano trovarsi Killian e Milah.
Non appena misi piede in quella stanza sentii i miei polmoni riempirsi e l’aria tornare a circolare libera nel mio corpo. Il solo fatto di essere uscita da quei corridoi mi aveva permesso di riprendere a respirare.
«Emma come ti senti?». Charlie mi mise una mano sulla spalla per accertarsi che stessi bene.
«Meglio», sospirai drizzando la schiena e allontanandomi da lui. Crudelia ci fissava indifferente, sapendo di aver appena guadagnato la sua possibilità di tornare in vita.
Tuttavia in quel momento non era quello l’importante; mi bastò un secondo per far sì che il mio pensiero si spostasse da me a Killian.
Mi guardai attorno cercandolo e non vedendolo mi affrettai ad andare in cucina. Fu lì che  lo trovai, in piedi accanto al tavolo dove Milah era ancora seduta. Lui stava bene e mi stava fissando con uno sguardo colmo di emozione.
«È fatta», mormorai ed il sorriso che si disegnò sul suo volto riuscì a sciogliermi completamente. In un istante superò il tavolo e mi prese tra le sue braccia baciandomi appassionatamente. Di sicuro quello che mi dette non fu un bacio casto perché mi ritrovai immediatamente alle prese con la sua lingua e con la sua mano fin troppo esperta nell’esplorare il mio corpo.
«Ehi calma tigre», sospirai staccandomi da lui solo di qualche centimetro. «Non siamo soli».
«Già», ammise sorridendo. «Sono solo contento che tu stia bene».
«Sto bene», confermai. «Mai stata meglio. Adesso dobbiamo solo trovare un modo di tornare a Storybrooke e poi finalmente tutto questo sarà finito e saremo a casa». E non vedevo l’ora di esserci veramente e di poter così riabbracciare la mia famiglia.


 
Angolo dell’autrice:
Buonasera a tutti! Ed ecco un altro capitolo.
Dopo il devastante finale di stagione ho avuto un po’ di difficoltà a scrivere, anche per via dei mille impegni, e credevo proprio di non farcela; invece eccomi qua allo scadere della domenica.
Prima di tutto ecco il chiarimento tra Milah e Killian; non è mai stata mia intenzione farla tornare in vita e diciamo che non avrebbe avuto senso portarla a Storybrooke. Lei non ha nulla lassù e quindi vuole semplicemente passare oltre e avere la possibilità di incontrare suo figlio.
Dall’altra parte l’incantesimo di Emma ha funzionato facilmente senza troppe complicazioni. Adesso non resta altro che trovare il modo per tornare a casa e lasciare l’Oltretomba.
Grazie come sempre a tutti!
Un bacione
Sara
 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 19
*** 19. Messaggio ricevuto ***


19. Messaggio ricevuto
 
POV Emma
Mentre raccontavamo agli altri ciò che era appena successo non potevo credere che fosse tutto vero. Ero di nuovo nel mio corpo e, anche se non notavo nessuna differenza rispetto a qualche ora prima, sapevo che era così. Mi sembrava ancora impossibile che fosse filato tutto liscio e che fossimo riusciti a risolvere la situazione così facilmente, eppure era la verità. La pura e semplice verità.
Crudelia, nonostante le mie remore iniziali, si era meritata ampiamente l’ambrosia; non le avrei più negato nulla, né avrei potuto provare altro che gratitudine nei suoi confronti. Era stata una parte fondamentale in quella nostra missione e, anche se perseguendo i suoi loschi scopi, mi aveva aiutato come non mi sarei mai aspettata.
Adesso l’unico problema restava tornare a Storybrooke. Tuttavia se ci eravamo riusciti quando avevamo Ade contro, ci saremo riusciti anche allora. Non avevamo nessuno ad ostacolarci e trovare un passaggio per il mondo dei vivi non sembrava poi una cosa così difficile. Avevo appena annullato il mio desiderio, ribellandomi ad un corpo di bambina, e prima eravamo usciti da un fiume di anime perse. Potevamo affrontare di tutto!
«Sono contento che tu sia riuscita a riappropriarti del tuo corpo», mi disse Robin, dopo che ebbi finito di raccontare della nostra piccola avventura. «Però anche noi abbiamo delle novità interessanti».
«Dite sul serio?», proruppe Charlie sempre con quel suo tono esultante.
«Che genere di novità?», approfondì Killian.
«Beh abbiamo scoperto che c’è un modo per poter tornare a Storybrooke. Tuttavia abbiamo bisogno di qualcuno là che ci permetta di passare».
«Ma è meraviglioso!», esultò di nuovo Charlie, dando una pacca sulla spalla a Robin.
Io tuttavia rimasi con i piedi per terra. Avevamo già affrontato molte difficoltà facilmente, non speravo che la fortuna continuasse a girare in quel modo dalla nostra parte. «Spiegati meglio. Raccontaci tutto per filo e per segno».
«In realtà i libri non ci sono serviti a molto», iniziò Robin grattandosi la testa. «Una volta usciti dal locale della Strega Cieca abbiamo deciso di separarci. Joe è venuto qua alla biblioteca e ha iniziato a spulciare alcuni volumi. Io, Artù e Lizzy invece siamo andati nel vecchio covo di Ade e lì abbiamo fatto delle scoperte interessanti».
«Vedete», continuò Artù, «non c’ero più tornato da quella volta con te Hook». Puntò lo sguardo su Killian che annuì leggermente. «Non era un luogo in cui avrei voluto esercitare il mio potere. In questo mio nuovo regno non volevo essere associato al precedente tiranno».
«Questo non ha importanza», proruppe Killian. «Vieni al punto».
«Esiste la possibilità di aprire un portale», buttò fuori Artù tutto di un fiato.
«Un portale?». Non mi ero neanche accorta d aver parlato ad alta voce; tuttavia la sorpresa doveva aver preso il sopravvento. Non era facile creare un portale, era sicuro di ciò che stava dicendo?
«Lo so che sembra assurdo, ma è così», confermò Robin. «Abbiamo trovato un incantesimo, probabilmente è lo stesso che Ade ha utilizzato per aprire il portale che ci ha ricondotti a Storybrooke con lui».
«Aspettate», li fermai aggrottando la fronte. «Pensavo che il portale che abbiamo utilizzato quella volta fosse dovuto al bacio del Vero Amore; il cuore di Ade era tornato a battere, per questo si era aperto il passaggio».
«Beh forse era dovuto anche a quello», confermò Robin, «ma ti sorprenderebbe tanto sapere che Ade ci ha fregato ancora una volta? Forse non era in grado di aprire il portale prima, ma quello che abbiamo trovato è la prova che esiste un incantesimo che ci permetterà di aprire un passaggio momentaneo per Storybrooke».
«Allora cosa stiamo aspettando?», proruppe Killian.
«Il problema è che non possiamo farlo noi», concluse Artù.
«Cosa?». La mia esclamazione uscì più forte e con un tono più deluso di quanto avessi previsto.
«Scusate ma non avete appena detto che Ade l’ha usato?», convenne Charlie.
«Sì, ma immagino che non abbiamo i suoi stessi mezzi e il suo stesso potere», intervenne Crudelia inaspettatamente, dopo che era rimasta in silenzio anche troppo a lungo per i suoi standard. «Ho ragione, non è vero?».
«Esatto», confermò Artù.
Beh la questione non mi convinceva. «Io ho la magia, sono stata la Signora Oscura, sono uscita da un fiume di anime perse, perché credete che non possa farcela?».
«Oh non è perché non crediamo nelle tue potenzialità», intervenne Robin. «Solo che è necessaria una pozione per creare un portale e, non so cosa abbia usato Ade, ma qua sotto non è rimasto più neanche un ingrediente».
«Abbiamo cercato in lungo e in largo», confermò Artù.
«Abbiamo messo a soqquadro il covo di Ade», intervenne Lizzy, «ma là sotto c’era nascosto solo quel foglio con quello strano incantesimo».
«Aspettate come fate a sapere che aprirà un portale?», intervenni grattandomi la testa. Non volevo mettere in dubbio le loro capacità ma non erano dei grandi esperti di magia.
«Abbiamo consultato la Strega Cieca», mi informò Robin, «per chiederle di cosa si trattasse e poi per sapere dove potevamo trovare gli ingredienti necessari».
«E da quando ci fidiamo di lei?». Non era lei la strega che aveva cercato di cuocere dei bambini in un forno e che aveva anche tentato di farci restare intrappolati nell’Oltretomba per sempre? Certo si poteva dire quasi la stessa cosa di Crudelia.
«Ci possiamo fidare», confermò Artù, «non sarà di intralcio».
«Lei ha trovato il suo mondo qua sotto», confermò Crudelia, avvicinandosi ad Artù. «Pasticcino perché non mi fai vedere l’incantesimo?».
Artù estrasse un foglio dalla giacca e stava per consegnarglielo quando Robin lo fermò. «Aspetta!». Puntò lo sguardo su di me cercando forse di intuire la mia opinione. «Ci fidiamo anche di lei adesso?».
«Sì ci fidiamo», confermai. «Crudelia ci ha aiutati e come le avevo promesso anche lei avrà l’ambrosia e potrà tornare con noi a Storybrooke». Vidi Robin strabuzzare gli occhi ma non aggiungere altro.
Artù invece sbuffo e scosse la testa. «Non mi sorprende che sia stato questo il tuo prezzo».
«Oh mi dispiace tesoruccio», intervenne Crudelia strappandogli il foglio di mano. «Ma l’hai sempre saputo anche tu che quello che c’era tra noi era solo una questione fisica». Rimasi un attimo interdetta intuendo ciò che era stato solo accennato.
Mi voltai verso Killian assumendo un’espressione sbigottita. «Lei e Artù?», sussurrai.
Hook fece spallucce e torno a rivolgere la sua attenzione agli altri. «Allora, visto che fino a questo momento sei stata molto più utile di quanto potessi credere, pensi anche tu che qua sotto non possiamo trovare gli ingredienti per aprire questo dannato portale?».
Crudelia lesse attentamente la lista che doveva essere riportata sul foglio prima di tornare da me e consegnarmelo. «No, non credo. Però hanno ragione su un fatto: noi non possiamo aprirlo, tuttavia a Storybrooke sarebbero più che capaci di farlo».
Ascoltai la sua affermazione e poi mi concentrai sull’incantesimo riportato sul foglio in quella che era una calligrafia ordinata. Non so come avevano fatto a scovarlo nel covo di Ade, ma non importava; l’importante era ciò che quello comportava. Leggendo quelle parole ebbi la certezza che avessero ragione e mi ritrovai ad essere d’accordo con ciò che aveva appena affermato Crudelia. Forse noi non potevamo aprire un portale, ma sicuramente Regina era in grado di farlo. Poteva funzionare, sperando che quell’incantesimo fosse proprio destinato a collegare quei due mondi e non qualche altro magico reame.
«Regina potrebbe aprirlo», confermai. «Dobbiamo solo trovare il modo di comunicare con lei».
«Non sarà un problema», affermò Crudelia. «Sono stata io che ho tolto le cabine telefoniche che permettevano di comunicare con i vivi, so dove le ho nascoste».
«Credevo che le avessi distrutte!», esclamai lanciandole un’occhiataccia.
«Beh ho mentito». Fece spallucce ed estrasse una sigaretta, accomodandosi su una sedia e accavallando le gambe. «La cosa ti sorprende?».
No, in effetti non mi sorprendeva affatto.
«Quindi possiamo comunicare con loro e far sì che ci aprano il portale», tirò le somme Killian.
«Sì, è così», confermò Robin sorridendo.
«Credo che anche questo vi sarà di aiuto», intervenne Artù prendendo qualcosa da dietro ad un tavolo. L’avevo riconosciuto ancor prima che lo appoggiasse di fronte a sé. Era il libro di Henry, o meglio il corrispettivo che si trovava nell’Oltretomba.
«È con questo che sono riuscito a farti avere le pagine», sussurrò Killian osservandolo. Lo sapevo già anche se non me l’aveva mai detto.
«Possiamo far avere ad Henry l’incantesimo», balbettai, sentendo il cuore accelerare.
«Beh sì e potrete dir lui e a Regina cosa fare e quando aprirlo», intervenne Crudelia. «Vi farò una mappa per poter trovare i telefoni». Sentii il cuore battere ancora più forte al pensiero che avrei potuto comunicare con mio figlio, anche se in un certo modo solo a senso unico. Lui avrebbe saputo che stavamo tutti bene e che presto saremo, grazie al suo aiuto, tornati a casa: era quello l’importante.
«Cosa stiamo aspettando?», esultai non riuscendo più a star ferma.
«Infatti», convenne  Charlie alzandosi.
Crudelia per tutta risposta prese un pezzo di carta e, afferrando una penna, cominciò a disegnare quella che doveva essere la mappa destinata a noi. Era ovvio che non avesse voglia di accompagnarci; la sua tolleranza per la nostra compagnia doveva essere arrivata al limite e la cosa era reciproca.
«Beh direi che io e Killian possiamo andare ai telefoni per comunicare con Henry», annunciai. Non era necessario che venissero anche gli altri ed in più era una cosa in cui avrei gradito un po’ di privacy. Il solo pensiero di mio figlio mi faceva salire un groppo alla gola.
Robin sembrò capirlo e fu subito pronto ad accettare. «Noi nel frattempo andremo a recuperare l’ambrosia, adesso non ha più senso aspettare».
«Giusto», convenne Charlie. «Così quando si aprirà il portale potremo passare tutti quanti senza problemi».
«A proposito di questo», intervenne Milah che era rimasta in silenzio fino ad allora. «Ragazzi devo dirvi una cosa». La scrutai attentamente per poi osservare Killian con la coda dell’occhio. La sua espressione era cambiata di colpo e si era fatta seria. Avevo come l’impressione di sapere ciò che avrebbe detto Milah, ma aspettai di sentirlo dire da lei stessa.
Ed infatti le sue parole confermarono quello che già sapevo. «Io non prenderò l’ambrosia».
La reazione fu di sgomento generale. «Cosa?».
«Che diavolo stai dicendo?», proruppe Charlie, più forte degli altri.
«Io non prenderò l’ambrosia», ripeté di nuovo. «Non c’è niente a Storybrooke per me, voglio solo passare oltre, tornare da mio figlio e lui non è là».
Charlie aprì la bocca per ribattere ma non trovò le parole. Allora con mia grande sorprese si rivolse a Killian. Era forse la prima volta che si rivolgeva a lui così apertamente. «E tu non le dici nulla? Tu lo sapevi?».
«Sì lo sapevo», ammise Killian in tono cupo. «E credimi non c’è nulla che io o tu o qualsiasi altra persona possa fare per farle cambiare idea».
«Capisco la tua scelta», intervenne Joe sorprendendo i suoi amici. «Vorrei poterti far cambiare idea, ma so che non ci riuscirei».
Milah le sorrise e allungò una mano per stringere la sua. «Già, non puoi, ormai ho deciso».
«Non…». Lizzy tentò di parlare ma gli occhi le si riempirono di lacrime.
«Starò bene piccola». Milah l’abbracciò facendole appoggiare la testa sulla sua spalla. «Starò più che bene».
«Ti accompagneremo sulla rupe», annunciò Robin serio. «Non starai qui a vederci andar via; una volta che tu sarai passata oltre anche noi potremo tornare a Storybrooke più tranquilli».
«Ma…». Charlie fece per parlare di nuovo, ma io lo fermai.
«No, lasciala stare. È una sua decisione non tua».
«Lo so che ti è difficile capire», intervenne Milah. «Ma è ciò che voglio, è ciò di cui ho bisogno. So che nessuno di voi vorrebbe lasciarmi, ma non troverei la pace tornando in vita». Charlie non protestò oltre; anche se non era d’accordo, accettava comunque la sua decisione.
«Allora è deciso», intervenne Killian. «Io ed Emma andremo ai telefoni e nel frattempo voi potrete recuperare l’ambrosia. Dopo di che andremo sulla rupe per salutarti». Lo vidi rivolgerle uno dei suoi dolci sorrisi di cui di solito ero la destinataria. Tuttavia non sentii la solita fitta di gelosia; la sua decisione aveva cambiato tutto.
«Diremo ad Henry di aprire il portale domani sera a mezzanotte», affermai. «In questo modo avranno il tempo di prepararsi e noi potremo fare le cose con calma».
«Se avete finito con i convenevoli», si intromise Crudelia, «qua troverete le cabine telefoniche. Non sarà facile trovarle ma grazie alla mia mappa non dovreste avere problemi». Mi consegnò il foglio sul quale aveva scritto le sue indicazioni e nello stesso istante Killian prese il libro delle favole di Henry. Grazie a quei due semplici oggetti avevamo la possibilità di svolgere, insieme, quel piccolo compito che ci avrebbe consentito di tornare finalmente a casa.
 
Come aveva annunciato Crudelia, trovare i telefoni grazie alle sue indicazioni non fu difficile. Ovviamente senza di esse non saremmo mai riusciti a scovarli, ma visto che l’avevamo dalla nostra parte, quello che ci aspettò fu solo una semplice passeggiata.
All’inizio io e Killian non parlammo molto. Camminavamo mano nella mano, ma nessuno dei due aveva molta voglia di chiacchierare; io perché presto avrei contattato mio figlio e morivo dalla voglia di riabbracciarlo, Killian forse per via di Milah.
«Stai bene?», gli domandai scrutandolo attentamente.
«Sì». Era solo un monosillabo, ma ebbi come l’impressione che non fosse quello giusto.
«Sul serio?». Sapevo quando mi mentiva e non era solo dovuto al mio superpotere.
«Beh starò bene», tagliò corto. «Staremo tutti bene».
«Ne vuoi parlare?». Conoscevo già la risposta ma era mio dovere chiederglielo.
«No ti prego». E fu così che ci ritrovammo a camminare in silenzio, seguendo le indicazioni di Crudelia, fino a quando davanti a noi non comparve la cabina telefonica tanto attesa.
«Eccola qua», sospirò Hook fermandosi.
«Già. Secondo Crudelia funziona ancora». Non era messa bene, ma ormai mi fidavo della sua parola. Sarebbe rimasta un’alleata fedele almeno fino a quando non fossimo tornati tutti a Storybrooke.
«Vuoi entrare da sola?», mi domandò passandomi il pollice lungo il dorso della mano.
«No, facciamolo insieme». Quel momento con Henry era qualcosa che volevo condividere con lui. In fondo erano loro due gli uomini più importanti della mia vita.
«D’accordo». Aprì la porta della cabina e mi fece entrare, richiudendosela poi alle spalle.
Sospirai estraendo il foglio con l’incantesimo dalla tasca dei pantaloni. «Credi che riuscirà ad averlo?». Non faceva parte delle pagine del libro, forse poteva non funzionare. Senza di quello sicuramente non saremo tornati a casa: era una parte fondamentale.
«Funzionerà amore». Killian prese il libro delle favole e lo aprì in un punto imprecisato. Ci misi dentro il foglio con l’incantesimo e lasciai che lui lo richiudesse. «Devi solo crederci Swan. Abbi speranza».
«Sembri quasi mia madre», tentai di alleggerire la tensione. Tuttavia il nodo che avevo in gola era grosso come un pallone.
«Beh presto la riabbraccerai e anche Henry. So che funzionerà».
«Non vedo l’ora». Mi mancava la mia famiglia, non quanto mi era mancato Killian, ma era un sentimento altrettanto forte.
«Stiamo per tornare a casa tesoro, ci stiamo riuscendo. Noi ci riusciamo sempre». Killian mi strinse forte a sé, premendomi contro il suo petto.  
 «Vorrei non doverci riuscire tutte queste volte». In momenti come quello non ne potevo più di lottare; avrei desiderato solamente un po’ di tranquillità.
«Beh l’importante è che vinciamo sempre noi». Mi accarezzò la testa con l’uncino e mi dette un bacio sulla fronte. «Allora che aspetti Swan? Sono sicuro che anche tuo figlio non vede l’ora di riabbracciarti». Aveva ragione; non avevo più nulla da temere né più tempo da perdere. Rimaneva solo una cosa che ci impediva di tornare a casa; allora cosa stavo aspettando?
Con mano tremante afferrai la cornetta in modo da poter comunicare finalmente con mio figlio.
 
POV Henry
Mi rigirai nel letto cercando di scacciare la voce che tentava di riscuotermi dal mio torpore.
«Henry? Henry? Mi senti». Si certo che sentivo, non ero mica sordo! Cercai di mugolare qualcosa in protesta, ma ero ancora troppo assonnato per poter articolare anche un semplice suono.
«Ragazzino devi ascoltarmi». Era esattamente ciò che non volevo fare, anzi avrei continuato a dormire piuttosto volentieri. Avevo troppo sonno per riuscire a prestare attenzione.
Avere due mamme alcune volte era una vera scocciatura, soprattutto quando venivano a svegliarti senza un motivo plausibile. La scuola non si poteva di certo definire tale.
«Io e Hook stiamo bene non devi preoccuparti». “E chi si preoccupa?”, avrei voluto rispondere, ma non riuscivo ad articolare una parola figuriamoci una frase intera.
«Lui mi ha trovata, stiamo per tornare a casa». Erano frasi senza senso, soprattutto quando io non avevo nessuna voglia di ascoltarle; sembrava quasi volesse imitare la nonna con il loro “io ti troverò sempre” solo per farmi dispetto.
«Sappiamo come poter tornare a casa ma ci devi aiutare». Che assurdità! Eravamo a casa: io ero nel mio letto e lei stava disturbando il mio sonnellino. Mi rigirai, tirando le coperte sopra la mia testa e rifiutandomi di dare un senso alle frasi sconclusionate di mia madre.
«Abbiamo bisogno di te e di Regina, non possiamo tornare a Storybrooke altrimenti». La sua voce era come un ronzio nella mia testa, non avrei voluto prestarle attenzione, ma era impossibile; era come una zanzara fastidiosa che non riuscivo ad ignorare.
«So che ti sembrerà assurdo quello che sto dicendo. Ma dovete aprire un portale, troverai l’incantesimo Henry; sono sicura che lo troverai».
«Il libro ragazzino. È sempre quella la chiave». Hook: ora ci si metteva anche lui? Avrei dovuto ricordargli che ero grande abbastanza da decidere quando chiedergli o meno consiglio. Dovevamo fare proprio una bella chiacchierata una volta che fossi stato lucido e sveglio.
«Devi aprire il portale domani sera a mezzanotte Henry», continuò mia madre. «Devi dire a Regina di farlo domani a mezzanotte, così noi potremo tornare». Mugolai continuando a non capire di cosa diavolo stesse parlando; tuttavia non volevo aprire gli occhi. Continuavo ad essere troppo assonnato per cercare di dare un senso a quel loro farneticare, soprattutto quando c’erano di mezzo portali ed altre assurdità del genere.
«Contiamo su di te ragazzino», proseguì Hook. «Emma ormai non ci resta più molto tempo». Stava parlando ancora con me?
«Ti voglio tanto bene Henry», sussurrò la mamma, la voce commossa come non l’avevo mai sentita. «Mi manchi tanto».
Cercai di mettere in fila una parola dietro l’altra per riuscire a risponderle e a farle sapere ciò che anch’io provavo. «Ti voglio bene anch’io mamma».
 
Mi svegliai di soprassalto, facendo un balzo sul letto. Il cuore mi batteva all’impazzata mentre il mio cervello cercava di capire se quello che era appena accaduto fosse stato un sogno o la realtà. Ma forse era stato un po’ di tutte e due e non c’era modo di scoprirlo.
Ciò che era certo era che mi trovavo nella mia camera a casa di Regina, sul mio letto dove ero crollato stanco e arrabbiato dopo ore di inutili ricerche. Il fatto che Hook non mi avesse portato con se mi aveva mandato su tutte le furie e lo stesso era accaduto a mia madre quando aveva scoperto cosa avevo tentato di fare. Tuttavia ciò non mi aveva fermato da continuare a cercare di dare una mano. Non che fino a quel momento forse servito a molto.
Ma adesso quel sogno sembrava molto di più che un semplice frutto della mia immaginazione. Avevo come la sensazione che avrebbe potuto essere la chiave di tutto.
Cercai di ripercorre ciò che la voce di Emma mi aveva suggerito: lei e Hook stavano bene, ma avevano bisogno di me? Avevano parlato di un portale? Non riuscivo a ricordare con esattezza cosa avessero detto. Avevo solo tre parole continuavano a ronzarmi nella testa: un portale, domani a mezzanotte, il libro. Erano vocaboli sconclusionati che si affacciavano nella mia mente. Accidenti, perché non avevo prestato più attenzione?
«Un portale, domani a mezzanotte, il libro», ripetei grattandomi la testa e chiedendomi per l’ennesima volta se fossi diventato matto. Forse la stanchezza mi aveva dato alla testa e vedevo possibilità anche nei sogni più assurdi che non avevano nessun senso logico. Possibile che iniziassi ad immaginarmi connessioni anche in qualcosa che in realtà non potevo controllare?
Scossi la testa e ritornai ad esaminare una alla volta le tre parole ad alta voce. «Un portale: se l’avessi saputo aprire non sarei certo qui adesso. Domani a mezzanotte: che cosa diavolo potrebbe succedere domani a mezzanotte? Non sono un indovino, però sembra un appuntamento da apocalisse. Un libro: d’accordo, ma che libro?». Proprio mentre pronunciai quell’ultima domanda la risposta mi si affacciò alla mente. C’era solo un libro che risolveva tanti problemi quanti ne creava. Se quelle parole avevano un significato, sicuramente avrei trovato la risposta in quel vecchio volume che mi trascinavo dietro da anni.
Peccato che quel libro non l’avessi subito a portata di mano, in modo tale da togliermi immediatamente ogni dubbio. Purtroppo l’avevo lasciato dalla nonna, così che lei potesse nuovamente consultarlo alla ricerca di una risposta che sicuramente non conteneva. O forse mia nonna l’aveva voluto tenere solo per leggere le loro storie alla piccola Emma. La seconda ipotesi mi sembrava la più probabile.
Con un sospiro mi alzai dal letto e mi precipitai di sotto pronto ad andare al loft. Ero in punizione, ma per fortuna mia madre non c’era e quindi potevo uscire liberamente. Ero sicuro che avrebbe applicato un coprifuoco con i fiocchi quando saremo riusciti a risolvere quell’intricata faccenda, ma per il momento la cosa tornava a mio vantaggio.
Mi incamminai verso casa della nonna con passo spedito, cercando di farmi tornare in mente altri particolari interessanti di quel sogno. Tuttavia era piuttosto confuso e non riuscivo a ricordare niente di più.
Quando arrivai al loft mi sorpresi di trovare un gran caos. Oltre ai nonni c’erano anche la mamma e Zelena. Non si stupirono molto quando mi videro arrivare e varcare la porta come se nulla fosse.
La mamma mi lanciò un’occhiataccia, ma non disse niente e continuò ad ascoltare ciò che diceva la nonna mentre andava freneticamente su e giù per la stanza.
«Te l’ho detto Regina. Eravamo sul letto tutti e tre, stavamo parlando ed è successo in un istante».
«Un attimo prima c’era e quello dopo era sparita», intervenne il nonno.
«Beh una bambina non sparisce così», puntualizzò Zelena. Mi fermai ad ascoltare per tentare di capire ciò che stavano dicendo, ma poi mi ricordai del libro e del motivo per cui ero lì. Poteva essere successo di tutto ma se io avessi avuto ragione, se quello che avevo sentito non era un sogno, potevo avere la risposta a tutti i loro problemi.
«Beh questo lo so anch’io», continuò la nonna. «Ma magari ha usato la magia… potrebbe essersi materializzata chissà dove!».
«Non è così che funziona, ci vuole allenamento», rispose la mamma.
«Nonno dove è il libro delle favole?», intervenni approfittando di un attimo di silenzio.
«Non è il momento Henry», mi zittì. Beh era sicuramente il momento!
«Nemmeno la strega più dotata riesce a fare una cosa del genere a quell’età», confermò Zelena.
«Nonna il libro!». Anche il mio secondo tentativo non andò a buon fine.
«Henry non dovresti essere a casa?». Percepii gli occhi di mia madre puntati addosso anche senza guardarla; inoltre il tono della sua voce non poteva essere più esplicativo. Quando mia madre lo usava significava che era meglio lasciare stare e non intromettersi. Alzai gli occhi al cielo e mi allontanai prima di essere in qualche modo fermato, continuando così a cercare ciò di cui avevo bisogno. Mi diressi verso il piano cottura, guardando sulle sedie e sopra le mensole. C’era il bollitore e alcune tazze sul tavolo, ma del libro lì non c’era traccia.
Senza prestare attenzione agli altri e alla conversazione che si era fatta più concitata mi diressi verso la vecchia camera della mamma. Anche lì però non c’era traccia di quel maledetto volume: eppure non era neanche piccolo, si sarebbe dovuto vedere bene! Se solo la nonna mi avesse prestato un attimo di attenzione!
Stavo scendendo di nuovo le scale quando notai la vecchia copertina logora spuntare da sotto il cuscino, sul letto dei nonni. Scesi gli ultimi tre scalini con un solo balzo e corsi ad afferrarlo. Percepii la tensione allentarsi mentre lo prendevo e lo portavo sopra il bancone; tuttavia allo stesso tempo sentivo che quello poteva essere un momento cruciale. Era un momento di svolta: potevo avere ragione oppure potevo essermi sbagliato ed essermi lasciato trasportare dalla mia fin troppo vivida immaginazione.
Lo aprii con mani tremanti ed iniziai a sfogliarlo, una pagina dietro l’altra, ma non c’era niente di diverso; erano sempre le solite storie, le stesse illustrazioni che ormai conoscevo a memoria. Lo richiusi con un tonfo emettendo un sospiro di delusione e fu allora che lo notai.
Nell’angolo in basso a destra sporgeva un foglio. Sembrava una carta diversa da quella del libro e non c’era ragione perché quella pagina si trovasse lì. Io non ce l’avevo messa ed ero certo che non l’avesse fatto nemmeno la nonna. La estrassi non stando più nella pelle e quello che mi ritrovai davanti fu un foglio di carta scritto con una calligrafia che non riconoscevo.
Lessi le parole riportate là sopra e pensai che si trattasse di un elenco di ingredienti senza senso, quando all’improvviso ricollegai il tutto, o forse semplicemente ricordai. Doveva trattarsi di un incantesimo, quello per creare un portale. Questo significava che non mi ero immaginato tutto: la mamma era riuscita davvero a comunicare con me per poter consegnarmi quel foglio e in modo tale che potessimo creare un portale che li avrebbe ricondotti a casa. Lei e Hook stavano bene, erano insieme, ce l’avevano fatta ancora una volta, e presto grazie al nostro aiuto sarebbero tornati a Storybrooke.
La mamma mi aveva dato tutto ciò che mi occorreva sapere: l’incantesimo per creare il portale era là di fronte ai miei occhi e, in più, mi aveva anche detto quando aprirlo. Tutta la rabbia che provavo nei confronti di Hook svanì in un istante; sia lui che Emma si erano fidati abbastanza di me da mettere nelle mie mani la loro salvezza. Non avevano comunicato con nessun altro, ma si erano basati sulle mie capacità; sapevano che io avrei capito tutto. Era una prova di fiducia maggiore di quella che mi sarei mai aspettato. Non mi restava altro che comunicare le mie scoperte agli altri. Qualsiasi cosa fosse successa da sconvolgerli tanto, non avrebbe più avuto importanza una volta ascoltato le mie novità.
Per questo tornai a prestare attenzione alla conversazione che si stava svolgendo intorno a me.
«Se le è successo qualcosa Regina?», stava dicendo la nonna, portandosi una mano tra i capelli. «Se è per questo che è sparita?».
«Non lo so». Per una volta anche la mamma non sapeva come risponderle.
«Come facciamo a capire cosa è successo?», continuò l’altra.
«Ci deve pur essere qualcosa che possiamo fare?», intervenne il nonno.
«Dovremo chiedere a Gold, anche se la cosa non mi piace». Il tono di mia madre faceva intuire quanto poco l’allettasse l’idea.
«Regina, Emma è sparita! È letteralmente scomparsa, non ho paura di chiedere al Signore Oscuro. Farei di tutto pur di sapere se mia figlia sta bene».
«La mamma sta bene», intervenni in un tono abbastanza forte da farmi sentire. Tuttavia non fu sufficiente per attirare la loro attenzione.
«Sì lo so Bianca.», rispose la mamma come se non mi avesse sentito. «Gold forse ci darà delle riposte».
«Gold non è necessario», tentai di nuovo in un tono più alto. Ancora una volta non fui considerato.
«Immagino che sia l’unica cosa da fare», continuò il nonno. «Dobbiamo sapere se le è successo qualcosa, sia alla bambina che alla vera Emma».
«Beh se almeno avessimo contatto con il pirata…», commentò Zelena. Se solo mi avessero dato ascolto! In occasioni come quelle odiavo il fatto che mi considerassero ancora un ragazzino.
La frustrazione fu tale da farmi infuriare e per tutta risposta mi ritrovai a strillare. «Fate silenzio!».
Il mio urlo improvviso li fece zittire, facendoli voltare tutti quanti verso di me. «La mamma sta bene. È quello che sto cercando di dirvi da quando sono arrivato».
Fu come se mi ascoltassero per la prima volta. Mi rivolsero uno sguardo confuso, non sapendo come interpretare le mie parole, e non seppero come rispondere.
Fu la nonna la prima a riprendersi. «Cosa? Come fai a saperlo?». Si avvicinò a me con gli occhi colmi di speranza, dandomi così la possibilità di spiegarmi.
«Prima ho fatto una specie di sogno, solo che non è stato propriamente un sogno. Emma ed Hook hanno trovato un modo per comunicare con me».
Vidi la sorpresa dipingersi sul volto di tutti, ma nessuno si azzardò ad intervenire e per questo continuai. «Ho sentito le loro voci; la mamma mi ha detto che loro due stanno bene e mi ha chiesto di aiutarla».
«Aiutarla? In che senso?», mi domandò il nonno grattandosi la testa e assumendo un tono preoccupato.
«Sì. Ha detto che dobbiamo aprire un portale per permettere loro di tornare indietro».
«Un portale?», intervenne Zelena. «Non è una cosa facile se non hai intenzione di utilizzarlo».
«Lo so e perciò mi hanno dato questo». Mi alzai e consegnai a mia madre il foglio che avevo appena trovato.
«Era nel libro. Sono stati loro a mandarmelo». Regina lo prese e lo studiò attentamente. «Ha detto che dobbiamo aprirlo domani a mezzanotte».
Restammo tutti i silenzio mentre lei continuava a leggere, finché non fu lei stessa a parlare. «Henry ha ragione. È un incantesimo per creare un portale e nella mia cripta dovrebbe esserci tutto il necessario. Davvero l’hai trovato nel tuo libro?».
«Sì, prima non c’era ne sono certo. È stata lei a mandarmelo, un po’ come quando lei stessa trovò le pagine per sconfiggere Ade. Hook riuscì a fargliele avere e sono sicuro che adesso hanno usato lo stesso metodo».
«E l’hai vista?», intervenne la nonna, l’emozione e la speranza fin troppo chiare nella sua voce.
«No, ma l’ho sentita. Nonna sta bene, sta tornando da noi ed Hook è con lei».
«Per questo la baby Emma è scomparsa», continuò mia madre. «Probabilmente Emma sta agendo dall’Oltretomba ed è riuscita a riappropriarsi del suo corpo; questo spiega tutto».
«Dio! Sembra quasi impossibile». La nonna prese posto su una sedia portandosi una mano alla bocca. «Non pensavo che sarebbero riusciti a comunicare con noi».
«Si tratta di Emma», replicò il nonno. «Sapevo che avrebbe trovato un modo, lei lo trova sempre». In effetti conoscendo la mamma era ovvio che si sarebbe salvata da sola e sarebbe tornata da noi. Era la Salvatrice e non si sarebbe mai arresa, nemmeno di fronte alla più grande difficoltà; era l’eroina della mia storia. In più Hook era partito per raggiungerla e sapevo che era abbastanza testardo da poterci riuscire.
«Presto torneranno da noi», affermai. «Domani sera a mezzanotte».
«È tipico di Emma», sorrise Regina. «È sempre stata capace di badare a sé stessa. Col senno di poi mi sembra logico, se non ovvio, collegare la scomparsa della bambina a qualcosa che ha fatto lei. Non sarebbe stato da  Emma rimanere con le mani in mano».
«Sì però adesso tocca a noi: dobbiamo aiutarli a tornare. Ci riuscirai, non è vero mamma?». Era tutto nelle nostre mani, o meglio in quelle di Regina e nelle sue capacità magiche.
«Sì certo». Mi passò una mano tra i capelli per tranquillizzarmi. «Per questo sarà bene che mi metta subito al lavoro».
«Grazie Henry», intervenne la nonna stringendomi la mano. «Non so cosa faremmo senza di te».
Le sorrisi e le dissi ciò di cui lei aveva bisogno, ciò di cui entrambi avevamo bisogno. «Domani sera la riabbracceremo».
Proprio mentre pronunciavo quella frase, mi tornarono alla mente l’ultime parole che la mamma mi aveva rivolto in quella specie di sogno. Ti voglio tanto bene Henry. Il tono che aveva usato era così poco da Emma, ma così tanto da mamma invece. Era una parte di lei che nessuno di noi era abituato a vedere, eppure c’era anche se ben nascosta. Non era più la donna che avevo portato da Boston, quella che mi aveva abbandonato per darmi un futuro migliore. Non l’avevo mai considerata tale perché sapevo che ciò che aveva fatto l’aveva fatto per me; eppure era cambiata ed era diventata esattamente colei che non pensava di potere essere: una mamma, la mia mamma.
Dal tono che aveva usato nel sogno, sembrava che le avventure che aveva vissuto là sotto avessero fatto uscire quel suo lato vulnerabile che solo io ed Hook riuscivamo a comprendere e a rassicurare. Ero felice che almeno lui fosse con lei, in modo tale da stare al suo fianco durante quelle pericolose avventure. Beh di certo avrei voluto esserci anch’io, ma se mi avesse portato con sé non avrei avuto modo in quel momento di aiutarli per farli tornare a casa.
Mi manchi tanto, aveva detto. Mancava tanto anche a me ed era stato proprio il non poter far nulla per aiutarla ad uccidermi. Ma adesso lei mi aveva tolto da quella terribile situazione; si era fidata di me e mi stava dando, ci stava dando, la possibilità di salvarla e di poterla riabbracciare al più presto. Adesso era tutto nelle nostre mani e non avremo fallito; solo poche ore e quell’incubo sarebbe finalmente finito.


 
Angolo dell’autrice:
Buonasera! Ce l’ho fatta anche stavolta per un soffio!
Beh devo dire che questo capitolo è un po’ di passaggio ed è per questo che è stato difficile scriverlo, visto che non vedo l’ora di poter buttare giù il prossimo.
Comunque sia, stiamo arrivando alla fine di questa storia; penso che ci saranno altri quattro capitolo circa. So già che, una volta finito, mi mancherà poter scrivere questa storia settimana dopo settimana e poter leggere i vostri commenti.
Per ora comunque grazie come sempre a tutti quanti!
Un bacione e a domenica prossima!
Sara
 

Ritorna all'indice


Capitolo 20
*** 20. È il momento ***


20. È il momento
 
POV Killian
Emma non aveva più avuto il coraggio di parlare da quando avevamo riagganciato il telefono, per poi tornare lentamente dagli altri. A dir la verità, neanche io ero dell’umore adatto per aprire una conversazione; sapevo che ad ogni passo si avvicinava il momento in cui avrei dovuto dire addio a Milah. Avevo capito le sue motivazioni, l’avevo accettate, ma ciò non lo rendeva più facile. Nonostante l’avessi ritrovata solo da poche ore, dirle addio non era una cosa scontata; anche perché stavolta sarebbe stato diverso, stavolta sarebbe stato per sempre. L’avrei lasciata finalmente andare come avrei dovuto fare molti secoli prima.
Non sapevo cosa Emma pensasse di me e di Milah, ma qualunque fosse la sua idea, l’aveva tenuta per sé e mi aveva ascoltato quando le avevo detto di non insistere; sapeva che gliene avrei parlato quando fossi stato pronto e in quel momento non lo ero.
Quando rientrammo nella biblioteca, dopo aver svolto quella nostra piccola missione, trovammo gli altri tutti là ad aspettarci. La borsa con l’ambrosia era appoggiata su un tavolo e i frutti magici in essa contenuti emanavano uno strano bagliore che riusciva ad illuminare tutta la stanza.
«Allora?», ci chiese Robin, vedendoci rientrare mano nella mano.
«È fatta», dissi semplicemente, sapendo che sarebbe bastato. Ero certo che Henry avrebbe presto ricevuto il messaggio e che ci avrebbe aiutato. Quel ragazzino era sempre stato più furbo ed intelligente di quanto tutti volessero ammettere; io ed Emma avevamo piena fiducia nelle sue capacità ed era per questo che avevamo deciso di affidare letteralmente la nostra salvezza nelle sue giovani mani.
A quel mio breve messaggio vidi le spalle di tutti rilassarsi, forse finalmente assimilando quella tanto desiderata verità. Ce l’avevamo quasi fatta, nonostante tutto e tutti, e solo poche ore ci separavano dal nostro ritorno a casa. Ero certo che dopo tutto quello che avevano vissuto in quel dannato fiume la prospettiva di poter andare a Storybrooke fosse uno splendido ed irrealizzabile miraggio.
«Non abbiamo ancora preso l’ambrosia», ci informò Robin, ridestandomi dai miei pensieri. «Volevamo aspettarvi».
«Pensavamo di prenderla e poi di accompagnare Milah alla…». La voce di Charlie si spense prima di finire la frase. Il fatto che tenesse a Milah e che non volesse dirle addio me lo rendeva leggermente più simpatico, ma solo leggermente. Ancora ne aveva di strada da fare per entrare nelle mie grazie, soprattutto se continuava a lanciare quel genere di sguardi alla mia donna.
«Cosa accadrà quando la mangeremo?», chiese la ragazzina, che si trovava seduta vicino a Milah, mano nella mano.
«Non lo so», rispose Emma. «Credo che farà in modo che il vostro cuore ricominci a battere».
«Beh allora penso che dovremo farlo», acconsentì Robin. «Tu sei d’accordo?». Si voltò verso Milah lasciando che fosse lei a decidere, dato che erano gli ultimi momenti che avrebbe passato con noi.
«Penso che vedervi tornare in vita sia una delle cose a cui voglio assolutamente assistere prima di andarmene». Il suo tono era allegro ma io ormai la conoscevo bene; sapevo che era spaventata. Aveva paura di ciò che sarebbe accaduto dopo, di non riuscire a ritrovare suo figlio, di abbandonare tutti quegli amici che aveva incontrato durante la sua permanenza là sotto.
Fu per questo che lasciai andare le dita di Emma e mi andai a sedere accanto a lei, mettendole un braccio intorno alla vita. Sapevo che la mia Swan avrebbe capito, ed infatti il mio adorato cigno non protestò, ma lasciò semplicemente che passassi gli ultimi istanti che mi restavano insieme al mio primo amore.
«Forza, cosa state aspettando?», domandò distogliendo lo sguardo da me e Milah e concentrandosi invece sugli altri.
«Facciamolo tutti insieme», suggerì Charlie. Gli altri annuirono e si avvicinarono al tavolo dove era appoggiata l’ambrosia. Joe, il bamboccio, Lizzy e Robin presero un frutto a testa. Fu Emma invece a prenderne un altro e a consegnarlo direttamente a Crudelia, che era seduta in disparte a fumare la sua sigaretta.
«Grazie, te lo sei meritato», le disse allungandoglielo. Dalla mia posizione non riuscivo a vedere i loro sguardi, ma ero certo che con quel gesto stessero in qualche modo risolvendo tutte le questioni che erano rimaste in sospeso tra di loro.
«Artù?», mormorai, notando la sua presenza al lato della stanza. «Puoi prenderla se vuoi. Lo sai, non è vero?». Anche lui aveva contribuito ad aiutarci almeno quanto Crudelia ed era giusto fargli la medesima offerta. Tuttavia già una volta aveva rifiutato di passare oltre ed immaginavo che l’avrebbe fatto di nuovo.
«No, ti ringrazio», rispose come volevasi dimostrare. «Mi trovo bene qua sotto, anch’io ho trovato il mio posto». Annuii e non aggiunsi altro, capendo che lui era ben felice di restare là per poter in qualche modo governare sull’Oltretomba.
«Allora siete pronti?», mormorò Emma. «Al mio tre, d’accordo?». La vidi prendere un profondo respiro prima di iniziare a contare ad alta voce. «Uno, due e tre». Tutti e cinque dettero un morso al proprio frutto, mentre noi altri li osservavamo con trepidazione.
All’inizio nessuno di loro disse niente e non accadde neanche nulla di così trascendentale.
Il bamboccio fu il primo a commentare la scena, continuando a mangiare il suo frutto. «Mi aspettavo un sapore molto più forte considerando il suo aspetto».
«Non è così male», commentò la ragazzina. Beh di certo il sapore non era ciò che importava: dovevamo capire se l’effetto era quello desiderato o meno. Tuttavia loro continuarono a mangiare l’ambrosia senza aggiungere altri commenti, mentre noi continuammo a guardarli con occhi sbarrati, aspettandoci qualcosa di miracoloso da un momento all’altro.
Fu poi Robin il primo a sorprenderci. «Oh mio Dio!». Lo stupore e l’incredulità si dipinsero sul suo volto, mentre lentamente si portava una mano al petto. «Il mio cuore sta battendo». Bastarono quelle cinque parole per fare allentare la tensione che si era creata fino a quel momento e a farci sospirare di sollievo.
«Anche il mio», esultò Lizzy.
«Ha funzionato», sentii Crudelia mormorare.
«Ce l’abbiamo fatta». Charlie sollevò l’amica stringendola tra le braccia e cominciando a roteare per la stanza.
«È una cosa incredibile», mormorò Joe.
«È la cosa più bella che potessi vedere», sussurrò Milah al mio orecchio. «Grazie».
«Presto sarà il tuo turno per essere felice, tesoro», mormorai, passandole l’uncino lungo la schiena. «Tra poco andrai incontro ad un’accecante luce bianca e ritroverai tuo figlio».
«Spero che tu abbia ragione», sospirò appoggiando la testa sulla mia spalla.
«Certo che ho ragione».
«E noi saremo tutti al tuo fianco per dirti addio». Non mi ero accorto del fatto che Emma si fosse avvicinata e avesse ascoltato il nostro ultimo scambio di battute. Notai che ci stava osservando con la coda dell’occhio e che faceva di tutto per restare indifferente, nonostante io fossi praticamente abbracciato a Milah. L’amavo anche per questo, perché mi stava concedendo di stare accanto a una delle persone più importanti della mia vita senza fare terribili scenate di gelosia. Probabilmente a parti invertite io non sarei riuscito a restare altrettanto calmo.
Per tutta risposta, afferrai la mano che le ricadeva stancamente lungo il fianco e la strinsi con la mia. «Grazie», mimai con le labbra una volta che ebbi attirato la sua attenzione.
Mi sorrise facendomi capire che le andava bene, che sapeva quanto contava quel momento anche per me. Non avrei avuto altro tempo con Milah e lei mi stava concedendo di sfruttare ogni secondo che ci restava.
«Credo che sia il momento di andare». La voce di Robin riportò la mia attenzione sugli altri. L’euforia generale, che si era creata poco prima, era sparita per lasciare il posto ad un aria solenne. Tutti ci stavano fissando e tutti sapevano quale sarebbe stata la prossima mossa. Avevano messo da parte l’emozione e la felicità che provavano e si stavano invece concentrando su colei che non avrebbe proseguito quel viaggio insieme a loro.
«È ora di andare?», domandò Milah alzandosi. Anch’io feci lo stesso, continuando a tenere un braccio intorno alla sua vita per non lasciarla andare.
Robin annuì senza aggiungere altro e anche gli altri sembrarono essersi di colpo ammutoliti.
«Siamo tutti qui per te Milah», le sussurrai all’orecchio. «È il momento che hai aspettato per secoli. Sei pronta a passare oltre?».
«Sì». La sua risposta fu solo un sussurro, ma non c’era nessuna indecisione nella sua voce.
«Allora non perdiamo più altro tempo». Le lasciai un bacio sulla tempia e la guidai fuori dalla biblioteca, verso la rupe dove si sarebbe compiuto il suo destino.
 
L’ultima volta che ero stato in quel posto avevo scoperto la verità su mio fratello e gli avevo detto addio, capendo che in fondo lui non era un cavaliere senza macchia ma, come me, aveva commesso degli errori. Tornare là per dire addio a Milah mi fece provare un tumulto di emozioni. Quello sembrava il posto dove ero destinato a salutare le persone più importanti della mia vita ed ero certo che per questo avrebbe assunto un significato particolare nel mio cuore.
Quando ci fermammo di fronte a quel baratro fatale sentii Milah trattenere il fiato, realizzando che presto il proprio destino si sarebbe compiuto e che finalmente avrebbe trovato la pace che le spettava da molti secoli.
Quando ci arrestammo là davanti nessuno disse niente, semplicemente smettemmo di camminare e aspettammo che fosse Milah a decidere quando andare. Lasciammo che fosse lei a dettare le regole in modo tale da non metterle fretta e da affrontare quella separazione solo quando si fosse sentita pronta.
Artù e Crudelia non erano venuti con noi, forse concedendosi anche loro un ultimo addio e sicuramente donando a noi la privacy che ci serviva. Eravamo come sette anime ferme in attesa, pronte a lasciare andare una parte integrante di quell’eclettico gruppo. Non sapevo che tipo di legame avesse istaurato Milah con quelle persone, ma capivo quanto le difficoltà e le avventure li avessero uniti. Erano una sorta di famiglia, ed è sempre difficile dire addio alla propria famiglia.
Milah iniziò a stringere il mio uncino via via sempre più forte, facendo respiri profondi e studiando attentamente il baratro di fronte a noi. Stava prendendo coraggio e ne ebbi la conferma quando sentii le sue parole mormorate con una flebile voce. «Credo che sia il momento di salutarci».
«D’accordo». Lasciai che si staccasse da me e si girasse per guardare in faccia i suoi amici. Avrei voluto concederle un po’ di privacy mentre salutava ognuno di loro ma non riuscivo a staccarle gli occhi di dosso, con il solo pensiero in testa che presto non l’avrei rivista mai più.
«Ciao Robin», iniziò. Lo abbracciò stringendolo forte, con gli occhi che si facevano ogni secondo più lucidi. «Vorrei ringraziarti per tutto, anche se forse un semplice grazie non basta; sei stato un compagno eccezionale».
«Grazie a te. Non saremmo riusciti a salvarci se tu non ci avessi spronato; senza la tua perseveranza non saremmo qua. È stato un vero onore averti incontrata». Milah annuì impercettibilmente, passandosi una mano sulla guancia per asciugarsi una lacrima che le era sfuggita. La conoscevo abbastanza da saper che non avrebbe voluto piangere, ma che purtroppo non ci sarebbe riuscita.
«Non mi dimenticherò mai di te», aggiunse Robin prima di congedarsi definitivamente da lei.
«Nemmeno io». Gli rivolse un sorriso nonostante le prime lacrime iniziassero a rigarle le guance e gli strinse forte la mano.
«Ciao Milah». Fu il turno di Joe ad abbracciarla. «Spero che tu possa ritrovare tuo figlio e raggiungere finalmente la pace».
«Grazie Joe. Tu invece sii forte e prenditi cura di Lizzy e di Charlie; cerca di tenere a freno l’esuberanza di lei e l’irascibilità dell’altro. Contano su di te lo sai?». Joe annuì e anche lui si asciugò gli occhi con la mano.
Dopo fu il turno di Lizzy. Quella giovane ragazza aveva il viso rigato dalle lacrime ancor prima che lei le si avvicinasse; era evidente che durante la sua breve vita non era stata abituata a dire addio. Era così disperata, che fu Milah a consolare lei invece del contrario.
«Ehi piccola», mormorò prendendola tra le braccia e facendole affondare la testa sulla sua spalla. «Non è una cosa triste, lo sai vero? Sto andando in un posto migliore e starò bene, sarò felice. Per questo anche tu devi esserlo per me. Tu presto sarai a Storybrooke e voglio che tu sia felice almeno quanto lo sarò io».
«Mi mancherai tantissimo», balbettò tra i singhiozzi.
«Anche tu, ma staremo bene tutte e due». La cullò tra le braccia ancora per qualche momento e poi dopo averle dato un bacio sulla testa la lasciò andare.
Anche Charlie le si avvicinò continuando però ad osservare la punta delle sue stesse scarpe. Si capiva che anche lui non sapeva come dirle addio, ma stavolta non era per inesperienza. Era perché lui teneva a lei molto di più di quanto avessi immaginato.
«Charlie». Milah gli prese il volto tra le mani, in modo tale che lui la guardasse dritto negli occhi. «Tu sei un uomo capace di amare con tutto te stesso, non ce ne sono molti credimi». Si voltò a guardarmi solo per un istante, rivolgendomi un triste sorriso. «Non lasciare che qualcuno ti impedisca di essere felice, nemmeno se si tratta di te stesso». L’abbracciò forte appoggiando la testa sulla sua spalla, le labbra vicino al suo orecchio. Fui certo che gli stesse sussurrando qualcosa che evidentemente voleva mantenere segreta; e ciò fu ancora più evidente quando vidi Charlie strabuzzare gli occhi.
«Lo farai?», gli domandò riportando il suo sguardo in quello di lui. «Lo farai per me?».
Le labbra di Charlie tremarono pronunciando quella semplice sillaba. «Sì».
«Grazie». Milah gli sorrise e gli dette un bacio sulla guancia, per poi staccarsi da lui.
«Milah?», la richiamò prima che potesse girarsi dalla parte dove la stavamo aspettando io ed Emma. «Sei stata la migliore amica che potessi avere, lo sai questo?».
Milah sorrise tra le lacrime e annuì, confermargli che anche per lei era stata la stessa cosa. Quando tornò a voltarsi verso di noi, sapevo che il momento dell’addio si stava inesorabilmente avvicinando e per quanto cercassi di sembrare calmo non lo ero affatto. Come avrei fatto a dire addio ad una parte di me stesso? Non ci ero riuscito fino ad allora e mi sembrava ancora più impossibile adesso.
«Emma…». Milah lasciò a me l’onore di essere l’ultimo a salutarla.
«Milah». La mia Swan mosse un passo in avanti, rivolgendole un triste sorriso. «Sono contenta di aver potuto conoscere la donna che è stata parte integrante dell’uomo che amo».
«Ed io sono contenta di aver conosciuto te». Alzò lo sguardo verso di me, accennando un sorriso. «Non potevo lasciarlo andare per qualcuno di meno valore».
«Grazie». Emma l’abbracciò in un gesto del tutto spontaneo.
«No grazie a te. Grazie di avermi parlato di mio figlio e grazie perché so che ti prenderai cura di Killian. Se solo ti azzardi a farlo soffrire…».
«Non è mia intenzione». Emma si passò una mano sugli occhi asciugando una lacrima che doveva esserle sfuggita.
«Bene perché io lo saprò». Le sorrise e poi si voltò verso di me, sapendo di non poter più perdere tempo. Era il momento e nessuno di noi due si sentiva pronto; tuttavia era necessario.
Vedere le due donne più importanti della mia vita salutarsi commosse ed emozionate, mi aveva in qualche modo pietrificato. Volevo mostrarmi forte, ma dentro di me sentivo una fitta lancinante. Una parte di me mi stava lasciando ed era ovvio che avrebbe causato cicatrici indelebili.
«Eccoci qua». Milah mosse un passo annullando così la distanza che c’era tra noi.
«Già eccoci qua». Le passai una mano intorno ad un fianco e le rivolsi un sorriso tirato.
«Non so come fare a dirti addio Killian», mormorò fissandomi intensamente.
«Allora non lo dire». Appoggiai la fronte sulla sua e chiusi gli occhi lasciando che fosse il nostro silenzio a parlare per noi. Sentii le spalle di Milah rilassarsi e i nostri respiri coordinarsi, mentre i nostri corpi comunicavano tacitamente tutto ciò che ci serviva. Non c’era bisogno di dirci che ci saremmo mancati, lo sapevamo; non avevamo bisogno di ringraziarci, il fatto che fossimo stati una parte integrante uno della vita dell’altra era una certezza. Era la fine della nostra storia, anche se si trattava di un inizio per entrambi.
Posai la mano sulla sua guancia e le asciugai le lacrime con il pollice. Anche se piangeva, sapevo che aveva fatto la scelta giusta; erano lacrime dolci e amare allo stesso tempo. Non potevamo avere tutto, ma entrambi avremo avuto ciò che volevamo. Ed era quello ciò che contava.
Non so quanto tempo restammo con gli occhi chiusi e le fronti appoggiate, ma quando si staccò capii che era pronta. Finalmente era pronta ad andare, pronta a lasciarsi alle spalle quel maledetto mondo e a trovare la strada per andare oltre.
«Ciao», sussurrò passandomi la mano lungo il braccio ed intrecciando per un’ultima volta le dita alle mie.
«Ciao», ripetei mentre i suoi polpastrelli si allontanavano per sempre dai miei.
Milah fece un respiro profondo e senza più indugiare risalì la rupe che l’avrebbe portata in un posto migliore. Noi restammo semplicemente a guardare la sua ascesa, aspettando di vederla compiere il suo destino.
Quando arrivando in cima vidi aprirsi di fronte a lei una strada piena di luce sentii il cuore lacerarsi in due. Sentii il sollievo e la felicità per il fatto che lei avesse finalmente trovato il suo posto; avrebbe rivisto suo figlio, avrebbe avuto quello che aveva sempre voluto. Tuttavia la consapevolezza che non l’avrei più rivista si fece largo dentro di me, colpendomi in pieno petto. Fino a quel momento il nostro addio era stato solo qualcosa di ipotizzato a parole, ma adesso era reale e non potevamo più tornare indietro.
Sentii Emma avvicinarsi a me e stringermi la mano con le sue, facendomi capire che lei sarebbe stata sempre al mio fianco. Lasciò un bacio sulla mia guancia catturando una lacrima che, nonostante tutto, mi era sfuggita.
«È felice Killian, adesso lo sarà davvero», mormorò vicino al mio orecchio.
«Lo so». Tuttavia questo non cambiava le cose o come mi sentivo.
«Credo che sia ora di andare», affermò Robin, dopo che Milah fu sparita, avvolta da quella luce accecante. «Presto anche noi saremo a casa».
Già. Milah adesso era a casa, ed era il posto dove si trovava Bealfire, nessun altro posto poteva per lei definirsi tale.
«Già torniamo a casa». Emma acconsentì alla richiesta di Robin e mi guidò di nuovo giù da quella rupe, per poter trascorrere le nostre ultime ore nell’Oltrebrooke.
«Emma». La voce di Charlie ci fermò dopo pochi metri. Ci voltammo e lo trovammo fermo nello stesso punto dove l’avevamo lasciato.
«Charlie che c’è?», gli domandò perplessa.
Lui per tutta risposta alzò lo sguardo su di lei, fissandola dritta negli occhi con un’espressione completamente devastata. «Devo farlo». Sentii Emma trarre un profondo respiro capendo ciò che Charlie stava dicendo, mentre per me le sue parole non avevano senso.
«Ma Emma non ce la posso fare da solo», continuò, «ho bisogno del tuo aiuto».
 
POV Emma
Erano bastate due parole, oltre alla sua espressione significativa, per farmi capire ciò che Charlie aveva appena deciso di fare. Non sapevo cosa l’avesse spinto a quella conclusione, soprattutto dopo il suo iniziale netto rifiuto, ma adesso stava finalmente facendo la scelta giusta. Era una decisione che avrebbe cambiato radicalmente tutta la sua vita, che avrebbe sconvolto il rapporto con Lizzy, ma era ciò che un eroe avrebbe fatto. E Charlie era un eroe, l’avevo sempre saputo.
Il fatto che avesse ammesso di aver bisogno di aiuto lo rendeva ancora più tale. Il mio amico aveva bisogno di me e purtroppo adesso ero io a trovarmi in una posizione difficile. Da una parte l’uomo al mio fianco, il mio uomo, l’amore della mia vita, aveva appena perso la donna che era stata il suo primo amore; dall’altra quello che era diventato nell’ultimo periodo, e dopo le ultime avventure, il mio migliore amico aveva bisogno di me per affrontare la battaglia più grande che avesse mai dovuto combattere: dire la verità e cominciare così a perdonare sé stesso.
E per una volta, nonostante l’amore immenso che provavo per Killian, scelsi il mio amico e decisi che Hook poteva aspettare. Avremo avuto tutta la vita per stare insieme e supportarci a vicenda; in quel momento c’era qualcun altro a cui dovevo stare vicino. A Charlie serviva un’amica, qualcuno che restasse al suo fianco nonostante tutto, e visto che aveva appena salutato Milah, ero io quella che doveva assumersi quel ruolo.
«Killian», sussurrai voltandomi verso di lui. Dovevano essere passati pochi secondi dalla dichiarazione di Charlie, ma a me sembravano trascorsi interi minuti.
Incatenai il mio sguardo al suo, tuffandomi in quell’oceano profondo e trassi un lungo respiro prima di continuare. «Non posso neanche immaginare come tu possa sentirti adesso e so che hai bisogno di me, anche se non lo ammetterai mai. Però Charlie…». Non conclusi la frase e lasciai che fosse il mio sguardo a parlare.
«Devi aiutarlo?», mi domandò. Il suo tono non era né arrabbiato né risentito.
«Sì, quello che sta per fare… non posso lasciarlo solo. Non posso dirti niente di più perché è un suo segreto, ma devo stare con lui adesso».
«Va bene Swan, vai dal tuo amico». Come facevo a non amarlo ogni secondo di più? Mi aveva appena concesso di andare nonostante avesse il cuore a pezzi, nonostante che Charlie non gli stesse nemmeno minimamente simpatico.
«Ti amo, lo sai vero?».
«Sì e ti amo anch’io». Si chinò per baciarmi ed io lasciai che assaporasse completamente le mie labbra prima di staccarmi e allontanarmi di un passo. Killian mi sorrise, anche se con un accenno di tristezza, poi si voltò e cominciò a ridiscendere la rupe da solo.
«Grazie di essere rimasta». Charlie mi raggiunse fermandosi al mio fianco.
«Che cosa ti ha fatto cambiare idea così all’improvviso?». Ero sicura che fosse successo qualcosa che aveva fatto scattare quella molla nel suo cervello che lo teneva ancorato al suo segreto.
«Milah», rispose semplicemente. «Mi ha pregato di non lasciare l’Oltretomba senza aver risolto le mie questioni in sospeso».
«Lei lo sapeva?», domandai sorpresa.
«No, ma penso che avesse intuito qualcosa. Milah ha sempre saputo molte più cose di quelle che dava a vedere. Penso che sia per questo che mi abbia fatto promettere di farlo».
«Quindi qual è la tua prossima mossa?». Come intendeva dirlo a Lizzy?
«Per prima cosa potresti portarci in un posto più appartato? Poi non ne ho idea». Lo vidi mordersi il labbro, con uno sguardo tormentato e carico d’ansia.
«Andrà bene», affermai appoggiando la mano sulla sua spalla. «Ce la farai».
«Sì, ma non so come ne uscirò».
«Stai facendo la cosa giusta adesso, questo è il primo passo per essere un eroe». Lo vidi accennare un sorriso che però non raggiunse gli occhi.
«Potrò anche diventare un eroe», mormorò amaramente, «ma sto per distruggere l’idea che quella meravigliosa ragazza si è fatta di me».
«Anche se non sarai più il suo eroe, non vuol dire che non potrai essere suo amico». Anzi avrebbe avuto bisogno del suo migliore amico per capire quanto lui fosse cambiato da allora.
Charlie non aggiunse nulla ed io decisi che era arrivato il momento di eseguire la sua richiesta. Chiusi gli occhi concentrandomi su me, Charlie e Lizzy e in meno di un secondo ci trasportai nel parco dell’Oltrebrooke. Non sapevo perché avevo scelto proprio quel posto, ma non mi sembrava giusto discutere quella questione seduti ad un tavolo, sarebbe stato troppo formale. In quel parco, proprio come a Storybrooke, c’era una panchina e una strana tranquillità; e per fortuna, come avevo ipotizzato, non sembrava esserci nessuno là intorno.
«Che sta succedendo?». Lizzy sbatté più volte le palpebre non capendo cosa fosse accaduto. Doveva essere alquanto sorpresa, visto che un attimo prima stava camminando con gli altri e quello dopo si era ritrovata catapultata là con noi.
«Sono stata io a portarti qua», le spiegai.
«Le ho chiesto io di farlo». Charlie si avvicinò a lei con uno sguardo da funerale e la voce talmente bassa da non riuscire quasi a sentirla.
Lizzy sembrò calmarsi e cominciò a fissare prima me e poi Charlie, mordendosi un labbro per cercare di trattenere la curiosità. Doveva aver intuito dall’espressione del suo amico l’importanza di ciò che stava per accadere e forse fu per questo che tentò di tenere a freno la sua parlantina.
«Perché non ci sediamo?», proposi indicando la panchina e cercando così di superare quel momento di stallo.
Gli altri due seguirono il mio consiglio senza aggiungere una parola. Lasciai che Lizzy si sedesse nel mezzo tra me e Charlie, in modo tale da essere in qualche modo protetta dalla notizia che stava per ricevere. Tuttavia non potevo fare più di così; doveva essere lui a decidere quando e come parlarle e purtroppo capivo che non era affatto facile. Gli lanciai un’occhiata di incoraggiamento e lui percependo il mio sguardo sospirò. Lizzy nel frattempo continuò a guardare alternativamente me e lui, con uno sguardo più confuso di prima.
«Elizabeth…», iniziò Charlie.
«Non è mai un bene quando mi chiami Elizabeth», intervenne lei. «Che succede?». Si voltò verso di lui posando la mano sulla sua e fissandolo con uno sguardo preoccupato.
«Devo dirti una cosa e non so come fare», ammise.
«Puoi dirmi di tutto lo sai». Era proprio quella sua benevolenza a rendere le cose più difficili.
«No, invece. Quello che sto per fare cambierà tutto». Charlie distolse lo sguardo dal suo e iniziò a fissare un punto indistinto davanti a sé, forse cercando le parole adatte per continuare.
«Lizzy ricordi come sei morta?», le domandò dopo qualche secondo.
Vidi il volto di lei assumere immediatamente un’espressione seria, come se intuisse la gravità di ciò che stava per sapere. «Sì certo. Sono morta in un incendio. Il fumo mi ha ucciso».
«Non è andata proprio così», ribatté Charlie. «Forse il fumo ti ha tolto la vita, ma non è stato lui il tuo assassino».
«Sì lo so». Lizzy pronunciò quelle tre parole in un sussurro che faticai ad udire ed infatti Charlie non se ne accorse.
«Vedi non è che l’incendio sia partito così all’improvviso… voglio dire alcuni possono anche scoppiare per caso ma… insomma… io però so che questo non è il tuo caso… cioè è stato qualcuno ad appiccare il fuoco alla tua casa». Charlie incespicava sulle parole, fermandosi e ripartendo, non sapendo come fare ad esprimere quella orribile verità.
Lizzy gli strinse più forte la mano nel tentativo di fermarlo. «Charlie lo so». Potevo scorgere nel suo sguardo una consapevolezza che non avevo mai visto fino ad allora. Per quanto si mostrasse sempre esuberante e spensierata, in quel momento mostrava un lato del suo carattere completamente diverso. Non sembrava più una ragazzina e il suo sguardo lasciava trasparire una saggezza e una maturità che non avevo colto fino ad allora.
E se ne sarebbe accorto anche il nostro comune amico se solo avesse smesso di guardare il vuoto davanti a sé. «Ah bene, perché devi sapere…».
«Charlie», lo fermò di nuovo. «Guardami». Lasciò andare la sua mano per potergli prendere il viso in modo tale da costringerlo a guardarla negli occhi. «Io lo so». Vidi l’espressione di Charlie dilatarsi per la sorpresa, iniziando a capire ciò che lei gli stava continuando a ripetere.
«Cosa sai?», balbettò, cercando una conferma di quello che, sia io sia lui, ritenevamo impossibile.
Lizzy prese un respiro profondo prima di parlare. «So che sei stato tu ad appiccare l’incendio in cui sono morta». La sua voce era uscita calma e tranquilla, come se quella fosse stata la cosa più naturale del mondo; non era sconvolta, era solo triste e rassegnata.
Beh anche se lei non era sorpresa, di sicuro noi fummo più che sconvolti dalle sue parole. Charlie impallidì, non sapendo più cosa pensare ed anch’io avevo le idee alquanto confuse. Lizzy ne era stata a conoscenza per tutto quel tempo? Fin dal loro primo incontro aveva capito che si trattava del responsabile della sua morte? E nonostante tutto era diventata sua amica. Perché? Non aveva senso, avrebbe dovuto odiarlo o evitarlo, invece lei aveva fatto tutto il contrario. Era sempre stata sua intenzione diventare amica di Charlie, oppure all’inizio era stata spinta da uno scopo diverso?
Vidi le stesse domande affacciarsi sulla faccia del mio amico, mentre un silenzio tombale piombava su di noi. Eravamo come pietrificati e nessuno dei tre riusciva più a dire o fare nulla. Sapevo che però mi avevano portato lì per quello; era mio compito sostenere entrambi e aiutarli a sbloccare quel momento di impasse.
«Da quanto lo sai?», le domandai partendo con la prima delle tante domande che aleggiavano nell’aria.
Lei si voltò leggermente verso di me, guardandomi solo per un secondo prima di tornare ad osservare l’espressione dell’altro. «Da sempre».
«Come l’hai scoperto?», sussurrò Charlie, fissandola con gli occhi più scuri che mai.
«Ti ho visto», rispose alzando le spalle, come se fosse ovvio. «Ti ho visto dalla soffitta, mentre davi fuoco alla casa».
Charlie restò a bocca aperta per qualche secondo prima di trovare le parole giuste per parlare. «E quando sono arrivato nell’Oltretomba mi hai riconosciuto?».
«Sì, non avrei mai potuto dimenticare il tuo volto».
«E sei diventata mia amica nonostante io fossi il tuo assassino?». Il suo tono non poteva essere più incredulo, così come la sua espressione. Del resto anch’io dovevo avere dipinta in viso la stessa incredulità.
«Oh che sciocchezze! Tu non sei il mio assassino». Lizzy gli rivolse un dolce sorriso accarezzandogli la guancia.
«Certo che lo sono», ribatté lui con tono convinto. «Ho causato volontariamente l’incendio che ti ha uccisa!».
«No!». Lizzy si alzò di scatto allontanandosi di qualche passo per poi voltarsi a guardarci. «Tu non sei il mio assassino, io non ti ho mai considerato tale».
«Ma…».
«No!». Lo fermò di nuovo prima che potesse continuare, assumendo un’espressione al tempo stessa sbalordita e arrabbiata. «Non posso credere che tu abbia creduto di esserlo per tutto questo tempo!». La osservai bene per riuscire a capire cosa ci stesse sfuggendo: era ovvio che le visioni di Charlie e di Lizzy non coincidevano. C’era una parte della storia che non conoscevamo?
«Io ti ho uccisa», mormorò Charlie in un tono appena udibile.
«No, non sei stato tu, anzi hai fatto proprio il contrario». Lizzy si accucciò per terra appoggiando la testa sulle ginocchia. «Oh Charlie! Se avessi creduto che ti sentivi in colpa te l’avrei detto subito, pensavo non sapessi neanche che io ero coinvolta in quell’incendio».
«Dirmi cosa?», balbettò lui.
«Che sei stato tu a liberarmi». Alzò la testa dalle ginocchia e lo fissò, mordendosi un labbro. «Charlie non sei stato tu a togliermi la vita, sono stata io».
«Cosa?», mormorai non credendo alle mie orecchie. Charlie invece si ammutolì di colpo, rimanendo con la bocca aperta dalla sorpresa.
Lizzy voltò la testa guardando un punto indistinto alla sua sinistra. «Perché credi che io sia qui sennò?». Improvvisamente tutto aveva un senso: come era stato possibile che una ragazza come lei fosse finta nell’Oltretomba? Il semplice fatto di non aver vissuto non era sufficiente.
Lizzy continuò a parlare con la voce incrinata dall’emozione. Si capiva che stava in tutti i modi cercando di non piangere e che ciò che ci stava dicendo era qualcosa che non aveva mai raccontato a nessuno. «Ti ho visto dare fuoco alla casa ed appena l’hai fatto ne avevo in qualche modo compreso il motivo. Vivevo con un padre violento, non era difficile capire che era di lui che volevi vendicarti. In paese tutti pensavano che fosse una brava persona, un padre solo che per questo era diventato troppo protettivo. Non era affatto così, non era stato un buon marito per mia madre e tantomeno poteva definirsi un buon genitore; anzi con la morte di mia madre era peggiorato tutto. Non mi faceva più uscire, se non in rare occasioni sempre in sua presenza; diceva che avevo una salute molto cagionevole ma non era affatto vero. Ed il restare rinchiusa era la parte migliore rispetto a quello che dovevo subire restando a casa…». Si interruppe non riuscendo più a continuare e asciugandosi le lacrime con la mano.
Charlie si alzò improvvisamente e andò ad accucciarsi di fronte a lei, stringendola tra le braccia. Lasciò che Lizzy appoggiasse la testa sulla sua spalla e piangesse tutte le lacrime che aveva trattenuto fino a quel momento.
Io nel frattempo mi sentivo quasi di troppo in quel particolare quadretto. Non riuscivo ad immaginare cosa avesse dovuto affrontare quella povera ragazza e dall’altra parte non potevo neanche immaginare ciò che provasse Charlie. Sollievo? Dolore?
«Non ce la faccio a dirtelo Charlie», mormorò contro la sua spalla. «Non posso dirti più di così».
«Non importa», rispose lui con la voce incrinata. «Piccola non importa».
Lizzy alzò la testa in modo tale da poterlo guardare negli occhi, asciugandosi le lacrime con la mano. «Avevo provato a scappare, ma era troppo furbo e non ci ero mai riuscita. Quando poi ti ho visto dare fuoco alla casa non avuto alcun dubbio, nessuna incertezza. Avrei potuto urlare, in modo tale da svegliare mio padre e salvarci entrambi. Non potevo uscire dalla mia soffitta, ma ero certa che mi avrebbe sentito. Invece non volevo salvarmi, perché avrei dovuto? Per poi continuare…? No, non potevo. Quando ti ho visto, ho ringraziato Dio per averti mandato da me, per avermi dato la possibilità di mettere fine a tutto, di mettere fine a lui». Pronunciò le ultime parole con una rabbia che non le avevo mai sentito, ma era più che giustificata. Solo lei sapeva gli orrori che aveva dovuto passare e il solo pensiero mi metteva i brividi.
«Quando prima ti ho detto che non avrei mai potuto dimenticare il tuo volto», continuò dopo qualche secondo, «è perché te ne sono grata».
«Dio Lizzy». Questa volta fu Charlie ad appoggiare la testa sulla sua spalla. Fece dei respiri profondi ed immaginai il nodo che gli stringeva lo stomaco allentarsi lentamente. Sapere di non essere stato il colpevole della morte di una vittima innocente doveva aver cambiato radicalmente la visione che aveva di sé stesso. Avrebbe potuto perdonarsi, finalmente sarebbe potuto andare avanti, senza più quel peso sulle spalle. Poteva essere l’eroe che io e Lizzy già vedevamo.
«Dio!», ripeté. «Lo ucciderei di nuovo se potessi, dopo quello che hai passato…».
«Ha avuto quello che si meritava», gli rivelò l’altra. «Non l’ho rincontrato quaggiù, ma ho trovato la sua tomba. È spezzata, è andata in un posto peggiore, peggio del fiume, peggio di qualsiasi altra cosa». Almeno quello era confortante.
Charlie alzò la testa e le prese il viso tra le mani, gli occhi visibilmente lucidi. «Al solo pensiero che tu abbia dovuto affrontare tutto questo… come è possibile che non me ne sia accorto? Che non abbia mai intuito niente?».
«Non sono una pessima attrice come te», tentò di sdrammatizzare. «Sono molto più brava a nascondere le cose di quanto tu immagini. Tu invece avresti dovuto dirmelo…».
«Avevo paura che ti avrei persa per sempre. Sei diventata la parte più importante di me ed io non volevo che mi odiassi, o forse che mi perdonassi. Mi sentivo troppo in colpa».
«Anche tu sei la parte più importante di me, sei la mia famiglia adesso. Nessuno mi ha mai voluto bene quanto te». Erano le parole più dolci che avrebbe potuto dirgli.
«Non posso credere che sia stato possibile», mormorò Charlie abbracciandola di nuovo. «Avresti dovuto essere amata ogni singolo giorno della tua vita».
«Beh adesso avrete tempo per rimediare», affermai, intuendo che il loro attimo di intimità era finito. Avevo un nodo in gola ed avevo stranamente voglia di piangere. Mi sentito una specie di ladra per aver assistito ad un momento tanto privato e aver potuto partecipare alla loro commozione.
«Già», confermò Charlie con un sorriso. «Storybrooke ci aspetta». Si alzò e aiutò anche Lizzy a farlo. La vidi tirare su con il naso e notai il suo dolce sorriso spuntare dietro le ultime lacrime. I momenti difficili erano ormai finiti per loro e una volta tornati a casa avrebbero potuto ricominciare a vivere come si meritavano. Era in istanti come quello che amavo profondamente il fatto di essere la Salvatrice.
«Sono certa che avrai la fila di ragazzi che vorranno stare con te ed amarti come meriti», affermai, tirando involontariamente su col naso. Sarebbero stati degli stupidi a non farlo.
«Ed io controllerò attentamente che siano alla tua altezza», continuò Charlie. «Se solo si azzarderanno a mancarti di rispetto…».
Lizzy scoppiò a ridere. «Nessuno mi si avvicinerà se tu li minaccerai».
Anche lui rise, scompigliandole i capelli con la mano. «Non lo farò, però potrai sempre contare su di me. Non permetterò più a nessuno di fare del male alla mia sorellina». Lizzy gli rivolse un enorme sorriso sentendo quell’appellativo.
In quel momento più che mai prima di allora capii quanto la famiglia non si basasse solo su rapporti di parentela. Famiglia erano coloro che ti amavano incondizionatamente, che avrebbero lottato per te fino alla morte; non aveva importanza avere lo stesso sangue, ma ciò che contava era riuscire a condividere lo stesso cuore. Regina, Hook erano la mia famiglia, così come lo erano i miei genitori e mio figlio. Era un legame che ci avrebbe unito fino alla morte.
«Credo che adesso che abbiamo affrontato le nostre questioni in sospeso», attirò di nuovo la mia attenzione Charlie, «non ci resta altro che aspettare che il portale si apra». Mi alzai dalla panchina e li raggiunsi rivolgendo loro un ampio sorriso.
«Ce l’abbiamo quasi fatta», affermai. «Presto saremo a casa». E mai parole mi sembrarono più vere e più belle di quelle.


 
Angolo dell’autrice:
Buona domenica a tutti!
Nonostante il tempo particolarmente estivo, il ponte e i giorni da spiaggia ecco a voi un importante capitolo. Vi confesso che questo è stato forse quello che sono riuscita a scrivere più velocemente; penso di averci messo veramente poco, forse perché era già tutto nella mia testa. E nonostante la mia velocità, è stato anche uno dei capitoli che ho vissuto di più. L’addio di Milah, la verità su Lizzy, la vicinanza con Charlie: beh sono state un bel po’ di emozioni tutte insieme.
Quando ho creato i personaggi di Charlie e di Lizzy non avevo minimamente idea dell’implicazioni che questi avrebbero comportato; sono cresciuti via via, in maniera inaspettata e mi sono sentita molto coinvolta nelle vicende che io stessa ho creato. Avrei voluto un personaggio come Charlie anche nella serie XD
Comunque mi sono dilungata anche troppo. Vi ringrazio di leggere e di recensire! GRAZIE di cuore!
Un bacione e alla prossima settimana
Sara

Ritorna all'indice


Capitolo 21
*** 21. Vero Amore significa essere sinceri ***


21. Vero Amore significa essere sinceri
 
POV Emma
Quando tornammo in città dopo quel particolare momento di commozione, il mio istinto mi guidò direttamente verso la biblioteca. Lasciai che Charlie e Lizzy andassero al locale della Strega Cieca, dandogli appuntamento davanti alla torre dell’orologio, visto che ero certa che il portale sia sarebbe aperto là, e decisi così di seguire il mio istinto. Ora che avevo aiutato il mio amico, dovevo assolutamente trovare Killian e restare con lui; non potevo più lasciarlo solo e avevo la netta sensazione che non l’avrei trovato in un locale affollato pieno di anime.
E infatti il mio istinto aveva avuto ragione; fu così che entrando nella biblioteca dell’Oltrebrooke lo scorsi seduto ad un tavolo tutto solo. Aveva lo sguardo perso nel vuoto, teneva il braccio con l’uncino appoggiato stancamente sul piano, mentre la sua mano giocherellava inconsciamente con una delle catene che portava appese al collo.
Decisi di coglierlo di sorpresa; senza far rumore scivolai accanto a lui e lo abbracciai da dietro, strusciando il naso sul suo collo e lasciando un bacio sulla sua spalla.
«Ciao», mormorai contro la sua pelle.
«Ciao». Lo sentii rilassarsi sotto il mio abbraccio, come se fosse rimasto in tensione per tutto il tempo in cui eravamo stati separati. «Sapevo che mi avresti trovato».
«Io ti troverò sempre», sussurrai nel suo orecchio. Si scostò leggermente dal tavolo, in modo tale da riuscire a farmi sedere a cavalcioni su di lui. Mi persi nei suoi occhi, riuscendo a leggervi tutto quello che non era capace di dirmi a parole; ormai era come un libro aperto per me.
Purtroppo, però, non c’era molto che potessi fare per riuscire a far sparire quell’espressione triste dal suo viso; l’unica cosa che mi era concessa era quella di distrarlo e di consolarlo nell’unico modo che ero certa sarebbe risultato efficace. E così feci: avvicinai le mie labbra alle sue e lo baciai concedendogli tutta me stessa. Lasciai che la sua lingua si intrecciasse alla mia, che la sua mano vagasse sul mio corpo mentre il suo uncino mi premeva contro il suo petto; affondai le dita nei suoi capelli, perdendomi totalmente in lui, permettendo al suo disperato bisogno di me di prendere il sopravvento.
Quando ci staccammo per riprendere fiato, restai comunque a pochi centimetri di distanza, sentendo il suo respiro sulla mia pelle. Killian aveva gli occhi chiusi, ma quando gli sfiorai le ciglia con il pollice si aprirono, rivelandomi il più meraviglioso oceano.
«Grazie», mormorò sulla mia bocca.
«Per cosa?». Gli accarezzai la guancia, non capendo cosa avessi fatto di tanto speciale.
«Per essere te», rispose semplicemente. «La mia Emma, la mia dolce Salvatrice». Sorrisi e sfiorai di nuovo le sue labbra con le mie, non trovando le parole adatte per il tumulto di emozioni che le sue parole mi provocavano ogni volta.
«Com’è andata col tuo amico?», mi domandò poi, portandomi una ciocca di capelli dietro l’orecchio con l’uncino.
«Bene, più che bene». Era andata in un modo del tutto inaspettato ed era stata un successo. «Grazie per avermi lasciato andare. Era importante».
«Lo so, l’avevo capito». Già lui capiva sempre tutto, anche ciò che non gli dicevo.
«Ti amo», mormorai sentendo le farfalle nello stomaco e il cuore accelerare.
«Ti amo anch’io», rispose riconquistando nuovamente le mie labbra. Lasciammo che il silenzio cadesse intorno a noi, interrotto soltanto dal flebile rumore dei nostri baci e dei nostri corpi che strusciavano l’uno sull’altro. Non c’era niente di meglio che baciare Killian Jones ed inoltre era anche l’unica cosa di cui lui aveva bisogno in quel momento. Potevamo benissimo passare in quella maniera il tempo che ci restava da trascorrere nell’Oltrebrooke; io non avrei avuto niente da ridire.
Purtroppo però il mio pirata mi riportò alla realtà fin troppo presto, ricordandomi che avremo potuto renderci utili in ben altri modi. Perché quando eravamo insieme era lui quello razionale?
«Per quanto adori baciarti in questo modo», sospirò, «ho pensato che dovremo fare un’altra cosa prima di lasciare questo posto, questa volta si spera per sempre».
«Cosa?». Passai le dita tra i suoi capelli cercando di intuire quale fosse la sua particolare idea.
«È avanzata un po’ di ambrosia», annunciò lanciando uno sguardo ad una borsa appoggiata ad un lato del tavolo. Non avevo minimamente notato quel particolare, la mia mente era stata decisamente concentrata su ben altro.
«Dovremo piantarla», continuò, «là dove avremmo dovuto trovarla in passato, là dove solo chi ha trovato il Vero Amore potrà coglierla».
«Intendi dire che dovremo tornare laggiù solo per ridare vita ad una stupida pianta?». Feci una smorfia a quel pensiero; non è che non mi piacesse il suo progetto, ma quello era stato il luogo dove gli avevo detto addio, credendo che sarebbe stato per sempre e non smaniavo dalla voglia di tornarci.
«Lo so che non ti piace tornare là sotto», disse leggendomi come un libro aperto, «non piace neanche a me, ma è la cosa giusta da fare. In futuro potrebbe esserci un’altra coppia di innamorati che avrà bisogno dell’ambrosia. Ricordi la delusione quando non abbiamo trovato altro che un albero tagliato e rinsecchito?».
Sospirai capendo cosa voleva dire ed ammettendo che, in effetti, aveva ragione su tutta la linea. «È un’idea piuttosto romantica», gli feci notare rivolgendogli un sorriso.
«Forse un po’ sì. Ma che ne dici?». Emisi un altro sospiro e, anche se con riluttanza, mi alzai, rimettendomi in piedi davanti a lui.
Senza aggiungere una parola ed in risposta alla sua domanda, mi portai una mano al petto ed estrassi il mio cuore consegnandoglielo.
«Che fai?», proruppe Killian alzandosi in piedi di scatto.
«Non posso togliermelo là sotto, ricordi?». Gli rivolsi un sorriso e continuai a tenere il braccio teso in modo tale che lui lo prendesse.
«Me lo stai dando?», domandò dubbioso. «Vuoi che lo tenga io?».
Che domanda stupida! Non era ovvio? «Certo. Killian non lo sai che il mio cuore è tuo? A chi altro potrei affidarlo?».
L’espressione che gli si dipinse sul viso avrebbe fatto impazzire il mio cuore se lo avessi avuto ancora nel petto. «Grazie», mormorò prendendolo e infilandolo nella borsa insieme all’ambrosia. Dopo averlo riposto con estrema cura, si mise la borsa a tracolla e mi guardò aspettando che mi dirigessi verso l’ascensore.
«Dobbiamo avvertire gli altri?», domandai cercando di perdere tempo. In fondo andare laggiù non era esattamente nelle mie priorità.
«No, glielo diremo poi». Mi prese per mano, dandomi con quel gesto il coraggio necessario per scendere di nuovo nel luogo dove ci eravamo detti addio. Quando entrammo nell’ascensore non potei fare a meno di ricordare il bacio che ci eravamo scambiati là sopra, il dolore lancinante che avevo provato tornando in superficie senza di lui e tutte l’emozioni che avevo provato nel vederlo scomparire lentamente mentre quel dannato arnese mi portava sempre più su.
«Stavolta torneremo insieme», dichiarò, leggendomi di nuovo nel pensiero. «Diamo a questo luogo un’altra chance; in fondo è qua che abbiamo scoperto che il nostro è Vero Amore».
Aveva ragione come al solito e ancora una volta lui continuava a rassicurarmi, nonostante quello che era  appena accaduto. L’addio di Milah era ancora nell’aria e lui tentava comunque di rassicurare me in tutti i modi.
«D’accordo», mi feci coraggio. «Andiamo a piantare quest’ambrosia». Era il momento di mettere i suoi desideri al primo posto, lasciando perdere tutto il resto.
 
Camminammo, mano nella mano, in quei corridoi che avevamo già percorso una volta, senza dire una parola. Osservai Killian con la coda dell’occhio e notai che la sua espressione si era fatta di colpo seria e pensierosa; tuttavia non volevo chiedergli cosa avesse, sapevo che me l’avrebbe detto quando si sarebbe sentito pronto ed io potevo benissimo aspettare per placare la mia curiosità.
Quando arrivammo alla bilancia dove già una volta avevo pesato il mio cuore, vidi la sua espressione farsi più concentrata, come se stesse riflettendo su qualcosa di ineluttabile. Scossi la testa cercando di scacciare l’immenso desiderio di chiedergli cosa lo turbasse e mi avvicinai di più al suo fianco per estrarre il mio cuore dalla borsa.
«Aspetta», mi fermò posando l’uncino sulla mia mano.
Alzai la testa e incrociai il suo sguardo, talmente chiaro da riuscire a riflettermici dentro.  «Che c’è amore?». Non usavo mai quel genere di appellativi, ma dalla sua espressione avevo intuito che la sua testa stava elaborando qualcosa di preoccupante. Era teso e non ne capivo il motivo.
«Devo dirti una cosa», ammise. «Prima che tu possa pesare il tuo cuore, ho bisogno di farti una confessione».
«Cosa devi dirmi?», domandai circospetta. Non avevo nessuna idea di cosa potesse essere, ma intuivo che non era niente di positivo, non se la sua espressione era così seria e preoccupata.
«Ho baciato Milah», disse tutto di un fiato. «L’ho baciata quando tu, Charlie e Crudelia eravate a cercare lo specchio». Sospirai sentendo le sue parole e, nonostante la fitta al cuore che quella verità mi aveva dato, mi sentii sollevata. Mi ero aspettata qualcosa di peggiore ed in fin dei conti avevo intuito che con Milah fosse potuto accadere qualcosa del genere. Ero gelosa, avrei voluto che non l’avesse fatto, ma l’accettavo perché sapevo che Killian aveva attribuito un significato diverso al bacio con Milah rispetto a quelli che solitamente scambiava con me.
«Non è stato niente di che», continuò studiando la mia espressione. «Non ha significato niente, è stato solo un bacio di addio. So che non avrei dovuto farlo, ma in quel momento mi è sembrato giusto». Si interruppe guardandomi preoccupato, per poi riprendere portandosi la mano alla testa. «Dio! Probabilmente non avrei dovuto farlo… sarai furiosa e non posso criticarti…».
«Killian», lo fermai prima che potesse cominciare a colpevolizzarsi. Lo guardai dritto negli occhi e strinsi più forte la sua mano. «Va bene così, ho capito».
«Cosa?». Vidi la confusione e la sorpresa affacciarsi sul suo volto. Davvero non si era aspettato la mia comprensione?
«Ho capito», ripetei. «Non è che la cosa mi faccia piacere, avrei preferito che tu non l’avessi fatto, ma comprendo le tue ragioni. So che è stato un bacio d’addio, che si è trattato di un qualcosa che ha sancito la fine della vostra storia. Non sono arrabbiata per questo, immaginavo che sarebbe potuto succedere. Ti ringrazio di avermelo detto e di essere stato sincero».
«Non voglio che ci siano segreti tra di noi», ammise, «nemmeno il più piccolo segreto su un bacio che ovviamente non si ripeterà». Le sue parole mi colpirono profondamente e mi ricordarono che, in effetti, anch’io gli stavo nascondendo un bacio che anche in quel caso non si sarebbe ripetuto.
«Killian», mormorai, sentendo la tensione crescere. «Anch’io devo confessarti una cosa». Lui mi studiò sorpreso ma rimase in silenzio in modo tale che potessi continuare.
Lo osservai da sotto le ciglia prima di continuare. «Quando eravamo nel fiume Charlie mi ha baciata». Lo dissi tutto di un fiato buttandolo fuori come se fosse stato un segreto inconfessabile.
La reazione di Killian fu immediata. «Cosa?». La sua espressione passò dallo stupore alla rabbia.
«Non è successo nulla», intervenni subito, trattenendo la sua mano con entrambe le mie. «Non l’ho ricambiato e gli ho fatto capire che non avrebbe dovuto farlo e che non provo e non proverò mai assolutamente nulla per lui. Gli ho detto che il mio cuore appartiene a te e che non può avere speranze in quel senso».
Sentii la sua mano tremare tra le mie, nel tentativo di liberarsi della mia presa. Quando capì che non l’avrei lasciato andare si portò l’uncino alla fronte, chiudendo gli occhi e facendo un profondo respiro. «Io giuro che lo ammazzo», mormorò tra i denti.
«Killian». Lo costrinsi ad aprire gli occhi e a guardarmi. «Ci ho pensato io. Sono capace di difendermi da sola e anche di rimettere al proprio posto ammiratori indesiderati».
«Oh Swan l’ho notato subito come ti guardava, non ci voleva un genio per capirlo! Ma pensavo che non si fosse spinto tanto in là. Altro che marcare il territorio, se l’avessi saputo prima io…».
«Tu non avresti fatto proprio niente», ribattei. «Lo so che sei geloso, ma non ne hai motivo».
«Il motivo ce l’ho eccome. Ma che diavolo! Ti ha baciata».
«Sì ma io non l’ho ricambiato e l’ho rimesso al suo posto. Non lo farà più te lo garantisco».
«Ma…».
«Niente ma», conclusi. «Io ho accettato il tuo bacio con Milah, adesso tu sii abbastanza maturo da fare altrettanto, soprattutto dopo tutto ciò che ti ho detto».
Vidi la battaglia interiore che infervorava dentro di lui disegnarsi chiara sul suo volto; tuttavia alla fine sospirò e mi rivolse un sorriso tirato. «D’accordo, grazie di avermelo detto».
«Beh come hai detto tu, non ci devono essere segreti tra noi», conclusi. «E adesso che il tempo delle confessioni è finito, direi che possiamo anche pesare il mio cuore». Non c’erano più segreti e il Vero Amore significava anche questo: condividere anche le verità più dolorose e accettarle per quelle che erano.
 
Superare la prova della bilancia fu facile stavolta; sapevamo già cosa ci attendeva e non avevamo dubbi sul fatto che avremo superato quell’ostacolo. Ed infatti come la volta precedente, la porta si aprì con uno scatto, consentendoci di proseguire.  Del resto avevamo appena portato alla luce le uniche due cose che ci stavamo nascondendo a vicenda, e dopo quelle confessioni era ovvio che fossimo più vicini che mai.
Raggiungemmo l’albero seccato dell’ambrosia in poco tempo e la mia testa fece inevitabilmente il confronto con quello rigoglioso che avevamo invece visto io e Charlie: tanta bellezza era stata sciupata solo per la cattiveria di Ade. L’unica consolazione sarebbe stata che presto anche quel posto sarebbe tornato a rifiorire dando speranza a nuove coppie di innamorati.
«Credi che basterà piantarla nel terreno?», mi domandò Killian tirando fuori l’ambrosia rimasta, facendo molta attenzione al contenuto ben più prezioso della borsa: il mio cuore.
«Penso di sì», riflettei. «Se potessi userei la magia per farla crescere, ma ovviamente il tempo dovrà fare il suo corso». Così dicendo ne afferrai una dalla mano di Killian e mi accucciai per terra, iniziando a scavare.
Erano rimasti in totale tre frutti, quindi non impiegammo molto nel svolgere la nostra missione. Ci mettemmo ancora meno a tornare indietro verso l’ascensore, ansiosi di lasciarci alle spalle quel posto e il ricordo del nostro precedente addio. Per quanto questa volta fosse filato tutto liscio, quel luogo continuava a non piacermi e desideravo ardentemente tornare in superficie, anche se si trattava pur sempre dell’Oltretomba.
Il sollievo quando entrambi iniziammo a salire grazie a quello strano montacarichi fu immediato. Stavolta Killian era con me e presto saremo passati attraverso il portale. Stavolta avremo lasciato l’Oltretomba insieme ed era davvero l’unica cosa che desideravo. Volevo solo tornare a casa con il mio pirata e rimanerci almeno per un po’.
Durante tutta la salita strinsi forte la mano di Killian, beandomi anche del più piccolo contatto tra le nostre dita. Avevo completamente ragione quando dicevo che quel gesto era molto di più di una semplice stretta di mano: per noi era tutto. Era un modo per comunicare non usando le parole, era un modo per sentirci vicini con un solo semplice contatto.
All’improvviso quando eravamo quasi ritornati al piano della biblioteca, Killian tirò la mia mano verso la sua bocca e vi depositò un dolce bacio.
«Siamo insieme Swan», mormorò sulle mie nocche.
«E lo saremo per sempre, non è vero?».
«Per sempre». Era tutto ciò che volevo sapere: mi bastava credere che nonostante le infinite difficoltà che avremo dovuto affrontare in futuro, noi saremo sempre rimasti l’uno al fianco dell’altra, o comunque che ci saremo sempre ritrovati. Dopo aver passato del tempo nel Fiume delle anime perse avevo capito come per noi esistesse solo un futuro possibile e quello prevedeva assolutamente che noi restassimo insieme. Killian l’aveva compreso molto prima di me, aveva capito che non c’era altra soluzione per noi se non quella di sposarci e di legarci indissolubilmente. Io ci avevo messo un po’, ma finalmente ci ero arrivata.
Quando alla fine rientrammo nella sala deserta della libreria, notai che avevamo trascorso là sotto più tempo di quanto avessi pensato. Non doveva mancare molto all’apertura del portale e tanto valeva avviarci di fronte alla torre dell’orologio in attesa che la strada di casa si palesasse davanti ai nostri occhi. Ero certa che si sarebbe aperto lì, così come ero sicura che avrei trovato là tutti i nostri amici in trepidante attesa.
«Questo è tuo tesoro». Killian richiamò la mia attenzione porgendomi il cuore che aveva fino a quel momento tenuto al sicuro nella borsa. Gli sorrisi ed invece di prenderlo guidai la sua mano sopra il mio petto, aiutandolo a rimetterlo al suo posto. Lasciai che appoggiasse il palmo sul mio seno e che sentisse il battito del mio cuore: entrambi sapevamo che era solo per lui.
«Ti amo», mimò con le labbra.
«Lo so», sussurrai in risposta. Mi amava così tanto da essere sceso là sotto, ci amavamo così tanto da sacrificare noi stessi pur di salvare l’altro.
«Che ne dici di andare?», domandai dopo qualche secondo di silenzio. «Non vedo l’ora di essere a casa».
«Certo amore». Levò la mano dal mio petto e intrecciò di nuovo le dita alle mie, guidandomi fuori dalla biblioteca.
«Swan qual è la prima cosa che farai una volta a casa?», mi chiese una volta usciti all’aria rossiccia dell’Oltrebrooke.
«Riabbracciare mio figlio e i miei genitori, ma soprattutto Henry». Non avevo dubbi su quello.
«Sì lo so, ma intendevo dopo le cose ovvie?».
Ci pensai su prima di rispondere. «Una doccia e dormire… credo. Sono giorni che non riposo bene». In realtà non avevo dormito affatto, ma era meglio che lui non lo sapesse; si preoccupava sempre troppo per la mia salute.
«Potrei aggregarmi ad entrambe le tue idee?». C’era un che di malizioso nel suo tono, anche se era più che evidente che stesse facendo un enorme sforzo per riuscire a scherzare così con me.
«Beh potresti, ma credo che sarebbe difficile realizzare la mia ipotesi di dormire con te accanto».
«Per quello c’è la doccia Swan», rispose sorridendo. «Dopo lo giuro: mi assicurerò personalmente che tu possa dormire sonni tranquilli e che tu possa recuperare tutto il sonno arretrato».
«D’accordo». Non aggiunsi altro, ma il sorriso da ebete che avevo stampato in faccia parlava per me.
Camminammo in silenzio per il resto del tragitto; come avevo previsto gli altri erano in trepidante attesa di fronte alla torre caduta. Era evidente che stessero aspettando là da un bel po’ e che fossero tutti impazienti quanto me di tornare a casa.
Da una parte c’erano Robin e Joe che stavano parlando con Artù, che doveva essere venuto ad assistere alla nostra partenza. Crudelia stava fumando una delle tante sigarette seduta qualche metro più in là, non trovando interesse nella conversazione dei suoi compagni. Più vicini all’orologio c’erano invece Charlie e Lizzy che stavano parlottando e ridendo tra loro; era davvero un sollievo vederli così. Dopo tutto quello che avevo saputo, tutto quello che avevano passato finalmente avrebbero avuto un po’ di pace e felicità. Era davvero un bell’inizio per la loro vita a Storybrooke.
«Siete qua», esultò Robin vedendoci. «Pensavamo di venirvi a cercare».
«Abbiamo deciso di piantare l’ambrosia rimanente là dove si trovava il precedente albero», spiegai avvicinandomi a loro. «Non sappiamo se sotterrare un frutto basterà a far rinascere l’albero, ma considerando tutta la magia in esso racchiusa ci sono ottime probabilità».
«Beh mi sembra giusto», commentò Artù. «Avete avuto una buona idea».
«Sì in realtà è stata di Killian, vero?». Aspettai che confermasse, ma invece rimase in silenzio. Mi voltai verso di lui e solo allora notai che non stava ascoltando il nostro scambio di battute, ma che aveva lo sguardo puntato su Charlie e Lizzy. Aveva la testa completamente voltata e dalla mia posizione purtroppo non riuscivo a scorgere la sua espressione.
«Killian? Hook?», tentai di attirare la sua attenzione. Ma invece di degnarmi di una risposta lasciò andare la mia mano e si diresse con passo spedito verso l’altro gruppetto. La scena avvenne in maniera talmente rapida che a me non restò altro che assistere al susseguirsi degli eventi.
Killian si avvicinò a Charlie che era voltato di spalle e stava chiacchierando animatamente con Lizzy. Gli batté sulla spalla con l’uncino per attirare la sua attenzione e quando si fu voltato gli sferrò il suo gancio destro migliore, colpendolo dritto in faccia.
«Killian!», gridai raggiungendolo di corsa. Purtroppo sapevo il motivo di quel comportamento, anche se avevo sperato che la nostra conversazione avuta in precedenza l’avrebbe evitato. Invece come al solito Hook aveva deciso di comportarsi da maschio alfa, lasciandomi il ruolo della damigella da difendere; purtroppo per lui quel ruolo mi stava ben stretto.
«Sei impazzito?», esclamai, accucciandomi al fianco di Charlie, che si era accasciato a terra con le mani a coprirsi il naso.
«Se l’è meritato», rispose stirandosi le dita della mano. «Adesso non si azzarderà più a baciare la mia donna».
Sbuffai e faticai per non mettermi a litigare con lui. Prima avrei controllato la gravità della ferità di Charlie, poi ne avremo parlato e Hook gli avrebbe chiesto scusa o con le buone o con le cattive.
«Fa vedere». Cercai di scostare le mani di Charlie dal suo naso per poter capire quanto fosse grave, tuttavia lui non rendeva facile il compito, visto che continuava a lamentarsi senza spostare le dita di un centimetro.
«Che diavolo sta succedendo?», sentii Robin chiedere, dato che quella scena doveva essergli sembrata alquanto assurda.
«Charlie stai bene?». Anche Lizzy si era accucciata al suo fianco e stava cercando come me di accertarsi sulla salute del suo amico.
Quando finalmente riuscii a spostare le sue dannate mani, vidi un rivolo di sangue scendergli dal naso che con molta probabilità avrebbe potuto essere rotto. Killian ci aveva davvero messo tutta la sua potenza. Per fortuna la magia era d’aiuto in questi casi.
«Ci penso io», affermai, «non ti preoccupare». Passai la mano sul suo volto ed in meno di un secondo il suo naso tornò come nuovo.
«Grazie», sussurrò, tastandosi con cautela le parti che poco prima erano doloranti.
«Mi dispiace», mormorai costernata.
«Beh dovevi proprio dirglielo?». Era logico che lui avesse capito subito il motivo del pugno; comunque la risposta era sì, ma forse avrei dovuto prevedere meglio la reazione di Killian.
«Dirgli cosa?», intervenne Lizzy.
«Lasciamo perdere». Mi alzai di scatto, furiosa per quel gesto avventato. Appena mi fui rimessa in piedi mi voltai a guardare Hook, che stava parlottando con Artù e Robin come se nulla fosse. Probabilmente dovette percepire il mio sguardo su di sé perché i suoi occhi si spostarono per incontrare i miei; lo vidi trasalire per una frazione di secondo percependo la mia espressione. Sapeva che mi aveva fatto arrabbiare con quella sua scenata di gelosia e che non avrei lasciato passare quel suo comportamento.
Tuttavia non volevo dare ulteriore spettacolo, perciò feci un respiro profondo e mi diressi a grandi passi verso di lui. Una volta davanti, gli afferrai la mano e lo tirai in malo modo verso un angolo più appartato. Quando mi fermai gli rivolsi la mia peggiore espressione inferocita.
«Sei impazzito?», sbottai. «Ti rendi conto di ciò che hai appena fatto?».
«Beh dovevo mettere in chiaro le cose», si giustificò, puntando lo sguardo oltre la mia spalla. Bene: non aveva neanche il coraggio di guardarmi negli occhi, quindi sapeva di averla fatta grossa.
«No invece», replicai infervorandomi. «Ti avevo detto che ci avevo già pensato io».
«Aveva bisogno di essere ulteriormente convinto». Ma davvero? Se voleva farmi infuriare ancora di più, ci stava riuscendo.
«Hook». Il mio tono di voce lo fece sobbalzare. «So difendermi da sola, non sono una damigella in difficoltà».
«Certo questo lo so», replicò, spostando finalmente lo sguardo sul mio viso.
«No, non lo sai. Perché altrimenti ti saresti fidato di me e avresti lasciato perdere». Sapevo che tirare in ballo la fiducia era un’arma vincente.
«Io mi fido di te. È di lui che non mi fido».
«Invece no, perché se così fosse avresti creduto alle mie parole». Non avevo più il tono accusatorio, avevo invece optato per quello deluso e ferito. Sapevo giocare bene le mie carte.
«Mi dispiace», mormorò abbassando lo sguardo sui suoi piedi.
«Adesso tu andrai da Charlie e gli chiederai scusa». Era ovvio che non fosse una domanda. Era un ordine e lui avrebbe dovuto obbedire, che fosse d’accordo o meno.
«Io non gli chiederò scusa». Alzò di nuovo la testa, incrociando i miei occhi con fare deciso. Tuttavia la mia espressione dovette in qualche modo contribuire a farlo tornare sui suoi passi. «Io non voglio scusarmi».
«Lo so, ma lo farai lo stesso», conclusi. «Per me». Lo vidi sospirare pesantemente, senza però aggiungere altro, arrendendosi evidentemente al mio volere. Sapeva che ribattere avrebbe solo compromesso la sua situazione; era abbastanza testarda da riuscire ad avere la meglio quando litigavamo, soprattutto quando io avevo completamente ragione e lui torto.
Quando ritornammo dagli altri, trovammo Charlie intento a parlare con Artù e Joe. Probabilmente stava cercando di spiegare loro la situazione e sperai che non avesse dato tutta la colpa ad Hook; lui ci aveva messo del suo ed era colpevole quanto il mio pirata.
Appena Charlie ci vide dirigerci nella sua direzione si ammutolì di colpo e ci osservò con fare circospetto. Non sapeva cosa aspettarsi: di sicuro non si aspettava nessun gesto di cordialità da parte di Killian.
«Mi dispiace», mormorò Hook fermandosi di fronte a lui, in un tono appena udibile.
«Okay…». Charlie non seppe come interpretare quel cambiamento e perciò puntò lo sguardo su di me, capendo che ero io l’artefice di quella metamorfosi.
«Non avrei dovuto colpirti», continuò Killian ancora più piano. Non lo stava guardando, fissava un punto indefinito dietro la spalla di Charlie, ma ovviamente non potevo pretendere troppo.
«Va beh non fa nulla amico». L’altro gli rivolse un sorriso benevolo che sparì immediatamente sentendo le parole pronunciate da Killian.
«Io non sono tuo amico», sibilò tra i denti. Gli lanciai un’occhiataccia, ma non feci a tempo a continuare perché fummo brutalmente interrotti; solo che per una volta non si trattava di mostri o pericoli, per una volta si trattava della nostra salvezza.
 Alle nostre spalle, nella torre diroccata al suolo, l’orologio iniziò a girare in modo anomalo, sempre più velocemente, fino a quando il nostro tanto desiderato portale non comparve nel bel mezzo di essa.
«Oh mio Dio! Il portale…», mormorai non potendo credere ai miei occhi. Anche gli altri si avvicinarono ed assunsero un’espressione euforica e incredula allo stesso tempo; ero certa di aver stampata in faccia le stesse identiche emozioni. Vidi anche Crudelia, che fino ad allora era rimasta in disparte e stranamente tranquilla, avvicinarsi e fissare meravigliata il passaggio di fronte ai nostri occhi.
«È il momento», sussurrò Artù per tutti noi, scadendo così gli ultimi nostri istanti là nell’Oltretomba.
«Grazie di tutto», gli disse Killian stringendo la sua mano.
«Non ce l’avremo fatta senza di te», aggiunsi. Ed era vero: anche se non l’avevo mai stimato, dovevo riconoscere quanto in quella occasione ci fosse stato utile.
«Spero che continuerai a governare questo regno, con la saggezza e la grandezza che ci hai dimostrato fino ad adesso», continuò Hook.
«Beh ora basta convenevoli», concluse Artù dandogli una pacca sulla spalla. «Andate prima che si richiuda». Annuii e, dopo averlo definitivamente salutato, afferrai Killian per la mano. Noi saremo stati i primi a passare, visto che sarebbe stato alquanto strano far comparire subito dei perfetti estranei davanti alla mia famiglia. Ero io quella attesa, era me che si aspettavano di vedere.
«Sei pronto?», gli domandai osservandolo con la coda dell’occhio.
«Andiamocene da questo posto», concluse Killian. Ed erano davvero le uniche cose che ci restavano da dire.
Mano nella mano saltammo dentro il portale, seguiti a ruota da tutti gli altri. Affrontare quel viaggio fu facile: ormai sapevamo bene come funzionava. Mi bastò pensare intensamente alla mia casa e alla mia famiglia, per ritrovarmi l’attimo dopo nel bel mezzo del parco di Storybrooke, lo stesso dove tanto tempo prima ero partita per l’Oltretomba alla ricerca di Killian.
E fu esattamente quando atterrai sana e salva nella mia adorata cittadina che li vidi: schierati tutti in fila, tutti in trepidante attesa del mio ritorno. Henry, i miei genitori, Regina, persino Zelena.
«Emma!». Un coro si alzò all’unisono vedendomi, ma io avevo solo occhi per il mio adorato ragazzino. Mi era mancato così tanto che stentavo a credere che fosse davvero davanti ai miei occhi.
«Mamma!». Mi slanciai verso di lui nello stesso istante in cui lui iniziò a correre verso di me e ci scontrammo a metà strada, travolgendoci in uno stretto abbraccio.
«Henry», sussurrai, stringendolo più forte e passando le dita nei suoi capelli.
«Ero sicuro che ce l’avresti fatta», sussurrò contro la mia spalla, dandomi poi un bacio sulla guancia.
Mentre ero ancora intenta a bearmi della presenza di mio figlio, vidi i miei genitori avvicinarsi. «Mamma! Papà!». Mi sbracciai per riuscire a stringere anche loro, formando così una specie di abbraccio di gruppo. Finalmente ero stretta tra le braccia della mia famiglia, e sapevo che anche Killian stava guardando la scena con un accenno di un sorriso sulle labbra.
«Stai bene», sussurrò mia madre, lasciandomi un bacio sulla testa.
«Grazie di avercela riportata», disse mio padre, dopo avermi baciato sulla fronte. Non stava parlando con me, ma stava osservando un punto dietro la mia spalla.
«L’avevo detto che avrei fatto di tutto per salvarla», mormorò Killian in risposta.
«Chi diavolo sono quelli?», sentii Zelena domandare.
Solo allora mi ricordai di lei e di Regina, e di tutti i miei compagni di viaggio, che ormai dovevano aver oltrepassato il portale. Probabilmente erano spiazzati almeno quanto i miei amici di Storybrooke.
«Regina», intervenni staccandomi a malincuore dalla mia famiglia. «Ho portato degli amici con me». Tuttavia lei non mi stava più ascoltando, il suo sguardo era fisso su un punto alle mie spalle, o forse avrei fatto meglio a dire su una persona. Sapevo per certo chi avesse visto ed era facilmente decifrabile dalla sua espressione; aveva le mani abbandonate lungo i fianchi, la bocca aperta per la sorpresa e, nonostante fosse buio, riuscii ad intravedere delle lacrime comparire dai suoi occhi.
Mi voltai solo per vedere la stessa identica espressione sul volto di Robin. Le loro emozioni erano così facilmente intuibili che istintivamente sentii anche io gli occhi lucidi.
«Robin…», sussurrò Regina, stentando a crederci. Un attimo dopo lui annullò la distanza che c’era tra loro, baciandola appassionatamente. Ci sarebbe stato tutto il tempo per le spiegazioni, in quel momento contava solo il fatto che lui fosse lì, sano e salvo.
Decisi di distogliere lo sguardo da loro per concederli un po’ di meritata privacy, sentendo il cuore scoppiarmi di orgoglio. Ce l’avevo fatta: avevo dato un lieto fine a Regina, ero riuscita in quello che tentavo di fare da anni. Non che un uomo potesse essere considerato semplicemente il suo lieto fine, ma sapevo che un mondo senza Robin era un mondo dove lei non sarebbe potuta essere completamente felice.  Ero riuscita a redimermi prima con Crudelia, riportandola in vita, e adesso espiando la colpa per ciò che il mio primo viaggio nell’Oltretomba aveva causato.
«È Robin?», domandò mia madre. «Come è possibile?».
«È una lunga storia», tagliai corto. Era davvero troppo lunga.
«E chi sono queste persone?», intervenne mio padre. «E quella è Crudelia?».
«Sono amici, anche Crudelia lo è», confermai.
«Come…?». Lo fermai prima che potesse continuare.
«Vi racconterò tutto ve lo prometto, ma non ora». Abbracciai di nuovo i miei genitori per poi tornare da Killian ed Henry che erano fermi uno accanto all’altro. Li abbracciai, appoggiando la testa sulla spalla del mio pirata e stringendo il fianco del mio ragazzino.
«Abbiamo tempo», sussurrai. «Sono a casa adesso». Sicuramente c’era molto di cui discutere, c’erano ancora questioni da risolvere, persone da presentare, storie ed avvenimenti da raccontare ma eravamo a  Storybrooke ed era questo l’importante. Finalmente eravamo a casa.


 
Angolo dell’autrice:
Buona sera a tutti e come sempre ecco un capitolo.
Questa volta mi sono voluta concentrare solo su Emma. Avevo pensato di narrare una parte della storia anche dal POV di Killian, ma non tornava bene con i sentimenti che volevo mettere in evidenza. Insomma mi ero sempre immaginata questi avvenimenti dal punto di vista di Emma e raccontarla in un altro modo non mi piaceva per niente.
Comunque, alla fine ho portato i nostri eroi a casa e tutto è andato bene.
Voglio un attimo soffermarmi su Robin e Regina: ho iniziato a scrivere questa storia prima che si sapesse del legame tra lui e la Regina Cattiva e della diversità del Robin del mondo dei desideri rispetto a quello reale. Per questo ho voluto far rinascere questa coppia che a me piaceva molto.
Come sempre grazie a chiunque legga la mia storia. Vi anticipò che probabilmente ci saranno solo altri due capitoli (compreso l’epilogo) e che quindi questa storia sta giungendo al termine.
Un bacione e alla prossima!
Sara
 

Ritorna all'indice


Capitolo 22
*** 22. Facciamolo adesso ***


22. Facciamolo adesso
 
POV Killian
Continuavo a guardare Emma dormire senza riuscire a distogliere lo sguardo. La luce filtrava attraverso la finestra chiusa, permettendomi di osservare il suo meraviglioso corpo avvolto nelle coperte. Era davvero bellissima e dovevo impegnarmi per resistere alla tentazione di baciarla; tuttavia sapevo che doveva riposare e non volevo svegliarla per nessun motivo, soprattutto per uno egoistico come quello reclamato dal mio corpo.
Era ore che dormiva profondamente e quello era un segno evidente di quanta stanchezza avesse accumulato; doveva essere stremata, eppure era riuscita a crollare solo una volta giunti a casa. In quel momento dormiva distesa su un fianco in posizione fetale, con il lenzuolo stretto nel pugno; stava leggermente russando e sicuramente non mi avrebbe creduto se glielo avessi detto. Nella sua larga maglietta, che le faceva da pigiama, con i capelli scompigliati e l’espressione rilassata sul viso era davvero perfetta.
Io d’altro canto non riuscivo a dormire come lei. Dopo qualche ora di riposo mi ero svegliato, notando che Emma si era mossa nel sonno; non aveva più la testa appoggiata sul mio petto ed era tornata ad occupare la sua parte di materasso. Successivamente mettere a tacere la mia testa e tentare di riprendere sonno fu letteralmente impossibile; l’unica cosa che mi distraeva da me stesso, e dalla mia farneticante mente, era l’osservare Emma. Vedere il suo respiro regolare, il suo petto abbassarsi e alzarsi ritmicamente, riusciva a calmarmi come solo l’oceano era riuscito a fare. Quando dopo la morte di Milah i miei pensieri si facevano troppo pressanti, uscivo sul ponte della Jolly Roger ed osservavo quell’immensa distesa di acqua azzurra; adesso non ne avevo più bisogno, c’era Emma a fungere da calmante naturale.
Avvicinai l’uncino ai suoi capelli senza però toccarli veramente. Ero girato su un fianco con la testa appoggiata sulla mano e se lei si fosse svegliata in quel momento avrebbe per prima cosa notato me intento a guardarla come un maniaco. Tuttavia non mi importava, perché lei sapeva benissimo l’effetto che aveva su di me; d’altro canto era una cosa del tutto reciproca.
Osservai ancora una volta le sue labbra socchiuse e sentii una fitta di desiderio nel basso ventre. Probabilmente se fosse dipeso da me, difficilmente saremo usciti da quella camera per molto tempo. Ora che eravamo finalmente a casa e che tutti i problemi sembravano in qualche modo risolti, cosa potevo desiderare di più se non lei in tutti i modi possibili? Senza considerare il fatto che se non fossimo usciti di camera lei non avrebbe incontrato quel bamboccio che credeva suo amico. Colpirlo, là nell’Oltrebrooke prima di tornare a casa, mi era venuto naturale dopo aver scoperto che l’aveva baciata. Che razza di uomo bacia una donna come Emma sapendola già impegnata? Una piccola vocina nella mia testa mi diceva che io avevo fatto ben di peggio in passato, tuttavia non le prestai ascolto.
Ripensando a Charlie sentii la rabbia montare di nuovo. Emma mi aveva costretto a chiedergli scusa e si era infuriata per quel mio comportamento; tuttavia lei sapeva come ero fatto. Ero geloso ed ero pur sempre un pirata: nessuno avrebbe mai potuto permettersi di toccare la donna di Capitan Uncino. Era il mio carattere; anche se lei aveva creduto che la considerassi debole, come una damigella in difficoltà, non era assolutamente così. Le credevo quando mi diceva che aveva rimesso il bamboccio al suo posto, sapevo che era in grado di farlo, però non poteva certo aspettarsi che io rimanessi indifferente. In fin dei conti il bacio che ci eravamo scambiati io e Milah era completamente diverso da quello che le aveva dato quel bellimbusto.
Scossi la testa cercando di scacciare quei pensieri che mi facevano solo innervosire e tornai a concentrarmi su Emma. Cercai di coordinare il mio respiro con il suo, nel tentativo di riprendere sonno, tuttavia i miei occhi erano più spalancati che mai.
All’improvviso la mia Swan biascico qualcosa nel sonno, allungandosi inconsciamente verso di me. «Kill…». Istintivamente un sorriso ebete mi si disegnò sulla faccia, intuendo che probabilmente lei mi stava sognando. Il mio cuore perse un colpo e iniziò a battere all’impazzata; Emma diceva sempre che io non avevo la minima idea dell’effetto che avevo su di lei: beh sicuramente anche il mio corpo reagiva in maniera esagerata alla sua presenza. Mi bastava ascoltare il mio nome biascicato nel sonno per far fare una capriola al mio stomaco e per sentire le ginocchia molli e la testa leggera.
Non riuscendo più a resistere, allungai l’uncino verso di lei e le scostai una ciocca di capelli dal viso. Ne avevamo passate talmente tante che stentavo a credere che quel momento di tranquillità fosse reale. Io e lei nel nostro letto, senza nessun pericolo imminente: sembrava quasi impossibile.
Le lasciai ricadere la ciocca di capelli dietro l’orecchio e allontanai quella mia protesi prima che potesse svegliarsi; tuttavia, non appena ebbi ritratto il braccio, Emma iniziò lentamente a sbattere le palpebre fino a che due enormi pozze verdi non incrociarono il mio sguardo.
«Buongiorno», mormorai rivolgendole un dolce sorriso.
«’Giorno», biascicò, iniziando a stiracchiarsi. «Che ore sono?».
«Non ha importanza; piuttosto hai dormito bene?».
Mugolò in risposta per poi tornare a fissarmi intensamente. «Tu invece mi stavi guardando. Te l’ho già detto che è un gesto un po’ ossessivo».
«Beh sei bellissima e non riesco a distogliere lo sguardo. Cosa ci posso fare?». Per me era perfetta anche con gli occhi impastati e i capelli sparpagliati disordinatamente sul cuscino.
«Certo, posso immaginare quanto sia bella così appena sveglia». Le sue guance si tinsero di rosa, facendola risultare ancora più stupenda. Non aveva la minima idea di come fosse realmente.
«Per me lo sei». Il sorriso che le si disegnò sulle labbra avrebbe sciolto il cuore di molti; invece era solo e soltanto per me.
Senza più resistere mi allungai e la baciai, facendo scivolare il braccio sotto la sua schiena per poterla stringere al mio petto. Assaporai le sue labbra come avevo desiderato fare per buona parte della nottata, facendo scorrere la mia lingua sulla sua e perdendo così la cognizione del tempo.
«Dovresti svegliarmi così ogni mattina», sussurrò lei dopo un po’, sfiorando il naso sulla mia guancia.
«Non sarà un problema farlo». L’avrei fatto più che volentieri.
«Immagino». Mi accarezzò dolcemente il viso e catturò di nuovo le mie labbra con le sue. Passai le dita tra i suoi capelli, mentre percepivo ogni parte del suo corpo appiccicata al mio. Se avesse continuato a strusciarsi a me così, ben presto si sarebbe ritrovata completamente nuda e in tutta altra posizione.
Emma dovette percepire la mia eccitazione – era piuttosto facile accorgersene visto che stava prepotentemente premendo contro la sua coscia – e per questo smise di baciarmi, rivolgendomi uno dei suoi meravigliosi sorrisi. Inconsciamente si morse il labbro inferiore e quel gesto servì per farmi perdere completamente il controllo; mi avventai su di lei come un assettato su un bicchiere d’acqua, non desiderando altro che spingermi dentro di lei ed unire i nostri corpi in ogni modo possibile.
 
Non so quanto tempo dopo, ma sicuramente in seguito ad una serie di orgasmi sia miei che suoi, ci ritrovammo avvinghiati l’uno all’altra, coperti solamente da un leggero lenzuolo. Le dita di Emma continuavano a scendere e a salire lungo il mio braccio, tracciando una linea immaginaria e mandando così a fuoco la mia pelle con un semplice tocco. La mia mano era poggiata sul suo fianco, dove anch’io facevo scorrere lentamente le mie dita. Con l’uncino invece le stavo delicatamente districando una ciocca di capelli, strusciando il freddo metallo vicino alla sua guancia. Con la sua testa appoggiata alla mia spalla non riuscivo a scorgere i suoi meravigliosi occhi, tuttavia le rendevo possibile lasciare una scia di dolci baci lungo il mio collo.
«Killian», sussurrò all’improvviso rompendo il silenzio. «Devo chiederti una cosa».
«Cosa?». Cercai di abbassare lo sguardo per poter osservare la sua espressione, ma lei aveva voltato la testa ancora di più verso l’incavo della mia spalla, impedendomi di intravedere anche il minimo sguardo.
«Passare del tempo lontana da te, essere persa in quel fiume, mi ha fatto riflettere e capire molte cose».
«E questo c’entra con la domanda che vuoi farmi?». Tentai di seguire il suo ragionamento, ma come sempre la sua mente andava a mille.
«Sì». Improvvisamente si tirò su staccandosi da me e mettendosi a sedere sul letto. Si avvolse nel lenzuolo nascondendo il suo corpo perfetto e mi fissò con espressione decisa. Pur non capendo il perché di quel cambiamento la imitai e mi misi a sedere accanto a lei, aspettando la sua fatidica domanda.
«L’anello che mi hai regalato per il compleanno è sempre nel tuo cassetto?». Sbattei le palpebre preso completamente alla sprovvista da quella domanda. Non mi ero aspettato che tutta quella sacralità portasse ad un qualcosa del genere. Dove voleva andare a parare?
«Beh sì», balbettai perplesso.
«Credo che dovresti prenderlo Killian». La fissai incerto; non ero del tutto sicuro che mi stesse realmente chiedendo quello che io avevo intuito. Mi stava dicendo che dovevo prenderlo per darlo a lei? Mi stava suggerendo che era pronta, che era finalmente disposta a sposarmi? Forse era solo quello che volevo credere ed io mi stavo costruendo un film mentale che invece non esisteva.
Emma dovette leggere l’incertezza sul mio volto perché confermò di nuovo ciò che aveva appena detto. «Tira fuori quell’anello Killian». Il suo sguardo era più deciso che mai; era sicura di ciò che stava per fare ed io avevo aspettato per molto tempo di vedere quella determinazione e sicurezza sul suo volto.
«Chiedimelo Killian», continuò visto che io non mi muovevo. Mi ero come pietrificato, stentando a credere che stesse succedendo davvero. «Chiedimelo adesso».
Il sorriso fu la prima cosa a sciogliersi del mio corpo. Le rivolsi uno dei miei più irresistibili sorrisi, sentendo il cuore accelerare e le farfalle svolazzare nello stomaco. Era incredibile: quella donna mi faceva sentire un ragazzino nonostante i miei duecento e passa anni.
Emma ricambiò il mio sorriso, intuendo il mio stato d’animo, e tutta l’emozione di quel momento apparve chiara sul suo volto. Vedere quella tempesta di sentimenti sul viso del mio cigno riuscì finalmente a sciogliermi completamente, in modo tale da poter fare ciò che mi aveva chiesto. Presi di nuovo il controllo del mio corpo e mi decisi così a muovermi, rompendo la rigidità in cui mi trovavo. Prendendo un profondo respiro mi alzai, mi rinfilai i pantaloni del pigiama – non mi sembrava appropriato chiederglielo completamente nudo – e poi frugai nel cassetto dove avevo accuratamente riposto la scatolina con l’anello. Nel frattempo Emma si era avvicinata al bordo del letto, rinfilandosi il suo particolare pigiama e sedendosi sulle ginocchia in attesa della mia fatidica proposta.
Tirai fuori l’anello dalla sua custodia e lo strinsi forte nella mano, voltandomi a guardare il mio meraviglioso cigno. «Avrei dovuto preparare un discorso», mormorai trovandomi momentaneamente a corto di parole.
«Non importa Killian, chiedimelo e basta». Invece aveva importanza, volevo che fosse perfetto, ma forse lo era già anche così.
«Ti amo così tanto», balbettai non sapendo cos’altro dire. «Emma non ho mai desiderato nulla così ardentemente come il passare il resto della mia vita con te». Il suo sorriso si allargò, mentre i suoi occhi brillarono di emozione, in un modo che non avevo mai visto.
E poi semplicemente mi inginocchiai e glielo chiesi. Pronunciai quelle quattro parole, sapendo per certo quale sarebbe stata la sua risposta e stentando ancora a crederci. «Emma Swan vuoi sposarmi?».
«Sì». Si portò una mano alla bocca comprendo così il suo meraviglioso sorriso. Tuttavia erano i suoi occhi a parlare; erano due immensi prati verdi in cui riuscivo a scorgere ogni singola sensazione. «Sì Killian». Era felice ed emozionata esattamente come lo ero io, nello stesso identico modo. Non era il momento perfetto che avevo sognato, ma forse era meglio; il turbinio di emozioni che stavo provando ne era la conferma.
Ebbi giusto il tempo per infilarle l’anello al dito prima che si alzasse e mi travolgesse con il suo abbraccio. Mi baciò ardentemente non lasciando il minimo spazio tra i nostri corpi e trasmettendomi tutta la sua felicità. Per tutta riposta la sollevai facendole fare un mezzo giro, mentre le nostre labbra erano impegnate in tutt’altro genere di comunicazione.
«Ti amo così tanto anch’io», sussurrò quando lasciai andare la sua bocca, riportandola con i piedi per terra.
«Non riesco ancora a credere che stia succedendo realmente», mormorai appoggiando la fronte sulla sua.
«Sono stata una stupida a non capirlo prima», ammise con gli occhi ancora brillanti di emozione. «Non c’è mai stata altra possibilità; non riesco proprio a capire cosa stessi aspettando».
«Non importa Swan». Le accarezzai la guancia con il pollice, facendole capire che le sue remore adesso avevano perso del tutto di significato: aveva appena detto sì ed era quella l’unica cosa che aveva senso. «Adesso non ha più importanza, perché diventerai mia moglie; lo sai che io avrei aspettato anche tutta la vita pur di poterti alla fine chiamare signora Jones».
«Lo so Killian», sussurrò chiudendo gli occhi per un istante. Quando li riaprii mi travolse con il suo intenso sguardo: potevo scorgervi una determinazione tale da fare quasi paura. «Ma io non voglio più aspettare».
«Beh non dovremo più aspettare», dichiarai. Avevamo preso la nostra decisione, presto saremo stati marito e moglie.
«No Killian», ribatté decisa, «intendo che non voglio più attendere neanche un giorno. Sposiamoci subito, stasera stessa».
«Cosa?». La fissai sorpreso ma allo stesso tempo felice da quella sua particolare richiesta.
«Sì, non mi importa di avere un matrimonio in pompa magna, almeno che non interessi a te. Non voglio una di quelle cerimonie reali come organizzerebbero i miei genitori; mi basta qualcosa di semplice… noi due, Henry, i miei genitori e i nostri amici. Beh in realtà mi andrebbe bene anche partire e sposarti a Las Vegas di fronte ad uno dei tanti Elvis, in jeans e giubbotto di pelle; e credimi se non sapessi di dare un dispiacere a mia madre lo farei, perché non vedo l’ora di diventare tua moglie ed essere per sempre tua…».
Aveva iniziato a parlare a macchinetta, come faceva quando era imbarazzata. Avrebbe continuato se non l’avessi fermata. «Emma cosa stai farneticando?».
«Beh quello che intendo dire è che possiamo chiedere ad Archie di celebrare la cerimonia stasera stessa solo per chi vogliamo noi».
«E i tuoi genitori? Non credo che ne sarebbero felici». Non ero contrario all’idea, anzi tutt’altro; il solo pensiero che Emma sarebbe potuta diventare mia moglie già da quella sera stessa era meraviglioso. Tuttavia, cosa avrebbero pensato David e Mary Margaret? Già avevo faticato e molto per ottenere la loro approvazione, cosa avrebbero detto se avessi tolto loro la possibilità di organizzare il matrimonio della loro adorata figlia? In fondo erano una delle poche cose che il sortilegio non gli aveva ancora portato via; dovevo essere io a farlo?
«Parlerò io con i miei». Emma mi strinse forte la mano tra le sue e mi guardò con sguardo implorante. «Spiegherò loro che è una mia idea e non si perderanno nulla. Ci sarà il matrimonio solo che sarà una cosa semplice, solo per noi».
«Lo sai che voglio sposarti Emma, però non voglio che tu rinunci a nulla».
«E non ci rinuncerò», replicò emozionata. «Mio padre mi accompagnerà all’altare e tu sarai lì ad aspettarmi. Ci scambieremo gli anelli, diremo le nostre promesse, solo che lo faremo stasera. E poi sarò tua per sempre». Come potevo rifiutare quando era l’unica cosa che volevo? Se lei ne era convinta, io non avrei certo esitato.
Stavo per accettare, ma Emma non mi fece parlare e continuò nella sua supplica. «Ti prego Killian sposami stasera stessa, dimmi di sì. Io ne sono convinta te lo…».
La fermai posandole l’uncino sulle labbra. «Sì Swan. Certo che sì». La baciai suggellando così quel nostro accordo. Non importava cosa avrebbero pensato gli altri o i suoi genitori: importava soltanto ciò che volevamo noi. E noi volevamo solo stare insieme e restarlo per sempre. Non avrebbe cambiato niente aspettare qualche mese per celebrare un matrimonio in pompa magna o farlo semplicemente quella sera stessa. Eravamo sempre noi, i nostri desideri immutati e il nostro amore più forte che mai.
 
POV Emma
Strinsi più forte le dita di Killian, mentre varcavamo la soglia del loft dei miei. Avevo telefonato loro dicendo che avevamo importanti novità da comunicare e avevo fatto in modo che anche Henry fosse presente. Avevo deciso invece che era meglio lasciare a Robin e Regina un po’ di intimità.
Ero nervosa, non tanto per via del matrimonio, ma per la loro reazione; sapevo che sarebbero stati contenti, ma lo sarebbero stati ancora dopo aver detto loro di volerlo fare quella sera stessa?
L’idea di accelerare così tanto il fidanzamento e quindi il matrimonio non era solo un capriccio. Ero passata da averne paura al non volere più aspettare neanche un secondo per averlo; tuttavia c’era un motivo più che valido dietro quel repentino cambiamento. Combattevamo ogni giorno contro sortilegi o pericoli di ogni genere ed ero certa che saremo riusciti ad affrontarli tutti; ma era proprio per questo: ci sarebbe sempre stati pericoli e cattivi da affrontare e non potevamo programmare il momento perfetto per il nostro matrimonio. La perfezione l’avremo avuta comunque perché noi due ci amavamo e ci bastava quello; non avevamo bisogno di una organizzazione in stile “matrimonio reale” per essere felici, anche perché qualcosa sarebbe comunque andato storto. Io volevo solo lui senza più timori né paure.
Non ero certa, però, che i miei genitori l’avrebbero capito. Henry ne sarebbe stato felice, ma anche se avevo rassicurato Killian sul fatto che avrei parlato io stessa con i miei, non ero sicura che sarebbero stati così accomodanti come mio figlio.
Per questo stringere forte le dita di Killian tra le mie mi aiutava a mantenere la calma, oltre a nascondere lo stupendo anello che adesso portavo al dito. Erano entrambi due buoni motivi per continuare a tenere forte la sua mano.
Trovammo sia i miei genitori che Henry in cucina, probabilmente in nostra attesa. Quando entrammo ci studiarono attentamente, cercando di capire quale diavolo fosse il motivo di quella improvvisa riunione.
«Emma tesoro va tutto bene?», mi domandò per prima mia madre, tenendo tra le braccia Neal.
«Sì mamma non ti preoccupare», la rassicurai subito. «Abbiamo solo delle importanti novità da comunicarvi».
«Novità positive», specificò Hook. Vidi tutti rilassarsi a quelle parole; eravamo fin troppo abituati ad affrontare una situazione critica dietro l’altra, non era facile adattarsi all’idea di ricevere buone notizie.
«Beh allora perché non vi sedete?», ci propose mio padre. Guardai gli sgabelli davanti a noi, facendo una smorfia; preferivo di gran lunga stare in piedi, anche se non avevo ancora avuto il tempo di fare colazione e sarei potuta svenire da un momento all’altro dalla fame.
Tuttavia fu Killian a parlare per primo. «Volentieri». Mi trascinò al tavolo facendomi sedere accanto a lui, sempre tenendo stretta la mia mano.
«Avete fatto colazione?», ci chiese gentilmente mia madre, mettendo mio fratello nel suo seggiolone.
«Certo che l’hanno fatta è quasi ora di pranzo», intervenne subito mio padre. Il mio stomaco brontolò, ricordandomi che erano ore che non mettevo niente sotto i denti e sicuramente io e Killian avevamo svolto un bel po’ di attività fisica quella mattina.
«In realtà no», rispose Killian, rivelando così più informazioni di quanto avrei voluto far trapelare. Tuttavia doveva aver sentito il mio stomaco e come sempre si era preoccupato per me; tendeva senza sosta a soddisfare ogni mio bisogno e potevo solo esserne felice.
«Abbiamo dormito fino a tardi», cercai di giustificarmi, ma nessun in quella stanza sembrò credere alle mie parole, nemmeno mio figlio. Era già così grande da capirlo?
«Beh per fortuna sono avanzati alcuni pancake», concluse mia madre, andando a prendere due piatti dal lavello e tornando con un vassoio colmo di pancake.
«Avanzati?», le domandai alzando un sopracciglio mentre il mio stomaco faceva le capriole sentendo quel profumino invitante.
«Beh avevo voglia di cucinare». Mentre posava il piatto davanti a noi, Hook lasciò andare la mia mano, rendendo così visibile l’anello di fidanzamento che faceva bella mostra sul mio dito. Tuttavia nessun avrebbe potuto notarlo, visto che la mia mano era ancora in parte sotto il tavolo; nessuno ad eccezione di mia madre che era leggermente sbilanciata verso di me.
Vidi i suoi occhi dilatarsi scorgendo quel brillante gioiello alla mia mano, ciò nonostante dovette trattenere il suo entusiasmo perché, sorprendentemente, non disse nulla e si morse invece il labbro per riuscire a tacere. Lasciò che noi mangiassimo senza dire una sola parola, portandoci da bere e servendoci da perfetta padrona di casa. Non mi sarei mai aspettata un comportamento così remissivo da parte sua; pensavo che avrebbe iniziato ad urlare di gioia ancor prima di farci dare la lieta notizia agli altri. Tuttavia dovetti incredibilmente ricredermi.
Per il resto della colazione mi sforzai di tenere la mano sotto il tavolo e di mangiare solo con l’altra, sentendo gli sguardi di tutti puntati addosso. Di sicuro se non fossi stata così affamata mi sarebbe andata di traverso la colazione per tutta quell’attenzione canalizzata su di me e Killian.
«Bene adesso che avete mangiato», proruppe mio padre, «volete decidervi a parlare. Non abbiamo certo tutto il giorno».
«D’accordo». Mi alzai, lanciando uno sguardo ad Hook in cerca della sua approvazione; quando lo vidi imitarmi, rivolgendomi un sorriso rassicurante, presi un profondo respiro in modo tale da riuscire a continuare. «Mamma, papà, Henry», li chiamai. Li fissai uno per uno, cercando con ogni sguardo il loro consenso. «Io e Killian ci sposiamo». Lo dissi tutto di un fiato, ma era l’unico modo per sganciare quella bomba.
«Oh tesoro è meraviglioso», proruppe mia madre abbracciandomi, lasciando finalmente uscire tutto il suo entusiasmo. «L’avevo capito non appena ho visto l’anello», aggiunse vicino al mio orecchio.
«È bellissimo mamma, sono contento per voi», continuò Henry, dando una pacca sulla spalla a Killian per poi venirmi ad abbracciare una volta che mi fui liberata dalla presa di mia madre.
«Benvenuto in famiglia». Mary Margaret si sporse ad abbracciare Hook, travolgendolo con il suo entusiasmo e lasciandolo interdetto.
Tuttavia c’era ancora una persona che non aveva detto una sola parola ed era un fatto piuttosto preoccupante. Fissai mio padre da sopra la spalla di Henry cercando di capire come avesse preso quella notizia; Hook non gli era mai piaciuto un granché ma pensavo che la questione fosse ormai superata.
«Papà?», domandai lasciando andare mio figlio e avvicinandomi a lui. «Ti prego di’ qualcosa».
Il sorriso che mi rivolse riuscì a sciogliere il nodo che mi stava serrando la gola e a farmi riprendere a respirare normalmente. «Sono molto felice per voi», mormorò abbracciandomi e baciandomi sulla guancia.
«Grazie», sussurrai ricambiando il bacio.
«So che non potrei affidarti ad uomo migliore. Ha dimostrato più volte quanto tu sia importante per lui, so che ti proteggerà sempre».
«A costo della mia stessa vita». Killian aveva ascoltato il nostro scambio di battute e mi stava osservando stretta al petto di mio padre. Lo lasciai andare per permettergli di stringere la mano di Hook e poi mi spostai di nuovo tra le braccia del mio futuro marito.
«Fa vedere l’anello tesoro», intervenne mia madre prendendomi la mano. «Dovremo iniziare a progettare il matrimonio». Era come al solito piena di entusiasmo, però avrei dovuto mettere subito un freno alle sue intenzioni. Avevo detto loro del fidanzamento, adesso veniva la parte più difficile. Mi dispiaceva non darle il matrimonio da principessa che aveva sognato per me, ma i miei desideri erano diversi.
«Mamma a proposito di questo», intervenni sospirando. «Avrei una richiesta da farti».
Lei sbatté le palpebre stupita dal mio intervento, ma non disse nulla, lasciandomi la possibilità di continuare.
Presi un profondo respiro per prendere coraggio. «Noi non vogliamo un matrimonio in grande, non importa. Basta che ci siate voi e i nostri amici».
«D’accordo tesoro, non credo che sarà un problema». Mi prese entrambe le mani con le sue e mi rivolse un sorriso raggiante, che demolì completamente tutta la mia audacia. Come potevo dirle, quando lei mi guardava in quella maniera, che non avrebbe organizzato proprio nulla?
Fu Hook a togliermi dall’impiccio, rivelando la verità al mio posto. «Mary Margaret quello che Emma sta cercando di dirti è che noi non vogliamo più aspettare, vogliamo sposarci stasera stessa».
«Cosa?». Non era stata solo mia madre a parlare, anche David adesso ci fissava sconvolto.
«È una tua idea?». Possibile che dovesse accusare Hook, nonostante l’attimo prima gli avesse dato la sua benedizione?
«No, non è una sua idea papà. È mia», intervenni facendomi forza. «C’è sempre un pericolo ad aspettarci dietro l’angolo, mi sembra inutile rimandare quando abbiamo la possibilità di farlo oggi stesso senza nessuna nuova minaccia nel mezzo».
«Ma…». Mia madre fece per parlare ma la fermai.
«Mamma, Killian è quello che voglio e non ha senso aspettare. Non cerco il matrimonio perfetto, perché so che non lo troverei pianificando tutto nei minimi particolari. Farlo stasera sarebbe invece rendere reale l’unica cosa che desidero; voglio solo sposarlo, noi vogliamo solo sposarci». Non sapevo come farle capire tutto ciò che provavo, erano una valanga di emozioni e non ero sicura di essermi espressa chiaramente.
Lei mi guardò in silenzio per un secondo che sembrò durare un’eternità; alla fine la sua espressione si addolcì ed emise un leggero sospiro. «D’accordo, lo faremo stasera».
«Grazie», sussurrai mentre un enorme sorriso mi si dipingeva sul viso.
«Lo sai che per te faremo tutto quello che desideri», intervenne papà. Lo sapevo, ma non ci ero abituata.
«Credo che dovremo avvertire Archie», intervenne Henry, «e anche tutti gli altri».
«Beh dovremo darci un bel po’ da fare», continuò mio padre. «Dobbiamo organizzare un matrimonio in poche ore».
«Ragazzino avrò bisogno del tuo aiuto», intervenne Killian, allungando l’uncino per sfiorare bonariamente la spalla di mio figlio. «Vogliamo chiamarla Operazione Testimone?».
Gli occhi di Henry si illuminarono ed io sentii il cuore gonfio di orgoglio per l’uomo che stavo per sposare. Vedere il rapporto che aveva creato con mio figlio mi faceva emozionare ogni volta.
«Davvero?», balbettò Henry. «Cioè volevo dire… d’accordo, sarà un onore».
«Credo che voi uomini dovreste andarvene adesso», sentenziò mia madre, andando letteralmente ad aprire la porta. «Hook lo sai che porta sfortuna vedere la sposa prima del matrimonio. Andatevene! Qua abbiamo molto di cui discutere».
«D’accordo, ai suoi ordini». Hook l’assecondò facendo una specie di inchino per poi prendermi tra le braccia. «Ci vediamo dopo tesoro».
«Va bene», acconsentii baciandolo dolcemente.
«Io sarò quello all’altare», sussurrò ad un centimetro dalle mie labbra.
«D’accordo, vedrò di ricordarmelo». Lo baciai per un ultima volta per poi lasciarlo andare, sapendo che quando l’avrei baciato di nuovo non sarei più stata la stessa; saremo stati marito e moglie.
 
Era incredibile come le ore fossero volate e come adesso mi ritrovassi avvolta in un abito bianco, trovato proprio all’ultimo minuto, in attesa di celebrare il mio matrimonio. Nonostante il poco preavviso molte persone erano venute ad assistere a quell’evento ed io mi sentivo stranamente nervosa. Non avevo paura di sposarmi, anzi era proprio il fatto di non vedere l’ora ad impedirmi di stare ferma. Continuavo a tamburellare le dita sul mio vestito e ad un osservatore esterno sarei potuta sembrare una sposa con qualche ripensamento; invece era proprio tutto il contrario. In cuor mio non stavo più nella pelle: volevo intraprendere quel passo e volevo farlo con Killian.
«Finirai per sgualcire il vestito se non stai ferma». Regina mi rimproverò guardandomi con disapprovazione avvolta nel suo abito firmato da damigella di onore. «Non dovresti essere così nervosa, del resto sei stata tu a voler fare tutto così in fretta».
«Non sono nervosa», la contraddissi, «sono solo impaziente».
«Beh non per questo devi rovinare il tuo vestito. Hook sgranerà gli occhi vedendoti». Beh non avevo dubbi sul fatto che l’avrebbe fatto: anche se era un semplice abito da sposa con la gonna a campana mi stava a pennello; la scollatura a cuore sembrava disegnata per me. Era stato davvero un colpo di fortuna trovarlo nel quasi unico negozio di Storybrooke, altrimenti avrei dovuto farlo apparire uno con la magia; non ero certa però che il risultato sarebbe stato altrettanto soddisfacente.
«Regina ha ragione», intervenne mia madre, prendendomi una mano tra le sue. «Sei bellissima». Le sorrisi per ringraziarla e tornai a concentrarmi sul mio cuore che batteva a mille; se già andava a quella velocità cosa avrebbe fatto una volta arrivata davanti all’altare? Mi sarebbe venuto un infarto vedendo Killian e probabilmente non avrei fatto a tempo a sposarmi.
«Emma». Regina mi ridestò dai miei pensieri, attirando così la mia concentrazione. «Non ho ancora avuto l’opportunità di dirti una cosa».
«Cosa?». Cercai di intuire a cosa si stesse riferendo, ma la sua espressione era seria e imperscrutabile.
«Grazie». I suoi occhi si allargarono e mi trasmisero una profonda commozione. «Robin mi ha detto ciò che hai fatto là sotto, come sei riuscita a riportarlo in vita. Non potrò mai ringraziarti a sufficienza per questo».
«Non è stato merito mio», mi schermii.
«Invece sì. Potrai non aver fatto tutto da sola, ma senza di te non si sarebbe mai salvato».
«Te lo dovevo», replicai, «era la cosa giusta da fare. È stata colpa mia se Ade ha fatto ciò che ha fatto». Fece per ribattere ma io la fermai con un gesto della mano. «Puoi pensare ciò che vuoi Regina, puoi dare la colpa a Zelena per avere creduto ad Ade, ma sono stata io a portarvi tutti nell’Oltretomba la prima volta; sono stata io a scatenare tutto».
«Beh ti sei fatta perdonare adesso», intervenne mia madre, passandomi una mano sulle spalle.
«Già credo proprio di sì».
«Puoi abbandonare i tuoi sensi di colpa, visto che hai portato con te anche quella piantagrane di Crudelia», scherzò Regina per alleggerire l’atmosfera. «Ma dico era proprio necessario?».
«Ci aiutato davvero laggiù, per quanto sia difficile crederlo».
«Beh allora credo che dovremo abituarci ad avere un’altra psicopatica a Storybrooke». Regina alzò gli occhi al cielo e allargò le braccia in segno di rassegnazione.
Proprio in quel mentre mio padre entrò nella stanza interrompendo le nostre chiacchiere. «Siete pronte?».
Sentii le farfalle nello stomaco e le ginocchia tremare, ma non ero mai stata più pronta di così. «Sì», risposi prendendo un profondo respiro.
«Bene allora direi che possiamo cominciare». Papà si avvicinò al mio fianco, prendendo il posto della mamma che si allontanò dopo avermi dato un bacio sulla guancia. Lei e Regina uscirono in modo tale da precedere me e mio padre, lungo la navata improvvisata della sala comunale.
«Dio sei bellissima tesoro». Mio padre mi prese il braccio scrutandomi da capo a piedi.
«Grazie papà».
«Non posso credere che sto per accompagnarti all’altare». Beh anch’io stentavo ancora a crederlo.
«Siamo in due», sussurrai. «Non avrei mai immaginato di poter vivere questo momento così». Non  avevo mai creduto possibile che un giorno mio padre mi avrebbe portato all’altare; credevo impossibile sia trovare l’uomo giusto per me sia il poter rintracciare i miei genitori.
«Almeno questo sarà un momento che non ci scorderemo mai. Niente potrà mai toglierci il ricordo di questo passo fondamentale». Aveva ragione: lui e la mamma si erano persi molte cose della mia infanzia e della mia vita, ma questo non era una di quelle. C’erano così tante altre cose che avrei potuto condividere con loro, era inutile concentrarsi sul passato e su ciò che non potevamo cambiare.
«Andiamo Emma», sussurrò mio padre guidandomi fuori dalla stanza. «È il momento».
Lo seguii sentendo le gambe tremare, anche se non ero mai stata più sicura di così. Era ciò che volevo e per una volta era anche ciò che stava accadendo.
Nonostante ciò, tutto il mio nervosismo, la mia impazienza, scomparve nell’esatto istante in cui lo vidi, così come il resto della sala e delle persone presenti. C’eravamo solo io e lui, occhi negli occhi, e l’evidente immenso amore che provavamo ognuno nei confronti dell’altro.
Killian era bellissimo nel suo smoking nero, lo sguardo talmente chiaro da risaltare su tutto il resto e il sorriso più abbagliante che mai. Non appena mi vide riuscii a scorgere ogni singola emozione dipinta sul suo viso; era come se i nostri cuori avessero cominciato a battere all’unisono perché io provavo le stesse identiche cose. Il sorriso ebete che mi si dipinse sulla faccia era esattamente lo stesso che potevo scorgere sul volto di Killian, così come l’emozione che vedevo nei suoi occhi doveva essere riflessa anche nei miei.
In un attimo mi ritrovai davanti a lui, con mio padre che mi lasciava il braccio, dandomi un bacio sulla guancia e porgendo la mia mano a Hook, in uno dei più antichi gesti simbolici. Strinsi forte le dita di Killian e mi posizionai al suo fianco, pronta ad ascoltare le indicazioni del Grillo Parlante.
«Siete pronti per recitare le vostre promesse?».
Killian prese un profondo respiro prima di parlare, tenendo stretta la mia mano e lanciandomi uno sguardo capace di mozzarmi il fiato. «Emma quando ci siamo conosciuti, a me non importava di altro se non di una cosa: la mia vendetta. Ma tu sei riuscita a fare qualcosa di unico, mi hai mostrato come un cuore ricolmo d’amore fosse il tesoro più prezioso di tutti; un tesoro che ora non ho intenzione di perdere. Si dice che il cuore di un capitano appartenga alla sua nave…». Fece una pausa per prendere un anello e infilarmelo al dito, mentre il mio cuore batteva così forte da volermi quasi uscire dal petto. «Ma con questo anello, il mio ora appartiene a te». Strinse di nuovo forte le mie dita, facendomi commuovere ancora di più.
Sapevo che adesso toccava a me recitare la mia promessa; mi ero preparata un discorso, tuttavia le sue parole erano riuscite a farmi completamente dimenticare le mie. «Killian», balbettai facendo un profondo respiro. «Ho trascorso da sola gran parte della mia vita, ma poi Henry mi ha trovata…». Guardai mio figlio e gli sorrisi, riconoscendo che lui era una delle parti fondamentali della mia storia. «Mi ha portato qui a Storybrooke e mi ha aiutato a trovare il resto della mia famiglia. Ma il solo sapere di essere il frutto del Vero Amore, non basta a farti credere che tu troverai altrettanto; ma grazie a te, adesso l’ho trovato anch’io». Presi l’altro anello dalla scatola che teneva in mano Archie e glielo infilai al dito, stringendo poi forte la sua mano.
A quel punto fu il turno del Grillo Parlante a continuare. «Vuoi tu, Killian Jones prendere questa donna come tua legittima sposa ed amarla per l’eternità?».
«Lo voglio». Le farfalle svolazzarono più prepotentemente nel mio stomaco e se non fosse stato già al massimo anche il mio cuore avrebbe accelerato i battiti.
«E vuoi tu, Emma Swan, prendere quest’uomo come tuo legittimo sposo ed amarlo per l’eternità?».
«Lo voglio». Il sorriso che gli si disegnò sul volto fu di una bellezza mozzafiato.
«Allora è con grande piacere che vi dichiaro marito e moglie». Non dovetti aspettare altro: un istante dopo io ero già tra le sue braccia e le sue erano labbra sopra le mie dando vita al nostro primo vero bacio da sposati.
Era incredibile come si fossero evolute rapidamente le cose tra di noi. Era bastato un attimo, un solo secondo lontano da lui era riuscito a farmi capire cosa mi stavo perdendo. Adesso, però, non c’erano più dubbi, non c’erano più paure; erano tutte scomparse, sciolte come neve al sole. Tutto era chiaro e limpido: noi due ci appartenevamo e ci saremo appartenuti per l’eternità.


 
Angolo dell’autrice:
Buonasera a tutti! Chiedo umilmente perdono per l’immenso ritardo, ma proprio non ho avuto un attimo di tempo per scrivere. Oggi però finalmente ce l’ho fatta.
Sono da una parte felice di aver scritto questo capitolo, ma dall’altra anche triste perché adesso manca solo l’epilogo e dovrò quindi concludere presto questa storia.
Questo capitolo è completamente incentrato sui Captain Swan tralasciando tutto il resto; in un certo senso glielo dovevo. Ho voluto riprendere le promesse di Emma e Killian così come sono state nell’episodio perché mi erano piaciute molto e mi erano sembrate perfette. Non volevo creare per loro qualcosa di diverso, anche perché il confronto sarebbe stato inevitabile. Ho cambiato un po’ le vicende del matrimonio ovviamente, ma i loro sentimenti comunque restano gli stessi.
Per quanto riguarda l’epilogo dovrete aspettare un paio di settimane per averlo, perché domani parto per Londra per cinque giorni e non avrò tempo per mettermi a scrivere. Comunque prometto che mi ci metterò non appena rientro. ;)
Grazie come sempre a chiunque legga e recensisca. Un bacione e alla prossima!
Sara
 

Ritorna all'indice


Capitolo 23
*** Epilogo ***


Epilogo
 
POV Emma
Tentare di tenere a freno il mio nervosismo era un’impresa più che ardua, titanica. Non mi ero mai sentita così agitata, nel senso buono del termine intendiamoci; sapevo che quella trepidante attesa e i minuti che sarebbero seguiti dopo avrebbero cambiato radicalmente ogni aspetto della mia vita e, a pensarci bene, era proprio quello che desideravo. Chi l’avrebbe mai pensato! Se me l’avessero detto qualche anno prima probabilmente sarei scoppiata a ridere. 
Non ero mai stata il tipo di donna capace di aspettare a casa il proprio uomo in palpitante attesa, ma quella sera era un’evidente eccezione. Era ovvio che ci fosse sempre una prima volta e quella era sicuramente la mia: io Emma Swan – forse avrei fatto meglio a dire Emma Jones – mi stavo comportando da mogliettina dolce e premurosa. Altro che parità dei sessi, le femministe di tutto il mondo avrebbero sicuramente avuto da ridire per quel mio comportamento.
Avevo lasciato Charlie, il mio nuovo e affidabile vice, nonostante quanto ne dicesse mio marito, ad occuparsi di Storybrooke e mi ero presa un pomeriggio di riposo. Sorrisi pensando che probabilmente molto presto quell’eccezione non sarebbe diventata poi più così rara. Avere mezza giornata libera mi era servita per riuscire a organizzare la serata che avevo accuratamente programmato; avevo cucinato, avevo apparecchiato la tavola a lume di candela, avevo mandato Henry a dormire da Regina e mi ero fatta bella per Killian. In pratica avevo fatto ciò che ritenevo da sempre un rituale assurdo.
Ed ora eccomi lì in attesa dell’arrivo del mio pirata. Potevo solo sperare che Hook si degnasse di tornare a casa alla svelta in modo da evitare di rovinare in modo irreparabile la mia manicure, visto che avevo iniziato a mangiucchiarmi le unghie in preda all’ansia. Gli avevo anche mandato un messaggio e aspettavo il suo ritorno da un momento all’altro, solo che il tempo sembrava scorrere al rallentatore e i secondi parevano non passare mai.
All’improvviso mentre mi agitavo seduta al tavolo elegantemente apparecchiato, sentii la chiave girare nella toppa. Mi alzai di scatto e sul volto mi si dipinse un sorriso a trentadue denti.
«Ciao!», mormorai sentendomi come una ragazzina alle prese con il suo primo appuntamento «Ben tornato».
Killian appoggiò le chiavi sul mobilino accanto alla porta e solo dopo alzò la testa per guardarmi. La sua bocca si aprì leggermente e i suoi occhi si spalancarono per lo stupore. «Oh!». Era raro vederlo a corto di parole ma era esattamente l’effetto che avevo sperato.
«Sorpresa!», dichiarai sorridendo ancora di più.
«Per mille velieri…». Cercò le parole più adatte per esprimersi ma evidentemente non sapeva da che parte cominciare. «Dio sei bellissima… è tutto bellissimo».
Mi morsi il labbro inferiore trattenendo un ulteriore sorriso e mi avvicinai a lui per prenderlo per mano. «Vieni». Lo trascinai al tavolo, in modo che potesse ammirare meglio tutto il mio lavoro ed strinsi ancora più forte le sue dita, come a non volerlo più lasciare andare.
«Hai fatto tutto tu?», mi domandò ammirando la tavola apparecchiata e sentendo l’invitante profumino della cena. Quando mi ci mettevo ero una cuoca provetta, peccato che non avessi mai né il tempo né la voglia di cucinare.
Annuii e lasciai che lui si sedesse, per poi prendere posto proprio davanti a lui.
«Amore a cosa devo tutto questo?», mi domandò ancora perplesso. «Mi sono forse dimenticato qualcosa?». Si portò l’uncino sotto il mento cercando di trovare una spiegazione plausibile a tutta quella scena; ma non poteva, o almeno non ancora.
«Non ti sei dimenticato di nulla», lo tranquillizzai, stringendo forte le sue dita da sotto il tavolo.
«Sono sempre stato bravo con le date», continuò senza prestarmi ascolto. «Non è il nostro anniversario, non è il mio compleanno, né il tuo e non penso che sia un giorno particolare da ricordare. Non è neanche quella strana festa che in questo mondo chiamate San Valentino, quella è a febbraio…».
«Killian», lo fermai, trascinando la sua mano intrecciata alla mia sopra il tavolo. «Non ti sei dimenticato niente, tranquillo. Volevo solo farti una sorpresa».
«Beh per quanto mi faccia piacere tutto questo…», e indico con l’uncino la stanza che ci circondava, «tu non sei propriamente un tipo romantico. Non è da te fare questo genere di cose». Era vero, ma c’era un motivo più che logico dietro a quel mio assurdo e insolito comportamento.
«Forse hai ragione, ma per una volta mi andava di farlo. Adesso perché non mangiamo? Ho passato la serata a cucinare».
Mi alzai per poter così servire la cena ma lui mi trattenne per la mano. «Swan?». Il suo sguardo mi trafisse e come al solito mi lesse come un libro aperto. Non aveva bisogno di chiedermelo, aveva già capito che sotto c’era dell’altro anche se avevo tentato in qualche modo di tergiversare.
«Beh volevo aspettare dopo cena», sospirai sentendo il cuore accelerare.
«Non mangerei tranquillo non sapendo cosa mi stai nascondendo». In quanto a testardaggine avevo trovato un degno rivale, ma per una volta non volevo insistere. In fondo non avevo aspettato altro che quel momento da quando l’avevo saputo.
«D’accordo». Questa volta riuscii a liberare le mie dita dalle sue per poter andare a prendere la scatolina che avevo diligentemente confezionato.
«Questa è per te», mormorai porgendogliela. «Perché non la apri?». Lui mi lanciò uno sguardo confuso per poi afferrare il piccolo pacchettino rettangolare che avevo tra le mani. Lo studiò con espressione guardinga per poi decidersi finalmente ad aprire la confezione. Trattenni il fiato mentre lo faceva, sentendo i battiti prepotenti del mio cuore fin dentro le orecchie.
«Che cos’è?», mi chiese più confuso di prima guardando il suo contenuto. Dovevo intuire che un pirata con più di duecento anni non avrebbe potuto comprendere il significato di quel sottile bastoncino che si ritrovava davanti. Forse avrei dovuto optare per qualcosa di più esplicito, ma volevo che lui ci arrivasse con calma; volevo che si prendesse il suo tempo per realizzare l’idea e per comprenderla a pieno.
«È un test di gravidanza». La sua testa si alzò di scatto udendo l’ultima mia parola, passando dal fissare interdetto ciò che aveva tra le mani all’intrecciare i suoi occhi ai miei. Vidi la consapevolezza farsi strada nel suo sguardo iniziando a capire ciò che stavo per dirgli.
«Guardalo», continuai arricciandomi una ciocca di capelli su un dito. «Funziona così: con una linea non sono incinta, con due lo sono». I suoi occhi si abbassarono di nuovo, mentre con mano tremante sollevava il test e lo avvicinava alle candele per poterlo vedere meglio. Il silenzio che calò in quei pochi secondi in cui Killian giungeva alla ovvia conclusione non poteva essere più carico di emozione.
«Sei incinta?», mormorò riportando il suo sguardo nel mio.
«Sì». Non ebbi il tempo di aggiungere altro perché mi ritrovai catapultata sul suo petto, le sue labbra premute contro le mie. Sentii tutta la tensione sparire mentre gli cingevo il collo con le braccia e mi lasciavo andare al bacio.
Non avevo mai davvero temuto la sua reazione; sapevo che ne sarebbe stato felice, ormai lo avevo intuito da tempo. Tuttavia volevo dirglielo nel modo giusto e per una volta c’ero riuscita; almeno in quella occasione ero riuscita a concedere a Killian un gesto romantico che avrebbe ricordato per sempre.
«Dio quanto ti amo», sussurrò ad un centimetro dalla mia bocca.
«Ti amo anch’io». Appoggiai la fronte contro la sua e mi specchiai nei suoi meravigliosi occhi. Dipinto sul suo viso c’era un sorriso che andava da un orecchio all’altro, del tutto identico a quello che dovevo avere io. Non avrei mai potuto immaginare di poter essere così felice, soprattutto dopo l’esperienza della mia prima gravidanza.
«Da quanto lo sai?», sussurrò, accarezzandomi la guancia con l’uncino.
«Da stamattina con certezza, anche se avevo dei sospetti». Era una notizia fresca e lui era stata il primo a saperlo, come era giusto che fosse. «Ricordi un paio di giorni fa non mi sentivo molto bene? Avevo un po’ di nausea, beh non ero malata a quanto pare. Ieri mi sono accorta del ritardo e stamani ho fatto il test; ne ho fatti tre in realtà per esserne certa e…». Mi interruppi all’improvviso perché lui aveva posato la mano sulla mia pancia, esattamente là dove presto sarebbe cresciuto, e già stava crescendo, nostro figlio.
«Avremo un bambino», mormorò più a sé stesso che a me. Riuscivo a leggere nel suo sguardo, la miriade di sentimenti che stava provando, ed era davvero un miracolo il fatto che riuscissi a condividerli tutti.
«Avremo un bambino», ripetei, appoggiando la testa sulla sua spalla e lasciando che continuasse silenziosamente a massaggiarmi il ventre. Riuscivo a percepire il suo sorriso anche senza vederlo, stretta in quel modo tra le sue braccia.
«A cosa stai pensando esattamente?», sussurrai contro il suo collo, lasciando un bacio sulla sua giugulare.
«Beh sono felice ma anche un po’ spaventato all’idea di diventare padre», mi confessò. «Spaventato in senso buono». Quella sua precisazione mi fece sorridere, rammentandomi il suo assurdo sogno e il terrore che avevo letto nei suoi occhi il giorno del mio compleanno.
«Anche a me fa paura», dichiarai, «l’idea di diventare un genitore a tutti gli effetti. Henry aveva già dieci anni quando l’ho conosciuto, non è propriamente la stessa cosa».
«Tu sei e sarai una madre fantastica».
«E tu sarai un ottimo padre», replicai.
«Bah non saprei. Non credo di aver avuto degli ottimi modelli».
«Lo sarai», ribattei alzando la testa dalla sua spalla per poterlo fissare negli occhi. «Sono pronta a scommetterci». Ero certa che lo sarebbe stato, non avevo dubbi in proposito e non doveva averne neanche lui.
«Staremo a vedere», liquidò la cosa.
«Avremo i prossimi mesi per abituarci ad esserlo», mormorai posando le mie labbra sulle sue.
«Giusto», sussurrò ad un centimetro dalla mia bocca. «Adesso sarà meglio che ti sieda, non vorrei che ti stancassi».
Risi di cuore sentendo le sue parole, staccandomi poi leggermente da lui. «Potrai preoccuparti a sufficienza quando nascerà nostro figlio, credo che tu possa evitare di esserlo nei miei confronti già da adesso». Sarebbero stati mesi difficili considerando il fatto che eravamo entrambi testardi e avremo voluto entrambi avere ragione.
«Beh tesoro io mi preoccupo sempre per te», replicò prendendomi per mano e guidandomi verso la mia seggiola. «Adesso perché non ti siedi e non lasci che mi occupi io della cavalleria. Sarà un vero piacere stasera servirti la cena che hai amorevolmente preparato». Sì, sarebbero stati mesi davvero impegnativi.
Risi di nuovo, ma feci come mi aveva chiesto. In fondo potevo concedergli quella piccola vittoria, ero certa che sarei stata la vincitrice della maggior parte delle nostre future battaglie. Avevo io il coltello dalla parte del manico, come ogni donna incinta che si rispetti.
Non sarebbe stato facile ed anche se poteva sembrare che finalmente le nostre vite riprendessero un corso normale, non era in realtà cambiato molto. Stavamo di nuovo per affrontare una grande sfida e questa forse era quella più grande di tutte.
 
Qualche mese dopo…
Non sapevo se dovevo avercela di più con Regina per avermi costretta ad indossare quell’abito oppure per l’intera giornata che mi si prospettava davanti. Era un crimine contro natura chiedere ad una donna incinta di otto mesi e mezzo di presenziare ad un matrimonio, soprattutto quando alla donna in questione era stato chiesto di svolgere il ruolo di damigella d’onore. Per non parlare del fatto che mi sentivo una mongolfiera, e che il vestito, per quanto elegante e bello, aveva finito per fasciarmi troppo visto che la mia pancia aveva continuato a crescere in maniera esponenziale dall’ultima prova. E poi c’erano i tacchi: avevo i piedi gonfi e sentivo il bisogno di sedermi e soprattutto di levarmi quelle trappole mortali per indossare un paio di comode pantofole.
«Dovresti toglierti dalla faccia quell’espressione corrucciata», mi rimproverò la diretta responsabile. «Ricorda che è il mio matrimonio».
«Ed io sono tanto felice per te», replicai, faticando per sedermi su una poltroncina lì nella stanza. «Ma dovevi sposarti proprio oggi? Non potevi aspettare un altro mesetto? Sarei stata più che lieta di presenziare alla cerimonia senza la pagnotta nel forno».
«Avresti avuto comunque da ridire, dato che la tua pagnotta attirerà tutta la tua attenzione d’ora in poi», replicò Regina. «E poi sei stata tu che ti sei lasciata infornare dal pirata».
«Potete per favore smetterla di parlare del mio futuro nipote come se fosse un pezzo di pane?», intervenne mia madre con tono contrariato. «Sembra che a voi due non sia rimasto nemmeno un briciolo di istinto materno, dovreste vergognarvi».
«Oh me n’è rimasto eccome», replicai, «lo sto conservando tutto per dopo. In questo momento mi sento solo grossa quanto una mongolfiera e pesante come una palla da bowling. Non è facile trascinarsi tutto questo ben di Dio dietro». Mi indicai il pancione come se fosse ovvio.
Mia madre scosse la testa e tornò a sistemare il vestito di Regina. Aveva scelto un abito color avorio che la fasciava in maniera unica, mettendo in risalto le sue forme; era davvero perfetta ed io non potevo che essere estremamente felice per lei anche se non stavo facendo altro che lamentarmi.
«Sei bellissima», ammisi accarezzandomi la pancia, proprio là dove il piccolo o la piccola – non avevamo voluto sapere il sesso – aveva appena scalciato.
«Elogiarmi non servirà a farti saltare la cerimonia. Anzi è anche questo il compito di una damigella».
«Uffa», mi lagnai. «Non lamentarti se poi mi alzerò a metà funzione per andare in bagno».
«Tu non ti alzerai a metà funzione». Mi lanciò uno sguardo capace di incenerirmi.
«Beh dillo alla mia povera vescica».
Regina alzò un dito e spalancò la bocca per ribattere, ma, per mia fortuna, fu interrotta dall’improvviso aprirsi della porta. Come si suol dire “salvata in extremis”.
«Signore siete pronte?». La testa del mio pirata fece capolino dallo spiraglio per poi essere seguita dal suo bellissimo corpo fasciato dallo smoking.
«Io lo sarei se non fosse per tua moglie che continua a lamentarsi», rispose Regina con una scrollata di spalle.
Gli occhi di Killian furono subito su di me e sul suo volto comparve un dolce sorriso. Lasciò perdere la futura sposa e mi si avvicinò abbassandosi per darmi un bacio sulla guancia.
«Come stai?», mi domandò posando la mano sul mio pancione.
«Gonfia», risposi sospirando.
«E anche parecchio lamentosa», aggiunse Regina, mentre io da donna matura che ero le rivolsi una linguaccia.
«Smettetela voi due», intervenne mia madre. «So che è faticoso ma pensa che lo stai facendo per Regina. Ha il suo lieto fine anche lei adesso, non è per questo che tutte e due avete lottato così duramente in questi anni?».
«Sì è per questo». Mi accarezzai di nuovo la pancia e afferrai il braccio di Killian per tirarmi su. «Forza andiamo, di là deve c’è un uomo in trepidante attesa della sua sposa». Regina mi sorrise e nonostante avesse mascherato fino a quel momento i suoi reali sentimenti, riuscii a leggere nei suoi occhi la profonda emozione che stava provando. Sapevo benissimo di cosa si trattava, c’ero passata anch’io con Killian anche se in modo molto più veloce.
La vidi prendere un profondo respiro e lisciarsi il vestito con le mani. Tutta la sua sicurezza che di solito traspariva all’esterno fu per un attimo messa da parte con quel piccolo gesto. Non era più la donna sicura, fiera di sé e autoritaria; era semplicemente Regina che stava ottenendo un po’ di felicità per una volta nella vita.
«Andrà tutto bene», dichiarai prendendo la sua mano. «Robin ed Henry e tutti gli altri sono di là che stanno aspettando solo te; sarà tutto perfetto vedrai ed io farò la brava, te lo prometto».
«Grazie», mimò con le labbra, prima di lasciare che la precedessi fuori dalla stanza.
“Non c’è di che”. In fondo avevamo lottato solo per questo: un lieto fine… un lieto inizio.
 
La cerimonia per mia fortuna, e per quella della mia vescica, non durò a lungo. Ci furono le promesse, lo scambio degli anelli ed io mi ritrovai con le lacrime agli occhi mentre Killian mi guardava sorridendo ed io pronunciavo tra i denti un «maledetti ormoni».
Ben presto, comunque, arrivò la parte più attesa della giornata: il buffet e poi la cena. E non era solo dovuto alla mia voracità; in quelle condizioni anche fare le più normali cose mi richiedeva il doppio dello sforzo: era naturale che mi fosse venuta fame.
«Ti vado a prendere qualcosa da mangiare», mi sussurrò Killian nell’orecchio dopo avermi osservato sedermi al nostro tavolo. Osservato soltanto, dato che sapeva esattamente che non volevo in nessun modo essere aiutata.
«Prendi qualcosa col formaggio ti prego. Al bambino va qualcosa col formaggio».
«Al bambino o alla mamma?», mi domandò alzando un sopracciglio.
«È lo stesso», lo liquidai. «Vai, forza e scegli bene». Lo osservai avvicinarsi al buffet e pensai che probabilmente avrei dovuto lamentarmi anche di quello con Regina. Non bastava una cena seduti, doveva fare anche un buffet prima? Visto che stare in piedi sui tacchi era un suicidio dovevo considerarlo un ulteriore modo per uccidermi?
Non feci a tempo a concentrarmi su quel pensiero che una voce attirò la mia attenzione. «Emma!». Lizzy arrivò di corsa vestita tutta elegante nella sua uniforme da cameriera. Non riuscivo ancora a credere che Regina l’avesse assoldata per il suo matrimonio; non che non mi fidassi delle sue capacità, ma a volte aveva un modo un po’ prorompente di approcciarsi alle persone. Inoltre forse sarebbe dovuta essere parte integrante degli invitati e non della manodopera; ma era evidente che lei fosse più che felice di trovarsi là in quella sua particolare veste.
«Lizzy», la salutai rivolgendole un sorriso. «Stai benissimo nella tua uniforme».
«Ti piace?», sorrise facendo una piccola piroetta. «E tu sei gigantesca!».
«Lizzy!». Charlie arrivò alle sue spalle, rimproverandola con il sorriso sulle labbra. «Ti avevo detto di non dirglielo».
«Non fa niente», ridacchiai. «Ha ragione, sono enorme. Tu invece stai benissimo; non sapevo che Regina ti avesse invitato». Indossava uno smoking immacolato ed era più affascinante del solito.
«In realtà è stato Robin», ammise grattandosi la testa con la mano. «E poi sono qui anche per svolgere il mio ruolo di tutore della legge. Adesso la sicurezza di Storybrooke è nelle mie mani».
«Ancora non per molto», ribattei. «Tornerò presto ad essere lo sceriffo, ricordatelo».
«Beh puoi anche goderti la maternità», rispose, «adesso io e il tuo pirata stiamo cominciando ad andare d’accordo». Alzai un sopracciglio assumendo un’espressione scettica, quando il diretto interessato tornò con il mio adorato bottino.
«Ecco a te, amore». Me lo porse lasciandomi un bacio sulla guancia. «Lizzy! Charlie». Era solo una mia impressione o il modo in cui aveva pronunciato i due nomi era completamente diverso? Altro che andare d’accordo!
«Oh ti devo far provare una cosa», esclamò Lizzy catturando di nuovo tutta la mia attenzione. Corse via e tornò poco dopo con un vassoio tra le mani.
«Prova questi», mi disse abbassandolo in modo tale che potessi prendere uno dei crostini che c’erano sopra. «Li ho fatti con Granny. Mi sta insegnando a cucinare».
Senza farmelo ripetere due volte ne afferrai uno e lo misi in bocca. Era assolutamente paradisiaco!
«Non credo che avresti potuto prendere e portare via il vassoio», la rimproverò Charlie.
«Lasciala stare», la difesi afferrandone un altro. «Lizzy sei appena diventata la mia cameriera personale o anche cuoca personale se lo desideri». Killian scoppiò a ridere, seguito a ruota da Charlie, mentre la mia piccola ragazzina sorrideva soddisfatta.
 
Il resto della cena si svolse come al solito, nonostante il costante battibecco di Charlie e Hook che si erano ritrovati seduti vicini. Per fortuna il tavolo era grande e con noi c’erano anche i miei, Henry e Zelena.
Senza neanche accorgermene, mi ritrovai ad osservare Robin e Regina aprire le danze e presto finii col picchiettare il tempo sul tavolo con le dita, guardando invidiosa il resto delle altre coppie.
«Vuoi ballare?», mi sussurrò Killian all’orecchio.
«Anche se volessi, non credo che ci riuscirei». Anche se avevo sostituito i tacchi con un paio di ballerine, rimaneva il fatto che avessi i piedi gonfi e che era già faticoso rimanere in piedi a lungo, figuriamoci ballare.
«Possiamo anche limitarci a molleggiare solo per un po’». Mi scostò una ciocca di capelli che era sfuggita alla mia acconciatura e me la sistemò dietro l’orecchio. «Quando sarai stanca ci rimetteremo a sedere».
Gli sorrisi grata per quella dolce proposta e reggendomi la schiena mi sollevai. Fu proprio quel movimento, dopo un prolungato periodo di immobilità, che mi fece percepire qualcosa di diverso. Accadde in un istante e sebbene l’avessi già sentito una volta mi occorse qualche secondo per comprendere esattamente di cosa si trattasse.
Sbattei le palpebre sentendo il cuore accelerare – probabilmente avrei presto sentito ben altro – ma non feci a tempo ad aprire bocca che fui interrotta dai neosposini in persona.
«Emma, Killian», ci chiamò Regina, arrivando al braccio di Robin. «Dove credete di andare? Non penserete di svignarvela?».
«Veramente stavamo solo andando a ballare», rispose Killian per me. Probabilmente se il momento fosse stato diverso, avrei notato come Regina fosse radiosa, come sia lei che Robin avessero un’aria felice e soddisfatta e come tutto alla fine fosse perfetto. Avrei potuto notare lo sguardo pieno di amore che Robin stava rivolgendo alla mia amica e forse avrei potuto anche pensare che in parte quella giornata era merito mio. Tuttavia non era proprio quello il caso: era appena accaduta una cosa che richiedeva tutta la mia attenzione.
«Bene», continuò Regina completamente all’oscuro dei miei pensieri, «perché tra poco la damigella dovrà fare un discorso, insieme al testimone naturalmente. Henry è già pronto».
«Non credo di poter fare un discorso», sussurrai cercando di mantenere il mio respiro ad un ritmo regolare.
«Certo che puoi! Non ricomincerai a lamentarti proprio adesso?».
«Non credo che potrò», ripetei di nuovo.
«Certo che sì», ribatté seccamente. «Potrai stare seduta e non dovrai fare altro che dire alcune cose carine su di me».
«Non è questo», mormorai. «Lo farei credimi… è che mi si sono appena rotte le acque». Solo allora le tre persone intorno a me notarono la pozza bagnata sotto i miei piedi. Regina fece un passo indietro per non sporcarsi il vestito, Robin mi guardò stupito e Killian mi rivolse un’occhiata più terrorizzata che preoccupata.
Beh sicuramente avremo ricordato quel matrimonio per molto tempo; sarebbe stato certamente un aneddoto interessante da raccontare ai nipoti. E se non altro quella era un’ulteriore riprova del fatto che stavamo celebrando non tanto un lieto fine quanto un lieto inizio. C’era qualcosa che potesse essere considerato più inizio di quello?


 
Angolo dell’autrice:
Non posso crederci! Eccomi qui: ce l’ho fatta!
Ho tante, troppe, cose da dire riguardo a questo epilogo e a questa storia. Non posso credere di stare mettendo la parola FINE anche a questa avventura.
“The wish of a lost soul” è partita come semplice voglia di scrivere ancora qualcosa su i Capitain Swan; non avevo una vera e propria idea di cosa sarebbe venuto fuori, non avevo neanche un filo conduttore. La storia è cresciuta settimana dopo settimana; via via che scrivevo, che leggevo i commenti, mi venivano in mente scene e avvenimenti che alla fine sono andati a costituire parte integrante di questa fanfiction. Non avrei mai pensato di poter creare personaggi dal nulla come Charlie e Lizzy di cui adesso sentirò davvero la mancanza. È stata un’avventura inaspettata.
E principalmente devo ringraziare voi: chi mi ha sempre letto, anche silenziosamente, e soprattutto chi ha recensito anche solo con poche parole. GRAZIE MILLE, davvero! Sappiate che siete voi lo spinta che mi ha fatto trovare la forza di scrivere anche quando non avevo tempo o voglia. Grazie, grazie, grazie.
A questo punto non posso darvi appuntamento alla prossima settimana, ma spero di potervelo dare per una prossima storia. Spero davvero di trovare nuove idee e nuove avventure da farvi leggere.
Un bacione
Sara  
 
 

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3624299