The Only Woman, The Only Queen

di fiammah_grace
(/viewuser.php?uid=76061)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1: la bambola camuffata ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2: una mendace commedia ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3: acta est fabula ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4: giochi di ruolo e maschere vaganti ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5: un palco arrancato nel buio ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6: il teatro dei folli ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7: un ostinato burattinaio ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8: sogno (ma forse no) ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9: l'uomo dal fiore in bocca ***
Capitolo 10: *** Capitolo 10: la giostra delle maschere ***
Capitolo 11: *** Capitolo 11: trovarsi ***
Capitolo 12: *** Capitolo 12: la bella addormentata nel bosco ***
Capitolo 13: *** Capitolo 13: soliloquio di un cuore serrato ***
Capitolo 14: *** Capitolo 14: l'ombra dagli occhi rossi ***
Capitolo 15: *** Capitolo 15: la caduta delle maschere ***
Capitolo 16: *** Capitolo 16: attori in crisi di ruolo ***
Capitolo 17: *** Capitolo 17: giochi pericolosi ***
Capitolo 18: *** Capitolo 18: improvvisazione teatrale ***
Capitolo 19: *** Capitolo 19: essere o non essere ***
Capitolo 20: *** Capitolo 20: destino di un sipario scarlatto ***
Capitolo 21: *** Capitolo 21: la storia di un ingenuo re e della sua cattiva regina ***
Capitolo 22: *** La Regina: capitolo 01 ***
Capitolo 23: *** La Regina: capitolo 02 ***
Capitolo 24: *** La Regina: capitolo 03 ***
Capitolo 25: *** La Regina: capitolo 04 ***
Capitolo 26: *** La Regina: capitolo 05 ***
Capitolo 27: *** La Regina: capitolo 06 ***
Capitolo 28: *** Capitolo 28: Nec sine te, nec tecum vivere possum ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1: la bambola camuffata ***


 
______________________________________________________________________________________________________
 
 
 
 
 
The Only Woman, The Only Queen
La sola donna, La sola regina
 
 
 
 
 
 
 
 
Capitolo 1: La bambola camuffata
 
 
 “Siamo tutti costretti, per rendere sopportabile la realtà, a coltivare in noi qualche piccola pazzia.” 
(Marcel Proust)
 
 
 
 
- Lettera accartocciata –
 
In uno specchio è riflesso ciò che è concreto e tangibile. Uno specchio riflette esattamente quel che è davanti ai nostri occhi.
Se questo è vero… allora anche quel che io vedo è reale!
Alexia….ci sei tu dietro questo specchio?
Non vedo più il mio volto. Non vedo più me stesso in questa
immagine specchiata. Di fronte a me vedo i tuoi occhi di Regina, il tuo sorriso
dominatore, il tuo sguardo vittorioso, il tuo genio inaccessibile….
Quell’inconfondibile luce complice che solo l’uno negli occhi dell’altro può vedere.
Oh Alexia, mi manchi disperatamente…
Ma sopporterò.  E’ solo per te che affronto questa incessante agonia.
Son lieto e onorato di donarti la mia vita.
 
-   … in attesa di te, mia amata sorella,
Alfred Ashford   -
 
 
 
 
 
Non è la realtà quella che si proietta nei nostri occhi, ma allo stesso tempo non è una menzogna quello che crediamo sia vero. Allora cos’è davvero reale?
La risposta è Nulla. Nulla, al di là delle emozioni che viviamo.
Son loro che dettano quel che crediamo sia vero. E son esse che ci consentono di dire cosa amare o meno.
Ma non pensiamo di essere liberi di poter scegliere, perché sarebbe rovinosamente erroneo.
Siamo tutti, infatti, vittime di una dura e inconsapevole prigionia mentale che ci imbriglia e ci opprime fino a indurci a dipendere inesorabilmente a essa per non cadere nell’oblio.
Tutto è solo un’ombra. Nulla esiste davvero.
Quindi l’unica cosa che possiamo fare è vivere nella nostra pazzia, l’unica a dare un senso al nostro universo.
 
 
Una giovane donna era adagiata sul suo regale e imponente trono rivestito da un purpureo velluto pregiato. Un bagliore era riflesso nei suoi occhi e le impediva di focalizzare la stanza che aveva di fronte a sé, della quale scorgeva a stento i contorni tramite confuse e impalpabili ombre offuscate. Un tripudio di ansie faceva agitare il suo corpo, senza che potesse capire effettivamente da cosa fosse scaturito tale affanno interiore. Tuttavia in suo potere vi era l’unica facoltà di aprire e socchiudere gli occhi, mentre il resto del suo corpo era come se fosse stato riempito di piombo.
La testa inclinata verso il basso le stava provocano la nausea, eppure rimase immobile in quella posizione per ore, concedendosi soltanto dei lievi dondolii col capo che fecero oscillare i suoi lunghi capelli biondi, i quali cascarono prontamente davanti ai suoi occhi.
In quello stesso istante una pallida mano le accarezzò la guancia, facendo scorrere le sue dita attorno al suo orecchio, liberandola così dal sipario formato da quei sottili fili dorati che pendevano dalla sua fronte.
Ella alzò faticosamente gli occhi, schiudendo la sua bocca rosa intorpidita.
Un uomo vestito di rosso comparve davanti ai suoi occhi. Era piegato verso di lei, e le sorrideva.
La sua pelle bianca ricordava una finissima porcellana dalla bellezza quasi irreale. Poteva esistere un candore simile?
Consapevole di star concependo un pensiero assurdo, li per li si chiese seriamente se accanto a lei ci fosse una bambola.
I sottili capelli dorati, luminosi, delicati, e poi i suoi occhi color cristallo… tutto faceva di quell’uomo l’essere che più si avvicinava alla perfezione di una bellezza botticelliana.
Eppure nel suo sguardo albergava qualcosa di dubbio, qualcosa di nascosto, qualcosa che non rifletteva la realtà. Un qualcosa di complesso e disturbante, che le faceva intuire perfettamente che c’era qualcosa di sbagliato, anche se non sapeva ancora cosa.
Quell’emozione fuorviante le fu d’improvviso familiare. Sentiva di conoscere la verità da qualche parte, di sapere che era vero: c’era qualcosa di oscuro e sbagliato in quell’uomo.
Una parte remota del suo inconscio reagì prima ancora che si appropriasse di quel ricordo al momento annebbiato, ma non fu in grado di fare altro. Abbassò solo ancora di più la testa, sentendo il suo corpo sempre più pesante…
 
“Sorellina, sei ancora stanca? Avevo fatto preparare del tè da prendere insieme in giardino.”
 
Il ragazzo dall’aspetto aristocratico rimase in silenzio, attendendo invano la risposta. Sorrise dolcemente, accorgendosi che la sua dama voleva dormire ancora un po’.
Fece scorrere lentamente il suo sguardo su di lei, godendo di ogni angolo che componeva il suo corpo.
Dai suoi piedi rivestiti dalle scarpe col tacco, perfettamente allineati all’estremità della poltrona su cui era adagiata; al suo vestito viola scuro, che lasciava scoperte le spalle, e che si posava leggiadro su ogni sua curva delineando il suo corpo longilineo, accarezzandolo con le sue tenue balze di seta.
Sul suo collo troneggiava un girocollo nero, ove ergeva incastonata una pietra scarlatta, simbolo della sua famiglia. Simbolo del suo destino. La pietra che apparteneva alla sua Regina, di cui lui era il mite e devoto servitore.
Inginocchiato ai suoi piedi, fece cadere la sua mano su quella di lei, sfiorando il gancio di ferro che incastrava i suoi polsi.
Egli le accarezzò il dorso con le dita, massaggiando le nocche della sua mano. La strinse per un attimo, rievocando nella sua mente quanto fosse bello il tempo in cui anche lei gliela stringeva a sua volta.
Affogato nella visione di quel ricordo, improvvisamente sul suo viso si disegnò una smorfia. Egli aprì la sua bocca e dalle sue corde vocali uscì una voce angustiante, una voce inquietante, una voce che non gli apparteneva…la voce di qualcun altro.
La voce di una donna.
 
“Grazie, fratello mio. Vorrei però rimanere qui ancora un po’ se non ti dispiace.”.
 
Lui, quasi senza rendersi conto di star parlando da solo, annuì alla sua stessa affermazione, reimpostando il suo reale timbro di voce maschile.
 
“Ma certo, Alexia. Riposa pure ancora un po’… a più tardi.”
 
Un tacito “ti voglio bene” si disegnò sulle sue labbra.
Egli rimase inginocchiato ancora un po’, osservando silenziosamente gli occhi spenti della donna e le sue labbra che in realtà non avevano proferito alcuna parola.
Dopodiché si alzò, mettendosi in piedi di fronte a lei. La mano della fanciulla dai capelli biondi incatenata al suo trono rosso scivolò via dalle sue dita. L’uomo si allontanò, camminando con una postura perfettamente eretta ed elegante che fece oscillare delicatamente i gradi militari posti sulle sue spalle.
Giunto sulla soglia del corridoio esterno, mise un piede indietro in modo trasversale, e con un giro veloce su se stesso fu di nuovo rivolto verso di lei.
Prese dunque fra le mani, rivestite da vellutati guanti bianchi, le maniglie dorate e chiuse il possente portone di legno rinchiudendo la sua Marionetta Addormentata.
 
 
 
***
 
 
 
Il magistrale portone di legno scuro era stato appena chiuso. Il movimento tenue con cui la porta era stata serrata non impedì al rimbombo di propagarsi nell’ambiente.
La penombra ombrò i colori di quella stanza, come fosse il triste velo grigiastro di un sipario oramai calato, e la ragazza dai capelli biondi, col viso ancora chinato, guardò attorno a sé. Il suo sguardo scivolò sui suoi polsi ancorati a quella poltrona regale rivestita di rosso.
Quelle morse rugginose, inquietantemente in contrasto con la preziosità del trono su cui erano montate, erano chiuse a chiave, e non ricordava assolutamente quando vi era stata imprigionata.  Allo stesso tempo un pensiero invase la sua mente. Un pensiero scaturito dal nome con cui quel ragazzo dai capelli pallidi l’aveva chiamata.
………………………..Alexia………………………… era quindi questo il suo nome?
Strinse gli occhi riavvertendo dentro di sé quell’emozione provata poco prima al cospetto del biondo. Quella sensazione disturbante, di chi si è accorto che qualcosa non quadrava.
Questo perché era sicura di diverse cose, che man mano stavano riemergendo dal suo inconscio:
Era infatti sicura di non chiamarsi Alexia.
Era sicura che quell’uomo non fosse suo fratello.
Ed era sicura di non avere i capelli biondi.
Erano in suo possesso queste sole certezze, di cui l’ultima abbastanza superflua. Eppure sapeva che fosse un dettaglio importante, sebbene la sua mente non le permettesse ancora di focalizzare al meglio le sue attenzioni. Tuttavia ancora qualcosa la confondeva, e di nuovo quella strana sensazione la pervase. Perché aveva il vago ricordo di avere davvero un fratello.
Allora forse si sbagliava? Forse quel ragazzo altolocato era davvero suo fratello e lei la sua bionda sorellina?
Forse era davvero solo stanca?
La donna chiuse gli occhi, sfinita da tali taciti ragionamenti. Sebbene di natura non particolarmente contorta, quei dubbi ebbero su di lei un effetto devastante data la fiacchezza che aveva in corpo. Così si addormentò, abbandonando per qualche ora quella realtà di cui lei al momento era solo un’inconsapevole marionetta.
Mentre si placava, i suoi ricordi si focalizzarono su quel viso candido e delicato. Su quei tratti ben definiti e muliebri. Su quell’uomo la cui finezza rievocava una cerea porcellana.
Su quella occulta ma palpabile agonia nascosta dietro i suoi occhi…
 
 
 
***
 
 
“Oh, Alexia.”
 
L’uomo dall’apparenza regale sgattaiolò nel corridoio, imboccando velocemente le scale. Si voltò di scatto verso una parete vuota ed estrasse dalla tasca della sua elegante divisa militare rosso cremisi uno strano emblema d’ottone. Lo fece roteare fra le sue mani disponendolo nel modo corretto, poi lo incastrò in una zona non ben definita del muro, impossibile quasi da scorgere per chi non sapesse dove guardare esattamente. Tale azione fece tremare per un istante l’ambiente che lo circondava, ma lui non si smosse essendo padrone di quel castello e conoscitore di tutti suoi segreti.
In quello stesso istante, la parete sparì scorrendo verso il basso, rivelando così un passaggio nascosto, oltre il quale era preservata una stanza buia, dissimile dalle altre.
Dentro erano ubicati dei monitor accesi sparsi un po’ ovunque, che mostravano tutti la stessa stanza che lui aveva appena lasciato.
Si trovava in una piccola zona di monitoraggio.
Egli si aggrappò quasi con disperazione al tavolo posto sotto uno degli schermi, puntando non solo lo sguardo, ma tutto se stesso sull’immagine della donna tenuta prigioniera.
La luce cerulea dello schermo si rifletté su di lui, rendendo la sua figura ancora più pallida. I suoi occhi illuminati da quel bagliore non sbatterono mai le palpebre, estasiati di poter vedere finalmente in carne e ossa la Donna. La sua Donna.
D’un tratto però i suoi occhi si strinsero, e con essi anche i pugni si serrarono. Il biondo digrignò i denti deformando la sua espressione, e con afflizione batté la testa sul tavolo, prostrandosi verso la sua mentale interlocutrice.
 
“Perdonami…” sussurrò devastato. “Lo sai che non potrei mai tradirti, Alexia.”
 
Disse credendo davvero di parlare al cospetto della sua Regina.
 
“Solo a te devo la mia devozione, nessuno potrà mai separarci. Ci sarò sempre al tuo fianco, non lascerò che alcuno t’intralci. Sarò al tuo fianco sempre, sempre, sempre….”
 
Sbatté un pugno, addolorato e oramai sul punto di crollare.
Egli aveva dimostrato la sua fedeltà incondizionata per tutti quei lunghissimi anni. Aveva sofferto la solitudine più buia, illuminato dal solo e semplice ricordo di colei che era la più importante per lui.
Questo da quando Lei aveva deciso di ibernarsi per fare di se stessa la cavia del suo più grande esperimento in vece del suo inutile padre, che non era stato capace di riportare alla gloria la nobile famiglia dalla quale discendeva. Nemmeno nel momento della morte egli aveva saputo rendersi utile, condannando così Alfred Ashford in un’insopportabile attesa devastante.
Questo perché Alexia fu costretta a sacrificarsi al suo posto.
La rabbia cominciò a crescergli in corpo, torcendo le sue viscere in quel tormento che sembrava non avere più fine. Quel baratro che l’aveva condannato e aveva gettato nella dannazione la sua realtà.
Alfred aveva cercato di opprimere in tutti i modi la frustrazione di quella solitudine non ancora cessata. La solitudine di quell’attesa devastante. La solitudine che lui avrebbe colmato proteggendo la sua bella Principessa Addormentata.
Ma era una solitudine folle, una solitudine al limite dell’inumano. Una solitudine che covava in corpo oramai da quasi quindici anni. Quindici anni…
Seppur la non fisicità della sua adorata e perfetta Alexia, la sua presenza era infatti rimasta come un alone costante nella vita dell’uomo che abitava oramai da solo quel vuoto castello.
Una costante fittizia, ma così viva e forte…così tanto che a un certo punto lui stesso l’aveva resa reale continuando a dare un nome, un volto e un ruolo alla sua venerata e lontana sorella, muovendo uno spaventoso gioco di ruolo mentecatto in cui ella esisteva e non lo aveva mai lasciato.
Alfred nascose infatti la sua assenza, ingannando persino il suo stesso io che l’agognava follemente, incapace di vivere senza di lei. Eresse una formidabile commedia ove alcuno avrebbe mai potuto sospettare che ella non si trovasse davvero lì, attualmente, a solcare le mura del loro castello.
A tal scopo, il biondo aveva curato il loro luogo sacro, ucciso i loro oppositori, fatto tacere chi osava guardare troppo, insegnato cosa significava varcare le soglie del loro castello, nutrendo le sue insignificanti formiche col sangue di chi aveva avuto l’onore di partecipare al loro gioco perverso.
Tutto questo recitando sempre l’illusoria presenza di Alexia Ashford, il fantasma che regnava quel mondo assieme a lui.
Alfred aveva fatto sì che ella rimanesse sempre al suo fianco, gettando il dubbio sulla sua presenza, confondendo ruoli e personaggi fino a creare un suo personale universo in cui lei era accanto a lui.
Ma nonostante ciò, qualcosa ancora lo turbava.
Il solo alone della sua Regina non era bastato.
Ancora non si era reso conto, infatti, del reale potere della solitudine più ombrosa di cui era vittima in realtà.
Il giovane uomo dai sottili capelli dorati aveva provato di tutto pur di trovare la sua Adorata in qualche parte remota al di la di quel vetro dietro il quale ella era ibernata. Ma nulla era valso davvero. Nulla aveva potuto alleviare le pene di quell’attesa interminabile.
Né il sorvegliare il suo viso addormentato, né la vita militare, né il centro d’addestramento, né il sangue versato sui suoi prigionieri, né la morte dei suoi nemici, né i successi dei suoi esperimenti...
Neppure se stesso, che possedeva l’unico viso al mondo che potesse ricordargli la sua amata gemella. Un volto che, mascherato, gli rammentava il calore di avere qualcuno accanto.
Ma non bastava…non bastava mai nulla…
Nulla colmava davvero la lontananza di Alexia.
Alzò quindi il viso verso lo schermo, ancora fisso sull’immagine della ragazza bionda ancorata sul suo trono. La sola donna da lui tanto agognata.
La sola donna che poteva amare.
La sola donna che esisteva ai suoi occhi.
La sola donna che lo comprendeva.
La sola donna che lo amava.
Si alzò quindi in piedi e in posa solenne giurò ancora una volta sulla fedeltà che avrebbe avuto verso la sua sovrana, che mai avrebbe tradito, alla quale aveva donato la sua intera esistenza.
 
“Alexia, tu sei l’unica che può esistere per me. Tu…sei la mia unica Regina. Alexia… mia amata Alexia.”
 
Si abbandonò in seguito a una fragorosa risata, che lo costrinse a coprire la sua fronte con una mano.
Un’insana sensazione pervase la sua ragione. Una conosciuta e ignota consapevolezza allo stesso tempo. Una verità che possedeva, ma non voleva ammettere.
Una realtà da cui egli stava consapevolmente scappando: la realtà di star prendendo in giro oramai persino se stesso.
 
Perché quella donna al di là dello schermo… non era la sua Alexia.
 
 
 
***
 
 
 
Villa Ashford (luogo sconosciuto) – prime ore del pomeriggio
Giardino
 
 
 
La ragazza dai capelli biondi sollevò molto lentamente la delicata tazzina da tè che aveva fra le sue mani. Essa era bianco avorio decorata con delle sottilissime rifiniture dal tema floreale, contornata dai bordi dorati.
Il sole batteva forte a quell’ora del pomeriggio, ma l’ombra dei portici sotto i quali era seduta per fortuna la allietava con il suo fresco.
Ella era seduta su un tavolino circolare bianco, dalla forma bucherellata. Su di esso vi erano poggiati un cestino ricco di deliziosi biscotti in stile british, e la preziosa teiera appartenente allo stesso servizio da tè della tazza che aveva in mano.
Il prato che la circondava era perfettamente tagliato, poteva sentirne ancora il tenue e dolce profumo albergare nell’aria. Attorno al vialetto di pietra che accompagnava i passeggeri da un angolo all’altro del giardino, vi era un piccolo condotto d’acqua artificiale che richiamava l’immagine di un ruscello. I raggi solari si riflettevano sul quel cristallo, creando dei luccichii simili a delle pietre preziose.
Era un’atmosfera splendidamente piacevole, rilassata, silenziosa. Una pace intensa, che stava perdurando ai limiti dell’inquietudine.
Alzò delicatamente gli occhi oltre il fluido ramato contenuto nella sua tazza e il suo sguardo cadde inevitabilmente su quella costante e unica seconda presenza che negli ultimi giorni accompagnava i suoi spenti risvegli. Il ragazzo aristocratico vestito di rosso era infatti di nuovo lì, di fronte a lei.
Egli aveva finito di sorseggiare il suo tè da un bel po’, così se ne stava semplicemente seduto a guardarla, con una mano adagiata sul tavolo, e l’altra che sorreggeva la testa sulle sue nocche.
Seppure la bionda non lo guardasse in faccia, ma tenesse appositamente lo sguardo vago verso la sua tazzina, avvertiva la costante sensazione che lui la contemplasse. Sempre, con insistenza, con ossessione.
Nonostante la pacatezza che la circondava e che sentiva nel suo corpo, era sempre più inquieta. Le sensazioni d’inadeguatezza provate il giorno prima erano ancora correnti e insistenti nel suo animo. Sperava che quella spiacevole percezione sparisse quanto prima illuminandola con una risposta.
In quell’istante la sua mano tremò inconsapevolmente, probabilmente perché ancora infiacchita, nonché distratta da quei pensieri. Il liquido contenuto nella porcellana oscillò appena oltre i margini, ma ancora una volta, prontamente, quell’uomo le sorresse la mano. La ragazza a quel punto alzò il viso verso di lui.
L’uomo fu costretto così a specchiarsi nei suoi profondi occhi blu oltremare. Un contatto visivo che durò pochi secondi, un istante forse, e nel quale la ragazza ebbe il tempo di vedere addirittura sgomento, se non paura.
Egli, infatti, discostò lo sguardo per qualche motivo, preferendo avvicinarsi verso di lei alzandosi dalla sedia, interrompendo quel contatto visivo. Sembrava non sciolto nei suoi movimenti.
 
“Forse sei ancora un po’ stanca, Alexia. Vuoi dormire ancora un po’?”
 
Chiese con una gentilezza che oramai aveva palesemente dell’anomalo.
Quel morboso interesse, quella patologica attenzione che lui aveva verso di lei, quasi come fosse la sua piccola bambola preziosa…in contrasto tuttavia col terrore di guardarla.
Era strano.
Egli le asciugò lo spigolo della bocca con la punta di un fazzoletto di stoffa, curando la sua meravigliosa Alexia, la sua potente sorella impeccabile.
In seguito le porse la mano, aiutandola ad alzarsi. La ragazza, sconcertata, non poté far altro che allungare anch’ella la sua mano verso di lui. Il vestito viola scuro ondeggiò mentre si scostava dalla sedia. I suoi lunghi guanti bianchi che la coprivano lungo tutte le braccia si posarono su quelli anch’essi bianchi di lui.
Il ragazzo così mise sotto braccio la fanciulla, ed insieme si incamminarono per il piccolo viale di pietra, dirigendosi verso il portone principale, pronto a mettere al sicuro la sua preziosa bambola nella sua teca di cristallo.
Ignara, la bionda guardò dritto dinanzi a se, mentre sempre più dubbi si affollavano nella sua mente.
Sbirciando ancora una volta verso di lui, poté scorgere la sua espressione silenziosa ed assorta.
Che anche lui fosse vittima di qualche ambiguo complotto come lei, si chiese.
Lo vide camminare lentamente, rispettoso del suo passo incerto dovuto all’intorpidimento che non voleva abbandonarla. Egli si prendeva seriamente cura di lei.
Allora perché era così ambiguo il suo comportamento? Perché aveva paura di guardarla? Cosa stava nascondendo in realtà?
Mentre salirono i pochi gradini che erano ai piedi del portone di legno massiccio, gli occhi del ragazzo scivolarono per un istante verso di lei.
Una parte di lui era altamente desiderosa di vederla in viso, ma qualcosa glielo impediva. Qualcosa chiamata razionalità, coscienza, che sapeva che non avrebbe mai visto ciò che lui sperava di vedere.
Ma oltrepassò ugualmente quella soglia, incuriosito dalla preziosa donna legata al suo braccio.
Spiò quindi verso di lei, la quale era in quel momento voltata in altra direzione. Tuttavia il cieco fato era sempre pronto a mostrare con crudeltà l’inganno che lui voleva raggirare.
Facendo per aprire il portone, infatti, le sue attenzioni non andarono sul volto di lei. Quel che si focalizzò nei suoi occhi fu altro. Qualcosa cui una persona comune non avrebbe mai dato grossa importanza.
Perché quel che egli scorse di sfuggita, fu un semplice e quasi invisibile filamento rosso che pendeva sulla spalla di lei. Un particolare marginale, ma che inesorabilmente catturò tutte le sue attenzioni, depennando tutto ciò che lo circondava in quel momento.
A quella visione, infatti, lo sguardo dell’uomo altolocato mutò drasticamente, come se quell’insignificante dettaglio avesse rovinato uno splendido quadro.
Nonostante fosse costantemente intontita, persino la “così chiamata Alexia” sbirciò anch’ella in quella direzione, ma lui la precedette, prendendo quel filo fra le sue mani, staccandolo dal tessuto del vestito sul quale era impigliato.
Quel filo che mascherava la realtà.
Quel filo che simboleggiava l’inganno costruito.
Quel filo che raggirava una solitudine repressa che l’aveva fatto soccombere alla pazzia.
 
Quel filo… che in realtà era un capello. Un semplice capello rosso.
 
 
 
 
***
 
 
 
 
Qual è esattamente il momento nel quale sprofondiamo nella follia?
Spesso non siamo in grado di focalizzare quell’istante, perché esso si traccia attraverso un lento percorso… …così lento che spesso dimentichiamo quando tutto è cominciato esattamente.  O forse, semplicemente, siamo sempre stati folli. Sempre ciecamente e inconsapevolmente folli.
Ma nel nostro mondo anche la follia ha un senso. Nel mondo che solo noi abitiamo e nel quale soltanto noi sappiamo trovare le strade da percorrere.
Se solo non fossimo lasciati da soli a cercare quelle strade….
 
 
 
Il sottofondo di un triste motivetto di un antico carillon risuonava per le mura di una buia camera da letto, echeggiando senza fine, ripetendosi senza sosta, martellando quelle pareti.
L’oscurità nascondeva i perimetri di quella stanza, divorando nelle tenebre tutto ciò che la componeva.
La costruzione di un mondo buio e perfetto, di una piatta tavola nera in cui non esiste null’altro che il ricordo dei tempi che furono. Tutto può essere nascosto dal Nulla. Meglio il Buio, che la triste realtà della Luce.
Quel che in fondo non si vuole mostrare, o ricordare, può essere facilmente avvolto col manto nero dell’ombra, ma nulla può essere occultato del tutto. Perché i contorni si delineano sempre una volta abituati ad esso.
Così l’oscurità poteva nascondere chi era rifugiato in quella stanza, e chiunque avesse cercato di entrarvi avrebbe certamente arrancato a muoversi nel nero più assoluto. Ma quel che componeva quella stanza non avrebbe mai potuto sparire.
Tuttavia questo non era attualmente importante per lui. Non era suo intento sparire. Quel che gli interessava era essere proprio lì, da solo, nelle tenebre più intense, coccolato dal ricordo di quando non era solo, di quando era felice.
La porta d’ingresso era stata chiusa a chiave dall’interno, sperando di bloccare con essa anche tutto ciò che era fuori, che era estraneo a quel ricordo. Essa era stata sigillata con rabbia, con disperazione, come per nascondere il suo padrone dal resto del mondo. Un mondo crudele, sbagliato. Un mondo che lo aveva solo sfruttato. Un mondo che senza la sua Alexia non aveva alcun senso.
Solo nella sua stanza, il biondo strinse quel capello rosso che era ancora fra le sue mani. Lo strinse fortemente in un pugno di collera che scavò quasi nella sua carne.
Il luogo che lo circondava venne lentamente a delinearsi nell’oscurità.
Egli era seduto sul suo letto a baldacchino, rivestito dalle lenzuola dall’apparenza molto pregiata. Il soffitto era decorato con un affresco angelico che si distingueva a stento per i suoi colori vivaci. Posto di fronte a lui vi era un armadio di legno scuro, a fianco del quale era posta una specchiera magistralmente rifinita dalle splendide onde barocche intagliate nel legno.
Un angolo dello specchio era riuscito a inquadrare parte del viso del giovane, mostrandone le labbra marmoree, le quali stavano serrando i denti in un ghigno enigmatico per chi lo osservava.
 
“Claire Redfield….”
 
Ringhiò a denti stretti, maledicendo nella sua mente quel nome.
Il nome della donna dai capelli rossi che aveva osato invadere il suo cammino nel momento più prezioso.
Il nome dell’Infima donna che aveva sporcato l’universo Perfetto di lui e Alexia, portando scompiglio nel loro territorio.
Nel contorcimento di quei mentecatti pensieri scaturiti da chi aveva vissuto tutta la sua vita al servizio di un’unica e adorata persona, quel capello rosso rappresentava invece tutto ciò che era estraneo al suo mondo. Era un piccolo simbolo di altre verità, ai suoi occhi spregevoli e indegne delle sue attenzioni.
Tuttavia esso era gelosamente stretto fra le sue mani, in una morsa d’odio e di disprezzo, ma che trapelava un nascosto disturbo interiore.
Generava in lui un indefinibile corpo estraneo, che vagava disturbando i suoi sensi, costringendo il suo animo a serrarsi… a serrarsi sempre di più, obbligandolo ad aggrappandosi a quell’unica certezza che dava ancora un senso alla sua vita: Alexia.
Perché più il suo cuore refrigerava in quel confuso adulterio, scaturito dalla volgare e spregevole curiosità verso colei che era l’Altra Donna, più egli si aggrappava a Lei…. la sua crudele e perfetta Regina.
Perché le sue attenzioni potevano appartenere a una e una sola.
L’altra donna doveva morire.
Nonostante ciò, il disdegnato cimelio era tuttavia ancora ancorato nelle sue mani, stretto come se volesse distruggerlo. Stretto come se volesse possederlo.
Non ebbe il coraggio di disfarsene per la deviata ragione che voleva reprimere.
Ma l’oscurità poteva nascondere ogni cosa, persino i suoi reali pensieri. Lì nessuno l’avrebbe visto, o lo avrebbe rimproverato.
Quasi come se fuggisse dalla sua coscienza grazie alla discrezione del buio, custodì quel capello, segregandolo in modalità in realtà velatamente simili alla stessa donna che egli venerava.
Perché anche la stessa Alexia era stata segregata nel suo cuore, rinnegando ogni realtà a lei dissimile in suo onore e per sua fedeltà, questo fino a logorate e distruggere se stesso, costruendo una realtà in cui lei fosse davvero accanto a lui.
Lo stesso, in qualche modo, era per quel rifiutato capello rosso, di cui egli smentiva la sua identità, ma di cui allo steso tempo desiderava la sua ignobile conoscenza. Lo conservò ugualmente, come fosse uno sporco cimelio prezioso… nascondendolo egoisticamente in quella stanza conoscitrice della sua maturata follia e incolmabile solitudine.
 
 
 
***
 
 
 
Sala della Musica - mattina
Brano: Studio Op. 10 n. 3 – Fryderyk Chopin *
 
Il componimento echeggiava per il salotto, chiamato Stanza della Musica perché luogo utilizzato dagli Ashford per dilettarsi ascoltando composizioni classiche, meditando sulle loro misteriose e armoniche note fino ad abbandonarsi completamente ad esse.
Esso aveva un aspetto ricco e barocco. I colori del legno e del rosso la facevano da padrona donando a quella stanza un aspetto vivace e ingombro.
Due paia di divani dall’aspetto rigonfio erano posti gli uni di fronte gli altri, rivestiti di un tessuto a righe bordò e bianco papiro. Fra essi vi era un tavolinetto di vetro, ove erano poggiate un paio di statuine di porcellana. L’ampia e vaporosa tenda rendeva fioca la luce, e riempiva l’ambiente di una calorosa accoglienza con la sua imponente e voluminosa presenza. I tappeti rivestivano quasi interamente la pavimentazione, rendendo quella camera un piccolo gioiello prezioso, ove ovunque ci si voltasse, ci si poteva perdere nei suoi secenteschi dettagli.
Ancora una volta, accomodati insieme nella stessa stanza, vi erano le medesime figure dai capelli platinati.
Alfred Ashford e la “così chiamata Alexia”.
Tuttavia qualcosa si era spezzato.
Nonostante la soavità delle note di Chopin che risuonavano armoniosamente dal grammofono alle sue spalle, il biondo non riusciva quasi più a reggere la bambola fittizia che celava l’Altra Donna sotto il suo trucco.
Riaffiorata appena il giorno prima, la sua presenza era oramai nell’aria. Per quanto l’avrebbe ignorata, per quanto l’avrebbe camuffata e nascosta…. l’inganno non avrebbe potuto perdurare.

Perché Lei non era Alexia Ashford, la sua amata sorella.

L’unica manifestazione esterna del rifiuto categorico verso l’accettazione di quella realtà, era rappresentata dall’incessante battere del suo piede sul pavimento, che movimentava tutta la sua gamba sinistra. Le sue labbra invece erano premute fortemente contro il dorso della sua mano.
Dall’altra parte, di fronte a lui sul divano, la ragazza chiamata Alexia era assorta, immersa e alienata nell’ascoltare quella musica. I suoi muscoli erano intorpiditi, esattamente come negli altri giorni.
Si chiedeva perché tale fiacchezza non avesse mai fine. Era esausta sempre, sempre, sempre…
Oramai le veniva il voltastomaco per tutta quell’inerzia. Una straziante e sfiancante passività che la stava facendo sprofondare in un turbine di rassegnazione e dimenticanza.
Osservò il giovane di fronte a lei e sorrise mentalmente, costatando che oramai il suo esperimento andava puntualmente  a segno.
Ella infatti giocava mogiamente a cercare il suo sguardo, che prontamente rifuggiva. Un atteggiamento insolito e piuttosto contraddittorio, perché stranamente alla riverenza che lui dimostrava nei suoi riguardi, egli non osava guardarle il viso. Oppure lo faceva molto di rado, in modo spesso riservato e occultato.
‘Perché tale disagio?’, si chiedeva ogni volta, ma senza trovare la volontà di rispondersi.
Era davvero stanca… tanto stanca….
Doveva trovare una soluzione, nonostante non avesse più alcuna forza in corpo.
Nell’insofferenza e nell’intorpidimento dei suoi sensi, aveva capito da tempo che egli le stesse somministrando qualcosa per tenerla a bada. Era tutto troppo confuso e annebbiato, e l’unica cosa che poteva fare, ora come ora, era muovere a stento le braccia e le mani, o dondolare la sua testa. Ma dentro se stessa, vibrava forte la consapevolezza che doveva liberarsi, che quello era il male, che c’era qualcosa di assolutamente sbagliato, che lui non era chi diceva di essere.
Che lei non era la fantomatica Alexia.

Senza che se ne accorgesse, Alfred intanto era tornato a guardarla di nascosto, mentre la sua mente cercava sempre più di scappare da quella morbosa paura verso quella giovane donna che non era chi bramava in realtà.
La paura di ammettere quella realtà, di tornare ad essere solo….
Egli avrebbe fatto qualsiasi cosa per soppiantare tutto ciò, così cercava disperatamente le sue risposte nella figura di quella ragazza, che osava essere dannatamente bella come la sua Alexia…
Fece scorrere il suo sguardo dalla sua fronte, fino al mento, passando per i suoi occhi rotondi, per il suo naso a virgola, per la sua bocca carnosa…
I suoi occhi si abbuiarono, contorcendosi nelle sue paranoie e ossessioni incolmabili.
Perché nella sua mente era logico adorare solo e soltanto Alexia. E se la donna di fronte a sé era la sua adorata sorella, allora poteva felicemente soccombere al peccato di quell’attrazione, senza essere ferito dall’ignobile e vergognosa colpa del peccato.
Avrebbe così colmato finalmente la sua insostenibile solitudine dopo quindici anni di sofferta attesa.
Era una folle e inconcepibile soluzione che però salvava la sua mente, in realtà già in balia della pazzia.
Era forse un peccato quello di costruirsi la realtà che si preferiva credere?
Alfred Ashford non se ne sarebbe mai reso conto, cullato com’era nella consolazione di avere finalmente Alexia di fronte a se. Consolato dalla vicinanza di quel meraviglioso volto che aveva cercato in tutti i modi di rimpiazzare.
Si alzò dunque dal divano, e con passo lento si affiancò alla sua amata. La guardò estasiato, con la tenerezza negli occhi, felice di essere al suo cospetto. I suoi occhi quasi si commossero, non potendo credere di averla davvero accanto.
Desideroso del conforto che solo le sue braccia potevano dargli, egli distese la testa sulle sue ginocchia, portando le mani di lei sulla sua nuca, facendosi accarezzare dal suo lento e delicato tocco.
Sentì le sue dita muoversi fra i suoi capelli ingellati, le quali riuscirono a rasserenare le sue angosce.
Chiuse le palpebre beandosi di quel momento, appagato finalmente dopo tanta e disperata emarginazione.
Se solo Alexia non lo avesse mai lasciato solo…
Ma lui non l’avrebbe mai incolpata di nulla.
Per lei avrebbe fatto volentieri qualsiasi cosa, perfino sopportare quella tremenda ed estenuante attesa.
Adesso però che era lì, accanto a lui, poteva tornare a essere felice.
La donna dai capelli biondi intanto muoveva la sua mano sul suo capo, condizionata nell’assecondare i desideri del suo strano fratello. Incerta e confusa, stette ancora una volta in silenzio.
Fu imbarazzante e difficile per lei interpretare quel gesto, quelle pretese carezze con cui l’aveva pregata di cullarlo. Provava una strana morsa al cuore.
Chi era realmente Alexia per lui? Perché la temeva e la desiderava tanto?
Dire che fosse la sorella non era esaustivo… più di qualcosa le era ancora ignoto.
Sentiva intanto il capo di lui premere sulle sue cosce, abbandonandosi sempre di più alle sue ricercate e amorevoli cure. Sporgendosi, poteva scorgerne parte del profilo al di la degli zigomi, e il suo viso sembrava veramente disteso…come fosse in pace, avrebbe potuto osare dire.
Come se non fosse desideroso di null’altro che di quel piacevole inganno.
Questo mentre La Tristezza di Chopin continuava a produrre la sua armoniosa melodia, che si diffondeva sempre più nella stanza, irradiandosi nel silenzio tormentato delle loro menti, concentrati su quella menzogna che entrambi internamente sapevano di vivere.
 
 
 
 
***
 
 
 
 
NOTE:
 
*
Lo Studio Op. 10 n. 3 - o Étude Op. 10 n. 3 , conosciuto anche con il titolo apocrifo di Tristesse o Tristezza , è una composizione musicale per pianoforte scritta da Fryderyk Chopin nel 1832.
(Font. : Wikipedia)
 
 
 
 
 
 
NdA:
Salve!^^
Grazie per aver scelto di leggere il primo capitolo di questa fan fiction, che vedrà come protagonisti Claire Redfield e Alfred Ashford. Il contesto in cui ho deciso di ambientare la storia è quello di Re: Code Veronica X, leggermente modificato in modo da creare un lasso temporale in cui svolgere la narrazione.
Ci tengo a precisare che farò riferimento solo e soltanto a re:cvx! Non terrò minimamente presente Darkside Chronicle. Faccio tale precisazione perchè tengo al fatto che il lettore abbia ben presente il contesto a cui faccio riferimento in quanto reputo che questi due giochi siano assolutamente diversi pur trattando della stessa storia. Vi annoierò ora con solo qualche piccola riga introduttiva^^:
Il mio intento, con questa storia, è quello di rendere omaggio a un personaggio molto conosciuto della saga, ma probabilmente poco approfondito come dovrebbe essere, e che mi ha profondamente affascinata ultimamente. Parlo di Alfred Ashford.
Un ragazzo enigmatico, visibilmente disturbato, succube di un mondo che l’ha reso folle. Vittima di una depressione che l’ha morbosamente attaccato alla figura della geniale sorella Alexia.
Ho scelto questo titolo, infatti, poiché riassume in pillole il rapporto di Alfred e Alexia, ove per lui la bionda è la sola donna al mondo, l’unica donna della sua vita, l’unica donna che lo comprende, la donna perfetta, la donna alla quale sacrifica la sua vita, la donna che deve proteggere, la donna che può cambiare il destino… la sua Regina. In contrasto con questo suo malato micro universo che ruota attorno ad Alexia, ecco però che farò subentrare un altro personaggio: Claire Redfield.
Claire che invece è solo una donna. Una donna che non somiglia per nulla alla sua Regina. Eppure osa essere dannatamente bella ed attraente, forte e coraggiosa….ma non può però esistere un’altra donna per Alfred all’infuori di Alexia.
Sebbene il pairing insolito, spero di riuscire a coinvolgervi e a comunicarvi il fascino di Alfred Ashford, assieme alla meravigliosa Claire Redfield. Preciso che non costituirò una AfredxClaire nel vero senso della parola, ma voglio sicuramente provare a stuzzicare e a perseguitare un po’ la mente del biondo.
Se durante tutta la vicenda riuscirete a sentire la follia e il tormento che alberga nelle mura del Castello Ashford, allora sarò riuscita nel mio intento! ^^
 
Al momento è tutto! Spero che la lettura sia stata piacevole! ^^
Rendetemi partecipe dei vostri pensieri, mi raccomando. Le recensioni sono il carburante dello scrittore, e conoscere i vostri pareri mi sosterrà e mi aiuterà moltissimo alla costruzione di questa storia! ^o^
 
Un ringraziamento speciale va a mia sorella, la mia sempre prima sostenitrice, che mi ha spinta a cimentarmi in questa scrittura; e alla mia amica Astarte90, che mi ha caricato e dato tanta, tanta motivazione!! *O*
Grazie ragazze!!!!! Questa fic è dedicata a voi!
 
A presto,
Fiammah_Grace
 
 
Ps: A proposito! Se voleste votare Alfred e Alexia nell’elenco dei personaggi che devono essere aggiunti alla categoria di Resident Evil, ve ne sarei davvero grata. ^^
 

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Capitolo 2: una mendace commedia ***


 
Capitolo 2: una mendace commedia
 
 
 
 
 
 
Certi sogni si infrangono contro lo spiraglio di una porta che vorremmo invano chiudere a chiave e attraverso cui, speriamo di ritrovare qualcosa di indefinito.
E’ un po’ come aprire uno Scrigno per riassaporare il gusto di certe Emozioni, o entrare in un Giardino per respirare quel nostalgico profumo di Amore e di Vita…
Una forza indipendente dalla nostra volontà che ci spinge a cercare ancora, ciò che abbiamo lasciato in un sogno rimasto al di là di quella porta: la parte più bella di noi, che si è persa per sempre.
( Imma Brigante )
 
 
 
 
 
Delle risatine distanti si udivano sullo sfondo di un ricordo offuscato. Echeggiavano in modo disturbato e instabile, come una pellicola malandata i cui suoni non si distinguono più e rassomigliano a un eco nostalgico e incomprensibile. Il rumore dei passi che correvano si accavallava con i risolini infantili di due bambini che si tenevano per mano. Essi sgattaiolavano ridenti solcando il fogliame posatosi sul prato verdissimo, trascurato e lasciato crescere in modo selvaggio, ma non abbastanza folto da impedire loro di avventurarsi. Essi, affannati e ancora sorridenti, si fermarono solamente quando si assicurarono di essere soli.
Sghignazzarono fra di loro, dopodiché uno di loro tirò per il braccio l’altro, forzandolo a sedersi su quel verde. Strattonato con quella veemenza, il secondo cascò a terra, ma fu lieto che la sua compagna avesse avuto quell’iniziativa; questo perchè adorava essere al suo fianco. Era felice quando poteva guardarla in quegli occhi così chiari e luminosi, ricchi di fascino e bellezza.
Sorrisero, non avendo bisogno di proferire alcuna parola per comprendersi. Intrecciarono le loro dita le une nelle altre, trasmettendosi quel calore affettivo che nessuno aveva mai comunicato loro. I due così avevano colmato quel vuoto aggrappandosi l’uno all’altro, costruendo un legame inscindibile che nessuno avrebbe mai potuto comprendere. Qualcuno che non fosse nato in quello stesso mondo, con quegli stessi occhi complici.
Entrambi marmorei e dai tratti sottili, con occhi celesti e divini, avevano dei morbidi e sottili capelli biondi, nell’uno tagliati a caschetto, nell’altra lasciati lunghi. Identici e quasi indistinguibili, essi condividevano non solo la condizione di vita tipica dei gemelli, loro erano molto di più.
Una coppia unita dalla nascita, un principe e una principessa che si erano congiunti fin dal primo momento in cui avevano aperto gli occhi. Un’anima sola divisa in due corpi.
Era forse stato il destino a farli nascere in due, consapevole della vita solitaria che altrimenti avrebbe condannato l’uno o l’altra, lenendo così la sofferenza di quell’esistenza travagliata. Sentivano entrambi dentro di loro qualcosa che trascendeva le loro conoscenze, come se non fosse un caso che l’uno colmasse le mancanze dell’altro. Perché se i due non avessero avuto che se stessi, nulla avrebbe avuto un senso, e le loro intere esistenze sarebbero state come un oggetto dimenticato e lasciato a morire. Per questo il fato era intervenuto, scindendo quell’anima in due: perché così non sarebbero mai, mai, stati soli.
La ragazza dai capelli lunghi abbassò il viso e il suo sorriso divenne più spento. Suo fratello sentì quello stesso turbamento anche dentro di se, pur non conoscendone la causa; ma per lui era spontaneo sentire il dolore di colei che era una parte di lui. Era questo che significava possedere un’anima sola.
Si avvicinò alla fanciulla, facendo scorrere lo sguardo dalle sue ginocchia premute sull’erba, coperte dal suo bellissimo abitino bianco, alle sue spalle rivestite da una elegante giacchina grigio scuro che si chiudeva sul busto lasciando scoperto soltanto il colletto bianco del vestito su cui era spillata la pietra scarlatta che contraddistingueva sua sorella.
Si avvicinò sempre di più, arrivando a trafiggere con i suoi occhi le iridi azzurre di lei, che volentieri concesse il suo sguardo al suo unico e prezioso fratello.
Non avevano bisogno di dirsi altro.
Il loro mondo era perfetto così.
I gemelli Ashford avevano creato i loro equilibri in quell’esistenza malata e violenta, e finché quel filo non si fosse spezzato, bastava ad assicurare loro la felicità.
Eppure…
 
…quello stesso fato magnanime fu più crudele di quanto non avrebbero mai potuto pensare…
Le loro vite già devastate presto sarebbero state sconvolte….
 
Se soltanto non fosse mai stata svelata la verità, trasmettendo in quei bambini un senso di frustrazione, una brama di potere… e un’ ossessione che mai avrebbero potuto colmare. In realtà vittime di un destino spietato che aveva già dannato in modo irreversibile ogni loro certezza, innestando in loro l’idea che non esistesse traguardo più ambizioso che portare a termine la loro missione.
L’esperimento di quella che sarebbe diventata la dannazione e l’ossessione di Alexia Ashford.
 
 
 
 
***
 
 
 
 
Camera di “Alexia” - Sera
 
 
Cos’è peggiore dell’oblio?
Quella devastante ed estraniante sensazione che allontana il nostro corpo sempre più dalla realtà, rendendoci delle marionette assenti di un mondo che scorre inarrestabile davanti ai nostri occhi.
L’inerzia uccide quanto un colpo d’arma da fuoco. Ci devasta e ci piega ai suoi piedi, imponendoci di prostrarci alla sua ubbidienza e facendoci inutilmente credere che non vi sia nulla attorno a noi eccetto il buio opprimente di un mondo vuoto e privo di forma.
Pensare a un mondo nero, tenebroso, crudele, spietato…
Un mondo vuoto.
Un mondo che non esiste. Un mondo che non ci vuole. Un mondo regnato dal caos, dalla disperazione, da un senso di rifiuto e indifferenza. Un mondo cupo e triste che non ci lascia altra scelta se non di cadere nell’oblio. Decidiamo così di non vivere, di assecondare le sorti che quel destino ci ha assegnato, soccombendo in questo vortice vuoto e debilitante.
Una disgrazia che non lascia scampo e ci accoglie nel suo freddo e spietato petto, non concedendoci di intravedere altre vie…. nulla è al di fuori di quel nero.
Il Niente è il padrone assoluto dell’oblio.
Muori; muori a furia di aspettare, a furia di sperare di sciogliere quelle catene che in verità hai sempre saputo essere senza lucchetto.
Non esiste la chiave, non esiste una combinazione che possa lenire quel dolore. Una prigionia senza fine che ingloba l’intero universo che ruota attorno a noi. E’ una condizione di vita quella che avvolge colui che è caduto nell’oblio.
Di fronte tale condizione di vita, se così vogliamo ancora chiamarla, non è forse meglio la morte?
La morte non diventa forse un caldo abbraccio, a confronto?
La morte dell’anima che cade in balia dell’ oscurità, del silenzio, della dimenticanza più tetra, è forse la vera e temibile morte.
La morte dello spirito.
 
E’ questo che accompagna le mie notti. E’ questo che non mi dà pace. E’ questo che mi impedisce di credere a quel che ho davanti ai miei occhi.
Quello che mi circonda è il vuoto di un mondo che non mi appartiene.
Perché ne sono certa?
Non lo so….
E’ il cuore che mi parla.
Un cuore che nonostante l’oblio che mi ha assorbito, non ha smesso di battere.
Voglio vivere…non voglio che questa sensazione di abbandono porti via una parte di me. Non voglio che laceri e devasti la mia mente, che già non fa che ripetermi e ripetermi che non c’è nulla a cui possa aggrapparmi.
La mia anima che si corrode, che si lacera, si consuma, brucia, si disperde. Si disintegra fino a sbriciolarsi proprio davanti ai miei occhi, dileguandosi come se stessi afferrando un pilastro composto di cenere, che aggrappandomi, sporca il mio corpo e scivola vai dalle mie mani senza che io abbia neanche potuto toccarlo.
Quello che chiedo è solo di avere la possibilità di vivere.
Lasciami vivere.
Lascia che questo male mi abbandoni.
…Alexia…
 
 
 
…Alexia…
…Alexia…Alexia…
 
 
Quel nome si espandeva nella sua mente ripetendosi con paranoia ossessiva, in un delirio alienante che annullava ogni suo significato a furia di essere rievocato, divenendo un suono lontano ed estraneo che non sentiva appartenerle. No…
Non era una sensazione. Sapeva, infatti, per certo che esso non le apparteneva.
Questo perché più ripeteva nella sua mente quel nome, più non si capacitava di essere quella donna.
Più ripeteva nella sua mente quel nome, più ricordava di non aver mai indossato in vita sua un abito lungo e raffinato come quello. Più ripeteva nella sua mente quel nome, più sentiva reale quella tormentata presa in giro che annullava il suo io. Più ripeteva nella sua mente quel nome, più ricordava di non avere i capelli biondi…
Seppur l’oblio in cui era precipitata, una parte della sua anima era riuscita ad aggrapparsi a qualcosa, non permettendo che essa venisse perduta per sempre. Così nella sua mente facevano a cazzotti quelle due realtà: una che rievocava la vita, una vita che un tempo sapeva di aver conosciuto, e voleva riemergere nonostante fosse bloccata da qualcosa nel suo inconscio che non le permetteva di arrivare a lei; e l’altra che le imponeva di abbandonarsi alla dolce indolenza che impigriva i suoi sensi, cedendo a quell’inganno che lentamente stava diventando la sua vera realtà imposta.
Voleva vivere, voleva scacciare quell’angoscia, eppure essa era più forte e la schiacciava come se avesse preso il pieno controllo del suo corpo e delle sue debolezze; la dominava come conoscendola palmo a palmo, premendo sui suoi impulsi e gettandola ancora più in profondità in quel mondo vuoto che la inghiottiva prepotente e che lei cercava di contrastare con tutta se stessa.
 
La giovane donna alzò il viso, sudato e angosciato. Il respiro era calmo, ma sentiva l’affanno crescere dentro di sé e che le impediva di prendere beatamente sonno. Generalmente si assopiva in seguito allo sfinimento di quella perpetua sensazione di stordimento che la perseguitava ormai da giorni. Si addormentava pur di non dover sentirsi così tutta la giornata, pur di mettere la parola fine a quell’agonia.
Il vomito, dovuto alla fortissima nausea che aveva in corpo, le saliva disgustosamente in gola. Era insopportabile, come se le stesse prosciugando l’anima, la sua intera essenza vitale, opprimendola in quell’agonizzante condizione di squilibrio e confusione, che disorientava i suoi sensi fino ad annullarli, non permettendole di riconoscere più qual era il mondo reale.
Era questo che accompagnava i suoi giorni; era questo che la sopraffaceva e la ingabbiava, facendola sprofondare in un caos sbagliato e riluttante, privo di forme e strutture, condannandola a galleggiare in un etere buio e ostile, che voleva annientarla conducendola alla perdita del suo spirito.
Nel buio della sua ragione, guardò fugacemente attorno a sé, sperando che in quella stanza fosca e ombrosa ci fosse qualcosa che l’aiutasse a fare chiarezza sull’assurda situazione in cui si trovava e dalla quale non riusciva a più uscire. Qualcosa che parlasse d lei, che le confermasse che era solo un incubo, che le comunicasse un qualsiasi senso della realtà che al momento le sfuggiva e la faceva sentire male.
Purtroppo però l’unica cosa che la circondava era soltanto la triste e indifferente oscurità della notte, che non voleva venire incontro alla sua tormentata e disperata condizione, che gridava aiuto, che implorava di tornare alla luce.
Girando gli occhi assonnati e speranzosi, che cercavano ossessivi i segni di una vita che sentiva estranea alla sua persona, riuscì lentamente a scorgere la sagoma del baldacchino su cui era adagiata.
Era maestoso, e molto ampio. Sembrava quello di una persona regale, e si accorse solo in quel momento di essere avvolta dalle sue soffici lenzuola di seta, il cui colore era indistinguibile nell’ombra. Di fronte a se vedeva in modo precario un soffitto variopinto, sembrava un affresco angelico. Facendo invece scorrere il suo sguardo verso il basso, intravedeva un mobile scuro, accanto al quale era posizionato uno specchio…anzi, una postazione da trucco. Parte di quel vetro risplendeva nell’oscurità, riflettendo una luce tenebrosa che non proiettava alcuna immagine, come simbolo di un mondo che non era pronto ad essere rivelato.
Quando la ragazza fece per sollevare il busto, trovò inaspettatamente resistenza all’altezza dei polsi. Sbirciò in loro direzione e delle tenaglie la tenevano ancora una volta bloccata sulla sua posizione.
Strinse gli occhi, accigliata. Quelle catene intrecciate dietro lo schienale del letto cadevano sul materasso e imprigionavano entrambi i suoi polsi in due morse ferrose e pesanti, maleodoranti di vecchio e di ruggine.
Con estrema fatica riuscì a fare mente locale.
Quel risveglio le fu presto familiare e alla fine ricordò nitidamente che non era la prima volta che accadeva. Anzi…era una constante.
Perchè lei era sempre incatenata. Lei era sempre prigioniera.  A meno che non c’era lui…
Era solo in presenza dell’altolocato ragazzo dai capelli pallidi che lei era libera di alzarsi dal suo letto, o dalla sua poltrona, sui cui era generalmente costretta a sedere.
L’incoerenza notata nei giorni precedenti si fece sempre più oggettiva, fino a tramutarsi in un’insistente voce interiore che cominciò a sussurrarle.
Era un richiamo forte, che le urlava nelle orecchie e che da giorni pretendeva il suo ascolto, ma che solo adesso era riuscita finalmente a sentire.
Era la voce della sua coscienza che implorava il suo corpo di risvegliarsi.
Prese così a ragionare tacitamente, riflettendo su quella situazione paradossale e spaventosa. Su quel ragazzo vestito di rosso; sul perché lui la teneva incatenata al suo letto; perché non riusciva a riconoscere il suo viso; e quel posto…perché non riconosceva casa sua?
Era tutto così visibilmente illogico…persino lei stessa oramai non sapeva più chi fosse.
Chi era Alexia? Perché la chiamava così?
Se era la sorella di quell’uomo, allora perché la teneva imprigionata?
Doveva ricostruire il quadro della situazione e riappropriarsi della propria capacità di agire il più in fretta possibile, prima di perdersi ancora di più nel raccapricciante labirinto della follia che albergava in quella villa.
 
 
***
 
 
 
(…nello stesso tempo)
Stanza di monitoraggio - Sera
 
 
 
Alfred Ashford guardava nervosamente verso il monitor. La tensione poteva sentirsi a fior di pelle.
La sua gamba non smetteva di muoversi. Egli agitava il piede in modo che il tacco andasse su e giù, su e giù.
Anche la sua mano aveva preso a picchiettare nervosamente contro il tavolo sul quale era appoggiato già da diversi minuti. Lo sguardo vago, la pelle fredda, il cuore in tormento, la frenesia che agitava il suo corpo, l’angoscia che lo innervosiva…
Questo era quello che gli accadeva da una notte in particolare.
Da quella notte in cui aveva incrociato il suo sguardo con un altro essere umano.
Un altro essere umano…che non fosse Alexia.
Alfred aveva certamente conosciuto altre persone nella sua vita. Era ovvio fosse così.
Era andato a scuola, frequentato l’università, era stato comandante di un campo dell’Umbrella di cui attualmente dirigeva il Centro di Addestramento, prima che la sua base venisse inspiegabilmente attaccata.
In quei contesti aveva incontrato molte facce nuove, e tantissimi volti erano passati passivamente al suo cospetto, ma a nessuno lui aveva mai dato importanza. Essi erano ai suoi occhi immagini prive di significato, assolutamente riluttanti, diversi….
Diversi da lui, diversi da Alexia.
Egli era oramai irrimediabilmente a disagio, se non disgustato, dal contatto di chiunque non fosse lei, sua sorella gemella. Aveva sempre prediletto la solitudine del suo castello, tenendosi a debita distanza dai suoi colleghi. Quel mondo così lontano dal suo lo spaventava…
L’essere cresciuto in completa solitudine, fra quegli esperimenti inumani, in quel contesto malato e perverso, con la sola ed esclusiva complicità della furba e vincente Alexia, lo aveva completamente staccato dalla realtà in modo ormai irreversibile.  Non avrebbe mai più potuto far parte del mondo comune. La solitudine e la depressione in cui era caduto fin da ragazzino avevano inesorabilmente deviato la sua mente, rendendolo incapace di uscire dalla sua cattività.
La sua gabbia era divenuta la sua tana, un posto che poteva condividere solo con una persona, l’unica che con lui aveva condiviso quello stesso crudele destino.
Accanto a lui c’erano sempre stati due soli occhi complici che rispecchiavano il suo stesso animo, la sua stessa eccentricità, il suo stesso essere ‘diverso’, le sue stesse macabre ossessioni…
Alexia Ashford
 
Era lei l’unica che avesse al mondo. L’unica della quale si potesse fidare, in un mondo che aveva voltato loro le spalle, che li aveva infangati e marchiati con l’indelebile segno dell’inganno. Strumentalizzati e demonizzati dalla loro stessa famiglia, che li avevano voluti e usati solo per i loro comodi, costringendo le loro vite a una dannazione eterna; i biondi gemelli avevano toccato con mano la crudeltà di quel mondo nefasto dove vivevano i ‘normali’ esseri umani. 
Alfred ed Alexia Ashford erano divenuti così l’uno il sostegno dell’altro. Gli unici che valessero il significato della vita. L’uno era l’unica spalla sulla quale l’altro potesse contare.
Loro erano il Re e la Regina.
In quel destino crudele e deviato, che aveva mirato a schiacciarli e a sfruttarli, un morboso attaccamento si sviluppò nei due, ed in Alfred in particolar modo.
La bionda era una continua fonte d’ispirazione, un esempio da amare, seguire, venerare con tutto se stesso. Forte e meravigliosa, aveva da sempre avuto più scaltrezza e intelligenza rispetto al disturbato Alfred. Era lei, infatti, la vera perla della famiglia, che avrebbe riportato gli Ashford al loro antico splendore.
Era su di lei che vertevano le aspettative di tutti.
Così Alfred era solo un puntino rispetto al suo genio. Dotato anch’egli di una spiccata perspicacia e un ingegno certamente fuori dal comune, rimaneva tuttavia in ombra rispetto la promessa della famiglia che aveva ereditato al meglio le qualità intellettive della loro stirpe.
Il ragazzo era così divenuto un “diverso” persino in quel contesto. Un ostacolo per l’intelligenza di sua sorella.
Al contrario, però….la frustrazione dell’essere secondo, l’agonia di essere perennemente oscurato dalla possente luce di Alexia, generò in lui il complesso di un umile servo, che avrebbe fatto qualsiasi cosa per assicurare il successo e il benessere della sua Regina.
Perché era a lei che doveva quel poco di buono che aveva avuto dalla vita. Era grazie a lei che leniva le pene di quella vile esistenza dimenticata.
Alexia divenne qualcosa di più di una sorella. Qualcosa di più profondo di un’anima gemella.
Ella diventò un’ossessione.
Lei divenne La Donna. L’unica Donna che potesse esistere per lui.
La sua Unica e Perfetta Regina, oltre la quale non vi era nessuno.
 
Di conseguenza, ciò fece maturare in Alfred una dipendenza mentale, immettendogli nella testa la folle idea che quel mondo, senza la sua adorata, non aveva significato di esistere.
Era un mondo che doveva proteggere esclusivamente per lei. La Donna e la sua Regina.
 
Con l’assenza di Alexia, conseguentemente, questi disturbi si trasformarono in sadismo, psicopatia, follia…
La ragazza, infatti, si ibernò all’età di dodici anni, al fine di essere lei stessa l’esperimento che avrebbe dato di nuovo gloria agli Ashford, lasciando quindi da solo il giovane Alfred a vegliare su di lei, in quel lugubre e desolato castello.
Gettato nel dolore e nella solitudine più profonda, il ragazzo sapeva che mai sarebbe potuto sopravvivere senza quell’importante e fondamentale parte di sé, rappresentata proprio dalla sua amata sorella.
Egli quindi realizzò ben presto che l’ unico modo per continuare a dare un senso alla sua vita era quello di proteggere l’unica cosa cara che avesse: ovvero, ancora una volta, Alexia.
Nulla dunque avrebbe avuto importanza per lui. Nulla avrebbe avuto alcun valore se non rispecchiava gli interessi della sua somma sorella.
Avrebbe sacrificato ogni cosa al fine del benessere e del successo della sua Regina. Persino se stesso.
 
Ma la follia già aveva devastato la sua mente, incapace di contenere il suo reale malessere.
Un dolore incommensurabile, atroce, insostenibile, insopportabile….
Nulla avrebbe potuto lenire quella tragica ferita, che non avrebbe potuto che allargarsi in quindici anni di attesa.
Così, se da una parte dedicava la sua esistenza al progetto T-Veronica di sua sorella, dall’altra ricercava il modo per dar sfogo al suo dolore, tramutatosi presto in perversione, divertendosi con giochi di torture sadiche e violente, che macchiavano di sangue i suoi prigionieri, cavie inconsapevoli di quella giostra esangue.
Il Centro di Addestramento dell’Umbrella divenne per lui un universo macabro ed appagante, in cui riversava tutta la sua sofferenza su quei corpi privati della stessa anima che oramai era stata strappata anche a lui con l’assenza di Alexia.
Era quello il suo mondo, era quella la sua unica via di fuga.
Era questo che appagava il suo senso di disperazione e che traduceva la sua reale personalità disturbata.
 
Poi…improvvisamente qualcosa era cambiato.
Qualcuno aveva osato penetrare e disturbare la sua macabra attesa di Alexia.
La sua isola a Rockfort era stata attaccata ed era apparsa tempestivamente lei….
La misteriosa e conturbante Altra Donna, che si era insinuata nel suo Centro di Addestramento, portando nello scompiglio i suoi piani.
Inizialmente aveva trovato divertente vedere come quell’insignificante formica riuscisse a fuggire e a nascondersi nei meandri del suo castello. Come uno sporco topo di fogna conscio della morte in agguato nell’oscurità, di cui egli era il padrone assoluto.
Perché era lui che possedeva il potere della vita e della morte nel suo lugubre e gotico territorio.
Era un gioco che lo esaltava, che aveva riacceso i suoi sensi e la sua natura eccentrica.
Claire Redfield avrebbe certamente dato un po’ di brio a quella devastante attesa, soppiantando quell’incolmabile solitudine che aveva in corpo. Di questo, in effetti, avrebbe dovuto essergli grato, e l’aveva fatto. Aveva, infatti, mosso per lei tutta la crudele “accoglienza” che la sua dimora potesse offrire.
Sarebbe stato un soggiorno indimenticabile.
Ma quella formica gli aveva dato del filo da torcere…persino troppo. Più di quanto potesse sopportare.
Così tanto che presto smise di divertirsi.
Giunse il momento in cui quella formica dovesse essere schiacciata.
La rabbia che covava in corpo, l’angoscia che non lo abbandonava, si riversarono d’un botto tutte su di lei, che divenne ai suoi occhi l’Altra Donna. La donna impura e ignobile, spregevole e insignificante.
Un nemico di cui sbarazzarsi al più presto.
 
Eppure… eppure c’era qualcosa che l’aveva inesorabilmente sedotto di lei.
Qualcosa che a lui mancava… qualcosa che un tempo lo completava...
 
Tornò a guardare lo schermo, oltre il quale la sua meravigliosa donna dai lunghi capelli biondi giaceva dormiente.
Ella si agitava nel suo letto. Stava indubbiamente per svegliarsi.
Il biondo osservò minuziosamente ogni sua movenza, ogni tremore del suo corpo: le sue gambe che si sollevavano sotto il lenzuolo, il respiro che gonfiava il suo petto, le maniglie di ferro battuto che le ancoravano i polsi e costringevano i suoi movimenti, i suoi meravigliosi capelli biondo platino che si arricciavano sul cuscino…
Quell’immagine lo ipnotizzò, rendendolo incapace di vedere altro.
Viva, corporea, palpitante…ella era una presenza reale, tangibile, qualcosa che da tempo oramai non scaldava le porte del suo castello. Qualcosa che gli mancava e lo confondeva.
Ella si muoveva davanti ai suoi occhi, tormentandolo e beandolo allo stesso tempo, rimembrandogli ricordi lontani di felicità assoluta e d’incolmabile nostalgia, verso quell’amore che aveva conosciuto ma che non poteva possedere.
Non era soltanto Alexia che ricercava in quell’immagine. Fra quelle lenzuola di seta, luminose e leggiadre, in quel volto disturbato, oscurato dal buio della stanza, egli cercava inesorabilmente l’essenza della fisicità di una persona, qualcosa che gli mancava follemente e che solo Alexia aveva sempre colmato.
Ingabbiato così in quegli oscuri desideri, scrutava colei che era nascosta sotto quella maschera, come se volesse scorgere le ombre di quel mondo che invece aveva rinnegato e rifiutato, che non aveva mai avuto alcuna importanza per lui. Egli esaminava quella donna cercando di riesumare quel qualcosa che lui stesso aveva celato. Quel desiderio fisico verso un altro essere umano, che gli fu negato dopo la scomparsa della sua meravigliosa sorella e che aveva impedito a chiunque di colmare chiudendosi in una solitudine buia e terribile.
Tutto ciò che l’aveva portato in quel baratro ossessivo, reprimendo quel suo bisogno d’affetto che veniva appagato soltanto al cospetto della sua amata, lo metteva adesso a disagio, in quanto non abituato a vivere senza di Lei. Eppure desiderava Alexia a tal punto da ignorare tutto questo, ed ergere mille stratagemmi che riesumassero il suo corpo lontano e che da anni lo aveva abbandonato al suo destino.
Così tanti, che quel ricordo aveva cominciato a violentarlo e disturbarlo, fino a fargli ricercare ovunque quell’affetto che un tempo conosceva, e che adesso poteva rivivere solo nei suoi sogni dimenticati.
Era qualcosa che niente poteva sostituire, e che nessuno avrebbe mai potuto comprendere…
Dunque osservava quella donna al di la dello schermo con quell’ossessione di chi è follemente innamorato di un sogno; di chi disperatamente cerca qualcosa che razionalmente non sa che non avrebbe mai potuto trovare.
La bionda fanciulla dormiente rimaneva infatti distante dal suo universo. Ella era un elemento di disturbo nella sua mente, discorde con i suoi precari equilibri che stavano vacillando e l’avevano condotto alla pazzia a furia di aspettare eternamente la sua Alexia.
La sua stessa marionetta adesso lo stava attirando nella sua tela mortale, ove le sue armi non bastavano per proteggerlo. La sua unica difesa, che consisteva nella rievocazione di un mondo che da quindici anni non gli apparteneva più, che lo stava ingabbiando in qualcosa che avrebbe affondato ancor più la sua mente già morbosamente ancorata a quell’illusione che sfuggiva dalle sue mani.
Eppure, più osservava quel corpo, più qualcosa si scioglieva nel suo cuore….
Un tacito e dolce peccato si delineava.
Un peccato inconfessabile….
Perché non ne poteva più di aspettare…non ne poteva più di quell’atroce agonia…
 
In quegli attimi in cui ella si stava risvegliando dal sonno, egli sapeva che presto avrebbe dovuto somministrarle la quotidiana ‘medicina’, capace di elevare la comune donna e trasformarla in Lei, la Regina, Alexia…
Un’ ‘espediente’ che gli permetteva di realizzare il suo sogno e dare vita a quell’ingannevole commedia che amava vedere sul suo palcoscenico.
Un piccolo rimedio che aiutava la sua giovane attrice a esibirsi in modo esemplare nella parte di colei che era la più importante; un modo subdolo per soddisfare i suoi desideri, ma che appagava i suoi sensi, la sua solitudine, il suo disperato desiderio non di un calore umano qualsiasi….ma dell’amore più puro, profondo e autentico.
Senza quella maschera, la ragazza avrebbe rivelato l’attore nascosto dietro il personaggio, disgrazia assoluta in uno spettacolo teatrale perfetto come il suo. Sarebbe stato riluttante se questo fosse accaduto, rovinando la sua scena eccellentemente costruita.
Lei intanto si stava svegliando, e anzi, forse era già cosciente oramai. Alfred avrebbe infatti dovuto somministrale la medicina più di un’ora prima; eppure lui stava appositamente ritardato quel momento.
Desisteva, rimanendo inerme, fermo a contemplarla.
Non fece nulla che potesse impedire la presa di coscienza della giovane, come se non gli importasse.
Egli in quel momento bramava soltanto vedere quel corpo muoversi sotto le sue coperte.
Quell’immagine lo stava stregando a tal punto da fargli commettere quell’imperdonabile errore che presto gli si sarebbe ritorto contro, compromettendo la sua atroce e folle commedia.
Era conscio che non avrebbe mai visto ciò che voleva vedere, oppure semplicemente era riluttante verso l’ammissione di quella colpa; quell’inconfessabile piacere che non gli avrebbe arrecato che dolore se si fosse concesso ad esso.
Per questo l’ammirava da lontano, in quel tacito idillio che alcuno avrebbe mai conosciuto.
Rimase quindi immobile, adagiato sulla scrivania della stanza di monitoraggio, senza dar voce a nulla dei suoi piaceri o turbamenti, affogando nei desideri di un Es trascurato e represso, che fece tacere le ragioni del suo Super io devastato, in attesa di invadere quella stanza per dare di nuovo inizio a quella commedia che in realtà non aveva mai smesso di essere in atto.
 
 
***
 
 
 
Camera di “Alexia” – Notte fonda
 
 
 
“Ugh…!”
 
Il lamento di una donna interruppe il silenzio che albergava nella buia e tetra camera da letto.
La padrona di quella preziosa stanza, arredata con il miglior mobilio della casa, era incatenata al suo letto, stretta in delle dolorose e rugginose morse che le segavano i polsi. Il bruciore era incessante, ma nonostante ciò, ella continuava a tirare.
La posizione in cui era costretta, la paura di essere vittima di qualche assurdo complotto, ma soprattutto l’essere obbligata a soccombere in quella prigionia, camuffata da quei bellissimi fronzoli eleganti e sfarzosi che distoglievano dalla realtà il comune spettatore, era diventato insostenibile.
La sua mente era annebbiata come il solito, ma per qualche motivo qualcosa stava lentamente cambiando.
Una causa sconosciuta aveva permesso al suo intelletto di riattivarsi e così una parte remota del suo inconscio aveva riesumato la sua determinazione, conferendole uno scopo finalmente: perché adesso, nonostante la sua mente ancora confusa, bramava liberarsi da quella ferraglia e riconquistare la sua libertà.
Si rifiutava categoricamente di essere ancora usata e ingannata. Non ora che quella parte combattiva di se stava cominciando ad animarla, facendola finalmente lottare contro quel destino che ancora non riusciva a decifrare.
Ma che sentiva fosse sbagliato; ingiusto; deplorevole.
Perché Lei non era padrona di quel castello, era solo un mero prigioniero. Un prigioniero per qualche motivo ben accolto, ben nutrito, curato… ma il tutto non era altro che una messinscena. Un’assurda e mentecatta recitazione che nascondeva la sua reale condizione.
L’aveva sempre saputo, eppure non ne aveva mai ancora preso davvero coscienza, alienata e debilitata com’era.
Non ebbe il tempo di chiedersi altro, però. Era ancora troppo stordita e non aveva ancora recuperato la completa capacità d’intelletto. Qualsiasi cosa aveva intorpidito i suoi sensi fino a quel momento, doveva essere forte.
La sua fattività fu invece la prima cosa che aveva ripreso coscienza di lei.
I suoi polsi si fecero incandescenti, erano così rossi e lividi che sembrava li stesse sfregando da ore. Strinse i denti, spinta dalla sua determinazione, ma alla fine dovette cedere alla sconfitta nonostante il fuoco che le ribolliva dentro. Era impossibile per lei liberarsi.
Nel momento nel quale abbandonò le mani sul materasso, queste presero a pulsare dolorosamente, fino a tremare.
Osservò la catena che univa quelle maniglie al letto. Con quell’esigua lunghezza, l’unica cosa che poteva fare era muovere a stento il busto. Soffiò cacciando via dai polmoni l’ansia accumulata; doveva meditare un piano, perché in questo modo non sarebbe riuscita a far nulla.
Nello stesso momento in cui cercò di alzarsi, sfruttando al meglio quei trenta centimetri della catena, un tenue bagliore esterno apparve da un angolo della stanza.
Quella luce rigò la camera con il suo bagliore in un singolo punto del pavimento, eppure bastò a catturare tutte le attenzioni della giovane, il cui cuore prese a battere incessantemente.
Esso si era introdotto dalla porta d’ingresso che, aprendosi, aveva fatto penetrare la luce del corridoio esterno. Ma non fu quella l’unica cosa che apparve al di la della porta.
Con la coda dell’occhio, sbirciò oltre e vide presto avanzare dall’uscio due slanciate gambe affusolate, rivestite da dei pantaloni bianchi, il cui candore spezzò violentemente quel buio intenso.
Subito la ragazza affondò la testa sul cuscino, sperando che il solito ragazzo biondo che le faceva visita non si accorgesse di lei.
Il Falso Fratello avanzò silenzioso nella stanza. Aveva una lanterna fra le sue mani, che appoggiò sulla cassettiera di legno.
Vi soffiò sopra, aprendo lo sportellino di vetro che proteggeva la fiamma. Così la stanza ritornò nel buio.
Quel silenzio così invadente, e la presenza del biondo nell’oscurità, mise la ragazza incatenata in allarme.
Erano pochi i motivi per cui un uomo avrebbe potuto introdursi così in una camera da letto, così rimase in attesa, mentre il suo cuore prese a battere all’impazzata.
L’uomo dal suo canto era molto rilassato.
Si muoveva nel buio come se conoscesse alla perfezione ogni angolo di quella stanza. Il suo sguardo si posò su quelle poche zone illuminate del corpo della ragazza. Rimase in piedi di fronte al letto per qualche interminabile istante, mentre la giovane nascondeva sempre di più il viso sotto i suoi lunghi capelli biondi. Tenne tuttavia gli occhi semichiusi, non avendo il coraggio di fingere totalmente di dormire. Non se la sentiva di chiuderli. Doveva, infatti, osservarlo attentamente e cogliere quanto prima le sue intenzioni, prima che tutto precipitasse.
Era l’istinto che glielo imponeva.
Improvvisamente il ragazzo si voltò, e quel gesto la fece sbandare data la tensione che aveva in corpo. Fortuna volle che lui non se ne accorgesse, essendosi girato di spalle, intento ad avvicinarsi a un antico soprammobile. La ragazza lo vide posare le pallide dita su quello che sembrava un giradischi o qualcosa di simile. Solo dopo che lui lo mise in funzione si accorse che era un carillon.
La musica che ne fuoriuscì sembrava una ninna nanna. Un melodico e dolce motivetto, breve, e che prese a ripetersi all’infinito.
Prima rapita da quel suono, lentamente quelle note si fecero sempre più angustianti e quasi non riuscì più a sostenerle.
Era come una lullaby diabolica e triste, che sembrava voler straziare il cuore di chi l’ascoltava. Compreso non solo il suo…ma anche quello del biondo Alfred.
Il biondo prese posto sulla sedia posta di fronte la specchiera, e poggiò la testa fra le sue mani, come se quel motivetto facesse riaffiorare in lui dei tormentati ricordi. Seppur non potesse vedergli il viso, era sicura che egli si stesse struggendo dentro.
Se gli provocava tanto dolore, allora perché aveva messo in funzione quel carillon, si chiese.
I suoi pensieri tuttavia tacquero in fretta. Questo perché lui, silenziosamente, si alzò dalla sedia e fece per avvicinarsi a lei. Fu presto vicinissimo, prima di quanto si aspettasse.
La donna s’immobilizzo, non sapendo cosa fare. Reagire o aspettare? Cos’era meglio date le circostanze?
Intanto lui era già al suo canto.
Egli poggiò un ginocchio sul materasso, piegando le candide lenzuola sulle quali si era appoggiato. Inclinò il busto ponendo le sue mani ai lati della fanciulla addormentata, intrappolandola fra le sue braccia. La ragazza non ebbe il coraggio di alzare il suo sguardo, consapevole che se lo sarebbe ritrovata di fronte. Immaginò tuttavia nitidamente il suo viso marmoreo, bianchissimo, il suo prezioso completo rosso, e i suoi occhi color del ghiaccio che la trafiggevano, con quel sorriso sincero e deviato che la turbava fino alla follia.
Ciononostante non resisté, e la paura ebbe il sopravvento. Perché era nella natura umana dare un volto al pericolo ormai in agguato, temendo le ombre nascoste alle proprie spalle. Così girò gli occhi e mosse impercettibilmente la testa, ritrovando così, a un braccio di distanza, la precisa immagine che si era figurata:
L’uomo dai capelli biondi era infatti lì, di fronte a lei, e la osservava con il suo solito tormento nascosto negli occhi.
Lui sorrise e le sue labbra si mossero formulando ancora una volta quel falso nome che la perseguitava e che non le apparteneva.
 
“Alexia.”
 
Quel nome fu come un fulmine in una tempesta, il quale trafisse in pieno la giovane che, presa dalla frustrazione accumulata da giorni, subito sollevò il busto come riflesso condizionato. Tuttavia la catena che la imprigionava bloccò il suo movimento, ovviamente, così si ritrovò costretta a discendere violentemente sul materasso. L’urto fu devastante. Compressa contro il materasso, tutto il peso gravava sui gomiti, mentre i morbidi capelli presero a scendere sul suo viso, coprendolo quasi interamente.
Il ragazzo parve indubbiamente scosso da quel gesto improvviso, e si mise quindi in allarme.
Aveva certamente posticipato di qualche ora la somministrazione del farmaco che usava per calmarla, ma non immaginava che ella conservasse ancora un carattere così impetuoso.
La rabbia scaturita dall’umiliazione di quell’azione che, seppur non andata a segno, era volta in modo molto evidentemente a fargli del male, lo costrinse a digrignare i denti, inducendolo a desiderare visceralmente di colpirla a sua volta. Ma quell’intimo istinto brutale svanì rapidamente in quello stesso istante in cui era nato, in quanto all’ira funesta si sostituì con altrettanta velocità alla paura.
I suoi occhi tremarono e la sua anima prese ad angosciarsi.
Guardava la bellissima donna dai lunghi capelli biondi, con il suo viso angustiato, la collera che pulsava viva dentro le sue vene, e i suoi occhi complici, adesso invece colmi di rancore verso di lui.
Scendendo lo sguardo, poi, le sue spalle nude, ricoperte dal tessuto del pigiama in modo trasversale, sciupato; le sue gambe di fuori da sotto la veste, i capelli scompigliati, le occhiaie sul suo viso…
Quell’immagine lo angustiava… lo addolorava profondamente. Era come se qualcuno avesse osato rovinare un suo possedimento veramente prezioso.
Come se la sua preziosa bambola di porcellana fosse stata tragicamente manomessa da uno scellerato.
Così, tremante, il suo primo pensiero fu quello di rivestire e mette in ordine la sua amata e bellissima bambola perfetta.
Avvicinò dunque le mani al viso della fanciulla, pronto a liberarle la fronte, ma la sua la marionetta reagì non assecondando i fili del burattinaio.
Ella infatti mosse velocemente i polsi, usando le tenaglie stesse come arma, colpendo violentemente in viso il suo carceriere.
Stavolta riuscì a colpirlo.
L’urto fu più forte di quanto ella stesso avesse premeditato. Dopo averlo picchiato, infatti, cascò in avanti e una spalla prese a bruciarle terribilmente per via di quel movimento violento e doloroso. Strinse i denti sperando che non le fosse uscita fuori dall’osso, tuttavia prima di tutto volle scrutare l’uomo che aveva colpito, pronta alle conseguenze di quella sua brutale reazione.
Il biondo intanto aveva portato immediatamente la mano sulla bocca, ferita da quella robusta ferraglia.
L’estremità posta fra bocca e mento si fece velocemente livida, e dal suo labbro scesero delle gocce di sangue che colarono dalle sue mani.
Rimasto inizialmente attonito, non comprese immediatamente la crudele ingiustizia appena accaduta, ove la sua magnifica bambolina aveva per davvero colpito il suo buon padrone.
Astrusi e psicopatici pensieri affollarono la sua mente sotto shock.
 
Lui che voleva solo aggiustarla…
Lui che voleva solo prendersi cura di lei…
Lui che l’aveva servita, riverita, le aveva dato la stanza più bella.
Lui che….l’aveva resa al pari della sua Regina...!!
 
Preso di nuovo dalla frustrazione, da quella rabbia repressa da fin troppi anni, dal disonore scaturito da quell’insulsa donna, si voltò di scatto verso di lei con una mano già tesa. La ragazza, ancora imbrigliata alla catena che le impediva anche solo di alzarsi, non poté far altro che indietreggiare quanto più potesse per evitare di essere colpita. Incassò istintivamente la testa nel collo, e seppur ancora dolorante per il colpo che aveva inferto al ragazzo, e dall’ansia e la paura che provava in quel momento, riuscì comunque a lanciarsi debolmente all’indietro, sfruttando a malapena quei stentati trenta centimetri che la catena le lasciava di autonomia.
Non riuscì tuttavia ad evitare che la mano di Alfred arrivasse a colpirla, e l’impatto fu così inevitabile. Tuttavia la ragazza riuscì ad indietreggiare abbastanza da allontanare il viso dalla sua gittata, così il palmo del giovane finì soltanto per sfiorarle violentemente la parte superiore della testa.
Ma nessuno dei due avrebbe potuto aspettarsi che il peggio non era stato affatto evitato.
Perché le conseguenze furono addirittura più devastanti.
Fu un attimo, un battito di ciglia, ma che cambiò irreversibilmente ogni cosa si credesse fosse reale.
La scacchiera si capovolse ed altre verità si alternarono tra loro, rivelando il lato oscuro di quella folle messa in scena che andava in realtà avanti da giorni.
Questo perché una marea di lunghi capelli biondi volarono oltre il letto, sbattendo sul pavimento drappeggiato dagli eleganti tappeti ricamati.  Essi si posarono disordinatamente a terra, mantenendo tuttavia intatta la forma dello scalpo. Ma quelli che erano volati non erano davvero capelli….
Erano…
…una parrucca?
Alfred, accorgendosi che la ragazza avesse evitato il suo colpo, si ritrovò a cadere sul materasso, ma si sorresse per tempo appoggiando l’altra mano su di esso.
I suoi occhi si pietrificarono quando si rese conto di quel che aveva appena fatto, di come da solo avesse messo a nudo il suo inganno e la sua follia. Disperato, il suo cuore prese a sbattere impaurito, sconvolto. Non era pronto, infatti, ad accettare l’immagine che aveva cercato di fuorviare fino a quel momento; era impreparato al dover vedere con i suoi occhi il vergognoso aspetto del suo manichino, spogliato del suo trucco principale. Il trucco…che la rendeva simile al suo ‘sogno’, alle sue speranze, alla donna bionda che adorava con tutto il suo cuore.
Era turbato e incapace di vedere la fine del suo sogno ad occhi aperti. Quel sogno in cui una meravigliosa parrucca bionda aveva potuto trasformare una donna qualsiasi in Lei.
Alfred sembrava quasi sul punto di urlare, di voler scappare via. Avrebbe fatto qualsiasi cosa per tornare indietro nel tempo ed evitare quel dolore incommensurabile.
Questo mentre la visione dei lunghi e arruffati capelli rossi della donna di fronte a lui adesso dominavano sulle sue spalle.
Confusa, la ragazza intanto serrò gli occhi su di lui, impaurita dall’espressione del biondo, incapace di intendere quel che lo stesse tanto spaventando.
Ad un tratto le loro iridi s’incrociarono ed ella sbandò spaventata, accorgendosi che lui si stava avventando verso di lei.  
 
“Come hai potuto?! Profanatrice! Stupida… stupida e sacrilega Redfield!”
 
Egli strattonò per le spalle la giovane, costringendola ad urlare per il dolore e lo sgomento. Al contempo la bloccò con le sue braccia e fece per raggiungere con una mano la parrucca ai piedi del letto. Ponendosi sopra di lei, cercò invano di risistemarle quella chioma bionda sul capo, ma la rossa era oramai in stato di panico e di totale agitazione. Ella muoveva di continuo la testa, rifiutandosi categoricamente di essere sottoposta a qualsiasi cosa lui volesse imporle.
 
“Aah!!”
 
Urlò impaurita, cominciando a scalciare irrefrenabile, disfacendo oramai del tutto le lenzuola. Il biondo così non riuscì in nessun modo a rassettare la sua ‘bambolina’ che, al contrario, si disordinava sempre di più, e l’immagine della sua somma e straordinaria sorella svanì velocemente e inesorabilmente sotto i suoi occhi. Disperato da quell’inaccettabile addio, egli prese a scuotere la ragazza.
Ma per quanto avesse cercato di rievocarla, oramai Alexia Ashford era inesorabilmente svanita da quel volto. La parrucca era irreversibilmente rovinata, ingarbugliata a fianco al suo capo che si agitava continuamente, avvolto invece dai suoi naturali capelli scuri e scarlatti.
Il suo viso non era più quello disteso e raffinato che aveva cercato di duplicare. Così come il suo corpo e il suo portamento altolocato e rilassato, che adesso era impetuoso e bellicoso.
Il vestito era completamente smesso, la sua eleganza non avrebbe più fatto riaffiorare la bellezza della donna che avrebbe dovuto indossarlo.
Così, mentre lo sguardo di Alfred scrutava ogni parte che componeva quel corpo, ricercando con ossessione un rimasuglio della sua adorata Alexia, inevitabilmente il suo animo pulsò, turbato dalla visione scompigliata e seducente di quelle gambe scoperte, di quelle spalle nude, di quella scollatura disordinata. Inspiegabilmente s’immobilizzò, tenendo lo sguardo fisso su di lei, incapace di accettare a livello inconscio il velato piacere di quella visione.
La ragazza intanto smise di agitarsi, accorgendosi del silenzio e della quiete appena instauratasi.
Aprì meglio le palpebre, incerta, mentre l’uomo con la divisa militare era ancora sopra di lei e la bloccava contro il materasso. La sua presa era tuttavia visibilmente più lenta, e qualcosa lo aveva improvvisamente calmato…o distratto.
Alzò lo sguardo verso di lui, e solo allora, seguendo gli occhi del biondo, si accorse dell’effettivo stato del suo aspetto.
Rabbrividì ed inorridì a quegli occhi insistenti sul suo corpo. Le si gelò il sangue dalla vergogna e dall’irritazione. Così si girò di lato, ponendo di profilo tutto il suo fisico.
 
“Non dovresti essere una sorta di fratello tu per me, hai detto?!”
 
Disse con rabbia, sentendo il suo viso infuocarsi, desiderando di togliersi a morsi le catene che la tenevano imbrigliata al letto per dargliele di santa ragione.
L’uomo tuttavia non reagì d’impulso, o con collera, a quella sua asserzione. Al contrario, sembrava seriamente turbato, ugualmente inorridito.
Egli la scavalcò inaspettatamente con le gambe e si alzò dal letto, desideroso soltanto di mettere la parola fine a quell’incubo. Incapace si sostenere il peso di quell’assurda situazione. Disperato dalla possibile idea di essere stato deviato dall’immagine del corpo di una volgare donna.
Premette d’improvviso la testa fra le mani, stringendo le dita su di esso quasi fino a graffiarsi. Inclinò il busto contorcendolo inumanamente, poi prese a urlare, oramai in balia di un insostenibile crollo psicologico.
 
“A-Alexia..! Aaaah!! Alexia!!”
 
L’uomo scappò via dalla stanza, sotto gli occhi attoniti della rossa, la quale rimase a osservarlo tremante dal letto che ancora la imprigionava.
Egli sbatté la porta con rabbia, sperando di chiudere oltre questa anche tutta la sua frustrazione, tutta la sua rabbia, le sue paure, le sue deviate ossessioni. Sperando al contempo che la sua Alexia non lo avesse visto, che non le avesse arrecato dolore…. che presto avrebbe potuto scusarsi con lei e redimersi dalle sue colpe.
Corse così nella sua camera, disperato, delirante, confuso.
Alfred Ahsford era un uomo folle; perseguitato e martellato dai fantasmi della sua angosciata esistenza che lo avevano oramai condotto verso l’oscurità più buia, nella più tormentata pazzia della depressione.
 
 
 
***
 
 
 
 
 
 
 
 
NdA: Se con la lettura di questo capitolo avrete avvertito la perenne e martellante presenza di Alexia, onnipresente nonostante la sua assenza non solo nella mente distorta di Alfred Ashford, ma anche in ogni meandro della villa, allora avrò raggiunto il mio scopo.^^
 
Una piccola “chicca” per chi l’avesse colta.
Nel secondo paragrafo che compone questo capitolo, cioè le riflessioni riguardo all’oblio, le righe finali sono una piccola e discreta citazione alla canzone dei Queen “Let Me Live”, titolo tra l’altro cucito sulla giacca di pelle di Claire in re:code veronica x.
Rappresentando il testo della canzone, ho pensato che ci fosse un motivo perché la rossa indossa proprio questa giacca, e dunque ho colto l’occasione per cominciare a citare questo bellissimo testo, cosa che farò anche più avanti nel corso della storia.
Al momento è quindi solo una velata citazione.^^
 
Grazie per aver letto! ^O^
 
 
 
 
 
 
 
 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Capitolo 3: acta est fabula ***


 
 
 
 
Capitolo 3: acta est fabula
 
 
 
Un tenue e appena percepibile vapore lentamente prese ad annebbiare la camera da letto della marionetta mascherata da regina, sdraiata sul suo morbido letto a baldacchino. Intrappolata nelle morse di ferro ossidato che la ancoravano allo schienale del letto, non poté fare altro che restare a guardare di fronte a sé quella scia opaca che fuoriusciva dalla piccola grata per l’areazione posta sul soffitto.
Nonostante il buio della notte, si distingueva nitidamente ora che si era finalmente accorta di essa; di quel micidiale e narcotizzante fumo che inibiva i suoi sensi, rendendola la bionda bambola del mentecatto padrone di quel castello, Alfred Ashford.
Tuttavia qualcosa era cambiato e la parrucca arruffata al fianco del capo della giovane donna imprigionata ne era la testimonianza tangibile.
I capelli scuri che accarezzavano il suo viso e scendevano sul suo petto sfiorandola poco sopra lo sterno, i quali contrastavano meravigliosamente con la sua pelle chiarissima; ma soprattutto i suoi occhi, che ora facevano la differenza. Essi finalmente davano un’anima a quel corpo fino a poco tempo prima quasi inanimato. Adesso erano ravvivati, vigili e mostravano un’espressione mai vista.
Lo sguardo vago, la bocca schiusa, la fronte rilassata…era stato tutto sostituito da un volto determinato e cosciente, pronto a vederci chiaro una volta per tutte.
La consapevolezza finalmente aveva preso il possesso di lei. Quella cognizione che, senza, le aveva fatto perdere il senno. Quella confusione e quella fiacchezza che le avevano impedito di capire chi fosse Alexia… chi fosse lei…
Era come se tutto fosse stato spazzato via e prima che potesse cadere di nuovo nell’oblio, annebbiata da quella droga, volle rimarcare a se stessa la consapevolezza appena raggiunta.
Guardò dritto dinanzi a sé, quindi, puntando lo sguardo non su qualcosa, ma direttamente verso un punto immaginario della sua mente, pronta a ristabilire le regole di quell’assurda trappola mortale che aveva annullato il suo io.

Perché adesso lo sapeva.
Lei… era Claire Redfield.
 
   
Lei… era Claire Redfield.
Quando focalizzò nella sua mente queste due parole, questi due semplici vocaboli corrispondenti alla sua identità ritrovata, sentì il cuore sussultare, felice di rivederla. Il suo animo si rasserenò, la coltre di nebbia che la confondeva si dissipò, e tutti quei dubbi che non le tornavano presero a scomparire uno dopo l’altro. Si sentì rinata, forte, combattiva.
Era meraviglioso essere tornata proprietaria di se stessa, libera dai vincoli imposti sulla sua mente, che l’avevano annullata fino a renderla un involucro vuoto privo di consistenza, da riempire con i fronzoli che più si preferiva mettere…così come aveva fatto il folle uomo vestito di rosso, convinto di averla trasformata in Alexia, la fantomatica e incorporea figura femminile che dominava quel maledetto Centro dell’Umbrella dove era finita.
Ben presto vennero delineandosi pensieri sempre più concreti e fattivi, ma la rossa Claire si accorse amaramente che la sua memoria faceva cilecca, ancora una volta. Questo perché nuove domande affollarono presto la sua mente, adesso coscienziosa; interrogativi ovvi e che avrebbe dovuto porsi molto tempo prima, se soltanto si fosse riappropriata prima di quella casuale presa di coscienza.
Cosa era successo? Come diavolo era finita in quel posto? Anzi…dove si trovava esattamente?
La sua testa prese a girare vorticosamente, oppressa da quei ragionamenti e da quelle ansie che la stavano assalendo così, tutte assieme; ma non volle per nulla al mondo interrompere quel flusso di pensieri che lentamente stava tornando ad animarla, facendola tornare a essere una persona e non una stupida marionetta.
Tuttavia, per quanto si sforzasse, non riusciva proprio a ricordare l’anello di congiunzione tra lei imprigionata e vestita in quel modo alla mercé di un folle psicopatico e la sua fuga assieme a Steve a bordo dell’aereo che….
Si fermò.
 
La sua fuga, l’aereo, Steve!
 
Dove si trovava il ragazzo dai capelli castani? Cosa era successo quel giorno!?
Come un fulmine a ciel sereno, numerose immagini si accavallarono davanti ai suoi occhi, ristabilendo velocemente l’ultimo punto di ripristino a cui la sua mente riuscì a collegarsi.
 
 
 
 
***
 
 
 
 
Rockefort Island
Centro di addestramento dell’Umbrella Inc.
Notte
 
 
Gli allarmi risuonavano per tutto l’edificio. Una fluorescente luce rossa prese a pulsare per tutto il centro d’addestramento, disorientando i suoi ospiti insieme al fastidioso stridulo che segnava l’inizio del countdown del sistema di auto-distruzione.
Immersi ancora nelle loro ricerche e spinti dallo spirito di sopravvivenza che li aveva indotti a investigare sui raccapriccianti enigmi che coinvolgevano i due macabri gemelli Ashford, un uomo e una donna si guardarono intorno spaesati.
Claire Redfield, un’attraente ragazza di diciannove anni, spostò lo sguardo dietro di sé. Strinse nel pugno l’ultimo stemma della marina, ritrovato esattamente qualche istante prima. Il suo cuore pulsò, consapevole che quel suono martellante poteva significare solo una cosa, cioè che presto quel posto sarebbe saltato in aria.  Era la sua ultima possibilità per uscire viva da lì.
Il suo destino adesso dipendeva soltanto dalle insidie che si celavano nel il tragitto che andava da lì al sottomarino, dove avrebbe usato l’emblema che teneva serrato fra le sue dita, l’unico lasciapassare che avrebbe potuto condurla alla tanto agognata libertà. Almeno sperava con tutta se stessa che così fosse.
Doveva farsi coraggio e correre, soprattutto correre.
Cercò lo sguardo di Steve Burnside, il ragazzo che aveva incontrato in quel lugubre ambiente e con il quale era riuscita a collaborare dopo le prime incomprensioni. Egli aveva ancora tra le mani la parrucca bionda che aveva appena smascherato l’identità fittizia di Alexia Ashford.
I due ragazzi erano, infatti, ancora sconcertati per quell’inquietante scoperta quando era scattato l’allarme. La cruciale e imprevedibile rivelazione che aveva appena capovolto le carte che avevano avuto in tavola fino a quel momento; perché avevano appena scoperto che il loro nemico era sempre e stato uno soltanto, non c’era mai stata alcuna Alexia.
La fantomatica donna dal genio insuperabile altri non era che proprio il suo eccentrico fratello, Alfred, travestito da donna. Era stata architettata una messinscena che aveva dell’inquietante e dell’incredibile allo stesso tempo, confondendo le loro giovani menti in quel momento topico dell’esplorazione.
Rimasti attoniti di fronte al viso sconvolto dell’uomo dai capelli biondi che li aveva ingannati, non avevano potuto prevedere lo sconvolgimento psicologico che egli avrebbe provato una volta rivelata la sua doppia personalità, convinto com’era di poter davvero rivestire il duplice ruolo di se stesso e sua sorella.
Egli era scappato via, disperato, quasi inorridito dalla visione di se stesso mascherato da Alexia. Evidentemente doveva essere andato su tutte le furie per essere stato smascherato nelle indecorose spoglie di una donna; aveva quindi deciso di far saltare in aria quel posto pur di fargliela pagare, pur di dimostrare quanto potesse schiacciare in un secondo quelle fastidiose formiche che avevano distrutto la sua armoniosa doppia esistenza.
Claire e Steve avevano toccato un punto troppo dolente della sua psiche, sebbene non l’avessero fatto consapevolmente.
Avevano umiliato il suo onore e quello di sua sorella. Non sarebbero mai usciti vivi da lì.
Ignari dei reali complessi esistenziali celati dietro quel travestimento, i due prigionieri poterono soltanto guardare spaesati il loro nemico con il viso truccato urlare a squarciagola e scappare via da quella stanza.
Presi dai mille punti interrogativi riguardanti quella parrucca bionda gettata sul carillon della camera da letto di uno dei due gemelli, improvvisamente le loro analisi erano state bruscamente interrotte da quell’allarme, che li aveva subito riportati alla realtà: dovevano fuggire di li e alla svelta!
Non sarebbero morti in quel maledetto posto.
 
“Forza Steve! Dobbiamo andare!”
 
Urlò la rossa prendendo il ragazzo per mano, incitandolo a muoversi. Steve osservò quelle dita che avevano delicatamente sfiorato le sue nocche. Gli ci volle un istante per concentrarsi sulle parole che aveva detto. Imbarazzato, scosse la testa e la guardò dritto negli occhi.
 
“Il sottomarino, il jet è lì!”
 
Disse carico, deciso come non mai.
Steve aveva da tempo lasciato le sue speranze in quella isola; una parte di sé aveva inconsciamente accettato che sarebbe morto fra quelle polverose macerie.
Da giorni e giorni non vedeva i suoi genitori e altri esseri umani; da giorni non vedeva che distruzione attorno a sé; da giorni non faceva che combattere mostri pronti a divorarlo voracemente; da giorni non poteva abbassare la guardia se voleva risvegliarsi con gli occhi ancora impregnati di vita.
Ma in verità, nonostante quella lotta per la sopravvivenza, dentro di sé non nutriva alcuna speranza per il futuro.
Aveva giocato fino a quel momento, godendosi il presente, sfogando la sua rabbia, la sua paura, il suo reale stato d’animo, sulle misteriose entità che vagavano per quel luogo funesto. Aveva combattuto e lottato. Tutto questo, però, senza la reale illusione di salvarsi. Non era mai stato quello il suo obiettivo.
Il suo era solo un continuo e inutile gioco di resistenza finché prima o poi non avrebbe più avuto la meglio. Un piano molto semplice, senza alcuna finalità, ma d’altronde oramai non gli importava più nulla.
Si sarebbe difeso finché avrebbe avuto un’arma con sé, tutto qui. Perché non sarebbe mai fuggito da lì, non sarebbe mai più tornato a casa.
Lo sapeva…da sempre.
Perché infatti avrebbe dovuto essere diverso da coloro che non aveva mai più incontrato su quell’isola?
Era abbastanza cinico da realizzare di non essere differente dagli altri prigionieri, e il numero inciso sulla sua giacca, 0267, era quello che gli ricordava il suo destino ogni istante.
Troppo sangue accompagnava quei giorni di prigionia, troppa disumanità lo aveva inasprito, troppa desolazione lo aveva logorato…
Per questo oramai aveva accettato di morire a Rockfort Island. Se intanto se la fosse almeno spassata, dunque non ci vedeva niente di male. Gli bastava così.
 
Poi qualcosa era cambiato.
Dal nulla era apparso un altro essere umano che come lui aveva conservato la capacità di intelletto. Per di più una ragazza…e una ragazza molto carina.
Lei fu la prima persona dopo tanto tempo che gli rivolse la parola. Parole vere, non gemiti di fame e urla disperate.
La voce di quella ragazza dai lunghi capelli legati dietro la nuca era autentica. Formulava frasi, pensieri, opinioni…
Sentire un altro essere umano fece rianimare qualcosa in lui. Qualcosa che lo emozionò internamente, facendo riaffiorare nella sua mente dei ricordi a metà dolci, a metà disturbanti: i ricordi di una vita che gli era stata negata. Una vita cui lui aveva rinunciato da tempo, in quanto prigioniero rassegnato di quel posto.  
La ragazza, a differenza sua, era invece ricca di voglia di vivere.
Aveva degli obiettivi, voleva combattere, fuggire da lì e ricongiungersi col suo amato fratello per riappropriarsi di una vita normale accanto ai suoi cari.
Steve poteva leggere nei suoi occhi la piena sincerità di questo: ella credeva davvero di poter sopravvivere in quel posto.
Ma lui era oramai rassegnato e molto arrabbiato. Aveva demolito in tutti i modi le sue speranze di salvezza. Così aveva rinunciato a prescindere di collaborare con lei, sicuro che prima o poi anche la giovane sarebbe morta, così come tutti, compreso se stesso. Era inutile nutrire false speranze.
Se il suono di una pistola poteva farlo sentire ancora vivo, avrebbe lottato finché avrebbe avuto a sua portata un caricatore. Ma nulla di più. Non ci sperava affatto.
Aveva dunque cercato di far tornare realista anche quella splendida ragazza dai capelli rossi, spiattellandole in faccia la cruda verità celata dietro quell’isola.
Non aveva tuttavia fatto bene i suoi conti; questo perché una luce si era riaccesa in fondo al suo cuore. Un bagliore che credeva morto da quando aveva messo piede su Rockfort, ed era stata proprio lei, Claire, ad averlo acceso di nuovo.
Steve infatti, grazie alla ragazza, perse la voglia di morire.
Perse la voglia di giocare a quell’eterna caccia tra gatto e topo. Perse quell’inguaribile spirito pessimista che lo aveva intrappolato mentalmente in quell’isola nefasta. Riprese invece a nutrire speranza: lei…lo aveva salvato da se stesso.
Quella strana pulsione che aveva ripreso a scorrere nelle sue vene cominciò a farlo sentire a disagio, ma non in senso negativo. Il suo cinismo era scomparso e quindi si sentiva inopportuno adesso per ciò che dichiarava precedentemente.
Al contrario, però, Claire Redfield non si era mai importata di quanto lui l’avesse disprezzata, delle tante noie che le avesse dato. Era invece sempre corsa in suo aiuto e lo aveva sempre incoraggiato a resistere in quella battaglia per la vita. Lei aveva veramente e concretamente riattivato il suo cuore.
Così, senza che neanche se ne accorgesse, nuovi scopi maturarono velocemente in lui, cosa che prima mai avrebbe creduto possibile.
Lui l’avrebbe salvata e sarebbe usciti da lì…...…vivi.
“Vivi”.
Quella parola risuonò strana nella sua mente. Da quanto non si sentiva così. Era come se nulla potesse andare storto.
Recuperata la determinazione di un tempo, era tornato finalmente a considerarsi un essere umano. Non si era nemmeno reso conto di quando aveva cominciato a dimenticarlo.
Così, combattivo più che mai, strinse a sua volta la mano della ragazza, pronto ad affrontare con lei l’ultimo capitolo di quella sua prigionia.
Corsero all’impazzata, schivando e buttando all’aria quegli stessi mostri che precedentemente avevano evitato con tanta cautela. Invece in quel momento vi passarono avanti non badando nemmeno alle loro movenze, cosa che prima avrebbe potuto costare loro la vita. Ma non avevano il tempo di badarci. L’istinto era un qualcosa di davvero potente ed in quel momento urlava loro di muovere solo e soltanto i muscoli delle gambe.
In quell’istante, esistevano solo quelle: due mani unite e due paia di gambe.
Dopo una serie di rocamboleschi giri nei meandri di quel castello, che data l’adrenalina oramai neanche ricordavano, in qualche modo si erano ritrovati nel sottomarino e tramite i tre stemmi nautici raccolti durante la loro esplorazione, poterono finalmente solcare la soglia di quell’aeroplano che da ore aveva rappresentato la loro unica e concreta via di fuga.
Sembrò un gesto surreale quando aprirono finalmente il portellone. Assieme all’allarme e alle luci che lampeggiavano, anche i loro cuori erano nell’agitazione più completa.
Claire fu la prima a salire a bordo, ma fu Steve a prendere il posto di guida. Non sapevano bene come avrebbero mosso quell’aggeggio, ma ce l’avrebbero fatta. Ne erano sicuri.
O la va o la spacca, come si vuol suol dire.  E per fortuna…andò.
Assieme all’aereo che si sollevava, anche qualcos’altro cominciò ad alleggerirsi: furono le loro paure, le loro ansie, l’adrenalina che adesso li stava lasciando tremare, per sfogare l’agitazione che fino a quel momento li aveva animati.
Anche se non era ancora detta l’ultima parola, essere lì, in quel momento, assieme su quel jet, li fece sentire felici come non si erano mai sentiti fino a quel momento.
Anche se era un’imprudenza, non importava, perché in quel momento ce l’avevano fatta.
Steve guardò Claire dritto negli occhi e le sorrise. Lei fece lo stesso.
 
“Ora che abbiamo quest’affare, dimmi Claire, dove ti piacerebbe andare? Posso portarti ovunque tu voglia.”
 
“Ovunque tu voglia…………”
“…………………………….ovunque tu……”
“Dove ti piacerebbe…………………”
“Dimmi, Claire……”
 
 
 
 
 
Vuoto assoluto.
 
 
 
A quel punto i suoi ricordi si andarono a confondere. Tutto le sembrò annebbiato. Ricordava solo la paura, l’aereo impazzito, il suo corpo che sbatteva da tutte le parti, oggetti che le finivano addosso, tutto che girava vorticosamente attorno a lei… e una voce….
Una voce stridula e fastidiosa…la voce camuffata da donna di Alfred Ashford.
Il resto fu avvolto dal nero più completo e quel ricordo rievocato a occhi aperti, terminò.
 
 
 
***
 
 
Camera di Alexia - Notte
 
 
Cosa era successo dopo..?
Dov’era finito Steve?
Una fitta nebbia confusa avvolse la sua mente ed ogni tentativo di dissiparla fu del tutto inutile. Sentiva una forte agitazione, il cuore le sbatteva in petto rievocando il terrore di quella colluttazione che non riusciva a ricordare nel dettaglio. Doveva essere ovviamente svenuta dopo…dopo quel qualsiasi cosa fosse successo e che aveva fatto impazzire l’aereo.
L’ultima immagine che riusciva a visionare erano soltanto le vaghe sembianze della rossa divisa militare di Alfred, piegato appena verso di lei. Nulla di più.
Ma a quando era ascrivibile quel ricordo? Quando era entrato nel jet?
Lì per si sentì nel panico per quel vuoto di memoria che la stava logorando internamente come una serpe velenosa, tuttavia non demorse.
Doveva invece mantenere viva la lucidità, ora che aveva finalmente ripreso coscienza.
In quel momento si sentì ancora più determinata a liberarsi in qualche modo e tornare presto sui suoi passi: ovvero fuggire da lì. Era quello il suo punto di partenza e il suo punto di arrivo finale, assieme all’intento di ritrovare Steve.
L’unico problema era Alfred Ashford, ancora una volta.
Il ragazzo era certamente abbastanza esperto in campo militare, ma aveva avuto modo di costatare che fosse più debilitato di quanto sembrasse, a partire dal suo strano modo di agire. Poteva quindi escogitare qualcosa per riuscire a ingannarlo e liberarsi, doveva solo aspettare la sua occasione.
Improvvisamente, però, altri pensieri la distolse dall’elaborazione del suo piano di fuga.
Il viso di Claire, infatti, cambiò drasticamente espressione; esso si fece inquieto, perplesso, come colpito da una rivelazione inaspettata.
Questo perché, avendo da poco ripreso coscienza, la sua mente era un caos irrefrenabile di pensieri ingarbugliati, e lei non aveva ancora riflettuto su quegli ultimi tre giorni in cui era stava Alexia Ashford.
 
Osservò i lunghi capelli biondi arruffati a fianco del suo capo, fece poi scorrere gli occhi sull’elegante vestito di seta che aveva addosso. Alfred…l’aveva scambiata per Alexia?
Scosse subito la testa. Non era possibile una cosa simile.
Rappresentando le circostanze, il fatto che la tenesse incatenata e la narcotizzasse, rendeva molto chiaro il fatto che lui sapesse benissimo che non era Alexia Ashford.
Inoltre era nel suo modus operandi comportarsi così: lo aveva visto lei stessa travestirsi da Alexia e parlare con voce femminile con una credibilità inconcepibile. Quindi era assolutamente plausibile che l’avesse camuffata di proposito in sua sorella per… per quale motivo?
Un brivido percorse la sua schiena, il quale fece sbandare il suo corpo infastidito da quel formicolio.
Non aveva alcun parametro per poter comprendere la motivazione dietro una perversione simile, però la sua mente fu certamente condizionata da tale domanda. Perché ai suoi occhi la spiegazione era soltanto una, solo che le sembrava assurda: ovvero che Alfred avesse cercato di rimpiazzare sua sorella.
Nella semplicità di quella risposta, essa le sembrava l’unica che avesse senso alla luce del fatto che lui stesso si mascherasse da lei, alla disperata ricerca di una sorella che non esisteva.
Claire strinse gli occhi, chiedendosi perché fosse in una situazione tanto deviata.
Doveva uscirne fuori al più presto e dare la priorità a cercare Steve, era questa la sua nuova missione.
Non doveva farsi distrarre da menti mentecatte come quelle.
Tuttavia doveva essere cauta. Alfred aveva dimostrato che dietro la sua goffaggine fosse più astuto di quanto dimostrasse. Doveva quindi riesaminare il suo piano di fuga e stringere i denti finché non avesse studiato bene la situazione in cui si trovava.
Questo mentre oramai i fumi avevano riempito la sua stanza, i quali lentamente condussero il suo corpo e la sua mente nel dolce abbandono del sonno profondo, preparando il ritorno della bella Bambola Camuffata.
 
 
 
***
 
 
 
 
 
Camera di Alexia - Mattino
 
 
“Alexia, ti prego, perdonami…”
 
Le pallide mani rivestite di bianco di Alfred Ashford aggiustavano il girocollo nero sul collo della sua elegante dama e regina. Il suo sguardo era etereo, completamente opposto a quello impazzito della notte precedente. Tuttavia una nota di malinconia pervadeva i suoi occhi, sinceramente affranti.
Egli le sistemò il vestito sulle spalle, rendendolo perfettamente simmetrico. Il lungo abito viola che caratterizzava la sua Alexia e che le donava come non donava a nessun’altra.
Si piegò lentamente ai suoi piedi posando un ginocchio a terra e con una mano sollevò delicatamente il tallone della ragazza, come attento a non farle alcun male. Lei era la sua dolce bambola preziosa.
Rivestì i suoi piedi con delle raffinate scarpette nere che le davano slancio e bellezza.
Stette infine qualche istante inginocchiato al suo cospetto, godendo di quel meraviglioso contatto. Al suo sguardo corrispondevano sia note di felicità e ammirazione estrema, che di angustia e dolore profondo. Sollevò il viso verso di lei; i suoi occhi brillavano sia commossi che prostrati e afflitti.
Il suo volto leggermente femmineo s’impresse in modo indelebile nella mente della ragazza da lui riverita, la quale non aveva mai visto una raffinatezza simile nel volto di un uomo. Fu letteralmente rapita da quell’immagine.
I capelli pallidi e sottili tirati indietro, le sopraciglia appena disegnate, i suoi occhi chiarissimi e quei tratti facciali così delicati da essere quasi inesistenti.
In quell’istante si accorse del perché non si fosse mai accorta che l’Alexia da lei incontrata in villa Ashford fosse in realtà un uomo.
Alfred possedeva, infatti, una bellezza androgina; i suoi tratti erano soavi e tenui, e le sue movenze erano molto leggere e armoniose. Egli era elegante e molto raffinato.
Era un tipo di uomo decisamente opposto a quelli da lei frequentati, anzi. Per dirla tutta non aveva mai visto qualcuno così.
Ragazzi del genere si vedevano solo nelle riviste di moda e in verità credeva che tale delicatezza fosse tutto frutto del lavoro di un bravo truccatore.
Forse semplicemente non l’aveva mai osservato così da vicino, o non aveva mai visto il suo volto così disteso dato che egli aveva sempre un fucile da caccia carico puntato contro di lei. Fatto stava che fu una visione che la spiazzò notevolmente.
Mentre era immersa in quelle riflessioni, improvvisamente sentì la mano del biondo scivolare sul suo ginocchio. A quel gesto Claire sussultò appena, certamente non a suo agio al contatto così intimo di colui che non solo era un completo estraneo ai suoi occhi, ma anche un nemico… e un uomo.
Sentì tempestivamente l’adrenalina scorrere sulle sue gambe, fino a scaricarsi sul pavimento. Non si aspettava per nulla un gesto simile. L’intestino si contorse, non potendo accettare tale irriverenza. Nessuno inoltre l’aveva mai toccata in quel modo, con quella delicatezza e quel visibile ardore… e con quella spiazzante disinvoltura. Possibile che recitasse? Possibile che non si accorgesse che sotto le spoglie con cui l’aveva travestita non ci fosse Alexia, ma un’altra donna? Cosa aveva quel tipo?
Quell’inadeguato e indiscreto contatto per fortuna durò pochissimi istanti. La mano del biondo, infatti, si spostò lentamente più in alto, scivolando delicatamente tra il tessuto del suo vestito. Poté sentire ogni sua movenza sulla sua pelle, mentre si muoveva su di lei in quel modo molesto e seducente. Questo finché egli non raggiunse le nocche delle dita della fanciulla, posate morbidamente sulla sua coscia.
L’uomo non si accorse dei sentimenti della donna che aveva avuto l’onore di trasformarsi nella sua Alexia, così rimase immerso in quella beata sensazione di amore e devozione verso la sua adorata, ignorando tutto ciò che lo circondava in realtà. Persino la ragione, persino la sua razionalità che sapeva del suo inganno.
Perché quando era con la sua Regina, nulla aveva più alcuna importanza. Nemmeno se stesso. Nemmeno quel vago ricordo che lui rinnegava, in cui aveva dovuto vedere con i suoi occhi la sua ‘falsa bambola deturpata’.
Una volta sfiorate quelle pallide dita, egli prese a sfregarle dolcemente il palmo della mano, in una tenera carezza assimilabile a quella di chi desiderava ardentemente una persona cara.
Tuttavia, costernato e umiliato dal comportamento avuto la sera precedente, egli abbassò nuovamente lo sguardo, sapendo di meritare l’indifferenza della sua Regina.
 
“Sono mortificato per averti addolorata tanto, non sai quanto mi dispiace. Il comportamento che ho avuto la scorsa notte non ha giustificazioni.”
 
Continuò, inginocchiato al suo cospetto, mentre la sua commedia preferita aveva cominciato già da un po’ il suo nuovo atto.
Egli oramai aveva rielaborato ogni cosa di quel che era accaduto il giorno prima.
Tutto in modo da giustificare la presenza della sua amata Alexia, la quale adesso era di nuovo lì: con i capelli biondi, il vestito viola scuro, i guanti bianchi che rivestivano le braccia e quell’espressione vuota stampata sul volto...
Era come se quel che era successo la notte prima non fosse mai accaduto.
Anzi….
 
“Mi occuperò presto di quella donna che rovina la nostra quiete.”
 
….era come se fosse accaduto a qualcun altro.
Aveva rielaborato tutta la faccenda, in modo da permettere l’esistenza di quell’incantevole e potente fantasma.
Perché quando Alfred parlava con Alexia esisteva un mondo tutto suo, da lui stesso costruito.
In quel mondo Claire non esisteva, era solo un indesiderato ospite che vagava fastidiosamente nella sua dimora come un parassita. Evanescente e insignificante, come tutto ciò che era estraneo al suo ‘sogno’.
Eppure al contempo lei era anche il manichino che lui rivestiva con gli abiti di Alexia, materialmente quindi Claire Redfield faceva parte di quel sogno.
Tuttavia era come se lui non fosse per niente a conoscenza del fatto che le due, invece, fossero la stessa persona, e che anzi: in realtà, delle due, solo una fosse reale: ed era proprio l’odiata donna dai capelli rossi. L’insulsa formica in quel momento vestita da libellula.
Claire lo guardò accigliata sotto quell’espressione assopita per via del fumo aspirato la sera precedente.
La sua mente e i suoi ricordi erano rimasti tuttavia inalterati, non sapeva dire però se ‘fortunatamente’ o ‘sfortunatamente’.
Questo perché trovava fastidioso come lui la riverisse e la trattasse come una dolce principessa. Quel garbo le stava dando sui nervi.
Avrebbe voluto alzarsi di scatto, togliersi quella ridicola parrucca e mostrargli chiaramente quella surreale e ingannevole messinscena che tra l’altro lui stesso stava giostrando.
Ma la cosa che la spiazzava ancora di più era quella mano che accarezzava la sua, la prostrazione della sua posa ai suoi piedi, e ancora…il fatto che lui si stesse scusando, che stesse cercando un chiarimento con la stessa donna che lui aveva aggredito la notte prima; eppure adesso fingeva che fosse un’altra persona solo perché aveva i capelli biondi?!
Era fuori da qualsiasi logica, da qualsiasi comprensione.
Improvvisamente sentì la mano del biondo scivolare via dalla sua.
Se ne sorprese in quanto, presa da quei pensieri, ebbe la sensazione che i suoi stessi dubbi avessero raggiunto anche lui e lo avessero indotto a mollare la presa. La cosa la lasciò inquieta, seppur nella sua assoluta improbabilità.
Nel momento nel quale quel contatto finì, si sentì sollevata, ma anche molto incerta. I suoi sentimenti erano notevolmente confusi in quel momento.
Come se ricercasse delle risposte nei suoi occhi di cristallo, lo seguì con lo sguardo mentre leggiadramente egli raddrizzava le gambe e si alzava da terra, ponendosi in piedi di fronte a lei.
Il biondo si spostò alle sue spalle e finché poté, la ragazza seguì ancora la sua figura, ma lui non ricambiò per nulla il suo sguardo.
Egli prese dal comodino una spazzola rivestita di avorio decorata con degli intagli circolari e si riavvicinò a lei. Come se nulla fosse, cominciò a spazzolare la lunga parrucca bionda che indossava, accarezzandola soavemente, come se davvero credesse di maneggiare i capelli di una persona reale. Non si rendeva conto assolutamente di nulla.
Non era possibile fingere fino a quel punto, costatò ancora una volta Claire. Era un pensiero che non riusciva ad abbandonarla, aveva dell’assurdo.
Lui stesso, la sera prima, le aveva fatto accidentalmente cadere dal capo quella finta chioma bionda. A che gioco stava giocando quindi?
Quella situazione la stava ingarbugliando mentalmente sempre di più. Era qualcosa che superava l’umana comprensione ed ormai cominciava a temere che per lui la finzione stesse superando la realtà. Fu una consapevolezza triste, che fece stringere il suo cuore in un momento di compassione.
Nella sua mente si proiettò il viso sconvolto che egli aveva assunto quando aveva dovuto vedere lei, Claire Redfield, sotto quelle spoglie.
Quell’immagine era rimasta indelebile nella sua mente. Essa si ripeté al rallentatore come se quell’attimo fosse durato per un’ora intera; come se ne avesse scattato una fotografia mentale.
Quel che vedeva era un animo distrutto, arrabbiato, come quello di un bambino che in tutti i modi cerca di occultare la realtà tangibile, preferendo dar vita al mondo dei suoi sogni, abitato dai suoi giocattoli preferiti.
Più analizzava quel ricordo, più il suo animo si logorava e un infinito senso di smarrimento la pervase tutto d’un botto.
Era così importante per lui credere che ci fosse un’Alexia nella sua vita, in quel palazzo?
Quel ragionamento rievocò il tempo in cui persino lei aveva creduto a quella commedia ed era cascata nel suo tranello quando, sbirciando da una finestra, lo aveva addirittura visto conversare con la suddetta donna. O peggio…
Perché lui, fino a quel momento, aveva portato avanti da solo quella commedia.
Alfred, infatti, aveva sempre impersonato assieme sia Alexia sia se stesso, sviluppando una credibile vita parallela in cui entrambi abitavano quel posto; ed era stato così bravo che nessuno si era mai accorto di nulla, grazie all’estrema somiglianza dei due gemelli, nonostante fossero di sesso opposto.
Il biondo aveva portato avanti una commedia che aveva dell’inconcepibile.
Poi, però, aveva urlato…
La notte quando lei e Steve avevano tentato la loro ultima fuga, i due avevano smontato il suo piano e smascherato quel travestimento. Lui, quando ciò era accaduto… era come impazzito.
Una volta vista la sua immagine allo specchio, era scappato via, disperato, inorridito, esattamente come era successo la sera precedente con lei. Cosa collegava quindi questi due episodi?
Alfred cercava un rimpiazzo di sua sorella, era oramai evidente. La sua scomparsa doveva aver fatto impazzire quei pochi neuroni che si ritrovava.
Eppure ripensandoci, non c’era niente in quel castello che testimoniasse la vita di una reale Alexia, a parte il video che trovò nello studio del centro di addestramento.
Quella fu l’unica volta, in effetti, dove vide un giovanissimo adolescente biondo, che altri non poteva essere che Alfred da bambino, in compagnia di una ragazzina con i suoi stessi lineamenti.
Ma quella pellicola a parte, non c’era altra prova sulla sua reale esistenza.
Quindi fino a che punto Alfred fantasticava e inventava quella storia?
Alexia esisteva realmente o era anche lei frutto della sua immaginazione?
Rievocando nella sua mente il suo volto impazzito dopo essersi rispecchiato truccato da Alexia, Claire si ritrovò a riflettere su un altro elemento.
Se Alfred, infatti, disprezzava se stesso se “si riscopriva” sotto le spoglie della sua gemella, figuriamoci se faceva questo con lei.
Cioè, non sopportava il suo stesso travestimento, non aveva senso che quindi usasse la rossa per avere l’illusione di avere Alexia accanto a sé. Non avrebbe mai funzionato.
Cosa lo aveva spinto quindi a rapirla e costringere proprio lei a diventare Alexia? Era questo che non le quadrava…
Quel “riscoprirsi sotto le spoglie di Alexia” poi la inquietava…
Perché era lui che si travestiva a quel tempo; possibile che non se ne rendesse conto mentre lo faceva? E allo stesso modo, era sempre lui che travestiva anche lei, adesso. Perché allora inorridiva se la vedeva nuovamente come Claire?
Doveva sapere per forza che Alexia, l’Alexia che vedeva in quel momento, era Claire Redfield. Era impossibile affermare il contrario.
Mille erano le domande che poteva porsi, centomila le incongruenze e le forme di squilibrio incontrate, ma ad ognuna di quelle la risposta era sempre la stessa: Alfred Ashford era un folle psicopatico.
Non era una persona verso la quale poteva ragionare in termini normali e questo non doveva dimenticarlo. Era lì la chiave di lettura di tutto, si stava alienando in quelle assurde supposizioni per nulla.
Questo mentre lui pettinava ancora i suoi finti capelli biondi, curandone ogni ciocca, come un adorabile fratello devoto. Perché ai suoi occhi, egli davvero stava umilmente servendo la sua tanto agognata Alexia, la sua altra metà, la sua unica e amata donna. Il sole che dava vita al suo universo.
 
Una volta chiusa la porta, la finta Alexia si ritrovò sola nella sua stanza.
Alfred le aveva baciato la mano sfiorando con le labbra i suoi vellutati guanti bianchi, poi aveva lasciato la camera terminando la sua visita; così, in quel momento, Claire era finalmente libera di pensare più liberamente senza la pressione della sua presenza.
Osservò le tenaglie che la tenevano bloccata alla poltrona. Il biondo si premurava sempre che lei non scappasse. Era qualcosa di paradossale, qualcosa di assurdo e d’inquietante.
Alfred l’aveva vestita da Alexia.
Lui la credeva Alexia e la trattava come se fosse Alexia.
Ma consapevole che non fosse Alexia, la drogava e la incatenava.
Che senso c’era in tutto questo?
Sapeva o non sapeva che fosse Claire, in definitiva?
Scosse la testa: era ovvio che lo sapesse, non doveva tornare indietro e rivalutare quel punto già esaminato.
Tuttavia, nonostante fosse il fautore di quell’inganno, era come se preferisse negarlo a se stesso, fino a credere a quella realtà.
Non che le importasse davvero risolvere quell’enigma perché, come aveva già valutato mentre lui pettinava i suoi lunghi capelli, cambiando gli addendi, il risultato sarebbe stato comunque uguale.
Qualunque risposta fosse riuscita a darsi, infatti, rimaneva un dato di fatto: il biondo era un uomo privo di alcun senno. Poco avrebbe importato cosa si celava dietro la sua psicopatia e la sua morbosa ossessione verso la fantomatica Alexia; la risposta non avrebbe cambiato le carte in tavola. Doveva dunque focalizzarsi su quel che era meglio per lei e darvi la priorità assoluta.
La sua vita era la sua priorità, così avrebbe potuto trovare Steve e lasciare quel posto…. sperando che dopo avrebbe potuto ricongiungersi con Chris, finalmente.
Chris…
Era passato così tanto tempo dall’ultima volta che aveva pensato a lui che in quel momento sentì una forte fitta nel petto. Un dolore dettato dalla nostalgia, da quella devastante e insopportabile paura di non averlo accanto, di non sapere dove fosse, di aver continuato a cercarlo per mesi, di aver visto Raccoon City distrutta, la sua gente ridotta a un ammasso di carne in putrefazione, puzzolente e rivoltate, tenuta in vita dalla sola e irrefrenabile fame… violenta e insaziabile….e non sapere se lui stesse bene.
Perché lei, Claire Redfield, era tra le uniche sopravvissute di Raccon City, testimone di quel tremendo incidente. Una consapevolezza che aveva cambiato per sempre la sua vita.
Era scampata a quel pericolo, ma un senso di devastazione la pervadeva ancora. Era giunta in quella città proprio per cercare lui, ma non lo aveva trovato. Era sopravvissuta a quel tragico incidente, ma non lo aveva trovato. Aveva continuato a cercarlo dopo, ma non lo aveva trovato. Era giunta in Europa, inseguendo quei pochi indizi lasciatole, e che l’avevano portata ad insidiarsi in una delle basi dell’Umbrella. Tuttavia era finita a Rockfort, rapita da quei cani dell’Umbrella, che l’avevano nuovamente condannata a far parte di quell’incubo famelico dal quale era miracolosamente sopravvissuta pochi mesi prima.
Alzò gli occhi verso il soffitto, stringendo i denti.
La sua lotta non era ancora finita. Non poteva finire. Non dopo che era sopravvissuta a tutto questo. Era sicura che avrebbe riabbracciato il suo amato fratello.
Lui era vivo, esattamente come lei.
Lui lottava e non demordeva mai; era da lui che aveva imparato quello che sapeva. Lui non l’avrebbe mai tradita, non l’avrebbe mai lasciata sola al mondo. Non era una bugia, non si stava ingannando.
Chris era vivo, lo sentiva, lo sapeva…
Chris e Steve sarebbero stati la forza che l’avrebbero aiutata a resistere e a conservare la sanità mentale che quella droga che Alfred le faceva inalare voleva annullare.
Stavolta era pronta, nessuno poteva sapere il passato che si portava alle spalle e che in pochi mesi aveva stravolto la sua tranquilla vita da ragazza universitaria amante delle motociclette. Era distante da quella ragazza oramai; dopo quello cui era sopravissuta, non avrebbe ceduto tanto facilmente la sua vita.
 
 
 
***
 
 
 
 
Altrove…
Luogo sconosciuto…
 
 
Un uomo fremeva nel suo tormento. Si angustiava, si lamentava, bisbigliava affannati gemiti di dolore, come se il suo corpo non potesse contenere le atrocità che lo stavano distruggendo.
Egli, nel buio più completo di una stanza ombrosa, affondava le dita nel legno di una vecchia e logora scrivania. Essa era già stata graffiata precedentemente e nuovi tagli incisi da quelle stesse unghie si stavano aggiungendo a quelli già impressi in passato su quel legno; i segni indelebili di un disturbo psicofisico che martoriava quella mente.
I suoi occhi erano arrossati, spalancati. Il busto incurvato, le braccia tese, le mani contorte e rigide, infine il freddo…il sudore freddo che inumidiva la sua pelle biancastra.
I suoi capelli, stavolta lasciati distesi nella loro forma naturale, posavano liberi, leggiadri sul suo capo. Ricoprivano la sua fronte con una forma incurvata dandogli un aspetto diverso dal solito, che rimandava alle immagini che lo ritraevano da ragazzo. La riga di lato, la frangia lunga e quel biondo lucentissimo lo facevano apparire più giovane e molto raffinato; ma anche lontano ed irraggiungibile.
Gli spasmi facevano gonfiare il suo torace, compresso nell’elegante e rigida divisa militare che indossava, l’unica maschera che aveva di se stesso, della sua vita come Alfred Ashford vissuta negli ultimi quindici anni.
Affondò le unghie ancora più internamente nella scrivania, imprimendovi la loro precisa forma arcuata, mentre la frangia oramai copriva completamente il suo volto; dopodiché, in preda alla pressione oramai raggiunta, cacciò un urlo liberatorio, stridulo e fastidioso, che risuonò per tutta la stanza.
Con la testa rivolta ora verso l’alto, sul suo volto abbuiato dallo scuro di quella stanza, risplendevano i suoi occhi tormentati colmi di lacrime amare e inconsolabili.
La sua espressione dolorante si distese lentamente, oramai stanca e affranta, mentre sprofondava sempre di più nella sua agonia.
Cadde quindi sulle ginocchia, continuando a tenere la testa alzata, mentre l’eco dei suoi incubi continuava a rimbombare silente e martellante nella sua mente. Insaziabile, incontentabile, crudele, devastante.
Questo mentre la sua malattia mentale cercava di preservare il suo padrone da un ulteriore dolore, celando il volto che lo aveva gettato in quel nuovo sgomento.
Un volto bellissimo e ammaliante, contornato da soffici capelli rossi. Un volto che aveva cercato di rivestire da una folta chioma bionda, in modo da mascherare quell’ indecorosa seduzione, dandole sembianze a lui più accettabili, ma invano.
Cosa significava? Cosa che stava annebbiando la sua mente? Perché non riusciva a dimenticare?
Cos’era quella ragazza?
 
“A-Alexia…”
 
Mormorò il biondo seduto a terra con gli occhi al cielo, alzando tremante una mano verso l’alto.
Egli allungò le dita, come per afferrare simbolicamente un appiglio, una qualsiasi speranza, l’unica che avesse ancora... quell’unica che l’aveva sempre salvato.
La sua Sovrana, la sua Donna, la sua meravigliosa, unica, ingegnosa e affascinate Regina vittoriosa.
Alexia…Alexia… 
 
Ma nessuno strinse quella mano, nessuno corse in suo aiuto. Alfred era solo; solo e sperduto in quel mondo privo di ragione.
 
Impaurito e affranto, cercò ovunque quel volto a lui familiare, ma non c’era. Non c’era, non c’èra, non c’era da nessuna parte. Alexia! Dov’era Alexia?!
 
Non c’era, non c’era, non c’era, non c’era, non c’era, non c’era, non c’era, non c’era, non c’era ….!!!
 
“ALEXIA, SALVAMIIII….!!!”
 
Il suo sguardo si contorse terrorizzato.
Nella disperazione di quella solitudine interminabile, evocò quell’unico nome cui poteva rivolgersi, che chiamava in suo aiuto inutilmente da quindici anni… ma che era l’unico che potesse chiamare.
Lo chiamò in modo da scacciare ancora una volta dalla sua mente l’inconfessabile tormento di avere nel suo castello qualcuno che non era la sua Donna. Colei che odiava e che continuava a rivedere davanti ai suoi occhi, senza tregua. L’avrebbe mascherata quanto voleva, lei riappariva sempre crudelmente, intenta a indurlo a tradire la sua Unica e Perfetta Regina.
Ma non sarebbe caduto in quel tranello. L’avrebbe schiacciata prima ancora che potesse fare un passo verso quella distruzione. Era arrivato il momento di farla finita.
Quella formica aveva scocciato anche troppo.
Doveva schiacciarla…
Doveva eliminarla…
Doveva cancellarla…
Come illuminato da un’oscura presa di coscienza, l’uomo si alzò. Il suo corpo sembrava leggero come una piuma, ma i suoi passi erano pesanti come il piombo.
Egli avanzò nella stanza buia con il volto che sembrava posseduto. Se non fosse stato per i colori vivaci, composti dai capelli biondo platinato, la giacca rosso fuoco e i pantaloni bianchi, avrebbe potuto sembrare un’immagine infernale.
Egli si muoveva con la gravezza di un golem inarrestabile.
L’uomo raccolse dalla scrivania deturpata dai tagli della follia, un grosso e brillante anello, su cui era incastonata una preziosa pietra cerulea. Un cimelio lasciato scivolare via dal suo dito quando era entrato in quella stanza concedendosi un attimo di abbandono, ma del quale si stava subito riappropriando come rappresentante del suo casato, come simbolo del suo essere tornato a presiedere il suo palazzo come padrone assoluto.
Lo infilò lentamente, facendo risplendere il blu intenso di quella gemma, contemplando il suo valore e la sua bellezza dannata.
Animato dalla forza occulta che risiedeva in quell’oggetto, uno dei tre simboli della sua famiglia, egli riadagiò la sua mano verso il basso, tornando sui suoi passi, fremendo verso i suoi scopi.
Si fermò un attimo vicino una cabina di vetro che scintillava nell’oscurità di quella stanza. Questo riflesse l’immagine della sua mano mentre si avvicinava alla serratura su cui era incastrata la chiave che chiudeva lo sportello. La fece scattare e il suo semplice e comune suono si propagò nella stanza, come fosse l’inquietante segno che autorizzasse l’esecutore e mettere in atto la pena.
Così, una volta aperta l’anta di cristallo, egli estrasse un’arma a lui molto cara e molto familiare: un fucile da caccia.
Spostò quindi i capelli dal viso, ammaccandoli sulla fronte, in modo da rimettere in ordine la sua figura aristocratica, onorando il decoro della famigerata famiglia Ashford.
Dopodiché, imbracciando fermamente il fucile, si avviò nel tetro corridoio oltre quella stanza.
 
 
 
***
 
 
 
 
 
 
 
 
Piccola nota!
Ho appositamente cambiato la scena della fuga da Rockfort Island per agevolarmi la narrazione.
In realtà il giocatore avrebbe dovuto affrontare un Tyrant, poi alzare il ponte per permettere al jet di volare e infine riaffrontare il Tyrant. Ma sarebbe stato un giro troppo lungo da descrivere e avrei perso il pathos della narrazione, quindi ho preferito cambiare la narrazione originale e fare che una volta raggiunto l’aereo, Steve e Claire riescono direttamente a metterlo in moto per fuggire dall’isola.
Anche il seguito è stato cambiato, ma è un punto che fa parte della narrazione della storia. Sarà tutto spiegato a tempo debito.
 
Grazie per aver letto anche questo capitolo^^
A presto!
 
Fiammah_Grace
 
 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Capitolo 4: giochi di ruolo e maschere vaganti ***






Capitolo 4: Giochi di ruolo e maschere vaganti
 
 
“ La mia maschera è pronta.
Comincia la giornata.
Passano i giorni, gli anni.
-sorriso perenne-
sguardo sempreverde.
Il sole della mia espressione
scalda coloro che mi stanno intorno.
I conti tornano, la vita avanza.
Va bene così.
Rientro in casa, passo oltre le stanze
dotate di specchio.
Il sipario è calato, sono sola.
Poso la maschera, piango. ”
(Anton Vanligt, Mai troppo folle)
 
 
 
Corridoio dell’ala est della magione Ashford – tramonto
 
 
 
 
Silenziosi, i fasci oscuri delle tenebre si proiettavano sulle pareti, arredando il lungo corridoio con un mobilio fatto di ombre, che ridisegnavano fedelmente l’immagine di ciò che era materiale in quegli spazi colpiti dalla luce. Buio e luce spesso si uniscono in un tutt’uno poiché, dove c’è l’uno, non può mancare l’altra. Quanto è più forte la luce, quanto più profonda sarà la sua ombra, in un meschino e curioso gioco di sensi, che alimenta la dicotomia fra falso e reale, fra chiarezza e oscurità, fra bene e male. Un rapporto proporzionale incostante e irreversibile, fondato su regole che nessuno avrebbe potuto sconvolgere, che alcuno avrebbe potuto dissipare…nemmeno la luce più intensa.
Le brune scie che provenivano dal lato adiacente del muro rigavano anche il pavimento, decorandolo con sprazzi sia di bianco iridescente, che di nero pece. Un nero cangiante, che danzava assecondando il movimento della luce che lo colpiva, la reale padrona dell’ombra. La luce che dominava le ragioni della follia.
Il tappeto rosso, adagiato al centro e che accompagnava quegli eleganti fasci, sembrava intimidito dalle ore diurne che stavano per dissiparsi.  Incapace di scindere le due parti, accettava di buon grado il fatto di essere offuscato dalla magnificenza della follia che albergava in quel castello. Come se volesse spegnere il suo colore per non brillare, come se stesse rinunciando a lottare in quello scontro tra bianco e nero, ove era infelicemente coinvolto. Inconsapevolmente vittima.
Quel colore scarlatto dunque si fece contagiare dalle tenebre e presto divenne parte di essa, e la luminosità delle sue vesti fu presto sostituita dal manicomio che in realtà era celato dietro quegli sfarzosi arredi. Perché quel luogo era il finto teatro di un’opera che non esisteva; era tutto una mera menzogna creata affinché quella vita fosse possibile.
Di là del maestoso sipario d’apertura, vi era il teatro dei folli, costruito attorno al mito di una crudele Regina, al fianco della quale il suo umile e devoto Re muoveva i suoi loschi burattini, in modo da compiacere la sua amata. Uno spettacolo folle e inutile come l’arte nella sua essenza, costruita dall’uomo soltanto per allietare le sue giornate.
Un tal Wilde diceva che l’artista è il creatore di cose belle e che è una virtù vedere la Bellezza nelle cose belle. La moralità o l’immoralità non conta, perché l’opera deve essere soltanto scritta bene oppure male…questo è tutto. Sciocco è colui che si avventura al di là di questo, perché l’arte è bella ed è inutile al tempo stesso.
In quella rappresentazione ingannevole e dissente dalla realtà, in balia di un equilibrio affidato alla pazzia, giostrava l’uomo che per notti e notti aveva costruito le basi di quello spettacolo che sarebbe stato il suo patibolo, ideandolo seguendo il suo gusto perverso e malato, ricercando una perfezione intrinseca che aveva reso quel luogo il suo magico castello.
Morale o immorale, giusto o ingiusto, vero o menzognero… erano tutte inutili e fugaci parole. Commenti inopportuni e superflui. Perché la sua opera era perfetta.
Nella sua opera ognuno aveva la sua parte. Vi erano il Re, la Regina, i sudditi, gli oppositori. Tutte le parti erano ben caratterizzate in quella commedia mandata avanti dallo straordinario burattinaio, che aveva saputo trasformare da solo quella scena nella vita reale, muovendo uno spettacolo di illusioni, bello e ben scritto. Era questo che contava nell’arte, era questo che compiaceva l’artista.
Ed Alfred Ashford era stato un architetto perfetto, fautore di un mondo che non esisteva e che aveva impregnato non solo le mura del suo palcoscenico, ma anche se stesso e tutto ciò che incrociava il suo cammino, costituendo una realtà alternativa che aveva fatto disperdere e scappare via quelle luci che un tempo distinguevano oggettività da fandonia.
Tutto era menzogna e tutto era realtà allo stesso tempo; s’intrecciavano e si confondevano in un gioco che nessuno avrebbe più distinto. La realtà era oramai perduta.
La sua opera era diventata davvero perfetta.
 
Tuttavia, quando quelle ombre s’incrociavano con quelle di un mondo a lui dissimile; quando esse si contorcevano e si deformavano alla vista di realtà provenienti dall’esterno e che guardavano con occhio critico e distante quel capolavoro, senza comprenderne l’intenso significato; estranei che valutavano con cieca obbiettività quel mondo che altro non era che una commedia ridicola e fasulla, gettando nel tormento quell’opera perfetta….ecco così che nasceva il caos.
L’imbroglio delle ombre faticosamente equilibrato, era violentemente sconvolto e la luce riprendeva a battere su quelle pareti illuminando ciò che era stato nascosto per mantenere vivo quello spettacolo teatrale.
 
Ma chi siamo noi per dire cosa sia reale?
 
Chi siamo noi per obbligare qualcuno a venire nel nostro mondo, perché è più giusto, più vero?
E se invece i pazzi fossimo noi? Dei folli che vivono in un mondo allo stesso modo falso e crudele, eppure ci illudiamo che la commedia sia questa: quella del Re che aspetta la sua Regina.
 
Tutta l’umanità è impregnata dalla pazzia. Folle è colui che lo nega.
Allora perché costringere qualcuno a uscire fuori dal manicomio che lui chiama ‘casa’? Perché cacciarlo da un mondo che è il solo capace di appagarlo?
Forse la realtà non è soltanto una….forse tutti abbiamo bisogno della nostra opera d’arte, della nostra ingannevole commedia che manda avanti la nostra breve e triste vita.
Se così fosse, allora sono tutti dei deliranti ipocriti, capaci solo di puntarsi il dito l’uno contro l’altro. Dita crudeli e accusatorie verso concezioni della vita che saranno sempre dissimili, perché ognuno abita il suo personale universo. Ognuno vede e crede nella realtà in cui riesce a vivere, in cui riesce ad essere l’attore di se stesso, finché va avanti la commedia.
Così è la vita in fondo: una giostra in cui più parti protagoniste si mescolano e si rimescolano, creando un caos che si equilibra nel suo disordine, assecondano i contrappesi di una follia incomprensibile.
Questo mentre le nostre ombre s’intrecciano e si scontrano sul piano della realtà che ci accomuna e su cui ognuno di noi porta avanti la sua mendace commedia. Il palco principale, che è la realtà scaltra e oggettiva, che vuole fondere questi universi distinti fra loro, queste parti contrapposte e articolate, costringendole ad una lotta eterna fra bene e male…fra giusto e sbagliato….
La commedia della vita, la commedia dei buoni e dei cattivi, ove ognuno è il protagonista del suo spazio e lotta per la supremazia del suo universo.
 
Ed era per questo che Alfred Ashford camminava deciso per quel corridoio, solcando i fasci di luce che si proiettavano dai mobili per via del tramontare del sole. Perché il suo mondo era stato invaso, lo spazio su cui recitava era stato violato ed egli doveva affermare il suo dominio e difenderlo dalla confusione che l’Altra Donna aveva arrecato.

Perché per lui quello era il male.
Un male che andava combattuto, che andava castigato.
 
Due erano le commedie in atto; due gli attori che si contendevano lo stesso palco.
Lui era il burattinaio che doveva scegliere per il bene del suo spettacolo e doveva gettare via le bambole che rovinavano la sua scena.
 
 
***
 
 
Il rumore cadenzato del tacco di legno che batteva sulla superficie del pavimento risuonava regolare, echeggiando nel corridoio illuminato dagli ultimi bagliori del sole. Il tappeto scarlatto attenuò quei rintocchi, che si ripetevano uno dopo l’altro presagendo la presenza di una persona fisica in quell’ambiente malato e desolato, non abituato alla vita.
Un castello abitato da sogni e da spettri, da immagini che non esistevano ma che impregnavano l’abitazione con la loro eterea presenza. La vita, la realtà, l’oggettività… ciò non faceva parte di quelle mura, erette soltanto per poter dare sfogo alla pazzia di un’esistenza distrutta oramai da tempo.
Alfred Ashford camminava con passo deciso sul sentiero della morte, avanzando senza sosta per quel vuoto e malinconico corridoio. Il suo sguardo, fisso davanti a sé, era imperscrutabile.
La luce dorata batteva sulla sua figura, colorandola con tinte sgargianti e ammalianti che esaltavano la sua eleganza, ma che al contempo ombrava sempre di più la sua figura. Data l’altezza del sole, infatti, più la sua effige era colpita da quei forti raggi, più le ombre che si proiettavano sul suo corpo erano ampie e cupe, oscurandogli il viso fino a renderlo crudele e spaventoso. Le tenebre erano trafitte esclusivamente dall’intenso colore dei suoi occhi di ghiaccio, che spezzavano in modo spettrale quel nero che offuscava il suo volto.
Non batteva ciglio di fronte quella fastidiosa luminosità accecante. Egli si muoveva irrefrenabile, determinato a recidere i rami secchi che stavano facendo deteriorare l’intera pianta da lui tanto curata. Marciava dunque senza sosta, muovendosi da un’ala all’altra del castello, illuminato e poi oscurato in modo alternato dai bagliori violenti della luce, mentre lasciava alle spalle le varie finestre che contornavano il corridoio.
Un luccichio attirò l’attenzione sulla lucente canna del suo fedele fucile da caccia, l’arma che stringeva fra le braccia. L’arma che usava per le esecuzioni, che deteneva per dare la caccia alle fiere che infestavano il suo terreno.
La sua mente, quindi, guidata da quell’irrefrenabile senso di vendetta, aveva accecato la ratio che teneva a freno la sua rabbia e il suo rancore. Dolori incolmabile ed inestinguibili, che ribollivano ora che la crudele realtà era stata mostrata turbando ancora di più la sua psiche.
Era questo il delitto compiuto da Claire Redfield e che andava punito: aveva messo alla berlina il suo palcoscenico, aveva disonorato lui e la sua Regina.
Quel che voleva vedere era il sangue…il rosso organico della morte che sgorgava dalle sue vene e che sporcava il petto di quell’ignobile presenza ostile che aveva trafugato fra i suoi ricordi, fra le sue preziose memorie accanto a colei che amava, macchiandole con le sue indecorose e meschine spoglie.
 
L’avrebbe uccisa…uccisa…uccisa…uccisa…
 
Come una libellula privata delle sue ali e data in pasto alle affamate formiche che, spolpandola viva, l’avrebbero punita per essere caduta nel loro territorio.
 
L’avrebbe uccisa…uccisa…uccisa….uccisa…
 
Avrebbe così riconfermato la sua lealtà e il suo devoto amore verso la sua amabile e perfetta Regina.
Solo così il suo cuore sarebbe stato in pace, finalmente. 
 
Il passo rallentò e l’incessante battito del tacco di legno sparì, gettando nel silenzio più tormentato il corridoio posto in quell’ala del castello.
L’aria si fece malata, pesante, irrespirabile. Sembrava voler soffocare e portare alla pazzia coloro che la respiravano, come se avesse assorbito la crudeltà e la perversione del suo padrone.
Alfred unì i piedi, che risuonarono un’ultima volta davanti all’uscio della massiccia porta di legno che costituiva il varco, ben conosciuto, attraverso il quale si celava Lei: la donna ingannevole, la donna imperfetta, la donna che lo aveva indotto in quel losco inganno.
Con fermezza, pose la canna verso l’alto poggiandola sulla sua spalla, dopodiché con la mano libera girò la chiave d’ottone che sigillava quella porta, pronto a ritrovarsi davanti alla donna che doveva punire per il bene suo e di Alexia.
Spalancò quindi la porta e con rabbia funesta puntò il fucile davanti a sé, dove sapeva di averla lasciata, dove era certo fosse rintanato il suo topo in fuga. Dove quella marionetta aveva osato colpire e ferire il suo padrone.
La luce del corridoio penetrò dalla porta trafiggendo la sua figura alle spalle. Essa colpì anche la giovane che sorpresa alzò i suoi occhi verso di lui.
 
Ella era lì, esattamente dove l’aveva lasciata.
Sul suo trono, ancorata alle maniglie di ferro che segavano i suoi polsi rivestiti di bianco.
Con il volto delicato e aristocratico, che era quello di sempre: bellissimo, gentile, soave…
Con il vestito viola che accarezzava il suo esile corpo…
…i lunghi capelli biondi che scendevano sottili sul suo petto….
….e l’inestimabile dolcezza e magnificenza che rendevano splendida e ammaliante la sua Dama.
La grazia e l’inflessibilità della Regina che amava.
 
Le iridi pallide di Alfred Ashord si strinsero. I suoi capelli, lasciati liberi nella loro forma naturale, scesero sul suo viso coprendo una buona porzione della fronte, quasi fosse un sipario che voleva impedirgli di prendere la mira e sporcare quell’immane immagine celestiale la cui morte l’avrebbe perseguitato.
Egli tremò, mentre la realtà sfuggiva ancora una volta dal suo controllo. Sapeva che la sua marionetta era stata costruita in modo perfetto, così tanto da ingannarlo. Sapeva del fascino che scaturiva in lui; del tormento che gli provocava e che non riusciva a scacciare; della menzogna di cui lui era il fautore e che gli si era ritorta contro.
Ella non era la sua regina, era solo erbaccia da estirpare, un parassita da schiacciare, una vile e illusoria marionetta da lui costruita. Eppure…
Eppure…
Eppure…
Eppure gli mancava…
Eppure la desiderava disperatamente…
 
E' davvero follia scegliere di credere alla realtà che più ci fa stare bene? 
Quale male si sarebbe potuto scaturire dalla felicità, seppur falsa e menzognera?
In fondo, cosa interessava al mondo se lui amava e desiderava una falsa Alexia?
Era questo un peccato?
 
Il suo cuore prese a battere sempre più forte. Il panico prese il sopravvento. Egli era incapace di lottare contro la donna che aveva dato senso alla sua vita. Seppur non fosse lei, seppur non potesse essere lei. Era lui che aveva costruito quel fantoccio, era lui che l’aveva resa rassomigliante ad Alexia.
Lo sapeva! Lo sapeva!
Lo sapeva, lo sapeva, lo sapeva, lo sapeva, lo sapeva, lo sapeva, maledizione!!
Ma ella era pur sempre Alexia…l’Alexia che gli mancava, che da quindici anni attendeva in un tormento senza fine. L’unica persona che gli desse l’amore di cui aveva bisogno, che appagasse la sua esistenza. Ed era lì, di fronte a lui. Ma era solo un…pupazzo.
Ma era Alexia! Alexia!
Devastato da quella straordinaria visione, la sua mente andò in panne, incapace di scindere realtà da finzione. La sua fronte s’inumidì e le sue gambe presero a traballare impercettibilmente. Stava vacillando sempre di più di fronte al viso sconvolto della giovane dai capelli biondi che era intrappolata di fronte a lui, incapace di scappare via.  
Alfred sospirò e spostò violentemente il ciuffo di frangia dal viso, determinato a compiere quello che era giusto.
Avrebbe premuto il grilletto, l’avrebbe fatto per la sua donna. Avrebbe cancellato quell’orribile manichino che voleva prendere il posto della sua Alexia. Non avrebbe indugiato.
Chiuse un occhio e prese dunque la mira. Tremante, adagiò il suo indice sul grilletto. Pochi secondi, un singolo istante e poi tutto sarebbe finito, ripeté dentro di sé, mentre un punto rosso si focalizzava sulla fronte dell’amata e falsa Alexia. Ella era nel mirino, non poteva sbagliare.
Il respiro si fermò, le sue gambe s’immobilizzarono.
Doveva solo sparare….soltanto abbassare il grilletto…
 
“F-Fratello…fratello…!”
 
Quella voce tremante lo spiazzò. Era un dolce tono femminile, impaurito, che era appena fuoriuscito dalla rosea bocca della sua donna…della sua vittima.
 
“Cosa stai facendo...? Ti prego, non farlo!”
 
Disse ancora quell’agognata voce. Ella lo guardava con due occhi speranzosi e distrutti, due iridi che stavano vedendo davanti la meschina macchina della morte che presto avrebbe messo la parola fine ai suoi giorni di vita.
L’immagine di quella donna si stampò nella sua mente. L’immagine di sua sorella che lo supplicava.
Ma…come…? Lui…
Lui la stava proteggendo… stava eliminando coloro che intralciavano il suo cammino… stava svolgendo il suo compito perdurato quindici anni…
Stava…
Alfred Ashford sbandò e non fu più capace di reggersi in piedi. Ebbe il disperato bisogno di poggiare la schiena contro la parete alle sue spalle. Indietreggiò, tenendo ancora il fucile puntato contro la donna del suo destino.
Sconvolto, lacerato, distrutto…cosa….cosa stava facendo?! Che diavolo stava succedendo?!
La nebbia avvolse la sua mente e improvvisamente cominciò a non vedere più nulla.
La voce di quella donna echeggiò martellante dentro di sé, come fosse una lava incandescente che stava facendo crollare le fondamenta che costituivano l’unica base che lo aveva sorretto in quella vita senza la sua Alexia che chiamava il suo nome.
Perché nessuno lo cercava, nessuno lo accarezzava quando aveva bisogno di aiuto, nessuno rispondeva al suo dolore, nessuno curava le sue ferite, nessuno ricordava che esistesse…
Nessuno da oramai quindici anni…
 
 
“Fratello”
 
 
 
Da quanto non sentiva questa parola…
Da quanto qualcuno non gli si rivolgeva in modo familiare, in modo autentico, tangibile.
Da quanto non sentiva la voce di una donna, della Donna, che lo cercava.
 
Nessuno lo aveva mai più chiamato, nessuno aveva anche solo cercato Alfred dopo che Alexia si era criogenata. Alcuno aveva dimostrato affetto verso di lui per troppo tempo, creando una voragine buia e nera che con gli anni si era fatta sempre più profonda e incolmabile.
Tuttavia quella voce sembrò rimarginarne quegli argini in un singolo istante e distrusse in un lampo la sua determinazione. Quella voce reale…una voce umana….una voce viva.
 
Da quanto la vita non permeava quelle mura abitate da spettri e menzogne?
 
L’uomo strinse gli occhi e si rispecchiò in quelli della meravigliosa e unica donna che dava senso alla sua vita dimenticata, devastata dalla solitudine. Quegli unici occhi complici che lo avevano spinto a vivere, ad affrontare quelle atroci sofferenze. Quell’amata presenza umana che allietava il suo cuore e lo faceva sentire amato e desiderato.
Ipnotizzato e abbandonato agli spasmi del suo animo che si scioglieva di fronte l’amore che gli mancava e che lo aveva abbandonato, Alfred abbassò il fucile. Pesante e quasi insostenibile, esso era sorretto a stento fra le sue braccia intorpidite, collassate per l’effetto di quella voce agognata.
 
“Alexia…?”
 
Sussurrò e una ciocca di capelli scese nuovamente sul suo viso.
 
“Sì.”
 
Rispose la donna.
 
Sapeva che non era vero. Sapeva che era un inganno. La sua amata Alexia non c’era, non si era ancora risvegliata. Non era accanto a lui, né ci sarebbe stata ancora per molto. Lui era ancora il suo fedele guardiano che l’avrebbe protetta fino al giorno del suo risveglio quando il virus T-Veronica si sarebbe perfezionato.
Eppure la sua mente oscurò ognuna di queste consapevolezze, perché il suo cuore voleva credere a quell’inganno.
Ognuno ha bisogno di qualche follia per sopravvivere, ognuno necessità di qualcosa per vivere. E quel che mancava ad Alfred Ashford, quel che lo completava… in quel momento era lì, di fronte a sé, e non voleva perderlo.
Così quel fantoccio divenne reale ai suoi occhi e credé nella magia che la follia aveva creato.
Abbandonò il fucile che avrebbe eseguito la libellula privata delle sue ali e si lanciò ai piedi della sua amata sorella, cadendo sulle ginocchia e incrociando le braccia sul suo grembo. Sprofondò la testa e strinse i lembi del tessuto che la rivestivano, non potendo contenere la gioia e il dolore di averla finalmente accanto. Mentre si abbandonava a quel cieco amore incontenibile del suo cuore, la sua mano accarezzò i ferri che la bloccavano sul suo trono. La guardò negli occhi, oramai in balia della schizofrenia che aveva completamente annebbiato la sua percezione della realtà, preferendo cullarsi nei beati sogni ingannevoli di una verità alternativa che non esisteva.
 
“Mi dispiace, Alexia…perdonami, ti prego!”
 
Disse commosso, amareggiato, oramai devastato e caduto nello stesso tranello elaborato dalla sua mente, che fece scomparire ogni consapevolezza riguardante Claire Redfield celata sotto quelle spoglie.
Ella infatti lo guardò attonita, sconvolta da quella reazione disperata. Questo mentre comprendeva che egli era caduto nella trappola che lei aveva escogitato.
 
 
 
***
 
 
Qualche minuto prima….
Camera di Alexia – tramonto
 
 
 
Claire Redfield chiuse gli occhi, cercando di scacciare l’intorpidimento che alienava i suoi sensi. Non doveva cedere, non doveva lasciarsi andare; doveva invece rimanere vigile, o sarebbe potuta soccombere ancora in quella tortuosa recita che voleva cancellare chi ella fosse. Nelle mani di Alfred Ashford si sentiva tutt’altro che sicura. Egli era un mentecatto capace soltanto di rievocare l’esistenza di una donna mai vista in quel posto e che pur di averla era stato disposto a vivere una menzogna come quella, che lo aveva gettato nella paranoia e nella pazzia più tetra e profonda.
Presto tuttavia si sarebbe accorto che quella recita non stava in piedi, perché una parte di lui sapeva…doveva sapere di questo assurdo complotto; e quando avrebbe preso coscienza di ciò, l’avrebbe uccisa, era questione di tempo.
Queste consapevolezze avevano alimentato il suo spirito, adesso combattivo e determinato. Doveva agire il prima possibile e la sua unica speranza era approfittarne subito, non appena lo avrebbe rivisto. Quel teatro ingannevole e perverso stava perdurando anche troppo e se lui voleva giocare sporco…anche lei non avrebbe esitato. Avrebbe sfruttato l’inganno in cui lui stesso si era ingabbiato.
Che fosse corretto o meno, sarebbe stato da stupidi interrogarsi o angustiarsi su questo. Era della sua vita che si stava parlando e non le importava ritorcere contro Alfred quel destino che lo aveva fatto impazzire.
Era la sua unica possibilità per sopravvivere e fuggire da quel manicomio, per poi ricongiungersi con Steve e suo fratello Chris…
 
Il suo piano era semplice: Alfred voleva Alexia e allora… avrebbe avuto Alexia.
 
Era nervosa e inquieta per quel che stava per compiere, per le probabilità di successo e insuccesso, ma non vedeva altre possibilità. Sebbene sapesse quanto fosse impossibile interpretare una sorella agli occhi di un affezionato fratello, e valutasse altissima l’eventualità di essere smascherata, doveva fare quel tentativo.
Si chiese che tipo di donna fosse la bionda gemella Ashford, in modo da rendere credibile la sua interpretazione, ma non avendo elementi sufficienti per determinare la sua personalità, decise di optare per la soluzione più semplice: ovvero la “brava sorellina”.
Non era nel suo stile essere tenera e femminile. Nonostante lei stessa avesse un fratello maggiore, quindi poteva lontanamente immaginare la relazione dei due fratelli, notava come le loro esperienze e il loro legame fosse assolutamente diverso se non addirittura imparagonabile a quello che aveva con Chris.
Il rapporto di Claire e Chris, infatti, non era certo zuccheroso e amorevole. Con il ragazzo dai capelli scuri, lei era molto naturale, si divertiva a stuzzicarlo, prenderlo in giro, essendo un soldato le piaceva apprendere le sue mosse di combattimento e nozioni sulle armi...
Lei era un vero maschiaccio, non proprio un soggetto dolce. Con lui smontava motori, faceva gare di resistenza, giri in moto, andavano ai poligoni di tiro, lottavano nel corridoio di casa e spesso si avventurava con lui nei boschi di Raccoon City.
Non le apparteneva quindi un modo di fare raffinato e ingenuo verso un fratello; con gli uomini in generale parlava in modo diretto ed anche per questo le sue conoscenze erano per lo più a prevalenza maschile. Questo proprio perché interagiva meglio con un modo di fare più fattivo e schietto, tipico della stragrande maggioranza degli uomini.
Non le mancava certo quel tatto e quella premura femminile che faceva fuoriuscire spesso il lato tenero del suo carattere. Claire sapeva essere anche comprensiva e materna essendo una ragazza che si era cresciuta da sola, data la scomparsa in giovanissima età dei suoi genitori.
Si era presa cura di se stessa e di Chris, crescendo molto in fretta rispetto alle sue coetanee, maturando così un modo di pensare diverso, dedito più alla risoluzione di problemi reali e concreti della vita, disinteressandosi delle tipiche difficoltà adolescenziali. Questo non rinunciando alla sua natura solare e positiva, che spesso faceva breccia in coloro che la conoscevano, sebbene negli ultimi tempi quest’aspetto di sé era andato a scemare data la piega che aveva preso di recente la sua vita. Ma niente aveva mai soppiantato la sua fiducia e il suo spirito bonario verso la vita.
Perché in fin dei conti era questo che caratterizzava Claire: la sua tenacia e la sua forza d’animo, che comunicava speranza e calore umano.
Mentre i suoi pensieri avevano preso a divagare, si figurò nella sua mente un netto paragone fra Chris e Alfred. Un paragone che aveva dell’inquietante, poiché Chris era tutt’altro tipo di fratello, come appena analizzato.
Virile, ribelle, forte…era imparagonabile a un fratello così sottomesso e servile come Alfred, che più che una sorella, sembrava riverisse una regina. Egli era anche una mente complessata, fragile e instabile… come avrebbe mai potuto essere una sorella credibile?
Decise di decidere sul momento e sperare che le rotelle che mancavano al biondo l’aiutassero a essere verosimile. Claire supponeva, infatti, che egli fosse così disperatamente ammaliato da questa ‘Alexia’ che il solo fatto che si sarebbe finta lei sarebbe bastato a ingannarlo…e ad ottenere aiuto dalle sue mani stesse.
Era azzardato, forse addirittura incosciente, ma doveva sperarci se voleva liberarsi da quelle morse e fuggire.
Furono questi i pensieri che la rossa stava elaborando, da poco lasciata sola nella sua stanza dopo la visita del suo eccentrico “fratello” mentecatto, non aspettandosi minimamente che quella quiete sarebbe durata ben poco. Questo poiché Alfred invece stava già marciando nel corridoio adiacente, illuminato dalle forti luci rossastre del tramonto, pronto a dare sfogo alla sua schizofrenia.
Quando egli spalancò la porta della sua stanza, ella sobbalzò, impreparata a quella visita già così presto. Si erano lasciati meno di un’ora prima, infatti, e le ci vollero una manciata di interminabili secondi prima di realizzare nella sua mente che la sua opportunità fosse già giunta.
Alfred arrivò rabbioso, ribaltando la porta in modo violento e irrefrenabile. Ancorò i piedi a terra e puntò un pericoloso fucile da caccia dritto verso di lei, con un’aria sconvolta e tormentata che poteva leggersi nitidamente nei suoi occhi.
Sembrava essere sul punto di sparare da un momento all’altro, come se qualcosa lo avesse inspiegabilmente ferito e sconvolto. Eppure, quando lo aveva visto in precedenza, sembrava essere tornato un ragazzo mite, almeno come quando era al cospetto di Alexia.
In quel momento invece si era trasformato nell’uomo violento e addolorato che l’aveva aggredita la precedente notte, quando aveva recuperato conoscenza. Cosa aveva quel ragazzo? Aveva una doppia personalità o qualcosa di simile!?
Quel rancore la fece rabbrividire, ma quello spavento scaturito dalla sua improvvisa e furente comparsa, si trasformò presto in compassione. Cosa gli era accaduto, si chiese infatti.
Osservò la sua acconciatura, decisamente disfatta in quel momento. Solitamente Alfred si era sempre presentato in perfetto in ordine, sul limite della perfezione, con i capelli rigorosamente tirati indietro e un portamento altolocato.
Proprio di recente era rimasta ammaliata da tale androgina bellezza, non comune da vedere in un uomo. Una perfezione che sembrava renderlo addirittura finto e che invece adesso era stravolta dalla capigliatura ribelle, dal corpo tremante, dalla fronte corrucciata e rabbiosa.
Era assurdamente diverso con quell’aria scomposta, che rimembrò nella sua mente l’immagine del cupo ragazzino che premeva la sua fronte contro quella di una amata e complice sorella dai lunghi capelli biondi. Quel filmato che rappresentava i due gemelli Ashford in età giovanile e del quale adesso Alfred aveva le nitide sembianze, con quella capigliatura scesa, liscia, che pendeva sulla sua fronte.
Ma di quel ragazzino squilibrato e psicotico, eppure stranamente felice nella sua rocca che soddisfaceva ogni suo bisogno, non c’era traccia…e al suo posto vi era la sua versione cresciuta, impazzita e arrabbiata, che viveva nel doloroso ricordo di quei giorni gioiosi.
Un’immagine che la spiazzò e le comunicò un infinito senso di angoscia.
Questo mentre le loro iridi, le une vitree e le altre blu intenso,  si incrociavano riflettendosi l’una nell’altra. L’espressione sconvolta di Claire sembrò andare in collisione con la mente desolata di Alfred, il quale cominciò a tentennare, come se improvvisamente fosse diventato incapace di sopportare quel dolore.
Lo vide tremare, perdere velocemente ogni fiducia in se stesso; qualcosa lo stava sconvolgendo visibilmente, facendo vacillare la sua rabbia e la sua determinazione che si sforzava di mantenere viva, puntando il mirino contro di lei.
La rossa dovette tornare prontamente alla realtà, abbandonando i sentimentalismi se voleva salva la vita. Perché se avesse continuato ad alimentare quell’attimo di pietà e coinvolgimento emotivo, presto il puntino del laser puntato contro di lei sarebbe stato sostituito dalla scia irrefrenabile della polvere da sparo. Dovette quindi stringere i denti e allontanare ogni pensiero introspettivo dalla sua mente.
Egli era visibilmente impazzito; lasciarsi soggiogare proprio in quel momento avrebbe significato morire.
Il suo istinto di sopravvivenza si riattivò quindi velocemente, non accettando di soccombere per mano di uno psicopatico simile. Avrebbe venduto cara la pelle, se era questo che Alfred voleva. Non doveva lasciarsi prendere dal panico, non poteva cedere ora.
Torturò le labbra con gli incisivi prima di trovare la determinazione idonea per cominciare la sua farsa. La crudele messinscena che sapeva avrebbe ferito la sua mente e che per certo l’avrebbe fatto crollare definitivamente, almeno sperava.
Fu quindi costretta dalle circostanze a mirare la sua arma contro di lui, a sua volta. Un’arma diversa da quella del biondo, ma altrettanto potente e devastante. L’arma che lui stesso aveva creato inconsapevolmente e che lei gli stava per ritorcere contro. Non faceva parte del suo carattere torturare la mente; sconvolgere e giostrare con le vite altrui, usando le loro debolezze per far loro del male…ma era troppo tardi per tornare indietro. In quella trappola di reciproci inganni, a quel punto una sola cosa aveva importanza: ‘mors tua, vita mea’. E Claire non aveva alcuna intenzione di morire.
 
“F-Fratello…”
 
Sussurrò in modo incerto, impreparata psicologicamente a divenire una travisatrice. Per la propria sopravvivenza ci si poteva trasformare in carnefici a propria volta? Qual era la risposta giusta? Cos’avrebbe dovuto fare per salvarsi?
L’unica cosa che sapeva è che non doveva cedere… non doveva cedere per nessun motivo.
 
“….fratello!”
 
Ripeté, stavolta con più determinazione, accettando la parte che le era stata assegnata da tempo e che stava mettendo in atto, consapevole che in quella commedia risiedeva la sua unica speranza di sopravvivenza.
Era fatta…anche il suo inganno era appena cominciato.
Era stata issata una nuova commedia, di cui lei era adesso il burattinaio. Ora doveva solo attendere la reazione di Alfred, ignaro di quel capovolgimento di ruoli che non poteva aver previsto.
Una reazione che non tardò a venire perché, seppure immobile, taciturno e ancora rabbioso, qualcosa cambiò negli occhi dell’uomo vestito di rosso. Qualcosa stava crollando. Una dopo l’altra le sue certezze e i suoi tormenti si stavano accavallando e distruggendo fra loro, disorientandolo e sconvolgendolo.
Egli vacillò ancora prima di quanto si aspettasse, e in poco tempo cadde ai suoi piedi, come un maestoso albero dall’immane corteccia secolare che, investito dallo sfregiante passaggio di un fulmine tempestoso, viene abbattuto inesorabilmente, cadendo nonostante le forti radici che l’ancoravano al suo terreno.
Il ragazzo dai capelli platinati si disperò in modo incondizionato, improvvisamente lacerato da quel che stava per compiere, dal viso che stava per ferire.
 
Claire ce l’aveva fatta: si era trasformata in Alexia…
 
Con quella semplice parola, con quel semplice viso complice e speranzoso.
Spiazzata, tremante e ancora troppo coinvolta da tale situazione, lì per lì si sentì inadeguata di fronte a quel volto disperato. Senza che ebbe neanche il tempo di realizzare il tutto, egli si fiondò su di lei, inginocchiandosi al suo cospetto. Sprofondò sul suo grembo, bisognoso di un gesto d’amore, della vicinanza del suo pilastro più importante. Egli stringeva fra le dita la sua gonna, scacciando dalle sue viscere l’angoscia scaturita dalla disperazione di quella vita senza la sua Alexia.
Claire sentì il senso di colpa devastarla. Era a disagio con se stessa perché era notevolmente troppo per lei avere fra le braccia il suo nemico; quel folle e mentecatto castellano fautore di perversioni e atrocità incommensurabili. Sentì il peso di quella contraddittoria realtà in cui lei e gli altri prigionieri stavano lottando per la loro vita proprio per colpa di quello stesso uomo che adesso, sconsolato, l’abbracciava senza ritegno.
Fu sconvolta da quella vicinanza, dal fatto che la stringesse e cercasse il suo aiuto.
Cosa avrebbe dovuto fare? Cosa poteva fare per allontanarlo e deviare quel disagio incommensurabile?
Lei non era davvero sua sorella…né aveva intenzione di aiutarlo. Erano nemici, inoltre lei non avrebbe mai potuto fare qualcosa per lui. Voleva solo fuggire da quel posto e dimenticarsi di quell’assurda storia quanto prima.
Non era chi credeva che fosse e non avrebbe mai ricevuto da lei l’amore che cercava.
Tuttavia... era il suo preciso piano quello. Era un bene quella disperazione, doveva ricordare a se stessa.
Doveva essere felice di essere riuscita nel suo intento di ingannarlo.
Egli credeva che fosse Alexia in quel momento. Almeno secondo una deviata logica era assurdamente così.
Eppure non riusciva a sentirsi compiaciuta.
Mentre lo osservava, con il cuore torturato tra le dolorose morse della coscienza, era tristemente consapevole che per assicurarsi la libertà doveva giocare a quel gioco sfruttando le ingiuste e folli regole che lo disciplinavano.
Doveva continuare il suo spettacolo, solo così avrebbe avuto salva la vita.
 
“Perdonami, Alexia..!!”
 
Il sipario era già alto, la commedia era oramai in atto. Doveva essere imperscrutabile. Non doveva dimenticare che in quel gioco era lei la vittima: era la sua vita che sarebbe stata ingabbiata per sempre.
 
“Alfred…perché  sei così angosciato?”
 
Pronunciò d’improvviso la giovane, trovando profondamente anomalo e controverso chiamarlo per nome con tanta dolcezza; ma ciò era necessario per apparire disinvolta.
Una sorella doveva essere così: diretta, confidenziale e in quel caso dolce. Doveva fingere di essere preoccupata per lui, di volergli bene, come lui visibilmente ne voleva a lei; interpretando così al meglio la malata complicità che li legava e che aveva potuto intuire da quel video visto nello studio del Centro di Addestramento dell’Umbrella di Rockfort.
Alfred intanto alzò il viso verso di lei dopo aver udito quella domanda inaspettata, come se anche lui trovasse ovviamente qualcosa di ambiguo nelle reazioni della sua falsa sorella. Eppure era come se per davvero fosse sul punto di credere in quell’assurdo miracolo in cui Claire Redfield era divenuta la sua Alexia Ashford.
 
“Io…” sussurrò incerto “Non sono riuscito a…ucciderla. Perdonami sorellina….perdonami!”
 
Concluse il ragazzo, confuso dai suoi sentimenti, in balia di emozioni controverse che l’avevano intrappolato mentalmente, rendendolo incapace di tornare lucido. Egli era visibilmente fiducioso di poter confidarsi finalmente con la sua amata sorella.
Impercettibilmente, Claire fece un ghigno, non smettendo di sorprendersi di fronte tanta ipocrisia. Sospirò, dopodiché, leggiadra, allungò le dita verso la sua mano appoggiata proprio sulle tenaglie di ferro che la intrappolavano. Il biondo reagì a quel tocco, e a sua volta unì le sue dita a quelle della sorella, estasiato da quel contatto, quasi incredulo di essere ricambiato…
Il calore di un altro essere umano…
Di un essere umano che lo amava…
Alexia…
 
“Non affliggerti fratello. Porremo insieme la parola –fine- a questa situazione.”
 
Le parole della donna sorpresero il giovane che, accoccolato in quel tenue ma intimo contatto delle loro mani, non subito intese cosa sua sorella stesse insinuando. Ella gli sorrise e quel volto sembrò dapprima inquietarlo, poi, dopo, coinvolgerlo.
 
“Facciamolo assieme. Liberami da queste morse e uccidiamola. Otteniamo la nostra vendetta.”
 
Disse la donna infine, con un’espressione crudele, temibile…quella della regina che lui adorava e rispettava. Cosa stava accadendo? Cosa aveva fatto tornare la sua Alexia?
Cosa aveva animato la sua “bambola manomessa”?
Alfred non volle rispondere a quelle cruciali domande, non adesso che il suo animo si stava rasserenando avendo finalmente davanti a sé il volto della donna che venerava.
La sua Donna, la sua Regina, la sua Perfetta e Unica metà che lo completava…e che lo richiamava a sé, onorandolo di stare al suo fianco.
 
Così, lentamente, il biondo si sollevò da terra.
Mentre il suo busto si alzava, Claire lo vide improvvisamente avvicinarsi. Non potendo fermarlo per rendere la sua interpretazione credibile, lo lasciò fare, mentre il suo cuore prese a battere all’impazzata. Sentì il calore del viso di Alfred farsi sempre più vicino al suo e presto la sua fronte arrivò a premere sulla sua.
Le loro bionde frange si unirono, confondendosi fra loro, solleticando la pelle sottostante. Poté sentire nitidamente il respiro del ragazzo, trattenuto eppure intenso, che soffiava sul suo viso.
Tuttavia il biondo non arrestò i suoi movimenti a quel punto, ma ridusse ancora di più la stretta vicinanza con colei che credeva Alexia. Egli continuò ad avvicinarsi, solcando un universale limite che automaticamente si imponeva fra persone normali, arrivando a sfiorare il naso della giovane. Quando il calore delle sue labbra si fece vicino, arrivando fino a sfiorare le sue, Claire si fece prendere dal panico.
Cosa stava facendo Alfred? Non era così che si comportava un fratello!
Prima che tuttavia soccombesse all’agitazione, si accorse che egli si era fermato, finalmente.
Egli si era fortunatamente limitato a quella strettissima e irriverente vicinanza, fissando i suoi occhi di ghiaccio, ammalianti, verso i suoi. Ella lo ricambiò, inquieta, non riuscendo tuttavia a sincronizzarsi con lui. Non riuscì in nessun modo a rivolgergli uno sguardo complice, quello che probabilmente lui ricercava da lei.
Si rasserenò comunque, comprendendo che non l’avrebbe baciata; era questo infatti che l’aveva messa in agitazione, ma ciò non tolse che fu in preda al completo imbarazzo per il fatto di ritrovarselo così intimante vicino. Un solo movimento, un piccolo dondolio della testa fatto anche inconsapevolmente, ed avrebbe potuto congiungere le sue labbra sulle sue.
Era spaventoso, inquietante…sentiva il suo corpo immobilizzarsi sempre di più, costringendosi a diventare di pietra. Trattenne addirittura il respiro pur di non compiere alcun movimento che avrebbe potuto alterare quella minima distanza che c’era fra loro.
Mentre il suo cuore batteva all'impazzata e cercava di tenere a freno quel senso di inquietudine insopportabile,  improvvisamente egli abbassò lo sguardo e un rumore metallico attirò la sua attenzione.
 
Il cigolio di una ferraglia, di un meccanismo che scattava.
 
Clank
 
La ragazza rivolse tempestivamente il viso verso il basso, facendo scivolare la sua fronte da quella di Alfred, scompigliando la sua bionda frangia. Così poté guardare con i suoi occhi la chiave infilata nella fessura delle maniglie di ferro che la ancoravano a quel trono rosso.
 
Con il cuore in tormento, attese che lui la sciogliesse anche dall’altra tenaglia, mentre il respiro si bloccava per la seconda volta consecutiva.
 
Clank….clank…
 
Un debole suono…
Un debole e liberatorio suono…
 
Il vincolo era stato sciolto.
 
Fu una sensazione strana, quasi trascendente. Aveva dell’inverosimile, tanta l’emozione che provò in quel momento. Era come se il suo corpo non fosse costituito da altro, se non dai suoi polsi, adesso finalmente liberi di muoversi.
Tralasciò quei sentimenti di intimo imbarazzo scaturiti dall’avere di fronte a sé il viso di Alfred Ashford; così vicino da essere praticamente unito al suo. Oramai si era completamente dimenticata di lui, animata da quelle nuove e vive speranze.
Dal canto suo, il ragazzo dai capelli platinati rimase al suo fianco, incantato di contemplare la soave bellezza di sua sorella. Accarezzò i suoi polsi feriti, come desiderando di alleviare quella sofferenza.
Il suo cuore si strinse e mentre fece per toccarla e aiutarla ad alzarsi, tempestivamente vide il ginocchio di lei colpirlo violentemente all’altezza dello stomaco.
Con uno scatto improvviso, infatti, la ragazza lo colpì in pieno, provocandogli un dolore quanto allucinante, quanto inaspettato.
L’uomo cadde all’indietro, sbattendo pesantemente sul pavimento. Mentre portava una mano sull’addome, vide la sua amata alzarsi, sollevare il vestito scoprendo le gambe e poi scappare via, scavalcandolo ingiustamente e impunemente.
 
“A…Alexia! Alexia!!”
 
Urlò lui, attonito e incapace di comprendere cosa fosse accaduto. Improvvisamente qualcosa si risvegliò in lui e, come se si fosse ripreso dall’assopimento di un lungo sonno, si alzò. Raccolse da terra il fucile che precedentemente era caduto e si lanciò in quell’inseguimento.
Partì un proiettile, il cui rumore fece voltare la ragazza, che già aveva messo una buona distanza fra i due, se solo non avesse avuto quell’ingombrante vestito che limitava i suoi movimenti.
 
“Alexiaaaa..!!”
 
Udendo per l’ennesima volta quel nome, Claire non ci vide più. Si girò di scatto puntando i piedi a terra e aspetto di vedere Alfred sbucare dall’angolo del corridoio.
Egli non tardò a venire. La sua ombra, colpita dagli ultimi bagliori del sole, presagì il suo imminente passaggio. Essa si proiettava a terra allungando la sua longilinea figura, tramutandola in sottili linee offuscate che lentamente si ribaltarono sul muro adiacente; e presto, in concomitanza, sbucò lui.
Sotto un cielo che aveva assunto toni violacei e che ombravano l’atmosfera diurna che oramai stava lasciando velocemente il posto alla notte, i due nemici si ritrovarono l’uno di fronte all’altra, ai poli estremi della passerella del corridoio. Seppur la cospicua distanza, essi potevano guardarsi dritto nei loro occhi colmi di rancore.
Alfred si fermò, squadrando da capo a piedi l’immagine della brutale Alexia che l’aveva aggredito ed era fuggita da lui, dopo averlo tratto in inganno come una splendida eppure terribile sirena.
Non smise un attimo di stringere il fucile da caccia che aveva fra le braccia, anzi…lo inforcò meglio all’altezza degli occhi e il red dot si proiettò sulla figura della giovane dai finti capelli biondi.
La ragazza lo guardò con disprezzo, in balia delle sue furenti emozioni. Si era fermata per un preciso motivo, per compiere qualcosa che da molto si era prefissata di fare e mettere così la parola fine a quell’assurda commedia che lui stava ergendo, in cui l’aveva coinvolta con la forza arrivando a privarla della sua identità.
Perché quella che credeva una semplice marionetta era una donna che non avrebbe mai ceduto di fronte tale pazzia ed era ora che lo sapesse anche lui. Lei sapeva di quel gioco perverso, della pazzia che lui voleva raggirare.
Che fosse una mossa crudele, insensibile, troppo umiliante e atroce per lui, non ci pensò minimamente. Volle soltanto sfogare davanti al signor Ashford la sua amara frustrazione e sfasciare la sua oramai insopportabile commedia.
 
“Razza d’idiota, non sono Alexia!”
 
Urlò con rabbia Claire. Così afferrò con fermezza la parrucca che la camuffava e la tirò via, gettandola con disprezzo sul pavimento, in un gesto di completo odio e disdegno verso quello che stava passando; verso quella menzogna e quell’assurdo dramma che lui era convinto davvero di poterle far credere.
I folti e ribelli capelli rossi naturali della ragazza si rivelarono, esattamente come era successo la notte prima. Ignobili e scandalosi, rovinarono la perfetta e gloriosa immagine della maestosa regina che lui bramava.
Alfred osservò spiazzato quella scena, come se il suo cuore fosse stato frantumato brutalmente. I suoi occhi tremarono e un ghigno d’ira funesta si disegnò sul suo volto, deformando completamente la beatitudine che prima lo aveva rianimato. Strinse di nuovo il fucile fra le mani, bramoso di vendetta, perdendo oramai completamente il controllo su se stesso; ferito nell’orgoglio, non solo suo, ma anche di sua sorella e della sua intera famiglia.
 
“MALEDETTA!!”
 
Mentre l’eco della sua voce rabbiosa tuonava per il castello, Claire aveva già ripreso la sua fuga.
Liberata dai vincoli in cui quella bieca parrucca l’aveva imprigionata, sentì qualcosa alleggerirsi nel suo spirito. Era tornata se stessa e il vento soffiava sul suo capo, finalmente libero di respirare non più costretto sotto quei folti e finti capelli d’oro.
Contenta e appagata dall’essere finalmente qualcosa di diverso, se non completamente opposto da Alexia, non riuscì quasi a contenerne la soddisfazione che stava provando.
Imboccò le scale e scese i gradini velocemente, realizzando in quel momento che l’ambiente che stava percorrendo non era il Centro di Addestramento di Rockfort, il luogo in cui supponeva di trovarsi ancora. Dove diavolo si trovava quindi?
Non aveva il tempo per indagare sulla sua precisa ubicazione, nonostante questo la mettesse in netto svantaggio con il padrone di casa. Corse comunque all’impazzata, sperando di trovare quanto prima un luogo dove rifugiarsi, questo mentre i passi di Alfred si facevano sempre più distanti. Sapeva che non lo avrebbe seminato facilmente, sebbene l’ampia distanza che era riuscita a stabilire, così gettò via le scarpe con il leggero tacco che indossava e decise di procedere a piedi nudi, ottenendo presto un’andatura più veloce e attenuando allo stesso tempo anche il rumore dei passi.
Mentre muoveva le gambe all’impazzata, sentì d’improvviso tendere sotto i suoi piedi. Un brusco strattone la tirò all’altezza della vita e la fece cadere violentemente a terra, ferendosi così sulle ginocchia.  Seppur dolorante, Claire si sforzò di rimettersi subito in piedi, realizzando ben presto che doveva disfarsi di quel vestito quanto prima; inciampava troppo frequentemente in quell’ampio e lunghissimo strascico e non poteva rischiare di fallire per un intoppo simile.
Così spalancò la prima porta che ritrovò davanti a sé e la fortuna per la prima volta sembrò sorriderle: si trovava in una cucina.
Non udendo i passi di Alfred, frugò velocemente fra le stoviglie appese lungo le barre d’acciaio poste sopra le postazioni da lavoro ed incappò nell’oggetto affilato che cercava: delle forbici.
Con il cuore che batteva a mille, le raccolse e afferrò la gonna del vestito. Tremava all’impazzata, l’adrenalina scorreva impetuosa nelle sue vene. Guardò un’ultima volta verso la porta da cui era entrata per assicurarsi di essere ancora al sicuro, dopodiché cominciò a tagliuzzare velocemente quel prezioso tessuto violaceo, che cadde elegante ai suoi piedi. Trasformò così il maestoso abito di Alexia in un abbigliamento più consono a una fuga, accorciato in modo sfrangiato all’altezza delle cosce.
Quel che le occorreva adesso era un’arma, ma non aveva più tempo da perdere. I passi del folle padrone di quel castello si facevano vicini, adesso poteva udirli nitidamente. Afferrò così il primo coltello contundente che fu alla sua portata e lasciò quella stanza, oltrepassando la porta di servizio che l’avrebbe condotta nei meandri di quella sconosciuta magione.
Intanto il ferito castellano posò la sua mano sulla porta, la quale oscillò ed assecondò il suo movimento, generando uno stridulo e penetrante cigolio che sembrava quasi volesse avvertire del suo ingresso le eventuali presenze che si celavano oltre quella soglia.
La luce batteva alle spalle del giovane, il che spezzò il buio che ombrava completamente quella grigia e abbandonata cucina.
Egli camminò lento e i suoi passi risuonarono pesanti. Osservò il disordine che la ragazza aveva provocato, sintomo della sua indecenza e scostumatezza verso quella che era la dimora di un uomo altolocato e rispettato come lui. Quel senso di profanazione lo stava soffocando, quasi non poteva credere a tanta insolenza, eppure non era solo questo ciò che lo angustiava.
Questo perché una parte di lui era stata corrotta da quell’ignobile individuo che osava penetrare nei suoi incubi e nel suo amaro dolore. Sedotto e ammaliato da quella donna ribelle e volitiva, non le avrebbe mai perdonato di aver provato a sostituire quel posto che lui riservava unicamente ad Alexia. La sua unica e sola regina.
Non le avrebbe permesso di toccare il suo prezioso tempio, immolato esclusivamente a una singola persona, sebbene il suo cuore non cessasse di palpitare, oramai stanco di quei continui e fuorvianti giochi mentali che lui barcamenava a mantenere in atto.
Improvvisamente sentì qualcosa di soffice sotto i suoi piedi.
Era una consistenza insolita che lo incuriosì e lo portò ad abbassare gli occhi verso il pavimento. Erano degli stracci ed erano stati visibilmente gettati a terra. Tuttavia avevano una forma strana e il loro colore acceso e vivace non rispecchiava la fisionomia tipica di quelli utilizzati in gastronomia. Così si piegò sulle ginocchia e ne toccò un pezzo, sfregando fra le sue mani quel tessuto e analizzandolo accuratamente.
Solo allora lo riconobbe.
I suoi occhi si disperarono, infuriandosi nuovamente di fronte quell’ennesima usurpazione dei suoi possedimenti, di tutto quel che riteneva più caro.
Digrignò i denti e pronunciò rabbioso quel nome che oramai da troppo tempo era presente nella sua mentale lista dei morti.
 
“Claire Redfield………..me la pagherai.”
 
Disse, come sigillando a se stesso quella promessa, volta a rivendicare le umiliazioni con cui quell'infima donna l’aveva infangato; questo mentre la follia e la sua natura perversa prendeva drasticamente il sopravvento, accendendo il suo lato assassino, alimentato dal desiderio di vendetta.
Un nuovo gioco era appena cominciato e stavolta il sipario si sarebbe abbassato soltanto dopo che sarebbe stato versato il sangue di colei che aveva osato ferire il suo orgoglio.
 
“E’ una promessa…”
 
Concluse mentalmente, stringendo quel che rimaneva del vestito di Alexia. In seguito si alzò, proseguendo a passo spedito e seguendo le tracce del passaggio della donna che doveva punire.
 
 
***
 
 
 
 
 
 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Capitolo 5: un palco arrancato nel buio ***


 
 
 
 
Capitolo 5: un palco arrancato nel buio
 
 
 
 
 
 
Villa Ashford- Sera
 
 
There was a friendly but naive king, who wed a very nasty queen. The king was loved but the queen was feared…


Una dolce e melodica voce echeggiava fra le pareti del tetro corridoio del maniero Ashford. I candelieri accesi affissi alla parete accompagnavano quel percorso; ma il loro bagliore era tuttavia troppo fioco perché potesse dare luce all'ambiente. 
Fra essi, una figura passava nella penombra, procedendo con passo lento sul lungo tappeto scarlatto. La sua pallida bocca si muoveva aggraziata mentre cantava quella meravigliosa, eppure malinconica storia d’amore: quella di un amato e ingenuo Re e della sua perfida Regina.
Le fiamme pulsavano tenui avvolte nel proprio alone dorato fiacco e indebolito, ma continuavano comunque a danzare, mosse dal debole sospiro dell’aria, come se volessero assecondare l’amabile melodia che in quell’istante allietava quel triste crepuscolo oramai finito. Tuttavia, a differenza dell’elegante e soave canzone, chi interpretava quelle infelici note era l’anima corrotta di un uomo devastato, il quale stava percorrendo stregato quell’ala del suo palazzo alla ricerca di qualcosa che mai avrebbe trovato.
Sui suoi occhi non si rifletteva nulla, solo le ignote ed oscure immagini che alcuno avrebbe mai potuto vedere.
L’uomo si muoveva nell’ombra alternando lentamente le gambe, strascicando sulla superficie del pavimento la punta della canna del fucile da caccia che sorreggeva nella mano destra. La luce lunare illuminava la sua effige, facendo risplendere i colori pallidi che componevano la sua figura.
Egli continuava a cantare quella mesta melodia finendo sempre più nel baratro della finzione e della pazzia, intonando quella voce femminile e artificiale, a tratti sgraziata e sempre meno credibile, in cui erano riposte tutte le sue angosce e i suoi turbamenti che allo stesso tempo sia lo dannavo, sia lo ammaliavano, costituendo assieme l’unica realtà in cui lui riuscisse a essere felice.

“ …..'till one day strolling in his court an arrow pierced the kind kings heart. He lost his life and his lady love…
 
Continuò il biondo, avanzando cieco per quel lungo passaggio, non badando a nulla di ciò che lo circondava, raccontando con la sua canzone il triste finale di quella ambigua e troppo breve storia, in cui l’amore veniva perduto per sempre, lasciando in vita soltanto l’odio e la perversione della malvagia Regina.
La notte intanto calava sempre di più, impadronendosi prepotentemente dell’ambiente tinteggiandolo di un blu profondo e tenebroso, che offuscò definitivamente l’immagine di Alfred Ashford che si allontanava lento lungo la passerella.

 
 
 
***
 
 
Ala ovest di Villa Ashford
Piano terra - luogo sconosciuto
 
L’odore nauseante e fastidioso di chiuso aveva impregnato non soltanto quell’accumulo di merci sparse un po’ ovunque, ma persino le pareti e ogni centimetro quadro di quella stanza.
Quel senso di sporco le mise i brividi, tanto da indurla a chiedersi da quanto quella stanza non veniva aperta. Dalle numerose scatole d’imballaggio e dall’industriale quantità di riserve alimentari, Claire dedusse di trovarsi nella dispensa della cucina, una sorta di magazzino dove erano conservati i viveri, purtroppo scaduti. Era una stanza buia e per nulla confortevole. Stretta e oppressa dalle scaffalature di ferro arrugginito, quasi non si ci poteva muovere per il caos che la governava. Più che disordine, era l’accumulo di scatole su scatole che la rendevano una stanza inguardabile; ma non era questo quello che la scoraggiava, in realtà.
Quel che invece aveva arrestato la sua fuga era l’essersi ritrovata in quello sporco e inutile vicolo cieco, perché quel magazzino non conduceva da nessuna parte.
Quando era entrata nella cucina correndo a perdifiato e si era liberata dall’ingombro della voluminosa gonna che intralciava la sua fuga, aveva dovuto intrufolarsi dentro la prima porta a sua disposizione, in quanto il lugubre e mentecatto Alfred Ashford era alle sue calcagna.
Si sentì nel panico quando, chiudendosi dentro quella porta, aveva subito notato di essersi nascosta in un vicolo cieco e non avrebbe avuto la possibilità di scappare se lui fosse entrato in quel deposito con lei.
Così aveva stretto fra le mani il coltello da cucina reperito precedentemente e, schiacciandosi contro la parete, aveva atteso pazientemente che il biondo entrasse e facesse la sua mossa. Come se le sue sfortune non bastassero ancora, la porta di quella stanza era persino rotta e non si chiudeva nemmeno del tutto. Uno spiraglio rimaneva comunque aperto, facendo passare il fioco bagliore della luce esterna.
Claire così si avvicinò a quella fessura, osservando da lì la porta d’ingresso della cucina, attendendo con il cuore a mille e il fiato bloccato; e come non poteva che aspettarsi, ad un tratto un sonoro “clank” irruppe quel cupo silenzio.
Passo dopo passo, la longilinea figura del ragazzo dai capelli platinati fece il suo ingresso nella cucina, muovendosi ad agio, eppure con una spaventosa e agghiacciante oscurità negli occhi.
Quello sguardo la fece rabbrividire e rinvigorì ancora di più la tenacia dentro di lei; quella forza che era l’unica cosa che potesse aiutarla.
Lo osservò rimanendo immobile, trattenendo definitivamente il respiro, come se esso avesse potuto mandare all’aria ogni suo piano. Il biondo girovagò per quella stanza per un tempo che sembrò infinito.
A un certo punto Claire si sentì così esasperata da avere il fortissimo istinto di scappare, tanta l’ansia che stava accumulando.
D’improvviso poi lo vide piegarsi sulle ginocchia, come attirato da qualcosa. Quel movimento la incuriosì e fu in quel momento la ragazza capì e si maledisse per aver lasciato un indizio tanto evidente sul suo passaggio in quella stanza.
Alfred, difatti, raccolse fra le mani un pezzo del tessuto della gonna che lei aveva tagliato, scrutandolo attentamente, e non ci fu alcun dubbio sul fatto che fosse in grado di riconoscerlo.
L’espressione che in quel momento si stampò sul suo viso rimase indelebile nella mente di Claire e i suoi occhi rimasero impauriti di fronte la devastazione che poteva leggersi nel suo animo.
Le iridi di Alfred, così vitree e chiare da sembrare un frammento di specchio rotto, si pietrificarono di fronte lo scempio che la donna dai capelli rossi aveva osato commettere al prezioso abito che rappresentava la sua regina.
La ragazza sentiva nitidamente le vibrazioni negative che partivano da quell’uomo, il quale vedeva profanato uno dei suoi ricordi più preziosi.
Quel che angustiò ancora di più Claire fu vederlo lì, immobile, senza compiere alcun movimento o commento. La sua pazzia e il suo senso di frustrazione erano già sufficientemente trasmessi dall’espressione del suo volto, lo specchio della sua anima corrotta e deturpata: un’immagine che la colpì profondamente e dalla quale non riuscì in nessun modo a divincolare lo sguardo.
Quando egli riacquistò una posizione eretta, Claire si mise di nuovo in allarme come risvegliatasi da quell’incanto maligno, tuttavia il suo mettersi in guardia fu del tutto inutile. Questo perché l’uomo con l’elegante divisa rossa girò i tacchi e uscì da quella stanza.
Incredula, la ragazza si affacciò di più oltre la porta semichiusa, decisamente frastornata. Alfred era rimasto così sconvolto da aver lasciato perdere l’inseguimento?
Dapprima intenta a interpretare quell’insensata decisione da parte del suo nemico, subito dopo scosse il capo comprendendo che era assurdo interrogarsi sulle decisioni investigative di quello che rimaneva il suo avversario. Si era eclissato e al momento lei era quindi libera di pensare a come agire.
Almeno per un po’.
Dunque le sue attenzioni tornarono velocemente al deposito in cui era al momento imprigionata. Passò una mano fra i lunghi capelli arruffati, scostandoli così dal viso, in seguito si sforzò di riprendere in mano il controllo sulla situazione e valutare le sue alternative: era bloccata in quella stanza, ma non poteva tornare indietro perché la possibilità di incapparsi nel biondo Ashford era fin troppo alta; inoltre si ritrovava nella pericolosa e infelice circostanza in cui lui era armato, e non con un’arma qualsiasi, ma con un fucile da caccia.
A quel proposito, rimproverò se stessa per non aver avuto la lucidità di prendere quel fucile quando ne aveva avuta l’occasione.
Esso era, infatti, caduto dalle mani di Alfred quando la rossa aveva messo in atto la sua interpretazione di Alexia. Il biondo era collassato in quel momento di sconforto emotivo, e così aveva incautamente lasciato cadere a terra la sua preziosa e letale arma da fuoco; tuttavia in quel momento la ragazza non ebbe prontezza di spirito e trascurò quel dettaglio fondamentale che avrebbe potuto capovolgere la partita.
Il suo animo completamente coinvolto in quella situazione angustiante le aveva impedito di vedere quella circostanza da un punto di vista tattico e oggettivo. Turbata, angustiata, tormentata nel tripudio di emozioni che albergavano nel suo cuore confuso e voglioso soltanto di ritornare alla sua vita normale, quel che la tradì fu il volto ormai devastato dell’uomo dai capelli pallidi.
Non aveva mai visto due occhi così tristi, malinconici, distrutti…eppure speranzosi di fronte quella remota possibilità che la sua prigioniera potesse essere divenuta Alexia.
Era come se egli avesse messo a tacere la sua razionalità per abbracciare un sogno che lo affliggeva e lo distruggeva. Claire poté sentire il suo ardore, la sua speranza, la sua distruzione mentale ed emotiva, in un vortice di emozioni che arrivarono a toccarla nell’intimo…molto più di quanto pensasse di poter sostenere.
Fu trafitta a tal punto da rischiare di rimanere soggiogata nella commedia in cui Alfred aveva deciso di vivere la sua esistenza, finendo per nutrire una profonda compassione per la sua desolazione e le sue angosce.
Era già stato straziante per lei trasformarsi in una donna crudele e ingannatrice, che per la sua sopravvivenza aveva dovuto ferire l’animo di un’altra persona usando le sue debolezze contro di lui.
Come poteva quindi, oltre a beffarsi di lui e usare il suo evidente trauma per avvantaggiarsi, pensare anche a disarmarlo e appropriarsi dell’arma che aveva fatto cadere e che l’aveva reso indifeso in quel momento?
No….semplicemente non ci aveva nemmeno pensato a farlo.
Era un colpo basso che non era stata disposta a compiere, afflitta com’era dallo sconforto che albergava in quegli occhi fragili e devastati. Anche se quella persona le aveva fatto del male, anche se quella persona aveva cercato di annullare la sua esistenza, anche se quella persona era Alfred Ashford.
Così Claire aveva finito per limitarsi soltanto a scappare quando aveva avuto la sua occasione, fuggendo anche da quel peso, da quelle angosce.
Con la lucidità del momento, una parte di lei molto istintiva le rimproverava la compassione che aveva provato verso colui che non doveva dimenticare essere un nemico. 
Quella parte primitiva che le ricordava che ogni essere umano avesse la sua storia, i suoi drammi, le sue paure e le sue debolezze…anche Alfred.
La sua crudeltà e dissociazione mentale erano dovute a evidenti traumi del suo passato, che ovviamente non potevano che colpire nel profondo un animo sensibile come quello della giovane donna da capelli rossi. Ma lei non doveva confondere tutto ciò con l’opposizione delle loro posizioni sul campo.
Era quella la dura legge della sopravvivenza: in battaglia bisogna essere lucidi e sempre pronti a cogliere i vantaggi e gli svantaggi di una situazione; saper leggere il campo, osservare ogni cosa con profondo spirito analitico, dominando le proprie paure con un temperamento freddo e distaccato.
Principi che Claire conosceva fin troppo bene dato che suo fratello maggiore era un soldato già da diversi anni e da una vita addestrava implicitamente la ragazza, la quale aveva sempre ascoltato giocosamente le sue lezioni, non potendo immaginare minimamente che un domani sarebbero state per lei la sua unica speranza di salvarsi dall’inferno in cui era precipitata.
Tuttavia, sebbene si fosse dimostrata una ragazza determinata e volitiva, molto più capace di qualsiasi altra persona, ella rimaneva comunque una persona comune, una civile. Fino a pochi mesi prima era solo una studentessa universitaria.
Non poteva detenere la forza e la lucidità di un militare ben addestrato, non era abituata a mantenere costantemente il sangue freddo in qualsiasi situazione.
 
Perché in situazioni come quelle non si trattava più solo di vincere o perdere…il prezzo da pagare era molto più alto: la decisione di un singolo attimo significa infatti vita oppure morte.
Per questo non avrebbe più dovuto cedere a quella compassione.
Alfred Ahsford era il nemico e lei avrebbe dovuto trattarlo da tale.
 
Se la sarebbe cavata, si ripeté fiduciosa, decisa come non mai a uscire da quella situazione in cui un singolo errore l’avrebbe potuta portare al fallimento.
Strinse quindi il coltello, che al momento significava la sua unica possibilità di proteggersi di fronte i suoi nemici e le creature fameliche che si celavano fra i meandri di quella villa, e si guardò intorno, alzando lo sguardo verso le mensole del deposito.
Una luce attirò la sua attenzione, un fenomeno alquanto strano dato che si ritrovava in una stanza sprovvista di finestre.
Indietreggiò di qualche passo e fu in quel momento che si accorse di un’apertura sul soffitto, che sembrava affacciare in una qualche camera del piano di sopra.
Rifletté che poteva essere vantaggioso per lei risalire al primo piano, soprattutto se il biondo l’aveva inseguita e ora indagava per il piano terra convinto di trovarla lì. Sarebbe stata quindi un’ottima mossa per far perdere le sue tracce per un po’ e avere il tempo di indagare per quel castello e capire dove si trovasse.
Si guardò intorno in quel putiferio impolverato. Era in una dispensa piena di mobili e punti di appoggio, poteva arrampicarsi con estrema semplicità per raggiungere quel varco.
Tuttavia, non appena appoggiò un piede sulla scaffalatura di ferro arrugginito che sosteneva i vari prodotti alimentari, questa traballò emettendo uno spaventoso cigolio non troppo rassicurante.
Sebbene Claire avrebbe potuto scalarla abbastanza velocemente, valutò irresponsabile rischiare di ribaltare quella vecchia ferraglia che difficilmente avrebbe sostenuto il suo peso, né quello di qualcun altro. Doveva quindi semplicemente trovare un altro modo per arrivare al soffitto.
Notò dunque una grossa scatola di cartone, nascosta sotto varie scartoffie e utensili per imballaggio. Buttò tutto a terra e provò a muoverla, sperando che qualunque cosa contenesse al suo interno le permettesse di spingerla in qualche modo.
La fortuna volle che non fosse pesante a tal punto da non riuscire a strascinarla, così caricò tutto il peso sulla spalla, che premette contro l’ingombrante scatolone. Aiutandosi con le gambe, spinse con tutte le sue forze per portare l’oggetto in prossimità del passaggio sul soffitto.
Il prurito scaturito dalla polvere che si sollevò nel momento nel quale prese a spostare l’oggetto fu insopportabile. Naso, mani e pian piano tutto il corpo reclamarono urgentemente una copiosa quantità d’acqua che la rinfrescassero e facessero sparire quella seccante prurigine.
Oramai completamente impolverata, la rossa raddrizzò la schiena distrutta da quella fatica, ma non si dette tregua. Si concesse giusto un attimo per sfregare, in realtà inutilmente, le mani fra loro, poi subito ricominciò a cercare altri recipienti da posizionare sopra il precedente scatolone, disponendoli in ordine di grandezza così da colmare quel metro di distanza che le impediva di raggiungere la sua meta.
Così procedette con il costruire la sua piccola impalcatura.
Una volta finito era talmente sporca di polvere che i guanti bianchi che rivestivano le sue mani erano divenuti completamente grigi.
Sospirò riprendendo fiato, in seguito alzò il ginocchio e si sollevò sul primo gradino appena costruito. Continuò la piccola scalata e con le braccia riuscì a tirarsi in quell’apertura, fino a scorgere la stanza che prima aveva intravisto.
Non riuscì a vedere molto data quell’oscurità densa ed opprimente tipica degli ambienti chiusi, ma quei pochi scorci che la sua vista riuscì a captare bastarono a farle intendere che quella stanza fosse assolutamente vuota.
Tirò forse il primo sospiro di sollievo da ore, dopodiché premette sulle braccia e cercò di salire definitivamente in superficie. Claire non avrebbe mai immaginato che sollevare interamente il suo corpo sarebbe stato tanto faticoso. Le sue braccia dolevano enormemente, probabilmente anche per l’intorpidimento dovuto ai narcotici che doveva ancora smaltire, pensò.
Una volta in piedi, la prima cosa che fece fu guardarsi intorno e cercare di far abituare la vista a quelle tenebre.
La stanza sembrava essere un salone; era veramente molto ampio, arredato accuratamente con preziosi mobili e divani rivestiti da voluminosi tessuti. Camminò lentamente per la stanza, scrutando ogni suo particolare, attenta a non provocare alcun rumore urtando accidentalmente qualcosa. Quel salone era ricco di ninnoli e gingilli di ogni tipo: da tipici vasi da esposizione, a orologi di ogni epoca, porcellane, statuette…
L’arredamento soffocava l’ampiezza di quella vasta stanza, che era allo stesso tempo così grande, ma così piccola per contenere tutti quegli arredi e mobili di legno massiccio.
Mentre avanzava, incuriosita da quella miriade di elementi, messi tutti assieme in un ordine difficile da interpretare, la sua attenzione cadde su un antico mobile con gli sportelli fatti di vetro.
Si fermò davanti quella cristalliera e, avvicinandosi, notò che dentro erano conservate delle bambole molto ben confezionante.
Erano almeno un centinaio ed erano tutte disposte l’una affianco all’altra riempiendo le varie mensole che componevano il mobile.
Erano molto particolareggiate e diverse fra loro; indossavano degli ampi vestitini ottocenteschi, rifiniti ad arte come fossero veri abiti sartoriali. Avevano con sé persino i loro piccoli accessori personali come cappellini e borsette, e i loro magnifici visi di porcellana dagli occhi rotondi e dai colori sgargianti, contornati dalle loro lunghissime ciglia, sembravano voler trafiggere la persona che le osservava; questo seppur avessero degli sguardi vitrei e assolutamente vuoti.
Claire osservò le loro acconciature, tutte arricciate e mantenute in modo perfetto. Dovevano essere certamente bambole da collezione, altrimenti non sarebbero state così precisamente ordinate.
Erano davvero numerose, costatò di nuovo, ma sebbene a un primo impatto ne fosse rimasta affascinata rievocando la sua infanzia nel vedere tutte quelle bellissime bambole tutte assieme, subito dopo cominciò a sentirsi inquieta. Quella visione cominciò a divenire persino angustiante, tanto che dovette allontanarsi ed ignorarle del tutto per non sentire girare la testa.
Non seppe comprendere cosa l’aveva tormentata di quella visione; forse erano tutti quegli occhi puntati contro di lei, o la semplice suggestione….fatto stava che cominciò persino a sentirsi nauseata.
Ogni meandro di quel luogo suggeriva la pazzia che aveva ormai impregnato le sue mura, le quali sapevano come affliggere il momentaneo spettatore che si avventurava ignaro nel suo territorio. In questo modo, Claire si sentì inconsciamente turbata, non potendo più sopportare di stare chiusa dentro quella stanza.
Avanzò quindi verso una finestra nascosta dietro la tenda, sperando di prendere un po’ d’aria fresca per riprendersi da tale senso di oppressione. Roteò il pomello, ma questo sembrava essere incastrato. Il meccanismo non voleva girare per nessun motivo. La ragazza arricciò le labbra, spazientita, così prese a muovere violentemente il pomello fino a far quasi sbattere la finestra.
Quando finalmente questa di spalancò, la rossa non fece in tempo a esprimere la sua soddisfazione che quel che vide l’inquietò definitivamente, reprimendo ogni sorta di sentimento che avrebbe potuto sentire in quel momento.
Questo perché oltre la finestra, oltre quel vetro, non vi era nulla.  Il nulla più assoluto.
 
Fu una visione opprimente, penetrante, impossibile da accettare. Un senso di vuoto e devastazione prese quasi a soffocarla, rendendo quel nero la cosa più tremenda cui avesse mai assistito.
Si fece prendere dal panico, non potendo concretizzare nella sua mente la percezione di quel vuoto così cupo ed assoluto, così intenso da sembrare voler cancellare ogni concetto di libertà e speranza.
Cosa diavolo era quel posto? Cos’era quella struttura?
Si sentì imprigionata, come se non avesse alcuna via di fuga, sepolta in chissà quale posto sperduto del mondo. Era evidente a quel punto, infatti, che l’intera ubicazione di quella villa fosse sotterranea, o compresa in una qualche struttura più grande.
Si sentì mancare, fu una rivelazione persino peggiore di quanto si aspettasse. Ebbe bisogno di qualche attimo di pausa per ritrovare la sanità mentale, sebbene in quel momento non ne avesse alcuna voglia, sconvolta com’era.
Improvvisamente quella situazione era diventata più grande di lei, molto più di quanto già non fosse. Si appoggiò al muro, incapace di sostenere il suo stesso peso.
Se pensava di essere imprigionata in quella villa, rapita ed inseguita da un maniaco ossessivo come Alfred Ashford, e per di più sepolta in chissà quale luogo, si sentiva soffocare, come se fosse intrappolata in una scatola cinese.
Quella baraonda di pensieri stava oramai prendendo il sopravvento, tuttavia ebbe la lungimiranza di zittire le sue ansie. La sua mente volitiva e attaccata alla vita spense quel violento fuoco impetuoso.
Claire Redfield era da sola in quel momento e nessuno avrebbe potuto sostenerla se si fosse lasciata abbattere. Doveva essere quindi la forza di se stessa se voleva riabbracciare i suoi cari e riappropriarsi della sua vita.
Realizzò velocemente che seppur fosse impossibile per lei non pensarci, l’unica cosa che poteva fare era cercare di ignorare quella consapevolezza, al momento, e affrontare uno per volta i suoi problemi.
Se li avesse inquadratati tutti assieme, avrebbe finito per rimanerne imprigionata per sempre, questo non solo pragmaticamente, ma anche mentalmente.
Doveva invece dividere il problema in problemi più piccoli, esattamente come si faceva con la matematica.
Inquadrando quella prigione in quell’ottica, riuscì a leggere la situazione come una lunga espressione matematica da risolvere, ove la prima cosa da fare era sciogliere inizialmente le parentesi tonde, per poi passare alle quadre e infine alle graffe.
Doveva farsi forza e credere nelle sue possibilità e nella speranza di riuscire a scappare, perché se si fosse abbandonata allo sconforto assillata da quel senso di sopraffazione, allora tanto valeva arrendersi subito e morire.
Realizzò in modo sofferto, ma risoluto, che al momento doveva lasciare sospesa la questione e dedicarsi esclusivamente a mappare quel luogo sconosciuto. Un passo per volta.
Prima sarebbe uscita dalla villa, poi avrebbe pensato al resto.
 
Così si alzò rimettendosi in piedi, pronta a uscire da quella stanza ed analizzare il resto del primo piano.
Sperava soltanto che la porta di quel salone non fosse bloccata. Eppure Jill Valentine, una collega di suo fratello, spesso le aveva mostrato come scassinare una porta, quindi non avrebbe dovuto essere un problema per lei aprirla. Tuttavia avrebbe preferito che quel pomello girasse e potesse cominciare la perlustrazione quanto prima.
Quasi non poté crederci quando la maniglia si abbassò davvero e con essa la porta prese ad aprirsi spinta dal peso della mano di Claire. La ragazza avrebbe voluto cacciare un urlo di contentezza, ma la razionalità riuscì a tenere a freno la gioia di quel piccolo momento di gloria, così si limitò solo a stringere le labbra e varcare cautamente quell’uscio.
Sbirciò prima con un occhio, cercando di scorgere eventuali mostri o gemelli Ashford in giro, ma ancora una volta soltanto il buio dominava l’ambiente.
Avanzò lentamente, tenendo stretto fra le sue mani il coltello da cucina. La fioca luce dei candelieri accesi illuminava piccole porzioni di quel lungo corridoio, ma bastava a evidenziare il cammino che doveva percorrere.
Si sentì indecisa. Doveva percorrere tutta la passerella e vedere dove portava, oppure perlustrare subito le stanze che vi si affacciavano?
Decise di optare per una via di mezzo, ovvero giungere alla fine del corridoio per vedere cosa ci fosse dall’altra parte, per poi tornare indietro e indagare in quell’area.
Quando tuttavia aprì la porta che teoricamente avrebbe dovuto portarla in un qualche nuovo androne della villa, i suoi occhi si illuminarono vedendo davanti a sé, dall’alto della passerella, l’atrio del portone principale.
 
 
 
***
 
 
 
 
Villa Ashford
Primo piano – androne d’ingresso
 
A sua grande e inaspettata gioia, Claire si trovò nel mezzo di una piccola porzione di piano dove si congiungevano le due ali opposte della villa.
Da quella posizione, una lunga scalinata conduceva nell’ampio atrio sottostante, ove era ubicato il portone d’ingresso principale.
La ragazza improvvisamente ricordò di quel percorso, il quale conduceva nel giardino dove aveva preso il tè con Alfred, quando ovviamente non aveva ancora ripreso conoscenza.
Seppur sfocato, tutto sommato cominciò a riconoscere quegli scorci e la contentezza fu tale che subito s’inoltrò per le scale. Quasi non si accorse dell’imponente quadro che troneggiava sulla parete.
Mentre, infatti, prese a correre verso il portone principale, con la coda dell’occhio scorse le pallide figure che componevano la grandiosa e regale rappresentazione alle sue spalle.
Si voltò, come se quell’immagine l’avesse richiamata e risalì i pochi gradini che aveva cominciato a percorrere.
Il quadro rappresentava un giovane uomo dall’aspetto altolocato, curato e molto distinto. Aveva le gambe accavallate ed era seduto su una poltrona con un’aria sicura di sé.
Egli era posto fra due adolescenti di sesso opposto.
Alla sua destra, un ragazzo dai lineamenti delicati, i capelli biondi e un abito scuro. Sebbene la giovane età, aveva un’aria molto nobile.
Alla sua sinistra, invece, una fine ed elegante ragazza vestita con un lungo abito rosa antico.
Seppur quella rappresentazione fosse composta da tre soggetti, quella ragazza regnava sovrana ed era impossibile non essere catturati dal suo sguardo freddo, saccente ed imperscrutabile, come se l’intero senso di quel quadro vertesse sulla sua figura.
L’uomo al centro teneva per mano i due giovani fanciulli e fra i tre vi era una evidente somiglianza.
Essi erano certamente Alfred, Alexia e un loro stretto parente, quasi certamente il padre…Alexander Ashford.
Claire conosceva il nome di quell’uomo in quanto aveva avuto modo di apprenderlo quando aveva risolto l’enigma in quella stanza piena zeppa di quadri di famiglia, per appropriarsi della statuetta a forma di formica. In quel modo era risalita ai nomi più importanti della famiglia Ashford.
Così le fu semplice intuire che quell’opera pittoresca e ben eseguita altro non poteva essere che un prezioso e stretto ricordo di famiglia.
Probabilmente perché suggestionata e coinvolta emotivamente, Claire si ritrovò ad osservare in modo quasi ossessivo il volto dipinto di Alexia, sorella gemella di Alfred, per la quale quel ragazzo era letteralmente impazzito.
Sebbene fino a quel momento la sua esistenza fosse sempre rimasta avvolta da un alone di mistero, dovette ammettere a se stessa che il giovane Ashford era stato incredibilmente bravo a far credere alla veridicità di quella storia.
Che Alexia fosse davvero esistita o no, quel castello era così impregnato della sua presenza che quasi non esistevano dubbi circa il fatto che lei solcasse davvero quei luoghi.
Claire stessa era diventata quella donna, seppur in modo erroneo e costrittivo, quindi l’avere di fronte a sé l’immagine tangibile di chi l’aveva condannata in quella condizione fece smuovere qualcosa nella sua mente. Qualcosa che non riuscì a ben definire, ma che provocò in lei un senso sia di rabbia, che di curiosità.
Era come se una parte di lei, arrivata a quel punto, volesse conoscere Alexia, la famosa Regina degli Ashford, venerata come una dea.
Le sue iridi blu scannerizzarono quell’immagine, scorrendo su tutta la sua figura.
Il suo sguardo poi si soffermò inevitabilmente anche sulla sua controparte maschile, ovvero l’uomo che aveva dedicato la sua vita a quella donna: Alfred.
Stette in silenzio, facendo tacere la sua mente e il suo spirito. Alcun pensiero si formulò mentre osservava il volto delicato del suo persecutore versione adolescente. Rimase inerme, con un viso serioso e taciturno, finché alla fine non divincolò definitivamente lo sguardo e tornò sui suoi passi.
Non voleva indugiare ulteriormente; qualcosa la frenava nel perdersi completamente nel dettaglio di quell’opera, come se in realtà non volesse ammettere a se stessa di essere incuriosita da quei due loschi fratelli dai capelli biondi.
Preferì, infatti, abbassare lo sguardo e dare le spalle al quadro, per scendere la lunga scalinata e aprire il portone d’ingresso.
Passo dopo passo, gradino dopo gradino, giunse finalmente di fronte l’enorme e possente legno massiccio; appoggiò le mani sulle maniglie di ottone e prima tirò, poi spinse, accorgendosi quasi immediatamente che stavolta non era stata fortunata: il portone era chiuso a chiave.
Nel mentre di quel gesto, una voce sgraziata risuonò nell’atrio, mettendola subito in allarme, prendendola completamente di sprovvista.
 
“Claire Redfield, finalmente eccoti! Come hai osato girovagare per la mia abitazione in modo così sfrontato e maleducato?”
 
Immediatamente la ragazza si nascose dietro una delle colonne portanti presenti nell’atrio, le quali erano disposte formando un porticato adiacente alla lunga scalinata che conduceva ai vari piani della villa.
Claire schiacciò la schiena contro una di queste, badando bene di nascondersi prima ancora di realizzare il quadro della situazione.
La voce che l’aveva richiamata era quella dell’unica persona al momento presente fra quelle mura, ovvero lo squilibrato e pericoloso padrone di casa dai pallidi capelli biondi.
Egli camminava avanti e indietro per la passerella ove era appeso il quadro della famiglia Ashford precedentemente analizzato da Claire, tant’è che la ragazza si chiese quando effettivamente egli fosse venuto dato che fino a pochi istanti prima anche lei era in cima a quella scalinata.
Alfred dondolava la sua pesante arma da caccia come fosse un banale giocattolo fra le sue mani, e quel suo atteggiamento infantile, per nulla convenevole, lo rendeva inquietante e minaccioso, sebbene oramai la rossa avesse fatto il callo a quel tipo di movenze. Egli sembrava riuscire a scrutare oltre la colonna dove la donna era nascosta, come se potesse vederla nonostante quell’ostacolo interposto fra loro.
 
“La mia carissima sorellina non sarà per nulla felice di come hai ridotto il suo prezioso vestito, il suo preferito. Oh, Alexia! Non sai quanto sono dispiaciuto per non averlo potuto impedire…!
Sono stato ingannato, ma adesso porterò a termine la mia missione. Ma certo, sorellina. E’ più che ovvio che tu sia arrabbiata.”
 
Alfred parlava come se credesse di interloquire con un’altra persona. Claire, infatti, sbirciò alle sue spalle, credendo per un istante a quella farsa, ma ovviamente si sbagliava. Egli era da solo, completamente da solo, come sempre.
Sospirò, trovando sempre più assurdo quell’uomo.
Intanto il biondo continuò a farfugliare fra sé, camminando irrequieto avanti e indietro, non staccando gli occhi dalla colonna che proteggeva la ragazza dai capelli rossi.
Mentre la scrutava come un avvoltoio, il biondo tutto a un tratto si acquietò. Stette immobile qualche istante, dopodiché appoggiò i gomiti sulla ringhiera con fare rilassato.
La voce con la quale si rivolse non era minacciosa, ma era chiaro che fosse abbastanza irritato, pronto a fargliela pagare per come aveva osato affrontarlo.
Assunse, infatti, un tono diverso…un tono molto ambiguo e stridulo, simile a quello di una donna, imitato a tratti in modo perfetto, a tratti sgradevole e sconcertante.
 
“Lascia che la nostra piccola ospite si diverta nella nostra dimora. E’ da tanto che non abbiamo visite e sono sicura troverà indimenticabile avventurarsi e giocare con noi, ahahah!”
 
A quella frase seguì un’irriverente e irritante risata che alterò notevolmente Claire, la quale dovette stringere i denti per non reagire. Intanto Alfred continuava indisturbato la sua commedia, tornando a parlare con la sua voce naturale, come se stesse rispondendo alla sua adorata sorella.
 
“Come desideri, Alexia, sebbene avrei trovato più ricreativo ucciderla ora. Sono stanco di vederla gironzolare senza senso, ma se il tuo intento è divertirti, sarò lieto di trasformare il suo soggiorno nello spettacolo più allietante che tu abbia mai visto. La piccola Claire sarà il nostro passatempo perfetto, il balocco più interessante da vedere sprofondare sempre di più nel terrore più profondo e angustiante….”
 
Rise l’uomo sotto i baffi, picchiettando il fucile contro le aste che contornavano la ringhiera, emettendo un rintocco molesto e provocatorio che echeggiò per tutto l’atrio martellando la testa della giovane.
A quel punto, esasperata, Claire Redfield non ne potette più di quell’assurda conversazione e sbottò prima ancora di misurare le sue stesse parole.
 
“Oh, ma per favore, Alfred! Piantala! La tua squallida e scarsa attitudine alla recitazione non è nemmeno paragonabile a quella di un’attricetta di serie B!”
 
Pronunciò in modo irriverente e sfrontato, alzando un sopracciglio con fare derisorio verso colui che invece credeva di portare avanti una commedia perfetta.
La reazione del biondo, infatti, non tardò a venie, il quale di scatto ritirò le braccia appoggiate al parapetto della passerella, per posizionarsi in modo più rigido, pronto a prendere la mira e sparare a vista la donna che aveva osato umiliarlo.
 
“Stai zitta!!”
 
Egli urlò, simulando di far partire un colpo di fucile, senza però avere la reale intenzione di sparare al momento, nonostante fosse fortemente guidato da un profondo senso di frustrazione. Claire, che per nulla al mondo si sarebbe persa la sua reazione, allungò il viso oltre la colonna e fu così compiaciuta di aver colpito nel segno che si divertì a mettere ancora di più il dito nella piaga.
 
“Fossi in te, mi farei vedere da un bravo psicanalista!”
 
Disse sogghignando, al che Alfred per davvero fece partire un proiettile, dal quale la rossa si riparò appena in tempo comprimendosi prontamente contro la parete.
Sebbene la pericolosità di quella situazione, doveva ammettere che si stava divertendo parecchio a stuzzicarlo.
Una volta terminato quel piccolo battibeccò, il ragazzo abbassò la guardia e sembrò riflettere su qualcosa. Claire fu incuriosita da quell’improvviso silenzio, così sbirciò di nuovo in sua direzione e scrutò la sua longilinea figura mentre poggiava il peso su di una gamba in modo disteso.
Lo vide infine sghignazzare e portare una mano fra i sottili capelli pallidi stendendoli all’indietro, ma non avendo modo di fissarli, questi caddero di nuovo avanti il viso.
 
“Sei sicura di poterti permettere di prenderti gioco di me, Redfield? Guardati intorno…la maggior parte delle aree di questa villa sono chiuse e le chiavi sono quasi tutte in mio possesso. Dimmi, trovi ancora divertente la situazione in cui ti trovi?”
 
Allargò le braccia e attese che la donna rispondesse, ma lei non si lasciò intimorire. Al contrario, fu lei ad attendere la sua prossima mossa, cercando di capire quanto prima dove lui volesse andare a parare. Intanto il ragazzo continuò il discorso.
 
“So benissimo dove sei nascosta e conosco ogni meandro dove potresti rifugiarti, potrei infine ucciderti in qualsiasi istante se solo lo volessi….ma sarebbe un vero peccato interrompere il divertimento proprio ora che è appena cominciato, no? Dunque… cosa ne dici di un patto?”
 
“Un patto?” interruppe Claire sorpresa. “Con te? Fossi matta, tu sei completamente fuori se pensi che io possa accettare.”
 
A quella risposta seguì una sonora risata da parte di Alfred, il quale calò la testa all’indietro come volendo sottolineare quanto trovasse comica l’immagine della Redfield, cosa che ovviamente subito mal dispose la ragazza che lo guardò accigliata.
 
“Ah,ah,ah,ah!”
 
Si fermò e tornò serio, sebbene il tono provocante e derisorio non scomparve dalla sua irritante voce.
 
“Intendo porgerti un piccolo aiuto. Ti aggrapperai disperatamente alla tua misera e insignificante vita quando invece le tue speranze non faranno altro che ampliare infinitamente le tue sofferenze. Un’atroce e infinito supplizio che mi farà dilettare enormemente…ih,ih,ih!” rise. “E se poi sopravvivrai, sarò ugualmente lieto di essere io a porre fine alla tua esistenza, ah, ah, ah!”
 
Pronunciò il biondo Ashford infine, ridacchiando come un’indisponente donnicciola, esattamente come faceva quando confondeva il suo animo con quello di Alexia; dopodiché adagiò a terra un piccolo oggetto e si allontanò dalla passerella, oltrepassando la porta e inoltrandosi in qualche zona del castello.
 
Claire rimase esterrefatta, inquietata da quella ambigua e controversa conversazione. Cosa aveva voluto dire Alfred?
L’unica cosa che potette fare, dopo essersi assicurata che l’uomo fosse uscito dal suo campo visivo, fu di andare a controllare cosa egli le aveva lasciato sul pavimento.
Risalì quindi le scale e ritrovò, esattamente dove lui era posizionato prima, una piccola chiave d’argento.
La raccolse fra le mani, interrogandosi su ogni ipotesi.
Poteva essere una trappola, o qualsiasi altra cosa…
Fatto stava che in una cosa il ragazzo aveva ragione: la maggior parte delle porte erano chiuse, quindi quella chiave rimaneva il suo unico lascia passare che avrebbe potuto aiutarla a proseguire le sue indagini. Nessun ragionamento razionale avrebbe mai potuto aiutarla in quella scelta che invece andava fatta ad istinto, ed ella infatti decise di fare quel tentativo. Non aveva altra scelta e se questo significava dimostrare ancora una volta ad Alfred che lei era un osso più duro di quanto immaginasse, allora avrebbe raccolto la sua sfida. Così anch’ella si inoltrò per i meandri della villa, alla ricerca della porta che quella chiave avrebbe aperto.
 
 
 
***
 
 
 
 
Villa Ashford – primo piano
Notte
 
“Dunque….sono scesa per delle scale, ho imboccato un corridoio, sono arrivata in cucina e da lì nella dispensa. Mi sono arrampicata al primo piano e sono giunta in un salone. Il corridoio di quest’area, situato nell’area ovest della villa, porta nell’atrio principale. ”
 
Sussurrò fra sé e sé Claire mentre disegnava su un pezzo di carta reperito in giro tutto il percorso intrapreso fino a quel momento.
Tenendo come punto di riferimento la stanza di Alexia, o almeno quella in cui lei era stata tenuta prigioniera, poté risalire a una sorta di mappatura di quel luogo sconosciuto, sebbene mancassero decisamente troppi ambienti per definirla una mappa.
Tuttavia almeno adesso conosceva l’ubicazione dell’area principale del castello rispetto le stanze che era riuscita a perlustrare al momento. Questo era già un inizio.
Una delle qualità che aveva particolarmente sviluppato negli ultimi mesi era sfruttare il senso dell’orientamento: aveva provato sulla sua pelle quanto potesse essere vitale in circostanze simili, letteralmente.
Sapere dove andare, come muoversi, ricordare ogni dettaglio, immagazzinare quelle informazioni necessarie per orientarsi…erano stati tutti elementi che le avevano permesso di salvarsi dal disastro di Raccoon City. Senza quella capacità logica, non ce l’avrebbe mai fatta. Le sole armi e forza combattiva non bastavano; serviva intuito e molta intelligenza.
Così sapeva a prescindere già da adesso quanto fosse importante imparare i percorsi già intrapresi quanto prima. Avrebbero potuto rivelarsi utili nei momenti più inimmaginabili, magari quelli in cui avrebbe visto la sua vita a repentaglio.
Roteò fra le dita la chiave che Alfred Ashford le aveva lasciato.
Era di un colore argento molto luminoso e sui bordi vedeva disegnati degli ornamenti circolari. Se la serratura aveva le stesse caratteristiche, allora aveva qualche probabilità di riuscire a trovare la porta giusta. Non sarebbe stata una ricerca tanto impossibile, rifletté, soprattutto perché la maggior parte delle porte di quella villa avevano serrature d’ottone, quindi tinte più su tonalità dorate.
Una porta che dunque non avesse avuto quel colore, avrebbe già di suo attirato la sua attenzione.
Aveva già perlustrato l’atrio e il corridoio dell’ala ovest del primo piano, il luogo dal quale era venuta, e aveva appurato infatti che di porte con caratteristiche simili non ce n’erano molte.  
Purtroppo però, della nuova area nella quale era riuscita ad accedere tramite il varco nella dispensa, alcuna serratura aveva le sembianze giuste e anzi…erano per di più quasi tutte chiuse dall’interno.
Nel corridoio dell’ala ovest non aveva trovato null’altro che saloni.
In totale c’erano tre porte lì: una era quella dalla quale era salita dal magazzino; nella seconda aveva trovato un altro inutile salone, stavolta però ricoperto completamente da vecchi teli, poggiati per preservare inutilmente i vari arredi; l’ultima invece era un comunissimo studio, privo di qualsiasi elemento che attirasse la sua attenzione, ed era lì che si trovava in quel momento, adagiata sulla poltrona di pelle posta dinanzi un’antica scrivania.
L’unica cosa interessante che aveva trovato durante la sua perlustrazione era un accendino dall’aria anche abbastanza costosa, funzionante, il che poteva essere utile in un luogo tenebroso come quello.
Giocò col meccanismo accendendo e spegnendo la fiamma, sperando secondo una strana logica che anche la sua mente si illuminasse allo stesso modo, alla ricerca di una qualsiasi intuizione che la portasse a comprendere dove usare quella chiave.
Mentre quel fuoco danzava vibrante davanti ai suoi occhi, Claire cominciò ad avvertire freddo e molta sonnolenza.
Probabilmente non c’erano riscaldamenti, doveva quindi apprestarsi a trovare qualcosa con cui farsi calore e magari cercare di riposare qualche ora.
Soffiò sulle mani e tirò a sé una coperta di lana reperita in uno dei saloni, cercando di scaldarsi. Non era troppo attirata dall’idea di concedersi un momento di riposo e perdere conoscenza in balia del sonno, in verità. Dopo quel che aveva passato, la spaventava enormemente l’idea di ritrovarsi prigioniera ancora una volta.
Dopotutto però Alfred le aveva proposto una tregua, a quanto aveva capito. Riflettendo fra sé, arrivo alla conclusione che doveva esserci qualcosa in quella stanza che avrebbe aperto con la chiave d’argento, e lui sembrava allettato all’idea che lei vi entrasse. Poteva quindi fidarsi sul fatto che non l’avrebbe infastidita troppo fino a quel momento?
Purtroppo il biondo aveva avuto ragione, come già costatò quando decise di raccogliere quella chiave: si trovava in un baratro, prigioniera di quella villa immensa e, suo malgrado, non aveva altra scelta se non proseguire e assecondare il suo gioco. Almeno al momento, sebbene i rischi che sapeva avrebbe corso.
Non aveva altre strade da seguire.
Sarebbe stata in guardia, attenta a qualsiasi tranello cui sarebbe potuta incappare; tuttavia quella chiave d’argento rimaneva comunque l’unico lascia passare che deteneva in quale momento.
Avrebbe quindi continuato le ricerche, sperando di usare a suo vantaggiò quel qualunque cosa avrebbe trovato in quella stanza che Alfred voleva che lei aprisse.
Si prefissò quindi di chiudere gli occhi giusto per qualche minuto, in modo da riprendere le forze e continuare quella battaglia.
Il freddo tuttavia le impediva di rilassarsi completamente, tant’è che cominciò a tremare incessantemente.
Mentre cercava di combattere quei brividi tremendi, continuò mentalmente a perlustrare quella villa, dovendo per forza distrarsi in qualche modo.
Rifletté che l’unica area che non aveva ancora ispezionato era proprio quella dove era cominciata la sua fuga: dove si trovava la sua camera da letto quando era stata Alexia.
Sospirò. La sola idea di ritrovarsi in quella stanza la nauseava, ricordando quei lunghi giorni in cui non riusciva ad essere reattiva e coscienziosa, narcotizzata dai fumi con cui Alfred la teneva alla sua mercé. Tuttavia c’era in gioco la sua vita e non poteva essere schizzinosa, purtroppo.
Tra qualche ora sarebbe tornata indietro, decise, verso quella maledetta camera. Sperò almeno che sarebbe stato un viaggio proficuo e che vi avrebbe trovato qualcosa di utile.
Si rannicchiò quindi dentro la coperta, sperando di riscaldarsi e dormire un po’, per poi continuare le sue indagini.
 
 
 
***
 
 
 
Villa Ashford- sala da pranzo
Notte
 
Il caldo tepore del fuoco sfavillante proveniente dal camino posto in fondo alla stanza rendeva l’ambiente molto confortevole e rilassante.
Un paio di divani scuri s’incrociavano davanti al suo cospetto, illuminati dal suo colore intenso a metà tra il giallo ed il rosso, i quali pulsavano vivi avvolgendo anche il resto di quel salotto.
Alle loro spalle, un antico orologio a pendolo aveva da poco segnato le undici di sera ed adesso emetteva solo dei piccoli rintocchi, percettibili soltanto se immersi nel completo silenzio di quella notte buia discesa impetuosa, che aveva gettato nell’ombra tutto il castello.
Quell’armonia rilassante e confortante fu spezzata improvvisamente dall’ingresso del ragazzo che abitava fra quelle mura.
Egli solcò il pavimento leggiadro, sfilando al contempo la sua giacca militare.
Slacciò uno ad uno i bottoni placcati d’oro, muovendosi accuratamente in modo da non disfare gli ornamenti che rendevano prestigiosa la sua divisa, che simboleggiavano la sua vita militare.
Fece scivolare quindi l’elegante casacca rossa dalle sue spalle, scoprendo la raffinata camicia bianca che portava al di sotto, un capo visibilmente sartoriale che accarezzava il suo corpo in modo perfetto. Nonostante avesse portato la giacca fino a quel momento, essa non presentava alcuna piega o increspatura; era invece perfettamente in ordine e rendeva composta e raffinata la sua impeccabile figura altolocata.
Il biondo poggiò la giacca sullo schienale di una poltrona situata di fronte una specchiera, ove prese posto per rassettare la sua immagine, rimasta in disordine decisamente troppo a lungo rappresentando l’altissimo standard di una famiglia prestigiosa come quella Ashford.
Osservò quindi la sua effige scrutandosi quasi a livello morboso, come distinguendo ogni difetto di quel viso impeccabile. Aggiustò il nodo della cravatta legato in stile “plastron”, in inglese conosciuto come “ascot”, realizzato incrociando le lunghe fasce bianche di seta legate sotto il collo e fermate elegantemente con un piccolo spillo.
Alfred girò il capo sia a destra che a sinistra, non staccando gli occhi dallo specchio. Passò infine una mano fra i capelli, che prese a maneggiare insistentemente all’indietro, usando una cospicua quantità del gel che reperì dal cassetto della specchiera, finché non riordinò la sua solita acconciatura da gentiluomo.
Ristabilì così il suo usuale stile estetico, volto a valorizzare la sua classe e il suo prestigio, una perfezione che sembrava quasi lottare contro lo squilibrio mentale in cui in realtà egli era ingabbiato.
Eppure vi era una sottile coerenza fra la sua ordinata e signorile figura, e il caos che regnava al suo interno:
la maschera perfetta di un uomo privo di certezze e oramai costretto a stare in bilico sul baratro che aveva decretato la sua pazzia.  
Egli si osservò un’ultima volta allo specchio, avvolto dal candore della camicia che aveva spezzato la rigidità che solitamente gli conferiva la divisa militare.
Solo nelle sue stanze private egli si muoveva con fare più sciolto, confortato dal calore che solo la sua casa sapeva dargli. Si sollevò così dalla poltrona, lasciando la casacca rossa sullo schienale, e uscì da quel caloroso ambiente, dirigendosi verso la sala da pranzo.
Essa era una stanza ampia, cupa, occupata unicamente da un tavolo di legno scuro, lungo più di tre metri di lunghezza.  
Il tavolo era illuminato da una serie di candelieri, tutti accesi e posizionati vicino fra loro, un numero sproporzionato rappresentando che vi era una sola persona accomodata.
Il biondo, infatti, era l’unica presenza ivi posizionata; egli era seduto a capotavola, come abituato a quel senso di vuoto e a quella completa desolazione.
Con fare naturale, adagiò con garbo il tovagliolo sul suo grembo. I piatti erano già a tavola, presentati davanti il loro padrone in perfetto orario.
Con fare lento e rilassato, fece affondare la forchetta nel suo pasto finemente presentato, curato nei minimi dettagli com’è consono fare nell’alta cucina, ed assaporò il tutto con estrema apatia, mantenendola la sua aria nobiliare.
Seppur fosse completamente solo in quella lunga tavolata, infatti, era come se mille occhi lo fissassero; neppure nel momento del pasto sembrava libero di essere a suo agio, in quanto la sua rigida educazione prevaricava sul suo istinto, così ormai gli veniva dal tutto naturale conservare una certa regalità anche quando era da solo.
Avvicinò la forchetta alla bocca e degustò un tenero pezzetto di carne, masticando senza fretta, dopodiché allungò a sé il calice di vino rosso, che inclinò in direzione dell’ altro capo del tavolo, come rivolgendosi ad una rarefatta presenza che onorava la sua mensa: lo spettro che abitava con lui in quelle ampie e desolate mura, la cui presenza non l’abbandonava mai, arrivando fino a confondere la sua percezione della realtà e della menzogna.
Sollevò il bicchiere e sorrise, poi lo avvicinò alla bocca e ne bevve un piccolo sorso.
 
“Come sei stata sciocca, Claire. Perdere il lusso che ti era stato concesso, il favoloso prestigio di cui eri stata onorata e di cui io ti avevo fatto dono. Una vera ingrata, vero Alexia, mia cara?
In fin dei conti, però….peggio per te. Spero sarai lieta di passare questa fredda notte negli angoli bui e rigidi di questa casa, lontano dalle magnificenze di cui ti avevo circondata. Buon riposo, dunque…e sogni d’oro.”
 
Pronunciò accattivante, infierendo sulla drammatica situazione in cui in realtà verteva la ragazza dai capelli rossi.
Alfred parlò come offeso da quel suo tradimento, dal fatto che ella fosse scappata preferendo nascondersi nel buio e nella polvere pur di non godere dei privilegi che lui le aveva concesso.
Figurava dentro di sé l’immagine rannicchiata di Claire in qualche angolo sperduto del suo maniero, come potendola vedere nitidamente con i suoi occhi mentre si contorceva nel freddo di quella notte.
Sorrise divertito, godendo dei rimpianti che secondo la sua logica ella avrebbe dovuto nutrire.
Un sorriso in realtà amaro e desolato verso una solitudine che non riusciva a soppiantare e che era stata offesa dal gesto compiuto dalla Redfield.
Egli riprese intanto a consumare il suo pasto, come volendo allontanare da sé quella consapevolezza, in quanto in realtà addolorato profondamente da quella ferita.
Così, nel calore e nel lusso di quell’immensa sala da pranzo, assaporò acidamente le pietanze come volendo trafiggere la donna che aveva usato rifiutarlo. Questo mentre altrove Claire Redfield si muoveva in un sonno che non riusciva a venire, tremante in quel gelido studio abbandonato, riscaldata unicamente dal fioco bagliore della fiamma dell’accendino e dalla coperta che non faceva che stringere a sé inutilmente.
 
 
 
***
 
 
 
NdA:
Spero che la storia vi stia piacendo. So bene di star trattando un personaggio poco considerato della saga, ma mi auguro apprezziate il mio impegno e che riusciate a vedere la passione che sto mettendo in questa fan fiction.
Vi lasciò con un’illustrazione fatta da me. :)
Claire Redfield con il vestito di Alexia “strappato”. Siccome ci tengo che durante la lettura possiate immaginarla perfettamente, ho pensato che realizzare una bozza sarebbe stato carino…è un disegno semplice, giusto per rendere l’idea.^^
Immaginate l’abito di Alexia di cove veronica, tuttavia tagliuzzato all’altezza delle cosce, quindi in modo sfrangiato. Questa immagine vi sarà utile per questo capitolo e per il prossimo, durante il quale recupererà i suoi vestiti.
A presto!
 
Fiammah_Grace




Image and video hosting by TinyPic
 


Claire Redfield

Alexia’s dress - ripped version
Resident Evil code veronica x 
Fanfiction: the only woman, the only queen
By fiammah_grace
 
!!!ATTENTION!!!
This outfit is made by me, the copyright is of my fanfiction “the only woman, the only queen”.
You can’t use it!
 
 
 























A presto!
Grazie per aver letto!

 
Fiammah_Grace





 

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Capitolo 6: il teatro dei folli ***






Capitolo 6: il teatro dei folli
 





Freddo…
Freddo…
 
Claire Redfield stringeva a se le gambe nude e affusolate, schiacciandole contro il petto assumendo una posizione fetale, rannicchiata sulla poltrona dello studio dove si era rifugiata.
Fino a quel momento non si era ancora accorta del gelo agghiacciante che dominava quel castello, di notte. Un dolore che penetrava fino alle ossa, come mille aghi che trafiggevano ogni parte di esse, arrivando quasi a farle credere che si stessero frantumando. Le dita dei piedi si fecero sempre più congelate, non le sentiva più oramai. Si raccolse dentro la coperta di lana che aveva recuperato, ma essa non bastava a riscaldarla. Non sapendo più come riscaldarsi, avvicinò l’accendino a se, ma nemmeno quella fioca fiamma poteva lenire quel forte dolore. La sua prima notte libera dai vincoli di Alfred Ashford eppure ugualmente condannata a patire un male insopportabile, ossia quel gelo angustiante.
Era stato lui ad abbassare le temperature apposta per vendicarsi, per far soffrire crudelmente la sua “vittima” che l’aveva offeso? Oppure si trovava davvero in un territorio freddo?
Quando era stata mascherata da Alexia, Alfred aveva adottato ogni premura nei suoi confronti, cullandola come fosse una regina. Dunque era plausibile pensare che le stanze riservate ai suoi alloggi personali fossero riscaldati, e che quindi non avrebbe mai potuto accorgersi di essere invece in un posto tanto artico.
Qual era pertanto la verità? Dove si trovava esattamente?
 
“E…Etciù!”
 
Starnutì, e la vibrazione del suo corpo scaturita da quel colpo di freddo, fu il pretesto definito per alzarsi e rinunciare a quel breve momento di riposo. Non avrebbe mai potuto distendersi, tremante com’era. Tanto valeva utilizzare quel tempo in modo migliore, continuando la perlustrazione di quell’enorme villa e trovare la porta dove usare la piccola chiave d’argento. La rossa quindi si sollevò dalla poltrona, premendo dolorosamente i piedi congelati contro il freddo pavimento. La prima cosa di cui avrebbe approfittato quando ne avrebbe avuta la possibilità, sarebbe stata trovare delle scarpe…e dei vestiti.
Essere scalza, con quell’abito tagliuzzato addosso e con quelle condizioni atmosferiche, era tutt’altro che pratico per lei. Dovette procedere abbracciando il suo esile corpo, mentre il vento gelido soffiava sulle sue cosce scoperte, in quel tormento agghiacciante che non aveva fine. Non riusciva nemmeno a posare tutta la pianta del piede a terra, tanto il freddo che la stava crucciando, ma dovette ritrovare dentro di se quella risoluzione che le permettesse di abituarsi a quel dolore, fino a ignorarlo.
Non poteva fermarsi proprio adesso, doveva riprendersi assolutamente.
E così, dopo i primi tentennamenti, abituò il suo corpo e, con passo spedito, riprese la sua esplorazione ripercorrendo a ritroso le stanze già visitate.
La sua meta era in quel momento la sua vecchia camera da letto, situata in un’area infelice da visitare dal punto di vista psicologico, ma tuttavia l’unica inesplorata in quella marea di stanze chiuse e vicoli ciechi.
Si sporse dal varco che affacciava nel magazzino predisposto alla conservazione dei viveri, si calò al suo interno, attraversò la cucina, e si ritrovò nuovamente di fronte la rampa di scale che aveva percorso qualche ora prima, quando da poco si era riappropriata della sua libertà. Come se stesse tornando su quei dolorosi passi, avanzò lungo quella scalinata, ove ogni scalino era come se torturasse la sua mente; come se l’implorasse di non percorrere quella strada, di scappare il più lontano possibile.
Per lei era inaccettabile fare quel passo indietro, riavventurandosi nell’area oscura dove aveva patito la lunga prigionia che aveva annullato la sua esistenza. Eppure avanzava inarrestabile, guidata da un istinto forte e risoluto, che non si accontentava di essere riuscita a scappare e/o sopravvivere…agognava la libertà: la vera libertà.
Non avrebbe importato quindi quanto doloroso sarebbe stato ripercorrere quella strada, se questo significava combattere, e non soccombere a quei soprusi inumani e folli di cui era vittima.
Una volta in cima alle scale, aprì l’unica porta dinanzi a se, tornando così nel corridoio ove era ubicata la stanza di Alexia. Mentre procedeva a passo lento sulla morbida moquette rossa che rivestiva l’intero percorso, esaminò il luogo rivolgendo con attenzione il suo sguardo verso il basso. Inconsciamente stava cercando le vecchie tracce del suo passaggio, ma nulla adesso testimoniava quel momento; la lunga parrucca biondo platino, gettata con violenza su quell’elegante e pulito corridoio, non c’era più.
Non che si aspettasse di ritrovarla, tuttavia immaginare Alfred che la raccoglieva, era come se rievocasse dentro di se un’inquietante senso di amarezza. Vedeva davanti ai suoi occhi un tormentato e triste meccanismo di ciclicità, ove il biondo non faceva che vedere crollare la sua immorale commedia, per poi raccoglierne i cocci e rimetterli assieme, a ripetizione…ripetizione…ripetizione….finendo in un baratro ciclico, in cui questo procedimento si ripeteva sempre, incapace di accettare la crudele realtà, ove Alexia non esisteva.
In quell’istante quindi, costatare che quella chioma bionda non ci fosse, poteva soltanto confermare quella infelice ipotesi: ovvero che, da qualche parte del castello, Alfred Ashford stava “resuscitando” ancora una volta la sua bellissima ed evanescente sorellina.
Perché non riusciva a darsi pace? Cosa gli impediva di guardare avanti? Perché aveva bisogno di quell’inutile e penosa commedia?
Non aveva senso…
Per quanto avrebbe potuto credere in quella illusoria realtà, dentro di se avrebbe comunque avuto sempre la consapevolezza che era lui l’architetto di quell’inganno.
Non avrebbe importato quando perfetta sarebbe stata la sua interpretazione, perché lui ne era l’autore e avrebbe sempre saputo la verità. A conferma di ciò, vi erano quei pochi momenti di lucidità che avevano accompagnato la sua prigionia.
Non sapeva per certo per quanto tempo Alfred l’avesse tenuta mascherata da Alexia. Durante la maggior parte del tempo, Claire era stata infatti drogata, incapace di intendere e di volere. Tuttavia aveva avuto degli sprazzi di lucidità, e in quei singoli momenti ricordava nitidamente il volto affettuoso di quel ragazzo, che disperatamente cercava sua sorella in lei, eppure era consapevole di star contemplando qualcuno che non era Alexia. Era un qualcosa che si avvertiva, che si sentiva a fior di pelle.
Quella sensazione “sbagliata” che bisbigliava a entrambi di quel funesto inganno che presto sarebbe stato svelato. Ricordava, infatti, i suoi occhi che la spiavano in segreto, e che si allontanavano nel momento nel quale lei ricambiava il suo sguardo. La sua ossessiva premura, eppure la paura di starle accanto.
Tutti quegli esigui istanti che testimoniavano la sua consapevolezza; quella fioca ragione che gli implorava di non credere ciecamente a quella farsa; la voce della coscienza che illuminava persino uno come lui.
Ed infatti, in quei momenti, egli fuggiva.
Chiudeva la stanza, l’allontanava, la riaccompagnava a dormire, immettendo nella sua camera da letto fumi narcotici, facendo sprofondare nell’oblio quelle moleste e sgradevoli consapevolezze che lo torturavano.
Egli sapeva tutto………..ma era impotente per accettarlo.
Claire puntò lo sguardo verso una delle finestre che contornavano il lungo muro del corridoio, oltre le quali era simulata la suggestiva immagine virtuale della notte.
Tutto era stato allestito alla perfezione. Quell’area riservata alla sopravvivenza della sua Alexia, climatizzata e allietata con una realtà che simulava persino lo scorrere del tempo; una tecnologia d’avanguardia, che nell’incoscienza le aveva fatto credere davvero di trovarsi ancora a Rockfort Island.
Si affacciò, adesso ben conscia di quella realtà illusoria, e il suo sguardo s’intristì sempre di più, incapace di spiegarsi la morbosa ossessione dell’uomo che si era preso cura di lei.
Claire non stava confondendo i ruoli, assolutamente no. Sapeva chi era Alfred e che doveva scappare da lui. Era consapevole della sua mente devastata e completamente sconnessa. Tuttavia nuovi sipari si erano appena innalzati, e nascosto dietro uno di questi, vi era il volto innocente e desolato di un uomo che speranzoso l’aveva guardata negli occhi…e si era sentito felice. Anche se era una menzogna.
Era stata un’emozione strana quella di sentirsi così amata e riverita da qualcuno, in un’ottica così profonda e morbosa, intima e ossessiva…un amore che trascendeva ogni cosa, ogni razionale logica, pur di essere vissuto.
Alfred…che sentimenti nutriva davvero per Alexia? Lei…era più di una sorella per lui?
Quei scottanti e ammalianti sentimenti, che l’avevano toccata così da vicino, e che ora erano permeati dentro di lei, l’avevano irrimediabilmente sedotta. Perché Claire non aveva mai toccato con mano un amore così puro, così spirituale, così inteso, così….insistente, tormentato, agognato sopra ogni cosa…
Così desiderato da annullare la propria vera realtà, pur di continuare a viverlo, e a crederci.
 
La ragazza dai morbidi capelli rossi scosse la testa, rendendosi conto di star facendo predominare una ragione che doveva tacere. Colui che aveva scaturito quei pensieri, rimaneva un uomo che aveva perso il senno, e che aveva deciso di ingabbiarsi da solo in un mondo malsano e squilibrato, dal quale lei doveva fuggire per non venirne inglobata. Lei che invece apparteneva al mondo reale.
Ritornò dunque sui suoi passi, giungendo finalmente dinanzi la sua ingannevole camera da letto: la stanza di Alexia Ashford.
Che fosse davvero la stanza della gemella di Alfred oppure no, era comunque il primo luogo che intendeva esplorare, così abbassò la maniglia, pronta a varcare quella soglia ove aveva visto repressa la sua persona.
Tuttavia il meccanismo non reagì, e la ragazza si ritrovò ferma su quel ciglio continuando a muovere ripetutamente il pomello, non comprendendo subito che la stanza era chiusa a chiave, adesso.
 
“Tsk, tsk, tsk….Redfield! E così credevi di poter forse tornare nella stanza riservata a mia sorella? Cosa ti sei messa in testa? Credi forse di esserne degna? Che ragazza irrispettosa e arrogante!”
 
Una voce polifonica risuonò improvvisamente per il corridoio, facendo sbandare la povera Claire, presa ovviamente di sprovvista. La rossa si girò attorno a se, cercando di individuare l’altoparlante da cui l’inconfondibile voce di Alfred Ashford era fuoriuscita.
 
“Inutile che ti agiti tanto.” ridacchiò l’uomo. “Questo luogo è interamente monitorato. Ti ho vista mentre ti contraevi infreddolita nei meandri del mio castello, incapace di prendere sonno. Ah,ah,ah! E’ stato divertente vederti sprofondare in tale agonia, non sai quanto…!”
 
A quella frase, la Redfield rabbrividì.
 
“Mi hai spiata, sei disgustoso!”
 
Rispose inorridita, mentre il sangue ribolliva dentro di se, non tanto per il fatto che il biondo avesse monitorato le sue azioni, ma per i toni di goduria e di soddisfazione sfacciatamente derisi in faccia. 
In tutta risposta, l’uomo sembrò esaltato da quella provocazione, tant’è che dall’altra parte del microfono si scaturì una fragorosa risata, che non fece che alimentare il senso di frustrazione di Claire.
 
“Piantala di ridere! Se credi di potermi indisporre facendomi congelare dal freddo, sappi che preferisco centomila volte star qui a morire di freddo, che essere adulata da te. La mia libertà non ha alcun prezzo!”
 
Disse di getto, esprimendo con determinazione il fatto che lei non avrebbe mai rimpianto la sua “prigionia” soltanto per riavere il comfort di cui lui l’aveva circondata. La sua autodeterminazione non aveva alcun prezzo. D’altra parte, Alfred fu incuriosito da quel moscerino che sperava di spaventare il possente ragno che aveva già tessuto la sua letale ragnatela. Voleva soltanto divertirsi ancora un po’, prima di consumare il desiderato pasto.
Sulle sue labbra marmoree si disegnò un crudele ghigno di soddisfazione, in qualche modo estasiato dalla ribellione di quella ragazza che stava appagando come non mai il suo gusto macabro e perverso, rendendogli davvero gustoso quel momento di spietata agonia.
 
“Ovviamente non potevo che aspettarmi una risposta simile. D’accordo, allora. Fammi vedere quel che sei capace di fare, Claire. Dilettami…”
 
Il biondo fece una lunga pausa, ispirando profondamente, preso dalle sue forti emozioni malate e folli, eccitato da quello che già pregustava da tempo. Claire dal suo canto strinse gli occhi, inquietata da quelle parole, a metà squilibrate e prive di significato, a metà visibilmente entusiaste e appassionate. C’era una strana forma di esaltazione perversa in lui, un qualcosa che cominciò a farle gelare il sangue e sentire profondamente a disagio. Cosa aveva quell’uomo? Che diavolo voleva da lei?
Quella preoccupante sensazione di desiderio e distruzione che lui nutriva verso di lei, stavano cominciando a confonderla, fino a portare lei stessa alla pazzia.
 
“…e per favore, non rendere questo gioco noioso morendo troppo velocemente.”
 
Pronunciò intanto lui, implorando il suo nuovo giocattolino di farlo divertire manco fosse un ragazzino.
La rossa ne aveva fin sopra i capelli di quella riluttante situazione. L’unica cosa che poteva fare al momento era ignorare completamente quella voce fastidiosa, e continuare quindi le sue ricerche. Mentre si allontanava dunque, esplorando il resto del corridoio, la voce altisonante di Alfred continuava a echeggiare insistentemente, costringendo la ragazza a reprimere violentemente la voglia di lanciargli qualcosa contro, se solo fosse riuscita a individuare la locazione dell’ amplificatore.
Con una costanza compulsiva e irritante, egli non faceva che parlare e sovrastare ogni suo ragionamento, rendendole impossibile investigare come avrebbe voluto.
 
“Allora? Hai scoperto come usare la chiave?”

“Cosa stai facendo?”

“Stai ancora girando in tondo?”

“Fai qualcosa, mi sto veramente annoiando…”

“Vuoi un indizio?”

 “Oh, non posso crederci che ancora non sai dove sbattere la testa!”

“Certo che è veramente fredda questa notte…fortuna che sono accanto al mio meraviglioso caminetto, ahahah!”
 
“Cazzo! Vuoi stare zitto?!”
 
Urlò Claire, esasperata da quella voce martellante e insistente che infieriva sulle sue indagini.
Ovvio che non sapesse dove andare! Ovvio che non sapesse che fare! Ovvio che fosse stanca, affamata, congelata! Che diavolo voleva quindi da lei? C’era bisogno di dannarla ulteriormente??
Quel rimprovero sembrò sortire l’effetto sperato, finalmente. La voce del biondo infatti cessò, alcun rumore polifonico risuonò ancora per quell’area del castello.
La giovane tirò un sospiro di sollievo, riappropriandosi di quel karma che andava rievocato spesso in circostanze come quelle.
 
“Dio, ti ringrazio.”
 
Disse e continuò finalmente indisturbata.
Che Alfred si fosse veramente azzittito, oppure avesse deciso di tacere per ridere sotto i baffi, osservando silenzioso le sue mosse, non le interessava affatto.
Per una volta, il tetro silenzio che albergava fra quelle mura fu un qualcosa di assolutamente piacevole e rasserenante, cosa che prima non avrebbe mai potuto credere possibile.
Quell’uomo era un bambino, ecco cos’era. Un fastidioso e infantile ragazzino troppo cresciuto, e lei avrebbe dovuto dargli una lezione quanto prima.
Riacquisita un po’ di serenità, Claire riprese fra le mani la chiave d’argento.
 
“Cosa devo farci?”
 
Sussurrò fra se, mentre non faceva che vedere muri davanti a se.
Era bloccata, non sapeva davvero che fare. Possibile che non potesse far nulla? Che dovesse rimanere bloccata in quel casello per sempre?
Cosa poteva fare? Cosa aveva dimenticato di esplorare?
Tuttavia, come un fulmine a ciel sereno, in quel momento la sua risposta arrivò. La ragazza spalancò gli occhi, incredula dell’immagine che si era focalizzata davanti ai suoi occhi: l’immagine di un centinaio di bulbi vitrei che puntavano contro di lei, intrappolati dentro un mobile di cristallo.
Le bambole…le bambole!
Claire ricevette l’illuminazione tanto agognata. Le bambole di porcellana conservate in quell’ingombrante salotto….ma certo! La dimensione della chiave corrispondeva a quella serratura un po’ più ridotta. Poteva funzionare!
La rossa così corse immediatamente via, ripercorrendo ancora una volta i meandri già perlustrati di quella villa, oramai abituata a quegli snervanti via-vai ma che tuttavia costituivano la sua unica possibilità di salvarsi. Risolutezza e grande forza d’animo, qualità che non le mancavano e che costituivano l’unica vera arma che le avrebbero permesso di sopravvivere.
 
***
 
Le sue mani tremavano incessantemente, impedendole di centrare la fessura della serratura che chiudeva la teca di cristallo in cui erano conservate le antiche e preziose bambole di porcellana. Rabbrividiva sia per il freddo agghiacciante, che la stava sempre più devastando arrivando fino a irrigidire tutto il suo corpo, sia per la trepidazione di quel momento, verso quel ‘qualsiasi cosa’ avrebbe raggiunto aprendo quel vetro. Perché stavolta le sue indagini erano andate a buon fine: era ovvio che quella chiave corrispondesse a quella piccola serratura d’argento. Combaciavano alla perfezione.
Doveva solo rimanere calma, combattere le sue ansie e quel tormentante gelo, e andare avanti.
Un problema alla volta, continuava a ripetere all’infinito nella sua mente. Era riuscita a scappare, e ora aveva trovato dove usare la chiave. Due passi in avanti era riuscita a farli rispetto quando era narcotizzata, non era poi tanto male.
Un problema….alla volta….e ce l’avrebbe fatta. Sarebbe uscita da quel posto. Clank.
L’anta si aprì.
Claire rimase inerme per qualche istante prima di concretizzare cosa dovesse fare in quel momento.
La chiave era stata usata, ma adesso ritrovava davanti a se solo un inutile mobile pieno zeppo di bamboline ben agghindate.
Per prima cosa, frugò dietro di esse, sperando che nascosta in quel mobile ci fosse una qualche altra chiave, o comunque qualcosa che potesse aiutarla a proseguire; ma tutto sembrava assolutamente normale.
Possibile che Alfred l’avesse solo presa in giro?
Sarebbe stata disposta a ispezionare una ad una quel centinaio di porcellane, soltanto che cominciò a temere che fosse inutile dato che riteneva improbabile che ci fosse un qualche mistero legato ad esse.
Non ancora rassegnata, infilò tutto il braccio dentro il mobile, tastando sul fondo, e a quel punto qualcosa si mosse.
Sentì qualcosa oscillare quando la sua mano aveva premuto contro il fondale di quella cristalliera. Insistette dunque, e ben presto comprese con cosa aveva a che fare: dietro quello scaffale altro non c’era che un passaggio segreto.
La vetrina, infatti, roteò sotto i suoi occhi, aprendo un varco nascosto che alcuno avrebbe mai potuto sospettare essere celato dietro di essa.
La ragazza rimase inquieta, osservando quel passaggio buio e tetro. Affacciandosi, intravide delle scale di pietra consumate, ma c’era troppo nero per vedere altro. Senza troppa esitazione, decise di proseguire; oramai il dado era tratto e ancora una volta, non è che avesse molta scelta. La sua unica perplessità era rivolta al signor Ashford, e sul perché egli avesse voluto che lei entrasse in quell’antro.
Cosa avrebbe trovato lì dentro?
Il sospetto che si trattasse di una trappola era alto, ed era un motivo sufficiente per desistere dall’impresa di esplorare quella zona. Eppure le sue gambe si muovevano da sole, guidate dall’incosciente speranza di riuscire a scappare in qualche modo, ma era una bugia….la verità era molto più controversa e folle.
Una verità inammissibile e scellerata, in quanto era in realtà tangibile la dura e cieca consapevolezza di starlo facendo per curiosità. Semplice, imprudente, umana curiosità.
Claire voleva sapere perché Alfred aveva voluto condurla lì dentro.
Con una mano, dunque, strinse a se la sua unica arma, ovvero il coltello da cucina, e con l’altra accese l’accendino per illuminare quel losco cammino, dopodiché discese il primo scalino, avventurandosi in quel tenebroso e poco rassicurante antro.
Mentre discendeva quella scalinata, il buio si faceva sempre più tetro, finché d’improvviso l’ambiente non fu gettato nel nero più assoluto. Ad un tratto, infatti, la rossa sentì un rumore alle sue spalle. Si girò troppo tardi: la vetrina si era riposizionata nella posizione corretta, chiudendo definitivamente il passaggio. Era bloccata, adesso davvero non poteva fare altro che proseguire.
Avrebbe potuto mettere una sedia di traverso, accidenti, se solo avesse valutato la possibilità che quel varco si sarebbe richiuso da solo.
Sospirò, cercando di orientarsi in quel buio denso e inquietante. Non riusciva a vedere bene i gradini, doveva quindi scendere a istinto. Le sembrò di impiegarci un’infinità di tempo per arrivare alla base di quella scala. Solo una volta arrivata verso la fine di quel percorso, un caldo bagliore cominciò a illuminare le pareti rocciose di quell’ambiente.
Claire sentì finalmente il suo corpo riscaldarsi, una sensazione di piacere assoluto che per un attimo cullò i suoi sensi. Le sue mani erano ancora gelate, ma presto si ristabilì la normale temperatura del suo corpo e si sentì già lieta e rasserenata per questo.
Arrivata sul pianerottolo, la prima cosa che notò fu la pavimentazione sporca e polverosa posata sulla ceramica che la rivestiva. Nessuno doveva ripulire quel posto da un bel po’.
Qualcosa di incrostato era attaccato negli angoli, qualcosa di scuro e rossastro, di cui cercò di ignorare l’origine, cominciando a temere le ipotesi riguardo il luogo dove si trovava esattamente.
Una porta con un enorme gancio di ferro si contrapponeva fra lei e il luogo da esplorare. Su di essa vi era un’incisione fatta con qualcosa di contundente. Era imprecisa, ma abbastanza leggibile, come se chi l’avesse scritta volesse preparare l’ipotetico spettatore sulla visione che presto avrebbe avuto davanti ai suoi occhi:
 
"Nascimur uno modo, multis morimur”
 
Claire aveva studiato latino avendo frequentato un liceo scientifico, tuttavia non era mai stata un vero asso in quella materia, sfortunatamente; però quella frase era abbastanza semplice da decifrare, dunque dedicò qualche minuto alla sua traduzione.
 
“ ‘Nasciamo in un solo modo…ma moriamo in molti.’ ”  si fermò a riflettere. “ ‘Ma moriamo in molti’…che vorrà dire?”
 
Mormorò fra se, mettendo le mani sui fianchi.
 
“Di sicuro è una frase molto incoraggiante, sembra proprio che mi troverò in una stanza delle torture, eh,eh…”
 
Disse fra il serio e l’ironico, infierendo da sola sulle sue paure. Tanto valeva prenderla in modo leggero, non poteva frignare se voleva scoprire cosa si celava dietro quella porta dove Alfred l’aveva condotta.
A dir la verità, la rossa aveva una paura tremenda di quel tipo di stanze. La terrorizzavano fin da piccola quei documentari basati sulla tortura e la violenza fisica inflitta a coloro che dovevano essere puniti per i loro crimini. Quei meccanismi agghiaccianti, elaborati al solo scopo di arrecare dolore e che conducevano a una morte straziante i fuorilegge, le facevano gelare il sangue al sol pensiero di immaginarli in azione. Dovette quindi sforzarsi di rimanere asettica, e di non vagare con quella macabra fantasia, in modo da rimanere lucida e non farsi prendere dal panico.
Così afferrò la maniglia di ferro battuto e spinse la porta.
Suo malgrado, la sua previsione fu più che perfetta: oltre quella porta si celava, infatti, una tremenda e angustiante stanza delle torture.


***
 
 
Stanza delle torture
Sotterrano di Villa Ashford
 
 
“Che bel posticino…”
 
Penetranti e affliggenti, i cigolii metalli torturavano le menti di coloro che solcavano la soglia di quella stanza con il loro incessante rumore, simbolo delle crudeli e perfide punizioni riservate ai disertori di quel castello.
Sudici e arrugginiti, quei ferri appesi battevano sulle pareti, oscillando inquietantemente in modo impercettibile, emettendo un tenue e devastante suono emblema di dolore e di pazzia.
Il fuoco di un forno posto in fondo alla stanza illuminava e riscaldava l’ambiente, tinteggiandolo di ombre calde, ma tuttavia per nulla rassicuranti. Questo in quanto non si trattava di un semplice focolare.
Le aste di ferro, seghe, forbici e oggetti contundenti, poggiati sulla sua mensola, nonché il lettino adagiato di fianco sui cui erano incastrate delle maniglie rugginose, non potevano che far intendere che quella fornace non fosse stata concepita per riscaldarsi. Era invece un forno crematorio.
Vi era una piccola insenatura sopra la sua bocca infernale dentro cui danzavano le lingue di fuoco. I segni al suo interno indicavano che prima probabilmente prima vi era stato incastrato qualcosa, ma nulla di cui disponeva, quindi passò al momento.
Claire camminò lento, intimorita, vagando per quella stanza il cui tenebroso silenzio era spezzato unicamente dallo scoppiettare del fuoco e dallo stridio delle catene; suoni che non facevano che alimentare la sua inquietudine e il suo senso di smarrimento. Più si guardava attorno, più l’esempio della crudeltà e perversione umana si materializzava davanti ai suoi occhi, rivelando la malvagità che si cela in ogni uomo, e il suo inconscio desiderio di infliggere dolore.
Deglutì cercando di ignorare gli elementi che componevano quella stanza, quei tremendi strumenti di tortura elaborati con lo scopo di uccidere e infliggere tormento. Ma più allontanava quei pensieri, più la sua mente si focalizzava su ognuno di questi, come volendola preparare ai “molti modi” in cui una persona poteva morire. O peggio…soffrire.
La rossa fece scorrere il suo sguardo da una parte all’altra della stanza.
Minuscole gabbie maleodoranti e luride pendevano dal soffitto. La vittima designata veniva posta all’interno e lasciata morire di sete e di fame, spesso persino divorata dagli uccelli, che si cibavano avidamente della carne del mal capitato di turno. Abbassando gli occhi verso il pavimento polveroso, del sangue incrostato sembrava essere gocciolato esattamente da una di quelle gabbie. Allora…qualcuno si era avvalso davvero dell’utilizzo di quello strumento?
Rabbrividì al sol pensiero.
Seguì con lo sguardo un cavo elettrico che attraversava la stanza, congiungendo una leva a una sedia provvista di ganci di ferro, adibiti a bloccare colui che si posizionava su quella poltrona, ricordandole per qualche attimo i giorni della sua prigionia nella camera di Alexia.
Ma quel cavo elettrico stava ad indicare un messaggio ben preciso…ovvero che quella sedia non fosse usata solo per costringere la gente a sedersi, ma era predisposta per scopi ben più diabolici.
Voltandosi, ritrovò di fianco a se un’immane asse di legno ritagliato secondo l’anatomia umana, e delle corde che congiungevano questa struttura alla spalliera alle sue spalle: era una cremagliera. 
Si ritiene che fosse stata una delle forme più dolorose di tortura medievale. Essa era costituita da un telaio di legno provvisto di due tiranti fissati al fondo e altri due legati ad una maniglia in alto. Quando il torturatore girava la maniglia, le corde tiravano le braccia della vittima, finendo poi per rompere le ossa del prigioniero. Talvolta, gli arti venivano addirittura strappati fuori dal corpo. 
Quella tremenda visione, accompagnata dall’aria soffocante e opprimente di quel luogo, contribuì nel fare stare sempre più male la giovane, la quale cominciò a sentirsi nauseata da quei pensieri e quei cattivi odori. Il fetore di sangue raggrumato, vecchio e amalgamato tra la polvere e la pietra della pavimentazione e dei muri, rimasti macchiati indelebilmente; assieme a quel fuoco scarlatto che pulsava riscaldando la stanza in modo soffocante, in un luogo come quello che invece avrebbe dovuto aerare un’intera settimana per cacciare via la disumanità che vi era albergata…o che vi albergava tutt’ora; il tutto accompagnato da quei tremendi e fastidiosi cigolii, e dagli strumenti della morte incrostati anch’essi di quel colore rugginoso e rossastro di chi aveva patito al loro contatto, e che facevano di quella stanza un vero e proprio palco della follia.
Il tavolo chirurgico approssimato su un bancone di legno, seghe, caschi spacca testa, fruste, forche, pali acuminati…
Più girovagava per quella stanza, più si domandava per quale losco motivo Alfred le aveva consegnato quella chiave d’argento. Voleva forse intimorirla tormentandola psicologicamente, prospettandole il dolore che avrebbe potuto patire opponendosi a lui? Era questo il suo losco scopo?
Era davvero una mente malata se aveva voluto condurla lì dentro soltanto per un motivo simile; una immane perversione, scaturita dall’eccitamento verso la disperazione e la più atroce sofferenza, sintomo di una vita devastata e una ragione oramai perduta. Tali pensieri la disturbavano e la sconvolgevano, poiché non riusciva a concretizzare come un essere umano potesse trarre piacere da simili torture, da tanta malvagità e scelleratezza. Non era esaustivo dire “pazzia”, sarebbe stato solo un modo semplice per evidenziare i fatti; perché quel che vedeva in Alfred Ashford era un qualcosa che andava oltre la follia stessa.
Claire non temeva per la sua vita, più che altro era essere costretta a investigare per quella stanza quel che l’angustiava. Avrebbe voluto trovare subito qualcosa di utile, per poi andarsene al più presto.
Mentre camminava fra quegli elementi spaventosi, nel tormento della sua mente, si fermò infine davanti a lei…
Lo strumento di tortura forse più conosciuto e spaventoso; creato non solo per uccidere, ma per far desiderare la morte stessa.
Costituito da un involucro di ferro dalle vaghe sembianze femminili, esso ospitava i prigionieri nel suo ventre, abbracciandoli con la miriade di aghi acuminati celati al suo interno, ferendo la vittima fino a dissanguarla dolorosamente. Una morte crudele, atroce, infinita…
La terribile e brutale Vergine di Norimberga.
Un’opera di ferro straordinaria. Complessa, possente, eppure meschina e sanguinaria. Già essere al suo cospetto fu un’esperienza impressionante, che fece vibrare nelle sue viscere l’idea del dolore più atroce e insopportabile, quella sensazione d’impotenza e di strazio cui non si poteva scappare. Essere rinchiusi con i propri incubi, incapaci di lottare, ritrovandosi come unico alleato soltanto l’istintivo desiderio di una morte veloce, che mettesse la parola fine al proprio male incommensurabile.
Chissà come aveva fatto Alfred a procurarsene una…
 
“Vedo che anche tu sei rimasta affascinata da una delle donne più maestose e temibili di sempre. Non è favolosa, Claire?”
 
Di nuovo quella voce polifonica echeggiò nell’ambiente. La rossa se ne sorprese a tal punto da sbandare con tutto il corpo.
 
“Cos..?! Ancora tu?”
 
Una sottile risata accompagnò il senso di smarrimento della giovane, inveendo contro la drammatica e insopportabile situazione in cui verteva, ancora una volta.
 
“Eh,eh,eh! Immagino tu voglia sapere perché ti ho condotta qui. Ma non voglio rovinarti la sorpresa…”
 
A quella battuta, la vergine di ferro traballò, come se qualcosa al suo interno avesse urtato la sua superficie acuminata. Come era possibile, tuttavia, che qualcosa si muovesse all’interno di quella trappola mortale?!
 
“….oh, vedo che si è svegliato.”
 
Aggiunse Alfred, gustando avidamente quella macabra e deliziosa scena. Claire poté quasi sentire tutta la sua eccitazione riguardo alla paura che le scorreva nelle vene.
 
“C…cosa c’è lì dentro?”
 
Disse la ragazza stando in guardia, terrorizzata dall’inquietante donna di ferro che traballava davanti ai suoi occhi, ma ovviamente non avrebbe mai potuto aspettarsi davvero una risposta dal giovane Ashford, il quale rise sonoramente.
Indisposta da quella risposta derisoria, strinse gli occhi, capacitandosi che era assurdo aspettarsi qualsiasi tipo di aiuto da parte sua. Quel che la infastidì maggiormente fu fare il suo gioco e assecondare il suo gusto perverso. Avrebbe tanto voluto non dargliela vinta, eppure non aveva scelta.
La cabina della vergine di ferro batté un’altra volta, e lei doveva costatare di persona quale creatura si celava al suo interno, seppur l’idea di avvicinarsi a quell’arnese la facesse rabbrividire. Ebbe la tentazione di desistere, ma era come se quel battito la richiamasse a gran voce, invitandola ardentemente a toccarla.
Fu forse la disperazione a farle fare quel passo; quella amara e cieca paura di non uscire viva da quel posto, che la spinse a fare fronte a quell’incubo seppur nella follia di quella decisione. L’istinto può portare l’uomo ad affrontare qualsiasi cosa, pur di sopravvivere.
Claire dunque allungò una mano verso lo sportello, tentennante ma determinata, liberando la sicura che chiudeva la serratura dall’esterno. Soltanto che non si aspettò per nulla che, una volta sciolta la piccola catena, la forza dell’entità presente dall’altra parte fosse tale da spalancare quello sportello da solo.
Ella infatti cadde a terra urtando violentemente, mentre davanti ai suoi occhi fuoriuscì dalla vergine di ferro una creatura insanguinata, ferita in ogni parte del suo corpo.
Deturpato e macchiato di rosso intenso, la pelle cadeva dalle sue braccia scorticate; le sue gambe avevano le ossa da fuori, e il suo volto era completamente cancellato facendone fuoriuscire la carne viva e raccapricciante, strappata violentemente e dolorosamente. Un tanfo orribile si sollevò, mentre quel cadavere in putrefazione, impregnato di sangue, muoveva velocemente i suoi piedi verso di lei.
Traballante, ma inarrestabile, la sua fame lo spingeva ad avanzare nonostante le sue orribili condizioni, che fecero sbattere il cuore di Claire fino a impedirle quasi di alzarsi.
 
“Oh, mio dio….!”
 
Urlò prima di rimettersi in piedi e sfuggire dalle grinfie di quell’essere mostruoso, un tempo umano.
I bulbi mucosi, e oramai quasi fuori dalle orbite, del mostro erano spenti, eppure era come se puntassero verso di lei. Questi allungò le braccia e si diede alla sua caccia in modo spietato.
Claire diede del suo meglio per difendersi, ma il panico cominciò ad assalirla. Non aveva un’arma, il coltello che aveva fra le mani non andava bene. Non poteva rischiare, infatti, di venire ferita cercando di colpirlo con un arnese di così piccola gittata. Cosa poteva fare?!
 
“Suvvia, Claire. Sei in una stanza delle torture. Hai milioni di modi per porre fine alla sua vita, no?”
 
Suggerì inaspettatamente Alfred dall’altoparlante. Seppure un crudele suggerimento, in situazioni di vita o di morte come quelle non aveva poi grossa importanza come uccidere il proprio nemico. La propria vita era l’unica cosa che contava, e in quel momento l’implorava di fare qualsiasi cosa per salvarsi.
Così la ragazza puntò verso la leva analizzata precedentemente, quella che attivava la sedia elettrica posta al centro della stanza. Quasi ci si buttò contro, tirandola con tutte le sue forze, ma purtroppo era più rugginosa di quanto pensasse.
Si sentì spacciata quando comprese di dover faticare molto per abbassarla, questo mentre l’ansia l’assaliva in modo straziante visto che il terribile mostro era sempre più prossimo a lei. Tuttavia la rossa non volle demordere e continuò a tirare imperterrita, ancorata a quella speranza di salvezza, e per fortuna il meccanismo scattò. Una violenta scarica elettrica la costrinse a mollare velocemente la presa.
Ferita appena da quella saetta, portò le mani a sé, costatando i danni di quell’ustione ma non aveva il tempo per prendersene cura. Doveva invece muoversi e al più presto per mettersi in salvo.
Dunque si fece seguire dal mostro insanguinato e deturpato, fino a raggiungere la diabolica e mortale sedia della morte. Mantenne la calma, sapendo di avere a sua disposizione un singolo tentativo, dopodiché caricò il mostro brandendo uno dei pali acuminati usati per l’impalamento, colpendolo con violenza e facendolo traballare fino a cadere bruscamente proprio sulla sedia elettrica appena messa in funzione.
Un urlo straziante rimbombò per quella stanza, devastando i timpani e la mente della giovane Redfield, la quale si rannicchiò in un angolo, spaventata. L’odore di bruciato, il corpo di quell’essere che si anneriva, e poi il fumo che invase la stanza…fu uno spettacolo terribile, feroce, agghiacciante.
Col cuore in gola, osservò la sua pelle oramai completamente bruciata ed ebbe come la voglia di vomitare, di scaricare la bile e il disgusto che da quando era entrata in quella stanza la stava disturbando.
 
“Ah,ah,ah! Che bellissimi fuochi d’artificio! Uno spettacolo…meraviglioso! Brava!”
 
Ignorò completamente le lodi di Alfred, preferendo continuare per la sua strada e disattivare subito quella losca trappola. Spense quindi la corrente e si riavvicinò al mostro appena ucciso, o meglio….già trapassato, ma condannato in quella condizione di non morto come un essere assetato di sangue. Adesso però era libero, il suo istinto famelico era stato fermato per sempre. Chissà se aveva sofferto nel mentre della sua morte.
Non seppe bene perché, ma provò pena per quell’essere prima lasciato penare in una vergine di ferro, deturpato e violentato, e poi arrostito su quella sedia mortale.
Si avvicinò, come volendo osservare da vicino la pazzia e a cosa essa poteva portare, toccando con mano la triste violenza che poteva esser inflitta anche a un corpo morto. Improvvisamente però qualcosa catturò la sua attenzione. Nella bocca di quel mostro era incastrato qualcosa…un piccolo oggetto metallico sembrava.
 
“No…”
 
Bisbigliò la fanciulla, inorridendo al sol pensiero di farlo, e a quel punto lo spettatore che osservava quell’insaziabile spettacolo tornò a interloquire con l’attore in scena.
 
“Forza…di cosa hai paura? Che possa spalancare di nuovo i suoi occhi cadaverici e maciullarti la mano? Ma dai…è morto, oramai.”
 
Disse con ovvietà, dopodiché il suo timbrò di voce mutò drasticamente, diventando macabramente seducente e ammaliante, tediando l’animo combattuto e spaventato della giovane, che sentì come un tonfo al cuore di fronte tale profondità di tono, così penetrante e accattivante, eppure lugubre e agghiacciante.
 
“Avanti, Claire…fallo…”
 
Insistette invitante il biondo, ansioso di vederla in azione, completamente coinvolto in quella raccapricciante visione che lo stava esaltando fino alla follia. Dalla sua postazione di monitoraggio, vide la rossa assecondare il suo capriccio e allungare le sue pallide dita verso la bocca del mostro oramai carbonizzato.
Non appena Claire fu a circa una ventina di centimetri dalla b.o.w carbonizzata, un fortissimo tanfo di morte arrivò alle sue narici, disgustando completamente tutto il suo corpo.
 
“Cazzo!!”
 
Disse sul punto di rimettere seriamente, tirandosi indietro. Dovette allontanarsi di qualche passo per superare quella tremenda visione…quella di un corpo morto, incrostato, spaccato, le cui viscere bagnavano il suo corpo cosparso di pustole e vesciche. Quella bocca spalancata, bavosa, puzzolente, imbrattata di sangue vecchio e fresco, era orripilante.
Tirò un sospirò trattenendo stavolta il respiro e, senza pensarci due volte, infilò con fermezza le dita fra i suoi denti, estraendo con uno scatto deciso l’oggetto metallico incastrato nella sua gola. Fece tutto con una velocità che lasciò sbigottita persino se stessa, tuttavia la sua determinazione vacillò presto. Dovette infatti gettare immediatamente a terra l’oggetto e appoggiarsi contro il muro per riprendersi dallo shock.
Respirò affannosamente, provata e sul punto di cadere a terra.
 
Clap, clap, clap
 
Dall’altra parte del microfono, intanto, risuonò un lento battito di mani, che si complimentava con lei per l’impresa appena riuscita.
 
“Sono impressionato, un lavoro eccellente. Non credevo ci saresti riuscita. Mi chiedo adesso come reagirai a quello che presto vedrai…ih,ih,ih…”
 
Quel risolino l’inquietò, ma era troppo provata per badare ancora una volta alla schizofrenia di quel ragazzo. Dovette ammettere però che quelle parole attirarono profondamente la sua attenzione. Che voleva dire con “quel che presto vedrai”?
E perché il suo tono sembrava così…esaltato?
Intanto la voce del biondo echeggiava ancora, dando un momentaneo addio alla sua bella marionetta indomabile.
 
“Ti lascio sola per un po’ ora, credo ne avrai bisogno. Mi raccomando, ricomponiti, dopodiché dilettami ancora con il tuo inutile tentativo di sopravvivere, ah,ah,ah!!”
 
Il microfono si chiuse, finalmente, e Claire tirò un sospiro di sollievo. Poteva credere di non avere Alfred alle calcagna per un po’?
Beh…voleva almeno sperarci.
Si sollevò e raccolse l’oggetto appena reperito, per analizzandolo con cura e capire dove utilizzarlo. Era come una moneta, ma più grande. Un disco di ferro con delle strane incisioni, che sembrava dover essere incastrato da qualche parte. Si guardò in giro e ricordò di aver visto un’insenatura rotonda dove era collocata la fornace, ed era forse l’unico posto che le venne in mente, adibito ad accogliere un oggetto rotondo. Quindi ci si avvicinò e provò a farvi combaciare l’oggetto metallico.
Non si accorse però che tale meccanismo era predisposto ad aprire una voragine localizzata esattamente sotto i suoi piedi, che la inglobò ineluttabilmente facendo sprofondare la giovane Claire giù nei meandri ancora più bui di quell’antro infernale.
 
***
 
Sotterranei di Villa Ashford
Sala mortuaria

Precipitata a terra da un’altezza non indifferente, Claire Redfield perse per qualche attimo i sensi. Quando riaprì gli occhi, un gocciolio umido proveniente dal soffitto stava bagnando il suo volto, costringendola fastidiosamente a rinvenire. Si asciugò il viso, infastidita da quell’odore di muschio ammuffito, e ben presto si accorse che tutta quella stanza verteva in condizioni pessime. La sua cattiva manutenzione aveva fatto deteriorare completamente le sue candide pareti, adesso covo di muffe viscide e bagnate.

L’odore piovigginoso e malandato dovuto all’umidità fece rabbrividire la sua pelle; sembrava come essere in una zona paludosa e schifosa, lasciata marcire in balia del tempo.
Quella stanza era molto diversa da quella precedente: era più buia e l’unica fonte di luce proveniva da una piccola lampadina appesa al soffitto. Vuota e desolata, essa era arredata unicamente da alcuni lettini di alluminio sistemati poco distanti da lei.
La rossa divagò appena con gli occhi, cercando di orientarsi, quando si rese conto che solo apparentemente quella stanza sembrava essere più tranquilla. Questo perché quasi le saltò il cuore in gola, quando ritrovò disteso sulla barella parte di un corpo frammentato e deteriorato, dimenticato lì chissà da quanto tempo. Impressionata da quella terribile visione, dovette voltarsi per non andare nel panico. Improvvisamente al suo olfatto arrivarono odori nauseabondi di sangue e marcio, di cui prima non si era resa conto essendo rinvenuta da poco. Un fetore che penetrò nei suoi polmoni in modo opprimente e rivoltante, e che sembrò aumentare sempre di più costringendola a comprimere le sue mani sullo stomaco e sulla bocca.
Tuttavia, una volta giratasi per scacciare dalla sua mente almeno quella stomachevole immagine, orribilmente ritrovò dinanzi a sé un altro cadavere dimenticato e deturpato che la fece trasalire definitivamente.
Strillò spaventata, rendendosi conto solo in quel momento di essere circondata da almeno quattro o cinque brandelli umani rinsecchiti. Uno spettacolo orribile e ripugnante che mandò in panne la sua mente, costringendo il suo stomaco a rivoltarsi. Più cercava di ignorare quel sangue rappreso, quelle ossa sporgenti e ingiallite, quella carne essiccata e inguardabile, più i suoi occhi ne catturavano ogni nauseante particolare, infierendo sul suo sgomento. Che quelle parti provenissero dallo stesso corpo o no, non ebbe voglia di analizzarlo. Voleva soltanto uscire da quella stanza al più presto!
Mentre fece per sgattaiolare, uno di quei corpi attirò la sua attenzione. Questo oscillava appeso a una catena al centro della stanza e aveva qualcosa appoggiato sulle sue mani. Qualcosa che le fu presto familiare. Era una giacchetta di pelle a giro maniche rossa, con una scritta che ben conosceva sul retro: “Let Me Live”.
I suoi occhi si spalancarono a quella visione. Era…la sua giacca quella? Perché…perché un corpo mozzato l’aveva fra le sue mani?
Seppur ripugnante, non ci pensò due volte a togliere quel suo caro capo d’abbigliamento dalle grinfie di quel brandello di carne, riappropriandosene immediatamente. Non seppe bene perché, ma un senso di rassicurazione la pervase, come se stesse ristabilendo finalmente i contatti con quella che era la sua realtà; con quello che era stato il suo mondo. Ripulì dunque la giacca dalla polvere, tuttavia essa non presentava segni di sporco e anzi…sembrava essere perfettamente pulita al contrario, come se fosse stata posta in quella stanza da poche ore. Quella constatazione le parve piuttosto strana, dunque le venne naturale guardarsi di nuovo attorno e analizzare meglio quell’orribile stanza umida. Infatti, scrutando attentamente gli altri pezzi di carne essiccata, notò con suo grande disgusto che anche questi nascondevano parti dei suoi vecchi vestiti: il suo blue jeans, infilato in un tubo di metallo infilzato alle parete, su cui era attaccato il brandello di una mano tuttora ancorato ad esso; la sua cintura, legata al lettino su cui era adagiato il primo corpo da lei rinvenuto; poi anche la sua maglietta scura, impigliata a una grata vischiosa posta accanto a un busto dal un petto scorticato. Ritrovò persino il suo collarino rosa, le scarpe e i guanti per le nocche, in prossimità sempre di vecchi brandelli di carne. Addirittura anche il suo elastico per capelli, infilato ad anello sul dito di una mano scheletrica cementificata nel muro.
Tutto era stato conservato e rinvenuto in quella massa di corpi mutilati, conservato in condizioni pressoché perfette, eppure orribilmente macabro. Ma la cosa più strana ed irritante fu che su ogni corpo deturpato ed essiccato era stato inciso un disegno…un disegno stupido e infantile: la caricatura una donna nuda di cui erano evidenziate le parti femminili in modo derisorio e immaturo, volto visibilmente a infastidire colei che a suo tempo era stata privata di quei vestiti.
Si sentì furiosa, presa in giro, umiliata. Solo qualcuno con un pessimo e malato senso dell’umorismo avrebbe potuto concepire un quadro simile.  Fu una visione angustiante, da brividi. Era spaventoso concepire qualcuno che coreografasse una simile immagine riluttante e maniaca. Chi poteva aver avuto un cattivo gusto simile??
Non che molti nomi potessero figurarsi nella sua mente, in verità….
Non riuscì a reprimere in nessun modo l’espressione di ribrezzo più profondo, rivolto al giovane padrone di quel malato castello.
Tuttavia, dato l’umido oramai permeato nelle sue ossa, nonché il freddo che incombeva in quelle tetre segreta, decise di disporre ugualmente della sua opportunità di riappropriarsi di abiti più ‘normali’, certamente più comodi e coprenti di quell’abito leggero, tagliuzzato e oramai impolverato. Così approfittò del fatto di essere sola e fece scivolare velocemente il vestito viola scuro dalle sue spalle.
Rimasta con la schiena e le gambe nude, coperta unicamente sulla zona intima, si apprestò a infilare la sua maglietta nera per non congelare di freddo.
Sistemò quindi la maglia fra le sue braccia in modo da infilarla, ma qualcosa rallentava i suoi movimenti; questo poiché si sentiva fortemente stravolta da quel senso di depravazione che l’aveva riempita di vergogna. Come si era permesso Alfred a disonorarla in quel modo assurdo e rivoltante! Era stato un atteggiamento infantile…deplorevole!
Mentre il suo animo fremeva di rabbia per quel gesto visibilmente offensivo e dispettoso, le sue attenzioni furono tuttavia catturate dall’ultima ed eclatante umiliazione inflittole.
Infatti, qualcosa aveva nuovamente attirato la sua attenzione, gettando il suo animo in un rancore ancora più tetro e profondo. Sconcertata, smise di vestirsi e, con la maglietta ancora arrotolata sul suo braccio, si avvicinò alla parete fredda e ammuffita posta alla sua destra.
Inchiodata al muro, vi era infatti la testa decapitata di un uomo oramai spolpata e invecchiata, ingolfata da quell’umidità insopportabile. I suoi occhi erano cavati, e al loro posto vi erano incise come delle virgole rivolte verso l’alto. Non solo. Anche la bocca era stata asportata, ritagliata secondo una forma triangolare, che scopriva in modo raccapricciante la dentatura, come se fosse un perverso sorriso sanguinario.
Era abbastanza evidente, crudelmente evidente, quale immagine avesse voluto suscitare colui che aveva deturpato quel volto.  
Quel che vi era incisa, era una faccia ridente, intagliata probabilmente con un coltello, che ricordava il disegno di una gif da chat piuttosto macabra; una visione che torturò psicologicamente Claire, abbattendo il suo animo già devastato. Era il sorriso più triste e disperato che avesse mai visto; fu straziante e opprimente essere lì a contemplarlo, non potendo nemmeno più immaginare quale viso un tempo si celasse dietro quei dolorosi e meschini tagli.
Come se non bastasse quel terribile sorriso ad angosciarla, qualcos’altro aveva umiliato quella testa decapitata; qualcosa che era posto sul suo capo e che la fece inorridire. Questo poiché su di esso vi erano infilate inspiegabilmente delle mutandine.
Era un intimo indubbiamente giovane e attuale, che presto le fu altamente familiare.
La ragazza girò gli occhi, paonazza, vogliosa di prendere immediatamente a pugni qualcuno, poiché riconobbe immediatamente quell’indumento intimo, che…era suo!
Fuori di se dalla rabbia e dalla vergogna di quell’oltraggio macabro e riluttante, non potette credere a quel che aveva davanti ai suoi occhi. Un’immagine derisoria e offensiva, elaborata con il losco e meschino scopo di maltrattarla.
Si sentì violentata e disturbata da quel pensiero, che ne scaturì ben presto altri, tra cui cosa fosse effettivamente successo quando era stata sedata alla mercé di Alfred, ma preferì non indagare oltre. Bastava quel che aveva visto… e per la sua sanità mentale era anche fin troppo!
Ritrovò allacciato al busto di un altro corpo anche il suo reggiseno, che vestiva in modo comico e angustiante un busto deteriorato e marcito gettato in un angolo della stanza.
Era troppo…non poteva sopportare oltre!!
 
“Phff…”
 
Un suono attirò l’attenzione di Claire, e a quel punto per Alfred fu impossibile trattenersi.
 
Ah,ah,ah,ah!”
 
“!!!”
 
Un’irritante e ben conosciuto sogghigno mise in allarme la giovane, che sbandò letteralmente, cominciando a girarsi intorno, presa alla sprovvista. Essendo quasi completamente svestita, premette la maglietta nera contro il suo corpo, riparandosi da qualsiasi tipo di occhiate indiscrete. Intanto indietreggiò fino a comprimere la schiena contro il muro, non volendo che l’interlocutore potesse osservarla alle sue spalle. Cercò la fonte dell’altoparlante, ma ancora una volta era come se quella voce echeggiasse in un etere incorporeo e irraggiungibile.
 
“Veramente divertente, vero? Sono sicuro che avrai apprezzato il mio gesto magnanimo di restituirti i tuoi abiti. In fin dei conti, te lo dovevo, data la libertà che ti sei presa nel rovinare il prezioso vestito di Alexia.”
 
Proferì la voce divertita di Alfred Ashford che rimbombava in quell’inquietante e perversa sala mortuaria. Egli sembrava eccitato e infervorato al massimo nel vedere la piccola e indifesa Claire, premuta contro il muro, nuda e impotente. Era stato estasiante per lui vedere la sua reazione al piccolo scherzetto da lui escogitato per vendicarsi dei soprusi subiti.
 
“Tu…sei un maiale!” urlò Claire in preda all’imbarazzo, stringendo a se ancora più forte il tessuto nero della sua maglietta. “Cosa diavolo ti è venuto in mente?! Vestire dei cadaveri con i miei abiti…sei veramente un pervertito!”
 
A quell’affermazione, partì l’ennesima risata di Alfred, che stava davvero godendo della sua burla di cattivo gusto.
 
“Era soltanto un gioco, Claire. Ti sei divertita almeno quanto mi sono divertito io a raccogliere i lembi del mio prezioso vestito quando tu lo hai tagliuzzato. Ah,ah,ah!”
 
La rossa digrignò i denti. Possibile che la sua mente avesse elaborato una “vendetta” così inquietante, macabra e infantile, soltanto perché lei aveva sminuzzato la gonna di quell’abito? Era un ragazzo veramente pazzo. Un pazzo scellerato.
Dal suo canto Alfred, accorgendosi che lo sguardo di Claire sgattaiolava da tutte le parti, rimase un attimo in silenzio. Cosa stava cercando, si domandò. Da cosa rifuggivano i suoi occhi imbarazzati e infastiditi? D’improvviso comprese, e l’appagamento di quella consapevolezza lo deliziò enormemente, facendolo sussultare di una gioia crudele e maliziosa.
 
“Cosa c’è? Ti senti forse in soggezione a ritrovarti miseramente svestita al mio cospetto? Ti informo che non ho mai smesso di osservare i tuoi movimenti……….i miei occhi possono raggiungerti ovunque, Claire…e in qualunque momento…”
 
Disse mentre il suo sguardo si posava sul corpo semi nudo della ragazza, schiacciato contro la parete. Esso scorreva sulle sue gambe scoperte, sul suo intimo protetto dalla biancheria, sul suo petto riparato dalla maglietta nera raggomitolata, compressa dalle sue sottili e delicate mani… ed infine sulle sue dolci e pallide spalle.
Fu una visione meravigliosa e molto interessante. Inebriato dall’armonia di quel corpo allenato eppure sottile, curvilineo e femminile, non si rese conto del silenzio che si era scaturito e che aveva messo in allarme Claire, già paonazza.
La rossa cercò di non farsi soggiogare e di non cadere nella sua umiliante trappola. Deglutì nervosa. Il suo viso corrucciato era il limpido portavoce del suo stato d’animo umiliato e sul punto di perdere la ragione. Tuttavia decise di reprimersi, per uscire al più presto da quella situazione.
Aveva oramai ben compreso che l’intero castello fosse monitorato, tanto valeva quindi evitare di perder tempo inutilmente; così si girò verso il muro dando le spalle al biondo che silenzioso la stava ancora osservando.
Alfred, ripresosi all'istante dal suo sogno ad occhi aperti, vide sparire violentemente l’idilliaca immagine di quel corpo stupefacente. Dalla stanza di monitoraggio, scattò in piedi dalla sedia su cui era prima adagiato, offeso dal fatto che lei gli avesse dato scortesemente le spalle.
 
“Cosa stai facendo, Redfield?!”
 
Rimproverò arrabbiato a quella donna che aveva osato affrontarlo in quel modo.
 
“Cosa sto facendo?”
 
Ripeté invece lei, scostando la sua maglietta dal petto e infilandola prima tra le braccia, e poi sulla testa.
 
“Hai detto che non posso nascondermi, e quindi mi vesto qui e subito.”
 
Tirò giù il tessuto comprendo il busto fino all’ombelico, dopodiché salì i jeans e infilò le scarpe, e finalmente ritornò ad essere abbigliata come una persona normale. Salì la cerniera della sua cara giacca di pelle, lieta di riavere sulle sue spalle uno dei suoi capi più caratteristici e preziosi. Completò infine il look con i guanti per le nocche e il collarino legato sul collo.
Quando finalmente si voltò di nuovo allontanandosi dal muro, pettinò i capelli arruffati con le mani, in modo da raccoglierli dietro la nuca, in un codino ad altezza media, che finalmente rimise in ordine la sua figura.
 
“Beh? Sei rimasto azzittito, Alfred?” stavolta fu lei a prenderlo in giro, ma subito dopo puntò minacciosamente l’indice verso di lui, con fare di sfida. “Appena ti trovo, ti farò vedere cosa ti combino!”
 
Disse appoggiando poi le mani sulla schiena in modo arrogante e irriverente, giocando con lui come se non si fosse sentita mortificata affatto dal suo dispetto infantile; cosa che fece imbestialire l’uomo dai capelli pallidi, che infatti gettò il microfono a terra, interrompendo la trasmissione.
 
“Ah, sì? Credi di essere più furba di me? Te ne pentirai, Claire…vedrai che questa guerra sarò io a vincerla!”
 
Disse alzando un pugno verso di se, comprimendo la rabbia che gli contorceva le viscere, non potendo sopportare la visione di quella donna così indegna di solcare i luoghi del suo castello.
Intanto Claire si piegò verso quello che era stato il vestito di Alexia, raccogliendolo e buttandolo addosso al cadavere sdraiato sulla barella posta in mezzo, restituendo il disgustoso favore ricevuto da Alfred.
In seguito proseguì per la sua strada, oltrepassando l’ennesima porta che l’avrebbe presto condotta in una nuova area del castello.
 
***
 
Una volta fuoriuscita dall’umida e macabra sala mortuaria, Claire Redfield percorse una buia e lunga rampa di scale di pietra corrosa, la quale la condusse al di sotto di una botola di ferro.
Alzò le mani e tastò quel coperchio pesante cercando di farlo oscillare per verificare se fosse aperto, e per sua fortuna questi si sollevò abbastanza facilmente. Spinse dunque con maggiore decisione, riuscendo ad aprire quel passaggio che finalmente la fece riemergere da quelle tetre e nefaste catacombe. Si mise in piedi, sfinita e vogliosa di giungere al temine di quella snervante prova di resistenza tra lei e Alfred, che stava mettendo a dura prova i suoi nervi, molto più di quanto faceva a Rockfort Island.
Per qualche strana ragione egli era diventato adesso più morboso, insistente; il suo istintivo già sapeva di essersi ingabbiata in una situazione di ossessione perversa e malata, da cui avrebbe dovuto lottare duramente per fuoriuscire.
Tuttavia l’essersi riappropriata dei suoi abiti civili, e aver quindi gettato definitivamente la maschera che l’aveva resa la somma regina di quel castello, protagonista dei sogni mentecatti e irrealizzabili di Alfred Ashford, era come se avesse definitivamente chiuso quell’amara parentesi in cui quell’uomo aveva cercato di renderla come la sua gemella. Questo passo sembrava affermare in modo inconfutabile quella diversità di ruoli fra lei e Alexia, cosa di cui persino Alfred avrebbe dovuto capacitarsene ormai. Qualcosa dunque si stava lentamente sciogliendo, adesso che almeno si era riappropriata della sua identità al cento per cento, non avendo più nulla con se che ricordasse quella malata trasformazione.
Mentre rifletteva riguardo la suddetta circostanza, guardò la stanza dove era subentrata, accorgendosi che era una camera da letto…e non una camera da letto qualsiasi.
Adesso la riconosceva a stento, dato che l’ultima volta che l’aveva vista il suo corpo era nauseato e assopito, ma era chiaro dove si trovasse: il passaggio segreto appena percorso conduceva nella camera di Alexia Ashford. Quella che era stata la sua stanza.
La penombra di quell’ambiente addolciva i contorni di ogni elemento su cui il suo sguardo lentamente si posava. La leggera tenda che ondeggiava alle sue spalle, il letto a baldacchino ampio e barocco, rivestito dalle luminose lenzuola di seta, a capo delle quali era disposta una voluminosa trapunta finemente decorata; i mobili antichi color mogano, i candelieri spenti adagiati su di essi; la specchiera i cui sportelli erano chiusi dalle ante di legno. Il tutto dominato dalle pareti tinteggiate di rosso vinaccio, che conferivano a quella stanza un’aria misteriosa e oscura; come se in essa tutto fosse stato celato da quel buio ombroso conoscitore di segreti che non potevano essere svelati.
Infine, al centro della stanza, ecco che era sistemato quell’unico oggetto che rievocava le orrende visioni viste in quei sotterranei appena percorsi: il trono corredato di maniglie arrugginite.
La Redfield si avvicinò a quella poltrona con fare nostalgico e malinconico, come se attraverso esso potesse accarezzare i patimenti subiti nel frangente in cui era stata imprigionata. Il suo cuore era come se si fosse fermato, rievocando i suoi disperati sentimenti di completo smarrimento, inerzia e soffocazione, ove aveva dimenticato persino chi fosse.
La sua famiglia, i suoi amici, i suoi ricordi….ogni cosa le fosse cara e che costituiva l’unica forza che la spingeva ancora a sopravvivere e a tornare a casa. Le era stato tolto ogni cosa pur di farle perdere il senno e farla partecipe di quell’assurda commedia di cui mai e poi mai avrebbe fatto parte.
Immersa nella suggestione di quelle liete e dolci reminiscenze tornate a scaldarla dopo quei giorni perduti nell’oblio, non si accorse tuttavia di un’ombra che invece si stava avvicinando tetra alle sue spalle.
 
“Non muoverti, Claire.”
 
Disse qualcuno alle sue spalle in modo cupo e minaccioso, lasciando sconvolta la giovane ragazza dai capelli rossi, che si voltò lentamente avendo già riconosciuto quel timbro di voce.
 
“Alfred….”
 
Pronunciò, ma non fece in tempo a mettere in atto una qualsiasi reazione, che subito il ragazzo la colpì con il manico del fucile da caccia che sorreggeva ancora una volta fra le sue mani.
 
“Non muoverti, ho detto! Hai abusato anche troppo della mia pazienza, ed adesso tutto finirà nel luogo dove è giusto che finisca!”
 
“Diavolo, Alfred! Non sono Alexia e non lo sono mai stata! Perché sei così arrabbiato per questa assurda storia che tu stesso hai architettato! Non avresti mai potuto trasformarmi in lei!”
 
Urlò la ragazza impostando un tono duro ed autorevole, mentre premeva le mani doloranti sulla lanugine ruvida della mouquette che pungeva sulla sua pelle. Disse quella frase sperando di farlo ragionare, di spegnere quel fuoco che in modo evidente l’aveva scatenato; che Alfred fosse un uomo folle e fuori di sé, era un dato di fatto appurato fin dal loro primissimo incontro, avvenuto sulla scalinata della Villa di Rockfort Island. Tuttavia adesso sembrava ancora più schizzato e sconvolto, un’alchimia che stava cominciando a spaventarla sul serio, rappresentando quel che lui era stato capace di farle dopo il giorno in cui era riuscita a fuggire con Steve. Egli aveva ampiamente dimostrato dove la sua pazzia poteva arrivare, fino a quanto la sua fantasia folle potesse arrivare a costruire per di rinforzare i muri di quell’ inconcepibile recita teatrale. Doveva quindi imporsi e cacciare le unghie, per non permettergli mai più di cercare di annientarla in quel modo meschino e umiliante.
Quel che però non si aspettò, fu la risposta del giovane. Egli infatti urlò più forte di lei, azzittendola di colpo, proferendo parole che rimbombarono fortemente dentro di lei.
Parole che non si aspettò affatto di sentire dalla sua bocca.
 
“Zitta!” disse. “Cosa ti fa pensare che io non lo sappia perfettamente?!”
 
Dichiarò in modo inaspettato. Un qualcosa che sembrava impossibile che accadesse, eppure stava succedendo in quel momento esatto, davanti ai suoi occhi.
La rossa non seppe che dire, che pensare….rimase immobile, esterrefatta a guardarlo dal basso, schiacciata sul pavimento e con la testa rivolta verso di lui; questo mentre l’uomo dai capelli pallidi continuava il discorso in modo deciso e arrabbiato, lasciando intendere un senso di ovvietà che non fece che spiazzarla parola dopo parola.
Allora…era vero…
Lui…aveva sempre saputo tutto…
 
“Tu…Alexia? Ma per favore! Non incarni nemmeno il minimo del suo fascino e del suo genio. La mia amata sorellina era maestosa, potente, non un’inutile formica come te!”
 
Disse lui inorgoglito di Alexia, lodando la sua Donna, meritevole di eterna gloria e prestigio; mostrando al contempo quanto ignobile e spregevole fosse una ‘normale donna’ difronte colei che era la Regina.
Ma qualcosa non quadrava…
Qualcosa di anomalo e incoerente era visibilmente celato in quella dichiarazione; un qualcosa che fece scattare Claire Redfield, la quale non faceva che interrogarsi sulle contraddizioni di quell’uomo, che non solo l’aveva minacciata di morte e l’aveva rapita. Si era preso la libertà di mascherarla nella sua fascinosa sorella, trasformandola in una stupida marionetta ben agghindata, e che pur di averla al suo fianco, l’aveva imprigionata e narcotizzata.
Allora perché?
Perché aveva portato in scena quella nauseabonda sceneggiata, se invece dentro la odiava e la disprezzava così profondamente? Cosa lo aveva spinto a credere a quella sciocchezza, quindi?
Dentro di se rivedeva il viso perfetto di Alfred, con quell’espressione idilliaca e felice. Quei suoi occhi luminosi e ridenti, appagati dalla sua presenza, lieti di cullarsi in quell’inganno in cui Claire era magicamente divenuta la sua agognata Alexia.
Egli ci aveva creduto; aveva deciso spontaneamente di vivere quell’illusione, che bastava ad allietarlo e a riportare indietro quell’amore perduto che sfuggiva dalle sue mani. Quell’evanescente carezza che non aveva mai ricevuto, e che solo con la menzogna poteva rievocare.
Eppure adesso quegli stessi occhi innamorati di quel sogno, vomitavano addosso a quella stessa realtà da lui osannata, e di cui in verità da tempo avrebbe dovuto accorgersene: i meri fatti. La realtà tangibile. La vita dietro il sipario.
La contraddizione di quel gioco mendace da lui stesso messo in atto, stava facendo a cazzotti nella sua mente, esattamente come in quella notte in cui lei aveva ripreso coscienza ed egli aveva cercato di riporre forzatamente la parrucca bionda sul suo capo per credere ancora in quel miraggio.
Alfred….era consapevole sì o no che Alexia esistesse solo nella sua testa? Era consapevole della sua messinscena? Oppure era veramente pazzo?
Egli aveva appena ammesso di sapere benissimo che lei non era Alexia, e che anzi…non lo sarebbe mai stata!
E allora cosa non quadrava…? Quale tassello non riusciva a intersecarsi in quell’assurda faccenda?
 
“Se la pensi così…allora perché hai fatto tutto questo?”
 
Esplose infine Claire, non riuscendo a capirci più nulla. Nella sua mente era tutto troppo confuso, si sentiva esasperata. Lei non era portata per quei mastodontici ragionamenti psicologici! Non ne aveva mai fatti nella sua vita, perché mai doveva cominciare con Alfred?
Eppure in quel momento aveva la necessità di capire…di capire fino in fondo cosa non quadrasse in quella mente.
Lo guardò speranzosa, quasi implorandogli di darle un chiarimento, anche sciocco, anche incomprensibile.
Ne aveva bisogno, ne necessitava più che mai; non riusciva proprio a capacitarsi in nessun modo di quell’incoerenza e follia che stavano portando sull’orlo dell’abisso anche lei. Oramai la sua mente bramava quella risposta più di ogni altra cosa, e riteneva che forse persino lui aveva bisogno di ammettere a se stesso il perché della sua pazzia.
La rossa dunque strinse le labbra, in trepidazione, dando il tempo a quel viso sconvolto di elaborare quella risposta; tuttavia quel che vide, furono due occhi che si fecero sempre più tetri, sempre di più….fino a divenire corrucciati, poi confusi, poi disperati e adirati… come se la sua mente stesse andando in panne.
Come se non potesse elaborare una qualunque contro risposta.
 
“Perché…” si fermò, farfugliando parole prive di connessione logica. “…perché lei lo voleva….la devo proteggere…ma lei….non…lei….lei….lei…”
 
La sua espressione infine mutò nel lasso di un secondo.
 
“Come osi!! Lei non c’entra! Non ti permetterò di infangarmi!!”
 
Tuonò impetuoso verso di lei.
Claire si impressionò a quell’impeto di ira che traboccava da ogni parte del suo corpo. Il suo urlo d’odio, i suoi occhi folli, e le sue parole incomprensibili. Sobbalzò quando lo vide perdere la ragione in quel modo, urlando come un pazzo mentecatto. La rossa si pietrificò all’istante, terrorizzata da quell’immagine, da quell’uomo in balia di un’aggressività disperata mai vista.
Cosa lo stava lacerando fino a quel punto? Cosa non riusciva ad ammettere nemmeno con se stesso?
Perché adesso insinuava che Alexia non c’entrava in quel discorso? Non aveva senso!
Inoltre….in cosa lei lo stava infangando?! Semmai era l’esatto contrario! Era lui che l’aveva umiliata fino al limite della sopportazione, imprigionandola, vestendola da Alexia, drogandola e poi beffandosi di lei in quelle segrete dove l’aveva appena condotta appositamente per prendersi gioco di lei!
Cosa quindi stava sott’intendendo con quell’affermazione illogica?
Comprese d’improvviso che di tutta quella commedia recitata da folli, lei conosceva soltanto il primissimo atto, ove erano stati appena presentati i personaggi e solo alcune situazioni generali; mentre nascoste nel profondo, vi erano ancora le scene madri, di cui ella era totalmente ignara ma ne avvertiva la forte ponderosità e gravezza.
Intanto Alfred tremava. Tremava di rabbia di fronte la sua stupida ed irritante interlocutrice, che aveva osato invadere quella terra che nessuno doveva solcare. Quel posto segregato e consacrato a una sola persona, e che mai avrebbe dovuto essere profanato da alcuno che non fosse Lei.
Claire Redfield tormentava quindi il suo paradiso personale; quel suo universo perfettamente equilibrato, costruito con amore e dedizione, con cieca e servile venerazione, come una leggiadra e delicata ragnatela dalla struttura solida e indistruttibile.
La rossa era solo d’intralcio in quella storia. Una nera e oscura macchiolina d’inchiostro che stava rovinando il suo quadro, allargandosi sempre di più, sempre di più…
Ella era un’insignificante essere mediocre, che non aveva il diritto di disonorare il suo mondo!
Così, in preda alla collera e alla più disperata ossessione verso quell’equilibrio che arrancava sempre più a tenere in piedi dopo quindici anni di menzogna, egli si scagliò verso Claire facendo per raggiungere la sua gola.
La ragazza, vedendolo approssimarsi così rapidamente verso di lei, fece del suo meglio per allontanarsi dalla sua gittata, ma lui fu troppo veloce. Se lo ritrovò addosso in meno di un istante e dovette combattere duramente contro l’ira che traboccava dai suoi occhi.  Le sue mani, come degli artigli assassini, afferrarono con brutalità il suo collo, stringendo con fare omicida. Contrastare la forza immane che lo stava guidando fu impossibile. Sentì le sue ossa scricchiolare mentre l’aria cominciava a non arrivare più al cervello soffocando in quella morsa letale. Aveva pochi secondi per reagire prima di perdere i sensi e morire, così tastò con una mano nei pressi del pavimento, nella speranza di sfruttare qualunque cosa fosse nei paraggi; tuttavia non c’era niente che potesse aiutarla. Provò ad estrarre il coltello da cucina che aveva infilato nella cintura, ma l’agitazione fu tale da impedirle di muoversi come avrebbe voluto.
Era disperata di fronte il suo destino che velocemente stava incombendo; presto tutto sarebbe finito e lei sarebbe stata schiacciata da quel forsennato e squilibrato uomo dai capelli pallidi.

Non doveva andare così…non doveva….
No……
Non….non lo avrebbe permesso!
All'improvviso sollevò violentemente un ginocchio, colpendo Alfred in modo cruento e inarrestabile. Egli cadde di fianco, lacerato da quel dolore inaspettato, e trascinò Claire con sé non mollando la presa. Fu l’inizio di una breve ma inarrestabile lotta. La ragazza non poteva certo contrastare la forza fisica di colui che rimaneva un uomo d’armi, tuttavia riuscì a competere, guidata dalla rabbia che scorreva nella sue vene; da quella forte scarica di adrenalina che non riusciva più a controllare e che si stava aggravando verso quel male che aveva tentato di decretare la sua fine. La rossa a quel punto voleva solo metterlo fuori gioco, spaventata, frustrata, ormai al culmine della sopportazione. Non voleva soccombere.
Alfred, ritrovatosi a combattere contro quella tenace ragazza, cercò di sopraffarla serrando con veemenza i suoi polsi fra le sue mani, stringendoli in modo feroce, non potendo sopportare di essere battuto da lei. Claire ebbe prontezza di spirito. Muovendosi in modo frenetico, riuscì a non farsi sottomettere e, con i polsi ancora imprigionati nelle morse delle sue mani, riuscì a roteare col busto fino a farlo sbattere violentemente contro un piccolo comodino posto alle sue spalle.
Alfred scontrò la nuca contro lo spigolo di quel basso mobiletto; l’urto fu tremendo e costrinse l’uomo ad accasciarsi, rimanendo con la schiena appoggiata ad esso. Digrignò i denti, contorcendosi in quel nefasto dolore lancinante, che lo disorientò facendogli perdere momentaneamente i sensi.
Quel risvolto inaspettato risvegliò Claire da quell’impeto di collera.
Affannata e sconvolta, il suo petto di gonfiava e si sgonfiava, cercando di reprimere la paura e il senso di smarrimento. Rimase inerme ad osservare il suo corpo svenuto prima di connettere e riprendere a pensare lucidamente.
Lei…non stava facendo altro che proteggersi; la sua reazione violenta era giustificata da quell’istinto di sopravvivenza che era fondamentale per rimanere vivo in circostanze come quelle in cui la vita è a repentaglio. Ne era consapevole, più che consapevole!
Eppure…
Eppure, quando vide il biondo piegare la testa e perdere i sensi accasciandosi a terra con la schiena premuta contro il piccolo comò, sentì il suo cuore fermarsi. Tremò tutta, cominciando a sentire l’ansia lievitare dentro di se, fino a mandare nel panico la sua mente, impedendole di razionalizzare cosa fosse davvero successo.
Quel che fece non aveva del razionale, perché era stato lui l’aggressore; lei non aveva motivo per sentirsi in colpa. Eppure si gettò ai suoi piedi, cadendo accanto ad Alfred, speranzosa di non averlo ucciso.
Non era pronta…non era pronta a uccidere qualcuno, ne lo sarebbe mai stata! Non voleva, non voleva, dannazione!
Si avvicinò al suo viso e sì spaventò quando vide del sangue gocciolare dalla sua fronte. Portò le mani sulla bocca, disperata, non potendo accettare in nessun modo quel che era appena accaduto, quel che lei aveva compiuto. In cosa si era trasformata? Come aveva potuto colpirlo in quel modo? Era stato un incidente!
Cosa doveva fare, adesso? Cosa?!
Portò le dita verso la sua carotide, le quali tremavano come una foglia, per accertarsi di quel destino fatale di cui lui era stato vittima. Tuttavia, mentre si approssimò verso di lui, il biondo si mosse impercettibilmente, emanando fugaci segnali di vita, poi alzò una mano per impedirle di toccarlo.
 
“C…Claire…” sussurrò lui a denti stretti, nell’incoscienza. “….non…..ti perdonerò mai….”
 
La sua vista annebbiata e la sua parziale perdita di coscienza gli impedirono di riprendere totalmente conoscenza; la sua fronte era corrucciata e a stento riusciva a sollevare la testa. Però era vivo…! Quel colpo non lo aveva ucciso.
Una contentezza spropositata si accese nella giovane Claire, la quale si sentì confortata quando fu evidente che lui aveva solo sbattuto violentemente la testa. Una felicità anomala, incoerente, irrazionale… eppure la rossa non poté reprimere in nessun modo le sue labbra che si allargavano in preda alla gioia più ingenua e genuina di fronte quell’infelice fatalità che avrebbe potuto trasformarla in qualcosa che non voleva.
Ella non desiderava la morte di nessuno, auspicava solo ad uscire viva da quel castello labirintico, niente di più. Avrebbe fatto tutto ciò che era in suo potere per scappare e sconfiggere i suoi nemici, ma la morte di essi non era mai stata una sua prerogativa.
Vedere dunque il volto smarrito e sconcertato di Alfred, che stordito socchiudeva gli occhi in modo assente ma vitale, le comunicò un calore umano che sembrò cancellare per un istante l’inimicizia che vi era fra i due: l’eterna lotta fra vittima e carceriere. Qualcosa che non si poteva spiegare a parole, ma che in modo sintetico poteva riassumersi in quel rispetto per la vita umana che invece mancava fra quelle mura.
La perversione e la crudeltà che, perpetuata nel tempo, poteva esasperare persino gli animi più nobili, portandoli a impazzire assieme alla follia stessa.
Aveva rischiato di venirne soggiogata, ma lei non sarebbe mai stata come loro. La pietà era un sentimento incomprensibile per coloro che non avevano mai conosciuto il calore e l’affetto, quel rispetto per la vita che ogni persona avrebbe sempre dovuto riconoscere e proteggere.
Quindi non era anomalo o incoerente assicuratasi della sua sopravvivenza; era qualcosa che aveva fatto perché lei era onesta, morale…umana.
Non avrebbe mai guardato con sguardo indifferente qualcuno che era ferito, nemmeno se questi era un suo nemico.
Claire si sentì decisa più che mai a continuare per la sua strada e lasciare quel luogo funesto e malato che era capace di traviare l’esistenza di chiunque varcasse la sua soglia.
Superato quel brutto momento, fece per sollevarsi, tuttavia qualcosa bloccò i suoi movimenti. Si voltò.
La mano del biondo era di nuovo avvinghiata sul suo polso. Egli la guardava severo, penetrante, mentre un leggero filamento di sangue scorreva dalla sua fronte, scivolando su un sopracciglio macchiandolo appena di rosso.
I suoi occhi spettrali, chiarissimi e inquietanti, erano fissi su di lei, come fossero due magneti attirati dalle sue iridi blu; un contatto visivo dal quale la ragazza non poté divincolarsi. Una presa che la vincolò a lui persino più del suo polso serrato nella sua mano, che la stringeva sempre più forte.
Egli scrutava prepotente quell’immagine che lo aveva folgorato. L’Altra Donna riapparsa davanti ai suoi occhi, con i capelli rossi, il volto determinato, quell’indole forte e indomabile, quegli abiti da maschiaccio…
Un volto che aveva cercato di nascondere e mascherare, per dimenticarlo e rimanere fedele a quell’unica concepibile fede che lo teneva in piedi. 
Rimase ingabbiato quindi dal fascino del proibito, incapace di scostare i suoi occhi da esso, come ipnotizzato da quel qualcosa che aveva cercato di celare in tutti i modi e che adesso era lì, di fronte a se, pronto a trarlo in trappola.
 
“Non…ti permetterò di intralciarmi ancora!”
 
Pronunciò crudele con voce rauca e sprezzante, distruggendo ancora una volta la mente confusa della giovane donna dai capelli rossi, che rimase attonita a guardarlo, ancora inconsapevole del mondo contorto e devastato che si celava in realtà dietro quegli occhi.
 


***








Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** Capitolo 7: un ostinato burattinaio ***


 
  
  
  
  
Capitolo 7: un ostinato burattinaio 
  
  
  
  
  
  

  
Dicembre 1983 
Centro di Ricerca Antartico 
  
  
  
  
  
  
  
  
“Aaaargh….” 
  
Un urlo soffocato tuonò per le fredde e desolate celle sotterranee. 
Come un triste soffio gelido emanato in una stanza già fredda, esso si confondeva fino a scomparire in quell’ambiente inumano, ove erano crudelmente accolte le anime condannate per i loro peccati. 
La sua agonia passava inosservata e suscitava solo indifferenza in quel carcere del male. Quei tremendi mormorii di dolore altro non erano che un comune suono, che si confondeva fino a far parte in modo macabramente perfetto di quel mondo. 
Cavie meste e addolorate, fautrici in parte del loro destino, eppure troppo amaramente castigate in quella vile condizione. 
La pietà era un qualcosa che era rimasto fuori da quelle mura incapaci di provare un’umanità che mai avevano conosciuto. 
Non esisteva perdono, nessuna via per la redenzione…i peccatori venivano puniti, ed in modo inesorabile avrebbero pagato il debito dei loro crimini. 
Il grido disperato di quella creatura era bloccato dietro una cinta nera, che schiacciava la sua bocca non concedendo a quel prigioniero nemmeno il diritto di sfogare il suo dolore. 
In quelle urla asfissiate, angosciate, crucciate, potevano sentirsi i tormenti di una vita distrutta, condannata per la sua inettitudine; per il suo essere stato un insulso e brutale uomo, che si lasciò guidare da una pazzia che non gli aveva permesso di scorgere quel che presto avrebbe causato il male della sua esistenza. 
Che gli dei possano perdonare l’atroce condizione in cui egli era stato recluso. Se soltanto fosse stato solamente quello il suo castigo... 
Perché nessun dio l’avrebbe mai perdonato, tuttavia non per quel che aveva fatto…ma per quel che le sue azioni avevano decretato dopo. 
Le conseguenze di un’ambizione che aveva portato al martirio non solo la sua realtà, ma anche quella di coloro che erano stati al suo fianco. 
  
Un volto scavato, grigio, screpolato; i segni di un fisico deturpato e umiliato. 
Il suo corpo nudo, ricoperto unicamente da un telo color pece cucito sulle sue gambe, lasciato a morire di freddo dietro quelle gelide sbarre. 
Lacerato dalla corporatura geneticamente modificata, che aveva sfigurato le sue carni fino a deformarne le sue fattezze un tempo umane, egli si dimenava dolorante, non potendo contenere la sua agonia. 
Le ossa che perforavano la sua pelle, la sua massa muscolare che cresceva, il sangue che colava dalle sue ferite. 
I suoi occhi rossi e cavati erano nascosti dietro una fasciatura di cuoio, che gettava ancor più nel buio quel mostro agonizzante e violento, ingabbiato nelle morse rugginose che lo ancoravano al muro per impedirne la sua ribellione. 
Egli era imprigionato da delle robuste cinghie, che lo segavano e lo imbrigliavano; esse violentavano il suo corpo che mai aveva avuto riposo dal ‘giorno del giudizio’: quando la sua anima era stata giudicata e condannata. 
Se soltanto avesse perduto il senno e avesse potuto divenire un mostro inumano…invece era soltanto un essere raccapricciante e violento, animato dal tormento di quel martirio infinito, e dalle pulsioni feroci e bestiali che portavano all’auto distruzione coloro che venivano infetti da quella maledizione. 
Potente, invincibile, inarrestabile…le sue mani erano state bloccate in dei ferri pesanti, serrate dietro la sua schiena. 
Alcuno avrebbe mai potuto liberarlo, tale era la sua natura frustrata, eppure rabbiosa. La furia omicida di quell’essere oramai incapace di contenere il potere col quale era stato nutrito. 
Quali atroci sorti sarebbero toccate a colui che avrebbe visto il lugubre e terrificante Nosferatu libero da quei vincoli, al pieno della sua potenza..? 
  

Il suo unico istinto, ora, era di uccidere…uccidere…uccidere… 
  
Sentiva l’odore del sangue, un odore appagante, delizioso, soddisfacente, e che bramava…bramava ai limiti della follia. 
Una gigantesca ascia era posta dinanzi a lui, quasi a voler perseguitare la furia omicida di quella macchina assassina inarrestabile, lasciata a marcire, a imputridire, fino a ben oltre la morte, imprigionata in quella segreta. Simbolo della sua forza e della sua devastazione, che mai avrebbe potuto sfogare. 
Nessuno avrebbe messo fine al suo dolore. 
Il suo eco disperato non sarebbe mai stato accolto. 
  

Il suo nome, che in rumeno significava “non spirato”, era la riprova di ciò che era e sarebbe stato: era questa la sua maledizione. 
Il potere e la forza incommensurabile di un esperimento fallito, sfruttato e maltrattato in modo che le sue pene non sarebbero mai state dimenticate. 
Un intero corpo posseduto da forze oscure, capace soltanto di contaminare con la sua peste nera e cibarsi del sangue delle sue vittime. 
Era questa la bara dove egli avrebbe dormito per sempre. 
  
  
  
  

“Padre.” 
  
  
  
  
Un giovane ragazzo dai capelli biondi osservava in modo apatico ed indifferente le atroci sorti di quello che era stato soltanto un ripugnate uomo. 
La sua voce rimbombava nei suoi timpani non suscitandogli alcun sentimento. Né dolore, né gioia, né sofferenza, neppure fastidio. 
Se ne stava soltanto lì, a guardarlo da lontano con le braccia incrociate attraverso la grata d’acciaio posta ai suoi piedi. 
Una cavia inutile e vergognosa che non meritava nemmeno di approssimarsi a lui e che doveva marcire metri e metri sotto di lui. 
Lo guardò con disgusto, con quel tipico sguardo di chi non osa nemmeno avvicinarsi a qualcosa di così deplorevole. L’insofferenza e il ribrezzo erano tali da impedirgli di vedere in quel viso angustiato e mostruoso colui che in passato era stato suo padre. 
La sua disperazione, la sua paura, la sua sofferenza, non lo scalfivano nemmeno. Un’apatia totale avvolgeva quel viso giovanissimo ed acerbo, trasformando quel ragazzino in qualcosa di atroce e angustiante da vedere; qualcosa che non era per nulla assimilabile a un bambino… 
Egli rimase inerme, sprezzante ed altezzoso, mentre contemplava lo squarcio sul petto di Nosferatu, dal quale fuoriusciva un organo molliccio e sanguinolento, nel luogo nel quale avrebbe dovuto trovarsi il suo cuore. 
Quello era l’unico punto lasciato scoperto del suo orribile corpo mutato, volto a simboleggiare quella cosa che gli era sempre mancata. 
Quella dolorosa apertura contorceva quell’uomo, facendolo dimenare disperatamente. 
Era orribile, disumano, penoso… egli non sapeva nemmeno perché l’unico punto vulnerabile del suo corpo fosse proprio il suo cuore, squarciato in modo atroce e violento, in modo che tutti potessero vederlo; in modo che mai avrebbe potuto ignorare tale ferita. 
Il ragazzino biondo lo contemplava dall’alto della sua posizione con quella cieca consapevolezza, irritato e nauseato dal rivoltante ricordo che un tempo aveva di quell’uomo… 
Un uomo che aveva amato… 
Eppure… 
  

Eppure cosa aveva fatto loro… 
La reale ragione della sua nascita… 
I reali scopi di colui che gli aveva dato la vita. 
  
Non l’avrebbe mai perdonato. 
  
Alexander Ashford aveva spezzato il suo cuore e quello di sua sorella… 
Ed ora, quello stesso cuore che era stato strappato loro, avrebbe straziato anche lui. 
Lui che non ne aveva mai posseduto uno, avrebbe conosciuto col tormento cosa significava… 
…quanto dolorosa fosse la sua ferita e quella di Alexia… 
  
Al biondino si approssimò una giovane ragazza, anch’ella dall’aspetto puerile ma raffinato come lui. 
Gli si affiancò, ponendo il suo sguardo nella sua stessa direzione, scrutando in modo passivo la loro recente cavia in modo similare a suo fratello gemello. 
Probabilmente i loro pensieri erano gli stessi, lo dimostrava quel luccichio di amaro disprezzo impresso nei loro occhi, che rendeva i loro volti, già identici, delusi e arrabbiati con la stessa intensità e con lo stesso senso di frustrazione. 
I loro visi giovani e angelici, contornati dai soffici e leggeri capelli biondi; gli abiti curati ed eleganti che sembravano completarsi l’uno con l’altra, come fossero l’uno la versione femminile e maschile dell’altro, esattamente come una coppia di due perfette bambole di porcellana. 
Bellissimi ed eterei. 
Non sembravano due semplici ragazzini di dodici anni; qualcosa in vero deturpava quegli splendidi volti celestiali. 
  
“Un vero disastro. Non posso credere che le sue ricerche fossero così piene d’imperfezioni. Ci credo che non sia riuscito a portare avanti alcun esperimento decente…è ripugnante. Non era affatto degno di avvicinarsi alla nostra consanguinea Veronica.” 
  
Disse la ragazzina, con una raccapricciante vocina acuta e infantile. 
  
“Tu sei migliore, Alexia. Per questo non ci è riuscito.” 
  
Rispose il bambino, tenendo ancora lo sguardo verso Nosferatu, con una freddezza inconcepibile. 
  
“Lo so.” 
  
Affermò senza troppo ritegno la giovane ed egocentrica Alexia Ashford, portando i capelli dietro l’orecchio. 


Ella incarnava la fierezza e grandezza di una regina.

In seguito piroettò dietro il suo dolce fratellino, facendo per lasciare quella stanza. 
  
“Lasciamolo adesso. Abbiamo altro di cui occuparci.” 
  
Era terribile. 
Una scena inguardabile, impossibile da comprendere, difficile da credere reale. 
Quei visi delicati, marmorei, eterei, teneri… 
Le loro voci acerbe, immature, tipiche di due giovanissimi adolescenti… 
La loro grazia, la loro eleganza, la loro fanciullezza meravigliosa e gloriosa… 
E poi…l’odio di quegli occhi divini pigmentati d’azzurro; da essi trapelava tutta la loro follia e squilibrio; la malasanità di due bambini diabolici. 
Fu un’immagine che era assieme divina e demoniaca. Oscura e indecifrabile ad occhio umano. 
  

Chi erano quei due giovanissimi e bellissimi diavoli dai capelli dorati? 
Perché i loro volti angelici e puerili, le loro voci sottili, le loro rosee bocche, meravigliose e soavi, invece proferivano tali atrocità ed erano capaci di tale disumanità? 
  
“Alfred…” 
  
“Dimmi.” 
  
Il ragazzo dai capelli platinati seguì sua sorella fino all’ufficio, richiudendo dietro di sé il passaggio segreto celato dietro la libreria. Osservò la sua meravigliosa Alexia prendere posto sulla scrivania, sedendosi sopra di essa, poggiando i piedi sulla sedia posta di fronte. 
Leggiadra e sopraffina, quella nota di ribellione e disprezzo lo affascinava e lo rendeva completamente folle d’amore quando si trovava al suo cospetto. Vederla trasgredire le regole comportamentali, accomodandosi sopra il tavolo di uno degli uffici del Centro di Ricerche, era un’immagine che lo estasiava e lo induceva ad ammirarla e venerarla sempre di più. Egli la adorava in ogni piccola cosa che faceva. 
Lei era maestosa, fiera, forte…bellissima. 
Anche solo se si muoveva, anche solo se girava i suoi splendidi e incantevoli occhi. 
Alfred imitò il suo gesto, poggiando le mani sulla scrivania e sollevandosi da terra, collocandosi proprio al suo fianco…al fianco di colei che era l’unica rimasta per lui. 


Il suo cuore pulsò. 
Qualcosa lo struggeva… 
Qualcosa non lo faceva sentire degno di essere al suo cospetto… 
Lui che a differenza sua era un errore…un semplice e mediocre essere a metà… 
  
Alfred strinse gli occhi, crucciato da quella triste e tormentata consapevolezza. 
Quella di essere solo un caso, uno sbaglio, uno scarto. 
La sua nascita, avvenuta per un banale e fottuto errore, aveva fatto di lui un esperimento non voluto, privo di alcuna importanza. 
A differenza di Lei…Alexia… che nella disgrazia di quella scoperta circa la loro nascita, era invece un esperimento riuscito. 
  
Alexader, discendente della ricca dinastia degli Ashford, figlio di Lord Edward Ashford, co-fondatore dell’Umbrella corporation, continuò gli studi sul virus Progenitor seguendo le orme di suo padre, bramando di proseguire i brillanti sviluppi conseguiti dalla sua famiglia. 
Ma un nome non era tutto… 
Il suo destino amaro e inglorioso macchiò la sua stirpe, disonorando il suo orgoglio e la sua ambizione a livelli catastrofici e mortificanti. Egli fece precipitare il nome della sua famiglia, dalla quale alcuno si aspettò più i successi e i magnifici risultati di un tempo, finendo nel dimenticatoio di un’esistenza soprafatta dai quei trionfi passati che non poteva equiparare in nessun modo. 
Disperato dagli insuccessi dei suoi esperimenti, dalla sua mancanza d’ingegno che stava portando nell’abisso la grandiosità e il ben conosciuto intelletto della famiglia Ashford, Alexander affogava sempre di più nello sconforto, logorato dalla sua incapacità come scienziato. Per sua mera colpa, l’Umbrella stava dimenticando coloro che appartenevano alla famiglia di colui che fu uno dei fondatori della corporazione. 
Tutto per sua imperdonabile, vergognosa e terribile colpa… 
Così, nella disperazione più completa, l’unica cosa che gli rimase fu di “riesumare il passato”. 
Usò i suoi studi e le sue ricerche al solo scopo di isolare il gene che aveva reso gloriosi e temuti gli Ashford, arrivando a ottenere una particella che aumentasse le capacità di un comune cervello umano. 
Dopo esperimenti accurati e folli, la sua nave approdò in porto, ma quel che gli serviva era qualcuno in grado di essere il genio della sua famiglia…e soltanto una persona poteva essere all’altezza di tale compito. 
Colei che era la capostipite… 
Colei che era tutto… 
La matriarca della famiglia, intelligente e soave, la prima che diede onore e gloria alla loro nobile stirpe: 
Veronica Ashford. 
Alexander unì dunque quel gene al suo, al fine di creare quella forma di vita perfetta, che avrebbe finalmente colmato i suoi insuccessi e il suo senso di frustrazione verso una famiglia che per colpa sua stava rischiando di essere dimenticata. 
E da questo folle esperimento egoista nacque Lei 
Colei che era la reincarnazione vera e propria del genio della sua antenata: la meravigliosa, intelligente e potente Alexia Ashford. 
La bionda e nobile figlia femmina di Alexander Ashford ereditò un intelletto fenomenale, pari a quello di colei che l’uomo bramava riportare in vita. 
La sua intelligenza fu tale che non potette contenersi in un solo corpo. E così, per errore, venne alla luce un secondo figlio, suo gemello: Alfred Ashford. 
Brillante e scaltro come sua sorella, egli tuttavia presentava soltanto un intelletto sopra gli standard, ma nulla di sorprendente. 
Alexia invece era diversa… 
Lei era una dea. 
Era così geniale che alcun coetaneo volle mai approssimarsi a lei, essendo distante, troppo superiore, intrattabile e sopra le righe. 
Isolata e ignorata dal resto del mondo, questo alimentò in lei un forte senso di disprezzo verso il genere umano, che la denigrava e la etichettava in modo così inconsueto senza apprezzare il suo ineguagliabile ingegno. 
Questa emarginazione la rese immensamente egoista, impedendole di approcciarsi in futuro alle normali persone, che divennero ai suoi occhi volgari formiche prive d’importanza. 
Alexia finì l’università alla sola età di dieci anni e venne nominata Capo Ricercatore dell’Umbrella corporation, conquistando l’incredibile primato della dipendente più giovane della compagnia che ricopriva quell’importante e decoroso ruolo. 
Alexander vide in lei l’esperimento della vita, colei che per davvero aveva riportato onore e riconoscimento agli Ashford come desiderava. Poté dunque rasserenarsi e tornare alle sue ricerche, affiancandosi a sua figlia nell’elaborazione di un virus perfetto, che avrebbe portato l’uomo a divenire un essere superiore esattamente come ci era riuscito lui con la fanciulla: il T-Veronica Virus. 
  
Egli ce l’aveva fatta! Aveva reso di nuovo la sua famiglia il fiore all’occhiello dell’Umbrella! 

Ma non sapeva a cosa l’aveva portato quell’ambizione… 
  
Non avrebbe mai potuto prevedere cosa avrebbe destato tale scoperta nelle giovani e logorate menti di due macabri adolescenti, lasciati isolati dal mondo, in balia di occulte ricerche e falsi ideali che presto avrebbero sommerso e lacerato ogni loro certezza. 
Traditi in modo inoppugnabile e conosciuta quell’atroce verità…la verità di essere stati creati al solo scopo di compiacere quel loro padre insignificante, che non aveva saputo equipararsi al genio inconfutabile della loro stirpe…una ferità dilaniò gli animi dei due gemelli. 
Il disprezzo cancellò in loro ogni segno di amore e umanità, unendoli in quella brama di vendetta che li condusse in un tunnel senza uscita, regnato dalla pazzia… 
….e di cui il castigo di Alexander non fu che l’inizio…. 
  

Egli fu punito dalla sua stessa opera incompiuta ed imperfetta… 
Alexia utilizzò il suo prezioso virus Progenitor, assieme a quello ritrovato in un’antica formica regina, dando vita alla forma primordiale di un nuovo virus, che in suo onore fu chiamato “Veronica”. 
Il T-Veronica virus… 
Alexander fu onorato di sperimentarlo per primo come essere umano… 
Veronica stessa, la sua adorata prediletta, colei che aveva restituito la gloria che egli bramava, scelse le sorti di quel vile traditore, premiandolo con la sua collera e la sua crudeltà inarrestabile. 
La punizione esemplare per l’uomo che aveva osato imbrogliarli. 
  
Alfred tornò a guardare la sua meravigliosa e perfetta metà, cercando nei suoi occhi quella complicità che temeva essersi rotta adesso che lei aveva saputo di essere l’esperimento riuscito, a differenza sua. 
La vera e unica erede di Veronica Ashford. 
Ella tuttavia gli sorrise, come se non si importasse dell’inferiorità di suo fratello. 
Vederla con quell’espressione scaldò il cuore del biondo, felice che lei fosse ancora al suo fianco, nonostante tutto. Si rasserenò, felice di essere al fianco e al servizio di una sorella meravigliosa e soave come lei. 
Quel mondo li aveva traditi ed usati, ma ci sarebbe sempre stato lui al suo fianco. 
Tutti avevano voltato loro le spalle, ma rimanevano l’un l’altro; nessuno li avrebbe più fermati; nessuno li avrebbe divisi. Lui…non l’avrebbe mai abbandonata. 
Insieme… non sarebbero mai stati soli… 
Strinsero le mani le une nelle altre, consapevoli che in quel mondo, se l’uno non avesse avuto l’altro, avrebbero condotto soltanto una mera esistenza frustrata e maltrattata. 
Se Alfred non ci fosse stato nella vita di Alexia, ella non avrebbe mai conosciuto cosa significasse l’amore, l’avere qualcuno che ti conoscesse, che ti apprezzasse, che non la odiasse e si allontanasse da lei soltanto perché diversa dai suoi coetanei. Suo fratello era l’unico che c’era sempre stato, e l’unico che da quel momento in poi avrebbe continuato ad esserci. 
Oramai non poteva fidarsi di nessun altro… 
…e lo stesso era per lui. 
  
“Ho deciso, sarò io ad ultimare l’esperimento. Ho studiato i progressi ottenuti grazie al suo sacrificio e, sulla base dei dati raccolti, credo di essere oramai vicina alla creazione del Veronica Virus…” 
  
Disse lei d’improvviso. 
  
“Sapevo che ci saresti riuscita.” 
  
L’interruppe lui, compiaciuto ogni volta Alexia riuscisse nelle sue imprese. Ella era inarrestabile quando perseguiva un obiettivo e lui non poteva che sentirsi fiero dei suoi sempre più brillanti risultati; così tanto, da non vedere la pericolosità che la sua ossessione per quel malefico virus immorale avrebbe portato non solo a loro, ma all’umanità intera. 
Tuttavia ai suoi occhi era normale una realtà simile. Chi era cresciuto nell’Umbrella come loro lo sapeva… 
La creazione di Bio Organic Weapons era un’ossessione ben conosciuta in quell’ambiente, che dannava i suoi scienziati in quella ricerca eterna e mortale. 
Alfred dunque, consapevole della grandiosità della scoperta della sua adorata Alexia, non subito comprese dove ella volesse arrivare col suo discorso; la bionda infatti non tardò a intervenire di nuovo, ammutolendolo con un semplice vocabolo: 
  
“…ma…” 
  
Sussurrò malinconica, ma con quella consapevolezza negli occhi di chi non avrebbe cambiato idea, seppur conscia di cosa stesse per fare………e ‘a cosa avrebbe condannato’ l’unica persona al mondo che l’avesse mai amata 
Il suo cuore si spezzò; l’aria sembrò irrespirabile per un istante; ma nulla avrebbe fermato gli obiettivi della Regina, giunta oramai a quel punto, dentro il precipizio nero della follia. 
Dal suo canto, Alfred s’immobilizzò del tutto. I suoi occhi cristallini si spensero, come uno specchio rotto che si stava frantumando in quello stesso istante, facendo del loro splendore un riflesso vitreo e oramai caduto a pezzi. 
Temette il continuo di quella frase che in verità già ben conosceva; non voleva sentire le parole che presto avrebbero decretato la sua futura agonia. 
Egli non era dotato come sua sorella, ma aveva la preparazione necessaria per comprendere cosa lei stesse per dire, quali fossero le conseguenze della sperimentazione umana del virus. Inoltre ne avevano già parlato, era al corrente di quanto lei tenesse a quella ricerca…e a cosa sarebbero andati in contro in caso di successo. 
Era solo questione di tempo…sapeva bene cosa sarebbe successo… 
  
 “…ma il virus avrebbe bisogno di riposare.” 
  
Silenzio. 
Nessuno dei due ebbe bisogno di aggiungere altro. 
Stettero muti, inermi, con lo sguardo vago perso nel vuoto, consapevoli della voragine che stavano per scavare, dell’atroce solitudine che presto avrebbe logorato ognuno di loro. 
Nessuno ebbe il coraggio di parlare per primo per molto tempo. 
Il silenzio che preannunciava quell’incolmabile vuoto che presto avrebbe rappresentato la realtà effettiva di colui che sarebbe rimasto a vegliare durante quel lungo riposo, già allora sembrò interminabile e insopportabile. 
Già il solo pensiero lacerò l’animo di Alfred Ashford ancor prima che tutto cominciasse. 
  
“Per quanto?” fu l’unica cosa che chiese. 
  
“Quindici anni.” 
  
Di nuovo silenzio. 
  
“La criostasi è un passaggio fondamentale, senza di essa non posso controllare l’evoluzione che il virus avrà dentro di me. Preservando il mio corpo criogenicamente, permetterò al T-Veronica di maturare per un tempo sufficiente da ottenere le sue complete potenzialità.” 
  
Illustrò la ragazza, assorta, con la sua voce docile e infantile, che torturò la mente del giovane biondo accanto a lei, il quale ascoltò con vaga attenzione la sua spiegazione tecnica ed inoppugnabile. 
Nessuno dei due in verità si era davvero accorto di quel che stavano per compiere. 
  
“Sai quanti sono quindici anni?” 
  
Proferì lui dopo che lei ebbe finito, sperando con tutto il cuore che Alexia ci ripensasse, o che fosse almeno consapevole di quel che per fare. 
Temeva per lei, per la sua sanità, per la sua vita, ma al tempo stesso bramava anche lui conoscere i risultati definitivi di quello che era sempre stato il loro scopo ultimo; quello cui la loro esistenza aveva sempre ruotato; ciò che aveva permesso la loro vita e che l’aveva dannata al tempo stesso. 
La creazione del virus Veronica…il virus che aveva reso Lei e Lui diversi, unici, speciali… 
Un Re e una Regina. 
Combattuto fra quelle due realtà, tra quell’essere a un passo fra la mediocrità dei loro successi e la gloria suprema, il suo spirito era sconvolto eppure determinato. 
Era pronto a servire ed aiutare Alexia quanto meglio avrebbe potuto, ma sapeva che il destino degli Ashford era solo nelle mani della sua Regina. 
Intanto, la bionda spostò il suo sguardo verso di lui, specchiando i suoi occhi di ghiaccio nella figura del suo amato fratello. 
Persino nell’egoista e crudele Regina qualcosa parve smuoversi in quell’istante. 
Ella mosse le sottili labbra, parlando con la freddezza che le era sempre stata consona, eppure, chi la conosceva, poteva leggere il disturbo che invece trapelava dal suo tono calmo e risoluto, solo apparentemente scaltro e indifferente. 
  
“Sì…” fece una pausa. “E’ più della nostra vita passata assieme fin ora. Quando mi risveglierò, non avremo più questi volti…saremo un uomo e una donna. Io non potrò vederti crescere, il mondo scorrerà mentre io sarò qui, rinchiusa, perdendo la mia coscienza. Tutto quel che conosciamo sarà diverso. Tu sarai diverso…” 
  
Disse con tono profondo, con quella voce puerile che difficilmente avrebbe identificato quella ragazzina nella donna altezzosa e superiore che in realtà era.  
Ella sollevò una mano, toccando quel viso così identico al suo, accarezzandolo dolcemente. 
Vide gli occhi di Alfred perdersi nella leggiadria di quel tocco, affogando nei malinconici e meravigliosi sentimenti che li legavano. 
La biondina fece scorrere la sua mano sulla guancia, passando per le labbra, fino a scendere delicatamente sul suo petto, posandosi sulla sua candida camicia esattamente dove era posizionato il suo cuore. 
Premette il palmo e attese qualche attimo, per poter sentire il suo soave e armonioso battito, regolare e vitale, che le trasmise quel calore umano che le sarebbe mancato e che soltanto da lui oramai poteva ricevere. 
Strinse gli occhi con fare nostalgico, riflettendo ad alta voce su quello che sarebbe stato il loro futuro in quei quindici anni, non potendo accettare in parte che lui avrebbe dovuto vivere senza di lei. 
Era un pensiero che la lacerava…….. 
  
“Allora veglierai su di me?” 
  
“Sì…lo farò.” 
  
  
  
  
  
  

Questa fu la loro semplice promessa. 
  
  


  
  
  
Una promessa che sigillò una parte di loro di cui entrambi decisero consapevolmente di sottrarsi. 
Nessuno dei due indugiò, nessuno stette troppo a riflettere sui malefici che quella condizione di solitudine avrebbe arrecato loro. 
Era il loro destino… era questo il volere della Regina Assoluta. 
Una promessa che Alfred sapeva di poter mantenere… 
Una promessa che avrebbe onorato a costo della vita… 
Per lei avrebbe sopportato quella solitudine… 
Per lei avrebbe atteso quei lunghissimi quindici anni… 
Se solo Alfred avesse saputo il reale peso di quella promessa, che invece lo avrebbe portato a cancellare la sua intera esistenza, allo scopo di preservare l’integrità e la gloria della sua Alexia, a tal punto da logorare ogni altra cosa. 
Un destino spietato, insostenibile, straziante, che avrebbe condotto la sua mente nella paranoia di una dannazione eterna dalla quale mai più sarebbe uscito. 
  
  
  

“Ci vediamo tra quindi anni, mio adorato fratello.” 
  
  
  
  
  
  
  
“Sei sempre stata così… 
…la mia bellissima sorella egoista. 
Hai pensato solo a te stessa ancora una volta quando prendesti quella decisione, dimenticando quanto avresti lacerato il mio cuore lasciandomi da solo. 
Io che non ho che te nella mia vita. 
Ma io non ti colpevolizzerei mai, perché ti amo proprio per questo. 
Perché tu sei sempre stata la mia amata, crudele, Regina… 
Ti adoro e ti adorerò per sempre. 
E’ per te che vivo ogni giorno. 
E’ a te che ho immolato ben volentieri la mia esistenza, per portarti alla più somma gloria e vendicarci dei nostri nemici e di chi ci ha fatto del male!” 
  
  
  
  
  
  
  
  
  
  
  
  

Dicembre 1998 
  
  
  
  
  

Palazzo Ashford- Camera di ‘Alexia’ 
Luogo sconosciuto 
  
  
  
A oramai quasi quindici anni da quel giorno, quella promessa continuava a essere mantenuta in modo vivo e tenace, e costituiva tutt’ora lo scopo dell’ostinato e fedele Re che serviva ancora la sua amata Regina. 
Il bambino diventato uomo aveva ancora stampato nella sua mente ogni ricordo della sua Dama, la quale rappresentava ogni cosa per lui ancora adesso. 
Il suo amore incondizionato era rimasto preservato tutto quel tempo; invariato e anzi, accresciuto da un’ossessione e un senso di riverenza che aveva oramai superato la follia stessa. 
I suoi occhi, come due frammenti rotti di cristallo, risplendevano nell’oscurità mostrando il riflesso di quel dolore che aveva crucciato la sua esistenza anni prima. 
La rifrazione di un mondo tangibile che si rifiutava di vedere, ma che non poteva essere raggirato. Perché nulla di quello che è proiettato in uno specchio è irreale. Nulla di ciò che è mostrato in quelle immagini può essere ritenuto menzognero e fittizio. 
Frantumati e inammissibili dolori, ignominiosi e tormentati… 
L’uomo dai capelli pallidi si rifiutava di credere a quel riflesso proiettato proprio davanti ai suoi occhi, che invece prepotente gli mostrava quel che in realtà lo turbava inconfessabilmente. 
Quegli occhi color del mare, intensi e profondi, vitali e vigili; i suoi capelli scuri, scarlatti, ribelli, in contrasto con la sua pelle chiarissima, sobria, delicata; il suo corpo allenato e vigoroso, forte ed energetico… 
La vita che pulsava in quelle vene. 
Una vita che l’animava in modo rigoglioso e prepotente e che sembrava voler dannare la sua mente invece ingabbiata nel mondo dei morti, abitata da fantasmi impalpabili e illusori, che permeavano le mura del suo castello, del suo cuore, della sua mente…facendo di lui un’esistenza abbandonata, il cui unico scopo era preservare quei ricordi d’amore incancellabili, senza i quali la sua non sarebbe stata altro che una vile vita insopportabile. 
Lo sguardo così intenso di Claire, quindi, lo deturpava, lo umiliava, lo rendeva rigido e spietato…eppure lo invidiava. 
Una parte del suo animo chiuso e devastato agognava quello spirito vitale. 
Più la osservava, più il suo spirito ribolliva, desiderando soltanto di scacciare dalla sua mente quel che gli mancava terribilmente, ma che per lui era considerato sbagliato, blasfemo, imperfetto. 
Non avrebbe permesso a quell’immagine erronea e impura di abbagliarlo e farlo sprofondare in un’intollerabile vergogna che mai avrebbe potuto perdonarsi. 
  

Non avrebbe mai infranto la sua eterna promessa! 
  
Alfred, accecato dalle sue sofferenze e dai suoi controversi tormenti psicologici, non si accorse nemmeno della preoccupazione di quegli occhi blu intensi, che invece erano accorsi in suo soccorso. 
Claire si era approssimata a lui con l’ingenuità tipica di chi non conosceva ancora davvero l’orrore; di chi, inquieto, teme per l’incolumità altrui, pur essendo un nemico. 
Errori che mai qualcuno dovrebbe commettere a livello razionale…ma non emotivo. Perché al cuore non si può comandare. 
Quando esso ti chiama, puoi mentirgli quanto vuoi, ma non potrai mai opprimere il suo richiamo, che invece ti suggerisce cosa è giusto e cosa non lo è, impedendoti di negare quello che invece la tua ragione ti indica. 
Era questa irrazionalità che aveva mosso la rossa e l’aveva fatta avvicinare a lui ingenuamente. 
  

Tuttavia, il biondo non sarebbe mai stato capace di vedere tutto questo. 
  
Egli non avrebbe mai potuto cogliere il puro sentimento umano della pietà e della compassione che per un istante aveva animato la giovane Claire. 
  

Perchè Alfred Ashford non aveva mai conosciuto l’amore. 
  
Non esisteva nella sua mente il concetto della preoccupazione, del rispetto per la vita, della trepidazione, se non faceva riferimento a colei che era la sua Regina. La sola che ai suoi occhi era meritevole del suo cuore. 
  

Conosceva invece l’inganno, il dolore, la delusione, la solitudine, l’abbandono… 
  
L’umanità intera lo aveva tradito, nessuno meritava il suo rispetto. 
Soltanto un’unica persona gli aveva comunicato quel calore umano che gli aveva permesso di sopravvivere in quell’inferno disumano e atroce; ed era soltanto a lei…a Lei che doveva tutto! 
A lei aveva sacrificato la sua intera esistenza per ripagarla di quell’amore…. 
Aveva dodici anni quando rinunciò a quegli occhi, a quello sguardo amabile, complice, vicino al suo, che comprendeva il suo animo, il suo dolore, le sue gioie. 
Alfred rinunciò alla felicità per amor suo. Rinunciò a tutto pur di salvaguardare ciò che per lei era prezioso! Quel che lei bramava, era ciò che lui le avrebbe dato. 
Avrebbe fatto di tutto per il successo della sua Donna! La sua Alexia! 
  

Alexia…Alexia…Alexia…. 
  
Nessuno l’avrebbe ostacolata, mai, finché ci sarebbe stato lui al suo fianco. 
Avrebbe vissuto solo per lei, per lei, per lei… 
  

Lei, lei, lei, lei lei, lei…!! 
  
Nessuno…avrebbe ostacolato i suoi piani! 
  
Strinse così il polso della giovane donna dai capelli rossi, torturando le sue ossa come volendole trasmettere tutto l’odio e il tormento che lo animava. 
Quel suo desiderio di distruggerla, schiacciarla, come un virus malevolo che voleva distogliere le sue attenzioni dal suo compito più grande. 
Questo mentre lo sguardo della Redfield diveniva sempre più sconvolto e spaventato, angustiandosi nei suoi dubbi e nell’irrazionalità che si leggevano in quel volto disperato. 
  
“A…Alfred.” 
  
“Tu, vile creatura di carne e sangue, mai potrai avvicinarti a noi! Ignobile e comune donna senza pregio e ricchezza. Indegna e volgare, non ti permetterò di intralciarci. Ti eliminerò, ti schiaccerò, ti cancellerò, rimpiangerai il giorno in cui hai corrotto il mio palazzo.” 
  
“Cosa diavolo stai dicendo?” 
  
Il biondo strattonò la giovane, sollevandola con sé mentre si rimetteva in piedi. 
Claire non poté in nessun modo divincolarsi da quella forte presa, la cui veemenza la stava sopraffacendo. 
Si ritrovò a un palmo dal quel viso etereo e delicato, traboccante di odio e disprezzo, che inveiva contro di lei sulla base di ideali assurdi e privi di fondamento ai quali non riuscì a opporsi. 
Quelle iridi cristalline, che tremavano di rabbia, fisse su di lei, angustiarono la sua mente facendola sentire qualcosa di più immorale di un disdicevole intruso. 
Era qualcosa di più…qualcosa di molto più profondo, che lo disturbava e stava portando la sua aggressività a livelli incontrollabili. 
Cosa suscitava in lui la sua presenza? Perché ce l’aveva con lei in quel modo così furioso? 
Alfred digrignò i denti e con ira prima avvicinò il suo viso a quello della giovane, stringendo fortemente il suo polso serrato nella sua mano, dopodiché la spinse via brutalmente, facendola sbattere contro il muro alle sue spalle. 
Claire premette appena in tempo le mani sulla parete ammortizzando l’urtò, ma tuttavia il colpo fu tale da costringerla a scivolare sul pavimento. 
Alzò gli occhi e vide il biondo vestito di rosso portare una mano sulla fronte, ancora disorientato per il colpo alla nuca ricevuto precedentemente; evidentemente si era agitato a tal punto da aver sottovalutato quella brutta botta. 
Lo osservò mentre traballava e faceva per poggiarsi sul comodino che era stato la causa di quel suo male. Egli poggiò tutto il suo peso sulle braccia, cercando di scacciare quella fortissima fitta. 
Questa volta però Claire non ebbe compassione per lui. Badò invece a se stessa, tenendosi pronta a fuggire il prima possibile da quella stanza. 
Tenne gli occhi puntati su di lui, in modo da captare la sua prossima mossa, ma prima che potesse intendere come comportarsi, il ragazzo tirò su il viso e sgattaiolò via velocemente portando il fucile da caccia con sé. 
Egli sparì nel lasso di un secondo al di là di un bassorilievo di pietra impresso sulla parete, che ritraeva l’immagine statuaria di una donna. 
Questa si ribaltò rivelando lo stesso passaggio segreto che già aveva avuto modo di vedere a Rockfort Island nella copia di quella stessa stanza. 
Claire si lanciò dietro di lui, intuendo che quella fosse probabilmente l’unica via d’uscita di quella stanza, dato che la porta d’ingresso era chiusa a chiave, ma era troppo tardi. 
Alfred dall’altra parte aveva già sigillato il passaggio, impendendole di raggiungerla. 
Claire così si ritrovò schiacciata contro quel passaggio, battendo con le mani violentemente su di esso, disperata e spaventata. 
  
“Alfred!! Apri! Non puoi tenermi chiusa qui dentro!!” 
  
Dall’altra parte del passaggio, Alfred distese il capo all’indietro, premendo la nuca contro il bassorilievo di pietra ivi scolpito. 
Alzò lo sguardo, stringendo a sé il fucile da caccia, abbracciandolo tremante come cercando conforto, un qualsiasi tipo di calore, persino in quell’oggetto. 
Qualcosa si era spezzato nel suo cuore e in quel momento lo stava rendendo irrazionale ed irrequieto, persino fragile ed insicuro. 
Non poteva reggere quella realtà, non ce la faceva più a sopportare quella pressione. 
Strinse le dita sempre più forte, sperando di scaricare quell’ansia e quel senso di turbamento, mentre la ragazza dai capelli rossi, protagonista delle sue recenti angosce, batteva incessantemente proprio dietro di lui. Sentiva nitidamente i suoi pugni che facevano vibrare il passaggio alle sue spalle e che in modo inconsueto suscitavano in lui un bizzarro senso di distensione: perché lei adesso era lontana e non poteva raggiungerlo in nessun modo. 
Al momento l’aveva scacciata, calando il sipario su quel doloroso atto che non riusciva a sostenere. 
Le sue urla dall’altra parte del muro rendevano lei vicina e lui intoccabile; un gioco mesto e indecifrabile, che lo faceva sentire protetto dietro la copertura di quel sipario posto fra loro. 
Claire intanto continuava a battere sul muro. 
Allarmata, portò lo sguardo di fronte a sé, come se potesse parlare direttamente con quell’eccentrico ragazzo biondo, rintanato dietro quel passaggio. 
  
“E’ una follia! Fammi uscire da qui!” 
  
Urlò, ma non ottenne risposta. 
  
“So che sei lì dietro! Rispondimi!” 
  
Disse, ma il suo interlocutore sembrava non avere alcuna intenzione di parlare, così non potette far altro che rinunciare. 
Tastò meglio sugli angoli di quel basso rilievo femminile, sperando di muovere il meccanismo in qualche modo, ma era abbastanza ovvio il fatto che Alfred avesse bloccato quel passaggio. 
Corrucciò le sopraciglia, comprendendo di essere con le spalle al muro. Il suo cuore prese a battere incessantemente, non potendo accettare quella sconfitta; non dopo quel che aveva passato, non dopo essere tornata finalmente se stessa! 
Si guardò in giro, cercando di scorgere qualsiasi cosa potesse aiutarla a fuggire da quella stanza, questo mentre la stanza lentamente prese ad affumicarsi dei fumi narcotici che presto le avrebbero fatto perdere coscienza. 
Alfred, infatti, aveva attivato a sua insaputa il dispositivo che inondava di quella sostanza soporifera la stanza tramite il condotto dell’aria; per azzittire e tenere sotto scacco matto la sua fastidiosa formica. 
Al momento però le portavano solo un leggero senso di sonnolenza, ma nulla che non potesse sopportare. La rossa portò dunque una mano sulla bocca cercando di inalare quanto meno vapore possibile, sperando di cavarsela prima di finire in balia di essi. 
Una voce, tuttavia, interruppe le sue ricerche. 
  
“E’ colpa tua, Redfield. Non saresti mai dovuta venire.” 
  
La voce di Alfred, proveniente dall’altra parte del muro, sembrava smorta e alquanto sincera. 
Era un tono commiserevole, depresso, freddo…ma fu un atteggiamento che alterò non poco la ragazza, che era solo una vittima in quella storia e non amava certamente essere chiamata in causa da uno come lui. 
  
“Sei completamente pazzo, è ora che tu te ne renda conto.” 
  
Rispose puntando lo sguardo verso l’ipotetica ubicazione del signor Ashford, stufa e oramai davvero stanca di quella storia. 
Nella sua stanza, invece, il gemello di Alexia strinse gli occhi, rivolgendoli alle sue spalle, seccato da quelle parole. Parole dette da un insulso essere umano che non sapeva….non sapeva assolutamente nulla. 
  
“ ‘Pazzo’?” 
  
Il biondo ripeté quelle parole con voce cupa. 
  
“Questa la chiami ‘pazzia’...? Credi davvero che sia così?” 
  
Continuò grave; il suo tono era basso e profondo, assorto in pensieri che stava evidentemente formulando in quello stesso istante, ma che aveva elaborato da tempo…e che adesso la sua mente stava materializzando come una violenta eruzione vulcanica rimasta oppressa a lungo. 
La consapevolezza di una pazzia con cui lui aveva ben familiarizzato e di cui lei non aveva la reale conoscenza. 
Non sapeva di cosa stava parlando; chi stava osando offendere con quelle parole di cui non sapeva nulla! 
Alfred cambiò quindi drasticamente il suo tono e il discorso divenne più animato, mandando in confusione la giovane ragazza dai capelli rossi, la quale non si aspettò minimamente tale concitazione.   
  
“Non crederti migliore di me, Claire! Anche tu vivi in uno sporco mondo che ti userà e ti getterà via. 
E’ soltanto un caso se preferisci la tua vile esistenza. Sei soltanto abituata a vivere nel tuo inferno. 
Solo per questo ti sembra migliore! Solo per questo! 
Anche il tuo è un mondo pazzo, non essere tanto sicura di te… 
Probabilmente un giorno aprirai gli occhi e ti renderai conto di quanto anche tu sia imbrigliata nelle catene di una società che ti vuole in un modo omologato all’inutile e insulsa vita dei comuni mortali. 
Vi sentite al sicuro, tutti assieme come volgari formichine prive di intelletto. Un mondo fatto di inganni, di uomini che si traviano a vicenda e tramano nell’ombra, per far vivere nella menzogna i propri figli e giocare con la loro vita per poi strappargliela via brutalmente!! 
E in tutto questo, credi ancora che il tuo mondo sarebbe quello ‘normale’….e la mia realtà quella ‘pazza’?!” 
  
Il tono cupo di quella voce, assieme a quelle parole, trafissero il cuore della Redfield suggerendole l’immagine di un mondo tenebroso e riluttante, e che Alfred sembrava conoscere bene. 
Uomini ostili e meschini giochi crudeli che sembravano aver logorato la sua mente e la sua intera esistenza. Nella sua frase finale era come se fosse stato racchiuso un macro-universo, e dal suo tono era evidente facesse riferimento a qualcosa che doveva averlo sconvolto… 
Il biondo padrone di quel castello era stato tradito dal mondo; un mondo che lo aveva disilluso e portato alla pazzia. 
Ma cosa gli era successo esattamente? Cosa lo aveva reso così arrabbiato? 
Così tanto da fuggire dalla realtà, fino a isolarsi dietro il sipario di un’opera teatrale che aveva costruito a sua immagine e somiglianza, nella quale cercava di nascondere e sfogare le conseguenze di quell’esistenza violentata? 
Ripensò alle atrocità viste a Rockfort Island….o nella recente stanza delle torture…o quel che lui aveva fatto in quella lugubre e umida sala mortuaria che aveva appena lasciato… 
Non seppe come controbattere, non potendo conoscere di cosa il biondo stesse parlando, ma dalla sua voce poté intuire le consapevolezze di una vita logorata e oramai distrutta. 
Una vita tuttavia che non rappresentava tutto il genere umano perché lei, seppur nell’orrore, aveva conosciuto il lato buono di quell’umanità opportunista che lui descriveva. 
Una realtà triste e sporca che esisteva, certo! Ma gli uomini non erano tutti così...! 
Si sentì dunque in dovere di difendere il suo genere, vittima innocente di un sistema che inevitabilmente aveva le sue luci e le sue ombre, ma che non per questo andava fatto di tutta l’erba un fascio. 
Era sbagliato! Assolutamente sbagliato! 
  
“Non è vero! Ho conosciuto molte persone meravigliose. Il mondo è pieno di gente straordinaria e tu non puoi giudicare in questo modo chi sia inutile o inferiore…! E’ per questo che li uccidi, che li torturi e li condanni come fanno tutti gli scagnozzi dell’Umbrella?” 
  
Alfred colse al volo il riferimento di quelle parole e obbiettò prontamente, pungente. 
  
“Oh, parli forse del ragazzino che era con te?” disse sarcastico. “Guarda che non è affatto diverso dagli altri.  Anche lui, quando ha potuto, ha pensato solo a se stesso per mettersi in salvo. Sei solo un’illusa, Claire. Una povera stupida illusa!” 
  
Le ricordò, alludendo crudelmente al giovane dai capelli ramati che era stato prigioniero a Rockfort assieme a lei, disperato ed oramai intrappolato non solo fisicamente, ma anche mentalmente, in quel carcere nefasto. 
Una condizione che lo portò a odiare e distruggere ogni cosa che incombesse sul suo cammino. 
Compresa la bonaria Claire Redfield, ritrovatasi più volte in pericolo per colpa delle sue azioni insensate ed egoiste, come aveva potuto osservare Alfred dall’alto della sua posizione. 
Tuttavia la rossa non si sarebbe mai lasciata sopraffare da tali allusioni; ella non aveva mai visto Steve come un nemico: egli era solo un povero ragazzo disturbato e logorato da tanta violenza e disumanità. Andava aiutato, compreso, non demolito. Se Alfred credeva di soggiogarla così facilmente, si sbagliava di grosso ancora una volta. 
  
“Ti sbagli! Steve è un bravo ragazzo, tu non lo conosci. Lo hai tenuto prigioniero, hai distrutto la sua famiglia…ti rendi conto di cosa significa? Eppure dovresti saperlo, dato quanto tieni anche tu a tua sorella!”   
  
A quella risposta, Alfred sbandò, non accettando che quelle labbra potessero anche solo fare riferimento alla sua intoccabile e maestosa Regina. 
Puntò il fucile contro il basso rilievo inciso sul passaggio segreto oltre il quale si trovava Claire, proiettandovi sopra il red dot del mirino, intento a minacciarla nonostante ella non fosse materialmente di fronte a lui, preso dalla collera più profonda. 
  
“C-Cosa ne sai tu!? Chi ti permette di metterti in mezzo, non sai nulla a riguardo! Non osare nominare mia sorella!” 
  
Disse allarmato e fuori di sé, ma la giovane dai capelli rossi non indugiò e anzi. Approfittò dell’argomento per cercare di spronarlo a parlare. 
  
“Sei ingabbiato, Alfred! Smettila e svegliati una volta per tutte! Dimmi che ne hai fatto di Steve! Cosa è successo dopo che hai dirottato l’aereo?” 
  
Alfred, oramai su di giri, ringhiò aggressivamente, esaurito da quella conversazione pedante e opprimente, non avendo più alcuna intenzione di risponderle. 
  
“Tranquilla, Claire. Presto anche lui cadrà in una delle mie trappole mortali. Siete nel mio territorio e pagherete per tutto quel che mi avete fatto passare! Siete soli! Nessuno verrà mai a cercarvi, nessuno potrà proteggervi!” 
  
Inaspettatamente però alle sue parole minatorie e sediziose, la risposta che ottenne il biondo nobile del casato Ashford fu una sottile, irritante, stucchevole risata. 
Claire…stava ridendo? Si stava beffeggiando di lui? 
  
“Cosa farfugli, Redfield?!” 
  
Tuonò impetuoso, pronto a reagire di conseguenza a quel suo modo di comportarsi irriverente e provocatorio, ma la risposta che ottenne fu persino peggiore…molto più di quanto potesse sopportare. 
  
“Questo è quello che credi tu. Sei tu ad essere solo...” 
  
Disse la rossa, poi aggiunse. 
  
“Mio fratello Chris mi sta cercando, mi troverà e mi porterà via da questo inferno! Lo so!” 
  
Asserì lei sicura di sé, credendo vivamente in colui che era sempre stato il suo eroe e che sarebbe sempre stato al suo canto. 
Credeva in lui, sapeva che sarebbe venuto; avrebbe lasciato quel posto ed Alfred Ashford assieme a Steve. Avrebbero riavuto la loro vita e sarebbero stati liberi… finalmente. 
Tuttavia quelle parole turbarono l’animo di colui che era dall’altra parte del muro, che si sentì sopraffare quando udì quel termine. 
  
 “ ‘Fratello’…?” 
  
Claire si voltò di scatto verso di lui, sentendo a malapena la sua voce, che aveva parlato sussurrando in modo quasi impercettibile. 
Comprese tuttavia al volo cosa aveva sconvolto il folle ragazzo altolocato. 
Possibile che l’idea che, a sua volta, anche Claire avesse una famiglia, un fratello, lo infastidisse? 
Perché mai, però, d’altronde…? 
  
Dal canto suo, Alfred sentì il sangue ribollirgli nelle vene, rimembrando quel calore umano che aveva sentito quando aveva reso la tenace Claire Redfield la sua adorata e tanto agognata sorellina. 
Sensazioni illusorie, ingannevoli, false, disdicevoli…però…però… 
No… 
Non poteva accettarlo…non poteva accettare che qualcun altro, sulla faccia della terra, fosse allietato e rasserenato dalle amorevoli cure della sua Altra Donna! 
Colei che in altro modo era stata sua, sua, sua!! 
Lei…non poteva appartenere a nessuno! Era un pensiero che lo disturbava, lo rendeva folle, arrabbiato! 
  
 “C-come osi?! Tu…non uscirai mai da questo posto!! Sarai mia prigioniera su quest’isola per sempre!” 
  
Sbottò completamente fuori controllo, oramai non comprendendo persino più se stesso e cosa lo turbasse effettivamente. 
Si era sempre rifiutato di credere, accettare e ammettere a quel qualcosa che lo importunava, che lo contorceva e che aveva perseguitato la sua psiche già martoriata. 
Non poteva cedere, non poteva arrivare a confessare quella dura e spregevole realtà che aveva fatto cadere in un baratro persino più oltraggioso la sua mente. 
In sua difesa intervenne soltanto quell’impeto di rabbia e violenza, l’unico modo in cui lui ormai sapeva reagire. 
Per questo dunque si adirò a tal punto, senza permettere alla donna dai capelli rossi di comprenderlo. 
  
“Buona notte, Claire. Goditi la tua permanenza. Ci rivedremo… se riuscirai a sopravvivere.” 
  
Disse infine, non dandole tempo di rispondere, non volendo assolutamente più interloquire con lei, addolorato dal suo vile comportamento. 
Corse quindi via dalla stanza, attivando la sua trappola, pronto a punire l’umile e sacrilega donna che stava osando maltrattarlo. 
  
“Alfred! Dove stai andando?! Cosa stai facendo? Lasciami uscire, dannazione! Lasciami uscire!!” 
  
Claire intanto, sentendo l’uomo correre via, premette il suo viso contro il passaggio segreto, sperando di richiamare il biondo Ashford e uscire da quella situazione che stava sempre più degenerando. 
Non ottenne alcuna risposta, stavolta, e dovette comprendere velocemente che se non fosse riuscita a salvarsi da sola, nessuno l’avrebbe fatto. Ma cosa poteva fare, cosa? 
Cominciò a tossire, mentre la stanza velocemente prese a cospargersi di un fumo tossico e nauseabondo, che stava rischiando davvero di farla collassare. 
Portò di nuovo la mano sulla bocca, determinata a mantenere il controllo, ma il panico stava cominciando a sopraffarla. 
Quei fumi sembravano diversi, non erano quelli soporiferi che aveva già sperimentato sulla sua pelle. 
Cos’era?! 
Prima che potesse concretizzare il pericolo oramai in agguato, si sentì venir meno; così lentamente, senza nemmeno accorgersene, si ritrovò sdraiata sul pavimento, oramai priva di sensi. 
  
  
  

*** 
 
 
 








 

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** Capitolo 8: sogno (ma forse no) ***


 
 
 
 
 
 
 
Capitolo 8: sogno (ma forse no)
 
 
 
 
 
 
Le nubi grigie, pesanti, si dislocavano sinuose in quel cielo cupo e malinconico. Si spostavano in massa con movenze veloci e inarrestabili, coprendo rovinosamente le stelle di quella cupa notte d’ottobre, trasformando quella volta in una coltre opaca e cinerea.
Esse rendevano l’aria greve, densa, inguardabile.
Se avesse piovuto, una volta tanto alcuno avrebbe maledetto quelle violente e inopportune lacrime d’acqua, preferibili a quel senso di oppressione che impregnava fin nelle ossa.
 
 
La rossa ricordava nitidamente quel senso di angoscia, quella depressione associata a quel cielo notturno prossimo a una tempesta che mai arrivò; sentiva ancora fortemente quei turbamenti personali che non le fecero chiudere occhio per giorni.
Non pensava che avrebbe fatto ancora quel sogno…
Lo stesso che fece a quei tempi…
 
 
Una distesa di fumo e nebbia…
…e tutto che bruciava….
Una fuliggine nera, quasi incorporea, volava, volava… galleggiava nell’aria nonostante non tirasse un filo di vento; si sollevava leggiadra fino a sovrastare le nuvole e il cielo.
Dove finiva? Cosa c’era oltre quelle stelle? Cosa stava raggiungendo?
Niente era limpido in quell’incubo burrascoso che devastò le sue notti, in quelle fiamme che avvolgevano impetuose la terra.
Quel fuoco s’impresse nelle sue memorie per sempre.
Quel fuoco che trasformava ogni cosa in un insignificante e raccapricciante tumulo nero, facendone sparire la sua identità.
Triste, mesto, incontrollabile; nessuno era padrone di quel destino, che ferocemente inglobava nel suo grembo distruttivo ogni cosa, trascinando, nel baratro della sua bocca infernale, la vita che un tempo aveva impregnato quella città ridotta in cenere.
Tutto si accartocciava e diveniva nero, sbriciolandosi fino a non esistere più.
Dei sottili bastoncini anneriti si ergevano fra i cumuli di macerie abbrustolite sparse un po’ ovunque.
Quel che la lasciò sgomentata fu riconoscervi la forma di una mano che, disperata, inseguiva ancora la salvezza in quei rimasugli.
Adesso erano solo delle dita carbonizzate che, protratte fino al cielo, si sgretolavano trasformandosi in polvere.
I suoi residui salivano su nell’atmosfera in balia del vento, divenendo parte di quelle nubi grigie e desolate che avvolgevano quella notte di Raccoon City.
Claire vide tutto consumarsi, sparire nel vuoto, fino a disintegrarsi del tutto, rendendo il rosso scarlatto delle lingue di fuoco il padrone assoluto di quel male inaccettabile.
 
 
Per questo, quando vedeva il cielo nebbioso, adesso aveva paura…
Perché non riusciva a dimenticare…
A dimenticare di quell’orribile incubo…
Un incubo…che però era accaduto davvero.
 
 
Fece quel sogno appoggiata sullo schienale della poltrona del treno, in viaggio verso l’Europa.
Quel viaggio che fece alla ricerca di Chris Redfield, suo fratello maggiore, che non vedeva da tempo.
Non seppe se dormì quella notte, oppure se avesse immaginato tutto a occhi aperti.
Ricordava solamente il tremolio delle rotaie che scorrevano sui binari ferroviari e che faceva traballare lo scompartimento, il suo sguardo fisso oltre il finestrino lasciato aperto che scomponeva la sua acconciatura stretta dietro la nuca e infine quel senso di vuoto insostenibile che mai avrebbe dimenticato:
 
 
 
 
Quella paura di essere soli al mondo.
 
 
 
 
Vite e vite distrutte…e lei era viva. Per destino o per caso?
Era questa la crucciale domanda che non osava rispondere.
Non voleva ma soprattutto…non poteva.
 
Nello stesso scompartimento del treno, di fronte a lei era seduto un ragazzo.
Sembrava poco più grande di lei.
Egli aveva gli auricolati ed era assorto mentre ascoltava la musica.
Seppur ne percepisse a stento il ritmo, Claire riuscì a riconoscere il brano che quell’uomo stava ascoltando. Era una melodia che lei ben conosceva: un famoso brano dei Queen, “Made in Heaven”, una canzone che Claire aveva ascoltato più e più volte.
Con la coda dell’occhio sbirciò nella sua direzione, rapita dalle parole della canzone.
Strinse gli occhi, i quali s’inondarono di lacrime, percependo mai come allora quel significato profondo.
La Redfield aveva sempre adorato quella canzone eppure non aveva mai rimbombato così forte dentro di lei.
Nel suo animo si mosse qualcosa di diverso, probabilmente perché provata dagli eventi di qualche notte prima.
 
 
“I'm taking my ride with destiny
Willing to play my part
Living with painful memories
Loving with all my heart
Made in heaven, made in heaven
It was all meant to be, yeah
Made in heaven, made in heaven
That's what they say
Can't you see
That's what everybody says to me
Can't you see
Oh I know, I know, I know that it's true
Yes it's really meant to be
Deep in my heart”
 
*Traduzione:
“Sto facendo la mia corsa col destino
disposto a fare la mia parte
Vivendo con dolorosi ricordi
amando con tutto il cuore
Fatto in Paradiso, fatto in Paradiso
Era tutto destinato ad essere, si
fatto in Paradiso, fatto in Paradiso
Questo è quello che dicono
Non vedi?
Questo è tutto ciò che tutti mi dicono
Non vedi?
So, so, so che è vero
Sì, è tutto destinato a essere
In fondo al mio cuore”
 
 
Quella canzone fu scritta in ricordo di Freddy Mercury, membro del gruppo dei Queen, defunto già da quattro anni quando usci l’album “Made in heaven”.
Il significato intrinseco di quella canzone riguardava la provenienza di quel disco direttamente dal paradiso.
Quel “made in heaven”, inteso letteralmente, ove chi non c’era più aveva partecipato dal cielo alla sua realizzazione.
 
Vicinanza, spiritualità, passione, speranza, destino…
 
Trovò ironico che fino a poche ore prima avesse indossato una giacca che reclamava proprio suddetta scritta, essendo fan di quel gruppo…….ed adesso era lì, in balia delle sue paure e dei suoi sentimenti, a riflettere su di essa.
Claire s’identificò in quelle parole, sentendo vivo come non mai quel senso di nostalgia verso chi voleva accanto in quel momento e che sentiva vicino…seppur non ci fosse materialmente.
Le fu di conforto, come un caldo abbraccio che la riscaldava nonostante non ci fosse nessuno con lei, nella realtà.
 
“Chris…”
 
Sussurrò mentalmente, schiudendo appena la bocca, formulando quel nome. Comprò quella giacca proprio assieme a lui, durante un concerto. Anche lui ne acquistò una simile, di colore marrone scuro.
La persona posta dinanzi a lei la scrutò un attimo, dopodiché calò gli occhi, percependo chiaramente quel momento intimo della fanciulla.
La rossa intanto cercò di contenersi, elaborando dentro di sé convinzioni sempre più forti.
Una corsa con il destino, in cui ognuno è disposto a fare la sua parte, pur lottando contro ricordi dolorosi e incancellabili.
La vita in fondo è tutta qui.
A tutti è destinato qualcosa, forse già scritto in paradiso, nelle stelle. 
Un paradiso che non offre sconti, soluzioni facili…nulla di tutto questo.
Non apre i sentieri della vita in modo gratuito, sussurrandoci parole di conforto; tuttavia ci dice che tutto è predestinato, che siamo fatti per sopportare quel dolore.
E’ destino, è scritto nelle stelle che sarà così.
Una canzone di speranza, forse ingannevole e illusoria. Eppure qualcosa in quelle parole le urlava forte, nell’anima, implorandole di crederci per davvero.
Una lacrima scivolò sulla sua guancia fredda, congelata dal vento che entrava dal finestrino e che le sbatteva sulla faccia.
Socchiuse gli occhi, bagnando le ciglia con quel liquido salmastro in cui era racchiusa un’irrefrenabile paura.
La paura di esser sola.
La ragazza ripensò dolorosamente ai suoi recenti ricordi, risalenti a poche notti prima. A tutti gli orrori che aveva vissuto sulla sua pelle quel tragico giorno a Raccoon City, la città che aveva visto distruggersi sotto i suoi occhi, ove aveva conosciuto il male assoluto.
Un incubo che non credeva potesse esistere davvero.
La sua vita quella notte era irrimediabilmente cambiata per sempre.
Quando giunse in quella città, non sapeva a cosa sarebbe andata incontro. Ella era mossa dalla sola e semplice speranza di ritrovare suo fratello, immischiato in una missione pericolosa.
Mai avrebbe pensato che alla fine egli sarebbe stato molto di più di tutto ciò. Questo perché Chris sarebbe stato la luce che le avrebbe permesso di non perire in quella battaglia infernale per la vita.
Era stato grazie a quella determinazione che si era salvata.
Lei era fra le uniche sopravvissute di quel disastro.
 
Adesso che però era lì, in salvo su quel treno, lei era da sola.
Chris non c’era. Non l’aveva trovato.
Claire Redfield abbassò il viso, sentendo un senso di inconcludenza lacerarla.
Strinse i pugni, mentre il suo cuore si contorceva afflitto.
Avrebbe lottato e avrebbe scongiurato quel destino che già in passato le aveva strappato via quel che dava calore nella sua vita, facendole toccare con mano la solitudine e il terrore di non potere mai più avere qualcuno accanto.
Non le importava quanti orrori avesse già vissuto in virtù di quello scopo, la ricerca della sua felicità sarebbe continuata, certa che quel destino scritto per lei includesse tutto ciò.
Certa che fosse destino che ritrovasse Chris….
….che non sarebbe stata sola…
Non sarebbe stata sola…
Era destino…
 
Questo tradusse la sua mente suggestionata da quelle parole, rielaborando il suo disperato bisogno di certezze che in quel momento, senza suo fratello, stavano vacillando.
Lei che non aveva più nessuno al mondo….
 
Quando era solo una bambina, un tragico incidente stradale portò via i suoi genitori.
Claire ancora oggi poteva rivedere davanti ai suoi occhi i loro feretri immobili, ricoperti dai teli utilizzati per preservare i corpi.
La paura, il freddo e la solitudine di quella notte….
L’orrore di conoscere la morte in un’età così giovane, cancellò per sempre dai suoi occhi i teneri sogni da bambina, costringendola a crescere velocemente e credere erroneamente che tutto poteva dileguarsi in un solo attimo.
Questa condizione mentale maledisse l’esistenza della piccola Claire, che per anni fu più capace di legarsi ad alcun essere umano per paura di perderlo.
Amici, amori, affetti…
Spesso diceva di no a prescindere, guidata da una voce interiore che le sussurrava crudele che tutto era fugace e passeggero; che presto anche loro sarebbero spariti dalla sua vita, lasciandola sola.
Non fu un bel periodo per lei.
La ragazza, oramai provata e sprezzante quel destino spietato che aveva toccato con mano, decise che non avrebbe perseguito alcun obiettivo nella vita: se la vita toglieva tutto senza guardare in faccia nessuno, tanto valeva fregarsene e vivere strettamente il presente.
Si unì quindi a una piccola banda di motociclisti, cinici e disincantati quanto lei.
Non legò con alcuno di loro, ma condivideva il loro spirito di ribellione. Montare su quel sellino di pelle rombante la faceva sentire viva…viva ed importante.
Era una parentesi della sua esistenza che non amava ricordare, nella quale si era trasformata in una ragazza di strada completamente distante dai normali cliché di un’adolescente.
Visse in modo felice e spensierato, tuttavia privo di tutto il resto.
In quegli anni, i mesi passavano in modo passivo, sempre uguali gli uni agli altri, trasformando i suoi giorni in un ritmo incessante, tuttavia inconcludente.
Questo perché nessuna finalità muoveva le sue giornate, non perseguiva nessuno scopo per il futuro: nella sua testa c’era solo l’incalzare di minuti, ore, giorni, mesi….in cui non accadeva nulla.
Tuttavia le andava bene così, era così che aveva scelto di vivere.
Era lieta di quella spensieratezza, di poter vivere la sua vita senza pensare mai al domani.
La vita in fondo era questo, niente di più. Era inutile e stupido porsi degli obiettivi o vivere per qualcosa.
Quello che desiderava era soltanto essere felice.
 
Tuttavia era questa la “felicità”?
Non avere pensieri, responsabilità, non avere legami reali, scopi, nulla da perdere…
Questo non significava, piuttosto, “evitare il dolore”?
Poteva davvero passare così la sua intera esistenza? A fare giri in motocicletta, falò in spiaggia e rientri a casa oltre il mattino dopo?
 
Ogni cosa deve avere un fine.
L’uomo ha bisogno di avere degli obiettivi, necessita di quella spinta che lo faccia alzare ogni mattina.
Una spinta che il più delle volte dovrebbe venire da noi stessi, in quando dare un senso alle cose fa parte della natura umana, spesso ossessiva nell’affermare il proprio passaggio sul mondo.
In quest’ottica, Claire all’epoca non possedeva tale stimolo emotivo, in quanto comprensibilmente disincantata; ma ciò non voleva dire che, a suo volta, lei non fosse a cuore a qualcuno.
Perché era una bugia: Claire Redfield non era sola al mondo.
 
Chris, suo fratello maggiore, al contrario di lei maturò in modo diverso la scomparsa della famiglia.
Egli elaborò il lutto rimboccandosi le maniche e accorrendo verso le sue responsabilità.
Caricandosi il peso della sua famiglia sulle spalle, comprese ben presto di essere “l’uomo” di casa e, da tale, doveva prendere le redini della situazione.
Né lui, né la sua piccola e dolce sorellina Claire avrebbero fatto una brutta fine senza i suoi genitori.
All’epoca giovanissimo anche lui, nel Chris adolescente crebbe una maturità e una forza d’animo che velocemente lo trasformarono in un uomo, spingendolo a cercare il suo posto nel mondo.
La vita militare negli accampamenti, nei distretti, nei difficoltosi addestramenti, nei rapporti di grado con i superiori e i sottoposti…
Tutto questo disciplinò la sua persona, cambiando il suo concetto di “famiglia”.
Chris arrivò lentamente a colmare quel “vuoto” che aveva fatto sentire internamente abbandonato anche lui, sebbene cercasse di non darlo a vedere.
La sua patria, i suoi colleghi, il campo…divennero la sua forza e lo aiutarono a ricostruire le basi di quella tragica perdita, facendogli trovare il suo posto.
 
L’affetto, la determinazione e la complicità di Chris rialzarono anche Claire, la quale si lasciò affascinare dalla vitalità che lo rese il nuovo pilastro della sua vita.
Il bruno seppe guarire non solo il suo dolore, ma anche quello della sorella; seppe portare sulle sue spalle tutto, incarnando così agli occhi della giovane dai capelli rossi ogni aspetto del profondo significato di “famiglia”.
Lui da solo divenne simbolo di tutto questo.
Grazie a Chris e al suo esempio, la rossa vide di nuovo quelle basi che credeva perdute, le quali l’avrebbero aiutata, fatta crescere e maturare.
Decise di riaprire quella porta e riprendere in mano la sua vita, nonostante le avversità.
Ritornò anch’ella padrona della sua esistenza.
 
Per questo aveva deciso di darsi una seconda opportunità….e vivere.
Voleva vivere!
Mai più si sarebbe abbandonata all’angoscia di una vita tortuosa in cui poteva contare solo su se stessa.
Mai più avrebbe ceduto alla depressione che l’aveva avvolta col suo manto oscuro, impedendole di vivere la sua esistenza, facendole credere che era tutto inutile.
Chris esisteva, c’era! Era con lei, al suo fianco.
Insieme si erano rialzati e avevano vinto quella battaglia trasformandosi da bambini ad adulti, ergendo le loro basi e riuscendo a camminare con le loro gambe.
Era una lotta che avevano vinto e che li aveva resi due persone forti, con degli scopi, dei sentimenti…
Per questo Claire avrebbe fatto di tutto per riaverlo!
Si sarebbe ricongiunta a suo fratello!
 
Lei…era stata ‘Lasciata Vivere’ per questo.
Claire era convinta che tutti avessero un destino; il suo era stato quello di sopravvivere al disastro di Raccoon City per ricongiungersi con la famiglia che le era stata tolta…
Quel suo destino…che era Chris.
 
Per questo avrebbe vissuto.
 
Quella vita che non aveva fatto che prendere, prendere, prendere da lei!
I suoi genitori, i suoi sentimenti, i suoi sogni, la sua spensieratezza, la sua normalità, tutto…!
Una sorte che aveva solo preteso da lei, costringendola ad alzarsi da sola come orfana, a lottare con tutte le sue forze.
Un’esistenza cui aveva sempre e solo dato, dato, dato.
Persino la tragedia di Raccoon City aveva stroncato i suoi sogni ancora una volta, in modo spietato e inarrestabile.
Adesso che la sua esistenza era di fronte un bivio, l’unica cosa che chiedeva era “vivere”. Voleva quella sua seconda chance per essere felice.
Avrebbe avuto indietro la sua vita; “un nuovo inizio” era l’unica cosa che chiedeva.
Lo avrebbe ottenuto e a tale scopo avrebbe continuato a lottare, non importava per quanto.
Quindi se intanto la vita voleva un altro pezzo di se stessa, se voleva tormentarla, angustiarla, sbriciolare il suo cuore e le sue speranze...lo facesse.
Girare e rigirare il coltello nella piaga, allargare la sua ferita fino a farle male violentemente…non avrebbe importato.
Poteva prendersi tutto quello che voleva.
Lei avrebbe vissuto con forza, tenacia, speranza…
Avrebbe raggiunto la sua meta…
Avrebbe riavuto indietro quello che le era stato tolto.
 
 
 
[Let Me Live – Queen]
 
“Why don't you take another little piece of my heart
Why don't you take it and break it
And tear it all apart
All I do is give
And all you do is take
Baby why don't you give me
A brand new start
 
So let me live
Let me live.

Why don't you take another little piece of my life
Why don't you twist it and turn it
And cut it like a knife”
 
*Traduzione:
“Perché non prendi un altro piccolo pezzo del mio cuore? 
Perché non lo prendi, e lo rompi, e lo sbricioli? 
Tutto ciò che faccio è dare, tutto ciò che fai è prendere 
Piccola, perché non mi dai una specie di seconda occasione? 


Quindi lasciami vivere 
Lasciami vivere 

Perché non prendi un altro piccolo pezzo della mia vita? 
Perché non la giri, e la rigiri, e la tagli come con un coltello?”
 
 
Per questo, una volta scesa dal treno, indossò quella giacca con su cucita la scritta “Let me live”.
Proprio per rievocare dentro di sé quella cieca convinzione.
Quella verità in cui credeva e per la quale avrebbe lottato.
Quella motivazione che non l’avrebbe mai fatta vacillare, che le avrebbe fatto sempre credere in quel Chris Redfield che presto o tardi avrebbe riabbracciato….
…che stava bene e col quale avrebbe riavuto una famiglia…
 
 
“So let me live
Let me live…
….”
 
 
Questo mentre il fuoco bruciava ancora persino le ceneri di quella che non era solo una tranquilla cittadina rasa al suolo….ma che era il simbolo della devastazione, della follia umana, della sua depravazione…
Quel rosso scarlatto che brillava in quel grigio spento e oramai morto, che voleva affermare quanto quella ferita avrebbe bruciato per sempre.
 
Quel sogno/incubo, che però rianimò il cuore della giovane Claire che ancora continuava quella battaglia.
 
 
 
 
***
 
 
 
 
 
Villa Ashford - Studio privato
 
 
Delle bianche dita affusolate battevano sulla tastiera di un computer posto in uno studio privato.
La figura dall’aspetto distinto che esaminava quello schermo teneva lo sguardo fisso su di esso e faceva scorrere le iridi azzurre su ogni parola che stava ricercando.
In seguito egli raddrizzò meglio il busto, in realtà già perfettamente allineato alla sedia, e posò la mano sul mouse; fece scivolare il dito medio rivestito dal prezioso anello blu sulla rotella che permette di far scorrere la pagina del web. Cominciò così a scrutare le informazioni che desiderava ottenere.
 
“Chris Redfield…eccolo qui, dunque, il bravo fratellone.”
 
Nel suo timbro di voce c’era un che di ironico e saccente, che evidenziava il suo disgusto e la sua disapprovazione, maturata a pelle, nei confronti di quell’uomo che solo in quel momento stava vedendo per la prima volta.
 
“Entrato nel 1990 nella United States Air Force, aviatore di talento, bla bla, bla, congedato con disonore per cattiva condotta nel ’95…..….nel ’96 entra nella S.T.A.R.S, unità speciale anti terrorista, nell’Alpha Team come co-pilota e tiratore scelto…”
 
Lesse quelle parole fingendo disinteresse, studiando in verità attentamente quel nemico appena conosciuto. Posò le labbra sulle nocche delle dita, che premettero sul suo viso nascondendo la porzione che andava dal naso al mento. I suoi occhi cristallini rimasero immobili, illuminati dalla luce bluastra del monitor, mentre nella sua mente qualcosa si stava contorcendo ancora una volta.
Questo perché qualcosa non gli piaceva di quell’uomo dai capelli corvini, dal volto fiero e determinato.
Non si trattava solo delle sue abilità tecniche ed esperienza militare, no.
Era altro che lo inquietava e lo stava rendendo nervoso; una motivazione che risiedeva nel banalissimo fatto che egli era una persona ben precisa e non un semplice soldato: egli era il fratello di Claire Redfield.
A prescindere egli rappresentò subito una forte minaccia ai suoi occhi, ma non certo perché teneva prigioniera sua sorella minore e temeva che egli giungesse nella sua base per soccorrerla.
La cosa non rappresentava un problema per lui, né lo importava in verità.
Piuttosto era altro che lo animava in quel modo negativo, fino a contorcere le sue viscere in un male che stava velocemente lievitando.
 
Un fastidio cui non sapeva dare un nome…
Un senso di usurpazione che non riusciva a mandare giù…
Qualcosa che razionalmente non poteva essere spiegato…
 
Cosa lo turbava? Cosa stava facendo ribollire il sangue nelle sue vene?
Era forse la consapevolezza che ci fosse qualcuno nella vita di colei che lui teneva prigioniera? Era infastidito da questo?
 
Oppure era piuttosto quella felicità…quella felicità intrinseca che lui conosceva, che bramava, ma che non poteva possedere e che i due fratelli Redfield invece avevano.
Il loro legame che costituiva concretamente quel concetto di familiarità ed affetto che a lui era stato negato.
 
A quel pensiero irritante, Alfred buttò all’aria i tipici utensili da scrivania posti in prossimità del computer, ferito nei sentimenti.
Una rabbia e un senso di sopraffazione verso quella felicità che lui ambiva, ma cui aveva rinunciato per permettere a colei che era la più importante di realizzare il suo sogno, il loro sogno…
 
Ma in virtù di quello scopo, a cosa aveva rinunciato esattamente?
Il prezzo era stato congruo…oppure troppo oneroso?
 
La collera che fuoriusciva dagli occhi di Alfred Ashford era già una risposta, che gli urlava crudele nelle orecchie quanto gli mancasse la sua metà; la sua amata, geniale, incomparabile sorella….
Da quindici anni desiderava ardentemente quelle calde braccia che sapevano amarlo.
 
“Padre, ti detesto!!! Inutile individuo inetto ed incapace, soffrirai in eterno per avermi tolto la mia Alexia!!”
 
Urlò forsennato, rivolgendo gli occhi verso lo schermo, verso quel mentale interlocutore che aveva decretato quella tragica fine.
Un odio ancora vivo ed intenso, che oramai Alfred rivolgeva ad ognuno che avesse anche solo lontanamente contribuito nell’alimentare quel suo immenso senso di abbandono, prima fra tutti Alexander Ashford; quel padre che non aveva saputo nemmeno essere un buon esperimento per i suoi figli, il cui insuccesso aveva costretto Alexia a prendere le sue veci.
Nella concezione deviata dell’uomo dai capelli pallidi, tuttavia, rientravano fra i suoi nemici anche tutti coloro che avevano quel che a lui era stato tolto.
Quell’incolmabile solitudine che torturava la sua psiche, con la quale non sapeva più come convivere.
Odiava disperatamente quell’amore, rinnegava con disprezzo ogni sua forma, in quanto riteneva Alexia l’unica destinataria della sua gioia e della sua felicità.
Non poteva dunque digerire quella tenerezza e quell’attaccamento che comprendeva e che sentiva visceralmente, ma che non poteva appagare in nessun modo. Era disturbante per lui toccare con mano quel tassello che lo feriva così profondamente.
Per questo detestava chi invece possedeva quella gioia, quella completezza.
 
Alfred rivolse di nuovo gli occhi alla foto reperita di Chris Redfield, scrutandolo con disdegno.
 
“Vedrai Claire, nessuno ti troverà mai in questo posto. Ma non preoccuparti…ci sarò io a tenerti compagnia…”
 
Disse a denti stretti, sussurrano in modo amabile e crudele, sorridendo dietro quella disperazione che mai avrebbe acquietato.
Detto questo, si sollevò dalla poltrona e si avviò oltre la porta di quello studio, dirigendosi verso la donna che aveva invaso il suo cammino e che era tornata a essere sua prigioniera.
 
 
 
 
***
 
 
 
 
 
“…..Claire....”
 
 
 
Una voce calda e distante chiamava il suo nome con familiarità e dolcezza.
Quanto le mancava…
 
 
“Stai sognando, Claire?”
 
 
Disse di nuovo, accarezzandole il viso. La giovane poté sentire le sue delicate dita posarsi sulle sue guance, cingendole il viso teneramente. Morbide e tenui, lasciò che l’accarezzassero, che si muovessero scostandole i capelli, che toccassero il suo volto assopito.
 
“….non saprei….”
 
Rispose frastornata, confusa dal senso di annichilimento di quel sonno forzato. Cominciò tuttavia a sentirsi improvvisamente strana, ansiosa…
Mentre quella mano l’accarezzava, cullandola dolcemente con il suo affetto e il suo calore, la sua mente si stava invece riappropriando della capacità d’intelletto, destandosi dal mondo dei sogni.
La ragazza dai capelli rossi avvertiva che qualcosa non andava; si sentì disturbata, infastidita.
Rielaborò quel senso di malessere e realizzò che non conosceva il volto del suo interlocutore...cosa stava succedendo?
Si sentì come sopraffatta e un leggero senso di vertigini cominciò ad alterarla.  
Fu una sensazione opprimente, che fece divenire il suo corpo pesante ed ingombrante; questo mentre quella voce continuava a rassicurarla con il suo dolce tono.
Il leggero tocco della sua mano scorreva delicato dal suo viso al suo collo, scendendo sempre più in basso….sempre di più….arrivando a sfiorare il suo corpo...
 
“Continua pure a dormire. Potresti farlo per sempre, se volessi……”
 
Quella delicatezza improvvisamente diventò invadenza.
Quella soave mano calda e armoniosa, divenne il gesto indiscreto di una persona sfacciata e maleducata che non sapeva dove fermarsi.
Infine anche quella voce fu presto riconoscibile e perse definitivamente quell’intensità seducente e ammaliante dalla quale si era lasciata ingannare per un istante.
Claire Redfield spalancò gli occhi e, come si aspettava, ritrovò davanti a sé la figura altolocata e folle di Alfred Ashford.
 
Digrignò i denti, guardandolo con odio.
Osservò il suo viso angelico, pulito e ordinato, che mitigava quello sguardo psicopatico e demoniaco che rendeva quell’uomo tutt’altro che etereo.
La luce lo colpiva frontalmente; la sua fonte probabilmente era alle spalle di Claire e illuminava il biondo rendendo immacolata la sua effige, donando grazia e morbidezza ai suoi magnifici tratti delicati eppure inquietanti.
Scrutò la sua immagine dal basso verso l’alto, osservando il suo busto stretto nella divisa militare, che si ergeva dinanzi i suoi occhi.
Tuttavia quella visione era………..capovolta.
Ella stava contemplando la figura del biondo, che però sembrava come essere a testa in giù…perché?
Improvvisamente quel senso di vertigini avvertito precedentemente durante il risveglio, si fece più forte, trasformandosi in nausea. Si sentì persa e disorientata.
Si accorse che i suoi capelli scendevano tutti verso il basso, lasciando libera la sua fronte e il suo collo, e quando fece per muoversi, trovò resistenza all’altezza dei polsi e delle caviglie.
Non era possibile…
Lentamente la sua mente cominciò a ravvivarsi e finalmente poté prendere coscienza della situazione in cui si trovava:
Claire era appesa a testa in giù, con le mani legate dietro la schiena e i piedi tenuti stretti in una corda, ancorati a un lungo pilastro di legno posto al centro di quello che sembrava una sorta di salone.
Una posizione scomoda e umiliante, volta a sottometterla di fronte il padrone che l’aveva imprigionata, costringendola a guardarlo dal basso senza avere la possibilità di ribellarsi.
La ragazza osservò attorno a sé: era una sala immensa, con uno spazio centrale ampio e libero.
Vide diverse poltrone di velluto rosso che contornavano la stanza facendo intuire che quella fosse una sorta di sala dei ricevimenti.
La prima cosa che contemplò fu il soffitto angelico, decorato con dei toni azzurri delicati e armoniosi, ma non era il momento per perdersi in quell’opera artistica. Il suo sguardo tornò quindi ad Alfred, che era ancora di fronte a lei.
 
“Che diavolo significa?”
 
L’uomo non rispose. Si limitò ad abbozzare un sorriso derisorio e irritante che alterò non poco la ragazza dai capelli rossi, già in balia di quel fortissimo mal di testa dovuto ai fumi narcotici e a quella posizione a testa in giù.
Un angustiante senso di sopraffazione prevaricò su di lei, essendo completamente legata e imprigionata.
Il suo cuore prese a battere, spaventata dall’idea che lui potesse avvicinarsi, o toccarla, come aveva fatto precedentemente.
Si ritrasse quindi impercettibilmente, ma abbastanza per farlo notare.
Il biondo intanto si piegò sulle ginocchia e si avvicinò al suo viso con dispetto, consapevole della sua posizione di dominio.
Sollevò la mano e posò il dorso sul suo volto, facendolo scorrere fastidiosamente fino alla fronte.
Dei brividi pervasero Claire, nutrendola con quel brutale senso di angoscia e disturbo che non poteva scacciare in nessun modo.
 
“S…smettila…”
 
Sussurrò incerta, ma la reazione del biondo fu opposta alla sua richiesta. Egli si avvicinò ancora di più, specchiando i suoi occhi vitrei e irraggiungibili in quelli azzurri di lei, indispettito ed entusiasmato dalla sua testardaggine.
Afferrò il viso della ragazza fra le mani, muovendolo verso il suo con fare autoritario e minaccioso, scrutandola con il suo sguardo etereo eppure terrificante. Claire poté sentire il suo fiato soffiare sul suo corpo.
 
“Povera piccola Redfield. Non temere, non ho intenzione di ucciderti, almeno per il momento. E’ da così tanto tempo che non ho compagnia, che sarebbe un vero peccato sprecare questa occasione, non trovi?
Amo osservare e gustare il tuo tormento; adoro svagarmi con i tuoi stupidi giochetti e i tuoi rocamboleschi tentativi di sopravvivenza. Si sono dimostrati un passatempo di cui ho scoperto non riuscire a fare a meno, lo sai?
Sono così dilettevoli e stuzzicanti…sebbene non ne hai idea di quanto vorrei massacrarti…non ne hai idea….
Sarà quello il mio piatto finale…”
 
Disse facendo penetrare ogni singola parola nel cranio della rossa, trafiggendolo come pallottole d’arma da fuoco, insinuandosi nella sua mente con fare omicida e violento.
Claire osservò le sue labbra muoversi davanti ai suoi occhi, con quel fare offensivo e sinistro, tremendamente schietto.
Quella che provò nell’udire quelle parole non fu semplice paura. Fu invece la bieca e agghiacciante consapevolezza di essere in balia di qualcuno di folle, che credeva assurdamente in quello che le stava dicendo:
lui la vedeva esattamente come una marionetta, con la quale poteva giocare o gettarla via a suo piacimento.
Fu una consapevolezza che devastò la sua mente, facendola sentire un oggetto fra le sue mani.
Le sue dita, che come tenaglie stringevano sulle sue guance, calcate contro la sua pelle. Quegli occhi così freddi e raccapriccianti, tuttavia tristi e insaziabili…
Dentro quell’uomo vedeva desolazione; una completa e struggente disperazione che l’aveva fatto impazzire visibilmente.
Egli seppe catturare con il suo sguardo ogni pensiero della ragazza, che fu costretta ad affogare in quel suo stesso mondo gelido e morente.
Un’agonizzante freddo la pervase; un freddo dell’anima, che le fece vedere con i suoi occhi quanto uno spirito potesse ammalarsi fino a travolgere nella distruzione tutto quello che ha attorno a sé.
Toccare con mano, sentire quel gelo, essere a pochi centimetri di distanza a diretto contatto con quel mondo disturbato, mandò in panne la sua mente, rendendola incapace di muoversi o parlare.
Questo mentre, a pochi centimetri di distanza, le sue labbra le sussurravano dolcemente il suo desiderio di distruggerla.
Il contrasto fra quel calore inappropriato e la crudeltà delle sue parole, la sconvolse, costringendola ad aggrottare le sopracciglia, confusa.
Egli voleva schiacciarla, ucciderla, distruggerla…eppure era stretto a lei in modo quasi maniacale; comprimeva le sue mani sulla sua faccia, afferrandola con veemenza e prepotenza.
I suoi occhi squilibrati puntati su di lei, che la scrutavano in ogni parte del suo corpo con un odio e una smania che aveva qualcosa di raccapricciante, cominciarono a far nascere in Claire il dubbio circa i desideri dell’ambiguo castellano.
Alfred intanto scese dolcemente una mano dal suo viso, solleticando la pelle della donna con le sue unghie accuratamente tagliate, degustando le sgradevoli emozioni inflitte su di lei, traendone un piacere immane.
Si avvicinò suadente in prossimità del suo collo, abbassando il volto verso il suo orecchio, estasiato dallo spettacolo che presto lo avrebbe allietato facendogli dimenticare per qualche istante i suoi dolori e le sue tormentate angosce.
Era per questo che amava tenerla in vita…la sua piccola e tenace formica…
 
“Ho lasciato nella tua cintura il coltello che hai rubato in cucina, Claire.”
 
La rossa sentì il fiato del biondo come un soffio fastidioso nei suoi timpani. Udì quelle parole inaspettate non comprendendo subito il loro perché. Tuttavia, quando vide Alfred Ashford allontanarsi, un terribile dubbio cominciò ad assalirla.
 
“Cosa stai architettando!? Ashford!”
 
Gridò spaesata.
Il giovane Ashford si voltò leggermente, facendo intravedere il celeste dei suoi occhi oltre la spalla addobbata dai decori militari.
 
“Non essere impaziente. Vedrai, te la caverai. Ah, ah, ah….!”
 
Rise sonoramente, assaporando deliziato l’espressione spaurita e dubbiosa della sua prigioniera.
Tuttavia ad un tratto cambiò drasticamente espressione, come se si fosse improvvisamente ricordato di qualcosa.
Egli corrucciò il viso, come giustificandosi di quella dimenticanza.
 
“Oh, quasi dimenticavo la parte più importante. Concedimi un attimo, carissima Claire, mi ci vorrà un minuto.”
 
Pronunciò col sorriso sulle labbra alzando l’indice verso l’alto, lasciando la sua prigioniera sempre più basita di fronte quell’assurdo modo di comportarsi.
Tra l’altro, le aveva chiesto un minuto come se lei fosse nelle condizioni di ribellarsi!
Si stava prendendo gioco di lei ancora una volta ed era un qualcosa che oramai sopportava sempre di meno.
Lo vide curvarsi verso una poltrona posta lì vicino e tirare un grosso riquadro di cartone, o qualcosa di simile, poggiato ai suoi piedi.
Sembrava una sorta di gigantesca cornice ricoperta da una tenda rossa per metà.
Strinse gli occhi cercando di capire cosa fosse, ma fu solo quando egli si posizionò di fronte che Claire riconobbe quell’ingombrante affare in un teatrino.
Era una di quelle scenografie di cartone sulle quali si fanno muovere le marionette, usate per lo più nelle feste per bambini.
Cosa stava facendo con un teatrino, Alfred?
La Redfield vide il ragazzo piegarsi dietro di esso nascondendosi dalla sua visuale, pronto a far prendere vita alla sua scenetta. 
Non potendo fare altro, osservò quella scenografia piuttosto infantile.
Essa era composta dal solito tendone rosso legato sui lati e poi da un boschetto fiabesco disegnato ai piedi di una grande montagna.
Sul viottolo di cartone vide spuntare la marionetta di un bambino biondo, che Alfred fece muovere in modo buffo e grottesco allo stesso tempo; era strano ritrovarsi ad assistere a uno spettacolo simile, inoltre era evidente che quel pupazzo rappresentasse lui. Cosa voleva mostrarle?
 
“C’era una volta un povero principe, il quale si ritrovò disperso in un bosco tetro e pericoloso.
Egli era triste e sconsolato, voleva solo ritornare a casa per riabbracciare la sua amata principessa che lo stava aspettando.
Camminò dunque per il sentiero, rimboccandosi le maniche e preparandosi a intraprendere il suo viaggio, ma dei piccoli bagliori minacciosi puntarono su di lui: erano gli occhi di delle fiere.
Egli le combatté coraggiosamente e la sua audacia e la sua forza lo portarono alla vittoria.
Proseguendo arrivò in una zona panoramica abbastanza vasta e da lì vide che il suo castello era su una grossa montagna. Seppur scoraggiato e infelice, egli era però sostenuto dal forte desiderio di tornare a casa. Così non demorse e continuò il suo viaggio.
Durante la scalata, un orso gli si parò davanti. Il principe lo affrontò, colpendolo con la sua spada esattamente come aveva fatto con le fiere incontrate nel bosco. Stanco ma determinato, proseguì poi per la sua strada.
S’imbatté in mille pericoli, che sembravano volerlo piegare e impedirgli di arrivare a casa. Bestie, tempeste, trappole e inganni…nulla tuttavia riuscì a fermare il giovanissimo principe. Così lui, dopo giorni e giorni di cammino e di dure battaglie, arrivò finalmente ai piedi del suo castello, dove la sua amata gli corse incontro, abbracciandolo felice.”
 
Durante tutto quel breve teatrino, Alfred aveva fatto muovere il suo pupazzo narrando la storiella con voce espressiva e teatrale.
Egli concluse la piccola scena cacciando con l’altra mano una graziosa marionetta dai lunghi capelli biondi, che mosse verso l’altra marionetta in modo da farle abbracciare felici. 
La ragazza dai capelli rossi si sentì confusa da quella rappresentazione, non riusciva in nessun modo ad interpretare il perché di un atteggiamento simile.
Alfred era stato gioioso ed estroverso mentre aveva fatto muovere e parlare quei pupazzi, comportandosi come gli animatori delle feste per piccini; eppure qualcosa di malato e inquietante si celava dietro quella vivacità, qualcosa che Claire ben conosceva e che corrispondeva alla crudeltà intrinseca di quell’uomo.
Quando egli si rialzò e mise da parte il buffo teatrino, ella gli rivolse uno sguardo serio e corrucciato, ansiosa di avere una sua spiegazione, ma per il burattinaio non era ancora arrivato il momento delle risposte.
C’era altro che aveva in serbo per la sua spettatrice, che col tempo forse avrebbe capito quanto quel teatrino non fosse affatto un gioco per lui.
 
“Il coltello mi raccomando.”
 
Le ricordò il ragazzo da capelli pallidi, pronunciando quella frase senza nessun nesso logico rispetto quello che aveva appena fatto.
Mise via il teatrino e allo stesso tempo abbassò una leva posta sul muro, mimetizzata fra gli arredi in modo così perfetto che Claire non l’aveva per niente notata.
Egli si mosse in modo così inaspettato e repentino che la giovane non ebbe nemmeno il tempo di fermarlo o realizzare cosa stesse per succedere; si ritrovò soltanto a sobbalzare per il rumore meccanico che all'improvviso sentì nelle vicinanze.
Fu allora che si accorse che la leva aveva fatto aprire una porzione del pavimento posta proprio sotto di lei.
 
La ragazza rabbrividì quando, apertasi quella voragine, delle urla disperate e ben conosciute sbraitarono fameliche verso di lei.
 
Esattamente sotto il pilastro di legno su cui era imbrigliata la giovane Redfield, era sistemata una grata che affacciava in una segreta dentro cui erano imprigionati degli zombie affamati, fetidi e spaventosi.
I loro bulbi grigi e mucosi, le loro bocche sporche di bava e di sangue, i loro denti sudici e ingialliti il cui fiato puzzava di morte; la loro pelle coriacea e morta, che cadeva a pezzi scoprendo la parte viva e pulsante che un tempo l’animava. Gli abiti logori e oramai consumati dal tempo, che pendevano loro addosso non rendendoli ancora del tutto simili a dei mostri, ma a dei non-morti, che mostravano ancora i segni di un’esistenza strappata via.
Claire osservò ognuno di loro con gli occhi spalancati e impietriti, cercando di mantenere la mente fredda di fronte quello strazio e quella disperazione.
Le braccia di quegli esseri propendevano verso l’alto, aggrappandosi con ossessione oltre gli spazi nella grata posta sopra di loro, bramando di raggiungere quel caldo sangue vivo che scorreva nelle vene della fanciulla.
Seppur la cospicua distanza che verteva fra la giovane e quel losco seminterrato, nonché la grata che li divideva, la rossa aveva la sensazione che quelle dita cadaveriche e diaboliche potessero arrivare a sfiorare il suo capo, trascinandola negli abissi di quell’antro infernale.
Cercò di tirarsi su come riflesso condizionato, sebbene l’impossibilità che lei aveva di muoversi; vedere quello spettacolo raccapricciante mentre si è appesi a testa in giù, col volto rivolto verso quegli occhi sbiaditi e avidi, annulla la propria percezione dello spazio.
Claire, infatti, si sentì sopraffatta, impaurita da quella condizione e da quella morte ignobile.
Dal canto suo, Alfred se la rideva….
Si sollazzava di gusto di fronte quello scenario.
 
“Ah,ah,ah! Oh, Claire, lo spettacolo non è nemmeno cominciato!”
 
Pronunciò crudele, quasi non riuscendo a trattenere la soddisfazione di quel momento così eccitante.
Il suo volto si corrucciò in un’espressione beffarda, altamente sfacciata e psicotica verso quell’impagabile momento.
Claire girò appena gli occhi azzurri e spauriti verso di lui, inorridendo di quel sorriso maniaco e disumano, non concependo quel malato piacere verso la crudeltà; una perversione cui non avrebbe mai potuto abituarsi.
Vedere quegli occhi ridenti, quella bocca estesa, il suo petto che si gonfiava deliziato da quella scena raccapricciane in cui la sua vita era in gioco… la atterrì a tal punto da freddare tutto il suo corpo, mentre sotto di sé sentiva quelle bocche voraci e insaziabili alitare verso di lei.
Come se questo non fosse abbastanza, udì un rumore alle sue spalle, riconoscibile nel tipico scorrimento di una saracinesca o una cosa del genere, come se fosse stato aperto un passaggio da qualche parte di quel salone.
La Redfield cercò di individuare il luogo d’origine di tale frastuono, ma le risate di Alfred Ashford non l’aiutarono molto a concentrarsi. Fu costretta a rilassare la testa per lo sforzo, non riuscendo a tenerla sollevata così a lungo; il suo sguardo così cadde sul lungo e secentesco lampadario di cristallo posto sul soffitto, stupefacente e sproporzionato, l’unico elemento che potesse osservare senza sforzare il suo collo e suoi muscoli intorpiditi.
La sua mente era confusa e disorientata per via di quella posizione capovolta, era insopportabile.
Accecata dal bagliore della luce del lampadario, improvvisamente un altro tipo di trambusto attirò la sua attenzione.
Puntò gli occhi verso il basso, terrorizzata.
Le sue iridi tremavano incessantemente, impaurite dalla prospettiva che si era appena figurata.
Scrutò la grata posta sotto di lei e fu allora che si rese conto che le figure macabre e agonizzanti di quegli uomini malati si stavano muovendo verso una determinata direzione.
Un paio di loro erano ancora fermi e si trastullavano senza senso con quell’atteggiamento demente consono alla loro condizione di non-morti. Gli altri invece avevano già annusato l’odore del sangue della loro preda e si muovevano lenti, ma inarrestabili, verso il loro pasto...
Con passo malconcio e infiacchito, la maggior parte degli zombie sparirono da sotto la grata, spostandosi nell’oscurità, inseguendo la scia luminosa che presto li avrebbe condotti nella sala dove la giovane Claire Redfield era imprigionata.
Alfred bastardo! Aveva aperto un passaggio segreto che collegava quel seminterrato al salone!
Uditi a stento i loro passi morti e pesanti, la rossa si impietrì, cercando di elaborare al più presto una soluzione.
Intanto il biondo castellano aveva abbondantemente lasciato la stanza e adesso godeva di quella deliziosa scenetta dall’alto del suo posto d’onore.
Osservò compiaciuto quel quadro drammatico e spaventoso, pregustando lo spettacolo cui presto avrebbe assistito: non si riferiva allo sbranamento di Claire, ma alla sua semplice, futile e banale lotta per la vita.
C’era qualcosa che lo esaltava nel vederla soffrire e combattere, per poi andare di nuovo ineluttabilmente incontro al vero terrore…per poi salvarsi di nuovo e cadere ancora, e ancora…fino a che poi sarebbe perita mettendo fine alle sue angosce: trovava amabile e suadente quel gioco inutile e perverso, che lui avrebbe osservato fino alla fine.
Dalla stanza di monitoraggio, scrutò quindi attentamente la piccola Redfield, avvicinando a sé il microfono, pronto a interloquire con lei e partecipare a quel dolore.
 
Dal suo canto, invece, la ragazza cercava di non farsi assalire dal panico, mentre i non-morti si appropinquavano inarrestabili e diabolici verso di lei utilizzando il passaggio aperto da Alfred, raggiungendola con le loro losche ombre, allungate per via della forte luce alle loro spalle.
Vedere quelle dita proiettate in sua direzione le fecero presagire che, seppur la loro lentezza e scarsa intelligenza, presto sarebbero state concretamente su di lei: doveva quindi agire e in fretta.
Determinata a non darsi per vinta, individuò subito il coltello infilato nella cintura, posto di lato sul suo fianco, come le aveva appena ricordato Alfred.
Pur avendo le mani legate dietro la schiena, costatò che incurvandosi sarebbe riuscita ad afferrarlo. Doveva solo confidare in un giusto e tempestivo movimento del suo corpo, sperando che dopo sarebbe riuscita a tagliare quelle corde.
Tremava al sol pensiero di fallire.
Claire non era abituata ad agire sotto pressione, inoltre aveva una sola possibilità: se quel coltello fosse fatalmente caduto a terra, non avrebbe avuto alcuna possibilità di salvarsi.
Non era infatti nelle condizioni di raccoglierlo e questo voleva dire che sarebbe stata la sua fine.
Guardò alle sue spalle, gli zombie si strascicavano zoppicanti, con le loro iridi spente eppure puntate verso di lei, come fameliche macchine inarrestabili: sguardi assetati di sangue e bocche già spalancate, guidate da un viscerale desiderio cannibale.
La morte non era che un dolce abbraccio rispetto al momento in cui quelle creature avrebbero cominciato a strappare la sua carne dalle ossa, dannandola in un dolore atroce e fatale cui alcun uomo vorrebbe mai incapparsi.
Rinvigorita da tale tragica prospettiva, cercò di ignorare quelle presenze e concentrasi sul coltello.
Allungò con forza le dita cercando di contrastare la rigidità dei polsi legati che prese a roteare con moti energici rappresentando quella posizione costretta.
Si contorse quanto più poté pur di riuscire a sciogliersi da quel vincolo e giungere all’agognata meta. Sentiva il peso dell’impossibilità della sua impresa mentre si allungava disperatamente verso il manico del coltello, ma era arduo anche solo sfiorarlo.
Dimenticò di possedere dei polsi, spalle, fianchi, schiena: l’unica cosa che bramava era muovere ogni muscolo e ogni articolazione pur di avvicinare le sue dita all’oggetto della sua liberazione.
Non demorse per alcun motivo, sicura che ce l’avrebbe fatta; se si fosse lasciata sopraffare dalla paura di sbagliare, sarebbe stato il suo più grande errore.
Gli orrori vissuti a Raccoon City avevano temperato il suo animo, rendendolo forte e volitivo nonostante le difficoltà, anche quando i propri sforzi o le proprie motivazioni sembravano inutili.
Fu dunque questa fiducia nel futuro che rappresentò la sua maggiore forza, che rinvigorì il suo spirito aiutandola a continuare a muovere imperterrita le dita affusolate, sempre di più, sempre di più…fino a sentirle quasi uscire fuori dalle ossa.
Finalmente…i suoi sforzi portarono i loro frutti: la punta delle sue dita toccò la superficie agognata.
Adesso stava a lei non sprecare quell’occasione.
Il suo respirò si fermò, tutto sembrò come rallentare, consapevole di quel momento topico che avrebbe segnato la sua vita o la sua morte.
Bastava muovere la mano in modo errato ed essa sarebbe scivolata via dal coltello, impedendole di estrarlo e liberasi prima che quelle creature la divorassero voracemente.
Lenta, ma decisa. Lenta, ma decisa.
Claire non fece che ripetersi queste parole, mentre muoveva nuovamente le sue dita, pronta a tirare verso di sé l’impugnatura del manico.
 
“Ghhhh..!!”
 
Un soffio caldo la fece sbandare.
Si ritrasse come riflesso condizionato, sentendo dietro la sua nuca il calore tipico di un alito ansimante, soltanto che esso apparteneva non ad un essere umano cosciente, ma ad una creatura irrazionale e affamata. In balia dell’odore fetido e nauseante di quell’essere ridotto allo stato di una bestia selvaggia, la rossa Redfield spezzò il precario equilibrio raggiunto col coltello.
Terrorizzata in modo equiparato sia dallo zombie che dalla atroce possibilità di vedere scivolare via l’oggetto contundente capace di liberarla, ella premette con veemenza l’arnese contro di sé, non volendolo perdere di mano.
Se quella creatura demoniaca fosse arrivata a lei, sarebbe morta.
Se avesse perduto il coltello, sarebbe morta.
Entrambe quelle prospettive portavano alla sua disfatta, dunque difendere l’oggetto della sua liberazione fu l’unica azione che le comandò l’istinto.
In quel momento però il rumore assordante di un’arma da fuoco tuonò impetuoso alle sue spalle.
La ragazza incassò tempestivamente la testa nel collo, dopodiché girò il viso dietro di sé.
Lo zombie che l’aveva raggiunta giaceva adesso a terra e dalla sua testa il rosso organico del suo sangue e parte della sua materia grigia, mescolata ai suoi capelli radi e sudici, fuoriusciva dal suo cranio, cui mancava parte della zona posteriore.
Claire quasi non potette credere a quella visione, ma prima che potesse concretizzare quel pericolo scampato, una ben conosciuta e stridula voce risuonò da un alto-parlante posto da qualche parte in quella stanza.
 
“Bel colpo, non è vero?”
 
Parlò compiaciuto Alfred Ashford, che l’aveva inaspettatamente aiutata colpendo quel mostro con un preciso colpo del suo micidiale fucile da caccia.
La giovane rimase attonita di fronte quel gesto; girò infatti lo sguardo cercando di individuare da dove egli avesse sparato.
 
“Si è trattato solo un piccolo incentivo, non succederà un’atra volta. Mi aspetto che tu sopravvivi, non rovinarmi lo spettacolo.”
 
Continuò, non spiegando sufficientemente il perché di quel gesto, almeno dal punto di vista smarrito e scioccato della Redfield salvata dal suo nemico, lo stesso che tra l’altro l’aveva messa in quella condizione mortale.
Non stette tuttavia a chiedersi troppe domande. Altri zombie stavano incombendo verso di lei, doveva quindi darsi una mossa, sebbene il suo cuore palpitasse incessantemente alla ricerca razionale di una motivazione dietro le incongruenze di quell’uomo. Perché aveva fatto una cosa simile?
Nel mentre dei suoi pensieri, la giovane si sforzò di far tornare le sue attenzioni a quel che stava precedentemente facendo: appropriarsi del coltello da cucina nella sua cintura.
Fu allora che si accorse che, lo sbandamento avuto in precedenza, le aveva fatto inconsapevolmente premere le dita sul manico del coltello, facendolo roteare fino la lama verso il suo fianco, la quale era andata a scavare nel suo corpo ferendola di striscio.
Il taglio non era né profondo né doloroso; era tuttavia nell’impossibilità di girare nuovamente la lama date le circostanze.
Dunque per avvicinare il coltello a sé, appropriandosene finalmente, esisteva solo un modo: tirare.
Strinse i denti, non del tutto pronta psicologicamente a incidersi il fianco, tuttavia era l’unica cosa che poteva fare.
La sua mente non era ancora del tutto lucida nell’elaborare modi alternativi per liberarsi.
In quel momento la ferità che presto si sarebbe inferta era un buon prezzo da pagare rispetto il terrore di morire in quel modo orrendo, ed in verità non ci stette a pensare poi molto.
Così con l’indice e il medio tirò faticosamente l’oggetto, che finalmente raggiunse il palmo della sua mano; fu allora che lo impugnò e lo tirò energeticamente verso di sé.
 
“Aaah!!”
 
Urlò nel momento nel quale la lama strisciò sul suo corpo, tagliandola di netto in modo preciso e doloroso, sporcandola del suo stesso sangue, vivo e brillante.
La ragazza strinse i denti, contorcendo il suo volto in un’espressione sofferente.
Premette le labbra tra di loro, continuando a trascinare imperterrita il coltello verso i palmi di entrambe le mani, mentre sentiva la sua pelle incidersi passo dopo passo, ed il suo sangue scorrere lungo il suo addome. Espirò profondamente quando finalmente il coltello arrivò tra le sue mani, liberandola da quell’agonia.
Dal suo fianco scendevano delle leggere scie di sangue fresco, ma data l’adrenalina che aveva in corpo non sentì molto male al momento.
Non indugiò dunque nemmeno per un secondo e, ripresasi in un batter d’occhio dallo shock, subito prese a sfregare la lama contro la corda, muovendo in modo contorto i polsi.
 
Aveva infatti superato solo il primo step di quella fuga: appropriarsi del coltello.
Adesso era in atto il momento cruciale: tagliare la corda.
 
Con movimenti precisi ed energetici, le fibre che componevano la fune cominciarono a separarsi, facendo cedere il vincolo che la teneva bloccata in quella posizione.
Agitò dunque anche le braccia, allentando la loro presa costrittiva e, dopo le prime pressioni, ecco che quelle briglie caddero finalmente a terra, incastrandosi nelle fessure della grata sottostante.
Ritrovatasi penzolante a testa in giù, Claire caricò tutta la sua forza sugli addominali, ergendosi fino ad arrivare alle ginocchia.
Quel piegamento forzato fece contorcere la ferita appena provocatasi, bruciandole come una violenta scarica elettrica.
Con le dita, cercò quasi di strappare via le corde che avvolgevano le sue caviglie. Dovette ispirare più volte per tenere a freno l’adrenalina e cercare di sciogliere con logica quei nodi, che alla fine decise di tagliare con il coltello.
Cascò a terra in un batter d’occhio, sbattendo violentemente la schiena; l’urto rimpallò dolorosamente nel suo petto, generando in lei un forte senso di malessere, come se per un attimo avesse smesso di respirare.
 
“Aaargh…argh!”
 
I suoni sinistri alle sue spalle la fecero rinvenire subito.
Caduta difatti proprio sopra la grata, le creature infernali ivi rimaste imprigionate allungavano le loro articolazioni verso di lei, bramose e insaziabili.
Claire sentì la loro ingordigia, la loro devastazione, assieme all’odore fetido dei loro aliti putrefatti, desiderosi di cibarsi di carne fresca e viva.
Vedere quelle presenze a pochi metri sotto di lei, le fece gelare il sangue, facendola sentire sopraffatta nonostante l’inferriata posta fra lei e quei mostri.
Si sentì psicologicamente sfiorata da quelle dita screpolate e invecchiate, che si muovevano feroci proprio sotto di lei.
Velocemente si rimise in piedi e scappò via da quella stanza, buttandosi contro la prima porta che riuscì a scorgere.
Non guardò nemmeno se i mostri che erano saliti nel salone fossero effettivamente arrivati in sua prossimità: in quel momento l’unica cosa che voleva fare, era uscire da quel posto.
Sbatté quindi violentemente la porta, imprigionando le bio-organic-weapon nel salone, posando il suo intero peso su quell’uscio appena raggiunto.
Abbassando lo sguardo, vide una chiave incastonata nella serratura, dunque la girò frettolosamente, chiudendo finalmente quella porta, ormai salva.
Guardò infine davanti a sé, estenuata e afflitta, con gli occhi sbarrati e il fiatone che gonfiava il suo busto. Improvvisamente si piegò sulle ginocchia, soccombendo finalmente al dolore di taglio netto infertosi per liberarsi.
Premette la mano sul fianco scoperto, la quale si tinse tempestivamente di rosso.
La ferita non era profonda, ma la tipologia del taglio era tale da infliggere un’angustiante dolenza che faticò lì per lì a sopportare.
Stette dunque qualche secondo piegata su se stessa, con le mani premute sul lato del bacino, stringendo i denti e concedendosi quel breve momento di riposo.
Doveva medicarsi quanto prima se voleva evitare un’infezione.
Si guardò attorno, dunque, non sperando certo di trovare un kit medico, ma almeno un bagno dove lavare quel taglio.
Strinse i denti, sforzandosi di rimettersi in piedi, zoppicando quindi lungo la nuova area in cui era appena giunta.
 
 
 
***
 
 
 
Palazzo Ashford - ???
Luogo sconosciuto
 
 
 
Claire Redfield zoppicava muovendosi nei meandri bui e desolati di quel luogo, ancora una volta.
Nonostante non avesse idea di dove si trovasse, esplorare quella nuova arena del castello non poteva che avere vantaggi per lei, dato che nelle zone già visitate non aveva fatto che trovare porte chiuse.
Alfred l’aveva portata in quell’ala del palazzo non certo per farla morire, altrimenti non l’avrebbe salvata dalle grinfie di quel morto vivente.
Escluse a priori ipotesi di coscienza morale dietro il suo nobile gesto eroico; da tempo sapeva di essere solo il suo amabile giocattolino, cui lui teneva per il suo personale sollazzo vizioso e maligno.
Sebbene era a lui che doveva la vita in quel momento, non si fece false illusioni. L’aveva detto lui stesso in fondo: non sarebbe ricapitato.
Concentrata sull’esplorazione, la speranza di Claire in quel momento era di trovare dell’acqua fresca, per dare sollievo alla sua ferita che bruciava maledettamente.
Si trascinò, cercando di limitare al minimo i movimenti del suo corpo in modo da non tartassare troppo quel taglio aperto, rimandando a dopo i proprio tormenti intellettuali circa l’ambiguo comandante.
La nuova zona era buia e stretta, costruita per lo più in pietra, illuminata dai fiochi bagliori di dei candelieri antichi poggiati nelle rientranze del muro.
Essi conferivano un colore mattone all’ambiente, rendendolo gotico e inquietante.
Presto si accorse che non c’erano molte vie d’uscita.
Una scala era crollata, per cui non poteva accedere al piano di sopra. Questo voleva dire che l’unico luogo a lei accessibile era il culmine del corridoio che stava percorrendo, in fondo al quale vedeva una porta antica e malandata.
Avanzò e posò le dita sul quella maniglia logora, spaventosa solo a guardarla, tuttavia per fortuna non era chiusa dall’altro lato, il che andava più che bene in quelle circostanze.
Claire l’aprì senza troppo indugio e si inoltrò così in un nuovo antro del palazzo.
 
La prima cosa che notò, fu il calore che si propagava in quel nuovo ambiente.
Climatizzato ed accogliente, quel nuovo corridoio era differente dai luoghi freddi e desolati dove era stata in precedenza, che sembravano completamente abbandonati, ad eccezione della camera da letto di “Alexia”.
Stava tuttavia cominciando ad odiare profondamente le ville: tutte corridoi e stanze, su stanze, su stanze, e poi ancora corridoi… non ne poteva più.
Strinse più forte la mano sul fianco, cercando di mantenere dignitosa la sua postura, ma era difficile. La ferita tirava a tal punto da costringerla a camminare con la schiena ricurva.
Le sembrò come un miraggio nel deserto quando, buttandosi contro una porta a casaccio, sfiancata da quelle fitte, essa rivelò dietro di sé i servizi igienici tipici di un bagno.
Claire stette poggiata sull’entrata per qualche secondo, con il viso premuto contro la porta e la mano serrata sul pomello d’ottone, prima di arrancare verso il lavandino.
Non chiuse nemmeno la porta, non le importava affatto della privacy in quel momento.
Prima che però potesse cominciare a curare la ferita sul suo fianco, una fortissima fitta allo stomaco la costrinse a contorcesi, facendola aggrappare con tutte le sue forze al lavabo.
Un atroce rimescolio alla pancia le impose di scacciare via dal suo interno quel senso di spossamento accumulato lungo tutta la sua prigionia.
La paura, l’ansia, la collera, il freddo, i narcotici e anche la posizione a testa in giù: furono tutte le concause che provocarono quel violento rigurgito che in qualche modo l’aiutò a mandare via quelle forti pressioni accumulate, sebbene in quel momento si sentiva uno schifo.
Aprì il rubinetto e suo malgrado notò che la pressione dell’acqua era poca. Scorreva, infatti, poco più di un filo d’acqua, gelido per di più; tuttavia era sufficiente per inumidire la sua pelle e rinfrescare il suo viso provato.
Risciacquò più volte e finalmente si sentì più lucida e rilassata. 
Aprì l’anta di fronte a sé, dietro la quale si aspettava di vedere uno specchio, tuttavia esso era stato rimosso.
Si chiese come mai…
Ora che ci pensava, in quella villa non c’erano molti specchi, anzi…forse gli unici che aveva visto erano quelli posti nelle stanze dei due gemelli.
Ignorò la cosa al momento comunque e tornò al taglio infertosi col coltello da cucina.
Sollevò la giacca di pelle e la maglietta, portandole molto al di sopra dell’ombelico, ed abbassò leggermente la cintura dei blu jeans, in modo da localizzare bene la ferita. Essa si era fatta abbastanza livida.
Bagnò le dita sotto il rubinetto e seppur le fitte intense che si scaturivano ogni volta che toccava in quel taglio, provò un senso di benessere nel sapere di averla almeno pulita; bastò questa consapevolezza a farle credere che quel dolore si stesse lentamente affievolendo.
Tirò un sospiro di sollievo, finalmente. Stava decisamente meglio, ora.
Una volta lavata ben bene, rovistò più accuratamente nei mobili; magari dentro vi avrebbe trovato delle garze o acqua ossigenata.
Spalancò gli occhi incredula quando, aprendo una delle ante, vi trovò niente poco di meno che un kit di pronto soccorso.
Se ne appropriò immediatamente, non potendo quasi credere a quella visione.
Il peggio era forse in agguato dietro l’angolo per giustificare quel colpo di fortuna, pensò ironicamente, ma nemmeno tanto.
Era più che lecito nelle sue condizioni non sperare tanto, dunque sentirsi sospettosa, tuttavia non era il momento per fare congetture simili.
La giovane Redfield, infatti, si mise subito all’opera e si sedette sul bordo della vasca da bagno alle sue spalle. Prima si disinfettò, poi prese ago e filo e con delicatezza lo infilò nello strato superficiale della pelle, unendo così i lembi della sua stessa carne.
Non aveva mai fatto una cosa del genere, era inumano per lei pungersi volontariamente con un ago e cucire come se la sua carne fosse un pezzo di stoffa.
In verità, Claire non era esattamente una donna di casa, non aveva familiarità con quel tipo di attività.
Aveva cucito raramente nella sua vita, eppure quel lavoro le venne in modo così naturale che sembrava averlo fatto da sempre. Probabilmente questo perché le circostanze attuali l’avevano messa a dura prova e quindi suturare una ferita non rappresentava un ostacolo così insormontabile, data comunque l’esperienza accumulata in quegli ultimi mesi che avevano cambiato la sua vita.
 
Claire ricucì il taglio.
Le ci vollero pochi punti, giusto tre o quattro. Non sentì nemmeno chissà quale dolore, carica di adrenalina com’era.
Quando si sollevò dal bordo della vasca di porcellana, costatò che la ferita pungeva sì, ma non la infastidiva; poteva continuare senza troppi problemi.
Adesso che era tornata più lucida e aveva ristabilito le sue energie, si sentiva pronta ad affrontare qualsiasi difficoltà che Alfred avesse in serbo per lei, ma prima di ogni altra cosa, doveva rifare il punto della situazione.
Quella prigionia non era che una giostra che continuava a girare, girare, senza mai fermarsi; lei stessa era finita in quella trappola e non stava facendo che scappare inutilmente, ritrovandosi sempre soprafatta dal suo persecutore, il padrone indiscusso del tavolo da gioco.
Doveva capovolgere i ruoli quanto prima, combattendo almeno ad armi pari, ma prima che potesse farlo doveva sapere cosa era successo a Rockfort quella notte quando aveva provato a fuggire con Steve.
La sua unica speranza per riuscirci era però era arrivare a lui.
Il personaggio principale di quella storia era lui e lui soltanto…ciò voleva dire che Alfred era l’unico che avrebbe potuto darle delle risposte.
 
Il suo nuovo obiettivo era quindi riuscire a entrare nella camera privata di Alfred Ashford.
 
Doveva pur detenere qualcosa lì dentro, o per lo meno era l’unica strada possibile per riuscire a comprendere qualcosa circa la sua prigionia.
Seppur folle, il biondo era la mente che giostrava la pazzia di quel posto, inoltre non ne poteva più di girare a vuoto. Le sue energie cominciavano ad abbandonarla.
Bastava un qualsiasi indizio che l’aiutasse almeno a capire dove si trovasse.
La questione era semplice, in fondo: era lui che l’aveva messa in quella situazione, quindi era da lui che avrebbe cercato delle risposte.
Prima fra tutte: perché l’aveva rapita con lo scopo di vestirla da Alexia? Era davvero questo il suo piano o c’era dell’altro dietro?
Ragionando in termini più fattivi, elaborò il da farsi.
L’ultima volta era riuscita a entrare nella camera di sua “sorella gemella”, assunto che esistesse davvero un’Alexia.
Quella camera, aveva costatato, aveva lo stesso passaggio segreto presente a Rockfort Island, che rendeva le due stanze comunicanti tramite il basso rilievo di pietra impresso sul muro.
Ciò voleva dire che le sarebbe bastato riuscire a tornare nella stanza di Alexia per accedere anche in quella di Alfred.
Annuì mentalmente, pronta a intraprendere quell’impresa, sebbene non sapesse da dove cominciare.
Tanto per cambiare, si trovava in una nuova area di quel maledetto palazzo, quindi doveva prima di tutto perlustrare quel luogo.
Sospirò affranta ma decisa a combattere: non avrebbe demorso tanto facilmente.
Magari strada facendo sarebbe riuscita ad aprire qualche porta, cercò di essere positiva.
 
Mentre fece per uscire dal bagno, qualcosa subito attirò la sua attenzione.
Girò la testa a destra e a sinistra, disorientata da quel che stava udendo; questo perché lungo il corridoio impreziosito dai maestosi tappeti rifiniti a mano, arredato con mobili secenteschi e candelieri antichi, echeggiavano delle note musicali. Note di musica classica.
Ancora una volta, il giovane Ashford si era servito degli altoparlanti per diffondere l’audio nel suo castello, in modo che Claire lo sentisse; soltanto che stavolta non era lui a parlare, ma la dolce melodia di Ludwig van Beethoven, un brano famoso e ben conosciuto: “Per Elisa”.
 
“Fur Elise”
Bagadella in La minore – numero WoO 59
 
Quel suono armonioso realizzato al pianoforte, comunicava mistero e nostalgia in colui che ascoltava le sue note.
Lontane e appena disturbate dal microfono, possedevano interamente l’ambiente circostante, invadendo ogni suo luogo come potendone toccare prepotentemente ogni meandro senza alcuno scampo.
Risuonavano come se facessero parte di quel posto e della sua malinconica follia; era come se fossero le stesse pareti a suonarla, vogliose di comunicare quello che conoscevano, quello che avevano visto.
Esse palpitavano donando alla villa quel qualcosa di vitale e spaventoso che prevaricava sul raziocino umano. Non era la melodia in sé, piuttosto era quell’emotività che sembrava dar vita a quel che circondava Claire in quel momento, caricando sulla sua determinazione un’energia  definibile sia dolce che turbolenta, che le faceva battere il cuore in una travolgente trepidazione che temeva starla deconcentrando.
Cosa significava quel gesto? Cosa intendeva fare Alfred?
Si sentì inquieta e non riuscì in nessun modo a godere di quella piacevole musica, inquadrandola solamente come un segnale di pericolo.
Sentiva qualcosa di malato e disturbante celato dietro quel gesto; poteva vedere, sotto la superficie, l’anima corrotta di colui che godeva di quei giochi malati.
Sapeva di non sbagliarsi.
Vedeva nitidamente lo sguardo malato e perverso del giovane comandante del quartier generale del centro d’addestramento di Rockfort Island.
Aveva come la sensazione di sentire il suo respiro asfissiante soffiare sul suo corpo, attraverso il rumore disturbato del microfono, che era come se talvolta riproducesse il suono indistinto di una respirazione.
Che fosse un altoparlante difettoso, o che vi fosse proprio Alfred dall’altra parte che nella sua schizofrenia continuava a osservare i suoi movimenti, la sensazione che provava in quel momento era di essere costantemente sotto esame.
Lui c’era sempre, la osservava sempre…
La melodia intanto camminava assieme a lei, accompagnandola mentre solcava i meandri del corridoio rosso, in perfetto stile Ashford: bello e macabro.
Claire incedette lenta, muovendo appena gli occhi lungo la struttura, sperando di arrivare in qualche altra zona il prima possibile.
A un certo punto, il suo cammino fu interrotto da una rampa di scale che portava al piano inferiore.
Poteva scegliere se continuare lungo il corridoio, oppure scendere. Non che avesse dei criteri sui quali basarsi, doveva per forza andare ad istinto.
Si affacciò appena dalla ringhiera di ferro, per scorgere cosa ci fosse più in basso: sembrava un piccolo atrio, rivestito dallo stesso tappeto rosso che addobbava il corridoio dove si trovava in quel momento.
Intravedeva una porta…e una bambola era appesa su di essa.
Essa dondolava su una piccola altalena realizzata in scala apposta per lei, cullata da uno spiffero di cui non individuava la fonte non essendoci finestre, cosa che suggeriva l’inquietante immagine che essa si muovesse da sola.
Deglutì, angustiata da tali irrazionali pensieri.
La curiosità la spinse a sporgersi ancora di più dalle scale, in modo da osservare meglio il pianerottolo sottostante e fu allora che un’immagine s’impresse nella sua mente.
Un’immagine che non credeva possibile poter vedere realmente.
Una presenza umana che in un attimo riscaldò il suo cuore.
La figura di qualcuno che non vedeva da tempo.
 
“Chris!!”
 
Urlò e un uomo dai capelli scuri, vestito con una divisa militare verde, si girò.
 


 
***
 
 
 
   
 
 
 
 
 
NdA:
 
 
-  *“Sogno (ma forse no)” è il titolo di un’opera teatrale di Luigi Pirandello.
Essendo tema di quest’opera quel confine incerto tra sogno e realtà, in cui per caso, o per destino, quel che accade nell’inconscio del sonno va a coincidere poi con quello che accade nel mondo reale al risveglio, generando un senso di sorpresa ed inquietudine nella protagonista della commedia…….ho pensato che ben si adattasse al contesto di questo capitolo, che comincia con un sogno e poi parte fondamentale di quel sogno si materializza inaspettatamente davanti agli occhi di Claire nel finale. Parlo di Chris Redfield.
Poi vedrete nel prossimo capitolo che succede! xD
 
- Altro obiettivo di questo capitolo era caratterizzare il personaggio di Claire, la protagonista femminile della mia fan fiction.
Desidero che anche lei, oltre all’emblematico Alfred, abbia il suo spazio e che la sua personalità sia spiegata sebbene gli esigui indizi forniti dal gioco.
Come avrete notato, mi sono lasciata ispirare dalle due scritte presenti sul retro delle giacche indossate dalla Redfield (in re:2 e re:cvx): “Made in Heaven” e “Let Me Live”, due canzoni dei Queen, tra l’altro.
Volevo rappresentare, con il passaggio fra queste due canzoni, l’evoluzione mentale di Claire da “re2” a “re:code veronica x”.
Nel primo, ella è vittima di un destino funesto che sconvolge a sua intera esistenza, alla ricerca di un fratello che non sa dov’è e che non ritroverà.
Esattamente come cantato in questo brano, dedicato a una persona scomparsa eppure onnipresente nella vita di chi è rimasto.
Allo stesso modo, Claire in resident evil 2 cerca Chris, il quale lei sente vicino nonostante non sappia dove si trovi. Tuttavia ella crede vivamente in lui e rappresenta la sua forza durante tutto il gioco.
Questo tema viene ripreso in re: code veronica x, dove stavolta la ragazza non è solo una semplice universitaria ala ricerca di suo fratello……
Adesso lei è una sopravvissuta! Una sopravvissuta di Raccoon City.
Quali sentimenti si creano in lei dopo quell’orrore? Come può accettare un destino così mesto?
La risposta l’ho trovata in questa canzone, Let Me Live, la frase che caratterizza la Claire di questo capitolo della saga.
Lei è stata “Lasciata Vivere” per questo scopo………per conseguire ciò che non ha potuto rendere concreto in re2: trovare suo fratello Chris.
Ho trovato dunque un filo conduttore fra Made in Heaven e Let Me Live. Un filo conduttore che è Chris, la motivazione che fa stare in piedi la nostra protagonista.
Quel “fantasma” che è con lei, che la spinge ad andare avanti, che è scritto in paradiso che ritroverà (made in heaven) …….ed è anche il motivo per cui è sopravvissuta dalla distruzione di Raccoon City (let me live).
Un destino che si deve compiere (e che infatti in code veronica si compierà!).
Non so se sono stata chiara.^^
 
- Riguardo Alfred, invece, questo capitolo abbraccia un altro aspetto interessante che sarà tema centrale della storia, nonché elemento cardine per portare Claire a comprendere il suo mondo.
Sarà tutto rivelato con il proseguire della storia, non temete! ^o^
Al momento mi astengo dalle spiegazioni, in quanto questo capitolo va assolutamente “completato” con il prossimo, che pubblicherò a breve (è già scritto) e che chiarirà a cosa mi riferisco.
Quindi ricordate bene le sue parole e il suo comportamento avuto in questo capitolo, perché saranno approfonditi nel prossimo.
 
Spero che la lettura vi sia piaciuta!
Alla prossima^^
 
Fiammah_Grace
 
 



 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** Capitolo 9: l'uomo dal fiore in bocca ***


 
 
 
 
 
 
Capitolo 9: l’uomo dal fiore in bocca
 
 
 
 
 
 
 
 
« Venga... le faccio vedere una cosa... Guardi, qua, sotto questo baffo... qua, vede che bel tubero violaceo? Sa come si chiama questo? Ah, un nome dolcissimo... più dolce d'una caramella: - Epitelioma, si chiama. Pronunzii, sentirà che dolcezza: epitelioma... La morte, capisce? è passata. M’ha ficcato questo fiore in bocca, e m’ha detto: – «Tientelo, caro: ripasserò fra otto o dieci mesi!» »
(L’uomo dal fiore in bocca* – Luigi Pirandello)
 
 
 
 
 
 
Un attimo può imprimersi nella nostra mente, folgorandola fino a farci credere che sia durato un’eternità.
Momenti indelebili, che alterano i sensi attraverso una vera e propria dilatazione temporale, intangibile a occhio esterno, eppure assolutamente reale dentro di noi.
Se sia più attendibile la realtà oggettiva o soggettiva, è una risposta cui ognuno replica come preferisce.
Resta il fatto che quella dimensione impalpabile esiste e molto spesso determina le nostre scelte, le nostre azioni, impreziosendo quegli attimi che rimangono attimi…eppure hanno un valore incommensurabile.
Fu questo che fece tremare gli occhi di Claire Redfield quando, poggiata alla ringhiera della scalinata che collegava il piano superiore con quello inferiore, vide l’immagine di suo fratello Chris.
Era lui…o qualcuno che gli somigliava?
I suoi capelli castano scuro, la pelle robusta e muscolosa, la sua postura imponente, la sua aria da duro, il suo sguardo fiero, forte, eppure gentile…
Chris Redfield era entrambe le cose: rude e delicato, una persona compassionevole e dolce, ma anche rigido e ribelle.
Egli trasmetteva la forza e la dinamicità dell’uomo virile e coraggioso, caratteristiche che lei ammirava veramente tanto e che lo rendevano diverso da ogni altra persona avesse mai conosciuto.
Chris…era suo fratello. Suo fratello nel senso più profondo e sentito del termine.
Non erano legati solo dal sangue che scorreva nelle loro vene. Era, infatti, la vita che li aveva resi tali, oltre quel legame inscindibile.
Il sostegno che si erano dati a vicenda, le tante vicissitudini vissute…
Il suo affetto per lui era dettato dal cuore di chi non poteva immaginare la sua vita senza una persona cara, senza l’unica persona rimastole della sua famiglia.
Claire e Chris erano rimasti soli dopo il tragico incidente che aveva portato via la loro famiglia.
La ragazza non aveva che lui al mondo.
Per questo lo aveva cercato così tanto, non arrendendosi per nessun motivo, confidando costantemente sulla sua sopravvivenza.
Perché non poteva accettare di essere sola, non poteva immaginare un’esistenza privata completamente di un appoggio, di un affetto così fondamentale per lei.
Perché una parte di sé sapeva che era destino che si sarebbe ricongiunta con lui. Che prima o poi sarebbe tornata a riabbracciarlo, tornando ad avere una famiglia.
Si ritrovò a contemplare il suo profilo, impietrita; egli non si era ancora accordo di lei e stava perlustrando l’ambiente, esattamente come lei.
D’altronde, nella realtà non erano trascorsi più di dieci secondi da quando si era affacciata dalla balconata. Era agli occhi della Redfield che quel breve istante si era trasformato in lunghissimo momento.
Nello stesso frangente in cui la giovane dai capelli fulvi realizzava, infatti, di aver finalmente ritrovato suo fratello maggiore, egli intanto alzava i suoi occhi blu notte verso di lei.
Le sue iridi si dilatarono quando dal nulla stabilì quel contatto visivo inaspettato, vivendo le stesse emozioni, le stesse palpitazioni e commozioni di sua sorella.
Diresse il viso verso di lei, muovendo in seguito anche tutto il corpo. Il suo sguardo era languido, ma non mancava quella scintilla di sagacia e orgoglio che caratterizzava le espressioni facciali dell’ex membro STARS. 
Egli inarcò le labbra in un sorriso contenuto, eppure sinceramente caloroso.
Claire non aveva dubbi adesso che si stava specchiando nei suoi occhi: era Chris, era lui!!
Era davvero lui!
Ella corse giù per le scale dimenticando quasi dei gradini, nei quali tanto non inciampò per un fatto istintivo, tipico del cervello che memorizza certe meccaniche di movimento.
Mentre si lanciava fra le sue braccia anche il ragazzo dai capelli scuri allargò le braccia accogliendola sul suo petto.
Il bruno condivise con lei quella contentezza, desiderando di sentire finalmente vicina la sua preziosa e giovane sorellina. Quando lei sprofondò fra le sue calde e robuste braccia unendo i propri calori vitali, quasi non poté credere all’immensa gioia che stava vivendo.
Anche lui si sentì quasi soprafatto da tale emozione, inaspettata e meravigliosa.
La ragazza intanto congiunse le sue mani, le quali si allacciarono lentamente dietro la schiena di lui stringendolo con veemenza, come se avesse paura di star abbracciando un fantasma.
Era come se temesse che lui potesse sfuggire da un momento all’altro, come fosse un fumo evanescente, come accadeva nei suoi sogni.
La concretezza di quell’abbraccio la lasciava quasi spiazzata, come se l’affetto negato per colpa di quella lunga separazione l’avesse disabituata a tale felicità.
Strinse i denti, non riuscendo subito a parlare, mentre anche le braccia di Chris si avvolgevano lentamente su di lei, completando quella ricongiunzione.
Il suo gesto fu più delicato del solito, come se avesse paura di toccarla. Lo sentiva timoroso, incerto, probabilmente emozionato come lei.
Quando egli poggiò la mano sulla sua schiena, la sentì fredda e molto titubante. Claire si chiese perché; quell’incertezza le creò disagio.
Il freddo delle sue dita trafisse la ragazza come una goccia d’acqua ghiacciata, ponendosi in contrasto con il calore che aveva avvertito quando si era stretta al suo petto.
Tuttavia la rossa non ci fece troppo caso, immersa nell’esultanza di quel momento. Sussurrò invece il nome di suo fratello, stringendolo ancora di più, abbandonando la testa sulla sua spalla.
 
“Chris…mi sei mancato così tanto!”
 
Disse commossa mentre il suo cuore tornava a sorridere, ora che non era più sola.
Il ragazzo dal suo canto sentiva il suo cuore battere forte, tanto che non sapeva più distinguere il suo da quello di sua sorella.
Fu qualcosa che non seppe descrivere e gli fu difficile da elaborare.
Sapere che la sua piccola Claire stesse bene, che fosse viva e al sicuro fra le sue braccia, rinvigorì le sue speranze e la sua fiducia verso una vita dura e tormentata che sembrava non volerlo mai abbandonare. Invece adesso gli era stato concesso quell’attimo di tenerezza e di pieno appagamento psicologico.
Il corpo minuto di Claire era stranamente caldo e propagò dentro di lui un piacere dolce e penetrante che riscaldò il suo animo invece corroso dal freddo.
Era una felicità attesa troppo a lungo che quasi stentava a riconoscere.
Se prima dunque aveva solo poggiato le sue mani freddissime e timorose sul suo corpo, in quel momento desiderò più sinceramente ricambiare quel contatto anche da lui stesso bramato.
La ragazza dai capelli rossi sentì muovere quei freddi palmi sulla sua schiena scoperta, i quali prima la cinsero, poi una delle mani prese a salire sempre più sopra, accarezzandola dolcemente.
Era come se i suoi polpastrelli volessero rigare la sua pelle, solleticandola fino a farla rabbrividire. Fu un contatto inconsueto, che la scosse fino ad allontanarla dall’idillio di quel momento.
Mentre riapriva debolmente gli occhi, prendendo coscienza dell’irregolarità di taluni atteggiamenti non consoni al suo fratellone, sentì il corpo rigido e freddo del ragazzo appropinquarsi al suo.
Chris non era mai stato un granché nell’esprimere le sue emozioni. Era un ragazzo aperto, ma erano più i piccoli gesti a comunicare per lui, come uno sguardo, un sorriso…
In quel momento invece c’era qualcosa di diverso. Le sue mani adagiate alla sua schiena scoperta si cinsero sempre più saldamente, comunicandole un sentimento di brama e possessione. Una di queste prese a salire verso la sua spalle, passando la giacca di pelle che aveva addosso, solcando una zona di passaggio che Chris non era certo solito toccare.
Sentire quel braccio lungo tutto il suo dorso, il cui palmo l’abbracciava sotto il tessuto dei vestiti, le comunicò un profondo disagio. Il più brutto disagio che avesse mai sentito in vita sua.
Perché quel senso di soprafazione, di violazione, era un qualcosa che non aveva mai provato…figuriamoci quindi da parte del suo stesso fratello.
Si sentì importunata da quella carezza fredda, timorosa, eppure avida e lussuriosa.
Il suo stomaco si contorse, non riuscendo più a distinguere piacere da disprezzo, angoscia da eccitazione, affetto da bramosità………………..giusto da sbagliato.
Nell’incertezza dei suoi sentimenti, frantumati in quel rimescolio di turbamenti, il ragazzo dai capelli scuri rivolse il suo viso verso quello della donna fra le sue braccia. Aspettò che la rossa ricambiasse il suo sguardo tanto agognato, dopodiché avvicinò la sua fronte alla sua, godendo del suo respiro caldo ed ammaliante.
 
“Sei mancata tanto anche a me, mia amata sorellina…”
 
Claire vide ogni singolo movimento di quelle labbra così vicine alle sue, le quali gettarono nel buio le sue certezze, le sue gioie e le sue inquietudini. Tutto si fermò e si fece nero, non fu più capace di vedere niente.
L’ultima cosa che la sua ragione riuscì a inquadrare fu l’ombra del viso di suo fratello che imprigionava il suo, mentre la opprimeva fra le sue forti braccia e il suo fiato ardente, fino a far crollare la sua mente gettandola in pasto all’irrazionalità più spietata.
Dopo aver sentito quel corpo, che mai avrebbe tormentato i suoi sentimenti, arrivare invece a solcare delle zone limite naturali per dei consanguinei, specie se fratelli come lei e Chris, Claire fu costretta a scacciare quello stesso viso che aveva sognato da mesi.
Il suo cuore sembrò come spezzarsi quando separò le sue mani dal suo corpo per schiacciarle sul busto del ragazzo in modo da respingerlo; fu un’azione violenta per lei, che mai, mai e poi mai avrebbe pensato di trovarsi in una situazione simile.
Qualcosa stava lentamente morendo dentro di lei ancora una volta, contorcendo le sue viscere e costringendo il suo intelletto a realizzare quello che non voleva comprendere.
Semplicemente era troppo tremendo per lei prendere coscienza di quel che stava accadendo fra lei e il suo Chris.
Questo mentre si specchiava negli occhi soddisfatti e desiderosi di suo fratello, il cui sguardo era distante dall’uomo che lei ricordava; in quel momento se ne rese finalmente conto.
 
Fiero, virile, determinato…era lui. Erano i suoi occhi, il suo volto!
 
Eppure il luccichio che animava le sue iridi cobalto e il sorriso che deformava il suo viso erano strani; era come se la sua anima fosse diversa, sapeva di non sbagliarsi.
Come un sogno che si trasforma in incubo, tutto si capovolse in modo vorace e inesorabile.
Claire sentì quel caldo abbraccio divenire invadente e prepotente, quella contentezza trasformarsi in cupidigia. Infine il conforto mutò in paura.
Intanto, colui il quale aveva creduto Chris Redfield fino a quel momento, la teneva ancora costretta fra le sue braccia. Solo dopo finalmente si tradì e rivelò la sua reale natura.
Accortosi, infatti, che il suo inganno era stato scoperto, egli non fu più capace di continuare quella messinscena. Cominciò dunque a deformare la sua bocca, trattenendosi dall’emettere una risata diabolica e atroce di fronte la povera ragazza ancora stretta al suo corpo.
Ella vide il volto meraviglioso di suo fratello assumere un ghigno derisorio e crudele.
Così, quello che era stato Chris fino a qualche istante prima, si rivelò essere l’ennesima sceneggiata del fantasioso e mentecatto padrone del castello Ashford.
 
La voce squillante eppure possente del biondo castellano era nitidamente distinguibile dietro quel sogghignare contenuto e allo stesso tempo sfacciato.
Egli, ancora estasiato da quel calore che aveva scaldato il suo corpo abbandonato, affogava ancora nell’inebriante calore di quel contatto umano che gli era stato negato nella vita. Sentì il suo cuore riscaldarsi, come se avesse potuto riprendere a battere dopo tanto gelo nell’anima.
Quando dunque sentì la giovano staccarsi da lui, afferrò con fermezza la ragazza non lasciandola andare via.
La rossa poteva sentire la forte eccitazione di quel ragazzo folle e crudele, che adesso era arrivato a sfruttare persino quelle poche certezze che davano ancora speranza nella sua vita.
Agitata dalla sua esaltazione, dal suo sguardo folle e fanatico, cercò di respingerlo in ogni modo, ma la sua presa era forte e non riuscì a scostarsi se non di pochissimo.
Intanto la sua mente, parzialmente tornata lucida, cominciò a chiedersi come diavolo avesse fatto Alfred a travestirsi in modo così perfetto da Chris.
Fu quando i loro sguardi si incrociarono di nuovo che ottenne la sua risposta, seppur incomprensibile al momento.
Vide, infatti, gli occhi blu intensi di Chris diventare color del ghiaccio, per poi tornare più scuri.
Il suo volto marcato si fece per un attimo più lungo e pallido, così come il resto del suo corpo, che sembrava alternarsi ad una corporatura diversa da quella di suo fratello.
Quel che stava vedendo non aveva senso, a meno che non si trattassero di…allucinazioni?
Intanto lo sguardo smarrito e indifeso della giovane Redfield esaltava e rendeva soddisfatto l’architetto di quella follia, che si dilettava nutrendosi della buona riuscita del suo piano ambiguo: il piano che aveva condotto Claire fra le sue braccia.
 
“Oh, Claire, non è stato forse meraviglioso poterti abbandonare fra le braccia di un amore tanto bramato e ricercato?
Vederti correre al mio cospetto, lanciarti in modo spontaneo e amorevole verso di me fino a comprimere innocentemente il tuo corpo al mio, mi ha per un attimo comunicato un piacere che avevo quasi dimenticato. Mia dolce, dolcissima ‘sorellina’…ahahahah!”
 
Alfred rise di gusto, stavolta non sforzandosi di trattenersi in nessun modo. Frattanto l’anima racchiusa negli occhi di Claire s’infrangeva come un vetro rotto, facendo divenire il suo sguardo sempre più spento fino a freddare il suo intero corpo.
 
“Non è tutto, mia adorata. Quello che hai appena vissuto non è altro che un bellissimo sogno ad occhi aperti. Hai sentito, infatti, il peso delle insidie che io ho preparato per te, non è vero?
Come è stata dura la vita per te, piccola Claire? Come è stato brutto muoversi solitaria nei meandri di un luogo sconosciuto come questo, ferita e abbandonata a te stessa, dimenticata dal resto del mondo.”
 
Disse con un tono comprensivo e umano, che sembrava voler fintamente consolare le sue pene e le sue angosce. La mano di Alfred accarezzò il suo viso con una dolcezza visibilmente finta e recitata, ma stavolta Claire non si lasciò ingannare. Strinse i denti, scacciando emotivamente quel tocco gentile che solleticava la sua pelle, guardando con sprezzo quell’uomo sotto le mentite spoglie di suo fratello.
 
“La paura di essere soli, le sofferenze di una vita che sembra volerti annientare…capisco molto bene tutto questo. Come il “Povero Principe” della mia piccola storia, ricordi?”
 
A quella frase, il suo corpo intero sussultò.
Figurò nella sua mente il teatrino messo su da Alfred qualche ora prima. Quella storia strana e infantile, ma che si stava rivelando essere qualcosa di più di un semplice racconto.
Di colpo Claire comprese il significato nascosto dietro quelle ambigue parole.
Qualcosa di losco ed oscuro, ma che tuttavia alzò il sipario verso nuove prospettive che non poteva nemmeno immaginare potessero corrispondere alla realtà.
Perché non era possibile….non era possibile che avesse architettato tutto questo solo per.........per……….
 
 
Per farle comprendere il suo dolore.
 
 
C’era una volta un povero principe, il quale si ritrovò disperso in un bosco tetro e pericoloso. Egli era triste e sconsolato, voleva solo ritornare a casa per riabbracciare la sua amata principessa che lo stava aspettando………
 
Alfred Ashford cominciò a ripetere le parti principali di quella favola semplice e abbastanza banale.
Parlò con voce bassa e suadente, volendo attirare a sé le attenzioni più profonde della sua prigioniera confusa e disorientata che stava comprendendo in quell’istante la complessità e la devastazione della sua mente.
Un disagio e una malinconia che lui aveva cercato di comunicarle in un modo inquietante e malato.
Il piano perfetto di una personalità oramai caduta inesorabilmente nella pazzia e nella depressione più acuta.
 
Seppur scoraggiato e infelice, egli era però sostenuto dal forte desiderio di tornare a casa. Così non demorse e continuò il suo viaggio………
 
Il suo desiderio di rivedere Alexia, la sua malattia aggravata nel momento nel quale lei lo aveva lasciato solo nel suo castello.
Alfred aveva usato la sua storia contro di lei!
Claire aveva accidentalmente nominato Chris nelle ore precedenti e lui aveva immagazzinato quel dato proprio per muovere quella pedina a suo favore! Ma perché?!
 
………………………S’imbatté in mille pericoli, che sembravano volerlo piegare e impedirgli di arrivare a casa. Bestie, tempeste, trappole e inganni…nulla tuttavia riuscì a fermare il giovanissimo principe.”
 
Quella storia non aveva che rappresentato le sue battaglie personali, le sue sofferenze.
 
Così lui, dopo giorni e giorni di cammino e di dure battaglie, arrivò finalmente ai piedi del suo castello, dove la sua amata gli corse incontro, abbracciandolo felice.”
 
Alfred concluse finalmente la breve storiella, raccontando il suo lieto e semplice finale, dopodiché tornò ad esaminare lo sguardo sgomentato della Redfield.
 
“Adesso hai capito?”
 
Sussurrò con dolcezza.
Fu un tono grave e basso, poco tipico di lui e che catturò l’attenzione della giovane.
 
“Sei tu quel bambino.”
 
Rispose di getto, mentre si perdeva nei suoi occhi vitrei e distanti; uno sguardo che lui ricambiò con la stessa intensità, ponendosi tuttavia in modo profondamente lontano, irraggiungibile.
 
“Risposta corretta ma incompleta, Claire. Anche tu sei parte centrale di questo racconto, infatti.”
 
Gli occhi della rossa si spalancarono di fronte quell’affermazione.
 
“Non vorrai farmi credere che non ci eri arrivata? Ahahah!” rise. “Dai, tesoro, pensaci: rapita, legata, appesa a testa in giù nella mia trappola mortale. Le mie cavie, i loro lamenti e la loro fame…la loro brama di assaggiarti e strapparti via la carne. Tuttavia tu lotti e riesci a liberarti.
Ferita, sfiancata e inesorabilmente oppressa da tanti conflitti, continui a cercare la tua meta. Una battaglia continua, ma alla fine…ecco il tuo amato Chris Redfield sbucare oltre le scale, al quale corri incontro finalmente felice.”
 
“C-cosa stai…?”
 
“Non capisci? Ho elaborato tutto questo per te ! Per farti provare sulla tua pelle il mio immenso dolore!”
 
Il cuore di Claire sembrò come fermarsi un istante.
Alfred intanto era totalmente preso da quel suo piccolo momento di gloria, esaltato come non mai dalla sua storia così breve ma così ricca di significati; godeva enormemente del fatto che Claire non avesse sospettato minimante nulla.
Era riuscito a farla cadere nel suo inganno e a non far comprendere al pubblico i suoi trucchi: questo è il diletto maggiore di un prestigiatore!
Così, nell’ilarità della sua pazzia, ebbe il bisogno di sfogare il suo pieno compiacimento e dimostrare a Claire la sua ingegnosità.
Parlò dunque in modo animato ed eccitato, mentre la ragazza di fronte a lui riusciva a reggere sempre meno il peso dello sguardo complice di suo fratello, rivolto invece contro di lei.
 
“Ah, è stato così difficile trovare il modo per essere incisivo ma conciso. Elaborare un’esperienza che fosse intensa ed efficace. Doveva essere un qualcosa attraverso il quale potessi capire in modo concettuale cosa accompagnasse i miei giorni…e giorni…e giorni…e giorni…e giorni…e GIORNI!!!”
 
Disse facendo tuonare la sua voce in un impeto di pieno coinvolgimento emotivo.
Il biondo dopo quelle parole rimase immobile per un istante, con gli occhi rivolti al soffitto, come se in quel momento stesse guardando il film mentale di quella tremenda attesa di sua sorella, la quale aveva straziato le sue giornate…..e infine anche la sua intera esistenza.
Egli schiuse la bocca, come facendo per pronunciare qualcosa per cui non trovò le parole.
Claire osservò attentamente quello sguardo vago e intenso che non guardava da nessuna parte.
Improvvisamente poi, lo vide roteare le iridi verso di lei, questo in modo tanto repentino da farla sbandare.
Le attenzioni di Alfred tornarono a lei e così continuò il suo lungo monologo.
 
“Poi ho scoperto di Chris, tuo fratello. Oh, che opportunità! Che opportunità d’oro per farti comprendere i miei atroci tormenti, ma soprattutto…per farti provare quella evanescente e troppo fuggente contentezza che mi fu privata, cui anche tu ti sei interposta!”
 
Disse fulminandola con lo sguardo, con gli stessi occhi di suo fratello che mai avrebbero assunto un’espressione così truce...così sinistra….
Il ragazzo intanto godeva di quegli occhi persi, soddisfatto della crudeltà del suo piano ben riuscito.
La sua esaltazione era tale che non riusciva a fermarsi, spingendolo a continuare a torturare la mente di Claire, avendo bisogno di farle conoscere la complessità del suo genio incompreso.
 
“Tu che hai quello che mi è stato negato, tu che conosci in parte questo amore meraviglioso. Io ti ho permesso di riabbracciare tuo fratello dopo tanta agonia.
Dimmi, Claire, non è stato un progetto perfetto? Non hai forse sentito sulla tua pelle l’esultanza e la distruzione a distanza di pochissimi attimi? E’ stato tremendamente stupendo, non è vero?”
 
Il biondo castellano passò da toni fanatici, ad altri più bassi e raccolti, fino ad assumere un timbro intrigante e spaventoso cui Claire non seppe come reagire.
Accecata dalla distruzione, vedeva ancora il volto di suo fratello, nonostante la voce di Alfred avesse smentito la sua identità.
Ciononostante, non era capace di reggere quello sguardo che aveva inesorabilmente corrotto quella figura tanto amata, così cercò di divincolarsi dalla sua stretta ancora una volta.
 
“Perché…?! T-togli immediatamente la faccia di mio fratello! Non…non lo sopporto!!”
 
Strillò isterica, non potendo più reggere psicologicamente la pressione di quella storia e di quella visione. Portò le mani sul capo, sperando di scacciare dalla sua mente quelle orribili figure che non stavano facendo che alimentare quello che era già un incubo.
 
“Adesso sai…sai in una minima percentuale quello che a me manca, quello per cui vivo.
Perché questo non è niente! Non sei che una piccola formica di fronte l’immenso scenario che in realtà è celato dietro questo sipario!
Ma questo assaggio amaro deve aver colpito anche te, presumo. Devi aver sentito la frustrazione e la gioia del proprio premio finale che ti spinge a sopravvivere!”
 
Ripeté imperterrito Alfred disinteressandosi del crollo psicologico di Claire.
Egli invece prese a scuoterla quasi con disperazione, come cercando delle risposte in lei.
Voleva che lei gli confermasse le sue parole, che gli dicesse di aver compreso l’agonia della sua triste e disperata veglia su Alexia. Che dimostrasse almeno in parte di aver capito quella storia!
Tuttavia nessuna parola del genere uscì dalla sua bocca e la cosa lo ferì profondamente istigandolo a infierire.
 
“Ho architettato tutto perfettamente!! Vedi il viso di Chris Redfield? Lo vedi?! Ecco, tu puoi vederlo, puoi toccarlo……io no! Perché io non posso…? Perché devo essere costretto a lottare in questo modo?! Rispondimi!!”
 
Dopo aver urlato, la sua voce cambiò drasticamente e divenne più mansueta e dolce.
 
“Oh, ma io lo farò….lo farò lo stesso….perchè il mio amore per Alexia è immenso….immenso…”
 
“B-basta…ti prego….basta….”
 
Sussurrò in quel momento Claire, tremante.
Spaventata e smarrita, la sua mente si era chiusa completamente; persino l’istinto di scappare era stato schiacciato dallo shock e dalla paura di quel tragico momento che aveva mandato in tilt tutto il suo corpo.
Il biondo Ashford intanto la osservava con uno sguardo altrettanto afflitto, allo stesso modo devastato. Anche nei suoi occhi qualcosa si stava frantumando, esattamente come era successo alla ragazza.
Lui stesso a sua volta si sentì maltrattato da lei, come se Claire gli stesse arrecando un immenso dolore, girando il coltello della solitudine e dell’incomprensione nella sua già profonda ed inguaribile piaga.
 
“Perché rifiuti tale comprensione?”
 
Pronunciò a denti stretti, lacerato da quell’indifferenza…dall’incapacità o non volontarietà di Claire di capire.
 
 
 
 
Perché….?
 
 
 
Perché non voleva ascoltarlo?
Perché si rifiutava di comprenderlo?
 
 
 
Eppure…eppure lui era stato così chiaro….il suo piano era stato più che perfetto.
Lei….avrebbe dovuto comprendere…
Invece…..
 
Invece…!!!
 
 
 
“Aaaargh!!!”
 
Urlò Alfred in preda alla frustrazione.
Claire sobbalzò di fronte quello strillo, che trafisse il suo cervello già in panne.
Vide il viso di Alfred con le sembianze di suo fratello deformarsi in un’espressione di rabbia e di dolore lancinante.
Ella approfittò di quel momento per divincolarsi dalla sua presa e stavolta ci riuscì finalmente.
Oramai non trattenuta da Alfred, la rossa si spinse all’indietro cadendo così sul pavimento.
Guardò un’ultima volta verso la figura impazzita di quel falso e sconvolgente Chris prima di girarsi e correre via da lui.
Premette sui palmi e nonostante lo shock che rendeva legnose le sue movenze, riuscì a rimettersi in piedi.
Traballava e il panico la portò a sbattere più volte contro le pareti, ma per nessun motivo si voltò indietro o si fermò.
Si buttò invece contro la prima porta che trovò a sua portata, una sopra la quale era appesa una bambola di pezza che dondolava sulla sua altalena giocattolo.
Claire vi si fiondò aggrappandosi alla maniglia con disperazione, pregandola di aprirsi. Spinse con tutto il suo corpo e l’antro si aprì permettendole di entrare.
Dopo il rimbombo della porta sbattuta con forza, la bambola di pezza che dondolava sopra di essa piegò la testa di lato, accasciandosi per via di quell’urto violento.
Era come se quel pupazzo di stoffa avesse notato che qualcuno era entrato nel suo regno ed avesse voluto quindi dare il benvenuto a quell’ospite ignaro, insinuatosi nella tela del ragno pensando di rifugiarsi.
Dall’altra parte dell’uscio, intanto, Claire correva forte nel buio di quella stanza.
 
 
 
***
 
 
 
Palazzo Ashford – ala sconosciuta
 
 
 
Il suo cuore batteva impetuoso nel petto; era così forte che la gabbia toracica sembrava incapace di contenere quel fervore. Si gonfiava assecondando la sua respirazione affannata, tormentata nel suo dolore maledetto, tuttavia cercava di tenere a freno i suoi spasmi pur di non ferire ulteriormente il suo orgoglio.
Perché non poteva accettare di essere stato raggirato in quel modo.
Non poteva digerire l’offesa appena subita; l’oltraggio dell’indifferenza.
Cruda, atroce, brutale indifferenza.
Una penitenza fin toppo truce da sopportare per un uomo che aveva già sulle spalle il peso dell’inferno.
Un dolore accolto con consapevolezza e onore, ma che tuttavia aveva finito per sfiancarlo fino a corrodere la sua anima.
Adesso di quel corpo non era rimasto niente se non quella promessa nefasta, che era stata il fuoco che aveva continuato a tenerlo in piedi.
Un rogo terribile e impietoso, che aveva lacerato nella sua brace la sua intera esistenza corrodendo ben più delle sue ossa. Esso aveva inglobato e appassito il suo spirito, riducendolo in una cenere nera e bollette.
Eppure… quel fuoco crudele e lacerante era stata l’unica cosa che gli fosse rimasta assieme ai suoi ricordi.
Alfred Ashford era questo: un corpo mosso da un fuoco rovente, che aveva spazzato ogni cosa dalla sua vita…persino se stesso.
 
Perché quindi aveva sperato nella comprensione?
Perché si era aggrappato a quella speranza futile ed evanescente?
 
Lui che non era fatto per queste cose, lui che non aveva nessuno al mondo… da sempre.
Era abituato e conosceva bene quella condizione di vita.
Alfred era solo…immensamente solo.
Non era prevista per lui alcuna consolazione. Era venuto al mondo con qualcosa di diverso rispetto i normali esseri umani. Fin dal principio sapeva di essere profondamente distante da quello che rappresentava la normalità umana, condannato di conseguenza a una vita solitaria.
Se il destino non avesse posto rimedio a tale condizione graziandolo con la nascita di una sua metà, egli non avrebbe mai riempito quel vuoto che da sempre aveva segnato con la solitudine la sua intera esistenza.
Era così!
I gemelli Ashford erano nati in due grazie a un destino riparatore che già conosceva le pene che entrambi avrebbero patito. Così li sdoppiò, permettendo loro la felicità…
C’era Alexia nella sua vita, era a lei che doveva ogni cosa. Solo da lei poteva ricercare consolazione e comprensione. Era lei la donna che gli aveva sempre sorriso, le cui braccia desideravano abbracciarlo e comunicargli affetto.
Senza di lei, non avrebbe nemmeno saputo cosa significasse tutto questo.
Per questo si odiava in quel momento.
Il suo corpo rigido e angosciato era contorto nelle sue viscere, che lo corrodevano fino a squarciarlo dall’interno in un vortice di profonda vergogna e senso di colpa; perché non avrebbe mai dovuto sperare di trovare un canale di comunicazione con un’Altra Donna!
Come aveva anche solo potuto pensarlo?
Lui aveva Alexia, per lui c’era solo Alexia, la vita glielo ricordava ogni giorno, ogni giorno, mostrandogli la solitudine della sua vita senza di Lei.
 
L’incomprensione della giovane dai capelli rossi era stata la punizione per il suo peccato.
Una penitenza che aveva meritato sotto ogni punto di vista; questo poiché aveva perso di vista la vera luce della sua vita.
 
Eppure…
Il suo cuore batteva ancora.
 
Alfred era un essere umano, non un involucro privo di sentimenti. Ed era ferito….
Il suo era un cuore lacerato e distrutto dall’ennesimo rifiuto da parte di una società che non aveva fatto che prendere da lui….e alla fine aveva distrutto tutto.
Quel cuore pulsava ancora e dava voce a quelle delusioni continue ed inarrestabili che da sempre avevano accompagnato la sua esistenza. Se solo non avesse provato nulla, se solo avesse potuto vivere davvero nel buio di un sipario calato.
Invece era vivo e provava dolore….tanto, tanto dolore.
 
 
 
Poi però aveva provato il piacere…il piacere di avere fra le sue braccia un calore umano.
L’amore di qualcuno che lo desiderava, che lo amasse…
 
 
 
Lord Alfred Ashford pensava di saper muovere la sua giostra e riuscire a far cadere in trappola Claire, facendo crollare il suo mondo e mostrandole quelli che erano i suoi tormenti.
Aveva voluto spiegarle il perché dei suoi patimenti, ferito da tutti gli scontri avuti con lei durante i quali la ragazza si era mostrata profondamente irrispettosa del suo dolore.
Le parole che spesso gli aveva detto circa la sua pazzia in realtà l’avevano ferito più di quanto egli stesso non volesse ammettere, così col tempo aveva elaborato quel modo per vendicarsi.
Uno stratagemma che violentasse la sua psiche, ma che allo stesso tempo dimostrasse alla giovane quanto si sbagliasse sul suo conto; quanto in realtà fossero nobili le sue gesta volte a salvaguardare la sua dolce principessa addormentata.
Ed invece….
Invece era stata la sua vittima a comunicare qualcosa a lui….e gli aveva ricordato l’immensa gioia di sentirsi “amati”.
Quando Claire Redfield si era stretta a lui, felice di riabbracciare suo fratello, il ragazzo dai capelli pallidi aveva sentito qualcosa vacillare dentro di lui.
Qualcosa aveva preso a ribollire e la sua stessa spada aveva finito per colpirlo; in quello stesso punto dolente che lui voleva trafiggere.
 
Alfred abbracciò il corpo di Claire, rimembrando quel fugace calore, e cominciò a tremare sempre di più. Aveva freddo…
Era un gelo diverso, tuttavia…
Erano dei brividi intensi, penetranti come appuntiti ed agghiaccianti aghi collocati in ogni parte del suo corpo.
Essi pungevano, tormentandolo con l’atroce verità che da sempre accompagnava la sua realtà.
La realtà di un’esistenza dannata, lontana da quelle gioie, da quell’amore…
Claire gli aveva ricordato quel calore.
 
“Alexia…”
 
Sussurrò con voce assorta, mentre i suoi occhi si spegnevano abbandonandosi nei suoi incubi tormentati.
 
“Alexia…”
 
Ripeté, non sapendo a chi appellarsi, mentre le lacrime scendevano dai suoi occhi come espressione del suo male incurabile.
Esse rigavano il suo viso, cadendo a gocce, una dopo l’altra, sul pavimento, asciugandosi sulla moquette nello stesso istante in cui toccavano il suolo.
La fronte di Alfred era corrucciata; egli mordeva le labbra, ferendole al loro interno mentre una profonda rabbia e senso di incomprensione lievitava sempre di più, alimentando il demone che graffiava continuamente il suo spirito.
 
Era solo, di nuovo solo….anzi, come lo era sempre stato.
Nessuno lo avrebbe mai compreso! Nessuno sarebbe mai stato al suo fianco!
 
Claire Redfield gli aveva dimostrato, come tutti, quanto ogni cosa fosse vana nella sua vita. Quanto dolore fosse costretto a sopportare nel tugurio dei suoi martiri.
Nulla esisteva per lui…
Nulla aveva significato…
Egli era solo un cavaliere solitario che era stato ferito, che adesso si tormentava nella vergogna del suo orgoglio calpestato.
Il biondo portò le mani sulla testa, cominciando ad agitarsi sempre di più.
Si dimenava non contenendo ormai più gli spasmi dolorosi della sua angoscia, che lo costrinsero a cadere sulle ginocchia e stringere sempre di più le braccia sul suo ventre sperando di contenere le viscere che sembravano voler fuoriuscire dal suo corpo.
Era doloroso….straziante…..non ce la faceva…..NON CE LA FACEVA PIU’ A SOPPORTARE TANTO DOLORE!!
 
 
 
 
 
“….Alfred….”
 
 
 
 
 
Il biondo sussultò.
Sentì improvvisamente una voce richiamarlo.
Una voce in realtà pericolosa e menzognera, ma che era l’unica che accorreva quando era solo…ed aveva bisogno di aiuto.
 
Ognuno ha bisogno delle sue follie per sopravvivere.
Tutti abbiamo bisogno di degli appigli, anche di quelli più illogici e incomprensibili.
Senza di essi cadiamo in qualcosa che è più atroce della follia stessa.
Finiremmo in un baratro buio e tenebroso dove persino i sogni diverrebbero tetri incubi agghiaccianti.
 
Non ci resta quindi che aggrapparci con forza a quello che ci rimane, guidati da quell’istinto umano che ci vuole lontani dal dolore.
 
L’uomo fugge, rinnega, calpesta, scaccia la sofferenza.
Egli non è fatto per soffrire, per provare angoscia e tormento. L’intera esistenza umana è una lotta continua contro il dolore, contro la possibilità di una vita distrutta dall’angoscia.
L’essere umano farebbe qualsiasi cosa per salvarsi, per evitare tale paura e devastazione; qualsiasi appiglio nel momento del dolore va bene, pur di uscire da quell’incubo e andare via, lontano da esso.
Tutto…persino cadere in un baratro ancora più profondo…
 
 
 
Ed Alfred Ashford aveva pochi, davvero pochi appigli nella sua vita….decisamente pochi….
…e tanto dolore in corpo.
 
 
 
Così sollevò una mano ed una lacrima scivolò dai suoi occhi cristallini e commossi.
 
 
 
“Ci penso io adesso, sei stato un cavaliere coraggioso. Riposa un po’….e riguardati, fratello mio.
Saprò come vendicare l’umiliazione che sei stato costretto a subire.
Difenderò il tuo e il mio onore, schiacciando i nostri oppositori e tutti coloro che ci hanno fatto del male!
Ahahahah!!”
 
 
Un’imponente voce femminile echeggiò nel corridoio e la sua risata crudele tuonò fra le pareti, come se volesse far tremare l’intero castello. 
Spietata e inumana, essa si propagò nei meandri del palazzo Ashford come una tetra ombra. Si insinuò inglobando nel suo grembo ogni cosa fino a trasformare l’intero luogo in un nuovo palcoscenico, pronto ad accogliere la protagonista della sua storia.
Piegandosi al suo cospetto, quel mondo intero era in attesa dell’imminente venuta della sua Regina.
La maestosa, temibile, crudele….
 
“………Alexia Ashford! Ricorda questo nome e preparati, Redfield, all’inferno che ho in serbo per te. Ci divertiremo…da matti! Ahahahah!!”
 
Una voce femminile e tuonante fuoriuscì dalla bocca di Alfred.
Il senso di sopraffazione che prima lo aveva distrutto, adesso si era trasformato in un sentimento di vendetta e di riscossa.
Nei suoi occhi risplendeva ora la luce della grandiosa Regina.
Era come se il biondo avesse ceduto il suo corpo al suo spirito, che in quel momento aveva oramai preso il  possesso di lui.
Lei aveva deciso di intervenire e mettere la parola fine a quegli snervanti tormenti e Alfred l’avrebbe lasciata fare…era ora di mettere la parola fine a quelle offese.
L’ombra del biondo si proiettò sulla parete.
Essa disegnò la sua figura mentre si rimetteva in piedi, non sforzandosi di contenere quell’atroce risata…
L’ilarità e la crudeltà che contraddistinguevano il momento della venuta della somma, impareggiabile, grandiosa
 
 
Alexia.
 
 
 
 
 
“Ahahahah!”
 
 
 
 
 
 
 
***
 
 
 
 
 
‘Pupa Cella’, la stanza delle marionette – Luogo sconosciuto
Palazzo Ashford
 
 
 
Oltrepassata la soglia della porta con la bambola, Claire si fermò solamente quando vide un grosso armadio di legno.
Decise di nascondersi lì dentro, sperando di riuscire a stare qualche attimo da sola, non osservata dagli occhi folli e malvagi di quel maniaco.
Il fiatone gonfiava il suo petto, si sentì quasi venir meno per il peso delle angosce che era costretta a sopportare minuto dopo minuto in quel vortice infinito di torture e desolazioni.
Nascose il viso fra le mani e lentamente scivolò a terra. L’armadio era così grande che ella poté sedersi al suo interno senza rischiare che l’anta si aprisse.
Il completo silenzio e il nero totale dell’ombra del mobile chiuso facilitarono la ripresa della sua sanità mentale, tuttavia il tremore non l’abbandonava.
Il ricordo di quello sguardo deviato negli occhi così belli e sinceri di suo fratello l’avevano sconvolta enormemente, non era sicura che sarebbe riuscita a riprendersi tanto facilmente.
Strinse le mani sulle ginocchia, premendo energicamente la testa sopra di queste, sforzandosi di scacciare quel male incommensurabile.
Alfred non doveva farlo…questo non doveva farlo!
Non doveva toccare i suoi ricordi, le sue gioie, le sue speranze…suo fratello!
Come aveva potuto mascherarsi da lui, o qualunque diavoleria avesse usato per rendersi così simile a lui!?
Come aveva potuto abbracciarla, toccarla, desiderarla in quel modo perverso, nelle spoglie di suo fratello? Fu una sensazione atroce che ancora faceva sentire il suo corpo sporco, infangato.
Lui…
Lui aveva avuto il coraggio di esprimere la sua schizofrenia e la sua pazzia con il corpo di Chris!
Lo aveva sentito esaltarsi e godere del suo abbraccio, della sua momentanea felicità…e ne aveva approfittato proprio perché sapeva che lei ci sarebbe cascata!
Era orribile…orribile!
Claire avrebbe voluto strapparsi la pelle di dosso, disgustata dalla bramosità sentita da parte del biondo, anzi…da parte di Chris.
Era questo, infatti, che la fuorviava e aveva scosso ineluttabilmente la sua ragione.
Perché sentirsi insultata e disonorata da suo fratello aveva violentato la sua mente a tal punto da far vacillare la consapevolezza che in realtà quell’uomo fosse Alfred.
Il fatto materiale che il biondo avesse agito tramite il corpo di Chris l’aveva resa fragile e vulnerabile in quel momento, offuscando tutto il resto.
Non poteva credere che fosse accaduto sul serio.
Alzò gli occhi umidi e disperati. Il buio che l’avvolgeva era lo stesso, identico, che era anche nel suo cuore e nella sua mente. Avrebbe tanto voluto chiudere gli occhi ed addormentarsi, per dimenticare quel brutto momento.
Mentre si contorceva in quella tremenda tortura, un rumore proveniente dall’esterno attirò la sua attenzione.
 
Cosa era stato?
Sembrava come se qualcuno avesse urtato un mobile o qualcosa del tipo…
 
Sebbene scossa, l’istinto della ragazza era sempre attivo e vigile.
Claire quindi si affacciò prudentemente dall’anta, stando ben attenta a non fare rumore. Non si sorprese tuttavia quando vide la figura di Chris avanzare nel buio.
Aggrottò le sopraciglia, stavolta infuriata. Se Alfred intendeva infierire ulteriormente, insistendo nel cercarla mascherato in quel modo, si sbagliava di grosso.
Ella così afferrò l’asta per appendere i vestiti, che era fortunatamente poggiata dentro l’armadio, dopodiché uscì dal suo nascondiglio sperando in un effetto sorpresa.
 
“Non ti perdonerò per quello che hai fatto, Alfred!!”
 
Urlò energicamente, pronta a colpirlo, ponendo l’arma provvisoria fra lei e il castellano che avanzava nel nero della stanza.
Tuttavia egli non rispose e la cosa la infastidì di brutto.
Prima però di parlare ancora, qualcosa nel modo di camminare della persona di fronte attirò la sua attenzione facendo attivare le sue meningi.
Quel modo di avanzare a tentoni……..le braccia abbandonate………la pesantezza di quel corpo….…la bocca che sospirava e rimaneva aperta…………..infine quello sguardo fisso, che nonostante il buio era percepibile non guardasse da nessuna parte.
Era un modo di muoversi che Claire ben conosceva, solo che non poteva attribuirlo davvero a lui…non poteva.
La rossa indietreggiò di qualche passo, mentre la verità si formulava davanti ai suoi occhi sempre più sconvolti.
 
“C…Chris…?”
 
Sussurrò non potendo accettare la realtà che stava vedendo. Mentre quel corpo abbacchiato si strascinava ponderoso verso di lei facendosi sempre più vicino, la rossa non potette fare altro che scuotere la testa, incapace di fare altro.
 
“No…no….”
 
Disse più volte, indietreggiando finché non sentì di nuovo dietro di sé l’armadio dal quale era uscita.
Vi si schiacciò contro, non potendo attaccare suo fratello, seppur ridotto in quelle condizioni.
Cosa doveva fare? Cosa? Cosa? Cosa? Cosa? Cosa?
Come era potuta accadere una cosa del genere?!
Era nel panico più completo.
Si sentiva impotente e spaesata, tuttavia presto avrebbe dovuto prendere una decisione se non voleva perire sotto quelle fauci fameliche e bramose, ma che tuttavia non riusciva proprio a vedere come “nemiche”.
 
“Chris, ti prego non farlo….ti prego, no…”
 
Lo implorò, seppur consapevole che non potesse ascoltarla.
Mentre egli avanzava, la sua immagine si faceva sempre più nitida seppure ombrosa.
Lentamente poté scorgere i suoi occhi mucosi e vitrei, a sentire il tanfo terribile tipico di quei maledetti non-morti, la loro sete di sangue irrefrenabile ed insaziabile.
Tutto ciò mentre, nella sua mente fragile, Claire già lottava con l’angustiante e doloroso ricordo appena vissuto con Alfred.
Dover quindi vedere martoriati ulteriormente i suoi affetti, fece sprofondare la giovane in un abisso sempre più profondo.
 
“Per rendere credibile la mia trasformazione, ti ho somministrato delle gocce mentre dormivi, quando ti sei ritrovata appesa al soffitto.
Tale medicinale è un allucinogeno che io ho manipolato per provocarti l’illusione di vedere Chris Redfield in carne e ossa e sta manifestando da pochi minuti i suoi effetti.
Questo tuttavia non vale solo per me…vale per chiunque ai tuoi occhi abbia grossomodo una conformazione fisica adeguata a creare tale allucinazione. Quindi non sorprenderti se durante la prossima mezz’ora vedrai molti ‘Chris’ davanti a te.
Te l’avrei detto, se me ne avessi dato il tempo.
Addio mia cara, ho qualcosa di importante da fare ora.”
 
Una voce altisonante echeggiò tempestiva, come accortasi dei suoi dubbi, tuttavia terminò di parlare così tempestivamente da lasciarla confusa.  
Claire non ebbe il tempo materiale per riflettere, essendo ancora una volta a un passo fra la vita e la morte.
Poteva solo valutare la situazione e decidere come agire e, stando alle parole di Alfred, aveva di fronte solo uno dei tanti ‘mostri’ che abitavano quel luogo malsano; soltanto che per colpa di un medicinale lei lo vedeva con le sembianze di suo fratello.
Che pazzia….
Quell’uomo era veramente squilibrato!! Come aveva potuto concepire una follia simile?!
Doveva…doveva quindi colpire alla cieca, al suo stesso fratello, solo perché glielo aveva detto lui?! E se fosse stata una trappola?
Le fauci fameliche di Chris tuttavia non facevano che confermare quella losca e triste ipotesi, ragion per cui Claire fu costretta suo malgrado a scappare via da lui.
Scappare lontano.
Lontano da tutto.
 
Lontano da suo fratello.
Lontano dalle sue speranze.
Lontano da quell’incubo….
…ma non era realmente libera di fuggire in quel posto…
 
Mentre correva, vedeva negli angoli di quel palazzo la figura boccheggiante ed impazzita di colui che era la sua famiglia.
La stessa figura si proiettò poi di nuovo davanti a lei, quando un altro non-morto le si parò davanti costringendola a deviare la sua direzione.
Un altro mostro si sollevò invece dal pavimento, mettendo per un attimo Claire alle strette. Non l’aveva visto in quanto impegnata a scappare.
La mano di Chris cercò di afferrarla per le caviglie, pronto a trascinarla negli abissi di una morte straziante.
La rossa dovette colpire quel viso agitando il suo piede, questo per liberarsi dalla sua morsa che già aveva pregustato il suo tanto atteso pasto che mai l’avrebbe saziato. Allo stesso tempo dovette allontanarsi da un’altra B.O.W che aveva bloccato il suo cammino.
L’effetto dell’allucinogeno non era ottimale, per cui la ragazza vedeva alternarsi quella pelle cadente e grigia, con quella di suo fratello.
La fusione di quelle due immagine la fece rabbrividire, costringendola a stringere i denti e cercare di ignorare il tutto. Ma non era affatto facile.
Corse, cercando di prevedere le mosse dei suoi nemici e virando in direzioni opposte.
Questo non curando il corridoio che stava percorrendo, il quale era contornato da curiose ed inquietanti bambole di porcellana, che la osservavano dagli angoli del castello.
Esse erano appese ovunque per il soffitto, osservandola dalle loro iridi di vetro lontane ed indifferenti, ridendo quasi di quel nefasto destino.
Le dolci e rosee bocche stampate sui loro volti perfetti e immacolati, sembravano il delicato sorriso di bambini innocenti; ma in quel contesto trasmettevano invece un senso malato e perverso, di chi si sazia del sangue versato, del dolore subito…di chi amava contemplare crudeltà e morte…
 
Esse erano lì, con i loro abiti vellutati e puliti, belli e vaporosi.
E sorridevano.
 
 
 
 
 
***
 
 
 
 
 
------------
NdA:
 
*L’uomo dal fiore in bocca – Luigi Pirandello
Quest’opera teatrale di Pirandello narra di un uomo affetto da tumore.
Ho scelto questo titolo in quanto riassume in un certo senso quello che volevo trasmettere con questo capitolo.
O meglio…ciò che Alfred vuole trasmettere a Claire.
Completandosi con il capitolo precedente, insieme essi esprimono il bisogno viscerale di Alfred di comunicare il suo dolore, il non sopportare più la sua condizione.
La lontananza di Alexia, la sua dura battaglia per proteggerla, la sua vita immolata per lei, la sua solitudine.
Così come in questo dramma il protagonista è un uomo malato di tumore, che convive ogni giorno in una condizione che lo ha marchiato in modo inesorabile, condannando il suo destino, il tutto tramite il simbolo del “fiore in bocca”, ovvero qualcosa che è sempre in vista, sulla bocca, e condiziona ogni cosa faccia….
…..allo stesso modo Alfred convive da 15 anni con il suo tormento e desidera, arrivato a questo punto, che Claire conosca il suo “fiore in bocca”. Il suo “male”.
Come un malato di tumore che rende partecipe gli altri del suo male, così Alfred vuole mostrare a Claire cosa rende la sua vita un inferno e cosa lo renderebbe finalmente felice.
Questo sfruttando quell’amore che Claire conoscere, essendo a sua volta la sorella di qualcuno, ovvero di Chris. (Vedi capitolo precedente, quando Alfred è nel suo studio).
Così il biondo si traveste da lui e si fa abbracciare dalla ragazza, proprio per comunicarle quella gioia immensa che anche lui un giorno proverà dopo tanta attesa e agonia.
Una gioia che, dopo tanta sofferenza, adesso anche Claire dovrebbe capire secondo lui…..
 
Ciò spiega anche il simbolismo del “teatrino” messo su davanti a lei nel capitolo precedente.
 
La storia di un principe che affronta mille peripezie e poi finalmente si ricongiunge con la sua amata.
Ispirandomi all’enigma presente in Darkside Chronicles ho elaborato questo semplice raccontino che altro non è che la storia di Alfred, con il rispettivo lieto fine cui lui ambisce: il ricongiungimento con Alexia.
Per far vivere sulla pelle a Claire il suo “tormento” interiore, Alfred elabora uno stratagemma semplice eppure d’effetto:
La imprigiona legandola a testa in giù, armandola solo di un coltello, mettendola in una condizione di solitudine e di spavento; libera poi una bolgia di zombie che vogliono divorarla, mettendo a repentaglio la sua vita.
Il tutto esattamente come il povero principe solo, disperso in mezzo al bosco tra le fiere, simbolo della solitudine e delle battaglie quotidiane di Alfred.
Infine abbiamo il ricongiungimento con la propria amata e il raggiungimento della felicità ambita.
Per Alfred con Alexia; per Claire con Chris.
Ecco quindi spiegato l’intento di Alfred, tramite questo ennesimo spettacolo che devasta la mente sempre più sconvolta di Claire.
Ecco quindi spiegato perché nel capitolo precedente dice: Oh, quasi dimenticavo la parte più importante.”
 
Alfred ha quindi bisogno di comunicare il suo male…
Necessita della vicinanza emotiva di qualcuno che possa almeno in parte capire la sua condizione fisica e mentale; ma anche l’eroicità della sua impresa, il suo amore, il suo dolore,.
 
Claire ha appena compreso un tassello molto importante di questa storia: il perché dietro tanta follia e tante menzogne, la cui risposta risiede nelle meccaniche che muovono lei stessa.
Ricordate infatti il sogno che apre il precedente capitolo, in cui ho cercato di analizzare l’affetto che Claire nutre per Chris?
Ebbene, questo è in un certo modo un punto d’incontro fra Alfred e Claire. Il loro essere “fratelli” (l’uno di Alexia, l’altro di Chris) di persone che sono state fondamentali nella loro vita.
Ciò ovviamente in due ottiche completamente diverse.
Alfred in modo ossessivo e malato, sfociato oramai nella paranoia e nella schizofrenia.
Claire invece in termini normali di puro affetto fraterno. Non patologici come lui.
Questi due capitoli si completano a vicenda, insomma, creando un anello sia di congiunzione, che di distanza fra i due.
Questa consapevolezza a cosa porterà? C’è dell’altro ancora da sapere?
Al momento è tutto!^^
Spero che la storia vi stia piacendo!
A presto, stavolta con il ritorno della malvagia e temibile “maschera di Alexia” come nemico! ;)
 
P.s. Chiedo scusa per non aver pubblicato per un periodo così lungo! >_< E’ tutto a posto, riprenderò con la regolare pubblicazione, che più o meno sarà mensile. Grazie infinite ancora e scusate >.<
 
 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** Capitolo 10: la giostra delle maschere ***


 
 
 
Capitolo 11: la giostra delle maschere
 
 
 
 
 
“ahahahah!”
 
 
 
 
L’eco acuto e penetrante di una risata femminile vibrò fra le pareti buie della residenza; era inconfutabile il suo voler mettere in soggezione coloro che abitavano quei meandri, inducendoli a sentirsi scoperti e facilmente attaccabili di fronte la sua essenza rarefatta.
Eterea e intoccabile, lei poteva colpire da qualsiasi direzione, conscia di essere la dominatrice di quel palcoscenico.
Così quei sogghigni risuonavano provocanti e maliziosi, deliziati di poter gestire il banco del gioco, esaltati dagli sguardi smarriti di coloro che si perdevano a cercare una via di fuga.
Sorrise lievemente e la sua bocca rosea dalla forma a bocciolo si allargò sui lati, esprimendo il sollazzo della sua Regina.  
 
Altrove, lontano da quel luogo da cui la somma padrona ammirava quello spettacolo, una giovane donna camminava per il corridoio, scampata ancora una volta alla morte. Mentre avanzava in quella locazione colorata di rosso, il suo sguardo si perdeva sempre di più nei vari elementi macabri e spaventosi che decoravano orribilmente quella strana ala del castello.
Il tappeto amaranto rivestiva la superficie della pavimentazione e sembrava vecchio, trascurato, sebbene l’integrità del tessuto indicasse quanto poco fosse stata frequentata quella zona.
Infatti, più che il tappeto, era il suo colore che col tempo e la cura inadeguata era divenuto grigio e molto sbiadito, sebbene quel rosso sfavillante che un tempo troneggiava in quella corsia continuasse a rendere prestigio all’ambiente. Come in altre zone del palazzo, anche qui vi erano dei candelieri, i quali emettevano dei piccoli ma profondi bagliori che bastavano a rendere evidenti i contorni di quel luogo.
Claire girò più volte lo sguardo attorno a sé, portando una mano sul suo petto, sconcertata da ciò che quella fonte di luce illuminava; questo perché, dietro la trascuratezza e la vetustà del corridoio, vi era la freschezza del sangue che colava dalle pareti; in quel momento era rappreso, tuttavia era così inteso da rendere evidente che fosse stato cosparso in tempi non esageratamente lontani. Esso si posava anche sul tappeto, che l’aveva assorbito rendendo quel liquido organico parte del suo rosso.
Altri schizzi inoltre macchiavano varie porzioni della parete e questo non poteva che avvallare l’ipotesi che quello scenario fosse stato il teatro di una strage finita in tragedia.
Claire Redfield pesò ogni singolo passo che, seppur lento e scrupoloso, non accennò mai a fermarsi, impaurita dall’eventualità di rimanere troppo tempo intrappolata in quel luogo orrendo.
Quando era entrata nella porta con la bambola appesa sulla sua altalena, quasi non aveva badato a dove si era rifugiata di preciso.
Incoscientemente, o forse troppo impaurita, non aveva neppure valutato l’ipotesi che quello non fosse che l’ingresso per l’ennesimo antro di quel castello.
Aveva camminato a lungo, sfuggendo agli attacchi dei non-morti rimasti imprigionati come lei nel palazzo Ashford, e per fortuna l’allucinazione di vedere sempre di fronte a sé suo fratello Chris era svanita.
Tuttavia per colpa di tale malanno, non aveva badato a dove si fosse intrufolata di preciso.
L’unico indizio che aveva, era che per qualche ragione Alfred aveva contrassegnato il passaggio per quello strano posto con una bambola di porcellana. Tale riferimento si ripeteva spesso in quella villa; molte marionette erano poggiate un po’ ovunque in quel luogo. Mentre fuggiva, non ci aveva fatto caso, ma adesso era evidente come loro fossero state sistemate in svariate zone di quell’ambiente, come se il loro compito fosse osservare i visitatori.
Uno sfrigolio sotto la suola delle sue scarpe fece fermare la ragazza dai capelli rossi, la quale scrutò cosa avesse calpestato. Sollevò un piede e notò delle piccole schegge di vetro. Seguendole una a una con lo sguardo, notò che esse erano cadute da un grande specchio oramai frantumato, il quale era incastonato sulla parete del corridoio; di esso però, non c’era più niente che riflettesse. Il vetro era stato rotto talmente tanto che la base di legno sulla quale poggiava era completamente scoperta.
Pochissimi frammenti erano ancora incastonati ai lati di quello specchio e riportavano gli evidenti segni del martirio di cui era stato vittima.
La rossa lo esaminò, chiedendosi perché porre uno specchio nel bel mezzo di un corridoio, per poi farlo a pezzi. Era evidente, infatti, che quella rottura fosse stata fatta in modo intenzionale. Se esso fosse stato rotto accidentalmente, le schegge avrebbero avuto una forma diversa, o comunque lo specchio non sarebbe stato fracassato in quel modo. Osservandolo attentamente, era chiaro che chiunque lo avesse infranto, l’avesse fatto intenzionalmente.
Ad ogni modo rigò dritto, cercando di non perdersi troppo in certi dettagli, che non facevano che rallentare la sua esplorazione.
Doveva ricordare che il suo obiettivo era tornare nella zona residenziale, quella dove era stata imprigionata con le sembianze di Alexia Ashford. Solo da lì poteva entrare nella camera da letto di Alfred e sperare che lì avrebbe trovato qualche indizio per salvarsi.
Il problema in quel momento era quindi riprendere l’orientamento e cercare in qualche modo di capire dove si trovasse per muoversi più consapevolmente.
Quel senso di completo smarrimento, infatti, la agitava e la faceva sentire indifesa.
Di colpo sbandò quando una sottile risata, che sembrava vicinissima a lei, echeggiò fra quelle losche mura.
Si voltò più volte, cercando la sua fonte, rimanendo all’erta.
 
 
“Ah,ah,ah,ah!”
 
 
“C…chi c’è? Sei tu, Alfred?”
 
Disse consapevole che, nonostante quella voce da donna, la fonte potesse essere il biondo padrone di casa.
Non sarebbe stata la prima volta che accadeva.
Come prevedibile però, nessuno rispose alla sua domanda.
Claire deglutì. Decise di ignorare quell’episodio, abituata all’idea che il ragazzo si divertisse a spaventarla.
Riprese il suo cammino e finalmente il suo avanzare giunse al termine.
Una gigantesca bambola, quasi a grandezza umana, era posta sulla fine del corridoio e dietro di essa era ben visibile una porta.
La Redfield sorrise lievemente, allietata di non essere di fronte l’ennesimo vicolo cieco. Tuttavia quella grossa bambola che intralciava il passaggio rendeva il raggiungimento della sua ‘libertà’ piuttosto angustiante. Sollevarla era impossibile. Sembrava pesante, inoltre era così ben ancorata al pavimento che l’idea non la sfiorò neppure; ad ogni modo, c’era sufficiente spazio per passare oltre. Claire poteva benissimo schiacciarsi contro la parete e sfiorare così quel fantoccio.
Mettere in atto tale azione sembrava facile e la rossa sapeva di non avere poi molte alternative, eppure più l’osservava più sentiva le sue gambe paralizzarsi.
Il manichino aveva le sembianze delle tipiche bambole di porcellana, tuttavia versione adulta. Essa era alta circa un metro e sessanta, una decina di centimetri più bassa di Claire su per giù.
I capelli scuri a boccoli, ricoperti sul capo da una cuffietta merlettata, scendevano sul suo petto accarezzando il grazioso vestitino di velluto color smeraldo, che sembrava un po’ da ragazzina per una bambola con fattezze così adulte. Essa, infatti, oltre all’altezza non certo da bambina, aveva anche un accenno di seno abbastanza evidente, che sembrava voler sottolineare la sua maturità, ponendola volutamente in contrasto con le sue vesti.
La sua gonna vaporosa lasciava intravedere le culottes bianche tipiche di quel tipo di abbigliamento, che si congiungevano con le calze del medesimo colore, creando un effetto grazioso, sebbene un tantino provocante dato che a indossarlo fosse un manichino di donna.
Infine le scarpette da bambina rendevano completo il suo look da bambola di porcellana.
La rossa si chiese se chi avesse vestito quel fantoccio avesse intenzionalmente esasperato quello stile infantile che in una donna adulta non trasmetteva certo la stessa dolcezza di una ragazzina.
Al contrario, era espressione di un disturbo psichico, come di chi non vuole crescere e vive una sorta di sindrome di Peter Pan, rinchiusa in un limbo in cui si rifiuta di accettare i cambiamenti della vita.
Stette diversi secondi a contemplarla, osservandola insistentemente. Claire ebbe l’istinto di piegarsi sulle ginocchia e osservare il suo viso, come se volesse ricercare delle risposte nel rifiuto della crescita da parte di quel pupazzo inanimato.  
Mai avrebbe potuto aspettarsi invece, che quella bambola la ricambiò.
La rossa cadde a terra quando i suoi occhi s’incrociarono con quelli vitrei e inespressivi della bambola.
I suoi bulbi roteavano come impazziti; erano come un radar che puntava su Claire, sebbene qualche meccanismo al suo interno dovesse essere andato in panne visto che tremavano fuori controllo.
Quegli occhi sbarrati, spenti, ma le cui iridi si muovevano insistenti verso di lei, la fecero spaventare così tanto che lì per lì voleva scappare via, lontano da lei.
La rossa sperimentò se per davvero il suo sguardo la seguisse, così provò a spostarsi sia verso destra sia verso sinistra. A quei movimenti, seguirono tempestivi gli occhi della marionetta, la quale, seppur immobile, non perdeva mai di vista la ragazza dai capelli rossi.
Claire deglutì, capacitandosi che fosse inanimata, ma che doveva avere dentro un qualche meccanismo che la portasse a seguire con lo sguardo chi aveva di fronte.
Fatto sta che quando decise finalmente di proseguire e oltrepassarla per entrare nella porta dietro di essa, rimase in guardia pronta a mettersi a una distanza di sicurezza alla prima avvisaglia.
Più accorciava le distanze, più sentiva la paura appesantire il suo corpo, tuttavia cercò di non farsi sopraffare. Premette la schiena contro la parete e continuò ad avanzare, strisciando contro i fianchi della bambola, urtandole il vestito vaporoso. Intanto, i suoi occhi maligni cercavano di raggiungerla imperterrita, come indemoniati, ma per fortuna non fece altro. Si limitava a dannare la sua mente con quegli occhi pazzi e spaventosi.
La rossa abbassò il suo sguardo, cercando di non incrociare più quelle iridi, spostandosi invece con maggior vigore proprio per allontanarsi al più presto.
Quando l’ultimo boccolo dei capelli del manichino si scostò dai suoi, finalmente la ragazza riprese a respirare, lieta di avere la bambola alle sue spalle.
Quando si voltò, dandole un’ultima sbirciata prima di aprire la porta che essa nascondeva, notò che sulla sua vita era legato un sottile filo di nylon, appeso al quale vi era una chiave. Istintivamente la prese fra le mani, rompendo quel cordoncino.
La chiave ora in suo possesso sembrava molto vecchia, si chiese che porta avrebbe mai aperto. Ad ogni modo la ripose in tasca, confidando che in circostanze simili fosse adeguato nutrire sempre speranza verso qualsiasi via d’uscita.
In seguito posò la mano sul pomello della porta e la aprì.
 
 
***
 
 
Palazzo Ashford
La stanza dei bambini
 
 
Attraversato l’ennesimo uscio, fu inquietante quando ritrovò dinanzi a sé una stanza da letto.
Non tanto per la camera di per sé, piuttosto poiché il suo ingresso era bloccato da una bambola demoniaca di tali dimensioni, quasi a sottolineare quanto quel luogo non dovesse essere disturbato.
Quella camera in particolar modo sembrava essere quella di una bambina.
Vi erano giocattoli sparsi un po’ ovunque, per lo più femminili, ed erano tutti sporchi e malandati. Alcuni erano persino rotti. Claire raccolse da terra il peluche squartato di una sorta di orsacchiotto, dal cui ventre fuoriusciva l’ovatta. Provò pena per lui, dispiacendosi che fosse stato rovinato in quel modo. Lo aggiustò appena ma non aveva né il tempo né l’occorrente per ricucirlo. Così si limitò a poggiarlo su una mensola, anch’essa invasa da giocattoli impolverati. Si guardò attorno, analizzando bene quel posto.
Quella cameretta era eccessivamente colorata. Il tappeto variopinto che alternava i colori più svariati ed eccentrici, abbuiati tuttavia dal cupo della stanza; e poi i cavallini a dondolo, bambole di pezza, vestitini, disegni puerili e tanto, tanto disordine.
Era un caos opprimente. Claire si chiese se chiunque avesse gestito le pulizie di quel palazzo, un tempo, sapesse come muoversi in quel caos. La rossa si sentiva spaesata e quasi non sapeva dove mettere i piedi.
Avanzò a tentoni, cercando di scorgere eventuali indizi che potessero esserle utili e le sue attenzioni furono catturate da un disegno dipinto sul muro.
Questo rappresentava una bambina sorridente con i capelli dorati disegnata con linee essenziali, ai piedi della quale vi era un ragazzino inginocchiato al suo cospetto che le porgeva una scatola di gioielli scintillanti. Osservando quello scrigno, Claire aveva come la sensazione che qualcosa sporgesse da esso, come fosse stranamente…reale.
Posò una mano su di essa ed infatti uno di quei gioielli era a rilievo; era una grossa pietra blu, tagliata di netto.
Forzò così il gioiello, tirandolo verso di sé finché non riuscì a toglierlo dal suo incastro.
Si trattava di una piccola pietra dalla forma arrotondata, meno che su un lato, che sembrava come se fosse stato spezzato e quindi ne mancasse una parte. La girò fra le mani, trovando inspiegabilmente familiare quell’oggetto, era come se lo avesse avuto già fra le mani. Era una sensazione inspiegabile, eppure era così.
L’analizzò attentamente e fu allora che si accorse di una piccola e appena percettibile incisione impressa nella parte piatta di quella pietra:
 
“Ubi iacet dimidium iacet pectus meum”
 
Ubi iacet dimidium iacet pectus meum…cosa voleva dire?
Per fortuna sotto di essa vi era anche la relativa traduzione, visto che la Redfield non era esattamente portata per le traduzioni latine:
 
Dove giace la mia metà, giace il mio cuore.”
 
Lì per lì Claire si chiese cosa significasse.
Comprese comunque che quella pietra, essendo spezzata su un lato, aveva una sua “metà” nascosta da qualche parte, e dato l’indovinello era evidente che così fosse.
Qualcosa tuttavia la inquietava, dato che l’ultima volta che aveva letto una frase in latino in quel posto, si era ritrovata in una stanza delle torture; oramai era quindi una sorta di cattivo presagio per lei.
 
Ricapitolando, aveva raccolto ben due oggetti: una chiave vecchia e la metà di una pietra preziosa blu.
Era pur sempre qualcosa.
 
Mentre prese a ragionare sul da farsi, qualcosa prese improvvisamente a muoversi, facendo vibrare le pareti della stanza.
Era successo probabilmente perché aveva tolto dalla parete quel piccolo gioiello rotto.
Un’intera porzione della parete s’inabissò, facendo sparire l’immagine del bambino biondo inginocchiato davanti alla sua principessa.
Claire rimase titubante di fronte quel passaggio apertosi davanti ai suoi occhi, tant’è che indugiò qualche istante prima di addentrarsi. Si affacciò cercando di scorgere l’ambiente, per captarne quanto prima eventuali inghippi, tuttavia qualcosa di raccapricciante si proiettò davanti ai suoi occhi.
Erano tutte marionette di legno, fatte di bastoncini tagliati in modo snodato. Esse erano appese al soffitto, in posizioni contorte e inumane. Ad alcune di loro mancavano dei pezzi, altre erano macchiate di sangue.
Claire si chiese il perché di una stanza simile, non aveva senso…
Come se le sorprese non fossero abbastanza, uno schermo s’illuminò davanti a lei. Non lo aveva visto subito, sconcertata dalle immagini di quelle marionette appese.
Lo schermo fece prima statico, poi la frequenza si stabilizzò e su di esso apparve il raffinato volto di un’aristocratica donna dalla pelle pallida e i lunghi capelli biondi. Ella indossava un abito viola scuro ed incrociava le mani sul suo grembo.
Claire riconobbe subito quell’immagine, che era il quadro di Alexia Ashford già visto a Rockfort. Un dipinto semplice e ben eseguito, che ritraeva la ragazza seduta su una poltrona, al fianco di un vaso antico.
Fu sconcertante per lei vedere catapultato davanti ai suoi occhi la figura raffinata e assorta del tanto osannato “genio della famiglia”.
Non era facile per lei sostenere quella visione, scossa per gli eventi che l’avevano coinvolta nelle ultime ore. Guardare quello schermo quindi fu qualcosa che la lasciò tutt’altro che indifferente; le comunicò invece un senso di oppressione, che fece quasi fermare il suo respiro costringendola a irrigidirsi per il nervosismo. Alexia possedeva qualcosa di particolare.
Anche solo attraverso un semplice quadro era come se potesse percepirne nitidamente la maestosità e l’imperscrutabilità. Una Regina nella sua potenza e magnificenza.
Era strano…eppure sentiva quelle emozioni batterle nel petto.
 
Chi era Alexia? Come faceva a possedere un carisma simile?
 
Quella rappresentazione stette fissa per diversi secondi, dando il tempo alla giovane di contemplarla. L’immagine traballava, era come se fosse stata ripresa con una telecamera.
Poi d’improvviso svanì e al suo posto due occhi cristallini quasi la abbagliarono, trafiggendola con il loro sguardo minaccioso e letale.
Quella visione durò pochissimi istanti, ma bastò per imprimere nella sua mente quel viso e riconoscerlo come la figura femminile prima ammirata nel quadro.
Dopo lo schermo si spense e divenne nero.
 
Cosa significava? Chi…chi era quella donna…? Alexia…? Possibile fosse davvero lei?
 
Alle sue spalle, Claire sentì un curioso motivetto, simile a quello di una giostra. Doveva appena essersi messo in moto, prima non aveva sentito alcun rumore.
Incuriosita, avanzò oltre la stanza delle marionette e, puntando lo sguardo dinanzi, si accorse che un passaggio era stato lasciato aperto. Si trattava di un piccolo cunicolo, oltre il quale c’era una porta semi aperta, ivi raffigurato un grazioso disegno. Era un cavallino a dondolo, cavalcato da una graziosa fatina vestita d’azzurro. Il disegno sembrava essere stato realizzato con dei gessetti.
Claire posò la mano sull’uscio, il quale si aprì permettendole di entrare così in una stanza molto ampia e buia, il cui spazio però era completamente occupato da un’enorme giostra.
 
 
***
 
 
Palazzo Ashford
La stanza della giostra
 
La rossa stette guardando per diverso tempo prima di avanzare.
Il simpatico motivetto tipico dei caroselli risuonava gioiosamente, accompagnando il dondolare dei cavallini che ruotavano attorno alla giostra.
Essi erano colorati con tinte opache, mentre la giostra spiccava invece per il contrasto di rosso e oro che la rendeva molto pittoresca. Era come se volesse invitarla a salire, con il suo incalzare lento e quella musichetta allegra, tuttavia Claire non pensò neanche lontanamente di farlo.
Qualcosa la inquietava ed era probabilmente proprio l’atmosfera ostile che permeava l’intera residenza Ashford.
Era impossibile sentirsi a proprio agio e lasciarsi andare ad un breve momento di spensieratezza infantile; era assurdo anche solo pensare una cosa simile.
L’anormalità che vigeva nell’aria rendeva persino quelle graziose creature di legno un qualcosa di ostico e di spaventoso.
Gli occhi dolci e molto ‘fumettosi’ di quei cavallini che si muovevano su e giù, era come se invece volessero ingannare coloro che li osservava; essi erano impregnati in realtà di crudeltà e miravano ad attirare verso di sé le loro prede con il loro aspetto vivace e innocente.
Per questo Claire stette alla larga da loro, sentendosi inquieta nell’osservare le loro movenze e, paradossalmente, quel loro aspetto fatato.   
Continuò per la sua strada, investigando invece quel poco che componeva quella strana stanza, che tuttavia era vuota a parte quel marchingegno.
Eppure si aspettava che avrebbe visto Alfred in quella stanza; era da diversi minuti che sentiva echeggiare quei sogghigni fastidiosi che lo caratterizzavano quando imitava la voce di sua sorella, inoltre quando aveva visto Alexia sullo schermo nella stanza precedente, aveva sentito il carosello attivarsi. Quindi era stato logico per lei dedurre che lo avrebbe incontrato.
In quel momento si voltò alle sue spalle e distrattamente i suoi occhi andarono a posarsi sulla porta varcata in precedenza.
Fu inquietante quando notò che, se dall’altra parte della porta, dal punto di vista di chi entrava in quella stanza, c’era disegnata una fantina a cavallo di un unicorno bianco…. sull’altro versante, dal punto di vista di chi era dentro la stanza, invece erano raffigurate delle mani insanguinate che avevano macchiato la superficie legnosa conferendole un aspetto macabro e spaventoso.
La Redfield indietreggiò pur essendo abbastanza lontana da quella porta. Il cuore prese a batterle forte, angustiata da quella visione.
Cosa poteva significare?
Quando si “doveva entrare” la porta sembrava invitante con quel suo disegno gioioso, mentre quando si “era dentro”, era come se fosse un luogo avverso e pericoloso, dal quale fuggire. Era questo, infatti, che suggerivano quelle mani.
Come il melanocetus, conosciuto come ‘pesce lanterna’ o ‘diavolo nero’, la cui luce splendida e rassicurante in realtà cela gli orrori dell’abisso profondo.
Istintivamente, Claire decise di tornare di nuovo vicino a quella porta, per dare conferma a quello che purtroppo supponeva: avvicinò la mano alla maniglia, facendosi coraggio e ignorando quelle tracce rosse di sangue o vernice…e quando fece per abbassarla questa non si mosse.
Come temeva, era finita in una trappola.
 
“Ahahahah!”
 
Di nuovo quei sogghigni femminili rimbombarono nell’ambiente.
 
“Dove sei? Fatti vedere!”
 
Disse Claire con voce decisa e per un po’ nessuno rispose.
Dopo qualche istante, poi, la giostra prese a girare vorticosamente, facendo sentire travolta la giovane essendo vicina ad essa.
Mentre l’osservava irrequieta, improvvisamente una figura femminile apparve seduta sopra uno dei cavalli fatati. I suoi lunghi capelli biondi si sollevarono assecondando il movimento veloce della giostra, aprendosi a sipario e mostrando il suo viso pallido e soave. La donna a quel punto rivolse alla rossa i suoi occhi di ghiaccio fino a trafiggerle l’anima, dopodiché…sparì.
Claire sobbalzò, sentendosi quegli occhi soprannaturali così vicini da aver avuto come la sensazione di averli avuti di fronte a sé, a pochissimi centimetri di distanza. Si sentì quasi mancare il respiro, ma dovette realizzare che, qualunque visione avesse avuto, essa era solo una diapositiva.
Che fosse un fantasma era escluso a priori, sebbene in quelle circostanze avesse visto cose ben più spaventose. Fatto stava che quell’illusione era stata così credibile che, in quel momento, l’aveva pensato sul serio.
Aveva visto il fantasma di Alexia Ashford, lei aveva fluttuato verso di lei e l’aveva stregata con i suoi maligni e invitanti occhi demoniaci.
Non aveva senso, eppure era successo.
Il suo cuore batteva a mille, quella donna la inquietava veramente molto.
Anche il carosello tornò a muoversi in modo più lento, come se una volta sparita la sua padrona, adesso potesse tornare alla sua normale attività.
La giovane dai capelli rossi purtroppo non aveva al momento molti elementi su cui investigare, ragion per cui dovette lasciarsi alle spalle quell’ambigua immagine e andare avanti per la sua strada.
Tornare indietro era impossibile, la porta era stata chiusa dall’esterno. D’altro canto, però, anche se avesse potuto tornare sui suoi passi, sarebbe stato abbastanza inutile. Non aveva motivo per farlo.
Così avanzò e proseguì oltre quella stanza.
Una seconda porta era, infatti, ubicata in modo simmetrico a quella di ingresso, così la aprì.
Non poteva immaginare che qualche mente malata e perversa avesse collegato quella stanza ad una identica alla precedente…soltanto che quest’ultima era macchiata di rosso.
 
 
***
 
 
Palazzo Ashford
La stanza della giostra – speculare
 
 
 
Un tenue ma estenuante odore organico permeava l’ambiente. Quel sangue era vecchio e incrostato, eppure aveva lasciato una traccia di sé molto evidente.
La sala vuota ed enorme, arredata unicamente da quella giostra ingombrante che occupava quasi interamente il suo spazio; la musica vivace; i magici cavallini da fiaba che roteavano attorno alla giostra…
Tutto adesso era sporco e maleodorante, come se quel luogo fosse stato martoriato e smembrato.
Il sangue rappreso aveva rigato la superficie bianca dei cavalli, macchiandoli di colori che andavano dal rosso al giallo. Il vetro dei loro occhi era frantumato, in alcuni di loro mancava del tutto, così come alcune parti che li componevano come zampe, sella, e in un paio persino la testa.
Era scheggiati e imbruttiti. La giostra girava scricchiolando ed emettendo degli spaventosi cigolii rugginosi. Persino la melodia sembrava essere stata manomessa: come una musicassetta il cui audio è disturbato dal nastro oramai sciupato. Quel suono risultava poco accordato, decisamente fastidioso e angustiante da ascoltare.
Dopo aver contemplato quel quadro inquietante, un suono sinistro si distinse in quel sottofondo. Più che un suono, erano come dei versi…dei versi…umani?
Solo allora si accorse che, legati e imbavagliati, costretti a giacere sotto alcuni dei cavalli, c’erano i non-morti che abitavano quelle mura.
La loro pelle spaccata e sofferente, le loro mani e i piedi legati dietro la schiena… essi si contorcevano in quella posizione di dolore non potendo liberarsi in nessun modo; questo sia perché incatenati strettamente, sia perché la demenza impediva loro di comprendere come farlo.
Essi quindi gemevano….gemevano tristemente, non potendo dare sollievo a quella pena.
Fu uno spettacolo truce e violento che torturò la sua mente che mai avrebbe potuto concepire tanta crudeltà.
Eppure Claire continuò ad osservare spaesata quell’immagine raccapricciante, in cui i ricordi di infanzia erano macchiati dalla crudeltà e perversione umana. Quel disastro e quel sangue che rappresentava la scelleratezza dell’uomo e della pazzia.
Chi poteva aver fatto una cosa simile? Soprattutto…per quale motivo?
Cosa significava quella stanza?
Mentre la melodia del carosello risuonava fastidiosa e assordante, la Redfield ebbe il necessario bisogno di uscire da lì e al più presto.
Era semplicemente terribile.
Avanzò quindi verso quella che sperava fosse la porta d’uscita, ma a quel punto una voce alle sue spalle la fermò.
 
“Claire Redfield, te ne vai così presto?”
 
La giovane si girò lentamente, puntando il suo sguardo oltre la spalla. Scrutò la giostra che girava ininterrottamente, come aveva sempre fatto fino a quel momento anche nell’altra stanza speculare, finché poi non vide spuntare da dietro la colonna, seduta su uno dei cavalli deturpati……Lei.
 
Alexia Ashford comparve davanti ai suoi occhi.
Stavolta non era un’illusione, non era un fantasma. Era proprio lei, in carne e ossa.
 
Ella aveva una gamba accavallata sull’altra in una posizione che lasciava scoperte leggermente le caviglie. I suoi piedi erano rivestiti dalle decolté con un piccolo tacco. Il suo vestito era di un bellissimo punto di viola, né scuro, né chiaro. Esso scendeva leggero sul suo corpo e sulle sue gambe, accarezzandolo con delle balze per nulla voluminose. Erano invece sottili, decorate con dei piccoli punti di luce alle estremità.
Dei lunghi guanti bianchi ricoprivano le sue braccia quasi fino alle spalle. Sul suo collo era legato un collarino nero su cui era incastonata una gemma rossa.
Infine, ella brandiva un fucile da caccia fra le sue dita e il suo sguardo magnetico e crudele puntava proprio su di lei…Claire Redfield.
La donna scese lentamente dalla giostra, soave ed elegante come la regina di quel castello macchiato di sangue.
Ella fece ondeggiare i suoi sottili capelli platinati, i quali si posarono sulla sua schiena; solo pochi rimasero sulle sue spalle ampie e scoperte.
La bionda deformò le labbra rosse in un ghigno, dopodiché platealmente allargò un braccio alzandolo verso l’alto, mentre con l’altro sorreggeva la sua micidiale arma da fuoco.
Piena di sé e consapevole del suo potere, la donna parlò con lo sguardo di chi vuole affermare la sua forza e il suo dominio.
 
“Benvenuta nel mio parco dei divertimenti. Un luogo magico e incantevole che sono certa renderà il tuo soggiorno un piacevole tormento, ahahah!”
 
Sogghignò di nuovo, deridendola esplicitamente. Claire intanto si mise in guardia, pronta a reagire in qualsiasi istante.
Intanto il genio della famiglia Ashford continuò la sua prosopopea.
 
“Ero ansiosa di incontrarti, ho tanto aspettato questo momento. Quello in cui avrei finalmente vendicato le offese che hai arrecato alla mia famiglia. Preparati Redfield, ho proprio voglia di vederti cadere sotto le orribili pene dell’inferno.”
 
Claire ricambiò il suo sguardo omicida con la stessa intensità, chiedendosi nella sua mente se quella donna fosse davvero lei, oppure…
 
“Alfred, smettila con questi sporchi giochetti! So bene che sei tu!”
 
Pronunciò decisa, pronta a farlo uscire allo scoperto.
Sebbene le fattezze esili e sottili, la rossa aveva già familiarizzato in passato con la versione ‘femminile’ di Alfred Ashford quando si travestiva da donna.
Il suo viso androgino e delicato poteva ingannare all’inizio, ma una volta allenato l’occhio alle differenze dei due gemelli, diventava veramente facile distinguerli.
Sebbene Claire non avesse mai visto Alexia, conosceva comunque Alfred e poteva giurare che dietro quello sguardo, quegli occhi, quell’espressione truce e arrabbiata……c’era lui!
La lunga parrucca bionda, il viso truccato, le sue fattezze esili e il suo corpo affusolato, rendevano credibile quel travestimento in modo impressionante.
Vederlo adesso, con coscienza di causa, le fece venire un brivido lungo la schiena. Questo perché era inconcepibile per lei una tale somiglianza non solo fra due individui, ma anche maschio e femmina.
Claire aveva conosciuto pochi gemelli nella sua vita e già di suo era un legame che poco conosceva e che la sviava, questo poiché si sarebbe sentita a disagio nell’assomigliare così tanto a qualcuno.
Quindi vedere addirittura uno dei due fingersi l’altro, fino a camuffare non solo se stesso, ma persino il suo sesso e farlo anche in modo credibile….fu qualcosa che la lasciò sgomentata.
Ella non fece che scorrere gli occhi sulla sua figura, cercando i suoi tratti mascolini celati in quel mascheramento; ma più che la considerevole altezza per essere una donna e la larghezza delle spalle, non riuscì a trovare grossi segni che tradissero quell’uomo che era invece la perfetta rappresentazione di sua sorella.
Fine, fiera, maestosa, imponente…Alfred riusciva ad imitare tutto questo, conferendole al tempo stesso anche femminilità ed eleganza.
In più, il suo volto appena truccato, addolcito da quella folta chioma bionda, lo rendeva praticamente identico al quadro che aveva visto di Alexia.
Fu paradossalmente quel trovare impeccabile la sua ‘maschera’ che la stava facendo rabbrividire sempre di più.
 
Cosa era diventato Alfred Ashford?
Cosa pensava?
Cosa viveva mentre impersonava la sua bionda e impeccabile sorella?
Possibile che avesse davvero quella doppia personalità che ipotizzò assieme a Steve a Rockfort Island?
 
Alexia intanto scostò di nuovo i capelli dal collo, con un atteggiamento decisamente infastidito e seccato.
 
“ ‘Possibile, possibile che non riusciate a figurarvi qualcosa di più consolante e giusto di questo?’ *  
 
Recitò con un sentimento doloroso, citando il Raskòl'nikov di Dostoevskij, personaggio del romanzo ‘Delitto e castigo’.
La bionda portò due dita sulla fronte, capacitandosi dell’ottusità della sua interlocutrice. Trovava angustiante dover udire quelle parole da parte di Claire, la quale era lontana anni luce dalla comprensione di quella realtà.
La rossa insisteva ancora sulla follia di cui era impregnata la sua esistenza, rifiutando di contemplare la sua missione; fissandosi sul punto probabilmente più insignificante, alla ricerca di una verità che ella non avrebbe mai potuto capire a quanto pareva.
Non meritava più alcun tempo per la comprensione, comunque; la sua mente non era aperta a quel salto spirituale.
Era giunta alla conclusione che soltanto il castigo avrebbe potuto ottemperare quell’ingrato compito di redimerla quel suo peccato, questo tramite la sofferenza; sia fatta così la sua volontà.
Chi rifiuta di vedere e non ammette le sue colpe, va punito.
Dunque, dopo aver mostrato platealmente il suo disdegno, imbracciò il fucile all’altezza del viso e fece partire un colpo. Claire lo schivò abilmente appena in tempo e corse via, cercando di passare oltre la giostra e raggiungere la porta.
Questo mentre Alexia sfruttava il meccanismo di quest’ultima per muoversi velocemente e prendere la ragazza alle spalle.
 
“Non mi sfuggirai Redfield! Voglio vederti cadere nel più lugubre dolore finché tu stessa non dovrai supplicarmi di mettere fine alle tue angosce! Ahahahah!”
 
Mentre Claire scappava, l’ombra di Alexia si proiettava verso di lei, inglobandola nel suo universo nero e corrotto. La rossa riuscì a raggiungere la porta, ma il rintoccare del tacco della sua inseguitrice le fece capire che lei era alle sue calcagna; non avrebbe fatto perdere le sue tracce tanto facilmente.
Intanto la bionda rideva…rideva di gusto, deliziata da quel momento.
 
 
***
 
 
Quando Claire aprì la porta, si ritrovò dentro un salottino ben arredato. Era buio e per una volta questo era a suo favore. Si inoltrò così nella stanza, cercando di nascondersi dietro il mobilio man mano che avanzava.
Intanto la porta d’ingresso dalla quale era appena entrata lentamente emise un cigolio angustiante, che fece penetrare una luminosa scia di luce. Alexia era appena entrata anche lei nella stanza.
I suoi passi rintoccavano pesanti sulla pavimentazione, la cui superficie lucida rifletteva appena la sua immagine. Claire, accucciata dietro il tavolo rotondo posto al centro della stanza, osservò i suoi movimenti attendendo il momento per avanzare.
La bionda sembrava non averla ancora vista, così decise di ‘giocare a nascondino’ e sperare di riuscire a scappare da quella stanza senza farsi vedere.
Con la coda dell’occhio, puntò quindi gli occhi oltre le gambe del tavolo, sbirciando il riflesso del pavimento che ritraeva Alexia Ashford che la cercava nel buio.
Ella, spaventosa e crudele come una cacciatrice, aveva un perverso sorriso stampato sulle labbra, come di chi ha appena catturato la sua preda e si sente padrone della sua vita e della sua morte.
La donna emise il comunissimo verso che si usa per avvicinare gli animali, facendo schioccare la lingua sui denti. La stava chiamando come fosse una bestiola?!
Fu enormemente fastidioso da ascoltare.
 
“Qui, qui, qui, qui. Claaaaire…? Dove sei?”
 
Disse con voce rassicurante e docile, consapevolmente provocatoria nei riguardi della sua prigioniera. Girò gli occhi cercando di comprendere se fosse ancora in quella stanza, poi si accorse del tavolo e fu logico per lei intuire che nella fretta la rossa avrebbe potuto nascondersi lì. Fece un ghigno e avanzò così verso di esso.
 
“Ucci Ucci…sento odor di cristianucci…”
 
Pronunciò canterellando la frase della fiaba di Pollicino, assumendo un timbro dolce, spaventoso e omicida. Questo mentre avanzava verso un lato del tavolo, pronta a catturare la sua vittima.
La Redfield sentiva il cuore in gola, ma cercò comunque di captare da quale lato Alexia sarebbe sbucata fuori. Intuì che sarebbe venuta da destra, così procedette passo passo nell’altra direzione, attenta a non emettere alcun rumore. Vedeva l’ombra della donna dai capelli pallidi avvicinarsi sempre di più, ma riuscì a mantenere le dovute distanze grazie alla circolarità della tavola, che le permise di circumnavigarla fino a spostarsi verso un comò abbastanza grande da nasconderla.
Piegata sulle ginocchia, dunque, strisciò verso quel mobile e subito si accucciò immediatamente.
Da quella posizione poteva vedere Alexia raggiungere il luogo dove prima era nascosta, ringraziò così il suo intuito e la sua forza d’animo per aver preso quella decisione.
Vide la bionda girarsi più volte in modo tranquillo ma scrupoloso.
Spaventata dall’idea che quel comodino non la coprisse abbastanza, Claire si affrettò ad avanzare verso l’uscita della stanza, approfittando del fatto che Alexia fosse di spalle in quel momento.
Tuttavia, all’erta come un lupo di notte, la gemella di Alfred si girò di scatto e, al primo rintocco dei suoi passi sul pavimento, fece partire un colpo di fucile che ferì di striscio Claire su un braccio.
Ella cadde a terra, traballando per via dell’urto di quel colpo violento che aveva smembrato parte della sua pelle. Una scia di sangue andò a rigare il suo arto.
Scrutò la ferità, che nonostante le avesse provocato quella perdita, non era profonda per fortuna.
Una risata acuta tuttavia fu subito dietro di lei, così si strascicò sulle mani avanzando verso l’uscita fino a rimettersi poi velocemente in piedi.
Alexia intanto osservò concitata la paura che animava la ragazza.
Prima di darsi al suo inseguimento, osservò il sangue che era gocciolato dalla carne della sua nemica.
Si piegò sulle ginocchia e v’intinse l’indice della sua mano, imbrattando così il vellutato e candido guanto con quel rosso caldo e vivo.
Deliziata, portò quel dito alla bocca; dopodiché lecco le sue labbra, eccitata.
 
“Il sapore di sangue e di donna, il calore intenso della vita che pulsa nelle vene. Oh, Claire…”
 
 
***
 
 
Dopo essere uscita dal salotto, la giovane Redfield ebbe come l’impressione di cadere nel vuoto.
Questo perché dall’altra parte dell’uscio non vi era nulla se non il pavimento crollato.
Ella traballò per qualche istante prima di riprendere l’equilibrio. Intanto Alexia sopraggiunse alle sue spalle.
 
“Cosa c’è, Redfield? Paura forse di cadere nel vuoto? Eppure non dovrebbe essere così terrificante per te, credo, che hai assaggiato i magnifici supplizi del mio palazzo, ihihih…! Cosa ne dici di un altro bel tuffo nel terrore? Negli abissi di quella che tu chiami follia. Ti farò vedere cosa può costruire realmente qualcuno che vuole mettere in piedi uno spettacolo meraviglioso e folgorante. Benvenuta sul mio palco!”
 
Detto ciò, la bionda le diede un forte ed inaspettato spintone che la fece cadere dalla balconata.
Claire vide così allontanarsi sempre di più la figura di Alexia Ashford, che si fece piccola fino a sparire nel nero.
La rossa sbatté violentemente a terra.
Fortunatamente qualcosa di morbido aveva attutito la sua caduta, inoltre il volo non era stato poi alto come aveva pensato. Si voltò cercando di capire dove fosse finita.
Essendo nel buio più completo, cercò nella sua tasca l’accendino che sperava di avere ancora con sé. Quello che raccolse in quello studio quando si era da poco riappropriata dei suoi ricordi ed era sfuggita dalle grinfie di Alfred.
Una volta trovato, lo accese e si accorse di essere in un grande atrio. Quanto diavolo era grande quella villa?
Esso era scuro e molto vecchio.
Uno specchio rotto ed impolverato, che oramai non rifletteva più alcuna immagine, era posto sopra un mobile arredato da delle antiche porcellane. Delle finestre contornavano quell’ingresso, oltre le quali vi era l’oscurità di una catacomba; non suggerivano alcun senso di libertà, al contrario era come se sottolineassero il suo cadere sempre più in basso in quell’oblio senza fine.
Con lo sguardo puntato verso l’alto, scrutò prima l’elevato soffitto, poi discese lentamente verso il basso, passando dalle lunghe e numerose scalinate tuttavia crollate e impossibili da raggiungere, fino al piano inferiore dove era sdraiata. Quest’ultimo era rivestito da una moquette color amaranto e comunicava quel senso di macabro che trapelava in ogni meandro di quella residenza.
Si accorse di essere precipitata precisamente sopra un divano sfondato, o qualcosa del genere. Ringraziò il fato per quella fortunata coincidenza. Quando fece per alzarsi tuttavia, si accorse che esso non era un divano…ma un grandissimo animale impagliato, o forse un peluche di grandi dimensioni. Sembrava un puma o comunque un animale selvatico.
Era rovinato in modo irreparabile. Uno dei suoi occhi mancava e la sua forma era come se fosse stata schiacciata da qualcosa di pesante. Si chiese se fosse stata lei a provocare tale disastro, eppure aveva come l’impressione che chiunque avesse costruito quella bestiola, l’avesse fatta così di proposito. Fu una consapevolezza strana, eppure…sentiva fosse così.
Volle comunque puntare le sue attenzioni su qualcosa di più serio, così cercò una strada da intraprendere. Avanzò verso il centro di quell’atrio e, dove avrebbe dovuto trovarsi normalmente il portone d’ingresso, ritrovò invece un altro tipo di entrata.
Era sempre un portone, ma su di esso vi era una particolare incisione, scritta a lettere cubitali in modo molto evidente. Era una scritta colorata di un rosa sbiadito dal tempo. La targa una volta era marmorea, adesso era grigia e riluttante.
Essa faceva:
‘THE DOLLHOUSE’
 
“La casa delle bambole?”
 
Lesse Claire frastornata, dopodiché commentò:
 
“E’ da te una cosa simile, Afred… accidenti, cosa diavolo vuoi ancora?”
 
La giovane donna dai capelli fulvi abbassò il viso, rievocando nella sua mente un po’ tutto il percorso affrontato con quell’uomo lunatico e ambiguo, ossessionato dall’antica gloria che sosteneva avere la sua famiglia e dalla sua preziosa sorella.
Riepilogò brevemente i momenti vissuti in quella deprimente prigione in cui era stata sempre circondata dalla sua contagiosa follia che aveva finito per inglobare tutto sotto il suo manto oscuro.
I suoi occhi vitrei, guidati da un bagliore malsano e immorale che lo dominavano inducendolo ad essere crudele e bellicoso. Egli amava la violenza, quel macabro e raccapricciante mondo marcato dall’indelebile segno della pazzia. Eppure, allo stesso tempo, lui soffriva.
Era vittima delle pene di quell’inferno, che lo torturavano e facevano crollare la sua mente fino a massacrarlo.
Provava tanto, immenso dolore…e Claire se n’era accorta.
Lo aveva capito da subito, quando lui cercava Alexia nei suoi occhi, quando le parlava... quando l’aveva stretta al suo corpo…
Quando più volte i loro respiri si erano fusi nelle circostanze in cui lui aveva avvicinato il suo viso al suo, alla ricerca di quel contatto affettivo che gli mancava fino a renderlo pazzo.
Il suo cuore si irrigidì, provando un’infinita angoscia nel ricordare a freddo le tante parole dette; quei mille sguardi truci e feriti che caratterizzavano lo spirito oramai infranto di Alfred Ashford.
Quel senso di vuoto la costrinse a porsi delle domande e mettersi in dubbio circa quelle ambigue e contorte circostanze in cui aveva rischiato la vita più volte per colpa sua e dei suoi tormenti.
 
Lei………..era nel giusto vero?
 
Alfred era una mente malata, dalla quale fuggire alla svelta. Era questa la dura realtà, no?
Dentro di sé in realtà vedeva nitidamente cosa aveva portato il biondo castellano a creare quella personalità alternativa, che soppiantava in qualche modo la sua evidente solitudine e il suo atroce sentimento di abbandono. Rivide davanti ai suoi occhi il suo viso etereo e ambiguo, bellissimo e terrificante.
Alfred era un’ombra della quale si percepivano i contorni, la cui corporeità era da ricercare nei suoi efferati incubi.
Egli era il riflesso di un destino che era stato crudelmente frantumato, i cui cocci anche rimessi insieme non potevano più costituire alcunché, condannandolo a vivere in quel mondo di ricordi.
Era questo che lui cercava e che lo animava a tal punto da rendere la sua vita un teatrino folle e indecifrabile, in cui persino lui si era perso negli stessi angoli bui del suo immenso universo sgretolato. 
Ripensando al suo perfetto mascheramento da Alexia, aveva avuto modo di vedere l’apice della sua morbosa ossessione, della sua decadenza mentale inarrestabile.
Perfetto in tutti i suoi aspetti, la donna che venerava era il quadro completo del suo sentirsi minacciato dal mondo che lo circondava.
Si chiedeva morbosamente a cosa l’avrebbe aiutato travestirsi da sua sorella gemella. Non aveva senso…
Eppure……..i suoi occhi tetri diventavono…….felici, quando diveniva lei.
Era strano, ma era proprio così.
 
Claire era quindi davvero nel giusto a considerare la sua realtà fuori da ogni logica?
 
Scosse la testa, costringendo la sua mente a tacere ancora una volta.
Doveva purtroppo guardare alla sua vita, sebbene la sua natura compassionevole lottava contro il suo forte istinto di sopravvivenza che la voleva lontana da tali ragionamenti.
Si chiese fino a quando sarebbe riuscita a soppiantare la sua voglia di interrogarsi e capire cosa si celava davvero dietro quella follia; ma al momento la razionalità aveva ancora la meglio, ragion per cui ella si mosse verso la Casa delle Bambole, pronta ad affrontare la seconda personalità di Alfred: Alexia Ashford.
Dalla finestra intanto, un uomo con una scarlatta uniforme militare inglese la osservava taciturno…
 
 
***
 
 
 
The dollhouse - La Casa delle Bambole
Palazzo Ashford
 
 
 
Era curioso entrare in una casa dall’interno di un’altra casa.
“La Casa delle Bambole” era un edificio grande, con tanto di finestre che affacciavano sull’ingresso che lei stava appena varcando. Si chiese che senso avesse collocare una costruzione simile in quel luogo.
Non le sembrava per nulla un’opera architettonica corretta.
In quel momento comprese perché Alfred l’aveva chiamata “dollhouse”. Questo perché era una vera e propria casetta per le bambole, versione gigante, inserita dentro una residenza più grande. Come un giocattolo versione naturale, diciamo così.
Infatti, da fuori all’ingresso era visibile persino il tetto dalla forma triangolare, ambiguo da vedere all’interno di un palazzo.
Claire comunque non stette a interrogarsi su altro, avendo visto cose ben più assurde di quello.
Osservò l’immane portone di legno chiaro, rifinito sui lati con degli intagli dolci e circolari, dopodiché cercò di forzarlo, ma era chiuso.
Dall’alto cascò un bigliettino svolazzante, che cadde in direzione della fanciulla la quale lo prese al volo mentre discendeva delicato in balia dell’aria.
Lo aprì e scrutò il disegno infantile che rappresentava una bambina dai capelli rossicci che bussava il campanello. Ella aveva le guanciotte rosse e un sorriso stampato sulle labbra.
Era evidente si trattasse proprio di lei. Era Alfred che aveva fatto quel disegno?
Alzò il viso cercando di scorgere il biondo, certa che lui glielo avesse lanciato, tuttavia non vide nessuno e così si limitò a comprendere il senso di quel messaggio: doveva suonare il campanello.
Così fece e un suono melodioso tuonò per tutto l’atrio. Era dolce, eppure in quel silenzio fu del tutto sgradevole.
A quel punto, comunque, il rumore di un meccanismo scattò proprio dove era collocata la serratura della porta, la quale si aprì da sola permettendo alla giovane donna di entrare.
Appena dentro, il portone si chiuse alle sue spalle, cosa molto prevedibile e che non spaventò Claire più di tanto.
Si concentrò invece sull’ambiente circostante.
L’atrio era molto ampio e sebbene fosse al buio, poteva scorgerne i colori vivaci che un tempo rendevano quel luogo allegro ed accogliente.
L’accendino emetteva un’illuminazione precaria, non abbastanza forte da fare luce sul suo cammino, tuttavia bastava a riconoscere le tinte rosee delle pareti, proprio come la maggior parte delle vere case delle bambole.
Guardandosi attorno, distinse i vari arredi che sembravano essere usciti fuori da un manuale.
Un comodino posto all’ingresso con il vaso di fiori finti, il tappeto circolare posto al centro della stanza, il lampadario sfarzoso, la rampa di scale che conduceva ai piani superiori.
Tutti elementi tipici, ove mancava forse solo la bambolina da far muovere lì dentro….o forse c’era…ed era proprio lei?
Con tutte le probabilità le intenzioni di Alfred erano proprio quelle, così cercò di tenere presente quella consapevolezza durante la perlustrazione, perché avrebbe fatto di tutto per non essere la sua marionetta di nuovo.
Così avanzò e nel piano inferiore non trovò altro che una cucina vuota, il bagno, una piccola stanza di accoglienza e una sala da pranzo. Nulla di speciale.
Decise così di salire.
Le scale scricchiolavano a ogni suo passo, non perché fossero sul punto di rompersi, piuttosto esse erano visibilmente trascurate e intrise di umidità.
La ragazza fece scivolare la mano sulla ringhiera e quando arrivo sul pianerottolo superiore, per un attimo guardò indietro.
Aveva uno strano presentimento…era tutto troppo calmo, troppo silenzioso.
Cercò qualsiasi elemento potesse confermare il suo ovvio stato di allerta, ma purtroppo nessun elemento di quella strana abitazione comunicava lei qualcosa.
Mentre camminava per il corridoio, una stanza lasciata semi aperta la incuriosì. Si avvicinò ad essa e fu sorpresa quando dall’altra parte vide, seduta su una poltroncina, qualcuno dai lunghi capelli castani e arruffati.
Subito entrò, chiedendosi se avesse trovato un altro sopravvissuto, dovette tuttavia ricredersi velocemente in quanto, mossi appena pochi passi verso di lei, la donna seduta sulla poltrona si rivelò essere solo una bambola.
Ella aveva delle dimensioni umane, esattamente come quella vista precedentemente davanti “la stanza dei bambini”. Anche l’abbigliamento stile ottocentesco era simile.
Quest’ultima però non aveva quello sguardo indemoniato, esso stavolta era normale. I suoi occhi di vetro contornati dalle lunghissime ciglia nere erano fissi di fronte a sé e non guardavano da nessuna parte.
Era un po’ inquietante da vedere, in verità.
Un particolare oltre lo sguardo attirò la sua attenzione. Ella aveva qualcosa fra le mani.
Un attimo…non era un oggetto… la mano stessa sembrava essere un meccanismo.
Quando fece per guardare meglio, sfiorando appena quelle dita di porcellana, una lampada alle sue spalle si accese, illuminando la superficie vicino cui era posta, in prossimità della finestra.
Claire sobbalzò quando, girandosi per identificare quell’improvvisa fonte di luce, distinse nitidamente la figura di Alfred Ashford.
 
“AH!”
 
Urlò appena, non aspettandosi minimamente che anche lui fosse lì dentro. Com’era potuto rimanere silenzioso nel buio per tutto quel tempo?
La ragazza comunque si riprese in fretta da quello spavento e si ricompose; frattanto però quell’uomo rimase immobile, con il volto girato verso la finestra.
Claire trovò strano quell’atteggiamento e fu così che in quel momento notò qualcosa di strano.
Il suo corpo marmoreo era troppo pallido e lucido. C’era qualcosa che non quadrava.
Inoltre sembrava rigido, come se non fosse costituito di pelle. Esso non faceva alcun minimo movimento, nemmeno quello della respirazione. Fu a quel punto che si rese conto che quell’Alfred non era altro che un manichino vestito da lui.
Il suo viso ancora più bianco di come già non era, era freddo e imperscrutabile.
Sebbene avesse la tipica fisionomia di un comunissimo manichino, di quelli che si vedono quotidianamente nelle vetrine dei negozi, non c’era effettivamente moltissima differenza con il vero e giovane Ashford.
I suoi occhi irraggiungibili e vuoti, a volte freddi e malinconici, erano gli stessi anche di quel viso finto intagliato nel legno. Duri, lontani, invalicabili….
Lo osservò attentamente, come rapita da quel fantoccio così inumano e privo di vita, eppure tanto rassomigliante alla figura da cui era stato ispirato.
Osservò la parrucca tirata indietro che indossava, il suo abito elegante con le decorazioni militari, infine la statura un po’ più alta della sua. Istintivamente pose una mano sulla sua giacca, sfregando le dita sul risvolto del colletto.
Fu un gesto che neppure lei si accorse di aver compiuto, era come se una parte irrazionale di lei ricercasse un contatto con quell’essere umano così ambiguo e devastato. Qualcosa di orrendo lo aveva reso una persona folle, oppure persino lui era dopotutto solo un ragazzo impazzito a furia di abitare in quel castello perverso e disumano? 
Come se gli occhi artefatti di quel pupazzo potessero risponderle, si perse nel suo sguardo vuoto alla ricerca di qualcosa che sentiva di non poter comprendere.
A quel punto una voce squillante interruppe quel suo beato momento di riflessione.
La rossa si sentì enormemente a disagio. Stavolta il vero Alfred stava annunciando la sua venuta con i suoi sottili ed irritanti sogghigni.
Tolse immediatamente la mano dalla giacca del manichino, come nascondendo quel circostanziale momento sentimentale, in seguito si voltò più volte cercando di individuarlo.
Egli però sembrava non essere nella stanza.
Fu in quel momento che, dall’alto, scese un enorme schermo, che mostrò l’immagine del cupo e temibile gemello.
 
“Alfred…”
 
Digrignò i denti, infastidita dal suo modo di agire.
Il volto del biondo ritratto nello schermo era illuminato dal monitor di un computer, era evidente per via dei colori pallidi e leggermente bluastri.
Egli, con il suo sguardo molesto e sgradevole in contrasto con la delicatezza e la soavità dei suoi tratti facciali, sorrideva beffardamente tenendo la guancia premuta contro la sua mano.
Sul suo capo, in quel momento, troneggiava vittoriosa un’appariscente e voluminosa corona, che voleva evidentemente sottolineare il suo essere Re di quel luogo maledetto.
Era vistosa e dalla forma molto classica. Conferiva sia un senso di estrema eleganza, che un’impronta ridicola e grottesca.
Che diavolo gli era venuto in mente di indossare? Tra poco avrebbe cacciato anche scettro e mantello?
Aveva le gambe accavallate e sedeva in modo del tutto rilassato su un’imponente poltrona, come un tirannico padrone di casa sicuro di sé; sembrava inoltre disgustosamente divertito dall’essere apparso così di soppiatto, spaventando la giovane Claire.
La ragazza lo guardò con sfida, ponendo l’accento sul suo ridicolo modo di presentarsi.
 
“Cos’è quella? Ti hanno anche incoronato adesso?”
 
“Oh, questa dici?” rise lui. “Non è stupenda? Un decoro così bello, prezioso, di classe direi…mi sta d’incanto! Ritengo che i gioielli regali mi si addicano veramente molto.”
 
Il biondo toccò la sua preziosa corona, accarezzandola compiaciuto, poi rise sonoramente, felice di deridere il suo ‘suddito’. Claire dal suo canto mostrò tutto il suo disappunto, scuotendo la testa e facendo per esprimere la sua dura opinione, ma non fece in tempo a dire qualcosa che lui la interruppe.
 
“Allora dimmi, che ne pensi di questa bellissima ala del palazzo? Ti piace, vero? C’è qualcosa che conto di aggiustare, ma credo sia venuta molto bene. Per di più c’è Alexia a prendersi cura di te, spero tu l’abbia ringraziata. Non è solita fare cose di questo genere, ha sempre tanto lavoro da sbrigare. Tuttavia ormai so come la pensi e mi rincrescere la consapevolezza che tu non apprezzerai mai un simil gesto, in verità tanto esclusivo. Se a questo aggiungo la tua maleducazione nel portare cotanto scompiglio a casa mia, credo proprio che non potrò sempre perdonarti.”
 
Alfred non le diede un attimo per parlare e questo la fece innervosire ancora di più. Possibile che fosse così egocentrico?
A quel punto però qualcuno spalancò la porta di quella stanza, facendo il suo ingresso improvviso. Seppur l’ambiente esterno fosse buio, un forte controluce si abbatté sulla figura appena entrata, che si mostrò maestosa e fiera.
Alexia era appena entrata nella stanza.
 
Aspetta un attimo…?! Alexia?
C-come era possibile?
Ma se Alfred era lì….lei come poteva…?
 
Claire si sentì nel panico non comprendendo cosa stesse accadendo.  
Vide la donna dai lunghi capelli biondi guardarla con i suoi occhi di ghiaccio penetranti, con la severità che la contraddistingueva e che si manifestava sempre nel suo portamento.
Ella prese a sghignazzare con suo fratello, ponendosi al fianco dello schermo.
I loro volti identici erano accomunati adesso anche dalla stessa espressione sadica e maligna. Entrambi puntarono i loro occhi su Claire pronti a trafiggerla con i loro sguardi funesti e giocondi.
Assieme essi divennero la raffigurazione del Re e della Regina, che con la loro gloria e crudeltà dominavano quel malato castello che dava sfogo alla loro perversione e psicopatia incontrollabile.
Vederli uniti fu qualcosa che impressionò la Redfield, la quale non fece che passare lo sguardo dall’uno all’altro alla ricerca di una spiegazione.
Aveva visto Alfred travestirsi da lei…
Lui…pur di averla accanto, aveva mascherato anche Claire! L’aveva persino drogata!
Se Alexia esisteva, invece---allora perché lo aveva fatto?! Non aveva senso!
Tutto lasciava credere che la bionda gemella di Alfred fosse morta, invece…
Claire per un attimo credé davvero che ella esistesse, tuttavia la sua razionalità richiamava la sua attenzione e le impedì di crederci per davvero. Questo perché era evidente che qualcosa di strano avvolgeva i due gemelli.
Uno era su uno schermo, che la guardava con arroganza dall’alto verso il basso. Inoltre sembrava non interagire con lei, come se non potesse vederla realmente.
L’altro era invece di fronte a lei, ed era l’unica dei due che si era mostrata in carne ed ossa.
Allora forse…
 
“Benvenuta di nuovo, Redfield. Vedo che sei rimasta illesa dal volo che hai fatto dalla balconata del piano di sopra, ma che peccato, ahahah!”
 
Rise la donna acidamente portando una mano sulla bocca.
 
“Oh, fratello mio, sono davvero felice di poter punire la nostra arrogante ospite che ha osato offendere la tua missione. Insieme noi siamo i sovrani di questo mondo e tu assaggerai le meravigliose pene che i nostri disertori hanno l’onore di provare sulla loro pelle! Ahahah!”
 
Sghignazzò, vibrando con tutto il corpo che si contorse nella sua ilarità. Ella poi puntò lo sguardo verso lo schermo e quindi verso suo fratello, i cui occhi erano invece fissi in avanti.  
La donna portò due dita sulla bocca, che utilizzò per mandare un delicato bacio a suo fratello, con un gesto che richiamava dolcezza e riconoscenza.
Agli occhi di Claire sembrò strana quell’azione; per quanto potesse esserci un profondo amore tra fratelli, era naturale desiderarsi così tanto? Provò uno strano rimescolio allo stomaco riflettendo su quell’atteggiamento così ambiguo e distorto.
Ma ciò che a quel punto aveva tradito il caro signor Ashford, era che non aveva ricambiato quel segno d’amore.
Egli era rimasto fermo sul suo trono, con quegli occhi trionfanti, come se non avesse visto la sua adorata Alexia lanciargli un delicato bacio.
Adesso era ovvio, la sua ipotesi era stata confermata: quel video era solo una registrazione, realizzata per farle credere che i due gemelli fossero due persone distinte.
In realtà, l’unica persona veramente presente in quel posto era sempre e solo lui...
Mentre Alexia fissava con incanto la meravigliosa figura di quel suo fratello che le mancava tanto e che desiderava ardentemente, Claire si fece avanti interrompendo quell’idillio.
 
“Smettila con questa farsa, Alfred, te lo dico di nuovo! Non esiste nessuna Alexia! Pensi che io possa ancora bermi questa storia? Sii serio e metti un punto a questa pagliacciata.”
 
Alexia, i cui occhi erano languidi e persi nel vuoto, lentamente si voltò verso la rossa.
Il suo sguardo era spaventoso.
 
“Come osi rivolgerti a me con tale impudenza! Quale affronto alla mia dolce e perfetta sorella! Tu che sei solo…!!”
 
“A-ah!” lo interruppe Claire sorridendo e puntando un dito contro di ‘lei’. “Visto? Com’è che adesso parli di lei in terza persona? Ti sei smascherato da solo!”
 
Alfred/Alexia digrignò i denti offeso nell’orgoglio. I suoi occhi si spalancarono non contenendo la rabbia che gli ribolliva dentro. Sollevò un braccio e con la veemenza di un re indicò la persona nemica che andava messa a tacere.
 
“Continua pure a ridere, Redfield. Guardati alle spalle, però! Perché non puoi mai sapere chi hai davanti!”
 
Tuonò e a quel punto dagli angoli della camera delle ombre cominciarono a muoversi.
Claire sentì quelle presenze anche senza averle ancora viste; i loro gemiti di dolore erano così spaventosi ed angustianti da non poter passare inosservati.
La rossa guardò attorno a sé cercando di indentificare quella minaccia quanto prima, questo mentre i ‘mostri’ si avvicinavano a lei e ad ‘Alexia’.
Passo dopo passo, furono sempre più distinguibili e finalmente si evidenziarono ai suoi occhi.
Erano delle… delle bambole! Le stesse bambole a grandezza umana che aveva visto in giro per la villa!
I loro capelli arruffati dal colore spento e ingrigito, impolverati e trascurati. Essi ricadevano disordinati sulle spalle, con quell’accenno ondulato e le deliziose acconciature con i fiocchi sgargianti che un tempo le rendevano graziose e adorabili.
I loro abitini vaporosi vertevano nelle stesse condizioni, conferendo un aspetto spaventoso alle loro movenze in quanto simili a bambole indemoniate.
Zoppicavano e si strascinavano, muovendo i piedi malridotti e sofferenti, seppur rivestiti dalle delicate calzature.
Emettevano versi tormentanti e le loro braccia presero a indicarla con desiderio di fame.
Claire inorridì quando lentamente queste sollevarono i loro volti avvicinandosi sempre di più, potendo così distinguere nitidamente la pelle ruvida e spaccata, il sangue che grondava dalla loro testa, dai loro occhi, dalle loro ferite…
Le loro fauci sanguigne e deturpate si spalancarono pregustando il pasto che avrebbe riscaldato il loro freddo palato.
Quelle bambole non erano bambole! Erano zombie!
Erano stati vestiti e acconciati in quel modo per farli apparire come delle graziose e letali macchine assassine.
La ragazza impallidì letteralmente di fronte quell’incubo spaventoso, circondata in modo sempre più inesorabile da quelle malvagie creature.
Indietreggiò spaesata, affiancandosi così involontariamente ad Alexia.
Quando la urtò con la schiena, si girò di scatto, terrorizzata, ma la donna le sorrise assumendo un’espressione spaventosamente rassicurante.
Claire fissò i suoi occhi su di lei, vedendo chiaramente il volto di Alfred Ashford celato dietro quel travestimento.
Mentre il suo istinto lottava fra la paura verso quell’uomo e quella verso i non-morti, egli posò inaspettatamente le mani sulle spalle stringendola a sé.
 
“Non ti preoccupare Claire. Al momento è un altro lo spettacolo a cui voglio assistere, non è ancora l’ora della tua disfatta.”
 
Disse lui con tono femminile ed aggraziato, dilettato dal senso di smarrimento di Claire.
La ragazza dal suo canto sentì il cuore sbatterle in petto, mentre sentiva il busto di ‘Alexia’ attaccato alla sua schiena, che le sussurrava all’orecchio a pochissimi centimetri di distanza.
Ancora sotto shock, rimase immobile e lasciò che lui le mostrasse ciò che voleva, aspettandosi di tutto da parte di quella mente fortemente deviata.
Egli intanto salì all’altezza del viso il fucile di precisione che era solito portare con sé, ponendolo di conseguenza a meno di un palmo anche da Claire. Seguendo il suo sguardo, anche lei puntò gli occhi di fronte a sé, in direzione delle b.o.w. travestite da bambole.
Si appropinquavano fameliche sempre di più e Claire a quel punto si fece prendere dal panico.
Doveva fuggire e alla svelta! Se Alfred intendeva farsi divorare, lo facesse da solo!
Quando fece tuttavia per scrollarselo di dosso, egli la bloccò ancora più saldamente.
 
“Attendi, le sorprese non sono nemmeno cominciate! Facciamo un giochino…”
 
E così imbraccio meglio il suo fucile da caccia e lo mise fra le sue braccia e quelle di Claire.
 
“Cosa stai..?”
 
Farfugliò la ragazza ma ‘Alexia’ non le diede il tempo di replicare che sparò ad uno di quei zombi, che cadde a terra agonizzante. La precisione di quel colpo gli aveva fatto perdere parte di una gamba, che era schizzata via a brandelli, macchiando gli arredi di quella stanza.
La donna dai capelli biondi rise di gusto.
 
“Ahahah! Adesso prova tu.”
 
Sorrise deliziata, portando la mano di Claire sul grilletto della sua arma. La rossa scosse la testa, inorridita e spaesata.
 
“Non…non capisc…”
 
“Forza!”
 
Insistette la bionda che, premendo sul suo indice, sparò per lei ed un secondo colpo andò a colpire lo stesso zombie che stavolta cessò di muoversi.
La temibile Alexia rise nuovamente, sempre più eccitata. Prese dunque a sparare a raffica, divertendosi non tanto ad ucciderli, quando a tranciare i lembi della loro carne, al fine di vederli soffrire e strisciare al suo cospetto.
La Redfield, incastrata fra le sue braccia, i cui palmi erano stretti dal suo nemico sul suo fucile, vedeva quella strage come se fosse compiuta per mano sua. Vedeva il sangue schizzare, pezzi di carne volare via, brandelli di cervella e di materiale organico fuori dai tessuti, urla di dolore che le trafiggevano il cranio e martoriavano i suoi sensi…
Questo mentre Alfred travestito da Alexia si godeva il suo macabro spettacolo, come se non si rendesse neanche conto di quello che stava facendo. Era solo esaltato da quella visione esangue e disumana.
 
“Ahahahah! Senti Redfield? Senti questo piacevole suono? Il suono del dolore… della sua dolce, dolcissima agonia…ma non è abbastanza! Non è abbastanza!”
 
Esclamò eccitato e a quel punto lasciò la presa su Claire per prendere in mano un telecomando che, una volta azionato, fece cadere una grossissima clava chiodata da una parete.
Questa schiacciò in modo inevitabile la testa di uno di quei non-morti, che si frantumò lasciando al suo posto un lago di sangue.
Claire portò una mano sulla bocca, cadendo a terra.
Alexia intanto schiacciò di nuovo il bottone che pian piano attivò varie trappole che sterminarono infine tutte quelle creature.
Una lancia taglio a metà uno di loro; una lama venuta fuori dal nulla ne decapitò un altro; una serie di aghi acuminati ricoprirono interamente la figura di un altro ancora, riducendolo a un cola brodo…
Velocemente quel palco si trasformò in un patibolo di esecuzione, che portò alla morte definitiva ognuno di quegli esseri che, seppur fuori controllo e a loro volta delle macchine assassine, fu crudele vederle ridotte a brandelli in quel modo.
La rossa portò le mani sul viso, incapace di accettare tale spietatezza.
Intanto Alexia, una volta soddisfatta, le poggiò una mano sulla spalla.
Del sangue era schizzato sia su di lei che su Claire, macchiando i loro vestiti e i loro visi.
Sentendo quel contatto, tuttavia, la ragazza dai capelli rossi si alzò di scatto, scacciando quella mano rivestita dai guanti insanguinati.
Fece per colpirla sferrando un pugno, ma la bionda riuscì a bloccarla.
Dalla forza con la quale piegò il suo braccio, era lampante il passato militare dell’uomo nascosto sotto quelle spoglie. Sebbene il suo essere femmineo, possedeva probabilmente più preparazione di quanto non sembrasse in apparenza.
Comprendendo che fosse abbastanza inutile lottare contro di lui, Claire si divincolò dalla sua presa e fece per allontanarsi da quella stanza, ma lui le si parò davanti.
 
“Non puoi sfuggirmi, Claire. Perché credi ti abbia mostrato tutto questo? E’ stato solo per farti vedere in quanti modi posso annientarti e farti soffrire. Un piccolo gioco psicologico, che credo ti abbia dimostrato quanto tu non sia nessuno al mio cospetto. Posso colpirti, deturparti, ucciderti, quando e come voglio…nei modi più crudeli e dolorosi. Non è la morte, tesoro, quella che ti dovrebbe spaventare oramai, ahahah!”
 
Mentre Alexia delirava e sghignazzava senza contegno, Claire d’istinto prese un piccolo specchietto da tavola poggiato su uno dei mobili, pronta a usarlo come arma, avendo trovato solo quello a portata di mano.
Tuttavia prima di colpire il suo nemico, questi ebbe il tempo di riflettersi in esso ed il terrore si disegnò nei suoi occhi.
La giovane comprese subito che qualcosa lo aveva terrorizzato, così cercò di capire invano cosa stesse succedendo.
Alexia intanto si voltò dietro di sé.
Ella aveva visto, da quello specchietto, il suo riflesso rifratto in una specchiera più grande posta sulla parete alle sue spalle.
Poté osservare così la sua figura riprodotta su quella superficie e qualcosa sembrò vacillare nella sua mente. La bionda prese a tremare, fino a contorcersi ed infine ad urlare.
Urlò in modo acuto, penetrante, agghiacciante. Uno strillo che fece fischiare le orecchie della giovane dai capelli rossi, costringendola a tapparle con le mani.
Claire dovette piegarsi su se stessa, mentre i suoi timpani sembravano spaccarsi.
Alexia Ashford intanto si dimenava, non sapeva se infastidita o terrorizzata.
 
Cosa le stava accadendo…o meglio, cosa stava accadendo ad Alfred?
 
Lo vide scuotersi e non riuscire a fermarsi, come se fosse stato trafitto da un dolore terribile. Era…era impazzito!
Infine, egli impugnò il fucile fra le mani e con il calcio di legno frantumò con veemenza quello specchio, riducendolo in mille frammenti di vetro.
Lo distrusse finché di esso non rimase nulla; era esattamente come la specchiera che Claire aveva visto prima di entrare nella ‘stanza dei bambini’, quella che precedeva la giostra con i cavalli.
Allora ci aveva visto bene…era stato lui a romperli!
Alfred dunque era affetto da eisoptrofobia (o spettrofobia)?
Aveva sentito parlare di tale fobia, consistente nella paura irrazionale e ingiustificata verso gli specchi, o il vedersi riflessi in uno specchio. Le persone che soffrono di questa fobia sentono un'ansietà indebita guardandosi allo specchio, pur rendendosi conto che le loro paure sono irrazionali. Per via di una diffusa base superstiziosa, gli eisoptrofobici possono preoccuparsi che guardarsi allo specchio li metterà in contatto con un mondo sovrannaturale/parallelo sito "al di là" dello specchio.
Era per questo che il biondo erede degli Ashford aveva sigillato, frantumato o rimosso tutti gli specchi di quella magione?
La motivazione risiedeva in questa fobia, dunque?
Anch’essa era collegata ad Alexia in qualche modo?
 
La verità dietro uno specchio, che metteva a nudo il suo universo, mostrandogli in modo spietato quello che lui doveva a tutti i costi proteggere e celare.
 
Claire approfittò di quel momento di follia, ove quell’uomo era distratto ad aggredire quello specchio, per scappare via dalla stanza, sperando di incapparsi nello spaventoso alter ego di Alfred il più tardi possibile.
Mentre chiudeva la porta dietro di sé, Alexia alzò il viso angosciato e sudato.
Inspirò profondamente facendo cadere la testa all’indietro, poi si voltò di scatto.
 
“Claaaa…ire….”
 
Canterellò in modo dolcemente stucchevole, con voce femminile ed amabile, tuttavia con gli occhi di un folle psicopatico.
 
“Dove pensi di andare…?”
 
Aggiunse quasi sotto voce, con la stessa tonalità smielata. Un sorriso perverso si dipinse sul suo volto impazzito. 
Il gioco era appena cominciato.
 
 
***
 
 
 
 
 
 
 
NdA:
 
* citazione di ‘Delitto e castigo’ - di Fedor Dostoevskij.
In questo romanzo, la "pena" è intesa in termini di castigo morale, cui seguono il riconoscimento della colpa commessa, il pentimento ed il rinnovamento spirituale.
Esso esprime i punti di vista religiosi ed esistenzialisti di Dostoevskij, con una focalizzazione predominante sul tema del conseguimento della salvezza attraverso la sofferenza.
 
Nel corrente capitolo, la citazione di Dostoevskij espressa da ‘Alexia’ è riferita all’incapacità di Claire di capire i suoi ‘peccati’, che ai suoi occhi è l’aver interferito con i suoi piani e affrontarla impudentemente.
In realtà a questo si associa anche, e soprattutto, il senso di frustrazione e di incomprensione di Alfred, come accaduto nel capitolo precedente. Quella devastazione interiore che lo ha indotto a “trasformarsi” in Alexia.
Claire si rifiuta di vedere oltre ciò che è tangibile (in questo caso il travestimento e l’ossessione per Alexia da parte di Alfred), così egli la condanna a espiare attraverso la sofferenza.
 
Ps: La figura di Alexia è ispirata a Daniella di Haunting Ground. Per chi ha giocato a questo gioco e ci ha fatto caso, informo che la somiglianza è voluta. ^^ Così come la stanza con la giostra speculare, ambientazione presente nel mededimo videogame, che ho voluto omaggiare e che si prestava per l'atmosfera che intendevo descrivere. :)
 
Ci vediamo al prossimo aggiornamento e grazie a tutti coloro che mi stanno seguendo!
 
 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 11
*** Capitolo 11: trovarsi ***


 
 
 
 
“Perchè una realtà non ci fu data e non c'è; ma dobbiamo farcela noi, se vogliamo essere; e non sarà mai una per sempre, ma di continuo e infinitamente mutabile...”
 
“Cadeva ogni orgoglio. Vedere le cose con occhi che non potevano sapere come gli altri occhi intanto le vedevano. Parlare per non intendersi. Non valeva più nulla essere per sé qualche cosa. E nulla più era vero, se nessuna cosa per sé era vera. Ciascuno per suo conto l'assumeva come tale e se ne appropriava per riempire comunque la sua solitudine e far consistere in qualche modo, giorno per giorno, la sua vita…”
(‘Trovarsi’-Pirandello)
 
 
 
 
 
 
 
 
Capitolo 11: trovarsi
 
 
 
 
 
 
Ho provato a credere a realtà diverse.
Ho cercato di vedere il mondo nei suoi colori, con le sue reali sfumature
esenti dalla poesia e dall’immaginazione che sanno trasformarla in un universo maestoso e abbiente; ricco di animi profondi e sapienti, pieni di spirito e di amore.
La più cruda dimensione reale che non è addobbata dall’incanto delle nostre gioie e speranze.
 
…Ho spazzato via tutto questo...
 
Ho tirato giù il mio sipario, ho riposto le mie marionette, ho cancellato le tracce del recente spettacolo.
Sono uscito e ho guardato il cielo.
La notte era buia, fredda, non c’era nessuna stella.
Che triste il mondo, quello reale.
 
 
 
Devo davvero credere che questa vita è meglio di un allegro teatro?
Non mi piego di fronte tale crudele convenzione, che impedisce di guardare cosa è veramente giusto per noi.
Ho scelto la mia ‘professione’, ho scelto la mia identità.
La porterò avanti con forza, sempre, di volta in volta costruendo il mio personaggio; una figura costruita pezzo su pezzo, che si sorregge in questo mondo dimenticato da Dio.
Rinuncio alla mia vita, alla ‘vera vita’ come voi la chiamate, così bieca e artificiosa…molto più di quella del mio personaggio, paradossalmente più libero di essere felice.
Una vita nell’arte, l’arte della mia menzogna; una vita esclusiva che non è da tutti.
La mia disperata solitudine mi esenta da altre forme di vita, esigendo la mia completa immedesimazione nella costruzione di questo mondo.
Abbraccio il mio destino, questa mia infinita interpretazione, in quanto più vera, autentica, originale, di quella triste della solitudine.
E’ così che ho trovato me stesso.
  
 

Alfred Ashford fissò gli occhi glaciali di quel volto che gli ricordava la sua eterna Donna.
Quello sguardo che altri non era che il suo stesso riflesso, eppure era l’unico che potesse trasmettergli ancora quel calore che lui ricercava.
Scrutò quella scheggia acuminata ancora incastrata sulla specchiera appena distrutta, come fosse l’ultimo riflesso di una realtà dalla quale non poteva fuggire.
Nonostante fosse consapevolmente artefice di quella verità ingannatrice, non gli importava.
Se poteva, tramite il suo stesso sguardo, sentirsi a casa, cullato dall’affetto di Alexia, la sua dolce gemella, allora perché fuggirne?
Egli era allietato nel ritrovarsi di fronte quel viso soave….quegli occhi che gli mancavano tanto e che rappresentavano la sua vita.
La sua gioia, i suoi dolori, il suo mondo.
Quando osservava il suo volto riflesso in uno specchio, non vedeva più se stesso oramai, annebbiato dalle sue tormentate angosce e dalla sua devastante condizione.
L’immagine riflessa assumeva un significato diverso.
Essa emanava un’energia forte, un calore umano che lui aveva conosciuto un tempo…e al quale non aveva saputo rinunciare.
Credeva di poter reggere quel dolore, invece aveva finito per cadere in un vuoto desolato e disperato.
Il suo viso…la sua stessa faccia, però, gli permetteva di ricordare quei tempi felici, in cui lui non era solo, abbandonato a se stesso.
Tramite la sua pelle, i suoi occhi, i suoi tratti facciali, Alfred ritrovava quella persona che riempiva il suo cuore: la sua amata sorella, così simile a lui.
Col tempo il ragazzo dai capelli pallidi elaborò che il suo stesso volto in realtà apparteneva a qualcun altro.
In una visione malsana e incomprensibile, egli non vedeva più se stesso riflettendosi in uno specchio.
Vedeva invece ergersi la potente Regina che dominava il suo cuore; bella, potente e maestosa.
Alfred era onorato che lui stesso fosse capace di ricordare tramite il suo corpo quell’antico splendore che dava luce nella sua vita.
Così pian piano le sue iridi sprofondavano nella sua stessa immagine riflessa, giungendo in una dimensione nuova, catapultandosi nella “realtà dello specchio”; quella che vedeva la sua “metà” come Regina assoluta.
Lui le cedeva il passo ben volentieri ogni volta che voleva, felice di essere al suo cospetto, di servirla, di poterla vedere muoversi in quegli spazi che lui abitava solitario.
Una parte di lei risiedeva dentro di lui. Loro erano uno stesso corpo, nessuno li avrebbe mai separati.
Separando Alfred da quel riflesso, egli poteva vedere emergere l’Alexia celata dentro di lui.
Dunque la sua commedia andava avanti, articolandosi in quella scena costruita apposta per lei, dove purtroppo non c’era spazio per entrambi.
Lui doveva per forza eclissarsi, sparire…per far sì che ella potesse vivere al suo canto. Come il giorno e la notte, che abitano lo stesso cielo, che sono la stessa cosa, differenziati soltanto da bagliori e luci diverse,  ma non si incontrano mai se non in frangenti fugaci e momentanei.
Illuminato dalla maestosità della sua Regina, egli era ben lieto di immolare la sua esistenza. Perché solo tramite il suo ricordo poteva ancora essere felice.
Anche se questo non li avrebbe fatti ricongiungere, gli bastava poter vedere i suoi occhi tramite la sua immagine rifratta in un vetro.
Una magia che non voleva spezzare e alla quale si abbandonava pur di stare in eterno accanto alla sua donna.
Così il biondo, ancora travestito dal suo amore, appoggiò un dito su quel vetro infranto, facendolo scivolare sul suo punto più tagliente che andò a segnare con una linea rossa la sua pelle delicata.
Quel tenue dolore fece pulsare la sua carne ferita, che godé di quella lacerazione. Vedendo il sangue scivolare dolcemente lungo il suo guanto marmoreo, era come se avesse ricevuto un segno da quel mondo confuso che spesso vacillava.
Sebbene quel segno avrebbe dovuto riportarlo nella triste realtà della solitudine, ricordandogli di essere Alfred………egli interpretò diversamente tutto ciò.
Quel sangue ai suoi occhi non era il suo sangue, infatti…ma quello di Alexia.
Era Alexia che stava sanguinando e quindi ciò voleva dire che era viva…ed era lui stesso a farla vivere.
Era come se egli fosse il mezzo attraverso il quale Alexia viveva.
Era il suo corpo che le permetteva di muoversi e risiedere nella loro abitazione; ed Alfred era esaltato dall’idea di renderle omaggio e far sì che quel personaggio prendesse vita, come un buon attore che dà vita ai ruoli che interpreta eclissando la sua personalità.
Per Alfred era così in fondo: lui era un mero attore che dava vita a un personaggio, donando tutto per rappresentarlo al meglio, questo fino anche a perdere se stesso.
Egli dunque sorrise, felice.
Quella finta esistenza tornò quindi di nuovo reale, dandogli la conferma circa la sua essenza.
Sollevò il viso, che si deformò in una smorfia di soddisfazione, raggirato dal suo stesso inganno.
Così proseguì nel suo buio e lugubre castello, lieto di riprendere in mano la partita e di vivere quel personaggio che era la sua realtà.
 
 
***
 
 
 
 
Casa delle bambole – corridoio del secondo piano
 
 
 
Claire corse fuori dalla stanza dove aveva assistito al massacro delle ‘bambole demoniache’ per mano di Alfred Ashford……..Alexia………o chi diavolo fosse!
Assordata dalle sue urla, così stridenti e isteriche che avevano perforato i suoi timpani fino a mandare la sua mente in panne. Sentiva ancora le sue orecchie fischiare e, se chiudeva gli occhi, poteva vedere nitidamente i suoi occhi di ghiaccio che si immobilizzavano impazziti, soccombendo in balia dell’orrore. L’orrore che per quell’uomo significava ricredersi sulle sue ragioni e vedere con i suoi occhi la sua pazzia.
Il biondo infatti perdeva la ragione quando qualcuno osava mettere in dubbio quello in cui lui credeva, mostrandogli quanto ingannevole fosse la sua esistenza.
Era una mente fragile e instabile, ma troppo perversa per essere guarita.
Quell’uomo, adesso vestito da donna, l’aveva stretta fra le sue braccia, a modo suo proteggendola dai non-morti vestiti da bambole che si avvicinavano a lei pronti a divorarla, ed aveva sparato mettendosi dalla sua parte.
Tuttavia il suo gesto non era stato volto ovviamente a difenderla. Egli aveva voluto godere di quel massacro, uccidendo quei ‘mostri’ davanti ai suoi occhi, proprio per dimostrarle quanto fosse immenso il suo potere e la sua crudeltà.
Doveva fuggire, andare via da lui!
Ogni minuto che passava faceva vacillare sempre di più la sua mente e non poteva permettersi un esaurimento nervoso; quello che stavano vedendo i suoi occhi era troppo.
Troppa violenza, troppa tortura psicologica, troppa indifferenza verso la vita…
Non ne poteva più, desiderava ardentemente uscire da quella casa e svegliarsi da quell’incubo tremendo.
Mentre correva, con quelle immagini ancora impresse nei suoi ricordi, improvvisamente i suoi piedi sprofondarono nel pavimento, andandosi a incastrare nella superficie legnosa oramai deteriorata dal tempo.
Maledizione!
Quella casa era in uno stato di conservazione così malandato che una porzione era addirittura crollata!
Caduta violentemente a terra, la rossa sentì le sua mani graffiate e impolverate pulsare violentemente. Subito cercò di rimettersi in piedi, ma la storta era stata più dolorosa di quanto immaginasse. Si sforzò comunque di togliere il piede da quella fessura legnosa e acuminata che la teneva incastrata.  Sbirciando distrattamente dalla porzione di legno ceduta, un’ombra oscura attirò la sua attenzione.
Sbatte gli occhi, confusa.
C’era…una presenza sotto di lei, al piano inferiore?
Due occhi feroci la fulminarono tempestivi ergendosi dal buio della stanza sottostante. In seguito qualcosa di molliccio, enorme e dalla forza inumana, emerse da quella superficie riducendo in frantumi la pavimentazione.
Il buco che prima aveva incastrato il suo piede si trasformò in una voragine e quel che si parò davanti a lei fu una figura mostruosa da lei già conosciuta.
Il Bandersnatch.
Non sapeva perché quel mostro fosse chiamato così. Sapeva soltanto che quel nome era citato in uno dei racconti di Lewis Carroll, “Throught the looking-glass”, ove quella creatura spaventosa non era mai stata descritta nel dettaglio apparendo come una figura spaventosa e inafferrabile. Probabilmente quindi era per questo che quel mostro dell’Umbrella era stato chiamato così!
Le sue sembianze erano infatti indescrivibili.
Appariva come una massa informe di un colore giallognolo, di una consistenza quasi gelatinosa; la sua pelle muscolosa era come afflosciata, scivolava dalle ossa ammucchiandosi solo su alcuni punti creando delle dimensioni assurde sul suo corpo.
Egli possedeva un busto gonfio ed enorme, un braccio elastico e sproporzionalmente lungo rispetto la  corporatura; in compenso la sua testa era piccolissima e lo scheletro s’intravedeva da sotto la pelle.
Le sue gambe erano deformate e gli impedivano una buona mobilità. Tuttavia la sua lentezza era solo apparente, aveva imparato Claire a sue spese.
Questo perché il lungo braccio provvisto di artigli affilati, permetteva al bandersnatch di saltare da una parte all’altra di un qualsiasi ambiente, sfruttando l’agilità del suo corpo elastico.
La Redfield osservò sgomentata quella figura, preoccupata dal fatto di non essere equipaggiata in nessun modo per fronteggiarlo.
Si guardò velocemente attorno, cercando la prima scappatoia utile, ma non avendo ancora esplorato il secondo piano di quella casa maledetta non sapeva proprio dove andare, a parte la direzione opposta a dove era stata con Alfred.
A tal proposito, dove era finito? Possibile che quei rumori non l’avessero attirato?
Non sperava certo in una sua apparizione improvvisa, tuttavia in quel caso il suo fucile avrebbe potuto farle comodo visto che sicuramente l’avrebbe usato per difendersi. A quanto pareva però, doveva essersi distanziata da lui molto più di quanto avesse immaginato, oppure chissà…magari non era venuto di proposito proprio per lasciarla in quella situazione di pericolo.
Digrignò i denti, questo mentre indietreggiava lentamente ma con passo deciso, speranzosa di seminare quel nemico e di evitare di combattere contro di lui.
Il bandersnatch però non sembrava delle medesime intenzioni. Questi infatti caricò verso di lei e con uno strappo improvviso estese il suo possente ed elastico braccio.
Claire si abbassò tempestivamente, raccogliendo il capo fra le mani e accasciandosi in ginocchio, evitando così che il mostro le afferrasse il cranio fino a triturarlo.
Al suo posto, il nemico acchiappò fra le sue dita muscolose un’altra presenza fisica posta alle sue spalle. La rossa si girò in tempo per osservare quella scena, nella quale il bandersnatch stringeva fino a schiacciare definitivamente la testa di un non-morto che era a pochi metri da lei.
Quella casa era infestata in modo preoccupante, rifletté, ed un’altra fra le tante cose che la inquietavano fu vedere come quei mostri sapessero muoversi in modo veramente silenzioso. Tant’è che non si era nemmeno accorta di quella seconda presenza ostile.
Vide lo zombie, sempre vestito come una marionetta, quasi ululare di dolore.
Egli tendeva ancora le sue braccia davanti a sé, come se persino nel momento della morte il suo unico desiderio fosse di mangiare la sua preda.
Questi non si rendeva conto che invece stava morendo, oppure sì?
Fatto stava che Claire non potette in nessun modo scostare il suo sguardo impietrito da quell’immagine violenta, in cui gli occhi spenti e mucosi di quel non morto cominciavano a sgorgare sangue ingrossandosi sempre di più; questo fino a quando un raccapricciante rumore osseo non fece presagire l’imminente collasso del suo cranio.
Delle leggere insenature rosse cominciarono a disegnare il suo volto raggrinzito, finché infine si sgretolò sonoramente sotto i suoi occhi, sostituendosi spaventosamente ad un fiume di sangue che schizzò verso l’alto macchiando l’intera parete.
La giovane assistette ad un’anteprima di quello che sarebbe potuto succedere anche lei, se quel mostro l’avesse avuta fra le sue grinfie. Questo fece crescere in lei una motivazione ancora più forte, che la spinse a lottare con tutte le sue forze per togliersi dai pasticci.
Quando il bandersnatch fece tuttavia per ritirare il suo braccio, la donna non poteva aspettarsi che invece questo l’avrebbe diretto prontamente contro di lei.
Le diede, infatti, una sberla così energica che la rossa si ritrovò sbattuta contro la parete senza nemmeno essersene resa conto. Alzò il viso dolorante, trovandosi stesa a terra, e si accorse che il mostro l’aveva colpita talmente forte da aver abbattuto la parete!
In verità la casa già deteriorata quindi quel colpo non fece male come sembrava, per sua fortuna. Impolverata, graffiata e con le macerie sotto la sua schiena, scostò da sé l’intonaco crollatole addosso, questo mentre la b.o.w. si appropinquava lenta verso di lei.
La giovane esaminò la stanza al volo, realizzando che non sarebbe fuggita facilmente da quel mostro. Doveva almeno spaventarlo o trovare un modo per farlo allontanare; non sperava di riuscire ad ucciderlo, non aveva alcuna arma con sé, non ce l’avrebbe mai fatta.
La sua unica speranza era quindi almeno quella di ricavare tempo e metterlo in fuga.
Il fuoco….
Il fuoco era il suo punto debole.
Ricordava le frecce infuocate che aveva usato a Rockfort contro di lui. Se con una comune pistola da 9 mm riusciva ad abbatterlo solo dopo un’intera ricarica, con le frecce di fuoco ne bastavano solo tre ben piazzate.
Ma non c’era del fuoco vicino a lei, il suo accendino a parte. Cosa poteva escogitare in quel momento, quindi?
Ci voleva qualcosa che prendesse velocemente fuoco, come una tanica di benzina, o un qualcosa del genere!
Scrutando quella stanza come se vi riponesse la sua intera speranza di vita, esaminò in meno di dieci secondi ogni possibile oggetto o liquido infiammabile.
Era una stanzetta molto comune: vi era un letto ampio e decorato, una piccola scrivania con una libreria a fianco, un mobile ed infine una porta ingrigita dalla muffa, probabilmente quella di un bagno privato.
Subito Claire si fiondò contro quest’ultima, spalancandola con veemenza, mettendo a soqquadro il suo interno.
Fu inquietante quando vide il manichino di una donna, svestito, infilato dentro la vasca da bagno, sistemato come una persona che si sta lavando, con tanto di braccio teso e spugnetta colorata in mano.
Quella camera era quindi…di quella bambola?
Frugando in prossimità dello specchio, trovò un’ampolla di vetro.
Era pieno un po’ più di metà, forse si trattava di un profumo, dedusse dalla sua forma tondeggiante. Come un colpo di fulmine, ricordò che i profumi erano a base di alcool quindi erano infiammabili!
La boccetta non conteneva liquido a sufficiente da poter fronteggiare il mostro alle sue calcagna, ma poteva bastare per guadagnare almeno un po’ di tempo.
Tornò dunque verso l’ingresso della stanza, trovandosi così di fronte la massiccia e poderosa figura del bandersnatch che intanto stava avanzando lento verso di lei.
Questo la scrutò da capo a piedi attraverso i suoi occhi assassini che fuoriuscivano da sotto la pelle grumosa e collassata, pronto per il suo attacco, quando la tenace Redfield gli buttò contro la boccetta di profumo, riversandogli addosso il suo contenuto.
Il vetro si frantumò e bagnò quell’essere all’altezza del viso, colando poi anche sulla parte superiore del busto.
Il colpo era andato a segno! Quei punti, dopo una brutta scottatura, avrebbero fatto abbastanza male; nella sua posizione non molto avvantaggiata, era accaduta almeno la prospettiva migliore.
Così la ragazza accese anche l’accendino e glielo lanciò contro.
L’arnese godeva dell’utile meccanismo che gli permetteva di rimanere acceso senza dover tenere premuta la rotella per innescare la scintilla, quindi per fortuna poteva evitare un impatto fisico col nemico.
La bestia così prese fuoco.
Delle fiamme s’irradiarono sul suo torace nello stesso istante in cui l’accendino lo sfiorò.
La b.o.w. si contorse per diversi secondi, annerendosi leggermente sul viso, tuttavia sembrò abbastanza addolorata da dimenticarsi quasi di Claire in quel momento, il che andava più che bene.
La giovane sapeva che non avrebbe mai potuto sconfiggerlo in quel modo, tuttavia quello poteva essere un valido mordi e fuggi, sperava. E fortunatamente… aveva dato i risultati sperati.
Il bandersnatch a un certo punto sembrò così infastidito da quell’attacco che, come un animale cui è stata scagliata una pietra, si dileguò scappando attraverso la finestra lasciata aperta.
Mosse il suo braccio elastico e si arrampicò fuori, verso l’alto, probabilmente raggiungendo il tetto; comunque sia sparì dalla sua vista in men che non si dica, liberando così Claire dalla sua ostile presenza.
Istintivamente Claire si affacciò per seguire le sue movenze, la via era nuovamente libera. Affacciata a quella finestra, la ragazza vide di nuovo dinanzi a sé l’ambiente buio precedentemente varcato prima di entrare nella Casa delle Bambole. Era strano osservare da una finestra un luogo chiuso invece di un cielo diurno/notturno. Da quanto effettivamente non vedeva il cielo?
Si fermò qualche istante a guardare quell’atrio. Strinse gli occhi, sentendosi sempre più oppressa in quella casa a ‘matriosca’, che celava un’infinità di ambienti al suo interno e dai quali non riusciva a trovare una vera via d’uscita.
Ispirò ricordando a se stessa quello che già si ripeté all’epoca della sua liberazione da Alfred, all’inizio di quell’avventura:
 
Un passo per volta…..un problema alla volta….come un’equazione matematica….
Non doveva lasciarsi sopraffare da quel senso di smarrimento o sarebbe finita.
 
Chiuse quindi la finestra, per sicurezza, tornando sui suoi passi.
Claire sapeva che si sarebbe imbattuta ancora in quel mostro, ma almeno al momento aveva guadagnato tempo. Esattamente quello che voleva.
Doveva appropriarsi di un’arma quanto prima, era un elemento fondamentale oramai, dato anche come era infestata quella zona della villa. Non avrebbe sempre avuto la meglio, ne era più che consapevole alla luce dell’infelice esperienza accumulata in quel gioco meschino di sopravvivenza, in cui per vivere era necessario uccidere…e soprattutto essere pronti a farlo, subito, prima degli altri.
Uscita dalla camera da letto, guardò il corridoio collassato. Ormai non poteva più tornare indietro, nemmeno volendo.
Una discesa verso il piano inferiore non era impossibile, ma non era fruttuoso per le sue indagini. Non aveva senso compiere quello sforzo.
Ancora una volta, non poteva che andare avanti, quindi.
Puntando lo sguardo verso il lato integro del corridoio, invece, vide il corpo oramai spappolato dello sfortunato zombie che era stato colpito al suo posto dal bandersnatch.
Una pittoresca scena macabra aveva adesso dato un volto a quel luogo malato, dipingendolo con il colore che più si addiceva a quell’ambiente regnato dalla perversione e dalla morte.
La sua testa ridotta in frantumi, le sostanze organiche che colavano e poi il sangue…tantissimo sangue che macchiava la pavimentazione, così come la parete e persino parte del soffitto.
Era come se fosse caduta a terra un’intera botte di vino che aveva inesorabilmente imbrattato la zona circostante con il suo colore intenso.
Fu un’immagine orribile da vedere…spaventosa.
Vedere quel corpo esamine, seppur appartenente ad una b.o.w. , non potette non far raccogliere in un attimo di costernazione l’animo della giovane Claire, suo malgrado abituata a quel tipo di massacro. Abbassò il capo, dopodiché procedette, scavalcando quella carcassa insanguinata.
 
La porta che ritrovò davanti a sé era chiusa, ma facilmente apribile.
Essa, infatti, era visibilmente danneggiata, tant’è che poteva vedere al suo interno per via delle numerose fessure presenti sulla superficie.
Delle spranghe erano inchiodate su di essa, ma magari dosando la forza giusta poteva essere persino capace di abbatterla.
Esaminò prima il suo interno, per capire se ne valesse la pena.
Affacciandosi, scorse delle presenze lì dentro, ma sembravano inanimate. Probabilmente erano le stesse bambole giganti che aveva visto in giro per la villa.
Vedeva una tenda ondeggiare, la quale con il suo candore creava un effetto spettrale a tratti suggestivo a tratti spaventoso.
L’idea però che potesse esserci uno spiraglio dal quale passava quel vento le bastò come motivazione per provare ad entrare. Così raccolse le sue energie e con una serie di calci e spinte buttò giù quella fragile porta.
Il legno si piegò dopo una decina di colpi, sfibrandosi e permettendo a Claire di tirarlo via.
Esso era più resistenze di quanto sembrasse, così per passare la rossa dovette stringersi nel varco appena creato, graffiandosi per via delle sporgenze acuminate del legno.
Riuscì comunque a rimanere abbastanza illesa.
Prese di nuovo l’accendino dalla tasca, recuperato ovviamente dopo la colluttazione col bandersnatch, e scrutò la stanza.
Era un salottino arredato in modo ordinario, da manuale.
Divanetto, cristalliera, tavolo al centro ricoperto da una tovaglia fatta all’uncinetto, vasi con fiori…sì, il tipico ambiente da casa delle bambole, dove prendere il tè.
Si avvicinò alle bambole che arredavano quel luogo. Una era poggiata di fianco del divano, un’altra in prossimità della finestra.
Entrambe erano vestite come due dame, con degli ampi abiti vaporosi e pieni di fronzoli. Non avevano però nulla di strano rispetto quelle già viste in precedenza.
La ragazza avanzò verso il divanetto, facendo scorrere il suo sguardo sul tavolino basso posto di fronte.
Esso era vuoto salvo per alcuni fogli di carta, i quali attirarono la sua attenzione.
Erano come fotocopiati, inoltre il logo dell’Umbrella era visibile sull’angolo in alto. Forse Alfred se li era procurati di nascosto, chissà…
Ma era anche vero che aveva detto di essere un comandante, sebbene abbigliamento a parte, nulla le facesse vedere in lui un vero soldato.
Egli era fin troppo eccentrico per essere identificato come tale.
Rimase sconcertata quando lesse le parole di quel documento:
 
 
 

Name: Alfred Ashford
Gender: M
Born: 1971
Occupation: U.T.F. (Umbrella Training Facility) commander
 
Gent.mo --------- ,
(il nome era stato cancellato in modo indelebile ed era oramai indecifrabile)
 
sono costernato di doverla rendere partecipe della seguente spiacevole situazione, tuttavia reputo ciò necessario dati i recenti accadimenti che stanno mettendo in pericolo la sussistenza della nostra azienda.
Come da lei ordinatomi, sono andato a far visita al discendente di Alexander Ashford, per assicurarmi sugli sviluppi della ricerca. Sotto mentite spoglie mi sono mischiato tra i soldati, dottori e i vari operai, ho così potuto osservare al meglio la situazione.
I nostri timori purtroppo hanno avuto conferma.
Oramai il signor Alfred Ashford, comandante delle basi dell’isola di Rockfort e dell’Antartico, rappresenta solo un intralcio per l’Umbrella inc. .
Egli è solo un insignificante dittatore che usa le nostre basi per dare sfogo alla sua evidente instabilità mentale, nel tentativo di emulare una grandezza a lui impossibile da raggiungere.
Non possiamo più aspettarci nulla dalla famiglia Ashford, è finita oramai.
Dobbiamo sbarazzarci di lui.
L’unico punto interessante di questa esperienza che voglio portare alla sua attenzione è stato quando ho sentito parlare la servitù circa la signorina Alexia.
Parlavano di lei come se fosse sopravvissuta….
Mi chiedo se sia vero, sebbene io stesso non l’abbia mai vista di persona.
E’ come se lei fosse un fantasma….è difficile da spiegare. Non sono impazzito, nonostante ciò che ho visto ne giustificherebbe ampiamente le cause.
Le invio questa lettera che riassume i punti salienti che saranno trattati nel mio rapporto, consapevole della gravità della situazione e dell’urgenza di agire. Solo per questo mi sono permesso di disturbarla.
 
Cordiali saluti,
----------------------
(il nome era stato cancellato in modo indelebile ed era oramai indecifrabile)

 
 
 
Claire allontanò quella lettera dal viso, appoggiandola delicatamente sul tavolino di vetro, con lo sguardo corrucciato, colmo di punti interrogativi.
Quelle parole giustificavano finalmente perché il biondo non facesse che ripeterle per chi lavorasse e se fosse stata lei ad attaccare la sua base.
Era chiaro…i suoi stessi ‘simili’ si erano ritorti contro di lui e lo consideravano una minaccia per via della sua evidentissima dissociazione mentale.
Era sotto la luce del sole che qualcosa a livello psichico non andasse in lui e di questo se ne era accorta anche l’Umbrella.
Si chiedeva che cosa avrebbe potuto pensare una mente instabile ed estremamente fragile come lui nel leggere parole simili, molto offensive nei suoi riguardi.
Osservò quel foglio e notò le piegature poste nella metà inferiore, dove solitamente si afferra un documento quando lo si legge.
In quel punto era leggermente accartocciato, come se qualcuno lo avesse stretto con rabbia ed il sudore avesse notevolmente sciupato la carta.
Alfred aveva quindi letto quelle parole…e doveva essersi arrabbiato molto.
Sebbene Claire comprendesse quei commenti e li condividesse ampiamente, anche se non nell’ottica utilitaristica dell’Umbrella, sentì il suo cuore stringersi.
Una parte di sé aveva avuto modo di conoscere i suoi disturbi e le sue paranoie, così inevitabilmente adesso lei era in grado di vedere oltre la pazzia che lui manifestava.
Riusciva a vedere la sua solitudine, il suo dolore, la sua immensa agonia.
Non era nemmeno immaginabile per lei l’idea di giustificarlo o compatirlo, figuriamoci quindi difenderlo!
Che fosse solo un dittatore disumano e deviato, come lo definiva quel documento, era un dato oggettivo e indiscutibile.
 
Eppure…
Eppure sentiva che non era giusto.
 
Trovò triste costatare che nella vita di Alfred ancora una volta ‘l’unica cosa che avesse importanza’ fosse solo qualcosa circa la misteriosa Alexia.
Persino quel foglio riteneva degno di nota esclusivamente quella notizia, circa la sorella gemella del biondo.
Possibile che Alfred fosse sempre destinato a essere secondo?
Non solo… lui non era mai nemmeno degno di qualsiasi attenzione, per via di una sorella dal genio a lui inequiparabile.
Si chiese se una parte di lui detestasse Alexia.
Al posto suo, Claire si sarebbe sentita molto ferita dall’essere ignorata in quel modo.
 
A quel proposito, fece caso che quel rapporto parlava della presunta “sopravvivenza di Alexia”.
Un momento…allora questo voleva dire che esisteva un’Alexia!
Però…però era morta, a quanto sembrava.
Le sue labbra rosse si deformarono. Portò una mano su di esse, facendosi pensierosa.
 
Alexia era quindi morta…
 
Ecco perché Alfred, che l’adorava quasi come una divinità, era impazzito. Doveva aver subito un fortissimo trauma…
S’intristì a quel pensiero.
Perdere un parente cui si è così affezionati doveva essere terribile.
Si domandò se fosse possibile aiutarlo, solo che non avrebbe mai saputo come approcciarsi a lui. Era una questione così delicata…
Inoltre lui aveva manifestato reazioni del tutto spropositate e fuori dalla normalità umana.
Eppure aveva a cuore quella situazione, perché in fin dei conti…lei poteva capirlo.
Claire aveva un fratello al quale voleva immensamente bene e lui rappresentava la sua unica famiglia.
La prospettiva che Chris potesse essere morto in quell’inferno che aveva distrutto le loro vite era un qualcosa che nemmeno immaginava, lei che da mesi lo stava ancora cercando senza avere sue notizie.
Poteva quindi capire l’ossessione di Alfred, sebbene da un punto di vista diverso.
Però comprendeva quel tipo di dolore…
 
Il dolore di sentirsi soli…
…e di preferire l’illusione, la speranza, pur di credere che fossero vivi da qualche parte.
 
Scosse la testa, frenando i suoi occhi inumiditi che si erano riempiti di lacrime alla sola idea che non avrebbe mai riabbracciato Chris.
Lui…lui era vivo. Ne era certa. E sarebbe venuto per salvarla.
Lo aveva letto a Raccoon City. Lui era stato in Francia di recente e stava indagando sull’Umbrella.
Chris aveva lasciato delle tracce. Era sopravvissuto e si sarebbero ricongiunti un giorno.
 
Per non farsi prendere troppo dalle emozioni, Claire decise di tornare alle sue indagini.
Decise di avvicinarsi alla tenda immacolata che ondeggiava in quella stanza, in modo da costatare cosa la facesse fluttuare. Dopotutto era entrata in quella stanza proprio perché attirata da questo particolare, magari vi era una via d’uscita lì dietro.
Quando fece però per scostarla, improvvisamente il rumore di qualcosa sbattuto violentemente a terra la fece trasalire.
Guardò tempestivamente dietro di sé e vide che la bambola posta a fianco del divano era…sfracellata?
C…cosa era successo?
Essa era crollata rovinosamente a terra, rompendosi all’altezza della testa, di cui una buona metà adesso era solo cocci di porcellana sparsi in giro.
Rimase a guardare da lontano, cercando di capire cosa l’avesse fatta cadere, quando un audio si propagò nella stanza.
 
“Claire…? Claire? Mi senti? Sono qui.”
 
La voce di Alfred fuoriusciva da qualche parte vicino la marionetta rotta; la ragazza fu restia nel decidere se avvicinarsi o meno, tuttavia la sua curiosità ebbe la meglio dunque mosse qualche passo nella sua direzione stando ben in guardia.
Notò con sgomento che c’era una sorta di piccolo oggetto meccanico fra i frammenti della bambola.
Era stato nascosto al suo interno e…un attimo. Era una telecamera!
Quella bambola allora era…una telecamera?! Anche le altre presenti nella Casa delle bambole lo erano…?!
Che diavolo significava?!
Subito trasalì, ricordando quando si era avvicinata con fare impietosito al manichino di Alfred Ashford qualche minuto prima, quando era appena salita al secondo piano di quella casa.
Si sentì presa alla sprovvista ed il panico l’assalì di colpo.
Alfred la spiava davvero in modo così subdolo?
Si sentì fuori di sé fino a divenire paonazza.
Una parte di sé era imbarazzata di fronte la prospettiva che lui avesse potuto vederla in quella circostanza, nella quale lei aveva dolcemente accarezzato la sua veste militare alla ricerca di una comprensione dietro il vuoto incolmabile dei suoi occhi.
Mentre era presa da tali contrasti interiori, intanto il mentecatto signore di quel castello continuò a parlare.
 
“Allora Claire, hai trovato la telecamera sì o no?”
 
Disse infastidito, vedendo dalla sua prospettiva la ragazza muoversi confusa fra quelle macerie.
Dalla sua posizione privilegiata, poteva ammirare indisturbato le gesta della sua prigioniera.
Fu assolutamente delizioso per lui vedere quel distruttivo terrore nei suoi occhi, così lontani dal mondo che lui conosceva.
Era qualcosa che più passava il tempo, più non poteva fare a meno di contemplare con estremo divertimento.
La Redfield intanto prese fra le mani quel dispositivo elettronico e, roteandolo dall’altro lato, vide finalmente uno schermo, il quale ritraeva la figura di Alfred accomodato su una scrivania.
La sua mano sorreggeva il suo capo annoiato, sul quale era ancora collocata quella ridicola corona da re.
 
“Hai ancora addosso quella?”
 
Lo punzecchiò Claire, assumendo un’espressione di disapprovazione. Alfred rise.
 
“Non ti piace proprio, allora. Un vero peccato perché io invece l’adoro.” sospirò. “Pazienza…non ci possono piacere le stesse cose. Siamo molto diversi Claire, purtroppo.
Sei una ragazza intraprendente e molto caparbia, sono cose che mi piacciono di te. Però devi ancora capire qual è il tuo posto. Tuttavia ti vedo restia a voler comprendere.
Hai portato troppo scompiglio nella mia base ed io ho già molti problemi per la testa.
Quindi…niente. Devo ucciderti.
Non posso avere rogne, sebbene il tempo che stiamo passando assieme non sia esattamente sgradevole.
Ero alquanto annoiato prima che venissi.”
 
Disse scuotendo la testa con l’atteggiamento di un padre costernato di dover prendere decisioni difficili.
Fece spallucce, sottolineando il suo non avere molte alternative, poi si incurvò verso lo schermo e congiunse le mani sull’addome, puntando il suo sguardo sulla giovane. 
La reazione di Claire intanto non tardò a venire. Aveva fatto le ossa con quel tipo di condotta oramai.
 
“Oh, quindi ci sono cose che ti piacciono di me, non mi dire.” rise velatamente. “Beh, io posso dire una cosa che non mi piace, ed è quella corona. Toglitela e magari riaffrontiamo l’argomento un giorno.”
 
“Ah,ah,ah…”
 
Sorrise sotto i baffi Alfred, divertito quando interloquiva con lei. Quei battibecchi, finché non degeneravano, avevano un che di…intrigante.
 
“Sei un tipo interessante, Redfield, ma con questo non fraintendere. Ho dei doveri e tu sei d’intralcio. Dimmi un po’, preferiresti che ti uccida io o mia sorella? Se vuoi, posso tenere conto della tua opinione.”
 
“Siamo di buon umore allora.” scherzò lei mettendo una mano sul fianco. “Prima di tutto devo farti i miei complimenti per come porti i tacchi, Alfred. Nemmeno io ci cammino così bene.”
 
“Cosa insinueresti, Redfield?! Non credo di aver sentito!”
 
Scattò in piedi lui, sbattendo violentemente una mano sulla scrivania.
Da un atteggiamento rilassato e più disinvolto, adesso i suoi occhi trasmettevano una furia omicida che poteva leggersi anche attraverso quel piccolo monitor fra le sue mani.
Claire strinse gli occhi, consapevole che dicendo quella frase l’avrebbe fatto uscire allo scoperto. Ma farlo reagire era l’unico piano che aveva per tenerlo a bada e magari riuscire a interagire con lui.
 
“Non voglio farti innervosire, ma devi farmi uscire da questo posto. Io non c’entro niente. Non sono io il tuo nemico.
Ho…ho capito quanto questa situazione sia difficile per te, ma io non posso subire in eterno le tue angherie.
Dove mi trovo? Cosa è successo quella notte, dopo che io e Steve prendemmo l’aereo?
Devi dirmelo…non possiamo continuare in questo modo.”
 
Il biondo Ashford morse le labbra non riuscendo a trattenere la sua collera di fronte la sfrontatezza della ragazza che in realtà stava cercando di parlargli col cuore in mano.
Lei davvero aveva provato a illustrargli la sua situazione e a trattarlo come una persona civile…tuttavia sembrava non avere senso approcciarsi a lui con un modo di fare ragionevole.
Alfred Ashford era oramai lontano da quel tipo di comprensione.
Egli vedeva solo minacce, ovunque, oramai imbrigliato nella sua prigione di follia.
 
“Ah, sì? Non puoi più continuare?! Bene, allora poniamo direttamente fine a tutto questo!!”
 
Urlò fuori di sé, allungando il braccio verso il suo monitor che si spense interrompendo quella comunicazione.
 
“Cos..! Alfred!!” disse Claire sconvolta. “Maledizione, ha chiuso.”
 
Concluse dopo aver cercato di accendere quell’apparecchio senza ottenere alcuna reazione.
Ancora una volta cercare di parlargli era stato assolutamente inutile.
Certo, anche lei poteva essere più ‘carina’ con lui, ma non poteva fingere fino a tal punto dopo ciò che le stava facendo passare. Era già tanto che avesse almeno provato a parlargli.
Scosse la testa, capacitandosi sempre di più di come fosse ardua quella situazione. Doveva cavarsela da sola, non c’era alternativa.
Si rimboccò le maniche e tornò a scrutare la tenda.
Trovò ambiguo quando, scostandola, notò che non c’era nessuna finestra lì dietro. Si chiese perché collocare una tenda su una porzione di muro sprovvista di balconi o qualche altro infisso per aerare la stanza.
Ma soprattutto, se non c’erano varchi, lo spiffero che la faceva ondeggiare da dove proveniva?
Si piegò ponendosi più vicina e sentì qualcosa soffiare sul suo viso. Non si sbagliava, qualcosa da cui passava l’aria era nascosto lì dietro.
Effettivamente, aguzzando l’occhio, c’era una piccola spaccatura sul muro. Non l’aveva notata prima perché si confondeva con l’intonaco ammuffito e deteriorato.
Picchiettò con le dita e l’eco del rintocco confermò l’ipotesi che qualcosa fosse nascosto dietro il muro.
Si guardò attorno, cercando un qualsiasi arnese da imbracciare e usare per far crollare quella porzione di parete.
Vide una lampada da terra; era leggera da prendere in mano, ma abbastanza massiccia da non spaccarsi. La prese quindi e la utilizzò per tamburellare il muro che si sbriciolò dopo pochissimi colpi.
Rimise a posto l’oggetto e si avvicinò alla crepa appena aperta.
Era come un camino murato ed al suo interno vi era una cassetta di legno. Sembrava molto vecchia, chissà da quanto era lì?
La chiave era ancora incastrata nella fessura.
Una volta aperta, però, la delusione si disegnò nei suoi occhi.
Dentro non vi era nulla, se non l’ennesima e inutile bambola di porcellana, stavolta però a grandezza normale, circa quaranta centimetri.
Ella aveva dei meravigliosi capelli rossicci, ricoperti da un cappellino bianco decorato con del pizzo. Anche il suo vestito era candido ed era conservato in modo perfetto a differenza della scatola di legno malandata dentro cui era stata riposta.
Aveva un viso veramente stupendo.
Le bambole di quel genere, solitamente, avevano un viso inquietante, spesso inguardabile sebbene i loro dettagli e i ricami sui loro vestiti distogliessero l’attenzione da tale dettaglio.
Questa invece aveva un’espressione rassicurante, dolce, soave…sembrava un angelo.
La girò in modo da scrutarla per bene e fu allora che un biglietto scivolò da essa.
 
“Alla mia cara Alexia,
per il tuo compleanno.
Tanti auguri,
 
Alfred”
 
Quella bambola era quindi un regalo di compleanno di Alfred per Alexia.
Perché era murata allora?
Forse era un ricordo prezioso che conservava gelosamente?
Dal tipo di calligrafia, a scrivere quel bigliettino doveva essere stato un bambino di cinque o sei anni al massimo. Seppure fosse una grafia molto raffinata per essere quella di un ragazzino.
Roteò il biglietto fra le mani e notò che dietro erano impressi dei numeri: 1-12-5-24-9-1
Era un codice? Una combinazione? Cosa poteva essere?
Forse era il caso portare quel bigliettino con sé, non si sapeva mai.
 
Una volta appurato che non vi fosse null’altro nella scatola di legno, scrutò un’ultima volta in quella rientranza alla ricerca dello spiffero dal quale fuoriusciva quella lieve corrente d’aria, non accontentandosi di aver trovato solo una bambola lì dentro.
Pigiando sulla base di quel caminetto, alla ricerca di un foro o qualcosa di simile, scoprì qualcosa finalmente.
Notò, infatti, che il fondale murato traballava in modo anomalo e si accorse così che era solo una tavola di legno.
Non era né fissata né incollata, era semplicemente poggiata lì davanti per dare l’impressione di essere un passaggio chiuso.
Invece quel camino murato era un vero e proprio varco che affacciava in un’altra stanza.
Spostò quindi la tavoletta di legno e strisciò al suo interno.
Era abbastanza ampio perché una persona singola ci passasse.
Una volta dall’altra parte, si ritrovò all’interno di una stanza matrimoniale.
Spiccavano l’enorme baldacchino rivestito da dei teli trasparenti, che donavano un aspetto etereo a quella stanza; un barlume rossastro di un camino acceso che riscaldava l’ambiente con le sue scintille calde e confortevoli; infine una sedia a dondolo di legno chiaro che oscillava dolcemente, sulla quale si cullava una giovane donna vestita di viola che sembrava sussurrare una lenta canzone fra sé e sé, in balia dei suoi sogni e dei suoi ricordi.
Anche se le rivolgeva la schiena, poteva quasi vederne il volto vuoto e spento, raccolto nei proprio personali pensieri.
Claire si sollevò da terra e si avvicinò, riconoscendo la figura di Alexia.
Stranamente nessuna delle due era in guardia. La bionda sembrava essersi perfettamente accorta della presenza della ragazza dai capelli rossi, eppure era immobile, non compì alcun gesto né le rivolse alcuna parola.
La Redfield s’insospettì così si pose di fronte a lei; a quel punto si accorse che, fra le sue braccia, la glaciale regina della famiglia Ashford sorreggeva il manichino di Alfred, suo fratello gemello, lo stesso che aveva visto nella prima stanza che aveva visitato del secondo piano.
Questi aveva il capo sistemato sul suo grembo ed era collocato in ginocchio ai suoi piedi. Era come se quel fantoccio si fosse abbandonato ai suoi sentimenti, abbracciando la sua rimpianta sorella, la quale adesso accarezzava il suo capo dolcemente.
Anzi…l’immagine che suscitava quel quadretto familiare era un’altra, ripensandoci.
Era infatti Alfred che, travestito da Alexia, stava alleviando le sue stesse pene fingendosi sua sorella e facendo a se stesso quello che bramava: una tenue carezza, un piccolo e dolce gesto di affetto, ricevuto dalla donna che desiderava.
Tuttavia non avrebbe mai trovato la felicità in quel modo…
‘Alexia’ muoveva le sue labbra sussurrando delle parole incomprensibili per via del tono estremamente basso.
Forse lo stava consolando, chissà.
Quello sguardo assorto le mise i brividi.
Alfred era come ipnotizzato, come se si fosse isolato dal resto del mondo ed adesso non esisteva nessun’altro se non lui e Alexia.
Claire rimase a guardarlo per un po’, osservando il suo viso trasformato nella sua sorella gemella.
Una recita che, a quanto pareva, portava ancora avanti con grande convinzione.
 
“Cosa stai facendo?”
 
Disse non chiamandolo appositamente per nome. Qualcosa in quell’immagine l’aveva rattristata e non voleva umiliarlo e colpirlo ulteriormente. Era già visibilmente scosso di suo, non poteva farlo.
Alexia non alzò lo sguardo. Si limitò solo a sussurrare ancora fra sé.
Lentamente poi tra quei bisbigli cominciarono ad articolarsi delle frasi ed ella cominciò finalmente a parlare.
 
“…e tu cosa stai facendo, Redfield? Hai detto che ti sei stancata di giocare. Come vedi, ho qualcosa da fare in questo momento. Lui sta piangendo, ma io adesso non posso aiutarlo. Lui deve attendere ancora un altro po’ e poi farò ritorno, come promesso, ed insieme riavremo quello che ci spetta. Ci vendicheremo per quello che ci hanno fatto.”
 
“Cosa vi hanno fatto?”
 
“Non ti interessa. Anche tu sei come loro.”
 
“Non è vero. Non so a cosa ti riferisci ma…ma l’hai detto tu stesso.”
 
Claire si fermò.
Il suo cuore prese a palpitare.
 
“Io ho un fratello, un fratello che mi manca e sono tanto in pena per lui. E’ da mesi che non ho sue notizie. Quindi so cosa vuol dire essere soli.”
 
‘Alexia’ ascoltò attentamente quelle parole, ma sembrò totalmente apatica. Era come se oramai fosse incapace di comprendere il linguaggio umano.
Dopo tanta disperazione e solitudine, Alfred era oramai un essere abbandonato a se stesso.
Cresciuto in un mondo così duro e meschino, non sapeva più riconoscere la sincerità, l’affetto, il calore umano…non esisteva più nulla ai suoi occhi.
L’unica cosa che conosceva era il suo immenso amore per Alexia. 
Non sarebbe mai stato capace di riconoscere quel tentativo di comprensione da parte della Redfield, così lontana dal suo universo.
Claire guardò la sua figura con il viso corrucciato, delusa di non essere riuscita a interloquire con lui ancora una volta.
C’era qualcosa che bloccava la sua mente e gli impediva di ascoltarla seriamente.
Sul suo volto c’era qualcosa di strano. Era completamente alienato, come se non fosse davvero in quella stanza.
Cosa diavolo si nascondeva dietro i gemelli Ashford? Cosa rendeva così deviata e malinconica quella persona, davvero?
Intanto egli si cullava indifferente sulla sua sedia a dondolo, continuando ad accarezzare il capo del suo Alfred-fantoccio.
Claire a quel punto perse le staffe e si mise più vicina.
 
“Smettila di accarezzare quel manichino! Ti rendi conto che tu non sei Alexia e che quel pupazzo non è Alfred?! E’ tutto sbagliato, diavolo!”
 
La giovane Redfield pensò che un approccio più deciso potesse fare breccia dentro di lui, ma non valutò che anche il ragazzo potesse perdere la pazienza.
Egli, infatti, non appena Claire si appropinquò a lui, come un fulmine afferrò la sua testa, stringendola in una morsa dolorosa che costrinse la giovane a piegarsi su se stessa.
Fu uno scatto così impercettibile che la paura bloccò la sua mente per un istante. Non si era nemmeno resa conto di quando egli aveva allungato il braccio per acchiapparla.
Intanto la Regina si mise in piedi osservandola dall’alto in basso con disprezzo, stringendo il suo cranio sempre più forte.
Claire digrignò i denti e fece di tutto per divincolarsi dalla sua presa, ma ogni movenza fu inutile. Il suo cuore prese a battere forte, spaventata che quella fosse la sua fine.
Cominciò a mugugnare versi di dolore, tormentata da quella morsa che si faceva sempre più violenta, questo mentre la donna dagli occhi glaciali ed imperscrutabili formulava la sua atroce sentenza.
 
“Accontenterò il tuo desiderio: muori pure se vuoi.”
 
Fu l’unica cosa che seppe dire la bionda.
In seguito trascinò dietro di sé la ragazza, tirandola con veemenza. Claire sentì il suo intero corpo forzato a seguire la malevole donna. Puntò i piedi a terra, ma essi strisciarono ugualmente verso dove ‘Alexia’ la stava portando. Opporsi a lei fu del tutto inutile. 
Spaventata e con il cuore in gola, a un certo punto sentì una spinta che, con fare prepotente, la fece addirittura sollevare da terra.
Percepì un urto violento sulla sua schiena, ammortizzato tuttavia da qualcosa di molto morbido e compatto. Alexia la sbatté, infatti, sopra il letto a baldacchino che era posto al centro della stanza, con una veemenza che la rossa non potette contrastare in nessun modo.
Allo stesso tempo, la donna diabolica premette un telecomando e tempestivamente partì un rumore meccanico, molto simile a quello di un ascensore in movimento.
Frastornata, Claire si ritrovò seduta sulle morbide lenzuola, ma non fece in tempo a realizzare l’accaduto che il volto di Alexia sparì nel nulla; questo perché quel telecomando aveva fatto attivare un congegno che faceva sopraelevare il letto, conducendola ad un piano nascosto.
La Redfield si ritrovò catapultata in un nuovo meandro della villa, sotto il volere di ‘Alexia’ Ashford, ancora una volta.
 
 
 
 
***
 
 
 
 
Casa della Bambole
3° piano – passaggio segreto
 
 
Il letto matrimoniale a baldacchino saliva, saliva…dove sarebbe sbucato?
Claire strinse le mani sulle coperte, serrò le labbra e stette in guardia. Doveva essere pronta di fronte qualsiasi inghippo partorito dalla mente deviata di Alfred.
Lui…era pericoloso. Seppur folle ed emotivamente fragile, le aveva dimostrato più di una volta la sua immoralità.
Doveva stare alla larga da lui; egli, prima o poi, avrebbe perso le staffe ed allora per Claire sarebbe finita. Non poteva permetterlo.
Cercò di elaborare nella sua mente l’accaduto, in modo da ricordare a se stessa che doveva smetterla di porre così tanta speranza nel prossimo.
 
Esistevano persone…che non potevano essere guarire.
Ed Alfred era una di queste.
 
Lui stava bene nel suo piccolo mondo brutale e fittizio. Era felice forse di vivere quelle menzogne assurde e fingere che sua sorella esistesse, pur essendo lui stesso a impersonarla.
Egli godeva della sua avidità e della sua perversione, eccitato dall’idea del male, vivendo nella completa corruzione.
Aveva trovato il suo folle equilibrio e seppur la sua ragione vacillasse portandolo di tanto in tanto alla realtà, la rossa non poteva più mettere a repentaglio la sua vita.
Seppur fosse difficile per lei guardare solo a se stessa e alla sua sopravvivenza, doveva indurire il suo cuore.
 
Lui preferiva quella finzione……era ciò che aveva scelto.
 
Fu una consapevolezza che l’addolorò più di quanto lei stessa pensasse. I suoi occhi s’intristirono e un profondo malcontento abbuiò il suo volto.
Questo perché Claire ne aveva vissute tante…veramente tante.
Aveva condotto una vita felice e poi, in un giorno come un altro, la sua famiglia era morta quando era solo una bambina.
Si era ritrovata sola, ma poi si era risollevata ed era sopravvissuta anche a quello.
Sostenuta dalla complicità di Chris, aveva ripreso in mano la sua vita.
E poi, all’età di diciannove anni, aveva di nuovo perso tutto….
Quegli equilibri che aveva tanto faticato a ricostruire dopo quella tragica perdita che l’aveva segnata inesorabilmente, sparirono nel nulla. Suo fratello, amici, parenti….
Dopo il disastro di Raccoon City aveva perso i contatti con tutti coloro che conosceva e che davano senso alla sua vita.
Pochi mesi che avevano cambiato tutto, così…da un giorno all’atro… costringendola a cambiare e a combattere una guerra che mai avrebbe creduto potesse accadere davvero.
La paura che aveva animato e che animava ancora i suoi giorni, ma anche la grande determinazione che la spingeva ad andare avanti…erano un qualcosa che, a lungo andare, avevano fatto nascere una nuova Claire.
Lei stessa non si sarebbe riconosciuta guardandosi indietro.
In quella situazioni apocalittica in cui era stata circondata di crudeltà e morte, aveva dimostrato una forza d’animo che non credeva di poter avere davvero.
Doversi quindi arrendere ora, e limitarsi a scappare, scappare, scappare…era qualcosa che faceva a cazzotti con la sua sensibilità e con la sua voglia di dare a disposizione del mondo la sua esperienza e la sua forza.
Rinunciare era un amaro boccone da mandare giù, sebbene era fin dal principio che sapeva che non poteva fare niente per il biondo comandante di Rockfort island.
Era irrazionale anche solo pensare di capire quel mondo psichedelico. L’alternativa era solo quella di andare via da Rockfort, dal suo regno distrutto e malato.
Però…però una parte di lei ci pensava ogni momento.
Ci pensava dal primo istante quando, ancora travestita da Alexia, si era ritrovata il suo volto accanto. Quando aveva letto nei suoi occhi la disperata ricerca di un amore che aveva perduto.
Da quando aveva toccato con mano le sue ferite…
Non aveva voluto coinvolgersi, aveva cercato di limitarsi a scappare, ma non ci era riuscita.
Avrebbe ignorato tali riflessioni, tali pensieri contorti e psicologici, ma sapeva che una parte di lei si era oramai affacciata su quel mondo e bramava ‘capire’.
Doveva però farsene una ragione.
Doveva dimenticare la debolezza e la solitudine che aveva visto in quello sguardo.
Doveva sforzarsi di credere che ciò fosse non solo giusto, ma persino vitale.
Era vitale che lei scappasse da Alfred e dal suo palazzo.
 
Strinse gli occhi, dopodiché puntò lo sguardo dinanzi a sé, questo mentre il letto raggiunse il piano superiore, cessando di muoversi finalmente.
La rossa stesse qualche istante ancora seduta sulle coperte.
Studiò l’ambiente prima di proseguire, ma non c’era niente su cui puntare l’attenzione.
Era una stanza vuota….completamente vuota. Meno che una sedia.
Una sedia sopra cui era adagiata una bambola…
L’ennesima bambola a grandezza umana.
Claire si sollevò dal letto e, mentre avanzava verso il fondo della stanza, più osservava quella marionetta, più c’era qualcosa di familiare in lei.
La stanza era al buio, penetrava appena un fioco bagliore di luce che rendeva visibile più o meno l’ambiente.
Mentre osservava le pareti ammuffite e cercava di intravedere una via d’uscita in quella tremenda penombra, qualcosa d’inaspettato accadde.
La bambola alzò di scatto il viso verso di lei, mostrandole le sue fauci e il suo volto deturpato e rinsecchito. Questa si alzò facendo cappottare la sedia, la quale rintoccò sul pavimento polveroso facendo un baccano infernale che costrinse Claire a portare le mani sulle orecchie per proteggere i timpani; in realtà, più che il rumore, fu quell’evento improvviso che la fece sbandare in modo spropositato.
La bambola si rivelò essere una b.o.w. e camminò traballante verso di lei, esattamente come tutti i non-morti che abitavano quella villa demoniaca e perversa.
Claire indietreggiò, completamente colta alla sprovvista. Era oramai sfiancata da tutte quelle estenuanti fughe, da quei mostri famelici e distruttivi...era un circolo vizioso senza fine.
Si sentiva sempre più soprafatta, era…era un incubo!
Osservò quella b.o.w. e fu sorpresa quando si accorse che fosse una donna.
Non che non avesse mai visto donne zombie, solo che stavolta il suo corpo era in uno stato di conservazione migliore, o forse semplicemente una volta doveva essere appartenuto ad una ragazza veramente incantevole.
Tant’è che persino decomposta ed insanguinata, con quell’espressione famelica e vitrea, ella risultava…bellissima.
Era strano a dirsi eppure era così.
Aveva dei lunghi capelli biondi, tuttavia oramai secchi e sbiaditi. Sul suo viso s’intravedevano ancora, dietro le rughe e le spaccature, dei tratti somatici delicati e femminili. Il suo corpo era magro ma formoso. La sua pelle doveva essere stata immacolata e perfetta un tempo.
Era terribile vederla ridotta in quel modo, adesso.
Quando scrutò il suo abito, si sorprese di non averlo riconosciuto subito.
Esso era corto e lasciava scoperte gran parte delle gambe raggrinzite e graffiate.
Era un vestitino che sembrava essere stato tagliuzzato, e…….…era l’abito di Alexia strappato!
Quello che lei stessa aveva indossato e accorciato per renderlo più comodo per la sua fuga.
Alfred lo…lo aveva infilato a una non-morta?!
 
“Cos…?”
 
Voleva….voleva che morisse in quel modo? Per mano di se stessa, o di Alexia, o di qualsiasi significato simbolico avesse celato in quell’immagine?!
Spaventata, fece per lasciare la stanza ma la porta d’ingresso era chiusa.
Lanciando una fugace occhiata attorno a sé, verificò che quella era l’unica via d’uscita da quella stanza, così prese a sbattere con la spalla contro di essa sperando che il suo cattivo stato di conservazione avesse usurato la sua superficie.
Continuò a colpirla con tutto il corpo ancora, e ancora, con grande forza, finché un intero lato del suo corpo prese a farle male.
Nonostante sentisse la sua spalla livida per via di quei violenti urti, decise di non fermarsi; questo mentre l’oscura presenza alle sue spalle era sempre più vicina a lei.
La donna oramai deceduta e ridotta a quello stato di morto vivente sospirò e il suo alito fetido arrivò a sfiorare la nuca di Claire.
Le sue dita spaccate ed avide giunsero a toccare i suoi capelli rossicci, insinuandosi fra le ciocche. Quel tocco fece sbandare la ragazza, che si girò di scatto verso di lei. Questo mentre, dando un ultimo colpo alla porta, essa…si aprì!
Claire cadde a terra, tenendo la mano ancora aggrappata al pomello.
La b.o.w. scivolò con lei e si tenne stretta alla sua capigliatura allentando leggermente l’elastico che teneva i capelli di Claire sollevati.
Cercò di mordere le sue gambe, ma la giovane riuscì a tenerla lontana da sé prendendo a scalciare violentemente.
Le diede uno spintone e riuscì a mettersi in piedi scostandosi di dosso quella bestia famelica.
I suoi capelli adesso erano disordinati, molte ciocche non erano al loro posto e l’elastico era scivolato per metà dando un effetto spettinato alla sua acconciatura.
La Redfield scappò mettendosi a una distanza di sicurezza, perlustrando al tempo stesso la stanza ove era appena entrata: si trattava di una sorta di museo delle armi, molto simile a quello che era presente anche a Rockfort.
Vi erano delle perfette ricostruzioni di armi e strumenti di guerra vari d’epoca, realizzati in modo davvero verosimile.
Essi erano preservati in delle teche di vetro, con le relative placche d’ottone che segnavano le loro caratteristiche.
La ragazza si chiese se fra quelle armi ce ne fosse una vera.
Osservò il tavolo al centro, su cui era costruita una miniatura di un campo d’addestramento, a fianco di una riproduzione in scala di un carro armato.
Vi erano almeno una ventina di pistole e fucili che contornavano le pareti.
Infine, un computer attirò la sua attenzione. Questo perché, sopra quel PC, una pistola era conservata dietro un vetro, adagiata su un’elegante custodia.
Essendo collocata proprio vicino quello schermo, Claire subito comprese che forse quell’arma potesse essere autentica. Così ci si fiondò e cercò un modo per interagire con il computer, ovviamente protetto da password.
 
- Please, insert the password…. -
 
“Che diavolo ne so! Forza Claire, concentrati! Concentrati! Che password può mai aver scelto Alfred!!”
 
Intanto la b.o.w. si era faticosamente rimessa in piedi, ricordandole che oramai aveva poco tempo per appropriarsi di quell’arma.
La ragazza si rimboccò le maniche e cominciò a fare un tentativo.
La prima parola che digitò fu ovviamente Alexia, ma niente. Provò altre parole, ma dopo tre velocissime prove, fatte una dopo l’altra per la fretta, ecco che apparve la schermata di aiuto.
Per fortuna nessun allarme scattò.
 
- Mr. Alfred,
ha superato il limite dei tentativi possibili per inserire la password. Dispone di un ultimo tentativo.
Per ricordarle la sua password, ecco l’indizio: A è 1. Ora scriva il resto.
Ecco la domanda segreta: ‘era per il compleanno di sua sorella.’ -
 
Claire fu stupita da quella frase e subito la sua mente andò a ripescare il recente ricordo della bambola trovata murata dentro il camino.
La bambola era la password, certo!
Prima di digitare quella parola però, ricordò il secondo indizio. A è 1.
Se A è 1…allora….
Frettolosamente ripescò dalla tasca il biglietto d’auguri che aveva conservato. Girandolo sul retro, rilesse i numeri che erano stati scritti 1-12-5-24-9-1. Erano sei e se la lettera A dell’alfabeto corrispondeva al numero uno, allora….allora quei numeri non significavano altro che ‘Alexia’!
Contò mentalmente e combaciava alla perfezione!
1- A
12- L
5- E
24- X
9- I
1- A
 
Doveva dunque solo scrivere la parola “doll” nello stesso modo.
Seppur l’agitazione di avere una b.o.w. alle sue spalle non le permettesse di mantenere la lucidità, si sforzò di conteggiare nel modo giusto per non vanificare quel suo ultimo tentativo.
 
“A,b,c,d… 4 …e,f….”
 
Parlò fra sé e sé ad alta voce, cercando di non perdere la concentrazione. Alla fine scrisse il numero e pregò che partisse.
 
- 4 15 12 12…………………………………………………………
…………...authentication in progress……………
Please wait…………………………………………………
 
CORRECT
 
Security password is correct. -
 
Senza neppure aspettare che tutto il messaggio di conferma si caricasse, Claire estrasse la 9 mm prima ancora che il vetro che la proteggeva si fosse sollevato completamente.
Puntò decisa l’arma contro la b.o.w. vestita con l’abito di Alexia che lei stessa aveva indossato e poi….PAM!
 
Il colpo partì.
 
Un unico colpo, preciso, micidiale, che fece schizzare via la parte posteriore del cranio del nemico, il cui sangue spruzzò assieme alle sue membra.
Questa cadde a terra esamine, non fu più capace di muoversi.
La ragazza premette il grilletto una seconda volta, presa dall’adrenalina che le scorreva in corpo, e stavolta non partì alcun colpo.
Ne aveva avuto solo uno a disposizione e non lo sapeva.
Continuò a premere il grilletto a inerzia, mentre il suo corpo prese a tremare scaricando finalmente la paura e l’angoscia che le scorreva in corpo da ore.
Osservò il corpo raggrinzito, sciupato ed insanguinato della donna che era perita sotto il suo colpo.
Bella, certamente giovane, eppure…eppure condannata a quel destino nefasto e crudele.
Forse erano solo gli occhi mucosi e languidi di una persona oramai morta, ma Claire ebbe come l’impressione che delle lacrime riempissero quei bulbi. Come se quella donna avesse pianto con lei, addolorata allo stesso modo da quell’incubo.
Quell’identificazione fu ancora più struggente visto l’abito che indossava.
Un abito che lei aveva portato e che l’aveva resa prima prigioniera e poi libera… ed adesso giaceva insanguinato e sporco, addosso a quel corpo oramai morto.
La giovane scivolò a terra; esausta, sfiancata e oramai sconvolta. Le lacrime rigavano il suo viso, le quali bagnarono prima le sue guance, poi la sua bocca, fino a farsi più copiose e inumidire anche le ciocche della sua frangia cresciuta, cascata davanti al volto.
Emise un sonoro singhiozzo prima di abbandonarsi ad un pianto silenzioso di sfogo. Un pianto che fu la traduzione di quel mondo squilibrato e brutale, in cui aveva visto fin troppe vittime perire per mano sua.
Abbracciò le gambe, stringendo forte la pistola nella sua mano destra, lasciandosi trasportare da quel momento di debolezza di cui aveva un vitale bisogno.
 
 
 
 
Questo mentre dall’alto qualcuno la osservava….
La osservava ancora, imperterrita….non calando mai lo sguardo da lei….
 
Alfred strinse gli occhi.
 
Vide la meravigliosa Claire piangere disperatamente, mentre nascondeva inutilmente il suo splendido viso fra le braccia.
Quelle lacrime che rendevano sfiancati i suoi occhi vivaci e che arrossavano la sua pelle bianca e delicata.
La sua bocca che si faceva rossa e bagnata.
Scrutò quell’immagine triste eppure stupenda, osservando da dietro lo schermo di una telecamera nascosta.
 

 

 
 
***
 
 
 
 
 

  
 
 
 
NdA:
Il titolo “Trovarsi” è ancora una volta un riferimento ad un’opera teatrale. Casualmente sempre di Pirandello.
Non mi sorprendo che alla fine vado a ripescare sempre lui.  Una persona che ha dato voce a concetti umani ed esistenziali che accomunano l’intera umanità, con la profondità che lo ha reso una delle figure più note della letteratura italiana.
Un grande uomo….
“Trovarsi” è una commedia in tre atti, che pone al centro del problema quello che noi siamo davvero, prescindendo da come gli altri interpretino la nostra vita.
Donata Genzi, un’attrice, assume di volta in volta l’identità dei vari personaggi che interpreta sul palcoscenico, perdendo di vista così chi sia davvero.
Decide così di ricerca se stessa, cercando di riscoprire la sua “vera identità”.
Alla fine però finisce per preferire quella dei suoi personaggi, considerando la loro esistenza paradossalmente più “vera” di quella reale.
Credo che un’opera simile ben rappresenti la psiche di Alfred, che decide di vivere la sua esistenza a modo suo, anche se una folle menzogna, considerandola più bella e vera rispetto la terribile solitudine di cui in realtà è circondato.
Grazie per aver letto!
 
Non intendo lasciare incompleta questa storia, continuate a seguirmi sebbene il lento aggiornamento!
Grazie di nuovo!!
 
Fiammah_Grace
 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 12
*** Capitolo 12: la bella addormentata nel bosco ***


 
 
Capitolo 12: La bella addormentata nel bosco
 
 
 
 
 
 
Il difficile non è raggiungere qualcosa, è liberarsi dalla condizione in cui si è.
(Marguerite Duras)
 
 
 
 
 
 
Un lungo percorso di scale che scendono e che salgono…
Non capisco più dove esse inizino o finiscano.
Non so se è normale, probabilmente no. Mi sento solo sempre più confusa, sopraffatta da questo mondo che non riesco né a capire, né a domare; il quale ha schiacciato la mia libertà costringendomi a piegarmi alle sue meschine regole imparziali.
Sto avanzando verso le profondità di un abisso? Oppure lentamente sto arrivando alla luce?
A cosa mi porterà questa strada?
Forse lo capirò solo quando vedrò sotto i miei piedi una voragine, oppure la penombra di un raggio di sole.
So solo una cosa: se non voglio morire, devo continuare ad andare avanti.
Se verso il basso o verso l’alto, non importa.
Posso soltanto stringere al petto la mia pistola e puntarla davanti al mio nemico, così che possa arrivare a scoprire dove mi trovo e verso dove sto viaggiando.
La mia unica alleata è la morte. Fintanto che riuscirò ad averla dalla mia parte, posso sperare di sopravvivere.
E’ a questo che mi ha condannato questo mondo folle.
Avevo giurato a me stessa che mai più sarei caduta in questo incubo.
Invece devo correre; correre contro questo destino, non sapendo se così sto velocemente avanzando verso la libertà, o il più probabile buio della mia anima.
 
Claire Redfield puntò la 9mm davanti a sé e sparò.
Aveva trovato una ricarica lasciata incustodita sul davanzale di una finestra.
Consumata e impolverata, al suo interno i proiettili sembravano comunque ancora utilizzabili, così aveva caricato la pistola e ora aveva ben dieci opportunità di sopravvivere.
Dieci colpi, dieci speranze di liberarsi dai suoi nemici.
Stette attenta a non sprecarne nessuno, consapevole di quanto quei colpi fossero tanti rappresentando che prima era disarmata, ma che fossero assolutamente pochi per sperare di combattere alla pari con loro. Doveva ben pesare le situazioni di pericolo, così che ogni volta che un proiettile sarebbe uscito fuori dalla canna, non sfumasse con esso anche la sua possibilità di sopravvivere.
Ogni proiettile…un’opportunità di salvarsi in meno.
Ognuno di essi aveva un peso terribile quando rintoccava sul pavimento.
La rossa strinse i denti, cercando costantemente scappatoie alternative. Il più delle volte optava per un mordi e fuggi ma non era sempre facile evitare quegli zombie.
In quel momento il destino sembrò volersi prendere gioco di lei, delle sue paure, del fatto che contasse ad uno a uno i colpi utilizzati proprio per non sprecarne nessuno.
Questo perché le si pararono improvvisamente davanti un’orda di ben sei zombie.
Era un corridoio stretto, non poteva evitarli in nessun modo. Dovette quindi schiacciarsi contro un angolo del muro e sparare, sparare e sparare ancora, mirando nel modo più preciso possibile e pregando che morissero velocemente. Dei pensieri duri, insostenibili per una ragazza come lei, che dava grande rispetto alla vita.
Fortuna che quei mostri sembravano sufficientemente malandati da cadere a terra dopo un paio di colpi ciascuno.
Non poté atterrirli tutti. Un paio continuarono a strascinarsi sulla moquette, imbrattandola con le loro viscere deteriorate ormai molto tempo fa.
Claire poté quindi scappare via, approfittando della loro lentezza.
Dopo aver ucciso la donna trasformata in zombie con l’abito di Alexia strappato indossato da lei stessa, Claire si era concessa qualche attimo di sfogo in cui aveva pianto silenziosamente nella solitudine di quella stanza.
Quella pausa l’aveva ricaricata, ripristinando la sua forza e la sua determinazione.
Seppure avesse l’umore sotto i piedi, si sentiva rinata in qualche modo.
Dopo tanto stress, ne aveva avuto davvero bisogno.
Così aveva aggiustato la sua coda di cavallo oramai sfatta, legandola stretta dietro la nuca, e aveva imbracciato l’arma che aveva fortuitamente trovato sul suo cammino.
Alfred aveva cercato di eliminarla facendola entrare in quella stanza chiusa assieme a quella b.o.w. , ma Claire si era dimostrata ancora una volta più capace di quanto lui avesse pensato. Così tanto da aver tratto un vantaggio persino da quella tremenda circostanza: adesso era in possesso di un’arma!
Era attualmente scarica, ma avere una pistola nell’arsenale era vitale. Finalmente poteva proteggersi.
Oltrepassato quindi il museo delle armi, si era ritrovata in nuova ala di quella villa oscura abitata dalle marionette.
Si era imbattuta così in molte aree chiuse, fino a quando era giunta in quello stretto corridoio infestato dagli zombie.
Adesso quindi avanzava dritto per la sua strada, con una scintilla negli occhi che trasmetteva tutta la sua tenacia.
Si fermò davanti ad un quadro molto strano, che ritraeva un viottolo.
Generalmente i quadri di quel castello erano per lo più ritratti. Quel paesaggio così semplice, quindi, destò la sua curiosità. Inoltre non c’erano altri luoghi dove proseguire e le venne spontaneo osservare quel dipinto.
Vedeva un prato verde, un albero, e poi questa stradina di campagna che proseguiva fino a perdere le sue linee nell’infinito. Era come se suggerisse allo spettatore di seguire quella strada con gli occhi.
Non seppe come le venne la brillante idea di provare a spostare il quadro; mossa che fu illuminante in quanto, dietro di esso, trovò nascosta una porta.
Con la tela ancora fra le mani, Claire boccheggiò più volte, sorpresa da quell’intuizione.
Se non avesse pensato a fare una cosa simile, si sarebbe trovata bloccata per chissà quanto tempo!
Lieta comunque che una parte del suo cervello non fosse totalmente negata nelle risoluzioni di certi enigmi, o piuttosto che si fosse oramai abituata a lasciarsi incuriosire da tutto, proseguì oltre quella porta.
Si stava proprio per chiedere se fosse ancora nella “casa delle bambole” oppure no, quando una luce la accecò improvvisamente.
Portò una mano all’altezza degli occhi, cercando parallelamente di sbirciare da dove provenisse quella fonte abbagliante.
Quel che riuscì a inquadrare però fu soltanto la zona circostante.
Era un luogo vuoto, sembrava come una piattaforma metallica, del tutto differente dall’ambiente sfarzoso e domestico visitato precedentemente.
Non si sorprese quando il padrone di casa fu la voce che la accolse in quello strano atrio.
Anzi…La padrona.
Alfred utilizzava ancora, infatti, quell’assurda voce da donna che diventava sempre più fastidiosa da sentire.
 
“Salve Redfield! Così sei sopravvissuta di nuovo alle mie trappole. Sei davvero così fortunata, oppure non sono stata ancora abbastanza cattiva? Non riesco a rispondere a questa domanda....
Poco importa, comunque. Visto che sei riuscita ad arrivare fin qui, e non solo, hai persino recuperato un’arma da tiro, voglio testare le tue abilità in un gioco che io personalmente adoro tantissimo!”
 
Disse tutto in modo stucchevole ed elettrizzato.
Claire si sentì confusa da quelle parole, oramai spazientita dall’ “ospitalità” di quei dannati ‘gemelli’!!
 
“Che hai in mente questa volta?”
 
“Sono contenta che me lo chiedi.” disse tutta eccitata Alexia. “Come noterai, quest’area è molto diversa da quelle che hai visitato. Oltrepassando la porta che vedi dinanzi a te, infatti, ti troverai in un luogo assolutamente…delizioso…”
 
Spiegò lei, pregustando già quel divertimento.
La Redfield poté sentire la sua euforia anche solo nell’immaginare il gioco di cui presto avrebbe inesorabilmente fatto parte, ancora una volta. Questo per sollazzare i capricci di quel maniaco mentecatto di Alfred.
Si limitò così a scorgere la porta menzionata e allora anche le sue meningi si attivarono.
Accanto ad essa, infatti, era disegnata la mediocre immagine di un omino realizzato con linee essenziali, con in mano quella che sembrava essere una pistola, con tanto di “BUM” scritto affianco. Sulla porta invece era pitturato un bersaglio. Il tutto con toni rossi.
Non le ci volle molto per comprendere in che tipo di gioco avrebbe dovuto cimentarsi: il tiro a bersaglio.
 
“Qui dentro c’è il mio personale e bellissimo poligono di tiro!”
 
Alexia confermò la deduzione di Claire e, dopo quella battuta, il faro che prima l’aveva accecata si spostò proprio su quella porta e partì l’audio di un pubblico che applaudiva entusiasta.
Fu davvero raccapricciante udire quella folla infervorata se immaginava che a manovrare il tutto fosse sempre e solo Alfred dalla sua stanza di monitoraggio.
 
“Come vedi il nostro pubblico è eccitato, quindi, Redfield, vedi di non deludere né loro né me, la tua Regina. Se no…”
 
Alexia rovesciò il pollice verso il basso e a quel punto partì un verso di disapprovazione da parte di quel finto pubblico.
 
“Buuuuu………………!!!”
 
“Se no, dovrò darti il mio pollice in giù e sopprimerti.”
 
Claire rimase sconvolta da quella messinscena.
Si sentì trattata come un gladiatore sottoposto al giudizio del pubblico e del sovrano che, a seconda del divertimento provato durante lo spettacolo di massacro cui hanno assistito, decidono se risparmiare o no la vittima che ha perduto.
Comunque il suo piano aveva una falla e Claire non si fece remore a farglielo notare. Portò così la mano dietro la schiena a prese fra le mani la pistola.
 
“L’idea non è male. Fra tutte le sfide a cui mi hai sottoposta, questa è anche per me una delle più belle, lo ammetto. Andavo spesso nei poligoni di tiro con mio fratello, sai? Ma devo deluderti, signorina Alexia.”
 
Sottolineò visibilmente prendendolo in giro.
 
“Questo perché, seppur ho recuperato una tua pistola, non ho proiettili.”
 
Alexia si fece pensierosa ma sembrò che quel dettaglio non fosse un problema per lei.
Infatti si prese un momento per riflettere, tenendo la rossa sulle spine, dopodiché cominciò a parlare con estrema esuberanza facendo tuonare la sua voce dall’altoparlante.
 
“Ah!Ah!Ah! Hai ragione! Hai assolutamente ragione!! Che gioco potrebbe mai essere se non sei messa nelle condizioni di giocare? Ognuno deve avere le sue pedine, il suo mazzo per giocarsi la partita.”
 
Dal nulla caddero a terra una serie di caricatori per la 9mm. Essi si ammucchiarono uno su l’altro, formando un cumulo che spiazzò del tutto Claire, che non si aspettava per nulla una reazione simile. Vedere tutti quei proiettili dinanzi a sé fu un’immagine che la pietrificò totalmente.
Poteva…davvero raccoglierli tutti?
Che diavolo stava facendo? Alfred era forse impazzito?
 
“Oh, eccoti tutto quello che ti serve Claire. Armati pure come più ti occorre, non farti limiti! Ti assicuro che avrai bisogno di ogni arsenale possibile, ahahahah! Ti aspetto dentroooo.”
 
Chiuse così la comunicazione.
La giovane si piegò sulle ginocchia e cominciò a infilare un caricatore dentro la pistola.
Deglutì, inorridendo al solo pensiero di partecipare a quel ‘gioco’ assieme ad una mente completamente fuori di sé come il biondo Ashford. Si chiese a che gioco stesse giocando, esattamente. Per lui era veramente solo un sollazzo comportarsi in quel modo?
In effetti, da quel che aveva capito, i gemelli Ashford dovevano aver vissuto una vita in solitudine, alienati in quel castello e circondati da cotanta follia e depravazione, senza contare il totale disinteressamento per la vita umana.
Erano quindi come cresciuti in cattività, ciò voleva dire che una parte di Alfred Ashford doveva essere rimasta profondamente infantile.
Claire dunque non trovò azzardato ipotizzare che quel ragazzo fosse leggermente immaturo da quel punto di vista e che quindi volesse per davvero un compagno di giochi, sebbene in una visione del tutto alterata del termine.
Emise un sonoro sospiro, dopodiché si equipaggiò per bene prima di entrare nel poligono personale dove avrebbe affrontato le insidie preparate per lei da ‘Alexia’.
 
 
 
 
***
 
 
 
Casa delle Bambole – poligono di tiro
 
 



La musica tipica di un carosello echeggiava nell’ambiente, destando nell’animo di Claire non tanto giocondità, quanto tormento e sbigottimento.
Si guardò più volte attorno, pronta a reagire alla prima avvisaglia di pericolo.
Il luogo in cui si trovava era come un labirinto. Era costituito da una serie di lunghi corridoi che si intrecciavano fra loro, tutti in legno, il cui percorso era spesso bloccato da figure di cartone dalla forma umana; i bersagli che si vedevano tipicamente nei poligoni reali.
La ragazza sembrava libera di poter scegliere da dove iniziare il suo percorso, abbattendo dunque i bersagli che avrebbe trovato lungo il tracciato.
 
“Avanti! Avanti! Non avere paura! Più andrai avanti, più il percorso si farà duro e interessante. Quindi non battere la fiacca e…..marsch!”
 
Cinguettò la bionda trasformazione femminile di Alfred, gustando il suo spettacolo.
Claire alzò gli occhi al cielo, ma non disse nulla. Imbracciò la sua arma e proseguì.
Il primo bersagliò si alzò dalla pavimentazione, apparendo come se una molla lo avesse fatto sopraelevare. Si piazzò sbarrando la strada della ragazza dalla giacca rossa, la quale fece partire il primo colpo che andò a segno.
Il suono di un campanellino echeggiò per il luogo circostante.
 
“Un bel centro! Te la cavi bene da vicino…vediamo da lontano!”
 
Sul fondo di quel percorso apparve un secondo bersaglio e Claire fu costretta a prendere bene la mira per essere sicura di centrarlo. Il primo colpo non andò subito a segno, ma il secondo sì.
A quel cartellone però se ne sostituì subito un altro in movimento, che cominciò a oscillare ininterrottamente a una distanza di circa venticinque metri.
La Redfield riuscì a centrarlo probabilmente per pura fortuna, non essendo abituata a cogliere corpi in movimento. Se fermi, infatti, sapeva sparare anche a diversi metri di distanza, ma in movimento era completamente diverso. 
Quel gioco cominciò a stufarla molto presto, questo perché Alfred la fece imbattere in un bersaglio dopo l’altro ininterrottamente, senza darle un attimo di tregua.
Apparivano sia lontano che vicino a lei, sbucando da ogni angolo di quel corridoio. Mantenere una certa concentrazione per più di quaranta bersagli di fila non era certo facile e cominciò presto a non avere più i nervi saldi.
Tuttavia era proprio ciò che Alfred aspettava per far partire la seconda fase del suo piano.
Questo perché alle sagome di cartone andarono a sostituirsi dei bersagli che ritraevano degli zombie.
Claire quasi sbandò quando se ne trovò uno di fronte, credendolo reale per un attimo.
Questi richiedevano più colpi per essere abbattuti e dunque cominciò a temere di non aver portato abbastanza proiettili con sé per completare quel percorso.
Controllò la ricarica e nel mentre che abbassò gli occhi, ecco che l’ennesimo bersaglio comparve a pochi metri di distanza da lei. Non batté ciglio e subito si mise in posizione di mira per mandare a centro quel colpo.
Uno schizzò rosso, inaspettatamente, fuoriuscì da quel particolare bersaglio, gocciolando sul cartone e macchiando parte della pavimentazione. Arrivò persino quasi a sfiorare gli stivali di Claire.
La ragazza abbassò lo sguardo, impietrita.
Cosa diavolo….era…..quel bersaglio…?
Riportò gli occhi su di esso e solo allora si accorse che dei gemiti provenivano da dietro il bersaglio di cartone; erano le inconfondibili urla di fame e di dolore delle b.o.w. .
Sbandò spaventata, perdendo quasi l’equilibrio.
I bersagli si stavano lentamente andando a sostituire con…con dei bersagli reali? Vivi?
Cioè, ‘vivi’ non era il termine più appropriato, tuttavia, rispetto a dei fantocci di cartone, erano la cosa più assimilabile a una vita in quel contesto.
Si sentì male al sol pensiero che anche dietro gli altri bersagli fossero celati degli zombie. Portò così una mano sulla bocca, inorridita.
 
“Avanti! Avanti! Perché stai perdendo tempo? Vuoi finirlo?”
 
La voce seccata di Alexia rimbombò per il poligono assieme ai lamenti del suo pubblico fasullo.
Claire batte un piede a terra, mettendo a tacere quella voce e parlando con tono duro.
 
“Mi rifiuto di continuare questo gioco! E’ disgustoso! Anche se dei morti viventi, non voglio fare parte delle tue macchinazioni deviate! Basta!”
 
Disse e girò i tacchi, facendo per tornare indietro e andarsene, ma a quel punto un muro si alzò di fronte a sé. La rossa dovette retrocedere.
 
“C-cosa?!”
 
“Ho mai detto che è permesso ritirarsi da questo gioco? NO!” urlò come un despota Alexia, rimproverando sonoramente il suo suddito.
“Non ti è permesso. Non lo farai! E per incitarti ad andare avanti, ecco qui quanto ti rimane da vivere.”
 
Apparve dal nulla un timer che indicava quindici minuti che stavano scalando alla rovescia.
 
“Sai cosa indica questo conto alla rovescia? Non appena arriverà a zero, l’uscita di questo luogo sarà bloccata. B-L-O-C-C-A-T-A. Capito? Rimarrai chiusa qui dentro in eterno! Ti assicuro che non ci sono altre vie d’uscita, a parte la porta da cui sei entrata e quella dalla quale puoi uscire.
La prima è già stata chiusa a chiave nel momento in cui hai fatto il tuo ingresso in quest’area. La seconda, beh…dipende da te.”
 
“Bastardo…”
 
Digrignò Claire.
 
“Cosa aspetti ancora, dunque? Completa il percorso Claire! E’ scattato il quattordicesimo minuto! Ahahahah!”
 
La rossa fu così costretta a proseguire suo malgrado. Portò di nuovo la pistola davanti ai suoi occhi e una nuova determinazione si disegnò sul suo volto.
Sparò e il mostro smise di gemere.
Corse in avanti, per la sua strada, controllando di tanto in tanto il cartellone che segnava il timer, attenta a percorrere quei corridoi nel minor tempo possibile, abbattendo al contempo i vari bersagli che la intralciavano.
Talvolta i bersagli si giravano dopo essere stati colpiti, mostrando dietro di essi la figura imbrigliata e spaventata dello zombie che era stato doppiamente condannato a morire.
Claire dovette discostare lo sguardo più volte per non finire nel baratro del senso di colpa.
Sebbene sapesse che fossero esseri già morti, non poteva fare a meno di leggere il dolore nei loro occhi.
Probabilmente si sbagliava. Forse essi non erano nemmeno più capaci di provare affanno. Eppure i fori dei suoi proietti che bucherellavano la loro carne non potevano non trasmetterle un senso di profonda agonia.
Intanto, per via del ritmo stavolta frenetico di quella prestazione di tiro, Alexia e il suo pubblico “su nastro” osservarono le gesta di Claire con estremo interesse.
Arrivò così il momento di rendere ancora più vivace quello spettacolo.
La ragazza arrivò in uno spiazzale abbastanza ampio e s’intravedeva una porta dall’altra parte. Era forse la via d’uscita di cui parlava Alfred/Alexia?
La ragazza strinse la pistola fra le mani e corse con tutte le sue forze ma, mentre attraversò quell’atrio vuoto, una serie di colpi di pistola le impedirono di andare avanti.
Si girò di scatto e in quel momento dal soffitto caddero dei pesanti sacchi impagliati, i quali rimasero appesi un po’ per tutta quella sala. Sembravano dei sacchi da box.
Si chiese cosa significassero, ma la risposta non tardò a venire.
Questo perché da dietro uno di questi spuntò lei…la Regina.
 
“Ti sono rimasti solo cinque minuti, come puoi vedere. Avanti Claire, finalmente giochiamo fra noi!”
 
Alexia puntò con la sua pistola e sparò in direzione di Claire.
Aveva in mano un modello abbastanza antico, quasi d’antiquariato. Non si sorprese del fatto che un’esteta come Alfred avesse deciso di armare la sua amata e preziosa sorella con un’arma simile.
Peccato che la sua vetustà penalizzasse anche la sua prestazione, ma meglio per lei.
Claire si riparò dietro uno dei sacchi aspettando che Alexia cessasse il fuoco, dopodiché toccò a lei provare a colpirla.
Non aveva ancora concretizzato nella sua mente l’idea di spararle per davvero, o ucciderla. Fu più il momento che la guidò. Partecipò dunque a quel gioco mirando al solo scopo di uscire da quella stanza entro i prossimi cinque minuti.
Vide sbucare di tanto in tanto la bionda da dietro i sacchi, ma metterla nel mirino fu un’impresa più ardua del previsto.
Al contrario, fu lei che riuscì a colpirla di striscio, ferendo Claire all’altezza della coscia, strappando leggermente il tessuto dei suoi jeans e segnando la sua candida pelle con un rigo rosso.
La giovane Redfield approfittò comunque di quel momento per sparare a sua volta contro Alexia, essendo uscita allo scoperto.
Un proiettile andò a colpirla in un punto non preciso del braccio. Vide soltanto la donna contorcersi portando una mano sulla zona ferita.
Claire si affacciò verso di lei e vide Alexia traballare per poi scappare via.
Sbatté le palpebre più volte, ricordandosi poi tempestivamente del conto alla rovescia che oramai doveva essere prossimo allo zero.
Alzò lo sguardo e fra i sacchi appesi che offuscavano la visuale, distinse quello schermo e sgranò gli occhi quando lesse di essere sì in tempo, ma che doveva uscire di corsa da quella stanza!
Mancava, infatti, un minuto allo scattare dell’ultimo secondo.
Così velocemente prese a correre verso la porta, fiondandosi dentro e chiudendola dietro di sé.
Purtroppo però il percorso non era ancora finito.
Intanto il timer scorreva ineluttabile.
 
00:57
 
“Mio Dio!”
 
Esclamò cominciando a sentirsi nel panico.
L’unica cosa che fu capace di fare fu correre. Corse lungo il percorso, non osservando nemmeno la nuova zona labirintica dove era appena entrata. La paura le impedì di analizzare l’ambiente in modo da intuire dove fosse la via d’uscita, così finì per perdersi fra quei corridoi e quei bersagli che sbucavano da ogni dove.
Più andava avanti e più la zona si faceva ombrosa. Era oramai illuminata solamente dalle luci d’emergenza rosse che davano a quel luogo un che di sinistro.
Inoltre, ulteriori elementi che contribuirono ad accrescere quel senso di smarrimento, furono i bersagli: oramai completamente sostituiti a degli esseri “viventi”.
Essi erano costituiti da zombie legati al soffitto, che penzolavano lungo il percorso. Sui loro corpi erano disegnati i tipici cerchi del tiro a bersaglio, proprio a sottolineare il loro essere delle inutili entità prive di importanza. Dei giochi.
Claire comunque non perse tempo a sparare contro di loro. Si limitò a correre in ogni dove, mentre oramai il conto alla rovescia era prossimo alla fine.
 
00:13
 
“No, no, ti prego!”
 
Parlò fa sé, imbattendosi nell’ennesimo vicolo cieco. Provò a imboccare una strada diversa, ma quel percorso labirintico sembrava non portarla da nessuna parte.
Quando scattarono gli ultimi cinque secondi, il panico fece paralizzare le sue gambe. Ella tappò istintivamente le orecchie con le mani, piegandosi sulle ginocchia. Tremava all’impazzata, del tutto incapace di muoversi e attendere quel momento.
Non ce l’aveva fatta! Dannazione! Non ce l’aveva fatta!
A quel punto un allarme risuonò un paio di volte, segnando la fine del tempo.
Claire alzò gli occhi e cercò lo schermo, il quale indicava esattamente quello che temeva.
 
00:00
Silenzio.
Cosa sarebbe accaduto ora? Sarebbe davvero rimasta chiusa lì dentro…per sempre?
Il cuore prese a sbattere forte nel suo petto.
Lentamente Claire si rimise in piedi, decidendo di muovere qualche passo per scrutare l’ambiente circostante.
Le sue gambe tremavano ancora, le ci volle più di qualche istante per concretizzare che per davvero non aveva raggiunto l’uscita in tempo. Ammesso che ce ne fosse stata una per davvero.
Osservò le cariche che aveva ancora a sua disposizione. Come aveva temuto, anche quelle erano adesso ben poche.
Era sempre meglio che niente, tuttavia erano di nuovo pochi per garantirsi la sopravvivenza. Doveva tornare a fare parsimonia di colpi, era vitale.
Infilò la pistola nella cintura e avanzò in quel labirinto illuminato dal rosso della luce d’emergenza, accompagnata dal sottofondo dei gemiti degli zombie appesi come bersagli.
Fu angustiante muoversi in quella penombra rossastra, udendo quei sospiri indemoniati e raccapriccianti. Dovette indurire il suo spirito per riuscire ad avanzare ignorando tali elementi disturbanti.
Di tanto in tanto sbirciava nella loro direzione, osservando i loro volti deturpati che fissavano il vuoto e che talvolta si rivolgevano a lei, captandone la presenza.
Solo dopo aver circumnavigato per qualche minuto, trovò finalmente la famosa porta d’uscita.
Batté una mano su di essa, affranta.
Costatò che solo grazie a un colpo di fortuna sarebbe stato possibile raggiungerla al primo colpo, ma oramai era troppo tardi.
Si guardò attorno, doveva pur esserci una seconda via d’uscita!
Solo allora notò un bassorilievo inciso sulla parete di fronte la porta. Esso rappresentava una serie di uomini impiccati, raffigurati secondo un ordine ben preciso.
Sotto vi era un’incisione.
 
“Colui che è morto per primo risplende sotto la luce di un fuoco rosso.
Colui che è morto per secondo non è mai stato capace di vedere le sue colpe.
Colui che è morto per terzo era già stato punito per essere un ladro lestofante.
Colui che è morto per quarto, è stato sacrificato per la sua patria.”
 
Claire si domandò se quello non fosse una sorta di enigma per uscire magari da quella stanza!
Valeva la pena di tentare.
Prese dunque a riflettere su quelle parole e cominciò a pensare che forse il fatto che i bersagli fossero degli zombie non era stata solo una scelta macabra da parte di Alfred.
Forse erano proprio loro gli “impiccati” di cui parlava quell’incisione.
Andò quindi a cercarli uno a uno, distinguendo fra tutti loro quelli che potevano ricordare vagamente “un fuoco rosso”, “uno che non vedeva le sue colpe”, “un ladro” e un uomo “sacrificato per la patria”.
Quegli indizi non furono difficili da interpretare, per fortuna la sua intuizione di attribuirli alle b.o.w. fu giusta.
Fra i dieci zombie appesi lungo tutto il percorso, quattro rispecchiavano quelle caratteristiche.
Uno di loro era, infatti, collocato esattamente di fronte una delle luci di emergenza, che lo illuminava di rosso a tal punto da farlo sembrare in fiamme.
Un altro aveva gli occhi cavati. I suoi bulbi erano sostituiti dal rosso raggrumato delle sue ferite. Egli era ovviamente colui che era morto senza essere stato capace di vedere, letteralmente, le sue colpe.
Il ladro fu più difficile da identificare. Arrivò alla conclusione più per esclusione, notando uno zombie a cui mancava una mano.
In effetti, un tempo, coloro che rubavano erano puniti col taglio della mano. Doveva quindi essere lui, per forza.
L’ultimo invece, colui che fu sacrificato per la patria, lo riconobbe da una decorazione militare appesa ai pochi lembi di vestiti ancora addosso.
Rimaneva però da capire cosa dovesse fare adesso.
La risposta era purtroppo a portata di mano, ma le si stringeva il cuore nel concretizzare quella risposta.
Questo perché quell’enigma parlava di uomini morti impiccati….e quegli zombie erano sì dei morti, ma non lo erano del tutto.
Erano appesi come degli impiccati, ma erano vivi, sebbene in quella forma orribile.
Claire doveva quindi ucciderli. Ucciderli in quell’ordine esatto.
Il suo cuore fu costretto a chiudersi in se stesso, a pensare che essi non fossero effettivamente vivi, che dovesse farlo per sopravvivere.
Fatto stava che ucciderli non fu facile per lei. Non lo fu per niente.
Quattro colpi precisi e quegli zombie cessarono di mugugnare, inalando il loro ultimo e sofferto respiro.
Mentre i loro corpi già morti si abbandonavano del tutto, il loro peso fece scattare un qualche meccanismo.
Claire sperò con tutta se stessa che fosse la serratura della porta, ma si ritenne ugualmente fortunata quando, percorrendo la strada che portava ad essa, si imbatté in una botola che prima non aveva notato.
Essa era buia, ma non sembrava particolarmente profonda.
Prima di addentrarsi controllò che quell’enigma non avesse fatto aprire anche la porta d’uscita, così andò a verificare. Era chiusa.
Dovette quindi introdursi per forza nella botola, felice comunque di poter abbandonare quella stanza “di giochi” infausta.
 
 
 
***
 
 
 
Casa delle bambole – prigioni sotterranee
 
 
Il nuovo ambiente era del tutto offuscato dal buio. Per fortuna Claire riuscì a intravedere nell’ombra una torcia, che accese con l’accendino.
Mai si sarebbe aspetta di trovarsi in delle prigioni.
Percorrendo il lungo corridoio di pietra, si trovò circondata da un’infinità di celle, le quali occupavano sia il muro alla sua destra che quello alla sua sinistra.
Si articolavano almeno una ventina di gattabuie dentro cui erano imprigionate le solite bambole vestite da dame a grandezza umana, polverose e imbrigliate da grosse ragnatele.
Sole e abbandonate in quegli angoli bui e desolati, la rossa non poté non provare pietà per quei fantocci inanimati, sebbene incutessero persino un po’ di timore. Il loro aspetto deteriorato dal tempo era enfatizzato non solo dall’ambiente tetro, ma anche dal fatto che a molte di loro mancavano delle parti.
Una bambola vestita di rosso scuro era priva di un occhio di vetro e, sebbene fosse fra quelle meglio preservate dal tempo, quel buco nero e scheggiato la rendeva inquietante come tutte le altre.
Un’altra aveva una gamba tronca, un’altra invece tutto un braccio mozzato.
L’ultima fu la più raccapricciante.
Essa presentava infatti delle fattezze del tutto irregolari:  aveva un paio di braccia in più di cui una posizionata sulla testa, fuoriuscendo dai capelli legati in due codine; l’altro braccio invece spuntava dal suo cuore.
Inoltre la sua espressione era folle, demoniaca.
Il suo abito era lacero e, osservando meglio i suoi piedi, essi sembravano come essere quelli di un rettile. Quella figura era visibilmente una strana chimera umanoide, messa lì dentro proprio con lo scopo di turbare coloro che la osservavano.
Si avvicinò alle sbarre di metallo che imprigionavano quella particolare bambola e, costatando che la cella era aperta, si addentrò.
Vista da vicino era ancora più terrificante.
Quando si piegò su di lei per esaminarla, improvvisamente questa tese le quattro braccia in avanti facendo per afferrarla.
Le dita delle sue mani si mossero ossessivamente come le zambe di un ragno. Sembrava come se ognuna avesse una sua mobilità a sé stante. Quel pupazzo era una trappola assassina?!
In verità una parte di sé se lo era aspettato, dati quei meandri così raccapriccianti, ma ciò non le impedì di prendere un grosso spavento.
Oramai abituata a quei mostri che apparivano dal nulla abitualmente, subito puntò la pistola di fronte e fece per prendere la mira.
Quando però fece per premere il grilletto, non partì nessun colpo.
Dannazione! Aveva finito i colpi?!
Prima che la marionetta potesse colpirla, la ragazza approfittò del fatto che questa avesse usato i suoi arti snodati per appendersi al soffitto per sgattaiolare via dalla cella e chiuderla dentro.
Fu spaventoso quando, girando la chiave ancora incastrata nella fessura, vide a pochi centimetri di distanza quella “cosa” cercare disperatamente di raggiungerla.
Non rimase comunque lì ancora per molto, piuttosto affrettò il passo per andare via.
Avanzò molti metri e oramai la bambola, che impetuosamente batteva sulle sbarre, si percepiva a malapena.
Tornò più serenamente all’esplorazione di quel sotterraneo, il quale sembrava non finire più.
L’umido cominciò a intaccare le sue ossa e i brividi presero a irrigidirla.
A un certo punto, poi, il corridoio circondato da celle andò ad intrecciarsi con altre corsie e Claire non sapeva proprio in base a quale criterio scegliere dove dirigersi.
Era un guazzabuglio di prigioni, nel buio di delle segrete abbandonate; era impossibile decidere come muoversi.
Un bagliore, voltando verso sinistra, attirò però la sua attenzione.
Camminò lento, tenendo comunque stretta la pistola scarica. Fu più un riflesso condizionato che altro.
Quando arrivò di fronte la cella in questione, si accorse che questa non era come tutte le altre.
Quella luce calda appena percepita da lontano proveniva da una fessura aperta nella parete.
Mancavano alcuni mattoncini di pietra e quindi era possibile vedere oltre a quella che sembrava essere una cella murata.
La Redfield si affacciò e fu sorpresa quando scorse una figura umana che sembrava indaffarata a cucinare.
Era un uomo anziano, di bella presenza ma leggermente sciupato; indossava un completo nero dall’aria molto costosa, eppure era immerso nella preparazione della cena in modo del tutto disinvolto.
Si trattava di un prigioniero come lei?
Claire si chiese, con il cuore colmo di speranza, se fosse una persona “normale” o l’ennesimo nemico che le si sarebbe rivoltato contro.
 
“Mi scusi, signore?”
 
L’uomo si voltò. La sua pelle era rugosa e la sua espressione veramente stanca.
La rossa fu lieta che egli avesse reagito al suo richiamo. Allora era una persona ancora sana!
Quasi non poté credere di poter scambiare una parola con qualcuno dotato di raziocinio.
Portò i ciuffi più lunghi della frangia dietro l’orecchio, liberando i suoi occhi, poi si piegò meglio verso la fessura per approcciare un discorso.
 
“Il mio nome è Claire. Anche lei un prigioniero? ”
 
“Buonasera. Sono desolato, ma non mi è permesso parlare con altre persone.”
 
La sua voce rauca scaldò l’animo di Claire.
Okay, non era stato particolarmente loquace, ma almeno quella era la conferma che il suo cervello non fosse contagiato. Aveva quindi tutte le intenzioni di non lasciarsi scappare un’opportunità simile.
 
“Non crede che, in una circostanza come questa, sia bizzarro parlare di ‘permessi’ o roba del genere?”
 
“A quali circostanze si riferisce?”
 
Rispose inaspettatamente lui, tranquillo, continuando a girare il mestolo dentro una grande pentola.
La ragazza sgranò gli occhi, perplessa.
 
“C-cos…? Non si rende conto di essere in una prigione? Per giunta in una villa così…strana?”
 
Claire trovò difficile lì per lì spiegare qualcosa di così ovvio.
 
“Alfred! Lui deve averlo incontrato. Non le è sembrato ‘ambiguo’? Per usare un eufemismo…”
 
L’uomo guardò verso di lei, finalmente.
 
“Oh, il signor Alfred Ashford. Ovvio che lo conosco, lavoro qui. Beh, è un ragazzo un tantino eccentrico, ma d’altronde cosa ci si può fare. Rappresentando questo tipo di ambiente…”
 
“Lei lavora per Alfred?”
 
Claire si mise in allarme, allontanandosi leggermente. Il suo volto si fece più serio e corrucciato.
Il maggiordomo, dall’altra parte, cominciò a parlare fra sé e sé, rivolgendosi distrattamente alla ragazza.
Il suo, infatti, sembrò più uno sfogo personale che una conversazione vera e propria.
 
“In un certo senso è così. Ora che ricordo, fui portato qui molti anni fa, non ricordo più quanti con esattezza. So solo che fui rinchiuso in queste quattro mura e mi fu vietato di parlare con alcuno. Io dovevo solo cucinare e prendermi cura di parte della casa, quella dove il ragazzo abitava quando veniva qui.”
 
La rossa portò una mano sotto il mento. Qualcosa in quelle parole la colpì profondamente e fu capace di farle comprendere l’intera storia di quell’uomo adesso anziano.
Una storia triste, solitaria, lunga, desolata… prigioniero di quel luogo da così tanti anni che, probabilmente, adesso era diventato la sua unica realtà.
Fu qualcosa di drammatico da immaginare, che intristì enormemente Claire, la quale provò di nuovo ad approcciarsi con lui.
 
“Signore…perché se ne sta lì?” disse con dolcezza. “Non vuole fuggire da questo posto?”
 
“Fuggire da dove? Sono sempre stato qui. Il mio compito è cucinare.”
 
Il turbamento che poteva leggersi negli occhi di Claire era immenso. Egli sembrava ormai incapace di abbandonare quel luogo; lentamente era impazzito…come tutti in quel posto.
 
“Puoi farmi entrare?”
 
“Proprio non saprei come fare…”
 
Il suo tono era sempre molto tranquillo. Sembrava non gli importasse nulla.
La sua mente era più imprigionata della prigione stessa in cui era rinchiuso. Era lui stesso che si era arreso e aveva deciso di non combattere.
 
“Sai come posso uscire da qui?”
 
“Proprio non saprei…”
 
La ragazza abbassò il viso affranto. La speranza appena nutrita si sbriciolò davanti ai suoi occhi.
L’aver trovato una presenza umana oltre a lei non era servito a nulla.
Esistevano delle condizioni che erano peggiori della violenza, della sofferenza, della rassegnazione…esisteva qualcosa a livello mentale che poteva rappresentare una condanna molto più drammatica della morte.
Si trattava dell’arrendersi; una condizione in cui la nostra vita muore dentro noi stessi prima ancora che nel corpo, condannando così ogni cosa.
Poter quasi toccare con mano tale blocco mentale che finisce per logorare e distruggere tutto, fino a portare la vittima ad accettare quella condizione di sottomissione e di dolore senza alcun desiderio di salvarsi, fu così devastante che Claire preferì essere sola in quel momento.
Realizzò che non poteva fare più niente per lui.
Lasciò quindi quell’uomo nella sua cella, sia metaforica che reale, potendo soltanto augurarsi che alla fine sarebbe rinsavito e avrebbe deciso di fuggire.
Consapevole che non avrebbe ottenuto nulla da lui, decise di circumnavigare la zona, alla ricerca di un passaggio per entrare nella cucina.
Se quell’anziano maggiordomo accudiva il maniero Ashford, allora quella cucina doveva essere vicina all’uscita della Dollhouse più di quanto sembrava, dedusse.
A un certo punto trovò una porta che emetteva un insolito calore.
Già di per sé vedere una porta di legno fra tutte quelle celle rappresentava finalmente uno scenario diverso; costatare inoltre che la sua superficie fosse tiepida, rafforzò l’ipotesi che forse dietro si celasse proprio la cucina.
Quando aveva parlato con quell’uomo, infatti, dalla fessura aveva avvertito una temperatura abbastanza elevata per via dei fornelli accesi.
Controllò se la porta fosse aperta, ma ovviamente così non era.
Interagì con il manico di ferro battuto più volte, ma niente. Non accennava minimamente a muoversi.
Cercò quindi di identificare la chiave. Chissà se poteva essere nei paraggi.
Osservando meglio la porta, si accorse di un simbolo inciso sopra la maniglia: era un guazzabuglio di linee molto strane.
Più le analizzava, però, più queste prendevano forma e alla fine comprese che c’era un disegno nascosto fra esse.
Costatò inoltre che era possibile roteare i pezzi che componevano la maniglia, in modo da ottenere la rappresentazione giusta.
Giocherello con quel meccanismo e, una volta esaminati tutti i pezzi, si rese conto che la figura che ne sarebbe venuta fuori era più familiare di quanto non avrebbe pensato.
Era la rappresentazione di un mostro: una chimera.
Non una chimera qualsiasi, ma una che ricordava una bambola.
Subito sgranò gli occhi ricordando il manichino che l’aveva aggredita poco prima.
Grazie a quell’indizio fu in grado di aprire la porta, ottenendo il disegno esatto di quello strano mostro. Infatti, un suono si propagò nel silenzio; era la serratura.
Claire spinse la porta ed entrò.
 
 
***
 
 
Dollhouse- Fine
 
 
 
 
Fu strano per lei ritrovarsi nella cucina esaminata in precedenza attraverso quei mattoni di pietra mancanti. Il focolare acceso conferiva all’ambiente un aspetto caldo, ma anche molto opprimente.
C’era una temperatura quasi infernale, era invivibile. Persino l’aria sembrava pulsare, essendo molto densa per via dei fumi di cottura.
I fornelli accesi dall’aspetto datato eppure in un ottimo stato di conservazione, e poi anche il forno, il cui fuoco prorompeva emettendo dei piccoli schioppi. Vi era un’eccessiva quantità di fonti di calore rappresentando quella stanza così piccola, in cui c’era a malapena lo spazio per il tavolo di legno posto al centro sul quale erano posati i vari preparativi per la cena.
Il vecchio maggiordomo era ancora lì, che girava come ipnotizzato il contenuto dell’enorme pentola che sobbolliva sul fuoco.
Lì per lì Claire ebbe la tentazione di rivolgergli di nuovo la parola, ma qualcosa la bloccò.
Il fatto che lui non si fosse nemmeno girato per vedere chi fosse entrato nella sua cucina bastò a farle intendere che anche questa volta lui non si sarebbe curato di lei.
Sembrava un automa dedito al suo dovere, niente più.
La ragazza dovette stringere il cuore e proseguire senza di lui.
Abbassò il viso verso il tavolo, guardando distrattamente fra i pacchi di farina ivi poggiati, e una scintillante chiave con uno stemma dorato attirò la sua attenzione.
Sbirciò in direzione del maggiordomo e, dopo essersi assicurata che fosse ancora assorto, buttò l’oggetto nella tasca dei suoi pantaloni.
Quell’uomo non si accorse di nulla. Oppure non gli importava.
Claire lasciò la cucina salendo le scale di pietra che portavano a un piano superiore.
Salì su per una lunga scalinata a chiocciola, stava lentamente riemergendo dalle tenebre di quella pazza casa delle bambole.
Infine si trovò di fronte un maestoso portone.
Su di esso vi erano disegnati due bambini dai capelli dorati. Un maschio e una femmina. I due facevano un profondo inchino, salutando gli ospiti che stavano lasciando la loro dimora dei giochi.
 
“Came back anytime!”
 
Claire vide la fessura di quel portone.
Era stranamente molto piccola.
Allora si ricordò della piccola chiave trovata quando si era addentrata in quel losco mondo; ironia della sorte, l’aveva trovata appesa alla vita della prima bambola a grandezza umana cui si era imbattuta.
Era come se quella circostanza volesse suggerirle che quindi aveva raccolto la chiave di ‘casa’ di quel manichino.
Prese dunque l’oggetto fra le mani e lo incastrò nella serratura, la quale scattò.
Allora era vero…aveva sempre avuto con sé la chiave d’uscita, fin dall’inizio.
Era in circostanze simili che ringraziava la sua natura curiosa; se non avesse mai esaminato quella bambola, probabilmente adesso si sarebbe ritrovata davanti quel portone con un palmo di naso.
Tuttavia erano ragionamenti che era meglio non elaborare, dati i tanti inghippi che più volte avevano messo a repentaglio la sua sopravvivenza.
Uscì dunque dalla macabra e raccapricciante Dollhouse.
 
 
 
 
***
 
 
 
 
Ritorno alla residenza Ashford - Corridoio
 
 
 
 
 
Fu curioso il luogo dal quale Claire sbucò fuori.
Esso era un enorme quadro su cui era dipinta proprio una casa delle bambole.
Era molto simile a quella da lei visitata, solo non tetra, non macabra, senza inghippi e morte. Era una semplice villetta abitata da deliziose bambole che occupavano le varie stanze.
Scavalcata quella strana porta-quadro, si ritrovò proprio nel corridoio della villa Ashford, nella zona dove era situata la camera di Alexia/Alfred.
Fu sconvolgente per lei pensare di aver già esaminato, a suo tempo, quel corridoio, ove però aveva trovato solo porte chiuse. Invece fra le sue mura si celava un passaggio segreto di quella portata.
Osservò la chiave dorata rubata al maggiordomo.
Era molto appariscente, sembrava davvero un oggetto prezioso per via degli intagli molto particolari.
A causa del suo aspetto lussuoso, fu logico pensare che quella fosse la chiave della residenza, forse l’unica in grado di aprire le varie porte della villa.
Tuttavia una sola stanza era di suo interesse: la camera di Alfred.
Strinse l’oggetto fra le sue mani e puntò lo sguardo sulle numerose porte situate nel corridoio distinguendo velocemente la camera di Alexia.
Da lì avrebbe preso il passaggio nascosto dietro il bassorilievo scolpito nel muro per entrare finalmente nella stanza del fratello gemello.
Il suo cuore pulsò timoroso.
Il fatto di essere oramai a un passo da una meta che aveva puntato da tanto, paradossalmente cominciò a farle paura. Tuttavia non indugiò; si fece coraggio e avanzò verso la porta.
Girò la chiave e questa si aprì.
L’ultima volta che era riuscita a entrare nella camera di Alexia era stato casualmente quando era stata nella stanza delle torture. Adesso invece ci stava rientrando di sua spontanea volontà e anzi…per esaminare la camera personale del suo attuale nemico.
Oramai coinvolta a livello emotivo, non le fu indifferente solcare quei luoghi.
Una volta dentro, poggiò il piede sulla morbida moquette rossa che rivestiva la pavimentazione e richiuse la porta dietro di sé.
La porta emise un fastidioso stridio, che enfatizzò quel luogo malinconico ed evocativo.
Osservò il letto a baldacchino, la vetrina con le bambole da collezione, i mobili antichi, il carillon, la luce che pulsava tenue dai candelieri appesi alle pareti…
La poltrona su cui era stata imprigionata invece non c’era più, era stata rimossa.
Infine…il suo sguardo si posò sul bassorilievo in pietra posto sul muro di fronte la porta, raffigurante una donna in stile arte greca.
Camminò lento verso di esso e vi poggiò la mano; quel marmo freddo era più caldo della sua mano, invece addirittura gelata. Era molto nervosa, non poteva negarlo.
Spinse e riuscì quindi ad entrare nella camera da letto di Alfred Ashford.
 
 
 
 
***
 
   
 
 
Residenza Ashford
Camera da letto di Alfred Ashford
 


 
La stanza era speculare a quella precedente. Nessun elemento le differenziava.
La stessa moquette rossa, lo stesso ampio e vaporoso letto a baldacchino, gli stessi mobili, lo stesso carillon…soltanto la specchiera era diversa.
Quella postazione dall’aria così preziosa e pregiata, era invece deturpata da uno specchio ormai danneggiato. La sua superficie di vetro era segnata da una grossa crepa posta al centro, dentro la quale si diramavano piccoli frammenti che apparivano come i tasselli di un mosaico.
Oramai non erano più in grado di riflettere chi si sarebbe affacciato sulla sua superficie.
Claire si chiese se fosse stato Alfred a distruggerlo, sebbene la risposta fosse più che ovvia.
Aveva, infatti, potuto vedere lei stessa il suo rapporto con gli specchi, che in qualche modo torturavano la sua mente, così imbrigliata nel suo mondo fittizio da non sopportare la sua stessa immagine riflessa.
Suo malgrado, comunque, la ragazza non trovò molto da esaminare.
L’unico oggetto che attirò la sua attenzione fu il carillon sistemato di fronte il letto.
Era un enorme carillon a muro di legno massiccio che occupava gran parte della parete, sulla cui sommità vi erano delle decorazioni. Era pressoché lo stesso che un tempo utilizzò a Rockfort per salire al piano superiore nascosto in quella stanza; un passaggio ove era possibile entrare nel momento nel quale si faceva suonare l’oggetto, soltanto che adesso il coperchio era chiuso e quindi era impossibile metterlo in funzione.
Al posto di Alfred, era lì che lei avrebbe nascosto i suoi ‘tesori’, dunque scrutò il coperchio di quello strumento per cercare di attivarlo.
Trovò strano quando si accorse che la statuina della formica blu, la ‘chiave’ per aprire quello scomparto, era incastra nell’apposita fessura, ma solo per metà.
La parte posteriore era mancante, come se quell’oggetto fosse stato spaccato in due.
 
Spaccato in due….
 
“Oh mio dio, ma certo!”
 
Più osservava la parte mancante di quella formica, più la sua mente andò a ripescare dai suoi ricordi quella pietra blu che quasi si era dimenticata di aver raccolto!
La pietra che tolse dall’incastro nella parete, sulla quale era raffigurato un bambino che porgeva tutti i suoi tesori alla sua amata. In altre parole…Alfred e Alexia.
Ecco perché quella pietra le era stata così vagamente familiare!
Cercò nella tasca e quel frammento fu di nuovo fra le sue mani. La frase incisa sulla sua superficie adesso era finalmente chiara nel suo più completo significato.
 
“Ubi iacet dimidium iacet pectus meum”
-Dove giace la mia metà, giace il mio cuore.-
 
“Dove giace la mia metà”, riferito ovviamente all’altra metà della formica collocata sul carillon; “giace il mio cuore”, in altre parole i suoi ‘tesori’, quelli raffigurati in quel disegno infantile.
Chissà se quella frase era in qualche modo riferita anche al rapporto dei due gemelli:
Dove giace la mia amata sorella, è lì che giace anche il mio cuore.”
Fu un’interpretazione che venne spontanea nella mente di Claire, inducendola a chiedersi cosa avrebbe trovato al piano di sopra una volta attivato il carillon.
C’era però solo un modo per scoprirlo…
La Redfield incastrò dunque il pezzo nella zona posteriore della scultura, il quale combaciò alla perfezione.
Il coperchio si sollevò all’istante, mostrando così lo spartito già sistemato al suo interno.
Attese che il carillon emettesse la sua malinconica melodia, la quale ben presto echeggiò nella stanza suggestionando con le sue note la solitaria spettatrice/vittima di quell’incubo tremendo.
Claire ascoltò forse per la prima volta quel dolcissimo e nostalgico componimento. Trasmetteva uno strano senso di gioia eppure di amarezza, come se una bella storia fosse oramai inesorabilmente finita.
Una volta terminato il brano, il letto s’innalzò sostituendosi a una scala a pioli che conduceva al piano superiore. Esattamente come a Rockfort.
Prima di inoltrarvisi la ragazza emise un profondo respiro. In seguito si arrampicò sulla prima sbarra e salì la scaletta.
 
Quella stanza nascosta era del tutto buia.
Claire si tirò su e avanzò a tentoni, cercando di destreggiarsi al meglio. Accese l’accendino, ancora una volta la sua unica fonte di luce, e prese a esaminare quel luogo desolato.
Era polveroso e sembrava che Alfred non vi salisse da un bel po’ di tempo. Sperò comunque di trovare qualcosa di utile.
Il luogo era molto diverso da quello visto a Rockfort questa volta.
Era, infatti, una semplice soffitta nella quale sembravano essere riposte tutte quelle cianfrusaglie inutili che lui doveva aver sgomberato dalla sua stanza.
C’erano ben quattro specchiere rotte poggiate al muro una sull’altra, una cospicua quantità di carte, fogli, dipinti… persino un armadio con dentro dei vestiti.
Non si sorprese di trovare anche un manichino, sul quale era adagiato l’abito di Alexia e una parrucca bionda.
L’aveva visto travestirsi più volte da lei, quindi era abbastanza lampante che in quella soffitta fossero nascosti anche oggetti di sua sorella. Trovò dentro un cassetto, infatti, anche una serie di cosmetici e altri abiti sfarzosi.
Rilevò perfino un’inquietante quantità di candele sciolte sul pavimento, dettaglio che la indusse a pensare alle ore che probabilmente il ragazzo aveva passato lì dentro.
Il caos che regnava quel luogo andava davvero in contrasto con la sua stanza da letto, invece perfettamente pulita e ordinata.
Accese, comunque, qualcuna di quelle candele, in modo da fare un po’ di luce.
Andò poi a esaminare una scrivania, nascosta sotto un telo bianco oramai ingrigito. Lo scostò delicatamente in modo da non far sollevare troppa polvere, ponendolo poi ai piedi del mobile.
Osservò gli oggetti che vi erano riposti: c’erano fogli, penna e calamaio, un paio di modellini giocattolo di carri armati, infine uno scrigno di legno.
Avendo ancora il coltello da cucina con sé, Claire lo utilizzò per forzare la serratura visibilmente debole, così le fu molto semplice romperla per aprire quel forziere.
Dentro vi trovò una serie di ritagli di giornale. Erano tutti articoli riguardanti l’Umbrella ma non aveva il tempo per leggerli. Vi era anche tutta una serie di lettere il cui mittente era a volte Alfred stesso, altre volte Alexia.
Sbirciandone la data, il ragazzo doveva essere moto giovane all’epoca. Su di essere vi era scritto 1983, quando lui aveva quindi…solo dodici anni?
Trovò fra quei fogli anche un encomio ricevuto durante la laurea, conseguita nel 1993, presso il nome di un’università molto prestigiosa che la ragazza conosceva di fama.
Claire quasi si sorprese che Alfred avesse frequentato un ambiente di studio come quello, non solo. Che avesse eccelso a tal punto da ottenere voti così lodevoli e poi… si fosse tristemente ridotto in quel modo. Non aveva senso.
Conoscere quel particolare della sua vita fece leggermente salire la reputazione che aveva di lui.
Dietro la sua visibile instabilità mentale, era nascosto un uomo intelligente, forse addirittura geniale, che era stato capace di conseguire degli studi ferrei e avere successo nella vita.
Qualcosa tuttavia doveva essere andato storto, trasformandolo nella persona squilibrata che era attualmente. Un vero peccato.
Scrutò ancora fra quelle carte, trovando persino diverse fotografie che lo rappresentavano.
Una doveva essere anche piuttosto recente, visto che il suo viso era pressoché identico, così come la sua pettinatura rigorosamente tirata indietro. Soltanto che era vestito con un completo nero molto elegante. Degli abiti più usuali, rispetto la divisa militare inglese che indossava solitamente, gli conferivano un’aria drasticamente diversa. Più…normale?
Stette a guardarlo diversi istanti, quasi dovendosi sforzare di riconoscerlo.
Girò la fotografia e dietro vi era una dedica oramai illeggibile. Forse era il ricordo di qualche evento.
Claire s’immerse completamente nella lettura di quei frammenti dell’esistenza di Alfred, non riuscendo a frenare la sua curiosità e quell’intrinseca voglia di conoscenza circa il suo universo brutalmente macchiato.
Fu strano per lei poter entrare nei suoi ricordi, seppur frammentati, i quali la coinvolsero a tal punto che non seppe quando porsi un limite.
Uno strano sentimento guidava le sue azioni in quel momento, probabilmente era la sua profonda sensibilità che spesso la portava a non riuscire ad accettare la realtà così com’era.
Claire amava trovare delle ragioni dietro le persone, e quella cassa aveva stimolato quella parte del suo cervello che non accettava di dover soltanto scappare da lui.
Non avrebbe potuto fare niente per aiutarlo, lo sapeva…eppure avere la possibilità di capire meglio il suo mondo era un pensiero che l’aveva già posseduta da tempo, solo che non aveva ancora voluto darvi ascolto.
Il fatto di trovare così tanti oggetti che simboleggiassero un’esistenza così apparentemente normale, inoltre, la rendeva sempre più confusa.
Basandosi sul contenuto di quel forziere, Alfred appariva un uomo come tanti e anzi; persino uno che aveva ottenuto dei successi invidiabili, rappresentando che aveva solo ventisette anni.
Ad un tratto, qualcosa posto sul fondo attirò la sua attenzione.
Era un oggetto rosso, scintillante.
Lo raccolse e subito comprese di cosa si trattava: era la formica rossa, quella per il carillon invece posto nella stanza di Alexia!
Le ritornò di nuovo in mente quella frase: “Dove giace la mia metà, giace il mio cuore.”
La parola “metà” quindi era davvero riferita ai gemelli dai capelli biondi! Se la formica blu rappresentava Alfred, la rossa era invece Alexia.
Dunque… dove giaceva la sua metà, in altre parole Alexia, giaceva il cuore di Alfred. Doveva usare la formica rossa!
Fu lieta di aver trovato qualcosa di utile in quella soffitta.
Inoltre, avendo oramai perso la cognizione del tempo mentre frugava in quello scrigno di ricordi, decise che forse era arrivato il momento di lasciare quella stanza.
Era meglio muoversi in fretta, voleva evitare di imbattersi in Alfred se possibile.
Scese dunque la scaletta a pioli e tornò presto nella camera del biondo.
Proprio prima di attraversare il passaggio segreto che portava nella camera di Alexia, però, un particolare attirò la sua attenzione.
Aveva guardato distrattamente verso la scrivania e si accorse solo allora che il cassetto non era perfettamente chiuso. Si chiese come avesse fatto a non accorgersene prima.
Decise di aprirlo ed esaminare il suo interno più per quell’irripetibile opportunità di esaminare con calma un ambiente così prezioso per Alfred, che per altro.
Una volta aperto, dentro trovò solo alcuni effetti personali, ma ciò che attirò la sua attenzione fu un libricino dalla copertina rigida.
Non era tuttavia un libro qualsiasi. Aprendolo, Claire notò che le sue pagine erano scritte a mano, dunque quello doveva essere… il diario di Alfred!
Il biondo scriveva un diario?
Lo sbirciò velocemente, ma non credeva di avere il tempo effettivo per darci un’occhiata. Per via delle dimensioni ridotte, poteva riporlo nella sua tasca; l’avrebbe poi esaminato con calma.
Mentre lo chiuse, però, qualcosa attirò la sua attenzione.
Fra le pagine pendeva uno strano filamento scuro, veramente molto sottile. Quasi si percepiva a stento.
Prendendolo fra le mani, aprì il diario in prossimità della pagina dove era stato adagiato, la quale era tuttavia perfettamente bianca. Non c’era niente scritto all’interno.
Ciò nonostante, più osservava quella fibra sottilissima, più le sembrava un…capello? Possibile?
In effetti, era usuale conservare cose del genere dentro un diario, però quello non era un capello biondo, dunque non apparteneva né ad Alfred, né alla parrucca di Alexia.
Il pigmento era invece piuttosto scuro e…rossiccio.
Claire sgranò gli occhi a quella sua stessa costatazione.
Un capello rosso, visibilmente femminile per via della lunghezza………………
………Quel capello………….era suo! Di chi altri, se no?
La ragazza si sentì nel panico. Adesso che lo osservava meglio, era più che ovvio che fosse suo.
Quando lo aveva preso Alfred? Ma soprattutto, di che se ne faceva? Perché lo teneva conservato?
Era lì per caso, oppure vi era stato riposto appositamente?
La sua mente cominciò a ingarbugliarsi irrefrenabilmente. Questo perché il ragazzo che abitava quelle mura non era tipo da conservare casualmente un cimelio simile.
Era abbastanza strano e tormentato da arrivare a fare qualcosa del genere, ne era certa.
Purtroppo la teoria più probabile era che lo avesse riposto nel suo diario di proposito…ma per quale motivo?
La risposta era più ovvia di quanto sembrasse, ma Claire non era nella condizione mentale di ammetterlo, sebbene ne fosse già consapevole.
Come se non bastasse, d’improvviso un rumore proveniente dall’esterno interruppe bruscamente i suoi pensieri controversi.
Il movimento della maniglia che girava catapultò immediatamente Claire nella situazione di pericolo nella quale si stava per trovare.
Si era concentrata così tanto verso quel particolare, che non si era accorta dei passi che oramai si erano approssimati da oltre la porta.
Cercò di attraversare il passaggio segreto posto sul muro, ma era troppo tardi.
Quando sbirciò fugacemente alle sue spalle, ormai quel qualcuno stava già aprendo la porta.
 
Alexia, la regina di quel castello, entrò nella stanza da letto.
Il rumore dei suoi passi rintoccò sul pavimento, ammorbidito dalla superficie soffice della moquette.
Il suo ingresso sembrò come fermare il tempo.
Colei che dominava quel mondo emanava un’aurea così forte da essere capace di attirare tutte le attenzioni su di sé, cancellando ogni cosa vi si confrontasse.
La sua candida pelle, i suoi capelli pallidi, l’elegante vestito scuro che accarezzava il suo corpo.
Ella era solo una copia della reale bellezza di colei che era il vero genio della famiglia Ashford; eppure, nonostante ciò, anche ‘lei’ sapeva essere ammaliante e misteriosa come la sua gemella.
Tuttavia il suo viso assorto la tradiva questa volta.
Quello sguardo spento e avvilito rifletteva un mondo interiore in tormento, in contrasto con la maestosità che si proponeva di rappresentare.
Chiusa in quel momento di sconforto, in preda alle amarezze con le quali lottava ogni giorno, sembrava come se la ‘falsa Alexia’ fosse prevaricata per una volta dall’uomo in realtà nascosto dietro la sua effige.
Claire rimase a guardarlo attonita, non capacitandosi di vedere Alfred in quello stato persino nelle spoglie di colei che per lui era la sua ragione di vita.
Lo vide così malinconico che sembrò persino non essersi accorto della sua presenza.
Qualcosa turbava quel viso marmoreo, che invece non faceva che torturarla in quel perverso gioco che la stava ingabbiando sempre di più nel suo losco e folle mondo.
Vedere i suoi limpidi occhi cristallini così bassi e sconfortati, distorse la mente della giovane dal pericolo imminente di trovarsi sola al suo cospetto, nel suo territorio, nella sua camera.
Il suo sguardo scivolò sulla sua spalla, la quale, sebbene fosse bendata, era macchiata di sangue. Questo colava ancora, come se quella ferita non fosse stata suturata a dovere.
Claire dedusse che era lì dove doveva averlo sparato, quando si erano incontrati nel poligono di tiro. Sembrava un taglio doloroso.
Alexia intanto alzò lentamente i suoi occhi glaciali e li rivolse distrattamente alla sua stanza…la stanza di Alfred.
Egli era entrato nella sua camera per riposare, per dare sollievo alla sua ferita e trovare un attimo di pace interiore.
Persino nella sua mente le sue ragioni vacillavano fin troppo spesso. Più volte lottava contro quella pazzia che l’aveva condotto in quel martirio tanto atroce del quale tuttavia non poteva più fare a meno.
Per questo, quando alzò il viso rivolgendolo in avanti, quasi sbandò nel ritrovarsi di fronte Claire Redfield.
La bionda si ritrasse, a tratti confusa, a tratti inorridita.
Davvero non si era accorta di quella presenza e si sentì come minacciata.
La Redfield avvertì lo smarrimento che stava prendendo possesso di lui, così cercò di mitigare la frustrazione che sembrava già di per sé affliggerlo prima ancora che fosse entrato in quella stanza.
Prima però che potesse dire o fare qualsiasi cosa, fu lui a prender parola, parlando con un timbro vocale a metà fra il suo e quello da donna che adoperava per imitare sua sorella; questo proprio perché qualcosa stava andando a collimare in quel momento.
Probabilmente si trattava di quel senso di profanazione che aveva colpito l’Alfred in realtà nascosto dietro quel travestimento.
 
“Vile donna, bieca e spregevole, come lo è tutta la razza alla quale appartieni. Calpestate il suolo di un regno che non vi appartiene, permettendovi di macchiarlo e deturparlo perché voi ritenete che la vostra vita sia più giusta; quando invece esistono delle entità che si elevano alla vostra umana e mediocre concezione del potere. Come osi quindi oltraggiare il suolo di questa stanza? Come osi insinuarti qui dentro, come un’ignobile formica alla ricerca di una salvezza cui non può ambire?
Credi forse di poter fare il tuo gioco? Di poter dominare a modo tuo fra i meandri del mio palazzo?
Avanti, Redfield, mostrami pure come intendi fare…rivela come credi di poter intrappolare il ragno nella sua stessa tela.”
 
Claire rimase esterrefatta di fronte quegli occhi spettrali e apatici, dai quali si ergeva una rabbia incontrollata.
Oltre le sue parole, c’era visibilmente qualcos’altro che l’aveva animato a tal punto.
Claire non lo aveva mai visto così affranto, così addolorato, così ferito… al livello di arrivare a trasmettere soltanto odio, perdendo completamente il senno.
Questo perché poteva vedere nitidamente quanto la sua ira non fosse rivolta a lei, ma a un mondo che gli aveva voltato le spalle e di cui lei era il capro espiatorio in quel momento.
Quel rancore la fece rabbrividire, ma presto quei sentimenti si trasformarono in compassione. Cosa gli era accaduto?
 
“Cosa ti è successo?”
 
“Non essere arrogante, non sei degna di tale risposta.”
 
L’oscurità della sua anima ombrava persino il suo volto, che appariva tetro, ermetico, invalicabile.
Era come se si stesse ergendo una fosca barriera fra lui e tutto ciò che lo circondava. Qualcosa di lugubre e triste brillava nei suoi occhi.
Claire si sentiva sempre più distante dalla comprensione di quelle ferite inguaribili.
Tentennò per qualche istante, non sapendo cosa mai poter dire, o cosa fare, schiacciandosi al contempo contro la parete.
La sua mente e il suo corpo erano concentrati sulla ‘falsa Alexia’ che invece dominava quella scena e che intanto avanza spietata verso di lei, con passo lento e felino.
 
“Non…non stavo facendo niente qui dentro. Me ne stavo andando, tranquillo.” deglutì. “Lasciami andare via, lascia che io torni a casa. Sta durando troppo, per fav…”
 
A quel punto Alexia si fiondò contro di lei afferrandola per il mento.
La scaraventò contro il muro col bassorilievo di pietra e premette con forza, obbligandola a guardarla nei suoi occhi vitrei e impetuosi.
Quelli di una Regina che non ammetteva farabutti nel suo amato regno da proteggere!
 
“Vuoi raccontarmi la tua farsa? Credi davvero che me ne importi? Probabilmente ancora non ti sei accorta di quello che ti circonda. Forse ancora non riesci a vedere chi hai per davvero davanti.”
 
Claire vide davanti ai suoi occhi l’inquietante immagine di quella donna diabolica che muoveva le sue labbra rosseggianti con tono tirannico.
La brutalità che trapelava da esse la fece rabbrividire quanto la sua figura eterea e femminile, eppure oscurata dalla malvagità e dalla pazzia.
Per un attimo dimenticò di avere Alfred dinanzi a sé, perché quella che vedeva era l’ira di una regina ferita al punto di sferrare il suo attacco finale.
Le stava stritolando la mascella contenendo visibilmente la sua collera, consapevole che l’avrebbe triturata se l’avesse voluto. Claire fu costretta a digrignare i denti con forza per cercare di contrastare quella potenza in qualche modo.
La donna dai lunghi capelli biondi intanto si avvicinò ancora di più con fare intimidatorio, volendo violentare con il suo sguardo imperioso la mente di quella giovane ribelle che osava ancora insinuarsi fra i suoi beni più preziosi.
Lo fece perdendo pienamente il controllo di sé, delle sue azioni, guidata da un istinto viscerale che covava nel suo intimo e che bramava trasmette nella donna che si era introdotta nella sua vita. Voleva infettarla con quel senso di prevaricazione che l’avrebbe sottomessa al suo potere.
Claire, infatti, non potette che incrociare i suoi occhi cupi e prepotenti, non essendo nelle condizioni nemmeno di sfuggire dal vincolo che la Regina stava imponendo su di lei.
Era come se la sua forza potesse arrivare a inchiodarla fino a quel punto.
La bionda e oscura gemella si avvicinò arrivando persino a sfiorare le sue labbra, come una serpe che vuole affondare le sue velenose fauci dentro la sua vittima.
Era questo che quella bocca voleva comunicare nella ragazza dai capelli rossi.
Claire, dal suo canto, vide approssimarsi a lei il viso di quella donna, le cui labbra non trapelavano il gesto di un malato amante, ma di una fiera velenosa e mortale che voleva divorarla.
Quando il suo fiato soffiò sul suo viso, il cuore prese a sbatterle impetuoso, ma non potette sottrarsi a quel bacio immorale e letale.
La sua mente lì per lì non seppe collegare quello che stava accadendo realmente.
Sentì quella bocca profanarla con fare diabolico, imbrigliandola nella sua tela velenosa fino a iniettarle le turbolenze che animavano quel mondo demoniaco dominato dalla follia.
Sussurrò appena poche parole incomprensibili, nel mentre in cui tutto ciò accadde. Parole che non riuscì a pronunciare e che avrebbero dovuto distogliere quella donna da quel gesto.
Alexia baciò la sua prigioniera col desiderio di disturbare la sua mente, come l’atto di un malevole aguzzino.
Il diavolo che assapora il terrore delle sue vittime e che le riduce in uno stato di soggezione, lasciandole in balia delle loro angosce.
Adorava nutrire i suoi prigionieri con il suo odio e la sua depravazione, con quella solitudine e aridità che invece animava il suo mondo.
Volle portare tutto questo anche dentro la giovane Claire Redfield.
Sentiva la sua paura. Sentiva il suo sgomento.
La cosa la esaltava e la faceva sentire la vera regina di quel palazzo perverso.
 
Eppure…non si trattava solo di questo.
 
La Regina che si ergeva sovrana e che dominava gloriosa quel mondo...
La Regina che osava compiere le azioni della sua storia e costruire il suo regno…
 
Cose cui lui aveva rinunciato consapevolmente.
Cose cui lui aveva deciso di non abbandonarsi categoricamente.
 
La Regina che viveva attraverso il corpo umile e devoto di suo fratello gemello...e che era anche quella che permetteva l’esistenza di quest’ultimo.
Era tramite Alexia che l’umile servitore poteva vivere anche la sua vita, ormai.
Non c’erano altrimenti.
 
Alfred aveva deciso di eclissasi volontariamente, non desiderando mai di prevaricare su di lei, in onore a un amore che aveva caratterizzato tutta la sua vita.
Tuttavia fu grazie all’autorità e alla fermezza di Alexia che anche lui aveva avuto modo di esprimersi.
Forse, dietro quel travestimento, non c’era solo l’intento di far rinascere Alexia.
Non era lei che prevaricava sulla sua personalità.
Forse semplicemente era grazie al fatto che si fingesse Alexia, che Alfred riusciva a esprimere quello che in realtà era nascosto anche nel suo cuore.
Perché la bionda non era solo una sorella per lui. Lei era un ideale.
L’ideale di quella grandezza che lui stesso ambiva raggiungere.
Alexia era la spada che usava per difendersi dalle sue insicurezze e i suoi tormenti.
Quando diventava Lei, poteva tutto.
Lui…diventava il Re di quel regno dimenticato. Il sovrano che poteva ogni cosa.
 
Per questo quella morsa velenosa, data dalla sua personalità come Alexia, andò presto in collisione con la sua altra personalità.
La sua personalità reale.
La sua personalità fino a quel momento rimasta celata.
La sua personalità come Alfred Ashford.
La sua somma sorella aveva potuto compiere senza indugio qualcosa che invece a lui il cuore impediva, in virtù del suo eterno amore per lei…
Facendolo, era come se avesse avuto il suo tacito permesso, il suo consenso. Era Alexia che aveva deciso di farlo.
Quel vincolo era stato sciolto dalla sua Regina e adesso la sua bella e desiderata Claire era fra le sue braccia…
Fu qualcosa che cominciò a mandare in panne la mente di Alfred, lasciandolo in balia dei suoi sentimenti repressi che avevano violentato la sua mente, rendendolo instabile e sedizioso. 
Prese a baciare intensamente la ragazza senza nemmeno accorgersi di quel lento, eppure repentino, scambio di ruoli che lo fece tornare Alfred Ashford, sebbene fosse ancora travestito dalla sua gloriosa sorella.
Spinse così forte, protraendosi verso di lei, tanto da far ribaltare il passaggio dietro il bassorilievo di pietra che collegava la sua camera con quella di Alexia.
In questo modo i due caddero a terra e Claire si ritrovò il corpo pesante e prepotente della bionda che violava le sue labbra con fare sempre meno indiscreto.
Lentamente quella morsa velenosa si trasformò in un bacio passionale che travolse lo spirito in subbuglio del giovane castellano.
Come se una parte di sé si fosse accorta che la bionda stesse compiendo quel gesto come uomo perso nei suoi sentimenti, Claire cominciò a muovere il suo viso sperando di togliersi da quella situazione.
Era disorientata non solo da quelle labbra, ma soprattutto dalla loro veemenza, dissimile dalla malignità avvertita prima.
Alienata e ancora incapace di intendere e volere, non fu in grado di alzarsi e scappare via da quella situazione fuorviante.
Si sentì soltanto schiacciata fra il corpo di ‘Alexia’ e la moquette sotto di lei. Una posizione scomoda ma che agevolava i movimenti di quella donna, che così poteva costringerla alla sua mercé senza particolari sforzi.
Dal suo canto, Alfred per una volta nella sua vita dimenticò di star interpretando Alexia in quel momento. Fu forse una delle uniche volte in cui, invece, fu il biondo a prevaricare sulla Regina assoluta….. e fu un qualcosa di cui non se ne accorse nemmeno, lì per lì.
Più tardi, sarebbe stato un pensiero che l’avrebbe devastato, ma al momento quell’ignobile e tormentato istinto l’aveva indotto a rischiare la sua intera rappresentazione pur di essere assieme a quella figura spregevole e ordinaria, lontana dal suo concetto di regalità e perfezione.
Una parte di lui era ammaliata da quella sconosciuta e comunissima donna, da quella ignota e imperfetta formica…
 
Né l’incoscienza, né l’incoerenza; né il dolore e né l’umiliazione.
Neppure l’adorazione che invece riservava alla sua unica donna prediletta.
Nulla di tutto ciò prevaricava sulle sue ragioni in quel momento.
 
Egli bramava soltanto possedere quel corpo vivo, reale; una sensazione di appagamento concreto, tangibile, che soppiantasse il sentimento di solitudine che da troppo tempo era rimasto trascurato fino a logorarlo.
Era come se lo stesso burattinaio si fosse stancato delle sue maschere e volesse spogliarsi delle sue vesti anche solo per un istante.
Questo per vivere qualcosa di più reale rispetto a una scenografia falsa interpretata da attori che recitavano soltanto le loro parti.
In seguito, lo show sarebbe andato avanti senza indugio, ripartendo da dove era stato lasciato.
Alfred era conscio, infatti, che non avrebbe mai visto ciò che voleva dietro il suo teatrino, quell’unica realtà che lui concepiva.
Oppure era semplicemente riluttante verso l’ammissione di quella colpa; verso quell’inconfessabile piacere che non gli avrebbe arrecato che dolore se si fosse concesso ad esso.
Per questo ammirava la sua bella “protagonista” dai capelli rossi da lontano, in quel tacito idillio che alcuno avrebbe mai conosciuto. Persino lui stesso.
Egli, infatti, si teneva appositamente alla larga da quei sentimenti proprio per non finire in balia di essi.
Altrimenti un disonore imperdonabile avrebbe annegato il suo cuore, col quale non avrebbe mai più avuto pace.
Alfred era quindi sempre rimasto solo nell’ombra, immobile a contemplarla, senza dar voce a nulla dei suoi piaceri o turbamenti; senza mai dare sfogo all’irrefrenabile istinto privo delle ragioni del suo super io devastato.
Era consapevole di quella trappola micidiale in cui sarebbe caduto se avesse continuato a venerare una donna che non fosse la sua preziosa e amata Alexia, quindi aveva posto un ‘no’ categorico a quel piacere. Eppure restava ugualmente a osservarla, insistentemente….
Non era mai riuscito a toglierla dalla sua scena, nemmeno quando l’aveva travestita da Alexia per poter rendere più ‘accettabile’ quell’infatuazione.
Alla fine, persino in quell’occasione aveva finito per interrompere per una notte la somministrazione di quella droga, per poter ammirare la Claire che intrinsecamente lo aveva conquistato.
La sua tenace e riluttante formica…
Le mani di Alfred scivolarono sul ventre scoperto della Redfield, che percepì quelle dita delicate eppure invadenti muoversi sulla sua pelle.
Claire le sentì raggiungere la parte più alta del suo busto, insinuandosi fra il tessuto dei suoi abiti fino a toccare il suo corpo con insistenza.
Quando comprese che egli non si sarebbe limitato a quel bacio, ma che era sua intenzione possederla nel vero senso della parola, la sua lotta fu più impetuosa e scrollò con veemenza il corpo del biondo.
Egli toccò appena il suo petto, al contempo adagiando meglio le sue gambe fra quelle della ragazza, imponendo il suo corpo sul suo.
Tempestivamente, però, un sonoro e violento schiaffo lo colpì sul viso bloccando i suoi movimenti.
Alfred si ritrovò così a cadere di lato, affiancandosi a terra accanto a Claire.
La parrucca scomposta, tuttavia ancora ferma sulla testa, inondava la sua fronte; e nei suoi occhi qualcosa era cambiato.
La crudeltà e la maestosità vista prima era sparita. Al suo posto c’era un volto smarrito, affannato e confuso.
Il vestito era in disordine e persino lui stesso sembrava quasi incapace di riconoscersi.
Poggiò i gomiti sulla moquette, accorgendosi di essere sdraiato a terra accanto alla nemica che tanto aveva cercato di uccidere.
Claire era confusa tanto quanto lui e lo guardava con occhi sgomentati e sotto shock.
La sua frangia era ricaduta tutta sul viso e il suo colore rosso era lo stesso delle sue labbra, violate in quel modo tanto concitato da averle arrossate di brutto. 
Ella sistemò la sua maglia accertandosi che fosse a posto, ma non staccò mai gli occhi da ‘Alexia’, accorgendosi immediatamente che qualcosa non quadrava.
La bionda intanto si alzò tremante, sembrava come non riuscire nemmeno a reggersi in piedi.
Il suo atteggiamento prepotente era drasticamente cambiato, adesso sembrava solo un cagnolino spaurito.
Claire fissò i suoi occhi in tormento su di lei, capacitandosi che quella non era più Alexia, oramai….…
Egli era tornato Alfred.
Lo vide farfugliare qualcosa mentre si poggiava sul muro, ma non riuscì a dire niente. Era talmente shockato da non riuscire a stabilire subito una connessione fra mente e corpo.
Qualcosa stava collassando in lui, quel crollo psicologico era visibile nitidamente.
Spostò una ciocca della lunga parrucca bionda dai suoi occhi e deformò la sua espressione in uno sguardo truce, addolorato, che divenne poi addirittura disperato.
 
“P…perdonami…!”
 
Disse come non riuscendo a trattenere le lacrime della vergogna, adoperando la sua voce normale.
La rossa si fece sempre più confusa, ancora in balia di quel momento in realtà già abbastanza sconvolgente anche per lei.
Alfred si stava scusando con lei…….oppure con Alexia? Non riuscì davvero a capire.
Vedeva solo quegli occhi di ghiaccio tremare, come spaventati da ciò che aveva compiuto.
Egli forse era persino più sconvolto di lei.
Subito dopo, il ragazzo mise il viso fra le mani e corse via dalla stanza, attraversando di nuovo il passaggio segreto che era rimasto aperto essendo Claire sdraiata proprio nel mezzo.
La sua fuga disperata fu il chiaro messaggio che qualcosa fosse accaduto nella sua mente, che in modo irrazionale l’aveva portato a dare sfogo a quell’irrefrenabile passione.
La ragazza rimase a terra, frastornata, a guardare nella direzione dove era sparito, non sapendo davvero cosa fare, cosa pensare...
Il suo cuore batteva forte, incessante; le sue labbra pulsavano; la sua mente era nel panico.
Cosa diavolo stava succedendo?
 
 
 
 
Un sentimento nascosto, a lungo assopito nel tempo, come addormentato in un luogo segreto e irraggiungibile, abbandonato fino a essere dimenticato.
Questo perché si pensa di non averne alcun bisogno.
Una maledizione dell’anima, che condanna la vittima a sopportare un lungo silenzio, celato nella propria tetra fortezza.
Una ferita che si pensa di poter sopportare.
 
Poi…
Qualcosa cambia.


 
Date al dolore la parola;
il dolore che non parla, sussurra al cuore oppresso e gli dice di spezzarsi.
 

 

 
 
***
 
 
 
 
 
   
 
 
NdA:
Breve spiegazione sulla scelta di questo titolo.
Perché ‘la bella addormentata nel bosco’?
Per due motivi.
Il primo. Nella scelta dei titoli dei capitoli di questa fan fiction intendo ispirarmi al mondo teatrale, le favole, le commedie…ambiti che rappresentano nel modo migliore, per come la vedo, la condizione di vita di Alfred, costretto a ripiegare la sua gioia sulla “finzione” per non cadere totalmente nello sconforto della solitudine.
Perché la scelta di questa precisa fiaba?
Qui il secondo motivo, forse un po’ “romantico”.
La risposta è: il bacio.
Un bacio che risveglia qualcosa. Un qualcosa rimasto a lungo assopito, che è stato negato ad Alfred per ben 15 anni.
Come nella fiaba della Bella addormentata nel bosco, in cui lei si risveglia dopo un lungo sonno grazie al bacio di un principe. Un sonno causato da una maledizione.
Allo stesso modo, Alfred ha negato a se stesso qualcosa che alla fine lo ha condotto alla pazzia, cadendo in una sorta di maledizione da quando Alexia scompare dalla sua vita.
Desidera dunque in modo tacito e inconfessabile quel calore umano di cui invece ha sempre avuto bisogno, ma che ritiene un peccato e un tradimento gravissimo perché offende il suo amore esclusivo per la Regina.
Quel bacio risveglia dei sentimenti che alla fine non ha più potuto controllare. Nemmeno nei panni della sua venerata sorella.
Perché questa scena avviene proprio quando è vestito da Alexia?
Ho cercato di spiegarlo nella narrazione stessa e spero che il significato di questa scelta narrativa sia stata chiara. Nel caso non lo fosse stata,  mi rispiego qui.
La scena del bacio fra Alfred e Claire è nata così nella mia mente fin dal principio. Volevo avvenisse quando lui fosse vestito da Alexia. Era un momento chiave in quanto Alfred grazie a sua sorella trae un’enorme energia, un’immensa forza.
Lei è la sua roccia, il suo punto di riferimento, la donna per la quale vive e si immola. Lei è LA REGINA.
Una regina assoluta, che può tutto.
Alfred da solo mai avrebbe potuto farlo, per lui non esiste nulla al di fuori della sorella. Anche a costo di negarsi la felicità, mentirebbe e impazzirebbe pur di non infangare questo amore eterno.
Come gli accade infatti.
Vestiti i panni di Alexia, egli abbatte una barriera e si trasforma in una persona capace di auto determinarsi, forte, sicura di sé. Si trasforma nella regina appunto. Una regina che si erge al di sopra dei comuni esseri umani.
Così non ha più freni, esibisce la sua follia e la sua tirannia senza inibizioni…e così può baciare Claire. Può farlo perché è la sua personalità come Alexia che glielo permette. Lei che può tutto, lei che è la donna alla quale ha sacrificato tutto, fa quello che lui non si è mai permesso di fare in virtù della sua devozione.
Eppure accade un momento chiave alla fine di tutto.
Ovvero Alfred prevarica su Alexia.
Nel mentre di quel bacio c’è un capovolgimento di ruoli ed egli torna a essere Alfred…
 
Grazie per aver letto!
 
Fiammah_Grace
 

Ritorna all'indice


Capitolo 13
*** Capitolo 13: soliloquio di un cuore serrato ***


 
 
 
Capitolo 13: soliloquio di un cuore serrato
 
 
 
 
“Amore non è amore se muta quando scopre un mutamento
o tende a svanire quando l'altro s'allontana.
Oh no! Amore è un faro sempre fisso
che sovrasta la tempesta e non vacilla mai.
Amore non muta in poche ore o settimane,
ma impavido resiste al giorno estremo del giudizio;
se questo è errore e mi sarà provato,
 io non ho mai scritto, e nessuno ha mai amato.”
 
(Shakespeare)
 
 
 
 
 
 
 
Claire Redfield rientrò nella stanza di Alexia Ashford. Una stanza elegante ricolma di fronzoli, maestosità e bellezza, eppure così tristemente cupa e vuota.
Il carillon suonava la sua melodica armonia, rintoccando con le sue note penetranti per tutto il pianerottolo di quell’ala del castello, come fosse la voce di un ricordo innocente di vita che forse un tempo animava quel luogo oramai abbandonato.
La ragazza dai capelli rossi attese che le lamelle d’acciaio vibrassero sullo spartito, ovvero un disco rotante color ottone, questo per far sì che il passaggio segreto, posto al piano superiore oltre il letto a baldacchino, si rivelasse.
Nella stanza del biondo gemello Ashford aveva ritrovato la Formica Rossa, da utilizzare nella stanza di Alexia; potette quindi mettere in funzione il carillon e costatare di persona quel “cuore” nascosto dove “giaceva la sua metà”.
La frase faceva così: “Dove giace la mia metà, giace il mio cuore.”
Si chiese cosa avrebbe trovato.
Una volta giunta in quella soffitta buia ritrovò soltanto una comune mansarda. Esattamente come nella stanza del fratello, anche quella di Alexia sembrava non celare particolari segreti.
A differenza però delle cianfrusaglie accumulate nella stanza adiacente, in questa ritrovò molto più ordine. Era un luogo desolato, eppure perfettamente pulito. Vi era una libreria, ricolma di manuali circa la biologia e la chimica; e una scrivania di legno massiccio, sulla quale era poggiata una lampada ad olio perfettamente funzionante. Salendo una piccola rampa di scale, vi era persino una zona di esposizione ove erano tenute sotto vetro una serie di insetti di ogni tipologia. Farfalle, api, coleotteri, formiche, ragni…
Claire, che in verità non adorava particolarmente gli insetti, non potette comunque non ammirare affascinata quella stravagante mescolanza di colori che rendevano quei cimeli tutt’altro che disgustosi.
Erano assolutamente stupendi, facevano venir voglia di essere ammirati. Nonostante fossero insetti.
Alla fine, però, finalmente qualcosa di più utile si rivelò nascosto fra quei corpi inanimati.
Perfettamente mimetizzata fra tante forme e colori diversi, fra quegli insetti era posta una chiave.
Era fra una libellula sgargiante e un’ape regina.
La ragazza costatò che era possibile aprire lo scomparto di vetro, dunque potette prendere la chiave senza grossi sforzi.
La ripose in tasca e si diresse fuori da quella stanza, desiderando ardentemente di allontanarsi il prima possibile dalla ‘tana dei due gemelli’.
Scese dunque le scale a pioli e andò via, inoltrandosi nel corridoio e decidendo di appartarsi in una qualsiasi zona di quel palazzo, purché fosse isolata.
Ancora abbastanza sconvolta dai recenti accadimenti, non poteva indugiare ancora.
Aveva bisogno di delle risposte e forse il diario di Alfred reperito nella sua stanza poteva sopperire ai quei turbamenti.
Avrebbe quindi rallentato le ricerche per ritagliarsi quel momento di riflessione per approfondire qualcosa su di lui.
Probabilmente, scosso com’era, persino il biondo non sarebbe venuto a cercarla almeno per un po’. Dunque quello era il momento migliore per approfondire la questione e magari venire a capo di quella personalità così devastata.
Fu lieta di costatare che le temperature rigide che dapprima avevano reso davvero sofferte le sue indagini all’inizio di tutto, adesso fossero state ripristinate.
L’ambiente era finalmente caldo e vivibile, ciò le consentì di poter lasciare quell’ala per dirigersi in quella più abbandonata e polverosa posta oltre quel passaggio nel magazzino dove erano depositati gli alimenti. Raggiunse quello studio dove cercò di passare qualche ora di riposo prima di avventurarsi nei meandri della residenza Ashford. Lì sarebbe stata tranquilla, era un buon luogo dove appartarsi.
Una volta arrivata, girò la chiave e chiuse la porta dall’interno. L’ambiente rispetto all’ultima volta era molto più caldo, se ne sollevò.
Prese un lume riposto su una mensola e lo appoggiò sulla scrivania. Lo accese, dopodiché si adagiò sulla poltrona e si mise comoda, pronta a cimentarsi nella lettura di quel documento che forse avrebbe chiarito qualcosa.
Sentì qualcosa di strano agitarla internamente.
Il suo cuore batteva incessantemente, turbata ancora da quell’evento che aveva inesorabilmente segnato il loro rapporto.
Questo perché la sua mente non riusciva a scacciare il ricordo di quel che era accaduto recentemente: quel bacio prepotente, intimidatorio e violento, che poi si era improvvisamente trasformato in una passione sconvolgente e inarrestabile.
Prima di cimentarsi in quella tortuosa lettura alla ricerca di nuove speranze per sopravvivere, era come se necessitasse di elaborare quello shock.
Di quel momento sconvolgente ed inaspettato, Claire ricordava solo poche cose.
Ricordava la moquette rossa sotto le sue mani, l’affanno che le bloccava il respiro e poi… il tremore.
Il suo corpo tremava senza riuscire a fermarsi. Probabilmente era l’adrenalina che aveva in corpo che si stava scaricando tutta in un momento e che cominciò a farla diventare fredda e accaldata allo stesso tempo. Sentiva tutto molto confuso, non sapendo più cosa fosse accaduto davvero oppure no.
Un momento prima era intenta a raccogliere il famoso diario che adesso era fra le sue mani, l’attimo dopo era fra le braccia di quel tiranno impazzito travestito da sua sorella Alexia.
Accadde tutto in modo così repentino che ella stesso si sentì sconvolta non solo da quel che era accaduto, ma dal fatto che non avesse avuto i nervi saldi per reagire prima che tutto degenerasse.
Le sue labbra bruciavano come il fuoco e l’immagine di quella pelle pallida, di quegli occhi luminosi e indecifrabili, di quel volto etereo e androgino. Non sapeva più se aveva Alfred oppure Alexia di fronte a sé.
La sua mente andò completamente nel panico, perdendosi nel tormentoso buio della paura e della disperazione.
Tuttavia riuscì a rimanere calma. Stette seduta a terra per molto tempo, non sapeva quanto con esattezza.
La sua mente si chiuse e non riuscì ad analizzare o elaborare nulla di quell’episodio.
Decise così di limitarsi semplicemente a proseguire.
Si era alzata e si era diretta verso il carillon, in modo da usare la formica rossa appena reperita, non rievocando più quel che era accaduto.
A mente fredda, adesso, quelle immagini stavano diventando finalmente più chiare.
A differenza di quel forte senso di ansia e paura, in quell’istante vedeva solo accavallarsi una serie di domande che non facevano che arricchire quel mosaico di punti interrogativi circa le multiple personalità di quel ragazzo.
Egli aveva trasmesso una brama che lei difficilmente avrebbe dimenticato. Era qualcosa difficile da elaborare, eppure non era stato il bacio in sé per sé a sconvolgerla. Ma il sentimento che lo aveva trasportato.
Questo mise in secondo piano i fatti concreti, portandola a interrogarsi circa le ragioni che avevano scaturito tale morboso desiderio.
Per quanto cercasse di ricordare, però, non ricordava altro se non il viso di Alfred/Alexia e la sua bocca che la profanava con l’avidità di chi arriva a possedere qualcosa che aveva desiderato ardentemente.
Forse lui aveva rivisto Alexia in lei? Era accaduto questo?
Come succedeva quando la teneva prigioniera?
Eppure stavolta era lui che era mascherato da Alexia e questo particolare gettava ancora più nel caos la sua mente oramai martoriata.
Se solo Alfred avesse fatto quel gesto come “uomo” poteva avere un senso per lei. Era…un uomo in fondo! Bastava questo a giustificare quella fisicità.
Invece il fatto che a farlo era stata la sua versione femminile l’agitava. Cosa significava?
Cercò comunque di non evidenziare troppo quel singolo particolare. Se pensava che sul piano esterno era come se fosse stata baciata da una donna, l’idea le faceva accapponare la pelle. Non era contro l’omosessualità, affatto. Semplicemente lei era etero e quindi non avrebbe mai voluto trovarsi in quella situazione.
Fu tuttavia rassicurante per lei ricordarsi che stava solo farneticando, in quanto Alfred era un uomo, quindi non aveva motivo di sentirsi a disagio.
Sbuffò, cercando di scacciare quel senso di oppressione che stava schiacciando i suoi nervi.
I suoi occhi tutto d’un tratto si abbuiarono.
Nella sua mente andò a figurarsi il volto angustiato del giovane che, forse sconvolto più di lei, a stento si reggeva in piedi dopo l’accaduto.
La regalità che trasmetteva quando era Alexia scomparve del tutto, lasciando al suo posto un uomo travestito da donna tremante e impaurito, che scappò via terrorizzato forse più da se stesso che da quello che aveva fatto concretamente.
Il suo cuore si strinse mentre cercava di comprendere il malessere che lo aveva fatto reagire in quel modo, nonostante lui avesse deciso di baciarla di sua spontanea volontà.
Lei…non aveva fatto assolutamente nulla.
Aveva fatto tutto lui.
Qualcosa aveva trasformato il suo desiderio di violentarla psicologicamente, in un tormentato trasporto emotivo e passionale. Tuttavia trovava improbabile che Alfred la desiderasse a tal punto. Era…assurdo…anche solo pensarlo.
Eppure più pensava alle sue labbra che si comprimevano bramose sulle sue, più l’incertezza si abbatteva su di lei, impedendole di dimenticare quel bisogno che aveva sentito sulla sua pelle.
Tornò a guardare il diario del biondo, decisa stavolta a fare chiarezza non solo su quanto accaduto, ma sulla situazione generale in cui si trovava.
Era arrivato il momento di guardare quel tavolo da gioco.
Mentre le sue dita scorrevano su quella copertina rigida e poi fra le pagine consumate di quel diario, era come se avvertisse la presenza di Alfred Ashford, il quale aveva abbandonato se stesso in quelle righe.
Era come se potesse vederlo con i suoi occhi, agitato all’idea che qualcuno stesse per toccare con mano qualcosa di così personale per lui.
Involontariamente accarezzò la copertina, un gesto istintivo che non si accorse nemmeno di compiere; fu come se avesse voluto consolarlo, come se avesse voluto dirgli: “Non preoccuparti, voglio solo leggere quello che può essermi utile per capire dove mi trovo, per comprendere il tuo mondo. Non voglio infangare i tuoi ricordi, non voglio ferirti.
Il proprietario di quel testamento non era lì fisicamente, eppure Claire sentiva come se stesse davvero per parlare con Alfred.
Per questo mentalmente stette diversi minuti a pensare a lui, preparandolo psicologicamente alla sua intrusione nei suoi ricordi, che avrebbe fatto nell’assoluto rispetto della persona.
Infine aprì il diario, cominciando a sfogliarlo un po’ a caso.
La lettura di quei passaggi aprì la sua mente non solo ai suoi pensieri o ai suoi ricordi, ma a molto di più. Arrivare a conoscere una terra inesplorata e contorta può far aprire orizzonti nemmeno immaginabili, e Claire stava per farne le sue spese.
 
 
 
 
 

Diario di Alfred Ashford
1981 – marzo
 
 
 
 
Sono appena tornato da scuola, faceva molto freddo.
Mentre ero sul traghetto diretto a Rockfort Island, vedevo delle persone osservarmi di nascosto da lontano. Sapevo bene cosa stavano pensando, ero a conoscenza che sapessero chi sono, ma non mi interessava. Volevo soltanto tornare a casa, è stata una lunga giornata.
Papà mi ha detto che forse lascerò la scuola, che mi troverà un istruttore privato. Questi avanti e indietro dall’isola non mi fanno bene, la verità però è che a me non dispiace lasciare casa qualche ora. Però lo so perché me lo ha detto.
Alexia ha passato tutto l’inverno da sola, chiusa nel palazzo di famiglia.
Sono preoccupato anche io.
Non l’ho vista muovere un solo passo fuori, nemmeno per una passeggiata in giardino. Ora che l’inverno è finito, speravo saremmo riusciti a uscire almeno un po’, ma lei non ha voluto.
A differenza mia, lei non solo ha completato già gli studi, ma ha perfino finito l’università ed adesso lavora come ricercatrice capo per conto dell’Umbrella inc. . Come voleva nostro padre, la nostra intera stirpe, lei ha saputo portare avanti con onore il nome della famiglia Ashford. Sono così orgoglioso di lei.
Pensare che siamo gemelli, eppure siamo così diversi. Lei possiede un genio ineguagliabile, ha qualcosa che le altre persone non hanno.
Eppure…
Eppure non posso fare a meno di essere preoccupato.
Nostro padre vuole assecondare le sue doti e incoraggiarla a perseguire altissimi obiettivi. Tuttavia, per conseguire ciò, io e lei quasi non ci rivolgiamo la parola. Non voglio che il nostro rapporto venga deteriorato così in tal modo!
Lui non capisce…non capisce l’importanza che abbiamo l’uno per l’altra! Senza di lei non ce la faccio e so che per Alexia è lo stesso. Vedo la stanchezza nei suoi occhi. Perché nostro padre non riesce a capire?
E’ per questo che lui vuole che io lasci la scuola, perché pensa che Alexia renderebbe di più sapendomi vicino a lei. Io invece, se lo farò, sarà solo per lei. Non mi interessano i suoi studi.
Odio quelli dell’Umbrella!
Appena il traghetto è approdato in porto, ho aspettato che le persone scendessero. Non volevo mischiarmi fra loro. I loro sguardi mi irritano.
Ho allacciato il cappotto e l’ho stretto sotto il collo, sperando di ripararmi dal vento. Il tempo primaverile in Inghilterra è terribile. Ieri il sole caldo temperava ed illuminava il cielo turchino, oggi invece è tetro e grigio, accompagnato da un vento debole ma costante.
Ho percorso a piedi tutta la landa, mi sarei intrattenuto volentieri a passeggiare se non fosse stato per quel tempaccio.
Quando sono tornato a casa, mi sentivo un ghiacciolo.
Le mie guancie erano fredde, così come le mie mani che, seppur riparate dai guanti, quasi non riuscivo a muoverle.
Cercai di rassettarmi un po’. Avevo tutti i capelli in faccia. Se mio padre mi avesse visto così, si sarebbe infuriato. Secondo lui un lord deve essere sempre in ordine, dice che non è apprezzabile apparire disordinati, con la capigliatura sul viso. Invece so che ad Alexia piaccio più così, ed è solo del suo giudizio che mi importa.
Entrai dalla porta sul retro, mi seccava incrociare la servitù. Loro avrebbero avvertito papà del mio arrivo e sapevo che mi avrebbe impedito di disturbare mia sorella. Invece io desideravo ardentemente vederla, così speravo di fare irruzione nel suo laboratorio e farle una sorpresa.
Avevo preso un regalo per lei. Un compagno di classe aveva festeggiato portando dei dolci, così ne avevo portato un po’ anche per lei. Speravo le avrebbe fatto piacere.
Durante quell’ora di spacco, me ne ero stato da solo, fra me e me. Non avevo per niente voglia di abbuffarmi e fare festa con gli altri della classe. Rimasi ad osservarli da lontano mentre si divertivano e conversavano fra loro, con una noia dipinta sul mio volto di cui credo si siano accorti tutti.
Speravo in cuor mio che i minuti passassero presto e che avremmo ripreso le lezioni. Persi tempo a ripassare la lezione che in verità già sapevo a memoria. L’avevo letta prima di andare a letto solo il giorno prima, eppure l’avevo memorizzata subito. Dentro di me ero fiero della mia capacità mnemonica, mi sentivo orgoglioso degli altissimi voti che in verità conquistavo con assoluta facilità.
Non credo di aver mai studiato seriamente. Mi bastava leggere per sapere tutto.
Eppure, evidentemente, questo passava del tutto inosservato a casa mia. Mi sentivo triste.
Invece a scuola ero considerato una sorta di demonio per questo, persino dalle mie insegnati.
Sono solo persone patetiche, potrei insegnare meglio io di loro, invece che stare a perdere tempo a seguire le loro stupide lezioni!
Mentre gli altri festeggiavano, sapevo cosa pensassero di me. Stetti comunque in disparte, non mi interessava di loro.
Comunque, tornato a casa, ho percorso il corridoio e sono arrivato nell’atrio d’ingresso. La pavimentazione perfettamente lucida rifletteva la mia immagine e la luce dell’enorme e sfarzoso lampadario si irradiava in tutto l’ambiente, facendomi dimenticare lì per lì che fuori il cielo fosse così grigio e spento.
Mentre sfregavo le mani fra loro, ho sentito qualcuno scorgermi da lontano, su per le scale.
Mi sono accorto subito di quella presenza, ma ammetto di essere rimasto sorpreso quando l’ho vista.
 
“Alexia!”
 
Ho detto con tono lieto, contento di vederla. La mia voce è apparsa più alta per via dell’eco.
Alexia era in cima alla scalinata più bella del palazzo, la quale si intrecciava con un altro paio di rampe che conducevano nei vari ambienti. Era tutta rivestita di un tappeto color porpora, che dona regalità e splendore, soprattutto se a solcarla era lei.
Mia sorella era bellissima.
I suoi lunghi capelli biondi, pettinati di lato, sembravano i filamenti dell’oro più raffinato. Luminosi e leggeri, si muovevano assecondando ogni sua movenza. Era qualcosa che rendeva soave la sua immagine così divina. La sua pelle candida, marmorea addirittura, assieme agli occhi chiarissimi, le conferivano un aspetto regale e delicato allo stesso tempo che spesso mi induceva a guardarla per ore senza nemmeno accorgermene. Ero estasiato da lei.
Negli ultimi tempi era cresciuta molto e nonostante avessimo solo dieci anni, entrambi sembravamo già degli adulti.
Lei era già molto alta e i suoi lineamenti sembravano sempre di più quelli di una donna.
Ancora di più quel giorno, in cui aveva indossato il suo abito più bello.
La vidi poggiare una mano sulla ringhiera e guardarmi.
Il suo vestito era lungo oltre le caviglie. Era di una tinta di viola scuro, abbastanza vistoso da farsi notare, nonostante si confondesse con il nero. Era diviso in balze, che cadevano dolci seguendo le sue curve. Le spalle erano lasciate scoperte e dei lunghi guanti bianchi la coprivano lungo tutte le braccia.
Infine troneggiava sul suo collo il suo prezioso collier nero, sul quale era incastonata la gemma di famiglia.
Né io né lei ce ne separavamo mai, sebbene lei fosse più solita indossala come spilla.
Notai che era persino un po’ truccata, non accadeva spesso in quel periodo.
Come già scritto, era stata tutto l’inverno chiusa in laboratorio, quindi vederla così raggiante fu una sorpresa per me.
Mi venne spontaneo sorriderle.
Mi sentivo così piccolo e comune vicino a lei.
Lei era magnifica. Era come il sole, che è il re delle stelle, le quali non potranno mai parificare il suo splendore. 
Passai una mano fra i capelli, sentendomi in disordine di fronte la sua bellezza, io che ero appena tornato da scuola e avevo preso tutto quel vento fuori.
Lei prese a scendere lungo la scalinata, non scostando gli occhi da me. Osservai ogni suo passo, incantato.
Quando mi fu abbastanza vicino, le volli esternare la mia contentezza nel vederla così elegante.
 
“Sei bellissima, Alexia.”
 
Non seppi dire altro, eppure quella parole furono le uniche che riuscirono a riassumere il mio pensiero.
Lei allargò debolmente le labbra, contenendosi visibilmente, ma io sapevo apprezzare i suoi lievi sorrisi.
Non tutti sapevano vedere i tenui gesti di Alexia.
Io invece potevo leggere nitidamente già nel suo sguardo se avesse gradito oppure no qualcosa, oppure quali fossero i suoi pensieri.
La nostra sincronia era qualcosa che ci accomunava fin dalla nascita. Una cosa di cui ero lieto ed onorato.
Ci rendeva unici e speciali.
Era qualcosa che andava oltre il legame di sangue o l’essere gemelli. Io e Alexia eravamo qualcosa di più profondo.
Mentre la osservavo, notai che lo sguardo di mia sorella scivolò da me a qualcun altro oltre le mie spalle. C’era qualcuno all’ingresso, quindi?
Fu dopo che mi accorsi, infatti, che il portone era socchiuso, e poggiato su di esso vi era un uomo alto vestito di nero.
Conoscevo quell’uomo.
La sua figura possente, severa ed arrogante non poteva passare inosservata, in nessun luogo, con nessuna persona. Nemmeno se si lavorava in un ambiente come ‘quello’, ove della gente non ci s’importa granché.
I suoi capelli biondi perfettamente tirati indietro e le lenti scure che non lasciavano mai vedere i suoi occhi, mettendo in risalto la sua ossatura robusta.
Egli era Albert Wesker, anche lui un ricercatore presso l’Umbrella Inc. . Cosa ci facesse a casa mia e cosa volesse da mia sorella, mi fece infuriare prima ancora di conoscere le sue intenzioni sulla sua venuta.
Lo vedevo come un nemico, era una persona pericolosa. Non mi piaceva.
Si poteva dire che lo odiassi.
Fu qualcosa a pelle, fin da quando lo vidi la prima volta.
Lui sembrò accorgersi del mio astio ed in tutta risposta, ebbi come la sensazione che mi sorridesse. Non con fare affettuoso, era ovvio. Ero certo sapesse che non lo sopportassi, si stava quindi solo divertendo, esercitando la sua autorevolezza con quel ghigno irritante.  
Corrucciai la fronte, non distogliendo lo sguardo da lui. Non m’importava di fare la figura della persona maleducata. Non mi avvicinai e non accennai cortesia per nessun motivo nei suoi riguardi.
Lui e gli altri scagnozzi di quel circolo del male, che non faceva che portare via dalla mia vita ciò che amavo.
Nonostante la mia evidente ostilità, tuttavia, dovetti sorbirmi la sconfortante immagine di Alexia che elegantissima si allontanava da me per affiancarsi a lui. La vidi passarmi accanto, fino a quando di lei non vidi solo le spalle che si intravedevano dai sottili capelli distesi sulla schiena.
Ella camminò soave, muovendosi sui tacchi come se galleggiasse su una nuvola.
Wesker le tese educatamente la mano, in un gesto che più che cortesia, sembrava affermare possessione. Era questo ciò che provai.
Alexia posò la sua candida mano sulla sua così grande e massiccia.
Mi fece un delicato cenno di saluto, al quale seguì anche quello di quell’uomo viscido vestito di nero.
Infine lasciarono il palazzo, dirigendosi chissà dove; non ne fui reso partecipe.
Il portone chiuso mi ricordò di essere solo.
La rabbia invase ancora di più il mio corpo.
Lo odiavo.
Odiavo lui.
Odiavo l’Umbrella.
Odiavo tutti.
Perché non facevano che portami via la mia Alexia?!
 

 
 
 
 
 
 
 
Claire fece una pausa. Cosa aveva appena letto?
‘Albert Wesker’ ….quindi Alfred lo conosceva?
Claire conosceva Wesker solo di nome, come capitano del team Alpha della STARS. Era inoltre lo stesso individuo losco che lei stessa aveva incontrato a Rockford Island recentemente.
Egli era un uomo duro e imponente. La sua aurea nera e il suo sguardo impietoso e dispotico erano un qualcosa che erano rimaste ben impresse nella sua mente. Alcuno avrebbe mai potuto dimenticare la crudeltà di uno spirito simile.
Chris le aveva parlato di lui, definendolo come una persona autorevole, ma che sapeva essere il caposaldo della sua squadra. Tuttavia, da quel che aveva avuto modo di costatare la ragazza, egli sembrava tutt’altro che una persona su cui contare. Si era subito rivelato un nemico dichiarando apertamente il suo desiderio di distruggere suo fratello.
Cosa era accaduto fra loro? Non aveva ancora avuto modo di scoprire nulla.
Inoltre, a quanto pareva dalle pagine di diario appena lette, doveva avere anche una sorta di doppia vita dato che, tornando indietro di ben diciassette anni, quell’uomo era già alle dipendenze della casa farmaceutica Umbrella.
Tenne dunque a mente quell’episodio, magari avrebbe potuto essere utile a suo fratello Chris, che stava indagando sul loro conto. (*)
La sua mente, una volta aver ragionato su quel nome familiare, tornò ad Alfred e a quell’episodio di cui aveva appena letto.
Immergersi nei pensieri del biondo Ashford stava inevitabilmente appagando il suo bisogno di conoscere, di capire.
Non era facile trovarsi nella sua posizione, dunque poter leggere direttamente i suoi pensieri, aneddoti della sua vita, paure, gioie, modo di elaborare situazioni, ect, rese l’esplorazione del suo mondo qualcosa di molto intimo e inequivocabile.
Leggendo le note appuntate in quelle pagine, il suo universo appariva normale, per nulla folle o meschino.
Fu qualcosa che la incuriosì ancora una volta: trovare la ‘normalità’ in Alfred, il suo essere una ‘persona’ dietro gli abomini che lo circondavano…era… affascinate e strano.
Sfogliando il suo diario, vedeva i normali pensieri di un ragazzo con difficoltà di socializzazione, dovuta sicuramente ad una spiccata intelligenza e maturità rispetto dei comuni decenni.
Piuttosto, l’idea di un piccolo genio chiuso in se stesso l’attirava. Era qualcosa che cambiava drasticamente il senso di una persona così controversa, invece.
Quegli stessi pensieri la rapirono anche quando lesse del suo corso di studi e del tipo di laurea perseguita.
Alfred dunque chi era davvero?
Un folle psicopatico innamorato del fantasma di una sorella che non esisteva, al livello di diventare pazzo?
Un uomo geniale, ma paranoico e ossessionato?
Una persona bisognosa di cure? Vittima di uno shock emotivo dal quale non riusciva ad uscire?
Oppure era solo uno scagnozzo dell’Umbrella, crudele e ripugnante come tutti?
Claire si rifiutava di catalogare una persona in quel modo così riduttivo. Oramai era ben chiaro nella sua mente: dietro Alfred e sua sorella gemella si nascondeva qualcosa. Nei limiti del suo potere e delle condizioni in cui verteva, voleva venirne a capo.
Sfogliò dunque le pagine seguenti e suo malgrado notò come il biondo fosse costretto da sempre a sopportare quell’infelice solitudine, lontano da qualcuno che adorava così profondamente.
Molte pagine erano relative a sfoghi personali circa Alexia immersa nel suo lavoro, cui lui non poteva approcciarsi per non disturbare le sue ricerche.
In quelle pagine sembrava molto arrabbiato e addolorato, eppure la adorava sempre, incondizionatamente.
Era la sua unica compagnia concreta in quell’isola.
Due bambini costretti a quella solitudine, inseriti in un contesto scientifico così deplorevole.
La loro condizione di vita, che li avrebbe condotti a diventare due gemelli psicopatici e violenti, cominciò a essere chiara nella sua mente.
Come avevano potuto condannarli a questo? Due ragazzini non possono essere cresciuti in tal modo, abbandonati a se stessi!
In questi casi, la ricchezza economica non serve a nulla se non c’è l’amore capace di dare valore alla vita.
Alfred e Alexia in questo senso avevano tutto, ma non avevano niente in termini di umanità…se non loro stessi.
La visione della morbosa unione di quei due fratelli era finalmente più nitida, ma sentiva che qualcos’altro le sfuggiva.
Incuriosita, decise quindi di continuare a leggere.
 
 

 
 
1981
Giugno
 
Sono tornato a casa carico di ansie e preoccupazioni.
Sono stato via tre giorni per occuparmi di una faccenda familiare per via dell’assenza di nostro padre.
Lui è impegnato con l’amministrazione del laboratorio di ricerche Artico, quindi qualsiasi cosa sono io che devo prendere le sue veci.
Quelli dell’Umbrella lo hanno chiamato qualche giorno fa per qualcosa…non ho capito bene cosa. L’ho visto solo sgattaiolare via durante la notte, non ha salutato né me né Alexia.
E’ stato deprimente dover costatare ancora una volta quanto gli importi di noi solo quando mia sorella ottiene buoni risultati in laboratorio. Sembra sia l’unica cosa gli interessi.
Ricordo ancora quando è entrato in camera mia e mi ha rivolto a stento la parola. Mi ha solo detto velocemente di sbrigare una commissione per lui, che avrei dovuto presiedere in una conferenza fuori da Rockfort come rappresentante della famiglia Ashford.
Sapevo di doverlo fare, l’assenza di un nome come il nostro avrebbe comportato equivoci catastrofici per i nostri affari.
In seguito è andato via, non preoccupandosi di fare un minimo cenno di saluto, e il giorno dopo è partito senza dire niente a nessuno.
L’ho trovato irritante mentre lo osservavo dalla finestra, nascosto dietro la tenda.
Non ha rispetto. Inoltre mi ha costretto a lasciare sola Alexia per tre giorni interi!
Lui ben sa quanto lei sia presa dalle ricerche e abbia bisogno di me.
Mio padre è così fiducioso delle capacità di Alexia da non accorgersi nemmeno delle pressioni che le sta facendo.
Lei è sempre immersa nelle sue ricerche e comincio anche io ad essere preoccupato per lei. Lui invece sembra non importarsene nemmeno, anzi! Talvolta credo non si accorga nemmeno che esista.
Gli interessa solo quel diavolo di progetto, sono certo che è solo per questo che non fa che incoraggiare Alexia.
E’ orgoglioso di lei solo perché è un grande egoista.
Riguardo me, mi sono accorto da tempo di non destargli interesse. Si ricorda del sottoscritto solo quando ha bisogno che qualcuno si occupi di un affare che lui non può curare, come uomo di casa.
Ci ho già fatto l’abitudine, in verità non ci ho mai sofferto. Ho altro su cui investire le mie preoccupazioni. Sono in pensiero per Alexia, è lei la persona che io devo proteggere.
Una ragazza con un intelletto simile è facile che soffra. Io lo so.
Conosco cose di lei che nessuno immagina.
Tutti la vedono come un piccolo genio inarrestabile, limitandosi ad una visione utilitaristica di lei; tuttavia solo io conosco la vera lei e so che ha bisogno di me.
Per questo quando sono sceso dalla nave, non facevo che pensarla. Non smisi un momento.
Avevo un brutto presentimento.
Attraversai il giardino in fretta e, quando aprii il portone d’ingresso, il silenzio sembrò quasi voler congelare il mio intero corpo.
Ad accogliermi non c’era nessuno.
Non sapevo cosa aspettarmi, non sapevo se si fosse semplicemente dimenticata di venire. Sapevo solo che non era da mia sorella non essere lì in quel momento.
Il legame che ci univa era qualcosa che alcuno avrebbe mai potuto comprendere, noi eravamo una stessa anima, non esisteva che fossimo separati o che l’uno dimenticasse dell’altra.
Lei ne passava tante e aveva molte responsabilità sulle sue spalle, eppure non si dimenticava mai di me. Mai.
Le volevo troppo bene per non pensare subito al peggio, così gettai le valige a terra e, senza riposarmi nemmeno un attimo, mi accinsi a cercarla.
Ovviamente il primo luogo dove controllai fu il laboratorio, ma non la trovai. La cosa che tuttavia mi fece gelare il sangue fu costatare che non era chiuso.
Solitamente, se dentro non c’era nessuno, le porte venivano rigorosamente chiuse a chiave per evitare incidenti di qualsiasi genere, rappresentando i delicati esperimenti da lei eseguiti.
Le luci questa volta erano invece accese, sul tavolo erano stati abbandonati dei composti ormai deteriorati, ma soprattutto c’era un gran puzzo di marcio. Era come se qualcuno avesse dimenticato di rassettare dopo un esperimento, o qualcosa del genere.
Alcuni alambicchi erano rovesciati e il loro contenuto aveva macchiato la pavimentazione.
Il cuore cominciò a battere forte. Che cosa aveva impedito ad Alexia di riordinare la stanza e chiuderla?
Non potevo negare di avere paura.
Lo sapevo che non dovevo lasciarla da sola!
Cercai quindi in lungo e in largo, partendo dai tipici luoghi da lei frequentati, fino a esaminare anche quelle stanze in cui non era solita andare.
La casa era esattamente come l’avevo lasciata, come se Alexia non si fosse mossa dal laboratorio per tutti e tre i giorni.
 
Alla fine la trovai.
Fu straziante per me vederla in quelle condizioni.
Ella era rannicchiata dentro uno stanzino. La porta era chiusa a chiave, ho dovuto insistere perché lei la aprisse.
La chiamai con dolcezza più volte, capendo che era lì dentro per via di una scarpetta abbandonata proprio lì di fronte.
Quando la vidi, dovetti trattenere la collera che in quel momento mandò in escandescenza la mia mente.
Lei non piangeva, non lo faceva mai, ma dai suoi occhi potevo vedere qualcosa di agghiacciante, come se qualcosa avesse devastato la sua mente tanto da annebbiare il suo sguardo intelligente e sagace.
In quel momento era solo una bambina triste, terrorizzata e sola.
Vedevo il suo corpo esile e pallido chiuso in se stesso; abbracciava le sue gambe sottili tenendo lo sguardo vago puntato nel vuoto più assoluto. Le sue iridi azzurre adesso mi sembravano grigie…spente.
I suoi capelli pallidi erano lisci eppure disordinati. Inondavano completamente il capo, coprendo il suo viso puerile eppure così freddo e disincantato.
Aveva addosso un vestitino bianco ed i suoi piedi erano nudi. Potevo vedere che il suo abito era macchiato, era lo stesso reagente chimico che avevo visto nel laboratorio, ne ero abbastanza certo.
Osservando meglio, tutta la sua figura era sporca di tale sostanza e polvere.
Cosa le era accaduto? Aveva fallito un qualche esperimento? Era ferita? Stava male?
Mi piegai verso di lei, ma avevo paura di toccarla. Avevo paura di farle del male.
La vedevo così fredda e rigida, non diceva una parola. In più l’avevo trovata chiusa dentro quello stanzino buio non sapendo nemmeno da quanto tempo fosse lì.
Era così sciupata che cominciai a tremare. Ero terrorizzato.
La chiamai, sperando che rispondesse alle mie domande prima che il mio cuore scoppiasse.
Stemmo l’uno davanti all’altro per diversi minuti, in silenzio. Non osavo farle domande, la vedevo così scossa e impietrita che non volevo turbarla ulteriormente.
Quando con tenerezza avvicinai la mia mano al suo viso, desiderando di alleviare le sue pene, mi sorpresi che fu lei stessa ad avvicinarsi a me.
Alexia avvicinò la sua guancia fredda e pallida alla mia mano tesa che l’aveva appena sfiorata, strofinandosi su essa con soavità e finezza.
Era bisognosa delle mie cure, me lo stava dicendo.
L’abbracciai forte, sperando di comunicarle il mio immenso affetto. Volevo che sapesse che le ero vicino, che ero lì per lei, che mai più l’avrei lasciata sola così a lungo.
Poche ore più tardi, l’accompagnai al bagno per aiutarla a ripulirsi.
La osservai mentre si svestiva. Era così magra e dall’aspetto cagionevole che sentivo il dovere di sorreggerla per paura che potesse cadere da un momento all’altro.
Quando lei si immerse nella vasca calda che le avevo preparato, capii che non voleva che io andassi via. Rimasi con lei dunque persino in quel momento.
Mi girai di spalle rispettando la sua privacy, mi sedetti sul bordo della vasca e aspettai che finisse.
Quel lungo momento non mi turbò per niente. Non ero seccato di farlo.
Sebbene il tenue scroscio dell’acqua che accarezzava il suo corpo fosse l’unico rumore presente nella stanza, a parte i nostri respiri, ero lieto che lei mi volesse accanto. Non mi infastidiva stare al suo fianco anche per ore intere, se lei ne aveva bisogno.
Quando ebbe finito, l’avvolsi in un lungo asciugamano morbido e tenuto al caldo sul termosifone, tenendo rigorosamente la testa rivolta oltre le sue spalle.
Non avrei mai osato osservarla con libidine, io semplicemente avrei fatto di tutto per lei, con l’amore che si rivolge a qualcuno che è tutto il suo mondo.
La aiutai a scendere e rimanemmo seduti sul divano per molto tempo.
 
Dopo, lei mi spiegò cosa era accaduto.
Come avevo dedotto, aveva fallito un esperimento.
E’ qualcosa che tutti gli scienziati affrontano, sapendo di dover impegnarsi per conseguire certi obbiettivi. Il fallimento fa parte della ricerca.
 
Questa realtà però non valeva per noi. Non noi Ashford.
L’eredità della nostra famiglia è più grande di quanto si pensi.
 
E’ quasi come una maledizione, che incombe su di noi imponendoci di mantenere il prestigio che ha reso nota la nostra famiglia.
Non ne ho mai parlato perché non mi è facile trovare le parole giuste per spiegarlo. Tuttavia questa è una realtà che accompagna la mia vita da sempre. Semplicemente…è sempre stato così.
Per me, mia sorella, mio padre, tutti.
Nostro nonno, il padre di nostro padre, il signor Edward Ashford, era un uomo nobile e rispettabile ed anche il co-fondatore dell’Umbrella inc. .
Egli è l’illustre uomo che ha ridato prestigio alla nostra casata, cimentandosi nell’impresa di costruire un impero di tale portata, equiparando il genio di colei che per noi è come una divinità. Parlo di Lady Veronica, la donna che ha reso celebre e conosciuta la famiglia Ashford.
Noi tutti proviamo grandissimo orgoglio per questo, tuttavia…ne consegue anche una grossa responsabilità.
L’onore e la gloria della nostra stirpe devono essere mantenute e accresciute.
E’ questo il compito di un Ashford.
Per molto tempo, circa dalla morte di nostro nonno, siamo stati lontani dal palco. In azienda nessuno parlava più di noi, limitandosi a etichettarci semplicemente come i co-fondatori, rievocando talvolta i successi che ci resero celebri e rispettati agli occhi dell’Umbrella.
La popolarità era ormai lontana da quei tempi leggendari e non ha più toccato la nostra famiglia per anni.
Questo ha fatto sentire noi tutti lontani dal regno che Edward aveva costruito per i suoi discendenti. Eravamo stati scacciati da un paradiso che nessuno riusciva più a tenere in piedi poiché distanti dall’ingegno e dalla genialità che caratterizzava i membri più illustri della famiglia.
Tutto ciò fin quando non è nata lei: Alexia.
Alexia aveva ridato agli Ashford quello che nessuno era riuscito a raggiungere da anni: l’onore di un tempo.
Eravamo tutti fieri di lei, io primo fra tutti che vedevo in mia sorella un genio eccezionale. Lei era motivo di orgoglio per me e per tutti.
L’Umbrella parlava di noi, eravamo di nuovo qualcuno.
La cosa meravigliosa era che Alexia riusciva ad ottenere successo senza alcuno sforzo. Era un talento rarissimo.
Le sue ricerche evolvevano in modo così naturale che sembrava essere al cospetto di un essere sovrannaturale, nessuno poteva equipararla.
Credo di aver sentito che molti cominciarono a nutrire invidia verso di lei, e di conseguenza anche verso l’intera famiglia Ashford.
La notizia è stata motivo di grande fierezza. Era l’inizio di una nuova e grande risalita.
Mia sorella si dimostrò così capace da terminare gli studi molto presto.
Si è laureata quest’anno, a soli dieci anni. Nessuno poteva credere a una cosa simile.
Sembra che nulla sia impossibile per lei sul piano intellettivo.
Divenne presto capo ricercatrice presso l’azienda farmaceutica, onorata da tutti per essere il membro più giovane e dotato.
Gli stessi sviluppi del Virus Tyrant, nelle sue mani, ha cominciato a conseguire le sperate svolte che alcuno da tempo era riuscito a ottenere.
Alexia aveva finalmente soppiantato quelle tremende dicerie che avevano dato ormai per vinta la nostra stirpe, limitandoci al nostro antico e oramai irraggiungibile splendore.
Tutto era cambiato grazie a lei.
Eravamo di nuovo la gloriosa famiglia Ashford.
 
C’era tuttavia qualcosa che pochi sapevano.
Qualcosa che solo io potevo vedere e comprendere, che nessuno sembrava anche solo ipotizzare.
Era una verità sotto gli occhi di tutti, eppure nessuno se ne rendeva conto.
La tremenda realtà dietro l’intelletto di mia sorella, che la rendeva unica e speciale.
Tuttavia a nessuno importava altro.
Alexia era il genio della famiglia e nulla più.
Questo perché nonostante la gloria che aveva finalmente investito di nuovo noi Ashford grazie a lei, la mia meravigliosa sorella era intrappolata in un baratro dal quale non sarebbe mai più uscita.
Una rara intelligenza che alla fine stava diventando una condanna.
La maledizione di noi Ashford.
Per via del tipo di studi conseguiti, ma soprattutto del suo tipo d’intelletto, per Alexia non fu mai facile stringere un qualsiasi rapporto con alcuno, ne avere un qualsiasi tipo di vita sociale.
Era difficile per me, che mi sentivo così distante dai comuni adolescenti, figuriamoci per lei: laureata e ricercatrice presso l’Umbrella alla sola età di dieci anni.
Era pressoché impossibile per mia sorella avere una vita normale, sia per le responsabilità che vertevano sulle sue spalle, sia per un’incapacità propria.
Lei era diversa da chiunque. Nessuno era mai al suo livello. Nessuno destava mai il suo interesse.
Tutti detestavano avere a che fare con una mente come la sua, difficile, ermetica, superiore.
Quelle rare volte che accadeva, dopo un po’ la vedevo isolarsi trovando disturbanti le minuscole formiche con cui era costretta ad avere a che fare.
‘Formiche’ erano come definiva lei stessa le persone comuni, quelle insulse presenze che non sono altro che ombre inanimate nel nostro mondo.
Tantissime, inutili, avvinghiate a una società di massa spregevole di fronte la regalità e la preziosità di una mente elevata come quella di Alexia.
Io ero una delle poche persone che potevano approcciarsi a lei.
Non le importava che io non fossi intelligente come lei; Alexia mi voleva bene e voleva che le fossi sempre accanto.
Io ero felice di questo.
Noi avevamo sempre condiviso tutto assieme. Ogni cosa aveva un senso se entrambi potevamo esserci l’uno per l’altra. Non conoscevo altra persona più simile a me e credo che anche per lei sia sempre stato lo stesso. Nonostante lei fosse così geniale rispetto a me.
Nonostante mi sentissi sempre secondo, nonostante a nessuno importasse di me, Alexia era l’unica che mi lodava e che notava le mie doti.
Non era nulla a suo confronto, ma rispetto un uomo comune sì. E lei lo sapeva e mi valorizzava.
Conosceva i miei successi, i miei progressi, i miei studi, le mie soddisfazioni, i miei pensieri più intimi.
Il mio vasto intelletto e la mia personalità interiore che raramente facevo fuoriuscire.
Noi due non conoscevamo solo noi stessi, ma le nostre anime. Eravamo qualcosa che alcuno avrebbe mai potuto comprendere.
Io non avevo amici, così come lei. Nessuno aveva mai destato il mio interesse o si era dimostrato voglioso di avere a che fare con una persona difficile come me, ne sono consapevole.
Entrambi vivevamo in quel mondo che non faceva che pretendere da persone come noi, senza vederci per quello che eravamo davvero.
Nessuno sembrava in grado di vedere le persone dietro quelle menti elevate.
Conoscevamo la triste realtà della solitudine e sapevamo quanto essere come noi era, in realtà, una maledizione.
Ero grato a quel fato che mi aveva fatto nascere con una persona così meravigliosa e simile a me. Senza Alexia la mia vita non avrebbe avuto senso. Sarei morto in questa devastante solitudine, attaccato da un genio che non potevo controllare e che mi avrebbe sempre mostrato crudelmente il mondo cinico e superficiale che in verità mi circondava, privandomi di qualsiasi incanto.
E’ questa la condanna delle persone intelligenti: un’infinita e agognate sofferenza.
Ma io avevo lei, ed ero felice.
A differenza mia, però, Alexia aveva un destino ancora più tortuoso: lei era la promessa della famiglia Ashford.
Lei era quella che ci avrebbe fatti risalire alla vetta, facendoci riappropriare della gloria di un tempo.
Era il suo destino.
Erano le sue doti che lo volevano e che pretendevano quel successo.
E così l’ossessione per la ricerca, mantenere un livello alto, ma soprattutto lo scopo di proseguire gli studi e arrivare a finalizzare un esperimento che avrebbe reso gloria alla famiglia, facendo echeggiare nella storia il nostro nome, divenne l’ossessione di noi tutti.
Di Alexia e di mio padre soprattutto.
Lui e Alexia passavano ore e ore in laboratorio. Mia sorella più di lui, rimanendovi rinchiusa spesso settimane intere.
La vedevo affliggersi ma perseverare in quello scopo. Non poteva arrendersi.
Studiava e sperimentava sempre, con costanza, mantenendo alto il livello del suo prestigio. Era all’altezza dell’appellativo “genio” che le era stato attribuito. Era una sua priorità quella di essere famosa per le sue doti e non per il suo nome.
Voleva raggiungere la vetta più alta. Lo desiderava morbosamente.
Una mente come la sua traeva nutrimento dalle sue scoperte, dall’ampliare le sue conoscenze e assaporare il successo.
Era come una droga, non poteva fermarsi.
Sprecare il suo ingegno e fallire credo sarebbe stata la tortura più crucciante per Alexia.
Io sapevo quanto il suo cuore fosse in tormento, quanto lentamente avrebbero pesato tali pressioni se non fosse riuscita nel suo intento.
L’ossessione della gloria della nostra famiglia la stava attaccando come un tumore oramai in metastasi. Pezzo dopo pezzo, il suo intero corpo e il suo universo stavano sprofondando in un baratro, cosa di cui nessuno si accorgeva.
O forse, peggio, volevano che fosse così. Volevano che lei uscisse trionfante da quel laboratorio.
Per questo odiavo quelli dell’Umbrella.
Li detestavo a morte.
Perché nessuno riusciva a vedere la persona che c’era dietro Alexia!
La persona che io conoscevo! Che io adoravo! Che loro stavano facendo ammalare e che non sapevo più come proteggere!
Lei era pur sempre una ragazzina di dieci anni! Possibile che nessuno provasse pena per lei? Possibile che volessero solo i risultati delle sue ricerche?
Non potevo crederci. Non potevo credere a tanta disumanità, persino da parte di mio padre che, al contrario, non faceva che spingerla oltre i suoi limiti.
Il problema era che per Alexia stessa sembrava non esistere più niente.
Era malata, aveva bisogno di quei risultati. Voleva riuscirci.
Il progetto T-Veronica virus era divenuto la sua ossessione.
La vedevo ogni giorno incupirsi sempre di più.
Avrei fatto qualsiasi cosa per aiutarla. Tuttavia potevo fare ben poco per lei…non avevo le sue stesse capacità. Ero inutile.
Potevo solo essere lì, ad abbracciarla, sorreggendola nei suoi momenti di abbandono emotivo.
Lei avrebbe sempre potuto contare su di me. Sempre.
Sarei stato accanto a lei in qualsiasi circostanza.
Non m’importava altro che la sua felicità.
 
Lei è tutto il mio mondo.

 
 
 
 
 
Claire guardò corrucciata quelle pagine di diario, sentendo vibrare nel suo corpo l’ardore del giovanissimo Alfred, già allora così maturo e adulto.
Si vedeva chiaramente dal suo modo di scrivere. Un normale ragazzino di dieci anni non avrebbe mai parlato e pensato in quel modo.
Come aveva immaginato, la sua era stata un’esistenza tortuosa, ricca di così tante sfumature che mai avrebbe potuto immaginare.
Sfogliò con il cuore che le batteva in petto, in empatia con i sentimenti che aveva letto, e fu sorpresa quando notò alcune pagine scritte come di fretta e furia.
La calligrafia era visibilmente la stessa, quindi era stato Alfred a scriverle. Eppure era un tratto più grande, affrettato, non allineato con le righe del quaderno.
 
 

 
 
1983
 
Non posso crederci…
Cosa diavolo significa?!
Alexia deve saperlo!
 
LO ODIO!
LO UCCIDERO’!!
Deve morire!!

 
 
 
 
La Redfield lesse quegli ultimi ricordi scribacchiati in modo disordinato, interdetta.
La carta era sgualcita, in alcuni tratti strappata.
Di chi stava parlando Alfred?Perché trapelava così tanta rabbia dietro quelle righe?
Cosa…era successo?
Rappresentando il clima che verteva sulla sua famiglia altolocata, alle dipendenze dell’Umbrella inc. , poteva trattarsi di qualsiasi cosa. Persino…la morte di Alexia, l’evento che doveva averlo fatto diventare pazzo.
La data la inquietò profondamente: 1983.
Aveva…solo dodici anni?
La cosa che la spaventava era la sincerità che poteva quasi vedere nitidamente attraverso quelle pochissime righe scritte con rabbia.
Era come se, pur non conoscendo la situazione che le aveva scaturite, potesse vedere il collegamento con le parole lette in precedenza. Come se una verità insostenibile fosse stata portata alla luce.
Quel qualcosa che gravava in modo indiscutibile su quel mondo corrotto e disumano, che a lungo andare lo aveva reso l’Alfred cupo ed instabile che era attualmente.
Adesso aveva chiara la situazione, Alfred era un uomo solo cresciuto nella follia, nutrito con principi assurdi e troppo pretenziosi per un ragazzino della sua età, trasformandosi infine in un uomo cinico e sofferente.
Accanto a lui, una sorella geniale e distante, che lui venerava poiché la perla che aveva ridato luce alla sua stirpe.
Una ragazza che era stata il punto di riferimento di una vita tortuosa e dimenticata come la sua, che lo aveva condannato dalla nascita donandogli una mente incapace di essere leggera e fanciullesca. Questo già di suo l’aveva reso una persona complicata, che avrebbe sofferto nella vita.
Ma il destino aveva posto rimedio a tale supplizio, donandogli una gemella.
Tuttavia così lui aveva sviluppato un morboso attaccamento che lo aveva reso incapace di vivere senza di lei.
Perdendo quel poco di buono che aveva con la scomparsa di quest’ultima, era nel naturale corso degli eventi il declino della sua mente e la follia cui poi si sarebbe aggrappato.
Claire aveva da tempo compreso quella triste realtà, tuttavia leggere concretamente quei pensieri aveva dato un valore più profondo a tutto ciò.
Sentiva di voler fare qualcosa per lui.
Si chiedeva ardentemente perchè Alfred fosse arrivato a tanta depravazione, a tanta cattiveria, al livello da rendere tutto il Centro di Rockfort Island un campo di concentramento, infliggendo torture inimmaginabili ai suoi prigionieri in virtù di quelle orribili ricerche sul virus T.
Quel mondo perverso lo aveva trasformato in un mostro malinconico e disperato; come tutti gli scagnozzi dell’Umbrella, anche lui alla fine era rimasto corrotto.
 
Claire non poteva certo sapere cosa, in realtà, aveva scatenato la follia e l’ira dei due gemelli, trasformandoli in quelli che erano ora.
 
La terribile verità dietro quella storia, ove tutto ciò che Alexia aveva sacrificato non era altro che la crudele macchinazione di un padre riluttante, che aveva visto in lei la sua rivalsa.
Le sue capacità, il suo tempo, il suo genio, la sua vita…
Lei era stata prodotta per essere così, per conseguire quello scopo.
Era stata sfruttata e indotta a sacrificare tutto pur di conseguire quelle ricerche, non diversamente da una bieca macchina da laboratorio.
Fu questo ciò che diede il colpo di grazia a quella ragazza, che divenne la crudele regina di quella tremenda storia.
Quel tradimento orribile segnò la vita dei due gemelli in modo indelebile, cambiando il corso della loro storia.
Nulla sarebbe più stato come prima.
 
Il sogno era stato infranto, una volta scoperta la realtà.
Loro stessi non sarebbero più stati gli stessi.
La prima, una mera creazione generata per soppiantare i fallimenti di una vita.
Il secondo, un banale errore.
Fu qualcosa che li marchiò crudelmente, facendoli sprofondare in un disprezzo verso quell’umanità così nera che aveva osato sfruttarli e oltraggiarli in quel modo.
 
….ma come accade quando per una vita intera si è abituati a vivere in un certo modo, i pilastri che ci hanno sempre sorretto non possono essere cancellati così…
 
Oramai quel mostro era stato creato e, nonostante la morte del suo creatore, non poteva più essere fermato………
La vendetta non fu sufficiente.
 
L’ossessione per lo sviluppo del Virus T aveva già devastato la vita dell’erede di lady Veronica, per la quale non rimaneva più niente se non la folle fissazione verso la creazione del Virus T-Veronica.
 
Non era più in suo potere tirarsi indietro.
Alexia non era in grado di rinunciare.
 
Lei stessa oramai bramava vincere quella battaglia e ottenere quel virus.
Continuò quindi le ricerche e lo fece anche a costo di sacrificare tutto, ancora una volta.
 
L’uomo un tempo conosciuto come loro padre fece da cavia per il suo ultimo esperimento, rivelando la chiave per raggiungere quell’ambito scopo dopo tanta ricerca.
Fu un esperimento inutile, ma che le fornì i dati necessari per raggiungere il traguardo.
Alla ragazza non rimaneva che fare un ultimo passo per completare quel progetto, sebbene conoscesse il peso che avrebbe gravato non solo su di lei...
Il problema è che non esisteva la possibilità di non farlo.
Lei era nata per questo.
Lei era Alexia Ashford.
 
Alfred era consapevole di ciò.
Anche lui sapeva quanto per Alexia sarebbe stato impossibile ormai abbandonare tutto, nonostante quell’orribile verità circa la loro nascita.
 
Odiava suo padre…
Odiava l’Umbrella…
Odiava tutti coloro che gli avevano fatto questo e che adesso gli stavano portando via la sua Alexia ancora una volta.
 
Però amava sua sorella e sapeva quanto fosse importante per lei.
 
Quindi la lasciò fare e le offrì il suo aiuto.
Perché il suo amore per lei era immenso…
 
Così grande che avrebbe accontentato anche quel suo ultimo, folle, egoistico desiderio.
Per la felicità della sua amata, anche lui avrebbe sacrificato ogni cosa.
 
 
 
 
 
 
 
 
***
 
 
 
- Lettera accartocciata –
 
In uno specchio è riflesso ciò che è concreto e tangibile. Uno specchio riflette esattamente quel che è davanti ai nostri occhi.
Se questo è vero… allora anche quel che io vedo è reale!
Alexia….ci sei tu dietro questo specchio?
Non vedo più il mio volto. Non vedo più me stesso in questa immagine specchiata. Di fronte a me vedo i tuoi occhi da Regina, il tuo sorriso dominatore, il tuo sguardo vittorioso, il tuo genio inaccessibile….
Quell’inconfondibile luce complice che solo l’uno negli occhi dell’altro può vedere.
Oh Alexia, mi manchi disperatamente…
Ma sopporterò. E’ solo per te che affronto questa incessante agonia.
Son lieto e onorato di donarti la mia vita.
 
-   … in attesa di te, mia amata sorella,
Alfred Ashford   -
(*Capitolo 1)
 
 
***
 
 
 
 
 
 
 
Claire trovò una lettera accartocciata in quelle pagine di diario.
Un amore eterno e devoto al quale lui aveva sacrificato tutta la sua vita.
Decise che poteva bastare indagare sulla sua infanzia.
Quell’agonia circa Alexia perdurava da quando era un ragazzino e quel pensiero la crucciava enormemente. Si chiese come fosse ormai ridotta una mente che aveva sofferto così a lungo, ma la risposta era ovvia.
Lei aveva visto l’Alfred Ashford adulto, di ventisette anni: un uomo dal passato glorioso, onorato di encomi e successi invidiabili, dotato di un notevole ingegno e capacità intellettive; tuttavia intrappolato nel vortice della pazzia, che lo aveva reso paranoico, schizofrenico, tirannico, sadico, depresso, malato…  e che lo aveva spinto a distruggere tutto.
Alexia aveva portato via con sé ogni cosa, riducendo Alfred a un pazzo ossessionato da una grandezza e una completezza che mai avrebbe raggiunto.
La famosa gloria degli Ashford, la maledizione di cui lui stesso aveva parlato.
Maestosità e Follia; Bellezza e Tormento; Ossessione, Psicopatia e Grandezza.
Questo contrasto di parole riassumeva Alfred in modo ormai incancellabile.
 
Ispirò profondamente prima di proseguire con le sue indagini e sbirciare finalmente le ultime pagine del diario, quelle in cui sperava fosse appuntato qualcosa circa la sua prigionia.
Era devastante per lei leggere tutte quelle pagine l’una dopo l’altra, ma era necessario per venire a capo di quella che era la sua realtà al momento.
Sfogliò quindi gli ultimi passi di quel raccoglitore di memorie, in modo da vedere se ci fosse qualche nota più recente, e fu incuriosita da una serie di pagine visibilmente tagliate.
Erano circa una decina e avevano creato uno spessore non indifferente. Si chiese come avesse fatto a non notarlo prima.
In corrispondenza di quelle pagine mancanti c’erano però un gran numero di fogli scritti.
Dunque, parte dell’ultimo racconto ivi annotato, era ancora presente nel diario. Non era stato tagliato via del tutto.
Si chiese che evento della sua vita fosse, visto che Alfred aveva deciso di censurarlo persino al suo stesso diario.
Sgranò gli occhi quando lesse Dicembre 1998, la data del corrente anno.
Scorse alcune parole, non potendo resistere nel far scorrere lo sguardo su quelle facciate; parole che in un attimo coinvolsero la sua mente, facendole cogliere al volo l’episodio di cui presto avrebbe letto:  jet’, ‘Rockfort’, ‘Claire’.
 
La Redfield rabbrividì.
 
Quelle pagine….parlavano di lei?
Della sua fuga da Rockfort Island assieme a Steve?
 
Le sue mani presero a tremare e, nonostante fosse ancora emotivamente coinvolta dall’oscuro e tormentato passato del giovane Alfred, cominciò a leggere senza battere ciglio.
Stava forse per scoprire finalmente cosa era accaduto quella notte? Cosa era successo nel frangente in cui era svenuta sul jet e poi si era risvegliata come Alexia?
Non era sicura di essere pronta psicologicamente a conoscere quella verità, ma soprattutto di saperla dagli occhi di una mente instabile e deviata come il biondo; ma quella era la sua opportunità ed oramai era in gioco.
Quelle pagine la riguardavano più di chiunque altro.
Doveva sapere.
 
 
***
 
 
 
 
Diario di Alfred Ashford
Umbrella Training Facility - Rockfort Island
Dicembre 1998
 
 
 
 
 
Un uomo correva per il lungo corridoio rivestito dal manto rosso del tappeto, il quale attenuava i suoi passi invece pesanti e frettolosi. La sua espressione, a tratti disperata, a tratti infuriata, deformava il suo volto etereo e raffinato, perduto nei meandri della pazzia di cui aveva appena toccato il fondo.
Il buio tetro della sua anima, in cui aveva segregato se stesso e i suoi ricordi, non era più riuscito a contenere la sua disperazione, e così i suoi tormenti mai guariti risalirono a galla, trascinando tutto in un vortice tortuoso e inaccessibile al resto del mondo.
Le ultime barriere che lo avevano protetto erano cadute in disgrazia, lasciando da solo quell’uomo dai capelli di platino, che barcollava nella sua stessa casa rivoltatasi contro di lui.
Non aveva più niente, ogni cosa era divenuta sua nemica.
Sentendosi solo e indifeso, non aveva più ragion d’essere per lui quel luogo che aveva ormai trasformato i suoi giorni in un incubo; così si affrettò, dirigendosi verso la sala comandi, pronto a mettere la parola fine a tutto questo.
Non ne poteva più di sopportare tanti abomini, tanta usurpazione, mortificazione, disonori.
Lui che era l’ultimo erede Ashford rimasto in vita, aveva il dovere di proteggere i suoi tesori, il suo regno, e piuttosto che vederlo sprofondare tra le grinfie di chi lo stata attaccando, preferiva vederlo morire per mano sua.
Rievocò nella sua mente le istruzioni imparate durante l’addestramento militare, pronto a far saltare in aria l’intero centro d’addestramento di Rockfort island.
Rievocò per un istante lo splendore del suo regno prima che venisse crudelmente e inaspettatamente attaccato.
Tutto era successo da quando era arrivata quella stupida Redfield, insinuatasi sul suo cammino, decisa a distruggere quello che lui aveva protetto da una vita.
Prima di quel momento, il centro d’addestramento era stato il teatro del suo più grandioso spettacolo di tortura e violenza che alcuno avrebbe mai saputo giostrare come lui.
Il suo regno macchiato di sangue aveva compiaciuto e allietato il suo padrone, colmando i suoi turbolenti sentimenti che divampavano nel suo cuore corrotto. Un fuoco minaccioso che non lo abbandonava in nessun istante, ma che grazie al tormento riusciva a lenire.
Sotto le mentite spoglie della sua adorata gemella perduta, Alfred aveva dominato quel luogo impregnato di follia.
Tuttavia la sua maschera era caduta, rivelando il suo doppiogioco, la doppia vita che lui tentava di emulare.
Non aveva quindi più ragion d’essere quella farsa. Era tempo che quel gioco finisse.
Il suo onore era stato leso.
Il suo cuore era stato spezzato.
Il suo gioco era stato scoperto e adesso che persino la sua Alexia era stata oltraggiata, non poteva più reggere quel peso.
Doveva chiudere il sipario.
Attivò dunque il sistema di auto-distruzione, pronto a portare nell’inferno tutto ciò che amava e che odiava al tempo stesso.
La sua casa, i suoi tesori, la sua vita, la sua carriera….ma anche i suoi nemici, che lo avevano sconfitto e umiliato!
 
“The self-destruction system is been activated.”
 
Dopo che l’allarme prese a lampeggiare, corse via dalla stanza, pronto a far conoscere il vero terrore a Steve e Claire, le due figure che avevano osato farlo arrivare a tal punto.
Aprì un passaggio segreto grazie a uno degli stemmi della sua famiglia e poté accedere all’aeroporto, dove il suo “gioiellino” l’avrebbe salvato dall’apocalisse ormai giunta.
Si trattava di uno Jaguar, un aereo militare inglese.
Come suggerisce il nome stesso, è stato scelto il termine “jaguar” in quanto rappresenta un sunto delle caratteristiche richieste alla macchina: un predatore temibile, capace di colpire con rapidità e con esiti letali. La macchina si presenta come un elegante monoplano bireattore, con ala alta, a freccia e prese d'aria rettangolari ai lati della fusoliera.
Infine la sua velocità di 1600 km/h in quota rendeva questo suo “gioiello” un alleato formidabile, che lo avrebbe condotto in poche ore nel luogo a lui più sacro.
 
Era arrivato il momento.
 
“Sto arrivando, sorellina.”
 
Sussurrò fra sé, dopodiché si mise alla guida, in fibrillazione per essere davvero in dirittura d’arrivo, a bordo di quell’aereo che poche volte aveva avuto l’opportunità di guidare.
Ricordava perfettamente le istruzioni e sapeva cosa fare, era pronto a partire.
Nessun timore lo gettava nel dubbio. Sentimenti più turbolenti e passionali lo guidavano, non gli importava null’altro che ricongiungersi con la sua amata metà. Doveva però prima di tutto distruggere quello che di sporco aveva lasciato.
Non avrebbe rimpianto Rockfort, era anzi abbastanza felice di vederla saltare in aria.
Era ora di cominciare l’ultimo atto, che avrebbe segnato la disfatta definitiva dei suoi nemici.
Avrebbe fatto assaporare agli spettatori il vero dolore, dimostrandogli chi era il personaggio di Alfred Ashford.
Mise quindi in moto il motore e partì.
Osservò il monitor e aggiustò le coordinate. Consultò anche il radar e fu allora che la sua sfrontatezza e la sua indole tirannica subì un’ulteriore scossa che gli fece perdere il controllo lì per lì.
Questo perché dal radar costatò che un altro dei sui velivoli era in volo. Si trattava del suo jet privato!
Cos…?
Quando era successo? Ma soprattutto, chi aveva osato rubarlo?
Non gli ci volle molto per capire di chi si trattasse, le sue formichine dovevano aver paura del fuoco molto più di quanto si aspettasse.
Erano corsi via aggrappandosi persino a quella tenue speranza di sopravvivenza e in qualche modo avevano ottenuto tutti gli stemmi della marina con i quali aveva pazientemente sigillato l’ingresso di quel jet.
Pazienza…avrebbe tardato di pochi istanti i suoi piani.
Li avrebbe distrutti ugualmente; sia la Redfield che quel prigioniero che l’accompagnava. Erano solo cambiate le modalità.
Si alzò dunque in quota, inseguendo il jet a bordo del quale i due ragazzi festeggiavano ignari la loro fuga disperata.
Velocemente, il puntino sul radar che indicava l’aereo a bordo del quale sedevano i due fuggiaschi si fece sempre più vicino finché non fu finalmente alla sua portata.
Il limpido e stellato cielo notturno fece da sfondo alla distruzione che stava per avvenire.
Il mare rifletteva sulla sua superficie i minuscoli eppure luminosissimi bagliori bianchi delle stelle, ai quali si accavallò l’immagine del jet che si innalzava, inseguito dal jaguar di Alfred.
Fu un attimo quello in cui quella momentanea pace fu bruscamente sostituita dal boato di un attacco missilistico.
Questo fece traballare l’aereo a bordo del quale erano situati Claire e Steve, tuttavia Alfred deviò di proposito la direzione del colpo, che non andò a centro per non abbattere il suo jet che intendeva recuperare. Volle solo provocare un sonoro frastuono, che disorientasse i due ragazzi e li facesse ‘danzare’ un po’. Trovò la cosa esilarante.
Osservò il fuoco del suo colpo illuminare d’arancione porzione del cielo. Fu uno spettacolo meraviglioso da guardare, distruttivo e affascinante.
Tornò a osservare il jet e, annoiato di stare a darvi la caccia, decise che era arrivato il momento di rendere quelle danze più interessanti, ma soprattutto proficue.
Pigiò dunque un tasto, che gli permise di prendere il controllo a distanza del veicolo e si divertì a farlo deviare nelle più svariate direzioni; godeva nell’immaginare l’intrepida Claire in balia della paura, nell’inconsapevolezza di ciò che stesse accadendo.
 
“La tua fuga è fallita, Redfield. Dovrai fartene una ragione.”
 
Disse, dopodiché pilotò il jet in direzione della terra ferma, imponendogli un brusco atterraggio che certamente avrebbe insegnato alla sua nemica cosa significava cercare di invadere il suo territorio.
Nessuno avrebbe mai potuto dominare nel suo regno! Era lui il Re!
L’impatto fu terribile.
Per un attimo Alfred temette di essersi lasciato prendere troppo la mano e di aver così distrutto il suo stesso veicolo.
Un gran fumo s’innalzò avvolgendo l’aereo in una coltre di terra che impiegò diversi minuti prima di dissiparsi. Ormai però il jet sembrava essersi fermato, aveva quindi raggiunto il suo scopo.
Non rimaneva che atterrare lui stesso, in modo da sferrare il colpo di grazia.
Trovò un posto adatto per scendere a terra, in seguito imbracciò il suo fucile da caccia e lasciò l’aereo militare per dirigersi verso il jet.
Giunto davanti ad esso, tirò con veemenza lo sportello d’apertura ed entrò, dirigendosi impetuoso all’interno.
La terra innalzatasi dopo l’impatto impregnava ancora l’aria, rendendola densa e irrespirabile.
Il biondo dovette avvolgere il braccio sulla bocca in modo da non finire in balia degli attacchi di tosse.
La visuale non era ottimale, tutto sembrava annebbiato; fortunatamente, però, lui conosceva l’aereo come le sue tasche quindi potette muoversi al suo interno senza particolari intoppi.
Quando giunse nella sala comando, tra la coltre di fumo che anneriva la stanza, distinse i macchinari ancora accesi, i cui schermi lampeggiavano ininterrottamente andati oramai in corto circuito.
Il vetro del parabrezza era frantumato, un grosso sfregio percorreva, infatti, la sua superficie su buona porzione di esso. Infine vari utensili erano cascati a terra, ai quali si affiancavano proiettili e alcune armi da fuoco, probabilmente appartenenti all’arsenale dei suoi due prigionieri.
Accasciato sul posto di comando, giaceva inerme il giovane dai capelli castani.
Il prigioniero numero 0267, lesse dalla sua giacca. Lo riconobbe immediatamente, egli era il figlio di quell’ipocrita del dottor Burnside, che per fare quattro soldi aveva venduto le informazioni sull’Umbrella pensando di poterla fare franca.
Non solo lui, ma tutta la sua famiglia era stata punita e imprigionata a Rockford, un atto che fu fatto per dimostrare ancora una volta l’autorevolezza dell’Umbrella e la fine che si faceva nel tradire i suoi principi di Disciplina, Unità, Potere.
Era certo che fosse stato sottoposto al T-Virus anche il figlio…evidentemente era riuscito a scappare quando avevano attaccato l’isola. Un bel colpo di fortuna, ma non aveva che allungato di poco la sua vita ormai segnata da un destino dal quale non sarebbe mai scappato.
Egli era ricoperto di polvere e sembrava aver riportato alcune ferite alla testa, ma Alfred non si curò affatto di lui; non era Steve la sua vera preda.
Fra i vari detriti che scricchiolavano sotto i suoi piedi, finalmente si ritrovò dinanzi alla figura distesa della rossa Redfield, la quale giaceva immobile a terra, con la schiena premuta contro la parete.
L’esplosione aveva affumicato parte del suo viso, che tuttavia rimaneva comunque roseo e delicato sebbene quell’orribile sporco sulle sue guance e sui vestiti.
I capelli fulvi inondavano il suo viso, scomponendosi sulla sua fronte. Il codino dietro la sua nuca scivolava sul suo collo reclinato in avanti. Il resto del corpo era graffiato per via di quell’impatto appena avvenuto. Dalla sua posizione, il biondo dedusse che dovesse essere caduta all’indietro e aver perso i sensi dopo aver sbattuto la testa.
Fu leggermente deluso di ritrovare i corpi dei due ragazzi in quello stato, avrebbe desiderato ucciderli con le sue mani!
Invece…erano morti così…! Che delusione.
Corrucciò le sopraciglia, accigliato, in seguitò si piegò all’altezza di Claire osservandola insistentemente, come un ragazzino che non può sopportare di aver perso il suo compagno di giochi.
Sollevò il suo mento con la canna del fucile, rivolgendolo verso di sé.
 
Quel che accadde in quel singolo istante, non fu esattamente chiaro neppure per lui.
 
Qualcosa tuttavia avvenne, catapultando l’altolocato e squilibrato Ashford nel suo contorto mondo segnato dalla solitudine e dalla follia.
Gli occhi di quella donna chiusi dolcemente trafissero l’animo devastato di quell’uomo che non conosceva che il dolore nella sua vita fatta di sacrifici.
Non seppe dire cosa stesse succedendo nella sua mente, seppe soltanto che nel momento in cui il suo volto s’incrociò con quello assopito di Claire, qualcosa mutò.
Il suo cuore prese a battere incessantemente.
Era forse il successo della sua impresa? La sua vendetta conclusa? Era invece incerto sulla costatazione di quella morte?
Oppure…era semplicemente paura.
 
La paura di vedere il volto di un altro essere umano.
 
Il timore di non saper gestire i propri sentimenti, le proprie ansie, i propri turbamenti.
Paura che qualcosa potesse violare il suo universo equilibrato in modo precario, ove spesso ogni cosa vacillava.
Quel viso rappresentata per Alfred l’incontro con un universo diverso, distante dal suo. Un mondo dal quale lui si era sempre tenuto alla larga, distaccato ormai in modo irreversibile da quella realtà così diversa da quella che lui conosceva.
Lui che era cresciuto in quei bui e tetri castelli, negli angusti e inumani laboratori dell’Umbrella, non sapeva cosa si celasse dietro un altro viso umano.
La giovane Claire, completamente estranea a tutto ciò che invece aveva caratterizzato la sua vita, si era insinuata nel suo territorio gettando nel caos il suo universo costruito pezzo su pezzo, nel quale non c’era spazio se non per lui e la sua amata sorella Alexia.
La Redfield aveva contrastato le avversità cui lui l’aveva sottoposta, aveva lottato contro di lui e il suo mondo, portando alla luce vecchi dolori che in verità non l’avevano mai abbandonato.
Lui aveva abbracciato quella battaglia e aveva fatto di tutto per fargliela pagare. Questo per onorare la gloria degli Ashford e la sua missione.
Tuttavia, nel suo intimo, c’era qualcosa di più profondo che la ragazza aveva toccato.
Si trattava di una parte così nascosta, invalicata da sempre, chiusa ermeticamente non solo al mondo ma persino a se stesso.
Una porta segreta, abbandonata nei meandri dei suoi tormenti, che aveva fatto nascere in lui il rifiuto verso ogni cosa non riguardasse il suo universo che ruotava attorno alla sua famiglia, conducendolo alla pazzia.
Tuttavia, dietro quello spiraglio, egli aveva sempre agognato conoscere quel mondo che invece gli era stato negato.
Quel mondo dove la sua solitudine forse sarebbe stata lenita.
Sottoposto a quindici anni di reclusione, quella ferita non aveva fatto che allargarsi sempre di più, in onore a quei principi e quei doveri che da sempre avevano mosso la sua vita.
Lui era incapace di lasciare il suo credo, di tirare quell’ancora arpionata in quel mondo devastato dalla crudeltà e dalla menzogna.
Claire rappresentava un mondo da lui mai conosciuto. Un mondo da cui si era sempre tenuto lontano. Un mondo che aveva ferito lui e chi amava.
Un mondo però che lo richiamava.
Chiuso nel suo tetro castello, non aveva mai più visto anima viva.
Nessuno aveva mai osato invadere la sua proprietà o metter in discussione la sua supremazia, in quello che era il regno che dominava.
Claire aveva girovagato, invece, nel suo losco e intimo mondo corrotto, percorrendo senza saperlo quei meandri a lui così cari ma così maledetti.
Questo perché l’universo di Alfred Ashford rappresentava da tempo la sua ancora, ma anche la sua follia.
Quando vide quella giovane così diversa dal suo concetto di femminilità ed eleganza solcare il portone della sua residenza, aveva osservato ogni suo movimento, cimentandosi nel comprendere quella “formica” infinitamente piccola rispetto a lui, eppure abbastanza grande da destare la sua curiosità.
L’analizzò infastidito nel vederla muoversi liberamente nella sua proprietà, eppure bramava osservarla, capire chi fosse, come un animale cresciuto in cattività che non ha mai visto né conosciuto i suoi simili.
Claire rappresentava questo per lui.
Lei non era dell’Umbrella, né qualcuno che appartenesse al mondo da lui conosciuto.
Era solo un’innocua prigioniera, intrappolata nel suo palazzo di perversione e follia, che lui dominava nell’attesa del risveglio della sua amata Alexia, l’unica persona che dava valore alla sua esistenza.
Qualcosa di lei destò quindi il suo interesse, per questo ci impiegò un po’ prima di mostrarsi e rivelarsi come suo nemico.
In seguito, la Redfield era divenuta sempre di più una spina nel fianco, contrastando i suoi piani e dandogli più filo da torcere di quanto avrebbe immaginato.
I suoi sentimenti viscerali cominciarono a mutare e da curiosità, passo presto all’odio, al risentimento. Questo finché la sua permanenza nella residenza Ashford non divenne più un gioco e cominciò lui stesso a muovere tutte le sue pedine, infastidito da quell’invasione di territorio.
Intanto ella diveniva un tarlo sempre più perenne, insinuandosi nella sua vita e nella sua mente in modo inarrestabile.
Non si accorse nemmeno di come tutto ciò potesse essere accaduto.
Sapeva soltanto che tutto ad un tratto Claire era diventata il simbolo dei suoi guai e che voleva eliminarla, a ogni costo.
Qualcosa di lei lo angosciava profondamente.
Non aveva fatto i conti tuttavia con quello che era stato chiuso nel suo cuore e che mai nessuno era riuscito a toccare.
Quel qualcosa che era stato segregato dentro di lui e che si era rifiutato di ammettere a se stesso, prediligendo il martirio piuttosto che la sua accettazione.
Si trattava del senso di abbandono che in verità aveva devastato il suo animo molto più di quanto sapesse, facendolo aggrappare persino a quella presenza che disturbava i suoi giorni.
Claire divenne quella compagnia che illuminava, in modo complesso e controverso, quell’estenuante attesa che lo aveva fatto sprofondare nella fosca marea dell’emarginazione; i suoi giorni distrutti da quindici anni, la solitudine incolmabile che aveva accompagnato la sua tetra esistenza.
Possibile che Claire, da inutile e squallida ragazzina comune, avesse riacceso qualcosa dentro di lui?
Tuttavia lui viveva per Alexia. Bastava lei a dare un senso nella sua vita!
Per lei avrebbe affrontato qualsiasi ostacolo, ora e per sempre!
Cosa quindi gli mancava effettivamente?
Cosa aveva visto nel viso di Claire, che lo aveva rapito a tal punto da mandare in tilt la sua mente fino a portare allo scoperto quelle ferite nascoste, ma mai cicatrizzate?
Quel qualcosa che aveva nascosto e che aveva impedito al suo cuore di rivelare….
I suoi occhi languidi e vitrei si corrucciarono, mentre la canna del fucile sorreggeva ancora il mento di Claire.
Egli la guardò interrogandosi tacitamente su quel qualcosa di oscuro che nemmeno lui conosceva, o piuttosto che era restio a rivendicare.
Sapeva solo di sentirsi turbato, avvilito… desiderava quel contatto umano che mai aveva appagato da quindici anni.
Quindici anni di devota servitù, rinuncia, verso tutto ciò che non compiaceva o non contribuiva allo sviluppo delle ricerche della sua preziosa metà.
Il viso di Claire scivolò dalla sua canna, e a quel punto fu Alfred stesso a sorreggere il suo capo, non potendo distaccare i suoi occhi da lei.
In quel momento, mentre toccava la sua morbida pelle macchiata dalla polvere, il suo calore si propagò anche dentro di lui dando una tacita risposta a quel senso di smarrimento che agitava il suo animo.
Poi…
….Sentì pulsare le sue vene.
Avvertì il suo respiro soffiare sulla sua mano, riscaldandola con il suo fiato debole ma percettibile.
Vide le sue palpebre socchiudersi per poi serrarsi l’istante dopo, mostrando in un frangente i suoi luminosi occhi blu.
Claire era…viva?!
Viva!
Era stranamente…felice?
Alfred emise una sonora risata, che echeggiò per tutto l’aeroplano. Prima di soppiatto, poi si fece sempre più esuberante e raccapricciante.
Che cosa esprimesse quell’incomprensibile contentezza, era impossibile stabilirlo. Il suo sogghigno risuonava sadico, maligno, eppure sincero…
Egli avvolse volentieri le sue braccia attorno alla giovane, sollevandola da terra e portandola con sé.
Aveva deciso di farle l’immenso onore di mostrarle gli abissi più profondi di quell’incubo in cui entrambi, per motivi diversi, erano precipitati.
Il suo oscuro e meraviglioso mondo, ancora celato al resto dell’umanità e di cui lei presto avrebbe avuto l’anteprima.
Questo perché sì…aveva deciso di portarla in Antartide con sé.
Nei laboratori Artici dell’Umbrella, dove giaceva la sua amata e geniale sorella…
Lei, quella minuscola e insignificante formica, avrebbe avuto l’onore di vedere sorgere la sua Dea, la sua unica e magnifica dama, che presto si sarebbe sopraelevata al genere umano ristabilendo l’ordine di quel pazzo mondo!
Si riferiva al progetto Code: Veronica, cui lui aveva dato il suo grande contributo, onorandosi di aver protetto la somma Alexia. Un decoro così alto che lo inorgogliva e che rendeva la sua estenuante attesa il compito più importante della sua vita.
Claire non sapeva cosa avrebbe assistito, in che storia si fosse realmente immischiata, ma in un certo senso aveva insistito per assistere a quel trionfo.
Lui l’avrebbe accontentata. Avrebbe avuto la sua bella compagnia, in attesa di quel momento.
L’emozione cominciò a battergli in petto, facendolo sentire inquieto eppure elettrizzato.
Qualcosa lo entusiasmava nel sorreggere fra le braccia quella sporca ragazza così dissimile dal suo mondo, dai suoi progetti, dal suo credo, dal concetto di grandiosità e bellezza.
Lei era un’infima donna, priva d’importanza. Eppure era compiaciuto di averla con sé in quel momento.
 
Alfred tuttavia non conosceva ancora il potere reale della solitudine cui era stato sottoposto.
Un potere così grande che alla fine aveva fatto collassare ogni cosa, facendolo aggrappare disperatamente a qualsiasi cosa pur di non sprofondare.
Una presenza reale, materiale, fisica, stava per fare crollare ancora una volta le sue certezze, mostrandogli in modo spietato il mondo contorto in cui lui si era segregato e nel quale non avrebbe mai trovato una felicitò tangibile.
Toccare con mano quello che da sempre gli era stato negato e sottratto, avrebbe fatto sprofondare la sua mente in un terribile baratro dal quale non sarebbe più uscito.
La dolce e piccola Claire aveva avuto questo potere: risvegliare in lui quel profondo dolore, circa l’abbandono di sua sorella e la rinuncia alla vita.
Quello che accadde dopo, non fu che la conseguenza di una vita fatta di martirio e sacrifici, nutrita da crudeltà e menzogna.
Cose cui si affiancava la mancanza di quel qualcosa di concreto che gli mancava profondamente, seppur lo negasse con tutto se stesso: compagnia, affetto, amore.
Più osservava quindi il viso della sua nemica, più quell’infinito dolore veniva parzialmente lenito…e quel ‘qualcosa’ che accompagnava i suoi angusti giorni lentamente si scioglieva, inesorabile…
 
Tutto ciò accade, che lui lo volesse o meno.
Per quanto si aggrappasse ad Alexia, oppure no……………
 
 
***
 
 
Claire Redfield interruppe la lettura per un istante.
 
“Antartide…? Sono in…Antartide?”
 
Erano tante le parole appena lette che avevano mandato in panne la sua mente, le ci volle un po’ per riuscire a focalizzare le sue attenzioni.
Tuttavia, nell’indecisione di quel momento, decise di continuare a leggere.
Questo mentre il suo viso si faceva sempre più cupo e sconcertato.
Stava per toccare un tassello molto profondo di quell’uomo mentecatto, se ne era ormai resa conto. Stava per conoscere a cosa poteva arrivare la follia e cosa ci fosse stato in realtà dietro quell’ambiguo gioco di ruoli raccapricciante di cui aveva fatto parte.
Solo non sapeva fino a che punto avrebbe dovuto sapere, ma soprattutto, fino a quanto la sua mente avrebbe retto.
 
 
***
 
 
 
Diario di Alfred Ashford…
Continua…
 
 
 
 
La notte fredda e umida accompagnava il biondo ragazzo erede degli Ashford lungo il tragitto silenzioso e solenne che lo stava portando nel luogo dove era sigillata la sua Regina.
Il viaggio verso l’Antartide fu sereno e quieto, Alfred potette disporre del pilota automatico per arrivare a destinazione, sebbene non riuscisse a rilassarsi in nessun modo; nella sua mente non c’era spazio se non per il suo imminente ritorno in quei laboratori, custodi di memorie per lui incancellabili.
Ricordi belli, tristi, riluttanti, persino dolorosi e atroci…il Centro di Ricerche Artico aveva segnato tante cose per lui.
Esso era il luogo che, a un certo punto della sua vita, aveva segnato alcuni momenti fondamentali, che avrebbero determinato quello che sia lui che Alexia sarebbero stati in futuro. Fu in quel luogo che divenne un uomo, abbracciando la sua croce e vivendo per uno scopo.
In quel luogo i suoi sogni, le sue certezze, i suoi affetti, tutto era precipitato, distruggendosi fino a disintegrarsi. Lasciando in piedi un solo, ma fondamentale pilastro: ancora una volta Alexia, l’unica persona che avesse accanto, l’unico immenso amore che non lo avrebbe mai tradito.
Eppure fu costretto a separarsi persino da lei, per permetterle di avverare quel suo sogno.
Nella mente già fragile di quel ragazzo, a quel tempo appena decenne, si aprì una voragine che lo costrinse a crescere ancora più velocemente.
Egli già non aveva mai vissuto la vita di un bambino, eppure il destino non sembrava ancora soddisfatto.
Pretese da Alfred che si separasse da colei che era la più preziosa per lui, non facendo che addizionare sofferenza ad altra sofferenza, in quel baratro che si faceva sempre più nero.
Alfred però non crollò.
Dentro di lui qualcosa moriva giorno dopo giorno. Il suo animo si sbriciolava, cadendo pezzo dopo pezzo, riducendolo ad un uomo dimenticato e logorato.
Eppure lui rimase in piedi, per quindici anni, sorretto da quell’amore immenso, l’unico che avesse mai provato.
La vita gli aveva fatto un dono immenso, quello di farlo nascere accanto ad un’anima affine e gloriosa come sua sorella gemella. Egli avrebbe quindi sorretto quel peso, in quanto a sorreggere lui c’era qualcosa di grandioso e immenso.
Dietro di lui c’era Alexia, la cui forza teneva in piedi quel sacrificio, permettendogli di affrontare le avversità che sapeva sarebbe andato in contro.
Per avversità ovviamente non intendeva il vivere da solo…ma qualcosa di molto più profondo: intendeva le tortuose sofferenze cui si sarebbe imbattuto nell’essere privato di una parte di sé.
Alexia non era soltanto una sorella, non era solo un’anima affine; lei era lui. Loro erano uno stesso corpo diviso in due. Loro…erano l’uno parte dell’altro.
Con la mancanza di uno di loro, nessuno dei due sarebbe mai stato completo, ed Alfred era consapevole che quella sarebbe stata la prova più ardua.
Vivere senza una parte di se stesso.
 
Egli rivolse lo sguardo verso Claire Redfield, accomodata sul sedile posto accanto al suo.
Aveva reclinato la poltrona per permetterle una posizione sdraiata, in modo da lasciarla riposare comodamente.
Per evitare che si svegliasse, aveva deciso di addormentarla chimicamente. Aveva un armadietto dei medicinali sul jet e così aveva adoperato del cloroformio in modo da passare quelle lunghe ore da solo con lei senza che la ragazza si ribellasse.
Lei non avrebbe mai accettato di fare quel viaggio senza lottare, aveva avuto modo di conoscere il suo carattere troppo tenace e ribelle per i suoi gusti. Inoltre non gli dispiaceva il silenzio che aveva accompagnato quel viaggio oramai quasi terminato.
Affacciandosi, cominciava a riconoscere il paesaggio innevato e rigido di quella parte del mondo, ciò significava che si trattava solo di una questione di minuti prima di vedere il laboratorio di ricerche.
I suoi occhi cristallini tornarono su Claire e sul suo viso addormentato.
Vederla faceva agitare qualcosa nel suo animo, ma lui cercò di non badarci. Sentiva dentro di sé il desiderio di toccarla, di sentirla, di conoscere quel calore umano che lei emanava anche svenuta.
Eppure non osava muovere un solo dito verso di lei, fermato da un timore con cui non aveva avuto il tempo di abituarsi. Quella paura che si scaturisce quando non si è abituati a qualcosa e il nostro intero corpo si irrigidisce, incapace di superare quell’ostacolo emotivo.
In questo modo, Alfred si ritrovò a desiderare e rifiutare tali impulsi, agognando un affetto tangibile che, per quanto lui appagasse con il ricordo del suo amore eterno che presto o tardi avrebbe riabbracciato, rimaneva qualcosa di evanescente.
Eppure ai suoi occhi era più irraggiungibile quella donna accanto a lui, che non la sua Alexia che, seppur rarefatta, risiedeva nel suo cuore in modo così stabile da non essersene mai andata.
Alexia aveva imprigionato il suo cuore, impedendogli di vedere altro.
Scorgere quindi nuovi orizzonti al di fuori di quelle certezze era già abbastanza per lui, che non voleva tradire l’amore di colei che stava proteggendo.
Eppure continuava a guardare la ragazza dai capelli rossi, contemplando i suoi tratti così dissimili dalla raffinatezza di Alexia; il suo corpo allenato, non esile e leggero come quello della donna che lui riveriva e che aveva formato il suo concetto di Donna.
Claire era invece tonica, muscolosa, atletica, sebbene longilinea e snella. Era vestita inoltre in modo per niente femminile, lui che era abituato a una certa etichetta, ad abiti eleganti e sontuosi.
Aveva addosso, infatti, una giacca di pelle rossa a giro maniche e dei jeans; già il fatto che portasse i pantaloni la rendeva un maschiaccio ai suoi occhi.
Tuttavia in qualche qual modo comunque la trovava sensuale, era un qualcosa che lui stesso riteneva strano non concependo altro modo di vedere il mondo e le persone al di fuori di lui e Alexia.
Eppure la Redfield destava la sua curiosità, ed era proprio questo che lo tormentava fino a gettare nel buio il suo spirito.
 
Il comandante Ashford fece atterrare il jet sulla pista. Il portellone si aprì dall’alto, permettendogli di planare fino a far scendere a terra il pesante veicolo, entrò così finalmente all’interno dell’edificio.
I rombi del motore si propagarono assordanti nel vuoto locale abbandonato, costituito da quattro facciate di alluminio freddo.
Alfred attese che tutto fosse in ordine e che ogni operazione fosse ben eseguita prima di alzarsi dal posto di guida.
Guardò un’ultima volta quel luogo desolato dalla vetrata dell’aereo, realizzando nella sua mente di essere veramente lì, dopo così tanto tempo.
Il jet in qualche modo rappresentava ancora un punto di passaggio fra Rockfort Island e il Centro di Ricerche Artico. Solcare la sua porta significava fare il passo decisivo e entrare per davvero lì, nel luogo dove Lei lo attendeva.
Mille emozioni passavano per il suo cuore logorato, stanco, eppure ancora così determinato; ma volle concedersi quell’attimo di respiro prima di iniziare i preparativi ed immergesi in quella dimensione in verità a lui più ostica di quanto sembri.
Come già detto…Alfred odiava quel luogo.
Lo odiava con tutto se stesso.
Eppure era lì che riposava la sua Alexia.
Un dualismo che non poteva che dividere il suo cuore in due perfette metà.
Sospirò, rilassando il capo sullo schienale della poltrona di guida, in seguito indossò di nuovo la sua maschera da comandante, pronto a iniziare la sua battaglia quotidiana.
Girò lo sguardo nuovamente verso la Redfield, stavolta non dando minimamente ascolto ai suoi turbamenti interiori; la caricò sulle spalle e portò con sé soltanto il fucile e le numerose chiavi che gli sarebbero servite per accedere nella sua residenza privata, che aveva fatto costruire proprio in occasione della sua venuta in quei laboratori.
In verità, le residenze erano ben due, una ‘vera’ e una ‘falsa’.
Percorrendo un gran numero di corridoi e giungendo all’ascensore, qualsiasi visitatore ficcanaso si sarebbe prima o poi imbattuto nel magistrale portone di legno massiccio, oltre il quale una riproduzione della sua casa di Rockford apparentemente troneggiava sul posto.
Una visione apparente, come specificato, in quanto anche solo solcando l’ingresso chiunque si sarebbe accorto che quel luogo non era che il mascheramento di un’ala del centro di ricerche.
Un luogo costruito dalla sua famiglia per permettere lo sviluppo indisturbato dei propri progetti. Si trattava di qualcosa che era stato precluso persino ad Alfred e Alexia in età giovanile, la cui scoperta cambiò drasticamente la loro esistenza già devastata.
Nei meandri di quel posto erano custoditi segreti e macchinazioni che nessuno aveva avuto il privilegio, oppure la condanna, di conoscere.
Alfred conosceva bene il peso delle sue parole e la dannazione eterna che si sarebbe scaturita in seguito.
L’inquietudine che provò allora, l’odio che pulsava ancora nelle sue vene, era rimasto invariato in tutti quei lunghi e tortuosi anni; non avrebbe mai dimenticato gli orrori visti, non avrebbe mai perdonato quello che aveva subito!
 
Un…errore….
Era così che quel lurido, inutile, riluttante uomo l’aveva chiamato.
 
Solo questo era riuscito a dire sul suo conto.
 
La rabbia traboccava dai suoi occhi ricolmi di quel rancore, dove la vendetta non era stata sufficiente a guarire quella sofferenza.
Soprattutto se di mezzo c’era andata infine la sua preziosa Alexia, che aveva finito per rimanere ingabbiata in quel mondo in cui era stata imprigionata fin dalla nascita, non potendo ormai più tirarsi indietro e rinnegare un’ossessione che aveva alimentato da sempre la sua intera vita.
Alla fine, quella vendetta non aveva risolto nulla.
Tuttavia era compiaciuto del fatto che “egli” fosse segregato in quella merda di cella, in balia dei tormenti più angusti, di una fame che non sarebbe mai stata saziata, di un dolore eterno che non l’avrebbe mai fatto spirare.
Nosferatu era diventato il suo nome….perchè non avrebbe mai spirato l’ultimo respiro.
Lui……avrebbe sofferto per sempre. In eterno!
 
Alfred Ashford si incamminò nei laboratori angusti, giungendo fino alla villa nascosta nei suoi tetri e macabri meandri, non potendo fare a meno di rievocare i torti subiti e quel dolore che aveva crucciato la sua intera esistenza.
Questo finché il suo cuore non lo pregò di fermarsi e cosi chiuse la sua mente, decidendo di dare ascolto a quella voce interiore che non ne poteva più di dover ricordare quei giorni. Si limitò così a patire in una silenziosa e angosciante tribolazione.
Arrivato in quella che per alcuni tempi era stata la sua casa, in quanto Alexia gestiva lì i suoi affari e i suoi progetti, si diresse verso una porta in particolare. Una nascosta dietro un arazzo immenso e maestoso.
Lo tirò giù, impedito nei movimenti per via del fatto che avesse Claire sulle sue spalle e il fucile sotto il suo braccio.
In seguito si addentrò in un riluttante corridoio più simile a un cunicolo, che lo collegò ad un altro ingresso del palazzo.
Quella era la “vera” Residenza Ashford del Centro Artico. Una villa che aveva fatto costruire lui stesso nel corso di quegli anni di estenuante solitudine, perché riluttante all’idea di solcare i luoghi che avevano rappresentato la sua condanna.
Egli volle una casa nuova, tutta sua, dove avrebbe espresso le sue gioie, i suoi dolori, non tormentato dalla visione di quei laboratori nei quali non faceva che rivedere il volto di Alexia abbuiarsi e logorarsi negli esperimenti.
Aveva edificato quella costruzione, ideandola sia per lui che per sua sorella, in modo che al suo risveglio ella avrebbe potuto godervi una splendida giacenza.
Avrebbe avuto a disposizione laboratori, luoghi dove isolarsi, oppure rilassarsi.
Posti dove studiare, giocare, suonare, dipingere….dove intrattenere gente, se voleva, oppure torturarla e imprigionarla.
Quella villa rispecchiava i suoi gusti e le sue manie, era perfetta per aspettare l’ultima fase dell’ibernazione della sua adorata. Era sicuro che le sarebbe piaciuta.
Si era assicurato che fosse il più verosimile possibile alla loro casa, ai luoghi che più amavano da bambini. Avrebbero vissuto lì la loro pacifica vita e il loro finalmente appagato ricongiungimento, una volta che lei si sarebbe svegliata.
Mentre il suo volto si illuminava, entusiasta dalla prospettiva di quei giorni che prima o poi sarebbero divenuti realtà, il suo sguardo divenne improvvisamente tetro e distante.
I suoi occhi si spensero divenendo come due cocci di vetro frantumati, costringendolo a osservare suo malgrado quel palazzo per quel che era.
 
 
Vuoto.
Vuoto.
Vuoto.
 
 
Sgradevolmente, inesorabilmente, tristemente….vuoto.
 
Come un curioso scherzo del destino, guardò il viso addormentato di Claire oltre le sue spalle, il cui fiato soffiava delicato sul suo collo.
 
“Oh, ma non siamo soli, stavolta.”
 
Sussurrò di soppiatto, quasi come se non volesse farsi sentire da alcuno.
Le sue labbra si allargarono, disegnando su di esse un sorriso tenue che esprimeva una malata contentezza; un tacito piacere che il biondo non sapeva di provare, eppure il suo cuore era internamente lieto di avere quel corpo premuto contro la sua schiena.
Quella presenza calda e viva che gli stava lentamente facendo assaporare un qualcosa che avrebbe cambiato in modo severo quello che lui aveva sempre rinnegato di aver bisogno visceralmente.
In seguito abbandonò quell’atrio, sparendo nei labirinti di quella villa desolata e malinconica, abitata dopo tanto tempo dalla ‘vita’.
 
Alfred portò Claire oltre una stanza buia, grigia, fredda.
Si trattava di un ampio laboratorio, nel quale erano conservati alcuni strumenti chirurgici, armadietti vari con dei medicinali e un tavolo operatorio.
L’aria che impregnava quella stanza era rarefatta, quasi irrespirabile. Chi non era abituato a quegli odori nauseanti, opprimenti, ferrosi, probabilmente non avrebbe sopportato di essere chiuso lì dentro per più di dieci minuti.
Il biondo tuttavia, sebbene non fosse un ricercatore dell’Umbrella, aveva vissuto abbastanza in quel contesto da essere abituato a muoversi come fosse uno di loro.
La sua mente altamente geniale e preparata gli consentiva di potersi cimentare in ogni ruolo, persino giocare con la vita umana al fine di creare esperimenti contorti e impietosi, questo anche per puro sfogo o divertimento.
Indossò un camice da laboratorio sopra la sua veste militare rosso sgargiante. Infilò i guanti in lattice, infine anche una mascherina.
Si guardò allo specchio, divertito da quella tenuta, come se stesse interpretando una parte e che quindi quel travestimento non fosse che una messinscena creata su due piedi per sollazzarsi dopo quel lungo viaggio.
Cosa volesse fare, non era dato saperlo.
Con tutte le probabilità, nemmeno lui aveva deciso. Sapeva solo che aveva bisogno di svagarsi e trovare qualcosa con cui perdere tempo fintanto che il suo animo si rasserenasse dopo tanti angusti tormenti.
Si premurò di legare ben bene la rossa Redfield al lettino operatorio, allacciando le cinghie di cuoio sui suoi polsi e sulle sue caviglie.
Per tenerle la testa dritta, le sciolse i capelli, lasciandoli liberi e morbidi sulle sue spalle. Questi, avendo preso la piega del codino, ricadevano in modo disordinato, tuttavia conferendole un aspetto ribelle che esprimeva tutto ciò che rendeva accattivante quella donna nemica.
La sua pelle candida, soave, con quell’espressioni sofferta eppure rilassata, andava in contrasto con le sue ciglia scurissime e quella chioma folta e disordinata.
Il comandante di Rockfort Island fece scivolare una mano sul suo capo, sistemandola delicatamente.
Con le dita, pettinò alcune ciocche della sua chioma, sistemandole sul suo petto, come se desiderasse rimettere in ordine la sua figura, esattamente come un pittore che si prende cura di un dipinto, intento a restaurarlo.
Le scostò la frangia di lato e rimase ad osservare incantato i suoi occhi chiusi, rimanendo protratto sul di lei per lungo tempo.
Passò il pollice sulle sue guance sporche, annerite dal fumo dopo l’attacco che aveva sferrato al jet. Quello sporco che rovinava quella pelle bianchissima e che lui sentì il bisogno di ripulire.
Si allontanò dunque un singolo istante, allungandosi con lo sgabello verso il lavabo posto alle sue spalle, nel quale inumidì uno straccio che utilizzò per levare quell’ombra nera dal viso della giovane.
Concentrato in quell’azione, non si accorse nemmeno di essersi posto a meno di dieci centimetri di distanza da lei.
Completamente assorto, egli strofinava delicatamente la punta del fazzoletto bagnato sul suo viso mentre, ignara, Claire continuava il suo lungo sonno.
Incautamente, Alfred decise di rimanerle accanto, dedicandosi a lei come se fosse qualcuno di estremamente caro.
Durante quel lungo lasso di tempo, non si rese nemmeno conto dei minuti che passavano, ma soprattutto del suo stato sentimentale di completo appagamento.
Egli era forse per la prima volta, dopo anni, in pace con se stesso. Come se le sue ansie e le sue paure fossero state soppiantate da quel compiacimento.
Accanto alla giovane Claire avvertiva un benessere che non poteva ammettere, ma che inebriava i suoi impulsi, abbandonati a se stessi da troppo tempo.
Pulì il suo volto, schiarendo la sua pelle; aggiustò i suoi capelli, lisciandoli e ricomponendola; lentamente prese a sfilarle di dosso le vesti ormai sporche, dedicandosi al restauro del resto del corpo.
Non c’era malizia o perversione mentre la spogliava, lasciandola semi nuda sul lettino. Il ragazzo anelava soltanto fare uscire il suo splendore, quell’incanto che aveva intravisto e che lo aveva rapito durante l’intero tragitto verso l’Antartide.
Quando tuttavia si ritrovò il suo meraviglioso corpo davanti agli occhi, qualcosa cominciò a mutare, facendogli presto comprendere che i suoi sentimenti gli stavano sfuggendo di mano sempre di più, in modo inarrestabile.
Sentiva qualcosa agitare il suo corpo; quello che provava era qualcosa che non gli era mai accaduto.
Stette con i gomiti piegati accanto al suo capo, il busto era rivolto esattamente sopra di lei.
Egli stette immobile a contemplarla, mentre l’espressione dei suoi occhi si faceva sempre più smarrita. Abbassò la mascherina, scostandola dalla bocca, e rimase in silenzio mentre nella sua mente quella circostanza si faceva sempre più chiara. Sempre più crudelmente chiara.
 
Quella donna…cosa…
Cosa gli stava facendo?
 
Cosa stava cominciando a crucciare il suo cuore?
Perché sentiva un inspiegabile, doloroso, eppure piacevole tormento?
 
Come se l’ansia che provava quando era con lei fosse tutt’altro che una sensazione spiacevole.
Come fosse in realtà espressione di un…piacere?
 
Improvvisamente i suoi occhi si adirarono, così lanciò in aria ogni strumento da laboratorio fosse a sua gittata.
La disperazione segnò il suo viso, mostrandogli quello che lo addolorava maggiormente, costringendolo ad accettare quell’ignobile realtà dei fatti che poteva rinnegare, ma che in verità già muoveva le meccaniche del suo animo.
Quella riluttante, infima donna, tuttavia conturbante e suadente, stava facendo andare in panne la sua mente, disordinando quei precari equilibri che lui faticava a mantenere in piedi.
Il velato piacere, l’eccitazione dietro quel momento solenne in cui lui aveva potuto contemplarla, presto fece collassare Alfred, il quale era in balia dei suoi dubbi e delle sue angosce personali circa i suoi privilegi e ciò che invece si era sempre negato.
Questo mentre il volto di Alexia non faceva che riaffiorare, imponendogli di ricordare a chi avesse immolato il suo amore eterno.
 
Donne…
…delle succube e meschine creature.
Insignificanti, spregevoli, impotenti….nessuna di loro poteva anche solo paragonarsi alla grandiosità e la bellezza di sua sorella.
Al confronto di colei che era La Donna, nessun’altra aveva importanza.
Nessuna era meritevole delle sue attenzioni.
Alexia Ashford era la Donna, la sua Regina, la sua Sovrana Assoluta. Colei che lo amava e lo completava, alla quale aveva immolato la sua vita.
Claire Redfield…
Lei…lei era solo una donna, una delle tante; comune, sporca, priva d'interesse per lui…
Come osava trascinarlo nella sua tela? Come osava indurlo a tradire quell’eterna promessa di adorazione che lui aveva mantenuto non solo da quindici anni…ma da una vita intera, spesa per garantire successo e bellezza alla sua Regina!
Alexia era La Donna; nessuna era paragonabile a lei.
Non potevano coesistere altri affetti nel suo cuore.
La psiche di Alfred, deviata e compromessa da una vita ridotta in una schiavitù mentale che lo aveva reso chiuso, folle, paranoico, si rifiutava di accettare qualcosa che fosse distante dagli obiettivi perseguiti fino a quel momento. Quelli riguardanti la gloria di famiglia e di sua sorella; un genio cui nessuno avrebbe mai potuto equipararsi e che lui ammirava e adorava per questo.
Qualsiasi persona al suo cospetto semplicemente non esisteva. Esisteva soltanto lei per lui.
Eppure ai suoi occhi repentinamente si stava ergendo una nuova figura. Un concetto da lui mai conosciuto, in quanto abituato ad amare una sola persona.
A fianco al nome solenne di Alexia Ashford, venne definendosi l’Altra Donna.
Claire Redfield, il nome dell’altra e infima donna che non aveva la Perfezione della sua Unica e Amata sovrana.
Una donna dissimile completamente da Lei, che non ricalcava la sua potenza, la sua eterea bellezza e impareggiabile talento.
Fu qualcosa di disdicevole e peccaminoso, che torturò Alfred internamente, incapace di accettare quella realtà.
Prepotentemente questa s’insidiò nella sua mente, crucciandolo e conquistandolo al tempo stesso, obbligandolo a provare un forte senso di disprezzo per se stesso.
 
Perché non c’era e non poteva esistere per lui un’Altra Donna…. un’Altra Donna all’infuori di Alexia Ashford.
 
Era accecato dal senso di umiliazione, dalla paura di tradire colei che da sempre dava un senso ai suoi giorni.
Non c’era spazio per altro, lui stesso si rifiutava di accettarlo.
Era semplicemente inconcepibile, semplicemente inaccettabile, semplicemente…ripugnante!!
Come poteva convivere con quella vergogna, come poteva accettare di essere stato felice accanto a quella comune donna?
Nel panico, Alfred scappò via da quella stanza, mentre nei suoi ricordi si accavallavano i vari momenti vissuti con Claire che, anche se sua nemica, aveva saputo colmare quell’opprimente solitudine che lo stava facendo dannare da anni.
Aveva portato scompiglio nei suoi piani e nella sua vita, eppure aveva offuscato quel senso di abbandono con cui faticava a convivere ma con cui era stato costretto a familiarizzare.
Come aveva potuto non accorgersene? Come aveva potuto lasciare che accadesse?
Non potevano coesistere quelle due realtà.
Lui…
 
 
 
Lui non poteva amare Claire Redfield.
 
 
 
Esisteva per lui Una Sola Donna, Una Sola Regina….
 
 
 
Una Sola Donna, Una Sola Regina…
Una Sola Donna, Una Sola Regina…
Una Sola Donna, Una Sola Regina…
Una Sola Donna, Una Sola Regina…
 
 
 
 
 
Come ovviare tale problema?
Come appagare la sua coscienza e il suo bisogno di amore?
Alfred con gli anni era diventato un abile giostraio e aveva imparato a soppiantare e raggirare ogni cosa, persino i suoi sentimenti; eludendoli in modo plateale, ergendo commedie e menzogne nelle quali aveva affogato la sua follia.
Questo perché esisteva un modo per essere felice…
Esisteva un modo per amare la sua Regina ed evitare l’offesa di quell’amore impuro.
E allo stesso tempo……..amare una persona fisica.
Amare Claire…
 
Un tempo era lui stesso che interpretava quel ruolo.
Un tempo era lui che portava avanti da solo quella commedia.
Claire era una donna…e poteva essere addestrata a diventare qualcosa di più “accettabile” per lui.
Qualcuno che non infangasse il suo onore e il suo amore per Alexia.
Lei…poteva diventare la sua “Regina”.
Se avesse continuato ad adorare Alexia, non avrebbe provocato alcuna offesa e il suo cuore sarebbe stato in pace.

Fu così che nacque quella maschera.
Fu così che si lui erse quella complessa e ingannevole messinscena.
Per lenire quel bisogno d’amore e d’inganno.
Il gioco di un uomo ingabbiato nei suoi tormenti che non poteva accettare qualcosa che avrebbe disonorato la sua esistenza.
 
Perché lui non poteva che amare una sola donna.
 
Se Claire fosse divenuta Alexia, lui avrebbe potuto amarla.
Solo così il suo cuore si sentì libero di ammettere i suoi sentimenti.
Libero di amarla e onorarla.
Ingannando i suoi sensi, avrebbe ingannato anche il suo cuore.
 
 
 
Una lunga chioma bionda rivestì quindi il capo della principessa addormentata.
Un elegante abito scuro rese leggiadro e raffinato il suo corpo.
 
 
L’uomo al suo canto stette poggiato sul suo grembo, felice, rasserenato.
Questo mentre il suo cuore batteva internamente per lei.
Per lei, la donna impura……….l’Altra Donna;
…che ora poteva amare.
…che ora poteva desiderare.
Sul grembo di Alexia, la sua Regina, poteva farlo.
 
Amava Alexia.
Venerava Alexia.
Onorava Alexia.
Nessuno avrebbe potuto dire il contrario, vedendolo al suo fianco;
specialmente il suo cuore serrato e martoriato.
 
 
Il suo amore per l’Altra Donna, camuffato dal suo Amore Eterno.
Una follia che permise il sussistere di un’altra pazzia.
 
 
In questo modo poteva desiderarla… solo così poteva amarla…
Bramava…
Bramava conoscerla…
Bramava che lei facesse parte di lui…
Per farlo era disposto a mettere in atto quello spettacolo, quello in cui era protagonista la sua Bambola Camuffata.
 
 
 
 
 
***
 
 
 
 
Claire lesse quei versi d’amore dedicati a lei tremando incessantemente.
Che diavolo erano? Cosa insinuavano quelle parole esattamente?!
 
“Cosa cazzo significa?”
 
Si chiese mentre sfogliava impetuosamente il diario, ma il resto di quei pensieri era stato interrotto da una serie di pagine visibilmente tagliate da qualcosa di affilato.
Erano state fatte sparire appositamente, in modo che alcuno avrebbe potuto continuare la lettura.
Tuttavia quelle confessioni appena lette erano bastate a capovolgere una situazione già drammatica di suo, in quanto le sue consapevolezze erano drasticamente cambiate, ancora una volta.
Alfred non l’aveva imprigionata, drogata e vestita da Alexia per il senso di solitudine che lo aveva logorato a tal punto di desiderare di vederla in qualunque modo…anche camuffando un’altra persona. Allo stesso modo di come faceva con se stesso quando si vestiva da donna.
No. Il motivo circa il rapimento di Claire era invece di tutt’altra natura.
Dietro si celava una verità simile a quella da lei supposta, eppure completamente diversa:
 
 
Il biondo Ashford l’aveva travestita da Alexia perché lui non poteva accettare di essersi…
 
 
Deglutì prima di riuscire a formulare quel pensiero, che l’inquieto enormemente, facendola diventare paonazza, in balia di quella dubbiosa e delicata situazione in cui si era cacciata.
 
 
….di essersi innamorato di lei.
 
 
Una comune ragazza.
Una ragazza che non fosse Alexia.
Quella rivelazione la lasciò turbata e agitata.
Adesso che sapeva che quella storia la stava riguardando sul personale, le cose erano profondamente cambiate e lei stessa, già da un po’ in uno stato confusionale, non sapeva più che cosa sarebbe potuto accadere.
 
 
 
***
 
 
 
 
 
 
 
NdA:
Come spiegato nel Capitolo 3, gli eventi di re:cvx sono stati leggermente cambiati.
In questa versione della storia, dopo che Claire e Steve scoprono l’inganno di Alfred/Alexia e scappano col jet privato di Alfred, quest’ultimo riesce a intercettarli e a sconfiggerli. Il resto è descritto nel capitolo.
Ho fatto questo piccolo, ma grande, cambiamento per trovare il contesto giusto dove ambientare la storia e permettere un incontro più approfondito dei due protagonisti.
Ho creato così una villa modello palazzo Ashford, costruita nei meandri dei laboratori Artici.
Se ricordate, nel gioco stesso vi è collocata una seconda villa come quella di Rockfort. Tuttavia è solo un laboratorio.
Quindi cosa impedisce che, eventualmente, non ve ne sia un’altra? Un’altra più “abitabile” dato che è comunque un luogo dove certamente gli Ashford soggiornavano.
Questo particolare sarà approfondito nel prossimo capitolo, comunque.
Spero che l’immersione nel diario personale di Alfred vi sia piaciuto e abbia comunicato quello che poi è il tema di questa fanfic fin dall’inizio: la solitudine.
Una solitudine folle, feroce, nata dalle ceneri di un’esistenza distrutta e malata ove Claire ha rappresentato una finestra di umanità che tuttavia l’erede Ashford non riesce ad accettare.
Sebbene attraverso il testo introspettivo io avevo già spiegato i sentimenti di Alfred, è da questo punto della fanfiction in poi che però anche Claire lo sa.
Sa di un amore contorto e irrazionale che la lega con il suo nemico, in balia di un contrapposto sentimento difficile da gestire.
Il prossimo capitolo approfondirà ancora questa vicenda, dopodiché passeremo alla non meno importante rivelazione di questo capitolo: la storia è sempre stata ambientata in Antartide, come accennato.
Ulteriore tassello che mi premeva spiegare, erano i sentimenti che legano Alfred con Alexia.
Scrivere sui due gemelli mi tocca sul personale, e provo sempre delle emozioni immense quando penso a loro.
Cimentarmi nella scrittura della parte narrata in prima persona mi ha coinvolta molto e ammetto che è stato fra momenti di scrittura più belli e intensi.
Ho voluto raccontare di un lato più umano e fragile della Regina, un aspetto conosciuto e protetto da suo fratello, che avrebbe sacrificato ogni cosa per lei.
Volevo uscire un po’ dallo schema Alexia-Regina, Alfred-Re/Servo.
Volevo narrare di una regina suprema e insuperabile, ma fragile e logorata.
E di un cavaliere legato a lei, che nell’ombra la protegge e la sorregge, portandola alla gloria.
Alfred per me non è solo il fratello subordinato ad Alexia. Egli è il giostraio che ha permesso il suo successo. L’uomo che ha sacrificato tutto in suo onore, proteggendola e portandola alla vetta, eliminando i suoi nemici e gli ostacoli che la intralciavano.
Lei che è la Regina indiscussa, l’erede della famiglia Ashford, forte e gloriosa… ma dietro la quale c’è sempre stato lui, che ha annullato la sua esistenza e si è gettavo in pasto alla pazzia pur di vedere realizzati i suoi sogni.
Questo più che un fratello sottomesso, per me lo rendo un fratello protettivo che la ama profondamente. Questa è la mia visione di Alfred Ashford, in tutta la sua pazzia.
Grazie ancora e ciao!!
 
 
(*) Ho interpretato che Claire nei tempi di RE2 e code veronica, non avendo ancora rincontrato Chris, non sapesse ancora di Wesker. Almeno non nei dettagli.
In re:cvx lo dimostra anche il fatto che, quando i due si incontrano/scontrano, la ragazza esordisce con un “chi sei?”. Questo rafforza la mia idea che Chris la tenga lontano dalla sua vita militare, forse proprio per proteggerla vista l’indole ribelle e tenacie della sorella.
 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 14
*** Capitolo 14: l'ombra dagli occhi rossi ***


 
 
 
Capitolo 14: l’ombra dagli occhi rossi
 
 
 
 
 
“Ognuno di noi è una luna: ha un lato oscuro che non mostra mai a nessun altro. “
(Mark Twain, Seguendo l'equatore, 1897)
 
 
 
 
 
 
 
Albert Wesker
 
 
 
 
 
 
Innalzandosi dalle tenebre, le ombre danzano e divengono un tutt’uno in questa valle nera consumata dall’oscurità; persino i fantasmi si ergono e cominciano a camminare su quella terra abitata dai vivi, mescolandosi fra loro. Spettri che si credevano ormai scomparsi, tornati come chimere affamate evase dagli abissi, furtive fra le pieghe del buio.
Annebbiati da un alone arcano e impalpabile, due occhi rossi fendevano quel fascio di tenebre, come due fuochi che brillavano nella notte.
Colui al quale appartenevano quelle iridi violente era un nome che nessuno aveva mai conosciuto, appartenenti a un volto che pochi sapevano chi rappresentasse davvero.
Un nome che vuol dire tanto…se quel nome è Albert Wesker.
Un fantasma risorto dal sonno eterno che vaga come la peste, con la potenza di chi può piegare il mondo ai suoi piedi.
Egli non è altro che un’ombra, di cui il corpo reale non s’è mai visto davvero.
Sono molti i volti legati a lui, ma rimane un uomo avvolto dalle tenebre. Il lato oscuro di una luna ben conosciuta, dietro la quale si celano segreti che nessuno ha mai nemmeno intravisto.
Wesker, tornato dagli inferi con l’ira di un Dio nei suoi truculenti occhi vermigli, proseguiva lemme lungo i laboratori dell’Umbrella inc. di Rockfort Island.
Il suo aspetto autorevole, composto, fiero e altezzoso lo presentavano l’uomo imponente di sempre. La sua imperscrutabilità era qualcosa che da sempre aveva caratterizzato la sua figura, in ogni ambito, con ogni persona che avesse conosciuto: amici o nemici.
Non che fosse facile comprendere chi fossero, o no, i suoi “amici” in verità.
Eppure qualcosa di diverso si celava nella sua figura, come se qualcosa in lui fosse profondamente cambiato.
Qualcosa con cui lui stesso non aveva ancora avuto il tempo di familiarizzare, ma prorompeva dal suo spirito… uno spirito adesso così forte da essere inattaccabile.
Era come se in lui fosse stato racchiuso un potere incredibile; una potenza che lui sentiva scorrere nelle sue vene.
Non aveva ancora avuto modo di apprendere chi o cosa fosse diventato dopo quella notte di luglio in cui aveva perso la vita per mano della sua opera più grande.
Quell’opera non era il Tyrant……….era se stesso.
Dandosi la morte in quella buia notte, egli aveva acquisito una forza inimmaginabile. Si era elevato dallo stato umano per avvicinarsi a qualcosa di completamente nuovo.
Lui stesso era ansioso di conoscere la reale grandezza di quei misteriosi poteri.
Un ghigno deformò il suo viso imperscrutabile, impaziente all’idea di assaporare quel momento; aveva persino già avuto la fortuna di incontrare colui che gli avrebbe fatto tale “onore”: Chris Redfield.
L’agente S.T.A.R.S. che più volte aveva incrociato il suo cammino, mettendo a rischio la buona riuscita dei suoi piani.
Conosceva bene l’abilità della Special Tactics And Rescue Service, tuttavia mai avrebbe pensato che quell’uomo in particolare avrebbe messo sottosopra ogni sua traccia pur di venire a monte di quello che si nascondeva dietro gli orrori di villa Spencer.
Verità che lui non sarebbe mai riuscito a comprendere nella sua completezza, pur tuttavia l’essersi sentito attaccare così da vicino aveva smosso qualcosa dentro Wesker…un qualcosa chiamato “volubilità ”.
Wesker non conosceva né aveva mai avuto modo di familiarizzare con tale termine, se non in rarissime circostanze. L’aver vissuto un tale brivido emotivo, fastidioso per i suoi gusti, nei confronti per giunta di un semplice agente che lui riteneva mediocre, seppur ben preparato, era come se avesse scoperto una ferita.
Odiava quindi Chris, voleva che perisse per aver osato intralciare i suoi piani e non solo…per aver messo in difficoltà lui !
Lui che era uno dei migliori ricercatori dell’Umbrella, uno di quelli che aveva fatto la storia di quel luogo della morte. Lui che aveva vissuto una gloria che non era stata che l’inizio di quello che presto avrebbe compiuto. Lui che era la mente più diabolica, scaltra e calcolatrice che alcuno avrebbe mai incontrato.
Albert Wesker non era solo un uomo mite e organizzato.
Era una mente perfetta, nessuno poteva equipararsi a lui.
Ora che aveva anche il potere per essere chi voleva, egli aveva tutte le carte in regola per creare un mondo di dominio e scrivere la sua storia.
Sentiva nel suo corpo ribollire una forza inconcepibile, fremeva quindi di lasciare una testimonianza circa la sua sopravvivenza dopo quell’incidente… e fare ciò proprio con Chris!
Voleva schiacciarlo, fargli vedere con i suoi occhi quanto minuscolo fosse rispetto a lui che deteneva il potere assoluto.
Solo così avrebbe scacciato di dosso l’umiliazione di essersi sentito ostacolato da lui.
Era questione di tempo. Chris sapeva perfettamente che la sua dolce e indifesa sorellina era tenuta prigioniera a Rockfort, o per lo meno era questo che gli avevano detto.
Wesker avrebbe potuto fare in modo che quella notizia non gli arrivasse mai, ma aveva lasciato che accadesse in quanto l’idea di rivedersi in quella sorta di “rimpatriata” lo rendeva entusiasta.
Egli era un predatore che sapeva attendere; avrebbe pazientato quell’incontro, per poi godere più intensamente di esso.
Il ragazzo dai capelli scuri sapeva il fatto suo e avrebbe capito che la piccola Claire era in Antartide, prigioniera di Ashford; lui stesso, nel caso, lo avrebbe fatto partecipe di ciò se il destino gli avrebbe concesso il privilegio di incontrarlo a Rockfort prima che partisse per l’Antartide.
Più ci pensava, più non riusciva a tenere a freno la sua incontrollabile voglia di vendetta.
Era un uomo rinato ed era pronto a dimostrare al mondo quanto il lato oscuro di Albert Wesker fosse più vasto e contorto di quanto nessuno avrebbe mai immaginato.
Era questione di ore…minuti….poi tutto sarebbe cambiato.
Il suo nome sarebbe divenuto l’incubo di quella storia.
Mentre iniziava i preparativi per l’imminente partenza, Wesker cercò di fare il punto della situazione.
Attualmente, lui lavorava sotto copertura presso una compagnia rivale all’Umbrella conosciuta soltanto come l’Agenzia.
Egli era a capo della Hive/Host Capture Force, l'unità di forze speciali dell’azienda; non che per lui fosse difficile conquistare posizioni di rilievo all’interno di una qualsiasi società.
Questo perché sapeva cosa voleva l’uomo: egli desiderava essere comandato, avere qualcuno che lo facesse senza esitazioni, addossandosi anche l’eventuale peso dei rischi. Per Wesker ciò non era mai stato un problema, lui era in grado di dominare, aveva la forza per guidare, vincere e condannare. Inoltre, alla prima avvisaglia, non era un problema per lui sbarazzarsi di chi gli avrebbe dato noia.
La sua imperscrutabilità e il suo animo glaciale erano ciò che avevano reso quell’uomo la persona più algida e tenebrosa mai esistita sulla faccia della terra.
La sua missione attuale era recuperare un campione di ogni esperimento conseguito dall’Umbrella, una sorta di prova per la sua fedeltà essendo stato in passato alle loro dipendenze.
Fare il doppio gioco non era né la prima né l’ultima volta per Wesker. Egli faceva soltanto ciò che avrebbe portato un profitto per lui, quindi tradire la compagnia nella quale aveva sacrificato i migliori anni della sua vita non fu niente di melodrammatico.
Aveva già consegnato abbondanti campioni del T-Virus e di tutte le varianti che avevano studiato sui vari soggetti presi in esame: dagli animali, agli insetti, fino agli esseri umani.
Di recente, circa tre mesi prima, era entrato in suo possesso anche del G-Virus, complessa evoluzione del virus Tyrant studiata dal suo amico e collega William Birkin.
Quel ricordo abbuiò per un attimo il volto già oscuro di Albert Wesker, il quale si concesse un minuto di silenzio nel rievocare quel che era accaduto all’unico uomo che forse aveva rispettato nella vita.
L’aveva stimato non solo perché era un ricercatore come lui, ma soprattutto…perché suo diretto socio, complice e rivale.
William e Albert erano stati l’uno la spalla dell’altro, costruendo un legame difficile da spiegare.
Non si trattava di amicizia, Wesker non aveva “amici”, ne era interessato ad averne.
La loro era stata un’unione di menti; i due erano accumunati da una passione, spinti dal fascino del rischio e della morte. Nelle loro mani, ogni cosa sarebbe riuscita; non avevano paura di nulla.
William era un genio brillante e convulso; Wesker era invece un uomo pragmatico e risoluto.
Sebbene diversi sotto molti aspetti, soprattutto caratteriali, e nonostante la mania di superiorità del tenebroso uomo con gli occhiali da sole, se qualcuno si avvicinava lontanamente al suo concetto di “rispetto”, quello era proprio lui: il dottor William Birkin.
Non trovò disturbante, dunque, ricordare quell’attimo di raccoglimento che si concesse quando vide per la prima volta i reperti ritrovati circa tre mesi prima a Raccoon City, o meglio…cosa fosse divenuto Birkin dopo quel “disastro”.
Un insieme di membra rigonfie e strappate, tessuti organici deformi e raccapriccianti che velocemente fecero sparire definitivamente la sua umanità, trasformandolo in un mostro orrido affamato di sangue.
Di quell’uomo dai capelli biondo scuro, con quella vitalità e ingegno inesauribile che traboccava da ogni parte del suo corpo, ora non era rimasto che un cumulo di carne deteriorata e informe. Non c’era più niente del William da lui conosciuto.
Tuttavia dovette riconoscere che alla fine ci era riuscito come aveva promesso.
La sua ostinazione si era rivelata giusta. Era riuscito davvero nell’ardua impresa di creare e perfezionare il G-Virus.
La sua opera nel concreto non diede alla fine gli ambiti risultati sperati, ma dovette ammettere che la base di quegli studi gli avrebbe permesso di fare un passo avanti decisivo nelle sue ricerche. Il caro Birkin aveva fatto i suoi compiti.
Gli sarebbe mancato, in fondo.
Questo pensiero, elaborato dalla mente di uno come Albert, probabilmente era la concezione che più poteva avvicinarsi a quella di “compianto” in gergo suo. Il compianto di una persona perduta.
Ad ogni modo, William era stato fondamentale per farsi accettare dall’Agenzia.
Grazie al campione del G-Virus recuperato da Ada Wong aveva ottenuto finalmente la fiducia sperata.
Adesso ambiva entrare in possesso anche degli studi di un’altra personalità illustre di quel settore.
Si trattava del T-Veronica Virus elaborato dalla giovanissima Alexia Ashford, discendente di Edward, uno dei co-fondatori del’Umbrella.
Era per questo che aveva attaccato Rockfort Island, gettando nello scompiglio la base e il frastornato Alfred, fratello gemello di Alexia.
Aveva capito da tempo che quella storia circa la morte di Alexia era una farsa; il sospetto che ella fosse viva da qualche parte e che avesse già sperimentato il virus era alta; Wesker voleva assolutamente entrarne in possesso.
Sapeva che Alfred stesso l’avrebbe condotto da lei nel momento nel quale sarebbe stato messo alle strette, il che andava a braccetto con il suo compito di distruggere l’operato del’Umbrella.
Trovare Alexia e distruggere la base militare di Rockfort: due piccioni con una fava.
Come supposto, il biondo nascondeva qualcosa; l’aveva seguito, studiato e aveva concluso che Alexia fosse nascosta nei laboratori dell’Umbrella in Antartide.
Sebbene il suo collega Birkin sarebbe stato riluttante a quell’impresa, Wesker era invece curioso di mettere le mani sul virus T-Veronica.
Il rapporto fra William Birkin e Alexia Ashford, infatti, non era mai stato dei migliori.
Piuttosto però era Birkin che non poteva sopportare l’idea di essere surclassato da una ricercatrice più giovane, ricca, famosa, potente e donna.
William andava piuttosto fiero di essere stato il ricercatore più giovane della casa farmaceutica. Era entrato a far parte di loro alla sola età di sedici anni, contro i diciotto di Wesker.
Alexia invece l’aveva “superato”, con i suoi dieci anni di età, classificandosi ovviamente come un genio impareggiabile. Lui non digerì mai tale affronto e, infatti, fu uno dei pochi che gioì quando si sparse la notizia che la ragazzina fosse morta rimanendo vittima di uno dei suoi esperimenti.
Wesker aggiustò le lenti scure sul naso, pensando a come avrebbe reagito Birkin sapendo che in quel momento fosse in partenza per l’Antartide proprio per recuperare le ricerche di Alexia.
Non lo avrebbe mai saputo ovviamente, essendo morto, ma presto i loro due operati si sarebbero incontrati…. e la mano che avrebbe fatto questo era proprio lui.
Se William non fosse stato così immaturo, chissà come avrebbe potuto sfruttare all’epoca il genio di una mente come Alexia. Un vero peccato, ma d’altronde non ci si poteva fare più niente oramai.
Dal suo canto, Wesker neppure aveva avuto modo di conoscere quella ragazza prodigio, sebbene avesse fatto del suo meglio per stabilire dei contatti con la sua famiglia.
Tuttavia non poteva scegliere fra uno come William, che seppur schizoide e irrequieto, rimaneva il ricercatore più affidabile che conoscesse, e una talento inspiegabile ma ignoto come la biondina.
Perdere la fiducia di William avrebbe significato penalizzare non poco gli sviluppi delle sue ricerche ma non solo; avrebbe compromesso i suoi interi piani. Quindi non potette fare altro che rinunciare, lui era abituato anche a questo essendo un uomo estremamente prudente riguardo il lavoro.
Ciò nonostante, aveva visto Miss Ashford in qualche occasione, sebbene la sua famiglia la riverisse e la proteggesse come una reliquia delicata. Non che desse loro torto, in effetti, era grazie a lei se gli Ashford erano tornati qualcuno all’interno dell’Umbrella.
Alexia non faceva mai visita nei laboratori, preferiva lavorare da sola nella sua fortezza.
La ragazza era una leggenda impalpabile, eppure autentica; questo contribuiva ad accrescere il suo fascino.
Wesker un paio di volte era riuscito ad avvicinarla e quel che ricordava di quegli sporadici incontri era rimasto indelebile nella sua mente.
I suoi ricordi erano rinchiusi e conservati in una sorta di castello mentale, un archivio cui accedeva quando doveva ripescare qualche informazione. Era questa schematicità che permetteva ad Albert Wesker di non dimenticare mai nulla, rendendolo un uomo potente e temibile.
Riguardo alla ragazzina, era nitido il ricordo di quel volto imperscrutabile e altezzoso, dei suoi occhi vitrei e distanti, i suoi discorsi e le sue deduzioni così argute e ciniche.
L’aura che emanava Alexia era di un gelo che raramente aveva avvertito, era sconcertante per lui attribuire tale grandiosità a una bambina di soli dieci anni. Fu una delle rarissime volte in cui il suo animo vacillò, spingendolo a chiedersi chi fosse…..se lei fosse davvero un essere umano.
Alexia Ashford non era una persona comune, si nascondeva qualcosa dietro la sua esistenza. Tale esperienza lo turbò intensamente inducendolo a pensarla per giorni e per notti. Si chiedeva morbosamente da dove fosse venuta fuori, ma soprattutto cosa si celasse dietro il suo genio ineguagliabile.
Una parte di sé si sentiva attratta dal conoscere quella ragazzina, non gli succedeva mai di provare qualcosa di simile per altri esseri umani.
Ciò accadde probabilmente perché non aveva mai incontrato qualcuno come Miss Ashford………qualcuno che rassomigliasse così tanto a lui.
Wesker sapeva di essere egli stesso una persona emblematica, temibile, diversa da qualsiasi persona, persino dalle menti più complesse ed elevate.
Era la sua natura che lo rendeva distante dagli altri uomini e con Alexia aveva provato per la prima volta cosa significasse approcciarsi con qualcuno di “speciale”.
Un fascino e un carisma che avevano la capacità di piegare al proprio volere chiunque, e a cui lui stesso rimase soggiogato, sebbene la sua razionalità fosse più forte e bramasse comprendere la vera natura di quella donna.
Comunque non ebbe mai il tempo per farlo.
L’irraggiungibilità della giovane protetta della famiglia Ashford, sommata a William Birkin e alle pressioni che riceveva dall’Umbrella, lo portarono a desistere, comprendendo fin da subito che nella sua attuale posizione Alexia era per lui inavvicinabile.
Preferì dunque in ogni caso impiegare le sue energie in altro, continuando i suoi progetti.
Ora che aveva la sua occasione per scoprire qualcosa circa il mistero degli Ashford e di recuperare i dati dei loro studi, non aveva tempo per indugiare.
Inoltre i tempi imposti per quella missione non dovevano essere sforati, lo sapeva bene. Egli era molto severo sotto questo punto di vista data la miriade di lavoro da svolgere.
Avrebbe trovato la ragazza, a ogni costo, e avrebbe ottenuto il suo T-Veronica virus.
Prima però voleva indagare per conto suo circa determinate faccende e, nel frattempo, perché non cominciare i preparativi per la distruzione definitiva degli Ashford?
Aveva intenzione di portare negli abissi dell’inferno quel luogo e chi vi aveva regnato. Voleva completare quindi le ultime fasi del suo piano e iniziare i preparativi per quella disfatta.
Desiderava vendicarsi e, in attesa che sopraggiungesse il caro Chris Redfield, intendeva annientare l’operato anche del biondino disturbato che governava quel luogo.
A suo tempo, aveva già nascosto delle trappole nei laboratori Artici proprio per distruggere quel che era rimasto di quel luogo. Nessuno si era accorto di nulla.
La sua missione, campione del virus o meno, rimaneva quella di seppellire l’Umbrella.
Per suo diletto, aveva fatto dunque affiggere delle telecamere che in verità non erano altro che delle esche diaboliche che avrebbero attirato, grazie a un suono particolare, i temuti e famelici Cacciatori, forse ancora oggi fra le creature di laboratorio più insidiose che aveva visto nascere, sebbene non particolarmente evolute.
Erano le creature più adatte per eliminare eventuali superstiti ancora in vita.
Si premurò dunque di attivare anche quelle impiantate a Rockfort Island, in modo da usarle anche contro Chris Redfield, il quale già da diverse ore vagava nella tenuta.
Ci sarebbe stato da divertirsi.
Sopratutto se così avrebbe messo la parola fine all’Umbrella, a Chris e agli Ashford in una sola volta.
Rise aspramente a quel sadico pensiero.
In seguito, l’uomo dalle lenti scure sparì nell’ombra, pronto a mettere in atto il suo piano di distruzione, eccitato da obiettivi che presto lo avrebbero reso il vero e indiscusso protagonista di quella vicenda che aveva ormai intrecciato le vite di tutti coloro che si erano insinuati sul suo cammino.
S’incamminò dunque fra i detriti del regno ormai disfatto degli Ashford, dove la cenere e il fuoco erano la testimonianza del suo attacco e del suo potere.
Il Centro di Addestramento, ormai raso al suolo, non fu che la prima grandiosa opera di quell’uomo dagli occhi rossi che preso avrebbe cambiato il destino di tutti.
 
 
 
***
 
 
 
 
 
Ci tenevo molto a inserire un capitolo su Wesker all’interno di questa fan fiction.
La sua introduzione inoltre mi servirà per giustificare un determinato evento che accadrà nel prossimo capitolo.
Egli è un personaggio centrale in Resident Evil Code Veronica, nonché all’interno di tutta la saga.
Wesker è l’anello che unisce tutta la saga…. Wesker è Resident Evil.
Spero che queste poche pagine rendano il concetto di uomo impenetrabile e tenebroso, celato nell’ombra e di cui mai qualcuno ha conosciuto il suo vero volto.
In queste righe concentrate interamente su di lui, ho voluto esprimere quella che è stata la resurrezione di un Wesker nuovo, potente, divino….che non è che l’anticipazione di quello che poi sarà in futuro, dopo questo capitolo della saga che sconvolse a suo tempo il ruolo del losco capitano della S.T.A.R.S. .
Grazie per aver letto!
 
Fiammah_Grace


 
 
 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 15
*** Capitolo 15: la caduta delle maschere ***





 
 
Capitolo 15: la caduta delle maschere
 
 
 
 
 
Nelle cave d'insondabile tristezza 
dove il Destino già m'ha relegato,
dove mai entra raggio roseo e gaio,
dove solo con quell'ospite rude ch'è la Notte, 

sto come un pittore condannato
da un beffardo Dio a dipingere sulle tenebre, 
dove, cuoco di funebri appetiti, 
faccio bollire e mangio questo cuore, 

a tratti brilla, s'allunga e si distende
uno spettro fatto di grazia e di splendore. 
Ma quando assume la sua massima estensione, 

con quell’orientale sognante andatura,
allora si che riconosco chi mi viene incontro:
è Lei, la mia bella, nera ma sempre luminosa!
 
(Le tenebre - Charles Baudelaire)
 
 
 
 
Una luce soffusa rigò ferocemente la fredda pavimentazione di un ambiente grigio e umido.
Le pareti ormai ammuffite dal tempo impregnavano la stanza con il loro odore di chiuso.
Dal soffitto pendeva buona parte dell’intonaco che, come fogli strappati, rimaneva arricciato su di esso conferendo un che di sinistro a quel quadro visibilmente abbandonato.
L’unica cosa che poggiava sulle mattonelle impastate di polvere, era un lavandino sporco e dimenticato. Il rubinetto era arrugginito e da esso scivolavano scoordinate delle gocce d’acqua che battevano sul marmo emettendo un ticchettio angosciante.
A solcare la soglia di quella stanza trascurata, fu la figura tremante di un uomo che aveva perduto ogni certezza e che adesso vacillava in un buio desolato, suo unico compagno in quella vita addolorata.
Egli infilò le dita fra i capelli biondi, sollevando con violenza la femminile parrucca bionda che indossava, simbolo delle sue menzogne e delle sue paure.
La gettò brutalmente a terra, rinnegando con essa la sua maschera, non potendo più reggere quel peso che lo angustiava.
Si appoggiò al lavabo, gravando tutto il peso sui suoi palmi, come se cercasse di reggere il suo intero corpo.
Si aggrappò al lavandino necessitando disperatamente di un sostegno.
Il suo castello era crollato ancora una volta, come accadeva sempre, costantemente, condannandolo a guardare con i suoi occhi quella crudele realtà che lo aveva ormai reso folle.
Alzò il viso verso lo specchio scheggiato posto dinanzi e guardò con sdegno la figura dell’uomo che osò ricambiare i suoi occhi.
Quella figura oltraggiosa e deplorevole che aveva appena offeso la sua Regina.
Ormai in preda alla pazzia, sfilò i guanti bianchi buttandoli lontano da lui, in seguito girò il pomello del lavello e strofinò il viso con veemenza, bagnandolo con quell’acqua fredda e calcarea. Sciacquò finché il trucco che lo aveva reso somigliante e vicino alla sua amata sorella non scomparve dal suo volto, facendolo tornare a essere quell’Alfred Ashford solo e dimenticato.
Ansimante, stette a guardare il suo riflesso, con quell’espressione truce, tradita, delusa, che non faceva che osservarlo insistentemente a sua volta.
I capelli biondissimi che rigavano la sua fronte si appesantirono per via dell’acqua, così scivolarono lentamente sul suo viso, contornandolo. Attraverso quei radi filamenti biondi, egli scrutava riluttante la sua effige, rinnegando quanto aveva osato compiere, disonorando se stesso, la sua casa, il suo rango…Alexia…
In quell’istante, portò entrambe le braccia in alto, facendo per toccare dietro la schiena e afferrare l’abito che aveva profanato.
Le sue dita bianche e fredde si aggrapparono sul tessuto, tirandolo via e scoprendo la sua schiena nuda.
Egli volle spogliarsi di “Alexia” ; di quel folle e insensato travestimento, che oramai non aveva più alcun potere su di lui; non era più capace di alleviare le sue pene, il suo bisogno di affetto, calore, fisicità…
Rimase quindi nelle umili spoglie dell’uomo che si celava dietro quel losco travestimento, restando poggiato sul marmo bianco e impolverato del lavandino.
Si scoprì di tutto, limitandosi ad essere semplicemente Alfred, un uomo devoto e impazzito.
Seppur il freddo congelasse la sua pelle denudata, egli rimase in quella posizione per molto tempo, mentre il suo cuore batteva incessantemente fino a quando non riuscì quasi più a sentirlo.
Il biondo incurvò più profondamente la schiena e le scapole quasi fuoriuscirono dal suo corpo.
Strinse gli occhi, come per scacciare via dalla sua mente quel senso di profanazione che non riusciva a buttare giù.
Il silenzio regnava in quel bagno vuoto e desolato.
Un silenzio solenne, devastante, spezzato solamente dalle urla interiori dell’animo crucciato del biondo Ashford, che dentro di sé aveva l’inferno.
La sua mente cominciò ad essere così affollata da pensieri che a un tratto sembrò come svuotarsi del tutto, trasportandolo in un universo isolato, lontano da ogni cosa.
Egli chiuse gli occhi e respirò intensamente, dando tempo al suo spirito di calmarsi e tornare padrone di sé. In quell’istante sentì qualcosa pungergli all’altezza delle spalle e solo dopo aver avvertito quel dolore si ricordò del colpo d’arma da fuoco col quale era stato sparato da Claire Redfield.
Osservò in quella direzione e scrutò la garza che aveva temporaneamente usato per tamponare la ferita. Questa era ormai zuppa di sangue, doveva intervenire immediatamente prima di incombere in un’emorragia.
Alfred strinse i denti e delicatamente tirò via il cerotto che teneva ferma la garza sulla sua pelle marmorea, scoprendo così il foro del proiettile che aveva perforato la sua epidermide.
Quel punto era livido e sporco di rosso, tuttavia non sembrava una ferita profonda. Molto probabilmente l’osso doveva aver fermato il proiettile, dunque era in grado di cacciarlo via.
Rovistò dunque fra gli utensili custoditi nei mobili che contornavano la specchiera ed estrasse una custodia argentata finemente decorata.
Sembrava una scatola abbastanza antica, probabilmente era un oggetto d’antiquariato, dentro la quale era riposto un coltellino di valore. Esso poggiava in un rivestimento di velluto rosso, che impreziosiva ancora di più la sua apparenza costosa.
Il coltello era infatti costituito da una lama appuntita e luccicante, perfettamente conservata, il cui manico era realizzato in osso e argento, su cui era inciso il crest della famiglia Ashford: un’aquila con le ali spiegate, la cui testa era rivolta verso sinistra, e reggeva fra le sue zampe un’accetta dorata.
Il giovane prese il prezioso oggetto fra le dita, analizzandolo accuratamente prima di avvicinarlo crudamente a sé e fare per incidere la sua spalla.
Puntò con decisione la parte appuntita verso la ferita, dopodiché s’infilzò con l’arnese, stringendo saldamente i denti, sperando di fare leva presto sul proiettile in modo da estirparlo dalla sua carne.
Il sangue presto allagò quel taglio, che prese a sgorgare macchiando la sua pelle bianca e fredda.
In preda al dolore, Alfred serrò più saldamente la bocca, consapevole di dover insistere nell’infierire su quel taglio per la sua sopravvivenza.
D’altra parte, però, quel dolore mitigava velatamente il suo enorme disprezzo verso se stesso e i suoi tormentati sentimenti circa l’avvenente ragazza dai capelli rossi che recentemente aveva infangato il suo spirito.
In una visione malata e folle, soffrire era la punizione che desiderava per lenire in qualche modo la sua enorme angoscia; dunque dover affondare quella lama nella sua spalla per estrarre il proiettile rappresentava in quel momento una duplice salvezza: quella del suo corpo e quella del suo spirito.
Quando finalmente la porzione del bossolo si elevò da quel taglio, il biondo poté tirare un sospiro di sollievo.
Diede un’ultima spinta, mentre il rosso sanguigno colava sul bianco del suo corpo, e infine finalmente fu libero da quella tortura.
Il proiettile giaceva adesso imbrattato sul lavandino e l’acqua del rubinetto gocciolava sopra di esso.
Alfred si poggiò sfinito a quel lavabo, ansimando fortemente, avendo seria necessità di recuperare le sue energie.
Si incurvò con la schiena, esibendo il suo fisico allenato eppure denutrito e pallido.
Rimase poggiato per minuti, forse ore, mentre quel pianto interiore lo aveva trafitto ancora una volta, condannando la sua esistenza ad un supplizio senza fine.
 
 
 
 
***
 
 
 
 
 
Palazzo Ashford – Atrio
 


 
La giovane prigioniera di quel mondo dominato da fantasmi e follia solcava probabilmente per l’ultima volta la dimora del cavaliere ostinato che proteggeva la sua principessa addormentata.
Claire infilò la sua 9mm nella cintura, stringendo tra le mani la chiave reperita nella soffitta nascosta nella stanza di Alexia Ashford, decisa a compiere quell’importantissimo passo della sua esplorazione di quell’abitazione malsana e inquietante.
La chiave entrava perfettamente nel portone d’ingresso posto alla base delle scale che conducevano nei vari ambienti del palazzo Ashford, questo voleva dire che magari non aveva ancora trovato l’uscita, ma certamente avrebbe compiuto quel famoso ‘passo in avanti’ che pian piano l’avrebbe condotta verso l’agognata libertà.
Lei non si sarebbe mai accontentata di sopravvivere, quello che anelava era fuggire da quel posto, ricongiungersi a Steve e poi continuare le sue ricerche per trovare suo fratello Chris.
La rossa cercava sempre di tenere ben a mente i suoi scopi, questo proprio per non abbattersi e infervorare il suo animo a non mollare nonostante le tante avversità cui stava incombendo.
Ella strinse gli occhi, non potendo fare a meno di pensare al biondo castellano che stava perseguitando i suoi giorni.
Alla luce delle consapevolezze appena carpite, era stata coinvolta nella sua vita a tal punto da rimanerne in parte ingabbiata.
Sapeva che sarebbe successo.
Era consapevole fin dall’inizio che dietro un uomo così doveva per forza nascondersi un passato truce o dei turbamenti tremendi, così come del fatto che una persona dallo spirito sensibile come lei avrebbe finito per prendere a cuore i suoi affanni.
Eppure mai avrebbe pensato di sentirsi così.
Aver saputo di essere una causa diretta delle sue recenti pene aveva offuscato la sua mente per molti e lunghissimi minuti, rendendola incapace di concretizzare in modo obbiettivo le parole scritte su quel diario. Un diario che aveva aperto forse troppe porte circa i punti di comprensione di quel ragazzo fuorviato e devastato.
Lei agognava certo una chiave di lettura, ma non avrebbe mai immaginato di essere coinvolta emotivamente fino a quel punto.
Questo perché erano parole sue, Alfred le aveva scritte: lui aveva provato qualcosa per lei.
Era amore? Un semplice interesse?
Fatto stava che, in un’ottica traviata e corrotta come la sua, egli aveva rivisto in lei quella compagnia che gli era stata negata da quindici anni oramai.
Era solo un bambino quando si era approcciato umanamente a qualcuno e, in una visione contorta e fuori di testa, Claire aveva rappresentato quel contatto umano di cui lui aveva bisogno; di cui qualsiasi essere umano avrebbe bisogno.
Eppure, al contrario, ciò andava in contrapposizione con quello che lui considerava ‘rapporto umano’, e cioè distruggere, condannare, uccidere…
Alfred la combatteva e più volte era stato sul punto di riuscire a mettere fine all’esistenza della Redfield. Nonostante ciò, però, dentro di lui vigeva un curioso sentimento che lui aveva cercato di mascherare in ogni modo.
Aveva sperato di ingannare quel sentimento nato fuori da ogni logica, nato per il naturale istinto di contatto umano, con milioni e milioni di menzogne.
La menzogna di Alexia.
La menzogna delle torture.
La menzogna del piacere del male.
La menzogna dell’onore della sua stirpe.
La menzogna delle ricerche scientifiche dell’Umbrella.
La menzogna della pazzia.
La menzogna dell’inganno.
La menzogna di tutto quel crudele e folle mondo di cui si era circondato.
Tutto era stato creato in funzione di quel dolore che lui cercava di soppiantare da una vita: la solitudine.
Persino Claire aveva fatto parte, in fine, di quel circuito di raggiri, trasformata da lui in primis in Alexia, questo per far sentire ‘meno in colpa’ il biondo circa i suoi loschi sentimenti viscerali verso di lei, e poi in ‘donna traviatrice’, ‘L’Altra Donna’, che aveva corrotto il suo solenne rapporto con Alexia, l’Unica e Sola donna di Alfred Ashford.
Alfred era come se non avesse potuto sostenere il peso di amare profondamente sua sorella, e di provare un sentimento anche per altri esseri umani fuori da lei.
Per lui era fuori da ogni logica, era un comportamento deplorevole, che l’aveva portato a diventare particolarmente agguerrito contro di Claire, in modo da scacciare la sua minaccia e ripulire il suo spirito ‘infangato’ , come spesso lui diceva.
Claire portò una mano sulla fronte, angosciata da tali rocamboleschi problemi esistenziali.
L’affetto non è un sentimento esclusivo.
Si possono amare tante persone nella propria vita e in modi diversi.
Ogni essere umano ama i suoi genitori, i suoi fratelli e sorelle, i suoi amici, il suo fidanzato, fidanzata…
Sono tutti affetti forti ed autentici, non significa certo sminuire o banalizzare l’importanza che hanno le varie persone presenti nel proprio cuore.
L’uomo ha bisogno di essere sostenuto dai propri cari. Ha bisogno di……amare, di vivere con altre persone.
Sembrava però che questo non fosse comprensibile agli occhi di Alfred ed era qui il punto cruciale della sua pazzia: egli era incapace di vedere altro all’infuori di Alexia, terrorizzato dall’idea di allontanare la sua mente e il suo cuore da lei.
Se da una parte nei gemelli Ashford aveva visto finalmente un bagliore di luce, in cui due bambini si erano uniti in una tremenda solitudine e in una vita che li stava schiacciando, d’altra parte, quella stessa ancora di salvezza che l’uno aveva trovato nell’altro li aveva resi così morbosamente uniti da impedire loro di concepire la propria vita indipendentemente. 
Almeno così era stato per Alfred, il quale visibilmente si tormentava disumanamente quando ‘tradiva’ l’amore della sua Alexia.
Claire pensò intensamente a lui. Rievocò i momenti in cui si prendeva cura di lei quando era vestita da sua sorella; quando le si avvicinava nel sonno; quando la spiava e parlava con lei tramite gli altoparlanti nascosti in quel castello; quando le urlava in preda al dolore per essere stato ferito nel suo spirito; quando ‘giocava con lei’ facendola partecipare a teatrini, prove, nascondini…
Ripensò alla favola da lui raccontata, che rappresentava la sua vita tortuosa vissuta in funzione della sua ‘principessa’ Alexia. Gli affanni e gli ostacoli che, come un cavaliere, aveva e stava tutt’ora combattendo, rendendola partecipe della sua esistenza tormentata e solitaria.
Rievocò il momento in cui lui si travestì da Chris, suo fratello, nella speranza (o col dispetto) di farla sentire come lui…..
Eppure la ragazza fu in quel momento che fece caso al fatto che solo dopo il suo ‘rifiuto’ di comprenderlo egli decise di trasformarsi in Alexia.
Trovatasi fra le braccia di suo fratello, Claire si sentì profanata dal biondo Alfred nascosto dietro le sue spoglie, il quale manifestò ancora una volta il suo morboso interesse verso di lei.
Egli già in quell’occasione cercò di possederla, incitato probabilmente da quel caldo abbraccio cui inconsapevolmente Claire si concesse.
Tuttavia, angosciata dalla visione di suo fratello lussurioso verso di lei, ella scappò via rifiutando le attenzioni del già ferito Alfred, che sentì ancora una volta l’insostenibile peso dell’abbandono.
Così, dunque, si aggrappò a quell’unico grembo che aveva sempre rappresentato la sua ancora di salvezza, lasciando che fosse la sua Regina a vendicarlo e proteggerlo.
La sua versione come Alexia era stata infatti molto più crudele e sicura di sé, incitandolo a celebrare il suo dominio e la sua potenza.
Ed era stato così che alla fine aveva persino trovato il modo di ‘raggiungere’ quella felicità e quel tacito desiderio che si era sempre negato nella vita.
Questo perché, proprio perché trasformato nella Regina, Alfred aveva avuto la scusa per sentirsi forte e padrone…e manifestare il suo bisogno di amore a Claire Redfield.
La sua Alexia l’aveva ‘autorizzato’, facendolo sentire sicuro e protetto mentre si avvicinava alle sue labbra, sfogando la tormentata solitudine che da quando era un ragazzino di soli dieci anni lo stava distruggendo internamente.
Un appagamento emotivo così forte che alla fine l’aveva portato a tornare Alfred, sebbene ancora nelle spoglie di Alexia.
Eppure l’idillio durò ben poco, questo in quanto la sua Alexia lentamente sparì, lasciando solo quell’uomo ormai distrutto, incapace di sopportare una vita senza di lei.
Una volta tornato in sé, infatti, Alfred aveva respinto ancora una volta quel morboso desiderio di contatto umano che aveva gettato nella pazzia la sua vita, così era fuggito sentendosi nuovamente colpevole di tradimento…e odiando allo stesso tempo quel mondo che lo stava infangando, quel mondo che secondo lui distoglieva le sue attenzioni da Alexia.
Quel mondo…che era rappresentato in quel momento interamente da Claire, l’Altra Donna, che aveva aperto un sipario che lui agognava ma che allo stesso tempo rifuggiva.
Poggiando la fronte contro l’imponente e massiccio portone d’ingresso, Claire si chiese ardentemente se fosse ancora possibile aiutarlo, o se non altro instaurare un qualsiasi tipo di dialogo con lui.
Non se la sentiva di tirarsi indietro dopo quanto appreso sul suo conto, ma d’altra parte aveva anche paura…una grande e fortissima paura.
Paura di intrecciare il suo destino in una storia così complessa, in quell’universo contorto e malato dal quale doveva scappare ad ogni costo.
Cosa doveva fare? Cosa era più giusto?
Voltandosi indietro, ripensava sia ai suoi occhi impazziti e la sua mente perversa e malata, ma anche al suo volto corrucciato, triste e abbandonato.
Cosa aveva più importanza nel suo cuore adesso? Quale di queste immagini doveva prevaricare, indicandole come agire nei confronti di Alfred?
Claire strinse gli occhi, non accontentandosi che le cose finissero in quel modo.
Non riusciva in nessun modo a girarsi dall’altra parte e continuare come se nulla fosse, come se lei non avesse appreso nulla circa il perché dietro la pazzia di Alfred Ashford.
Semplicemente non poteva! Non faceva parte di lei comportasi così!
Seppur consapevole di quell’incoscienza, la rossa ripose la chiave del portone d’ingresso nella tasca dei suoi jeans, poi si voltò indietro alla ricerca del biondo Ashford.
La sua mente la martellava di domande, tutte inerenti a lui. Si chiedeva se fosse possibile aiutarlo, fare qualcosa per lui.
Al momento non sperava in delle risposte, quindi il suo unico interesse era capire fino a che punto il ragazzo avesse deciso di chiudersi in quella fortezza mentale.
Voleva risalire a quel punto crucciale, sebbene non avesse un piano ben preciso.
Probabilmente quando i due si sarebbero rivisti non avrebbe fatto nulla di che, in concreto, ma certamente adesso le cose erano cambiate e lei aveva deciso di voler “capire” quegli occhi irraggiungibili ed enigmatici, segnati dalla follia.
 
Intanto, da lontano, un uomo osservava i movimenti della donna, rintanato nell’oscurità.
 
Egli comprimeva le sue labbra contro le nocche delle dita, non avendo alcuna intenzione di rivelare la sua presenza.
Al contrario, aveva deciso di rimanere nascosto e di non cadere mai più in quel supplizio vergognoso in cui la meravigliosa Redfield l’aveva fatto precipitare.
Alfred strinse la sua candida camicia all’altezza delle braccia, strizzando il tessuto nei pugni, dopodiché abbassò il viso e spense il monitor dal quale la stava osservando, interrompendo così definitivamente le comunicazioni con Claire.
 
Non gli importava più nulla, voleva soltanto che lei sparisse dalla sua vita.
 
 
 
 
“L'uomo è quasi sempre tanto malvagio quanto gli bisogna. Se si conduce dirittamente, si può giudicare che la malvagità non gli è necessaria. Ho visto persone di costumi dolcissimi, innocentissimi, commettere azioni delle più atroci, per fuggire qualche danno grave, non evitabile in altra guisa.”
(Giacomo Leopardi)
 
 
 
 
***
 
 
 
 
 
“Dov’è finito?”
 
Sussurrò Claire interdetta, mentre la stanchezza cominciava a far vacillare la sua determinazione.
Erano ore che girava per quel castello, ma di Alfred neppure l’ombra.
Era…inconcepibile!
Prima, nonostante gli inconvenienti spesso accaduti, il biondo non faceva che tormentarla con le sue apparizioni improvvise o con quel rimbombante e fastidioso altoparlante, col quale non faceva che importunarla commentando i suoi progressi sull’esplorazione del luogo in cui era prigioniera.
Adesso che le serviva vederlo, o sentirlo, cosa accadeva? Ovviamente lui spariva!
La cosa l’indispose non poco, facendola sentire ridicola a cercarlo in lungo e in largo, non riuscendo a stabilire un qualsiasi contatto con lui.
Disposta a tutto pur di farlo uscire allo scoperto, ella puntò i piedi a terra e cominciò ad alzare la voce. Rivolgendosi verso una parte imprecisa del soffitto variopinto.
 
“Ashford! Dove ti sei nascosto? Sono ore che ti cerco, so che mi stai guardando!”
 
Le sue iridi azzurre esprimevano tutta la sua risoluzione, tuttavia a poco sarebbero valsi i suoi sforzi. Questo perché, nonostante le sue migliori intenzioni, il biondo non sarebbe mai venuto da lei…almeno non nelle circostanze attuali.
Claire comunque continuò a chiamarlo, imboccando i molti corridoi che si intrecciavano per la residenza, camminando a passò felpato, decisa a non rinunciare.
Il suo cuore prese a battere forte, non capacitandosi di dover accettare di ignorare le informazioni appena ricevute sul suo conto.
Se Alfred credeva che sarebbe bastato ignorarla per dimenticare il tutto, si sbagliava di grosso.
Lei non avrebbe demorso e avrebbe setacciato ogni angolo se necessario.
La determinazione della rossa, a lungo andare, non passò inosservata.
La sua voce acuta che chiamava il giovane arrivò finalmente ai timpani del ragazzo dai capelli color platino, il quale, celato dietro il sipario ombroso della sua messinscena appena interrotta, sussultò udendola.
Ancora assorto nel suo misterioso mondo personale, egli raddrizzò la schiena dalla sua poltrona e si diresse verso uno dei corridoi della sua abitazione.
Sobbalzò quando vide da lontano Claire, che pronunciava ossessivamente il suo nome.
Stette diversi secondi a contemplare la ragazza girata di schiena, che girovagava muovendosi nervosamente. Si chiese cosa volesse da lui, eppure non aveva alcuna intenzione di conoscere la risposta di quella domanda.
Abbassò i suoi occhi vitrei, tenendosi ben lontano da lei e da tutto.
Distrattamente il suo sguardo risaliva verso la fanciulla ed in cuor suo, pur non conoscendo le sue intenzioni, qualcosa di positivo si smosse nel suo animo quando realizzò che lei lo stesse cercando.
Tuttavia, per quanto una velata contentezza si delineasse dentro di lui, il resto del suo spirito lo costrinse a considerare quella donna una minaccia.
Così si eclissò nel buio, sparendo definitivamente, mentre tuttavia la voce della Redfield continuava a tartassarlo.
Strinse gli occhi, cercando di scacciare dalla sua mente ogni lontana tentazione di avvicinarsi a lei, così scappò via ancora una volta, cominciando a realizzare che probabilmente non avrebbe mai messo a tacere quella ragazza se non in un solo modo…
Claire, dal suo canto, abbandonò il suo peso sul muro, distendendo la schiena su di esso.
Era esausta.
Non sarebbe mai riuscita a comunicare col biondo in quel modo. Era evidente che lui la stesse evitando.
Doveva trovare un altro modo per riuscirci.
Incrociò le braccia e cominciò a riflettere.
Elaborò nella sua mente che quasi con ogni certezza lui non sapeva che avesse rinvenuto la chiave del portone principale.
Chissà utilizzandola cosa avrebbe trovato dall’altra parte, magari qualcosa che Alfred voleva tenerle nascosto recludendola in quel palazzo.
Forse in questo modo avrebbe attirato la sua attenzione, cominciando a frugare ancora una volta nella sua fortezza, oppure chissà…gli avrebbe dato fastidio che la sua “formichina” sarebbe scappata dalla gabbia.
Allo stesso tempo, egoisticamente parlando, la Redfield rifletté che valesse la pena approfittare del declino psicologico del ragazzo per esplorare con calma e attenzione la nuova location nella quale si sarebbe imbattuta oltre quella porta.
Non sapeva a cosa sarebbe andata incontro, non sapeva in quali inghippi sarebbe potuta incombere.
Ogni qual volta si era ritrovata in un’area nuova del palazzo, le era accaduto l’impossibile. Di conseguenza era un enorme vantaggio poter perlustrare con una relativa quiete i luoghi che avrebbe trovato oltre il portone d’ingresso.
Deglutì, ripensando al diario di Alfred circa il fatto di trovarsi in Antartide, presso i laboratori dell’Umbrella.
Tuttavia non aveva più tempo per indugiare e quello sembrava l’unico piano a sua disposizione per attirare il biondo e continuare la sua fuga disperata da quel luogo funesto.
 
 
***
 
 
Attraversare la soglia dell’imponente portone d’ingresso, collocato nel mezzo dell’enorme atrio del palazzo Ashford, sembrò surreale.
Il sonoro meccanismo che fece scattare la serratura echeggiò nell’aria, trasportando la giovane prigioniera in una dimensione sospesa; perché da quel momento in poi non sapeva cosa sarebbe accaduto.
Tutto ciò che aveva esplorato sarebbe stato lasciato alle sue spalle, oppure no?
Non poteva saperlo.
Il dubbio era quello che teneva in allarme il suo istinto. La paura della non conoscenza, dell’inaspettato. Tuttavia lei era pronta, non ci pensò nemmeno quando si inoltrò oltre quella soglia buia e polverosa che puzzava di chiuso.
Piuttosto, Claire si sorprese di quanto i suoi scopi fossero cambiati. Fu inquietante per lei costatare di star sì inseguendo la libertà, eppure la reale motivazione non era più quella in quel preciso momento.
Parte della sua mente era concentrata sul biondo altolocato comandante della U.T.F. di Rockfort Island e confidava che quel suo modo di gironzolare per la sua abitazione lo facesse adirare e quindi venire allo scoperto.
Non bisognava fraintendere, Claire desiderava ardentemente fuggire via. Era la sua priorità, era questo che muoveva le sue azioni. L’istinto di sopravvivenza.
Tuttavia, che cercasse di negarlo o meno, parte della sua coscienza sapeva delle illogiche motivazioni che la spingevano a proseguire.
Concepire un capovolgimento di ruoli simile la lasciò interdetta; era strano pensare che stavolta fosse lei a cercarlo ma non solo: che questa fosse una sua priorità.
La ragazza col codino non poteva fare a meno di ripensare a quanto letto nel diario di Alfred.
Aveva bisogno di vederlo.
Non voleva ottenere proprio niente, agognava solo interagire con lui e vederlo sotto un’aura diversa.
Quel mentecatto e meschino uomo dalla chioma platinata era la controversa fusione fra follia e bellezza, fra persecutore e vittima.
Non sapeva più da quale punto di vista osservarlo e proprio per questo era vitale per lei, in quel momento, attirare la sua attenzione. Sapeva che solo rivedendolo un’ultima volta avrebbe potuto capire chi era davvero per lei.
Claire aveva deciso di mettere a tacere la paura, quella prudenza che l’invigoriva a scappare da lui.
Questo per dare spazio finalmente al lato tenero e risoluto della donna che era in lei: una donna tenace e molto materna, che desiderava curare e guarire le ferite delle persone, allo stesso modo in cui lei si era cresciuta da sola ed era sopravvissuta alla morte innumerevoli volte.
La ragazza sapeva che non avrebbe potuto lottare per sempre contro quella preponderante parte di sé che la rendeva, oltre che un maschiaccio, soprattutto una fanciulla sensibile e altruista.
Avrebbe compiuto delle imprudenze, questo lo sapeva, ma avrebbe comunque fatto tutto ciò che era possibile per confrontarsi ancora con il problematico signor Ashford.
Perciò quando superò il portone d’ingresso e avanzò nel lungo cunicolo che trovò davanti a sé, era consapevole di quel dualismo emotivo che divideva il suo cuore, e aveva tutta la determinazione per affrontare quell’ambigua situazione e lottare.
Puntò dunque lo sguardo verso il tetro buio di quel passaggio, cercando di distinguere la strada in modo da non perdersi.
Si sforzò di tornare lucida e di concentrarsi. Quel che vedeva era il nero assoluto, non sapeva nemmeno dove mettere i piedi esattamente.
Inorridì quando improvvisamente si ritrovò sulla sua faccia una ragnatela piuttosto spessa. La scostò velocemente dagli occhi, rabbrividendo alla sola idea che il suo abitante potesse esserle finito addosso.
Questo perché Claire detestava i ragni, con tutta se stessa. Le facevano ribrezzo, non poteva nemmeno sopportarne la vista. Ne aveva affrontate di cotte e di crude negli ultimi anni, eppure ciò non aveva sconfitto quella sua fobia.
Vide per fortuna una torcia poco più avanti, la quale si distingueva grazie alla luce dell’atrio alle sue spalle. Essendo di legno, vi diede fuoco con l’accendino e potette quindi illuminare il sentiero.
Le venne la pelle d’oca quando poté scrutare il cunicolo in pietra polveroso dove stava avanzando, così denso di sporco che i suoi colori erano ormai indistinguibili.
La polvere si accumulava negli angoli e lungo tutta la pavimentazione rendendola ruvida. In più, voluminose tende di ragnatele pendevano ovunque dal soffitto, rendendo quello scenario come il sipario spettrale di un palco dell’orrore.
Seppur con qualche indugio, Claire dovette stringere i denti e addentrarsi, sperando in cuor suo che quella strettoia terminasse al più presto. Per la sua sanità mentale, decise di non guardarsi troppo attorno, ma di procedere con passo lento tuttavia costante in modo da evitare il terrore di incrociare qualche losco insetto da scantinato.
Fu lieta quando finalmente, fra quello sporco immondo, distinse una porta in lontananza.
Sporca di grigio sul viso e con il prurito a fior di pelle, spalancò gli occhi quando una tenue brezza, seppur sintetica, l’accarezzo una volta raggiunto quell’uscio.
 
 
 
 
 
 
 
***
 
 
Residenza Ashford – fine
 
 
 
***
 
 
 
 
 
 
Base Antartide dell’Umbrella Corporation – Giardino artificiale
 
 
 
 
Il cielo notturno e l’aria rarefatta e sintetica conferivano a quel paesaggio un che di diabolico e sinistro, proprio perché era impossibile non accorgersi della sua artificiosità.
In un ambiente interno, era più difficile percepire di trovarsi dentro un immenso colosso nascosto dentro una montagna dell’Antartide e che quindi persino le condizioni climatiche fossero alterate proprio per permettere la vivibilità in quel posto.
Tuttavia, contemplare dall’esterno quel complesso artificiale, rendeva più che evidente il tutto.
Claire si trovava in un giardino ombrato dal buio della notte, che altro non era che un enorme schermo che riproduceva quel tipo di atmosfera.
Ella alzò gli occhi verso l’alto, provando quasi angoscia nell’osservare quella trappola che faceva apparentemente credere al comune visitatore di trovarsi all’esterno. Era atroce, opprimente.
Il luogo in cui si trovava in quel momento, infatti, era tutt’altro che un piccolo giardino interno. Quel posto era una prigione, esattamente come tutti gli altri ambienti di quei laboratori.
La ragazza spostò lo sguardo dal cielo finto, ai vari elementi che caratterizzavano quell’ambiente.
Un sentiero di pietra occupava la maggior parte della pavimentazione, spezzata di tanto in tanto da piccoli spiazzali erbosi posti all’estremità, i quali erano perfettamente tagliati e curati, sebbene anch’essi sembravano finti.
Luccicante e placida, una fontana occupava il centro di quel giardino, la quale sembrava addirittura una piscina date le dimensioni. Dentro, si ergeva la statua di un vaso dall’apparenza molto antica.
Al di là di essa, Claire intravedeva una giostra che volteggiava su se stessa nonostante non ci fosse nessuno a cavalcarla. Essa era mossa probabilmente da un qualche meccanismo.
Questa era costituita da una piattaforma metallica, sulla quale erano adagiati soltanto due cavallini predisposti a essere cavalcati.
Claire si sentì strana quando pensò che Alfred e Alexia erano cresciuti in quel posto e quindi chissà quante volte dovevano aver giocato con quella giostra.
Fu un’immagine che si figurò spontaneamente nella sua mente, ora che vedeva quei bambini per quel che erano: due ragazzini sfruttati da un mondo che aveva cercato di usarli, che non avevano avuto la possibilità di vivere la loro infanzia coma due persone normali, circondati invece da gente che aveva fatto di loro due macchine meschine e inumane.
Era angosciante pensare che qualcuno davvero potesse arrivare a pretendere da una ragazzina di soli dieci anni certi successi, la quale in altro modo dovrebbe concepire la sua infanzia.
Claire vedeva quella giostra con i cavalli infinitamente vuota, come se la sua giocondità fosse stata usurpata da una vita invece costretta a vergere verso altro; verso un’ambizione che mai sarebbe dovuta appartenere a dei fanciulli.
Il suo sguardo si posò infine sulle colonne che costeggiavano il viottolo di pietra che costituiva il sentiero di quel giardino, le quali formavano una sorta di porticato dall’apparenza vagamente familiare.
I suoi occhi in quel momento si spalancarono, ricordando all’improvviso di quel posto.
Lei………..…in quel giardino…………….…c’era già stata!!! (*)
A un primo sguardo non se n’era accorta, fu solo dopo aver osservato attentamente quegli scorci che la sua mente fu capace di fare tale associazione.
La Redfield fu sorpresa di non essersene accorta prima.
Questo perché mai prima di allora i suoi ricordi come “La Falsa Alexia” erano stati nitidi.
Drogata e tenuta sempre sotto controllo, Claire riusciva a rimembrare pochissime cose di quel periodo, ove tutto era molto confuso e quasi non riusciva più a distinguere sogno da realtà.
Tuttavia in quell’istante rivide metaforicamente il tavolino bianco fatto sistemare appositamente sotto quell’arcata, ove aveva faticosamente sorseggiato del tè assieme a colui che in quel momento credeva suo fratello: Alfred Ashford.
Portò una mano sulla fronte, mentre la mente era ormai andata a ricollocare ogni tassello di quei ricordi frammentati, facendole rivivere stavolta con coscienza di causa quel che accadde quel giorno.
Ricordò quella sensazione di trovarsi all’esterno, quell’enorme spossatezza in corpo che aveva crucciato quei lunghissimi giorni; le sue mani tremanti e il biondo che le sorresse la tazzina; il suo modo di guardarla, discreto e attento a non farsi scoprire, probabilmente perché il mascheramento non era poi così ben riuscito e lui non faceva che rivedere il viso di Claire dietro quella bambola camuffata.
Fu scioccante per lei rivivere quell’episodio e costatare che non fosse poi passato molto tempo da allora.
Quella storia così assurda adesso aveva un senso logico, seppur nella sua pazzia. Claire non potette fare a meno di sentirsi fortemente turbata e coinvolta.
Prima di proseguire oltre l’arcata e lasciare il giardino, osservò alle sue spalle l’enorme palazzo Ashford, nel quale erano ormai custoditi ricordi che avevano toccato profondamente il suo spirito.
Imponente e maestoso, esso era la rappresentazione simbolica perfetta di una fortezza in cui sono custoditi e celati ricordi inaccessibili. O almeno non per chiunque.
In apparenza regale e immenso, dentro vigeva il caos più assoluto, ove i fantasmi e la follia avevano eretto i suoi muri.
Un luogo nefasto, eppure esclusivo e affascinante, al quale non poteva non rivolgere uno sguardo nostalgico e inquietato, ormai perduto nel buio dei suoi misteri.
Pronta a lasciare quel posto, fu spiazzata quando si accorse che un secondo palazzo giaceva di fianco a quello da lei appena abbandonato.
Un palazzo dall’aspetto pressoché uguale e che attirò ovviamente la sua attenzione.
Vi si avvicinò, paragonando insistentemente i due ingressi al fine di evidenziarne le differenze.
I suoi decori antichi e la sua aria imponente le ricordò assurdamente il portone da lei superato poc’anzi, nell’atrio della residenza Ashford.
Come immaginava, era chiuso ovviamente, ma ciò non la fermò nel tentare di dare almeno una sbirciata tramite la fessura della serratura.
Non c’era la chiave dall’altra parte, così poté guardare al suo interno per quel po’ che si poteva.
Sobbalzò quando si rese conto che oltre quel portone sembrava esserci….la villa appena lasciata!!
Ma…non era possibile!
Osservò alla sua sinistra e rivide la porta dalla quale era uscita attraverso il corridoio polveroso.
Non se l’era sognato, era dove l’aveva lasciata! Allora cosa significava quella ‘seconda villa’?
In effetti, alzando lo sguardo, gli edifici posti in concomitanza con quelle porte erano due, ed erano entrambi prestigiosi e grandissimi. Quindi era possibile che le due porte conducessero a due residenze diverse.
Si riaffacciò nel buco e scrutò meglio quel po’ che riusciva a vedere di quella seconda villa.
Le colonne che costeggiavano l’ingresso, le scale poste al centro….
Quell’atrio era la copia esatta della villa ove era stata imprigionata fino a quel momento.
Per qualche motivo quindi esistevano due palazzi Ashford identici. O quasi…
Purtroppo Claire non aveva in suo possesso la chiave, così da scoprire cosa effettivamente distinguesse quelle due abitazioni così apparentemente simili, dovette quindi allontanarsi e proseguire per la sua strada.
Non poteva fare assolutamente nulla al momento.
 
Una volta attraversata l’arcata del giardino, l’atmosfera cambiò drasticamente.
Si ritrovò in un corridoio metallico, il quale la pose di fronte a un bivio. Vi erano, infatti, una porta sulla sinistra e un ascensore sulla destra.
Pronta a scoprire se fosse davvero nei laboratori Artici dell’Umbrella Corporation, Claire provò per prima cosa a interagire con la tastiera dell’ascensore, tuttavia la mancanza della corrente le impedì di proseguire. Non le rimaneva quindi che la porta a sinistra.
La maniglia si abbassò e Claire potette inoltrarsi nel primo corridoio dei laboratori, costatando di persona dove si trovasse veramente.
 
La zona che ritrovò oltre quella porta metallica era fredda e sinistra, simile ad un moderno ospedale; nonostante sembrasse una struttura all’avanguardia, moderna e ancora in buone condizioni, era tuttavia disabitata.
Non che ne se sorprendesse più di tanto, in fin dei conti dopo il disastro di Raccoon City e quel che accadde sui monti Arklay, i laboratori dell’Umbrella erano stati tutti abbandonati per via del contagio.
Quel posto non doveva aver fatto una fine molto dissimile, dunque stette in guardia avvicinando la 9mm a sé, aspettandosi di imbattersi in delle b.o.w. in qualsiasi momento.
L’aria era impregnata in qualche modo dall’aura ostile con la quale lei aveva già familiarizzato ai tempi della distruzione di Raccoon.
Pungete e angusta, l’atmosfera lugubre degli uffici in cui l’Umbrella aveva regnato sovrana sapeva trasmettere anche a distanza di mesi la sua crudeltà e inumanità.
A fior di pelle, poteva sentire quel che era probabilmente successo fra quelle mura apparentemente tranquille.
Percorse il corridoio cercando di non lasciarsi sfuggire il ben che minimo indizio, tuttavia a differenza dell’abitazione Ashford appena lasciata, quel posto era decisamente spoglio.
Gli unici elementi che l’arredavano erano le luci di emergenza spente, le lampade al led che rivestivano il soffitto e due porte di acciaio, una posta lungo il tragitto, un’altra che chiudeva il corridoio.
Suo malgrado, sembrava che Alfred avesse messo in sicurezza quel posto. Infatti anche stavolta il percorso fu obbligato, essendo accessibile soltanto la porta posta in fondo.
Camminò con passo deciso, mentre nella sua mente quegli scorci richiamavano ampiamente i tipici luoghi di un laboratorio, confermando così quanto letto sul diario del biondo.
Tuttavia fu quel che trovò dall’altra parte della porta che diede conferma a quei sospetti.
Oltre la porta, una lunga passerella simile a una balconata delimitata da una ringhiera di ferro arrugginita percorreva un intero pianerottolo.
Il vuoto riempiva lo spazio restante, creando uno spazio aereo sorprendente, permettendo al visitatore di ammirare dall’alto l’intera panoramica dell’ambiente sottostante.
Affacciandosi, Claire non poté che confermare di trovarsi davvero nei lugubri e terrificanti laboratori dell’Umbrella Corporation.
Nella zona sottostante, i suoi occhi tremarono alla vista dell’enorme marchingegno posto al centro, utilizzato per fabbricare chissà quale arma batteriologica, oppure adibita al trasporto di esse.
Il macchinario occupava gran parte della stanza. Era spaventoso.
Tubi di acciaio si intrecciavano fra loro collegando quel congegno a varie aree della struttura.
Nonostante il buio non permettesse un’analisi più precisa, nelle vicinanze intravedeva delle porte tra le quali ne distinse chiaramente una con su scritto B.O.W. .
A quel punto non vi fu più alcun dubbio su dove si trovasse.
Fu raccapricciante passare da un ambiente domestico, sebbene eccentrico, a uno così arido come un laboratorio.
Davvero i gemelli Ashford avevano vissuto in quel contesto?
Dei gemiti sofferti si propagarono per l’ambiente, trasmettendo la desolazione che meglio si addiceva a quel luogo sinistro.
Essi provenivano dal basso e fu così che Claire si accorse della presenza di chi, oltre lei, solcava ancora quelle mura.
Questi, vestiti per la maggior parte con caschi protettivi e tute da lavoro, altro non dovevano essere che dei semplici operai, probabilmente rimasti vittima di quel mondo infausto allo stesso modo di come era accaduto a Raccoon.
La rossa stette a osservarli da lontano, con il cuore che batteva incessantemente, sentendosi intrappolata quasi esattamente come loro. Vittime di gente corrotta e crudele che non aveva valutato le conseguenze delle loro terribili azioni, condannando tuttavia anche gente innocente.
Non sapeva che ruolo potessero avere quegli operai all’interno dell’Umbrella, tuttavia vedere quei corpi debilitati e morti che vagavano nell’oscurità, capaci soltanto di sussurrare versi di dolore e di fame, non potette che lacerare il suo animo già provato.
Scostò le mani dalla ringhiera, dovendo a malincuore familiarizzare col nuovo ambiente.
Si guardò attorno, dunque, cercando di capire come proseguire. Sussultò quando tuttavia si accorse che la strada era bloccata.
La balconata, infatti, era crollata in un punto e la distanza che verteva fra una sponda e l’altra era troppa perché qualcuno potesse saltarvi. Presa dal panico, sbirciò dall’altra parte della voragine, dove proseguiva la balconata; lì vide ben tre porte. Una di queste era anche piuttosto vicina, a distanza d’aria, tuttavia non sarebbe mai stata in grado di raggiungerla per colpa della passerella rotta.
Cosa diavolo poteva fare?
L’unica cosa che poteva raggiungere dalla sua postazione era una cabina di comando che con tutte le probabilità serviva a muovere una gru posta sul soffitto, tuttavia a cosa le poteva servire in quella situazione?
Purtroppo a nulla…e anche volendo, la cabina di comando poteva essere azionata solo grazie a una chiave, la quale non era ovviamente in suo possesso.
Spaventata, ripercorse frettolosamente la strada già percorsa alla ricerca di un qualsiasi passaggio sfuggito alla sua attenzione.
Purtroppo le porte cui si era già imbattuta erano chiuse, nessun errore; stessa cosa riguardo eventuali dettagli sfuggiti a una prima occhiata.
Panoramica a parte del piano inferiore attraverso la balconata, Claire non poteva fare assolutamente nulla. Era bloccata!
Il panico la assalì, così prese a muoversi convulsivamente cercando ora più che mai di interagire con Alfred il prima possibile.
Intanto il freddo proveniente dalle distese innevate artiche che circondavano l’edificio cominciò a farsi sentire, costringendo la rossa ad abbracciare il suo corpo. Seppur il laboratorio fosse abbastanza climatizzato, la temperatura ostile e polare non poteva non raffreddare quell’ambiente abbandonato.
Doveva trovare una via d’uscita, un qualsiasi passaggio, ma ogni strada era irrimediabilmente chiusa!
Cosa doveva fare?!
 
 
 
***
 
 
Luogo sconosciuto – Palazzo Ashford
Zona residenziale
 
 
L’acqua scendeva copiosa.
L’uomo dai capelli biondi, assorto nei suoi silenti pensieri, lasciò che lo scroscio della doccia portasse via ogni suo dubbio, ogni sua paura; persino i ricordi che aveva vissuto quando il suo io si era sostituito a quello della sua prestigiosa sorella, Alexia Ashford.
Ritornato padrone di se stesso, necessitava di cancellare le tracce di quella controversa parentesi che aveva segnato in modo inesorabile il suo conflitto con la Redfield, smascherando una parte di sé che lui non amava ricordare, ne ammettere di possedere.
Desiderava dunque rilassare la sua mente e lasciare che l’acqua che scorreva sul suo corpo mitigasse il suo spirito disturbato, rimasto ferito dopo quella battaglia.
Il getto tiepido picchiava sulla sua fronte e in quell’attimo sembrava finalmente riuscire a non pensare più a nulla. Un’emozione di benessere lo pervase, inducendolo a dimenticare quanto fosse accaduto e quanto straziava il suo cuore.
Seppur precipitato nuovamente nel baratro degli incubi con i quali lottava oramai quotidianamente, lì per lì essere trasportato lontano da tutto lo beò a tal punto da desiderare che quel momento non finisse mai.
Aprì gli occhi e le sue iridi color cielo sembrarono diverse.
Non più crucciato come quando era con la sua prigioniera Claire Redfield, nel suo sguardo stavolta era dipinto qualcosa di diverso, qualcosa a lui più consono.
Lentamente, quelle lunghe ore passate da solo avevano permesso di trasformare quell’uomo frustrato in uomo adirato, pronto a compiere la sua vendetta e difendere il suo onore.
Era questo il suo compito, era questo il suo desiderio.
Uscì dalla doccia e avvolse il suo corpo in un lungo accappatoio color cremisi. Allacciò la cintura, dopodiché stette a guardare quel bagno lussuoso tramite il riflesso dello specchio appannato dal calore.
Sollevò una mano e con il palmo rimosse quell’ombreggiatura opaca che offuscava la visuale.
Stette in silenzio a contemplare la sua effige bagnata, osservando il suo sguardo adesso meno sofferto rispetto l’ultima volta in cui si era specchiato, sforzandosi di assumere una postura autorevole e impetuosa.
L’onore degli Ashford era ancora una volta nelle sue mani, e nonostante quel greve momento di difficoltà che egli stava affrontando, non esisteva che lui non avrebbe lottato a testa alta, com’era consono a quelli della sua famiglia.
Per lui non esisteva l’essere soprafatto da sentimenti esterni a quelli della sua famiglia, esterni dai suoi interessi e da Alexia, la sua amata sorella.
Dunque era suo dovere dare dignità a se stesso e tornare a vestire i panni del comandate quale lui era.
Si diresse dunque nelle sue stanze, dove si concesse un attimo di riposo prima di rialzarsi e tornare a combattere la sua dura battaglia.
Scese la sua vestaglia dalle spalle e infilò i pantaloni bianchi e la camicia di seta, annodandovi sopra una cravatta abbinata, che legò ad ascot. Si diresse verso l’armadio, dal quale tirò fuori la giacca della sua divisa militare, che montò sulle spalle curandone ogni minimo dettaglio.
Fece combaciare i bottoni dorati, sistemando bene il colletto ripiegato. Allacciò la cintura di cuoio nera in vita e subito dopo si avvicinò ad un porta gioielli sistemato su una cassettiera massiccia.
Da questa, prese i suoi preziosi decori militari, che fissò in modo schematico sul lato sinistro della sua uniforme seguendo un ordine ben preciso.
Fece tutto con estrema calma, volendo partire dal suo prestigio e decoro prima di tutto.
Sistemò i polsi e quando finalmente la sua effige fu ordinata, egli si collocò nuovamente davanti allo specchio, prendendo un pettine sottile e facendolo scorrere fra la sua chioma bionda, perfettamente tagliata. Tirò l’acconciatura indietro, com’era solito fare un lord, prendendosi tutto il tempo di cui necessitava.
Non voleva avere alcuna fretta, doveva essere perfetto.
Stette a scrutarsi a lungo, aggiustando ogni angolo che lui trovava imperfetto, sebbene chiunque, guardandolo, avrebbe faticato a comprendere cosa egli stesse tecnicamente sistemando essendo un uomo particolarmente curato, che teneva sempre in perfetto ordine la sua immagine.
Alfred aveva imparato a non trascurare mai il minimo dettaglio di sé. Ambizioso e insicuro, egli riversava nella sua immagine tutta la potenza e la sicurezza che doveva trasmettere, che soltanto ripristinata in modo impeccabile avrebbe rinvigorito anche in lui la sua autorevolezza.
Una volta finito, osservò la sua opera completata.
Era lì, di fronte a sé, che lo studiava dall’altra parte dello specchio.
Era la sua maschera più ardua da portare: se stesso.
Una devastante pesantezza pervase la stanza, nella consapevolezza che presto il sipario sarebbe stato alzato nuovamente. Il solenne silenzio di chi non può sbagliare e sente sulle sue spalle la responsabilità del successo e del fallimento.
La tensione di quel momento in cui nulla è ancora accaduto, dove ci sono solo attore e personaggio dietro al palco.
Alfred corrucciò il viso e impostò un’espressione dura, minacciosa.
Infine imbracciò il fucile da caccia adagiato sul muro, alzandosi poi dalla sedia posta di fronte la specchiera e facendo per abbandonare la stanza.
Aveva più di una situazione da sistemare e, ora che era tornato a presiedere la sua fortezza al posto di Alexia, aveva tutte le intenzioni di spazzare via ciò che di losco minacciava la sua esistenza e quella di sua sorella.
 
 
 
 
 
***
 
 
 
Base Antartide dell’Umbrella Corporation – laboratori
 
 
 
 
 
 
“Ehi! C’è qualcuno?”
 
Urlò Claire, sperando in una risposta, qualsiasi risposta, mentre il suo fiato condensava nell’aria.
 
“Per favore, qualcuno risponda! Non puoi lasciarmi qui dentro, Alfred!!”
 
Nessuno replicò alle urla della giovane, nessuna reazione si scaturì in seguito ai suoi disperati tentativi di uscire da quel vicolo cieco.
Ella era sola in quel freddo e tetro laboratorio senza vie d’uscita.
A Claire non rimaneva dunque che una scelta: lottare, fare il tutto per tutto per sbloccare quella situazione.
Decise di fare baccano, di scatenare un putiferio tale che nessuno non si sarebbe potuto accorgere di lei. Sbatté dunque rumorosamente quelle poche porte attraversate, cercò qualsiasi arnese o piccoli oggetti da gettare a terra in modo da creare frastuono, infine osservò il laboratorio sottostante alla balconata.
Il macchinario che occupava praticamente tutta la sala sembrava essere certamente costoso, chissà se Alfred finalmente sarebbe uscito allo scoperto se qualcuno l’avesse scheggiato o distrutto?
Impugnò saldamente la pistola e prese la mira, dopodiché una raffica di proiettili partì dalla canna, tutti diretti verso quel macchinario, i quali emisero disturbanti suoni metallici che confermarono l’andare a segno di quei colpi.
Sparò senza contegno, disposta persino ad esaurire le sue poche cartucce, questo pur di alterare il biondo e farlo uscire allo scoperto.
D’improvviso poi, un suono attirò la sua attenzione.
Claire distinse a stento quell’eco per via del suono assordante dei proiettili, accorgendosi solo in un secondo momento che era……..una voce?!
Disorientata, si affacciò dalla balconata e, da lì, una folta chioma castana ramata si fece velocemente distinguibile ai suoi occhi.
La corporatura slanciata, i pantaloni militari, la giacca a maniche corte blu notte, quell’atteggiamento sfrontato eppure in qualche modo tenero…
La rossa non potette crederci davvero, nonostante fosse proprio davanti a lei.
Era lui…era per davvero lui. Era vivo!
 
“Steve..?”
 
Lo chiamò tremante, ancora dubbiosa circa la visione appena avuta.
Dal suo canto, il ragazzo si mise al riparo fra i macchinari presenti nella sala sottostante, probabilmente perché non ancora accortosi di lei.
Quella scena fece sorridere Claire, la quale ricordò del loro primo incontro avvenuto grossomodo nello stesso modo; soltanto che a sparare era lui.
Si appoggiò alla ringhiera, sporgendosi appena, aspettando che il moro la riconoscesse finalmente.
 
“Non sparare!”
 
Gridò il ragazzo, facendo intanto per ricaricare le sue armi e affrontare il nemico insinuatosi inaspettatamente davanti al suo cammino. L’ultima cosa che si sarebbe aspettato, in quel momento, sarebbe stato udire una voce femminile a lui molto familiare.
 
“Steve!! Sono io, Claire! Sei vivo!”
 
Steve sgranò gli occhi, reagendo in modo molto analogo alla Redfield.
Egli stentò a credere di sentire davvero la voce della ragazza dai capelli rossi e dovette affacciarsi più volte prima di focalizzare la sua figura dall’alto della balconata e concretizzare il tutto.
Un sorriso si disegnò sulle sue labbra e sbandò quando a sua volta vide colei che quasi non sperava quasi più di rivedere.
Dopo che il jet privato degli Ashford era stato abbattuto, egli ricordava poche cose. Sapeva solo di aver ripreso i sensi e di essersi ritrovato in quel posto dimenticato da Dio, disperso nei meandri di qualche zona dell’Antartico, a quanto aveva avuto modo di capire dalle poche documentazioni reperite in giro.
Tuttavia, ciò che lo aveva preoccupato maggiormente, non era stato tanto il non sapere dove trovarsi. In fin dei conti a Rockfort aveva familiarizzato con la paura e la morte, dunque quei loschi laboratori non erano poi tanto differenti per lui. Raccapriccianti e macchiati di sangue lo erano entrambi e lui aveva toccato così da vicino la violenza che adesso nulla avrebbe potuto intimorirlo.
Quel che dunque l’aveva terrorizzato era stato l’essere di nuovo solo.
Claire era sparita e non sapeva dove diavolo fosse finita, se fosse fra le grinfie di quel pazzo Ashford, oppure se fosse accaduto il peggio…
Steve aveva perlustrato quei laboratori con la paura negli occhi. La paura di ritrovare davanti a sé la carcassa ormai morta della donna che aveva saputo rinvigorire in lui quello spirito di sopravvivenza che credeva ormai perduto. Lei aveva saputo riportarlo in vita, e molto di più…
Seppur non sapesse niente di lei, i sentimenti maturati per quella ragazza l’avevano legato a lei molto più di quanto gli fosse mai accaduto con alcuno.
Uscì quindi fuori dalla porzione di muro dietro la quale si era nascosto e alzò entrambe le mani, agitando con esse le machine gun che aveva fra esse.
La speranza si riaccese nei suoi occhi nel vedere la dolce Claire sana e salva.
 
“Claire!! Ti ho cercata dappertutto! Dove diavolo eri finita? Stai bene?”
 
La rossa sorrise, rivedendo lo Steve vivace di sempre.
 
“Sto bene. Sai per caso come uscire da questo posto?”
 
“Non ne ho idea, purtroppo. Sembra che anche questo posto sia legato all’Umbrella, ma è meglio parlarne più tardi. Rimani dove sei, conosco la strada per accedere alla balconata, dammi qualche minuto!”
 
“La balconata è crollata, non credo di poter passare. Dobbiamo trovare un’altra strada, purtroppo. Steve, ci sono molte cose che devi sapere, è una storia lunga e…..ATTENTO!”
 
Urlò all’improvviso la Redfield puntando l’indice in direzione del giovane, il quale si voltò tempestivo a quel richiamo e riuscì appena in tempo a crivellare di colpi il cranio di uno zombie avvicinatosi a lui.
Steve allargò entrambe le braccia puntando le sue machine gun in direzioni diverse, mentre il resto di quei dannati non morti si approssimavano, pronti a divorarlo.
 
“Steve, è pieno di zombie li dentro. Esci fuori! Troveremo un altro modo per ricongiungerci!”
 
“Accidenti…! Non ti lascio da sola! Aspettami Claire!”
 
La ragazza corrucciò il viso comprendendo i sentimenti del bruno, tuttavia consapevole che non c’erano altrimenti. Al momento dovevano separarsi per forza.
Strinse dunque gli occhi, comunicandogli quella sofferta decisione.
 
“Steve, me la caverò. Ti prego, non essere imprudente. Dobbiamo andarcene entrambi via da qui…vivi!! Io ti copro, ma tu esci fuori da questo laboratorio, è pericoloso. Ci sono troppi zombie! Non puoi affrontarli da solo! Stammi a sentire! Ti prego!”
 
A quell’ultima supplica della Redfield, Steve si ritrovò costretto a darle ascolto. Sebbene il cuore gli diceva di fare di tutto per continuare a starle affianco, era consapevole anche che al momento non sapeva come raggiungere l’altra parte della balconata del piano di sopra, dove invece lei si trovata. Doveva quindi stringere i denti e sopravvivere, ancora una volta. Era la sua priorità, perché da morto non avrebbe mai più potuto proteggere Claire.
Vedendolo fare per raggiungere l’uscita della stanza, Claire prese la mira e aiutò il ragazzo a sfuggire ai non-morti che strisciavano incontrollati verso di lui.
Partì il primo colpo, che fece cadere uno di loro, il quale rimase a terra dolorante. Terminarlo non era importante al momento, le bastava che non fosse nelle condizioni di attaccare Steve. Così prese di nuovo la mira e continuò a colpire il resto delle b.o.w. assieme al ragazzo che suo malgrado fu costretto a muoversi fra loro.
 
“Siamo nei laboratori Antartici dell’Umbrella e anche Alfred Ashford è qui. Dobbiamo trovare un modo per andarcene, al più presto! Devi trovare un mezzo o qualsiasi cosa.”
 
“D’accordo!”
 
Mentre la ragazza cercava di fare mente locale e mettere al corrente anche Steve delle poche informazioni apprese, improvvisamente l’intero edificio cadde nel buio più completo. Fu come un blackout improvviso che gettò nelle tenebre ogni cosa.
Sia Steve che Claire alzarono gli occhi, alla ricerca di una spiegazione, destreggiandosi a stento in quel nero soffocante.
 
“Cosa sta succedendo?”
 
Domandò lui, stranito.
 
“Steve! Gli zombie!”
 
Gli ricordò la rossa in apprensione, Steve così puntò di nuovo le armi dinanzi a sé, faticando a distinguere nel buio le figure zoppicanti delle b.o.w. affamate da mesi.
 
“Che cazzo è successo alla corrente?!”
 
Disse lui cominciando a sparare a raffica, non potendo individuare la perfetta ubicazione dei mostri, questo mentre la ragazza non poteva fare altro che guardare quella scena da lontano, cercando di aiutarlo come poteva. Tuttavia, da quella distanza, sparare al buio era troppo difficoltoso, avrebbe rischiato di colpire anche Steve!
Decise quindi che l’unica cosa che poteva fare era cercare di ripristinare la corrente in qualche modo.
Non poteva stare con le mani in mano e ora che si era finalmente ricongiunta con il ragazzo dai capelli ramati, non esisteva la possibilità di morire proprio adesso.
 
“Steve, cerco di vedere se riesco a ripristinare la luce. Qualsiasi cosa accada, stai attento! In qualche modo riuscirò a venire giù. Tu non preoccuparti, me la caverò!”
 
“Claire aspett..!!”
 
La fermò il ragazzo, preso al contempo dalla lotta contro gli zombie che affollavano la stanza dove si trovata, tuttavia la Redfield sparì dalla balconata prima che lui potesse finire la frase.
Egli strinse i denti, pronto a liberarsi la strada e fare di tutto per ricongiungersi a lei.
Ora che si erano ritrovati e sapeva che era viva, nulla avrebbe potuto fermarlo! Era carico come non mai!
 
“Levatevi di mezzo!!”
 
Urlò infervorato, questo mentre Claire ripercorse il corridoio, pronta a smantellare le serrature delle porte chiuse che erano intercorse sulla sua strada se necessario, pur di trovare un modo per aiutarlo.
L’oscurità era tremenda, non riusciva quasi a vedere niente!
Per fortuna aveva ripercorso quella strada così tante volte da averla ampiamente memorizzata anche al buio.
Mentre afferrò la maniglia di una delle porte chiuse, sbattendovi ripetutamente contro sperando di forzarla, una misteriosa presenza posta sul fondo del corridoio attirò la sua attenzione.
Fu una sensazione arcana, incomprensibile.
Un’aura indiscreta e maligna in breve tempo abbracciò nel suo malevole grembo ogni cosa, celando al contempo la sua evanescente presenza nell’oscurità appena piombata.
Eppure fu così forte da farsi notare, così prepotente da dirigere ogni attenzione su di sé, bloccando ogni pensiero, preoccupazione, paure, movimenti…tutto.
Una sopraffazione e un’invadenza capace di gelare il sangue e impregnare quelle mura da un istante all’altro. Una prepotenza in realtà a lei estremamente familiare.
Claire strinse gli occhi cercando di focalizzare quella figura, ben conscia di chi avrebbe rivisto. Quando questa si fece finalmente più nitida, essa si rivelò essere il tanto atteso burattinaio impazzito di quel palco della follia che lei stava cercando.
Dunque era stato lui a far scattare la corrente?
Egli, nella sua divisa scarlatta, con il fucile serrato fra le mani, la osservava silente dal fondo del corridoio, rimanendo immobile.
Claire, dall’altra parte, puntò lo sguardo contro la sua figura, sorpresa di rivederlo, finalmente.
 
“Alfred…”
 
 
 
 
 
 
***
 
 
 
 
 
 
 
*(Vedi capitolo.1)
 
 
 
NdA:
 
Ed ecco quindi svelata la reale location della Residenza Ashford nella mia fan fiction.
In pratica, ho elaborato una seconda villa molto simile a quella presente nei laboratori dell’Umbrella dell’Antartide; questa però è ubicata di fianco a quella conosciuta dal giocatore in code veronica, ed è stata costruita dal biondo gemello di Alexia per avere un luogo dove vivere con lei. Un luogo di “giochi” in cui avrebbero recuperato il tempo perduto in quei lunghi quindici anni in cui lei è stata ibernata.
Infatti, se pensiamo alla villa in Antartide presente nel gioco, ha poco a che vedere con una casa. Di “abitazione” ha in effetti soltanto l’atrio e le camere da letto dei due gemelli.
Quindi è abbastanza lampante che questo palazzo non sia che una copertura per nascondere i laboratori sottostanti in questa stessa zona.
Mi è venuto dunque spontaneo immaginare che Alfred avesse fatto costruire, nel tempo della criostasi di Alexia, questa zona vivibile tutta per loro. “Vivibile” ovviamente in gergo loro, secondo il loro gusto perverso e crudele.
Niente, volevo fare questa specificazione nel caso nella narrazione non fossi stata abbastanza chiara!^^
Grazie per aver letto!
Ci sentiamo al prossimo capitolo!!

Ritorna all'indice


Capitolo 16
*** Capitolo 16: attori in crisi di ruolo ***


 
 
 
 
Capitolo 16: attori in crisi di ruolo
 
 
 
 
 
 
 
 
“Ma tu chi sei che avanzando nel buio della notte inciampi nei miei più segreti pensieri?”
(William Shakespeare – Romeo e Giulietta)
 
 
 
 
 
 
 
 
 
“Alfred…”
 
Sussurrò Claire in modo che il biondo la sentisse, osservando quell’uomo dall’apparenza aristocratica scrutarla dall’altro lato del corridoio, circondato dalle tenebre. Per colpa dell’oscurità, ella non fu in grado di interpretare il suo stato d’animo, ragion per cui stette in guardia attendendo la sua mossa.
Consapevole del tormento che albergava dentro di lui, non osava immaginare alla luce dei recenti accadimenti cosa sarebbe potuto succedere nel momento nel quale si sarebbero rincontrati.
Osservò attentamente quel po’ che riusciva a vedere della sua figura immersa nel nero, trovando misteriosamente spaventoso il fatto che fosse tornato a vestire i panni di Alfred Ashford, abbandonando finalmente la sua versione femminile.
Era come se, ferito l’orgoglio della sua Regina, il Re fosse tornato a difenderla. O forse era il semplice fatto che l’incanto era ormai finito ed il sipario era finalmente sceso su quella messinscena ingannevole.
Il tempo in cui era stato vestito da Alexia era bastato a farle dimenticare la sua autorevolezza e quell’aspetto fascinoso e signorile che lo caratterizzava. Ligio nella sua elegante divisa rossa, Alfred sapeva trasmettere superbia e irraggiungibilità allo stesso modo di sua sorella gemella.
Fu impressionante per Claire provare quel forte turbamento nel rivederlo nelle sue abituali spoglie, non potendo negare a se stessa le controverse emozioni che ormai lui aveva suscitato in lei.
Quel che aveva rapito la giovane ineluttabilmente fu quella postura rigida che si confondeva nel buio, se non fosse stato per i capelli pallidi e il colore dei suoi abiti che spiccava nelle tenebre.
Seppur fosse troppo lontano perché potesse vedergli il viso, percepiva i suoi occhi di ghiaccio puntati contro di lei, che la trafiggevano con quel rinnegato desiderio, che lo frapponeva fra l’odio e l’amore che provava.
Claire non sapeva quanto avrebbe influito sulla sua mente ciò di cui aveva letto sul diario e stava per scoprirlo.
Era nervosa, molto.
Il fatto che fosse armato non la mise in allarme. Ormai sapeva come gestire le sfuriate d’ira del biondo, inoltre la sua prerogativa in quel momento non era affrontarlo.
Avrebbe soltanto voluto che quell’incontro avvenisse in un momento diverso, preoccupata com’era per l’incolumità di Steve, il quale si trovava nell’altra stanza. Chissà se era riuscito a scappare?
I suoi pensieri riguardo al bruno, tuttavia, furono presto interrotti. Questo perché un tenue rimbombo di passi la costrinse a puntare di nuovo il suo sguardo verso Alfred.
Lentamente, il pallido comandante cominciò ad avanzare, facendo echeggiare il suono del tacco sul pavimento. Claire poteva vedere qualcosa di oscuro nelle sue movenze, che trasmettevano un che di minaccioso e angosciante.
Il suo cuore prese a battere inquietato. Seppur le circostanze non le permettessero la calma che avrebbe voluto, era comunque decisa a interloquire con lui e comprendere quanto di vero avesse appreso dalla lettura del suo diario personale.
Quando egli fu abbastanza vicino perché potesse guardarlo nelle sue iridi vuote e imperscrutabili, la ragazza ebbe come un sussulto. Sentì vacillare la sua determinazione, spaventata da quello sguardo di ghiaccio, alimentato da un istinto omicida che poteva sentire nitidamente sulla sua pelle.
Deglutì, cercando nella sua mente le parole per dialogare con lui, tuttavia percepiva quanto ormai fossero distanti l’uomo di cui aveva letto e il folle mietitore che invece aveva davanti.
L’Alfred Ashford che aveva dinanzi era un pazzo scellerato, che non era più in grado di ragionare o tornare sui suoi passi.
La sua ingenuità le impediva però di vedere quella crudele realtà, la quale era più cruda di quanto avrebbe mai immaginato. Tuttavia lei si era sempre rifiutata di credere a una sola verità, e in quel momento per lei era vitale non dimenticare quanto aveva appreso su di lui…….sul suo malefico e spietato mondo.
 
“Alfred, non ha più senso questa battaglia. Basta…”
 
Pronunciò con voce sottile, docile, sperando che il suo tono lo calmasse.
 
La vita è una lunga battaglia nelle tenebre.”*
 
Rispose lui, continuando ad avanzare ad agio verso di lei, con gli occhi di un folle omicida, consapevole del meschino significato delle parole da lui pronunciate che comunicarono nell’animo di Claire la devastazione di cui aveva letto nel suo diario, inducendola a sentire vibrare dentro di sé tutto il male che lui aveva dovuto sopportare.
 
“E’ abbastanza…tutti abbiamo sofferto abbastanza. Te ne prego, non vivere ancora in questo modo. So cosa hai vissuto, so cosa significa essere soli, abbandonati da tutto e da tutti, costretti a sopravvivere in un mondo che sembra ritorcersi contro qualunque cosa si faccia.”
 
“Chi non sopporta una croce non merita una corona.”*
 
Sembrava come se non la stesse ascoltando per nulla.
Claire aveva cercato nel suo cuore le parole adatte per rivolgersi a un animo ferito e contorto come il suo. Aveva provato a rivolgersi a lui con dolcezza, con comprensione, tuttavia era come se Alfred fosse incapace di vedere tutto questo. Egli era fermo sulla sua posizione e continuava a inneggiare il suo amore per Alexia, la croce che gli aveva fatto meritare la sua corona.
Il suo sacrificio che non sarebbe stato vano se espressione di devozione ed eterna fedeltà a colei che aveva dato un senso alla sua esistenza. Erano quei sentimenti e quei ricordi che tenevano in vita Alfred Ashford, il quale camminava a testa alta, onorato di servire e proteggere la sua Regina.
Il biondo infatti dondolò il capo, deluso dall’incapacità comprensiva della donna che aveva di fronte.
Un ghigno deformò la sua bocca sottile, rendendo la sua espressione facciale raccapricciante per via del suo viso stanco e ormai distrutto.
 
“Non troverai mai la verità se non sei disposto ad accettare anche ciò che non ti aspetti.”*
 
Disse soltanto, non avendo tuttavia più alcun interesse nel cercare di far comprendere il suo universo a quella ragazza che per qualche losca e illogica ragione era stata capace di indurlo a provarci.
Ora che la guardava con biasimo, rendendosi conto della futile ragazzina con la quale aveva inutilmente lottato, provava disgusto verso di lei e verso se stesso ed era quindi deciso a mettere un punto a quel gioco riluttante.
Scostò dunque il fucile dal suo petto, pronta a dare vita alla parte dello spettacolo che lui più conosceva: il massacro, la distruzione, la demolizione del palco.
Presto quel sipario ormai già calato, sarebbe stato macchiato dal sangue della prigioniera che aveva osato avanzare nei luoghi bui e tormentati della sua anima distrutta.
Claire Redfield, dal suo canto, ascoltò con attenzione le poche parole da lui pronunciate, cercando disperatamente un modo per non mandare all’aria quanto lei aveva in verità appreso di lui. Quell’empatia che si era instaurata e che lei desiderava comunicargli.
Tuttavia ogni vocabolo le si strozzò in gola, come se l’aura nera emanata dal biondo fosse stata in grado di freddarla e renderle impossibile ogni reazione. Si ritrovò soltanto a schiacciarsi contro la parete alle sue spalle, sperando di trovare una qualsiasi scappatoia da quel mondo labirintico di cui non conosceva assolutamente nulla.
Essendo sul baratro, decise di mettere le carte in tavola e di provare a essere più diretta, sebbene sapeva che così avrebbe urtato i sentimenti del biondo. Ad ogni modo, però, ciò era necessario se voleva al contempo stabilire un contatto con lui e avere salva la vita.
 
“Io…ho trovato il tuo diario nella tua stanza. L’ho letto.”
 
Ammise.
 
“Adesso conosco la verità. So cosa hai provato, so del legame che ti univa ad Alexia. Così come so del tuo gioco.
Sono disposta ad aiutarti se vuoi.
Non voglio distruggere le cose in cui credi, ma devi venirne fuori. Questo posto sta uccidendo anche te. Non puoi continuare a ingannarti così, credendo di non vacillare prima o poi. Credo che tu sappia perfettamente cosa sto dicendo.
Non ti giudico, non m’importa nemmeno di ciò che mi hai fatto se sei disposto a lasciare che ti aiuti. E’ un teatro folle e inumano che sta andando avanti da troppo. Lascia che…”
 
“Tu hai fatto…cosa?!”
 
Fu la reazione sconvolta del biondo a quelle parole, delle quali non comprese subito il significato essendosi fermato alla prima frase da lei pronunciata.
Parlò con un filo di voce, inorridito e terrorizzato dall’ammissione di quella colpa appena espressa con naturalità da quella donna.
Lei…..non aveva assolutamente idea di cosa significasse per lui che qualcuno avesse acceduto ai suoi pensieri più intimi, ai suoi preziosi ricordi!
Come aveva potuto dire qualcosa di simile con tanta superficialità? Come aveva osato oltraggiarlo ancora in quel modo?! Ma sopratutto…cosa intendeva quando aveva detto che ‘sapeva del suo gioco’?
Sebbene Alfred non lo avrebbe mai ammesso, la rabbia che velocemente gli lievitò in corpo fu scaturita piuttosto dal completo imbarazzo verso la possibilità che la rossa fosse venuta a conoscenza dei suoi taciti e lussuriosi sentimenti verso di lei, che lui reputava spregevoli e vergognosi.
Fintanto che erano rimasti dentro di lui, egli aveva potuto gestirli nel modo che più preferiva. Tuttavia il solo sospetto che lei per davvero ne fosse venuta a conoscenza, lo turbò a tal punto da fargli perdere il controllo ancora una volta.
La Redfield dal suo punto di vista gli aveva parlato col cuore in mano, immaginando che si sarebbe alterato, tuttavia non potendo fare altrimenti. Non conosceva altro modo per toccarlo, inoltre reputava inutile girare troppo attorno alla questione.
Alfred era un uomo che si era cresciuto da solo e che aveva poche volte guardato in faccia la realtà. Se voleva davvero aiutarlo, era ora che qualcuno lo facesse al suo posto e lei era disposta in quel momento a sbattergli in faccia la veridicità delle cose e venire in suo soccorso.
Sebbene fosse a conoscenza del fatto che la possibilità di riuscirci era scarsa, voleva tentarci.
Voleva riuscire a fare in modo che Alfred si aprisse con lei, anche un solo istante.
Quando vide, però, quegli occhi sconvolti e colmi di rancore, sbandò spaventata, comprendendo forse solo in quel momento di non essere in grado di gestire i tormenti di quell’animo crucciato.
Quel che vide in quegli occhi di cristallo, così vitrei e tristi, fu la paura di essere toccato da un altro essere umano; il terrore di approcciarsi e di essere ferito e turbato. Egli scappava inutilmente da una società dalla quale lui si sentiva dissimile, decidendo così di rinchiudersi nella sua fortezza e fare in modo che nessuno potesse raggiungerlo. Adesso che lei aveva valicato quel limite, la sua mente era andata in panne, facendo della violenza l’unico modo per proteggersi. Per proteggere lui e le sue convinzioni.
 
“Redfield…tu…”
 
Ringhiò ispirando profondamente, con i denti serrati, denigrando quanto lei avesse potuto leggere nelle pagine del suo diario. Le avrebbe dimostrato quanto di falso c’era in quegli scritti. Quanto lui amasse solo e unicamente la sua preziosa Alexia!!
Come si permetteva, anche solo ad ipotizzare, di sapere qualcosa su di lui?!
 
“…non osare insinuare oscenità simili! Chi ti credi di essere?! Ti condurrò all’inferno e annienterò dalla faccia della terra la tua irritante arroganza e ti mostrerò, come non hai ancora visto, di cosa io sia capace!!”
 
Quando tuttavia fece per premere il grilletto, una luce abbagliante punto dritto proprio su Alfred, il quale fu costretto a portare un braccio attorno ai suoi occhi per proteggersi.
Claire indietreggiò e cercò di focalizzare cosa stesse accadendo.
Vide una strana telecamera appesa al soffitto, un oggetto che prima non aveva notato per niente e che adesso era puntato proprio sul biondo. Cosa stava succedendo?
Una luce rossa prese a lampeggiare da quel dispositivo e con essa un allarme vibrò per tutto il corridoio e probabilmente anche per tutto l’edificio.
Dall’espressione stranita di Alfred, la rossa dedusse che anche lui non dovesse avere idea di cosa diavolo fosse.
Prima però che lui potesse accusarla in qualche modo per quell’inaspettato evento, ritenendola responsabile, una voce echeggiò dal nulla, ridendosela del caos appena generato nei laboratori Antartici.
 
“Ah,ah,ah. Da quanto speravo di incontrarti, Ashford. Sei cresciuto dall’ultima volta, quasi ho stentato a riconoscerti. Mi piace come hai deciso di portare i capelli.”
 
L’inconfondibile timbro vocale di Albert Wesker si diffuse nell’ambiente mentre egli, al sicuro nella sua postazione di monitoraggio, passava una mano fra i suoi capelli ordinati e tirati all’indietro in modo simile a quelli del biondo Alfred. Lo stava deridendo platealmente, godendosi lo scenario che aveva creato apposta per mettere la parola fine agli Ashford e al loro regno oramai in rovina.
 
“La fama delle tue gesta di follia ti hanno preceduto, ma non temere. Tali maldicenze presto avranno fine in quanto ho preso io possesso di questo posto, del quale farò in modo non rimarrà più nulla e voi Ashford tornerete ad essere un’antica gloriosa leggenda. E’ stato interessante giocare a guardie e ladri in casa tua.”
 
“Albert Wesker…!”
 
Ringhiò Alfred riconoscendo facilmente quella voce mai dimenticata, odiando con profondo disprezzo l’uomo dalle lenti scure che aveva osato raggiungerlo in Antartide per distruggere l’operato della sua famiglia e di Alexia. Non l’avrebbe permesso!
 
“Oh, vedo che ti ricordi ancora di me. Tuttavia non ho tempo per abbracci strappa lacrime, ho del lavoro da svolgere, fra cui cercare il posto dove la tieni nascosta. Non credo ci impiegherò poi molto. Sono sicuro che a momenti metterò le mani sul prezioso T-Veronica Virus, puoi starne certo.”
 
A quella frase il volto del biondo si pietrificò e Claire se ne accorse. Passò lo sguardo da Alfred all’altoparlante dal quale fuoriusciva la voce di Wesker, sconvolta in modo diverso tanto quanto lui.
 
“Intanto ho preparato un regalino per te…e per tutti. Un intrattenimento che spero vi piacerà.” rise l’uomo delle tenebre, dopodiché cambiò discorso. “A proposito, signorina Redfield. Il tuo caro fratellone presto sarà qui, lo sapevi?”
 
Claire sobbalzò.
 
“C-Chris?!”
 
“Esatto, tesoro. Ci siamo visti a Rockfort e suppongo fosse sulle tue tracce. Sarà davvero una bella rimpatriata. Speriamo che sarai ancora viva quando lui sarà giunto a destinazione, in ogni caso ti ringrazio per essere stata una buona esca. Grazie a te ho potuto condurlo fin qui. Ah,ah,ah!”
 
Rise di nuovo, godendo delle espressioni disorientate dei due, i quali dovettero ascoltare impotenti le sue minacce che in modo diverso colpirono entrambi toccando nel profondo ciò che avevano di prezioso. Tuttavia Wesker aveva poco tempo a disposizione per godere di quel suo trionfale momento, era arrivato il momento di salutarli.
 
“Spiacente, ma devo proprio lasciarvi. Ho già perso fin troppo tempo. Presto il “cacciatore” sarà arrivato, il suono della sirena dovrebbe averlo attirato, ormai. Ci penserà lui a tenervi compagnia. Addio.”
 
Detto questo, chiuse la comunicazione e si eclissò del tutto.
 
“Il “cacciatore”..?”
 
Ancora attonita, Claire ripeté spaesata il nome proferito dell’ex capitano della S.T.A.R.S., dopodiché rivolse lo sguardo verso Alfred, il quale aveva un volto ricolmo di dubbi e incertezze.
Era…spaventato anche lui?
Quando i loro sguardi s’incrociarono, destatasi dallo shock di quell’incubo, il biondo puntò prontamente di nuovo il fucile contro di lei, la quale alzò le mani come riflesso condizionato sperando con tutta se stessa che non facesse sul serio.
 
“Ashford! Qualche bestia famelica ci sta dando la caccia e tu pensi ancora che uccidermi sia la priorità?!”
 
“Tsk! Non m’interessa cos’abbia detto quell’uomo, sono io che comando qui! Che sguinzagli pure le sue armi migliori, ciò non mi distrarrà dai miei compiti primari!”
 
Tuttavia, nel mentre di quella frase, dei grugniti feroci si propagarono dal versante opposto della stanza ed erano ormai prossimi a loro.
Il debole ma angosciante ticchettare di unghie appuntite sul pavimento presagì l’arrivo di qualcosa di losco alle loro spalle. Il suo incalzare felpato e la pesantezza dei suoi passi agitarono Claire, che ebbe la sensazione che qualcosa di grosso stesse per attaccarli.
Inaspettatamente però, quelli che sembravano essere soltanto piccoli passi, si trasformarono velocemente in una corsa lesta ed inarrestabile, che ben presto pose la ragazza e il suo biondo nemico di fronte una nuova nemesi che non si aspettavano di avere così prossima a loro.
Claire non poté far altro che guardare impotente quella figura energumena che sfrecciava verso loro, non riuscendo a focalizzare nulla se non il suo colore verdastro e la sua pelle spessa.
Questa dimostrò fin dal primo istante una velocità impressionante che ricalcò alla perfezione la definizione di “cacciatore” detta da Albert Wesker.
Questi infatti attaccò senza indugio, con l’istinto omicida di chi vuole fare a pezzi le sue prede.
La Redfield ritrovò di fronte quella possente creatura maligna, facendo in tempo a mettersi al riparo dal suo attacco.
La stessa fortuna non ebbe Alfred che, essendo di spalle, il brevissimo lasso temporale che gli servì per voltarsi e identificare il pericolo in agguato bastò alla bestia per raggiungerlo più velocemente rispetto a Claire.
L’Hunter così ferì di striscio il comandante Ashford, tagliandolo sul braccio e su parte della guancia, dalla quale fuoriuscì una copiosa striscia di sangue che macchiò il suo volto marmoreo.
Parte del tessuto della sua divisa rossa si aprì, mostrando la camicia bianca che portava sotto.
Tuttavia sembrò che la ferita non avesse raggiunto la pelle. Fortunatamente, i decori militari che portava sulle spalle avevano attutito quel colpo, proteggendolo. Infatti alcuni frammenti dorati giacevano a terra, ormai frantumati.
Alfred traballò, mantenendosi in piedi grazie all’appoggio del muro. Premuto contro la parete, si sforzò di prendere la mira nonostante il colpo appena ricevuto e fece per sparare contro quell’essere mai visto prima.
Mentre il biondo faceva per affrontarlo, Claire ebbe il tempo per contemplare quella nuova e devastante b.o.w. .
Alta all’incirca un metro e mezzo, la pelle era coriacea e spessa. Dai pigmenti verde scuro lucente, ricordava vagamente le sembianze di un qualche tipo di rettile. Le zampe anteriori erano tuttavia molto più lunghe di quelle inferiori, costringendo l’animale a reggersi sulle gambe; ciononostante era perfettamente in grado di correre su quattro zampe e diventare un cacciatore inarrestabile.
Quel che destava spavento, oltre la sua carcassa voluminosa, erano i suoi artigli affilati, che sembravano poter trafiggere la sfortunata vittima in un singolo istante ed in modo fatale.
Claire li paragonò approssimativamente ai Lickers, le spaventose creature incontrate nel Dipartimento di Polizia di Raccoon City, chiamati così per via della loro micidiale lingua lunga e tagliente.
Ricordava ancora il loro corpo inguardabile, che lasciava scoperta la pelle nuda e i muscoli sanguinolenti, così come il loro modus operanti diabolico e insidioso.
Il “leccatore” fu una delle bestie più insidiose che si ritrovò a combattere, pericolosa per via della sua ferocia e della sua incredibile velocità, un po’ allo stesso modo dell’essere che adesso era di fronte a lei.
Avendo quindi familiarizzato con quel tipo di b.o.w. , Claire sapeva grosso modo come affrontarli. Tuttavia, fucile di Alfred a parte, nessuno dei due era equipaggiato a dovere. Sperava soltanto che il biondo avesse abbastanza colpi per abbatterlo.
Alfred intanto caricò un altro colpo, che centrò in pieno il cranio della creatura, la quale balzò in aria e si contorse dolorosamente a terra per diversi istanti prima di perdere i sensi e morire.
Il ragazzo ansimò a lungo prima di avvicinarsi e osservare finalmente l’orrendo animale geneticamente modificato che Wesker gli aveva scagliato contro. Era ripugnate!
Osservandone la natura, non gli fu difficile individuare quell’essere come uno dei prodotti del magnate Ozwell Spencer, uno dei co-fondatori dell’Umbrella assieme a suo nonno Edward Ashford, il quale sembrava abbastanza ossessionato dagli studi sul T-Virus tanto da divenire famoso per il clima asfissiante che imponeva sui suoi ricercatori. Alfred si era informato circa i loro risultati, ma al momento quell’entità così feroce sfuggiva alla sua memoria.
Alzò lo sguardo da quel curioso rettile energumeno, per nulla interessato in verità ad approfondire più di tanto la questione, e quando vide la Redfield fare per lasciare la stanza, fulmineo le corse dietro.
 
“Dove pensi di scappare, Redfield?!”
 
Urlò afferrandola per tempo per un braccio, strattonandola verso di sé, al che la ragazza si alterò e parlò ad alta voce a sua volta in preda alla rabbia e alla preoccupazione.
 
“Steve non sa di questi mostri! Devo aiutarlo!”
 
“Non ho ancora finito con te! Non vai da nessuna parte!”
 
A quelle parole, la rossa diede una strattonata così forte che Alfred fu costretto a lasciare la presa.
Egli ringhiò adirato mentre vedeva la giovane allontanarsi da lui, così presto le fu alle calcagna, intento a non fargliela passare liscia.
Poco importava che fosse ferito sul viso, o che avesse una spalla fuori uso. Se c’era qualcosa che non poteva assolutamente sopportare, questo era il suo onore macchiato e per colpa di quell’insolente ragazzina aveva fin troppe volte visto oltraggiato il suo nome.
Tuttavia dei sonori ruggiti distolsero la sua attenzione, costringendolo a vagare con lo sguardo alla ricerca del luogo da cui essi provenivano. In parallelo, Claire fece lo stesso, non accorgendosi intanto di essere proprio sotto un’altra di quelle telecamere adibite ad attirare gli Hunter.
L’allarme risuonò nuovamente, illuminando il corridoio di rosso e tormentando con il suo suono i timpani dei due.
Il biondo comandante si avvicinò alla ragazza, furioso come non mai, infierendo contro quella drammatica situazione.
 
“Stupida che non sei altro! Ancora non hai capito che sono questi dispositivi che attirano quei mostri?!”
 
“Pensi che l’abbia fatto a posta?!”
 
Battibeccare in quel momento, a ogni modo, non era l’idea migliore. Il giovane Ashford non aveva portato con sé più di qualche colpo di riserva, questo voleva dire che non era in grado di affrontare quelle bestie fameliche se si fossero presentate in massa, come faceva prevedere quel coro di ruggiti udito in precedenza.
Si voltò dunque, dando le spalle a Claire, decidendo di dare la priorità alla sua sopravvivenza.
Aveva purtroppo disattivato gran parte delle zone dei laboratori, quindi gli rimanevano pochi posti dove poter scappare. Corse quindi via, lasciando di stucco la ragazza dai capelli rossi, la quale spaesata lo guardò sparire nell’oscurità del corridoio.
Tremante e per nulla nelle condizioni di poter fronteggiare b.o.w. così pericolose con pochi colpi di pistola, decise di tentare il tutto per tutto per sopravvivere. Inseguì dunque Alfred, non potendo fare altro in quel momento, correndo più forte che poteva sperando di riuscire a seguirlo nei nascondigli che certamente lui doveva conoscere.
Quando il biondo si accorse di avere dietro di sé la rossa, una smorfia infastidita deformò il suo volto.
 
“Che vuoi, Redfield?”
 
Claire non rispose, si limitò a pedinarlo palesemente, non pensando minimamente alla possibilità di lasciarlo scappare da solo. Se si fosse messo in salvo, avrebbe dovuto mettere in salvo anche lei. Era la sua unica chance, che Alfred lo volesse o meno.
Vide il giovane fermarsi solo quando giunse davanti alla tastiera dell’ascensore, posto nel bivio che affacciava sul giardino artificiale.
Egli premette alcuni pulsanti, probabilmente per accedere a un qualche meccanismo di emergenza ma, non ricevendo risposta, questi saldò il fucile da caccia fra le mani e usò il manico per rompere una porzione del muro adiacente.
Claire osservò il viso adirato del biondo, che evidentemente doveva essere nel panico quasi quanto lei.
Dai suoi occhi color del ghiaccio, riusciva a vedere il nervosismo di chi odia essere messo i piedi in testa e in quel momento Wesker gli aveva arrecato una brutta noia da combattere.
Inoltre lui aveva accennato su Alexia, a quanto aveva inteso…allora Alfred era preoccupato per lei?
Intanto il ragazzo riuscì ad abbattere la porzione di parete posta di fianco all’ascensore, portando allo scoperto un dispositivo di emergenza alternativo del quale ovviamente solo il padrone di casa poteva aver conoscenza.
Intanto lo zampettare degli hunter a caccia di loro si fece prossimo, così Claire fece per afferrare il fucile di Alfred mentre lui cercava ancora di mettere in moto quel dannato ascensore. Ovviamente l’uomo si alterò, non avendo la benché minima intenzione di cederglielo; tuttavia la rossa, notando la sua resistenza, lo fulminò con i suoi occhi e gli parlò con una fermezza tale cui lui non poté opporsi.
 
“Aziona questo diavolo di ascensore, io tengo a bada quei mostri. Oppure preferisci che ti facciano a fette mentre ci provi?”
 
Il biondo digrignò i denti, in difficoltà di fronte quell’angustiante situazione di emergenza ove l’ultima cosa che avrebbe immaginato era avere la Redfield a coprirgli le spalle.
Preferì dunque non pensarci affatto e tornare a manipolare quel congegno in modo da svignarsela quanto prima. La rossa fu lieta che lui avesse desistito dall’obbiettare, finalmente.
Puntò così il fucile contro l’hunter oramai vicino e con un paio di colpi l’abbatté abbastanza velocemente. Quel che non si aspettava però, era ritrovarsi davanti almeno tre di loro, che cominciarono a circondare la zona pericolosamente.
 
“Ashford…quanti colpi ci sono?”
 
“Non abbastanza, Redfield.”
 
Rispose concentrato, avvertendo la tensione.
La ragazza deglutì, comprendendo che quello poteva essere un attimo decisivo. Sbirciò in continuazione verso il suo nemico, il quale sembrava agitato allo stesso modo, in preda alla fretta di attivare l’ascensore.
Nel mentre in cui gli hunter avvertirono il loro odore e si lanciarono diabolici contro di loro, le porte metalliche dell’ascensore si aprirono e Alfred e Claire vi entrarono tempestivi.
Il braccio di uno degli hunter rimase incastrato nella porta e i suoi artigli fecero ancora per allungarsi verso di loro, non permettendo così all’ascensore di mettersi in funzione essendo rimasto semi-chiuso.
Alfred prese dunque il suo fucile dalle braccia di Claire e con un colpo netto fece esplodere la sua articolazione, la quale cadde ai loro piedi e le porte di alluminio si chiusero finalmente.
Una disgustosa e copiosa scia di sangue colava dall’incastro delle due porte; anche attorno, le pareti erano schizzate dello stesso liquido organico.
La rossa ansimò, con gli occhi ancora sbarrati, facendo di tutto per recuperare la lucidità il prima possibile di fronte i pericoli in agguato che era certa avrebbe ancora dovuto affrontare. Era per di più chiusa dentro quattro pura con Alfred, non doveva dimenticarlo!
Quando buttò un occhio verso di lui, lo vide ripulire con la manica della sua giacca la ferita sulla guancia che il primo hunter cui si erano imbattuti gli aveva inferto. Il sangue sembrava sul punto di fermarsi, tuttavia era una gran brutta ferita.
Istintivamente avrebbe voluto dirgli almeno qualcosa, ma non ebbe il tempo di farlo, questo poiché quell’attimo di respiro fu bruscamente interrotto da una fortissima scossa che fece vibrare tutto l’abitacolo.
 
“Cosa è stato?”
 
Domandò lei.
 
“Maledette bestiacce! Sono qui sopra.”
 
Il biondo sparò contro il soffitto della cabina, facendo per colpire alla cieca ipotetici hunter che secondo lui avrebbero saltato quando l’ascensore si era messo in funzione scendendo verso il basso. Claire tuttavia lo fermò, consapevole di quanto fatale potesse essere sprecare colpi in una situazione di pericolo come quella.
 
“Fermati, cazzo! Se rimaniamo senza colpi, è la fine! Questi mostri vanno abbattuti con armi più potenti e la tua è l’unica che abbiamo! Con la mia sola pistola non avremo grosse possibilità di salvarci, te ne rendi conto?”
 
Quasi in risposta a quelle parole, dal foro apertosi sul soffitto per colpa di proiettili del fucile, si affacciarono le fauci terrificanti di una di quelle b.o.w. che a quanto pareva li aveva davvero inseguiti.
 
“Taci, Redfield. Se preferisci morire nonostante hai a disposizione i colpi per salvarti, fa pure. Non è come la penso io!”
 
Detto questo, sparò di nuovo contro quella creatura, la quale sparì dalla loro vista. In compenso però, l’ascensore si rimise in moto ad una velocità anomala, come se qualche filo fosse stato danneggiato.
La Redfield raccolse il capo fra le mani e sbandò violentemente quando una brusca tirata fece fermare la cabina.
Sia il signor Ashford che la rossa, caddero indietro, come se l’ascensore si fosse reclinato per qualche motivo. Scivolarono quindi entrambi non essendo nella possibilità di mantenere un equilibrio perfetto, ritrovandosi così compressi contro l’angolo dell’abitacolo.
A quel punto Alfred si alzò e fece per aprire le porte dell’ascensore ormai in tilt; per fortuna la tastiera funzionava ancora, dunque poté spalancarle senza ulteriori intoppi.
Quel che tuttavia c’era oltre queste lo sconvolse completamente.
Questo perché l’ascensore si era fortuitamente incastrato di sbieco fra le mura del tunnel ove esso scorreva fra un piano e l’altro. Era però questione di attimi prima che i fili metallici che ancora lo tenevano su si spezzassero e l’intero abitacolo cadesse così nella profondità degli abissi.
Claire si avvicinò e osservò fuori cercando di comprendere dove si trovassero. Probabilmente si erano fermati in una zona fra un piano e l’altro, per cui non c’era assolutamente nessun luogo dove poter scappare.
Soltanto in un secondo momento notò una rientranza non troppo lontana da loro.
Si trattava forse di una grossa bocca d’areazione o qualcosa del genere, fatto stava che era con ogni probabilità la loro unica possibilità di salvezza.
Si voltò dunque verso il biondo, indicandogli quella via d’uscita.
 
“Non è difficile da raggiungere, credo sia l’unico posto possibile prima che quest’affare crolli.”
 
Il ragazzo tuttavia scosse la testa, infastidito.
 
“Non troverai assolutamente nulla andando da quella parte.”
 
La rossa sgranò gli occhi, incredula.
 
“Preferisci restare qui e aspettare che l’ascensore crolli?!”
 
Infischiandosi altamente di quelle parole, il biondo caricò il fucile e lo pose fra lui e la Redfield, come se quella situazione sospesa fra la vita e la morte non avesse alcuna importanza per lui.
Nel vedere quel viso furente, per nulla cambiato in seguito ai pericoli appena scampati, gli occhi della rossa tremarono esterrefatti, impauriti dall’idea che quell’uomo fosse pazzo a tal punto.
La sua mente era così instabile da non fargli rendere conto che presto sarebbero morti entrambi se non avessero lasciato la cabina dell’ascensore al più presto?! Oppure…la detestava così aspramente da non avere importanza?
Nella sua mente era impossibile accettare che lui avrebbe preferito morire che lasciarla andare, in quel momento.
Seppur la vita di entrambi era in pericolo, Alfred non sembrava aver la benché minima voglia di desistere nell’attaccarla; e neppure di mettersi in salvo.
Claire cercò di farlo ragionare, ma più si perdeva delle sue iridi pallide come il ghiaccio, più vedeva quanto il suo animo fosse oramai devastato e inarrestabile. Egli aveva completamente perso il lume della ragione, non le avrebbe mai dato retta.
Mosse appena le sue labbra carnose, facendo per proferire qualcosa…qualsiasi cosa le permettesse di farlo ragionare o mettere in salvo la pelle. Tuttavia non riuscì a formulare alcuna frase e fu a quel punto che realizzò che non poteva che scappare. Scappare da sola. Scappare da lui.
Era la sua unica salvezza.
Dunque, nello stesso istante in cui lui posò l’indice sul grilletto, pronto a far partire tempestivamente il colpo, la Redfield si voltò e agilmente fuoriuscì dall’abitacolo, aggrappandosi fuori con tutte le sue forze.
Sbandò quando sotto i suoi piedi intravide le tenebre di una voragine che sembrava non avere fine.
La panoramica del tunnel che intercorreva fra i piani dell’edificio fu un’immagine che si cristallizzò nella sua mente e che non riuscì a dimenticare facilmente.
Un qualcosa di così devastante da poter trascinare negli abissi chiunque si fosse abbandonato alla paura della sua imponenza.
Il cuore della ragazza trasalì, mentre il suo istinto non faceva che urlare di fuggire. Tuttavia ella si sforzò di rialzare lo sguardo e non permettere al panico di controllarla. Doveva rimanere lucida e non lasciarsi sopraffare.
Afferrò saldamente le mani sugli ingranaggi esterni dell’ascensore e fece per andare via; il tutto nello stesso istante in cui Alfred fece per colpirla.
Tuttavia non accadde soltanto questo.
Nel mentre in cui il biondo l’aveva a tiro, il tettuccio dell’ascensore venne tempestivamente squarciato da un artiglio affilato, che lo divise in due creando così un varco che permise a una creatura selvaggia di penetrare.
L’hunter colpito in precedenza si era evidentemente salvato, così, più agguerrito che mai, piombò esattamente fra Claire e Alfred.
Furioso e distruttivo, il suo incalzare fece traballare l’ascensore già in bilico, portando l’Ashford a sbagliare il colpo diretto alla ragazza dai capelli rossicci.
Ella, sentendo il proiettile diretto a lei rimbalzare nella cabina metallica, si voltò verso il biondo e sgranò gli occhi alla vista di quel mostro non ancora morto.
Non essendo nella posizione di combattere, si apprestò a uscire definitivamente dalla cabina.
Muovendosi prudentemente, avanzò fra gli ingranaggi adibiti al funzionamento dell’ascensore, uscendo così fuori e facendo per raggiungere quella rientranza.
Intanto Alfred prese a combattere contro la b.o.w. agguerrita, la quale si avvinghiò contro di lui, facendo per tranciarlo.
L’uomo riuscì a scostarsi appena in tempo, con la mente ancora rivolta alla Redfield, scampata al suo attacco ancora una volta.
Tuttavia i suoi pensieri furono costretti ad allontanarsi da lei repentinamente, essendosi insinuata una nuova nemesi sul suo cammino. Deciso a scacciare quella bestia dalla sua strada, imbracciò il suo fucile da caccia prendendo la mira. Non aveva tempo per svagarsi con giocattoli simili!
Adirato, sparò contro l’hunter, che tuttavia si dimostrò più resistente e agile di quel che sembrava.
Claire osservò quella scena da lontano, mentre si aggrappava alla superficie del tunnel che circondava l’abitacolo dell’ascensore.
Con il terrore negli occhi, vide la cabina prendere a scricchiolare per colpa dell’irrequietezza di quella creatura, che non faceva che muoversi agguerrita.
Se quell’essere geneticamente modificato avesse continuato ad agitarsi in quel modo, l’intera cabina sarebbe presto crollata e, con essa, anche Alfred.
Stesso il biondo si accorse di quella preoccupante situazione, così mirò di nuovo contro quella b.o.w. .
Stavolta l’animale non deviò il colpo, che la ferì mortalmente portandola a indietreggiare verso le porte aperte dell’ascensore.
Prendendo al volo quell’opportunità, l’altolocato Ashford caricò frettolosamente un altro colpo, pronto a far cadere quel mostro giù dal precipizio, definitivamente.
Tuttavia, in quello stesso istante, la cabina dell’ascensore scivolò bruscamente verso il basso, scendendo di un metro circa all’interno del tunnel.
Il comandante fu costretto a inginocchiarsi a terra, perdendo l’equilibrio, e il proiettile gli scappò dalla mano. Agitato sia per la preoccupazione di cadere nella voragine con tutto l’abitacolo, sia per l’hunter ancora moribondo, portò il suo sguardo verso la creatura di laboratorio, aggrappandosi saldamente alla parete in bilico alle sue spalle.
La sua mente era nel panico e non sapeva quali priorità avere. Digrignò i denti con rabbia, attendendo la mossa della bestia famelica che aveva di fronte, sperando che crollasse e lasciasse finalmente libero il passaggio per uscire fuori dalla cabina prima che precipitasse.
Claire intanto, ancora avvinghiata alla sporgenza appena raggiunta, stette ad osservare la scena col cuore in gola. Vide l’ascensore scivolare ancora, emettendo dei sonori rumori metallici e agghiaccianti.
Seppur i suoi sentimenti contrastanti, la sua coscienza l’implorava di non lasciare morire Alfred in quel modo, così si sforzò di raggiungere la sua 9mm infilata nella cintura, facendo del suo meglio per prendere la mira nonostante quella scomoda posizione. Fra la ferraglia cui era aggrappata, stese il suo braccio, pronta a far fuoco.
Eseguì un colpo dietro l’altro, ferendo la b.o.w. ancorata sulla soglia della cabina.
L’hunter si contorse dal dolore e fu così costretto a lasciare la presa, cadendo finalmente in quel dirupo senza fine.
Il ragazzo dai capelli pallidi rimase a guardare interdetto, non avendo compreso cosa fosse tecnicamente accaduto. Una serie di colpi avevano inaspettatamente colpito quella creatura sulla schiena, costringendola a sprofondare nel precipizio oltre l’ascensore.
L’erede degli Ashford seguì la traiettoria dei proiettili e fu sorpreso quando si accorse che fosse Claire Redfield ad aver sparato contro il nemico.
Scrutò la rossa con il volto corrucciato in un’espressione che voleva formulare milioni di domande, mentre quell’incomprensibile donna era a qualche metro di distanza da lui, avvinghiata fuori l’abitacolo.
Il suo sguardo si posò a lungo sulla sua pistola fumante, spostandosi poi sul suo corpo longilineo, suoi lineamenti facciali armoniosi e decisi.
Gli occhi del biondo erano ammaliati e dannati dalla sua indecifrabilità, dall’inspiegabile perché dietro le sue azioni, che lo confondevano e lo turbavano fino alla pazzia; tuttavia un sonoro stridio lo costrinse a tornare alla realtà.
Era l’ascensore oramai instabile, che presagiva il suo imminente cedimento.
Non aveva tempo per indugiare ancora; Volente o nolente, doveva lasciare anche lui quell’abitacolo, ormai prossimo al crollo.
Fece così per raggiungere la stessa sponda dove Claire si stava arrampicando, la quale seguì le sue mosse in trepidazione.
Improvvisamente però, la rossa vide un’ombra innalzarsi dagli abissi.
Ella scorse l’hunter sbucare fuori ancora una volta; questo si era aggrappato al fondo dell’ascensore ed era sul punto di intraprendere un salto per attaccare Alfred.
Era un incubo! Quella creatura era davvero un cacciatore inarrestabile!
 
“Attento!”
 
Urlò e così anche Alfred si accorse che quel mostro non era ancora stato sconfitto.
Affrettò dunque i suoi movimenti, ma quando fu sul punto di raggiungere la sponda dove Claire era saltata, la cabina dell’ascensore scivolò di nuovo, allontanandosi ancora di più.
La Redfield sbarrò gli occhi, terrorizzata.
A quel punto, si affrettò a raggiungere una zona più stabile dove poter intervenire in suo aiuto. Costatò di essere a pochi passi dalla piattaforma posta dinanzi l’apertura d’areazione su cui intendeva approdare.
Con ancora quella sensazione di vuoto sotto si suoi piedi, saltò verso di essa, cercando di non pensare troppo al dirupo. Dopodiché si accovacciò a terra e allungò la mano in direzione di Alfred, sperando che lui riuscisse a raggiungerla prima di precipitare.
Non c’erano molti appigli, ma non aveva alternative. Alfred doveva correre e in fretta. La situazione stava precipitando…letteralmente.
Alfred Ashford intanto si aggrappò alle catene metalliche che muovevano la cabina dell’ascensore, cercando di risalire prima che cedessero definitivamente.
Intanto i ruggiti dell’hunter echeggiavano alle sue spalle, ma egli non vi badò e continuò ad arrampicarsi sfruttando i pochi sostegni disponibili.
Ben presto però l’ascensore si abbassò di un altro mezzo metro, limitando sempre di più la possibilità del biondo di scappare via in tempo.
Il ragazzo restò appeso a stento a quella catena per via di quella brusca tirata. Con le mani doloranti, graffiate dal ferro rugginoso, fece del suo meglio per oscillare e poggiare i piedi verso una piccola insenatura. Una volta riuscitoci, alzò gli occhi e riuscì a sollevarsi fino a raggiungere quasi la rientranza dove la Redfield era riuscita a saltare.
Rimase stupito tuttavia quando vide, a pochi centimetri di distanza, la mano della giovane allungarsi verso di lui.
Cosa diavolo stava facendo quella ragazza?
Egli rimase a guardarla per un lunghissimo istante, perplesso, al che la rossa intuì le sue perplessità.
 
“Andiamo..! Afferrala!”
 
Lo incoraggiò, comprendendo la natura contorta di quel che stava accadendo, tuttavia non era certo quello il momento per ricordare che fossero nemici. Si trattava di umanità e lei non l’avrebbe lasciato morire in quel modo.
Il biondo strinse gli occhi, come se qualcosa bloccasse rovinosamente il suo intero corpo.
Digrignò i denti e si decise ad accettare quell’aiuto solo e soltanto dopo aver lottato profondamente con se stesso.
Claire, quando sentì finalmente la sua mano calda nella sua, la strinse forte e con veemenza lo aiutò a salire. Fu decisamente ambiguo ritrovarsi a salvare la vita a quell’uomo squilibrato che aveva più volte cercato di ucciderla e non solo…
Si costrinse tuttavia a cacciare dalla sua mente tali pensieri, non era il momento per farsi prendere dai dubbi o quant’altro. Il suo cuore si rifiutava di vedere in lui un nemico; in quel momento egli era un persona da aiutare e lei avrebbe fatto il possibile per riuscirci.
Dunque strinse i denti e lo tirò su.
Alfred intanto, una volta raggiunta quella piattaforma, rimase inginocchiato per alcuni secondi, covando in corpo una micidiale adrenalina che torturava il suo spirito.
Ansimante e confuso, non gli fu subito possibile ritornare padrone di se stesso.
Il fidarsi di qualcuno era un sentimento che lui non aveva mai conosciuto.
Alexia era esente da quel tipo di discorso, perché lei era sua sorella gemella…era scontato.
Quanto agli altri esseri umani da lui incontrati, egli non si era mai fidato del suo stesso padre, il quale alla fine l’aveva usato e tradito costringendolo a quell’esistenza tortuosa e tormentata; figuriamoci dunque quale potesse essere la sua opinione a riguardo della fiducia.
La fiducia era quindi qualcosa che non conosceva e che non aveva mai riposto in qualcuno.
Aver stretto la mano di Claire ed essere stato effettivamente aiutato da lei senza indugio, andò dunque a toccare una parte della sua psiche che non aveva mai ricevuto gesti simili.
Corrucciato da quel sentimento misto al piacere e alla confusione, si alzò da terra cercando di reprimere quanto in realtà il suo cuore gli mormorava.
Un rumore assordante tuttavia interruppe i pensieri sia di Alfred che di Claire, i quali si voltarono entrambi verso l’ascensore, il quale si spostò definitivamente dalla posizione sbieca che lo teneva ancora su e stavolta cadde per davvero.
L’hunter ruggì un’ultima volta, prima che il suo verso si confondesse fra gli stridii del metallo che strisciava nel tunnel.
Infine le catene capitolarono e un boato si propagò per l’intero edificio, cui seguì una vampata di fuoco che costrinse i due a mettersi al riparo verso quella bocca d’areazione che forse rappresentava la loro unica via di fuga.
Al momento erano salvi.
Grande circa un metro e sessanta, quel varco maleodorante ostruito dalle pale metalliche e arrugginite sembrava un luogo decisamente angusto.
Una volta insinuatasi dentro, Claire aspettò che quell’esplosione si attenuasse, dopodiché si rivolse ad Alfred.
 
“Dove conduce questo tunnel?”
 
Chiese osservando quel nuovo percorso: una lunga distesa simile a una fogna.
Alfred scrutò con lei quell’ambiente desolato, come se quella domanda avesse colto impreparato anche lui. Egli sembrò abbuiarsi riflettendo su qualcosa, in seguito però la sua espressione mutò drasticamente e fece un ghigno che sgomentò la giovane che aveva accanto. 
 
“Non ti piacerà, Redfield...”
 
La rossa deglutì a quell’affermazione, interrogandosi sulle sue parole e sulla loro veridicità.
Vedendo però il biondo Ashford avanzare, decise di seguirlo senza troppo indugio.
Fu una situazione che aveva del surreale, stava davvero accadendo?
In quel momento, lui era l’unico che avrebbe saputo come muoversi in quel posto a lei del tutto ignoto, buio e labirintico, tempestato dalle insidiose b.o.w dell’Umbrella.
Suo malgrado, non poteva far altro che collaborare con lui, almeno al momento.
Anche il ragazzo sembrava essersi rassegnato, in apparenza.
Claire rifletté sul fatto che, ad ogni modo, entrambi non avevano molta scelta, feriti e mal equipaggiati com’erano.
Non poterono dunque far altro che vivere quel momento, evitando di porsi le tante domande che in modo diverso li sconvolgevano entrambi.  
 
 
 
 
***
 
 
 
Base Antartide dell’Umbrella Corporation – Sotterranei
 
 
Plic-Plic
 
L’acqua gocciolava dalle tubature, rimbombando fra le pareti arcuate di quel complesso di tunnel labirintici, umidi e angusti. La luce lampeggiava ad intermittenza, illuminando talune zone, permettendo così di proseguire in quei vicoli bui.
Claire avvertiva il peso di ogni suo passo mentre solcava la pavimentazione fradicia e muschiosa, lasciata a deteriorare chissà da quanto tempo. Di tanto in tanto si voltava in giro, in cerca di indizi fugaci che le facessero intendere dove si trovasse con esattezza.
Intanto il freddo ghiacciava la sua pelle, tuttavia cercò di non badarci avendo tutte le sue attenzioni puntate su quel luogo inesplorato.
Lanciò uno sguardo verso l’uomo che inaspettatamente aveva ritrovato accanto a sé in quella situazione di estrema emergenza. Alfred Ashford avanzava in quella distesa con il capo alto, tipico di chi possiede un temperamento altezzoso cui non intende rinunciare nonostante lo sfondo di quell’intreccio di tunnel così umidi e schifosi. Egli preservava la sua nobiltà e dignità anche in quelle condizioni, mantenendo il prestigio che egli era solito conservare.
Il volto marmoreo e imperscrutabile, la postura eretta e composta, la divisa elegante, i suoi passi decisi eppure tenui.
Fu un’immagine complessa da decifrare, che fuorviò la rossa, la quale vedeva in lui una divisione esatta fra la sua magnificenza e rigorosità, e il suo regno caduto in disgrazia, lasciato a marcire nelle sue stesse ceneri.
Osservare Alfred significava questo: combattere con due visione agli antipodi.
Una in cui lui era il Re sovrano assoluto di quel regno del male, un’altra in cui lui era il devastato servitore di una fortezza fantasma che aveva condotto verso il baratro il suo stesso creatore.
Era ambiguo per Claire non sapere più cosa vedere in lui; non lo riconosceva più in un nemico, tuttavia neppure in una persona da compatire completamente.
Questo la metteva a disagio portandola a desiderare fortemente di entrare nel suo mondo astruso e trovare i fili che ne intrecciavano l’esistenza.
Aveva conosciuto il suo passato, aveva letto dei suoi patimenti. Tuttavia ritrovarsi sola, al cospetto del “futuro” di quel “passato” di cui aveva letto, era diverso. Profondamente diverso.
Era come se l’uomo che aveva accanto fosse una persona completamente nuova, di cui lei sapeva e non sapeva nulla.
L’unica cosa di cui era a conoscenza, era che tutto era cambiato; soltanto non poteva prevedere che risvolti ciò avrebbe comportato nei fatti e nella sua mente…………e questo la spaventava.
Intanto, il biondo Ashford si accorse delle velate occhiate della giovane, le quali turbarono profondamente il suo spirito.
Guardò nella sua direzione con la coda dell’occhio, ma stette ben attento a non incrociare mai il suo sguardo. Si sentiva inquietato da quella disturbante situazione, nella quale il suo libero arbitrio era stato costretto a piegarsi alla volontà del fato, che l’aveva condotto a intrecciare il suo cammino ancora una volta con la donna che sconvolgeva i suoi pensieri.
Sebbene una parte di sé lottasse contro quell’istinto che lui rinnegava di avere, invece attratto da lei e dalla prospettiva di stabilire un contatto, un’altra era ben curiosa di conoscere gli esiti di quella vicinanza.
Il suo stomaco era contorto e la sua mente non era lucida. Sentiva il suo sudore freddo, i suoi occhi tremare. Era come se non fosse del tutto padrone del suo corpo.
Lui…era malato?
Cosa gli stava accadendo? Cosa muoveva i suoi contorti sentimenti?
Si sentiva strano, confuso…un curioso malessere lo corrucciava, come un morbo di cui lui al momento conosceva soltanto i sintomi.
Non era facile per il biondo comprendersi in quel momento, ragion per cui lasciò che gli eventi scorressero, almeno per una volta, per dare pace al suo animo sfregiato.
 
I due sedettero in un piccolo spiazzale in condizioni almeno apparentemente migliori; per lo meno non v’erano pozze d’acqua stagnante in giro.
Claire Redfield si sedette a terra esausta, non badando troppo al fatto di sembrare aggraziata o femminile. I suoi piedi reclamavano riposo ed aveva il necessario bisogno di stendersi anche solo per qualche minuto.
Il ragazzo biondo che occasionalmente aveva deciso di osservare quell’inaspettata tregua con la sua nemica, imitò la giovane, adagiandosi delicatamente sulla pavimentazione nella sponda opposta a quella di lei.
Claire fece caso al modo raffinato in cui lui si sistemò, in contrapposizione con la spontaneità e la naturalità di lei, tuttavia non vi badò.
In verità non sopportava affatto tali formalità, sebbene ancora una volta non potette evitare di notare l’eleganza di quell’uomo.
Folle, maniaco, crudele, detestabile e molesto; tuttavia estremamente rigoroso e perfezionista. Era evidente, anche solo guardandolo, il rango della famiglia dalla quale proveniva e la rigida educazione ricevuta, che gli imponeva un certo rigore persino in quel momento in cui entrambi erano allo stremo delle forze.
Ella abbracciò le gambe e stette a guardarlo in silenzio con fare discreto.
Egli appoggiò il suo fedele fucile da caccia di fiancò a sé, in seguitò portò un ginocchio al petto, adagiandovi sopra il gomito.
Sembrò fare per rilassarsi, tuttavia era evidente che per lui fosse impossibile cedere al suo bisogno di riposo. Era irrequieto, sebbene il suo stato d’animo fosse celato dalle sue apparenze regali. Tuttavia Claire se ne accorse, ma fece finta di niente. In fondo era naturale, in quelle circostanze.
Il freddo intanto si insinuava nelle sue ossa, costringendola a farsi calore quanto più poteva.
Finché aveva camminato, esplorato i laboratori e combattuto, era stata distratta da quella sensazione di gelo. Tuttavia, ora che poteva concedersi qualche minuto di sosta, era insopportabile reggere quelle temperature.
Alzò di nuovo i suoi occhi color del mare verso Alfred, il quale aveva intanto aperto la sua casacca rossa, scendendo la camicia sulla spalla, facendo per scrutare la ferita infertogli dall’hunter.
La rossa, con la coda dell’occhio, osservò con lui quelle striature livide, le quali sembravano veramente dolorose. Tuttavia almeno non c’era sangue ed era già qualcosa.
Istintivamente si sarebbe alzata e avvicinata a lui, per aiutarlo a ripulire quelle lesioni; purtroppo però le loro posizioni contrapposte la bloccavano, ragion per cui si limitò a osservarlo senza farsi vedere.
Mentre Alfred passava un candido fazzoletto inumidito su quelle escoriazioni, la sua camicia si aprì appena anche sul davanti, lascando intravedere la sua pelle pallidissima.
Claire ebbe un sussulto quando distinse una garza macchiata di rosso sulla parte alta del torace. Cosa gli era successo?
Improvvisamente poi, ricordò di quando gli aveva sparato durante quell’assurdo gioco cui lui l’aveva costretta a partecipare quando era ancora travestito da Alexia.
Allora l’aveva colpito davvero…
La ragazza torturò le sue labbra, comprendendo di provare un deviato senso di colpa nei suoi confronti.
Non poteva però dimenticare cosa lui le stava facendo passare!
Non…non era colpa sua se lui l’aveva costretta a sparare per sopravvivere.
Allora perché non riusciva a smettere di guardarlo e sentirsi così in pena per lui?
 
“Hai…bisogno di… aiuto…?”
 
Mugugnò, non trovando con disinvoltura le parole da usare.
Lei stessa si sentì ridicola nel formulare quella domanda, cui sapeva come il biondo avrebbe reagito. Era impossibile che lui avrebbe accettato la sua assistenza.
L’altolocato Ashford, infatti, sollevò il viso verso di lei, spostando gli occhi dalla ferita sulla spalla che stava medicando.
La sua espressione era indecifrabile; a metà fra indignazione e sgomento.
Corrucciò le sue iridi chiare, dopodiché tornò a ciò che stava facendo, ignorandola del tutto.
Claire si sentì offesa per non essere stata degnata nemmeno di una risposta, tuttavia decise di non fare discussioni inutili, così tornò anche lei sulle sue.
Il suo sguardo, ciò nonostante, tornava però sempre ad Alfred.
Il taglio che il ragazzo aveva sulla guancia era sporco di sangue raggrumato. Non sanguinava più da qualche minuto. Alfred lo ripulì accuratamente, sembrando piuttosto innervosito dal fatto di non disporre di uno specchio per rassettarsi come avrebbe voluto.
Alcune ciocche di capelli gli caddero sul viso, conferendo alla sua figura perfezionista un che di più ‘comune’.
Claire aveva riflettuto poche volte sul fatto che, sebbene avesse quasi dieci anni più di lei, anche lui dopotutto era un ragazzo piuttosto giovane. Aveva ventisette anni, le sembrava di ricordare.
Vederlo in quelle spoglie più scomposte lo rese improvvisamente più naturale e più vicino a lei e alla sua concezione di uomo giovane. Era forse la prima volta che lo guardava come ‘coetaneo’.
Si sentì in imbarazzo quando si accorse di trovarlo persino interessante in quel momento.
Tali pensieri la misero tempestivamente a disagio. Strinse gli occhi e cercò di tornare padrona di sé, rimproverandosi di fare allusioni simili in un momento come quello.
Intanto Alfred passò una mano fra i capelli leggermente unti per colpa dell’umidità, dopodiché finalmente rilassò la testa contro il muro, facendo per riposarsi dopo quelle ore così intense.
Distrattamente, posò il suo sguardo sulla ragazza seduta di fronte a lui, a qualche metro di distanza.
La luce era scarsa e la penombra creava delle chiazze scure sul suo volto; tuttavia ciò non gli impedì di poter ammirare la sua fisionomia aggraziata seppur mascolina.
In effetti, Claire aveva questo di particolare ai suoi occhi: quella modernità che lui non era solito notare in una donna, lui che era abituato a una certa classicità e raffinatezza.
Quei capelli dal colore vivo e brillante, raccolti in una coda di cavallo scomposta sulla fronte, l’abbigliamento in pelle e i pantaloni lunghi.
Il biondo non si era mai approcciato con una donna di quel genere, sempre inserito in ambienti d’élite.
Era inevitabile quindi che lei destasse più di qualche curiosità in lui già dall’impatto estetico.
Era tuttavia il suo viso che l’aveva letteralmente stregato, in quanto dietro quelle apparenze per nulla regali e per nulla vicine al suo concetto di bellezza, aveva visto un’avvenenza che lo aveva attratto inesorabilmente.
Cosa aveva quella donna? Perché continuava ad avere quell’effetto su di lui?
Alfred non riusciva, e non voleva, trovare risposte per quelle domande, poiché per lui era inevitabile sentirsi macchiato nel suo onore. Eppure, più guardava quel viso celato tra i chiaro scuri di quelle catacombe, più non poteva smettere di tornare a posare i suoi occhi su di lei.
Ad un certo punto vide la ragazza portare una mano dietro la nuca e tirare via l’elastico che teneva legati dietro i capelli.
Sebbene avesse comandato al suo cervello di smettere di guardarla, fu attirato dalla sua chioma rossiccia lasciata ondeggiare sulle sue strette spalle.
Questi erano spettinati e leggermente mossi visto che erano stati legati a lungo, eppure la delicatezza con la quale contornavano il suo viso e il suo collo le conferiva quella femminilità cui lui non poté smettere di togliere gli occhi.
Improvvisamente, poi, quasi sbandò quando vide la rossa alzarsi e fare per avvicinarsi.
Fu qualcosa che lo turbò profondamente.
Non fu sicuro se ella se ne fosse accorta o meno, fatto stava che la sua riluttanza nell’averla accanto sembrò mettere a disagio anche lei a un primo impatto.
Tuttavia Claire sembrò non curarsi troppo della cosa, infatti si sistemò a pochi centimetri da lui, una distanza tale che le permettesse di guardarlo negli occhi.
Ella tese un braccio nella sua direzione, allungandogli qualcosa.
Il biondo Ashford stette più tempo a contemplare la sua vicinanza che quel che lei gli stava porgendo. Era abbastanza nuovo per lui trovarsi in una situazione simile, avere a che fare con altri esseri umani che fossero estranei al suo mondo; era visibilmente disorientato.
Claire trovò tenero in qualche modo l’espressione corrucciata di lui, evidentemente a disagio, forse molto più di lei.
Alfred le rivolse le sue iridi azzurro cielo, non importandosi di essere stato immobile per diversi secondi prima di decidersi ad abbassare lo sguardo e vedere cosa lei gli stesse allungando.
Tuttavia, non appena riconobbe la copertina rigida finemente decorata che rivestiva il piccolo libricino che lei aveva fra le dita, il biondo si agitò di colpo e strappò con veemenza l’oggetto fra le mani della Redfield.
Claire sorrise velatamente nel vedere l’occhiataccia che il biondo le rivolse.
In effetti conosceva il contenuto di quel diario e non c’era da stupirsi di quella reazione.
Il ragazzo intanto strinse il suo diario fra le dita, mentre dentro di sé sentì ribollire uno strano sentimento misto alla rabbia e al senso di imbarazzo. Come aveva osato Claire rendergli quel suo prezioso cimelio in modo tanto impudente?!
Subito lo ripose dentro la tasca interna della sua giacca, dopodiché evitò categoricamente il viso della giovane.
La Redfield si sentì leggermente in colpa nell’avergli ridato il diario in quel modo, ma d’altronde non esisteva un’alternativa più ‘delicata’. Le sembrava invece più giusto che esso tornasse fra le mani del suo proprietario; tanto ormai aveva messo le carte in tavola, era inutile nascondersi dietro un dito.
La ragazza cominciò a guardarsi attorno, perlustrando in modo distratto quei sotterranei opprimenti e maleodoranti di umido dove al momento i due erano costretti a stazionare.
 
“Dove siamo esattamente?”
 
L’uomo non rispose, fu come se la rossa non avesse proferito alcuna parola.
Egli stette sulle sue, nascondendo il suo sguardo in un’espressione vaga e non curante. Claire sospirò silenziosamente, non potendo accettare in cuor suo il fatto che lui non la volesse nemmeno render partecipe di dove fossero.
Non che ci fosse molto a capirlo; si trattava di una sorta di fognatura sotterranea, o qualcosa del genere. Soltanto che non si aspettava che lui fosse algido a tal punto.
 
“Certo che si congela qui dentro.”
 
Alfred attizzò l’orecchio, sorpreso che Claire avesse ancora voglia di fare conversazione.
Non era stato difficile accorgersi di quell’approccio ‘amichevole’ da parte sua, tuttavia era inutile. Lui non aveva alcuna intenzione di interloquire con lei, qualunque cosa avesse fatto. Trovava a dir poco ridicolo anche il solo fatto che lei ci tentasse davvero.
Girò il viso, spazientito, indignato dalla sua insolenza, chiudendosi ancora una volta nel suo silenzio.
 
“Davvero tu e…Alexia…vivevate qui? Non mi sembra un posto molto accogliente.”
 
Aggiunse improvvisamente la ragazza, cogliendolo di sorpresa, dicendo quella frase dal bel mezzo del nulla.
Stava cercando di sfruttare le informazioni carpite dal suo diario per comunicare con lui? Era folle?
Alfred dapprima le lanciò un’occhiata di disgusto, tuttavia rimase silente.
Claire, dal suo canto, volle mettere in mezzo anche Alexia nel discorso, questo nella speranza che magari lui si sentisse più a suo agio.
In effetti, lei era ancora restia nel credere se quella donna esistesse attualmente oppure no, erano tanti i miseri a riguardo; ciononostante, volle dare per buono quello che il biondo aveva scritto di lei quindi cercò di fare il suo gioco.
Era curiosa di sapere se sarebbe riuscita ad arrivare a lui e farlo aprire in qualche modo, doveva solo essere perseverante; sebbene con un soggetto come Alfred fosse arduo.
Egli era chiuso ermeticamente nel suo piccolo mondo e sembrava non avere alcuna intenzione di darle ascolto.
Eppure nel suo diario egli aveva espresso più volte il suo desiderio di contatto umano…allora perché continuava ad essere così restio?
Fino a che punto si trattava solo di Alexia?
Lo osservò mentre divagava con lo sguardo, per nulla interessato a rispondere alle sue domande, e la cosa cominciò a indispettirla. Tuttavia non voleva cedere per così poco. Se Alfred credeva che sarebbe stato così facile azzittirla, si sbagliava.
Lei era una persona molto paziente e avrebbe atteso.
Voleva giocare al ‘gioco del silenzio’ ?
Molto bene, non era un problema per lei.
La ragazza così abbracciò di nuovo le gambe, portandole al petto, rimanendo vaga con lo sguardo.
Nessuno dei due proferì nulla, fu un momento molto lungo che sembrò durare un’infinità, questo proprio perché internamente entrambi provavano profondo disagio.
Tuttavia nessuno dei due voleva cedere, ragion per cui stettero immobili a lungo, ognuno in compagnia dei propri pensieri.
 
 
 
 
 
 
 
 
***
 
 
 
 
Note:
 
* citazione di Lucrezio
 
* citazione di Francis Quarles
 
* citazione di Eraclito




 

Ritorna all'indice


Capitolo 17
*** Capitolo 17: giochi pericolosi ***


 
 
 
 
Capitolo 17: giochi pericolosi
 
 
 
 
 
“Siamo nelle fondamenta del centro di ricerche. Da qui in avanti ci sono solo i rifiuti di laboratorio, raccolti in una serie di tunnel in attesa di essere rimossi. Non è generalmente una zona accessibile all’utenza, ma esistono alcuni pass speciali per il solo personale autorizzato….”
 
Alfred Ashford fece una piccola pausa. Puntò i piedi a terra e si fermò nel bel mezzo del discorso, questo proprio per dare modo alla ragazza di guardarlo negli occhi.
Claire si bloccò seguendo i suoi movimenti e gli rivolse il suo sguardo, assecondandolo.
Soddisfatto, il biondo fece un ghigno e con l’atteggiamento tipico di un ragazzino pieno di sé, le parlò altezzoso.
 
“… ovverro: io.”
 
Specificò borioso, dopodiché riprese a camminare come se nulla fosse. La Redfield lo guardò interdetta.
Darsi arie in quel modo era davvero infantile!
La sua espressione sconcertata esprimeva tutte le sue perplessità. Ad ogni modo, non gli diede troppo credito; che Alfred fosse un tipo strano, non era certo una novità.
Il giovane comandante era stato apprezzato davvero poco nella sua vita. I suoi successi, la sua intelligenza, la sua ingegnosità, erano tutte cose che certamente lo mettevano in secondo piano rispetto il genio dell’erede di Veronica; tuttavia lui rimaneva una personalità unica rispetto il resto dell’umanità! Egli era speciale, brillante, dotato in modo eccezionale!
Dunque era su di giri nel dimostrare per una volta la dovuta gloria che raramente gli era stata riconosciuta.
Non si trattava di auto-contemplazione: era un giovane che avrebbe desiderato essere stimolato e amato a suo tempo. Tale senso d’insoddisfazione aveva generato nell’uomo che adesso era diventato un turbine di complessi esistenziali che lo spingevano costantemente oltre i suoi limiti, tuttavia impedendogli di provare gioia o soddisfazione per i suoi meriti.
Per lui non era mai abbastanza. Doveva fare sempre di più per essere acclamato.
Eppure era a conoscenza del suo genio, ma era come se fosse destinato a vagare nel buio per sempre.
Talvolta dunque i suoi occhi brillavano e si lasciavano andare all’entusiasmo di ciò che lo aveva sempre reso internamente fiero. Per lui era, infatti, motivo d’orgoglio essere al comando di quel centro di ricerche dell’Umbrella, dunque poter mostrare alla sua occasionale “alleata” i suoi meriti lo avevano reso eccitato come un bambino.
Un bambino che desidera le lodi per un buon voto.
 
“Non credo di esserci venuto spesso. Anzi…penso che l’ultima volta risalga a ben cinque anni fa, quando mi occupai di effettuare qualche piccola modifica alla struttura.”
 
Egli sorrise velatamente, come se in quel momento stesse rielaborando quel che probabilmente aveva sviluppato in quel luogo angusto.
 
“E’ effettivamente abbastanza degradante come posto, ma reputo sia interessante, alla fine.”
 
La luce maligna che illuminava il suo sguardo non fece presagire nulla di buono a Claire, la quale non faceva che portare i suoi occhi su di lui, interrogandosi su quella mente perversa che sembrava spaventosamente attratta dal macabro e dalla disperazione.
Intanto lui continuò a parlare, completamente appagato. Per lui era come essere nel regno dei balocchi, il luogo nel quale poteva dare sfogo alla sua sete di crudeltà e distruzione, che lo soddisfaceva come nessun’altra cosa riusciva a fare. Era dilettato da quei luoghi angusti, ove l’agonia e la paura avevano animato le sue buie mura.
 
“Nonostante si tratti solo di un comunissimo sotterraneo, è il vero custode di tanti segreti e tante ricerche delicate. Tuttavia non augurerei a nessuno di dover scender quaggiù, a meno che non si tratti di semplice manutenzione, ovviamente. Non so bene cosa venga conservato qui sotto, o cosa ne sia fatto dei rifiuti intanto che qualcuno si ricordi di smaltirli….
Però non ci giurerei che tutti gli scarti che quotidianamente venivano gettati qui siano stati eseguiti prima di essere buttati via. ”
 
Confessò infine, divertendosi a far venire la pelle d’oca alla giovane donna di fianco a lui.
La ragazza si sforzò di non ascoltarlo troppo, ma di limitarsi a carpire le informazioni utili senza lasciarsi suggestionare dal suo vano tentativo di spaventarla.
Non potette tuttavia scappare dal senso d’inquietudine di essere comunque “nelle mani” di un personaggio tanto ambiguo.
Alfred possedeva quel tipico fascino del male, capace di sedurre e di agitare al tempo stesso.
Vedere quel giovane volto dai tratti somatici androgini e delicati, macchiati da quel perverso gusto verso il male, fu un’immagine che la impressionò a tal punto da mandarla in crisi.
Quell’uomo era…fisicamente bellissimo. Non lo pensava perché era attratta da lui, era oggettivamente così.
Egli era un Angelo Demoniaco: un diavolo dalle sembianze celestiali.
Era questo ciò che suscitava in lei ogni volta che si fermava a contemplarlo. Era impossibile per Claire non finire soggiogata dalla sua appariscenza e malignità.
Eppure sapeva che tutto ciò non era che una facciata.
Dietro quell’uomo avido si celava un ragazzino costretto a vivere fra le turbolenze di un mondo devastato; e questa era una parte di lui in realtà più viva di quanto lui stesso non avrebbe mai pensato.
Era questa consapevolezza che divideva in due la rossa Redfield, la quale non poteva fare a meno di ripensare alle confessioni racchiuse nel suo diario personale.
Che si trattasse di suggestione, ingenuità, pietismo, empatia…forse erano persino tutte queste cose assieme.
Fatto stava che ormai non riusciva più a giudicare Alfred solo come un pazzo.
Ne avrebbe pagato le conseguenze forse, eppure in quel momento era disposta a stargli accanto e sfruttare quell’occasione per capire alcune cose di lui.
Probabilmente era più folle lei a volerci tentare, che non lui e le sue paranoie sadiche!
Dopotutto però bisognava essere un po’ folli per riuscire in un’impresa simile.
Queste furono le ragioni per cui riuscì a collaborare con lui, nonostante le loro divergenze.
Claire aveva deciso che per entrare nel suo mondo…aveva bisogno anche lei di qualche pazzia.
 
Terminato quel breve momento introspettivo, tornò obiettiva e ripensò al fatto che Alfred le avesse finalmente rivolto la parola, interrompendo quel lungo e tedioso silenzio che fino a qualche minuto prima aveva regnato fra loro.
Egli, infatti, non aveva spiccicato neppure una parola da quando si erano introdotti in quel luogo.
Aveva dovuto chiedergli ‘dove fossero finiti’ un’infinità di volte prima che lui decidesse finalmente di risponderle!
 
“Scarti? Intendi…gli zombie?”
 
Chiese lei seguendo il discordo del biondo.
Alfred dal suo canto strizzò gli occhi, deluso dal fatto di non essere riuscito a inquietarla.
Una parte di sé provava un ineguagliabile piacere quando vedeva quella donna in preda alla paura e probabilmente anche per questo aveva deciso di rispondere alle sue domande. Fu dunque insoddisfacente non leggere un minimo di sgomento in lei.
Tuttavia non volle dare adito di tutto ciò. Si limitò solo a correggere le parole della Redfield, con uno strano broncio dipinto sul volto.
 
“Bio Organic Weapon sarebbe la definizione corretta, tuttavia chiamali pure come vuoi, è lo stesso.”
 
Claire rimase scombussolata da quell’affermazione.
 
“Sembri piuttosto sprezzante. Non…ti occupi anche tu di queste ricerche?”
 
Affermò dopo un po’.
Lui era a capo del centro d’addestramento dell’Umbrella a Rockfort, allora perché dimostrava tanto disinteresse? Quel mondo non doveva rappresentare qualcosa di molto più profondo per lui?
Il ragazzo dai capelli platinati scostò una ciocca appena caduta sul suo viso, dopodiché si rivolse alla giovane con aria superba.
 
“Certo, ma questo non implica che mi interessi.”
 
Quella risposta per un attimo confuse Claire, tuttavia decise di non badarci. Egli sembrava già abbastanza seccato e non era il caso urtare la sua “sensibilità”. Prevedeva ancora un lungo tragitto da passare assieme e voleva farlo nel modo più tranquillo possibile.
D’altra parte invece, vigeva il punto di vista del biondo e tenebroso signore di quel mondo, il quale in realtà fu alquanto infastidito dalla domanda della Redfield.
Alfred Ashford era un uomo profondamente annoiato.
La sua costante insoddisfazione era scaturita da un vecchio calvario che molto spesso lo aveva contrapposto fra due estremi; si trattava della sua genialità.
Egli era un uomo fuori dalla media, molto elevato socialmente e culturalmente. Questo lo rendeva diverso e profondamente macchinoso. Non era difficile per lui raggiungere ambiti scopi o sviluppare controverse ricerche. Era nella sua natura. Il suo cervello era una macchina perfetta, ma non solo.
Egli possedeva i geni di Veronica, il che lo rendeva unico.
Era sempre stato così, fin dall’infanzia.
Ogni tipo di studio gli riusciva in modo semplice, elevandolo a livello sociale e facendo di lui un eccentrico demonio dalle incredibili capacità.
Nonostante i suoi successi però, pesava su di lui la tremenda maledizione di chi può ottenere tutto con facilità.
Sebbene i suoi eccelsi studi e le sue gloriose affermazioni in campo professionale, ben presto tutto ciò non gli diede più alcun compiacimento.
La genialità che aveva contraddistinto la sua esistenza rispetto ai comuni esseri mortali, era al tempo stesso sia una grazia che una dannazione.
Tutto ad un certo punto lo stufava. Ogni cosa aveva il comune destino di annoiarlo.
Non era capace di godere dei frutti della sua intelligenza.
Neppure lo studio delle B.O.W., che continuò in vece di sua sorella, non gli destava alcun interesse…così finiva per usare le sue ricerche per suo diletto personale, piuttosto. Questo tramite orribili e disumani giochi esangui e di distruzione. Gli zombie e le altre cavie diventarono i suoi giocattoli, coi quali sollazzarsi e basta.
 
Alfred era un uomo dannato.
 
Dannato da ciò che era in suo potere e poteva renderlo grande……
……..che contrastava però con ciò che invece non poteva ottenere.
 
 
 
 
Nulla bastava a colmare l’enorme vuoto che Alexia aveva ormai generato in lui.
 
 
 
 
“Si può risalire, o comunque sbucare da qualche parte da qui?”
 
Chiese all’improvviso Claire, interrompendo i suoi pensieri.
Alfred si morse il labbro, disturbato da una domanda tanto sciocca.
 
“Ovvio, Redfield. Non saremmo qui, altrimenti.”
 
Rispose con aria di sufficienza, sforzandosi di non fare discussione.
Gli serviva la sua collaborazione.
Non aveva alcuna intenzione di stare ancora molto con lei, eppure sembrava non avere altra scelta.
Il vero motivo dietro quella cooperazione da parte sua verteva sul fatto che non esistevano altrimenti, in realtà….e lui lo sapeva bene.
Egli era consapevole delle insidie che si celavano lì sotto e necessitava del suo supporto, sebbene detestasse ammetterlo. Quei sotterranei erano colmi di ostacoli e da solo non era in grado di proseguire se non fino a un certo punto.
Per questo, e solo per questo, aveva deciso di fare buon viso a quel gioco e lasciare credere alla dolce Claire che avrebbe stabilito una tregua con lei.
Solo cooperando avrebbero avuto la possibilità di sopravvivere, e non era certo venuta la sua ora per morire. Alfred aveva una missione, non poteva permettersi di finire i suoi giorni proprio adesso, dunque poco importava se doveva mettere da parte i suoi principi al momento.
Egli doveva risalire nei laboratori quanto prima, la sua Alexia poteva essere in pericolo a quanto detto da quel verme di Albert Wesker.
Quell’uomo viscido e meschino aveva osato penetrare nella sua proprietà e comportarsi da padrone di casa.
Non avrebbe mai tollerato ciò, egli doveva morire!
Prima del suo onore, però, era di sua sorella che doveva occuparsi.
Lei era al sicuro, Wesker non l’avrebbe mai trovata con facilità. Tuttavia dovette ammettere a se stesso di essere notevolmente turbato e di desiderare di uscire al più presto da quel posto, prima che la situazione degenerasse.
Alfred cercò di non darlo troppo a vedere, ma era in uno stato di ansia, assillato dal pensiero che sua regina fosse in pericolo. Doveva proteggerla…proteggerla ad ogni costo.
Se le fosse successo qualcosa, non se lo sarebbe mai perdonato.
Preso da quei pensieri, i suoi occhi si posarono lentamente su Claire, la sola persona che aveva al suo fianco in quel momento. Corrucciò la fronte e la sua espressione si fece impercettibilmente inquieta.
Lei non poteva ancora saperlo, ma il solo modo per uscire vivi da quel posto era ‘essere in due’.
 
I tunnel umidi e bui di quei sotterranei confluirono tutti in un androne circolare decisamente ampio.
Arrivarono, infatti, in un enorme spiazzale il quale verteva in condizioni abbastanza pietose.
Madido e tetro, il luccichio della roccia bagnata che li circondava era l’unico vero elemento distinguibile in quel posto angusto. Dal soffitto pendevano strani residui muschiosi di cui Claire evitò di chiedersi l’origine.
Era disgustoso cercare di scansare le gocce d’acqua stagnante che scivolavano da esse verso il basso, picchiando terra; tuttavia, suo malgrado, l’intero posto era fradicio e gocciolante, per cui dovette forzarsi di ignorarle del tutto non potendo permettersi di essere schizzinosa.
Il suo momentaneo compagno di viaggio si avvicinò verso un portone alto quasi tre o quattro metri. Claire si limitò a seguirlo, lasciando a lui il compito di leader. Era lui che conosceva il posto, in fondo, e al momento aveva deciso di dargli adito.
Alfred esaminò il possente ingresso, realizzato con un metallo pesante e decorato con dei bassorilievi che rimandavano a delle scene di guerra.
Fu inquietante vedere quelle raffigurazioni di morte, decisamente angustianti nelle circostanze precarie in cui lei stessa verteva. Osservò la figura di un teschio ivi impressa, così angosciante da sembrare volerla trafiggere con i suoi bulbi cavati.
Tutto ad un tratto, l’uomo dai capelli biondi attirò la sua attenzione picchiettando con le nocche delle dita sul ferro, accortasi che la ragazza fosse assorta nella contemplazione di quel monumento.
 
“Redfield, c’è una cosa che devi sapere. Queste trappole sono state tutte escogitate da me, dunque so bene cosa dobbiamo fare per oltrepassare questa porta. Ci siamo capiti?”
 
“Intendi che devo seguire le tue direttive, giusto?”
 
“Giusto.”
 
Affermò lui, trafiggendola con i suoi occhi azzurri, chiari come il ghiaccio. Claire deglutì impercettibilmente e stette in silenzio per qualche istante. Elaborò quanto appena affermato dal ragazzo, pronta ad entrare nel vivo di quella bizzarra cooperazione fra i due.
 
“Ebbene…lo farò. Ma bada, Ashford, se mi accorgo che mi freghi, l’accordo non sarà più valido.”
 
Precisò ferma, non essendo minimamente intenzionata a essere il suo cagnolino. Aveva familiarizzato con l’attitudine al comando del biondo e la sua eccentricità l’aveva portato più volte ad atteggiamenti ambigui e insensati. Ragion per cui volle mettere le carte in tavola e rendere chiara la situazione ad Alfred: che collaborassero non significava che lui comandava.
La grinta che c’era nei suoi occhi fu tale da raggiungere il ragazzo, che a sua volta la guardò serio.
Tuttavia, mentre sembrava ascoltarla seriamente, improvvisamente la sua bocca si deformò in un ghigno, che presto si lasciò andare all’ilarità di una risata sfacciata e inopportuna.
Claire sgranò gli occhi, sentendosi presa in giro. Prima però che potesse farlo smettere, fu Alfred a interrompere da solo quel suo momento di sollazzo.
 
“Ahahah….carissima Redfield.” fece una pausa. “Non ti avevo ancora detto la parte più bella. Preparati, perché solo collaborando usciremo da questo posto. Intendo letteralmente.”
 
Sottolineò.
La rossa sbandò, non comprendendo. In verità soltanto dopo avrebbe inteso la profonda veridicità di quelle parole, che fra qualche tempo l’avrebbero spiazzata mostrandole ancora una volta la follia di quell’uomo.
Al momento però poteva soltanto prendere atto della sua affermazione e stare in guardia, pronta ad agire in qualsiasi momento.
Il biondo intanto le diede le spalle e fece scorrere il dito indice sul ferro battuto del magistrale portone che caratterizzava quell’androne.
Seguì con le dita un’incisione piuttosto lunga ivi impressa, che lesse recitando in modo teatrale e disinvolto.
La sua voce fuoriuscì altisonante ed espressiva, come un attore completamente assorto nella sua parte, pronto ad animare la scena e dare vita alla rappresentazione emozionando il suo pubblico.
 
“ Morire, dormire. Dormire, forse sognare.
Perché chi sopporterebbe le frustate e gli scherni del tempo,
il torto dell’oppressore, la contumelia dell’uomo superbo,
gli spasimi dell’amore disprezzato, il ritardo della legge,
l’insolenza delle cariche ufficiali, e il disprezzo
che il merito paziente riceve dagli indegni,
quando egli stesso potrebbe darsi quietanza
con un semplice stiletto? Chi porterebbe fardelli,
grugnendo e sudando sotto il peso di una vita faticosa,
se non fosse che il terrore di qualcosa dopo la morte,
il paese inesplorato dalla cui frontiera
nessun viaggiatore fa ritorno, sconcerta la volontà
e ci fa sopportare i mali che abbiamo
piuttosto che accorrere verso altri che ci sono ignoti?”


Claire abbracciò i gomiti, portando in seguito una mano sotto il mento, questo mentre osservava Alfred recitare quell’incisione.
 
“E’ un indizio questo?”
 
Oh, Redfield, come puoi non commuoverti di fronte l’unicità e la complessità di Shakespeare? Genio inestimabile della letteratura inglese e artista tra i sommi di ogni tempo e paese. Essenzialmente un uomo di teatro, tuttavia qualunque definizione gli si attribuisca, risulta inevitabilmente riduttiva. Shakespeare esplorò, in una serie di intuizioni grandiose, tutto l'aggrovigliato mondo delle passioni e delle emozioni dell'uomo nei suoi rapporti con la società, la natura e il suo destino. Suscettibile a ogni sollecitazione del suo tempo fino a trascendere nell'immortalità dell'arte, egli seppe conferire alla sua opera ineguagliabile il crisma supremo dell'universalità.”  
 
Rispose l’Ashford estasiato da quella sua opportunità di esporre ciò che da sempre aveva animato il suo spirito interiore, amante di ciò che rendeva particolare il genere umano.
Egli era un uomo estremamente colto e laborioso, che in quel momento sentiva vibrare quelle parole nel suo corpo e avrebbe fatto di tutto per farle entrare anche dentro la giovane al suo fianco, la quale ai suoi occhi non era che l’ombra riflessa di un mondo passivo che non si lasciava incantare da suddette sfumature che erano invece gli ingranaggi dell’esistenza umana.
Claire dal suo cantò corrucciò il viso e pensò bene di riportare alla realtà quel ragazzo, probabilmente rimasto da solo troppo a lungo da non rendersi conto quando strafaceva.
 
“Interessante, certo. Ma questo come si traduce in termini più…fattivi?”
 
Offeso, il biondo strinse gli occhi, tuttavia non disse nulla. Si limitò a proseguire verso una direzione, ignorandola del tutto. Solo dopo qualche istante si voltò indietro, rivolgendole a stento uno sguardo.
 
“Molto bene, Redfield. Visto che preferisci la mera materialità rispetto la comprensione della spiritualità di quest’incisione, proseguiamo.”
 
“A…aspetta!” lo interruppe lei vedendolo andar via. “Spiegami cosa dobbiamo fare!”
 
Non voleva essere uno spettatore e basta nella risoluzione di quell’enigma. Voleva partecipare e dare il suo contributo. Perché Alfred si comportava così?!
 
“E’ tutto scritto lì.”
 
Rispose lui, dopodiché continuò a ignorarla, costringendo Claire a seguirlo.
Il biondo prese fra le mani il suo fucile da caccia e con questo diede qualche colpo a una porzione della parete che li circondava. Questa era diversa dalle altre, vi erano una serie di mattoni poggiati l’uno sull’altro, il cui colore era in netto contrasto con le pietre che rivestivano quei cunicoli ferrosi e muschiosi. Questi crollarono uno dopo l’altro in seguito ai colpi ricevuti e, dalla facilità con la quale cedettero, Claire intuì che erano stati solo appoggiati in quel punto, con lo scopo di nascondere il passaggio.
Si ritrovarono così di fronte un lungo corridoio, completamente diverso da quello precedente.
Era una stanza costruita in pietra, che rimandava a uno stile medievale.
Quattro piccoli gradini corrosi dal tempo conducevano al suo interno, ove risaltavano fin dal primo sguardo le pesanti colonne che costeggiavano la passerella centrale.
Era un antro lugubre, vuoto, a parte il colonnato. L’unico elemento su cui soffermarsi era rappresentato dalla colorata pavimentazione, composta di piastrelle bicromate rosse e color pietra, le quali si alternavano fra loro come in una scacchiera.
Al di là del lungo corridoio, s’intravedeva un’armatura di ferro dall’aria antica che sorreggeva fra le sue braccia una balestra. Di fianco, era ben distinguibile una porta.*  Non vi erano altre strade dove proseguire.
Claire fece per superare il corridoio e raggiungere la porta, ovviamente, ma ritrovò prontamente il braccio del biondo davanti a sé che la bloccò. Egli la guardò imperioso.
 
“Cosa ti ho detto, Redfield? Devi fare esattamente ciò che ti dico.”
 
Senza darle tempo di replicare, egli avanzò prudentemente lungo la corsia, con uno sguardo molto più severo del solito. La Redfield corrucciò la fronte, interrogandosi sul perché di quell’atteggiamento.
Intanto il ragazzo altolocato procedette muovendosi molto lentamente, non scostando mai gli occhi dalla pavimentazione, come se stesse ben attento a dove mettesse i piedi.
Ad un certo punto, si girò indietro verso di lei, finalmente.
 
“Madame, cortesemente si muova tenendosi strettamente a sinistra, stando attenta a non superare la terza piastrella.”
 
Claire notò i toni ironici del biondo, tuttavia non obbiettò e fece quanto le fu detto, intuendo facilmente che quel corridoio era una trappola e che lui sapeva come evitare di attivarla.
Era in momenti come quelli che rifletteva sull’enorme vantaggio di viaggiare assieme ad Alfred, architetto e giostraio di quell’inferno.
 
“Solo per curiosità, che tipo di trappola si attiverebbe se non avanzassimo nel modo giusto?”
 
A quella lecita domanda, Alfred rispose in un modo non del tutto convenzionale.
 
“Abbassati.”
 
“Cos…?”
 
In quello stesso istante, egli spostò un piede e lo premette su una mattonella rossa poco più avanti. Quell’azione fece prontamente scattare qualcosa di fulmineo, che si scagliò contro di loro senza dare il tempo alla ragazza di focalizzare di cosa si trattasse.
Raccolse il capo fra le mani e si curvò tempestivamente, così da schivare quel qualcosa preannunciato dal biondo.
Sentì lo scoccare impetuoso di un oggetto contundente, che sembrava essere stato appositamente predisposto a colpirla. Solo dopo essersi voltata distinse, conficcata in una delle colonne, una freccia.
Sgranò gli occhi, dopodiché portò il suo sguardo verso l’armatura esposta in fondo alla stanza che sorreggeva la balestra. Adesso le sue braccia erano tese e la sua arma era puntata verso di lei.
 
“Era…era davvero necessario farlo?!”
 
Tuonò verso Alfred, il quale sogghignò divertito.
 
“Ritengo che un piccolo incentivo ti ci voglia per fare esattamente ciò che ti dico. E’ stato sufficiente?”
 
Claire lo guardò interdetta, col cuore ancora in gola.
 
“Tu sei pazzo…” sospirò rimettendosi in piedi. “Elaborare una macchina mortale simile…per quale motivo poi?”
 
“Per Alexia, ovviamente. Ma anche per diletto personale. Ho elaborato da solo tutte le trappole di questo luogo. Ho impiegato la mia intera esistenza a renderle quanto più tortuose e invalicabili possibile. Resta immobile.
 
Parlò avanzando intanto verso il centro della pista, mantenendo un’andatura rilassata, esaltato al tempo stesso di glorificare il suo operato, sviluppato nella solitudine di quel castello e mai contemplato da alcuno.
La Redfield stava per avere l’onore di conoscere il suo genio ed essere testimone delle opere del Re.
Era qualcosa che lo elettrizzava, che lo rendeva pazzo di felicità. Avrebbe voluto mostrarle ogni cosa, ogni marchingegno, ogni particolarità……..questo pur di ricevere per la prima volta da anni, un segno di approvazione, negatogli da sempre nella sua vita, sparita nell’ombra di sua sorella Alexia.
 
“E’ geniale non trovi? Una comunissima armatura d’esposizione, che ho collegato a un meccanismo capace di localizzare colui che non conosce la strada giusta. Scocca le sue frecce secondo un codice casuale, capace di colpire te oppure me a suo piacimento, per così dire. Fai un passo alla tua destra, atterra sulla mattonella rossa, mi raccomando.”
 
“Mi stai dicendo che neppure tu sai in che direzione vengono scoccate le frecce? Allora perché mi hai detto di abbassarmi?”
 
Chiese stupita, seguendo bene le sue istruzioni.
 
“Oh, no. La prima freccia scoccata la conosco bene. E’ sempre la stessa e colpisce sempre chi comincia per secondo il cammino. E’ stata programmata in questo modo. Sono le altre che sono casuali e molto più veloci. Se sbagliamo non potremo evitarle, quindi fai attenzione. Non voglio rimetterci per colpa tua.”
 
“Aspetta un attimo!”
 
Lo interruppe Claire.
 
“Hai bruciato la tua unica possibilità di errare solo per mostrarmi in cosa consiste la trappola?! Ti rendi conto di cosa hai fatto?!”
 
Alfred sembrò pensarci su, come se non avesse fatto caso a quel fondamentale particolare.
Il suo volto si fece perso, eppure nei suoi occhi brillava una scintilla diabolica ed eccitata, che sconvolse la giovane in balia invece dell’incertezza.
Egli schiuse la sua pallida bocca più volte, come gustando quel tormentato sgomento che aveva inevitabilmente intaccato anche lui, il Re di quel regno. Era stranamente entusiasmato da quella sensazione di terrore.
Umano, deviato terrore.
Meraviglioso…suadente…eccitante.
 
“Osservazione giusta, Redfield.” disse infine. “Tuttavia, in fin dei conti, se sapessimo persino prevedere dove colpirà la balestra, questa morte non sarebbe così… entusiasmante, non credi?
La paura di morire, come questo accadrà. La frenesia di giungere alla fine e il terrore di sbagliare. E’ qui che tutto entra in gioco. Qui l’uomo si misura con il suo attaccamento alla vita.”
 
Pronunciò con voce roca, profonda, trasmettendo in Claire la sua partecipazione e lo spirito ribollente che lo animava in quel momento e che dava profondo valore alle sue parole.
Agli occhi della rossa, invece, quel corridoio di circa quattordici metri non sembrò mai così lungo. Il tragitto che la separava dalla porta d’uscita sembrava infinito e irraggiungibile.
Un primordiale istinto si rifiutava di tenere i piedi immobili sulle piastrelle indicate da Alfred e le suggeriva invece di correre a perdifiato verso la libertà. Tuttavia la razionalità e la ragione prevaricavano l’istinto. Per cui tenne le sue gambe ferme, pregando in cuor suo che quell’incubo finisse presto. 
I suoi pensieri andarono inevitabilmente alle parole proferite da Alfred, al suo perverso e insensato piacere verso quelle torture.
Egli sembrava realmente entusiasta da quel macabro gioco elaborato da lui stesso. Era una mente complessa e indecifrabile per lei e quell’ardore che illuminava il suo sguardo le faceva paura.
 
“Cammina in diagonale, devi raggiungere il punto che adesso sto per lasciare, capito? Dobbiamo iniziare insieme, quindi: un, due, tre…ora.”
 
In quel preciso istante, Claire si mosse con passo lento verso di lui, mettendo un piede avanti all’altro.
Non seppe per quale illogica ragione, ma avvicinarsi a un altro essere umano, anche se Alfred, in quelle circostanze mortali la rassicurò per un istante.
Istintivamente, quando lo vide vicino a sé, allungò una mano sulla sua giacca rosso cremisi, afferrandola per un lembo. A quel gesto, il biondo si voltò verso di lei, ma non fece nulla. Si limitò a controllare che posizionasse i piedi esattamente sulle stesse piastrelle sulle quali poggiava lui in quell’istante, dopodiché fece per abbandonare la sua posizione.
Claire lo lasciò andare, accorgendosi solo in quel momento di aver poggiato la sua mano a lui. Si sentì in soggezione nell’aver fatto una cosa simile, che nella sua piccolezza aveva simboleggiato un sentimento di vicinanza, cosa per la quale provava sentimenti contrastanti.
Seguì i suoi movimenti mentre il ragazzo avanzava sempre di più verso la fine di quel corridoio, chiedendosi ininterrottamente mille domande circa quell’uomo.
 
“Alfred…”
 
L’Ashford si voltò, in verità sorpreso dal fatto che lei l’avesse chiamato per nome, tuttavia non dibatté.
 
“Questa trappola è stata elaborata in modo che solo due persone possano avanzare lungo il corridoio, hai detto. E se io, o te, fossimo stati da soli?”
 
“Non esiste questa possibilità.”
 
Pronunciò lui in modo secco, gelando il corpo di Claire.
Vedendola irrigidirsi di colpo, scioccata da quella rivelazione, Alfred le concesse ulteriori spiegazioni. Fece dunque una pausa e le si rivolse paziente, tuttavia del tutto inconsapevole delle sue stesse parole, fulcro di una pazzia di cui non si sarebbe mai reso conto.
La Redfield intanto rimase pietrificata da quella risposta.
Il biondo Ashford invece sorrise, dilettato dallo sguardo smarrito della giovane alle sue spalle.
Roteò il busto verso di lei e le rivolse il suo sguardo canzonatorio, eccitato da quella circostanza in cui le redini erano completamente nelle sue mani.
Era ammaliato dal suo sgomento, dalla frustrazione e dalla confusione che animava gli occhi blu di quella meravigliosa e curiosa donna, che tuttavia l’aveva stregato fino alla pazzia.
Dunque sul suo viso marmoreo non era dipinto solo il suo sollazzo, ma anche la curiosità verso un sipario a lui sconosciuto e che stava coinvolgendo ogni centimetro del suo corpo.
 
“Bisogna essere necessariamente in due per proseguire, questo per quel che riguarda questa trappola e non solo. E’ così che ho strutturato questa intera zona.
Lo scopo non è percorrere in due un tragitto, ma essere complementari. Quando io avanzo, infatti, muovo degli ingranaggi che fanno sì che l’arciere non scocchi la sua freccia; ad un certo punto però serve anche la tua collaborazione, altrimenti nessuno dei due sarebbe in grado di arrivare vivo dall’altra parte.
Solo insieme giungeremo sull’altra sponda, dunque non deconcentrarmi, così che io rimembri correttamente tutti i passaggi, Redfield.”
 
Claire si sentì smarrita.
Fu in quell’istante in cui la sua esistenza era appesa a un filo che si rese conto di essersi immischiata in una spaventosa ed enorme trappola.
Si accorse di non essere che un burattino nelle sue mani. Lei era sua… dipendeva esclusivamente da lui…
Per sopravvivere avrebbe dovuto fare ogni cosa Alfred avrebbe voluto. Leggeva nei suoi occhi la consapevolezza di questo.
Egli fremeva di gioia per via di quella circostanza.
A sua volta, anche il biondo leggeva la paura di Claire nel riporre la sua vita nelle sue mani.
Lo sguardo della giovane non smentiva infatti quelle emozioni, il che lo rendeva esaltato enormemente. L’essere padrone della sua vita e del suo destino gli aveva montato la testa, facendolo innalzare al rango di Re Assoluto, il ruolo che lui più amava recitare.
Era eccitante per lui vedere quella dolce e tenace creatura, impaurita e costretta a seguirlo ciecamente, in balia della paura della morte.
La ragazza si sentì venir meno e il terrore quasi immobilizzò del tutto il suo corpo, mentre si capacitava di quanto ci fosse in gioco in quel momento.
Lui aveva davvero elaborato una trappola simile perché fossero pragmaticamente due persone a compierla? A quale scopo? Di che diavolo di pazzia si trattava?
 
“Mi…mi hai fatto iniziare questo percorso senza avvertirmi minimamente di quel che stavo per fare.”
 
Disse titubante, stringendo i pugni.
 
“Non hai mai pensato di poterti trovare…in pericolo anche tu? E se io avessi deciso di non collaborare? Come avresti fatto?”
 
I suoi toni provocatori indussero il biondo a stringere gli occhi a fessura, essendo irritato notevolmente.
Sapeva tuttavia che la sua era solo una recita. La giovanissima Claire non si sarebbe lasciata morire in un modo tanto sciocco.
Tuttavia a suo tempo avrebbe trovato il modo per farla rigare dritto e cancellare quella spavalderia dalla sua bocca. Al momento però, quella situazione non richiedeva solo la sua prudenza, ma anche quella di Claire. Dunque represse i suoi sentimenti e si limitò a quella tenue occhiataccia.
 
“Suppongo che tu già sappia la risposta.”
 
Disse in un sussurro, rispondendo alla sua domanda. In seguito socchiuse gli occhi, dirigendoli di nuovo di fronte a sé.
Alzò il viso e decise di lasciarsi trasportare, spiegando alla giovane i reali sentimenti che muovevano la sua mente e il perché dietro di quei atroci e inspiegabili inghippi. Motivazioni che lei non avrebbe mai potuto comprendere, ma di cui volle farla partecipe; questo più per il gusto di confonderla che per essere compreso.
Non ricercava da anni, oramai, la comprensione di nessuno.
 
“Sai perché è così? Perché bisogna essere necessariamente in due per completare i vari percorsi che presto affronteremo?
Semplice, Redfield. Estremamente semplice.
Non si tratta soltanto di un ostacolo mortale. Non si tratta solo di ingannare i miei nemici. Era mia intenzione invece dare una simbolicità a queste insidie, metafora dell’unione e della complicità. Allegoria dell’amore di una coppia.”
 
Alfred si voltò di nuovo verso di lei, al che la rossa sbandò.
 
“L’amore di una coppia..?”
 
Per questo si poteva proseguire soltanto se si era in due…?
Era profondamente romantico…oppure spaventosamente folle?
 
Se non fossero stati in due, sarebbero morti…
Era questo che Alfred voleva parafrasare.
 
Lui ed Alexia…
O il suo bisogno di avere qualcuno a fianco?
 
Claire sentì il suo cuore palpitare ancora una volta, consapevole di star apprendendo le nozioni di un mondo che non le apparteneva, ma di cui possedeva una profonda chiave di lettura che stava inevitabilmente condizionando i suoi pensieri.
Il biondo ereditiere del casato Ashford si stava repentinamente trasformando in qualcosa di follemente umano, inducendola a lottare contro i principi fondamentali della sua mente che la stavano condizionando.
Soltanto la paura riusciva a tenerla ferma sulla sua posizione. Quell’inevitabile paura verso quell’universo che internamente sapeva di non poter controllare.
Eppure la sua arroganza di ragazza di diciannove anni, che sente dentro di sé il potere di cambiare il mondo, le comandava di continuare per quella strada; di cercare un canale di connessione con lui, inducendola a credere di poter toccare il suo mondo e aiutarlo…
 
Aiutarlo a guarire…
A scappare via…
…con lei.
 
Intanto il biondo si fermò a sua volta a contemplarla, facendo caso che avesse preso forse troppo in considerazione la sua risposta. Vederla così assorta lo fece sussultare, facendolo sentire inquieto.
Egli era rimasto profondamente turbato dal fatto che lei avesse acceduto ai suoi intimi pensieri riguardanti non solo la sua vita o Alexia…ma anche lei: la sua difficile e incomprensibile Altra Donna.
Si agitò dunque nel momento nel quale si accorse che lei poteva aver profondamente compreso il senso di quella trappola e del suo discorso.
Stranamente, la sensazione della comprensione da parte di un altro essere umano lo mise a disagio.
Eppure con Alexia questo non era mai accaduto.
Era sempre stato lieto di capirsi con lei con un solo sguardo, anche tramite una sola e piccola occhiata…
Con Claire era diverso; lei gettava nel caos il suo spirito.
Lei lo agitava, lo rendeva nervoso. Sentiva il suo cuore pulsare all’impazzata, disturbato dall’idea di essere capito.
Eppure…una parte di sé non desiderava che questo.
Era confuso, spaventato
Spaventato dall’idea di trovare un’altra anima capace di comprenderlo.
 
Infine Alfred e Claire completarono il percorso, coordinando i loro movimenti e giungendo, uno alla volta, dall’altro lato del corridoio finalmente.
Claire stese le braccia, rilassando i muscoli e tirando un sospiro di sollievo. Intanto il biondo si posizionò alle spalle dell’arciere e premette una leva.
 
“Questo disattiva la trappola, così al ritorno potremo passare. Proseguiamo.”
 
Senza dare ulteriori spiegazioni, oltrepassò l’uscio della porta di legno posta su quel versante del corridoio.
Mentre era dietro di lui, Claire si chiese cosa avrebbero trovato più avanti e quali altre trappole avrebbero dovuto affrontare prima di riuscire ad aprire il magistrale portone posto nell’atrio circolare.
Ad ogni modo rinvigorì il suo spirito, tenendosi pronta a tutto. Appoggiò le sue dita affusolate sul legno della porta e stette dietro al biondo, inoltrandosi dopo di lui.
Si soprese quando si accorse che dentro vi era un vicolo cieco. Si trovavano, infatti, in un deposito d’arte o qualcosa del genere.
Il caos regnava sovrano. Vi erano diversi cavalletti per dipingere, molti dei quali rotti e abbandonati negli angoli assieme a tele su tele, cornici di ogni grandezza e diverse tavolozze da disegno. Il pavimento di cotto era macchiato e polveroso, se ne distingueva a stento il colore.
Claire osservò le tende ingrigite dalla polvere che ricoprivano alcune opere d’arte sparse un po’ ovunque. Sebbene la stanza fosse abbastanza grande, risultava terribilmente ingombra. Vi erano un paio di grossi tavoli posti a ridosso del muro, su cui poggiavano pergamene, statuine, lampade antiche, quadri, forzieri, candelabri…di tutto.
La ragazza infine si lasciò affascinare da un vecchio quadro di famiglia appeso fra una serie di scartoffie lasciate a impolverare sulle mensole. Per via dei tratti somatici delicati e i capelli biondi, dedusse dovesse trattarsi di un antico parente di Alfred. Era un’opera davvero ben eseguita, sapeva trasmettere tutta l’eleganza e la raffinatezza che gli Ashford emanavano, i quali erano accomunati da quell’aura di mistero che lei stessa aveva sperimentato sulla sua pelle. Era un peccato che la polvere e il cattivissimo stato di conservazione l’avessero reso così sbiadito da non permettere di ammirarne la bellezza.
Non stette comunque ad analizzare troppo il vecchio quadro, questo poiché un gran baccano distolse le sue attenzioni.
Si voltò e cercò Alfred, che intanto si era arrampicato su una sedia per rovistare dentro una scatola posta sopra un armadio. Egli setacciava non preoccupandosi dello stato decadente dei mobili, cosa che indusse Claire ad approssimarsi a lui, preoccupata dall’idea che potesse cadere.
 
“Cosa cerchiamo..?”
 
Gli domandò volendo dargli una mano, tuttavia non ricevette risposta. L’unica cosa che il biondo fece, fu sprofondare il suo braccio nella scatola e fare per tirare qualcosa. Estrasse un oggetto dal colore biancastro, leggermente ingiallito, che egli lanciò prontamente a Claire, la quale non subito comprese di cosa si trattasse.
Solo quando lo afferrò fra le sue mani, quasi lo lasciò cadere a terra quando si accorse che era…un teschio!
Un teschio vero…o uno finto?! Oh mio Dio!
Alfred rise sonoramente vedendola inorridire, dopodiché saltò dalla sedia e prese l’oggetto dalle mani paralizzate della giovane. A differenza della rossa, egli aveva un’aria spensierata e burlesca.
Prese infatti a far roteare il teschio sul suo indice, facendolo piroettare in un’esibizione che aveva dell’inquietante.
 
Essere, o non essere, questo è il dilemma: se sia più nobile nella mente soffrire i colpi di fionda e i dardi dell’oltraggiosa fortuna o prendere le armi contro un mare di affanni e, contrastandoli, porre loro fine? Morire, dormire…nient’altro, e con un sonno dire che poniamo fine al dolore del cuore e ai mille tumulti naturali di cui è erede la carne: è una conclusione da desiderarsi devotamente. Morire, dormire. Dormire, forse sognare. Sì, qui è l’ostacolo, perché in quel sonno di morte quali sogni possano venire dopo che ci siamo cavati di dosso questo groviglio mortale deve farci esitare. È questo lo scrupolo che dà alla sventura una vita così lunga.”
 
Alfred aveva appositamente interpretato un inquietante Amleto nella scena in cui recita il famoso soliloquio conosciuto in tutto il mondo.
Vederlo con i suoi occhi, con tanto di teschio in mano, fece il suo effetto, ipnotizzando Claire e portando tutte le sue attenzioni su di lui: il fascinoso e delirante burattinaio di quel castello di fantasmi. 
Il biondo intanto serrò nuovamente il cimelio fra le sue mani, fermando la sua roteazione, dopodiché finalmente si rivolse alla giovane, continuando tuttavia a tenere lo sguardo fisso sul teschio.
 
“L’incisione che prima abbiamo letto, faceva ovviamente riferimento all’Amleto di Shakespeare, come mi auguro tu abbia inteso. Era l’opera che tanto piaceva alla mia amata sorellina. Alexia ha letto più e più volte le sue pagine, le sapeva alla perfezione. Dunque perché non fare di quell’opera qualcosa di ancor più grandioso? Una trappola mortale capace di proteggerla e condannare colui che vuole farle del male. Oh, sì, esattamente questo.
Quale altro poteva essere, dunque, l’emblema di una tragedia così tanto acclamata se non il simbolo che la rappresenta?
Il cranio umano, metafora sull’uomo, il quale forse non è null’altro che uno scheletro nella sua più cruda materialità. In verità, non tutti sanno che Amleto non ha mai avuto nemmeno un teschio in mano in questo famosissimo soliloquio, eppure…tutti non fanno che attribuire quest’immagine alla sua scena. Davvero strano, il mondo. Spesso adora qualcosa che nemmeno esiste…curioso.”
 
Enunciate quelle parole quasi fra sé, Alfred rimase assorto per un po’ di tempo; in seguito diede le spalle alla Redfield. La ragazza stette ad osservarlo dal basso, ancora concentrata sulle sue parole e da come il biondo avesse finemente curato ogni singolo particolare di quel luogo adibito a proteggere la sua preziosa sorella gemella, la fantomatica donna del suo destino.
Quei crudeli giochi mortali, elaborati al solo scopo di infliggere dolore, visti tuttavia dagli occhi di quella mente altro non erano che la glorificazione di un immenso amore. In essi Alfred aveva riposto tutta la sua vita, i suoi ricordi, le sue speranze. Dietro ogni tassello si celava un segreto che coinvolgeva lui e la sua amata.
Cos’era tutto questo, dunque? Simbolo di uno sconfinato amore? Oppure era sintomo di una inumana follia…?
Poteva la celebrazione del male essere al tempo stesso contemplazione di un sentimento così dolce ed autentico come l’amore?
La ragazza era confusa. Il divario apertosi nel suo cuore si faceva sempre più ampio.
Osservando il giovane Ashford, vedeva il volto di un amante ferito e perseverante, che viveva per la sua causa e sarebbe morto per essa; eppure allo stesso tempo stava cadendo nell’oblio di una sofferenza che già aveva dilaniato il suo spirito.
Egli era forte………eppure era stanco. Lo sentiva.
Lo vedeva………
Quello scheletro morto fra le sue mani, agli occhi di entrambi non era che la trasposizione materiale di qualcosa che non era tangibilmente fra loro. Qualcosa di adorato e contemplato, ma che nei fatti era evanescente e lontano, cosa di cui Alfred era consapevole, tuttavia restio ad ammetterlo.
Per questo gli occhi del biondo si abbuiarono; per questo la sua boriosità fu sostituita velocemente da un fastidioso senso di frustrazione.
Egli aveva fra le mani il simbolo del suo disastro mentale, di quella vita fra “l’essere e il non-essere” che egli stesso si era imposto.
L’altolocato comandante si voltò indietro, in balia di quella confusione mentale che lo stava straziando.
Uscì quindi dalla stanza, facendo per tornare nell’atrio principale.
Claire lo seguì, questo mentre sempre più punti interrogativi affollavano la sua mente; così tanti che presto si perse fra essi, non essendo più capace di isolare le singole questioni, le quali nel loro insieme annebbiavano la sua mente traducendosi in uno stato d’animo di agitazione che scuoteva il suo cuore, tormentandolo irrefrenabilmente.
 
 
 
 
***
 
 
 
Base Antartide dell’Umbrella Corporation – Sotterranei
Androne Circolare
 
 
Alfred posizionò il teschio dentro uno degli incavi dell’imponente portone di ferro battuto, posto nell’enorme sala circolare centrale.
Claire osservò il resto dell’incisione e solo dopo aver risolto parte dell’enigma comprese la sua logicità.
Era una citazione di Amleto e dunque il primo oggetto da posizionare era un teschio. Era chiaro.
Il resto della scritta invece parlava di morte, sogni, sacrifici, amarezze, aldilà… era un discorso sulla vita.
Gli altri oggetti avrebbero fatto riferimento a questo tema, quindi?
Contò che mancavano almeno altri tre oggetti, tuttavia, dalla forma degli incavi intagliati sul portone, non riuscì a stabilire nulla. Mentre si attingeva ad interpretare cosa avrebbe dovuto cercare assieme ad Alfred, constatò che indubbiamente il biondo sapeva già cosa fare. Leggeva nei suoi occhi la determinazione di chi era pronto a intraprendere un nuovo percorso.
Avrebbe solo voluto smettere di essere solo una pedina per lui e che cominciassero a collaborare più alla pari. Temeva però che non sarebbe stato semplice trovare il modo per farsi rispettare da lui.
Sebbene il desiderio di essere accettata era in verità più forte dell’istinto di sopravvivenza, decise comunque che nelle condizioni attuali non poteva far altro che assecondarlo ancora una volta. Avrebbe trovato la sua occasione e allora magari persino uno come Alfred avrebbe capito.
Suo malgrado dunque, tenne a freno il suo fortissimo bisogno di interloquire con lui, questo per superare al più presto quelle trappole e recuperare gli oggetti necessari ad aprire il portone.
Proseguirono lungo uno dei tanti cunicoli che si intrecciavano in quel sotterraneo, percorrendo un tunnel roccioso molto simile a quelli già percorsi.
Alfred Ashford ad un tratto si fermò vicino una porta d’acciaio costruita nella pietra. Questa era rugginosa e senza serratura. Sembrava invalicabile.
Claire si affacciò verso di lui, curiosa di sapere quale meccanismo l’avrebbe aperta. Stette dunque ferma, in silenzio, osservando accuratamente le movenze del biondo.
Egli intanto si poggiò al ferro, facendo come per origliare dall’altra parte. In seguito diede un paio di sonori colpi su di essa con il palmo della mano chiuso in un pugno. Subito dopo si allontanò e proseguì lungo la strada ignorando del tutto quella porta.
Claire sgranò gli occhi. Impiegò qualche istante prima di realizzare che Alfred aveva deciso di ignorare quella porta di ferro battuto.
Si rimise velocemente a suo passo, rivolgendogli tuttavia un volto dubbioso che non riuscì proprio a frenare. La sua bocca parlò senza che lo volesse, interdetta da quel suo strano gesto.
 
“Ashford…perché hai dato dei pugni contro quella porta? Cosa….cosa c’è dentro..?”
 
Chiese titubante e Alfred fece spallucce.
Si soprese quando lo vide sorriderle. Qualcosa di sinistro era però celato in quel ghigno.
Eppure…c’era anche qualcosa di infinitamente triste celato in esso.
Non seppe spiegarselo, ciò nonostante era così.
Le parole che ben presto pronunciò il biondo confermarono quella sua impressione, che decifrarono perfettamente il motivo per cui sul suo viso era dipinta un’espressione nostalgica, beffarda eppure tristemente malinconica.
 
“Niente…ho soltanto dato un saluto a mio padre.”
 
 
 
Suo…padre…?
 
 
 
Claire si girò tempestivamente di nuovo verso quella porta ormai alle sue spalle.
 
“Cosa…intendi?”
 
Disse frastornata, mente la sua espressione facciale si corrucciava.
Alfred si fermò dandole il tempo di realizzare quanto detto, tuttavia non disse di più.
Quelle parole, nella loro sinteticità, avevano riassunto ogni cosa. Non c’era altro da aggiungere per lui riguardo quell’uomo.
La rossa tuttavia si intristì enormemente. Avrebbe tanto voluto chiedergli qualcosa, eppure non trovò il coraggio di farlo.
Provò solo un grande e profondo senso di malinconia, che dovette forzarsi di reprimere poiché non andò giù tanto facilmente. Alfred se ne accorse, tuttavia non aveva alcun interesse nel spiegarle perché suo padre fosse lì dentro o in che condizioni vertesse.
Non aveva alcun senso per lui. Non desiderava che lei capisse.
Eppure qualcosa ancora torturava il suo animo. Qualcosa cui non riusciva a dare una decifrazione.
Si trattavano delle oscure ragioni che per qualche motivo avevano portato quella giovane donna ad avvicinarsi a lui.
Per qualche ambiguo motivo, egli leggeva nei suoi occhi una determinazione che non riusciva a comprendere. Era come se lei anelasse a qualcosa……ed era ormai chiaro di cosa si trattasse.
Claire sperava di trovare delle risposte, di arrivare a lui… di oltrepassare il recinto spinato avvolto attorno il suo cuore, dentro cui erano nascosti i suoi ricordi, i suoi pensieri, la sua vita.
Tuttavia…perché?
Cosa se ne importava lei?
Cosa mai sarebbe cambiato se lei conosceva o no qualcosa di lui?
Non aveva alcun senso per un uomo come Alfred che non aveva agognato nella vita nulla se non l’amore di un Sola Donna, una Sola Regina.
Non gli importava di Claire. Aveva da tempo smesso di riporre le sue speranze in altri esseri umani al di fuori di Alexia. Lei soltanto aveva importanza per lui.
Dunque perché Claire interferiva con i suoi piani? Perché gli rivolgeva quello sguardo che lo straziava?
Perché sembrava voler introdursi dentro di lui?
Dentro il suo tortuoso, spinoso, invalicabile cuore?
Alfred non riusciva a comprendere in nessun modo per quale motivo una persona dovesse desiderare tanto comprendere un altro essere umano……all’infuori di Alexia.
I suoi occhi vitrei si fecero in qualche modo portavoce di quei pensieri, apparendo frigidi e distanti…eppure estremamente penetranti.
A modo suo, anche Alfred si stava inconsciamente avvicinando a quella donna, desiderando la conoscenza di quell’universo a lui così dissimile.
Ai suoi occhi, Claire non era che un micro universo che racchiudeva però qualcosa che lui non aveva mai conosciuto. Non sapeva nemmeno di cosa si trattasse, eppure bastava questa consapevolezza a renderlo morboso.
Anelava la chiave di lettura circa quegli incompressibili atteggiamenti che facevano di quella strana donna la persona più misteriosa che avesse mai conosciuto.
In un qualche qual modo, dunque, entrambi si rivolsero uno sguardo inquisitorio, cui però nessuno dei due riuscì a dare voce. Tuttavia entrambi, in quel fugace istante, trasmisero l’uno nell’altro quella sete di conoscenza che li stava facendo letteralmente impazzire.
 
“Redfield…”
 
Sussurrò il biondo comandante inaspettatamente, interrompendo il silenzio.
Il suo sguardo era buio e i suoi occhi erano capaci di entrare nell’animo di Claire, che si sentì come trafitta da essi.
Pungenti e incomprensibili, erano puntati su di lei ed erano riusciti a catturare ogni componente del suo corpo e dei suoi pensieri. Quasi le sembrò di non riuscire più a sbattere le palpebre, in balia delle confuse emozioni che la animavano nel momento nel quale interloquiva con lui.
Quando lo vide schiudere di nuovo la bocca e fare per parlare, il cuore le salì in gola, completamente presa dal suo oscuro sguardo. Tenebroso….inaccessibile…
 
“Dimmi, perché hai letto il mio diario?”
 
Disse infine e il silenzio piombò di nuovo fra loro.
Claire rimase immobile, incapace di dare una risposta a quella domanda.
Nella sua mente si figurarono almeno una decina di risposte, che si susseguirono una dopo l’altra, ma non riuscì a formularne nemmeno una. Non era semplicemente preparata a dare quella risposta.
Forse non era certa neppure lei del perché lo avesse fatto. Sapeva solo cosa avevano indotto nella sua mente quel diario dopo, ma non sapeva spiegarlo. Non sapeva trovare le parole.
Quel silenzio indusse Alfred a voltarsi completamente verso di lei. Posò una mano sul fianco, facendo come per attendere una risposta che tuttavia non giunse.
Egli attese, sentendosi seccato. Il suo cuore si sentì turbato, era come se lo sguardo vago della Redfield avesse invece risposto alla sua domanda e la cosa lo mise in uno stato di tacita agitazione.
Egli sgranò gli occhi quando vide la giovane dai capelli scuri portare la lunga frangia che le pendeva sul viso dietro l’orecchio, scostando i suoi occhi da lui.
In seguito ella sorrise, non trovando il coraggio di guardarlo negli occhi a sua volta.
Quelle labbra che si curvavano dolcemente comunicarono un calore umano che fu spiazzante per lui. L’Ashford si ritrasse, sentendosi toccato in qualche modo.
Discostò lo sguardo da lei, mentre il suo cuore prese a battere forte. Era straziante, non riusciva a comprendere cosa diavolo gli stesse accadendo.
Fu costretto a darle le spalle e ignorare del tutto quel momento che aveva gettato nel buio il suo animo, costringendolo a crucciarsi.
Claire comprese il profondo disagio dell’uomo di fronte a lei. Capì che in qualche modo Alfred aveva intuito cosa tormentasse anche lei in quel momento, e quel pensiero la mise enormemente a disagio.
Decise dunque di rompere il ghiaccio e rendere quella circostanza qualcosa di più sopportabile.
Non erano probabilmente pronti ad affrontare un argomento simile. Lei almeno non lo era, sebbene dentro di sé possedeva invece tutta la risoluzione necessaria ad agire e aiutarlo.
Fece dunque qualche passo verso di lui, incitandolo a tornare sui propri passi e trovare il secondo oggetto per aprire il portone.
Alfred la osservò mentre lei lo superava e si incamminava lungo il cunicolo muschioso. Contemplò i suoi lineamenti, le sue curve, il suo incedere determinato. Questo mentre la sua mente si contorceva sempre di più negli abissi dei suoi tormenti.
Nello stesso tempo in cui ella si allontanava da lui, non ritrovò subito la volontà di affiancarsi a lei.
Non era del tutto disinvolto, raramente si era sentito in quel modo.
Eppure, se da un lato la voleva lontana da lui, per sempre, dall’altra c’era qualcosa che lo aveva rinnovato da quando l’aveva incontrata. Più passava del tempo con lei, più sentiva che quel qualcosa stava marciando sempre più forte dentro di lui. Era oramai un processo inarrestabile.
La mente e il corpo di Alfred ormai desideravano solo e soltanto una cosa, ma era ancora bloccato per ammettere quel desiderio.
 
 
I due ben presto giunsero di fronte una porta decorata color rame, ove era intagliata la forma di una cornice su cui era incastrato un “gioco”: uno di quei puzzle composti da varie caselle che una volta riordinate riproducono una certa figura.
Le piastrelle quadrate, seppur scomposte, rimandavano già al primo sguardo a una figura alata che Claire riconobbe subito nello stemma della famiglia Ashford.
Alfred tuttavia la precedette, facendo scorrere quei tasselli e ricostruendo con velocità la figura.
La Redfield era abbastanza brava in quel tipo di giochi, eppure mai avrebbe creduto che qualcuno potesse riuscire a riordinare un puzzle con così tanta facilità. Non sapeva se era perché Alfred conoscesse già la combinazione, oppure quella prestazione non era che la dimostrazione della sua intelligenza fuori dal comune. Fatto stava che vederlo riordinare tutte quelle piastrelle e ricomporre l’aquila dorata della famiglia Ashford fu un’esibizione che aveva dell’incredibile.
Lo contemplò mentre era concentrato nel risolvere quell’enigma; il suo volto serio e imperscrutabile era qualcosa che la lasciava davvero di stucco. Non poteva fare a meno di chiedersi come un ragazzo dalle indubbie capacità intellettive come le sue potesse essere arrivato a distruggersi tanto psicologicamente. Era un pensiero che non riusciva ad accettare.
Una volta sbloccato il meccanismo, entrarono in una sala veramente elegante. Era una sorta di salone dall’apparenza del diciannovesimo secolo.
La pavimentazione era lucida e ambrata, rifletteva le loro effigi in modo impeccabile, come fosse uno specchio. Diverse ricostruzioni di sculture in stile greco costeggiavano i perimetri della hall, conferendo all’ambiente un aspetto museale.
Claire cominciò a pensare si trattasse di una sala d’esposizione. Osservò i quadri appesi che rivestivano gran parte delle pareti, tutti ispirati all’arte rinascimentale e romantica. Era senza dubbio una stanza di valore, si sentiva notevolmente stimolata nell’essere in un posto simile.
Tutto ad un tratto, poi, quel che catturò la sua attenzione fu una riproduzione piuttosto singolare e che rimembrò in lei una scena già vista: il quadro di due bambini dai capelli color oro, dipinti eccellentemente con pennellate morbide e sottili.
I loro visi erano rilassati, dolci, puerili…e la loro somiglianza evocava chiaramente a una linea parentale fra i due.
Tuttavia la loro posa così intima, in cui i loro volti quasi si univano in un bacio ove labbra non si erano ancora sfiorare, faceva rabbrividire i suoi sensi. Quell’immagine faceva indubbiamente riferimento a una relazione misticamente fra i due, profonda e anomala.
Erano Alfred e Alexia in età giovanile, non v’erano dubbi.
Vederli in quella posa trasmise qualcosa di sfuggente nella mente semplice di Claire Redfield, la quale si sentiva leggermente a disagio di fronte le ambiguità dei due gemelli Ashford.
Il biondo, intanto, rimasto taciturno alle spalle della ragazza per un lungo periodo, giaceva ancora nell’ombra, al momento incapace di interpretare quel che il suo cuore gli suggeriva.
Era immobile, sentiva il suo corpo tremare. Era come se fosse incapace di muoversi.
Per qualche oscura ragione si sentiva a disagio e quella che prima sembrava un’eccitante collaborazione in cui aveva la Redfield nelle sue mani, velocemente andò invece ad intaccare lui stesso, rendendolo vulnerabile.
Il suo spirito ribollente fremeva dal desiderio del dominio, dall’inarrestabile e seducente prospettiva di detenere l’oggetto del suo tacito e ignobile desiderio.
Questa dicotomia lo frapponeva fra i suoi ideali e le sue ambizioni. Malgrado ciò, bramava peccare…bramava compiere quel sacrilegio.
Quel che aveva freddato il suo corpo era dunque il disagio di non sapere come comportarsi, eppure di avere chiaro in mente cosa volere. Pur tuttavia aveva un modo per ottenerlo…
Poiché era lui il giostraio. Era lui che muoveva quel gioco.
La negazione verso ciò che poteva o non poteva fare, fece accrescere in lui un capriccio. Una ribellione interiore che annebbiò la sua ragione, inducendolo a ingannare i suoi sensi al fine di avere ciò che desiderava.
Era questo il gioco di Alfred Ashford. Avrebbe ottenuto da Claire tutto ciò che voleva.
Alfred Ashford era il sovrano assoluto di quel mondo che lui stesso aveva costruito.
Lei era sua, non avrebbe mai potuto disobbedire al suo volere.
Mosso da quell’insana consapevolezza, ove la sua indole tirannica dominava, le sue gambe si mossero quasi senza che lo volesse e si ritrovò alle spalle della ragazza dai capelli rossicci.
La tirò per il polso e con una presa ferma, eppure per niente violenta, fece voltare tutto il suo corpo.
Vide la sua bellissima Altra Donna piroettare verso di lui, costretta dalla sua morsa a rivolgergli il suo sguardo sveglio e temerario. Due occhi blu meravigliosi, che egli osservò estasiato, incapace di contemplare altro.
 
“Cosa…stai…?”
 
“Avvicina il tuo volto al mio. Fallo Claire. ”
 
Pronunciò tenendola stretta a sé, mentre si avvicinava a lei a tal punto da sentire solleticare la sua fronte dai suoi morbidi capelli.
 
 
Una scusa….una qualsiasi scusa….
Per averla accanto; per non sentire il peso del suo peccato.
 
 
Voleva incitarla a toccarlo, a volerlo…ad amarlo.
Voleva essere desiderato.
Ambiva che la sua passione non fosse univoca, anche ricorrendo a escamotage disonesti e macchinosi.
 
 
Non gli importava altro.
Voleva solo che lei lo facesse.
 
Che lo amasse.
 
Voleva quell’amore.
 
Lo bramava.
 
L’avrebbe avuto.
 
Ora, in quell’istante.
 
Perché ne aveva bisogno.
 
Perché era lui il Re.
 
 
“Cosa stai dicendo?” chiese Claire interdetta, indietreggiando il collo.
 
“Per proseguire è necessario che tu faccia ogni cosa io ti dica…ricordi?”
 
La ragazza rimase impietrita, al che il biondo insistette ulteriormente, posizionando la sua mano sulla sua guancia e tenendole il viso. Essa era stranamente calda.
Suadente, la invitava a quel contatto intimo con lui, cui sembrava non potersi sottrarre; eppure si affiancava anche una certa prepotenza, quella di chi voleva ottenere tutto come un bambino capriccioso.
Alfred intanto la guardò dritto negli occhi, trasmettendole una sensazione di malizia che sconvolse la Redfield fino a mandare in panne la sua mente.
 
“Cosa c’entra ora?”
 
“Ho creato io questi luoghi, queste trappole sono frutto del mio impegno e dedizione. Sono la tua unica speranza di sopravvivere, non essere titubante.”
 
Claire non riuscì ad interpretare quello sguardo, che le comunicava tutto tranne che un collegamento con le sue parole. Ella non vedeva altro se non l’ostinazione di un ragazzino. Egli voleva che lei lo facesse e basta.
Per lei era lampante che la sua fosse una strana e ambigua presa di posizione.
Stava approfittando delle circostanze…era una situazione letta.
Sentiva dentro di sé che era una scusante la sua. Lo sentiva sulla sua pelle.
Alfred stava mentendo.
Stava strumentalizzando la sua circostanziale dipendenza da lui e la sua accettazione di questo.
La sua espressione insistente e bramosa dava conferma a quella supposizione.
Si ritrovò velocemente fra le braccia del tenebroso comandante di Rockfort, non sapendo come contraddirlo.
Non fu tanto il senso di sopraffazione a non farla ribellare. Fu piuttosto la sorpresa di vedere Alfred avvicinarsi così repentinamente a lei senza darle la possibilità di accorgersi delle sue azioni. Il modo brusco e improvviso con cui avvenivano i suoi gesti. La sua mente era congelata e non fu capace di fingere di credere a un’assurdità simile.
 
“Non ti credo che lo stai facendo per salvarci da qualche trappola…”
 
“Vuoi contraddirmi?” ribatté lui, calmo.
 
“Perché dovrei crederti?” disse lei quasi fra sé, ma il biondo era abbastanza vicino da sentire benissimo quel sussurro.
 
Era lampante ai suoi occhi che dietro quel gesto si celasse un grosso malinteso, tuttavia egli non accennava a scostarsi da lei. Prontamente Claire mise i palmi sul suo petto contrapponendosi al suo gesto immotivato e prepotente, ma in tutta risposta egli posò delicatamente la sua fronte sulla sua, tentennando qualche istante prima di comprimersi contro la sua pelle.
Sentire il viso caldo del biondo così prossimo al suo fece sussultare il suo cuore. L’unica cosa che riuscì a fare fu aprire inutilmente la bocca, pronta a enunciare parole che non trovava. Questo mentre le sue iridi profonde si spalancavano, rispecchiandosi nello sguardo ferito e solitario di un uomo che aveva perso tutto, persino se stesso.
Alfred stette immobile, ricercando in quel contatto intimo quel bisogno di calore umano che solo Alexia aveva sempre saputo colmare. Volle cercare in quella donna così dissimile dal suo amore eterno quella stessa complicità che lo completava, e fu meraviglioso quando mille emozioni lo trapassarono, facendo sussultare il suo corpo ormai morto.
Si nutrì di quella meravigliosa sensazione di vita che Claire seppe trasmettere in lui. Quel respiro caldo, quegli occhi intesi, il sangue che ribolliva nelle sue vene, quella pelle candida e calorosa…
Alfred non fu capace di dare un freno a quel suo bisogno di affetto e così, quando Claire fece per discostarsi, la strinse ancora più saldamente e la tirò a sé, inducendola ad avvinarsi di più. Voleva arrivare a lei…di più…sempre di più…
Inspirò profondamente, arrivando quasi a sfiorare il suo naso, tuttavia a quel punto si fermò.
Voleva stare immobile così. In quella posizione. Con quella fioca distanza. Con lei. Non desiderava altro.
Claire si sentì confusa.
Lo vide irrefrenabilmente avvicinarsi a lei con le delicatezza e la prepotenza di principe affamato, per poi bloccarsi in modo quasi statuario una volta sfiorato l’oggetto del suo desiderio.
Quasi come se non potesse avvicinarsi di più. Quasi come se non potesse ottenere di più.
Rimase immobile a meno di cinque centimetri da lei, completamente padrone del suo corpo, dei suoi istinti, dei suoi gesti. Come se improvvisamente si fosse trasformato in una pietra immobile.
Eppure.. non era freddo. Sentiva che quel corpo era vivo, che quell’ardore che l’aveva fatto quasi avventare su di lei non l’aveva abbandonato.
Per qualche ragione egli si era fermato, ma non perché bloccato. Si era fermato perché era quella l’espressione del suo amore.
Al contrario, era lì che quel corpo era diventato vivo veramente, nonostante fosse immobile. Nonostante non fosse arrivato ad averla.
La cosa la confondeva e faceva agitare il suo corpo, lei che invece era una donna normale e quella lunga giacenza immobile di fronte a lui era difficile da sostenere.
Tuttavia riuscì a rimanere ferma, riportando intanto alla mente il giorno in cui quell’uomo fece già un gesto simile… quando lei era ancora travestita da Alexia…
Quel giorno in cui si specchiò nei suoi occhi e già allora intravide qualcosa in quelle iridi buie, tristi, sole…
Rievocare quella sensazione dopo tutto quel tempo trasmise dentro di lei una miriade di emozioni contrastanti.
Quel gesto per lui aveva un significato profondo. Rifletteva il suo bisogno di comprensione, di amore, di vicinanza.
Eppure egli non osava toccarla, non osava arrivare a congiungere le sue labbra con le sue.
Questo perché era solito fare questo con Alexia? La sua regina assoluta che non osava toccare?
Tuttavia lei non era la sua Regina…e lui lo sapeva bene. C’era altro che muoveva i suoi sentimenti.
Claire era in attesa di una risposta che tuttavia non giunse mai.
Ad un certo punto, Alfred fissò i suoi occhi glaciali su di lei.
Non gli bastava.
Voleva che fosse lei a volerlo…
Era lei che doveva desideralo…
Doveva farlo Lei…
 
“Avvicinati, Claire…”
 
Claire sentì il suo collo paralizzarsi, tuttavia, sebbene rigida come un tronco, lentamente si approssimò a lui accondiscendendo a quell’ordine.
Non seppe perché lo fece, probabilmente voleva solo scoprire fino a che punto sarebbe arrivato.
Non lo sapeva o forse non voleva rispondere a tutte le sue domande.
Fatto stava che diminuire ulteriormente le distanze e porsi a due centimetri da lui, fece andare in panico la sua mente, che finì per freddare tutto il suo corpo immobilizzandola del tutto.
Il biondo Ashford se ne accorse; ella non riusciva a lasciarsi andare e acconsentire agli ordini del suo padrone come lui desiderava. Ma egli era incapace di accentate quella ribellione. Non l’avrebbe permesso.
Così lasciò libero il suo polso, ma in compenso afferrò il viso di Claire con entrambe le mani, attaccandolo praticamente al suo.
 
Il suo respiro…
Il suo calore….
 
 
 
Vita… Vita vera….
Sangue che pulsava e scorreva nelle sue vene.
 
Fu….stupendo.
 
 
 
 
Alfred abbandonò improvvisamente la presa, lasciando Claire libera da quel vincolo.
Egli si allontanò ristabilendo una distanza normale, comportandosi in modo del tutto disinvolto.
La rossa si sentì confusa, sempre di più.
Il biondo intanto si ricompose e l’espressione beffarda che improvvisamente si dipinse sul suo volto fece sbandare la giovane, ancora in balia di quelle ribollenti emozioni.
 
“Il meccanismo che apre la porta alle tue spalle dovrebbe essere scattato ora. Andiamo.”
 
Claire sgranò gli occhi.
Improvvisamente si rese conto di ciò che era accaduto, di come con tanta facilità Alfred fosse riuscito ad avvicinarsi a lei e indurla a ottenere ciò che voleva.
Si sentì tremare, mai nella sua vita le era capitato di perdere il controllo in quel modo.
Cosa..cosa aveva fatto? Perché non l’aveva scacciato subito? Cosa diavolo le era venuto in mente?!
L’Ashford l’aveva sedotta, stregata forse. Era…inspiegabile!
Osservò il suo viso arrogante e i suoi occhi pungenti, quell’espressione soddisfatta che lo illuminava, rendendolo improvvisamente l’uomo corrotto che aveva sempre visto in lui.
La sua mente cominciò a martellarla, facendole apprendere tutto d’un tratto il peso dell’aver conosciuto un passato come quello del comandante Ashford; un uomo vissuto nella solitudine cui lei aveva dato calore…
Una parte di sé aveva finito col prendere a cuore la sua triste sorte e così si era lasciata soggiogare fino a voler entrare nel suo mondo…per comprenderlo.
Tuttavia questo era stato un errore! Un grosso errore!
Questo perché Alfred era pazzo! Deviato!
Come aveva potuto lasciare che il suo lato più sensibile e sentimentale prevaricasse tanto?
Claire si sentì frustrata.
Dentro di sé sapeva benissimo di essere stata accondiscende verso di lui perché internamente l’idea di aiutarlo la stuzzicava, la rendeva vogliosa di mettersi in gioco data la sua natura altruista.
Dunque il fatto che si fosse avvicinato a lei, lì per lì l’aveva ammaliata, rendendola smaniosa.
Tuttavia questo era stato un errore imperdonabile.
Quell’uomo non aveva contegno. Lui era la prova di quanto disgustoso potesse essere il genere umano. Lui aveva finito col fraintendere le sue buone intenzioni e la sua indole generosa, trasformandola ancora una volta nel suo giocattolo, da sfruttare a suo piacimento.
D’altra parte, non poteva però fare a meno di chiedersi perché Alfred avesse fatto una cosa simile. Quale era il suo tornaconto in questo caso?
Fino a qualche ora prima, egli aveva cercato di ucciderla proprio perché si era abbandonato a lei in quel bacio oltraggioso, quando era mascherato da Alexia.
Quella vicinanza pretesa pochi istanti prima, dunque, era…un controsenso. Era ridicolo!
Eppure, in quello stesso istante, accadde qualcosa che la frastornò ulteriormente.
 
Un muro sprofondò nella pavimentazione, sparendo dentro un’insenatura e svelando un percorso prima nascosto.
Era…una coincidenza? Alfred aveva appena attivato un qualche meccanismo senza che se ne accorgesse? Oppure aveva detto la verità e quel contatto fisico era davvero servito a quello scopo?
Era…sconvolta.
Intanto l’Ashford se la rideva sotto i baffi, mentre quella sensazione di calore scaldava ancora la sua pelle. Passo una mano sul suo volto, accarezzando la sua bocca, come rievocando quel contatto che aveva ottenuto in quel modo subdolo.
Sorrise velatamente, in seguito s’inoltrò oltre il passaggio appena apertosi in quel salone, incitando in quel modo Claire a seguirlo.
La ragazza mai come allora si sentì una marionetta nelle sue mani. Quella storia doveva finire. Alfred era un uomo corrotto e lunatico. Doveva pagarne le conseguenze!
 
“Tu…sei un pazzo maniaco! Come diavolo ti sei permesso a prenderti gioco di me? Pensi che sia tanto stupida da non accorgermene?”
 
Ringhiò contro di lui, dimenandosi rabbiosamente.
Alfred la guardò stizzito, alterandosi non poco per via di quella reazione.
Il suo cuore trasalì, rinnegando in quello stesso istante quella verità sconcertante che lui si ostinava a camuffare.
Ferito nel suo orgoglio, strinse i denti. Quel senso di sopraffazione fece capovolgere di colpo le sue emozioni appagate, che divennero tutto a un tratto riprovevoli.
Come osava quell’insulsa ragazzina anche solo ipotizzare che lui escogitasse uno stratagemma simile per avvicinarsi a lei?!
In effetti era la verità, eppure nella mente di Alfred quella realtà si capovolse, trasformando Claire nella colpevole di tutto.
Era la sua reazione di auto difesa, che preservava la sua mente dal declino.
Claire osava affermare che fosse stato lui a volerla…? Si sbagliava…era lei che continuava ostinatamente a traviarlo! Lei! Lei!!
 
“Cosa staresti insinuando Redfield…!?”
 
“Lo sai BENISSIMO!”
 
Alfred sbandò, sentendosi indifeso. La sua mente lo portò a reagire in modo violento, arrampicandosi a qualsiasi cosa gli desse ragione. Puntò dunque i piedi a terra ed esplose.
 
“Tu…non osare rivolgerti così a me! Se sei rimasta in vita fino ad ora, è solo perché io l’ho voluto! Non provare a ribellarti, Redfield, o ne pagherai le conseguenze!! Ti avevo avvertita!”
 
“Ebbene…paghiamole queste conseguenze! Sono stata già una volta il tuo ‘giocattolo’, non succederà di nuovo!”
 
A quel punto, però, un rumore imprevisto catturò l’attenzione di entrambi distogliendoli da quello scontro.
Una densa coltre di fumo si propagò improvvisamente nella sala, annebbiando tutto ciò che li circondava.
Si voltarono e fra i detriti di una porzione di muro abbatta d’improvviso, apparve un inatteso ospite….
Un Bandersnatch aveva sfondato la parete ed era ora lì, pronto ad attaccarli.
 
 
 
 
 
 
 
***
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
* Per chi l’avesse riconosciuta, la descrizione di questa stanza vi dovrebbe ricordare l’area che precede lo scontro contro Daniella in Haunting Ground (ps2-videogame).
 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 18
*** Capitolo 18: improvvisazione teatrale ***


 
 
Capitolo 18: improvvisazione teatrale
 
 
 

 
Una coltre di fumo denso avvolse nel suo bianco polveroso l’intera sala, che per un lungo istante fu annebbiata a tal punto da non vedere nulla.
Claire Redfield portò prontamente una mano davanti al viso, mentre i suoi occhi presero a bruciare infastiditi dal sottile ma fitto polverone.
Si sforzò di tenere aperte comunque le palpebre, conscia del fatto che qualcosa di grosso dovesse essere accaduto in quella stanza ed infatti non si sbagliò.

Poco distante da lei un corpo dalle mastodontiche proporzioni e dalla pelle giallognola e viscosa aveva appena buttato giù una porzione di muro e in quel momento si destreggiava fra i pesanti detriti, frantumandoli con il suo possente braccio elastico dagli artigli affilati come rasoi.
Questi spalancò gli occhi contornati dalla sua pelle cadente e cacciò fuori un urlo rabbioso e affamato, tipico di una creatura lasciata li dentro a marcire come scarto di laboratorio. Bramava ora soddisfare la fame di carne, il suo animalesco istinto di sopravvivenza non appagato da mesi o anni forse.
Il suo petto si gonfiò, pronto a lanciarsi contro le sue prede, tuttavia fu stroncato dal suono improvviso di un colpo di arma da fuoco che schizzò di rosso quel corpo. Seguì tempestivamente un secondo colpo che fece traballare il nemico, mettendo le dovute distanze dalla ragazza.
La rossa Redfield si voltò e vide Alfred col suo fucile da caccia imbracciato. Il suo sguardo, fisso sull’obbiettivo, era stranamente serioso; gli occhi di ghiaccio miravano solo e unicamente a quella creatura, mentre le braccia sostenevano forti quell’arma, non curanti che il calcio premesse esattamente sulla sua spalla ferita.
Egli avanzò incrociando un passo avanti all’altro, continuando a mantenere il bersaglio. Intanto la polvere calò del tutto e Claire poté tornare ad avere una visuale più ottimale del campo di battaglia.
Si accorse di essere lei quella più vicina al Bandersnatch dunque doveva approfittare subito della copertura di Alfred per mettersi al riparo.
Certo che era abbastanza sconvolgente dover passare così repentinamente da un tipo di problema ad un altro. Se prima stava puntando la sua arma contro l’Ashford, adesso doveva velocemente riaffiancarsi a lui e darsi da fare per sconfiggere quell’arma bio-organica.
Cacciò dalla cintura la 9mm e puntò nella stessa direzione del biondo pronta a dargli manforte.
In quello stesso istante però, l’artiglio estendibile del mostro fu più veloce ed arrivò a colpire una colonna posta proprio fra i due. Il pilastro cadde frantumandosi in grossi e pesanti detriti di marmo che costrinsero la Redfield a lanciarsi nella direzione opposta per non essere colpita.
Sebbene riuscì a mantenere la sua solita prontezza di spirito, il Bandersnatch sembrava insolitamente sveglio e si lanciò al suo inseguimento prima che lei potesse mettersi del tutto in piedi. Si appese a una trave sul soffitto e Claire non poté far altro che seguire quanto più attentamente possibile i suoi movimenti mentre spariva fra i detriti e le tante opere d’arte presenti nella sala con una velocità impressionante.
Quando riuscì a individuarlo era troppo tardi. Questi piombò praticamente davanti ai suoi piedi, mostrandole le sue fauci avide. Sentì di nuovo i colpi del fucile di Alfred colpire il mostro alle spalle e quello per lei fu il momento giusto per scappare e cercare al più presto un riparo lontano da quella creatura.

“Redfield, no..!”

 
Claire aveva purtroppo dimenticato le raccomandazioni spesso provocatorie di Alfred, ovvero che quel luogo era disseminato di trappole che lui stesso aveva progettato.
Il richiamo del biondo arrivò troppo tardi.
Il tempo che lei realizzasse cosa stesse accadendo che una grata si innalzò dal pavimento, separandola dal resto della sala. Per poco non venne addirittura trafitta dalle sbarre ferrose e acuminate che in un attimo si congiunsero con il soffitto. La ragazza indietreggiò tremante, non potendo credere di essere scampata alla morte per un soffio. I suoi occhi blu erano spalancati e tremavano, mentre il suo cuore batteva incessantemente.
Vide il Bandersnatch dall’altra parte della grata, per cui c’era almeno l’aspetto positivo di essersi messa in salvo da quella creatura. Tuttavia non era certo rassicurata dall’idea che Alfred fosse quindi da solo contro quella B.O.W. .
L’arma bio-organica infatti, infastidita dai colpi di fucile di Alfred alle sue spalle, si voltò completamente verso il biondo, aizzandosi velocemente contro di lui. Claire puntò la pistola, ma purtroppo la grata le impediva di sporgersi in modo da ottenere una visuale ottimale. In quel modo non sarebbe riuscita a mettere a segno nemmeno un colpo. Dovette quindi rimanere ferma nella sua posizione, pronta a sparare non appena il bersaglio fosse stato più alla sua portata; questo mentre scorgeva l’ex comandante di Rockfort lottare.
 
Clank
 
Un suono metallico attirò la sua attenzione.
Fu un rumore strano, vibrante, che percepì a stento; eppure talmente pungente da rendere sicuro che qualcosa ci fosse alle sue spalle.
La rossa si voltò lentamente e uno strano silenzio sembrò piombare tutto d’un botto. Sebbene dall’altra parte della sala fosse in corso lo scontro di Alfred contro il Bandersnatch, in quella porzione ove lei era intrappolata dalla grata fu come se si stesse per materializzare una dimensione a parte.
Non aveva ancora avuto modo di indagare sul luogo dove fosse bloccata e fu in quel momento che si accorse che c’era un piccolo corridoio lungo non più di sei o sette metri.
All’estremità di esso, illuminato dal fioco bagliore dei candelieri accesi, un’armatura scintillante era lì posta. Era come se la osservasse.
Claire strinse gli occhi incredula dall’improbabile dubbio che si stava figurando nella sua mente, ma fu quell’antica ferraglia a rispondere alle sue paure.
 
Clank Clank
 
“Non…è possibile….”
 
Claire stava vedendo con i suoi occhi uno dei suoi peggiori incubi.
Quell’armatura…
Una solida armatura di ferro, antica e inanimata, di quelle che molto spesso si vedono nei musei, nei luoghi di antiquariato, rappresentate nei quadri, nei film, e che molte volte destano nell’animo di chi le vede un senso di paura. Quasi come se, consapevoli che fossero state indossate dagli antichi cavalieri, i loro spiriti potessero esservi ancora racchiusi in qualche modo e potessero tornare ad animarle per proteggere le persone e i luoghi a cui immolavano la vita.
Quello che stava accadendo in quel momento davanti ai suoi occhi era questo: l’innocente paura di un bambino che si spaventa di passare davanti un’armatura antica perché pensa questa possa animarsi e colpirlo.
Era ovviamente una tipica angoscia infantile, del tutto sciocca e inammissibile; eppure era proprio davanti ai suoi occhi.
Quell’armatura… si stava muovendo.
I cigolii del suo ferro; la sua andatura disarmoniosa; la freddezza di quel metallo battuto; l’ascia pesante che brandiva fra i suoi guanti.
Si muoveva verso di lei. Lo stava facendo davvero.
Non poteva permettersi il lusso di smaltire lo shock, non c’era tempo per questo. Anche se scossa, dovette immediatamente alzare la pistola all’altezza del viso e sparare, sparare sperando che quella cosa, qualunque cosa fosse, cadesse a terra prima di raggiungerla.
Aveva un cancello alle sue spalle, non poteva scappare, e dall’altra parte comunque vi era un’altra arma prodotta dall’Umbrella.
Si trovava in una vera e propria trappola.
Inspirò profondamente dopodiché fece partire il primo colpo, il quale risuonò assordante sul ferro.
Claire non demorse, un solo proiettile non andato a segno era perdonabile.
Prese meglio la mira e cercò di individuare all’altezza della testa un qualsiasi spiraglio dove mirare. Tuttavia più cercava un punto dove il proiettile non sarebbe stato respinto dall’armatura vivente, più si rendeva conto di non sapere assolutamente dove attaccare. Stava lentamente cadendo nel panico. Le sue gambe presero a tremare.
Sparò un altro colpo, il quale rimbalzò come il primo, accompagnato dal terribile e funesto suono metallico del rimpallo.
Sebbene impegnato contro il Bandersnatch, Alfred Ashford si accorse di quello strano suono proveniente dal luogo dove era intrappolata Claire.
Non erano passati che pochi secondi da quando la ragazza era caduta in quella trappola, eppure dovevano essere bastati a far risvegliare l’armatura.
Il biondo si sentì molto seccato, eppure aveva avvertito la giovane di stare sempre al suo fianco.
Digrignò i denti con rabbia, mentre evitava l’ennesimo attacco del Bandersnatch, il quale gli piombò addosso con tutto il suo corpo approfittando della sua natura elastica che gli permetteva di eseguire acrobazie improbabili ad una velocità sovraumana.
Alfred approfittò di quell’inconveniente vicinanza per piantare nella sua bocca il fucile e fargli esplodere le cervella. Un sorriso sadico si dipinse sul suo volto, facendo apparire per un attimo lui come una fiera e la b.o.w. come una creatura mal capitata.
Infine…PAM.
Una grossa porzione di muro fu presto imbrattata dal sangue scuro e denso che prima scorreva nelle vene del mostro.
Alfred fu deliziato da quell’orrenda fine. Da quel mostro dal corpo deforme e viscoso, adesso con la faccia spappolata. L’orrore nell’orrore.
Una creatura terrificante e abominevole, resa ancora più deturpata dal suo proiettile mortale.
Non aveva tempo però per contemplarla.
Non si pulì nemmeno dal sangue schizzatogli addosso che lo avevano imbrattato, che subito si catapultò verso Claire.
Non era una situazione piacevole e una volta superata anche quell’ostacolo, già sapeva che non sarebbe stato facile proseguire.
Tuttavia era meglio affrontare un problema alla volta.
Si buttò contro la grata che lo divideva dalla Redfield e appena la vide subito la richiamò.
 
“Redfield!”
 
Claire si voltò e vedendolo col fucile puntato contro l’armatura uno strano tonfo al cuore la pervase.
Si appropinquò anche lei al cancello, afferrando le sbarre e stando a contatto con Alfred sebbene quel ferro li separasse.
Il biondo comandante la osservò  con la coda dell’occhio; spaurita, impotente, fragile… ella era accorsa e si era aggrappata a lui che in quel momento era il solo che poteva proteggerla. Era…strano.
Tuttavia non restò a pensarci molto. Sapeva inoltre di avere i proiettili contati, una ragione in più per mirare bene e buttare giù anche quell’altra B.O.W.
Osservò attentamente quella ferraglia dopodiché fece partire un colpo in un preciso punto della testa. L’armatura traballò questa volta, dando conferma che il proiettile fosse andato a segno. Alfred si rimise immediatamente in posizione di tiro e, dopo un attimo di assoluta concentrazione, fece fuoco di nuovo; e poi un altro ancora.
Claire alzò il viso verso di lui e poi portò lo sguardo di nuovo verso l’inarrestabile armatura. Era evidente che lei non sarebbe mai riuscita a colpirla con la sua 9mm.
Alfred sapeva perfettamente dove mirare quei punti vulnerabili che lei non avrebbe mai potuto conoscere. Apparentemente quella B.O.W. non aveva zone scoperte, quindi solo chi l’aveva progettata, o aveva partecipato alla sua creazione, poteva conoscerle.
Si sentiva indifesa, il suo cuore sembrava voler esplodere dal suo petto; la consapevolezza di non poter far nulla per salvarsi stava gettando il suo animo nel terrore più agghiacciante.
L’armatura, sebbene avesse movenze legnose e lente, possedeva quella mefistofelica freddezza verso la morte che solo un essere senza anima e corpo poteva trasmettere.
Quello che vedeva a oramai un metro da lei era un colosso ferroso e luccicante, con la sua lunga ascia macchiata di sangue incrostato, pronto a brandirla e tagliarla in due perfette metà.
Nonostante i colpi di fucile e i fugaci istanti in cui barcollava, essa era inarrestabile, non poteva provare dolore o paura. Era stata progettata per alzare le sue braccia ed eseguire il suo colpo.
Claire comprese che avrebbe colpito, non si sarebbe fermata. Doveva fare qualcosa, ma cosa?!
Alfred stesso sembrava essersi reso conto della situazione di pericolo e cercò di velocizzare i suoi attacchi il più possibile. Premette il grilletto e sbandò quando si accorse che la ricarica era finita.
Il panico a quel suono di scarico fece sbandare entrambi. In un istante, Claire vide frantumarsi la sua sopravvivenza. Osservò Alfred mentre, incastrato fra le sbarre, cercò nella casacca rossa una nuova ricarica, tenendo al contempo il pesante fucile da caccia in equilibrio. Egli non scappò, non cercò di mettersi al riparo verso l’attacco oramai imminente dell’armatura, che avrebbe inevitabilmente colpito anche lui sebbene fosse protetto dalla grata.
Invece lui era lì, mentre tentava il tutto per tutto per abbatterla, consapevole che fosse l’unico in grado di aiutarla.
Quel gesto umano da parte sua la colpì, non potette fare a meno di sentirsi profondamente grata verso di lui. Stentava quasi a crederlo.
 
“Aaah!”
 
Urlò Claire mentre la B.O.W. posizionò con insolita velocità le braccia verso l’alto. Quel movimento fu completamente diverso dagli altri, difatti riuscì a sollevare tutta l’ascia in pochissimi secondi; dopodiché la sua caduta verso il basso non fu che un battito di ciglia.
L’ascia velocemente colpì terra, spaccando la pavimentazione marmorea in un istante.
La rossa si incastrò nell’unico angolo fra quel corridoio e la grata ove potesse schiacciarsi, ma era la sua ultima via di fuga. Adesso l’armatura era di fronte a lei e il secondo colpo era inevitabile.
Questa rialzò il pesante arnese incastrato nei detriti come fosse un semplice spadino e si rimise nella stessa posizione di prima. La ragazza non riuscì nemmeno a chiudere gli occhi, rimase inerme, non essendoci un modo per capacitarsi che stesse accadendo davvero; che davvero avrebbe provato sulla sua pelle la terribile sensazione di essere oltrepassata da parte a parte da una lama affilata e inarrestabile.
Digrignò i denti e tutto divenne confuso, annebbiato. La sua mente si chiuse, preservandola da quei ragionamenti agghiaccianti con cui stava per fare i conti.
PAM
Un suono, un singolo suono.
Se ne susseguirono altri, decisamente troppo veloci per essere fuoriusciti da un’arma lenta come un fucile da caccia.
Invece si sbagliava; Alfred Ashford aveva ricaricato il fucile e stava sparando un colpo dietro l’altro che, a quella distanza, fece cadere a pezzi quella vile armatura.
La Redfield vide l’ascia che prima sorreggeva, cadere all’indietro assieme alle braccia ferrose che la sostenevano. Presto seguì anche il resto del corpo che si ridusse a un ammasso di pezzi di ferro inanimati.
Claire scivolò lentamente a terra, le gambe non la sorreggevano. Era… Era…
 
“Mostruosa ignobile creatura! Ah! Cosa credevi? Di surclassare il tuo…padrone! Follia! Marcirai nel mio inferno.”
 
Urlò Alfred adrenalinico, mollando un violento calcio ai pochi pezzi che poteva raggiungere dal cancello che lo divideva da quel sipario. La ragazza si voltò vacillante verso di lui, con gli occhi colmi di lacrime che rimasero lì senza scendere e che le conferirono un aspetto innocente che non poté fare a meno di colpire persino uno come l’Ashford.
Il biondo si ricompose e cercò di contenere quella sua gloriosa vittoria. Si impostò dunque e riassunse un’espressione seria e altolocata.
 
“Redfield, cosa ti avevo detto? Questo posto è disseminato di trappole, non avresti mai dovuto distanziarti così incautamente senza cercare il mio consenso. Sei la solita ragazzina immatura e arrogante; e pensare che dovresti solo prestare un vago ascolto alle mie istruzioni e tale ignobile permanenza in questo luogo sarebbe soltanto un’inconveniente passeggiata. Bah.”
 
Vaneggiò lui più per rompere il ghiaccio che per rimproverarla, stranamente. Tuttavia egli era troppo altezzoso per ammetterlo. La ragazza aprì la bocca tentennante, riuscendo solo a dire l’unica cosa che in verità poteva dirgli.
 
“G…Grazie.”
 
Alfred sgranò gli occhi. Le rivolse di scatto il suo sguardo e rimase nuovamente impietrito di fronte quegli occhioni blu colmi di lacrime. Rimase scosso e la sua espressione si corrucciò in una smorfia di disapprovazione. Un rimprovero piuttosto verso il suo spirito corruttibile dalla soavità di quella donna, che sapeva come smovere il suo animo marcio e abbandonato.
Claire notò il suo turbamento e si sentì in colpa per averlo messo a disagio, per questo si sforzò di rimettersi in piedi e superare velocemente lo shock.
I due furono quindi presto l’uno di fronte all’altro, divisi da quella inferriata invalicabile.
L’uomo dagli occhi vitrei stette in silenzio, con gli occhi stretti e la bocca serrata, con lo sguardo scuro e imperscrutabile.
Internamente stava scrutando quella misteriosa donna, confuso dalle milioni di domande che in realtà ogni momento affannavano il suo cuore.
In tutta risposta fece spallucce e si impostò con aria arrogante, mantenendo la sua posizione nobile e autorevole a tutti i costi; reazione che Claire comprese perfettamente conoscendo oramai il soggetto, ragion per cui stette ad ascoltarlo in silenzio, senza rabbia.
 
“Tsk, non illuderti che basti Redfield. Hai la fortuna di un gatto dalle duecento vite, ma prima o poi vedrai anche tu la spada di Damocle pendere sulla tua testa. Non pensare di poter sempre contare sulla tua sfacciataggine, mia cara. Hai me dalla tua parte e questo ti assicuro è tanto. Tuttavia il sottoscritto senza di te sopravvivrebbe ugualmente. Sulla tua sorte invece ho qualche dubbio.”
 
Il biondo, notando l’ambiguo silenzio della giovane, si azzittì. Taceva perché era mortificata o perché lo considerava pazzo ancora una volta? Tale dubbio lo divideva e lo struggeva. Non riusciva né ad accettare che lei lo deridesse, né che lo comprendesse o lo ascoltasse.
Alfred non riusciva a capire quella sensazione. Non riusciva ad odiarla per il suo solito disprezzo, o ad apprezzarla per la sua tenera comprensione.
Non riusciva ad essere felice.
Cosa lei volesse comunicargli con quel sorriso appena accennato e i suoi occhi dispiaciuti e limpidi era un mistero inaccettabile.
Era una trincea a lui invalicabile.
Schiarì la voce e cambiò drasticamente argomento.
 
“Redfield, necessito della tua attenzione ora.”
 
Claire notò la serietà del suo tono, stavolta più profondo e calmo.
 
“Come ti spiegai all’inizio, questo labirinto è stato progettato per proseguire in due. Ragion per cui esistono vari escamotage per separare i soggetti ivi coinvolti al fine di disorientarli e farli perire in queste anguste segreta. Non lasciare nell’oblio il tuo obiettivo, ossia i frammenti da localizzare nella porta posta nell’atrio.”
 
La Redfield annuì.
 
“Redfield.” Rimproverò lui. “Questo cancello non è rialzabile. Sei in una di queste trappole cui accennavo. Non è previsto che chi vi si imbatta malauguratamente sopravviva. Intesi? Questo si traduce in un mio e un tuo interesse. Ti fornirò tutte le indicazioni necessarie per non incombere nei futuri inganni che mireranno a cancellarti dalla faccia della terra. A tuo vantaggio hai la mia incombente memoria, a tuo discapito la tua incoscienza. Ricorda, per sopravvivere dobbiamo restare due.”
 
Disse glaciale.
 
“Ho messo nei guai anche te?”
 
“Non dire insolenze, ho già detto che sono io l’architetto, ragion per cui tali insidie possono colpirmi ma solo fino a un certo punto.”
 
“Allora…” lo interruppe lei, interdetta. “Perché mi aiuti? Potresti tranquillamente lasciarmi qui.”
 
A quelle parole i suoi occhi si abbuiarono e Alfred se ne accorse.
No, non aveva parlato così per provocarlo. Stavolta lo aveva avvertito chiaramente. Claire era seriamente preoccupata, seriamente ansiosa, seriamente insicura verso quanto accaduto.
Lei seriamente…pensava che lui avrebbe dovuto lasciarla li, sola, a combattere un nemico invisibile che non conosceva e non poteva prevedere.
 
“Claire…”
 
Sussurrò e nell’udire il suo nome di battesimo la rossa ebbe un sussulto.
Non era sicura ma forse era la prima volta che lo faceva.
Gli occhi di Alfred erano calmi e stranamente rassicuranti. Non sapeva come spiegarlo, ma le comunicarono conforto, come se volesse dire ‘non ti lascerò sola’. Sentì una forte stretta al petto.
 
“Normalmente avremmo dovuto solcare assieme il passaggio che…ho aperto prima che quella bestia ci attaccasse.” Sembrò stranamente titubante mentre aveva alluso al suo comportamento avuto in precedenza, prima del Bandersnatch. Claire tuttavia fece finta di non farci caso per non creare ulteriore imbarazzo. “Se io proseguissi nella direzione normale, tu non avresti più possibilità di procedere, or dunque rimarresti bloccata qui. Quindi io devo rimanere in questo luogo e aspettare che tu arrivi di fronte una statua costruita nella muratura. Ella sembrerà affacciarsi dalla parete, non faticherai a riconoscerla. C’è un sistema per farmi capire quando sarai giunta a destinazione. Basta che tu estrai una perla incavata in uno dei suoi occhi. Questo meccanismo fa sì che invece sia il mio percorso a bloccarsi e quindi potrai proseguire.”
 
“Aspetta.” Lo interruppe la giovane. “Cosa significa che si blocca il tuo percorso?”
 
Alfred scosse la testa. “Non turbarti, sbloccherai il mio percorso man mano. Basta che farai quello che ti dico…” le rivolse poi uno sguardo agghiacciante. “…se lo vorrai.”
 
La Redfield deglutì. Lui si stava forse affidando a lei? Era davvero così?
 
“Tu…stai dicendo che…”
 
Stavolta fu l’Ashford a interromperla, stizzito nell’ammettere quella circostanza.
 
“Non dire nulla, non mi interessa. Ti sto solo spiegando le circostanze, limitati a seguirmi attentamente.”
 
La rossa si ricompose. Lui non voleva quella risposta, ma perché? Non voleva che lei lo rassicurasse? Che gli dicesse che poteva contare sul suo aiuto?
Perché?
Ad un tratto le fu chiaro… mentre l’ereditiere degli Ashford continuava a spiegarle il percorso che avrebbe dovuto intraprendere per sopravvivere, lei si ritrovò a riflettere su quello strano super io che dominava quell’uomo.
Un tiranno spietato che gli impediva di accogliere la comprensione degli altri esseri umani. Alfred non poteva accettare di essere aiutato, né di essere capito, consolato…amato.
Egli preferiva non saperlo, fare affidamento su se stesso e basta. Non voleva contare su Claire. Non voleva illudersi sulla sua lealtà, non voleva farlo. Persino in quelle circostanze il suo animo era fragile e poteva essere ferito crudelmente. Il biondo era precipitato in un vortice di solitudine e di autolesionismo che non faceva che torturarlo continuamente.
In quell’ottica, accettare l’aiuto della Redfield avrebbe significato affidarsi a qualcuno, cosa che a lui era proibita. Lui che aveva scavato il suo cuore dal petto per relegarlo all’unica persona che aveva mai contato nella sua vita: Alexia.
Come una pugnalata, si sentì frustata da quella condizione. Avrebbe voluto sorridergli e dirgli che avrebbe pensato a lui, che c’era lei al suo fianco. Ma non poteva, perché facendolo l’avrebbe solo ferito ulteriormente. Questa fu la ragione per cui non disse nulla e si limitò a seguire le sue indicazioni e dimostrargli coi fatti che non l’avrebbe lasciato solo.
 
“La perla che estrarrai farà spegnere lo stoppino di un candeliere che è in questa sala, invece; da questo capirò dove sei. A quel punto sarò io a sbloccarti la via. Dovresti ricordare attentamente l’enigma -Perché chi sopporterebbe le frustate e gli scherni del tempo, il torto dell’oppressore, la contumelia dell’uomo superbo, gli spasimi dell’amore disprezzato, il ritardo della legge, l’insolenza delle cariche ufficiali, e il disprezzo che il merito paziente riceve dagli indegni, quando egli stesso potrebbe darsi quietanza con un semplice stiletto?- .
Tienila a mente, perché dovrai ordinare dei quadri che raffigureranno esattamente queste situazioni. Una raffigura una faccia derisoria, una uno schiavo, poi un uomo ricco, un cuore calpestato, un giudice, un soldato, un eremita solitario. Tsk!”
 
Rendendosi conto da solo che la ragazza non avrebbe mai potuto tenere a mente tutti questi dettagli, sbuffò innervosito.
 
“Hai ancora il mio diario, giusto?”
 
“No, te l’ho restituito.” Rispose sorpresa, non comprendendo subito perché glielo stesse chiedendo. L’uomo intanto fece un’alzata di sopracciglia, poi scrutò nervosamente nelle tasche e in fine lo trovò, leggermente pieghettato nei bordi; tuttavia la copertina rigida aveva preservato le pagine all’interno. Claire lo vide sfogliarlo nervosamente, eppure era certa che un uomo come lui avrebbe trattato con più riguardo un cimelio tanto prezioso.
Sbarrò gli occhi quando, trovando delle pagine bianche, egli cominciò a scrivervi velocemente per poi tirare il foglio e consegnarlo alla ragazza.
 
“Tieni, ti ho scritto il versetto. E’ un inglese semplice Redfield, non penso di dovertelo anche tradurre con un linguaggio moderno.”
 
Claire prese fra le mani quel pezzo di carta, girandolo fra le sue dita come qualcosa di prezioso, impregnato dalle memorie e i dolori di quell’uomo folle e geniale di cui aveva letto. Corrucciò la fronte, domandandosi se quelle pagine al contrario avessero colpito più lei che non lui. Si sentiva persino in colpa per averlo costretto a stracciare una pagina da quell’oggetto ai suoi occhi così intimo e prezioso. Avrebbe voluto dirgli che non avrebbe dovuto, che non era necessario rovinare qualcosa di così inestimabile per lui, ma ebbe troppa paura di ferirlo per farlo.
Osservò meglio quel frammento. Nonostante frettolosa, la calligrafia di Alfred era elegante e molto leggibile, sembrava una scrittura d’altri tempi. Doveva avere una memoria e una cultura grandissima per riuscire a rievocare Shakespeare in un tale momento di difficoltà.   
Si ritrovò a far caso che il biondo era stranamente premuroso. Stava spendendo più e più parole per spiegarle cosa avrebbe incontrato. Non solo; anche il suo atteggiamento sembrava irrequieto, come fosse spaventato.
Claire ebbe il terribile sospetto che egli non fosse abituato a dipende da qualcuno e il fatto che la sua sopravvivenza dipendesse in parte da lei lo turbava. Lo faceva sentire fragile, insicuro… spaventato dall’idea di essere abbandonato a se stesso, tradito, di nuovo.
La Redfield tuttavia non l’avrebbe lasciato solo. Si sarebbe presto ricongiunta a lui e sarebbero usciti vivi entrambi da quel posto.
Alfred intanto continuava il suo monologo, aggiungendo dettagli su dettagli riguardo quel che lei avrebbe dovuto fare.
 
“Risolvendo l’enigma, otterrai un oggetto. Si tratterà di uno stiletto, Redfield. Penso capirai da sola che è uno degli elementi chiave che sbloccano il portone principale, quindi non perderlo. Prima di proseguire, ricorda di abbattere la porzione di muro adiacente queste incavature ove ordinerai i quadri in modo corretto. Oltre vi troverai una tastiera digitale il cui codice è 1971. Facendolo io potrò avanzare e sbloccarti più avanti il percorso, ma la mia parte non ti interessa.” Fece una pausa facendo mente locale sul suo da farsi. Claire notò i suoi occhi corrucciati e si impensierì.
“A quel punto avrai due strade davanti a te. La via della vita e della morte, due strade che comunque si congiungeranno. Lo stiletto fungerà da serratura e ti permetterà di avanzare oltre la porta che troverai dinanzi a te, qualunque sia la strada che deciderai di percorrere.
Dovrai far muovere un meccanismo in questa stanza. Troverai una scultura a cui dovrai togliere la pelle..”
 
“…ma che schifo.”
 
“Non si tratta di pelle vera, Redfield. Presta attenzione. Devi liberare il busto dal suo cuore. A quel punto calpestalo e dentro vi troverai la chiave per uscire da questo luogo.
Solo una cosa devi tenere ben a mente. Non tornare mai indietro, non dimenticare nulla, non raccogliere nulla. Molti elementi incuriosiranno la tua mente e stuzzicheranno la tua sete di conoscenza o di sopravvivenza. Non lasciarti sopraffare, né ingannare. Vai avanti per la strada che ti ho indicato e curati solo degli elementi che ti ho descritto. Se hai bisogno di una motivazione, ricordati che l’area dove sei bloccata è una trappola, andrai incontro un’ignobile morte.”
 
L’uomo si fece di nuovo pensieroso. La rossa lo vide stringere le dita sulle sbarre di metallo che li dividevano, dopodiché posizionò i suoi occhi vitrei dritti verso di lei. In seguito, rimosse il suo fucile da caccia e lo allungò verso la ragazza che in un primo momento esitò.
 
“Prendilo e basta, Redfield.”
 
Disse e si allontanò da lei.
 
Claire strinse il fucile fra le sue mani, mentre il suo cuore non aveva cessato un attimo di battere nervosamente.
Lo squilibrio di quell’uomo, le sue perversioni, la sua pazzia, le sue deviazioni e paranoie…e poi la sua cavalleria, la sua intelligenza, la sua prontezza. Egli era un Re che sapeva come proteggere la sua Regina. La sua pedina era nata per questo e sarebbe morta per quello scopo. Egli era il pezzo che sapeva muoversi ovunque sulla scacchiera, per permettere alla sua Regina di vincere e non rimanere mangiata dagli avversari.
La ragazza in quel momento si sentì proprio come essere protetta dal pezzo che dominava in maniera indiscussa la scacchiera, che le avrebbe aperto il percorso anche a costo di venire mangiato. Solo che nel caso degli scacchi Re e Regina si invertivano.
 
“A…Ashford!” tentennò lei. “Prendi almeno la mia pistola, non puoi rimanere disarmato.”
 
Alfred fece cenno di no con il dito mentre tetro si incamminava all’interno della sala.
 
“Non sono disarmato. Non lo sono mai.”
 
Detto questo si sedette a terra, sparendo quasi nella penombra. Claire lo intravedeva ancora grazie al fioco bagliore dei candelieri ancora accesi. Strinse gli occhi, sentendosi tacitamente grata. Infine si voltò e si addentrò anche lei nel percorso che l’attendeva. Gli parlò solo un’ultima volta.
 
“Ci sarò. Ci vediamo più avanti.” Aggiunse. “Fa attenzione anche tu.”
 
 
 
 
***
 
 


Sotterranei dei laboratori artici dell’Umbrella
Bivio - Claire
 
 
 

 
Quanto può pesare un attimo? Quanto può premere fino a schiacciare un sentimento che in realtà non esiste nemmeno, che è solo nella nostra testa. Tuttavia non cessa di essere presente e spinge, spinge, fino a pressare nel nostro petto, calpestando il cuore, comprimendo la nostra mente. Nulla genera più dolore di questo, nemmeno se una morsa fosse davvero ancorata sul nostro corpo. E’ un fantasma sottile, invisibile, capace di sparire in un istante se solo ci impegnassimo a non curarlo. Eppure puntuale è in grado di tornare, trovandoci anche se al buio, anche se soli, anche se abbandonati da tutti; e sa farlo proprio quando è il momento in cui crolliamo, come se l’odore di terrore che emettiamo lo agevolasse nel suo compito. Per cui più temiamo, più quel fantasma viene, pronto a trafiggere il nostro petto con i suoi artigli acuminati e insensibili, per afferrare il nostro cuore veementemente e stringerlo fra le sue dita. Stringerlo, ma non per spezzarlo. Stringerlo solo per farlo soffrire; solo per far sentire la sua morsa, per ricordare a quel corpo che quel peso è lì, ed è pronto per fargli male. Anche quando quel corpo non è del tutto al corrente del perché dietro tale agonia mentale.
Quando sono questi i sentimenti che ci accompagnano, possiamo solo corrucciare gli occhi, stringere le mani, alzare il viso e continuare, lasciando che quella mano si arrenda. Raramente invece ci interroghiamo su come alleviare quella presa. Preferiamo lasciarla lì a tormentarci, dimostrandogli che non abbiamo paura di essa, che siamo più forti.
In modo diverso quel fantasma martoriava entrambi i due giovani che si erano appena separati.
Claire Redfield, fuorviata dalla rocambolesca umanità che l’aveva avvicinata psicologicamente a una mente controversa come quella del losco comandante di Rockfort; così tanto da farle mettere in discussione ogni cosa, comprese le angherie subite, i suoi inganni, le sue torture, gli orrori cui aveva assistito. Ed adesso si ritrovava persino ad avanzare per lui, per aiutarlo a sopravvivere.
Ella aveva infatti ben compreso l’importanza del suo ruolo in quel momento. Quella morsa sul suo petto pressava sempre più, questo perchè non voleva fallire. Non voleva che Alfred morisse per colpa della sua incompetenza.
Il senso di responsabilità la crucciava, stringeva dunque fra le mani il fucile che lui le aveva donato; tastava la tasca del suo jeans prudente, per controllare che il foglietto con le sue istruzioni fosse sempre lì, al suo posto.
La paura di sbagliare, di non tener fede a quella promessa, era un tormento senza fine.
Il suo sguardo era dritto, imperscrutabile. Aveva fatto tesoro delle sue parole, sapeva che ogni cosa in quel luogo era stata creata per ucciderla. Per uccidere chiunque.
Tranne gli elementi che lui le aveva indicato.
Tutto il resto era morte.
Non. Doveva. Sbagliare.
Alfred Ashford dal suo canto aveva consegnato la sua vita nelle mani della rossa. Era da solo, seduto nell’atrio di quella nobile stanza circolare; magnifica, luminosa, ricca di preziosità e arte che rappresentavano la cultura e lo studio di una vita. Una stanza tanto inestimabile quanto un’opera d’arte eppure macchiata dal sangue e sporca della polvere che la battaglia del Bandersnach aveva sollevato.
Il contrasto fra magnificenza e distruzione. Fra sangue e bellezza. La carcassa molliccia e ripugnante accasciata al suolo, macchiata di un sangue ormai denso e scuro; i frammenti di armatura seminati attorno la grata dove si era separato con la Redfield; erano un mosaico che completava quel mondo bellissimo e drammatico.
Il biondo si ritrovò ad osservare intensamente quella visione trovandola insolitamente soave e appagante. Chiuse gli occhi abbandonandosi a quel piacevole dolore.
Quel malanno si stava lentamente propagando, in un’emozione che temeva eppure lo ammaliava. Questo perché sentiva il suo cuore battere lontano dal suo petto…detenuto però fra le dita di una Donna che Non Conosceva.
Batteva, lo chiamava, lo sentiva; un cuore spento ma non morto, cagionevole per il dolore patito. Tuttavia batteva, era vivo, e sapeva di essere lontano dal suo padrone. Colei a cui era affidato era troppo lontana per potervi vegliare.
Poteva gettarlo e poteva invece salvarlo.
Lui che era il principe di quel castello della morte, poteva soltanto stare solo, ad aspettare.
Non poteva fare altro.
La maestosità e deturpazione di quella sala era il contesto ideale per rappresentare quell’attesa. L’attesa verso il prossimo battito del suo cuore: sarebbe stato doloroso per il tradimento, oppure un sussulto piacevole che l’avrebbe alleviato?
 
Claire avanzò lungo il corridoio. L’odore umido e pungente del sottosuolo ove erano ubicate quelle segreta permeava le sue ossa, rendendo quasi insopportabile proseguire. Trovò contraddittorio solcare una pavimentazione marmorea e lucida, eppure essere in un ambiente più simile a una grotta. La logica spiegazione che riuscì a figurarsi fu che la costruzione di quel luogo non doveva mai essere stata completata. Oppure era coerente con la mente di Alfred, che si limitava ad “abbellire”, senza badare alla sostanza, lasciando che il vecchio consumasse il nuovo, coprendo un passato che tuttavia rimaneva visibile nonostante tutto.
Mentre la sua mente si soffermava su quelle riflessioni, il rumore di un coccio di vetro frantumato attirò la sua attenzione. Guardò in basso e si accorse di aver appena calpestato una vecchia cornice. Sforzò la vista e si piegò sulle ginocchia facendo per avvicinarsi a quella fotografia quando d’un tratto si bloccò.
La foto incorniciata dietro il vetro frantumato immortalava un ragazzino dai capelli biondi di sua conoscenza che, con lo sguardo serio eppure sereno, tipico di un piccolo adolescente, sembrò come richiamarla… richiamarla come avrebbe fatto il suo io adulto.
Riconoscere infatti l’Alfred bambino le riportò immediatamente in mente l’Alfred odierno, che pochi minuti prima l’aveva raccomandata di ignorare ogni elemento che avrebbe attirato la sua attenzione.
Quegli occhi, sebbene spenti da una fotografia, la richiamarono imperscrutabili. Ebbero la potenza di fare questo. Così la giovane raddrizzò la schiena e spostò il piede lentamente, in modo da non modificare la posizione di quell’oggetto, limitandosi a osservare semplicemente.
Alfred era vestito con un completo nero dal colletto ampio, consono a un certo tipo di abbigliamento degli anni ‘80. Era posto accanto a una figura adulta, molto probabilmente suo padre o un parente stretto. Egli aveva un’aria molto severa e nobile, eppure più umana di quel bambino dai capelli pallidi. Claire si sorprese di non vedere Alexia in quella foto. Di solito la bambina bionda era sempre presente in quei ricordi di famiglia. Eppure… eppure aveva ancora dei seri dubbi circa quella donna. Niente le avrebbe tolto dalla testa l’idea che la maggior parte dei quadri, articoli, ricordi in cui era rappresentata la scaltra e irraggiungibile sorella gemella di Alfred, fossero per lo più elaborati da lui stesso. In fin dei conti Alfred poteva facilmente apparire femmineo dal vivo, figuriamoci in una foto consumata dal tempo o in un quadro magari commissionato da lui stesso. Sarebbe stato molto facile ingannare chiunque e far credere dell’esistenza di quella donna.
Si chiedeva spesso quindi se mai un giorno ci avrebbe visto chiaro su quella storia.
Alzò lo sguardo e solo in quel momento si accorse che il corridoio dove stava avanzando già da un po’ stava per affacciarsi in un ambiente diverso. Quella cornice appena calpestata non era lì a caso, nel bel mezzo del nulla. Essa infatti era poco distante dalla moquette rossa che introduceva una lussuosa camera da letto.
Claire non era certo disabituata a trovare nel bel mezzo del nulla una stanza da letto, stranamente in quel luogo era abbastanza comune ed era capitato spesso, anzi.
Tuttavia stavolta non si trattava della camera dei gemelli Ashford, sebbene la struttura di base fosse simile. Era una stanza molto disordinata, ingombra di cianfrusaglie di ogni tipo, tipiche di una persona poco ordinata che non riponeva nulla al suo posto. Il letto era molto barocco, il legno intagliato che fungeva da base ricostruiva delle figure attorcigliate veramente singolari sebbene non riuscì a distinguere se riproducesse dei rami, dei fiori, o solo degli ornamenti tondeggianti. Il copriletto era gonfio e smesso, dal colore ingiallito dal tempo, ricamato con un motivo floreale. Fra le lenzuola erano nascosti vestiti, abbigliamenti intimi, persino bambole e animaletti di peluche. Alle spalle del letto vi era un enorme dipinto raffigurante un sentiero. A terra invece vi era un vistoso tappeto tappezzato di strane figure selvagge. Per lo più erano felini grossi e feroci in posizioni contorte, ma ciò che la turbò fu quando si accorse che alcuni di loro erano tagliati come a metà; erano animali deturpati e sfigurati. Era un disegno davvero di cattivo gusto che si rifiutò di guardare ulteriormente. Come poteva un’immagine simile essere stata scelta per una camera da letto?
Si concentrò dunque sul resto della stanza, attraversandola con fare prudente. L’armadio, le sedie, i mobili, erano tutti ingombrati da panni e gingilli inutili.
Claire ebbe come la sensazione che quella stanza fosse così proprio per attirare l’attenzione di chi l’attraversava. Chiunque avrebbe istintivamente preso fra le mani almeno qualcosa, anche solo per guardarlo da vicino. Lei non sapeva se persino uno straccio a terra avrebbe potuto innescare qualche trappola, ma sapendo del pericolo incombente badò bene di non correre quel rischio. Tuttavia era frustrante riflettere sul fatto che chiunque, di fronte tanta roba, sarebbe stato indotto in tentazione e avrebbe commesso bonariamente l’errore di spostare qualcosa.
La Redfield spostava lo sguardo da una parte all’altra, attenta a ciò che faceva. Si sentì strana nel dover guardare e passare. Vi erano dei fogli scritti sulla scrivania, come le pagine di un diario o qualcosa del genere. Dovette però sforzarsi di andare avanti. Sentiva che se si fosse avvicinata sarebbe successo qualcosa di brutto. Era come se quella stanza puzzasse di inganni.
Doveva resistere a quella tentazione di esaminare e vedere tutto. Doveva lasciare la stanza.
Dinanzi a sé trovò però la porta chiusa. Stava istintivamente per toccare il pomello quando una voce interiore la bloccò per tempo.
Ricordò le parole di Alfred, ovvero di non toccare nulla e che lui le avrebbe aperto il percorso. Questo comprendeva anche quella porta?
Claire si fece questo scrupolo e decise di fidarsi del suo istinto. Anche quella porta era un inganno. Doveva attraversare quella stanza senza modificare niente.
Si guardò dunque di nuovo attorno.
Il suo sguardò a un tratto andò finalmente a focalizzarsi su l’elemento giusto. Distinse fra gli ornamenti che riempivano quella stanza una figura che l’Ashford aveva descritto: la statua di una donna che sembrava affacciarsi.
Si chiese come aveva fatto a non notarla subito, inquietante com’era. In verità, con tutte quelle cianfrusaglie in giro, era facile che potesse sfuggire a un primo sguardo. Soprattutto perché era più distinguibile dal fondo della camera che dall’ingresso.
Era una figura che ricordava molto una dea greca, il materiale era simile al gesso e il suo sguardo era pulito e levigato; il suo sorriso accennato tuttavia inquietava l’osservatore, era come se volesse dirle ‘ti ho fatto uno scherzo’, sbucando da un angolo della stanza.
La rossa le si avvicinò e la osservò alla ricerca della perla che doveva trovarsi nella sua pupilla come le aveva detto Alfred.
In realtà faceva abbastanza spavento analizzare il viso così birichino di quella scultura. Faceva abbastanza paura a dirla tutta. Tuttavia non indugiò e cercò bene quel che doveva trovare assolutamente. Non faticò a notare che il bianco dei suoi occhi era appena un po’ diverso sull’occhio sinistro, la cui superficie a guardare bene sembrava di un materiale diverso. Così allungò le dita e, come aveva intuito facilmente, quella pupilla era proprio la perla di cui le aveva parlato Alfred.
Si girò dietro di sé, chiedendosi se a quel punto la porta alle sue spalle si sarebbe aperta.
 
 

***
 


 

Sotterranei dei laboratori artici dell’Umbrella
Bivio - Alfred
 


 
Del fumo dall’odore dolciastro uscì leggero dalle vie respiratorie del giovane e pallido signore di quelle tenebre. Soffiò apatico lasciando che il calore si propagasse nel suo torace, alleviando col suo bruciore le sue sempre più pesanti angosce. Alfred Ashford era riuscito a realizzare una sigaretta di fortuna con delle foglie che sapeva essere custodite in quella sala monumentale. Suo padre era un appassionato di sigari, nonché un grande studioso e conoscitore della sua storia, faceva quindi giungere foglie di tabacco di grande qualità da ogni parte del mondo per assaporarne e collezionarne le tipologie. Lui invece non era un grande fumatore, tuttavia in talune circostanze aveva approvvigionato dalla riserva di suo padre e negli anni più recenti aveva cominciato ad apprezzarne il gusto intenso e il loro forte profumo. Col tempo aveva imparato a conoscerli e aveva scoperto di preferire fabbricarli lui stesso, in modo da dosare la loro intensità; voleva che quel fumo bruciasse…bruciasse tutto dentro di lui, trascinando con sé l’inferno interiore che lo opprimeva. Per qualche istante mandava in fiamme ogni cosa, avvolgendo nella sua coltre di fumo quel cuore che non smetteva di soffrire.
Soffiò di nuovo, osservando i movimenti leggiadri e suggestivi del fumo che assumeva forme che in qualche modo evocavano sempre qualcosa.
Assorto in quel lungo momento che voleva affogare le sue ansie, il biondo vedeva dinanzi ai suoi occhi il volto innocente eppure determinato della Redfield.
I suoi pensieri non erano focalizzati su qualcosa in particolare. Pensava a lei e basta, nulla di più. Pensava ai suoi lineamenti, al suo sguardo, al colore delle sue iridi profonde, alla sua bocca definita, alla sua pelle chiara, ai suoi capelli scuri tendenti al rosso.
Un tonfo attirò la sua attenzione. Il diario personale che aveva conservato nella sua casacca era accidentalmente caduto a terra. Alfred lo osservò a metà insicuro, a metà sprezzante; anche il solo osservare quel ‘custode di pensieri e ricordi inaccessibili’ provocava un senso di sdegno dentro di lui. Era come se lo rinnegasse, come se non volesse ammettere di averne bisogno. Di aver bisogno di quei segreti che non amava confessare, ma che in quel libro avevano un corpo…e soltanto dando un corpo ai propri problemi è possibile risolverli.
Lentamente si piegò verso di esso prendendolo fra le dita, portando a col tempo il sigaro verso la sua bocca e ispirando. Le pagine andarono ad aprirsi proprio sui resti di quei fogli che furono tagliati; che lui stesso tagliò via.
A quel punto i suoi occhi di ghiaccio si fecero bui.
Quasi come una curiosa risposta del destino, lo stoppino della candela che aveva di fronte si spense. In quell’istante in cui la Redfield affollava i suoi pensieri, in cui cercava di strapparla via dal suo cuore, puntuale ecco che si mostrava di nuovo proprio nei suoi momenti cupi e solitari.
Se quel candeliere si era spento, era perché la ragazza aveva estratto la perla dalla statua, dunque spettava a lui intervenire adesso.
Fu affascinante immaginarla perfettamente nel contesto dove ella doveva trovarsi, quell’immagine lo estasiava perché lei era li per lui. Era li a giostrare con lui quella difficoltosa e inverosimile trappola mortale in cui entrambe le loro vite erano in realtà appese a un filo.
In una visione eccentrica e deviata, per Alfred era una sensazione nuova sapere qualcuno al di là delle mura ove lui vagava solitario. Qualcuno di cui inammissibilmente amava la presenza.
In quello stesso momento, le sue labbra si allungarono alle estremità in un velato e sincero sorriso.
Sorrise mentre si alzò dalla lucida pavimentazione marmorea per avanzare verso il meccanismo che avrebbe rispettivamente aperto il percorso a Claire, ma ineluttabilmente stroncato il suo. Era così che si lottava in quel mondo.
I percorsi erano stati progettati perché si alternassero, in modo che se la “coppia” fosse stata accidentalmente divisa, sarebbero morti non potendo collaborare l’uno con l’altro. Questo perché non si poteva sperare di vivere senza la propria metà.
Lui era l’architetto dietro tali macchinazioni, per cui sapeva le sue falle e le sue vie di fuga.
Tuttavia comunque doveva affidarsi alle mani e al cuore di Claire, perché per proseguire anche lui aveva bisogno di una “coppia”, anche lui rischiava la vita ora che era stato diviso dalla sua metà. Esattamente come voleva la sua “giostra”.
Doveva dunque ineluttabilmente aprire la via di Claire e sigillare la sua, era il solo modo per far sì che più avanti sarebbe stata lei a sbloccare l’uscita a lui.  
Sorrise quindi mentre decretava in quel momento una sua libera scelta di rinchiudersi per sempre in quelle mura se la giovane avesse miseramente fallito.
Sorrise sereno persino della possibilità della morte, di perire di fame e di sete, di dolore e noia.
Sorrise, perché pensava a lei.
Alla sua bella Claire Redfield.



 
***
 


 
Sotterranei dei laboratori artici dell’Umbrella
Bivio – Claire


 
Clank
 
Un debole, eppure nitido suono in quel silenzio lugubre e ingombrante, giunse all’orecchio della Redfield la quale non aspettava che quel segnale.
Se aveva udito giusto, la porta doveva essere aperta adesso, ciò voleva dire che aveva rispettato le regole di quell’enigma mortale di cui non conosceva nulla. Era scampata a una morte che non poteva nemmeno ipotizzare, se non avesse avuto l’aiuto di Alfred Ashford. Le sembrava strano pensare che in una situazione diversa poteva essere caduta in quella trappola senza sapere nulla e incombere in una morte inaspettata. Era un pensiero più devastante di quello che sembrava, l’essere coscienti, ma incoscienti di quel “a cosa era effettivamente scampata?”.
Più volte si era risposta che era meglio non pensarci. Era viva e stava proseguendo in quel labirinto della follia ove combatteva contro la distruzione ogni minuto; eppure non era facile non farsi prendere da quell’onesta paura. Paura di non essere sempre pronta, di non avere sempre le conoscenze e la fortuna necessaria per superare i pericoli nascosti ai suoi occhi.
Quella stanza ne era un crudele esempio. Un crudele esempio di inganno e di morte, celato fra le sontuosità e le eccentricità degli elementi che la ingombravano.
Vedeva quella statua affacciata come la metafora di Alfred stesso, di quell’uomo che ridendosela sotto i baffi, si chiedeva se la sua vittima occasionale sarebbe caduta nel tranello. Era un’immagine fastidiosa, disturbante, crudele.
Tuttavia quella stessa figura era quella che in quel momento era dalla sua parte al momento e l’aveva salvata.
Era difficile da accettare. Era difficile fidarsi totalmente. Era difficile…afferrare il pomello di quella porta e andare avanti.
Si sentiva sempre più imprigionata, sempre più indifesa.
Aveva paura, molta paura.
Allungò le dita con l’incertezza di aver fatto giusto, di aver risolto quell’enigma, con la consapevolezza che qualcosa di losco era celato in quella camera da letto e attendeva soltanto un suo piccolo passo falso. Le dita strinsero e girarono quel pomello d’ottone in un gesto quasi irrazionale, di chi ordina alla sua testa “non pensare, agisci”.
Quando questo girò normalmente e non accadde nulla, tirò un sospiro di sollievo.
Si voltò indietro un’ultima volta prima di proseguire.
Ricordò le parole di Alfred, ovvero che per proseguire lui doveva sbloccare la strada a lei, e lei…a lui. Quella scelta, purtroppo, spettava a lei.
Alfred era in quel momento solo, abbandonato al suo destino…che era nelle sue mani. Almeno così lui le aveva fatto credere.
Una parte di lei ipotizzava ovviamente l’ennesimo tranello da parte di Ashford, eppure la ragazza era un fascio di nervi. Perché voleva quella fiducia. Voleva che alla fine di quel percorso lui la guardasse negli occhi… sconvolto. Felicemente sconvolto.
Stranamente non desiderava che questo.
Spinse la porta e avanzò, ritrovando davanti a sé l’ennesimo corridoio angusto, stavolta illuminato da una curiosa e suggestiva luce blu.
Claire chiuse la porta dietro di sé e osservò l’ambiente. La luce proveniva da delle fiaccole che costeggiavano interamente le mura. Data la loro colorazione, era evidente fosse un fuoco artificiale, del gas. L’ambiente era anche particolarmente caldo, come fosse circondata da fornelli da cucina.
Stette ben attenta a dove mettesse i piedi o a qualunque cosa incombesse sul suo cammino. Non aveva dimenticato che non doveva assolutamente toccare nulla. La regola era valida fino alla fine di quel percorso.
Doveva tenerlo a mente.
Ripescò dalla tasca dei jeans il foglietto lasciatole da Alfred. Stando a ciò che le aveva detto, adesso toccava ai quadri da riordinare. Avrebbe trovato “le frustate e gli scherni del tempo”, “il torto dell’oppressore”, “la contumelia dell’uomo superbo”, “gli spasimi dell’amore disprezzato”, “il ritardo della legge”, “l’insolenza delle cariche ufficiali”, e “il disprezzo che il merito paziente riceve dagli indegni”.
Era un enigma davvero altisonante, doveva riconoscerlo.
Se avesse conosciuto Shakespeare a memoria non sarebbe stato un problema. Tuttavia diciamo che il famoso verso “Essere o non essere, questo è il problema” era l’unico a lei familiare. La sua conoscenza si fermava lì, purtroppo.
A livello poetico lo conosceva, ma non così tanto da sapere a memoria l’intero soliloquio come Alfred.
Rilesse quindi quell’indicazione, felice di poter consultare una soluzione e non dover sforzarsi di farlo lei.
Si bloccò d’improvviso quando, alla fine del corridoio, a bloccare la strada era un enorme specchio, alto fino al soffitto.
Istintivamente scrutò la sua immagine: era sporca di polvere, terra e sangue; i suoi jeans erano strappati, la maglia visibilmente sgualcita, il viso sporco, i capelli erano raccolti ma in disordine. Passò una mano fra questi, consapevole di poter essere molto meglio di così, ma non si biasimò più tanto. Le occhiaie e l’espressione stanca erano lo specchio di quei lunghi giorni passati a vagare e lottare senza sosta.
Doveva farsi coraggio e continuare.
La luce blu alle sue spalle faceva risaltare il bianco della sua pelle e i suoi profondi occhi. Rimase a scrutarsi a lungo, riconoscendosi a stento. Era da così tanto che non si guardava da avere forse nostalgia di se stessa, di chi era.
Le mancava enormemente la sua vita.
Fu un naturale e giustificato momento di frustrazione. Gli occhi le bruciavano, i suoi denti digrignavano, cercando di trattenere la depressione. Strinse il fucile da caccia di Alfred, l’unica cosa che potesse abbracciare in quel momento.
Era sola, sporca, debole e stanca.
Era solo una ragazza di diciannove anni, cosa ci faceva lì? Cosa ci faceva a lottare con un fucile in mano? Cosa ci faceva una normale e semplice ragazza con un fucile in mano?
Tremò.
Era…davvero frustante…dover continuare a trovare una…motivazione…sempre…da sola…
Scosse la testa e asciugò gli occhi.
Osservò di nuovo se stessa attraverso quel riflesso, ricordando di non essere una semplice ragazza.
Lei era una combattente, lo era sempre stata. Se non avesse avuto delle vere e serie capacità non sarebbe mai arrivata viva fino a quel punto.
Quell’immagine era solo esteticamente minuta e fragile. La donna decisa e fiera che era dentro aveva una volontà e una forza inimmaginabile. Non era un modo per spronarsi ad andare avanti, non si stava prendendo in giro, era invece un giusto riconoscimento dei suoi meriti e doveva ricordarselo. Doveva smettere di sentirsi debole. Aveva ormai un lungo cammino alle sue spalle, ove non tutti ce l’avevano fatta come lei.
Non era facile portare un simile peso sulle proprie spalle e sapeva bene che persino per lei la morte poteva celarsi dietro ogni angolo.
Tuttavia Claire non voleva morire, non si sarebbe arresa, non avrebbe ceduto alla stanchezza del suo corpo. Esteticamente poteva sembrare sporca, fragile, sfiancata, ma la sua mente era ancora vigile e attiva…e questo era tutto. Doveva conservare la sua lucidità ad ogni costo.
Spostò dunque lo sguardo dal suo riflesso per concentrarsi sul resto.
La strada era bloccata da quel vetro e non poteva proseguire.
Si voltò indietro, osservando le torce bluastre. Magari nascondevano qualche meccanismo?
Non era certa di volerlo fare, l’Ashford si era fortemente raccomandato di non toccare nulla. Qualsiasi elemento in quell’ambiente era un inghippo per intrappolare lei…e anche lui.
Se Claire avesse fallito, anche Alfred sarebbe rimasto imprigionato.
Le dita erano tese verso quella fiaccola, ma non trovava la volontà nemmeno di sfiorarla, spaventata dall’idea di errare. A malincuore decise di desistere e formulare altre ipotesi prima di proseguire, tornò dunque davanti lo specchio che bloccava la via.
Se Alfred l’aveva posizionato alla fine del corridoio, doveva esserci un perché; era un’ubicazione davvero strana, era lampante che bloccasse un passaggio o comunque fosse lì per nascondere qualcosa.
Aguzzando meglio la vista, si accorse che non aveva sbagliato; al di là dello specchio era possibile scorgere qualcos’altro oltre al riflesso, era come se…come se vi fosse qualcosa.
In quel momento si accorse che non era solo un’impressione ma un effetto ottico! Quello specchio non era uno specchio, ma solo un vetro molto lucido e riflettente.
Probabilmente erano proprio le luci molto accese e bluastre di quel corridoio che creavano quell’effetto facendolo apparire uno specchio. Questo voleva dire che la strada proseguiva, non era un vicolo cieco.
Doveva solo trovare il modo di spostarlo senza toccarlo.
Scrutò meglio cosa si intravedesse al di la di questo; il riflesso era molto forte per cui la vista faticava davvero molto, tuttavia, una volta abituata, era abbastanza nitida l’ombra di una candela che irraggiava da un angolo e la pavimentazione che proseguiva oltre lo specchio; non si vedeva molto altro.
Il tempo per indugiare era finito, era ora di agire.
Decise di puntare il fucile verso il vetro e sparare. Fu un piccolo e tenue gesto…e in meno di un secondo la strada che prima era bloccata si trasformò in una serie di frammenti rotti.
Metà di quello specchio era ridotta in frantumi e, soprattutto, niente pareva averla attaccata.
Stette attenta a non ferirsi passando fra i pezzi scheggiati. Lo scricchiolio del vetro sotto i piedi si propagava in quel lugubre silenzio mentre lentamente si ritrovò finalmente dall’altra parte, di fronte il nuovo enigma da risolvere.
Stavolta l’ambiente era molto più caldo; delle candele sparse un po’ ovunque illuminavano in modo flebile la stanza. La cosa strana erano dei manichini buttati a casaccio, come se fossero stati riposti in quel luogo frettolosamente. Erano infatti inclinati e danneggiati.
Vederli le ricordò la “casa delle bambole”, forse era lì che Alfred aveva conservato i pezzi inutilizzati. Ad ogni modo dei manichini in un posto così cupo avevano un che di diabolico.
Sapeva di dover cercare un riferimento al soliloquio shakespeariano, ma non era facile in quel trambusto. Solo dopo aver cercato in lungo e in largo si accorse che l’unico elemento che potesse tornarle utile era qualcosa nascosto fra i manichini.
Era una sorta di…teschio, forse?
Era ovviamente restia se seguire l’istinto o no, fatto stava che l’odore di vecchio e di muffa, nonché l’oppressione di essere ormai da un bel po’ in quella stanza senza sapere che fare, non la mettevano certo a suo agio.
Solo quella sorta di teschio deforme le sembrava richiamare un po’ quella distensiva morte che metteva fine alle umiliazioni e alle sofferenze umane di cui parlava Shakespeare.
Si domandò perché Alfred non le avesse specificato di dover interagire con qualcosa di simile, era un dettaglio che la metteva enormemente in dubbio, scrupoloso com’era stato.
Si avvicinò, piegandosi verso quella figura, sperando che scrutandola da vicino le suggerisse qualcosa. Quel che non poteva aspettarsi era che questa sentì il suo odore e quando Claire fu a pochi centimetri da essa, vide quegli enormi bulbi scuri e vuoti alzarsi orribilmente verso di lei, spalancando le sue fauci dentate. Senza nemmeno accorgersene, questa avvinghiò le dita ossute eppure energumene sul suo cranio, stritolandolo e portandola di fronte a sé. Fu un’immagine agghiacciante.
Un urlo soffocato uccise i timpani della Redfield, che sentì la sua sanità mentale andare in tilt di fronte quella figura spaventosa. Questa si eresse in piedi e si rivelò essere più possente di quel che sembrava. Non era solo un teschio, era un intero mostro dalla pelle talmente sottile e rinsecchita da sembrare scheletrico. Vista nella sua interezza, l’ossatura non era quella di un essere umano, la testa ingannava le sue dimensioni reali. La creatura era enorme, possente, vigorosa.
Chissà che diavolo di forma doveva avere prima di invecchiare e putrefarsi in quel modo, visto che nonostante le ossa da fuori e il colore giallastro restava così mastodontica.
Il suo odore era nauseante, doveva essere lì a marcire da mesi, se non anni.
Claire poteva sentire la fame e la disperazione che emanava, lei non era che il desiderato pasto di una creatura fabbricata e lasciata in quel sotterraneo a marcire.
Si ritrovò sollevata da terra fra le sue grinfie, mentre quel teschio invecchiato la scrutava pur non avendo più occhi, se non quelle enormi orbite vuote.
Istintivamente chiuse gli occhi, non reggendo quella faccia veramente mostruosa. Puntò il fucile dinanzi a sé e sparò; sparò senza sosta, ricaricando un paio di volte senza pensare al dolore.
Il mostro mollò la presa, così lei cadde a terra, trovando la salvezza almeno fino a quel momento.
Alzò gli occhi verso quella creatura, notando le voragini che avevano aperto i colpi sul suo corpo, tuttavia non scorreva nemmeno una goccia di sangue in quel tessuto ormai consumato.
Si rimise velocemente in piedi, sentiva le gambe tremare.
Quella massa era enorme, ma quel corpo era vecchio. Si chiedeva se potesse quindi abbatterlo o doveva scappare, e in fretta!
La bestia ruggì di nuovo, al che Claire non ci pensò due volte a passare di nuovo attraverso il vetro rotto e guadagnare terreno. Stavolta non potette strisciare lentamente per non graffiarsi. Sentì ogni singola scheggia graffiare il suo corpo e le sue vesti. Strinse gli occhi cercando di tenere almeno il viso in salvo, ma l’avere quel mostro alle sue calcagna non l’aiutò a concentrarsi.
Con la coda dell’occhio vide quell’essere distruggere quella stanza. I manichini erano in mille pezzi, così come i pochi elementi che l’arredavano.
Meno male che Alfred si era raccomandato di non toccare nulla, pensò fra sé, sperando che per colpa di quel mostro non avesse buttato al vento ogni possibilità di salvarsi.
Tuttavia doveva salvarsi la vita in “quel” momento, prima di tutto.
Una volta passata oltre, corse verso la fine del corridoio e si posizionò in ginocchio.
Prese bene la mira e aspettò di avere a tiro il nemico, che famelico riuscì a individuarla anche senza vista o olfatto. Era raccapricciante vedere come quello scheletro si muovesse nonostante non potesse in nessun modo farlo! Doveva essere una B.O.W. senza alcun dubbio.
Era spaventoso cosa quel virus fosse capace di fare, quanto potesse tenere in piedi persino una creatura ridotta orribilmente in quel modo. Senza organi interni, né muscoli, né qualsiasi tessuto ne potesse permettere oggettivamente la vita.
Non appena lo ebbe minimamente a tiro, BAM, premette il grilletto e ricaricò. Seguì un altro colpo e un altro ancora.
Claire mirò alle sue gambe, in modo da rallentarlo, poi alla massa, ed infine alla testa.
Doveva capitolare a un certo punto…doveva!!
A un certo punto lo ebbe a una gittata troppo vicina, decisamente vicina. Non poteva utilizzare nemmeno il binocolo montato sull’arma, poiché la b.o.w. era praticamente di fronte a lei. Usò quindi il fucile come un fucile a pompa e sparò…sparò pregando che quello fosse l’ultimo colpo.
Esalò così l’ultimo respiro…urlando a pochissimi centimetri dal suo viso. Capitolò e infine sprofondò a terra inerme.
Il tanfo terribile che emanava quell’alito disperato le rivoltò lo stomaco, costringendola a vomitare.
Le sue viscere si contorsero violentemente, esigendo di liberarsi da quell’estremo disgusto.
Aveva le lacrime agli occhi, si sentiva venir meno.
Claire asciugò la bocca e tremante si voltò verso il mostro, stavolta davvero morto.
La carcassa era sopra di lei, le bloccava le gambe.
Aveva avuto così bisogno di rigettare da non scostare nemmeno quell’orribile cadavere da dosso. Si mise in piedi e traballante cercò di riprendersi, ma soprattutto di andare via al più presto.
La testa girava vorticosamente. Era oramai sull’orlo della sopportazione, lo stress accumulato la faceva sentire fredda e vacillante.
Tornò nella stanza e si affacciò dentro; osservò con preoccupazione il disastroso macello creato dal mostro, terrorizzata dall’idea che avesse toccato qualcosa che non doveva essere mosso.
Il suo sguardo era totalmente confuso e affranto, non sapeva davvero che fare.  Non sapeva nemmeno su cosa focalizzarsi.
Era tutto un disastro di detriti, di resti di quei pochi arredi che prima erano presenti; ora ingombravano il pavimento, ricoperti da un grigio e denso strato di polvere alzatosi dopo l’impatto.
Il suo sguardo si spostò ove erano ammucchiati i manichini. Adesso che erano stati scaraventati tutti per aria, era stato liberato il passaggio e poteva scrutare quella zona. Braccia dalle mani affusolate e dita contorte indicavano in vaghe direzioni, a seconda di dove erano cadute. Busti, gambe e teste componevano una figura umana del tutto errata e scomposta, gravando sull’atmosfera già abbastanza inquietante. Era come se quello squilibrio rappresentasse la sua stessa confusione mentale, non riusciva nemmeno a guardarle, terrorizzata dall’idea di finire mentalmente a pezzi, come loro.
Quella terribile e spaventosa paura di impazzire.
Una testa era esattamente davanti a lei, in posizione erta sul pavimento.
Una posizione decisamente curiosa. Come era potuta rimanere in piedi dopo quel trambusto? Era anche decisamente lucida, pulita, come se il risveglio di quella terribile e funesta b.o.w. non l’avesse nemmeno scalfita. Era probabilmente l’unico oggetto non solo in ordine, ma anche pulito e senza alcun segno del tempo.
Il volto era quello del tipico uomo con i capelli pettinati all’indietro, intagliati nel legno lucido. Un tipo di disegno tipico dei manichini maschili.
Eppure più lo osservava, più le ricordava Alfred Ashford.
Forse glielo ricordava per via dei tratti così delicati e neutri, era facile che una figura del genere gli rassomigliasse in fondo. Il folle castellano aveva un volto molto fine e androgino, forse…proprio come un manichino.
Non era poi tanto difficile assimilarlo a quell’immagine. Aveva però dell’inquietante che quella testa fosse l’unica cosa che non fosse stata mossa dal mostro.
Era forse…davvero Alfred?
Claire lo circumnavigò, non avvicinandosi troppo ma nemmeno distogliendo gli occhi.
Quella testa attirava la sua attenzione, ma lei doveva andare avanti e rigare dritto. Doveva seguire esattamente cosa le aveva detto l’Ashford di fare.
Proseguì, addentrandosi oltre e dopo aver raggiunto il fondo di quell’angolo della stanza, notò una botola ai suoi piedi. Guardò alle sue spalle, scrutando gli altri angoli. Non c’era null’altro che potesse fare. Afferrò la grossa maniglia arrugginita e la tirò su con veemenza. Non doveva essere usata da secoli, era veramente ben incastrata. Digrignò i denti e dopo qualche tentativo lo strato di polvere che la teneva bloccata cedette e così poté sollevarla.
Si affacciò ma l’unica cosa visibile era la piccola scaletta a pioli che portava al piano di sotto. Era completamente ricoperta di polvere pruriginosa e ragnatele.
In circostanze normali non avrebbe nemmeno osato guardare un’entrata simile, eppure aveva già un piede sul gradino, pronta a penetrare in quell’antro angusto.
Era buio, non vedeva praticamente nulla. Per scendere quelle strette scalette dovette muoversi meccanicamente, sperando che non mancasse alcun gradino o non vi fosse alcuna insidia.
Sbandò quando, per calare giù il piede, ritrovo al di sotto il terreno pianeggiante. Aguzzando la vista, effettivamente le scale erano finalmente finite, non se n’era resa conto minimamente.
Alzò il viso e intravedeva ancora la stanza soprastante, non era scesa poi molto in profondità. La distanza sembrava essere più vasta proprio per il suo incedere lento per via dell’oscurità, ma a fatti era scesa di tre o quattro metri al massimo.
Si spostò dunque, girandosi attorno e sperando di vedere una fonte di luce al più presto.
Mentre camminava, improvvisamente si accorse di aver urtato qualcosa. S’immobilizzò spaventata e in quello stesso istante un focolare si accese illuminando finalmente l’ambiente.
Claire tirò un sospiro di sollievo quando vide finalmente dinanzi a sé l’enigma di cui le aveva parlato Alfred.
Sul fondo di quell’antro vi era un muro di pietra, sul quale erano appesi dei quadri molto antichi e consumati. Ritraevano diverse scene, ognuna che rimandava al soliloquio dell’Amleto, esattamente come le aveva detto l’architetto di quel teatro degli orrori.
Stette ad osservarli ad uno a uno, chiedendosi se li avesse fatti dipingere apposta o li avesse accuratamente cercati per il mondo pur di valorizzare il suo perverso eppure affascinate gusto del terrore.
Odiava che una parte di sé trovasse del fascino nel notare la cura maniacale che quell’uomo aveva dimostrato, nonché l’enorme sensibilità e cultura verso la storia e l’arte. Era terribile che invece avesse sfruttato tali qualità meravigliose per…per quello.
Per soddisfare la sua ira, la sua rabbia, la sua solitudine. Per godere della paura, del dolore, della crudele e spietata sofferenza della morte.
Perché il destino era stato così crudele nel condannare una mente così ingegnosa, libera, profonda, ad una pazzia così densa da rovinare la sua stessa bellezza?
Era come prendere un quadro bellissimo e maledirlo, sporcarlo, gettarlo in pasto alla depravazione.
Avrebbe tanto voluto rimetterlo in ordine e valorizzarlo…valorizzarlo come meritava. Si chiedeva soltanto se non fosse troppo tardi.
Forse avrebbe voluto portarlo via con sé con la forza e farlo rinascere…
 
Portare via Alfred Ashford da Alexia…
 
…poteva farlo?
 
Scosse la testa e reperì il foglietto dalla tasca.
Doveva posizionare delle placche numerate sotto i quadri e metterli in ordine.
Prima di completare l’enigma però ricordò che doveva aprire la strada ad Alfred.
Doveva esserci un tastierino nascosto dietro a una porzione di muro. Non sapeva come riconoscere il punto ma non poteva rischiare di andare avanti senza prima essersi assicurata di aver messo in salvo chi le aveva dato i mezzi per arrivare fin lì.
Costeggiò dunque l’intero muro, picchiettandolo e aspettando di sentire un rintocco vuoto.
Quando trovò un punto idoneo, usò il calcio del fucile per abbatterlo e questi cedette senza troppi problemi. Evidentemente era ricoperto solo da un po’ di calce.
Fu lieta di intravedere subito il tastierino digitale che lui le aveva menzionato. Buttò giù con le mani quel che rimaneva ancora attorno al dispositivo, dopodiché posizionò le dita su di esse ricapitolando il numero da digitare. Un numero che aveva avuto ben modo di memorizzare…1971…
La data di nascita dei gemelli Ashford.
Sbirciò di nuovo il foglio lasciatole da Alfred, tanto per controllare, eppure sbandò quando si accorse che non era stato appuntato quel numero. Cos..cosa? Perché non l’aveva scritto?
E se erroneamente avesse memorizzato la combinazione errata?
Come aveva potuto essere così incosciente?
In quello stesso momento pensò………………..lui…l’aveva messa alla prova?
Aveva messo a rischio la sua vita pur di sapere se lei si fosse ricordata di lui?
Il suo cuore sussultò.
Una parte di sé provo turbamento, voleva che lui contasse su di lei, era pronta a rappresentare quel…quel…
 
Quell’essere una persona differente.
 
Claire non era una persona come le altre.
 
Alfred aveva conosciuto solo egoismo, violenza, abbandono, tradimento, solitudine.
 
Lei sapeva di poter essere qualcuno di diverso per lui.
Nonostante le facinorose e cruciali circostanze che avvolgevano di tenebre la vita immorale di Alfred Ashford, la ragazza era riuscita a connettersi a una parte di lui.
Non sapeva bene come, non poteva giustificare i suoi comportamenti e le sue deviazioni mentali, né lo avrebbe fatto, però aveva intravisto la sua umanità…e come invece doveva evitare di fare, era arrivata fino in fondo.
 
Cosa vi aveva trovato?
Un ragazzo solo, triste, abbandonato.
 
Lei quell’uomo lo aveva visto. Sapeva della sua esistenza. Sapeva dei suoi dolori.
 
Poteva aiutarlo? Non lo sapeva.
 
Qualcuno sarebbe mai stato disposto ad aiutarlo?
Fin ora nessuno lo aveva fatto, per questo lui era caduto.
 
Era un’enorme responsabilità decidere di essere quel qualcuno. Quel qualcuno che avrebbe combattuto contro la razionalità e lo spirito di sopravvivenza, andando contro la logicità e il sennò.
Questo pur di posare una mano sulla sua spalla e sussurrargli parole di conforto.
Pur di dirgli…
 
“Non sei solo.”
 
Sulla guancia di Claire scivolò una lacrima. La ragazza sbarrò gli occhi incredula. Non si era nemmeno accorta di aver cominciato a piangere.
Si asciugò velocemente.
Era terribile sapere cosa significasse sentirsi abbandonati.
Era terribile immaginare di non aver mai avuto nessuno al proprio fianco per ventisette lunghi anni.
Non si trattava solo di Alexia. Alfred Ashford era solo da molto prima. Lui era stato considerato fin dalla sua nascita un “errore”. Un “sovraccarico” dell’intelligenza della reincarnazione di lady Veronica.
Nessuno l’aveva mai considerato. Nessuno lo aveva mai accettato.
Eppure lui esisteva. Lui era vivo. Lui era un grande genio mancato, che pur di gridare al mondo la sua esistenza e il suo valore, aveva inscenato quel palcoscenico insanguinato.
Con quale arroganza Claire poteva farsi avanti e essere quel qualcuno che non gli avrebbe voltato le spalle? Come gli avrebbe detto che poteva ancora cambiare e ricominciare tutto?
Tuttavia se non lei, chi l’avrebbe mai fatto?
Chi, incontrandolo, sarebbe mai riuscito arrivare al suo stesso livello di conoscenza?
Le circostanze che l’avevano portata a entrare nel suo mondo erano irripetibili. Chiunque avrebbe puntato una pistola e l’avrebbe semplicemente arrestato o ucciso.
L’Ashford era totalmente fuori controllo, irreparabilmente deviato.
Se non per lei…
Claire…era forse l’unica persona al mondo… a distanza di quindici anni dalla fantomatica ibernazione di Alexia…a credere in lui. A guardarlo con occhio umano.
 
Questo…
Le faceva paura.
 
Le faceva paura perché avere accanto un uomo come lui era arduo, ed era pericoloso.
Egoisticamente avrebbe dovuto pensare solo a sé stessa, a scappare; a trovare Steve e fuggire da quel dannato posto.
Tuttavia…
 
Tuttavia voleva portare anche Alfred con sé.
Portarlo via come uomo.
Portarlo fuori quale prigioniero di quel posto.
Perché anche su di lui vigevano le forti e robuste catene dell’Umbrella, anche se in modo diverso.
Una prigione mentale da cui non sapeva se poteva tirarlo fuori; ma non poteva nemmeno abbandonarlo così.
Doveva salvarlo.
 
Alfred non cercava alcuna salvezza. Lui voleva morire in quel posto. Non era poi tanto dissimile dagli zombie che combatteva.
Loro erano famelici di carne viva, insaziabili e funesti. Bramavano soltanto di nutrirsi, di sopraffare coloro che incombevano sul loro cammino pur di saziarsi di una fame che non avrebbero mai soddisfatto.
Lui invece voleva solo proteggere Alexia, attendere il suo risveglio. Voleva aiutarla a essere una vincente, a realizzare i suoi desideri fino a ridursi lui stesso in follia. Lei che era la sua unica Luce. Lei che era la sua unica Regina. Era insaziabile di lei, di un amore che non lo avrebbe mai soddisfatto però.
Perché in realtà, se si guardava allo specchio, egli era solo. Era sempre e comunque solo.
 
Era Lei la persona che avrebbe fatto la differenza nella sua vita?
 
Oppure lui…l’avrebbe uccisa?

1…Bip, 9…Bip, 7…Bip, 1…Bip

Una volta inseriti i numeri, il tastierino emise un suono e una spia verde s’illuminò. Il codice era corretto, poteva proseguire.
Riordinò i quadri assegnando una piastrella ad ognuno di questi seguendo l’ordine recitato nell’Amleto, al che su ognuno di essi calò una tenda color amaranto e si fece spazio una pedana ove era adagiato lo stiletto che toglie gli affanni.
La Redfield lo prese fra le mani, e a quel punto il muro cominciò a tremare fino a inabissarsi nella pavimentazione.
Trovò così davanti a sé due percorsi.
Alfred le aveva detto che poteva scegliere tranquillamente la via che preferiva.
Suggestive ed inquietanti erano però le incisioni che contornavano la parte superiore di entrambi i percorsi, ove l’uno era denominato La via della morte, l’altro La via della via.
Claire deglutì e senza perdere troppo tempo optò per La via della vita. Era un tantino più incoraggiante, almeno.
Infilò lo stiletto nella serratura, il quale scivolò dentro di essa rispondendo perfettamente al meccanismo.
Fece il primo passo avanti, aprendo la porta e iniziando il nuovo cammino.
Talvolta si voltò indietro, aspettandosi che il passaggio si chiudesse dietro di sé, cosa che però non avvenne.
Era probabile dunque che entrambe le strade restassero aperte proprio per indurre in tentazione l’indesiderato ospite, in modo che più facilmente cadesse in qualche tranello.
Alfred le aveva raccomandato anche di non tornare mai sui suoi passi una volta intrapresa una strada. Una tentazione difficile da superare quando si avevano davanti due strade.
Come se quelle mura avessero potuto ascoltare i suoi pensieri, udì improvvisamente il suono di un carillon…un suono a lei familiare.
Si trattava del motivetto che spesso aveva sentito a Rockfort Island e che faceva da sfondo a molti enigmi riguardanti gli Ashford.
Poteva definirla una sorta di ninna nanna dei gemelli Ashford, o almeno era una sinfonia assimilabile a quel tipo di musica.
Era molto dolce e profonda, eppure le aveva sempre trasmesso un non so che di triste.
Sbandò quando, a metà del percorso intravide una porta semi aperta, dalla quale fuoriusciva un tenue bagliore di luce. Istintivamente sbirciò dentro mentre passava e il suo sguardo cadde immediatamente su una sedia a dondolo che oscillava, ove era adagiato qualcuno di spalle. Era una camera da letto, si intravedeva il camino, un letto, delle bambole…e la donna ivi seduta aveva dei lunghi capelli biondi. Il suono proveniva da lì; era lei che lo stava ascoltando.
Per un attimo, la Redfield si fece prendere dall’istinto e si approssimò alla porta ponendosi a pochi centimetri di distanza dall’uscio semi chiuso. La luce proveniente dall’interno rigò parte del suo viso. Non poggiò nemmeno le dita sulla porta, né osò avvicinarsi di più; si limitò ad osservare la scena e a farsi cullare da quella nostalgica melodia, seguendo il movimento della sedia che oscillava. Infine tornò sui suoi passi, consapevole del grande rischio in cui poteva incombere se avesse deciso anche solo di muovere un passo in quella stanza.
Mentre Claire si faceva sempre più lontana, dall’altra parte di quell’uscio la sedia smise di oscillare. La trappola…non era stata innescata.
La ragazza arrivò alla fine del percorso. Alla sua sinistra trovò l’uscita anche dell’altra strada, quella della Morte.
In verità non ci pensò nemmeno a percorrere anche quel sentiero. Era troppa la paura di sbagliare, troppa la tensione dietro ogni suo singolo gesto. Aveva preso molto alla lettera le parole del biondo.
Inoltre sapeva cosa presto avrebbe dovuto fare e l’idea la ripugnava abbastanza; sperava soltanto di aver immaginato in modo esasperato ciò che le aveva preannunciato Alfred.
Questo perché l’ultimo ostacolo che le restava…era il Cuore.
Doveva calpestare un cuore affranto. Liberarlo dal suo dolore.
L’ambiente man mano si fece sempre più insolito, andando a rassomigliare a una struttura più attuale. Le pareti erano ammuffite e sporche, ma aveva come l’impressine di essere in una zona più simile a un laboratorio.
Lo capì dalla struttura indubbiamente invecchiata, tuttavia ordinata e ampia, costruita con i materiali tipici di quel tipo di settore.
Ovviamente si ritrovò poi davanti una porta con su scritto “Obitorio”.
Avrebbe fatto qualsiasi cosa in quel momento pur di non entrare.
Usò di nuovo lo stiletto per entrare, dopodiché avanzò. Scese pochi gradini e si ritrovò in un’orribile stanza colma di buste e sacchi neri, più o meno riempiti. Un corpo semi mummificato era adagiato su uno dei lettini di acciaio.
Si pietrificò quando notò che aveva una veste militare e che quel che rimaneva dei suoi capelli radi era di un color platinato molto delicato.
Fu un’immagine che la turbò enormemente.
La giacca era rossa, con i tipici decori militari; i pantaloni di un bianco sporco; uno spadino da ufficiale era incastrato nella sua cintura; ma soprattutto la sua espressione sofferta, tipica di un corpo morto abbandonato lì da anni.
La bocca spalancata e piena di ragnatele, gli occhi oramai infossati e la pelle così rugosa da non permetterle alcuna identificazione.
Eppure era ben distinguibile l’ossatura.
Osservò infine la capigliatura ingrigita, pettinata all’indietro.
Che fosse davvero una “bambola” oppure no, quella era la perfetta versione mummificata del folle e maniaco Alfred Ashford.
Come poteva avere un gusto così…meschino! Persino con sé stesso.
Aveva davvero fatto costruire un fantoccio simile solo per cavarne il cuore e violentare non solo la persona sfortunata che avrebbe dovuto compiere tal gesto, ma proprio se stesso!
Non poteva credere a quanto Alfred fosse spietato con sé, oppure…a quanto si divertisse nel giocare con i suoi stessi sentimenti; i suoi stessi dolori.
Più che toccare la mummia, quel che tormentava il suo cuore era proprio torturare idealmente quella persona.
Non voleva fargli del male, era proprio il contrario di ciò per cui stava lottando in quel momento.
Sapeva che era tutto finto, si trattava solo dell’ennesimo tranello per uscire viva da quel posto.
Però…però quell’uomo rappresentava un dolore mentale e fisico che ora lei ben conosceva.
Conosceva il peso degli affanni provati da quel cuore. Un cuore marcio, ormai carico di odio e di disprezzo.
Eppure lasciato lì a marcire………tristemente dimenticato.
Dimenticato fra i dolori, le attese, gli inganni di una vita tremendamente ingiusta e solitaria.
Dunque era a lei che spettava liberarlo da quel cuore?
Far penetrare il coltello nel suo petto e squarciarlo, al fine di togliergli quel prezioso eppure dannato pezzo; che da gioie e dolori; speranze e delusioni; sincerità e menzogne; che da vita e da morte.
Le sue mani tremavano. Il suo spirito le urlava “No”, non voleva nemmeno toccarlo.
Non voleva farlo, era…era disumano. Nemmeno Alfred meritava di essergli cavato il cuore pur di smettere di soffrire.
Toccò i bottoni placcati in oro e li fece delicatamente scivolare attraverso la fessura dell’abito. Così fece anche per la camicia ingiallita che portava sotto, fino a che non l’aprì lasciando scoperta la gabbia toracica.
A quel punto sfilò dalla cintura il coltello da cucina che conservava ancora e con una veemenza che non avrebbe mai voluto essere costretta ad avere, infilzò quel corpo.
Essendo una mummia, i tessuti erano completamente secchi e asciutti. Sembrava come intagliare un durissimo cartone. Per Claire fu disgustoso dover far leva e riuscire ad aprire il torace, strappando via la pelle e penetrando al suo interno.
Sperava che davvero non fosse un corpo vero, ma soltanto una bambola ben costruita. L’odore era in verità insopportabile, ma non poteva fermarsi. Non ora che era arrivata alla fine.
Incassò il coltello e segò l’epidermide con movimenti veloci sperando che cedesse. Infine riuscì a fare abbastanza pressione da spalancare in quasi due perfette metà la gabbia toracica.
Il tanfò che venne fuori le fece venire le lacrime agli occhi, costringendola ad allontanarsi un momento. Aveva le viscere da fuori dal ribrezzo.
Riuscì a non vomitare e così si affacciò di nuovo verso quel corpo, volendo prelevarne subito il cuore e lasciando quella stanza al più presto.
Diede un’attenta occhiata e lo scorse immediatamente. Uno scrigno di porcellana finemente decorato, dal colore rossiccio…e a forma di cuore.
Claire lo tirò verso di sé e finalmente la soluzione all’ultimo enigma era fra le sue mani.
Doveva soltanto frantumarlo per raccogliere la chiave al suo interno.
Mentre lo adagiò a terra, pronta a darvi un deciso colpo col tacco della scarpa, mille dubbi e pensieri trafissero la sua mente.
Mille esitazioni, domande, incertezze, e consapevolezze...

Infine innumerabili frammenti si sparpagliarono sul pavimento, accompagnati dal suono vitreo di quello scrigno ormai ridotto in pezzi.
 
 
[…]















 
 
 
 
 
 
 
 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 19
*** Capitolo 19: essere o non essere ***


Capitolo 19: essere o non essere
 
 
 
 
 
Non è solo per quello che facciamo che siamo ritenuti responsabili, ma anche per quello che non facciamo.
(Molière)
 
 
 
 
 
Il rintocco sfuggente di passi che calpestano un suolo vuoto, esteso, abbandonato.
Il silenzio maestoso disperso nel buio, in un tetro eppure meravigliosamente raccapricciante universo ove vigono regole che non possiamo controllare.
Le regole del caos più assoluto, della mente quando si libera dai vincoli della razionalità, del perbenismo, della sua costretta e ipocrita umanità.
Alzate dunque il sipario, guerrieri del sogno!
Alzatelo e occupate questo palco!
Date sfogo a quello che la mente umana rinchiude in un cassetto e decide di vincolare, di occultare e dimenticare a favore della propria falsa felicità. Date sfogo alla sua inconfessabile natura, ai suoi offensivi e perversi desideri. Alle fiere che si celano dietro le sue sante apparenze. Oscuri e detestabili istinti che nella notte, quando il raziocinio si abbandona al beato riposo, subentrano appagano finalmente la loro sete.
Perché noi uomini ci vincoliamo tanto? Perché da soli poniamo catene disumane sulle nostre braccia?
Perché ci ancoriamo alle mura di una felicità così falsa ed evanescente?
La paura ci ha resi dei codardi.
Tuttavia non temete, è quando avrete gli occhi aperti che dovrete tenere a freno le vostre preoccupazioni, i vostri istinti e i vostri pensieri
Quando chiuderete gli occhi, invece, nessuno vi farà del male. Potrete riempire questo palco con le immagini e i sentimenti che preferite. Che siano dolci, che siano amari…che siano di sangue o di clemenza.
Imbrattate queste mura! Scolpite e graffiate il parquet! Strappate e bruciate le sue tende!
Fate pure, tanto dopo la notte tutto sarà già sparito.
Non pensate però di dimenticare.
Celato in un angolo di quella parte della vostra mente, quei feroci desideri egoisti privati dai vincoli dell’umanità, convivono con voi. Oh, sì…convivono.
Vi struggono. Vi struggono perché anche per loro è dura aspettare la notte.
Giacete quindi.
Giacete tranquilli.
Se sia più vera una vita imposta da regole e vincoli, nella quale viviamo quotidianamente nelle ore diurne, rispetto una completamente sciolta e immorale, che si mostra solo una volta abbandonato il nostro controllo razionale… in entrambi i casi sarete costretti a viverle.
Che ci crediate o no, siete entrambe le cose.
L’uomo del giorno è uguale alla bestia in cui si trasforma di notte.
Solo che non avete il fegato per ammetterlo. Non avete il coraggio per urlare che anche voi vorreste essere come quell’incubo. Un incubo crudo, sporco, meschino, eppure puramente libero.
Non abbiate gli occhi corrucciati, non disapprovate quelle immagini disturbanti che ambite.
Siete tutti esseri umani. E tutti gli esseri umani convivono con tutto questo.
Possiamo far finta che non siano nulla, che siano solo “sogni”. La verità invece è che l’uomo è schifosamente ipocrita. Condanna il mostro che è dentro di sé, convincendosi che la vita è oltre i nostri incubi.
Invece la vita è proprio lì, proprio dove nessuno può controllarci; dove nessuno può vederci.
 
Un fascio di luce bianca si diffuse nel vuoto, schiarendo l’immagine di un uomo dagli abiti aristocratici. Egli alzò il viso, lasciando ben evidenziare i suoi tratti da quella violenta illuminazione.
Il suo viso era sporco di polvere e di sangue, i suoi capelli pallidi erano appesantiti e disordinati, le sue vesti erano sgualcite e graffiate. La sua spalla era dolorante sebbene cercasse di non darlo a vedere. La foratura del proiettile che aveva lacerato la sua carne diverse ore prima aveva preso a pulsare di nuovo. Sentiva il viso caldo e la pelle fredda. Ciononostante il suo sguardo era fermo, severo, carico di forza.
L’ex comandante di Rockfort Island, Alfred Ashford, era un folle eppure fiero soldato.
Dietro le sue gesta eccentriche, la parlantina equivoca e la mentalità astrusa, si mascherava un Re rigido e imponente, capace di rialzarsi milioni e milioni di volte pur di difendere il suo regno inestimabile.
Egli avanzò sul parquet scuro e tirò con veemenza una corda vecchia e impolverata eppure ancora molto resistente; questa fece faticosamente sollevare un pesante sipario di velluto, dietro al quale erano celati dei meccanismi dalle forme incomprensibili.
L’uomo giostrò con l’impianto di illuminazione posto sul muro, ricollegandolo in modo corretto e attivando finalmente tutti i fari dell’enorme teatro. Questi puntavano verso ognuno degli elementi che ornavano quel palcoscenico, suggerendo perfettamente l’idea che questi costituissero il trabocchetto che gli spettava da risolvere.
Alfred si avvicinò di fronte una tela grande poco più di un metro, ubicata su una parete ben visibile della scena. L’immagine raffigurata era quella del misterioso e inquietante “Incubo” di Johann Heinrich Füssli, risalente al 1782. Si trattava ovviamente di una copia, tuttavia l’artista era riuscito a riprodurre vagamente la profonda concettualità ivi racchiusa, ove la mente si abbandona ai suoi desideri più istintivi durante il periodo inconscio della notte.
L’opera apre una finestra sulla parte più oscura e irrazionale della mente umana. In un momento in cui dilaga la razionalità, Füssli porta in superficie gli impulsi più inspiegabili che sottostanno al meccanismo onirico.
L’immagine vede uno sfondo scuro, impalpabile, che abbraccia nel suo nero l’intera scena ove la protagonista è una giovane donna addormentata in una posizione contorta. Ella è supina e le sue braccia sollevate sono rivolte verso la base del tetto; il suo busto è ritorto e l’espressione sofferta e abbandonata richiama l’agonia che osteggia nei suoi pensieri. Un demonio è rannicchiato sul suo addome, quale simbolo di un astruso incubo inammissibile, materializzatosi come simbolo dell’oppressione che la soffoca. Da qui non è difficile intuire per quale motivo suddetta tela è denominata Incubo.
Una cavalla dagli occhi orbi e vuoti spia la scena fuoriuscendo da un tendaggio purpureo, etimologicamente simbolo dell’incubo (in inglese nightmare: ‘night’ più ‘mare’, ovvero notte e cavallina), tramutatosi come uno spirito mandato a tormentare i dormienti.
L’insieme di queste forti immagini contrastanti, enfatizzati da chiaroscuri decisi e violenti, vanno a rappresentare il concetto di Incubo in modo penetrante. Abbracciano verità e sentimenti contrastanti, un libido spudorato e sottaciuto che, nella normalità del quotidiano, la fanciulla riesce a celare…ma che nella notte si sprigionano con tutta la loro veemenza.
Il contrasto che vi è fra la realtà rappresentata in primo piano nel quadro, e l’incubo ove regnano le figure in secondo piano.
Compito di Alfred era ordinare quel palcoscenico e ricreare la scena seguendo un ordine ben preciso.
Egli si avvicinò alla prima scultura e tirò via il lenzuolo che lo teneva preservato. Era un comodino ove erano poggiati pochi elementi, quali uno specchio e dei cosmetici.
In seguito svelò la fanciulla addormentata. Una scultura dalle proporzioni umane, realizzata con una minuziosità impressionantemente realistica. Il biondo Ashford avvicinò a lei la figura di una cavalla realizzata su un elemento di scena. Infine poggiò sul suo addome la statuetta di un diavolo, che aveva già reperito lungo il suo percorso.
In ultimo a tutto, spense di nuovo le luci e attese.
Attese ponendosi accanto a quella donna affranta, accarezzandola dolcemente e condividendo quel doloroso eppure appagante incubo.
Conoscitore della meschina crudeltà dell’animo umano, del peso di quegli spasmi crudeli ed eccitanti che nessuno aveva il coraggio di ammettere nemmeno a se stesso.
Incubi raccapriccianti e desiderabili.
Incubi che persino lui non poteva controllare…
 
Clank
 
Il rintocco di un chiavistello risuonò nel buio. Alfred riaprì gli occhi e guardò nella direzione di quel suono. Egli sapeva dove avanzare, non ebbe nemmeno bisogno di riaccendere la luce.
Si approssimò alla porta e lasciò quell’ambiente, simbolo non solo più dei suoi tormenti riguardo Alexia…ma anche di quei desideri inconfessabili che gravavano sul suo cuore.
Dolenti e meravigliosi.
Quando fu dall’altra parte dell’uscio, una spia verde illuminava la zona. Alfred non seppe se sentirsi sorpreso o non. Quel segnale indicava che il codice 1971 era stato inserito nel tastierino, ciò ci traduceva nel fatto che Claire Redfield era riuscita a trovare l’insenatura nel muro così da sbloccare il suo passaggio, prima di collocare in modo ordinato i quadri dell’Amleto.
Sorrise.
Non era dell’umore per interpretare i suoi pensieri, tuttavia quella reazione si materializzò spontanea senza che nemmeno se ne rendesse conto.
Lasciò quindi quella stanza evitandosi la lunga e noiosa scappatoia che in caso contrario avrebbe dovuto intraprendere, raggiungendo così direttamente la sezione successiva grazie all’aiuto della sua misteriosa e incomprensibile partner che gareggiava con lui in quel gioco di coppia.   
Adesso veniva il difficile, proprio oltre quell’uscio.
Proprio perché Claire stava evidentemente avanzando con lui, era adesso necessario che anche lei si trovasse dall’altra parte.
Era giunto all’ultimo stage di quella trappola mortale che li aveva divisi.
Subentrò in un’area cupa, umida, fredda; si trattava di un ambiente costruito direttamente nella roccia, le cui pareti erano bagnate e ammuffite. Su una pedana di marmo posta in fondo alla stanza vi era un grande portone di ferro, decorato con l’immagine di due figure di sesso opposto che aprivano le due ante. Nonostante il muschio lo avesse deturpato ricoprendo gran parte di esso, restava un elemento di notevole appariscenza. Alfred lo fece collocare lì sotto molti anni prima, dimenticando quasi la dedizione con la quale scelse quel materiale e quei preziosi intagli d’argento.
Fece scorrere la mano su di esso, nostalgico, dopodiché si soffermo sulle numerose serrature che tenevano ben sigillato quell’ingresso.
Erano dieci toppe, eccentricamente poste l’una dopo l’altra, tutte molto grosse e rugginose. Il tempo aveva fatto il suo crudele corso e per qualche istante persino l’Ashford si preoccupò del loro stato particolarmente gravoso. Cercò di sbirciare oltre ognuna di essere, come accertandosi che fossero come se le ricordava.
Era restio ad ammetterlo, ma in quell’istante faticava a ricordare senza indugi l’esatta combinazione da seguire. Questo perché c’era un severo modo per aprila.
Doveva però assicurarsi che ci fosse Claire dall’altra parte.
Il biondo corrucciò gli occhi, detestando quella situazione. Odiava dover palesare quel suo momentaneo stato di bisogno; doveva però ammettere che se la Redfield era riuscita a sopravvivere e ad arrivare fin lì, sarebbe potuto tornare molto più in fretta ai laboratori e assicurarsi che Albert Wesker non avesse fatto danni alla struttura. Si sarebbe vendicato di lui, oh, sì.
Mentre era assorto in quei pensieri, il suo orecchio percepì il rintocco di dei passi.
Sebbene quella porta fosse molto prominente, i rumori dall’altra parte erano pressappoco nitidi; gli sembrava quasi di poter vedere chiaramente qualcuno aggirarsi dall’altra parte dell’uscio.
Calcolando il probabile peso e statura del soggetto dalla pesantezza dei passi, non faticò a immaginare qualcuno di leggiadro ed esile…ovvero la cara Claire Redfield.
Alfred cominciò a battere sul ferro con un pugno ben saldo.
 
“Redfield?”
 
“Uh? Alfred! S-sei qui?”
 
L’Ashford sorrise, soddisfatto.
Fece caso alla voce lontana della giovane, così si apprestò a rivelarsi meglio.
Appoggiò la spalla sulla porta adagiandosi con il resto del corpo, incrociando le braccia e tirando una sorta di sospiro di sollievo.
 
“Ben ritrovata, Redfield. Dove mi cerchi? Sono dietro il battente che dovresti avere davanti ai tuoi occhi. Avvicinati, non farmi alzare la voce. Devo spiegarti delle cose.”
 
La rossa obbedì, schiacciandosi quasi contro la porta in ferro battuto.
 
“Ci sono.”
 
Ci fu un breve momento di silenzio. Un’innocua contentezza di ritrovarsi?
Sebbene non potesse scorgerla, Alfred ebbe come la sensazione di vederla… di immaginarla mentre sistemava i capelli dietro l’orecchio e timidamente cercava di approcciarsi a lui.
A un uomo complicato come lui……ne era cosciente.
 
“Stai bene?”
 
Il biondo sussultò a quella domanda. Si ritrasse, profondamente scosso da quel tipo di attenzioni, era qualcosa cui non era abituato e soprattutto non voleva cedere alle emozioni. Dunque presto tagliò corto, scappando da quel disturbo.
 
“Non è il momento per parlare, ora. Hai trovato lo stiletto?”
 
La ragazza si sorprese di quel tono severo, tuttavia non vi diede peso più del necessario. Le circostanze non lo permettevano. Recuperò l’oggetto e lo pose di fronte a sé.
 
“Sì, ce l’ho in mano proprio ora.”
 
“Bene, introducilo nella serratura più a destra e lascialo lì. Quando senti scattare, non muoverlo ulteriormente. Sarà certamente arrugginito, ma funzionerà senza dubbio quindi lavoraci un po’, senza spezzare la lama.”
 
L’Ashford seguì i movimenti di Claire ascoltando attentamente i rumori dall’altra parte. Era come se fosse esattamente accanto a lei. Poteva vedere il momento in cui aveva infilato lo spadino, i suoi sforzi nel farlo girare, il tremore, la pressione delle sue mani su di esso. Quando sentì il meccanismo rispondere, la fermò.
 
“Perfetto, non muoverlo ulteriormente.” Si fermò. “Ascoltami attentamente. Davanti a noi ci sono dieci toppe ove inserire correttamente delle chiavi. Dal momento nel quale io girerò la prima, avremo un tempo prestabilito per aprire questa porta. Un tempo in cui: non potremo sbagliare, non potremo ritardare, ma soprattutto dovremo muoverci all’unisono; or dunque presta ascolto a ogni passaggio.”
 
“D-D’accordo.”
 
La sentì asserire, leggermente incerta. Alfred sapeva che non sarebbe stato semplice, ma confidava nel buon senso di Claire, dopotutto si era dimostrata abbastanza…intelligente. Doveva ammetterlo.
Decise di abbandonare ogni dubbio e di cominciare subito a innescare la trappola.
Esatto, ‘trappola’.
Solo attivandola poteva infatti riuscire ad aprire quell’uscio.
Pescò dunque una chiave dalle sue tasche e la infilò nella prima delle serrature che, dopo un po’ di resistenza, scattò.
A quel punto un’appariscente armatura roteò dall’altra parte del muro, apparendo nella stanza. Questa sollevò le braccia e puntò una balestra contro di lui.
La stessa cosa avvenne alle spalle di Claire, dall’altro lato della stanza. Entrambi poterono sentire il raccapricciante stridio del metallo che strisciava mentre assumeva quella posizione.
 
“Si è…si è mossa un’armatura!”
 
“E’ la stessa che hai già visto nell’altra stanza, ricordi? Se sbagli un passo, ti trafigge. Esattamente come allora.” Disse serio, ma totalmente tranquillo. “Questa trappola è stata ideata per dividere in modo irreparabile la coppia e impedir loro di proseguire, condannandoli a morire nella più completa pazzia e solitudine. Ragion per cui muoviti con garbo e non fare niente di testa tua! Ora girerò la seconda serratura e succederà esattamente questo: si solleverà da terra una colonna su cui è appoggiata la ricostruzione in pietra di un’aquila. Girala verso questa porta e non muovere altro finché non prenderò parola.” Si bloccò. “Appena senti la serratura scattare, vai.”
 
Entrambi si misero nella propria postazione. Sia Alfred che Claire attesero di sentire la seconda serratura muoversi e appena questa girò, la colonna apparve in entrambe le stanze. Vi si affiancarono e presero a farla girare fino a portarla nella direzione desiderata. La rossa strinse i denti, affaticata dalla pesantezza di quella statua. Nonostante le mani completamente graffiate, riuscì infine a spostarla. Si voltò dunque verso la porta.
 
“Io ho fatto!”
 
Non ebbe nemmeno il tempo di terminare la frase, che un rumore alle sue spalle la fece scattare d’un tratto. Sembrava come se una grata fosse caduta da qualche parte. Pregava in cuor suo che non fosse apparsa qualche b.o.w. proprio in quel momento!
 
“Ehi, ho sentito un rumore.”
 
“Non ora, Redfield. La trappola è innescata. Presto la stanza sarà pervasa da un potente gas velenoso. Cerca di rimanere lucida fino alla fine, questo inibirà i tuoi sensi e la tua capacità cognitiva. Resta concentrata.”
 
Claire sospirò sconcertata. Perché stavano innescando quella trappola? Era…era una follia!
Una statua brandiva un’arma pronta a colpirla, seguendo i suoi movimenti diabolicamente e attendendo un suo passo falso; un gas si stava propagando nella stanza e presto l’avrebbe assopita, condannandola a una morte infausta; oltre questo, lei non possedeva nessuna chiave per proseguire e doveva assecondare gli ordini di Alfred in modo perfetto o avrebbe decretato anche la sua disfatta.
Era una situazione veramente tesa.
Non si tranquillizzò quando, oltre la porta, cominciò a sentire gemiti di dolore a lei molto ben noti; nella stanza ove era intrappolato il biondo v’erano degli zombie!
Claire osservò con rabbia il fucile da caccia che aveva…non poteva passarglielo in nessun modo?!
 
“Alfred?! Cosa succede lì dentro?”
 
“Non è un problema tuo, bada alla tua posizione, non farmelo ripetere ancora. Cerca inoltre di non parlare troppo, stupida! Vuoi forse immettere nei tuoi polmoni una dose letale di veleno?”
 
Claire non poteva negare di essere notevolmente nervosa. Osservò la nebbia densa e giallastra cominciare a propagarsi nella stanza, costringendola a tossire. Gli occhi presero a bruciare nell’immediato, ragion per cui doveva muoversi il più in fretta possibile.
 
“Avvicinati alla terza serratura. Ascolta…coff…coff…dalla tua parte v’è la metà mancante della chiave. Dovresti avere la parte del manico. La chiave dentro è spezzata. Io adesso infilerò la punta. Non dobbiamo perderla quindi gira la chiave esattamente quando mi muoverò io. Dovremo ripetere questo gesto per tutte le restanti chiavi, muovendoci nell’esatto ordine e con la precisione che ti chiederò man mano.”
 
La ragazza stette in silenzio, facendo caso solo in quel momento che più d’una serratura pareva avere la chiave incastrata.
 
“Gira ora!”
 
Claire obbedì. L’uomo la fece poi spostare direttamente verso la quinta serratura, che dovettero di nuovo muovere all’unisono, così come le altre successive. Intanto il gas veniva sempre più a galla, annebbiandole la vista e impedendole di avere la lucidità che avrebbe voluto.
Dal suo canto sentì dei colpi d’arma da fuoco. L’Ashford stava combattendo le b.o.w. da solo e al col tempo doveva rimanere concentrato sulla soluzione di quell’enigma.
Possibile che tutto ciò che potesse fare era girare delle chiavi?!
Tutto d’un tratto, quando finalmente arrivarono all’ultima serratura, partì un suono di slancio che pietrificò la rossa.
Portò tempestivamente lo sguardo verso dove ipoteticamente era il ragazzo e urlò spaventata.
 
“Cosa è stato?!”
 
Alfred osservò la sua spalla trafitta. Una freccia di legno durissimo aveva passato da parte a parte la sua spalla, ferendolo poco sopra lo stesso foro di quel colpo d’arma da fuoco procuratosi quando aveva assunto le sembianze di Alexia.
Tremava. Il sangue prese velocemente a rigare il suo corpo, imbrattando di rosso le sue vesti. Non poteva quasi muoversi; ogni più piccola contrazione del muscolo gli avrebbe provocato una fitta lancinante. Ciononostante non riuscì proprio a restare immobile e dovette lentamente scivolare sul suolo. Questo mentre l’odore di quel liquido organico stava attraendo le b.o.w. sempre più prossime a lui.
Tentò di mirare ai loro punti vitali con una pistola d’epoca che aveva portato con sé, tuttavia il braccio cascò a terra, incapace di sopportare quel dolore.
Digrignò i denti, questo mentre Claire incominciò a sbattere le mani contro la porta.
Dal suo canto, per la ragazza quello era stato un evidente suono di una freccia scoccata ad una velocità mortale. Quel fruscio che taglia l’aria prepotentemente e in modo inesorabile era inequivocabile.
Era evidente che la freccia dell’arciere era stata scoccata, e se non era stata colpita lei, allora era stato colpito Alfred.
Perché? Cosa avevano sbagliato? L’Ashford aveva ricordato una combinazione errata? Com’era possibile?!
 
“Rispondi! Cos’è successo?!”
 
Ripeté sperando che quel prolungato silenzio non presagisse alcuna tragedia. Portò intanto una mano sulla bocca, non riuscendo a trattenere più di tanto il respiro. La testa doleva, si sentiva sempre più venir meno.
Si guardò alle spalle. Il suo arciere era invece ancora fermo, tuttavia imperterrita puntava contro di lei. Doveva uscire da quella stanza al più presto.
 
“Eh..eh…Redfield.” ridacchiò Alfred, al che la rossa si girò. Lui intanto tese una gamba e cercò di adagiarsi nella posizione meno dolente possibile. “Ti……..ricordo che questa trappola è stata….. creata appositamente per…..per uccidere. Non è tecnicamente possibile che vi si sopravviva. Non v’è un modo per salvarsi.”
 
Claire alzò il viso sforzandosi di tenere ancora gli occhi aperti. Le parole del biondo la fecero rabbrividire.
 
“Cosa intendi?” chiese, ormai certa che qualcosa dovesse essere andato storto.
 
“Intendo…ugh…che sapevo che la freccia avrebbe scoccato. Ho solo fatto in modo che a colpire fosse il mio arciere. Tu…non avresti mai saputo muoverti in modo da non rimanere uccisa. Tsk.”
 
“Cosa stai dicendo? Sei stato ferito? Apri questa cazzo di porta, Ashford! Maledizione…!”
 
La ragazza riprese a tossire, sentendo i polmoni bruciare. Ciononostante continuò a battere sulla porta, disperata.
 
“Ora ritira lo stiletto. Infine utilizza la chiave che…che dovresti aver reperito da quel cuore spezzato. L’hai trovata, no? Dentro il suo petto, squarciando la sua pelle raggrinzita.”
 
La Redfield cercò automaticamente nelle tasche e la trovò. In seguito recuperò lo stiletto e finalmente un bocca d’aria aspirò tutto il veleno, facendo tornare l’aria respirabile finalmente.
Utilizzò prontamente la chiave per aprire la serratura finale dopodiché spalancò la porta in metallo.
Dovette darvi diversi colpi per far cedere quello strato di sporco che la teneva bloccata Dio solo sa da quanti anni, ma oramai ci aveva fatto l’abitudine.
Dopo quattro o cinque colpi ben assestati si aprì uno spiraglio dal quale scivolò attraverso velocemente, portando prontamente il fucile all’altezza del viso.
 
“Stai attenta, qui è pieno di mostri, mia cara…”
 
Con la coda dell’occhio individuò Alfred accasciato a terra, sanguinante; tuttavia dovette mantenere l’obbiettivo perché le assetate b.o.w. strisciavano e si appropinquavano violente verso di loro.
Un paio erano già crollate a terra, esamine; erano quelle che aveva colpito Alfred; le altre bramavano ancora le loro vite, attirate avidamente dal sangue fresco che colava sempre più copioso dall’ex-comandante di Rockfort.
Claire si mise davanti a lui, abbattendo una dopo l’altra quegli essere insaziabili. Scaricò l’intero caricatore ancora a sua disposizione, dovendo completare l’opera con i pochi colpi rimasti ancora nella sua 9mm.
Quando l’ultimo di questi cascò a terra, la ragazza si piegò verso l’Ashford, pronta a intervenire sulle sue ferite.
 
“Ehi, resisti. Devo, devo toglierti questa freccia. Cerca di non muoverti.”
 
Mentre fece per toccarlo, Alfred le bloccò prontamente il polso. La rossa si ritrovò così a specchiarsi nei suoi occhi pallidi, stavolta estremamente sofferti eppure ancora penetranti.
“Non…puoi. Se ti muovi ancora, non usciremo vivi di qui. Io non ho……alcuna intenzione di morire, Redfield. Perciò ora alzati e…..usa di nuovo quella dannata chiave e andiamo via di qui.”
 
“Okay. Lascia però che ti aiuti.”
 
Disse offrendosi come appoggiò per lui, cosa che rifiutò categoricamente. Alfred si mise arrogantemente in piedi da solo e una fitta lo trafisse da parte a parte facendolo piegare dal dolore.
A quel punto Claire mise prepotentemente un braccio attorno a lui e lo portò via con sé. Lo vide estremamente pallido e sudato. Egli cercava ancora di mantenere un aspetto altolocato, ma la sua bruttissima cera stavolta lo tradiva enormemente.
Lì per lì ebbe il timore che non ce l’avrebbe fatta.
Prese nuovamente fra le mani la chiave e la usò per scappare da quella stanza. Non sapeva per quanto ancora potesse portare Alfred in quelle condizioni. Fece un esame veloce del nuovo ambiente, si trattava di un corridoio dall’aspetto molto cadente. Poteva avanzare liberamente, o qualche ostacolo albergava crudelmente fra quelle pareti? Sbirciò in direzione del biondo che faticava a restare cosciente.
Claire non indugiò e avanzò comunque avanti, ma a quel punto l’Ashford si scostò da lei e si pose dinanzi in modo stentato. La ragazza si tenne pronta a sostenerlo al primo tentennamento, al contempo impegnata a seguire gli zombie già pronti a tornare all’attacco; evidentemente non li aveva atterriti del tutto prima.
L’erede Ashford intanto azionò un meccanismo muovendo uno strano ingranaggio sulla parete simile a un orologio. Questo fece innalzare una porzione del muro che liberò un passaggio segreto.
Avanzarono velocemente, dopodiché l’apertura si chiuse alle loro spalle repentinamente. Il biondo a quel punto traballò, trovando subito appoggio sul muro; la Redfield gli si approssimo, stavolta più decisa.
 
“Non puoi continuare in queste condizioni…”
 
“Lo so.” pronunciò irritato da quella costatazione evidente. Poi aggiunse. “Siamo arrivati…poco più avanti…dobbiamo avanzare.”
 
Egli fece per muoversi, ma era totalmente impossibilitato.
La rossa si morse le labbra non sapendo come aiutarlo. Sapeva che ogni passo lo avrebbe trafitto di dolore, in più non sapeva nemmeno come toccarlo e offrirgli un appoggio adeguato. Dovevano però avanzare e dovevano farlo in fretta. Osservò il tunnel dinanzi a loro, pregando che fosse molto meno profondo di quanto sembrasse.
 
 
 
[…]
 
 
 
 
Centro di Ricerche artiche dell’Umbrella Co. – Sotterranei
Stanza nascosta
 
 
 
 
Una volta lasciatosi alle spalle quella trappola mortale, Claire e Alfred si ritrovarono in una stanza ove potettero mettersi al riparo. Sembravano essere giunti in una qualche zona del laboratorio abbandonato lontana dal territorio calcareo dov’erano prima.
L’ambiente era spazioso, sgombro, non era impregnato dall’umidità e la muffa presente nel resto di quei sotterranei.
Si trattava di una stanza semplice, solo molto impolverata, il che andava più che bene rappresentando le circostanze.
Purtroppo dovettero sistemarsi a terra, non v’era nulla che potesse fungere da materasso, o coperta o che potesse offrire un po’ di sollievo e calore al giovane erede della famiglia Ashford, in quel momento in balia degli spasmi di dolore.
Claire scivolò sul pavimento con lui, muovendosi con estrema delicatezza, cercando di non urtare in nessun modo le sue ferite.
Il biondo intanto rimase in silenzio ad osservarla: la sua pelle bianca era sporca e graffiata, i suoi occhi erano stanchi, i suoi vestiti laceri e impolverati, i suoi capelli scomposti e arruffati.
Anche lei doveva essersela vista brutta, lo sapeva.
Non gli era mai successo, ma era la prima volta che si sentiva in colpa.
Egli avvicinò la mano tremante al suo viso; lui che era l’artista che aveva visto in lei la sua magnificenza e una volta l’aveva trasformata nella sua somma Regina, bramava il folle desiderio di sistemarla.
Sentendosi sfiorare, Claire alzò lo sguardo verso di lui; sembrava in uno stato quasi incosciente. Stava perdendo i sensi.
Scostò la mano dal suo viso e gliela adagiò a terra.
L’Ashford le mostrò il profilo e così una ciocca di capelli ormai appesantita gli cadde sul viso.
Claire, prima di farlo appoggiare con la schiena sul muro, sapeva di dover togliergli quella freccia. Non c’erano altrimenti, non poteva restare così ancora per molto.
 
“Devo toglierla, stringi i denti solo qualche attimo. Farò veloce.”
 
Detto questo, spezzò la stecca cercando di scheggiarla il meno possibile, dopodiché la sfilò con veemenza, cercando di far durare quell’attimo di estremo dolore il meno possibile.
Alfred gemette rumorosamente, contenendo il dolore piuttosto dignitosamente, ma la ragazza sapeva bene quanto dovesse aver sofferto.
Tuttavia ora poteva fargli assumere una posizione più corretta, lasciando che si adagiasse sul muro in modo naturale.
Doveva ora occuparsi della ferita, però.
Non seppe capire se Alfred la lasciò fare o se i suoi nervi avessero ceduto. Ad ogni modo lui non proferì parola né tentò di ribellarsi.
Claire gli aprì la giacca, sfilò la cravatta e disfece la sua camicia completamente imbrattata, lasciando dunque scoperto l’intero torace. All’altezza della spalla aveva un aspetto orribile; livido e sanguigno. Era una ferita veramente brutta, doveva pulirlo e bendarlo al più presto.
 
“Scusa…”
 
Disse prima di mettere fra le labbra un lembo della camicia e strappandolo, utilizzandolo così come fasciatura. Purtroppo lei non aveva nulla da utilizzare al suo posto.
Alfred aprì gli occhi e la osservò silente mentre si prendeva cura di lui. Probabilmente non pensava a nulla; lasciò soltanto che lei alleviasse quel dolore insostenibile che affannava non solo il suo corpo, ma anche il suo spirito.
 
Passarono minuti, forse ore.
Alfred Ashford aprì gli occhi; si sentiva dissociato, inerme, la sua mente faticò a prendere coscienza. Notò che la spalla gli doleva molto di meno, invece; se ne sorprese.
Scrutò in giro e scorse poco distante da sé Claire mentre lasciava sciolti i suoi lunghi capelli rossicci. Ella li stava pettinando con le mani, cercando di levar via i nodi e la forma della coda di cavallo che li aveva pieghettati sotto la nuca.
Era davvero molto affascinante con quella chioma ora allisciata che le contornava il viso, scivolando lungo il suo busto raggiungendo l’altezza del petto. Lei si voltò verso di lui, accorgendosi di essere osservata. Sorrise notando che fosse sveglio.
Lui invece si sentì a disagio. Non gli venne di proferir nulla, temeva quei momenti in cui si stabiliva una certa confidenza fra loro. Il suo corpo la guardava con desiderio, ma la sua mente lo puniva e lo lacerava imponendogli di allontanarla, di odiarla.
Eppure lei gli si avvicinò con spontaneità, come se quei pensieri non la scalfissero, come se non provasse assolutamente nulla di tutto ciò.
Questo lo incuriosiva e lo spaventava al tempo stesso. Perché lei era così assurdamente istintiva? Cosa la rendeva così aberrante?
La giovane si mise in ginocchio di fronte a lui, inconsapevole della tortura mentale che gli stava facendo mostrandosi così bella ai suoi occhi. Il biondo rimase inerme, completamente in silenzio. Era la sola reazione che poteva preservalo.
 
“Ti sei svegliato. Come ti senti?”
 
Era solo una sciocca domanda di cortesia, ne era consapevole, eppure la cosa lo seccò molto. Non aveva intenzione di instaurare una conversazione di nessun genere.
Piegò dunque il viso e allontanò lo sguardo, decidendo di essere chiaro con lei, sebbene la sua stessa mente fosse in verità abbastanza confusa.
 
“Lascia perdere, Redfield. Ti sono ovviamente grato per avermi curato la spalla, ma questo non significa nulla, benché meno che voglia aprirmi a te. Sai bene che prima che accadesse questo incidente, ero venuto a cercarti per porre fine alla nostra amara disputa. Non costringermi a dimenticare che dobbiamo proseguire assieme in questo labirinto per sopravvivere. Evitiamo tali parvenze e bada anche tu agli affari tuoi.”
 
La ragazza corrucciò il viso, non aspettandosi nell’immediato una freddezza simile. Era consapevole della difficoltà di Alfred nell’ammettere di aver bisogno di aiuto. Fino a quel momento un po’ l’aveva provocato rispondendogli a tono, un po’ l’aveva evitato cercando di superare mentalmente quegli atteggiamenti. Stavolta voleva parlargli e basta, sfruttare quell’occasione per trattarlo finalmente con naturalità, alla luce della sua recente comprensione dei suoi sentimenti. Non voleva fare calcoli, se Alfred avesse rifiutato l’avrebbe accettato e si sarebbe fatta immediatamente da parte.
 
“Alfred…” prese parola timidamente.
 
“Non accetto che mi chiamo per nome, Redfield.”
 
Claire si morse le labbra.
 
“Ashford.” Si corresse. “Non voglio entrare nella tua vita privata, né crearti disturbi di alcun genere. Non è mai stata mia intenzione, fin dall’inizio. Volevo solo trovare mio fratello, Chris, e uscire dalla prigione di Rockfort. Non ho mai avuto nulla a che fare con tutto quello che è successo dopo. L’attacco alla tua base, gli zombie…sono cose che hanno terrificato anche me. Ho solo cercato di sopravvivere. Non sono un tuo nemico.”
Stranamente il biondo era ancora in silenzio, si chiese quindi se la stesse lasciando parlare per attaccarla al primo sgarro, oppure magari era sinceramente concentrato. Temeva quale sarebbe stata la risposta.
“Io…io non sono come te. Sono una persona molto più semplice e certamente non ho mai vissuto pressioni e traumi come i tuoi. Lo capisco e mi faccio da parte, so che non potrò mai capire. Però non penso che tu possa continuare ad affrontare questa cosa da solo. Hai accollato su di te una grande responsabilità, ti sei fatto carico di un compito importante che hai gestito al tuo meglio, con tutte le tue forze. Sono certa che Alexia e la tua famiglia sarebbero fieri di te, senza dubbio. Ciò nonostante, non puoi pensare di portare avanti tutto questo da solo. Per quanto tu possa essere forte, non credo non ti sei reso conto che hai bisogno di fare qualcosa per te stesso. Qualcosa che sia giusto per te…Ashford.”
 
Alfred teneva gli occhi fissi su di lei, mettendola in grande soggezione. Claire non sapeva se stesse parlando troppo, se fosse riuscita a trovare le parole giuste o se da un momento all’altro lui si sarebbe fatto prendere da uno scatto d’ira e avrebbe inveito contro di lei. Ragion per cui si sentì di mettersi in dubbio e scosse la testa, cercando di essere invasiva il meno possibile.
 
“O-ovviamente non devi parlarne con me. Io non so niente di te, lo ammetto. Non ti sto dicendo tutto questo per…per spingerti a fare qualcosa di particolare. Credo solo che tu non possa vivere da solo e…” si fermò e si specchio nelle sue iridi enigmatiche. “e…..io volevo dirtelo. Nessuno te lo ha mai detto. Nessuno lo ha mai fatto.”
 
L’uomo la osservò mentre stringeva le dita sulle ginocchia, dando segno di tensione, inquietudine.
Per lui era complicato ascoltare parole simili, non era abituato a parlare di se stesso. Era suo dovere soltanto proteggere la sua famiglia e il suo onore. Ad ogni costo.
Discostò lo sguardo, ferendo così i sentimenti di Claire con quell’atteggiamento di chiusura. La rossa vide sfumare davanti a sé tutta la sincerità che aveva cercato di trasmettergli.
Egli non si era né arrabbiato, né aveva parlato o fatto qualsiasi. Aveva fatto di peggio.
Aveva deciso di ignorarla del tutto.
Lei aveva già parlato troppo, non poteva allungare ulteriormente il discorso rischiando di diventare odiosamente polemica; dovette ingoiare le milioni di parole non dette che avrebbe ancora voluto dirgli.
Si sentì solo di aggiungere un’ultima cosa prima di azzittirsi anche lei.
 
“Volevo che tu ti salvassi assieme a me quando sono caduta nel tranello. Non ho smesso un attimo di pensare a te.”
 
Disse con un filo di voce, trafiggendo l’altolocato uomo dai capelli pallidi posto dinanzi a lei; in seguito la ragazza fece scivolare le gambe di lato e si sedette. Non fece nient’altro.
Alfred invece alzò il viso, serio.
 
“Saresti tu la donna che proverebbe ad affrontare le chimere che osteggiano il mio spirito? Oh, Redfield, conosci di me qualcosa che non amo ammettere. Hai visto cose che non credo ne sopporterei anche solo il ricordo. Mi hai fatto rivelare realtà inammissibili per chi conduce un’esistenza come la mia. Quel che mi chiedi non è più possibile nella mia posizione.”
 
Claire sgranò gli occhi. Era un suo…raro momento di lucidità? Poteva…parlargli davvero? Era disposto a conversare con lei?
Eppure la sua speranza di aiutarlo ad aprirsi fu più forte e così istintivamente posò la sua mano calda sulla sua, per fargli coraggio.
 
“Va bene.” ripeté rassicurante. “Va bene, Alfred. Nessuno ti obbligherà a fare o dire cose che tu non approvi. Voglio solo parlare con te, voglio…voglio che tu comprendi che non sono meschina come credi. Non voglio farti del male.”
 
“Farmi del male…” sussurrò. “Non essere sciocca, so che non puoi farmi del male. Semmai quello cattivo sono io, lo sai.” disse con un velato sarcasmo.
 
“Invece l’ho fatto. Il male che una come me può infierirti è quello di ricordarti cose dolorose; cosa che non ho fatto di mia volontà.”
 
Alfred si sorprese di quella risposta e si sentì a disagio. Egli internamente sapeva che era sempre stato lui a dare battaglia a Claire. L’aveva detestata, aveva maledetto il giorno in cui l’aveva incontrata. Ed era anche vero che la sua bellezza e la sua armoniosità l’aveva…l’aveva irrimediabilmente indotto in tentazione, facendogli sentire sulla sua pelle e nel suo animo quel calore che in tutta una vita gli era stato privato, riducendolo a un uomo solitario e arrabbiato. Lei aveva toccato un tassello che aveva oramai ucciso il suo cuore.
Tuttavia, come aveva detto anche lei, se doveva chiedersi come Alfred Ashford cosa desiderava…non desiderava che questo.
Non desiderava che essere amato.
 
Soltanto che lui…
 
…aveva forse… “paura”…?
 
Il suo cuore sussultò.
Sgranò gli occhi. Le sue mani erano ghiacciate.
Osservò invece la mano di Claire che era calda, dolce, forte, e premeva sulla sua.
Lei era lì, era viva, era vera. Era tutto…reale. Troppo pesantemente reale per quell’uomo che da sempre viveva dietro il sipario di un teatro di macabra fantasia.
Arricciò le dita e a quel gesto la Redfield comprese che doveva tirar via la sua mano. Non voleva disturbarlo.
 
“Sei una persona poco comune, Redfield. Dovresti essere qui per uccidermi, invece sei in ginocchio di fronte a me, attualmente stanco e ferito. Perché?”
 
“Perché adesso so cose che non ti rendono più un mio nemico. Adesso lo so.”
 
“C’è già Alexia per me. E’ solo lei che può guarire le mie ferite.”
 
Claire temeva il momento in cui egli avrebbe messo in mezzo la Regina. Deglutì, decisa a fare breccia dentro di lui.
 
“Hai amato Alexia, sei stato più di un fratello. Hai dimostrato con tutta la tua vita quanto lei fosse importante. Ma credo che anche lei concorderebbe con me, se dico che non avrebbe mai voluto che tu distruggessi la tua vita. Se anche lei ti amava, non lo avrebbe mai voluto. Lei desidera la tua felicità, come tu desideri la sua.”
 
“Alexia vuole che io sia felice?”
 
La Redfield sorrise.
 
“Sì.”
 
Il biondo fece spallucce. Era davvero molto pallido. La ragazza osservò il suo viso stanco e la carnagione così bianca. Temeva che fosse allo stremo delle sue forze, necessitava di cure mediche più appropriate.
 
“Alexia… non può farcela da sola. Ci sono stato sempre io per lei. Anche se non potevo aiutarla. La più grande cosa che avrei potuto fare era un puntino di fronte la sua…intelligenza. Però lei aveva bisogno di qualcuno che le rimanesse accanto, ed io le ho promesso che l’avrei attesa e l’avrei protetta fino a quel momento.”
 
“Che tu la amassi non significa che tu non possa…amare qualcun altro, oltre lei.”
 
“Cosa intendi?”
 
“Lei è…era tua sorella, giusto? Oppure…” si fermò. “…la ‘amavi’?”
 
Alfred comprese che tipo di domanda gli stesse facendo.
 
“Vuoi sapere se provavo un sentimento incestuoso per lei?”
 
La rossa si pietrificò, spaventata dall’idea che si fosse giocata l’intera conversazione in quel momento.
 
“N-non ho intenzione di giudicare i tuoi sentimenti. Non fraintendermi. A me va bene, sul serio. Non sentirti soppesato.”
 
“Redfield, non mi scomporrei di fronte al giudizio di chicchessia, né tanto meno me ne importerebbe. Siete voi stolte persone comuni a credere che l’amore carnale sia l’unica forma di amore per l’essere umano. Ma non lo biasimo. Io stesso ho sperimentato i piaceri dell’atto d’amore più comunemente concepito dal resto del mondo. Sensazioni di calore viscerali e istintive, meravigliosamente inebrianti. Nulla può esservi paragonato in tutta l’esperienza sensoriale umana.” disse con una strana coscienza di causa che Claire non immaginava. “Quello che v’era fra me e Alexia era tutt’altro.”
 
Detto questo inarcò il busto verso Claire e portò le mani sul suo viso. La ragazza riconobbe quel gesto; il gesto di fidata unione che spesso lui cercava di stabilire. Il beato calore umano della pelle di un altro essere umano che soffia sulla propria. L’unione mistica che Alfred aveva disperatamente cercato in tutta la sua vita e che l’aveva portato alla pazzia.
Intanto lui continuò a rispondere alla sua domanda.
 
“Io e Alexia eravamo questo. Eravamo un tutt’uno. Lei era parte di me, e io di lei. Due perfette metà, ove in mancanza della quale la nostra esistenza rimane sospesa, orribilmente deturpata. Il meschino fato ci ha separati, promettendoci un destino più grande in cambio di quel sacrificio. Il prezzo da pagare è stato alto, lo è stato davvero molto. Entrambi abbiamo corrisposto il nostro pegno; non potevamo permettere che quello fosse il nostro solo destino. Tuttavia il premio alla fine sarà inestimabile, credimi.”
 
Claire non si divincolò da quella presa, al contrario fu lei ad avvicinarsi a lui, consapevole che lui non fosse abituato a essere cercato, a essere lui stesso il principale soggetto. Voleva che quell’uomo tornasse padrone della sua vita. Dei suoi più intimi e veri desideri.
 
“Tu lo sai che non è così.”
 
L’Ashford si sentì confuso da quella risposta. Per una volta, furono i meravigliosi occhi blu di Claire ad essere indecifrabili, ricchi di fascino e di mistero. Ebbe un sussulto.
Cosa riusciva a provocare in lui quella donna? Chi diavolo era?
 
“Tu lo sai…che avresti solo voluto qualcuno al tuo fianco. Avresti solo voluto un sorriso, un sincero abbraccio. Saresti stato felice anche solo di questo.”
 
Alfred socchiuse gli occhi, riflettendo.
 
Era vero.
Era tristemente vero.
Lui…
 
“Sei stato lasciato solo troppo a lungo e non è giusto. Nessuno ha cercato di capirti. Nessuno si è accordo di quante altre cose fossi, oltre Il Fratello Gemello di Alexia. Sei stato un bambino dotato, intelligente, poi un adulto che ha studiato e ha ottenuto eccellenti lodi e riconoscimenti. Sei stato anche un soldato. Hai amministrato la tua casa e lo hai fatto da solo proteggendo cosa ti era di più caro. Però ti è stata tolta la vita; vivere ed essere felice…non significa non amare tua sorella.”
 
L’uomo discostò gli occhi, lei però richiamò la sua attenzione avvicinandosi ulteriormente.
Il biondo si sentì fortemente turbato.
 
“Lascia che ti aiuti.”
 
Infine posò le sue labbra su quelle di Alfred Ashford. Lo fece in un momento di profonda comprensione spirituale del suo bisogno di amore, di calore…lui aveva la necessità di comprendere la sua umanità.
Lui era un uomo, un uomo come tutti. Con i suoi desideri, i suoi sogni, le sue idee, le sue ansie, i suoi tormenti, i suoi problemi.
Doveva cominciare finalmente a vedere tutto questo.
Non poteva immolare la sua intera vita a un fantasma che non gli avrebbe mai dato ciò che cercava.
L’avrebbe sempre deluso alla fine.
Si sarebbe sempre accorto di essere un uomo con il vestito e la parrucca di una donna che non esisteva.
Il riflesso di uno specchio non avrebbe mai mostrato due volti complici, ma un singolo uomo che pur di cercare quella felicità, aveva gettato in pasto alla demenza il suo intelletto.
Ciò si era tradotto in violenza, in crudeltà raccapriccianti con cui avrebbe fatto i conti prima o poi.
Però non era quello il momento.
Adesso doveva solo riconoscere i suoi bisogni, i suoi tormenti…e infine…lasciare Rockfort Island. Lasciare i laboratori in Antartide. Lasciare tutto.
Claire lo baciò a lungo, dandogli il tempo di rassicurarsi e abbandonarsi. Per lui fu difficile ammettere quella realtà, non gli era forse più possibile ricordarsi come era essere un semplice uomo. Forse non lo era mai stato.
Aveva soltanto dodici anni quando era iniziato tutto, quando Alexia era caduta nel suo solenne sonno.
Era solo un bambino…
 
…e da allora era iniziato il suo tormento.
…il suo crudele tormento.
 
Ed in verità, anche prima di allora la sua vita era stata brutalmente pretenziosa. Fin dalla sua nascita Alfred Ashford non era stato che una pedina che si era mossa ovunque nella sua scacchiera.
Era stato pedone, cavallo, alfiere, torre, regina, aveva interpretato ogni pezzo…pur di mantenere in piedi il Re. Aveva sconfitto e divorato ogni ostacolo, ogni affronto, persino se stesso.
Tuttavia lui chi era? Chi c’era davvero dietro quell’uomo che aveva portato avanti da solo quella lunga battaglia?
Aveva oramai dimenticato…chi era.
Strinse dunque la traviatrice Altra Donna che lo aveva dannato. Lo aveva dannato da quando aveva fatto rinascere quell’Alfred addormentato, tenuto segregato nel suo cuore. Quell’Alfred che sembrava incapace di essere qualcos’altro oltre il Re che avrebbe protetto la sua Regina.
Lei aveva messo a nudo le reali angosce che avevano spento la sua anima, legato a un compito che nel giro di poco aveva tradotto i suoi malanni in violenza e rovina.
Poteva fidarsi di Claire? Poteva abbandonarsi a quella donna, sfidando di nuovo la paura di essere abbandonato?
Alfred non avrebbe potuto sopportare un’ulteriore ferita come quella, era lacerante la solitudine che fino a quel momento lo aveva sia preservato, sia fatto impazzire.
Non sapeva se quell’abbandono avrebbe successivamente portato altro dolore dentro di lui.
Se lei credeva di poter accollarsi quella responsabilità…la responsabilità di curare il suo cuore, di ricomporne i pezzi, di darvi calore e umanità…allora lei doveva essere folle.
Folle almeno quanto lui.
 
Accettò dunque quelle labbra dolci e delicate che avevano toccato le sue, quelle del folle comandante di Rockfort Island. Quelle che rappresentavano lui come uomo.
Fu come tornare a quella passione accecante che lo traviò quando aveva deciso di nascondersi dietro le sembianze della sua amata sorella. Quella maschera perfetta che leniva le sue pene, ma che era caduta di fronte l’autentico calore umano, concreto e tangibile.
La maschera-Alexia era caduta quando aveva avuto Claire al suo fianco.
Ed adesso era di nuovo a quel punto, a provare quegli stessi sentimenti. Tuttavia li stava provando come Alfred; fieramente come Alfred Ashford.
Penetrò dunque nella sua bocca, affondando le dita fra i suoi capelli.
Temeva che fosse un inganno.
Temeva che tutto potesse finire.
Temeva il crudele destino che da sempre gli era avverso e aveva fatto di tutto per renderlo solo e infelice.
Ma quello stesso fato ingiusto gli aveva donato una sorella gemella per compensare quel dolore…e adesso anche Claire.
Restava però un ultimo passo da fare.
 
“Claire...” sussurrò nel mentre di quel contatto. La ragazza schiuse le labbra, prendendo respiro. Lui le sorrise. “Voglio farti conoscere la mia Regina.”
 
“Alexia?” disse confusa, ancora persa nei suoi sentimenti. “Ma lei è…”
 
“No. Lei esiste. E’ qui in Antartide. Vieni con me.”
 
Rivelò e la prese per mano.
 
 
[…]
 
 
 






 

Ritorna all'indice


Capitolo 20
*** Capitolo 20: destino di un sipario scarlatto ***


 
 
 
Capitolo 20: destino di un sipario scarlatto  
 
 
 
 
 
 
 
“A volte è solo uscendo di scena che si può capire quale ruolo si è svolto.”
(Stanislaw Jerzy Lec)
 
 


 
 
Base Antartide dell’Umbrella Corporation – laboratori
 
 
 

Steve Burnside
 
 
 
 
 
“Maledizione..!!” strinse i denti Steve Burnside mentre infilava il secondo caricatore nelle mitragliette.
Aveva davanti a sé ancora due zombie alquanto malconci rispetto agli altri.
La loro pelle era talmente consumata da sembrare un assemblaggio scadente di pezzetti bruciacchiati tenuti a malapena insieme a coprire lo scheletro oramai da fuori; sapeva però di non dover sottovalutare la loro resistenza, nonostante l’usura particolarmente avanzata.
Quei corpi erano comunque capaci di incassare un numero indefinito di pallottole, rialzandosi dopo un po’ come se nulla fosse, a meno che non avesse preso ben di mira le loro cervella.
Il loro aspetto deteriorato era solo uno specchietto per le allodole, che avrebbe tratto in inganno solo coloro che non avevano familiarizzato con le terribili B.O.W. dell’Umbrella. Non importava la loro vecchiezza, né quante volte fossero cadute a terra o quanto piombo avessero in corpo; queste si sarebbero sempre rialzate, in un girone infernale eterno.

Doveva quindi atterrarli senza pensare che fossero corpi in decomposizione, in realtà irrazionalmente incapaci di muoversi, visibilmente lenti e goffi. Ciò che gli occhi e la logica gli suggerivano era di vedere solo una debole carcassa marcia, debole e puzzolente, invece quelle immonde creature erano state più e più volte capaci di sopraffare un uomo vivo. Soprattutto se sottovalutate.
Il moro puntò le armi davanti a sé. I morti viventi traballavano verso di lui, eppure erano inarrestabili, furenti…
Il suo equipaggiamento non gli permetteva di prendere una mira stabile, ciò nonostante si sforzò di usare quelle machine gun come delle normali pistole da 9mm.
Ad uno riuscì a far esplodere il cranio in un sol colpo, fu uno spettacolo ripugnante ma che lo inorgoglì date le sventurate circostanze.
Quel corpo esamine che ora vagava senza capo, col sangue che colava copioso lungo tutto il suo corpo e che infine si accasciò a terra, si traduceva in un morto vivente in meno che si sarebbe rialzato…contrariamente agli altri sei, invece temporaneamente abbattuti, il cui petto ancora si contraeva, pronto ad rimettere in moto quella macchina divoratrice di sangue.

Steve colpì l’ultima b.o.w. rimasta e anche questa si aggiunse a loro. La sua testa era ancora attaccata al collo.
Tirò un sospiro, ma non fu di sollievo. Non riusciva a vedere quei mostri come un pericolo scampato.
Non vedeva scappatoie da quel terribile labirinto e si sentiva solo temporaneamente salvo. Non sapeva quando, ma una di quelle creature sarebbe un giorno sopraggiunta alle sue spalle, e chissà se avrebbe avuto la pistola carica, pronta a far fuoco.

Controllo i proiettili.
Aveva consumato pochi colpi della nuova ricarica. Ne aveva ancora con sé, ma rappresentando che quei mostri potevano rimettersi in piedi all’infinito, il piombo non era mai abbastanza.
Ripose le armi nella cintura e cercò di fare il punto della situazione.
Da quanto c’era stato quel corto circuito, l’intero laboratorio artico era stato inghiottito nell’oscurità.
Era riuscito a orientarsi solo grazie alla debole luce di emergenza e al bagliore delle armi da fuoco, e se non fosse stato per la copertura avuta da Claire pochi minuti prima, non sarebbe riuscito a mettersi in salvo. A quel nome il ragazzo corrucciò la fronte.

Claire…era viva. Era viva.
Era in trepidazione per quella lieta notizia, erano stati lunghi giorni di solitudine e silenzio quelli in cui era stato bloccato in quella prigione ghiacciata senza avere notizie di lei. Nulla, nemmeno il più piccolo segno di sopravvivenza.
Era rinvenuto fra le macerie, abbandonato esattamente come i rifiuti di quel posto dimenticato da Dio.
Nemmeno il mentecatto Lord Ashford che fino a quel momento non aveva dato tregua, era scomparso del tutto, facendo ben intendere quanto della sua vita non importasse a nessuno. Si era ritrovato solo a sopravvivere, in modo non del tutto diverso dai morti viventi cui sparava contro, anch’essi lasciati lì in modo sconsiderato.

Oramai sempre più spesso non vedeva che morte davanti a sé, l’unica funesta via che sembrava poter lasciare qualcosa di umano. Steve aveva fatto di tutto per perdurare, aveva lottato duramente contro il suo istinto per trovare delle motivazioni che lo tenessero in vita…e quella motivazione era stata Claire.
Solo, senza nessuno da chiamare a sé, dimenticato e lasciato senza via di scampo in mezzo a un laboratorio ghiacciato; il ricordo della giovane che era intercorsa sul suo cammino era la spinta che gli comandava di soffocare il suo intrinseco desiderio di farla finita, di non avere più nulla per cui continuare inutilmente a lottare.
Si sentiva un peso inutile persino per se stesso. Ancora una volta inoltre non aveva potuto far nulla per aiutare la ragazza che invece aveva fatto tanto per lui.
Dopo giorni di disperata ricerca, si erano a stento salutati, costretti a separare ancora una volta le proprie strade. Per di più lei era sola, adesso.
Avrebbe sfondato i muri pur di risalire la balconata dove l’aveva vista per correrle dietro, invece era dovuto scappare nella direzione opposta, circondato da quei nefasti zombie. Strinse i pugni.
Era duro, era veramente duro rialzarsi di nuovo e combattere ancora e ancora…per cosa, poi? Per salvare chi? Lui…chi diavolo era, in fondo. Chi era, se non un ragazzo dimenticato che aveva perso tutto.
Non valeva la pena salvarsi, non voleva che Claire rischiasse ancora la vita per lui.
Per questo l’unica cosa che poteva fare era combattere. Perché da morto non avrebbe potuto fare granché per lei.
Un forte boato alle sue spalle lo fece rinvenire da quei pensieri. Si voltò di scatto col cuore in gola e notò che la porta dalla quale era entrato era stava visibilmente ammaccata da qualcosa di pesante.
Dall’esterno qualcosa di enorme doveva averla colpita, ma come aveva fatto a deformarla così di brutto?
Non fece in tempo a chiedersi altro, che seguì un secondo colpo che stavolta la buttò giù definitivamente, costringendolo a mettersi al riparo.
Quel che si mostrò dall’altra parte fu un animale massiccio, dai movimenti rapidi e letali che non aveva mai visto prima. La sua pelle era squamosa e spessa, gli ricordò una sorta di rettile orribilmente pompato di muscoli.
Si rese conto velocemente della sua agilità, così schivò i suoi colpi che mirarono prontamente alla sua gola.
Quel mostro non era come le altre b.o.w. , questo mirava direttamente a decapitarlo. Per via della stazza, non gli fu difficile immaginare che semplici proiettili sarebbero valsi a poco, così decise di scappare facendosi giusto una copertura con una raffica di colpi più per spaventarlo che per ammazzarlo.

La tecnica funzionò, la bestia parve disorientata giusto quei pochi secondi che gli bastarono a inoltrarsi nella stanza alla ricerca di una via di scampo. Il buio non lo aiutava, dovette sprecare qualche colpo qua e là pur di farsi un minimo di luce.
Notò finalmente un varco, in una porzione di muro dalla quale uscivano le tubature e attraverso la quale avrebbe potuto incastrarsi. Intravedeva un passaggio dall’altra parte, ma non ebbe poi molto tempo per pensarci.
Vi strisciò dentro, non badando alla muratura ruvida e spigolosa che rendeva quell’apertura veramente dolorosa.
Usò ancora una volta le machine gun, stendendo faticosamente un braccio e sparando per abbattere qualche porzione di muro per agevolare il cammino ove non passava.
Intanto l’Hunter si era schiacciato anch’egli contro la parete, graffiando e urlando in sua direzione, disperato dal desiderio di raggiungerlo e cibarsene.

Steve buttò un occhio dietro di sé e rabbrividì vedendolo dimenarsi così forte. Per un attimo temette che avrebbe potuto strisciare in qualche modo nella fessura e affondare i suoi artigli nella sua carne con quella terribile veemenza; era terrificante sentire a quella distanza una tale furia. Puntò con la sua arma al suo occhio e sperò che un colpo potesse farlo desistere.
La bestia urlò dolorante e finalmente concesse un po’ di tregua al ragazzo, che senza lo stridio di quegli artigli potette concentrarsi meglio e avanzare.
Era così stretto che a un certo puntò riusciva a stento a respirare. Non poteva più sollevare il braccio e nemmeno muovere la testa. Era quasi completamente incastrato.
Una luce proveniente però dall’altra parte dell’apertura gli infuse coraggio, così sopportò i graffi che stavano torturando la sua faccia e le sue braccia e si tirò faticosamente avanti.
Era ormai arrivato a destinazione, era affacciato completamente nella strana stanza dove era sopraggiunto, tuttavia completamente incapace di muoversi.
Non era possibile che fosse sopravvissuto fino a quel momento e che il suo destino fosse di morire incastrato in quel muro! Eppure davvero non riusciva a passare dall’altro lato in modo definitivo. Il suo torace si gonfiava faticosamente, il respiro pesante lo stava opprimendo.
Non seppe come riuscì a far scricchiolare il suo cranio fino a portarsi fuori, così come le sue spalle e il resto del corpo. Si buttò a terra esausto, completamente graffiato, con la testa che gli doleva senza pietà. Si concesse giusto un attimo di riposo, ma si mise comunque in piedi velocemente, non riuscendo a fare a meno di pensare ai possibili pericoli in agguato.
Scrutò con attenzione il posto.
Era un bunker rudimentale, costruito nella pietra. Vi era un letto logoro, impolverato e ingrigito, sul quale erano poggiati un bel po’ di libri. Per via delle pagine pieghettate, allora qualcuno doveva aver vissuto davvero lì dentro.
La debole luce proveniva da un faretto sul soffitto, così sudicio da lasciare ombrosa quella stanza. Setacciò la scrivania di legno posta di lato, ma non sembrava esserci nulla di interessante.
Steve si chiese se avesse faticato tanto per giungere lì dentro per nulla. Certo, non l’aveva voluto lui, era stata colpa di quella b.o.w. energumena. Tuttavia era stato abbastanza deludente accorgersi di essere scivolato, e anche abbastanza faticosamente, in un vicolo cieco.
Riflette però che se c’era quella stanza, doveva esserci anche un ingresso per accedervi. Com’era possibile che non v’erano porte?
Lui tanto era riuscito a entrarvi per via di quella spaccatura nel muro venutasi a creare per il deterioramento di quel posto…ma normalmente, da dove si accedeva in quella stanza?
Decise di usare la logica e quindi di ispezionare meglio. Era inutile tornare indietro.
Camminando su e giù per la stanza, si accorse che sotto il letto parte del legno aveva uno spessore diverso. Lo spostò dunque, cercando di ignorare il frastuono che indubbiamente lo metteva allo scoperto semmai ci fosse stato qualcuno da qualche parte in quel posto. Per fortuna però non sopraggiunse alcuno, voleva dire che era solo.
Ad ogni modo riuscì a mettere il letto in un angolo e a portare allo scoperto una botola sotto di esso. Sorrise compiaciuto, una volta tanto era riuscito a scoprire qualcosa… sperava qualcosa di buono.
Non v’erano maniglie, quindi doveva trovare un modo per tirare su la copertura. Tornò dunque a scrutare la stanza. L’unica cosa che poteva usare per far leva era la copertina rigida di uno dei libri, la quale gli sembrò abbastanza spessa da non piegarsi subito. La incastrò dentro e riuscì a sollevare lo sportello.
Stranamente non aveva dovuto forzarla quasi per nulla, inducendolo a pensare che qualcuno dovesse essere stato lì recentemente.
Non vi erano scale così si calò dentro con un piccolo salto. Era buio per cui soltanto la debole luce della camera sovrastante poteva aiutarlo a orientarsi.
Cercò di abituare la vista e riconobbe un candelabro spento su uno dei mobili; a fianco c’era anche una scatola di fiammiferi, dunque aveva dedotto bene, qualcuno era solito entrare in quella stanza di tanto in tanto.
L’accese e finalmente poté esaminare con più cura quell’antro. Sbandò tuttavia quando una strana bambola fu adesso ben visibile dinanzi a lui.
Era realizzata con la paglia, molto simile a uno spaventa passeri, soltanto che ricostruiva una figura femminile, una donna che lui non faticò a riconoscere e che congelò la sua mente buttandolo in pasto all’orrore e al disgusto.
Quel pupazzo era Claire Redfield.
 
“Cosa…diavolo…?!”
 
Solo allora si accorse del nauseabondo odore organico che permeava tenue ma pungente quel sotterraneo. Portò una mano alla bocca, inorridito, eppure non riuscì a distogliere lo sguardo da quel ‘coso’; non riusciva a chiamarlo “pupazzo”!
Quel fantoccio terribile non era solo rivoltante, era la chiara rappresentazione di una mente malsana.
La bambola era accomodata su una sedia, l’intero corpo era composto da fili di paglia ben intrecciati fra loro, che riproducevano la forma della testa e le improbabili fattezze di un corpo femminile realizzato in modo artigianale. Chiunque doveva averlo costruito, non doveva essere granché portato nel riprodurre delle verosimili proporzioni umane. Le spalle erano infatti troppo piccole e le gambe troppo lunghe, così come le altre varie proporzioni. Non che Steve conoscesse in modo appropriato l’anatomia umana, tuttavia a colpo d’occhio erano ovvie le sue asimmetrie.
Ad ogni modo, il personaggio era riconoscibile: sebbene in modo molto grezzo, era stata riprodotta sia la maglia, che la giacca di pelle rossa, anche i jeans della ragazza. I punti sul tessuto dei vari pezzi erano grossi e mal assemblati, ma era impossibile non riconoscervi l’abbigliamento del soggetto preso in esame.
Tuttavia, quel che era disturbante in quella figura, era il suo viso. Un viso inguardabile che non osò scrutare più del dovuto. Questo perché i suoi occhi sferici e blu, languidi e umidi…erano dei bulbi cuciti direttamente sulla paglia; erano visibili nella loro interezza, tenuti sul pupazzo senza entrare minimamente nell’incavo delle orbite, uscendo fuori completamente. Dietro di essi, la paglia aveva assorbito una certa quantità di sangue, ancora ben visibile, segno che quando erano stati applicati, dovevano essere freschi. Si trattavano di veri occhi umani.
Fu un’immagine che gli diede il voltastomaco.
Chi aveva mai potuto cavare gli occhi a…a uno dei non-morti, sperava!! Dopodiché darvi un punto per attaccarli su un orribile pupazzo!
Non si trattava dell’unica parte organica, purtroppo. Temeva che persino la parrucca che indossava, per via dell’odore nauseabondo, fosse lo scalpo di qualche mal capitato, che adesso ornava quel pupazzo di così cattivo gusto.
Per via del colore rossiccio, tuttavia spento e opaco, doveva essere lì da molto tempo.
Un sorriso improbabile, dipinto come da un ragazzino, era stampato sul viso come tocco finale della pazzia cui stava assistendo.
A un certo punto sopportarne la vista diventò impossibile, ma non riusciva a ignorarla.
Cosa accidenti significava quella “bambola”?! Chi l’aveva assemblata, conosceva Claire? Cosa voleva da lei?
Chiunque ne fosse l’artefice, aveva dato dimostrazione di una malsana fissazione per lei.
Questo voleva dire che qualcuno di deviato era sulle sue tracce e l’aveva studiata fino alla pazzia.
Steve si sentiva stomacato, infastidito, furente, ma anche spaventato.
Doveva avvertire la ragazza al più presto.
Guardandosi attorno, ovunque vi erano segni di quel qualcuno visibilmente tormentato da lei. Appese alle pareti vi erano delle foto di Claire in cui dormiva. Si avvicinò osservandole una ad una. Quei primi piani del suo viso si ripetevano ossessivamente, mostrandone angolature sempre diverse.
In alcuni scatti ella aveva gli occhi socchiusi, spenti, come se non fosse cosciente. In altre era abbandonata su un letto, in altri ancora poggiata a una finestra. Costui aveva realizzato quelle foto disturbanti una dopo l’altra; aveva immortalato i suoi occhi insonnoliti e azzurri, il suo profilo, la sua bocca schiusa e rossa.
A quel punto buttò ogni cosa per aria, volendo proteggere la ragazza dallo sguardo deviato di chi aveva approfittato di lei. Trovò così altri scatti che si rifiutò di esaminare oltre per la loro indecenza. Fra queste vi erano anche bozze di disegni con i quali l’autore aveva cercato di riprodurla visivamente.
Quella stanza era un vero e proprio altare dedicato a Claire, alla perversione che qualcuno aveva sfogato su di lei.
Infine fra quella robaccia trovò persino una videocassetta. Era posta esattamente vicino un monitor dotato di videoregistratore, ivi collocata proprio perché il maniaco doveva aver visualizzato di recente quel video dato che non l’aveva riposto da nessuna parte; oppure era così sicuro del suo “altarino segreto” da non preoccuparsi di nasconderlo.
La prese impulsivamente fra le mani e si chiese se visualizzarla o meno. Deglutì.
La rabbia e la disapprovazione era tale che qualsiasi indizio l’avesse portato da Claire era indispensabile in quel momento. Temeva cosa avrebbe visto, ma non v’era la possibilità di ignorare quanto aveva trovato lì sotto. Era arrivato fino a quel punto, non aveva senso indugiare.
Ricollegò i fili scollegati del monitor, dopodiché pressò prima di tutto sul tasto di accensione del televisore che fece statico. Funzionava.
Restava quindi da esaminare il contenuto della cassetta.
Il suo sguardo si fece truce, ma era pronto.
Spinse la cassetta dentro la fessura e questa mostrò statico ancora qualche secondo, tuttavia brevemente apparve il primo piano di due occhi chiari come il ghiaccio che scrutavano la ripresa.
Steve quasi sbandò trovandosi faccia a faccia quel viso, quello di Alfred Ashford.
Questi sbirciava la telecamera con la quale si stava riprendendo, aveva un’espressione attenta.
Infine si allontanò prendendo posizione dietro un banco di legno scuro centrato nell’inquadratura alle sue spalle.
Sembrava pronto a parlare con l’ipotetico interlocutore che avrebbe assistito a quella ripresa.
Steve si immobilizzò, perse probabilmente il contatto con la realtà, rapito da quel video che stava per rispondere a domande che non conosceva, su qualcuno ai suoi occhi soltanto malato e completamente pazzo, che era stato il suo aguzzino in quella gabbia di morte.
Il sol guardarlo gli faceva stringere le viscere, portandogli alla mente il dolore che aveva dovuto sopportare, il desiderio di morte che aveva cominciato a marciare dentro di lui, logorando la sua mente visti gli orrori subiti quando era il solo un numero… 0276 …
Non aveva mai avuto l’ “onore” di conoscerlo di persona prima dell’attacco alla base, ma la sua fama era sulla bocca di tutti ed era risaputa la sua personalità perversa sotto ogni punto di vista. Ritrovarselo quindi come protagonista del video, per di più come probabile stalker della povera Claire, fece ribollire una collera mai provata prima.
Il suo viso perfetto, i suoi lineamenti delicati, lo sguardo limpido ma sadico, la pungente e disturbante soavità di un crudele angelo biondo dagli occhi azzurri.
Questo era Alfred Ashford.
Un disturbante e sadico tiranno bagnato di sangue.
 
Il biondo comandante di quella che un tempo era la base di addestramento dell’Umbrella a Rockfort Island, batté sul tavolo un martello di legno. Puntò i suoi occhi vitrei dinanzi a sé sghignazzando fastidiosamente, poi incrociò le dita e le portò sotto il mento.
La stanza era completamente buia, meno che un fascio che illuminava solo e soltanto il suo volto.
La sua espressione poi si fece buia e la risatina mostrata in precedenza si sostituì velocemente a un atteggiamento assorto. La sua voce echeggiò nel silenzio quasi come un sussurro confidenziale verso il nulla che lo stava ascoltando. Alzò lo sguardo.
 
“Dolore, noia, disagio, abbandono, spasimo, monotonia, poi di nuovo noia e dolore. Un cataclisma infinito che avvolge l’anima e la ripercuote ciclicamente, ricordando la sorte ingiusta di un amore recluso. Fugaci e deboli momenti che distolgono i pensieri da tale piattezza, che non fanno che sfamare quell’ingorda fiera che è la solitudine.” I suoi occhi rivolti al cielo vedevano qualcosa che nessun altro avrebbe mai potuto nemmeno scorgere. Restò immobile diversi istanti, abbagliato dalla personale visione di quel paradiso negatogli nella vita. Di scattò poi piegò la testa e si riposizionò dritto, sbatté entrambe le mani sul banco con viso che si fece di colpo esuberante; un sorriso inquietante e malato era stampato sulle sue labbra biancastre.
 
“Offro molto più di quanto si possa ereditare da una vedova ricca, o da un padre generoso, o un ricco signore..! Non c’è nulla che possa più desiderare che aggiudicarmi un premio! Una fugace ma appagante gioia che riempi quest’incolmabile e perpetuo vuoto. Su, su proponetemi!! Dilettatemi!! Quali offerte chiedo, vi domandate? Ma il dolore, è ovvio...” sogghignò. “Oh, Alexia...quale vuoto incolmabile mi hai lasciato. Crudelmente hai trafitto il mio cuore, lasciandomi vivo. Un colpo impetuoso, ma non mortale…e io sanguino e soffro senza trovare il sollievo della morte...oh, quale offerta più crudele e prestigiosa! Sicché ora tutto m'annoia. Che triste questa giostra che sollazza solo quell'effimero tempo perso nell'attesa del tuo ritorno. Oh, amata sorella…! Quale vuoto mi hai lasciato da colmare…ma i nostri gentili ospiti sono pronti a intrattenermi. Troveremo il modo per passare il tempo e divertirci, ahahah!”
 
Dal nulla, la ripresa andò a focalizzarsi su una serie di uomini legati alla parete. La loro pelle sporca e sbianchita, le vesti consumate, gli occhi oramai vacui, eppure non ancora totalmente condannati dalla morte celebrale del terribile T-Virus. Erano ancora parzialmente coscienti, parzialmente vivi. Sebbene confusi e poco padroni di sé, questi si resero conto di star per far parte di un gioco di cui erano le indiscusse e insalvabili vittime, per cui si dimenavano sforzandosi fra le corde che li segavano, appesi come animali da macello e imbavagliati. Alcuni di loro ancora supplicavano pietà, ma agli occhi del folle padrone costoro erano già ‘morti’.
 
“Mettiamo all’asta il rogo! Avanti! Quanto volete che offra? Facciamo un milione? Non siate riluttanti, avete davanti un bizzarro battitore. Fate la vostra offerta e io deciderò se comprare questo dolore!”
 
A quel puntò uno dei prigionieri fu portato in avanti da un meccanismo che lo collocò di fronte all’Ashford, il quale gli sorrise sadicamente di fronte ai suoi occhi impauriti fino alla pazzia. In seguitò abbassò una leva e una fiammata incenerì in pochi secondi quel corpo, tortura della quale gustò avidamente ogni attimo, dalla pelle che si arrossava fino a squamarsi, spaccarsi, insanguinarsi e poi scurirsi fino a incenerirsi. Rise ingordamente, inebriato da quella sensazione agognante che trasmetteva il dolore estremo. Quel dolore terrificante al quale lui non poteva sottrarsi, al quale doveva piegarsi e sopportarlo fino il giorno più prezioso…
Fino ad allora il suo cuore sarebbe marcito sotto le torture più estreme dell’anima. Era questa la ragione per cui necessitava di quel dolore.
Un dolore che gli facesse dimenticare il suo. Un dolore ove potesse riconoscersi. Un dolore che potesse consolarlo. Un dolore che potesse appagarlo, infierendolo ad altri.
Tuttavia niente era in grado di soddisfarlo, niente attenuava o poteva distrarlo dal suo martirio; ma il dolore c’era ed era tanto…davvero tanto.
Quindi più sevizie, più soprusi, più violenze che equiparino quel dolore immenso e implacabile. Più la tortura inflitta era grande, più egli sperava di compensare il suo tormento.
 
“Decapitazione, impalamento, impiccagione, amputazione, sgozzamento, asfissia…cosa proponete? Chi suggerisce di più? Offro! Offro per avere quel dolore…! Quel dolore che mi faccia dimenticare Alexia. ” sussurrò poi.     
 
Le malcapitate vittime di quell’asta della morte finirono trucidate nelle modalità richieste dal biondo, che assistette al massacro con una perversa gioia nei suoi occhi.
Una gioia crudele, inguardabile, opprimente per chi aveva avuto la sfortuna di incrociare riflessa nelle sue iridi cristalline.
Una gioia che mai avrebbe saziato quell’uomo che di umano sembrava non avere più nulla. Il suo era un cieco amore che aveva soltanto giustificato il suo orrido gusto per la violenza.
Perché a nulla sarebbe avvalsa tanta crudeltà. Nulla avrebbe colmato il suo vuoto. Avrebbe finito col respingere tutto….…e tutti…
 
…Tutti…
 
A quel punto la registrazione terminò, mostrando un lungo momento di statico.
Dopo qualche istante però cominciò sostituirsi una ripresa del tutto diversa, che sembrava essere stata estrapolata da un video di sorveglianza in quanto la prospettiva era molto lontana. La videocamera doveva essere stata posta in un angolo del soffitto, o un posto simile.
Steve si chiese se la registrazione antecedente fosse stata sovrascritta su quel video di proposito, proprio per cancellarne parzialmente la traccia.
Era inquadrata una giovane ragazza bionda seduta su una poltrona rivestita di velluto rosso. L’immagine era poco nitida per via dell’infelice distanza del quadro, nonché della scarsa qualità del colore.
Steve vide nuovamente Alfred Ashford muoversi sullo sfondo, stavolta più mite e leggiadro, addirittura compito. Egli si chinò di fronte quella donna e l’aiutò a mettersi in piedi delicatamente. La ragazza sembrava traballante, come fosse malata o comunque debilitata nei movimenti. Il biondo la sorresse con garbo e forza, aiutandola con palpabile amore. Erano evidenti l’estremo rispetto e affetto che nutriva verso quella persona. Ciò che però lo confuse fu riconoscere in quelle spoglie Lady Alexia, la donna cui si era imbattuto a Rockfort e che alla fine si era rivelata essere niente di meno che Alfred stesso, il quale fingeva una doppia personalità. Il moro grattò il capo, evitando di saltare subito a delle conclusioni, sebbene quel video parlasse da solo: v’era una Alexia Ashford ed era certamente la stessa donna di cui il folle comandante assumeva le sembianze.
Poggiò le mani sulla scrivania e continuò a osservare la scena. Vide Alfred posare una mano sul fianco della donna, ponendosi di fronte a lei. Alzò un braccio e pressò un dispositivo che aveva nella mano; un telecomando supponeva. In quello stesso istante una beata e dolce melodia echeggiò nell’ambiente, accompagnando le due figure e il loro sconosciuto osservatore in un walzer romantico e malinconico. L'Ashford fece volteggiare lentamente la donna assieme a lui, muovendosi in armonia con la musica, trasportato da quelle note meravigliose che sembravano finalmente placarlo, trasformandolo nel Lord di cui aveva le apparenze.
Attento a non osteggiare la ragazza completamente abbandonata a lui, l'avvicinò ancora di più a sé unendo i loro corpi; così poté farla volteggiare e trasportarla con lui in quel paradiso perfetto cui ambiva. Un paradiso perduto, macchiando di sangue e di orrore, ma che non aveva mai dimenticato; il solo posto che avrebbe potuto placare il suo spirito ferito, ammalatosi a furia di accontentarsi di quella violenza pur di appagare quell'immenso dolore che lo lacerava.
Dunque si abbandonò a quel piacevole momento intimo che avvolgeva lui e la Sua Donna. La Sua Unica Regina.
Un'armonia perfetta e misteriosa, perfino deviata e folle, che bastava però a soddisfare la sua vita. Egli continuò a ballare con lei quel lento, attento a non spezzare quell'incantesimo. Alexia sembrava stanca, Steve si accorse che pareva come assopita, come se non seguisse esattamente i passi. V'era un contrasto fra l'armoniosità di lui e la fiacchezza di lei, sebbene la sua bellezza delicata la facesse sembrare ugualmente soave.
Tuttavia era visibile che quel ballo fosse trasportato per lo più dal biondo, che con fermezza la teneva stretta a sé come qualcosa di estremamente prezioso, capace di sfuggirgli fra le dita in un lampo.
Egli rallentò il passo e puntò i suoi occhi su di lei, fermandosi lentamente al centro della stanza. Delicatamente la fece scivolare all'indietro con un tenue casqué, in una scena che sapeva d'altri tempi. Steve non aveva mai visto Alfred così dolce, non sapeva se trovarlo sentimentale oppure ancora più eccentrico. Le sue movenze tuttavia lo turbarono, questo perché si avvicinò invadentemente al viso di lei, scendendo verso la sua bocca. I due finirono per piegarsi quasi a metà e Steve non riuscì a distinguere per colpa della piccolezza dell'immagine se egli la baciò o meno. Ad ogni modo gli si contorsero le viscere, in quanto quell'uomo aveva definito Alexia come sue sorella.
Ben presto però quella magia fu spezzata. Fu troncata da un istante; un breve e fugace istante che ferocemente tirò giù il velo di Maya che oscurava quella realtà ingannevole costituita di sole ombre.
Quel momento durò un attimo che però significò tutto, dopodiché il video si interruppe ancora una volta.
Nel mentre di quel delicato casqué incestuoso, una parrucca bionda cadde a terra, svelando una capigliatura scura al suo posto: quella che fino a quel momento sembrava essere stata Lady Alexia, si rivelò essere una ragazza dai capelli morbidi e rossicci.
Il biondo subito si piegò a raccoglierla, tenendo la donna ancora stretta fra le sue braccia. Riposizionò imperterrita la parrucca sul capo della fanciulla, sistemandola con dolcezza, come rassicurandola che presto sarebbe tornata come prima. La pettinò con le dita con insistenza, accarezzandole il viso, con delicatezza eppure con quella frettolosa paura di chi voleva nascondere qualcosa. Intanto il video terminò sostituendosi di nuovo allo statico del televisore.
Ironicamente, la registrazione precedente ripartì, mostrando nuovamente Alfred in veste di giudice tiranno sul suo banco di legno che batteva all'asta le sue deliziose torture. Il nastro era irrimediabilmente rovinato e non faceva che far traballare ripetutamente sempre la stessa inquadratura, la quale andava su e giù per lo schermo alternandosi velocemente allo statico. Era un fotogramma che lo mostrava in primo piano, ove ripeteva ossessivo una sola frase per via dell'usura della cassetta. Il resto del video era oramai andato perduto.
 
"...non mi soddisfa...” seguito da un disturbante suono di statico. “…ucciderò..."
 
 
"...non mi soddisfa...ucciderò..."
"...non mi soddisfa...ucciderò..."
"...non mi soddisfa...ucciderò..."
"...non mi soddisfa...ucciderò..."
 
"...non mi soddisfa...ucciderò..."
 
 
Nulla sarebbe mai stato capace di placarlo; il dolore causato dalla perdita dell’amata sorella superava qualsiasi violenza fisica e mentale.
Per quanto avesse torturato le sue vittime…
Per quanto sangue avesse versato pur di compiacere il suo animo ferito…
Per quanto si fosse truccato da Alexia… o per quanto avesse potuto amare qualcun altro e trovare un qualsiasi appiglio che sopperisse quel dolore…
Niente però valeva come Alexia.
 
 
Anche Claire…
…non lo soddisferà più…
 
…e la ucciderà.
 
 
 
 
"...non mi soddisfa...ucciderò..."
 
"...non mi soddisfa...ucciderò..."
 
"...non mi soddisfa...ucciderò..."
 
Steve Burnside stette paralizzato davanti allo schermo, ove quella frase si ripeteva martellando il suo cervello, trasmettendogli un preciso messaggio.
Doveva salvare Claire, al più presto!!
 
 
 
 
 
***
 
 
 
 
Base Artica dell’Umbrella Co. – Sotterranei abbandonati
Alfred Ashford e Claire Refield
 
 
 
 
 
 
 
Cosa possiamo noi, se non osservare e giudicare il mondo attraverso i nostri occhi?
Esistono milioni di realtà, altrettanti punti di vista, innumerevoli situazioni celate alla nostra percezione sensoriale e intellettiva. Qualora certe verità non vengono palesate, è difficile che possiate accorgervene. Vi sono elementi talmente fuorvianti che potremmo vivere menzogne tutta una vita senza nemmeno averne coscienza, per poi sull’ultimo domandarci: quando tutto è cambiato? Cosa ho sbagliato?
La triste verità è che abbiamo scelto di essere storpi. Non di nostra volontà, ma probabilmente era più facile cullarsi in quello che meglio si preferiva credere.
 
 
 
 
 
Il rintoccò tenue dell’acqua che gocciolava dal soffitto muschioso risuonava come un eco nella fredda e buia caverna dei sotterranei. Era tutto fermo e silente, come se il tempo avesse congelato quel luogo che celava nell’oscurità la sua vera natura. Un mondo di morte e inganni, di tenebre e tormento, ove l’amore si era lentamente trasformato nella violenza più cruda, nutrito fin dal primo istante con l’odio e la follia. Quel mondo raccontava più di quanto potesse essere colto a un primo sguardo. Quelle pareti deturpate, muschiose, abbandonate, urlavano nel silenzio quanto avevano visto; eppure non v’era mai stato nessun interlocutore dall’altra parte. Alcuno aveva mai cercato di conoscere la storia infelice di un luogo magnifico e potente, nelle mani di un sovrano disperato che aveva confuso quella felicità, tramutandola in una mostruosità. Quelle porte però potevano ancora essere solcate. La luce poteva ancora battere su quelle pareti. Qualcosa poteva ancora smuovere quel pazzo mondo crollato su se stesso.
Dal pavimento roccioso si mosse l’apertura di una botola fino a quel momento perfettamente mimetizzata; dall’altra parte qualcuno batteva incessantemente, sforzandosi di oltrepassare quell’uscita. Dopo l’ennesimo colpo questa si spalancò e un uomo dalla pelle bianchissima e dalla chioma bionda fuoriuscì affannato. Egli era sporco e sudato, ma il suo sguardo era forte e per nulla stanco. Egli si sollevò e si mise in piedi, aiutando una giovane ragazza a venire fuori dall’apertura con lui.
Claire Redfield afferrò la mano di Alfred, il quale la sorresse e la mise in piedi accanto a lui. La ragazza si guardò attorno riconoscendo quel luogo.
 
“Ehi, siamo di nuovo nell’atrio principale?”
 
“Sì.”
 
Rispose l’uomo brevemente, lasciando la sua mano e dirigendosi finalmente verso il portone principale.
I suoi capelli biondi erano spettinati, la prestigiosa e scarlatta giacca militare aperta e graffiata, la camicia strappata e il braccio era tenuto stretto al petto da una fasciatura; per di più era sporco e sfregiato.
Quell’Alfred Ashford era completamente diverso dal nobiluomo muliebre e dannato che aveva conosciuto all’inizio. La Redfield si ritrovò a contemplarlo senza nemmeno accorgersene, costatando quanto tutto fosse cambiato, forse…più per lei.
Lui era sempre stato un uomo avvolto dal mistero e aver tirato già quella maschera aveva effettivamente mostrato un volto del tutto dissimile alle apparenze con le quali si erano conosciuti. Era qualcosa che ancora stentava a realizzare concretamente quando ci rifletteva.
Si chiedeva quanto lui fosse effettivamente il ragazzo che aveva riscoperto conoscendolo meglio, e quanto invece magari aveva portato lei alla luce, facendo rinsavire la persona nascosta dietro Alfred Ashford.
Notando la sua distanza, il biondo si voltò alzando un sopracciglio. Claire sorrise lasciandolo attonito. Cercò di ignorare la titubanza che gli provocava quella donna e prese a riposizionare gli oggetti per aprire il portone.
Intanto la ragazza stette un po’ più distante da lui, realizzando in quello stesso momento che una volta tornati nei laboratori soprastanti, si sarebbe aperta una nuova grande parte di quell’avventura. Ogni suo scopo era profondamente cambiato.
La Claire che sarebbe tornata in superficie era diversa dalla Claire che era sprofondata in quelle segreta.

Tutto era cambiato, vedeva uno spiraglio di luce in quelli che un tempo erano solo dei vetri rotti, consumati da un amore che l’aveva corroso fino alla pazzia.
Vi vedeva ora il ragazzo che aveva imparato a capire, a comprendere, fino a fare del suo dolore…anche un suo dolore.
Non sapeva come avrebbe convinto l’Ashford a venire via con lei e Steve, ma confidava di riuscirci. Non l’avrebbe lasciato lì dentro a marcire.
Il sonoro schiocco della serratura oramai sbloccata la fece trasalire, gettando sulle sue spalle l’improvviso peso di quel momento cruciale. Il momento in cui la loro “tregua” era ufficialmente conclusa.
Claire lo guardò intensamente, pronta, fiduciosa, tuttavia impaurita; impaurita dalla possibilità di vederlo andar via di nuovo.
 
“Alfred…” disse ferma, al che il biondo si portò davanti a lei, in qualche modo consapevole di cose la donna stesse per dirgli. Osservò i suoi occhi velatamente stanchi, eppure vigili e combattivi, odiati eppure amati, con quella fierezza che l’aveva conquistato fin dal primo istante.
La forza di una piccola e comune formica, che aveva raggiunto e divorato l’indomabile e prestigiosa libellula.
 
“Voglio portarti via con me.”
 
Il biondo rimase stranamente in silenzio. Non fece né scenate, né si smosse in qualche modo. Claire attese la sua risposta, conoscendo ormai le sue reazioni. Sapeva che era una qualcosa di difficile per lui.
 
“Portarmi via…” ripeté lui dopo un po’. “Sai cosa significa, immagino.”
 
La rossa annuì. “Non c’è nulla che devi temere, devi solo lasciare che io ti aiuti.”
 
Alfred sorrise.
 
“Stiamo per tornare in superficie, Redfield. Stiamo per lasciare gli arcani e profondi meandri di questo luogo morente, per risalire dov’eravamo rimasti.  Lo spettacolo sta per concludersi…o sta per ricominciare? Cos’è questo, un sipario che sia sta alzando o che sta scendendo?”
 
Claire si ritrovò ad annuire a quelle parole. Era vero, presto sarebbero tornati dov’erano rimasti, prima che si scaturisse quella baraonda; a quel punto cosa sarebbero stati? Erano cambiate le cose?
Era questa la domanda cruciale per via della quale nessuno dei due aveva ancora mosso un passo oltre la porta che li avrebbe condotti via.
 
“…siamo ancora… nemici?” chiese Claire, col cuore in gola, non sapendo lei stessa cosa rispondere. No, non erano nemici. Non più. Tuttavia non erano nemmeno ancora pronti a gettare alle spalle ogni cosa. Poteva essere un difficile inizio, oppure un crudele finale.
Avrebbe tanto desiderato soltanto tornare a casa e riabbracciare i suoi cari…
…e che lui capisse…e si liberasse…
L’Ashford a quel punto sfilò attorno a lei osservandola con uno sguardo a metà amaro, a metà intenerito. Un volto che la fanciulla definì presto e il suo animo cominciò a distruggersi prima ancora che lui prendesse parola. Alfred si fermò alle sue spalle e si avvicinò al suo orecchio, sfiorando i suoi morbidi capelli.
 
“Prima ho un compito più importante, devo proteggere Alexia.”
 
Claire girò il viso, per nulla turbata di trovarselo a pochi centimetri di distanza. Piuttosto fu il biondo a sentirsi un attimo fuorviato, non aspettandosi che ella si sarebbe voltata così repentinamente, senza sentire il disagio del suo fiato sul viso.
 
“Alfred.” Disse dolcemente. “Basta così. Basta queste cazzate, basta logorarti tanto. Basta. Andiamo via.”
 
Gli occhi del biondo si abbuiarono.
 
“Così fino all’ultimo hai creduto a questa bugia, deduco.” Fece una pausa. “Non ti biasimo, era questo il piano pattuito anni or furono. Innestare il dubbio, un velato ed emblematico dubbio. Quando questo si insinua nella propria testa non puoi più ignorarlo fino a quando non si va fino in fondo. Ti chiedo dunque se te la senti, Redfield. Vuoi davvero continuare con me…fino in fondo?”
 
La rossa sentì il sangue gelarsi. Rifletté sulla sua ultima frase, non potendo credere che dopo quanto aveva fatto per lui, ancora non fosse abbastanza. Si sentì ferita…molto.
Dal suo canto aveva superato i suoi atteggiamenti, le angherie subite, la violenza, le orribili macchinazioni di morte e dolore che avevano reso prima Rockfort e poi l’Antartide il suo inferno. Era stata il suo giocattolo, del quale lui si era servito avidamente. Nonostante tutto lei era però riuscita a vedere qualcosa oltre tutto questo ed era andata fino in fondo; fino a entrare nella sua vita.
 
“Fino in fondo? Hai davvero il coraggio di chiedermi questo..?!” pronunciò indignata, ma con pacatezza, tenendo a freno l’amarezza che la stava opprimendo.
 
“Non ti alterare.” La tranquillizzò lui, poi sorrise. “Sebbene non possa negare di trovare attraenti le tue reazioni così imprevidenti e…” annusò il suo collo. “…e incoscienti.”
 
“Mi stai dando della stupida?” Lo allontanò la ragazza, invece, piuttosto irritata.
Era lei ad avergli chiesto di seguirla, di scappare con lei. Che cosa rispondeva, invece? Le aveva domandato a sua volta di andare negli abissi con lui. Era…era assurdo. “Alfred, ti ho chiesto di andare via con me. Via dai laboratori, via dalla tua prigione di Rockfort, via dall’Antartide. Via. Andare via.” Si fermò e gli mise una mano sulla spalla. “Via davvero…capisci?”
 
Alfred aveva ampiamente compreso quella proposta e ricambiò serio lo sguardo della rossa, trafiggendola con quell’impassibilità che Claire aveva amaramente imparato a conoscere.  Il rigore del Re che mai si sarebbe smosso dal suo compito. La Redfield non voleva cedere, si rifiutava di credere di dover varcare la soglia della libertà da sola. Avrebbe voluto con tutta se stessa che quegli occhi trasmettessero amore e fiducia verso la vita…verso di lei. Tuttavia non poteva mentire a se stessa, di fronte quello sguardo fermo sulla sua posizione che aveva lei scalpito, toccato, a cui aveva dato calore…ma che non era cambiato; egli ancora inseguiva severamente il ruolo di Re in quella scacchiera mentecatta.
 
“Ti ho risposto Redfield. Non…posso. Non posso.” Ribadì imperterrita bloccandola con un braccio, poggiandolo sul muro ammuffito alle sue spalle.
“Ho immolato la mia vita e quella di Alexia e non ho intenzione abbandonare tutto. Che tu ci sia o meno, io ho un compito. Un compito che ho giurato di portare a termine e dal quale non dipendo solo io, ma ciò che ha dato un significato a quest’esistenza altrimenti troppo crudele, troppo spenta e artificiale. Un racconto nefasto di cui ti parlerò un giorno.” Si fermò a riflettere un attimo, poi riprese parola.
“Io veglierò su di lei…fino al suo risveglio. E’ la promessa di tutta la mia vita. Se vuoi davvero comprendere qualcosa di me, entrare nella folle lotta che accompagna la mia intera esistenza…allora dovrai attendere con me. Nemmeno tu puoi tirarti indietro, lo sai. Io ti aprirò le porte, stavolta ti lascerò entrare. Questo palco è mio quanto tuo, hai conosciuto i suoi arcani e blasfemi sacrilegi, nonché le sue bonarie virtù. Tuttavia non potrai ritenerti parte di tutto questo se prima…non conosci Lei.”
 
“Alexia?”
 
“Esattamente.”
 
I due stettero in silenzio, l’uno di fronte all’altra.
Claire si morse le labbra, delusa. Il suo cuore le sbatteva in petto, materializzando il turbamento che si stava propagando.
Era frustata di trovarsi sempre nella posizione di piegarsi, delusa di non essere lei la scelta di quell’uomo, nemmeno dopo quanto accaduto.
Era affondata con lui nell’oblio, marciando nelle terre desolate del suo animo lercio e vi aveva trovato l’anima sofferente che aveva intravisto fin dall’inizio, quando era drogata e vestita da sua sorella. Eppure già allora aveva sentito il suo abbandono, dunque aveva deciso di rischiare e comprendere quella storia.

Ciò nonostante, il fantasma di Alexia era intercorso ancora una volta fra loro e spietatamente stava frantumando quel lungo percorso che aveva fortemente voluto intraprendere.
Cosa doveva fare? Doveva seguirlo davvero fino agli abissi ancora più estremi…?
Oppure no?
Fino a che punto voleva aiutarlo e fino a quale invece era divenuta una malata ossessione?
Aveva paura. Paura che a furia di restare nelle tenebre con l’Ashford, aveva finito col perdere di vista quel sottile confine. Avrebbe voluto fortemente seguire il suo cuore, dargli l’opportunità di mostrarle Chi Era Alexia Per Lui, come le aveva chiesto. Eppure l’aveva assecondato così tante volte, che in quel momento tutto si stava sgretolando proprio davanti ai suoi occhi.
Non voleva lasciarlo e non voleva nemmeno soccombere. Il suo cuore…si stava spezzando.
Alfred vide gli occhi di Claire oscurarsi sempre di più, sfuggendo al suo controllo. Cominciò sentirsi turbato. Cosa le stava accadendo? Perché era così titubante?
Aveva scavato in parti molto profonde, arrivando fin dove persino lui si era rifiutato di guardare, cancellando e negando con tutto se stesso quella parte di sé, bisognosa di altro oltre Alexia.
Gli era stato difficile, eppure lei era riuscita a fargli credere che potesse esserci un mondo felicemente desiderabile e appagante in lui. Quei desideri che lui reputava impuri e blasfemi, erano divenuti una dolce terra dove approdare di cui non conosceva i margini, ne dove gettare l’ancora…ma era pronto a lasciarsi andare; ad accettare Claire nella sua prigione mentale.
Vedere quindi i suoi occhi tristi proprio in quel momento lo stava torturando fino alla pazzia.
Era forse la prima volta che si chiedeva cosa avesse sbagliato. Quali fra le sue parole avesse allontanato l’amore di Claire?
Cercò disperatamente una risposta, ma dalle sue iridi blu non traspariva nulla se non delusione…amara e frustrante delusione.
Non lo avrebbe accettato…
Non stavolta…
Non in quel momento in cui aveva ritrovato La Vita.
 
“No…” sussurrò digrignando, al che Claire corrucciò il viso, ancora in preda alle sue emozioni.
 
Alfred si fece prendere dal panico. Era spaventato…spaventato dall’ipotesi che lei potesse scappare; che non tornasse; che riprendesse a considerarlo pazzo; che non gli avrebbe più rivolto il suo viso dolce, i suoi occhi luminosi, la sua presenza calorosa in quella vita crudelmente abbandonata, risvegliata dopo anni di depressione e solitudine.
 
“No.” Concluse. “Non te ne vai.”
 
In quello stesso momento strinse il pugno sul suo polso e la tirò a sé.
Superò il portone e s’incamminò oltre, percorrendo i meandri che li avrebbero condotti fuori dai sotterranei. Claire fu costretta a seguirlo, confusa da quel gesto e da cosa stesse effettivamente accadendo.
 
“Fermò, Alfred! Dove stai correndo? Se mi tiri in questo modo, non otterrai nulla. Smettila e lasciami! ”
 
In quel lungo momento di silenzio erano stati messi di fronte una scelta.
Una scelta che li aveva irrimediabilmente divisi, mettendo a nudo colei che avrebbe per sempre ostacolato la loro libertà. Alexia Ashford.
Era esattamente come aveva detto Alfred, si stavano incanalando verso una fine o un nuovo inizio. Tuttavia l’Ashford non sembrava intento a lasciare andare ciò che adesso aveva conquistato.
Il problema sussisteva nel fatto che, arrivata a quel punto, a Claire non importava di addentrarsi ancor più nell’incubo. Quella realtà maledetta che non faceva che richiamare l’altolocato ereditiere Ashford negli abissi; possibile che anche lui non desiderasse finirla lì? Perché dovevano scendere ancora più in fondo?
 
“Alfred! Per favore, basta! Andiamo semplicemente via. Per favore…!!”
 
Si ritrovò a supplicarlo, ma lui era irremovibile. Continuava a tirarla, trascinandola come una fiera che aveva oramai affondato le sue zanne sulla preda, per trasportarla nella sua tana ove non avrebbe più avuto via di scampo.
Non proferì parola e non sbirciò nemmeno verso di lei. Camminò a passo felpato imboccando un corridoio dietro l’altro, tirando la Redfield senza pietà la quale non riuscì ad apporsi. Un po’ perché spaventata, un po’ perché completamente sconvolta. Tirava via la sua mano, forzando il polso di lui, ma senza la reale intenzione di sottrarsi. Potette solo affrettare il suo passo con lui, mentre la sua mente la tradiva ancora una volta facendola sottostare al volere del suo malinconico tiranno.
Giunsero infine su una passerella ben illuminata dalla luce del neon, un luogo molto artificiale e ben custodito. Sembrava di essere in una stazione spaziale, o comunque un luogo altamente tecnologico.
In quel momento Alfred si fermò un secondo per orientarsi, dopodiché rigò dritto, facendo per attraversare un pontile di ferro dall’altezza vertiginosa. Proprio in quell’istante però si bloccò, notando di striscio la spia di una telecamera che stava puntando su di loro. Non si sbagliava, infatti il ponte si spostò sotto i suoi piedi, impedendogli di attraversarlo.
Digrignò i denti, poi diede una strattonata alla ragazza e la condusse verso un altro percorso. Scese velocemente dei gradini, portando lui e la rossa al piano di sotto, e proprio in quel momento un vetro si frantumò alle loro spalle e centinaia di schegge li travolsero costringendoli a fermarsi di colpo. Claire riparò il viso col braccio che aveva libero, portandolo all’altezza degli occhi. Quando lo abbassò per rendersi conto della situazione, ritrovò il biondo comandante già in piedi, con gli occhi fissi dinanzi a sé. Di fronte a lui…Steve Burnside, con le sue machine gun puntate esattamente verso di lui.
 
“Steve!” lo chiamò lei interdetta, tuttavia il ragazzo non ricambiò il saluto; egli rimase immobile, guardando l’Ashford con l’ira negli occhi. Claire si fece prendere dal panico, Steve non sapeva di troppe cose. Non voleva che facesse del male ad Alfred. Tentò dunque subito di intermediare e schizzò per mettersi fra loro, tuttavia la presa di Alfred, ancora ben stretta sul suo polso, la costrinse a rimanere dietro di lui.
Deglutì, sempre più spaventata. In quelle vesti, con lei sotto il suo controllo, sarebbe stato facile fraintendere e scambiarla per un suo ostaggio. Doveva agire in fretta.
 
“Steve, per favore, non sparare! Devo…devo spiegarti molte cose. Non è un nostro nemico.”
 
Il moro fece una smorfia di disapprovazione.
Dal suo canto, sapeva bene chi era quell’uomo; sapeva quale mente perversa si nascondeva dietro le sue apparenze già poco raccomandabili. Vedere Claire  fra le sue grinfie per di più, gli fece ribollire il sangue ancor di più.
 
“Questo maniaco? Stai scherzando!?” digrignò. “Non hai idea di cosa ho visto, Claire. Non puoi immaginare le cose orribili e disgustose che nasconde. Sei sotto il suo mirino, non considerarlo un alleato. Non so cosa ti abbia detto per portarti dalla sua, ma non fidarti. Morirai se lo farai.”
 
Mentre Steve proferiva quelle parole, Claire sbirciò oltre le spalle del biondo per vederne il volto, il quale era stranamente calmo, inespressivo. I suoi occhi erano stretti e le sue labbra rigide, non l’aveva mai visto così inflessibile. D’altra parte, sentì la sua mano stringerla ancora più forte. Lo fece per timore di perderla…o perché era un suo possedimento?
La rossa non seppe cosa fare, desiderava solo che Steve abbassasse quelle mitragliette.
 
“Steve, diavolo, lo so! Io…io…” era in presenza di Alfred, non poteva parlare con assoluta onestà di quello che era stato il loro passato. Eppure doveva tranquillizzare Steve in qualche modo, dirgli la verità. Aveva paura però che facendolo avrebbe spezzato il delicato equilibrio mentale del biondo. Strinse gli occhi…non aveva scelta, doveva parlare col cuore, e subito. Prima che uno dei due facesse qualcosa di cui si sarebbe pentito. “Sono consapevole di ciò che mi ha fatto! Di ciò che ha fatto a noi…a tutti! Però lui mi ha aiutato, siamo sopravvissuti collaborando assieme e…e non si tratta solo di questo! Credimi, le cose sono davvero cambiate.”
 
L’Ashford la scrutò con la coda dell’occhio, però non disse ancora nulla.
 
“Non è facile da spiegare, non è facile da comprendere. So soltanto che non è un nostro nemico. Non lo è più. Quindi abbassa quell’arma.”
 
“Claire…” sussurrò Steve, non sapendo cosa fare. Le mani gli tremavano, ma ancor più non riusciva a dir di no agli occhi languidi di quella ragazza. La sua Claire così forte e determinata…che lo supplicava di non salvarla dalle grinfie di quel demonio. Fu sofferto per lui far scivolare le dita dal grilletto e deviare almeno di poco la mira. Non riuscì però ad abbassare le braccia, ancora puntate verso di lui.
 
“Sono finito in una stanza segreta dov’erano conservate cose…cose che non saprei nemmeno come definire!”
Scosse la testa, scacciando dalla sua mente quel disturbante e terribile ricordo.
“C’era una bambola orribile composta di parti organiche vere, e che ti somigliava. Cazzo, eri tu, Claire! C’erano foto che ti ritraevano. Eri addormentata, drogata, incosciente, sistemata in varie pose, in tante angolazioni. Lui ti ha usata come un oggetto. Ti ha vestita da Alexia, la stessa Alexia che credevamo fosse sue sorella.” Ispirò. “Poi…poi ha ucciso. Ha ucciso una marea di persone. Le ha torturate per il piacere del loro dolore. Voleva che lo compiacessero. E’ un perverso! Per lui…per lui non era mai abbastanza e non lo sarà mai!”
A quel punto puntò gli occhi dritti sulla giovane.
“Tu stessa, Claire! Sei solo…sei solo il suo passatempo momentaneo! Si stancherà anche di te e ti ucciderà! Ti ucciderà come ha fatto con tutti!”
Steve le parlò speranzoso, impaurito dalla possibilità di vedere la ragazza perdersi negli inganni di quella mente mentecatta.
“Si stancherà, Claire…” ribadì, poi si rivolse al biondo, furente. “Ammettilo! Avanti, diglielo anche tu! Raccontale le schifezze e le depravazioni che hai custodito in quella stanza! Fallo se sei un uomo!”
 
Urlò contro di lui con sfida ed ancora una volta l’Ashford non si smosse.
Di fronte quell’atteggiamento taciturno e freddo, Steve perse la pazienza e puntò di nuovo le sue machine gun contro di lui. A quell’ennesimo gesto di aggressione, Alfred alzò finalmente le sue iridi di ghiaccio verso di lui; fredde, immobili, eppure trepidanti.
 
“Posso mostrare io stesso a voi tutti gli abomini che si celano numerosi fra queste fredde mura; non sono che gli oltraggi e l’indignata corruzione che hanno intriso questo edificio, ove da sempre regna un meschino sortilegio. Non starò certo qui a spiegare, non ad un essere insulso come te, ragazzino. Non puoi comprendere, non puoi elevarti a tale grado intellettivo. Se invece la tua angoscia è dovuta alla qui presente Claire Redfield, non ho intenzione di ucciderla o renderla mia schiava; sebbene sono più che cosciente di quanto questo posto possa rivoltarsi contro di me, di quante ripugnanze potreste imbattervi entrambi.
E’ vero, non sono mai riuscito a compensare quel vuoto di cui accenni con tanta superficialità. Ho sempre inconsciamente cercato nel dolore qualcosa che sopperisse le mie personali angustie. Anche Claire ha fatto parte di questo progetto.
Ti ho odiata…oh, quanto ti ho odiata. Da quando sei giunta nel mio palazzo e hai gettato tutto nello scompiglio, non ho fatto che desiderare di vederti morta. Tu e il tuo amichetto. Tuttavia non volevo che tu morissi. Volevo vederti soffrire come un topo in trappola. Volevo circondarti di terrore, di morte, di sangue…volevo che alla fine di tutto, la pena capitale stessa non fosse che una tenera carezza. Era inebriante tale pensiero. Era ciò che mi appagava.
Poi però ti ho portata qui e hai rianimato il tetro ambiente in cui hai vagato disperatamente alla ricerca della tua libertà. Seppur come nemici, è stato osservandoti che ho sentito di nuovo qualcosa di vero, autentico…un calore mai provato prima. Mai, se non ai tempi di Alexia, la mia amata sorella.
Era però deplorevole per me. Non potevo accettare una cosa simile. Quindi ho cercato di camuffarti, e di ucciderti.”
 
Si voltò verso Claire, che lo guardava con gli occhi colmi di lacrime, stretta in una morsa al cuore nel vederlo sincerarsi così intimamente davanti a lei. Alfred si rivolse a lei, soltanto a lei, dedicandole uno sguardo sincero e…pentito?
 
 “Mi dispiace.” Ammise in fine, lasciando sgomentati entrambi, sia lei che Steve.
 
Claire strinse le dita sulla mano che lui teneva stretta, come a trasmettergli che non doveva pretenderla con la forza, che lei l’avrebbe seguito spontaneamente…se solo lui si fosse lasciato aiutare.
Steve intanto si sentì confuso. Non sapeva se credere alla redenzione di quell’uomo, a Claire visibilmente scossa e coinvolta, oppure a ciò che invece lui aveva visto.
Poteva mai ignorare le grandi violenze assistite in quel posto, il cui artefice era proprio Alfred Ashford?
Eppure…eppure lui stesso era cambiato tanto. Ed era cambiato proprio conoscendo Claire.
In quello stesso istante fece scivolare le sue braccia verso il basso, togliendo il biondo dal mirino. Sorrise poi verso la fanciulla, che ricambiò a sua volta.
 
“Va tutto bene.” cercò di tranquillizzarli lei. “Dobbiamo solo andarcene di qui…okay?”
 
Il moro fece cenno di sì e s’incamminò verso di loro. In quel momento però un gesto repentino cambiò quelle sorti. Quasi dal nulla, l’Ashford sfilò velocemente il suo fucile da caccia dalla custodia trasportata da Claire, la quale non ebbe nemmeno il tempo di rendersi conto di quel gesto.
Egli liberò il suo polso e, muovendo anche il braccio che avrebbe dovuto tenere fermo per via delle sue ferite, si mise in posizione di tiro.
Steve Burnside sbandò vedendo quell’arma puntata con veemenza contro di lui.
Le sue condizioni di salute gli permisero un buono scatto e così anche lui impugnò di nuovo le sue machine gun e………………..spararono entrambi.
 
Da entrambe le armi da fuoco partirono dei colpi: uno netto e preciso dal fucile da caccia di Alfred Ashford, una raffica dalle machine gun di Steve Burnside.
Il sangue prese a scivolare sempre più copioso a terra, macchiando di rosso quella passerella lucida e fredda.
Alfred portò una mano sullo sterno, traballando. In fine si piegò all’indietro, ribaltandosi contro la ringhiera e cadendo nei meandri del laboratorio artico dell’Umbrella co.
Un attimo fugace che brevemente fece sparire per sempre il burattinaio folle e meschino che aveva giostrato con le vite dei due presenti in quel labirinto della morte.
Le sue mani si gelarono, le gambe presero a tremare. Poteva ancora sentire la presa stretta sul suo polso che poco prima la mano di Alfred aveva imposto su di lei. Riusciva a stento a sentire il battito del suo cuore tanto che era forte. I suoi occhi rimasero fissi, non riuscendo a focalizzare l’immagine appena assistita. Non riusciva a credere che fosse accaduto davvero.
No. No. No.
No. No. No. No. No…!
 
“Claire, dobbiamo andare!”
 
Non può essere…!
 
Vedendola irremovibile, Steve comprese che doveva rianimarla e alla svelta. Era comprensibilmente sotto shock. Le prese dunque una mano e si pose davanti a lei.
 
“ E’ un pazzo, dobbiamo lasciare questo posto, forza!”
 
Questo lo so…
 
“Ricordi cosa mi dicevi? Dobbiamo uscire vivi da qui, insieme.”
 
E’ vero…
 
“Voleva solo ucciderci, è un uomo malvagio! Non metto in dubbio che possa anche avere un suo…trauma personale! Tuttavia non puoi ignorare quanto ti ha fatto.”
 
Claire rivolse lentamente i suoi occhi su di lui, pallida come un marmo.
Ricordava perfettamente ciò che fino a non molto tempo prima si era sempre ripetuta. Che se voleva salva la vita, se voleva rivedere suo fratello Chris, se voleva lasciare quella prigione assieme a Steve…doveva muovere un passo alla volta, affrontare un problema alla volta…e ottenere pian piano la libertà.
Per chi amava. Per chi stava lottando con tutte le sue forze. Doveva vivere.
Alfred… più d’una volta si era rivoltato contro di lei. Più d’una volta le aveva dimostrato quanto profondamente fosse caduto giù. Più volte era stata trascinata negli abissi con lui, dovendo affrontare fino allo stremo delle sue forze e della sua sanità mentale la violenza che si celava dietro ogni singolo meandro.
Steve aveva ragione, aveva dannatamente ragione. Poteva trovare miliardi di motivazioni dietro la crudeltà delle perverse macchinazioni del meschino tiranno che aveva gustato con avidità il dolore; questo tramite la potenza e gli strumenti conferitogli dall’Umbrella. Aveva così trasformato il debole e abbandonato ragazzino in un sanguinario e folle comandante militare.
Sebbene il suo passato, dietro la sua ombra vi era una scia di morte che non poteva essere ignorata. Era un uomo ormai deviato, instabile, probabilmente incapace di tornare alla realtà, lasciato a marcire in quel pandemonio privo di cuore e umanità.
Eppure…
Eppure sapeva che non era vero!!
Sapeva che da qualche parte in quell’oscurità, lei era riuscita a vedere un piccolo barlume. Una luce che nel momento nel quale aveva toccato, aveva aperto uno spiraglio dentro di lui!
Lei aveva deciso di essere quell’Alexia che lui tanto desiderava. Quella luce in quell’esistenza gelida e ombrosa in cui tutti l’avevano abbandonato al suo amaro destino.
Claire aveva abbracciato quella causa ed era stata pronta ad essere quella vita vera che da sempre gli era stata negata. Il calore sensibile e autentico che lui cercava dietro uno specchio, che freddamente non faceva che riflettere lui stesso vestito da Alexia.
Lei avrebbe fatto quella differenza! L’avrebbe urlato al mondo, pur di far vedere quanto lei aveva visto in lui.
Alfred era pazzo…era completamente pazzo.
Tuttavia lo era diventato pur di sopravvivere a quell’esistenza difficile e tormentata. Aveva scelto una via disumana, una via disgustosa e intollerabile.
Però nessuno si era mai preso cura di lui. Quel mostro era stato gettato in pasto alle terribili fauci della solitudine, che avevano divorato ogni parte di se stesso. Così era nato quell’Alfred Ashford di cui nessuno si era mai preoccupato; quell’uomo invece da lei conosciuto.
 
Il suo sguardo si rivitalizzò improvvisamente, trafiggendo con le sue iridi determinate il bruno vicino a lei. Lo bloccò con l’irremovibilità di chi non si sarebbe fermato arrivati ormai a quel punto.
 
“Scendiamo! Potrebbe essere ancora vivo, andiamo!”
 
Steve trasalì.
 
“C-cosa? Fai sul serio? Ha cercato di spararmi, non hai visto!?”
 
“Sta andando da Alexia. Se è vivo, starà sicuramente andando da lei!”
 
“Alexia Ashford? Esiste una Alexia o si veste di nuovo da lei?”
 
Vide la ragazza agitarsi nervosamente. Il suo piede urtò distrattamente qualcosa di pesante a terra ed entrambi portarono lo sguardo giù.
Era il fucile da caccia dell’Ashford, evidentemente lasciato cadere durante la sua disfatta.
Claire si piegò, posandosi una mano sopra, quasi in una carezza; era come se rappresentasse il suo padrone, il losco uomo che non avrebbe lasciato sprofondare fra le grinfie delle tenebre.
Lo strinse fra le dita, mentre il suo cuore si struggeva, non sopportando l’idea che l’altolocato signore di quel teatro maledetto fosse stato ingannato e lasciato solo ancora una volta; sapeva cosa c’era in quei meandri, sapeva quanto quell’equilibrio era fragile, dunque sapeva quanto quel cuore fosse spezzato e dolorante in quel momento.
Quindi imbracciò l’arma, portando al petto quella parte di lui, con quella determinazione negli occhi che la caratterizzava, che la rendeva La Donna che aveva fra le sue mani quel destino.
Il destino di cambiare quello scenario, scegliere se sarebbe stato un sipario calato oppure appena innalzato.
Imboccò le scale e prese a scendere velocemente, in balia dell’istinto che la stava guidando.
 
“Non lo so, non lo so. Forza, muoviti!”
 
Il ragazzo strinse i denti, non riuscendo a capacitarsi in nessun modo di quanto stesse accadendo. Come se non bastasse, un allarme cominciò a risuonare per i laboratori; qualcosa doveva averli fatti azionare.
Alzò gli occhi al cielo, disorientato, dopodiché si affrettò a correre dietro Claire per le scale.
 
 
 
 
 
***
 
 
 
 
 
 
 
“Quando all’animo sensitivo è inferta una ferita profonda, che però non uccide il corpo, l’animo si riprende quando il corpo guarisce.
Ma solo apparentemente.
In realtà, è solo il meccanismo delle abitudini che torna in funzione.
Lentamente, molto lentamente, la ferita dell’anima inizia a farsi sentire, come un livido che solo lentamente fa affiorare un dolore intenso, fino a riempire l’intera psiche.
E quando si pensa di essere guariti e di aver dimenticato, è allora che ci si imbatte nelle conseguenze più terribili.”
 
 
(David Herbert Lawrence, L’amante di Lady Chatterley)
 
 
 
 
 
 
 
***
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 21
*** Capitolo 21: la storia di un ingenuo re e della sua cattiva regina ***




Capitolo 21: La storia di un ingenuo re e della sua cattiva regina

 
 
 
 
 
 
 
 
 
“Più dolce sarebbe la morte se il mio ultimo sguardo avesse come orizzonte il tuo volto.
E se così fosse, mille molte vorrei nascere per mille volte ancor morire.”
 
(William Shakespeare - “Amleto”)
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Siate in silenzio.
 
La funesta dea nera tace, godendo dell’immensità del suono vuoto che sottace nel nulla.
Un nulla che freme fra le barriere di un universo che non la riconosce; tuttavia lei vige e regna in quelle terre ove alcuno vorrebbe giacere troppo a lungo.
 
Un sibilo impalpabile, letale, nocivo. L’animo trema. Fa paura trovarsi dinanzi la sua solennità.
La pelle si fa fredda, le labbra si seccano, il corpo s’irrigidisce; eppure suda, tanto; il cuore non smette di battere.
Il tremore sembra parte di quel palpito cruciale che si propaga all’interno del corpo in ogni sua parte; ciascuna vuole muoversi, danzare insieme a quel battito, non vuole fermarsi. Vuole essere ancora vivo, sa che è la sua ultima opportunità di muoversi.
La mente vacilla, non ce la fa più. Vuole riposare; tuttavia si trascina lungo quel cammino non ancora compiuto.
Fa male. Fa male più dentro che fuori.
 
Il bagnato che aveva addosso era di sudore o di sangue? Sentiva solo il corpo farsi pesante e appiccicoso; non voleva guardare. Non voleva sapere la verità.
I denti cominciavano a battere sempre più freneticamente fra loro.
Per quale motivo siamo destinati a finire in modo così pietoso? Cosa accanisce la vita sempre contro la stessa persona? E’ forse divertente?
Oppure è un destino?
Se invece fosse solo un crudele e spregevole “caos”? Un caos incurante della mala sorte che aveva afflitto tutto in una volta quella vita.
 
Siate in silenzio.
 
Il baldo cavaliere non vuole sentire più nulla. Vuole solo trovare la pace che merita, almeno adesso.
 
Adesso….che….sapeva sarebbe finita così.
 
Sì, lo sapeva.
Lo bramava.
 
Era da quindici anni che si sentiva così.
Quel cuore si era spezzato molti, molti anni prima.
Anche se le sue parti erano state unite con tutte le sue forze, sapeva fin dal principio che quelle crepe sanguinavano. Ago e filo avevano cucito crudelmente ogni sua parte, bucandolo e stringendo nel suo filo ogni giorno, ogni minuto, ogni secondo. A furia di ricucirne i pezzi, questo si era bucato ancora di più, finché i lembi rimasero recisi irreparabilmente. Eppure quell’ago continuava a ricucire, e ricucire, e ricucire….
Massacrava quelle carni, affondava nel suo sangue, pur di mantenere in piedi quel muscolo vitale.
Morto, reciso, sanguinante e freddo; costretto a restare in vita da quella dannazione.
 
Siate in silenzio.
 
Non c’è nulla da dire più.
 
Tutto si spegne.
 
La recita è finita.
 
Il Re può chiudere gli occhi.
 
Puo’ lasciare che quei fili si spezzino, che cadano insieme ai resti di quel cuore oramai annerito.
 
 
Perché costringere qualcuno a vivere in un mondo che non desidera?
 
Era……………….così………………………..semplice. Dannatamente semplice.
 
Era tutto così bello e semplice. Fino a quel giorno. Quel giorno che aveva cambiato tutto.
Se avesse potuto cancellare tutto ciò che era avvenuto dopo quella funesta scoperta, sarebbe stata un’esistenza encomiabile, priva di frustrazione, dolore e menzogne.
Perché si era imposto di vivere in quel modo? Perché non aveva calato quel sipario nel momento opportuno anziché trascinare la commedia fino alla follia?
Sapeva fin da quel giorno che la sua storia sarebbe stata un perpetuo massacro, un’indecenza verso il concetto di vita stessa.
Sarebbe stato tutto così semplice se………..…
 
……………….che importanza aveva ora?
 
Siate in silenzio.
 
Non v’è vento, eppure lo sentite sulla pelle?
Soffia tenue, v’accarezza, vi sfiora.
Tuttavia…il vento non c’è.
 
E’ giunto il giorno in cui concedere a questo corpo quel che desidera.
Quella reale parte di cui è stato privato.
 
 
 
 
Almeno adesso.
 
 
 
 
Nel silenzio.
Nella solitudine.
Nell’incessante dolore freddo e acuto che precede la pace.
 
 
 
 
 
Lasciate che questo cuore veda un’ultima volta quello che un tempo lo rendeva felice.
 
 
 
 
 
 
Le parole mancano, si strozzano.
Quel cuore sussulta.
Si emoziona.
Prova imbarazzo e vergogna per i suoi errori. Costernato, si contorce per i suoi peccati.
Piange. Si disprezza.
Si appaga però di quella felicità immensa che solo quella persona sapeva dare alla sua vita.
 
Nonostante fosse impalpabile, nonostante dovesse sopportarne l’amara assenza fisica, ella continuava ancora adesso a rappresentare…tutto.
 
Tutto ciò poteva sembrare la menzogna di un losco burattinaio impazzito; la recita di un folle che ha costruito un palco nelle tenebre; ma non era così.
Non lo era.
 
Questa era la sua realtà.
La sua sola e unica.
 
Nessuno avrebbe mai capito. Nessuno doveva costringersi a farlo. Ed andava bene.
 
Lei era ancora una volta la sua roccia, quell’amore a cui poteva aggrapparsi in quegli abissi crudeli.
Ed era lì. Era lì sempre.
 
 
Alexia…….
 
 
 
Amore non è amore se muta quando scopre un mutamento
o tende a svanire quando l'altro s'allontana.
Oh no! Amore è un faro sempre fisso
che sovrasta la tempesta e non vacilla mai.
Amore non muta in poche ore o settimane,
ma impavido resiste al giorno estremo del giudizio;
se questo è errore e mi sarà provato,
io non ho mai scritto, e nessuno ha mai amato.”
  (William Shakespeare)
 
 
 
 
Nella vita non esiste altra forte consapevolezza; e ciò d’esser soli.
Tuttavia a lui era stato dato un destino diverso. Lui non era mai…solo.
Il destino che lo aveva unito ad Alexia non era né una dannazione, né una forma di pazzia. Era invece un dono. Un grande, immenso, unico dono.
 
 
“Alexia…”
 
Le porte del laboratorio si spalancarono e un’abbagliante luce trafisse gli occhi dello sconfitto comandante vestito di rosso.
Mistico, aulico, solenne; era tutto bianco, tutto immacolato.
Le sue iridi erano l’unica parte del suo corpo ancora capace di muoversi. Il resto giaceva a terra, sempre più inerme. Il suo dolore era così intenso da non riuscire nemmeno più a sentirlo. L’azzurro dei suoi occhi faceva quasi sparire le sue pupille, fisse su quella donna che per lui significava ogni cosa.
Le sue dita tremavano. Tentavano invano di allungarsi verso la sua dama tanto agognata, ma era ormai impossibilitato a muoversi.
Sorrise; sorrise di fronte quell’amore che aveva illuminato la sua strada fino all’ultimo respiro. Sorrise amaramente mentre la vista si appannava, non riuscendo ancora una volta a reggere la grandiosità che meritava il suo amore eterno.
Un amore che non lo aveva tradito, che non lo aveva mai trascurato, e che in quel momento gli stava donando un po’ di pace; a lui che invece aveva fallito miseramente, dimostrandosi incapace di proteggerla fino alla fine.
Voleva condividere con lei il suo sogno, realizzare i suoi desideri.
Invece la sua amata si era ritrovata ad affidare la sua vita a un fratello folle, ingenuo e inutile, che aveva perso tempo dietro compiti ignobili.
Al suo risveglio Lei avrebbe trovato ai suoi piedi non un devoto e potente Re, ma l’orripilante carcassa di un uomo sporco, insanguinato e debole.
Provava una vergogna inimmaginabile, si sentiva ignobile; eppure era appagato di essere lì in quel momento.
Nell’umiliazione e nel dolore più opprimente, Lei era lì. C’era sempre stata. Immutata. Pura.
La sua Alexia. La sua unica donna e regina.
Era questo ciò che aveva sempre desiderato e basta.
Si sentiva egoista nel lasciarsi andare così, ma almeno una volta nella sua vita voleva fare felice se stesso.
Sarebbe stato crudele, macabro, disonorevole. Quando Alexia l’avrebbe visto ridotto in quel modo, cosa avrebbe pensato?
Dopo aver dormito per quei lunghi quindici anni, sarebbe stato così che lo avrebbe rivisto?
Che fratello ignobile, lasciare che lei lo vedesse in quello stato pietoso, ai suoi piedi.
Quanto dolore avrebbe provocato nel suo cuore?
Almeno stavolta però non gli importava.
Voleva che i suoi occhi fossero fissi su di lei, fino all’ultimo, nel ricordo di quella che un tempo era la sua felicità.
Voleva che la sua vista si spegnesse in quell’ultimo sguardo.
Avrebbe sfidato la pazzia milioni e milioni di volte; e milioni di volte sarebbe impazzito e poi morto pur di immaginare fino alla fine quegli occhi ricambiarlo finalmente.   
 
Bip
 
Non sempre il fato è avverso.
 
Bip
 
Non sempre i miracoli sono falsi e ingannevoli. Talvolta….qualcuno ci ascolta…
…e un singolo istante può dare quelle risposte che abbiamo cercato in una vita intera.
In. Un. Piccolo. Fuggente. Istante.
 
Sono gli istanti quelli che cambiano tutto.
 
Alfred Ashford sbirciò oltre le sue spalle, verso uno schermo che si accese d’improvviso. Questo s’illuminò e una serie di codici presero a scorrere velocemente uno dietro l’altro riempendo la pagina del computer.
Il biondo, sconcertato, riportò lo sguardo di fronte a sé, fissandosi tremante verso il vetro che lo divideva dalla…
 
Potente…
Unica…
Bellissima…
 
“A…Alexia…”
 
Dimenticò il suo dolore. Dimenticò il suo senso di umiliazione. Dimenticò in un istante i suoi tormenti e la sua sconfinata solitudine.
Il suo cuore intanto non poteva reggere, si stava inesorabilmente fermando nell’ultimo battito vitale, ma il devoto Re ferito non aveva null’altro se non quell’immagine nei suoi occhi.
Né pensieri, né nulla. Solo gioia pura.
 
La capsula per la criostasi si svuotò del suo liquido liberando in un attimo quel sogno intrappolato da una vita.
Per lei che il tempo non era passato. Per lei che aveva atteso silente il suo risveglio. Per lei, che aveva immolato tutto.
Il vetro si aprì. Lo sguardo freddo e fisso della donna dai capelli biondi era già vigile.
 
“A…….lexia……….quanto ho aspettato……….questo…..momento…….Al…….”
 
 
Ella avanzava...
 
 
Avanzava verso di lui
 
 
Soave….
 
 
Fiera…
 
 
Bellissima…
 
 
Lei….
 
 
La sua…
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
“Grazie….Alexia…
…mi hai fatto…………………….
……………..il dono….più bello……….di tutti…………..”
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Silenzio.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
***
 
 
 
 
 
 
 
Date al dolore la parola; il dolore che non parla, sussurra al cuore oppresso e gli dice di spezzarsi.”
(William Shakespeare – “Macbeth”, atto IV, scena III.)
 
 
 
 
 
 
 
 
***
 
 
Che cosa significa perdere tutto?
Può essere figurato per davvero un giorno nel quale ogni cosa rappresenta la tua vita, essere cancellato davanti ai tuoi occhi?
Può essere immaginato sul serio?
 
Buio, solitudine, gelo…
Sangue….e rabbia.
 
E’ possibile ….concepire questo?
Degli occhi lucidi e vitrei, di un azzurro così intenso da indurre a distogliere lo sguardo, vedevano riflesso nelle loro iridi qualcosa di umanamente inconcepibile.
Ipotizzabile…ma non concepibile davvero.
Era tutto………………..…freddo.
Lei era bagnata.
Il suo corpo aveva ripreso padronanza in pochi attimi, era già in grado di muovere qualche passo. L’acqua gocciolava da ogni parte del suo corpo, scivolando dai capelli appesantiti, dalle braccia sottili, dalle dita affusolate, dalle gambe pallide, dal suo viso glaciale.
Il respiro era bloccato. Il suo sguardo fermo.
Il suo corpo, sebbene esteticamente rigido e posato, era contratto nel suo seno.
L’acqua intanto scivolava via ancora, scorrendo sotto l’immagine più fredda cui avesse mai assistito.
Una stanza vuota, immersa nel silenzio, cupa e gelata.
Una sirena prese a suonare, predicendo l’apocalisse che presto si sarebbe compiuta. Il suo ritmo disturbante martellava le mura del laboratorio incessantemente, eppure appariva un eco lontano rispetto il pandemonio interiore che stava prendendo coscienza dentro di Lei.
Si trovava in uno spazio bianco sospeso fra due mondi: quello di una donna che era sparita per quindici anni e di un uomo che l’aveva aspettata.
Quello spazio sospeso si stava dissipando, abbattendo finalmente quella barriera che li aveva divisi.
L’acqua cominciava già ad asciugarsi sulla sua pelle che si ricoprì lentamente di tante gocce.
Il tempo era un nefasto crudele, che passava…passava nonostante tutto.
Era tutto freddo e silente; era tutto ancora terribilmente freddo e silente.
I suoi occhi erano fissi su quel corpo. Non si spostavano.
Voleva vedere. Voleva sapere.
L’acqua della criostasi si mescolò con quella che fuoriusciva da quell’uomo accasciato; un organismo bellissimo, coraggioso, forte…per qualche motivo ora inerme ai suoi piedi.
I suoi occhi erano ancora fissi su di lei. Spenti. Freddi. Bianchi.
Il suo braccio propendeva ancora con tutte le sue forze verso di lei.
La donna fece diversi passi in avanti, lenti e fermi; fra le dita dei piedi navigavano righe rossastre, mescolate nel liquido biologico che l’aveva tenuta in vita.
La pelle bagnata e immacolata della donna si era macchiata di sangue già al primo battito di ciglia.
Si piegò verso quell’uomo. Lo toccò e pose il suo capo sulle sue ginocchia, sedendosi così accanto a lui.
Vide il rosso spargersi velocemente. La sua pelle bianca, marmorea, era ora rigata del rosso della sua parte più preziosa. Le sue mani si sporcarono per prime, poi le sue gambe, dove egli era appoggiato.
La sua rinascita rappresentata dall’acqua limpida e sterile che allagava la stanza e la morte rappresentata invece da quel rosso doloroso. Vita e Morte assieme.
Era tutto freddo…
Era tutto silente…
 
…ma quel freddo si trasformò in fuoco.
 
Un sibilo le bisbigliava nella mente. Un sussurro debole ma assordante, che la richiamava. L’assecondò e nella sua mente riuscì a vedere ogni meandro di quel Palazzo della follia. I suoi corridoi abbandonati, le sue stanze anguste…
Quelle immagini scorrevano come un film nella sua mente, come se avesse il controllo dell’intero laboratorio.
 
Lady Veronica…
 
 
La chiamava; il suo potere la chiamava. La riconosceva. Si concentrò e cercò di rispondere a quel richiamo mistico e potente che bruciava nel suo corpo.
 
 
Parlatemi…
 
Cosa vedete…?
 
 
Guidatemi…
Guidatemi verso di Loro.
 
Verso coloro che mi hanno fatto questo.
 
 
 
 
Galleggiava con la mente lungo i corridoi della base, alla ricerca dei suoi carnefici come un felino affamato da giorni. Lo sguardo scorreva felpato e finalmente riuscì a raggiungere due figure estranee aggirarsi furtive in quello che era il suo territorio.
 
 
 
 
Li vedo!
 
 
 
 
Lady Alexia Ashford spalancò i suoi occhi, richiamando a sé i suoi sudditi; le mura tremavano.
Gli intrecci erbosi del Baccello custodito in quei laboratori erano in completa simbiosi con la sua mente. Poteva guidare i suoi tentacoli letali ovunque volesse.
Il T-Veronica Virus era esattamente questo. Connetteva la sua mente al Baccello, fulcro dei suoi esperimenti, dal quale poteva guidare gli organismi di cui era composto. 
Durante le sue ricerche nella Base Antartica, nel 1981 scoprì i resti di un antico virus all'interno dei geni di una formica regina che la ispirarono nel suo progetto, che mirava a creare un Virus concorrente al T-Virus dell’Umbrella, allo scopo di ridare prestigio alla sua nobile stirpe.
Fu affascinata dall'ecosistema delle formiche, e più nello specifico dal rapporto che c'è nel formicaio tra la formica regina e quelle soldato, che avevano una simbiosi paragonabile a un sistema di controllo assoluto da parte della regina.
Se quell’idea avesse funzionato, il virus avrebbe posseduto il potere che cercava, ovvero quello di dominare in modo assoluto tutti gli altri organismi a esso connesso; una relazione che Alexia vedeva perfetta.
Le sue ricerche da quel momento mirarono dunque a creare un virus mutagenico artificiale incorporando nel virus Progenitor scoperto da Spencer, il gene di una formica regina.
Alexia somministrò il virus in una pianta che, dopo il suo positivo adattamento, diventò un enorme formicaio chiamato "Baccello di Alexia".
Il nuovo virus possedeva impressionanti capacità. Grazie alle temperature rigide dei laboratori in Antartide, poteva essere coltivato in sicurezza e poté sperimentarlo.
Durante il primo esperimento su una cavia umana, suo padre Alexander, tuttavia il virus causò un rapido cambiamento nelle sue cellule, innescando la completa distruzione del suo cervello e di gran parte del tessuto esterno. Questo fallimento rese necessario una soluzione all'adattamento.
Alexia capì che sopprimendo l'attività del virus ad una temperatura estremamente bassa, il corpo si sarebbe trasformato lentamente. Sicura di sé, decise che lei stessa sarebbe stata la cavia di quell’esperimento finale.
In base ai suoi calcoli le ci sarebbero voluti quindici anni prima che il suo corpo raggiungesse l'immunità e fosse in grado di coesistere con il virus.
Da quel giorno del 1983, era giunto il momento di raccogliere finalmente i frutti…e i risultati, fin dal suo risveglio, sembravano stupefacenti.
La sua mente era ora connessa a ogni cosa. Era…inebriante; potente.
Sentiva i suoi “sudditi” pronti a muoversi al suo comando. Erano pronti.
Le sinapsi bruciavano in un fuoco fatuo piacevole mentre raggiungevano i soldati che stava richiamando.
Come una Dea Vendicatrice, accolse il potere appena raggiunto e rimise ai suoi oppositori Colpe e Peccati, impartendo al contempo Doveri e Compiti che la Regina voleva vedere soddisfatti.
Questi si risvegliarono, obbedienti alla loro sovrana; in un attimo allinearono la loro mente a quella di Alexia e condivisero con lei la sua ira. Scattarono così violentemente verso il bersaglio; verso i nemici che le avevano fatto del male.
La donna strinse di nuovo gli occhi, raggiungendo la mente di un altro esperimento legato alla sua opera madre. Si sarebbe alzato anche lui, a lottare per Lei.
 
“Padre…”
 
Un grido di dolore echeggiò dalle fondamenta del Laboratorio Artico, penetrando fra le rigide mura. Le catene che lo imprigionavano da anni si spezzarono, la benda che gli impediva di strillare venne via.
Nosferatu era libero. Il suo ordine……..era vendicare suo figlio.
 
 
***
 
 
 
 
 
Base Antartide dell’Umbrella Corporation – laboratori
 
 
 
Claire Redfield correva seguendo i pochi percorsi a lei familiari di quel gelido laboratorio.
Si ritrovò a riflettere su quanto fosse accaduto fino a quel momento…
Prima era faticosamente scappata dal Palazzo ove era stata imprigionata dopo essere stata a Rockfort, poi a stento era riuscita a salutare Steve che subito era finita nei terribili sotterranei assieme ad Alfred Ashford.
Era successo tutto così in fretta….
Così dannatamente in fretta…
Il suo cuore batteva incessantemente, quella storia aveva preso una piega personale più profonda di quanto si sarebbe mai aspettata.
Eppure al contempo era stato un incalzare lento; lento tuttavia costante. Non sapeva nemmeno esattamente quanti giorni fossero passati da quando aveva cominciato a nutrire compassione per l’altolocato folle comandante biondo, ma quel cambiamento c’era stato ed era stato forte.
Aveva solo pietà per lui? Voleva aiutarlo? Oppure…lo amava?
Non era ancora certa di quel che sentisse davvero.
Sapeva però che non voleva abbandonarlo, voleva arrivare in tempo. Voleva che i suoi occhi vitrei e abbandonati si posassero su di lei, trasmettendogli quel calore umano e di comprensione che lui tanto temeva, poiché tradito troppe e troppe volte. Lei si rifiutava di essere ricordata da lui come l’ennesima delusione della sua vita.
Conosceva cosa significava perdere tutto, aveva provato sulla sua pelle la solitudine, l’abbandono…era stata sola in un buio periodo della sua vita; quando perse la sua famiglia in quel tragico incidente d’auto. Era troppo giovane all’ora.
Aveva perso la fiducia nel prossimo, non si era sentita capita, vedeva tutto distrutto; ma aveva ritrovato la speranza proprio nell’aiutare gli altri, in modo che nessuno si sarebbe mai sentito come lei.
Perdere la famiglia, il caposaldo fondamentale nella vita di un ragazzo, equivaleva alla sua distruzione mentale.
Lei non avrebbe mai potuto rappresentare questo per lui, ma poteva almeno essere una finestra aperta sulla quale affacciarsi e prendere un po’ di respiro.
Non pretendeva di guarire il suo dolore, voleva soltanto essere una spalla su cui potesse poggiarsi. Sentiva fortemente dentro di sé che Alfred poteva essere salvato.
Poteva farlo se fosse riuscita a raggiungerlo…e a portarlo via.
L’avrebbe fatto con la forza, se necessario. Voleva che quell’uomo devastato dal dolore desse un’opportunità al suo cuore. Non poteva…
Claire strinse gli occhi e il suo cuore sussultò a quel pensiero. Non riusciva a dirlo…
Lui non poteva…morire così…
…non dopo….aver sofferto tanto.
Si morse le labbra, le quali si fecero sempre più rosse a furia di torturarle stringendole fra loro.
Alfred si era rivoltato contro di loro e Steve aveva reagito sparandogli contro, così egli era caduto giù dalla balconata sopra i laboratori finendo nuovamente nelle profondità di quel
 labirinto tecnologico.
I proiettili l’avevano colpito? La caduta era stata mortale?
Aveva paura…una parte di sé temeva di aver assistito alla tragica e crudele conclusione di una vita sacrificata per nulla.
Non era giusto. Non riusciva a crederci e nemmeno a ipotizzarlo.
Era semplicemente…crudele se davvero quell’uomo che aveva gettato la sua anima in un vortice oscuro e spinoso, finisse la sua storia avvolto nelle tenebre ancora più oscure, coronando una vita distrutta e senza speranza; fredda, meschina, abbandonata.
Si voltò verso Steve, che fedelmente la seguiva, sebbene lui non avesse nulla a che fare con quella faccenda. Si bloccò di colpo e lo guardò con gli occhi colmi sia di angoscia, che di fermezza.
 
“Steve…”
 
“Cosa c’è, Claire?”
 
Rispose il ragazzo dai capelli ramati, fermandosi a pochi passi da lei, col fiatone in gola.
La ragazza divagò un attimo con lo sguardo poi tornò a lui. Era seria e voleva che lui lo capisse.
 
“Non devi venire a cercarlo anche tu. E’ una questione…mia. Non voglio che tu metta a repentaglio la tua vita. Dal tuo punto di vista ti capisco, Ashford ti ha tolto quanto più avevi di caro a Rockfort Island. Ha giocato con la tua vita…con la vita di tutti; e questo è imperdonabile. Mi spiace se mi vedi ora come un suo complice. Mi dispiace.”
Si fermò abbassando il viso. “Voglio aiutarlo perché è successo qualcosa; lui è vittima dell’Umbrella esattamente come me e te. Tu non sei obbligato ad aiutarlo; se invece io non lo facessi, non me lo perdonerei per tutta la vita. Devo farlo. Devo almeno sapere se posso fare ancora qualcosa per lui. Vai, dico sul serio. Non venire con me, non è giusto tu ti senta obbligato a farlo.”
 
Steve posò una mano sul fianco e assunse un’espressione di totale disapprovazione, esattamente come si aspettava. Claire se ne rattristò, non voleva mettere in pericolo anche lui.
 
“E tu pensi davvero che dopo tutto quello che abbiamo passato assieme, io mi giri dall’altra parte e me ne vada?”
 
Claire fece per interromperlo prontamente, al che Steve alzò l’indice e lo pose all’altezza del viso della rossa, facendo segno di no.
 
“Tsk, non hai capito che tipo di persona sono. Io…” il tono della sua voce si fece di colpo più profondo, come se le parole gli si strozzassero in gola. “…non ho nulla da perdere, Claire…a parte te.”
 
“Steve…”
 
“Non interrompermi, dico sul serio.” scosse la testa imbarazzato. “Avanti, ora andiamo. Non abbiamo tutto questo tempo per cianciare. Su! Dobbiamo andare di qua!”
 
Detto ciò riprese a correre, lasciandola sgomenta. Steve era un ragazzo più dolce di quanto volesse far credere. Faceva il duro e non era bravo nei sentimenti, ma lei aveva capito da tempo che voleva ringraziarla per essersi presa cura di lui quando agli albori della loro conoscenza si era mostrato un po’ testa calda. Quel che non capiva era che per lei era comprensibile quell’atteggiamento irrequieto e sconsiderato; come poteva non giustificarlo? Considerando il manicomio dove l’aveva trovato e nel quale lui era imprigionato da molto prima di lei?
Non doveva sentirsi grato, non voleva che pensasse questo. Lei non aveva mai pensato male di lui, mai. Non aveva motivi per sentirsi in debito.
Doveva però rispettare la sua scelta, sebbene avesse paura, molta paura, di perdere anche lui.
La gabbia di morte nella quale era entrata negli ultimi mesi era così intricata da sembrare non avere uscita; vedeva solo gente morire. Il suo unico desiderio era quindi uscire vivi da lì. Tutti. A tutti i costi.
Basta……………………..morte.
Steve conosceva il laboratorio un po’ meglio di lei. Aveva girovagato da solo abbastanza a lungo da poter ipotizzare dove l’Ashford fosse rovinosamente piombato.
La portò oltre una serie di corridoi che lui sembrava ormai conoscere a memoria. Afferrò una maniglia e si addentrarono in una zona congelata, ormai completamente cosparsa di ghiaccio. Il soffitto era quasi completamente bianco, così come le pareti, avvolte in un sottile ma gelido strato di condensa.
Sebbene si muovesse a passo felpato, stette attenta a puntar bene i piedi a terra in modo da non scivolare. Una volta entrati in questa zona, di fronte a loro trovarono la porta dell’Alto Voltaggio.
 
“Ho trovato il modo di ripristinare la corrente, dovrei raccontarti che giro ho dovuto fare.” Scherzò su il ragazzo mentre sistemava il grosso macchinario abbandonato in un angolo. “Ho notato che in fondo al corridoio c’è una porta elettronica, soltanto che non sono andato a controllare in quanto sorvegliata da una marea di zombie. In due però dovremmo farcela.”
 
“Pensi sia lì che dobbiamo andare?”
 
“Sicuro!” affermò. “Sono stato ovunque ma non sono riuscito ad andare troppo in profondità. Sono certo che se Ashford sta cercando Alexia, lei è ipoteticamente nascosta lì sotto. Vale la pena fare questo tentativo.”
 
Intanto il moro ripristinò la luce, fu strano tornare a vedere con una certa normalità; l’ambiente, infatti, era comunque ancora molto cupo.
Egli sgattaiolò fuori e puntò prontamente le sue armi di fronte a sé, pronto a far fuoco. La sua temerarietà intristì la giovane, la quale capì che così voleva dimostrarle quanto tenesse a lei.
In cuor suo apprezzò davvero quel gesto, tuttavia si sentiva terribilmente in colpa.
Puntò anch’ella la sua 9mm e mirò alle cervella dei poveri operai e ricercatori, intrappolati da anni ormai in quei martirio senza fine. Eliminare quelle b.o.w. nello spazio di uno stretto corridoio poteva rappresentare un’impresa fatale, comprese perché Steve aveva desistito nell’avventurarsi lì senza un aiuto. Erano in sei, famelici e relativamente veloci. Ognuno di loro incassava quasi una cartuccia intera prima di giacere a terra. Se fosse stata da sola, nel tentativo di liberarsi la strada le altre b.o.w. certamente sarebbero riuscite a fiondarsi su di lei, costringendola a continui spostamenti veloci. In compagnia del ragazzo invece, questi caddero velocemente in una pozza di sangue e quel potenziale pericolo fu facilmente aggirabile. Mentre superò le loro carcasse ora inermi, con la coda dell’occhio osservò i loro toraci comprimersi ancora e sussultare fino all’ultimo battito all’odore di carne viva. Sebbene fossero sconfitti, la paura che si alzassero e azzannassero le sue caviglie era inevitabile dunque girò al largo il più possibile dalla loro bocca insanguinata.
Superarono dunque la porta che si apriva elettronicamente e subentrarono in una zona totalmente diversa, dall’aria più domestica. Si trattava sostanzialmente dell’ennesimo atrio con stretti corridoi che si intrecciavano fra loro, stavolta però rivestiti da una lussuosa moquet rosso vino.
Claire cercò di memorizzare la strada in quel putiferio; quel luogo sembrava una matrioska, che nascondeva al suo interno talmente tanti strati da non riuscire più a orientarsi…esattamente come il cuore di Alfred.
 
“Ci siamo quasi, ho visto sulla mappa che oltre la stanza di sterilizzazione c’è un altro percorso. Dovrebbe essere girando da questa parte.”
 
Un’altra porta elettronica si aprì al loro passaggio. Claire seguì Steve con lo sguardo esaminando la stanza, la quale aveva più le sembianze di una cabina spaziale ultra tecnologica. Non appena entrarono, questa si chiuse alle loro spalle e un forte getto di vapore fu scagliato contro di loro. Non era né tossico né nocivo. Probabilmente non aveva più efficacia, ma questo significava che stavano davvero per entrare in un luogo ove fosse richiesto il massimo controllo.
La sterilizzazione non durò tanto. In pochi attimi la porta opposta a quella dove erano entrati si aprì e si trovarono su una passerella circolare che affacciava sul vuoto più assoluto. Quanto diavolo era profondo quell’edificio?
Il suo sguardo, però, prima di cadere nell’immensità del buio sotto i suoi piedi, andò a posarsi sul gigantesco artificio posto al centro di quell’area, sospeso oltre la balconata.
Le venne la pelle d’oca.
Fiumi di insetti camminavano da una parte all’altra, non staccandosi da esso….
La consistenza mucosa che rivestiva quella massa di dimensioni mastodontiche….l’aria pesante che emanava quel posto….
Era qualcosa che non avevano mai visto.
 
Il Baccello.
 
Claire non sapeva nemmeno lontanamente di cosa potesse trattarsi, poteva solo ipotizzare l’ennesimo esperimento di Ashford. Ad ogni modo era disgustoso, voleva distogliere lo sguardo ma non riusciva a farlo.
Camminò lentamente, attenta a non attivare l’attenzione degli insetti e a non schiacciare quei pochi volati sulla passerella. Sbirciò verso Steve, il quale era spaesato esattamente come lei. Entrambi si fecero animo e continuarono ad avanzare, sicuri di starsi avvicinando a qualcosa di “grosso”.
Di colpo Steve piombò i piedi a terra e Claire quasi sbatté contro la sua schiena. Sbirciò oltre, per capire cosa avesse visto.
 
“E’ tutto…” si pietrificò. “…a posto?”
 
Dedusse la risposta prima ancora di terminare la frase.
Facendo silenzio era possibile udire l’eco lontano di una persona che cantava; era una dolce voce femminile. Le note del motivetto intonato erano molto ben note alle orecchie dei due prigionieri.
 
“C'era un re amichevole ma ingenuo, sposato con una regina molto cattiva.”
 
“Chi sta cantando?” disse Steve a denti stretti. Claire fece spallucce.
In quello stesso momento gli allarmi presero a suonare in modo più impetuoso, facendo sprofondare l’area nel buio per un lungo istante. I due si guardarono attorno, sentendo al contempo il pavimento vibrare.
 
“Cosa sta succedendo qui?!”
 
“Corri!”
 
Urlò Claire e continuò ad attraversare la balconata sicura che stessero per avvicinarsi ad Alfred.
Allarmi, una voce femminile che cantava la triste ninnananna amata da lui e Alexia, b.o.w. in avvicinamento……..era il suo stile.
Doveva trovarlo e parlargli!
Ad un tratto cascò a terra, senza nemmeno rendersene conto. La sua testa girò vorticosamente e non riuscì a tornare padrona di sé prima di qualche istante di confusione. Premette i palmi sul pavimento e cercò di mettersi in piedi. Vide sopra di lei una grossa liana erbosa muoversi da sola come una serpe, come fosse un tentacolo.
Cosa diavolo era?! Questa fece uno scattò in sua direzione e la rossa poté solo portare le mani davanti al viso, non riuscendo a spostarsi in tempo. Mentre chiuse istintivamente gli occhi, sentì qualcosa tirarla via prendendola per l’addome. Si voltò e sdraiato alle sue spalle, con le braccia salde sul suo torace, v’era Steve, che era riuscito a metterla in salvo strascinandola in tempo.
 
“Claire, stai bene?”
 
“Sono ancora tutto d’un pezzo.”
 
Non poterono però continuare la conversazione che dovettero entrambi roteare sul pavimento, in due direzioni opposte.
Quel “mostro” non faceva che mirare verso di loro, indemoniato. Dovevano fare qualcosa.
La Redfield piegò un ginocchio e vi poggio la mano per rimettersi in piedi ed elaborare al più presto una strategia; tuttavia il suo sguardo fu attirato da una scia scura che aveva appena sporcato il suo jeans.
Portò la mano che aveva appena poggiato sul pantalone verso il viso e solo allora si accorse che era bagnata di un denso liquido rosso. Si sentì spaesata; quando si era sporcata di sangue? Era ferita? Steve era ferito?
Guardò se stessa e le sembrava tutto a posto. Così come Steve, il quale era già in piedi e sparava contro la b.o.w. .
Allora…di chi era? Era visibilmente sangue fresco.
Solo allora si accorse che, dove era scivolata per mettersi al riparo dal tentacolo, c’era del sangue. Tanto sangue fresco.
Era uno scenario grottesco.
Il liquido organico strisciava una consistente porzione della parete, come se chi fosse stato ferito si fosse trascinato lungo tutto il muro. Esso gocciolava sulle piastrelle perfettamente lucide, rigando quel versante e colando fino a convergere in una pozza vermiglia sul pavimento.
 
“Alfred……..” sussurrò senza nemmeno accorgersene.
 
“Claire spostati!”
 
Il tentacolo tornò nuovamente all’attacco; stavolta riuscì a mettersi in salvo e a prendere fra le mani la 9mm.
Fece fuoco e i suoi colpi assieme a quelli del Burnside riuscirono a mettere in fuga quella strana erbaccia massiccia.
I due si concessero un attimo per riprendere fiato. Più che la battaglia in sé, li aveva stremati essere stati presi alla sprovvista.
 
“Anf…Anf…pensi che ci stia aspettando per vendicarsi?”
 
“Anf…è probabile…”
 
“Vuoi comunque procedere?” chiese onestamente il giovane, al che lei calò lo sguardo.
 
Cosa stava combinando? Perché li stava attaccando in quel modo?
Perché doveva scegliere fra mettere in pericolo la sua vita e quella di Steve con la sua coscienza morale che le imponeva di parlare un’ultima volta con lui?
Avrebbe tanto desiderato vederlo e mettere le cose a posto, esattamente com’era riuscita a farlo in quelle segreta in fondo alla base. Non poté fare a meno di chiedersi se fosse stato tutto vano e se non fosse oramai possibile ragionare con lui.
Il ragazzo dai capelli ramati si accorse di quell’attimo di sconforto. Si morse le labbra e tentò di prenderle la mano per infonderle coraggio, ma si bloccò. Con lei si sentiva totalmente insicuro, un vero idiota. Grattò il capo, non sapendo che fare.
In fine si rivolse a lei, sapeva che Claire aveva bisogno del suo sostegno, quindi doveva dirle qualcosa. Mise le mani sui fianchi, ma prima che riuscisse a formulare una frase di senso compiuto, il tentacolo comparve nuovamente dal nulla, afferrandolo per una caviglia e tirandolo via.
 
“Steve!!!”
 
Corse in suo soccorso Claire, ma un secondo tentacolo si avvinghiò anche su di lei e la portò via.
Non riuscì più a vedere nulla, tutto scorreva velocemente davanti ai suoi occhi; sentiva solo le sue urla, quelle di Steve e un insopportabile senso di vertigini.
Improvvisamente vide poi un’insolita luce e finalmente la corsa finì. Il tentacolo sbatté lei e il ragazzo sulla neve, fuori dalla base dell’Umbrella.
In meno di un istante sentì il suo corpo congelarsi; erano nel bel mezzo del nulla, in una terribile e gelida bufera.
Abbracciò il suo corpo, non riuscendo nemmeno a muoversi. Faticosamente aprì le palpebre impedite dal vento, pungente come mille aghi, e cercò Steve. La sua pelle si stava spaccando, lo sbalzo termico fu devastante.
Mentre si guardò a torno, davanti a sé distinse improvvisamente dei piedi biancastri, feriti, consumati…
Sobbalzò, spaventata. Fece scorrere lo sguardo dal basso verso l’alto, tremando.
La sua pelle nuda era cadaverica, ingiallita, pallida; questi vestiva solamente di uno straccio sporco legato sui fianchi, fino ai polpacci; la sua epidermide era spaccata, del sangue raggrumato fuoriusciva dalle sue ferite. Il suo torace era gonfio e qualcosa al suo interno pulsava; era un cuore marcio eppure ancora vivo, che batteva incessantemente.
La carne che lo rivestiva era stata atrocemente squarciata in quello che sembrava essere stata un’operazione fatta da vivo.
Esso tuttavia non poteva morire e quindi urlava…urlava di dolore. La sua bocca era sporca di sangue e i suoi occhi erano celati da una striscia di cuoio che aveva a lungo andare segato la sua fronte.
Le sue braccia erano incatenate dietro la schiena; egli doveva essere stato un prigioniero in un passato molto lontano.
Chi aveva potuto ridurre un essere umano in quello stato...
La Redfield indietreggiò strisciando sulla neve, non riuscendo a cogliere se il mostro avesse o no avvertito la sua presenza. Questi era immobile e avanzava molto lentamente lungo la distesa nevosa. Si bloccò quando lo vide girare appena la testa per orientarsi; sperò con tutta se stessa che sbagliasse direzione.
Ad un tratto questi urlò. Urlò così forte da sembrare risvegliare i morti dalle loro tombe.
Un urlo disperato, soffocato da un’intera esistenza condannata fin da quando era ancora un essere umano.
Ridotto in quello stato malconcio, dotato di una potenza incontenibile, tuttavia in un corpo deturpato e dolorante, questi non poteva che spalancare le sue fauci e dare sfogo a quanto aveva crudelmente subito.
La rossa si mise in fuga, correndo e sprofondando sulla neve altissima. La b.o.w. invece era inarrestabile. Sebbene più lenta di lei, era come se la neve e il freddo non rappresentassero nessun ostacolo.
 
“S-Steve..! Dove sei? Scappa…scappa!!”
 
Non riuscì a trovare il ragazzo, ma sperò che riuscisse a sentirla e a mettersi in guardia. Sentiva che non poteva fronteggiare quel mostro, doveva mettersi al riparo.
Inciampò e cadde rovinosamente a terra. La bufera aveva ormai ghiacciato le sue dita, le sentiva bruciare, come se stessero per spaccarsi.
Con un ultimo gesto, prese il fucile da caccia di Alfred Ashford, ancora legato alla sua schiena. Prese la mira e nonostante la fioca distanza fra lei e il mostro, si prese il suo tempo per mirare bene…dritto al suo cuore scoperto.
Partì un colpo e questi indietreggiò indolenzito, mentre il suo sangue prese a schizzare violentemente dal suo corpo lercio. Claire ricaricò in fretta, non illudendosi che bastasse un colpo.
Uno strano vapore verde fuoriuscì improvvisamente dal corpo del nemico, costringendola a tossire. Sentì girare la testa, era veleno probabilmente.
Prima di inalarne troppo, decise di scappare e spostarsi da lui, perdendo la vantaggiosa posizione di mira per mettersi più lontano.
Tossi nuovamente, dopodiché imbracciò l’arma e puntò di nuovo. Il mostro diede lei le spalle, costringendola ad attendere ulteriormente in quel gelo.
Qualcosa però partì dalla schiena del mostro allungandosi verso di lei e purtroppo non fece in tempo a spostarsi; anch’esso era dunque munito di tentacoli, che utilizzò per colpirla e portarsi più vicino a lei.
Claire non demorse e si spostò di nuovo, prendendo di nuovo posizione. Fu un continuo e incessante mordi e fuggi; una vera e propria gara di resistenza. Doveva riuscire a mantenere la mente fredda o la fretta avrebbe decretato la sua fine.
La bufera offuscava la sua visuale; non riusciva a rendersi conto di dove si trovasse. Ai suoi occhi esistevano soltanto la tacca di mira del fucile, il bianco violento di quella incontrollabile tempesta e il rosso di quel cuore insanguinato. Doveva colpirlo, ogni volta che l’avesse avuto nella sua visuale, prima ancora di focalizzare quel mostro. Doveva sparare, prima che lui si spostasse; prima che la colpisse con le sue tossine o con i suoi tentacoli.
Non era facile distinguerlo in quel nulla desolato; quel cuore pulsante sapeva apparire e sparire come un fantasma nel buio. Il gelo faceva cedere la sua mente, che doveva controllare con il vigore che fino a quel momento l’aveva sempre mantenuta in vita.
Fece partire un altro colpo che finalmente andò a segno. Fece un sospiro e uno dopo l’altro punto quattro colpi ben assestati tutti dritti al suo cuore pulsante.
Il mostro urlò di nuovo, mentre i suoi organi schizzavano imbrattando la candida neve. Prima di esalare il suo agognato e tormentato ultimo respiro, questi colpì la rossa violentemente, facendola sbattere contro l’edificio alle sue spalle.
Il veleno si propagò dal suo corpo e infine cadde rumorosamente, assieme alla ragazza poco più avanti di lui, che sentì i suoi nervi paralizzarsi e i suoi occhi chiudersi.
Li dischiuse diverse volte, cercando ancora Steve, chiedendosi se fosse salvo fino all’ultimo secondo.
La sua mente, prima di perdere i sensi definitivamente, andò però su Alfred………………
 
“…………………..mi dispiace…….non sono riuscita a trovarti………”
 
Il suo corpo prese a contorcersi in preda alle convulsioni e alla fine si fermò, sparendo quasi fra la candida e gelida neve.
 
 
 
 
***
 
 
 
 
“C'era un re amichevole ma ingenuo, sposato con una regina molto cattiva.”
 
Alexia accarezzava il capo di suo fratello.
I suoi occhi erano vaghi, distanti, persi in quella storia oramai distrutta.
 
“Il re era amato, ma la regina era temuta.”
 
Era stato tutto sempre molto difficile per Lei.
Arguta, intelligente, superiore ai comuni esseri umani. Chi era davvero? Un genio…oppure un mostro?
Le sue doti, anziché renderla amata, l’avevano trasformata nella “cattiva” di quella storia. Sapeva di esserlo.
Quello che cercava, quello che si aspettava dalla vita, quel che desiderava, aveva invece distrutto quel poco di buono che aveva. Quella parte buona di sé che sapeva aver condannato col suo egoismo.
Era tutta colpa sua.
Aveva sacrificato ogni cosa pur di dare un senso a quel crudele destino intrecciato con il suo nome; il suo compito primario, senza il quale non avrebbe potuto vivere.
Un’ossessione che era sempre stata nociva, folle, disumana…lo sapeva.
Alexia però….non era umana. Non lo era mai stata.
Il suo era un destino complesso che aveva deciso di imbracciare proprio per questo. Perché lei non era come tutti.
Desiderava visceralmente raggiungere quello scopo che aveva ingabbiato la sua vita fin dalla nascita; anche a costo di sacrificare la persona più dolce che quella stessa vita dannata le avesse donato.
Adesso quella persona era lì, col viso disteso. Aveva pulito la sua pelle, ordinato i suoi capelli pallidi, ingentilito la sua espressione facciale. Sembrava dormire.
Le sue dita scorrevano sul suo capo, dolcemente.
Le dita della crudele Regina di quella storia.
 
“Un giorno passeggiando per la sua corte, una freccia trafisse il cuore gentile del re. Perse così la sua vita e l’amore della sua signora.”
 
Alexia continuò a canticchiare con voce bassa e melodica quei versi dal significato spietato.
Non pianse e non disse nulla. Rimase nel silenzio più profondo, cullando entrambi nelle parole che rappresentavano la sua vita e quella di Alfred da sempre.
 
In seguito il suo sguardo si fece cupo e i suoi occhi gelidi si strinsero.
Nella sua mente vide grazie ai suoi poteri l’immagine della donna dai capelli scuri tramortita sulla neve; poco distante da lei altri due corpi, quello di suo padre e quello del giovane che aveva combattuto con lei.
 
 
Desiderava vendetta...
 
Non una vendetta qualsiasi.
 
Una vendetta che quella donna……..potesse……..capire……..
 
 
 
“Te lo farò morire………fra le tue braccia.”
 
 
 
 
 
 
***
 
 
 
 
 
 
 
 
 
N.d.A.
Sono triste anche io credetemi…..
 
Ringrazio coloro che stanno seguendo la mia storia, in special modo MattaLara. Grazie!

 
Si aprirà ora una seconda fase della storia, aspettavo da tempo di iniziare questo pezzo…quello in cui il sipario si sarebbe alzato per lei….L Regina, Alexia Ashford.

Alla prossima. 

Credits: Parte della descrizione del Baccello di Alexia e del T-Veronica è stata tratta dalla Resident Evil Wiki, in quanto realizzata in modo eccellente a mio avviso.

 
Fiammah_Grace
 
 
 
 
 
 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 22
*** La Regina: capitolo 01 ***


 
 
 
 
Capitolo 22
 
 
 
La Regina: capitolo 01
 
 
 
 
 
A un cuore in pezzi
Nessuno s’avvicini
Senza l’alto privilegio
Di avere sofferto altrettanto.

(Emily Dickinson)
 
 
 
 
 
A un cuore in pezzi nessuno si avvicini senza l’alto privilegio di avere sofferto altrettanto, non lo faccia, non commetta questo errore. E’ nella natura umana tentare di simulare i sentimenti, la sofferenza, percepire empaticamente il dolore e patirne le pene anche senza esserne mai stato davvero scottato.
E’ necessario toccare il fuoco per sapere che brucia? Tagliarci un dito per sapere che fa male? Perdere un occhio per comprendere le truci difficoltà di un corpo mutilato?
L’uomo ha l’arroganza di sapere tutto; pensa di sapere cosa sia….il dolore.
Il dolore provato sulla propria carne, quel taglio deturpante che rovina per sempre la tua esistenza, quel momento di prova della vita che in un attimo può cambiare e distruggere tutto.
No, nessuno può avere davvero idea di cosa sia tale sofferenza. Solo chi patisce può comprendere, il resto è arroganza; pura e schifosa insolenza.
Che cosa orripilante questo mondo. Dietro i mari incantevoli, le montagne candide e innevate, il cielo azzurro, la natura selvaggia e gloriosa assieme alle sue creature viventi…si cela uno stagno lurido, immorale, disonesto; un pianeta indegno di essere chiamato tale, abitato da malvagità e scelleratezza.
La pallida donna dai lunghi capelli biondi posò di nuovo una mano sul capo di chi era l’unica persona che le aveva fatto vedere la delicata e dolce parte buona di quel mondo.
La sua cavalleria, la sua gentilezza, la sua empatia, la condivisione di quel mondo unico e inimmaginabile che solo loro potevano comprendere.
Egli era però stato ucciso. Era morto.
Il suo corpo era freddo e si faceva sempre più rigido man mano che le ore passavano.
Alexia continuò ad accarezzarlo. Era una scienziata, conosceva le fasi del rigor mortis, eppure si rifiutava di percepire quell’uomo come defunto. Lo sfiorava e lo contemplava con quell’inutile speranza di sentirlo riscaldarsi, di vederlo riaprire i suoi meravigliosi occhi chiari.  
Come era cresciuto…Alfred era diventato davvero grande. Assomigliava a suo padre, eppure la cosa non la infastidiva, al contrario era come se potesse ammirare la versione più bella, più limpida, più amorevole del padre che non aveva avuto. Avrebbe tanto voluto sapere su di lui, della sua vita passata in quei quindici anni senza di lei. Vederlo così diverso da come lo ricordava e non avere alcuna possibilità di sapere qualcosa di lui stava ampliando ancor più la voragine creatasi nel suo cuore.
Poteva solo immaginare quel pezzo di vita che nessuno le avrebbe mai restituito.
Osservò la sua divisa militare. Dunque era entrato nell’arma.
Fece scorrere le dita sui decori dorati, Alfred era veramente elegante vestito così.
Non le avrebbe mai raccontato com’era diventare adulto, quali erano state le sue gesta, come era stato il suo vissuto; v’erano tante cose di lui che non sapeva e che non avrebbe mai saputo.
Alexia lo strinse a sé, ma quel cuore non avrebbe mai battuto al suo orecchio. Restò seduta al suo fianco senza mai spostarsi, col corpo ancora umido e nudo; aveva freddo ma non le importava nulla.
Alfred era rimasto lì fino al giorno del suo risveglio, per quindici anni, da solo.
Si era addormentata che era una bambina e c’era lui davanti ai suoi occhi, il suo meraviglioso e leale fratello; ed ora che si era risvegliata ed era una donna, ancora una volta aveva rivisto i suoi occhi, pronti ad accoglierla. Egli era riuscito ad esserci sempre per lei, sempre.
Persino prima di perdere la vita, aveva deciso di dedicarle il suo ultimo sguardo. Aveva appena fatto in tempo a ricambiarlo che quella luce sparì invece per sempre.
Il minimo che poteva fare era quindi stare al suo fianco ancora, e ancora, incapace di spostarsi dal luogo dove aveva dovuto vedere spezzarsi la sua vita.
Puntò lo sguardo nel vuoto, restando col capo appoggiata al suo petto. Davanti ai suoi occhi non vedeva che rabbia e dolore.
Nessuno doveva avvicinarsi, nessuno doveva nemmeno provare a dire o fare qualcosa.
Nessuno aveva il diritto di farlo.
Nessuno avrebbe potuto intralciare ora quel cuore a pezzi. Nessuno.
Le uniche cose che potevano esistere erano solo la sua collera e la sua sofferenza.
Quel mondo…
…era solo un inutile, sporco e crudele mondo…
L’avrebbe distrutto…l’avrebbe spazzato via. Nessuno meritava di esistere ancora.
Il vuoto dei suoi occhi si stava facendo sempre più immenso, sempre più irraggiungibile.
Era la Regina di un regno già distrutto.
Sollevò di nuovo la mano e riprese ad accarezzare i pallidi capelli di Alfred.
 
Erano già quattro ore che si trovava lì; immobile.
 
 
 
 
[...]
 
 
 
 
Luogo sconosciuto – Claire Redfield
 
 
 
 
 
Il buio tetro. Silente.
Si tratta di una lieta quiete…oppure del preludio di un tormentato stato di tombale isolamento?
Ho paura…i brividi scorrono sulla mia pelle. Temo il momento in cui aprirò gli occhi.
Il mio cuore batte incessantemente, inquietato, come se riuscisse a vedere nonostante le mie palpebre serrate.
Mi manca l’aria, l’angoscia mi opprime. Sento tutto girare vorticosamente…
A poco a poco tutti i miei ricordi sembrano vicini e lontani allo stesso tempo.
La mia mente si sta confondendo, non mi sento padrona del mio corpo.
E’ come se fossi sommersa nelle profondità del mare, incatenata a una roccia. Vorrei scappare, muovermi, tornare a respirare…invece non riesco; e così lentamente cado in quegli abissi, lasciando impotente che quel dolore che mi ha immobilizzato affligga la mia mente.
 
…e di nuovo buio.
 
La giovane Redfield era pallida, non aveva un bell’aspetto. I suoi occhi erano gonfi, le sue labbra secche, il corpo dimagrito e sciupato; in più aveva freddo…tanto freddo.
L’ultima cosa che ricordava era il mostro dagli occhi bendati che aveva affrontato nella distesa nevosa…la sua agognata via d’uscita dai laboratori che con tutti i suoi sforzi aveva cercato di raggiungere; e che invece in quel momento non aveva avuto nemmeno il tempo di ammirare o di rendersi conto che fosse finalmente fuori da quella prigione.
In un piccolo e cruciale istante, la rossa era riuscita a scappare dai laboratori, tuttavia mai avrebbe immaginato in quel modo e soprattutto mai avrebbe pensato di desiderare tornare dentro con tale ardore. In quell’istante aveva desiderato così tanto di rivedere un’ultima volta Alfred Ashford da non aver fatto caso nemmeno di aver lasciato quel manicomio. No, non ci aveva pensato nemmeno un istante.
La sue mente non faceva che tornare alle segreta di quell’edificio dell’Umbrella, ai percorsi affrontati, ai pericoli scampati, alle minacciose b.o.w. sconfitte grazie all’aiuto del contorto giovane dai capelli pallidi.
Ripensava al suo sguardo crucciato, alla sua mente disperata, al tormento di quell’animo devastato dal dolore…e al calore che per un attimo aveva sperato di restituirgli.
Dal suo canto… lui… lo sapeva? Sapeva che era in pena per lui? Oppure si era sentito beffare dalla vita ancora una volta?
L’ansia di non sapere la crucciava, era un dolore lacerante. Il cuore non cessava di sbatterle in petto. Dischiuse gli occhi, faticando prima di riuscire ad aprirli.
Le sue palpebre erano pesantissime. Forse la b.o.w che aveva combattuto sulla neve l’aveva avvelenata? Cosa era successo?
Doveva rimettersi in piedi, nonostante gli affanni che provava. Doveva proseguire. L’innato istinto di sopravvivenza che aveva sviluppato oramai piuttosto bene, le aveva crudelmente insegnato quanto ogni minuto passato stanziando in uno stesso posto si traduceva nella possibilità di essere trovata dai mostri.
Si sforzò e riuscì a lentamente a tornare vigile. Scrutò con lo sguardo ancora appannato e osservò il soffitto, il quale era costituito da una profonda arcata simile a quelle di una struttura ecclesiastica. Era finemente decorata da un affresco di stampo classico, raffigurante degli angeli in una fitta vegetazione. Più avanzava con lo sguardo più il disegno assumeva dei toni scuri, suggerendo la sensazione di smarrimento, tipica di quando si ci perde in una foresta.
Recuperate un po’ di forze, si eresse col busto ed esaminò il resto del luogo; i suoi occhi catturarono però soltanto la pavimentazione lucida color avorio e le pareti bianche illuminate da una fioca luce artificiale; la stanza non era più di tre o quattro metri di lunghezza, sembrava di essere imprigionati in quattro mura strettissime.
Si piegò sulle ginocchia e un forte senso di smarrimento si impadronì di lei. Era probabilmente ancora sotto shock, di conseguenza quel risveglio in una stanza claustrofobica senza arredi né porte, né finestre, la fece sentire male.
Cercò istintivamente la pistola nella cintura dei suoi jeans, ma come immaginava era completamente disarmata.
Si alzò e costeggiò coi palmi l’intera muratura, sperando di sbagliarsi; chiunque si sarebbe sentito in trappola in una circostanza simile. In quello stesso momento ricascò a terra, urtando rumorosamente con le ginocchia; qualcosa l’aveva trattenuta.
Si voltò e sulla sua caviglia vi era una morsa che la ancorava ad una lunga catena di ferro. Seguì la ferraglia, la quale era avvitata sul fondo di un muro logoro.
Costatò che la lunghezza le dava sì la possibilità di muoversi e di ispezionare i pochi metri di cui era costituita la stanza, ma l’idea di essere prigioniera era inaccettabile.
Provò a tirare e notò che la porzione di muro su cui erano ancorati i bulloni sembrava piuttosto consumata. Strisciò dunque verso la morsa e provò a svitarla; la ruggine aveva purtroppo fatto il suo corso, ma era probabile che allentando le viti e tirando con veemenza la gamba sarebbe riuscita a liberarsi.
Digrignò i denti e per una volta la fortuna volle che quell’impresa fu più semplice del previsto; riuscì infatti a sganciare non solo il meccanismo dal muro, ma a portare via con sé anche una porzione di esso. Esultò internamente, sperando di riuscire a trovare qualcosa di utile dall’altra parte.
Si affacciò dal buco appena abbattuto ed effettivamente la stanza appariva così piccola perché un sottile strato di cartongesso l’aveva divisa a metà.
Si sdraiò di nuovo e con qualche calcio ben assestato allargò il varco, riuscendo così a lasciare quel posto.
Si ritrovò in una stanza similare alla precedente, altrettanto sgombra e trascurata, tuttavia v’erano in giro almeno un tavolino e diverse piccole cianfrusaglie, suggerendo l’idea che per qualche motivo chiunque l’avesse murata dall’altra parte aveva voluto tenerla lontana da quel lato della stanza.
Cominciò a ispezionare, doveva trovare qualcosa di adatto a sganciare la morsa ferrosa e la catena ancora fisse sulla sua caviglia. Per la morsa principale non poté far nulla, tuttavia trovò in un cassetto delle grosse pinze che utilizzò per allentare la giuntura della catena, in modo da non doversi portare dietro quel lungo e pesante groviglio.
Dové piegare il ferro a lungo prima di riuscire a modellarlo, ma alla fine vi riuscì e tirò finalmente un sospiro di sollievo.
Fece qualche prova di movimento e riusciva a muoversi liberamente, relativamente al fatto di avere una caviglia comunque stretta da un grosso pezzo di ferro; poteva però cavarsela senza grossi problemi.
Risolto il problema sulla sua mobilità, tornò a quello del suo stato di prigionia.
Fu solo l’esperienza a salvarla. L’esperienza di conoscere oramai i meccanismi di quel posto.
Anche quel lato della stanza era privo sia di porte, che di finestre; non v’era nulla, non era nemmeno ipotizzabile come fosse tecnicamente finita lì dentro; meno che un dettaglio che a un primo sguardo sarebbe parso trascurabile per chiunque, tranne per chi era abituato a quegli inghippi.
La figura di una donna intagliata nel muro aveva infatti già attirato la sua attenzione; lei conosceva molto bene quel passaggio segreto.
Solo chi aveva avuto l’occasione di imbattersi nelle trappole del palazzo Ashford avrebbe riconosciuto quel basso rilievo in pietra.
Premette su di esso, infatti, e questo si fece facilmente spingere in avanti, come una porta. Poteva proseguire liberamente, senza indugio. Sinceramente non ci pensò proprio a rimanere in quel luogo ulteriormente, così avanzò prima ancora di scrutare attentamente dove conducesse il passaggio. Si aspettava una copia della camera da letto dei due gemelli, in verità, ma così non fu.
Si trovò invece ad affacciarsi in un lungo corridoio, illuminato dalle fiammelle dei candelieri appesi alla parete, che col loro forte bagliore spezzavano violentemente il tetro buio di quella corsia abbandonata.
Si fece coraggio nonostante fosse del tutto mal equipaggiata per un’esplorazione al buio, ma non aveva alcuna alternativa; doveva proseguire.
Raggiunse l’estremità col cuore in gola, sperando di riuscire a fare presto il punto della situazione, tuttavia mai si sarebbe aspettata che abbassando la maniglia, avrebbe trovato dall’altra parte una passerella analoga alla precedente.
Si sentì sconcertata. Avanzò nuovamente, sbirciando di tanto in tanto alle sue spalle, non capacitandosi di ripercorrere una copia esatta del corridoio appena percorso.
Osservò lo stesso tappeto vermiglio, il quale sembrava avere persino la stessa usura; i candelieri che costeggiavano la parete; l’aria che si respirava e la porta posta dall’altro estremo.
Quando si trovò di fronte alla soglia d’uscita, il cuore le sbatteva in petto; aveva intuito ci sarebbe stato qualche inghippo, oramai poteva quasi prevederlo. Non si meravigliò quindi quando si ritrovò davanti lo stesso scenario, lo stesso corridoio da ripercorrere nuovamente.
Corrucciò il viso, sentendosi smarrita e presa in giro. Claire non credeva né alla stregoneria né al paranormale, si trovava certamente nel bel mezzo di un rompicapo da risolvere. Doveva esserci un modo per proseguire, doveva esserci una spiegazione logica.
Provò vari tentativi: attraverso di nuovo i vari corridoi, provando tutta una serie di combinazioni possibili, come ad esempio percorrere la strada due volte per via dei gemelli Ashford, o addizionando le cifre 1+9+7+1, la loro data di nascita, e ricavando così il numero di volte da attraversare.
Fece tutti i ragionamenti possibili ma si ritrovò solo a perdere tempo. Non demorse, almeno aveva la conferma che più che un “corridoio infinito” , probabilmente stava girando in tondo e v’era un sistema di collegamento fra questi creato per disorientare l’eventuale prigioniero.
Si concentrò e cercò di stabilire quanti corridoi fossero effettivamente, dovevano avere delle fioche differenze nelle quali avrebbe trovato la risposta all’enigma.
Mentre si affacciava verso i pochi elementi da analizzare, un’ombra si proiettò oltre la sua.
Claire distinse le gambe lunghe, le spalle dritte, la postura rigida di stampo militare.
Si voltò di scatto ma non c’era nessuno. Non poteva esserselo immaginato, quell’ombra…
Sembrava essere di…Alfred?
La sua bocca si deformò in un’espressione di amarezza e il suo cuore si chiuse a riccio.
Era ancora fortemente turbata per quanto successo, non si sarebbe sorpresa se la mente le stesse giocando brutti scherzi. Tornò quindi alle sue indagini.
Quel che la rossa Redfield non poteva sapere, era che davvero qualcuno la stava osservando; tuttavia stavolta non vi era la frenesia e il sadico diletto a guidare quell’ombra…ma la ferocia di un animale ferito e umiliato.
Come una belva che gioca in casa, teneva gli occhi puntati sul suo pasto, tenendosi pronto.
I suoi occhi azzurri fendevano l’oscurità, dopodiché in un attimo si dileguarono nascondendo la loro presenza.
Intanto Claire continuava le sue ricerche e finalmente notò qualcosa a cui prima non aveva fatto caso; mentre apriva e richiudeva le porte dietro di sé, era come se scattasse un qualche sistema di blocco.
Ripeté la manovra un paio di volte consecutive ed effettivamente v’era qualcosa di strano, così decise che stavolta avrebbe provato una tecnica diversa ovvero lasciare aperte le porte mentre passava.
Alla prima non andò bene, ma provò ogni possibilità: chiuse tutte, aperte tutte, aperte una sì e una no…e alla fine, quasi come un miraggio, finalmente dall’altra parte dell’uscio trovò un ampia sala buia e sgombra. Nessun corridoio.
Si sentì sollevata, ma l’esperienza le aveva insegnato che poteva essere passata dalla padella alla brace, per cui mantenne un atteggiamento prudente durante tutto il tempo.
Avanzò con passo lento, girandosi attorno. Non ne era sicura, ma sembrava essere finita in una sala da ballo.
Alzò gli occhi e osservò il lampadario di cristallo che splendeva per la sua preziosità nonostante il buio della notte.
La pavimentazione lucida rifletteva la sua figura come uno specchio, si meravigliava sempre di quanto quel Palazzo/Laboratorio abbandonato fosse a tratti in un completo stato di deteriorazione, a tratti ultra tecnologico e a tratti arredato e mantenuto sfavillante come un museo.
Nella sua bellezza però si celavano fantasmi sanguinari, pronti a perseguitare i loro nemici fino alla follia.
Claire esaminò una striscia di sangue che rigava quella magnifica pavimentazione; era incrostata e certamente abbastanza vecchia, ma ancor più importante significava che non era al sicuro.
Con la coda dell’occhio la stessa ombra intravista precedentemente fu di nuovo alle sue spalle, tradita stavolta dal riflesso delle piastrelle.
Distinse nitidamente la divisa da ufficiale scarlatta, la sua pelle marmorea e i suoi pallidi capelli biondi.
Entrambi ritrovarono i loro occhi l’uno sull’altro attraverso quel riflesso, fissandosi in un breve ma intenso istante.
 
“Alfred!!”
 
Lo chiamò, ma non fece in tempo a voltarsi che egli era già sparito.
Ansimò rattristata, stavolta certa si trattasse di lui. Non aveva preparato alcun discorso, né alcuna strategia. Il suo animo era a pezzi, il suo cuore crucciato. Avrebbe preferito che un abbraccio parlasse al suo posto, per dirgli quanto era in pena per lui in quel momento. Qualsiasi sua parola sarebbe stata vana, lo sapeva, ma era l’unico mezzo che aveva per sperare in un confronto. Lui la stava seguendo, si stava volutamente vendicando e divertendo con lei, rinchiudendola nell’ennesima trappola per topi.
Voleva che penasse, che soffrisse, ma non v’era bisogno. Sapeva già che lui era rimasto solo, di nuovo, e che in quel momento le loro posizioni erano ambigue.
 
“Alfred…ti prego…so che ci sei.”
 
Bisbigliò, ma l’eco di quella stanza risuonò abbastanza forte da far apparire quel tono un timbro normale. Aspettò qualche attimo, sperando di intravederlo nel buio, ma la desolazione più completa verteva in quella stanza; era certa tuttavia che egli fosse lì nascosto da qualche parte e che poteva sentirla.
 
“Voglio solo che tu sappia…che io….io non ti ho mentito. Non ti ho preso in giro. Tutto quel che è successo nelle ultime ore sono state reali. Io…” deglutì. “Sono spaventata, molto. Desidero però vederti. So che non c’è più molto da dire, io stessa non so più che fare…sono certa però che potremmo trovare una soluzione…assieme.
Non distruggere tutto di nuovo, lascia che ti aiuti. Per favore…non ignorarmi. Non far finta che io non sia nessuno. Alfred…”
 
Parole dette nel vento, lasciate sparire nel grembo indifferente del vuoto.
Era angosciante…faceva male…
Capiva il suo sentimento di abbandono, quel senso di disorientamento che l’avevano allontanato da lei.
D’altra parte però Claire si sentiva come aver costruito sulla sabbia; in quel momento era duro per lei accettare che i suoi gesti di comprensione e di affetto erano già stati dimenticati. Lei stessa negli anni aveva indurito molto il suo cuore, ma aveva cercato con tutta l’anima di dedicarsi al prossimo, di conferire a loro quell’amore che invece le era mancato nella vita; ce l’aveva messa tutta, ma era difficile anche per lei mettersi in gioco e lasciarsi andare; questo con persone comuni, figuriamoci con uomini controversi come l’Ashford.
Invece alla fine una parte del suo cuore si era fortemente legata a lui.
Prima voleva solo aiutarlo, adesso invece era qualcosa di molto più personale, non riusciva a venirne fuori mentalmente. Non voleva abbandonarlo, però lui la respingeva con tutto se stesso e le faceva male, la tormentava fino alla pazzia.
Eppure nemmeno per un secondo le sfiorò l’idea di rigare per la sua strada e dimenticarsi di lui.
Sospirò intensamente, probabilmente una scheggia della sua follia era penetrata oramai anche in lei.
Era diventata parte di quella storia nata nel tormento, costruita nel supplizio di quel palco buio e solitario. Soltanto che quelle parti erano reali, si trattava della loro storia personale e lei era decisa a non tornare indietro.
 
“Non dimenticarmi, Alfred. Io non lo farò. Te lo prometto.”
 
In quello stesso istante riuscì a scorgerlo nel riflesso di uno specchio dal vetro quasi del tutto opacizzato dalla polvere, in netto contrasto con la lucidità del resto della sala.
Egli stava aprendo una porta e stava andando via.
Claire gli corse dietro con tutte le sue forze, ma non appena tirò la maniglia dietro la quale era sparito, egli già non c’era più. Corse comunque a perdifiato, imboccando delle scale a chiocciola e inoltrandosi in quella prigione di cui non sapeva nulla.
Passò attraverso varie porte, varie stanze, come messe lì disordinatamente, scorgendo di tanto in tanto la sua figura. Lo richiamo più volte a voce alta, sperando che si voltasse almeno, fu costretta tuttavia a fermarsi quando davanti a sé si pararono delle robuste sbarre di ferro simili a quelle di una prigione.
Claire quasi vi sbatté contro, frenando a stento la sua corsa. In quello stesso istante una forte luce la colpì violentemente costringendola a riparare gli occhi.
 
“Ma cos…?” riuscì a dire a stento, che una voce ampli-fonica la interruppe.
 
“Sei davvero una donna cattiva.” disse un tono femminile e derisorio un po’ diverso dal solito, ma ugualmente riconoscibile per lei in quello di Alexia Ashford; sobbalzò sentendo Alfred recitare di nuovo la cruenta e complessa parte di sua sorella.
 
“Una crudele e spietata regina, odiata dal suo regno. Ecco cosa sei. Meschina…prepotente…egoista…”
 
Una forte scossa fece cascare la Redfield a terra, la quale dové sorreggersi fortemente alle sbarre per rimanere in equilibrio.
Si affacciò oltre di queste e sgranò gli occhi azzurri quando si accorse di essere sospesa nel vuoto; non solo.
La cella si stava muovendo, stava scorrendo su dei sottili binari sospesi in quella voragine buia.
Il sangue le si gelò quando vide approssimarsi a lei tutta una serie di altre prigioni, nelle quali erano rinchiusi centinaia di zombie famelici e insanguinati, tenuti ivi rinchiusi a marcire chissà da quanto.
Si schiacciò contro il lato più distante possibile da loro, sperando che una volta che le celle si sarebbero sfiorate, le loro dita ossute e cadaveriche non arrivassero ad arpionarla.
Suo malgrado, la cella si mosse davvero verso di loro, presto avrebbe assistito alla giostra più spaventosa della sua vita, l’ottovolante con panoramica sulla morte.
La cella girò e si posizionò fra quei due lunghi costoni ove erano imprigionate le b.o.w. e prese ad avanzare lentamente.
Claire fu costretta a mettersi in piedi spostandosi in una posizione più centrale possibile, mentre i non-morti pregustavano furenti quell’irraggiungibile pasto.
La luce puntata su di lei non l’aiutò a passare inosservata, così questi si avvinghiarono avidamente alle sbarre di ferro, facendo oscillare vistosamente sia la loro, che la sua cella. Non seppe come riuscì a mantenere la sua posizione, il cuore batteva così forte da sembrare fermo. Il suo sudore era freddo, la paura le faceva quasi mancare l’aria.
Sebbene fosse relativamente abituata agli zombie e a quegli orrori, la vista di tante bestie affamate di sangue, vogliose di cibarsi avidamente di lei, era spietata e insopportabile.
Claire si rannicchiò a terra, non sopportando più tale pressione psicologica; la cella intanto marciava inarrestabile in quello scenario mortale continuando la sua andatura rilenta. 
 
“Guarda come ti osservano. Ti amano? Ti bramano? O ti odiano…e ti temono? Cosa si aspettano da te, che sei stata così tanto cattiva con loro…? Non sei altro che una sciocca, una povera e crudele sciocca.
Pensavi di essere una regina..? Che potessi cullarti anche tu nelle tue ricchezze e regnare in un mondo alla tua altezza? Invece no, ai loro occhi, qualunque cosa avresti fatto, qualunque encomio, forza, prosperità, intelligenza, bellezza avessi mostrato, sarai sempre un mostro. Osservali bene, mia cara. Non sei che la Loro Regina Crudele.”
 
Intanto la cella superò quella lunga serie di prigioni e continuò il suo percorso sui binari.
La Redfield scrutò con la coda dell’occhio, cercando di intravedere quanto prima la prossima destinazione; fu però una luce a mostrarle dove puntare il suo sguardo. Sopra di lei si illuminò l’imponente riproduzione del ritratto di Alexia Ashford, il genio impareggiabile della nobile famiglia.
 
“Eccola, è lei…” disse quella voce. “Nulla è ciò che sembra, vero? Così bella…così fragile…così crudele…”
 
Subito dopo si accese una seconda luce che illuminò invece un ritratto sottostante, il quale ritraeva un bellissimo uomo in divisa: Alfred Ashford.
 
“Il tuo amato e ingenuo Re.” stavolta fece una lunga pausa compassionevole, come se non riuscisse a trovare le parole per descriverlo; Claire poté sentire quella voce sospirare sconsolatamente. “Avrei solo voluto che scegliesse di amare una regina diversa…”
 
Si sorprese di quella frase, cosa stava cercando di dirle? Non fu però nelle condizioni di analizzare a fondo quelle parole che la cella prese a correre ad alta velocità.
Claire sbatté di nuovo contro il ferro e si schiacciò contro uno degli angoli, impossibilitata a muoversi. Il vento le sbatteva in faccia, riusciva a stento a tenere gli occhi aperti.
Vide diverse immagini scorrere mentre il percorso andava avanti. Erano quadri di famiglia, tutti raffiguranti gli ascendenti e i discendenti della famiglia, le cui copie si replicavano all’infinito sul muro diventando però sempre più imbrattati di sangue…questo finché l’intero luogo in cui si trovava prese a puzzare di organico marcio, costringendola a portare le mani sul naso e la bocca.
I coniati di vomito cominciarono a prevaricarla, l’odore di cadaverina era nauseante; cosa diavolo stava succedendo?!
Infine la cella bloccò la sua folle corsa proprio di fronte un cadavere…un cadavere orribilmente deturpato, completamente ricoperto di sangue.
Distinguibile di lui, oltre un accenno di fisico, erano solo gli occhi chiari e i sottili capelli biondi. Il suo busto era lacero, spaccato a metà fino a vederne le ossa e parti di organi dilaniati, il resto del viso era invece irriconoscibile.
La cella si era bloccata per cui fu costretta a ritrovarselo di fronte molto a lungo, fino a notarvi le mosche che gli giravano intorno, i vermi che fuoriuscivano dalle sue carni, il micidiale ticchettio del sangue che colava da esso fino a toccare la superficie ferrosa sottostante.
Perché la stava costringendo a vedere tale atrocità?
Guardandolo più attentamente, si accorse di una frase incisa su un lato del fianco; Dies irae.
Significava…giorno dell’ira?
La cella prese a scorrere nuovamente e finalmente si fermò davanti una comune porta di legno. Anche le sbarre salirono verso l’alto lasciando libero il passaggio alla loro prigioniera.
Una concessione di libertà…o il passaggio verso il patibolo?
Alfred l’aveva chiusa in una cella per mostrale l’odio e la famelicità dei suoi nemici, parafrasando probabilmente la sua sofferenza, infine le aveva fatto sentire l’odore del sangue e della morte, preannunciandole il punto d’arrivo del giorno in cui la sua ira si sarebbe manifestata. Ciò voleva dire che erano di nuovo…nemici?
Era la morte che si nascondeva oltre quella porta?
L’amarezza si impadronì di lei, i suoi pensieri non riuscirono più a focalizzarsi su nulla; l’apatia prese il sopravvento, salvandola momentaneamente dal dolore interiore che in realtà la stava massacrando.
Aveva solo una scelta, ed era lottare e andare avanti. La morte avrebbe fermato ogni sua possibilità; anche quella di combattere quel fatale giorno del giudizio.
 
 
 
Dies Irae, dies illa
solvet saeclum in favilla
 
---
 
Giorno dell'ira, quel giorno che
dissolverà il mondo terreno in cenere
 
 
 
 
Claire scavalcò la cella, cercando di ignorare la voragine vertiginosa sotto di lei, e spinse il pomello della porta di legno; col cuore in gola l’attraversò e si ritrovò di nuovo all’interno del palazzo.
Scrutò in giro, sembrava essere un atrio.
Non v’era nulla ancora una volta, al di là di una enorme scalinata, in cima alla quale una figura a lei ben nota la stava attendendo.
Un fascio di ombra gli oscurava il suo viso, il che sembrava proprio simboleggiare il buio che verteva fra loro, quell’incoscienza riguardo chi fossero e cosa sarebbero stati da quel momento in poi.
La rossa si posizionò perpendicolarmente sotto di lui, tenendo i suoi occhi fissi, cercando di capire se lui la ricambiasse con altrettanto vigore, tuttavia quell’ombra le impediva di specchiarsi nelle sue iridi.
Egli era adagiato sul parapetto, con le braccia che si appoggiavano leggere l’una sull’altra con fare completamente rilassato; le sue mani penzolavano noncuranti ed egli non mostrava alcuna intenzione di fare o dire qualsiasi cosa; intenzioni medesime anche di Claire, che non voleva essere la prima a prender parola fra i due.
Di parole ce n’erano state anche troppo.
Eppure, nonostante si sentisse abbastanza sicura di sé avendo affrontato l’Ashford in diverse circostanze, stavolta qualcosa era diverso; si sentiva inquieta.
A un certo punto l’uomo si spostò dalla sua posizione e lasciò leggiadro la balconata inoltrandosi al piano superiore. Nel mentre dei suoi movimenti, la Redfield riuscì a scorgerne il viso, focalizzandosi sui suoi nostalgici occhi azzurri, i quali la fecero trasalire.
Non seppe perché ma quello sguardo fugace fu capace di turbarla fortemente.
Fu una sensazione difficile da metabolizzare, eppure l’agitazione che sentiva in corpo era reale ed erano stati quegli occhi furenti a comunicargliela; occhi meravigliosi, apparentemente tranquilli, nelle cui profondità ardeva un fuoco malvagio però che non aveva mai visto in lui, che invece le aveva sempre trasmesso piuttosto follia e malinconia; era come se non vi avesse riconosciuto il suo solito viso… era… era diverso.
Cercò di scrollarsi di dosso quella spiacevole sensazione, non aveva senso continuare a indugiare, doveva piuttosto corrergli dietro e mettere la parola fine a quella prigionia. Sia sua che di Alfred.
Corse quindi su per le scale, ma oramai il biondo era sparito; durante i loro ultimi incontri, appariva e svaniva come un fantasma. Era pur vero che lui giocava in casa, ma era davvero possibile muoversi con tanta agilità?
Claire non aveva né il tempo né la lucidità per trovare una ragione più razionale, riuscì solo a dedurre che lui voleva attirarla e che quindi doveva star bene attenta a non cadere nelle sue trappole; non era ancora così stupida da farsi ingannare tanto facilmente.
Tuttavia doveva ammettere che stavolta aveva paura, molta, in quanto teneva a lui e avrebbe fatto qualsiasi cosa per non fargli del male.
Tirò verso di sé l’unica porta presente al piano superiore ed ebbe quasi un mancamento quando si frenò a stento notando che dall’altra parte non c’era…nulla!
 
“C-Cos…?”
 
Scrutò meglio, aveva pur sempre visto Alfred sparire in quella direzione, doveva quindi essere passato di lì per forza.
Sbirciando sotto di sé, notò che v’era un’apertura che portava al piano inferiore. Poteva calarsi, non era tanto profondo.
Si piegò a terra, dunque, e fece scivolare il suo corpo con attenzione, rimanendo appesa solo con le braccia; dondolò i piedi e già sfiorava quasi la pavimentazione sottostante, serviva solo un piccolo salto…un atto più di coraggio che di effettiva difficoltà.
Non indugiò molto e proseguì, sperando di non starsi cacciando nei guai.
Una volta atterrata, si apprestò a cercare l’Ashford, ma a quanto pareva aveva già lasciato quel luogo.
Si ritrovò in una sorta di sala d’aspetto, doveva essere l’entrata al di là del massiccio portone di legno presente nella stanza precedente, poteva quindi forse aprire la porta dall’altro lato.
Al centro della stanza v’era una enorme statua, raffigurante una donna che sorreggeva una brocca. Istintivamente si arrampicò su essa, intravedendo al suo interno un foglietto di carta.
Allungò le dita e dopo qualche sforzò riuscì a raggiungerlo.
Trasalì quando vi trovò la riproduzione della mappa del palazzo, tuttavia completamente sbiancata da qualche agente chimico e quindi illeggibile oramai, con su scritto una parola a lettere cubitali: “CATTIVA”.
In quello stesso istante un forte fumo si propagò nella stanza costringendola a mettersi al riparo al più presto; cominciò a trovare leggermente irritante tutte quelle volte in cui la stava etichettando come “cattiva”, era un atteggiamento molto infantile.
Riflettendoci, non aveva fatto che ripeterlo da quando si erano rincontrati e con una certa insistenza.
Chiuse intanto una porta alle sue spalle, l’unica che trovò aperta.
Mai si sarebbe aspettata che dall’altra parte v’era proprio lui, il Re tenebroso di quel gioco della follia.
Se lo ritrovò a meno di un palmo da lei, immobile, con una postura perfettamente in riga e uno sguardo gelido.
Gli sbatté quasi contro, non potendo aspettarsi di trovarselo davanti in quel modo.
Lui invece la stava aspettando… sì…con estrema e logorante pazienza.
Prima che la Redfield potesse accorgersene, egli alzò una mano con fermezza e solo sull’ultimo la rossa notò che sorreggeva una pistola.
Fece in tempo soltanto a sgranare gli occhi e ad udire lo sparo che da lì a pochi secondi le fece perdere i sensi.
 
 
 
[...]
 
 
 
 
“Sei cattiva…”
 
“Davvero Cattiva…”
 
“Sei una crudele ed egoista Regina.”
 
 
 
 
Claire Redfield riprese lentamente conoscenza, una voce echeggiava nella sua testa dolorante, ripetendole sempre quella frase, con la medesima ossessione; non faceva che ribadire sempre la stessa parola, senza mai interrompersi.
Si svegliò cullata da tale crudele ninna-nanna. Intanto la sua testa girava…girava…girava vorticosamente.
Cosa le stava accedendo?
 
“Cattiva…”
 
“Cattiva…”
 
“Cattiva…”
 
 
 
 
Basta!!
Non ne posso più!!
 
La mia testa…
…fa male…!
 
Smettila!
 
 
 
 
“Cattiva…”
 
 
 
 
 
Claire perse nuovamente i sensi, intorpidita da un profondo malessere interiore che non la faceva tornare padrona di sé; le sue gambe erano pesanti, i suoi occhi gonfi, l’emicrania era violenta; questo mentre quella voce continuava a martoriarla, incurante di tutto.
 
Passarono minuti, ore e ore forse, non riusciva a stabilirlo; non faceva che svegliarsi e addormentarsi, passando lunghi momenti di solitudine e altrettanti con quelle parole orribili nelle orecchie, come se le volessero fare il lavaggio del cervello.
 
L’intorpidimento che aveva in corpo era tale da non permetterle di fare altro che soffrire…soffrire ininterrottamente.
 
Fece leva sulle braccia, cercando di mettersi faticosamente in piedi, trovò tuttavia resistenza all’altezza dei polsi. I suoi occhi erano ancora appesantiti, per cui faticò a gestire la sua lucidità; ben presto però quella sensazione le fu familiare.
Si accorse di essere accomodata su una poltrona morbida di velluto, e che all’altezza dei polsi e delle caviglie v’erano delle morse rugginose che la tenevano immobile. Era di nuovo prigioniera.
In quello stesso istante percepì una porta aprirsi in lontananza. Scrutò con lo sguardo appannato ma non vide nessuno, solo in un secondo momento istintivamente alzò gli occhi e distinse dietro di sé una figura vestita con una giacca rossa. Claire tuttavia non riuscì a mantenere oltre la sua attenzione che perse i sensi, cadendo in balia di quel malessere nauseante che la stava prosciugando.
 
A lei…
…quella sensazione…
…quel senso di impotenza…
…il dimenticarsi lentamente di tutto…
…la prigionia e l’isolamento più assoluto…
…tutto questo…era già accaduto.
 
Perché? Perché Alfred aveva deciso di imprigionarla di nuovo?
Perché in quel modo?
 
Disorientata, lo vedeva entrare fugacemente nella stanza, sussurrarle quelle parole, e poi andar via; come se lei fosse un’altra persona, come se non fosse accaduto assolutamente nulla da quel giorno in cui era fuggita dalla stanza in cui lui l’aveva relegata molto tempo addietro… agli albori di quel tragico inizio che però fu l’esordio del loro avvicinamento.
 
Gradualmente riuscì a distinguere il suo profilo, i suoi tratti delicati, la sua pelle chiara, ma non vi vedeva più quegli occhi affranti che aveva imparato a comprendere; intravedeva invece un volto carico d’odio e di disprezzo, mascherato dalla sua delicata faccia d’angelo.
Alfred stavolta si piegò su di lei e le accarezzò il viso col dorso della mano, un gesto che Claire trovò fastidioso dopo tutto quel tempo che egli aveva passato a ripeterle che era “cattiva”.
I narcotici che le aveva somministrato le impedivano di avere una qualsiasi reazione, ma era certa che lui potesse comunque leggere nitidamente il suo disprezzo.
Egli abbozzò un sadico sorriso, le sue labbra si allargarono avidamente, subito dopo sollevò la mano e colpì la rossa con veemenza.
La Redfield sentì la sua guancia bruciare, fino a quel momento non era mai successo che egli arrivasse a farle del male con le sue mani.
Gli mostrò i suoi occhi lucidi, ma la sua vista appannata e la mente anchilosata rallentarono crudelmente i suoi movimenti. Intanto lui sollevò l’altra mano e colpì l’altra guancia, continuando a ripetere il movimento più e più volte.
In poco tempo la ragazza ebbe il viso in fiamme, ma non riuscì in nessun modo a ribellarsi.
Nemmeno le lacrime poterono sgorgare dai suoi occhi, tanto si sentiva depressa…e umiliata.
Umiliata per i suoi inutili sforzi, per quanto l’avesse presa in giro, per quanto fosse stato tutto un amaro gioco violento senza speranze….
 
“Crudele e avida Regina, sola e dannata da un dono inestimabile, che ti ha dilaniato fino a trasformarti in un essere privo di cuore.”
 
Perché le stava parlando così?
Claire non riusciva a capire, il suo cuore sbatteva in petto, non trovando risposte ma solo dolore.
Intanto Alfred cominciò a girarle attorno, come una pantera bramosa.
 
“Quanto dolore ho patito? Quanta immensa solitudine ho attraversato in onore a un destino che solo tu potevi compiere. Tu soltanto, mia amata Regina.” Sospirò in silenzio. “Quanto sono stato sciocco…quanto ho dovuto perdere…per poi avere che cosa?”
 
Si fermò e si inginocchiò davanti a lei, poggiando le mani sul suo grembo. Fu in quel momento che Claire riuscì finalmente a vederlo in viso, a specchiarsi nelle sue malinconiche iridi infrante.
 
“Guarda…guarda, ho detto!” e le afferrò il viso. “Hai…distrutto…tutto. Non vedi cosa hai combinato?”
 
I suoi occhi afflitti volevano trafiggerle l’anima, trasmettevano una tale rabbia interiore che cominciò a sentirsi spaurita. Guardandolo da quella corta distanza si accorse di non riconoscerlo affatto.
Egli…non era Alfred…
Era qualcuno che gli assomigliava moltissimo…ma non era lui; oppure cosa gli era successo? Per quale motivo era ridotto così? Cosa l’aveva addolorato fino a quel punto?
Non riuscì a comprendere più nulla.
Ebbe l’amara sensazione che quell’uomo non stesse nemmeno parlando con lei, che vedesse tutt’altra donna davanti ai suoi occhi.
Egli le strinse le dita delle mani fino a farle male, costringendola a mugugnare di dolore, superando quella sensazione di pesantezza che sentiva addosso e che le aveva impedito di manifestare esplicitamente il suo malessere fino a quel momento.
Sentì le ossa scricchiolare, poteva avvertire l’intensità dei sentimenti di Alfred in tutto il suo corpo.
Tutto a un tratto la lasciò andare e si rimise in piedi. Con un dito le sollevò il mento costringendola a guardarlo.
 
“Cosa ne pensi? Sei contenta…oh, mia Regina?” disse con voce sottile. “Goditi il regno che hai distrutto con le tue stesse mani, gioisci dell’inferno in cui hai deciso di svegliarti, ammira la potenza che d’ora in avanti ti sarà attribuita da queste ceneri funeste. Adesso che hai tutto quello che hai sempre sognato…onore e gloria a te, oh, mia Regina.”
 
Girò i tacchi e se ne andò con passo lesto, facendole quasi perdere l’equilibrio.
Claire lo seguì con lo sguardo fino a che la vista glielo permise; la nausea si fece più forte, dovette deglutire più volte pur di non vomitare. La sua mente era confusa e terrorizzata. Temeva sia per Alfred che per se stessa…eppure non poteva far a meno di pensare che c’era qualcosa di sbagliato.
Lei…Lei non era Claire in quel momento.
No, stavolta era diverso. Era esattamente il contrario.
 
Alfred…lui…stava parlando con Alexia.
 
Passò molto più tempo da sola stavolta; ovviamente non aveva modo di stabilire quanto, ma rimase seduta su quella poltrona in completo silenzio molto a lungo.
Abbastanza da poter finalmente tornare padrona di sé.
Quel senso di stordimento era lo stesso che all’inizio di tutto le aveva fatto perdere conoscenza di se stessa…trasformandola nell’adorato genio della famiglia Ashford.
Sì, adesso ne era certa, ricordava ancora molto bene quella sensazione.
Attualmente non vaneggiava a tal punto da non rammentare chi fosse, nei suoi ricordi vigevano ancora i suoi ricordi quindi era in tempo a riprendere in mano la situazione.
Cosa era accaduto? Come era finita in quel modo?
Scrutò faticosamente intorno, mentre la testa girava vorticosamente non permettendole ancora la lucidità che sperava; non riconosceva il luogo, ma era sicura di trovarsi ancora nei laboratori dell’Umbrella.
Stavolta non era stata rinchiusa in una stanza sgombra illuminata solo da una finestra; era invece in una copia perfetta della camera dei gemelli Ashford; la stessa che aveva ritrovato riprodotta un po’ dappertutto, sia nei laboratori che a Rockfort.
Lo sguardo cadde sulle sue gambe, coperte da un sottile raso pregiato che alternava un viola intenso a un viola più scuro. Indossava di nuovo l’abito di Alexia.
Sbirciò verso le sue spalle e una cascata di capelli biondo pallido scendevano fin sul petto.
Poteva già immaginare cosa fosse accaduto frattanto, egli doveva essersi arrabbiato e la devastazione doveva aver fatto cadere nel dolore nuovamente il suo spirito ferito.
Era relativamente comprensibile per lei giustificarsi quella reazione. Tuttavia stavolta il suo atteggiamento nei confronti dell’onorata sorella era stato molto diverso.
Egli l’aveva disprezzata, offesa, l’aveva persino colpita…
Chi stava lacerando il suo cuore in quel momento, dunque?
Alexia…oppure Claire?
Perché era diventata di nuovo la sua “Bambola”? Perché aveva deciso di sfogare la sua rabbia travestendola da colei che più amava al mondo?
Si sentiva confusa, era certa che stava per scoprire qualcosa di nuovo sulla sua personalità e la sua tortuosa storia con l’idolo della sua famiglia.
Segreti arcani e maledetti si celavano dietro la figura di Alexia Ashford, qualcosa che era stato portato allo scoperto e che lui stava sfogando su di lei, come già aveva fatto all’epoca.
Doveva stare attenta, stavolta non era oggetto del suo amore, ma di una profonda e sconosciuta collera.
 
Non era La sua Unica Donna, l’Unica Regina. Ora…era La Crudele Regina.
 
Un’inversione di ruoli che aveva dell’inverosimile, e che per lei significava in quel momento solo una cosa: doveva scappare. Prima che perdesse definitivamente coscienza di sé e lui potesse trasformarla nella sua bambola dei divertimenti, da giostrare nel suo teatro dell’orrore.
Alfred era ferito, lo sapeva, e voleva ancora aiutarlo; tuttavia per farlo doveva prima di tutto prepararsi ad affrontarlo e venire a fondo di quella circostanza.
L’ultima volta riuscì a liberarsi stando al suo gioco, rievocò; finse di essere davvero Alexia e così lui la liberò dalle morse ferrose di sua spontanea volontà.
Si chiese se il trucco avesse funzionato anche stavolta, anche se aveva qualche dubbio.
Egli aveva qualcosa di profondamente diverso dal solito; fin da quando l’aveva intravisto la prima volta dopo la sua disfatta, si era accorta che era come non fosse più lui.
Non era difficile ipotizzare un suo crollo psicologico, però sentiva un forte senso di inquietudine in corpo, più forte del solito.
Quell’Alfred………………era pericoloso. Davvero pericoloso. Il suo istinto urlava, le imponeva di non ignorare tale sensazione.
Lui…non era l’Alfred Ashford che aveva conosciuto.
Era accaduto qualcosa…e lei doveva scoprire cosa.
Come se l’avesse chiamato col pensiero, il biondo entrò nuovamente nella stanza.
Era buio, le luci erano spente.
Egli sorreggeva una candela in mano, che poggiò sul comodino adiacente. In seguito si approssimò a lei, come faceva di solito.
Ultimamente il suo divertimento preferito era schiaffeggiarla, fino a gonfiarle il viso; il suo labbro inferiore si era spaccato l’ultima volta, sentiva ancora il sapore salmastro del sangue raggrumato ogni volta che lo sfiorava con la lingua.
L’ex comandante del centro d’addestramento dell’Umbrella si sedette sul suo letto a baldacchino e prese a osservarla da lì; stette immobile diversi secondi senza fare nulla.
Claire alzò gli occhi verso di lui, incerta; voleva mettere in atto il suo piano, eppure in quel momento si sentì mancare, qualcosa la bloccava.
Sentiva dentro di sé una sensazione d’allerta mai sentita, era confusa da tali sentimenti. Anche nei momenti più tormentati, le era bastato un attimo e aveva sempre poi ragionato e deciso con mente fredda.
Quell’Alfred invece riuscì a propagare la sua aurea nera fin dentro di lei, come un veleno tossico, altamente nocivo.
Le sue preoccupazioni furono presto interrotte da un tenue canto.
All'improvviso dalla bocca di Alfred uscì una voce melodica, dolce, molto malinconica….e femminile.
L’aveva sentito imitare un timbro vocale muliebre più e più volte, ma mai era capitato proprio davanti a lei e nelle sue spoglie da uomo.
Egli intonò le tristi sorti del Re protagonista della lullaby con cui spesso parafrasava la sua vita e le sue pene. La storia del Re Alfred e della Regina Alexia.
 
There was a friendly but naive king, who wed a very nasty queen. The king was loved but the queen was feared…
 
Alfred si fermò e posò i suoi occhi su di lei; Claire ricambiò il suo sguardo. Le parole le uscirono di bocca senza nemmeno rendersene conto.
 
“Cosa è successo…Alfred…?” disse con un filo di voce la rossa, guardandolo con tristezza, non riuscendo ad accettare quella regressione, quello stato mentale così leso e vendicativo.
 
“Sei stata cattiva.” ripeté lui, serio e fermo sulla sua posizione.
 
“Perché sono stata cattiva?” chiese a quel punto, sempre più consapevole che stesse parlando ad una ipotetica Alexia.
 
“Lo sei. Lo sei sempre stata.” seppe solo ripetere lui.
 
A quel punto Claire decise di prendere il toro per le corna e mettere in chiaro quel che pensava; basta recitare, oramai era stanca.
 
“Alexia è sempre stata la tua ancora, il tuo gioiello, il tuo ricordo più caro e prezioso. Perché adesso è cattiva?”
 
Alfred abbozzò un ghigno che inquietò la rossa, la quale non seppe assolutamente cosa aspettarsi.
L’uomo intanto si sollevò dal letto e scivolò verso di lei, muovendosi come una serpe.
Claire notò che era molto più magro e sottile del solito, anche le sue spalle erano rimpicciolite, così come in generale gli cadevano le vesti militari; era fin troppo sciupato.
Egli passò una mano fra i capelli biondi, scostando una ciocca che frattanto gli era caduta sul viso.
 
“Tu che ne sai…cosa ne puoi sapere? Un’inutile, piccola e sporca formica come te…cosa ne può capire della storia e la Potenza di noi Ashford!”
 
Allargò le braccia e il suo tono di voce si fece molto più grave, quasi come ci fosse una platea ad ascoltarlo.
 
“Ho fatto una scelta, ho immolato il mio corpo e la mia vita, pronta a diventare la padrona assoluta di questo mondo lercio popolato da indegni.
Col mio potere avrei dominato le menti di voi tutti portando l’umanità a uno stadio evolutivo avanzato che mai avrebbe potuto raggiungere da solo.
Ma voi…voi stolti fratelli, non avete fatto che distruggere…e distruggere tutto! Ed ora…eccomi, non sono che la fatale e crudele Regina che vaga solitaria. Capisci?
Mi avete tolto tutto. Ma vi sbagliate, non è così. Il mio sacrificio non è stato vano…io ho accolto il mio potere, vive dentro di me. Ed io vi annienterò, uno ad uno, cominciando da chi mi ha fatto del male!”
 
Claire osservò quel delirio, impotente, con gli occhi spalancati, non sapendo cosa fare. Chi era la persona davanti a lei? Cosa stava succedendo?
 
“…a partire da te, mia amara e cara Alexia, ahahah!!”
 
“Chi sei?! Tu non sei Alfred Ashford….cosa è successo??”
 
Oramai non era più padrone di sé; l’uomo di fronte a sé rideva follemente, caduto nella pazzia.
Il suo tono tornò a imitare quello della losca sorella gemella, nella quale lui si rifugiava quando era oppresso.
Nei suoi occhi vigeva uno squilibrio mentale che la sconvolse completamente, non riuscendo neppure a farle riconoscere l’uomo che aveva imparato a comprendere meglio; stavolta era diverso, era completamente folle.
Egli rideva di gusto, la guardava con insofferenza senza la minima intenzione di ragionare con lei.
Elogiava e malediceva Alexia, impersonandola lui stesso, ma allo stesso tempo disprezzandola.
Da una parte lui interpretava Alexia, la Regina gloriosa e funesta; dall’altra aveva vestito anche Claire da Alexia, la quale ed era invece la Regina Cattiva.
Erano Alexia…contro Alexia.
Non riusciva a venir capo di quell’enigma che ancora una volta avvolgeva la controversa figura della donna dai lunghi capelli biondi, sentiva però di essere nel mezzo di un disastro mentale che aveva sconvolto decisamente l’altolocato comandante.
Se era davvero lui…
La Redfield prese a dondolare con tutte le sue forze con la speranza di cappottare la poltrona e scappare in qualche modo; fu l’unica cosa che l’istinto le suggerì di fare.
Il delirio dell’Ashford era tale da renderlo più irriconoscibile, si chiese dove fosse finito il ragazzo col quale era riuscita finalmente ad approcciarsi; quella risata acuta e malsana, il viso adirato, la penombra che rendeva cupa la sua figura…fu una scena agghiacciante.
Riuscì in fine nel suo intento. Cadde rovinosamente sul pavimento e gli ingranaggi si rivelarono fragili come immaginava; infatti una maniglia si aprì in due e grazie a quel capitombolo riuscì a liberarsi subito un polso.
Con l’altra mano giocò col meccanismo dell’altra chiusura, decisamente più arrugginita e rigida.
Non sapeva se l’aveva fatto apposta o era stato incauto, fatto stava che bastò tirare energicamente una stecca di ferro che univa le due parti per smanettarsi. 
Toccava ora alle caviglie, ma a quel punto il biondo portò di nuovo le attenzioni su di lei, rinvenendo dal suo lungo delirio.
 
“Vuoi scappare…eh? Povera sciocca…non puoi fuggire dalla bara che tu stessa hai creato. Hai sacrificato i tuoi anni migliori, sorella mia. Ora vuoi andartene? Ora che la tua festa funebre è cominciata, finalmente? Quanto sei ingrata…disdegnare il mio sacrificio, i lunghissimi e interminabili quindici anni in cui sono rimasto ad attenderti. Che crudele…crudele…crudele Regina.”
 
Claire riuscì ad allontanarlo da sé sferrando un vigoroso calcio; nel farlo si ferì la caviglia ma al contempo almeno si liberò anche dalla morsa.
Ignorò il dolore di quel taglio e sgattaiolò via dalla stanza, via da quella follia, via da quei spietati deliri.
Questo mentre sentiva ancora sogghignare di gusto la persona dall’altra parte della stanza. L’uomo mentecatto e distinto che pensava di poter aiutare, del quale aveva toccato il cuore, e che adesso stentava a riconoscere del tutto.
Non faceva che vedere riaffiorare nella sua mente il suo viso, non capacitandosi di nulla; era convinta di non sbagliarsi, che per quanto somigliasse all’Ashford da lei conosciuto, egli non fosse lui.
Come poteva però non esserlo? Era comunque…identico. Diverso…ma…identico.
Era il suo viso, i suoi tratti….ma non i suoi occhi.
Poche differenze, ma abbastanza evidenti da averle innestato quel dubbio.
La sua mente era in panne, non sapeva che pensare; in quel momento si ritrovò soltanto a correre con tutte le sue forze, disperata.
Il tappeto attutiva i passi dei suoi piedi nudi; sollevò la lunga gonna con una mano portandola tutta di lato, scoprendo interamente le lunghe gambe pallide; la parrucca dai sottili filamenti dorati scivolò dalla sua testa, rivelando la sua reale chioma rosso-castano.
Era di nuovo…l’inizio di tutto.
 
Nella camera da letto dei gemelli Ashford intanto, l’uomo presentatosi a lei sotto le spoglie di Alfred Ashford ripose in ordine la poltrona elegante; la prese per lo schienale e la mise in piedi.
Posò una mano sul collo, massaggiandolo, dopodiché da sotto il colletto della giacca tirò su una lunga coda di cavallo, nascosta abilmente tra le vesti.
Tirò via l’elastico che teneva uniti i capelli e passò una mano fra essi, movimentando la lunghissima capigliatura platinata.
Sorrise.
 
“Il mio nome è Lady Alexia Ashford, e nel nome mio e di mio fratello, ci vendicheremo di tutti. Nessuno resterà vivo. Ahahahah!”
 
 
 
 
 
***
 
 
 
 
 
 
 
NdA:
 
Salve e grazie per essere arrivati a leggere fino a questo punto. Da questo capitolo in avanti seguirà una nuova fase della storia. La fase della Regina.
Quando immaginai questa storia, mi chiedevo se sarei arrivata davvero a scriverla fino a questo cruciale momento in quanto desideravo a un certo punto aprire il sipario su di lei…il genio della famiglia Ashford: Lady Alexia.
In questo capitolo la donna ha cercato di impersonare Alfred, vivendo attraverso di lui il disprezzo verso se stessa, verso quel che ha perso, verso la solitudine e la morte nella quale si è risvegliata.
Diventa così la Regina Cattiva, la Regina che per suo egoismo ha lasciato Alfred morire. Dunque traveste se stessa da Alfred, e invece veste Claire da Alexia; questo proprio per punirla, per rinfacciare quanto era stata “cattiva”, rivolgendosi dunque in modo emblematico e contorto sia a Claire, come vittima del suo sfogo, ma anche a se stessa.
Intanto però nelle sue vene scorre la potenza che ha raggiunto tramite il T-Veronica Virus, che l’ha resa la padrona di quel mondo, oramai pronta a distruggerlo e dominarlo. Quindi diventa sia un Alfred ferito e arrabbiato con Alexia (interpretata da Claire), sia l’Alexia Regina e vendicativa, sia la donna sola e fragile abbandonata da tutti, al cui risveglio ha ritrovato solo morte.
Questi sentimenti saranno comunque abbondantemente spiegati all’interno della storia, almeno lo spero!
Un po’ di “confusione” è voluta proprio perché ritengo che questo gioco fra le parti contribuisca al fascino dei gemelli Ashford.
Vi lascio quindi nelle meravigliose e vendicative mani della Regina…!
Grazie per il sostegno di tutti coloro che mi leggono! Grazie davvero!
Un abbraccio!
 
Fiammah_Grace
 
 
 
 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 23
*** La Regina: capitolo 02 ***


 
 
Capitolo 23
 
 
La Regina: capitolo 02
 
 
 
 
 
 
“Siamo tutti isole che gridano bugie in un mare di incomprensione.”
(Rudyard Kipling)
 
 
 
 
 
 
Scappa…
Corri…
Combatti…
Quante volte aveva dovuto ripetersi queste parole?
Quante volte, anche nella paura, nello sconforto, nel panico della solitudine e dello sbaraglio, aveva dovuto rialzarsi e andare avanti…nonostante tutto.
La sua vita si era velocemente trasformata in un continuo susseguirsi di “Corri”, “Scappa”, “Combatti”.
Un baratro che non le lasciava alcuna tregua, ponendole quell’incondizionata scelta al posto di una molto più terribile; in quanto il suo altrimenti era la morte.
Nei suoi occhi v’era oramai il marchio inconfondibile della morte, della lotta per la sopravvivenza. Finché la mente avrebbe risposto a quel richiamo, non poteva far altro che lottare; lottare fino alla fine.
Tuttavia qualcosa stava mutando, la sua determinazione cominciava a vacillare. Con lentezza le regole di quel gioco stavano prevaricando, schiacciandola con la delusione e l’amarezza che stavano man mano sempre più gravando su di lei.
Non faceva che veder ripetersi e ripetersi quella stessa scena, quello stesso imbroglio.
Si sentiva fortemente tradita dai crudeli eventi che avevano intrecciato la sua vita con quella contorta di Alfred Ashford.
Era un baratro che sembrava non volerli abbandonare, non voler dar riposo agli sgomenti di entrambi.
Non poteva dar riposo ai suoi affanni, né nutrire fiducia o speranza.
Tale possibilità era prontamente negata da un repentino capovolgimento degli eventi che non faceva che cancellare tutto, arrivati a un certo punto.
La clessidra veniva capovolta una volta esaurita la sabbia, e tutto tornava al punto di partenza, sempre, con disumana prontezza.
Raggiunto un apice di comprensione, il quale più volte aveva legato il suo spirito con quello del biondo altolocato padrone di quel castello, il filo si spezzava e, come intrappolati un loop temporale, entrambi finivano per rivivere sempre gli stessi eventi; la stessa delusione, gli stessi dolori.
La rossa Redfield guardò il lungo abito viola che aveva nuovamente addosso e strinse i pugni; era doloroso sentire dentro di sé che nulla era cambiato, che lei stessa non era riuscita a riconoscere l’uomo che credeva di aver aiutato.
Il suo tempo era stato gettato nel fango, nel momento opportuno era tornata a rivestire i panni del fantasma idolatro e dannato della famiglia Ashford.
Quell’inganno era sempre pronto a ingabbiare ogni cosa.
Il suo viso era livido, bruciava ancora per tutti gli schiaffi ricevuti da quell’uomo vestito di rosso, il quale stavolta aveva associato alla geniale sorella il lecito abbandono che covava in corpo.
Così Claire era divenuta il suo bersaglio. Nonostante egli amasse Alexia…la odiava. La odiava per cosa era successo alla sua vita per causa sua.
Eppure la sua mente non faceva che tornare alle crudeli parole che aveva usato con lei quando le aveva parlato, non facevano che martellare la sua testa, rendendole impossibile credere a tanto odio, manifestatosi così repentinamente in seguito a una quasi venerazione dimostrata invece antecedentemente nei confronti della stessa persona.
Era un altro assaggio della sua schizofrenia? Oppure c’era dell’altro che ancora non conosceva?
Si trovava ancora una volta di fronte una scelta: scavare in quella fossa al fine di riuscire a scappare finalmente? Oppure…doveva avere il coraggio di continuare ad andare in profondità e capire?
L’umana paura si stava impossessando delle sue ragioni; cominciava a temere di nuovo che Alfred non potesse essere salvato, che purtroppo lei non potesse fare più nulla per lui.
Per quanto potesse rappresentare un appoggio per lui, col tempo il suo passato, i suoi dolori, il trauma e la corruzione che avevano permeato la sua intera vita, sarebbero sempre prontamente tornati ad attaccarlo, trasformandolo nello spietato tiranno che purtroppo aveva conosciuto.
La sua era una lotta folle, che avrebbe finito per ingabbiarla per sempre se non avesse capito in quale baratro si stava immischiando davvero. Era come imporsi di dominare il fuoco; questo, per quanto possa essere controllato, finirà sempre per bruciarti nel momento nel quale lo tocchi.
Eppure…eppure quel fuoco poteva essere difeso, ne era fermamente convinta. Non voleva che bruciasse fino a corrodersi nelle sue stesse ceneri.
L’abito che aveva addosso era una prova schiacciante che le suggeriva esattamente questo; esisteva un punto che congiungeva tutto…e quel punto era Alexia.
Quel mistero non faceva che girare attorno a lei, fin dall’inizio.
La crudele Regina, l’amata Regina, l’impareggiabile e geniale Regina.
Doveva…arrivare ad Alexia. Stavolta era lei il suo obbiettivo. Non sapeva come, ma doveva esistere ancora qualcosa su di lei in quelle segreta, qualcosa che non facesse che far cadere Alfred di continuo.
Doveva arrivare a quel qualcosa e forse solo in quel modo avrebbe potuto fare materialmente qualcosa per aiutarlo.
Doveva però prima di tutto tornare armata, scappare dalle sue grinfie feroci, ritornare suoi passi…e poi cercarla.
Doveva individuare ogni indizio che la portasse a Lei stavolta, non a lui.
La Redfield superò un lungo corridoio buio, muovendosi con attenzione fra le tenebre, stando in guardia a non incappare in nessun tranello.
Non percepiva la presenza di Alfred da un po’ di tempo, probabilmente dopo la sua fuga aveva deciso di non seguirla.
La ragazza era scappata velocemente, rimanendo nascosta fra quelle stanze per un po’ di tempo prima di realizzare che il suo carceriere aveva rinunciato all’inseguimento.
Lo aveva visto dalla fessura di una delle porte mentre avanzava via con una candela accesa sorretta fra le sue mani, che illuminava parzialmente il suo volto spettrale.
In seguito era fuggita di nuovo, imboccando lo stesso corridoio ma nella direzione opposta; dopo quel momento non aveva più percepito la sua presenza.
In verità se ne sorprese; non voleva certo suggerire al suo nemico come fare a scovarla, però non poteva fare a meno di pensare che fino a quel momento aveva imboccato solo strade obbligate, quindi per lui che conosceva quel posto, non sarebbe dovuto essere difficile starle alle calcagna.
Era più probabile dunque l’ipotesi che l’avesse lasciata andare al momento, forse proprio per farla sopraggiungere in qualche posto che lui conosceva. Era infatti certa che lui la stesse osservando, come faceva sempre.
Sentiva i suoi occhi su di lei; era sicura che stesse preparando la sua mossa, la Redfield per lui non era che una marionetta che si muoveva nel suo labirinto.
Qualsiasi cosa avrebbe fatto, doveva stare attenta, giocava nella tana di un leone incattivito.
Lasciò finalmente quell’area e quasi come se fosse catapultata in un altro posto, trovò davanti a sé il passaggio per delle prigioni.
In realtà si chiese se non fosse da sempre in quelle carceri, vista la cella a scorrimento doveva era stata intrappolata precedentemente, nonché la stanza di Alexia dove era stata ancorata alla poltrona, oppure prima ancora di tutto questo, quando si era risvegliata in quella piccola stanzetta murata.
Dedusse che era probabile che quegli arredi domestici non fossero che una maschera in perfetto stile Ashford e che invece fosse sempre stata chiusa in gattabuia fin dall’inizio, da quando era rinvenuta dopo lo scontro contro la spaventosa B.O.W. Nosferatu.
Scese uno grosso scalino di cemento aiutandosi con le mani, dopodiché si appoggiò alla ferraglia delle sbarre che la divideva dal resto dell’ambiente polveroso e malandato.
Stavolta la galera aveva un aspetto molto più riconoscibile; l’ambiente era costituito da un corridoio centrale e da svariate celle ai lati.
Lei era al momento imprigionata in una di queste. Inutile precisare lo stato decadente della struttura, ammuffita e pericolante, il cui intonaco pendeva ovunque dalle pareti.
Scrutò attentamente con lo sguardo, attenta a non farsi scappare alcun dettaglio; nonostante la penombra, scorse una leva che avrebbe potuto raggiungere sporgendosi oltre le sbarre. Dalla sua posizione, dedusse che doveva trattarsi di una centralina principale.
Infilò il braccio e lo allungò con tutte le sue forze, ignorando completamente la normale fisica che avrebbe impedito a chiunque di spingersi oltre un certo punto; era tuttavia certa di potercela fare, o meglio, doveva!
Finalmente le sue dita riuscirono a raggiungerla e Claire sfruttò prontamente quel frangente per fare forza sulla leva, la quale scattò verso il basso.
Udì un rumore in lontananza, doveva essere riuscita ad aprire qualche passaggio.
Vide infatti una cella sollevarsi in fondo alla stanza. Magari non era nulla, ma poteva invece trattarsi di un’uscita. Purtroppo doveva per forza procedere a tentoni, non aveva altra scelta.
Sbirciò dietro di sé e costatò che nonostante il rumore l’Ashford non doveva ancora averla sentita, oppure non era nei paraggi.
Doveva tuttavia muoversi in fretta, oppure non avrebbe avuto la calma per capire come proseguire.
Si accovacciò e strisciò fra due sbarre piegate, inoltrandosi così nel cuore della struttura. Notò dei corpi devastati e mutilati, oramai rinsecchiti, quasi mummificati.
Non poté fare a meno di chiedersi da quanto tempo fossero lì per essere in quel tale stato di decomposizione.
Probabilmente erano antecedenti persino ad Alfred, o alla generazione prima di lui.
Quante persone innocenti erano state vittime dell’Umbrella, ormai? Da quanto manipolava e giostrava con la vita di tanti innocenti per perseguire i suoi scopi perversi?
Claire, ancora troppo giovane per concepire tale malvagità a uno stato così ignobile, trovava inspiegabile giustificare un qualsiasi scopo.
Per quanto dietro potesse esserci, per ipotesi, anche il più benevole scopo scientifico, non poteva giustificare tale carneficina.
Il sol pensiero le rivoltava lo stomaco e muoveva ferocemente la sua coscienza.
Quando avrebbe ritrovato suo fratello, sperava con tutta se stessa di avere delle risposte e di fare qualcosa al più presto.
Non poteva immaginare quei delinquenti sicuri di essere intoccabili, dopo la distruzione di tutte le prove contro di loro avvenuta con il terribile bombardamento di Raccoon City.
Non aveva le conoscenze o la forza necessaria per combattere davvero quella battaglia, però era una dei pochi sopravvissuti di quella tragedia e sulle sue spalle verteva un grande macigno…quello di divulgare quel che aveva visto e proteggere quelli come lei, vittime innocenti dell’incoscienza e crudeltà umana.
Vedeva sempre più lontani i suoi normali giorni come una comune cittadina; pensare che fino a qualche mese prima i suoi problemi erano far quadrare gli abituali conti giornalieri, studio e lavoro.
Era cambiato tutto…tutto. Adesso il suo pane quotidiano era diventato avere una pistola in mano, sangue freddo, con la morte fissata negli occhi e nella mente; e cadaveri…tanti cadaveri che si reggevano sulle loro gambe, pronti a divorarla.

Scappare…

Correre…
Combattere…

Proseguì fino a raggiungere la cella aperta grazie alla leva, passando fra le macerie crollate e ferri che sbucavano ovunque.
Prima di andare oltre, notò a terra una pistola da 9mml, molto simile a quella utilizzata prima di essere rapita nuovamente.
La controllò e per fortuna era ancora in buono stato, peccato solo fosse scarica.
Ovviamente la portò con sé, nella speranza di trovare dei proiettili quanto prima.
Sfregò le mani sulle braccia, infreddolita; il sottile abito di raso non la riscaldava abbastanza e i suoi nervi stavano cedendo.
In più l’avere i piedi nudi e feriti su quel pavimento sporco e pieno di detriti era tutt’altro che confortevole.
Una volta di fronte la cella che aveva aperto da lontano, notò che oltre v’era una grossa porta di legno massiccio, di costruzione certamente molto antica.
Le giunture in ferro erano molto robuste e resistenti, così come la maniglia ad anello, la quale dava l’idea di essere decisamente pesante.
Non si avvicinò di più però, in quanto i brividi presero a scorrerle lungo tutta la schiena; questo perché su di essa era intrappolato un corpo, trafitto da una spada e completamente ricoperto da ragni, che avevano fatto di lui il loro nido.
La Redfield impallidì dal disgusto, fu uno scenario impossibile da sopportare; dovette per forza voltarsi e allontanarsi di almeno un metro.
Cercò di esaminarlo da lontano, sperando che i ragni non venissero attirati dalla sua presenza in quanto aveva il terrore degli aracnei; una fobia che riusciva a controllare, però se poteva tenersi lontano il più possibile da loro…era meglio!
Vide le loro lunghe zampe nere passare da ogni parte del suo corpo, fuoriuscivano dalla bocca spalancata, dal naso, insinuandosi fra i capelli e i pochi lembi di vestiti che ancora gli restavano addosso.
Per qualche motivo, quest’uomo era tenuto dietro le sbarre che aveva aperto grazie a una leva, quindi era impossibile fosse stato messo lì a caso.
Inoltre era impalato su una porta, il che rendeva lecito più di un sospetto.
Ci pensò a lungo, guardandosi attorno numerose volte, ma l’unica cosa che poteva fare era tirare via la spada che lo infilzava all’altezza dello stomaco.
Facendolo sapeva che avrebbe interrotto “l’armonia” dei ragni che lo abitavano, ma non vedeva tante altre possibilità. Deglutì.
Con determinazione, pose le mani sull’elsa, poi, in seguito a un profondo respiro, tirò con tutte le sue forze, sperando che la lama venisse fuori velocemente.
Purtroppo la spada venne via con tutto il corpo, finendole quasi addosso.
Claire emise un inconsueto grido femminile, di quelli che faceva davvero molto raramente essendo una donna decisamente tosta.
Tuttavia la vista di quegli schifosi ragni su di lei la spaventarono più di quanto immaginasse, soprattutto perché non si aspettava che il cadavere cadesse così facilmente.
Riuscì comunque a non farselo cadere proprio sopra, mollando la spada in tempo e mettendosi di lato quasi sull’ultimo.
Con la coda dell’occhio vide i ragni spargersi sul pavimento, muovendosi disorientati, tuttavia non stette a guardarli più del dovuto; invece, pressò subito i palmi sulla porta appena liberata e vi sgattaiolò dentro terrorizzata.
Una volta al riparò, scrutò attentamente il vestito e i capelli e solo dopo essersi accertata di non avere ragni addosso, poté tirare un sospiro di sollievo.
Certo che, vestita in quel modo, era quanto di più assurdo le stava capitando; l’ultima volta era almeno riuscita a trovare delle forbici per accorciare il vestito, stavolta invece stava girando in lungo e in largo con quell’abito nel quale inciampava a quasi ogni passo.
Non aveva nemmeno un posto dove riporre la pistola, che doveva tenere in mano per forza.
Non aveva però tempo per indugiare, era almeno riuscita a fuggire dalle prigioni e questo era già qualcosa.
Strinse quindi l’abito in un pugno, sollevando l’orlo da terra, sorreggendo invece con l’altra mano la pistola, e salì una lunga e buia scalinata a chiocciola, che la portò finalmente fuori. Spinse la porta che trovò di fronte e entrò in un confortevole salotto, riscaldato dal dolce tepore di un camino acceso.
Al centro della stanza, v’era un manichino da donna senza capo, rivestito da degli abiti a lei molto familiari: erano i suoi vestiti!
Si avvicinò e prima di spogliarsi e riappropriarsi di quel look molto più appropriato e consono a lei, notò una targa: “L’abito della Cattiva Regina.”
Era un invito a restituire ad Alexia il suo abito?
Oppure…la “Cattiva Regina” era Claire?
Quel manichino, infatti, rappresentava le sembianze della cattiva Regina, appunto.
In quel momento però era vestito con gli abiti della rossa; dunque era un errore voluto, o…era un messaggio per dirle che era lei?
Sinceramente trovava più appropriato che quel ruolo spettasse ad Alexia, quindi, anche da un punto di vista simbolico oltre che pratico, fece la sostituzione di quegli abiti.
Spogliò velocemente il manichino, recuperando tutto e ponendolo ai piedi di esso.
Subito dopo scese la cerniera dietro la sua schiena e lasciò cadere a terra il prezioso abito viola.
Sebbene denudata, volle vestire prima il manichino invece di se stessa; per qualche motivo la turbava fortemente vedere quelle spoglie e il pensiero che l’Ashford avesse preferito ancora una volta trasformare lei ne “L’Altra Donna” travisatrice e crudele, aveva rattristato enormemente il suo cuore.
Prese dunque il lungo abito fra le mani e lo adagiò delicatamente sul corpo bianco del manichino, il quale adesso rappresentava le spoglie di quel Fantasma Maledetto.
Bella, soave, enigmatica…ma crudele.
Claire fece scorrere una mano su di esso, provando sentimenti combattuti.
Quell’abito rappresentava molte cose, ormai, e una strana malinconia la permeava dentro quando lo vedeva.
Abbandonata alla suggestione di quel momento, un’improvvisa risatina irritante la fece sobbalzare di colpo.
 
“Ah,ah,ah,ah!”
 
La Redfield riconobbe immediatamente quella voce.
Coprì il petto abbracciando il suo corpo e cercò di scorgerlo in fretta, tuttavia la stanza sembrava vuota.
 
“Alfred!”
 
Urlò, ma di lui nessuna traccia. Decise quindi di rivestirsi in fretta, prima di essere costretta davvero a girovagare nuda per quei labirinti.
In meno di qualche minuto fu di nuovo se stessa, finalmente.
Una volta rivestita, infilò i guanti per le nocche, allacciò i bottoni del suo gilet di pelle, legò dietro al collo il nastro rosa antico e tirò su i capelli con un elastico. In fine, poté infilare la pistola nella cintura. Era pronta.
Con un tempismo encomiabile, l’irritante voce provocatoria del biondo Ashford si diffuse di nuovo nella stanza, facendo scattare sull’attenti la rossa.
Sebbene riconobbe subito la sua voce, v’era qualcosa di diverso nel timbro vocale che non seppe spiegare.
Il suo accento era leggermente più acuto e impostato, come se stesse appositamente modulando la sua voce.
 
“Crudele…crudele Claire Redfield.” Rise. “Hai deciso di assegnare quel ruolo alla temutissima e preziosa Alexia. Ih,ih,ih,ih…interessate. Mi chiedo cosa tu ne sappia davvero, in verità, arrogante e inferiore sorella. Secondo quali certezze sei sicura di stabilire la tua scelta. Ti aspetto. Ah, ah, ah.”
 
Claire non ebbe il tempo di dibattere che il microfono si spense e la stanza tornò nel silenzio più assoluto.
Trovò quella situazione molto strana, lui era solito accogliere con vivace curiosità le sue risposte a quei battibecchi, invece in quel momento si era eclissato cessando ogni possibilità di dialogo. Non le tornava quell’atteggiamento.
Le sue provocazioni altro non erano che l’assurda e malata manifestazione della sua insofferenza; invece stavolta v’era qualcosa di completamente diverso, l’aveva carpito fin da quando l’aveva rincontrato.
Inoltre non l’aveva mai definita “sorella”. Cosa intendeva? Perché aveva detto “arrogante e inferiore sorella”?
Più di qualcosa non quadrava, piccoli e velati indizi le suggerivano svariate risposte, ma la ragazza non sarebbe mai potuta arrivare alla drammatica verità che presto si sarebbe palesata ai suoi occhi.
Avanzò nella stanza, lasciando quel beato tepore generato dal fuoco del camino, addentrandosi nell’oscurità.
Uscendo dalla stanza, notò che la porta appena varcata si chiuse automaticamente a chiave; era lampante che qualcuno la controllasse da lontano.
Non si lasciò spaventare. Sebbene la sua pistola fosse scarica, la strinse forte all’altezza del viso, impugnandola saldamente, e proseguì lungo il corridoio.
Al suono dei suoi passi nel silenzio, lentamente andò ad accompagnarsi una soave melodia. Era un brano di musica classica (Frédéric Chopin - Prelude in E-Minor op.28 no. 4) che avvolse in poco tempo l’intero ambiente, creando un’atmosfera sia inquietante che suggestiva;
il suo cuore prese a battere forte, ma decise di seguire ugualmente l’origine di quella melodia.
Il volume si fece molto alto quando giunse in prossimità di una porta lasciata semi aperta.
Un fascio di luce proveniente dall’interno rigava in modo netto l’esterno, quasi fosse stato lasciato appositamente in quel modo per preludere quel che stava per cominciare.
Claire si affacciò cautamente, ma riuscì a scorgere poco e nulla.
Ad ogni modo, sembrava essere solo un grande salone vuoto.
Non aveva nessuno che potesse coprirla, quindi non poté fare altro che entrare da sola e stare attenta.
Spinse la porta, la quale emise un fastidioso e indesiderato cigolio. Osservò le pareti, rivestite completamente da quadri raffiguranti l’intera successione generazionale degli Ashford.
Era già stata in una stanza simile a Rockfort; inoltre l’ostentazione delle origini di quella dinastia era ormai ben nota ai suoi occhi.
Osservò il quadro di fronte a sé, più grande degli altri, rappresentante ancora una volta colei a cui Alfred aveva donato tutto.
Alexia dominava quella parete, imponente, inequiparabile.
I suoi occhi socchiusi ma vigili e fieri, la pelle candida, i lisci capelli biondi. L’immagine che non faceva che ritrarla, ma che mai si era manifestata in carne e ossa se non sotto le false spoglie di Alfred stesso vestito da lei.
In quello stesso istante la musica cessò di colpo e la Redfield sobbalzò spaventata. Istintivamente si voltò alle sue spalle e non si sbagliò.
Il grammofono dal quale proveniva il componimento era posto su un tavolino di fianco alla porta di ingresso, accanto al quale era posata la mano di Alfred Ashford.
Ci fu un lungo istante di silenzio che permise ai due di specchiarsi nei loro rispettivi occhi azzurri, i primi vitrei e senza anima, gli altri determinati e pieni di vita.
Quel silenzio fu interrotto dalle mani del biondo, che presero ad applaudire sonoramente, guardandola con un sorriso falso e poco rassicurante.
 
“Benvenuta, Redfield. Benvenuta. Sono lieta che tu abbia accettato spontaneamente il mio invito.”
 
Sorrise mostrando i denti, in un’espressione assolutamente non sua, molto inquietante.
Dalle sue labbra uscì la sua solita voce femminile, quella che usava per emulare Alexia. Claire scosse il capo, esasperata.
 
“Perché stai facendo di nuovo tutto questo?” riuscì solo a dire, rendendosi sempre meno capace di elaborare un piano.
 
“Perché?”
 
Chiese “lui” uscendo dalla penombra e avanzando leggiadro, ponendo un passo davanti all’altro in modo esatto.
Claire indietreggiò istintivamente e cominciò a scrutare attentamente la figura che aveva dinanzi a sé.
Prima non se n’era accorta per via del buio, ma i suoi capelli erano lunghi e lisci, perfettamente pettinati dietro la schiena.
Il suo busto era più corto, le curve più gentili, la forma del petto e delle gambe erano morbide ed anche la sua altezza era diversa; differivano di pochissimi centimetri.
Cominciò a scuotere lentamente la testa, non riuscendo a capire.
Quegli occhi, quel viso, quelle proporzioni…era Alfred, era lui, eppure non lo era. Non lo era affatto.
 
“Chi…chi sei..tu…..”
 
La donna sorrise di nuovo, beffandosi del suo senso di smarrimento, deliziata da quel volto sconvolto e spaventato.
 
“Non sai chi sono io?” la sua voce suonò minacciosa, bassa, autorevole. I suoi occhi spettrali e ridenti la trafissero nell’anima, penetrando dentro come se volessero piegare la sua volontà. “Io invece penso che tu lo sappia perfettamente.”
 
Sogghignò di nuovo, al che Claire si sentì fortemente a disagio, confusa.
Un velo di oscurità cadde sulla sua mente. Al posto di quel volto andò a sostituirsi un punto interrogativo; non riusciva più a stabilire cosa stesse accadendo, chi fosse la persona davanti ai suoi occhi, cosa doveva fare… quell’ombra tenebrosa stava velocemente inglobando nel suo grembo le sue poche certezze. Vide i suoi ricordi con Alfred andare in fumo, sotto lo sguardo derisorio e potente dell’individuo di fronte a lei.
Le maschere fin ora conosciute stavano crollando, frantumandosi e sostituendosi a facce e situazioni nuove che non sapeva ancora decifrare.
Faticò a tenere a bada i suoi dubbi, i quali la stavano gettando in pasto alla paura; l’orrore di non comprendere più la realtà.
Stava cominciando a diffidare delle sue ricerche, le sue indagini, le sue ipotesi, tutto.
Se la donna bionda davanti a sé, vestita con gli abiti di Alfred Ashford fosse stata……………
No. Non era possibile.
Erano troppe le incongruenze, troppi gli elementi che altrimenti non sarebbero tornati secondo la logica.
Di stratagemmi fallaci ne aveva visti a bizzeffe in quel luogo desolato e malato, non voleva che la sua razionalità la lasciasse proprio in quel momento.
 
“Non esiste nessuna Alexia.” asserì la rossa, tremante. “Chiunque tu sia, non sei Alexia. Lei è un fantasma tenuto in vita da Alfred perché non riusciva a sopportare la solitudine in cui era piombato in seguito alla sua scomparsa. Sono stata troppo a lungo in questo palazzo per crederti. Non mi inganni.”
 
Asserì, eppure le sue parole tentennarono e furono meno convinte di quanto si aspettasse, come se mentre parlasse non credesse lei stessa a quella giustificazione.
Intanto lentamente indietreggiava ancora, fino a schiacciarsi contro il gigantesco quadro di Alexia che dominava in quella stanza; sentendo infatti la cornice dietro la sua schiena, si voltò di scatto e fu spaventoso trovarsi ironicamente proprio ai piedi di quella raffigurazione.
Il momento in cui i fantasmi scendono sulla terra…
Claire deglutì e di fronte il silenzio del suo interlocutore, intervenne nuovamente, sentendosi sempre più preoccupata.
Quella situazione non le piaceva proprio per nulla.
 
“So però che non sei Alfred.”
 
Ammise, comprendendo quella realtà oramai lampante. Per quanto trasformista, un velo di malinconia permeava sempre lo sguardo cupo e perverso del biondo Ashford.
Stavolta non era così, vi vedeva invece solamente rancore; e molta rabbia e malevolenza. Sebbene i tratti somatici erano simili, quella di fronte a sé era una indiscutibilmente una donna e l’unica risposta plausibile gettava nel panico la sua razionalità.
 
“Chi sei?” chiese in fine. “Cosa gli hai fatto?”
 
Intanto, la donna che vestiva gli abiti militari di Alfred, rise coprendo elegantemente la bocca col dorso della mano. Subito dopo pose le braccia ad angolo, mostrando i palmi rivestiti dal morbido tessuto bianco.
La disumana spietatezza celata dietro la soavità di quel viso angelico la rendeva agghiacciante.
 
“Tu non sai proprio niente, mia carissima sorella.”
 
In quello stesso istante dalle sue mani divamparono delle fiamme che in meno di un attimo si innalzarono violente abbracciando la sua figura; un fuoco che tuttavia non bruciava la sua padrona, la quale allargò le labbra soddisfatta, inebriandosi del potere da lei creato che la riempiva di fierezza e di dolore. Quel potere dal costo carissimo.
Claire si protesse con le braccia, non riuscendo a staccare gli occhi da lei. Fu un’immagine inconcepibile, fuori da ogni logica. Eppure lei era lì, davanti a sé.
 
“Non avrai mai tempo per sapere, non ti è concessa una tale elevazione, tuttavia ti farò conoscere la mia ira come prova di cosa succede a chi osa ferire il mio orgoglio. Stolta e mortale peccatrice, vivente in un mondo sporco e corrotto. Non hai idea di cosa significhi affrontare il mio giudizio.”
 
Agitò un braccio muovendolo verso la Redfield come se le fiamme potessero assecondare la sua volontà.
La rossa si buttò di lato mettendosi al riparo; fu sconvolta quando notò una parte del tappeto andare in fiamme, così come il resto della stanza, che velocemente cominciò a divampare nel fuoco.
Si voltò di scatto verso la donna, ormai completamente avvolta dal rosso rovente.
Sembrava un sole circondato dal suo inviolabile rogo; ella avanza imperturbabile, pienamente consapevole della sua forza.
Claire fece per lasciare la stanza al più presto, ma Alexia la bloccò gettando fuoco sulla porta. La ragazza così si ritrovò in un angolo, oramai incapace di scappare.
I suoi occhi vacillanti erano fissi su quella Dea Vendicatrice, eppure non abbassò mai lo sguardo; non si sarebbe piegata a quella malvagità.
 
“Alexia…Ashford…” sussurrò e intravide fra quel fuoco un sorriso di approvazione.
 
“Sì, mia cara. Lady Alexia, discendente di Edward Ashford, fondatore dell’Umbrella Corporation, nonché nipote della leggendaria capostipite Veronica. Tutto è stato predisposto perché io sembrassi morta.”
 
Claire si sentì sconvolta. Il terrore di venir sopraffatta dal fuoco eterno che si propagava da quella donna passò in secondo piano rispetto quella confessione, che mandò in panne la sua mente, che andò concentrandosi su una moltitudine di pensieri che presto affollarono la sua mente fino a contorcerla amaramente.
 
Cosa…stava…accadendo?
Era….Alexia? Davvero ‘quella’ Alexia?
 
Se non era lei, chi altri poteva essere?
 
Però non era Alfred.
 
La donna dai lunghissimi capelli biondi di fronte a lei era visibilmente una donna….non poteva essere Alfred.
Impallidì, spaventata da quel funesto gioco di parti in cui più volte era rimasta ingabbiata.
 
…e se invece Alfred non fosse mai esistito e avesse sempre avuto a che fare con la Lady?
 
No….non era possibile.
 
Aveva conosciuto quell’uomo! Sapeva chi era e non era la persona che aveva di fronte!
Per quanto simile, escludeva totalmente quella probabilità.
 
Aveva inoltre curato il suo petto ferito poche ore prima, era un ragazzo, ne era certa.
 
Restava però la sua domanda.
 
Allora chi era costei?
Se era davvero la sua agognata sorella, che aveva instancabilmente aspettato e protetto, lui dov’era? Sapeva del suo ritorno?
 
Un sospetto si impadronì di lei, facendola cadere negli abissi sempre più profondi di quella storia così complessa e inconcepibile.
Ripensò a lui, a quel che aveva conosciuto della sua vita, dei suoi dolori, delle sue amarezze.
La Redfield voleva solo portarlo via da quella casa…via da tutto…invece, forse…era troppo tardi.
 
“…perché sei la Crudele Regina? Cosa hai fatto ad Alfred..?”
 
Lo sguardo di Alexia si corrucciò per un attimo di fronte quella scomoda domanda che colpì persino lei, la Regina intoccabile.
La sua bocca si deformò in un’espressione di ribrezzo, di chi non voleva ammette cosa fosse realmente accaduto.
Infine schiuse le labbra; la sua voce risuonò stranamente bassa.
 
“Cosa hai detto?”
 
Claire non abbassò lo sguardo.
Sebbene cominciasse a temere di vedere la sua pelle in fiamme assieme al resto del corpo, aveva accettato di essere ormai dentro quella storia ed era decisa ad arrivare fino in fondo. Se qualcuno poteva darle delle risposte, aveva di fronte la probabile causa di quell’inferno intollerabile.
Di fronte quegli occhi determinati e limpidi, Alexia decise di fare un piccolo cambio di programma.
Era giusto, forse, che la donna dai capelli rossicci conoscesse il suo peccato…prima della sua esecuzione.
 
“Vuoi vederlo…capisco.”
 
Intanto il fuoco divampava sempre di più facendo aumentare drasticamente la temperatura della stanza.
Alexia allargò di nuovo le braccia e le fiamme si innalzarono più forti di prima costringendo la Redfield a buttarsi sul pavimento.
Quando riaprì gli occhi non c’era più nessuno. Né Alexia…né il fuoco…nulla. Era scomparso tutto.
Incredula, ci impiegò qualche secondo prima di realizzare quanto accaduto.
Il sonoro rumore di una serratura che si apriva partì dalla porta di fianco a lei, quella dove aveva cercato di scappare dall’attacco di fuoco; al tempo stesso la melodia che precedentemente eseguita dal grammofono riprese a suonare.
Quel salone in breve tornò esattamente come era prima. Meno i segni di bruciacchiature sul tappeto e le tende.
Claire si mise in piedi, tenendosi un braccio. La sua testa girava confusa, le sue labbra erano secche, i suoi occhi stanchi…stanchi di vedere così tanto, troppo; eppure non aveva intenzione di fermarsi, non lo avrebbe fatto.
La sfida di Alexia era quella di procedere e lei l’avrebbe accolta. Sarebbe arrivata finalmente al cuore di quel labirinto.
Aprì la porta e la melodia che la stava accompagnando si fece sempre più lontana.
Ogni passò che avanzava era un incalzare verso l’ignoto, sentiva che stava cambiando tutto, ancora una volta.
Si ritagliò quel momento di solitudine per riflettere con calma.
Cosa avrebbe trovato alla fine di quella strada? C’erano Alfred e Alexia ad aspettarla?
Da che parte sarebbe stato lui, adesso?
Forse doveva fermarsi finché era in tempo, avrebbe potuto trovare risposte che non le sarebbero piaciute. Eppure i suoi piedi si muovevano in avanti, con trepidazione; era impossibile ormai per lei chiudere tutto così.
L’incalzare degli ultimi eventi l’avevano resa inquieta e fragile; temeva l’inevitabile confronto, non riusciva ad ammettere o meno se fosse arrivata al limite.
Rivedeva davanti ai suoi occhi il viso della donna appena incontrata e la sua mente non riusciva a concretizzare quel che aveva visto.
Era inammissibile pensare che la bionda fosse chi le aveva detto di essere.
Come era riuscita a restare nascosta per ben quindici anni?
Non si trattava solo di lei, ma delle pene di Alfred, nonché dell’Umbrella stessa che l’aveva dichiarata morta, del sistema in generale al quale lei era riuscita a scappare, trasformandosi in un vero e proprio fantasma dal glorioso passato.
Alexia era un demone sfuggente che sembrava apparire nei momenti più bui, sapendosi muovere come una serpe velenosa; lenta, celata e letale.
Che fosse lei davvero, oppure no, restava in piedi quel mito che la dipingeva come la Regina vendicatrice inopponibile.
Aveva avuto solo un assaggio del suo potere ed era certa che v’era ben altro in serbo per lei.
Doveva riuscire a precederla, a impedirle di giocare ad armi dispari; per riuscirci doveva fare il punto della situazione e agire di conseguenza.
Certo, non era facile decidere sul da farsi quando non sapeva nemmeno dove andare.
Era in gabbia; non poteva che percorrere all’infinito quelle stanze e quei corridoi, non potendo opporsi a quel destino.
Alexia aveva un piano molto ben chiaro in mente e purtroppo Claire non aveva i mezzi per contrastarla, se non il suo innato giudizio e prontezza di spirito.
All’improvviso un fascio di luce proveniente alle sue spalle colpì una parete, costringendo la rossa a riparare velocemente gli occhi.
Solo in un secondo momento notò che quella luce era invece una fotografia. Una fotografia proiettata sul muro.
Vi riconobbe i gemelli Ashford in età giovanile, in un’immagine che aveva visto spesso in giro per il palazzo.
Nello stesso tempo una voce femminile echeggiò fra le profondità di quelle stanze; era impossibile stabilirne la provenienza, ma per via dell’audio ampli fonico Claire dedusse che dovessero essere stati impiantati degli altoparlanti un po’ in tutto l’ambiente per diffondersi così bene.
L’eco, infatti, era pulito ed era emesso in ogni locale rendendolo percettibile per tutti.
La voce era calma ed espressiva, tuttavia perfettamente riconoscibile nella donna incontrata pochi minuti prima.
Dunque la stava osservando e si aggirava ancora da quelle parti?
 
“Crudele Regina di questa macabra storia. Sei tu la prescelta indiscussa cui si punterà il dito, nel giudizio finale che deciderà il bene oppure il male. Non hai scelto di essere così, non era il tuo destino; è stata una mano più in alto di te, a quel tempo, a decretare la tua infausta sorte. Hai abbracciato il tuo ruolo nefasto ed ora vivi fra le ceneri della distruzione, in balia del tuo potere solitario. Povera Crudele Regina.”
 
Disse quasi compiangendosi, era lampante che Alexia stesse parlando di se stessa, ormai l’aveva capito.
Ora che le cose erano più chiare, riusciva finalmente ad interpretare il suo comportamento quando, vestita da suo fratello Alfred, aveva preso a insultarla e schiaffeggiarla, definendola in modo crudo e martellante “cattiva”.
La fragile giovane dai capelli pallidi aveva interpretato il giudizio di suo fratello, ritenendo giusto che lui fosse in collera con lei, la quale per il suo egoismo era scomparsa condannando la sua vita nella solitudine più insostenibile.
Travestendo Claire da lei, aveva dato sfogo alla frustrazione di sentirsi in colpa verso di lui e quindi l’aveva aggredita.
Un’interpretazione di Alexia del tutto dissimile da quella reale di suo fratello, il quale invece a suo tempo vestì la rossa nelle sue spoglie proprio per godere della sua presenza e amarla come non aveva potuto per quindici anni.
Fu straziante concepire due versioni così dissimili della stessa persona: una amata e venerata, l’altra crudele e prepotente.
Attraverso la sua esperienza, avrebbe potuto mostrare ad Alexia quanto si sbagliava, quanto con gioia a devozione Alfred aveva invece onorato il suo compito; eppure non poteva negare che dentro di sé la pensasse diversamente.
Provava rabbia, esattamente come Alexia; lei aveva consapevolmente condannato la mente fragile di un ragazzino, rinchiudendolo e costringendolo a proteggerla. Anche se per amore.
Lei aveva distrutto Alfred ed era quell’amara verità che entrambe sapevano.
Sebbene Claire fosse consapevole dell’immenso amore di quel sacrificio, restava il fatto che quell’accaduto aveva fortemente turbato e devastato quell’esistenza fino a trasformare in un tiranno cupo e perverso il già fragile erede degli Ashford.
Eppure le sfuggiva un tassello; quel che non capiva era quel temuto e raccapricciante “perché” che aveva devastato per sempre la vita dei gemelli.
Cosa poteva aver così irrimediabilmente sconvolto due ragazzini, all’epoca così giovani?
Tanto da indurli a quel gesto auto-distruttivo?
Intanto la idolatrata Regina continuò a parlare, raccontando una storia…una storia in vero già ben conosciuta.
 
“C’erano una volta un giovane Re e Regina. Lui conduceva una vita ordinaria, accettato dal popolo comune, in grado di essere una persona amabile. Lei invece incarnava un forza onnipotente vista come il male da parte della comunità. Era strana, difficile, temibile.
Entrambi, Re e Regina, si sentivano diversi dal resto delle persone che li circondavano e preferivano la propria reciproca compagnia a quella altrui. Erano felici assieme e si amavano molto. Tuttavia la Regina aveva un compito, un crudele e inevitabile destino a cui non poteva sottrarsi.
Aveva però il Re dalla sua parte e affidandosi a lui, sapeva che non avrebbe fallito. Come in tutte le storie, il Re protesse la sua Regina con coraggio e fedeltà. Un giorno accadde però che scoprì una terribile verità. Una realtà che cambiò drasticamente la sua vita.”
 
La Redfiel la interruppe, non per arroganza, ma col sincero desiderio di capire.
 
“Conosco questa storia. Al..” dovette sforzarsi di chiamarla col suo nome, era qualcosa di così irrazionale. “…Alexia.” Continuò.
“L’ho conosciuta da tuo fratello. Il Re che protegge la sua Regina. Lui mi ha parlato molto di te, di voi.”
 
La voce della donna sogghignò vivacemente, poi si fece cupa.
 
“Non sai proprio nulla.”
 
Affermò e il microfono si spense; con esso sparì anche la proiezione della fotografia. Claire stropicciò gli occhi infastiditi dal quel brusco ritorno nell’oscurità.
 
“Cosa non so ancora? Che lo hai lasciato da solo per quindici anni per progredire delle ricerche per conto dell’Umbrella? Non sono qui per giudicarti o distruggerti, voglio solo rivedere Alfred, tuo fratello. Se sei davvero Alexia, sappi che io non sono sua nemica. Non lo sono.
Anche tu, Alfred, se sei in ascolto, parlami. Per favore, non distruggere tutto quello che abbiamo fatto fin ora.” Si fermò tirando un profondo respiro.
“Hai detto che per arrivare a te dovevo prima conoscere Alexia, la quale è una grande parte di te stesso. Se non comprendo lei, non comprenderò mai te.
Eccomi, ci sono. Mostrami quel che devi. Poi però, ti prego, vieni da me. Non puoi continuare così.”
 
Il silenzio fu però la sua unica risposta.
Amareggiata, la ragazza non poté fare altro che proseguire, sperando a quel punto che valesse a qualcosa.
Altrove intanto, il genio della famiglia Ashford sedeva nel suo antro sconosciuto, padrona del suo palazzo; aveva ascoltato attentamente le parole dell’altra donna, molto.
Posò il suo mento sulle nocche sottili e delicate e i suoi occhi vitrei si fecero ancora più profondi.
Odiava…Odiava…Odiava…tutti…tutto…Nessuno…poteva…capire…
Si alzò così dalla sedia e grazie al baccello che controllava con la sua mente si fece trasportare di nuovo di fronte la giovane, la quale vide un improvviso rovo incombere sulla sua strada e che lentamente si sostituì con la figura di Alexia, che si erse fra quei tentacoli.
Stavolta era diversa.
Il suo viso era delicatamente truccato. Una smagliante pietra rossa era incastonata sul suo girocollo nero; un lungo e prezioso abito viola a balze accarezzava le sue curve, valorizzando il suo fisico magro e longilineo; le sue gambe lunghe e slanciate s’intravedevano fra le pieghe dell’abito, così morbide da sottolineare la figura; la sua pelle marmorea la rendeva bianca e perfetta come un dipinto. I suoi occhi erano però furenti e le conferivano il degno aspetto della Regina Crudele da sempre descritta.
I lunghi capelli platinati erano tirati indietro, lasciando libera completamente la fronte e permettendo di ammirare quella nociva e temibile bellezza capace di spazzare via in un attimo ogni cosa.
Nell’animo di Alexia era nitido tale messaggio di prepotenza di chi non avrebbe tollerato alcuna insolenza verso di lei.
Le labbra sottili erano serrate in un’espressione di disapprovazione, che Claire vide concentrata interamente su di lei.
Reggere quello sguardo da padrona fu difficile, soprattutto quando anche lei si sentiva ormai parte di quella storia e non accettava di essere beffeggiata quando era la bionda invece ad essere scomparsa per anni.
 
“Esisti, dunque, Alexia Ashford. Finalmente ti mostri…”
 
Alexia non rispose, rimase impassibile a guardarla.
L’immensità del corridoio alle sue spalle rendeva quella scena quasi inverosimile, come fosse davvero piombato dal nulla un fantasma a tratti dimenticato, a tratti invece sempre stato vigente fra quelle mura.
Lei, in fin dei conti, v’era sempre stata, in modo celato e costante; quel momento era quindi la rappresentazione materiale di quel che impregnava amaramente quelle mura fino a conferirvi la pazzia che nel tempo le aveva avvolte.
La costante presenza di Alexia Ashford, era questo il nome di quella follia.
 
“Da quanto?” chiese.
 
“Da poco.” rispose in modo asciutto, non aggiungendo altro.
 
“Cosa vuoi fare, adesso?”
 
“Voglio vendetta.”
 
Claire scosse la testa, reazione che divertì la bionda, la quale rise di gusto ancora una volta.
 
“Non ti è concesso sapere, mia cara. Non te l’ho forse già detto poco fa? Mi sono destata dal mio sonno ibernato al fine di potenziare il mio corpo ed ora domino una forza alla quale già prima di questo momento nessuno poteva equipararsi. Sono diversa da te, diversa da chiunque altro. Grazie al sacrificio mio e di Alfred, il nostro destino ha avuto un valore. Cosa pensi di poter capire tu che hai condotto una vita comune e insignificante? Non ti è dato nemmeno poter prendere parola di fronte il mio dolore, le mie rinunce, le mie ricerche, la mia vita.”
 
La rossa non si fece intimorire da quegli occhi fulminei e penetranti, puntò invece i piedi a terra e con orgoglio non si lasciò sopraffare, ormai stufa.
 
“Tu, invece?” la azzittì col suo tono severo e fermo. “Vedo che sei molto sicura di te, ma lascia che ti chieda: cosa pensi di sapere, tu? Che ne possono sapere davvero due ragazzini di appena dodici anni di cosa significhi stare da soli quindici anni? Guardati, padrona coi super poteri, regina di un palazzo sporco e malridotto, dove solo il dolore e la depravazione hanno regnato sovrani. Questo sai perché? Perché quel ragazzo ti voleva bene e avrebbe fatto qualsiasi cosa per te! Qualsiasi! E tu…”
 
Claire la additò e per un attimo Alexia si risentì vedendo quel dito puntato verso di lei, che le rimetteva le sue responsabilità.
 
“…tu ne hai approfittato. Lo sapevi che lo avrebbe fatto. Non ti avrebbe mai detto no. Così questo luogo è diventato il suo macabro teatrino, dove pur di sconfiggere il dolore che provava, non ha fatto che inveire sugli altri. Lui non poteva davvero sapere a cosa sarebbe andato incontro, accondiscendendo alla richiesta che gli hai fatto. Tu invece non avevi problemi, tanto avresti dormito tranquilla, no? Quindi non dirmi che non so nulla, forse l’unica che non sa niente se proprio tu, Alexia.”
 
A quel punto ci fu un tedioso e intenso momento di silenzio. La Redfield ansimò per la foga che aveva messo nel palesare la sua rabbia, il senso di protezione che a sua volta lei stessa aveva sviluppato per le tristi sorti di quel folle uomo, il quale aveva sbagliato ed era da condannare per i suoi loschi crimini inumani; eppure forse nulla sarebbe accaduto se avesse avuto una spalla su cui poggiarsi…e la sua vicinanza nelle ultime ore lo aveva dimostrato, aveva fatto fuoruscire uno spiraglio di normalità e umanità in lui, anche se disgraziatamente troppo tardi.
La bionda donna dal lungo abito scuro, intanto, sentì un nocivo e soffocante veleno lievitare sempre più forte dentro di sé. Restò immobile e padrona di sé dinanzi la scelleratezza e l’insolenza di quella donna ignobile, poi, però quel veleno si propagò e non poté più trattenerlo. Le fiamme si innalzarono nuovamente dal suo corpo e urlò con tutte le sue forze.
Le pieghe più basse dell’abito s’innalzarono, ondeggiando sulle sue gambe pallide; così come la lunga chioma bionda, che volteggiò sul suo viso arrabbiato, muovendosi come fosse in balia del vento.
 
“Non. Sai. Nulla. Di. NOI!”
 
Urlò furente e il pavimento sotto i piedi di Claire Redfield crollò, come fosse stato controllato dalla sua mente.
La ragazza riuscì a reggersi per qualche attimo al tappeto rimasto in tatto, ma la furia della Regina fu tale da impedirle di mantenere la presa.
Così fu strattonata via dalle liane che Alexia padroneggiava col suo potere, che la costrinsero a cadere nella voragine appena creatasi per sua volontà.
Se era questo ciò che voleva, allora le avrebbe mostrato crudamente quanto di disumano c’era invece nella sua sudicia razza umana!
Quel che avrebbe visto era quanto il comune e insignificante uomo fosse invece colui che aveva decretato la pazzia che lei credeva di conoscere impropriamente.
Perché non sapeva nulla. Non conosceva nulla. E non avrebbe mai potuto capire nulla.
 
 
 
[...]
 
 
 
La polvere si sollevò abbondante, avvolgendo per qualche attimo l’ambiente abbandonato in cui la giovane dai capelli rossicci era stata scaraventata.
Si sollevò esausta, ma per nulla infiacchita, cercando immediatamente di orientarsi.
Il luogo era totalmente buio, al di fuori di una fiaccola che intravedeva in lontananza e che le permetteva di scorgere i contorni di quel che era conservato in quella segreta; scorgeva un tavolo ricoperto di vari utensili al momento indecifrabili per via dell’oscurità, poi delle inquietanti ramificazioni simili ad arti umane fuoriuscenti ovunque.
Si trattavano di ombre raccapriccianti e opprimenti che la fecero sentire sopraffatta, scambiandoli ad un primo impatto per b.o.w. .
Sobbalzò, ma presto si rese conto di non udire nessun respiro o lamento. Quegli arti con si fiondavano avidi sulla sua carne; erano solamente celati nell’ombra, capaci di suggestionare e impressionare chi ovviamente ne aveva viste tante come lei.
Per fortuna erano inanimati e questa era la cosa importante.
Claire si avvicinò alla fiaccola incastrata sulla parete e la prese in mano; con essa poté scrutare quel luogo.
Si trattava di un seminterrato abbandonato i cui muri non erano probabilmente mai stati lavorati a dovere, per cui le sue sembianze lo facevano rassomigliare a una caverna.
Grazie alla luce si rese conto che centinaia di manichini erano incastrati ovunque e davano l’effettiva impressione di scavalcarsi l’un altro al fine di perseguire l’eventuale visitatore.
Il quantitativo di braccia e gambe era superiore rispetto il resto delle parti del corpo; la rossa si chiese cosa se ne facessero gli Ashford di tutti quei pezzi.
In effetti rievocò le numerose bambole e manichini che in generale aveva visto durate la perlustrazione del loro aitante e macabro palazzo; dalla stanza dei due gemelli, alla casa delle bambole dove era stata rinchiusa, fino al sotterraneo dove si era separata con Alfred.
V’era un motivo per cui Alexia l’aveva spedita lì sotto e forse stavolta avrebbe risolto anche questo mistero?
Alzò gli occhi e notò una gigantesca gabbia ricoperta di filo spinato, all’interno della quale v’era una bambola di altrettante mastodontiche dimensioni, tuttavia svestita e sfigurata; il suo corpo era costituito di plastica e ovatta visibilmente deteriorata e graffiata, i suoi occhi era schiusi, si aprivano male, e sul suo volto v’erano delle strane incisioni.
Un oggetto vecchio e di cattivo gusto, abbandonato in una gabbia spinosa; si chiese il senso di un artefatto simile a occupare una porzione così grande del soffitto.
Dondolava avanti e dietro, mossa da una tenue brezza di cui si accorse solo in quel momento, vedendo la gabbia oscillare.
Si riscaldò abbracciando i gomiti e si affrettò a investigare in quel bunker. Man mano che procedeva, si rese conto di quanto fosse ampia quella stanza; girovagando tra i vari angoli, setacciando fra le carte, i disegni, parti di manichini e detriti di ogni genere, si collegò a uno studio dove era collocata una grande libreria.
Di fronte ad essa era posta un’ampia scrivania di legno massiccio, di quelle molto antiche, spesso reperibili in studi professionali come quelli di medici o avvocati; v’era abbinata una sedia molto meno importante rispetto quel mobile di grande valore, ove ora poggiato quello che sembrava essere un fantoccio dalla pelle grigiastra.
Osservò la sua schiena ricurva, tenuta su da una corda impolverata che lo legava allo schienale. Claire rabbrividì, in quanto visto da dietro ricordava enormemente il mostro che aveva sconfitto sulla distesa nevosa.
Il suo cranio ossuto, la sua pelle sciupata e biancastra, la corporatura muscolosa ma deturpata, le sue mani imbrigliate nelle catene, gli squarci sanguinosi che al tempo in cui era in vita dovevano averlo logorato.
Quando la giovane gli si affiancò con la torcia per esaminarlo, si rese conto della puzza organica nauseabonda e subito indietreggiò terrorizzata.
Quel mostro era effettivamente proprio lui: Nosferatu.
Claire lesse il nome appeso a un cartello sul suo collo realizzato col cartone. Era quindi così che l’Umbrella aveva battezzato quella spaventosa B.o.w. .
Vederlo ridotto in quel modo le suscitò un’indescrivibile pena; chiunque fosse stato quell’uomo, non meritava una fine del genere.
Nessuno, a parte persone come Claire, avrebbe potuto provare una pena simile a quella vista; agli occhi di chiunque sarebbe stato solo un orrendo mutante.
Lei però aveva visto con i suoi occhi quanto quel maledetto virus potesse cancellare ciò che erano le persone prima di contrarlo.
In quel momento non riuscì dunque a vedere l’essere mostruoso, ma l’uomo che doveva essere stato un tempo.
Quel pezzo di cartone col suo “nome” appeso al collo, inoltre, era di uno squallore angosciante, come se fosse solo merce da buttare ormai.
Notò in quel momento qualcosa sulla scrivania che attirò la sua attenzione. Scrutò meglio e non si era sbagliata, v’era una foto della famiglia Ashford che ritraeva i due gemelli con loro padre.
La prese in mano e istintivamente la voltò sul retro, ove vi trovò scritta una frase:

“E’ tutta colpa sua!”

La Redfield corrucciò la fronte chiedendosi cosa significassero quelle parole.
Osservò di nuovo la foto; vi erano Alfred e Alexia giovanissimi, vestiti in modo elegante, e quello che deduceva fosse appunto loro padre posto nel mezzo, seduto davanti una scrivania. Un orecchino vistoso brillava sul lobo sinistro. Verde e intenso, con lo stemma del casato di famiglia.
Un luccichio attirò in quello stesso istante la sua attenzione. Voltandosi furtiva, notò con terrore lo stesso prezioso ninnolo sull’orecchio del mostro. Perfettamente conservato, in contrasto con le sue carni marce.  
Qualcosa cominciò a turbarla, sapeva perfettamente quanto in quel luogo malato nulla fosse messo a caso. Sbirciò di nuovo verso Nosferatu e impallidì.
 
“Il signor…Alexander Ashford…?”
 
Sussurrò, ma non v’era nessuno a confermarle quella logica deduzione.
Sentì il suo stomaco rivoltarsi, dové allontanarsi immediatamente, sperando di non cedere alla nausea.
Era possibile che i due folli gemelli avessero ucciso loro padre? O peggio…lo avessero usato come cavia per i loro esperimenti? Da quanto quell’uomo era loro prigioniero? Cosa diavolo significava?
Poi quella scritta sulla fotografia…di chi era la colpa?
Di Alexia…? Di Alfred? Oppure…
 
“Loro padre…”
 
Bisbigliò di nuovo fra sé e qualcosa cominciò finalmente ad avere un senso. Un macabro senso. Era più che probabile che dietro l’insano squilibrio dei gemelli Ashford ci fosse una delusione o un trauma familiare. Non poteva essere partito tutto da loro.
Entrambi discendevano da una nobile stirpe, come sia Alfred che Alexia avevano orgogliosamente evidenziato quando potevano.
Edward Ashford era loro nonno ed era uno dei tre fondatori dell’Umbrella assieme a James Marcus e Ozwell Spencer.
Alexander era figlio diretto di un uomo dunque molto potente e distinto all’interno di una società influente come l’Umbrella; che quindi, come figli, i due ragazzi avessero ricevuto più pressioni di quanto potesse immaginare?
Ripensò al diario di Alfred e ricordò la difficile verità sulla sua infanzia, ove gli scopi scientifici dell’Umbrella avevano imposto su di loro delle crudeli responsabilità, improponibili per due bambini…e per una in special modo; Alexia era infatti quella più ingabbiata fra i due, costretta a ore e ore di intenso lavoro, Dio solo sapeva per quali scopi.
In fine ricordò le pagine del diario strappate da Alfred, quelle in cui dichiarava aperto odio a suo padre.
Guardò di nuovo quel cadavere sfigurato, sentendosi inquieta. Era quindi quella…la sua punizione?
Tuttavia si chiedeva quale causa scatenante ci fosse dietro quel brutale castigo finale, che in seguito aveva istigato persino Alexia a condurre esperimenti su di sé.
Prese a setacciare la scrivania, aprendo i cassetti, sbriciando tutte le carte e qualche libro. Mentre buttava all’aria un po’ tutto alla ricerca di un qualsiasi indizio, attraverso uno dei libri scartati notò un vuoto.
Sbirciò meglio ed effettivamente era nascosto un passaggio oltre la libreria.
Prese quindi un altro paio di enciclopedie e scoprì che la libreria fungeva da divisore con un altro lato della stanza.
Spogliò dunque il mobile fino a liberare abbastanza mensole da poter passare. Le smontò e passò oltre di esse, stando attenta a non inciampare in tutto quel disordine.
Dall’altra parte riconobbe davanti a sé l’agghiacciante riproduzione dei due gemelli, l’uno vestito nelle sue spoglie militari, l’altra nel lungo abito viola scuro a balze.
Quel che la impressionò fu ritrovare quei manichini in serie, posti l’uno dopo l’altro, come fossero dei prodotti in fabbrica.
Erano almeno un centinaio, tutti posti in fila in modo inquietantemente ordinato.
Perlustrò la zona e ne ritrovò altri invece rotti a terra, sempre nelle medesime vesti.
Ad alcuni mancavano gli arti, altri erano tagliati a metà o spezzati…
Più avanzava più li vedeva ridotti nel peggiore dei modi fino a ritrovarli persino macchiati di sangue, con occhi cavati e insanguinati nelle cavità, il cervello intagliato, o viscere vere completamente da fuori, poste su di loro come sarebbero dovute apparire su un essere reale, se fosse stato squarciato.
Il pavimento si fece sempre più appiccicoso e non fu più tanto sicura se proseguire o meno. Sebbene le vittime sembravano essere solo dei manichini, la riproduzione era così realistica da turbarla fortemente.
Arrivò infine in un reparto diverso, ove v’erano degli enormi macchinari scientifici ormai fuori uso; davanti ad essi due lettini operatori, entrambi macchiati di sangue.
Claire si pose fra loro e osservò quelle macchie rinsecchite, che riproducevano la fisionomia di due esseri umani di dimensioni piccole. La ragazza si augurò con tutta se stessa che quel sangue fosse finto.
Le due ombre sporgevano un braccio l’uno verso il lettino dell’altro e se ci fossero stati due corpi al loro posto, era certa che si stessero prendendo la mano.
Notò su di essi due gemme incastonate, una rossa e una blu. Erano i gioielli esclusivi dei membri della famiglia Ashford.
Claire aveva avuto già modo di vederli e conoscere che ad Alfred era spettata una pietra blu che incastonò su un anello, e Alexia una pietra rossa, che pose sul suo girocollo.
Abbassando lo sguardò notò un fascicolo nascosto sotto la barella ipoteticamente di Alfred, così si piegò e ne lesse il contenuto.
Erano pagine e pagine di referti scientifici di cui mai avrebbe potuto interpretare il reale contenuto, eppure il cuore prese a sbatterle in petto senza riuscire a fermarsi.
Le immagini che vide l’aiutarono a capire e quella terribile verità fu a quel punto molto evidente ai suoi occhi.
 
“Esatto, Redfield.”
 
Claire sobbalzò e fece cascare a terra i documenti sentendosi chiamare così all’improvviso in quel temuto silenzio.
Si voltò e ritrovò, a pochi metri da lei, la sontuosa e cupa immagine di Alexia Ashford che la guardava nella penombra.
La luce proveniva esclusivamente dalla torcia della rossa, per cui della terribile Regina riuscì a distinguere solo i contorni.
Sui suoi occhi v’era un’ombra densa e impenetrabile, simbolicamente come il suo animo in quel momento, ricolmo di risentimento.
Ella era immobile, evidentemente ancora ferita e arrabbiata da quella crudele verità palesata in quei fogli.
In effetti, Claire si ritrovò a considerare che se era stata ibernata come aveva detto, in termini di tempo, per lei non era passato poi tanto da quella tremenda presa di coscienza.
Non aveva avuto quindi modo di smaltire quell’amara delusione, quella triste e inaccettabile scoperta.
Nei suoi occhi, sebbene non potesse vederli, poteva infatti avvertire la sua collera ancora furente.
 
“Ci ha creati.” pronunciò in modo asciutto, senza emozioni.
 
“Quello sporco maiale ci ha usati per compensare la sua incompetenza. Tu sai cosa si provi a scoprire di essere messi al mondo soltanto per far sopravvivere un nome? Solo per ereditare un genio e un intelletto al fine di sopperire quello che qualcuno di nettamente inferiore non è riuscito a fare?”
 
“Alexia…”
 
“Taci. Non hai proprio nulla da dire. So bene cosa significhi giocare con la genetica. Appena ho letto quelle carte, trovate da mio fratello Alfred in questo seminterrato, sono riuscita immediatamente a risalire alla logica e agli studi effettuati da mio padre. Un crudele e stolto uomo, incapace e ottuso. Mi vergogno di discendere da un essere così schifoso.
Gli ho concesso però quello che cercava con tanto ardore. L’ho reso parte della ricerca che avrebbe dato quell’onore ormai perduto cui tanto agognava. E’ grazie a lui che ho creato il mio T-Veronica Virus.” Sorrise. “Come vedi, sono stata buona con lui, alla fine.”
 
“Non significa niente.” Provò a farla ragionare Claire. “Non perché siete stati creati, vuol dire che siete dei mostri.”
 
“Che ne puoi sapere tu? Capisci forse qualcosa di quel fascicolo? Vuoi farmi credere che sai interpretare l’orrenda genesi dello scellerato esperimento che ha portato alla nostra nascita? No, non puoi. Quindi inutile che cerchi di calmarmi. Nessuno merita la mia pietà.”
 
La Redfield abbassò il viso, era impossibile dibattere quelle parole; aveva ragione.
Come poteva capire davvero cosa significava scoprire di essere creati?
Vedere la propria vita imbrigliata negli sporchi affari dell’Umbrella da sempre, essere nutriti d’inumanità e scelleratezze fino a riuscire a concepire la propria esistenza soltanto ingabbiata in quell’oscurità perversa; e poi scoprire di essere stati fabbricati come merce, come macchine da lavoro. Il tutto solo per susseguire gli scopi personali di un padre egoista e folle, il quale desiderava solamente equiparare un genio a lui irraggiungibile ai fini di mantenere il nome dei suoi avi, di chi aveva reso nobile e inestimabile la sua stirpe.
Non aveva ingenuamente fatto i conti con la reazione dei suoi figli, che nel bene o nel male avevano dato tutto ciò che avevano per lui.
Non c’era da stupirsi se in quel putiferio già lercio, marcio, funesto, quel colpo avesse rappresentato un profondo shock.
Anche perché, ormai, quel “prodotto” era stato creato e formato…e non poteva più essere fermato.
Alexia era ormai incapace di lasciare il suo lavoro, aveva il dovere di perseguire lo scopo per cui era nata. Era impossibile per lei cambiare il suo destino.
Claire cercò gli occhi della bionda, sperando di riuscire a confortarla in qualche modo, ma le parole si strozzarono in gola.
V’era qualcosa che poteva dire?
 
“Mi dispiace.” disse. “Non volevo offenderti, prima.”
 
Ammise, sentendosi in colpa per averle urlato contro.
Continuava a ritenerla responsabile per il decadimento psicologico di Alfred, eppure in quel momento stava cominciando a comprendere anche il punto di vista di lei.
Così tutto a un tratto era con Alexia, il fantasma che aveva dannato le mura del Palazzo Ashford, in carne e ossa, a condividere l’angosciante verità dietro la sua nascita.
 
“Ti dispiace…”
 
Ripeté lei con una voce poco convinta, ferendo i sentimenti genuini di Claire, la quale non voleva assolutamente prenderla in giro.
Tuttavia prima che potesse aggiungere qualcosa, la donna dai capelli pallidi la interruppe bruscamente. Si avvicinò di qualche passo e finalmente il fuoco illuminò il suo viso, colmo di tristezza come quello di suo fratello.
Quello sguardo impressionò Claire, che forse fu in quel momento che realizzò concretamente chi aveva davanti; la misteriosa sorella gemella di Alfred.
In quell’istante aveva i suoi stessi occhi, la stessa malinconia e senso di abbandono che l’avevano in fine indotta a prendersi cura di lui.
 
“Non osare ritenerti diversa da chi ci ha fatto del male. Queste mura mi raccontano tutto, posso vedere ogni cosa. Ognuno qui dentro ha fatto la sua parte e ha permesso che la mia unica gioia venisse trucidata. Siete in pochi ad aver solcato il luogo in cui ho avuto riposo. Quattro per l’esattezza. Vi ho osservato, so dove siete e so cosa meritate. Vi troverò a uno a uno e non avrò clemenza! Non osare provare a immedesimarti nel mio dolore, non sei all’altezza di questa sofferenza!”
 
“Non sto dicendo che posso capirti, ma non puoi nemmeno giudicare tutti in questo modo. Per quanto tu abbia sofferto, puoi ancora prendere in mano la tua vita assieme a tuo fratello. Ora che vi siete ritrovati, ora che stai bene, venite entrambi via da qui.”
 
La conseguente risata acuta di Alexia la trafisse come una pugnalata; perché la stava deridendo? Cosa stava sbagliando con le sue parole?
Possibile che vedesse una soluzione solo nella vendetta e nella morte? Perché sia lei che Alfred si rifiutavano di scappare via?
 
“Perché ridi? Smettila di nascondere la verità, non ha senso auto distruggersi in questo modo. Non pensi che avete già patito abbastanza?”
 
Insisté, ma le sue parole sembravano non riuscire a colpirla in nessuno modo.
Alexia intanto smise di sogghignare e si limitò a mostrarle i suoi denti bianchi e perfetti. Dopodiché si fece cupa e spaventosa. I suoi sbalzi d’umore erano terrificanti.
 
“Non ti rendi nemmeno conto delle sciocchezze che dici, mia cara.” Aggiunse poi gelida. “A quanto pare non sai ancora quale ulteriore male è stato inferto a questa vita nefasta e agognate. Credi di essere diversa, di poter portare speranza in questo mondo, che invece va sterminato e ricostruito da zero. Esatto, distrutto e poi dominato da menti più elevate e capaci di portare l’umanità a un livello diverso. Tutto ciò però mi è stato tolto ancora una volta. I miei sogni sono stati infranti. Quell’unico e immenso amore che mi sosteneva è stato macchiato. Non esiste più nulla per me là fuori. Nessuno ha più il diritto di vivere, dopo quello che mi è stato fatto.”
 
Claire corrucciò il viso, non capendo. “Di cosa stai parlando? Cosa ti è stato levato ancora?”
 
Alexia sorrise di nuovo. Stette in silenzio e la rossa si sforzò di non muoversi e non dire nulla. Volle aspettare e darle tempo.
Voleva una risposta; non poteva più aspettare.
 
“Vuoi sapere la verità, quindi..?”
 
Annuì e a quel punto Alexia allargò le braccia e tutto divenne confuso.
Claire si sentì strattonare via, una forza straordinaria e incontrastabile la fece immergere nei meandri del laboratorio artico ancora una volta.
Infine si ritrovò di nuovo in piedi, davanti ad Alexia, nel luogo dove era stata l’ultima volta quando aveva cercato Alfred Ashford, in seguito alla sparatoria.
Osservò l’ambiente sterile e moderno, illuminato dalla luce artificiale; quella stanza strana circolare dall’apparenza ultra scientifica.
Poi quella striscia di sangue che ancora imbrattava parte della parete, che le ricordò i timori che provò quando la vide la prima volta.
Adesso quella scia si era seccata, restava tuttavia la paura di sapere perché vi fosse e cosa avrebbe trovato dall’altra parte dell’uscio.
La scia di sangue infatti si interrompeva a ridosso di una grande porta apribile elettronicamente; Claire era sicura che fosse lì che Alexia volesse guidarla.
Ricercò il suo sguardo che non tardò a essere ricambiato con amara scaltrezza.
Con una violenza e insensibilità inaudita, l’elegante Regina avanzò verso di essa, la quale si aprì automaticamente al suo passaggio, mostrando un laboratorio colmo di ricercati macchinari dalla funzionalità sconosciuta; oltre che schermi, computer, capsule e apparecchiature sofisticate.
La luce proveniente dall’interno la abbagliò per un istante, costringendola a stringere gli occhi, eppure la sua vista individuò immediatamente la temuta immagine che sperava di non vedere.
Le sue pupille si strinsero, le iridi si dilatarono mostrando il loro intenso color azzurro, trasmettendo l’incredulità e lo sgomento che stava provando e che lì per lì si rifiutò di credere reale.
Non voleva crederci, non poteva concepire quel mondo già così lugubre e indifferente, dare un finale così ulteriormente ingiusto a quella crudele storia.
Era…terribile… indegno. Non era possibile.
Sul fondo della stanza si ergeva infatti un’enorme capsula centrale, dentro la quale v’era un uomo a lei familiare.
Aveva conosciuto prima la sua follia, la sua crudeltà, la sua perversione…i gesti inumani e brutali che avevano appagato la sua sete di male e distruzione.
Poi aveva appreso il suo dolore, le sue frustrazioni, la grande solitudine di cui era avvolto, l’abbandono che nel corso della sua vita l’aveva gettato in pasto al buio più profondo. L’amore che stava proteggendo e che l’aveva consumato fino alla follia.
L’uomo lì dentro era Alfred Ashford.
 
 
 
***










 
 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 24
*** La Regina: capitolo 03 ***


Capitolo 24
 
 
 
 
La Regina: capitolo 03
 
 
 
 
 
 
“I giochi di magia son terminati.
Come t'avevo detto, quegli attori
erano solo spiriti dell'aria,
ed in aria si son tutti dissolti,
in un'aria sottile ed impalpabile.
E come questa rappresentazione
- un edificio senza fondamenta -
così l'immenso globo della terra,
con le sue torri ammantate di nubi,
le sue ricche magioni, i sacri templi
e tutto quello che vi si contiene
è destinato al suo dissolvimento;
e al pari di quell'incorporea scena
che abbiam visto dissolversi poc'anzi,
non lascerà di sé nessuna traccia.
Siamo fatti anche noi della materia
di cui son fatti i sogni;
e nello spazio e nel tempo d'un sogno
è racchiusa la nostra breve vita”
 
( The Tempest- scena I, atto IV - William Shakespeare)
 
 
 
 
 
 
Un soffio lieve che porta via tutto...brutale e implacabile nella sua leggiadria.
Un freddo secco che si insidia tra le ossa, in una nube eterea che nel suo grembo abbraccia le paure celandole nella foschia pallida e densa, mascherando nel tetro bianco quelle risposte che forse consapevolmente intendiamo camuffare al fine di rendere più sopportabile il fardello che pesa sulla nostra coscienza.
Cosa sia più ponderoso è totalmente indifferente, se i meri fatti o gli animi straziati; è tutto un susseguirsi di emozioni e tormenti che si intrecciano nei ricordi ancora freschi, nitidi e ben impressi nella propria mente; la quale si strugge e non fa che cercare di riafferrare quel filo ormai completamente fuggito via dalle sue dita.
Quell’oggi diventa ieri, e quel ieri resta intrappolato nell’eternità; nell’inevitabile e impossibile raggiro della giostra della vita. Nelle sue ingannevoli gioie e nei suoi indimenticabili dolori.
Il bianco gelido di uno schermo vuoto ove non v’è più nessuno. Un bianco non di purezza, ma di solitudine completa. Un silenzio più spaventoso della pece più nera.
Quel pallore la perseguitava, la faceva stare male.
Era forse riuscita a sopravvivere più nelle tetre e anguste vie del male, che in quella calma piatta radiosa; questo perché fra quelle strade buie v’era in qualche modo un sentiero che conduceva al bene, sebbene macchiato dal sangue della violenza; era tuttavia un sentiero che aveva intravisto da lontano e aveva lottato per raggiungerlo con tutte le sue forze.
Alla fine, quando vi era arrivata, era tutto sparito.
 
“Alfred…”
 
Ricordi cosa dicevi, Alfred?
 
Bisbigliò la giovane ragazza dai capelli fulvi, allungando le dita verso di lui.
Il suo viso allungato era calmo, i capelli chiari fluttuavano leggiadri, le sue labbra sottili erano delicatamente rivolte a lei con un tenue sorriso.
Egli dischiuse le sue palpebre e le rivolse i suoi occhi, di un celeste cristallino ed etereo.
 
Ricordi le tue battaglie nelle tenebre, ove come cavaliere impavido hai affrontato la tua sorte, tra le rovinose vie di un castello affogato nell’ira e nella menzogna?
Eppure non hai mai abbandonato il tuo posto. Sei sempre rimasto sul tuo trono di morte, solitario e nefasto, sedendovi con costante orgoglio, facendoti del male a furia di marcare quella crudele posizione.
Nonostante quella battaglia avesse rovinosamente dannato la tua esistenza.
 
“Claire, sei venuta per me?”
 
Non ho mai visto alcuno accogliere il mio sguardo e scavare nella mia mente alla ricerca di qualcosa che nemmeno io credevo di possedere.
Nessun essere umano ha mai dimostrato una capacità tale, condannandomi a una vita triste e abbandonata. Facendomi crescere con la convinzione che non potesse esistere altro per me, se non quell’eterna felicità che avevo conosciuto da bambino e che avevo il dovere di proteggere.
Era il mio solo scopo. Il mio solo destino. L’unico che conoscevo.
Ho lottato da solo, nel buio, nel macabro teatro che il mio ingegno ha partorito, sopperendo nostalgie lontane che nessuno avrebbe mai colmato.
In qualche modo, c’eri anche tu in questo quadro, gettato nella polvere e dimenticato da tutti.
 
Le lacrime inondarono in un attimo gli occhi della Redfield, la quale si sforzò di non crollare amaramente nell’angoscia insostenibile di quel tragico momento.
 
“Non doveva finire così…” strinse i denti con voce tremante, in contrasto con la quiete e il silenzio che regnava attorno a loro due.
Alfred inclinò appena la testa, comunicando nella ragazza un’insolita pace che però non riusciva a calmare il suo spirito invece ferito da un destino che non poteva accettare.
 
“Non struggerti; era una storia che non potevi cambiare…non hai mai potuto farlo, mia delicata e fragile Redfield.
Non penarti nel cercare delle risposte; il fato è cieco, oppure uno stratega avido e diabolico, che ha redatto accuratamente la malinconica morale della vita dell’ingenuo Re e della crudele Regina. In verità, ha solo tracciato le sue linee più coerenti decretando un destino complesso da cambiare. Fra i percorsi più tortuosi e le scelte più temute che si sono parate dinanzi questo cammino, è proprio qui dove avrei sempre dovuto essere.
Il posto dove la mia mente è stata intrappolata per sempre, quindici anni fa or sono.”
 
Il luogo dove lasciai che la mia amata si addormentasse, promettendole di rimanerle accanto, ora e sempre.
 
Incontrando gli occhi amareggiati e contrariati di Claire, l’uomo scosse la testa, evidenziando quell’inevitabile destino.
 
“Sono dove avrei sempre dovuto essere.  Non ho mai smesso di soffrire da quando siamo stati separati, non ho smesso un attimo di prepararmi ad accogliere la dea che una volta pronta sarebbe tornata da me. Il mio cuore è rimasto congelato in questa capsula per la criostasi assieme a lei, sigillato accanto al suo.”
 
La ragazza abbassò il viso, corrucciò la fronte e trattenne le lacrime con tutte le sue forze.
Era difficile per lei accettare quel momento; alla luce delle controverse vicissitudini che avevano arricchito quella storia, non poteva accettare quel finale.
Lei era probabilmente l’unica persona al mondo ad aver raccolto la testimonianza della reale vita di Alfred Ashford, i suoi veri tormenti, i suoi veri desideri; e anche il suo odio…la sua emarginazione… e il suo desiderio di conoscere l’amore…
Aveva conosciuto un Alfred al di fuori di Alexia, al di fuori degli Ashford e dell’Umbrella.
 
“E’ solo una scusa, Alfred. Sai bene che non è tutta la verità. Io non…”
 
Inspirò; l’inquietudine torturava il suo spirito mentre vedeva sfumare davanti ai suoi occhi quello per cui stava lottando. Si specchiò nei suoi occhi vitrei e limpidi, ammettendo quello che davvero la struggeva internamente; quel che straziava il suo cuore ricolmo di speranze, eppure crudelmente ferito, esattamente come lui.
 
“ Io non sono più in grado di lasciarti qui.”
 
Disse e avanzò verso di lui, poggiando le dita sul vetro. L’Ashford aveva a sua volta lo sguardo fisso su di lei, sereno ed etereo, eppure estremamente distante, ormai irraggiungibile.
 
“Esci da qui, per favore. Vieni via con me. Esci, esci..!”
 
Mentre pronunciava quelle parole, si rese conto da sola dell’assurdità della sua supplica.
Lui era…
 
Non sarebbe più uscito da lì dentro.
 
Eppure…eppure continuò ancora a implorarlo, sperando irrazionalmente che davvero potesse ancora scappare con lei.
Il bianco opprimente che li avvolgeva si fece sempre più forte e accecante, soffocando quell’idillio struggente che aveva fatto incontrare i contraddistinti destini di due persone tanto lontane.
 
“Cosa succederà ora? Cosa posso fare? Non te ne andare…”
 
“Claire.” sussurrò lui. “Io me ne sono già andato…”
 
 
 
 
 
 
 
“…. Tutto questo… non è mai accaduto…
 
…e non accadrà più.
 
E non potevi evitarlo….”
 
 
 
 
 
 
Il bianco sparì.
Quello spazio si offuscò e Claire si ritrovò fra le fredde mura del laboratorio in Antartide.
Batté le palpebre e ritrovò oltre il vetro il volto freddo e marmoreo di Alfred Ashford, con gli occhi serrati, il viso inespressivo, conservato nella cella di ibernazione.
La nuda e cruda realtà materializzata davanti ai suoi occhi.
Osservò l’altolocato ex – comandante della base di addestramento di Rockfort immerso nel liquido biologico oltre quel vetro. I suoi capelli pallidi ondeggiavano sul suo viso disteso e bianco. Il suo corpo scavato era segnato da una serie di lividi e ferite all’altezza del petto.
L’agghiacciante pallore mortale aveva freddato in un istante quella figura pervasa di vita ed emozioni.
Adesso era inanimato, freddo, indecifrabile. Non era più possibile vedere i suoi occhi.
Non era più possibile lottare con il suo spirito infervorato, ricolmo di ambigui e controversi desideri.
Egli sembrava una statua marmorea e perfetta; esamine e impenetrabile.
Non c’era più nulla, nulla. L’uomo devastato da quei dolori, ammaliato dai suoi amori e dotato di immensa cultura e ingegno, sebbene folle e squilibrato, era…era scomparso. Non c’era.
Oltre quel vetro v’era solo il suo involucro di carne, bellissimo e senza vita.
Immagini impossibili da accettare nella propria mente ancora nel più profondo subbuglio di quel destino travagliato, eppure le imperscrutabili lancette del tempo scorrevano in avanti, senza rimorso, senza aspettare; era tutto già concretizzato proprio davanti ai suoi occhi. Per quanto potesse scuotere il capo, per quanto potesse sperare che non stesse accadendo davvero.
Era tutto già successo.
Claire si accasciò a terra, perdendo improvvisamente tutte le sue forze, piombando pesantemente sulle ginocchia, incapace di sostenersi.
Dietro di lei, il tenue rintocco dei tacchi che calpestano il pavimento risuonò nell’ambiente, accentuando quell’insostenibile e devastante silenzio.
 
“Amor omnia vincit.”
 
Recitò Alexia con la voce bassa. Il suo sguardo era fisso dinanzi a sé, puntato verso colui che più amava al mondo, e che era morto per lei.
 
“Et nos cedamus amori.”
 
In seguito guardò Claire coi suoi profondi occhi di ghiaccio.
La Redfield ricambiò, tremando, non riuscendo a trattenere le lacrime di fronte quel nefasto e crudele destino.
In seguito si chiuse in silenzio, restando accanto a lui sul gelido marmo sterile della pavimentazione.
Alexia lentamente le diede le spalle. Solennemente, scivolò sul pavimento come un fantasma, abbandonando Claire sola e disperata.
Nel completo silenzio sparì oltre la porta e chiuse a chiave la stanza, lasciando che quella donna si rendesse conto del male che l’aveva colpita al suo risveglio…..e che presto avrebbe trafitto anche lei.
 
 
 
[...]
 
 
 
 
Brucia…Brucia la mia anima…
Brucia il mio cuore…
 
Avvolgi nell’inferno ogni cosa riesci a trovare.
 
Non ci sono che fiamme in questa landa desolata.
Non c’è che fuoco che arde nel mio petto.
 
…e sia….
….e sia così….
brucia…brucia ogni cosa….riduci in cenere quel poco che è rimasto di me stessa.
 
La “cattiva Regina”  aveva alzato il suo scettro incandescente e come unica mossa possedeva il fuoco.
Elemento implacabile e crudele che nessuno poteva fermare; non più.
Non vedeva che questo.
I suoi occhi avvampano, quel che la circondava  si stava cremando. Questo era il potere per il quale aveva immolato ogni cosa.
Colei che era conosciuta come La Regina, unica e impareggiabile, si fermò silente ad osservare i polpastrelli delle sue dita, avvolti dalla morbida seta dei candidi guanti. Roteò lentamente il polso, osservando con ossessione il movimento della sua mano, mentre un calore immenso ardeva dentro il suo corpo.
Era potere…o rabbia?
Una piccola fiamma si accese dalle sue dita, luminosa e bellissima, perfettamente controllata dalla sua volontà. Scottava appena le sue mani, in una brace tuttavia piacevole sebbene dolorosa.
Vide i suoi guanti annerirsi e la sua pelle raggrinzirsi sotto il tessuto, ma non spense quel fuoco. Lasciò che ardesse e accompagnasse i suoi tetri pensieri.
Abissi irraggiungibili e inconsolabili, ove aveva deciso di abitare solitaria, senza desiderare alcuna comprensione; qualsiasi altro essere umano sarebbe stato un insulto, una spina spregevole, miserabile.
Nessuno l’avrebbe mai capita, nessuno sarebbe mai stato come lei.
Alexia Ashford, il temuto genio della famiglia, lo aveva sempre saputo. Da quando era nata. Nessuno avrebbe mai potuto capire il suo mondo.
Eppure adesso era lì, a bruciare esattamente come tutti.
Ognuno lotta e sprofonda ogni giorno nei suoi dolori, nei suoi tormenti, nei suoi rimpianti.
L’uomo non è capace di decretare il suo destino, sa solo prendere decisioni errate e poi pentirsi, finendo in quel baratro che è la vita, che ogni giorno non fa che ricordarci quanto insulsa sia la nostra esistenza.
Eppure il dono della vita ci è dato e in qualche modo è un dovere proteggerlo.
Non importa quale sia la nostra vita, è nostro compito continuare a esplorare questi abissi incontrollabili, è la nostra missione nel mondo, anche se non ne comprendiamo il perché.
Il suo cuore era inquieto, non si era mai sentito così; nemmeno quando aveva scoperto di non essere umana. Stavolta era un turbamento diverso.
Provava freddo, le sue mani tremavano impercettibilmente, la sua fiamma non era completamente sotto il suo controllo come credeva.
La Regina…stava cadendo.
Questo perché mai le era successo di sentirsi così, come ogni spregevole essere umano di quel maledetto e sporco pianeta.
Non faceva che vedere nella sua mente quelle domande senza risposta, quel senso di impotenza, di oppressione…
L’indecifrabilità della vita, a cui lei come Regina Risorta voleva porre rimedio.
In quel momento era invece esattamente come tutti.
La sua vita, come la conosceva, era insulsa e ricca di sbagli sconclusionati come chiunque altro.
Cosa significava quindi tutto questo? Chi era davvero?
Una orribile e nefasta creazione che aveva soltanto causato dolore e morte?
Un essere ripugnante che non aveva fatto che degenerare nel suo odio fino a far marcire tutto e tutti?
Tremava, aveva paura, provava rabbia.
Alfred…Lei…lo aveva lasciato solo.
Lo aveva abbandonato. Esattamente come tutti avevano abbandonato loro.
Per questo era cattiva. Per questo non era la Regina.
Non meritava il suo amore, non era degna del suo sacrificio, non doveva essere l’ultima persona a essersi specchiata nei suoi occhi.
Lui era morto per una sciocca, insignificante, crudele ed egoista Regina.
Lei era…cattiva. Una spietata ed disumana sorella.
Al contrario, Alfred avrebbe dovuto odiarla. Odiarla con tutto se stesso.
Perché….perchè era finita in quel modo?
Le lacrime non erano più capaci di scivolare sul viso di Alexia, al contrario del fuoco che le ardeva dentro, il quale le urlava di essere liberato.
Come una belva famelica, voleva che le sue catene si sciogliessero e che potesse devastare quel mondo che non aveva fatto che ferirla. Compresa se stessa.
Lei stessa faceva parte di quel mosaico crudele ed era ironicamente persino uno dei più crudeli tasselli.
Lei stessa meritava di ardere insieme a quell’orrendo maleficio che fin dalla sua nascita aveva distrutto la sua vita.
Lei stessa era compresa in quel fuoco che avrebbe bruciato per sempre.
Alzò lo sguardo, il quale si perse ad esaminare la sua calda camera da letto in ogni suo dettaglio.
I candelieri dorati, il mobile intagliato, il bassorilievo in pietra, il suo carillon pregiato, la specchiera, il letto a baldacchino rivestito di seta.
Era tutto così crudelmente insignificante.
Soffiò sulla sua mano e una scheggia di fuoco andò a posarsi sul tappeto vermiglio, il quale prese lentamente a scoppiettare fra i lembi, sciogliendo il tessuto che lo componeva.
Alexia allungò le dita e comandò al fuoco di cadere su ognuna delle bambole, riposte accuratamente nella teca di vetro, spolverata e sistemata ogni giorno.
Le loro vesti si incendiarono e una dopo l’altra esse caddero nel fuoco, divenendo ben presto vittime di un ricordo che ormai era stato corrotto per sempre.
Con un gesto simile sfiorò le tende del baldacchino su cui era seduta, che si trasformò in una carrozza di fuoco; indicò lo specchio di fronte a sé, il quale riflesse un’ultima volta i suoi occhi ricolmi di rabbia prima di annerirsi e non riprodurre mai più nulla. Si alzò dal letto e cominciò a volteggiare, lasciando che la sua stanza bruciasse, bruciasse del tutto…
Ora che non vi era più niente… Ora che non c’era più nessuno nel suo cuore.
Ora che tutto bruciava…
Bruciava…
Bruciava orribilmente…
 
Tutto venne avvolto dalle fiamme fino a ridursi in cenere.
Quel che era stato il tempio dei due gemelli, conoscitore di misteri e segreti gelosamente custoditi, la vita di due anime fortemente legate, adesso era soltanto un ardente rogo funesto, nel quale Alexia, la signora di quel fuoco, aveva inglobato ogni cosa.
Non esisteva più nulla. Solo la sua vendetta.
Era ora che il suo dolore si espandesse, come una piaga, che colpisse e crucciasse ogni essere umano; che divenisse universale ed eterno.
Era ora…che il male giungesse sulla terra, come aveva promesso.
 
 
 
 
[...]
 
 
 
 
A un cuore in pezzi nessuno si avvicini senza l’alto privilegio di avere sofferto altrettanto…
 
 
Claire alzò il viso, arrossato e inumidito dalle sue lacrime.
Sentì lo schioccare di una porta; come se un lucchetto fosse stato sbloccato.
 
 
 
Non commetta questo errore.
E’ nella natura umana tentare di simulare i sentimenti, la sofferenza, percepire empaticamente il dolore e patirne le pene anche senza esserne mai stato davvero scottato.
 
 
Aveva ormai perso la cognizione del tempo. Solo in quell’istante, fermandosi da quella disperazione, si accorse di non avere la minima idea di quanto tempo avesse passato chiusa in quella stanza.
La testa pulsava, gli occhi bruciavano, il suo petto era dolorante dopo aver singhiozzato tanto.
 
 
E’ necessario toccare il fuoco per sapere che brucia?
 
Posò una mano a terra e si sforzò di rimettersi in piedi.
Stropicciò gli occhi e fece qualche passo verso il centro del laboratorio.
Si fermò ancora qualche istante per guardarsi attorno. Faceva freddo; era tutto così silenzioso…fermo…solenne.
Si voltò verso Alfred, ancora immobile, senza alcun segno di mutamento sul suo corpo pallido e rigido.
Un tacito “mi dispiace” fu sibilato dalla sua bocca violacea e secca.
Non uscirono suoni o parole, se non un impercettibile sussurro che non riuscì a rivolgergli con un briciolo di fermezza, tenuto a freno da quell’insostenibile incapacità di accettare la realtà come era palesata davanti ai suoi occhi; internamente delusa e arrabbiata con se stessa nel non essere riuscita a fargli conoscere cos’era davvero l’amore, a portarlo via da quella gabbia infernale che invece come aveva detto lui era diventata la sua tomba…l’unica vita che conosceva e che gli era possibile.
Claire voleva vincere; voleva arrivare alla fine di quella battaglia.
Non aveva mai pensato veramente alla possibilità di non riuscirci. Mai.
Di fronte l’immagine di quel corpo ghiacciato, si rese conto di non aver mai davvero pensato di lasciare il folle e fanatico castellano, padrone della base di Rockfort e dell’Antartide, nel limbo in cui aveva scavato la sua fossa.
Sbatté le palpebre, stavolta trattenendo i suoi occhi inumiditi. Le sue mani erano congelate, il suo addome esposto al vento aveva i pori sollevati dal freddo.
Si soffermò sul suo volto adesso disteso un’ultima volta, giurando ormai soltanto a se stessa quella promessa, appellandosi inutilmente a quella cieca speranza che se avesse ancora potuto fare qualcosa per lui…l’avrebbe fatta.
Anche se era morto, non lo avrebbe abbandonato. La sua non sarebbe stata una bieca morte ingiusta decisa da un destino indifferente e crudele.
 
 
L’uomo ha l’arroganza di sapere tutto; pensa di sapere cosa sia….il dolore.
Il dolore provato sulla propria carne, quel taglio deturpante che rovina per sempre la tua esistenza, quel momento di prova della vita che in un attimo può cambiare e distruggere tutto.
No, nessuno può avere davvero idea di cosa sia tale sofferenza.
Solo chi patisce può comprendere, il resto è arroganza; pura e schifosa insolenza.
 
 
Claire probabilmente ancora non aveva compreso contro chi stesse combattendo. Presto la vendetta della Regina si sarebbe manifestata davanti a lei.
Un’arena dove non esisteva la giustizia…né la redenzione…né la speranza…né nulla.
 
Esisteva solo il Fuoco.
Il fuoco del dolore.
 
Un dolore…che Claire doveva conoscere…
Su se stessa…
Sulla sua pelle…
 
Allo stesso modo…
 
Celata nell’oscurità, Alexia osservò la rossa procedere verso l’uscita che le aveva sbloccato. La sua bocca era seria, serrata in un’espressione impassibile e tetra.
Le dita erano distese sulla sua morbida poltrona di velluto. Il suo corpo era rilassato e privo di emozioni. Era soltanto lì, ferma, ad attendere il suo spettacolo.
 
Un corridoio sinistro e buio. Zombie che si dimenano famelici attraverso il ferro di celle chiuse da mesi e mesi. Claire era in una…prigione?
 
Una scena troppo triste per essere raccontata…
Troppo crudele per descriverla…
Basti una frase, un’unica e fredda frase, proferita da Colei che bramava quella vendetta…
 
…A un cuore in pezzi nessuno si avvicini senza l’alto privilegio di avere sofferto altrettanto…
 
Altrettanto.
Nello stesso modo.
Letteralmente.
 
“E’ giunta l’ora, cari fratelli geneticamente inferiori.” La voce di Alexia Ashford risuonò dal nulla espandendosi nella fredda e angosciante cella abbandonata.
 
In fondo a quell’angusto ambiente, buio e abbandonato, Claire Redfield trovò dinanzi a sé Steve, del tutto spaesata di vederlo; il suo sguardo si raggelò, impaurita dal perché lui fosse lì.
In seguito notò la falce che lo bloccava all’altezza del collo, conficcata alle sue spalle, le cinghie che lo tenevano ancorato al muro logoro, le catene arrugginite che bloccavano il suo corpo.
Non voleva crederci, non voleva nemmeno pensarci, ma internamente conosceva cosa sarebbe accaduto. Solo non poteva accettare ancora una volta…
 
…che una tragica fine…
 
…quel crudele destino…
 
…aveva intenzione di colpire ancora…
 
…e ancora…
 
…e…ancora…
 
“Oh mio Dio, Steve?!” lo chiamò tremante, avvicinandosi a lui e forzando veemente sulle giunture sperando di manometterle.
Le dita facevano male, ma nonostante tutto continuò a tirare e a pressare; sembrava tuttavia del tutto inutile. Amaramente inutile.
 
“Claire..?” sussurrò lui affannato, costretto dall’asta della colossale falce tagliente che obbligava il suo collo in una posizione contorta. La Redfield digrignò i denti non riuscendo in nessun modo a muovere; era inutile! Inutile!!
 
“No, non posso!” dichiarò distrutta, col cuore in palpitazione, angustiata da quell’orribile sensazione che non l’abbandonava. “Chi ti ha ridotto così?”
 
Il ragazzo, dal suo canto, era dolorante e disorientato. Gli girava vorticosamente la testa ed era come se non riuscisse a rendersi del tutto conto della situazione.
Vedeva tutto confuso, uno strano bruciore era insidiato nel suo petto, come se stesse lottando contro qualcosa.
Faceva male, ma sembrava ancora riuscire a tenerlo a bada.
Corrucciò la fronte e cercò di focalizzarsi sul viso di Claire, non riuscendo tuttavia a metterla a fuoco. La sua vista era appannata. Stava cominciando a sudare freddo. Si sentiva stanco…decisamente…stanco…
 
“Quella folle aveva intenzione di ripetere su di me l’esperimento che ha effettuato su suo padre…è completamente fuori di sé…” spiegò forzandosi di parlare, mentre la giovane tentava ancora invano di liberarlo.
Ella cercò di ignorare le sue parole, di far finta di non saperne il significato.
 
Padre…
Sciocco, insignificante…
Crudele…egoista…
GLIELA FARò PAGARE!
 
Nosferatu…
La rossa strinse gli occhi, scacciando dalla mente i ricordi circa Alfred e le dichiarazioni sulla sua perversa famiglia.
Non avrebbe mai accettato che quel destino si sarebbe compiuto. Non così repentinamente dalla perdita anche di Alfred! No! Non avrebbe abbandonato anche Steve!
 
Tuttavia la vendetta era già stata compiuta.
 
 
 
Steve si contorse…
 
 
 
Nessuno avrebbe fermato la Regina dal dare sfogo alla sua ira.
 
 
 
Il sangue schizzò dalla sua bocca e dalle sue orbite, che si fecero bianche…vuote…
 
 
 
La Regina aveva deciso la condanna.
 
 
 
Il suo corpo cedette, cadendo privo di sensi.
In seguito riprese forze e inarrestabile si trasformò in qualcosa che Steve non sarebbe mai stato.
Lui che non avrebbe mai fatto del male a Claire, che desiderava ardentemente proteggerla e portarla via da quell’incubo.
Lui che aveva riacquistato la vita grazie a lei e alla sua forza.
Adesso brandiva una falce, col desiderio incontrollabile di distruggerla.
La vedeva fuggire, scappare dalla paura…e lui bramava…bramava di tagliarla a pezzi.
Di vedere il sangue fuoriuscire dalle sue viscere.
E poi di cibarsi…della sua fresca carne.
Lui…non era più Steve.
 
 
 
Aveva stabilito la sua sorte.           
L’aveva sentenziata dal primo momento in cui aveva riaperto gli occhi e aveva riconosciuto i suoi nemici.
 
 
 
Steve però la amava troppo.
 
 
 
La Somma sapeva che lui ama profondamente quella donna.
Se ne era accorta.
 
 
 
Steve la amava e nel momento cruciale riuscì a ribellarsi e a puntare la sua falce contro se stesso.
 
 
 
Per amore, lui l’avrebbe protetta…e sarebbe…
 
 
 
Tagliò in due i tentacoli del Baccello che lo controllavano, i quali lo liberarono e lo colpirono, prima di scappare doloranti dalla loro padrona.
Intanto egli cadde a terra, riacquistando le sue sembianze umane.
Freddo, pallido, sporco di sangue…
Ai piedi della sua amata.
 
 
 
…morto…
 
 
 
Claire si apprestò accanto a lui, disperata. Ansimava ancora in balia della paura e dell’adrenalina; tremava senza riuscire a controllarsi.
Questo mentre Steve si faceva sempre più lontano e col sorriso sulle labbra lasciò che il suo volto fosse il riflesso del suo ultimo sguardo.
 
 
 
 
…tra le sue braccia.
 
 
 
  
 
 
 
[...]
 
 
 


 
Alexia Ashford restò silente a osservare il finale di quell’Atto, su cui era calato il suo sipario scarlatto.
 
Il suo sguardo era vuoto.
 
Non provava né gioia, né dolore. Né gloria, né appagamento, né sconfitta.
Non provava nulla.
 
Socchiuse gli occhi.
 
Ora che Claire Redfield conosceva il suo dolore… avrebbe potuto rivolgersi a lei.
 
 Ora che il suo cuore era a pezzi…. avrebbe avuto quel privilegio.
 
 




 
***
 
 



 
 
 


 

Ritorna all'indice


Capitolo 25
*** La Regina: capitolo 04 ***


 
 
Capitolo 25
 
 
La Regina: capitolo 04
 
 
 
 
 
 
 
Let me live, Oh yeah…
 
Why don't you take another little piece of my heart…
Why don't you take it and break it…
 
 
 
So let me live…
Let me live…
Let me live, oh baby…
 
(“Let Me Live” – Queen)
 
 
 
 
 
… Lasciami Vivere…
Lascia che io viva.
 
Quelle parole erano sempre state impresse nella sua mente.
Erano state un po’ la colonna sonora della sua vita negli ultimi tempi.
Le avevano dato forza, motivazione, vi aveva letto molto di se stessa e delle prove spesso insormontabili che avevano accompagnato la sua esistenza.
Prese a ricordarle proprio in quel momento, evocando quelle note che avevano tanto significato per lei.
Tuttavia…
Il vuoto.
Dove si trovava era buio; v’era solo la solitudine più completa e la morte.
Sibili e mugugni di dolore provenienti dalle prigioni adiacenti penetravano fra le fredde mura della cella ove era rinchiusa solitaria, abbracciata al corpo bianco e immobile dell’unico essere umano che potesse ricordarle ancora il calore e l’animo che tanto aveva cercato di rinvigorire nel prossimo.
Paradossale che invece quel corpo altro non fosse che la cruda rappresentazione della…morte. Era un cadavere.
Una cadavere come quelli delle altre celle. Un cadavere come i tanti amici già persi. Un cadavere come la sua famiglia. Un cadavere come tutte le persone già andate. Un cadavere…come l’amore perduto e riperduto per sempre.
Non riuscì ad alzare lo sguardo verso il suo viso. Non riusciva a guardare i suoi occhi ormai bianchi e vuoti.
Non riuscì però nemmeno a staccarsi la lui. Continuava ad abbracciarlo, posata sul suo petto che non si gonfiava per emettere alcun respiro.
I suoi occhi erano fissi sul vuoto; erano come un frammento ceruleo di vetro rotto, che non riusciva più a riflettere la sua realtà.
In quel contesto, desolato e morto, le parole di quella canzone le sembravano solo…solo crudeli. Crudeli e senza cuore.
Questo perché Claire era davvero l’unica ad essere sopravvissuta. Era l’unica persona in vita in mezzo alla morte.
Era tutto in silenzio, tutto vuoto, non c’era nessuno…soltanto se stessa.
Quella tragedia aveva portato via tutto.
Aveva perso la sua libertà in quelle segreta.
Aveva lottato duramente per la sua vita fino all’ultimo; ciononostante era ancora prigioniera.
Aveva perso la sua motivazione.
La forza che invece l’aveva fatta voltare in una direzione diversa, quella che l’aveva fatta approcciare a un mondo nefasto e crudele facendola penetrare negli oscuri antri di una psiche che sembrava del tutto deviata e diversa dalla sua: il mondo di Alfred Ashford, il più complesso e folle uomo avesse mai incontrato nella sua vita.
Eppure, nonostante una piccola luce avesse cominciato a penetrare dentro l’animo in conflitto di entrambi, essa si era spenta mostrandole ancora una volta un sipario insanguinato, duro e privo di pietà e lieti fini.
Non v’era posto per la felicità, era un sogno che il destino aveva deciso di chiudere a lei e a quell’uomo, fino all’ultimo.
Aveva perso la speranza.
Si era alleata con l’unico ragazzo rimasto sano in quel manicomio mortale. I due condivisero quell’inferno e fuggirono assieme, ritrovandosi nel dolore della perdita dei loro cari.
Come Claire, anche Steve aveva perso tutto e desiderava soltanto tornare a vivere…come chiunque.
Dopo essere sopravvissuti al fuoco e aver patito la distruzione più totale, quel che aveva ritrovato era stato ancora una volta quel patibolo incurante delle sofferenze e della giustizia: era un patibolo che reclamava soltanto dolore…sangue e dolore…
 
Aveva perso…tutto…
 
Anche Alexia, l’amore eterno, bramata e protetta fino alla morte dal coraggioso principe oscuro che aveva conosciuto.
Lei odiava tutto e tutti; bramava soltanto morte e vendetta. Non poteva fare niente nemmeno per lei.
 
Infine…nemmeno lui c’era.
Nemmeno lui era venuto.
Nemmeno sapeva se fosse vivo.
 
“Chris…” sussurrò debolmente.
 
Anche suo fratello Chris era presente in quell’elenco di fallimenti che avevano oramai schiacciato la determinazione con la quale si era sempre alzata in piedi.
Era tutto iniziato perché cercava notizie su di lui, già molti mesi prima…e ad oggi ancora non sapeva nulla, nulla e nulla di dove fosse.
 
Nel silenzio di quella tomba dimenticata da Dio, il suo corpo prese a tremare.
Quel che pronunciò dopo, avrebbe corrisposto alla verità più bieca, alla sopraffazione più cupa e all’insofferenza ormai inconsolabile che aveva fatto sprofondare nella pece tutte le sue energie.
 
“Basta…” asserì.
 
Il silenzio si fece tombale.
 
“Non ce la faccio più.”
 
Strinse i denti, mentre la bile corrodeva il suo stomaco, gettando la sua anima fra le fauci crudeli della disperazione più nera.
Strinse i denti non sopportando più quel dolore.
Strinse i denti non facendocela più a perdere.
Strinse i denti non potendo più sopportare oltre.
Basta.
 
“Perdonami, Chris….io…io voglio solo morire…!”
 
Non voglio più vivere…
Basta…basta così….
 
Sfilò la sua giacca rossa in un attimo di impulso e osservò con rabbia quella valchiria alata con la forza di una guerriera pronta a lottare per la sua libertà.
La stropicciò infuriata, stanca di vedere cadere tutto nel crudele baratro della perdita. Stanca di essere sempre lì a piangere i suoi cari persi; stanca di vedere quanto ancora la vita avesse da toglierle, e toglierle, e toglierle ancora!
Basta!
Si posò di nuovo sul corpo ormai spento di Steve e i suoi occhi si focalizzarono sulla falce incastrata nel freddo pavimento che pochi momenti prima le aveva quasi trafitto il collo.
La sua immagine si riflesse in quella ruggine, mostrandole la figura di una guerriera ormai privata delle sue ali.
Non sapeva più chi era; quel che vedeva non era se stessa.
Era finita…forse era finita fin dall’inizio…
Forse non ce l’aveva mai fatta…
Era stata tutta un’illusione…
Una bieca e falsa speranza mai esistita.
 
 
 
 
 
 
 
“Per arrivare all’alba
non c’è altra via che la notte…”
( Khalil Gibran)
 
 
 
 
[...]
 
 
 
 
 
L’aria fredda e rarefatta dell’Antartide.
Landa desolata e immensa, abbracciata soltanto dal bianco manto solitario della neve; incantevole e agghiacciante.
La linea bianca dell’orizzonte si separava a stento dal cielo pallido e catarifrangente. Perdersi in tale immensità avrebbe significato cercare in modo evanescente una via di fuga in quello scenario incalcolabile, dove il panorama altro non sembrava che uno sfondo infinito e vuoto.
Il vento soffiava forte, sollevando la neve che sovrastava pesante il terreno per metri e metri, assimilandosi a una bufera.
Muoversi fra quei luoghi oscuri non era ipotizzabile, nemmeno per gli appassionati più esperti.
Eppure v’erano antri assai più temibili di quella mistica e feroce freddezza; celata fra quelle temperature rigide, vigeva una struttura più gelida della stessa neve.
Nefasta non per le invivibili condizioni atmosferiche, ma piuttosto per quel che era nato fra le sue atroci mura.
In quel luogo regnava un gelo diverso…si trattava dell’indifferenza e crudeltà dell’inferno. Un luogo di dolore e scelleratezza funesta, assai peggiore di quanto si possa immaginare.
La cenere cospargeva ancora il suo ingresso, presentando ai suoi ospiti il preludio del fuoco senza vita che dietro le sue porte essi avrebbero trovato.
Dall’altra parte di quell’antro, il vetro di una finestra prese a scricchiolare. Lentamente il rumore si fece sempre più intenso e con un colpo più deciso il suo ingresso fu finalmente spalancato, ed un uomo riuscì finalmente a imbucarsi nella struttura.
“Finalmente” era ovviamente un termine inappropriato, ma non per lui, il quale era a conoscenza del territorio dove si trovasse ed era lì di sua spontanea volontà.
Era un maschio di stazza grande, alto più di un metro e ottanta, completamente celato dall’abbigliamento pesante, adeguato per quelle estreme condizioni.
Indossava un’ingombrante giubbotto nero. I suoi occhi erano coperti da una maschera per la neve, il capo invece era rivestito da un caldo cappello di lana dello stesso colore.
Aveva un passamontagna, uno scalda collo, e sopra la giacca, vestiva un gibernaggio all’avanguardia, che denotava la sua amara conoscenza circa chi abitava quel luogo maledetto da Dio.
Egli allungò un braccio oltre la stretta finestra appena scassinata, portando a sé un borsone.
Riuscì a stento a farlo entrare, stando ben attento a non fare rumore.
In seguito lo montò sulle spalle e scese dall’impalcatura, in modo da inoltrarsi definitivamente dentro.
Si piegò subito in un angolo in quanto l’esperienza gli aveva duramente insegnato quanto i tempi potessero essere stretti anche negli attimi più tranquilli.
Scese la cerniera della borsa e mise a tracolla un mitra. Montò sulla cintura delle bombe a mano, equipaggiandosi sia con tipi esplosivi, che incendiari e accecanti. Controllò il coltello da combattimento e infine portò con sé l’intramontabile pistola 9mm; irrinunciabile jolly anche nelle situazioni più critiche.
Non poteva trasportare oltre, sapeva dove andare ed era quindi consapevole di non doversi appesantire.
Era abituato anche a sopravvivere munito solo di un coltello, dunque dopo aver controllato munizioni ed equipaggiamento, poteva sentirsi abbastanza sicuro dell’arsenale portato con sé.
Nascose dunque il borsone in un luogo sicuro e tornò alla sua missione.
Il respiro era attenuato dal passamontagna, che non lasciava rivelare nulla circa la figura celata dietro quell’armamentario da guerra.
Egli si insinuò in delle tubature, controllando una mappa decisamente contorta, ove erano segnati una serie di vie e cunicoli che l’uomo sembrava aver studiato alla perfezione.
Strisciò a lungo, muovendosi con disinvoltura e preparazione.
Mentre passava, lamenti e gemiti potevano udirsi intorno a lui. Evidentemente, nonostante stesse passando fra le tubature, il suo odore di carne umana era comunque percettibile dagli esseri che albergavano fra quelle mura, così affamate da sentirlo in quel gelo.
L’uomo avanzò, addestrato crudelmente a ignorare tali sibili cannibali e inquietanti. Si fermò soltanto una volta giunto al suo obbiettivo.
Con un cacciavite smontò la grata che lo separava dalla stanza sottostante e, senza fare rumore, si calò dentro. Da lì in poi avrebbe dovuto cavarsela da solo.
Si guardò attorno; la prima cosa che balzò al suo occhio fu la strana polvere nera che sporcava il salone, ridotto inspiegabilmente in macerie. Una sottile foschia ombreggiava quel luogo.
Aprì una mano e dei pezzetti neri si posarono su di essa. Era fuliggine.
Un ormai tenue odore di fumo albergava nell’intera struttura, annerita come se diverse ore prima l’inferno avesse bruciato le sue mura. Qualcosa era successo in quel posto.
La temperatura in quella zona era abbastanza assestata, poté così finalmente alleggerirsi e respirare.
Con l’indice della mano, abbassò la stoffa che lo copriva dall’altezza del naso prendendo una boccata d’aria, anche se quell’odore di fumo non era certamente ciò che sperava; era tuttavia così soffocato dal passamontagna da potersi accontentare.
Rivelò dunque la sua carnagione bianca.
In seguito sfilò gli occhiali spessi, mostrando due occhi azzurri, intesi e penetranti, contornati dalle folte e ribelli sopra ciglia scure. 
Subito dopo si liberò del cappello, sciarpa e dell’intero passamontagna, mostrando definitivamente il suo volto prima del tutto oscurato.
L’uomo dietro tutti quegli strati, era un giovane soldato bianco, sui venticinque anni, dai capelli neri, con lo sguardo fiero, iniettato di forza e fermezza.
Il suo viso era pulito, non mostrava segni di stanchezza nonostante fosse in piedi da tutto il giorno e forse di più.
Egli spettinò con una mano la sua chioma ammaccata dal cappello, la quale era tagliata secondo la tipica lunghezza militare, cresciuta però di circa tre o quattro centimetri in quanto non la ritoccava da molto tempo.
Si sgranchì dunque un attimo prima di inoltrarsi e tornare al suo dovere.
Puntò l’arma in posizione di mira e lentamente avanzò per la stanza, attento a non trascurare il minimo dettaglio.
Si soffermò ad esaminare, ma non v’era nulla di interessante, se non la completa devastazione di quella che un tempo doveva essere una stanza molto distinta.
Lo scricchiolio dei cocci accompagnava il suo procedere, erano frammenti di vasi e ornamenti simili, ormai ridotti quasi in polvere. Le tende erano annerite, così come il divano e il tavolo, oltre che i vari arredi e opere d’arte che un tempo conferivano eleganza e che ora testimoniavano solo la tragedia che si era compiuta.
Il soldato si dimostrò piuttosto interessato all’origine di quell’incendio, che non sembrava essere stato scaturito da alcuna perdita di gas.
Eppure a colpo d’occhio era abbastanza certo che fosse quella la logica natura di quell’incendio. Non v’era però un punto d’origine, era come se all’improvviso fosse scoppiato qualcosa inglobando tutto.
Passando oltre, costatò che anche fuori, nel corridoio, l’intero ambiente era pervaso di nero e fuliggine; ogni antro era stato avvolto dalle nefaste fiamme.
Per via della quantità di fumo ancora presente nell’aria, dedusse che il tutto non doveva essere accaduto molto tempo prima.
Come aveva fatto tuttavia il fuoco a fare danni così ingenti e poi ad estinguersi con altrettanta rapidità?
Era una dinamica che non riusciva a spiegarsi, come se in qualche modo fosse stato calcolato in modo perfetto per distruggere e dissiparsi con grande velocità.
Non era però lì per indagare su nessun incendio.
Doveva proseguire e raccogliere quante più informazioni possibili.
Le sue conoscenze erano ferme al suo punto di arrivo e sapeva bene che quello non era che l’inizio.
Conosceva le strutture dell’Umbrella, e sapeva che se si parlava di loro, molto più di quanto immaginava bolliva in pentola.
Ci aveva fatto il callo e il risentimento e la rabbia avevano definitivamente acceso il suo cuore, alla ricerca di giustizia.
Si bloccò di colpo, udendo un suono appena percettibile. Il gemito soffocato della fame più tormentata, un lamento a lui molto familiare.
Non disponeva di alcuna copertura, così varcò la porta poggiandosi vicino ad essa e scrutando al suo interno con la pistola ben impugnata, prima di darvi un colpo con la spalla e impiantare una pallottola nel cranio di una b.o.w. .
Osservò la divisa militare dell’Umbrella che indossava, deducendo da sé, tramite quel dettaglio, quanto ancora una volta la Compagnia farmaceutica non avesse badato a condannare nemici e alleati senza distinzioni; come suo solito.
Scavalcò il corpo ancora pulsante dello zombie e dovette rendersi conto che l’intera area era occupata da b.o.w., per sua fortuna distanziati gli uni dagli altri in modo tale da non costituire un imminente problema.
Poteva proseguire e far fuori strettamente quelli che lo intralciavano.
Riuscì ad eluderli facilmente, addestrato ad infiltrarsi nel più completo silenzio, risparmiando preziose munizioni.
Più avanzava, più l’aria si faceva sempre più nera e densa. Si stava forse avvicinando alla fonte di un nuovo incendio? Il piromane era dunque ancora da quelle parti?
Protesse naso e bocca con una mano, tenendo l’altra invece dritta dinanzi a sé con la pistola impugnata.
Delle scale si incrociarono sul suo cammino, ormai in stato di grande degrado; poteva però proseguire soltanto in quella direzione se voleva seguire la traccia del fumo.
La poca stabilità del legno ormai incenerito era preoccupante, ma non tanto da fermarlo.
Arrivò dunque in cima e lo sorprese notare che tutte le pareti dell’area sovrastante erano state abbattute.
Si ritrovò così come in una stanza gigantesca, ove v’erano assieme, senza pareti,  sia il corridoio, che il salotto, che la camera da letto…come fosse un immenso loft.
Al centro, fra quelle macerie, v’era una figura femminile dai lunghi capelli biondi posta di spalle.
L’uomo abbassò l’arma e si avvicinò cautamente a quella che poteva essere una probabile superstite. Schiarì la voce e cercò di parlarle con tono rassicurante in modo da non spaventarla.
 
“Signorina, non si spaventi. Il mio nome è Chris Redfield e sono qui per portare soccorso. Non si agiti, ora le vengo vicino.”
 
Il tono calmo e caldo del ragazzo non indusse minimamente la donna a girarsi, nemmeno per vedere il suo interlocutore.
La cosa insospettì Chris, il quale cominciò a temere che purtroppo la giovane fosse stata tristemente infettata.
Tuttavia i suoi timori non trovarono fondamento, questo perché, quando le fu abbastanza vicino, la donna prese parola dando conferma di avere ancora un’intelligenza umana.
 
“Chris Redfield, hai detto?”
 
Il ragazzo si bloccò.
 
“Sì. Mi conosci?”
 
La ragazza continuò a dargli le spalle, senza mai voltarsi. Non diede tuttavia alcuna risposta.
Il soldato decise di affiancarsi a lei, era in un probabile e comprensibile stato di shock ed era suo dovere portare in salvo quanti più sopravvissuti possibili.
Le mise istintivamente una mano sulla spalla per confortarla e, mentre era già pronto a parlarle per dirle qualcosa di gentile, questa si divincolò e una fiamma ardente bruciò la mano di Chris, il quale dovette ritirarla urgentemente prima di farsi male sul serio.
Non ebbe il tempo di concretizzare l’accaduto che la donna era sparita.
Sgranò gli occhi, domandandosi cosa fosse accaduto. Girandosi attorno la vide poi camminare al piano di sotto, sparendo oltre la sua visuale.
 
“Ehi! E’ pericoloso! Torni indietro!”
 
Urlò e corse dietro la fanciulla, che riusciva a sparire dalla sua vista con una velocità assurda, rendendogli davvero difficile starle dietro.
Si approssimò a lei soltanto quando un gruppo di cinque zombie si pararono fra loro, costringendo anche lei a bloccarsi.
Chris posò la pistola e imbracciò il mitra, il quale con una raffica di colpi ben assestati fece cadere a terra i nemici senza alcun spreco eccessivo di munizioni.
Il giovane si approssimò immediatamente alla sfuggente ragazza, pronto a pararsi davanti eventuali armi bio-organiche rimaste in vita.
L’area era però libera, poteva abbassare la guardia al momento. Si girò e, mentre fece già per apri bocca, la biondina era di buono sparita.
 
“Accidenti..! Ma cosa le è preso?”
                                                
Disse a denti stretti, non comprendendo perché le avesse fatto tanta paura.
Provò a guardare nelle vicinanze, ma stavolta era davvero riuscita a far perdere le sue tracce.
Questo voleva dire che avrebbe tenuto gli occhi ben aperti, nella speranza che oltre quella ragazza incontrasse magari altre persone. E…
 
“Claire…”
 
Sussurrò.
Il soldato che in quel momento vagava per la struttura incenerita della villa nascosta nei laboratori dell’Umbrella altri non era che quel Chris, lo stesso cercato e adorato dalla ragazza che aveva conosciuto così profondamente quelle mura.
Egli era inquieto, si sentiva fortemente a disagio in quella situazione.
Combatteva col rimorso e il senso di colpa per aver abbandonato amici, parenti, tutti. Non lasciando notizie per mesi.
Era tuttavia in conflitto con quella parte di sé che invece bramava vendicare quanto gli era accaduto e che non si sarebbe fatto fermare da niente e nessuno.
Cosa pesava di più nel suo cuore? La paura? Il dolore? La rabbia?
Chris era cambiato…ed era cambiato velocemente. Erano stati i cinque mesi più determinanti della sua vita, già piuttosto travagliata di suo.
Era un soldato, aveva visto e digerito cose impossibili per un normale essere umano. Era abituato al dolore, alla perdita, a non affezionarsi, alla morte…a tutto.
Il tradimento subito sui monti Arklay, però, quello no; quella era una piaga ancora viva e sanguinante che non poteva essere perdonata.
Aveva provato a reagire secondo il protocollo. Era dolorosamente tornato sul suo posto di lavoro, indagando e denunciando quanto scoperto circa i loschi esperimenti della casa farmaceutica.
Quel che aveva trovato però era stata solo una reciproca copertura fra il suo reparto di polizia speciale e il potere economico di quel colosso purtroppo intoccabile.
Quei giorni avevano trasformato il suo temperamento ribelle, ma tuttavia pieno d’onore e rispetto, in un cane mosso dalla rabbia e dalla sete di vendetta. Era diventato freddo, silenzioso, collerico.
Aveva ormai perduto il suo auto controllo.
Mollò tutto appena due mesi dopo il suo ritorno al dipartimento di Raccoon City, ove prestava servizio, questo per mettersi alla ricerca di quella dolorosa e forse irraggiungibile verità che stava dannando le sue notti.
In quello stesso tempo, l’inferno era piombato anche sulla sua città, che mai avrebbe creduto non avrebbe più rivisto dopo la sua partenza.
Erano passati tre mesi dalla sterilizzazione, così dissero, di Raccoon City. Già…volevano farla passare per quello.
La verità era un’altra, i potenti volevano soltanto coprire i loro crimini con la scusa “nobile” di ripulire una città ormai condannata, salvando il resto dell’umanità.
Chris era stato lontano casa in quel periodo, erano cinque mesi e non riusciva ancora a immaginare quel cratere invece mostrato tanto in televisione.
Non riusciva a concepire il suo dipartimento, le persone conosciute, la sua casa, tutto non solo distrutto…ma disintegrato completamente, assieme alle vie, ai parchi, ai negozi della sua città.
Era stato in Francia alla ricerca di indizi, di piste da seguire in modo da incastrare l’Umbrella e rimettere loro le proprie responsabilità criminali; tuttavia v’aveva trovato solo una fitta rete di intrighi e imbrogli che solo in anni e anni di lavoro forse sarebbe riuscito a sgrovigliare.
Questo non faceva che fargli ribollire il sangue ancora di più, facendogli desiderare di trovare i responsabili a uno a uno, senza tregua, senza stancarsi.
Lui non si sarebbe fermato…esattamente come loro, che avevano tenacemente perseguito i loro truculenti esperimenti.
Allo stesso modo Chris aveva giurato di stare alle loro calcagna. Non avrebbe importato quanto tempo ci avrebbe impiegato.
Chi lo conosceva non faceva che provare a calmarlo, a dirgli che era cambiato. Tuttavia lui lo sapeva e la risposta era sì, era cambiato.
Non era da un po’ di tempo il Chris che chiunque aveva conosciuto appena cinque mesi prima.
Una sola cosa lo aveva però fatto fermare, imponendogli di tornare indietro e abbandonare tutto.
Una soffiata gli aveva fatto sapere che sua sorella Claire, sopravvissuta al disastro di Raccoon City, aveva continuato le sue ricerche fino a trovarlo e raggiungerlo in Francia.
Chris rimase scioccato quando seppe che ella si era addentrata nella struttura dell’Umbrella, fronteggiando la multinazionale. Conosceva il temperamento inarrestabile di sua sorella, ma mai si sarebbe aspettato un’avventatezza simile.
Le era successo qualcosa a Raccoon City…qualcosa che aveva cambiato profondamente anche lei. Lo sentiva.
Tuttavia lui non aveva fatto nulla per incontrarla essendo impegnato anima e corpo a sventrare l’Umbrella, e così non seppe in tempo cosa era accaduto intanto.
Claire era stata portata via, nel luogo peggiore avesse mai potuto immaginare: era stata rinchiusa su un’isola, come prigioniera, o anzi…come cavia sperimentale, da sacrificare al macabro e ripugnante centro d’addestramento dell’Umbrella.
Mai si sarebbe perdonato di averla lasciata da sola, al suo destino, così tanto a lungo.
Leon S. Kennedy, un giovane che sembrava conoscere bene sia lui che Claire, lo aveva informato dell’accaduto, dicendogli che la ragazza stessa era riuscita a contattarlo chissà come da Rockfort. Così aveva abbandonato tutto ed era corso da lei.
Aveva volato fino in Antartide, indagando a dovere su cosa avvenisse precisamente fra quelle agghiaccianti mura costruite ancora una volta nel nome del simbolo a spicchi rossi e bianchi.
Adesso era lì, per lei, e doveva trovarla; non ipotizzò nemmeno lontanamente l’idea che potesse essere troppo tardi.
La struttura, sebbene apparentemente abbandonata, era visibilmente ancora sotto il controllo di qualcuno; non gli fu difficile intuire che qualcuno si fosse a lungo divertito a tormentare i suoi sgraditi ospiti.
Doveva quindi sbrigarsi a trovare Claire e portarla in salvo.
Avanzando per l’ambiente, si trovò dinanzi un’enorme scalinata, la quale conduceva a due aree del piano sovrastante.
All’incrocio dei due percorsi, l’imponente quadro di una giovane donna troneggiava appeso alla parete.
Le fiamme non avevano risparmiato nemmeno quell’opera ora annerita in gran parte di essa. I suoi colori brillanti erano quasi del tutto ingrigiti dalla polvere e dalla fuliggine, che però non avevano intaccato l’intento dell’artista di immortalare colei che doveva essere stata una giovane di un’indiscussa bellezza.
Chris salì le scale e osservò la fanciulla dai lunghi capelli biondi ivi ritratta, trovandola familiare.
Lesse la didascalia che riportava il nome della illustre figura e pronunciò il suo nome ad alta voce.
 
“Alexia Ashford…” sussurrò fra sé, riflettendo.
 
Ashford…
Era il nome che gli era stato raccomandato e sul quale doveva indagare con estrema cautela.
Per molti anni era girata la voce che quella donna fosse morta, ma una soffiata aveva invece smentito tale notizia, avvertendolo invece che non solo fosse viva, ma avesse in possesso di una nuova e terribile variante del virus Tyrant, un’evoluzione dello stesso germe che aveva causato morte e distruzione prima ad Arklay e in seguito a Raccoon City.
A quel mosaico di menti crudeli e perverse, si aggiungeva un ulteriore dettaglio che premeva sul ragazzo dai capelli scuri, imponendogli di non fallire la sua missione: quella soffiata era stata fatta da Albert Wesker.
I due si erano incontrati a Rockfort diverse ore prima ed era stato proprio lui ad avvertirlo su Alexia, su sua sorella tenuta prigioniera nei laboratori in Antartide e il Virus T- Veronica, sottacendo in quelle parole l’ovvio fatto che era suo intento appropriarsi di quel virus.
Non sapeva cosa stesse tramando, ma era stato tradito da lui già una volta; doveva trovare dunque non solo sua sorella, ma anche la giovane Alexia e impedirle di consegnare il suo esperimento a Wesker.
Continuò pertanto la sua perlustrazione, con lo scopo di precedere il suo rivale e alla svelta. Velocemente si rese conto che v’era qualcosa di storto in quella villa; questo in quanto il fatto che fosse un’abitazione bruciata e logora era visibilmente una copertura.
Doveva infatti trovare l’ingresso per i veri laboratori. Avrebbe dovuto esserci un passaggio segreto o qualcosa del genere.
Osservando l’atrio dall’alto della balconata, notò qualcosa che prima era sfuggito alla sua perlustrazione.
Scese dunque di nuovo al piano di sotto e osservò il camino posto su un lato del muro, adesso stranamente acceso: un fuoco scoppiettante risplendeva caldo al suo interno; era certo prima non ci fosse.
Oramai ne aveva viste di cose strane negli ultimi mesi, volle dunque provare quel tentativo. Ispezionò di nuovo intorno alle stanze alla ricerca di dell’acqua.
Era una casa, doveva esserci una cucina, un bagno, qualcosa. Provò a rovesciare un vaso con dei fiori rinsecchiti, tuttavia al suo interno era completamente asciutto.
V’erano diverse porte chiuse, poteva sfondarle ma voleva evitare di attirare l’attenzione dei non-morti. Il suo vantaggio era che fossero ben distribuiti fra le aree, quindi distanti gli uni dagli altri abbastanza da non risultare una minaccia. Tuttavia se li avesse attirati avrebbe dovuto farli fuori tutti insieme e questo avrebbe comportato uno spreco di munizioni che non poteva permettersi; soprattutto non sapendo cosa avrebbe trovato nei laboratori.
Una volta lì, Claire era la sua priorità e a quel punto non avrebbe risparmiato alcun caricatore per lei. Doveva perciò muoversi di soppiatto fino a quel momento.
A quel punto non gli rimaneva che cercare la chiave del bagno per trovare dell’acqua.
Trovare la stanza non fu faticoso; in quel genere di villa era sempre ubicato nella stessa posizione quindi non gli fu difficile orientarsi.
Non sapendo però da cosa cominciare la ricerca della chiave e avendo comunque già girato precedentemente in lungo e in largo, la sola idea che gli venne in mente fu alquanto azzardata.
Era una magione immensa e molto lussuosa, era ipotizzabile vi fosse un maggiordomo o una figura che curasse la casa. Voleva quindi controllare l’abbigliamento di tutti gli zombie presenti nei dintorni, se almeno uno di loro avesse avuto una veste che evocasse quella di un servitore, avrebbe controllato se magari avesse una chiave addosso.
Strisciò dunque silenzioso, cercando di massimizzare il tempo quanto più possibile.
Più strade vuote e inutili avrebbe percorso, più il rischio per Claire poteva farsi enorme; ben sapeva quanto la tempestività di un minuto poteva salvare una vita…chi lo sapeva più di lui.
I rimorsi di quanto accaduto ad Arkaley tornavano ancora nella sua mente, non riusciva in nessun modo a sentirsi la coscienza pulita; sentiva che avrebbe dovuto fare di più, poteva e doveva fare di più. Purtroppo però non poteva e questo senso di impotenza lo devastava, facendolo uscire di sennò. Era un rospo impossibile da mandare giù, sentiva che non ce l’avrebbe mai fatta a perdonarsi.
Affogò ancora una volta quei pensieri, scuotendo velocemente la testa e tornando alla chiave.
A sua grande sorpresa, ma anche no in realtà, molti non-morti erano vestiti con giacche e pantaloni neri, sebbene la loro sporcizia e usura aveva cancellato l’eleganza che dovevano certamente aver avuto da vivi.
Persino i capelli, sebbene unti e con parti di cranio spolpate, erano ancora pettinati indietro in modo ordinato.
Si chiese se fosse possibile capire chi di loro fosse stato un probabile capo maggiordomo. Come raramente gli accadeva nella vita, un colpo di fortuna fu per una volta dalla sua parte. Due zombie ondeggianti e disorientati si urtarono fra loro durante il loro vagheggiare per le stanze, così uno dei due prese a mordere l’altro con ferocia.
In quel gesto, dal taschino della giacca ancora sulle sue spalle, cadde una chiave, tuttavia ancorata al tessuto da una catenina dorata. Non era certo detto che quella chiave fosse un passepartout, ma era comunque qualcosa da recuperare.
Doveva cercare di arrivare a lui senza attirare tutta la mandria, però. Aspettò paziente che gli altri zombie si allontanassero zoppicando altrove, lasciando in disparte il maggiordomo ancora intento a cibarsi della carne putrefatta di quello che prima l’aveva urtato.
Affrontare solo due b.o.w. era accessibile, montò dunque il silenziatore e con qualche colpo netto alla testa costrinse il nemico a terra, con la sua bocca ancora affondata nel sangue della carne della sua preda.
Chris corse velocemente, in quanto quell’odore di sangue avrebbe certamente attirato gli altri che si erano allontanati da poco. Strappò la chiave e diede una veloce occhiata fra le vesti logore. Fu felice di trovare addirittura una tessera con codice ID.
Se la fortuna non gli avesse voltato le spalle, quella carta avrebbe potuto aprire più di qualche porta.
 Udì appena dietro di sé i gemiti degli zombie che lentamente sopraggiungevano, che subito si dileguò, sparendo dalla loro portata e senza essere visto.
Corse verso il bagno, stando attento a non far troppo rumore, e provò ad usare direttamente la carta ID nel dispositivo magnetico. Non era una stanza importante, tutti i dipendenti potevano ovviamente usufruire di un bagno, non v’erano ragioni per cui non funzionasse e quel ragionamento per fortuna non lo tradì.
Scese tre piccoli gradini e ispezionò quella stanza buia e umida; un terribile tanfo misto fra bagnato fradicio e reflusso di scarichi malfunzionanti pervadeva la stanza.
L’uomo girò il pomello del lavandino augurandosi che funzionasse e che non fosse danneggiato il serbatoio dell’acqua.
Purtroppo era quello il suo maggiore sospetto, visto il lavello tanto asciutto. Spalancò lo sportello che separava la latrina dal resto del bagno, tuttavia anche lì il livello dell’acqua al suo interno era troppo basso per raccogliere un quantitativo tale da spegne un fuoco. Poteva provare a controllare lo scarico, magari v’era ancora dell’acqua lì dentro.
Afferrò dunque il coperchio di porcellana dietro la toilette e lo sollevò, allietandosi che almeno lì l’acqua non si era ancora prosciugata. Doveva solo trovare un recipiente.
Sul lavandino era poggiata una grossa caraffa con la quale era certo avrebbe potuto raccogliere una quantità più che sufficiente per il camino.
Procedette ad immergerla e subito dopo sgattaiolò nell’atrio, prestando sempre la medesima attenzione. Rallentò un buon paio di volte il percorso, questo per dare tempo agli zombie di passare e evitare un attacco contro di loro.
Dovette lottare con tutte le sue forze contro l’impazienza, soprattutto perché non sapeva se spegnendo il camino avrebbe davvero trovato un passaggio segreto.
Se così non fosse stato, si sarebbe trovato punto e d’accapo, e con una manciata di proiettili sprecati inutilmente.
Capovolse la brocca che in attimo trasformò in cenere bagnata quel fuoco vivo e scoppiettante. A quel primo impatto non accadde nulla, ma non perse subito le speranze.
Si accovacciò e frugò al suo interno, cercando un qualsiasi indizio.
Alle sue spalle intanto una sottile figura si stava approssimando a lui; in verità già da un po’ lo stava guardando dalle scale, o meglio…i suoi “sudditi” lo stavano studiando per Lei.
Sentendosi di colpo osservato, Chris si voltò di scatto verso le scale incenerite e ritrovò in cima la ragazza bionda che prima era fuggita da lui.
Era giovane, molto magra, e indossava un lungo abito violaceo.
Si mise in piedi ignorando momentaneamente il caminetto e si approssimò alla base delle scale, cercando di apparire quanto più rassicurante possibile.
 
“Sei qui.” disse dolcemente. “Tranquilla, non voglio farti del male. Sono qui per aiutarti, vedi?”
 
Frugò nelle tasche alla ricerca del suo tesserino militare. “Sono un soldato, sono venuto per salvare le persone.”
 
Fece uno scalino, ma notò lo sguardo agghiacciante della ragazza, che invece era rimasta immobile senza proferire alcuna parola.
Anche da quella distanza poté notarle i cristallini occhi celesti, in perfetta armonia coi capelli chiarissimi e la carnagione pallida tipica di una donna del nord.
Chris decise di indietreggiare di nuovo e assecondarla. Non voleva fuggisse e rischiasse di mettersi in pericolo.
 
“Okay, resto qui se vuoi. Però non puoi indugiare lì ferma, lo sai? Quei mostri ti troveranno, è meglio se mi resti accanto, per la tua sicurezza. Che ne dici, ci stai?”
 
Le mostrò un caldo sorriso che sembrò incuriosire la giovane ragazza, la quale inclinò appena la testa, con un movimento che in quel contesto risultò un po’ inquietante. I suoi capelli scivolarono di lato, ombreggiati dal controluce alle sue spalle.
Vi fu un discreto momento di silenzio, che fu finalmente interrotto quando quella donna decise di parlare. Le sue labbra rosee e sottili si mossero, tuttavia la sua voce risultò più imponente e autorevole di quello che esteticamente poteva sembrare.
 
“Tu non sai chi sono, non è così?”
 
“Perché non me lo dici tu?” rispose a tono Chris, ma con delicatezza.
 
“Vuoi salvarmi..? Portarmi al sicuro...? Tutte baggianate. Losche e inutili inezie. Non sai nemmeno di cosa stai parlando, Chris Redfield.”
 
Chris non si lasciò intimorire, al contrario, posò una mano sul fianco e con fare da duro le parlò di nuovo mostrandosi sicuro di sé.
 
“Alexia Ashford. Sei la stessa ragazza che ho visto nel dipinto. Ci ho impiegato un po’ a riconoscerti, ma è perché adesso ti vedo in viso.” Fece una pausa. “So chi sei, come vedi, e so anche che sei in pericolo qui dentro. Più di qualcuno ti sta cercando e credo tu non abbia molti di cui fidarti. La differenza fra me e loro è che a me non interessa né perché hai inscenato la tua morte, né cosa sia il tuo esperimento, né che tu muoia. Voglio solo portare via quanta più gente possibile e aiutarla a uscire da quest’incubo. Ci stai, Alexia?”
 
Disse e avanzò di nuovo salendo uno scalinò, al che la bionda alzò una mano e dove v’era l’anfibio pesante di Chris andò a crearsi una fiammata che gli fece subito intendere che non voleva che si avvicinasse a lei.
L’uomo la guardò contrariato, cominciando a intuire che non avrebbe collaborato con le buone. Non l’avrebbe certo costretta a seguirlo, ma se lei era davvero chi diceva di essere, non doveva finire nelle mani di Wesker, per nessun motivo.
 
“Impudente uomo inferiore. Le tue ambizioni sono vane, inutili. Guardati attorno, Redfield. Osserva e venera il regno che queste mani hanno costruito. Cerchi il fulcro che ha causato tutto questo? Il crudele sovrano che ha stracciato il velo umano che avvolgeva questo palazzo rendendolo teatro di maestose atrocità e simbolo di superiorità e potenza? Come vedi ce l’hai davanti agli occhi.”
 
Chris non si fece impressionare da quel discorso.
 
“Veramente vedo solo fumo e cenere.”
 
“Esatto.”
 
Detto questo il corpo di quella donna prese fuoco sotto i suoi occhi attoniti.
Una brace che velocemente avvolse non solo lei, ma tutto ciò che la circondava, innalzandosi al cielo come simbolo di una potenza indomabile.
Sotto quella luce funesta e abbagliante, risplendevano i suoi occhi ridenti, compiaciuti del suo immenso potere.
Chris osservò attonito quella figura che, pur essendo sprofondata in un rogo, era come se quelle fiamme non la scalfissero neppure; fu un’immagine impossibile da accettare, eppure stava accadendo proprio davanti ai suoi occhi.
 
“Ti piace la desolazione del mio regno..? Riesci ad apprezzare la solitudine, la devastazione, il crudo e violento silenzio della morte che rimbomba fra le mie mura? Questo è il mio capolavoro, una tomba grigia e vuota, alla quale ho immolato tutto…tutto! Ahahahah!”
 
Chris piantò un piede a terra, deciso a non permettere a quella ragazza di prendersi gioco di lui.
 
“Ehi!” urlò, al che Alexia si infuriò e lo guardò irritata dall’alto verso il basso. “Non credo proprio che ti piaccia l’idea di vivere fra la cenere e le fiamme. Ti stanno cercando e ti troveranno. I tuoi giochi col fuoco non spaventeranno nessuno. Vieni via, ora.”
 
Allungò di nuovo la mano verso di lei. Il robusto e rassicurante palmo di un cavaliere senza macchia e senza paura…
Così…
Sgradevole…
Disgustoso…
 
“Vuoi salvare gente? Accomodati! Tuttavia mostrami prima come salverai te stesso. Ahahahah!”
 
Le fiamme presero a divampare stavolta non solo su di lei, ma per tutte le scale fino a correre lungo l’intero perimetro dell’atrio, avvolgendo le b.o.w. nei dintorni, ora carbonizzate da quella cremazione nefasta. Gli altri scampati al pericolo, si allungarono numerosi verso Chris, incapaci di vedere altro se non il pasto che avrebbe accontentato la loro fame insaziabile.
Il ragazzo dovette imbracciare il mitragliatore che aveva a tracolla e divincolarsi da quel momento di pericolo.
Mentre sparava osservò la macabra scena della Regina del regno delle ceneri, avvolta dal fuoco crudele della distruzione, ai cui piedi si muovevano striscianti e doloranti i suoi sudditi, morti viventi di un palazzo ormai in caduta.
Assorto da quella visione macabra e suggestiva, Chris non si accorse subito del pavimento che stava crollando sotto i suoi piedi.
Qualcosa di pesante aveva dato un grosso colpo dal piano sottostante, facendo cedere il tutto fino a portarlo nei meandri di quel luogo governato dal terrore.
Alexia richiamò a sé il fusto erboso che aveva evocato dal Baccello; lo accarezzò compiaciuta, osservando la voragine che aveva creato e con la quale aveva invitato al gioco il suo nuovo compagno di divertimento.
 
 
 
 
[...]
 
 
 
 
“Quel cazzo di camino…”
 
Imprecò Chris fra sé e sé, scostando la polvere da dosso e massaggiandosi la testa dopo la caduta.
Digrignò i denti facendosi forza, in seguito si mise in piedi con non poca fatica, sentendosi fortemente frastornato.
Mentre riprendeva velocemente i sensi, cominciò a guardarsi intorno cercando di orientarsi; brevemente la sua pelle rabbrividì.
Non gli ci volle molto per accorgersi di essere circondato da quattro pareti di vetro.
Queste erano ruvide di sporcizia e materiale rossastro di dubbia natura.
Sebbene non emanassero alcun tanfo particolarmente maleodorante, era più che certo che non fossero semplici macchie; erano sangue essiccato da chissà quanti mesi.
Delle angustianti scie scendevano fino al pavimento, rigando il vetro e creando la cruenta immagine di un lento dissanguamento.
Al vertice infatti le macchie erano più ampie, scure e copiose; imbrattavano anche gran parte del soffitto, invece costituito con una normale muratura.
Quella capsula di vetro doveva essere stata aggiunta in seguito, era infatti del tutto fuori luogo rispetto la pavimentazione e il resto della stanza.
Batté le mani sul vetro, sbirciando fra i pochi spazi non opachi. Fuori era tutto buio ma sembrava essere una sorta di ampio deposito. Intravedeva catene appese, ganci, era una rimessa di qualche tipo.
Intanto altrove, gli occhi diabolici e ridenti della Regina osservavano il suo topolino in gabbia. Avrebbe potuto girovagare quanto voleva, se lei avesse voluto avrebbe potuto lasciarlo lì a morire di fame e di sete…fino alla fine.
Voleva tuttavia metterlo alla prova; il suo spirito impavido l’aveva incuriosita. Avrebbe dovuto dimostrarle di che pasta era fatto davvero, il caro fratellino della povera e sfortunata Claire Redfield.
Aveva deciso di non ucciderlo sul colpo. Era un soldato, un ardito e coraggioso giovane uomo. La cosa la incuriosiva, lei che era cresciuta segregata tra le mura di un buio laboratorio da quando era bambina.
Sebbene avesse ventisette anni numericamente, psicologicamente Alexia era infantile e non aveva mai visto un vero soldato con i suoi occhi, se non quelli dell’Umbrella nelle rarissime occasioni in cui aveva lasciato casa Ashford.
Rimase davanti allo schermo, osservandolo dalla sua telecamera tutto il tempo.
Il suo corpo robusto e muscoloso, il volto duro e marcato, l’energia che emanava da ogni parte di se stesso anche in dormiveglia.
Era stata davvero impaziente di “giocare” con lui. Non aveva staccato gli occhi da lui, nemmeno quando aveva dormito. Non vedeva l’ora che si svegliasse.
Quando lo aveva visto riaprire gli occhi, lo osservò rimettersi in piedi e darsi subito da fare. Provò quasi pena per lui, ignaro di essere solo una preda già fra le sue fauci. Doveva ammettere che quel boccone si pregustava già molto gustoso.
Dopo essersi divertita a vederlo affacciarsi al vetro più e più volte, non riuscì a trattenere un sottile risolo, che tuttavia Chris riuscì ad udire per via dei microfoni lasciati appositamente accesi proprio per interagire con lui in quella cabina, a sua insaputa.
L’uomo dal suo canto si voltò di scatto verso una direzione vaga.
 
“Chi c’è?” disse serio.
 
“Ih,ih,ih…” la donna non riuscì a trattenersi.
 
“Alexia, sei tu? Rispondi.”
 
La biondina non si rivelò subito.
Voleva vederlo perdere la calma, togliersi quella facciata da bravo soldatino, e impazzire di paura…e dolore.
Si prese tutto il tempo che voleva prima di prender parola. Quell’uomo però non abboccò e anziché agitarsi, rimase immobile, guardando buffamente nella direzione opposta a dove lei aveva piazzato la telecamera per osservarlo.
Alzò le sopracciglia nel vederlo immobile e composto, senza indispettirsi per il suo silenzio e per averlo deriso.
Dunque, annoiata, fu lei a cedere e ad avvicinare il microfono alla bocca.
 
“Benvenuto, signor Redfield, mi auguro lei abbia riposato bene, nonostante la caduta che le ho causato.” disse con tono serio, ma ironico ovviamente.
 
Chris continuò a rimanere sull’attenti, mantenendo la calma. Quella posatezza le dava la nausea; voleva vederlo perdere le staffe. Si sistemò meglio sulla sedia e posò le dita sottili sull’asta che reggeva il microfono.
 
“E’ tutto un gioco di sprechi e inganni. Nulla è bene e nulla è male, i nostri sentimenti non sono che il frutto di convenevoli e abitudini, dettate da una società di massa che non fa che plasmarci sulla base di un’immagine plastificata, creata appositamente per facilitare il lavoro ai potenti.”
 
In quello stesso istante si aprì una saracinesca, dalla quale fuoriuscirono un gruppo composto da quattro non-morti. I loro corpi lerci e deteriorati, l’alito pesante, i muchi organici che colavano dalle loro cavità, misti a sangue e pus. Questi si avventarono furenti verso Chris il quale puntò la pistola e cercò di ucciderli, dimostrando il suo valore di soldato e tiratore scelto della S.T.A.R.S. . Durante la battaglia, Alexia continuò a parlare, annoiata dalla insulsa normalità a lei così estranea.
 
“A loro volta anch’essi sono però le marionette costruite sull’ombra di altri raggiri che in conclusione convengono a tutti. E così via. Chi risiede davvero al vertice di tutto questo? Cosa o chi cura le menti, i progetti, la vita di ognuno di noi?”
 
Chris non comprese se fosse una domanda retorica o meno, intanto diede l’ultimo colpo allo zombie rimasto in vita, prendendo poi un po’ di respiro.
 
“Stiamo parlando della politica? Della religione? Di Dio? L’inferno non sono gli altri; l’inferno sei te stesso. La vita scorre molto veloce: ti fa precipitare dal cielo all’inferno in pochi secondi.”
 
“A cosa vuoi arrivare?” disse ansimano, ma lei non rispose. Continuò il suo monologo non ascoltandolo neppure.
 
“Io credo che nessuno di voi possa arrivare a comprendere cosa ci sia davvero dietro quello che noi definiamo reale, irreale, giusto o sbagliato. Penso proprio…che le risposte non vi piacerebbero.”
 
L’ex membro S.T.A.R.S. scosse la testa, in un certo senso comprendendo quelle parole, essendo lui stesso membro di un sistema che lo aveva sfruttato e tradito, verso il quale attualmente non nutriva alcuna fiducia e stima, anzi. Ribolliva dalla rabbia verso un governo che lo aveva abbandonato e ridotto a pezzi.
Alexia Ashford vide nei suoi occhi quella rabbia, poté sentirla pulsare forte fino a raggiungerla. Se ne compiacque.
A quel punto tocco il microfono con le morbide labbra e sussurrò su esso come se potesse parlare direttamente all’orecchio del suo interlocutore.
 
“Avanti cavaliere, mostrami chi sei…cosa sai fare davvero.”
 
La saracinesca si sollevò di nuovo, facendo entrare nella gabbia due Bandersnatch, b.o.w. mollicce ed energumene sulle quali Chris aveva letto solo dei documenti trovati a Rockfort.
Sapeva di poterle abbattere più facilmente con del fuoco, ma non aveva alcuna arma che potesse prestarsi allo scopo.
Diede un veloce sguardo al mitra, consapevole che fosse il suo unico buon alleato. Purtroppo affrontare quel mostro con quell’arma significava uno spreco di colpi colossale, ma era tuttavia inevitabile date le circostanze.
Alexia lo vide imbracciare l’arma e sparare con veemenza; voleva vederlo dimostrare di essere l’uomo che diceva, era curiosa di scoprire se fosse il baldo Cavaliere capace di tutto che arrogantemente dichiarava di essere.
Vide quel ragazzo, così forte e virile, fronteggiare la sua b.o.w. con la preparazione che si aspettava da un soldato; un test che l’intrattenne con grande interesse, aiutandola a perfezionare i difetti che poteva migliorare del suo esperimento genetico.
Internamente si congratulò con lui, per essere riuscito a mettere fuori gioco i Bandersnatch senza ricorrere a tecniche incendiarie, decisamente più micidiali per loro.
Affrontarli con semplici armi da fuoco era profondamente più difficile, quindi il suo soldatino fu davvero capace di impressionarla.
Decise di premiarlo con una prova più difficile, più alla sua altezza.
Era infatti riuscita a catturare un hunter, bestia famelica portata in Antartide da Albert Wesker.
Si mise dritta con la schiena, entusiasta di assistere a quel combattimento.
Chris per fortuna ben conosceva quella b.o.w. , fronteggiata già ai tempi della missione sui monti Arklay.
Doveva evitare di colpirlo sulla spessa corazza e piazzargli pochi colpi ben assestati alla testa o alla gabbia toracica, invece più esposta e fragile.
Malconcio e sudato, dovette schivare una lunga sequenza di morsicate prima di riuscire a creare la distanza giusta per mirare e far partire un paio di colpi.
Non bastarono ad abbatterlo, ma aveva almeno provato la sua tattica, la quale era corretta.
Il mostro si era infatti indebolito; stava a lui non perdere la calma e continuare quel mordi e fuggi finché non fosse stato abbattuto.
Non volle usare di nuovo il mitra, non sapeva cosa l’aspettava, dunque decise di prolungare la battaglia e usare la pistola. Poteva farcela, lo aveva già fatto altre volte.
 
“Ma che bravo, signor Redfield. Che dici di provare un altro round prima di riposare un po’?”
 
“Cos..?” esclamò esausto, appena ripresosi dopo lo scontro lungo e tortuoso contro l’Hunter. Ebbe appena il tempo di ricaricare il suo equipaggiamento che la saracinesca fu già alzata. Lo stridio di delle catene violentava il suo cervello, presagendo quale mostruosità sarebbe presto uscita.
Nel buio più totale, vide affacciarsi un occhio rosso e furente.
Chris si mise in guardia; era esausto ma non aveva affatto voglia di morire. Tuttavia era ormai piuttosto irritato, si era stancato di quel gioco perverso di cui non aveva intenzione di fare l’intrattenitore.
 
“Questo è un bello scontro. Ti piacciono le sfide difficili. Lo vedo…lo sento…signor Redfield.”
 
La b.o.w. che si sporse dall’uscita era enorme, possente… le sue braccia muscolose, la pelle spessa e marmorea, le fauci appuntite e sporche di sangue, la stazza umanoide e nodosa.
Era raccapricciante.
 
“In realtà è uno scarto di laboratorio. Non sapevo che farne e visto che dovevo sbarazzarmene, perché non farlo fare a te?”
 
Chris fece un ghigno per niente divertito.
 
“Dunque non sono che questo per te, vero?”
 
Alexia corrucciò il viso, non comprendendo subito.
Dall’altra parte, il soldato decise che era giunto il momento di chiudere i giochi, si era stancato di essere la “marionetta” da usare a proprio piacimento come lei aveva detto. Voleva vedere chi era che dominava dietro le ombre di quel mondo devastato e ipocrita?
La risposta era: certamente non Lei.
Così puntò la pistola verso la telecamera che lo controllava, avendola ormai individuata da tempo, e vi sparò contro, interrompendo la comunicazione e impedendo alla ragazza di gustarsi il suo dolce spettacolo.
Alexia rimase immobile, pietrificata. Adagiata sulla sua comoda poltrona, si sentì ribollire nell’aver perso il suo giocattolo. Allo stesso tempo però una strana eccitazione la pervadeva. Sentiva di aver a che fare con qualcosa di diverso finalmente.
Era forse una pedina con cui poteva valere scende in campo sul serio. Decise quindi di andare a cercarlo personalmente: se pensava di poter trasformarsi in cacciatore nel suo labirinto mortale, si sbagliava di grosso.
Chris intanto sfruttò la stazza del mostro deforme per indurlo a rompere la prigione di vetro dove era rinchiuso. Cercò di provocarlo e infastidirlo fino a indurlo a dimenarsi talmente tanto da usare le sue forze per schiacciarlo. Portò così il mostro a frantumare una porzione del vetro, riducendolo in mille pezzettini.
Il soldato rotolò fuori, coprendo il volto. In seguito corse via, preferendo evitare lo scontro. Quel giochetto perverso aveva dimezzato i suoi colpi e in tutto quel trambusto doveva ancora trovare Claire.
Si trovava in un luogo sotterraneo, buio, privo di qualsiasi finestra o altro.
Imboccò vari corridoi a casaccio, cercando di aumentare la distanza dal mostro quanto più possibile, questo mentre sentiva alle sue spalle i suoi artigli picchiare veementi sul pavimento logoro.
Corse a perdifiato fino a trovarsi davanti una grossa grata che poteva aprire tramite una pesante manovella da girare.
Calcolò che sarebbe potuto riuscire a passare, la b.o.w. era abbastanza distante da lui; se fosse riuscito a muoversi velocemente scandendo ben bene i tempi, sarebbe stato dall’altra parte in salvo in men che non si dica.
Tirò quindi un forte respiro e afferrò la manovella girandola con tutte le sue forze. Riuscì appena in tempo ad aprirla, entrare e a richiuderla dietro di sé, questo senza mai voltarsi proprio per non incombere nella paura di non farcela.
Una volta separato dal mostro, questi prese ferocemente a strillare, dimenandosi accecato dall’insoddisfazione di non poterlo raggiungere.
Il Redfield asciugò la fronte allontanandosi con passi veloci verso la direzione opposta.
La luce artificiale cominciò a illuminare un po’ meglio l’ambiente in quella zona.
Restò in guardia, tenendo la 9mm davanti al suo viso.
Si trovò presto nel ben mezzo dell’incrocio di quattro cunicoli. Non ebbe il tempo di domandarsi in che direzione procedere, questo perché stava per annunciarsi una strana e indesiderata “rimpatriata”.
Dall’ombra di ognuna di quelle direzioni si ersero delle figure a lui familiari.
Una corsia era quella dalla quale veniva lui, un’altra era vuota, l’altra era occupata da Alexia, appena sopraggiunta verso la sua preda, ridente e piena di sé; e dall’ultima si affacciò dalla penombra un uomo misterioso e crudele, completamente di vestito di nero: Albert Wesker.
 
 

 
 
***
 
 






 
NdA:
New character…..Chris Redfield! Sorpresa! ^_^
Non credevo sarei riuscita ad aggiungere questa parte alla storia.
Mi spiego.
Quando stesi, ormai anni fa, la prima cronologia di questa fanfiction, avevo pianificato che gli ultimi capitoli avrebbero avuto come protagonisti Alexia e….Chris, esatto! I due “fratelli maggiori” stavolta. ;)
Tuttavia nella pratica, la narrazione è venuta piuttosto lunga e quindi col tempo pensai che dopo il risveglio di Alexia avrei concluso la fanfiction.
Cercate di capirmi….ero un po’ stanca. Scherzando, scherzando, sto scrivendo questa fanfiction da 3-4 anni!
Invece, scrivo e scrivo e scrivo…e ho cambiato idea! Ci ho ripensato e ho voluto rispettare la mia tabella! Volevo Chris!
Ammetto che ne sono contenta! Me ne sarei pentita se proprio non lo avessi fatto!
Chris Redfield è un personaggio che amo davvero.
Spero che da questo capitolo in avanti avvertiate la sua forza, la sua determinazione e la sua preparazione come soldato e come uomo segnato dal suo destino.
Un carattere temprato da perdite e battaglie che lo hanno segnato.
Alexia è una donna cinica, superba e furiosa….in cerca di vendetta. Ma non sa quanta caparbietà v’è anche nell’animo altrettanto distrutto di Chris.
A differenza di Claire, lui saprà tenere un bel testa a testa con Alexia, una ragazza difficile, arrabbiata, ma dopotutto soltanto delusa da tutto…
Ne uscirà un confronto molto diverso da quello di Alfred e Claire, ove la follia e la mente contorta del ragazzo hanno spesso sconvolto molte situazioni.
Ho invece cercato di differenziare Chris e Alexia, ove il temperamento più freddo e preparato lo renderanno un avversario diverso da chiunque altro per la donna.
La sua interazione con Alexia è fondamentale per la mia storia e attraverso lui ho voluto inoltre interpretare alcuni aspetti introspettivi di lei.
Specifico che sono mie interpretazioni ovviamente, nelle quali vorrei mostrare delle riflessioni sulla bionda e spietata erede Ashford.
Aspetti per me sottintesi nel gioco, a cui, tramite la mia fanfiction, ho voluto umilmente dare voce.
Spero di riuscire nell’intento!
Una soft “ChrisxAlexia” è dedicata a mia sorella, fan di questo pairing fra l’altro! ;)
Un abbraccio a tutti e grazie per avermi letto!
 
Fiammah_Grace
 





 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 26
*** La Regina: capitolo 05 ***


 
 
Capitolo 26
 
 
La Regina: capitolo 05
 
 
 
 
 
 
Chris marciò mantenendo un’andatura felpata, prestando attenzione a ogni passo che avanzava, consapevole della prudenza da adottare in un ambiente diabolico come quello.
Era un sotterraneo malandato, maleodorante di umido e di vecchio. L’unica luce proveniva dalla torcia sulla sua cintura e da un fioco bagliore giallognolo in lontananza.
Procedette in avanti, continuando a guardarsi le spalle e con l’arma ben puntata di fronte a sé.
La sua fronte era appena sudaticcia, tradiva il suo tentativo di nascondere le tante ore ormai passate a investigare.
Non era però il tipo di uomo da stancarsi tanto facilmente, temprato da un addestramento militare non solo accademico, ma dettato dalla sua enorme esperienza sul campo.
L’adrenalina poteva tenerlo lucido e sveglio, incurante del dolore e dall’affaticamento, fino a che non fosse arrivato al suo target; solo allora si sarebbe concesso il meritato risposo.
Era un soldato instancabile quando la sua mente e il suo cuore miravano a un preciso obbiettivo. Questo suo punto forza era anche il suo tallone d’Achille; significava che finché non fosse giunto a trovare la sua verità e la sua giustizia, nulla l’avrebbe fermato.
Nel bene e nel male.
Così era sempre stato; nessuno era mai riuscito a pararsi fra lui e la sua battaglia, e nessuno avrebbe potuto farlo.
La domanda però era……fino a quando sarebbe durata quella lotta, allora?
La risposta era molto semplice: finché quella guerra non sarebbe finita e in modo definitivo.
Esisteva però forse un reale finale contro una guerra batteriologica di quel calibro?
La vera risposta lo tormentava, ma non gli importava; sapeva soltanto che non avrebbe rinunciato, anche se questo avesse significato lottare in eterno.
Non sarebbe stato lui a scendere dal campo e innalzare bandiera bianca. Mai. Non dopo essere sopravvissuto all’inferno…più d’una volta ormai.
Non dopo essere sopravvissuto a così tanti amici, che solo per circostanze più sfavorevoli non ce l’avevano fatta. Solo questo. Un tiro di dadi casuali ove al momento aveva avuto la meglio, questa era stata la sua vita.
Doveva vivere e lottare per chi non aveva nemmeno potuto contendere per la sua vita, costretto a perire ingiustamente.
Chris doveva portare quel fardello. Era una responsabilità enorme, pesante, non sapeva come spendere quel privilegio di essere sopravvissuto.
Sapeva però che v’era una coscienza che urlava dentro di lui, martellando con forza su una sola parola: “giustizia”.
Intanto le urla della b.o.w. ormai superata da molto tempo, facevano ancora tremare le pareti; era un eco quasi impercettibile, ma poteva sentirlo comunque nitidamente, avendo ancora addosso l’adrenalina che lo aiutava a sopravvivere a quegli orrori.
Una volta raggiunta la fine di quel cunicolo, questa andò ad affacciarsi in una strana area.
Si trattava di uno spiazzale simile a un atrio, nel quale si incrociavano varie corsie.
Di fronte a lui v’era una scala, stranamente pulita e rivestita da un tappeto rosso posto lì piuttosto recentemente, dedusse dal suo colore brillante, del tutto in contrasto con lo stato deteriorato di quella zona.
V’erano poi altre due corsie al piano di sotto.
Una era vuota, non si intravedeva nulla oltre l’uscio scarsamente illuminato, e l’altra era apparentemente uguale.
‘Apparentemente’ in quanto un’ombra si celava fra quelle pareti e prese ad avanzare distinguendosi lentamente dal nero pece dell’oscurità.
Quella figura era altrettanto scura, dunque poté mimetizzarsi con facilità al suo interno; ciononostante era una corporatura impossibile da non riconoscere anche solo dall’aura che era capace di emanare.
Quando venne appena investito dalla luce, la sua chioma bionda, la carnagione tonica e gli inconfondibili occhiali da sole che celavano i suoi occhi vermigli, resero palesi l’identità di Albert Wesker.
Egli avanzò leggiadro, con le muscolose braccia incrociate e un sorriso beffardo stampato in faccia.
Chris strinse gli occhi non smettendo di puntare la sua arma contro di lui.
Una risatina acuta e sottile attirò però la sua attenzione, costringendolo a spostare gli occhi verso la sommità delle scale, ove adesso si affacciava autoritaria anche la maestosa padrona di casa, Alexia.
Erano tutti inaspettatamente giunti nello stesso luogo, come tre belve fameliche che avevano cercato ininterrottamente le rispettive prede.
Il soldato passò lo sguardo dall’uno all’altra. Sia Albert che Alexia sembravano divertiti, come se quella curiosa rimpatriata avesse dato sollazzo alla monotonia della loro angusta vita. Nessuno dei due sembrava intimorito, cosa che costrinse Chris a prendere una posizione in fretta ed elaborare un piano, sapendo che da un momento all’altro uno dei due avrebbe potuto sferrare il suo attacco.
Aveva un occhio di riguardo verso Alexia in quel momento, consapevole che ella fosse in possesso di un virus che non doveva in nessun modo cadere fra le mani di Wesker.
Decise dunque di dare le spalle alla giovane e puntare il mirino della sua 9mm contro l’uomo dagli occhiali scuri.
 
“Wesker.”
 
Lo intimò, obbligandolo a fermarsi avendolo sotto tiro. Albert Wesker era un uomo superbo, completamente padrone di sé e consapevole della sua superiorità; ogni suo muscolo emanava una forza e sicurezza incontrastabile. Egli venne alla luce, uscendo dal corridoio buio, disincrociando le braccia e alzando il mento, sottolineando la mascella squadrata.
Il ghigno di soddisfazione perennemente stampato sul suo volto indecifrabile, trasmetteva quella prepotenza che da sempre lo aveva distinto. In quelle nuove spoglie nemiche però, era un tratto ancora più insopportabile.
Chris era invece un ragazzo rude, spesso ribelle e a modo suo una testa calda, tuttavia umile e di buon cuore. Il così detto duro dall’animo nobile.
Aggrottò le sopracciglia scure, con lo sguardo fisso sulla figura invece placida e longilinea di Wesker.
Albert spostò il suo peso su una gamba, rilassandosi. Allargò le labbra e con quella sua voce profonda e dialettica non tardò a beffeggiarsi del suo ex collega, come suo solito.
 
“Redfield, è un piacere vederti qui. Hai fatto i tuoi compiti, me ne compiaccio. Tuttavia comprenderai da solo che non sono qui per te, attualmente. Ti consiglio di farti da parte e tornare alla ricerca della tua amata sorellina; ad Alexia ci penso io.”
 
In tutta risposta, Chris impugnò ancora più saldamente l’arma contro di lui, palesandogli la sua posizione. Wesker alzò un sopra ciglio, intendendo alla perfezione.
In un primo momento sembrò sorpreso dalla incosciente scelta di Chris nel pararsi fra lui e la bionda erede degli Ashford, in seguito poi si abbandonò a un breve e fastidioso sogghigno.
 
“Chris, Chris, Chris… ancora convinto di poter lottare dalla parte dei giusti. Presumo non ti rendi conto dell’identità della donna che stai proteggendo, vero?”
 
Il soldato dai capelli scuri puntò un piede in avanti.
 
“Sbagli a presumere. So chi è Alexia e so cosa è fra le sue mani; ma so anche che tu vuoi la sua arma bio organica e questo non te lo permetterò. La ragazza non è forse migliore di te, ma se devo scegliere il male minore, allora lo è lei.
Sei tu, Wesker, che devo fermare. Se vuoi lei e il suo virus, allora devi vedertela con me.”
 
Wesker sghignazzò di nuovo, trovando inverosimile che il baldo Chris fosse davvero convinto delle sue parole.
 
“Dici sul serio? Non sarai tanto sciocco da pensare di poter interferire? Ragiona Redfield, perché mai pensi mi sarei scomodato di venire fin qui, al cospetto dell’ultima erede degli Ashford ancora in vita, se non fossi sicuro di prendermi ciò che mi serve. Se si trattasse di un virus o un esperimento, stai sicuro sarebbe già fra le mie mani. No, stavolta si tratta di qualcosa di molto più complesso. Quel che cerco non può essere trovato in provetta, voglio dedurre che tu ci sia già arrivato da solo.”
 
Chris si accigliò, mal sopportando quei deliri. “Non mi interessano i tuoi vaneggiamenti. Non toccare la ragazza, Wesker.”
 
Albert Wesker rise di gusto di fronte quel delizioso soldatino che si parò fra lui e la bionda; era esilarante vedere la determinazione di quell’eroe che non sapeva nulla, nemmeno chi stava proteggendo.
 
“Oh, Chris, se solo tu potessi conoscere il vero senso delle tue parole. Ancora non l’hai capito? L’esperimento che credi io stia cercando è proprio qui in questo momento. E’ Alexia stessa il T-Veronica Virus, l’unico campione presente sulla faccia della terra. E’ lei che l’ha creato e sperimentato su se stessa. Il virus è mutato ed è divenuto così il T-Alexia Virus. E’ lei l’arma batteriologica.”
 
L’ex-membro STARS girò istintivamente lo sguardo verso la sommità delle scale, dove, leggiadra e silente, Alexia Ashford li stava osservando dall’alto, col viso serio e truce.
Guardò quell’elegante e algida giovane donna sotto una visione diversa.
Era lei il virus? Cosa intendeva? Significava che sotto quello sguardo glaciale e controllato, ella era a metà fra quello stato di coscienza e incoscienza come tutte le vittime del progetto immorale dell’Umbrella, che alla fine avevano dovuto cedere al micidiale e brutale istinto di ‘fame’?
Stava per trasformarsi in una b.o.w.?
Quel fugace istante non passò inosservato e bastò a Wesker per colpirlo in pieno allo stomaco e scaraventarlo a terra.
Chris tossì violentemente, sforzandosi di recuperare e rimettersi in piedi; intanto Wesker passò una mano fra i capelli perfettamente allineati indietro e gli si rivolse pungente.
 
“Ciononostante vuoi comunque porti fra me e lei? Pur sapendo chi stai proteggendo? Scegli bene la tua mossa, Chris, perché non mi sembra tu ci abbia riflettuto con attenzione. Vuoi davvero metterti dalla sua parte e proteggere tale abominio? Suvvia, non è diversa dalle b.o.w. che hai atterrito fin ora. Lei è solo apparentemente così, per ora.”
 
Sottolineò. Subito dopo lo scavalcò con disprezzò e avanzò verso le scale, sfilando gli occhiali neri e rivolgendo i suoi crudeli e diabolici occhi vermigli alla Regina.
 
“E’ un piacere rivederti, Alexia. Non penso abbiamo bisogno di presentazioni, sai perfettamente perché sono qui. Ora, da brava, non perdiamo tempo con scontri inutili. Vieni con me, seguimi, e lascia che io prenda un campione della tua creazione.”
 
Una sonora risata partì dalla bocca a bocciolo di quella donna. Il contrasto fra la sua eterea bellezza e quella voce così dura e provocatoria, era tale da spiazzare i presenti.
Chris intanto si rialzò e, sebbene ancora dolorante, riprese a puntare la sua arma contro Wesker,
 
“Ah,ah,ah. Lo vuoi? E’ questo che desideri? Tu…”
 
I capelli della donna cominciarono a fluttuare nonostante non ci fosse alcun vento; una scintilla di fuoco cominciò ad avvolgerla.
I suoi piedi nudi si mossero sulle scale rivestite di moquette rossa ed ella prese a scendere i gradini, guardando quell’arrogante uomo inferiore con la superbia di una tiranna, pronta a dare dimostrazione del suo potere.
Un’energia indomabile, che nessuno poteva contrastare, nata dall’odio e dalla vendetta che aveva intenzione di compiere; nessuno avrebbe mai potuto controllarlo perché nessuno possedeva il dolore che aveva in corpo…solo lei ne era la padrona. Tutto il resto…sarebbe stato ridotto in cenere!
 
“…tu non sei degno di questo potere!”
 
Esclamò furente e prese fuoco nello stesso modo in cui era accaduto davanti a Chris diverse ore prima.
Il bruno decise di approfittare di quel momento per entrare in azione e togliere Alexia dalla grinfie di Wesker.
Ovviamente sconcertato dal fuoco che cospargeva il corpo della bionda, l’ex-capitano della STARS non si accorse di Chris Redfield che, fulmineo, si frappose fra i due.
Non curante delle fiamme, prese la donna per un polso e la portò dietro di lui, sparando contro Wesker allo stesso tempo.
La sua mano bruciò in quell’attimo di contatto, ma non se ne curò. Al contrario, mise la ragazza fra le sue braccia e imboccò il corridoio libero che aveva già esaminato quando era sopraggiunto in quell’atrio.
Albert Wesker toccò la sua spalla, la quale prese a sanguinare violentemente, digrignando i denti e seguendo con lo sguardo la figura di Chris che portava via il suo ‘campione’.
Urlò furente il suo nome, cercando di controllare la perdita di sangue e lo shock, umiliato dall’essere stato raggirato per quell’attimo di distrazione.
Alexia intanto fu costretta a fermare la sua trasformazione; aveva sentito il suo corpo pronto, il suo potere le urlava fin dal suo risveglio di dar sfogo all’enorme forza che ora la pervadeva e che bramava prendere il suo controllo. Sentiva quel fuoco immenso voler uscire fuori ed espandersi, trasformando la sua rabbia in qualcosa di più immenso e devastante.
Lei lo voleva, desiderava ardentemente bruciare nelle fiamme di quell’inferno e generale quell’apocalisse che avrebbe schiacciato e distrutto ogni cosa.
Anche al prezzo di perdere se stessa.
Era una scienziata, conosceva il suo prodotto. Sapeva quanto quel tipo di virus fosse difficile da mantenere stabile; tuttavia non le importava.
Nonostante una forza tale che avrebbe potuto compromettere in modo incontrastabile il suo controllo, era proprio in quel momento che poteva raggiungere un livello di potere più alto; e lei lo voleva.
In quell’istante aveva sentito finalmente il suo cuore ardere in preda alle fiamme, in un dolore appagante che sembrava poter colmare lo strazio che invece la lacerava. Dunque veder interrotto quel momento di idillio la fece infuriare, in quanto l’aveva costretta a tornare nelle umili spoglie di quella crudele regina arrabbiata, spodestata dal suo regno arido e solitario.
Quel mondo che l’aveva sfruttata e tradita e non si era stancato di toglierle quanto di più caro avesse al mondo.
Dopo quel primo momento di confusione, si ribellò a Chris e innalzò delle fiamme che costrinsero il ragazzo a liberarla.
Tuttavia lui non le permise di scappare e riuscì a bloccarla di nuovo, incastrandola tempestivo contro il muro e ponendosi su di lei.
Alexia osservò la sua mano rossa, con la pelle sanguinante e bruciacchiata, sulla quale erano attaccati i lembi di stoffa del suo guanto, appiccicati sulla ferita.
La ragazza lo ringhiò, pronta a farlo sparire fra le fiamme del suo inferno, ma l’uomo prese parola per primo e la sua veemenza fu capace di frenarla.
Egli seppe porsi con la severità di un padre e l’affetto di un fratello, atteggiamento che la spiazzò completamente, bloccandola come pochi erano riusciti a fare, pervasa com’era dalla collera.
 
“Ascoltami, Alexia. Anche se quel che Wesker ha detto fosse vero, non significa che tu debba trasformarti in un mostro. Ho visto miei amici cadere vittime di tutto questo. Lottare e purtroppo crollare a questa violenza, senza poter contrastare quello che contro la loro volontà stava facendo perdere loro la propria umanità…la propria VITA.”
 
Alexia poté sentire nitidamente la rabbia e il rancore che pervadeva anche lui. Quell’uomo…era un animo più dannato di quel che sembrava, se ne accorse velocemente.
 
“Non lasciare che questo istinto prevarichi. Non lasciare che vinca. Non farti sopraffare.”
 
La biondina sbuffò, con la faccia delusa di una bambina che non accetta la predica.
 
“Per quale ragione dovrei acconsentire, perché me lo chiedi tu?”
 
“No.” rispose Chris placido, recuperando il suo stato d’animo controllato. “Non voglio che ti trasformi nell’ennesima vittima di Wesker. Nell’ennesima vittima dell’Umbrella.”
 
Quelle parole fecero stranamente riflettere la ragazza, la cui temperatura cominciò ad abbassarsi, facendole forse valutare quella questione per la prima volta.
Una visione dei fatti che aveva ovviamente già elaborato, tuttavia quella era la prima volta che qualcuno di estraneo glielo palesava, facendola sentire per quell’inutile oggetto di lavoro che internamente aveva sempre saputo di essere.
Perché le era stato insegnato ad essere solo quello.
La scienza, la ricerca, la famiglia Ashford e l’Umbrella erano le uniche cose per le quali aveva vissuto; era stata letteralmente creata per loro.
Allo stesso tempo, erano gli stessi pilastri che le avevano tolto tutto.
Chris Redfield notò di essere riuscito a calmarla, così si scostò da lei e si riposizionò a una distanza normale.
Le sorrise, mostrandole uno sguardo stranamente comprensivo; tuttavia come poteva lui capirla? Quegli occhi non avevano senso. Non potevano capirla.
Quel gesto però comunicò una strana sensazione in Alexia, la quale non seppe se sentirsi infastidita o a disagio.
Lui intanto staccò il guanto carbonizzato dalla mano bruciata, scuotendola in preda al dolore, che però fu in grado di controllare; questo non scostando i suoi occhi blu intensi da lei.
 
“Dobbiamo andare via da qui. Wesker non ci impiegherà molto a trovarci e noi non ci siamo ancora allontanati abbastanza. Riesci a fidarti di me?”
 
Alexia corrucciò il suo viso angelico e impenetrabile, ormai reso glaciale dai suoi anni di solitudine, trascorsi lontani da qualsiasi forma di contatto umano.
Era come un animale tenuto in gabbia da quando era nato, dunque era difficile per lei considerare seriamente le parole di quel soldato.
C’era però qualcosa nel volto di quel Chris Redfield, qualcosa di rassicurante che per un attimo le comunicò quella dolcezza e forza che solo un uomo al mondo era riuscito a fare in tutta la sua vita.
Il suo cavaliere senza macchia e senza paura, che fino all’ultimo respiro era rimasto al suo canto.
Quell’uomo però era totalmente diverso da lui; Chris era rozzo, sporco, spettinato, vestito male, troppo alto e muscoloso.
Il suo sorriso però era sincero, questo era indiscutibile persino per lei. Era serio quando le aveva offerto la sua protezione.
Lei era stata sola tanti anni, passati nel tempo di quel lungo sonno di quindici anni. Abbandonata da chiunque, non esisteva più nulla per lei ormai.
Poteva valere la pena approfittare di quel momento per riprendere le forze e lasciarsi guidare da un soldato visibilmente qualificato come lui.
Pensò genuinamente che poteva essere fattibile.
Chris interpretò quel silenzio nel modo corretto; la donna aveva deciso di abbassare la guardia.
Si era accorto da solo della personalità complicata di quella ragazza, per usare un eufemismo. Dunque restò in silenzio, preferendo non calcare troppo la mano.
Era una persona che aveva palesemente bisogno di essere rasserenata.
Una giovane donna, sola, in Antartide, e in una struttura dell’Umbrella ove era ubicata anche la sua dimora: non ci voleva un maestro di psicologia per immaginare il tipo di vita che avesse affrontato.
Lei era cresciuta fra le fredde e crudeli personalità schiavizzate a loro volta dalla feroce multinazionale dell’Umbrella. Una compagnia che aveva distrutto un’intera città, cancellandola dalla faccia della terra, pur di coprirsi le spalle e nascondere i suoi crimini.
Poteva quindi vagamente intuire il disagio di quella ragazza dall’apparenza tanto nobile, in realtà indurita dalla violenza; Alexia Ashford era infatti così, un essere dannato sotto le spoglie di un incantevole angelo.
Tuttavia sarebbe bastato ascoltarla un attimo per far cadere quella facciata e rendersi conto dell’anima tormentata che abitava quel corpo.
Il soldato sfilò il suo grosso giubbotto nero da neve, restando con una camicia color verde militare a maniche corte, abbinata a un gitet scuro munito di gibernaggio.
Allungò l’indumento pesante alla ragazza, la quale in un primo momento non capì cosa volesse; in seguito, comprendendo, lo guardò indignata.
Chris non aveva certo l’abbigliamento adatto per girovagare in un luogo freddo come l’Antartide, tuttavia anche Alexia indossava solo un leggiadro abito da donna che non sembrava assolutamente imbottito di alcun tessuto caldo; da bravo galantuomo quale era, anche se non amava ammetterlo, preferiva fosse lei a coprirsi in modo più adeguato, e non lui.
 
Alexia incrociò le braccia.
 
“Cosa significa? Perché dovrei metterlo?”
 
“Perché fa freddo qui. Nessun trucco, è solo una giacca. Prendila.”
 
Vedendola dubbiosa e forse disgustata dall’idea di indossare una giacca usata da uno sconosciuto, Chris decise di posizionargliela lui stesso sulle spalle.
Avrebbe deciso lei, poi, se disfarsene. Era certo però che, sentendo il suo calore, non l’avrebbe fatto.
Fu così infatti. Nel momento nel quale l’erede Ashford sentì quel caldo umano, non solo della giacca, ma proprio di quell’uomo che prima l’aveva indossata, si accorse dell’umidità che aveva ghiacciato la sua pelle candida fino a quel momento.
Gli diede le spalle, confusa da quel gesto di gentilezza.
Il ragazzo fasciò intanto la sua mano bruciata con una garza; Alexia lo sbirciò con la coda dell’occhio, non riuscendo ancora a fidarsi del tutto.
Lo vide mentre controllava il suo equipaggiamento, non curante delle loro posizioni contrapposte, fino ad affiancarsi a lei, pronto a procedere.
Fu allora che decise di rivolgergli la parola, non potendo soddisfare la sua sete di conoscenza con semplici deduzioni tacite. Una condizione che raramente le si presentava.
 
“Tu.” disse richiamando la sua attenzione. “Non ho bisogno della protezione di nessuno, questa è casa mia. Conosco i suoi meandri, la sua storia, i suoi pericoli; questo luogo è molto più di un semplice laboratorio, è la mia vita.” disse, accarezzando una parete, come fosse un nostalgico ricordo.
“Siete voi gli abusivi ospiti che vagano nella mia magione senza conoscerne nulla. Non avete nella vostra memoria quel che è velatamente nascosto fra le ombre di un posto che pullula di segreti come questo. Dunque, se sono in pericolo, se il mio palazzo sarà davvero la mia tomba, non sarà certo per mano vostra, insulse creature; ma piuttosto perché sarà un mio preciso desiderio.
Le mie fiamme hanno già bruciato quanto di più caro avessi, e hanno intenzione di bruciare ancora. Lo vogliono…lo sento. Mi chiamano a gran voce ed io voglio ascoltarle.
Sono la sola che può decidere il suo destino. Nessuno ha questo potere, a parte me.”
 
Si fermò assorta.
 
“Spiegami, quindi, Chris Redfield. Tu che non conosci nulla, tu che sei solo un uomo…cosa vedi, invece? Per cosa devo ancora lottare secondo te?”
 
Da quelle poche parole, Chris dedusse qualcosa di molto più sincero di quanto già non apparisse.
Alexia non temeva né lui, né Wesker.
Lei…voleva dirgli che voleva morire?
In maniera intenzionale stava trasformando quel palazzo in una gabbia mortale cosparsa di cenere e fiamme. Voleva lottare e perire, era la sua decisione; non quella di Wesker, non quella di nessuno.
Il Redfield conosceva quel tipo di mentalità, ci aveva familiarizzato così a fondo da poter riconosce dallo sguardo coloro che bramavano la morte.
Nel mondo militare era una condizione tristemente comune in persone che avevano perso ormai tutto.
S’intristì nel sentir sottintendere quella donna un malanno di tale portata; seppur fosse sull’orlo di un baratro che stava per trasformarla in uno dei tanti crudeli mostri che aveva già affrontato, ella era attualmente ancora umana. Forse doveva solo capirlo.
 
“Se morirai, le tue ricerche andranno in mano a Wesker. In quel momento il mondo sarà un luogo ancora meno sicuro di come lo conosciamo. Abbiamo questa responsabilità.” disse serio.
 
“Cosa ti dice che io sia un’alternativa migliore?”
 
Lo bacchettò lei, senza troppa convinzione. Al che Chris le fece di nuovo quello stesso strano sorriso.
 
“Tu mi piaci di più di Wesker.”
 
Le fece l’occhiolino, dopodiché si incammino, invitando così anche lei a chiudere la conversazione e a proseguire; dovevano ancora seminare l’ex-capitano, probabilmente adirato più che mai per essere stato raggirato da lui.
Dal suo canto, Alexia non comprese quella risposta.
Era così semplice determinare la simpatia fra due persone? Cosa significavano quelle parole a lei così estranee?
La situazione tuttavia sembrò divertirla e le suggerì un pensiero che non aveva valutato fino a quel momento.
La cara Claire Redfield si era portata via suo fratello durante quei tragici eventi. Non v’era dunque nulla di anomalo se, in cambio, si fosse presa il suo di fratello.
In fin dei conti…..un fratello per un fratello.
Rise internamente, attenta a non farsi vedere troppo entusiasta.
 
 
[…]
 
 
“Dannato Redfield, è stato un mio errore sottovalutarti.”
 
Digrignò furente Wesker, dirigendosi inarrestabile nella sala comando.
Aveva impiantato un sistema di controllo altamente sofisticato in tutto il laboratorio. Grazie ad esso aveva preso il completo controllo dell’edificio a insaputa di tutti, neppure Alexia stessa avrebbe potuto sfuggirgli. L’aveva messa in trappola nella sua stessa preziosa casa.
Digitò dunque una serie di codici, grazie ai quali poté padroneggiare qualsiasi circuito. Non gli fu difficile determinare così la posizione dei suoi due attuali nemici; rise di gusto, pronto a far pagare a Chris ogni umiliazione. Nessuno poteva sperare di placare la sua ira quando decideva di mettersi in campo.
Wesker non conosceva la parola fallimento, quando mirava a un obbiettivo era certo lo avrebbe ottenuto. Per lui non esistevano abbastanza pedine da usare in quella guerra per i suoi fini. Quello a cui mirava era un premio decisamente ambito.
I suoi scopi erano però rigorosamente privati, celati nell’ombra di quei diabolici e indecifrabili pensieri, manifestati soltanto dal ghigno che allargava le sue labbra.
Vide i due muoversi nel sotterraneo, si sorprese di vedere la piccola Alexia così mansueta. Non gli importava che lei vivesse dopotutto; poteva recuperare il suo campione in altri modi.
Decise di intervenire subito e di confondere la neo coppietta bloccando qualche porta e aprendone altre assai più losche e pericolose.
La zona si riempì a loro insaputa di b.o.w. , che numerose si sparpagliarono fameliche, annusando l’aria alla ricerca di prede dal sangue vivo.
Altrove, ignaro, Chris Redfield proseguiva insinuandosi fra le incanalature di quel sotterraneo angusto, tenendo accanto a sé la temuta regina glaciale di quel mondo devastato, intento a salvaguardarla in virtù di uno scopo ben più alto.
La giovane, in realtà ben conscia del luogo ove aveva per anni sperimentato le sue ricerche, si accorse velocemente che qualcuno si stava divertendo alle sue spalle, giocando a fare il padrone di casa nella sua dimora.
Chiuse gli occhi e, attenta a non farsi vedere dal soldato che si era offerto di accompagnarla, ordinò al Baccello, fonte dei suoi poteri, di insinuarsi nel suo palazzo e trovare quel losco individuo che stava osando sfidarla sul suo territorio.
Individuò Wesker con la ferocia di un’assassina; aveva tutta l’intenzione di fargliela pagare.
I suoi occhi di ghiaccio sembravano risplendere come il fuoco, questo mentre dirigeva i tentacoli erbosi verso di lui; fulminei e devastanti.
Osservò l’uomo vestito di nero accorgersi di lei e sfuggire al suo attacco; tuttavia non demorse e continuò ad attaccarlo affidando ai suoi piccoli il compito di eliminarlo.
Poté così tornare al suo caro soldatino, ignaro di tutto.
Lo studiò con un velato sorriso sulle labbra, divertita nel vederlo credersi un eroe. Dopotutto…era così che doveva sentirsi un fratello; e lei, da brava sorellina, glielo avrebbe fatto credere. Sarebbe stato divertente.
In quell’istante un non-morto uscì all’improvviso da una porta, spalancandola con veemenza, costringendo Chris a porsi in posizione di attaccò. Atterrì la b.o.w. , ma gli spari attirarono l’attenzione di altri mostri.
Il suo tentativo di muoversi di soppiatto e risparmiare colpi fu così vanificato. Dovette ricaricare il mitragliatore e recuperare distanza in fretta, altrimenti questi li avrebbero sopraffatti velocemente. Pochi colpi e tutti micidiali, non doveva sottovalutare lo stato deteriorato di quelle carcasse. In preda alla fame potevano diventare più diaboliche di quanto i loro muscoli lerci permettessero.
Qualunque cosa facesse il T-virus a livello chimico, gli effetti erano certamente qualcosa di umanamente incomprensibile.
Chris era relativamente fortunato a sapere già come affrontarli, ma soprattutto a sapere di non sottovalutarli mai.
Alle sue spalle, vide Alexia allargare le braccia e decidere di intervenire. Ella creò un cerchio di fuoco attorno a loro, incenerendo gli zombie sopraggiunti.
In seguito, dei fusti erbosi si dimenarono su di loro come proiettili. In un primo momento Chris pensò loro come nemici, si accorse dopo che invece erano controllati dalla volontà di Alexia. Grazie a lei riuscì a risparmiare molti colpi e a mettersi in fuga piuttosto velocemente.
Mentre erano entrambi presi dalla battaglia, egli le mise una mano sulla vita sottile e la invitò a spostarsi per proseguire.
La ragazza dai capelli pallidi lo seguì, ritrovandosi d’accordo sulla strategia del mordi e fuggi. Anche se in realtà non le dispiaceva l’idea di sfogare un po’ del suo potere.
Una volta al riparo, Chris si fermò un attimo prima di avanzare. Alexia corrucciò il viso, infastidita da quell’espressione seria che sembrava intenzionata a parlare con lei, tanto per cambiare.
La cosa la annoiava.
Chris sembrò titubante, stava elaborando il suo pensiero con attenzione prima di porle la sua domanda.
 
“Alexia, devi dirmi di cosa si tratta. Cos’è questo virus?”
 
La bionda alzò un sopra ciglio, colta di sorpresa.
 
“Una variante del virus T, tuttavia molto più potente ed elaborata. Le ricerche dell’Umbrella erano a un punto morto, ritengo sia comprensibile perché vogliano mettere le mani sui miei esperimenti.”
 
Chris scosse la testa. “Non intendevo questo. Devo sapere a che…a che punto è. Il virus è davvero dentro di te?”
 
Si sorprese di vederlo tanto in difficoltà. Voleva semplicemente sapere se davvero fosse una b.o.w oppure no, cosa c’era di complicato?  
Nel suo ambiente quelle situazioni erano normali, quindi non comprendeva la sua ‘premura’. La riteneva sciocca.
La divertì stuzzicarlo, era davvero un ragazzo ingenuo.
 
“Vuoi chiedermi se sto perdendo la testa?” sorrise inquietantemente.
 
“No.” Affermò lui. “E’ una questione di cui dobbiamo occuparci. Pensi di potermi dare tutte le documentazioni? Nessuno deve entrarne in possesso, dobbiamo farle sparire prima che qualcuno le possa trovare. Poi potremo metterci alla ricerca di Claire.”
 
Udendo quel nome, Alexia si infastidì. Il bruno se ne accorse e decise di non ignorare il suo istinto.
 
“La conosci?” chiese, conoscendo però già la risposta. Gli occhi di Alexia avevano ampiamente risposto al suo posto.
 
La Ashford incrociò le braccia, dondolando appena col corpo e facendo per ignorarlo. Il volto truce di lui però la costrinse a parlare.
 
“Può darsi.”
 
Disse seccata. La irritava enormemente che la rossa Redfield guastasse il suo delizioso momento col ‘fratellone’. Voleva essere lei al centro dell’attenzione, si era stufata di vederla protagonista. Non poteva certo sapere che dal suo canto Chris non rivedeva sua sorella da cinque mesi, dunque quel vago barlume di speranza lo illuminò, non facendogli accorgere incautamente che così avrebbe scatenato l’ira della regina.
Quegli occhi preoccupati e quel tono di voce dolce…furono come una sega elettrica che infiammarono lo spirito già instabile della donna.
Claire ai suoi occhi era stata già condannata e giustiziata, non aveva senso parlare di lei.
Chris si avvicinò, preoccupato e speranzoso che qualcuno finalmente potesse dargli un indizio.
 
“L’hai vista, vero? Dimmi dove, o quando, o qualsiasi cosa ti venga in mente. E’ importante.”
 
Nello stesso momento in cui formulava quelle domande, i fatti gli furono subito chiari. Si bloccò e il volto invece stizzito di Alexia Ashford gli palesò quella verità tanto evidente.
 
“Tu…” sussurrò. “Sei tu che l’hai imprigionata, non è così?”
 
La bionda alzò gli occhi al cielo, stanca di quella conversazione.
Chris evocò a sé tutta la calma possibile, un auto-controllo che non gli fu facile da reggere.
 
“Devi portarmi da lei.” Deglutì. “E’ da giorni che sono sulle sue tracce, sono venuto fin qui per lei. Claire mi stava cercando, è colpa mia se è finita qui. Qualsiasi cosa sia accaduta, non prendertela con lei. Permettimi di trovarla.”
 
Alexia gli diede vistosamente le spalle.
 
“Fa silenzio. Cosa ti dice che io ne sappia qualcosa?”
 
Chris fece un’espressione malinconica. Si accorse di averla seccata, ma non poteva ignorare quella circostanza. Era di sua sorella che si stava parlando, diavolo!
Inspirò e provò a essere ancora più calmo, attento a non lasciarsi sopraffare dalla preoccupazione.
Doveva essere un soldato e mantenere il sangue freddo ora più che mai.
La giovane Ashford poteva essere l’unica in grado di portarlo da sua sorella, farsi sopraffare proprio ora dai sentimenti sarebbe stato sconsiderato.
 
“Occupiamoci di te, ora.” disse. “Usciamo di qui, in seguito vedremo di andarcene, tutti insieme.”
 
Detto ciò, impugnò la 9mm e la invitò a seguirlo.
Elaborò che rimandare l’argomento le avrebbe reso più facile vederlo come un ‘amico’. Si era appena conquistato la sua fiducia, non voleva buttare al vento i suoi sforzi.
Si era accorto che avere Alexia dalla sua parte era un vantaggio enorme e non voleva buttarlo, soprattutto per la salvaguardia di Claire.
Intanto nella mente di Alexia cominciò a nascere un pensiero…un pensiero che la disturbò più di quanto si aspettasse.
 
 
 
 
Claire Redfield…
Le dava proprio sui nervi.
 
 
 
 
[…]
 
 
 
 
Memorie nostalgiche, parole dimenticate, calori ormai spenti nel grigio di un vuoto incolmabile.
Tutto quello in cui credeva era avvolto in una vaga nebbia, al di la della quale aveva l’amara certezza di non vedere più nulla. Era un vuoto capace solo di gettare la mente nella paura.
Vale la pena camminare nel buio se oltre la foschia più tetra è possibile trovare un tesoro. Una propria luce. Un barlume di vita e speranza.
Tuttavia, quando ormai si ha la certezza di vedere depredato quello per cui si lottava, allora continuare quella ricerca non ha più senso.
Tuttavia ormai si è lì, si è andato troppo avanti per tornare indietro.
La nebbia avvolge anche quelle poche vaghe certezze, non v’era nulla. Non v’era più il proprio scopo, e non v’era più la strada del ritorno.
Si è soli in mezzo al nulla.
Nel silenzio di una tomba vuota, che ormai ha cambiato per sempre il proprio modo di vedere le cose; l’atmosfera si fa densa, il respiro ti schiaccia, lentamente il fuoco comincia a innalzarsi da dentro.
Quando sei sul baratro e non puoi né andare avanti, né indietro, l’unica cosa che ti resta è cedere…
 
…io ho ceduto…
…ho ceduto all’amore…
 
…ho chiuso il mio cuore in un forziere e l’ho gettato fra le fiamme…
 
…l’unica cosa che desidero è bruciare tutto…
Non mi interessa che questo cuore batta, se al mio canto non ci sei tu.
 
Ormai ho dimenticato cosa significa amare. Oppure, al contrario, l’ho imparato così profondamente e dolorosamente da scegliere di non provarlo mai più.
 
Resta al mio fianco ancora qualcosa; esso è l’Odio.
Una brace invitante quando si è soli ormai, abbandonati da tutti.
Voglio sacrificare anche questa parte di me stessa, al fine di dire davvero addio a tutto, una volta che avrò perduto anche l’ultimo tenue spiraglio, per sempre.
 
Chris procedette cauto fra i corridoi freddi e abbandonati del laboratorio dell’Umbrella.
Ogni tanto buttava un occhio alle sue spalle, controllando che la misteriosa giovane donna, padrona di quell’abominio, fosse al suo passo.
Ella era rimasta in completo silenzio, si muoveva dietro di lui come fosse una presenza rarefatta; si chiese più volte se fosse così perché a disagio o perché fortemente sociopatica. Decise tuttavia di mantenere quel silenzio, anche per investigare in modo concentrato quei luoghi dov’era richiesta la massima attenzione.
Vigile a ogni rumore e a ogni singolo spostamento, era riuscito a seguire l’andamento di Wesker e a seminarlo, procedendo presumibilmente in una direzione opposta alla sua.
Aveva dalla sua parte l’artefice di un germe che andava estirpato al più presto; sapeva che quell’uomo non avrebbe esitato a far lei del male ed Alexia non sembrava certo il tipo di persona da subire senza reagire.
Doveva scongiurare quello scontro, al fine di non vederla costretta a trasformarsi.
Le mostrò dunque come muoversi di soppiatto, strisciando fra le b.o.w. , infiltrandosi come ombre senza farsi notare.
Il soldato intendeva raggiungere i luoghi di ricerca veri e propri, in modo da portare via, o distruggere, i dati che potevano finire nelle mani del suo nemico. Avrebbe preso la decisione in base alle circostanze.
La Ashford si parò davanti a lui a un certo punto. Egli osservò il suo fisico magro e longilineo, che si intravedeva da sotto la giacca del tutto fuori misura che le aveva prestato. Ella alzò una mano e mostrò lui un passaggio che li condusse nella zona residenziale. Chris diede una veloce ispezione prima di dichiarare libera la zona.
I due avevano superato innumerevoli non-morti, attenti a non attirare l’attenzione di alcuno; erano entrambi in grave pericolo, nel mirino di un potente criminale.
Avevano camminato molto, probabilmente per un’ora intera. Osservò i suoi piedi nudi e notò quanto fossero rossi e feriti. Aveva marciato scalza senza sosta senza mai lamentarsi.
Dovevano solcare una logora scala prima di affacciarsi in un ambiente più vitale, e così istintivamente si offrì di sorreggerla per qualche tempo.
Si inginocchio dunque e la invitò a salire sulle sue spalle. Avevano ancora un lungo tragitto da percorrere.
Vedendola ovviamente riluttante, fu lui a piegarsi verso di lei e a sollevarla da terra. Dovevano aumentare il passo e poi desiderava che lei si fidasse di lui.
Fu tenendola su di sé che si accorse della sua estrema delicatezza, di una bambina lasciata sola troppo a lungo.
Non la conosceva e non sapeva nulla di lei, eppure sentiva che v’era qualcosa che le mancava fortemente; quel qualcosa era forse proprio la compagnia, calore, umanità.
Chris era abituato a prendersi cura delle persone; era stato costretto a crescere in fretta e la parte del fratellone premuroso gli veniva bene.
Al lavoro era diverso, si trasformava in una testa calda insofferente alle convenzioni, soprattutto quando insulse e inadeguate. Odiava essere preso in giro.
Però a casa sua o con i suoi cari, si trasformava in un ragazzo estremamente dolce, proprio perché la sua famiglia gli era stata tolta troppo presto e quei gesti erano forse l’unica cosa che gli rimanevano.
Il suo cuore si strinse pensando che in realtà la ragazza stesse lottando duramente contro un virus che bramava di liberare la sua ferocia.
Ogni tanto la vedeva stringere i pugni, come se stesse contrastando qualcosa; Chris era certo fossero i suoi pensieri.
Si augurò che ci riuscisse, doveva trovare un antivirus e aiutarla.
Non poté fare a meno di chiedersi, però, che se davvero aveva creato lei quel batterio perché non si fosse protetta adeguatamente. Era sua intenzione rimanerne contagiata? Per quale motivo?
Preferì però lasciarla riposare e non tediarla.
Aveva abbassato la guardia così lentamente che non voleva spezzare quel momento; Alexia aveva la capacità di sembrare così fredda, spietata e inumana, e al contempo così fragile e spaventata.
Passava da un estremo all’altro con una velocità spiazzante. Quando non parlava, dava l’idea di una giovane donna da proteggere; quando invece si esprimeva, veniva fuori il suo temperamento autorevole e superbo.
Aveva ovviamente messo in conto la possibilità di sbagliarsi, però istintivamente provava molta dolcezza verso di lei.
Osservò i suoi lisci capelli platinati, i quali cadevano leggeri sul suo petto.
Non aveva mai tenuto fra le braccia una ragazza simile, aveva molto di principesco, sembrava una bambola.
Sentì il suo corpo farsi più pesante, si stava lasciando andare probabilmente.
Si girò appena verso il suo viso, curioso di guardarla, e sbandò abbastanza vistosamente quando ritrovò a ricambiarlo due occhi di ghiaccio spalancati e inquietanti.
Alexia insistette con quello sguardo glaciale e inumano, cosa che angustiò Chris, in quel momento preso dai suoi pensieri.
Ella posò una mano sul suo viso, facendolo voltare di nuovo. Ancora una volta non disse nulla.
Gli sembrò come ricambiare gli occhi di un fantasma; v’era qualcosa di profondamente anomalo.
Vedendolo così controllato nel tenere a freno i suoi turbamenti, mantenendo un atteggiamento rigoroso, la bionda capì che non poteva ottenere da lui ciò che voleva.
In un certo senso, si poteva dire che amava prendersi gioco degli uomini, così stolti e vulnerabili.
Così scivolò a terra e si fece lasciare da lui.
Chris la osservò attonito, chiedendosi perché avesse voluto spaventarlo in quel modo. Lei intanto lo superò e si avvicinò a una grossa porta decorata con degli intagli molto fini.
L’aprì con una scheda magnetica e varcò la sua soglia; l’uomo la seguì, guardandosi alle spalle prima di chiudere la porta dietro di sé per assicurarsi che non vi fosse nessuno.
Strizzò l’occhio, facendosi sospettoso quando la serratura scattò alle sue spalle.
Si era chiusa a chiave?
Il suo sguardo si puntò su Alexia, la quale era al centro della stanza ora, dandogli le spalle. Ella fece cadere a terra la giacca, non avendone più bisogno, in seguito proseguì oltre affiancandosi a un camino.
Il soldato rimase immobile, esplorando furtivamente la stanza; si trattava di una enorme camera da letto.
Curata in ogni suo minimo dettaglio, poteva essere una stanza museale risalente a un’epoca rinascimentale per via delle opere d’arte dipinte sulle pareti e sul soffitto, che arredavano interamente l’ambiente. I tessuti preziosi del letto e del divano, il tappeto sfarzoso, il lampadario ampio e di cristallo, i candelieri dorati e luccicanti, la cristalliera pulita e ben conservata.
Non fece tuttavia in tempo a esaminare tutto che una poltrona si innalzò sotto di lui, comparendo dal nulla ai suoi piedi, costringendolo a prendervi posto.
I suoi polsi furono subito bloccati da delle maniglie e i suoi tentativi di mettersi in piedi furono vanificati da quel ferro inoppugnabile.
 
“Alexia!!” la chiamò contrariato. Digrignò i denti, chiedendole con i suoi occhi azzurri, virili e sinceri, il perché di quel tradimento così a freddo.
 
La ragazza, in tutta risposta, prese una sedia e si accomodò di fronte a lui, stranamente sorridente.
 
“Non voglio che tu ti faccia del male, Chris Redfield. Perdona i miei modi un po’ bruschi e improvvisi. Non sono abituata agli ospiti.”
 
Il bruno provò a manomettere le maniglie, ma non riuscì a liberarsi in nessun modo, ogni tentativo sembrava vano. Alexia intanto era lì a guardarlo con aria incuriosita, divertita quando perdeva il controllo.
 
“Ti consiglio di recuperare la calma, signor Redfield. Anche perché così stuzzichi la mia voglia di divertirmi e non voglio che guastiamo questo bel momento.”
 
Chris si sentì confuso.
 
“Tutto questo ti eccita, forse?”
 
“Uhm, probabile, ma non è quello che intendevo. Siamo qui perché non vuoi che io finisca fra le mani del dottor Wesker, non è così? Beh, anche io ho le mie premure e so bene quanto tu possa essermi di intralcio, soprattutto visto che sei interessato a trovare quella ragazzina insulsa. Questo sarebbe un problema per me.”
 
Confessò sprezzante, non accorgendosi di mettere il dito nella piaga; o forse, al contrario, facendolo proprio consapevolmente.
 
“Ti ringrazio per avermi fatto da copertura nel corridoio, ma adesso fatti da parte e lascia che sia la leonessa a cacciare.”
 
“Tsk.” sbuffò l’ex-membro STARS, cogliendo la provocazione. “Ti riferisci a Claire, vero? Cosa è le successo? Perché non mi parli con più chiarezza e mi dici le tue intenzioni, così decidiamo subito se essere amici o nemici.”
 
Alexia gli mostrò i suoi occhi ormai spenti e indecifrabili.
 
“Amici o nemici, è così banale per te? Non è questo il punto.”
 
Proferì e fece per abbandonare la stanza. Chris cercò di liberarsi ancora una volta, ma fu inutile. Si sporse verso Alexia alla ricerca di risposte che non sarebbero venute.
Vedendolo dimenarsi tanto, la donna decise di non abbandonarlo esattamente in quel modo; era troppo freddo persino per lei.
Si voltò un’ultima volta verso di lui, con un sorriso diabolico stampato sul suo viso angelico.
 
“Se ti lascio andare, tu te ne andrai dalla tua cara sorellina, no?”
 
“Cosa?!” sbandò, sorpreso da quell’improvvisa affermazione.
 
“Non preoccuparti, la prossima volta che ci vedremo avrai le idee più chiare. Riposa, mio valoroso soldato. Ora tocca a me.”
 
Sorrise in quel modo indecifrabile e provocatorio, a metà serio e scherzoso.
Mentre era ormai sull’uscio della stanza, però, si bloccò di colpo. Vide la sua fronte corrucciarsi, come ricordando qualcosa di importante da dirgli.
Si voltò verso di lui, piegando la testa.
 
“Oh, a proposito.” sfiorò i morbidi capelli con la mano sottile, “Anche tu mi sei più simpatico di Wesker.”
 
A quel punto andò via, spegnendo le luci e lasciandolo completamente al buio, solo in quella camera.
 
 
 
 
 
 
***
 
 
 
 
 



 
 
 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 27
*** La Regina: capitolo 06 ***


 
 
Capitolo 27
 
 
La Regina: capitolo 06
 
 
 
 
 
Se guarderai a lungo nell'abisso, l'abisso guarderà dentro di te.
(Friedrich Nietzsche)
 
 
 
 
 
 
Chris aprì debolmente gli occhi. La sua bocca era secca e la gola completamente asciutta, la sua pelle era invece fredda, sudata, appiccicaticcia. Era la terza volta che riprendeva conoscenza e non faceva che vedere perpetuamente un fitto nero davanti a sé. Era tutto buio. Triste. Silente.
Non riusciva a sentire più nulla. Le tenebre più dense lo avvolgevano nel loro glaciale abbraccio, nascondendo ai suoi occhi qualsiasi prospettiva, dipingendo con la sua pece ogni cosa.
Non percepiva più nemmeno il suo corpo stesso. Era come se galleggiasse nel vuoto, in una oscurità senza un inizio e senza una fine; l’altra faccia di un mondo inaccessibile, ove non gli era possibile alcun pensiero, alcun futuro.
Sbatté più volte le palpebre indebolite, ormai non riconoscendo più i momenti in cui era vigile da quelli in cui perdeva conoscenza.
Ritrovava davanti a sé sempre la stessa prospettiva, sempre lo stesso nero; come se i suoi occhi fossero perennemente ciechi, sia se fossero stati aperti, sia se fossero stati chiusi.
Riuscite a immaginare cosa significhi annegare nell’oscurità? Com’è davvero perdere ogni cognizione, sentendo quell’aria pesante dietro le proprie spalle che nega ogni possibilità di sentire il mondo che ci circonda, avvolti dal silenzio più violento e indifferente…
Un gioco di sensi che mirava a confondere la stabilità di un uomo invece rigido e vigoroso, che aveva imparato duramente a vivere nella terra dei morti.
Erano passati minuti, poi ore, e poi altre ore, e ore. Non v’era modo di conteggiare il tempo; il suo stato di alienazione stava cominciando a sfiancarlo.
Si sentiva ancora padrone dei suo raziocinio, ma il tempo incalzava ineluttabile e la paura non poteva essere schiacciata del tutto. Un pensiero brutale infastidiva la sua mente; quell’umano terrore di essere lasciato lì dentro per sempre.
I suoi muscoli dolevano; in quella dispersione, egli era anche costretto su una piccola e dura poltrona di legno, ancorato da due maniglie ferrose senza avere alcuna possibilità di sgranchirsi minimamente.
Uno stato coercitivo che, dopo quella lunga e indecifrabile attesa nel nulla, aveva logorato interamente il suo corpo.
La sua schiena era a pezzi, il collo doleva sui lati, le gambe erano addormentate e fredde.
Aveva cercato di forzare quelle morse innumerevoli volte ormai, logorando le carni dei polsi inutilmente.
Egli vagheggiò col capo, mentre la sua mente perdeva i sensi, ancora una volta.
E di nuovo il nulla.
Gli abissi lo avevano inghiottito; di quel soldato valoroso venuto in quel palazzo alla ricerca della sorella, non v’era più niente.
Egli faceva ormai parte di quel nero, perso nell’infinita catacomba di quel luogo bloccato nell’abisso.
Sprazzi di vita di tanto in tanto animavano quelle mura, anche se ‘vita’ non era il termine più appropriato.
Gemiti lontani echeggiavano per la struttura, essi scavavano tra le mura raggiungendo quell’arcana e tetra prigione, facendo da accompagnamento all’agonia di quell’uomo. Sebbene lontani e appena percepibili, a furia di ascoltarli era come se si facessero sempre più nitidi e vicini.
Non riusciva più a distinguerne la lontananza, facendolo sentire indifeso.
Dei sottili e freddi spifferi d’aria lo colpivano dietro la nuca, proiettando nella sua mente le immagini deteriorare dei mostri che potevano sopraggiungere a lui.
Il suo stomaco si irrigidiva, costringendolo palpitare; quello stato d’allarme lo stava danneggiando.
Cercava con gli occhi uno spiraglio, ma non riusciva nemmeno a rendersi conto se le sue palpebre fossero davvero aperte.
Sobbalzò non sentendo nemmeno il pavimento.
Quel gioco di sensi stava vincendo su di lui; sudava freddo e in modo silente tratteneva il tremore che crucciava i suoi impulsi interiori, impedendogli di tornare padrone del suo corpo.
Così lentamente egli giacque, cadendo di nuovo fra le crudeli braccia dell’oblio, entrando in uno stato di stand-by: mente e corpo si abbandonarono. Tutto si fermò. Nulla esisteva più.
Intanto il tempo passava ancora; indifferente, meschino, senza preoccuparsi di quell’ospite ormai in stato catatonico.
L’abisso è un luogo nefasto, chi non tocca il suo suolo non può davvero comprendere cosa significhi perdere tutto.
Non possedere alcuna condizione, alcuna forza, alcuna possibilità. Un vortice che risucchia via ogni cosa non stancandosi di sgretolare nel suo baratro anche le più evanescenti speranze.
Basta privare l’uomo della luce per dimenticare ciò che esiste.
Chiudendo gli occhi in una stanza buia, isolata da tutto, possiamo accorgerci quanto sia semplice annientare tutto il creato. In un attimo non esiste più nulla.
Futili certezze, spazzate via privandosi di un piccolo organo.
In questo universo, dove basta non vedere per chiederci chi siamo, cosa è davvero importante?
Annientate dunque le vostre consapevolezze, i vostri timori, le vostre gioie, cosa ritenete giusto o falso, qui nelle tenebre non avrete bisogno di nulla.
Vivrete solo di ciò che davvero vi appartiene da sempre, ovvero la più cruda disperazione. Una fedele compagnia che posa volentieri i suoi artigli sul vostro cuore, cibandosi di quelle inezie che credevate fondamentali.
Basta che quella candela fioca sparisca ed è tutto nero…
 
Dopo un lungo tempo non conteggiato, un lontano stridio si disperse lentamente partendo da una fonte che non riuscì a identificare.
Un ronzio molesto, che indusse il soldato a deformare le sue labbra, infastidito. Quel rumore si fece più insistente, costringendo il suo petto a contorcersi pur di scacciarlo dalla sua mente in qualche modo.
Poco dopo seguì un secondo suono, era una melodia simile a quella di un carosello mal accordato.
Quel ritmo gioioso, eppure acuto e violento, si elevava appositamente sulle note più pungenti, emettendo un rumore assordante che faticò a sopportare.
Il volume dei due suoni prese gradualmente ad alzarsi, come se quei rumori gareggiassero l’uno per sovrastare l’altro; ma così facendo devastavano i timpani e la mente già provata del Redfield, il quale non poteva proteggersi in nessun modo.
Le sue urla di dolore erano un eco muto in quel frastuono infernale, nessuno avrebbe mai potuto percepire i suoi lamenti. Poté solo dimenarsi pur di scacciare quel male, voltandosi senza avere la possibilità di contrastare quel tormento che continuava a martellarlo, torturandolo senza pietà.
Quella giostra continuò imperterrita, aumentando la sua intensità, velocizzando il suo ritmo e facendosi sempre più alto e forte.
Poi d’improvviso…silenzio.
Un’interruzione così improvvisa da fargli avere la sensazione di sbattere contro il muro.
Frastornato, spossato e agitato, il cuore di Chris batteva incessantemente, continuando a ripetersi di tener duro.
L’ansia faceva gonfiare il suo petto. Quel susseguirsi di buio, silenzio, disturbi, tormenti, poi di nuovo silenzio e buio…era un loop che stava facendo impazzire i suoi sensi.
Le sue forze lo abbandonarono nuovamente, facendolo cascare sulla poltrona, inerme. Il suo viso si fece apatico. Dissociato e intrappolato, tenne lo sguardo fisso nel vuoto, ove tutto era scuro e immerso nel nulla.
In quello stesso istante, da lontano scorse una piccola luce rossastra che prese a lampeggiare. Sbatté le palpebre accecato.
Sebbene fosse un puntino che dispendeva poca illuminazione, bastò a farlo sentire abbagliato essendo stato nelle tenebre così a lungo. Quel rosso era poi molto inquietante.
Questa si accendeva e si spegneva ripetutamente, e se dapprima gli aveva comunicato un minimo di senso di vita, disperato e alienato com’era, si accorse velocemente che fosse l’ennesimo modo per infastidirlo.
Provò a spostare lo sguardo, ma quella luce insistente non faceva che tediarlo. Seguirono vari giochi di luce di quel genere che si fecero sempre più molesti, tutti con il medesimo intento di farlo ripiombare nel buio d’improvviso. Per poi accecarlo di nuovo.
Per quanto ancora doveva continuare quella tortura?
Provò a sollevarsi, ovviamente inutilmente.
Sollevò di nuovo la testa dondolante e si ritrovò improvvisamente a scrutare il suo volto stanco e affranto.
A metà fra la coscienza e l’incoscienza, si esaminò distrattamente: non aveva una bella cera, era sciupato e sporco, come se da giorni non si prendesse cura di sé. Scosse la testa, riflettendo attentamente su quei pensieri.
Si accorse così che non stava guardando propriamente se stesso, ma il suo riflesso in uno specchio.
Senza che se ne rendesse conto, era stato erto un vetro riflettente ed era stato posizionato proprio di fronte a sé, giusto a pochissimi metri di distanza.
Si sentì spaesato.
Quel vetro era illuminato dalla stessa luce rossa vista precedentemente e rifletteva così la sua immagine con toni vermigli.
Diede una scrollata ai capelli appesantiti, non potendo fare molto altro; non v’erano azioni che potessero aiutarlo a sentirsi meglio in qualche modo.
Osservò la sua posizione costretta dalle maniglie arrugginite, sentendosi umiliato e snervato.  
Quell’ennesima prova di resistenza voleva forse metterlo alla prova contro se stesso, oppure era stato lasciato semplicemente lì per mostrargli quella solitudine immensa fino a gettarlo in un completo stato di abbandono.
Non gli era difficile comprendere il fine di tali crudeli perversioni.
Ripensò ad Alexia, al degrado del luogo in cui l’aveva trovata, e si chiese ardentemente se vi fosse ancora qualcosa di umano in lei; oppure se avesse sbagliato a vedere.
In lei aveva visto un’infinita e amara tristezza, che si era trasformata in una crudele chiusura mentale; dentro aveva un dolore incommensurabile, un male di vivere che aveva inghiottito la sua mente distruggendola.
Le risposte erano a portata di mano, gli bastava guardarsi attorno per comprendere quel mondo incenerito.
 Ai suoi occhi quella donna era una contradizione fra bellezza e spietatezza, tra un’amara tristezza e una prepotente superbia; era sia un’incompresa ragazza sola e indifesa, che un’indiscussa sovrana, fieramente padrona di quel castello.
Si ritrovò a osservare i suoi stessi occhi in quello specchio, rivedendovi quella confusione che lo affliggeva e che gli urlava di non lasciarsi sopraffare.
Voleva capire, voleva aiutarla. Non poteva accettare che non potesse far nulla per lei.
Fu in quell’istante che, ironicamente, si accorse che attraverso lo specchio poteva scrutare l’altra parte del vetro…fu una visione strana.
Che tipo di specchio era?
Oppure era un vetro talmente tanto lucido da essergli apparso uno specchio, anche per colpa di quel gioco di luci e ombre che fin dall’inizio lo stavano ingannando. Aguzzò dunque la vista e sgranò gli occhi quando, dietro a quel vetro, distinse lei.
 
Alexia Ashford sogghignò sottovoce, aveva atteso impazientemente il momento in cui lui si sarebbe accorto che lo stava osservando.
Ella lo scrutò con i suoi diabolici occhi di ghiaccio, incantevoli e agghiaccianti, avvicinandosi all’estremità dello specchio.
Subito dopo avergli rivolto un maligno sorriso, ella scavalcò l’uscio dello specchio, attraversandolo come se non ci fosse davvero, esattamente come un fantasma che può raggiungere ogni luogo che desidera.
Chris aveva i suoi occhi fissi su di lei, terrorizzato da quella visione paranormale.
Proprio mentre Alexia giunse dall’altra parte, la camera piombò di nuovo nell’ombra più completa, facendo trasalire l’ormai instabile soldato, che provò invano a girarsi attorno.
Cercò di individuare la donna che, occultata nel buio, si dilettava a vederlo impazzire. Sapeva che lo stava osservando, muovendosi fra le mura oscure di un universo che soltanto lei era capace di dominare.
Ella lo esaminò ridacchiando, notando che non riusciva a individuarla.
Si pose a sua insaputa esattamente dietro di lui e allungò le sue mani sul suo volto impaurito.
Chris sentì le sue dita sottili muoversi sui suoi occhi, così seducenti eppure terrificanti, come lame pronte a ferirlo se solo l’avessero voluto.
Ciononostante, appellò a sé tutta la sua rigorosità militare, consapevole che l’indole di Alexia fosse quella di mostrarsi al di sopra di tutti. Dunque era suo intento non darle soddisfazione; quindi rimase immobile, con il volto rigido e la schiena ben dritta, sull’attenti, lasciando che lei giocasse coi suoi sensi.
La donna dai lunghi capelli biondi trovava delizioso quel comportamento, quello del bel cavaliere senza macchia e senza paura.
Era affascinante un uomo tanto ligio al dovere, ai suoi principi, al suo senso della giustizia.
Non era una persona qualsiasi, sentiva dentro di lui una forza vitale che non poteva essere paragonata ad alcun essere avesse mai incontrato. Eppure non era questo ciò che l’attraeva.
La verità era che bramava visceralmente vedergli perdere quella maschera da bravo soldatino; voleva vedergli raggiungere il limite, trasformarsi e lasciarsi sopraffare dalla disperazione.
Esisteva una linea di confine, oltre la quale egli sarebbe crollato. Più quel soggetto era vigoroso, più era eccitante scoprire quando avrebbe raggiunto la soglia della sopportazione.
Seguì con le sue unghie curate le curve dei suoi splendidi occhi sinceri e leali. Lo specchio di un’anima che sembrava incorruttibile.
L’intera vita di Alexia era stata crucciata da quella perversa ambizione.
Ella era una scienziata cresciuta secondo i rigidi e disumani principi dell’Umbrella, da sempre non aveva fatto che portare al massimo le sue ricerche, al fine di creare un’arma batteriologica in grado di sovrastare qualsiasi creatura.
Da quando aveva messo piede sul mondo, la sua vita non era stata che questa continua ricerca.
Allo stesso tempo, amava mettere alla prova le sue creature, le sottoponeva alle prove più ardue fino a trovarne i punti deboli…questo per schiacciarle a e distruggerle crudelmente.
Un processo che serviva per trasformale in qualcosa di più completo, per poi distruggerle ancora, in un baratro eterno che lentamente l’avrebbe condotta a quella ambita perfezione cui mirava.
Eppure una volta raggiunto quell’apice…sapeva che si sarebbe chiesta se avesse potuto arrivare a uno studio ancora più raffinato ed elevato.
Non sarebbe mai stata soddisfatta.
Anche lei faceva parte di questo ciclo auto-distruttivo; aveva finito col distruggersi e ricrearsi, al fine di raggiungere risultati sempre più ambiti, ma mai avrebbe trovato la sua realizzazione.
Ella era consapevole di tale deviazione mentale, Alexia era dotata di una grande capacità di auto-analisi; non era difficile per lei prevedere la crudele sorte cui sarebbe andata in contro. Era la sua vita, il suo destino.
Dentro di sé doveva fare i conti con quell’inconfessabile realtà celata dietro la sua ibernazione di quindici anni.
Quell’egoistica brama di potere che non aveva potuto contrastare.
Semplicemente non aveva potuto fare a meno di farlo, in nessun modo, anche a costo di sacrificare le uniche cose che avesse al mondo…
Il suo era un baratro irrefrenabile: doveva creare, doveva distruggere, per poi ricreare e distruggere ancora, e ancora…
Chris Redfield l’aveva intrigata e forse persino attratta proprio per questo. Egli era un uomo integro, energico, ricco di valori buoni… ma non poteva fare a meno di desiderare di demolirlo.
A quel punto sollevò le mani dal suo volto, si allontanò e sparì nel buio.
Intanto egli stette immobile ancora diversi secondi prima di accorgendosi che la ragazza l’aveva nuovamente lasciato da solo.
Dal suo punto di vista era un continuo essere messo alla prova. L’impossibilità di vedere e la sua relativa perdita della consapevolezza del mondo che lo circondava si stava facendo sempre più compromessa.
Una gelida freddura crucciava ora il suo animo, devastato da quella condizione che perdurava da così tante ore di completa oscurità e silenzio.
Stette ancora una volta inerme, senza poter sfogare in alcun modo il suo malessere. Voleva cadere, voleva gridare, voleva reagire in qualsiasi modo.
Dal suo naso gocciolava un sudore di tensione fisica e psicologica. Il suo cuore batteva in petto, gonfiando il corpo irrigidito.
Poi di colpo, dopo esservi stato tutto quel nero denso e invalicabile, con una insensibilità riprovevole, una fortissima luce bianca fu proiettata in pieno sul suo viso, accecandolo completamente.
Egli digrignò i denti e cercò di tenere gli occhi aperti in una fessura.
Quel bianco sgargiante risaltava le sue splendidi iridi blu.
Ebbe la dimostrazione pratica di quanto sia il buio che la luce potessero essere equamente violenti e deturpanti.
Il bagliore non accennò minimamente a placarsi, anzi, più passava il tempo, più si faceva insistente; il ragazzo provò a spostare lo sguardo, ma per quanto potesse, il raggio era troppo ampio per poterlo evitare.
Dové dunque subire passivamente quella tortura, attendendo che la vendetta di Alexia si mitigasse.
Spostò le sue attenzioni verso il fondo della stanza, invece ancora avvolto dal nero, e fu allora che vide a circa cinque o sei metri di distanza, una seconda luce che si stava lentamente accendendo; essa era però più fioca e giallognola e lasciava una densa penombra sulla figura che stava pacatamente illuminando.
Chris, sebbene sotto sforzo, cercò di inquadrare la persona lì di fronte. Era una giovane donna, con il capo chino.
La testa era completamente oscurata, ma poteva vederne vagamente i capelli raccolti dietro la nuca; indossava un jeans e una maglietta nera corta, che lasciava scoperto l’addome mostrandone il suo fisico tonico.
Non gli ci volle nemmeno un attimo per riconoscere quella ragazza.
 
“Claire!!” urlò e il suo cuore prese a palpitare forte, in attesa di una risposta.
 
La giovane era immobile, sembrava incosciente e indebolita; probabilmente era stata stordita allo stesso modo di lui.
Il soldato dunque si concentrò, recuperando la lucidità. Si raddrizzò con la schiena e continuò a chiamarla imperterrita, questo finché non avrebbe avuto una sua reazione.
Ella sembrò finalmente muovere il capo verso la sua direzione, così Chris si rincuorò e fu in quel momento che trovò la spinta necessaria per tornare a lottare.
Si dimenò con tutto se stesso, ignorando i suoi polsi ormai arrossati da graffi e piaghe vivide, caricandosi di una forza finora mai mostrata, che finalmente riuscì a farlo prevaricare su quelle rugginose morse di ferro.
Riuscì a esercitare una pressione tale che i braccioli della poltrona di legno si ruppero e portò dunque via con sé le morse ferrose con tutto il legno ove erano ancorate.
Corse così verso Claire, pronto a portarla via da quel posto, ma si accorse giusto in tempo di un ennesimo vetro frapposto fra loro, il quale gli impedì di raggiungerla.
Batté adirato un pugno contro di esso, amareggiato di essere stato raggirato ancora una volta.
Tuttavia non demorse, si rimboccò le maniche concentrandosi sul fatto che gli mancava un piccolo, piccolissimo passo, e finalmente avrebbe raggiunto sua sorella.
Doveva riuscire a contrastare la delusione e non crollare proprio in quel momento.
Inspirò, dunque e batté di nuovo sul vetro, cercando di attirare l’attenzione della ragazza.
La luce bianca continuava a insistere sui suoi occhi, come allontanandolo da quel compito, costringendolo a ripararsi ripetutamente.
 
“Claire! Claire sono io…rispondi!”
 
“Chris…” sussurrò lei alla fine, dopo averla richiamata così a lungo.
Il soldato sorrise, rincuorato. Non poteva vederla bene e il vetro offuscava la voce di entrambi. Doveva fare del suo meglio per aiutarla.
 
“Claire, sono qui, sono venuto per salvarti. Perdonami se ci ho messo tanto, e anche per averti lasciato sola così a lungo. Prometto che mi prenderò cura di te da ora in avanti.”
 
“Sal..varmi…?” ripeté lei frastornata.
 
“Sì. Ho messo al primo posto le mie indagini, ero adirato per quello che era successo durante la mia ultima missione. Così facendo ho però trascurato te e tutto il resto. Mi dispiace…non volevo che ti accadesse questo. Quando saremo a casa, ricominceremo tutto, d’accordo? Però svegliati ora, dobbiamo andare via di qui.”
 
Le disse con grande sincerità, non potendosi perdonare quanto accaduto.
Vederla lì, con i polsi legati dietro una sedia, in quella stanza buia, sotto quella velata luce ombrosa, fece stringere il suo cuore come in una morsa, potendo solo immaginare cosa potesse aver vissuto, lei che era stata carcerata lì dentro da così tanto.
 
“Chris…è stata…è stata Alexia. E’ lei la causa di tutto.”
 
Ella raccolse le sue energie. La sua voce dapprima risultò debole e rauca, quasi non sembrava la sua, ma più parlava più il tono si scaldò facendosi sempre più alto e determinato; un diverso vigore ora l’animava, rendendola insolita. Il dolore e la rabbia l’avevano trasformata, era qualcosa di cui non poteva biasimarla.
 
“Quella…donna…lei si è auto-proclamata la sovrana assoluta di questo laboratorio, credendosi elevata rispetto tutto il creato; ma la verità è che lei non è altro che una spietata regina, odiata e temuta da tutti.
Ha finito solo col bruciare e distruggere il suo mondo, per inseguire qualcosa che invece non ha fatto che portare morte e dolore, persino a se stessa.
Si era preposta uno scopo ambito e si è appropriata di un’immensa potenza, la quale le si è ritorta contro gettandola invece fra i dannati.
Credeva di essere diversa, credeva di essere superiore, invece non è che un mostro raccapricciante.”
 
Quelle parole ferirono profondamente Chris, il quale era consapevole dell’intrinseca veridicità di quelle riflessioni, eppure…eppure non erano tutta la verità.
Non se la sentiva di puntare completamente il dito contro Alexia, la quale aveva certamente vissuto e reagito in modo sconsiderato, ma non era completamente colpa sua.
In quel disastro erano coinvolti anche la sua famiglia, l’Umbrella e tutto il contesto che aveva contribuito a farla crescere in modo tanto inumano.
No, non poteva giudicarla così aspramente. Non era giusto.
Tuttavia poteva immaginare con quanto dolore avesse caricato il cuore di Claire.
Tanta perversione e sadismo non potevano essere perdonati e questo lo comprendeva.
Prima però di poter dire qualsiasi cosa, fu sua sorella a riprendere parola prima di lui.
Il suo tono fu molto serio, cosa che spinse Chris a una maggiore attenzione ulteriore.
 
“Lei è sul baratro, non può essere fermata. Ha stabilito il suo verdetto e ormai ha deciso la tua condanna, Chris.” poi aggiunse. “L’ultima prova di Alexia…sono io.”
 
Dichiarò, gettando nello sgomento l’animo del ragazzo.
La Redfield sorrise, assumendo un'espressione quasi di compianto.
In quello stesso istante si accese uno schermo alla sinistra di Chris, il quale mostrava la ripresa di una videocamera di sorveglianza.
Il ragazzo si avvicinò, facendo attenzione alla stanza mostrata; si trattava di una cella dentro la quale era imprigionata una donna dai lunghi capelli pallidi, i quali erano completamente portati in avanti, coprendone il viso inclinato.
Era Alexia.
L'uomo si appropinquò a due dita di distanza, frastornato da quella visione; cosa ci faceva Alexia ridotta in quello stato catatonico e per di più prigioniera?
Come era possibile se fino a qualche momento prima era stata dietro di lui, a giocare con i suoi sensi?
Accostandosi allo schermo, incappò in un macchinario ad esso connesso.
Si trattava di un marchingegno visibilmente molto complesso, ma costituito sostanzialmente da una serie di comandi congiunti a un motore distinguibile dalla prospettiva della telecamera.
Aguzzando meglio la vista, notò che quella macchina collegava a un braccio meccanico armato di vari tipi di lame, affilate come rasoi.
Chris impallidì, rifiutandosi di comprendere lo scopo di quella diabolica apparecchiatura.
Sbirciò verso il basso e costatò che la chiave di accensione era inserita nella fessura. Doveva solo girarla e mettere in moto.
 
"Non hai altra scelta."
 
Sentì dire alle sue spalle.
 
"Cosa intendi?" chiese tremante.
 
"Sono riuscita a scappare poco prima che lei mi imprigionasse. Ero io che dovevo essere rinchiusa lì dentro.” racconto Claire con voce roca, esprimendo con il suo tono tutta l’ansia e la paura di quel momento. “Lei voleva costringerti a uccidermi con le tue mani; era questa la tua condanna.”
 
Ci fu un breve, ma interminabile momento di silenzio, nel quale i due fratelli elaborarono una ipotetica e terribile sorte, che tuttavia non sembrava del tutto sorpassata. Il ragazzo dai capelli castani strinse gli occhi, mentre un forte turbamento interiore cominciava a metterlo in guardia.
Rimase in silenzio, attendendo la fine del racconto di Claire.
 
“Sono stata lì dentro, per giorni, dovendo sentire orribili parole. Ti ho aspettato, senza perdermi d’animo. Alla fine ho avuto la mia occasione e…l'ho fermata e sono corsa via. Ciononostante mi ha catturata come vedi.” si fermò. “Esiste un unico modo per fuggire davvero, e lo sai..."
 
Chris digrignò i denti.
 
"Non capisco.” scosse la testa. “Per quale motivo dovrei ucciderla per liberarti?"
 
"Per quanto entrambi possiamo scappare, lei ci troverà sempre." spiegò afflitta. "Alexia voleva uccidermi. Era me, ME, che voleva che tu facessi a fette. Godeva dall'idea di torturarmi e soprattutto di scegliere come mano giustiziera la tua.
Non hai idea di quanto ti ho aspettato, non puoi immaginare quanta paura ho avuto, quanto dolore ho sopportato.
Vuoi abbandonarmi proprio ora? Quando sai perfettamente chi è lei?"
 
Chris non riuscì ad ascoltarla fino in fondo. Non gli tornava quel discorso, v’erano troppe incoerenze, trovava  inverosimili quelle parole da parte di Claire, nonostante avessero un giusta veridicità.  
 
"Non lo vedi, Chris?" continuò lei. "E' ormai in procinto di trasformarsi. Non dovrai farlo ora, magari, ma dopo sì. E' un atto di pietà il tuo, verso una persona che in realtà non è che se lo meriti molto. Fra meno di qualche ora il virus le farà perdere del tutto il controllo sulla sua mente. Il processo è già in atto, non può essere fermato. Devi farlo, non hai altra scelta..."
 
"Non riesco a capire...!" ringhiò Chris indignato. "Lei era qui un attimo fa, era nella stanza con me! Quando esattamente saresti riuscita a fuggire e a intrappolarla al tuo posto in quella cella?"
 
Claire sorrise, il suo povero fratellino aveva un cuore troppo buono, era sempre stato il suo tallone d'Achille.
 
"Oh, Chris, cosa dici? Cosa ti fa pensare che lei sia stata qui ‘poco’ fa? Ti ha lasciato per ore al buio, da solo, facendoti perdere la cognizione del tempo e di te stesso. Perché sei così sicuro, dunque, che non sia passato più tempo rispetto la tua percezione?"
 
Il bruno ansimò, scoraggiato. Picchiò un pugno contro il muro, non potendo credere che stava accadendo realmente.
 
"Perchè..." chiese. "Perché ucciderla poi in modo tanto violento? Noi non siamo così. E' brutale...non… non merita una fine del genere, nemmeno se davvero si trasformasse in un mostro!"
 
"E' questo il problema? Sul serio?" lo rispose spaesata la ragazza, trovando ridicolo che si facesse tanti problemi dopo che lei ne aveva subite così tante. "Forse non te ne sei accorto, ma hai ancora la pistola con te."
 
Chris posò la mano nella cintura e sobbalzò accorgendosi che effettivamente era vero, era armato.
Puntò gli occhi verso la sorella e di nuovo quella luce bianchissima lo accecò con violenza.
 
"Non hai notato nemmeno che c'è una finestra in questa stanza. Vai a controllare, è proprio lì, un po' più avanti. Osserva e dimmi cosa vedi."
 
Leggermente disorientato, il ragazzo seguì le sue indicazioni; era completamente buio, muoversi era un vero e proprio salto della fede.
Fu sorpreso quando trovò dinanzi a sé, mentre costeggiava il muro, delle barre di ferro che limitavano una piccola finestrella che affacciava proprio su una prigione.
Guardando al di sotto, poté vedere una cella all'interno della quale era conficcata nel pavimento una mastodontica falce insanguinata. Esaminò meglio quella squallida e lugubre segreta e notò due figure: uno era un ragazzo ormai bianco e irrigidito dalla morte e l'altra era proprio la donna dai capelli biondi posta di spalle.
 
"Come vedi, puoi scegliere di spararle da qui, se vuoi. Un’opzione più umana, ti comprendo."
 
Chris non parlò.
Nel suo privato, combatteva contro il micidiale istinto di afferrare la sua 9mm, eppure non riusciva in nessun modo a trovare la logicità delle parole di sua sorella.
Non riusciva a capacitarsi.
 
"Sei la mia unica speranza.” lo supplicò. “Avanti…fallo, Chris. "
 
Non tornava nulla in quello che stava accadendo, né il suo modo di parlare, né il suo fervore, né Alexia lì prigioniera, né quelle circostanze, e neppure quella luce che non faceva che abbagliarlo proprio ogni volta che tentava di guardarla.
 
"Uccidila."
 
Inoltre non poteva fare a meno di chiedersi il nesso fra la morte di Alexia e la vita di sua sorella.
Quel crudele gioco dei sensi lo aveva confuso e fuorviato; si sentiva tremare, sudava freddo.
La nausea prevaricava sui suoi sensi, ormai voleva solo venir fuori da quella situazione.
Intanto il buio chiudeva ogni sua prospettiva; allo stesso modo in cui la luce invece accecava le sue certezze.
Era un fulcro di nozioni sbagliate, che non facevano altro che distruggere nel loro baratro il suo intento di ragionare.
Questo mentre Claire continuava a parlargli, implorando il suo aiuto, richiamandolo al suo dovere di fratello, disperando e reclamando quella condanna...ancora...e ancora...
 
"Uccidila."
 
"Ora basta!!"
 
Urlò e a quel punto...silenzio.
Il tono alto e potente di quel comando bloccò completamente la giovane, che si azzittì di colpo non riuscendo più a dibattere.
Osservò Chris marciare in sua direzione, con lo sguardo fermo, le emozioni controllate, il fervore dominato dai suoi sensi.
Il feroce bagliore vivido di quel faro continuava a picchiarlo sugli occhi limpidi, intimandogli di fermarsi, cercando di nascondergli scomode verità, di negare ogni percezione, gioia o dolore.
Egli però tenne le sue palpebre ben aperte, ormai scoperta quella realtà, mostrando i suoi fieri e leali occhi blu.
 
“Hai cercato in tutti i modi di piegare la mia volontà, di sottomettermi ai tuoi principi, di distruggere quello che è dissimile dalla tua realtà. Bramavi dominare sulla devastazione di un mondo oscurato, ove ogni cosa è consumata in un incendio senza fine. Solo tu potevi ergerti fra quelle ceneri. Oppure…”
 
Si fermò.
 
“Oppure, più semplicemente, eri talmente certa di essere odiata e temuta da tutti, da esser sicura che avrei scelto di spararti. Non è vero, Alexia?”
 
Chris si posizionò eretto davanti al vetro, aspettando.
Dall’altra parte, la donna abbassò il suo viso celato dalla penombra.
Dopo un lungo momento di silenzio, il suo corpo prese a muoversi assecondando le movenze del sogghigno che non poteva più trattenere.
Ella rise silenziosamente, allargando le labbra e compiacendosi di quello spettacolo che aveva avuto un risultato molto diverso da quello che si era figurata.
Si alzò dalla sedia, palesando di non esser mai stata legata o imprigionata. Portò le mani sul capo e sciolse i suoi capelli, i quali al buio erano apparsi molto più scuri. Quando però venne alla luce, questi si rivelarono essere palesemente più chiari e così quella donna si rese riconoscibile come la smascherata Regina.
Avanzò verso Chris, imitando la sua fermezza, non staccando i suoi occhi da quelli onesti e leali di lui, il suo bel cavaliere puro e innocente.
 
“Chris Redfield, sei molto più mieloso di quanto avessi immaginato.” sorrise. “Non mi hai sparato, sono lusingata.”
 
Chris osservò la sua figura, la quale appariva molto diversa con una semplice maglietta e un paio di jeans.
Il suo animo si contorse, facendolo interrogare ancora una volta su quella drammatica storia che sembrava voler negare un lieto fine a tutti i costi; non riusciva ad accettare che non potesse far nulla per lei.
In quelle spoglie appariva una comune ragazza di un’età simile a quella di sua sorella, non faticava a immaginarla confondersi fra le ordinarie vie cittadine.
Quel pensiero lo crucciava. Era davvero impossibile aiutarla a trovare una vita normale?
 
“Pensavi l’avrei fatto?” chiese.
 
Alexia si fece pensierosa. Spostò lo sguardo da lui, riflettendo ad alta voce.
 
“Probabilmente volevo lo facessi. Forse hai ragione…forse pensavo davvero di essere così odiata che chiunque avrebbe scelto di uccidermi. D’altra parte, invece desideravo che ti voltassi e puntassi la tua pistola contro di me.”
 
Ammise, piegando dolcemente il viso di lato. “In ogni caso mi avresti uccisa, vedi?”
 
“Perché vuoi così tanto morire?”
 
A quella domanda, Alexia allargò di nuovo le sue morbide labbra in un sorriso stavolta molto diverso dal solito.
Fu un’espressione nuova, sincera, trasmetteva una limpidezza che non aveva mai visto nei suoi occhi cristallini, i quali si fecero improvvisamente umidi palesando quella risposta che non poteva dare.
Un realtà che egli poté leggere nitidamente in quello sguardo languido e distrutto, rinchiuso in un abisso dal quale non poteva scappare.
I loro mondi si fecero distanti in un attimo, mettendoli di fronte quella crudele realtà che li divideva.
Due universi che avevano conosciuto il dolore e la distruzione, sprofondati nella pece più nera ove non v’era ormai più tempo per tornare indietro.
Il soldato non poté far altro che specchiarsi negli occhi di quell’abisso, non potendo in nessun modo raggiungerla.
Posò una mano sul vetro, desiderando stabilire un contatto con lei, ma erano ineluttabilmente separati, ognuno nel proprio destino.
Ella socchiuse gli occhi e poggiò il capo sul vetro, in corrispondenza proprio della sua mano, come immaginando una sua tenue carezza di conforto.
Chris si avvinò maggiormente al vetro, assecondando quel gesto.
Quell’impalpabile abbraccio, separato dal freddo sipario creato dal vetro trasparente, fu come il simbolo tangibile di quei due universi che si erano incontrati ma che mai avrebbero potuto congiungersi; feriti dalle tenebre che avevano finito con l’inghiottire ogni cosa.
Stettero soli, immersi in quel buio e nel completo silenzio, accettando crudelmente quel destino che sembrava non poter essere cambiato.
Dopo un po’ ella si sollevò e lo guardò dritto negli occhi.
 
“La ragazza che hai visto era tua sorella, va’ da lei. Ti apro io le porte.”
 
Stavolta non v’era un’ombra di inganno nelle sue parole. Chris poté leggervi completa sincerità.
Ella si allontanò, muovendosi verso il fondo della stanza.
L’uomo schiuse la bocca, cercando le parole adatte da rivolgerle, ma esse gli si strozzavano in gola.
Batté sul vetro, desiderando che lei si voltasse verso di lui un’ultima volta.
Non sapeva cosa fare o cosa dirle, voleva solo che non se ne andasse.
Udendo quel rintocco, ella si voltò debolmente.
 
“Grazie.” riuscì solo a dirle, sussurrando.
 
Lei sorrise, dopodiché, come un fantasma sparì leggiadra nel buio della notte, tornando a immergersi nell’oscurità dei suoi abissi.
Il faro che prima abbagliava il soldato si spense e lentamente le luci dell’ambiente si normalizzarono, restituendo alla camera il suo ordinario aspetto.
Chris si guardò attorno, frastornato, come risvegliatosi da un lungo sonno.
Riconobbe quelle mura. Si trattava della stessa camera ove era giunto con Alexia molte e molte ore prima; adesso era però palese ai suoi occhi la sua vera natura come stanza di sorveglianza.
Riconobbe il vetro, lo specchio…fra i quadri appesi e i vari decori, individuò le finestre sbarrate adibite proprio alla vigilanza delle segreta nascoste al piano di sotto.
Fu come destarsi da uno stato di cecità, durante il quale aveva vissuto sulla sua pelle cosa significasse veder sparire ogni sua certezza, ogni suo affetto, ogni suo saldo principio…ella era riuscita a creare un mondo metafisico che in poche mosse aveva dimostrato quanto bastasse spegnere le luci per perdere tutto.
Spostò lo sguardo e trovò su un comodino una chiave rugginosa, che usò per liberarsi definitivamente dalle morse ancora arpionate ai suoi polsi; si massaggiò riflettendo a quella curiosa parafrasi che probabilmente Alexia aveva voluto comunicargli: ovvero quanto in realtà le soluzioni fossero a nostra portata di mano.
Restò diversi minuti in silenzio, abbandonato ancora a quel flusso di pensieri che quegli abissi avevano infuso nel suo animo.
Chiuse gli occhi.
In seguito controllò la sua 9mm, disponendosi in posizione di punta, pronto a mettersi in marcia, stavolta davvero per salvare Claire.
 
 
 
[…]
 
 
 
 
Regina della notte…regina del buio…regina di un abisso dal quale nemmeno tu stessa puoi salvarti…
 
Regina crudele…regina triste…
Regina abbandonata da un amore che non puoi più ricambiare…
 
A cosa serve essere regina, se non hai più un regno da governare?
 
Se tutto questo potere dovesse sparire, non sono certa soffrirei…
Per la prima volta mi accorgo che non è solo il vuoto a lacerare la mia anima.
E’ qualcosa di molto più profondo…
…così invadente, così incavato nella mia testa da non poter essere estirpato.
 
Ho compreso che il problema sono io.
 
Sono sempre stata io.
 
Quando l’ho capito, avevo già fatto la mia scelta. Non ho più nulla da temere, non ho rimpianti che lascerò su questa terra.
Son sempre stata sola a risolvere i miei conflitti, questo perché ero l’unica in grado di comprenderli. Dunque è da sola che intraprenderò questo cammino.
Non mi spaventa.
Sono ormai pronta.
 
“Miss Ashford…”
 
Innalzandosi dal buio, chi poteva rivelarsi se non il principe dell’oscurità incarnato?
Albert Wesker salutò la portatrice del T-Alexia Virus con voce canzonatoria, beffandosi di quel delicato momento in cui ella avanzava pensierosa nel suo palazzo.
La contemplata e temuta regina non si voltò neppure; camminò leggiadra scivolando fra la desolazione e la solitudine del suo mondo, sparendo poi silenziosa dopo aver imboccato un angolo.
L’uomo fece un ghigno.
 
“Che tu lo voglia o meno verrai con me, ma tu questo lo sai già…Ah! Ah! Ah! Ah!”
 
Alexia udì alle sue spalle quel rumoroso sogghigno, perfido e arrogante come era sempre stato quell’uomo.
Non se ne curò assolutamente, continuò per la sua strada, indifferente a quella superbia, accompagnata da quella diabolica risata che fece da sfondo al suo ultimo viaggio.
Si disperse così lungo i laboratori, destreggiandosi fra le b.o.w. libere di vagare, dominandole come la degna sovrana di quei luoghi.
Ogni qual volta una di quei fallimenti ripugnanti osava anche solo inebriarsi dell’odore del suo caldo sangue, le bastava sollevare debolmente una mano che questi prendeva fuoco.
Giunse infine di fronte il luogo che aveva definitivamente cambiato il suo destino. Aprì la porta con un passepartout magnetico da lei gelosamente custodito e si mise ai piedi della capsula di ibernazione che per lunghi quindici anni l’aveva ospitata, separandola dal suo unico amore eterno.
Osservò il corpo privo di vita di Alfred Ashford, suo fratello, ed allargò le braccia.
Era in quel luogo che avrebbe abbandonato l’ultimo residuo della sua già evanescente umanità.
 
 
 
[…]
 
 
 
Il freddo e distaccato silenzio di un vuoto ormai incolmabile.
Pesante, insopportabile, impossibile da raggirare.
Aveva abbandonato nel nulla le sue speranze, nessuno avrebbe potuto restituirle quanto le era stato tolto.
Rannicchiata in un angolo della sua prigione, desiderava soltanto soffrire il suo dolore; era giusto che patisse quella punizione.
Non v’era altro che potesse fare. Aveva accettato la sua condanna. Era serena nella sua disperazione, che aveva ben accettato in quanto fautrice del suo destino.
La sua vita non era stata che questo. Perdita, perdita, e ancora perdita.
Era rimasta sola, ma non lo sarebbe stata più per molto. Una parte di sé era persino contenta di disperare, perché sentiva che non mancava tanto al momento in cui quella sofferenza l’avrebbe lasciata.
Eppure i solchi lasciati dalle lacrime ormai asciutte sulla sua pelle, indicavano quanto in realtà quel corpo fosse ancora vivo e palpitante.
I suoi occhi si erano seccati e la sua mente aveva ceduto, ma la sua forza era ancora lì, sebbene assopita.
Quella realtà la faceva stare male, non voleva più sopravvivere.
Voleva finalmente congiungersi a tutte quelle persone incrociate durante il suo percorso, per chiedere loro perdono.
 
“Claire! Claire sei qui?”
 
La ragazza corrucciò il suo viso fino a quel momento assopito. Schiuse debolmente gli occhi, per poi chiuderli nuovamente.
Non aveva alcuna intenzione di svegliarsi. Voleva restare lì, dove era il suo posto, accanto chi aveva amaramente perduto.
Stavolta non sarebbe andata avanti, non avrebbe lasciato indietro nessuno.
 
“Claire!! Claire!”
 
Sentì in lontananza un richiamo insopportabile, che non faceva che dire il suo nome, insistendo con invadenza.
Non voleva sentirlo. Ormai odiava quel nome.
Non voleva più combattere, si era stancata di perdere, di vedere infranti i suoi sogni, di dover continuamente richiamare la sua positività in un mondo che invece non faceva che calpestarla con malignità.
Non voleva più lecitamente soffrire, voleva abbandonarsi a quel lungo stato di apatia, fino a perdere coscienza completamente.
Era stata l’unica sopravvissuta già troppe volte, voleva chiudere quella catena di morte e v’era un unico modo per farlo.
Eppure…eppure l’uomo per natura ha sempre un barlume dentro di sé, che non è in grado di spegnere al cento per cento; almeno fin quando non è finita davvero.
Finché c’è vita c’è speranza; potrebbe sembrare un banale modo di dire, invece è una condizione assolutamente umana, che non possiamo contrastare. E’ una realtà che definisce la nostra appartenenza.
Soltanto la vera a cruda dipartita finale può definitivamente chiudere quella porta per sempre.
La vita è colei che permette la nostra esistenza, siamo quel che siamo proprio perché viviamo. Anche negli attimi più bui e inconsolabili.
Soffriamo anche perché siamo vivi. Nonostante tutto.
Anche quando crediamo che non vi sia più niente per cui combattere, vi è sempre un appiglio a cui essa ci permette di aggrapparci.
Claire Redfield si contorse, consapevole che quel cuore batteva ancora; lo sentiva, la chiamava, voleva che lei si alzasse, che reagisse.
Era il suo naturale istinto.
Si crucciò devastata da quella forza interiore che non voleva abbandonarla, come lei invece desiderava.
Era stanca…davvero stanca…tuttavia la sua anima era in conflitto col suo desiderio di morte.
Questo la fece chiudere in un pianto silenzioso e disperato, che non voleva ascoltare.
 
“Sono io, Chris. Rispondimi, ti prego..!”
 
“Chris…”
 
Quanto era crudele il destino.
Quanto aveva ancora intenzione di dannarla in quel circolo di morte?
Quanto ancora voleva farla rialzare, per farle vedere le tante persone che non ce l’avevano fatta?
Sollevò il viso, asciugandosi.
Quel sadico mondo era stato capace di riportarle addirittura l’unica persona che contasse davvero, l’unica che le fosse ormai rimasta, questo pur di metterla con le spalle al muro e impedirle di fare quel finale gesto estremo.
Che gioco meschino…meschino davvero.
 
“Sì, sono io. Sono qui.”
 
“Chris…non ce la faccio…” bisbigliò, non riuscendo a trattenere l’amarezza di chi è pronto a lasciare la vita. Solo l’umana paura la tratteneva ancora.
Si stava dolorosamente capacitando che stava tuttavia perdendo anche quella partita.
Non era riuscita a vincere la vita…e nemmeno la morte. Non era riuscita a fare nulla.
 
“Claire…” rispose Chris, affranto. Egli era dall’altra parte della porta, sigillata in una robusta struttura di ferro.
 
“Non ce l’ha fatta. Nessuno ce l’ha fatta… né Steve, né Alfred…perché io…invece…”
 
Il soldato rievocò il ricordo di quel corpo ormai spento che aveva intravisto dalla finestrella sbarrata, poco prima.
Era un giovane ragazzo dai capelli castani, così bianco e livido da far paura.
Strinse gli occhi, comprendendo purtroppo bene cosa significasse sopravvivere ai propri compagni. Era desolante dover riconosce in sua sorella quella stessa sofferenza, non avrebbe mai voluto che anche lei dovesse condividere la vita con tale angoscia insuperabile.
Un peso che mai sarebbe stato alleggerito, lo sapeva bene.
Osservò la porta ferrosa davanti a sé, addolorato di dover stare lontano da Claire proprio in un momento come quello.
Strinse i pugni. Non v’erano parole che potesse dirle, non esisteva consolazione.
Doveva ingoiare quel rospo ed essere pronto ad aiutarla, era l’unica cosa potesse fare per lei.
Si avvicinò dunque, attaccandosi alla porta, e con voce dolce cercò di spiegarle cosa avrebbe dovuto fare.
 
“Claire, presto andrò ad attivare il sistema di allarme della struttura. Questo servirà ad aprire tutte le porte. Allora dovrai essere pronta, d’accordo?”
 
Disse pacato e lento. Sentì singhiozzare dall’altra parte e gli si strinse il cuore ancora una volta.
 
“S-sì.”
 
Rispose lei, tremante. Il Redfield annuì a sua volta, consapevole che lei avesse compreso cosa volesse dirle.
Il suo compito era esattamente questo, doveva essere un fratello, doveva portarla via.
 
“Adesso mi allontano, tornerò presto però. Tieni duro. Io sono qui per te, hai capito?”
 
“Chris…”
 
“Dimmi.”
 
Claire inspirò fortemente. Alzò gli occhi al cielo, impedendo alle lacrime di cadere ancora.
Si sentiva scoraggiata, debole, affranta; eppure la vita la chiamava a gran voce.
Ciò le trasmetteva un profondo senso di ingiustizia che non riusciva a contrastare del tutto.
Si sentiva così egoista a voltarsi e andare via…ancora una volta.
 
“Fai attenzione. Vai, non preoccuparti per me. Io ce la farò, te lo prometto.”
 
Stavolta era suo dovere tranquillizzarlo.
Chris era lì per lei, stava mettendo a repentaglio la sua vita, non doveva deludere anche lui.
 
“Lo so.”
 
Rispose lui, infondendole quella sicurezza che solo lui sapeva trasmetterle.
In seguito corse via, pronto a intraprendere quell’ultimo passo e mettere definitivamente la parola fine a quella storia.
Dall’altra parte della porta, Claire si voltò un’ultima volta verso Steve Burnside, sentendo il suo cuore cadere a pezzi ancora una volta.
Chiuse gli occhi, chiedendogli perdono, invocando a sé le energie necessarie per riuscire a compiere anche lei il suo ultimo passo.
In seguito si mise di fronte alla porta, pronta a corre nel momento nel quale avrebbe sentito gli allarmi suonare.
 
 
 
 
***
 
 



 
NdA:
Così siamo giunti alla fine...ammetto di essere emozionata. ><
Grazie per essere rimasti fin qui. Con il prossimo aggiornamento, ci sarà la conclusione di questa storia.
Thanks..!

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 28
*** Capitolo 28: Nec sine te, nec tecum vivere possum ***








The Only Woman, The Only Queen




-Ultimo Atto-
 
 
 
 


 
 
 
Capitolo 28: Nec sine te, nec tecum vivere possum
Non posso vivere né con te, né senza di te. (Ovidio)
   
 
 
 
Ti odierò se potrò; altrimenti ti amerò mio malgrado.
-Ovidio, Amores  (III, 11b, 3)
 
 
 
 




 
 
 
 
Laboratorio dell’Umbrella corporation - Sede: Antartide
 
 
 
  
 
 
Le sirene del sistema di allarme si diffusero fra le mura gelide dell’imponente edificio nascosto tra le distese dell’Antartide, emettendo il loro ultimo grido.
Squillarono logorate a furia di tacere le orrende storie, gli inaccettabili destini e la violenza più macabra di cui erano amaramente testimoni.
Gemiti e fragori di estremo dolore, uniti a vite distrutte e plagiate, tutte nel nome di una scienza che mirava solo a contaminare la dignità umana.
Esperimenti nascosti e menti deviate, che furono lasciate libere di agire per troppo a lungo, e così quel territorio fu costretto a fingersi orbo e silente, pur di sopravvivere.
Aveva tappato le orecchie, serrato gli occhi, cercato di fuorviare ogni cosa per salvarsi, ma internamente sapeva di aver visto la morte al suo livello più crudo e disumano. Questo l’aveva ormai macchiato per sempre.
Le luci rosse lampeggiavano seguendo un movimento circolare, illuminando l’intera struttura finalmente libera di urlare. Furono come il simbolo di una struttura invece viva, stanca di essere indifferente, vogliosa di far sparire dalla faccia della terra quegli abomini.
Quegli allarmi parlavano e volevano gridare alle lande desertiche e desolate di tutto l’Artico che in quel luogo viveva il male.
L’apatia e il dolore incommensurabile avevano alimentato le fauci affamate della ferocia; un orrore che tutti avevano fatto finta di non vedere.
Claire Redfield era fra quelle mura e si sistemò davanti la cella, pronta a scappare appena la porta della prigione si sarebbe aperta.
Aveva recuperato le sue vesti, tornando a essere la determinata e forte ragazza che era sopravvissuta appena pochi mesi prima a Raccoon City.
I suoi occhi azzurri tuttavia ora avevano un riflesso diverso; era lo sguardo di chi aveva conosciuto il dolore, la morte, la perdita, tutto a un livello così profondo da cambiarla per sempre.
Il suo cuore batteva, era inquieto, questo perché non riusciva a perdonarsi nulla di come fossero andate le cose.
Doveva però scacciare dalla sua mente quel senso di sopraffazione, più tardi ci avrebbe fatto i conti e sapeva non sarebbe stato un bel momento.
Le sue iridi erano lucide, non aveva ancora superato il lutto di quel tragico finale e mai l’avrebbe fatto. Era giusto che quel dolore facesse parte di lei, non voleva dimenticare. Mai.
Quell’indigesto magone non sarebbe mai stato schiacciato, il suo cuore avrebbe solo potuto convivere con esso. Voltandosi vedeva dietro di sé tutto quel lungo cammino, fatto di persone che avrebbe voluto portare con sé. Lei era la testimonianza della loro vita.
Inspirò, infondendosi coraggio.
Sapeva che presto avrebbe dovuto concentrarsi solo su una cosa: correre.
Chris credeva in lei, era davvero riuscito a venire fino in Antartide pur di salvarla. Ancora non poteva crederci, non aveva nemmeno rivisto il suo volto; ma la sua voce, il suo amore, la sua vicinanza, erano ancora capaci di infonderle quel fondamentale calore umano di cui ognuno ha bisogno per sopravvivere.
Finalmente l’imponente cancello ferroso aprì i suoi battenti. Il suono della sirena era ancora più assordante ora. Claire non attese nemmeno un attimo e intraprese la sua fuga, tornando ironicamente all’inizio di quella storia.
Un sorriso apparentemente fuori da quel contesto si disegnò sulle sue labbra. Un sorriso di amarezza.
Riaffiorò nella sua mente un ricordo ormai lontano, quando assieme a Steve riuscì a evadere dal Centro di Addestramento di Rockfort Island fino a rubare l’aereo nascosto oltre il sommergibile.
A quel tempo fuggendo da un ambiguo e scellerato comandante chiamato Alfred Ashford, un uomo di cui non sapeva nulla se non la sua perfidia e il fatto che lavorasse per l’Umbrella, e fosse dunque suo nemico.
Tutto però era cambiato completamente.
Questo perché aveva conosciuto quel folle soldato, cambiando in modo ineluttabile la sua concezione di quel mondo apparentemente deviato.
Aveva toccato con mano il suo dolore, i suoi dilemmi, i suoi affanni, e infine aveva anche incontrato Lei, la sua Regina, la sua “metà”. Colei che aveva generato quell’apocalisse interiore.
Era entrata nel suo mondo e in poco tempo si era insinuata nel suo cuore…e lui nel suo.
Quel tragico finale aveva distrutto tutto e non aveva dato il tempo a quella conoscenza di evolversi; eppure una parte di sé penava per quell’amore perduto che non era sicura non avrebbe potuto ricambiare.
Alfred…lui…
Era stato capace di donare un amore così immenso arrivando persino a logorare se stesso. Un sentimento così profondo e profano da averla sconvolta completamente. Non avrebbe mai saputo come sarebbe stato, un giorno. Questo la crucciava.
In quel momento correva da sola, fra quei corridoi bui, logori, assordata dal suono degli allarmi, accompagnata solo dalle luci di emergenza, sentendosi profondamente incompleta.
Voltandosi dietro, rivedeva ancora il suo volto, la sua voce che non faceva che richiamarla, rivelando che lui fosse sempre lì ad osservarla.
Egli faceva questo non solo per divertirsi e torturarla; a un certo punto fu la malata manifestazione di un amore squilibrato, inconsueto, forse persino perverso e cruento, ma che poteva essere curato.
Si ritrovò a correre, e correre, lasciando dietro di sé quei ricordi che scivolavano da lei ad ogni suo passo. Frammenti di memorie che non voleva abbandonare; ricordi in cui sperava di salvare quell’animo dannato, che seppure avesse compiuto troppe malvagità, per lei poteva essere aiutato.
Innumerevoli volte si era illusa che ci sarebbe riuscita.
Intanto non si era accorta che anche lui, a sua volta, aveva lasciato una profonda traccia di sé dentro di lei.
Le B.O.W. tentavano di afferrarla, sbattendo contro le celle chiuse e insanguinate, strisciando sui loro corpi lerci ricoperti di vesciche e ferite purulenti.
La Redfield guardò con odio e pietà quell’abominio. Ognuno di quelli era un uomo che non ce l’aveva fatta. Ognuno di loro era come Steve, Alfred, e persino Alexia… persone che avevano lottato, ci avevano provato, e che erano perite.
Lei invece poteva correre, e correre, e correre, avendo almeno la possibilità di salvarsi.
Chris aveva sicuramente intenzione di far saltare in aria quel posto, di bruciare e annientare quell’inferno ispirato dalle menti malate dell’Umbrella per le loro perverse ricerche.
Strinse gli occhi pensando a quel momento…quell’esatto istante in cui tutto sarebbe sparito nel fuoco…definitivamente…
Giunse finalmente fuori da quella fredda prigione, riaffacciandosi dopo tanto tempo nell’atrio del palazzo Ashford, un luogo che aveva percorso innumerevoli volte sia lì che a Rockfort. Prima di andare oltre, per dirigersi verso suo fratello, si fermò ad osservare l’imponente quadro di famiglia, ove erano immortalate le illustri personalità costruite in realtà nella crudeltà e nella menzogna.
Al centro v’era Alexander Ashford. Quell’uomo posato ed elegante ivi ritratto non era un padre; era invece un individuo devastato, che aveva perduto tutto.
Potere, fama, gloria; pur di riottenerli aveva consegnato all’Umbrella la vita dei suoi figli, creati geneticamente appositamente per i suoi scopi egoistici, dimenticando che prima di essere il discendente di un casato tanto rinomato, egli era un uomo ed era un padre.
Era per questo che il suo cuore marcio era stato esposto fra le fitte ferite che deturpavano il suo corpo.
Fu gettato nelle segreta di quell’inferno di cui era complice, trasformandosi in Nosferatu, il mostro che avrebbe sofferto una penitenza eterna, senza mai spirare nella luce di un nuovo giorno.
V’erano poi i due biondi e eterei gemelli, posti ai lati di colui che li aveva generati.
Alexia e Alfred Ashford.
Lei, una ragazzina potente e intelligente, in realtà vittima delle pressioni dei suoi studi. Trattata non diversamente da una cavia da laboratorio, ella aveva finito col perdere tutto, esattamente come suo padre. Arrivò persino a fingere la sua morte quando aveva solo dodici anni, questo pur di scacciare un vuoto che non avrebbe mai colmato in quel modo.
Poi v’era Alfred, il fratello. Lui…
Chiuse gli occhi, non riuscendo a ricambiare per molto quegli occhi infranti.
Anche se soltanto un quadro, rispecchiarsi nelle sue iridi cristalline era doloroso.
Aveva visto quegli occhi infrangersi, svuotarsi, riempirsi di odio e follia, farsi ridenti in balia della crudeltà e del gusto del macabro; ma poi erano cambiati e si fecero colmi di amore, desiderio, passione, tornando a essere umani.
Due occhi tristi, incompleti, che lei aveva conosciuto e aveva compreso.
La storia che aveva appreso era completamente racchiusa in quegli occhi, un percorso tortuoso che non poteva essere riassunto con pochi pensieri; la storia del Re che aspettava la sua unica Donna, la sua unica Regina.
Elaborò tutti gli episodi, quei tragici e cruciali momenti che in tutto il loro insieme avevano dato una profonda caratterizzazione a quella complicata conoscenza.
Se le parole non bastavano, restavano invece i ricordi; essi erano perenni, erano vivi, erano dentro di lei.
Chi era quel bambino vestito elegante posto accanto alla sua famiglia?
Si trattava di una difficile e lunga, lunghissima storia.
Egli era Alfred Ashford; un uomo che, ora poteva ammetterlo, era felice e onorata di aver conosciuto.
Dal nulla, un dolce e familiare motivetto prese a echeggiare fra quelle mura, contrapponendosi alla sirena dell’allarme. Si trattava dell’ormai nota melodia dei due gemelli, quella che raccontava quella tragica storia tra amanti. Il suono proveniva da oltre il quadro, il quale in realtà era una porta.
Claire avanzò sulle scale, guidata da quella musica, come in completa balia di essa. Procedette lentamente, pesando ogni passo, avvicinandosi sempre più a quell’uscio.
Prese mentalmente a canticchiare le parole della storia narrata da quel carillon, leggendovi le immense similitudini con la vita dei due ragazzi.
Quando arrivò di fronte la porta, restò immobile qualche attimo prima di posare la mano su di essa per aprirla.
 
 
[…]
 
 
 
Centro Artico dell’Umbrella Corporation - Laboratorio segreto
 
 
Chris attivò l’ultimo codice, tenendosi pronto a scattare nel momento nel quale tutte le porte si sarebbero sbloccate. Era pronto. Non aveva motivi per indugiare.
Il suo piano era molto semplice; avrebbe recuperato Claire e subito dopo l’avrebbe portata verso il Jaguar che aveva visto parcheggiato sulla pista di atterraggio interna della struttura; si trattava di aereo da attacco bimotore a getto sviluppato, estremamente veloce e devastante. Sarebbe stato il perfetto mezzo per fuggire una volta per tutte, prima che quel luogo crollasse del tutto.
Si diede quindi da fare. Caricò la 9mm, ormai l’unica arma rimastogli, e una volta terminati i preparativi sbloccò l’ultimo sistema di sicurezza.
Dopo quel momento, v’era un timer che non sapeva quando di preciso sarebbe scattato. Conosceva quel tipo di congegno e l’informazione più importante da tener conto era di agire in fretta e con estrema attenzione. Due fattori molto difficili da collimare.
Chris era però un soldato abituato ad agire sotto pressione quindi quando decise di abbassare quella leva e schiacciare il pulsante, non aveva timore. Era pronto.
Corse via subito, dirigendosi verso l’uscita delle prigioni, che a occhio e croce affacciava sull’atrio principale dove era passato recentemente per giungere nei laboratori. Doveva solo fare il percorso a ritroso e intraprendere qualche piccola deviazione.
Grazie al sistema di evacuazione, le porte erano state sbloccate tutte; dunque, zombie a parte, muoversi risultava più veloce e pratico finalmente.
Gli allarmi rimbombavano assordanti, essendo Chris ancora frastornato dalla lunga permanenza nella stanza buia.
Quell’alternarsi di buio e rosso sfavillante lo disorientava, ma non abbastanza da impedirgli di muoversi con relativa disinvoltura. Con l’arma ben puntata davanti a sé, non si fece remore nel colpire a uno a uno le varie teste tramortite che si affacciavano verso di lui bloccandogli il passaggio.
Aveva conservato le sue munizioni per quel momento, era arrivato il momento di non fare più sconti a nessuno.
Improvvisamente, mentre girava uno dei tanti angoli labirintici di quel luogo indemoniato, un dolce e malinconico motivetto si espanse per la struttura. Seguì con lo sguardo la fonte di tale melodia e ritrovò così un altoparlante ben nascosto sul soffitto. Dapprima decise di ignorarlo, avendo la salvezza di Claire come assoluta priorità. Tuttavia, pochi passi dopo, egli indietreggiò, non potendo ignorare quel richiamo.
Quel canto d’aiuto, d’addio, di disperazione, di solitudine, di cui sapeva l’autrice.
Strinse i denti, scusandosi mentalmente con sua sorella. Sarebbe tornato presto per lei, ma se v’era una possibilità di fare qualcosa ancora per Alexia, doveva provarci almeno.
Tornò indietro, quindi, dirigendosi verso il cuore del laboratorio.
Spalancò la porta e superò la passerella circolare al centro del quale era posizionato il Baccello di Alexia, fonte dei suoi studi più arcani, entrando così nell’antro più profondo del suo dolore; il luogo dove era iniziato e finito tutto.
 
“Alexia!” la chiamò sicuro di trovarla, ed infatti lei era lì.
 
Fra le sue braccia reggeva il corpo rigido e pallido di un giovane uomo a lei molto somigliante.
Lo accarezzava, bisbigliando parole che non poteva sentire da quella distanza.
Il suo sguardo era spento, eppure addolcito; stava conversando con quell’uomo ormai privo di vita, raccontandogli qualcosa che la fece sorridere.
In seguito ella si sollevò, abbandonando quell’uomo dai capelli chiarissimi a terra, ai suoi piedi.
Vide la bionda Ashford sorridere malignamente a una figura alle sue spalle e fu allora che Chris si accorse che v’era anche Albert Wesker in quella stanza.
 
“Sono lieta di avervi entrambi al mio cospetto. Non mi aspettavo un pubblico tanto smanioso. Non è la gloria quella che cerco, non è più nemmeno il potere o i miei sogni. Siete qui dinanzi a me come testimoni della mia opera più grande.
Alcuni di voi penseranno sia la rappresentanza della mia nobile stirpe, altri le mie ricerche, altri il mio T-Veronica Virus…” a quella frase trafisse con lo sguardo l’irremovibile  Wesker. “…ma la cruda verità è un’altra. Vi ho chiamati a vivere il Giorno del Giudizio. Il momento in cui il mondo sarebbe stato ridotto in cenere. E’ questo il mio vero potere. Io distruggerò ogni cosa, la mia vendetta sarà implacabile. Non avrò pietà, non avrò rimorsi, non più.”
 
Prese ad avanzare verso di loro e i suoi occhi celesti di ghiaccio cambiarono colore in quello stesso istante assumendo una tonalità dorata, quasi iridescente.
Un forte vento di innalzò dal nulla, facendo ondeggiare i suoi capelli biondi e il delicato vestito viola col quale era ritratta in molti dei suoi dipinti.
In seguitò il Redfield comprese che quello non era vento, ma fuoco; Alexia stava innalzando da se stessa delle fiamme ardenti che lentamente presero ad avvolgerla, bruciandola in quel rogo eterno nel quale il suo cuore era intrappolato.
Ella sorrise, specchiandosi negli occhi impauriti di Chris, il quale era dinanzi a lei.
 
“Non ho intenzione di cedere più nulla. Voglio mostrarti la vera me stessa, quello per cui ho immolato non solo la mia vita…ma tutto. Basta, voglio che questo luogo sparisca, voglio che…che bruci. Bruci per sempre, come ha fatto bruciare me e tutto ciò che più amavo.” disse calcando molto sulle parole, trasmettendo al soldato tutta la rabbia e la razionalità che aveva in quel momento.
Eppure vedendola ridotta così, Chris non poteva credere che fosse davvero questo che desiderava.
Alexia si accorse della pietà che trasmettevano i suoi leali occhi blu, la cosa la intenerì; quell’uomo rude era riuscito a farle provare un sentimento così dolce persino in quel momento in cui aveva deciso di cedere al virus.
Tuttavia ormai era troppo tardi. Lei non voleva tornare indietro.
 
“Chris Redfield, sei un uomo speciale, oserei dire unico. Se queste fiamme risparmieranno qualcuno, questo sarai tu.”
 
Concluse e posò una mano sulla sua guancia, che nonostante fosse avvolta totalmente dal fuoco, non scottava affatto.
Chris non riuscì a dirle nulla, era paralizzato. Voleva prenderla per mano e portarla via come aveva fatto l’ultima volta, eppure l’aura di Alexia era così forte che non poté fare a meno di piegarsi alla sua volontà.
Quella bellissima donna aveva sofferto, e tanto, e ora desiderava soltanto la sua vendetta.
Sebbene crucciato dall’inevitabile destino cui sarebbe andata in contro, il membro S.T.A.R.S. comprese che doveva rispettarla. Riuscì ad sentire dentro di sé che era questo ciò che ella desiderava più ardentemente.
Voleva distruggere quello che l’Umbrella le aveva fatto, e questo lui poteva comprenderlo.
Intanto lei lo superò e si pose al centro del laboratorio dove era stata ibernata per quindici lunghissimi anni.
Allargò le braccia e finalmente quelle fiamme che tanto la tormentavano furono libere di impossessarsi di lei.
Non chiuse mai gli occhi. Mai. Rimase vigile fino all’ultimo secondo, trasformandosi nella creatura vendicativa che desiderava essere.
Della soave fanciulla eterea conosciuta prima non rimase nulla, la sua estetica divenne coerente con il suo animo ormai dannato, conferendole quell’aspetto maledetto che più le si addiceva.
I suoi lunghi capelli biondi fluttuarono nell’aria un’ultima volta prima di assumere una forma più rigida che avvolse il suo capo come dei tentacoli.
La sua pelle diventò di un pigmento grigio, contornandosi di piaghe verde scuro che si ramificarono sul suo corpo, denudato quando il suo abito elegante andò in cenere. Fra i filamenti che passavano sul suo corpo, un fuoco interno poteva intravedersi nel suo rosso iridescente; il virus si era espanso ed aveva trasformato per sempre la sua figura.
Gli occhi gialli e felini brillavano intensi, erano minacciosi, fieri, eppure vuoti.
Ella sorrise, compiacendosi della sua enorme potenza; allo stesso tempo beffandosi dell’insoddisfazione che provava in quel momento.
Da una parte la gloria di una Dea Vendicatrice, dall’altra la Condanna della Cattiva Regina.
Non era ciò che voleva, non era ciò che bramava, ma quel che lei era ora era tuttavia l’unica cosa che avesse al mondo.
Con le fiamme che inneggiavano quella crudele maledizione della sua anima, ella fece gocciolare del sangue a terra in direzione di Wesker, il quale a contatto con l’ossigeno prese immediatamente fuoco.
In poco tempo trasformò l’immacolato laboratorio in un inferno arroventato, pronto a cremare ogni cosa.
L’uomo vestito di nero provò a contrattaccare, ma preferì la fuga a un certo punto, comprendendo che per fronteggiare Alexia era necessario lavorare più strategicamente; non gli interessava che lei rimanesse viva, gli serviva solo un campione del suo virus e sapeva come rimediarlo.
Dunque sogghignò infischiandosi del fuoco, facendo adirare la Regina, la quale mirò di nuovo verso di lui. Tuttavia l’ex capitano S.T.A.R.S. fuggì in tempo, confermando la superbia e la furbizia che da anni gli avevano conferito la fama di diavolo nero.
In seguito sparì fra il rosso sfavillante del fuoco; Chris si mise subito al suo seguito, ma fu bloccato da Alexia, la quale lo rinchiuse in una prigione di fuoco che gli impedì di proseguire.
 
“Fermo, Redfield. Quel che accadrà oltre questa stanza non garantisce la tua salvezza. Non angustiarti, non brucerai, sono io che domino queste fiamme. Qui dentro non ti accadrà nulla, poiché è qui che è preservata l’unica parte di me cha ha saputo amare. Il mio cuore giace in questa stanza, ed è qui che ormai resterà per sempre.”
 
Il bruno guardò istintivamente verso il ragazzo sdraiato ai piedi della cella di ibernazione che lei aveva avuto fra le braccia poco prima.
Riportò i suoi occhi verso Alexia, ma ella era già sparita. Corrucciò la fronte.
Si impensierì riflettendo che in quel luogo la ragazza aveva intenzione di custodire coloro che aveva amato…non voleva essere di nuovo sequestrato! Non era il momento!
 
“Alexia!!”
 
Urlò, ma il suono degli allarmi coprì completamente la sua voce, rendendo il suo grido un eco muto e impercettibile.
 
 
 
[…]
 
 
 
Laboratorio dell’Umbrella corporation – Atrio Residenziale
 
 
Claire passò oltre la porta nascosta dietro al quadro ritraente la famiglia Ashford, entrando così nei luoghi più segreti e arcani del laboratorio; ascoltava la melodia del carillon, seguendolo come fosse un richiamo.
Una volta solcata quella soglia, però, mai si sarebbe aspettata di trovare l’inferno sceso in terra. Le fiamme avvolgevano interamente l’ambiente, facendo sprofondare nelle ceneri quegli angusti antri conoscitori di quella vita devastata dalla scelleratezza dell’Umbrella.
La rossa sentì il suo cuore battere forte di fronte quegli inferi furiosi e implacabili.
Provò ad avanzare, ma una vampata di fuoco esplose proprio in quel momento costringendola a indietreggiare.
Fu in quel momento che una figura comparve dal fondo di quel lungo corridoio buio, della quale distinse solo i brillanti e spaventosi occhi dorati.
Sebbene con sembianze del tutto diverse da come l’aveva conosciuta, Claire non poté non riconoscervi la maestosa rappresentate del casato Ashford: l’indiscussa e impietosa Alexia Ashford.
Boccheggiò dapprima spaventata, dopo però si controllò ed attese che la donna le fosse più vicina. Era certa che l’avesse vista e non aveva alcuna intenzione di scappare ormai. Inoltre non era armata, non aveva alcun senso anche solo provarci. Aveva conosciuto Alexia anche se brevemente, adesso poteva guardarla dritto negli occhi con la consapevolezza che entrambe provavano lo stesso dolore.
La Redfield aveva dentro di sé quell’enorme ferita, conosceva quel malanno, aveva sperimentato amaramente sulla sua pelle la morte, la perdita, la sofferenza di un amore spezzato, trafitto, interrotto da un bieco e spietato destino…
Alexia stessa si accorse di quello sguardo adesso cambiato completamente, poteva sentire la sua rabbia, il suo desiderio di vendetta, quella ferita che non poteva essere guarita.
Ora sì che l’Altra Donna poteva guardarla negli occhi. Adesso ne aveva l’onore, finalmente.
Si bloccò diversi metri lontana da lei, guardandola dall’alto della scalinata in fiamme. Claire non indugiò, nonostante quella veemenza spaventosa che trapelava da ogni parte del suo corpo.
Restò immobile, fissandola in quegli occhi giallissimi, iniettati di odio.
 
“Sono qui, Alexia…come volevi tu. Hai ottenuto ciò che desideravi. Mi hai tolto tutto.”
 
Alexia sogghignò, compiaciuta in un certo senso, eppure aveva amaramente appreso che le cose non erano esattamente andate come aveva pianificato. Il suo regno non era che un mondo fatto di dolore e cenere e nemmeno quell’enorme potenza era riuscita a consolarla.
La verità più crudele era che nulla avrebbe potuto restituirle la felicità. Lei non era stata creata per esserlo.
 
“Miss Redfield, ho conosciuto il tuo amato fratello. Un uomo davvero audace, eroico, onesto. Ne sono stata colpita. Sei una persona fortunata ad averlo.”
 
“Lo so.” rispose Claire, più che consapevole di quelle parole.
 
“Avrei voluto anche io un bel cavaliere senza macchia e senza paura, che venisse fin qui per salvarmi. Volevo svegliarmi e vivere con il mio eroe per sempre. Tuttavia questa possibilità mi è stata negata; hai conosciuto il tremendo vuoto che è in grado di lasciare la morte. La cancrena che marcia nel proprio cuore, che si insinua nelle carni e pian piano fa degenerare tutto. Alla fine di questo tunnel, esiste un’unica strada.”
 
“Trascinare tutti nell’inferno.”
 
“Vedo che comprendi.”
 
Le due rimasero in silenzio un breve momento, mentre il fuoco scoppiettava facendo da sfondo a quel triste e complesso dialogo.
La Redfield la osservò con una profonda amarezza; da una parte lei era l’artefice di quel disastro, il fulcro di quella vita devastata. Questo le trasmetteva rabbia, odio, era furiosa nei suoi confronti.
Dall’altra, invece, provava un complicato sentimento di comprensione che le impediva di colpevolizzarla come avrebbe voluto.
Rivedeva davanti ai suoi occhi Steve mentre si trasformava in un mostro, una condanna che eseguì solo per farla disperare, per comunicarle l’orribile emozione di dolore e perdita, pur di vendicarsi della morte di Alfred.
Eppure suo fratello stesso era caduto nel baratro da lei generato, anteponendo i suoi loschi scopi privati al suo amore.
Quei ricordi le impedivano di provare pietà; ma al tempo stesso la bloccavano, costringendola a quell’inopponibile indulgenza che non poteva ignorare.
Distese il suo sguardo, preferendo preservare la sua umanità, quella dignità che la rendeva diversa da lei.
Claire non bramava vendetta, non era una Dea Vendicatrice. Era invece una luce, una speranza, un messaggio di amore…e non voleva trasformarsi in un mostro, per nessun motivo.
Anche se quella ferita interiore faceva male, tanto male.
 
“Cosa intendi fare, dunque?”
 
“Non lo vedi? Ho intenzione di cancellarvi dalla faccia della terra. Me compresa, non temere. Sono consapevole che scavando negli abissi più celati e nascosti, sono il nucleo che ha alimentato questa distruzione. Sono il seno che ha nutrito il frutto del male, non mi aspetto alcuna salvezza. Voglio però lasciare un ultimo messaggio prima di andare via. Voglio che l’inferno avvolga anche voi, voglio che bruciate esattamente come ho bruciato anche io.
Quello che io sono, quel che sono diventata, è anche colpa vostra. Sono stata fabbricata nell’egoismo, nell’oppressione, da un cuore marcio e lugubre. Sono poi stata sfruttata per il mio ingegno, come fossi un animale da spremere fino alla fine dei suoi tempi. Basta guardarti attorno per capire come mi sento, cosa è stata la mia breve vita.
Ho vissuto solo dodici anni e mi sono bastati a farmi rigettare questa umanità lercia, di cui non voglio far parte.
Voi dite che io sono il mostro…io dico che invece lo siete voi. Siete voi che mi avete creata.”
 
Dopo quella confessione, una trave avvolta dalle fiamme crollò frapponendosi fra loro; Claire riuscì ad aggrapparsi giusto in tempo al pavimento, trasformatosi in una voragine.
Provò a sollevarsi, ma non era semplice sopportare il peso del suo corpo in una situazione critica come quella. I fumi inoltre stavano divampando sempre di più impedendole una corretta respirazione.
Strinse i denti, sforzandosi di non mollare, tuttavia il fumo la stava intossicando, costringendola a tossire violentemente.
La Somma avanzò leggiadra verso di lei, mantenendo la sua estrema regalità nonostante quelle sembianze mostruose. Ad ogni suo passo lasciava una scia incandescente, capace di cremare ogni cosa. Si piegò su di lei e la osservò sprezzante, con quell’aria di superiorità di chi aveva invece il completo controllo della situazione.
 
“Claire Redfield, magari in altre circostanze avrebbe potuto essere diverso. Non lo sapremo mai. Voglio presentarti una persona a me molto cara, l’unico esempio di lealtà che ho conosciuto…un amore di cui io stessa non ero degna. Egli è tutt’ora pronto a lottare con me, non c’è cosa che non farebbe per me, e io per lui. Ci sta osservando, sento i suoi occhi su di noi. Si è svegliato finalmente.”
 
La Redfield scosse il capo confusa.
 
“Di cosa stai parlando?”
 
“Vuoi saperlo?” sorrise. “Allora scoprilo da sola.”
 
Detto ciò, alzò con veemenza il braccio cosparso di piaghe e fiamme, il quale bagnò di sangue la porzione di pavimento sulla quale si reggeva faticosamente la rossa. Subito dopo questo prese fuoco, costringendo la ragazza a cadere giù.
 
 
[…]
 
 
Claire si risvegliò in un seminterrato completamente buio, avvolto nelle dense nubi grigie generate dal fuoco.
Sporca di fuliggine e intossicata dal fumo, si rimise stentatamente in piedi, sentendosi dolorante. Si piegò in due, cercando di contrastare l’ulcera che le corrodeva lo stomaco. Aveva ingerito così tanto male e dolore, da sentirsi male.
Inspirò, infondendosi coraggio. Doveva raggiungere Chris e scappare da lì.
Guardandosi attorno, non riuscì a riconoscere il luogo dove era precipitata. Era una zona del laboratorio completamente bruciata, del tutto irriconoscibile. Gli allarmi del sistema di evacuazione risuonavano in lontananza, facendole intuire che dovesse essere purtroppo molto lontana dal centro.
Sperò con tutta se stessa che, se non avesse fatto in tempo a raggiungere l’aereo, Chris sarebbe fuggito per mettersi in salvo. In un momento tanto critico, per lei era davvero difficile riuscire a orientarsi in tempo e raggiungerlo.
Ciononostante avrebbe lottato fino alla fine; non avrebbe dato a nessuno la soddisfazione di schiacciarla senza dimostrare il suo valore.
Trovò a terra un tubo d’acciaio, che decise di portare con sé per avere un minimo di arma da difesa. Doveva ammettere di non avere una buona destrezza nella lotta corpo a corpo, ma era sempre meglio di niente.
Avanzò in quel sotterraneo annerito, stringendo l’arma con sé, la sua unica compagnia. Eppure si sentiva stranamente osservata.
Fu una sensazione difficile da spiegare, non v’era nulla che si muovesse nell’ombra. Inoltre la stanza era ampia e i muri completamente abbattuti. Vi erano molte macerie e il fumo offuscava la visuale, ma non c’era nessuno presente. Almeno credeva.
L’ansia di ritrovare alle sue spalle un nemico dal quale non poter scappare la tormentava. Avanzò dunque lentamente, cercando di essere estremamente prudente. Il suo istinto però le diceva che non si sbagliava, c’era qualcuno celato fra quelle rovine; sentiva una presenza impalpabile ma insistente. Trasalì più volte, spaventata.
A quel punto il suo modo di agire cambiò e ritenne più opportuno aumentare il passo, se non proprio correre e scappare; era la sua unica possibilità per sopravvivere.
Se non poteva combattere, poteva almeno sperare di seminare il pericolo. Si ritrovò dunque a correre a perdifiato, insinuandosi fra i detriti di un luogo che non conosceva affatto. Passò fra muri crollati, tubature spaccate, fili elettrici slegati e scintillanti, illudendosi di seminare quell’oscura presenza.
Una scia erbosa tentò improvvisamente di colpirla, schiantandosi erroneamente contro una parete rimasta ancora in piedi fino a quel momento. Claire si riparò, non era stata colpita, ma quell’attacco le confermò che v’era qualcosa che la stava inseguendo; era probabilmente quel qualcuno di cui aveva appena parlato Alexia.
Si girò pronta, ora che quella B.O.W. aveva fatto un errore palesando le sue intenzioni ostili. Fu allora che fra la coltre nera di fumo e quei frantumi, cominciò a distinguere una figura.
Questi era alto quanto un uomo, poteva vedere l’alternarsi di una pelle bianca e cadaverica a una robusta corazza nera e verdastra che copriva buona metà del suo corpo, stratificandosi particolarmente sui suoi arti, rendendoli forti e imponenti. Ciononostante aveva le sembianze di un uomo, poteva distinguerne l’anatomia longilinea.
Il suo passo era pesante, ma incerto, come gli innumerevoli zombie fino a quel momento incontrati. Eppure la sua posizione perfettamente dritta e controllata rendeva regale la sua postura in qualche modo, facendole comprendere fin da subito che non era un’arma batteriologica come le altre.
Claire si nascose dietro una trave, stringendo il tubo arrugginito. Quando le fu un po’ più vicino, si affacciò di nuovo e vide un corpo snello ma ben allenato; questi, silenzioso e furente, si girava intorno, cercando visibilmente lei.
Osservò la sua nuca ricoperta da capelli pallidi tirati indietro ed ebbe un tonfo al cuore; un sentimento così forte da farle cadere di mano l’arma, la quale emise un sonoro rintocco quando cascò sul suolo.
La ragazza rimase tuttavia immobile, impietrita, mentre la sua mente convergeva quelle fattezze a una precisa persona che lei aveva ben conosciuto.
La conferma definitiva venne quando quella B.O.W. si girò frontalmente, individuandola.
La sua pelle ora era ingrigita, i suoi capelli unti e appiccicati alla testa, gli occhi gialli e vuoti, il volto androgino era deformato in un digrigno affamato…eppure era lui, non aveva dubbi.
Era Alfred Ashford.
 
“Alfred…” sussurrò, non potendo credere che lui fosse davanti ai suoi occhi.
Era un mostro, era vero; ma era lui. Era pur sempre lui, e camminava, poteva muoversi, guardarla, sentirla.
Li per li non fu pronta ad accettare il fatto che egli non ci fosse ormai.
Tuttavia era follemente felice di vederlo e più si avvicinava, più la consapevolezza che fosse l’ultima volta che l’avrebbe rivisto si faceva forte.
Gli mostrò un sorriso amaro, di chi non è pronto a dire addio, questo mentre i suoi occhi si riempivano di lacrime. Tuttavia si controllò, passò una mano sul viso sporco e rivolse a quell’uomo un ultimo sguardo di compianto.
 
“Mi dispiace. Avrei voluto portarti via con me. Alfred…”
 
Gli disse, realizzando tristemente che non avrebbe rivisto nei suoi occhi l’uomo che aveva conosciuto, costringendosi a voltarsi velocemente e correre via.
Raccolse da terra la tubatura cadutale precedentemente, immergendosi in quel sotterraneo ormai deteriorato, cercando di non imboccare vicoli ciechi.
Non si sorprese di vedere T-Alfred inseguirla, muovendosi agilmente grazie ai robusti prolungamenti che si innalzavano dalla sua schiena.
A un certo punto questi riuscì a superarla e a pararsi davanti a lei; tuttavia non si smosse e restò di spalle, rendendola scettica.
Fu allora che scorse di fronte a loro la figura di un uomo molto alto, vestito di nero, il quale indossava degli spessi occhiali scuri nonostante la scarsa illuminazione.
La rossa passò lo sguardo da lui ad Alfred e comprese che il suo bersaglio non era mai stata lei, ma quel losco individuo.
Guardandolo meglio lo riconobbe, egli era Albert Wesker, l’ex- capitano S.T.A.R.S. .
L’ultima volta che l’aveva visto, era stato quando aveva liberato quelle orribili B.O.W. rettili, costringendo lei e Alfred a scappare nei sotterranei. 
Dunque era rimasto nei paraggi, a quanto sembrava.
Osservò la postura d’attacco dell’altolocato Ashford, il quale si precipitò in direzione del suo nemico dando inizio a una sanguinosa battaglia. Claire stette a osservarli impotente, non sapendo cosa fare. Le qualità fisiche dei due erano notevolmente alte, entrambi avevano raggiunto una potenza tale da averli innalzati dal livello umano.  
La cosa che più la sorprese però era che Wesker riusciva perfettamente a tenere testa ad Alfred, nonostante la sua trasformazione.
Il suo aspetto era però rimasto immutato a differenza di quest’ultimo; la domanda sorgeva ovvia, dunque: cosa diavolo era quell’uomo in realtà?
Cercò un’arma nei paraggi, voleva aiutare Alfred in qualche modo, ma non sapeva come. Aguzzando la vista, notò che una zona del soffitto sembrava molto traballante. Se fosse riuscita a farvi esplodere qualcosa, questa avrebbe potuto sopraffare Wesker.
Corse dunque verso una tanica di benzina che aveva visto rovesciata a terra mentre era fuggita, augurandosi che ci fosse ancora del liquido al suo interno.
La prese a la tirò con veemenza contro il muro, sporcandolo; in seguito diede gas al suo accendino dorato e attese il momento giusto.
Quando i due si separarono per un brevissimo istante, lo lanciò nella stessa direzione e in men che non si dica provocò un’esplosione tale da costringere Wesker ad allontanarsi, permettendo ad Alfred un attacco più incisivo.
L’uomo riuscì però a scansarsi, esibendosi in un salto che aveva dell’inverosimile dati i metri d’altezza che raggiunse. Egli lanciò loro uno sguardo sprezzante prima di sparire fra il nero del fumo di combustione del piano superiore.
Alfred fece per corrergli dietro ma la Redfield lo bloccò, afferrandolo istintivamente per un braccio. Un gesto imprudente, fuori da ogni logica, ma che fece con grande spontaneità, non riuscendo proprio a vedere in lui un nemico, nemmeno sotto quelle sembianze.
Il fatto che egli si immobilizzò a quel delicato tocco sul suo polso ricoperto da strati ruvidi e scuri di pelle, confermò la sua teoria; egli era ancora Alfred Ashford, l’aveva risparmiata perché ancora in parte cosciente di sé.
 
“Alfred…sei ancora tu?” lo chiamò, speranzosa.
 
L’uomo dai capelli pallidi rimase in silenzio; non voleva voltarsi verso di lei, non ce la faceva, ma il desiderio di rivederla era così forte da impedirgli di continuare quella farsa ancora a lungo.
Dentro di sé non aveva che desiderato incontrarla ancora, una volta riapriti gli occhi, anche se in quelle sembianze deturpanti.
 
“Redfield.”
 
Disse, riempendo di gioia il cuore di Claire, che non trattenne per nulla un sincero sorriso.
Lui si posizionò di fronte a lei, non comprendendo come lei potesse amarlo ancora, dopo tutto quello che era accaduto. Quella misteriosa donna restava un mondo ermetico, decisamente troppo criptico persino per lui; colui che era stato il fratello di Alexia Ashford e aveva incontrato mentalità ben più arcane.
Invece la semplicità della bellissima Claire restavano una nebbia difficile da decifrare; lei riusciva a infondere purezza e vita anche solo con uno sguardo.
Persino in quel momento, ove il suo DNA era stato mischiato con quello del virus di Alexia, poteva avvertire quel soffio caldo di amore che lei emanava con tanta naturalezza.
La guardò assorto e intristito, con i suoi occhi divenuti dorati.
Sul suo petto potevano vedersi le cicatrici ancora vive dei colpi d’arma da fuoco che l’avevano stroncato, assieme ai lividi e gli ematomi della sua ultima e terribile caduta. Era inaccettabile una visione simile, quella di un corpo ormai freddo, morto, con i segni deturpanti del suo ultimo momento di vita, invece essere perfettamente in piedi; anche se il prezzo da pagare era stato sottomettersi a un batterio onnipotente, che a lungo andare avrebbe divorato la sua ragionevolezza.
Non era più in grado di provare emozioni; quel cuore già morto in vita, non batteva più a maggior ragione ora che era resuscitato divenendo una B.O.W. .
Eppure, nonostante questo, specchiarsi nelle iridi luminose della ragazza che aveva in qualche modo cambiato il suo destino, poteva influenzare ancora le sue scelte.
Non voleva però che lei si avvicinasse a lui. Sebbene ricordasse tutto, non era più Alfred Ashford ormai.
Intanto Claire stette in silenzio, accanto a lui, non accennando a lasciare il suo polso. T-Alfred stette a guardare la sua rosea mano piena di graffi, poggiata sul suo arto invece grosso e pericoloso.
Se avesse avuto ancora un cuore, questo si sarebbe spezzato.
Vide la donna schiudere la bocca più volte, non proferendo però alcuna parola.
I due comunicarono con quella semplice ma profonda intesa di sguardi;  una sinergia che solo chi aveva vissuto un rapporto travagliato come il loro poteva capire.
A interrompere quel difficile momento, fu un’ulteriore esplosione che fece vibrare l’intero sottosuolo, il che fece temere i due per la stabilità del posto.
 
“Vai nel laboratorio centrale, troverai il mio passpartout. Usalo per azionare il sistema di autodistruzione. Ti occorrerà la password, anche se credo non ti sarà difficile identificarla…”
 
“Vieni con me, possiamo andare ad attivarlo assieme.”
 
“No.” Asserì lui, dovendo soffrire così il volto deluso della giovane. Leggeva nei suoi occhi il sincero desiderio di voler ancora ricominciare tutto; quel gesto lo rese immensamente felice. “Devo prima trovare Alexia. Ha deciso di cedere al T-Veronica Virus, questo significa che presto perderà conoscenza e sarà lei stessa a distruggere questo laboratorio. Se vuoi scappare, è questo il momento per farlo.”
 
“Non voglio scappare da sola. Sono sicura che ci sarà un rimedio. Ti aiuterò…c’è anche Chris con me, mio fratello. Insieme troveremo una soluzione.”
 
Alfred passò lo sguardo da lei al suo corpo ormai in avanzato stato di trasformazione. Lui non era uno scienziato, ma aveva studiato assieme ad Alexia e l’aveva aiutata enormemente nei suoi complicati esperimenti. Sapeva bene che quella era una strada di non ritorno.
Decise dunque di mentirle, per il bene di entrambi; non v’era tempo per spiegarle quella irreversibile verità.
 
“Allora cerca tuo fratello, attivate il sistema di autodistruzione e raggiungete un mezzo di trasporto per andare via. Ci incontreremo in seguito.”
 
Detto ciò, l’afferrò stringendola a sé e risalì verso i piani superiori. Claire osservò la struttura ormai in balia del fuoco, che velocemente stava già distruggendo tutto nel rogo. Era quella la vendetta di Alexia?
Mentre osservata attonita la devastante potenza di quella distruzione, un forte boato simile a un grido inferocito la fece voltare. Era stato certamente un urlo mostruoso, ma aveva un evanescente tono femminile.
 
“Alexia..?”
 
Vide il volto di Alfred farsi truce, avendo fatto probabilmente la sua stessa associazione, al che con fermezza si fece lasciare a terra e gli parlò seria.
 
“Vai. Posso cavarmela da sola. Ci vediamo più tardi…okay?”
 
L’ex-altolocato Ashford non rispose verbalmente a quella domanda, tuttavia le mostrò uno sguardo grato, apprezzando sinceramente quel gesto.
Non si attardò ulteriormente, il tempo stringeva e rischiava di non poter far più nulla per Alexia.
Quando andò via, sparendo nel fuoco, Claire allungò un braccio verso di lui, avendo fatto caso che egli non avesse risposto alla sua invocazione.
Strinse i denti, era anche lei abbastanza cinica e razionale da sapere come sarebbero andate le cose, eppure quella bugia l’aiutò ad andare avanti, ad affrontare quell’ultimo decisivo passo prima che l’incubo finisse per sempre.
Lo doveva fare non solo per lei, ma per Alfred, per suo fratello Chris, per Steve…e anche per Alexia.
Guardandosi attorno riconobbe il corridoio dove si trovava, le sarebbe bastato imboccare qualche angolo e sarebbe arrivata a destinazione.
In effetti lei ed Alexia avevano in comune lo stesso scopo: far bruciare nella cenere quell’inferno senza anima, maledetto dal marchio disumano e spietato dell’Umbrella.
 
 
[…]
 
 
Chris Redfield si gettò fra le fiamme, raccogliendo il capo fra le mani e lanciandosi con una posizione aereodinamica, proprio per tangere le vampate di fuoco il più velocemente possibile e limitare le ustioni, per quanto possibile.
Non esisteva per lui il fatto di restare a guardare rinchiuso lì dentro, soprattutto dopo quel che aveva visto.
Quando Alexia era scomparsa in seguito alla sua trasformazione, egli era rimasto solo in quel lugubre laboratorio strisciato di sangue per diversi interminabili minuti.
Mentre faceva per elaborare un piano, dominando l’irrequietezza di quel momento, sentì qualcosa muoversi alle sue spalle.
Restò in guardia, voltandosi cautamente, pronto a far fuoco, ma ciò che si animò davanti ai suoi occhi lo fece pietrificare.
Si era quasi dimenticato che la giovane donna aveva lasciato sul pavimento bagnato il corpo di un ragazzo esile e pallido, molto rassomigliante a lei.
Si trattava probabilmente di suo fratello, il quale gestiva la base di Rockfort Island a quanto aveva letto dai rapporti; un uomo irrequieto, instabile, ormai sull’orlo del delirio.
Essendo visibilmente morto, non vi aveva dato peso, eppure quando sentì quei gemiti, non mise in dubbio un attimo la possibilità che egli potesse essersi rianimato dato quel macabro contesto.
Sbirciò oltre le sbarre incandescenti create da Alexia e vide quel corpo muoversi come fosse in preda a un attacco epilettico; fu un’immagine terribile, umanamente sarebbe corso a soccorrerlo, tuttavia sapeva bene cosa stava accadendo in realtà. Quell’uomo si stava trasformando e, al contrario, era lui ad essere in pericolo.
Rimase immobile, pronto a difendersi se lo avesse attaccato, non avendo però la concreta possibilità di scappare si sentiva inquieto.
Tutto a un tratto, quel corpo prese letteralmente fuoco, in un modo diverso da quello di sua sorella. Questo perché ovviamente, a differenza della donna che era in grado di dominare il virus, per un comune umano era diverso.
Il ragazzo sdraiato a terra invece dapprima si carbonizzò del tutto, in seguito, quando le fiamme si spensero, egli assunse un aspetto a metà fra un mostro e un uomo.
Aveva conservato i tratti somatici del viso, così come la struttura del corpo, eppure era grigio, con la pelle squamosa, rivestito da pezzi organici più rigidi e neri che lo avvolgevano in varie parti del corpo. Al posto delle sue braccia v’erano degli artigli e i suoi occhi si fecero gialli ed iridescenti. Il sangue colava dal suo corpo, conferendogli un aspetto dolente eppure vigoroso.
Lo vide lentamente smettere di tremare, per poi mettersi in piedi e tornare padrone del suo corpo trasformato.
Improvvisamente si curvò in avanti e dalla sua schiena schizzarono fuori dei strani artigli simili a dei rami. Questi gridò dal dolore, mentre il rosso scuro e copioso colava ancora dalle sue immense ferite, alcune avute prima della sua morte, altre creatosi durante quella tragica metamorfosi.
Chris indietreggiò, comprendendo che egli non era una B.O.W. qualsiasi. Era invece molto più simile a quell’orribile creatura già incontrata ai tempi delle sue indagini sui Monti Arklay. Egli era una variante dell’esemplare Tyrant, l’arma batteriologica creata da Wesker.
Il soldato ben conosceva quanto potesse essere devastante. All’epoca riuscì a sconfiggerne uno solo perché armato di una potente magnum reperita per caso in un sotterraneo; poi poté distruggerla definitivamente grazie a Brad, che gli lanciò un lanciarazzi dall’elicottero di salvataggio.
Osservò dunque il suo equipaggiamento attuale, composto soltanto dalla sua pistola 9mm e un coltello.
Se quel Tyrant avesse deciso di attaccarlo, era sicuramente morto.
Stette dunque immobile, preferendo attendere prima di agire; per qualche motivo quell’arma batteriologica si limitava a stare immobile, come fosse assorto.
Quando decise di muoversi, questi rigò dritto lungo il corridoio, avanzando con passi lenti e pesanti.
Chris bloccò i suoi movimenti, compreso il respiro, attendendo paziente che il mostro passasse. Questi non lo curò di uno sguardo, nemmeno quando gli passò a fianco.
Con un attaccò potente scaraventò via la porta di ferro che Alexia aveva chiuso a chiave, dopodiché per sua fortuna sparì.
L’ex membro S.T.A.R.S. tirò un sospiro di sollievo, ma solo fino a un certo punto. Adesso, oltre B.O.W. varie, Hunter, Alexia e Wesker, v’era anche un Tyrant nei paraggi. Temeva per la vita di sua sorella, doveva sbrigarsi a portarla via da lì.
Fu in quel momento che decise di lanciarsi nel fuoco e scappare via; anche perché quel mostro aveva aperto la porta del laboratorio.
Una volta superata la gabbia di fuoco, controllò i danni della scottatura sulla sua pelle. Tutto sommato se l’era cavata bene; una volta rientrato alla sua base si sarebbe fatto medicare. Le braccia erano molto rosse, così come addosso avvertiva più di qualche dolenza. Tuttavia date le circostanze non aveva da lamentarsi.
Controllò i proiettili un’ultima volta e avanzò fra le macerie di quel che rimaneva del laboratorio.
Mentre procedeva, stette a guardare l’enorme voragine ora presente sulla passerella circolare posta al centro della struttura. V’era però qualcosa di diverso.
Si accorse in modo tardivo che prima v’era il Baccello sospeso in quella zona; una mastodontica struttura simile a un alveare, fulcro degli studi di Alexia. Dove diavolo era finito ora?
Sapeva che l’appuntamento con Claire era all’aeroporto, ma v’era ancora un’ultima cosa da fare.
Il suo cuore gli comandava di cercare Alexia, di provare a parlarle un’ultima volta. Non voleva abbandonarla.
Decise quindi di scendere in profondità, andare dove sicuramente era lei…al cuore di tutto.
Non fu difficile individuare il suo percorso, bastava seguire la fonte del fuoco, dove questi era più recente e violento.
Giunse così in un’area ampia e spoglia, simile a un hangar.
Osservò la struttura ferrosa, lasciandosi incuriosire dalla vertiginosa altura circolare, simile a un tunnel, che si propagava in altezza lungo tutta la struttura probabilmente.
Era un luogo certamente molto tecnologico, adibito a qualcosa che non riuscì a comprendere. Ciononostante non era lì per indagare, ormai. I tempi stringevano e lui aveva una severa tabella di marcia da rispettare prima che la situazione precipitasse in modo irreversibile.
Salì un paio di rampe di scale arrugginite e si affacciò su una piattaforma sospesa nel vuoto, costituita da una pesante grata di ferro battuto. Camminarvi fu abbastanza inquietante.
Ad ogni modo esaminò il luogo e si immobilizzò quando, al centro della piattaforma, ritrovò una forma ancora più avanzata della Regina ormai trasformata.
L’animo di Chris si frantumò, mal sopportando quella realtà.
Vide il suo corpo ridotto a un cumolo di carne informe, vagamente somigliante a una crisalide. Il suo busto si ergeva scheletrico alla sommità di esso, elevandosi come appeso solo dalla colonna vertebrale. Il suo volto era ormai deformato, le sue fauci spalancate; non v’era più niente di Alexia se non la sua ferocia e la sua sete di vendetta.
Si era fusa col Baccello, innalzandosi a un livello di potenza assoluta.
Da ella si innalzarono ulteriori fiamme. Voleva soltanto distruggere tutto quello che vedeva, era impazzita.
Finalmente la sua collera era libera di sfogare la frustrazione maturata in lunghissimi anni di agonia, sfruttamento, solitudine, odio, devastazione…sentimenti rimasti intrappolati troppo a lungo nel suo corpo, nella sua mente dotata di un ingegno superiore alla norma, incapace tuttavia di rincorrere la felicità.
Ogni cosa era stata inghiottita nel baratro nero della distruzione. Chris poté vederla ridere di gusto, nonostante le sembianze mostruose; ella era gioiosa di poter finalmente restituire quel che le era stato fatto.
Solo non si accorgeva che quella che aveva più perso, era proprio lei. O forse ne era perfettamente consapevole, soltanto che non vedeva più soluzioni. Ad ogni modo era ormai troppo tardi.
Come da lei promesso, non lo attaccò. Si limitò a far esplodere tutto, incurante che così comunque lo avrebbe messo in pericolo.
Chris dovette aggrapparsi alla ringhiera con tutte le sue forze per non venire scaraventato via. Doveva fare qualcosa, con lei in quello stato non sarebbe mai riuscito a scappare.
Sebbene amareggiato, non poteva far altro che attaccarla; doveva sconfiggerla.
Puntò la pistola e cominciò a colpirla, ma i suoi proiettili sembravano sparire nella massa enorme del suo corpo.
Ella si voltò verso di lui, notandolo, in seguito lo scrutò furiosa; come aveva osato spararle dopo che gli aveva salvato la vita?
In preda all’ira vomitò verso di lui un liquido vischioso e ustionante, che egli riuscì a deviare per il rotto della cuffia.
 
“Come hai potuto ridurti in questo modo?! Come puoi dargliela vinta, Alexia?”
 
“Come osi giudicare la mia opera? Non sei in grado di valutare la grandiosità del mio esperimento, l’apice della mia collera e del mio ingegno. Presto la mia trasformazione supererà ancora di più i suoi limiti, liberando la vera Regina. Preparati, avrai questo sommo onore, Chris Redfield!!”
 
A grande sorpresa dell’uomo, la ragazza conservava ancora la sua coscienza; la cosa lo turbò ulteriormente perché voleva dire che quel che stava facendo, lo stava attuando con un malato raziocinio di cui era più che consapevole.
Due erano le possibilità: o era irrimediabilmente pazza, oppure desiderava davvero morire, come ipotizzava.
Chris per principio non dava mai dello scellerato a nessuno, dunque, considerare la seconda ipotesi come unica ragione possibile, gli rendeva davvero difficile combattere seriamente contro di lei.
Eppure la violenza degli attacchi del T- Alexia furono talmente aggressivi da impedirgli di agire con delicatezza.
Un mordi e fuggi non sarebbe bastato, doveva combattere quale il soldato specialmente addestrato che era.
Mirò dunque ai suoi occhi e sparò, costringendola finalmente a fermarsi dai suoi innumerevoli attacchi. La vide corrucciarsi dolorante, per poi riprendere purtroppo più forte di prima. Era inarrestabile.
In quello stesso istante un allarme prese a avvisare l’intero stabilimento che il “SISTEMA DI AUTO DISTRUZIONE” era stato attivato. In meno di venti minuti, l’intero Laboratorio dell’Antartide sarebbe stato ridotto a un cumulo di cenere.
 
“ATTENZIONE: il sistema di auto-distruzione è stato attivato. Si prega l’intero personale di evacuare al più presto. Meno 19 minuti alla detonazione. Ripeto…ATTENZIONE: ……”
 
Tempestivamente, il Tyrant risvegliatosi poco prima saltò esattamente fra loro, irrompendo in quella battaglia.
Questi sollevò il viso e osservò prima Chris, l’uomo che non aveva ancora avuto l’onore di conoscere; in seguito si voltò verso la sua eterna donna, la sua amata e devota sorella, attesa con costanza e assoluta fedeltà per quindici interminabili anni di agonia.
Persino lo sguardo di Alexia, ormai ridotta a un mostro, mutò completamente, facendosi improvvisamente più fragile, amareggiato, ricolmo di quel dolore intenso che l’aveva definitivamente fatta impazzire.
Intanto la sirena continuava a ripetere le procedure di evacuazione, scandendo i brevi tempi del countdown. Un susseguirsi di boati in lontananza richiamavano l’attenzione dei pochi individui ormai rimasti vivi tra quelle mura, ricordando loro che la struttura di suo non avrebbe più retto per molto.
Eppure, nonostante quell’inferno sceso in terra, i due gemelli rimasero l’uno di fronte all’altro, completamente immobili e silenti, abituati a vivere in bilico fra la vita e la morte da sempre, accompagnati dal fragore della distruzione.
Non temevano l’apocalisse, in quanto per loro le fiamme ardenti del male non avevano mai smesso di bruciare il loro cuore e la loro vita; era un fuoco impossibile da placare ormai.
 
“Alfred…”
 
Lo chiamò forzatamente T-Alexia, sull’orlo di quell’ultimo stadio della sua evoluzione. La sua voce risultò polifonica, non riusciva quasi più a parlare, ma poter pronunciare quel nome un’ultima volta bastò a dire tutto.
Erano entrambi stanchi, ambedue volevano solo che quella tragedia finisse.
Alexia osservò dall’alto suo fratello, che sebbene in piedi grazie alla sua iniezione, si era trasformato in un essere completamente diverso da come lo ricordava.
Vedendo la sua pelle deturpata e i suoi meravigliosi occhi celesti divenuti dorati, provò una morsa al cuore così affliggente da imporle di strillare.
Gridò furiosa e si dimenò afflitta, straziata dall’esito infelice di quella vicenda in cui non aveva che perso tutto.
Per il suo ennesimo egoismo, aveva impedito persino a suo fratello di morire in pace; pur di rivederlo gli aveva fatto questo, lo aveva ridotto a una squallida arma batteriologica.
Tutto nel nome di una scienza di cui non le importava nulla davvero; ella aveva sempre e solo voluto superare i suoi limiti, arrivare a toccare la sommità di un intelletto che non faceva che comandarle di elevare i suoi studi, sempre di più.
Non riusciva a fermarsi, non poteva. Era stata maledetta da suo padre, che le aveva donato quel potere immenso fin da bambina.
Ora che soffriva le pene dell’inferno giunta al limite della sopportazione, vedeva con obbiettività il completo fallimento di quell’esperimento e la sua vita distrutta in ogni suo aspetto.
Allargò le braccia ormai mutate in due ali e con una spinta decisiva si staccò dalla larva sulla quale era attaccato il resto del suo corpo. Si liberò dunque di quella massa e volò via, affiancandosi a quell’unico amore che aveva contato nella sua vita, sprofondando fra le sue braccia.
Chris osservò da lontano quella scena, in cui due ragazzi ormai trasformati in B.O.W. invece furono ancora capaci di provare un sentimento di sincero affetto.
Fu angustiante vederli uniti in quel tenero abbraccio, in quella crudele forma mostruosa.
Abbassò dunque l’arma, non poteva sparare contro due individui che invece non erano che le infelici vittime di un sistema che andava combattuto.
Sentì Alexia ruggire qualcosa, non era più in grado di parlare, ma Alfred comprese perfettamente cosa ella volesse dirgli.
L’accarezzò, poi si voltò verso il soldato rimasto a una distanza tale da concedere loro la giusta discrezione di quell’attimo.
 
“Andate via, sia tu che la Redfield.”
 
Chris strinse le dita, sentendosi impotente. Non dibatté e non disse nulla.
Si girò dunque e corse via.
L’Ashford stette a guardarlo fino a quando non sparì da quella piattaforma definitivamente, tornò poi a curarsi di sua sorella, che lentamente riprese le sue sembianze da donna avendo abbandonato la sua sete di vendetta.
Le sorrise e si avvicinò al suo viso, potendo finalmente sentire il suo respiro, toccare la sua pelle, scaldarsi con quell’amore che aveva straziato così tanto il suo cuore.
Alexia riaprì gli occhi e si specchiò in quelli dorati di suo fratello. Gli accarezzò il viso, avvicinando la sua fronte alla sua, sorretta dalle sue forti braccia.
Questo mentre il conto alla rovescia continuava a scendere, decretando l’inevitabile fine del loro palazzo degli orrori, teatro di un macabro spettacolo tirato avanti anche troppo a lungo.
Adesso potevano essere liberi di calare il sipario e sparire per sempre.
 
“Mi dispiace, non ho potuto fare a meno di te. Non sono stata forte quanto lo sei stato tu.” disse per scusarsi per avergli iniettato il suo virus.
 
“Non importa. Sono felice di rivederti, Alexia, sorella mia.”
 
Rispose lasciando che lei sprofondasse sul suo collo.
Accarezzò i suoi lunghi e meravigliosi capelli biondi e fu come se il tempo non fosse mai passato; era tutto come allora, come lo ricordava.
Era però giunto il momento di dirsi addio; loro malgrado le scelte erano state prese ed entrambi sapevano cosa dovevano fare. Per il loro bene e per la loro giustizia.
Dagli occhi di Alexia comprese che per lei era lo stesso, così i due si guardarono intensamente, sorridendo.
 
“Distruggiamo questo posto.” disse dopo un lungo silenzio.
 
“Sì.” Confermò lui e tutto si fece buio.
 
Intanto, ben più lontano da loro, Chris corse a perdifiato deviando agilmente le svariate B.O.W. che tentavano invano di salvarsi dall’incendio che ormai divampava ovunque nel laboratorio.
Scavalcò la ringhiera ormai spezzata e riuscì a imboccare qualche piccola scorciatoia per raggiungere l’aeroporto al piano superiore. Tirò un paio di colpi, aprendosi la strada, doveva agire in fretta.
Pregò soltanto di trovare Claire lì, non v’era purtroppo più tempo per aspettare e se lei non ci fosse stata proprio non sapeva cosa avrebbe dovuto fare. Tuttavia conosceva sua sorella, credeva in lei, sapeva l’avrebbe trovata pronta a salire sul Jaguar militare; doveva crederci!
Mentre finalmente risaliva in superficie, una sonora risata lo richiamò dal basso, costringendolo a guardare verso il fondo dell’inferno in combustione che aveva lasciato alle sue spalle. Strinse gli occhi e nel rosso sfavillante distinse la figura del suo ex-capitano.
 
“Wesker…sei vivo…” disse stringendo i denti, al che egli rise di gusto.
 
“Questo non è un addio, Redfield.” esclamò sicuro di sé, mentre i suoi occhi vermigli risplendevano dalle lenti scure. Sogghignò di nuovo; quasi a voler dimostrare di essere il padrone assoluto e di non temere nulla, nemmeno quell’imminente esplosione. Puntò l’indice contro di lui, come un corvo che da appuntamento alla sua preda che presto verrà a reclamare dall’oltretomba. “Ho preso il campione che mi serviva dall’altro ragazzo. Ci incontreremo di nuovo,  puoi contarci. Questo è solo l’inizio di una lunga agonia che non ti darò il piacere di vincere. Non deludermi quando sarà la nostra occasione. Per quel giorno voglio una battaglia degna di noi…vedrai, Ah! Ah! Ah!”
 
Parte dell’impalcatura crollò, impedendogli la visuale su Wesker. Il soldato dové così rigare dritto, consapevole che quando i due avrebbero avuto quella resa dei conti, non sarebbe stato facile; tuttavia bramava quella battaglia esattamente quanto lui, avrebbe pagato per il male col quale aveva macchiato l’umanità.
Riprese quindi a correre per la sua strada, spalancò la porta e finalmente giunse a ridosso della passerella che sopraelevava l’aeroporto, dove felicemente ritrovò Claire ad aspettarlo.
La ragazza gli corse incontro, ma non v’era tempo per i saluti; dovevano andare.
 
“Grande, Claire. Hai attivato tu il sistema di autodistruzione?” disse mentre l’aiutava a salire sul Jaguar.
 
“Sì, mi ha dato Alfred la scheda per farlo.”
 
“Alfred? Intendi il fratello di Alexia?”
 
“Esatto, lei gli ha iniettato il virus ma è ancora cosciente, abbiamo parlato poco fa. A proposito, dobbiamo aspettarlo. So che avrai sentito cose strane su di lui, poi ti spiegherò con calma, ma non possiamo andare via così.”
 
Il cuore di Chris si strinse, doveva darle quella notizia, anche se non voleva.
 
“Claire.” la chiamò ponendosi di fronte a lei, sorreggendola per le spalle. La ragazza ricambiò, rivolgendogli lo sguardo di chi è già a conoscenza di quel tragico epilogo. “Lui ed Alexia non verranno.”
 
Claire abbozzò un amaro sorriso, trattenendo con sforzo le sue emozioni.
 
“Lo so.” disse. “Ma io desidero aspettarli lo stesso. Questa non è solo la loro battaglia, è anche la nostra. Ormai abbiamo conosciuto il loro mondo, abbiamo visto con i nostri occhi cosa gli hanno fatto; non me la sento di andarmene così.”
 
Chris non seppe cosa dirle, il countdown era ormai quasi al limite, se voleva davvero salutarli un’ultima volta, dovevano fare in fretta.
 
“Facciamo così.” esclamò. “Usiamo il Jaguar per circumnavigare lo stabilimento, sarà più facile trovarli.”
 
I due Redfield si sistemarono dunque sul velivolo e una volta avviata la preparazione per il volo, questi si sollevò da terrà, mentre del palazzo dove erano stati fino a quel momento non rimaneva più molto.
Claire si affacciò speranzosa, cercando con lo sguardo quell’uomo che non aveva potuto vincere il suo destino, ma che le aveva insegnato molto, lasciando un’indelebile traccia dentro di sé.
Lo cercò ininterrottamente, in balia della paura che fosse ormai troppo tardi. Intanto iniziarono le prime esplosioni, le quali fecero crollare una buona parte della struttura.
I due ragazzi compresero che era ora di andare, purtroppo; dovevano allontanarsi, era troppo pericoloso.
Mentre Chris fece per fare manovra, con la coda dell’occhio la rossa distinse una figura alta e longilinea, in piedi su una finestra ormai completamente frantumata.
Si voltò totalmente e riconobbe quell’uomo; era Alfred, al cui fianco vi era la donna che aveva tanto amato, la quale gli stringeva la mano.
Le fiamme divampavano alle sue spalle ma egli, incurante, non spostò lo sguardo da Claire, la quale ricambiò con la stessa intensità quegli occhi ricolmi di passione.
Nonostante il fumo nero che lentamente offuscò quell’immagine, la ragazza mantenne quel contatto visivo fino alla fine, comprendendo nitidamente il forte messaggio che lui voleva comunicarle.  
Doveva raccontare ciò che aveva vissuto, divulgare ciò che aveva visto albergare fra quelle mura.
Claire era la viva testimonianza di un mondo creato nel baratro indifferente e spietato della malvagità, ove tutto era lecito; un inferno in cui ciò che di più marcio e disumano aveva potuto avere libero sfogo.
Nessuno era stato punito a dovere, alcuno aveva mai osato opporsi al loro dominio.
Quel palazzo ormai distrutto, quelle vite strappate via con crudeltà, quell’inumana scelleratezza che li avevano trasformati in mostri... quella storia disumana non era finita; non doveva essere dimenticata.
Sarebbe stata una lunga battaglia, forse non ne sarebbero mai davvero usciti.
La Redfield aveva toccato con mano quell’esistenza deturpata e agonizzante, la sofferenza e l’abbandono che avevano costretto due giovani a perdere la loro umanità.
Il loro destino era stato deciso, ma quella morte non sarebbe stata vana se lei fosse stata la testimonianza di tutto questo.
Il luogo ove aveva vissuto il demonio, che aveva redatto le sue mura con l’odio, con la perversione, dando vita al male più spietato.
Con la mano poggiata sulla parete ormai in frantumi, Alfred Ashford si specchiò un’ultima volta nelle iridi della sua splendida donna dai capelli rossicci, entrata nella sua vita in modo così complesso da aver sconvolto in pochi attimi quegli anni vissuti nel terrore e nella violenza.
Era giunta nel suo regno dominato dalla follia, aveva conosciuto la sua realtà ricca di menzogne e paradossi, e infine era riuscita a conquistarlo per sempre. Tutto così velocemente da non poter essere spiegato in modo logico.
Non era un addio. Sarebbe sempre rimasto con lei; lo sapeva.
L’Umbrella doveva pagare. Doveva essere condannata per ciò che aveva fatto.
Sapeva di poter contare su di lei.
Un ultimo boato preannunciò che il tempo era ormai giunto al suo termine, dopodiché quello che era stato l’impero degli ultimi eredi Ashford fu inghiottito dalle implacabili fiamme, decretando la loro inoppugnabile fine.
Il Jaguar sostenne un potente rinculo, che Chris riuscì a gestire con grande maestria essendo un aviatore esperto, questo mentre osservava dallo specchietto retrovisore la struttura dell’Umbrella che spariva in un’immensa nube di fuoco.
La distesa bianca e desolata dell’Antartide nascose nel suo freddo candore quanto di sporco v’era in quel mondo che andava ripulito.
Con l’animo ancora in balia dei propri ricordi ed emozioni, Claire posò una mano sulla spalla di Chris, stringendo forte.
Egli non poté ricambiarla essendo impegnato a guidare, tuttavia entrambi sapevano quanto quell’esperienza li aveva cambiati. Nulla sarebbe più stato come prima.
La ragazza chiuse gli occhi. Adesso toccava a lei.
 
Non era la fine di quella storia.
 
Avrebbe dedicato la sua intera esistenza a combattere contro coloro che avevano distrutto quelle vite.
 
Ognuno era vittima di quella tragica esplosione che adesso stava celando fra le sue ceneri un tumore che non era stato possibile curare.
Un dolore che aveva intaccato le ossa.
Un malanno che era stato capace di contagiare fin nei meandri più oscuri, insinuandosi con la sua pece.
 
Non sarebbe stata in silenzio.
Quella vicenda sarebbe stata diffusa con veemenza, senza far sconto alcuno.
 
Il male non sarebbe stato il vincitore finale.
 
 
 




 
 
[***]
 
 
 







 
 
 
 
…7 anni dopo…
2005
 
 
 
 







 
 
 
Claire Redfield è diventata una attivista di ‘TerraSave’, una associazione in lotta contro lo sviluppo e l'impiego delle armi batteriologiche, impegnata nel soccorrere le vittime del bioterrorismo.
 
 


 
Due anni prima, suo fratello Christopher Redfield fonda la BSAA (Bioterrorism Security Assessment Alliance), per combattere il numero crescente di B.O.W. vendute dal mercato nero, con lo scopo principale di prevenire e sterminare il bioterrorismo.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Ancora oggi la guerra non è giunta al suo termine.
 
 
 
 
 
 

 
 
 
 
 
-FINE-
 
 
 
 
 
 



 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
NdA:
 
The end.
La storia è finita.
 
Cosa posso aggiungere? Ci ho messo tutta me stessa in questa fanfiction, sul serio. Una parte di me resta fra queste pagine che hanno rappresentato una parentesi importante di me stessa. Ogni parola scelta, ogni rigo, ogni frase, ogni concetto, sentimento o situazione che cercavo di descrivere; è stato pensato, scelto, e pesato proprio per far arrivare a chi legge un determinato messaggio.
Ho scelto uno stile di scrittura lungo, un po’ complicato, spesso intricato e volutamente ermetico proprio per farvi immergere già solo con lo stile nel mondo degli Ashford e di Resident Evil. Un mondo oscuro, difficile, psicologico.
Al di la se vi ha incuriosito la coppia Alfred x Claire, protagonista della vicenda, spero vivamente che la storia vi sia piaciuta.
Ho cercato di farvi entrare nel mondo introspettivo, inquietante e bizzarro di un personaggio sul quale si è detto molto poco: Alfred Ashford.
Un uomo indubbiamente devastato dal contesto di follia ove la sua mente è stata deviata, vittima di un sistema crudele e spietato a cui ha reagito con la pazzia e la violenza.
Mi son chiesta cosa gli accadrebbe se avesse la possibilità di incontrare una luce…una speranza diversa da quella che lui conosce…diversa da Alexia.
Così ho creato questo “assurdo” pairing, in cui la dolce e temeraria Claire Redfield riesce persino a toccare il suo cuore. Quello di un uomo come lui.
Ho cercato di creare dei presupposti più o meno plausibili che spero nell’insieme abbiano dato vita a una storia gradevole da seguire.
Non ho voluto dare la morale finale all’amore.
Piuttosto volevo puntare l’attenzione sul quanto spesso basti poco a cambiare il cuore di una persona.
Il finale è lo stesso del Code Veronica, ma lo spirito col quale sia Alfred che Alexia lasciano questo mondo, è tutt’altro. Ed è qui il vero cambiamento del mio finale rispetto l’opera originale.
Alfred ha imparato tanto da Claire. Ha conosciuto la speranza, la luce, l’amore, sentimenti che sembravano ormai essergli preclusi. Ha invece ritrovato il se stesso al di fuori di Alexia.
Questo grazie alla ragazza che prima era sua nemica.
Ha scoperto un mondo fuori dalla pece che oscurava il suo cuore macchiato dall’orrore.
La denuncia è quindi verso un mondo indifferente, che ha lasciato quei due ragazzi da soli, tra le mani di folli mentecatti che ben presto avrebbero condannato l’intero pianeta.
I due Ashford non sono che le vittime di questo disumano destino.
Dunque è compito di chi vive essere testimone di quanto accaduto, e fare di tutto purché vi siano sempre meno vittime.
Questo è il peso che personaggi come Claire, Chris, Leon, Jill, etc, dovranno portare…
Un sincero e affettuoso ringraziamento a tutti coloro che hanno seguito la pubblicazione e a coloro che hanno letto.
Uno speciale grazie a mia sorella gemella, la quale mi ha spinto tanto a non mollare. Mi ha seguito come beta reader e mi ha sempre sostenuta dandomi ottimi consigli nei momenti di blocco narrativo.
Grazie davvero.
Il sipario è calato e io faccio un grandissimo inchino!
Grazie!!
 
by
FiammahGrace
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=2192641