Eritrea

di odissaea
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***







«Torna subito indietro, sporca ladra che non sei altro!» gridò il mercante cercando di correrle dietro per riprendere il maltolto. Fatica sprecata, con quella sua pancia gigantesca più che correre sembrava rotolare. Gli abitanti del villaggio lo guardarono ridacchiando e facendo battute sulla sua stazza, mentre una ragazzina si faceva largo tra la folla senza essere fermata da nessuno. Il povero mercante, vestito con stoffe pregiate e dai colori stravaganti, un tripudio di viola e giallo e rosso, era crollato a terra con il fiatone sporcando le sue belle vesti e gridava aiuto alle guardie, ma anche loro ridacchiavano sotto i baffi.


Tutti a Cecropia sanno che con i ladruncoli non c’è nulla da fare. Le guardie si sono stancate di correre dietro a ragazzini di ogni età facendo la figura degli idioti, spesso finendo ricoperti di fango o in qualche trappola. Preferiscono di gran lunga ridere insieme al popolo dei mercanti alle prime armi come quel tipo seduto sulla polvere.

Nessuno ha mai pensato di fermarli. Si conoscono tutti, nel villaggio, e tutti conoscono le condizioni di vita delle loro famiglie. Rubavano per sopravvivere, perché i loro genitori non guadagnavano abbastanza, perché il raccolto non era stato abbondante come ci si aspettava. Per fortuna l’inverno era ormai terminato, e gli alberi avevano ricominciato a ricoprirsi di gemme e foglie. Presto il cielo sarebbe stato coperto dalle loro chiome.

Intanto, però, il sole risplendeva al di sopra dei rami, donando un lieve calore che aveva il sapore di promesse e notti d’estate, calde e piacevoli. Una leggera brezza fresca rallegrava la piazza del mercato, piena come sempre nelle mattine di inizio primavera. Il leggero chiacchiericcio dei clienti e i litigi sui prezzi davano inizio a una nuova giornata, tranquilla e piacevole come le precedenti. Non succedeva mai nulla di nuovo lì, eppure c’era sempre qualcosa di cui spettegolare con i vicini di casa, qualcosa che veniva immancabilmente servito alla famiglia insieme alla colazione.

I padri alzavano gli occhi al cielo, ma non mancavano mai di ascoltare le novità della mattinata. Era un rituale tranquillo che si ripeteva ogni giorno, come i dolcetti sfornati dal fornaio dall’altra parte della strada e il mazzetto di fiori freschi che la fioraia lasciava sulla porta di casa.
«Daka, sei in ritardo» sbuffò un padre, intento a controllare per l’ennesima volta dei fogli da consegnare quel giorno stesso a lavoro.

Nonostante il suo tentativo di entrare in cucina di soppiatto, i movimenti della figlia avevano comunque attirato l’attenzione dell’uomo seduto al tavolo della cucina.
Daka lasciò cadere sul tavolo il bottino della mattinata e si lavò le mani nella bacinella vicino alla madre. Quella notte era rimasta sveglia fino a tardi a guardare le stelle, e ovviamente si era anche svegliata tardi, finendo per arrivare in ritardo al mercato. A quell’ora tutti erano ormai completamente svegli e rubare era decisamente più difficile. Avrebbe potuto prendere qualcos’altro se quel grassone non si fosse messo a strepitare come una gallina, ma almeno non era tornata a casa a mani vuote.

Axel, con le sue manine paffute da bambino, allungò le mani e sollevò il fazzoletto che copriva il raccolto della sorella maggiore. Un manciata di frutta, dei semi, qualche oggetto di ferro da rivendere al fabbro e dei dolcetti per la colazione del suo fratellino. Il suo sorriso era l’unico motivo per cui Daka rischiava tanto avvicinandosi alla bancarella dei dolci, famosa per la crudeltà della donna che se ne occupava. Quella strega di Glysabel era la pasticciera più cara del villaggio, ma i suoi dolci erano effettivamente deliziosi. In giro si diceva che due ragazzini beccati a rubare al suo banco fossero stati messi in prigione per una notte intera, sotto sua insistenza.
Quella mattina però Daka non stava guardando Axel, bensì suo padre. Aveva preso molto da lui, come gli occhi verde acceso e il taglio elfico del viso. Tuttavia la persona seduta a tavola era diversa da quella che ricordava. Lui era un uomo allegro, dalla risata facile, che la sera sollevava in aria la moglie per il semplice gusto di farlo, ridendo come se fossero una coppia di novelli sposi. Quell’uomo, invece, non sorrideva mai, aveva le spalle chine e un’espressione stanca e combattuta. L’ombra di suo padre.

Anche la madre risentiva degli stessi problemi. Sembrava invecchiata di una decina d’anni negli ultimi sei mesi e ogni giorno diventava sempre più difficile nascondere le sue occhiaie. Daka fingeva di non accorgersene, ma la situazione continuava a peggiorare.

Il problema era che, nonostante lavorassero giorno e notte, i suoi genitori erano sottopagati e a stento riuscivano a coprire le spese. Visto che quasi nessuno sapeva leggere o scrivere il lavoro di scribi sarebbe dovuto essere pagato meglio, ma il governatore li sfruttava a suo piacimento, inventando scuse su scuse per diminuire la paga. Ad un certo punto Daka aveva deciso di non poter più andare avanti così, e quello che prima era solo uno scherzo divenne un lavoro. Era sempre stata la più veloce e la più agile tra i ragazzi della sua età, ma mai come in quel momento queste doti le erano state utili.

Aveva delle mani agili e veloci, perfette per quel genere di lavori. Scivolava silenziosa tra la folla, infilando in tasca portafogli, cibo e qualsiasi altra cosa le capitasse tra le mani. Aveva imparato in fretta come guadagnare soldi con gli oggetti rubati, procurandosi una clientela affidabile e abbastanza onesta con i pagamenti. I suoi genitori non ne erano stati felici, ma non potevano fare a meno di accettare il suo aiuto. Dopotutto, c’era anche un bambino in casa da sfamare.

«Tesoro siediti e mangia, tra poco devi andare» le sussurrò sua madre, porgendole un asciugamano rovinato, un tempo bianco ma ora quasi giallastro.

«Si madre» rispose lasciandosi scivolare sulla sedia. Si sentiva a pezzi, e desiderava più che mai una delle tisane che faceva sua nonna, di quelle che ti rimettevano in sesto dopo un sorso. Ne avevano ancora un po’, ma era destinata ai suoi genitori. Loro stavano molto peggio.

«Non hai trovato molto oggi, giornata pigra?» le chiese il padre con un finto tono di rimprovero. Le voleva bene dopotutto, solo che non gli piaceva che la figlia fosse costretta a rubare mentre i suoi amici si divertivano. Era sempre la sua bambina, e non gli piaceva vederla crescere così in fretta. Non doveva diventare come loro.
«Un grassone si è messo a corrermi dietro. Avresti dovuto vederlo Axel, sembrava uno di quei pappagalli che abbiamo visto alla fiera. Te lo ricordi? Quello che ripeteva tutto quello che sentiva, con quella voce buffa, e tutte quelle piume colorate…» ricordò Daka, facendo ridere il fratellino. Anche suo padre sembrava voler ridere, ma quello sul suo viso più che un sorriso era una smorfia.

«Oggi Ilyana ha portato i tuoi fiori preferiti. Sono nel vaso vicino alla finestra!» gridò la madre dal piano di sopra, mentre cercava di trovare una delle scarpe che il figlio aveva nascosto mentre era distratta.
Il vaso di vetro blu era colmo di fiori bianchi e rossi, un curioso bouquet di fiori primaverili e invernali. Ghiacciole, fiori bianchi dai petali a forma di rombo, gli ultimi della stagione, e Gigli di fuoco, dai petali morbidi e setosi di un rosso rubino striato di giallo, i primi della stagione.
Strano che fossero cresciuti con quel freddo. E poi di solito i primi sbocciavano nella radura, e il giorno prima Daka non aveva visto fiori rossi.

«Daka giochi con me? Giochi?» gridò Axel tirandole una ciocca di capelli. A quattro anni aveva già un’ottima coordinazione e l’abilità di far perdere la pazienza a chiunque, ma sua sorella lo adorava. Era una delle poche fortunate ad aver avuto un fratello. Le altre famiglie, di solito, si limitavano ad un solo figlio. La nascita di Axel era stata una sorpresa, e aveva scatenato una serie di pettegolezzi nel vicinato.

Quando era nato le vicine avevano fatto la fila per vederlo, lanciando frecciatine e commenti pungenti alla madre, almeno finché Axel non aveva sputato in faccia alla più vecchia e dispotica di loro, Miss Marsia. Daka aveva riso così tanto che il padre aveva dovuto mandarla in camera sua per non offendere gli ospiti, ma era chiaro che anche lui se la rideva sotto i baffi. Ogni volta che incontrava quella donna per strada riusciva a stento a trattenere un sorrisetto.

«No Axel, Daka va a lavoro.»rise liberando la ciocca di capelli, ora sporca di briciole e marmellata.
Axel mise il broncio, lanciandole un pezzo di frutta che la sorella afferrò al volo e mangiò ridacchiando.
«Tra qualche mese compirai cinque anni e potrò portarti con me, promesso» disse tentando di rassicurarlo. Doveva lavorare, e non aveva tempo di controllare suo fratello. A lui non piaceva stare con il nonno, preferiva giocare al parco con i suoi amichetti.

«Ti porto altra frutta» gli sussurrò all’orecchio la sorella, per poi dargli un bacio sulla guancia.
«Vai al lavoro? Non è ancora presto?» il padre si girò verso l’orologio, preoccupato di essere in ritardo.

«Prima devo portare questi al fabbro e andare a svegliare Kenya. Ci vediamo stasera, passo io a prendere Axel dal nonno!» gridò le ultime parole affinché anche la madre riuscisse a sentirla. Suo fratello doveva aver nascosto per bene quella scarpa se ancora non era riuscita a trovarla.

Fuori il sole era ormai alto e le strade erano più affollate. Bambini correvano rischiando di far cadere gli adulti diretti al lavoro e il fornaio con un vassoio di paste appena sfornate. La fioraia dall’altra parte della strada stava sistemando dei cestini con gli ultimi fiori invernali, regalando qualche mazzetto alle bambine che la salutavano. Le sue vicine erano già sedute all’ombra, osservando con attenzione la folla. Arpie.

Daka sbuffò, sollevando con il fiato una ciocca di capelli che le copriva gli occhi. Doveva tagliarli, di nuovo.
Cominciò a correre controcorrente, verso la fucina in cui lavorava Kavyr, il fabbro a cui vendeva gli oggetti di metallo rubati. Era stato il suo primo acquirente quando era ancora alle prime armi e l’aveva aiutata ad entrare nel giro di contrabbando. Un uomo anziano ma robusto come un armadio, con un dolce sorriso e costantemente circondato da bambini per il suo talento. Ufficialmente si occupava di ferrare cavalli o costruire attrezzi per i contadini o per il palazzo del governatore, ma quando non doveva occuparsi di questi lavori ufficiali costruiva giocattoli. A volte li regalava anche, se gli eri abbastanza simpatico. Dopo aver saputo cosa Axel aveva fatto a Miss Marsia Daka era tornata a casa con le braccia piene dei giochi migliori per il suo fratellino.

 

In quel momento il fabbro stava lavorando davvero, chino sull’incudine, martellando con gesti lenti e potenti. Sembrava un gigante, ma almeno era un gigante buono. Persino Daka, che era piuttosto alta, arrivava a stento alla sua spalla.
«Buongiorno Kavyr, lavoro pesante oggi?» disse sedendosi sulla staccionata bassa che circondava la fucina.
«Chi si rivede, la mia ladruncola preferita. Cos’hai per me oggi?» disse lui con un sorriso, asciugandosi il sudore e osservando il risultato del suo lavoro. Daka non capiva cosa fosse quell’oggetto allungato, ma non aveva tempo per le domande.
Gli porse quei pochi oggetti che era riuscita a prendere, tutti di acciaio. Kavyr sollevò leggermente le sopracciglia sorpreso. Era raro riuscire a trovare dell’acciaio.
«Davvero niente male, ma non so se riuscirò a farci qualcosa. Torna stasera, vedremo se queste chincaglierie possono servirmi.» disse sbuffando.
Soddisfatta, Daka lo salutò con un cenno della testa e corse a casa della sua migliore amica.
 
 
«Kenya, maledizione, sei in ritardo!»
Le grida della madre si sentivano dall'altra parte della strada. Le poche persone ancora nel quartiere, soprattutto ragazzi, ridacchiavano alzando gli occhi al cielo. Ormai si erano abituati a quelle grida. Tutti sapevano che dormigliona fosse Kenya Oliar.
Saltando i tre scalini davanti alla porta Daka bussò con insistenza, abbastanza forte da farsi sentire nel caos all’interno della casa.
Si sentì un rumore di passi che scendevano in fretta le scale, poi la testa arruffata di Kenya fece capolino da dietro la porta.
«Cinque minuti e…» fece un lungo sbadiglio «andiamo. Ma che ore sono?» borbottò la sua amica con voce assonnata, come ogni mattina.
Daka saltellava sulle punte, ansiosa di andare. Non voleva fare tardi, ci teneva al suo lavoro. L’aveva ottenuto per caso, rubando il portafoglio giusto al momento giusto, ma quella era un’altra storia. Veniva pagata bene per aiutare nell’osservatorio astronomico, e questo le bastava.
 
Due ragazzini corsero fuori superandola. I gemelli, Mick e Henrick, fratellini di Kenya. Già era strano avere più di un figlio, ma averne tre sembrava un vero e proprio azzardo. D’altra parte, nessuno si aspettava che potessero essere due gemelli. Non era mica colpa loro.
«Ok sono pronta, possiamo andare» disse Kenya afferrandole il braccio e trascinandola in strada. Le due ragazze corsero come matte, ridendo e facendo a gara a chi sarebbe arrivata prima e attirando sguardi e sorrisi.
All’entrata le aspettava il loro datore di lavoro, che camminava avanti e indietro con movimenti nervosi. Sembrò rilassarsi solo quando vide le due ragazze avvicinarsi.
«Penso di aver scoperto qualcosa» disse, lasciandole entrare.

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


Il laboratorio di astronomia di Quid era l’unico in tutto il villaggio. A Cecropia nessuno era interessato ad osservare il cielo, anche perché per la maggior parte dell’anno veniva coperto dalle foglie delle Eritree. 

Quid però aveva una vera passione per il cielo. Conosceva a memoria tutte le costellazioni e il nome di tutte le stelle, sapeva orientarsi con esse. Kenya e Daka lavoravano con lui da un paio d’anni, riordinando l’attrezzatura e ascoltando i suoi lunghi discorsi sui movimenti dei pianeti. Daka però, a differenza della sua amica, era interessata all'argomento. Anche troppo secondo i suoi genitori. Non era la prima volta che rinunciava a una notte di sonno per guardare le stelle. C’era qualcosa di magico e spettrale nella distanza che li divideva. Daka sentiva di poterle raggiungere, se solo fosse riuscita a liberarsi della gabbia di rami e superstizione che la imprigionava. Un giorno… prometteva ogni volta.

Qualche volta aveva accompagnato Quid in una delle sue spedizioni all’interno della foresta. Solo le carovane osavano viaggiare tra gli immensi alberi e tutti i pericoli nascosti tra le loro foglie. Leggende più vecchie del regno narrano di attacchi di ombre, creature gigantesche dagli occhi luminosi come le stelle e spettri che ti rubano l’anima. Erano storie da raccontare ai bambini per impedire che si perdano in quel labirinto, ma persino le guardie erano irrequiete nei turni di ronda nelle vicinanze del villaggio. “Non tutte le leggende sono solo leggende” ripeteva spesso Evanna, la madre di Daka e Axel, rimboccando le coperte al figlio. Quid non sembrava prestare attenzione a quelle leggende e si aspettava che neanche la sua pragmatica assistente desse peso a quelle dicerie. Apparentemente a lei non interessava, ma durante quelle uscite aveva sempre a portata di mano un pugnale.

Quel giorno Quid era ancora più eccitato ed eccentrico del solito. Correva in giro per l’ampia stanza buttando per aria fogli e attrezzatura, inciampando nel telescopio e svegliando il suo vecchio gatto, Gustav, che non appezzava particolarmente l’euforia del suo padrone.
 
Kenya sollevò gli occhi al cielo. Non era mai stata una grande lavoratrice e, al pensiero di rimettere in ordine tutta quella roba, le veniva voglia di buttarsi fuori dalla finestra. Una volta l’aveva fatto.

«Ci siamo quasi…forse…eccolo qui» esclamò Quid tirando fuori l’ultimo foglio in una pila di scartoffie e lasciando cadere a terra tutto il resto.

Al “forse” Kenya era corsa di sopra a pulire l’osservatorio, ansiosa di mettere più spazio possibile tra lei e un’altra lezione di astronomia. Gustav era andato con lei.

«Di che si tratta?» chiese Daka spingendo via altri fogli e sedendosi sul tavolo. 

L’espressione del professore era un misto di nervosismo e eccitazione, combinazione che indicava una scoperta sensazionale. L’ultima volta che l’aveva visto così aveva intravisto la caduta di alcune meteore. 

«Mia cara, domani sera succederà qualcosa di assolutamente incredibile»
«Ma lei non sa cosa, non è vero?» ribatté la ragazza interrompendo il discorso.
Quid, con la bocca aperta come se volesse continuare il discorso, fu costretto a richiuderla e ad abbassare le spalle.

«In effetti no, non lo so. Ma ci sono le condizioni giuste. I pianeti…»
«Certo professore, le condizioni sono sempre giuste, ma ora mi scusi, devo mettermi a lavoro e riordinare questo disastro» disse Daka interrompendolo di nuovo e facendo un largo gesto con il braccio per indicare tutta la stanza.

Senza aspettare risposta si mise al lavoro e legò i lunghi capelli in una crocchia disordinata. A causa della sua pettinatura asimmetrica sembrava essere sempre in disordine. Le piaceva quell’effetto, anche se la sua amica e i suoi genitori le lanciavano frecciatine sul fatto che continuando a trascurarsi non avrebbe mai trovato un ragazzo. Lei alzava sempre gli occhi al cielo, ribadendo che si sarebbe fatta mantenere dal suo fratellino quando lui si fosse sposato. 

La giornata di lavoro passò velocemente, tra chiacchiere e pettegolezzi scambiati con Kenya (era soprattutto lei a parlarne, sempre informata delle novità) e un pranzo veloce. Quid si era rinchiuso nello studio per occuparsi delle sue ricerche. Prima che se ne accorgessero era quasi arrivato il tramonto, ora di tornare a casa. 

Le due ragazze si salutarono in fretta e Daka corse a casa del nonno. Il vecchio Jebediah era un personaggio esuberante per metà del villaggio, austero per l’altra. Daka conosceva soprattutto la sua parte austera. Fin da piccola era stata costretta a passare un giorno della settimana ad ascoltare i suoi rimproveri e le sue morali. Con l’arrivo di Axel il fardello era passato a lui, e per alleviare quel fastidio la sorella maggiore lo riempiva di regali e cercava di non fare mai tardi quando andava a prenderlo. 

Si lanciò sulla porta quasi buttandola giù, ma nessuno venne ad aprire. Dopo qualche minuto controllò nel parco, dove nonno e nipote passavano la maggior parte del tempo. Nulla. Un brivido la scosse. Stava diventando buio e faceva sempre più freddo. Dove potevano essere andati?

La casa di Jebediah si trovava in periferia, quasi al confine con la foresta. Era mai possibile che…?

Vale la pena tentare. Sto facendo tardi, e se le guardie mi scoprono a gironzolare dopo il coprifuoco finirò nei guai. Di nuovo.

Sbuffando prese una delle lanterne dalla casa del nonno e si diresse verso la foresta. La luce della candela all’interno creava un semicerchio ampio poco meno di un metro intorno a lei. La luna era molto più utile, ma rendeva ancora più inquietanti le ombre dei rami. Stava infrangendo le leggi principali di Cecropia, ma non ne sentiva il peso come avrebbe fatto chiunque altro. 

Cosa sono delle notti in cella in confronto alla sicurezza di vedere sano e salvo Axel? si ripeteva ad ogni passo. 

Tentava di seguire il sentiero, ma era un’impresa ardua visto che le piante avevano ripreso a crescervi.
Alle sue spalle le luci si spensero, segno che i Fluma erano già apparsi. Era davvero tardi.

«Nonno! Axel! Dove siete?» gridò spezzando il silenzio millenario che la circondava. Uno stormo di uccelli si sollevò da un albero, volando lontano dal rumore improvviso.
Le ombre si muovevano intorno a lei in una danza sconosciuta e macabra dettata dal ritmo dei rami scossi dal vento. Il tempo sembrava scorrere più lentamente. Si poteva quasi sentire il peso dell’immortalità aleggiare nell’aria.

Nella mente di Daka si fece strada un ricordo inopportuno e senza senso. A volte, quando Jebediah era di buon umore, le raccontava dei suoi viaggi da nomade. Suo nonno era nato lì, al villaggio, talmente piccolo da non avere un nome, ma aveva vinto una competizione che gli aveva permesso di andare alla Città Bianca, la capitale del regno. Lui però l’aveva chiamata in un modo diverso. La Città degli Dei l’aveva definita, senza spiegare il perché.

Nonostante Daka non ricordasse granché dei dettagli della storia, sapeva che la sfida per poter partire alla volta della Città Bianca sarebbe stata indetta quello stesso anno. 
Se avesse partecipato e vinto magari avrebbe potuto trovare un lavoro nella capitale e non sarebbe più stata costretta a rubare per mantenere la sua famiglia…

Era un bel sogno, ma la competizione era ardua e il viaggio anche di più. Non era nemmeno certa di poter sopravvivere. Sapeva difendersi, ma non conosceva i pericoli che l’avrebbero attesa durante il viaggio. No, il suo posto era lì.

«Daka!» gridò una voce esile alle sue spalle. Avanzando, persa nei suoi pensieri, si era avvicinata a un laghetto illuminato dai rami della luna. 

Voltandosi si ritrovò il viso paffuto del fratellino all’altezza delle ginocchia e le sue braccia che le stringevano le gambe. Per un’istante lasciò che il sollievo prendesse il sopravvento. Era sano e salvo. Axel era sano e salvo. Non era successo nulla. Nessun mostro l’aveva rapito per portarlo lontano da lei. 

Poi la rabbia si impadronì di lei. Come c’era arrivato lì se a mala pena sapeva fare da solo la strada dalla casa del nonno al parco?
E, soprattutto, perché stava piangendo?

«Axel, come sei arrivato qui?» chiese dolcemente sollevandolo e stringendolo in un abbraccio protettivo.

«Nonno è andato via» mormorò lui con la testa affondata nell’incavo tra la spalla e il collo. Tremava e singhiozzava, stringendole il collo abbastanza da farle male.

«Che vuol dire che  è andato via? Non mi dire che l’hai seguito fin qui» rispose la sorella cominciando a ripercorrere la strada per tornare al villaggio. Lanciava spesso delle occhiate alle sue spalle, un po’ per paura di essere attaccata, un po’ nella speranza che il nonno ricomparisse.

«Mi ha lasciato solo e ha detto di aspettarlo. Io l’ho seguito, ma poi si è fatto buio e lui è sparito. Sta bene, vero?»

Axel era terrorizzato e Daka non sapeva come consolarlo. Non aveva idea di cosa fosse successo o di quanto tempo suo fratello avesse passato da solo nella foresta, ma una cosa era certa. I suoi genitori non dovevano saperlo. 

«Sta benissimo, ha solo voluto farti uno scherzo. Lo sai com’è strano nonno Jebediah, non avresti dovuto seguirlo. Ora andiamo a prendere la giacca e andiamo a casa, è tardissimo. Sei stanco, non è vero?»

Parlava veloce, seguendo la linea dei suoi pensieri. Prima cosa da fare: portare suo fratello a casa. Il giorno dopo avrebbe indagato sulla scomparsa del nonno. Magari era davvero uno scherzo.

A casa di Jebediah prese in fretta tutte le cose di suo fratello infilandole in una vecchia borsa. Lasciò la lanterna, che avrebbe solo attirato l’attenzione delle guardie, e riprese in braccio suo fratello. Sembrava essersi calmato e osservava con calma la sorella che si affaccendava e lo portava via dalla baracca. 

Durante tutto il viaggio verso casa continuò a sbadigliare e finì per addormentarsi nei pressi di casa. Lo spettacolo dei fluma era incredibile come sempre. Fiamme di una consistenza simile a quella delle nuvole volavano rasoterra e in alto, galleggiando in aria come meduse nell'acqua. Ma non era il momento per ammirarle.

Daka scivolò silenziosa per le strade con più attenzione del solito. Aprì piano la porta di casa, ma fu accecata da un fascio di luce e due paia di braccia la spinsero dentro. Aveva già una scusa pronta sulla punta della lingua, ma lo sguardo che suo padre le lanciò finì per ammutolirla. Non era arrabbiato con lei, ma era stato in ansia per tutto il tempo.

«Mi dispiace papà» sussurrò solamente, lasciando che sua madre prendesse Axel e lo portasse di sopra. Poco prima di lasciarla il fratellino aprì la mano e un pezzo di carta scivolò a terra. Daka lo infilò in tasca e seguì il padre al tavolo in cucina.

«Sai quanti rischi hai corso stasera? Già mi è difficile accettare che tu rubi ad altra gente innocente, ora cominci a infrangere anche le altre leggi? Avrei già dovuto essere a letto a quest’ora Daka, e anche tu»

Niente nella sua voce lasciava intuire un accenno di rabbia. Sembrava solo stanco. Molto stanco. Sua figlia avrebbe preferito vederlo arrabbiato. Una bella sfuriata sarebbe stata perfetta. Ma Cyrus, suo padre, era stanco. Aveva una vita difficile, un lavoro difficile, e una figlia difficile che in quel momento avrebbe voluto gridare. Gridare che non era colpa sua se non era una buona figlia, se rubava per salvare quel che restava della sua famiglia, se non poteva essere perfetta. O normale. Qualsiasi cosa lui volesse che fosse. Ci stava provando con tutta se stessa però, per quanto fosse inutile. 

«Vai a letto, domani mi spiegherai cos’è successo.» concluse suo padre uscendo dalla stanza. Mormorò un “buona notte” e la lasciò da sola. 


Alla tiepida luce di una candela, sdraiata sul suo letto nella soffitta, Daka lisciò sul palmo della mano il pezzo di carta. Aveva cercato di dormire ma pur rigirandosi continuamente nel letto non riusciva proprio a chiudere gli occhi. Poi si era ricordata del foglio.

Poche parole in una grafia incerta. Axel sapeva scrivere, ma di certo quella non era la sua scrittura. Erano poche parole, ma le diedero altro a cui pensare.

“Nipote, partecipa alla sfida e vai nella capitale. E’ ora che tu prenda in mano il tuo destino.”

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