Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.
Il sole allo zenit risplendeva per il chiaro cielo terso segnato
solamente da qualche nuvoletta bianca, che non impensieriva l
Il sole allo zenit risplendeva per il chiaro cielo,
segnato solamente da qualche nuvoletta bianca, che non impensieriva la fiumana
di ragazzi che uscivano da scuola. Volti sorridenti e ignari, a cui la vita aveva già consegnato tutto, anche se loro credevano che
dovesse ancora offrire altro, e altro ancora. Forse per alcuni fu davvero così.
Il caos che facevano urlando, o anche semplicemente chiacchierando l’uno
accanto all’altro, era quasi paragonabile ai rumori su una pista di Formula 1.
A certe ragazze che si bisbigliavano segreti nelle orecchie, questa confusione
era utile, una sorta di protezione naturale. E il
vialetto risuonava dei loro passi svelti.
In mezzo a quella confusione che portava all’uscita
di scuola camminava a passi precisi e delicati anche
una bambina, coi corti capelli biondi legati da un nastro. Anche se non si
sarebbe detto, lei frequentava quella scuola, nonostante fosse di parecchi anni più piccola del resto degli studenti.
Questi le passavano accanto senza degnarla di uno sguardo,
fosse anche d’invidia. In quei momenti si sentiva veramente invisibile.
Avrebbe desiderato esserlo, così sarebbe potuta sfuggire dall’Organizzazione,
la stessa che l’aveva costretta a frequentare quella scuola, in America,
lontana dalle uniche persone che riuscivano a vederla e ad accettarla. Ma era il suo destino, il suo destino di bambina cresciuta
all’interno di una yakuza.
«Sherry»
A quella chiamata alzò lo sguardo, individuando tra
le gambe lunghe degli altri ragazzi una bambina come lei stessa, che sorrideva,
con quegli occhi verdi e luminosi che le ricordavano i grandi prati
dell’Hokkaido dov’era nata e cresciuta, prima di essere sballottata via, da
sola, in un posto sconosciuto, da persone che non sapevano nulla di lei. Le si avvicinò. «Non chiamarmi così quando
siamo in giro» la avvertì. Nonostante avessero la stessa età, lei era
almeno cinque centimetri più alta e poteva permettersi
di farle da sorella maggiore, visto anche il suo quoziente superiore alla media.
«Che ci fai qui?»
«Dai, non fare la scontrosa, Shihochan»
rispose lei non smettendo di sorridere. «Sono passata a trovarti»
«Loro lo sanno?» Shiho la
superò e iniziò ad avviarsi verso la fermata dell’autobus. Nel laboratorio dove
era costretta ad abitare si sarebbero arrabbiati, se
non fosse tornata in orario. Ripensandoci, non avrebbe avuto nemmeno la
possibilità di trovarsi delle altre amiche, oltre alle persone
dell’Organizzazione. E poi, come poteva mettere in
pericolo ragazze innocenti? Represse il pensiero che le suggeriva che lei
stessa ERA una bambina innocente. Già, era. Tanto tempo prima.
«Ovvio» rispose l’altra seguendola. «Non potevo
venire qui dal Giappone da sola. Anche
se sono BloodyMary, ho pur sempre otto anni» Le passò
un braccio intorno al collo. «Dev’essere dura
frequentare le superiori alla nostra età, vero?»
«Seccante, più che altro» rispose tranquilla Shiho, un po’ imbarazzata da quell’abbraccio.
«Quelli vorrebbero che mi prostrassi davanti a loro, anche per il semplice
fatto di essere giapponese»
«PearlHarbor,
eh?» La bambina scosse la testa. «Lascia che loro si divertano, noi abbiamo di
meglio da fare» La lasciò e la anticipò di qualche passo. «Noi siamo
l’Organizzazione»
«Eh già…» acconsentì Shiho
in tono molto meno entusiasta.
«Sai, ho deciso di farmi crescere i capelli»
continuò l’altra. «Come Akemi-neechan. A proposito,
ho qualcosa da parte sua» Si fermò, frugando nella sacca blu notte che portava
appesa alle spalle. «Perché non lo fai anche tu?
Staresti veramente bene, con una cascata dorata come la tua. Così, avremo la
stessa pettinat-»
«Nacchan» la interruppe Shiho. «Cosa c’è che non va?»
Troppo spesso le cascate di parole servono a nascondere la grotta oscura
dell’anima.
La rossa deglutì, spostando lo sguardo da un’altra
parte. «Mio padre è un traditore» Lasciò cadere la borsa a terra. «Lo
ammazzeranno»
Shiho fece un passo in avanti. Cosa poteva fare per consolarla? Lei aveva perso entrambi i
genitori per motivi analoghi, perciò nessuno poteva conoscere questa sensazione
meglio di lei. Anzi, no.Akemi
conosceva quella situazione. Quando suo padre e sua madre erano morti, lei era
ancora troppo piccola per ricordarsene. Non poteva
sentire una perdita che non aveva vissuto. Tuttavia, poteva sentirne la
mancanza. E faceva male. Molto, molto male.
«Che schifo!» continuò Nacchan. «Proprio mio padre! Non me lo sarei mai
aspettato…» Respirò a fondo. «Avrei voluto ucciderlo personalmente, ma Gin-senpai –sai, il biondo? – non
ha voluto. Nonostante la mia precisione nel tiro, ha
detto che sono ancora troppo piccola» Scosse la testa. «Ne ho una voglia…
L’unica cosa che mi rende felice è che sarà oniichan
a rendere giustizia»
Giustizia? Shiho spalancò
gli occhi. «Che cosa stai dicendo?» mormorò così debolmente che
non riuscì a farsi sentire. Era convinta che Nacchan
soffrisse per la morte del genitore, invece soffriva per il tradimento
dell’Organizzazione. In quel momento, quello che aveva sempre chiamato “oba-san”, le poche volte che le era
concesso vederlo, le fece una pena infinita. Lui stesso, permettendo ai suoi
figli di entrare nell’Organizzazione, li aveva allontanati da lui. Ed adesso, sarebbe stato ucciso dal figlio che aveva
cresciuto con affetto. E la figlia avrebbe guardato in
silenzio, e gioito della sua morte.
Era troppo. Shiho si
avvicinò e di scatto gettò a terra tutto il contenuto
della sacca blu. Individuato il pacchetto avvolto in una sottile carta velina,
tipica dei regali di Akemi,
lo afferrò e fece per andarsene.
«Shihochan!» La bambina
dagli occhi dell’Hokkaido la guardava sconvolta, stupita da quel repentino
cambio di atteggiamento.
«Buon funerale, BloodyMary»
disse atona la bionda, accingendosi a salire sull’autobus giunto in quel
momento. «Spero di rivederti quando starai un po’
meglio»
«Ma posso chiamarti? Shiho! Shiho!» L’autobus partì e
ovviamente lei non riuscì a seguirlo di corsa. Rimase ferma lì, sul
marciapiede, accanto alla sua roba rovesciata, con le lacrime che illuminavano
i suoi occhi verde scuro. «Non lasciarmi sola…» Ma Shiho
non si guardava indietro dal finestrino dell’autobus.
***
L’uomo si tolse di bocca la sigaretta e la gettò a
terra, sul lungo corridoio nero. La calpestò per spegnerla,
quindi, in tono molto noncurante, proseguì il suo cammino. Il rumore che
le sue scarpe in cuoio facevano risuonare tra le spesse pareti
venne presto affiancato da un altro suono, il suono delle scarpe col tacco di
una scienziata. Non di una scienziata qualunque, ma della
scienziata che aveva creato l’APTX4896. L’uomo sorrise.
«Dov’è Oneechan?»
Il rumore dei tacchi si fermò improvvisamente. La scienziata era ferma
davanti a lui. Lo stava guardando con i suoi occhi verde acqua, sempre seri,
come se non stesse guardando un essere umano, ma una delle sue provette.
All’uomo piaceva quello sguardo, perciò non rispose, limitandosi a godere di quello spettacolo. «Ho detto: dov’è Oneechan?» Lei fece un passo in avanti, premendo il tacco
sul pavimento in modo che risuonasse più forte, agitando il camice bianco che
era solita indossare. Era bianco immacolato, eppure
sia lui che lei riuscivano a vederci rapprese numerose
macchie di sangue. Il sangue versato dall’APTX4896. Lei, però, lo interpretava
in maniera differente.
L’uomo frugò in tasca ed estrasse un pacchetto di
sigarette, infilandosene una in bocca. «E’ morta» disse semplicemente, come se
stesse parlando delle previsioni meteo. Tuttavia lo sguardo freddo era attento,
pronto a captare qualsiasi reazione.
Il volto della donna rimase imperturbabile. «Perché? La rapina era giunta a buon fine»
«Queste sono cose di cui tu non ti devi occupare»
Rimise il pacchetto in tasca e si accese la sigaretta. Lei gliela strappò di
bocca e la gettò a terra, pestandola con la punta delle sue scarpe nere. «Dimmi
perché, Gin»
All’uomo piaceva quel visino arrabbiato, che cercava
con tutte le sue forze di controllare. Non farlo, Sherry, non reprimere la tua
rabbia, sfogala… «Era una traditrice»
«Bugiardo!»
Gin, con uno scatto rapido, le afferrò il mento con
la mano sinistra, sempre coperta da un guanto. «E’ la verità» disse stringendo
la presa. «Voleva portarti via, Sherry… Lei, che non era altro che una semplice
pedina… Voleva che TU te ne andassi con lei…»
Lentamente, lasciò scivolare la mano lungo il collo, fino alla scollatura del
vestito rosso, e poi più giù, fino a palparle il seno. «Lei non serviva più.
Invece tu…» Sherry represse un brivido di disgusto. Scansati! Levati!
Respingilo! Ordinava la sua voce interiore. Invece, gamba e braccia erano
paralizzate e lei non riusciva a muoversi di lì. L’unica cosa che riusciva a
fare era guardalo freddamente, dimostrandogli, almeno
all’apparenza, che i suoi trucchi non la scalfivano minimamente. In fondo, non c’era più nulla da scalfire, perché non era rimasto
nulla. Avevano già distrutto tutto tempo prima,
quando era ancora una bambina. Ripensò alla morte di Akemi e si accorse di sbagliare. C’era ancora qualcosa che
poteva scalfirla. Si morse l’interno della guancia per non piangere. Non poteva
dargli questa soddisfazione.
«Sei proprio un bastardo» Dietro di lui era arrivata
una donna, coi passi felpati di una pantera, perché
non avevano sentito un risuonare di scarpe lungo il corridoio. Chissà da quanto tempo era ferma ad ascoltarli. Sherry se n’era accorta solamente ora. La donna si avvicinò
e staccò il braccio di Gin, restituendoglielo. «Perché non te lo ficchi su per
il culo?»
Gin la guardò amabilmente, mentre Sherry lasciava
che lo stupore invadesse, anche solo per un attimo, il suo viso. Non l’aveva
mai vista parlare così al suo “adorato senpai”. «Non sono
cose per te, BloodyMary»
«Nemmeno per te» replicò acida, afferrando Sherry
per un braccio e trascinandola via. Lei non oppose resistenza, poiché
desiderava andarsene, e si lasciò condurre fino al suo laboratorio.
Solo dopo che la porta automatica si fu chiusa
dietro di loro BloodyMary la
lasciò, avvicinandosi al tavolo. Vi appoggiò le mani sopra, tremando.
«Cosa c’è?» Anche la voce
di Sherry tremava.
BloodyMary trasse un profondo respiro,
quindi, con un gesto rapido, scaraventò a terra tutte
le provette che erano ordinatamente appoggiate sul tavolo. Il vetro si infranse sul pavimento bianco con una serie di cacofonici
tintinnii, mentre i vari liquidi uscivano, mescolandosi assieme in una miscela
dall’odore terribile.
«Che fai?!» esclamò Sherry. Non che le importasse molto
di vedere il suo lavoro sprecato così, tuttavia non era una mossa saggia
rischiare in quel modo con i composti chimici. Potevano
essere letali, lo sapeva molto, molto bene. L’altra donna non la
ascoltò, vagando per il laboratorio e gettando a terra ciò che trovava. I
topini bianchi, nelle loro gabbiette, squittivano spaventati.
«Nagisa!» urlò Sherry,
facendola finalmente fermare. «E’ pericoloso. Si può sapere cos’hai?» Non era
da BloodyMary comportarsi in
maniera sconsiderato, come non era da Sherry lasciarsi trasportare dai
sentimenti. Era chiaramente successo qualcosa, o la sua amica non avrebbe reagito alle provocazioni con Gin. Da quanto si
ricordava, quand’era piccola lei lo osannava…
Nagisa si voltò a fissarla con i
suoi occhi verdi, che crescendo erano solo diventati più grandi. Il verde
dell’Hokkaido era rimasto lo stesso. «Questa è pericolosa?» Teneva in mano una
provetta vuota.
«Si, lo è» ribattè secca Sherry. «Rimettila a posto»
«Akemi-neechan non era una
traditrice» mormorò lentamente BloodyMary
ignorandola. «Nemmeno Oniichan! E
probabilmente, nemmeno mio padre»
«Lo so» Sherry si avvicinò cautamente, ma decisa.
«Lo hanno ucciso loro, capisci?!»
BloodyMary strinse forte la provetta, mentre le
ciocche dei suoi capelli le scendevano davanti, disordinate. «Non è stata la
polizia, durante la sparatoria dopo che lui aveva ucciso papà! È stato Gin!» Si
voltò di lato, respirando pesantemente per riprendere fiato. «Non so perchè, ma volevano sbarazzarsi di
loro, così! Potrebbero anche averlo fatto perché li temevano»
Alzò le spalle. «Non m’importa, so solo che li hanno uccisi. E
anche Akemi-neechan» La provetta di vetro sottile si
spaccò fra le sue dita.
Sherry aprì un cassetto sotto il tavolino e ne estrasse una pinza e della garza. Mise la seconda nella
tasca della giacca. «Te ne sorprendi davvero?» Le prese la mano e la aprì, con
il palmo rivolto verso l’altro. Il sangue usciva a sottili torrenti dagli spazi
aperti dalle schegge di vetro. «Per l’Organizzazione i
subordinati come noi non sono altro che cavie da laboratorio» Scoccò uno
sguardo ai topini, suoi unici compagni delle lunghe ore passate in quel
laboratorio. «Quando si stufano di utilizzarli li sopprimono»
«Appunto!» sbottò BloodyMary,
facendo sobbalzare la mano mentre Sherry le toglieva delicatamente le schegge.
«Come se fossero migliori di noi! Guardiamoci, Shihochan»
Lei non alzò gli occhi dal suo lavoro. «Tu sei sicuramente più intelligente
della maggior parte dei tuoi superiori, mentre non c’è nessuno che riesca a
sparare bene quanto me» Prese fiato. «Dovremo fare una
rivoluzione proletaria!» E queste erano le belle idee che BloodyMary
imparava dalla storia del socialismo e del comunismo. Non avrebbe mai dovuto
farle leggere Marx.
Sherry scosse la testa. BloodyMary
era ancora così immatura! Se suo padre e suo fratello
fossero stati veramente dei traditori, lei non avrebbe fatto una piega sul loro
omicidio. Amava ancora l’Organizzazione, nonostante l’affetto che provava nei
suoi confronti.
«Io voglio solo andarmene» mormorò Sherry. Un decisione presa in quel preciso momento, eppure maturata
per anni e anni, come i cactus del deserto che aspettano tutta una vita prima
di far sbocciarle il loro meraviglioso fiore, apice di tutta l’esistenza, prima
di morire.
A quelle parole, BloodyMary
sottrasse la mano alla sua presa, stringendo il pugno e permettendo alle
schegge di penetrare ancora di più in profondità. Per la prima volta i suoi
occhi non ricordavano più i prati dell’Hokkaido. E con quegli occhi divenuti spaventosi
stava guardando quella che per lei era solo una
traditrice. «Io sono un’assassina» disse superandola. «E’ così che voglio
vivere, è così che voglio morire»
«Allora vai»
***
«Ahi!» gemette leggermente Shiho,
mentre veniva spinta duramente contro una gelida
parete. L’uomo quindi le afferrò il braccio e la ammanettò a
un tubo che scendeva dal soffitto.
«Così va bene, capo?» disse l’uomo rivolto a quello
che stava dietro ad osservare la scena.
«Si…» Gin annuì, avvicinandosi. Appoggiò una mano sulla
parete e abbassando lo guardo ad osservarla. Shiho se ne stava seduta, calma, una mano infilata nella
tasca del grembiule che le proteggeva anche le lunghe gambe. Non era
preoccupata. Non era spaventata. Era solo seria, come sempre. «Certo, sarebbe
un peccato perdere un’intelligenza come la tua…»
«Perché non la smetti con
questa farsa, Gin?» Shiho prese la catena delle
manette e vi si appoggiò completamente. «Hanno già deciso di uccidermi, perché
perdere altro tempo?»
Gin abbassò la mano e le afferrò il collo, tirandola
su fino alla sua altezza. «Non avere fretta di morire…» Spinse duramente la labbra contro le sue, premendo per far entrare la lingua.
Con lo stomaco che si contraeva per il disgusto, glielo permise, salvo poi
morderlo, accompagnando questo gesto con una spinta
con la mano libera.
Gin si staccò, sorridendo e leccandosi le labbra su
cui era rimasta la sua saliva. L’espressione di Shiho,
prima disgustata, divenne via via più stupita. Infatti, stava osservando, sopra la sua spalla, la porta.
Sulla soglia, BloodyMary, ferma con
le braccia incrociate sul petto, la stava guardando. Non era uno sguardo
d’odio o di preoccupazione. Era più annoiato, o rassegnato. Scosse leggermente
la testa, muovendo le sue morbide ciocche rosse, e uscì, scoccandole un’ultima
compassionevole occhiata. I suoi occhi sembravano profonde paludi. Sporcati. I
suoi occhi erano stati sporcati di sangue, come il resto della sua anima.
«Andiamocene» ordinò Gin e uscì seguito dal suo
scagnozzo, sbattendo la porta dietro di lui. Shiho
rimase sola in quella stanza buia. Per qualche minuto restò
in piedi, infine si lasciò scivolare dolcemente a terra. Rimise la mano
in tasca, sentendo il freddo contatto con la capsula di ATPX4896.
Che cos’aveva da perdere? Le avevano rubato tutto. Ciò che era rimasto era macchiato di sangue.
Avrebbe permesso loro di prenderle anche la vita?
***
«Ai-kun? Dormi?» Un
signore anziano iniziò a scuotere la bambina bionda che sonnecchiava con il
viso appoggiato sulla tastiera del computer, nella penombra di uno studio
disordinato e pesante. Lei sbattè le palpebre
leggermente, quindi alzò la testa, guardandosi attorno per abituare gli occhi
alla luce, seppur tenue, che veniva dallo schermo.
«Ah, è lei, Dottor Agasa…»
Lui scosse la testa. «Non dovresti lavorare tutta la
notte» le disse. «Io vado all’ospedale con gli altri, ma forse è meglio se ti
riposi»
«No, vengo» rispose lei, guardando il suo riflesso
da bambina nel computer. Ci teneva ad andare a trovare il bambino che si era
ferito, perché lui era sempre così gentile con lei. «Sto bene» Annuì, vedendo
lo sguardo poco convinto di Agasa.
«Sistemo un attimo e mi preparo»
«Va bene» acconsentì alla fine lui, uscendo dallo
studio.
Ai guardò il desktop, che rifletteva il suo viso
leggermente segnato dai tasti. Si era addormentata ancora prima di iniziare a
lavorare. Chissà per quale motivo aveva fatto quei sogni.
Nonostante non le facesse affatto piacere, ovviamente,
le capitava spesso di sognare l’Organizzazione, ma mai in toni così nitidi e
chiari. In questo caso si trattava addirittura di ricordi, sebbene non fossero
dei più allegri. Come se ce ne fossero di più allegri, pensò malinconicamente.
L’unica volta che era successa una cosa del genere, aveva veramente incontrato
Gin all’angolo della strada. Spense il computer, scuotendo la testa. Era
improbabile che capitasse una seconda volta.
Note di Akemichan:
Ho provato a scrivere questa storia dopo l’episodio
“il dirottamento dell’autobus”, cercando di trovare una Ai un
po’ più combattiva rispetto a come si comporta normalmente. Detto questo,
tuttavia, spero vivamente di non averla fatta troppo
OOC. Se così fosse, fatemelo notare. Non vi garantisco
però di riuscire a cambiare la storia, perché evidentemente Ai non può essere
più “attiva” se non OOC. Detto questo, spero che la storia vi piaccia lo
stesso.
Saranno solo sei capitoli. Il prossimo, se qualcuno
fosse interessato, lo pubblicherò con ogni probabilità
sabato 23. Grazie a tutti coloro che leggeranno la mia
storia.
Mini dizionario:
Oniichan = Fratello maggiore proprio
Oneechan = Sorella maggiore propria
Obasan = Zio proprio
Preview:
«Puoi scrivere qualcosa anche tu, Ai…»
«Questo posto mi fa paura»
«Chi era quella?»
«Perché questa BloodyMary sarebbe pericolosa per gli uomini in nero?»
L’ospedale era pieno di gente, tra visitatori, medici e infermieri che
vagavano per le stanze e per i corridoio, facendo ticch
L’ospedale era pieno di gente, tra visitatori,
medici e infermieri che vagavano per le stanze e per i corridoi, facendo
ticchettare le suole delle loro scarpe sul pavimento piastrellato, ma più sporco di quanto avrebbe dovuto essere. La donna delle
pulizie non passava che dopo l’orario delle visite, verso l’ora in cui i
pazienti consumavano il loro magro pasto.
L’ala dedicata ai bambini era la più luminosa, con
ampie finestre che lasciavano filtrare la maggior luce possibile, nonostante le
tende bianche ricordassero troppo il triste ambiente dove si trovavano. Anche le lenzuola avrebbero dovuto essere bianche, in
origine, ma per diversi motivi finivano per diventare di svariati colori. Nessuno
ne avrebbe mai fatto un dramma.
Accanto ad ogni letto, un gruppo di persone
preoccupate ma scherzose allo stesso tempo, che facevano
compagnia ai malati. Anche accanto al letto in fondo alla stanza si trovava uno
di questi gruppetti caratteristici, composto da
quattro bambini, due maschi e due femmine, e da un signore anziano.
«Sei proprio uno stupido, Mitsuhiko»
stava dicendo il bambino più grasso, adocchiando la gamba ingessata del suo
amico, straiato sul letto. «Cadere così dalle scale…»
«Non prenderlo in giro, Genta!»
rimbeccò la bambina dai capelli castani, mentre terminava il suo disegno sul
gesso col pennarello rosso. «Sarebbe potuto capitare a chiunque, anche a te»
Genta assunse un’espressione
mortificata, cercando di mormorare qualche scusa, mentre Mitsuhiko
riemergeva dalle lenzuola con le quali si era coperto per la vergogna. «Grazie,
Ayumi» Il suo sguardo si spostò all’istante sulla
bambina bionda, come se si sentisse in colpa per aver parlato prima con
un’altra. «Puoi scrivere qualcosa anche tu, Ai…» disse speranzoso.
Lei ricambiò lo sguardo. «D’accordo» Prese la penna
che la sua amica le passava e scrisse “fortunatamente non ti sei rotto l’osso
del collo” in kanji. Gli altri tre, che andavano
ancora in seconda elementare, non capirono il discorso.
«Ha scritto “spero che tu guarisca presto”» tradusse
il Dottor Agasa, ridendo imbarazzato.
«Ohh» si meravigliò Mitsuhiko. «Sei proprio intelligente,
sai scrivere anche in kanji!» Ed una ventata triste
gli passò attraverso gli occhi.
«Già, Ai è bravissima» convennero Genta e Ayumi.
L’ultimo bambino, dai profondi occhi azzurri
nascosti da un paio di occhiali, trasse Ai in
disparte. «Ti sembrano cose da scrivere?» le chiese.
«Non ci trovo niente di strano» replicò lei. «Davvero,
è stato fortunato a rompersi solo una gamba»
«Eh già…» mormorò lui, capendo che non c’era niente
da fare.
Un signore elegante dal lungo camice bianco entrò
nella stanza, seguito da altri due uomini e due infermieri, che trascinavano il
carro dei medicinali. A vederlo, poteva sembrare davvero un ambasciatore
straniero in visita ad un re, accompagnato dalle guardie e
recante doni del suo paese.
Il signore anziano capì che l’orario delle visite
era finito. «Conan, ragazzi, andiamo»
«Si» rispose il bambino con gli occhiali, facendo
per uscire.
«Ciao ciaoMitsuhiko» salutarono. «A domani!»
«Ciao…» Lo sguardo di Mitsuhiko
indugiò un poco di più sulla bambina bionda prima che sparisse al di là della porta.
«Ci accompagna a casa lei, Dottor Agasa?» chiese Genta.
«Si, ragazzi»
Il corridoio si andava riempiendo di gente che
usciva dalle varie stanze e la confusione aumentava, rimbombando sulle pareti
bianche del reparto pediatria. Tutti parlavano a voce più alta per sovrastare
le voci altrui.
«Scusatemi…» Ayumi alzò
timidamente il braccio per richiamare l’attenzione dei suoi compagni. «Devo
andare in bagno, mi scappa la pipì…»
«Vai pure» le rispose Agasa.
«Il bagno dovrebbe essere da quella parte»
Ayumi tirò un’occhiata alla sua
amica. «La accompagno io» si offrì Ai. «Intanto potete avviarvi all’uscita»
«D’accordo» acconsentì Agasa.
In fondo, Ai non era una bambina, non realmente, e perciò poteva evitare di
aspettarla.
Le due bambine andarono in bagno. Era una bagno stretto stretto, con un
odore cattivissimo. Entrambe furono sollevate quando ne uscirono, tanto che Ayumi evitò di sciacquarsi le mani pur di sbrigarsi.
Ritornando nel corridoio, furono travolte da un fiume di persone che si avviava
verso l’uscita e finirono col ritrovarsi in un reparto sconosciuto.
Diversamente dagli altri, vi regnava un silenzio quasi sovraumano, un silenzio di morte anticipato dal forte odore di disinfettante. Ai si
guardò intorno. Tutte le porte delle camere erano chiuse, ma il corridoio era
composto da vetri, perciò si potevano distinguere le
figure sdraiate sui letti d’ospedale, con la mascherina per l’ossigeno sulla
bocca e la flebo al braccio. Volti spenti, addormentati, come fermi al di fuori del tempo. «Reparto rianimazione…»
concluse.
«Questo posto mi fa paura» tremò Ayumi.
Tutte quelle persone avevano un volto tranquillo, ma troppo irreale per potere credere che fossero davvero solo addormentate.
Ai le prese una mano e si
avviarono insieme verso la porta, sul lato opposto. Se
non si ricordavano male dalla planimetria dell’ospedale, alla fine del
corridoio doveva trovarsi l’ascensore che portava al primo piano. Entrambe,
tuttavia, non resistevano alla tentazione, pur velata da malinconia, di
osservare i pazienti. Ai d’improvviso si bloccò e
lasciò la mano della sua amica per avvicinarsi al vetro di una delle ultime
stanze. AncheAyumi,
titubante, si sporse a guardare. Sul letto, non diversamente dagli altri che
condividevano la stessa sorte, vi era una ragazza, con lunghi capelli rossi
spettinati, capelli che nessuno si era curato di tagliare da molto tempo. Aveva
un viso delicato, con un pallore molto simile al bianco del cuscino. «Che bella» fu ciò che disse, tristemente, Ayumi. Ai, invece, non parlava. Si
limitava a fissare con i suoi occhi verde acqua quel viso, come se fosse in
grado di vederci il mondo intero. Teneva la mani premute
sul vetro, formando aloni di sudore, e la bocca era semi aperta in un
silenzioso mormorio.
«Ah, siete qua» La voce di Conan interruppe i pensieri di Ayumi.
«Dobbiamo andare…» Era appena arrivato dalla porta dalla quale dovevano uscire,
probabilmente aveva preso l’ascensore.
«S-si…» mormorò Ayumi. Ai non si mosse.
Lui le si avvicinò. «Ai?
Ai?» chiamò. «Haibara!» Le poggiò una mano sulla
spalla, per richiamare la sua attenzione e la sentì sobbalzare sotto di lui.
«Kudou-kun…?» Lo guardò in
modo strano, come se non dovesse essere lì, come se fosse fuori posto.
«Stai bene?» la scrutò.
«Si, certo» Ai si staccò dal vetro con un gesto fin
troppo naturale. «Muoviamoci» Aprì la porta e vi scomparve dietro.
«Uhm…» riflettèConan scoccando un’occhiata alla paziente misteriosa. Sulla
sua cartella clinica vi era scritto un nome qualunque, banale, nulla che potesse suscitare qualche sospetto. Scuotendo lentamente la
testa, si avviò verso l’uscita seguito da Ayumi, che lo guardava nello stesso modo in cui, poco
prima, aveva guardato anche Ai. Erano entrambi strani, quella
sera, come in molte altre occasioni.
***
Le luci del quartiere di Beika
si stavano accendendo una dopo l’altra con il calare del sole all’orizzonte, e
i neon lo illuminavano quasi a giorno. La piccola automobile rossa del dottor Agasa si districava nel traffico verso casa, dopo aver già
scaricato, non diversamente da un Taxi, Genta e Ayumi alle rispettive dimore.
«Chi era quella?» chiese Conan
interrompendo il silenzio che vi era all’interno dell’auto a dispetto del caos delle strade e dei clacson.
«Chi?» replicò Ai con
un’espressione ignara sul viso.
«La ragazza in coma» Conan
la guardò serio. «Non credo che tu sia rimasta colpita solo dalla sua
situazione…»
Ai voltò la testa, facendo
agitare le sue ciocche bionde, e rivolse tutta la sua attenzione alle auto che
scorrevano nella fila accanto, mentre le luci dei fari si rispecchiavano nei
suoi occhi, stranamente più profondi del solito, rendendoli simili al mare
scuro illuminato dal faro che guida i naviganti. Il finestrino dell’auto
sembrava essersi trasformato nel vetro della stanza d’ospedale. «Sembrava una
persona che conoscevo» mormorò infine, così piano da sembrare solo un’eco in
lontananza. «Ma non poteva essere»
«Chi ti sembrava?» Stavolta fu Conan
a chiedere.
«BloodyMary» Ai stropicciò la punta della sua gonna rossa a pieghe.
«Vuoi dire un…?» iniziòConan, sapendo che non c’era alcun bisogno di terminare la
domanda.
Finalmente Ai si decise ad affrontare il suo sguardo
severo. «Si, è un membro dell’Organizzazione. Ma mi
sono sbagliata. Non sarebbe stato possibile vederla lì… viva»
«Perché?» Conan si tolse gli occhiali e giocherellò con il radar che
nascondevano. Forse aveva una traccia, certo, molto flebile, come la voce di Ai in quel momento, ma pur sempre una traccia.
«Nessuno dell’Organizzazione viene
fatto curare in ospedali pubblici. Sarebbe troppo rischioso, se qualcuno si
mettesse ad indagare sulla sua vera identità» spiegò lei. «E
poi, dubito davvero che BloodyMary sia ancora viva. È’ troppo pericolosa»
Conan interruppe il suo
divertimento, cercando di elaborare mentalmente la frase che aveva sentito. «Perché questa BloodyMary sarebbe
pericolosa per gli uomini in nero?»
Ai lo scrutava come se cercasse di intuire se le sue
domande erano di pura curiosità o se nascondessero all’interno qualche
interesse personale. «Da quanto ho saputo da Akemi-oneechan,
aveva delle idee troppo rivoluzionarie. Tipo lotta proletaria, sai cosa intendo»
Quanto suonava fredda la sua voce. Non voleva lasciare trasparire niente. Non
era qualcosa che lui doveva sapere. La verità è la cosa peggiore da imparare.
«L’Organizzazione non è qualcosa che ti lascia agire indisturbato… E quando una
persona si comporta in una certa maniera, non ci sono soluzioni. Un colpo di
pistola e il problema è risolto»
Il dottor Agasa ascoltava
tutti questi discorsi quasi distrattamente, tenendo le mani ferme sul volante. «L’Organizzazione
è terribile» disse infine parcheggiando l’auto nel vialetto di casa. «Sono
contento che tu sia scappata»
Ai sentì i capillari delle guance ingrossarsi e
tergiversò. «Non è certo stato un bene per voi» Il sentirsi in colpa era
terribile. Scese lentamente dalla macchina.
«Finiscila!» esclamò Conan.
«Passi la metà del tempo a piangerti addosso sulle disgrazie che credi di aver,
o di poter provocare, ma non fai nulla per rimediare» Non si accorse tardi di
essere stato fin troppo insensibile, e proseguì senza problemi, sistemandosi
nuovamente gli occhiali. «Non è che magari si tratta
davvero di BloodyMary? Potrei provare a mettere una
cimice in-»
«No!» Ai si voltò di scatto verso di lui, agitando
le ciocche bionde, guardandolo con occhi ardenti che lui non le aveva mai visto. «Non è lei, ti ho detto»
Entrò velocemente in casa, lasciando sul vialetto un Conan
profondamente sconvolto da quel suo atteggiamento troppo aggressivo, e si
diresse nella stanza che usava come studio. Al buio, cercò di far calmare il
suo cuore, che, in quel momento, sembrava simile a un
trapano elettrico.
«Perché Shihochan
deve andare in America?!» La bambina dai capelli rossi sbattè
un piede per terra, arrabbiata. «Non voglio!»
«Non è qualcosa su cui possiamo decidere, Nacchan» La bambina più grandicella,
dai lunghi capelli neri, le appoggiò una mano sulla spalla. «La rivedrai
ancora, non preoccuparti»
«Io voglio che ‘tia qui!»
Si liberò dalla presa e corse ad abbracciare la bambina bionda. «Sta qua!»
Ma lei scosse la testa. «Non posso… Non posso…»
«M-ma…» Nacchan iniziò a piangere.
«E’ ora» La voce dura di un uomo venne dalla porta. Si
avvicinò alle due bambine afferrò il braccio di Shiho, strappandola all’abbraccio della rossa, e iniziando
a trascinarla via. Lei si lasciava trascinare senza opporre resistenza. A cosa
sarebbe servito? Nacchan balzò in avanti e le afferrò
la mano libera, unendo i loro due mignoli.
«Promettilo!» disse seria. «Sarai mia amica anche in
America!»
Shiho annuì con la testa, poi
passò lo sguardo sulla sorella, che sorrideva amaramente da lontano, cercando
di incoraggiarla. Non voleva andarsene. Non voleva lasciarle. Cosa le importava se era più intelligente di loro?
«Ricordatelo!» continuò a
urlare Nacchan. «Qualunque cosa succeda,
saremo sempre amiche!» E la porta della stanza si chiuse inesorabilmente dietro
di loro, impedendo a Shiho qualunque sensazione. Non
le restò che guardare avanti, dove c’era il nulla.
Ai si avvicinò a tentoni
alla scrivania, aprendo il primo cassetto. Nascosto dentro una scatola per le
mine della matita, vi era una capsula. L’antidoto che lei stessa,
tempo fa, aveva dato a Conan. Prenderlo era
rischioso, e l’effetto non durava che un paio di giorni. Il tempo non sarebbe
stato sufficiente. Aveva bisogno di più giorni, e di più coraggio.
«Nagisa…»
Appoggiò la capsula sulla scrivania e accese il
computer, lasciando che i numeri chimici del suo complicato veleno si
rispecchiassero nella profondità dei suoi occhi verde acqua, mentre la stanza veniva leggermente illuminata da quella tenue luce.
Note di Akemichan:
Ho dimenticato di dirvi una cosa nel capitolo
precedente… Ah, l’Alzaimer…^^’’ Visto
che non so se tutti lo conoscono, volevo informarvi che “BloodyMary” è un cocktail alcolico fatto con il succo di
pomodoro… Come vedere, i rimandi al sangue sono sempre evidenti… Ma in realtà
sono stata solo fortunata che il mio amico mi ha consigliato questo nome ^^’’
Lo ringrazio, per una volta che fa qualcosa di utile… Il prossimo aggiornamento sarà sabato prossimo
Reviews:
JalyChan:
Ciao! Che sorpresa! Non sapevo ti piacesse anche Conan
(in realtà non so molto di te… ^^’’) Bè, sono contenta di ricevere i tuoi commenti anche per questa
storia ^^ p.s. hai ricevuto la mia mail?
Mirtilla: Si, anche Ai è il mio personaggio
preferito, per cui spero davvero di non farla OOC… Mi
saprai dire, visto che la conosci bene ^^ Grazie per la recensione
MelanyHolland: Non ci posso credere!!
Davvero, non posso credere che la persona che ha scritto una delle più belle fic su Conan abbia recensito
proprio me! Speravo tanto che lo facessi, in realtà, ma non credevo di
potercela fare…^^ I tuoi complimenti mi fanno un
piacere immenso ^^ Sei troppo buona. Credo che lo stile cambierà un pochetto adesso che siamo quasi entrati “nel vivo”, ma
spero vivamente che continui a piacerti ^^
Ginny85: Grazie per la recensione. Si, Ai è un
personaggio meraviglioso, per questo le ho dedicato la storia e spero che la
leggano anche tanti altri amanti di Ai come me e come
te ^^
Preview:
«Nagisa, sono io… SonoShiho…»
«Chi… Come… Cosa… Haibara…?»
«Anch’io sono felice di
rivederti»
«Si vede proprio quanto ti sta a
cuore, vero, Gin?»
La porta a vetri della stanza 22 del reparto rianimazione si aprì senza
fare alcun rumore, lasciando entrare il corpo snello d
La porta a vetri della stanza 22 del reparto
rianimazione si aprì senza fare alcun rumore, lasciando entrare il corpo snello
di un’infermiera dai lunghi capelli neri. Questa si avvicinò al letto,
rimboccando le coperte a quella bella addormentata, senza sapere che sarebbe stata il tuo principe azzurro. Prese la flebo quasi esaurita e la sostituì con quella nuova. Con
la mano destra affusolata sfiorò leggermente la guancia della paziente,
sentendo un brivido al contatto con quel corpo, troppo freddo per poter pensare
che fosse ancora viva, come invece suggeriva l’elettrocardiogramma. La mano
scivolò nel rosso sangue dei suoi capelli sparsi disordinatamente sul cuscino,
tanto che sembrava davvero morta per emorragia. Spostò una ciocca dietro
l’orecchia e si sporse a sussurrarle qualcosa.
«Nagisa, sono io… SonoShiho…» L’infermiera
si alzò, scrollando i capelli neri ed uscì, silenziosa e misteriosa com’era
arrivata, come se non volesse realmente svegliarla.
Non passò nemmeno un battito di farfalla che l’elettrocardiogramma
si mosse, prima impercettibilmente, come le leggere onde del mare lambiscono una spiaggia in una calda giornata estiva, fino a
trasformarsi in una tempesta di grandi cavalloni. La ragazza mosse
per prima una mano, quindi, resasi conto della situazione, spalancò gli
occhi verdi. Si alzò di scatto, guardandosi attorno per trovare la presenza di
prima attorno a sé. Sbattè le palpebre, cercando di
riprendere il controllo su sé stessa. Si toccò il petto ricoperto solamente da
una leggera camicia da letto, sentendo il contatto con qualcosa al di sotto.
Alla fine si sdraiò nuovamente, rimanendo ad osservare il soffitto, indecisa su
come comportarsi.
***
Erano da poco passate le cinque. Al n. 22/2 di Beika il campanello suonò ripetutamente, come se fosse il
suono delle sirene della polizia. Il proprietario di casa, il Dottor Agasa, indaffarato in qualche sua strana invenzione, si
pulì le mani nel suo camice bianco prima di aprire.
«Sta succedendo qualcosa di strano, e non mi piace
affatto!» sbottò Conan sulla soglia, quindi entrò
sbattendo i piedi per terra. Era così agitato che si dimenticò persino di
togliersi le scarpe.
«Shinichi-kun…» cercò di
attrarre la sua attenzione Agasa, mentre chiudeva
delicatamente la porta dietro di lui.
«Haibara non è venuta a
scuola in questi giorni e non è malata» continuò lui imperterrito. «Sono sicuro
che non lo è! E’ diventata strana, da quando ha visto quella BloodyMary, o chi per lei, all’ospedale»
«Shinichi-kun…»
«Spero che non si comporti come l’ultima volta in
pullman! Credevo che finalmente si sentisse meglio…»
«Shinichi-kun…»
«Vuole sapere l’ultima? Quella ragazza si è
svegliata» Conan prese finalmente fiato. «Me l’ha
detto Mitsuhiko che l’ha casualmente vista mentre
usciva dall’ospedale, perfettamente guarita. Le sembra una cosa normale? Avrei
dovuto mettere quella microspia e non dire nulla adHaibara!»
«Kudou-kun…»
Conan alzò lo sguardo verso la
voce che l’aveva chiamato per ultimo, una voce che aveva potuto sentire una
volta soltanto e nemmeno troppo bene, anche se il tono gli pareva lo stesso.
Dal piano superiore scendeva delicatamente una giovane donna, dai capelli ricci
e castano scuro e lo sguardo sbarazzino.
«Chi… Come… Cosa… Haibara…?»
balbettò lui.
«Che c’è?» disse Ai con lo
stesso tono che usava spesso per fargli capire cose per lei elementari. «E’
solo una maschera e una parrucca»
Sentendosi trattato veramente come un bambino, Conansi ingobbì. «Questo l’avevo capito… ma perché sei tornata adulta?! Hai finalmente
trovato l’antidoto?»
«No, è lo stesso che ti ho
dato l’ultima volta»
«Non avevi detto che era pericoloso prenderlo?»
«Ho analizzato la formula e ho modificato
leggermente la struttura molecolare. Adesso i rischi sono ridotti e l’effetto è
aumentato. Non sono lontanissima dalla soluzione definitiva» Ai si passò una mano
tra i fili scuri della parrucca, rivolgendosi ad Agasa.
«Allora?»
«Sembri un’altra, davvero» rispose il dottore. «Non
ti riconosceranno di sicuro»
«Chi non dovrebbe
riconoscerla?» domandò Conan impaziente. «Perché
nessuno mi spiega niente?! Gli uomini dell’Organizzazione sono
anche affar mio e di sicuro non ti lascerò andare da
sola!»
«Invece dovrai» replicò
calma Ai. «Con la mia sola presenza ti ho già causato
troppi problemi. Non mi hai detto tu stesso che non devo
scappare dal mio destino? Che devo smetterla di
piangermi addosso?»
«Non intendevo certo mandarti così allo sbaraglio!» Conan si massaggiò una tempia. «Non è da te essere così
spericolata… Che ti succede?»
«Lo scoiattolo
scappa sempre dal serpente a sonagli, finchè
non gli cade in bocca da sé medesimo» Ai si appoggiò al muro, una
mano infilata nella tasca della lunga gonna verde scozzese, l’altra poggiata
all’altezza del colletto della camicia bianca. «Sia che
faccia qualcosa, sia che rimanga nascosta, la mia vita è in pericolo» mormorò,
tossendo leggermente. Sembrava sul punto di soffocare, trattenendo
chissà quale tristezza dentro di sé. «Così mi sembra di morire…» Alzò lo
sguardo verso di lui, che rivide gli stessi occhi che lei aveva quando piangeva
per sua sorella. «Che senso ha vivere in questo modo?
Dimmi, che senso ha vivere ogni giorno col terrore di morire, anche senza far
nulla? Tutti i mortali sono destinati a morire, la vita non è
altro che attesa della morte. Perché dovrei dunque prolungare
le mie sofferenze osservando il ticchettio lento delle ore?» Aspettò una
risposta che non poteva arrivare. «Prima o poi
mi troveranno, perciò tanto vale che rischi la mia vita per qualcosa di utile»
Conan si calmò lievemente. «Posso
capire, ma mi sembra veramente troppo pericoloso»
«Ho preso tutte le precauzioni. Anche se venissi scoperta, non potrebbero mai collegarmi a voi»
«Non è questo il punto!»
«A proposito» intervenne Agasa
poggiando una mano sulla spalla di Conan. «Dove vai?»
«In un bar» rispose lei vaga, avvicinandosi al
divano per controllare che nella grande borsa della
stessa tinta verde scozzese della sua lunga gonna fosse tutto in ordine. «Ho un
appuntamento con BloodyMary»
«Allora era veramente lei la
ragazza in coma…» commentò lentamente Conan. «Perché?!
Perché non mi hai permesso di indagare?!»
«E’ una cosa personale» Una leggera smorfia triste
si dipinse su quelle labbra troppo rosse. Li superò, mettendosi la borsa a
tracolla, e posò la mano sulla maniglia. «BloodyMary
è la mia migliore amica, la persona a cui tenessi di
più dopo mia sorella» Aprì la porta. «Non so se sarà disposta ad aiutarmi, ma
almeno è una strada sicura»
«Come puoi davvero fidarti di lei?! È una
dell’Organizzazione!» Conan si liberò dalla stretta
del Dottor Agasa per rivolgerle uno sguardo di sfida.
Ai piegò le labbra
all’indietro. «Anche io lo ero» E uscì.
Conan rimase interdetto, prima che
potesse seguirla. «Si, ma…»
«Shinichi-kun» lo chiamò Agasa. «Credi davvero di essere
l’unico a tenere a lei?» Mentre Conan osservava il
suo vicino di casa con espressione attonita, simile a quella che aveva fatto
davanti alla dichiarazione di Ran, lui proseguì «so
che il tuo atteggiamento è dovuto a preoccupazione, ma, per una volta, dovresti
lasciarla stare. Sa quello che fa, non è mai stata imprudente»
«Si, lo so» Conan abbassò lo sguardo, stringendo i pugni attorno alla
sua giacchetta blu. «Ma dovrei davvero lasciarla
andare a farsi ammazzare? È solo questo che posso fare per lei?»
Agasa scosse la testa. «Non posso
comprendere tutti i suoi sentimenti, perché è difficile addentrarsi in una
strada poco battuta, ma credo che questa situazione, per lei, equivalga ad
esistere, come se fosse un fiore non ancora colto. Proteggila, ma lasciala
vivere, per una volta che lo desidera. Pochi sono capaci di farlo» E Conan, tristemente, annuì. Era troppo tardi per seguirla,
ormai.
«E poi» aggiunse ancora Agasa. «Puoi sempre usare la ricetrasmittente che le ho nascosto tra le cuciture della borsa»
***
Ai premette il pulsante di
salita dell’ascensore nel parcheggio sotterraneo del magazzino Beika. Il tono con cui aveva discusso con Conan aveva ostentato più sicurezza di quanta
non ne avesse in realtà, perché non era certa di potersi fidare di BloodyMary. Anzi, visto come si era comportata l’ultima
volta che l’aveva incontrata, sarebbe stato più probabile che
la aspettasse con la pistola puntata contro di lei. Ma non le importava quanto fosse pericoloso, aveva davvero molta voglia di vederla. NonostanteBloodyMary e Conan fossero l’uno l’opposto dell’altro, avevano un
qualcosa di simile, qualcosa che la rendeva più coraggiosa, più forte, più
sicura. E che, di conseguenza, la faceva rischiare di
più.
La porta dell’ascensore si aprì con il tradizionale
tin, illuminando della luce artificiale il sotterraneo. Non era più tempo di
tirarsi indietro. Ai entrò e selezionò l’ultimo piano.
Non appena le porte automatiche furono richiuse, prima ancora che l’ascensore
partisse, Ai rovesciò tutto il contenuto della borsa a
terra e si tolse la parrucca, rivelandone un’altra nera sotto, raccolta in un
elegante chignon. Slacciò poi la cintura della gonna lunga scozzese e se la
sfilò, rimanendo con la gonna beige lunga fino al ginocchio che indossava
sotto. Quindi infilò la giacca in tinta con la gonna sopra
la camicia bianca che portava fin dall’inizio, e cambiò la maschera sul viso,
sostituendola con un’altra che teneva nella borsa, dentro un sacchetto da
congelare. Per ultima cosa rigirò la borsa, che in realtà era double-face,
facendola diventare nera, e vi infilò tutto dentro: il
sacchetto, la parrucca e la gonna, facendo attenzione che non spuntasse nulla.
Un altro tin e l’ascensore si aprì
all’ultimo piano, lasciando uscire una giovane mora vestita seriosa, molto
diversa dalla castana tutto pepe che era entrata al piano sotterraneo. Ai si
guardò intorno, cercando di sembrare il più naturale possibile. Era un poco in
ritardo. BloodyMary si trovava già in quel luogo,
proprio davanti alla porta del bar, divertendosi a
osservare gli sguardi che i ragazzi che passavano tiravano alle sue lunghe
gambe, lasciate scoperte dalla corta minigonna in jeans, e alla scollatura
della maglietta nera.
Ai, cercando di superare il
freddo che le legava le ginocchia come fossero radici, avanzò e la superò senza
degnarla di un’occhiata, entrando nel bar. Si sedette su uno sgabello,
appoggiando la borsa davanti a sé affinché nessuno potesse sbirciarvi dentro.
«Vorrei un BloodyMary»
chiese rivolta al barista, ma in tono abbastanza alto, che fosse udibile fino
alla porta.
«Subito!» Il barista si voltò e iniziò a preparare
il cocktail.
Al sentire quelle parole, BloodyMary
entrò nel bar, osservando quella donna curiosamente. Alla fine si decisa a sedersi sullo sgabello accanto a lei, fingendo
una scelta casuale.
«Un whisky» disse al barista mentre questo
consegnava il cocktail alla sua vicina.
«Certamente» rispose lui. «Può prendere qualche
snack, se vuole…» aggiunse rivolto alla mora. Ai avvicinò a sé il bicchiere, ma
ignorò le ciotole contenenti noccioline e patatine. Dovevano essere pieni di
microrganismi patogeni.
«Non era un po’ troppo pericoloso, per te, infilarmi
quella lettera sotto la camicia da letto?» chiese sottovoce la rossa,
poggiandosi una mano a coppa sulla bocca. «Gran bel travestimento, comunque. Non ti avrei mai riconosciuta»
«Visto che sei tu a dirlo,
lo ritengo un complimento» Dicendo questo, poggiò le labbra sulla cannuccia del
cocktail, cercando di rendere il gesto più naturale possibile.
«Anch’io sono felice di
rivederti» sorrise l’altra fingendosi rivolta al barista, mentre afferrava il
bicchiere che lui le porgeva. «Possibile che per te sia così impossibile dirlo?»
«Visto come mi ha trattata
l’ultima volta…» Ai, sollevata dal ritrovarla più simile alla bambina
dell’Hokkaido che alla ragazza dell’Organizzazione, succhiò un po’ di quel
liquido rosso. Tuttavia, restava preoccupata e triste,
poichè gli occhi verdi erano ancora troppo spenti. Decide
di cambiare discorso, per non colpevolizzarla sulla sua pessima condotta. Non
era totalmente colpa sua, in fondo. «Come sei entrata in coma?»
«Un incidente autostradale. Stavo a
inseguire un obbiettivo con la mia moto, ma la strada era troppo scivolosa» BloodyMary estrasse dal bicchiere un cubetto di ghiaccio e
iniziò a morderlo. I suoi denti non erano mai stati troppo sensibili. «Avevo
dei documenti falsi in tasca, così l’Organizzazione non ha avuto problemi,
anche se stavo a curarmi all’ospedale pubblico. In
realtà sei sorpresa di vedermi ancora viva, vero?»
Con un cenno leggero, da essere quasi impercettibile,
Ai annuì. «Io e te siamo come
zombie, morti ancora in vita. O come vampiri»
«Sei troppo lugubre, Shihochan. AncheAkemi-neechan lo diceva spesso» BloodyMary
osservò i sottili fiumi che le scendevano tra le dita, lasciati dal cubetto di
ghiaccio che aveva mangiato. Un misto di whisky e acqua. «Stai tranquilla,
nonostante tutte le loro forze, nessuno dei nostri colleghi ha la minima idea
di dove tu ti possa trovare. Immagina la loro
sorpresa, se sapessero che sto qui a bere alcolici
assieme a te»
«Preferisco non immaginarlo» Ai poggiò
due dita sulle mani e deglutì a forza ciò che aveva succhiato dal suo
bicchiere.
«Allora stiamo a parlare
d’affari» BloodyMary bevve un lungo sorso,
asciugandosi sensualmente un rivo che gli scendeva ad un lato delle labbra
rosse e carnose. «Vuoi che io ti aiuti a debellare l’Organizzazione, non è
così?»
«Ci sono altre alternative,
per essere libera?»
«Benissimo» La rossa accavallò una gamba con un
gesto rapido. «Io ho un solo obiettivo, la vendetta; tuttavia, se uccidessi Gin
o il capo, non ci rimarrebbe molto tempo per parlare» Terminò in un sorso il
resto della sua bevanda. «Io vivo solo con l’Organizzazione, ma, una volta
completata la mia missione, non mi importerà più
nulla. Stai pure a smantellarla, ti aiuterò, purchè
tu mi permetta di uccidere Gin, vendicando così onichan»
«I nostri desideri ci portano a
fare scelte paradossali, non credi?» Ai si tolse di bocca la cannuccia.
«Oh!» BloodyMary trattenne
una risata. «Se gli uomini non vivessero seguendo i
loro desideri, sarebbe tutto molto semplice. Ma anche
molto noioso» Passò il dito sull’orlo bagnato del bicchiere. «Vivere un giorno
da leoni o cento da pecora, questo è il problema»
«Nagisa…» Ai mormorò la richiesta brevemente e in un tono basso che
ricordava quello delle anziane inchinate davanti all’effigie della Madonna. «Non
preferiresti rinunciare al tuo desiderio, e vivere?» Curioso che fosse proprio
lei a porre questa domanda, lei che poco prima aveva fatto una scelta analoga,
preferendo essere in quel bar, piuttosto che sul comodo e caldo divano nella
casa del Dottor Agasa, nascosta.
«Dopo la vendetta, ci sarebbe solo una cosa per cui davvero varrebbe la pena aspettare silenziosamente
la fine» Si osservò le unghie. «O per cui varrebbe la
pena cercare la fine»
«Di chi stai parlando?» Ai
allontanò da sé il bicchiere. «Esistono anche per te persone per
cui morire?»
«Esistono per tutti, solo che è difficile capirlo
finché loro non sono già morte per te» I suoi occhi verdi palude scintillarono.
«Ma non ti dirò il suo nome, Shihochan, è l’unico dei
miei segreti»
Ai scoccò un’occhiata
rapida all’orologio. Doveva andarsene, prima che diventasse troppo buio e prima
che la gente affollasse gli ascensori, impedendogli il cambio di travestimento.
«E’ nobile morire per una persona cara, ma stupido ed egoistico» E queste erano
parole di Shinichi, non sue. Si alzò, appoggiando
qualche moneta sul banco, sentendo che le viscere le si
attorcigliavano per aver ingerito troppo liquido di quel cocktail
orribile.
«Gli uomini sono stupidi ed egoisti, io e te non
meno che altri» Nagisa si arrotolò una ciocca sangue
attorno ad un dito, prima di infilarla in bocca e mordicchiarla. «Stai a dare un’occhiata al giornale, mi farò viva io» Ai annuì e
si allontanò silenziosamente, sotto lo sguardo lascivo di alcuni uomini. A
quella vista, BloodyMary sorrise. «Peccato che non
sopportassi la gabbia dorata dell’Organizzazione, saresti potuta diventare un
pezzo grosso» Si rivolse al barista, accennando al bicchiere mezzo pieno che la
mora aveva lasciato sul bancone. «Potrei finirlo io?»
«Oh, se vuole…» Lui sembrò un poco stupito dalla
richiesta, ma era suo dovere accontentare i clienti.
Nagisalo
prese e succhiò avidamente dalla cannuccia tutto il contenuto, lasciando che il
liquido rosso scorresse rapidamente attraverso la gola. Ubriacarsi non sarebbe
stato un brutto modo per lasciarsi andare.
***
Notte. Plenilunio. Gufi che tubano, faine che si
svegliano. Frusci al limitare del bosco. E tutto
sparisce, ingoiato nell’ombra scura di uno spazio infinito. In città, la notte
può fare altrettanta paura, nonostante le luci e il movimento delle persone,
perse in vicoli illuminate da tenui luci di fari. È difficile trovare
differenza tra il bosco e la città, poiché in entrambi i posti troviamo predati e predatori. In certi casi, i predatori
attendono la preda in bar isolati nelle periferie, dove ancora il pianista
suona il blue e le canzoni vengono eseguite dal vivo.
«State qui a bere, come al
solito» BloodyMary rubò la sigaretta dalla bocca
dell’uomo dai capelli lunghi e biondi. «Mi domando come possiate essere davvero
così utili all’Organizzazione» Aspirò forte.
L’uomo si limitò ad osservarla coi
suoi occhi di ghiaccio, che incutevano paura a tutti a parte a due donne, ed
una gli stava davanti in questo momento. «Allora?» Tirò fuori il pacchetto e si
limitò a prenderne un’altra. «L’hai incontrata?»
«O-oh!» BloodyMary fece un risolino ironico, tenendo la sigaretta
fra l’indice il medio. «Si vede proprio quanto ti sta a
cuore, vero, Gin?»
«Non ho tempo da perdere con te» rispose brusco
l’uomo. «Hai visto Sherry? In caso contrario, possiamo fare a meno della tua
presenza»
«Un po’ di valium la mattina ti gioverebbe, sai?»
scosse la testa lei. «Si, l’ho incontrata. È rimasta
uguale, come se i cambiamenti esterni non potessero intaccare il suo cuore»
Fissò lo sguardo su Gin che si riaccendeva la sigaretta. «Ha preso da te…»
«Cosa ti ha detto?» Gin
ignorò i vari commenti. «Dove sta, con chi è…»
«Nulla di tutto ciò» BloodyMary
spense la sigaretta sul piano del tavolo. «Noi due ci confidavamo poche cose»
«Credevo il contrario» intervenne timidamente
l’altro uomo seduto al tavolo, con gli occhi coperti da spessi occhiali neri.
«Stavi a credere male»
replicò brusca lei.
«Cosa vuoi?» tagliò corto
Gin, senza che il tono di voce cambiasse minimamente.
«Sherry ha bisogno di un piccolo incoraggiamento,
prima di confidarmi tutto» constatòBloodyMary. «Lascia fare a me e potrai nuovamente affondare
i tuoi proiettili nella sua pelle candida» Scosse i capelli che, divenuti
elettrostatici, le si stavano attaccando alle dolci
guance. «E quando l’avrai fatto, mi farai incontrare
il capo, come promesso» Ammiccando, li lasciò soli, riflettendo su come potessero
essere flebili parole come promessa, fiducia, amicizia. L’uomo pensa solo ai proprio interessi, come qualsiasi animale, ed è disposto
a tutto. Ma gli animali lottano solo per vivere. Gli
animali non amano il sangue.
«Che pensi, Vodka?»
«Ci possiamo davvero fidare?» Si grattò il mento. «Non
potremo ucciderla subito?»
«No, non è ancora il momento; prima dobbiamo
scoprire il nascondiglio e tutti gli aiutanti, poi potrai farlo» Gin spezzò la
sigaretta ancora accesa a metà. «E’ proprio vero che una donna intelligente è
più pericolosa di una donna bella»
«Perché?» Vodka poggiò le
mani sul tavolo. «Non sono le belle donne a fregare gli uomini?»
«Certo che si, ma per farlo hanno bisogno di una
buona dose di furbizia» Gin avvicinò a sé il bicchiere pieno di liquore. «Una
donna bella non può diventare intelligente, una donna intelligente troverà il
modo di diventare una bella donna»
«Tu mi sembri davvero immune dal loro fascino…»
«Perché ho capito la vera
natura delle donne» Gin bevve un sorso di liquore. «E
degli uomini»
Note di Akemichan:
La frase in corsivo è ripresa da una delle Operette
Morali di Leopardi, quella “Dialogo della Natura e di un Islandese”. Ricordo
che quando l’avevo letta mi era venuta subito in mente la situazione di Ai. E poi, visto e considerato che
Ai è una persona colta, suppongo che, se fosse italiana, conoscerebbe
sicuramente quest’opera e sarebbe in grado di fare
una citazione, ecco perché l’ho messa. Ed è anche una delle motivazioni
principali che spinge Ai a combattere, chiara e
concisa. Ci vediamo al capitolo quattro, sabato prossimo ^^
Reviews:
Mirtilla: ^///^ E io ne approfitto
per dirti che sei fin troppo buona con me… Ma se la storia ti piace, non posso
che esserne contenta…^^ In realtà, nemmeno io posso dire di conoscere così bene
Ai, visto che è così misteriosa… Ma se voi dite che non è OOC, mi fido ^^ Per
il cocktail non mi devi ringraziare, era mio dovere dirlo ^^ Meno male che me
lo sono ricordato
Ginny85: Ah, non ti preoccupare, probabilmente sono
io che lascio troppe cose in sospeso e poi alla fine non si capisce niente, mi
dispiace ^^’’ Anche perché comincio a pensare che questa storia stia diventando
un trattato di filosofia… ^^’’ Se hai dubbi sulla storia chiedimi pure ^^
Melanyholland: Bè,
se ne sei così sicura allora mi fido ^^ Ma aspetta a vedere il resto, non
vorrei che poi la fine facesse pena… -.-’’ Ecco l’aggiornamento,
ma non so se soddisferà del tutto la tua curiosità… ^^
JalyChan:
Davvero? Ecco un’altra cosa che abbiamo in comune! Anch’io
prendo il manga, anche se ritenevo l’edizione della Kabuki
di qualità migliore… Anche se lo preferisco della star piuttosto che biannuale!! Se ti riferisci al
caso di Halloween Party, devi vedere com’ero ridotta
io quando ho finito di leggerlo…^^’’ Ma ho preferito non mettere spoiler
eccessivi (e quello ti scombina non poco, lo sai, se è quello che intendevi…). Ai
è anche il mio preferito (altrimenti che scrivevo a fare ^_-) e penso che Gosho le dovrà dare il finale migliore, nel fumetto, se non
vuole morire, visto la quantità di suoi fan…^^’’ Strano che non ti sia arrivata
l’e-mail… IL mio pc è sempre più fuori! Comunque, volevo dirti di andare a vedere questolink (purtroppo le frasi sono in inglese), perché a me a
fatto morir dal ridere e visto la tua opinione in merito ho pensato che sarebbe
piaciuto anche a te ^^
Per via del volume troppo alto della televisione che
Kogoro stava guardando, Conan non riusciva in alcun
modo a concentrarsi. Straiato sul divano, cercava di impedire alla canzone di YokoOkino di penetragli
nelle orecchie, sebbene potesse essere piacevole in altre situazioni, e,
soprattutto, di evitare che i fischi di suo “zio” gli distruggessero i timpani.
Come facevano a non lamentarsi i vicini? Forse era la fama come iettatore che
li teneva lontani.
Con un gesto frustrato Conan
afferrò un altro giornale dalla pila e iniziò a sfogliarlo. Accidenti adHaibara! Poteva capire i suoi
sentimenti, ma non poteva permetterle di agire da sprovveduta! Purtroppo,
nonostante la cimice del Dottor Agasa, aveva
impiegato un po’ di tempo a capire dove fosse il luogo
dell’appuntamento, perciò, quando vi si era recato, non era riuscito a
trovarle. Non erano state molto a parlare, evidentemente entrambe sapevano
quanto potesse essere pericoloso, ed entrambe erano
state estremamente prudenti. L’Organizzazione insegnava bene. Conan aveva bisogno di sapere in anticipo dove si sarebbe
incontrate, lei e BloodyMary, in modo da poter
correre in suo aiuto se ce ne fosse stato bisogno. E per
scoprire novità su Gin e Vodka, anche se questo era un pensiero che si
rifiutava anche solo di formulare. Non voleva sentirsi troppo egoista.
BloodyMary, o Nagisa,
come Ai la chiamava, aveva detto che si sarebbe fatta sentire tramite “un
giornale”. Ai doveva per forza sapere di quale giornale stese parlando, ma di
certo non glielo avrebbe rivelato, perciò aveva dovuto comprarli tutti. Dalla
spesa che aveva fatto si era subito reso conto che non era possibile ripetere la stessa operazione tutti i giorni, vista la possibilità
che BloodyMary si rifacesse viva tra più di un mese.
Aveva bisogno di più indizi. Qual’era
un giornale che un membro di una società criminale avrebbe potuto comprare? Un
bel dilemma.
Finalmente il programma canoro di YokoOkino finì e Kogoro spense
la tv, ancora con gli occhi a forma di cuore e un leggero rivolo di sangue che
gli colava dal naso. Come detective non valeva molto, ma Conan
doveva ammettere che rispetto alle altre persone non si vergognava
ad apparire rispetto ad essere. Peccato solo che il suo essere fosse poi molto limitato,
almeno la maggior parte delle volte.
«Che stai facendo?» gli
chiese mentre apriva un’altra lattina di birra. Era insolito che il
ragazzino se ne stesse così tranquillo, ma era altrettanto insolito che un
bambino di sei-sette anni passasse il pomeriggio a
leggere giornali.
«Esercizi di lettura» sorrise Conan
cercando di sembrare più infantile possibile. Vista la sua agitazione, temeva
di sembrare troppo serio, tanto che anche Ran, di
solito non molto perspicace, gli aveva scoccato delle
strane occhiate.
Kogoro alzò le spalle. Davvero, non lo capiva.
«Tieni anche questo» Gli passò un giornale che prima era rimasto sepolto fra
tonnellate di altre riviste e lattine vuote che
decoravano al scrivania. «Vado a giocare a pachinko!»
urlò poi, in modo che la figlia, dalla cucina, potesse sentirlo. Afferrò la
giacca grigia che teneva appesa alla sedia e uscì. Conan
scosse la testa. Non si stupiva certo del fatto che Ran
avesse preferito restare con lui anziché con la madre, la quale, al contrario,
sapeva benissimo badare a sé stessa.
Quasi per noia Conan
iniziò a sfogliare il giornale che Kogoro gli aveva passato, ossia “Il
Manifesto”. Andò subito alla pagina degli annunci, poiché non credeva che ci
potesse essere altro posto per comunicare, saltando gli articoli. Uno diceva,
dopo la presentazione del nome e dell’indirizzo:
“I miei poeti preferiti sono
Carducci, specialmente quando parla del treno, e Pascoli. L’ultima strofa del ‘gelsomino notturno’ è
meravigliosa. Sciagurata, ammetto di esserlo, qualche volta, ma basta non
assecondare i miei capricci e il giorno dopo divento la persona più seria del
mondo. Budino e sushi, i miei piatti preferiti: mangerei solo quelli!
Ialografia, la pittura su vetro, è ciò che faccio di mestiere”
Rilesse questa parte dell’annuncio molte volte,
silenziosamente e lentamente, finché qualcosa non scattò nelle molle del suo
cervello da detective. L’indicazione del luogo e dell’orario. «Ho trovato!»
esclamò nella sua mente mentre riportava gli appunti su un foglio. Infatti, la poesia
sul treno di Carducci si intitola “Alla stazione una
mattina d’autunno”, mentre l’ultima strofa di Pascoli inizia con “E’ l’alba”.
Infine, unendo le sillabe iniziali delle ultime tre frasi si otteneva la parola
“Shibuya”. Perciò
l’appuntamento era alla stazione di Shibuya, all’alba
del giorno dopo la pubblicazione dell’articolo.
Ran si affacciò alla porta. «E’
quasi pronto, và a lavarti le mani» Si, Ran sarebbe
stata una madre perfetta.
«Okay» rispose Conan
obbediente. Avrebbe chiamato il Dottor Agasa
più tardi. Osservando Ran
che ritornava in cucina, riflettè sul suo
comportamento. Come sempre faceva finta di essere
allegra e sorridente, ma le sue pupille risultavano simili a quelle
opache di un peluche gettato in una discarica. Shinichi
non la chiamava da qualche tempo. Era ora di farla di nuovo felice. Conan si chiuse in bagno, tirando fuori il suo telefono
miniaturizzato e aprendo l’acqua del rubinetto, in modo che Ran
non potesse sentirlo.
«Qui agenzia investigativa Mori» rispose alla
cornetta la voce dolce di Ran, un tono che si
addiceva più a una madre di famiglia piuttosto che a
una segretaria.
«Ran…» si limitò a
rispondere Conan, usando il suo farfallino-modulatore
di voce.
Lei appoggiò la mano sugli occhi per cercare di trattenere
le lacrime. Riuscendoci solo in parte, preferì reagire. «Com’è che è un po’ che
non ti fai sentire?! Non hai ancora risolto il caso?» Sorrise. «Non sarà che… Stai perdendo il tuo intuito?»
«Figurati…» commentò lui mettendo il broncio. Era
bello sentirla di nuovo energica. Continuarono a
chiacchierare un pochino in questo modo, come se il tempo si fosse fermato, e
come se non fosse passato nemmeno un giorno dal loro ultimo incontro. La teoria
della relatività di Eistein era
sicuramente azzeccata, nel loro caso.
«Shinichi, sei
preoccupato?» chiese infine lei, mentre giocherellava con il filo del telefono.
«Ti sento strano…»
Davvero, i suoi sentimenti non
erano che acqua corrente per lei, anche solo a sentirlo parlare. Si
sentiva un po’ in colpa, temendo di non riuscire a fare altrettanto. «In
effetti, sono un po’ preoccupato…» Lei si che lo
avrebbe capito. «Un… mio amico mi sta aiutando in
un’indagine… Per lui è una faccenda personale. Solo che… Si mette in
situazioni pericolose e non accetta che io lo protegga…»
«Così tu non sai cosa fare per lui…» finì lei. «Non
sarà mica… Hattori?!»
«Ma certo che no!» esclamò
lui, alzando troppo la voce. Paragonare Ai aHeiji, figuriamoci. Sarebbe stato come paragonare la luna a un rospo. Senza offesa per Hattori,
naturalmente.
«Secondo me, dovresti cercare di fargli capire che
non vuoi interferire nel suo lavoro. Dagli libertà, ma
allo stesso tempo stagli vicino» Fai così anche con me, avrebbe voluto dire. E interferisci pure. «Insomma, non essere soffocante, non
cercare di fare tutto da solo»
Fare tutto da solo… Era esattamente il contrario,
stavolta era Ai che voleva stare sola… Si, Ran aveva
ragione, doveva lasciarla fare, ma tenerla d’occhio. Haibara
non gli avrebbe permesso di accompagnarla, era troppo
generosa… La odiava spesso per questo, perché così doveva fare il doppio della
fatica. Non che se ne lamentasse, ma non poteva
sopportare che desiderasse continuamente sacrificare la sua vita per lui.
Nessuno doveva avere questo onore.
«Grazie Ran» disse, quindi
la salutò e riattaccò. Infilò il telefonino in tasca e si preparò a sciacquarsi
le mani. Vide che i palmi erano completamente anneriti dall’inchiostro del
giornale.
***
La stazione all’alba era praticamente
deserta. Ricordava molto quelle del vecchio Far West, solo che mancavano le
palle di stoppa che rotolavano per la strada con il vento.
BloodyMary si era seduta su una
panchina tra il binario due e il binario tre, tenendo una coppia del Manifesto
sulla minigonna nera a pieghe che indossava. Con i capelli rossi legati in due
codini laterali e alti e senza trucco, sembrava molto più piccola di quanto fosse in realtà. Lo aveva fatto per fingersi
un’universitaria che andava a Osaka in Shinkansen per un seminario. Teneva gli occhi verdi fissi
davanti a sé, come se aspettasse di vedere qualcuno comparirle all’improvviso.
Accanto a lei si sedette una giovane donna, dai
morbidi capelli castani modellati sulle spalle. Accanto a sé appoggiò uno zaino
bianco, praticamente nuovo. Dallo zaino estrasse un
cellulare con l’auricolare. Compose un numero e infilò l’auricolare
nell’orecchia destra, dopo aver spostato con un gesto naturale una ciocca di
capelli. Poggiò poi il telefonino sul grembo, dove finiva la maglietta a onde del mare e iniziavano i pantaloni larghi blu.
«Novità, Nagisa?» chiese
fingendo di parlare al telefono.
BloodyMary all’inizio non si mosse,
come se non avesse sentito. Poi, molto lentamente, afferrò il giornale e lo
aprì a pagina cinque. «Direi di si»
sussurrò. «Sono qui per consegnare una partita di droga ad un corriere»
Accavallando le gambe, diede una leggera botta alla cartella che era appoggiata
al bordo della panchina. «Ho pensato che potevi fare
una telefonata anonima alla polizia per avvertirli. Sarebbe una buona occasione per far iniziare le indagini. Ho nascosto un
cd di informazioni in uno dei pacchi»
Ai schiacciò nervosamente i
tasti del telefonino. «Corri troppo rischi»
«Ma no, stavo ad usare lo
stesso programma di scaricamento criptato dell’Organizzazione.
Non ci sono pericoli»
«Mi auguro che sia così» replicò Ai senza smettere
di tormentare i tasti. «Però mi sembra strano che ti abbiano affidato questo incarico… Non eri un sicario, una volta?»
«Lo sono ancora» BloodyMary
voltò pagina. «Ho chiesto io di eseguire questa missione per rimettermi dalla
convalescenza. E per incontrarti, naturalmente»
«Naturalmente»
«Sai, mi ero sempre domandata che effetto facesse uccidere, fin da piccola» La rossa strappò un
angolino del giornale e lo infilò tra le labbra. «Stavo ad ammirare Gin perché
era uno tosto, uno in gamba…» Piegò la bocca in un
sorriso ironico. «Adesso che anch’io ho ucciso, non so cosa dire. Non fa nessun
effetto» Scoccò un’occhiata alla sua migliore amica da sotto le lunghe ciglia
nere. «Uccidere un essere umano non è che una cosa normale»
«Davvero?» chiese Ai con
voce inespressiva. «Buon per il tuo lavoro»
«Sapevo che avresti risposto così!» BloodyMary alzò troppo il tono di voce. «Tu non sei
abbastanza ipocrita da giudicare le persone e far finta
di niente»
«Non ti ho giudicata» Ai
guardava intensamente i fili d’erba che spuntavano dai binari. «Ti invidio, anzi»
«Invidiare me? Solo perché posso uccidere? Fammi
ridere» Si divertì a piegare il lati del giornale.
«All’inizio, uccidere mi inebriava. Vedere quelle
persone che cadevano a un mio gesto. Gli uomini sono esseri così deboli… Era divertente essere come Dio,
onnipotente. Uccidere e non essere uccisa» Sospirò. «Ma
se fossi stata Dio, forse avrei potuto salvare mio padre e mio fratello» Ebbe
il coraggio di voltarsi verso Ai. «Dimmi, Shihochan, è per questo che dicono che non bisogna uccidere?»
«Se avessi la risposta,
forse sarei io Dio» commentò l’altra limitandosi a chiudere gli occhi.
«Piuttosto, la domanda è perché si uccide»
«Appunto» convenne Ai. «Ma
non esistono motivi per non uccidere»
«Non ti capisco» BloodyMary
spostò leggermente il giornale per slacciarsi un bottone della sua camicia a
scacchi neri e bianchi.
«Per esempio, ti sei mai chiesta perché il cielo è
azzurro?»
Inconsciamente, lei alzò lo sguardo. Metà del cielo
era ancora buia, mentre l’altra andava man mano schiarendosi con l’avvento del sole.
La luna, ancora visibile, andava verso levante, mentre leggere pecorelle
disegnavano strane figure. «N-no» rispose. «Non è una
cosa naturale, come dire che le foglie sono verdi?»
«Le foglie sono verdi per via di un enzima contenuto
nei mitocondri delle cellule delle foglie, la clorofilla» spiegò Ai. «E il cielo è azzurro perché la rifrazione della luce solare
nell’atmosfera provoca la visibilità della linea d’onda azzurra» Poi sorrise.
«Ma a prescindere da qualunque spiegazione scientifica, a te il cielo
piacerebbe in qualunque modo»
«Bè, si» BloodyMary arrotolò con le labbra il foglietto di giornale
che aveva strappato precedentemente.
- Si comunica che il treno Osaka/Kyotoin arrivo sul binario tre presenta un ritardo di
trenta minuti – disse l’autoparlante, mentre il
display degli orari cambiava. – Ripeto, il treno Osaka/Kyotoin attesa sul binario tre presenta un ritardo di
trenta minuti. Ci scusiamo per il disagio -
Ai prese il telefonino e lo spense,
quindi lo rimise nello zaino assieme all’auricolare. «La realtà è che non
esistono risposte alla domanda per cui non si debba
uccidere; è una cosa personale» Ai alzò e si mise lo zaino sulla spalla destra.
«Ma anche se esistessero, non impedirebbero certo alle persone di uccidere»
BloodyMary rimase nascosta dietro il
Manifesto mentre lei se ne andava verso il
sottopassaggio, per andare al bar. Quanto le sarebbe piaciuto, per una volta
nella vita, avere una conversazione normale con Nagisa,
simile a quelle che aveva con i Detective Boys.
«Che ci fai qui tutto solo,
piccolo?» sentì la voce della barista chiedere, mentre si avvicinava. «Ti sei perso?»
«No no» negò una voce di
bambino fin troppo familiare. Quindi Ai vide la figura
di Conan scappare nella sua direzione e infilarsi nel
sottopassaggio. Sospirando, lo seguì. Non avrebbe dovuto farlo, se davvero
voleva mantenere segreto il loro legame, ma era chiaro che lui l’aveva seguita, rischiando di compromettere il lavoro. Lui
era entrato senza troppi problemi nel bagno delle donne. La fortuna volle che
in quel momento nessuno usasse quel sottopassaggio, per cui
nessuno avrebbe potuto dire che la ragazza dai capelli castani lo aveva
incontrato.
«Okay, okay, non dire niente» la anticipò lui non
appena fu entrata. «Lo so, non avrei dovuto seguirti, ma ero
preoccupato » Alzò gli occhiali per guardarla meglio. «In realtà mi
sento lusingato dal fatto che tu stia rischiando tanto per proteggere me e gli
altri, però non voglio che ti sacrifichi, come sempre. Non sarebbe giusto» Si
rimise gli occhiali. «Non discuterò le tue decisioni, ma permettimi di aiutarti»
«E’ fuori questione» Ai scosse
la testa. «Ti comunicherò tutte le mie informazioni, ma voglio che tu rimanga fuori da questa faccenda, altrimenti sarà tutto inutile. Ti
ringrazio, ma me ne occuperò da sola»
«Sei così testarda!» Il classico bue che dà del
cornuto all’asino.
«Kudou-kun… Tu una volta
mi hai impedito di uccidermi, dicendo che non era il mio destino» commentò lei.
«Perciò, adesso, non mi farò uccidere. Ma se dovesse accadere, tu-»
La porta del bagno si aprì lentamente, cigolando. Ai
si voltò, appoggiando una mano contro il muro, agitata. Conan
corse a nascondersi dentro una delle porte dei gabinetti,
con il mirino dell’orologio pronto a sparare. Era BloodyMary.
«Anche il mio treno sta in
ritardo» disse solo, andando al lavandino a sciacquarsi le mani. «Ti ho spaventata?»
«Non troppo» Ai si appoggiò al muro, incurante del
fatto che potesse essere sporco.
BloodyMary fece un sorriso strano,
malinconico. Le si avvicinò velocemente e con un gesto
improvviso le strappò la parrucca e la maschera. Fu troppo rapida, tanto che
alcuni pezzi rimasero appiccicati al viso di Ai, che
non si era mossa. Le accarezzò i capelli corti biondi, poi la
abbracciò. «Volevo tanto vederti…» Rimase per qualche minuto ferma, con
la testa appoggiata contro il suo petto, respirando calma. «Quando
hai lasciato l’Organizzazione, mi sono sentita morire… Sono stata così egoista,
sapevo bene che per te era la cosa migliore… Lo sapevo da sempre…» La guardò
deglutendo. «Sono io che invidio te… Hai trovato qualcosa per
cui vivere…» Voltò lateralmente la testa. «Io ho solo cose per cui morire…»
Le braccia di Ai tremavano
e lei si sentiva in colpa per non riuscire a ricambiare l’abbraccio. «Sei tu
che non vuoi vivere…»
«Come posso?!» Nagisa si
staccò d’impulso. «Ho ucciso tanto… E tanto… Se non uccido ancora, sto male… E’
l’unico modo che conosco per vivere! L’unico che mi hanno mai insegnato! N-non ce la faccio più…» Piegò le labbra all’indietro, per
trattenersi dal piangere. «Aiutami…»
Da dietro la porta, Conan
chiuse il mirino e lasciò cadere le braccia, assalito dalla rabbia. Quelle due
erano uguali, entrambe cresciute dall’Organizzazione, in un clima di morte e di
terrore, soffocante e opprimente. Non avevano scelto loro di diventare delle
assassine, di dover rischiare di essere uccise per essere
libere, normali. Dov’era la giustizia, a questo
mondo? Fin da quando erano nate, qualcun altro aveva deciso
per loro e le aveva sporcate, rese impure con il sangue versato da altri.
Per la prima volta nella sua vita, ShinichiKudou, il geniale studente-detective, la salvezza della
polizia giapponese, ebbe un istinto omicida. Avrebbe voluto avere Gin davanti e
una pistola in mano. E sparare. E
provare gioia e sollievo.
«L’unica cosa che puoi fare, è trovare dentro di te
il motivo per non uccidere…» Ai la strinse a sé, lasciando scorrere le dita
bianche tra i capelli sangue. Le vedeva così sporche… «Anch’io non ho il
diritto di vivere, sai… Anch’io ho ucciso con la mia ATPX-4896…»
«Ma è una cosa diversa…»
mormorò Nagisa alzando lo sguardo.
«Il risultato non cambia» Ai allentò la stretta.
«Anche tu, se lo desideri, puoi vivere… Smetti di-»
«Morirei ancora più in fretta. Non saprei come
vivere!» Nagisa si scostò. «Scusami,
ho parlato come una stupida…»
«Nagisachan…» Ai alzò un braccio per trattenerla, ma lei scappò verso la
porta.
«Ci vediamo al distributore automatico dell’ultimo
piano del magazzino Beika fra due giorni alle cinque
precise» Sorrise, anche se gli occhi verdi rimanevano lucidi. «Dovresti davvero
trovarti un ragazzo, come diceva Akemi-neechan, sei così bella…» Uscì accostando la porta.
Ai si lasciò scivolare lungo il muro, tremando. Un
essere umano come poteva vivere per uccidere, come un automa? Con che diritto
l’avevano obbligata ad una vita simile? Con che diritto le avevano costrette a
macchiarsi così? «P-perché…? N-nonposso chiederle di tradire l’Organizzazione, non ci
riuscirebbe… N-no, davvero…» Leggere lacrime
cristalline, simile alla rugiada che cola lungo i sottili steli dei fiori,
presero ad uscire e a scivolare lungo le guance.
Conan uscì dal suo nascondiglio.
Si era davvero pentito di quei pensieri omicidi, ma li aveva avuti. E avrebbero potuto tornargli, nel vedere Haibara
in quelle condizioni. L’anima di quella ragazza non sarebbe mai più tornata
pulita. Né quella di BloodyMary.
Ma se il caso l’aveva fatta nascere
nell’Organizzazione, di sicuro il destino li aveva fatti incontrare. Anche se, in quel momento, l’unica cosa che poteva fare per lei era
porgerle un fazzoletto bianco di stoffa. Il quale, tuttavia, non avrebbe
pulito le loro mani insanguinate.
Note di Akemichan:
Allora…^^’’ Chiedo umilmente perdono… So benissimo
che sia Il Manifesto, che Carducci e Pascoli sono “roba” italiana, ma io non
conosco poeti giapponesi… (e poi dicono che la scuola non rovina i ragazzi :-P). Il Manifesto è un giornale comunista (lo legge un mio
compagno, per questo lo so) e ovviamente non ha un angolo degli annunci, ma non
potevo usare nessun altro giornale. Perché,
direte voi? Per due motivi essenziali: 1- Nagisa è
chiaramente comunista, o almeno così dice, e non conosco giornali giapponesi
comunisti (magari non esistono nemmeno) 2- Il colore del comunismo è, come
tutti sanno, il rosso, che è anche il colore del sangue, dato
che non esiste un riferimento a Nagisa che non
finisca per essere o rosso o nero. Questa la ragione per cui non potevo cambiarlo. Chiedo ancora umilmente perdono. ^^ Ci
vediamo sabato prossimo!
Reviews:
Fredryck: ^///^ Io arrossisco e ti
ringrazio, ma non starai esagerando? ^^
Mirtilla: Il manga è veramente molto, molto bello,
sono d’accordo con te. Il mio unico rammarico è che dovremo aspettare più di un
anno per vedere Ai su carta… Ma ne vale la pena!
Grazie per i complimenti
MelanyHolland: La mia storia all’altezza
di un vero giallo? Io non posso non ringraziarti, ma sei sicura di aver letto
proprio la mia storia?^^’’ Sono contenta che BloodyMary
ti piaccia come personaggio, sai, in realtà è venuta
fuori da un mio sogno…^^’’ Spero che non sia una MarySue!
Ginny85: Bè, non sono
proprio sicura che sia un trattato di filosofia, a me sembrava
quando lo scrivevo, ma se così fosse, sono contenta che ti piaccia (siamo in
due ^^). Per quando riguarda Conan… Uhm, Ai è la
protagonista assoluta, ma stai tranquilla, dubito che Conan
si lascerà rubare la scena tanto facilmente ^_- E per BloodyMay,
credo che dovremo chiedere direttamente a lei… Ma non è così facile reperirla…^_- Giudica tu da questo quarto capitolo ^^
Preview:
«Di niente, Sherry»
«Che ci fai qui, Conan-kun?»
«Ciao, Gin»
«Della mia migliore amica avevo una grande fiducia»
Ai gettò il giornale nel cestino della spazzatura, quindi si sistemò un
capello ribelle della parrucca davanti allo specchio
Polizia scopre
un corriere di droga.
Arrestato un uomo
incensurato. Trasportava tre chili di eroina.
Ieri mattina, grazie a una
telefonata anonima, la polizia ha fermato un sospetto sullo Shinkansen
Tokyo/Osaka. Portava con sé tre chili di eroina,
nascosti nelle cuciture della giacca. I suoi documenti, appartenenti ad un
incensurato, sono risultata falsi. L’uomo, ora in
stato di fermo, si è avvalso della facoltà di non rispondere. Le indagini per
accertare la sua identità sono già iniziate. Si pensa che il corriere facesse capo ad un’organizzazione, forse addirittura ad una yakuza. Infatti, secondo alcune
indiscrezioni, assieme alla droga avrebbero trovato anche un cd contenente
informazioni compromettenti. L’ispettore Megure,
incaricato del caso, non ha rilasciato dichiarazioni.
Ai gettò il giornale nel
cestino della spazzatura, quindi si sistemò un capello ribelle della parrucca
nera davanti allo specchio. Si era rimessa il travestimento della prima volta,
visto che nessuno l’aveva riconosciuta. Dopo la conversazione avuta con BloodyMary, si sentiva piuttosto apatica, senza voglia di
fare alcunché. Ecco perché non aveva
ideato un nuovo personaggio in cui camuffarsi. Osservò l’orologio da polso:
le quattro e cinquantanove. Uscì dal bagno per avvicinarsi al distributore
automatico. Nella direzione opposta veniva Nagisa,
anche lei vestita come la volta precedente. Tra le labbra rosse teneva stretta
una sigaretta.
«Scusi, ha da accendere?»
le chiese una volta che furono faccia a faccia.
«Si, aspetti» Ai finì per
non restare troppo sorpresa dal fatto che l’avesse riconosciuta all’istante.
Frugò nella borsa un istante, per tirare fuori un accendino che passò alla
rossa. «Ecco»
BloodyMary lo prese. «Grazie» Lo
avvicinò alla sigaretta, per accenderla, con le mani a coppa. «Fingi di far
cadere a terra le monete mentre prendi un caffè» le sussurrò mentre faceva
comparire la fiamma arancione.
Ai si voltò verso il distributore automatico,
tenendo la grande borsa nera appesa solo per una
parte, e aprì il portafoglio. Con un gesto che cercò di eseguire nel modo più
naturale possibile, lo piegò lateralmente, facendo uscire le monete, che
caddero a terra tintinnando come le campanelle durante l’eucaristia. Si chinò a
raccoglierle, imitata da BloodyMary, che l’aiutò.
«Grazie» disse Ai, infilando
alcune monete del distributore e selezionando la voce caffè senza zucchero.
Mise le altre di nuovo nella tasca del portafoglio, chiudendolo e riponendolo
al sicuro nella borsa. Nella mano destra, quella nascosta, teneva stretto il
foglio che BloodyMary le aveva passato
fingendo di aiutarla nella raccolta.
«Di niente, Sherry» le sussurrò restituendole
l’accendino e continuando per la sua strada.
Ai si sistemò precisamente davanti alla macchinetta,
fingendo di aspettare il caffè, mentre in realtà cercava di leggere il
foglietto, avvolto da un biglietto per una partita di basket che iniziava alle
sei di quello stesso pomeriggio, nel quartiere di Shimamoto.
“L’Organizzazione sta
ricattando il proprietario della squadra Kitagawa per
una questione di partite truccate e pilotate. Dato che non si decide a pagare
hanno intenzione di uccidere uno dei giocatori durante la partita di stasera.
Ascolta, ho un piano.
Dato che ci sarà anche Gin, è
l’occasione giusta per ucciderlo e far incolpare il cecchino incaricato di
uccidere il giocatore. Gin non sarebbe dovuto venire, ma io gli ho detto che ti avevo
incontrata e che ci saresti stata anche tu. Ti prego,
fammi da esca; ti prometto che Gin non riuscirà nemmeno a vederti.
Aiutami, Shihochan,
e perdonami.
Ti voglio bene”
Terminata la lettura, Ai tremava.
Tremava dalla paura di doversi esporre così tanto. Tuttavia, l’avrebbe aiutata.
In fondo, non le importava molto se Gin fosse riuscito a
ucciderla oppure no. Gli era sfuggita così tante
volte, e aveva toccato la morte altrettante volte, che una in più o in meno non
faceva nessuna differenza. Per le persone che amava, non aveva mai avuto paura
di morire. Rischiare di essere scoperta e dover vivere nel terrore, era una
prospettiva che trovava molto più spaventosa. E
questa, purtroppo per lei, era una delle poche cose che aveva in comune con sua
sorella Akemi.
La partita iniziava alle sei. Significava che aveva
il tempo di passare da casa, da casa sua, a prepararsi. I poeti dell’estetismo,
non dicevano forse di vivere intensamente da giovani per poi lasciare un bel
cadavere? Perciò non era il caso di mostrarsi a Gin
con una tuta da lavoro, come l’ultima volta.
***
BloodyMary aveva terminato la sigaretta
sulla porta del magazzino Beika, perciò, appena
uscita, la spense per terra sotto il tacco dei suoi
lunghi stivali neri. Si toccò le labbra, controllando che il rossetto non fosse
scomparso. All’improvviso una palla da calcio le passò a pochissima distanza
dal volto, fischiando. Lei si bloccò per lo spavento, sentendo il pallone
sbattere contro la porta. Per lo spostamento d’aria, il nastro nero che le
teneva stretti i capelli in una coda bassa si sfilò,
scivolando dolcemente a terra. Davanti a lei, un bambino con gli occhiali,
colpevole, la stava guardando.
«Scusi» mormorò.
«Non mi sembra il caso di giocare in questo posto»
disse gentilmente BloodyMary, accarezzandogli la
testa come se fosse un cane. «Potresti far del male a qualcuno»
«Ha ragione» convenne lui, liberandosi dalle sue
carezze. Andò a riprendere il pallone e poi le passò il nastro che raccolse da
terra. «Ecco. Scusi ancora»
«Sei proprio ben educato»
sorrise lei riprendendolo e infilandolo con noncuranza nella tasca della
minigonna.
«Fai attenzione, mi raccomando» Quindi, con un cenno
di saluto, si voltò dirigendosi verso l’entrata della metropolitana.
«Si, lo farò» sorrise Conan accendendo il radar che aveva negli occhiali. Ora,
grazie alla ricetrasmittente che le aveva nascosto nel
nastro, poteva controllare tutti i suoi movimenti. Sapeva che Haibara non avrebbe approvato la sua decisione, ma non gli
importava. Più di una volta era andato contro il suo consenso e lei, alla fine,
aveva dovuto ammettere il suo torto. Voleva aiutarla anche in questa occasione. Però non perché si
sentisse in colpa per la morte della sorella, o perché lei fosse l’unica a
poter produrre l’antidoto. Voleva salvarla perché era lei. Non era forse
una ragione più che sufficiente?
Seguì la rossa fin in metropolitana, ma non riuscì a
prendere il suo stesso treno, anche se potè
riconoscere la linea, quella per Shinjuku. Poco male,
avrebbe aspettato il treno dopo.
«Che ci fai qui, Conan-kun?» Lui si voltò. Dalla parte opposta stavano
scendendo Ran e Sonoko, la quale portava sotto
braccio parecchi sacchetti. Si era dimenticato che quelle due era andate a fare shopping, nel pomeriggio, e si era anche
dimenticato che per tornare a casa Sonoko doveva prima prendere la linea per Shinjuko, scendere dopo due fermate e prendere la
coincidenza per Sumamoto.
«Niente» rispose lui prontamente, il pallone stretto
in mano. «Giocavo»
«La metropolitana è un posto pericoloso» Ranlo prese per mano. «Torniamo a
casa, avanti»
«Ma… ma…»
«Perché non fai un salto a
casa mia?» propose Sonoko. «Così ti faccio vedere la mia nuova camera»
«Oh, bè… C’è anche Conan-kun…»
Sonoko gli scoccò una strana occhiata. «Può giocare
in giardino, almeno non fa danni»
«Allora… Va bene» Ran sorrise.
Aveva ancora un po’ di tempo, prima di tornare a casa
per preparare la cena a suo padre. «Ringrazia, Conan-kun»
«Grazie, Sonoko-neechan»
disse lui tra i denti. Così non sarebbe più riuscito a seguire i movimenti di BloodyMary.
Seduto sul treno sulle gambe di Ran,
che lo teneva stretto per evitare che scappasse, come al suo solito, poteva
solamente ascoltare i suoni attutiti che provenivano dalla ricetrasmittente. Potè sentire l’altoparlante di una fermata, ma non riuscì a
distinguere quale.
«Ciao, Gin» le sentì dire. «Allora, è tutto a posto
per l’operazione OffenseCharging?»
Conan suppose che BloodyMary
stesse parlando al telefono, poiché non riusciva a capire le risposte di Gin. E
si che la sua voce fredda gli era rimasta così
impressa in mente. «Verrà, verrà» continuò lei. «Ma sarò io ad ucciderla, spiacente» Il tono scherzoso fece
arrabbiare Conan più di quanto non fosse già. Come
aveva potuto provare compassione per lei? «Piuttosto, uno dei verdi vale
l’altro, vero? Ricorda, deve ucciderlo dopo che sarà arrivata
Sherry» disse ancora BloodyMary. «Mi sto già dirigendo sul posto, ci vediamo là. Si, si, ciao»
Prima che le batterie del radar si scaricassero, sentì un altro altoparlante,
purtroppo, senza riuscire a distinguere la stazione o la destinazione, come il
precedente.
Non aveva molte informazioni in mano, ma doveva
assolutamente riuscire a scoprire dove fosse il luogo
in cui avevano intenzione di ucciderla. Un luogo nascosto, come il porto, lo
stesso della sorella? Oppure un edificio abbandonato,
come l’ultima volta? Non aveva molte informazioni in mano. Cosa
significava la parola “OffenseCharging”?
E uno dei verdi da uccidere, oltre adHaibara? Chi erano “i verdi”?
Forse una banda rivale, opposta all’Organizzazione che aveva il nero come colore?
Accidenti! Non sapeva nemmeno quanto tempo aveva a disposizione! Poteva solo
aspettare e ragionare, stringendo ancora di più la palla da calcio che teneva
fra le mani.
***
Le tribune della palestra erano gremite di tifosi,
mentre nei corridoi superiori passavano solo poche persone, la maggior parte
delle quali ritardatari che cercavano i posti assegnati. Ai,
ritardataria come loro ma niente affatto interessata ai posti, passava
proprio per quella zona solitaria. Il caos era tale che Ai non dubitava che
l’Organizzazione l’avrebbe fatta franca anche questa volta. Chi sarebbe
riuscito a sentire uno sparo in mezzo ad una simile confusione? Si domandava
piuttosto come potessero riuscire a colpire un giocatore, dato
che questi si muovevano in continuazione. Tuttavia, non era una cosa che
la preoccupava particolarmente. Se davvero Nagisa
fosse riuscita ad uccidere Gin, la partita sarebbe stata interrotta ancora
prima che il cecchino incaricato avesse una buona occasione
per sparare.
Si chinò un attimo a riallacciare una delle stringhe
delle sue scarpe da ginnastica, che le si erano
slacciate. Quando rialzò lo sguardo, notò una striscia di capelli rossi che si infilava nel bagno qualche metro davanti a lei. Doveva
forse seguirla? Senza travestimento si sentiva così nuda… Così indifesa… Calcò
ancora di più il basco panna che portava a nascondere,
almeno parzialmente, il viso. Bene, era ora. Aprì lentamente la porta del
bagno, trovandolo molto più pulito dei soliti. Se non
altro, non sarebbe morta nella sporcizia.
BloodyMary era in piedi di fronte al
muro, in fondo al bagno, e le voltava le spalle. «Sono contenta che tu sia
venuta, Sherry» Aveva le braccia piegate, come se tenesse la piccola borsa nera
all’altezza del seno, per cercarvi qualcosa. «Sapevo che non mi avresti delusa» Lasciò cadere la borsa a terra e si voltò di scatto.
Tuttavia, prima che fosse ancora totalmente girata, Ai aveva
estratto la sua automatica che portava nascosta sotto la minigonna a pieghe di
camoscio e aveva sparato contro la revolver che teneva in mano, costringendola
per il contraccolpo a lasciarla cadere. La revolver
rimbalzò a terra, rompendo una delle mattonelle bianche del bagno, accanto al
proiettile che l’aveva colpita.
BloodyMary si appoggiò al muro. «Vedo
che avevi molta fiducia nella tua migliore amica»
Ai stava con la pistola
puntata contro il suo petto, il braccio teso e fermo, le gambe leggermente
divaricate, la destra di qualche centimetro più avanti rispetto alla sinistra.
La posizione del killer. «Si…» mormorò lei. «Della mia migliore amica avevo una
grande fiducia» Alzò il braccio e sparò un secondo
colpo. Questo si infranse contro il muro formando una
ragnatela di porcellana attorno al foro, e tagliando una guancia a BloodyMary.
«Come mai non ti esce sangue?» chiese dolcemente Ai.
«Forse perché quella che stai indossando è una maschera?»
BloodyMary non rispose, ma iniziò ad
osservarla con un’espressione arrabbiata e seccata.
«Non sono così scema come pensate»
proseguì allora Ai. «La scrittura del biglietto era di Nagisachan,
non vi erano possibilità di errore, ma la persona che
me lo ha consegnato no. Non era lei» Anche la sua
espressione si fece più dura. «Avanti, voglio sapere chi sei»
«E va bene» Si levò la
maschera e la parrucca, rivelando una chioma di capelli biondissimi, tenuti
insieme da un elastico in una coda bassa, e uno sguardo azzurro e freddo. Il
sorriso sulla sua bocca si fece ironico. «Come hai capito che non ero BloodyMary?»
«Nagisachan… Non mi
avrebbe mai chiamato Sherry…» Vermouth! La donna cha aveva di
fronte non poteva essere altri che lei. La donna di
cui aveva tanta paura. Il braccio che teneva ancora puntata
la pistola tremò leggermente, ma Ai si morse un labbro e si impose di tenere
duro. Era venuta in quel posto per uno scopo e non si sarebbe
fatta uccidere prima di averlo ottenuto. Nonostante
i brividi che le attraversavano tutto il corpo, giungendo fino al cuore, che
batteva più forte dei tamburi dei tifosi, doveva resistere. Essere
coraggiosa.
«Avrei dovuto immaginarlo…» commentò sorridendo
Vermouth. «So, you’re more brave that I can imaged. The questionis: why? Perchè sei venuta, sapendo che era
un piano per ucciderti?»
«Voglio sapere dov’è Nagisa»
Ai strinse ancora di più la mano sulla pistola, visto
che le sue mani sudavano. Era stata lei a chiederle di aiutarla. Se fosse stata uccisa come traditore, non avrebbe mai potuto
perdonarselo. Così come non riusciva a perdonarsi la morte della sorella.
«Non preoccuparti» mormorò Vermouth. «Come sai, lei adora uccidere» Il sorriso divenne ancora più
sadico. «Può essere ancora addestrata, al contrario di te» Ne parlava come se
fosse una cane, che dovesse obbedire a qualunque
ordine dell’Organizzazione. Che schifo! La cosa più
incredibile era che, lei lo sapeva, a Nagisa andava
bene così. Non era riuscita, o forse, non voleva
riuscire, a farle cambiare idea. E adesso, cosa doveva
fare?
«Come diceva il biglietto, noi
siamo qui per uccidere uno dei giocatori del Kitagawa»
cominciò Vermouth, togliendosi il nastro e iniziando a passarsi le lunghe dita
fra i fili oro. «Hai due possibilità. La prima è uccidermi adesso che ne hai
l’occasione, e salvare il giocatore. Non puoi risparmiarmi, perché non ci
metterei molto a recuperare un’altra revolver e
ucciderti» Sbadigliò. «La seconda è scappare e lasciarlo morire» Ai respirò pesantemente. «So, Sherry? Tell me, what’s your
choice? If you survive, you’ll see again “cool guy”…»
Ai la guardò con un’espressione stupita. Quindi, sapeva? Lei sapeva? O aveva
solo tirato ad indovinare? Eppure, anche quella donna,
sull’autobus, aveva chiamato Conan “coolguy”… Sospirò. Nagisa aveva ragione, lei aveva trovato una ragione per
vivere e Kudo, sicuramente, ne faceva parte. Tuttavia, se l’avessero uccisa adesso, non avrebbero avuto
nessun collegamento. Non ve ne erano. Non potevano
essercene! Una vampata di calore le salì fino al viso.
«Vermouth…» disse Shiho.
«Pensi davvero che sacrificare una persona per sopravvivere mi farebbe sentire
meno in colpa rispetto a uccidere te?» Tirò indietro
il cane.
***
Era giugno e le giornate iniziavano a essere più lunghe rispetto al solito. Ran
e Sonoko si erano sedute quindi in giardino e, mentre chiacchieravano, il tempo
passava velocemente. Ed erano ormai le sei di sera.
Davanti a loro, Conan lasciava palleggiare il pallone
sulle ginocchia, riflettendo. Non era riuscito a trovare un collegamento fra
tutte le sue informazioni e il puzzle della sua mente restava
incompleto. Lo sentiva, non c’era più molto tempo. In
fretta, ancora più in fretta! Per la frustrazione, faceva molti errori e la
palla gli scivolava spesso, rotolando via. Mentre la
recuperava per l’ennesima volta, gli capitò di ascoltare la conversazione delle
due.
«Mentre venivamo qui, ho
visto un sacco di gente» stava dicendo Ran. «Come
mai?»
«Oh… C’è una partita di basket nella palestra qui
vicino» rispose noncurante Sonoko. «Kitagawa contro…
Una squadra che non mi ricordo»
«Un tempo, avresti saputo anche i nomi di giocatori,
visto che la maggior parte sono ragazzi carini» rise
leggermente Ran. «Si vede proprio che vuoi bene a Makoto»
Sonoko avvampò, ma non se ne vergognò affatto. «Lui
vale mille giocatori di basket!»
Conan prese la palla in mano,
bloccandosi. Il basket? Un momento… L’OffenseChargingera… Lo aveva sicuramente
sentito, da qualche parte… Ma certo! Sfondamento! Un fallo del basket! «Che colore ha la squadra del Kitagawa?!» esclamò rivolto a Sonoko.
Lei si spaventò. «Il… Il verde, mi pare…»
Conan, tenendo
la palla in mano, corse via verso il cancello d’entrata, non badando affatto ai
richiami di Ran che gli urlava «Conan-kun!
Dove vai?!»
Come aveva fatto ad essere così stupido! Lo aveva
sentito sul giornale, di quel processo per doping che aveva avuto il presidente
del Kitagawa. Finora, non erano emerse prove a suo
carico, ma il giudice non aveva ancora emesso una condanna definitiva. Secondo le sue deduzioni, quelle prove potevano benissimo essere in
mano all’Organizzazione, che ora ricattava il presidente minacciandolo di
consegnarle al pubblico ministero, se non avessero avuto ciò che chiedevano.
Soldi, probabilmente. Era già capitato. Lo aveva visto lui stesso, con i suoi
occhi, la prima sfortunata volta in cui li aveva incontrati. E
poiché il presidente tergiversava le consegne, sperando che le accuse cadessero
nel frattempo e che il processo si chiudesse prima di dover pagare,
l’Organizzazione aveva deciso di forzarlo uccidendo uno dei giocatori della sua
squadra, mostrandogli quanto facevano sul serio. La partita iniziava proprio
alle sei. Correndo così, sarebbe arrivato dopo il fischio d’inizio. In tempo!
Doveva arrivare in tempo per impedire
all’Organizzazione di compiere il delitto e per… per salvare lei!
Reviews:
JalyChan:
Non preoccuparti ^^ A me fa piacere se recensisci ogni capitolo, ma la cosa più
importante è avere la tua opinione, anche se tardi ^^ E poi, contro le cause di
forza maggiore si può fare ben poco… ù_ù… Davvero ti
hanno fatto venire le lacrime agli occhi? E io che
pensato che avrebbero solo fatto sbadigliare…^^’’ meglio così! Sono contenta
^///^ Era adorabile quella scenetta, vero? Anch’io ho
riso tantissimo! ^_^ E poi, secondo me, andrebbe così anche nella “realtà”…^^ Bè, riguardo a quello spoiler…
Certo che Gosho ci ha proprio fregato per bene,
stavolta! Vedremo cosa tirerà fuori dal resto! Io ho già
paura…
Ginny85: La mia fic ti
rilassa? Bene, sono contenta ^^ Almeno ha una sua
utilità! Ti chiedi come faccio? Mah, me lo domando anche io… ?_? Sarà che sono
sempre molto autocritica con le mie fic e mi sembrano sempre venute malissimo…^^ Pensa che questa
all’inizio doveva essere introspettiva, invece è diventata così… :-P Diciamo
che leggendo X delle CLAMP (altro argomento molto allegro) ho scoperto di non
condividere il loro punto di vista e l’idea che mi sono creata l’ho messa in
questa storia… E sai cosa ti dico? Ho scoperto che anche a me piace questo
genere di fic! ^_^ Perciò sono superfelice se dici
che è venuta bene! Shinichi non potrebbe fare nulla
senza Ran, ma la cosa è reciproca ^///^ (mio
malgrado, devo ammettere che sono adorabili…ç_ç) E BloodyMary… La risposta è in questo capitolo, credo ^^ Ah,
un’ultima cosa… Sono io che ringrazio te della recensione ^///^
Mirtilla: Non preoccuparti, come ho già detto anche
a JalyChan, ciò che mi importa è avere la vostra opinione, non importa il quando
^^ (tanto, non credo che diventerò vecchia prima di riceverla, no?^_-) E so
bene quanti problemi può dare un pc… ù_ù ^///^ Grazie per i tuoi complimenti, sai, io adoro i
gialli e non posso davvero credere che la mia storia abbia una parvenza di
giallo…^^’’ E meno male che alla fine le citazioni che ho fatto non vi sono
risultate noiose ^^
Preview (per il prossimo e ultimo
capitolo, sabato prossimo):
La partita era iniziata da pochissimo tempo quando Conan arrivò alla
porta della palestra, affannato per la corsa, con il sudo
La partita era iniziata da pochissimo tempo quando Conan arrivò alla porta della palestra, affannato per la
corsa, con il sudore che gli appiccicava i ciuffi castani sulle tempie. Non si
fermò nemmeno un minuto a prendere fiato. Grazie alla sua bassa statura riuscì
a passare inosservato alla biglietteria, dove vi era ancora una coda
interminabile per i biglietti, e ad arrivare fino a bordo campo, scavalcando le
guardie che controllavano la porta inferiore a destra, poiché quelle erano totalmente
concentrate sulla partita. Davvero un buon lavoro, non c’è che dire. Non si
poteva biasimarle nemmeno troppo, in fondo. Il loro lavoro era proteggere i
giocatori dai tifosi, non dai killer.
Il parquet tremava leggermente sotto i colpi dei
palleggi esperti, mentre Conan, cercando di
dimenticare la confusione dei tifosi che gli entrava nelle orecchie facendo
confondere le sue cellule, osservava noncurante il campo, dove dieci giocatori
bianchi e verdi si sfidavano a grande velocità. Individuare Ai, specie se
travestita, in mezzo alle tribune sarebbe stata un’impresa degna di Superman,
perciò Conan optò per sventare prima l’omicidio del
giocatore. In fondo, quella situazione avrebbe portato la chiamata della
polizia e all’Organizzazione sarebbe convenuto scappare e lasciare stare Haibara.
Conan era esperto di calcio, non
di basket, ma capiva che in entrambi gli sport era molto difficile che un
giocatore rimanesse fermo tanto a lungo per permettere al killer di sparare,
senza contare che questi avrebbe dovuto avere una posizione che gli permettesse
una rapida fuga. Gli unici immobili erano quelli seduti in panchina, ma questa
era coperta da una vetrata di plastica scura che impediva la visuale da
qualunque lato della palestra, tranne che dal campo, perciò era impossibile
colpire qualcuno seduto.
Doveva scoprire il momento in cui in campo tutti i
giocatori si sarebbero fermati per un tempo sufficiente. Paragonando i due
sport, quale poteva essere un momento in cui i calciatori, tralasciando il
portiere, restavano fermi? Nei rigori o nelle barriere. Cosa portava ai rigori
e alle barriere? I falli. Conan cercò di ricordare.
Esistevano anche nel basket delle specie di rigori? Rifletti, rifletti… Si,
esistevano! Quando un giocatore faceva fallo su un altro mentre quest’ultimo tirava. Si chiamavano “tiri liberi”, se non
ricordava male. In cosa consistevano i tiri liberi? Conan
osservò le linee colorate che attraversavano il parquet chiaro. Il giocatore
che aveva subito fallo si disponeva sulla lunetta, con gli altri attorno,
fermi, che aspettavano il tiro. Nessuno poteva intervenire per bloccare la
palla. Tutti fermi, immobili.
Osservò il pubblico. Durante il primo dei due tiri
liberi, sarebbe stato sicuramente silenzioso, ma se il giocatore avesse
segnato, dalle tribune sarebbe partito un boato spaventoso. E a quel punto, chi
avrebbe sentito lo sparo? E mentre tutti avrebbero cercato di capire perché uno
dei giocatori era caduto a terra, il killer sarebbe scappato indisturbato.
Guardò la lunetta del campo assegnato nel primo tempo al Kitagawa.
Colpire il giocatore che tirava era la mossa migliore, ma da dove? Conan alzò lo sguardo sempre più in alto, fino ad arrivare
alle vetrate semicircolari giusto sotto il tetto. Si mise una mano davanti agli
occhi, accecato. Il sole stava tramontando giusto da quella parte. Premette il
pulsante sui suoi occhiali, quello che gli faceva da binocolo elettronico, e
avvicinò lo sguardo. Tra la luce rosso fuoco del sole calante, poteva notare
una figura nera, col fucile puntato verso la lunetta.
L’arbitro fischiò, assegnando due tiri liberi al Kitagawa. Come lui aveva anticipato, il pubblico si fece
silenzioso, nemmeno un respiro interrompeva quella quiete che si era
improvvisamente creata. Il giocatore numero 4 si posizionò sulla lunetta,
mentre l’arbitro gli passava la palla. Gli altri si disposero nelle posizioni a
loro assegnate. Conan poggiò a terra il suo pallone.
Doveva lanciarlo subito, a costo di essere scoperto.
Il giocatore fece due palleggi, quindi afferrò la
palla e la sistemò sopra la testa con un movimento rapido, pronto a tirare.
Prima che potesse farlo, però, uno sparo proveniente dal corridoio sopra le
tribune attraversò la palestra, infrangendosi contro la vetrata sottile del
pannello elettronico segnapunti, agganciato sulla parete opposta, infrangendola
e interrompendo il flusso di corrente. Senza pensarci un attimo, Conan attivò le sue scarpe da ginnastica e lanciò una
cannonata contro la finestra dietro cui vi era il killer, rompendo in mille
pezzi il vetro e colpendo l’uomo, che volò all’indietro e sparì dalla vista,
probabilmente perché cadde dalla piattaforma su cui si era sistemato.
Fu solo allora che Conan
si voltò nella direzione in cui tutti, pubblico, arbitro e giocatori guardavano
in religioso silenzio, sopra le tribune. La vide. Una ragazza, ancora con la
pistola puntata verso la parete opposta, col viso semicoperto dalla frangetta
bionda e dal basco panna. «Haibara…» Se lei non
avesse sparato, impedendo al giocatore di tirare, sarebbe forse riuscito a
colpire il killer?
«Conan! Cosa sta
succedendo?» Dalle tribune, verso di lui era appena sceso un uomo, seguito da
una giovane e bella donna.
«Aah!» esclamò Conan con
un’espressione innocentina in viso. «Avete visto
tutti che bravo il tenente Takagi, che ha fermato il
killer con una pallonata?» E così dicendo, indicò la vetrata da lui stesso
infranta.
«Che? Quale killer?» balbettò Takagi,
mentre i giocatori, un po’ stravolti, si dirigevano verso di lui. «Ma non c’era
una ragazza…?»
«No, c’era un killer là!» ribattèConan, lasciando perdere i gesti bambineschi. «Andate
a controllare»
Takagi non avrebbe mai potuto
immaginare che dietro l’aspetto di ConanEdogawa si nascondesse in realtà ShinichiKudou, ma ormai sapeva che si poteva fidare delle
deduzioni di quel bambino. «Sato, io vado a
controllare dietro la palestra» disse rivolgendosi alla giovane donna che lo
seguiva. «Tu chiama i rinforzi» Si fece largo tra la folla che, dopo il momento
di stupore silenzioso, si stava radunando, numerosa e rumorosa. «Permesso,
polizia»
Conan passò sotto le gambe di
tutti, attento a non farsi calpestare, e si diresse nella direzione opposta
alla fiumana, nel corridoio sopra le tribune. Naturalmente Haibara
era sparita chissà dove. Su questo non la poteva certo biasimare, ma sparare di
fronte a tutti! Con il suo vero aspetto! Sebbene avesse funzionato, non era
stata una grande idea.
Dalla porta del bagno uscì una donna. Anche lei
aveva i capelli biondi, ma molto più lunghi di quelli di Haibara;
il comportamento era più sensuale. «Coolguy» lo chiamò vedendolo. «Dovresti andare» Indicò la porta
di sinistra, socchiusa. «Non dirò nulla, tranquillizzala… Ripago solo il mio
debito»
«Chi sei?» disse pericolosamente Conan.
Non conosceva quella donna, anche se gli sembrava di averla già vista da
qualche parte. Strano che lui non ricordasse un simile particolare. Forse,
quella volta, era concentrato su qualcosa di molto più importante.
«A
secret makes a woman woman» rispose
lei sorridendo. Lo superò e lo lasciò indietro. Purtroppo, questa
volta lui non aveva il tempo di ragionarci sopra.
Ai era scappata per la porta di sinistra, ma poi
aveva usato le scale di emergenza, finendo per ritrovarsi nel vicolo poco
frequentato dietro la palestra. Non le importava, poichè
la cosa che le premeva di più era allontanarsi prima che Shinichi
potesse rintracciarla. Vermouth sapeva del loro legame, ma finora non aveva
rivelato nulla, perciò vi era la possibilità, seppur remota, che se l’avessero
uccisa adesso, da sola, lui si sarebbe salvato.
Quasi con un gesto involontario risistemo meglio il
caricatore della sua pistola automatica, che teneva ancora stretta nella sua
mano sudata. Che caldo che aveva! Alzò lo guardo davanti a sé, ma non ebbe il
tempo di capire chi le fosse davanti, perché sentì un dolore lancinante alla
spalla destra, giusto all’incrocio delle ossa. Il respiro divenne ancora più
affannoso, mentre il dolore si spandeva a macchia d’olio su tutte le singole
fibre del suo corpo. Le tempie pulsavano incessantemente, mentre il sudore che
colava dalle ciocche bionde le faceva bruciare gli occhi. Una larga macchia si
allargò da sotto la sua maglietta panna, scivolando lentamente lungo il braccio
fino alla pistola, e gocciolando a terra come un rubinetto che perde.
«Ti ho spezzato le ossa della spalla» disse la voce
fredda dell’uomo che le stava di fronte. «Non riuscirai ad usare quell’arma»
«Mi hai risparmiato la fatica di farlo» sorrise lei
cercando di rimettersi in posizione eretta, poiché il dolore l’aveva fatta
incurvare.
«Sembra che la morte non ti spaventi affatto,
Sherry» replicò lui, avanzando di un passo verso di lei, ancora con la pistola
puntata nella mano sinistra.
«Temere la morte è inutile. Quando ci sarà lei, non
ci sarò più io…» commentò semplicemente lei.
«Allora, perché non hai lasciato che ti uccidessi
tempo prima, in quel bellissimo scenario innevato? Non è paragonabile a questa
viuzza sudicia…»
«Ti rivelerò un segreto…» mormorò scherzosamente Ai.
«A me la neve non piace» Intanto, invece che tenersi la spalla ferita, preferì
spostare la mano sinistra accanto alla destra.
«Se preferisci così, ti accontenterò» concluse lui.
«Allo stomaco, come tua sorella…»
E poi, lo sparo.
Sangue scuro schizzò a terra dalla gamba sinistra,
sporcando anche i pantaloni neri con invisibili macchie. Ai strinse la pistola
con la mano sinistra e, ignorando il dolore che le impediva totalmente di
muovere il braccio destro, li alzò entrambi e mirò, aiutandosi con l’arto sano.
Mirò alla pistola che l’uomo aveva abbassato, sorpreso da quella pallottola che
lo aveva colpito alla gamba. Sparò, così come aveva fatto con Vermouth, e
riuscì a disarmarlo.
Lui non cadde nemmeno a terra, nonostante il
proiettile infilato nella carne. Anzi, sorrise.
«Gin!» esclamò dietro di lui la voce che aveva
sparato. Era Nagisa, con i capelli rossi spettinati,
e un vestitino rosa con i bottoni non ancora allacciati del tutto. «Ci siamo,
finalmente»
«E’ stato un mio errore» mormorò Gin voltando
leggermente il viso verso di lei. «Avrei dovuto ucciderti direttamente in
ospedale. Avrei dovuto terminare il lavoro che avevo fatto investendoti»
«Si, è stato un tuo errore» confermò duramente lei.
«E gli sbagli si pagano»
Il respiro di Ai divenne sempre più rapido e irregolare,
sia per il dolore, che aumentava in conseguenza al maggior tempo che passava in
quella scomoda posizione, sia per le insolite vampate di calore che le
partivano dal cuore, e le annebbiavano la vista, come se fosse in preda alla
febbre.
«Perdonami, Shihochan»
disse Nagisa. «Non volevo usarti così, ma pensavo che
uccidendo Gin, anche per te sarebbe andata meglio…»
«Povera ingenua…» disse Gin, infilando una mano
sotto l’ampio cappotto nero. «Adesso, l’unica cosa che puoi fare, è lasciare
che sia lei…» Tornò a guardare Ai. «Non resisterai ancora per molto… Cosa
aspetti? Hai davanti a te l’assassino di AkemiMiyano»
«Sei proprio scemo» commentò Nagisa.
Ai cercò di rendere il suo respiro più regolare
possibile, mentre stringeva la presa attorno alla pistola scivolosa. Sarebbe
bastato così poco! Tirare indietro il grilletto e sarebbe tutto finito. Il
mondo sarebbe stato liberato da un assassino e lei… Anche lei sarebbe stata
libera. Oneechan non sarebbe morta invano. Intanto i
minuti passavano, e il ticchettio del sangue che colava a terra scandiva i
secondi come un orologio in piazza: ed erano rintocchi rochi, tenui, flebili,
come ovattati fuori dal tempo che dovevano indicare. Uccidi! Uccidi! Uccidi!
Questo sembravano indicarle. Ma prima che le sue dita insanguinate potessero
premere il grilletto, le venne in mente Shinichi.
Avrebbe saputo poi sopportare il suo sguardo accusatore? Lei stessa, avrebbe
potuto guardarsi allo specchio ancora una volta? «La morte è troppo poco, per
te» Lentamente, per limitare al massimo gli effetti di quel movimento, abbassò
la pistola. Ucciderlo avrebbe solo sporcato ancora di più la sua anima. Non le
avrebbe restituito sua sorella.
Con un gesto rapido, Gin estrasse un’altra pistola
da sotto il soprabito nero e sparò con il braccio che Nagisa
puntava verso di lui, sfiorandolo ma aprendole un’ampia ferita dalle nocche
delle dita fin dopo il gomito. Liquido rosso iniziò a colare fuori a guisa di cascatelle, mentre lei tratteneva un gemito, cercando di
non muovere il braccio.
«Hai visto quanto è debole un’amicizia?» mormorò
Gin. «Per una sua debolezza, morirete entrambi»
«Se Shihochan avesse
sparato…» Nagisa sorrise con le sue labbra rosse e
carnose, il sorriso ampio e luminoso di una bella ragazza. «L’avrei uccisa io
stessa» E gli occhi verdi rifletterono ancora una volta i prati di Hokkaido.
«Come?» Gin non capiva il senso di quelle parole.
«Domandati prima perché il cielo è azzurro» scherzò
lei.
Un’altra vampata di calore e due battiti forti. Ai
capì cosa le stava succedendo. Non poteva! Non poteva trasformasi in quel
luogo, davanti a Gin. Doveva andarsene! No, non poteva… Lasciare Nagisa sola? Per salvare lui? Per nasconderlo ancora un
pochino…No! Non sapeva cosa fare. Chi
scegliere? Lei o lui? Lui o lei? E intanto il calore aumentava, e con esso il
dolore, l’ansia, la paura.
«E’ curioso come le persone in fin di vita
straparlino»
«Oh, ma è proprio adesso che io mi sento veramente
viva!» replicò Nagisa. «Io ho solo cose per cui morire,
quindi posso sentirmi libera solo così. Invece, è bene che le persone che hanno
qualcosa per cui vivere, vivano» Abbassò la pistola. «Il passato non può dirci
chi siamo, ma solo chi diventiamo. Vivi, Shihochan,
vivi senza pensare al resto»
Gin spalancò gli occhi insanguinati. Aveva
finalmente capito dove quel discorso andava a parare. Si voltò di scatto, ma
Sherry era già sparita. Non aveva lasciato dietro di sé nemmeno una scia di
gocce di sangue. «Diavolo!» prima che potesse inseguirla, Nagisa
era già comparsa davanti a lui, nuovamente con la pistola puntata, questa volta
con il braccio sinistro. Era infatti ambidestra, proprio perché, un tempo, lo
aveva così tanto ammirato da comportarsi come lui, da diventare addirittura
mancina.
«No, non la ucciderai» gli disse. «E’ ciò per cui
vale la pena morire»
«Spostati, stupida!» gridò Gin. «Ti ammazzo!»
«E’ così che ho dovuto vivere, da assassina» sorrise
Nagisa. «Ma non è così che voglio morire»
***
Qui… Dove… Quando…
Non sentiva più dolore. Non sentiva più caldo. Non
sentiva più niente.
Le voci attorno giungevano confuse, attutite,
lontane. Ai stessa era avvolta da una nebbia gelida, che le permetteva di
vedere solamente qualche metro davanti a sé. Camminava, camminava, senza
giungere a niente, senza sentire il bisogno di fermarsi. Perché fermarsi,
perché proseguire? Non vi erano risposte, solo nebbia e domande.
Poi, la nebbia iniziò a diradarsi, riattivandole la
stanza circolazione e provocandogli brividi in tutto il corpo. Eppure, adesso
vedeva un giardino, illuminato da una dolce luce primaverile. Cos’era quel
freddo che le congelava il respiro in sottili nubi di fumo?
Sdraiata sull’erba verde e umida di rugiada, vi era
una bambina, dai capelli rosso fuoco raccolti in due treccine
alla PippiCalzelunghe.
Sonnecchiava, il viso rivolto verso il sole mattutino.
«Imooto-chan!» Accanto a
lei si materializzò un bambino, leggermente più grande di lei, con due grandi
occhi smeraldo. Probabilmente veniva da quel cottage che era apparso in
lontananza, oltre la nebbia, al confine con l’orizzonte bianco e indeterminato.
«La colazione è pronta!»
Anche lei aprì gli occhi e Ai sobbalzò per la
sorpresa. Gli occhi verdi, profondi e scuri come quelli di Nagisa.
«Spero, Oniichan, che ci siano i sembei!»
Nagisa. Si, quella era lei da piccola. Come aveva
fatto a non riconoscerla prima? E quello doveva essere suo fratello… Non lo
ricordava molto, ma se lei lo aveva chiamato “onii”…
«Bambini, restate lì» Un’altra voce. Una voce questa
volta che Ai riconobbe all’istante. Impossibile dimenticarla. Una voce che
aveva avuto bisogno di sentire, ascoltare, tenere a mente… «Aspettiamo che si
svegli vostro padre, e poi mangiamo in giardino» Akemi,
con i suoi lunghi capelli neri e il suo sorriso luminoso come la lampada che aiuta
i viaggiatori dispersi.
«Ci saranno anche oba-san
e oji-san, vero?» chiese il bambino correndole
incontro.
«Certo, ci saranno anche mia madre e mio padre»
rispose Akemi, abbracciandolo, sempre sorridente.
«Onee-chan…» chiamò
debolmente Ai. «Onee-chan!!» Ma sua sorella
continuava a sorridere a quel bambino, senza curarsi di lei. Le lacrime
iniziarono a scenderle veloci lungo le guance pallide, mentre cercava di
avvicinarsi e vedeva che il mondo spariva e sfocava man mano che la distanza
diminuiva.
«Shiho-chan non c’è?»
mormorò la piccola Nagisa, seduta per terra ad
osservare le gocce stillate lungo i sottili fini d’erba.
«No, lei non c’è» rispose grave Akemi.
«Shiho è ancora viva»
«Perché lei si e noi no?» si domandò il bambino.
«Non è giusto»
«Non è giusto» ripetèNagisa.
«No… Non è vero…» I singhiozzi di Ai soffocavano le
sue parole e rendevano i suoni acidi, terribili. «Io… Non volevo… Non voglio
vivere su di voi…» Nessuno la ascoltava.
«Avete ragione, non è giusto» disse AkemiMiyano.
***
Buio. Dolore. E voci. Voci che venivano dal nulla.
Chi era? Dov’era? Cosa era successo?
Le palpebre dolevano. Erano troppo pesanti per
aprirsi.
«Così mi ha detto che non avrebbe rivelato nulla e
se n’è andata»
«Pensi che fosse dell’Organizzazione e che conosca
il tuo segreto?»
«Forse si. Non so se possiamo fidarci, però… Mi ha
dato questa impressione»
«Come mai?»
«Non saprei dirlo con certezza, ma se quella donna
era veramente Jodie-sensei, allora avrebbe avuto
molte altre occasioni per ucciderci e invece non l’ha fatto»
Voci. Voci fioche e lontane, che, diversamente dalle
altre, si insinuavano nella sua mente debole per il dolore, impedendole un
riposo sereno. Le palpebre diedero un leggero segno di cedimento e lei ne
approfittò per aprirle leggermente e sbatterle, per levare quella patina opaca
che le copriva gli occhi stanchi e doloranti. Riconobbe le figure sbiadite di Shinichi e del Dottor Agasa.
«Ai-kun, ti sei svegliata»
disse quest’ultimo. «Come ti senti?»
Lei girò debolmente lo sguardo, agitando i capelli
biondi. Si trovava sdraiata sul divano, nella casa comoda e familiare in cui
era stata ospitata per tanto tempo. Provò a dire “bene” ma l’aria non le passò
attraverso le corde vocali e la voce non uscì.
«E’ meglio se non ti muovi» continuò Agasa. «Hai una brutta frattura alla spalla, ma per fortuna
niente di mortale. In tre mesi potrai muoverti come prima»
«Ti ho trovata nel vicolo accanto alla palestra,
svenuta» intervenne Conan, visto che lei lo guardava.
«Ti ho portata via in fretta, perché ho sentito dalla strada di fianco la voce
di Gin e non potevo permettere che ti vedesse da bambina»
«Grazie…» mormorò finalmente Ai con voce roca. Alzò
il braccio sano di fronte a lei, osservando la mano. Si sarebbe aspettata di
trovarla ancora macchiata di sangue, invece era bianca e pulita. Piccola.
L’antidoto aveva terminato il suo effetto. Ecco perché tutto sembrava di nuovo
così enorme. «E Nagisa…?»
Agasa scoccò uno sguardo a Conan, poi prese il telecomando e accese la televisione.
- Dopo l’arresto del sospetto – diceva lo speaker. –
La polizia ha trovato nel vicolo retrostante la palestra il cadavere non ancora
identificato di una giovane donna. Dai primi accertamenti sarebbe morta per il
dissanguamento provocato da una ferita d’arma da fuoco allo stomaco. Solo
l’autopsia potrà confermare questa ipotesi – Il viso di Nagisa,
ricostruito al computer, apparve sullo schermo. – Secondo alcuni testimoni
sarebbe la stessa donna incontrata dal corriere arrestato sul treno Tokyo/Osaka
ieri. La tesi più probabile sarebbe quindi un regolamento di conti tra membri
della Yakuza, visto che il presidente del Kitagawa ha confessato il suo legame con una di queste
organizzazioni -
«Non so se sia un bene o un male» disse Conan. «Però adesso la polizia ha già arrestato due membri
dell’Organizzazione e ha iniziato a indagare su di loro»
Ai non rispose. Sentiva solo nausea. Una forte
voglia di sboccare, di vomitare fuori anche l’anima. Dolore, al petto e alla
spalla. E vuoto. Un vuoto immenso in ogni singola fibra del suo essere. Leggere
lacrime cristalline le uscirono dagli occhi verde acqua. Piangere. Solo questo
riusciva a fare? «Devo andarmene…» singhiozzò. Si alzò velocemente, ignorando
la pesantezza delle sue gambe da bambina e il dolore alla spalla ferita,
dirigendosi verso la porta. «Devo andarmene…»
«Dove?» Conan le si parò
davanti. «Con quella ferita non puoi andare da nessuna parte. E non potresti
farlo nemmeno se stessi bene. Non hai altro posto dove andare» Pausa. «Hai solo
noi»
«Adesso si, e non voglio perdervi» replicò al
principio calma Ai. «Guarda cos’è successo!» Indicò la tv che Agasa aveva spento. «Io… Volevo solo vederla e…» I
singhiozzi la facevano parlare a balzi. «Onee-chan…
E’ morta per aiutarmi… Nagisa è morta per aiutarmi…
Tu… Se continui ad aiutarmi… Anche tu…»
«Pensi forse di portare sfortuna?» le chiese Conan serio. «Pensa a me. Dovunque vado muore qualcuno»
«Non è la stessa cosa, stupido» ribattè
secca Ai. «Non ce la faccio più, fammi passare… Non potrei sopravvivere con il
rimorso di aver ucciso anche voi…»
«Ascoltami…» mormorò lui paziente. «Se non rimani
nascosta, quelli dell’Organizzazione potrebbero trovarti… Capire che l’APTX4689
rimpicciolisce… Allora davvero verrebbero a cercare anche me. È questo che
vuoi?»
«No…» Lei scosse la testa. «Però… Se prendessi un
altro antidoto… Stavolta non mi farò convincere, non scapperò… E il tuo
segreto-»
Conan la afferrò per un braccio e
la trascinò vicino allo specchio. «Guarda!» esclamò. «Guarda che cosa ti ha
lasciato Nagisa! Vuoi davvero buttarlo via così?»
Ai rimase immobile ad osservare sé stessa riflessa
in quella superficie liscia. Le sue guance pallide, attraversate da sottili
fili di rugiada. I suoi capelli biondi spettinati e disordinati. La fasciatura
alla spalla destra, che la teneva ferma. Il braccio appeso al collo perché non
si muovesse. La maglietta beige, ancora macchiata di rosso, adesso così grande
da farle da vestito. Gli occhi verde acqua umidi e tristi.
«Tu non capisci… Non capisci…» Ai abbassò lo sguardo
per non guardare la sua immagine riflessa, un’altra sé stessa che non esisteva,
un’illusione. «Loro… Loro mi odiano… Onee-chan, Nagisa-chan, anche suo fratello… Mi odiano perché sono
ancora viva…» I singhiozzi aumentarono d’intensità. «Non ho chiesto io di
rimanere in vita…! Non voglio che mi odino… Non voglio…»
«Come potrebbero odiarti?» Conan
la osservò con uno sguardo stupito.
«I-io… Le ho viste… In
paradiso…»
«Stronzate» la contraddì lui. «Che la tua mente ha creato per lo shock»
Sospirò. «Se tu fossi morta nel pullman, tempo fa, mi avresti odiato?»
«N-no…» Ai gli scoccò
un’occhiata umida sotto la frangia bionda. «Perché avrei dovuto…? Era una mia
scelta…»
«Appunto» continuò Conan.
«Se invece tu fossi morta, io mi sarei sentito in colpa come ti senti tu adesso
per essere sopravvissuta a loro. Però tu volevi farlo ugualmente»
«Io…» Ai lo guardò sorpresa.
Conan le appoggiò una mano sulla
spalla. «Ti hanno salvata perché ti volevano bene, quindi non possono odiarti.
Sono state egoiste. Io non lo sarò, e nemmeno tu. La sola cosa che puoi fare
adesso per loro è vivere» Sorrise. «Vivi, Aichan,
vivi»
Ai si voltò ad osservare lo specchio. Al posto della
sua immagine tremolante, vide una bambina dai capelli rossi rossi,
che sorrideva. Dietro di lei, una bella ragazza dai capelli neri. Anche lei
sorrideva. Sorrisi luminosi, che scaldavano le mani gelide. La nausea era
sparita, e con quella anche il vuoto. Adesso, aveva caldo.
«In certi momenti, mi viene davvero da domandarmi se
sia giusto salvare una persona che vuole morire…» Conan
sorrise. «E tutte le volte la risposta che mi do è “si”, perché si trovano
sempre delle buone ragioni per vivere»
«Spero che non coincidano sempre con le buone ragioni
per morire, vero, Nacchan?» mormorò sottovoce Ai, in
modo che nessuno la sentisse.
«Sono felice che tu sia ancora viva» Conan la abbracciò, lasciando che lei si sfogasse sul suo
petto per qualche minuto, come aveva fatto per la morte della sorella.
«Grazie, Kudou» mormorò
infine, scostandosi da lui e asciugandosi le lacrime con la manica della
maglietta panna. «Ora sto meglio» Sospirò. «E’ vero, non ho altro posto dove
andare… E non posso fare a meno di vivere, perché… Aveva ragione Nagisachan, ho una ragione per vivere…» Sospirò ancora. «Kudou-kun… Anzi, no, Shinichi-kun…
Tu sei quella ragione…» L’ultimoprofondosospiro. «Tu mi piaci…»
«Eh?!» Conan rimase
bloccato, fermo, con gli occhi spalancati dalla sorpresa.
Ai si voltò verso di lui, sorridendo amabilmente.
«Just kidding!»
Note di Akemichan:
La storia è finita! Spero che vi sia piaciuta ^.^
L’ultima scena è leggermente ripresa dall’epilogo
(che logicamente la mediaste ha tagliato è_é) di una
puntata di Conan, non ricordo il titolo… Era quella
allo stadio, dove il cameraman minacciava di uccidere qualcuno se non gli
avessero dato dei soldi… Insomma, per farla breve, Conan
aveva chiesto ad Ai quanto anni avesse, e lei non era riuscita a rispondergli
per tutto il casino che era successo poi. Nell’epilogo lei gli dice “veramente
ho 18 anni… sarei perfetta per te” e lui ci rimane… Ma poi Ai aggiunse “stavo
solo scherzando…” e se ne va, lasciandolo lì come un fesso ^^
Ho ripreso questa scena perché, a mio parere, non
c’era altro modo per finirla ^^
Mini Dizionario:
Immoto: propria sorella minore
Oba: propria zia
Oji: proprio zio
Reviews (a quelle per questo
capitolo, se ce ne saranno, risponderò nell’angolo recensioni):
Mirtilla: Sai, visto che
pensavi alter cose rispetto alla verità, significa che tutto sommato la mia
storia come giallo non era troppo male…^^ meno male, sono contenta ^.^ Grazie
per la recensione, ed eccoti l’ultimo capitolo! Fammi sapere com’è^^
Friedryck: No, Vermouth è l’attrice
bionda che si vede all’inizio della puntata del sequestro del pullman… Se poi
lei e Jodie siano la stessa persona… Su questo punto
non mi esprimo ^_- Già, è l’ultimo, ma scrivere di più sarebbe stato superfluo,
almeno per questo argomento ^^ Spero che ti piaccia la fine e meno male che Nagisa non è una Mary Sue. Grazie della recensione
MelanyHolland:
Se Nagisa non è una Mary Sue, non posso che esserne
contenta, sai, il dubbio rimane sempre quando si crea un personaggio… Grazie
dei tuoi complimenti, non sai quanto mi facciano piacere ^///^ C’è suspence, davvero? Di solito, non riesco mai a crearla…^^ Anche
se i miei sogni non li consiglierei mai a nessuno, tanto sono incasinati! Non
preoccuparti per il ritardo, per me la cosa importante è avere la tua opinione
^^ Spero che questo capitolo ti piaccia ^^