Colpa del Sole

di Angelika_Morgenstern
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Ritorno ***
Capitolo 2: *** Un giorno ***
Capitolo 3: *** Un altro giorno ***
Capitolo 4: *** Ancora un altro giorno ***
Capitolo 5: *** Punto . ***



Capitolo 1
*** Ritorno ***



 
È colpa del sole?
Sono stati i suoi raggi a destarmi?
Perché l’hanno fatto?
La luce inonda la stanza in cui mi trovo: rettangolare, bianca, con due inutili sedie e un altrettanto inutile tavolino di fronte a me.
Muovo appena gli occhi verso l’angolo e noto un televisore vecchio stampo, di quelli ancora dotati di tubo catodico, spento.
Non pensavo esistessero ancora.
Sono ancora qui.
Sospiro.
Che ansia.
Chiudo gli occhi, sperando di tornare nel limbo onirico, quel luogo che tiene sospeso l’essere umano tra la vita e la morte, il sottile filo dove camminiamo in bilico, il confine dell’anima.
Perché la gente non si fa mai i cazzi suoi?
Apro le palpebre e getto uno sguardo ai miei polsi, sollevandoli per osservare meglio: li ritrovo fasciati quasi fino al gomito, il che non mi stupisce.
Avevo scelto il coltello della carne, quello dentellato che uso per tagliare le bistecche proprio al fine di scavare squarci profondi nelle vene, ferite che mi dissanguassero il prima possibile.
Ero felice quando ho sentito le forze abbandonarmi.
Finalmente è finita, ho pensato, sentendo il sollievo farsi strada in me, il cuore che si alleggeriva e il torace che si rilassava.
Ho chiuso gli occhi nella certezza di dormire eternamente e non dover sopportare un minuto di più questa vita, questa gente, queste regole, tutto quanto.
E invece no, ovviamente non è stato così.
Come al solito qualcuno si è impicciato e ha rovinato tutto.
Mi costringono a rimanere qui, ma perché non lo capiscono?
È la seconda volta che ci provo, cosa credono, che lo faccia per hobby?
Cazzo, sono davvero dei dannati buonisti!
Sento la porta aprirsi e mi volto, notando una donnina minuta, biondina, carina, i capelli arrotolati sulla nuca attorno a uno di quei schifosi posticci, che mi regala l’impressione di essere una di quelle gne gne gne che mal tollero. 
E che è entrata senza neanche degnarsi di bussare. 
Stronza.
— Buongiorno! – saluta lei, mostrando una fila di denti perfettamente curati.
Che cazzo hai da ridere? 
— Come ti senti?
Come un uccello in gabbia, grazie a voi guastafeste.
Mi rifiuto di rispondere a questa maledetta cospiratrice e la guardo intensamente, sperando che legga nei miei occhi tutto il rancore che nutro per lei e qui maledetti impiccioni della sua risma.
Ma non sembra colpita e continua pure a mostrarmi quella fottuta mezzaluna bianca che si ritrova sul viso.
Ti spaccherei volentieri i denti a randellate.
La vedo accingersi a cambiare la flebo e mi giro a guardare fuori, non sopportando oltre il suo stupido canticchiare che mi sa tanto di presa per il culo ai miei danni.
Le macchine passano, i bambini giocano, le mamme li sbaciucchiano e io sono ancora qui, a osservare le loro inutili vite, annoiandomi e rompendomi i coglioni in maniera stratosferica.
Che palle.
Ma questi qui non lo capiscono che non voglio più vivere?




Ciao a tutti,
pubblico dopo un anno e più, vergognandomi come fosse la prima volta.
In fondo questa è una storia – non storia, un’introspettiva (tanto per cambiare) ma molto, molto negativa. Iniziai a scriverla per sfogare i brutti pensieri che avevo in testa verso dicembre/gennaio, quando avevo perso del tutto la fiducia nella vita. Inutile dire che fu una conseguenza.
L’arte è creatività, nonché l’espressione di ciò che abbiamo dentro. 
C’è sempre qualcosa di noi in ciò che creiamo, qualche aspetto della nostra personalità, persone conosciute, avvenimenti dai quali attingiamo, sensazioni, pensieri e così via. 
In uno dei momenti più bui mi ha aiutata di nuovo, e questo basta e avanza.
Grazie per aver letto il primo “capitolo” di questa breve storia. Non ho voluto dilungarmi troppo perché i pensieri di Lu sono pesanti e negativi, una pioggia infinita di pessimismo.
Ho cercato di analizzare uno stadio depressivo soggettivo, in questo caso la perdita della libertà del singolo: vivere nelle regole, doversi adeguare e così via.
Ho cercato di essere più sintetica possibile.
Spero di ricevere opinioni a riguardo e di regalare qualche spunto di riflessione.
Alla prossima

- A.

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Capitolo 2
*** Un giorno ***




È colpa del sole?
Quando frequentavo – come tutti – le elementari, sentii dire che è grazie al sole se c’è vita sul nostro pianeta, grazie ai suoi raggi noi viviamo, specie animali e vegetali.
Ma questa luce è davvero fastidiosa! Si ostina a far capolino dagli occhiali da sole mentre sto guidando, anzi, correndo in macchina.
Odio trovarmi davanti dei veri e propri incapaci alla guida, per non parlare dei nonnetti che non hanno nulla da fare, o dei ciclisti, come dimenticare!
Devo andare a lavoro e sono sempre in ritardo per colpa di questi soggetti, ma temo che stamattina non mi beccherò nessuna ramanzina.
Conosco la gente, la loro stupida pietas: non ti comprendono finché non fai qualcosa di grosso, poi scatta la reazione, la compassione o l’odio a seconda di chi colpisci.
Se colpisci loro, egoisticamente ti odiano e non provano neanche a chiedersi perché.
Se colpisci te stesso, provano compassione e si sentono migliori.
Perché tutti sono insoddisfatti da qualcosa, nessuno è mai contento di ciò che ha, vorremmo tutti sempre di più e piacerebbe a chiunque essere migliore degli altri.
Per questo sono tutti così carini nei confronti altrui quando si tratta di ascoltare i problemi.
Stanno lì, ti aiutano, danno consigli anche non richiesti, e così nutrono il loro ego, le loro insicurezze. Pensano di fare una buona azione, si sentono utili a qualcosa e questo funge da balsamo per il loro stupido ego ferito dagli altri loro simili.
Perché la vita è questo: una battaglia continua.
Non puoi mai riposarti, bisogna sempre stare ad occhi aperti, attento a chi vuole metterti con le spalle al muro, non ci sono vie d’uscite, nulla di piacevole, solo fatica, tanta.
E quel poco di bello è sfuggente, passa subito, non hai tempo di realizzarlo che già ti ritrovi nella merda.
Toh.
Guarda, ho trovato subito parcheggio.
Una gioia, ogni tanto.
Ho scelto di tornare subito a lavoro perché gli psicologi dell’ospedale me l’hanno consigliato.
Come se io dovessi riprendermi da qualcosa.
Non hanno ancora compreso quanto mi stanchi vivere, come consideri inutile questo tempo sprecato a faticare e basta.
Nasci, cresci, muori.
A cosa serve tutto ciò che fai?
Ho appena passato i trent’anni e non ho nulla di certo.
Ho studiato per costruirmi un futuro, eppure questo non si vede nonostante tutti i miei sforzi atroci per guadagnarmi una posizione e sbaragliare la concorrenza.
Sono intelligente, molto più della norma, così diceva il test psicoattitudinale, e forse è per questo che mi rendo conto di cosa sia davvero la vita.
Una merda.
Scendo dall’auto e mi chiudo la portiera alle spalle, voltandomi e guardando Genni venire verso di me.
Fantastico. Altre domande a cui rispondere. Non vedevo l’ora.
— Lu! – dice, storpiando il mio nome col suo accento salernitano – Come stai?
Come vuoi che stia?
Mi mordo la lingua per non rispondere e reprimo l’istinto di alzare gli occhi al cielo, maledicendo le convenzioni sociali che impongono di essere politically correct a tutti i costi al fine di non ledere l’umana sensibilità.
Mammolette.
— Bene. – rispondo.
Non c’è cascato.
Da uomo del sud, Gennaro – Genni, appunto – ha uno spiccato acume che gli fa capire subito come mi senta.
Se solo avesse avuto gli occhi chiari, avrei anche potuto considerarlo fattibile.
— Non dire minchiate a me che non ci casco. – mi rimprovera, aspettandosi che io abbassi lo sguardo.
Illuso.
Perché cazzo direi delle bugie se poi mi sentissi in colpa? Mica sono masochista.
— Ma non ti vergogni per quello che hai fatto? – incalza.
— No.
— Lu! – esclama – Potevi morire!
— Oh, potevo morire! – gli faccio il verso – Forse era proprio quello che volevo. Non ti sfiora l’idea?
Genni resta allibito.
Ma è un problema suo, la sua sensibilità non mi tocca: io l’ho persa tempo addietro e lo mollo lì, immerso nel suo stupore come un cucchiaio nel semolino.
Evito di guardarmi attorno mentre procedo verso l’entrata del grigio palazzo ospitante gli uffici dove lavoro, ma tanto è inutile: sento i loro sguardi pungenti su di me, mi sembra di sentire già i commenti, le parole di compassione, di comprensione, di qualsiasi cosa possa esprimere opinioni mai richieste.
Nell’ufficio l’atmosfera non è migliore: decine d’occhi sui miei avambracci, intuisco che le garze sporgano dalla manica della giacca ma sinceramente poco importa.
Tanto lo sanno tutti, cosa dovrei fingere?
E poi non ne ho neanche voglia.
Chissà Genni come reagirà alle mie brusche risposte?
Quasi quasi il pensiero mi diverte, e nel momento stesso in cui la mia mente lo partorisce, un sorriso accenna a farsi strada sul mio volto, interrotto inesorabilmente dalla presenza del capo nella mia stanza.
 
Se la luce non esistesse, probabilmente adesso non sarei qui a sorbirmi una sorta di ramanzina del mio superiore. La luce è vita, no? Non vivendo, non avrei problemi.
Invece no, parole, parole e parole.
Bla bla bla.
Cosa pensa di essere, un prete? Uno psicologo?
A cosa servono le sue chiacchiere?
Hanno un senso?
— Quello che hai fatto potrebbe essere dannoso per l’immagine della nostra azienda.
— Allora cacciami. – rispondo, spogliandolo dell’ossequioso Lei del quale finora anch’io avevo fatto uso abituale.
Ma in fondo ho mancato di rispetto a me, per quale motivo dovrei portarne ad altri?
E loro nei miei confronti ne hanno mai usato?
Il capo sembra irrigidirsi, probabilmente perché nessuno gli ha mai parlato in questo modo.
È uno dei cosiddetti piani alti lui, abituato a farsi rispettare, una persona che detiene un potere dettato dal denaro e al quale tutti leccano i piedi, sperando di mantenere il posto di lavoro.
Chissà quanti miei colleghi hanno intimamente esultato per il mio gesto, sperando di prendere il mio posto in sede. Un bel posto, fisso, ben pagato, orario ottimo… certo.
E io dovrei dedicare altro mio tempo a convivere con questa feccia?
— Sei un ottimo elemento, Lu. Non possiamo permetterci di abbandonarti in questo delicato momento della tua vita.
Rieccolo la.
Il delicato momento della mia vita, che non hanno ancora capito trattarsi della fine.
Ma perché cazzo devono costringermi a vivere a tutti i costi?
In fondo non l’ho chiesto io.
Sorrido, o sarebbe meglio dire che faccio una smorfia — Non è un momento. – preciso – Ma uno status.
— Non importa, noi ti siamo vicini.
Fanculo.
Mi alzo — Bene, grazie mille. Alè. Halleluja. – dico, fingendo di esultare – Ora posso tornare nella mia stanza?
Il capo mi guarda, batte le palpebre una volta. Si toglie gli occhiali, portando le dita all’incrocio tra naso e occhi, come se qualche pensiero lo stesse opprimendo.
Una volta avrei perso la pazienza per la sua lentezza, adesso mi limito a incrociare le braccia e attendere: tanto che mi costa perdere cinque minuti?
Per quel che conta ormai il tempo.
Sospira — Buon lavoro.
Soddisfatto, esco dal suo ufficio, dirigendomi al mio, dove finalmente potrò avere un po’ di sacrosantissima pace.
Ah.
La solitudine è una cosa meravigliosa.
 


Ciao a tutti, bentornati!
Non sapevo sinceramente come chiamare il protagonista della storia, soprattutto perché non avevo voglia di farlo essere né maschio, né femmina. Non volevo limitare la fantasia del lettore, credo che il non detto sia più stimolante ai fini della creatività ^^
Comunque gli ho affibbiato la prima cosa che mi è venuta in mente.
Non si sa nulla di Lu, solamente il suo pensiero altamente distruttivo nei confronti della società.
Adotta comportamenti e risposte totalmente sincere, perché effettivamente la domanda è: quanto saremmo gentili noi con i nostri simili?
Dovessimo calare le maschere che il politically correct e la società c'impongono, l'educazione, le influenze, il perbenismo e tutto quanto, cosa emergerebbe delle nostre personalità?
Le regole ci portano a vivere bene, in pace, ma quanto siamo noi stessi?
Questo è quanto ^^ 
Riprendo l'abitudine di ringraziare tutti coloro che sono passati a lasciarmi una recensione: Megara X, Aven90, Juliet Leben22, Martirios, Crateide, Ormhaxan, Himenoshirotsuki. Grazie mille!
Grazie anche a tutti coloro che sono passati senza lasciare traccia.
Bene, domani è lunedì quindi buon inizio settimana a tutti!
Have fun

- A.


 

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Capitolo 3
*** Un altro giorno ***




È colpa del sole?
La luce è piacevole, il buio spaventoso.
Come si fa ad affermare una cosa del genere?
Luce significa giorno, giorno significa vita che riprende, vita che riprende significa gente tra i piedi, gente tra i piedi significa problemi nuovi e continui: rapporti da costruire, amicizie che finiscono, difetti insormontabili e insopportabili, regole da rispettare, e poi parole, parole, parole…
Non si è mai se stessi quando si ha a che fare con gli altri.
Ci si deve adeguare se non ci si vuol sentire pesce fuor d’acqua.
Questa è la regola primaria dei rapporti umani: adeguarsi.
Perdere se stessi.
Appiattirsi.
Bah.
Questo significa luce, chiarore, giornata, sole.
Ecco perché è sempre e solo colpa del sole: al suo sorgere ci svegliamo tutti, la vita ricomincia nella sua quotidianità e con essa si presentano problemi vecchi e nuovi.
Al contrario, al tramonto tutto tace: rumori, costrizioni, amori e dissapori.
Si rimane soli col proprio crogiolo di personalità, quel barlume che splende in un angolino del nostro cervello e ci ricorda chi siamo, se non abbiamo ancora perso del tutto il nostro io per adattarsi alle regole del viver comune.
Si è se stessi solo dormendo.
Si assume fisicamente una posizione senza regole, liberi nello spazio.
Ci si muove nel sonno, senza pensieri, paure, ordini da eseguire e conseguenze da realizzare.
È il nostro inconscio a guidare l’attività onirica, nel sogno sfoghiamo paure, sensazioni, aspirazioni, rabbia e sentimento.
È il buio ad essere bello, non la luce.
La luce costringe, svela e rivela.
Il buio nasconde e dona la libertà.
È colpa del sole se siamo tutti intimamente depressi.
 
La fila davanti a me si muove di un passo, destandomi dalle mie riflessioni.
Rimango al mio posto, accorgendomi poi che la persona dietro di me ha appena sbuffato.
Mi volto a guardarla: rossa in viso, preda dell’agitazione. Chissà, magari ha qualche appuntamento più importante.
Ma dovrà aspettare: sono davanti a lei.
Continuo a fissarla poiché mi stupisce la sua voglia di arrabbiarsi per così poco.
Praticamente mette a disposizione la sua vita per qualsiasi cosa che non sia se stessa, altrimenti non si spiegherebbe tutto questo stress.
Non è sciocco?
Vivere, intendo.
Sorrido, comprendo la piccola distanza che mi separa dal mio predecessore, e sento la donna dietro di me borbottare un — Finalmente! – molto eloquente.
Per quanto tempo ancora dovrò sopportare questa gente?
 
— Ci hai provato davvero?
Questa domanda un po’ mi stupisce.
— Perché, non si vede?
Mari – che sta per Marina – è una mia antichissima amica che mi porto dietro dall’infanzia, praticamente l’unica amichetta che avevo alle elementari.
— Beh – risponde – mi stupisce. Di solito i suicidi sono persone depresse che non sanno reagire alla vita.
Il cameriere ci interrompe, portandoci i nostri drink: un mojito per lei, un’acqua liscia con limone per me.
— Tu, invece… – prosegue lei, smorzando la frase.
Non c’era bisogno di continuare, sappiamo benissimo che soggetto sono, e difatti annuisco.
Lei forse è l’unica che può capirmi, perché non illustrarle la situazione?
— Io sono il tipo di persona che vive tutto con distacco, giusto?
Annuisce, facendo ondeggiare i capelli freschi di permanente mentre appoggia le labbra scarlatte al bicchiere decorato con una fetta di lime verde acido su una corona di zucchero grezzo.
Immergo la punta delle dita nell’acqua, tirando fuori una delle due fette di limone al fine di spremerne via il succo — Sì, Mari, io analizzo tutto. Osservo, valuto, archivio. Resto sempre distante perché non trovo stimoli che possano motivarmi ad uno scambio di opinioni con qualcuno.
— Lu, sei una persona molto intelligente, ma questo non significa che tu debba restare sol…
— Mari, io ormai ho le mie convinzioni. – replico seccamente – Sono abbastanza grande da rendermi conto se valga la pena continuare oppure no.
Un gelido silenzio calla sul tavolino tondo che occupiamo mentre mi accingo a spremere placidamente l’ultima fetta di limone, come se avessi appena decretato che domani pioverà.
Gli occhi di Marina si dilatano — Non vorrai mica… rifarlo?! – domanda atterrita.
— Certo che sì. – rispondo tranquillamente.
Lei scuote il capo — Ma non pensi a chi ti è vicino? A quanto questo farà soffrire noi?
Annuisco.
— E non t’importa?!
Dio, che fastidio.
Mi sto pentendo di avergliene parlato.
— E agli altri?
La mia domanda la blocca, turbandola.
— Ti chiedi il senso della mia domanda, vero? – incalzo – Niente di più semplice. Agli altri quanto importa della mia felicità? Cos’hanno fatto finora per adoperarsi nel realizzarla?
Gli occhi della mia amica diventano sempre più grandi, sembrano tazzine da caffè.
— Così non avrei di nuovo possibilità di scelta, Mari. Io che non amo vivere, devo continuare a farlo per rendere felici altre persone.
Quanto mi riguarda la loro felicità?
E la mia che fine fa?
Perché devo mettere in secondo piano i miei desideri in favore di quelli altrui?
— Non… non credevo potessi essere così…
— Egoista? – chiedo, alzando le sopracciglia – Avanti, è questo che pensi. Ma non mi ferisce, perché vedi, Marina, io sono allo stadio finale della vita.
Il mio male mentale è così radicato che non m’importa più di niente. Nutro indifferenza totale nei confronti di qualsiasi essere umano, compresa te.
Il vostro dolore passerà, sarà momentaneo ma verrà sostituito lentamente. Vi abituerete, voi.
Ma la mia ideologia è questa, resta qui, è nata con me e morirà con me.
Non ho intenzione alcuna di vivere in questo modo puerile, sgomitando contro gente mediocre per guadagnarmi un posto nella società.
Non ho nemmeno voglia di mettermi a gareggiare con gli altri, facendo in modo che persone meno intelligenti di me si mettano in una condizione di superiorità per valutare se io sia l’elemento perfetto per il loro puzzle.
Io non sono il mezzo di nessuno.
Sul viso della mia amica è comparsa un’espressione a dir poco deludente, una sorta di sorpresa mista a terrore.
Mi alzo — Pensavo mi conoscessi. – dico.
Un vero peccato.
Lascio i soldi della mia consumazione, andandomene.
 
Il sole che tramonta attira la mia attenzione mentre passeggio senza meta sul ponte che collega le due parti della città.
È così bello.
Mi appoggio alla balaustra, e in quel mentre sento arrivare il treno del metrò, che passa sotto di me.
Immagino la gente compressa nei vagoni che torna a casa dal lavoro, un altro giorno della loro vita passato a fare gli schiavi per una società che non ti regala nulla, neanche quando te lo meriteresti.
Vedo già le donne rientrate e ritrovarsi le faccende di casa da compiere: panni da stirare, piatti da lavare, pavimenti da spazzare, mariti d’accudire per le più sfortunate, quelle che credevano nell’utopica promessa di una vita vissuta nel romanticismo post matrimoniale ma che invece si sono ritrovate a servire persone che non si rendono minimamente conto di quanti sacrifici facciano per loro.
Il proprio tempo è il bene più prezioso e gli altri, soprattutto le persone vicine, sono abituate a riceverlo in dono.
Ciò le rende egoiste: più dai, più pretendono.
Non basterà mai ciò che fai, e se ti permetterai d’inciampare un solo attimo, quello sarà il momento in cui nessuno riconoscerà il tuo bisogno.
Guardo in alto, notando uno stormo di uccelli dirigersi alla mia sinistra.
Non riesco a non pensare all’essere umano, al suo bisogno di vivere in branchi e alla pretesa degli che altri che tutti lo facciano.
Non voglio vivere così.
 
 
Rieccomi qui, buonasera!
Questo terzo giorno di Lu mi sta particolarmente a cuore, poiché sono io in primis che rifletto spesso su cose del genere. Le regole, le convenzioni sociali e tutte queste rone qui che servono per vivere e regolare i rapporti umani... sono odiosi.
Ma del resto spesso sono proprio gli altri a costringerti a comportarti in un certo modo, la cattiveria usata, l'invidia provata, e così via.
Viviamo tutti in una costante finzione, e ciò non è bello, ma ci salva spesso e volentieri.
Che fatica!
Vorrei ringraziare per le recensioni Megara X e Himenoshirotsuki, ringraziando anche tutti coloro che leggono la storia.
Purtroppo non ho aggiornamenti regolari: la mia nuova vita di coppia mi porta via tanto tempo, Lu - il mio ragazzo, non il protagonista della storia! - e io ci ritroviamo a passare insieme giornate intere pur non programmandolo. Molto bello, ma ciò mi ruba un sacco di tempo alle storie.
Spero che il tipetto si renda conto di quanto conti per me sottrarre tempo alla scrittura per darlo a lui!
Beh, buona serata e alla prossima!
Have fun

- A.


 

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Capitolo 4
*** Ancora un altro giorno ***





 
È colpa del sole se mi sveglio ogni stamattina?
Forse il mio corpo è inconsciamente attratto dalla sua luce?
Non ho voglia di tornare a lavoro, voglio dormire ancora.
Stare in pace, al caldo sotto le coperte. Non dover avere a che fare con nessuno, godermi il silenzio.
Mi volto, constatando che fuori piove.
Lievemente sorrido. 
Anche il tempo è in linea col mio umore.
La gente odia la pioggia, la considera un coefficiente di difficoltà alle sue opere quotidiane. Certamente non piace vedersi sconquassati i propri piani da elementi di disturbo come le condizioni meteorologiche, alle quali non si può assolutamente porre rimedio, al massimo adattarsi. 
Io la adoro, rispecchia il mio modus vivendi alla perfezione.
Vorrei stare qui e godermela, contare le gocce, verificare quali siano quelle più veloci, osservare il loro movimento mentre strisciano sul vetro, come nella teoria del caos esplicata da Ian Malcolm alla Dottoressa Ellie Sattler su Jurassic Park, il primo, quello del ‘93, l’unico valido a mio avviso.
Altro che Jurassic world...
Il telefono interrompe i miei pensieri.
Odio quella dannata macchina infernale che si frappone sempre fra me e ciò che sto facendo, costringendomi a interrompere le mie attività per verificare se si tratti di una chiamata necessaria o di una stupidaggine effettuata da chi non sa come passare il tempo e vuole informarsi su come prosegua la mia giornata. 
Non che gli interessi veramente, ma quando non hai nulla a cui pensare è ovvio che la tua attenzione vada sugli altri. Nessuno ama la noia e trovo che questo interesse accettato da tutti sia in realtà una dimostrazione di egoismo gratuito. E mi stupisce come la gente non ci arrivi.
Una volta me la sarei presa a morte, ma ormai…
Sospiro, mi alzo e rispondo. Che pazienza!
— Pensi di venire a lavorare, oggi?
È Genni.
Non rispondo, valutando cosa dire.
— Lu, non fare cazzate, ok?
Faccio spallucce — Nah, non è ancora il momento.
— Ancora?! – alzo gli occhi – Stai scherzando, vero?
Che palle.
— Genni, non dovrei nemmeno essere qui. – dico – Per quale motivo pensi che io respiri ancora?
— Cerca di renderti conto…
— ...di cosa? Di quant’è bella la vita? Di come bisogna essere grati a Dio per ciò che abbiamo? E cos’è che avrei, esattamente? Per cosa dovrei gioire? Per la libertà?! Quale?
Genni ammutolisce, io sento il mio cuore rimbombare nel silenzio.
— Vedi? – domando – Non lo so io, figurati se lo sai tu.
Lo sento riattaccare e faccio lo stesso, sospirando di sollievo.
Non andrò a lavoro, oggi. 
Sono in libreria, ma solo per inerzia, per fare qualcosa.
Ho letto tanto nella mia vita, così tanto da iniziare a pensare fuori dal coro.
Siamo solo un branco di pecore, ma mentre gli altri belano in do maggiore a me piace farlo in tritono, e questo mi svantaggia.
Vedo le cose diversamente dai miei simili e ritrovo sempre gli stessi schemi mentali nella gente.
Nutrii seri dubbi sulla mia personalità, tanto che questa ne uscì de personalizzata. Non comprendevo più nulla e non mi riconoscevo in nessuno, stavo notti intere a domandarmi il senso di tutto questo: la mia vita, gli altri, il mio lavoro.
Perché esisto?
In conseguenza un mero atto sessuale? Il senso della mia esistenza è davvero riconducibile a un istinto animale e basta?
Oppure c’è qualcos’altro?
Quando avevo 6 anni caddi dal balcone di casa, mi ruppi la testa ma sopravvissi.
Nel letto di fianco al mio c’era una bambina che morì per una polmonite.
Dio, il destino, o come si chiama ha voluto farmi vivere mentre ha ucciso quella piccola.
Perché?
Un brivido mi attraversa la schiena, un odore pungente solletica le narici.
La mia testa si muove da sola, probabilmente in risposta allo stimolo olfattivo per la conseguente ricerca della sua fonte, e la trova in una chioma color rame.
La figurina indossa una lunga gonna a fiori, mi sembra una comune sfigatella e la conferma arriva quando urta la pila di libri col ginocchio e questa cade rovinosamente ai suoi piedi.
Mi guardo attorno: tutti l’hanno notata, altrettanti hanno osservato la scena ma nessuno fa cenno di avvicinarsi per aiutarla, nonostante si noti benissimo il suo disagio.
Non so perché ma mi avvicino, chinandomi per afferrare un paio di libri.
Lei mi guarda appena, è tutta rossa in viso, segno di totale imbarazzo, e mormora un grazie alla mia direzione con voce flebile.
Mi limito ad annuire.
Del resto cosa dovrei dire?
Sai, mi fai pena e io provo pietà per i più deboli.
Non credo apprezzerebbe, meglio stare zitti.
Quando tutto è in ordine si alza e se ne va a capo chino.
A quel punto la imito, imboccando l’uscita di quel posto. Alla fine anche le pubblicazioni si ripetono ciclicamente, esattamente come nella moda, che ogni tot anni ripesca un vecchio stile cambiando qualche dettaglio. Ed è una formula vincente perché ritrovando qualcosa di famigliare, le persone comprano! 
Si fa leva sulla nostalgia, sull’emotività in generale e sulla sicurezza di cose che in passato hanno già avuto successo. Come quando, nei primi duemila tornarono di moda gli anni ‘70, spinti anche da film rivisitati tipo Austin Powers o le Charlie’s Angels. Adesso sta succedendo con gli anni ‘90. I top che lasciano la pancia scoperta, i jeans stretti a vita alta, una figura filiforme nelle ragazzine... cose già viste.
Possibile che la società accetti tutto questo riutilizzo del vecchio? A me sembra che ci prendano per il culo tutti quanti.
Passeggiando mi ritrovo a riflettere sulle persone, ripensando al discorso del giorno prima con Marina.
Trovo deplorevole il fatto che non ci si aiuti a vicenda, ma in effetti non sto facendo la stessa cosa?
Ho meditato il suicidio, l’ho attuato fregandomene di tutto il resto, di cosa potessero provare le persone a me vicine. Non dico che mi vogliano bene, credo fermamente che ci si avvicini agli altri per pura necessità ed è per questo che mi comporto male con tutti, per verificare la veridicità dei loro sentimenti e il grado di egoismo presente in loro. Devo ammettere che Marina e Genni mi hanno sempre stupita in positivo, ma non ho la benché minima intenzione di cambiare il mio carattere.
Soprattutto ora che sto per morire. Magari questo servirà a sentire un po’ meno la mia mancanza.
Magari diranno beh, ci abbiamo provato, ma era talmente stronzo! e così non avranno nulla di cui rimproverarsi.
Mi sto preoccupando per loro.
Io mi sto preoccupando per due persone.
Wow.
Del resto il mio suicido è solo una conseguenza: non voglio vivere in questa società, non voglio che le sue stupide convenzioni sociali governino la mia vita e regolino il mio essere in base agli altri, in nome del quieto vivere. Odio dover indossare delle maschere perché altrimenti gli altri ci restano male.
Non lo sanno dire un vaffanculo? 
Sono rincretiniti dalla bontà dilagante fino a questo punto?
Nessuno dovrebbe limitare se stesso più di tanto, non è giusto.
Viviamo in un sistema dove bisogna seguire delle regole per essere accettati, fingere in continuazione per mantenere le proprie amicizie.
Quanto sono sinceri questi rapporti?
Perché la gente accetta tutto questo?
Io non lo accetto.
— Lu, non sei a lavoro oggi?
È Marina, che palle.
— No, non me la sentivo.
— Forse dovresti tornare dalla psicoterapeuta.
Sbuffo mentre ripongo la macchinetta del caffè — Non ha risolto niente, quella. Tanti soldi sprecati.
— Ho sentito dire che è una questione di volontà.
— In che senso?
Mi incuriosisce questa cosa.
— Beh – dice lei, cercando le parole – se non vuoi, non guarisci.
— Guarisci. – le faccio il verso – E da cosa?
— Dalla depressione.
Scoppio a ridere, quasi dispiacendomi per deriderla così.
— Ma perché lo pensate tutti? Non è depressione – preciso – solo che non ho più voglia di vivere così. Ci sono regole che considero stupide, ma senza le quali non si può andare avanti.
La gente non accetta il diverso, perché dovrei accettare io il fatto di dover andare avanti in questo modo?
— Ma… Lu…
— Dai, Mari! – sbotto – Quante volte tu stessa ti sei lamentata delle tue amiche? Alessandra è sempre in ritardo e ti sfrutta come tassista, Nicoletta che ti chiama quando il ragazzo la lascia sola e non fa altro che parlarti di come viene maltrattata sfruttandoti come diario segreto per le sue frustrazioni, Francesca non fa altro che scroccare qualsiasi cosa… ma non dici nulla a loro, accetti tutto.
Perché fai questo? Per non complicarti la vita, perché in cuor tuo sai che loro non accetterebbero osservazioni sul loro comportamenti, ma in fondo chi è quello che accetta critiche senza batter ciglio?
Sei sempre tu a doverti adeguare, lo senti che sono delle egoiste del cazzo, ci stai male e lo sai bene.
Io non voglio vivere così.
Marina prende fiato — Ma tu non puoi basare la tua vita sugli altri…
— E tu cosa fai, scusa? – domando – Quanto ti senti libera?
La mia amica resta interdetta e in silenzio. Sicuramente si rende conto del fatto che ho ragione io: la nostra vita si basa soprattutto sui rapporti umani, che influiscono il suo andamento anche sul lavoro.
Sono un’individualista.
Odio questo modo di vivere.
Fisso il soffitto mentre sono a letto e non capisco.
Non comprendo.
Perché?
— Grazie e arrivederci!
Guardo la commessa con un sorriso sornione mentre imbocco l’uscita del negozio, il mio acquisto tra le mani, chiuso in una semplice busta di carta bianca, anonima e pura.
Mi dirigo verso l’ospedale, quello dove mi hanno salvato la vita. Non sono affatto felice, ce l’ho un po’ col Dottore che mi ha ridato la vita.
Ma chi gliel’ha chiesto?
Perché non si è fatto i fatti suoi?
Salgo le scale: conosco la strada, ricordo ogni minima crepa di quegli scalini, il trauma conseguente alla violazione della mia volontà, la perdita della libertà estrema, il giuramento che ho fatto di non arrendermi mai alle stupide regole convenzionali.
Non voglio vivere, non accetto tutto questo, non voglio sottostare a delle stupide regole sociali.
Non apprezzo ciò che ho, non m’interessa.
Guardo fuori dalla finestra dell’ospedale, il sole tramonta in quel mentre.
Ancora un altro giorno è passato.



Ciao a tutti, bentornati dalle ferie, o buone vacanze a chi deve ancora partire ^^
Purtroppo quella che doveva essere una storia breve e coincisa si è protratta per le lunghe con l'aggiornamento, cosa che odio a morte, ma sono riuscita a riacchiapparla oggi, in questo preciso momento e ne ho approfittato. Alla fine sono andata a convivere e dove siamo ora non abbiamo il telefono fisso e nemmeno il pc, solo un portatile molto lento.
Siamo ancora nel pieno del trasloco, specialmente io che possiedo una marea di cose di cui mia madre vuole liberarsi, e mi tocca venire qui tutti i giorni, nella mia vecchia casa a controllare. Uno stress che non vi dico!
Tornando a noi, anche in questo capitolo Lu da prova del suo ciniscmo estremo, un'individualismo al limite.
Lo avevo figurato come un maschio, ma sinceramente non volevo dargli sesso, finché un lettore mi ha fatto notare che si trattava di un maschio... ma data la sua natura deviata, ho optato per farla essere una ragazza che si riferisce a se stessa usando la forma neutra, che se non erro in italiano corrisponde al maschile.

Ammettiamolo, è antipatica forte, però ha un bel caratterino e le idee chiare.
Alcune delle sue idee sono le mie, mi permetto di rivendicarne la maternità in quanto sono davvero troppo estreme, ma devo anche dire che sono in costante evoluzione...!
Grazie mille per seguire la storia e un grosso grazie a Old Fashioned per le recensioni.
Un abbraccio grande a tutti voi e buon fine d'estate ^^

Have fun
- A.

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Capitolo 5
*** Punto . ***







 
Salendo le scale incrocio più persone che vanno nella direzione opposta alla mia, chiacchierando chi più, chi meno allegramente, alcuni silenziosamente, altri a testa bassa, altri ancora spostando lo sguardo altrove .
Con la coda nell’occhio noto delle persone nell’atrio, qualcuno sta piangendo, due ragazze mantengono la testa bassa.
Intuisco che qualcuno è appena deceduto: perché piangono?
Ha sofferto?
O solamente perché sentono il vuoto nel cuore?
Gli saranno stati sempre vicini?
O si sono ricordati della sua esistenza solo poco prima della morte?
È un dispiacere sincero? O c’è qualche forma d’interesse, magari economico?
Un tipo sulla cinquantina ha una cartellina sottobraccio e non piange. Sta già pensando al testamento.
Sorrido: questa è la natura umana.
Questo ci ha insegnato ad essere la nostra società: vuoti, materialisti.
Le regole restano stupidi dettami senza fondo, la verità è nell’animo.
Consumismo, materialismo, l’invito a comprare per migliorare il proprio status, arricchire il proprio guscio, adornarlo, farci apparire migliori di ciò che siamo in realtà, mascherare lo schifo che siamo e profumarlo per non sentirne l’olezzo.
Oggi come oggi il rapporto tra anima e involucro è inversamente proporzionale, ci s’inaridisce con una semplicità disarmante.
Ho sempre notato nelle persone la codardia pura del soffrire che li porta a chiudersi e pensare solo ai propri interessi, senza aprirsi agli altri, senza capire che non si vive soli ma siamo in una comunità, che bisogna pensare con la propria testa e non farsi abbindolare da false promesse.
Stiamo andando verso lo sfacelo più totale.
I telefonini sono diventati computer portatili che i più non sanno utilizzare ma che acquistano solamente per uno status symbol, credendo che ciò possa farli apparire migliori agli occhi altrui.
Come si può credere davvero a una così evidente menzogna?
Arrivo di fronte alla porta che m’interessa, leggendo il nome del medico sulla targa in metallo.
Una cosina semplice, sobria. Mi fa piacere che a salvarmi sia stato questo Dottor... Grandi.
Chissà, se avessi ancora avuto voglia di vivere magari saremmo potuti diventare amici.
Busso.
— Avanti.
Entro senza esitazioni e lo sguardo dell’uomo sulla cinquantina seduto di fronte a me s’illumina quando mi vede.
Sotto di sé una quantità di fogli che hanno tutta l’aria di essere delle ricette mediche. Chissà cosa lo spinge a fare qualcosa per delle persone che non conosce.
— Luisa! – esclama – Come ti senti? Ti sei ripresa, vedo.
Non rispondo perché non ho nulla da dire. Amilcare – così si chiama – guarda i miei polsi.
— Certamente ci vorrà ancora del tempo, ma se vorrai potremmo effettuare un intervento laser per eliminare queste brutte cicatrici. Accomodati, forza!
Davvero è contento che io sia viva?
E per quale motivo?
— Veramente non sono qui per fare salotto. – rispondo, sentendo io stessa il mio tono di voce piatto e liscio come l’acqua naturale. Amilcare non sembra granché sorpreso dalla mia reazione neutra, ma sinceramente non m’interessa. Sono qui per un altro motivo.
— Allora, cosa ti porta da queste parti? – mi domanda. Neanche leggesse il pensiero.
— Solo una domanda: perché?
Il medico aggrotta un attimo le sopracciglia, rompendo la sua maschera di serenità. Chissà, magari è il sentirsi la coscienza pulita che gliela conferisce.
Illuso.
Rotea gli occhi in basso, prima a destra e poi a sinistra, cercando una risposta all’angolo della stanza, trovando però solo polvere. Che delusione, eh?
— Cosa? – mi chiede.
Mi viene da sorridere ma non lo faccio perché effettivamente non c’è nulla da ridere.
— Perché salvi la gente. – spiego.
— Beh, è il mio lavoro.
— Ma l’hai scelto. – incalzo – Per quale motivo?
— Perché è giusto così. La gente deve vivere.
— Deve?!
Non riesco a trattenermi dallo scoppiare a ridere, scontrandomi col suo sguardo confuso.
— Deve? E chi lo decide che deve? Lei? Il giuramento d’Ippocrate? – mi alzo – La società?
— Luisa, siediti. – mi dice, ma io non eseguo.
— A che scopo? Per sentirmi dire che bisogna affrontare i problemi?
Amilcare resta inebetito. Evidentemente ho colto nel segno, come al solito.
Scuoto il capo — Quanto siete… pateticamente prevedibili. Cosa credi, che non mi abbiano mandato dallo strizzacervelli a suo tempo? Eccome! Mi ha fatto una marea di prediche, ed è stato così noioso sentirlo sempre parlare di… tristezza e depressione… – prendo fiato – ...e di storie di sfigati che erano riusciti a stare bene, oh Dio, stare bene!
Possibile che non capiate quanto sia stupido continuare a vivere in questo modo?
Adattarsi, omogeneizzarsi, siamo un frullato di regole, convenzioni, comportamenti… tutto, tutto deciso da altri! Parole, azioni, hobby, gusti, tutto quanto!
E vi piace?
Vi piace essere presi in giro dagli altri? Da chi ha deciso e continua a decidere della vostra vita?
Il medico mi guarda stranamente calmo. Probabilmente ha iniziato a capire il mio punto di vista.
Si alza e sospira — No, Luisa, non mi piace.
Molte, troppe volte ho dovuto zittire i miei istinti per il quieto vivere, e molto spesso ho fatto bene, anche se avrei voluto dire la mia.
— Ma perché? Perché? Che senso ha vivere così?
— La vita è un dono, e come tale va rispettata. Non esiste solo la nostra vita, esistono anche gli altri, e a volte bisogna soppesare parole e azioni a favore di chi abbiamo davanti.
Socchiudo le palpebre e sollevo le sopracciglia — Sta dicendo davvero?
Quindi io dovrei… vivere volando basso? Cioè, qualcuno è così incapace da non sapersi difendere e io, IO dovrei abbassarmi al suo livello?
Scherziamo? – grido, rafforzando il concetto con un pugno ben assestato sulla scrivania, le cui penne sobbalzano per il colpo.
Non credevo di avere così tanta forza in corpo,.
— E io per quale motivo dovrei mettermi a certi livelli? Io che sono una persona pensante,
un soggetto con le sue opinioni e giudizi?
Per non mettere paura ai più deboli? O per educazione? Che se sfori una regola, agli occhi della società diventi subito una maleducata?
E sia! Sono maleducata e l i b e r a di esprimermi!
Vedo Amilcare che sorride in modo strano, come se fosse… compassione?
— Sei una donna molto sola, Luisa.
— E voglio restare tale, dottore.
Non mi ha ancora detto per quale motivo la vita è sacra. Secondo il suo punto di vista, ovviamente.
M’illumini.
— Semplicemente perché – assume una posizione più confortevole – non tutti hanno il privilegio di arrivare ad un’età che permetta loro di esprimere le proprie capacità. Inoltre i meccanismi del nostro corpo non sono eterni, noi viviamo costantemente appesi a un filo. Basta poco, davvero poco per perdere tutto.
E ancora la nostra vita ha un senso, non solo per noi ma anche per chi abbiamo vicino.
Ognuno può insegnare qualcosa a qualcun altro.
Annuisco — Giusto. E adesso lasci che le insegni io qualcosa. – dico alzandomi.
Il dottore aggrotta le sopracciglia, come tutti quando non capiscono a cosa stanno andando incontro, ma leggo la curiosità nei suoi occhi. Sorrido appena, facendo crescere la suspance e immaginando quali emozioni potrà provare.
Rabbia?
Tristezza?
I n d i f f e r e n z a ?
Gioia?
— La prossima volta si faccia i fatti suoi, dottore.
Fulminea tiro fuori la lama in ceramica dalla tasca, passandola sulla gola, uno schizzo di sangue che colpisce il medico, il quale si protrae verso di me mentre crollo a terra.
Mi… mi manca... l’aria.
Perché il mio corpo si ribella alla mia mente? Io voglio morire eppure il mio fisico annaspa, cercando disperatamente l’ossigeno, che però sfugge al suo controllo appena sopra la glottide.
Mi tremano le labbra, le gambe hanno già ceduto e le dita delle mani si intorpidiscono.
È il momento, finalmente.
Sento freddo, tutto inizia a farsi scuro, come quando calano le luci del cinema, ma riesco comunque – anche se con fatica - a spostare gli occhi su quelli del medico, leggendo il senso di colpa.
Senso di colpa.
Esattamente ciò che volevo ottenere!
Sorrido tronfia mentre il buio s’impossessa per sempre di me.
E di lui.


Ed eccoci arrivati alla fine di questa storia un po' noir.
Spero vi sia piaciuta, anche se i ragionamenti di Luisa non sono esattamente rosei, carini e simpatici, non c'è amore, non c'è sentimento se non un disprezzo nei confronti di chi vuol far vivere a tutti i costi i propri simili.
Effettivamente è un pensiero buono, ma personalmente mi sono chiesta diverse volte quanto ne sappiamo noi che stiamo bene o meglio di molti altri di chi si è stancato di vivere.
Chissà cosa vivono, cos'hanno passato, che strascichi si portano dietro per arrivare al punto di non ritorno.
Questa è una storia che dedico a tutte quelle persone che si sono suicidate, nella speranza che chi sta meglio non li giudichi dei deboli a prescindere.
Grazie a chi ha seguito la storia e a chi è arrivato fino in fondo.
Spero di riuscire a pubblicare in breve tempo la storia che ho in cantiere da un paio d'anni: tra depressione, ripresa, fidanzamento, incidente in moto e convivenza sono riuscita a mettere le mani sul pc tante volte quante sono le dita di una mano.
Buona serata a tutti, spero di rivedervi presto!


- A.

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