Sentieri Sconosciuti- Volume I- Soffitti Sconosciuti

di HellWill
(/viewuser.php?uid=135861)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Aykir ~ Primo soffitto: Villa di Perses. ***
Capitolo 2: *** Sue ~ Primo soffitto: Locanda. ***
Capitolo 3: *** Aggiornamenti! ***
Capitolo 4: *** Link del libro completo ***



Capitolo 1
*** Aykir ~ Primo soffitto: Villa di Perses. ***


I
Aykir
Primo soffitto:
Villa di Perses


 
alba del 24 Aeda 684 d.C.
«Sono un uomo, ormai. E non sono diventato un uomo crudele, né maligno».
«Se fuggirai, lo diventerai».
«Se fuggirò, diventerò solo un uomo libero».

Non riusciva a pensare a nulla se non a quei discorsi, immaginari certo, ma plausibili, che avrebbero avuto luogo di lì a qualche ora. Le sue schiave dormivano ancora, lì nella stanzetta attigua alla sua, da cui veniva un calore spaventoso ed un’umidità odorosa di donne fertili.
Aykir non era mai stato un grande intenditore d’arte, eppure in quel momento apprezzò che gli architetti saraghi avessero tenuto in mente il caldo che pesava perennemente sugli edifici dello Stato di Saragà, nei deserti stepposi e persino sulle montagne, dove si trovava Perses, l’ultima piccola città prima del confine con il Regno Sayn, e sull’altopiano sul quale era appoggiata la Villa in cui viveva. Il modo in cui gli edifici fossero decorati da decine e decine di archi era pratico solo per quello, tuttavia, perché il resto del tempo gli schiavi lo passavano a chiudere o tentare di domare le tende di seta o lino che svolazzavano ovunque.
Il ragazzo non aveva esattamente idea del perché, ma gli archi lunghi e sofisticati della Villa di Perses gli piacevano: sarà che anche lui si sentiva alto ed elegante al solo guardarli, a dispetto del fatto che fosse alto poco più di una iarda e mezzo circa – si era fatto misurare in altezza, pochi mesi prima: non superava una iarda e sette decimi, e ciò lo frustrava: era un’altezza comune, anzi, per avere la sua età era persino basso. Fece qualche passo avanti ed indietro, e in quel momento le schiave si svegliarono: si sbrigarono a lavarsi e lo ossequiarono con scuse ed inchini con il naso fino a terra per non essersi alzate prima di lui.
Aveva evitato di far rumore proprio per non essere infastidito dalle due serve, quindi fece una smorfia e le cacciò via con malagrazia, senza neanche parlare, afferrando quella bionda per un braccio e sbattendola contro la mora, più alta e magra, con durezza: faceva troppo caldo per pensare di vestirsi e, completamente nudo, entrò nella piccola stanza da bagno: come per la propria camera, questo non aveva pareti che non fossero per supportare archi di lucido marmo bianco, e lucide piastrelle di marmo bianco con venature azzurre e cangianti ne coprivano il pavimento. Si mise sul bordo della propria vasca interrata, che profumava di miele come ogni mattina: con i piedi al fresco stava già molto meglio, e non osava immaginare il caldo che avrebbe fatto più avanti nella giornata, se prima dell’alba c’era già afa come sotto l’altopiano.
Per ignorare ancora l’urgenza che sentiva battergli nel petto accanto al cuore, a ritmo dissonante, decise di osservare il panorama al di là degli archi: a nord poteva vedere i profili dei monti che, ancora scuri, aspettavano la luce del sole ed erano percorsi da decine di formichine: uomini e donne che si muovevano sui loro terrazzamenti, per coltivare qualcosa da quel terreno brullo e riarso. La stessa cosa era ad est, ed Aykir fremette mentre si lasciava scivolare nella sua vasca, osservando il soffitto: il marmo bianco degli archi si fondeva in una specie di decorazione floreale, in foglia d’oro; era alla maniera dei saraghi, popolo raffinato ed elegante, e gli ornamenti dorati si fondevano poi in un fiore al centro della piccola stanzetta rotonda: il soffitto era uguale a quello della sua camera, e Aykir chiuse gli occhi finché un rumore dall’arco che separava la sua camera dalla stanza da bagno non lo riscosse.
Le schiave si affacciarono timorose dalla sua camera; lui ignorò ciò che il loro silenzio voleva lasciar intendere, quell’ansiosa richiesta di assolvere alle proprie mansioni che tutti gli schiavi che Aykir avesse mai conosciuto sembravano provare, e le osservò pigramente nell’acqua: quella mora era poco più bassa di lui, con gli occhi dorati, molto diversi da quelli ambrati di Aykir; quella bionda – com’è che si chiamava? Sor? faceva sempre fatica a distinguerle, ma se così fosse stato l’altra doveva chiamarsi Ana – aveva gli occhi rossi e leggermente gonfi, come avesse pianto, e l’anellino al suo mignolo gli confermava invece che era l’odalisca di un qualche insegnante. Alle volte, Aykir si dilettava a tirare ad indovinare quale tipo di schiave ogni suo maestro preferisse; era quasi certo che il maestro Trevor, ad esempio, le preferisse giovanissime e in carne… come la sua Sor, insomma. Quanti anni poteva avere, lei? Quindici, proprio a voler abbondare.
Distolse lo sguardo da loro, come per un tacito consenso, e si immerse completamente nella vasca, lasciando poi che lo lavassero mentre lui osservava le montagne che finalmente ad est iniziarono a rischiararsi di un fioco bagliore… e il cielo si illuminò di splendore.
Era un fenomeno comune, ma nessuno sapeva perché accadesse: c’erano tante speculazioni, ma il perché la volta celeste, nell’esatto momento in cui i primi raggi del sole fendevano l’aria notturna, si illuminasse di un lampo multicolore, rimaneva un mistero. Quel lampo poteva durare da un istante a qualche fugace secondo, per cui gli studi che erano stati fatti in materia erano tutti vaghi; ci si era abituati, lì a sud di Saragà: i contadini non stavano a chiedersi perché il cielo diventasse multicolore all’alba, quando dovevano preoccuparsi di coltivare per non morire di fame. Ma per Aykir, che passava le sue giornate studiando, leggendo ed allenandosi, era fra i grandi misteri del mondo in cui viveva, e lo affascinava tantissimo… si riscosse da quei pensieri solo quando il sole gli ferì gli occhi, e le schiave gli porsero dei teli di lino per asciugarsi, abbassando la testa e chiudendo gli occhi per non guardarlo.
Com’erano pudiche! Eppure poteva dire con certezza che entrambe non erano illibate… figurarsi se a lui erano concessi lussi simili. Si divincolò con rabbia dalle loro mani sottili e le cacciò via con un gesto seccato, rimanendo a guardar l’alba per qualche istante ancora, con quell’impazienza in petto che non gli dava tregua.
Finalmente, tutto prese colore: la sua stanza da bagno si illuminò di rosa e rosso come i raggi del sole nascente, la sua camera rifletté tali raggi illuminandosi di un lilla bizzarro, intenso, man mano che le tende e le venature del marmo azzurrine erano trapassate dalla luce.
Alla Villa di Perses, ogni piano aveva dei colori precisi: il suo aveva tende dei colori dei suoi capelli, lilla e azzurro; quello dei maestri aveva tende verdi e dorate, simbolo di saggezza e onore, mentre il piano terra, quello delle sale in cui lui studiava o si allenava, aveva tende viola, blu e bianche. Il maestro Dempsey gli aveva una volta spiegato che ogni colore aveva un significato, ma non ricordava quale fosse la sua spiegazione riguardo le tende del piano terra.
Suo malgrado, l’ansia delle schiave lo contagiò e alzando gli occhi al soffitto decorato d’oro, l’unico che avesse mai conosciuto, si lasciò vestire: lo avvolsero in un lunghissimo scialle di seta che gli fasciava le gambe, la vita e si teneva su una spalla, e sulle fasce infilarono delle braghe, lunghe sopra la caviglia, come tutti i vestiti quotidiani Saraghi; Aykir lasciò scivolare immediatamente la fascia di seta porpora dalla spalla intorno alla vita, dove iniziavano le braghe: non l’aveva mai sopportata, e preferiva restare a petto nudo.
Ana e Sor batterono in ritirata, sconfitte come sempre, e Aykir restò da solo ad aggirarsi come un animale in gabbia: non aveva intenzione di andare a lezione, perché quella mattina doveva attirare nelle sue stanze il maestro Trevor, in maniera da potergli parlare. Non andare a lezione era solo il modo più facile perché fossero loro a cercarlo, e non il contrario.
Sorrise appena, fra sé, e si guardò intorno: quella stanza era stata la sua prigione troppo a lungo; la sua camera gli era sempre sembrata spoglia, nonostante gli avessero di tanto in tanto permesso di scegliere un qualche mobile nuovo: negli ultimi anni aveva infatti guadagnato dei morbidi cuscini sui quali leggere, e un divanetto senza schienale sul quale distendersi a mangiare; tuttavia, quando aveva chiesto che di avere una mappa del mondo conosciuto, anni prima, gliene avevano data una così consunta che gli era sembrato uno scherzo – insomma, doveva esserlo per forza, no? –, ma aveva dovuto accontentarsi, con un tavolino di neanche un braccio quadrato su cui poggiarla, e una sedia poco comoda. C’era un solo tappeto per terra, così vecchio che a stento si distingueva il disegno o addirittura i colori, ormai quasi tutto color marrone chiaro come la lana utilizzata per tesserlo… ma a lui non importava, perché ricordava ancora quando ci giocava da piccolo, ed era pressoché l’unica cosa vecchia; ai piedi del letto a baldacchino, situato più o meno al centro della camera, c’era la cassapanca in cui teneva le sue cose: vestiti, sandali, un paio di stivali per quando andava a cavallo, e una vecchia sacchetta che di solito soleva ignorare… e lei, la statuina a forma di cavaliere: c’erano due messaggi residui, e il ragazzo pronunciò le due parole magiche per ascoltarli con impazienza crescente.
«Mio Principe, sono ai confini di Saragà, in attesa della verifica dei documenti. È notte fonda», recitava il primo, nella vocina sottile di Sibath.
«Sono a Perses. Mancano due ore all’alba, inizio la salita alla Villa», recitava il secondo, e Aykir fremette: questo poteva voler dire che Sibath sarebbe arrivato da un momento all’altro. Si alzò di scatto, chiudendo la cassapanca con un gran tonfo, e si appoggiò all’arco della sua camera che dava sul mare: adorava quella vista, era letteralmente spettacolare, eppure non gli era mai stato permesso di uscire a toccarlo o vederlo di persona… Era una delle cose di cui si sarebbe appropriato, andando via.
Libertà.
Il solo pensiero di quella parola gli fece accapponare la pelle: libertà. Sarebbe stata una libertà piena di doveri, ovviamente, ma quante cose avrebbe potuto fare! Incapace di stare fermo, girovagò per la camera e le due schiave lo osservarono dal loro stanzino, nervose semmai più di lui, perché tendeva ad essere più irritabile e brusco quando era impaziente.
Decidendo autonomamente di calmarsi, si sedette sull’unica sedia della stanza, accanto alla cartina, e giocherellò con la statuina del cavaliere che ormai presentava le fattezze quasi consumate dall’uso, perfettamente levigate dal continuo passaggio delle sue dita: conosceva ogni protuberanza di quella statuetta, lunga all’incirca quanto il palmo della sua mano: era di giada verde scurissimo, con venature bianche, ed era incantata: grazie ad essa infatti poteva comunicare con il suo unico amico alla Villa nonché la sua spia nel mondo conosciuto, Sibath. Quest’ultimo era un Fajh: una specie di folletto dalla pelle coriacea e verde, iridescente delle più ricche sfumature di viola, azzurro e dorato… proprio per quest’ultimo erano conosciuti come “folletti dorati”, nonostante il colore predominante nel suo amico fosse il verde. Sibath era arrivato alla Villa di Perses in condizioni pietose: Aykir lo ricordava come fosse ieri, lui aveva dieci o undici anni e aveva imposto ai maestri di non trattarlo come uno schiavo, ma come un suo pari… che forse era peggio, ripensandoci da adulto.
In ogni caso, avevano ricevuto un addestramento complementare, dove ad Aykir insegnavano la potenza e la forza, a Sibath preparavano l’agilità e la velocità: per questo una volta diventati entrambi adulti – Aykir a quattordici anni, Sibath a quattro – entrambi avevano deciso che, non essendo Sibath confinato in quell’edificio, avrebbe fatto da raccoglitore d’informazioni per il ragazzo sino a nuove disposizioni… e le nuove disposizioni sarebbero presto arrivate.
«Sarò i vostri occhi e le vostre orecchie, mio Principe» gli aveva giurato il folletto, quando stavano per separarsi per la prima volta, e gli aveva donato quella statuetta impregnata della sua magia: grazie ad esso potevano comunicare a distanza, seppur con brevi frasi concise. Costava infatti molta energia compiere un incantesimo che trasportasse per lunghe distanze delle parole, gli aveva spiegato Sibath, per cui Aykir si limitava a ricevere brevi notizie o anticipazioni di esse, scalpitando come quel mattino. Sorrise pensando che ancora al Folletto capitava di chiamarlo “Principe”; non che lui fosse un vero principe, affatto, ma il caso voleva che la razza dei Fajh valutasse molto l’onore, al punto da istituire una scala gerarchica nelle proprie colonie basata su di esso: la loro massima carica era appunto il “Principe”, reputato il Fajh più onorevole nella colonia. Aykir si era guadagnato il titolo salvandolo da una vita di schiavitù, ma tale titolo valeva solo per Sibath, per cui era il suo Principe… e di nessun altro.
«Aykir, perché non ti sei recato a colazione?» la voce profonda del suo maestro lo riscosse così improvvisamente dai suoi pensieri che il ragazzo si voltò di scatto, come colto sul fatto.
«Desideravo parlarvi, maestro».
«A proposito di?» l’uomo inarcò le sopracciglia cespugliose e ormai quasi del tutto grigie, mentre i capelli e la barba restavano solo striati di grigio, lì dove il castano aveva fallito la propria battaglia.
«Prego, sedete» il ragazzo si alzò velocemente, per cedere il posto al maestro, che lo guardò accigliato e non si mosse di un passo, restando a guardarlo dall’ingresso; che avesse ormai capito che lo aveva attirato lì con l’inganno? Aykir sorrise appena, come per scusarsi, e cominciò: «Sono un uomo, ormai».
«Sei un ragazzo» lo interruppe aspramente l’uomo, e il ragazzo prese a misurare il tappeto a grandi passi, nervosamente.
«Ho diciassette anni, alla mia età Maeus il Costruttore aveva eretto mezza Ther» ribatté calmo, e da quanto Sibath gli aveva riferito durante i suoi viaggi preliminari, l’età a cui i ragazzi si sposavano era fra i diciotto e i venti… per le ragazze, poteva essere anche molto prima.
«Tu non sei Maeus il Costruttore» ribatté pacatamente il maestro Trevor, scuotendo piano il capo, e gli abiti di pelle che indossava scricchiolarono quando si passò una mano sul viso. «Aykir, cosa stai cercando di dirmi?».
«Voglio uscire. Andarmene» Aykir lo guardò con fermezza, un fuoco che gli ardeva negli occhi ambrati.
«No» l’uomo si voltò, come per andarsene, ma Aykir fece un passo in avanti, tendendogli le mani.
«Sono un uomo! Non sono un uomo crudele, né maligno!» insistette, come si era preparato a dire.
«Abbiamo già affrontato questo discorso. Lo diventerai, lì fuori il mondo non è come nei libri» il maestro si voltò e i suoi occhi erano pieni di… compassione? Ciò fece bruciare ancor più l’orgoglio di Aykir, che abbassò le braccia e si ricompose.
«Diventerei solo libero, se fuggissi» scandì, guardando negli occhi l’uomo, che per qualche istante restò in silenzio; quello scambio di sguardi restò fra di loro per la durata del silenzio, dopodiché fu Aykir a distogliere gli occhi per primo. «Credevo di essere destinato a grandi cose, di dover diventare un eroe. Invece… tutto ciò è semplicemente senza scopo. L’addestramento, la strategia, le letture… tutte per tenermi buono?».
«Tu sei destinato a grandi cose, Aykir» il maestro gli si avvicinò e pose le mani sulle spalle magre e nervose del ragazzo, spingendolo a sollevare lo sguardo ferito. «Solo… non ancora. È troppo presto. Temiamo che moriresti, lì fuori… ci sono cose più grandi di chiunque di noi».
«Ma tutti voi le avete affrontate, a vostro tempo» incalzò il ragazzo, e indicò il mare che si intravedeva al di là degli archi. «Almeno andare a vedere il mare! Accompagnato da un maestro, o da chicchessia! Non riesco più a stare… qui, chiuso dentro, come un uccello in gabbia» il ragazzo abbassò lo sguardo e la testa, così che la cascata di capelli lilla-azzurri formasse una specie di scudo fra lui e l’uomo, sentendosi indifeso a così poca distanza.
«Aykir. Sei destinato a grandissime cose, cose che nessun essere vivente aspirerebbe mai a fare nella sua vita; sei il prescelto dagli déi, e vorresti semplicemente vedere il mare? Interrompere i tuoi addestramenti, la tua preparazione, per una cosa così infima?».
Un bruciante senso di vergogna si fece strada nel petto di Aykir: era così che sembrava? Riflettendoci bene, forse l’intera idea era una cosa infima, un… no, non doveva farsi distrarre. Ma non eliminò quell’espressione colpevole dal viso, sentendo persino affiorare delle lacrime di vergogna.
«Scusate l’impudenza, maestro. Non chiederò mai più una cosa del genere» mormorò appena udibile, tanto che il maestro strinse le mani sulle sue spalle nel chinarsi per sentirlo, dopodiché gliene batté una sulla schiena mentre l’altra lasciava la presa.
«Sei un ragazzo impaziente; quando avrai dominato te stesso, potrai uscire senza che noi temiamo per te» sorrise l’uomo. Aykir annuì, dopodiché esitò:
«Sta tornando Sibath; posso restare ad aspettarlo? Oggi pomeriggio farò il doppio» promise, alzando di nuovo lo sguardo, stavolta supplichevole. Il maestro valutò la cosa, severamente, poi sorrise appena:
«Per quanto mi riguarda puoi rimanere qui tutta la mattinata: hai allenamento con me e con maestro Siseal solo nel pomeriggio» confermò il permesso, e il ragazzo sorrise appena, grato. Così si congedarono, e Aykir tornò a sedersi davanti alla mappa, dandovi un’occhiata distratta: Saragà era piccolissimo in confronto agli altri Regni… lo colpì solo quello. Ordinò ad Ana e Sor di andare a prendergli la colazione, poiché non voleva parlare con Sibath se non nella sua camera… ed aspettò.
Non ebbe da aspettare molto, in realtà: non appena ebbe finito di mangiare, Sibath si presentò sullo stipite della camera, sorridendo.
«Principe!».
«Sibath!» ricambiò il sorriso, alzandosi in un sol gesto dal tappeto e lasciando che il folletto gli abbracciasse le gambe: in quanto a fattezze somigliava in tutto e per tutto ad un bambino di cinque o sei anni. «Allora, com’è andato il viaggio? Sei ferito?» chiese, prima di ricordarsi che l’amico non poteva ferirsi: la sua ‘pelle’ era in realtà un coriaceo esoscheletro, come quello dell’insetto da cui discendeva.[1] Quindi, poteva al massimo essersi procurato un qualche graffio, che infatti il Fajh mostrò con un una smorfia divertita:
«Non sono mica delicato come voi, che lo scheletro ce l’avete dentro» ridacchiò, e poggiò la propria statuetta sul tavolino della mappa: si trattava della testa di un drago, intagliata anche quella dal folletto stesso nella giada per comunicare e ricevere messaggi con Aykir, che a quel punto era piuttosto impaziente.
«Cosa hai raccolto, dunque?».
Sibath fece un sospiro e Aykir gettò uno sguardo alla stanzetta delle schiave, separata dalla propria solo da un pesante tendaggio.
«Ana, Sor» le chiamò in tono duro, e loro si affrettarono ad uscire e stare lì, davanti a lui in attesa di ordini. «Andate a lavorare dove è richiesto. Non ho bisogno di voi, qui» fece una smorfia, congedandole, e le due si allontanarono per l’unico corridoio del terzo piano, a passo affrettato ma non correndo. Il ragazzo aspettò di vederle sparire giù per la scalinata, anch’essa di marmo, ben oltre il panneggio di seta azzurra che separava la stanza dal corridoio, dopodiché lo chiuse con dei piccoli pesi e si inginocchiò accanto a Sibath, così da vedere la mappa ma essere al contempo allo stesso livello del folletto.
«Ho attraversato tutto lo stato fino a Punta di Saragà per prendere una nave, ovviamente questo lo sapete» cominciò il Fajh, alludendo ai brevi messaggi che si erano inviati: quel viaggio era durato diversi mesi, dunque c’erano state delle tappe.
«Sì, per andare nel Regno di Mame» lo incalzò. «Succede qualcosa di particolare a Saragà, che c’è bisogno di questa premessa?».
«Nulla di particolare: feste, balli, cene nelle ambasciate, la solita solfa… fino, appunto, a Punta di Saragà. Mi sono infiltrato al Settimo Palazzo di Stato durante una festa e ho potuto notare una certa irrequietezza: c’era un’ospite di Mame che.. beh, era particolare. Era solo una contessina, ho recepito, ma aveva una certa importanza per via di alcuni accordi commerciali».
«Che tipo di accordi?» il ragazzo aggrottò le sopracciglia, curioso.
«È lei, pare, che fornisce a Saragà l’intero patrimonio di ingredienti magici provenienti da.. be’, non umani» Sibath sembrava a disagio, ed Aykir restò in silenzio a guardare fisso la mappa, per non incrociare i suoi occhi viola. «In ogni caso,» il folletto si schiarì la voce esile «questa contessina sembrava sapere il fatto suo, e quando sono salpato lei stava girando per il porto come se cercasse qualcuno. L’ho riconosciuta per il profumo, era lo stesso che aveva alla festa . Nel Palazzo di Stato girava inoltre voce, dopo la festa, che questa signorina stia radunando creature magiche da tutto Mame, che siano esse libere o schiavi, ma non per gli accordi commerciali» poi scrollò le spalle. «Non so se aveva importanza, ma… beh, l’ho appuntato ugualmente. In nave è stato tutto tranquillo fino al Regno di Mame, dopodiché mi sono unito ad una carovana di mercanti che viaggiava verso Ther: il popolo è scontento della nuova liberalità e delle leggi sui non-umani, che ne proibiscono l’immediata cattura o l’uccisione semplicemente in quanto non-umani. Sono leggi di circa pochi anni fa, ma la notizia inizia a circolare a sud solo ultimamente… quindi ho mollato i mercanti e sono andato verso sud, dove non mi ero mai addentrato per ovvie ragioni» si prese velocemente una ciocca di capelli multicolore e sorrise appena, mentre Aykir ricambiava il sorriso.
«Sai dirmi se ci sono notizie che ci interessano?».
«A sud, non molte: ci sono dei draghi del grano che infastidisce alcuni villaggi, qualcuno ha riferito di un drago al centro di Mame, qualcun altro ha smentito, ma nulla di realmente allarmante, almeno non fino a che dovevo andarmene… allora, come sempre, ci sono state le voci più interessanti» ironizzò, e Aykir scosse il capo, aggrottando le sopracciglia.
«Vieni al dunque».
«Ero a due giorni da Therport quando da un paio di altre carovane di mercanti, che scendevano da Ther, ho ricevuto notizie riguardanti una creatura descritta come un orso alato – o un drago peloso –, che con una zampa può schiacciare una casa e che può ingoiare un uomo in un sol boccone» Sibath si strinse nelle spalle e osservò il ragazzo con sguardo critico. «Non credo sia questa la creatura da cui iniziare le nostre indagini, anche se…» il folletto esitò.
«Anche se?» lo incalzò, con il solito fuoco irrequieto negli occhi.
«…anche se nessuno riferisce di aver mai visto una creatura del genere al di fuori dei villaggi che ha colpito, che quando me ne sono andato erano già due. Come se sparisse nel nulla e rispuntasse altrove» sospirò, e il ragazzo sorrise come se l’amico potesse già capire cosa pensava.
«Vedi? Lo vedi? Lo sapevo che era quella la Creatura».
«Non possiamo saperlo. Potrebbe essere una cosa come un’altra, un goblin che si diverte a seminare il panico» protestò Sibath, alzandosi sulla sedia mentre Aykir si alzava: così erano a pari altezza, e si guardarono negli occhi in tensione, ma poi il ragazzo sussurrò, con un sorriso inebriato:
«Voglio scappare da qui, Sibath. Stanotte».
Il Fajh spalancò gli occhi e lo fissò in silenzio, troppo stupito per parlare, ma quando recuperò l’uso della parola l’unica cosa che disse fu: «Eh?».
«Voglio andarmene, uscire, l’ho chiesto stamattina al maestro Trevor, prima del tuo arrivo. Gli ho fatto intendere che ero remissivo e pentito della richiesta… come se avessero ancora qualche influenza su di me» mormorò, perché gli sembrava che chiunque potesse sentirlo se parlava più ad alta voce, tanto che Sibath vicino com’era dovette chinarsi leggermente per distinguere tutte le parole.
«Ci sto» rispose il Fajh, sorridendo appena, poi però tornò serio. «Anche se penso che sia un’idea stupida, ci sto: devi uscire, e vedere com’è bello il mondo. Addestrarti non serve a nulla, se non puoi far valere ciò che ti insegnano» si strinse nelle spalle, poi scese dalla sedia e prese a misurare il tappeto con i suoi passetti veloci, come se stesse ancora considerando l’idea, poi chiese: «Qual è il piano?».
Aykir sorrise feroce.
 
~ ~ ~ ~ ~ ~ ~
 
notte del 24 Aeda 684 d.C.
Nel momento stesso in cui percepì che le schiave stavano dormendo, Sibath scivolò giù dal letto mentre Aykir restava sdraiato ma vigile sotto le lenzuola leggere; veloce e silenzioso, il folletto entrò nello stanzino e imbavagliò le due ragazze, legandole ai loro letti: lo implorarono con lo sguardo, terrorizzate, quando fece loro segno di non far rumore, e Aykir gli sorrise appena mentre usciva dallo stanzino: si alzò anche lui e iniziò a vestirsi da solo, così eccitato e nervoso che le mani gli tremavano.
Sibath si diresse al piano degli schiavi, interrato e nascosto dagli sguardi com’era giusto che fosse, sistemati insieme alle cucine e alla ghiacciaia; quando tornò, Aykir era vestito e stava selezionando dei pezzi di stoffa da avvolgere attorno agli zoccoli dei cavalli, che lasciò cadere a terra quando vide Sibath di ritorno con due borse, di cui una pericolosamente gonfia, e un mazzetto di chiavi.
«Chiavi di emergenza» sussurrò, ridendo appena, e Aykir sorrise raggiante: con quelle poteva aprire il secondo piano e procurarsi una mappa e dei soldi… nonché le chiavi dell’armeria.
«Vado» mormorò, mentre Sibath annuiva: era stato scontento quando Aykir gli aveva proposto di andare lui stesso sul piano dei maestri, ma il ragazzo aveva voluto evitare che lo cacciassero, se mai l’avessero scoperto… e il folletto non aveva potuto far altro che dargli ragione: Aykir sarebbe stato punito, lui sarebbe stato punito e cacciato: non era qualcosa che i due avrebbero potuto sopportare.
«Aykir!» sibilò il Fajh, e il ragazzo si voltò, mentre l’amico gli metteva in mano un incarto. «L’ho presa durante l’ultimo viaggio, è una polvere sonnifero: soffiala sul viso di maestro Siseal, ha il sonno leggero».
«E questo come lo sai?» Aykir aggrottò le sopracciglia chiare, e Sibath ghignò.
«Una volta si addormentò nelle stalle, entrai senza vederlo e lui balzò in piedi perché mi aveva sentito».
Il ragazzo restò a guardarlo, stupito, e Sibath scrollò le spalle, aprendo il cassettone e iniziando a mettere i vestiti ben ripiegati nella borsa vuota mentre Aykir scendeva le scale e sospirava, ritrovandosi praticamente di fronte la porta del secondo piano.
Non ricordava di averla mai varcata: era di marmo istoriato, tre lastre scolpite in modo da formare stupendi intrecci di viti e foglie, così che il vento potesse passare fra i buchi degli acini d’uva e potesse esserci un chiavistello a fare la guardia sul sonno dei suoi maestri. Esitò ancora un po’ davanti a quella porta, sentendosi come se stesse per violare un sacro mistero, ma una volta aperto il chiavistello una fretta e un’ansia senza pari lo spinsero ad aprire la prima porta dei maestri, pregando che non cigolasse: sotto le coperte c’era una sagoma indefinibile nel buio, ma dall’arredamento Aykir poté capire che non si trattava né del maestro d’armi, Siseal, né del tesoriere, Quek, né del bibliotecario, Jaquin. Così, lentamente, richiuse la porta e andò avanti alla seconda: Maestro Siseal si sedette sul letto, nel buio della sua camera e Aykir restò immobile, con la porta socchiusa, pregando i Tredici Déi di dargli una possibilità. Evidentemente lo ascoltarono, perché l’uomo tornò a distendersi e poco dopo russò persino, anche se poco e in maniera contenuta: il ragazzo allora avanzò, il più velocemente e silenziosamente possibile, e soffiò parte della polvere di Sibath sul viso del maestro, che parve volersi risvegliare per un attimo, ma poi cadde profondamente addormentato, come drogato. Inebriato dal fatto che il piano aveva funzionato, Aykir si alzò e chiuse gli occhi, ringraziando gli déi e iniziando a cercare le chiavi dell’armeria: le trovò sulla scrivania, e le avvolse in un panno perché non dondolassero producendo rumore: se le infilò nel piccolo tascapane e passò alla porta successiva, stando attento alla polvere… che però non si ritrovò in mano. Freneticamente si frugò addosso, nel tascapane, e vinto ritornò nella stanza di Siseal, vedendo l’incarto per terra con una buona metà del contenuto rovesciata per terra: avvilito, scosse il capo e raccolse quel che poteva, constatando che bastava o per il tesoriere o per il bibliotecario, e pregò che la porta successiva fosse quella del tesoriere, perché non avrebbe avuto l’occasione per aprirne un’altra.
Invece, si ritrovò ad evitare la porta successiva, poiché da sotto di essa penetrava un filo di luce nonostante fosse ormai scuro… chiunque ci fosse all’interno, era sveglio e lui non avrebbe potuto entrare indisturbato. La porta dopo era scura come le altre, e Aykir entrò con una tensione tale che le spalle gli facevano male: la stanza era quella del bibliotecario, un moccolo di candela sulla scrivania si era esaurito da poco, perché l’uomo si era addormentato su delle carte. Aykir gli soffiò sul viso la polvere, per far sì che non si svegliasse facilmente, e deluso passò in rassegna tutte le cartine che l’uomo aveva nella sua camera, scegliendone una di Saragà, una di Mame e una dei Tredici Regni.
Dopodiché, il suo tempo era scaduto e Aykir percorse in fretta, a piedi nudi, il corridoio dei maestri: richiuse la grande porta di marmo a chiave e tornò di sopra, dove Sibath lo attendeva: frugò per trovare le chiavi dell’armeria e disse senza esitare:
«Dovremo portarci dietro le due schiave».
«Cosa?».
«Sì, la polvere l’ho usata in massiccia quantità per Siseal, che era mezzo sveglio quando sono entrato… Quindi non ce n’era per Quek, il tesoriere, che comunque era sveglio tanto da tenere una candela accesa» mentì tutto d’un fiato.
«E cosa pensi di fare di due schiave?» ringhiò il folletto, pestando un piccolo piede a terra.
«Venderle, che domande» Aykir inarcò un sopracciglio, e Sibath aprì appena la bocca, senza che una parola ne uscisse.
«Starai scherzando, spero» sibilò il Fajh, e il ragazzo arretrò.
«È l’unica soluzione che mi venga in mente!» protestò, e il folletto restò immobile, infuriato.
«E sia. Le venderemo» borbottò per niente d’accordo, strappandogli le chiavi di mano e dirigendosi a due piani più sotto, all’armeria e poi al cancello, mentre Aykir prendeva le due borse, Ana e Sor.
La compagnia si diresse così alle stalle, mentre le due schiave piangevano in silenzio, e Aykir sellò i cavalli, svegliandoli prima con delle piccole carezze sul muso. Passò poi a mettere ai loro zoccoli le pezze, per attutirne il rumore, e attese che la statuetta che aveva nella fascia dei pantaloni diventasse calda – il segnale che attendeva da Sibath – per condurre i cavalli fuori dai cubicoli, farvi montare sopra le due schiave e dirigersi al cancello principale, che varcò con un rumore attutito e sbuffi della sua giumenta e del veloce cavallo isarniano che aveva Sibath.
«Andato tutto bene?» si informò in fretta, e Sibath annuì mentre Aykir indossava la propria cintura, alla quale c’erano attaccati la sua spada da una parte e un paio di pugnali dall’altra.
«Sì, sì, ora chiudo il cancello e ce ne andiamo di qui» il folletto tirò a sé i due battenti, con un po’ di fatica, e raggiunse l’amico prendendo le redini del proprio cavallo.
Condussero i cavalli al passo per un tempo che parve loro infinito, fra le creste di roccia e il terreno brullo dell’altopiano su cui era situata la Villa: l’avevano chiamata così perché era troppo piccola per essere un palazzo, e troppo grande per essere una casa. Il suo giardino era fiorente, gli aveva spiegato il Sacerdote Dempsey, perché quel terreno era benedetto dagli déi; Aykir credeva negli déi, ma credeva anche che quel giardino fosse così verde e pacifico perché avevano importato del terreno da dove era più fertile. C’erano fontane ovunque, anche nei periodi di siccità, e i suoi schiavi erano sempre puliti; i maestri detestavano avere a che fare con cose sporche.
In ogni caso, la Villa non doveva essere più un suo pensiero: stava abbandonando tutto ciò che avesse mai conosciuto, e lasciandoselo alle spalle non avvertì null’altro che pace.
Quando furono scesi dall’altopiano attraverso i passaggi lasciati dai carri dei rifornimenti, le schiave erano quiete e con le guance rigate dalle lacrime versate prima, ma Aykir non tolse loro i bavagli: desiderava che non parlassero, che non potessero chiedere nulla, nonostante ciò gli facesse attirare uno sguardo di disapprovazione da parte di Sibath. Così, con una schiava per sella, slegarono loro i polsi perché potessero reggersi a cavallo e montarono anch’essi: la sella per umani che Sibath si ritrovò costretto ad usare per via della schiava gli era scomodo, ma era stata necessaria dal momento che sul suo normale arcione non avrebbe potuto montare nessuno oltre lui. Insieme i due amici partirono al galoppo nella notte, illuminati solo da un centinaio di stelle che, quiete, splendevano come se nulla fosse cambiato.
 
[1] C’era infatti chi credeva che fatine e folletti, e in generale tutte le creature dotate d’ali, discendessero da fiori o insetti morti… ma Aykir non credeva molto a quella teoria, non per la razza di Sibath quanto meno.


 
 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Sue ~ Primo soffitto: Locanda. ***


II
Sue
Primo soffitto:
stalla.

 
alba del 25 Aeda 684 d.C.
Il sole appena sorto filtrava debolmente dalle imposte socchiuse, ferendole gli occhi: la ragazza se li stropicciò sbadigliando e si girò dall’altra parte del piccolo cumulo di paglia, per evitare la luce; poi si arrese all’evidenza che fosse ormai mattina e si stese supina, fissando il soffitto della stalla, di travi mangiate dalle intemperie e paglia, osservandolo come se avesse dovuto scorgervi un qualche misterioso senso nascosto.
“Un altro soffitto sconosciuto… quanti altri ne dovrò vedere, ancora, prima di smettere di scappare?”.
«...al diavolo» borbottò alzandosi dal pagliericcio con uno sbadiglio. Si stiracchiò per bene e socchiuse gli occhi con un sorriso; a dispetto dei pensieri cupi, quella sarebbe stata una bella giornata: avrebbe fatto di tutto perché andasse proprio così. Seduta sul mucchio di fieno, fissò con rinnovato sconforto la stalla in cui si trovava: il contesto medievale nel quale viveva da almeno quattro anni continuava a seccarla ed affascinarla contemporaneamente, nonostante avesse avuto il tempo di abituarsi all’idea.
Abitava in quel mondo dai costumi e tradizioni antiquate quasi per caso e ancora aveva problemi a fare i conti con le cose più semplici, come l’andare a letto al tramonto perché non c’era più luce (le candele, così come le fiaccole o le lampade ad olio, erano ovviamente roba per ricchi), e le più banali, come il cibo perennemente limitato a verdure di scarso apporto nutritivo, formaggio o pane secco e duro; la cosa che le piaceva di più, però, pensò mentre si infilava gli stivali, erano i draghi: erano ovunque, di qualsiasi dimensione, e addirittura gli esseri umani li tenevano come animali di compagnia, come fosse la cosa più normale del mondo. Non fece in tempo a completare il pensiero che il drago delle stalle fece la sua comparsa: era grosso più o meno come un cagnolino tracagnotto, e arrivò con la lingua serpeggiante ad ispezionarla; la sera prima lo aveva visto cacciare dei topi nelle vicinanze del sacco della biada, e ora pareva amichevole.
«Ehy, ciao» sorrise appena, allungando una mano perché potesse annusargliela. Il drago non si scompose, ignorandola del tutto, e se ne andò, sbattendo le ali e sollevando un gran polverone mentre si appollaiava su una trave di un cubicolo vuoto; Sue fece una smorfia, mandandolo a quel paese, e tirò fuori dal cumulo di paglia su cui aveva dormito la propria borsa: l’aveva ficcata lì nella speranza che ladri o mendicanti non la prendessero di mira, nonostante lei fosse praticamente nullatenente. Tirò fuori la spazzola e si pettinò, togliendosi dai capelli blu ogni traccia di fieno; dopodiché si alzò, con la borsa in spalla, e si diresse al pozzo del villaggio, praticamente di fronte alla locanda nelle cui stalle aveva trovato rifugio per la notte.
Il villaggio non aveva un nome, per lei: era solo uno dei tanti villaggi in cui si era fermata per fare rifornimento di danaro, dal momento che non aveva soldi né oggetti da vendere – al di fuori della sua spazzola, che però era un caro ricordo. Nessuno voleva avere a che fare con lei, perché non era umana: Sue aveva infatti capelli blu, occhi viola, e tratti che potevano sembrare esotici rispetto a quelli degli umani del Regno di Mame. Per questo la ragazza aveva escogitato la propria routine: alzarsi all’alba per evitare qualsiasi contatto umano non necessario, che l’avrebbe certamente quantomeno additata o addirittura linciata, in alcuni villaggi del sud. Il villaggio era perciò in lento movimento: qualche massaia stava svuotando i pitali in strada dalla porta di casa, senza prestarle attenzione; un paio di commercianti stavano aprendo bottega spazzando i patii di legno che ne costituivano l’entrata; i bambini, quelli che Sue più temeva, non erano ancora svegli.
Prelevò un secchio d’acqua, con enorme fatica visto che il giorno prima non aveva mangiato, e quello prima ancora il suo unico pasto era stato una mela; si sciacquò il viso e si lavò alla meglio sotto i vestiti, che però erano così laceri e sporchi che sembravano rubati a qualche cadavere; se pensava che una volta erano stati addirittura nuovi le veniva da ridere, perché a distanza di anni quegli indumenti le andavano piccoli e tutto evocavano tranne le parole “nuovi” o “puliti”. La ragazza sospirò e sciacquò anche camicia e pantaloni, nonostante li avesse indosso, per togliere almeno un po’ di puzza di sudore: il restare bagnata non la preoccupava, poiché in poche ore ci sarebbe stato un caldo intollerabile.
Restò immobile quando vide un uomo avvicinarsi al pozzo: era allampanato e non molto massiccio, e aveva un naso adunco da far invidia ad un uccellaccio. Un draghetto delle dimensioni di un falchetto gli stava appollaiato sulla spalla, fissandola con i suoi occhietti neri e perspicaci.
«Non puoi usare la nostra acqua» tagliò corto con le presentazioni, e Sue si morse le labbra per non ribattere qualcosa di sconveniente del tipo “Perché no?”: sapeva benissimo perché, nonostante la cosa non le andasse giù.
«Ho finito, in ogni caso».
«Non puoi restare qui, devi andartene».
Sue stava per controbattere, quando uno stalliere arrivò dalla locanda in gran fretta, trascinandola per una spalla.
«Devi lavorare, sbrigati» ringhiò, mollandola come disgustato, e Sue lo seguì, sentendosi ribollire il sangue per quel trattamento; erano passati almeno quattro anni da quando aveva perso l’aspetto di una bambina umana, ma la cosa non smetteva di pesarle. Era una donna, per di più non-umana: tutti si sentivano in dovere di ricordarglielo, anche chi teoricamente avrebbe dovuto essere poco più che uno schiavo, come quello stalliere. Fece un sorriso amaro: ma certo, anche lei era poco più di una schiava, agli occhi umani. Entrò nel cortile della locanda e poi nella stessa, dal retro: si ritrovò in un piccolo ingresso sporco di polvere e terreno. Tuttavia, c’era il padrone ad attenderla: la valutò, soppesandola in silenzio, poi si schiarì la voce.
«Ti ho fatta dormire nelle mie stalle senza protestare perché mia figlia si è sentita poco bene proprio ieri sera, e non ha potuto continuare il suo lavoro; gli déi sanno che non avrei mai permesso che feccia come te si avvicinasse anche solo alla mia locanda, altrimenti» le spiegò, con voce roca, e le fece cenno verso una porta dietro di sé. «Di là c’è la cucina. Va ripulita entro un’ora, poi ci saranno le pentole da lavare, sono stato chiaro? Non ti avvicinare al cibo o ti meno» ringhiò, vedendola smunta e magrolina. Sue deglutì e annuì, non sapendo se riusciva a farcela da sola; tuttavia quando entrò nelle cucine, c’erano un altro paio di donne ad attenderla. Una di esse, con uno scialle colorato sulle spalle che le copriva anche il capo, si asciugò il sudore dalla fronte con una manica e la valutò con lo sguardo, avvicinandosi e storcendo la bocca.
«Mio marito ci accomuna agli schiavi, ora» ridacchiò con l’altra, che diede solo uno sguardo colmo di disprezzo a Sue, senza esprimersi in merito.
La cucina odorava di carne stufata e farina: la donna in fondo stava impastando delle focacce, con alcune già pronte per essere infornate, mentre quella con lo scialle faceva seccamente le presentazioni:
«Io sono Evel; lei è Suse, mia sorella» indicò la donna che impastava, con il capo scoperto. «Hai già conosciuto mio marito… da qualche parte a rifornirci c’è Cole, nostro figlio, mentre nostra figlia Eva ci aiuta in cucina, lì» indicò un punto in cui una ragazzina sbucciava fagioli.
Sue annuì e si morse le labbra.
«Io sono Sue» si presentò, porgendole la mano in un gesto automatico, ma la lasciò subito cadere quando vide un lampo di disprezzo comparire negli occhi di Evel; non si sarebbe mai abituata a quel trattamento.
Quando lei ed Erik erano appena arrivati in quel mondo (ancora non capiva come, nonostante l’amico avesse tentato di spiegarle come funzionasse), il ragazzo le aveva dato un paio di nozioni fondamentali su quell’epoca “medievale”, che non era perfettamente uguale a quello nel mondo dove era cresciuta, anzi, differiva di parecchie cose; una su tutte, il Cristianesimo lì non c’era. La storia non si era sviluppata in quel senso, anche se si era arrivati all’organizzazione più o meno feudale; la concezione delle donne era fortemente arretrata, con la società che voleva fossero perfette massaie e mogli e madri; la magia esisteva, certo, ma solo in pochi ne custodivano i segreti, fra cui c’erano soprattutto i Sacerdoti e gli Strenna (le persone con il ‘dono’ della magia innata); gli umani non erano neanche l’unica razza presente in quel mondo… bensì ce n’erano anche molte che nel suo mondo Sue avrebbe definito “fantastiche” e che invece lì venivano chiamate “magiche”, o “non-umane”: elfi, sirene, fate, folletti… ed altre dai nomi strani, come Weod o Etrays. Lei aveva scoperto di far parte di queste ultime solo dopo la pubertà, quando il suo aspetto fisico era radicalmente cambiato dal sembrare umano, con capelli ricci e neri ed occhi grigi, a colori e fisionomia completamente diversi… ma quella era un’altra storia, e non voleva pensarci. Piuttosto, aveva notato che il mondo in cui si trovava discriminava di gran lunga queste creature e, quindi, anche lei.
“Come se il sessismo non bastasse”, si ritrovò a pensare amaramente, e scosse il capo ritornando al presente: la cucina non era esattamente come si immaginava ne fosse una medievale, ovvero povera e sfornita di mobili, bensì era piena di odori e spezie varie, addirittura messe sul fuoco in modo che spandessero il più possibile l’odore di cibo nonostante non ci fosse ancora nulla nei grossi pentoloni sui tre fuochi in mezzo alla stanza.
Un lunghissimo tavolo, posto lungo i muri, fungeva da bancone di lavoro; vicino la porta vi erano vasetti di piante della più grande varietà che Sue avesse potuto vedere: ce n’erano di rosse, di viola, di azzurrine, di grigie, e solo in piccola parte erano verdi; in fondo, vicino l’uscita che dava sul cortile e sulla bottega del macellaio, c’era una lunga trave sospesa proprio sopra la porta, staccata dal muro, a cui erano appesi una carcassa scuoiata in attesa di essere macellata e, in un angolo, salumi di ogni sorta; sul tavolo su cui Suse lavorava c’erano dei piatti impilati e dei coltelli infilati in un ciocco di legno, minacciosi quanto curiosamente storti. Il ripiano era rovinato ma la donna vi si affaccendava, impastando le focacce nelle vicinanze del muro di pietra annerito dal fuoco del forno, mentre la cuoca studiava la nuova arrivata. Sue si guardò intorno, cercando di capire cosa andasse pulito: in un angolo c’era l’acquaio, con almeno due o tre sezioni: in una c’erano dei pesci del fiume vicino, in un’altra una pila di piatti sporchi; in un altro angolo, Eva sbucciava dei fagioli dal baccello, in un secchio. L’unica fonte di luce a parte i tre focolari ridotti a brace era il sole, che splendeva forte attraverso la porta aperta: dava su un cortiletto interno piccolo ma assolato, con la luce che si rifletteva bene sul terreno brullo e polveroso. Al centro vi campeggiava un piccolo pozzo;  sotto l’odore di spezie, quando un refolo di vento si infilò nella porta, si sentì puzza di letame, forse proveniente dalle stalle, unita al sublime odore delle pentole e piatti sporchi che si erano accumulati fuori dalle ante spalancate.
«Ti sei per caso incantata?» la cuoca le diresse un’occhiata di sprezzo e Sue si riscosse, sussultando e mordendosi le labbra.
«No, stavo solo…».
«Pulisci prima i calderoni, dopodiché il resto che è vicino al pozzetto» la interruppe seccamente la donna, e Sue chinò il capo, obbedendo: prese con sé i calderoni e vide nel cortile un draghetto snello ed agile infilarsi in un secchio per ingoiare un topo intero, vivo. Disgustata dal fatto che ci fossero tanti topi in giro, Sue fremette e si guardò intorno: poco più in là c’erano un secchio ed uno spazzolone che sembrava per cavalli.
«Fai prima le pentole grosse e falle bene, ché servono per il latte» ordinò spiccia la donna, ritornando dentro.
Sue la guardò allucinata e si diresse verso il pozzo, scaricando poi il primo secchio d’acqua in un paiolo: afferrò lo spazzolone e si preparò a lunghe ore di raschiamento e mal di schiena.
Quando fu a metà dell’opera, con i tre pentoloni già puliti, vide tornare un ragazzino con due secchi di latte, che faceva fatica; si alzò per aiutarlo quasi in automatico, poiché sembravano pesanti, ma quando lui la vide inchiodò e chiamò a gran voce la madre, impaurito. La cuoca uscì, contrariata, e vide il timore del bambino.
«Che gli hai fatto, bestia?» inveì verso Sue, e lei arretrò di un passo istintivamente.
«Niente, mi sono solo alzata per aiutar…».
«Finisci il tuo lavoro e basta, ché aspettiamo solo te per cucinare» disse, prendendo un secchio dal bambino, e portandolo dentro la locanda per mano; quando il bimbo fu vicino, racimolò saliva e sputò contro Sue, che si ritrasse amareggiata.
«Questo è, a voler aiutare» borbottò la ragazza, tornando a lavare pentole e piatti in solitaria.
 
~ ~ ~
 
«Avrebbe potuto fare di meglio» commentò il locandiere, quando venne a chiedere cosa la non-umana stesse facendo ed osservando con occhi sospettosi Sue che posava l’ultimo pentolone per terra. La ragazza lo guardò afflitta: pentole e piatti erano sporchi e grigi, e quell’affermazione la faceva sentir male per tutte le volte che aveva mangiato da qualche parte in quel mondo parecchio arretrato in campo di norme d’igiene – e non solo. Un paio di topi che rosicchiavano un resto di cavolo sotto un tavolo lì nel cortiletto attrassero la sua attenzione e lentamente Sue si voltò nuovamente verso locandiere e cuoca, che noncurante versò un mestolo di latte caldo in una ciotola.
«Tie’» lo offrì a Sue, con poche cerimonie e con fare spiccio, mentre il marito se ne andava; poi Evel si sedette sul tavolo mangiando una mela, mentre la ragazza beveva il latte, rinfrancata nonostante facesse caldo. «Il tuo debito è ripagato, sei troppo secca per pulire la cucina e stare ancora in piedi dopo» ridacchiò malignamente, poi la studiò. «Sai qualche ricetta esotica? Magari delle tue parti?» chiese sospettosa, con gli occhi che brillavano interessati. Sue si strinse nelle spalle, immergendo la ciotola nel secchio d’acqua più o meno sporca e lavando anche quella.
«Qualcosa».
Non poteva ovviamente dire che era italiana, e che la maggior parte delle sue ricette consistevano in pasta e qualcosa.
«Conosci il minestrone?».
«Una grande minestra?» ridacchiò la donna. «Dimmi».
«Ci si mettono dentro un bel po’ di verdure… ne servono poche ma di ogni genere. Sedano, fagioli, patate…».
«Non so cosa siano queste papate» la donna contrasse le labbra e Sue si guardò intorno, mordendosi le labbra.
«Sono… dei tuberi. Sono buoni una volta cotti, e assorbono il sale. Hanno un sacco di sostanze nutri…».
«Stai vaneggiando. Forse è una cosa che si coltiva solo dalle tue parti, non abbiamo tuberi così, solo fiori» la donna si strinse nelle spalle e Sue sospirò.
«In ogni caso non è un ingrediente principale, quindi non fa niente. La cosa importante è non metterci carne come nella minestra normale, è un piatto vegetaria… vegetale» si corresse subito, con un sorriso di scuse. La parola straniera si attirò non più di un’occhiata vacua. «Puoi metterci la verdura che ti pare, nel minestrone, anche spezie o dell’erba del re».
«L’erba del re è una pianta ornamentale, mi stai prendendo in giro?».
«È anche molto buona da mangiare!» ribatté la ragazza, e la donna alzò gli occhi al cielo.
«E va bene, va bene. Conoscevo lo stesso questa minestra, ma ti sei guadagnata i tuoi due beret… Sei davvero smunta» borbottò, alzandosi dal tavolo. Sue restò ferma, incredula: aveva sentito bene? Soldi? Non le importava che la donna le stesse facendo praticamente la carità, perché non le aveva dato nessuna informazione utile – o almeno così le sembrava –, le importava solo avere il denaro sufficiente a comprare almeno un po’ di provviste per continuare il suo viaggio. Era da anni che campava alla giornata, a volte rubacchiando qualcosa dagli orti nottetempo, altre volte lavorando come quella mattinata, ma mai nulla che le facesse guadagnare almeno una corona, che bastava per una settimana di viveri mangiando normalmente; ormai Sue mangiava solo una volta al giorno, se le andava bene, altrimenti non mangiava affatto. Avrebbe avuto certo più soldi se si fosse data al borseggio, ma era troppo poco abile per farlo, e fino a quel momento era riuscita ad alleggerire le tasche altrui solo nelle grandi folle… che si sa, non erano granché diffuse nei piccoli villaggi.
La donna ritornò nella polvere del cortiletto con due monetine, e gliele mise in mano senza toccarla.
«Va’ via, ora» la esortò, con un cenno del capo, e Sue si morse le labbra.
«Io…» iniziò a ringraziarla, ma lei mosse le mani come per scacciarla, mentre già si voltava e rientrava. Sue scavalcò la staccionata e si diresse all’emporio, dove vendevano la frutta e la verdura dei giorni precedenti, quella che solo le famiglie più povere volevano comprare, ad un prezzo più basso del normale: l’uomo dietro il bancone si irrigidì e mise mano al pugnale poggiato sul ripiano, osservandola sospettoso, e lei girò intimidita fra gli scaffali spogli, prendendo con sé solo delle mele, del pesce salato e delle carote, che andavano a male meno in fretta del resto; conservò per sé un beret, volendo valutare bene solo in seguito come spenderlo. Il venditore si fece consegnare sospettoso la moneta restante, facendole poi cenno di andare via, il tutto in completo silenzio, e Sue mise gli acquisti nella borsa ed uscì con un sospiro dal negozio… salvo poi rendersi conto che fuori dall’emporio si era radunata una banda di ragazzini.
L’alba era infatti ormai passata da un pezzo, e più o meno tutti l’avevano vista uscire dalla locanda e dirigersi lì… per cui ora c’era una piccola folla di marmocchi alti non più della metà di lei, tutti con bastoni e pietre in mano.
«Ci hanno detto che hai usato l’acqua del nostro pozzo» iniziò uno, un po’più grande degli altri; Sue arretrò, ma trovò solo l’entrata della bottega; vi si rifugiò nuovamente dentro, e implorò con lo sguardo il venditore, che con un sospiro si alzò e a passi pesanti si diresse all’entrata.
«Andate via, ragazzi… è illegale fare queste cose, ora, lo sapete. Ci mettiamo nei guai con le guardie, se le fate qualcosa senza motivo. Il pozzo purtroppo è aperto a tutti» disse, lanciando un’occhiata penetrante alla ragazza che si era rifugiata con le mani su uno scaffale vuoto; i ragazzini mugugnarono e si dispersero, protestando a gran voce. Sue sospirò di sollievo e aprì la bocca per ringraziare, ma l’uomo la fermò prima che potesse farlo.
«Non voglio guai con la legge, tutto qui» ringhiò, tornando dietro il bancone. «Fosse per me…» e il suo sguardo le corse sul corpo, come se la stesse saggiando. «…ti avrei ammazzata io stesso» completò sottovoce, sollevando il coltello, e Sue deglutì.
«…grazie lo stesso» mormorò, uscendo finché non c’erano i ragazzini in vista. Sulla strada principale c’era un gran polverone di gente; Sue non fece in tempo a raggiungere la folla, incuriosita, che un gran dolore le trafisse la nuca: una pietra rotolò a terra e la ragazza, voltandosi, vide un bambino minuscolo – doveva avere sui cinque o sei anni – indicarla e gridarle contro: «Creatura malefica! Goblin! Vattene da dove sei venuta!».
Una donna dal capo coperto da una pezza bianca – come era usanza per le donne sposate – trascinò via il bambino, accortasi del suo gesto, ma non si scusò con Sue, che si portò invece una mano alla nuca che le pulsava e digrignò i denti, volendo gridar loro contro qualcosa; invece cambiò direzione e si diresse dalla sarta di paese, rigirandosi in mano il beret che le era rimasto: sarebbe stata una buona spesa, se poteva evitarle episodi simili.
Il sarto era un omino tranquillo che, vedendola, si fece guardingo.
«Cosa vuoi?» le chiese sgarbatamente. «Qui non trattiamo con i ladri».
«Neanche se pagano?» gli mostrò il beret, sfoggiando il suo migliore sorriso disarmante, e l’uomo sibilò come un serpente ostile.
«Che vuoi?» ripeté, e Sue chiese un foulard che le coprisse spalle e capo, raccogliendole i capelli blu e nascondendoli alla vista, così come le sue lunghe orecchie a punta; ne scelse uno che si adattasse alle sue finanze, dopodiché consegnò all’uomo tutto il poco denaro che le restava… dopodiché, quando uscì dalla bottega, si sentì una persona nuova. Tutti le dedicavano occhiate distratte e confabulavano sulla non-umana, ma se si teneva abbastanza lontana da loro persino la sua fisionomia poteva essere scambiata per umana. Ora erano perlopiù i suoi abiti a destare sospetti e scalpore: il suo mettere i pantaloni non era visto di buon occhio, poiché solamente le Sacerdotesse della Madre Terra o del Fratello Sconosciuto potevano permettersi di girare con abiti considerati “maschili”… e lei di certo non ne era una. Non appena si rese conto che neanche in quel modo andava bene, con i capelli e le orecchie coperte da un anonimo foulard bianco, l’animo di Sue si ritrovava diviso a metà: desiderava tanto passare inosservata, essere come chiunque altro, ma d’altro canto le provocava rabbia l’ineguaglianza che vigeva in quel territorio, e si intestardiva nelle proprie posizioni; per cui, decise immediatamente di ignorare totalmente almeno la questione degli abiti e di continuare a viaggiare per quel che poteva.
Nel tentativo di distrarsi, la testa iniziò a viaggiare per conto suo, facendole chiedere cosa avrebbe potuto comprare una volta raggiunto un certo numero di corone – non sapeva come né quando; il suo viaggio verso la capitale, Ther, proseguiva verso nord-est, dunque doveva continuare a spostarsi. I soldi sarebbero bastati per togliersi qualche bisogno come quello di vestiti decenti, oppure sarebbero stati tutti risucchiati proprio dal suo viaggiare continuo? Le sue provviste in quel momento si limitavano a ciò che aveva acquistato poco prima e ad una borraccia d’acqua piena… per fortuna quel giorno aveva bevuto del latte, un lusso insperato, ma il cibo rimaneva il suo problema più impellente, se non altro perché con un beret comprava molta roba solo se quel cibo era di basso costo e, quindi, di bassa qualità. Il suo ideale sarebbe stato guadagnare almeno una corona: avrebbe comprato cibo per due settimane, se lo avesse razionato bene.
Con un sospiro si fermò proprio al limitare della folla che si era riunita sulla strada principale, all’ingresso del villaggio: si immerse nella confusione e, approfittando della distrazione altrui, riuscì persino a tagliare qualche borsa con lo stiletto che custodiva gelosamente in uno stivale; una volta racimolati sei beret si sporse per verificare cosa stava accadendo, mentre la gente, muovendosi, le lasciava la visuale libera per qualche secondo: erano da poco arrivati i mercanti nomadi da sud-est, e portavano le migliori novità dalle periferie del regno di Mame. Gli abitanti del paese, mentre i mercanti sistemavano i loro prodotti, erano andati a rifornirli di cibo e acqua per il viaggio e si facevano raccontare le notizie; Sue si illuminò quando vide che queste ultime erano abbastanza succose da lasciare concentrati ed immobili gli uomini riuniti attorno a loro, per cui decise di azzardare un altro po’ di borselli tagliati: una volta finito aveva raggranellato più di due corone, per cui decise di ascoltare con senza particolare attenzione quello di cui gli uomini stavano parlando, per capire se c’era in giro qualcosa che potesse interessarla; notò con amarezza che non c’erano donne presenti a parte lei, e ciò avrebbe presto attirato l’attenzione, quindi si mosse sui margini della folla, pronta a defilarsi.
«Mai vista una bestia così, ve lo giuro sulla mia povera madre, aveva le dimensioni di un drago delle caverne, con tanto di ali…».
«Ma era peloso! Un pelo nero e lucido che sembrava inghiottire tutta la luce di questo mondo!»
«Aveva enormi zampe, o forse mani, irte di artigli, e con una zampata poteva abbattere un uomo!».
“Un orso, con tutta probabilità” pensò e scosse il capo Sue, anche se i racconti e gli occhi stralunati dei mercanti le suggerivano che non fosse così.
«Aveva la bocca così grande che poteva inghiottire una casa! E il verso! Sembravano urla di bambini e donne che vengono sgozzati…».
«…come se quell’infernale rumore venisse direttamente dal suo stomaco!».
Un uomo del villaggio si fece avanti, spavaldo.
«Che cumulo di balle! Sentiamo, dove avete sentito queste cavolate?».
L’affermazione scatenò le risate di quanti stavano ad ascoltare, ma Sue notò gli sguardi incerti che si scambiavano i paesani, segno che la paura o quanto meno l’incertezza di essa, al contrario, era reale. Ma di che bestia poteva trattarsi? A Sue non veniva in mente nulla che corrispondesse alla descrizione.
«Ce l’hanno raccontato gli abitanti di un villaggio poco lontano… Era distrutto, dovete nascondervi se volete vedere l’alba di domani!»
“Forse un Goblin ha giocato a nascondino e la gente si è spaventata” si ritrovò a minimizzare la ragazza, ma un sottile filo di inquietudine le serpeggiò lungo la schiena.  Gli uomini della carovana si scambiarono sguardi colmi di disagio, e Sue si morse il labbro, tentata di intervenire; eppure non poteva parlare: cosa aveva da dire? Nemmeno le sue domande erano brillanti, così si limitò ad ascoltare nel tentativo di capire qualcosa di più.
«Si sposta in fretta o, gli déi ce ne scampino, ce n’è più di una; ha attaccato due villaggi a due giorni di distanza l’uno dall’altro… ma nella stessa giornata, prima l’uno e poi l’altro. Non è una bestia normale…» disse poi uno, e il paesano che aveva già parlato agitò una mano, divertito.
«Avrà volato, no!? Sicuramente era un drago del grano troppo cresciuto, magari nero, ma è impossibile che due villaggi sono stati distrutti! È assurdo» sentenziò.
I mercanti si strinsero nelle spalle e, dato che nessuno era più disposto ad ascoltare quelle storie, si dedicarono a togliere la loro mercanzia dagli imballaggi di stoffa, sistemando i carri e i carretti per essere pronti a vendere. Sue si allontanò in fretta, prima che qualcuno potesse notare che era l’unica donna del gruppo, e rifugiatasi fra due botteghe infilò di nuovo lo stiletto nello stivale e controllò le proprie rimpinguate tasche: con un sorriso sollevato notò di avere abbastanza denaro da proseguire il suo viaggio e si allontanò muovendosi fra le case, evitando la via principale; tuttavia, doveva parlare con i mercanti, per cui aggirò la fiera che stavano allestendo sulla strada principale, così che il villaggio potesse guardare con agio la mercanzia, e si diresse direttamente al carro più decorato, che teoricamente avrebbe dovuto essere del capo-carovana.
Bussò timidamente alla porta del vagone, decorata in fiori gialli, rossi e verdi; un uomo le aprì e la squadrò da capo a piedi, senza capire se fosse un ragazzo o una ragazza: dall’abbigliamento dovette decidere che era un maschio, poiché si schiarì la voce e gonfiò il petto, sul quale campeggiava un’enorme e foltissima barba nera, facendogli un cenno con la testa:
«Sei tu che hai bussato, giovanotto?».
«Sono una ragazza» puntualizzò subito Sue, e non gli diede tempo di ribattere alla cosa che chiese: «Dove siete diretti?».
«…dove sono i tuoi genitori? O tuo marito?» chiese lui, senza risponderle, e lei strinse i pugni, battendo un piede a terra per la rabbia; una ciocca le sfuggì da sotto il fazzoletto di stoffa che aveva sul capo, troppo liscia per rimanere con le compagne, e l’uomo grande e grosso arretrò con gli occhi spalancati. «Ehy, senti, non farmi sortilegi o cose simili, credevo fossi normale!».
«Io sono normale!» ringhiò la ragazza. «Dove siete diretti?».
«Verso sud! Ora vattene!» l’omaccione si richiuse dietro la porta e Sue si appoggiò al carro, sistemandosi nuovamente i capelli; se li guardò avvilita, lunghi su una spalla: le piacevano molto, erano di un blu profondo e pieno di mille riflessi, ma il resto del mondo non sembrava pensarla allo stesso modo. Si sistemò nuovamente il foulard sulla testa, sospirando: lei si stava dirigendo a nord o al massimo a nord-est, per cui, nonostante avesse sperato di accorparsi alla carovana, non le restava che proseguire da sola… con tutti i rischi che ciò comportava.
 
~ ~ ~ ~ ~ ~ ~
 
tramonto del 25 Aeda 684 d.C.
Quando si fermò per bivaccare, il sole stava tramontando e lei aveva trovato rifugio in un boschetto rachitico in mezzo ai campi coltivati a grano, poco distante dalla strada che stava seguendo.
Non accese alcun fuoco: era stata una giornata calda e l’afa, di sera, non era affatto migliorata… ma almeno si stava alzando della brezza fresca, e lei intendeva godersela senza il disturbo del calore delle fiamme. Inoltre la luce avrebbe attirato probabilmente compagnie indesiderate… umane, ovviamente.
Non era la prima volta che dormiva all’aperto, ma come sempre la cosa che più le incuteva timore l’assenza di luce elettrica in tutto il mondo: l’oscurità di notte era infatti totale, anche se il cielo stellato era qualcosa di straordinario.
In silenzio assoluto, Sue consumò la sua cena: un pesciolino salato ed una carota, conservando il resto per altri grami pasti come quello; il suo stomaco come al solito brontolò, insoddisfatto, ma lei decise di ignorarlo come sempre e si raggomitolò attorno alla borsa, addormentandosi di botto e senza pensare ad eventuali nemici o animali selvatici che potessero disturbarla.
 

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Aggiornamenti! ***


Salve a tutti!
Qui è l'autore che parla.
Mi sento una brutta persona, dal momento che ho cancellato i capitoli successivi in vista della pubblicazione in cartaceo che, spero, avverrà presto...
Ma non preoccupatevi! Costerà probabilmente meno di 20€, sui 17-18€ circa!

Perché tutto questo non è stato per niente.
Intendo, io scrivo per passione da quando avevo 9 anni
(ho iniziato il 24 dicembre del 2004,
sarebbe figo se riuscissi a pubblicare in quella data o poco prima!)
e da allora è stato un continuo percorso di auto-miglioramento,
di critiche, di costruttività e fantasia.

I miei genitori hanno pagato la mia connessione ad internet,
il mio computer,
le mie bollette,
i miei quaderni,
le mie penne,
e tutto ciò che ho usato per scrivere
ed inventare il mondo in cui si muovono Aykir e Sue.
Per dieci anni hanno pagato tutto quanto,
senza chiedermi nulla in cambio, ed ora devo provvedere da solo...

Sarebbe bello se il lavoro che ho fatto per 10 anni
(ormai quasi 11)
potesse ripagarmi in qualche modo.
Sarebbe bello se voi lettori poteste sostenermi in qualche modo.
Per cui, ho deciso di auto-pubblicarmi su Amazon
e vedere come va.

Spero che i primi due capitoli vi abbiano incuriosito a sufficienza
da farvi spendere un paio di soldini,
per permettere ad uno studente fuori sede di pagare l'affitto...
e di continuare a scrivere, ovviamente.

Sì, perché "Soffitti Sconosciuti" è il primo volume di una trilogia.
Il secondo volume è già in scrittura e già delineato a livello di trama,
e si chiamerà "Resistenza".

Aggiornerò questa storia o questo "capitolo"
quando avrò terminato la correzione e revisione di "Soffitti Sconosciuti".
Ogni tanto controllate, potrei pubblicarlo fra poco.

Grazie per aver letto sin qui!
Sono grato ad ognuno di voi per avermi dedicato il suo tempo.
~ Che possiate vivere mille avventure fra le mie ed altrui pagine! ~

~~~~~~~

Nel frattempo, potete trovarmi qui:

email:
william.h.ribera@gmail.com

Profilo Facebook:
Will H. Ribera

Pagina Facebook:

Sentieri Sconosciuti

Linktree:
William H. Ribera

 
 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Link del libro completo ***


È arrivato il gran giorno, gente!
Finalmente "Soffitti Sconosciuti"
è giunto alla pubblicazione!
Ho pubblicato il 27/04/2017 su Amazon
(con il mio deadname femminile), 
e i link sono stati aggiornati il 1/11/2020.

Potete trovarlo qui in cartaceo e in e-book su Amazon,
o in e-book su Kobo.

Ringrazio tutti coloro che mi hanno seguito
fino a questo punto,
ed hanno reso tutto ciò possibile!
❤️

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=2498207