Il mio nome è...

di CaJin
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** PROLOGO - 1. ***
Capitolo 2: *** PROLOGO - 2. ***



Capitolo 1
*** PROLOGO - 1. ***


PROLOGO.
1.


Il respiro affannoso di chi ha appena compiuto un'ardua impresa. Le gambe doloranti reggevano a malapena il peso del corpo e dell'armatura che si era fatta improvvisamente più ingombrante del solito. I muscoli del braccio destro bruciavano dolorosamente, scossi dai molteplici fendenti scagliati senza sosta contro l'avversario. Le ossa di quello sinistro pulsavano quasi fossero rotte, accusando i colpi parati dallo scudo tenuto ancora ben saldo sull'avambraccio. Un crampo lo costrinse ad aprire la mano e a far cadere la spada al suolo, provocando, all'impatto, uno sbuffo di cenere che si levò per qualche centimetro. Fece due passi ma le gambe gli cedettero facendolo cadere in ginocchio. Un'ennesima scossa di dolore gli percorse tutta la schiena. Cercò a tentoni la spada, senza dedicargli uno sguardo. I suoi occhi erano fissi sul fuoco del piccolo cimelio che aveva difronte.
Era infatuato da quella fiamma come una falena che cerca la luce. Non era il primo di quei particolari falò che vedeva, ma mai uno gli era sembrato così affascinante, così brillante, così seducente per la propria anima.
Goffamente riuscì a rimettersi in piedi, il respiro si stava facendo sempre più regolare e i pensieri sempre meno offuscati.
Nel vedere quel fuoco danzare attorno a quella spada a spirale sopra ceneri di ossa di suoi simili, la sua mente lo riportò all'arrivo in quella terra sconosciuta e privata della grazia divina. I pensieri lo fecero rinvenire. Sbatté le palpebre, scosse la testa, diede un'altra occhiata al falò e poi si girò verso l'entrata di quell'enorme struttura, un breve sguardo per poi perdersi nuovamente nei pochi ricordi che stavano riaffiorando della sua vita prima di accusare quell'orrenda malattia, se così si poteva definire. Una cicatrice posta sul petto, dalla parte del cuore, che avrebbe segnato la vita di chiunque, nessuna distinzione, ne di sesso, ne di razza. Una maledizione nata dall'ossessione di un uomo che, andando contro il volere dei veri dei, ponendosi come divinità e re di un popolo che lo temeva e allo stesso tempo lo ammirava per le proprie gesta. Lo stesso uomo che ora giaceva al suolo, poco distante da lui.
Il "Segno Oscuro", così veniva chiamato dal popolo, portava alla perdita dei propri valori distruggendo la vita del portatore come un parassita capace di assorbire l'anima delle persone, costringendoli, in un destino peggiore della morte. Il trattamento consisteva nel devastare la determinazione del portatore, distruggere i suoi sogni e vanificando la sua esistenza costringendolo a diventare uno dei "Vuoti", esseri senza coscienza, per la maggiore molto aggressivi, guidati dall'ossessione che li teneva in vita prima della vuotezza, una ricerca vana per il ritrovo della loro umanità. 

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Capitolo 2
*** PROLOGO - 2. ***


2.

Dopo aver contratto la corruzione, la mia vita cambiò improvvisamente. Sapevo frivolezze riguardanti la vuotezza.
Come molti altri, le uniche informazioni che riuscivo ad avere erano ricavate dalle storie di chi il fardello della maledizione l'aveva scoperto anni addietro, e quindi divulgavano il loro inconscio sapere radunati in cerchio attorno ai quei particolari focolari animati da ossa di loro simili, raccontando leggende che parlavano di una lontana terra dove la maledizione poteva essere ancora spezzata, o su come i non-morti di forte spirito riuscivano a risorgere vicino a quei falò dove ora erano seduti, cercando di mantenere salda la sanità mentale e dove gli anziani narravano le loro avventure e si lamentavano di quell'insensata ed inspiegabile "malattia" che, ad uno ad uno, si stava spargendo fra tutti gli esseri viventi.
Il termine più temuto non era più "morte", ma "vuoto". Infatti gli umani che prima tremavano come foglie in balia dei forti venti per quella che doveva essere la fine dei loro giorni, adesso, al solo sentir nominare la vuotezza la loro mente cercava un rifugio, o uno scopo per non imbattersi in quel destino ancor più orribile.
I vuoti avevano la stessa capacità dei non-morti di risvegliarsi dalla morte, ma a differenza di quest'ultimi la loro mente non aveva più nessun principio.
Non era raro sentire notizie come, "Mastro Torlien, dopo essersi risvegliato dalla morte ancora una volta, è tornato a casa e senza ragione, ha strangolato l'amata figlioletta nel sonno e tagliato la testa di netto all'adorata moglie mentre, in un disperato raptus di disperazione, chiedeva spiegazioni al marito. 
Chi lo ha visto dice che i suoi occhi non sembravano quelli di un essere umano e che mentre camminava ripeteva parole insensate a tono di voce troppo basso per essere comprese, barcollando a destra e a manca come il miglior ubriacone del quartiere. Alcuni dicono che forse era veramente ubriaco, ma altri affermano che sia rimasto sul luogo dell'omicidio, vagando con la spada ancora sguainata, macchiata del sangue ormai secco della moglie, senza aver nemmeno versato una lacrima per la sua cara famiglia.".
La paura che tenagliava i non-morti era quella di perdere la ragione. Uno scopo, se pur squallido o banale, garantiva quella piccola scintilla di ragione che bastava per non divenire vuoto.
Le grandi città si erano trasformate in luoghi inabitabili per l'alto tasso di popolazione, lì i vuoti erano di gran numero superiori ai non-morti o ai fortunati che ancora erano umani vulnerabili alla morte. Con il tempo si scoprì che persino gli animali potevano diventare bestie ancor più aggressive che mordevano e trinciavano con i loro artigli la carne della preda, senza poi mangiarne nemmeno un boccone. Fra i primi sintomi, infatti, si notava l'assenza di fame, di sete o di sonno e per chi ancora non si accorgeva della cicatrice sul corpo, forse per paura di scoprirla, forse per non ammettere l'evidenza, il passare degli anni non lasciava segni di invecchiamento. La carne, invece di avvizzire e riempirsi di rughe, si corrodeva e marciva diventando violacea e deturpata. Le più belle donne di tutta la nazione si trasformavano, con ghigni da far paura persino agli umani più impavidi e coraggiosi, simili a streghe che nei tempi d'oro dell'era del fuoco, erano solo antagoniste delle favole per bambini.

Non ricordo come scoprii di essere diventato uno dei tanti, non ricordo nemmeno della mia vita prima della maledizione, ma sono certo che poche settimane dopo averla contratta, dei cavalieri in armatura argentata, sotto decreto reale, iniziarono a razziare le città e i villaggi alla ricerca dei portatori del segno oscuro per imprigionarli nell'enorme, e per molti solo leggendaria, prigione situata nelle montagne del Nord.
Le leggende parlavano di questo posto come una sorta di fortezza inespugnabile nella quale si poteva solo entrare scortati da chi di dovere, ma dalla quale non si poteva fuggire.
I cavalieri passavano in rassegna con un solo compito, quelli che sembravano non lontani dalla vuotezza venivano uccisi, più e più volte, fin quando la loro ragione svaniva insieme all'onore degli emissari argentati che senza scrupoli, guidati dal rispetto verso il loro sovrano, adempivano al loro compito ignorando se fosse una cosa giusta o sbagliata. Quelli più "sani" invece, venivano catturati e rinchiusi in gabbie dirette alla prigione, addormentati con un colpo ben assestato dietro la nuca, mortale per i molti che non essendo maledetti erano stati catturati per puro sbaglio, per non aver ricordi di come si raggiungesse quello che presto sarebbe diventato il nostro rifugio.
Quando mi risvegliai ero imprigionato in una delle tante celle costretto ad ascoltare quella melodia angosciante di urla e pianti di chi, disperato, aveva perso casa e famiglia, una melodia che si prolungò per giorni e giorni senza mai cessare.
Al quinto giorno i soldati argentati portarono un altro paio di dozzine di non-morti. Al settimo ripartirono lasciando la prigione apparentemente incustodita. Al ventiquattresimo si vociferava del primo non-morto evaso dalla sua gabbia, l'unica cosa che sentii io fu un ruggito disumano e una piccola scossa di assestamento accompagnata da un gran boato, simile a quello provocato da un macigno in caduta all'impatto con il suolo, in seguito un secondo tonfo e poi il silenzio. Al sessantaduesimo giorno molti erano già impazziti, altri ancora avevano provato a suicidarsi, e per i pochi rimasti ancora lucidi l'unica domanda era "Un giorno potremmo vedere nuovamente la luce del sole?". Al centonovesimo giorno ci fu un'ultima visita da parte dei cavalieri argentati. Da all'ora siamo rimasti in balia del destino avverso attendendo la fine e maledicendo la nostra immortalità.

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