E se poi ...

di Nina Ninetta
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 - Tra questo mondo e un altro per trovare l’universo ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 - Se non altro per vederti andar via ancora ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 - … la paura è sempre quella a vincere … ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 - Tutto è uguale a prima e se come prima mi sentissi inutile ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 - Ho solo tanta voglia di sentirmi viva adesso ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 - Sono solo ali e piume ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 - … ed ecco perché scappo … ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8 - Io non ho mai pensato se … ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9 - Certo che non ha prezzo il tempo passato insieme a spasso (parte prima) ***
Capitolo 10: *** Capitolo 10 - Certo che non ha prezzo il tempo passato insieme a spasso (parte seconda) ***
Capitolo 11: *** Capitolo 11 - E se mai cercassi te … ***
Capitolo 12: *** Capitolo 12 - Tremare come foglie ***
Capitolo 13: *** Capitolo 13 - Tu non puoi far finta che niente sia cambiato ***
Capitolo 14: *** Capitolo 14 - Amore amore amore, è quello che so dire, ma tu mi capirai ***
Capitolo 15: *** Capitolo 15 - Parla di un rumore, prima del silenzio e poi … ***
Capitolo 16: *** Capitolo 16 - Per contenere i sogni tutti dentro ad un cassetto ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 - Tra questo mondo e un altro per trovare l’universo ***


Capitolo 1
Tra questo mondo e un altro per trovare l’universo 
 
“Sono Derek Sheperd e questo è un ottimo giorno per salvare vite”
Il Dottor Stranamore sorrise con gli occhi alla tirocinante che aveva di fianco, il paziente era già disteso e addormentato sul lettino della sala operatoria, tutto intorno il silenzio e i visi dei presenti nascosti dietro a mascherine di un verde pallido.
Eri adorava quel telefilm americano. Aveva iniziato a vedere la prima stagione nel suo paese d’origine, in Giappone, poi trasferendosi in quello di suo padre si era resa conto che mentre da lei stavano trasmettendo ancora i primi episodi, lì erano avanti di diverse puntate. Certo, il doppiaggio nella sua lingua madre era tutt’altra storia e spesso capitava di non riuscire a seguire un discorso troppo lungo e complesso in quell’altra lingua, per fortuna che sua madre lo masticava piuttosto bene e quando poteva, quando il lavoro non la teneva impegnata per troppe ore, si sedeva con lei e le faceva la traduzione simultanea di quello che si stavano dicendo in TV. Solo sul sesso si era imposta il divieto di tradurre, o lo comprendeva da sé o si decideva una buona volta a studiare quella nuova lingua come Dio comanda. Eri però non credeva in Dio, quindi non si faceva neanche il problema di imparare la lingua di suo padre: lo spagnolo.
Aveva già visto quella puntata in cui il neurochirurgo salva la vita di un giovane affetto da tumore al cervello, sapeva anche che dopo quell’operazione sarebbe finito a letto con la sua amata tirocinante che aveva lo stesso cognome dell’ospedale in cui si svolgeva la fiction, mentre il suo personaggio preferito, che manco a dirlo era asiatica come lei e con gli occhi a mandorla come i suoi, si preparava a sposare il cardiochirurgo che per Eri era un gran figo.
In verità i ragazzi non erano ancora un argomento che le stuzzicava la fantasia, nonostante i suoi 15 anni, in generale erano poche le cose che le destavano curiosità. Non si era mai chiesta se il problema fosse il nuovo Paese, dove la gente era tutta cordiale eccetto quelli della sua età. I maschi le stavano alla larga perché era diversa dai canoni di bellezza a cui aspiravano e cercavano in una donna. Le ragazze la guardavano con un che d’interrogativo, erano abituate a vedere orientali dagli occhi a mandorla (e lei ce li aveva), dai capelli lisci e scuri (e aveva anche quelli), con la pelle chiara e lei la pelle chiara non ce l’aveva. Colpa di suo padre. Anzi, di sua madre che si era innamorata di uno come lui.
Ah, ma “obasaan”, la nonna, gliel’aveva detto a suo tempo:
«Troppo diverso da te, nel cuore e nella mente» e “obaasan” aveva avuto ragione, in una maniera differente da quella che aveva inteso con le parole pronunciate, ma aveva previsto che sua figlia avrebbe sofferto d’amore «Tua madre sarebbe morta d’amore senza di te» le diceva lavandole i capelli e la schiena, ma Eri era ancora troppo piccola e immatura per comprendere appieno il significato di quelle parole.
Sentì i passi di sua madre Yumiko, chiuse gli occhi e fece il conto alla rovescia 3, 2, 1 …
«Eri spegni, dobbiamo andare»
«Macchia può venire con noi?»
«No, non può …» la donna si voltò a guardare sua figlia, avevano così pochi anni di differenza che la gente le scambiava per sorelle, ma lei ci teneva a precisare che era sua figlia, o per lo meno lo faceva in questo nuovo mondo dove la gente non la conosceva ed era facile indossare i vestiti di un’altra persona. Lì poteva essere chiunque volesse, una persona senza passato venuta da lontano e con un solo biglietto da visita: il cognome che sua figlia aveva ereditato dal padre.
Non perché fosse una persona famosa lì nel suo paese d’origine, ma semplicemente perché era uno di loro. Quando si era trasferita in quella casa che aveva comprato con i soldi che lo stato giapponese le aveva reso dopo l’incidente mortale in cui il suo innamorato era stato coinvolto, i vicini l’avevano guardata con sospetto, solo dopo aver messo davanti alla porta d’ingresso la targhetta con il cognome Morales si erano tranquillizzati ed erano scesi in strada ad aiutare una donna di trent’anni circa e una ragazzina di quindici a portare gli scatoloni in casa, formando una specie di catena umana su per le scale che terminava direttamente sull’uscio dell’appartamento. Questo non era molto grande, ma ben fatto e suddiviso in due stanze, un bagno e una cucina adiacente al salone, inoltre le due padrone indiscusse avevano fatto di tutto per renderlo accogliente, ridipingendo ogni stanza di un colore diverso. L’unica cosa a cui la mamma di Eri non si era ancora abituata dopo un anno, era il fatto di camminare per casa con le pantofole. Nel Paese in cui era nata e cresciuta una delle abitudini più radicate era di togliere la scarpe all’ingresso e percorrere il pavimento con solo i calzini ai piedi. Lì non poteva farlo, innanzitutto perché il pavimento non era in parquèt e se d’inverno le mattonelle si gelavano, d’estate con la calura lasciava centinaia di pedate che spiccavano fastidiose, quindi il giorno dopo il trasferimento era stata costretta a comprare un paio di ciabatte.
Eri si alzò dal divano in tutto il suo metro e cinquantacinque, porgendo a sua madre Macchia, una cagnolina rachitica che avevano trovato una sera davanti il portone di casa mezza morta per il caldo. L’avevano presa e accudita, innamorandosene senza limiti, confondendo ad un certo punto chi aveva salvato chi dalla solitudine. Macchia era tutta bianca, con una macchiolina nera sul muso, da cui poi era scaturito il nome di battesimo. Yumiko sospirò e le disse che poteva portare Macchia con sé – proprio non resisteva a quelli occhietti castani tenerissimi che la guardavano supplichevoli – a patto che si sedesse sui seggiolini posteriori con lei e la tenesse ferma.
 
E in effetti Macchia andava tenuta bella stretta, poiché viaggiare in macchina le piaceva da matti e per la contentezza si metteva a saltare e scodinzolare davanti alla faccia di Yumiko, tentando di leccarla tutta.
Eri sarebbe potuta andare a scuola anche in autobus, o addirittura a piedi se si avviava per tempo e percorreva a passo spedito gli ottocento metri che la separavano dall’istituto, ma dopo sei mesi di scuola non aveva ancora trovato il coraggio di aspettare il bus alla fermata davanti casa sua, popolata sempre da studenti, troppi studenti, né tantomeno quello di salirvi a bordo e sentirsi gli occhi dei presenti puntati addosso. Yumiko continuava a dirle che era solo una sua impressione, che nessuno le guardava in maniera strana, che anche loro come tutti lì avevano due occhi, un naso e una bocca:
«I nostri occhi sono diversi da quelli degli altri»
«Se li guardi attentamente non sono poi così tanto diversi»
«“Obasaan” mi ha insegnato che è cattiva educazione fissare le persone in faccia»
Ogni volta che sua figlia pronunciava la parola nonna, Yumiko sospirava e non aggiungeva altro. Così, tutte le mattine dei giorni lavorativi accompagnava sua figlia a scuola, con la macchina che aveva comprato usufruendo dei soldi che le erano rimasti dopo aver preso l’appartamento. Avrebbe voluto portare la sua dal Giappone, ma le spese di viaggio le sarebbero costate di più, così aveva comprato una macchina di terza mano, poco costosa, carina e di fabbrica giapponese: una Toyota Yaris grigia di diversi anni, ma tenuta bene.
Era una tiepida giornata invernale, una delle ultime a dire la verità. L’avvento della primavera era oramai prossimo e lo si poteva intuire dall’erbetta verde e dalle foglioline che iniziavano a spuntare sui rami degli alberi sparsi lungo le strade.
Quando Eri intravide il tetto dell’istituto della scuola superiore si incupì, come tutte le mattine, e come sempre a Yumiko si strinse il cuore. Una parte di lei avrebbe voluto fare inversione di marcia e riportarsela a casa, ma sapeva bene che così facendo non avrebbe fatto altro che nuocere a sua figlia. Tentò di provare con qualche battuta per risollevarle il morale, o per lo meno di vederla uscire dalla macchina con un sorriso, ma fallì miseramente, all’improvviso anche Macchia pareva essersi intristita.
Yumiko accostò lungo il bordo del marciapiede a qualche metro dai cancelli d’entrata della scuola, all’ombra di un muretto. Sapeva che Eri detestava farsi vedere con lei, non tanto perché si vergognava, quanto perché temeva che i suoi compagni di classe l’avrebbero canzonata vedendola scendere dalla macchina della mamma che a quindici anni ancora si preoccupava di accompagnarla a scuola, come una bambina delle elementari.
La donna osservò la figlia attraverso lo specchietto retrovisore, teneva lo sguardo puntato sull’istituto come se avesse potuto mangiarla da un momento all’altro, poi capì che non le faceva paura la costruzione in sé, quanto i ragazzi e le ragazze che vi si stavano dirigendo, o quelli che sostavano nel cortile in cemento.
In Giappone i cortili erano adornati di erbetta verde e alberi di ciliegio …
«Dovresti fare amicizia con qualche ragazza» disse poi Yumiko osservando un gruppetto di ragazzine che se la ridevano complici di chissà quale segreto
«Come no …» fu la risposta vaga di Eri che finalmente lasciò libera la sua cagnolina di girovagare a proprio piacimento per l’abitacolo del veicolo. Yumiko aprì lo sportello e si accinse a scendere lei per prima dall’auto, affinché sua figlia potesse poi uscire – adesso capiva perché il padre della ragazza si opponeva fermamente alle macchine a soli due sportelli - ma urtò qualcosa. 
Era ancora troppo presa dallo sconforto che leggeva sul volto di sua figlia per accorgersi che proprio nel momento in cui apriva lo sportello stava passando una persona, la quale inevitabilmente colpì in piena faccia.
«Mierda
Yumiko si precipitò fuori dall’abitacolo e tutto ciò che vide fu un ragazzo con le mani sul naso, le palpebre strizzate dal dolore e ricurvo in avanti che imprecava in spagnolo.
«Me perdóname señor» balbettò la donna imbarazzata «Gomena sai» cominciò poi con le scuse nella sua lingua, perché quando era agitata le riusciva difficile parlare nell’altra lingua. Il ragazzo la guardò incuriosito dal suo accento straniero, Yumiko era china su di lui e aveva un’espressione spaventata che gli fece venir voglia di ridere, nonostante il dolore. Tornò dritto, si accertò che i palmi fossero puliti dal sangue che invece gli usciva copioso, mentre la sconosciuta dagli occhi a mandorla lo coglieva alla sprovvista soffocandolo quasi con un malloppo di fazzoletti che gli premette sul naso con tanta forza che gli arrivò un’altra scarica di dolore:
«Puta madre!» esclamò.
Nella macchina Eri scoppiò a ridere crollando con la schiena contro i sedili posteriori dell’auto e Macchia prese a scodinzolare allegramente.
Yumiko si scusò di nuovo, ma non mollò la presa sul naso dello sconosciuto, intanto che i fazzoletti si imbrattavano di rosso, lo sospinse girando intorno al muso anteriore dell’automobile e con tono autoritario da madre disse a sua figlia di aprire lo sportello dalla parte del passeggero. Il malcapitato non comprese una parola di quello che l’asiatica stava dicendo, ovviamente, ma quando vide la portiera aprirsi capì e tentò di divincolarsi, affermando che stava bene:
«Perdòname, perdòname, gomena sai» Yumiko lo fece entrare in macchina «Ti porto in ospedale» continuò nel suo personale spagnolo, aspettò che il malcapitato si fosse seduto, poi richiuse lo sportello e fece di nuovo il giro del veicolo per riprendere il suo posto al lato del guidatore, mise la prima e partì evitando per un soffio una macchina che stava svoltando all’incrocio. Lo sconosciuto sudò freddo e mentalmente si fece il segno della croce.
 
Eri si affacciò fra i seggiolini anteriori e salutò con un enorme sorriso il nuovo passeggero,
divertita per la scenetta comica a cui aveva assistito, e anche contenta perché aveva saltato la scuola:
«Hola!» esclamò alzando un palmo e lo sconosciuto quasi sobbalzò, cosa che Eri trovò ancor più spiritosa
«Eri!» la richiamò sua madre lanciandole uno sguardo truce attraverso lo specchietto retrovisore e la ragazzina tornò al suo posto, intanto che Macchia saltava sulle gambe dell’ultimo arrivato, preso dal tamponarsi le narici, con i fazzoletti oramai inzuppi di sangue fresco. La cagnolina abbaiò un paio di volte e lui pensò che ci mancava solo che lo mordesse. La tenne lontana con una mano:
«Morde?» chiese poi, con la voce ovattata
«Ti sembra una cagnolina aggressiva?» replicò Eri offesa come se l’avessero insultata personalmente, allungando poi le braccia per prendere il suo cane con sé «Si chiama Macchia» aggiunse
«Ma va! Non l’avrei mai detto!» attraverso i fazzoletti Yumiko ebbe la sensazione che quel ragazzo stesse sorridendo e che sua figlia fosse a proprio agio per la prima volta al cospetto di un perfetto estraneo del nuovo Paese.
L’ospedale non distava molto dalla scuola e quando una Yaris grigia frenò davanti l’entrata del pronto soccorso erano appena le otto e trenta. Yumiko disse a sua figlia di non muoversi, mentre scendeva dalla macchina e andava incontro allo sfortunato ragazzo per accompagnarlo all’interno dell’ospedale. Eri lo salutò muovendo una zampetta di Macchia:
«Bye bye!»
Nel pronto soccorso c’erano pochi pazienti in attesa e subito un infermiere si interessò a loro, chiedendo cosa fosse accaduto e sbirciando attraverso i fazzoletti il naso del ragazzo. Yumiko gli spiegò il tutto con il cuore impazzito e quando l’infermiere si rivolse a lui per chiedergli se aveva intenzione di sporgere denuncia, alla donna mancò il respiro. Alzò sul ragazzo due occhietti spauriti e si accorse che anche lui la stava osservando, ma il suo sguardo sembrava divertito:
«Certo che no» disse e a Yumiko si inumidirono le iridi.
«“Arigatou”» sussurrò e intuì che le stava sorridendo per via delle rughette ai lati degli occhi, forse aveva compreso quel grazie biascicato in giapponese.
L’infermiere lo invitò a seguirlo all’interno dell’ambulatorio e lo sconosciuto lo fece senza replicare, senza dire altro, senza voltarsi a salutarla. Yumiko rimase ad osservarlo di schiena, i capelli scuri rasati ai lati e a punta sul capo, la pelle color caramello, i diversi tatuaggi sulle braccia che spiccavano dalla camicia a mezze maniche, i jeans larghi e stracciati, fino a quando non sparì dietro le porte automatiche.
Improvvisamente si ricordò di sua figlia Eri in macchina e del fatto che doveva accompagnarla a scuola. Tornò in tutta fretta in auto e annunciò che si sarebbe presa una nota sul registro per il ritardo se fosse stato necessario, ma che non avrebbe saltato un giorno di scuola senza un valido motivo. Eri sbuffò e tornò ad imbronciarsi.
Mentre ripercorreva a ritroso la strada per raggiungere nuovamente l’istituto scolastico, Yumiko non smise di pensare al ragazzo che aveva appena lasciato all’ospedale, con il naso insanguinato e il davanti della maglietta sporca, rammaricandosi di non avergli chiesto neanche come si chiamava … 

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 - Se non altro per vederti andar via ancora ***


Capitolo 2

Se non altro per vederti andar via ancora



 
Quella per Eri fu la mattina che le cambiò per sempre la vita. La sua e anche quella di sua madre a dirla tutta.
Fu la mattina che “obasaan” in Giappone avrebbe definito “le ore del Karma”. Ma Eri non credeva né in Dio – come suo padre – né in quell’altro, Buddha – come sua madre. Eri aveva smesso di credere in una forza divina che manovrasse i destini dei mortali dal momento in cui aveva appreso la notizia che il suo papà era andato a schiantarsi contro il guardrail, precipitando lungo il fianco scosceso di un burrone per diversi metri.
Sua nonna aveva affermato senza troppi giri di parole che il cerchio si era chiuso e il flusso naturale dell’Universo aveva ripreso a scorrere con regolarità. Eri non ci aveva capito niente, ma sua mamma sì, poiché per la prima volta nei suoi sei anni di vita l’aveva vista alzare la voce contro obasaan e dirgliene di tutti i colori, cosa che l’aveva poi lasciata senza forze né energie. Yumiko si era accasciata sulla sedia di ferro nel corridoio grigio e umido dell’obitorio e aveva strillato tutta la sua rabbia che teneva in corpo, semplicemente urlando come un animale ferito a morte.
Eri entrò nell’istituto della scuola come tutte le mattine: a testa bassa e senza rivolgere alcun saluto alle bidelle che, a loro volta, avevano imparato a ignorarla.
«I soliti cinesi» bisbigliavano, ignorando il fatto che Eri conoscesse molti più vocaboli della lingua spagnola di quanto volesse lasciar intendere. In quel nuovo Paese capitava spesso che scambiassero lei e sua madre per cinesi, la sola peculiarità degli occhi a mandorla consentiva alle persone di definire tutti cinesi, così quando le girava male rispondeva a tono chiedendo se per caso fossero argentini:
«Per me siete tutti uguali» diceva facendo spallucce e puntualmente le arrivava addosso lo sguardo ammonitore di sua madre.
La ragazza attese la fine della prima ora con le spalle contro il muro e lo zaino fra le gambe, pensando a tutto e a niente. Una vocina insistente le ripeteva in continuazione di boicottare quella giornata scolastica, ma ad una parte di sé non andava di prendere in giro Yumiko, né tantomeno di camminare da sola e a piedi per la città. Così aspettò, sorridendo di tanto in tanto al ricordo di quella mattina: alla faccia dispiaciuta di sua mamma che sbatteva lo sportello contro il naso di quel ragazzo, l’espressione incredula di questo nel ritrovarsi con la maglia sporca di sangue nell’auto di due sconosciute orientali, il presentimento che Macchia avesse potuto morderlo. La campanella che segnava la fine della prima ora di lezione la ridestò come una sveglia e non fece in tempo ad alzarsi che il professore di scienze la stava già fissando dall’alto, con quel classico cipiglio che teneva in mezzo alle sopracciglia pelose. Eri si alzò e trascinò con sé la borsa, dando il buon giorno all’insegnante con un mugugno. Parlare spagnolo a volte le faceva provare vergogna, come quando in prima elementare aveva dovuto chiedere alla sua compagna di banco “come ti chiami” in inglese. In poche parole, parlare un’altra lingua la faceva sentire stupida.
Entrò nella classe e subito notò che il suo vicino di banco era cambiato: non era più la ragazza down accompagnata dall’insegnante di sostegno, l’unica che aveva accettato di sedersi al suo canto il primo giorno di scuola, ma un nuovo studente.
Eri si sedette sulla sedia senza spiccicare parola. Lui smise di disegnare sul suo diario e la guardò, tutto intorno il chiacchiericcio della classe.
«Ciao, mi chiamo Kingsley e questo è il mio primo giorno di scuola» si presentò il ragazzo porgendole la mano con la matita incastrata fra le dita. Eri lo studiò, aveva la pelle molto scura, i capelli ricciolini striati di giallo e una treccina colorata gli scendeva lungo la parte sinistra del collo, l’accento straniero non era della zona. Gli strinse la mano:
«Io sono Eri Joaquin Morales e per me è sempre il primo giorno di scuola.»
 
Yumiko entrò in casa e fu assalita dall’odore di chiuso che tanto detestava. Le ricordava  l’odore di vecchio che annusava quando da bambina andava a trovare la nonna, la sua obasaan, costretta in un letto. Issò le borse della spesa sul tavolo della cucina e spalancò la finestra, respirando a pieni polmoni l’aria fresca. Passò in rassegna le altre camera dell’appartamento, aprendo le ante del balcone nella sua stanza da letto, la finestra in quella di sua figlia e infine quella del bagno. Intonò una vecchia canzone della sua adolescenza, mettendo in ordine la spesa: il latte nel frigo, il barattolo di cioccolato nella dispensa, il gelato alla nocciola nel freezer, fingendo che il viso di quello sconosciuto non la tormentasse da quando lo aveva visto allontanarsi con l’infermiere, intanto che Macchia giocherellava con un vecchio pupazzo che un tempo era appartenuto alla sua padroncina, tutto morsicato.
Dopo la morte del padre di Eri, Yumiko non aveva più pensato a nessuno in quel senso, era sì uscita con altri uomini, ma non li aveva rivisti dopo il primo appuntamento.
Quando aveva conosciuto Joaquin Diego Morales aveva avuto solo quattordici anni. I suoi vicini stavano ristrutturando casa e Yumiko trascorreva molto tempo nel suo giardino durante le vacanze estive, ed era stato proprio in quei mesi che quel ragazzo così diverso dagli uomini a cui era abituata attirò la sua attenzione. Yumiko non si era ancora innamorata, non sapeva cosa significasse avere le farfalle nello stomaco, né sapeva come contrastare quel sudore freddo che si concentrava nei palmi della mani e lungo la schiena. Lei era rimasta praticamente incantata di fronte a quel colorito caldo che spiccava in mezzo a tutto quel pallore giapponese. Lui si era sentito osservato e si era voltato a guardarla, alzando una mano in cenno di saluto e sorridendole. Era stato il colpo di grazia. Di lì a qualche anno sarebbe rimasta incinta e avrebbe dovuto lottare con tutte le forze per portare avanti la gravidanza di Eri.
Ovviamente quella mattina non aveva provato le stesse sensazioni sperimentate a quattordici anni, soprattutto perché non era più una bimbetta che giocava a fare la donna, ma qualcosa si era smosso dentro di lei e fingere che così non fosse era snervante. Adoperò le energie del pensiero di quell’estraneo nelle faccende domestiche: riordinò la camera da letto di Eri, mise a fare la lavatrice e mentre aspettava che questa finisse riassettò il bagno, quindi mise ad asciugare i panni lavati e alla fine cucinò per un esercito.
Quando alzò lo sguardo sull’orologio era già ora di passare a prendere Eri a scuola. Apparecchiò velocemente, prese le chiavi al volo sulla cassettiera all’entrata e tornò in strada alla guida della Yaris, cosa che inevitabilmente la portò a ripensare ai fatti accaduti quella mattina. Immaginò di rincontrarlo, magari scontrandosi con la sua auto e allora sì che l’avrebbe denunciata, magari per stalking, invece non accadde nulla. Prelevò sua figlia, acquattata dietro al solito muretto, e tornando a casa Yumiko parlò di tutto tranne del suo costante pensiero, ed Eri le rispose senza raccontarle del suo nuovo – e unico – compagno di classe.
Durante il pranzo – a base di riso come la tradizione giapponese impone – Eri disse una cosa che fece sudare freddo sua madre:
«Carino il ragazzo di stamattina» lo disse senza malizia, perché lo pensava davvero, per questo la reazione di sua madre la insospettì.
«Dici?!» Le mostro la pentola con il riso bollito «Ne vuoi dell’altro?» Stava tentando di cambiare argomento.
«Si, grazie.» Eri le porse il piatto vuoto e sua madre lo riempì con una cucchiaiata di chicchi di riso bianchi e compatti «Secondo me avresti dovuto chiedergli il numero di telefono.» Yumiko avvampò:
«A chi scusa?»
«Al ragazzo che hai rotto il naso, okaasan!» Quando sua figlia la chiamava mamma con quella cadenza cantilenante Yumiko si infastidiva.
«Ho trentadue anni, ti pare che possa ancora perdere tempo dietro a ‘ste cose?!» Eri fece spallucce e parlò a bocca piena
«Perché no? Infondo ne dimostri appena trenta.» Sua madre la guardò fra l’offeso e l’imbarazzato e la ragazzina le sorrise, se non fosse stata così presa dal ricordo di quella mattina, avrebbe notato che per la prima volta Eri aveva pronunciato più di due frasi a tavola dopo la scuola «E comunque era carino!» Questa volta fu Yumiko a fare spallucce, un vezzo che Eri aveva ereditato da lei, poi prese a sparecchiare affermando che doveva andare a lavoro qualche minuto prima.
Era una bugia. Un modo come un altro per fermare quella strana conversazione che stava mettendo radici fra lei e sua figlia.
Ma Eri era presa dal suo telefilm preferito, quello sui medici di Seattle, aveva finito i compiti da un pezzo e si stava gingillando sul divano. Di solito dopo qualche minuto il suono cantilenante della lingua latina diventava un sottofondo e la sua mente se ne andava a zonzo, in ogni caso mai come quel pomeriggio correva volentieri alle ore che aveva trascorso a scuola. Sua madre le posò un bacio a fior di labbra, un gesto che faceva fin da quando Eri se ne stava buona buona nella culla, le sciorinò le solite raccomandazioni: chiudi a chiave la porta, non aprire a nessuno, non restare sveglia fino a tardi che domani hai scuola (Eri non era mai stata così contenta di sentirglielo dire).
 
Yumiko guidò fino al locale canticchiando il motivetto di una canzone spagnola che neanche le piaceva, chiedendosi se prima o poi entrando in quella macchina avesse smesso di ripensare all’estraneo a cui aveva fatto sanguinare il naso.
Aveva trovato quel lavoro da pochi mesi, all’inizio si era arrangiata lavorando in un’impresa di pulizia, poi in un supermarket, alla fine aveva trovato quell’annuncio su internet e aveva inviato il suo curriculum con tanto di foto allegata. L’avevano contattata il giorno seguente e da allora Yumiko lavorava come barista in un locale per adulti.
Non che le ballerine lì dentro se ne andassero in giro nude, piuttosto poco vestite. Yumiko aveva imparato a conoscerle, qualcuna era anche simpatica con un litro di alcool in corpo. Lei era rilegata dietro al bancone del bar, con una collega che si fumava tutto quello che le capitava a tiro, ma la paga era buona e puntuale e gli straordinari le venivano retribuiti senza complimenti. A sua figlia non aveva avuto il coraggio di confessarle il proprio impiego, le aveva riferito quello che aveva potuto e cioè che faceva la barista.
Il locale apriva al pubblico alle venti e c’erano state sere, soprattutto nel fine settimana, che restava aperto anche oltre l’orario stabilito, ovvero le tre. I dipendenti si incontravano con diverse ore di anticipo per preparare la sala, cambiarsi d’abito ed entrare nel personaggio, come soleva dire Oscar, la dark queen, regina indiscussa del night club. All’inizio per Yumiko non era stato facile, poi ci aveva fatto l’abitudine e adesso stentava a parlare con Oscar quando era vestito da uomo. Una volta le aveva detto che loro sono completi a 360° perché sono esseri al cento per cento, sono uomo e donna insieme, non solo l’uno o l’altra. Per Yumiko – che proveniva da un paese estremamente conservatore e da una famiglia altrettanto all’antica – era stato come ammettere che Siddharta era un cialtrone, solo rendendosi conto di che grande cuore aveva il suo nuovo collega – l’unico tra l’altro che non la chiamava “la cinese” – si era convinta che non fosse “pericoloso”.
Come tutte le sere prima dello spettacolo, Oscar nel suo abito fucsia tutto piume e volant, passò a baciarle la guancia, sussurrandole nell’orecchio “mierda”, una parola che in quel Paese era un incitamento e uno scaccia sfortuna.
La gente iniziò ad affollare il locale già intorno alle ventuno, una delle cose che aveva stupito Yumiko, nella settimana di prova, era stato notare che seduti ai tavolini a gustarsi lo spettacolo di lap dance non c’erano solo uomini, ma anche donne non più tanto giovani, spesso e volentieri mogli o compagne.  
«Mì amor un bicchiere d’acqua» Yumiko si voltò sorridente, la voce di Oscar che a fine serata lasciava trasudare tutta la stanchezza e lo stress accumulato la divertiva, sembrava quello di una donna con le mestruazioni.
«Certo onii-chan» lei lo chiamava fratellone da quando le aveva chiesto di affibbiargli uno di quei termini giapponesi che tanto lo divertivano. A volte aveva scherzato dicendo che avrebbe anche potuto cambiare il suo soprannome in quello di onii-chan, fratellone appunto. La donna gli porse il bicchiere con l’acqua e rimase a bocca aperta, il sorriso si trasformò in una smorfia. Oscar la ringraziò e passò il bicchiere al ragazzo che gli era di fianco, lo stesso a cui Yumiko aveva rotto il naso la mattina precedente. Questi la osservò, aveva un gran cerotto bianco sul dorso del naso, le labbra gli si incresparono in un sorrisetto. Strappò la bustina di analgesico senza smettere di guardarla, la rovesciò nell’acqua che lei stessa gli aveva versato e le chiese un cucchiaino per mescolare.
«Hai!» ecco che quando si agitava la sua lingua madre tornava prepotente, le veniva difficile perfino rispondere un semplice “si”. Glielo passò, uno di quei cucchiaini con il manico lungo, utile per mangiare nelle profonde coppe di gelato. Lo sconosciuto fissò l’oggetto di metallo, poi con garbo le fece notare che è sconsigliato mescolare le medicine con il ferro poiché alcuni principi attivi potrebbero subire delle alterazioni. Yumiko non ci capì molto, l’unico messaggio che recepì, e che forse era quello fondamentale, fu di aver fatto la figura della scema e che doveva sbrigarsi a dargli qualcosa per mescolare quella diavolo di medicina che non fosse fatto di ferro.
«Gomena sai» si scusò «Gomena sai» gli passò la prima cosa che si trovò dinnanzi, ossia una cannuccia.
«Significa “scusa”» precisò Oscar al suo amico che allargò il sorriso a quella puntualizzazione.
«Ho imparato a mie spese cosa significa, credimi» lanciò un’ultima occhiata divertita alla povera barista che si stava maciullando le mani sotto al bancone. Non ce la fece a ricambiargli il sorriso e si sentì morire quando le fece l’occhiolino in un gesto di complicità, quindi bevve la medicina che serviva a placare il dolore, probabilmente al naso rotto.
«Yumiko, mi amor, tutto bene?» le chiese Oscar accarezzandole una spalla e lei annuì. «Stasera sei strana, non strafare» la donna scosse il capo, in testa un guazzabuglio di idiomi giapponesi si mischiavano a termini spagnoli e alla fine non riuscì a spiccicar parola. I due amici si allontanarono porgendole i loro saluti e Yumiko si chinò in avanti, come si faceva in Giappone per salutare o ringraziare. Quando sollevò appena il capo per (ri)vederlo andare via, si accorse che lo sconosciuto la stava osservando, e sembrava parecchio divertito.
 

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 - … la paura è sempre quella a vincere … ***


Capitolo 3
… la paura è sempre quella a vincere …

 
 
Lui l’aveva riconosciuta immediatamente, nonostante le luci blu soffuse, nonostante l’avesse vista solo una volta, con il dolore ad annebbiargli i pensieri e le lacrime ad offuscargli la vista. Aveva avuto i primi sospetti che potesse essere lei quando ancora era di spalle: raramente nel suo Paese aveva incontrato donne con i capelli così sottili e lisci da sembrare seta, neri e lucenti come petrolio. Poi ne aveva avuto la certezza nel momento in cui l’aveva sentita rispondere ad Oscar, rivolgendosi a quest’ultimo con un appellativo “straniero”.
Non conosceva la sua lingua – e come avrebbe potuto? – e di conseguenza non riusciva a collocarla in un preciso Paese natio. Quello che sapeva, e che era palese, era il fatto che fosse un’orientale. Un’asiatica insomma. Carina a dire il vero. Non ne aveva mai conosciuta nessuna di persona, tutto al più ne aveva viste una o due in qualche film poliziesco o di azione, ma quella ragazza gli sembrava piuttosto… bellina.
I capelli le sfioravano le spalle e la frangia le copriva la fronte, sotto di questa spiccavano i suoi occhietti dalla forma allungata. Lo sguardo era quello di un animaletto spaurito e forse, proprio questo particolare, era ciò che più di tutto lo allettava.
 
A fine serata la seguì fuori dal locale, restando per qualche secondo ad osservarla da lontano. Indossava il completo nero da coniglietta che il lavoro le imponeva, ma si era coperta la parte superiore del corpo con uno spolverino chiaro, di cotone. La vide avvicinarsi al bidone dell’immondizia e premere l’asse orizzontale per aprirlo, tentò diverse volte, con i tacchi non sembrava affar da poco. Quando finalmente ci riuscì, fece per issare il sacco della spazzatura con l’intento di gettarlo dentro al secchio, ma gli sfuggì di mano e d’istinto portò il piede che teneva sul pedale a terra, così da mantenere l’equilibrio, evitando una rovinosa caduta sull’osso sacro.
Il ragazzo sorrise e la raggiunse, schiacciò il pedale al suo posto e afferrò la busta dell’immondizia con una mano sola, quindi la rovesciò all’interno della pattumiera. Doveva ammettere che era abbastanza pesante per una tipa mingherlina come lei.
«Ti chiami Yumiko, giusto?!»
«Hai!» Ecco che ricominciava a rispondere in giapponese. Lo vide sorridere e cercò di ricomporsi per sembrare il meno imbarazzata possibile. «Si, mi chiamo Yumiko»
«Ricardo» continuò lui, allungandole la mano. «Piacere»
Yumiko lo fissò. In Giappone le donne non stringevano la mano agli uomini, si chinavano in avanti e basta, tuttavia aveva convissuto abbastanza tempo con uno di loro da sapere come funzionava laggiù. Gliela strinse a sua volta.
«Da dove vieni, Yumiko?»
«Giappone» si affrettò a rispondere lei. «Mi dispiace per…» indicò il naso gonfio
«Niente di grave.» Ricardo si carezzò il cerotto, il dolore si era finalmente placato. «Cosa ci fai qui?»
«Lavoro.» Yumiko chiuse il golfino sul davanti tenendo i lembi uniti con le braccia intrecciate, ricordandosi improvvisamente di essere mezza nuda. Lui sorrise:
«Non intendevo qui, nel locale, ma qui in Spagna. Non credo sia per lavoro.» Ecco, pensò Yumiko, ho fatto l’ennesima figura da quattro soldi. Fece spallucce, non sapendo bene cosa rispondere, poi decise che rimanere sul vago era la cosa migliore:
«É una lunga storia» accennò un sorrisetto e lui fece lo stesso. «Ok, ho capito, non sono fatti miei.»
La porta di servizio – in ferro e color bordeaux – del night club si schiuse di qualche centimetro, lo spazio necessario affinché il volto di una delle cameriere del locale ne facesse capolino. La ragazza, tinta di biondo, cercò la collega orientale e quando l’intravide alzò una mano per richiamare la sua attenzione, infastidendosi nel vedere che era in dolce compagnia: forse un cliente che l’aveva seguita, o semplicemente quella donna era una perditempo e ne aveva approfittato per scambiare quattro chiacchiere con quell’individuo, evitando in questo modo di riassettare l’interno della sala. Yumiko rispose al suo saluto e l'altra le chiese:
«Che stai facendo? Sbrigati che devi pulire i tavoli»
«Hai!» il “si” in spagnolo proprio non le usciva. Fece un leggero inchino di saluto a Ricardo e rimase così, con la schiena ricurva, mentre lo sentiva rivolgersi alla ragazza bionda:
«Yumiko sta con me.»
L’asiatica notò come la cameriera, che si faceva chiamare Samantha – con l’acca le aveva sottolineato la prima volta che si erano conosciute – si ricompose, cambiando tono:
«Oh, mi scusi signor Salas, non mi ero resa conto che… le auguro buona notte» e sparì in tutta fretta, chiudendosi la porta alle spalle.
Lui tornò con l’attenzione su Yumiko, la quale lo fissava confusa, la sua mente bacata come una mela marcia.
Chi era quel ragazzo?
Samantha, che non era certo una che le mandava a dire, era scappata con la coda fra le gambe, inoltre le era sembrato di percepire un immenso e raro senso di rispetto nella voce.
Lui alzò un sopracciglio, come a dire “avanti, chiedi pure”, ma lei affermò di dover andare via o l’avrebbero licenziata. Ad un certo punto farla tragica le sembrava l’unica via di fuga possibile da quell’essere che più conosceva e più diventava misterioso.
Lui rise forte:
«Impossibile» disse «Perché sono io il tuo capo.»
Yumiko quasi svenne.
 
Aveva dato la porta in faccia al suo capo. Lo aveva accompagnato in ospedale, con Macchia che gli scodinzolava sulle gambe e sua figlia Eri che non smetteva di rivolgersi a lui come ad uno qualunque. Gli si era rivolta parlandogli con informalità e a volte anche in maniera poco garbata, non per volere suo, ma perché quando andava in panico le parole scomparivano dalla sua testa e non sapeva più cosa dire. Aveva fatto la figura della sciocca nel locale, quando si era avvicinato con Oscar e, dulcis in fundo, aveva permesso che buttasse la spazzatura al suo posto: avrebbe perso il lavoro, non poteva essere altrimenti.
Ma quel che era peggio, Yumiko aveva trascorso quelle ultime ventiquattro ore a pensare a lui come avrebbe fatto un’adolescente. Manco sua figlia Eri sarebbe potuta essere più ridicola e inetta di lei in quella circostanza.
 
La donna tornò a chinarsi in avanti, un po’ di più in confronto a prima poiché l’inchino era rivolto ad una persona di maggior rilevanza sociale:
«Perdóname señor» cominciò «Gomena sai, señor» lo sentì ridere di nuovo
«Devi smetterla di scusarti ogni volta che ci incontriamo» lei sollevò lo sguardo, titubante, adesso cambiava tutto, adesso non era più il ragazzo carino a cui aveva rotto il naso quella mattina. Adesso era il suo capo e, seppur avesse avuto dieci anni in meno, avrebbe dovuto portargli il massimo rispetto.
La porta di servizio si spalancò nuovamente. Questa volta fu Oscar a comparire, senza parrucca e con indosso un paio di jeans aderenti, maglietta bianca attillata e giacca gialla abbinata ai mocassini. Urlò a Ricardo che stava per andare via, che se voleva un passaggio doveva muoversi, alle quattro aveva appuntamento con il suo cliente abituale del giovedì. Ricardo in tutta risposta gli disse che l’avrebbe raggiunto all’istante. Prima però tornò a guardare nuovamente Yumiko:
«Salutami il cane ...» ci pensò un attimo su «Macchia, giusto?» la donna annuì «E la ragazzina che era con te. A proposito, lei è?»
«Eri. Si chiama Eri. Lei è ...» Yumiko deglutì « … è mia sorella.»
Ricardo Salas si allontanò con il solito sorriso. Yumiko lo sentì un po’ scusarsi con Oscar, un po’ prenderlo in giro, voltandosi un’ultima volta indietro, verso la donna orientale, prima mi sparire oltre la porta di ferro del locale.
 
Quando Yumiko rientrò a casa erano le quattro passate da diversi minuti. Da parecchi minuti anzi. A volte tornando da lavoro non aveva avuto neanche l’energie per spogliarsi, struccarsi, farsi una doccia, infilarsi il pigiama e mettersi a letto, ma quella mattina aveva così tanta forza e vitalità che avrebbe potuto scalare una montagna. Non era tanto la poca stanchezza a tenerla in piedi, quanto l’adrenalina di quello che era accaduto.
Come di consuetudine, sbirciò nella camera di sua figlia per accettarsi che fosse lì e che stesse dormendo, poi chiuse la porta con delicatezza e si recò in bagno. Sperò che una doccia calda potesse sciogliere l’euforia che sentiva in corpo, invece si ritrovò nel letto, linda e pinta, a fissare il soffitto senza alcun sintomo di sonno.
« … è mia sorella.»
Quella frase la perseguitava. Come le era venuto in mente di dire una bugia simile? Perché poi? Aveva avuto paura, e va bene, questo l’aveva capito. Ma di cosa?
Si voltò nel letto, senza poter evitare che le parole di sua madre la raggiunsero anche lì, a migliaia di anni luce da lei, aggrappate alla mente con le unghie e con i denti. Il giorno in cui aveva detto a sua mamma, alla sua okaasan, che aspettava un bambino, questa non si era stupita – un’altra tipica peculiarità della cultura giapponese quella di non meravigliarsi mai di fronte alle notizie belle della vita, così come a quelle brutte. L’aveva guardata con quel suo fare altezzoso che sempre aveva intimidito Yumiko, dicendole di pensarci bene. Lei non l’avrebbe costretta ad abortire, ma neanche a tenere il bambino, solo le voleva far presente che avere un figlio alla sua giovane età, un giorno, si sarebbe potuto rivelare un problema, uno sbarramento che l’avrebbe frenata come un’improvvisa interruzione stradale. Ovviamente Yumiko non aveva dato peso alle sue parole. Joacquin Diego Morales le aveva ribadito più volte il suo amore e il sogno di formare una famiglia da favola le era apparso una cosa facile. Il peggio di tutta quella storia è che facile lo era stato davvero. Poi con l’incidente qualsiasi cosa era precipitato in quel burrone, dove a morire non era stato solo il suo fidanzato, il suo amico, il suo amante, ma la sua intera vita.
Puntualmente le parole di okaasan si avveravano come presagi. Così, dopo nove anni, era giunto il momento in cui le sembrava che sua figlia potesse costituire realmente un ostacolo ad un eventuale nuovo fidanzato. Non che dovesse essere per forza Ricardo Salas, ma uno futuro. Molto futuro.
 
Incredibile! Aveva avuto il coraggio di dire che Eri non era sua figlia, proprio lei che ne parlava con tanta soddisfazione con chicchessia, aveva detto ad uno sconosciuto che era sua sorella, vergognandosi quasi di fargli conoscere la sua condizione di madre non sposata e con il padre di sua figlia sottoterra.
Dopo la morte di Joacquin, quella bimba di sei anni era stata l’unico salvagente in mezzo a un mare in tempesta, a cui Yumiko ci si era aggrappata senza pensarci due volte, ma adesso le cose stavano cambiando. Non solo perché aveva conosciuto quel ragazzo, che poi era anche e soprattutto il suo datore di lavoro, ma anche perché Eri stava crescendo e non sarebbe rimasta con lei per l’eternità. Mettiamo caso un giorno si fosse scocciata di vivere in Europa e avesse preteso di tornare in Giappone, quando magari sarebbe diventata maggiorenne e avrebbe potuto imbarcarsi su un aereo da sola.
Cosa avrebbe fatto lei? Sarebbe rimasta lì da sola? E a quale scopo?
Yumiko si voltò dall’altra parte, il sonno era ancora un lontanissimo miraggio. C’erano sere in cui il letto le sembrava troppo immenso per lei e lei sola.
 
 
 
 
 
 

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Capitolo 4
*** Capitolo 4 - Tutto è uguale a prima e se come prima mi sentissi inutile ***


Capitolo 4
Tutto è uguale a prima e se come prima mi sentissi inutile



 
Oscar si accese una sigaretta, la fiammella dell’accendino traballò per qualche istante davanti al suo viso. Aveva la pelle chiara e liscia, i capelli scuri gelatinati e tirati all’indietro, le labbra lucide di burro cacao. Aspirò a fondo e poi tornò a poggiare il palmo sul volante dell’auto, quella destra salda sul cambio. Era la macchina che gli aveva regalato il suo amante – che lui chiamava Jhonny per tutelare la propria identità, o il Paese sarebbe crollato in uno scandalo politico – e seppur dotata di cambio automatico, a Oscar piaceva farlo manualmente. Diceva che così poteva sentire il ruggito del motore che spremeva fino all’ultima goccia, prima di decidersi a cambiare marcia. Jhonny gliel’aveva fatta trovare al loro primo anniversario, da quel giorno erano passati altri due anni, per un totale di tre anni di “fidanzamento”. Non aveva mai avuto un amante fisso per così tanto tempo e Oscar era sicuro di una cosa: se fosse nato femmina, a quest’ora il suo ganzo avrebbe mollato l'acida moglie e si sarebbero sposati. Gliel’aveva detto un sacco di volte Jhonny, gliel’aveva giurato!
I finestrini anteriori della macchina erano abbassati, le temperature erano così piacevoli quella notte che sarebbe stato un peccato accendere il calorifero.
Oscar tirò ancora dalla sigaretta e lasciò uscire il fumo rumorosamente, lanciando uno sguardo furtivo a Ricardo seduto al proprio canto. Si conoscevano praticamente dai tempi delle scuole, per alcuni anni si erano persi di vista – a chi non capita? – poi un giorno si erano rincontrati al night. Sebbene Salas avesse stentato a riconoscere il suo ex compagno di classe, con indosso tutto quel trucco, la parrucca color glicine e le ciglia spudoratamente finte. Oscar allora era ricorso ad un espediente che sapeva infallibile: una frase che gli ripeteva spesso durante le ore di educazione fisica, mentre osservavano le ragazze occupate negli esercizi di aerobica. Guardandole evidentemente per motivi differenti:
«Se fossi una donna sarei la prima troia» di fatti Ricardo lo aveva riconosciuto e abbracciato.
Erano trascorsi altri due anni da quella sera e la loro amicizia sembrava essere più salda che mai. Oscar lo conosceva fin troppo bene per non sospettare che stesse pensando ad una fanciulla. Salas non era il tipo da starsene in silenzio per l’intero tragitto:
«Quando sei tornato?» gli chiese
«L’altra mattina» fu la risposta di Ricardo che non si mosse, gli occhi fissi sulla strada, il gomito chiuso a triangolo spuntava dal finestrino.
«É una bella città Amsterdam?» continuò Oscar. Il ragazzo al suo fianco fece una smorfia, lasciando intendere che non era niente di che «E la tua “amichetta” olandese dov’è?»
«In Olanda»
«Ma come in Olanda? Per telefono mi hai fatto una testa così: ho trovato la persona giusta! Oscar, la sposerò! Oscar qua e Oscar là!» aspirò ancora dalla sigaretta, le labbra si distesero in un sorriso quando scorse Ricardo ridacchiare:
«Era noiosa! Eccetto le volte che era fatta, lo ammetto, e non erano poche, altrimenti era di una noia!»
«Intendi dire che quando era sobria non te la dava?» Salas rise forte e Oscar con lui.
Si stava bene in sua compagnia, la drag queen aveva sempre pensato che Ricardo fosse l’amica del cuore che non aveva mai avuto. Non a caso era l’unico a cui aveva confidato la vera identità di Jhonny. In una notte di pioggia, quando Ricardo lo trovò con il viso tumefatto e lo minacciò di dirgli cosa fosse accaduto, o l’avrebbe trascinato in ospedale. Allora si che avrebbe dovuto parlare davanti agli agenti di polizia che gli stessi medici avrebbero contattato. Oscar aveva raccontato che quando si ubriacava il suo innamorato diventava violento, e che ok, va bene, gli avrebbe detto chi era veramente Jhonny, così, semmai fosse scomparso dalla circolazione o l’avessero trovato morto, avrebbe saputo chi denunciare. Dopo quell’occasione, però, Jhonny non aveva alzato più nemmeno un dito contro di lui, a volte Oscar aveva pensato che Ricardo c’entrasse in qualche modo, ma poi la faceva semplice, convincendosi che confidandosi con lui, anche i problemi più grossi si rimpicciolivano.
Oscar accostò la macchina al marciapiede, il cancello d’ingresso dell’abitazione di Salas era a pochi metri. Questi lo osservò per un momento, indeciso sul da farsi, poi glielo domandò:
«Senti Oscar, mi chiedevo se …» si schiarì la voce mentre l’amico tirava l’ultimo inebriante e acre tiro dalla sigaretta, prima di gettarla fuori al finestrino e voltarsi ad osservarlo « … ma la giapponese lì, da quanto tempo lavora per noi?» la drag queen ci pensò su un attimo
«Mah, sarà qualche mese. Perché? La vuoi licenziare per prenderne una più formosa?» Oscar rise, ma questa volta Ricardo non gli fece compagnia
«E sai anche da quanto tempo vive qui?»
«Mi pare che siano un paio d'anni»
«E come mai si è trasferita a Madrid?» continuò Salas, poi si voltò ad osservare l’amico quando questi gli posò una mano sul braccio
«Ricardo lasciala stare, per favore, è una brava ragazza, non fai per lei»
«Non ho la minima idea di …»
«Oh si che ce l’hai Ricardo, si che ce l’hai!» Oscar gli sorrise, poi molto gentilmente lo invitò a scendere dall’auto, stava sottraendo minuti che invece avrebbe potuto trascorrere con il suo amato Jhonny. Ricardo si finse offeso, incamminandosi con le mani in tasca e  dicendogli in maniera ironica di salutargli Jhonny. Sentì la risata cristallina di Oscar che si allontanava e il motore dell’auto salire di giri.
Rientrando Salas pensò ad Oscar e a quando erano stati ragazzi, alla strana coppia che avevano formato loro due insieme: lui sempre un po’ punk, con i jeans larghi e stracciati sul didietro e sulle ginocchia, orecchini e anelli pacchiani; Oscar l’esatto contrario, ordinato e moderato, attirava le simpatie delle ragazze e soprattutto la loro fiducia. Ah, quanti cuori aveva infranto Oscar! Quante ragazze si erano invaghite di lui, dei suoi modi gentili e garbati, della sua bellezza elegante e femminea, per scoprire poi che era interessato al loro taglio di capelli, piuttosto che alla loro cosina. Spesso ad Ricardo era toccato l’ingrato compito di consolarle, ma qualcuno il lavoro sporco deve pur farlo!
 
Eri trovò la mamma in cucina, come ogni mattina da quando aveva iniziato l’asilo, è vero, ma quella mattina c’era qualcosa di diverso in lei. Si arrestò sulla soglia della porta, i capelli lunghi e neri erano tutti in disordine, sul viso i segni del cuscino scavati nella pelle, mentre sua madre era lì, a preparare la colazione. Le solite gesta quotidiane: riscalda il latte nel microonde, prendi i biscotti dalla dispensa, prepara il tè. Eppure quando Eri entrò e la salutò, lei non rispose. Non si voltò neanche a guardarla a dire il vero, tenne gli occhi fermi sulla teiera in ebollizione, il fischio forte che questa emetteva non era riuscito a destarla dai pensieri. Eri la chiamò, ma niente, sua madre Yumiko era completamente assente. Si accostò con circospezione, toccandole appena la spalla e lei sussultò, facendo un balzo all’indietro:
«Santo cielo, Eri! Compari all’improvviso adesso?!» allora Eri si rese conto che sua madre non doveva aver chiuso occhio quella notte: intorno alle palpebre la pelle era livida, all’interno le pupille erano gonfie e rosse
«Nottata in bianco, okaasan
«Già» Yumiko sbadigliò e si versò l’acqua bollente nella sua tazza preferita, immergendovi una bustina di tè verde
«É Colpa del lavoro! Mamma, se è troppo stancante non devi andarci per forza, ne puoi sempre trovare un altro»
«Qui la paga è buona e …» Yumiko si fermò, improvvisamente non sapeva più cosa aggiungere. Sua figlia ingollò per intero il biscotto inzuppato nel latte:
«E?»
«E niente, sbrigati che è tardi!» la donna si alzò dal tavolo, portando con sé la tazza di tè che ancora non aveva assaggiato, né l’avrebbe mai fatto. Uno perché aveva dimenticato di zuccherarlo, due perché aveva lo stomaco chiuso.
 
Eri aspettò con il cuore impazzito l’inizio delle lezioni. Seduta nel suo banco, tutta sola, fissò la porta della classe fino all’ultimo secondo, fino al trillo della campanella ed oltre, fino a quando il professore di matematica entrò in aula e se la chiuse alle spalle. Aveva atteso l’arrivo di Kingsley invocandolo con tutte le sue forze, battendo le unghie sulla superficie scolorita del banco e muovendo la gamba destra su e giù, su e giù, come un tic nervoso. E in effetti lo era. Lo aveva invocato fortemente, bisbigliando per tutto il tempo:
«Dai, dai, dai» invano.
Il suo compagno di banco quel giorno mancò a scuola, ed Eri cascò di nuovo in quel baratro di solitudine che aveva provato fino al giorno prima, fino a quando gli aveva stretto la mano. Se solo gli avesse chiesto il suo numero di telefono avrebbe potuto chiamarlo e chiedergli come mai aveva saltato le lezioni, così, solo per sentire la sua voce, magari si sarebbe offerta di portargli i compiti e lui avrebbe anche accettato!
Quel giorno non parlò molto con Yumiko, ma questa non si meravigliò, non notò la differenza dal giorno precedente, e tutte le sue buone intenzioni di dirgli dell’identità del suo capo – o dell’identità dello sconosciuto, o tutte e due le cose – sfumarono, poiché ogni tentativo, seppur maldestro, di avviare una conversazione fallì. Non sapeva ancora di preciso cosa le avrebbe detto o quanto le avrebbe raccontato, ma il peso della bugia che aveva pronunciato a Ricardo riguardante sua figlia – «Eri è mia sorella» - avrebbe dovuto confessargliela il prima possibile, o le avrebbe tolto il sonno, la fame e infine la ragione.
 
La ragione Eri rischiò di perderla nei giorni successivi, quando cominciò a temere seriamente che il suo compagno di banco, con la treccina colorata e la pelle scura, fosse stato solo un miraggio. Per un’intera settimana di Kingsley non ci fu traccia. All’inizio la ragazzina si ritrovava a fissare la porta della classe, sempre e comunque con la speranza di vedergliela oltrepassare, ma niente. Poi perse la speranza, iniziando a credere che il professore si burlasse di lei quando leggeva il nome del ragazzo durante l’appello mattutino, chiedendo poi se qualcuno di loro ne avesse notizia. Ovviamente la risposta da parte della classe era negativa. Questo ragazzo era apparso dal nulla e nel nulla era scomparso.
Un giorno, quando oramai Eri ci aveva rinunciato, lui riapparve, bello e sorridente, come se non fosse passata una settimana dall’ultima volta che era andato a scuola.
«Ciao!» la salutò occupando l’altra sedia libera nel banco. Eri lo fissò con il cuore in gola, trattenendosi dal gettargli le braccia al collo per la felicità di vederlo.
Alle quattordici l’ultimo trillo segnò la fine anche di quella giornata scolastica. Eri stava sistemando i libri e i quaderni nel suo zaino, attenta a non dimenticare niente, fu allora che Kingsley le chiese se quel pomeriggio avrebbe potuto dargli qualche ripetizione:
«Sono mancato da scuola per parecchio tempo e non vorrei restare indietro. È già difficile stare al passo degli altri in un paese straniero e forse tu puoi capire quello che intendo …» eccome se Eri capiva quello che intendeva. Il primo anno aveva dovuto fare i salti mortali e in compenso aveva raggiunto almeno la sufficienza in ogni materia, anche in quelle in cui era la migliore della classe in Giappone. Tuttavia, aveva compreso soprattutto una aspetto della richiesta che il compagno di banco le aveva proposto: l’aveva invitata a casa sua.
 
Yumiko non le avrebbe mai dato il permesso di recarsi a casa di sconosciuti, a maggior ragione se si trattava di un ragazzo. Non era difficile immaginare la reazione di sua madre e la sua contro partita: fallo venire qui, a casa nostra. Ma Eri non voleva rimanere a casa propria, Eri voleva vedere dove abitava Kingsley, conoscere sua mamma, magari entrare nella sua cameretta, o giocare con il suo animaletto domestico – ammesso che ne avesse uno. Come di routine, sua mamma la attendeva all’ombra del muretto, nella sua Yaris grigio metallizzato, di seconda mano ma tenuta bene. La ragazzina rispose alle domande che Yumiko le poneva, le solite insomma, quelle che ogni mamma in ogni parte del Mondo pone ai propri figli dopo la scuola: che cosa hai fatto? Ti hanno interrogato? Com’è andata? Hai parecchi compiti per oggi? Ho cucinato …
Eri approfittò di un momento di silenzio per dare il via al suo piano strategico:
«Okaasan?!» la chiamò e sua madre intenta alla guida mugolò «Dopo pranzo posso andare a casa di una compagna di classe?» Yumiko ne fu contenta, finalmente sua figlia iniziava ad ambientarsi, ma allo stesso tempo rimase stranita. In fondo Eri non aveva mai accennato a nessuna amica con cui era così in confidenza da invitarla a casa propria. Ascoltò la spiegazione della ragazza, diceva che era la sua compagna di banco e che era mancata per diversi giorni da scuola, così voleva recuperare per non rischiare di rimanere indietro e si era rivolta a lei, la quale non era stata capace di dire di no. Neanche Yumiko fu capace di dire di no a sua figlia, un po’ perché era felice che stesse insieme a quelli della sua età, un po’ per il peso che ancora le martoriava la mente. Decise di dirglielo, a pranzo, quel giorno stesso.
«Eri, ascolta …» sua figlia distolse l’attenzione dai cartoni animati in tv, quelli americani dalle facce gialle «Ti ricordi dello sconosciuto a cui ruppi il naso» Eri ridacchiò
«E come dimenticare» altro risolino «Quello carino, insomma» ecco, pensò Yumiko, adesso sì che è difficile. Fece un respiro profondo:
«É il mio capo» quando si accorse dell’espressione interrogativa di Eri si affrettò ad aggiungere «Il mio datore di lavoro diciamo, l’ho scoperto qualche sera fa» ennesima menzogna, era trascorsa almeno una settimana dalla notte in cui si erano presentati ufficialmente
«E vuole licenziarti perché gli hai rotto il naso?!»
«Oh no, no!» questa volta fu Yumiko a sorridere, la faccia di sua figlia era davvero buffa «Ci siamo presentati, io mi sono scusata ancora una volta per la faccenda dell’incidente, poi mi ha chiesto di te e …» il momento era giunto, la donna pregò il suo dio che la figlia non la prendesse a male «… e gli ho detto che sei mia sorella.»
Eri lasciò cadere la forchetta nel piatto, tintinnò forte sulla ceramica e poi rimbalzò sul pavimento, Macchia rizzò le orecchie dalla sua cuccetta, annusò l’aria, attese l’evolversi della situazione e poi tornò a sonnecchiare. Yumiko osservò senza spiccicar parola il viso della figlia che si trasformava in una maschera di puro divertimento, la vide balzare in piedi e puntarle l’indice contro:
«Ti piace!» esclamò, sua madre provò ad intervenire «Ti piace! Ti piace! Ti piace!» fece il giro del tavolo e l’abbracciò «Kawaii! Kawaii!» continuava a ripetere che sua madre era “carina e dolce”, quasi fosse stata un peluche da strapazzare di coccole.
«Eri! Eri, non mi piace, ok?!» la prese per i polsi e la allontanò da sé per guardarla in faccia, ma non riuscì ad intimorirla
«Okasaan non c’è niente di cui vergognarsi! E poi un patrigno carino ...» si coprì di colpo la bocca con la mano «Ah no! Un fratellone carino. Com’è che dicono qui?! Me gusta?!» ridacchiò e tornò al suo posto, prendendo al volo una forchetta pulita «Allora, come faccio io ad incontrarlo, sorellona?!»
 
 
 
 

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Capitolo 5
*** Capitolo 5 - Ho solo tanta voglia di sentirmi viva adesso ***


Capitolo 5
Ho solo tanta voglia di sentirmi viva adesso
 
Per la prima volta da quando Eri si era trasferita a Madrid, aveva rifiutato che sua madre la accompagnasse con la macchina in giro per le strade della capitale. Diciamo che Kingsley non aveva precisamente le fattezze di una ragazza e Yumiko non ci avrebbe messo molto a fare due più due. Così Eri uscì alle tre del pomeriggio, sebbene l’appuntamento fosse fissato per le quattro. Restare in casa un minuto di più l’avrebbe fatta uscire di senno. Era così nervosa che perfino Macchia con le sue coccole non era riuscita a calmarla, allora si era affacciata alla finestra e i tiepidi raggi del sole l’avevano corteggiata e ammaliata fino a spingerla ad uscire in strada, per dirigersi al luogo dell’incontro. O semplicemente per passeggiare. Si era chinata verso sua madre, mezza addormentata sul divano nel soggiorno/cucina, lasciandole un fugace bacio a fior di labbra, il loro consueto saluto, e si era chiusa la porta d’ingresso alle spalle, dopo l’ultima carezza che sempre riservava alla cagnolina.
Camminare fra la gente l’aveva tranquillizzata un pochino, il dolce calore del sole aveva scacciato il masso grigio che le premeva sulle viscere e tutto le era sembrato più bello, più luminoso e il futuro meno difficile. Al contrario di quanto andava farneticando in quell’ultimo anno, non ebbe la sensazione di essere osservata dalla gente che le camminava di fianco come se fosse un extraterrestre, addirittura le parve che qualche coetaneo le lanciasse uno sguardo furtivo, languido, di apprezzamento.
Eri teneva gli occhi fissi davanti a sé e un sorriso appena percettibile sulla bocca, i lunghi capelli neri le ricadevano lisci fino alla base della schiena, così neri e lucenti da sembrare finti. Sul viso tondo e abbronzato – peculiarità che aveva ereditato dai geni ispanici di suo padre – gli occhi a mandorla spiccavano come due stelline contornate di nero. Dalla tasca del giubbino prelevò uno stick di burro-cacao alla fragola, se lo passò distrattamente sulle labbra, poi lo rimise in tasca, senza fermare il proprio cammino.
 
Le lancette dell’orologio alla fermata della metro segnavano le tre e venticinque minuti. Eri si accomodò all’estremità dell’unica panchina che aveva ancora un posticino libero, chiedendo alla signora che la occupava con i suoi tre figlioletti se poteva. La donna le disse di si. La ragazza sorrise alla bimba che le stava di fianco e che la fissava, aveva il viso paffuto e sporco di gelato che intanto le stava colando da una mano, sua madre la richiamò, parlando uno spagnolo così stretto e veloce che Eri non riuscì a comprendere neanche il nome della bambina. Allora le tornò un po’ di malinconia, per quanto si fosse sforzata di farsi piacere quel Paese, per quanto bene avesse imparato a parlare e a comprendere la loro lingua, per quanto si fosse ambientata e la gente del posto non le sembrasse più così diversa da lei, rimaneva pur sempre la Spagna: un mondo totalmente differente dal suo.
In piazza c’era una ressa di persone indaffarate a parlare al cellulare, a navigare su internet, ad affrettarsi per non rischiare di perdere la metro. Una coppia di fidanzati stava litigando, un’altra stava facendo la pace. Eri distolse lo sguardo quando una lunga macchina nera, con
i finestrini scuri, passò sulla strada, accostando. Il trafficò rallentò, le persone si dimenticarono del motivo per cui stavano correndo o chi c’era all’altro capo del telefono. Era proprio una splendida macchina. Eri non se ne intendeva, ma fare un giretto lì dentro non le sarebbe dispiaciuto. Si chiese chi potesse nascondere a bordo un veicolo del genere, lungo quanto una barca, così lucente che il mondo intorno vi si specchiava. Lo sportello anteriore si aprì, nella luce tiepida di settembre un uomo in smoking e con il cappello calcato sul capo fece la sua comparsa. Anche se da lontano, la ragazza giapponese notò i guanti bianchi dell’autista e i folti baffi che spiccavano da sotto alla tesa del cappello scuro. Lo osservò posare la mano destra sulla maniglia della portiera di dietro e un giovane ragazzo, con pantaloni dalla fantasia militare decisamente troppo larghi per uno magrolino come lui, abbinati ad una t-shirt grigio topo, uscì dalla vettura. Ancor prima che Eri potesse riconoscerlo, lui si stava già sbracciando per salutarla. La ragazzina si guardò attorno, adesso sì che la gente la fissava con insistenza e a bocca aperta come se avessero visto un fantasma.
Kingsley la chiamò con le mani a coppa vicino alla bocca, facendole segno di raggiungerlo. Imbarazzata Eri si mosse con passettini svelti e la testa bassa, i capelli le ricaddero ai lati del viso. Kingsley le schioccò un bacio sulla guancia, cosa che fece sciogliere le gambe di Eri come se fossero di cera. L’autista richiuse lo sportello dopo che i due ragazzi furono saliti a bordo, qui la giovane rimase imbambolata: c’era l’imbarazzo della scelta dove accomodarsi. Lui al contrario era perfettamente a suo agio, spaparanzato sui sedili di pelle nera e le braccia allungate sulla spalliera, la caviglia destra sul ginocchio sinistro:
«É una limousine» disse, dopo che la sua compagna di banco si fu seduta in un angoletto, tutta composta. Non sembrava l'adolescente che aveva conosciuto a scuola «Mio padre non vuole che vada in giro da solo, così mi ha regalato Alfonso» il ragazzo picchiettò le nocche contro il vetro che divideva l’abitacolo dell’auto. Il finestrino si abbassò di qualche centimetro ed Eri incontrò gli occhietti scuri dell’uomo alla guida:
«Signorino Kingsley…»
«Alfonso, ti presento la mia amica Eri»
«Signorina …»
«Salve señor» Alfonso fece un cenno con la testa, poi il finestrino si sollevò di nuovo, isolando i due ragazzi. Kingsley sbirciò nel mini frigo al centro della macchina, quindi elencò le bibite che conteneva:
«Coca-cola, fanta, sprite, acqua, succo a mela, succo a pera, succo a pesca, tè a limone, tè alla pesca, succo a..»
«Niente, grazie» lo interruppe Eri. Kingsley si voltò a guardarla, un sopracciglio sollevato per sottolineare l’espressione interrogativa «Sto bene così»
«Ok» rispose lui, prendendo una coca-cola per sé e giocherellando con la linguetta della lattina, facendo il gioco delle lettere, quello dove bisogna dire l’alfabeto fin quando la linguetta si stacca e la lettera che esce è quella del futuro amore. Kingsley iniziò «A, B, C, D, E, F …» ripetendo l’alfabeto per intero un paio di volte, poi la linguetta si staccò con un tac secco e lui sollevò lo sguardo sulla ragazza, un sorrisino beffardo sulle labbra «Mi è uscita la E» disse facendole l’occhiolino, tenendo la linguetta fra indice e pollice, mostrandola come fosse un trofeo. Eri arrossì e disse che era una splendida giornata.
 
I cancelli automatici si aprirono silenziosi. La ragazza vide attraverso i vetri scuri dell’automobile due guardie, poste ad entrambi i lati del cancello, battere l’attenti con lo sguardo fisso davanti a loro, sembravano statue di marmo, in uniforme e il fucile eretto contro la spalla. Guardò Kingsley seduto di fronte a lei, sembrava divertito dalla sua interdizione, dai suoi occhi allungati che andavano veloci da lui ai militari. Di nuovo, come pocanzi, le strizzò l’occhio. L’autoveicolo proseguì lentamente per diversi metri, lungo un sentiero alberato e curato, finalmente si fermò, ma questa volta non fu l’autista ad aprire la portiera dell’automobile, lo fece una donna di mezza età, con indosso un grembiule e dal forte accento spagnolo. Sicuramente una nativa del luogo. Eri scese ringraziando e, accecata dalla luce del sole, si coprì gli occhi con la mano seguendo fino alla fine l’altezza della costruzione che si ergeva dinnanzi a lei. Alla ragazza ricordò una di quei palazzi vittoriani che aveva visto solo nei film ambientati in epoche remote, dove c’erano ancora re e regine che valevano qualcosa. Alle sue spalle una fontana con l’acqua che sgorgava da anfore imbracciate da quattro statue – questa volta fatte veramente di marmo – con i seni nudi e una coda di pesce al posto delle gambe. Al centro re Tritone con il suo forcone, tenuto ben saldo nel pugno destro. La macchina si allontanò, la giapponese la seguì con lo sguardo, quindi Kingsley le sfiorò la schiena, mostrandole l’entrata maestosa della casa. Insieme salirono le scale e si inoltrarono all’interno della dimora. Un enorme salone si aprì dinnanzi a lei, decorato da quadri dalle cornici d’oro alle pareti, i pendenti di cristallo dell’imponente lampadario appeso al soffitto tintinnavano per la leggera brezza, emanando bagliori colorati che si riflettevano sulle vetrate tutte intorno. Eri se ne stava con il naso all’insù quando la stessa donna che aveva aperto lo sportello, si rivolse a Kingsley come aveva già fatto Alfonso – l’autista – e chiamandolo con l’appellativo di signorino gli chiese cosa preferivano, se tè o una bibita fresca. Senza interpellarla il ragazzo rispose che il tè andava bene, grazie Rosita. La donna si congedò con un mezzo inchino. Kingsley fece segno alla sua amica di seguirlo, su per la scalinata che si inerpicava davanti a loro, diramandosi in due direzione. Virò a destra ed Eri lo pedinò senza spiccicar parola, iniziava a chiedersi se per caso non stesse sognando. Un’altra donna, questa volta più giovane, ma vestita uguale a Rosita, li attendeva nel corridoio, salutò entrambi con una mezza riverenza e aprì per loro una porta, richiudendola dopo che erano entrati.
La stanza si rivelò essere una biblioteca, con centinaia e centinaia di libri.
«Wow!» esclamò Eri, mentre Kingsley si sedeva ad un lungo tavolo di legno scuro «Vorrei vivere in eterno solo per leggerli tutti» disse girando su sé stessa per osservare la planimetria a mezza luna degli scaffali ricolmi di volumi
«Io vorrei morire adesso per non leggerne neanche metà» fu la risposta di Kingsley e la ragazza puntò lo sguardo su di lui:
«Abiti davvero qui?» chiese liberandosi dello zaino, senza però riuscire a sedersi, tanta era l’adrenalina che provava
«Così pare»
«Cosa sei? Una specie di principe?» scherzò Eri, ma lui non parve molto divertito
«Sono un premio» disse, fece per aggiungere altro, ma quando Rosita entrò – annunciandosi con un toc-toc – si zittì. La donna spingeva un carrello con sopra una teiera finemente lavorata, due tazze capovolte e una zuccheriera che dovevano far parte della stessa collezione della prima, un vassoio e una biscottiera. Rosita capovolse una delle due tazze e vi versò dentro il tè, ma Kingsley alzò un palmo:
«Va bene così Rosita, puoi andare» la donna lasciò perdere tazze e teiera e si allontanò camminando all’indietro fino a raggiungere l’uscita, chiudendo la porta della biblioteca.
Il ragazzo si alzò e porse all’invitata la tazza con il tè che la stessa cameriera aveva riempito, quindi prese al volo un pezzo di torta di mele dal vassoio. Eri zuccherò il tè e lo assaggiò: era caldo e aveva un buon sapore, delicato. Da sopra la tazza osservò l’amico, i capelli ricciuti sul capo, la treccina colorata sul lato sinistro, la carnagione scura. Non se ne intendeva molto di popoli e di colori, ma di sicuro quello lì non era spagnolo.
«Kingsley …» disse per attirare la sua attenzione «Io sono giapponese, ma tu cosa sei? Africano?» lui rise
«Sono francese, mademoiselle» rispose, facendo un inchino da vero gentiluomo, con una mano premuta all’altezza dello stomaco e l’altra attaccata al corpo. Questa volta a ridere fu lei:
«Smettila, tanto non ti credo»
«Sei hai cinque minuti ti racconto la mia storia» continuò il ragazzo invitandola a mettersi comoda con un gesto della mano e lei obbedì, sedendosi sulla poltroncina lì vicino. Lui prese posto al suo fianco, tirandosi appresso il carrello con le cose da mangiare «A patto che poi tu mi racconti la tua di storia»
«Ci sto!» rispose Eri. Kingsley le tese la mano, come a voler siglare un patto, una promessa. La ragazza gliela strinse con forza.
 
Oramai il tè nella tazza si era raffreddato e la ragazzina lo mise da parte perché freddo non le piaceva. Aveva provato a berne un sorso, storcendo il muso, e Kingsley le aveva tolto la tazza di mano, senza smettere di parlare, ma porgendole la biscottiera coi frollini al cacao. La torta di mele se l’era mangiata tutta lui: narrando, mangiando e bevendo per non soffocare.
Kingsley aveva iniziato il racconto della storia della sua vita parlando in terza persona e lì per lì Eri non ci aveva capito molto, allora l’aveva fermato sollevando l’indice – come si fa a scuola quando si vuole intervenire – e gli aveva chiesto chi fosse “l’orfanello nero” di cui stava parlando. Lui le aveva risposto con la bocca piena di torta:
«Sto parlando di Kingsley, ovviamente» quindi aveva continuato il racconto «Fino all’età di dodici anni l’orfano ha vissuto in diverse famiglie, ma nessuna si era affezionata a lui, così allo scadere dei tre mesi tornava all’istituto di Parigi ancora più incazzato di quando lo aveva lasciato. Stai crescendo, gli dicevano, se continui così vivrai sotto un ponte» il ragazzo allargò le braccia e distese la labbra in un sorriso amaro «Per essere un ponte questa casa non è male, non trovi?!» Eri non rispose e lui intese il suo silenzio come un consenso «L’orfano nero era oramai cresciuto e a sedici anni si è troppo vecchi per trovare una famiglia a tempo indeterminato» la ragazza giapponese ebbe la sensazione che parlasse di lui come di una cosa, un oggetto, un contratto di lavoro. Forse perché semplicemente lo era davvero «Poi un giorno arrivarono due uomini e una donna che pretesero di avere un colloquio con la presidente dell’istituto. Una vecchia zitella che nessuno aveva avuto il coraggio di farsi da giovane e perciò, pensavano i ragazzi, era così acida» Eri spalancò gli occhi. Dov’era finito il ragazzo gentile che l’aveva invitata quella mattina a fare i compiti insieme? Iniziava a mancarle.
«Comunque, dopo un’ora di chiacchierata, uscirono tutti e quattro dall’ufficio. Anzi, tutti e tre, uno dei due uomini era rimasto fuori a fare da guardia alla porta come un cane da guardia … stavo dicendo?!»
«Che dopo un’ora sono usciti dall’ufficio …»
«Ah, si! Sono usciti e la presidente ha chiamato tre orfanelli: Kingsley , un orfano nero che non aveva mai conosciuto i genitori; Claudette Barbie Blonde, una bambina così bionda che la chiamavano Barbie per sfotterla, visto che lei alle Barbie tagliava i capelli e se la facevano arrabbiare anche un arto; e Maurice Mauri Mau, un tipo strano che come Kingsley era figlio di coloni dell’Africa»
«Ha-Ha! Allora sei africano?!»
«No, orientale, sono francese, nato a Parigi. La Francia ha diverse colonie in Africa e probabilmente i miei genitori si trasferirono in Francia a causa delle guerre civili. Mi hanno detto che potrei essere anche figlio di un nero e di una bianca …» Eri rimase in silenzio, interdetta, dopo la storia spagnola che era costretta a studiare a scuola, ci mancava quella europea e africana! «Ti dicevo: presero questi tre orfani e li misero in fila, braccia dietro la schiena e testa china. La donna li osservò uno per uno, soffermandosi e scribacchiando chissà cosa su un’agenda che teneva in mano. Kingsley era il più grande dei tre e la donna indugiò proprio davanti a lui, poi disse che aveva scelto. Quella fu l’ultima notte che l'orfanello nero trascorse sul materasso mangiucchiato dalle tarme dell’istituto.»
Kingsley sorrise e offrì un altro biscotto alla sua amica, le sembrava leggermente turbata, forse era meglio saltare i particolari, si disse, ma lui amava aggiungere descrizioni, vere e non. Le chiese se desiderava un altro po’ di tè caldo, Eri fece per rispondergli di no, ma lui aveva giù convocato la cameriera con un apparecchio di comunicazione interna alla casa che la ragazza, inizialmente, aveva scambiato per un comune telefono a muro. Dopo qualche minuto arrivò Rosita con un nuovo carrello e tazze fumanti, si scusò affermando che la torta di mele era finita. Kingsley la liquidò in fretta e la donna uscì dalla biblioteca portando con sé il vecchio carrello. Eri bevve un po’ di tè, stavolta aveva intenzione di finirlo prima che si raffreddasse. Intanto il racconto riprese:
«L’orfano il giorno dopo fu lavato come un cavallo, la pelle strofinata con spugna e sapone, vestito e pettinato. Volevano tagliargli la treccina …» se la carezzò distrattamente «… ma udendo le urla del ragazzo la donna del giorno prima, in attesa fuori alla stanza, entrò senza bussare, ordinando di lasciarlo in pace. Così Kingsley si tenne la sua treccina porta fortuna» ancora una volta le fece l’occhiolino e la ragazza arrossì lievemente, quasi avesse combattuto per tenersi quella treccia come fosse una cosa che riguardasse entrambi «Il ragazzo salì su una splendida auto, non bella quanto quella che hai visto tu, ma comunque importante, in compagnia della donna e dei due uomini del giorno precedente. Immediatamente notò le due bandierine che sventolavano sul muso della macchina: una era quella francese, l’altra non l’aveva mai vista. Fu portato in un enorme palazzo antico, ovunque c’erano quelle bandiere sconosciute. La donna lo accompagnò fin dentro una grande camera, molto simile a questa, ma con meno libri, dove gli disse di attendere. Rimasto solo l’orfano nero prese a giocherellare con la bandierina dai colori sconosciuti posta sulla scrivania, accanto al portapenne.»
Eri ascoltava il suo amico tenendo gli occhi fissi dentro i suoi, non era una di quelle che abbassa lo sguardo lei, proprio come suo padre, fiero e gagliardo dinnanzi a qualsiasi situazione o persona. Ogni tanto assaporava il calore del tè sorseggiandolo, stringendo la tazza con tutte e due le mani. Più volte si era chiesta, durante il racconto di Kingsley, se per caso non la stesse prendendo in giro, quella storia sapeva troppo di romanzo dickensiano. Eppure lui non aveva avuto un momento di cedimento, non si era fermato un attimo a soppesare le parole che pronunciava, come se tutte quelle immagini fossero ben impresse nella sua mente e sulla sua pelle.
«Era la bandiera della Spagna?» chiese ad un tratto lei e lui sorrise, mimando una pistola con le dita:
«Bingo!» esclamò «Sei una scaltra tu!» ancora quell’occhiolino «Ti dicevo che l'orfano curiosava per la stanza quando tornò la donna che lo aveva chiuso dentro, accompagnata questa volta da un uomo e da un’altra donna, più anziana. Entrambi più anziani della prima a dire la verità, o almeno anziani quanto possono esserlo due cinquantenni agli occhi di un ragazzo»
«Erano i tuoi genitori adottivi?» gli domandò Eri, cominciava a stufarsi, quella storia sembrava non avere un dunque, né tanto meno una fine e lei ferveva dalla voglia di sapere, di conoscere
«Hai fatto di nuovo centro! Brava, brava!» Kingsley prese un po’ di tè per sé, aveva la gola secca dal tanto parlare «La donna li presentò come il signore e la signora Rodriguez. Lui guardò il ragazzo dal basso verso l’alto, non era molto slanciato, e la moglie ancor meno, ma aveva un viso dolce a dispetto del marito. Questo disse che aveva da fare e se ne andò, la moglie e l’altra donna rimasero a chiacchierare a lungo con il ragazzo e quella stessa sera si avviarono le pratiche per l’adozione» l’espressione di Kingsley esplose in un gran sorriso
«E poi?» chiese Eri
«E poi cosa?»
«E poi tutto! Come ti sei trovato qui dalla Francia? Come mai vivi in un castello
«Ho trascorso il primo anno lì, a Parigi. Il signor Matteo Rodriguez era ambasciatore spagnolo in Francia, poi è dovuto rientrare per le elezioni, candidandosi alla carica di ministro degli affari esteri. Ed eccomi qui!» aprì le braccia per sottolineare la sua presenza fisica
«Tuo padre è un ministro?!» Eri non poteva crederci, eppure lui confermò la sua tesi annuendo e mangiando un altro biscotto. Lei aggiunse: «Prima mi hai detto che sei un premio, in che senso?»
«Quale popolo non vorrebbe al comando un politico che aiuta gli orfanelli?!» e allora Eri capì. Era stato tutto programmato: la sua adozione, il ritorno in patria dopo un anno e la campagna elettorale. Ci avrebbe scommesso la testa che il padre adottivo se lo trascinava appresso durante i comizi mostrandolo alla folla come un premio, appunto. Un trofeo.
«Parli bene lo spagnolo per essere un francese»
«In Francia avevo dei maestri a domicilio che mi hanno insegnato praticamente tutto, rivolgendosi a me categoricamente in spagnolo. Negli orfanotrofi insegnano a male appena a leggere e a scrivere. Ma ora, per fortuna, sono in classe con te!» Eri arrossì un pochino «Mia madre un giorno si è spazientita dicendo che dovevo andare ad una vera scuola per farmi degli amici e mio padre non ha potuto rifiutarsi. Avresti dovuto sentire come urlava!»  rise, ma Eri non ci trovò proprio nulla di divertente.
 
Dopo un po’ Eri capì una cosa fondamentale: Kingsley Rodriguez, che era mancato da scuola per una settimana, ne sapeva più di lei sulle lezioni che si era perso. La situazione cominciò ad esserle chiara quando la precedeva nella spiegazione di storia, o riusciva a risolvere un’equazione in tre passaggi, mentre lei si era già persa nei labirinti oscuri della matematica. All’ennesimo calcolo sbagliato sbottò:
«Basta!» abbandonò la matita sul tavolo e si mise a braccia conserte, il ragazzo di fronte a lei alzò gli occhi dal quaderno a quadri e abbozzò un sorriso «Qui l’unica persona in difficoltà sono io!»
«Dai, ti aiuto …» Kingsley si levò per prendere posto al fianco dell’amica
«Se sei così bravo, perché mi hai invitato a casa tua per studiare insieme? Per raccontarmi la tua storia? Per sfogarti? Per farti compatire?»
«Per passare un po’ di tempo insieme e si, per raccontarti la mia storia e conoscere la tua. Avevi promesso che me l’avresti raccontata …»
«Mio padre è spagnolo, è morto e mi sono trasferita qua con okaasan» Kingsley fece una faccia interrogativa «Cioè mia mamma»
«Tutto qua?»
«Si, tutto qua»
«Come è morto tuo padre?»
«Incidente stradale, in Giappone. Io avevo tipo sei anni» il ragazzo la osservò per un po’, in silenzio, comprese che quello era un argomento ancora tabù, non tanto per la perdita del genitore in sé, quanto per un sentimento che faceva a pugni dentro di lei. Raccolse la matita di Eri adagiata su un foglio di brutta, tutto stropicciato e pieno di cancellature e iniziò cerchiando un’operazione:
«Ecco l’errore: il segno meno davanti alla parentesi trasforma tutti quelli che stanno all’interno …» Eri ascoltò attenta la spiegazione, Kingsley sapeva spiegarsi perfettamente e usava termini semplici, così come aveva fatto durante la narrazione della sua vita.
«Rodriguez» lo chiamò e lui si fermò dall’illustrare la risoluzione di matematica «Perché hai raccontato la tua vita parlando di te come di un’altra persona?»
«Perché lo ero. Ero un’altra persona, avevo un’altra vita, non posso considerare questa e quella come la stessa cosa. Sono cambiato e quindi non sono più la persona che ero»
«Cosa hai fatto durante la settimana di assenza a scuola?» lui sorrise
«Non vuoi parlare di te, ma …»
«Se non vuoi o non puoi dirmelo non fa niente»
«Sono andato con mio padre fra la gente povera. Il mio caro papino ha ben pensato che mostrandomi loro, questi avrebbero avuto speranza per il futuro. Poi ha aggiunto che però avrebbero dovuto lavorare sodo, altrimenti come si può pretendere di raggiungere certi obiettivi nella vita? Come se non si spezzassero già la schiena tutti i giorni!»
Notando lo sguardo colmo di odio e di rancore del ragazzo, Eri preferì riprendere la spiegazione sulle equazioni.
 
 
 
 

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Capitolo 6
*** Capitolo 6 - Sono solo ali e piume ***


Capitolo 6
Sono solo ali e piume
 
Yumiko sollevò le palpebre una volta, le richiuse, se le stropicciò con i pugni e le riaprì definitivamente. Era distesa di lato sul divano, Macchia se ne stava accoccolata ai suoi piedi, alzò la testa per scambiare uno sguardo con la padrona, la quale le concesse una lunga carezza, mentre le immagini del sogno che aveva fatto prendevano forma nella propria mente. Aveva sognato Joacquin Morales, non che fosse una novità, certo, la cosa strana è che si era rivolto a lei con un’espressione felice. Da quando il suo innamorato era passato a miglior vita, Yumiko l’aveva sempre sognato triste, spesso seduto in un angolo a piangere, senza che le sue consolazioni potessero aiutarlo. Lo vedeva con la testa fra le mani a gemere come un bambino, mentre le diceva che se voleva veramente aiutarlo doveva smettere di soffrire. Yumiko non credeva nei sogni, ma la sua okaasan, sua madre, aveva insistito per andare a rendere omaggio ad una vecchia cieca che si diceva parlasse coi morti. Così la donna cieca, ma che sapeva riconoscere una banconota da diecimila yen da una di mille solo odorandola, le ordinò di smetterla di disperarsi per la morte del suo fidanzato, o lui non avrebbe potuto riposare in pace e, soprattutto, che avrebbe dovuto iniziare a prendersi cura di sua figlia, senza provare vergogna alcuna. La vecchia usò parole meno chiare e decisamente più criptiche, definendo Joacquin Morales “l’amore venuto dal sud” e sua figlia Eri “la tua meticcia”. Yumiko provò a dare ascolto ai suoi consigli e le cose migliorarono, seppur dopo diverso tempo. Ora Joacquin le aveva sorriso, avrebbe dovuto farle piacere, tante volte aveva immaginato il momento in cui lui le avrebbe rivolto di nuovo un sorriso, ed invece provava un’enorme vuoto dentro.
Il cellulare vibrò e vide lampeggiare sul display la bustina di un messaggio ricevuto: Eri la informava di non preoccuparsi, l’avrebbe riaccompagnata a casa la sua amica. Allora Yumiko le scrisse per chiederle come sarebbe tornata, non le piaceva il fatto che se ne andasse a zonzo dopo il tramonto. Eri la tranquillizzò rispondendole che sarebbe tornata in macchina. “Chi guida, scusa?” continuò Yumiko intanto che iniziava a prepararsi per il lavoro. “La mamma, mi pare ovvio! Buon lavoro … sorellona” Yumiko lesse e scosse il capo. Sorellona, come no! Aveva proferito quella bugia inutilmente e anche ingenuamente, figuriamoci se uno come il suo capo potesse interessarsi ad una ragazza più vecchia di lui e … scialba. 
La donna si guardò allo specchio, gli occhi allungati erano contornati di nero, le guance appena colorate di rosa, le labbra lucide. Cercò e trovò il mascara, pensò che un altro po’ di colore e volume alle ciglia non avrebbe guastato, quindi si sistemò la frangia con le dita, spazzolò i capelli lunghi fino alla base del collo e lanciò un’ultima occhiata generale. No, se fosse stata un uomo non si sarebbe neanche presa la briga di voltarsi per osservare una come lei. Da quella famosa notte in cui Ricardo Salas si era presentato, era stata sempre più accorta al trucco e all’abbigliamento che indossava per andare a lavoro, nonostante lì avesse dovuto mettere la divisa da coniglietta. Tuttavia non l’aveva più rivisto. Neanche di sfuggita, neanche per sbaglio. Avrebbe potuto chiedere ad Oscar, la drag queen, e spesso si era dovuta morsicare la lingua per non farlo. E non l’aveva fatto.
Prima di uscire di casa scrisse un post-it per Eri, in cui la informava che c’era del riso scaldato e verdura cotta al vapore nel microonde, quindi lo appiccicò fra le calamite sull’anta del frigorifero. Riempì la ciotola di Macchia con i suoi croccantini preferiti, abbondò con l’acqua e uscì.
 
Oscar si accomodò sullo sgabello dinnanzi a Yumiko, chiedendole un “bicchierino”. Con un sorriso comprensivo la donna gli versò un po’ di Jack Daniel’s, ma lui ne chiese di più e lei obbedì, sporgendosi in avanti, puntellandosi sui gomiti adagiati alla superficie del banco:
«Allora nii-chan, serataccia?!» il suo “fratellone” Oscar la guardò fra sopracciglia finte e piume viola che gli cadevano davanti al volto dal cappello che teneva in testa, quindi sospirò:
«Le nuove ballerine non sanno neanche sculettare, così perderemo i clienti e a quello lì pare non fregargliene niente»
«Quello chi?» chiese Yumiko senza smettere di sorridere. Oscar si scostò leggermente di lato e lei vide un gruppo di persone sedute intorno ad un tavolo. C’erano soprattutto ragazze giovani e avvenenti - Yumiko ne contò cinque . Nonostante la luce soffusa, non era difficile immaginarle con addosso le vestaglie di seta bianca del night club che indossavano a fine serata per nascondere le loro nudità, fare il giro della sala salutando i clienti più importanti o quelli nuovi, invitandoli con smancerie a non perdersi l’esilarante spettacolo della sera successiva. Fra queste fanciulle era impossibile non accorgersi di lui e, manco a dirlo, quando Yumiko lo vide smise di sorridere. Oscar ingollò in un solo colpo il liquore e posò il bicchiere sul bancone producendo un colpo secco. Storse il muso per il sapore forte e amaro, dalla trachea il senso di bruciore si diffuse fino allo stomaco:
«Guardalo! Si diverte come se non rischiasse di essere fatto fuori dagli altri!»
Ricardo Salas si voltò verso di loro, quasi si sentisse osservato. Sorrise di sbieco all’amico, quindi posò gli occhi sulla barista, la quale prontamente distolse lo sguardo, imbarazzata. Oscar gli fece un cenno con il capo prima di tornare a studiare Yumiko e la sua reazione. La vide fingere di essere occupata a lavare il bicchiere che gli aveva servito, il viso era completamento oscurato sotto la frangia. Oscar aprì la bocca per dire qualcosa, ma ci ripensò, allora diede un paio di colpetti sulla superficie di linoleum del banco a mo’ di saluto e Yumiko si sforzò di sorridergli:
«Stai attenta, tesoro. Solo questo: stai attenta» disse allontanandosi sotto lo sguardo perplesso di lei che, come una calamita attratta dal ferro, si ritrovò ad osservare nella direzione in cui era accomodato il suo datore di lavoro. Lui la stava già scrutando. Di fronte a quello sguardo incalzante e sfrontato Yumiko si sentì le gambe molli, le mani immobili a tenere il bicchierino che, riempiendosi d’acqua sotto il getto della fontana, creava una specie di brutta fontanella. Solo quando Ricardo abbozzò un sorrisino Yumiko si decise a chinare la testa e chiudere il rubinetto.
Gli diede le spalle e asciugò il bicchiere con uno straccio, riponendolo dove l’aveva preso. Si obbligò a riassettare il suo lato di bar senza alzare gli occhi da quello che era impegnata a fare. Forse trascorsero secondi, forse minuti, fatto sta che udendo la sua voce così vicina la donna giapponese sobbalzò:
«Si?!» chiese semplicemente Ricardo. Aveva l’aria di uno che se la spassa alla grande:
«Pr-prego?» continuò Yumiko, sbattendo le palpebre un paio di volte
«Ho notato che mi stai osservando da po’ …» il tono di lui era basso e tranquillo, non lasciava trasparire alcuna particolare emozione, eccetto quella del divertimento. Girò intorno al bancone facendo scivolare l’indice sulla superficie ripulita da poco, senza abbassare mai lo sguardo da lei, fermandosi solo quando le fu di fronte, senza nient’altro a interporsi fra loro due « … devi dirmi qualcosa?»
«No, señor, non devo dirle nul-»
Fu un attimo e la terra tremò.
I bicchieri caddero dagli scaffali producendo un tintinnio sinistro di vetri che si infrangono; le bottiglie di liquore prima si scossero urtando fra loro, poi quelle più leggere precipitarono sul pavimento come corpi che si gettano da un balcone. Da subito si udirono le urla delle poche persone ancora in sala, per lo più si trattava di gente che al night ci lavorava, qualcun altro gridò di proteggersi la testa infilandosi sotto i tavoli.
Yumiko si piegò su sé stessa, difendendosi la testa con le mani, ma Salas la afferrò per il polso e la trascinò giù con sé, incastrandosi in uno spazio angusto e libero sotto al bancone. Quello era il posto della spazzatura che era stata portata fuori dall’addetta per quella sera. Stupidamente Yumiko si ritrovò a pensare che da quando aveva conosciuto Ricardo non l’avevano più inserita nella turnazione dei turni per buttare l'immondizia.
Una mano le carezzava i capelli, l’altra la sentiva tiepida e rassicurante all’altezza dello sterno, appena sotto il seno destro. Il cuore di lui batteva forte, lo avvertiva chiaramente grazie all’orecchio adagiato sul suo petto. Yumiko si rese conto di essere addosso al suo capo, il quale la teneva stretta manco fosse stata una bambina da proteggere.
In fondo, si disse, dopo tanto tempo era bello tornare un po’ bambina e non dover pensare sempre a tutto, allora abbassò le palpebre e si godette il terremoto.
 
La terra smise di tremare dopo diversi secondi.
All’improvviso i bicchieri sul banco avevano iniziato a tintinnare, le bottiglie di liquore erano cadute al suolo con un tonfo acuto, l’aria si era impregnata di un pesante odore di alcool e le voci strillanti delle ballerine erano rimbombate come sirene.
La terra aveva smesso di scuotersi, eppure un tremolio smuoveva ancora Yumiko che finalmente si decise a riaprire gli occhi. Come aveva inteso non era il suo corpo a tremare, ma quello contro il quale era rannicchiata. Sollevò il capo per guardare Ricardo, attraverso il palmo poggiato al petto sentiva il suo cuore pompare come un ossesso. Lui si sforzò di sorridere:
«Diciamo che il terremoto non è proprio la mia passione.»
Yumiko lo fissò per un po’, stordita e stralunata. Il sorriso del ragazzo era contratto in una smorfia, controluce spiccava il sudore sulla fronte, il suo corpo continuava a tremare. La ragazza gli prese la mano e la sentì gelida. Sapeva benissimo come si chiamava quello stato d’animo: paura. L’aveva provata la notte in cui era morto il suo fidanzato e aveva continuato a sentirla ogni volta che Eri aveva avuto la febbre così alta da farla delirare.
Già, Eri!
Eri aveva paura del terremoto quasi quanto Ricardo Salas, con la differenza che lei era a casa da sola. Yumiko tentò di uscire dalla stretta del suo capo in maniera goffa, udendo appena le parole di lui che la raccomandavano di fare attenzione ai vetri sul pavimento. Yumiko uscì carponi, incurante delle mattonelle bagnate e dei pezzi di vetro che si infilarono nei palmi delle mani. Salas la seguì a ruota, mentre da lontano gli occhi scrutatori di Oscar osservavano ogni loro movimento.
La pedinò fin dentro gli spogliatoi, lì il chiasso della sala si udiva appena. La maggior parte dei dipendenti del locale si erano fermati a confrontare le proprie emozioni a proposito della scossa, molti erano scappati fuori a prendere una boccata d’aria, pensando che se ne fosse arrivata un’altra lì erano al sicuro.
Yumiko aprì il suo armadietto e prese a sfilarsi il vestito da coniglietta, rimanendo in biancheria intima, Ricardo non si preoccupò di guardare altrove, né lei aveva tempo di pensarci. La sua mente era rivolta esclusivamente alla figlia.
«Tutto ok?» le chiese
«Eri è a casa da sola …» rispose Yumiko meccanicamente, indossando i jeans
«Eri sarebbe tua sorella, giusto?»
Il cuore di Yumiko mancò un battito. Si chiuse i bottoni della camicia in maniera frettolosa e si sedette sulle panche per liberarsi dei tacchi e allacciare le scarpette da ginnastica, chiuse la cerniera del borsone e afferrò il giubbotto, quindi alzò gli occhi a mandorla su di lui:
«Mi dispiace, domani andrò via un’ora più tardi, ma stasera non posso rimanere a dare una mano a pulire» fece un leggero inchino «Gomena sai» con quell’ultima richiesta di perdono uscì dalla stanza e si diresse direttamente al parcheggio, senza neanche fermarsi a dare spiegazioni a coloro che gliene chiedevano.
 
Ricardo Salas rimase qualche minuto negli spogliatoi femminili, seduto sulle panche. Qualcosa era cambiato d’improvviso nello sguardo di quella donna minuta. Era come se la ragazza timida e impacciata che conosceva avesse lasciato il posto ad una specie di gemella completamente diversa, caparbia e risoluta. Dal momento in cui aveva pensato a sua sorella Eri, Yumiko si era trasformata in un’altra persona, con una nuova luce negli occhi e quella luce Ricardo non riusciva a togliersela dalla testa. Alcune ballerine entrarono nella stanza, una si arrestò sulla soglia della porta vedendolo, l’altra al contrario gli si accostò accattivante, iniziando a slacciarsi la cintura della vestaglia e affermando che il terremoto l’aveva tanto spaventata. Ricardo si alzò assicurandole che il terremoto lo aveva spaventato più di quanto avesse fatto con lei, quindi uscì.
Oscar lo vide attraversare la sala come un fulmine, deviando le domande dei suoi dipendenti con scrollatine di spalle e pacche amichevoli. La stessa drag queen tentò di fermarlo, ma alla fine decise di seguirlo quando si rese conto che stava andando di tutta fretta al parcheggio, dove pocanzi aveva visto incamminarsi Yumiko.
Quest’ultima era ancora lì, seduta al posto di guida della sua Toyota Yaris che non voleva saperne di partire. In effetti era da qualche giorno che faceva fatica ad avviarsi, ma abbandonarla proprio in quel momento a Yumiko parve una vera bastardata!
Batté entrambe le mani sulle sterzo, inveendo nelle due lingue che conosceva meglio, ma soprattutto in spagnolo. Le sembrava che le parolacce ispaniche avessero un maggior phatos rispetto a quelle giapponesi. Sobbalzò quando sentì bussare al finestrino e lo abbassò vedendo il volto di Salas oltre di esso:
«Che succede?» le domandò e questa volta sembrava tornata la Yumiko che lui conosceva meglio, insicura e balbettante, mentre gli spiegava fra una parola comprensibile e un’altra un po’ meno, che la macchina non voleva mettersi in moto «Aspettami qui» le disse prima di tornare verso il locale.
 
Appoggiato alla porta d’ingresso Ricardo trovò proprio la persona che stava cercando: Oscar. Questi se ne stava a braccia conserte e lo sguardo penetrante, con l’aria di uno che dice “non mi freghi, ho capito tutto!”. Salas gli chiese le chiavi della sua macchina senza tanti preamboli:
«A che ti servono?» volle informasi Oscar
«La macchina di Yumiko non parte e devo accompagnarla a casa» Oscar acuì lo sguardo, ma Ricardo lo conosceva fin troppo bene per sapere che diffidava di quella situazione «E dai, Oscar! É urgente! La sua sorellina è da sola a casa e lei è preoccupata»
«La mia preoccupazione è un’altra invece …» Ricardo sbuffò:
«Non succederà niente. La accompagno a casa e poi torno qui a prendere te»
«L’ultima volta che hai detto una frase simile ho dovuto dormire nel locale e dopo due mesi piangevi perché credevi di aver messo incinta la ballerina che “avevi solo accompagnato a casa”» continuò la drag queen facendo il segno delle virgolette con le dita. Di nuovo Salas sbuffò, mostrandogli il palmo:
«Oscar, dammi le chiavi!»
«No»
«Sono stato l’unico amico che ti è rimasto vicino dopo che avevi tentato di baciare Mattias nel bagno della scuola a 15 anni» quella era la storia – vera – che Ricardo usava sempre quando voleva qualcosa da lui perché sapeva non ci sarebbe stato debito capace di supplire a quell’inconfutabile prova di amicizia. Infatti Oscar estrasse il portachiavi dalla tasca e glielo lasciò cadere al centro del palmo che subito si chiuse a pugno «Grazie, amico!» Salas gli fece l’occhiolino e trottò via. Oscar scosse il capo e tornò dentro. Aveva la sensazione che quella sera avrebbe dovuto lavorare anche lui per ripulire il night club.
 
La macchina di Oscar era una di quelle sportive a due posti, di un giallo canarino che non passava di certo inosservata, ma che in fondo si addiceva perfettamente al suo padrone e alla sua caratteristica principale: l’egocentricità.
Yumiko non si era fatta supplicare e già dopo il primo invito del suo capo a seguirlo, l’avrebbe accompagnata lui a casa, aveva lasciato l’abitacolo della Yaris afferrando al volo il borsone ed entrando nell’auto gialla. Sapeva che si trattava della macchina di Oscar, ma non aveva fatto domande in merito, non le importava di chi fosse realmente quel veicolo e perché avesse lui le chiavi. Ciò che contava per lei era arrivare a casa il prima possibile e assicurarsi che Eri stesse bene. Inoltre una vocina dentro di sé le suggeriva di fidarsi di Ricardo Salas: forse erano gli occhi profondi che – volendo – potevano ricordare quelli di Joaquin; forse il sorriso spontaneo che gli fioriva sulla bocca quando le parlava. O forse tutti e due.
Il ragazzo guidò per le strade della capitale senza premere sull’acceleratore, nonostante avesse fretta di raggiungere la casa di Yumiko il prima possibile. Un po’ perché non conosceva la strada e la ragazza giapponese gli faceva da navigatore – gira a destra, la prossima a sinistra, all’incrocio vai dritto –, ma anche perché c’erano forze dell’ordine che stavano avendo premura di tranquillizzare le persone invitandole a tornare nelle proprie abitazioni: il terremoto non aveva recato alcun danno a cose o persone, come diceva il radiogiornale.
Quando Ricardo aveva avviato la macchina del suo amico, in automatico si era acceso lo stereo e il cd di canzoni anni 60’ aveva invaso l’angusto abitacolo. Era la musica preferita di Oscar e in altre circostanze avrebbero riso, ma in quel momento non lo fecero, poi Salas aveva cercato una stazione radio che li informasse sulla situazione del loro Paese, così erano venuti a conoscenza che l’epicentro era stato a diversi chilometri da Madrid.
«Hai sentito? Non ci sono stati danni» disse lui a metà del viaggio, quando le uniche frasi che si erano scambiati erano state inerenti alla via da percorrere
«Hai» Yumiko rispose con un secco “si”, continuando a guardare fuori dal finestrino, quindi indicò a destra «Gira qui, gira qui!» e Salas eseguì, comprendendo che avrebbe dovuto aspettare un momento migliore per scambiare due parole con lei, così rimase in silenzio fino a raggiungere il palazzo dove viveva la giapponese.
 
In tutta sincerità Ricardo si era aspettato una casa più decadente, magari in periferia, invece l’appartamento di Yumiko era sito in una delle vie principali della capitale che si collegava bene con il centro della città. Il palazzo, seppur antico, era tenuto in perfetto stato e la gente che sostava davanti al portone d’ingresso sembravano famiglie per bene.
La ragazza si precipitò fuori dalla macchina, dimentica del borsone e di ringraziarlo, o perlomeno salutarlo. Ricardo la chiamò, ma lei non si voltò indietro, sparì all’interno del palazzo e a lui non rimase che spegnere l’auto e seguirla. La gente li guardò, le signore scossero il capo: per loro una ragazza così giovane con una figlia, senza un marito e lontana chilometri da casa era una bestemmia, figuriamoci presentarsi lì con un uomo che guidava una macchina sportiva di colore giallo, con i capelli rasati ai lati e i tatuaggi che spiccavano sulle braccia!
Salas la inseguì lungo la rampa di scale, tenendo il borsone nella mano sinistra e mantenendosi al corrimano con la destra, facendo le scale a due a due, ma Yumiko era piccoletta e scaltra e la raggiunse solo davanti alla porta di casa. Era in preda al panico, non riusciva a infilare la chiave nella serratura, tanto era agitata. Ricardo le posò una mano sulla sua, Yumiko si voltò a guardarlo, aveva le lacrime agli occhi e il cuore in gola:
«Calma» strinse un po’ di più la presa e fece scattare la chiave nella serratura una volta «Calma» disse di nuovo aprendola.
 
Eri se ne stava sotto al tavolo della cucina con Macchia stretta al petto. Si dondolava avanti e indietro, sussurrando all’animale che la mamma sarebbe arrivata presto, senza dimenticare di pregare suo padre di non lasciarla sola.
Yumiko la vide solo accendendo la luce e illuminando il soggiorno/cucina, si affacciò sotto il tavolo e le porse la mano, parlandole in giapponese. Ricardo Salas rimase sulla soglia dell’ingresso, il borsone ancora in mano, ad osservare la scena. C’era qualcosa di tremendamente materno nel loro abbraccio, nelle parole sussurrate che, nonostante non comprendesse, sembravano di conforto per quella ragazzina terrorizzata. Le vide incamminarsi l’una abbracciata all’altra all’interno della casa e ancora attese, chinandosi sulle ginocchia quando Macchia gli si avvicinò, scodinzolando e con la lingua di fuori. La carezzò, chiedendole se avesse fatto un buon lavoro tenendo compagnia alla sua padroncina, poi sorrise, continuando che era davvero brutta, tutta rinsecchita e con quella macchia nera sull’occhio. Il cane in tutta risposta abbaiò un paio di volte. Yumiko ritornò dopo qualche minuto e sembrò ricordarsi solo in quel momento di lui e della sua presenza. Si scusò, come oramai faceva sempre ogni qual volta lo incontrava, per un motivo o per un altro. Si chinò leggermente in avanti e si scusò ancora per avergli lasciato il borsone che si affrettò a prendere con sé, si scusò di nuovo per averlo lasciato sulla soglia della porta e un po’ per rispetto, un po’ per soggezione, lo invitò ad entrare, spiegando che voleva mettere a bollire dell’acqua per preparare del tè ad Eri. Mentre Yumiko metteva il bollitore sul fuoco, Ricardo rifiutò e disse di dover andare via, frattanto gli altri condomini stavano ritornando nelle loro case, lanciando sguardi di dissenso verso i due ragazzi all’entrata dell’appartamento. Yumiko arrossì vistosamente. Salas si disse che era ora di andare, eppure non ne aveva nessuna voglia:
«Tua sorella sta bene?» chiese
«Abbastanza. Il terremoto l’ha sempre spaventata a morte» Yumiko se ne stava di fronte a lui, con le braccia conserte
«La capisco. Crescendo il terrore passa un pochino, ma non del tutto»
«Già …» fece Yumiko
«Già …» fece eco Salas.
Per diversi secondi tacquero. Macchia era tornata a dormire nella sua cuccia e anche il mormorio degli altri abitanti del palazzo si era affievolito parecchio, poi il fischio del bollitore arrivò come una manna dal cielo e Yumiko fu costretta a smuoversi – in realtà non aspettava altro. D’istinto si rivolse a Ricardo:
«Rimani per una tazza di tè?» lui avrebbe tanto voluto risponderle di si, ma le parole di Oscar gli rimbombavano nella testa come proiettili
«No, credo sia megliooo … » con il pollice indicò le scale dietro di lui. Yumiko intanto stava già versando l’acqua calda nella teiera e predisponendo le tazze su un vassoio:
«Il tè distende i nervi, aiuta a placare la paura»
«Ok, se è solo per una tazza di tè …»
La donna gli sorrise e si avviò verso la camera di sua figlia con una tazza fumante, mentre Ricardo si chiudeva la porta alle spalle: in fondo un po’ di tè non aveva mai ucciso nessuno.
 
 
 

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Capitolo 7
*** Capitolo 7 - … ed ecco perché scappo … ***


Capitolo 9
… ed ecco perché scappo …
 
Eri non ebbe il coraggio di rifiutare il tè che sua madre le aveva preparato. Glielo adagiò sul comodino al fianco destro del letto, chinandosi sulle ginocchia e scostandole una ciocca di capelli che le era caduta al lato del viso. Avevano gli stessi capelli, neri e lisci, e come sua figlia anche Yumiko a quell’età li aveva portati lunghi fin oltre la metà della schiena e con la riga centrale. In verità li aveva tenuti così fino alla morte di Joaquin, quando aveva preso la drastica e sofferta decisione di tagliarli. Era stato come una specie di rito d’iniziazione, un nuovo look per una nuova vita. Dal punto di vista pratico, invece, i tanti impegni – come il lavoro e una figlia da crescere – non le permettevano di averne cura e i capelli lunghi se trascurati sono un vero e proprio inno alla sciattezza.
Eri bevve un piccolo sorso di tè, ma il suo stomaco ne rifiutò dell’altro. Per tutto il pomeriggio ne aveva bevuto almeno tre tazze a casa di Kingsley Rodriguez e quell’ennesima le dava il volta stomaco. Così disse a sua madre che era stanca e preferiva dormire:
«Ok» rispose Yumiko tornando in posizione eretta «Se vuoi domattina non ti sveglio per andare a scuola» prese la tazza dal comò
«No, no!» sbottò Eri, improvvisamente attenta «Voglio andare, cioè devo per forza, c’è la spiegazione sul teorema di non-mi-ricordo-chi e se me la perdo …»
«Va bene» Yumiko le rimboccò le coperte dopo averle lasciato un bacio sui capelli e uscì, chiudendo la porta. Quell’improvviso desiderio di andare a scuola la insospettiva e non poco. Pensò che forse era riuscita ad integrarsi con gli altri, magari questa nuova amica con cui aveva trascorso il pomeriggio era davvero una brava ragazza, come la sua compagna di banco in Giappone. Già, il loro addio era stata l'ennesima legnata che aveva spezzato il cuore di Eri, per questo motivo se avesse trovato un’amica che sarebbe riuscita a rimpiazzare quella sarebbe stata la benvenuta in famiglia.
 
Ricardo Salas aveva bevuto il suo tè, trovandolo squisito, quasi quanto quello che gli preparava la sua mamma quando da bambino si svegliava nel cuore della notte per una scossa di terremoto. Rimasto solo aveva avuto tutto il tempo di studiare la stanza che lo circondava, comodamente seduto sulla sedia vicino al tavolo. La cucina e il soggiorno erano separati solo da un muretto, davanti alla tv c’era un divano, al canto di questo la cuccia di Macchia che adesso sonnecchiava beata. Le tende erano scure e drappeggiate, oltre non si riusciva a vedere nulla. Diversi quadri erano appesi alle pareti, per la maggior parte raffiguravano paesaggi giapponesi, come il monte Fuji o rigogliosi alberi di ciliegio in fiore, immersi in un giardino paradisiaco. Uno in particolare però attirò la sua attenzione, quindi si alzò per osservarlo più da vicino. La tela era divisa in due rettangoli verticali. In quello a sinistra c’era una donna di schiena, seduta su uno sgabello basso, di legno; indossava una specie di vestaglia colorata che lasciava scoperta la spalla sinistra, il capo era torto di lato e la parte del viso che si vedeva era dipinto di uno pallore lunare; i capelli scuri erano raccolti in una crocchia. Nell’altra metà del quadro c’era la stessa donna, con la medesima vestaglia addosso chiusa in vita da una cintura annodata flaccidamente; questa volta l’immagine era frontale e i capelli, lunghi e sciolti, ricadevano come un velo scuro; la pelle del viso non era più bianca, ma aveva il suo colore naturale. Le braccia erano abbandonate lungo il corpo, le mani nascoste dalle maniche larghe e lunghe, gli occhi a mandorla avevano uno sguardo triste, ma allo stesso tempo di sfida, come un felino ferito ma ancora vivo.
Più la guardava e più a Ricardo sembrava di star vedendo Yumiko. Tuttavia una persona timida come lei non poteva essere la stessa che stava osservando, con quell’aria così fiera. Poi ripensò a come le fosse apparsa diversa quella sera, quando avrebbe raggiunto sua sorella anche a piedi se fosse stato necessario. Quel luccichio che d’improvviso si era acceso negli occhi, quell’atteggiamento caparbio di qualcuno che deve fare una cosa, senza ma e senza se …
Yumiko alle sue spalle tossicchiò, senza sapere come annunciarsi, e lui si voltò verso di lei:
«Scusami, stavo guardando questo quadro …» Yumiko bevve dalla tazza di sua figlia Eri «… è stupendo. Anzi, lei è stupenda. Sembra, non so, “finta”» Ricardo era tornato ad osservare il dipinto, quindi si rigirò verso Yumiko ridacchiando «Se ti capita di trovarne una così fammela conoscere.»
Lei abbandonò la tazza sul tavolo, pulendosi le labbra con un tovagliolo, prima di affermare:
«Sono io» lo spagnolo sbatté le palpebre un paio di volte «Quella nel quadro intendo, sono io» lui alzò di nuovo lo sguardo sulle due figure al muro:
«Allora sono fortunato» le sorrise e Yumiko avvertì qualcosa smuoversi dentro di sé «Non ho bisogno di cercarla per conoscerla» la ragazza non rispose e lui continuò «Cos’eri? Una specie di modella in Giappone?»
«No, niente di tutto questo. Diciamo che fui proclamata reginetta della scuola a diciassette anni e un mio compagno di classe mi supplicò di lasciarmi dipingere»
«Stavate insieme?» chiese Ricardo e Yumiko arrossì, se solo avesse saputo che a quell’età aveva già una figlia di qualche anno
«Oh no, no. É gay e adesso è diventato uno dei più famosi disegnatori di manga»
«Di cosa?» Yumiko rise e gli spiegò in breve che i manga sono i fumetti di ciò che nel resto del mondo chiamano “cartoni animati” «Suppongo che questa non sia una vestaglia normale» aggiunse lui e ancora una volta la donna sorrise
«É un kimono, un abito della tradizione giapponese e lì ero vestita da geisha» Salas fece per parlare, ma lei lo anticipò, immaginando quello che avrebbe detto, allora gli disse che no, una geisha non è una donna di facili costumi. Ricardo sorrise e, prima di raggiungerla al tavolo, lanciò un’ultima occhiata al quadro
«I capelli erano veri o era una parrucca?»
«Verissimi» rispose lei, aprendo l’ultimo sportello in alto della credenza e alzandosi sulle punte per tentare di prendere un oggetto
«Di solito se una donna stravolge tanto la propria acconciatura è perché ha subito un torto amoroso e vuole ricominciare»
«Si, di solito è così» rispose Yumiko, rimanendo sul vago, mentre si dava un ultimo slancio per raggiungere con la punta delle dita quello che cercava. Poi avvertì la presenza di Ricardo Salas al suo fianco, lo fissò dal basso intanto che lui, senza sforzi, le raccoglieva quello che tentava di afferrare, sfiorandole il dorso della mano con il palmo. Forse involontariamente, forse volutamente. Per un attimo anche i loro corpi, come le mani, si erano toccati e lui l’aveva guardata, ma lei aveva distolto lo sguardo.
Ricardo si ritrovò con un pacchetto di sigarette in mano e un accendino, alzò un sopracciglio:
«Fumi?»
«Ogni tanto»
«E perché le nascondi lì sopra, dove non ci arrivi?» le porse le sigarette
«Perché Eri non lo sa» Yumiko se ne accese una, lasciando uscire la prima boccata di fumo. Si puntellò con il bacino contro il bordo dei mobili della cucina, il ragazzo invece tornò a sedersi, versandosi dell’altro tè direttamente dalla teiera. Lo bevve senza toglierle gli occhi di dosso, poi la indicò con l’indice:
«Hai la camicetta sbottonata, cioè non sbottonata, ma …»
Yumiko chinò il capo e vide che per la fretta l’aveva abbottonata male, lasciando scoperto un pezzo della coppa sinistra del reggiseno bianco e uno scampolo di ventre a ridosso dell’ombelico. Si voltò di schiena e con mani impacciate slacciò velocemente i bottoni per poi chiuderli, inserendoli ognuno nella propria asola. Chissà, si chiese, se un giorno avesse smesso di fare figure da quattro soldi davanti al suo capo.
Quando tornò a voltarsi, lui abbozzò un sorriso e alzò la tazza a mo’ di brindisi:
«Complimenti, è ottimo!» Yumiko ringraziò con un filo di voce nella propria lingua madre «Dal Giappone alla Spagna…» sospirò Ricardo « … scusami se insisto, ma proprio non riesco ad immaginare un solo motivo che ti abbia spinta a trasferirti qua con tua sorella …»
«Necessità» fu la risposta tutt’altro che esaustiva di Yumiko e Salas sghignazzò scuotendo il capo
«Ho capito, proprio non vuoi dirmelo. Non è che per caso sei una specie di spia giapponese inviata dal governo per ammazzarci tutti?» questa volta fu lei a ridacchiare.
Avrebbe potuto raccontarglielo il motivo per cui si trovava così lontano da casa, ma per quanto si sforzasse temeva che lui sarebbe potuto … cosa? Toglierle il lavoro? E per quale ragione avrebbe dovuto farlo? Allontanarsi da lei e cambiare quello che erano diventati? Perché, cos’erano di preciso?
«E ti sei ambientata bene a Madrid?» continuò Ricardo e Yumiko scrollò le spalle. Avrebbe potuto confessargli che in fondo la conosceva già quella città, che una volta era venuta con Joaquin Morales, ma di nuovo rimase in silenzio, preferendo rimanere sul vago «E a tua sorella? A lei piace qui?»
«Eri ha sicuramente avuto più difficoltà di me e no, non impazzisce per questa città»
«Bene!» Ricardo Salas si alzò e batté il palmo sulla superficie del tavolo, Yumiko lo seguì con lo sguardo, mentre il cellulare di lui squillava. Lo sentì rispondere ad Oscar e confermagli che sarebbe passato a prenderlo fra qualche minuto, chiusa la telefonata tornò con l’attenzione su di lei «Farò in modo che tua sorella ami questo Paese quanto il suo. Il segreto sta nel vedere il lato positivo anche nelle cose negative» le fece l’occhiolino e si congedò con un’alzata di mano sul pianerottolo, prima che Yumiko chiudesse la porta d’ingresso a doppia mandata dall’interno della casa.
Rimasta sola si accomodò sul divano, lo sguardo perso nel vuoto, ripensando all’incredibile serata che aveva trascorso, lentamente sprofondò nel mondo dei sogni, con la consapevolezza che per far amare Madrid a sua figlia ci sarebbe voluto una specie di miracolo.
 
Eri si svegliò per la prima volta nella sua vita con sua madre ancora addormentata. La trovò accucciata in posizione fetale sul divano, con la schiena contro la spalliera. Sul tavolo c’erano due tazze vuote e all’improvviso si ricordò della notte appena trascorsa, del terremoto e di una persona ferma sulla soglia della porta, un piede dentro e uno fuori, ma lì per lì non riuscì a mettere a fuoco l’immagine, anche se le sembrava di averla già incontrata. Tornò a guardare sua madre: svegliarla le parve un vero e proprio atto egoistico, allora scarabocchiò quattro ideogrammi su un post-it che incollò allo schermo del televisore – in modo che Yumiko lo vedesse non appena avesse riaperto gli occhi – e si preparò ad affrontare il suo primissimo viaggio in autobus.
Prendere il pullman fu meno traumatico di quello che si era aspettata. Forse i suoi coetanei si erano abituati alla sua presenza, o forse il loro interesse per lei era scemato, fatto sta che nessuno la fissò più del dovuto, anzi, addirittura qualcuno le si sedette vicino.
Kingsley la salutò con un bacio sulla guancia, prima di prendere posto nello stesso banco, sorridente. Eri arrossì sentendo la pelle bruciare là dove lui aveva posato le labbra, anche se solo per un istante.
«Ho una cosa per te» annunciò lui, rovistando nel suo zaino, quindi le porse un foglio di quaderno ripiegato. Quando Eri lo aprì vide un bellissimo drago disegnato a matita e sfumato con la tecnica del chiaroscuro «Ho cercato su Google e ho scoperto che è uno dei simboli del Giappone» la ragazzina alzò gli occhi dal disegno per guardare lui, sentiva le lacrime pungere nella gola e quel solletico nel naso che sempre provava quando le veniva da piangere. Non sapeva cosa dire, era solo un disegno, ma per lei valeva quanto un diamante. Di slancio lo abbracciò e lui ne approfittò per rinnovarle l’invito a studiare insieme, quel pomeriggio.
«Stessa ora?» chiese Eri, ancora stretta a lui
«Stessa ora»
«Stesso posto?» si allontanò da lui per guardarlo in faccia
«Stesso posto» le sorrise Kingsley, ma quel pomeriggio non si sarebbero incontrati.
Tornando a casa, nella limousine guidata dal fido Alfonso, Kingsley apprese che l’uomo aveva il resto della giornata libera; inoltre la casa era stranamente vuota e silenziosa: sapeva che sua madre era impegnata nella nuova campagna di sensibilizzazione per le donne vittime di abusi e violenze fra le mura domestiche, dove era stata invitata in quanto moglie del ministro degli affari esteri, ma la servitù? Dov’era?
Il ragazzo pensò che forse i suoi genitori adottivi avevano dato loro un giorno di riposo – finalmente! Kingsley allora si diresse alla biblioteca dove quel pomeriggio avrebbe studiato con Eri, a proposito, sarebbe dovuto andarla a prendere di persona, era arrivato il momento di presentarsi come un diciassettenne qualunque e fare le cose che fanno tutti i ragazzi alla loro età. Si sarebbero potuti intrattenere in centro a gustare un gelato, o sfrecciare fra il traffico all’ora di punta, magari sul motorino che gli era stato regalato ad un Natale di qualche anno fa, senza usarlo se non per girare in tondo al palazzo in cui abitava. Il tonfo di qualcosa che cadeva sul pavimento lo destò dalle sue fantasie da adolescente e sulle ore che avrebbe trascorso con la sua compagna di scuola, su quello che avrebbero potuto fare. Il rumore era provenuto proprio dalla biblioteca. Aprendo la porta istintivamente chiamò Rosita, la governante, ma la scena che si ritrovò davanti agli occhi lo ghiacciò da capo a piedi:
«Pa-pà?»
«Kingsley!» l’uomo spinse via da sé l’altro che gli stava addosso, avvicinandosi al ragazzo che lo osservava con un’espressione indecifrabile dipinta sul volto. Suo padre, un uomo sulla sessantina, alto un metro e sessantacinque al massimo, tozzo e grassoccio, aveva la camicia bianca sbottonata e la patta dei calzoni aperti lasciava intravedere le mutande di cotone. A Kingsley parve di scorgervi un leggero rigonfiamento, allora distolse immediatamente lo sguardo, con lo stomaco sottosopra «Kingsley!» ripeté l’uomo provando a ricomporsi quanto più possibile «Kingsley! Non ti azzardare a dire niente a nessuno!» Nonostante la situazione fosse completamente a suo svantaggio, pensò il ragazzo, il suo caro paparino adottivo continuava a comportarsi come se fosse il sovrano indiscusso del mondo, e soprattutto della sua vita. L'adolescente spostò lo sguardo da quell’ometto che anni addietro l’aveva trascinato dall’altra parte dei Pirenei, sulla persona che gli stava tenendo “compagnia”. Era alta e i capelli scuri impomatati erano tirati all’indietro, si stava riallacciando la cintura e si era già infilato la maglia, i loro occhi si incontrarono a metà strada. Era bello, molto bello, la carnagione chiara e liscia, i lineamenti gentili.
«Kingsley Rodriguez!» di nuovo suo padre lo chiamò scuotendolo per le braccia «Hai capito quello che ti ho detto?!» il ragazzo si liberò della presa con uno strattone e corse via.
No, quel pomeriggio non avrebbe avuto tempo da dedicare né ai compiti, né alla sua nuova e cara amica di scuola.
 
 
 
 

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Capitolo 8
*** Capitolo 8 - Io non ho mai pensato se … ***


Capitolo 10
Io non ho mai pensato se …
 
 
La porta di servizio si aprì e un cono di luce gialla vi penetrò attraverso, allungando un’ombra sulle mattonelle lucide del pavimento. Oscar si girò appena e notando una specie di triangolo alla sommità dell’ombra capì all’istante che era il suo fidato amico Ricardo Salas. In verità in quel momento non aveva voglia di vedere nessuno, ma se proprio doveva, beh quel qualcuno era la persona che gli si stava avvicinando, cauto.
Ricardo lo studiò in volto, quasi affacciandosi su di lui. Oscar era seduto su uno sgabello al bancone del bar del night club, diverse ore prima di entrare in servizio e, cosa assai più strana, giocherellava nervosamente con un bicchierino di vetro fra le mani. Uno dei pochi che si erano salvati dal terremoto solo perché era sporco e se ne stava bello protetto in lavastoviglie. Oscar sospirò, non sopportava il fatto che il suo amico e datore di lavoro se ne stesse lì, a fissarlo come si farebbe con un ebete, senza dire niente, tanto quando gli avesse chiesto cosa fosse successo e lui gliel’avrebbe raccontato, scaricandogli addosso una miriade di rimproveri, ricominciando con la storia che meritava di più, che quello non era l’uomo adatto a lui, ecc ecc.
«Non guardarmi così, ok?!» sbottò all’improvviso Oscar, stanco di quegli occhietti indagatori puntati addosso
«Ah no?! E come dovrei guardarti?»
Oscar lo seguì con lo sguardo fare il giro intorno al bancone per ritrovarselo di fronte, dall’altra parte del bar, mentre prendeva una bottiglia di rum dallo scaffale. La maggior parte delle bottiglie di liquore erano andate alla malora, si erano salvate quelle che stavano dietro, che erano anche le più piene. Nonostante l’impresa di pulizia avesse lavato l’intero locale, le suole delle scarpe si incollavano ancora a terra e in alcuni punti, come in quel punto ad esempio, si poteva sentire lo scricchiolio dei vetri infranti calpestandoli. Salas si versò un dito di rum e lo bevve in un solo sorso, sentendolo bruciare fin nello stomaco. Per un po’ si fissarono negli occhi, era davvero inusuale vedere Oscar bere prima del lavoro, di solito quello era un piacere che si concedeva a fine serata.
«Che cosa è successo, Oscar?»
E il suo amico, che di mestiere faceva la drag queen, glielo raccontò: aveva pranzato con il suo amato Johnny (il nome in codice che usava più per abitudine che per cautela oramai) nella casa di quest’ultimo, il quale per l’occasione aveva dato un giorno di riposo all’intera servitù, dopo essersi liberato in qualche modo della moglie spedendola in giro per la Spagna, facendo leva sul suo cuore sensibile alle cause riguardanti i maltrattamenti sulle donne. Ed era stata davvero una perfetta mattinata, con l’enorme casa a loro disposizione e il pranzo, preparato dall’anziano cuoco italiano, era stato squisito e nonostante non fosse vero, Oscar aveva creduto che il suo fidanzato Johnny avesse ordinato allo chef di metterci dentro una qualche spezia afrodisiaca, tanto era stato il desiderio di lui, come non lo provava da tempo. Non si era trattato solo del semplice stare insieme che oramai era divenuta una consuetudine – onestamente lo sapeva benissimo che i loro incontri avevano un solo scopo, la chiacchierata che ne scaturiva dopo era una conseguenza, non un effetto. Oscar lo sapeva e per ogni giorno che trascorreva senza ricevere una sua telefonata si prometteva di lasciarlo, però poi lui chiamava e ogni brutto pensiero svaniva. Figuriamoci la felicità che aveva provato nell’apprendere che Johnny aveva organizzato il tutto per restare da solo con il suo fidanzato: avrebbero potuto “coccolarsi” in una vera casa e non in una stanza di hotel, dove Oscar - per quanto potesse essere un albergo lussuoso -  si sentiva comunque una puttana, di lusso, ma pur sempre una troia.
Avevano pranzato, ma non erano arrivati neanche alla frutta, tanto si erano sentiti attratti l’uno dal corpo dell’altro come se non si conoscessero da quattro anni, allora baciandosi e toccandosi erano arrivati fino alla stanza adiacente alla camera da pranzo – lì non era il caso di spargere i loro umori, poiché poi probabilmente si sarebbero precipitati affamati o semplicemente per far rifornimento di afrodisiaci. Erano solo all’inizio quando la porta si era aperta e sull’uscio era comparso un ragazzo dalla pelle scura  e una treccina colorata – particolare che non era sfuggito alla drag queen - che era rimasto così di sasso da “sbiancare”. A quell’affermazione Salas rise:
«Un nero che sbianca … Oscar sei il massimo certe volte!»
«Era il figlio» Ricardo smise di ridere e lo guardò seriamente, facendogli notare che non aveva  mai accennato ad un figlio di Johnny «Infatti non ne ha, questo è il figlio adottivo»
«Oh … e quanti anni ha?»
«Abbastanza da capire quello che stavamo facendo» Oscar gli allungò il bicchiere e Ricardo glielo riempì fin quasi all’orlo. Il suo amico aveva bisogno di bere, ma anche lui, così se ne versò anche per sé. Nessuno parlò nei minuti successi, il rum iniziava ad offuscare la mente di entrambi, poi Salas glielo disse senza preamboli:
«Lo devi lasciare o un giorno ti ritroverò davvero con un coltello ficcato nella schiena. O la gola tagliata. O una pallottola in testa» Oscar sospirò, passandosi una mano fra i capelli scuri, abbozzando un sorriso di sbieco.
Certe volte Ricardo Salas vedeva perfettamente quello che vi scorgevano i tanti amanti che aveva avuto. Era dannatamente bello! Aveva quell’aria da cucciolo abbandonato e cresciuto in cattività, i capelli neri e la pelle pallida ricordavano un signore della notte.
«Non-ci-riesco!» disse Oscar piano, fissando la superficie di legno del banco «Non posso smettere di provare quello che provo per lui senza un mot-»
La porta di servizio da cui era entrato Ricardo pocanzi si aprì di nuovo, questa volta si affacciò un uomo basso e calvo. Oscar intuì che di mestiere faceva il meccanico grazie alla divisa. L’uomo alzò una mano e gridò a Salas che la macchina non aveva assolutamente niente, era in perfette condizioni. Ricardo lo ringraziò e gli disse che sarebbe passato da lui a saldare il debito quanto prima, ma il meccanico rispose che non aveva nulla da pagare. Salas lo ringraziò ancora, poi lo congedò con un buon proseguimento di giornata. Oscar lo guardò con un sopracciglio alzato a mo’ di spiegazione e il suo amico gli sorrise:
«Gli ho fatto controllare la macchina di Yumiko»
«L’avevo intenso …» Ricardo si allungò sul tavolo e gli parlò a bassa voce come se ci fosse qualcun altro lì con loro e potesse udirlo:
«Non ti sembra strano che proprio ieri sera la macchina non sia partita? Voglio dire, ci ha provato, avrà immaginato che l’avrei accompagnata a casa da gentiluomo quale sono ...»
«Aspetta, aspetta, aspetta! Cioè, pensi che Yumiko l’abbia fatto di proposito?!» il ragazzo annuì «Ricardo smettila, sei ridicolo e patetico quando fai così!» Proseguì Oscar, sembrava particolarmente infastidito dalle insinuazioni del compagno
«Perché no? Mi ha anche invitato a prendere un tè a casa sua stanotte» Salas tornò in posizione eretta, posando la bottiglia di rum dove l’aveva trovata, aveva l’aria da super eroe:
«E tu hai accettato?» gli chiese la drag queen, ma non attese la risposta, gli bastò vedere il sorriso che affiorava sulle labbra dell'amico «Sei incredibile! Ti avevo chiesto di restare fuori dalla vita di quella ragazza, almeno in quel senso, e invece?!»
«Non è successo niente, rilassati, per chi mi hai preso?!» Oscar lo fulminò con un’occhiata, ma Ricardo non si spaventò, continuando a tenere le labbra distese in un sorrisetto beffardo lo salutò con una pacca sulla spalla «Dove vai adesso?» continuò Oscar
«A restituire la macchina, no?!» Salas strizzò la palpebra destra e sparì dalla stessa porta da cui era entrato. Oscar scosse il capo, incredulo, ma quando pensava che la conversazione con Ricardo fosse finita, questi si riaffacciò oltre la soglia facendolo sobbalzare per l’improvvisata «Quasi dimenticavo: Yumiko non verrà a lavoro stasera»
«E chi lo ha deciso, scusa?»
«Ovviamente io! A che serve essere il capo se non posso decidere chi deve lavorare e chi no?!» di nuovo gli fece l’occhiolino, poi Oscar fu certo che se ne fosse andato sentendo il motore della Yaris allontanarsi, fino a sparire del tutto.
 
Eri sbuffò. Da un po’ di tempo a questa parte neanche le vicissitudini amorose che si alternavano nelle corsie del Seattle Grey’s Hospital la entusiasmavano. Anzi, in particolari occasioni la infastidivano proprio. E per “particolare occasione” si intendeva il messaggio che Kingsley le aveva appena inviato su Facebook. Senza scortesia le aveva scritto che quel pomeriggio non avrebbero potuto studiare insieme. Solo questo, nient’altro, né una spiegazione, né un saluto, né un “ci vediamo domani”. Eri gli aveva risposto con un semplice ok e uno smile, si sarebbe almeno aspettata un’emoticon di rimando, ma niente, non era stata neanche una vera conversazione. Era stato lo stesso Kingsley ad inviarle la richiesta di amicizia il giorno in cui si erano conosciuti, e lei era stata super felice, ma anche delusa: non avevano mai chattato e il suo profilo era alquanto scarno di notizie e foto. Non che quello di Eri fosse più folto, ma perlomeno condivideva con il mondo i suoi gusti musicali e le frasi preferite tratte da libri o telefilm.
Macchia le saltò sulle cosce e tentò di leccarle il viso, Eri la tenne lontana accarezzandole la testa e sorridendole con mestizia:
«Beata te» disse rivolta al cane «Almeno non hai nulla di cui preoccuparti.»
Cosa che invece stava facendo Yumiko, dando quasi di matto. Erano le quattro e fra un’ora si sarebbe dovuta recare a lavoro, per questo motivo si stava informando sul sito dei trasporti pubblici riguardo alle corse e alle fermate dei bus. Ma forse sua figlia aveva ragione: le conveniva chiamare un taxi e anche se avesse speso molto di più rispetto ad un biglietto, almeno era sicura che l’avrebbe accompagnata fin davanti al locale. Bella figura, pensò, farsi portare davanti ad un night club. Cosa avrebbe potuto pensare l’autista?! Che si facesse i fatti suoi, rispose un’altra vocina dentro di lei, il lavoro nobilita l’uomo, quindi …
Il campanello trillò una volta e Yumiko alzò il capo da dietro il portatile. Non aspettava nessuno, almeno che sua figlia non avesse invitato quell’amica a casa. Di nuovo bussarono alla porta, questa volta con le nocche chiuse a pugno. Eri guardò sua madre che le disse di aprire. Sbuffando la ragazza si trascinò alla porta d’ingresso e, sempre sbuffando, l’aprì, corrucciando la fronte quando si trovò sul pianerottolo di casa lo sconosciuto a cui sua madre aveva rotto il naso. Ricardo la salutò con un grande sorriso, chiedendo se sua sorella Yumiko fosse in casa.
Come un flash ad Eri tornò in mente tutto quanto: quello non era uno sconosciuto qualunque, era il capo della mamma convinto che loro due fossero nii-chan, ovvero sorelle, perché sua madre non gli aveva detto la verità temendo che lui non si potesse – eventualmente – interessare a lei in quel senso. Eri sorrise e spalancò la porta:
«Certo» rispose e mentre il ragazzo varcava la soglia si rivolse a Yumiko «Nii-chan è per te» disse. Sentendosi chiamare “sorella” Yumiko comprese immediatamente. Balzò dalla sedia e incontrò lo sguardo divertito di Ricardo, in piedi al centro del soggiorno, con le chiavi della sua macchina in mano:
«Sono venuto per consegnarti queste» si presentò
«Gra-gracias» Yumiko urtò con il ginocchio la sedia che sarebbe caduta sul pavimento se non l’avesse presa al volo. La rimise al suo posto e si avvicinò a lui, mentre Eri se la rideva sotto i baffi
«L’ho fatta controllare dal mio meccanico di fiducia. Non ha niente, forse per la fretta non riuscivi a metterla in moto …»
Udendo quelle parole Yumiko si sentì ancor più stupida: la sua macchina non aveva nulla di rotto, però non era partita ... Eri intanto si godeva la scena, con Macchia accoccolata fra le sue braccia, era anche meglio della storia fra Meredith Grey e il dottor Sheperd. Studiando Ricardo Salas si ricordò di quella stessa notte e d’improvviso non ebbe più dubbi: era lui la persona che aveva notato sull’uscio della porta. Yumiko raccolse le chiavi e gli chiese quanto dovesse pagargli per il disturbo, ma ovviamente lui rispose che non gli doveva niente, poi si rivolse ad Eri e le porse la mano:
«Tu devi essere Eri, la sorellina di Yumiko» la ragazzina si drizzò e con un gran sorriso si presentò, non sapeva perché, ma quello li le stava assai simpatico
«E tu sei lo sconosciuto al quale nii-chan ha rotto il naso» Ricardo ridacchiò, poi annunciò
«Vi va di conoscere Madrid?!»
Le due donne rimasero interdette. C’erano un milione di interpretazioni da poter dare a quella richiesta.
«Io dovrei andare a lavoro, señor …»
«Ho già avvertito Oscar che oggi sei di riposo»
«Ma il mio giorno di riposo è il mercoledì e oggi è venerdì» gli fece notare Yumiko
«Sono il capo oppure no?!» Ricardo le sorrise, di nuovo, mentre Eri fremeva dalla curiosità di sapere come si sarebbe evoluta quella giornata, allora pensò di accelerare i tempi, sua madre sarebbe potuta rimanere per ore a discutere sul fatto che non era il suo giorno libero
«Io voglio conoscere Madrid.» Ricardo la guardò e le strizzò l’occhio
«Questa notte ti addormenterai felice di farlo in questa città.»
Eri non ci credeva neanche un poco, ma tanto valeva provarci, inoltre era un’ottima occasione per sua madre di conoscere quel ragazzo e magari, chissà … La sedicenne scacciò quei pensieri, meglio fare una cosa per volta. Innanzitutto doveva rendersi presentabile per uscire di casa, cosa che avrebbe dovuto fare anche sua madre e non perché non potesse uscire con un pantalone di tessuto e una felpa – abbigliamento che Yumiko aveva indossato per andare a lavoro, dove poi avrebbe dovuto mettere il suo costume da coniglietta – ma perché adesso aveva una specie di appuntamento con il suo capo. Quindi la prese sottobraccio e si scusò con il loro ospite, avrebbero fatto il più velocemente possibile. Yumiko la guardò stralunata, Ricardo disse che avrebbe aspettato in compagnia del cane.
«Si chiama Macchia» gli fece notare Eri, detestava chi si rivolgeva alla sua cagnolina con l’appellativo di “cane”, come se fosse un cane qualunque. Salas si scusò mostrando i palmi e si sedette sul divano, mettendosi comodo, temeva che l’attesa sarebbe stata lunga, intanto che l’animale lo studiava con curiosità, annusandolo e di tanto in tanto abbaiando.
 
 
 

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Capitolo 9
*** Capitolo 9 - Certo che non ha prezzo il tempo passato insieme a spasso (parte prima) ***


Buona sera a tutte! Vi chiedo scusa se sono sparita da qualche settimana a questa parte, ma è stato un periodaccio per me. Spero vivamente - da stasera - di riprendere con la pubblicazione dei capitoli in maniera puntuale. Grazie a chi segue la storia e ricordate di lasciare la vostra impressione, mi fa sempre piacere avere un confronto con le lettrici. 
Vostra Nina 


Capitolo 9
Certo che non ha prezzo il tempo passato insieme a spasso
(parte prima)

 
Fu come la prima volta che si sedette davanti al volante di una macchina per Yumiko. Allora era l’automobile di sua madre, una vecchia Fiat Tipo che le concesse di guidare solo perché accompagnata da Joaquin Morales. Yumiko ricordava chiaramente il senso di paura e di panico, le braccia pesanti e le mani aggrappate al volante, così forte che erano diventate bianche, mentre le sudavano i palmi. Il cuore le batteva forte e le parole di incoraggiamento del suo amato, seduto sul seggiolino del passeggero, si scontravano con l’ansia evidente che trasudava dalla mano destra stretta alla maniglia della portiera. L’anziana Fiat aveva balbettato un paio di volte, fin quando Yumiko era finalmente riuscita a trovare un equilibrio fra acceleratore e frizione, peccato che dopo qualche metro l’aveva fatta “morire” e aveva dovuto ricominciare tutto d’accapo. L’unica cosa che la tranquillizzava era il fatto di aver scelto il parcheggio di una scuola per la sua prima guida che, a quell’ora del pomeriggio, era completamente vuoto.
«Okaasan?!» la chiamò sua figlia, seduta nella parte posteriore dell’auto. Yumiko sbatté le palpebre, come ridestandosi da un sogno a occhi aperti
«Okaasan?» fece eco Ricardo, accomodato al fianco della stessa Yumiko, che prontamente si voltò a dargli una traduzione, benché errata:
«Sorellona» sbottò, sotto lo sguardo divertito di Eri, la quale pensò che sua madre era proprio decisa a confondere il ragazzo «Significa sorellona» sfoggiò un sorriso che era più una smorfia e partì, con Ricardo Salas a fare da navigatore di bordo.  L’ultimo pensiero di Yumiko fu il desiderio di accendersi una sigaretta.
 
Ricardo le indicò di accostare a destra, proprio davanti il cancello di un’abitazione. Seguendo le sue indicazioni erano finiti in una zona residenziale, non lontano dal centro della capitale spagnola. Era un luogo poco affollato e silenzioso, si estendevano una serie di villette a schiera a perdita d’occhio, non eccessivamente grandi, ma molto carine e proporzionate, con i tetti spioventi e ampie finestre, prive di balconi. Ognuna era divisa dall’altra da un muretto di mattoni, con uno spiazzo sul davanti che ciascuna delle famiglie che vi abitavano avevano adibito alla propria personale comodità. Yumiko fermò la macchina e osservò il cancelletto, coperto da un piccolo tetto a due spioventi, costruito con gli stessi mattoni del muretto, chiedendo al suo capo se fosse sicuro, infondo quella era una zona riservata ai residenti. Salas spense la macchina girando la chiave lui stesso e aprì lo sportello:
«Questa è casa mia, stai tranquilla» disse poi, gettando il pollice alle sue spalle, dove si ergeva una casetta uguale a tutte le altre, eccetto per l’ordine che c’era nella zona antistante l’abitazione, con l’erbetta perfettamente curata e un ciliegio nell’angolo basso a sinistra che stava germogliando in quei giorni. Yumiko lanciò uno sguardo a sua figlia Eri, la quale scrollò le spalle, come a dire “se lo dice lui”.
Entrambe le donne lo seguirono lungo il marciapiede, a qualche metro di distanza, poi Ricardo si fermò e le aspettò per camminare alla stessa altezza, con Yumiko al centro.
Quando Eri l’aveva presa e portata con sé davanti all’armadio, cominciando a prendere abiti leggeri e svolazzanti e ad abbinare gonne con camice che non metteva da quando Joaquin era deceduto, Yumiko era quasi andata sulle furie. Aveva afferrato al volo uno dei jeans “buoni” – nel senso che non metteva tutti i giorni, ma che riservava per le occasioni speciali, come andare al cinema con sua figlia la sera del suo giorno libero, o andare a fare compere con sua figlia durante il suo giorno libero, o andare al bowling con sua figlia il giorno libero … ecco, la sua vita si riduceva a quello: sua figlia e il giorno libero – aveva strappato da mano ad Eri la camicia di cotone a mezze maniche e una giacchetta corta in vita, poi si era chiusa in bagno. Eri attraverso la porta le aveva raccomandato almeno di truccarsi, e non si era neanche preoccupata di dirglielo a bassa voce, tanto l’ospite che attendeva in salotto non conosceva il giapponese e non c’erano problemi. Yumiko si era stesa un velo di fard sulle gote, una linea di matita nera intorno agli occhi e una passata di lucido sulle labbra. Lei non lo aveva notato, e anche se l’avesse fatto non ci avrebbe comunque dato peso, al fatto che Ricardo l’aveva fissata per diversi minuti quando era tornata da lui, mentre aspettavano che Eri fosse pronta. L’aveva seguita con lo sguardo aggiungere altri croccantini nella ciotola di Macchia, intanto che la cagnolina le scodinzolava fra i piedi e il ragazzo non aveva potuto fare a meno di notare con quanta destrezza evitava di inciampare nei suoi stessi piedi o di calpestare l’animale rachitico, e di nuovo aveva visto la sua fermezza d’animo, perché quella donna venuta da lontano e con gli occhi a mandorla nascondeva un carattere molto più fermo di quello che spesso traspariva. Ricardo Salas sapeva che custodiva un segreto, qual è che fosse non ne aveva idea, ma di sicuro doveva esserci una storia più complicata di quella che voleva lasciare intendere, perché una giapponese che si trasferiva in Spagna senza un valido motivo non si era mai visto. Inoltre le due giovani donne sembravano vivere da sole in quella casa che, ad occhio e croce, doveva esser costata non poco – ammesso che l’avessero comprata, e se non l’avevano fatto, l’affitto non doveva essere dei più leggeri, data l’eleganza della zona in cui era collocato il palazzo. Senza dire niente l’aveva osservata assicurarsi che il gas fosse chiuso, così come le imposte delle finestre e che l’allarme dell’appartamento fosse attivo. Quando si era deciso a rivolgersi a lei, era giunta l’altra componente del trio, frizzante ed eccitata all’idea di quella scampagnata.
 
«Allora, Eri …» così Ricardo richiamò l’attenzione della ragazzina «Vediamo come te la cavi in geografia: qual è il mare che bagna la Spagna?» chiese
«Sicuramente non è lo stesso del Giappone, ossia il Pacifico!» esclamò Eri, strappando un sorriso anche a Yumiko per l’enfasi con cui aveva risposto
«Ho l’impressione che oggi sarà tutto un confronto con il Giappone» sussurrò Ricardo nell’orecchio di Yumiko. La sua intenzione era stata quella di farla sorridere, e invece la ragazza si irrigidì da capo a piedi, avvertendo un improvviso calore spandersi per il corpo. Fortunatamente il suo capo fu distratto da Eri, la quale gli stava chiedendo informazioni su Puerta del Sol che iniziava a spiccare proprio davanti a loro.
La piazza era come sempre un andirivieni di gente, di turisti alle prese con le foto ricordo davanti ai monumenti più importanti. Eri rimase leggermente indietro rispetto a sua madre e al datore di lavoro, l’improvvisa visita di quest’ultimo l’aveva distolta dai suoi tristi pensieri, ma ritrovandosi proprio lì non poté arrestare il ricordo di quel posto, dove aveva atteso Kingsley la prima volta che l’aveva invitata a casa sua, nonché lo stesso in cui si sarebbero dovuti incontrare quel pomeriggio. Yumiko si voltò indietro e la chiamò, la ragazzina trottò fino a oltrepassarli, sembrava innervosita. Due bambini rincorrendosi la urtarono e lei strillò qualcosa di poco carino nella sua lingua madre, attirando l’attenzione degli stessi che si chiesero ridacchiando se per caso parlasse alieno, poi continuarono il loro gioco. Ricardo Salas tentò di smorzare il malumore di Eri, invitandola a prendere un gelato, proprio lì c’era un bar che faceva dei gusti speciali e buonissimi, ma la ragazzina gli rispose che non voleva niente e riprese a camminare. Ricardo cercò aiuto in Yumiko che sollevò le spalle:
«Effetto Spagna» disse, riprendendo a camminare al suo fianco, senza perdere di vista la figlia
«Mi dispiace, non era mia intenzione farla arrabbiare»
«Le tue intenzioni erano buone, ma Eri è come …» “suo padre” stava per dire Yumiko e si fermò di colpo. Iniziava a maledire il giorno in cui era stata così stupida da proferirgli quell’assurda quanto inutile bugia. Per fortuna Ricardo non sembrò neanche accorgersi della frase rimasta in sospeso, evidentemente i suoi pensieri erano già andati oltre
«Tu e tua sorella vivete da sole?» eccolo che ricominciava con le domande personali, pensò Yumiko, riflettendo bene su quello che avrebbe risposto:
«I miei, cioè i nostri genitori, sono rimasti in Giappone. Cambiare Paese alla loro età non è facile e hanno preferito rimanere dove sono nati» quante balle ancora aveva intenzione di dirgli? Yumiko non ne aveva idea, era entrata in una specie di circolo vizioso e non riusciva più a venirne a capo, una bugia tirava l’altra. Semplicemente non avrebbe potuto dirgli che si era trasferita lì scappando quasi dal suo Paese natio, in una notte di primavera, proprio durante la sua stagione preferita, costringendosi ad abbandonare i fiori e gli alberi che aveva trattato con cura fin da bambina, quasi piangendo quando si era convinta che d’inverno sentissero freddo come lo sentiva lei, e sua madre l’aveva trovata a escogitare un piano fatto di sciarpe di lana e maglioni vecchi per coprire le piante?
Eri si fermò e lanciò uno sguardo di sbieco a Ricardo:
«Sono davvero così buoni questi gelati?» lui sorrise
«I migliori» rispose e la ragazzina fece spallucce
«Tanto vale assaggiarli.»
Mentre Ricardo Salas ed Eri Joaquin Morales si allontanavano, diretti alla gelateria, Yumiko li osservò per un po’, dopo aver rifiutato il gelato che il ragazzo decantava con tanta passione. Spinta dal caldo cercò con lo sguardo una panchina al riparo dal sole e quando la trovò vi si accomodò con un sospiro, un misto di ansia e rilassamento. Una leggera brezza le smuoveva i capelli all’indietro, chiudendo gli occhi si concentrò sul mormorio di voci, fino a non sentire più niente, né la voce delle persone, né il ronzio delle macchine, né le grida dei bambini, né il pianto dei bebè. Si concentrò e liberò la mente, come le aveva insegnato suo padre quando da bambina le impartiva lezioni sull’arte del karate, di cui era maestro. Peccato che avesse smesso intorno ai dodici anni, sua madre si era opposta irremovibilmente, affermando che quello era uno sport da ragazzacci di strada. Quella sera lei e suo padre l’avevano odiata, entrambi sapevano che l’obiettivo di quella donna era di allontanarli, di spezzare in qualche modo il forte legame che li univa. Suo padre era morto dopo qualche anno di infarto, non aveva mai conosciuto Joaquin, peccato: Yumiko era sicura che gli sarebbe piaciuto, sua madre al contrario diceva che era una fortuna che fosse passato a miglior vita, o gli si sarebbe spezzato il cuore a vederla con “quello lì”. 
«Tua figlia ha rischiato una lite nel bar e tre mentre tornavamo indietro» disse Salas mettendosi al suo fianco e solo allora Yumiko riaprì gli occhi. Da quel punto di vista Eri era tutta sua nonna, la sua obasaan. Sorrise e di sottecchi vide sua figlia seduta ad una panchina non distante da loro, intenta a mangiare il suo super cono con tanto di panna «Pistacchio e caffè» continuò lui, porgendole la coppetta con il cucchiaino celeste di plastica che aveva comprato più per far compagnia ad Eri che altro. Yumiko rifiutò con garbo e a Ricardo toccò mangiarlo tutto.
Una coppia di mezza età si fermò a qualche metro da loro, dopo essersi studiati per diversi secondi si persero in lunghe e accese dimostrazioni di affetto, poi l’uomo si inginocchiò pescando dalla tasca della giacca – alquanto lisa e scolorita – un anello. La donna scoppiò in lacrime, schiamazzando e ululando, gli occhiali rotondi da vista si appannarono, ma lei non ci fece caso, prese a impiastricciare di baci e lacrime il volto del suo amato.
Salas scosse il capo tornando a il gelato quasi sciolto, lo rimescolò distrattamente. Ridacchiava, quasi più imbarazzato dall’età dei due che per la scena in sé. Allora Yumiko non riuscì a trattenersi, ricordandosi la felicità e l’emozione che aveva provato quando Joaquin le aveva chiesto di sposarla, purtroppo l’incidente mortale era avvenuto prima del matrimonio:
«Che c’è? È una cosa romantica, infondo non è mai troppo tardi per l’amore e per incontrare l’anima gemella»
«Credi davvero che sia possibile incontrare la nostra anima gemella in qualche modo?» Ricardo si girò a guardarla, attendendo la risposta di Yumiko che annuì: lei ci credeva.
«Quindi tu sei sicura di riuscire a riconoscere l’altra metà della tua anima fra … quanti ne siamo nel mondo? Otto, nove miliardi?!»
«Qualcosa di meno» puntualizzò la donna ricambiando lo sguardo, i capelli corti le volarono sul viso e lei li trattenne dietro l’orecchio
«Ok, qualcosa di meno, qualcosa di più, ma non credo sia possibile incontrare la nostra anima gemella. Ti rendi conto che potrebbe essere in qualsiasi parte della Terra?!»
«Io ci credo perché l’ho conosciuta la mia metà» disse tutto d’un fiato Yumiko, stringendo i pugni
«Davvero? E dov’è adesso?» il tono di Ricardo era ironico, spalancò la mano destra come a voler abbracciare l’intera Puerta del Sol, quasi a voler beffeggiare la barista del suo night
«É morto» rispose lei e il sorrisetto di Salas sparì di colpo
«Mi dispiace» disse «Ma a maggior ragione non puoi essere certa che lui fosse la tua anima gemella, non hai avuto il tempo di constatarlo» a Yumiko salirono le lacrime agli occhi per la rabbia che stava provando in quel momento. Mai e poi mai avrebbe messo in discussione il fatto che Joaquin Morales fosse la metà della sua anima, o che lo sarebbe rimasto per sempre «Questo è il motivo per cui ti trovi qui?» la voce di lui si era addolcita, era tornata quella di sempre
«Anche» fu l’unica risposta di Yumiko, la quale tornò con lo sguardo sull’immensità della piazza. Il vento si era fatto più insistente, i capelli sottili si alzavano e increspavano, nascondendo la sola parte di viso visibile a Ricardo che d’istinto mosse la mano per scostarle i capelli. Appena Yumiko avvertì il leggero tocco delle sue dita si allontanò, un movimento appena percettibile, ma evidente.
 
Stanca delle occhiate che le lanciavano i passanti, Eri irruppe nella conversazione che aveva preso decisamente una piega imbarazzante fra sua madre e il suo capo. Annunciò di voler tornare a casa, aveva ancora dei compiti da finire. Era una bugia, ovviamente, ma servì a convincere i due adulti a concludere lì quel pomeriggio anomalo. Durante la strada del ritorno verso la macchina, Ricardo le promise che la prossima volta l’avrebbe portata a visitare il Museo del Prado. Eri però disse che c’era già stata con la scuola l’anno precedente, e che non era stata proprio un'esperienza da ricordare: la guida del museo parlava così veloce e utilizzava termini tanto difficile che perfino i suoi compagni di classe avevano fatto fatica a seguirla. Ricardo rise forte e le passò un braccio intorno alle spalle, Yumiko era leggermente più indietro, ancora turbata dalle parole che pocanzi le aveva rivolto lo stesso Salas.
«Allora ti porto a vedere i pinguini» a queste parole Eri si illuminò
«I pinguini? E dove?»
«É un segreto!» le strizzò l’occhio e la ragazzina prese a saltellare e battere le mani
«Si, i pinguini si! Okaasan, possiamo andare a vedere i pinguini?» erano oramai giunti alla macchina e Yumiko si era già diretta al suo sportello, quello del guidatore
«Andiamo Eri, è già tardi» non era vero, erano appena le 19 e c’era ancora uno spicchio di tramonto all’orizzonte. La ragazzina si voltò verso Ricardo, sua madre le aveva smorzato ogni entusiasmo. Lo vide in piedi davanti al cancello di casa sua, le luci nell’abitazione erano spente e ipotizzò che forse viveva da solo. Un’idea le balenò per la testa:
«Vieni a cena da noi!» guardò Yumiko che la fissava a sua volta con gli occhi sgranati per la sorpresa «Può venire, okaasan?» sua madre non fece in tempo a rispondere, perché il ragazzo la precedette:
«Non credo sia il benvenuto, non stasera perlomeno» abbozzò un mesto sorriso ad Eri
«E invece si» intervenne Yumiko, aprendo la portiera della Yaris e facendo scattare il sedile in avanti tirando la manopola, poi fece un cenno a sua figlia di salire a bordo, ma sui sedili posteriori, poiché quello davanti era riservato al loro ospite «Mi piacerebbe continuare il nostro discorso sull’anima gemella» aggiunse la donna, mentre sua figlia si accomodava in auto. Salas aprì lo sportello dalla parte del passeggero:
«Volentieri» concluse.
 
 

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Capitolo 10
*** Capitolo 10 - Certo che non ha prezzo il tempo passato insieme a spasso (parte seconda) ***


Capitolo 10
Certo che non ha prezzo il tempo passato insieme a spasso
(parte seconda)
 
 
 
La cena fu esclusivamente giapponese. Eri aveva insistito affinché il confronto fra il suo Paese d’origine e quello in cui si trovava in quel momento continuasse anche a tavola. Ricardo accettò la sfida, ma a fine cena affermò di avere ancora più fame di quando aveva iniziato a mangiare. Il riso con le verdure bollite e il pesce mezzo crudo loro lì, in Spagna, lo mangiavano come antipasto, si consolò allora coi dolci che aveva comprato lui stesso, alla pasticceria poco distante dall’appartamento delle due ragazze.
Erano circa le ventidue quando Yumiko disse a sua figlia che avrebbe fatto meglio a mettersi a letto, o l’indomani alzarsi per andare a scuola avrebbe richiesto uno sforzo maggiore di quello di tutti i giorni. Eri le chiese se le portasse il tè a letto e sua mamma rispose di sì. Salutò Salas allungandogli la mano e lui gliela strinse, ma poi lo abbracciò velocemente, sorprendendolo, mentre lo ringraziava: Madrid non era stata diversa da quello che aveva visto fino a quel momento, ma perlomeno aveva conosciuto uno spagnolo simpatico – e aveva dimenticato per un po’ Kingsley, ma quest’ultimo pensiero lo tenne per sé.
Yumiko tornò dalla camera di Eri, disse che probabilmente il tè non l’avrebbe mai bevuto, si era già addormentata. Ricardo sorrise, riscaldandosi i palmi premuti intorno alla tazza, neanche lui aveva ancora assaggiato il suo a dire il vero, aspettava la padrona di casa per berlo insieme. La donna infilò la mano sinistra dietro il microonde e ne cacciò le sigarette,  se ne accese una e quindi si sedette di fronte a lui, sorseggiando un po’ della sua bevanda calda, senza smettere di guardarlo tirò la prima boccata di fumo. Ricardo sorrise fra sé, notando che aveva cambiato il luogo segreto dove nascondere il pacchetto di cicche con l’accendino.
«Joaquin Morales» disse Yumiko d’un tratto e Salas aggrottò la fronte, non capiva «Era il mio fidanzato, l’ho conosciuto in Giappone, si era trasferito dalla Spagna per lavoro. Faceva il carpentiere per un’impresa edile.» Scrollò la sigaretta nel posacenere, bevve un altro po’ di tè e riprese «Ci dovevamo sposare, ma qualche mese prima del matrimonio è finito giù per una scarpata ed è morto sul colpo. Dicono che fosse ubriaco, ma io so che i freni del furgoncino della ditta dovevano essere riparati, solo che l’azienda blaterava di non avere soldi al momento e dovevano arrangiarsi così.» Gli occhi scuri di Ricardo facevano su e giù da quelli di lei al tè che iniziava a raffreddarsi e che ancora doveva assaggiare, improvvisamente gli si era chiuso lo stomaco. «Con i soldi dello stato giapponese e quelli dell’azienda, che mi ha ben pagata dopo che li avevo minacciati di denunciarli per la questione dei freni, ho preso Eri e sono venuta a vivere qui, nel paese di Joaquin»
«Perché hai portato con te tua sorella?»
Diglielo” fece una vocina dentro Yumiko “Digli la verità, ora o mai più
«Perché nostra madre è anziana e nostro padre è morto, sinceramente non avevo previsto di rimanervi. Qualche mese al massimo, il tempo necessario per smaltire il lutto e per esaudire l’ultima richiesta di Joaquin, ovvero seppellire le sue ceneri nella tomba di famiglia; poi ho trovato un lavoro e mi sono resa conto che nessuno sapeva chi fossi, potevo ricominciare d’accapo una nuova vita. Mi è stata data una nuova chance» aspirò l’ultimo tiro dalla sigaretta prima di spegnerla stropicciandola sul fondo di vetro del portacenere «Quindi sì, io ci credo nell’anima gemella e credo anche che la mia l’ho già incontrata e persa. Per sempre.»
Ricardo Salas aprì la bocca per dire qualcosa, ma poi si accorse che non aveva niente da dire, nessuna parola di conforto, né la voglia di controbattere quello che lei aveva appena affermato, nonostante lui non fosse d’accordo. Personalmente credeva che l’anima gemella la si può riconoscere alla fine della vita, quando non si hanno più minuti da condividere, quando si ha settanta o ottant’anni, quando ci si guarda indietro e si ha la certezza che tutto quello che hai fatto l’avresti rifatto perfettamente uguale, e con la stessa persona. Forse Joaquin era davvero l’anima gemella di Yumiko, ma lei non l’avrebbe mai saputo, era morto troppo presto e non aveva più tempo per scoprirlo.
«E tu? Hai mai avuto una fidanzata che hai creduto potesse essere la tua metà?» gli chiese Yumiko, dopo la sigaretta sembrava più disinvolta, o forse semplicemente iniziava a sciogliersi, mostrando un altro lato del suo carattere
«Una volta. È durata circa un anno … forse anche di meno» lei sorrise a quelle parole, un anno era molto poco secondo il suo punto di vista, ma non quello di lui evidentemente «Peccato avesse un figlio …» Yumiko si irrigidì « … un figlio è una cosa seria e io …» Ricardo sospirò passandosi una mano sui capelli scuri e ispidi « … niente, aveva un figlio.»
Perché Yumiko si sentisse così triste non sapeva dirlo. D’improvviso una strana sensazione le aveva stretto lo stomaco e quasi le veniva da piangere, non riusciva a dare una motivazione valida a quel repentino cambio d’umore, eppure lo avvertiva chiaramente, era come se avesse ricevuto una spiacevole notizia, una specie di divieto.
«Hai conosciuto gli altri due soci del night?» Yumiko cadde dalle nuvole «Lo sai vero che siamo una specie di società? Io e altri due»
«Pensavo fossi l’unico capo»
«In realtà io sono subentrato a mio padre solo qualche mese fa, dopo la sua morte»
«Oh, mi dispiace, non ne sapevo nulla»
«Era malato, ma ha sofferto poco, i medici lo avevano indotto ad un coma farmacologico.» Yumiko notò che non c’era alcuna punta di dispiacere nelle parole di quel ragazzo che aveva perso da poco il genitore, forse fra i due non correva buon sangue. «Gli altri due soci erano amici di mio padre, ma ultimamente uno dei due è andato in pensione e ora è il figlio a fare le sue mansioni. Quindi non l’hai ancora incontrato?» Yumiko scosse il capo. «Se e quando lo farai stai attenta, non è uno proprio tranquillo» le sorrise per alleviare la serietà con cui aveva proferito quell’avvertimento, in fondo non voleva spaventarla - solo metterla in guardia - senza sapere che il suo amico Oscar aveva detto una cosa simile alla stessa Yumiko su di lui.
Rimasero a parlare ancora un po’, di come e quando lei avesse sostenuto il colloquio di lavoro con un uomo avanti nell’età e i capelli radi e bianchi, gli raccomandò di non farne parola con Eri, lei non sapeva che lavorasse in un night club e quando lui le fece notare che non faceva la spogliarellista ma la barista, Yumiko fu irremovibile e a Ricardo non rimase che darle la sua parola. Lui le raccontò del suo viaggio ad Amsterdam: il motivo per cui non si erano incrociati durante i primi giorni di impiego della ragazza. Risero agli aneddoti di lui e della pseudo-fidanzata olandese che praticamente andava avanti a spinelli e vodka. Yumiko chiese quanto tempo erano stati insieme e Salas rispose di non ricordare con precisione, forse un mese, al massimo due. Di nuovo quella strana sensazione di malinconia tornò a farle visita, un nuovo pensiero le passò per la testa, facendole notare come quello non fosse un ragazzo adatto a lei. Yumiko lo scacciò idealmente, come si farebbe con una mosca, a volte le venivano in mente delle cose proprio assurde!
La campana della cattedrale batté dodici rintocchi alla mezzanotte, il vento che si era fatto più insistente in quelle ultime ore riportò i rintocchi chiari e nitidi. Ricardo Salas si alzò, prima di tornare a casa voleva passare per il locale a controllare che tutto fosse ok, allora  Yumiko scattò dalla sedia, offrendosi di accompagnarlo, ma lui rifiutò garbatamente, inviando un SMS al suo fidato compagno Oscar, scrivendogli di passarlo a prendere.
Avviandosi alla porta di ingresso Salas lanciò una nuova occhiata al ritratto di Yumiko appeso alla parete, più lo guardava e più gli sembrava un’immagine eterea, non di questo mondo. Si voltò indietro, la fanciulla dipinta sulla tela era ad un passo da lui in carne ed ossa, che lo osservava. Sembrava tornata la ragazza timida che aveva conosciuto mentre buttava la spazzatura, ma oramai lui sapeva che non era tutto lì, che c’era qualcosa di più. Lentamente si chinò a lasciarle un bacio sulla guancia, ringraziandola per la bella giornata trascorsa insieme - baciò l’altra guancia - per essersi fidata di lui, confessandogli i suoi segreti e infine si arrestò a pochi centimetri dalla bocca, chiedendole la traduzione di “buonanotte” in giapponese:
«Oyasumi nasai» balbettò lei «Ma va bene anche solo oyasumi» deglutì a fatica «È più confidenziale»
«Beh, allora … oyasumi, Yumiko» chiuse gli occhi e posò le labbra su quelle di lei che seppur impercettibilmente si tirò indietro, un po’ come era accaduto quel pomeriggio, quando Ricardo le aveva sfiorato i capelli. Ciò nonostante lui non si sentì rifiutato, anzi, comprese che c’era qualcosa a trattenerla, dal lasciarsi andare completamente, e adesso che conosceva la sua storia fu facile dedurne il perché. Le concesse un ultimo dolce sorriso, poi uscì chiudendosi la porta alle spalle, con delicatezza.
Yumiko versò nel lavabo il tè che né lei, né il suo ospite avevano consumato, tenendo lo sguardo perso nel vuoto. Era stato un pomeriggio strano, ricco di emozioni e sensazioni a cui non era più abituata, ma poteva davvero permettersele quelle cose alla sua età e con una figlia? Quella fastidiosa vocina interiore le rispose che sì, poteva permettersi quello e altro, molto altro, se solo fosse riuscita a mettere un punto al passato e al suo splendido, ma pur sempre concluso, capitolo con Joaquin.
 
Ricardo Salas neanche ascoltò l’ennesima ramanzina di Oscar su Yumiko e via discorrendo. Fissava il paesaggio della città addormentata che scorreva davanti ai suoi occhi, il vento che entrava dal finestrino aperto dal lato del guidatore - poiché questo stava fumando - gli faceva accapponare la pelle, però non si curò di chiedergli di alzarlo un po’. Sapeva benissimo che se avesse voluto spingersi oltre con quella donna orientale avrebbe potuto farlo, tranquillamente, invece le aveva lasciato un casto bacio sulle labbra. Volendo avrebbe potuto infilarle la lingua in bocca e poi magari concludere la notte a rotolarsi fra le lenzuola del letto – facendo piano perché di là c’era la sorellina minorenne – e sarebbe continuata così... per quanto tempo? Due, tre mesi? Difficile a dirsi, di sicuro fin quando non si sarebbe scocciato anche di lei. Già, avrebbe potuto farlo, ammesso che Yumiko gliel’avesse permesso, al massimo gli avrebbe mollato un ceffone, manco fosse la prima volta che veniva schiaffeggiato o insultato per le sue audaci avance.
Rinvenne dai suoi pensieri solo quando Oscar parcheggiò sul retro del night e spense il motore dell’auto.
«Ci siamo intesi, Casanova?» gli disse ironico la drag queen
«Abbiamo un fascicolo su Yumiko in ufficio?»
Oscar sgranò gli occhi, quasi gli fumavano le orecchie:
«Ma allora che ho parlato a fare finora? Non è una di quelle che …» Ricardo scese dalla macchina lasciando la frase di Oscar a metà
«Ho capito, faccio da solo» concluse e si allontanò. Entrò nel locale provando a passare inosservato, ma è difficile quando sei il capo e ci sono ballerine mezze nude che ti aspettano per concludere la serata in compagnia, magari vantandosi della loro performance e ricevere un extra sulla paga a fine mese. Tuttavia Ricardo le salutò con un’alzata di mano e percorse a passo spedito la strada verso l’ufficio, camminando notò il suo socio, rideva a crepapelle e si muoveva come al rallentatore, doveva essere ubriaco, non si preoccupava neanche di smettere di palpare il seno della spogliarellista davanti a tutti. Salas provava un profondo senso di disgusto per quella persona e non si curò di lasciargli un saluto. Giunto in ufficio si chiuse a chiave e cercò la cartella contenente le info sulla giapponese: curriculum vitae, contratto di lavoro, tessera di riconoscimento. La trovò e l’aprì, sedendosi sulla comoda poltrona dietro la scrivania, dopo essersi versato un bicchierino da una delle bottiglie di liquore posate sul carrello alla sua destra.
L’intestazione sul fascicolo citava Yumiko Okada, nata a Tokio, anni 32. La foto che ritraeva Yumiko era recente: aveva già i capelli corti e la frangia. Nella foto non sorrideva, ma di questo Ricardo non si meravigliò. Non c’erano altre notizie utili, in verità non c’era niente di che, l’unica cosa che lo impensierì appena furono i suoi anni: trentadue. Lui ne aveva compiuti ventisette a maggio. Bevve l’ultimo sorso dal bicchiere, le labbra si incresparono in un sorrisetto. Non era mai stato con una donna più grande.
 
Per Kingsley quelle ultime ore erano state di fuoco. Dopo che il compagno di suo padre era andato via – l’aveva visto salire in macchina dalla finestra della sua camera – il caro paparino aveva ben pensato di andare a parlargli. Aveva bussato alla porta della stanza come se volesse sfondarla, forse era proprio quella la sua intenzione, eppure la porta aveva retto l’urto e Kingsley era potuto restare rintanato nella camera, con le gambe incrociate sul letto e l’unica cosa che riusciva a tranquillizzarlo quando si sentiva così: un foglio bianco e una matita. L’uomo dall’altra parte della porta aveva sbraitato come un ossesso, minacciandolo e ricattandolo di riportarlo nella topaia dove l’aveva preso, se solo gli fosse venuto in mente di dire a qualcuno ciò che aveva visto. Anche perché, aveva aggiunto senza vergogna, non aveva visto niente! Kingsley era rimasto rinchiuso nella sua stanza a disegnare fino a quando si era addormentato, per la fiacca che la rabbia – smaltita a suon di matita – gli aveva lasciato e, soprattutto, per la fame. Quando si era svegliato quella mattina e aveva sfogliato il suo album da disegno, aveva notato che la maggior parte degli schizzi ritraevano una ragazza dai lunghi capelli scuri e gli occhi a mandorla, a volte immersa in uno scenario apocalittico, altri in un paesaggio realistico, in altri era una specie di dea tanto bella quanto buona che con i suoi poteri difendeva l’umanità. Nell’ultimo disegno, rimasto incompleto poiché il sonno l’aveva sorpreso di colpo, la medesima ragazza era ripresa in primo piano, di profilo, gli occhi chiusi e i capelli al vento, sulla sua bocca ce n’era un’altra, ma questo personaggio era solo abbozzato. L’unico particolare riconoscibile una treccina che scendeva al lato del collo. Senza pensarci due volte strappò il foglio, lo piegò in quattro parti e lo infilò nel diario di scuola.
Quando arrivò in classe tirò un sospiro di sollievo vedendo Eri già seduta al loro banco. Senza salutarla le distese davanti agli occhi il foglio da disegno. Eri rimase interdetta, alzando prima lo sguardo su di lui, poi studiando i volti accennati sul foglio bianco. Ovviamente non fu difficile riconoscere i due soggetti, ma finse indifferenza, in fondo non aveva dimenticato la presa in giro del pomeriggio precedente e se credeva di potersela cavare con un disegnino, beh... Kingsley sbagliava di grosso.
«Carini. Chi sono?» chiese senza troppa convinzione, fingendo che il cuore non le galoppasse in petto come un puledro imbizzarrito
«Noi» fu l’unica risposta del ragazzo che le prese il volto fra le mani e si piegò a baciarla.
Eri spalancò gli occhi, cercando di toglierselo di dosso, intanto che l’intera classe si era fermata ad osservare quella scena surreale. Avere degli stranieri in classe stava diventando un vero spasso! Proprio in quel momento entrò nell’aula il vecchio professore di matematica, al quale quasi venne un colpo trovandosi di fronte quella scena. Iniziò a sbraitare di smetterla immediatamente, ma mentre Eri tentava di allontanarsi da lui, tirandolo per i polsi, Kingsley aumentava la presa, intrecciando la lingua alla sua. Solo l’intervento del professore riuscì a fermarlo, sebbene il ragazzo non sembrasse pentito o intimidito da quella situazione, al contrario di Eri che teneva la testa bassa. Fra i fischi, gli applausi e gli incitamenti dei compagni di classe, l’uomo afferrò anche la ragazza per il polso e trascinò entrambi in presidenza, così rosso in volto che la preside si preoccupò soprattutto per la sua salute. Tornato in aula, il professore strappò il disegno sul banco e gettò i resti nel cestino.
La preside, un donna buona ma che teneva particolarmente al regolamento scolastico, chiese cosa fosse successo, il professore aveva sbraitato che quei due erano degli indisciplinati e andavano puniti. quando lei gli aveva chiesto il motivo, lui aveva solo risposto "atti osceni" e aveva sbattuto la porta della presidenza. Kingsley Rodriguez aveva subito tenuto a precisare che era un’esagerazione, Eri continuava a tenere la testa china per la vergogna. Era stato il suo primissimo bacio e non sapeva neanche dire se le era piaciuto, di sicuro l’aveva sorpresa e se l'amico intendeva farsi perdonare l’affronto del giorno precedente, beh, adesso aveva altro per cui scusarsi. La donna chiese di nuovo che le venisse spiegata la situazione, per bene. Questa volta il ragazzo posò una mano sul dorso di quella di Eri e la guardò:
«Niente, signora preside, è che la amo.»
 

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Capitolo 11
*** Capitolo 11 - E se mai cercassi te … ***


Capitolo 11
E se mai cercassi te …


 
«Cosa volete che sia successo, signora preside? Semplicemente è che la amo.» La ragazzina si sentì venir meno. Che razza di risposta era quella? Davanti ad una donna adulta fra l’altro! Allontanò la mano da quella del ragazzo, ostinandosi a tenere lo sguardo basso, ma lui non si scoraggiò: «Lei è mai stata innamorata signora?» La preside sorrise, quel ragazzo le piaceva e le stava simpatico, era spontaneo e genuino, una vera forza della natura e per la sua compagna di scuola non sarebbe stato facile scrollarselo di dosso, ammesso che volesse farlo. Lui proseguì:
«Credo proprio di sì, a chi non è capitato almeno una volta nella vita di amare?! Quindi può comprendere il mio stato d’animo»
«Non ti biasimo perché sei innamorato» la preside lanciò uno sguardo furtivo alla ragazzina che non aveva ancora guardato in faccia, sembrava si vergognasse come una ladra e la capiva. «Ciò non toglie che in classe bisogna tenere un comportamento educato e corretto»
«Il professore ha esagerato» il ragazzo continuò a sostenere la sua tesi. «Manco stessi baciando un altro uomo!» Ci fu qualcosa nel tono della voce di Kingsley che spinse Eri ad alzare il capo per guardarlo.
«Non è una questione di maschi o femmine, c’è un regolamento da…»
«Invece è proprio quello il problema!» Controbatté lui, si stava agitando, apparentemente senza motivo. «I maschi stanno con le femmine e le femmine con i maschi. Punto! Stop! Basta!»
«Kingsley Rodriguez non alzare la voce con me!» Il ragazzo chinò la testa, Eri vide che si contorceva le mani in grembo, fu tentata di prenderle nelle sue, per tranquillizzarlo, ma rimase ferma. «Se hai un problema con chi ha gusti sessuali diversi dai tuoi tienilo per te! Ma ti vieto categoricamente altre manifestazioni amorose con chicchessia durante le ore scolastiche o atteggiamenti omofobi!» La preside riprese fiato. «Se non conosci la parola omofobia …»
«So cosa significa, non sono mica scemo!» La ragazzina al suo fianco non riusciva a credere a quello a cui stava assistendo. Quello lì non era il Kingsley che aveva conosciuto lei, una persona socievole, sicuramente avventata, ma non sprezzante delle autorità e adirato con i gay. Ma in fondo lo conosceva da così poco... «Bene, meglio così, risparmiamo tempo» affermò la preside, volgendo poi la sua attenzione sulla giapponese. «Signorina Eri Joaquin Morales, la prego di avere un comportamento idoneo alle regole della scuola o sarò costretta a prendere seri provvedimenti.»
La ragazza avrebbe voluto difendersi raccontando la sua versione dei fatti - e cioè che era stata solo la vittima - decise però di rimanere in silenzio, un po’ perché la preside era infuriata e qualsiasi cosa avesse detto le si sarebbe rivoltata contro; un po’ perché non voleva scaricare sul suo compagno di banco l’intera colpa. Quindi si limitò ad annuire con la testa ai rimproveri della donna sedutale di fronte. Non era cattiva, solo che Rodriguez l’aveva fatta arrabbiare.
«Per adesso ve la cavate con un rimprovero, ma non voglio sentire più mezza lamentela su voi due. In particolare mi riferisco a te» la preside guardò Kingsley che restituì lo sguardo senza timori. Si studiarono per un po’, ad Eri ricordarono un cane ed un gatto pronto a graffiare ad ogni minimo segno di reazione dell'eterno nemico. «Potete andare» concluse, invitandoli ad uscire con un cenno della mano. Come di consuetudine Eri si alzò dalla sedia e si chinò in avanti, una riverenza che nel suo Paese aveva vari significati: un saluto, un ringraziamento, tutte e due le cose insieme. Kingsley semplicemente uscì dalla stanza senza proferir parola e la ragazza non accelerò il passo per raggiungerlo lungo il corridoio che li avrebbe riportati nella loro classe. Rimase qualche metro indietro a fissargli la schiena e i capelli scuri riccioluti sul capo. Nell’aula trovarono un’altra sorpresa: il professore che li aveva beccati a sbaciucchiarsi aveva ben pensato di separarli, così indicò a Kingsley di prendere posto al primo banco, proprio di fronte alla cattedra, al fianco del primo della classe, mentre Eri poteva tornare al suo solito posto, vicino alla ragazzina down e alla sua insegnante di sostegno: sua compagna di banco prima che arrivasse Kingsley Rodriguez.
 
Da quando era successo quel che era successo, lui non l’aveva più guardata, forse perché aveva tirato via la mano dalla sua, forse perché quando aveva detto di amarla lei non aveva avuto nessuna reazione, né negativa, né positiva. Eri trascorse il resto delle ore di lezione a fissargli la schiena, non riusciva a smettere e a nulla erano valsi i tentativi di concentrarsi sulle spiegazioni dei professori. Per quanto si sforzasse la mente tornava sempre a lui e a poco a poco una paura viscerale le annebbiò l’attenzione. E se qualcosa si fosse spezzato fra loro? E se avesse commesso l’errore di allontanarlo involontariamente? Improvvisamente aveva voglia di sentire la sua presenza al proprio fianco, di posare gli occhi in quelli di lui, gli occhi di un ragazzo giovane ma che avevano uno sguardo da adulto. Si ricordò del disegno che le aveva mostrato prima di baciarla e lo cercò sotto al banco e sul pavimento, ma non lo trovò, allora chiese alla vicina compagna dove fosse finito, se l’avesse visto. La ragazzina, con la sua espressione perennemente imbambolata, le indicò il cestino della spazzatura e quando Eri vide i pezzetti del foglio sentì una rabbia cieca montarle dentro. Chiuse gli occhi e contò fino a trenta, come le aveva insegnato okassan, la sua mamma, per combattere quegli improvvisi e folgoranti attacchi d’ira. Anche suo padre Joaquin ne soffriva, le aveva raccontato un giorno, ma grazie a quel piccolo escamotage era riuscito a controllare la collera. A lei lo aveva insegnato il suo papà durante le lezioni di Karate, disciplina ove la calma è una qualità fondamentale per battere l’avversario. Sentì la rabbia scemare lentamente e riaprendo gli occhi si ritrovò addosso quelli di Kingsley, che da lontano la stavano studiando. Le parve di intercettare un lieve sorriso e rispose di rimando, poi la professoressa di inglese richiamò l’attenzione del ragazzo battendo il palmo della mano sotto il suo naso.
La campanella dell’ultima ora trillò puntuale e in una massa disordinata i ragazzi si riversarono fuori dalle classi. Kingsley fu tra i primi ad uscire. Eri si intristì, certa che lui l'aspettasse, anche solo per raggiungere l’uscita insieme, come facevano sempre, poi lui sarebbe salito nella limousine guidata da Alfonso e lei avrebbe raggiunto sua madre appostata nella Toyota Yaris dietro l’angolo, al sicuro da occhi indiscreti. Raccolse le sue cose nello zaino sgangherato – che si rifiutava di cambiare perché era un ricordo legato al Giappone, uno dei tanti – e uscì dalla classe. Gli altri studenti la oltrepassarono correndo e spingendo, lei invece camminava a testa alta e senza fretta. Poteva già scorgere il portone d’ingresso dalla luce gialla del sole che vi entrava attraverso, voltò l’angolo e con le spalle contro una porta – sulla quale c’era affisso il cartello “Vietato entrare” e “Solo addetti” – c’era proprio lui: Kingsley Rodriguez. Forse, alla fine, l’aveva aspettata e il cuore fece un doppio salto mortale per la felicità di trovarselo lì e insieme per l’effetto sorpresa. Lui aveva l’aria truce, sembrava sempre arrabbiato, eppure quando se la trovò di fronte il viso gli si addolcì. Eri fece per dirgli qualcosa del tipo “che ci fai qui?” ma Kingsley l'efferrò per il polso e con la mano libera abbassò la maniglia della porta alle sue spalle, sgattaiolando all’interno e trascinandola con sé. Nella confusione generale nessuno badò a loro.
 
 
Yumiko sistemò sul ripiano della cucina un piatto con del riso scaldato e una terrina con del curry, così quando sua figlia fosse rientrata avrebbe trovato la cena bella e pronta. Consultò l’orologio alla parete e decise che era ora di andare a lavoro.
Non era una sera come le altre quella e lei lo sapeva fin troppo bene. In verità non era stata neanche una giornata normale, il ricordo di Ricardo e di quel mezzo bacio che le aveva stampato sulle labbra l’aveva tormentata senza sosta. E adesso quasi sicuramente l’avrebbe incontrato al night club. Diciamo che ancor più del ricordo del bacio, era stata propria l’ansia di rivederlo a non darle tregua: come si sarebbe dovuta comportare? Fingere che non fosse accaduto nulla, ecco quello che doveva fare! Si, ok, ma lui come avrebbe reagito vedendola? Era pur sempre il suo capo e dai film in tv – soprattutto dalle serie che piacevano tanto a sua figlia Eri – aveva imparato che intrattenere una storia con il proprio superiore non era una cosa buona, anzi, talvolta era proprio una pessima idea! Ma lei non aveva smesso di pensarlo da quando gli aveva sbattuto lo sportello della macchina sul naso, non era solo una questione di lavoro. Inoltre c’era il fattore età: Yumiko era più grande di Ricardo, per non parlare del fatto che gli aveva mentito sul legame che univa lei ed Eri. In poche parole, si era ingarbugliata nella sua stessa rete e adesso non sapeva come liberarsi.
 
Il parcheggio a quell’ora del pomeriggio era vuoto, eccetto per alcune macchine che appartenevano ai dipendenti stessi. La donna entrò nel fresco del locale, le sedie erano ancora capovolte sui tavoli e dopo un saluto generale si mise all’opera, con il cuore che le balzava in gola ogni qual volta si apriva la porta d’ingresso o quella sul retro, temendo di vederlo comparire.
Tuttavia Ricardo Salas si presentò solamente sul tardi, come faceva di solito insomma, niente di nuovo, e un pochino a Yumiko dispiacque: in un angoletto remoto del suo cuore si era aspettata di vederlo arrivare prima, per lei ovviamente, per passare un po’ di tempo insieme. Invece quando Ricardo si sedette su uno degli sgabelli del bancone, Yumiko se ne era quasi dimenticata e provò un profondo disagio udendo la sua voce chiederle un Jack Daniel’s. Glielo versò, notando la sua perfetta calma, come se il giorno precedente non avessero trascorso il pomeriggio in giro per Madrid e la sera non fosse scappato un bacino che - seppur leggero e innocuo - per lei era stato comunque un tocco proibito. Salas la ringraziò e si allontanò, portando con sé il liquore. Yumiko ci ristò male e si sforzò di convincersi che fosse meglio così, mentre lo osservava ridere e scherzare con altri ragazzi, circondato da giovani e avvenenti donne in bikini succinti.
 
Eri si ritrovò in uno sgabuzzino in penombra, la sola luce filtrava da una finestra dai vetri opachi che si trovava alla fine della prima rampa di scale. Quando gli occhi si furono abituati all’oscurità poté distinguere le sagome di scope, secchi e quella di un armadietto con le ante socchiuse. Di nuovo tentò di parlare, ma lui le prese il viso fra le mani e la baciò. Non come aveva fatto in classe, questo bacio era meno impulsivo, più calibrato, e questa volta Eri si sciolse come neve al sole, le gambe divennero molli e la testa si svuotò. Lui la prese per la mano e insieme salirono le scale. Un piano, due piani, poi si trovarono dinnanzi un portoncino che senza esitazioni lui aprì e richiuse dopo averlo oltrepassato. Un ampio spiazzo si spalancò davanti a loro, illuminato dal sole tiepido. Il panorama era da togliere il fiato:
«Dove siamo?» chiese lei, la leggera brezza che soffiava le mosse i lunghi capelli e Kingsley non riuscì a trattenersi dal carezzarglieli
«Sul tetto della scuola. Vieni» di nuovo le prese la mano e s’incamminarono verso il parapetto di cemento. Solo allora Eri si accorse che non erano soli, c’erano altre tre coppie di innamorati: due di queste sedute con la schiena contro il muretto si stringevano stretti; l’altra coppia era in piedi, completamente presa dai passionali baci che si stavano scambiando. Eri abbassò lo sguardo a quella vista, imbarazzata.
Quello non era posto per loro, perché l’aveva trascinata lì? E, soprattutto, lui come lo conosceva quel luogo? Glielo chiese mentre il ragazzo si sedeva sul pavimento e si puntellava al parapetto:
«Il primo giorno di scuola mi sono nascosto qui» rispose, allungandole la mano per aiutarla ad accomodarsi al suo canto. Eri si tolse lo zaino dalle spalle e lo abbandonò poco distante, prendendo posto proprio vicino a lui. Decine di emozioni stavano facendo a cazzotti dentro di sé, era felice e spaventata insieme; avrebbe voluto non trovarsi lì ed essere proprio dov’era; desiderava che Kingsley non smettesse di toccarla e baciarla, ma anche che continuassero semplicemente a parlare.
Il cellulare che aveva in tasca prese a suonare e quando Eri vide lampeggiare il nome di sua mamma si ricordò che la stava aspettando in macchina all’uscita da scuola, sapeva che non vedendola arrivare si era sicuramente spaventata a morte. Guardò il ragazzo alla sua sinistra prima di rispondere:
«É mia mamma. Cosa le dico?»
«Dille che devi restare a scuola e che avevi scordato di dirglielo»
Ad Eri parve un’argomentazione plausibile. Spiegò a Yumiko che aveva un corso pomeridiano di spagnolo per gli studenti stranieri e che aveva dimenticato di avvertirla. Nonostante fosse agitata sua madre si bevve la bugia e le chiese a che ora sarebbe dovuta passare a prenderla, di nuovo Eri cercò consigliò in Kingsley che le suggerì di mentirle ancora, dicendole che l’avrebbe accompagnata un suo amico a casa. Ad Eri questa parve un’idea buona a metà, allora tranquillizzò sua mamma affermando che fosse tornata a casa con la sua nuova amica. Sì, la stessa che l’aveva invitata a fare i compiti a casa propria, e no, non era spagnola. Aveva dimenticato di dirglielo?! Pazienza! Era francese. Quando chiuse la conversazione Kingsley la stava osservando con un punto di domanda sul viso:
«Non posso mica dirle che ‘sto con un ragazzo!»
«In che senso “stai” con un ragazzo?» lui le passò la mano intorno alla vita e l’attirò ancor di più al suo fianco, fece per baciarla ma questa volta Eri lo fermò
«Mi devi più di una spiegazione, non credere di cavartela così facilmente» lui sbuffò, poi si avvicinò uno dei tre ragazzi presenti sul terrazzo, rivolgendosi direttamente a Kingsley per chiedergli se per caso avesse una sigaretta. Questo estrasse dalla tasca del giubbotto un pacchetto di Philip Morris e glielo porse. Il ragazzo ringraziò e si salutarono battendo i pugni chiusi. Eri lo osservò a bocca aperta, Rodriguez sghignazzò, accostando le labbra a quelle di lei:
«Vedi che lo penso sul serio quello che ho detto in presidenza» fece per baciarla, ma di nuovo Eri lo tenne lontano
«Tu fumi!» voleva essere una domanda, ma uscì più come un’affermazione
«Si, da ieri» e spontaneamente Eri gli chiese cosa fosse accaduto il giorno precedente, quando avrebbero dovuto studiare insieme e invece lui aveva cancellato l’appuntamento. «Se te lo dicessi poi dovrei ucciderti, non posso rischiare di farti mandare questo Paese alla rovina» la ragazza non riuscì a capire se stesse scherzando oppure no
«Per quanto me ne frega potrebbe anche sprofondare nell’oceano!» Lei tuttavia non scherzava affatto.
«Non posso credere che non abbia incontrato uno spagnolo degno delle tue grazie» ironizzò Kingsley, prendendo a giocare con una ciocca dei capelli di Eri, la quale rispose con aria superficiale che forse uno l’aveva conosciuto, ma che in due anni era una pessima media. Il francese rise e ancora tentò di toccarle le labbra con le sue, però Eri non riusciva a fermare la sua curiosità e continuò:
«C’entra tuo padre, vero? Intendo dire con quello che è successo ieri.» Il ragazzo sospirò e rispose di sì. «Dove ti ha trascinato questa volta? Magari in qualche centro di recupero per omosessuali, visto il tuo odio per questi…»
«Io non odio i gay» ci tenne a specificare lui.
«Ma neanche ti sono indifferenti da quello che ho capito.»
Kingsley Rodriguez alzò lo sguardo per posarlo sull'orizzonte e lei poté osservarlo per bene: la pelle scura, la barbetta che iniziava a spuntargli, gli occhi color pece, la treccina colorata che gli incorniciava il lato mancino del collo. Poi lui tornò a guardarla e le sistemò i capelli smossi dal vento dietro l’orecchio:
«Non voglio pensare a quello che è accaduto ieri. Voglio solo godermi un po’ di tempo con te e scordare il resto. Chiedo troppo, piccola Eri Joaquin Morales?»
«No» la ragazza scosse appena il capo e timorosa gli sfiorò uno zigomo «Non chiedi troppo» Kingsley sorrise e piano, senza fretta, calò la bocca su quella di lei, che lo accolse inebriata di emozioni forti.
 
La clientela era oramai iniziata a scemare, rimanevano pochi uomini per lo più anziani e ubriachi. Si stava occupando di loro la sua collega al bar, incaricata da Oscar di prenotare un taxi per ognuno di loro e di metterceli sopra, dando all’autista l’indirizzo delle loro abitazioni. Anche se controvoglia, la ragazza aveva ubbidito e la drag queen aveva scosso il capo: era chiaro come il sole che non scorreva buon sangue fra loro. Senza che glielo domandasse Yumiko versò al suo amico un goccio di whiskey, Oscar prese a giocherellare con il bicchierino, sembrava stanco e sconsolato. Mentre asciugava i bicchieri la donna prese a conversare con lui, quella era una sorta di abitudine che si consumava dal suo primo giorno di impiego:
«Onii-chan»  gli si rivolse con l’appellativo di “fratellone” come faceva sempre. «C’è qualcosa che ti turba?»
«Oh tesoro mio, a volte mi chiedo se ne valga la pena.» Rispose vago Oscar, senza guardarla in viso e sorseggiando un po’ di liquore
«Se è importante ne vale sempre la pena.» Gli posò una mano sul braccio per infondergli coraggio e lui le sorrise dolcemente, spogliandosi della parrucca fucsia e ravviandosi i capelli all’indietro con le dita.
Proprio in quel momento arrivò un ragazzo che Yumiko non aveva mai visto, era basso e tozzo, i capelli chiari e corti, la pelle del viso butterata da una infelice acne adolescenziale, su quel viso deturpato però spiccavano due occhi azzurri come zaffiri. Parlava uno spagnolo approssimativo e aveva una cadenza che non aveva mai sentito da quelle parti. Batté una pacca sulla spalla di Oscar e ridendo gli disse che stava meglio con la parrucca, quindi la prese e gliela poggiò sulla testa. Yumiko temé che Oscar potesse reagire male, non l’aveva mai visto così rosso in viso, invece si tolse la parrucca e si sforzò di sorridere allo sconosciuto. Questi si allontanò, dopo aver chiesto alla donna giapponese del rum, tuttavia quando lei prese un bicchiere e gli versò dentro il liquore, lui le strappò di mano la bottiglia e ridendo a crepapelle bevve direttamente dal collo, quindi si sporse oltre il bancone per darle un paio di colpetti sulla testa e dirle che era molto, molto carina. Yumiko rimase così, con il bicchierino a mezz’aria e un’aria da rincretinita, cercando spiegazioni in Oscar:
«Si chiama Antonio: uno dei tre soci del night»
«Che cos’ha che non va in quello lì?» Continuò lei ironica.
«Faccio prima a dirti ciò che va in quella persona, tesoro mio.» Oscar finì di bere dal suo bicchiere e la salutò allontanandosi, le spalle ricurve e la parrucca che gli pendeva da una mano sfiorava il pavimento. Yumiko pensò che doveva esser successo proprio qualcosa di grave, non l’aveva mai visto così afflitto. Non ebbe tempo di fare ipotesi su quello che potesse aver sconfitto il morale di Oscar poiché il suo posto fu occupato da Ricardo Salas, bello sorridente:
«Stavo pensando che domani è il tuo giorno libero e potremmo andare – io, tu ed Eri, si capisce – a vedere i pinguini.» Yumiko sbatté le palpebre un paio di volte, non doveva avere un’espressione propriamente intelligente in quel momento
«Allo zoo, ovviamente. Pensi che a tua sorella possa piacere?»
Alla donna vennero quasi le lacrime agli occhi. Certe volte quel ragazzo era di una dolcezza disarmante e non sapeva proprio che strada prendere per smettere di pensarlo. Stava per rispondere che si, Eri amava gli animali e che sicuramente sarebbe stata felice di fare una passeggiata allo zoo, non ci andava da quando era piccina e suo padre… va beh, era meglio fermarsi qualche battuta prima. Aprì la bocca per dirglielo e proprio in quell'istante si avvicinò una delle spogliarelliste, decisamente più coperta rispetto a quando era in servizio, sebbene non riuscisse comunque a nascondere il voluminoso decolleté. Quasi si gettò fra le braccia di Ricardo che d’istinto le cinse la vita, lei gli sussurrò che andava a casa e gli diede appuntamento a domani, quindi lo salutò con un bacio leggero e fugace sulle labbra. Praticamente uguale a quello che il ragazzo aveva lasciato a Yumiko la sera prima, sull’uscio di casa. La bella ragazza si allontanò, i suoi tacchi echeggiarono nell’intero locale. Ricardo tornò a guardare la giapponese, che intanto aveva finito si sistemare la sua parte di bar e si stava asciugando le mani con della carta assorbente:
«Allora, cosa ne dici?» Incalzò lui, senza accorgersi che il suo volto si era indurito
«Non credo sia una buona idea. Buona notte.» Lo salutò e a grandi falcate – per quanto le gambe snelle e orte permettevano – raggiunse gli spogliatoi.
Ricardo Salas rimase seduto ancora un attimo, come un ebete, poi un’illuminazione improvvisa gli fece leggere con chiarezza la situazione. L’aspettò fuori dallo spogliatoio femminile, non perché non potesse entrare, in fondo la maggior parte delle ragazze lì andavano in giro mezze nude, non era quello il problema insomma, ma perché non voleva discutere con Yumiko davanti alle altre. Quando questa uscì e se lo trovò di fronte le salì dentro una rabbia incontrollabile verso sé stessa. Come le era venuto di pensare a lui – a loro – in quel modo? Come aveva anche solo sperato che potesse esserci qualcosa di più? Povero Joaquin, si sarebbe rivoltato nella tomba se lo avesse sostituito con un soggetto come Ricardo. Quest’ultimo la fermò prendendola per il polso, ma Yumiko si liberò in un solo gesto e lui alzò le mani, come a dire “vengo in pace” e se la donna rimase ad ascoltarlo fu perché, nonostante tutto, rimaneva pur sempre il suo capo che a fine mese le versava lo stipendio in banca.
«Paula è una vecchia amica e stasera era un tantino brilla, non è che ci salutiamo sempre così e»
«Buonanotte señor Salas.» Yumiko fece per andare via
«Ehi, ehi, aspetta un attimo» lui la trattenne di nuovo per un braccio e di nuovo lei si liberò con uno scatto istintivo e di nuovo Ricardo mostrò i palmi «Ok, ok non ti tocco più, volevo solo spiegarti quello che hai visto e farti capire che è completamente diverso da ciò che invece è accaduto ieri notte.» Mentre Salas sembrava impegnato ad inventarsi un modo - il più diretto possibile - per far comprendere a Yumiko ciò che pensava, questa abbassò il capo stringendo i pugni. Teneva già pronte le chiavi della macchina che si conficcarono nel palmo, solo allora allentò la presa. Non desiderava altro che andare a casa, si sentiva umiliata, delusa e inspiegabilmente tradita. Lo spagnolo le sollevò il viso posandole un indice sotto il mento e questa volta fu costretta a guardarlo negli occhi. Un brivido la scosse tutta. Abbassò le palpebre proprio come fece lui intento che si chinava in avanti per baciarla. Evidentemente era giunto alla conclusione che i fatti sarebbero valsi più delle parole per farle capire ciò che provava, peccato che proprio un attimo prima che le loro bocche si toccassero – sentivano già i reciprochi respiri – lei voltò il viso di lato e a Ricardo rimase un retrogusto amaro:
«Yumiko … perché?» Sospirò
«Perché sei il mio capo, perché ho più anni di te e per tanti altri motivi»
«Come quello dell’anima gemella, ad esempio?» Il tono di lui era cambiato, sembrava insofferente
«Buonanotte, señor» così dicendo Yumiko si congedò dal suo datore che stavolta non la trattenne.
 
Antonio aveva assistito all’intera scena, nascosto in un angolo in penombra, senza essere visto dai due ragazzi e pregustando già una bella mazzata per il suo socio. Solo quando la ragazza andò via uscì allo scoperto, dando un paio di pacche sulle spalle a Ricardo, il quale solo per educazione non lo lasciò nella più totale indifferenza.
«Due di picche amico?» sghignazzò. Ricardo girò sui tacchi e si allontanò senza spicciar parola. «È una interessante la tua nuova amichetta. Mi hanno sempre affascinato le asiatiche.»
Salas si girò a guardarlo e si accorse che Antonio stava a sua volta osservando il corridoio appena percorso da Yumiko. L’interessamento improvviso manifestato dal suo socio per la barista gli piaceva assai poco.
 
 

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Capitolo 12
*** Capitolo 12 - Tremare come foglie ***


Capitolo 12
Tremare come foglie


 
Ricardo Salas uscì dall’ufficio infuriato come una belva, percorse a grandi passi il corridoio del night club, stringendo il foglio che gli aveva mostrato Antonio (con un ghigno di compiacimento). L’avrebbe preso volentieri a pugni, se ne avesse avuto il tempo, se non urgesse correre a chiedere spiegazioni per una cazzata simile. Poteva fregarsene, certo, niente gli impediva di lasciar correre, ma non ci riusciva, era più forte di lui. Aveva trascorso le ultime due settimane a fingere che non provasse niente per quella ragazza giunta da lontano con gli occhi a mandorla. Dopo il loro ultimo approccio, quando lo aveva respinto davanti all’entrata degli spogliatoi femminili, i tentativi di riprendere un rapporto più o meno amichevole erano stati vani. All’inizio le sfiorava le dita con le proprie quando gli porgeva il bicchierino di liquore, facendo sembrare quei tocchi involontari e casuali. Yumiko allora si imbarazzava e si chiudeva a riccio, rispondendo a monosillabi – spesso in giapponese – alle domande che le rivolgeva. Era dunque passato all’attacco con complimenti e inviti che travestiva da semplici programmi fra amici. Una sera era arrivato addirittura a chiederle se le piacesse la cucina italiana, lei aveva risposto che non l’aveva mai provata e lui ne aveva approfittato per proporle di andarci insieme qualche volta, conosceva un ristorantino niente male. Yumiko non si era neanche degnata di rispondergli, si era voltata di spalle e aveva ripreso il suo lavoro.
La notizia che aveva appena appreso però gli pareva una cosa prettamente personale, una specie di soluzione vigliacca alla situazione ingarbugliata che si era creata fra loro. Che affronti la realtà, si disse mentre camminava fumando dalle narici come un toro imbestialito, che abbia il coraggio di guardarmi in faccia mentre mi spiega i motivi di questa scelta, che mi dica di non provare niente per me!
 
Ricardo non poteva sapere che la causa determinante della scelta di Yumiko si era scatenata solo la sera precedente, quando aveva temuto che il mondo perfetto - costruito per proteggere sua figlia Eri dalla verità che sua madre era la barista di un night club - rischiava di crollare come un castello di sabbia.
Il venerdì era il suo giorno libero e avrebbe dovuto trascorrerlo con Eri, ma questa le aveva inviato un messaggio per informarla che sarebbe rimasta a scuola a seguire il corso di spagnolo anche quel pomeriggio e di non preoccuparsi, sarebbe tornata a casa prima di cena. Un po’ Yumiko iniziava a insospettirsi, oramai quel corso di spagnolo era diventato un impegno quotidiano e non più solo sporadiche lezioni di recupero, tanto che lei e sua figlia non riuscivano a farsi quelle lunghe chiacchierate di una volta, va bene che stava crescendo e aveva bisogno dei suoi spazi, ma cominciava a sentirne la mancanza. Per la prima volta da quando si era trasferita lì, Yumiko provò l’orribile sensazione della solitudine e l’assenza di un’amica con la quale sfogarsi e raccontarle tutte le paure che la stavano mandando di matto in quell’ultimo periodo. Ogni pomeriggio era diventato una specie di purgatorio, dalle quattordici in poi non faceva che guardare l’orologio e contare i minuti che la speravano dal momento in cui si sarebbe recata a lavoro e avrebbe incontrato il suo datore, fantasticando su quello che sarebbe potuto accadere. Senza rendersene conto si ritrovava a siglare dei patti, con chi poi non lo sapeva, forse con il suo dio, o forse il dio di qualcun altro, fatto sta che mentre faceva le pulizie di casa diceva fra sé:
«Se riesco a fare centro, Ricardo stasera mi sorriderà» così raccoglieva il cartone del latte, lo accartocciava e provava a fare canestro nel secchio della spazzatura. Qualora ci riuscisse esultava anche, poi comprendeva ciò che stava facendo e se ne vergognava come una ladruncola. Il problema era che ci azzeccava sempre, anche se non faceva centro, giacché lui sembrava avere un nuovo scopo nella sua vita, e cioè quello di farla uscire di senno - come se non ci fosse già riuscito. Yumiko lo beccava spesso ad osservarla da lontano e la cosa che più la scombussolava non era quando le sorrideva, ma quando al contrario non lo faceva, ostinandosi a fissarla con intensità, senza distogliere lo sguardo dal proprio, intanto che lei avvampava e non riusciva più neanche a distinguere il rum dal whiskey. Per non parlare delle volte che per sbaglio le sfiorava le dita con le sue – o volutamente, ma questo Yumiko non l’avrebbe mai ammesso, nonostante quella vocina fastidiosa dentro di lei l’avesse insinuato più di una volta. Poi da una sera all’altra le aveva proposto di andare a mangiare in sette ristoranti diversi, spaziando dalla cucina italiana a quella tailandese. Inviti che lei aveva gentilmente ma fermamente rifiutato. Con tutta onestà non capiva perché il suo superiore continuasse a darle corda, la solita fastidiosa vocina una o due idee se l’era fatta e gliele aveva avanzate, ma Yumiko non ci credeva: non poteva piacergli. Molto più credibile era l’ipotesi che fosse una sorta di capriccio, l’ennesima donna da conquistare, sedurre e abbandonare. Forse era solo curioso di vedere come era fatta una giapponese e, pensò Yumiko, sarebbe rimasto alquanto deluso, poiché era esattamente come tutte le altre.
 
È inutile dire che i pomeriggi in cui Eri aveva mentito a sua madre li aveva trascorsi con il suo fidanzato Kingsley Rodriguez. La prima volta che lui le aveva chiesto di essere la sua ragazza – ed era capitato praticamente subito – era diventata tutta rossa e non riuscendo a controllare le emozioni era scoppiata a piangere, saltandogli al collo, baciandolo su tutto il viso e bagnandolo con le sue stesse lacrime. Kingsley l’aveva presa in braccio girando su sé stesso: una vera favola. Improvvisamente la filosofia secondo cui l’amore è portatore di dolore, che aveva visto in tante serie televisive e film al cinema, le sembrava una scemenza atta a rattristare la gente e allontanarla dalla felicità, perché lei era perennemente contenta, giorno e notte. Anzi, più di giorno che di notte dato che poteva stare con il suo amato. Questi sembrava dipendere completamente da lei e dall’aria che respirava, non che per la sedicenne orientale fosse diverso, ma Rodriguez sembrava proprio soffrire fisicamente quando doveva separarsi da Eri e tornare a casa.
Quel venerdì pomeriggio si erano rifugiati sul tetto della scuola, trasformatosi improvvisamente nel loro mondo perfetto, dove non avevano pensieri e il futuro appariva facile e felice. Di venerdì il luogo era spesso vuoto e se questa cosa metteva un pizzico d’ansia a Eri, Kingsley al contrario ne era contento. Proprio quella mattina suo padre era andato a buttarlo giù dal letto alle prime luci dell’alba, intimandogli di vestirsi e mettere due panni in valigia, dovevano tornare fra i poveracci, gente comune, operai che stavano scioperando da giorni e il Governo non poteva permettersi l’ennesimo ritardo nella consegna delle merci. Questa volta però il ragazzo aveva interrotto il monologo dell’uomo con un secco no! Il ministro l’aveva guardato con stupore che presto si era trasformato in odio e, afferrandogli i riccioli sulla testa, gli aveva tirato indietro il capo, costringendolo a guardarlo in faccia. Gli aveva parlato a pochi, pochissimi centimetri di distanza:
«Ti rendi conto che sei una nullità? Una cacchina nel bel mezzo della merda?»
«Dirò…» Kingsley aveva ingoiato la saliva, la gola secca «… dirò alla merda che frequenti quello che ho visto.» L’uomo lasciò la presa e indietreggiò. Non credeva veramente che quel pidocchio dalla R moscia avesse avuto il coraggio di farlo, ma aveva abbastanza anni alle spalle da sapere che la disperazione e la rabbia infondono un coraggio inaspettato nell’essere umano. Solo così Kingsley era riuscito a salvarsi dall’intraprendere il viaggio in compagnia di suo padre e non aveva alcuna intenzione di perdere altro tempo lontano da Eri, l’unica ancora di salvezza in quel Paese che iniziava a detestare seriamente. Lei era la sola a comprendere le sue ansie e i suoi timori di forestiero, l’unica a non giudicarlo per il colore della pelle o per l’accento aristocratico, e a trovare simpatica la sua treccina colorata. Nascosti sul tetto della scuola, dietro l’angolo a destra dove c’erano i motori dei termosifoni, i due ragazzi persero la cognizione del tempo nel bacio più lungo e passionale che si erano scambiati fino a quel momento. La ragazza teneva la schiena schiacciata al muro, un braccio avvinghiato al collo di lui, una mano saliva e scendeva dall’incavo del collo fino al petto, la treccia le solleticava il dorso. A prima vista Kingsley sembrava un adolescente magrolino con troppi riccioli sulla testa e le labbra carnose, ma quel pomeriggio Eri dovette ricredersi: oltre il sottile tessuto della T-shirt era fin troppo facile sentire i muscoli del suo corpo e la qual cosa la spaventava e insieme eccitava. Non aveva mai toccato un ragazzo, si era sempre chiesta se avesse provato vergogna o addirittura ribrezzo nel farlo, invece non ebbe neanche tempo di pensare, le cose si stavano evolvendo da sole e con estrema velocità. Il ragazzo dal canto suo teneva le braccia contro il muro, alte ai lati del viso di Eri, il corpo premuto contro quello di lei. Non era così semplice per lui, come al contrario per la ragazza, non poteva assolutamente permettersi di perdere del tutto il controllo del suo corpo e della mente o solo Dio sa cosa sarebbe successo. Si sforzava di tenere le braccia contro le pareti bianche per non permettere alle mani di correre dove invece desideravano, poi lei aveva cominciato a sfiorargli la base del collo e a scendere un po’ più giù, soffermandosi a giocare con la treccina, allora l’autocontrollo era andato a farsi benedire. I palmi delle mani erano scivolati sui fianchi stretti della giapponesina, erano risaliti fino all’altezza dei reni e con una maestria che non sapeva di possedere, si erano infilate al di sotto del maglioncino di filo. Il contatto con la carne nuda della pancia lo aveva mandato ancor di più in estasi, tuttavia Eri aveva spalancato gli occhi avvertendo le mani di lui gelate contro la sua pelle calda. Con molta premura l’aveva allontanato, rossa come un peperone. Erano rimasti in assoluto silenzio per diversi minuti, entrambi imbarazzati e senza nulla da dirsi, poi lei gli aveva posato le dita sul braccio e tutta felice gli aveva chiesto:
«Ti piacciono i gelati? Conosco un posto che è la fine del mondo!»
Così l’aveva trascinato nella gelateria che le aveva fatto conoscere Ricardo Salas, quando erano andati in giro per Madrid tutti e tre insieme – lei, lui e okaasan. A proposito, pensò entrando all’ombra del bar, non aveva più avuto notizie di lui, avrebbe dovuto chiedere a Yumiko come stavano procedendo le cose fra loro. Era immersa in questi pensieri quando aveva intravisto Ricardo accomodato ad uno dei tavolini del locale. Si erano salutati manco fossero stati amici di vecchia data, quindi lui aveva volto l’attenzione su Kingsley e d'istinto Eri aveva tirato via la mano da dentro quella del suo fidanzato, imbarazzata, temendo che avesse potuto dirlo a sua mamma. Li aveva presentati, senza specificare cosa o chi rappresentassero per lei l’uno all’altro, ma Salas le aveva promesso che non avrebbe spifferato nulla a “sua sorella”. Eri aveva ringraziato sollevata e Kingsley l’aveva guardata stralunato, successivamente le avrebbe fatto notare che non aveva mai accennato ad una sorella.
A quel punto si era avvicinato l’uomo più bello che Eri avesse mai visto. Era alto e ben piazzato, i capelli scuri erano pettinati all’indietro, ma un ciuffo si ostinava a ricadergli al lato della fronte, nonostante lo tirasse sempre via; la pelle sembrava levigata, quasi fosse stata ritoccata con Photoshop, gli occhi erano scuri e le ciglia tremendamente folte. Alla ragazza ricordò vagamente quell’attore spagnolo di cui aveva visto decine di film, le pareva si chiamasse Antonio qualcosa. Bandieras? No, forse era Banderas. Tuttavia, quando Ricardo gliel'aveva presentato, le era caduto il mondo addosso: si capiva lontano un miglio che era omosessuale.
«Lei è la sorella di Yumiko» aveva specificato Salas e Oscar le aveva stretto la mano, senza ulteriore accenni. Eri, ripresasi dallo shock, avrebbe voluto chiedere come facesse a conoscere “sua sorella”, ma Kingsley l'aveva afferrata per il braccio e intimato di uscire immediatamente. Qualche metro più in là Rodriguez aveva vomitato bile e saliva.
 
Quella sera la ragazzina era rientrata a casa con l’umore sotto le suole delle scarpe. A nulla erano serviti i manicaretti preparati da sua madre per tirarla su di morale. Quello che le aveva raccontato Kingsley - inerente alla scena a cui aveva assistito in biblioteca, fra suo padre adottivo e l’uomo che quel pomeriggio era in compagnia di Ricardo Salas - aveva del surreale. Mescolando senza troppo interesse il cibo nel piatto davanti a sé, Eri aveva chiesto a Yumiko chi fosse Oscar. Era stato in quel preciso istante che la donna aveva deciso di licenziarsi.
 
Ricardo aprì la porta degli spogliatoi femminili con irruenza, senza preoccuparsi di bussare o di annunciarsi. C’erano ancora diverse ragazze all’interno, qualcuna con addosso solo un asciugamano, qualcun'altra in biancheria intima. I suoi occhietti scuri corsero sui volti di queste, fino a soffermarsi su ciò che cercavano, ovvero Yumiko Okada. Neanche si stupì di vedere al suo canto la drag queen. Ricardo fece un passo in avanti e senza distogliere gli occhi da quelli a mandorla della ragazza esclamò:
«Fuori tutte!» Accompagnando l’esclamazione con un gesto della mano che teneva stretto il foglio bianco. Sommessamente le ragazze uscirono in punta di piedi, portando con sé vestiti e scarpe. Anche Yumiko accennò a lasciare la stanza, chinando la testa e con il cuore impazzito, ma lo spagnolo le sbarrò la strada con un braccio, battendo la mano contro uno degli armadietti di ferro, l’unico suono che scosse l’atmosfera e fece sobbalzare la donna asiatica. Oscar gli si accostò, Salas non aveva smesso per un solo istante di guardare il capo di Yumiko, la quale continuava a tenere la testa bassa:
«Ricardo, per piacere, non essere infantile»
«Fuori» fu la sola risposta che gli diede
«Ricardo, dico davvero, non»
«Oscar» finalmente Salas lo guardò «Ho detto fuori!»
All’amico non rimase che uscire e chiudersi la porta alle spalle. Solo allora Yumiko alzò i suoi occhietti scuri che spiccavano al di sotto della frangia per lanciare una sguardo furtivo ad Oscar.
Già, Oscar, la famosa goccia che aveva fatto traboccare il vaso, seppur non intenzionalmente. Era stato il primo – e forse l’unico – collega con cui aveva instaurato un rapporto che andava oltre a quello lavorativo. Erano amici? Difficile a dirsi, ma una cosa era sicura: non era trascorsa sera che non avessero chiacchierato e, perché no, riso insieme. Prima dell’arrivo di Salas – che si era fiondato nella sua vita come un uragano, sconvolgendone la quiete – avevano anche fumato decine di sigarette insieme e alla fine Yumiko gli aveva confessato la storia della propria vita. In quell’istante, vedendo con quanta ira Ricardo si era scaraventato nello spogliatoio, cacciando via tutti, fu certa che la drag queen gli avesse raccontato che Eri in realtà non era la sua sorellina, ma sua figlia.
In fondo la ragazzina gliel’aveva chiesto solo la sera precedente:
«Chi è Oscar?» 
Yumiko era rimasta con il cucchiaio a mezz’aria. Bella domanda con una risposta difficile da dare, soprattutto perché non sapeva quanto conoscesse sua figlia di quella storia. Allora era rimasta sul vago, rispondendo alla domanda con un’altra domanda:
«L’hai conosciuto?» Eri aveva fatto spallucce e sua mamma aveva continuato a tempestarla di domande: “Dove l’hai visto? Con chi era? E in particolare, con chi eri tu?”
Allorché la ragazzina si era infastidita, sbottando che le sembrava di essere ad un interrogatorio di terzo grado, non aveva mica ucciso qualcuno, quindi si era alzata dalla sedia annunciando che non aveva più fame. Il piatto era rimasto praticamente intatto.
La donna giapponese aveva fumato il più alto numero di sigarette come mai prima, non era arrivata a toccare l’intero pacchetto da dieci, ma ci era andata vicina. Quando stava per accendersi l’ennesima cicca e aveva notato che ne rimanevano solo tre aveva desistito e si era messa davanti alla tv. Un talent show andava in onda senza che lei lo guardasse sul serio, la sua mente correva a 300 chilometri orari, frenando di colpo quando giunse all’unica soluzione possibile per salvare il salvabile, non solo con sua figlia, ma anche con lo stesso Ricardo Salas: licenziarsi.
Oscar le lanciò un’occhiata di sottecchi prima di lasciare gli spogliatoi, senza sorriderle e con un’espressione grave sul viso. Yumiko annuì con la testa, come a voler dire “stai tranquillo, va tutto bene” . La drag queen, con le sue piume sfavillanti e il vestito di paillettes, uscì di scena senza aggiungere altro.
Oscar raramente aveva visto Ricardo così adirato, anzi, le volte che era accaduto si potevano contare sulle dita di una mano e non era mai successo con persone estranee, o comunque al di fuori della famiglia. L’ultima volta infatti era accaduto proprio con suo padre – pace all’anima sua – il giorno che gli aveva ordinato di fare l’università e poi di prendere le sue redini al night, poiché la malattia gli impediva di dedicarsi a quel luogo come desiderava. In tutta risposta Ricardo era volato ad Amsterdam, affermando che avrebbe studiato lì. Suo padre ovviamente gliel’aveva proibito, ma quando gli aveva telefonato quella sera stessa, poiché tardava a rientrare per la cena, il suo primo e unico figlio era già volato fuori dalla nazione.
 
Il click metallico della porta decretò l’inizio del loro incontro, come una sorta di gong che da’ il via alla lotta sul ring. Ricardo le piazzò davanti il foglio bianco, all’altezza del volto:
«Che cazzo significa?»
Yumiko non si fece intimorire dal tono della sua voce, era una giapponese e il suo popolo era tutto d’un pezzo, neanche i frequenti terremoti li spaventavano più, né facevano vittime al giorno d’oggi. La donna studiò il foglio, si era aspettata l’atto di famiglia che attestava come fosse la mamma e non la sorella di Eri, invece si ritrovò davanti le sue dimissioni. Le aveva scritte di getto la sera precedente, stampate e firmate a mano, le aveva consegnate in ufficio prima di mettersi a lavoro, ove vi aveva trovato Antonio. Questi le aveva detto di passare a fine serata, le avrebbe trovate firmate da almeno uno dei soci, invece ora quel foglio bianco A4 sventolava sotto il suo naso e non vi scorgeva alcuna firma.
«Sono le mie dimissio-»
«Non ti ho chiesto cos’è? So leggere, sai?! Ti ho chiesto che-cazzo-significa.» Il ragazzo adagiò il foglio sulla panca alla sua sinistra, immobile al centro fra le due corsie di armadietti in ferro verde, battendogli sopra il palmo. L’intera panchina di legno tremò, ma di nuovo Yumiko non si mosse di una virgola, sebbene il suo cuore pompava come un ossesso, manco stesse correndo la maratona di New York.
«Se sai leggere è inutile che ti spieghi il significato, mi sembra incoerente» sperò di aver azzeccato la parola, la pronunciava spesso Joaquin Morales quando litigavano. Le diceva: mantieni la tua tesi, non essere incoerente. Salas abbozzò un sorrisetto nervoso:
«Mi prendi per il culo anche?! Riformulo la domanda, allora: perché cazzo te ne vuoi andare?»
«Ho trovato un altro lavoro» mentì la donna orientale e lo sguardo le traballò un po’, lo spagnolo se ne accorse e continuò
«Come no! E dove l’avresti trovato questo nuovo impiego, sentiamo.» Yumiko disse la prima cosa che le passava per la testa
«In un supermercato»
«In ogni caso non te ne puoi andare.» La ragazza fece per protestare, ma la sua voce fu inghiottita da quella di lui, che di nuovo batté il palmo contro l’anta dell’armadietto, urlando: «Hai un contratto e lo rispetterai!»
«Non alzare la voce con me!» Esclamò lei, d’istinto. Ah, se fosse stata nel suo Paese, se non avesse dovuto far fronte a tante cose – sua figlia Eri, le spese, l’attrazione che irrimediabilmente provava per quel ragazzo e  che la inibiva come un’adolescente – non avrebbe mai permesso a nessuno di usare quel tono con lei. In Giappone sarebbe stato diverso, sarebbe stata sé stessa.
«Perché non facciamo una cosa, invece? Perché non urli anche tu contro di me? Perché non reagisci, perché non mi mandi a fanculo se è quello che senti? O magari vuoi baciarmi …» Ricardo avanzò di un passo, il suo tono era calato, allungò le dita per sfiorarle i capelli, tuttavia Yumiko scacciò la mano con la sua. Le tremava e non riusciva a guardarlo negli occhi come aveva fatto fino a quel momento, era molto meglio quando era incazzato, per lei era più semplice sostenere il suo sguardo infuriato piuttosto di quello lì.
«Sinceramente credo che sia una bugia la storia del supermercato. É per me, per quello che è successo fra noi se hai deciso di andartene» con la mano aperta indicò prima lui e poi lei, la quale scosse il capo. Non si era aspettata che il suo licenziamento prendesse una piega del genere. Immaginava che dopo quell’ultima nottata di lavoro sarebbe passata in ufficio a chiarire gli ultimi accorgimenti o mettendo qualche firmetta qua e là.
«Tra noi non è accaduto proprio niente» specificò Yumiko, che si chinò appena a raccogliere il foglio bianco abbandonato sulla panca «Se non vuoi firmare tu, chiederò a uno dei tuoi soci di farlo.»
La mente di Salas era rimasta alla penultima frase pronunciata dalla ragazza: tra noi non è accaduto proprio niente. Le strinse tutti e due gli avambraccio, all’altezza dei seni, e la spinse contro uno degli armadietti che emanò un rumore metallico, attutito dal corpo della ragazza asiatica, la quale inizialmente provò a divincolarsi da quella presa, senza troppa convinzione. Di sicuro conosceva due o tre mosse per liberarsi e metterlo al tappeto, ma probabilmente ritrovarsi il suo viso ad un centimetro dal proprio fu una mossa più disarmante di quelle che le aveva insegnato suo padre, maestro di Karate.
«Non è accaduto niente, dici?» le labbra si sfioravano, Yumiko poteva sentirle muoversi a ridosso delle proprie mentre le parlava. «Secondo me manca solo l’ufficializzazione» fece per baciarla, ma lei fu rapida a dirgli di non azzardarsi a toccarla. Ricardo la osservò a lungo: o quella ragazza era più tosta di quello che sembrava, o davvero era stato tutto frutto della sua immaginazione e quella donna non se lo filava manco di striscio. «Guardami negli occhi e giurami che non provi niente per me, che ti sono completamente indifferente.» Le bocche continuavano a sfiorarsi, seppur in maniera superficiale. Yumiko strinse i pugni e puntò gli occhi a mandorla dentro quelli di lui:
«Io appartengo a Joaquin Diego Morales»
L’ex fidanzato deceduto in un incidente d’auto. Era logico, come aveva potuto non pensarci prima al fatto che potesse essere ancora innamorata di lui. Ricardo avrebbe dovuto intuirlo durante il dopo cena a casa della giapponese, quando questa gli aveva illustrato la propria idea sull’anima gemella: era convinta che l’avesse trovata e che fosse pure morta, ciò non lasciava speranze a coloro che sarebbero arrivati dopo: nessuno avrebbe mai potuto reggere il confronto con chi non abitava più il mondo terreno. La lasciò andare, sconfitto. La rabbia e la foga che aveva provato improvvisamente si erano affievolite, lasciando il passo alla delusione. Abbassando il capo vide il foglio nella mani di Yumiko, estrasse dalla tasca dei jeans una stilo e le fece cenno di passarglielo, senza dire nulla vi pose la propria firma, quindi glielo porse:
«Sei libera, Yumiko Okada» voleva essere una battuta, invece uscì come se avesse firmato una petizione che la scagionava da qualsiasi accusa di omicidio, evitandole la sedia elettrica e, a rafforzare quella tesi, le pupille castane di lei si riempirono di lacrime. Farfugliò un grazie e recuperò dal suo – vecchio – armadietto la borsa che aveva riempito con tutte le cianfrusaglie. Si congedò con un cenno del capo, ma non appena gli diede le spalle la fermò ancora, Yumiko si voltò a guardarlo, ritrovandoselo dannatamente vicino:
«Avrei voluto incontrarti prima di… » stava per dire Joaquin, però si trattenne « …di tutto quanto. Avrei voluto conoscerti in un’altra circostanza, magari le cose sarebbero andate diversamente» le sorrise con tristezza, non voleva si ricordasse di lui come l’orco cattivo che le aveva gridato contro e baciata con la forza. La vocina che era parte di Yumiko tornò a galla, dopo esser rimasta muta per tutto il tempo, a ricordarle che quella era con ogni probabilità la sua ultima chance, che lui era di fronte a lei in carne e ossa e praticamente le aveva fatto capire in tutti i modi possibili che la desiderava. Credeva davvero a quello che aveva detto pocanzi, e cioè che apparteneva a Joaquin? Per l’amor del cielo, gli sarebbe appartenuta per l’eternità ed Eri ne era la prova vivente, ma la differenza stava tutta lì, nella parola “vivente”. Joaquin Morales era cenere in un vaso di terracotta murato al fianco della bara di sua madre – i suoi genitori erano morti giovani in un incidente stradale, ironia della sorte – mentre Ricardo Salas era proprio lì, se si fosse alzata sulle punte dei piedi gli avrebbe potuto toccare le labbra. Baciarlo. «Anche io» disse d’un tratto, le parole che aveva pensato nella mente le uscirono dalla bocca senza che potesse fermarle, come un corso d’acqua che si insinua comunque, nonostante gli sbarramenti. Ricardo corrugò la fronte, gli era parso di sentire “anche io” ma non ne era sicuro, o meglio, non voleva rischiare di continuare a tessere la trama di quel film che si era costruito finora in testa. Le chiese di ripetere, ma come era prevedibile la ragazza non lo fece. Salas per tutta risposta l’attirò a sé, doveva tentare ancora, il tutto per tutto. Di nuovo cercò di posarle il palmo della mano sulla guancia, la ragazza non poté scacciarla poiché entrambe le mani erano occupate: una la teneva ferma lui, nell’altra stringeva la cinghia del borsone da lavoro. Allora tirò indietro il volto, ciò nonostante Ricardo glielo carezzò:
«Di cosa hai paura, Yumiko?»
«Ho quanti anni più di te? Due? Tre?»
«Ehm … facciamo quattro o cinque»
«E sei il mio superiore»
«No, non lo sono più. Ho firmato le dimissioni, ricordi?» La donna rimase senza parole, senza sapere cosa inventarsi per allontanarlo da sé. Lentamente vide il suo viso farsi sempre più vicino, le palpebre socchiudersi e le labbra schiuse posarsi sulle proprie. Quel lieve contatto le provocò una scarica elettrica che dalla spina dorsale si diffuse lungo le braccia e giù per le gambe. Lasciò cadere il borsone sulle mattonelle del pavimento e fu libera di gettargli le braccia al collo, quasi aggrappandosi come se temesse di capitolare da un momento all’altro. Ricardo le circondò la schiena, chiudendola in un forte abbraccio per paura che decidesse di liberarsi e scappare via. Le bocche erano incollate, le lingue si cercavano e trovavano in un moto perenne. Salas la sospinse con il peso del corpo a ridosso degli armadietti, Yumiko prese a carezzargli ora il viso, ora il collo, intanto che le mani di lui andavano su e giù lungo la sua schiena. Poi le labbra abbandonarono quelle della ragazza per scendere a lambirle il collo scoperto, che sotto alla luce al neon appariva più bianco di quello che era. Yumiko gettò la testa all’indietro mordendosi il labbro inferiore, quando la porta degli spogliatoi si aprì ed Antonio vi fece capolino:
«Disturbo?» Il suo tono era chiaramente irrisorio. Ricardo Salas gli disse di andare via, Yumiko nel frattempo aveva nascosto il volto contro la sua spalla, ma il socio proseguì sghignazzando. «Mi sa di si»
«Antonio vai-via!» Solo allora il socio fece retromarcia e richiuse la porta.
Oramai l’atmosfera passionale si era dissipata, guardandosi Ricardo e Yumiko scoppiarono a ridere, senza tuttavia allontanarsi l’uno dall’altro.
«I soliti italiani» continuò il ragazzo senza smettere di sorridere
«Antonio è italiano?» Chiese conferma Yumiko
«Perché, non si vede?» Altri risolini, poi tornarono seri e Salas le carezzò la guancia con il dorso della mano. «Aspettami nel parcheggio, il tempo di prendere le mie cose e ti raggiungo»
«Ok» sussurrò lei, godendosi il lieve e fugace bacio a fior di labbra, quindi sgusciò via dalla sua morsa e raccolse la borsa inerme sul pavimento e con essa il foglio delle dimissioni. Ricardo lo afferrò e lo strappò in quattro parti, si chinò a lasciarle ancora un bacio, quindi Yumiko sgattaiolò fuori dalla stanza. Si sentiva leggera come una piuma.  
 
 
 
 
 
 
 

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Capitolo 13
*** Capitolo 13 - Tu non puoi far finta che niente sia cambiato ***


Capitolo 13
Tu non puoi far finta che niente sia cambiato


 
Il dottore che era di turno quella notte alla guardia medica della capitale la guardò da sopra gli occhiali dalla montatura spessa e dall’improbabile colore verde pisello. Parlava biascicando le parole e sebbene Yumiko parlasse lo spagnolo da ormai diversi anni, dovette chiedergli di ripetere lentamente quello che le stava dicendo. Successivamente, guidando verso casa con Ricardo mezzo addormentato sul seggiolino del passeggero, avrebbe capito il motivo principale per cui aveva faticato a comprendere il medico: usava un linguaggio prettamente inerente alla sua occupazione. In quel momento le stava dicendo:
 «Il paziente deve seguire» raramente i dottori usano altri tempi verbali al di fuori dell’imperativo «una terapia che prevede l’assunzione di un analgesico tre volte al giorno per tre dì» ed era stato allora che Yumiko l’aveva interrotto titubante, chiedendogli umilmente si spiegarle meglio:
«Sa, sono giapponese e …»
«Tre pillole al giorno per tre giorni» aveva tagliato corto lui, ma era stato comunque molto gentile a porle il vasetto delle medicine, in modo che non avesse dovuto cercare una farmacia aperta a quell’ora e rischiare di fare l’alba, senza dimenticare che sua figlia era a casa da sola. Ricardo Salas era arrivato dalla saletta di fianco con il muso imbronciato e un naso grosso così. Alla donna ancora faceva male la mano per quanto gliel’aveva stritolata poco prima, ma non poteva fargliene una colpa, nossignore! Tutto sommato era anche un po’ per causa sua se si trovavano in quella situazione …
 
Dopo essersi salutati negli spogliatoi, Yumiko aveva raggiunto la sua Toyota Yaris al parcheggio: era l’ultima macchina, esclusa quella di Oscar ferma a parecchi metri più in là. La giapponese aveva sistemato la sua borsa sui sedili posteriori, canticchiava e la cosa la divertì non poco, in attesa dell’arrivo di Ricardo, il quale le aveva chiesto di attenderlo proprio lì. L’avrebbe raggiunta nel giro di qualche minuto, Yumiko pensò di accendersi una sigaretta prendendola dal pacchetto di scorta che teneva nel cruscotto dell’auto. Se la portò alle labbra e avvicinò la fiamma dell’accendino, ma questa si spense con un soffio che arrivò dalle sue spalle. La donna sorrise, mentre si sentiva abbracciare e un viso farsi strada oltre la sua spalla per baciarle la guancia e prenderla per il mento, sfiorandole le labbra. Solo allora Yumiko si accorse che non era chi pensava che fosse, bensì Antonio. Lo allontanò con una spinta e lui indietreggiò sogghignando e beffeggiandola, domandandole come mai quest’altro socio del night non le garbava. Lei rispose semplicemente di lasciarla stare, imbarazzata per quello che era accaduto e per lo spettacolo a cui aveva assistito pocanzi affacciandosi nello spogliatoio. Gli diede le spalle, con la scusa di riporre la sigaretta dove l’aveva trovata, ma fu la mossa più sbagliata che potesse fare, soprattutto per una nativa del Paese del Karate: mai dare le spalle all’avversario. Lui le fu nuovamente addosso, sbattendola contro la carrozzeria della macchina, le strizzò uno dei seni:
«Uh bambolina, sei messa male qui!» Disse pizzicandole pure l’altro seno, il suo alito sapeva di alcool e aveva decisamente bisogno di una doccia.
Yumiko si sarebbe liberata di lui in due mosse e forse sarebbe stato molto meglio,  tuttavia se lo sentì tirato via con forza e voltandosi indietro vide la schiena di Salas che stava già con il pugno a mezz’aria. Non fece in tempo a fermarlo che si era già fiondato su Antonio, il quale ricevette il colpo e capitolò sul cemento del parcheggio.
 
Per un momento tutto si arrestò, in lontananza si udì l’abbaiare di un cane e le sirene di un’ambulanza. Ricardo non aggiunse una sola parola al pugno, si limitò a fissare il socio con rancore e se non gli sputò addosso fu solo perché non voleva che Yumiko pensasse che non fosse in grado di contenere la sua rabbia. Si girò a guardarla e le posò un bacio sulla fronte, prendendole il volto fra le mani, quindi le chiese se stesse bene. Lei rispose di si, grazie. Salas sorrise, prima o poi avrebbe imparato a finire una frase senza ringraziarlo? Sicuramente.
«Mi dai uno strappo a casa?» Solo in quel momento Yumiko notò che aveva con sé la borsa della lavanderia addetta al lavaggio degli abiti dei dipendenti, lui se ne accorse e spiegò. «Non sono molto bravo a fare il bucato, così ho una specie di abbonamento con la titolare della lavanderia che era buona amica di mio pad-»
Antonio arrivò da dietro, chiuse la mano sulla curva del capo di Ricardo e lo spinse contro la macchina, rompendogli il naso. Il dolore fu così lancinante che gli si appannò la vista e se non cadde ginocchioni fu solo grazie al supporto di Yumiko e alla Toyota contro cui si puntellò. Oscar arrivò di corsa e con il fiatone, era tornato il bellissimo ragazzo che faceva voltare anche le ragazzine per strada, senza piume sfavillanti e vestiti luccicanti. In un attimo fu al fianco del suo grande amico Ricardo, aiutandolo a tamponare il sangue con dei fazzoletti. Antonio intanto aveva assunto la posizione d’attacco, con i pugni chiusi e alti davanti al viso, mimò un incontro di boxe, saltellando sulle punte dei piedi. Oscar lo fulminò con gli occhi:
«Ti sei rincoglionito?!» Ringhiò, mentre in sottofondo si udiva la voce impastata di Ricardo che lo insultava in tutti i modi possibili.
«Stai zitto frocio!» Esclamò Antonio rivolto ad Oscar, il quale era abituato ad essere preso in giro, in un certo senso da quel punto di vista il peggio era passato, ma continuava a sentirsi a disagio quando episodi del genere capitavano davanti ad altre persone. Era totalmente preso da quei pensieri che quasi finì con il culo a terra quando Ricardo lo allontanò da sé per lanciarsi nuovamente contro Antonio, pronunciando tante di quelle ingiurie che Yumiko neanche conosceva. Il sangue era scuro e denso e gli aveva oramai inzuppato il davanti della maglia e qualche goccia era finita anche sui jeans. Per fortuna Oscar fu lesto a trattenerlo e probabilmente Antonio li avrebbe colpiti entrambi se Yumiko non gli avesse afferrato il polso. La guardò stupito, non si era aspettato un’uscita del genere – e come avrebbe potuto – ma anche le espressioni di Ricardo e Oscar erano alquanto sbalordite e lo divennero ancor di più quando la donna piegò il polso di Antonio in modo innaturale, obbligandolo a girarsi di spalle o glielo avrebbe spezzato. Lo tenne con il braccio piegato all’indietro facendo sempre più leva, fino a costringerlo a piegarsi sulle ginocchia. La supplicò di lasciarlo andare, di smetterla che gli stava facendo male, che aveva capito la lezione, ti prego, ti prego, ti prego!
«E hai il coraggio di chiamare gli altri froci. Guardati: piagnucoli come una femminuccia e della peggiore specie.» Yumiko lo fece alzare con uno strattone, poi lo lasciò libero con una spinta. Antonio barcollò per qualche metro, mentre si massaggiava il polso e il braccio, si girò indietro solo una volta, meditò sul da farsi e decise che era meglio non far arrabbiare quella tizia con gli occhi troppo lunghi e troppo sottili. Che poi a guardarla bene non era neanche quella grande bellezza, cosa ci aveva trovato in lei il socio Salas rimaneva un mistero che, se all’inizio aveva pensato di svelare, ora gli era passata la voglia!
Yumiko lo accompagnò con lo sguardo fino a vederlo sparire oltre la porta di servizio del night club, aveva sbagliato una volta a dargli le spalle (anzi due, contando anche l’assalto a Ricardo) e non avrebbe ripetuto ancora quella leggerezza.
I due ragazzi alle sue spalle avevano seguito la scena senza fiatare e con la bocca aperta, troppo intontiti per pensare che erano stati difesi da una donna in miniatura. Questa si girò, preoccupata per la botta che aveva ricevuto Salas, ma notando la loro espressione stranita avvampò:
«Da ragazzina mio padre mi insegnò qualche mossa di karate, ne era maestro, a Tokio aveva un dojo, cioè l’equivalente di quella che voi chiamate palestra, con la differenza che...»
«Sono sicuro che è davvero molto interessante tesoro, ma l’eroe qui ha bisogno di un dottore.» La interruppe Oscar
«Io invece l’ascolterei per ore» biascicò Ricardo e Oscar alzò gli occhi al cielo sospirando, quei due non avevano ascoltato il suo consiglio di lasciarsi perdere a vicenda, non si rendevano conto di quanto fossero diversi?!
«Gomena-sai» ecco che Yumiko riprendeva con le scuse nella sua lingua madre, aiutando Oscar a mettere Salas in macchina, poi lo guardò. «Tu non vieni?»
«No, scricciolo, ho un appuntamento. Sono sicuro che con te è in buone mani» e le fece l’occhiolino, la ragazza rimase impalata qualche secondo, senza muoversi, incapace di pensare. «Ehi, tesoro, tranquilla, devi solo accompagnarlo dal dottore.»
 
Yumiko l’aveva portato dal dottore e aveva esaudito il suo desiderio di tenerlo per mano mentre gli aggiustavano il naso con una botta secca e rapida. Salas non aveva urlato, in cambio le aveva stritolato le dita incrociate alle sue e gli occhi gli si erano riempiti di lacrime. Successivamente le avrebbe confessato che aveva provato anche più dolore di quando Cassano l’aveva scaraventato contro l’auto.
«Non credo di stare molto simpatico alla tua macchina.» Disse durante il tragitto di ritorno verso casa «É la seconda volta che ci vado a sbattere contro» e sorrise con lei, sentendo una fitta di dolore corrergli per la faccia, così smise subito. Erano andati via dall’ambulatorio medico da poco, Yumiko gli porse la boccetta con le pillole, dicendogli che ne avrebbe dovute prendere tre al giorno per tre giorni, a intervalli regolari e che poteva già cominciare. Con la coda dell’occhio lo vide indugiare con due compresse nel palmo della mano e quasi le venne un colpo quando se le portò entrambe alla bocca, ingerendole. Per poco non fu tentata di tornare indietro e far presente al medico dell’accaduto, d’istinto accostò al marciapiedi e Ricardo si giustificò affermando che il dolore era troppo forte da sostenere. Lei neanche rispose, gli strappò di mano il contenitore di plastica bianca e accese la luce all’interno dell’abitacolo, leggendo attentamente il foglio illustrativo e in particolare la parte dove elencava gli effetti indesiderati in caso di eccessiva assunzione. Niente di preoccupante, al massimo avrebbe dormito qualche ora in più o sofferto di dissenteria. Spense la luce, lo guardò male e ritornò in strada, prossima fermata davanti casa del passeggero, il quale era profondamente addormentato quando la raggiunsero. Yumiko lo scosse per la spalla, ma lui non fece altro che accasciarsi con il peso del corpo a ridosso dello sportello, il capo ficcato contro ii finestrino. Era tardi, o molto presto, dipende dai punti di vista, era stanca e il pensiero di Eri da sola a casa non l’aveva abbandonata neanche dal dottore, così riavviò il motore dell’auto e decise che per quella notte il suo letto avrebbe avuto un ospite che non fosse lei.
 
Yumiko parcheggiò al posto che le era stato riservato nell’ultima riunione condominiale, per fortuna a soli quattro passi dal portone d’ingresso rispetto a quello precedente. Scosse Salas con maggior forza e questi mugolò, ma Yumiko non si arrese, aveva bisogno che per lo meno si mettesse in piedi, non poteva di certo prenderlo in braccio come un bambino, né tantomeno lasciarlo in macchina. Gli parlò direttamente all’orecchio, descrivendogli velocemente la situazione in cui si trovavano, lui sollevò le palpebre appena un pochino e le carezzò il viso. Yumiko raccolse la sua mano nella propria, baciandone il centro del palmo:
«Spero di ricordare tutto quanto domani» disse lui, la voce era ridotta ad un sussurro, era evidente che era sotto sedativo, allora la ragazza gli baciò le labbra con un sorrisetto
«Io invece spero che questo lo dimenticherai» affermò baciandolo con maggior trasporto, lui ricambiò per quanto la sua condizione gli concedeva. Quando si separarono Salas le rivolse una domanda strana:
«Hai carta e penna?» Yumiko fu incuriosita e glieli porse entrambi, allora lui scrisse con una grafia ballerina e stretta
 
dormo – bacio – bello
 
«Così domani me lo ricorderò» e si ficcò il biglietto nella tasca anteriore dei pantaloni di jeans.
La giapponese lo aiutò sorreggendolo per il braccio, se qualcuno li avesse visti avrebbe pensato che il ragazzo fosse ubriaco fradicio e lei pregò lungo tutto il tragitto che nessuno li scorgesse o non avrebbero smesso di spettegolare tanto presto. Quando Ricardo si sedette sul letto matrimoniale nella stanza personale della donna in pratica stava già dormendo. Yumiko gli tirò via le scarpe, lo liberò del giubbino e muovendogli prima il braccio destro, poi il sinistro, riuscì a sfilargli anche la maglia, facendo attenzione a non toccare il naso indolenzito. Lo sdraiò sul letto, la testa adagiata sul morbido cuscino, prima di rimboccargli le coperte decise che era meglio togliere anche la cintura con la placca in metallo, avrebbe potuto infastidirlo durante la dormita. Piegò la maglia sulla poltroncina di fianco al letto, arrotolò la cintura e gliela poggiò sopra, appese il giubbotto alla spalliera e sistemò le scarpe ai piedi della stessa poltrona.
Come un lampo l’idea di coricarsi al suo canto le balenò nella mente, ma la scacciò immediatamente, vergognandosene di averlo solo pensato. Chiuse la porta della stanza, si affacciò in quella di Eri e sentendo il suo respiro regolare un nuovo senso di pace l’avvolse e la tranquillizzò. Rapidamente tornò in macchina a recuperare il proprio borsone e anche quello di Ricardo, dove probabilmente teneva i panni puliti. Rientrata in casa si rese conto di non avere neanche la forza di spogliarsi o struccarsi, così si sdraiò sul divano tirandosi la coperta fin sotto il mento. Chiuse gli occhi e si addormentò all’istante.
L’orologio alla parete segnava le 5.30. 

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Capitolo 14
*** Capitolo 14 - Amore amore amore, è quello che so dire, ma tu mi capirai ***


Capitolo 14

Amore amore amore, è quello che so dire, ma tu mi capirai


 
Quella mattina non fu la sveglia a destare dal mondo dei sogni la piccola Eri, bensì il suo cellulare che le annunciava di aver ricevuto un nuovo messaggio. La ragazzina cercò a tentoni il telefonino sopra il comò alla sua sinistra, lo trovò e per poco non lo fece cadere urtandolo con il polso. Lo afferrò in tempo, dicendosi che doveva smetterla di poggiarlo così vicino all’orlo o presto sarebbe stata costretta a chiederne uno nuovo a sua madre. Con la vista ancora appannata dal sonno vide che il mittente del messaggio era Kingsley Rodriguez e come d’incanto fu perfettamente vigile e sveglia. Il suo fidanzato – le faceva ancora uno strano effetto riferirsi a lui con quell’appellativo, ma non riusciva a dargliene uno diverso, infondo che male c’era? Era stato il ragazzo stesso a prendere quella decisione, si appartenevano, le aveva detto, io sono tuo e tu sei mia, aveva affermato fra un bacio e l’altro. Il ragazzo aveva scritto pochi caratteri in cui si raccomandava di aspettarlo davanti ai cancelli di scuola e di non portare troppi libri nello zaino. Concludeva il messaggio con TI AMO scritto in maiuscolo. Neanche a quello la ragazza giapponese si era ancora abituata, ma non aveva avuto il coraggio di farglielo presente, un po’ perché temeva che lui smettesse di dirglielo/scriverglielo; un po’ perché avrebbe potuto fraintendere le sue parole e pensare che non ricambiava i sentimenti; un po’ perché in fondo in quegli istanti le batteva sempre forte il cuore. Lo tranquillizzò rispondendogli che l’avrebbe trovata al luogo indicato, quindi consultò l’orario rendendosi conto che la sveglia avrebbe suonato solo dopo un quarto d’ora, minuto più minuto meno. Si  trascinò in cucina ove notò sua madre Yumiko addormentata profondamente sul divano. Le scostò una ciocca di capelli dal viso, accorgendosi che non si era lavata via il trucco, e le acconciò meglio la coperta sulle spalle. Nonostante le temperature si fossero addolcite parecchio in quegli ultimi giorni, era un gesto che le veniva spontaneo e lo eseguì in maniera meccanica.
Preparandosi la colazione – lette con orzo e biscotti di soia – Eri pensò che quel lavoro fosse troppo pesante per sua mamma, che se avesse deciso di cambiarlo lei avrebbe appoggiato la decisione. Inevitabilmente si ricordò dell’incontro con Oscar e di come Yumiko le avesse dato risposte vaghe o addirittura nulle. Si versò il latte nella tazza, vi aggiunse un paio di cucchiaini d’orzo e si sedette al tavolo, in sottofondo il respiro regolare di sua madre. Kingsley le aveva raccontato della scena a cui aveva assistito in casa propria fra il suo papà adottivo e l’amico di Ricardo, Oscar. Per ore non era riuscita a dimenticare l’espressione sul volto del ragazzo francese e si era ritrovata ad odiare quell’uomo anche se non l’aveva mai conosciuto personalmente. Quando Rodriguez parlava di suo padre si irrigidiva e le sembrava di star seduta vicino ad un’altra persona, diversa da quella che la carezzava e la faceva sentire in una specie di favola. Una volta Eri aveva sbottato con un:
«Che gran figlio di mignotta!» E se ne era pentita immediatamente, notando lo sguardo incredulo di Kingsley. Si era scusata, imbarazzata e mortificata, ma lui scoppiato in una risata fragorosa, abbracciandola e posandole un bacio sul capo.
Kingsley Rodriguez soffriva l’influenza del padre come la neve con il sole, allora un giorno la piccola asiatica aveva provato a suggerirgli di usare la storia dell’amante come contropartita o quanto meno per difendersi dalle continue prepotenze dell’uomo. Il ragazzo aveva spiegato che non temeva tanto il fatto di affrontarlo o le minacce di mandarlo a lavorare in fabbrica, né tantomeno quella di rispedirlo a calci nella fogna da cui l’aveva pescato, bensì lo spaventava il pensiero di allontanarsi da lei.
Immersa in quei pensieri che ballonzolavano da un estremo all’altro della mente, come una pallina di ping-pong, Eri non si rese conto del tempo trascorso: stava ancora mescolando il latte e i biscotti erano rimasti intatti nel piattino, di quel passo rischiava di perdere il bus mandando all’aria i piani di Kingsley. Affrettò tutte le operazioni successive e praticamente saltò sul veicolo pubblico appena prima che l’autista chiudesse le porte. Fece l’intero viaggio con il cuore a mille, non più per la corsa, ma per l’ansia di scoprire cosa aveva in programma il compagno di classe. Eri lo attese trepidante, mangiucchiandosi le unghie, nessuno badava a lei davanti ai cancelli dell’istituto, però si sentiva come una persona in difetto, una ladruncola la cui reale identità poteva essere scoperta da un momento all’altro. Per fortuna, prima che ciò accadesse, Kingsley si materializzò davanti a lei, quasi dal nulla, la baciò velocemente sulle labbra, poi la prese per mano e la trascinò con sé. Le domande di Eri risultarono vane, l’unica risposta che ricevette dal ragazzo fu un semplice:
«Seguimi.»
«Come se avessi un’altra scelta.» Ironizzò distrattamente la ragazza.
Rodriguez fermò la loro corsa svoltando l’angolo, all’incirca dove Yumiko attendeva Eri all’uscita di scuola e dove la lasciava quando l’accompagnava ai corsi, un fatto che negli ultimi giorni accadeva sempre più di rado. Al posto della Toyota Yaris però c’era uno scooter, il francese estrasse un telecomando dalla tasca dei jeans e disattivò l’antifurto, le frecce del veicolo si illuminarono ad intermittenza, poi lui vi montò sopra e inserì le chiavi per metterlo in moto. Eri corrugò la fronte, elencando tutti i motivi per cui sarebbero dovuti essere a scuola. Kingsley la interruppe dicendole di salire a bordo e convincendo la ragazza con la promessa di avere qualcosa da mostrarle, una specie di regalo.
 
Kingsley Rodriguez guidò fino a casa propria, godendosi la dolce sensazione del corpo di Eri premuto contro la schiena. Non entrò nella tenuta del ministro spagnolo dall’ingresso principale, ma girando intorno al muretto di cinta e nascondendo lo scooter in un cespuglio decisamente troppo folto. Di nuovo prese Eri per mano e la tranquillizzò quando questa gli chiese spiegazioni, quindi entrarono nella proprietà attraverso un’apertura nella recinzione. La giapponese stava per chiedergli se per caso non fosse stato lui stesso l’autore di quell’escamotage da rapinatore, ma il ragazzo la zittì con un cenno. Accovacciati fra gli alberi da frutto, Rodriguez studiò la zona circostante e, accertatosi che la via fosse libera, corse fino a raggiungere la parete esterna della casa, sempre tenendo Eri per mano. Le disse di aspettare lì, di non muoversi almeno che non scorgesse qualcuno arrivare da lontano, a quel punto sarebbe dovuta tornare fra gli alberi e nascondersi come meglio poteva:
«Mi stai mettendo paura» e con queste parole Eri non voleva esagerare. Kingsley sorrise divertito, come di fronte ad una bambina spaventata da un tuono, le prese il viso fra le mani e le stampò un bacio a fior di labbra, ribadendo il concetto espresso pocanzi, poi si allontanò, muovendosi come un vero furfantello che sta per intrufolarsi in casa altrui.
Rodriguez si nascose appena in tempo o la governate l’avrebbe visto, quando questa si fu allontanata a sufficienza sgattaiolò in casa e corse su, facendo le scale a due, chiudendosi nella sua camera da letto con un lungo sospiro. La prima parte del suo piano era riuscita alla perfezione, ma non aveva tempo da perdere. Prelevò dall’armadio una vecchia coperta a quadri grande quanto un letto matrimoniale che aveva chiesto alla stessa Rosita il giorno precedente, ovviamente mentendo. Contro ogni sua aspettativa la donna gliel’aveva consegnata senza fare domande, anzi, addirittura scusandosi per le toppe cucite qua e là, ma era vecchia di anni. Kingsley l’aveva ringraziata, aggiungendo che era perfetta: gliene avrebbe fatta ricevere una nuova, a spese di suo padre s’intende.
Aprì la finestra e vide dall’alto la testolina nera di Eri, si muoveva avanti e indietro strizzandosi le mani e lanciando occhiate a destra e a manca. La chiamò con un fischio, ma lei non si voltò a guardarlo, provò ancora, finché la ragazza riuscì a capire da che parte provenisse il suono. Alzò lo sguardo, sempre più confusa, Rodriguez le mostrò la coperta e -senza darle il tempo materiale per comprendere cosa stava per fare - la lasciò cadere di sotto. Attese che Eri la raccogliesse da terra e lo guardasse nuovamente per farle segno di aspettare un altro istante. La raggiunse diversi minuti dopo e la trovò con quell’ammasso di lana scura fra le braccia, era dannatamente bella anche con i lunghi capelli corvini scompigliati e l’espressione accigliata. Ridacchiò e lei sembrò infastidita più che mai da quel suo fare misterioso, gli gettò la coperta addosso e lo additò, pronta a dirgliene di tutti i colori, però Kingsley glielo impedì con un lungo bacio, quindi le sussurrò di portare pazienza ancora un po’: mancava davvero poco al suo “regalo”. Arrotolò l’ingombrante coperta come meglio poteva e la guidò mano nella mano verso una costruzione in legno che Eri aveva già notato e che si rivelò essere ciò che aveva ipotizzato: una stalla.
 
Nei pressi di questa non c’era praticamente anima viva. Lui aprì le porte che si mossero con un cigolio sospetto, quindi entrarono nel fresco della struttura. Lì dentro c’era meno luce che fuori e inizialmente Eri vide ben poco, solo quando gli occhi si furono abituati alla penombra contò quattro scompartimenti per animali, all’apparenza vuoti. Si era fermata all’entrata, ancora non riusciva a vedere il nesso sorpresa/coperta di lana/scuderia. Il ragazzo le carezzò i capelli, dicendo che il suo regalo era a pochi passi ed Eri fu sul punto di controbattere di voler andare via, quando udì una specie di squittio.
«Che cos’è?» Chiese a lui che di nuovo la invitò a seguirlo e così fece. Si affacciarono nel secondo scompartimento a destra e quello che la ragazzina vide la commosse fino alle lacrime.
Un cucciolo di cavallo stava bevendo il latte dalla sua mamma e se all’inizio non li aveva notati era perché la femmina se ne stava comodamente sdraiata a leccare il pelo del figlio. Eri non aveva mai visto un cavallo da vicino e d’improvviso si ricordò dell’ultimo tema in classe, svolto solo la settimana precedente. La traccia chiedeva di scrivere di un desiderio provato da bambino ma che non si era mai avverato. Le lacrime si facevano sempre più insistenti.
«Ha solo un giorno.» disse Kingsley al suo fianco e non ricevendo risposta né alcun altro segno continuò. «Ho pensato che ti avrebbe fatto felice.» Si grattò il capo, si era immaginato un’altra reazione, più entusiasmante, più gioiosa e invece…
Eri l’abbracciò quasi piangendo, non credeva si potessero versare lacrime di gioia, ecco un’altra cosa che aveva visto accadere solo nei telefilm e che stava succedendo proprio a lei:
«Grazie, grazie, grazie!» A quella reazione il ragazzo si sentì sollevato, la sua sorpresa non era passata indifferente. «Posso accarezzarlo?»
«Ci proviamo» rispose lui che batté un paio di volte la mano contro la porticina in legno per attirare l’attenzione del cavallino. «Ehi, bello, vieni qui. Qui bello, qui» l’animale lo raggiunse incuriosito e muovendosi su zampe sottili e traballanti. «Deve ancora imparare a camminare bene.» Spiegò ad Eri. «Ecco qui bello, bravo. Bravo.» Il cucciolo di cavallo si lasciò carezzare il muso a lungo ed Eri pensò che fosse un vero peccato non poter raccontare a sua madre Yumiko di quell’esperienza senza precedenti.
Da fuori udirono il ronzio di un motore e le coccole al piccolino cessarono in un baleno. Il veicolo si fermò proprio davanti l’entrata della stalla, i due ragazzi potevano scorgerne l’ombra imponente. Senza pensarci due volte Kingsley afferrò Eri per un polso e la trascinò in fondo alla stalla, nascondendosi nell’ultimo scompartimento a sinistra, dove c’era un mucchietto di paglia. Qui si sdraiò con la ragazza al suo fianco e coprì entrambi con la coperta. Questa l’aveva presa per un’altra idea, ossia quella di passare la mattinata in riva al laghetto artificiale ai confini della sua stessa tenuta, a bearsi dei dolci raggi solari, invece ora si stava rivelando un’utilissima arma di difesa, ammesso che l’uomo sul trattore non li avesse scovati ugualmente. Si ricordò che la cavalla riceveva una doppia razione di fieno al mattino poiché doveva allattare, era stato davvero sciocco a non tenerlo in conto nel suo piano che fino a quel momento si era rivelato perfetto.
Con il fiato corto udirono il motore del veicolo farsi più stridulo quando il contadino entrò nella stalla lasciando le ante del portone spalancate, ascoltarono i suoi passi sul terreno fangoso e salutare i due cavalli chiamandoli “stronzetti” mentre dava loro il fieno, aveva una voce gutturale a causa delle tante sigarette. Eri si irritò, quasi fu sul punto di balzare allo scoperto come uno di quei giocattoli a molla chiusi nelle scatole, solo per dirgli che anche se sono animali sono molto più sensibili di tante persone e che lui e i suoi simili ne erano la prova vivente. Kingsley fu lesto a fermarla, tappandole la bocca con un palmo prima che potesse farli scoprire.
Non era la prima volta che stavano così vicini, nossignore, eppure il cuore di lui aveva un battito particolare, diverso, che aveva provato rare volte, quasi di paura. Eri si accorse del suo cambiamento, lo capì dallo sguardo e d’improvviso vide la situazione da un altro punto di vista. Erano sdraiati di fianco, ma da quando lui le aveva chiuso la bocca con la mano le era quasi addosso, la coperta lasciava filtrare ben poca luce dalla già poca illuminata stalla, e soprattutto erano del tutto soli. L’uomo era andato via, oramai il brusio del trattore si era ridotto ad un rimbombo lontano, gli unici testimoni erano mamma cavallo e il suo pargoletto, ma difficilmente sarebbero riusciti a confessare quello a cui avevano assistito. Con una lentezza esasperante Kingsley calò le labbra su quelle di Eri, entrambi abbassarono le palpebre solo un attimo primo del bacio, fissandosi negli occhi fino all’ultimo istante. Il tocco fra le bocche inizialmente fu lento, eppure persero la cognizione di ogni cosa – del luogo, del tempo, del pericolo – in un lampo. La ragazza si aggrappò ai capelli di lui, afferrandosi ai ricci scuri dietro la testa, spingendolo sempre più contro la propria bocca; Kingsley le aprì il giubbotto tirando giù la cerniera, poi le accarezzò la gamba fasciata dai fuseaux scuri, pian piano salì fino alla coscia, infilandosi al di sotto della maglia e questa volta Eri non lo fermò, troppo persa nelle sensazione che stava provando.
Successivamente, ripensando a quell’assurda giornata e a quello che era accaduto nella stalla, Eri non sarebbe riuscita a ricordare il momento esatto in cui avevano iniziato a liberarsi dei propri abiti. Una sola cosa le rimbombava nella testa, e cioè il momento in cui era rinsavita, ormai in biancheria intima, e gli aveva confessato con le guance infuocate che non era mai stata con nessuno:
«T-ti devo dire una cosa» aveva esordito cercando di tirare via le labbra di lui dalle proprie e arrestando l’escursione della sua mano sul suo corpo. «I-io non sono mai andata a letto con nessuno» si era fermata un attimo, Kingsley teneva la fronte contro quella di Eri, tutti e due boccheggiavano con il fiato corto. «Cioè, lo so che questo non è un letto, ma non sapevo come rendere l’idea…» Lui aveva abbozzato un sorriso e anche se non c’era troppa luce per vederlo, Eri lo aveva intuito comunque.
«Piccola Eri, anche per me è la prima volta e voglio che sia con te.»
Ecco le parole che avevano scacciato ogni dubbio, ogni timore, ogni vergogna dall’animo della giapponese. Peccato che una volta passata l’euforia e l’eccitazione fosse scoppiata a piangere come una bambina, senza riuscire a dare una spiegazione plausibile al ragazzo, al quale non era rimasto che tenerla fra le braccia, scusandosi all’infinito e rassicurandola sul fatto che era del tutto normale sentirsi così.
Eri fu sul punto di chiedergli perché lui non piangesse allora, perché fosse l’unica a vergognarsi per quello che aveva fatto e a credere di aver fatto una cosa schifosamente sbagliata. E, soprattutto, perché continuava a sentirsi in colpa nei confronti di sua mamma.
 

 

 
Yumiko si svegliò di soprassalto, con il cuore che andava a 100 chilometri all’ora. Una strana sensazione di paura le attanagliava la bocca dello stomaco e la gola. Proprio in quel momento Eri stava facendo l’amore con il suo fidanzatino Kingsley Rodriguez.
La donna si scostò la coperta di dosso e si guardò intorno spaesata, come se quello non fosse il suo appartamento. Gli eventi della nottata appena trascorsa l’assalirono senza un ordine cronologico preciso, accavallandosi e confondendosi. L’ultimo pensiero fu che il suo capo – o ex capo? Le dimissioni erano andate distrutte, ma lei aveva ancora intenzione di cercare un altro lavoro? – dormiva nella propria camera da letto.
Raggiunse il bagno e studiando la propria immagine allo specchio quasi urlò. Il mascara si era sciolto e ne aveva traccia fin sulle guance, il fondotinta era andato via a zone lasciandole macchie qua e la. Si lavò per bene, optando alla fine per una doccia veloce e indossando qualcosa di comodo, ma non troppo sciatto, in fondo lui era a due passi.
Ricardo Salas si svegliò con in sottofondo il dolce scrosciare dell’acqua. Il naso gli pulsava ed era come se qualcuno gli stesse stringendo la testa con una mano gigante. Pensò che innanzitutto avrebbe dovuto prendere qualcosa per l’emicrania e farsi una doccia. Si mise seduto, beandosi della frescura delle mattonelle del pavimento quando vi posò le piante dei piedi. Sorreggendosi il capo con un palmo notò i vestiti piegati sulla poltrona, le scarpe allineate una di fianco all’altra e poi quello che cercava: il borsone con i vestiti puliti.
La camera da letto di Yumiko e il bagno erano praticamente uno di fronte all’altro, i due ragazzi aprirono le porte in contemporanea, trovandosi faccia a faccia. Si fissarono per un po’ senza trovare le parole adatte per giustificare ciò che avevano vissuto ore addietro, poi iniziarono insieme il loro discorso sconnesso, parlando l’uno sull’altra, una, due, tre volte, fino a sorridersi per l’evidente imbarazzo che provavano entrambi. Ricardp la indicò con la mano:
«Prima tu.» Disse.
«Come ti senti?»
«Ho un forte mal di testa» rispose lui onesto, toccandosi nuovamente le tempie e socchiudendo gli occhi per un attimo, Yumiko ebbe il tempo di far scorrere lo sguardo sul corpo del ragazzo, il torso nudo che aveva spogliato lei stessa quando lo aveva messo a letto era abbronzato e percorso da diversi tatuaggi. Possibile che la sera prima non li avesse notati? Doveva essere stata davvero stanca. Ricardo riaprì gli occhi e lei riportò lo sguardo in alto, colta in flagrante.
«Potrei fare una doccia se non-»
«Certo, certo.» Yumiko non gli permise neanche di concludere la frase. Lui ringraziò con un cenno del capo e un sorriso, avanzò verso di lei che si scostò per lasciarlo passare, letteralmente schiacciandosi contro lo stipite della porta per non sfiorarlo. Per un attimo le sembrò che lui si fosse fermato, forse aspettandosi che alzasse la testa, ma Yumiko non lo fece e lui si chiuse in bagno.
La donna rimase con lo sguardo perso nel vuoto e il cuore che continuava a galoppare fino a quando udì l’acqua della doccia iniziare a cadere, solo allora si scosse temendo che Ricardo uscendo dalla toilette potesse trovarla lì davanti, come una specie di maniaca da film horror.
Si recò in cucina e mise a bollire dell’acqua, notando la tazza sporca di latte e orzo di sua figlia. Oramai sembrava essersi rassegnata a prendere i mezzi pubblici per andare a scuola, una cosa che Yumiko aveva aspettato da quando si erano stabilite in Spagna, eppure ora un pochino la dispiaceva. Non ricordava l’ultima volta che lei ed Eri avevano fatto quelle belle e lunghe chiacchierate che sempre avevano contraddistinto il loro rapporto, mettendo in risalto i pochi anni di differenza che le separava. Ecco uno dei motivi per cui avrebbe cercato un altro lavoro che non la impegnasse così a lungo.
La porta del bagno si aprì con un cigolio, lasciando fuoriuscire una nuvola di vapore e quasi immersa in questa, come una sorta di miraggio, la figura di Salas, con un asciugamano trattenuta da una mano all’altezza della vita. Le lanciò uno sguardo, ma Yumiko distolse immediatamente l’attenzione da quella visione da poema epico, mentre le sembrava di sentire quel vapore caldo bruciarle le guance.
Come diamine le era venuto in mente di portarlo a casa?
Chiuse gli occhi e fece un respiro profondo, se non si dava una calmata rischiava di fare la figura della scema e di passare per una ragazzina, proprio lei poi che aveva quattro anni in più ed era mamma. Già, era mamma. Ecco un’altra cosa di cui avrebbe dovuto discutere con lui. Per ora però l’unica cosa su cui si doveva concentrare era sforzarsi di apparire il più naturale possibile, sorridere come se non fremesse dalla voglia di sapere cosa ne sarebbe stato di loro – ammesso che ci fosse un “loro” – e non si sentisse imbarazzata come un’adolescente alle prime armi. Anche se in un certo senso era un po’ così. L’ultimo uomo che aveva baciato e che l’aveva toccata a quel modo era stato Joaquin Morales. Aveva sì avuto altri appuntamenti, ma non erano mai andati oltre una cena formale, un tè o una passeggiata al parco. Yumiko stava pensando a tutte quelle cose mentre sceglieva dalla dispensa il gusto della tisana da preparare e sistemava due tazze sul tavolo, biscotti, brioche, cereali. Sentì i passi di lui e lo accolse con un sorriso tremante stampato in faccia e due bustine di tè in mano:
«Yumiko» la chiamò.
«Preferisci tè verde o frutti di bosco?» L’ultima parola in realtà neanche riuscì a concluderla. Il tono di voce le si affievolì fino a scomparire del tutto, il suo superiore era ancora a torso nudo, i capelli scuri brillavano bagnati, i jeans senza cintura gli cadevano lasciando scoperto l’elastico grigio dei boxer. Di nuovo Yumiko si concentrò per non farsi distrarre dai tatoo che correvano lungo il braccio sinistro. Si chiese se avessero un significato.
«Yumiko» la chiamò ancora lui e lei sbatté le palpebre come cadendo dalle nuvole. «Mi sono svegliato senza maglia e senza cintura e ho trovato questo biglietto nella tasca dei jeans sporchi» glielo mostrò, si trattava del foglietto che aveva scritto in macchina “DORMO – BACIO – BELLO”. «Adesso non ricordo proprio tutto di questa notte, solo dimmi che hai approfittato di me…»
«Come approfittato? Oh no, no, no!» La ragazza fece un passo avanti, muovendo le mani, le bustine di tisana oscillarono come due pendoli.
«Che peccato.» Con tre ampi passi le fu addosso, afferrandole il viso e baciandone la bocca con veemenza. La donna orientale lasciò la presa sulle buste di tè che planarono sul pavimento come piume, lente e silenziose, mentre lei gli si aggrappava alle spalle nude. Provò una lieve fitta al livello dei reni finendo contro il ripiano in marmo della cucina.
«Scusa.» Sussurrò Ricardo a fior di labbra, senza smettere di baciarla.
«Perdonato.» Rispose Yumiko, intanto che il fischio del bollitore si faceva assordante,  cercò e trovò a tentoni il pomello del gas per spegnerlo, poi schiacciò entrambi i palmi sull’addome di lui prendendo a spingerlo ma senza allontanandolo da sé, bensì seguendolo passo dopo passo come in una specie di valzer all’indietro, fino a raggiungere la camera da letto, dove Ricardo Salas vi aveva passato la notte. Quest’ultimo chiuse la porta con un colpo di tacco e un attimo dopo era già sdraiato sul letto a ridosso della giapponese. Per un istante si guardarono negli occhi e capirono che se avessero indugiato ancora lei si sarebbe tirata indietro, dicendogli che non se la sentiva, che il fantasma e il ricordo del suo ex fidanzato deceduto libravano nell’aria. Ricardo prese a stuzzicarle le labbra, mordicchiandole e lambendole con la lingua, fino a quando Yumiko non ce la fece più e la sospinse fin dentro la propria bocca, mentre le mani di lui iniziavano a spogliarla degli abiti. Dal canto suo la ragazza tentò di slacciargli i bottoni dei jeans, ma le mani le tremavano come foglie, svestita si sentiva ancor più spaurita e perduta. Stava per dirgli che forse non era il caso, non era il momento giusto, che avrebbe fatto meglio a tornarsene a casa sua, quando sentì il calore del suo palmo posarsi sul proprio dorso e il tremore un pochino si placò. La guidò nell’impresa di sbottonargli i pantaloni, uno due tre bottoni dopo l’altro. Yumiko si lasciò sfuggire una risatina nervosa:
«Per me è come se fosse la prima volta.» Disse con la voce tremante. «Devi avere pazienza.»
«Nessun problema» le sussurrò lui entrandole dentro. Piano. Dolcemente. Lei trattenne un gemito serrando le labbra. «Nessun problema» ripeté lui, serio.
 Yumiko si accese una sigaretta. Era la prima volta che fumava in camera da letto dopo aver fatto l’amore. Aspirò a fondo, quindi il fumo uscì in una nuvoletta grigia. Era seduta con le spalle contro lo schienale imbottito, il lenzuolo bianco la copriva fin sul seno nudo. Ricardo Salas teneva il capo adagiato sul suo grembo, si era tirato le coperte all’altezza del bacino e la osservava dal basso, intrecciando e giocherellando con la mano libera di lei. Improvvisamente le pareva più bella. Non che non lo fosse stata fino ad un istante prima, ma ora che in un certo senso era sua le sembrava più bella, notando anche particolari che gli erano sfuggiti fino a quel momento. Come ad esempio il neo sotto l’occhio sinistro, più o meno dove iniziava lo zigomo. E gli occhi, non erano castani come aveva sempre creduto, a tratti parevano grigi, altre volte sembravano avere qualche striatura di verde. Erano splendidi. Si portò la sua mano alla bocca e ne baciò l’interno. La donna giapponese abbozzò un sorriso tenero, scrollando la sigaretta nel posacenere, poi aspirò ancora.
«Lo dirai a tua sorella?» Yumiko ebbe un tuffo al cuore, avrebbe dovuto dirglielo che Eri non era la sua sorellina, sapeva che più passava il tempo e più sarebbe stato difficile raccontargli la verità. Salas si affrettò a formulare meglio la domanda, credendo che l’espressione sul viso della ragazza dipendesse da quella richiesta. «Cioè, non è che devi dirle quello che abbiamo fatto, ma solo che abbiamo una storia.»
La donna giapponese sorrise, deviando la risposta alla domanda diretta di lui:
«Quindi abbiamo una storia …» Ricardo si girò nel letto, sistemandosi alla bell’è meglio sul corpo mingherlino dell’orientale, la quale spense il mozzicone schiacciandolo con un dito nel posacenere, quindi gli carezzò la nuca, solleticandogli la base del collo, sfiorandogli i tatuaggi sul braccio. Anche lei avrebbe voluto farsene uno quando era più giovane, ma sua madre, la sua okaasan, si era sempre opposta, dicendo che quelli con il corpo dipinto erano degli ingrati: imbrattavano la propria pelle non avendo cura di quello che era stato dato loro in prestito, giacché dopo la morte avremo dovuto cederlo al prossimo.
«Certo che abbiamo una storia. Oppure avevi intenzione di uscire con altri all’infuori di me?»
«Questo me lo devi dire tu che sei sempre circondato da decine di belle ragazze ogni sera.» Salas rise. «Da libero posso fare quello che mi pare, non credi? Le cose cambiano nel momento in cui sono impegnato ...» il ragazzo lasciò la frase sospesa, avvicinando il volto a quello di lei, le labbra erano a tanto così dal toccarsi, i respiri si fondevano. «Ti va un secondo round?»
 
Yumiko decise di confessare a Eri della sua storia con il proprio superiore solo dopo alcuni giorni e, come si era aspettata, sua figlia fece salti di gioia, supplicandola di invitarlo a cena il prossimo venerdì, durante il suo giorno libero insomma. Ricardo si presentò all’invito con due fasci di fiori, uno più piccolo per la ragazzina e uno più grande per Yumiko. Eri lo abbracciò, sussurrandogli all’orecchio di essere davvero contenta per lui e per la sua mamma, glielo disse in giapponese e quando lo spagnolo le chiese di tradurre lei si rifiutò. Per la piccola orientale l’importante era averglielo fatto sapere, se non conosceva il giapponese erano fatti suoi, non la riguardava. Durante la cena Eri non smise neanche per un attimo di studiarlo e di chiacchierare a raffica, pensando che se non fosse innamorata persa di Kingsley avrebbe potuto tranquillamente prendersi una cotta per quel ragazzo dal carattere frizzante. E, cosa assai più importante, sua madre era tornata a sorridere, ma a farlo per davvero. Quando sorrideva adesso le brillavano gli occhi e sembrava ringiovanita di dieci anni.
Dopo cena, mentre Yumiko era intenta a lavare i piatti, Eri adocchiò Ricardo accomodato sul divano davanti alla tv e decise di raggiungerlo. Non aveva dimenticato l’incontro al bar e lei voleva capire chi fosse realmente Oscar o perlomeno cosa li unisse. Gli si sedette di fianco scambiandosi un sorriso, in televisione si stava disputando una partita di pallone:
«Sei un tifoso?»  Gli chiese Eri, sebbene di calcio ne capisse quanto un film in tedesco.
«Non proprio. Sono un tifoso del calcio in generale. Diventare un calciatore famoso era il mio sogno nel cassetto da bambino, sai?» Le fece l’occhiolino e la giapponese ripensò al proprio sogno, quello che aveva scritto nel compito in classe - vedere da vicino un piccolo puledro. Quello che Kingsley aveva esaudito in poche parole.
«Senti Ricardo…» volse lo sguardo sul campo verde in tv mentre lui si girava ad osservarla, sembrava imbarazzata «… lei non sa niente di Kingsley» disse poi, indicando con il pollice Yumiko che di spalle continuava a detergere le stoviglie sporche.
«Ok» rispose semplicemente il ragazzo ed Eri lo guardò con uno scatto.
«Ok?» Ripeté, strappandogli un sorriso.
«Si, ok. Glielo dirai quando vorrai, non spetta a me farlo, giusto?»
Si, era giusto. La ragazzina provò un grande senso di gratitudine, si chiese se ad avere un padre si provasse proprio quella sensazione di complicità, la certezza di poter contare su qualcuno all’infuori della mamma.
Yumiko li raggiunse sul divano, sprofondandovi con un sospiro, distrattamente domandò di cosa stessero parlando ed entrambi risposero all’unisono:
«Di niente.» Si guardarono sorridendo di sottecchi. Yumiko aggrottò la fronte, credendoci poco. Con sua madre di mezzo Eri fu costretta a rinunciare all’interrogatorio su Oscar, ma non le dispiacque più di tanto: era sicura che avrebbe avuto altre occasioni per farlo.
 
La situazione continuò su quella scia di tranquillità per una quindicina di giorni, poi un lunedì mattina, mentre Yumiko e Ricardo se ne stavano a letto dopo aver consumato il primo rapporto della giornata, il cellulare di lei squillò. Quando notò che a chiamarla era l’istituto di sua figlia non sapeva precisamente cosa aspettarsi, di certo non si era immaginata che la preside in persona le stava telefonando per dirle che Eri Joaquin Morales mancava da scuola da circa dieci giorni e che sua madre era pregata di recarsi presso l’istituto quella mattina stessa.
 

 
 
 
 

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Capitolo 15
*** Capitolo 15 - Parla di un rumore, prima del silenzio e poi … ***


Capitolo 15

Parla di un rumore, prima del silenzio e poi …
 

 
 
Il cellulare di Eri squillò per la terza volta nel giro di pochi minuti. La ragazzina allontanò Kingsley da lei, farfugliando qualcosa del tipo “devo rispondere”. Rodriguez tuttavia non aveva nessuno voglia di separarsi dalla giapponese, la trattenne sotto di sé, le gambe intrecciate, lasciandole baci ovunque sul viso, sulle guance, sulla punta del naso, sulle labbra.
Dopo le prime e fugaci esperienze nella stalla, sul giaciglio di paglia che li aveva visti insieme durante i primordiali approcci a quel nuovo mondo che si era aperto loro, tutto da scoprire e gustare, Kingsley aveva avuto la brillante idea di evadere la sorveglianza della servitù e di rotolarsi con la sua fidanzatina comodamente sdraiati sul letto, nella propria stanza. All’inizio Eri sembrava aver fatto un passo indietro, la luce del sole e quell’ambiente decisamente meno angusto del piccolo e intimo nascondiglio in fondo alla scuderia la intimorivano. Non potevano chiudere le tapparelle, né tirare le tende o le inservienti l’avrebbero notato dabbasso e si sarebbero precipitate nella camera per farla arieggiare. Si era dovuta abituare all’idea che Kingsley la guardasse nuda nella sua interezza, con il corpo illuminato a giorno dai raggi solari. C’era anche il rovescio della medaglia, ossia il fatto che anche il fisico di lui fosse decisamente più nitido: mentre nella stalla aveva solo potuto toccarlo ed esplorarlo con la punta delle dita, adesso riusciva a vederlo perfettamente. Si, all’inizio era stato davvero imbarazzante come situazione, ma giorno dopo giorno si era abituata a quelle nuove sensazioni.
La suoneria del telefono si zittì proprio quando la ragazza era riuscita a liberarsi di Rodriguez ed era già con un piede sul pavimento. Ricadde con la testa sul cuscino sospirando e lui le si affacciò a ridosso, sorridendo, mentre con l’indice destro le percorreva l’addome piatto, disegnando cerchi concentrici. Eri iniziò a giocherellare con la sua treccina:
«Ho paura che fosse mia madre» disse pensierosa.
«Ma no» rispose lui, posandole un bacio sull’ombelico. «Vedrai che è qualche compagna di classe» un altro bacio all’altezza dello sterno «che inizia a preoccuparsi per la tua assenza.» Nuovo bacio vicino alla curva del piccolo seno.
«Ma se non ci si fila nessuno a noi due. Non si saranno neanche accorti che manchiamo da scuola da tutti questi giorni.»
«Meglio così» aggiunse il ragazzo francese, salendo fino a sfiorarle le labbra, cadendo pian piano in un bacio più acceso, ma ad interrompere l’atmosfera fu ancora una volta la suoneria del cellulare. Questa volta Eri lasciò il letto con un balzo, inginocchiandosi vicino al proprio zaino per pescare il telefonino dalla tasca anteriore e quando vide lampeggiare il nome di okaasan sullo schermo ebbe una paura tremenda di esser stata scoperta. All’improvviso gli sbagli e gli errori che aveva fatto fino a quel momento le apparvero nella loro completa gravità, mentre un pensiero si faceva largo nella sua mente: “okaasan mi vieterà di vedere ancora Kingsley”.
 
Yumiko avviò ancora una volta la chiamata con il tasto rapido. Si sorreggeva la testa con la mano e il gomito posato contro lo sportello della macchina. Ricardo Salas le era seduto di fianco, guidando e provando a destreggiarsi nel traffico all’ora di punta, ma i semafori e gli incroci rendevano alquanto ardua l’impresa. Dal momento in cui aveva ricevuto la telefonata dall’istituto scolastico, la donna era entrata in una specie di stato confusionale, aveva detto si e no cinque parole in spagnolo e le restanti in giapponese, cosa che aveva reso quasi impossibile una conversazione razionale con lei e alla fine Ricardo si era arreso all’idea di farle domande o di rincuorarla, a volte aveva l’impressione che neanche lo sentisse.
Erano fermi al semaforo, davanti e dietro di loro una fila interminabile di auto, motoveicoli, biciclette e lava vetri che si accostavano alle vetture con una spazzola e tre o quattro pacchetti di fazzoletti. Lo spagnolo udì distintamente la voce metallica della signorina all’altro capo del telefono che, dopo una serie di squilli, chiedeva di lasciare un messaggio alla segreteria e fu esattamente quello che fece Yumiko – forse per la quarta volta – nella sua lingua madre. Ricardo non parlava giapponese ovviamente, ma non fu difficile immaginarsi quello che strillava la donna. Questa chiuse la conversazione e quasi lanciò il cellulare sul cruscotto della Yaris, tenendosi la testa con entrambe le mani. Vedendola in quello stato il ragazzo si sentì dannatamente stupido per averle detto quelle cose dopo che la preside aveva telefonato:
«Che ti frega? Manco fosse tua figlia!»
«É sotto la mia responsabilità!» Aveva risposto Yumiko vestendosi in fretta, con il cellulare sorretto dalla spalla e schiacciato contro l’orecchio: sarebbe stata solo la prima di tante altre chiamate andate a vuoto.
Lui allungò la mano e la posò sulla testa della giapponese, ma questa non si mosse di una virgola. Un ciclone di brutti pensieri stava turbinando nella sua mente e ne era completamente sopraffatta. L’unica cosa che le veniva bene era telefonare e telefonare ancora, e così fece e quando dopo l’ennesima chiamata Eri rispose, Yumiko scoppiò in un pianto isterico:
«Perché cazzo non rispondi al telefono?» La sedicenne fece per dire qualcosa, ma sua madre non le diede il tempo. «Che te l’ho comprato a fare? Per chattare con le amiche?» Di nuovo Eri provò a spiegare, ma non ci fu verso. «Dove sei?»
Ecco la domanda da un milione di dollari! Pensò la piccola giapponese con il cuore che andava più forte di quando Kingsley l’aveva baciata la prima volta:
«So-sono a scuola» e lì tutta la frustrazione di Yumiko esplose come una bomba ad orologeria. Dopo aver temuto per la vita di sua figlia, adesso subentrava la rabbia di essere stata tradita, presa in giro, messa da parte, abbagliata dalla felicità del suo nuovo amore che un pochino l’aveva rammollita come mamma e, quindi, sentinella.
Ricardo Salas non capì praticamente niente di quella lite, l’unica cosa che sapeva era ciò che era evidente ai suoi occhi: accanto a lui c’era una donna distrutta dalla collera, che urlava con ira e piangeva di rabbia. Anche un altro sentimento si stava facendo strada dentro di lui, dopo quello che lo stava facendo sentire come uno stolto per la frase pronunciata dopo la telefonata della preside, ed era il senso di colpa. Lui temeva di conoscere il motivo di quell’atteggiamento da parte di Eri - che stando alle parole di Yumiko era sempre stata una ragazzina con la testa sulle spalle e più matura di quelli della sua età - ed era un ragazzo con la treccina e l’aria di qualcuno che è in eterna lotta con il mondo. Aveva sbagliato. Avrebbe dovuto dire a Yumiko che sua sorella aveva un fidanzatino.
Quando finalmente accostò davanti l’istituto, Yumiko scese dall’auto senza spiccicar parola e lui fu costretto a rincorrerla e a fermarla per le braccia, aveva gli occhi rossi e gonfi, la punta del naso arrossata. Mentre le parlava le asciugò le lacrime sul viso:
«Se vuoi entrò con te» disse, ma lei allontanò la mano di lui e scosse il capo, chiedendogli di attendere fuori, in macchina, se preferiva poteva tornarsene a casa con i mezzi pubblici. Salas rispose che l’avrebbe aspettata, poi le posò un lieve bacio sulle labbra e la osservò mentre si incamminava verso l’entrata della scuola.
 
Con sua somma meraviglia nell’ufficio della preside non era la sola, vi trovò già un uomo basso e tarchiato, i capelli marroni così lucidi che sicuramente erano tinti o un parrucchino, il viso imbronciato e la pelle abbronzata era tutta raggrinzita sulla guance. La preside era comodamente seduta nella sua poltrona, mentre l’uomo le era di fronte, in piedi, e sbraitava con ampi gesti delle braccia. La donna lo presentò, era Matteo Rodriguez, il ministro degli affari esteri. Yumiko gli strinse la mano, provando un brivido lungo la spina dorsale, era una persona viscida e le ricordava un rospo.
«Signora Okada Morales.» La preside si alzò e le fece cenno di accomodarsi, proprio davanti a lei, al fianco del rospo. «Come stavo spiegando al signor Rodriguez-»
«Ministro Rodriguez» la corresse lui, schiarendosi la voce e gonfiandosi il petto.
«Ministro» ripeté la preside con aria stanca, «sua figlia Eri Joaquin Morales è assente da scuola da più di dieci giorni oramai.» A Yumiko pareva di star vivendo un incubo, la voce lenta e profonda della preside le giungeva ovattata, come se fosse in una ampolla d’acqua «E insieme a lei manca anche un altro studente, il figlio del qui presente ministro.»
La giapponese voltò piano il collo per guardare il rospo, il quale riprese a sbraitare come un folle. Non comprese una parola di ciò che stava dicendo, quella rivelazione era stata la goccia fatale, il colpo di grazia. Sua figlia in giro chissà dove con uno sconosciuto...
Perché tutto stava assumendo dannatamente la sensazione di deja-vù?
Sua madre che viene chiamata dall’istituto di Tokio per essere avvertita che il rendimento della figlia, Yumiko Okada, era calato vertiginosamente nell’ultimo mese; la strigliata davanti alla preside della sua vecchia scuola; la confessione quel giorno stesso che era follemente innamorata di Joaquin: uno straniero dalla pelle ambrata e le spalle larghe.
«Signora Okada Morales?» Dal tono preoccupato della preside doveva chiamarla già da un po’ di tempo. «Si sente bene? Vuole dell’acqua?»
«Mia figlia sarà qui a momenti, le ho telefonato» provò ad ingoiare della saliva, ma la bocca e la gola era troppo asciutte. «È una brava ragazza, non… non» una lacrima le rigò il viso e si affrettò ad asciugarla. Ora capiva come si era dovuta sentire la sua okaasan quel giorno e d’improvviso desiderò averla vicina per poterla stringere a sé e chiederle scusa. L’aveva delusa, l’aveva insultata. L’aveva abbandonata.
Proprio in quel momento qualcuno bussò alla porta dell’ufficio che si aprì piano, cigolando sui cardini. Yumiko non dovette neanche voltarsi indietro per sapere che si trattava di Eri e dell’altro, il figlio del ministro rospo. Guardarla in faccia le avrebbe fatto perdere quel poco di buon senso che le rimaneva.
Il ministro balzò dalla sedia rovesciandola sul pavimento e scaraventandosi contro Kingsley, afferrandolo per il collo del giubbino e sbattendolo contro il muro. Iniziò ad inveire senza ritegno, mentre il ragazzo lo fissava dall’alto, le labbra strette. La preside li raggiunse, gridando al di sopra dell’uomo e intimandogli di lasciarlo stare, anche Eri faceva quello che poteva per separare i due uomini, ma solo le minacce della preside di chiamare la polizia distolsero l’uomo dall’intento di spaccargli la faccia.
Yumiko aveva resistito abbastanza per i suoi gusti. Si alzò e senza voltarsi chiese alla preside se c’erano delle carte da firmare, la donna si ricompose e gliele mostrò. Le firmò, chiedendo alla fine se sua figlia potesse riprendere a seguire le lezioni già dal giorno seguente:
«Signora Okada Morales.»
«Solo Okada andrà bene.»
«Signora Okada, le volevo parlare di-»
«Non si preoccupi, accompagnerò personalmente mia figlia fin dentro l’aula. Allora, può riprendere già da domani?» La preside sospirò e annuì con un cenno del capo. «Bene. Buona giornata.» Yumiko si voltò e i primi occhi che incrociarono non furono quelli di Eri, bensì quelli color nocciola di Kingsley Rodriguez, il suo muso imbronciato, il suo sguardo fiero. Si fissarono per un attimo che parve interminabile, studiandosi come due cani pronti ad azzannarsi alla prima mossa falsa dell’altro, poi Yumiko afferrò il polso di sua figlia - incurante delle lacrime di quest’ultima e degli scongiuri di aspettare, di lasciarle spiegare - e la trascinò così fin dentro la macchina, dove stava attendendo Ricardo.
Quest’ultimo quasi si spaventò vedendo la piccola giapponese piangere e disperarsi a quella maniera, chiedendo perdono alla donna che lui credeva sua sorella maggiore:
«Gomena-sai okaasan, gomena-sai» continuava a scusarsi Eri. «Io lo amo, okaasan, tu mi puoi capire, no?» Dinnanzi all’indifferenza della donna si rivolse a Ricardo, strattonandolo per un braccio. «Diglielo pure tu, diglielo quanto sono felice con Kingsley, diglielo.»
«Lo sappiamo che adesso sei arrabbiata Yumiko, però Eri ha solo sedici anni, è il suo primo amore e-»
«Tu lo sapevi?» Sbottò la donna, sempre più infastidita. «Lo sapevi e me l’hai tenuto nascosto?»
«Non è la fine del mondo, non è successo niente» si schermì il ragazzo.
«Fantastico!» Esclamò Yumiko allargando le braccia. «Tradita da entrambi, meraviglioso! Davvero stupendo!»
E il bello doveva ancora venire.
 
Appena giunsero a casa Eri si precipitò nella sua stanza. Quasi inciampò quando aprendo la porta Macchia le schizzò fra i piedi, abbaiando a scodinzolando per la felicità di essere finalmente libera. La ragazzina la guardò aggrottando la fronte, voltandosi verso sua madre, domandandole perché mai la cagnolina fosse rinchiusa nella sua camera. La donna liquidò la domanda della figlia con un minaccioso:
«Io e te non abbiamo ancora finito!»
A quelle parole Eri si rintanò nella propria stanza, intenta a non uscirci per i prossimi venti anni.
Macchia corse per tutta la casa, fermandosi poi a qualche metro da Ricardo e ringhiandogli contro. Quell’intruso non le garbava per niente, se ne doveva andare. Lui la scacciò con un movimento appena accennato della gamba e l’animale corse nella sua cuccetta, nascondendo il musetto nero fra le zampe. Yumiko la carezzò e le concesse una versione extra di croccantini, poi si sedette al tavolo della cucina e si accese una sigaretta:
«L’hai chiusa tu nella stanza di Eri?»
«Quando stiamo insieme non fa altro che mugolare per tutto il tempo» Salas si avvicinò alla donna. «Mi rende nervoso e mi distrae dal mio lavoro» le posò un bacio sulle labbra, ma la giapponese si scostò con garbo, tirando una boccata dalla cicca.
«Non posso più lavorare al night» disse senza giri di parole. Il ragazzo sospirò e si accomodò dall’altra parte del tavolo, di fronte a lei.
«Lo so.»
«Credevo che Eri fosse oramai capace di badare a sé stessa, ed invece…» la donna distolse lo sguardo, gli occhi le si riempirono di lacrime e la voce si incrinò.
«Ehi, guarda che non è successo niente.» Lui allungò la mano per prendere la sua. «Ha sedici anni, alla sua età è normale fare follie per amore.»
A chi lo dici, pensò Yumiko, ma proprio perché lei ne aveva fatta una da cui non era potuta tornare indietro, ci teneva particolarmente che sua figlia, la sua bambina, non avesse rimpianti in futuro.
«E per quanto riguarda il lavoro, in ufficio ci sono diverse scartoffie da sistemare, c’è da rispondere alle e-mail, al telefono che squilla in continuazione. Insomma, abbiamo urgente bisogno di una segretaria.» Gli occhi della donna si lasciarono sfuggire una lacrima e lo spagnolo si distese sulla superficie del tavolo per asciugargliela con il pollice. «La paga rimarrebbe la stessa, le ore diminuirebbero.» Sorrise. «Che ne dici?»
«Dico che sei il mio angelo custode.»
«L’angelo custode è uno scalino più importante dell’anima gemella, oppure…?»
Yumiko lo rimproverò con un’occhiataccia e lui mostrò i palmi in segno di resa.
 
Eri fu accompagnata a scuola tutti i giorni da sua madre, fin dentro l’aula, proprio come aveva promesso alla preside otto giorni prima. La ragazzina attraversava il corridoio a testa bassa, leggermente più indietro di Yumiko che, al contrario, camminava a testa alta, con i tacchetti delle scarpe che riecheggiavano in tutto l’ambiente, improvvisamente silenzioso al loro passaggio. Alcune volte Kingsley era già seduto al banco – dopo la sfuriata del professore per il bacio a cui aveva assistito, erano tornati a sedere vicini – ed era impossibile non osservarsi a vicenda fra lui e la mamma di Eri. Quello che indispettiva più di ogni altra cosa la donna era il suo sguardo impenetrabile, strafottente, come se niente e nessuno avesse potuto nuocergli. Di sicuro la reazione del padre adottivo del ragazzo - era stato lo stesso Ricardo a raccontarglielo, omettendo il fatto che il ministro Rodriguez fosse anche Johnny, l’amante segreto e immortale di Oscar - le aveva dato da pensare e non poco. Che fosse un uomo viscido e austero lo aveva notato dal momento che l’aveva guardato in faccia, ma da lì ad attaccare un ragazzino mettendolo con le spalle al muro, letteralmente parlando, c’era una gran bella differenza. Riusciva a comprendere perfettamente cosa c’avesse trovato in lui sua figlia, spersa in un mondo che non le apparteneva aveva trovato uno come lei: un disadattato, uno straniero in terra straniera, con un passato difficile come il proprio, solo contro tutti. Di certo questo non giustificava il comportamento adottato da qualche mese a quella parte, le bugie che aveva architettato, i lunghi pomeriggi che diceva di stare al corso di recupero di spagnolo quando invece era in giro con quello lì.
Dopo una settimana e poco più la preside l’attese davanti ai cancelli d’entrata della scuola, affermando che non c’era bisogno che l’accompagnasse fin dentro la classe, che sua figlia era una ragazza intelligente e sicuramente aveva capito la lezione e gli sbagli commessi. Yumiko si era convinta e da allora la lasciava davanti l’istituto, osservandola fin quando non la vedeva entrare e sparire oltre le porte. Poi si recava al lavoro fino all’ora di uscita da scuola di Eri che aspettava seduta in auto, talvolta in compagnia di Ricardo Salas. Aveva notato che sua figlia sembrava sollevata nel vederlo, forse consapevole che grazie alla sua presenza non avrebbe dovuto affrontare il terzo grado a cui sua madre la sottoponeva durante il tragitto da scuola a casa. Quando beccavano il semaforo rosso a Eri veniva la voglia di scendere e farsela a piedi piuttosto che rispondere alle domande di Yumiko. Questo ovviamente non accadeva davanti a Ricardo che riusciva sempre a stemperare l’atmosfera con le sue battute spiritose.
 
Eri e Kingsley erano le persone che soffrivano di più in quel periodo. I giorni che trascorrevano insieme nella stanza di lui erano finiti, le scappatelle sul tetto dell’edificio scolastico si erano concluse. Era diventato addirittura faticoso scambiarsi un semplice bacio, costretti in aula sotto lo sguardo dei compagni di classe, i quali non facevano che alimentare le dicerie sul loro conto, o sotto gli sguardi vigili dei bidelli e dei professori in giro per i corridoio della scuola, quando avevano tentato di incontrarsi con la scusa di dover andare in bagno; parlavano a lungo su Facebook e con i messaggi sul cellulare. Rodriguez non le chiedeva mai di sua madre, gli era bastato uno sguardo per capire che lui non le andava a genio, ma di questo non si meravigliava. Non era mai stato simpatico a nessuno, eccetto ad Eri.
Le cose peggiorarono quando la ragazza si assentò da scuola per qualche giorno. All’inizio Kingsley credeva che la cosa peggiore di tutta quella storia fosse il fatto di non poter più passare del tempo assieme, sudandosi perfino un innocuo tocco di mani sotto il banco o fingere di raccogliere una matita per scambiarsi un ingenuo bacetto. Invece i giorni trascorsi senza vederla furono anche peggiori degli altri. I soli messaggi non bastavano più, le telefonate a notte fonda non lo soddisfacevano come prima. Eri a volte non ce la faceva neanche a parlare al cellulare, diceva di essere stanca, di avere quella perenne sensazione di vomito, ed erano ormai diversi dì che si precipitava in bagno a rigettare non appena apriva gli occhi la mattina.
«Ho l’influenza, Kingsley, mi sono beccata un virus intestinale.»
Preoccupata Yumiko la portò in visita dal medico di famiglia. Dopo aver esaminato sua figlia, l’uomo in camice bianco le si sedette di fronte, si tolse gli occhiali da vista e pulì le lenti spesse con un fazzoletto. La donna ebbe l’impressione che evitasse di guardarla in faccia.
«Signora» si schiarì la voce, la giapponese iniziava a spazientirsi e si sistemò meglio sulla poltroncina in pelle scura. «Ha mai pensato che sua figlia potesse essere incinta?»
Eri si stava ancora tirando giù la maglietta, seduta sul lettino immacolato dello studio, udendo quelle parole alzò il capo di colpo, il cuore trasformato in un tamburo nel petto. Sua madre era letteralmente pietrificata. Scese con un balzo e cominciò ad urlare contro l’uomo:
«Io ho l’influenza! Mi dia delle medicine da prendere e tra due giorni sarò guarita.» Non ricevendo risposta né dall’uno, né dall’altra, proseguì, strappando un foglietto dal block notes del medico e sbattendoglielo davanti, afferrò una penna al volo dal porta oggetti e la posò sul foglio. «Avanti, mi scriva le medicine!»
Solo allora Yumiko si alzò, molto composta ma con il viso pallido, sfiorò il braccio di sua figlia per dirle di andare via, tuttavia la ragazza la scacciò, tornando a prendersela con l’uomo.
«Questi medici di merda occidentali non sanno neanche riconoscere una stupida influenza!»
«Eri, andiamo.»
«NO! Voglio delle medicine per guarire!» Yumiko le strinse il braccio con maggior forza, strattonandola affinché la ragazzina la guardasse negli occhi.
«Andiamo, ho detto!» Salutò il dottore con un cenno del capo e trascinò sua figlia con sé. In sala d’attesa tutti i presenti le fissarono ammutoliti, Eri fece una linguaccia ad una donna di mezza età e urlò  ad un’altra cosa cazzo avesse da guardare.
Durante la strada del ritorno la piccola asiatica non fece che giurare a sua madre di non essere incinta, era impossibile! Ma Yumiko le conosceva fin troppo bene quelle suppliche e quelle lacrime disperate: se fosse stata davvero certa di quello che le stava giurando non avrebbe pianto disperata, come uno che chiede di revocare la propria condanna a morte. La donna non disse una sola parola, l’unica volta che lo fece fu quando parcheggiò dinnanzi ad una farmacia e farfugliò di aspettarla in macchina. Ritornò dopo una decina di minuti, aveva comprato un test di gravidanza. Eri riprese a strillare, a giurare su sé stessa che mai l’avrebbe fatto perché non era incinta, eppure il risultato del test decretò tutt’altro.
Yumiko era seduta al tavolo della cucina, al solito posto, quello vicino ai fornelli, Eri se ne stava con le mani intrecciate sotto il mento. Se sua mamma non l’avesse conosciuta abbastanza c’era quasi da pensare che stesse pregando Gesù Cristo. Nel corso di quella attesa i secondi si trasformarono in ore e i minuti in giorni, e quando il test confermò l’ipotesi del dottore fu come se un’enorme voragine si spalancasse sotto ai piedi delle due donne.
La maggiore si coprì il volto con le mani. Era così arrabbiata, così confusa, così incredula che non riusciva neanche a piangere; al contrario di Eri che invece riprese la sua litania di scuse e di improbabilità. Sua mamma tirò via le mani dal viso e l’ascoltò a lungo prima di interromperla:
«Come hai potuto?»
«Io non ho fatto niente! Devi credermi mamma, io non ho-»
«Come hai potuto farmi questo?»
«Sarà stato un errore, sarà rotto!» Eri prese in mano il test di gravidanza e cominciò a studiarlo su e giù, a destra e a sinistra, come se cercasse qualcosa, magari un pulsante minuscolo.
«Hai solo sedici anni, Eri, sedici! Sai cosa significa, eh? Lo sai?» Yumiko si alzò e batté il palmo sul tavolo, il tono di voce salì di qualche decibel.
«Deve essere per forza rotto, in questo Paese di merda non funziona niente!»
La donna glielo strappò dalle mani e lo scagliò a terra. L’aggeggio urtò il muro e si spezzò in due parti.
«Non ci sono errori! Non è rotto! Sei incinta! Incinta! Di quello lì che neanche conosci!»
«Lo conosco invece. E lo amo anche e lui ama me!» Eri piangeva e parlava, tremando da capo a piedi.
«No che non lo conosci!»
«Vuol dire che allora anche tu quando sei rimasta incinta di papà non lo conoscevi per niente!» D’istinto Yumiko la colpì in faccia con uno schiaffo.
La ragazzina si toccò la guancia dolorante, non poteva crederci, non poteva star accadendo davvero. Sua madre l’aveva picchiata: in sedici anni di vita mai aveva alzato le mani su di lei e adesso le aveva mollato un ceffone. Quando tornò a guardarla stava piangendo.
«Non parlare di tua padre e me a questo modo. Noi ci amavamo davvero!»
«Ed è lo stesso sentimento che proviamo noi, okaasan!» Eri le toccò la mano, la stessa che l’aveva colpita. «Crescerò questo figlio come tu hai cresciuto me.» Yumiko indietreggiò, scuotendo il capo.
«Tu non hai idea di tutte le cose a cui dovrai rinunciare, non sai niente. Non sai che dovrai restare a casa il sabato sera mentre le tue compagne escono a divertirsi; non sai che dovrai rinunciare all’università; alla tua libertà; alla tua giovinezza. A tutte le volte che dovrai soffrire quando ti sentirai emarginata o alle occasioni di lavoro che ti verranno negate perché hai un figlio. Tu non immagini nemmeno quello che si prova a sentirsi diversa.» La giapponese si fermò a prendere aria. «Domani facciamo le carte per l’aborto.»
«Mi dispiace se sono stata un peso per te.» Eri chinò il capo.
«Non ho detto questo, cerco solo di farti capire che-»
«Mi dispiace davvero.» Eri si voltò e corse via, spalancò la porta d’ingresso con una tale ferocia che questa finì contro la parete facendo cadere un quadro appeso alla parete, la cornice di vetro si ruppe. La ragazzina corse giù per le scale, saltandole a due a due. Yumiko le fu subito dietro, tuttavia il tentativo di raggiungerla si rivelò vano. La chiamò con quanta voce aveva in gola, ma sua figlia non si fermò e quando giunse in strada di lei non c’era più traccia.
 
Eri corse senza fermarsi per quasi un chilometro. Le gambe le dolevano e più volte furono sul punto di abbandonarla rischiando di farla rotolare sull’asfalto del marciapiede. Il cuore le martellava in petto, fino nelle tempie; una fitta lancinante le squarciò il lato destro dello stomaco e oramai i polmoni ricevevano meno aria di quanta ne lasciavano uscire. Si accomodò su una panchina in ferro battuto, alzando lo sguardo sulla luna quasi piena, chiedendosi se anche in Giappone fosse così bella e luminosa.
Dei sussurri alle sue spalle la fecero tornare nella difficile realtà in cui si trovava. Si voltò: una coppietta passeggiava mano nella mano, la gelateria dai gelati buonissimi stava chiudendo. Solo allora si ricordò dell’ora tarda e, soprattutto, che era in giro per la città sola e indifesa. Cercò il cellulare nella tasca del giubbotto, ma non trovò né il telefono né tantomeno il giubbotto. Bella fregatura! Tornata a casa dal medico se l’era tolto e l’aveva gettato sul divano, poi per la fretta di scappare via non l’aveva recuperato. Di rientrare non ci pensava neanche, se avesse avuto il cellulare con sé avrebbe chiamato Kingsley che sicuramente sarebbe passato a prenderla al volo. Di arrivare a piedi fino alla sua abitazione non se ne parlava, troppo distante per raggiungerla priva di un autoveicolo, senza contare il fatto che dovevano essere le 23 passate. Fu in quel momento però che ebbe un’illuminazione: la casa di Ricardo Salas, al contrario, distava solo pochi minuti.
 
 
   

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Capitolo 16
*** Capitolo 16 - Per contenere i sogni tutti dentro ad un cassetto ***


Capitolo  16

Per contenere i sogni tutti dentro ad un cassetto

 
 
 
Ricardo Salas si sedette sul divano, fissando lo schermo piatto della TV al plasma incastrata nella parete. Attraverso si rifletteva la sua immagine sfocata nei contorni. Teneva le mani chiuse a pugno una nell’altra che sorreggevano il mento, i gomiti poggiati sulle ginocchia. Si sentiva agitato, inquieto, turbato da quello che Eri gli aveva rivelato. Si alzò con uno scatto, sbuffò, passandosi una mano sul viso, fino ad arrivare alla nuca passando per la cima del capo, sui capelli.
L’I-phone sul tavolino di vetro, al centro tra il sofà e le due poltrone laterali, si illuminò ad intermittenza, producendo quel brusio sordo tipico della vibrazione che lui stesso aveva attivato azzerando il volume della suoneria. Si affacciò per sbirciare il nome della persona che lo stava cercando, nonostante non fosse difficile immaginare chi fosse.
Yumiko.
Quella doveva essere la terza volta che gli telefonava nel giro di trenta minuti o poco più, ma in quel momento non aveva voglia di sentire ciò che voleva dirgli. Più che altro si stava trattenendo dal risponderle e mandarla a quel paese una volta e per sempre. Adesso non era nel pieno del suo autocontrollo e rischiava di fare cose e di dire frasi di cui si sarebbe potuto pentire l’indomani. Quindi era meglio tenersi alla larga dal pericolo di mandare tutto in malora a causa di uno stato d’animo alterato. Finalmente l’I-phone smise di lampeggiare e lo schermo tornò ad oscurarsi.
Salas si stava godendo in TV la replica di una partita di calcio che non aveva potuto seguire in diretta, quando il citofono aveva trillato. Lì per lì era rimasto interdetto, studiando l’ambiente circostante come se potesse esserci qualcuno nascosto. Era rimasto sull’attenti, aspettando di sentire altri suoni, d’istinto aveva zittito il telecronista che si stava decisamente esaltando per una giocata del numero 10 della squadra di casa, e dopo appena un paio di secondi ecco di nuovo lo squillo, questa volta più insistente. Ricardo era andato a rispondere quasi infastidito, convinto che avessero sbagliato abitazione o qualcuno si fosse perso, mai si sarebbe aspettato di trovarsi la piccola Eri di notte e da sola davanti al cancello di casa. Come se non bastasse l’aveva trovata sconvolta e in una valle di lacrime, cosa che lo aveva spaventato a morte. Circondandole le spalle con un braccio l’aveva accompagnata all’interno, alzando un tantino il tono di voce per accettarsi che Yumiko stesse bene, poi aveva atteso che si sfogasse, passandole i fazzoletti uno alla volta quando quello precedente era oramai ridotto ad una pallina amorfa. Salas era sicuro che avessero trascorso l’intera nottata così: seduti sul divano con lei che si disidratava attraverso il pianto e lui che le passava i kleenex puliti. Poi con la coda dell’occhio aveva notato il cellulare sul tavolino e quando aveva tentato di telefonare a Yumiko, Eri lo aveva fermato, stringendogli il polso della mano che sorreggeva l’I-Phone.
«Ok Eri, adesso basta!» Lo spagnolo aveva riadagiato il telefono dove l’aveva trovato, alzando i palmi come a dire che era pronto ad ascoltarla.
«Ti prego, non la chiamare.»
«Va bene, non la chiamo, ma tu mi devi dire cosa è successo. C’entra per caso il tuo amichetto?» Udendo quella definizione rivolta al suo fidanzato la piccola orientale si era irritata.
«É il mio fidanzato e …e» aveva ricominciato a piangere, ma il ragazzo l’aveva incitata a continuare, affermando che altrimenti avrebbe chiamato Yumiko. «Sono incinta e mia mamma mi ha dato uno schiaffo. Ha detto che vuole farmi abortire, ma questa è una decisione che non spetta a lei.»
«Tua mamma?» Ricardo l’aveva interrotta. «Perché? È venuta dal Giappone?»
Solo allora Eri si era resa conto di aver fatto una gran cazzata. Nel turbamento generale aveva dimenticato di filtrare la parentela che la univa a Yumiko, quella era una nozione che il fidanzato di sua mamma avrebbe dovuto apprendere dalla sua metà e da nessun altro, neanche da lei. Si era coperta la bocca con la mano destra, sgranando gli occhi, intanto che Ricardo era già arrivato alla conclusione da solo, glielo si leggeva in faccia.
«Eri… tua mamma è?»
«Mi dispiace.» La ragazzina aveva tentato di stringergli le mani, ma lui era balzato in piedi, guardandola dall’alto come se si fosse trasformata improvvisamente in un alieno, scuoteva piano la testa a formare un “no, non è possibile” «Non avrei dovuto…» mannaggia a lei e quando le era saltato in testa di andarsi a rifugiare a casa sua! «Te lo avrebbe detto presto, molto presto.» La notizia della giornata, lo scoop che riguardava la sua imprevista gravidanza era scivolato in secondo piano. Era stato allora che era arrivata la prima telefonata da parte di Yumiko sul cellulare di Ricardo. Sia questi che la sua ospite avevano fissato in silenzio il nome della donna asiatica lampeggiare sullo schermo dell’I-Phone, finché non aveva smesso di squillare. Eri aveva alzato lo sguardo su di lui e lui l’aveva abbassato su di lei:
«Sono incinta» aveva ripetuto, oramai sembrava che la sua mente non riuscisse più a formulare un’altra frase di senso compiuto oltre quelle due parole. Salas era tornato a sedersi per chiederle se lui, il figlio adottivo del ministro, lo sapesse già e la sedicenne aveva scosso la testa, aggiungendo che per la fretta di scappare aveva dimenticato di portare il telefono con sé. «Altrimenti avrei chiamato lui, non ti avrei recato disturbo.» Aveva chinato il capo, le lacrime erano riprese a scorrere dopo qualche istante di tregua. Ricardo Salas le aveva passato una mano dietro la testa e l’aveva attirata contro il proprio petto, dicendole di stare tranquilla, si sarebbe aggiustato tutto, sebbene faticasse a crederci persino lui. Eri lo aveva abbracciato aggrappandosi alla sua maglia scura a mezze maniche.
 
Ora la ragazza con gli occhi a mandorla dormiva nella sua camera da letto. Non c’era voluto poco per convincerla a riposarsi, per farle comprendere che passare la notte a piangere non avrebbe risolto i suoi problemi, né li avrebbe fatti sparire. Soprattutto Ricardo aveva bisogno di rimanere da solo a rimuginare su tutte le novità che in pochi minuti gli avevano scombussolato le poche certezze della sua vita, rimescolando le carte in tavola. La TV era spenta, non gli interessava neanche più conoscere il risultato della partita che stava seguendo. Vagò per la stanza, con le mani ficcate nelle tasche dei pantaloni di tuta che fungevano da pigiama, facendo tre o quattro volte il giro completo della planimetria, a testa bassa e con le spalle ricurve. Alla fine si fermò davanti al balcone, scostando la tenda. La luce della luna lo rapì. La contemplò a lungo, senza riuscire a togliersi dalla testa la menzogna che Yumiko aveva ordito intorno a sé per tutti quei mesi, come un ragno tesse la sua ragnatela per intrappolare la preda. E un pochino preda e vittima Ricardo si sentiva. Una vocina flebile in fondo alla sua coscienza gli fece notare quanto fosse stato stupido e cieco a non accorgersi prima che la storia della sorella maggiore fosse una farsa bella e buona! E pensare che di campanelli d’allarme ne aveva avuti e non pochi.
I fari di una macchina illuminarono la strada, lo spagnolo non faticò a riconoscere la Toyota Yaris che si stava parcheggiando proprio davanti il portoncino di casa sua. Fece un paio di passi indietro, si voltò e afferrò al volo il cellulare e le chiavi appese dietro la porta d’ingresso, quindi andò incontro a Yumiko.
Questa tirò un sospiro di sollievo vedendolo. Sollievo che sparì quando se lo trovò ad un centimetro, le sbarre di ferro del cancello a dividerli, come la cella di una prigione. Ancor prima che lei potesse parlare, Ricardo volle tranquillizzarla, benché a modo suo:
«Tua figlia è sopra che dorme.»
La donna deglutì, neanche nello spogliatoio, dopo che aveva appreso delle sue dimissioni, le era apparso così incazzato.
«Voglio vederla.» Disse.
«E tu credi che io ti faccia entrare in casa mia dopo tutto questo?» Salas abbozzò un sorriso di sbieco, di rabbia. «Sei matta!»
«Desidero solo accettarmi che Eri stia bene e spiegarti.»
«Ripeto: Eri sta bene e sta riposando. In quanto a spiegarti, beh non credo ci sia molto altro da dire.»
«Eri ha solo sedici anni e io ho il diritto di vederla.» Yumiko si aggrappò alle inferriate del cancello, scuotendolo.
«Oh lo so che hai tutti i diritti di vederla, sei sua mamma.»
«Ecco, appunto! Non costringermi a chiamare la polizia Ricardo, non ti conviene.»
«Lo faresti davvero?» Lo spagnolo era titubante in proposito, la osservò prendere il cellulare dalla tasca del giubbotto e mostrarglielo in segno di sfida. Aveva imparato da qualche parte – forse l’aveva visto in qualche documentario sui felini o forse l’aveva letto su un giornale scientifico – che la volontà di una madre di proteggere i propri cuccioli può essere assai pericolosa. Si decise quindi ad aprirle e con un cenno della mano la invitò ad entrare. Yumiko lo fece senza batter ciglio e tenendo gli occhi fissi dentro quelli del ragazzo.
 
Eri alla fine si era addormentata per davvero, sua mamma lo capì dal respiro regolare e dalla posizione fetale che sempre assumeva il corpo cadendo nel mondo dei sogni, proprio come succedeva a sé stessa. Richiuse la porta con delicatezza e tornò in salotto. Ricardo era in piedi davanti al balcone, il tendaggio era aperto per far entrare la luce pallida della luna e forse per ammirare il magnifico panorama. La donna si sedette sulla poltrona, gli fissò la schiena per qualche minuto, si sentiva solo il ticchettio della sveglia sul muro, le lancette dei secondi scandivano il tempo con una lentezza ansiogena. Alla fine Yumiko si convinse a parlare.
«Te lo avrei detto.» Silenzio. «Questione di giorni, aspettavo solo il momento giusto.» Ancora silenzio. Per quanto la donna parlasse piano la sua voce sembrava comunque fin troppo forte per quell’atmosfera. «Avevo paura che fossi scappato.» Si massaggiò le tempie con i medi. «Cioè sparito… senti, non so come dirtelo!» Si alzò e lo raggiunse alla finestra. «Una volta mi hai raccontato che avevi lasciato una tizia perché aveva un figlio, cosa pretendevi?»
Salas si voltò a guardarla dall’alto, accennò un sorrisino di sbieco, sciolse le braccia intrecciate e infilò le mani nelle tasche del pantalone felpato:
«Baka» Yumiko sbatté le palpebre un paio di volte. Quella era una parola giapponese e significava “stupido”. Le aveva appena dato della stupida nella sua lingua madre per caso? «E pensare che per te stavo anche imparando il giapponese.» Ricardo indicò con un cenno del capo qualcosa i fascicoli di lingua giapponese sparpagliati sulla scrivania, una sorta di corso mensile per imparare la lingua orientale, con tanto di DVD allegato. Yumiko ne sfogliò qualcuno, ad occhio e croce dovevano essere una decina.
«Il padre di Eri è…?» La voce di Ricardo la destò dalla meraviglia.
«Si, è Joaquin.» Qualche altro secondo di assoluto silenzio e poi:
«Lui è davvero morto oppure…?» Yumiko sospirò e si voltò a guardarlo.
«É davvero morto.»
«Capisco.»
«Già.»
Già.
 
Non litigarono. Non si urlarono contro. Alla fine Ricardo Salas sembrava aver compreso le ragioni che avevano spinto Yumiko Okada a mentire su Eri e sul fatto che fossero madre e figlia. In fondo non aveva avuto tutti i torti: se avesse saputo fin da subito la verità molto probabilmente il suo interesse per la donna con gli occhi a mandorla sarebbe scemato ancor prima di affiorare. O forse no.
Di sicuro Oscar aveva avuto ragione quando gli aveva ribadito più volte che quella ragazza non faceva per lui e, viceversa, quando aveva ammonito lei dicendole che Ricardo non era il ragazzo giusto. La drag queen lo sapeva. Conosceva la storia di Yumiko, eppure non ne aveva fatto parola con il suo migliore amico, aveva mantenuto il segreto e Salas non aveva potuto non inviargli un messaggio facendogli notare che era stato un bell’amico di merda. Avrebbe dovuto dirglielo da subito, senza usare troppi giri di parole. Oscar gli aveva risposto che se dormiva a occhi aperti non era colpa sua!
Ricardo non aveva aggiunto altro: Oscar aveva ragione, era stato un vero baka!
Rimasero in silenzio, ognuno sprofondato nella propria poltrona, lontani come se non si fossero rotolati nudi fino alla mattina precedente, come se non avessero occupato negli ultimi mesi l’uno le fantasie dell’altra. Come se non avessero messo da parte le grandi diversità sociali, culturali e religiose solo per seguire i rispettivi cuori. Ma adesso c’era qualcosa che andava all’infuori della loro portata, più grande dell’amore che provavano evidentemente, più complicato delle paure e dei dubbi che li avevano assillati prima di cominciare quella storia – soprattutto per quanto riguardava lei.
Salas sollevò lo sguardo dalle proprie mani, dopo averci rimuginato a lungo decise di chiederle quale sarebbe stata la sua prossima mossa.
«Innanzitutto devo capire che intenzioni ha Eri.» Yumiko deglutì. «Con il figlio intendo.»
«Tu che intenzioni hai avuto con lei quando scopristi che eri incinta?» distrattamente Yumiko si sfiorò l’addome e accennò un sorriso dolce.
«Ovviamente quella di tenerla.»
«Allora perché credi che per lei sia diverso?»
Lo spagnolo aveva perfettamente ragione: Eri fece la medesima scelta che diciassette anni prima aveva fatto sua madre, ora c’era solo un altro piccolo, minuscolo particolare. Dirlo al padre.
 
Kingsley Rodriguez si meravigliò di trovarla fuori ai cancelli di scuola quella mattina. Di sicuro stava aspettando lui perché alzò un palmo in segno di saluto non appena i loro sguardi si incrociarono. Il francese le corse incontro, abbracciandola e baciandola con foga, erano giorni che sognava di farlo e poco gli fregava di quanti li stavano additando e giudicando. Tuttavia Eri sembrava diversa, era pallida, le palpebre livide e aveva l’aria triste. Kingsley le prese il viso fra le mani e lo alzò verso il suo:
«Stai bene?»
«Devo dirti una cosa.» La ragazza lo prese per il polso e insieme si allontanarono dall’ingresso della scuola.
«Vu-vuoi lasciarmi?» Balbettò lui, iniziava ad innervosirsi, mentre lei pensava che con ogni probabilità sarebbe stato lui a fare quella scelta dopo che gli avrebbe parlato. Scosse il capo, sapeva benissimo cosa dire, si era praticamente scritta il discorso e l’aveva provato davanti allo specchio del bagno quella mattina, ma adesso non sapeva neanche da dove cominciare. Il ragazzo tirò un sospiro di sollievo apprendendo che la sua fidanzata non intendeva scaricarlo.
«Meno male! Per un attimo ho creduto che-»
«Sono incinta.»
Eri lo disse a testa bassa e quando non udì alcuna risposta alzò gli occhietti a mandorla. Rodriguez la fissava a bocca aperta, un’espressione da ebete dipinta sul viso. Se la situazione non fosse stata così drammatica gli avrebbe riso in faccia perché era davvero divertente. Lo scosse per la manica del giubbotto:
«Dì qualcosa Kinsgsley, ti prego.»
«Quindi sei…? Voglio dire, sei…?»
«Si, sono incinta.» Il ragazzo sembrò tornare in trance, prima di riprendere a parlare. «E cosa si fa in questi casi? Scusami se te lo chiedo, ma io non sono pratico di queste situazioni.» Abbozzò un sorriso e finalmente Eri fece lo stesso. Le veniva da piangere, sentiva di provare un profondo sentimento per quel ragazzo e proprio non riusciva ad immaginare un mondo in cui lui non ci fosse più:
«Ho deciso di tenerlo.» Si zittì e attese qualche secondo per lasciargli il tempo di metabolizzare la notizia. «Ritorno in Giappone, Kingsley. Ritorno a casa.»
Quella fu la notizia che spiazzò Kingsley Rodriguez ancor più della gravidanza. Gli occhi scuri gli si riempirono di lacrime. L’abbracciò, scongiurandola di non farlo, di non lasciarlo, di non abbandonarlo. Non aveva nessun altro al mondo, lei era la sua fidanzata, la sua amica, la sorella che non aveva mai avuto, la mamma che non aveva mai conosciuto. Eri lo lasciò sfogarsi senza dire nulla, oramai la decisione era stata presa e l’avevano decisa insieme - lei e sua madre Yumiko - quindi niente ripensamenti, niente rimpianti. Tuttavia Kingsley fece una cosa che la destabilizzò completamente: le posò il palmo della mano in grembo e con il viso bagnato di pianto pregò:
«Vi supplico, vi prego, non lasciatemi solo, ho bisogno di voi.»
Questa volta fu Eri ad afferrargli il volto fra le mani e a baciarlo. «Ok» disse, stavano piangendo entrambi lasciandosi qualche fugace bacio sulle labbra. «Ok, ok, ok.»
 

Epilogo

 
Ritrovandosi dinnanzi al maestoso palazzo del ministro Matteo Rodriguez Yumiko un po’ si pentì di aver accettato l’invito avanzatole dalla segretaria dell’uomo Rospo che aveva conosciuto in presidenza. Ripensandoci non era sembrato tanto un invito, quanto un ordine. Di male in peggio insomma. Eri se ne stava alla sua destra, sembrava così inerme che sarebbe stata pronta a difenderla con le unghie e con i denti se solo qualcuno avesse provato a ferirla. Alla sua sinistra c’era Ricardo Salas. Quest’ultimo era stato presente quando la segretaria di Rodriguez le aveva telefonato per darle appuntamento per quel pomeriggio:
«Il ministro ha qualcosa di importante da comunicarle» aveva detto. Il suo ex superiore si era offerto di accompagnarle e quando Yumiko gli aveva fatto notare che non doveva farlo per forza, che non potevano ancora abusare della sua gentilezza, lui aveva risposto che: 1) non conosceva la strada per arrivare all’abitazione; 2) Eri non se la ricordava e 3) conoscendo il soggetto in questione era meglio una presenza maschile.
In effetti, sentendosi così piccola e inetta di fronte a quell’imponente costruzione in muratura, Yumiko fu sollevata di avvertire la presenza dello spagnolo al suo fianco.
Rosita, la governante, accompagnò gli ospiti in biblioteca, ove il ministro Rodriguez e il giovane francese li attendevano. Fu proprio quest’ultimo ad aprire il discorso, spezzando quell’atmosfera di pesante imbarazzo circondando le spalle di Eri con un braccio e presentandola a suo padre adottivo come la sua fidanzata. La ragazzina si chinò in avanti e l’uomo la osservò con una smorfia:
«Una cinese!»
«Sono giapponese, signore» spiegò Eri.
«Fra tanti popoli una cinese de mierda
Kingsley fece per controbattere e in contemporanea Ricardo fece un passo in avanti, ma furono entrambi preceduti da Yumiko che tirò indietro sua figlia da quel mostro e sbottò:
«Abbiate rispetto per i popoli, signor Rodriguez.»
«Ministro.»
«Signor andrà benissimo! Siamo giapponesi, nelle nostre vene scorre il sangue dei coraggiosi samurai e dei valorosi maestri di Karate. E nelle vostre vene invece, quale sangue avete?» L’uomo strinse i pugni. Quella donna non gli era piaciuta al primo sguardo in presidenza e ora capiva il perché: era troppo indisponente per il concetto che aveva di femmina. «Non conoscete neanche la storia del vostro popolo e osate farvi beffe degli altri.» Eri rise sotto i baffi, le mani salde di sua madre sulle spalle erano confortevoli. Anche Kingsley abbozzò un sorriso, scambiandosi uno sguardo d’intesa con Ricardo.
«Signor Rodriguez.»
«Ministro.»
«Non sono venuta per tenervi una lezione di storia, bensì per chiederle di lasciar partire suo figlio con me, in modo che lui e mia figlia Eri possano crescere insieme il loro bambino.» Il ministro si accomodò su una sedia.
«Non se ne parla. Quell’ incompetente mi serve qui e non in Giappone!» Batté il palmo sul tavolo ed Eri sobbalzò.
«Fra un anno sarò maggiorenne, non potrai sfruttarmi in eterno!» urlò il ragazzo francese, ma suo padre sembrava irremovibile.
«Kingsley sarà mia responsabilità, ne avrò cura come se fosse figlio mio.» Intervenne ancora Yumiko che si era allontanata da Eri per avvicinarsi al Rospo. Quest’ultimo rise.
«Non sei stata in grado di badare a quella mocciosa, figuriamoci con due di loro.»
Yumiko si sentì ferita nell’orgoglio; alle sue spalle Ricardo Salas fece qualche passo indietro, prese l’ I-Phone dalla tasca del giubbotto e avviò una telefonata.
Dopo qualche minuto di accesa discussione Rosita tornò a bussare alla porta della biblioteca, annunciando un nuovo ospite e chiedendo al ministro se aveva il consenso di farlo entrare. Matteo Rodriguez si alzò e alterandosi chiese chi fosse, non aspettava nessuno, ma proprio in quel momento Oscar comparve alle spalle della governante, ringraziandola con una mano sul braccio. La donna arrossì e si congedò con un inchino. Oscar era più bello che mai: i capelli neri si erano allungati un po’ e gli donavano quell’aria da trasandato che lo rendeva quasi surreale, come quei fotomodelli immortalati in una foresta, fra liane e coccodrilli, sporchi e sudati ma dannatamente sexy. Si tirò via i guanti con i denti, un dito per volta, e li tenne stretti nella destra:
«Allora, qual è il problema?» Chiese sedendosi con un balzo sul tavolo, dando le spalle al ministro e fissando negli occhi uno per uno i presenti: Yumiko, Eri, Kingsley e Ricardo che se la stava facendo addosso dalla risate. Oscar gli strizzò l’occhio, sembrava di esser tornati indietro nel tempo, a quando si divertivano con quegli sketch architettati da Rodriguez ai tempi della scuola. Il piccolo Rodriguez sembrava imbarazzato dalla presenza dell’ultimo arrivato, l’immagine di quell’uomo in atteggiamenti equivoci con suo padre era ancora ben impressa nella mente. Eri invece era la ragazzina vispa che aveva incontrato la prima volta alla gelateria, sempre molto attenta a quello che le accadeva intorno, i suoi occhietti curiosi non facevano che balzare da un soggetto all’altro presente nella stanza e quando notò lo sguardo d’intesa fra la drag queen e Ricardo sorrise con loro, come se fosse stata complice di quella messa in scena. Infine c’era Yumiko, più sbalordita del ministro Rodriguez. In un sussurro chiese ad Oscar cosa ci facesse lì, ma lui le fece cenno di stare tranquilla, sarebbe andato tutto bene.
«Il problema è che il ministro Rodriguez ostacola il giovane amore fra suo figlio e questa dolce fanciulla» spiegò in modo alquanto cavalleresco Salas, strappando un risolino ad Eri che sembrava divertirsi come se in ballo non ci fosse il suo futuro.
«Male, male, male.» Oscar si voltò indietro. Matteo Rodriguez era in piedi, la bocca aperta a formare una O in perfetta sintonia con la forma del viso, balbettava manco stesse per soffocare. «E per quale motivo non vuoi che questi due ragazzi vivano il loro amore serenamente?» Di nuovo quei balbettii simili a grugniti. Oscar gli carezzò la testa e il viso «Schhh!» Continuò con le carezze. «Facciamo così, tesoro, tu li lasci liberi di vivere la loro vita e io non divulgherò tutte le foto di me e di te… insieme.»
«No-non lo faresti ma-mai!»
« … e i video che tanto ti diverti a fare…»
«Q-questo si chiama ri-ricattare.»
«… e le lunghe chiacchierate in chat. Si possono stampare quelle cose?» Oscar si voltò indietro per chiederlo ai presenti.
«Va-va bene! Va bene!» Esclamò Rodriguez, l’aria sconfitta. «Vai! Vai dove cazzo ti pare!» Aggiunse rivolto a Kingsley. Eri saltò addosso al ragazzo, entrambi saltellavano come canguri, trascinando con loro Yumiko che però si allontanò dopo qualche saltello. Non era ancora finita. Si accostò all’uomo, già raggiunto da Ricardo, adesso avevano bisogno che mettesse tutto per iscritto, un foglio di carta firmato che avesse validità almeno per un anno. Il tempo necessario affinché il francese arrivasse alla maggiore età insomma.
Attesero in silenzio che il ministro finisse di scrivere. Oscar e Salas lo lessero per tutti: era davvero finita.
 

 
Fra una ventina di giorni sarebbe stato Natale e le strade della capitale iniziavano a colorarsi di rosso, di bianco, di blu e argento. Eri adorava il Natale, lo considerava l’unica festa che potevano festeggiare tutti, anche chi non credeva in Gesù come lei. Aveva desiderato con così tanta forza di trascorrere il 25 dicembre a Tokio che forse aveva esagerato con le preghiere.
L’aeroporto brulicava di viaggiatori di ogni specie, colore e razza. Oscar aveva già salutato i due ragazzini e gli era parso di sentire Eri bisbigliargli che somigliava ad un attore spagnolo che trovava strafico. Anche Kingsley l’aveva ringraziato allungandogli la mano: in fondo da lui non poteva pretendere di più, lo capiva e apprezzava comunque lo sforzo. Molto più difficile era stato dire addio a Yumiko. Era stata una buona amica per lui, soprattutto contando il fatto che ne aveva avute poche, la maggior parte delle ragazze che conosceva finivano per innamorarsi dei suoi modi gentili e alla fine era costretto a spezzar loro il cuore. Oscar l’abbracciò forte, la donna orientale era così piccina che gli arrivava all’altezza del cuore e spariva nel suo abbraccio. Le posò un bacio sulla testa e quando si accorse che il suo corpicino era smosso da tremori di pianto le sussurrò di non farlo, non c’era motivo di piangere, che doveva essere felice per tanti, tantissimi motivi.
«Ad esempio?» Aveva chiesto lei con la voce rotta dalla commozione e Oscar le aveva risposto che non spettava a lui elencarglieli, anche perché lei li conosceva benissimo. Quando si avvicinò Ricardo Salas la drag queen le stampò un ultimo bacio sulla fronte e si allontanò, incoraggiando l’amico con una leggera pacca sulla spalla, non l’aveva mai visto così triste.
Lo spagnolo si accostò un passetto alla volta, le mani chiuse a pugno e nascoste nelle tasche dei jeans. Yumiko si pulì gli occhi dalle lacrime, allargando le labbra in un sorriso nervoso:
«Oscar è stato il primo amico che ho avuto qui, in Spagna.»
«Solo perché io non ero ancora tornato.» Salas cercò di alleggerire la tensione e ci riuscì strappando dei risolini, seppur nervosi. Fece un altro passo in avanti, ora erano uno di fronte all’altra, quasi si toccavano. «Hai avvertito tua madre, la tua okaasan, che ritornate?» Yumiko sorrise ancora udendo quella parola in giapponese.
«Si, le ho telefonato. Dice che è molto contenta. Aspetta di sapere che siamo partite in due e torniamo in quattro!» Questa volta fu lei a far sorridere lui, poi rimasero a guardarsi per un po’.
«Cosa farai una volta lì?» Domandò lui e la ragazza fece spallucce, cielo e se aveva voglia di una sigaretta.
«Mi cercherò un lavoro prima di tutto.» La voce di Eri la raggiunse e le fece cenno che iniziavano ad imbarcare per il loro volo. Fra tutti la più felice era proprio la ragazzina e come darle torto, aveva ottenuto tutto quello che aveva desiderato: tornare in Giappone e portare con sé il suo grande e primo amore. Con qualcosa in più, una specie di extra.
«Tornerai mai in Spagna Yumiko?» Continuò il ragazzo, i pugni nelle tasche si strinsero con maggior forza.
«Certo che torneremo.» La voce le tremò un pochino, se aveva pianto con Oscar figuriamoci con lui. «Ho la scheda telefonica di qui, magari potremmo sentirci a telefono.»
«Magari.»
Si sorrisero con infinita tristezza. Ricardo sciolse i pugni e con la mano destra le carezzò la guancia, asciugando le lacrime che avevano cominciato a bagnarla. Lentamente la baciò, le lingue si mossero al rallentatore, quasi a voler assaporare quell’ultimo momento insieme, ripercorrendo con la memoria tutto ciò che li aveva portati a quel preciso istante.
Sarebbe davvero potuta funzionare fra loro?
Difficile a dirsi, per certi versi sembravano fatti l’uno per l’altra, per altri…
 
Eri sghignazzò osservando il bacio fra sua madre e Ricardo Salas: si baciavano come se non esistesse un domani. E in effetti per loro non esisteva. Kingsley le era seduto di fianco. Da quando suo padre aveva accettato di lasciarlo partire non si era separato un attimo dai fascicoli di lingua giapponese che gli aveva regalato Ricardo. Era già arrivato a leggere il secondo. Si era messo in testa che una volta a Tokio non voleva dipendere da nessuno, in particolare non voleva essere di peso a Yumiko, il cui rapporto fra i due stava adesso decollando e la strada sembrava tutt’altro che in discesa.
Eri lo distolse dalle regole grammaticali con una gomitata e Kingsley si voltò a guardarla, la sua fidanzata si stava accarezzando la pancia. Macchia, la cagnolina, le era accoccolata sulle gambe:
«Stavo pensando: se fosse maschio potremmo chiamarlo Oscar.»
«Sono d’accordo.»
«E se fosse femmina?» Eri sembrò improvvisamente allarmata, ma lui le sorrise e aggiunse:
«Oscar.»

 

fine


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N.d.A.

Innanzitutto vorrei ringraziare coloro che hanno letto fino in fondo questa storia, ma in particolare sono due i nomi da citare: mistery_koopa che ha letto e commentato capitolo dopo capitolo (facendomi notare errori che altrimenti sarebbero rimasti lì per sempre) e dandomi “la forza” di concluderla, e alessandroago_94, il quale ha letto e recensito 15 capitoli di fila in una sola giornata (un record!!!).
Grazie ragazzi.
Nina Ninetta

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