Antichi echi delle stelle : La prima guerra sacra

di TheHellion
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo I ***
Capitolo 2: *** Capitolo II ***
Capitolo 3: *** Capitolo III ***
Capitolo 4: *** Capitolo IV ***
Capitolo 5: *** Capitolo V ***
Capitolo 6: *** Capitolo VI ***
Capitolo 7: *** Capitolo VII ***



Capitolo 1
*** Capitolo I ***


QUESTO È L’INIZIO DELLA GUERRA SACRA

 
L'uomo non percepisce ciò che è superiore ai suoi sensi. Egli nasce, cresce, vive, cercando e sognando ciò che vede, tocca, sente. L'umanità è ignara di quanto sia dura la lotta per la sua libertà, di quanti sacrifici siano richiesti poiché il Male non la divori.
Loro non sanno che una sola dea si erge contro i suoi simili. Una sola degli immortali li ama più di sé stessa ed è pronta a tutto pur di proteggerli. Atena, dea della guerra e della giustizia lotta per questo contro il potere nefasto del grande signore degli Inferi, Ade: fratello di Zeus e Poseidone, che con essi divide il potere sull'universo.
È ferita e stanca ai piedi dell'Olimpo, sconfitta dalla solitudine e dalla forza incontrastabile dell'armata sempre più numerosa degli Inferi. La pesante armatura d'oro è diventata un fardello troppo oneroso per il corpo della dea, esattamente come il grande scudo rotondo, sfregiato dalla furia del signore dei morti.
Il sangue fluisce con la vita dalla ferita al petto, bruciante e dolorosa come l'odio di Ade per tutto ciò che è vivo. La debolezza non le impedisce di abbracciare un'ultima volta il mondo intero. Un bagliore di luce brilla e si espande, irradia il calore della speranza, dell'ordine, del Cosmo. Esplode e tace nel sussurro di una preghiera
«È finita, Atena. Non hai più via di scampo.»
 La dea scosta una corposa ciocca dei lunghi capelli per liberare lo sguardo. Il suo sguardo incontra quello dell'azzurro cobalto degli occhi di Ade, placidi come l'acqua di un lago. Ciò che Atena vede in lui e il vuoto più spaventoso, la privazione di ogni sentimento o emozione, persino dei pensieri. I capelli neri e folti del dio interrompono per qualche istante il contatto dei loro sguardi, a causa del vento che li fa danzare nell'aria polverosa del campo di battaglia.
«Questa terra sarà mia: rassegnati.»
La lama della spada di Ade balugina di una luce scarlatta mentre punta contro il viso di Atena.
«Il mondo non appartiene agli dei, ma agli uomini, Ade.»
 La dea posa i palmi a terra, dopo essersi liberata dello scettro e dello scudo. Con le ultime forze si alza in piedi e sostiene fiera lo sguardo ferino del suo nemico.
«Tutto inutile» mormora, suscitando il controllato stupore sul viso giovane e imberbe di Ade.
«Anche se sono sconfitta, non lo è la mia speranza e il mio potere che  è ora diffuso in tutto il mondo. Si trasformerà nei sogni degli uomini, nella loro forza e li aiuterà a opporsi a te, ogni volta che allungherai la mano su di loro. Al tuo contrario, non smetterò mai di credere in loro!»
Una fitta di nuovo dolore scuote la dea della giustizia, mentre altro sangue cola a copiosi rivoli dalla ferita aperta sull'addome.
«Che la morte ti faccia tacere ora e per sempre, nipote» sentenzia il dio dell'Inferno, mentre estrae la spada dalle carni di lei, senza strapparle un lamento.
«Abbandonato dai tuoi fratelli, ricacciato negli inferi, temuto da chi hai amato, hai trasformato la tua gentilezza in rancore verso gli uomini. Hai sbagliato, Ade... Non sono loro i responsabili del tuo esilio!»
La consistenza del corpo della dea diventa sempre più labile. Le carni e le ossa si tramutano lentamente in luce. Una luce che ferisce gli occhi di Ade e lo costringe a socchiuderli. Le parole di Atena si diffondono nel vento, come la sua essenza.
«Sei tu la causa della tua rovina ed è per questo che non vincerai mai questa guerra.»
La spada del dio fende l'aria con affondi feroci, carichi di rabbia. Una ferita in lui ha iniziato a sanguinare, un ricordo profondo e perduto che riporta alla sua mente le immagini di visi terrorizzati, di occhi in lacrime, di vita che avvizzisce, di colori che lentamente si trasformano in nero. Sin dalla sua creazione, egli è stato maledetto dal potere di dare la morte, che ha divorato ogni cosa gli sia appartenuta, anche lui stesso.
«Non è così, Atena! Sei tu che non vuoi vedere ciò che fanno gli uomini al mondo che dovrebbe essere nostro! Stolta, accecata dai loro sentimenti non hai compreso che solo la morte può portare la pace che predichi tanto!»
Ade lancia la sua spada contro le eterne rocce dell'Olimpo. La lama affonda, producendo una crepa che si estende verso l'alto, fino a separare uno sperone di pietra dal resto del monte. La terra sanguina fango antico che si diffonde ai piedi del dio, calzati nei pesanti stivali dell'armatura nera come le gemme dell'Inferno. Dalla frattura della pietra proviene un vento caldo che odora di zolfo. Il fumo abbraccia la figura solitaria di Ade che si addentra nel passaggio aperto verso il suo regno. Ha vinto la battaglia, ma non la guerra. Quella luce diffusa lo indebolisce, lo contrasta e lo costringe alla ritirata. Non è possibile debellare la dea sognatrice, non così. C'è bisogno di un esercito che perseguiti, cancelli ciò che è rimasto di lei. Serve un esercito di ombre che divori la luce della sua speranza e distrugga gli uomini.

 

INAZUMA

 
  «Corri, Sarya! Esci di qui e porta con te tuo fratello!» grida mio padre. Non l'ho mai visto così spaventato. Egli si è parato tra noi e un terribile intruso: un uomo che non ho mai visto con gli occhi carici d’odio. È alto e imponente, molto più di mio padre e indossa una corazza nera, luccicante. I suoi lunghi capelli bianchi scendono scartati lungo tutta la schiena. Nonostante sia canuto, il viso attorniato dal metallo scuro della maschera è giovanissimo.
«Sarya! Sbrigati!»
 Mia sorella obbedisce al nuovo imperativo di mio padre e mi prende per un braccio, trascinandomi via verso l'uscita del palazzo che si trova dietro di noi.
«Non possiamo lasciarlo solo, Sarya!» provo a oppormi, ma lei non sente legge. Continua a correre, senza voltarsi.
«Non mi fermerai qui, Sophos! Questa trappola serve a poco!» grida nervoso lo sconosciuto. Avverto il rumore di un colpo e il lamento breve di mio padre. No! Non riesco ad accettare che qualcuno gli faccia del male. Blocco quindi i miei passi, costringendo mia sorella a fare lo stesso.
«Andiamo, Inazuma! Non c’è tempo!» mi dice la sua voce tremante, alterata dai singhiozzi.
«Non permetterò che nessuno di voi lasci questo luogo. Le pietre della vostra casa saranno...la vostra tomba» tuona la voce dell'estraneo, più forte e irata di prima.
«Brama di vita!» grida. Mi confonde, perché non riesco a capire che senso abbia quella frase unita alle altre. Odo poi un nuovo lamento di mio padre, più prolungato e disperato del primo.  Scappo verso di lui, sfuggendo dalla stretta di Sarya. Quello che vedo mi paralizza. Il corpo di mio padre è avvolto da una luce bianca che sembra voler coprire le ferite aperte sul suo corpo. La ricca veste che indossa è lacerata in più punti. Lo vedo muovere le braccia, come se tracciasse un disegno ben preciso con le mani nell’aria.  La strana luce divampa e si estende tutt'attorno, accecando la vista del crudele intruso, costringendolo ad arretrare.
«Padre!» lo chiamo. Lui volta appena il capo verso di me, mi regala un sorriso.
«Fa' il bravo, Inazuma. Va' con Sarya e non disobbedirle mai.»
«Padre» ripeto, singhiozzando. Il suo tono di voce mi dice chiaramente che mi sta dicendo addio.
«Vai!»
 Il suo grido è prolungato mentre la luce bianca pulsa per poi diffondersi tutta attorno a noi. Mia sorella mi prende per un braccio e mi trascina via. L'urlo dell'uomo con l'armatura nera riecheggia per lunghi istanti nelle ampie stanze del palazzo. Le mura vengono scosse violentemente, il pavimento trema sotto di noi, ma la disperazione non ci permette di fermarci.
La mia vista ritorna quando io e Sarya siamo già fuori. Corriamo verso la foresta che circonda la costruzione solitaria dove sono nato, ci addentriamo nelle sue profondità, nascosti dalla notte.
Sarya si ferma soltanto dopo diversi minuti di corsa. Deve riprendere fiato e le è doppiamente difficile, sia per l'affanno, sia per i singhiozzi. Mi abbraccia forte, senza dire una parola. Preme il mio capo contro il suo petto e mi dondola nel suo abbraccio. La sua tristezza contagia anche me, che fino a questo momento avevo trattenuto le lacrime.
«Nostro padre è...» inizio la frase che completa mia sorella. «Non c’è più, Inazuma. Non c’è più!»
La sua stretta su di me è ancora più forte, tanto che mi toglie quasi il respiro. Finora ho sempre percepito la presenza di mio padre. Non so spiegare come, ma lo sentivo sempre vicino, sapevo che ci fosse, ma adesso non avverto altro che il freddo del vento che ci avvolge nella desolazione. Le fronde degli alberi stormiscono, mentre il cielo nuvoloso ci minaccia di pioggia con tuono roboante.
«Dobbiamo trovare un riparo, Inazuma.»
Nonostante Sarya riprenda a camminare e cerchi di tirarmi a seguirla, io rimango immobile. Una sensazione gelida mi scorre lungo la schiena sotto forma di un brivido. Anche se non distinguo i suoni e non vedo nessuno, so che c’è qualcuno, qualcuno di molto ostile. Anche Sarya se ne è accorta, perché ha smesso di tirarmi verso di lei. Per un istante il vento sembra fermarsi, tutto tace, tranne il rumore di diversi passi sull’erba. Il bagliore di un lampo illumina per pochi istanti noi e ciò che ci sta intorno. Siamo attorniati da cinque persone. Indossano tutti un’armatura nera e acuminata, così pesante da coprire tutte le parti del loro corpo, salvo i visi o parte di essi.
«Valentine dell’Arpia ci ha detto che avremmo presto trovato i figli di Sophos ed eccoli qui» afferma una profonda voce di uomo. Io mi stringo a mia sorella, la quale mi chiude le braccia attorno.
«Non importa chi siate. Non vi lascerò alzare un dito sul mio fratellino!»
Il buio si illumina della luce violacea che circonda le sagome dei cinque sconosciuti concedendoci di vedere i loro sorrisi divertiti.
«Non ha senso che ci presentiamo tutti. Lo farò soltanto io: Giganto della Stella della Terra Violenta e rappresento la fine del vostro lignaggio.»
«Non vi perdonerò mai per quello che avete fatto» grida Sarya, mentre la stessa luce bianca che ha abbracciato nostro padre prende a splendere attorno alla sua sagoma. Gli occhi di mia sorella si fanno determinati e penetranti, le sue labbra si assottigliano. Le prime gocce di pioggia bagnano i suoi capelli castani, ma non sembrano turbarla minimamente.
Giganto tende il braccio verso di lei e la indica.
«La luce che ti avvolge e che hai ereditato da tuo padre ti rende un pericolo per il progetto del sommo Ade, signore dell’Oltretomba. È l’eredità di Atena, il Cosmo! Per questo anche tu seguirai il suo esempio, da brava figlia.»
«Gli Spectre di Ade non riusciranno a piegarci, mai!» replica subito lei.
Una risata fragorosa esce dalla bocca dell’imponente uomo in armatura, che tuttavia si interrompe quando mia sorella gli si scaglia contro con un movimento velocissimo. Il suo pugno destro si abbatte sul pettorale della voluminosa armatura del suo avversario, ma non ha alcun effetto.
«Cosa?» si chiede, sorpresa e spiazzata. Il mio cuore si ferma come il respiro mentre Giganto la afferra per il collo e la  solleva da terra.
«Sembra che Sophos ti abbia istruito più che bene, ma non ti servirà quando ti avrò spezzato l’osso del collo.»
Mia sorella morirà se non faccio qualcosa! Non posso rimanere qui, immobile e aspettare che mi portino via anche lei, ma ho paura e sono piccolo, di fronte a quella montagna di metallo e muscoli, con lo sguardo nascosto dall’elmo. Le mie gambe sono paralizzate, proprio come le braccia. È forse un incantesimo di questi sconosciuti? No! È solo la paura! Io posso muovermi, ma ho paura!
Le lacrime mi appannano la vista che non smette di fissare mia sorella. La luce che la circondava è quasi completamente sparita. Che stia morendo? Mio padre mi ha parlato spesso dell’energia del Cosmo, del potere benevolo di Atena e del fatto che saremmo dovuti essere pronti a utilizzarlo contro un esercito di malvagi che vuole fare del male al mondo intero, ma io, fino a oggi non l’ho mai visto con i miei occhi. Non ho idea di come liberare quella forza nascosta, né sono convinto di esserne capace. Io non sono come Sarya!
«Giganto, ci occupiamo del ragazzino?» chiede uno degli altri quatto.
«No, lasciatelo guardare. Voglio godermi la sua faccia spaventata ancora un po’.»
Le mani di Sarya si abbattono ormai deboli sul braccio di Giganto che non ha nessuna intenzione di lasciarla andare.
«Inazuma…» mormora appena, volgendo lo sguardo sofferente verso di me. Mi sta chiedendo aiuto! Non è mai successo, visto che è stata sempre lei a sostenermi e aiutarmi quando mi mettevo nei guai. Lei è forte e ha una soluzione a ogni cosa, è proprio come mio padre, forte e tenace...Proprio come lui. Per questo non voglio…Non voglio perdere anche lei!
«Lascia andare...» finalmente posso parlare.
«Lascia andare mia sorella o...»
«O?» mi deride Giganto.
«O ti farò a pezzi!»
 Non so se riuscirò a mantenere la promessa che ho fatto al mio nemico, ma in questo momento tutta la paura si sta trasformando in rabbia. Furia che scorre nelle vene, che brilla e si espande, illuminando il mio corpo. Un fulmine illumina di nuovo la foresta che tuttavia non ritorna nel buio subito dopo. La luce che emana da me si estende per un ampio raggio, per poi riassorbirsi e concentrarsi sui pugni che scaglio contro il petto di Giganto.
  «Lasciala andare!» grido, mentre i frantumi dell'armatura dello Spectre schizzano contro il mio viso. Il colpo subito lo fa arretrare di un passo e  lo costringe a lasciar andare Sarya. Ma è questione di un attimo, che le sue mani si serrano sul mio busto, catturandomi  in una morsa dalla quale non riesco a liberarmi.
«Cosa hai fatto?! Come hai osato!? Hai scheggiato la mia Surplice! Soltanto per questo meriti di essere smembrato, moccioso!» urla furibondo, mentre serra ancora più forte la sua presa su di me. Mi toglie la possibilità di respirare.
«Inazuma!» mi chiama Sarya, ma non riesco a rispondere. Non posso dimenarmi né oppormi. È davvero finita qui? Morirò distrutto dalle mani di quest'uomo? No. Non lo accetto!
«Occupatevi della ragazza. Al moccioso ci penso io» ordina Giganto.
«Sa...rya...»
 Non voglio che le facciano del male. Non posso lasciare che succeda.
«Sarya!»
 Finalmente riesco a gridare il suo nome. Una forza immensa si espande dentro e fuori di me, baluginando ancora nella notte, per poi concentrarsi nel pugno destro, che abbatto contro un braccio del mio avversario. È costretto a lasciarmi perché l'armatura che ricopriva l'arto si è frantumata sotto il mio colpo, esattamente come l'osso.
A stento riesco a tirarmi in piedi dopo essere caduto a terra, perché sono stanco, sfinito, come se avessi compiuto uno sforzo immane. Crollo di nuovo con il volto premuto sull'erba umida. Due dei cinque Spectre mi raggiungono. Uno di loro carica un pugno che viene avviluppato da una splendente luce violacea.
«Muori, moccioso, una volta per tutte!»
Seguo il braccio che inizia a abbassarsi come una scure, fino a quando Sarya non si pone a difesa del mio corpo con il proprio. Vorrei gridarle di spostarsi, ma non ne ho il tempo. Lo strano sibilo di qualcosa che taglia il vento mi toglie il respiro e convince Sarya a stringersi ancora più forte a me. Il rumore del metallo in frantumi e il lamento di alcuni dei cinque aggressori mi rincuora. Sento una presenza benevola vicino a noi, un grande Cosmo caldo come la luce del sole che abbraccia entrambi con delicatezza. Lentamente Sarya si solleva e mi aiuta a tirarmi seduto, per poi stringermi tra le braccia. È in quel momento che riesco a vedere colui che emana tanta forza. È un uomo avvolto dal bagliore puro di luce dorata. Indossa un’armatura d’oro che splende nella notte come un raggio di sole. Dalle spalle spunta una meravigliosa coppia d’ali aperte. Che sia un messo degli dèi?
«Angelòs… di Sagitter» mormora Sarya, rapita dal lento incedere dell’uomo. Sagitter? Ho già sentito questo nome dalle labbra di mio padre. Lui ne parlava come uno dei più grandi guerrieri di ogni tempo, un uomo la cui esistenza è sospesa tra mito e realtà. Non l’avevo mai visto in vita mia, per questo pensavo che fosse soltanto una figura leggendaria, un esempio creato per essere seguito, invece ora i miei occhi assistono al prodigio della sua manifestazione.
«Chiedo perdono per il ritardo, Sarya. Avrei dovuto raggiungerti prima, o perlomeno era questo che avevo garantito a tuo padre, ma…» suona armoniosa la sua voce. Ora che è vicino riesco a vedere quanto sia giovane e umano. Non avrà più dell’età di mia sorella, diciotto anni. Il suo viso è carico  di tristezza e i suoi occhi verdi come smeraldi si sono lucidati di lacrime. È triste proprio come me e come mia sorella. Prova sentimenti esattamente come noi.
«Il cammino che ho dovuto intraprendere è costellato da questi spergiuri!»
L’ira infiamma ora lo sguardo di Sagitter, che tende il braccio sinistro verso ciò che rimane del manipolo oscuro che ci ha attaccato. Solo ora noto lo splendente arco dorato stretto nella presa salda del guerriero. Seguo i suoi movimenti mentre incocca la freccia dello stesso materiale dell’armatura.
«Il mondo dei vivi non è luogo per voi, Spectre!»
La freccia impiega qualche secondo per ricoprirsi della luce splendente che emana dal corpo dell’arciere e in questo lasso di tempo, gli Spectre inveiscono contro il nostro salvatore.
«È tutto inutile, Angelòs di Sagitter! Atena non riuscirà a salvarvi, stavolta! Noi…centootto stelle siamo…»
Le dita allentano la presa sull’impennaggio. Il dardo è scoccato. L’impatto con i bersagli è distruttivo. La luce accumulata si rilascia in una potente onda d’urto. Angelòs è lesto a proteggere sia me che mia sorella, facendo da scudo al suo stesso colpo, capace di sconvolgere la foresta intera, cancellando una sua vasta porzione.
Solo quando il silenzio scende attorno a noi, Angelòs si allontana e aiuta Sarya e me ad alzarci. Si sofferma a guardare gli occhi di mia sorella a lungo, come se solo con quello sguardo volesse dirle chissà quale verità. È chiaro che si conoscano molto bene, anche se non ne sapevo niente.
Sposto gli occhi spaventati sulla devastazione che è stata capace di portare una e una sola freccia. Il palazzo in cui sono cresciuto è ancora in piedi, solo, spogliato dagli alberi che lo circondavano, lesionato dalla potenza del dardo di Angelòs.
«Come…»
Mi volto verso Sagitter e indico l’arco che ancora stringe tra le dita.
«Come hai fatto…?»
«Chiedo scusa…ma non ho saputo controllare il mio Cosmo che è esploso assieme alla rabbia e alla tristezza.»
Abbassa il capo, tanto che i folti capelli castani scivolano in parte a coprire lo sguardo.
«Sophos era molto importante anche per me. Avevo giurato sul mio onore che assieme avremmo combattuto le ombre che tentano di toglierci questo mondo…»
«Nobile Angelòs, nessuno poteva sapere che proprio l’esercito del terribile Rhadamante muovesse contro di noi. Non è vostra la colpa» cerca di rassicurarlo Sarya, anche se la sua voce trema su un singhiozzo che non riesce a trattenere e che presto si trasforma in pianto.
Angelòs solleva lo sguardo su di lei e posa una mano sulla sua spalla, risale fino al suo viso e asciuga il rivolo cristallino di una lacrima.
«Non cercare di consolare me, Sarya. Questo è anche per te il tempo delle lacrime e del lutto. Piangi la tua tristezza, grida il tuo dolore. Solo così potrai ricominciare a costruire ciò che la morte ha distrutto.»
Il guerriero dorato si allontana da mia sorella, dopo averle regalato un’altra carezza al viso e mi raggiunge. Posa una delle sue ampie mani sul mio capo mentre mi rivolge uno sguardo affranto.
«Quanti anni hai, Inazuma, figlio di Sophos?»
La sua domanda a bruciapelo mi spiazza, mi astrae completamente dal tumulto di pensieri con cui ho fatto i conti finora.
«Dodici. Perché questa domanda?»
«Dodici, proprio come lui…»
Mi dedica un sorriso appena accennato e spettina i miei capelli già confusi e scarmigliati, dopodiché compie altri passi verso la devastazione in cui ha trasformato la foresta.
La luna, ormai libera dalle nubi illumina con i suoi raggi argentei i tronchi spezzati degli alberi e la pietra nuda, in parte polverizzata.
«Non potete rimanere qui. Il monte Eta non è più un luogo sicuro.»
«Che luogo può essere sicuro? Loro…loro sono ovunque» protesta Sarya.
«C’è un luogo sicuro, un posto dove tutti i guerrieri che hanno ricevuto il dono del Cosmo dalla dea si stanno riunendo. Esattamente come Ade, anche Atena sta radunando il suo esercito. Anche io vengo da lì, come ti dissi l’ultima volta che ci incontrammo, Sarya. Il Grande Tempio di Atene aspetta anche voi.»

 

ECATE

 
«Cinque anni fa ho abbandonato la Tracia, fuggendo di notte come una ladra. Un tempo grande sacerdotessa del tempio di Ares, ora sono solo un’assassina di fanciulle devote. Sono stata spogliata del titolo e dell’onore, marchiata a fuoco per l’eternità.
Preghiere e canti, riti e sacrifici in favore di Ares, dio della violenta battaglia, mi hanno portato soltanto alla rovina. La mia devozione è stata soltanto un vuoto inganno, una fiducia fallace a uno spirito che non esiste. Ho parlato per anni a una statua di pietra, immota, senza vita o spirito.
Più il tempo passa e più facilmente deduco che non esiste alcun dio, ma soltanto uomini che strumentalizzano la paura o la speranza delle persone per renderle più mansuete e governabili.
I templi, così come i sacerdoti e le sacerdotesse, hanno così tanta influenza da rallentare le guerre o marchiare indelebilmente gli individui scomodi, come è successo a me.
Ho ucciso, sì, ho ucciso, soltanto per salvare la mia vita e quella di persone più deboli. Ho ucciso per difesa, ma questo non importa a nessuno. Non c’è morte giusta, a meno che non lo decida qualcuno più importante di quanto tu sia» concludo, per poi ingollare un sorso di vino rosso, persa nei ricordi più difficili da digerire di tutta la mia esistenza.
«Sapevo che la tua storia sarebbe stata interessante, Ecate, chissà se riuscirai a uccidere anche un uomo armato» mi provoca il vecchio che mi ha chiamato in questa taverna affollata e puzzolente.
Il suo sguardo mi dà sui nervi, profondo e scuro come la notte. Il suo viso è brutto e poco armonioso alla stessa maniera del corpo esile e la pelle raggrinzita come una prugna secca.
«L’ho già fatto, diverse volte. Non ho paura di spade e lance, frecce, asce o pugnali.»
Poso la rude coppa che ho utilizzato per bere. Assottiglio lo sguardo in modo da renderlo perforante.
«Dimmi il suo nome e provvederò a cancellare chiunque tu voglia. Da cinque anni a questa parte nessuno è rimasto deluso.»
«Voltati, Ecate» mi invita, con un sorriso ampio che mette in mostra la dentatura irregolare. Non posso far altro che voltarmi lentamente e con discrezione. Il cappuccio nero che mi copre il capo occulta un po’ del mio campo visivo e sono costretta a spostarlo.
Poco lontano dall’entrata della taverna c’è un uomo altissimo, dalla corporatura robusta. I suoi capelli lunghi fino a quasi le ginocchia, scendono sul suo corpo irregolari e ribelli. Il loro colore mi attira, poiché mai ne ho visti di simili. Un blu cobalto, come le onde del mare tranquillo e profondo, ma questo non è il dettaglio che più mi sconvolge. Sono i suoi occhi ad atterrirmi: verdi come smeraldi, pozzi limpidi senza fondo capaci di intrappolare un’anima con semplicità. Trovano e perforano i miei.
Sfuggo dal suo sguardo e torno a rivolgermi al committente del mio prossimo lavoro.
«L’uomo dai capelli color del mare?» chiedo incredula.
«Proprio lui.»
«Qual è il suo nome?»
«Castore. Il suo nome è Castore. Dicono che sia la reincarnazione di un dio, ma nessuno ha mai capito quale dei tanti.»
Sollevo le sopracciglia, per poi sghignazzare appena.
«Come vi dicevo prima, Tirsa, non credo in nessun dio. Il tuo Castore sarà morto per la prossima alba. Ma prima vorrei farti un’altra domanda. Si tratta di mera curiosità.»
«Chiedi pure, Ecate.»
«Perché lo vuoi morto?»
«Perché quell’uomo…è molto pericoloso per il mio signore.»
Ho deciso di non entrare mai nelle questioni private dei miei committenti, perciò non gli porrò nessun’altra domanda. Ormai so qual è il mio obiettivo e non mi resta che attendere il momento giusto per colpire. Non conosco le abitudini di quest’uomo, ma la taverna è l’ambiente migliore per uccidere qualcuno senza essere nemmeno notati, poiché la folla nasconde più della notte. Faccio per alzarmi in piedi, ma Tirsa preme una mano sulla mia che è ancora poggiata sulla superficie lignea del tavolo.
«Il mio signore potrebbe considerare di accoglierti a braccia aperte se porterai a termine il tuo compito.»
«Mi dispiace, ma io lavoro soltanto per me stessa e non giurerò fedeltà a nessun signore. Dal tuo voglio soltanto l’oro che ho chiesto.»
Sfuggo dalla pressione della sua mano e mi allontano da lui. Sistemo meglio il cappuccio sul capo e compio la distanza che mi separa dall’entrata. Arrivata lì mi guardo attorno in modo da riconoscere la vistosa capigliatura di Castore tra la folla. In realtà è lui il primo a trovarmi. Il suo sguardo è pesante e non si allontana da me nemmeno per un istante. Sembra un rapace che ha catturato la sua preda. Come è possibile? Dovrebbe essere il contrario. Sono io che ho deciso che la sua vita finirà entro stanotte, eppure...
La folla non mi sarà utile come pensavo. Non posso più nascondermi, anzi, devo scappare da questo posto, perché mi sento soffocare. Esco di corsa, mescolandomi tra le persone che affollano la strada che conduce alla taverna e ai bordelli costruiti attorno alla stessa via. L’aria è umida, irrespirabile e le prime gocce di pioggia scendono a bagnare il tessuto nero dei miei abiti. Devo scappare: è come se fossero quegli occhi a ordinarmelo.
Corro, mi allontano, urtando genti che mi maledicono, eppure ritorno sempre al punto di partenza, come se girassi in tondo. Sono sicura che non lo sto facendo, eppure mi ritrovo sempre di fronte alla taverna dalla quale sono uscita.
Ho bisogno di fermarmi, poiché probabilmente sto dirigendo male i miei passi, alterata dall’influenza di quell’uomo. Mi siedo su una cassa di legno posta a ridosso del muro scrostato dell’edificio. La notte mi nasconde completamente dalla vista della gente e dalla luce delle fiaccole. Rimuovo il cappuccio dal capo e libero i lunghi capelli mossi e completamente canuti.
«Un bel colore di capelli, non c’è che dire, Ecate di Tracia.»
È una voce maschile e profonda quella che ha appena parlato, una voce che non ho mai sentito in vita mia. Mi guardo attorno, ma i miei occhi abituati al buio non vedono nessuno. Mi alzo in piedi e mi sposto, verso il punto dal quale ho sentito provenire le parole, ma i miei passi si arrestano. La leggera pressione di una mano sulla mia spalla, mi paralizza.
«Dovresti fare attenzione alle compagnie che frequenti, perché potrebbero portarti alla rovina» continua. Non c’è tempo da perdere, devo agire e alla svelta. Non è la prima volta che la paura tenta di atterrirmi e io non sono pronta a sottomettermi a essa. Compio una mezza rotazione, dopo aver velocemente estratto la lama nascosta tra le fasce strette al polso destro. Affondo il braccio in avanti, ma colpisco soltanto l’aria calda che sibila al taglio della lama.
«Violenta, sanguinaria, assassina, ma troppo debole e poco accorta.»
Ora li vedo chiaramente: lo scarlatto di uno sguardo ferino brilla a poca distanza da me, dove l’ombra è ancora più fitta. Sposto così il braccio con un gesto brusco e scaglio la lama celata in quella direzione.
«Chi sei?» chiedo nervosa. Ricevo soltanto una risata in risposta. La luce sinistra di quegli occhi è sparita, ormai, proprio come la pesante angoscia che mi ha schiacciato il cuore finora. Ora sento di essere davvero sola e questo mi solleva. Premo la schiena contro la parete e mi lascio andare fino a sedermi a terra. Sono spossata, madida di sudore e non capisco che cosa mi abbia ridotta così. Le palpebre sono pesanti e, anche contro la mia volontà, si abbassano sui miei occhi, trascinandomi in un sonno tormentato da incubi e ricordi.
Rivedo il naos del tempio, la statua di Ares bagnata del sangue di Deianira. Sposto lo sguardo sulle mie mani macchiate dalla colpa, come la mia veste bianca. Il bianco del lino si trasforma in rosso porpora, mentre lascio cadere un pugnale d’oro a terra. Lo riconosco! È il pugnale dei sacrifici, ma la donna che ho ucciso, che giace morta sulla pietra antica non è più Deianira! No, non è vero! Io non ho ucciso nessun altra persona oltre a lei in quel tempio! Non è colpa mia se anche lei è morta!
È un grido prolungato l’accompagnatore della mia mente verso il mio risveglio. Quando apro gli occhi ho le braccia incrociate di fronte al viso quasi volessi farmi scudo con esse. Sono ancora immersa nel buio, anche l’orizzonte è già tinto dalle dita di Eos. Il sole sta per sorgere e io invece di compiere il mio dovere, mi sono addormentata. Maledico me stessa mentre mi alzo in piedi. Le ombre non mi permettono di recuperare la lama celata che ho lanciato poco fa. Non importa, le armi da taglio non servono a una come me. Sistemo di nuovo il mantello sulle spalle e il cappuccio sul capo. A differenza di prima, adesso non c’è più nessuno da queste parti.
I piedi affondano nel fango del camminamento che mi porta ormai verso il porto. Sono sicura che non troverò tracce di Castore, ma chissà, forse qualche balordo ancora in giro lo ha visto. Uno come quello non passa di certo inosservato.
Trovare un uomo non è difficile, alla fine. Hanno tutti gli stessi vizi e le stesse inclinazioni: donne, vino e lotta. Nessuno si riunisce in combattimenti clandestini a quest’ora, nemmeno vicino al porto. Le taverne sono ormai chiuse ed è già tardi per abbandonarsi all’ebbrezza. L’unico luogo che mi garantisce qualche probabilità è la via dei bordelli. C’è un detto che vede le prostitute come la fonte d’informazione più attendibile in assoluto. Gli uomini sono più loquaci quando sono in buona compagnia, o così dicono.
La sorte mi irride, dandomi l’opportunità di trovare una discinta meretrice lungo la via. Il suo viso parla di stanchezza e delusione. Si lamenta del fatto che nessuno abbia usufruito dei suoi servizi, nonostante si sia impegnata a tenere alta la gonna per tutta la notte. Le altre, dalle finestre delle case di tolleranza, le rivolgono frasi di scherno che sottolineano il fatto che non sia più giovane.
«Meretrice, ho una cosa da chiederti. Pagherò se mi aiuterai» interrompo la discussione.
«Pagherai? Quanto?» chiede incuriosita.
  Non ho moltissimo con me, ma tra poco riscuoterò una bella somma, quindi decido di privarmi di dell'intera bustina di cuoio che pende dalla mia cintura.
«Dovrebbero essere sufficienti per un'informazione, no?»
 Esattamente come pensavo. Gli occhi di chi si vende brillano solo per il luccichio del denaro. Come un gatto col topo agonizzante, la meretrice artiglia la bustina di cuoio e me la strappa dalle mani. Ne saggia la consistenza, stringendola tra le dita.
«Chiedi pure, straniera.»
«Sto cercando una persona» spiego , «un uomo molto vistoso, con lunghi capelli del colore del mare. Il suo nome è Castore. Non so altro di lui.»
La donna mi guarda con gli occhi spalancati dallo stupore. Non riesco a capire il motivo della sua reazione.
«Sono ancora in tempo per riprendermi ciò che ti ho dato. Vuoi rispondermi?»
«Non so per quale motivo tu lo stia cercando, ma il nobile Castore non dà udienza a gente come noi.»
Dalle sue parole intendo che mi consideri una di loro e reagisco molto male. Allungo una mano in modo da artigliare la sua chioma acconciata alla bell' e meglio.
«Non sono una di voi...» ringhio a denti stretti, dopo aver avvicinato il suo viso al mio. Geme di dolore e mi implora di lasciarla andare.
«Parla! Chi è Castore?»
«Il nobile...Castore ha combattuto per anni nella guardia della città... ci ha difeso dai barbari traci e ora ha deciso di divenire uno dei sacri guerrieri devoti alla dea Atena.»
La lascio andare subito dopo aver sentito quell'ultima parola. Non trattengo un sorriso pietoso verso il povero sventurato che non vedrà l'alba. È un fanatico, proprio come lo fui io fino a cinque anni fa.
«Sacri guerrieri di Atena. Ridicolo.»
«È così!» insiste lei, innervosita dal mio atteggiamento.
«Dove posso trovarlo?» chiedo. La meretrice si irrigidisce e aggrotta le sopracciglia, per poi rifilarmi un secco : non lo so.
«Sto perdendo la pazienza.»
  Il mio corpo viene avvolto da un leggero alone di luce bianca, mentre rimuovo le bende dalla mano destra, fino a scoprire completamente il palmo. Le unghie delle dita crescono di qualche centimetro, trasformandosi in artigli e tingendosi di nero. Serro la mano su una delle braccia scoperte della donna e la sua pelle, sotto il mio tocco, inizia a ingrigirsi e raggrinzire.
«Dove si trova Castore?»
«Che cosa stai facendo? Lasciami subito!» grida spaventata, cercando di sottrarsi alla mia stretta, che invece la tiene ferma come una morsa.
«Rispondi alla mia domanda e lo farò. È tutto molto...semplice.»
Le unghie perforano la pelle.
«Te lo ripeterò un'ultima volta, meretrice. Dov'è Castore?»
«Sono qui!» mi risponde una voce virile e profonda. Mi volto di scatto, tirando un graffio lungo il braccio della donna, prima di liberarla. Il mio sguardo incontra le iridi di smeraldo dell'uomo dai capelli blu. Digrigno i denti come una bestia affamata di morte e scatto contro di lui. L'idea è quella di perforare le carni del suo petto con i miei artigli, costringere la sua pelle ad avvizzire, il suo corpo a seccarsi. Nutro il profondo desiderio di cancellare la sua dannata bellezza quasi ultraterrena, ma non ne conosco il motivo. Il colpo non arriva a destinazione, però: si interrompe a pochi centimetri dal suo obiettivo. La forte mano destra di Castore è chiusa sul mio polso. Ho ancora l'altra mano da poter sfruttare, non tutto è perduto. Sollevo lo sguardo sul suo e gli rivolgo un sorriso di scherno. Anche l'altro braccio viene bloccato. La mano sinistra di Castore è robusta come la destra. Mi dimeno, cerco di liberarmi ma ogni sforzo è inutile. È diverso da tutte le persone che ho incontrato finora.
«Avrò la tua vita...a qualsiasi costo!» grido.
«Per quale motivo mi vuoi morto?» mi chiede, senza dare tono alla sua voce.
Non ho una vera e propria risposta. Prima di incontrarlo avrei potuto usare il lauto compenso come motivazione, ma ora è tutto diverso. Il fatto che solo il suo sguardo riesca a soverchiarmi, a farmi provare l'angoscia di sentirmi disarmata, mi rende euforica. La paura che ho provato mi spinge a provarne ancora, a sentire di nuovo il bisogno di scappare per poi tornare a cercarlo. Non provo questa sensazione da quando passavo ore e ore ai piedi dell'altare di Ares, osservando lo spettacolo orribile e spaventoso della morte sui corpi dei sacrifici al dio. Gli eroi giungevano in terra tracia per omaggiarlo con le carcasse dei vinti e io passavo giorni interi tra loro. Spaventoso e bello come la violenza, rimaneva Ares a fissarli, dai suoi impassibili occhi di pietra.
Spaventoso e bello...come la violenza.
La presa delle sue mani si allenta sui miei polsi, tanto che riesco a liberarmi e ad arretrare di un passo.
«Povera di risorse e potere, cosa credi di poter fare a me, il nobile Castore, un uomo dotato di una forza tale da frantumare le stelle del cielo?»
Sciolgo le bende anche alla mano sinistra, e perdo alcuni istanti a osservare le unghie che crescono e si tingono di nero.
«Mostrami questo potere, dunque. Nessun uomo è capace di raggiungere il cielo, di toccarlo. Sei forse un dio?»
La mia frase suscita una controllata ilarità in lui, che si esprime in una risata sommessa.
«Dio? No. Sono soltanto un uomo che ha ricevuto un prezioso dono.»
«Un dono?» chiedo, retorica. «Nessuno regala nulla di questi tempi.»
«Non mi attarderò a spiegare un concetto così complesso a una donna che ferisce chi non è in grado di difendersi e tenta di uccidere uno sconosciuto che a lei non ha recato offesa. Mi limiterò a dimostrare ciò che sto dicendo.»
Avverto subito un cambiamento nell'aria. Essa diventa più calda, opprimente. È il suo potere a me ostile che mi circonda, mi seppellisce, come se l'universo intero volesse schiacciarmi. Da un istante all'altro non lo vedo più, è scomparso? Lo spostamento d'aria tradisce le mie ipotesi: egli si è spostato in un tempo quasi nullo, fino ad affiancarmi. Il suo corpo è acceso di una luce dorata, splendida come quella del sole, che brilla fino ad accecarmi, per poi placarsi e concentrarsi sul palmo della sua mano. Le sue dita si stringono in un pugno che la luminosità avviluppa.
«Perdonami» sussurra.
 Non riesco a seguire i suoi movimenti, avverto soltanto una pressione immane all'altezza dell'addome. Non riesco a resistere ancorata a terra, poiché vengo sbalzata via a diversi metri di distanza. La mia schiena urta contro la superficie lignea di fragili casse di legno, distruggendole. Il cappuccio si è allontanato dal mio capo e ha liberato i mossi capelli canuti che ora provano a frapporsi tra il mio sguardo e quello di Castore.
«Non so cosa ti ha spinto ad attaccarmi, ma ti consiglio di non farlo mai più. La prossima volta non sarò così indulgente con te.»
Non sopporto che mi parli come se fossi una nullità. In tutti i ventitré anni della mia vita nessuno mi ha mai trattato come tale. Io sono Ecate, grande sacerdotessa di Ares!
Mi tiro in piedi anche se il forte colpo che ho subito mi ha sconvolto il corpo dalla pelle alle ossa. Assumo una posizione congeniale all'attacco, con la gamba destra pronta a dare la spinta giusta al mio corpo per un nuovo scatto.
«Non sai con chi stai parlando, Castore!»
«Sì, invece. Sto parlando con una stolta che priva di armi si sta scagliando contro uno dei più potenti Cavalieri di Atena. Te ne do atto, forestiera: hai fegato, ma con me non basta.»
La rabbia mi scorre nelle vene trasformando il sangue in un fiume in piena ed esonda dal mio corpo sotto forma di un velo di luce bianca che mi avvolge completamente. La strana luce riesce a rinvigorirmi, a darmi la possibilità di slanciarmi contro Castore.
«Fermati, forestiera!»
"Inizia ad avere paura di me, il grand'uomo" penso, ma l'entusiasmo che mi regala questa convinzione dura finché i miei artigli non fendono l'aria invece che il corpo di Castore. Il sibilo dello spostamento d'aria canta la mia delusione.
Spalanco gli occhi e trattengo il fiato quando sento la soverchiante e calda presenza del nemico alle mie spalle. Avverto il suo respiro contro la pelle del collo. La sua vicinanza mi paralizza. So che è a portata di mano: mi basterebbe un solo graffio per togliergli tutta quella boria...eppure rimango immobile.
«Rinuncia alla lotta» mi suggerisce.
Arrendermi? Io?
«In vita mia, non sono mai scappata con la coda tra le gambe. O vittoria o morte.»
È come se parlarne riesca a convincermi, a spronarmi. Trovo la forza di voltarmi e tracciare un fendente obliquo con i miei artigli mortali, ma come le volte precedenti non riesco a colpire il mio nemico, che nel frattempo ha messo una distanza di metri tra me e lui.
«Mi costringi ad ammansirti con la forza. Bada, forestiera, dovrai piangere solo te stessa per la tua stoltezza.»
 Fa un movimento pacato: allunga il braccio destro verso di me. Le dita sono chiuse in un pugno. Quando si distendono si viene a creare un potente spostamento d'aria che mi sbalza all'indietro, comprimendomi a terra subito dopo. Tento di rialzarmi, ma è tutto inutile. La sua superiorità è innegabile, schiacciante, ammirevole, stupenda. Ho smesso di credere negli dei cinque anni fa, ma l'uomo che muove ora i suoi passi verso di me è solenne e meraviglioso come un Olimpico. La sua forza è disumana, la sua anima splendente come la luce del sole, la sua voce tuona come ordine.
"Dicono sia la reincarnazione di un dio", ha detto Tirsa. Forse è vero: quello che ho davanti non è un semplice uomo, ma una creatura a cui rivolgere immenso rispetto.
Combatto con la pressione del suo potere per ritornare in piedi. Ce la faccio, anche se so che non resisterò a lungo.
«La tua perseveranza ha qualcosa di prodigioso, forestiera, e va di pari passo alla tua sconsideratezza. Ti opponi ancora a me?»
Scuoto appena il capo.
«Che senso avrebbe? Sarebbe come sfidare l'universo intero a mani nude. Io sono solo...»
È il dolore a impedirmi di continuare la frase. Un sibilo fastidioso e perforante che si impone all'interno della mia mente. È una voce, sì. Una voce di donna che mi tormenta, che fa vibrare e contorcere tutto il mio corpo.
«Speranza vana, ecco cosa sei, Ecate di Tracia.  Ho sbagliato ad aspettarmi che vi sareste annientati a vicenda. Assassina infallibile, così ti fai chiamare. Quale fallace descrizione per una donna inconcludente e priva di significato.»
Riconosco la voce di Tirsa, anche se ora la sento più chiara, solenne.
  «Tu...» vorrei dirgli altro, ma non ci riesco. Ho la gola stretta in una morsa di stasi. Sposto lo sguardo verso di lui che ora mi affianca. Lo sconcerto si unisce all’angoscia di non poter reagire, poiché mi trovo a guardare un uomo giovane e prestante, dal volto immensamente bello, quasi femminino. Il suo corpo longilineo e armonioso è coperto da un’armatura nera, leggera, dalle forme taglienti. L’elmo appuntito comprime una lunga cascata di capelli neri come l’ebano che scende lungo tutta la schiena.
«Come è possibile? Tu eri un vecchio decrepito… » chiedo, con un filo di voce.
«Per me ogni cosa è possibile, poiché sono un guerriero del Sommo Ade, dio degli Inferi. Comando l’inganno e faccio in modo che gli altri mi vedano come meglio desidero.»
Si china su di me, in modo da avvicinare le labbra al mio orecchio.
«Gli dei esistono, sono realtà, Ecate. Com’è morire in sacrificio a uno di loro? Lo so che per ora è doloroso, ma non temere, presto la morte giungerà a salvarti.»
Non riesco a muovere un muscolo, né a lamentarmi. La voce di donna continua a torturare la mia mente con il suo canto. Avverto il calore del sangue che esce dalle narici e scivola fino alle labbra.
«Prima di tramutarti in polvere, voglio conoscere il nome del vigliacco che si è servito della disperazione di una donna confusa per colpire un Cavaliere di Atena» tuona Castore. Non so come ci riesce, ma le sue parole surclassano la voce del canto letale che mi dà pena, e mi regalano istanti di sollievo.
«Io sono Efialte della Lamia, della Stella del cielo dell’Inganno. In realtà non avevo nessuna fiducia in questa donna né nel suo potere. Soltanto per un istante ho pensato che il suo Cosmo velenoso potesse funzionare contro di te. Ho persino ipotizzato che morisse nel tentativo, portandoti nella tomba, liberando il mondo di due individui che hanno avuto in eredità il dono di Atena. Le mie aspettative purtroppo sono state tradite. Il tuo nome è famoso tra gli Spectre dell’armata del nobile Rhadamante: tu sei Castore, Cavaliere di Gemini, uno dei dodici più forti guerrieri di Atena.
Ammetto che mi sono illuso di non doverti affrontare, ma a quanto pare non ho scelta.»
Efialte allunga il braccio destro verso Castore, dopo avermi superato. All’interno della sua mano brilla una fiamma sospesa di energia violacea.
«Vorrà dire che il canto della Lamia dovrà distruggerti prima che tu possa muovere un dito!»
Il fuoco viola divampa e lo avvolge, espandendosi anche alle sue spalle. Le fiamme disegnano la sagoma di una donna mostruosa china su di lui. Il canto si fa ancora più intenso e insopportabile. Voglio che duri poco, che tutto si concluda velocemente. Prego che la fine arrivi il prima possibile e sembra che il fato mi ascolti.
Bruscamente il canto si interrompe. Le mie membra tornano a essere libere, avvolte da una luce calda e rassicurante. Anche se l’alba ha appena acceso l’orizzonte, avverto la carezza del sole su di me e mi abbandono alla serenità che mi porta. Sposto lo sguardo stanco verso Castore, ma non riesco a distinguere la sua sagoma, poiché è completamente avvolta dalla stessa luminescenza che abbraccia me, soltanto più splendente. Continuo a osservare finché essa non si dirada e rimango sorpresa nel vedere che il corpo imponente di Castore è ora protetto da una luccicante corazza d’oro. Ciò che attira la mia attenzione è l’elmo che ai lati presenta due visi in rilievo con espressioni contrastanti. Se il lato sinistro rappresenta un’espressione calma, priva di turbamento, il destro mostra un ghigno ferino, sadico, folle. Il volto di Castore è l’equilibrio di entrambi. I suoi occhi bruciano di una strana scintilla: furia? Determinazione? Tuttavia ogni linea del suo volto è rilassata, controllata.
«Ebbene, Efialte…Vedremo se la Lamia riuscirà a intonare una melodia più potente della frantumazione delle stelle.»

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Capitolo 2
*** Capitolo II ***


INAZUMA

 
Non credo che riuscirò ad abituarmi a questo luogo né alla separazione forzata che mi tiene lontano da Sarya. Una volta arrivati alle porte del Grande Tempio di Atene ho dovuto seguire Angelòs fino ai dormitori comuni, mentre mia sorella è stata presa in consegna da una donna con il viso coperto da una maschera argentea. Non aveva nemmeno gli occhi scoperti, tanto che mi sono chiesto come facesse a vedere ciò che le stava attorno. L'ha portata via senza che si opponesse. Al contrario di me, Sarya non era sorpresa di ciò che stava accadendo.
Sono già passati tre giorni da quando siamo arrivati qui e mi sembra di essere diventato muto. Per quanto gli altri ragazzi che condividono queste enormi stanze con me vogliano parlarmi, io mi isolo. Sono arrabbiato con il mondo intero, dopo aver scoperto che mio padre e mia sorella mi hanno tenuto all'oscuro di tutto ciò che sta succedendo. A sentire i racconti degli apprendisti più grandi, l'esercito degli Spectre di Ade sta attaccando ogni angolo del mondo. Il potere di Atena ha raggiunto tanto i gelidi paesi del glaciale nord che le calde distese desertiche del sud. Molti dei ragazzi che vivono qui non provengono dalle terre di Grecia, infatti il mio vicino di letto che si chiama Nikanor, proviene da un posto perennemente assediato dal ghiaccio. La sua carnagione pallida non si è ancora abituata al sole di Atene, dice. Parla in continuazione, senza che io gli risponda, perché è convinto che così facendo la smetterò di evitare tutti.
Anche adesso mi tormenta, chiedendomi il motivo per cui non mi reco al campo di addestramento. Il motivo è semplice: non farò niente finché non potrò vedere Sarya, ma non parlerò di questo con Nikanor. Lui non ha il potere di aiutarmi. Aspetto con ansia il ritorno di Angelòs, piuttosto.
  «"Se non impari a combattere come si deve, perderai tutto." questo è il primo insegnamento del mio maestro, il nobile  Demyan. "Il nemico non aspetta che tu sia pronto."»
Gli rivolgo un'occhiata fiammeggiante e in reazione lui gonfia le guance per poi sbuffare.
«Te ne accorgerai da solo!» sottolinea. Mi innervosisce che lui parli di perdere qualcosa proprio a me che mi sono lasciato alle spalle mio padre e il luogo dove sono nato. Io so che cosa vuol dire perdere tutto!
«Lo so già» dico sottovoce. Nikanor sorride tutto soddisfatto, come se avesse vinto a un gioco.
«Allora sai parlare!»
Mi volto, in modo da dargli le spalle.
«Da quando il nobile Angelòs ti ha portato qui, non hai detto una parola...» continua.
Al sentire il nome di Sagitter mi volto di scatto e inizio a gridare.
«Non muoverò un dito, finché non rivedrò Sarya!»
Nikanor mi fissa interdetto.
«Chi?»
«Mia sorella! Voglio rivedere mia sorella! Ci hanno divisi quando siamo arrivati e lei è stata portata via da una donna mascherata! Angelòs ci aveva detto che...»
«" Il NOBILE" Angelòs! Non dimenticarti mai di sottolineare la sua superiorità. Lui è un Cavaliere d'oro, forse il più forte dei Dodici.»
«È un bugiardo!»
«Come ti permetti?»
«Mi permetto, perché è la verità!»
Nikanor si avvicina a me abbastanza da stringere la mano destra al tessuto della casacca di lino grezzo che indosso.
«I Cavalieri d'Oro sono gli eroi più vicini ad Atena! Sono loro che proteggono il mondo dal Male e che ci insegnano a lottare! Se eri con Angelòs significa che è stato lui a salvarti la vita o sbaglio?»
No, non sbaglia. Angelòs ci ha salvato entrambi e forse ciò che gli ho detto è ingiusto, però è vero che mi ha diviso da Sarya! Non mi aveva avvertito che sarei rimasto senza di lei.
«Non lamentarti perché è normale che ti abbiano separato da tua sorella, stupido! Quando una donna giura fedeltà ad Atena, diviene una sacerdotessa guerriera. Le sacerdotesse seguono un addestramento diverso dal nostro e devono sempre tenere una maschera sul viso. Nessun maschio può più guardarle a volto scoperto, a meno che non si tratti dell'uomo che loro ameranno per tutta la vita. Se qualcun altro si permettesse di trasgredire e le privasse della maschera senza il loro consenso, le disonorerebbe. Solo uccidendo chi ha compiuto l'oltraggio, riuscirebbero a recuperare la dignità perduta.»
Il suo racconto è assurdo. Perché una ragazza bella come Sarya dovrebbe nascondere il viso? Perché una dea descritta come giusta dovrebbe condannare le sue giovani fedeli a non mostrarsi?
«Non è giusto! Perché una ragazza dovrebbe nascondere il viso?»
«Perché tra le sacerdotesse di Atena non deve esistere vanità.»
«Mia sorella non è vanitosa!» protesto.
«Smettetela» tuona una voce pacata che anticipa la risposta di Nikanor. Entrambi ci voltiamo verso l'uomo dalle cui labbra è uscita. È alto e snello. I suoi occhi blu come il fondo del mare sembrano volermi scrutare l'anima. Sono gelidi, privi di emozione e questo mi spaventa. Sembra di guardare un pozzo profondo. Le labbra sono assottigliate e irrigidite: è l'unico dettaglio che mi fa pensare che sia innervosito, arrabbiato con noi, oltre al suo Cosmo immenso, gelido e ostile. I lunghi e folti capelli sono dello stesso colore degli occhi e scivolano lisci lungo tutta la schiena, coprendo il tessuto della casacca scura e leggera, priva di rinforzi al contrario di quelle che indossiamo noi, rese più coriacee da bande di cuoio che proteggono il petto all'altezza del cuore.
«M-Maestro Demyan?» balbetta Nikanor.
«Che non ti sorprenda mai più a sprecare tempo in così futili dibattiti, Nikanor» lo rimprovera. Io rimango immobile e muto, come se il suo sguardo mi avesse congelato, anche se non vorrei.
«E tu...»
Trasalisco quando si rivolge a me.
«Dovresti uscire dal tuo ridicolo isolamento e provvedere alla scarsezza del tuo potere. Non posso credere che Sophos ti abbia lasciato in eredità soltanto le lamentele e le lacrime.»
Tra me e mia sorella io sono sempre stato quello più indolente verso gli insegnamenti di mio padre. Non che non li ritenessi importanti, però non ho creduto a essi fino in fondo finché non ho visto gli Spectre di Ade con i miei occhi. Era già troppo tardi.
«Comportandoti così lo stai insultando. Alla tue età dovresti già allenarti per ottenere il titolo di Cavaliere.»
«Cavaliere? Io?» indico il mio stesso viso, incredulo. Inaspettatamente il mio gesto fa innervosire Demyan ancora di più.
«Secondo te, Angelòs di Sagitter ti ha portato qui per farti mettere radici all'interno del dormitorio delle reclute? Quell'uomo è stato troppo indulgente. Doveva accertarsi meglio delle sue supposizioni.»
Non seguo il discorso, ma allo stesso tempo non ho coraggio di porre domande poiché il suo sguardo mi mette in agitazione, mi spaventa.
Tiro un respiro di sollievo quando si volta verso Nikanor.
«E tu, Nikanor, evita di perdere tempo prezioso. Non ti permetterò un altro ritardo. Sbrigati a raggiungere il campo di addestramento. Hai un obiettivo da raggiungere.»
Nikanor annuisce timoroso e, dopo avermi rivolto un rapido saluto, supera il suo maestro e corre in direzione dell'uscita. Quel ragazzino biondo e il suo continuo chiacchiericcio mi avrebbero aiutato a sostenere la sola presenza dell'uomo di ghiaccio che ho di fronte.
«Un Cavaliere non piagnucola, non si lamenta, ma soprattutto ha un solo obiettivo: diventare abbastanza forte da combattere per la salvezza di Atena e della giustizia.»
«La...salvezza di Atena?» chiedo incerto. Mio padre mi ha parlato di Atena come divinità, creatura immortale e irraggiungibilmente superiore. Che cosa può fare un uomo per proteggere una dea?
«Ma...non è Atena che protegge noi con la sua benedizione dall'alto del monte Olimpo?»
Le labbra di Demyan si assottigliano e gli occhi si spalancano per qualche istante, come se avesse avvertito un dolore improvviso.
«...Sophos non ti ha parlato dello scopo dei Cavalieri?»
«I guerrieri di Atena devono proteggere la speranza nel mondo. Nostro padre ci ha detto questo e sì, ha parlato di persone come Sagitter, ma io...»
Stringo la mano destra sulla sinistra e dopo aver abbassato il capo, serro i denti.
«Io non lo ascoltavo, perché sapevo che in caso di pericolo ci sarebbe stato lui a sistemare le cose. Lui e Sarya...»
 E invece non ho più nessuno dei due accanto. Sono solo in un luogo che non conosco e non so che cosa fare.
«E lui ti permetteva di non prestare attenzione alle sue parole? Uno stolto privo di polso: ecco che cosa è sempre stato il tuo genitore. Ora non mi sorprende più che tu sia uno smidollato. Non differisci molto da lui.»
Le sue parole sono dure e gelide come una lama di ghiaccio. Mi feriscono a fondo andando ad allargare il taglio sanguinante che mi affligge il cuore. Mio padre era il mio grande eroe, l'esempio che voglio seguire. Non era uno stolto e nemmeno uno smidollato: lui era gentile e amorevole.
"La violenza non insegna, le urla non spiegano e i pugni non parlano. Cerca sempre di essere gentile, Inazuma. Usa la forza solo quando non c'è altro modo."
Io credo nelle parole di mio padre e non sarà quest'uomo a farmi cambiare idea.
«Non permetto che si parli così di mio padre.»
Il mio sguardo è deciso, la voce ferma.
«Ho solo detto la verità» risponde. «Ho chiamato uno smidollato senza nerbo con il suo nome.»
«Mio padre non era uno smidollato! Era gentile e saggio!»
«Eppure dai suoi insegnamenti è uscito un figlio imbelle. Evidentemente Sophos del monte Eta non è l'eroe di cui tutto il Grande Tempio parla. Se tu sei la sua eredità, aveva da dare ben poco alla causa per cui diceva di essere votato.»
«Non si vive solo combattendo! Ci sono tante altre cose a cui dedicarsi!» controbatto, alzando il tono di voce.
«Ti sbagli, ragazzino» afferma brusco. «Noi che siamo stati scelti dalla dea Atena non possiamo dedicarci ad altro. Siamo destinati a combattere fino alla fine dei nostri giorni. Combattiamo per coloro che non hanno la forza per farlo, per proteggere i nostri cari e per noi stessi. Ho saputo da Sagitter che tua sorella ha rischiato di morire di fronte ai tuoi occhi e che tu hai utilizzato la forza del Cosmo per proteggerla. Hai superato il livello dei ragazzini della tua età in quel momento e sei riuscito a difendere entrambi.»
«Se non fosse arrivato Angelòs...»
«Sì, hai avuto bisogno del suo aiuto. E questo non ti umilia? Non ti accende di insoddisfazione? Non vorresti essere capace di affrontare la vita da solo?»
«Non sono come Sagitter...Io non ho la sua forza.»
«Ti sbagli ancora. Forse non sarai al livello di uno dei dodici, ma sicuramente puoi fare cose molto più grandi di quelle che immagini.»
Rimango stupito del tono pacato, quasi gentile di Demyan e inevitabilmente le sue parole richiamano un ricordo caro e lontano.
"Hai il potere dell'universo in te, figlio mio, devi solo comprenderlo e capire come utilizzarlo" mi disse mio padre quando compii dieci anni. Io annuii, credendo che le sue parole non fossero importanti, che non mi servissero.
Sposto lo sguardo sui miei pugni sollevati e chiusi.
«In quelle mani hai il potere del Cosmo. Puoi espanderlo fino ai limiti, creare prodigi. Tutto quello che devi sapere...»
Si volta verso l'uscita e la indica.
«Si trova là fuori.»
 Io seguo il suo gesto con gli occhi spalancati e le labbra chiuse. Ricordo il momento in cui mia sorella ha rischiato di morire. Sono riuscito a proteggerla solo grazie al potere del Cosmo, ma l'ho esposta a un pericolo terribile perché non sono stato capace di comandare il mio corpo. Se seguissi il consiglio velato di Demyan e uscissi là fuori, la prossima volta sarei capace di agire per tempo e cancellare il buio con la mia luce splendente, esattamente come Angelòs.
Senza aggiungere altro, Demyan se ne va, lasciandomi solo. Ho ancora tante domande da fare, ma i miei dubbi non saranno chiariti se rimango qui, al buio di questo dormitorio deserto. È giunto il momento di uscire allo scoperto, per questo compio incerti passi fino all'uscita. Il sole di Atene ferisce il mio sguardo e riscalda la pelle. La notte è finita. Non è più tempo di dormire e sognare ricordi.
Mi basta uscire dai dormitori per ritrovarmi di fronte il terreno polveroso dell'arena dove si sono riuniti diversi ragazzi vestiti come me. Alcuni di loro si girano a guardarmi come se i miei passi facciano più rumore del trambusto che comporta una confusa assemblea di giovani. L'attenzione su di me mi mette a disagio. Sorrido timido e nervoso agli sguardi enigmatici, forse ostili di due ragazzini a pochi passi da me.
«Finalmente ti sei deciso a uscire!» mi schernisce uno di loro, mentre mi fissa con un ghigno sulle labbra.
«Pensavamo che non ne avessi il fegato» continua.
«Ho affrontato cinque Spectre, pensi davvero che abbia paura di confrontarmi con ragazzi miei pari?» rispondo.
«Tutti qui ce la siamo vista brutta contro gli Spectre di Ade, quindi non farne motivo di vanto» controbatte. I suoi occhi azzurro scuro mi trasmettono una profonda inquietudine come la sua sola presenza. La sensazione che provo ad averlo vicino è poco diversa da quella che ho avvertito quando gli Spectre ci hanno attaccati.
«Non mi vanto di nulla» lo sfido, sollevando il capo con fierezza.
«Sei tu piuttosto che hai riso di me per primo.»
«Se ho riso di te è perché non sono abituato a vedere un poppante in lacrime nell'arena.»
«Non mi sembra che io stia piangendo.»
«Ah no?»
Mi coglie di sorpresa con un velocissimo pugno allo stomaco che mi costringe a piegarmi in avanti. Rimango senza fiato per qualche istante. Il dolore che provo è lancinante. Lui è un ragazzino come me...dove trova tutta questa forza?
Non faccio in tempo a sollevare lo sguardo che vengo duramente colpito al capo.
«Fratello! Basta! Non ti ha fatto nulla!» irrompe la voce del ragazzo che affianca il mio aggressore. Quest'ultimo ferma il pugno a pochi centimetri dalla mia testa.
«Tutti sanno che è un debole che ha passato tre giorni a piangere come una femminuccia. Perdere tempo in lamenti è una mancanza grave nei confronti della dea e di tutti gli uomini che muoiono ogni giorno per colpa degli Spectre. Vedere cotanta debolezza...mi disgusta.»
Stringe i miei capelli e mi costringe a sollevare il viso, a guardarlo.
«Ringrazia Ertemios, mio fratello. La sua pietà ti ha salvato. La prossima volta che incrocerai il mio sguardo, non sarai così fortunato.»
Mi lascia e mi spinge via, facendomi barcollare all'indietro fino a farmi cadere seduto. Si allontana dopo avermi rivolto uno sguardo di profondo sdegno. Il ragazzino dai capelli castani che era con lui accorre in mio soccorso. Mi aiuta ad alzarmi e, premuroso, mi chiede se sto bene.
Rispondo annuendo, prima di allontanarlo in malo modo da me. Mi pento subito, quando noto l'espressione dolorante del piccolo sconosciuto.
«Scusami» dico con un tono di voce appena udibile. Questo ragazzino sembra il completo opposto di quello che mi ha picchiato. Non so come facciano a essere davvero fratelli. Tendo una mano verso di lui, che esitante la afferra. È più basso e esile di me: mi chiedo come faccia a sopravvivere in un luogo come questo.
«Mi chiamo Ertemios» si presenta, curvando le labbra in un ampio sorriso.
«Inazuma» rispondo io e sorrido, contagiato dalla sua timida allegria.
«Hai un nome strano» mi fa notare.
«In una lingua orientale che ora non ricordo, questo nome significa "fulmine". Mio padre mi raccontò che mia madre scelse questo nome per me. Lei non era nata in terra di Grecia.»
«Suona molto bene! Tua madre ti ha fatto davvero un bel regalo.»
Il mio sorriso si indebolisce al pensiero di quella donna sconosciuta. A pensarci, so pochissimo di lei e questo mi ferisce, anche se non vorrei. Cerco di portare il discorso verso un'altra direzione, ma e Ertemios a riprendere parola.
«Ti chiedo di perdonare il comportamento di mio fratello. Lo so che è stato molto duro, ma lui non è una persona cattiva.»
 Faccio fatica a credere alle sue parole, ma non me la sento di dirglielo, così fingo che non sia accaduto niente e sollevo le spalle a far cenno d'indifferenza.
«I suoi pugni? Sono stati poco più che carezze per me.»
«Sei sicuro, Inazuma?»
Ertemios abbassa lo sguardo, mentre la sua espressione si incupisce.
«Da quando è tornato dall'Isola della Regina Nera, Makarios non è più lo stesso. Un tempo, quando vivevamo a Rodorio assieme ai nostri genitori, lui era felice e sorridente, ancora più di me, ma adesso...»
I suoi occhi si riempiono di lacrime e i primi singhiozzi gli spezzano la voce.
«...Adesso pensa soltanto a divenire un Cavaliere e vendicarsi sugli Spectre che hanno distrutto la nostra famiglia. Ha accettato di sottoporsi allo strenuo addestramento in quel luogo soltanto per questo.»
Ho sentito parlare di quel luogo. Mio padre mi ha raccontato delle condizioni climatiche invivibili e dell'oscuro segreto che si cela ai piedi del vulcano attivo che mai smette di eruttare. "All'inferno si trova un dono splendido. La dea lo ha lì posto per rendere impervia la strada verso un potere incommensurabile."
«Tu dove sei stato addestrato, Inazuma?»
«Io?» chiedo, in difficoltà. Non sono stato addestrato da nessuno.
«Be'...io non ho ancora...»
«Significa che tu...non sei stato addestrato?»
 Per celare l'imbarazzo, mi lascio andare a una tanto breve quanto squillante risata.
«Io non ne ho bisogno!»
«Sei sicuro?»
«Ma certo! Io sono già forte! Tuo fratello mi ha colpito perché non ero pronto! È stato un attacco a sorpresa! Credimi, se ci fossimo confrontati in un duello, avrei vinto utilizzando solo un dito.»
 Lo sguardo incredulo di Ertemios mi fa rendere meglio conto delle idiozie che ho appena detto e le sue parole mi smontano immediatamente.
«Ma...Tu sai già a quale costellazione appartieni, anche senza l'aiuto di un maestro?»
«Costellazione?»
«Sì! Ogni armatura che Atena affida ai suoi Cavalieri rappresenta una costellazione. Le stelle di quest'ultima guidano e proteggono il guerriero. Io per esempio sono in lizza per l'armatura di bronzo di Andromeda. Mio fratello per quella della Fenice, Nikanor per quella del Cigno e Rhadia per quella del Drago, uhm...poi c'è Aho che si è allenato per ottenere quella del Lupo...»
«Aspetta! Tutto questo che significa?»
  - Addirittura Esperante concorre per l'armatura d'oro del Leone. Incredibile, vero? Ha la nostra età ed è già pronto a diventare uno dei Dodici.»
«Armature? Spiegami! Non ti seguo!»
«Inazuma, sei al Grande Tempio e non sai nulla delle armature?» chiede Ertemios interdetto dallo stupore.
«Io...»
  Devo ammettere la mia mancanza, non ho scelta. Ho sempre fatto fatica ad arrendermi alle sconfitte di questo tipo. Tanto con Sarya, quanto con mio padre, ho sempre voluto avere l'ultima parola.
«Non so niente di tutto questo. Se fosse stato per me, sarei rimasto volentieri sul monte Eta.»
Ertemios non mi degna di alcuna risposta. Lui come tutti gli altri ragazzi si volta verso le gradinate di pietra che circondano l'Arena.
  «A...Atena!» sussurra, rapito da un moto di ammirazione e sorpresa. Io assottiglio lo sguardo in modo da renderlo più acuto. Sulla gradinata più alta distinguo una ragazza dai lunghi capelli dall'insolito colore viola come i petali di un fiore. Indossa una lunga veste bianca che copre il suo corpo fino ai piedi. Stringe nella mano destra uno scettro d'oro, acceso dalla luce del sole. È giovane, forse ancora più di me. Una ragazzina. Come può trattarsi di Atena? Mio padre l'ha sempre descritta come una donna meravigliosa e inflessibile, una solenne divinità maggiore.
Non è sola: al suo fianco si erge un uomo alto, coperto da un'ampia tonaca scura. Il suo capo è coperto da un pesante elmo che non lascia vedere neppure gli occhi. I lunghi capelli rossi che da esso evadono, danzano al vento caldo di Atene.
«Guerrieri qui riuniti» inizia la ragazza. «Chiedo venia per non essermi presentata prima di fronte ai vostri occhi. La strada è stata irta di pericoli anche per me. Le forze oscure hanno provato a porre fine alla mia nuova vita, nata nell'inferno di Tracia. Sono riuscita ad arrivare di fronte a voi grazie a innumerevoli sacrifici di uomini e donne che hanno affidato i loro sogni alla speranza che incarno.»
La ragazza si inginocchia a terra e posa il pesante scettro al suo fianco. Si china poi, finché la fronte non preme contro la pietra riscaldata dal sole.
«Chiedo scusa a tutti voi» la sua voce si fa tremula a causa del pianto. «che avete abbandonato le vostre dimore, impauriti e feriti da aggressori letali, cacciatori di vita. Chiedo scusa a tutti voi che siete stati costretti a dure prove per saggiare il vostro spirito guerriero, chiedo scusa a tutti voi che mi avete donato fiducia senza chiedere nulla in cambio.»
Il suo pianto si fa più disperato e le impedisce di continuare io discorso. L'uomo al suo fianco si inginocchia e posa una mano sulla sua schiena. Non dice niente, ma basta il suo gesto per placare la disperazione di lei. Si alza poi in piedi e tende una mano alla ragazza e una volta che lei gliela afferra, la aiuta a sollevarsi in piedi.
«Non ho dimenticato tutto quello che avete fatto per me» riprende lei, solenne. «Sono pronta a qualsiasi cosa pur di far trionfare la giustizia, pur di restituire ciò che vi è stato tolto a causa mia.»
Belle parole le sue, peccato che i morti non ritornino in vita. Ciò che abbiamo perso tanto io quanto, Ertemios, Makarios, Sarya...non ritornerà nemmeno grazie a questa bambina che si atteggia da dea.
«Lo so che ora sembra impossibile, ma la luce non teme l'ombra, mai! Io non temo Ade, perché non può sconfiggermi e non potrà farlo nemmeno con voi.»
All'unisono si innalzano le voci degli uomini radunati nell'arena, si uniscono in una semplice frase, quasi fosse un grido di trionfo:
«Per Atena, per la speranza, per la giustizia!»
 La folla si distanzia dalla gradinata e costringe anche noi a fare diversi passi indietro. Si distribuisce ai lati di un camminamento immaginario che attraversa tutta l'arena, sul quale sfilano solenni e pacati i guerrieri dorati. Non sono dodici, ma soltanto otto. Riconosco Angelòs e Demyan, che sono affiancati da due ragazzini. Uno e Nikanor e cammina al fianco del suo maestro, mentre quello che affianca Sagitter mi è completamente sconosciuto. Passa a pochi metri da me e mi dà modo di guardare bene il suo viso. È molto simile a quello di Angelòs, soltanto che la sua espressione è dura e inflessibile. I suoi occhi sono più chiari e i capelli biondi. Si accorge che lo sto fissando e accenna un sorriso. Non so ben dire se esprime pietà o semplice educazione.
Una volta salita la gradinata, gli otto Cavalieri d'Oro rendono omaggio alla ragazza e si dispongono un po' alla sua destra, un po' alla sua sinistra. Solo Sagitter e Demyan si fermano di fronte a lei.
«Questo è Nikanor, natio di Ural, primo allievo di Demyan dell'Acquario. Dopo un lungo allenamento nelle più fredde terre del mondo, egli è riuscito a riportare in terra di Grecia le vestigia del Cigno. Non è ancora pronto all'investitura, ma ben presto lo sarà, dea Atena.»
La ragazzina è più presa a salutare Nikanor che ad ascoltare le parole altisonanti del suo maestro. Demyan dell' Acquario... Ma certo! Ho capito come funziona.
«E lui è Esperante, mio fratello minore» prende parola Angelòs. «Egli compete con i suoi stessi limiti, qui, nel sacro suolo di Atene, per ottenere l’armatura d'oro del Leone. Comprendo che la sua giovane età potrebbe portare a qualche perplessità, però...»
«Nessuno mette in dubbio il tuo giudizio, Angelòs» lo rassicura l'uomo al fianco di Atena.
«Vi ringrazio della fiducia, Grande Sacerdote.»
Grande Sacerdote...Ho già sentito questa formalità, ma non ricordo a che proposito. Sono troppo occupato a osservare i Cavalieri d'Oro. Se Angelòs è il Sagittario, Demyan l'Acquario, allora assieme agli altri rappresentano le dodici case dello zodiaco!
«Quindi loro sono i Cavalieri delle dodici case!» affermo, richiamando l'attenzione di Ertemios. Lui annuisce e sorride.
«Esatto! Partendo da sinistra...»
 Indica il Cavaliere dai lunghi capelli folti e biondi. I suoi occhi sono grandi e tranquilli, di un profondo colore castano, rosso se illuminato dal sole. Egli indossa un'armatura d'oro molto pesante e il dettaglio che più mi colpisce e la coppia di corna ricurve che si estendono dal coprispalle al pettorale.
«Quello è Dhiren dell'Ariete. Presiede alla prima casa, l'edificio che si trova laggiù, lo vedi?»
 I miei occhi si spostano dalla figura del Cavaliere d'Ariete fino al tempio che Ertemios mi ha indicato. Noto che è soltanto il primo posto ai fianchi di un cammino che si inerpica sullo sperone di roccia che conduce alla gigantesca statua di Atena, posta sulla sua sommità. Li conto. I templi sono dodici, no, tredici.
«Tredici...case?» chiedo confuso.
«Non sono tredici case, irrispettoso! Il tempio vicino alla statua di Atena racchiude le stanze del Grande Sacerdote.»
 Non è stata la voce di Ertemios a rispondermi, ma quella di qualcun' altro alle mie spalle. Mi volto per identificarlo.
«E tu chi sei?» chiedo al ragazzo che mi ha appena parlato. È più alto di me. I lunghissimi capelli neri scendono ordinati e lisci attorno al suo viso. Ha gli occhi verdi come uno profondo e cheto specchio d'acqua.
«Il mio nome è Rhadia, sono il futuro Cavaliere della costellazione del Drago» mi risponde. La sua espressione trasuda spocchia e un senso di superiorità che mi dà sui nervi.
«E dovresti portarmi immenso rispetto, visto che io sono l'allievo del Grande Sacerdote!»
«Non sono molto attento alle gerarchie. Sono stato educato a considerare gli uomini tutti uguali.»
La mia affermazione lo fa sorridere. Scuote il capo e si lascia andare a un sospiro.
«Mi arrendo... È proprio come dice Nikanor: sei un completo inetto.»
Inetto? Io? Sono stanco di essere trattato in questo modo. Digrigno i denti come un animale furioso e alzo il pugno destro. Ho la bocca già aperta, ma non faccio in tempo a parlare che Rhadia scoppia a ridere.
«Abbassa quel pugno. Non cerco lite, amico!»
Il suo tono di voce è radicalmente cambiato. Ora sembra affabile e comprensivo.
«Il mio maestro mi ha mandato a chiamarti. Vuole vederti.»
«Per quale motivo?» chiedo, stupito.
«Seguimi e basta. Sarà lui a spiegarti ogni cosa alla fine della cerimonia della manifestazione di Atena.»
Rivolgo un ultimo sguardo agli otto guerrieri dorati. Mi sarebbe piaciuto conoscere anche i nomi degli altri, ma mi preme di più capire che cosa voglia dirmi questo Grande Sacerdote. Seguo Rhadia tra la folla, urtando di volta in volta qualche presente che mi rivolge uno sguardo torvo in risposta.
Dall'arena, la gradinata sembrava molto più vicina. Iniziamo a salire solo dopo svariati minuti e Rhadia mi intima di fermarmi a più di una decina di metri dal Sacerdote e la ragazza. Uno dei guerrieri dorati ci guarda di sottecchi, con le labbra irrigidite.
«Non lo fissare» mi suggerisce Rhadia in un sussurro.
«Perché?»
«È meglio così.»
 Protesterei della sua mezza risposta, se non fossimo così vicini al Cavaliere che non smette di fissarmi. I suoi lunghi capelli bianchi hanno riflessi azzurri, come se fossero di vetro. Gli occhi sono dello stesso colore e il suo sguardo è reso più perforante dalle lunghe ciglia. L'unica imperfezione sulla sua pelle è un piccolo neo sotto l'occhio sinistro. Le sue labbra perfettamente definite da una tonalità più scura e calda, simile a quella dei petali di una rosa, si curvano in un sorriso che spiazza tanto me quanto Rhadia.
Ricambio per educazione, dopodiché imito la mia guida e mi volto verso l'arena, rimanendo in assoluto silenzio.
«Chi è quello?» non riesco a trattenere la curiosità.
«Quello è Narciso, Cavaliere d'Oro della costellazione dei Pesci. Tra i Dodici è il più bello e pericoloso. Dicono che sia figlio illegittimo di una sacerdotessa di Afrodite, che, morta di parto ha affidato suo figlio alla cura diretta della dea. Bellissima ma volubile e capricciosa, quest’ultima lo ha abbandonato in un giardino di rose velenose, in attesa che proprio l’odore di quei petali dannati lo soffocasse. Non si sa come si sia salvato, ma Narciso ha attribuito la sua salvezza alla dea Atena e al suo Cosmo benevolo. Tuttavia il maestro dice che i suoi pensieri sono un mistero anche per la dea.-
Narciso si discosta dalla sua posizione, attirando l'attenzione di Demyan e Nikanor a lui poco distanti.  Ci raggiunge, fermandosi a un passo da noi. Una delle sue mani si posa sul mio capo e lì lascia una carezza, per poi chinarsi e portare lo sguardo al mio livello. Ancora un sorriso, più deciso del precedente che tuttavia segna il momento del suo congedo. Ci supera e si allontana, lasciando la gradinata per poi mescolandosi alla folla. Seguo la sua immagine scintillante fino a quando non è troppo lontana.
«Al contrario di me...sembra che tu gli sia simpatico» commenta Rhadia. Non sono granché persuaso dalle sue parole, ma non mi sembra il caso di commentarle: la ragazza sta ancora parlando e il peso dello sguardo di Demyan dell'Acquario mi fa sentire in colpa per non ascoltarla. Non so che cosa abbiano i suoi occhi che riescono sempre a mettermi soggezione. Cerco di tornare a concentrarmi sul discorso della presunta dea, ma è troppo prolisso, celebrativo, noioso. Non vedo come facciano tutte queste persone ad ascoltarla senza distrarsi. Pendono dalle sue labbra! Mi rallegro di non essere l'unico che non segue. Anche Esperante ha lo sguardo altrove e con una mano copre un lungo sbadiglio. Si accorge che lo sto guardando e mi saluta con il cenno. Un'occhiataccia di Angelòs lo paralizza, ma solo per qualche istante, dopodiché sbuffa annoiato. Il guerriero alto e imponente che si trova al suo fianco, cerca di mitigare Sagitter con un sorriso indulgente. I suoi capelli neri fuoriescono dal pesante elmo dorato. Il suo corpo simile a quello di un gigante dei miti è ricoperto da una corazza dorata che lo rende ancora più imponente.
«Rhadia...» inizio.
«Vuoi stare zitto?!?» mi taccia lui.
«Volevo chiederti il nome del guerriero dorato al fianco di Angelòs.»
«E va bene! Te lo dirò se poi starai zitto!»
«Promesso!»
«Lui è Aldebaran, il Cavaliere del Toro. È la difesa più forte del Grande Tempio. Ha addestrato molti guerrieri che sono diventati Cavalieri d'Argento. È stato uno dei primi ospiti del Grande Tempio e si dice che la sua forza titanica abbia respinto persino un Giudice degli Inferi.»
«Un Giudice degli Inferi?»
«Il mio maestro mi ha insegnato che, al contrario di noi Cavalieri, gli Spectre non abbiano una gerarchia, ma le cento otto stelle malefiche sono suddivise in tre armate e gestite da tre Spectre di incommensurabile potenza. Questi tre sono i Giudici degli Inferi e sottostanno soltanto alla volontà di Ade in persona.»
«E lui...ne ha sconfitto uno?»
«Sì. Solo con le sue forze. Il nobile Aldebaran è straordinario.»
«Un'altra cosa, Rhadia...»
«Mi avevi promesso che saresti stato zitto!»
«Sì, lo farò, ma dimmi chi sono gli altri. Ertemios mi ha parlato del Cavaliere dell'Ariete, ma oltre a Sagitter, Pesci, Toro e Acquario, non so altro.»
Il silenzio che cala tra me e lui mi fa intendere che non soddisferà la mia curiosità. Sono entusiasta di sentirlo parlare subito dopo.
«E va bene! Ma se verrò ripreso ti darò la colpa!»
«Ci sto.»
 Dopo un lungo sospiro e un veloce sguardo verso Demyan, Rhadia riprende:
«I Cavalieri presenti che ancora non conosci sono Siddharta della Vergine, Vermiglio dello Scorpione e Aspera del Capricorno. In realtà c'è anche un altro Cavaliere d'Oro ed è il mio maestro: Hosoku della Bilancia, ma andiamo con ordine.
Siddharta è una leggenda per il mondo intero. Dicono che faccia da ponte tra il volere degli dei e le azioni degli uomini. I suoi lunghi capelli biondi furono un presagio sin dalla sua nascita. Il popolo indiano è caratterizzato da occhi e capelli scuri, nonché pelle ambrata, mentre lui nacque pallido e biondo. La sua gente lo considerò da subito la reincarnazione del Buddha, l’Illuminato, l’uomo che dopo un’intensa meditazione, giunse alla verità dell’universo. Non so come sia arrivato fino ad Atene, ma secondo il mio maestro è stato attirato dalla preghiera della dea Atena.
Nessuno lo ha mai visto aprire gli occhi, ma è risaputo che nonostante le palpebre abbassate riesca a leggere nei recessi più profondi delle anime di coloro che ha di fronte.»
I miei occhi cercano velocemente il volto di Siddharta. Ha le labbra curve in un controllato sorriso. Si è voltato verso di noi. Che abbia sentito le nostre parole?
«Sicuramente si è accorto della nostra attenzione. Privandosi della vista, riesce a percepire i suoni e persino il peso degli sguardi.»
«È impressionante.»
«Tutti i Cavalieri d'Oro lo sono. Anche l'impavido Aspera, il Capricorno. È colui che ora si erge alla sinistra di Demyan.»
È un uomo alto, dal fisico prestante e la pelle leggermente scurita dal sole. Ha gli occhi azzurri, sottili e allungati, penetranti come una lama, i capelli neri e voluminosi, compressi dall’elmo che lascia scoperto soltanto il viso. È l'unico che non ha mai voltato lo sguardo verso di noi.
«Dicono che fosse un grande condottiero della Polis di Sparta e che abbia combattuto da solo contro più di cento guerrieri persiani. Stremato dalla lotta, dopo la vittoria, crollò in un sonno profondo, simile alla morte. Il dio del sonno, Hypnos in persona, provò a strappargli la vita agendo nel terribile incubo in cui lo aveva trascinato, ma la dea Atena protesse quel guerriero tanto valente, purificando i suoi sogni, dopo avergli strappato la promessa di porre le sue abilità di spadaccino ai suoi servigi. Al suo risveglio, invece di ritornare alla violenta Sparta, egli si incamminò verso Atene. Una volta diventato Cavaliere d'Oro, ricevette dalla dea il dono della sacra spada Excalibur, una lama il cui taglio è racchiuso nel braccio destro di Aspera. Lui è un uomo inflessibile e austero, ma foriero di immenso orgoglio. Ha tutta la mia ammirazione.»
«Un uomo che combatte da solo contro cento avversari per proteggere la sua patria ed è pronto ad abbandonare onori e trionfo per seguire Atena...»
«Sì. Il suo è stato un gesto di estrema fiducia. Ha rinunciato a tutto per essere al nostro fianco. Lo stesso è stato per Vermiglio. Non ha una storia così epica alle spalle, non era un grande eroe, ma lo è diventato. Egli viene dalle calde terre ispaniche, là dove il mondo finisce. Il nascente impero di Roma lo strappò dalla sua famiglia, gli tolse il nome e lo ridusse a essere uno schiavo. Divenne un gladiatore e visse per quasi dieci anni passando da un padrone all'altro. Era molto amato e richiesto dalle folle, poiché combatteva senza armi. Da quanto narrano le cronache, Vermiglio può uccidere con un dito. Fu Demyan a incontrarlo durante uno dei suoi viaggi e a liberarlo dalla schiavitù.
Vermiglio ha un carattere sorprendentemente amichevole, anche se i suoi occhi blu spesso si perdono e si tingono di malinconia. È il Cavaliere che si trova al fianco della dea, quello con i capelli scarmigliati, del colore della sera.»
È vero, nonostante il sorriso sicuro sulle labbra, i suoi occhi sembrano non guardare a ciò che ha di fronte. Quando le righe si spezzano e i guerrieri dorati si congedano dalla ragazzina, Vermiglio si avvicina a noi e, dopo aver salutato Rhadia quasi fosse un suo congiunto, si sofferma a osservarmi con attenzione.
«Il figlio di Sophos. Dovresti essere Inazuma.»
«Sì.» confermo, annuendo energicamente. Vermiglio indica gli altri Cavalieri d'Oro alle sue spalle con il pollice destro.
  «Non fanno altro che parlare di te. Mi hanno messo una profonda curiosità di conoscerti di persona.»
Il diadema d'oro che gli ferma i capelli si sposta, tintinnando alle carezze del vento, attirando la mia attenzione anche se solo per un istante.
«Proprio come avete detto, signore, io sono Inazuma, figlio di Sophos.»
Mi gratto la nuca con la mano destra e ridacchio imbarazzato.
«Devo chiedervi scusa, ma non so quasi niente di come funziona questo luogo e da quando sono uscito dal dormitorio ho fatto un brutta figura dietro l'altra!»
«Non c'è uno schema da seguire quando ti trovi qui dentro. È normale fare pessime figure, ragazzo. Nemmeno io le risparmiai quando arrivai qui. Non lasciarti impressionare dalla freddezza di questi bellimbusti. In fondo sono stati spaventati anche loro, hanno avuto paura e hanno sbagliato.»
La sua mano è rassicurante sulla mia spalla. Mi strappa un sorriso.
«Cercherò di migliorare, signore!»
«Smettila di chiamarmi così. Chiamami Vermiglio e basta.»
 Dopo avermi dato una pacca leggera su di una spalla, si congeda da noi e esattamente come ha fatto Narciso, si allontana tra la folla che è tornata a essere disordinata e rumorosa.
Anche gli altri guerrieri dorati hanno abbandonato il fianco della ragazza ad eccezione di Siddharta e Dhiren. Il Grande Sacerdote mi invita ad avvicinarmi e io obbedisco senza battere ciglio, accompagnato da Rhadia. Mi fermo a fianco della ragazzina che in silenzio mi scruta. Il suo atteggiamento mi imbarazza e mi fa arrossire. I suoi occhi, visti da vicino, sono la cosa più bella che io abbia mai visto in vita mia.
«Inazuma!» tuona la voce del Grande Sacerdote io subito mi volto verso di lui. Mi inchino goffamente, suscitando l'ilarità di Dhiren.
«Sì! Signore!»
 Ho le guance che mi vanno a fuoco dalla vergogna. Tutti gli insegnamenti sull'eleganza che ho ricevuto da mia sorella sono andati in fumo.
«Non essere così formale. Mi fai sentire vecchio.»
Anche la ragazza ride di una risata cristallina.
«Non stiamo tenendo un discorso ufficiale» continua il Grande Sacerdote.
«Ti ho convocato qui per spiegarti il tuo ruolo in questa guerra sacra.»
 Annuisco deciso, rivolgendo di volta in volta sguardi fugaci verso la ragazza che, curiosa, non mi toglie mai gli occhi di dosso.
«Non qui, Hosoku.» dice Dhiren a voce bassa, per poi indicare l'arena con un cenno del capo. Il Grande Sacerdote annuisce alle parole del Cavaliere dell'Ariete, dopodiché si rivolge a me.
«Saliamo presso le mie stanze, Inazuma. Intendo mettermi comodo.»
«E tu non saresti vecchio?» ironizza Dhiren.
«Ah! Smettila!»
  Al seguito del Grande Sacerdote, scendiamo dalla gradinata di pietra fino all'arena. La percorriamo velocemente fino all'uscita che dà sul sentiero che si inerpica tra le dodici case, fino al tempio di Atena. I templi che attraversiamo sono aperti al nostro passaggio, ma il Cosmo dei loro guardiani è vigile e pesante. Approfitto della lunga strada per iniziare una conversazione con la ragazza. In realtà è lei che mi chiede il motivo del mio nervosismo all'interno della terza casa.
  «Il nobile Castore è lontano, ma comunque protegge la casa dei Gemelli. Il suo è un potere immenso, ma benevolo. Perché mai ne sei turbato?»
«Ma no...non sono affatto preoccupato! È solo che... Sapete...io...Non sono abituato a questo tipo di sensazione. È come se le mura, l'aria stessa, volessero schiacciarmi.»
«Non lo faranno. Tu non sei a lui ostile.»
 Il suo tocco su una mia guancia cancella tutta l'angoscia che ho provato finora. Vengo avvolto da una luce calda e rassicurante. Un Cosmo immenso e benevolo.
«Tu sei...» mi esce dalle labbra.
«Eirene. Il mio nome è Eirene. Vorrei che mi chiamassi così. Tutti mi chiamano Atena ormai...»
Tanto io che lei allentiamo il passo,  mettendo maggiore distanza tra noi e gli altri tre.
«Forse è giusto così, però ad essere sincera non mi dispiaceva la vita che avevo prima che la guerra contro Ade scoppiasse di nuovo. Non ho memoria dei miei genitori, ma rimembro il volto di una donna che mi crebbe facendomi da madre. Era una persona buona che per colpa mia si è perduta. Anche lei, inconsapevolmente ha pagato il fatto di aver amato la reincarnazione di Atena. Tutti quelli che mi sono accanto rischiano di perdere loro stessi. Soffro molto per questo e il fatto che tutti mi chiamino "Atena" non fa che rendere chiaro quanto io non riesca a proteggere gli uomini e la speranza che incarno. Però... allo stesso tempo so di essere l'unica persona capace di unirvi tutti per far fronte alla distruzione che vi divorerebbe se vi trovasse soli e divisi. È bello vedere persone così diverse, alleate per realizzare un unico sogno.»
Non ero sicuro che quello intrapreso fosse il cammino giusto, ma le parole di Eirene, il suo Cosmo maestoso e amorevole, mi hanno convinto che è questo il mio posto. La sua presenza mi rende sicuro di poter fare ogni cosa. Sarya non mi sembra ora troppo lontana. La sento qui con me, esattamente come avverto il calore della presenza di mio padre.
«Non so ancora come farò, però sarà un onore divenire un tuo guerriero, Eirene.»
Lei ricambia le mie parole con uno dei sorrisi più belli che io abbia mai visto, anche se esso dura poco. Il suoi occhi si spalancano, le labbra si schiudono. C'è un sibilo che tortura anche il mio udito. È lontana, ma sembra una voce di donna. Un canto riecheggia per tutta la casa dei Gemelli.
Dhiren e il Grande Sacerdote hanno ci hanno raggiunto e si sono posti a difesa mia e di Eirene.
«Un canto macabro sta interferendo con il Cosmo di Castore» afferma Dhiren, «rendendo penetrabile la barriera della Terza Casa. Sta aprendo una frattura dimensionale!»
Sembra che lo spazio venga contorto, tanto che il mio corpo avverte una pressione esagerata. Di fronte a noi si è aperto uno squarcio, all'interno del quale vedo soltanto il buio. Da lì giunge ora più sonoro il canto ammaliante di una donna.
«Mostrati, chiunque tu sia!» grida il Grande Sacerdote.
Non riceve risposta, ma dalla frattura dello spazio esce un braccio rivestito di un'armatura nera. Le dita culminano in artigli lunghi e metallici che rilucono alla luce delle fiaccole. Segue subito l'altro braccio e poi il capo, il busto. Metà corpo di un essere umano è sospeso tra la dimensione reale e l'altra. Egli solleva il capo. La fronte e le tempie sono protette da un elmo leggero, dalle forme taglienti. Sulla schiena spunta una coppia di ali di pipistrello, taglienti e luccicanti come il resto dell'armatura. I lunghi capelli, lisci e neri coprono ancora il viso dell'intruso. Quando solleva il viso, ci mostra lo sguardo completamente nero: pupille e sclere sono dello stesso colore. Le labbra non riescono a nascondere la dentatura acuminata.
«Mi chiamo Oto della Succube, della Stella della Terra Ombrosa. Consideratemi la vostra fine. La testa di Atena sarà mia!»
La risata del Grande Sacerdote squarcia il velo di stupore che ha immobilizzato i nostri corpi finora.
«Con chi credi di avere a che fare? Non avremo difficoltà a liberarci di dieci, cento insetti tuoi pari!»

 

ECATE

 
Finalmente, anche se debole, riesco a tirarmi sui gomiti in modo da poter seguire meglio il confronto tra Castore e Efialte. Vedo il secondo piegare le ginocchia preparandosi allo scatto. Il suo corpo è avvolto da una abbagliante luce violacea che brilla più intensamente nel momento dello scatto. L'impatto del pugno destro di Efialte si scontra con il palmo sinistro di Castore, il quale non sembra aver subito nemmeno lo spostamento d'aria che ha colpito anche me.
Il viso del guerriero con l'armatura nera non mostra la benché minima traccia di sorpresa. La sua espressione cambia quando le dita di Castore si serrano sul suo pugno.
«Allontanati immediatamente da me, creatura indegna» tuona Castore, per poi portare la mano libera all'altezza dell'addome dell'altro. La luce dorata che irradia dal combattente dorato divampa in un istante, lo stesso in cui Efialte viene respinto per decine di metri. Il suo schianto produce un rumore dirompente che mi fa ben sperare che anche il suo corpo si sia frantumato con le mura dell'edificio che ha distrutto. Le donne sistemate nelle case vicine, escono in strada spaventate. Come uno stormo di disperate, sciamano nella direzione opposta alla nostra posizione.
Castore non presta loro attenzione, piuttosto si volta verso di me e con passi pacati mi raggiunge. Senza dire una parola mi aiuta ad alzarmi in piedi e mi sostiene, visto che il mio passo è troppo malfermo.
In tutta la mia vita non sono mai stata così vicina ad un uomo. Nessuno si era mai permesso di toccarmi, poiché le regole della mia carica lo proibivano. Avevo consacrato la mia vita a Ares e nell'ingenuo cuore di fanciulla ero convinta che quel dio tremendo e sanguinario scendesse dall'Olimpo per me. Solo lui avrebbe potuto toccarmi.
Rido appena a quel ricordo sciocco, suscitando la curiosità di Castore.
«Cosa ti fa ridere, forestiera?»
«Un ricordo. Niente di importante.»
  Le sue braccia si allontanano da me e con esse il calore della sua presenza. Il vento caldo sembra una lama fredda sulla pelle nuda delle mie braccia. Lo guardo, quando sono sicura di non dover incrociare i suoi occhi. L'espressione accigliata, le labbra perfette, assottigliate dalla concentrazione, lo sguardo tagliente: il fascino inspiegabile che il suo viso esercita su di me torna a torturarmi.
«Possiedi il potere del Cosmo» sentenzia. «Non dovresti sprecare tale dono.»
«Cosmo?» chiedo stupita. «Che cosa sarebbe?»
«Il potere che ti avvolge ed esplode quando desideri colpire il tuo avversario. Il Cosmo...»
 Dopo essersi voltato verso di me, piega un braccio e distende le dita della mano. Al centro del palmo si crea una sfera indefinita di luce dorata che in un primo istante mi ferisce lo sguardo.
«È l'eredità di Atena e tu la possiedi.»
«E questo che cosa dovrebbe significare?»
«Chiunque abbia ereditato il potere di dominare il Cosmo...»
Castore stringe il pugno, compie una mezza rotazione sul piede destro fino a darmi le spalle. Porta tutte e due le mani verso l'alto, con i palmi rivolti verso di me, incrociando le braccia all'altezza dei polsi.
«Deve difendere la giustizia e la speranza incarnate dalla dea Atena!»
Odo un rumore distante di terra frantumata unito al boato di un'esplosione di immane portata. È solo un eco, forse un'illusione, sta di fatto che il mio essere è soverchiato da un potere immenso che però svanisce in pochi istanti. Sento un lamento appena percettibile uscire dalle labbra di Castore. Nonostante il passo incerto raggiungo il suo fianco. I suoi occhi...I suoi occhi lacrimano sangue! I rivoli rossi evadono anche dalle narici e le labbra. Il corpo del guerriero dorato è scosso da un tremito.
Le macerie poco lontane dell'edificio crollato si spostano e ricadono su sé stesse, creando una nube di polvere. Da essa emerge Efialte. La corazza che indossa è incrinata all'altezza dell'addome.
«Il canto della Lamia è più efficace se si concentra su un solo soggetto. I vasi sanguigni cedono alle vibrazioni che il suo potere produce e...»
Efialte allunga un braccio verso Castore. Tende l'indice in sua direzione e, sfidando la forza di gravità, il sangue che esce dalle ferite del guerriero dorato, fluisce in rigagnoli sospesi fino a raggiungere il dito disteso.
«Il sangue scorre, ridà vigore e forza al mio corpo, cura le mie ferite. La Lamia è un demonio che si nutre del sangue degli esseri umani dopo averli incantati con il proprio canto. Adora cacciare tra gli impavidi.
Ritieniti fortunato, Castore, diventerai parte di qualcosa di molto più grande, di uno degli Spectre più potenti del Sommo Ade! Non ti piace l'idea? Mh?»
Lo perdo di vista subito dopo il suo discorso. I suoi spostamenti sono così rapidi che i miei occhi non riescono a seguirlo. Lo vedo riapparire a poca distanza da Castore e quindi da me. Colpisce con un pugno l'addome del suo nemico paralizzato, il quale non può fare altro che esprimere il dolore attraverso un lamento. Lo spostamento d'aria che deriva dal colpo mi spazza via, visto il mio equilibrio precario. Riesco però a cadere sui piedi e a fermarmi, piegando le ginocchia e artigliando il terreno.
«Ah, dimenticavo. Non puoi parlare. Difendere la Terza Casa e te stesso allo stesso tempo non è cosa da poco. Sei Cavaliere d'Oro, forse il più forte, ma non puoi niente contro la Lamia. La sua voce può uccidere anche un Dio.»
La mano destra di Efialte si avvicina al volto di Castore. Le dita artigliate si protendono verso il suo occhio sinistro.
«Non mi piace il tuo sguardo, perché anche se soffri...mi sfidi.»
Un grido prolungato cancella il tono divertito di Efialte. Lo vedo stringere la mano sul suo stesso polso. L'armatura che copriva le dita e la mano si sgretola, diventando un piccolo cumulo di polvere che si disperde al vento. Egli arretra, gridando al dolore con quanta più voce ha in corpo, mente le dita delle mani di Castore tornano a distendersi.
«Esplosione Galattica!» tuona la sua voce affaticata ma solenne. Le luci dell'alba si spengono attorno a noi. Il rombo della terra che si frantuma stravolge il mio udito. Il pavimento trema mentre il cielo stellato sembra collassare su di lui in un'esplosione di stelle. La luce mi acceca, mi costringe a proteggere il viso con le mani e a rannicchiarmi qui dove mi trovo. Ho paura ma allo stesso tempo sono affascinata dalla potenza del cataclisma creato da un solo uomo.  Le grida di Efialte sono niente vicino al roboante rumore che mi impedisce di percepire qualsiasi cosa. Tutto questo dura soltanto degli istanti, che tuttavia durano un'eternità. Quando riapro gli occhi, noto che gli edifici ormai deserti sono stati spazzati via come sculture di sabbia. Castore si erge in piedi di fronte a me. Non sembra risentire minimamente delle conseguenze del colpo che ha trasformato in deserto un'area di centinaia di metri quadri. A poca distanza da lui, a terra, si contorce Efialte, spogliato della corazza di cui non rimangono altro che frammenti sparsi attorno al suo corpo.
«Sangue...ho bisogno di...sangue...»
«Accontentati di quello che hai già avuto» afferma Castore mentre si avvicina a lui. Una volta che lo ha raggiunto preme il piede sinistro sul suo petto, con forza, costringendolo a gridare di dolore.
«E torna nell'Averno. Lì portai omaggiare il tuo dio con i miei ossequi.»
«Godi della tua vittoria, Cavaliere dei Gemelli... non durerà molto... Il mio compito primario era quello di farti abbassare la guardia e spianare la strada a mio fratello...»
A quelle parole, Castore riporta il piede a terra e dopo essersi chinato, afferra Efialte per la casacca strappata che gli copre il busto.
«Che cosa intendi?»
«Il Grande Tempio gode di una barriera che tu...hai costruito e il nostro signore...ha trovato il suo punto debole. Le illusioni che ingannano persino gli dei sono tanto più forti...quanto più eludibili...nel punto in cui sono state create...»
«La Terza Casa!»
«Presto...mio fratello...»
  Non finisce la frase, poiché con un gesto veloce e preciso della mano destra ferisce il viso di Castore a pochi centimetri dall'orecchio destro. Il sangue che esce dalla ferita risale velocemente lungo il braccio di Efialte. La risposta del Cavaliere dei Gemelli è fulminea. Un pesante pugno prova ad abbattersi sul suo avversario, ma colpisce soltanto il terreno. Il corpo di Efialte è mutato in una nebbia fastidiosa e violacea che gli aleggia attorno. Le mie ferite bruciano e si riaprono. Anche il mio sangue fluisce fuori da esse, sfida la gravità e si innalza in rigagnoli sottili verso il punto in cui il pulviscolo è più scuro.
«Dannazione!» grido, nel tentativo di tamponare le ferite al braccio destro, che da relativamente piccole, si stanno allargando.
«Puoi bruciare tutto il Cosmo che vuoi, Castore. La tua forza non può colpire la nebbia. Nemmeno la frantumazione delle galassie può uccidermi» echeggia la voce di Efialte, attorno a noi, suscitando una strana ilarità nel Cavaliere d'Oro.
«Che cosa c'è da ridere?» chiedo, alterata.
«Un ricordo. Niente di importante.»
Mi rimanda la stessa frase che ho detto io poco fa e mi fa arrabbiare ancora di più. Non è il momento di farsi beffe di me.
«Non spiega niente!» protesto.
«È una risposta evasiva come quella che mi hai dato tu poco fa.»
«È una vendetta? Ti sembra il caso di irridermi?»
«Sì, e tra poco comprenderai il perché.»
Il motivo per cui odio le risposte criptiche è che riescono ad accendere un'insanabile scintilla di curiosità in me. Perfetto. Per quanto odi farlo, sto al suo gioco e attendo mansueta al suo fianco con gli occhi che saettano dai suoi alla nebbia violacea che si fa sempre più densa. Ricostruisce le forme di Efialte e della sua corazza. C'è un sorriso soddisfatto sulle sue labbra, che fa eco a quello di Castore.
«Cancellerò quel sorrisetto beffardo dalle tue labbra, Gemini! È una promessa!»
Distende tutte e due le braccia lateralmente con un gesto teatrale e grida: «Canto della Lami...», ma non finisce la frase, poiché dalla bocca esce un corposo fiotto di sangue scuro. Porta tutte e due le mani al collo, mentre tossisce e vomita fluido vitale.
Le vene si fanno scure sotto la sua pelle, tanto che riesco a individuare l'intero reticolato. L'armatura nera perde la sua lucentezza, si spegne e inizia a sgretolarsi.
«Che cosa...sta succedendo?» chiede con voce sofferta.
«La tua brama di sangue ti è costata l'esistenza. Avresti potuto accontentarti di quello che hai assorbito da me e strisciare lontano da qui, ma la tua bramosia ti ha portato a riaprire le ferite di quella forestiera, in modo da rubarle energia e vigore attraverso il fluido vitale. Non ero sicuro che sarebbe accaduto, visto che ho avuto modo di vederla soltanto una volta, ma Ecate di Tracia è conosciuta in tutta la Grecia come una donna che uccide utilizzando i più svariati veleni. Ammetto che anche io pensavo che fosse un'abile erborista, ma ho constatato che è il suo Cosmo a essere velenoso come il morso di un serpente. L’ho capito poco fa, quando ha cercato di estorcere informazioni sul mio conto a una donna ignara.»
Il fatto che mi conosca così bene dopo pochissimo tempo mi sconvolge. Ho sempre cercato di agire in silenzio e sono quasi certa che nessuno conosca il mio nome tranne i committenti degli assassinii. Perché lui...sa così tanto?
«Veleno...?» fa eco Efialte.
«Esatto. Sembra che Efialte della Lamia, della Stella del cielo dell'Inganno sia stato raggirato da una mia strategia azzardata. Hai sbagliato a mostrarmi la tua abilità, a spiegarmi della tua rigenerazione, perché mi hai permesso di utilizzare quelle informazioni contro di te. Questa è la fine degli stolti con la bocca troppo larga. Ti compiango.»
«No! Non è possibile!» grida disperato Efialte, prima di seccarsi come una rosa appassita e sgretolarsi nel vento turbinante di questa calda mattinata.
«Scendi in Ade e non fare più ritorno» intima Castore, dopo aver rimosso il pesante elmo dal capo. Il sangue si è ormai rappreso sulle sue guance e sul mento. Stessa cosa è accaduta a quello sul mio braccio, che perdo tempo a osservare. Il mio sangue è velenoso, come i miei artigli. Il mio...Cosmo è velenoso. Castore stesso mi ha paragonato a un serpente.
«Forestiera» mi richiama la sua voce profonda.
«Ho un nome» preciso, scocciata.
«Forestiera con un nome» mi irride lui, mantenendo una serietà sconcertante sul viso. «Come ti ho già detto tu possiedi il dono del Cosmo e tutti coloro che lo hanno ricevuto sono tenuti a utilizzarlo per la salvezza della dea Atena e per proteggere la speranza che lei ha donato agli uomini. Non sono nessuno per dirti cosa fare della tua vita, che direzione prendere e a essere sincero non mi importa delle tue scelte future, tuttavia posso darti un consiglio, dopo aver visto quanto è confusa la tua mente.»
«E il consiglio sarebbe…? Asservirmi alla dea Atena? Inginocchiarmi ancora di fronte a una statua, renderle omaggio con i sacrifici più svariati? No! L'ho già fatto per un altro dio che non è mai sceso dall'Olimpo per me!»
Al solo ascoltarmi mi vergogno dell'ingenuità che mostro di fronte a quest'uomo. Per questo ammutolisco sotto il suo sguardo gelido.
«Atena non è una statua. Atena è rinata nel corpo di una fragile fanciulla scampata a una moltitudine di difficoltà.»
«Una fragile fanciulla?» scuoto il capo e ridacchio di scherno, ma lui non viene minimamente toccato dalle mie parole.
«Una donna come me? Dovrei servire una donna come me?»
«Tu non sei una fragile fanciulla, ma un serpente velenoso che non sa più chi proteggere. Sei una scheggia impazzita che uccide senza motivo solo per non morire dentro. Ti sto consigliando una strada per sopravvivere a te stessa. Puoi seguirla o meno.»
«Tu non sei nessuno per...»
 Devo interrompere il discorso, perché Castore perde l'equilibrio e crolla in ginocchio. Si lamenta a causa di un dolore che non so collocare. Tiene tutte e due le mani ai lati del capo, dopo aver lasciato cadere l'elmo che rotola fino a fermarsi e mostrare alla mia vista il sorriso ghignante della faccia situata sul suo lato destro.
«Ehi, che ti succede?» gli chiedo, tentando di mantenere la calma.
«Va' via...»
«Non prendo ordini da nessuno.»
  Allungo una mano sui suoi capelli e ne accarezzo una ciocca. Forse è uno scherzo delle luci, forse un gioco della stanchezza, ma mi sembra che il suo colore muti da azzurro a bianco, soltanto per un istante.
«Non toccarmi!» mi ordina ancora più nervoso e a quel punto mi ritraggo. I suoi capelli cambiano ancora colore, partendo dalle radici, diventano canuti, esattamente come i miei. I suoi lamenti si placano di colpo, quando anche le punte sono mutate. Avverto un sensazione che ho già sentito, un'angoscia opprimente ma allo stesso tempo carica del fascino oscuro del Male.
«Ecate...» la sua voce suona molto diversa. Non ha mai utilizzato il mio nome, perciò a questo punto inizio a pensare di avere di fronte un'altra persona. La sorpresa maggiore mi travolge quando solleva il suo sguardo sul mio. Le sclere dei suoi occhi sono rosse come il sangue. L'iride verde è sporcata da un velo di scarlatta follia.
«Castore?
  La sua mano si preme sulle mie labbra, in modo da farmi tacere. Il suo viso si avvicina così tanto al mio che le fronti si toccano.
«Ho molte cose da chiederti, ma non qui.»
  Assottiglio lo sguardo e aggrotto le sopracciglia, in modo da mostrargli il mio duro sdegno.
«Mi seguirai mantenendo un assoluto silenzio.»
Sbuffo col naso, mentre porto la mano destra a stringergli il polso. Mi dispiace solo che le unghie non possano perforare la sua armatura d'oro.
«Non ti conviene opporti, perché potrei ucciderti utilizzando solo la mano con cui ti ho già catturata.»
Mi dà dimostrazione della sua forza, stringendo le dita sulle mie guance e il mento. È una pressa insopportabile.
«Posso fidarmi di te?»
Annuisco appena. Ho le lacrime agli occhi. Non so perché, ma di fronte a lui provo vera paura per la morte.
«Molto bene.»
  Sposta la mano dal mio viso e mi permette di prendere un profondo respiro. Mi accarezza una guancia e sposta una ciocca di capelli bianchi dietro l'orecchio.
«Così mi piaci molto di più.»
Fa scivolare via la mano dal mio viso e si solleva in piedi. Seguo i suoi movimenti con attenzione, almeno fino a quando non odo voci in lontananza. La gente del luogo vede la devastazione da lontano e se non ci sbrighiamo ad allontanarci dovremo fare i conti con la sua curiosità. In questo momento Castore non mi sembra la persona più adatta a rispondere a domande di sorta. Prima che possa rendermene conto, vengo tirata via per un braccio e afferrata per la vita dalla stretta d'acciaio di Castore. La sua corsa è così veloce da rendermi impossibile riconoscere il percorso che attraversa. Mi rendo conto solo della nostra destinazione: un tempio depredato e in rovina. Alcune delle colonne sono annerite da un incendio recente. C'è soltanto un braciere acceso che illumina l'esterno con una fiamma tremula, smossa dal vento caldo. Il sentiero che lo collega alla città che sorge ai piedi della collina è stato cancellato dalla vegetazione inselvatichita. Castore mi lascia libera di muovere alcuni passi incerti in direzione del naos. Non so perché, ma l'istinto mi convince a nascondermi in quelle mura segrete, un tempo aperte solo ai sacerdoti più importanti.
Mi lascio cadere in ginocchio quando i miei occhi incontrano quelli di pietra di una statua di Ares, copia perfetta di quella che ho onorato per anni. Se non avessi visto la città dall'alto, penserei di essere ancora in Tracia.
«Gli uomini stanno distruggendo i templi. Nessuno teme più l'ira degli dei o ne desidera il favore come fai tu. Ci stiamo riempiendo di miscredenti. Guarda come hanno profanato quell'immagine. Hanno spezzato il braccio destro di Ares, lo hanno privato della spada.»
«Ares» faccio eco, senza trattenere una risata rassegnata. «Che cosa credi che mi importi di lui?»
«È la tua vita. Se non fosse stato per quella ragazzina, saresti ancora di fronte a lui, a omaggiarlo con le tue odi. Aspetta, com'era? Ah, sì! Ora ricordo.
"La luna rossa parla della tua venuta. Attenderò di fronte al tuo altare, pregherò affinché tu spezzi le catene che mi legano al mondo ideale. Sei bellezza macabra, mio ultimo sogno. Discendi dall'Olimpo per me. Per questo sarò pronta a ogni sacrificio."
E dimmi, Ecate, che cosa faresti se lui fosse qui, dinnanzi a te?»
«Nessun dio si scomoda per un essere umano. Né Ares, né Atena, né Ade e neanche Zeus. Se esistono, utilizzano il mondo come un grande teatro e ridono di noi, guardandoci morire. Non so come tu abbia saputo della mia vecchia ode, però. Quello mi incuriosisce più di tutto il tuo spettacolo pietoso. Chi sei?»
Castore si avvicina alla statua mutilata del dio, la affianca e incrocia le braccia al petto.
«Ecate, ti facevo più accorta.»
«Che risposta è questa? Sono stufa, veramente stufa dei tuoi giochetti.»
Balzo in piedi e sollevo il braccio destro. I miei artigli acuminati si caricano dell'energia che ancora mi rimane.Lui sposta l'attenzione dei suoi occhi sulla mia mano e sorride soddisfatto.
«Brava! Vedo che non ti limiti a comportarti come un gattino arrabbiato, ma sai articolare il tuo potere.»
I suoi complimenti non mi compiacciono, anzi, mi caricano di rabbia. Scatto verso di lui e abbasso il braccio in un gesto verticale e brusco. L'energia accumulata sugli artigli si abbatte però sulla pietra della statua. Castore si è spostato a una velocità pazzesca. Lo cerco con lo sguardo, ma trovo soltanto la luce rossa dei suoi occhi che balugina nel buio.
«Quanto ci metterai a capire che non hai la velocità giusta per colpire un Cavaliere d'Oro?»
Esce dalla penombra del naos in rovina, cammina fino alla statua lesionata di Ares e la abbraccia alle spalle.
«Sono sceso dall'Olimpo per te ed è questa l'accoglienza che mi riservi?» chiede ironico in un ghigno che stona con la falsa espressione corrucciata
«No... Non prenderti gioco di me!» grido. Il mio ultimo sforzo mi ha indebolita ancora e questo non mi permette di attaccare di nuovo.
«Non mi sto prendendo gioco di te, Ecate. Non credere che per me sia emozionante disporre di un corpo mortale. Avrei preferito utilizzare il mio, ma...»
Stringe i denti, per poi alzare il tono di voce.
«Il mio amorevole zio Ade lo ha distrutto! È toccato a me, poi ad Atena! Ben duecento anni fa mi sorprese in Tracia. Godevo dell'immensa sete di sangue di quei barbari che tuttora adorano la guerra inutile, partecipando alle loro insensate battaglie di persona, quando il sottosuolo si è aperto sotto i miei piedi. L'olezzo del mondo dei morti proveniva da quella crepa e accompagnava il Signore degli Inferi. Speravo che si fosse stabilito permanentemente nell'Elisio, ma qualcosa lo tiene ancorato alla sua vecchia dimora. Tuttavia non voglio divagare. Ti basti sapere che ho ingaggiato un duello con lui, un semplice combattimento di spada. Io, Ares, il dio della guerra sconfitto da un verme del sottosuolo! Quel dannato cadavere ha fatto a pezzi il mio corpo dopo avermi tagliato la gola e ha maledetto il mio spirito in modo che si reincarnasse in un essere umano, che morisse e invecchiasse e soffrisse il castigo della morte. La sua brama di dominio è persino più forte della mia! La sua follia lo porterà a marciare anche sull'Olimpo! Non che mi preoccupi la sorte di mio padre o degli altri dei, tuttavia non voglio che tutto si trasformi in una necropoli a cielo aperto.»
Non so se l'enfasi che mette nelle sue parole possa davvero essere una farsa. Sembra vera la rabbia che gli infiamma lo sguardo.  
Il sorriso sghembo che fiorisce sulle sue labbra subito dopo mi lascia di stucco, unito alla sua esclamazione:
«Immagino che, a parer di donna, anche questo corpo non sia malvagio.»
«Se ti aspetti che assecondi la tua pazzia rispondendo ai tuoi deliri, ti sbagli di grosso.»
«Eppure hai pregato per anni solo per ascoltare la mia voce. La tua ostilità mi delude.»
«Che cosa ti aspettavi, che mi inginocchiassi di fronte a te? Sei un semplice essere umano, con qualche potere in più di me, lo ammetto, ma non ti riconosco come Ares.»
Lui solleva un sopracciglio prima di chiudere gli occhi. La sua espressione si indurisce. Allontana le braccia dalla statua e le distende lungo i fianchi.
«Solleva il braccio sinistro» ordina, lasciandomi perplessa in un primo momento e innervosendomi subito dopo.
«No» rispondo. La mia pelle è marchiata d'infamia esattamente sotto il polso da un segno nero, impresso a fuoco: una mezzaluna rovesciata di pelle bruciata. È la mia più grande vergogna: mostrerei meglio il mio corpo nudo piuttosto che quel marchio, perennemente coperto da una benda nera.
«Te lo ripeto soltanto una volta: mostrami il braccio» insiste.
«Mai» ringhio. La pelle sotto la benda prende a bruciare, come se fosse toccata dal fuoco. Premo le dita sul tessuto che tuttavia si polverizza sotto il mio tocco.
«Che stai facendo? Lasciami in pace! Smettila!» grido con tutta la voce che ho in corpo. Sembra che la mia supplica lo inviti a fare di più. Il dolore si acuisce, mentre la ferita ritorna a essere fresca come se fosse stata fatta da poco.
«Sono stato io a ordinare loro di marchiarti e sono io a rimediare. Di solito non sono così magnanimo, ma per te faccio un'eccezione.»
 Sento i suoi passi. Si sta avvicinando a me. Avverto la sua mano sul capo: una carezza delicata che non mi aspettavo.
«Ti perdono per aver ucciso Deianira, anche se in quel momento ero io a dominare i suoi gesti, ti perdono per aver trafugato il pugnale rituale e...»
Le sue dita si serrano sui miei capelli che tira, guidandomi bruscamente a sollevare il capo. Le  sue labbra si fanno vicine al mio orecchio destro.
«Ti perdono per aver salvato Eirene e averla fatta scappare dalla Tracia.»
«Perché la volevi...morta?» chiedo con voce sofferta, mentre combatto contro la sua presa.
«Perché lei è mia sorella Atena! Ci odiamo e ci diamo battaglia da quando è nato questo mondo e avevo l'occasione di distruggerla e impedirle di rinascere! Ma tu...con il tuo spicciolo senso di giustizia o chissà, con il tuo becero istinto materno, hai deciso di disobbedirmi e lasciarla scappare. Se non fossi così bella, ti avrei già fatta a pezzi.»
Io e Eirene siamo le uniche testimoni in vita di ciò che successe all'interno del naos. Non è umano, quest'uomo è davvero ...Ares? Il suo respiro accarezza la pelle del mio collo, donandomi un brivido che non so descrivere. Volto il capo in modo da non dover incontrare il suo sguardo, anche se la sua presa sui miei capelli mi fa male.
«Però non tutto il male viene per nuocere, a quanto pare.»
Finalmente mi libera dalla sua stretta e compie qualche passo alle mie spalle. Le sue labbra si posano sul mio capo, anche se per pochissimi istanti.
«È un bene che Atena affronti Ade e mandi al macello i suoi fedeli Cavalieri. Se l'avessi uccisa, mi sarei perso questo magnifico spettacolo.»
«Eppure anche tu sei nella sua schiera...»
«Io? Sì, certo. Sto solo aspettando il momento giusto per smembrare il mio affettuoso zio. Che non si dica che Ares non restituisce  i favori ricevuti.
Detta senza giri di parole, Ecate, io sto cercando vendetta e quando l'avrò ottenuta, finirò ciò che ho iniziato in Tracia.»
«Non ti farò uccidere Eirene, non mi importa se ha in sé l'anima di Atena, non mi interessa dei capricci di un dio impazzito.»
  Mi volto verso di lui e oso sfidare il suo sguardo che torna a schiacciarmi. So di non poterlo sostenere, ma continuo noncurante a fissarlo, come se l'ansia che provo, la sensazione di essere completamente soverchiata mi piacesse.
«Mi rifiuti, dunque? Rinneghi il dio a cui hai promesso la tua intera esistenza?»
Lo dice con un sorriso sghembo sulle labbra, perché sa benissimo che non lo farei mai, nemmeno adesso che Ares mi appare come un uomo mortale che può essere ferito e persino ucciso. La sua bassezza morale, la sua cattiveria mi riportano alla mente i corpi insanguinati degli sconfitti che gli eroi gli tributavano. Sangue e morte, di questo tingerà un mondo di eterna lotta. La violenza è il grido degli abbandonati, la moneta di riscatto di coloro che hanno perso tutto. Era la mia legge e dovrebbe esserlo ancora, ma gli occhi di Eirene, limpidi come cristallini specchi d'acqua e la sua innocenza, hanno creato la prima frattura. Il cielo delle mie certezze si è sgretolato quando Castore ha combattuto di fronte a me. Il suo potere era benevolo, caldo, rassicurante, al contrario di ora. Adesso il mio vecchio mondo sta cercando di tornare al suo stato originale, sotto gli occhi di Ares: il mio dio, la mia ragione di vita, ma quelle fratture sono ancora lì, aperte. Quest'uomo è Castore prima di essere il dio della guerra e non riesco a togliermelo dalla testa.
«Ho scelta?» chiedo assorta nei miei pensieri.
«No, non ne hai» gode nel dirmelo: lo vedo dalla luce nei suoi occhi, un riverbero di pura e magnetica follia.
«Quindi, Ecate, ora dimmi dove si trova il pugnale d'oro che hai portato via dalla Tracia.»
«Non me lo ricordo» mento.
«Non tirare troppo la corda con me, donna.»
«Te lo ripeto, non ricordo.»
In realtà esso non è più di mia proprietà. L'ho imbarcato sulla nave che ha accolto anche Eirene, prima che le sacerdotesse mi catturassero e mi marchiassero con la mezzaluna del traditore.
«Che cosa devo fare per fartelo ricordare?»
«Sei tu il dio, compi un miracolo.»
Un Cosmo opprimente e bruciante emana da lui e mi toglie il respiro.
«Smettila di prendermi in giro!» afferma imperioso.
 Il marchio sul braccio che sembrava scomparso, ricompare, anche se solo in parte, provocandomi un dolore atroce.
«Non ho idea di dove sia!» non cedo.
«Continua con questa farsa, Ecate, e quel dolore che senti si estenderà a tutto il tuo corpo.»
 È vero. Il dolore mi scorre nelle vene assieme al sangue, mentre mi allontano da lui barcollando.
«Smettila...» mormoro, poiché temo che lui senta quanto sono debole.
«Parla e il supplizio che provi...finirà... Solo in quel momento...»
Castore sbilancia in avanti senza un motivo ben preciso. I suoi passi incerti lo portano verso la statua di Ares. A essa si appoggia con entrambe le mani.
«No! Non adesso!» grida, disperato. «Lasciami in pace! Smettila!»
Il dolore che provo si affievolisce fino a scomparire completamente, nello stesso momento in cui i capelli di Castore riprendono il colore cobalto che li caratterizzava quando l’ho visto per la prima volta.
Una volta che tutte le ciocche sono ritornate del colore originale, egli si lascia cadere a terra. L'armatura d'oro lo abbandona dopo aver brillato di una luce accecante per un solo istante e le sue parti si assemblano a poca distanza dalla statua di Ares, dando vita all'immagine di due mezzi busti, posti uno di schiena contro l'altro. Le due facce dell'elmo definiscono i visi e gli schinieri, assieme ai bracciali dell'armatura rappresentano due coppie di braccia piegate. Ora il guerriero ormai privo di corazza ha il busto scoperto e le gambe strette da un leggero strato di stoffa. La sua pelle non presenta nemmeno un piccolo graffio o cicatrice. Come è possibile che un uomo d’arme come lui non sia stato mai ferito?
Il respiro di Castore è irregolare e rumoroso. Viene intervallato da qualche breve lamento che attira la mia attenzione. Timorosa mi avvicino a lui e una volta che l'ho raggiunto, mi inginocchio al suo fianco. La paura che ho provato al cospetto di Ares si è dissipata completamente. Ora ho davanti l'uomo che ha combattuto per me contro uno Spectre. I suoi occhi sono socchiusi come le labbra, torturate dall'affanno.
Non gli chiedo se posso aiutarlo, lo faccio e basta, aiutandolo ad allontanarsi dalla statua e a sedersi a terra. Lui non rifiuta il mio ausilio, ma sfugge dal mio sguardo, tenendo sempre il capo chino. Mi siedo davanti a lui, in attesa che il suo respiro si plachi. Voglio una minima spiegazione di ciò a cui ho appena assistito.
«Devi allontanarti da me quando te lo chiedo, forestiera.»
«Che cosa è successo?»
  Porta tutte e due le mani sul viso, dopodiché le fa scorrere tra i capelli che tira all'indietro.
«Non è semplice controllare lo spirito di un dio violento come Ares. La sua furia divora la mia ragione e domina le mie membra quando l'equilibrio che devo mantenere si spezza. Un uomo scagliò questa maledizione su di me in modo da impedirmi di seguire la via del giusto. Un uomo che rimase profondamente deluso da me. Se perdessi il controllo della mostruosità che celo nell'anima di fronte ai Cavalieri di Atena o alla dea stessa, verrei esiliato o forse condannato alla morte che merito. So di essere un indegno, ma allo stesso tempo so che il mio potere può essere utile alla causa nobile che i miei compagni stanno difendendo, così celo a tutti la mia vera natura e prego che l’oscurità che c’è in me non riesca ad emergere. La verità è che quando mi indebolisco o la mia memoria è richiamata da qualcosa o qualcuno a cui Ares è legato, non riesco a dominare la doppiezza di Gemini e finisco per perdere il controllo.»
La sua voce trema. Mi sembra di aver sentito un singhiozzo. Sta piangendo, ne sono sicura, anche se la penombra mi nasconde ora il suo viso.
Il vento si è alzato e la fiamma del braciere trema, quasi sembra volersi spegnere, lasciando spazio alla luce rosata dell'alba.
«Il Cavaliere di Gemini deve mantenere vivo l'equilibrio instabile tra bene e male, è obbligato a farlo. Quello che è successo è il mio costante fallimento, poiché anche se ho giurato di non alzare il mio pugno contro chi non mi è ostile,  ogni volta che l’equilibrio si spezza, ferisco chi non dovrei, come è accaduto poco fa.»
«Chi avresti ferito?»
Castore mi scocca un'occhiataccia che mi fa sorridere anche se sono molto stanca.
«Non mi hai fatto nemmeno un graffio, anzi, l'unico che avevo sul braccio è quasi scomparso grazie a te.»
«Hai rischiato moltissimo, sciocca.»
«Hai ragione. Sono una sciocca, ma va bene così.»
Mi distendo a terra.
«Prima di farmi conoscere il mio idolo di gioventù stavi dicendo qualcosa relativamente al Cosmo e Atena. Hai detto che sta reclutando guerrieri e che io potrei esserle utile. Visto che stiamo parlando di Eirene, ti chiedo di portarmi da lei. L’ho trovata io quando era una neonata e l’ho cresciuta al mio fianco. A guardarmi adesso non sembro un’amorevole sorella maggiore, ma cinque anni fa ero diversa.»
Sbuffo un sospiro, spostando dalla fronte una ciocca di capelli impolverata.
«Sembra che io sia destinata a cambiare ancora. Chissà, forse tra qualche anno me ne andrò in giro con una corazza scintillante piuttosto che con questi stracci.»
Riesco a strappargli una risata debole, che tuttavia suona benissimo tra queste quattro pareti di pietra. Quest'uomo ha la bellezza magnetica tipica dei dannati, un potere ancora superiore al suo Cosmo sterminato.
«Atena non è più la ragazzina che ha lasciato la Tracia. È ora consapevole del suo ruolo.»
 Chiudo gli occhi e tiro un lungo sospiro.
«Io invece sto cercando il mio» affermo rassegnata, portando le mani dietro il capo. Lui non mi concede di continuare il discorso, perché prende subito parola.
«Non è facile trovarne uno. Devi andare per tentativi. Non è vero quello che dicono sul destino già scritto. Ogni persona sceglie il motivo per cui morire, che sia futile o nobile. In genere si cerca di proteggere gli affetti o se stessi e si maschera tutto di ambizioni fasulle. Anche chi afferma di combattere per inutile conquista, in realtà sfoga il risentimento di privazioni subite.»
Mi alzo seduta in modo da poterlo guardare. Nonostante la stanchezza che gli leggo negli occhi, il volto di Castore riassume la sua granitica determinazione.
«Sicuramente anche tu vivi per ciò che ti è caro. Ciò che hai fatto per Atena ne è l'esempio. Non vorrei essere pedante con i consigli, non è nella mia indole, ma le porte del Grande Tempio sono aperte a chi dispone di poteri come il tuo»
«Sono solo un'assassina prezzolata, Castore. Onore, fedeltà, spirito di sacrificio, sono principi che non mi appartengono più.»
«Tutti possono cambiare vita, lo hai detto anche tu. È concesso anche a chi è perso in partenza. Io sono l'esempio vivente di ciò che ti sto dicendo e come me lo sono anche altri Cavalieri. Non si nasce con la via giusta già tracciata. La luce che la illumina potrebbe giungere dopo.»
Sono rapita dal suo modo di argomentare che non lascia spazio a repliche. Pendo dalle sue labbra anche se non vorrei. Non so per quale motivo, ma tutto ciò che dice mi sembra più che giusto.
«Ormai sono convinta a seguirti al Grande Tempio di Atene. Sei stanco e non sprecare altre parole per persuadermi.»
Il suo sorriso è appena percettibile, ma allo stesso tempo rassicurante.
«Se solo non fossi così inaffidabile e pericoloso, mi curerei personalmente del tuo addestramento, Ecate di Tracia. Mi piacerebbe vederti cambiare giorno per giorno.»
Mi ha chiamato per nome. Un nome che non ho mai amato più di tanto, ma che detto da lui ha tutto un altro suono.
«Non provare a tirarti indietro con questa stupida scusa, Castore dei Gemelli. Devi prenderti la responsabilità di avermi messo questa idea in testa. Dovevo ucciderti per guadagnare un bel gruzzolo, ma adesso il mio committente si è polverizzato e non può più pagarmi. Devo pur cavare fuori qualcosa da te, visto che sono a secco. La tua guida sarà la mia rendita e ricorda, dovrai farti onere anche del mio vitto e alloggio.»
Punto l'indice verso il suo viso, tentando di mantenere l'espressione più gelida possibile, anche se un sorriso cerca a tutti i costi di fiorirmi sulle labbra. Sono anni che non mi concedo la libertà di una risata e mi fa uno strano effetto farlo proprio di fronte a Castore, un uomo carismatico ma dannatamente pericoloso.
«Quindi non mi uccidi perché Efialte non può più pagarti? Non credi di sopravvalutare un po' le tue capacità?»
«No no, non sto sottovalutando proprio niente. Sei in mio potere, ormai» divento ancora più seria. Avvicino la mano destra al mio viso e piego le dita. I miei artigli tornano a crescere neri come la notte. Anche il suo sguardo si indurisce e segue i miei movimenti mentre mi alzo in piedi. Raggiungo le sue spalle e mi inginocchio  dietro di lui. Non so quanto pagherei per immortalare la sua espressione attonita con un dipinto, quando mi sporgo in avanti, verso il suo viso. Il suo respiro si sospende quando le nocche della mano destra gli sfiorano una guancia in una carezza.
Scoppio a ridere come non facevo da quando ero una ragazzina.
«Ci sei cascato, nobile Castore! Pensavi davvero che ti avrei ucciso? Ti devo la vita e un buon consiglio, quindi non potrò farlo se non da morta. Anche se labile ho un codice anche io.»
«Non farlo mai più» afferma minaccioso, ma non mi impressiona. Scivolo seduta e porto il palmo della mano sulla sua schiena.
«Se continui a stare sveglio ti ammazzerai da solo.»
«Non ho tempo di riposarmi. Da quello che ha detto Efialte, il suo era solo un diversivo per farmi abbassare la guardia sulla Terza Casa che proteggo anche a distanza con un labirinto di illusioni. Ho perso la concentrazione necessaria e non solo la difesa è crollata, ma ha lasciato spazio a fratture dimensionali. Ho il dubbio che fosse proprio questo ciò che voleva Efialte. In quel caso...sono stato sconfitto.»
«Non ho capito molto di ciò che hai detto, ma vedo con i miei occhi che non riesci nemmeno a stare in piedi. Puoi fare l'eroe quanto vuoi, ma non...»
Si alza in piedi, smentendo ciò che ho detto. I suoi passi sono lenti e incerti e lo conducono all'armatura d'oro.
«La spossatezza passerà strada facendo. Andiamo, Ecate. Non c'è tempo da perdere.»

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Capitolo 3
*** Capitolo III ***


INAZUMA

«Peccare di superbia porta l'uomo alla morte, Grande Sacerdote» sibila lo Spectre che lentamente fuoriesce dalla frattura dello spazio, come fa una farfalla dalla sua crisalide. «Non sottovalutare i poteri di Oto.»
La sua voce rimbomba per tutta la Terza Casa. Sono sicuro di avercelo davanti, eppure sento la sua presenza anche alle mie spalle. Lo perdo di vista, poiché si sposta a una velocità superiore alla mia percezione. Rimango paralizzato, quando lo vedo chiaramente di fronte a Eirene con il braccio artigliato già alzato su di lei. Lo abbassa bruscamente, intende colpirla e io non posso permetterlo. Scatto a difesa di Atena, noncurante di subire io stesso il danno, ma quella mano non riesce a calare su di noi. Oto della Succube viene bruscamente respinto da una barriera trasparente che si è frapposta tra me e lui in un modo che non ho ben compreso.
«Non credere che sia così facile, Oto della Succube. Il Muro di Cristallo non solo protegge ciò che si trova al suo interno, ma restituisce il danno a chi ha avuto l'intenzione di infliggerlo. È una tecnica di combattimento creata da me, Cavaliere dell'Ariete, che concentra il potere di chi la utilizza sia in difesa che in attacco. Sei tu ad aver sottovalutato i tuoi avversari.»
Oto si rialza e per schernirci spazza la sua corazza con i palmi delle mani, in modo da rimuovere la polvere che su di essa si è posata in seguito al colpo subito.
«Chiunque sa pararsi dietro uno scudo, Ariete. Ma non importa quanto questo sia resistente. Se colpisci il braccio che lo impugna, esso cadrà.»
Le mani dello Spectre si congiungono come se si concentrasse in preghiera. Il capo si abbassa e gli occhi si chiudono.
Dhiren alza il braccio destro verso l'alto. Sul suo palmo si concentra un alone di splendente energia, mentre il suo Cosmo smodato si espande in modo da schiacciare il potere dell'avversario.
«Non credere che ti lascerò utilizzare altri colpi, Oto! Svanirai nella danza della Polvere Cosmica: Rivoluzione delle Stelle!»
Per nulla impressionato, Oto non cambia la sua postura, nemmeno quando il braccio di Dhiren si abbassa bruscamente verso di lui e delle sfere di puro Cosmo dorato partono dalla sua mano distesa. La luce della Rivoluzione delle Stelle sparisce di fronte ai nostri occhi sconcerti. Oto ride, protetto da uno strano scudo luminoso che non avevo visto prima. Esso è ovale, alto quanto il suo utilizzatore, poggiato a terra come uno specchio.
«Sono contento che tu mi abbia colpito con uno dei tuoi colpi più potenti, Dhiren dell'Ariete. Più sono forti, più saranno efficaci...»
Lo strano specchio si fa ancora più brillante, tanto che la luce che ha trattenuto all'interno trabocca dalla superficie, fino a uscirne fuori con la medesima velocità della Rivoluzione Stellare di Dhiren. È proprio il colpo del Cavaliere d’Oro ad abbattersi su di noi. Abbraccio Eirene e do le spalle alle veloci sfere di luce che escono dallo specchio, sono pronto ad subire il loro impatto.
«Inazuma!» grida lei. Prova ad allontanarmi, ma io la stringo più forte. Solo pochi istanti e subirò il rigore del colpo di Dhiren, per questo serro gli occhi e stringo i denti, ma il ruggito dell'impatto esplode prima di raggiungermi. Mi volto di colpo e mi trovo a osservare la schiena di un guerriero dorato. I suoi lunghi capelli rossi turbinano spostati dall'onda d'urto. Che sia...?
«Hosoku!» lo richiama Dhiren, prima di raggiungere il suo fianco. Anche Rhadia lo affianca, sotto sua immediata richiesta.
«Porta via Atena e Inazuma da qui, Rhadia.» dice Hosoku, abbassando lo scudo d'oro che ha utilizzato per riflettere il colpo e agganciandolo di nuovo al braccio. L’armatura che indossa è diversa da quella voluminosa dell’Ariete. Si sviluppa in piastre squadrate che proteggono le braccia e le gambe di Hosoku. Gli spallacci sono voluminosi. Uno di essi è piatto, mentre l’altro arrotondato. Anche le linee del pettorale sono più dolci rispetto a quelle del resto della corazza. A entrambe le braccia sono allacciati scudi rotondi.
«Sì, maestro» risponde Rhadia.
  Non riesco a lasciare la mano di Eirene, nemmeno quando Rhadia ci invita a seguirlo con un cenno rapido. Prima di muovermi rivolgo uno sguardo fugace ai due Cavalieri d'Oro. Dhiren annuisce e mi rivolge un sorriso deciso, invitandomi così a seguire Rhadia. Non perdo tempo e dopo aver annuito, eseguo quell'ordine tacito, tenendo ben stretta la mano di Eirene. La nostra corsa si arresta di fronte a un altro specchio ovale che non riflette che ombra. Proviamo quindi a raggirarlo, ma attorno a noi si forma un fitto labirinto di vetri neri che ci chiude ogni via di fuga.
«Non lascerete questo luogo. Questa prigione di specchi è inviolabile» dice la voce di Oto da più direzioni. Il silenzio cala, rendendo più rumorosi i nostri respiri affannati.
«Smettila di fare promesse che non puoi mantenere, Oto della Succube» tuona la voce del Grande Sacerdote, prima che venga surclassata dal rumore di vetro in frantumi.
«Che cosa?» chiede esterrefatto lo Spectre, mentre tutti gli specchi vanno in frantumi, uno dopo l'altro dopo essere stati accarezzati da sottili fasci di luce dorata.
«Hai di fronte due Cavalieri d'Oro. Non pensi di aver esagerato con la presunzione? Tanto io che Dhiren sappiamo spostarci e colpire alla velocità della luce e non abbiamo bisogno dei nostri colpi più potenti per schiacciarti come il verme che sei» afferma solenne Hosoku, fermandosi a poca distanza da me. Uno dei suoi piedi armati d'oro comprime alcuni frammenti di vetro, e li riduce in polvere.
«Rhadia, Inazuma, a voi il compito più importante. Non perdete mai di vista Atena.»
Nemmeno se ci fossimo messi d'accordo avremmo annuito nello stesso momento come ora.
Hosoku si volta mentre i frammenti degli specchi si sollevano dal pavimento, lentamente ma inesorabilmente.
«Tutto inutile!» annuncia la voce diffusa di Oto. «Più distruggete il Labirinto degli Specchi, più esso tornerà a tormentarvi, sempre più fitto e asfissiante.»
«A meno che non distruggiamo te!» grida Dhiren. Sento rimbombare i suoi passi mentre la sua figura lontana si scaglia contro lo Spectre emerso dall'ombra.
«Fermati, Dhiren!» gli ordina Hosoku, ma è già troppo tardi. Il pugno destro del Cavaliere dell'Ariete si è già abbattuto su Oto. L'armatura nera si sgretola, esattamente come la sua pelle, i suoi capelli.
«Una statua di vetro?» esclama stupito Dhiren, prima di lasciarsi scappare un lamento. Lo vedo mentre tenta di estrarre il braccio dalla trappola vitrea che ora lo imprigiona.
«Non riuscirai più a liberarti, incauto» afferma soddisfatto Oto. La sua voce proviene da tutti gli specchi. Mi volto a guardarli. Al loro interno c'è l'immagine di un mostro alato simile a una donna con i denti acuminati alla stregua di zanne che allunga le sue lunghe dita artigliate verso l'esterno.
«Che incantesimo è mai questo?!» chiede Rhadia, facendosi ancora più vicino a Eirene.
«Non guardate negli specchi!» ci ordina Hosoku. Non è così semplice, perché per quanto sposti lo sguardo mi trovo sempre ad osservare uno specchio. Un prolungato grido di Dhiren anticipa il rumore di vetro frantumato. Buona parte del labirinto è difatti crollato, ma non impiega moltissimo a ricomporsi. Le orribili figure chiuse dietro la superficie allungano le mani contro di essa, la deformano, quasi fosse un velo leggero che tentano di fendere.
«Quando le bestie degli specchi usciranno dal loro nascondiglio, divoreranno i vostri corpi fino all'anima, impedendovi di rinascere. Marcirete in una selva infernale per l'eternità! Non oso pensare quanto prestigio guadagnerò portando Atena e due dei suoi migliori guerrieri nel Tartaro!»
«Sognare non costa nulla» afferma Hosoku. «Dicono che sia un bel regalo degli dei per i disperati, ma allo stesso tempo una dolorosa illusione» conclude, con un sorriso divertito sulle labbra. Il suo corpo e quello di Dhiren vengono avvolti da una brillante luce dorata che si espande e si diffonde in tutta la Terza Casa. Sono due Cosmi ben distinti, ma sembrano volersi fondere in uno soltanto, benevolo e potente.
«Il mio sogno diventerà realtà tra pochi istanti! Io non sono un semplice Spectre! Ho un esercito di mostri famelici dalla mia parte e guardate: sono quasi liberi.»
 Una delle creature che emergono dallo specchio è riuscita a fendere il confine della sua prigione e allungare l'orrenda mano verso di noi. Vedo Rhadia che agita le braccia, come se descrivesse un segno nell'aria. Il suo gesto mi ricorda quello di mio padre quando mi ordinò di scappare, anche perché il suo corpo viene ricoperto da una luce verde chiaro.
«Colpo segreto del Drago Nascente!» grida, mentre il suo pugno carico di energia si abbatte contro il braccio allungato oltre la superficie vitrea. Lo riduce in polvere lasciandomi senza parole. Lui ha la mia stessa età, eppure è capace di un prodigio simile. Ora sento di dover dar ragione a Demyan dell'Acquario: essere protetto mi umilia, soprattutto ora che è un mio coetaneo a farlo.
«Rhadia! Ti ho detto che non sei ancora pronto per quel colpo!» lo rimprovera Hosoku che ha ora assunto una posizione di attacco, esattamente come Dhiren al suo fianco.
«Lascia fare noi e non allontanarti da Atena! Non sei pronto!»
«Esatto, moccioso, aspetta la morte inerme, che presto ti raggiungerà»provoca Oto. Lo sento ovunque e da nessuna parte. Come è possibile?
«Aspetta che il tuo maestro muoia prima di raggiungerlo. Lascia che ti indichi la via» continua lo Spectre.
Hosoku e Dhiren sono spalla contro spalla mentre gli specchi si distruggono tutti all'unisono, liberando le mostruosità al loro interno. Devo fare qualcosa anche io, sono davvero troppo vicine a noi, ad Atena! Cosmo, so che sei in me, perciò estenditi e proteggi come incrollabile scudo! Il potere che ho dentro ascolta la mia volontà, la luce mi avvolge completamente, candida e abbagliante suscitando lo stupore di Rhadia.
«Non arriverete mai a lei!» grido, mentre le mostruose mani, toccate dal mio Cosmo, si ritraggono veloci e le creature attorno a noi lanciano un sibilo acuto. Lo sguardo dolce di Eirene è posato su di me, ne avverto la carezza, unita al potere immenso che le appartiene. Sono io che sto proteggendo lei o è il contrario? Non importa, lei mi dà forza, forza per non temere, per non aver paura di nessun nemico.
«Ottimo lavoro, Inazuma» afferma Hosoku, prima di allungare le braccia in avanti e congiungere i polsi.
«Sei pronto, Dhiren?»chiede al Cavaliere dell'Ariete.
«Che domande, Hosoku. Io sono nato pronto.»
 Il loro Cosmo si fonde completamente in quello sconfinato di un unico essere superiore. Io sono niente a loro confronto, ma ora più che mai sogno di giungere al loro livello, di poter fare così tanto per schiacciare le forze degli Inferi.
«Stolti! Pensate di attaccarmi con un colpo così potente? Un'azione combinata di entrambi? Bene! Vi ringrazio, perché esso vi si ritorcerà contro con una ferocia immensa. Perirete sotto i vostri stessi colpi riflessi dal Labirinto degli Specchi di Oto!»
«Uno specchio non può riflettere se diviene polvere» replica Dhiren.
«Anche i più piccoli frantumi fanno il loro lavoro, Cavalieri d'Oro! Non c'è modo alcuno per liberarvi di me!»
«Lo vedremo!»
 È finito il tempo delle parole, lo sento nell'aria.
«Rivoluzione delle Stelle!» grida Dhiren.
«Colpo dei Cento Draghi!» esclama Hosoku.
  Le sfere luminose create dal Cosmo di Dhiren si uniscono alle figure eteree dalla forma draconica che provengono da Hosoku, caricandole di uno splendore abbagliante che per un istante mi acceca. Il potente attacco congiunto si innalza verso l'altissimo soffitto della Terza Casa, prima di diffondersi e abbattersi sul Labirinto degli Specchi di Oto della Succube e sulle figure mostruose che lo popolano. Il rumore della frantumazione viene surclassato dal boato dell'esplosione che scuote le fondamenta dell'antico tempio. Gli specchi si riducono in polvere, fino a sparire completamente senza lasciare alcuna traccia. La frattura oscura dalla quale Oto è entrato, si sta aprendo di nuovo e a poca distanza dalla sua posizione si trova lo Spectre, che striscia a terra, puntando i gomiti. Non rimangono che pochi frammenti della sua corazza a coprire i polsi e le gambe.
«Non lasciarlo scappare, Dhiren!» grida Hosoku. Veloce, il Cavaliere dell'Ariete raggiunge Oto con uno scatto, ma lo spazio si curva e si incrina, trascinando nell'oscurità il corpo dello Spectre. Il colpo di grazia che Dhiren gli ha rivolto si abbatte contro l'ombra e da essa viene respinto, costringendo il Cavaliere di Ariete ad arretrare per riprendere l'equilibrio.
«Troppo tardi!» esclama Oto, dopo che il suo viso è riemerso dalla tenebra. La frattura dello spazio si sta lentamente richiudendo.
«Tu dici?» chiede retorico Hosoku.
«Non vedi? C'è una barriera tra me e voi, ormai, un limite che nemmeno l'attacco che ha polverizzato il Labirinto di Specchi può superare. La mia sconfitta non è definitiva. Tornerò e porterò con me...»
La sua voce viene strozzata da un lamento.
«Che cosa sta succedendo?» chiede a fatica.
«Telecinesi» risponde sicuro Dhiren mentre il corpo del suo avversario inizia a creparsi come se fosse di terracotta.
«Il mio attacco di qualche istante fa non è andato a vuoto. Nel pugno che ti ho rivolto prima che la frattura dello spazio ti accogliesse, era celata una concentrazione d'energia derivante dal nostro ultimo attacco. Il colpo è andato a vuoto, sì, ma ho avuto modo di testare un potere che non ho mai utilizzato finora. La telecinesi è un'abilità che viene tramandata da padre in figlio tra i discendenti del leggendario popolo dei Mu che risiedono tutt'ora nello Jamir, una regione arida e irta di insidie che si sviluppa ai piedi dell'Himalaya. Io sono uno di quei pochi superstiti che possono spostare gli oggetti e le persone per distanze proibitive o addirittura varcare il confine tra le varie dimensioni. Io sono Dhiren dell'Ariete, nato nello Jamir, Cavaliere d'Oro della Prima Casa del Grande Tempio di Atene! Non dimenticarlo durante la tua breve discesa negli inferi.»
Dhiren distende le braccia lungo i fianchi. Il combattimento è finito, ormai. Il corpo di Oto va in frantumi e produce lo stesso rumore degli specchi del suo labirinto. L'oscurità divora ciò che rimane di lui e la frattura dimensionale si chiude come una ferita rimarginata.
«Una presentazione pomposa, Dhiren. Dovrei considerare l'idea di farti scrivere i discorsi ufficiali» scherza Hosoku, rimuovendo l'elmo dal capo. I folti capelli rossi vanno a circondargli  il viso. Gli occhi verdi cercano per prima cosa quelli di Atena.
«State bene, mia signora?» chiede. Anche io mi volto verso di lei, preoccupato. Lei annuisce e ci regala un sorriso sereno. Anche Rhadia è sollevato e tira un profondo sospiro. Gli occhi di Eirene cercano i miei e li trovano. Non li perdono di vista per una lunga serie di secondi. Non so che cosa voglia dirmi, ma desidero soltanto che non smetta di guardarmi.
«Mi chiedo perché mai la barriera di Castore si sia indebolita» dice Dhiren con lo sguardo rivolto verso il punto in cui si era aperta la frattura. «Spero che non sia come penso» continua.
«Sospetti che sia...caduto in battaglia?» chiede Hosoku, incerto.
«C'è un solo uomo che potrebbe darcene la conferma, ma non so se è già tornato dall'Isola della Regina Nera.»
«Intendi...Polluce?»
«Esatto. Polluce, Cavaliere d'Argento del Centauro.»
«Non mi fido di lui, Dhiren. In momenti come questo non è bene covare serpi in grembo.»
 Dhiren rimane in silenzio e a lenti passi si avvicina a noi.
«Sarebbe meglio che non perdessimo tempo in chiacchiere e ci sbrigassimo a salire verso le stanze di Atena. Ho davvero un pessimo presentimento.»
«Hai ragione» risponde distratto Hosoku, rivolgendo un fugace sguardo al lontano soffitto. Spero che l'intuito di Dhiren si sbagli, che al momento non si ripresenti una situazione simile a quella che abbiamo appena vissuto. Ho bisogno di compiere dei passi avanti, diventare più forte e voglio capire come.
 Devo aspettare di giungere alle stanze del Grande Sacerdote per questo. Al contrario di ciò che Hosoku le consiglia, Eirene rifiuta di raggiungere le sue stanze per assistere al mio colloquio con lui. All'ingresso della sala delle udienze ci attende Siddharta, il biondo Cavaliere d'Oro della Vergine. La sua espressione fatica a rimanere stoica.
«Hosoku di Libra, Grande Sacerdote, che ne è stato del potente Cosmo oscuro che ho sentito provenire dalla Terza Casa? Non lo avverto più, però...»
Un sorriso rassicurante curva le labbra del Grande Sacerdote.
«Tranquillo, Siddharta. Non è rimasto più nulla di lui, nemmeno la polvere. Questi sprovveduti non hanno ancora capito che non possono fronteggiare i Cavalieri d'Oro di Atene.»
Nonostante le parole di Hosoku, il viso di Siddharta lascia trasparire una preoccupazione ancora maggiore.
«Eppure...continuo a percepire una strana forza provenire dalla Terza Casa. Non è il tipico potere degli Spectre, ma qualcosa di più arcano e pericoloso che mi rende inquieto.»
«Anche per me è così» si intromette Dhiren. C'è qualcosa che non va, per questo sarebbe bene...»
«Non cercherò Polluce. Non mi fido di lui, Cavalieri. La questione è chiusa» conclude, seccato, Hosoku, per poi superare gli altri due guerrieri dorati e addentrarsi nelle sue stanze. Eirene e Rhadia rimangono in silenzio e tutti e tre ci scambiamo occhiate fugaci. Lei annuisce appena per congedarsi da noi e si avvicina ai due Cavalieri che nel frattempo continuano a parlare tra loro dell'importanza di questo Polluce. La ragazza pone una mano sul braccio di Siddharta e l'altra su quello di Dhiren.
«Dea Atena...» mormora il primo.
«Placa la tua inquietudine, Siddharta della Vergine. L'ho detto poco fa, non c'è nessuno che possa sconfiggerci. Qualsiasi sia la minaccia che hai avvertito, saremo pronti ad affrontarla e vincerla.»
Si volta verso Dhiren.
«Vedrò di convincerlo a seguire il tuo consiglio, Dhiren.»
 Il Cavaliere d'Ariete prova a inchinarsi di fronte a lei, ma Eirene non glielo concede.
«Non farlo. Non sei un mio suddito, ma un mio alleato. Sono io che dovrei inchinarmi di fronte a te, visto quello che hai fatto per proteggermi poco fa.»
Solo ora mi accorgo che sulle dita della mano destra di Dhiren ci sono striature di sangue rappreso. L'armatura non ha subito nemmeno un graffio, ma la sua mano è ferita. Le dita di Atena si prodigano in una leggera carezza. Da quel tocco emana una luce calda e splendente che lascia stupito tanto Siddharta quanto lo stesso Dhiren. Il sangue scompare assieme ai tagli sulla pelle del Cavaliere d'Ariete.
«Ritornate pure alle vostre Case. È bene non lasciarle scoperte di questi tempi.»
Siddharta fa un passo indietro e compie un delicato inchino prima di congedarsi con un saluto formale. Dhiren invece esita prima di allontanarsi. Lo seguo con lo sguardo finché non sparisce dal mio campo visivo. Mi volto verso Eirene ma lei non c'è più. Molto probabilmente ha raggiunto il Grande Sacerdote all'interno.
«Non capisco perché vogliano cercare quell'uomo» commenta Rhadia tra sé e sé.
«Chi? Quel Polluce?»
  Lui annuisce, per poi scuotere il capo.
«È un Cavaliere pericoloso. Più volte ha dato prova della sua infedeltà nei confronti della dea. Dicono che il suo potere sia immenso, simile a quello del fratello gemello Castore, il Cavaliere dei Gemelli, e questo lo porti a considerare ingiusta la sua investitura. Il Grande Sacerdote lo ha condannato all'esilio che ha revocato soltanto qualche giorno fa, dopo che, durante uno scontro amichevole, di puro allenamento, quasi uccise uno dei suoi allievi. La giovane vittima non ha più ripreso conoscenza: tuttora passa i suoi giorni disteso sul suo giaciglio, con gli occhi perduti verso un punto indefinito. In molti hanno cercato di risvegliarlo, ma la realtà è che il potere di Polluce gli ha distrutto la mente.»
«La...mente?»
  Io e Rhadia camminiamo verso l'interno. I nostri piedi fasciati in leggeri sandali calpestano il tappeto rosso che ci guida verso il trono del Grande Sacerdote, stranamente vuoto. Al suo fianco c'è Eirene in piedi.
«Sì, la mente, Inazuma. Ci sono colpi che lasciano illeso il corpo ma consumano la mente, la distruggono. Questi sono stati creati da Castore e Polluce e quest'ultimo li sta insegnando al futuro Cavaliere della Fenice, il suo allievo: Makarios.»
«Maka...rios?»
  Sono sconvolto che un ragazzo pericoloso come quello che mi ha colpito possa apprendere una cosa simile. La mia immaginazione mi porta a figurare un futuro scontro con lui. Un colpo che distrugge la mente...Come ci si difende da un attacco simile?
«Inazuma, un'altra cosa: evita Makarios il più possibile.»
Un lungo sospiro di Eirene segue la frase di Rhadia, facendolo trasalire.
«Non dovresti parlare così di un tuo compagno, Rhadia. Anche se ha una storia diversa dalla tua, Makarios combatte per la nostra stessa causa e proprio come te vuole diventare un Cavaliere. Non accusare i suoi metodi bruschi o la sua tristezza. Cerca di comprenderlo invece.»
 Rhadia rimane in silenzio e lo stesso faccio io. Vorrei far notare ad Eirene quanto Rhadia abbia ragione, ma non me la sento di contraddirla.
Finalmente Hosoku ci raggiunge e si siede al grande seggio di pietra che a lui è destinato. Ha indossato di nuovo la tunica scura, ma non il pesante copricapo.
«Inazuma, finalmente possiamo dare inizio alla nostra tanto agognata chiacchierata.»
Annuisco.
«Sophos si presentò qui in Grecia oltre un mese fa. Egli aveva già avvertito il peso della minaccia che Ade stava portando al mondo e volle condividere la sua preoccupazione con me. Egli era un maestro di immensa sapienza, per questo fu uno dei primi a ricevere l'investitura di Cavaliere d'Oro. Assieme ad Aldebaran, me e Dhiren, faceva parte dei fondatori di questo Grande Tempio.»
«Un...Cavaliere d'Oro?»
«Sì. Sophos era il Cavaliere d'Oro del Cancro.»
  Mio padre era uno dei Dodici! Com'è possibile che io non abbia mai visto la sua scintillante armatura dorata? Perché non mi ha mai detto niente? No...forse ci ha anche provato, ma io non l'ho ascoltato. Mi sento davvero in colpa per non averlo fatto. Ora si spiegano molte cose come la consapevolezza di Sarya e il suo legame con Angelòs. Sarya...Chissà cosa penserebbe di me e della mia decisione di diventare un Cavaliere, ora più forte che mai? Sicuramente sarebbe fiera di me, proprio come mio padre. Vorrei che mi vedessero e sentissero le mie scuse per aver sempre ignorato quello che volevano dirmi.
Atena è una creatura concreta ed è qui vicina a me. Solo la sua presenza mi dà sicurezza, serenità e speranza. Non è un mito, non è una storia di sogni lontani: è tutto ciò che di positivo esiste a questo mondo e noi non possiamo permetterci di perderla. Se ciò accadesse moriremmo senza esalare l'ultimo respiro.
«Voglio essere come lui fu» affermo determinato.
«La strada è lunga, piena di insidie e sacrifici, Inazuma, ma puoi percorrerla. La sacra armatura di Bronzo di Pegasus attende il suo degno possessore sin dalla sua creazione. Nessuno ha mai indossato le vestigia del selvaggio e libero cavallo alato nato dal sangue della Medusa, poiché le sue tredici stelle non hanno mai manifestato il loro potere: il Cosmo che ho visto poco fa risplendere alle tue spalle.»
«Il Cosmo di Pegasus?»
«Sì. Quando un Cavaliere brucia il suo Cosmo e lo espande, attinge alla costellazione che l'ha benedetto alla nascita e io, Cavaliere di Libra, supremo giudice degli Ottantotto Cavalieri di Atena, sono capace di distinguere la sua appartenenza. Per questo motivo sono stato nominato come primo Gran Sacerdote della dea.»
Quest'uomo è così potente da riuscire a leggere il mio destino così chiaramente?
«Le stelle di Pegasus ti hanno scelto, Inazuma, perciò ora devi lottare per realizzare il tuo destino. Sarai affidato alla guida di Angelòs che ti insegnerà a dominare il Cosmo che c'è dentro di te.»
Rhadia mi colpisce la schiena con una pacca amichevole.
«Presto saremo compagni di lotta, Inazuma. Vedi di non farmi aspettare troppo» mi dice. Capisco che la sua ostentata superiorità è solo uno scherzo dal sorriso divertito che ha sulle labbra. Alzo il pugno destro e lo stringo.
«Otterrò l'armatura prima di te.»
«Adesso non ti emozionare troppo. Sono qui da due anni io. A meno che tu non sia un genio come Esperante non riuscirai mai a raggiungermi.»
«Non parlare così di lui, Rhadia. Non voglio che si monti la testa, visto che ha ancora molto da imparare» si intromette Angelòs, che assieme ad Esperante si avvicina a noi. Non indossa l'armatura d'oro e il suo viso è disteso in un'espressione tranquilla.
«Perdonate il ritardo, Grande Sacerdote.»
Il Sacerdote alza appena la mano con un gesto tranquillo.
«Non preoccuparti, abbiamo avuto le nostre complicazioni e siamo arrivati in ritardo anche noi.»
«Mi ha informato il nobile Dhiren e mi ha parlato anche di Polluce...»
«Non voglio che se ne parli, Angelòs. È un'opzione che non voglio considerare. Ho revocato il suo esilio soltanto per poter contare sulla sua forza sterminata, ma tuttora non mi fido di lui.»
«Castore ha smesso di proteggere la Terza Casa e...»
«Il mio sesto senso non mi ha mai tradito e ora mi dà la certezza che il Cavaliere dei Gemelli non sia caduto.»
Lo sguardo di Angelòs si sposta per qualche istante su Atena, la quale lo saluta con un sorriso.
«Tuttavia, Angelòs, ti ho fatto chiamare per affidarti Inazuma. Dovrai aiutarlo a diventare il Cavaliere di Pegasus.»
Le labbra del Cavaliere del Sagittario si curvano appena in un sorriso.
«Un secondo allievo? Sarà una bella sfida.»
«Sapevo che non ti saresti rifiutato. Sei l'unico dei Cavalieri d'Oro che trovo adatto a un carattere come quello di Inazuma. Tieni conto che questo ragazzo ha entusiasmo da vendere e non sarà difficile farlo lavorare seriamente.»
«Inizieremo subito, allora. Dopo la manifestazione della dea, tutti gli aspiranti Cavalieri si sono messi al lavoro con più enfasi di prima» commenta Angelòs, mentre mi appoggia una mano sulla spalla e fa lo stesso con Esperante. Inaspettatamente la pressione di quello che sembrava un gesto rassicurante si fa più pesante e mi costringe a chinarmi in avanti. Anche Esperante deve fare lo stesso.
«Ecco una lezione che Esperante è ancora restio a imparare: dovete sempre riconoscere l'autorità della dea Atena e del Grande Sacerdote e omaggiarla con un sentito inchino.»
Pensavo che Angelòs non ricorresse alla forzatura come metodo di insegnamento. Il suo sorriso cordiale e accomodante contrasta con i gesti bruschi per i quali io protesto con una smorfia e Esperante indurendo l'espressione.
Dopo il congedo da Eirene, Rhadia e Hosoku, rimango chiuso in un assoluto silenzio mentre Angelòs e Esperante mi guidano a discendere la scalinata. Attraversiamo di nuovo le Dodici Case mantenendo un'andatura sostenuta, quasi una corsa. Pensavo che avremmo raggiunto l'arena, che ci saremmo confrontati con gli altri miei coetanei, invece la attraversiamo e la superiamo. È deserta, completamente.
 «Dove sono gli altri?» chiedo sorpreso.
«Ognuno si allena in un luogo differente. L'Arena viene utilizzata solo per i confronti ufficiali e come platea per le cerimonie. Il territorio montuoso attorno al Grande Tempio è il vero campo d'addestramento. Soltanto le sacerdotesse guerriere hanno il diritto di utilizzare un luogo all'interno delle mura.»
Le sacerdotesse guerriere! Sarya! Lui sa dov'è Sarya!
«Angelòs! No, nobile Angelòs, volevo farvi una domanda.»
«Dimmi.»
«Dov'è mia sorella? Non la vedo da tre giorni e sono molto preoccupato per lei.»
  La mia domanda lo sorprende, ma cosa più curiosa è l'espressione di Esperante.  Il suo sorriso ampio e lo sguardo assottigliato mi danno l'impressione che lui sappia qualcosa che non so.
«Sarya...ehm. Sì, Sarya sta facendo il suo percorso per diventare Cavaliere d'Argento della costellazione dell'Aquila. Si sta allenando con Megara, Cavaliere d' Argento della Costellazione della Corona Boreale.»
«E a volte viene ad allenarsi anche con noi, vero Angelòs?»
Angelòs annuisce, visibilmente impacciato alle parole di Esperante e si lascia andare a una risatina sofferta. Sono felice di avere la possibilità di vederla, ma la mia allegria è smorzata dalla perplessità che mi suscitano le reazioni del mio maestro al nome di Sarya.
«È successo qualcosa con lei?» chiedo confuso.
«No, no! Solo mi fa piacere ricevere le visite di Sarya. Siamo amici da anni, Inazuma.»
«Amici» fa eco Esperante, prima di portare una mano alle labbra in modo da nascondere una risatina.
«Smettila, fratello» gli ordina bruscamente il maestro e lui si immobilizza immediatamente, come se fosse diventato un pezzo di gesso.
«Ora basta chiacchiere. Abbiamo moltissimo lavoro da fare» dice il Cavaliere di Sagitter, scattando in una corsa velocissima a cui fatico moltissimo a stare dietro. Ci lasciamo alle spalle il Grande Tempio e proseguiamo verso un isolato sperone di roccia distante centinaia di metri da esso. Il sentiero che dobbiamo percorrere è scosceso e irregolare. Devo ben guardare a dove metto i piedi, al contrario di Esperante e Angelòs che si spostano con passi sicuri e lesti. Sono l'ultimo a raggiungere la sommità, ma non vengo ripreso per questo, anzi, Angelòs mi aiuta a compiere l'ultimo passo prendendomi per mano. Mi concede qualche istante per recuperare un minimo di regolarità nel respiro, dopodiché mi invita a seguirlo fino a portarmi di fronte a uno scrigno lucente al quale Esperante ha appoggiato la schiena. Il futuro Cavaliere del Leone si sposta quando anche il fratello affianca lo scrigno.
«Questa è l'armatura di Bronzo di Pegasus e sarà tua alla fine dell'addestramento.»
 Mi avvicino a passo lento, fino a poter toccare l'immagine in rilievo. Raffigura il viso del cavallo alato visto da di fronte. Percorro le sue linee con le dita, rapito dalla strana risonanza che questo oggetto ha con la mia anima.
«Pegasus...»
«Esatto. Lui è il tuo destino a quanto pare. Ora non rimane che raggiungerlo il prima possibile.»
 La voce di Angelòs e il sorriso di Esperante sono rassicuranti. Anche se il cammino è ancora lungo, anche se questo mondo tutto nuovo mi spaventa un po', so che è ora di incominciare a lottare per realizzare ciò per cui sono nato.

 

ECATE

Il sole cocente è il nemico naturale della mia carnagione pallida. Camminiamo a rilento lungo la via sterrata che tortuosa si snoda tra i piccoli villaggi fuori dalla Polis. Castore ha smesso la sua armatura che ha assicurato all'interno di uno scrigno dorato finemente decorato con un bassorilievo sulla faccia che posso vedere. Raffigura due bambini identici con lo sguardo rivolto verso chi osserva. Non ho idea di come un corpo umano possa sollevare un peso simile e portarselo dietro per una traversata sotto il sole. Mi piacerebbe chiederglielo, ma non mi parla da quando abbiamo lasciato il tempio di Ares in rovina.  La sua espressione è poco diversa da quella di una statua di marmo e mi dissuade da iniziare qualsiasi discorso. Mi sono lasciata alle spalle il mantello logoro e le fasce che mi coprivano i polsi. Non c'è più niente a coprire la mezzaluna del traditore. Ora sta fiera lì a macchiarmi il braccio. Non so perché ma ho smesso di vergognarmene.
«Ci fermeremo alla prossima locanda.»
«Già stanco?» chiedo con un sorriso esausto.
«Sei tu quella a cui tremano le gambe. Respiri a fatica. Si vede che non sopporti la calura della mattinata inoltrata.»
Tutta la mia buona predisposizione verso Castore sfuma sempre appena inizia a parlare.
«Mi stai dando della debole inetta?» chiedo, risentita.
«Debole, ma non inetta.»
 Faccio schioccare la lingua contro il palato e tiro un profondo sospiro. Castore ha ragione. Mi gira la testa e faccio fatica a proseguire. Non mi dispiace che abbia previsto una pausa, ma di certo non ammetterò a voce di essere già arrivata al limite.
Il sudore mi bagna la fronte e appesantisce i capelli contro di essa. Li tiro indietro con entrambe le mani. Il mio tocco è bruciante e contribuisce a rendermi la situazione ancora più insopportabile.
«Avrei preferito incontrarti in inverno.»
 Con quella frase gli strappo un sorriso anche se debole.
«Io odio l'inverno» mi risponde. «Non mi piace la neve, il freddo. Gli alberi spogli e la natura ghiacciata danno l'idea di un paesaggio morto.»
Io ho sempre amato l'inverno, invece. Mi piace il silenzio, la desolazione, il freddo. I rami spogli mi hanno ispirato le più profonde riflessioni.
Castore si ferma all'ombra di un albero dal tronco contorto. Appoggia a terra lo scrigno d'oro e si siede a fianco ad esso, puntando le spalle contro la ruvida corteccia. Chiude gli occhi per qualche istante che utilizza per inspirare profondamente l'aria odorosa di campagna.
«Approfitta della mia pietà» afferma lasciandomi di stucco.
«Come no?! La tua pietà!» commento urtata, con un sorrisetto sconcertato. Umetto le labbra per quel poco che posso: ho la bocca riarsa dalla sete.
«Ammetti di essere sfinito, invece di dare la responsabilità a me.»
«Non sono sfinito. Potrei arrivare ad Atene in un baleno se solo non avessi una lamentosa palla al piede.»
«Ah sì? Bene allora! Alzati e schizza verso Atene come un lampo impazzito! Io ti seguirò con i miei tempi! Mi fermerò a mangiare, a bere e a levarmi questo schifoso sudore di dosso!»
  Afferro i lembi della casacca intrisa di sudore e la scuoto nervosamente.
«Odio viaggiare a piedi! Se mi fosse piaciuto marciare, mi sarei unita all'esercito di Sparta!»
Inizia a ridere sommessamente, per poi concedersi di sghignazzare senza trattenersi.
«Lo vedi? Sei tu quella che è stanca e si lamenta. Tuttavia, permettimi di dire che come fante di Sparta saresti un vero spettacolo. Ti immagino già con corazza ed elmetto, armata di lancia, mentre gridi come una selvaggia contro il nemico.»
Rimango in silenzio a fissarlo, disarmata. Continua a prendermi in giro in tutta serietà. Parla come se credesse davvero in ciò che dice e questo mi fa ridere.
«Mi stai prendendo in giro!»
«No, assolutamente. Stavo soltanto figurando un tuo eventuale arruolamento tra le fila di quei selvaggi. Ho avuto modo di conoscere uno di loro e devo ancora comprendere il suo modo di pensare.»
«Uno spartano? È un Cavaliere anche lui?»
«Sì. Un Cavaliere d'Oro. Un ottimo guerriero ma un uomo enigmatico, taciturno, insomma, tutto il contrario di te. Pensavo che fossi una donna silenziosa, metodica e dal sangue molto freddo, ma mi sbagliavo. Meglio così.»
Quel "meglio così" mi strappa un sorriso.
«I tuoi complimenti sono molto anticonvenzionali.»
«Complimenti? Non ne faccio. Le mie sono pure e semplici constatazioni.»
Il rumore degli zoccoli e delle ruote di un carro che segnano la strada polverosa interrompe il nostro discorso. C'è un uomo alla guida del mezzo malconcio e al suo fianco siede una donna incappucciata, vestita pesantemente di nero. È ancora abbastanza lontano dalla nostra posizione, ma si ferma quando ci raggiunge.
«Signori, dove siete diretti?» ci chiede. È anziano, vestito di abiti logori, ma il suo sorriso umile e sincero è rassicurante.
«Al villaggio poco distante da qui» risponde Castore, alzandosi in piedi.
«Voi siete...» si lascia sfuggire, quando Castore si avvicina al carro.
«Castore, Cavaliere dei Gemelli» completa lui la frase. «Sembrerò scortese, buon uomo, ma ho un favore da chiedervi.»
L'anziano sbatte le ciglia un paio di volte, sorpreso.
«C'è un posto per me e la mia apprendista sul vostro carro?»
«Voi e la vostra apprendista? Sul mio carro, nobile Castore? Il mio carro è solo quello di un contadino. Dovrete sistemarvi tra le otri di vino e ...non credo sia adatto alla vostra nobile persona.»
Il vecchio non fa in tempo a parlare che Castore è già salito sul carro portandosi dietro lo scrigno dorato e sta tendendo la mano destra verso di me.
«Sarà come il carro di Febo per me. Non preoccupatevi, buon uomo.»
 Sotto lo sguardo sconcertato del carrettiere salgo sul carro anche io e vado a sedermi tra le otri. Ho un bisogno esagerato di riposarmi.
«Siete sicuro?» chiede lo sconosciuto.
«Certo come non sono mai stato.»
«Allora sarà un immenso piacere offrirvi un servigio. Vi porterò al villaggio in un baleno!»
 Sollevo un sopracciglio e rivolgo un'occhiata complice a Castore. Tutti e due pensiamo che il vecchio ronzino non si sposterà alla velocità del tuono.
Lo schiocco della frusta fa muovere i primi passi all'animale. È lento e affaticato ancor più di prima.
«Perdonatemi la scortesia, nobile Castore. Non mi sono presentato! Sono Menelao, un contadino del villaggio di Klesos e questa è mia figlia Callisto. Mi scuso per lei, ma non può mostrare il viso a nessuno.»
«Come mai?» chiedo.
«Il suo è un voto» mi risponde. Io e Castore ci scambiamo una fugace occhiata. Cala il silenzio tra noi finché il mio compagno di viaggio non porta il discorso su altri lidi.
«Ho lasciato queste terre in pace dopo una lunga invasione di traci. Spero che quei barbari non siano tornati.»
 Lo fisso intensamente con le sopracciglia aggrottate. Vorrei ringraziarlo per il complimento che ha fatto ai miei simili, ma il lungo sospiro del vecchio mi dissuade dal farlo.
«I traci sono stati un piccolo imprevisto vicino a ciò che sta succedendo ora. La morte è giunta feroce a reclamare le vite di molti di noi attraverso uno strano morbo che svilisce il corpo senza lasciare segni fino a privarlo del soffio vitale.»
«Un'epidemia?» chiedo, balzando in piedi. Durante il mio sacerdozio al tempio di Ares ho visto morire decine di donne per colpa di una malattia aggressiva che toglieva loro il respiro. Ho già sentito il peso dell'impotenza che comporta il non potersi difendere da un nemico impalpabile.
«Non è esattamente un'epidemia. Essa può essere placata e...»
 L'anziano contadino rivolge una lunga occhiata alla donna incappucciata.
«Mia figlia è l'unica a poterlo fare.»
«Una fanciulla sola contro una malattia letale? Dove sono finiti gli uomini di Klesos? La loro dignità è forse perita con la paura?»
La domanda di Castore sembra più che altro un rimprovero.
«Nobile Castore noi...non abbiamo altra scelta. Nemmeno un impavido Cavaliere di Atena come voi potrebbe...»
«Fatemi provare, spiegandomi ogni cosa.»
 Chiudo gli occhi e tiro un profondo respiro. A detta di Castore, abbiamo fretta di raggiungere Atene e lui non fa altro che rallentare la marcia offrendo i suoi servigi anche a questo straccione. Non credo che un villaggio sperduto come Klesos sia determinante in tutto il tumulto che sta sconvolgendo il mondo. Perché soffermarci?
«Nobile Castore ma...» dice il vecchio, con un sorriso timido, appena visibile sulle labbra. Ormai è sicuro che otterrà l’aiuto che finora si è vergognato a chiedere. Non so perché ma questo dettaglio mi infastidisce.
«Non provate a dissuadermi. Io sono un Cavaliere e il mio compito è quello di liberare gli oppressi. Solo così posso guardare in faccia la dea senza vergognarmi della mia negligenza.»
La sua risposta mi lascia senza parole e senza fiato. La determinazione con cui si è espresso ha gelato le mie intenzioni. Anche se io non capisco come faccia a essere così convinto, lo ammiro. Pensavo che questo tipo di eroi esistessero solo nei racconti degli aedi, ma a quanto pare la realtà ha di gran lunga superato l'immaginazione con lui. Vorrei considerarlo un idealista, un ingenuo incurabile, ma è come se i suoi principi così cristallini e chiari mettessero a nudo la limitatezza del mio pensiero. Brilla di una luce accecante che avvolge il buio del mio opportunismo e la cecità del mio cammino senza meta.
Arriviamo a Klesos quando il sole sta già percorrendo la sua parabola discendente. È meno cocente, anche se il terreno polveroso emana il calore accumulato e rende l'aria irrespirabile. L'erba è stata seccata, quasi riarsa dalla calura, e fruscia sotto i nostri passi come foglie secche. Callisto ci invita ad entrare all'interno di una piccola casa dalle mura bianche. L'arredo è rozzo e minimale, ma c'è un'atmosfera accogliente che ci avvolge. Il vecchio Menelao si ferma sull'uscio e rivolge un'occhiata nostalgica ai meravigliosi tralci della vite che cresce attorno alla sua casa.
Callisto mi porge una coppa di acqua fresca e io non esito a bere, spegnendo l'arsura che mi ha bruciato la gola finora. Anche Castore fa lo stesso, sebbene in maniera più pacata.
«Ora che siamo al sicuro tra le mura di casa vostra, smettiamola con le chiacchiere da taverna e andiamo al dunque. Che cosa dovrebbe fare vostra figlia per placare l'epidemia?»
«Discendere negli Inferi.»
Io e Castore ci fissiamo sconcerti. Questa volta anche lui ha le labbra schiuse a causa della sorpresa.
«C...cosa?» chiede.
«Sono nata con un destino particolare» risponde la ragazza, accarezzando le spalle del padre, che scosso da un singhiozzo, decide di rimanere in silenzio.
«Prima della mia nascita, il Dio della Morte, Thanatos annunciò a mio padre e a mia madre che avrebbero dato alla luce la reincarnazione vivente della dea Persefone, la sposa di Ade uccisa da una macchinazione di Ares.»
I miei occhi saettano dal viso di Callisto a quello di Castore.
«Quando venni al mondo, Thanatos tolse la vita a mia madre, in modo da proibire che si verificasse lo stesso contenzioso che ci fu ai tempi del mito tra Ade e Demetra, la genitrice di Persefone, e fece giurare a mio padre che al mio sedicesimo anno di età egli mi avrebbe consegnato ad Ade. Il signore dell’Oltretomba sarebbe venuto a prendermi con la sua quadriglia trainata da cavalli neri come la notte nel bosco non lontano da qui dove è eretto un vecchio santuario in rovina a lui dedicato. Nel regno dei morti non avrei conosciuto lo scorrere del tempo o il tocco aspro della vecchiaia, ma sarei sempre rimasta separata per sempre dalla luce del sole.»
La ragazza si china a dare un leggero bacio sulla guancia del padre.
«Mio padre mi salvò. Non mi portò mai in quel tempio e per atroce vendetta, il dio Thanatos iniziò ad uccidere gli uomini e le donne di Klesos. Più volte si presentò a noi, intimandoci di adempiere al patto, ma finora...mio padre si è sempre rifiutato. Sono passati due anni dal mio sedicesimo compleanno e la popolazione di Klesos si è dimezzata. Gli anziani non credono al motivo di questa moria, per questo pregano ogni giorno per l'intervento di Atena e della sua giustizia. Sono ignari e uno dopo l'altro periscono per colpa mia...Non posso più accettarlo e anche se questo distruggerà mio padre, la persona che più amo al mondo, stasera stessa io discenderò negli inferi.»
Gli occhi scuri di Callisto si velano di lacrime che evadono dagli occhi non appena lei sorride.
«Ho dato un ultimo saluto al sole e alla città. Sono pronta a lasciarmi tutto alle spalle.»
«Non succederà» sentenzia Castore. Il suo tono di voce è deciso, ma suona strano, quasi beffardo. Lo scruto con attenzione e vedo un mezzo sorriso fiorirgli sulle labbra. Non capisco.
«Questo scambio non avverrà.»
Guardo Castore perplessa, mente le parole di Ares risuonano nei miei ricordi. Lui non sta aspettando altro che il confronto con Ade.
«Che cosa?» chiede interdetta Callisto.
«Datemi la possibilità di riposare e rifocillarmi. Stasera vi accompagnerò al tempio e lì chiuderò la faccenda.»
Menelao e Callisto ci offrono un buon pasto e un posto in cui dormire. Castore riposa nella stanza del vecchio, mentre io in una piccola anticamera adiacente a essa. La preoccupazione mi rende inquieta. Il mio corpo ricorda la potenza inaudita del Cosmo di Ares e non posso fare a meno di pensare che quello di Ade lo eguagli e forse lo superi. Se Castore si opponesse a lui, quante probabilità ci sarebbero di vederlo tornare? Lo conosco da poco eppure...non accetto che finisca tutto qui, in questo sperduto angolo di Grecia. Mi giro e mi rigiro sullo scomodo giaciglio, finché una forte nausea non mi costringe ad alzarmi. Provo a trattenere i conati di vomito, ma non ci riesco. Sono intontita e percepisco i rumori ovattati. Le mie membra sono intorpidite, almeno fino a quando non rimetto un'altra volta.
Odo il rumore di passi provenire dalla stanza accanto. Barcollo fino a raggiungere il giaciglio di Castore. Callisto è seduta al suo fianco e senza nemmeno voltarsi verso di me canticchia una vecchia canzone, simile a una nenia. Ricordo quelle note: fanno parte di un antro lontanissimo della mia memoria relegato all’infanzia.
Il suo capo è scoperto e sulla fronte spicca una stella a sei punte, tracciata sulla pelle da una luce violacea. La sua mano destra è sospesa sulle labbra di Castore e su di esse lascia scivolare una polvere  dorata.
«Sei già sveglia?» mi chiede, con un sorriso divertito sulle labbra.
«Allontanati da lui!» ringhio a denti stretti.
«Dovevo immaginarlo che con te non funzionassero i veleni né i sonniferi, Ecate di Tracia. Mi dispiace che al contrario del Cavaliere di Gemini tu non possa assaporare una morte dolce. Eppure avevo preparato tutto per te. Significa che dovrò ucciderti in modo barbaro.»
Ho già visto questa donna, mi ricordo i suoi lineamenti, eppure non riesco a ricondurre il suo volto a un nome.
La penombra della stanza nasconde un'arma metallica che tintinna non appena il braccio destro di Callisto affonda nell'ombra. Si alza in piedi. I lunghi capelli neri e lisci scendono ordinati fino alle sue cosce. La fiamma spenta del braciere torna ad ardere illuminando il grosso tridente nero che lei stringe nella mano sinistra, mentre io sollevo un angolo della bocca in un sorriso sghembo.
«Credi di impressionarmi con quel coso? Non temo nessuna arma.»
 Sollevo il braccio destro sopra il capo. Chiudo appena le dita e lascio che le mie unghie si trasformino in artigli. Le carico del potere del mio Cosmo che muta di colore e dal bianco assume un colorito violaceo.
«Ti taglierò in due prima che tu possa anche solo torcerci un capello!»
 Scatto verso di lei con un balzo e traccio un fendente verticale con le mie unghie, ma non colpisco altro che il tessuto dell'abito nero di Callisto. I suoi spostamenti sono rapidi, anche se non come quelli di Castore, quello che le basta per raggiungere le mie spalle. Mi volto in fretta, e paro l'affondo del tridente con il braccio destro. Le tre lame trafiggono la carne, la trapassano e si fermano a pochi centimetri dal mio viso.
«No...» mi lascio scappare dalle labbra oltre a un lamento. Callisto prova ad estrarre l'arma dalla mia carne, ma io glielo proibisco, serrando la mano libera sull'impugnatura nera.
«Lascia andare il tridente!» mi intima lei.
«No...nemmeno da morta!»
 Una scarica bruciante di energia percorre le lame e mi rendono insopportabile il dolore, costringendomi a gridare. Anche se la mia stretta si allenta, non si scioglie del tutto. Il braciere si spegne di colpo, catapultandoci nel buio della notte.
Odo soltanto i nostri respiri per qualche istante, mentre inizio a percepire l'espandersi di un Cosmo mostruoso. L'ho già avvertito, lo conosco e anche se non mi è ostile mi atterrisce. Il braciere si riaccende con una fiamma violacea che diffonde una luce sinistra in tutta la stanza. Il giaciglio ora è vuoto.
Callisto riesce a liberare il tridente e ferisce anche le dita della mano con cui lo trattenevo. Vedo il suo viso contorto da un'espressione preoccupata.
«Dove sei?» chiede con un grido, agitando il tridente. I suoi occhi si posano su di me e subito dopo mi rivolge contro le lame lucenti.
«Facciamo così, Gemini. Palesati o Ecate di Tracia morrà trafitta. È inerme, indifesa e si dia il caso che è anche il mio obiettivo.»
«Se è morire ciò che ti preme, ebbene mi farò palese. Spero solo che tu non ti penta» riecheggia la voce di Castore da ogni direzione, come se si trovasse in più punti attorno a noi. Lo vedo, si trova alle spalle di lei, ma Callisto sembra non accorgersene. Continua a guardarsi intorno con gli occhi sgranati.
«Com'è possibile che tu sia dappertutto? È un'illusione!»
La vedo menare colpi a vanvera, ogni volta sempre più aggressivi. Le tre lame sono illuminate da scariche violacee che Callisto rilascia a ogni impatto, lacerando il muro che ci separa dall'esterno fino ad abbatterlo.
«Ti troverò e ti strapperò il cuore dal petto! Non hai idea di chi ti stai prendendo gioco!»
«L'importante è esserne convinti, Callisto, o chiunque tu sia. Pensavi davvero che avessi creduto alla storiellina strappalacrime che tu e quel vecchio imbroglione ci avete raccontato?» afferma Castore divertito, mentre lentamente si avvicina a me, ignorando la donna confusa.  
«So che il tempismo non è perfetto» mi dice sottovoce.
«È solo un graffio» minimizzo.
  Le mani di Castore premono sulla mia schiena e mi obbligano ad abbassarmi. Un istante, uno solo, e il tridente di Callisto si abbatte sulla parete vicina a noi, distruggendola.
«Non è uno sciocco trucco a potermi ingannare a lungo» afferma Callisto, mentre insieme ci solleviamo impolverati dal muro ridotto in briciole. Castore scompare dal mio fianco, scattando verso di lei a una velocità che non riesco a seguire. Lo vedo immobilizzarsi a poca distanza da Callisto. Il pugno caricato dal suo Cosmo dorato dista pochi centimetri dal capo della donna.
«Questo Cosmo...»  mormora appena a denti stretti.«Non pensavo che dietro tutto questo…ci fosse…»
  Callisto tende un braccio in direzione del suo tridente che, come afferrato da dita invisibili, raggiunge la sua mano.
«Che pessimi ospiti. Mi hanno distrutto casa» commenta la voce di Menelao, sorprendendo tanto me quanto Castore, immobilizzato nella sua posa di attacco. Spostiamo lo sguardo sulla sagoma dell'anziano che raggiunge il fianco di Callisto. La vediamo contorcersi e modificarsi, allungarsi e ampliarsi, mutando in quella di un uomo molto più alto di Castore, vestito da una splendente armatura nera. È giovane, bello, di una bellezza ultraterrena. Il suo Cosmo violaceo è ampio, soverchiante e brillante e illumina i capelli argentei, lucidi come se fossero di cristallo. I suoi occhi non hanno pupille e l'iride d'argento riflette la luce in una tonalità affascinante e allo stesso tempo letale. Il coprispalle dell'armatura è voluminoso e si prolunga in una splendida coppia di ali lucide e nere come la notte. Non è un essere umano. No, non lo è.
«Thanatos…» mormora Castore, cercando di liberarsi dalla paralisi.
«Oh! Incredibile che tu mi abbia riconosciuto. Ma certo...è vero quello che dicono: sei la reincarnazione di un dio e hai i suoi ricordi. Stavo per ricredermi quando ti ho incontrato. Sei stato così ingenuo che mi hai quasi fatto una gran tenerezza. L'impavido Cavaliere che difende gli oppressi! Quanto sei caduto in basso, Ares?»
«Io non sono un ingenuo. Avevo capito che qualcosa si nascondeva dietro tanta gentilezza…Ho avvertito uno strano Cosmo ma…non pensavo che fossi tu. E poi ricorda: io...non sono Ares!» afferma Castore, mentre con uno sforzo titanico abbassa il braccio e riprende la postura eretta. Il suo Cosmo dorato lo abbraccia e si espande.
«Io sono Castore, Cavaliere d'Oro dei Gemelli e...non temo nemmeno il Dio della Morte.»
«Porta rispetto al sommo Thanatos!»
Callisto rivolge il tridente verso Castore. Dalle sue lame partono le scariche violacee che tentano di stringersi attorno al corpo del guerriero dorato, ma senza successo.
«Io rispetto soltanto la dea Atena. Non riconosco questo assassino come una divinità.»
L'espressione divertita di Thanatos cambia radicalmente in una smorfia di disgusto.
«Come osi , misero verme?»
«Oso perché ho visto come hai ridotto questo luogo, oso perché i miei pugni gridano la sete di vendetta delle vite spezzate da te.»
«Se il sommo Ade non me lo avesse proibito, ti avrei già fatto a pezzi, come suggeriva Pandora.»
«Pandora...?» balbetto io, sconcertata. «Quella è Pandora?» grido. Un ricordo balena nella mia mente: risale a oltre quindici anni fa. Era una giornata calda come questa. Vivevamo nelle rovine della nostra umile casa. Sopravvivevamo grazie alla gentilezza delle donne della casa di tolleranza adiacente alle mura del nostro rifugio. Eravamo sole contro il mondo, io e lei, preparate a non separarci mai. La notte aveva già fagocitato il giorno e le nubi coprivano il firmamento stellato. Mia sorella Calypso era accanto a me, stanca, quasi addormentata. Io le accarezzavo i capelli in modo da farle conciliare il sonno. Entrambe sentimmo uno strano canto. Certo, quella canzone! Sì! Quella che questa donna cantava a Castore addormentato! Mentre io ero confinata a letto da un torpore che mi immobilizzava le membra, mia sorella si alzò in piedi, come se fosse ipnotizzata da quella melodia. I suoi lunghi capelli neri e ricci danzavano nell'aria alla dolce carezza della brezza della sera. La vidi uscire e fermarsi di fronte alla figura di una ragazzina. Quest'ultima era piccola, vestita da un bellissimo abito nero. Sicuramente era la figlia di una famiglia ricca. Che faceva nel quartiere popolare? Emanava un'energia oscura che mi toglieva il respiro. "Il mio nome è Pandora" le sentii dire e la vidi porgere un anello nero, splendente come le pietre degli inferi a Calypso. Lei, senza espressione, persa in chissà quale ricordo, lo indossò e dopo avermi rivolto un'occhiata triste, sparì dalla mia vista, scivolando nel buio in compagnia della misteriosa Pandora. Da allora non la rividi mai più.
«Pandora!» grido ancora più forte e, mossa da una furia cieca rinata dal ricordo, scatto contro di lei con gli artigli estratti e caricati di energia. La mia corsa viene interrotta bruscamente da una forza mostruosa che non solo mi immobilizza ma mi schiaccia a terra. Anche Castore cede al peso della pressione, ma oppone resistenza e rimane in piedi, anche se con le ginocchia piegate. È il potere di Thanatos, il potere di un Dio.
«Gli esseri umani devono fare soltanto una cosa di fronte a lui: inginocchiarsi» spiega Pandora, con un ghigno fastidioso sulle labbra.
«Dove l'hai portata? Dove hai portato Calypso?» le chiedo, disperata.
«In un luogo sicuro» risponde, rilassando l'espressione. Sposto lo sguardo dai suoi agli occhi argentei di Thanatos. Lui non mi presta attenzione, non la presta a nessuno di noi due, ma si intromette nel discorso.
«Davvero mi addolora di non poter concludere questo incontro togliendovi la vita, ma è Ade a decidere. Siete suoi, danzate sul suo palmo, non sul mio. Il mio compito è solo quello di portarvi un messaggio dall'imperatore degli inferi.»
Thanatos distende un braccio e compie un giro completo su se stesso. Centinaia di piccole fiamme violacee si accendono attorno a noi illuminando lo spettacolo turpe di una campagna morta. La vite è secca, gli alberi spogli e raggrinziti. Il verde che ci ha accolto quando siamo arrivati non era nient'altro che un'illusione.
«Ammirate ciò che rimane al passaggio del nostro signore su queste terre, lo spettacolo della pace e del silenzio, della morte.»
Cadaveri e carcasse di animali tappezzano il terreno macchiato dal sangue rappreso. L'odore della decomposizione è fortissimo.
«Pace? Questa è forse la vostra pace?» lo sfida Castore, distendendo le gambe a fatica.
«Noi uomini non la accetteremo mai!»
Alza un braccio in un movimento lento e chiude il pugno. Fa lo stesso con l'altro, subito dopo. Il Cosmo dorato torna ad avvolgerlo.
«E invece lo farete» afferma pacato il Dio della Morte, mentre posa le dita su uno dei pugni chiusi di Castore.
«Perché lentamente la morte divorerà la vita del mondo intero. In tutte le terre conosciute e non si verifica quello che state vedendo, mano a mano che il Cosmo di Ade si diffonde e si fa più potente. Atena è debole adesso, al contrario di noi che diventiamo sempre più forti. Ora ascolta bene, Cavaliere d'Oro.»
Thanatos stringe le dita sul pugno di Castore, strappandogli un lamento.
«Tra tre anni il sole si oscurerà per sempre. La vita avvizzirà e il mondo sarà un...»
«Cimitero a cielo aperto...» Castore completa la frase con un ghigno sulle labbra. Alcune ciocche dei suoi capelli stanno cambiando colore.
«I vostri sogni non sono cambiati nel corso del tempo...e mi hanno sempre fatto ridere...»
«Oh, come se non fosse abbastanza ridicolo un dio che si reincarna in un fragile umano, no Ares?»
La risata di Castore sorprende Thanatos e dopo qualche istante suscita un moto di rabbia in lui. La sua ampia mano si chiude con più forza su quella del Cavaliere d'Oro, tanto che il prezioso metallo che ricopre il dorso si incrina per poi frantumarsi. Corposi rivoli di sangue scorrono sulle dita e sul braccio ancora armato.
«Smettila di ridermi in faccia!» ringhia il Dio della Morte.
«E cosa dovrei fare? Riverirti? Sei soltanto un misero schiavo, un dio così inetto che per paura del potere maggiore di Ade ha deciso di chinare il capo e baciargli i piedi. Che si dica che sono un povero stolto, ma mai si potrà chiamare Ares indignitoso ruffiano.»
«Ancora un insulto e ti farò a pezzi, uomo!»
«E poi che cosa riporterai al tuo padrone, che il suo cagnolino ha tradito la sua fedeltà...?»
Castore articola la sua voce profonda in un grido di dolore, prima di cadere in ginocchio. La sua mano è ancora stretta tra le dita di Thanatos. Il dio costringe l'arto a compiere un movimento irregolare, a torcersi fino a quando il rumore dell'osso rotto non intervalla i lamenti del Cavaliere.
«Lascialo andare» dico piano, con la voce che trema dalla paura come il resto del mio corpo. Perché negarlo? Io ho paura. Se Castore, no Ares, sta subendo la potenza inaudita di Thanatos, che cosa posso fare io? Assolutamente niente.
«Che cosa hai detto?» mi chiede Pandora, sfiorando i miei capelli con la punta del tridente.
«Voglio che...lo lasci andare.»
 Non replica alle mie parole. Con un movimento grazioso e pacato si inginocchia di fronte a me.
«Non sei in condizione di volere nulla.»
Il Dio della Morte compie un mezzo giro attorno a Castore. Si ferma al suo fianco e dopo aver posato il piede sulla sua gamba destra, all'altezza del ginocchio, preme con forza, fino a distruggere il gambale dell'armatura d'oro.
  Pandora ride al prolungato grido del Cavaliere dei Gemelli, prima di alzarsi in piedi e sistemare i capelli con un gesto rapido della mano. La sua espressione muta e da vagamente divertita si vela di preoccupazione.  Smetto di prestarle attenzione e prendo a strisciare a terra verso Castore di cui non sento che il respiro affannoso. I suoi capelli sono tornati ad essere blu.
«Scena a dir poco commovente, donna» commenta Thanatos. «Gli umani che strisciano sono quelli che hanno capito il loro posto alla perfezione.»
 Lo ignoro e continuo ad avanzare finché non raggiungo Castore. Poso la mano sinistra sulla sua spalla.
«Castore...» mormoro con un filo di voce, rotta da un pianto che non vorrei.
Un nuovo immenso Cosmo si aggiunge a quello già invalicabile di Thanatos, un potere della stessa natura, soltanto ancora più schiacciante. Sollevo appena lo sguardo e mi trovo a guardare un altro uomo altissimo. Il suo viso è identico a quello del Dio della Morte, soltanto che è oro il colore dei suoi occhi e dei suoi capelli. L'armatura che indossa è finemente decorata da parti dorate e sulla schiena non ci sono ali, ma le piume metalliche di una grande coda di pavone poste a raggiera. La sua espressione rimarca un controllato disgusto.
«Thanatos, che cosa significa tutto questo?» tuona il nuovo arrivato. «Dovevi portare un messaggio senza alzare un dito sui Cavalieri di Atena. Sai quali sono le disposizioni del sommo Ade. Solo gli Spectre possono sporcarsi le mani di sangue mortale. E poi...questi non sono che pedine. Se proprio devi infrangere una regola, aspetta di avere Atena come preda. Sei davanti a una donna insulsa e un uomo che...non riesce nemmeno a vincere il suo dissidio interiore.»
«Smettila, Hypnos» lo interrompe il Dio della Morte. «Non sono stato io a organizzare tutto, ma Pandora.»
«Il tuo modo di mascherare i tuoi errori è imbarazzante. Ringraziami, piuttosto, per averti salvato da te stesso, fratello. Il giudizio di Ade per chi disobbedisce non è mai indulgente.»
Hypnos...il Dio del Sonno. Conosco bene le sue origini, anche se mai avrei pensato di guardarlo negli occhi. Egli domina il riposo ed è padre dei quattro dei del sogno. La mente dell'uomo non ha segreti per lui. Al contrario di Thanatos, non trasmette ira, né odio.
«Spero che mio fratello vi abbia informato di ciò che è il perfetto disegno del sommo Ade, oltre che a ridurvi in questo stato pietoso. Vi saremmo grati se...in qualche modo, riuscirete a portare la lieta novella alla vostra dea. Immagino che in quelle condizioni non vi sarà semplice, ma confido nella resistenza dei ratti mortali.»
«Atena...sa già che deve fare...solo una cosa: schiacciare Ade, proprio come si fa con un serpente, perciò... lo farà» replica Castore.
«E come, mortale?» chiede Hypnos. «Il suo esercito è imbarazzante, visto che tu sei uno dei più forti e giaci a terra con un braccio e una gamba spezzati. Mi basterebbe un dito per romperti l'osso del collo.»
«Sommo Hypnos, sommo Thanatos, perché non ucciderli? Quella donna è la sorella di ...»
«Di?» chiede incuriosito.
«Persefone, la divina consorte di Ade!»
«Oh, allora questo cambia tutto. Tu lo sapevi, Thanatos?»
«Certo che lo sapevo. Pensavi che mi spostassi per giocare al gatto con il topo con questi inetti? L’equilibrio di questa incarnazione di Persefone è instabile e un contatto con i ricordi della sua miserevole vita mortale potrebbero complicare ancora le cose. È meglio estirpare subito l’erbaccia, non pensi?»
 Ora avverto ostilità nel Cosmo immenso di Hypnos, una sensazione che mi raggela il sangue nelle vene.
«Stringi la mia mano, Ecate e non lasciarla per nessun motivo» mormora Castore. Io avvicino le dita alle sue, ferite e intrise di sangue. Le sfioro e dopo un attimo di indecisione le stringo.
« E non pensare di finirli tu, Hypnos! Io ho iniziato l'opera e io la chiuderò. Con un solo colpo li ridurrò in briciole. Non verserò un'altra goccia di sangue, utilizzando l'Infausta Provvidenza.»
«E tu non saresti quello che gioca al gatto col topo assieme ai mortali, eh?»
Il sorriso di Hypnos è tenue ma agghiacciante e fa eco perfetto a quello identico del fratello.
«Non importa. Ade è contrario al nostro coinvolgimento diretto, ma immagino che anche lui stesso si libererebbe di un intralcio come lei. Non rischierebbe mai di perdere Persefone. Provvedi, fratello. Cancellali da questo mondo» sentenzia. «È il male minore» conclude, per poi voltarsi e compiere alcuni passi verso la notte, fino a diventare parte di essa.
«Per la prima volta devo ringraziarti, Hypnos» ghigna Thanatos, piegando tutti e due i gomiti e unendo i polsi. Chiude appena le dita, concentrando tutto il suo immenso potere tra i palmi posti a coppa.
«Adesso...» dice Castore sottovoce.
  Il suo Cosmo si espande ancora e ci avviluppa entrambi, lasciando stupito il Dio della Morte.
«Non preoccuparti di difendere te stesso, Castore dei Gemelli! Non c'è essere umano che può sfuggire all'Infausta Provvidenza!»
«Ti sbagli...Io posso farlo e ti prometto, Thanatos, che la prossima volta che i nostri sguardi si incroceranno...pagherai caro ciò che mi hai fatto.»
 Thanatos ride delle parole di Castore, mentre sposta entrambe le braccia di lato, caricando il colpo che rilascia, distendendole verso di noi. Un fascio di energia inaudita ci investirà!
«Dimensione Oscura» sussurra Castore.
Per un istante i miei sensi perdono qualsiasi percezione. Mi sento perduta, sospesa nel nulla, senza più coscienza nemmeno del mio stesso corpo. È una sensazione terribile, il vero nulla, la negazione di ogni cosa, quella che sento. Nonostante il dolore torni a farmi visita, sono felice di riaprire gli occhi sotto il cielo stellato dopo qualche interminabile istante. Al mio fianco c'è Castore, disteso a terra sull'erba indurita dalla giornata calda. La mia mano è ancora stretta alla sua. I suoi occhi sono appena schiusi.
«Non ho idea di dove siamo. Spero vicini al Grande Tempio. Ferito in questo modo non riesco a controllare bene il potere della  Dimensione Oscura. La mia è una tecnica di attacco che scaraventa l'avversario in una dimensione parallela nella quale egli sperimenta la sensazione del nulla. Chiunque abbia subito quel colpo non è più riuscito a tornare indietro: si è perso nel nulla o è finito lontano, in qualche luogo inospitale al quale non è sopravvissuto. È la prima volta che uso la Dimensione Oscura su me stesso. Avevo paura di non uscirne, invece...»
«Invece ha funzionato…Sei riuscito a salvarmi la vita ancora una volta. Ancora una dannatissima volta. Il mio debito con te si allunga a dismisura.»
 Anche se tento di sorridere mi tremano le labbra su un singhiozzo che sono stanca di trattenere. Ho voglia di piangere per la mia inettitudine, per la sorte di Calypso, per le ferite di Castore. Ho voglia di piangere perché non so che cosa posso fare per oppormi a quella forza esagerata che ho visto. Non ho armi dalla mia se non questi artigli ridicoli e tante parole non dette. Mia sorella minore è Persefone? Era questo ciò che le disse Pandora a quel tempo? E lei era consapevole di quello che il destino le aveva riservato? È chiaro che sia questo il vero motivo per cui si è lasciata alle spalle la sua miserevole vita in mia compagnia. Persino il Re degli Inferi è una migliore guida rispetto a me. Sono confusa, delusa da me stessa e completamente distrutta.
«Piangere non serve assolutamente a niente, Ecate. È solo tempo sprecato.»
«Come faccio a non farlo? Eh? Cosa posso fare se non constatare quanto io sia debole e inutile?»
«Pensa a come smettere di essere debole. Agisci in quel senso. Smettila di lamentarti e rimedia alle tue mancanze.»
 Mi tiro seduta e poso una carezza sul suo braccio offeso.
«Non cancellerò mai quello che è accaduto. Mia sorella...mia sorella è al fianco di Ade! Lei che era così pura e gentile! Ho lasciato che me la portassero via! Sono scappata al tempio per espiare le mie colpe ma non ho fatto altro che aggiungerne altre! Ho servito Ares pensando di essere nel giusto, ma ho deluso anche lui! Sono piombata in una profonda confusione senza una via da seguire e quando mi sembrava di scorgerla... Guarda come sei ridotto! Se non fosse stato per me non ti sarebbe accaduto! Se non avessi dovuto proteggere me non saresti stato colpito e quegli infami non ti avrebbero cercato!»
«Infatti. E la prossima volta non ti perdonerò.»
Le sue parole dure, sono rese ancora più taglienti dal suo sguardo gelido. Quegli occhi verdi mi schiacciano il cuore. Sposta il braccio sinistro e posa la mano sui miei capelli, all'altezza della nuca. Avvicina il mio capo al suo, in modo che le fronti si tocchino.
« Ma oramai ci siamo incontrati. È un po’ come quando mi hai detto che avresti preferito incontrarmi in inverno…»
Trova la forza per ridere a quel ricordo buffo. «Difficilmente mi è capitato qualcosa al momento giusto, però…non me la sento di lamentarmi. Non possiamo farci niente e basta. Dobbiamo trovare una soluzione e alla svelta. Smettila di piangere» scandisce ogni parola come se parlasse a un tardo.
«E aiutami.»
  Annuisco, cercando di placare i singhiozzi in tutti i modi. Non ho tempo per perdermi in lacrime inutili. Mi allontano da lui, scivolando via dalla sua presa. Mi alzo in piedi, anche se la debolezza mi fa barcollare. Cerco di concentrarmi e analizzo con lo sguardo il paesaggio che ci circonda.
È poco lontana la grande Polis di Atene. La città dei sogni di decine di uomini e donne. Un luogo quasi leggendario per coloro che come me hanno sempre vissuto ai margini. Le sue molteplici costruzioni e le sue mura si estendono sotto il chiarore della falce di luna che illumina la notte e sono magnifiche come le descrivevano i viandanti che giungevano in terra di Tracia. Inconfondibile è il Grande Tempio posto sul punto più alto di uno sperone di roccia. Sorge fuori dalle mura, oltre un sentiero che costeggia diversi templi minori.
«Atene, laggiù c'è Atene! Castore, ce l'hai fatta! Siamo così vicini da poterla vedere! Il tempio si trova su di una rupe, preceduto da altre costruzioni simili, giusto? Non ci sono mai stata ma la sua descrizione è famosa in tutta la Grecia.»
«Dodici Case, più un edificio vicino alla grande statua della dea si sviluppano attorno a un sentiero che si arrampica sulla roccia.»
 Conto tutti i templi e annuisco più volte. Sono dodici, più un altro ai piedi della statua.
«Sì! Castore, sì! È il Grande Tempio! Ci siamo quasi!» rido attonita come un naufrago che vede la terra dopo giorni di navigazione senza metà.
«Allora vai e chiedi aiuto.»
«Cosa? Io non ti lascio qui da solo con quella ferita.»
«Pensi che la tua sola presenza mi guarisca?»
«Ovvio che no! Ma ti porterò ad Atene trascinandoti via di peso!»
«Che cosa? Credi che un Cavaliere d'Oro si lasci prendere in braccio da una donna? E poi...»
La sua breve risata mi accende di rabbia.
«Credi che le tue esili braccia possano sollevare il peso mio e della mia armatura?»
«No, ma ti libererò di quella corazza e ti porterò lassù in men che non si dica!»
«Non pensarci nemmeno. Un Cavaliere di Atena non abbandona mai le vestigia che lo proteggono. Non hai idea di quanto mi sia costato conquistarle. Il tuo compito è quello di raggiungere il Grande Tempio e...»
«Smettila di fare il grand'uomo, idiota» lo interrompe una voce simile alla sua. Simile? No, identica, ma la notte ne nasconde la sorgente.
«Hai un braccio distrutto, una gamba spezzata e stai perdendo sangue a fiumi. Per quanto possa essere agile e veloce la donna che ti porti a presso, non arriverà mai al Tempio prima che tu possa morire sotto il peso del tuo orgoglio.»
L'uomo si avvicina a noi e senza esitare si china su Castore. Ora la luce della luna lo illumina e mi lascia senza fiato. Sebbene più disordinati, i suoi lunghi capelli sono identici a quelli di Castore. Lo stesso è per il viso e lo sguardo. Il mio cuore perde un battito quando il braccio dello sconosciuto si solleva e si sposta all'indietro. Il dito indice si distende e dopo una frazione di secondo si abbatte sulla ferita aperta della gamba di Castore. Lui lancia un grido di dolore, per poi tacere, tremebondo.
«Ehi tu! Che diavolo gli hai fatto?» chiedo, allarmata.
«Ho bloccato l'emorragia, non tanto perché mi interessa la sua sorte, ma perché voglio smettere di provare fastidio. Io e Castore siamo gemelli e se il corpo di uno dei due viene ferito, anche l'altro subisce dolore. La malasorte ha voluto che le nostre vite fossero collegate sin dall'inizio» spiega, prima di avvolgere il busto di Castore con le braccia e sollevarlo da terra. Lo tira in piedi e obbliga il suo braccio sano a posarsi sulle sue spalle.
«Non volevo il tuo aiuto, Polluce» afferma Castore, bruscamente.
«Né io avrei voluto dartene, ma come ho già spiegato sono stato costretto a trovarti e soccorrerti dal mio stesso corpo.»
«Impiegherò decenni a lavare via l'umiliazione.»
«Niente può farmi più felice.»
  Pensavo che Castore fosse più maturo, per questo non mi aspettavo il suo comportamento  bisbetico e irritante nei confronti di suo fratello che altro non ha fatto che salvarlo. È stata una fortuna che lui ci abbia trovato!
«Chi è la donna che ti porti dietro?» chiede Polluce, incamminandosi verso un sentiero scarsamente battuto con il fratello claudicante appresso.
«Ecate di Tracia. È stata benedetta dal dono del Cosmo e credo sia adatta ad ereditare un'armatura...l'ultima tra quelle d'argento.»
«Cosa?»
«Sì. Mi prenderò io stesso cura del suo addestramento.»
«Tu? Sai bene che è vietato per una donna partecipare agli allenamenti degli uomini. Come pensi di fare? Mascherarti da sacerdotessa guerriera e assistere alle loro zuffe infantili?» chiede ironico.
«No. Ne parlerò con il Grande Sacerdote. Sarà lui a trovare una soluzione che si concili con il divieto.»
Polluce solleva le sopracciglia e si volta verso di me con un sorriso enigmatico sulle labbra.
«Non ti invidio, ragazza. Tra qualche mese maledirai la sorte per non averti strappato la via in battaglia.»
 Senza dubbio questo è il commento velenoso di un uomo amareggiato. Al di là dei modi di Castore e del problema della sua doppia personalità, egli non sembra affatto un mostro infernale. Anzi...probabilmente a me sembrerebbe un salvatore anche se lo vedessi fare strage di fronte ai miei occhi. È brutto da dire, ma è così, lo è stato da quando l'ho visto in quella taverna e continua ad esserlo anche ora. Anche se non lo ammetterebbe mai, c'è qualcosa che lo ha spinto a salvarmi la vita per ben due volte. Sono sicura che è la stessa forza che ha spinto me a compiere questo salto nel buio.
Non voglio separarmi da lui nemmeno quando Polluce lo affida  ai cerusici del Tempio. E proprio quest'ultimo a impedirmi di raggiungerlo, prendendomi per un braccio ferito.
«Non so a che livello di conoscenza tu sia con lui, ma non credo abbia il diritto a seguire le cure a cui verrà sottoposto.»
«Non voglio lasciarlo solo!»
«Non è solo. È in mani di gran lunga migliori delle tue. Non so ancora che cosa vi ha attaccati, ma mio fratello non è il tipo da finire così con poco. Finora non è mai stato ferito così gravemente, forse perché non ha mai avuto una palla al piede.»
«Non ti permetto di parlarmi così» grido tra un singhiozzo e l'altro. Piango di rabbia perché so che ha ragione. Mi lascia andare e mi spinge via bruscamente.
«Sei una donna vanitosa. Quelle come te sono il veleno dei guerrieri, esattamente come i sentimenti che riescono a suscitare negli uomini. Ma la tua infausta interferenza verrà sedata sul nascere.»
«Cosa vuoi farmi? Uccidermi?»
«Metterti al tuo posto. Castore ha detto che secondo lui sei adatta a divenire un Cavaliere d’Argento, ebbene io sono il più forte di quelli presenti al Grande Tempio. Anche Megara, la sacerdotessa guerriero che si occupa delle nuove arrivate mi guarda con ammirazione e farà esattamente ciò che le consiglierò. Nessuna sacerdotessa guerriero gira a volto scoperto e nessuna, sottolineo nessuna, si permette di opporsi agli ordini di un uomo.»
I nostri sguardi si sostengono per lunghissimi istanti, finché una dura voce di donna non richiama l'attenzione di entrambi. Ha i capelli lunghi e neri. Il suo viso è coperto da una pesante maschera di metallo, argento forse. Il suo corpo è fasciato da vesti leggere e maschili e il petto è chiuso in un rozzo rinforzo metallico.
«I miei omaggi, nobile Polluce, come mai mi avete fatta chiamare?»
 «Per fortuna sei giunta prima dell’alba. Iniziavo a preoccuparmi.»
«Chiedo venia. Non ho saputo fare di meglio.»
«Non avevo dubbi, tuttavia non ho il tempo per rimproverarti. Ho ritrovato mio fratello in compagnia di questa donna. Egli era ferito e sembra che anche lei abbia bisogno di cure. Comprenderai che qui non può restare. Portala con te nel luogo che gli spetta e fa in modo che non sconfini da questa parte senza una maschera sul viso.»
«Provvederò subito, nobile Polluce.»
  Senza esitare la donna mi prende per un braccio. Provo a dimenarmi, a protestare. Chiamo Castore a tutta voce e invoco il suo aiuto, ma non ricevo risposta. Mi separano da lui, anche se non voglio. Con i denti stretti ringhio più volte la stessa frase contro Polluce: «Tu non puoi comandarmi!»

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Capitolo 4
*** Capitolo IV ***


INAZUMA

 
È difficile rimanere concentrati oggi. C'è fermento nel Grande Tempio dopo quello che è accaduto prima dell'alba. La notte è stata pessima messaggera o così ha detto Angelòs quando ci ha buttati giù dalle brande al sorgere del sole. In questi giorni è stato un maestro gentile anche se esigente, ma oggi è nervoso e intrattabile. Sono proprio curioso di sapere il motivo della sua irrequietezza. Esperante sbadiglia ancora mentre  insieme ci dirigiamo al nostro campo d'addestramento. Ha gli occhi ancora assottigliati dal sonno e la voce impastata, al contrario di me che sono sveglio e vigile grazie alla curiosità. Aspettiamo in silenzio per una lunga serie di minuti, dopodiché Esperante comincia a percorrere il perimetro immaginario del campo d'addestramento, aguzzando lo sguardo verso il tempio.
«Credi che sia successo qualcosa?» indago.
«Ne sono sicuro. Mio fratello non mi ha mai lasciato da solo per tutto questo tempo.»
«Che ne dici se torniamo indietro e lo cerchiamo?»
«Ci ammazzerebbe.»
«Ma se fosse in pericolo?»
Esperante si volta verso di me con uno sguardo incredulo.
«Mio fratello in pericolo? Lo dici perché non hai idea di quanto sia forte. Se lui è in pericolo significa che il Grande Tempio sta per crollare.»
«Dhiren e il Grande Sacerdote sono stati attaccati nella Terza Casa eppure sono forti.»
«Infatti hanno schiacciato il nemico. Lo stesso farebbe mio fratello» la sua voce è ora più incerta. «Però due paia di braccia in più gli sarebbero d'aiuto in quel caso e poi pensa alla gloria. Due giovani apprendisti: Esperante, futuro Cavaliere del Leone e Inazuma, futuro Cavaliere di Pegasus, fanno da valida spalla ad Angelòs di Sagitter! Immagina soltanto. Tutto il Grande Tempio parlerebbe di noi e il Grande Sacerdote ci consegnerebbe l’armatura senza indugio!»
Esperante mi rivolge un sorriso d'intesa.
«Andiamo a cercare mio fratello.»
 La prospettiva di confrontarmi con uno Spectre mi alletta. Lo so, è pericoloso, ma in caso di vittoria otterrei tutto e subito.
«Ci sto!» affermo deciso.
  Il suo entusiasmo è contagioso. Lui è il primo a scattare verso il sentiero e io lo seguo. Sono bastati pochi giorni per allenare le mie gambe e renderle più veloci. Non sono nulla vicino a Esperante, ma inizio già a fare piccoli progressi. Ci fermiamo prima di iniziare la discesa dalla rupe, richiamati dalla voce tagliente di un uomo.
«Non muovete un altro passo.»
Esperante si volta lentamente quasi abbia paura di incrociare lo sguardo di colui che ha appena parlato e io lo imitò subito dopo.
«Nobile Aspera...» mormora lui. «Che cosa ci fate qui?»
«Il nobile Angelòs mi ha chiesto di sostituirlo. Aveva una missione inderogabile da compiere.»
«Eh? La missione più inderogabile per lui siamo io e Inazuma!»protesta Esperante, noncurante dell’autorità del guerriero dorato. Invidio la sua sfacciataggine e la sua totale mancanza di timore reverenziale, anche se non so se questo sia giusto o meno.
«Evidentemente non è così. I Cavalieri d'Oro hanno compiti che voi non immaginate. Ora, tornate subito qui. Sarò io a provvedere al vostro addestramento oggi.»
«Non ci penso proprio. Mio fratello mi segue in...»
 Aspera ha sollevato bruscamente un braccio ed Esperante mi ha tirato via dalla mia posizione, tutto in una frazione di secondo. Il mio sguardo si fissa sul terreno che viene squarciato in linea retta. L'accesso al sentiero crolla. Al suo posto c'è ora un crepaccio. Tutto questo è accaduto soltanto per un gesto semplice del Cavaliere del Capricorno.
«Che cosa fate!? Se non avessi spostato Inazuma...sarebbe stato spezzato in due come un tozzo di pane! Vi sembra questo il modo?» grida Esperante, agitando un braccio.
«Ma c'eri tu, Esperante. È forse una menzogna quella che ti racconta come un giovane degno dell' armatura di Leo? Hai visto il mio colpo alla velocità della luce, perciò significa che le basi del tuo addestramento sono solide, ma…»
Il braccio di Aspera si distende verso di noi con l'indice rivolto a Esperante.
«La tua spalla parla della tua mancanza di concentrazione.»
Il tessuto è strappato e macchiato di sangue.
«E tu, moccioso» si rivolge a me. «Sei stato tu a provocare quella ferita al tuo compagno. Non sai essere né spada né scudo. Sei soltanto un peso. Il nobile Angelòs è come sempre troppo indulgente. Tra gli spartani vige una semplice regola: ogni guerriero deve saper proteggere il compagno di lotta che ha vicino, in modo che la formazione non collassi. Se esiste un anello debole…questo deve essere temprato.»
Perdo di vista Aspera. Al suo posto c'è soltanto una nube di polvere turbinante.
«Alle tue spalle, Inazuma!» mi ragguaglia Esperante, ma non faccio in tempo a voltarmi. Sento la stretta di una delle ampie mani di Aspera su una mia spalla. Lo guardo atterrito. Il viso è disteso, gli occhi verdi e gelidi. I capelli folti e disordinati si spostano al vento, come gli abiti scuri e leggeri che coprono il suo corpo. L'altra mano, la sinistra, è tesa, il braccio piegato.
«Se questo fosse stato uno scontro vero e proprio, saresti già morto.»
 Lo sguardo di Aspera devia verso Esperante che da lui si è allontanato. Solo per un attimo scorgo un velo di sorpresa dietro di esso.
«Vi divertite a umiliare Inazuma che è qui soltanto da una settimana. Chiunque saprebbe battere chi non è pronto, ma con me è diverso, Aspera! I miei pugni sono già fulminei quanto il taglio della vostra spada!»
 Dopo quell'affermazione, Esperante scatta verso di noi. Il suo Cosmo è esteso e ci investe in un bagliore accecante, ma solo per un istante. Aspera si è voltato verso di lui, al contrario di me lo ha visto avvicinarsi a quella velocità folle e non solo, ha bloccato uno dei suoi colpi, mentre l'altro è andato a segno. Il pugno destro del futuro Cavaliere del Leone ha colpito il viso di Aspera, ma non lo ha nemmeno costretto a voltarsi. Soltanto un sottile rivolo di sangue esce da un angolo della sua bocca. Il Cavaliere d'Oro del Capricorno non lascia la presa sul polso di Esperante, trattenendolo sospeso a mezz'aria.
«Di solito nessuna delle reclute ha la capacità di sfiorarmi, ma tu sei diverso. Ottimo, sei abile allo stesso modo con tutti e due i pugni, ma sei scoordinato e non rifletti. L'impulsività è la tua peggior nemica...Esattamente come quella del tuo infimo compagno di squadra.»
Si è accorto del mio goffo tentativo di espandere il Cosmo, tracciando le linee della costellazione di Pegasus, ma a quanto pare è troppo tardi per scagliare il colpo. Non importa se mi ha già visto! Proverò lo stesso. I miei pugni sono molto più veloci e precisi di quelli che sapevo assestare pochi giorni fa, ma Aspera li para senza problemi con la mano libera. Non so come faccia, ma più provo, più in fretta riesce a bloccarmi.
«Non male per un novizio, ma...non abbastanza.»
Com'è possibile? Sto caricando i colpi del mio Cosmo in espansione e lui non ne risente nemmeno un po'!
Vorrei continuare a tentare per poter capire dove sbaglio, ma Aspera ci allontana entrambi dopo aver catturato anche un mio polso, scaraventandoci ai lati opposti del campo di addestramento.
È forte, molto più degli Spectre che ho visto in azione, eppure non indossa nemmeno l'armatura.
Esperante si alza in piedi prima di me e riprende una posizione di attacco.
«Non è finita!» afferma con un grido deciso.
«Invece sì. Quella che qui manca è la teoria dietro la pratica. Combattere non significa menare colpi sempre più forti a casaccio» controbatte pacato Aspera, distendendo le braccia lungo i fianchi.
«Esperante, tu hai una remota possibilità di sostenere una lotta con me, ma Inazuma? Per quanto si impegni è ancora più debole sia di me che di te. Se al mio posto ci fosse stato uno Spectre e tu mi avessi attaccato così, senza pensare, il tuo compagno sarebbe morto. Non so che cosa insegnino ai giovani guerrieri ateniesi, ma non ho mai visto un Cavaliere così sfrontato da non pensare al bene dei suoi alleati. Molto probabilmente qui al Grande Tempio essi sono di valore esattamente come per gli spartani. Io sono cresciuto in quella polis forgiata dal fuoco e dal metallo e ho imparato a considerare un'armata come un unico essere vivente. Secondo il codice dei Cavalieri di Atena, gli scontri devono avvenire uno contro uno, ma capita spesso che non sia così. A quel punto si deve ragionare a una strategia che non lasci punti deboli, esattamente come la falange di Sparta. Basta un solo guerriero che non sappia reggere lo scudo, quindi proteggere il suo compagno dalla coscia al capo dietro di esso, che tutta la formazione crolla anche sotto una banale pioggia di frecce.»
«Inazuma non è ancora al mio livello, Aspera! È normale che...»
«Siete entrambi scarsi. Angelòs dovrebbe pensare più a voi che a...»
«A?»
«Diglielo, Aspera, non è un mistero.»
 Tiro un respiro di sollievo nel sentire la voce di Angelòs. Mi volto verso di lui e rimango sorpreso dal vederlo accompagnato a una ragazza con il viso coperto da una maschera lucida. Una ragazza? Non una qualunque. I suoi capelli castani e la sensazione nostalgica che sento nell'averla vicina mi dicono solo un nome.
«Sarya!» grido, alzandomi in piedi. Le corro incontro, superando il sottile crepaccio che separa il campo d'addestramento al sentiero che lo collega al Tempio. Le piombo in braccio, proprio come quando ero un bambino.
«Inazuma! Un minimo di contegno»  mi corregge lei, contraddicendo le sue parole con un forte abbraccio che quasi mi stritola. Le sono mancato, proprio come lei è mancata a me.
«Se posso, io ritorno al campo di addestramento. Il nobile Aldebaran mi sta aspettando per l'addestramento delle reclute.»
«Grazie per avermi sostituito, Aspera» lo ringrazia Angelòs. Il Cavaliere d'Oro del Capricorno lo guarda stupito, anche se tenta a tutti i costi di mascherare la sua espressione con il solito velo di stoicismo.
«Non c'è bisogno di ringraziare, Nobile Angelòs. Assieme al Cavaliere di Taurus sono stato scelto per l'addestramento dei futuri guerrieri di Atena. Questo è il mio dovere e come tale lo porterò sempre a termine nel migliore dei modi. Ora, se i miei servigi non sono più utili, ritornerò alle mie mansioni.»
Aspera si congeda da noi senza aggiungere altro. Seguo il suo passo solenne e deciso finché non è troppo lontano. Anche Esperante fa lo stesso e rimane voltato verso quella direzione, assorto in chissà quale pensiero.
Le carezze di Sarya ai miei capelli e alla schiena riportano la mia attenzione su di lei. La maschera sul suo viso mi impedisce di guardarla negli occhi, perciò allungo una mano verso di essa e provo a rimuoverla, ma lei me lo impedisce, colpendomi delicatamente il braccio.
«No, Inazuma. Non puoi» mi dice. «Sono una sacerdotessa guerriero ormai e sono in lizza per un'armatura d'Argento. Non posso scoprire il viso.»
«Ma che senso ha? Sei mia sorella!»
«È indifferente. A meno che tu non sia il suo promesso, non puoi vedere il suo viso. Questa è la regola di Atena, Inazuma» spiega Esperante. «Una regola stupida, ma pur sempre una regola» continua con un sorriso appena accennato. «Prima o poi diventeremo tutti ligi come il nobile Aspera.»
Lo vedo gonfiare il petto e trasformare la sua espressione nella goffa imitazione di quella del Cavaliere del Capricorno. Modifica anche la voce in una grottescamente più grave.
«Ligi al dovere, come gli spartani!»
Non riesco a trattenere una risata che si esaurisce non appena Sarya mi colpisce il capo con uno scappellotto. Mi lamento per qualche istante e vengo interrotto dalle sue dure parole.
«Dovreste portargli immenso rispetto: tanto a lui che alla sua storia. Già alla vostra età, lui sapeva come sopravvivere a mani nude alle insidie delle terre selvagge attorno a Sparta. A quell'età gli spartani sono tenuti a dare prova del loro coraggio passando diverse lune in quei luoghi inospitali, scalzi e spogli di corazze. Le bestie e anche coloro che furono compagni, nonché il freddo dell'inverno e il caldo del sole cocente sono i loro avversari mortali. È un modo terribile per spogliare i giovani di paure e sentimenti e creare guerrieri perfetti. Aspera era uno di loro, forse il più impavido, tanto che non fu spaventato da un intero manipolo di persiani armati. Gli annali lo raccontano come un uomo incapace di provare timore o sofferenza. Nessuno lo ha mai visto piangere o ridere. Sparta lo ricorda come una leggenda perduta.»
«Un uomo senza sentimenti? Allora non è degno di combattere per Atena!» afferma Esperante. «Me lo ha insegnato Angelòs quando ero un moccioso. La fedeltà ad Atena è un modo per ricambiare il dono di amore e speranza che ci ha fatto la dea attraverso il Cosmo. Se lui non sa riconoscerlo o provarlo, allora non è degno di stare tra le fila dei Cavalieri» specifica.
«Aspera ha dimostrato di averne quando ha abbandonato l'esercito per cui aveva vissuto. Ha smesso gli abiti del condottiero degno di onore e trionfo. Ha rinunciato alla gloria per omaggiare Atena dopo essere stato salvato dalla dea. Ha seguito il richiamo della sua benevola e lontana luce, abbandonando la via percorsa. Ha compiuto un immenso salto nell'ignoto.»
Il racconto di Sarya riesce a farmi più effetto rispetto a quello che mi aveva anticipato Rhadia. Non sapevo che Sparta fosse un luogo così terribile. Ora capisco il suo sguardo e quell'espressione stoica. Anche Esperante rimane in silenzio mentre sposta l’attenzione degli occhi sui suoi pugni chiusi.
«Mi ha detto che...avevo una remota possibilità di combattere al suo livello» mormora tra sé e sé.
«Se così ti ha detto, significa che sei ad un passo dall'armatura di Leo, fratello» lo rassicura Angelòs. «Aspera non regala complimenti.»
«Spero di rivederlo presto» ghigna soddisfatto Esperante.
«Per un po' non sarà possibile. Aspera e Vermiglio partiranno presto per una missione. Sembra che Castore dei Gemelli abbia scoperto il luogo che collega il mondo dei vivi all'oltretomba. Da lì è probabile che provengano gli Spectre e che la morte si diffonda a macchia d'olio.»
«Andranno solo due Cavalieri?» chiede Esperante stupito.
«Sì. Non dovranno svolgere un'azione offensiva. Sarà una semplice ricognizione.»
«Quando partiranno?» chiedo io.
«Questa notte. Ma per quale motivo vi interessa così tanto?» indaga Angelòs, rivolgendoci uno sguardo inquisitore.
«Nessuno. Era solo una domanda!» ridacchio imbarazzato sollevando le mani. Anche se non posso vederle gli occhi, sento lo sguardo di mia sorella addosso e un brivido percorre veloce la mia schiena.
«Bando alle ciance. È tardi e oltre a una pessima figura con Aspera, non avete combinato nulla.»
Anche se detto delicatamente, quello di Angelòs è un rimprovero bello e buono.
Vorrei passare più tempo a parlare con Sarya, proprio come prima che tutto cambiasse, ma ho degli obblighi ben precisi a cui non posso disattendere. Devo diventare  Cavaliere il prima possibile e renderla orgogliosa di me, per questo, sotto i suoi occhi, do il massimo, stupendo anche Angelòs.
La sera mi ritiro prima di Esperante, come sempre, soltanto che stavolta dedico il mio scarso tempo libero a mia sorella. Mio è il compito di accompagnarla fino a pochi metri dal campo d'addestramento femminile. La sera ha quasi divorato il sole e la brezza fresca è scesa a darci un po' di sollievo. Da questa parte del tempio non c'è che assoluto silenzio.
«Quando tornerai da noi?» chiedo a Sarya prima di lasciar andare la sua mano.
«Non lo so, Inazuma. Non è facile lasciare il campo d'addestramento femminile. La sacerdotessa Megara proibisce alle apprendiste di sconfinare altrove. Angelòs ha trasgredito per vedermi e portarmi da te.»
Sposta la mano libera sulla maschera di metallo e lentamente la rimuove dal viso. Finalmente posso guardarla in viso e vedere il suo sorriso tenue. Dopo avermi abbracciato, posa un bacio leggero sulla mia fronte. Le sue labbra tremano su un singhiozzo celato che contagia anche me, mi lucida gli occhi.
«Non mi piace stare lontano da te, Sarya. Noi non ci siamo mai separati per tutto questo tempo!»
«E non ci separeremo mai, Inazuma. Siamo fratelli, il nostro sangue ci unisce, esattamente come il Cosmo che ci è stato donato. Non ci sarà mai niente in grado di separarci davvero, Inazuma, non importa quanto tempo saremo lontani. Siamo fratelli e nessuna legge lo potrà mai cambiare.»
La sua voce trema.
«Hai capito?» mi chiede. Io annuisco, ricacciando un singhiozzo in gola. Voglio godermi il calore del suo abbraccio per altro tempo, ma non mi è concesso. Sarya si allontana da me di colpo. Non mi dà occasione di salutarla che scatta via veloce in direzione dei dormitori femminili. Le ombre lunghe della sera inghiottono la sua immagine lasciandomi solo a fissare il sentiero deserto. Le fiaccole tremule dei bracieri attorno a esso rilucono su una superficie metallica, una maschera rivolta verso di me. Non riesco a vedere chi la indossi, poiché essa sparisce nel giro di un istante. Solo dopo qualche secondo mi volto e percorro la strada fino agli alloggi maschili. Nikanor non è ancora rientrato dall'allenamento, ma non è l'unico. Attorno a me ci sono diversi giacigli vuoti. Non ho lena di chiedermene il motivo, perché sono stanco e intristito. Mi distendo e chiudo gli occhi. Scivolo quasi subito in un sonno profondo che tuttavia viene bruscamente interrotto dagli strattoni e dalla voce di Esperante.
«Inazuma, ti vuoi svegliare?!»
«Esperante? Che ci fai qui? Non è il tuo settore, questo.»
«Andiamo in missione, Inazuma!»
«Eh?» sgrano gli occhi e rimango col fiato sospeso. «Una missione? Perché il maestro non ci ha detto nulla?»
«Perché lui non è d'accordo!»
«Allora noi non andiamo in missione. Non siamo ancora Cavalieri!»
«Questa è la nostra occasione di diventarlo saltando l'allenamento. Non ne posso più delle solite cose! Voglio una battaglia vera. Tu no?»
«Sei sicuro che vada bene così? Come sai che ci daranno l'armatura dopo una missione? Angelòs ha detto che io…»
«Andiamo, Inazuma! Ti dirò io come fare. Sai già espandere il Cosmo e incanalarlo nei colpi che scagli. Basta fare un po' di pratica e va da sé! Fidati di me! Ti ho mai detto una bugia?»
«No. Mai!»
«Allora alzati di lì, sistemati e andiamo. Il nobile Aspera e il nobile Vermiglio stanno per partire!»
«Andranno molto lontano?»
«Sì, abbastanza e noi li seguiremo.»
«Due Cavalieri d'Oro si accorgeranno di noi!»
«Con chi credi di avere a che fare? Sarò un Cavaliere d'Oro anche io, so come giocarli! Ti assicuro che non si accorgeranno.»
Da un lato non sono affatto persuaso da quello che mi ha detto, ma dall'altra parte il fatto di diventare un Cavaliere dopo una sola missione mi alletta. Di solito Esperante non mente e se ha in mente un piano allora voglio seguirlo.
«Angelòs si arrabbierà molto» replico. Ho davvero paura della rabbia cheta del mio maestro, in più non mi va l’idea di deluderlo.
«No, vedrai. Gli passerà quando vedrà quanto sono abili e impavidi i suoi allievi.»
Mi tiro in piedi ancora incerto e sistemo gli abiti sul mio corpo alla meno peggio. Attorno a noi ci sono diversi letti vuoti, esattamente come quando sono andato a dormire. Facciamo attenzione a non far rumore mentre scivoliamo tra le ombre verso l'entrata. Come ladri percorriamo il sentiero che ci porta fino all'uscita del Grande Tempio. C'è già un gruppetto di persone silenti in attesa. Sono tutti giovani che non hanno ancora ricevuto l'investitura, esattamente come noi. Non riesco a riconoscerli, perché indossano un elmetto che copre parte del viso. Ci fermiamo a una ventina di metri di distanza da loro, nascosti tra la vegetazione che in questo punto è un po' più fitta, accovacciati a terra, con i visi che spuntano dall’erba alta.
«Ho fatto un giro in refettorio dopo aver completato l'allenamento e ho cercato informazioni sulla partenza di Aspera e Vermiglio. Oltre ai due guerrieri dorati, prenderanno parte alla spedizione anche sei reclute, allievi di Aspera. Fortuna vuole che io li conosca e due di loro non hanno nessuna intenzione di rischiare la vita in una missione così pericolosa, così ho proposto loro uno scambio. Tra qualche istante ci raggiungeranno. Con l'elmo calato sul viso, non sarà difficile mescolarsi a loro.»
«Il tuo piano potrebbe funzionare, Esperante...però, posso chiederti una cosa?»
«Sì, ma spicciati!»
«Perché vuoi seguire proprio Aspera?»
Esperante tira un profondo sospiro.
«Possibile che tu non abbia un minimo di orgoglio? L'umiliazione che ci ha inferto mi motiva a dimostrargli di che pasta sono fatto. Sono sicuro che ci sarà uno scontro, visto che sono stati inviati due Cavalieri d'Oro e a quel punto...lo surclasserò con la mia tecnica e gli mostrerò che anche ad Atene ci sono guerrieri nati!»
Mi piacerebbe avere la sua sicurezza e soprattutto quella "remota possibilità" di sfidare un uomo come il Cavaliere del Capricorno. Stare al fianco di Esperante mi fa sperare di raggiungerlo, anche se a piccoli passi. Lui sa dare sicurezza con il suo essere risoluto. Sarà un grande Cavaliere, è chiaro come la luce del sole, e spero di seguire la sua stessa strada, anzi, voglio farlo.
«Anche sul monte Eta ce ne è nato uno. Vedrai, Esperante. Vedremo la sua faccia paralizzata dallo stupore!»
Esperante piega un braccio e chiude un po' le dita della mano.
«La mano, Inazuma!»
Stringo la sua mano e chiudo il pugno libero.
«Sì!»
«Torneremo da Cavalieri! È una promessa!»
Annuisco soddisfatto per poi tornare in silenzio.
Attendiamo che  due delle reclute si avvicinino a noi. In un primo momento compiono appena qualche passo all’indietro, fino a giungere in un cono d’ombra che nasconde la loro fuga dal dovere. Una volta che raggiungono la nostra posizione, io e Esperante ci alziamo in piedi.
«Siete stati discreti?» chiede Esperante ai nuovi arrivati, sottovoce.
Uno di loro, quello più alto, si guarda attorno circospetto.
«Il maestro Aspera sta per arrivare, Esperante. Dobbiamo sbrigarci!» afferma mentre si toglie l'elmetto, liberando una cascata di capelli neri. Lo porge al mio compagno di allenamento che non esita a calcarlo sul capo, celando così il suo viso. Si scambiano anche i rinforzi che servono a coprire il petto. I loro hanno placche di metallo, al contrario dei nostri che sono di semplice cuoio. Lo stesso faccio io con l'altro ragazzino esile e biondo, decisamente più minuto di me. Sono teso e emozionato insieme. Il sangue mi urla nelle tempie quando dopo un rapido congedo abbandoniamo il nostro nascondiglio agli altri due e ci aggiungiamo alle reclute. Rimaniamo in silenzio, in modo da evitare dialoghi scomodi. L'attesa è breve, poiché Aspera e Vermiglio scendono dalla scalinata delle Dodici Case, bardati delle loro splendenti armature, con le spalle coperte da un meraviglioso mantello bianco. Cala il silenzio tra le reclute e il Cavaliere del Capricorno inizia a parlare con la sua voce solenne e gelida.
«In riga» ordina e noi ci sistemiamo in una riga perfetta.
«La nostra missione è semplice. Il Grande Sacerdote ci ha affidato l'incarico di scoprire la verità sul tempio in rovina che si trova a Klesos. Secondo il nobile Castore, Cavaliere dei Gemelli, tra quelle mura si cela il passaggio utilizzato dagli Spectre di Ade per raggiungere il mondo dei vivi.»
A quelle parole si solleva un lieve brusio tra gli allievi che Aspera stronca immediatamente.
«Sto ancora parlando. Non dovete azzardarvi a interrompermi.»
Ritornano tutti immobili e silenziosi come statue di gesso.
«Suvvia, Aspera. Non dovreste essere così rigido» interviene Vermiglio, prima di scendere un altro gradino e trovarsi al nostro livello. Cammina tra noi e ci rivolge sguardi rassicuranti.
«Sono giovani e hanno timore. È normale alla loro età, no?»chiede, fermandosi di fronte a me e Esperante.
«Non dovrebbero temere la morte. Hanno consacrato la vita alla lotta e non c'è onore più grande che morire in battaglia.»
Vermiglio sospira e rilassa le spalle. Si volta e si rivolge a me.
«Non temete. Nessuno di voi incorrerà in pericoli mortali. Se proprio ci sarà da combattere lo faremo io e Aspera. Siamo qui per questo. Voi siete solo apprendisti.»
«Osservazione e apprendimento sono le uniche cose che vi saranno richieste» tuona Aspera. «Nessuno di voi dovrà prendere iniziative. Non siete adatti a combattere, perciò placate il vostro spirito guerriero. Qualunque cosa si trovi a Klesos è abbastanza forte da soverchiare l'immenso potere del nobile Castore.»
Vermiglio si lascia scappare una risata bonaria.
«Detto in parole povere, ragazzi, sarete i nostri facchini. Porterete provviste e medicamenti.»
Il mio sguardo vaga attorno a noi alla ricerca di pesi da portare e li trova in esigua quantità. Ci sono su per giù tre o quattro fagotti scuri abbastanza grandi e sicuramente pesanti. Spero che il viaggio non sia lungo come dicono o sarà una bella faticaccia.
Esperante stringe così forte le mani che riesco a sentire il rumore del cuoio sei guanti. Lo conosco. Non si accontenterà mai di una simile occupazione.
«Ammiro la vostra capacità di sintesi, nobile Vermiglio. Non mi lasciate nient'altro da dire. Questo significa che ci metteremo in marcia immediatamente.»
 Rigido e impassibile Aspera ci passa davanti. Solo dopo averci superati tutti spezza le righe con un ordine secco. Ordinati e silenziosi ci allontaniamo al suo seguito. Esperante e altri tre ragazzi si sono fatti carico dei sacchi.  Mi hanno lasciato primo della fila, immediatamente alle spalle del nobile Aspera. Dietro di me c'è Esperante e al nostro fianco cammina Vermiglio.
«Non siete un po' troppo rigido? Sono tutti poco più che bambini» osserva Vermiglio.
«Non esiste. Sono consapevoli abbastanza da scegliere di vivere combattendo e devono essere pronti a questo» taglia corto l'altro. Vermiglio si volta verso di me e cammina per un breve tratto all'indietro.
«Ci ho provato» mi dice sottovoce dopo aver alzato le mani in segno di resa. Gli sorrido e lui mi ricambia. Sarà un viaggio lungo, una follia bella e buona, ma ora che ci sono dentro non posso più tirarmi indietro.

 

ECATE

 
Sono stata trascinata via da Megara lungo una scalinata sottile che devia fino a un edificio piccolo e malmesso rispetto ai locali ai piedi della salita per le Dodici Case.
Lì sono stata costretta a lavarmi e indossare abiti maschili e larghi che nascondono le linee dolci del mio corpo. Una ragazza dai capelli castani si è presa cura delle mie ferite fino all'alba. Nonostante il dolore si sia affievolito, sono stata sveglia tutta la notte. La stanchezza non ha vinto sull'inquietudine. Il mio pensiero si è perso fino alle profondità dell'Ade nella speranza di raggiungere mia sorella minore. Calypso è Persefone. Anche se non ci credo questa è la realtà delle cose. La sorte è così ironica che mi strappa un sorriso rassegnato. Entrambe volevamo essere libere da tutto e siamo finite schiave di due divinità terribili. Io di Ares, lei di Ade. Mi chiedo se anche nel mio caso tutto fosse già scritto. L'incontro con Castore è stato davvero fortuito? Non importa. Sta di fatto che lui è il mio pensiero fisso assieme a Calypso.
Sono prigioniera della febbre e delle ferite per giorni. I deliri e il malessere sono la mia unica compagnia oltre la ragazza gentile che mi accudisce con solerzia quasi fossi un'inferma in procinto di morire. Dopo ben tre giorni riesco ad alzarmi anche se aiutata da questa sconosciuta. I miei passi tremano su gambe malferme e deboli quando esco al sole. Lo sguardo viene ferito dai raggi caldi di una mattinata estiva.
«Perché mi aiuti?» chiedo a bruciapelo alla giovane che mi sostiene. Ora che la guardo alla luce, vedo quanto sia giovane, decisamente più di me. È poco più che una ragazzina. Mi rivolge un sorriso, prima di indossare la maschera di metallo.
«Perché ne hai bisogno» mi arriva la sua voce schermata. Scuoto debolmente il capo e accenno un sorriso.
«Togliti quella maschera. Non sopporto di non vedere il viso di chi parla con me.»
«Non posso. Anzi...»
  Si allontana da me dopo essersi accertata che riesco a stare in piedi da sola. La vedo armeggiare sul piano di pietra grezza addossato a una parete. Torna con un'altra maschera in mano, che, al contrario della sua, ha un segno scuro e allungato attorno alla superficie che dovrà coprire gli occhi. Me la avvicina al viso, ma a costo di cadere all'indietro mi ritraggo.
«Non la indosserò mai» affermo categorica.
«Allora non potrai mai uscire di qui. Le sacerdotesse devote ad Atena non devono mostrare il loro viso a nessuno. Mostrare il viso è inteso come sinonimo di vanità dalla dea.»
«Facezie! Non è vanità mostrare il viso. Anche tu, che sei una ragazza, pensi che le donne indeboliscano gli uomini? Permettimi di sorprendermene.»
Sento il suo sospiro infrangersi sulla maschera e anticipare una risata sommessa.
«No, non penso questo, semplicemente mi adeguo il più possibile in modo da evitare guai.»
Il suo tono di voce si fa più basso.
«Megara, il Cavaliere d'Argento della Corona Boreale, è un demonio bello e buono. Ferrea, glaciale, esattamente come il suo Cosmo. Le sue punizioni sono ai limiti del sadismo e hanno reso alcune ragazze inabili a diventare Cavalieri. Lei la considera una sorta di selezione naturale, un processo doveroso.»
«E loro si fanno trattare così?»
«Non hanno scelta. Lei è superiore a noi in quanto a potenza. Alcuni dicono che sia forte quanto il suo adorato Polluce.»
«Adorato?» chiedo con un sorriso malizioso sulle labbra.
«È evidente che lei penda dalle sue labbra e sfoghi sui più deboli la frustrazione derivata dall'indifferenza di lui.»
Nonostante un lieve dolore, piego il braccio e prendo la maschera che la ragazza ha tentato di mettermi. La avvicino al viso e la osservo per bene prima di indossarla.
«Con questa maschera si può anche uscire di qui?»
«Non senza l'autorizzazione di Megara, ma ci sono metodi alternativi.»
«Metodi...alternativi?»
«È necessario avere comunque quella sul viso.»
Sollevo un sopracciglio e assottiglio le labbra.
«Non ci sto capendo molto, in verità. Potresti essere più chiara?»
 Porta l'indice destro sulle labbra scolpite della maschera e indica col capo la stanza che ci siamo lasciate alle spalle. Avverto qualcuno avvicinarsi. Un Cosmo ampio e freddo, in contrasto con la calura estiva. In fretta e furia calco la maschera sul viso. Dannazione non vedo assolutamente niente. Come fanno queste donne a orientarsi? Vado nel panico, ma la vicinanza della ragazza che mi ha accudito mi aiuta a calmarmi. La voce austera di Megara mi paralizza del tutto.
«Non è il momento di perdersi in chiacchiere, Sarya. Ritorna immediatamente al campo d'addestramento. Il fatto che tu sia più brillante del resto non giustifica il tuo comportamento.»
«La nuova arrivata aveva bisogno di...»
«Lasciala a me e vai. Sai che non devi contraddirmi.»
Sarya, gran bel nome. Vorrei dirglielo, ma non credo sia il momento adeguato. Esitante la sento mentre si allontana. Riesco a distinguere i suoi passi sempre meno rumorosi. Senza poter vedere, mi accolgo di riuscire a dominare tutti gli altri sensi con più padronanza, ma in alcun modo riescono a compensare la privazione.
«Finalmente indossi quella maschera, Ecate. Ritieniti fortunata, perché essa fa parte della sacra armatura dell'Oficuo. È forse la migliore delle armature d'argento femminili. Il Nobile Castore ha visto in te la sua legittima proprietaria, ma io nutro i miei dubbi, esattamente come il nobile Polluce.»
Sento la stretta della sua mano sul braccio destro. Vorrei lamentarmi per il dolore, ma non posso darle questa soddisfazione.
«Ce lo dirà il tempo, Ecate di Tracia.»
 È una dimostrazione di potenza la sua? Io non sono una donna comune, non mi faccio calpestare o maltrattare da nessuno. Ho sfidato Ares, posso tranquillamente tenere testa a un essere umano come me.
Sposto la mano libera alla ricerca del suo braccio. Mi stupisco di quanto lo trovi velocemente. Lo stringo il più forte che la mia condizione mi concede. Sento il cuoio di un rinforzo sotto le dita e mi godo il rumore che produce la mia stretta. Mi dispiace che non possa vedermi mentre sollevo un angolo della bocca in un mezzo sorriso.
«Lasciami immediatamente» le ordino.
«Sono io che do gli ordini» risponde bruscamente lei.
«Io non prendo ordini da nessuno, ricordalo bene» controbatto.
Megara si libera dalla mia stretta e di allontana da me bruscamente. Con un balzo, forse? Sì. Ho sentito i suoi piedi colpire assieme il pavimento. Il suono riesce a comporre in parte ciò che ho attorno e mi permette di compiere un passo verso di lei. Avverto le braccia e le gambe avvolte dal mio potere. Chiudo appena le dita e sento le unghie sfiorarmi il palmo. Sto manifestando il mio Cosmo, pronta a combattere e più riesco a espanderlo, più mi è chiaro ciò che ho attorno. La mia mente vede attraverso l'energia che emano. Le immagini che produce sono ancora dai contorni confusi, ma chiare.
«Domerò la tua indole ribelle, Ecate!»
«Deve ancora nascere chi è capace di farlo.»
«Non ne sarei così sicura. Tu non sai niente di che cosa significa questa scelta.»
Si avvicina a me, ma è troppo veloce per le mie membra appesantite dalla spossatezza. Non riesco a parare la raffica di pugni che abbatte sul mio addome, devo solo incassarli e arretrare involontariamente verso l'esterno. Provo a fare uno scatto indietro, ma esso non sortisce l'effetto desiderato. Lei mi segue e continua a sfogare la sua furia su di me. È velocissima e forte. Mi colpisce sotto il mento con un pugno così potente da sbalzarmi all'indietro e farmi cadere di schiena sull'erba secca e il terreno polveroso.
«Avanti, alzati» ordina. Mi volto in modo da puntate a terra i gomiti. Piego le gambe e provo a tirarmi su. Un calcio sul fianco mi fa cadere di nuovo, riversa a terra. Si è spostata velocemente, l'ho avvertito, ma non ho potuto fare niente. Nonostante il dolore ritento a sollevarmi, ma un suo piede mi schiaccia la schiena e mi preme a terra.
«Alzati o vuoi continuare a strisciare? Sei solo un verme, lo vedi?»
 Appoggio i palmi delle mani a terra e provo a fare leva su di essi e combattere contro la pressione.
«Chiedi perdono per la tua sfacciataggine. Riconosci il tuo posto al Grande Tempio. Se vuoi alzare la testa, inizia a essere così umile da accettare di non sapere.»
«Sottomettendomi?»
«No, comprendendo che un buon Cosmo e gli artigli velenosi non sono l'unica cosa che conta. Serve tecnica e allenamento, ma soprattutto rispetto verso chi ha già intrapreso questo percorso.»
 La sua voce è più pacata e il peso del piede sulla mia schiena più leggero.
«Ora alzati in piedi e vai al campo d'addestramento.»
I suoi pugni mi hanno distrutta. Come può pretendere che io riesca a eseguire i suoi ordini? Sento dolore ovunque. Tuttavia, se non lo facessi, gliela darei vinta, mi lamenterei contraddicendo me stessa. Stringo quindi i denti e lentamente mi rialzo. Barcollo sui primi passi, ma infine riesco a sollevare il capo.
«Ti abituerai al dolore, indurirai ogni fibra del tuo corpo e della tua anima.»
Al contrario di ciò che ha detto Sarya, Megara non mi sembra un demonio, ma una donna impazzita per servire la causa dei Cavalieri di Atena. Ogni suo gesto, ogni sua stilla di energia vengono spesi per la protezione della dea che non ho ancora visto con i miei occhi. Castore mi ha detto che Atena si è reincarnata in Eirene e sono certa che se sapesse quello che mi accade qui, mi proteggerebbe, almeno lo spero.
Giorno dopo giorno il mio corpo muta. Diviene più forte e resistente ai colpi. La visione della mia mente si amplia, esattamente come il potere del mio Cosmo. Esiste un modo per dominarlo e incanalarlo e farlo esplodere al momento giusto nella furia di un attacco, ma non è semplice. Anche se ora riesco a vedere senza utilizzare la vista, anche se sopporto colpi e ne infliggono sempre di più veloci, è complicato renderli più efficaci attraverso la manipolazione del potere del Cosmo, dell'universo tutto. Megara sa farlo, tanto che con la punta di un dito riesce a frantumare una roccia soltanto grazie a una leggera pressione. All'inizio non mi importava di questo, ma più mi guardo attorno più capisco che questa forza mi serve per non dipendere più da nessuno, per essere capace di badare a me stessa e chissà...evitare anche ciò che è successo a Castore. Siamo vicini, eppure io non posso raggiungerlo. Più i giorni passano più avverto il distacco che si è fatto asfissiante. Sono passate più di due settimane e non so niente di lui. L'unico uomo che viene spesso da queste parti è Polluce, il più potente dei Cavalieri d'Argento. Megara è ai suoi ordini e gli lascia fare buono e cattivo tempo. È chiaro che la sua adorazione origini da un amore sconfinato nei suoi confronti e mai corrisposto. Il suo comportamento è strano. A volte sembra volermi fare a pezzi, in altre occasioni mi parla con calma e comprensione. È stata lei a portarmi uno strano messaggio: una piccola pergamena con poche parole.
“Ho bisogno di vederti”.
Non ho idea di chi l’abbia scritto, né del motivo per cui Megara me l’abbia portato. È forse un modo per rendermi inquieta, destabilizzarmi? Oppure vuole avvertirmi in modo discreto? Le pongo diverse domande, ma lei non mi dà risposte utili, per quanto insista.
“È l’altra faccia della luna”. Questa è l’unica frase che ha dedicato ai miei dubbi prima di lasciarmi sola alla fine dell’addestramento. Che cosa sarà mai l’altra faccia della luna? Mi scervello su quelle poche parole dette con un tono di voce così accomodante, quasi addolcito. Avrei pagato oro per vedere la sua faccia. Giurerei che stava sorridendo. Che cosa può essere in grado di intenerire Megara? Mi siedo sul patio e alzo lo sguardo al cielo e cerco la luna bianca e lontana. Che cosa ci può essere dall’altra parte? Mi arrendo, prendendo a girare e rigirare la pergamena tra le dita. I miei pensieri si perdono e vanno a scavare tra i ricordi.
“La femminilità di una donna è tanto più evidente quando si rivolge all'uomo che ama”. Me lo aveva detto Deianira, prima che impazzisse. Vedeva amore nella mia totale devozione verso Ares e probabilmente aveva ragione. Era più grande di me, più saggia, anche se meno fedele al dio. "Amare un immortale è proibito. Gli dei non fanno che sfruttare gli esseri umani per sollazzarsi. Ricorda, Ecate, i tuoi sentimenti positivi non saranno mai accolti".
Ma certo! Ecco che cosa ha potuto smuovere il lato sentimentale di Megara! Lo so che il mio ragionamento è contorto, abbastanza preso per i capelli, ma forse con quel tono di voce, quella frase, lei voleva farmi capire che l’altra faccia della luna è il cuore nascosto dietro la maschera. Ora è tutto più facile… Se è vero ciò che ho dedotto, il mittente di questo messaggio è Castore. Immagino che, esattamente come Polluce, lei pensi che io e lui… Beata ignoranza.
E ora, di fronte a questa notte stellata, con il corpo stanco e la mente nostalgica, mi rassegno al fatto che debba darle un po’ di ragione. Anche se mi vergogno ad ammetterlo, sono ancora illusa che lui sia davvero disceso dall'Olimpo per me. Sono sciocca, esattamente come la bambina sola e sporca che camminava scalza di fronte al tempio di Ares e osservava dal basso i più grandi eroi coperti di sangue e onore che rendevano omaggio al dio guerriero. La prima volta che incrociai i suoi occhi di pietra, immobili sul sangue degli sconfitti, capii che il mio unico desiderio era quello di conoscere il loro colore. Ora sono verdi, come quelli di Castore, macchiati dal rosso di una follia che dovrebbe spaventarmi, ma mi attrae.
Il Grande Tempio è silenzioso e i miei pensieri sono accompagnati solo dal frinire dei grilli. Odo in lontananza il suono dolce di una lira, una melodia celestiale che allieta questa notte di silenzioso tormento. Anche se non dovrei, mi allontano dal dormitorio e con passo lento seguo il suono. La natura intera sembra essersi placata al canto di quelle corde e questo mi lascia senza parole. Il vento tace e con esso anche lo stormire delle fronde. Arrivo fino alla recinzione lignea del campo d'addestramento e da essa mi sporgo verso il prato fiorito che si trova oltre essa. Nascosta dalla notte, rimuovo la maschera dal viso. Non molto distante da me c'è un uomo vestito di una bianca tunica che siede composto su un seggio intagliato nella pietra. I suoi capelli lunghi fino alle scapole sono azzurri come le acque di un lago poco profondo. Ha gli occhi chiusi e le delicate labbra distese. Il suo viso è meraviglioso esattamente come la musica che compone, ma dalle palpebre chiuse evade un cristallino rivolo di lacrime. Sta piangendo e la sua tristezza è contagiosa. Ascoltando bene le note della melodia, sento la sua solitudine che fa eco alla mia. Rimango ad ascoltarlo comunque quasi volessi esorcizzare il peso della tristezza.
La musica però si interrompe. Il suo sguardo punta verso la mia direzione. Ha occhi azzurri e puri, arrossati dal pianto. Sono lesta a indossare la maschera, ma non esco dall'ombra, anzi, compio diversi passi indietro. Scappo seguendo il cammino che ho da poco percorso, rimanendo celata alla luce della luna che illumina il cielo. Non capisco per quale motivo quello sguardo pieno di dolore mi abbia costretta a scappare. Mi rintano all'interno del dormitorio, con il fiato corto e una strana sensazione che mi rende inquieta.
«Ecate!» afferma la voce di Sarya. «Dove sei stata?» mi chiede allarmata.
«Io...sono arrivata fino al campo di addestramento e ...oltre il confine...»
«Piano!» mi invita ad abbassare il tono di voce.
«Sì, hai ragione, scusami.»
«Ora dimmi che cosa è successo.»
  Si alza dal giaciglio a fianco del mio e mi raggiunge. Rimuovo la maschera dal viso in modo da poter guardarla negli occhi.
«Senti, ascolta con attenzione» le suggerisco. La melodia della lira di quell'uomo a ripreso a diffondersi nella notte.
«Sì, questa è la melodia di Orfeo, Cavaliere d'Argento della Lira. E allora?» mi chiede, confusa.
«Ho incontrato lo sguardo di quell'uomo e sono scappata. Non so perché mi sono comportata così, ma il dolore nel suo sguardo mi ha atterrita. Non riuscivo a sostenerlo.»
 Sarya mi invita a sedermi sul letto e io le do retta. Mi metto comoda e aspetto che lei si sieda di fronte a me per ricominciare a parlare.
«Non so chi sia, ma...»
«Tranquilla, Ecate. Orfeo non è pericoloso, ma molti Cavalieri temono la sua tristezza poiché essa è così forte da contagiare chiunque lo incontri. Il nobile Polluce gli ha proibito di pizzicare le corde della lira, poiché la musica che essa produce influenza le menti di chi ascolta, ma lui non intende sottostare alle sue disposizioni. Le melodie di Orfeo sono state sempre di sostegno ai guerrieri di Atena, poiché hanno il potere di placare le ansie e purificare il cuore dall'oscurità, adesso invece creano angoscia, esattamente come è accaduto a te. Inconsciamente, il dolore rende pericoloso Orfeo, che utilizza la sua musica per attaccare coloro che a lui si avvicinano. Dopo la morte di Euridice, la sua compagna, non è più uscito dalla prigione del suo dolore.»
Sarya ha gli occhi lucidi, quando si allontana da me e appoggia la schiena contro la parete adiacente all'uscio. Osserva la notte con sguardo distratto. Proprio come me ascolta lo strazio delicato descritto dalle note di Orfeo.
«Io posso ben immaginare che cosa significa perdere il proprio compagno di vita. Il mio combatte ogni giorno contro nemici pericolosi e meschini.»
«È un Cavaliere?»
«Sì. È uno dei Dodici. Si chiama Angelòs ed è custode delle sacre vestigia del Sagittario.»
 Sorride con una dolcezza disarmante nel pronunciare quel nome. Per quanto sia più forte e temeraria di me durante gli allenamenti e la sua tenacia non sia seconda a quella di un uomo, ora Sarya si mostra per ciò che è, una fanciulla giovane e innamorata. Non so perché, ma sento il bisogno di indossare la maschera, poiché ho il terrore che anche il mio viso prenda quell'espressione. Lei è più forte di me anche in questo: non si vergogna, mentre io detesto quella parte di me e non voglio che nessuno la veda. Mi volto, quindi e dopo un profondo respiro copro il viso.
«È inutile che lo nascondi, Ecate. Io so tutto. Sono stata io ad accudirti quando stavi male e nei tuoi deliri non avevi voce che per chiamare il nobile Castore.»
«Che cosa?» chiedo con una voce stridula, quasi ridicola. «Non fraintendermi, Sarya. Io non amo nessuno. In vita mia non mi sono mai concessa queste debolezze. E poi conosco Castore da poco e non è possibile....»
«Scuse, soltanto scuse. Avevo tredici anni quando conobbi Angelòs e divenne il mio pensiero fisso in poco più di un giorno che passo nel nostro palazzo. So di cosa sto parlando, fidati di me, come so che muori dalla voglia di uscire di qui. Non otterremo il titolo di Cavalieri in poco tempo...ci vorranno anni, forse, e né io né te possiamo aspettare per vedere quei due, perciò...»
 Mi raggiunge e posa le mani sulle mie spalle. Comprendo il desiderio di familiarizzare e di condividere un’esperienza, ma io non amo Castore. Sono una donna, non una ragazzina. L’unica cosa che mi rende sensibile all’argomento Castore è il manoscritto che porto sempre con me. Temo che sia in pericolo e questo è quanto.
«Questa sera stessa sconfineremo nel settore maschile.»
«E come? Megara e le sentinelle non ci faranno passare. E poi io non voglio rischiare tanto per uno scherzo puerile.»
«Basta mentire a te stessa. Passeremo, punto e basta. Stavo già per andarci, quindi non è un problema.»
 La fa troppo facile lei. Il mio corpo ricorda chiaramente la punizione di Megara e ora come ora non sono disposta a subirla e poi, troverò da sola un modo per passare, quando ci sarà tempo e possibilità.
«Non sto mentendo a me stessa…io… Ehi, lasciami!»
Sarya si copre il volto con la maschera e mi prende per un braccio. Sono titubante. Non vorrei seguirla, ma mi arrendo e decido di darle retta. Stiamo attente a camminare nell'oscurità. Avverto il Cosmo di Megara. È vicina e sicuramente è vigile. L'adrenalina mi scorre in corpo e mi sconvolge il cuore con i battiti veloci di un tamburo. Avverto anche la presenza gelida di Polluce. Che siano insieme? Ridacchio tra me e me a quel pensiero idiota. Polluce non è esattamente tipo da dolce compagnia.
Sarya mi guida lungo un sentiero scosceso su un aspro burrone che precipita per decine di metri verso la valle. Ho una paura folle dell'altezza e la strada da percorrere è così sottile che basterebbe una piccola disattenzione per precipitare. Tiro un respiro di sollievo quando insieme iniziamo a salire una dissestata scalinata che sale nella roccia.
«Questo passaggio ci porterà direttamente agli alloggi dei Cavalieri d'Argento. Io e Angelòs ci diamo sempre appuntamento lì, se lui non riesce a venire da me.»
«Sempre?»
«Ci vediamo abbastanza spesso, lo ammetto.»
Arriviamo ai piedi della scalinata delle Dodici Case dopo aver salito decine di gradini dissestati. Sono sudata e senza fiato, mentre Sarya non sembra provare alcun affaticamento. La invidio profondamente. Entrambe ci appiattiamo contro la parete di pietra quando sentiamo la voce di un uomo sconosciuto. Sono in due: due sentinelle, poiché il loro Cosmo è di bassissimo livello.
«È colpa di Polluce!» afferma uno di loro.
«Non dire sciocchezze! Nessun uomo farebbe una cosa del genere.»
«Io sì, se avessi un fratello che ha avuto tutto e fossi reduce di un esilio. È plausibile che sia merito suo.»
«Pensi che farà la fine di Ilios?»
«Che vuoi che ne sappia?»
  Sarya mi scuote, prima di sussurrare: «Angelòs mi aspetta. Vado da lui.»
La fermo prendendola per un polso.
«Aspetta, dove si trova Castore?» chiedo sottovoce.
«Dietro questo muro! All'interno degli alloggi del nobile Polluce.»
«Cosa?» chiedo sconcertata.
«Polluce non c'è! Fidati di me!»
«Potrebbe tornare da un momento all'altro!»
«Non tornerà!»
  Svincola dalla mia presa e corre lungo le scalinata a una velocità pazzesca. Perché non mi ha avvertito di questo dettaglio non proprio insignificante? Sarya è troppo giovane per essere affidabile, dannazione. Una volta che ce l’avrò a tiro gliela farò pagare cara, molto cara.
Mi volto verso il muro irregolare dell'edificio. Ormai sono a un passo da Castore e non avrebbe senso tornare indietro. Tanto vale sincerarmi del suo stato di salute. C'è un'apertura sopra di me, una finestra. È in alto ed è piccola, ma vedrò di arrampicarmi fin lì, sfruttando le irregolarità delle pietre. Quando ero bambina, arrampicarmi era la mia specialità. Avevo fatto di necessità virtù, visto che entrare dalle finestre era il modo più sicuro per rubare. Sono anni che non mi adopero in questo senso, probabilmente mi sono arrugginita. I miei gesti sono tremebondi e incerti e la mia mente maledice il mio cuore di continuo. A fatica mi infilo all'interno della stretta finestra e cado goffamente su un tavolaccio di legno addossato alla parete, rompendo un vaso di terracotta pieno d'acqua. Mi mordo un labbro per non imprecare e mi tiro in piedi. Le fiaccole illuminano la penombra di queste stanze austere, ma per me non è un problema.
«Chi è là? Polluce?»
  È la voce di Castore! È lui! Basta indugiare! Muovo veloce i miei passi verso di lui. Si trova nella stanza adiacente a quella in cui sono piombata. Sono zuppa tanto d'acqua che di sudore, ho i capelli che sono ridotti a una confusa nuvola bianca. Immagino che con questa maschera debba sembrare orribile, visto che il suo viso stanco si articola in una marcata e enigmatica sorpresa.
«Ecate?»mi chiede, tirandosi seduto sul letto. Esito un po' ma subito dopo decido di togliermi la maschera dal viso.
«Sono io, sì. Era così evidente?» rispondo, cercando di mantenere un po’ di freddezza.
Castore curva le labbra in un sorriso appena accennato.
«Solo una pazza come te potrebbe spingersi fin qui solo per vedere me. Sono contento che Megara ti abbia consegnato il messaggio.»
«Per vedere te? Ma che dici? Sono salita per puro agonismo. Sai l’allenamento è estenuante e apre di continuo a nuove sfide.»
 Mi avvicino a lui e poso la maschera sul tavolo vicino al suo giaciglio. La mia mano destra si avvicina al suo viso sudato. Provo a ritrarla, ma lui la trattiene, afferrandomi il polso. Non mi dice niente. I suoi occhi sono supplici e stanchi. Volta appena il capo in modo da poter posare un bacio sul palmo della mia mano. Non mi do nemmeno tempo di arrossire, che con il braccio libero gli cingo le spalle. Risalgo sulla nuca con una carezza e lo costringo a premere il capo contro il mio petto. Il suo gesto è carico di una strana disperazione, come se per tutto questo tempo non avesse aspettato null’altro che la mia presenza. Trema tra le mie braccia. Mi appare debole e vulnerabile come non l’ho mai visto.
«Che cosa riesce a spaventarti, Castore?» chiedo di getto. Non mi aspetto che mi risponda.
«Sto vivendo l'inferno qui» ammette con un filo di voce.
 «Raccontami»
«Incubi e dolore mi fanno diventare pazzo. Ho sempre meno controllo su Ares e temo che...qualcuno possa vedere quello che nascondo. Devo andarmene di qui, almeno tornare alla Casa dei Gemelli dove nessuno si avvicina. Ho bisogno del tuo aiuto per questo…»
Portarlo via? In questo stato? Con le sentinelle in ogni dove?»
  «Aspetta… qui non si prendono cura di te? Le ferite sono fasciate e gli arti spezzati immobilizzati.»
«I medici mi danno tutte le cure possibili, ma c'è qualcosa che approfitta della mia debolezza, che attacca la mia mente. È come se qualcuno mi stia forzando a liberare il lato più terribile di me, dopo avermi fatto diventare matto!»
Non replico alle sua parole con la frase stucchevole che ho in mente. Mi limito a sfiorare la sua fronte con le labbra, in un bacio appena accennato.
«Polluce vuole tenermi solo. Per proteggermi, dice, ma in realtà non aspetta altro che farmi impazzire. Lui desidera la mia rovina.»
«Sei sicuro? È tuo fratello.»
  Il silenzio cala tra noi, mentre Castore cattura i miei occhi con i suoi. Trema, mentre le sue labbra provano a muoversi su parole che non escono dalla gola. La sua mano corre dietro la mia nuca. Le dita afferrano i miei capelli. Sento il suo respiro caldo che mi accarezza le labbra che sono tanto, troppo vicine alle sue. Il naso sfiora il mio invitandomi ad assecondare l'inevitabile.
«Aiutami, Ecate. Io l’ho fatto con te…Portami fuori di qui»
Mentre parla sfiora le mie labbra con le sue, finché non decide di tacere e unirle a esse in un bacio. Dovrei allontanarmi, rifiutare quel gesto, perché non mi appartiene, non ora che sto diventando una sacerdotessa guerriera, non ora che devo rinunciare a essere donna, ma va bene così. Arrivo a lamentarmi quando il contatto finisce e la mia bocca rimane arida e secca.
Castore sfugge dal mio sguardo, abbassando il viso e tornando a nascondersi tra le mie braccia.
«Non lasciare queste stanze senza di me.»
  Suona quasi come un ordine, ma in questo momento non ho cuore di protestare. Accarezzo i lunghi capelli con le dita, ascoltando la regolarità del suo respiro.
«Mi farò venire in mente qualcosa, Castore. Usciremo da qui stasera stessa.»
Sono davvero impazzita. Come posso pensare di mantenere una simile promessa?  Eppure so di non poterlo lasciare qui, in balia di Polluce. Di solito Castore non sbaglia, anzi, riesce a capire molto bene le intenzioni delle persone, proprio come è accaduto a Klesos con quel vecchio che si è poi rivelato tutt’altro.
Sento le sue dita stringersi sulle mie vesti.
«In fretta…» sussurra. «Fa’ in fretta, Ecate! Aiutami ad alzarmi!»
Non perdo tempo e tendo le braccia verso di lui, lo avviluppo in una salda stretta, pronta ad aiutarlo a sollevarsi, ma vengo paralizzata dal suono di una voce a me tristemente nota.
«Castore? Sei sveglio?» chiede freddo Polluce. Le parole rimbombano dalle stanze adiacenti a quella dove ci troviamo noi. Il mio cuore sussulta, il respiro si blocca, i nostri occhi si fissano attoniti. Che fare adesso? È tanto, troppo vicino.

 

RADAMANTE

 
È una guerra cruenta.
Il sangue intride il terreno arido di questo angolo di Peloponneso. La mia vita si mescola a quella di alleati e nemici, mentre le grida della battaglia si fanno più lontane, esattamente come lo sferragliare delle spade contro gli scudi. Le frecce sibilano nell'aria, piovono ardenti sul nostro esercito sconfitto. La mia corazza è infranta, i miei occhi socchiusi e stanchi. Quello che ora desidero è solo il silenzio. I miei ricordi scolorano, tutto diventa rosso come il sangue mentre vedo cadere le splendide insegne della mia Creta. È finita, come per tanti altri eroi, ma nessun aedo canterà le mie gesta. Il mio nome sarà dimenticato appena mi addentrerò nell'Ade. Quale destino mi attenderà laggiù? Spero che la pace mi accolga, dopo tutto questo peregrinare tra battaglie, giudizi ed esecuzioni.
Radamante il guerriero.
Radamante il boia.
Radamante il giudice.
Radamante non è più niente, ormai. È solo un uomo finito che sta per esalare l'ultimo respiro. La guerra tace ormai e lascia spazio soltanto al funesto canto dei corvi. I miei compagni sono ormai carogne, cibo di quelle bestie fameliche di morte. Perché la mia agonia non finisce? Come mai Atropo non recide il filo di questa vita spezzata? Il cielo è coperto da nubi scure. Forse sta per piangere per me. Chissà se mia madre, la dolce Europa, mi raccontò la verità? Chissà se il signore degli dei è davvero mio padre? Se avessi la forza di ridere, lo farei di me stesso. Io un semidio? Forse i biondi capelli e il viso perfetto sono davvero un segno del mio sangue superiore? Ma cosa dico? Non sono che un mero mortale desideroso di morire, di smettere di soffrire questo dolore insopportabile.
Dei passi in mezzo al silenzio, piedi leggeri e aggraziati che camminano tra i cadaveri. Fruscio di lunghe vesti nere. Chi sei? Sei forse nata dai corvi? Vorrei chiederglielo quando mi affianca. I lunghi e meravigliosi capelli d'ebano sfiorano il mio viso, le labbra quando si china su di me. I suoi occhi sono la cosa più bella che io abbia mai visto. Sono scuri e profondi come il cielo della sera. Le sue labbra si curvano in un labile sorriso.
«Radamante, figlio di Europa e del grande Zeus. Fosti un giudice implacabile, un esecutore freddo e impossibile da commuovere...un guerriero potente e astuto. È un peccato che una creatura così splendida marcisca in questa landa arida.»
La donna si siede accanto a me, noncurante che il mio sangue bagni le sue ampie vesti nere. Sento la carezza della sua mano fredda sul mio petto squarciato.
«Il tuo cuore si sta fermando, Radamante. Vuoi davvero scendere nel Tartaro? Non preferiresti dominarlo?»
Spalanco gli occhi e muovo le labbra, ma la ferita al collo mi impedisce di parlare.
«Sssh. Non sforzarti!» dice, preoccupata, passando le dita sulle mie labbra.
«Il mio signore ti salverà.»
  Un bacio delle sue labbra sulla mia fronte mi dona un calore ormai sconosciuto per il corpo moribondo. Riesco ora a prendere un profondo respiro. Sento bruciare le profonde ferite che mi hanno inferto.
«Tranquillo, Radamante. La morte per te è solo una profonda trasformazione. Stai morendo e rinascendo a nuova vita. Ci vorrà tempo e dolore, ma io che sono compassionevole e magnanima, ti elargirò la pace di un sonno ristoratore. Dormi, splendido giudice, riposa e rinasci.»
«Chi...sei?» riesco a chiederle, con la voce roca e spirata che sibila dalle mie labbra.
«Il mio nome è Pandora.»
«Pandora...» ripeto. Ho già sentito questo nome. È antico e pericolosamente affascinante, come l'essenza di questa creatura.
Le palpebre si fanno pesanti, nonostante io provi a tenerle spalancate. Rifiuto la pace che prima agognavo.
«Non fare resistenza. Il sonno è una dolce concessione.»
È inutile resistere. Sono certo che questa non sia la fine e mi abbandono al torpore. Il mio sonno è pacifico. I sogni si riempiono di ricordi remoti. Ridondante è lo sguardo distratto di Alcmena. Non ha mai dimenticato il suo passato, chissà se ricorderà anche me allo stesso modo? Non è mai stata mia, mi ha sempre temuto. Che sia giusto così? Non lo so e non mi importa ormai. Un'intensa serenità mi invade, portata dal suono regolare dello sciabordio dell'acqua. Quando riapro gli occhi incontro quelli di una donna graziosa dai capelli rossi, raccolti sul capo in un'ordinata pettinatura. Il suo vestito bianco copre appena le forme graziose del suo corpo. Le mani massaggiano le mie braccia e il mio petto con estrema delicatezza. Il mio corpo è avvolto nell'abbraccio di acqua profumata.  Catturo il polso della sconosciuta  ella stretta di una mano.
«Dove mi trovo?» chiedo bruscamente. Lei prova a liberarsi da me, ma non ci riesce.
«Lasciatemi!»
«Rispondi» ribadisco, sollevando la schiena.
«Ti sta purificando per portarti al cospetto di Ade, fratello.»
Mi ha chiamato...fratello? Questa è la voce di Minosse. Lo vedo emergere dall'ombra. I suoi lunghi capelli albini sono folti come prima che...
«Ma tu sei...»
«Morto? No, fratello mio. Anche a me è stata fatta la proposta da Ade. Una nuova vita invece di un'eternità a marcire e gemere di dolore nei recessi del Tartaro.»
 Lascio andare la ragazza per poi sollevarmi in piedi. L'acqua scorre lenta sul mio corpo quando esco dalla vasca di marmo. La giovane è lesta a velarlo con un panno di lino.
«Non è nostalgico, Radamante? Era così quando eravamo entrambi al palazzo reale di Creta. Serviti e riveriti, noi, figli di un Dio.»
«Semplici uomini viziati. Nulla di più. Lo abbiamo visto quando siamo stati attaccati.»
Odio perdere, essere umiliato e sconfitto. Sono sempre stato così.
«Non dire sciocchezze. Nessuno ci superava in combattimento, poiché se così non fosse, non saremmo rinati nel potere di due delle cento otto stelle malefiche agli ordini di Ade.»
«Spiegati.»
«Io, te e il nostro fratellastro Eaco, siamo stati scelti per guidare le armate del signore dei morti come sommi giudici. L'oltretomba intero sarà ai nostri piedi, governeremo sugli spiriti e potremo dannarli all'eterna sofferenza.»
«Anche ...Eaco?»
«Sì. Tutti e tre. Insieme nella prima e nella seconda vita, fratello.»
 La donna mi spoglia del lino intriso d'acqua e si allontana per pochi istanti. Torna con una tunica nera come la notte, identica a quella di mio fratello Minosse. La mia vestizione è completa quando mi allaccia i calzari, pregiati e comodi. Dopo essersi sollevata in piedi, si allontana compiendo un passo indietro.
«Puoi congedarti, donna» le dice Minosse. Entrambi la seguiamo mentre lascia l'ampia stanza, immersa nella penombra.
«Ora che sembri avere un aspetto decente, fratello, puoi seguirmi alla corte del Dio.»
Annuisco distratto, mentre indago sulle mie braccia. Non ci sono ferite di alcun tipo sulla mia pelle.
«Non avevo mai creduto che gli dei si scomodassero per me, eppure...»
«Convinciti, Radamante. Ade è un dio magnanimo e di parola. Se Zeus ci ha rifiutati, lui ci ha accolti e valorizzati.»
Ascolto incredulo le sue parole mentre mi conduce per un lungo corridoio illuminato da due serie di fiaccole ardenti.
«Abbiamo avuto accesso alla Giudecca e quindi al cospetto di Ade proprio per la nostra condotta in vita. Nobili, integerrimi e...privi di paure. Nessuno di noi tre ha temuto la morte che è finita per accoglierci e amarci come una madre distratta che ha da poco ritrovato i suoi figli.»
«La Giudecca?» chiedo stupito. «Ma è...»
«Negli inferi, sì. Nell'angolo più profondo del Tartaro sorge il maestoso palazzo di Ade. Siamo nel ventre dell'oltretomba, Radamante.»
Il fatto che fosse un re incide nel modo di parlare di mio fratello. Il suo linguaggio pomposo e solenne mi ha sempre incantato, ma non oggi, non in questa grande confusione in cui il pensiero rischia di annegare. Insieme varchiamo la soglia di una sterminata sala. I nostri passi risuonano fino all'altissimo soffitto, spezzando il silenzio religioso che ci avvolge. Minosse mi conduce fino al fianco di un altro uomo dai capelli lunghi fino alle scapole, folti e neri. I suoi occhi sono chiari, l'iride dorata, come le nostre. Anche lui indossa una tunica nera.
«Eaco...?» lo chiamo, incerto. Non è mai scorso buon sangue tra noi. Egli è sempre stato considerato un grande portatore di sventura anche da mio fratello che, tuttavia, nel corso degli anni ha iniziato ad ammirare le sue capacità di regnante, superiori persino alle sue. Egina, l'isola sulla quale comandava, era divenuta un paradiso fiorente durante la sua guida, ma tutto il mondo sapeva che la sua nascita aveva distrutto gli equilibri di quella terra negli anni precedenti. Eaco era stato maledetto dagli dei e li aveva sfidati, uscendo vincitore. La mia era forse invidia? Non lo so. So solo che qualsiasi cosa fosse, mi infiamma il cuore di nervosismo.
«Radamante, quanto tempo.»
«Mai abbastanza» rispondo a denti stretti. Minosse ridacchia, ma subito tace, quando il velo leggero che chiude la loggia in cima alle scale che abbiamo davanti si solleva. A quel punto si inchina e così fa anche Eaco, senza degnarmi di una risposta. Io rimango in piedi e mi volto verso il  drappo sollevato. A quanto pare proteggeva un seggio su cui siede un uomo dal fisico prestante che indossa una tunica nera, la quale scopre maggior parte del suo petto. I lunghissimi capelli neri come l'ebano, scendono mossi e folti  lungo tutto il busto. La sua pelle è pallida, più della mia ed è l'unica nota stonata in quel ritratto di perfezione. Quando solleva le palpebre, le sue iridi azzurre e magnetiche mi atterriscono, assieme al tono della voce.
«Non sopporto liti al mio cospetto, Radamante, figlio di Zeus, come non sopporto la tua scortesia.»
Provo un forte senso di colpa per non aver seguito l'esempio dei miei fratelli e non essermi inginocchiato di fronte a questa creatura dotata di un potere immenso. Eseguo subito ciò che non ho fatto e chino il capo.
«Sappiate perdonarmi.»
«Ti concederò tale lusso, ma sappi, d'ora in poi, che non accetterò altri affronti come questo. Sei al cospetto di Ade, fratello di Zeus tuo padre.»
 Trattengo il respiro e il capo basso. Non sono mai stato al cospetto di un dio, nonostante le mie origini. No, non credevo nella loro esistenza e reputavo fantasia i racconti di mia madre e mio fratello. Non so come comportarmi, che cosa fare ora che sono schiacciato dal peso dello sguardo di Ade. Sento il rumore di vari passi e volto appena lo sguardo verso di essi. Riesco solo a vedere l'orlo di scure vesti femminili e i piedi, due coppie di piedi, due chiusi in calzature scure e scabre, due in sandali d'oro, impreziosite da pietre splendenti. «Mio signore, ho condotto qui la vostra consorte. Ella voleva vedervi.»
Riconosco la voce di Pandora e la mia mente si riempie del ricordo della sua immagine. Vorrei posare lo sguardo su di lei, ma sollevare il capo mi è proibito.
«Avresti dovuto aspettare, Pandora. Sai che non gradisco che qualcun'altro oltre me la veda» la rimprovera Ade.
«È una questione seria, altrimenti non sarei uscita dalle mie stanze, mio sposo» irrompe la giovane voce di una fanciulla. «So dove si trova la Dea Atena! I miei occhi lo hanno visto attraverso quelli della mia sciagurata sorella. È una bambina, è sola, spaventata, a bordo di una nave partita dalla Tracia!»
La dea Atena? Che cosa potrà mai importare ad Ade delle sorti di un'altra divinità? Minosse si lascia scappare una risata sommessa.
«Inviate me a prendere la sua testa, sommo Ade» suggerisce al dio. Perché è interessato alla testa di Atena? Quanto sa lui più di me?
«No, Minosse. Mantieni la calma e il capo chino. La guerra con Atena non richiede fretta. Anche se la mia sposa ha già visto il suo viso, questo non significa che Atena costituisca già una minaccia. Ho bisogno di un esercito, una schiera in grado di schiacciarla. È questa la mia priorità.»
Ade si alza dal suo seggio e lentamente percorre le scale. Quando arriva all'ultima, la sua sposa gli corre incontro.
«Eaco!» chiama. «Alzati.»
«Sì, sommo Ade.»
Lo vedo eseguire l'ordine con solerzia.
«Radamante, alzati.»
Allo stesso modo del mio fratellastro, mi ergo in piedi di fronte al dio dei morti. È a pochi passi da me. Il suo portamento fiero e distaccato è segno della sua natura divina. Una fanciulla è stretta da un suo braccio. Tiene il viso premuto sul tessuto della nera tunica del dio. Avevo immaginato Persefone come una donna dalla bellezza accecante e matura, mentre questa non è che una ragazzina acerba.
«Minosse, alzati.»
Anche mio fratello si erge fiero e solenne in piedi di fianco a me.
«Voi tre, che vi siete distinti in vita come abili guerrieri e giudici implacabili, sarete la guida del mio nascente esercito. Di cento otto uomini si compone la mia armata. Potranno sembrarvi pochi, invero, ma dovete sapere che ognuno di loro ha ricevuto un dono dopo la sua rinascita: una parte del mio immenso Cosmo oscuro, simile e contrario a quello che Atena ha concesso a soli ottantotto esseri umani. Non accetto rifiuti, remore o titubanze. A partire da oggi voi sarete i tre giudici dell'Inferno e risponderete soltanto ai miei ordini.»
Con un forte boato, le pareti di pietra poste alle spalle del trono, si distanziano lateralmente, aprendo su un'ampia sala, illuminata da fuochi violacei. La danza delle bizzarre fiamme accende di un tono sinistro delle lucenti sculture. Cerco di affinare la vista per comprendere che cosa siano, ma non ne ho il tempo.
«Seguitemi» ci ordina Ade.
Il dio risale le scale con Persefone al suo fianco. Supera il trono per immergersi nell'ombra della stanza appena aperta. Noi tre lo raggiungiamo con passo celere ma solenne e ci fermiamo senza fiato di fronte alla moltitudine di strane sculture.
«Ma queste sono...» inizia Eaco.
«Surplici» conclude Ade. «Armature forgiate dai gioielli degli inferi. Hanno una resistenza pressoché illimitata e una leggerezza invidiata da qualsiasi maestro armaiolo umano. Ho incaricato Efesto stesso di creare le vestigia del mio esercito.»
 Il braccio del dio si distende verso le corazze. Solo tre della gigantesca moltitudine rilucono della stessa luce violacea delle fiaccole.
«Eaco, per te ho scelto la Stella del Cielo Intrepido e l'armatura del Garuda.  Essa rappresenta il mitologico uccello sacro che fa strada alle anime verso il mondo dei morti, che siano di divinità o di uomini.»
 L'armatura di Garuda risplende di una luce più viva prima di smontarsi e comporsi sulle membra del mio fratellastro. Essa è spigolosa e pesante. Dietro la schiena sono palesi un paio di ali aperte curve verso l'alto. L'elmo calca sul capo premendo i folti capelli di Eaco davanti ai suoi occhi. La luce violacea che emana penetra all'interno della pelle, trasforma lo sguardo di Eaco che si fa giallo come quello di un felino. La sua carnagione diviene pallida come quella del dio. Che cosa è successo? Lo vedo stringere le mani e osservarle, incredulo.
«Come è... possibile? Il mio corpo trabocca...di vigore.»
Ade non dà una risposta, ma si limita a voltarsi verso un'altra armatura.
«Radamante, per te ho scelto la Stella del Cielo Furioso e l'armatura della Viverna. La Viverna è una creatura leggendaria simile a un drago. Essa è dotata di un'intelligenza superiore e il suo corpo velenoso non lascia scampo ai suoi nemici. È un concentrato di abilità e astuzia, esattamente come te durante la tua vita.»
 Le vestigia della Viverna abbracciano il mio corpo, lo vestono di scintillante metallo. A dispetto delle forme barocche, questa armatura è leggera. A contatto con la mia pelle, irrora vigore inestimabile al corpo. Le grandi ali che sono piegate sulle mie spalle fanno somigliare la mia ombra a quella di un mostro alato. Ogni senso è più acuto. Riesco a vedere perfettamente oggetti a distanze amplissime, immersi nell'ombra. Odo rumori lontani come se fossero prodotti a pochi centimetri da me e lo stesso è per gli odori. La pelle delle mie mani è diventata pallida, fredda, ma ciò non mi turba. Mi sento traboccante di potere.
«E infine Minosse, per te ho scelto la Stella del Cielo Nobile e l'armatura del Grifone. Solenne potenza, grande intuito, fusione degli opposti di terra e cielo, il Grifone è una creatura in perfetto equilibrio, degna di un re che ha dominato il suo popolo con saggezza e ferocia. Sarai il più temibile giudice tra i tre, come più temibile fosti da uomo.»
L'armatura riservata a mio fratello è ancor più pesante e maestosa della mia: le grandi ali si estendono lungo tutto il corpo in lunghe penne metalliche. L'elmo, esattamente come quello di Eaco, preme i capelli sugli occhi, nascondendo lo sguardo ora dorato di Minosse.
«Ora che siete consci di ciò che vi ho concesso, vi chiedo: combatterete, vivrete e morirete per me? Il mio scopo è quello di pacificare questo mondo, cancellare le guerre e i dissapori tra popoli, estendendo la mia egemonia su tutte le terre conosciute. Come sapete, l'uomo non ha bisogno di libertà, poiché con essa si autodistruggerebbe. Egli ha bisogno di ordini da seguire, di un forte controllo sulle sue azioni, dato dalla mente magnanima e superiore di un dio giusto. Quel dio sono io. Zeus, Poseidone, Ares, Atena...loro pensano soltanto alla propria superbia, viziati dagli agi dell'Olimpo, mentre io, cacciato da essi e vincolato all'ombra, ho imparato a osservare tutto dal basso e sono giunto alla verità. La libertà è nociva.»
«Sommo Ade...» mi faccio avanti per primo. «Avete tutto ciò che mi appartiene assieme alla mia totale fedeltà.»
«E la mia» aggiunge Eaco.
«E ovviamente la mia» conclude Minosse. Tutti ci inchiniamo, con il capo chino.
«Alzatevi. Voi non siete servi, ma preziosi alleati.»
Gli dei mi sono stati raccontati come viziosi e superbi, ancor più degli uomini. Sono creature capricciose e volubili che non tengono in considerazione la vita degli esseri inferiori. Ade, il più terribile tra tutti mi sta dimostrando il contrario. Egli ha riconosciuto il mio valore più di quanto mi sia mai capitato tra gli uomini miei pari e poi, egli combatte per un'utopia incantevole. Mai più grida di battaglia, mai più sangue, mai più corvi pronti a divorare cadaveri. Nessun uomo potrà prevaricare il prossimo per imporre il suo desiderio di libertà, ma seguirà il disegno di un dio giusto, misericordioso, pena la morte. Come potrei non vivere e morire per questo? È la prima volta che una motivazione superiore mi infiamma l'anima. La prima volta che sono pronto a schiacciare i miei nemici come se fossero insetti. Ora ne ho la forza, ora posso distruggere chi cerca di opporsi alla perfezione che Ade vuole portare sul mondo.
«Sta a voi trovare valenti guerrieri a cui assegnare le centocinque armature rimaste. Siete i tre giudici, i giganti degli inferi e avete il dovere di creare un esercito infallibile. Vi do un anno e l'ausilio di mia sorella Pandora. Create la mia armata e io vi riconoscerò con tutti gli onori. Insieme marceremo contro Atena, distruggeremo le sue speranze e spazzeremo via ogni ostacolo.»
«Sì, mio signore» rispondo a voce bassa e subito dopo vengo imitato dagli altri due.
«Costruiremo la vostra armata e spazzeremo via ogni ostacolo.» faccio eco.
Quando la nostra udienza con Ade finisce, la nobile Pandora mi accompagna presso i miei alloggi, tanto più ricchi quanto più ampi di quanto mi aspettassi, tuttavia non sono quelli ad attirare la mia attenzione, ma il portamento regale e l'oscura bellezza di lei. Il suo sorriso debole ed enigmatico, lo sguardo perso in chissà quale pensiero e la voce...tutto di lei mi attrae, come mai una donna è riuscita con il mio temperamento gelido, nemmeno la tanto agognata Alcmena.
«Perché mi avete scelto?» le chiedo prima che si congedi da me. Anche se è un gesto irrispettoso afferro il suo polso con una debole stretta, ma questo non sembra impensierirla. Mi rivolge uno sguardo enigmatico e un tenue sorriso.
«Perché eri fulgido in mezzo a tutta quella morte. Bello come una stella caduta, perfetto per essere il giudice più grande degli inferi e del nuovo mondo ideale.»
 Le sue parole mi hanno acceso il cuore di entusiasmo e motivazione. In tutti i modi cerco di superare le sue aspettative, di renderla compiaciuta di ciò che faccio. Sono fedele al sommo Ade, condivido il suo sogno e morirei per realizzarlo, ma in fondo al cuore risiede una speranza che mi vergogno a confessare.
Io, Minosse e Eaco ci adoperiamo per fornire le fila dell'esercito di Ade e per lo scadere dell'anno concesso tutte le surplici vengono assegnate a degni possessori provenienti da tutte le terre di questo mondo, ma ciò non basta. Anche Atena sta rafforzando le sue difese. In pochi anni popola Atene di genti in grado di manipolare il Cosmo positivo, opposto al nostro. I suoi più fulgidi guerrieri stanno facendo rotta verso il tempio dimenticato di Klesos. Sono passati  cinque anni da quando sono diventato Radamante della Viverna, cinque anni senza uccidere nemmeno un essere umano. Le fauci della bestia che rappresento hanno sete di sangue, perciò attendo tra queste mura in rovina l'arrivo di una preda potente, affilo le zanne.
«Sommo Radamante, due Cavalieri d'Oro si stanno avvicinando a Klesos!»
Stringo una mano nell'altra ma rimango in silenzio alle parole del mio sottoposto. La notte mi abbraccia e nasconde un ghigno che si fa strada sulle mie labbra. Pregusto già il momento in cui splenderò fulgido in mezzo alla morte.

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Capitolo 5
*** Capitolo V ***


INAZUMA

 
Siamo in viaggio da tre giorni. Il nobile Aspera afferma che solo poche ore ci separano dalla destinazione, tuttavia dobbiamo riposarci per riprendere energie. Al contrario della maggior parte delle reclute, Esperante non sembra subire il peso del viaggio. Fosse per lui, marceremmo correndo senza nemmeno una sosta. Ha sempre protestato, anche quando ci siamo fermati nelle locande dei villaggi durante la notte. Io invece mi sento in colpa. Più passi compio e più penso a quanto Angelòs sia arrabbiato e preoccupato. Immagino che Sarya si trovi nella sua stessa situazione e non so come potrò giustificarmi con lei quando tornerò.
Cerco di non pensarci quando mi siedo di fronte allo specchio d'acqua limpida di un torrente. Allungo le mani oltre la superficie e mi godo il refrigerio della carezza del liquido cristallino. Avvicino le mani, le pongo a coppa e porto un po' d'acqua alle labbra aride. Bevo quel poco che riesco e mi guardo attorno. Le ombre lunghe della sera mi nascondono dallo sguardo degli altri. So che Esperante non approverebbe, ma ho bisogno di sciacquarmi il viso, la fronte. Più della fatica, il caldo mi ha fatto sudare e ha reso fastidioso il peso dell'elmetto. Decido di toglierlo e posarlo al mio fianco, dopodiché affondo il viso sotto il pelo dell'acqua. Che sollievo!
«Ragazzo, è ora di ripartire.»
La voce di Vermiglio mi fa trasalire. Prendo l'elmetto e lo calco sul capo il più veloce che posso.
«Non hai bisogno di fingere con me. Puoi fare con calma, Inazuma.»
Il cuore perde un battito. Rimango con le labbra chiuse e gli occhi sgranati.
«Come ...?»
«Come tu percepisci la natura del Cosmo di chi hai accanto quando ti concentri, io riconosco le persone solo avendole vicino. Non c'è bisogno di espandere il Cosmo per rendersi palesi ai sensi di Vermiglio. Anche per Aspera è così, perciò mi chiedo come mai non si lamenti del fatto che degli intrusi abbiano sostituito due pavide reclute.»
«Quindi avete riconosciuto anche Esperante?»
«Lui per primo. Ha il Cosmo di un Cavaliere d'Oro ed è l'unico ragazzino con tutto quel potere. In realtà potrebbe già indossare l'armatura, ma non ha ancora la mente adatta. Il fatto che siate qui ne è la prova.»
Non replico alle sue parole e mi avvicino a lui, pronto a ritornare tra le reclute.
«Aspetta un attimo» mi dice, mentre posa le mani sulle mie spalle e si china, portando il viso allo stesso livello del mio.
«Tu e Esperante siete dotati di un potere superiore agli altri. Le stelle vi hanno già scelto, ma questo non significa che dovrete rischiare. Non voglio vedere colpi di testa da parte vostra, non più, siamo intesi?»
Il suo è un rimprovero, ma è espresso con estrema calma. La sua voce non si indurisce e il suo sorriso mi rassicura.
«I ragazzi come te nemmeno dovrebbero combattere, in realtà.»
 I suoi occhi si velano di mestizia, si perdono chissà in quale ricordo, anche se solo per un attimo. Sfugge dai miei occhi e si solleva in piedi, per poi voltarsi.
«Andiamo.»
Ha la voce che trema.
«Va tutto bene, nobile Vermiglio?»
  Risponde annuendo pacatamente, prima di farmi da guida verso gli altri. Esperante mi prende per un braccio e mi trascina accanto a lui.
«Che stavi facendo?» mi chiede nervoso.
«Mi rinfrescavo il viso e...»
I miei occhi tornano a seguire Vermiglio che nel frattempo ha raggiunto Aspera.
«E?» mi dice Esperante dopo avermi scosso con forza.
«E sa tutto, come sa tutto Aspera. Non ho idea del motivo per cui non ci abbiano ancora rimproverati e spediti al Grande Tempio.»
 Esperante sbianca, portando tutte e due le mani sul viso.
«Che cosa?»
«A quanto pare il tuo piano non ha granché funzionato.»
 Lo dico con il sorriso sulle labbra. Non voglio che gli pesi.
«Accidenti! Dovevo immaginarlo! Niente da fare. Mi hanno giocato e stanno continuando a farlo.»
Si priva dell'elmetto e a ampi passi si avvicina ad Aspera e Vermiglio.
«Nobile Aspera!»
  Un brusio confuso ronza attorno alle reclute e porta il nome del futuro Leo.
«Finalmente hai posto fine a questa farsa, Esperante» commenta il Cavaliere del Capricorno.
«Lo sapevate sin dall'inizio?» chiede infastidito il mio amico.
«Sì. Me ne sono accorto appena ti sei aggiunto alla mia schiera assieme a Inazuma. Mi aspettavo che entrambi lo faceste, per questo motivo ho costretto le reclute a indossare elmetti che coprissero parte del viso.»
Era tutto già previsto. Ha fatto apposta per farci partecipare a questa spedizione. Ora mi chiedo se Angelòs e Sarya sapessero tutto. Sono sconvolto.
«Per quale motivo?» grida Esperante, stringendo il pugno destro.
«Tanto io quanto Angelòs volevamo mettere alla prova il tuo coraggio e la tua fedeltà agli ordini. Era l'ultima prova prima di nominarti al Sacerdote per l'investitura.»
«Diventerò...Cavaliere?»
«Guardandoti ora posso dire che ti sei comportato esattamente come sospettavamo. Irresponsabile, affrettato e sprezzante del pericolo. Sei un leader carismatico, visto che hai convinto un novellino a seguirti, hai in qualche modo cancellato i suoi timori, ma questo non bilancia le caratteristiche negative che ho citato prima. Non sei adatto a essere un Cavaliere d'Oro, non per ora.»
Esperante rimane in silenzio. Lo vedo stringere più forte la stretta sull'elmetto. Le dita affondano sul metallo, lo contorcono come se fosse di morbida stoffa.
«L'insubordinazione e l'impulsività sono nemiche di un guerriero, tu non sai...»
 Il rumore dell'elmo che precipita a terra e si frantuma mi fa sobbalzare e interrompe il discorso di Aspera.
«Sono stufo di essere trattato come un moccioso! Stanco di stare in ombra! Voi e mio fratello, come anche gli altri, combattevate come uomini alla mia età. Perché io devo rimanere qui ad aspettare di maturare? Anche noi abbiamo cose da proteggere, cosa credete? Non mi piace che mio fratello rischi la vita mentre io sto con le mani in mano. Non mi piace essere protetto, io voglio difendere gli altri, dannazione! Sono un genio, no? Allora lasciatemelo essere fino in fondo!»
La sua voce si spezza, il respiro si fa irregolare.
«Voglio ricambiare quello che è stato fatto per me: il sacrificio di mio padre, l'aiuto di mio fratello, la fiducia vostra e del Grande Sacerdote. Voglio iniziare ora!»
Aspera sospira e posa una mano sul capo di Esperante.
«Non devi restituire niente a nessuno.»
 Il tono di voce del Cavaliere d'Oro è addolcito. Mai e poi mai mi sarei aspettato di sentirlo parlare così.
«Te lo dice un uomo che fu padre. Se fosse ancora possibile, credimi, darei la vita per proteggere mio figlio. Non devi combattere per ricambiare coloro che ti hanno fatto dono del proprio affetto e protezione. Devi lottare come loro, per chi non può difendersi da solo.»
Posa le mani sulle sue spalle e lo fa girare verso di me e le reclute.
«Devi sapere che non sei solo e indossare un'armatura d'oro significa avere la responsabilità delle loro vite. Combatti per questo e l'armatura di Leo sarà tua.»
Esperante mi rivolge uno sguardo stranito. Immagino che sia spiazzato dal gesto e dalle parole di Aspera.
«Non vedo l'ora di averti tra noi, piccoletto. Una testa calda in più fa sempre comodo tra tutti questi perfettini» aggiunge Vermiglio, affiancando il compagno d'arme.
«Vermiglio, voi dovete pensare che...»
«So tutto della teoria, poiché Demyan dell'Acquario ha provato mille volte a farmi la predica, ma non ho mai appreso. Combatto per Atena e per chi mi sta a cuore e lo faccio cercando di sopravvivere e non arrendermi alle insidie del nemico. Basta che tu sappia fare questo, Esperante. Pensi di esserne in grado?»
«Sì. Certo che sì! Sono nato per questo.»
«Allora non se ne parli più. Mettiamoci in marcia, piuttosto, o arriveremo a destinazione quando i tempi saranno finiti.»
Il tono rassicurante di Vermiglio è riuscito a darci un po' di buonumore e una ventata d'aria fresca al nostro morale. È stato capace di strappare un sorriso ad Aspera che subito dopo si è messo in marcia e ci ha richiamato al suo seguito. Non ci fermeremo più, in modo da poter arrivare a Klesos per l'alba. La fila composta da noi giovani ora è disordinata, ma nessuno ci rimprovera.
Albeggia già quando i nostri passi si fermano di fronte a una distesa di terra brulla. Il primo edificio che incontriamo sulla strada è una casa per metà distrutta. Le macerie spuntano dal terreno assieme ai visi attoniti di decine di cadaveri. Alcuni di noi si abbandonano ai conati di vomito, mentre io e Esperante fissiamo spaventati la morte che ci circonda.
«Non guardateli per nessun motivo» ordina Aspera. Sollevo lo sguardo sulle spalle di Esperante e tento di tenerlo fisso lì, nonostante il fruscio attorno a noi. C'è qualcosa che si muove, qualcosa di molto vicino.
Uno dei ragazzi grida di paura. Probabilmente non ha ascoltato le parole di Aspera e si è voltato verso i cadaveri.
«Non guardateli!» grida più forte il Cavaliere del Capricorno, dopodiché abbandona la testa della fila.
«Sono morti...ma si muovono» mormora Esperante.
«Sono non morti, spiriti che non hanno trovato la via perché imprigionati da qualcuno che gioca con la loro disperazione. Conosco bene questo potere» spiega Vermiglio. «Non pensavo che lui...»
«Lui chi, Nobile Vermiglio?» chiedo timoroso, concentrando lo sguardo sui suoi occhi turchesi. Il Cavaliere dello Scorpione scuote il capo e tira un profondo sospiro.
«UnCavaliere d’Oro.» risponde, evasivo.
Un Cavaliere si muove dietro a questo inferno? Sono sconvolto, tanto che i miei occhi attoniti si posano distratti sui morti marcescenti che si sono sollevati in piedi attorno a noi. È automatica la mia reazione. Per quanto mi ripugni, mi difendo utilizzando la raffica di colpi che mi ha insegnato Angelòs. Le nocche affondano sulla pelle fredda e flaccida dei corpi in decomposizione. Il loro sangue putrido macchia i miei vestiti.
«Sono centinaia!» protesto, per poi arrestare ogni movimento quando vedo la scia luminosa tracciata dai pugni fulminei di Esperante. Insieme liberiamo la strada attorno a noi, facendo involontariamente scempio dei corpi.
«Chi può essere l'infame che ha fatto questo?» chiedo a denti stretti.
«Ditemelo, Vermiglio!»
Non ricevo risposta. Entrambi i Cavalieri d'Oro avanzano verso il villaggio che si trova oltre questa fattoria. Ci invitano a seguirli, escludendo gli altri ragazzi ai quali viene ordinato di non spostarsi per alcun motivo dall’area liberata dall’influenza nefasta di questo nuovo nemico.
La strada è lastricata di morte. Animali, piante, persone, tutto è spento da diverso tempo ormai. Anche qui gli occhi dei cadaveri ci fissano, vuoti e accesi da deboli bagliori azzurrini.
«Non guardateli. Le luci azzurre sono "Ignis Fatuus" : un potere che brucia le esistenze fino alla polvere. Attraverso i loro occhi...potrebbero passare a noi e consumarci» spiega Aspera.
«Sempre avanti, come se niente esistesse. Sempre avanti, sempre avanti» ripete Esperante, sottovoce, quasi recitasse un mantra. Cerco di concentrarmi sulle sue parole, ripetitive ma in grado di distrarmi da ciò che mi circonda. Sollevo lo sguardo soltanto quando il buio si fa più fitto e i piedi calpestano le foglie secche di una vegetazione morta da tempo. Un ramo spoglio mi ferisce su un braccio e per un attimo mi toglie il respiro.
«Non osate fare un altro passo» tuona una voce distante. Centinaia di fiamme azzurre si alzano da terra, accendendo la notte del bizzarro colore. Vanno a circondare un uomo dalla splendente armatura d'Oro. La distanza mi proibisce di vedere il suo volto. Tiene il braccio destro alzato e le gambe leggermente divaricate.
«No...non posso crederci. Non voi...» mormora Vermiglio, mentre assume una posizione di difesa di fronte a noi.
«Non fate un altro passo, ve lo ripeto. Questo luogo vi è interdetto.»
La voce dello sconosciuto si fa più chiara, mano a mano che muove i suoi passi verso di noi. La conosco, io so a chi appartiene ma non ho cuore di ammetterlo. Non posso...non è vero. È impossibile.
«Abbiamo la missione di indagare quelle rovine e non ci faremo dissuadere da un'immonda illusione!» afferma Aspera.
«Illusione? Di cosa parlate, Aspera?» replica lo sconosciuto.
«Voi...siete morto, Sophos!» si intromette Vermiglio. «Ucciso da uno Spectre! Anche il Grande Sacerdote ha smesso di avvertire il vostro Cosmo.»
«La percezione di Hosoku è grande, ma non fende il confine tra il mondo dei vivi e quello dei morti. Dicono che nessuno sopravviva negli inferi, ma io ce l'ho fatta più di una volta.»
Disobbedisco ai due Cavalieri d'Oro, superandoli di corsa fino a raggiungere mio padre. Devo accertarmi del fatto che quel Cosmo spropositato e gelido gli appartenga davvero. I suoi occhi sono completamente privi d'espressione, le labbra irrigidite. Anche se il viso è suo, io non riconosco mio padre nel Cavaliere d'Oro che si erge di fronte a me. Il volto è circondato da una maschera d'oro con sei punte lunghe e ricurve, simili alle zampe di un granchio, tre per ogni lato. I coprispalle, i bracciali e i gambali hanno forme taglienti. Sulla schiena danza il lungo mantello bianco alle lente carezze del vento putrido.
«Padre! Sono io, Inazuma! Possibile che non...siate felice di vedermi, sano e salvo?»
«Torna sui tuoi passi, figlio mio. No non sono felice di vederti, non in questo luogo. Non dovreste essere qui.»
«Noi non possiamo tornare indietro! Dobbiamo capire quello che sta succedendo e per farlo dobbiamo entrare nelle rovine del tempio!» protesto.
«Te l'ho detto diverse volte, figlio. A volte è meglio non sapere.»
«E voi, allora? Voi perché siete qui? Perché mi avete fatto credere di essere morto? Tanto io che Sarya abbiamo sofferto le pene dell'Inferno! Abbiamo rischiato di morire! Se ci foste stato voi...»
 In pochi istanti, la mano destra di mio padre si avvicina al mio petto. Noto il potere del suo Cosmo che si concentra sul palmo.
Un calore fortissimo mi preme contro, fino a sbalzarmi indietro con un volo di diversi metri. È Vermiglio a fermare la mia caduta e a sostenermi.
«Non lo ripeterò ancora, Cavalieri. Tornate sui vostri passi o sarò costretto a respingervi con la forza. I morti e l'Ingnis Fatuus non sono bastati a tenervi lontani, dovevo immaginarlo.»
«Lasciateci passare, Sophos! Non capisco come mai vi opponiate agli ordini di Atena, visto che siete uno dei suoi più fedeli Cavalieri. Non capisco come abbiate potuto colpire vostro figlio e minacciare noi, i vostri compagni d'arme» si oppone Vermiglio.
Mio padre non risponde. Solleva il braccio destro in aria. Le fiamme dell'Ingis Fatuus si spostano tutte in sua direzione, abbagliandoci nella loro luce.
«Non esiterò a scagliarvi contro l'Ignis Fatuus se vi spingerete oltre. Il Cavaliere di Cancer domina la morte, il Cavaliere di Cancer distrugge le anime. Volete davvero subire questa sorte?»
«Perché?» mormoro io, con voce sofferente, mentre mi libero dal sostegno di Vermiglio.
«Perché minacciare di morte i propri compagni? Dove è finito il vostro onore, padre?! Non lo avreste mai fatto!»
«Taci, Inazuma» mi ordina, tingendo il viso di un'espressione agghiacciante. Il suo sorriso ampio mi gela il sangue nelle vene.
«Tu non sai niente di ciò che ero prima di rifugiarmi sul monte Eta. Aspera può parlarti della leggenda del Cavaliere di Cancer, il Tristo Mietitore, ammesso che ne abbia il tempo.»
Aspera supera Vermiglio e Esperante che hanno ripreso le posizioni di combattimento.
«Speravo di dover evitare lo scontro con voi, ma non mi lasciate alcuna scelta, Sophos. Già una volta abbiamo combattuto, già una volta è scoppiata una battaglia di mille giorni.»
Una battaglia di...mille giorni? Non ho mai sentito parlare di uno scontro così lungo. Ho sempre pensato che mio padre fosse un eroe e i Cavalieri hanno contribuito a forgiare questa mia convinzione. Perché ora sembra tutto diverso? Tristo Mietitore? Che significa?
«E sia dunque. Vermiglio, Esperante, Inazuma: lasciate il Cavaliere di Cancer a me e proseguite!»
Non perdiamo tempo. Anche se vorrei ancora cercare di capire che cosa sta succedendo, sento che devo avanzare verso lo scopo ultimo di questo viaggio: il tempio di Ade e i suoi segreti. Sempre avanti, come se niente esistesse, mi ripeto, sempre avanti. Anche se gli occhi mi si riempiono di lacrime e i singhiozzi muoiono in gola, supero mio padre. Anche solo per un attimo vedo nei suoi occhi una sincera preoccupazione. Non so come faccio a percepirlo, ma sento il calore del suo affetto vicino al cuore.
«Non vi lascerò passare! L'Ignis Fatuus bloccherà il vostro incedere!» grida, mentre le fiamme azzurre schizzano veloci verso la nostra posizione. Non fanno in tempo a raggiungerci però, perché si infrangono su un muro d'aria invisibile. Una grossa frattura si forma nella terra, disegnata da una linea retta. Il fuoco estinto balugina debole fino a quel confine: un taglio netto, profondo quanto un crepaccio, ci separa ora da mio padre e Aspera.
«Sempre avanti...» mormoro con le lacrime agli occhi. «Come se niente esistesse.»
Esperante mi rivolge uno sguardo comprensivo, ma non lo accompagna con nessuna parola. Vermiglio invece sfugge dal mio sguardo, facendo strada fino alle mura del tempio in rovina.
Superato il colonnato, ci troviamo all'interno dello spazio ampio del vestibolo. L'aria calda si fa soffocante, mi appesantisce le braccia e le gambe, tanto che ogni movimento mi è difficile.
«Una barriera. Un incantesimo che ci priva progressivamente del potere del nostro Cosmo!» grida Vermiglio.
«Esatto, una barriera...» afferma una voce acuta, quasi fastidiosa di uomo, mentre uno a uno i bracieri attorno alla nostra posizione si accende di fredde fiamme violacee. Esperante per primo tossisce in un convulso che contagia anche me. È tutta colpa di un odore intenso, un profumo che rende l'aria irrespirabile. Esso emana dall'uomo in armatura nera che ha da poco parlato.
«E oltre alla barriera ci sono io: Niobe di Deep della Stella della Terra Oscura. Il forte profumo che vi sta paralizzando è la mia Profonda Fragranza. Nessuno, nemmeno un Cavaliere d'Oro può resistere a essa, a maggior ragione se è prigioniero della barriera che Ade ha eretto attorno all'entrata degli inferi.»
«L'entrata...degli inferi?» chiedo, con il filo di voce che mi è rimasto.
«Esatto, moccioso. Siete a un passo dal grandioso impero di Ade! Dovreste inchinarvi alla sua magnificenza.»
Non farò mai una cosa simile. Cerco di resistere e rimanere diritto sulle mie gambe, ma le ginocchia sono molli e doloranti.
Il Cosmo dorato di Esperante e Vermiglio, brucia intensamente e si espande, richiamando anche il mio. Dal momento che provo a liberarlo, però, mi sento privare della sua energia. Che succede? Per quale motivo invece di sfruttare il mio vigore, lo sto perdendo?
«Il mio Cosmo è velenoso, tanto da distruggervi dall'interno. Poco a poco vi spegnerete...» specifica Niobe.
Non lo lascio finire la frase, poiché mi scaglio contro di lui con il colpo che mi ha insegnato Angelòs: il colpo del Fulmine. Decine di pugni sferrati a velocità crescente. Dovrebbe raggiungere quella del suono ma....dannazione, è ancora troppo presto, non so governarlo. Nonostante Niobe sia abile nella parata, riesco a raggiungere la sua armatura e lasciarvi un segno con un colpo ben assestato. Mi concedo di sorridere appena per la soddisfazione, quando assumo a fatica la posizione di difesa.
«Cosa c'è da ridere, ragazzo? La profonda Fragranza ha già fatto effetto?»
 Non controbatto, anche se vorrei, perché veloci linee luminose si intrecciano di fronte a me. Non riesco a vederlo, ma sono certo che quelli siano i colpi di Esperante. La Surplice indossata dal nostro nemico viene ammaccata in più punti e il suo viso viene segnato dall'impronta di un pugno.
«Cosa credete che siano questi colpi se non impercettibili carezze? Eh? Il grande Niobe non cadrà di certo per così poco. Profonda Fragranza, che tu possa diventare ancora più intensa!»
La tosse mi sconvolge con più decisione, costringendomi a vomitare un corposo rivolo di sangue. Anche Esperante accusa il peso dell'attacco di Niobe e barcolla per poter rimanere in piedi. Nonostante questo lo sento ridere, anche se sofferente.
«Te la sei giocata male...Niobe. C'è ancora il più forte di noi in piedi, contro di te...» irride il suo avversario, prima di addossare il proprio peso contro una delle pareti di pietra. La luce delle fiaccole ora soccombe allo splendente Cosmo di Vermiglio. Vedo il braccio destro del Cavaliere d'Oro teso in avanti. L'indice disteso culmina con un artiglio rosso che non avevo mai visto prima. Sposto lo sguardo fino al viso e mi accorgo che, nonostante la posa solida e fiera, la Profonda Fragranza ha avuto effetto su di lui. Da un angolo della bocca scende un sottile filo di sangue.
«Quell'uomo non è che un cadavere che cammina! Non ha la forza di muovere un muscolo!» grida Niobe a Esperante.
«Questo lo dici tu!» replica Vermiglio, scattando contro Niobe a una velocità pazzesca, con il braccio teso in avanti. A fatica seguo il suo movimento e vedo l'indice artigliato conficcarsi nel petto armato dello Spectre che emette un prolungato urlo di dolore.
 L'odore della Profonda Fragranza viene sostituito da quello del sangue che esce copioso dalle ferite del guerriero di Ade.
«Credevi che il dolore provocato dal tuo fetore potesse paralizzare anche me? Mi dispiace, ma io sono immune a esso. Sono il Cavaliere con la più forte capacità di sopportazione del dolore. Sono sopravvissuto alla schiavitù e alla vita del gladiatore. Il mio corpo è costellato di cicatrici, derivate da altrettanti tagli più o meno profondi. Ho imparato...»
 Implacabile, Vermiglio continua a trafiggerlo con il suo artiglio rosso.
«A combattere nonostante tutto, ad andate avanti anche coperto di sangue e ferite, stremato dal dolore. Non capisco che cosa significhi arrendermi!»
 Tira indietro il braccio, con un gesto brusco, liberando il dito dal sangue del suo nemico.
«E tu, Niobe? Cosa sceglierai? Accetterai l'amaro calice della resa o morirai? Hai appena subito quattordici delle quindici punture dello Scorpione. Quindici, proprio come le stelle della mia costellazione guida. Esse sono il colpo più doloroso che un uomo possa ricevere, poiché colpiscono punti deboli del corpo e provocano un'inarrestabile emorragia.»
Niobe non risponde alla domanda del Cavaliere d'Oro, ma articola la voce in strazianti lamenti, mentre io e Esperante torniamo a respirare a pieni polmoni l'aria calda, libera da ogni contaminazione.
«La pazzia dovuta all'eccessiva dose di dolore ti impedisce di parlare, ti concede solo di lamentarti. Ebbene, meglio così, poiché la mia domanda era retorica. Non ti darò l'opportunità di scegliere, poiché i tuoi gesti sono stati abietti! Avrei accettato di ricevere i tuoi attacchi, poiché siamo giurati nemici, ma no, tu hai provato a uccidere anche due ragazzini privi di corazza! Che onore c'è in te? Nessuno! Chi si batte contro coloro che non possono difendersi non è degno di salvezza alcuna! Chi non rispetta il codice morale, non è degno di pietà, per questo tu morrai, Niobe, urlando di dolore, tra atroci sofferenze e follia.»
Vermiglio alza il braccio destro verso il soffitto. Il suo Cosmo dorato si trasforma in un alone rosso e si concentra sulla punta del suo rosso artiglio.
«Tornerai all'inferno con il petto trapassato da questo colpo impietoso. Questa è la Cuspide di Antares e differisce dalla Cuspide Scarlatta che hai appena subito in intensità. Sarà diretta al tuo cuore nero! Sei pronto alla dipartita? Essa ha il bagliore della stella di Antares, colei che brilla in opposizione al grande e lontano pianeta rosso nel cuore della Costellazione di Scorpio. Ritieniti onorato, perché ho usato questo colpo una sola volta in tutta la vita ed è stato destinato a un re! Infame e senza dignità, esattamente come te!»
«No...» dice Niobe tra i lamenti. «Non ancora...»
«Invece sì! Niente potrà salvarti!»
Il Cosmo di Vermiglio è spropositato e aggressivo e, nonostante la barriera tenti di assorbirlo, esso brucia e torna a espandersi. Il suo colpo è veloce. L'indice artigliato si pianta in profondità sul petto di Niobe. Un grosso fiotto di sangue esce dalla ferita non appena Vermiglio allontana la mano e distende il braccio lungo il fianco.
Lo Spectre cade in ginocchio, poi disteso in avanti con il viso premuto sul suo stesso sangue. Dalle sue labbra non esce che un ultimo e sofferto lamento.
Io ed Esperante ci avviciniamo a Vermiglio senza dire una parola. Osservo il corpo del nostro nemico con attenzione e faccio un balzo all'indietro quando i sandali calpestano il suo sangue.
«Dobbiamo addentrarci nel naos per concludere il nostro compito, ragazzi» spiega Vermiglio con calma.
«Seguitemi e questa volta....evitate di attaccare a viso aperto.»
 Esperante è il primo ad annuire e seguire i passi del Cavaliere dello Scorpione. Io rimango fermo a osservare il corpo di Niobe, ma il pensiero spazia dalla sua morte e giunge al viso di mio padre. Non è più gentile e benevolo, ma terrificante...folle. Il Tristo Mietitore, davvero lo chiamavano così? Ormai non posso tornare indietro, perciò seguo gli altri senza aver bisogno del loro richiamo. Il potere soffocante della barriera mi toglie quasi il respiro quando giungiamo all'entrata della parte più interna del tempio.
«Lasciate entrare me per primo e seguitemi soltanto dopo il mio ordine» ci ordina Vermiglio.
«Nemmeno per sogno, nobile Vermiglio!» protesta Esperante. «Siamo venuti qui per combattere, non per essere difesi!»
Vermiglio non presta attenzione all’ennesima protesta del mio amico e avanza fino ad addentrarsi tra quelle mura proibite.
Un Cosmo gigantesco mi schiaccia a terra. Fatico moltissimo a rimanere in piedi sulle mie gambe.
«Allontanatevi da qui! Tornate al vestibolo! Adesso!» grida Vermiglio, rivolto a noi, prima di venire investito da una raffica di colpi che emanano una luminescenza violacea. Il Cavaliere dello Scorpione è costretto a capitolare a terra di fronte i nostri occhi. Il diadema dorato che indossava sul capo sbalza fin davanti ai miei piedi.
Vermiglio prova ad alzarsi ma un pesante piede preme sulla sua schiena schiacciandolo a terra. Incombe su di lui la sagoma antropomorfa di una creatura dalle grandi ali di demone. Sul capo spicca un voluminoso elmo cornuto. Che cos'è? È forse una belva degli inferi? I suoi occhi gialli brillano nel buio come quelli di un predatore...Chi è costui, in grado di schiacciare uno dei Dodici?

 

ECATE

 
Gli occhi di Castore parlano del pericolo a pochi metri da noi.
«Sotto la finestra, dietro il baule, in fretta!»
Immagino che siano le indicazioni per un ipotetico nascondiglio al quale mi avvicino con passo leggero e veloce. Solo una volta arrivata lì mi accorgo di una mostruosa dimenticanza. I contorni argentei della mia maschera vengono accarezzati dalla luce del lume che rischiara la penombra della stanza. Castore non se ne è accorto, speriamo che non lo faccia neanche Polluce. Mi faccio piccola piccola, immersa nel buio. Cerco di spegnere la mente, di non dare seguito alla paura o altre emozioni e regolarizzare il respiro.
Polluce è entrato nella stanza di Castore, riesco a vederlo bene da qui. Indossa l'armatura d'Argento, voluminosa e completa del tagliente diadema.
«Con chi parlavi, fratello?» chiede, aspro.
«Nessuno. Non ho detto assolutamente niente. Sto diventando muto qui dentro.»
 Polluce non replica alle parole del fratello. Sento i suoi passi più vicini. È probabile che lo abbia sentito mentre mi suggeriva dove nascondermi, perciò devo trovare un altro posto e alla svelta. Scivolo, premuta contro la parete irregolare, nascondendomi nel cono di buio pesto all'angolo della stanza. Ringrazio mille volte il mio intuito quando vedo Polluce chino sul baule che allunga le braccia dietro di esso. Sento il suo respiro vicinissimo che mi gela il sangue nelle vene. Non devo farmi vincere dalla paura, poiché ho vissuto moltissime situazioni al limite
«Pensavo che fosse venuta da te...» inizia Polluce, ritornando sui suoi passi.
«Di chi parli?» chiede Castore.
«Di Ecate di Tracia, la donna che volevi addestrare personalmente.»
«Ieri hai detto che era al campo d'addestramento, perciò presumo che sia lì.»
«No. Stasera non c'è. Ho controllato di persona, per questo, dopo aver avvertito il suo Cosmo da queste parti, ho deciso di venire a controllare.»
«Perché dovrebbe essere qui?»
«Perché è chiaro che sia interessata a te, fratello.»
«È solo riconoscente del fatto che io l'abbia salvata.»
 Polluce scoppia a ridere. «Salvata...già. È tipico di voi Cavalieri d'Oro "salvare" fanciulle. Anche Angelòs è appassionato di questa pratica.»
«Sei invidioso, forse? Eppure nemmeno a te manca l'attenzione femminile.»
Polluce appoggia la schiena contro la parete di fronte al letto e incrocia le braccia.
«Non ho alcun interesse per queste cose. Sono un Cavaliere: l'unica cosa che importa è la forza e il suo accrescimento. Siamo guerrieri, ci tengo a ricordartelo.»
«Lo so più che bene, visto che ho quasi rimesso una gamba e un braccio in uno scontro con un dio.»
«Allora? Te ne lamenti?»
  Polluce si avvicina a Castore e fa scivolare una mano lungo il suo braccio ferito, che stringe all'altezza del polso, provocandogli un lamento.
«Non è questo che vuoi? Sacrificarti per la dea? Morire per lei? Allora subisci!»
Castore reagisce, portando la mano libera sul collo del gemello e obbligandolo a avvicinare il viso al suo.
«Dovrebbe essere anche il tuo scopo, Polluce.»
Il gemello protesta con voce sofferta.
«Lasciami andare, se non vuoi che ti spezzi anche questo braccio.»
«Provaci.»
Polluce si lascia andare a una breve risata.
«Smettila di fare il sostenuto. Le cose sono cambiate da quando mi rinchiudesti a Capo Sunion. Non mi sembra che tu stia guarendo molto velocemente. Di questo passo rimarrai un povero storpio per tutta la vita.»
Non sta migliorando? Castore rimarrà così a vita? No, sicuramente quest'uomo vuole soltanto fargli paura, umiliarlo. Non posso e non voglio crederci.
«Non finirà così.»
«Spera, spera pure, fratello. Vorrà dire che saranno le tue preghiere contro la mia.»
«Te l'ho detto e te lo ripeto, Polluce, non sarà così.»
 Castore scandisce le sue ultime parole, stringendo con più forza la mano sul collo del fratello. Il viso di Polluce si contorce in una smorfia di dolore, mente le sue labbra si muovono su parole mute.
«Sono il più forte tra noi e non sarà questo a fermarmi. Ti assicuro che se non smetterai di augurarmi malasorte, ti spezzerò il collo.»
 I capelli di Castore sbiancano più velocemente rispetto alle altre volte e così gli occhi diventano rossi, come specchi sanguigni. Il fratello porta le mani sul suo braccio, lo stringe in modo da costringerlo a liberarlo, ma non ottiene niente. Di questo passo lo ucciderà! Malvagio per quanto possa sembrare, Polluce è stato pronto ad aiutare il gemello, a salvarlo da morte certa. Se non fosse stato per lui, Castore sarebbe morto dissanguato ai piedi del Grande Tempio. Si merita forse una lezione, ma non estrema come la morte. Anche se non so come andrà a finire, lascio il mio nascondiglio attirando su di me l'attenzione dei gemelli. I loro sguardi mi mettono soggezione, ma decido di parlare, con voce ferma.
«Lascialo andare, ti prego. Quell'uomo è...tuo fratello.»
«Non sei nessuno, Ecate, per darmi ordini. Casomai, mia cara, è il contrario.»
Non è tempo per far valere la sua autorità. Castore non farebbe mai una cosa del genere, mai, e se succedesse, sicuramente se ne pentirebbe a vita. Non è per Polluce che lo faccio. Di lui non mi interessa assolutamente nulla. Il mio è solo un modo per proteggere l'uomo che...
«Lascialo andare...» dico a voce più alta prima di inginocchiarmi lì, dove mi trovo.
«Ti imploro.»
  Chino il capo per nascondere la mia espressione contrariata.
Odo immediatamente il rumore dei passi di Polluce e il profondo respiro che tira una volta libero.
«Non credere che ti ringrazi!» mi grida contro, mentre con la mano destra accarezza il collo arrossato. Gli rimando un mezzo sorriso.
«Non saprei che farmene della vostra gratitudine. Se ho salvato la vostra nobile pelle è stato per puro agonismo.»
La mia frase diverte moltissimo Ares, che si abbandona a una fragorosa risata.
«Bene! Ora ti riconosco, Ecate. Pensavo che il fortuito incontro con l'altro mio viso ti avesse rammollita, invece il tuo ego è ancora intatto. Ora aiutami ad alzarmi e portami via dalle cure di questo pazzo rancoroso.»
 Anche se non so a che guaio sto andando incontro, decido di aiutare Ares ad alzarsi. La sua stretta sul mio corpo è molto diversa da quella di Castore: è più avida, possessiva.
«Se lo porti fuori, qualche sentinella potrebbe vederlo e...se ciò accadesse, sarebbe davvero la fine per Castore. Al contrario di quello che pensa lui, non è questo ciò che voglio» mi spiega Polluce.
«Non credergli Ecate, lui è un bugiardo.»
 Come se Ares fosse affidabile. Continuo a camminare verso la porta, ma blocco i miei passi prima di varcarla. Le voci delle sentinelle non sono tanto distanti da qui.
«Non è il caso» commento, assottigliando le labbra.
«Che dici? Portami fuori! Sbrigati!» insiste.
«Ci sono troppe guardie» taglio corto.
«E allora? Sei o non sei il genio degli assassinii discreti? Quelli non sono Cavalieri, ma semplici uomini scarsamente addestrati. Il tuo pane quotidiano.»
I passi di Polluce sono dietro di me. È un attimo che me lo trovo davanti con la mano destra alzata e l'indice teso. Un sottile fascio luminoso ha coperto la distanza tra la punta del suo dito fino alla fronte di Ares. Quest'ultimo ha spalancato gli occhi per qualche istante, prima di cadere vittima dello stato di incoscienza. Lo sorreggo, mentre il terrore mi fa sudare freddo. Polluce è famoso per aver distrutto la mente di un suo allievo che tutt’ora vegeta in un perenne stato di incoscienza. Quella fine proprio non m’alletta.
«Non temere, donna. Non ho interesse a ucciderti» prova a rassicurarmi.
«Che gli avete fatto?» chiedo allarmata.
«L'ho messo a dormire con una variante più debole del mio colpo segreto. Su uno come lui durerà soltanto qualche minuto. La sua mente è forte.»
Mi alleggerisce del peso di Ares, anche se sono titubante a lasciarglielo toccare. Lo porta dove si trovava poco fa. Lo aggiusta sul letto facendo molta attenzione, dopodiché si siede sul baule che mi aveva fatto da nascondiglio.
«Sapevi tutto, dunque» si rivolge a me con tono esausto. «Io pensavo di tenervi lontani proprio per non farti scoprire...questo. Al contrario di ciò che ti ha detto Castore, io non voglio che il Grande Tempio veda ciò che si nasconde in lui. In tutti i modi cerco di sedare il potere di Ares, ma non ci riesco. Va oltre le mie possibilità.»
Sollevo un sopracciglio e incrocio le braccia al petto.
«Non mi fido di voi. Non mi sembrate un fratello così amorevole, visto che desideri che Castore rimanga infermo» ammetto, cristallina.
«È un tuo problema. Sta di fatto che mio fratello non deve più indossare l'armatura o combattere. Il suo spirito è oscuro e un potere così grande potrebbe portare alla rovina tutto il Grande Tempio. Comprenderai che non rinuncerà mai al suo ruolo di sua spontanea volontà, così…»
«Castore sa controllarsi e combatte in maniera impeccabile. Ha un animo nobile e non merita di essere escluso.»
«Non sai chi era prima di arrivare qui. Non sai niente di noi...»
Mi siedo accanto a Castore senza dire una parola. Ascolto il suo respiro regolare e osservo lo sfarfallio delle palpebre. Sta sognando, spero non un incubo.
«Che cosa ti lega a lui, Ecate di Tracia?»
 Sposto lo sguardo sugli occhi di Polluce, ma non gli rispondo. Se si aspetta che parli di ciò che provo, sbatte male. Non avrà niente da me.
«È chiaro, non c'è bisogno che tu lo dica.»
Mi dà fastidio la supponenza con cui sottolinea le sue intuizioni, tanto che mi porta a schioccare la lingua sul palato. Polluce non è minimamente impensierito dalla mia reazione, anzi continua a parlare.
«Sapevi tutto e...»
«Ares è il mio dio. Che cosa vi stupisce, Polluce?» chiedo irritata.
 Lui solleva le sopracciglia.
«Che scusa stucchevole» commenta.
«Chiamatela come volete...» mi arrendo.
  Distrattamente accarezzo i capelli bianchi attorno al viso di Castore. Passo poi a sfiorare il naso perfetto e le labbra schiuse. È così bello e delicato ora che quegli occhi di sangue sono chiusi. Eppure io apprezzo anche quelli, accetto la sua follia. Sono impazzita, completamente e non riesco proprio a vergognarmene.
«Tra me e lui non è stato sempre così» afferma a un tratto interrompendo i miei pensieri.
«Quando eravamo bambini non esisteva un Polluce separato da Castore. Pensavo che nessuno sarebbe stato in grado di dividerci, invece abbiamo vissuto gli ultimi anni nell'odio reciproco» continua.
«Avete intenzione di inventare menzogne strappalacrime? Sappiate da subito che non sono interessata.»
«Pensavo ti interessasse conoscere quell'uomo.»
«Non dalla vostra bocca.»
  Scende un pesante silenzio attorno a noi. Odo il vociare delle sentinelle ormai lontano. Mi alzo in piedi e mi dirigo verso la porta. La supero e, uscita allo scoperto, mi guardo attorno concentrandomi nella percezione del Cosmo debole delle guardie. Sono poche e lontane. Se restassi nell'ombra, potrei raggiungere i dormitori. Ci sono aree deserte, stanze vuote da poter usare come nascondiglio, almeno fino a quando Castore non abbia ripreso controllo della sua mente.
Torno all'interno e con passo deciso raggiungo Castore, ma non faccio a tempo a sollevarlo, che il Cosmo ostile di Polluce mi soverchia.
«Non pensare che ti lasci andare» tuona dalle mie spalle.
«Allora passerò sul vostro cadavere, che ne dici?»
 Mi volto di scatto, con gli artigli estratti e caricati del mio Cosmo. Provo ad affondarli nel petto, ma la sua mano destra smorza il mio tentativo.
«Nonostante queste vestigia d'argento, io ho il potere di un Cavaliere d'Oro, Ecate. Sono alla pari di mio fratello, lo capisci questo?»
 La mano libera prova a fare ciò che l'altra non è riuscita, ma viene bloccata allo stesso modo, per poi essere respinta. Vedo appena il dito indice di Polluce, puntato contro la mia fronte. In un attimo, un sottile fascio di Cosmo raggiunge il mio capo. Un ronzio fastidioso prende possesso della mia mente, nella quale si affollano decine di immagini, ricordi non miei.
«È un metodo drastico, ma tu non vuoi ascoltare e io non so raccontare. La verità giace nel passato, perciò ora, Ecate, cammina tra i miei ricordi.»
Perdo completamente il contatto con la realtà. Un altro luogo sostituisce la parca casa di Polluce.
Mi ritrovo all'interno di un'ampia e soleggiata residenza. Il sole accende di bianco candido il marmo dei pavimenti e del colonnato. Veloci passi rimbombano tra quei vasti e luminosi ambienti. Li vedo da lontano, due bambini che corrono e ridono. Hanno folti capelli blu che spettinati arrivano poco oltre le spalle. Uno dei due, quello con i capelli più scuri, si ferma e lascia che l'altro lo raggiunga.
«Corri troppo velocemente, Castore! Uffa! Non ti raggiungerò mai se corri così!» si lamenta, anche se non smette di sorridere. Non è veramente triste, ma l'altro non esita a portare una mano tra i suoi folti capelli. Lo accarezza e gli sorride amorevolmente.
«Vedrai che ci riuscirai. L'unica cosa che devi fare e non arrenderti. Finché non riuscirai a raggiungermi, io mi fermerò e ti aspetterò, Polluce.»
«Ma...nostro padre non è d'accordo con te, per questo.» commenta l’altro, abbassando lo sguardo e imbronciando le labbra. È grazioso, troppo per chiamarsi Polluce.
«Che dica ciò che vuole...» dice Castore, facendo spallucce. Avvolge poi il fratello in un abbraccio e continua ad accarezzargli la nuca. Si è accorto del tono triste e incerto della voce di Polluce.
«Penserò io a te. Costi quel che costi. Lascia stare nostro padre. I vecchi miti gli hanno dato alla testa.»
Picchetta la tempia con la punta dell’indice e fa una linguaccia. Strappa un sorriso anche a me, che li osservo in silenzio.
  Basta quello a far tornare il buonumore a entrambi. Insieme si allontanano a passi veloci verso il colonnato. Li seguo e mi ritrovo all'esterno, investita dalla carezza calda e delicata del sole estivo. Le nubi corrono però veloci sopra la mia testa e rendono il cielo plumbeo. Lampi in lontananza illuminano il porto che si estende a poca distanza dallo sperone di roccia su cui è costruita questa grande casa.
Sento il vociare di un uomo adulto e le replica di un ragazzino. Riconosco la voce del piccolo Castore provenire dall'interno della casa. Alle mie spalle odo leggeri passi sull'erba. Sono di Polluce, che timoroso si nasconde all'ombra di una colonna. Lo seguo e mi fermo accanto a lui. Guardo verso l’interno e trovo un uomo alto e imponente dai lunghi capelli neri. Ha una guancia segnata da una profonda cicatrice. Di fronte a lui si trova Castore, con il capo chino e gli occhi piantati a terra.
«Per quanto tu ti opponga, sarai l’unico che erediterà tutto ciò che possiedo: la tenuta, il titolo, il mio posto nell'esercito. Sei un capo nato, figlio mio. Lo avevo detto a Nidia, tua madre, che saresti stato tu il migliore e che avrei riconosciuto solo te. Le avevo consigliato di sbarazzarsi del secondo prima che fosse troppo difficile farlo.»
«Che volete dire con questo?» osa chiedere Castore, dopo aver sollevato il viso. I suoi occhi verdi sono taglienti come spade.
«Solo uno dei gemelli deve sopravvivere: il più forte.»
«Non vi seguo affatto» afferma la voce di Castore, decisa. Ha sempre avuto quella tonalità imperativa.
«Castore, benché più valente di Polluce, morì, mentre suo fratello ostentò la sua imbelle immortalità. Per te sarà diverso, perché sarai tu a uccidere Polluce. Sovvertirai il destino che le stelle hanno scelto per voi. Non voglio rischiare di perdere il migliore in favore della mela marcia. Assolutamente no.»
«Non sarà mai! Non farò mai del male a mio fratello! Mai!» grida Castore, con la voce rotta dal pianto. A lui fanno eco i singhiozzi del piccolo Polluce.
Un brivido gelo mi scorre lungo la schiena. La superstizione ha fatto impazzire quell’uomo, l’ossessione di perdere il figlio prediletto per una strana legge delle stelle. In molti illuminati smentono il potere del destino e in questo momento comprendo che sia la cosa giusta. Agghiacciante e atroce è ciò che ho sentito, questo ricordo.
La visione si interrompe, tutto scolora e a un tratto mi trovo in piedi, sullo sperone di roccia nuda posto a picco sul mare. In lontananza vedo la città di Eretria, la riconosco a prima vista. Mi accorgo di essere a poca distanza dal tempio di Ares. Esso non è in rovina, anzi, si erge bianco e fiero sotto la carezza del sole. Proprio sotto le sue colonne, vedo le sagome dei due bambini, ora divenuti adolescenti. Lo sguardo di Castore è gelido, mentre quello di Polluce brucia di rabbia ed è lucidato dalle lacrime.
«Questo posto sarà mio, Polluce. Mi dispiace, ma non ci sarà spazio per entrambi.»
«Lo sapevo! Sapevo che mi avresti cacciato! Io ho sentito ciò che devi fare! Ciò che nostro padre ti ha detto di fare. Pensavo che tu non credessi a quella storia! Davvero pensi che la mia vicinanza possa…ucciderti? Che il mondo non possa accoglierci entrambi?» grida Polluce disperato.
Castore, veloce come un fulmine, si avventa sul fratello e lo riempie di pugni. Il suo gesto mi gela il sangue nelle vene. Castore è un fanatico pavido?  Il Castore che ho conosciuto non può essere così. Non può aver accettato le parole folli di suo padre come vere.
Solo quando la schiena di Polluce preme a terra, sotto il suo peso, interrompe la violenza dei suoi colpi.
«Vattene, Polluce, o sarò costretto  portare a termine quello che nostro padre mi ha ordinato. Sei un indegno eterno secondo, un inutile imbelle, tanto che non ho cuore di finirti.»
Si alza poi in piedi e prende a osservare il gemello, dall'alto al basso come se volesse schiacciarlo con lo sguardo.
«Vattene, Polluce, e non azzardarti a tornare.»
È freddo come una lama il suo tono e gli occhi privi di espressione accompagnano i gesti di Polluce. Egli, ferito, fatica a rialzarti.
«Mi hai tradito, Castore...» dice, traboccante di rabbia.
«Ho semplicemente fatto ciò che la mia superiorità mi impone.»
«La tua superiorità... Quindi ti sei sempre sentito così?»
Sento il suo cuore che va in pezzi quando la risposta del gemello arriva chiara e cristallina.
«Sì.»
Non ci credo, non ci riesco...Castore non può aver fatto una cosa simile. Che abbia ceduto alla lusinga del potere, lui che mi ha riempito la testa di idee di giustizia?
«Non è vero...» balbetta Polluce.
«Lo è. Hai davvero poco tempo, fratello. La mia magnanimità ha una fine. Ancora pochi istanti e ti toglierò la vita se continuerai a ergerti di fronte a me.»
 Polluce asciuga le sue lacrime e fissa uno sguardo furioso sugli occhi dell'altro.
«Io...ti maledico, Castore. Che tu non possa mai trovare pace, che tu non smetta di soffrire, mai! Che tu possa odiare te stesso e la tua forza. Che nessuno ti stia più accanto e ti tema, perché ciò che toccherai diverrà polvere. La tua vita sarà agonia e falsità! Maledetto sia il tuo viso d'angelo da un demone nel cuore.»
Castore rimane impassibile alle parole del fratello che si allontana con una corsa sgraziata e incerta.
Lo scenario cambia ancora. Polluce è coperto di stracci, è magrissimo e emaciato. Siede sul ciglio della strada principale di una grossa città. Un uomo dai capelli rossi si avvicina a lui. Quello che attira la mia curiosità è il voluminoso copricapo e la lunga tunica scura. È lui che tende una mano a Polluce, che lo porta via da quel luogo ostile e carico di indifferenza. So che cosa vuol dire, capisco lo sguardo carico di rabbia verso il mondo intero che ha Polluce. Lo avevo anche io prima di essere accolta al tempio di Ares.
E ancora il tempo scorre velocemente e mi restituisce un Polluce ormai giovane uomo. Ha Castore di fronte a lui, sono due gocce d'acqua: l'unica cosa che lo differenzia è l'armatura indossata. Le vestigia d'oro dei Gemelli splendono fulgide contro l'argento del Centauro. Sono entrambi Cavalieri di Atena ormai. Castore è affannato, la sua fronte è madida di sudore.
«Stupendo, fratello. È proprio come ti avevo anticipato. L'angelo nel volto, il demone del cuore. Quello che ho visto è sicuramente il vero te. Hai ancora coraggio di servire Atena? Tu sei più malvagio di Ade in persona!» afferma soddisfatto, Polluce.
«Smettila, Polluce! Non vado fiero...di ciò che sono» replica il fratello, bruscamente.
«Oh, lo so e ne sono contento. Mi sono divertito a guardarti, mentre attentavi alla vita della giovane dea. Peccato che tu ti sia fermato in tempo, perché ho pregato molto la creatura che hai dentro. Speravo che ti portasse a compiere un atto aberrante, invece la tua volontà ha superato la sua.»
«Non osare mai più!» grida Castore, scattando contro il fratello. La lotta tra i due raggiunge proporzioni mostruose, un livello che mi spaventa, mi atterrisce. Sono fratelli e vogliono annientarsi. Come è possibile? Io darei tutto per abbracciare la mia Calypso.
Probabilmente è l'armatura a decretare il vincitore, poiché Castore prevale e dopo aver sconfitto Polluce, lo imprigiona all'interno di una grotta, una prigione naturale che sigilla con il potere del suo Cosmo. Non so come riesce a comandare la terra, a sollevare fitte sbarre di roccia dalle quali Polluce non può liberarsi.
«Non posso permetterti di avvicinarti a me. Il tuo cuore empio contagia il mio. Il Grande Sacerdote ha deciso di condannarti all'esilio e io...non posso che esserne d'accordo. Sei un corrotto, Polluce e se ti lasciassi libero, verrebbe a completarsi la profezia della costellazione di Gemini.»
«Con che autorità ti permetti di trattarmi in questo modo?! Ancora una volta tu mi umili!» ringhia Polluce, mentre tenta di abbattere quelle sottili ma coriacee costrizioni di pietra.
Castore gli dà le spalle si congeda da lui con una frase lapidaria.
«Che le acque dell'Egeo abbiano pietà di te, fratello mio.»
Polluce rimane solo. Il tempo scorre veloce, mentre le maree attentano alla sua vita. Più volte rischia di morire ma c'è un Cosmo vasto a proteggerlo, un potere a cui non dà origine. Solo dopo diversi giorni, l'uomo dai capelli rossi abbatte le sbarre della prigione e lo lascia uscire. Malfermo e stanco, Polluce lo riempie di domande che tuttavia non trovano risposta alcuna.
Lo scenario attorno a me muta ancora. Stavolta lo riconosco perfettamente. Questa è Atene, il Grande Tempio dove anche io mi trovo. Queste sono le mura in cui vive Polluce tutt'ora. Lo vedo seduto di fronte a un uomo vecchio e stanco. I lunghi capelli canuti di questo e i tratti rigidi del suo viso descrivono una somiglianza con i gemelli. Riconosco la cicatrice sulla guancia: egli è il loro padre.
«Padre? La vostra presenza qui...non è ben accetta.»
«Non cacciarmi, figlio. Ho bisogno di confessarti una verità che non può morire con me» spiega il vecchio con voce tremula e sofferta.
«Parla, prima che mi stanchi e ti cacci a pedate, indegno vegliardo. Questa è la mia casa...e non c'è posto per te. Prova a raggiungere Castore, il tuo unico figlio. Egli è ancora vivo, al contrario delle tue dannate profezie.»
 Il vecchio nobile, nonostante i dolori dell’età avanzata, si inginocchia ai piedi di Polluce e fa di tutto per catturare una sua mano nelle proprie.
«Lasciami» ordina il figlio, imperativo.
«Non posso, non ora, figlio mio. Io devo chiederti scusa...Ora che la vecchiaia mi ha indebolito e mi ha tolto il vigore, passo molto tempo a riflettere e ripercorrere la mia vita col pensiero. Ho fatto molti torti a te, a tuo fratello e alla tua povera madre, che possa riposare nei Campi Elisi.»
«È... Morta?» balbetta il ragazzo.
  Il vecchio piange, annuendo più volte tra i singhiozzi. Le palpebre di Polluce sfarfallano in modo da cacciare via un velo di lacrime.
«È morta senza mai perdonare i miei peccati. La paura di perdere Castore, la luce dei miei occhi, mi ha impedito di guardarti come ad un figlio. Non mi sono accorto di quanto tu mi amassi, di quanto amassi tuo fratello. Ho distrutto tutto io...obbligando Castore a ucciderti.»
«Lui ti ha dato ascolto, ci ha provato, ma gli facevo troppo ribrezzo per macchiarsi le mani del mio sangue. Non ha voluto togliermi di mezzo e mi ha cacciato...dopo avermi umiliato.»
  Svincola la mano dalla presa del vecchio e lo spinge via, facendolo cadere all'indietro.
«No...no, figlio mio. Tu non gli hai mai fatto schifo, anzi, eri la cosa per lui più preziosa, pensavo che fossi la sua debolezza. Gli dissi che se non l'avesse fatto, io ti avrei ucciso al suo posto nella maniera più atroce possibile. Sapevo che l'affetto che nutriva per te lo rendeva debole, ne ero sicuro, invece è stata l'unica cosa che lo ha reso così forte da sopportare il tuo immenso rammarico, da portare avanti un'esistenza di continua pena. Ha voluto proteggerti e tenerti lontano da lui. Al tempo venne da me, dicendomi che ti aveva ucciso e sepolto in un luogo che nessuno poteva raggiungere oltre lui e io gli credetti. Smise a quel tempo di parlarmi e anche oggi che sono vecchio e stanco, non ha voluto vedermi. Non mi perdonerà mai...»
Polluce non ascolta più le parole del padre e io non riesco più a sentirle. I suoi occhi sgranati sono persi verso una direzione lontana, mentre perdono lacrime veloci, amare, che timide scivolano fino alle labbra. Non so che fine abbia fatto l'anziano, tutto scompare di fronte ai miei occhi. Sono immersa in una forte luce rossa che mi circonda, mi toglie il respiro. Passa veloce l'immagine del viso di Castore contaminato da Ares, sostituito da un giovane volto attonito.
«Ilios! Che cosa hai visto?» chiede in lontananza Polluce.
«Maestro, ma...vostro fratello è...»
  La voce di Ilios si articola in un prolungato grido di dolore. Tutto il mondo illusorio collassa su di me, mi schiaccia, fino a quando non riprende le forme della stanza di Polluce. Sono ancora in piedi, mentre tremebonda cerco il suo sguardo.
«Erano...» balbetto. «I tuoi...ricordi?»
«Sì» mi risponde impassibile. «Erano i miei ricordi. Ora mi credi quando ti dico che non desidero il male per mio fratello?»
Mi tremano le labbra su un singhiozzo. Il mio cuore è carico di un dolore non suo e gli occhi sono bagnati di lacrime.
«Che cosa vuoi fare, allora?» chiedo a voce bassa.
«Cercare un modo per riparare alla mia maledizione e allo stesso tempo proteggerlo da sguardi indiscreti. Aver fatto tacere Ilios mi è costato anni di esilio. Non ho intenzione di riviverlo, anche se è niente in confronto a...»
 Indica Castore con un gesto del mento.
  «Al suo inferno.»
«Lui pensa che tu voglia fargli del male, torturarlo.»
«Deve essere così. Non ho intenzione di esibirmi in scene strappalacrime, gettandomi ai suoi piedi o abbracciandolo. Non c'è più quello che c'era un tempo tra noi. Io voglio solo rimediare a un errore di valutazione.  Non ho bisogno di un fratello, visto che ho fatto a meno di lui per decenni.»
 Lo stavo rivalutando, ma dopo questo ragionamento idiota, penso che il genere maschile abbia qualche grave problema di fondo. Ora è palese che, anche se a modo suo, Polluce stia provando in tutti i modi a recuperare l'armonia perduta di un ricordo lontano. Il problema più grande non è lui, ma il rumore che produce il giaciglio quando Castore, o meglio Ares, si tira seduto sul letto.
«Polluce...io vorrei farti a pezzi e credo che, semmai recupererò le forze, sarà la tua la prima testa che staccherò.»
«Lo vedremo. Ora chiudi quella boccaccia» lo sfida Polluce, senza alcuna paura. «Le sentinelle stanno tornando. Uscire in questo momento è mettersi in bella mostra e tu non vuoi essere scoperto.»
«Come osi, umano impertinente? Io sono Ares, Dio della Guerra! Non mi sono mai nascosto da nessuno e da niente.»
«E il tuo divino corpo è finito a pezzi.» lo irride Polluce, con un sorrisetto divertito che gli curva le labbra.
«Ti squarterò, Polluce!»
  Il Cosmo di Ares è impressionante anche ora che il corpo di Castore è debole. Più Polluce lo provoca più la situazione peggiora e l'angoscia che provo si fa insopportabile.
«Prima dovrai alzarti di lì. Ricorda che sei prigioniero in un corpo umano. Povero Ares. Niente più scorrazzate sul campo di battaglia o dolci notti con Afrodite. Com'è la vita da recluso?»
«Un po' come quella che tu hai passato a Capo Sunion. Noiosa, mio caro reietto. Sappi, però, che ho tutto quello che serve. Sanguinose battaglie, belle donne... Tu invece? Che ti resta? Tanta tristezza.»
  Polluce perde la calma e cede alla tentazione di colpire l'altro, ma il pugno si ferma a pochi centimetri dal viso di Ares.
«Sta' buono, miserabile. Mi basta il solo sguardo per ucciderti.» afferma il Dio della Guerra.
  Polluce insiste per qualche altro istante nel tentativo di spingere il suo pugno fino al bersaglio, ma la forza che gli si oppone è troppo grande, così decide di  desistere e si allontana da lui con un elegante passo indietro.
«Vedrò di rimetterti a dormire» esclama con un mezzo sorriso sulle labbra.
«Non osare tanto. Ormai conosco il tuo pugno e ti assicuro che non è niente vicino al mio.»
La spavalderia di Ares viene sostituita dallo stupore. Anche lui ha sentito il rumore di diversi passi diretti verso l'entrata.
«Polluce! Nobile Polluce!» chiamano in coro le voci di alcune sentinelle, richiamando il Cavaliere d’Argento verso l’esterno.
«Fallo stare zitto» mi ordina prima di uscire. Porto una mano sul viso e mi abbandono a un sospiro.
«Come se fosse facile» commento, tra me e me, spostando l'attenzione alle voci che provengono da fuori. Parlano di un disertore.
«Ecate di Tracia» mi dice Ares, pacato. Ha uno strano sorriso sulle labbra. Mi volto verso di lui e gli faccio cenno di tacere, spostando l'indice destro sulle labbra.
«Smettila di comportarti come un soldatino, non sei mai stata così. Hai sempre avuto una testa calda e preteso l'ultima parola. È questo che...»
 Non lo lascio continuare. Gli tappo la bocca con una mano e mi siedo accanto a lui. La sua voce è molto diversa da quella di Castore. Qualcuno potrebbe chiedersene il motivo.
Il respiro suo sulle dita, lo sguardo fisso sul mio, mi rendono inquieta. Passo lunghi istanti con gli occhi intrappolati nei suoi. Sussulto quando la sua mano risale lungo il mio braccio. Devo tirarmi indietro, ma non voglio ed è proprio questo a immobilizzarmi.
Lente le mie dita scivolano sulle sue labbra, fino al mento, finché la mano non decide di fermarsi sul petto.
«Ridammi Castore» sussurro distratta.
«Io sono Castore, non l'hai ancora capito? Io e lui siamo la stessa persona.»
«Non è vero. Lui non è...»
«Lui è la mia incarnazione umana. Puoi negarlo quanto vuoi, ma le cose non cambieranno.»
 Ho la sua mano sul collo. Il pollice accarezza la pelle bollente a causa della tensione e la calura. Siamo così vicini che sento di nuovo la carezza del suo respiro.
«Sei una bugiarda, soprattutto con te stessa. Ancora non hai ammesso che mi appartieni e questo ti rende sia divertente che sciocca.»
 Vorrei replicare, ma Polluce piomba di nuovo all'interno della stanza con gli occhi sbarrati e il respiro spezzato.
«I dormitori sono devastati dalla rivolta. Dicono che le reclute e i Cavalieri di Bronzo stiano disertando, ma non è così... C'è un Cosmo mostruoso ed oscuro che proviene da laggiù e si avvicina sempre più a noi.»
Ares schiocca la lingua sul palato e dopo avermi rivolto una carezza al viso si volta verso Polluce.
«Sono palesemente Spectre. Sette Spectre per la precisione...No, non sono soli. Accompagnano ospiti d'onore.»
 Mi lascia andare e fa scivolare la mano sul proprio braccio fasciato. Una luce dorata e tenue emana dalle sue dita, ma con il passare dei secondi diventa sempre più intenso.
«Che cosa stai facendo?» chiede Polluce, sconvolto.
« Sto provando per la prima volta la Stella della Resurrezione. Sono stanco di essere un infermo e questa tecnica potrebbe guarire le mie ferite.»
«Il tuo corpo è debole. Espandere il Cosmo al limite estremo potrebbe ucciderti.»
«Preferisco morire che rimanere su questo letto in preda agli incubi,  ai dolori e all'astinenza da tutti i piaceri della vita.»
Balbetto qualcosa per oppormi, ma comprendo dal suo sguardo che nessuna parola sarà efficace.
Il terreno si scuote sotto i nostri piedi. Il Cosmo oscuro di cui ha parlato Polluce è ancora più insistente e soffocante. Riconosco qualcosa di profondamente nostalgico in esso, una sensazione che non provo da tantissimo tempo: una voce femminile canta una vecchia canzone, un ricordo  vivo della mia infanzia.
«Calypso...» dico in un sospiro, prima di afferrare la maschera e porla sul mio viso.
«Chi?» mi chiede Polluce dopo avermi stretto un braccio.
«Lasciami andare» gli chiedo, con la voce alterata dal pianto.
«Lasciala andare, avanti.  Deve incontrare sua sorella: Persefone, la moglie di Ade» continua Ares, con uno strano sorriso sulle labbra.
«Anche io devo vedere il mio caro zio» continua.
«Cosa? Intendi dire che...»
«Questo Cosmo appartiene ad Ade. Egli è venuto a farci visita e, anche se non sei d'accordo, io mi alzerò da qui e andrò ad accoglierlo con tutti gli onori che un dio può offrire.»

 

RADAMANTE

 
Il sommo Ade additava a questi guerrieri come a una forza pericolosa e tenace, per questo motivo ha alzato una barriera così intensa attorno a questo passaggio. Ha creato la trappola perfetta per questi sciocchi desiderosi di una morte onorevole. Era proprio questo il nostro obiettivo, attirarli e liberarci di una buona parte delle forze di Atena.
Vedo tutta la stoltezza dei guerrieri della dea rinata  in questo momento, sotto il peso del mio piede destro, negli occhi di un uomo che prova a combattere contro l'ineluttabile.
«Cosa credevi di fare, misero stolto? Pensavi che tutti gli Spectre di Ade fossero poca cosa come Niobe?»
Il suo Cosmo dorato è ancor più flebile della sua voce.
«Vermiglio dello Scorpione...è più forte di dieci vermi tuoi pari.»
Rido alla sua frase di sfida, premendo con più furia il piede contro la corazza che difende la sua schiena.
L'oro cede, indebolito dalla barriera. Mi godo le crepe che si allargano sul metallo luccicante.
«Invece io vedo un insetto che sta per essere schiacciato» lo irrido, aumentando la forza che impiego per schiacciarlo.
  Sento il sibilo tipico di qualcosa che fende l'aria. Li vedo: sono pugni lanciati alla velocità della luce. Si abbattono sulla mia Surplice, ma non la scalfiscono neppure. Velocissimi, ma deboli. Senza spostare il piede dalla schiena del Cavaliere d'Oro, fermo il mio aggressore, catturandolo per un polso. È sfuggente come una scheggia, tanto che riesce a evadere dalla mia stretta, osando ferirmi il palmo della mano.
«Lascialo subito andare!» è il grido di un moccioso. Il mio nemico così capace e impavido è un ragazzino? Posso osservarlo quando riesce a colpirmi il viso con un colpo un po' più forte degli altri. Lo catturo, stringendo la mano ferita sul suo collo.
«Non ti sei ancora reso conto di quanto ti è superiore Radamante della Viverna, uno dei tre Giudici dell'Ade!»
Sposto la mano libera all'altezza del suo viso. È ora di liberarmi di questo moscerino fastidioso. Concentro l'energia del mio Cosmo oscuro sul palmo e illumino la sua espressione che tuttavia mi parla di rabbia, non di terrore. Non faccio in tempo a scagliare il colpo che altri pugni mi raggiungono. Questi sono decisamente più deboli e lenti di quelli del marmocchio che ho catturato. La rabbia mi porta a deconcentrarmi dal Cavaliere dello Scorpione. Cambio idea e scaglio il colpo che ho caricato su un altro ragazzino dalle gambe tremanti e le lacrime rapprese sulle guance.
Commento un grave errore, visto che Vermiglio approfitta per spostarsi e velocemente sottrarre il giovane temerario dalla traiettoria del colpo che gli ho scagliato contro.
«Un giudice dell'Ade...che se la prende con ragazzini disarmati. Non hai onore alcuno.»
 Un dolore fastidioso emana dal mio braccio, tanto che sono costretto a sciogliere la presa sul collo del ragazzo. Osservo la mia armatura e con immensa sorpresa trovo un piccolo foro. Sto perdendo sangue anche se in quantità insignificante.
«Ottimo lavoro, Cavaliere d'Oro. Resisti alla barriera e guarda, sei persino riuscito a colpirmi. Se la tua forza è degna di nota, il tuo ragionamento è sciocco. Dovresti aver capito che sto trattando i mocciosi al tuo seguito come guerrieri e non come inutili marmocchi imbelli. Li sto onorando, molto più di te.»
Lui non mi risponde, non replica, poiché è concentrato a espandere il proprio Cosmo, noncurante che l'incantesimo di Ade glielo strappa quasi completamente.
 Proprio come è accaduto con Niobe, il Cosmo di Vermiglio si concentra sulla punta dell'artiglio scarlatto dell'indice destro, rivolto verso l'alto.
«Ridicolo» affermo in un ghigno, mentre balzo contro di lui. Le fiamme descrivono l'ombra delle mie ali distese, disegnando la sagoma nera di una bestia alata sulla pavimentazione. Mi fermo a pochi centimetri da lui, prima che possa scagliare il suo colpo. Libero il mio Cosmo oscuro e lo utilizzo per potenziare i miei pugni veloci che vanno a segno. Le membra appesantite del Cavaliere dello Scorpione non riescono a difenderlo.
«Questo è il Castigo Infernale! Ritieniti onorato di riceverlo da vivo!» grido. Quando concludo l'attacco, mi stupisco di vederlo ancora in piedi. L'armatura d'oro è lesa in più punti, uno degli appuntiti spallacci è persino spezzato, ma lui non vacilla.
«Vermiglio!» lo richiama il ragazzino biondo. «Voi siete...»
«Non è niente di che, Esperante. Sono sopravvissuto a ferite peggiori nell'arena» lo rassicura lui, mentre si libera del mantello stracciato che gli copriva le spalle.
«Mi sto solo riscaldando.»
 Mi sfida con un sorriso sfacciato, e compie uno scatto verso di me. È lento, tanto che mi è semplice respingerlo con un pugno. Un nuovo dolore mi affligge. Stavolta a una gamba, la sinistra. Una puntura ha forato il tessuto che riveste la coscia. Niente di cui preoccuparmi. Sono nato pronto a sopportare il dolore, che questa volta è più acuto.
A fatica, il Cavaliere d'Oro si rialza e riprova a scattare verso di me.
«Vermiglio, no!» grida l'altro moccioso, mentre nota la concentrazione del mio Cosmo oscuro all'altezza del petto diventare sempre più intensa. Sono certo che non sopravvivrà a un nuovo Castigo Infernale. Non posso permettermi di ricevere un'altra puntura.
 Lo colpisco in pieno, diffondendo la furia dei miei colpi anche verso i due giovani. Non ce la faccio a raggiungerli, poiché Vermiglio si para davanti a loro, chiudendoli tra le braccia e facendo loro scudo.
È ferito seriamente, tanto che crolla in ginocchio, dopo un contenuto lamento.
«Lasciate fare a me, vi prego! Di questo passo, voi...» inizia il ragazzino biondo.
«Non sei pronto, Esperante. Quell'uomo si fregia di un titolo tremendo...e ha ragione di farlo...»
 Il volo della Viverna è veloce e soverchiante, esattamente come la voglia di distruggere il mio nemico. È il mio dovere, il mio obiettivo, la lotta è tutto esattamente come la vittoria. Mi fermo a un passo da Vermiglio e afferro il polso destro. Ho in pugno la sua arma. Mi basta soltanto spezzarla, perciò inizio a stringere le dita in una morsa ineludibile, dopo averlo sollevato in modo da poterlo guardare negli occhi azzurri e socchiusi.
Resiste, stringendo il pugno e rafforzando l'arto.
«Il dolore non è un problema per me...Per quante volte tu mi ferirai, io continuerò ad alzarmi...»
Eccolo, finalmente il rumore dell’osso spezzato, seguito dal suo lamento.
«Ormai sei inoffensivo, Scorpione. Non puoi più utilizzare il tuo pungiglione venefico.»
«Troverò un altro...modo.»
«Non ne avrai il tempo» ribatto.
Scuoto il capo e mi libero di lui, scagliandolo contro le mura del naos. Lo osservo mentre precipita a terra. Ascolto il suo respiro affannoso e rimango impressionato nel vederlo puntare la mano sana a terra. Sta cercando di sollevarsi.
«Non hai più armi contro di me. Accetta la fine, Vermiglio di Scorpio. Lascia lottare i mocciosi. Ora come ora, sei ancor più debole di loro.»
Decido di ignorare la sua vana insistenza, proseguendo il mio cammino verso gli altri due. Anche se privi di una corazza, i loro sguardi accesi di determinazione li disegnano come nemici ai miei occhi.
«Non posso accettare...qualcosa che è ancora lungi da me...»
Incredibile, impensabile. Riesce a ergersi ancora in piedi di fronte a me e mi impedisce di raggiungere i più giovani. Non ha più niente, eppure continua a sfidarmi, con la stessa espressione di qualcuno che sta per vincere la battaglia. Sto per abbattere il colpo decisivo su di lui quando il mio corpo si rallenta fino a immobilizzarsi. Che cosa sta succedendo? È forse il suo sguardo fisso sul mio?
«Che cosa mi hai fatto?» chiedo bruscamente.
«Le Onde...di Scorpio ti impediranno di muoverti...»mi minaccia.
«Un trucco scialbo e sciocco come te, Cavaliere. Guarda bene.»
 Posso già svincolare un braccio dalla morsa del Cosmo di quest'uomo incredibile. Finalmente riesco a colpirgli il capo e respingerlo. Ma ancora...ancora non cade, non si arrende.
La paralisi ha abbandonato le mie membra, finalmente. Ora posso attaccarlo con il mio Castigo Infernale e liberarmi di lui, ma guardandolo meglio decido altrimenti per lui.
Abbatto una pioggia di pugni sul suo corpo, in modo da respingerlo fino all'interno del naos. Una volta che capitola a terra, lo afferro per il braccio offeso e lo trascino verso il portale immenso e chiuso che separa gli inferi dal mondo dei vivi.
«Volevi vedere che cosa si celava all'interno del naos? Volevi scoprire il mistero del villaggio di Klesos? Ebbene ti accontenterò.»
 Poso una mano sulla superficie di pietra lavorata in un leggero tocco. È sufficiente per ordinare al pesante materiale di aprirsi sull'abisso. Un potente vento proviene dalla bocca degli inferi e mi porta i lamenti delle anime che lì soffrono per l'eternità. Faccio per sollevare Vermiglio e scagliarlo nella voragine che discende fino al Tartaro, ma non ci riesco. Il mio braccio viene colpito da due raffiche di veloci pugni. Non subisco danni all'apparenza, ma il dolore della puntura che ho subito poco fa si fa più acuto. Lascio che il Cavaliere d'Oro scivoli a terra e mi volto verso i due intrepidi ragazzini.
«Quali sono i vostri nomi?» chiedo, avanzando a passo lento verso di loro.
«Non ti servirà a niente saperlo, visto che ti distruggeremo! Pagherai per quello che hai fatto a Vermiglio!» mi risponde quello con i capelli biondi.
«Ve lo ripeto. Voglio sapere i vostri nomi.»
«Come mai ti interessa?» chiede l'altro.
«Perché mi assicurerò di tormentare le vostre anime una volta che sarete discesi nell'oltretomba.»
 Spalla contro spalla li vedo caricare i loro pugni del potere del loro Cosmo. Il ragazzo biondo è decisamente più abile dell'altro, che tuttavia ha la stessa determinazione. Non so se considerarli sciocchi, o ammirare la loro tenacia.
Le ali della Viverna si distendono ancora una volta, incanalando il mio mostruoso potere. Un altro Castigo Infernale basterà a distruggerli. Sono stanco di essere disturbato da due ragazzini sprovvisti dell'armatura.
«Castigo...»
  Non appena provo a far partire il mio micidiale attacco, una serie di fiamme blu si avventa sulle mie mani con inaspettata intensità. Questa volta avverto un forte dolore, che tuttavia riesco a domare con l’adeguato contegno.
«Ignis Fatuus. Posso sapere da che parte stai, Sophos del Cancro?»
 Sono obbligato a compiere un passo indietro. Ho notato lo spostamento d'aria di un colpo feroce e tagliente, che si abbatte sulla pavimentazione di pietra, creando un profondo crepaccio, proprio qui, di fronte ai miei piedi.
«C’è anche il Cavaliere del Capricorno, benedetto con il dono della sacra Excalibur. Uno, due, dieci di voi non significano niente per me» spiego loro con assoluta calma.
Le sagome dei due Cavalieri d'Oro si palesano alla luce delle fiaccole azzurrine dell'Ignis Fatuum che ha divorato le altre. La barriera di Ade si è leggermente indebolita, ma ha ancora vigore.
«Eppure il tuo stupore parla diversamente, Radamante della Viverna» mi sfida Sophos, cercando di distrarmi dalla folle velocità con cui Aspera scatta verso di me. Le mani di quest’ultimo sono entrambe tese e la destra descrive un fendente obliquo che raggiunge una delle mie ali, nonostante cerchi di schivare. Un frammento della mia Surplice è stato danneggiato, tagliato via.
«Come hai osato?» grido, dopo aver intercettato il nuovo attacco del Capricorno e bloccato le sue braccia micidiali con entrambe le mani. La mia fronte bardata dall'elmo colpisce la sua, armata alla stessa maniera. I nostri sguardi si incrociano. Il suo è cheto, privo di emozione, come se avesse tutta la situazione in pugno. Il fuoco azzurro del Cancro arde attorno a noi, in un cerchio di fiamme fredde. Nonostante la protezione di Ade, esse sprigionano un Cosmo minaccioso e pesante, mentre tentano di stringersi su di noi.
«Sophos! Sei un indegno traditore!» grido a denti stretti, cercando di sbloccare la situazione di stallo che di fatto mi imprigiona.
«Credevi che il mio giuramento ad Ade fosse autentico? Pensavi davvero che io avessi l'intenzione di tradire la dea Atena? Lei che mi ha dato un motivo per continuare a vivere e combattere?» mi irride con il suo solito tono di beffa.
«Ciò che hai detto al cospetto del sommo Ade era quindi una blasfema menzogna? Sai che cosa significa mentire al dio degli inferi, vero?»
 La presa del Cavaliere del Capricorno si allenta sulla mia. Veloce, come la luce, si sposta alle mie spalle con un balzo. Le sue possenti gambe agganciano le mie braccia e mi sollevano verso l'alto senza che io possa oppormi.
«Pietra Saltante!» grida, mentre impatto a terra con il capo. L'elmo della Viverna sbalza via dal mio capo. Alcuni suo frammenti testimoniano la rottura.
Non ho tempo da perdere. Devo alzarmi prima che le fiamme di Cancer mi colpiscano.
Pugni alla velocità della luce colpiscono la mia schiena uniti a quelli più lenti. Anche i due ragazzini stanno combattendo. Sono in quattro contro me solo, ma nonostante questo, io non posso permettermi di perdere. Mi sollevo a mezz'aria in un breve volo, diretto a Sophos. Voglio cancellare il sorriso di scherno che mi rivolge con il mio Castigo Infernale, ma la mia avanzata viene interrotta dal filo di Excalibur, ancora una volta. Bene! Non mi resta che spezzare quella dannata spada. Atterro con un piede in modo da cambiare direzione e raggiungere il Capricorno. Carico il pugno destro con tutta la forza che ho e quando il colpo va a segno, il guerriero dorato sbalza all'indietro. Mi godo il rumore che produce quando colpisce il vecchio colonnato con la schiena.
A questo punto non mi rimane di confrontarmi con l'uomo indegno che, sconfitto da Valentine, è stato portato al cospetto del sommo Ade.  Il signore degli inferi stima l'immensa conoscenza di Sophos, che un tempo gli appartenne. Il Tristo Mietitore che sapeva fendere il confine tra la vita e la morte, il demonio capace di accedere all'oltretomba senza alcun permesso.  Dovevo sapere che la sua facile sconfitta fosse il primo passo nell’inganno, dannazione. Il sommo Ade non merita questo affronto.
Quando ero a Creta incontrai gli occhi di Sophos per la prima volta. Vidi l'ombra accesa di follia. Era condannato di aver eseguito diversi omicidi. I cadaveri non erano stati toccati, non c'era nemmeno una ferita.
"Li ho privati dell'anima", ammise. Per questo decisi di sfuggire dalla decisione di mio fratello. Chiesi a Sophos di mostrarmi il suo potere. L'Ignis Fatuum, la fiamma azzurra che brucia l'anima. Sorpreso e sconvolto, decisi di non sprecare un dono così mostruoso e oscuro. Da condannato a morte, divenne il boia di re Minosse.
Tutto cambiò quando incontrò una donna, una misera schiava in vendita presso un mercante d'oriente.
Venne da me a chiedere che la liberassi, ma io non accettai. Non avrei guadagnato nulla dall'averla a palazzo. Non mi interessava nemmeno come trastullo, con quegli occhi scuri e sottili, uniti ai capelli lunghi e lisci. Negai quel permesso a Sophos, che tuttavia mi disobbedì e dopo aver fatto strage delle mie guardie, si liberò del mercante e scappò da Creta con quella donna esotica e sconosciuta. Una donna valeva più del prestigio, della vita agiata che gli avevo concesso. Non ebbi più occasioni di incontrarlo, né volevo farlo, poiché sapevo che l'avrei costretto a pagare l'insubordinazione con la morte. Ci fu un periodo in cui togliere la vita mi sdegnava, un lasso di tempo breve, tuttavia: alcune esistenze sono come l'erba cattiva che rovina le coltivazioni, per questo vanno eradicate. Il Tristo Mietitore è una di queste.
Mi accanisco contro di lui, con una serie di furiosi pugni che lui riesce a schivare, sostituendo le sue fiamme azzurrine al suo corpo e comparendomi alle spalle. Riesco a voltarmi, ma non in tempo per evitare un suo pugno che colpisce la mia Surplice all'altezza del cuore. Non provoca grandi danni, anzi, è soltanto una tacca sul metallo nero e liscio.
Il mio contrattacco è deciso, incisivo, nonostante le fiamme inizino a scottarmi.
Il mio Cosmo oscuro esplode in una serie di colpi ad ampio raggio, diretti a tutti i presenti. Sophos si sposta verso i ragazzini nel tentativo di proteggerli con il suo corpo, esponendosi al mio Castigo Infernale. Lo stesso fa il Cavaliere del Capricorno con l'alleato sconfitto.
Sono disposti a danneggiare loro stessi pur di proteggere i più deboli. Il classico comportamento da stolti sentimentali.
«Patetici. Gli sconfitti e i deboli sono in peso inutile» affermo, mentre avanzo verso di loro.
«L'esercito di Atena non ha nessuna possibilità contro il nostro poiché è composto da gente come voi.»
Concentro il Cosmo oscuro sul palmo della mia mano. Questa volta non mi accontenterò di un semplice Castigo Infernale, ma attingerò a un colpo ancora più devastante.
«Laverò il mondo con il sangue degli impuri. Reietti imbelli, uomini finiti riuniti alle parole di una dea illusa: la mia sentenza è...»
 Non credo ai miei occhi. Sophos e il Cavaliere del Capricorno si ergono di fronte a me, l'uno di fianco all'altro. Il primo ha il braccio destro sollevato verso l'alto, mentre l'altro tiene tutte e due le braccia ben distese lungo i fianchi. I loro visi feriti contrastano con lo sguardo acceso di determinazione.
«La Morte!»
 Lascio che il mio Cosmo si espanda ed esploda in un bagliore violaceo per unirlo alla raffica dei colpi del Giudizio Infernale, tuttavia le mie braccia si fermano prima che io possa portare a termine l'attacco. Il dolore delle punture causate da Vermiglio che fino a ora ho ignorato, si unisce a quello di due ferite che percorrono tutto il mio busto e si incrociano sul petto. Sono state le lame invisibili del Capricorno, le sue mani a oltraggiarmi così.
Il mio sangue, esattamente come accadde prima che diventassi uno Spectre, scorre sulla mia pelle gelida, ma questa volta sono ancora in piedi. Non sono più un semplice uomo adesso. Ho il potere di sopportare oltre, di combattere e vendicarmi contro chi ha osato tanto.
«Sarai sempre e solo uno schiavo, Sophos!» grido, mentre alla massima velocità scatto verso di lui. Non avverto più l'ausilio della barriera di Ade. Ora sono solo, contro guerrieri che non riesco ad uccidere. Creature inferiori a un giudice degli inferi, eppure così tenaci da sopportare tutta la mia furia. Il mio pugno si abbatte contro quello di Sophos. Tanto la sua armatura d'oro che la mia Surplice, cedono alla pressione del colpo lasciando indifesi le nostre braccia destre.
«Lo so. Sarò sempre lo schiavo del mio cuore, Radamante e questa è la più grande libertà che un essere umano possa ottenere!»
È più veloce di me stavolta e mi afferra per uno degli spallacci dell'armatura, per poi scagliarmi verso il naos, con una forza inaspettata. La mia schiena impatta contro la parete di pietra con immane violenza, tanto da strapparmi un lamento. Vengo trattenuto dalla pietra contorta sotto il mio peso.
«Quella volta mi negasti la libertà perché non comprendesti ciò che mi spingeva a rinunciare ai privilegi che mi avevi dato. Povero il tuo cuore vuoto, giudice. Devi a questo la tua sconfitta. Né io, né Aspera, né Vermiglio, siamo al tuo livello, è chiaro, ma come vedi abbiamo resistito e vinto. Anche se coperti di ferite e dolore, ci ergiamo contro di te e così sarà sempre. Questa è la forza di Atena. Essa non risiede nei pugni, ma brucia nel cuore.»
Avverto uno strano calore, mentre gli occhi miei vengono accecati da una luce insopportabile, proprio qui, dove si apre la bocca dell’oscuro abisso. Non posso lasciarmi fermare da questa potente pressione che cerca di indebolirmi.
«Stolto! Non è ancora finita!» grido contro Sophos. Mi allontano dalla pietra e mi slancio contro di lui. Mi ritrovo sospeso sulla voragine che apre agli inferi. Il volo della Viverna decreterà il vincitore. Carico il mio intero corpo del potere oscuro del mio Cosmo. L’aria sibila contro la pelle, l'armatura, i capelli indomiti. Il grido dei dannati si unisce al mio, mentre carico il pugno. Il mio avanzare viene interrotto, però, da una schiacciante forza che mi porta verso il basso, verso il luogo al quale appartengo, ingabbiando le mie ali in una catena invisibile. I Cavalieri d'Oro sono sorpresi esattamente come me e i loro sguardi attoniti sono l'ultima cosa che posso vedere, prima di precipitare verso l'inferno.
Le ali rovinate della mia Surplice interrompono la caduta a pochi metri dall'aspro e arido terreno degli inferi. La forza che mi ha trascinato quaggiù è scomparsa. Si è indebolita fino a disperdersi. Che cos'è stato?
Smarrito e confuso, cerco di ritornare sulla strada che conduce alla Giudecca. Il dolore delle ferite è ora più acuto, bruciante, come se qualcuno avesse sparso del sale sui tagli. È come se una debole fiamma tentasse di far avvizzire la mia pelle, scottandola dall'interno. Mi sento debole, mano a mano che mi avvicino alla destinazione.
Trovo la Giudecca deserta a eccezione di Pandora che sola si erge di fronte al trono del Sommo Ade. La cosa mi stupisce, ma non riesco a esprimere il mio stupore:  la gola mi brucia, come il sangue nelle vene.
«Radamante? Cosa ne è stato dei Cavalieri d'Oro che abbiamo attirato a Klesos? Dov'è Sophos?» chiede lei, scrutando la mia espressione attentamente. Si è accorta della sofferenza che provo, ne sono certo.
«Il Cavaliere dello Scorpione è stato duramente sconfitto, ma non è morto. Quello del Capricorno si è salvato dalla fine grazie all'aiuto di...Sophos...Lui ci ha...traditi, nobile...Pandora.»
 La vista si annebbia, le gambe tremano, tanto che sono costretto ad sostenermi contro una delle pareti.
«Ti prego, fa silenzio, Radamante!» mi chiede. Odo preoccupazione nella sua voce. Impone le mani sulle mie ferite. La sua carezza mi dà sollievo: scaccia quel dolore bruciante che finora mi ha torturato, concedendomi di respirare di nuovo.
«È il suo Cosmo! Il potere di Atena. È stata lei a salvare i suoi Cavalieri. È riuscita a influire addirittura sugli inferi» afferma Pandora, allarmata.
 Stringo i pugni e mi tiro in piedi.
«Voglio tornare a Klesos» affermo di punto in bianco.
«Non puoi, Radamante.»
  Le rivolgo uno sguardo fiammeggiante, dopodiché provo a riprendere il controllo sulla mia rabbia.
«Concedetemi di prendere la testa di Sophos. Quel traditore ha ingannato me e il Sommo Ade con un falso patto di fedeltà. Non posso far passare questo affronto.»
«Lo so, Radamante. Ma non ora. Il sommo Ade si sta dirigendo al Grande Tempio. Presto i Cavalieri saranno perduti. Un esercito senza comandante non è che un corpo decapitato. Atena morirà.»
«Non voglio rimanere fuori da questa battaglia, perciò lasciatemi andare ad Atene.»
«No. È ancora...» replica lei debolmente.
«Lasciatemi andare!» insisto.
  Lo sguardo di Pandora si fa gelido come non l'ho mai visto e contrasta con il sorriso che si estende sulle sue labbra.
«Molto bene, allora, ma se verrai distrutto, dovrai solo piangere te stesso.»
  E sia. Non temo la distruzione. Se i Cavalieri sono tutti così vigliacchi da farsi difendere da una donna, allora non avrò alcun problema a spazzarli via, uno dopo l'altro.
Ade non dovrà sporcarsi le mani di quell'empio sangue. Sarò io a lavare via l'onta dell'offesa subita con il fluido vitale dei miei nemici.

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Capitolo 6
*** Capitolo VI ***


INAZUMA

 
Le ferite di Vermiglio sono troppo profonde per permettergli di intraprendere senza rischi il viaggio verso Atene. Siamo costretti a fermarci qui, tra queste case desolate. Da quando Radamante della Viverna è sprofondato negli inferi, nessuno di noi ha avuto più coraggio di parlare. Aspera, nonostante le ferite subite, ha avuto la forza di recuperare le giovani reclute che abbiamo tenuto lontano dal pericolo. Mio padre ha annullato l'effetto dell'Ignis Fatuum sui morti disseminati per le strade e i campi di questo villaggio in rovina. Esperante si è arrampicato su un albero e da lì non è più sceso. Vuole stare solo. Mi chiedo come mai. Io ho deciso di assistere il sonno tormentato del nobile Vermiglio. È privo di corazza e si lamenta nel sonno, probabilmente per un incubo o peggio, per colpa dei dolori. Il caldo è insopportabile e non fa che rendere ancora più pungente l'odore della morte disseminata attorno a noi. Le mura di questa casa disabitata fanno da pallido schermo ai raggi impietosi del sole.
Aspera e mio padre varcano la soglia e si avvicinano a me. Sento il tocco di una carezza sulla spalla, un gesto d'affetto del mio genitore.
«Io e Aspera raggiungeremo il villaggio di Naira. Lì ci aspetta un guerriero del Grande Tempio che si occuperà delle reclute che vogliono lasciare l'addestramento. Le riaccompagnerà dai loro cari, presso le case che hanno lasciato. Se vuoi, figlio mio, puoi decidere di abbandonare questa vita. Ti conosco e la tua indole è ciò che di più lontano esiste da quella di un guerriero. Non ti biasimo né ti accuso.»
Lasciare l'addestramento? Se qualcuno me lo avesse chiesto qualche settimana fa, avrei risposto subito di sì, ma adesso, dopo aver visto combattere Esperante e questi uomini, con che coraggio potrei sottrarmi? Hanno affrontato un nemico letale senza alcuna paura. Hanno posto le loro vite in gioco per salvare me e allo stesso tempo tutti coloro che indifesi popolano questa terra, ignari della minaccia che su essa incombe. Sono eroi, come quelli che ha descritto il grande vate Omero. Prima d'ora non avevo sogni per il futuro, né propositi. Non avevo mai pensato a cosa sarei diventato da grande, ma adesso è tutto chiaro. Io voglio essere come Angelòs, come mio padre, come Aspera e Vermiglio, anche se questo vuol dire avere il peso della salvezza del mondo sulle spalle. So che posso farlo, perché è il mio destino e non ho nessuna intenzione di rifiutarlo.
«No» rispondo deciso.
  Mio padre si inginocchia al mio fianco in modo da potermi guardare in faccia dal basso.
«Nessuno ti costringe ad andare avanti» specifica mio padre.
«Non mi perdonerei mai se mi facessi prendere dallo sconforto e abbandonassi questo cammino, padre. L'uomo che ora giace dolorante di fronte a noi ha dato tutto sé stesso per proteggermi. Devo restituirgli il favore, combattendo per il suo, no, il nostro sogno comune. Atena è pace, l'ho visto nei suoi occhi. Atena deve vincere questa guerra, cancellare il dolore dal mondo e io voglio aiutarla.»
Un appena accennato sorriso curva le labbra di mio padre, ma svanisce subito dopo.
«Non voglio dissuaderti, figliolo, ma devi sapere che scene come questa saranno frequenti. La sconfitta, il dolore e la morte lastricano il sentiero di spine che la dea della giustizia deve percorrere.»
«Camminerò al suo fianco, fiero di essere un Cavaliere. Nessuno, ripeto, nessuno dovrà più soffrire così! È una promessa!» alzo la voce, anche se un singhiozzo la spezza.
«E quando faccio una promessa, io la mantengo sempre.»
 Passo una mano sugli occhi, in modo da nascondere le lacrime. La risata sofferta di Vermiglio mi stupisce. Sollevo lo sguardo attonito sulla sua espressione sofferta ma vagamente allegra. Come al suo solito cerca di nascondere il dolore dietro a un sorriso.
«Non mi devi niente, piccoletto. Mi hai già restituito tutto con le parole che hai appena detto.»
Si rivolge poi a mio padre.
«Siete un uomo fortunato, Sophos. Un po' vi invidio...»
  Lentamente si volta, negandoci lo sguardo. Il respiro trema su quello che sembra un singhiozzo.
«È ora di andare, Sophos. Non possiamo perdere altro tempo. Vermiglio ha bisogno di un medico il prima possibile» afferma Aspera. Mio padre si alza in piedi e si sofferma con una mano sulla mia spalla.
«Sono fiero di te, Inazuma.»
  Si allontana da me a passo lento. Arriva fino all'uscita della stanza e si volta di nuovo verso di noi.
«Vedete di tenere duro, nobile Vermiglio, perché se non lo farete so dove venirvi a prendere. Conosco gli inferi come le mie tasche e non faccio fatica a passare da un mondo all’altro anche da vivo.»
 Il sorriso di mio padre è appena accennato, velato di mestizia.
«Andate tranquillo, Sophos. Ho due baldi giovani al mio capezzale. Non posso andarmene e lasciarli soli. Ci deve essere sempre un adulto, no? È la regola.»
Non so dove Vermiglio trovi tutta quella forza di spirito con il corpo ferito a quel modo.
Entrambi seguiamo l'allontanamento degli altri due con lo sguardo e rimaniamo in silenzio per una lunga serie di secondi.
«Inazuma.»
«Ditemi, nobile Vermiglio» rispondo subito.
«Prima di tutto, smettila di chiamarmi "nobile", perché non ho mai avuto sangue aristocratico e soprattutto perché mi fai sentire vecchio. Lo ammetto, non sono più un ragazzino, ma nemmeno un venerabile vegliardo.»
Annuisco, ridendo appena.
«Me ne ricorderò.»
«Bravo. Ora siediti qui, vicino a me. È da quando ti ho visto che voglio parlarti con calma» dice, mentre colpisce appena lo spazio libero del giaciglio con il palmo sinistro. Io obbedisco e lì mi sistemo.
«Cosa volete chiedermi?»
«Chiederti? Niente... Volevo solo raccontarti una cosa che mi farebbe piacere che tu portassi con te.»
«Di che si tratta?»
«Di me e di ciò che ero prima di diventare un Cavaliere. Proprio come te non ero nato pronto, per questo motivo vorrei raccontarti di quel tempo lontano, di cui mai faccio menzione. Ti va di ascoltarmi?»
  Dice quelle parole con un sorriso così dolce da ferirmi.
«Certamente. Sono curioso di sapere tutto. Prima di arrivare al Grande Tempio ero un grande impiccione. Mio padre mi diceva sempre che avrei dovuto pensare a diventare più forte, a prepararmi per tempi più duri, piuttosto che chiacchierare e informarmi sulle vite altrui.»
Gli strappo una breve risata.
«Allora andiamo proprio d’accordo. Accomodati, perché sarà una storia parecchio lunga.»
I suoi occhi turchese sono persi chissà dove. Le palpebre calano stanche su di essi, assottigliandoli.
«Sono nato trent’anni fa in un piccolo villaggio che si trova dall'altro capo del mondo. La mia terra è molto simile alla Grecia: arida in estate, rigida in inverno. I miei genitori avevano sette figli, di cui io ero il secondo. Per vivere coltivavano grano e avevano bisogno di tante braccia che si curassero del raccolto, un ampio raccolto. Oh...quei dolci pendii erano ricoperti di spighe d'oro. Uno spettacolo meraviglioso. Dovresti vederlo, sai? Sono sicuro che ti piacerebbe, almeno quanto piaceva a me. Eravamo poveri, ma non ci mancava niente. Io ero felice, e sfiorai il cielo con un dito quando da ragazzino conobbi Miria. Una donna bella come Afrodite, delicata come un fiocco di neve. Eravamo molto giovani quando ci sposammo e gli dei ci benedissero subito con un figlio...-
Sorride, ma i suoi occhi piangono. Le lacrime sfuggono dai suoi occhi e scorrono lungo le guance veloci, come se si vergognassero di palesarsi. Vorrei che smettesse di ricordare e sentire anche il dolore passato, ma per esperienza personale so che non è facile, anzi, a volte è impossibile.
«Ettore. Avevamo scelto quel nome per lui. È il nome di un eroe, un grandissimo eroe di Ilio.»
«Lo conosco! Mio padre mi ha parlato a lungo della guerra tra greci e troiani. Invece di raccontarmi favole, mi riempiva di leggende.»
«Sophos ama le leggende, vero?»
«Sì, è proprio appassionato degli antichi canti, mentre io preferisco di gran lunga parlare del presente. Non glielo ho mai detto, però, perché sennò si sarebbe offeso» cerco di divagare. Lui sposta la mano sulla mia e la stringe appena.
«Sei un bravo figlio. Noi genitori abbiamo le nostre fissazioni e un figlio che sa sopportarle è una benedizione. Ettore era proprio come te. Gentile e rispettoso, anche un po' timido. Speravo che non cambiasse con il crescere. Ero giovanissimo e non potevo sapere che la sua innocenza si sarebbe spenta. Ancora credevo che anche gli uomini potessero rimanere un po’ bambini.»
Si forza a sorridere appena.
«Avrei scommesso che alcuni riescono a mantenere quella purezza nonostante tutto, anche di fronte alla morte e al dolore. Ho provato a non darmi per vinto, a provarci anche io, ma non ci sono riuscito, Inazuma.»
 Ogni luce si spegne sul suo viso, mentre si abbandona a una profonda tristezza. Il pianto spezza le parole. Le dita sue si stringono più forte sulla mia mano.
«La morte che abbiamo attorno è niente vicina a quella che ho visto io, ancor prima che approdassi nelle arene di tutto l'Impero e ci sono dei momenti in cui non riesco a fare finta di nulla. Provo a sorridere sempre, a non lasciarmi sopraffare dal ricordo di ciò che è andato perduto per colpa mia. Ma la maschera scompare ogni volta che ti guardo, Inazuma, poiché mi sembra di vedere mio figlio. Aveva la tua stessa luce negli occhi. Sognava grandi gesta, desiderava diventare uno dei grandi eroi, ma lo faceva di nascosto. Sapeva di essere troppo sensibile e pauroso da affrontare le peripezie raccontate dagli aedi, eppure insisteva e si impegnava a cambiare. Se la sua vita non si fosse fermata a sei anni, probabilmente sarebbe diventato un grande uomo con pregi e debolezze. Un eroe diverso, come sarai tu.
Per questo motivo quando ho incontrato Demyan dell’Acquario e lui mi ha parlato della giusta lotta di Atena,  ho deciso di seguirlo a ogni costo. Ho deciso di vivere anche per Ettore e dedicargli ogni vittoria.»
 Torna a sorridere deciso, lasciando scivolare altre lacrime dagli occhi.
«Ma questa volta sono stato sconfitto. Dopotutto rimango sempre un povero contadino. Me lo dimostrò l’esercito  di Roma quando si prese la vita di mia moglie e mio figlio soltanto per sollazzo e me lo ha dimostrato quello Spectre, schiacciandomi come un insetto.»
«Non è vero, Vermiglio. Non siamo stati sconfitti. Abbiamo vinto, grazie a te.»
Scuote appena il capo.
«Sei molto gentile a cercare di consolarmi, Inazuma, ma so bene di cosa sto parlando.»
«No!» dico a denti stretti.
«Non lo sapete, perché non conoscete quello che ho provato quando mi avete difeso, non lo comprendete. Dopo essere stato difeso da voi ho capito il mio destino! Adesso so quello che voglio fare della mia vita! Io voglio essere un eroe e non come quelli cantati dagli aedi! Voglio essere come voi!»
Gli occhi di Vermiglio si spalancano, lucidi, velati di lacrime, sorpresi. Le labbra tramano e si muovono lente su un sussurro.
«Come lui...»
«Non ci sono persone più ammirevoli che quelle disposte a dare tutte loro stesse per proteggere chi non può farlo. Non importa che siano nati guerrieri, pastori o contadini. Nobile Vermiglio, io...»
«Flavio Linneo» mi interrompe.
«Come?» chiedo confuso.
«È quello il mio vero nome, Inazuma. Chiamami così, per favore. Vermiglio è l’appellativo che mi sono dato dopo aver rinunciato...ai ricordi.»
Dopo un profondo sospiro, le palpebre del Cavaliere dello Scorpione si abbassano. Il respiro si placa, mentre la stretta debole delle sue dita sulla mia mano si annulla.
«Flavio?» lo chiamo timidamente. Non mi risponde, nonostante io inizi a scuoterlo appena.
«Flavio, mi sentite? Flavio!» continuo a chiamarlo, imperterrito, senza ottenere alcun risultato. No, non può essere! Che sia...?
Nel panico più totale corro all'esterno e chiamo a gran voce Esperante. La voce trema per colpa della tensione. Subito il mio amico lascia il suo rifugio sull'albero e si precipita da me. Frettolosamente gli spiego la situazione e lui prova a calmarmi. Non gli riesce molto bene, visto che l'agitazione ha contagiato anche lui. La sua paura si fa palpabile quando raggiunge Flavio e preme le dita alla base del suo collo.
«È vivo, ma...» dice a voce bassa, ma viene interrotto dalle parole pacate di qualcuno nascosto nell'ombra.
«Il suo cuore si fermerà presto. Glielo strapperò dal petto e lo conserverò gelosamente. Quanto più carico d’amore è un cuore tanto più è soddisfacente estrarlo dal corpo in cui batte.»
«Chi sei?» ringhia Esperante.
«Mi chiamo Laocoonte di Atropo della stella del Cielo Ferito, ma alcuni miei compagni d’arme mi chiamano “il collezionista di vite”»
Un filo d'oro riluce, sottile, in linea retta, partendo dal petto di Vermiglio fino all'angolo più oscuro della casa. Tanto io che Esperante seguiamo attenti tutta la sua lunghezza.
«Ve ne siete accorti, dunque? Bene. Conoscete il mito delle Parche?»
Esperante fa un passo avanti verso l'ombra. Solleva il pugno e tira indietro un braccio.
«No, non ne so niente, vigliacco. Ma ti consiglio di prendertela con due guerrieri capaci di difendersi piuttosto che un uomo ferito.»
Due fili dorati si attaccano al nostro petto. Senza pensarci avvicino le dita della mano destra al filo, lo sfioro e provo a strapparlo. Un dolore immane percorre tutto il mio corpo.
«Che cosa è successo, Inazuma?» mi chiede Esperante allarmato.
«Se conosceste meglio i miti, sapreste che i fili delle tre Parche rappresentano le vite degli uomini. Se osate toccarle o tentate di spezzarle, vi infliggerete da soli atroci sofferenze.»
 Esperante compie un passo indietro e si lascia andare a un prolungato grido di dolore.
«Anche un passo può ucciderti, marmocchio. Cavaliere d'Oro, d'Argento, di Bronzo, Spectre, tutti sono soggetti al potere del destino.»
Tutto a un tratto sento freddo. Uno spiffero gelido entra insistente dall'uscio e le finestre. Il sudore della paura mi ghiaccia la schiena. Tutto questo combattere e aggrapparsi alla vita può andare in fumo per uno sciocco filo? No, non ci sto, non ci credo. Provo a far bruciare il Cosmo che ho dentro, ma il mio gesto non sortisce alcun effetto. Non posso usare la mia forza ed è lo stesso per Esperante.
«Dannazione!» si lascia sfuggire.
  Lo sferragliare dell'armatura del nostro nemico parla del suo avvicinamento. I raggi di sole che entrano dalle finestre iniziano a delinearne la sagoma. È alto e snello. Ha dei lunghi capelli argentati che scendono fino alla vita. I coprispalle della corazza sono voluminosi e arrotondati. La schiena è appesantita da una grande coppia d'ali scheletrite. Un parafianchi di maglia scende attorno alle gambe fino alle ginocchia. Quello che più mi colpisce del mio nemico è il viso, bello e delicato come quello di una scultura. Ha un occhio argenteo e uno nero. Non ho mai visto una cosa del genere. L'indice e il medio della mano destra sono rivolti verso l'alto e catturano i capi dei fili che partono dal nostro petto.
«Preparati ad andartene in pace, ragazzino. La morte è quiete, l'estremo riposo di corpo e spirito» dice calmo il nostro nemico.
«Non ci arrenderemo qui!» affermo io. «Troveremo un modo per distruggerti. Abbiamo avuto ragione di Radamante! Faremo lo stesso con te.»
«Stolto. Radamante è un abile guerriero, per questo non accetta di colpire nell'ombra. Lui affronta tutti a viso scoperto e questo ha dato un'apertura alla vostra disperazione. Per me è diverso, io sono l'ombra, proprio come mio padre: Thanatos, dio della morte.»
«Un semidio» deduce Esperante.
«Esatto, figlio di un dio e di una donna umana. Sono nato come un'aberrazione, ma mio padre mi ha regalato un posto in questo mondo.»
Le sue dita si fanno più vicine, come le lame di una forbice che si chiude.
«Sono il giustiziere, quello che toglie la vita alle esistenze maledette dal fato» grida, facendo risuonare le parole all'interno del nostro capo.
«Io sono...» si interrompe. Il freddo attorno a noi si è fatto insopportabile. Il respiro che mi esce dalle labbra diventa bianco fumo.
«Chi sei?» ringhia a denti stretti il semidio.
  I fili d'oro che ci collegano alla sua mano si ricoprono di uno spesso strato di ghiaccio. Quando esso si frantuma, lo stesso fanno i vincoli dorati.
Il giaciglio su cui è disteso Flavio fa rumore. Mi volto verso di esso e riconosco Nikanor che sta sollevando in braccio il guerriero ferito.
«Nikanor?»  lo chiamiamo io e Esperante, confusi dalla sorpresa. «Sei stato tu a salvarci?»
«Mi piacerebbe dirti di sì, però...»
Con un cenno del mento mi indica il buio alle spalle di Laocoonte. La luce dorata di un Cosmo ampio e gelido descrive la sagoma di un uomo di statura media. Riconosco la sua presenza in questo momento. Non faccio in tempo a chiamare il suo nome che il grido furioso di Laocoonte si diffonde in tutta la stanza, fino ad abbattere una delle pareti. Nonostante il sole estivo, l'aria rimane gelida.
«Come osi attaccare un dio?»
«Dio?» chiede retorica l'inconfondibile voce di Demyan dell'Acquario.
«Sei solo una povera nullità, un rifiuto del dio che stimi tanto. Ti ha relegato all'ombra di una distesa di cadaveri. Si vergogna di te ed è per questo che ti ha rinnegato.»
«Che vuoi saperne tu, inutile essere umano?»
Con un gesto brusco del braccio, Laocoonte prova a collegare uno dei fili al petto di Demyan, ma non ci riesce: il ghiaccio lo respinge e contamina la sua azione, risalendo veloce fino al braccio armato.
«Io non sono un ignorante né un ragazzino. So perfettamente che fine fanno i figli impuri degli dei: vivono nella vergogna di non appartenere né al mondo degli uomini né all'Olimpo» afferma pacato, senza un minimo di paura. Un velo di ghiaccio ricopre la Surplice nera di Laocoonte, ma nel giro di qualche istante svanisce.
«Sei tanto spocchioso, Cavaliere d'Oro, ma i tuoi poteri non sono niente di speciale, a quanto pare.»
Laocoonte compie un balzo indietro, nell'ombra. La terra sotto di noi inizia a tremare, scossa da un potente terremoto. Fatico a stare in piedi, ma riesco a non perdere l'equilibrio.
«Nikanor, ragazzi, allontanatevi di qui e portate via Vermiglio, presto» afferma Demyan, sollevando tutte e due le braccia verso il soffitto. Le dita si intrecciano perfettamente in una solida stretta. Il freddo che ci circonda si fa ancora più intenso, insopportabile.
Di solito sono insofferente agli ordini, ma in questo momento eseguo in silenzio. Seguendo Nikanor ci ritroviamo fuori, al sole cocente di Klesos. La presenza di altri Spectre non ci lascia il tempo di abituarci alla temperatura estiva. Sono decisamente più deboli rispetto a Laocoonte, tanto che basta un attacco del mio Fulmine unito a quello di Esperante per liberarci di loro. Non c'è tempo da perdere, dobbiamo allontanarci. A detta di Nikanor, la temperatura nei paraggi precipiterà di molti gradi sotto lo zero. Sprovvisti dell'armatura non potremmo mai sopravvivere. Il nemico però si fa beffe della nostra fretta rialzandosi di continuo dopo i nostri colpi. Anche se i corpi dei nostri avversari sono pieni di ferite e fratture, continuano a impedirci di passare.
«Dobbiamo darci una mossa, accidenti! Se rimaniamo qui il colpo di Demyan ci ammazzerà e non solo! Il nobile Vermiglio potrebbe morire se non lo portiamo immediatamente dal sommo Asclepio!» grida Nikanor, mettendomi ancora più pressione.
«Lo so!» replica Esperante. «Lo so, dannazione!»
 Il suo Cosmo dorato esplode in una raffica di colpi ancora più violenti di quelli di prima. Alcuni dei corpi di questi deboli Spectre vanno in pezzi. La cosa raccapricciante è che le loro braccia, le gambe, si muovono ancora, seppur staccate dal corpo. Si conglomerano in figure orripilanti e senza senso, insieme di carne e ossa.
«Che cosa diavolo sono?» chiede Esperante.
«Morti rianimati dal potere di Thanatos. Avete mai sentito parlare della Selva dei Suicidi negli inferi?» risponde Nikanor.
«No» replico io.
«Essa è un bosco fatto di arbusti contorti, siepi deformi. Ognuna di loro è l'aberrazione del corpo umano di un suicida, costretto a soffrire in eterno, a riformarsi per quante volte esso venga spezzato dal sadismo degli Spectre che attraversano l’oscura siepe. Quello che vedete è la stessa identica magia. Questo luogo è proprio del Dio della Morte, almeno fino a quando la sua influenza non verrà completamente spazzata via.»
«Quindi...più li colpiamo, più i loro corpi si ricostruiscono» deduco.
«Esatto, a meno che...»
Nikanor appoggia a terra Vermiglio, con delicatezza. Distende poi le braccia lateralmente e le abbassa sinuosamente simulando un lento battito di ali. La temperatura torna a scendere, anche se meno bruscamente rispetto a prima. I movimenti dei nostri deformi aggressori rallentano fino a quasi fermarsi.
«Bene! Funziona!» afferma soddisfatto. «Ora prendere Vermiglio e precipitatevi a Est. Il sommo Asclepio vi troverà prima che lo facciate voi.»
«E tu, Nikanor?» chiedo.
«Ah, non preoccuparti per me. Io rinfrescherò le idee a questi idioti che si ostinano a opporsi a me anche dopo la morte.»
«Sei sicuro che...»
«Sicuro. Ci vediamo più avanti, ragazzi» afferma prima di rivolgerci un sorriso deciso e voltarsi verso ciò che resta dei nostri nemici. 
 Esperante ha preso sulle sue spalle il peso di Flavio e si è lanciato di corsa dopo aver dato uno sguardo alla posizione del sole. Non mi rimane che seguirlo attingendo a tutte le energie che mi sono rimaste per andare alla massima velocità. Non ho mai visto scorrere attorno a me il paesaggio così velocemente da sembrare deformato. Che sia una velocità prossima a quella della luce? Il terreno sotto i nostri piedi cambia. Siamo entrati all'interno di una foresta, fitta e scura. L'aria attorno a noi è più fresca, poiché il sole trapela a malapena dalle fronde degli alberi. I nostri passi si fanno sempre più lenti. Tanto io che Esperante abbiamo avvertito la presenza di un Cosmo ampio e benevolo, mastodontico come quello di Eirene. Anche se è caldo e rincuorante contiene una profonda vena di nostalgica tristezza.
Il mio cuore si ferma quando sento il sibilo di un animale che striscia tra l'erba alta. Ho sempre avuto il terrore per le cose striscianti: vermi, serpenti, millepiedi e nonostante tutti i pensieri che ho ora non riesco a soprassedere. Lancio un gridolino pavido quando le spire di un grosso serpente dalle scaglie verdi si avvolgono su una delle mie gambe. Esperante ha uno sguardo preoccupato, no, atterrito.
«Non ti muovere, Inazuma» mi dice a voce bassissima, mentre la lingua biforcuta del rettile mi sfiora una guancia. Serro gli occhi e i denti, mentre tremo come una foglia. Una risata fragorosa si diffonde da ogni angolo scuro della foresta.
«Due futuri Cavalieri della dea Atena che si lasciano impressionare da un animale inoffensivo?» ironizza una voce profonda e lontana. Sono sicuro che appartenga all'uomo che possiede il Cosmo gigantesco che ci circonda.
 Tiro un sospiro di sollievo mentre il serpente mi libera della sua presenza e torna a terra per poi strisciare verso la nostra sinistra. Sorpresi seguiamo lo spostamento pacato di un uomo altissimo verso di noi. Il suo corpo è coperto da una cappa bianca e voluminosa e il viso celato dal brillante cappuccio. Riesco a vedere solo le sue labbra rosee curve in un sorriso. Nella mano destra regge un bastone d'oro sul quale è attorcigliato un serpente dello stesso materiale.
«Distendi a terra quel pover'uomo, ragazzo. Non abbiamo tempo di raggiungere il mio rifugio.»
  Esperante fa un passo indietro e ringhia: «Ditemi il vostro nome o non muoverò un muscolo.»
«Asclepio» risponde pacato, mentre passa la mano libera sul capo mio e poi sfiora quello di Esperante. Tutta la stanchezza e il malessere datomi dalle ferite lasciano spazio a un rinnovato e prorompente vigore. È come se avessi riposato per un giorno intero.
«Avete bisogno di altre dimostrazioni? Sono il dio della medicina, o così mi chiamano. L'uomo inviso e maledetto dagli dei.»
«Chi ci dice che voi non siate un nemico della nostra dea? Non abbiamo mai sentito parlare di voi finora» protesto io, ancora non completamente persuaso dalle parole di questo enigmatico sconosciuto dotato di immani poteri.
«Io, Inazuma» risponde la voce dolce di Eirene. La vedo uscire dalle ristoranti ombre della foresta. Un raggio di sole accarezza la pelle candida e il leggero vestito bianco come la neve. Stringe in una mano lo scettro dorato che le ho visto portare durante la cerimonia di manifestazione al Grande Tempio.
«Tu…» provo a dire. Lei mi sorride e, dopo essersi avvicinata, posa una mano sulla mia guancia.
«Sono pronta per proteggervi tutti, finalmente.»

 

ECATE

 
Un passo fuori dalla porta degli alloggi di Polluce mi toglie il fiato. Il potere del Dio dell'Oltretomba è insopportabile, asfissiante, eppure i Cavalieri del Grande Tempio avanzano verso quella che sembra morte certa. Anche Polluce decide di muovere a testa alta per fermare gli invasori lasciandomi indietro a osservare inerme ciò che mi sta intorno.
«Hai già cambiato idea?» chiede, ma io non faccio in tempo a rispondergli, che una forte scossa del terreno mi fa perdere l'equilibrio. Polluce non si rovina a sostenermi e mi lascia sbilanciare fino a farmi cadere a terra. Soltanto alzando lo sguardo mi accorgo della profonda crepa ha diviso in due la scalinata in una frazione di secondo.
«Che cosa...?»
«La terra lascia uscire il male che cela in grembo. Ade è già qui» replica distrattamente Polluce. Non mi aiuta ad alzarmi e si allontana da me. Non riesco a seguire i suoi movimenti poiché sono troppo veloci. Mi alzo in piedi, anche se faccio fatica a rimanerci. La terra continua a tremare e le grida della battaglia si fanno sempre più vicine, proprio come la voce di mia sorella. Sembra che il suo canto giunga da una brevissima distanza, eppure la notte la nasconde ai miei occhi.
«Calypso!» grido a tutta voce.
«Calypso, dove sei?»
  Proseguo verso il basso fiancheggiando la profonda crepa, attenta a non mettere piedi in fallo. Il mio avanzare lento è frustrante. Come ha fatto Castore a vedere in me anche solo l'accenno di un Cavaliere d'Atena? Non so nemmeno trovare mia sorella a me così vicina.
«Ghiaccio e morte su questa terra porteranno la mia libertà. La tristezza è l'araldo dell'estate. Io prigioniera, io solitaria dalle lacrime asciutte aspetto il tuo ritorno. Vestito di notte vieni per me, vestito di tenebra cavalchi sul suolo immondo delle mie catene. Il vero veleno è la paura. L'amore è il buio che mi avvolge e accarezza, mi difende e divora tutto ciò che mi spaventa. Che sia in un prato fiorito o nella gelida terra dei morti, l'Elisio sarà dove saremo soltanto io e te. Io e te.»
Ha esaurito le strofe che spesso ripeteva anche da bambina. È qui, vicina a me. Sento il rumore del suo respiro. Mi giro attorno, ma non riesco a vederla.
«Sono qui» afferma la sua voce cristallina. Vorrei voltarmi verso di lei ma sento sulle membra un peso impossibile da sopportare. Una forza che prova a schiacciarmi a terra. È forse questo il Cosmo di Calypso? Questa mostruosa energia gelida?
«Non voltarti, sciagurata» afferma decisa. Sento il freddo tocco di una lama dietro la nuca che mi fa rabbrividire.
«Calypso, che ti è successo? Perché mi tratti così?»
«È solo colpa tua» replica lei. «Tutta colpa tua, Rea Silvia e per questo motivo dovrai pagare con la tua nuova vita.»
Dopo un grido prolungato, causato dallo sforzo, riesco a voltarmi, surclassando la furia del Cosmo di Calypso. Rimuovo la maschera dal viso, abbandonandola a terra. I nostri sguardi si incrociano. I suoi occhi sono specchi di nulla, profondi come l'inferno. Riesco a stringere le ciocche contorte dei suoi capelli e avvicinare il suo volto al mio.
«Sono tua sorella! Guardarmi!»
«In te vedo solo l'abominio, Rea Silvia! Non sei mia sorella, sporca traditrice.»
 Ringhia come un cane rabbioso nella mia stretta, mentre agita lo scettro nero che regge nella mano destra. Prova a colpirmi, ma io le fermo il polso.
«Sei impazzita?» grido con un tono di voce più alto.
«No! Ho memoria del tuo tradimento! È colpa tua se sono stata divisa da Ade!»
Porto le mani attorno al suo capo, nonostante la pressione su di me sembri volermi spezzare le ossa.
«Calmati, tesoro, ti prego. Sono io, sono Ecate. Calypso, ascoltami.»
  Prova a liberarsi dalla mia presa, prima più furiosamente, poi lentamente si calma.
«Così» dico a bassa voce più volte. «Brava.»
«Ecate?» chiede piagnucolando.
«Esatto. Sono io. Ora calmati.»
  Lo sguardo si addolcisce, le labbra si schiudono. Respira affannosamente ma sento che sta ritornando in sé. La mia piccola Calypso è qui, sana e salva di fronte a me. Questo mi fa tremare la voce e lacrimare gli occhi. Sono felice, anche se il mondo intorno a noi ruggisce di grida e rumori della battaglia. Le accarezzo una guancia ed è proprio questo a innescare la sua reazione violenta. Porta tutte e due le mani sul mio collo. La sua stretta d'acciaio mi priva del respiro. Mi solleva da terra, nonostante io cerchi di liberarmi e si volta lentamente verso il crepaccio che ha preso il posto della scalinata che porta alle Dodici Case. Le gambe si muovono sul baratro. Sono completamente indifesa. L'unica cosa che può salvarmi è la pietà... no, la lucidità di mia sorella. Centinaia di voci mi chiamano dalle profondità della terra, mi fanno paura.
«Ascolta il lamento di chi perì a causa tua, Rea Silvia! La bocca dell’inferno dice sempre la verità.»
«Non sono...Rea... Silvia...»
«Gridalo a loro!» afferma solenne, annullando di colpo la presa. Precipito nel buio, agitando le braccia per cercare appigli, frenare la caduta, ma non ci riesco. Vedo Calypso che mi osserva dall'orlo del baratro, indifferente. Sono sola, abbandonata al vuoto, accelerata dal mio stesso peso. Discenderò  verso gli inferi, nelle profonde viscere della terra. I dannati banchetteranno con il mio corpo. No! Non può finire così, per questo prego che lui venga in mio soccorso, prego, come quando ero una bambina perduta ai piedi del tempio di Tracia.
«Ares!»
  Il mio grido rimbomba nell'oscurità. L'eco mi circonda, come quando camminavo a piedi nudi nel naos.
Portami via da questa miseria, Ares. Fammi grande come i tuoi eroi e io ti darò tutto ciò che possiedo, anche me stessa.
«Ares!»  ripeto ancora più forte, ma la paura di finire all'inferno portando con me tante parole non dette mi porta a serrare gli occhi e piangere.
Ares, mio dio, discendi dall’Olimpo per me.
Schiudo le palpebre immediatamente quando sento la vita stretta da un possente braccio e il sibilo dell'aria attorno a me. La roccia si spezza sotto il piede armato d'oro di Castore che si slancia verso l'alto. I suoi capelli sono ancora bianchi e gli occhi sanguigni: lo vedo bene al chiaro di luna, quando finalmente emergiamo dal precipizio e raggiungiamo la superficie, fermandoci a poca distanza da mia sorella.
«Salvarti di continuo sta diventando un compito oneroso. Dovresti iniziare a pensare a una ricompensa adeguata ai servigi di un dio.»
Mi aiuta a stare in piedi, sostenendomi. Avvicina le labbra a un mio orecchio.
«Finita la battaglia la esigerò» sussurra. Sorrido alle sue parole, lasciando scivolare via le lacrime dagli occhi. Sono triste, distrutta dalla follia di Calypso, ma allo stesso tempo felice che lui sia sano e salvo. Il suo Cosmo è forte, anche se non come prima. Il volto ha chiari segni di stanchezza, lo stesso è per lo sguardo.
«Tu!» ringhia Calypso, rivolgendo lo scettro verso di noi. Il suo potente Cosmo si accumula sulla sommità di esso in una sfera nera.
«Ti spazzerò via assieme a quella donna e a questo luogo! Non c'è posto per voi nel nostro regno?»
«Vostro regno?» la irride Ares. «Questa è la terra di noi Olimpici. Voi, schifosi vermi del sottosuolo, dovreste tornare da dove siete venuti! Perditi ora, Persefone! Non ho tempo di staccarti la testa...di nuovo.»
Con un grido assordante mia sorella libera l'accumulo di Cosmo dallo scettro, lo scaglia in nostra direzione. Ares solleva le braccia, le piega e con un velocissimo movimento fende il varco dimensionale. Accompagna il suo gesto con due semplici parole, dette con decisione.
«Dimensione oscura!»
Benché la nefasta energia ne venga risucchiata, mia sorella non subisce alcuna conseguenza. Rimane in piedi di fronte a noi, con un sorriso enigmatico sulle labbra.
Il torace di Castore è scosso dall'affanno. Ha impiegato molta della sua forza nella manovra difensiva che ci ha salvato la vita.
«La tempra di uomo, per quanto forte, non può sopportare il tuo immenso potere, Ares. Non so se reggerai un nuovo attacco. Vogliamo provare?» lo provoca mia sorella, mentre tende di nuovo lo scettro verso di noi, anche se per pochi istanti. È lei stessa ad abbassarlo. I suoi occhi sono sollevati verso l'alto, l'espressione carica di paura.
«È il momento giusto» afferma Ares entusiasta, allungando un braccio verso di lei. Porto tutte e due le mani su di esso impedendogli di colpirla.
«Lasciala stare, ti prego» lo imploro.
«Si rivolterebbe contro di noi, sciocca! Lasciami immediatamente!»
«È mia sorella...» dico distratta dai miei ricordi. Inizio a fare qualche passo verso Calypso come ipnotizzata dall'affetto imperituro che mi lega a lei.
«Amore mio...no...» sussurra dopo essere caduta in ginocchio. «Non mi lasciare sola! Vuole uccidermi, farmi del male. Aiutami.»
È completamente impazzita. Inizio a pensare che sia come Castore. La sua anima umana è contaminata dai ricordi della dea che ospita.
Il crepaccio a poca distanza da noi vomita una nebbia scura che puzza così tanto di zolfo da farmi tossire. Essa si diffonde attorno a noi. Ampia ricopre tutto il Grande Tempio con il peso di un Cosmo oscuro e immane.
«Oh, che bella entrata in scena, zio» afferma Ares con lo sguardo rivolto verso l'alto. Tutta la potenza di quel mare di oscurità si concentra in un unico punto nel cielo a diversi metri da noi. Come una scheggia un uomo bardato di una nera e voluminosa armatura si scaglia nella nostra direzione. La forza d'urto prodotta dal suo atterraggio ci sbalza a diversi metri di distanza. La mia schiena urta duramente contro le rovine della bianca scalinata. Un cumulo di macerie trattiene prigioniero il corpo di Ares che a fatica si alza in piedi e lascia scivolare polvere e detriti dalle sue membra. La fronte è ferita da un taglio corto e superficiale. Il sangue scende in sottili rivoli fino alle sopracciglia, bagnandole del suo scarlatto. Sposto lo sguardo da lui all'uomo che possente si erge di fronte a noi.  Ha i capelli neri, folti e lunghissimi che contrastano con il viso pallido come quello di un morto. Gli occhi sono di un azzurro chiaro e puro simile all’acqua incontaminata. Anche se la sua espressione è stoica le iridi sono accese di rabbia. L'armatura è pesante, soprattutto all'altezza delle spalle dove spuntano tre coppie di ali metalliche. Nella mano destra stringe una spada nera, finemente ricamata. Nessuna arma umana ha una foggia così splendente, nessun essere vivente emette un tale soverchiante potere.
«Ares, quale pietoso spettacolo vedono i miei occhi. Speravo che facendoti a pezzi non avrei rivisto mai più la tua brutta faccia, invece non solo ti ritrovo, ma osi minacciare la mia sposa con le tue luride intenzioni.»
Ares non ha paura di niente, difatti compie qualche passo solenne verso Ade, con la testa ben alta, scrollando le braccia in modo da rimuovere la polvere rimasta attaccata a esse.
«E non solo, Ares. Addirittura indossi un'armatura di Atena. Non hai dignità alcuna!» lo irride il Dio degli Inferi.
«Non hai mai sentito il detto: il nemico del mio nemico diviene mio amico?» lo sfida Ares. «Il problema è che io non ho amici, io sfrutto ciò che mi capita per le mani e la giovane Atena me lo permette.»
 La velocità della luce assiste gli spostamenti di Castore che prova a colpire il nemico, decisamente fuori dalla sua portata con una rapida serie di pugni che inesorabilmente va a vuoto. Il contrattacco del Dio dell’oltretomba è terribilmente preciso e veloce. La spada nera rischia di conficcarsi nel petto del Cavaliere d'Oro che si ritrova costretto a schivare e arretrare. Non contento di ciò, Ade scatta verso di lui. Non ho tempo per pensare alla mia follia, l'unica cosa che non voglio è che Castore non venga colpito, perciò chiedo al mio corpo lo sforzo estremo. Il mio Cosmo brucia e si espande in poche frazioni di secondo, permettendomi una velocità tale da colpire il filo della gelida lama nera con i miei artigli. Tutto il mio braccio è percorso da una scarica d’energia che lo paralizza all’istante. Il dio usa la mano libera per respingermi con un pugno. Non ho mai incassato un colpo così forte in vita mia, tanto che dopo il violento impatto con il terreno dubito che mi rialzerò.
«Ecate!» grida Castore, volgendosi appena verso di me. A stento mi mantengo cosciente. Sento un dolore temendo all'altezza del petto.
«Troverai altri sollazzi, Ares. Le donna umana che hai sposato nell'era del Mito ha fatto una fine simile. Ci sono peccati che gli dei non dovrebbero compiere.»
«Per me il concetto di peccato non esiste, Ade!»
Un altro colpo veloce scagliato da Ares, un altro attacco mancato. Non c’è paragone, non c’è possibilità alcuna. Ogni tentativo di offesa si traduce in inevitabile e letale contrattacco da parte di Ade. Stavolta il filo della spada è inesorabilmente diretto al collo del Cavaliere dei Gemelli. Pochi istanti e la sua vita verrà spezzata nonostante il mio intervento. Serro gli occhi perché non voglio vederlo, non resisterei. Il rumore di cristallo in frantumi mi costringe a riaprirli. A bocca aperta fisso un altro Cavaliere d'Oro al fianco di Castore. Due grosse corna capeggiano sul coprispalle della voluminosa corazza. Il lungo mantello è strappato in più punti. I capelli biondi sono folti, lunghi e ribelli. Gli occhi nocciola placidi e calmi conferiscono un profondo senso di sicurezza.
«Dhiren dell'Ariete. Ti scomodi a proteggere me, Ares? Sono davvero onorato» lo riconosce Ares.
«Sto difendendo un compagno che al momento non può sentirmi» risponde brusco il Cavaliere dell’Ariete.
«Quando lo capirete che…»
«Sta’ zitto. Chiunque si opponga a Ade è nostro alleato, almeno per ora.»
 Le sorprese non sono finite. c'è anche un altro immenso Cosmo oltre a quello dei due Cavalieri d'Oro. Appartiene a un terzo guerriero dorato che si materializza dalla luce accecante propagatasi a poca distanza da me. Ha lunghi capelli lisci, color del grano. L'elmo pesante calcato sul capo scopre il viso armonioso. Ha gli occhi chiusi mentre tiene le mani vicine in una strana posa che non ho mai visto.
«Non bastava l'incarnazione di Ares, ma il Grande Tempio mi offre la visita di un esperto fabbro del popolo dei Mu, eredi di Efesto, e ora persino della giovane incarnazione del Buddha» afferma ironico Ade, prima di rigirare la spada tra le dita.
«E non è ancora finita, Dio dell'oltretomba. Io Siddharta della Vergine, Dhiren dell'Ariete e Castore dei Gemelli siamo solo tre dei Cavalieri presenti al Grande Tempio. I tuoi Spectre torneranno presto al luogo a cui appartengono, così  anche gli altri verranno ad aprirti la strada verso il tuo regno.»
Il dio non replica alle parole del Cavaliere di Virgo, bensì descrive un fendente orizzontale così ampio atto a colpire tutti i suoi avversari.
«Khan!» esclama Siddharta. Il suo Cosmo si estende attorno a noi in una barriera che riflette, anche se debolmente, il colpo di Ade.
 Mi sento sollevare da sue braccia esili, nel frattempo. Mi volto appena e il mio sguardo incontra la maschera semidistrutta di Sarya. Provo una gioia immensa nel vederla.
«Vieni con me, Ecate. Ade è un avversario fuori dalla nostra portata.»
«Ma lo è anche per loro» protesto debolmente.
«I Cavalieri d'Oro sono guerrieri incredibili.»
Trema la sua voce. Sento che lei soffre la mia stessa pena.
 Zoppicante e dolorante mi lascio guidare a debita distanza dai Cavalieri d'Oro, ma tengo lo sguardo fisso sulle spalle di Castore. È successo ciò che Polluce voleva evitare. Anche se questa battaglia si chiudesse in positivo, che ne sarebbe di lui?
«Qui va bene, Sarya» afferma una pacata voce di ragazzo. Mi volto verso la sua sorgente e vedo il giovane viso di un altro Cavaliere d'Oro. Il suo sguardo è determinato mentre supera la nostra posizione. I capelli castani e folti danzano al vento turbolento della battaglia, mentre le dita della mano destra stringono l'oro lavorato di un arco. Sarya mi lascia andare e corre verso di lui. Piange disperata mentre lo abbraccia e, dopo essersi tolta la maschera, lo bacia appassionatamente. Al contrario di me, lei non prova vergogna nell'essere una donna, nell'aver donato il proprio cuore a un uomo. Provo invidia nei suoi confronti. Se solo anche io fossi stata così avrei potuto congedarmi da Castore in maniera diversa. Se non dovessi più rivederlo, porterei eternamente il peso di non avergli dimostrato niente, di aver rifiutato ciò che sento fino alla fine. Scuoto il capo energicamente, mentre dagli occhi scivolano le lacrime. No, non può finire male, non deve finire male! Innalzo un ultima preghiera all'unico dio che ho sempre amato e servito: non morire.
«Non morire, per nessun motivo, Angelòs. Hai capito?» Sarya sembra far eco ai miei pensieri. Lui le rivolge un lungo sguardo. La sua espressione è un misto di tristezza e determinazione che mi ferisce, nonostante non lo conosca.
«Non voglio lasciarti andare!» grida lei disperata.
«È il mio dovere, Sarya. Sono Cavaliere di Atena e devo combattere per lei a costo di ogni sacrificio. Ora lasciami andare, ti prego. Non c'è tempo da perdere.»
Sarya allenta la presa attorno al busto del suo amato, che dopo averle rivolto un intenso sguardo, si allontana da noi, veloce come una stella cadente. Da qui non possiamo osservare ciò che succede sul campo di battaglia. Le rovine del campo di addestramento femminile ci fanno di nuovo da prigione. Anche Megara è qui con noi, seduta tra la polvere e le macerie.
«Anche voi qui?»  la voce di Megara trapela sofferente dalla maschera d'argento.
«Sì» rispondo debolmente.
 Lei si lascia andare a un respiro e, dopo aver rimosso la maschera dal viso, la tira a terra. Le guance sono rigate di lacrime, gli occhi scuri socchiusi.
«Siamo inutili per quanto ci impegniamo. Non riusciamo a proteggere niente!» grida. È la prima volta che la sento perdere il controllo, è la prima volta che vedo la sua espressione. Me la immaginavo sempre glaciale e inflessibile, invece i suoi occhi scuri trasmettono la mia stessa tristezza.
«Soltanto i Cavalieri d'Oro possono combattere questa battaglia» replica Sarya.
«No. Non è vero. Anche Polluce si unirà alla lotta. Non sarà l'unico. Molti uomini dell'élite d'argento stanno rischiando la loro vita...per Atena, mentre noi siamo bloccate qui. Noi donne non abbiamo il diritto di combattere fino alla morte! C'è sempre qualcuno che si sente migliore. Onore, codice di Cavaliere, queste sono cose prettamente maschili! Sono stanca! Stufa marcia di questo sistema indegno!»
«È stato Polluce, vero?» chiede Sarya, con un sorriso dolce sulle labbra. Megara annuisce e porta una mano sul viso a coprire gli occhi.
«Mi ha fatto un grave affronto, affermando con determinazione che non sono e non sarò mai al suo livello. Da quando sono qui mi ha sempre fatto intendere il contrario.»
Sarya abbozza un mezzo sorriso.
«Vi ha detto una bugia per proteggervi.»
Megara schiocca la lingua sul palato, mentre su asciuga gli occhi.
«Smettila, con questi discorsi ridicoli. Cosa vorresti insinuare?»
«Quello che ho detto, né più né meno. Un uomo d'onore non metterebbe mai a rischio la vita di una donna, specialmente se lei è nel suo cuore.»
 Megara si alza e su avvicina a Sarya. La prende per un braccio e la strattona a sé.
«Non esiste questo tipo di rapporto tra Cavalieri. Gli uomini dovrebbero considerarci loro pari!»
Sarya rimane in silenzio. Si scambiano una lunga occhiata.
«Non aspetterò qui» afferma la sacerdotessa guerriero, mentre respinge l'altra e percorre lentamente a ritroso la strada che noi abbiamo attraversato. Un muro di fiamme si alza in pochi istanti e le proibisce l'avanzata.
«Nessuno passerà di qui» afferma la voce di un ragazzino.
«Ci mancava lui» mormora Megara tra sé e sé. «Fatti da parte, Makarios» gli ordina.
 Le fiamme che le hanno ostruito il passaggio si affievoliscono fino a spegnersi. La figura di un adolescente privo di armatura si fa palese al chiaro di luna. I voluminosi capelli scuri contribuiscono a rendere la sua espressione più arcigna.
«No. Il maestro Polluce mi ha dato una missione e non la disattenderò. Devo assicurarmi che nessuna delle ragazze esca di qui e lo stesso vale per le reclute più giovani.»
Il pugno destro di Megara si serra e viene avvolto da un alone di aria gelida. È il suo Cosmo, il potere della Costellazione della fredda Corona Boreale.
«Lasciami passare, ragazzino.»
  La donna solleva la mano, piega il braccio, caricando il pugno da scagliare che tuttavia si interrompe sulle spire metalliche di una lucente catena.
«Ertemios» mormora Megara, dopo essersi lasciata andare a un profondo sospiro. «Anche tu?» continua.
«Sì» risponde il giovane mentre esce dall'ombra, mostrandoci la sua esile corporatura. Il suo sorriso delicato contrasta con lo sguardo triste dei grandi occhi lucidi.
«Non possiamo permettervi di rischiare la vita. L'ordine che ci hanno affidato il Sacerdote e i Cavalieri d'Oro e d' Argento è sopravvivere e sfidare Ade a viso aperto è...»
Un suicidio, lo so. Il mio sguardo si posa su Sarya che in tutti i modi cerca di trattenere le lacrime. Anche se lei dovesse sopravvivere all'uomo che ama, che ne sarebbe del suo cuore?
«Possibile che non possiamo fare niente?» chiede, con la voce che trema.
«L'unica che può combattere il potere di Ade è Atena, che al momento non è qui» risponde Megara.
«Non è qui?» domando sconcertata. «Che cosa stanno difendendo quegli uomini, allora?»
«Atena è stata accompagnata a nord da Demyan dell'Acquario per cercare l'ausilio del dio Asclepio, il nume della medicina che può curare ogni ferita. Potrebbe essere questo il motivo per cui Ade ci ha attaccati. Sta di fatto che ora come ora...»
 Gli occhi di Megara si spalancano, dopodiché si spostano verso il cielo. La luna sta scendendo verso Ovest.
«L'alba! La luce dell'alba costringerà Ade a ripiegare» dice con un sorriso incredulo.
«Mancherà almeno un'ora all'alba, Megara. Riusciremo mai a resistere?»
«Non lo so, Sarya, ma possiamo provare a rendere inospitale questo luogo per il suo maledetto invasore.»
La sacerdotessa guerriero della Corona Boreale si pone al centro della piccola arena in cui noi donne e reclute siamo ammassati.
«Guerrieri di Atena!» tuona, dopo essersi messa la maschera, attirando l’attenzione di tutti i presenti.
«Non abbiamo la forza di opporci a un Dio, questo è vero, non singolarmente. Nemmeno i Dodici possiedono un tale potere, ma possiamo dare tutto quello che abbiamo per la vittoria. Il Cosmo con cui siamo stati benedetti è un dono di Atena, è la luce dell'amore e della giustizia, nemici eterni del terribile Dio dei Morti. Riempiamo queste solenni mura ferite di ciò che qui ha sempre regnato! La forza delle stelle scaccerà la tenebra della notte che cerca di divorarci. Espandete il vostro Cosmo finché potete e fatelo diventare uno solo. Anticipiamo l'alba con la nostra luce.»
Il discorso di Megara ha sortito il suo effetto. Anche la più inesperta delle reclute ora si sente parte di un disegno più grande, prova la magnifica sensazione di appartenere a qualcosa, a qualcuno. Le nostre sagome vengono illuminate da splendenti aloni di luce chiara che riesce a surclassare persino la luce della luna. Il velo luminoso si diffonde sul terreno, sulla pietra e risale veloce, abbracciando tutta la montagna. Nonostante i più giovani cedano dopo qualche minuto di quell'intensa espansione di energia, noi teniamo duro, anche se il corpo va lentamente a indebolirsi.
Non riusciamo a mantenere il Cosmo esteso fino all'alba che dista da noi troppo tempo. Anche Megara, la più forte, cede al peso dell'esaurimento delle forze. Il cielo si è solo tinto di rosso quando anche lei si abbandona alla tristezza dell’impotenza.
«Nobile Polluce...sappiate perdonarmi» mormora appena, con il volto premuto a terra. È tutto finito. Le nostre forze si sono indebolite, quasi estinte, esattamente come il Cosmo dei Cavalieri d'Oro. Non c'è più speranza...
Tuttavia il sole bacia delicato i nostri visi gelidi, nonostante l'aria estiva. La polvere di Atene è calda sotto la mia guancia. Beato silenzio, finalmente. La battaglia si è interrotta bruscamente al sorgere del sole, ma non grazie ai raggi del meraviglioso astro. Non credo a quello che sento. È l'immenso e benevolo Cosmo di Atena. La dea è qui, con noi. Ci abbraccia e ci avvolge per evitare di farci finire nell'oblio in cui il Dio dei Morti vorrebbe trascinarci. Ci restituisce la forza di alzarci in piedi e di ripercorrere la distanza che ci separa dai guerrieri più forti delle Dodici Case, ormai in rovina. I templi sono lesionati, la scalinata quasi completamente abbattuta. La morfologia aspra di questa montagna è mutata sotto i potenti colpi del Re degli Inferi e dei Cavalieri d'Oro. Non c'è più traccia alcuna di Ade, Calypso e degli Spectre. La frattura che ferisce la terra si è chiusa sotto il peso di una spessa coltre di fango. Una ragazzina si erge in piedi, all'interno dell'immane voragine che sostituisce l'entrata del Grande Tempio. I lunghi capelli viola e lo sguardo degli occhi verdi che incrociano i miei fanno uscire un nome dalle mie labbra in un sussurro che subito dopo si fa grido.
«Eirene!»
 Uno dei Cavalieri d'Oro, imponente e robusto si para davanti a me, impedendomi di raggiungerla. L’elmo cornuto che indossa manca di un corno e la guancia destra è ferita da un taglio ancora sanguinante.
«Placa il tuo entusiasmo, ragazza. Sei di fronte alla dea Atena.»
«Io...»
  Il Cavaliere mi sorride e scuote il capo.
«Tutto a tempo debito.»
  Sono costretta a fermare i miei passi e annuire. Quello che vedo di fronte a me mi ammutolisce. I potenti Cavalieri d'Oro sono feriti come le altre reclute. Le loro lucenti armature sono seriamente danneggiate. Due Cavalieri sono distesi a terra alle cure di un misterioso uomo nascosto sotto una leggera cappa bianca.
Sarya ha raggiunto il suo amato ferito al braccio destro. L'arco spezzato giace a terra, assieme a una delle ali della corazza. Assieme a loro ci sono altri due ragazzini che contribuiscono a creare una sorta di quadretto famigliare che mi strappa un sorriso di soddisfazione. Sono felice per loro, soprattutto per quella ragazza che con tanto affetto si è presa cura di me. Ci sono due Cavalieri sani, come se non avessero mai combattuto. Uno di loro ha i capelli color della sera, l’altro azzurri come le acque profonde del mare. Non ho familiarità con i loro nomi e le loro posizioni. Non so a che costellazione appartengano, ma non faccio fatica ad immaginare che fossero con Eirene, lontano da qui, esattamente come i due ragazzini e l’uomo incappucciato. Non mi spiego come abbiano fatto a raggiungerci, rispondo alla mia domanda con la giustificazione più semplice: Atena può tutto, poiché è una dea. Ora più che mai è chiaro di fronte ai miei occhi. Quella bambina infreddolita e spaventata che accolsi in Tracia era in realtà la creatura forse più potente di questo mondo.
Le grida di Polluce richiamano la mia attenzione distraendomi dalle considerazioni.  “Anche in momenti come questo non riesce a smettere di fare polemica”, penso. Tuttavia rimango di sasso quando mi accorgo che Dhiren dell'Ariete e un Cavaliere d'Oro dai capelli rossi trattengono  Castore per le braccia.  I suoi capelli bianchi sono macchiati da una corposa scia di sangue. L'armatura dei Gemelli è rotta all'altezza della scapola destra. Benché provi ad opporsi, ringhiando e scalpitando il suo corpo è ferito e non gli consente la forza necessaria per sfuggire dalla presa degli altri.
«È stato al Grande Tempio per anni! Non potete esiliarlo per questo! Mio fratello si è sempre fatto valere, ha protetto Atena con tutto ciò che aveva, rischiando la vita giorno dopo giorno» ribadisce Polluce per l'ennesima volta.
«Le tue parole sono vere, Polluce. Al contrario di te, Castore ha sempre difeso la Terza Casa con onore e così ha fatto con Atena, ma adesso le cose sono cambiate. Io, Grande Sacerdote, nonché Cavaliere della Bilancia posso leggere il suo cuore. Purtroppo esso è divenuto impuro, contaminato dalla follia distruttrice del dio Ares. Castore è sempre stato un Cavaliere particolare, nonché un grande uomo d’onore, tuttavia non può rimanere qui. La mia carica mi impone di pensare per prima cosa alla salvezza di Atena.»
«Castore ha vissuto per la nostra causa! Ha messo la vita in gioco per Atena e lei lo abbandona così? Non è giusto che non proviate ad aiutarlo, ad aiutarci entrambi!»
«Smettila, Polluce del Centauro! Non c'è modo di farmi cambiare idea. Volente o nolente, Castore dei Gemelli sarà spogliato dell'armatura e esiliato, prima che potrà nuocere ad Atena o a sé stesso. Sai bene che questa scelta è dolorosa per me e per la dea, perciò non complicare le cose» conclude il Cavaliere di Libra.
Ares si agita prima di scoppiare a ridere.
«Fai la voce grossa eh, Hosoku di Libra? Non sai quanto mi sarebbe piaciuto prendere il tuo posto per poter comandare questi poveri inetti che ti lustrano le scarpe.»
Hosoku si volta verso di lui e dopo avergli rivolto un’occhiata glaciale e uno sguardo di sdegno, inizia a parlare con voce calma.
«Purtroppo ti è andata male, Ares. Il tuo posto non è sullo scranno del Grande Sacerdote, ma nelle viscere della terra, dove il tuo rancore non potrà ferire nessuno. Sei empio, quasi quanto Ade.»
«Toglimi la libertà e un giorno ti toglierò la vita, ricordalo bene. Non esiste prigione adatta a me. Io so sempre come uscirne, sempre!»
Ares inizia a gridare sempre più forte e disperatamente. Il respiro a malapena lo assiste e le braccia di Dhiren e Hosoku quasi non riescono più a trattenerlo.
 Castore si immobilizza non appena Siddharta lo raggiunge.
«E tu? L’uomo più vicino agli dei… ti considerano così, no? Be’, si sbagliano. In realtà sei soltanto il nobile cagnolino da grembo di una mocciosa e di quest’uomo che si atteggia a re del mondo. Dov’è la tua dignità, eh?»
L'ultimo arrivato posa la mano sulla fronte del Cavaliere dei Gemelli che dopo un grido sofferto chiude gli occhi e precipita nel sonno indotto. L'armatura d'oro si allontana dalle sue membra quando anche Eirene lo raggiunge. La vedo mentre lo osserva con attenzione prima di spostargli i capelli dalla fronte. L'imponente Cavaliere che aveva bloccato i miei passi tira un lungo sospiro.
«Vai» mi dice. «Vai da loro.»
 Non mi do tempo di ringraziarlo e corro verso Castore, noncurante degli sguardi degli altri. Lo abbraccio e cerco di strapparlo dalle mani del Cavaliere d'Ariete.
«Lasciatelo andare!» grido più volte, sempre più forte.
«Non possiamo, Ecate. Forse non ti sembrerà semplice da comprendere ma quello che stiamo facendo è per il suo bene» mi dice la voce di Eirene, carica di profonda tristezza. Mi stringo ancora più forte a lui e continuo a implorarli, anche se con tono decisamente più flebile.
«Eirene, ti prego... Non portarmelo via.»
«Se fosse solo per me, io non ti toglierei mai la possibilità di stare vicina alla persona che ami, ma devo difendere il mondo intero e quindi confinare ogni minaccia. Hai visto con i tuoi occhi che cosa è capace di fare Ares, come considera le vite degli uomini. Sai meglio di me dove si spinge la sua follia e la sua brama di dominio. Mi spezza il cuore ferire proprio te, ma non posso fare altrimenti.»
La piccola Eirene piange di fronte a me proprio come accadeva al tempio in cui crebbe. Le sue lacrime sono cristalline e pure come il suo dolore. Non c'è menzogna in quello che dice, eppure io non riesco ad accettarlo. Lascio che Castore scivoli via dalla mia presa e venga portato lontano dove i miei occhi non possono più seguirlo. Mi arrendo a questo destino infausto, che ha provato a darmi tanto solo per strapparmi tutto dalle mani.
L'esilio, l'oblio di una cella fredda nascosta nel sottosuolo attende il futuro di Castore: una stella che splende di doppiezza. Il Grande Sacerdote Hosoku aveva deciso di confinarlo in Tracia, lontano dal Tempio, ma Atena ha ordinato che sia imprigionato qui, in Grecia, nei sotterranei posti proprio sotto la maestosa statua della dea che si trova sulla sommità della scalinata delle Dodici Case.
Non passa giorno che io non lo raggiunga, nonostante il netto divieto di Eirene, per alleviare il peso della solitudine che grava sulle sue ampie spalle. Non so per quale ragione Atena voglia il suo completo isolamento. Sono del parere che questa condizione metta ad ancor più dura prova l’ equilibrio mentale del Cavaliere dei Gemelli. La follia di Ares ha abbandonato il suo sguardo e il colore dei suoi capelli è tornato a essere blu scuro. Non varia da tanto tempo ormai.
Sono passati otto mesi da quando è stato imprigionato e la sua pelle risente della totale assenza del sole. L'incarnato si è fatto pallido e contrasta ancora più aspramente con le ciocche scure che scendono indomite sulle sue spalle. L'aria attorno a noi è fredda e umida. Oggi più che mai. Lo sento respirare a fatica quando varco la porta d'oro per raggiungere l'interno della sua cella che, seppur confortevole, ben arredata e ampia, sempre prigione rimane. Ora le sbarre d'oro ci chiudono entrambi fuori dal mondo.
Lo trovo disteso sul suo giaciglio. La tunica bianca lascia scoperte le braccia e parte del petto che si alza e si abbassa freneticamente.
«Buonasera, Castore» richiamo la sua attenzione, prima di poggiare una mano sul suo braccio. Lui ruota appena gli occhi verso di me. Le catene che gli legano i polsi tintinnano non appena si volta. È stordito dai sigilli di Atena che nel mese di Marzo, periodo consacrato al Dio della Guerra, vincolano la forza di Ares con più decisione.
«Ecate...tu...»
«Te ne sei accorto eh?» affermo con la voce che trema. «L'armatura dell'Oficuo è mia, come avevi predetto tu. Ho dovuto sopportare Polluce e Megara ma alla fine ce l'ho fatta. Indosso le vestigia d'argento, anche se ci sono tante cose che devo imparare...e…»
Sono contenta che non veda la mia faccia nascosta dalla maschera, perché non voglio che sappia del mio pianto silenzioso.
«Mi manca il maestro che ha promesso di farmi diventare un vero Cavaliere di Atena.»
«Non sono più un Cavaliere di Atena...» mormora lui prima di portare tutte e due le mani sulla mia maschera e rimuoverla.
«Smettila di fingere che vada tutto bene, Ecate. Niente sarà più come prima.»
 La sua espressione è rigida, gelida come quando l'ho visto per la prima volta.
«Smettila di ostinarti a venire qui, ogni santo giorno. Tu devi dimenticarmi, proprio come sta facendo il resto del mondo.»
 Dice quelle parole, che vengono contraddette dalla stretta salda delle mani sul mio capo.
«Devi lasciarmi solo o finirai così anche tu.»
«Io non sono l'incarnazione di una dea, non ho nessun potere superiore. Sono soltanto Ecate di Tracia, una donna come tante altre. Anzi, forse ancora più inutile.»
«Se così fosse...» inizia, costringendomi a premere la fronte contro la sua. «Se così fosse non farei di tutto per tenerti lontana.»
«Che significa?» chiedo debolmente sfiorando il suo naso con il mio.
«Persefone ti ha chiamata...Rea Silvia e io sono certo che non stesse farneticando.»
«So bene chi è Rea Silvia. Era una semplice umana che ruppe il sacerdozio presso il tempio di Demetra per sposare Ares. "Rea Silvia" era il nomignolo con cui mi chiamava Deianira per prendermi in giro e ragguagliarmi. Pensava che fossi troppo invasata e che stessi dedicando il mio cuore a una statua di pietra. Se sapesse…» sospendo il mio commento. Non vorrei dire spropositi e complicare ancora la situazione.
«Il Mito tace su ciò che accadde a quella donna, ma la memoria che ho dentro no. Ha rinunciato alla retta via per servire le perversioni del suo divino marito. Ha ucciso, ha sfidato gli dei ed è stata punita con una morte atroce.»
  «Se amava veramente, non vedo perché avrebbe dovuto agire diversamente.»
Sbuffo una risatina sul suo viso.
«Che ti importa adesso?»
  Poso un bacio sulle sue labbra, leggero e fugace, per poi spostarmi su una sua guancia e risalire fino all'orecchio.
«Dobbiamo pensare a come lasciare questo posto.»
«Non voglio uscire di qui. Senza i sigilli di Atena non riuscirei a mantenere il controllo sulla mia psiche.»
«Cosa pensi di fare, dunque? Consumarti qui dentro? Lasciarti morire?»
Stringo tutte e due le mani sui suoi capelli e alzo il tono di voce.
«Non hai più la sola responsabilità di te stesso, lo vuoi capire?!»
«Non ho figli né famiglia. Mio fratello è grande abbastanza da badare a sé stesso» replica con voce atona senza spostare lo sguardo dal mio.
«E io chi sono per te?» chiedo brusca.
«Che cosa ti aspetti che ti dica?»
 La sua freddezza mi spezza il cuore e mi convince a allontanarmi in fretta e furia, ma non ci riesco. Le sue mani mi trattengono, premuta contro il petto scoperto. È un attimo e sono io ad avere la schiena contro le lenzuola di lino, con il suo peso addosso.
«Non farmelo fare, Ecate. Non farmi dire quello che vorrei. Sarà tutto più difficile.»
«Dillo, perché io non temo niente.»
  Non mi risponde. Lo fanno i suoi occhi per lui e le labbra, anche se esitano sulle mie. Le dita della sua ampia mano destra massaggiano la nuca, costringendomi a un sospiro. Le mie invece si intrecciano sui lunghi capelli scuri e ribelli.
«Se potessi avere un futuro, sarebbe al tuo fianco.»
 Decisa raggruppo i suoi capelli all'interno di una mano e lo costringo a premere le labbra contro le mie. Guidata da un impeto di desiderio le forzo a schiudersi in modo da far passare la lingua alla ricerca di quella di lui. Non mi lascia fare quello che voglio, perché è lui a approfondire il bacio con una brama quasi violenta, animalesca. Il metallo che ho addosso brucia come se fosse rivestito d'acido. Ho bisogno di rimuoverlo e sembra che Castore lo capisca. È lui ad aiutarmi e a liberarsi della mia leggera corazza. Senza riguardo la lascia scivolare a terra senza rispetto alcuno.
«È preziosa» dico in un sussurro, soffiando sulle sue labbra.
«La tua pelle nuda vale oro» replica in un ghigno malizioso che non ho mai visto sul suo viso libero dall'influsso di Ares. Le sue parole mi infiammano le guance, mi bruciano le labbra. Dovrei morire di imbarazzo, visto che mai nessun maschio ha mai osato tanto con me, ma è come se la mia pelle, la mia anima ricordasse, rivivesse la voglia di essere posseduta dal desiderio selvaggio e irrazionale di quest'uomo, il mio uomo. La tunica di lino che mi copre il busto è una trappola da cui vorrei essere liberata, ma allo stesso tempo mi vergogno di perdere l'unica copertura alle mie forme dolci. Offro collo ai suoi morsi e baci e lascio correre le mani sulle sue spalle scoperte, intreccio le dita al tessuto leggero. La temperatura rigida dell'aria attorno a noi è mutata in un gradevole tepore, come se la nuda pietra emanasse fuoco.
«Che cosa...stiamo facendo?» chiedo in poco più che un sussurro. Sento la sua risata sommessa sul mio orecchio.
«Ricordi la mia ricompensa?»
Le parole si strozzano in gola assieme al respiro quando vedo una ciocca dei suoi capelli mutare di colore.
«Non è possibile... I sigilli...»
Preme un dito sulle mie labbra per farmi tacere.
«Non darti pena per i sigilli di Atena. La tua presenza fa il suo ottimo lavoro.»
«Che significa?» mormoro. Anche se sono stordita dall'eccitazione, le sue parole mi confondono.
«Smettila» Mi rimprovera, irrigidendo l'espressione. Torna quasi subito a sorridere, mentre mi accarezza le labbra e fa distrattamente scivolare l’indice tra di esse.
«Non ti interessa davvero. Tu vuoi me e io voglio te.»
 Gli anelli delle catene che ha ai polsi tintinnano, scorrendo contro la leggera stoffa che mi vela le gambe, tessuto di cui Castore mi libera scoprendo le cosce. I brividi percorrono tutto il mio corpo quando sento sfregare la sua tunica bianca contro la pelle nuda. Essa mal cela la voluminosa reazione del suo corpo al desiderio. "Il maschio è poco diverso da un animale quando seduce una donna", diceva spesso Deianira. "Desidera soddisfazione bestiale e nient'altro dalla femmina. Non cedere mai alle lusinghe di nessuno. Finiresti solo per essere usata come un buco caldo, sfruttata e sporcata dalla brama di un uomo". Non capivo e non capisco le sue parole, perché al solo immaginare ciò che sta per succedere, mi struggo di desiderio. Sono io la prima a volerlo, a concedergli di spogliarmi anche della tunica e del corpetto. Sono io che lecco e succhio le sue dita, mentre passo le mie a scoprire il suo corpo ora accaldato e teso. Ci ritroviamo completamente nudi, pelle contro pelle, stretti, con i respiri appesantiti. Per qualche istante le sue carezze si fanno più esitanti, esattamente come i suoi baci.
«Non avrei voluto che avvenisse qui... Non così...» mi dice, respirando affannosamente sulla mia bocca.
«Non esiste niente attorno a noi, Castore. Io lo voglio, tu lo vuoi...Qualsiasi luogo va bene, dall'Elisio all'inferno.»
 Schiudo le palpebre e presto attenzione alle ciocche dei suoi capelli. Sono di nuovo tutte blu. Mi dedica un altro lungo bacio che sposta subito lungo il collo. Discende veloce fino al mio seno che dolcemente tortura con baci e morsi sempre più decisi mano a mano che si avvicinano ai capezzoli turgidi. Mi lascio andare a un gridolino di autentica soddisfazione quando inizia a succhiarne uno. Non è contento, non gli basta, così porta la mano destra su una mia coscia, vicinissima a...
Dedica poco tempo al seno, poiché preso da un bruciante impeto, discende lungo l'addome con baci bagnati. Seguo i suoi gesti con sguardo attento che incontra il suo,  poco prima che le sue labbra raggiungano il punto più privato e sensibile di me. L'iride è sporco di rosso in un solo occhio e il suo sorriso è quello di Ares. La sua lingua accarezza esattamente i punti che vorrei, si spinge a fondo con il ritmo ideale a farmi impazzire. Gemo, mentre porto una mano tra i suoi folti capelli bianchi. Il mio gesto lo convince a metterci ancora più impegno, a premere con più forza contro la mia apertura finora inviolata. Lo sento sghignazzare mentre allontana le labbra e le posa su una mia coscia, anticipando un morso deciso.
«Prendi fiato. Ho solo cominciato» afferma divertito mentre risale il mio corpo, fino a raggiungere la bocca e invaderla indelicatamente con un bacio. Serra le mani sui miei fianchi e preme il bacino contro il mio. C'è poco di lasciato all'immaginazione di un'inesperta come me. La sua virilità vuole farsi strada al mio interno e io...non riesco a desiderare altro che quello.
«Vergine, ancora una volta...» mormora sulle mie labbra.
«Hai la passione per le sacerdotesse, dopotutto...» oso irriderlo, unendo una risatina alle mie parole. Lui non mi risponde, non con le parole, ma con un gesto secco. Viola la mia intimità, con una brusca spinta. Affonda completamente dentro di me e si gode il mio piccolo lamento di dolore. Sento il calore del sangue che scivola sulla mia pelle.
«Non mi è mai piaciuta la merce usata» risponde alla mia provocazione, assestando un'altra spinta feroce. «Sono un dio, non un disperato essere umano.»
 Non sopporto che sia l'unico a potermi fare male e allo stesso tempo farmi godere delle sue imposizioni, così sposto le mani sulla sua schiena. Descrivo la sua muscolatura tesa con i polpastrelli fino ad arrivare esattamente sotto il suo collo, all'altezza di una profonda cicatrice. Lì tiro un graffio che lo costringe a lamentarsi, no, forse non è un lamento, ma un gemito di soddisfazione.
«Vuoi cancellare l'offesa di Ade su questo corpo?» mi chiede, mi provoca.
«Non dovrebbero nemmeno pensare di sfiorarti... Il tuo corpo è mio.»
 Non so da dove esca il moto d'orgoglio che mi ha fatto esclamare una cosa del genere, ma a lui non dispiace affatto. Le mie parole lo stimolano a mettere ancora più impegno nello scandire il ritmo della nostra unione. Persino il dolore si è trasformato in piacere. La mia mente è completamente ottenebrata dalla forza dei sensi e questo mi porta a profondermi in gesti incontrollati e parole di cui, in altre occasioni, mi vergognerei più di una ladra. Non mi basta raggiungere l'orgasmo insieme a lui al culmine di un coito serrato e bestiale, no. Sento il bisogno di baciare ogni parte del suo corpo. Di leccare la sua pelle madida di sudore e bollente, di tormentare la sua virilità con la lingua e le labbra in modo da ascoltare i suoi gemiti rochi e compiaciuti al raggiungimento di un secondo e devastante orgasmo. Sono disinibita e disinvolta come una donna che vive di questo. So esattamente cosa desidera e come farlo impazzire ed è proprio questa strana consapevolezza a spaventarmi. Mi accorgo di ridere sfacciata come fa lui, di non pormi limiti di decoro, di essere una donna maliziosa e perduta, ma non riesco a vergognarmene.
Siamo stanchi, sfiniti, perciò riposiamo corpo e anima su questo talamo scomodo. I nostri visi sono così vicini che il mio respiro muore contro il suo.
«Vorrei che non ti allontanassi da qui» inizia con un sussurro.
«Allora non lo farò.»
  Apro gli occhi e mi perdo a osservare il suo viso rilassato. Ha le palpebre chiuse e le labbra curve in un debole sorriso. I capelli blu aderiscono alla pelle sudata. Il suo respiro sibila tra le labbra.
«Devi invece. Sarà già l'alba ormai e il dovere ti attende lì fuori, alla luce del sole.»
La sua voce trema, mentre una lacrima evade dalle lunghe ciglia.
«Mi manca la luce del sole. È primavera e tra poco arriverà l'estate. Adoro l'estate...»
Mi ricordo di quel dettaglio e questo mi fa sorridere appena.
«E tu sarai là fuori, Castore. Convincerò  Eirene a farti uscire di qui.»
«Sono io che non lascerò mai queste stanze, te lo ripeto. Non ho controllo alcuno sulla mia anima e questa prigione è l'unica che possa trattenermi. O questo o la morte.»
Bacio più volte la sua fronte, per poi chiuderlo tra le braccia.
«Ti fidi di me?» gli chiedo.
«Hai davvero bisogno che ti risponda?»
La sua risposta mi fa sorridere. Rimango ancora qualche minuto a godere della sua vicinanza, dopodiché mi alzo a malincuore e copro il mio corpo con i vestiti e la corazza.
«Ti preferivo prima» commenta lui con quel sorriso bieco che mi atterrisce e mi attrae allo stesso tempo. Anche se i capelli non mutano colore e il rosso degli occhi non si fa vivo, la personalità di Castore oscilla tra quella tranquilla e controllata e quella impulsiva e spontanea, pericolosa.
«Smettila di guardarmi così» ordino debolmente. «Devo andarmene davvero adesso.»
«E io dovrei aspettare fino a domani prima di rivederti?»
«Cercherò di raggiungerti prima» dico, dopo averlo salutato con un bacio sulla fronte. Lui non mi risponde. Rimane fermo a fissarmi con un sorriso più deciso e ampio a curvargli le labbra.
Esco finalmente dalla cella. Serro le sbarre e mi avvio lungo il corridoio. Il rumore del metallo scosso mi fa trasalire. Mi volto verso la prigione e vedo Castore aggrappato alle sbarre con entrambe le mani. Il respiro è difficoltoso e la voce arrochita dalla rabbia.
«Uccidila! Uccidi Atena e liberami da qui, Ecate! Tu sai cosa può ucciderla. Cerca quel dannato pugnale e piantaglielo nel cuore! Fallo!»
Non rispondo. Mi limito a indossare la maschera e a voltarmi una volta per tutte verso l'uscita.
«Me lo devi! Io ti ho salvato la vita!» continua a gridare. «Io ti amo, Ecate! Non puoi lasciarmi qui a marcire!»
 Non posso più sopportare le sue parole, per cui scappo verso la superficie, seguendo il tunnel nascosto grazie al quale posso entrare senza essere vista. Esco da un fianco della montagna e percorro un ripido sentiero che mi porta al dormitorio dell'élite d'argento. Tiro un profondo respiro di sollievo, liberando qualche singhiozzo. Lascio che le luci dell'alba mi accarezzino, mi diano conforto. La strada che ho di fronte è costellata di dubbi e privazioni. Le stelle mi hanno maledetta con la più dolce e velenosa delle torture.
Vorrei essere come tutti gli altri Cavalieri, avere ben chiaro ciò che è bene e ciò che è male, ma a me tocca vivere come il sole al tramonto: divisa tra luce e ombra. Non solo con Ade, questa guerra dovrò combatterla anche con me stessa.

 

RADAMANTE

 
 «Non siamo stati chiamati alle armi, fratello» afferma Minosse, parandosi di fronte a me e Pandora all'uscita della Giudecca. «Lo stesso discorso vale per voi, nobile Pandora.»
«Tu non sei nessuno per darmi ordini» replica lei, distendendo un braccio verso mio fratello maggiore.
«Mi dispiace, ma voi non avete più alcun potere sui Tre Giudici né sull'armata. Siete stata esclusa dalla gerarchia da Persefone in persona.»
 La mano di Minosse si chiude sul polso di Pandora, provocandole un breve lamento di dolore.
«Lasciala andare, Minosse. Che cosa stai facendo?» protesto.
 Lo vedo sorridere ampiamente.
«Rispondi» insisto. Lui spinge via Pandora, facendola sbilanciare verso di me. Sono lesto a proibirle di perdere l'equilibrio, sostenendola.
«La sacra sposa di Ade non vuole più soffrire delle intromissioni di Pandora. A dire il vero avrei l'ordine di spezzarle l'osso del collo, ma non impiegherò i miei poteri su una fanciulla.»
 Minosse compie alcuni passi verso di me, mi supera, dirigendosi verso la Giudecca.
«Immagino che sarò molto occupato a giudicare le anime dei Cavalieri che Ade farà precipitare negli inferi, per cui evita di cercarmi se non per questioni molto importanti, Radamante.»
Seguo il suo allontanamento finché  l'ombra di questo immenso corridoio non lo avvolge completamente. Pandora svincola bruscamente dalla mia presa e porta tutte e due le mani al viso. Nasconde il pianto che tuttavia le sconvolge il torace.
«Come ha potuto il sommo Ade permettere una cosa del genere? Escludere me da questa guerra, me! Sono stata sempre al suo fianco, anche quando tutti gli Olimpici gli hanno voltato le spalle. Ho rinunciato ai colori del mondo e delle emozioni per lui e il suo sogno.»
I suoi occhi scuri puntano sui miei, velati di profonda tristezza.
«Non è giusto che sia così, Radamante. Anche voi mi voltate le spalle dopo tutto il tempo che abbiamo trascorso fianco a fianco nel tentativo di rendere verità i propositi del Signore dell'oltretomba.»
 Rimuovo l'elmo dal capo e mi inginocchio di fronte a lei, stando attento a non sollevare lo sguardo sul suo.
«Io vi devo l'esistenza, nobile Pandora. Al contrario di mio fratello maggiore, non ho nessuna intenzione di lasciare il vostro fianco, indipendentemente dalla posizione che occupate. L'unica cosa che conta è la fedeltà ad Ade e voi ne avete dimostrata di sconfinata finora. Contate sui miei servigi come avete sempre fatto, poiché il nostro desiderio è lo stesso.»
La sua espressione è un misto di stupore e sollievo: lo spettacolo più bello che io abbia mai visto sul volto di una donna.
«Alzati, Radamante. Io non sono più nessuno per te.»
«Siete la mia signora, Pandora. Nessuna presunta dea potrà mai esautorarvi di fronte ai miei occhi.»
«Le tue parole sono balsamo per il mio orgoglio ferito» afferma, inginocchiandosi di fronte a me. Per la prima il suo sguardo e il mio non sono su livelli differenti. Questo mi spiazza, ma ancor di più mi paralizzano le sue braccia attorno al mio collo.
«Aiutami, Radamante, aiutami a riprendere ciò che ho perduto e a far riaprire gli occhi al Sommo Ade.»
«Sarà fatto» affermo deciso, rimanendo inflessibile, nonostante il suo abbraccio mi renda nervoso. Il calore che si libera da quella leggera stretta mi ridona l'umanità che pensavo di aver perduto con la mia rinascita.
«Dobbiamo liberarci di lei» afferma decisa al mio orecchio.
«Solo così Ade capirà quanti danni ha apportato quella ragazzina al nostro disegno perfetto.»
 Spalanco gli occhi sorpreso. Pandora intende uccidere l'incarnazione di Persefone? La sposa di Ade?
«Sarai con me anche in questo, vero?» mi chiede senza alcuna pretesa.
 Rimango in silenzio per una lunga serie di secondi. La mia risposta è concisa e lapidaria.
«Sì.»
«Molto bene, allora» dice soddisfatta, avvicinando il viso al mio. «Devo solo trovare un modo per farlo senza destare sospetti.»
Non ho mai ucciso una donna in vita mia. Non ho mai assassinato nessuno. Le mie vittime erano rivali sul campo di battaglia o consapevoli rei di crimini e mancanze. Persefone, la nobile Persefone, non ha mai agito contro di me, ma non posso mettere in dubbio le parole di Pandora. Che motivo avrebbe lei, la sorella di Ade, di arrecare danno al Sommo Ade? La nobile Pandora non è una donna che può cadere preda di emozioni stolte come la gelosia o il desiderio di primeggiare, perciò solo una causa giusta può muovere le sue azioni.
È la collera a muovere i passi del nostro Dio che, appena tornato nella Giudecca, maledice Atena e il suo potere nonché la massa di uomini stolti che la seguono e rischiano la vita per lei. Dei Tre Giudici sono stato chiamato soltanto io ad accoglierlo e questo mi preoccupa, perciò rimango in silenzio, qui, nella sala delle udienze, con il capo chino, inginocchiato di fronte al trono, in attesa che Ade si plachi e mi riferisca ciò che deve.
Persefone è immancabilmente al suo fianco, quando il leggero velo che separa il luogo delle udienze dal trono si solleva. I loro sguardi sono gelidi sul mio. Sembrano volermi schiacciare.
«Sono profondamente deluso dalla tua condotta, Radamante.» esordisce il dio.
«Per quale motivo?» chiedo.
«Fa silenzio!» ordina, alzando la voce. «Klesos è stato un completo fallimento. Dovevi sterminare un piccolo gruppo di Cavalieri, rintracciare Asclepio e dare supporto a Laocoonte, invece non sei riuscito a uccidere nemmeno il moccioso più giovane.»
«Chiedo venia, vostra maestà. Non potevo sapere che i Cavalieri d'Oro fossero così coriacei e soprattutto non potevo contare che Atena fosse a così poca distanza da Klesos. Nessuno, nemmeno i Cavalieri che ho incontrato, sapeva che la dea avrebbe cercato Asclepio. E poi...»
Sollevo il capo e cerco lo sguardo di Ade.
«Avrei di sicuro rimediato se mi fosse stato concesso di combattere ad Atene. La vostra consorte ha preferito circondarsi di Spectre di infimo livello piuttosto che appellarsi a noi. Perdonatemi, ma sono convinto che non abbia le stesse competenze di Pandora nella gestione delle nostre forze.»
Sono lesto a chinare di nuovo il capo, pronto a ricevere severe parole dal Dio.
«Sono parole dure, specialmente se espresse da uno sconfitto» si limita a dire con tono pacato e questo mi stupisce.
Sento il rumore di passi leggeri provenire dalla scalinata. Sollevo lo sguardo sulla figura della giovanissima Persefone che mi rivolge ora uno sguardo comprensivo.
«Ho scelto di preservare l'immane potere dei Tre Giudici, visto e considerato che a nulla sarebbe servito il vostro intervento in un terreno così ostile. Devi scusarmi, nobile Radamante, ma né io, nel mio sposo, abbiamo intenzione di sprecare le vite di preziosi Spectre. Pandora vuole invece mandarvi al macello. Per lei, sacrificarvi non comporta alcun dolore.»
 Piega un braccio e con una delle lunghe unghie della mano ferisce il palmo, lasciando scivolare il sangue scarlatto fino al dorso, verso il mio capo. Il vigore perduto nella precedente battaglia, esattamente come le parti lesionate della mia Surplice ritornano al loro posto, lasciandomi senza fiato.
«Noi siamo gli inferi. Questo luogo è il nostro corpo, i suoi fiumi sono il nostro sangue e i guerrieri che ci hanno offerto i propri servigi sono la nostra forza. Perdere anche solo uno di voi è una ferita troppo grande da sopportare.»
È rassicurante la sua vicinanza, come la carezza di una madre. Per un istante soltanto, il volto di Persefone sembra molto più adulto rispetto alla realtà.
«Anche se nell'ultima missione mi hai deluso, ho deciso di darti una seconda opportunità. Sei fedele e nonostante le carenze, non meriti l'esclusione. Ho nuovi ordini per te, Radamante» Ade richiama la mia attenzione. «Asclepio ha deciso di schierarsi con Atena. Non ci si poteva aspettare altro da quell'eremita traditore. Ares è imprigionato all'interno del Grande Tempio. Anche se cercherò di tirarlo dalla mia parte, non potrei mai fidarmi di un pazzo come lui. I suoi unici interessi sono il sangue, il potere e le donne. Zeus è contrario al mio piano, visto che anche se in maniera piuttosto distaccata, continua ad amare il genere umano. Non riceverò niente nemmeno da lui, ma c'è un dio che detesta Atena e il genere umano. Mio fratello Poseidone, confinato dalla dea nel suo regno sottomarino, non vede l'ora di riemergere e vendicarsi. È un tipo molto solitario, però possiamo fare leva sul suo rancore. Il tuo dovere sarà quello di raccogliere il suo consenso, in altre parole, convincerlo in un modo o nell'altro.»
«Sarà fatto, mio signore. Datemi i dettagli della missione e tornerò vincitore questa volta.»
«Ho già avuto modo di affidare tutto a Minosse. Partirai assieme a lui e Eaco.»
Io, Minosse e Eaco insieme per un'unica missione vagamente diplomatica? Che ne sarà delle difese del regno dei morti?
«Ma così... Gli inferi rimarranno sguarniti.»
«È il mio ordine Radamante, qualcosa che non può essere discusso in alcun modo.»
 Non posso replicare, perciò non mi rimane che alzarmi in piedi e congedarmi, rassicurando il mio signore ancora una volta sul buon esito della futura missione. Sono confuso e perplesso. Il comportamento della nobile Persefone non lascia spazio a dubbi, non mi è ostile, eppure non posso fare a meno di dar più valore alle parole di Pandora. Ho sempre diffidato della troppa benevolenza: di solito nasconde sempre un secondo fine.
C'è una nota stonata in Persefone e devo scoprire quale sia prima di lasciare il palazzo di Ade. Mi ritiro all'interno dei miei alloggi e lentamente mi privo del peso dell'armatura. L'aria fredda del grembo profondo degli inferi mi fa rabbrividire nel momento in cui mi siedo al mio seggio di pietra. Il silenzio assoluto prova a guidarmi verso un sonno profondo, ma non ci riesce. Sento la presenza di qualcuno all'interno delle mie stanze. Non mi sposto, non apro gli occhi. Qualcuno si nasconde nelle ombre della notte perenne di Giudecca. Gelido è il soffio che mi accarezza il collo. C'è qualcuno dietro di me. È un Cosmo freddo e oscuro, come le profondità del Tartaro. Odo il sibilo di un serpente. No, non è uno solo, sono tanti, tantissimi. Decido di non aprire gli occhi, nemmeno quando lo spostamento d'aria di fronte al viso mi parla di qualcosa che ha tentato di colpirmi. Balzo in aria spingendomi con le braccia e la schiena. Richiamo l'ausilio della mia Surplice che impiega qualche secondo a rivestire il mio corpo e plano con tutta la calma possibile a pochi metri dal seggio di pietra.
«Quello che si dice di te è vero, Giudice»  afferma la voce sibilante della creatura che ha tentato di uccidermi. Il mio Cosmo dipinge nella mente la figura mostruosa di un essere con il capo e il busto di donna e il resto del corpo a forma di serpente. Scaglie metalliche coprono le spire che tentano di avvolgersi attorno a me. Non ha capelli in testa ma decine di serpenti che sibilano contro di me. I suoi occhi non hanno né iride né pupilla. La figura contorta di questa strana creatura si fa nebulosa, dai contorni incerti. Sono costretto ad aprire gli occhi per capire chi diavolo mi sta di fronte. Non vedo nessuno, ma sento il rumore di qualcosa che si sposta, dei sussurri, del respiro. Avverto un dolore intenso all'altezza dello zigomo destro, seguito dal calore di un rivolo di sangue.
Le fiamme violacee delle fiaccole che illuminano l'ampia stanza proiettano strane ombre a terra. Le vedo contorcersi e allungarsi in maniera innaturale.
«Radamante...» mi chiama. «Voltati.»
  Lo scudo appeso alla parete di pietra come inutile orpello, riflette il viso di una donna dagli occhi privi di iride e pupilla. È alta, molto più di me, una vera e propria gigantessa, ma i lunghi capelli scuri non hanno nulla a che fare con i serpenti. Indossa un pesante copricapo di metallo nero, simile a quello di cui sono fatte le Surplici.
«Radamante» insiste. Chiudo gli occhi di nuovo. Anche se la visione che ottengo attraverso il Cosmo è confusa, ho deciso di fare affidamento solo su di essa. Tenere le palpebre aperte mi rende i movimenti più difficili, le membra più appesantite. Non so che tipo di magia utilizzi questa donna, ma sono dell'idea che il suo modo di combattere si basi sulla sua  capacità di agire sulla mente attraverso la vista. Una fitta dolorosa mi sconvolge il petto, come se una lama l'avesse trapassato. Porto lì la mano sinistra ma non sento il calore del sangue. Non sono stato ferito. L'armatura non ha subito danni, eppure il dolore c'è forte e chiaro. Lunghe e gelide dita sfiorano la mia guancia offesa.
«Apri gli occhi. Davvero non vuoi vedere il viso di chi ti toglierà la vita?»
«Togliermi la vita…» dico, curvando appena le labbra in un sorriso. Lascio che il mio Cosmo oscuro e freddo si espanda e si concentri all'interno del palmo della mano destra.
«Come se fosse facile!» grido mentre sposto la mano in avanti e rilascio di colpo tutto il potere accumulato. I miei sensi percepiscono il suo allontanamento che non è minimamente paragonabile alle mie aspettative. Ho messo solo qualche metro tra me e lei.
«Lo è, Giudice, e te lo dimostrerò!»
 Il rumore metallico di lame sguainate precede il loro impatto con la pavimentazione liscia e lucida della mia casa. Sono artigli? No...semplici parti dell'armatura indossata da questo colosso femminile. Mi salvo balzando all'indietro e planando con grazia a pochi metri dal colpo mancato. Distendo le braccia e provo a caricare un Castigo Infernale degno di questo nome. La velocità del mio nemico mi concede poco tempo che mi porta a un risultato mediocre. I miei pugni non hanno scalfito la corazza che riveste il corpo massiccio della mia avversaria. Com'è possibile? Nemmeno i Cavalieri d'Oro hanno resistito il mio colpo.
La sento avvicinarsi, veloce e decisa. Non mi faccio cogliere impreparato. Schivo un suo pugno e cerco di contrattaccare contro uno dei miei. Entrambi ci muoviamo alla velocità della luce. Questo mostro non è umano, non sembra avere punti deboli.
Vengo respinto violentemente, ma freno la caduta puntando i piedi a terra con così tanta forza da produrre una spaccatura nel pavimento.
«Chi sei?» chiedo, pacato. «E che cosa vuoi da me?»
«Mi chiamo Steno ed è l'unica cosa che devi sapere, Giudice. Non ti servirà altro, visto che a breve entrerai a far parte dei dannati.»
Un forte Cosmo la circonda. È gelido e ampio, più del mio. Le sue mani sono distese. Una è rivolta verso il basso e l'altra verso il soffitto, così che il potere fluisca dalla punta delle dita fino alla suola degli stivali di metallo sotto forma di agili scariche. Lo spostamento d'aria mi frusta il viso, togliendomi il respiro. Lei ride, divertita.
«Ha paura, vero? Ti sei reso conto che posso schiacciati come un verme? Eh?»
 Le sue braccia si distendono in avanti e l'energia che ha accumulato si incanala verso di me. Non è un colpo di puro Cosmo, no, è lei che si sposta. Ebbene, non attenderò l'impatto che sicuramente sarà atroce, per questo scatto verso di lei, accelerando lo spostamento con l'aiuto delle ali della Viverna.
«La paura ti ha reso folle?» mi irride, dopo avermi colpito e scheggiato il voluminoso coprispalle. Non ha ancora capito che...
«La mia miglior difesa è questo attacco.»
 Caricato di tutta la mia velocità e del mio Cosmo, il pugno destro scheggia la corazza, affonda fino a contorcerla all'altezza del suo petto. Vengo respinto prima che possa farle un danno serio, così duramente da finire a terra di schiena. Il metallo delle ali fa scintille contro la pavimentazione irregolare. Una delle mie palpebre si solleva e una pesante sensazione di oppressione mi pervade. Sento la pelle del braccio destro diventare rigida e fredda come il marmo. Sono lesto a chiudere di nuovo gli occhi, ma non riesco a rialzarmi subito. I pesanti passi della mia nemica si fanno sempre più vicini. Se mi raggiunge sono finito, a meno che io non riesca a respingerla con il Castigo Infernale lanciato dalla mia sola mano sinistra.
«Castigo...»
«Illusione Galattica!» mi interrompe la voce di Eaco. Percepisco la vicinanza e la gelida sua ombra che si distende a mia difesa. L'avanzata della gigantessa viene bruscamente interrotta.
«Sei già morta, Gorgone» afferma soddisfatto.
«Gorgone? La conosci, Eaco?»chiedo, mentre a fatica mi rialzo.
«Sì»  mi risponde. «Ho già avuto a che fare con queste creature.»
 Raggiungo il suo fianco, mentre con tocco esitante sfioro il mio braccio di pietra. Dannazione, sono appesantito e storpio.
«Adesso puoi riaprire gli occhi, Radamante, e osservare la rovina della tua avversaria.»
 Sono reticente a seguire l'invito di Eaco, perché non mi fido di lui.
«I miei occhi!» grida Steno. Avverto il suo movimento e l'odore del suo sangue. È sconfitta: mi suggerisce il mio sesto senso. Apro gli occhi e vedo la gigantessa con un foro all'altezza del cuore. Vedo il sangue colare a grumi assieme alla carne compressa in quello spazio vuoto. Al posto degli occhi ci sono due orbite vuote, rivestite da un pesante strato di pietra. Gli occhi del Garuda, a decine sospesi attorno a lei come pallida illusione, hanno riflesso il potere paralizzante del suo sguardo.
«Anche senza il mio intervento sarebbe finita lo stesso. Il colpo al cuore glielo hai dato tu poco fa, fratello.»
 Preferirei che Eaco non mi chiamasse in quel modo. Io riconosco un solo fratello e il suo nome è Minosse.
I movimenti di Steno sembrano voler contraddire Eaco. Si dimena come se volesse reagire alla paralisi del suo enorme corpo moribondo. Cala un pugno verso Eaco dopo averlo maledetto con un grido, ma né io né lui ci spostiamo. Il titanico braccio della donna viene stretto nella morsa di leggeri e sottili fili di Cosmo.
«È sempre bene chiudere le questioni, completamente» afferma pacata e divertita la voce di Minosse.
Tanto io che Eaco chiamiamo sorpresi il suo nome mentre lo vediamo camminare tranquillo verso di noi. I fili hanno catturato completamente il gigantesco corpo di Steno e lo hanno sollevato da terra. Quando mio fratello si ferma, alza le mani e muove le dita collegate ai fili per inclinare e contorcere gli arti della Gorgone in maniera innaturale.
«E questo vuol dire divertirsi fino alla fine. Godersi fino all'ultimo grido» continua, mentre rivolge il palmo della mano destra verso l'alto. Le gambe di Steno sono piegate, esattamente come le braccia, al contrario di come l'articolazione concedeva. Immagino sia morta, visto che dalle sue labbra non esce lamento. Bruscamente Minosse piega l'indice destro verso l’alto e il filo stretto al collo di Steno si tende bruscamente. La donna rilascia l'ultimo lamento prima che l'osso rotto del collo produca il fastidioso rumore.
«Una bambola rotta non serve più a niente. Immagino che ci vorrà un po’ a pulire. Chiamerò la servitù non appena uscirò dalla tua casa, se non ti dispiace.»
 I fili si ritraggono lentamente e lasciano cadere il cadavere della Gorgone a terra.
«Chi era questa creatura?» chiedo, mentre inizio a muovere le dita della mano destra. Stanno ritornando al loro stato normale.
«Le Gorgoni sono tre...o meglio, erano. Steno, Euriale e la loro regina Medusa. Raramente si sono spinte fuori dagli inferi, ma quando lo hanno fatto hanno provato ad attaccare l'isola di Egina su ordine di Era» spiega Minosse. «Ecco perché Eaco le conosce già.»
«Vanto del merito di aver staccato un occhio a Euriale, sorella di questa sventurata e della Medusa, decapitata da Perseo, uno dei tanti guerrieri di Atena» sottolinea Eaco.
«Se era una creatura degli inferi...» chiedo io, più a me stesso che a loro. «Come mai Steno  ha attaccato me, che sono uno dei tre Giudici?»
 Minosse rimuove l'elmo dal capo.
«Sicuramente qualcuno qui, negli inferi, ti vuole morto. Non è difficile immaginare chi» insinua.
«Che intendi, fratello?»
«Chi è piena di rancore per colpa degli ultimi sviluppi?» risponde con una domanda.
«Pandora? No. Lei non farebbe mai una cosa del genere, non a me» replico di getto, suscitando l'ilarità degli altri due.
«Non c'è niente da ridere» ringhio a denti stretti.  «Ha sempre avuto piena fiducia in me, in noi e insieme abbiamo creato l'esercito di Ade.»
«Non ti sarai mica illuso che lei provi affetto nei tuoi confronti» mi irride Minosse.
«No. Ovviamente no. L'affetto è un sentimento che non conosco e non apprezzo.»
Minosse solleva un sopracciglio tanto per farmi sapere che non è affatto convinto delle mie parole. Cambia subito discorso mentre io osservo con attenzione il cadavere esanime di Steno, in modo da sfuggire al suo sguardo.
«Io e Eaco eravamo nei paraggi per informarti dei dettagli sulla partenza verso il regno di Poseidone. Non sarà facile trovare un accesso al suo tempio sottomarino. Dicono che i suoi generali controllino gli accessi e quegli uomini siano dotati di poteri simili a quelli dei Cavalieri d'Oro. Ma il problema non risiede in questo. È proprio il luogo in cui si trova il tempio a essere sconosciuto. Dovremo perdere tempo a cercarlo» spiega Minosse.
«Quando lasceremo la Giudecca?» chiedo bruscamente.
«Dopodomani.»
«E per tutto questo tempo gli inferi resteranno sguarniti» commento.
«No, ci saranno Ade e Persefone a prendersi cura del loro regno e se qualcosa dovesse andare storto...Eaco ha occhi ovunque.»
«Esatto, fratello. Non succede niente negli inferi che io non sappia. Gli Spectre della mia schiera possono tenermi informato anche a distanza su ciò che accade qui. Nemmeno un granello di polvere si sposta senza che io ne venga a conoscenza. Ricorda che sono io a reggere la chiave delle porte degli inferi.»
«Da come parlate...sembra che temiate qualche evento infausto» ammetto.
«Il nostro è intuito. Solo questo» risponde Eaco, con un sorriso enigmatico che mi dà molto sa pensare. Che loro sappiano qualcosa che non mi è noto?
 Dopo aver ricevuto gli ultimi dettagli sul futuro viaggio, chiedo ai miei fratelli di lasciarmi solo. Degli Spectre minori mi liberano dalla presenza scomoda dei resti della Gorgone. L'odore del suo sangue impregna ancora il pavimento che ha corroso come acido. Sono costretto a lasciare le mie stanze -detesto che siano sporche e rovinate, per rifugiarmi all'interno dell'anticamera. È piccola e scura, silenziosa come il resto del palazzo. La luce delle fiaccole qui è meno insistente, illumina appena il contorno delle cose. Sagome nel buio, accennate, mi fanno riflettere su quanto poco so di questo mondo e di me stesso. Sono facile da raggirare, esattamente come un bambino. Non capisco perché io mi senta così deluso nel ripensare a Pandora, alle sue parole e a quelle di Minosse. È possibile che mi abbia mentito? Che in realtà voglia liberarsi di me come di Persefone? Per quale motivo?
Rido di me stesso, della mia ingenuità, mentre porto alle labbra la coppa d'oro riempita di vino pregiato.
Qui negli inferi tutte le bassezze, le menzogne sono possibili. Noi Giudici esistiamo apposta per scovarle e distruggerle. Devo guardarmi da chiunque, anche da colei che mi ha strappato dall'agonia della sconfitta. Devo trascurare il suo pensiero, considerarla un dettaglio minuscolo vicino alla grandezza del mio signore. Devo, ma non ci riesco, per quanto mi illuda, la nobile Pandora continua a possedere parte dei miei pensieri. La sorte mi grazia, poiché non la incontro fino alla partenza dalla Giudecca. Il suo sguardo mi segue da lontano durante il mio congedo da Ade. Leggo timore riflesso sul fondo delle iridi. Che cosa temete, che cosa volete dirmi, nobile Pandora? Sono le domande che ridondanti accompagnano la mia partenza. Per la prima volta sono reticente a dare le spalle alla silenziosa corte del Dio dei Morti. 

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Capitolo 7
*** Capitolo VII ***


INAZUMA

 
È pesante, quasi mi toglie il respiro, ma non devo assolutamente cedere al suo peso. Sono esausto ma felice. Ce l'ho fatta. Ho conquistato l'armatura di Pegasus vincendo l'ultimo scontro contro il mio maestro. Il nobile Angelòs ha testato le mie abilità, saggiato la mia volontà portando a termine l'ultima fase dell'allenamento.
Ovviamente non ho sconfitto il Cavaliere del Sagittario, ma ho mandato a segno un unico colpo e l'ho privato della maschera che gli difendeva la fronte. A detta del mio maestro e del Grande Sacerdote, questo è un risultato più che buono per  un degno Cavaliere di Bronzo.
Il ragazzino che è arrivato ad Atene più di due anni fa è diventato un giovane uomo, esattamente come Rhadia, Nikanor, Ertemios, Makarios ed Esperante. Proprio come loro, la mia voce è cambiata, come mutato è il mio modo di vedere le cose. È incredibile quanto il Grande Tempio mi abbia fatto crescere in fretta. La sua ricostruzione ha impiegato più di un anno e tutte le forze sopravvissute al possente attacco di Ade. Tante cose sono cambiate da allora e una di queste è lo sguardo di Eirene. L'ho vista abbandonare la fanciullezza e divenire donna. Il suo sorriso si è spento, poco a poco, riducendosi ad appena percettibile curva delle sue labbra. Anche ora che, esultante, le mostro il mio successo, mi guarda come se fosse lontana e distratta. Durante tutto questo tempo ho provato ad avvicinarla, ma lei mi ha sempre respinto ed evitato come se mi temesse.
Questo pensiero riesce a rattristare anche il meraviglioso giorno di giubilo che dovrei vivere. Indosso l'armatura di Pegasus, finalmente, eppure sembra che a lei, in piedi sul posto d'onore della gradinata, non importi niente.
Dopo una piccola festa assieme a Rhadia e gli altri che hanno ottenuto l'investitura di Bronzo, decido di passare a salutare mia sorella. Lei non ha potuto assistere alla cerimonia e questo mi è dispiaciuto. Mio padre, al contrario, ha seguito ogni mio gesto con un sorriso deciso sulle labbra. Era sicuro che ci sarei riuscito e quello che è accaduto non ha fatto che confermare le sue aspettative.
Discretamente mi sono congedato dagli altri e ho mosso i miei passi verso il campo di addestramento femminile. Le sentinelle alle sue porte chiudono sempre un occhio quando passo a far visita a Sarya e oggi non fa differenza. Anzi, uno di loro si complimenta con me per l'armatura che indosso, nutrendo a dismisura il mio ego. Tronfio come se fossi uno dei Dodici, mi faccio strada fino alla piccola arena, rivestita da una leggera coltre di ghiaccio battuto. Le grida di fanciulle intente a combattere sovrastano il parlare pacato ma deciso della voce di mia sorella.
«Così non va bene, ragazze. Siete troppo impetuose. Dovete fare attenzione a non abbassare mai la guardia. L'attacco non è tutto.»
Le sue allieve sono poco più che ragazzine, molto più giovani di me. Nonostante tremino dal freddo, continuano ad affrontare l'inverno con leggeri abiti di lino.
Quando Sarya si volta verso di me la saluto con un cenno della mano e mi allontano in direzione dei dormitori. Mi nascondo in un punto in ombra e, dopo aver allontanato un piccolo strato di neve dal muretto grezzo, mi siedo. Passo qualche istante a fissare il bracciale sinistro dell'armatura che si è perfettamente adattato al mio braccio. Mi piace la lucentezza  che emana dalla sua magica superficie.
L'impatto di una palla di neve contro il mio capo mi fa sorridere. Questa dinamica era tipica di ogni inverno sul monte Eta.  Porto l’attenzione dello sguardo su colei che me l'ha lanciata.
«Non ti perdonerò stavolta» affermo ridendo e accumulando neve all'interno delle mie mani. Non ho tempo di lanciare la palla appena creata verso Sarya che altra neve si spalma sul mio viso.
«Sono sempre io la più veloce, Cavaliere di Pegasus. In guardia!»
Mi vendico, colpendola a una spalla con una pallina di neve morbida.
«Tentavi di deconcentrarmi eh?» le dico, con un sorriso, dopodiché lascio che mi venga incontro e mi abbracci. La stringo a mia volta, affondando il viso sulla sua spalla.
«Sapevo che ce l'avresti fatta, anche se temevo che questa vita non facesse per te» confessa, mentre mi accarezza la schiena.
«All'inizio ero dello stesso avviso, lo ammetto, ma poi è cambiato tutto: ho trovato uno scopo.»
«Ah…» afferma con un tono strano. So benissimo che cosa sta per dirmi, perciò prevengo le sue parole con le mie.
«Non è per lei. Sì, cioè, è per lei, ma non nel modo che pensi tu» affermo, vistosamente in difficoltà. Le guance si arrossano e scottano nonostante la bassa temperatura.
L’ abbraccio si scioglie e una sua mano si sposta sulla maschera.  La rimuove per mostrarmi il suo sorriso convinto.
«Non puoi nascondermi niente, come io non posso farlo con te. Dovresti essere al settimo cielo con il successo che hai appena ottenuto, eppure sembri distratto e preoccupato.»
 Mi volto e dopo aver rimosso l'elmo dal capo, pettino i miei folti capelli con le dita, li tiro all'indietro.
 «Te l'ho già detto, Sarya. Negli ultimi tempi Eirene sembra non voler incrociare il mio sguardo. Sfugge come acqua dalle dita. E...lo fa solo con me.»
Appoggio la schiena contro il muro e alzo lo sguardo al cielo. Le nuvole si stanno addensando: forse anticipano una nevicata.
«In quanto Atena, Eirene ha il peso della salvezza del mondo sulle spalle. È probabile che sappia più di quanto ci ha detto e che ci sia qualcosa che la rende inquieta.»
«Ma perché prendere le distanze solo da me?» chiedo confuso.
«Io ho un'idea, ma è meglio che tu glielo chieda direttamente.»
«Non posso...» schiocco la lingua contro il palato. «Non posso raggiungere le sue stanze. I Cavalieri di Bronzo non hanno diritto di superare le Dodici Case e io non ho un permesso.»
Mia sorella sbuffa e dopo essersi data uno sguardo attorno, sistema la maschera sul viso.
«Scuse, banali scuse. Ci sono persone che scendono fino all'inferno per vedere la persona a cui hanno donato il proprio cuore.»
«Ma...» provo a contestare. Vorrei dirle che io non sono innamorato di Eirene, che la mia è solo impareggiabile fedeltà ma mentirei e non posso farlo con Sarya. Preferisco portare il discorso altrove.
«Stai parlando di Orfeo della Lira?»
«Sì» annuisce. «Nessuno l'ha più visto dall'attacco di Ade. Si dice che la dea Persefone gli abbia concesso di vedere l'amata defunta in cambio della sua fedeltà.»
«Ma lui... è Cavaliere d'Atena! Per nulla al mondo avrebbe dovuto compiere un atto di tale empietà.»
 Sarya non mi risponde. Ha il viso rivolto verso l'incedere di un'altra donna. Ella indossa un'armatura viola e una maschera truce. I suoi capelli bianchi scendono ribelli fino alla vita. Il suo Cosmo è ampio e trasmette angoscia.
«Chi è quella? Non l'ho mai vista in giro» chiedo sottovoce a mia sorella.
«Lei è Ecate, Cavaliere d'Argento del Serpentario. Abbiamo ricevuto l'investitura assieme, ma da diversi mesi a malapena ci rivolgiamo la parola.»
Rimetto l'elmo e dopo essermi allontanato dalla parete, assesto un debole calcio alla neve.
«Ho smesso di cercare di capire gli altri» affermo distratto. Mi stiracchio e mi lascio andare a uno sbadiglio. La maschera argentea di Ecate è rivolta verso di me e mi mette in imbarazzo.
«Forse è meglio che me ne vada. Non voglio crearti problemi.»
Sarya scuote il capo.
«Non è quel tipo di persona. Anche se è cambiata parecchio...è sempre stata insofferente alla regola che vieta l'accesso ai maschi in questo luogo.»
Vedo Ecate voltarsi e proseguire il suo cammino chissà per dove. I suoi movimenti sono incerti, come se non avesse una vera e propria direzione. Sarya stringe un mio braccio e mi scuote per attirare la mia attenzione.
«Lei!» afferma.
«Lei, cosa?» chiedo stupito e confuso.
«Lei potrebbe aiutarti a raggiungere Eirene e attraversare le Dodici Case.»
  La guardo stranito. Non mi aspettavo una frase del genere dopo quello che mi ha detto sul conto di Ecate.
«Ma...»
  - Lei ha accesso alle stanze di Atena, in quanto sua fidata amica. La dea stessa le ha accordato il permesso. Potresti chiedere a lei...anzi, potremmo farlo insieme visto che muoio dalla voglia di parlarle.»
Mi lascio andare a un profondo sospiro e rimango in silenzio per qualche secondo, dopodiché annuisco. So che sto per mettermi in un bel guaio, disobbedendo agli ordini dei miei superiori, ma la voglia di confrontarmi con Eirene supera ogni esitazione. Scendere a patti con Ecate del Serpentario? Va bene. Si può fare. Niente è impossibile per un Cavaliere, perlomeno è quello che dice mio padre.
«Perfetto. Seguimi, allora» mi invita Sarya, mentre si avvia a passo spedito verso Ecate. Sono titubante e impacciato, ma alla fine le do ascolto, anche se resto a qualche passo di distanza dalla sconosciuta. Da vicino, la presenza di Ecate è ancora più gelida e capace di mettermi a disagio.
«Come posso esserti utile?» chiede gelida a Sarya.
«È da tanto che non parliamo» mia sorella prova a iniziare una conversazione.
«Lo so, difatti continuo a non avere niente da dirti. E ora se vuoi scusarmi...» la interrompe Ecate, bruscamente, per poi voltarsi e allontanarsi a veloci passi.
«Ho bisogno d'aiuto, Ecate!» grida Sarya, costringendo i passi dell'altra a fermarsi.
«Mi devi un favore, ricordi?» continua.
Il respiro di Ecate si infrange rumoroso contro la maschera.
«È vero e di solito non lascio nessun debito» afferma, prima di voltarsi verso di noi. «Che cosa vuoi che faccia per te?»
«Mio fratello deve raggiungere le sale di Atena, deve parlare con lei» spiega Sarya tutto a un fiato.
«Devo fissargli un'udienza?» chiede l'altra gelida.
«No. È un altro genere di incontro.»
Dopo una lunga manciata di secondi in cui il silenzio ha reso ancor più gelido il vento, sento Ecate ridere anche se debolmente.
«Capisco, ho già sentito parlare di questa storia.»
«Da chi?» la interrompo, preoccupato. Mi risponde scuotendo il capo e incrociando le braccia al petto.
«Lo scoprirai da solo.»
  Con un cenno della testa mi invita a seguirla e mia sorella mi spinge a farlo, posandomi una mano sulla spalla.
«Grazie, Ecate» afferma, prima di congedarsi da me. Il Cavaliere del Serpentario non risponde se non con un cenno della mano, che la invita a lasciar perdere. Insieme saliamo parte della scalinata che porta alle Dodici Case. I nobili guardiani ci lasciano passare senza porci troppe domande. Solo Esperante, nella Casa del Leone mi ferma per quasi venti minuti. Mi è dispiaciuto non poter condividere con lui l'euforia di aver conquistato il titolo di Cavaliere di Bronzo, ma ora più che mai la differenza tra il nostro potere tende a separarci. I suoi compiti sono molto più solenni e ardui dei miei, tuttavia non lo hanno cambiato è sempre un buonissimo amico. È lui, dopo avermi preso da parte, che mi mette in guardia su Ecate.
«Quella donna ha fatto insospettire mio fratello. Nonostante la vicinanza ad Atena, si vocifera che non abbia mai rinunciato totalmente alla devozione ad Ares dio della Guerra e della Violenza» confessa sottovoce guardandosi attorno.
«Ares?» ripeto io.
«Parla piano, Inazuma! Possibile che non impari mai?»
Mi tappo la bocca e annuisco.
«Sì, Ares rinato in Castore, Cavaliere dei Gemelli. Si dice che lui avesse una storia con Ecate.»
«Storia?»
Esperante si preme una mano sul viso e sospira.
«Un uomo e una donna che…Hai capito?»
«Davvero? Quindi possiamo dire che Ecate è innamorata di Ares» deduco. «Un bel guaio.»
«Già… e la cosa che più spaventa il Grande Tempio è che lei…»
«Con tutto il rispetto, sarebbe bene che piuttosto di farci perdere tempo, Esperante del Leone, svolgeste il vostro compito di guardiano. A meno che la Quinta Casa non sappia difendersi con le chiacchiere» lo interrompe bruscamente Ecate. Lui non fa che voltarsi e sollevare un pugno.
«Forse non sai chi hai di fronte, Cavaliere d'Argento» afferma sorridendo. «Vuoi che ti parli del divario che c’è tra noi sia da un punto di vista di forza che gerarchico?»
«Non serve. Siete forte e indubbiamente superiore a me. Ho ben altri scopi piuttosto che arrischiarmi in una battaglia persa in partenza. Il mio era soltanto un consiglio, visto che i vostri pettegolezzi non sono d’alcuna utilità alla causa di Atena. Con questo non pretendo di ottenere nulla da voi, se non il permesso di passare» afferma Ecate senza dare tono alle sue parole, come se fossero scritte da qualche parte e le stesse leggendo. Questa donna mi trasmette una profonda sensazione di vuoto.
Esperante rivolge un veloce sguardo a me e annuisce.
«E sia» concede a denti stretti. L'intuito del mio migliore amico non ci ha mai traditi e i sospetti di Angelòs hanno sempre fondamento, ma Sarya non mi ha detto niente di strano su di lei. Il fatto che sia innamorata di un uomo pericoloso non la rende una traditrice. Le parole che mi ha detto mia sorella e il ricordo di Orfeo della Lira, però, mi parlano del contrario. Per amore gli uomini e le donne potrebbero fare di tutto, anche scendere all’inferno.
 La tengo sott'occhio mentre proseguiamo sul nostro cammino. Gli altri Cavalieri d’Oro ci lasciano passare senza battere ciglio. Noto una stranezza soltanto in Narciso, il Cavaliere dei Pesci, che addirittura decide di scortarci fino alle stanze del Grande Sacerdote. Proprio come me, il guardiano della Dodicesima Casa, non toglie gli occhi di dosso a Ecate. Che condivida gli stessi dubbi di Esperante? Vorrei chiederglielo, però Narciso è un uomo enigmatico. Il suo viso non esprime niente se non statico stoicismo.
Ci fermiamo a pochi passi dall'entrata dell'ultimo palazzo e il Cavaliere d'Argento si volge verso di me.
«Aggira il palazzo del Grande Sacerdote. La piccola scalinata a destra. Sali e la troverai» dice a voce bassa sotto lo sguardo vigile del Cavaliere dei Pesci. Lo sguardo algido di Narciso si sposta in direzione delle indicazioni di Ecate e finalmente vedo le sue labbra curvarsi in un sorriso convinto.
«Grazie» dico impacciato. Le guance mi scottano come se fossero state toccate dal sole estivo. Questa donna non è malvagia, non può esserlo, perché me ne accorgerei.
«A buon rendere, Cavaliere di Bronzo» afferma Ecate. Il suo tono di voce è tutt'altro che gelido, adesso. Non so cosa darei per vedere la sua espressione, invece devo accontentarmi del calore di quell’esortazione.
Trovo il sentiero che mi ha indicato e inizio a salire anche se la scalinata a strapiombo sul fianco della montagna suscita in me un più che giusto spavento. Si sta quasi facendo sera e l'ululato del vento trasmette una sensazione ancora più terrificante del solito. Ah! Smettila, Inazuma! Sei un Cavaliere, mi dico, queste scale sono una bazzecola di fronte ai pericoli che hai affrontato e che affronterai.
Arrivato alla sommità, perdo qualche secondo per guardarmi intorno. Sarà anche pericoloso arrampicarsi fin quassù, però il panorama è assolutamente suggestivo.
Il sole è già sceso dietro l'orizzonte e le prime stelle fanno capolino dall'algido cielo. Il mio respiro si condensa non appena esce dalle labbra. Appartengo al firmamento come a questa terra, sono un prodigio degli dei come tutti coloro che vivono su questo sacro suolo. Siamo stati forgiati da vite diverse ma ci siamo uniti sotto un mare di stelle. Il vento mi porta voci lontane, sconosciute e note. È come se da qui potessi vedere ogni cosa, se potessi indagare ciascun angolo del mondo.
«Inazuma!» esclama la voce di Eirene alle mie spalle. «Come sei...arrivato fin qui?» chiede allarmata quando i nostri sguardi si incrociano.
«Qualcuno mi ha detto che ti trovavi quassù e...»
«Chi? Chi te lo ha detto?» chiede allarmata più che infastidita.
«Non faccio mai la spia» affermo con un sorriso, indicando il rinforzo metallico che mi copre il petto.
«Sono un Cavaliere!»
Riesco a strapparle un sorriso che si esaurisce dopo pochissimo tempo.
«Nessun Cavaliere dovrebbe spingersi fin quassù. È vietato, visto che poco più avanti si trova l'Altura delle Stelle, luogo accessibile solo a me e al Grande Sacerdote» mi rimprovera. La sua voce è dura come l'espressione. Gli occhi verdi perforano i miei fino a ferirmi l'anima. È chiaro che tutta la strada che ho fatto per vederla non abbia portato a niente. Non sono il benvenuto al suo cospetto.
«Devo rispettare le regole, lo so, ma prima di tutto voglio sapere…»
«Che cosa vuoi sapere, Pegasus?»
  La prima cosa che Eirene mi ha chiesto era di chiamarla con il suo nome, piuttosto che Atena. Adesso è lei a mettere un abisso di distanza tra noi, a farmi capire qual è il mio posto, appellandosi a me con il nome della costellazione a cui appartengo. Io sono un Cavaliere e lei è l'incarnazione della dea Atena. Tutto il resto non conta, molto probabilmente non ha mai contato.
«Niente. Mi scuso soltanto per avervi importunato, Dea Atena. Ciò che un Cavaliere pensa non ha alcuna importanza» sentenzio, per poi voltarmi e serrare i denti, assieme ai pugni. Sono stato soltanto un povero illuso. Gli uomini e gli dei sono creature troppo diverse per guardarsi negli occhi e sentirsi vicine. Ritorno sui miei passi, quasi correndo. Lo sconforto mi mette le ali ai piedi.
«Inazuma...» afferma debole la sua voce. «Parlami, ti prego.»
«Non serve, Atena. Era solo uno stupido pensiero il mio, una preoccupazione insensata...»
 Bravo, sciocco. Menti e nasconditi.
«Tutto si è chiarito quando sono rimasto fermo a osservare il mondo da quassù. Gli esseri umani, anche i più fulgidi, sono piccolissimi se guardati dall'alto.»
 Fai del male a te e a lei, alla fine è così che deve essere. È l'ordine naturale. Le lacrime che le lucidano gli occhi non sono come le tue, forse non bruciano come quelle dei comuni mortali. Gli dei hanno cuori di ghiaccio per sopravvivere ai secoli.
«Ho pensato di essere diverso, di potervi guardare come se fossimo simili e di...»
Sorrido spavaldo, come un uomo vissuto e disilluso che è sicuro di sapere la verità arcana del mondo.
«Lasciate perdere questo inutile pensiero.»
Mi volto, deciso a non guardarmi più indietro e mi congedo con un saluto lapidario da lei dopo aver ascoltato a lungo il suo silenzio. Anche per lei è meglio così. Narciso e Ecate sono probabilmente nelle stanze del Grande Sacerdote. Bene, non importa, discenderò da solo. I Cavalieri d'Oro mi lasceranno di certo passare.
Mi fermo alla Casa del Leone per parlare con Esperante fino a notte inoltrata, momento in cui entrambi ci ritiriamo nei dormitori riservati ai Cavalieri. È la prima volta che mi trovo nello stesso stabile dei Dodici. Privi di armatura sembrano poco diversi da me. Siamo tutti uguali agli occhi degli dei; lo dico ancora una volta a Esperante, che rimane in silenzio. Non sa che rispondermi. È un amico troppo caro per dirmi brutalmente che era cosa risaputa. Oltre a mia sorella, lui è l'unico a sapere di ciò che significa Eirene per me.
«Ci mancherebbe che così non fosse, ragazzo» afferma la familiare voce profonda del Cavaliere del Toro. L'ho sempre guardato con ammirazione. La grande stella Aldebaran è una delle colonne portanti del Grande Tempio, uno dei guerrieri che l'ha visto  costruire, pietra per pietra. È una leggenda che ho sempre osservato da lontano.
I suoi occhi scuri guardano oltre la finestra aperta sulle rocce innevate.
«Ognuno di noi si è avvicinato ad Atena perché è stato benedetto dal suo potere benevolo. Siamo uomini e donne diversi, proveniamo da ogni angolo del mondo e ci siamo coalizzati sotto un'unica speranza.
 Perché dovremmo essere trattati in modo diverso dalla Dea?»
Il suo ragionamento è giusto, perciò decido di annuire e abbassare il capo. Quello che mi stupisce è che Aldebaran scoppia a ridere.
«Non crederai che sia davvero tutto qui, ragazzo.»
La sua ampia mano si posa tra i miei capelli ribelli. Il suo gesto mi stupisce.
«Ciò non cambia il fatto che anche lei provi sentimenti, esattamente come noi. Gli antichi miti la raccontano come nume gelido e inflessibile, ma la sua rinascita come umana le ha donato un cuore. Nessuna leggenda ha mai parlato di un'Atena che piange, eppure l'abbiamo vista soffrire per la nostra sorte. La vera benedizione di Atena sono proprio quelle lacrime, segno tangibile del suo affetto per noi. Qualsiasi cosa ti leghi a lei è preziosa esattamente come la tua lealtà. I tempi del mito sono lontani, Inazuma di Pegasus. Nemmeno gli immortali sono più gli stessi.»
Si allontana da me, raggiungendo la finestra. La neve ha ripreso a scendere silenziosa. Il suo moto è dolce e regolare, delicato. Mi placa e distrae il mio pensiero dall'angoscia e la tristezza. Mi lascia scivolare in un sonno pacifico e tranquillo.
Vengo svegliato dal dolce tepore che mi accarezza una mano. Sembra un delicato sfiorare, o forse è il bacio di un raggio di sole primaverile. Schiudo appena le palpebre e la luce mi ferisce gli occhi. Non è ancora giorno: la luminescenza che mi investe è un Cosmo splendente nella notte.
Mi ci vuole qualche istante perché i contorni di ciò che ho davanti si definiscano. Non credo a ciò che vedo. Che ci fa lei qui?
«Ei...Eirene?» mormoro. Lei porta l'indice a premere sulle labbra. Le sue mani scorrono lungo le mie braccia, mentre lei si china su di me. Avvicina il viso al mio senza mai interrompere il contatto tra i nostri sguardi.
Il cuore batte veloce, la bocca ancora impastata dal sonno recente non lascia uscire nemmeno una parola. Di riflesso porto la mano destra sulla nuca di lei e lascio scivolare le dita fino alla guancia. Eirene la comprime contro il palmo e libera un sospiro seguito subito da un singhiozzo.
«Che succede?» dico sottovoce. «Perché siete venuta fin qui, Atena?»
 Non mi risponde e adagia la testa sul mio petto. Passa le braccia sotto la schiena e stringe il tessuto rozzo della mia tunica.
«Eirene...continua a chiamarmi così. Tu devi farlo, ti prego» sussurra mentre mi stringe ancora più forte.
Pettino i lunghi e morbidi capelli con le dita e ascolto il suo respiro alterato che lentamente si placa. Sposto lo sguardo su Nikanor che dorme sul giaciglio accanto al mio. Immagino già il commento caustico che farebbe se si svegliasse in questo momento. Non mi andrebbe tanto meglio se lo facesse Rhadia che si trova dall'altra parte.
«Vieni con me, all'Altura delle Stelle, Inazuma» chiede lei sottovoce.
«Ma io...non posso…»
«Vieni con me.»
  Non vuole sentire ragioni e non sono abbastanza forte da continuare a contraddirla.
Si alza e a passo leggerissimo esce da questo spazio a lei interdetto. Nessun Cavaliere vorrebbe mostrarsi dormiente, scomposto e spettinato di fronte alla dea. A dire la verità non vorrei farlo nemmeno io, ma non ho il tempo fisico di darmi un contegno. Riesco appena a mettere i calzari ai piedi. Lei mi aspetta fuori, mi invita a raggiungerla con il cenno di una mano e un sorriso che mi toglie il fiato. Il sole non è ancora sorto, ma il cielo sta arrossendo come le mie guance, che nonostante il freddo, irradiano calore.
Una volta uscito, Eirene mi prende per mano e mi guida a salire per i Dodici Templi addormentati. Il silenzio è interrotto solo dal vento debole e dalle nostre parole.
Tutto questo mi ricorda i primi tempi che mi allenavo con Angelòs. Era un percorso troppo duro per un facilone come me e più tempo passava, più mi convincevo di non avere le carte in regola per seguirlo fino alla fine. Dopo l'ennesima giornata inconcludente ero andato a riposare le membra distrutte. Osservavo il cielo che piangeva pioggia, come se fosse l'unico a capirmi. I miei limiti alla fine erano mura insuperabili e i pugni che in quel momento osservavo, non avrebbero mai potuto abbatterli. Il dormitorio era ridotto a poco più di un edificio cadente. La pioggia cadeva anche all'interno, goccia per goccia, scandendo il tempo con il suo rumore fastidioso.
Non riuscivo ad addormentarmi, pieno di dubbi e pensieri, al contrario di Nikanor e gli altri che erano già nel regno di Morfeo da un bel pezzo.
La voce di Eirene aveva sovrastato il rumore dell'acqua che arrivava chiaro e severo dalla finestra aperta. Chiamava il mio nome, con il sorriso dipinto sulle labbra, mentre si sporgeva verso l'interno. Incredulo e preoccupato ero corso fuori senza nemmeno indossare i calzari per seguirla, lungo il tragitto che portava alla scalinata.
Quando stavo per raggiungerla, mi sfuggiva, incamminandosi verso i templi silenti. Eravamo più piccoli, anche se da allora sono passati soltanto un paio di anni ed eravamo diversi, più infantili, più spensierati, forse più veri. Ridevamo e correvamo tra le macerie come se la terra non fosse ferita, come se non dovessimo combattere contro la Morte. Non eravamo arrivati fino all'Altura delle Stelle quella volta, ma ci eravamo fermati di fronte alla statua della dea. Lì i sorrisi si erano estinti e le gocce di pioggia si erano fuse con le lacrime, mentre ci giuravamo di non perderci, di non cambiare, nonostante il dolore che sentivamo a causa della realtà che ci era piombata addosso come un uccello rapace.
"Non sei solo la mia dea, Eirene...Tu sei..."
Non ero riuscito a finire la frase, ma adesso, dall'alto di questo sperone di roccia proibito a qualsiasi essere umano, ho trovato la parola che mancava.
Questa volta è la neve a cadere dolce sui nostri capelli. I visi sono più vicini, tanto che il mio respiro si fonde con il suo.
«Non voglio stare da sola, lontana dal mondo. Ho paura di stare così in alto e vedervi lontani, vedere te...così irraggiungibile anche se così vicino» sussurra sulle mie labbra.
«Non sei obbligata a farlo.»
«E invece devo. Tutto quello che è vicino a me si distrugge. Le persone che mi hanno amato sono morte o ferite così profondamente da non sembrare più le stesse. Se non mettessi distanza tra me e te tu potresti...»
Non la lascio finire, poiché premo le labbra sulle sue, mentre la  chiudo in un abbraccio che non lascia dubbi sulla mia determinazione. La mia pelle è bollente, tanto che nemmeno la carezza della neve riesce a raffreddarla. Le mani si fanno più insistenti su di lei in modo da sottolineare il fatto che è mia, qualsiasi cosa accada. Dapprima lo stupore la immobilizza, ma subito dopo vince l'amore che ci richiama entrambi. Le sua bocca cerca insistentemente la mia, quasi con disperazione. È tutto quello che vogliamo, come se fossimo nati per questo.
Le dita sue si intrecciano sui miei riccioli ribelli e bagnati, suscitando in me brividi piacevoli che veloci scorrono lungo tutta la schiena.
«Ho paura, Inazuma...» ammette, dopo aver allontanato le labbra dalle mie. «Paura di non rivivere questo mai più...»
Appoggio la fronte sulla sua e chiudo gli occhi.
«Niente ti potrà separare da me, Eirene, lo sai» affermo sorridendo.
«Come fai a esserne certo? Abbiamo l'inferno contro di noi.»
«E allora? Nessuno può separare in due un cuore. Esso deve rimanere intero per continuare a battere.»
 Sposto una mano sul suo collo e la guido a chinare il capo di lato. Bacio la sua pelle godendomi i suoi placidi e rilassati sospiri.
«Sei la metà del mio cuore» sussurro al suo orecchio.
  Non mi risponde a voce, ma stringe forte il suo abbraccio su di me.
"Non cambiare mai, Inazuma", mi aveva detto sotto la pioggia, difatti io non sono mutato. Forse non possiedo la solennità dei grandi eroi di questa epoca, forse non sono brillante come i Dodici o poetico abbastanza da trovare sempre la frase giusta e note dolci per esprimere le mie emozioni. Sono giusto me stesso, impacciato, testardo, innamorato, ma va bene così. Tutto questo è la strada per i sogni.

 

ECATE

 
È una sera gelida questa. Fredda e buia, priva di stelle come un pozzo di nulla. La neve ha smesso di scendere e l'aria glaciale ha creato uno scivoloso e spesso strato di ghiaccio. Il piccolo sentiero che porta alla prigione di Castore è ancora più pericoloso del solito, ma non mi importa. Non è questo che può tenermi lontana da lui. Come al solito mi faccio strada fino al piano più basso, ma non posso raggiungere la cancellata dorata dietro alla quale si trova l’uomo che amo: devo nascondermi, in modo da non farmi notare dagli uomini che confabulano di fronte a essa. Sono in quattro, ma riconosco solo uno di loro: è il nuovo, abile cerusico, arrivato al Grande Tempio da soli sei giorni.  Il volto è coperto da una pesante maschera blu come la notte. Dicono che celi il suo aspetto per nascondere una terribile deformità.
Trattengo il respiro, appiattendomi all'umida parete di pietra quando il volto mascherato si volge verso di me.
«È morto. Nemmeno il venerabile Asclepio avrebbe potuto fare qualcosa per lui. I fendenti della daga di Ares non lasciano scampo nemmeno agli dei, figurarsi a un comune mortale» afferma la sua voce, grave e attutita dalla maschera. Il mio cuore perde un battito e un dolore profondo mi sconquassa il petto. Non può essere, forse è uno scherzo o magari sto fraintendendo. Sicuramente non si riferisce a lui, provo ad autoconvincermi.
«Portate via il cadavere. Che nessuno lo veda» ordina.
«No! Non fate assolutamente niente!- grido io, correndo fino a raggiungere la cancellata aperta. Il cerusico è lesto ad afferrare una mia spalla e costringermi a voltarmi. Non vuole che i miei occhi continuino a contemplare la realtà delle cose. Quello che ho visto ha confermato tutti i miei più oscuri timori.
«Non guardarlo, ragazza»  consiglia con delicatezza, ma io non intendo ascoltarlo. Mi volto verso l'interno della cella. Il sangue imbratta le pareti e i sigilli di Atena. Intride il giaciglio di pietra e le coperte. Vedo Castore di spalle. Il pugnale dorato che trafugai dalla Tracia è conficcato al centro della sua schiena. L'assassino ha torturato il meraviglioso corpo del mio uomo con decine di fendenti, infierendo su lui che non poteva difendersi. Quel pugnale! Lo avevo messo al sicuro nelle mani di Eirene e del Grande Sacerdote. Come può essere stato utilizzato da un comune assassino?
Allungo le braccia verso di lui, oltre le sbarre, nonostante la forte presa del cerusico mi renda impossibile fare anche solo un passo.
Chiamo il suo nome con tutta la voce che ho, mentre percorro le linee del suo corpo martoriato con lo sguardo. I suoi contorni sono tremuli, l’immagine offuscata da un velo di lacrime. Non riesco a vedergli il viso. I capelli azzurri, intrisi di sangue, lo coprono, nascondendolo alla mia vista. Il sangue copioso su di esso mi lascia intendere che l’omicida abbia fatto scempio dei suoi meravigliosi lineamenti.
«Lasciatemi andare, vi prego...Lasciatemi andare da lui» imploro il medico, disperata, ma lui mi trattiene con più forza.
«No» afferma. «No, non potete. Uscite di qui.»
  Mi oppongo, urlando come una bestia furiosa, ma non ottengo niente, poiché la mano del medico si posa sulla mia fronte. Progressivamente perdo tutto il vigore che finora ha alimentato la mia disperazione. Cado preda di un profondo sonno indotto, abbandonandomi alle braccia di questo sconosciuto.
Quando mi risveglio, trovo Sarya al mio fianco. I modi pacati e il sorriso della mia prima amica di Atene quasi mi convincono che l'assassinio di Castore sia solo un bruttissimo incubo. È il trambusto all'esterno dei nostri alloggi a tradire questa mia erronea convinzione: i Cavalieri parlano di continuo dello scempio operato sul prigioniero e della follia di Polluce che ha osato accusare e aggredire il Grande Sacerdote. Nessuno si è schierato contro di lui, anzi, la maggioranza dei Cavalieri pensa che Hosoku della Bilancia sia l'assassino di Castore e non solo, anche il rapitore della dea Atena. Il Grande Tempio, nel giro di una gelida notte, ha perso la sua guida e la speranza. Io ho perso ancora una volta la mia ragione di vita: Castore è morto.
Che cosa mi resta?
Anche se ho mascherato i miei sogni con il nobile desiderio di proteggere la giustizia, io ho vissuto soltanto per lui, pensando che nel suo cuore risiedesse il mio destino.
Gli ho fatto tante, tantissime promesse e le ho tradite tutte. Volevo fargli rivedere il sole, ma per due estati l'ho deluso, e ho dovuto accampare scuse per nascondere la mia inettitudine. Lui non mi ha fatto mai pesare le mie difficoltà e la mia debolezza, non mi ha mai chiesto niente, mi ha soltanto donato tutto l’amore che una donna potrebbe mai chiedere al più bello dei suoi sogni.
Anche se i raggi luminosi mi illuminano insistenti, per me il sole si è spento. Tutto quello che resterebbe è  l'atroce e sanguinaria vendetta verso l'assassino, verso il mostro che ha cancellato la speranza degli uomini e molto probabilmente, insieme ai Cavalieri ribelli, ha spento anche la vita di Atena. Hosoku, il Grande Sacerdote, ha vestito i panni della carismatica guida per poi vendere l'anima alla violenza. Dhiren dell'Ariete ha voluto seguire le sue orme così come il Leone Esperante e il Sagittario Angelòs. Anche il Cancro, Sophos è scomparso dal Grande Tempio di Atene. Rimangono soltanto sei armature d'oro alle Dodici Case, visto che quella dei Gemelli è scomparsa.
Anche Sarya, assieme a diversi Cavalieri di Bronzo, ha deciso di lasciare questa terra. Fino all'ultimo tenta di convincermi del fatto che sia stata tutta una becera congiura contro Hosoku e la stessa Atena, creata ad arte per distruggere il Tempio dall'interno. Quando le ho chiesto chi avrebbe mai potuto ordire un piano simile, lei non mi ha risposto. Nessun nemico, per quanto infame, avrebbe attaccato un uomo in catene. Nessuno oltre alla dea e al Grande Sacerdote avrebbe potuto sapere dove si trovava la lama di Ares. Ares, il mio dio, disceso dall'Olimpo soltanto per me. Bruciano ancora sulla pelle le carezze e i baci. Più giorni passano e più il ricordo mi fa male come veleno che scava a fondo. Non trovo consolazione neanche nell'odio, anzi, esso mi isola e mi rende muta, anche se molto, molto più forte. Il mio Cosmo diviene pungente, tanto che ora le unghie possono fendere metallo e roccia, come se tutto il corpo fosse tramutato in arma.
Ho tanta rabbia dentro, ma so che anche lasciandola esplodere non otterrei nulla. I morti non tornano in vita e tutte le leggende che affermano il contrario sono inutili racconti tramandati dagli sciocchi e dagli illusi.
Non c'è più una guida in Grecia, perciò nessuno baderà al mio silenzioso allontanamento dalle mura del Tempio. Le sentinelle non hanno più niente da sorvegliare e ignorano i miei passi decisi che affondano sul ghiaccio inspessito dall'avanzare del terribile inverno. Arrivata alle mura che separano il Santuario di Atena dal resto del mondo mi do un ultimo sguardo indietro, ripercorrendo la scalinata delle Dodici Case con gli occhi. Venire qui è stata la mia dannazione. Se non avessi accettato di provare amore, non avrei sofferto in questo modo barbaro. Gli artigli della mancanza lacerano il cuore senza mai smettere. Rinasco ogni giorno solo per morire ogni notte. L'unica cosa che spero è che, una volta lontana da qui, questa sensazione si affievolisca fino a sparire completamente, anche lasciandomi vuota. Vuota, è questo che voglio essere, priva di voce e di anima, senza sogni o ricordi, senza alcuna debolezza.
Stringo tutte e due le mani sulle cinghie che legano lo scrigno d'argento dell'armatura alla mia schiena non appena percepisco il gelido Cosmo di Megara. I suoi passi hanno seguito i miei senza che me ne accorgessi.
«Dove stai andando, Ecate?» mi chiede, allarmata.
«Via» rispondo lapidaria, avanzando di qualche decina di centimetri.
«Non è scappando che troverai pace» afferma solenne, come una filosofa da quattro soldi. La sua sicurezza mi strappa una risata mesta.
«Non troverò la pace. Non la cerco.»
«Non vuoi vendicarti per quello che ti hanno fatto?» chiede, disperata.
«No. Non voglio vendicarmi. Non so contro chi sollevarmi. Hosoku...»
«Non pronunciare quel nome con tanta leggerezza!» mi taccia Megara.
«È l'assassino di Castore e il rapitore di Atena! Tiene prigioniera la dea chissà dove e ha convinto diversi dei Dodici a disertare! Covavamo una serpe in grembo e...» continua con enfasi, quasi fosse il predicatore fanatico di un nuovo credo.
«Spiegami perché avrebbe fatto una cosa simile. È la stessa domanda che ho fatto a Sarya prima che se ne andasse.»
«Lo ignoro» non esita a rispondere. «Ma è sicuro il suo coinvolgimento.»
«Niente è sicuro, assolutamente niente. Nel dubbio, me ne tiro fuori. Per quello che mi riguarda, qui non c'è più un'Atena da proteggere, né promesse da mantenere.»
Non mi volto nemmeno verso di lei, nonostante provi più volte a chiamarmi e a convincermi anche con un pianto assolutamente fuori dagli schemi del suo comportamento.
Potrebbe fare qualsiasi cosa, ma non la sento più, ho chiuso tutto il mondo fuori.
Scappo veloce e silenziosa, nell'oscurità totale della notte, senza una meta.
Il vento mi sferza il viso e sposta il pesante cappuccio nero dal capo, liberando di tanto in tanto ciocche di capelli bianchi come la neve. Non è il freddo ma la stanchezza a costringermi a una tappa nel villaggio più vicino. Non mangio e mi limito a bere per riscaldare il corpo. Vino in buona quantità, anche se questa affollata bettola mi offre poco più che acqua sporca. Prima di stordirmi con questa robaccia devo ingerirne un paio di litri nella totale solitudine dell'angolo più buio. Faccio fatica a rimettermi la maschera, visto che le mani tremano. Lancio i soldi sul banco e con parole biascicate chiedo una stanza all'oste sporco come un maiale.
Mi chiede un anticipo troppo salato per lo stipo che mi affitta, ma non ho lena di discutere. Sono alticcia e di pessimo umore. L'alcol ha sempre operato un pessimo effetto su di me, trasformandomi in una creatura ancora meno socievole del solito.
Senza aggiungere altro mi ritiro nello spazio che ho esageratamente pagato. Non ho voglia di spogliarmi e mi abbandono sullo scomodo giaciglio così come mi trovo. Mi avviluppo nel mantello nero e umido e serro gli occhi. La mia mente mi ripropone di continuo l'immagine del corpo riverso tra le lenzuola insanguinate. I suoi capelli blu, che in questi due anni ho accarezzato e pettinato, ho baciato e odorato...Quei bei capelli blu che tanto mi avevano colpito la prima volta che li vidi.
Scopro il braccio marchiato per vedere un leggero segno. Lo accarezzo con la punta delle dita.
«Mi manchi...» mormoro. «Mi manca anche la tua follia. Non lo hai mai accettato, ma io ti avrei amato comunque.»
Non ha senso parlare. Non può sentirmi, non potrà più farlo. Mi giro, in modo da arrendere il peso della schiena sul letto. Silenziosi singhiozzi mi sconvolgono il torace, ma serro le labbra in modo da non far trapelare nemmeno un lamento. Devo diventare dura come la pietra, fredda come il ghiaccio, solo a quel punto non sentirò più dolore. Eppure, anche se ci provo, gli occhi piangono lo stesso.
Mi addormento, sottoponendomi al tormento dei sogni: accozzaglie di ricordi amari che per una notte mi fanno rivivere tutti i propositi infranti.
«È qui, venerabile Astianatte. È arrivata ieri notte e da allora non è  più uscita da questa stanza. È ubriaca, forse è morta...Si sa, le donne non reggono l’alcol.»
Apro appena gli occhi alle parole dell'oste e mi volto verso la porta d'ingresso alla mia stanza. Le palpebre pesanti e il mal di testa mi impediscono di scattare in piedi e andarmene. Riconosco l'uomo mascherato che incontrai il giorno del ritrovamento del cadavere di Castore. Quindi è Astianatte il suo nome? L'ho sentito a lungo sulla bocca dei Cavalieri. A quanto pare, molti lo reputano abbastanza onorevole da ricoprire il ruolo di guida, proprio lui che è venuto a contatto con i guerrieri di Atena soltanto un paio di mesi fa. "Venerabile", " Nobile "...ma sconosciuto. Non mi fido di lui, per questo quando si avvicina mi rannicchio contro la sponda malconcia del letto.
«Il vostro è un atto di tradimento, Ecate di Tracia.  Disertori sono i guerrieri che abbandonano il fronte. Anche se il Grande Tempio è impoverito, non avete il diritto di lasciarlo a piacimento.»
 Tiro un profondo respiro e allungo una mano verso di lui. Tendo l'indice, indicando la maschera blu.
«Chi sei tu per parlarmi di tradimento? Togli la maschera e mostrami il viso. Solo così ascolterò le tue parole.» affermo, ridacchiando di scherno.
«State parlando con il futuro Grande Sacerdote di Grecia. Esigo rispetto» controbatte lui.
«E io voglio che tu sparisca come tutto ciò che riguarda Atena.»
 Ritiro la mano e la avvicino a viso dopo aver stretto il pugno.
«Allora volete costringermi a condannarvi a morte.»
La sua frase mi suona ridicola tanto che mi fa scoppiare a ridere, fragorosamente. Mi chino in avanti, e do sfogo alla mia frustrazione, prolungando il convulso di risa, che si fonde con la disperazione di un pianto mascherato. Sono felice che il mio viso sia coperto.
«Bene! Non voglio neanche un processo! Esegui tu o devo aspettare il boia?»
 Le mie parole suscitano una brusca reazione in lui. Le mani possenti si serrano sulle mie braccia e le appiattiscono contro la sponda. Il legno si ammacca a causa della pressione.
«Vi conviene smettere di irridermi, perché la morte sarebbe una dolce carezza vicino a ciò che vi farei passare.»
«Questa ipotesi mi incuriosisce, davvero. Stupiscimi» ringhio, mentre cerco di liberarmi, senza successo. Mi immobilizzo, quindi, fingendo di essermi arresa alla sua pretesa. Anche se di poco allenta la presa sulle mie braccia. Gli occhi rossi rubino della maschera coprono il suo sguardo che tuttavia sento pesarmi addosso. Lascio scorrere qualche secondo in modo che lui possa convincersi di aver vinto su di me, dopodiché, con un gesto brusco e veloce svincolo la mano destra e tiro un graffio deciso sul suo braccio. Strappo la stoffa scura e ferisco la sua pelle. Approfitto del fremito che scuote il suo corpo a causa del dolore per liberare anche l'altra mano. Rotolo sul letto fino a trovarmi per terra.
Mi alzo e di corsa raggiungo la finestra.
«Fermati!» intima lui, ma non intendo dargli ascolto. Balzo contro il vetro dell'imposta. La mia velocità unita al peso frantuma tanto la finestra quanto la copertura lignea oltre essa. Precipito per un paio di metri ma cado su miei piedi che affondano nella neve fresca e morbida. Corro il più veloce che posso senza badare alla direzione che ho preso.
È tutto bianco e sterile di fronte ai miei occhi, perciò non fa differenza. L'unica cosa che davvero importa è mettere distanza tra me e quell'uomo pericoloso. Il suo sangue ha lo stesso odore della paura. Mi fermo soltanto quando il villaggio appare piccolo e lontano ai miei occhi. Non avverto il rumore dei passi, né alcuna presenza estranea. Dopo aver ripreso fiato, riprendo a camminare verso l'infittirsi del bosco che mi garantirà copertura dai raggi rivelatori del pallido sole invernale.
«Un cerusico con la forza di una bestia che diverrà Grande Sacerdote?» chiedo ironica al vento debole che spazza freddo tra le fronde cariche di neve.
«Non ha senso.»
  Piego le ginocchia in modo da affondare la mano destra nella neve. Voglio lavare via il sangue dello sconosciuto mascherato che si è rappreso sulle unghie. Scuoto il capo. Ho lasciato l'armatura in quella bettola e mi rendo conto solo ora.
Il verso roco di un corvo mi distrae dai pensieri. Alzo lo sguardo verso le chiome degli alberi.
Anche se in lontananza li sento: passi nella neve. Mi guardo attorno, per poi voltarmi. Non riesco a percepire alcuna presenza. Tiro un profondo respiro e decido di girarmi verso le profondità della foresta, ma sobbalzo nel trovarmi davanti la figura alta e possente di Astianatte. Compio un balzo all'indietro e assumo una posizione di difesa, piegando entrambe le braccia fino a sollevare le mani all'altezza del petto.
«Che vuoi da me?» chiedo, con il cuore in gola. La sua risposta è una risata sinistra che suona familiare, anche se non riesco a collocarla nella mia memoria confusa.
«Avete giurato fedeltà al Grande Tempio, anche se la vostra fedeltà è labile quando si parla di dèi. Avete tradito Atena con la vostra fuga, rinunciando a combattere per salvarla dal traditore che l'ha portata via dal suo trono. Avete tradito Ares prima di lei, abbandonando il suo tempio: il segno sul braccio è chiaro simbolo della vostra infedeltà. Immagino che se voi aveste tenuto fede a...»
«Non continuare il discorso o ti strappo il cuore dal petto!» ringhio a denti stretti, caricando le mani del potere del Cosmo della mia costellazione.
«Se voi aveste tenuto fede alla vostra devozione nei confronti di Ares, nessuno avrebbe potuto imprigionarlo e dargli una morte così dolorosa. Una lunga e tormentata agonia che l'ha ucciso dopo ore e ore di sofferenza» continua, rigirando il coltello nella piaga. Sa di farmi male e sembra che questo lo diverta un mondo.
«Smettila» sibilo, sbattendo i denti come un cane rabbioso, mentre sollevo la mano destra verso l'alto. «Ricorda che il Cobra Incantatore non perdona nessuno!»
«È tutta colpa vostra. Siete stata voi a uccidere Castore dei Gemelli.»
«Non è vero...» controbatto alla sua accusa. «Non è vero» ripeto, abbassando bruscamente il braccio fino ad affondare gli artigli  nella terra umida sotto la neve, la quale si spacca, formando profondi crepacci di fronte a me. Sono convinta di averlo colpito, di averlo fatto sprofondare nell'angolo più remoto del Tartaro: non avverto più la sua presenza.
«Invece sì. Avete consegnato il pugnale all'uomo che lo voleva morto ed ecco il risultato. Siete stata voi ad armare quella mano, quindi siete stata voi ad assassinare Castore» continua a parlare Astianatte alle mie spalle. Come è possibile che io non riesca a percepire i suoi spostamenti? Che si muova alla velocità della luce come i Cavalieri d'Oro?
«Io volevo proteggere Castore da se stesso. Non ho mai pensato di fargli del male, mai. Non sei nessuno per muovermi un'accusa simile!»
Mi volto veloce con l'intenzione di squarciagli il petto e strappargli il cuore. Ho bisogno di vedere il suo sangue, di sentirne il calore e l'odore per placare la rabbia. Si allontana da me, schivando il mio colpo con un agile balzo all'indietro. Le mie unghie riescono però a colpirgli la maschera, che si incrina ma non si spezza.
«Mostrami il volto, vigliacco!» ghigno, pronta ad attaccare di nuovo. Astianatte tiene una mano sulla maschera che piano piano si sgretola, scoprendo le labbra e il mento che sono quelli di un uomo giovane.
 Vorrei colpirlo ancora ma la mano libera di lui blocca il mio braccio destro serrandosi sul polso. Vengo respinta, lanciata via. Cado violentemente sulla neve morbida che attutisce il colpo alla schiena. Il dolore non mi paralizza, perciò mi alzo in piedi.
Non riesco più a vederlo. È sparito, come se non ci fosse mai stato. Sono certa che in realtà sia vicino più di quanto possa pensare.
«Hai paura, vigliacco? Andiamo, fatti sotto!» affermo spavalda. Averlo colpito mi motiva a sperare di poter vincere, anche se è palese che siamo su livelli nettamente diversi.
«Io? Paura?» sussurra al mio orecchio. È dietro di me, sento il suo fiato sul collo. La sua voce mi mette i brividi. L'ho già sentita. No, forse mi sbaglio. Non può essere.
Mi toglie la maschera e la lascia cadere a terra. Le sue mani, stranamente calde si posano sulle labbra e gli occhi.
«Non ho paura di una donna, per quanto indomita ella sia. Non mi lasciate altra scelta, Ecate del Serpentario. Non avete nessuna intenzione di redimervi, per cui...»
 Cerco di agitarmi in un ultimo spasmo, prima di rassegnarmi alla paralisi. È come essere stretta tra le spire di un serpente.
«Sarò costretto a portarvi indietro  con la forza. Mi assicurerò che non vediate mai più la luce del sole. Chissà, magari rifletterete sulle vostre colpe.»
 Lentamente tutti i sensi svaniscono sebbene io sia ancora vigile. Sono intrappolata nel nulla dato dalla privazione di ogni percezione. Non mi rendo conto più di niente, nemmeno del tempo che passa. Sono sola con i miei ricordi, i miei pensieri e la paura di rimanere per sempre imprigionata nella negazione dell’essere. Non so più se dormo, se sono sveglia, se vivo, se ho smesso di esistere. Non sento più niente tranne il rombo assordante della solitudine. Cerco di metterlo a tacere aggrappandomi  ai ricordi, al calore di un abbraccio perduto, il suo. È proprio questa sensazione a placarmi, a rendermi sopportabile l'inferno, finché la luce tetra di una sparuta candela non mi ferisce gli occhi e il rumore regolare di gocce che cadono sulla nuda roccia mi richiama alla realtà.
Le mani toccano la pietra fredda. I capelli sporchi e inumiditi si appiccicano al viso. Non indosso la maschera né i miei soliti vestiti. Una semplice tunica di lino copre il mio corpo fino alle ginocchia. Sono scalza, ho le membra indolenzite e la bocca impastata dalla sete. Sono rimasta immobile in questa posizione per molto tempo. Finalmente riesco a guardarmi intorno. Noto pesanti sbarre verticali di metallo scuro che separano la stanza scavata nella pietra da un corridoio malamente illuminato. Sono in una cella? Mi alzo in ginocchio e come sposto le gambe e le braccia, sento il tintinnio delle catene. Mi volto in modo da trovare il punto in cui sono ancorate: il robusto gancio è fissato al muro irregolare e ammuffito.
«Bentornata tra noi, Ecate del Serpentario» mi saluta una voce maschile. C'è un uomo, immerso nella penombra, vestito di stracci. Vedo a malapena la sua sagoma. Solo dopo qualche istante sento il rumore delle catene che lo imprigionano e vedo la fioca candela avvicinarsi al volto giovane di un ragazzo. Ha lunghi capelli azzurri, lisci e folti. Le sopracciglia spesse sono tuttavia irregolari. Gli occhi blu e le labbra delicate e sottili disegnano il viso di un angelo sporco. La mia bocca si muove da sola sul suo nome.
«D...Demyan dell'Acquario?»
Conosco Demyan sin dai tempi in cui vivevo in Tracia. I miei genitori erano ancora vivi quando una donna era giunta presso la nostra splendida casa recando con sé un neonato in fasce. Fu difficile capire il suo strano idioma, straniero alla lingua usata dai greci, la lingua del mondo conosciuto. Solo dopo diverse ore di tentata comunicazione mio padre aveva compreso che la giovane gli aveva portato un figlio concepito durante una delle spedizioni militari a cui il mio nobile genitore aveva preso parte. Dall'alto della sua finta magnanimità, mio padre aveva deciso di prendere suo figlio bastardo con sé e sollevare l'amante dimenticata da ogni responsabilità su di lui. Mia madre   sembrava non volersi opporre alla sua scelta e solo quando il piccolo Demyan fu abbastanza grande da poter lavorare, capii il motivo del suo benestare. Aveva quattro anni quando divenne parte della nostra servitù, due meno di me. Né mia madre né mio padre si facevano problemi a comandargli compiti faticosissimi per quel corpo minuto. Con le manine ferite e la fronte imperlata di sudore continuava ad andare avanti senza fermarsi o lamentarsi. Mentre io e mia sorella vestivamo ricche vesti lui era coperto di stracci. Non potevo accettarlo. Il mio senso di giustizia a quel tempo mi impediva di tacere. Per questo approfittavo dei momenti di solitudine per trarlo da tutta quella sofferenza e fargli vivere un po' dell'infanzia che meritava. In tutto quel tempo non l'avevo mai visto sorridere. Lo aveva fatto per la prima volta quando gli insegnai a scrivere il suo nome. Per lui era una sorta di miracolo, mentre per me era un esercizio semplice. Al contrario io ero rimasta incantata nel vederlo trasformare l'acqua in ghiaccio soltanto sfiorandone il pelo. Il suo potete era meraviglioso e utile, specialmente in estate.
Oltre a esso, scoprii la sua sensibilità, nascosta dalla paura di essere ferito. Tutto era però finito bruscamente, quando i miei genitori erano scomparsi. Demyan era stato allontanato dalla casa dal furore del popolo, che lo vedeva come il responsabile della tragedia. Erano stati pronti a maledire i suoi occhi fieri, i capelli blu e le capacità ultraterrene, ma nessuno aveva mosso un dito per salvare dei bambini dalla vita di stenti che era scritta nel nostro futuro.
Non l’ho rivisto fino a qualche mese dopo il mio arrivo al Grande Tempio. Mi sono sempre sentita in colpa nei suoi confronti e anche avendolo vicino non ho mai raccolto il coraggio necessario per potergli parlare. Anche ora che è qui, accanto a me, non riesco a sostenere il suo sguardo. Eppure...è mio fratello. Ha lo stesso viso di mio padre e la medesima espressione rigida.
Annuisce alle mie parole e con una mano sposta una ciocca di capelli blu dietro l'orecchio.
«Sono stato incarcerato anche io. A quanto sembra, tutti gli ostacoli che intralciano l'ascesa di Astianatte finiscono qui, a marcire. Il primo è stato Castore, poi è toccato a Hosoku e i suoi che sono tuttavia riusciti a salvare il salvabile.»
Mi sollevo seduta e sconcertata scuoto il capo.
«Tu sei un Cavaliere d'Oro. Come hanno potuto sconfiggere te? Non c'è niente di superiore a uno dei Dodici tra i mortali.»
Mi rivolge una rapida occhiata prima di puntare gli occhi sul lume della candela.
«Ho accettato la resa senza combattere» risponde. «Ci sono cose per le quali un uomo rinuncia anche al suo onore» continua, distratto dalla fiamma tremula.
«Un affare di famiglia?» chiedo, dopo aver chiuso le ginocchia al petto.
«Sì. E tu sai bene che significa. Se non ricordo male ti sei ribellata a un capitano dell’esercito tracio per giocare a nascondino con un bambino della sua servitù» commenta, rivolgendomi un sorriso appena accennato. Ricordo perfettamente l’episodio a cui si riferisce, e lo faccio con un sorriso nostalgico.
«Avrei dovuto fare molto di più» replico.
«Ne dubito fortemente, sorella e se il tuo evitarmi deriva proprio da questo, allora sappi che è inutile. Non ti ho mai accusata di nulla.»
Chiudo gli occhi per qualche istante e serro le braccia ancora più forte. Lo sconforto viene affievolito dal piccolo fuoco di affetto latente e antico che non è perduto. Il viso di Demyan non si lascia dominare dall'emozione, ma quelle parole sono sincere e cristalline, un po’ come la sua anima.
«Chi hai protetto, Demyan?» gli chiedo.
«Mio figlio» risponde senza pensarci due volte.
Sgrano gli occhi e schiudo le labbra.
«Tuo...figlio?»
«Non condivido con lui nemmeno una goccia di sangue, ma l'ho cresciuto tra i ghiacci di una terra lontanissima, gli ho insegnato ogni cosa. È figlio dei miei insegnamenti e questo basta perché la sua vita valga la mia prigionia.»
Il suo racconto è profondamente tenero, anche se la sua voce non si articola in toni addolciti.
«Sono stato costretto a giurare fedeltà al nuovo ordine costituito per lasciar andare Nikanor.»
«Lasciarlo andare, per dove?»
Demyan si guarda attorno, scuote poi il capo a occhi chiusi. È il suo modo per dirmi che non può parlarmene. Oltre le sbarre, nell'ombra, si muovono le sentinelle.
«Astianatte ha ordinato che fossi spogliato dell'armatura e condotto qui. Narciso dei Pesci e Siddharta della Vergine si sono assicurati, con la loro sola presenza, che non opponessi resistenza. Solo un aspirante suicida sfiderebbe due Cavalieri d'Oro.»
Demyan sistema la tunica strappata sul suo petto. Cerca di coprire la sporcizia della sua pelle nuda. Da sempre ha avuto una cura maniacale della sua persona, anche quando era solo un bambino.
«Perché i Cavalieri d'Oro dovrebbero credere a Astianatte? È solo uno sconosciuto che non ha mai avuto parte nel Grande Tempio» chiedo, confusa.
«Perché Siddharta e gli altri pensano che Hosoku sia l'assassino di Castore e che stia plagiando la dea Atena.»
«Nessuno può plagiare un dio» affermo, curvando le labbra in un sorriso amaro al ricordo della testardaggine di Ares.
«Anche io la penso così, ma loro no. In questo momento di confusione hanno affidato la loro fiducia a un potere forte solo per credere in qualcosa che c'è sempre stato. Il Grande Tempio è un'istituzione sacra e loro non ammettono che possa essere governato dalle forze oscure.»
Si interrompe dopo un colpo di tosse.
«Stai bene?» cambio discorso.
«Ho visto giorni migliori» risponde. «Sono qui da una settimana e l'aria malsana inizia a darmi fastidio.»
Con un cenno del capo indica la cella che si trova dalla parte opposta del corridoio.
«Il giovane chiuso laggiù è malato. È probabile che il morbo che lo affligge possa condannare anche noi.»
Guardo le catene chiuse sui miei polsi. Il metallo arrugginito ha lasciato un segno sulla mia pelle.
«Tu puoi congelare ogni cosa, no?» chiedo, distratta.
«In condizioni normali potrei liberarmi di questa ferraglia congelandola e spezzandola, ma queste stanze sono protette da una barriera che impedisce al nostro Cosmo di espandersi. Non posso fare nulla.»
Faccio schioccare la lingua sul palato.
«Devo trovare un modo per farti uscire da qui» dico a denti stretti, mentre cerco di liberare i polsi dando rapidi strattoni alle catene.
«Il mio codice di Cavaliere mi proibisce di accettare aiuto da una donna, anche se si tratta di una sorella maggiore. A meno che...»
 Il rumore dei passi di un gruppo di persone che attraversano il corridoio ci interrompe. Quattro uomini, guardie comuni del Grande Tempio, si fermano di fronte alle sbarre della nostra prigione. Gli elmi calcati sul capo mi impediscono di vedere i loro visi. Dietro di loro fa capolino la figura di Polluce, che indossa la scintillante armatura del Centauro. La sua somiglianza a Castore mi prende a pugni lo stomaco.
«Ecate di Tracia, il Grande Sacerdote vuole vederti» afferma solenne.
«Non mi muoverò da qui» replico, atona.
«Invece lo farai.»
  Con un cenno del capo, Polluce ordina alle guardie di aprire le sbarre. Quando irrompono all'interno della cella io rimango immobile a fissarli.
«Ho detto: no» affermo, come se ciò che voglio o non voglio contasse qualcosa. Uno di loro si abbassa sul ceppo delle catene e le sgancia con l'ausilio di una chiave. I muscoli del mio corpo si tendono. Sono pronta a scattare e farmi strada verso l'esterno. Il tocco di Demyan sul braccio mi placa, però.
«Vai con loro» mormora, per poi annuire. Forse ha in mente qualcosa. La sua mente è più brillante della mia. Sento che devo dargli ascolto, perciò mi lascio trascinare via. Do uno sguardo truce a Polluce, alleato e confidente per mesi. Perché mai si mostra così asservito alla nuova figura che ha usurpato ciò che avremmo dovuto difendere?
È ora di trovare un modo per uscire da questa profonda confusione e rendere chiare le cose. Do un ultimo sguardo a Demyan, che rimane in silenzio quando le sbarre si richiudono davanti a lui. Non oso immaginare cosa mi attenda, ma non riesco ad oppormi alla forza dei miei carcerieri. Mi lascio trascinare, ma non mi arrendo. Astianatte, l’uomo che si nasconde dietro la maschera e che ha usurpato il potere al Grande Tempio, non mi spaventa. Non permetterò mai che mi calpesti.

 

RADAMANTE

 
Il mare è odioso anche di notte. La luna piena si riflette argentea sulla superficie calma dell'acqua e illumina le bianche pietre del tempio che gli abitanti dell’isola di Kanon hanno eretto in onore di Poseidone.  Lo sciabordio delle onde che si abbattono sulla spiaggia mi tormenta l'udito. Sono anni che siamo alla ricerca di una dannata entrata al palazzo del Re dei Mari, ma egli ci irride, dandoci vuoti abbagli attraverso i flutti e le false dicerie di uomini mendaci.
Non stringiamo null'altro che un pugno di mosche tra le dita. Inizio a pensare che la ricerca del Re dei Mari sia soltanto una perdita di tempo, un modo per occupare inutilmente le nostre forze. Dubito della lucidità del Sommo Ade, dopo due anni di gestione dissennata degli inferi. Per quanto io rimanga comunque fedele e riconoscente nei suoi confronti, ho notato quanto egli sia divenuto capriccioso, vanitoso e poco accorto alle manipolazioni della giovane donna che ha al suo fianco. Durante i vari rientri che hanno intervallato le nostre inutili ricerche, abbiamo trovato la corte sempre più sfarzosa, arricchita da inutili orpelli come musici e poeti rapiti con l'inganno tra gli esseri umani: tutto secondo le preferenze insulse di Persefone.
A ripensarci bene, il rumore del mare non è poi tanto pessimo a confronto dello stridio delle corde pizzicate e del soffio nei flauti.
«Ha detto che si sarebbe presentato qui, ma dubito che lo farà davvero» sento dire la voce di Minosse, verso cui mi volto. Sta parlando con Eaco, ma ignoro chi sia il soggetto della loro conversazione.
«Chi stiamo aspettando?» mi intrometto, innervosito.
«Un emissario di Poseidone. Un messaggero ci ha detto che si sarebbe presentato qui, ai piedi del tempio quando le tenebre sarebbero state più fitte»  risponde mio fratello maggiore.
«Immagino che sia il solito tentativo di raggiro. Molti pavidi esseri umani rispondono alla chiamata del Dio dei Morti che loro propone la vita eterna in cambio di informazioni e fedeltà. Spargere questa notizia è stato un errore» commento, senza far caso all'angolo delle labbra che si solleva in un sorrisetto beffardo.
«Eppure questa volta ho buone sensazioni, fratello» replica Minosse, infastidito dal mio tono.
«Esattamente come quando chiamasti Dedalo a corte. Le tue buone sensazioni non comprendevano il fatto che lui aiutasse la tua sposa ad accoppiarsi con Poseidone.»
 La mia frecciata lo fa infuriare, sebbene la sua reazione si limiti a un pacato silenzio. Eaco sposta velocemente li sguardo da me a lui. Sono mesi che tra noi c'è una tensione pesantissima. Mio fratello maggiore mi attacca a causa della particolare devozione verso Pandora, cosa che solo lui vede, e io faccio leva sull'infedeltà della sua sposa. Non è un comportamento molto maturo, lo riconosco, ma in qualche modo devo sfogare tutta la rabbia che accumulo a causa del suo comportamento.
«Non mi sembra il caso di rivangare ricordi simili, Radamante!» mi rimprovera Eaco.
«Tu non dovresti nemmeno parlare, Eaco. Non presto fede alle tue parole» lo attacco io.
«Ma..»
«Basta, Eaco. Non ho bisogno di essere protetto da nessuno. E poi, non sprecare fiato con lui. Lascia che quello stolto si diverta rimembrando le altrui disgrazie. Parla di infedeltà quando la sua sposa lo rifiutò per anni e la sua nuova passione lo tratta come un cagnolino» spiega con quella calma assoluta che mi fa saltare i nervi e mi costringe a raggiungerlo, con un braccio piegato e pronto a scagliargli un pugno sul viso.
Non riesco a portare a termine il mio intento, però, poiché un Cosmo estraneo si avvicina lentamente alla nostra posizione. È di forte intensità, non c'è che dire. Forse Minosse questa volta ha ragione, non si tratta del povero miserabile che ha giusto paura di morire: il potere che avverto appartiene a un guerriero di elevata potenza, decisamente superiore a me e ai miei fratelli.
La luce azzurra e accecante che lo avvolge lentamente si dirada, lasciandoci vedere i contorni della figura che la emana. È un uomo alto che indossa una pesante armatura di metallo prezioso, forse oro, oro rosso. I capelli azzurro chiaro scendono ricci fino alle scapole e gli occhi guardano fieri verso di noi. Il capo è chiuso da una voluminosa corona che non lascia dubbi se considerata assieme al tridente chiuso nella mano sinistra. Non voglio crederci, non può sul serio essere lui.
Lo sguardo di mio fratello maggiore è pesante su di me e mi costringe a voltarmi verso di lui. Mi mostra l'espressione soddisfatta che sta a dirmi: "Avevo ragione io."
«Inchinatevi di fronte a me» afferma lo sconosciuto mentre avanza verso di noi sulla spiaggia bianca.
«Noi ci inchiniamo soltanto di fronte al Sommo Ade» rispondo io. La spavalderia mi costa un peso assurdo sulle membra che mi paralizza, lasciandomi a malapena respirare. Le gambe soffrono ma non cedono, anche se sento il rumore dell'armatura che compressa stride come se stesse per spezzarsi.
«Siete al cospetto di suo fratello maggiore, Poseidone, re dei Mari, persino più potente del vostro signore. Esigo rispetto» tuona pacato il dio, mentre le iridi degli occhi si accendono di un'intensa luce azzurra.
«È che...» inizia a provocarlo Minosse, con un sorriso beffardo sulle labbra. «Non è molto agevole inginocchiarsi con la pesante armatura che indossiamo e poi la salsedine intacca le ossa, esattamente come l'umidità. Sapete, il ginocchio destro mi fa particolarmente male. Non sono più molto giovane, perciò...»
Li vedo. Le frasi ironiche e irrisorie di Minosse sono atte a distrarre Poseidone dal movimento delle sue mani. I sottili fili d'energia che usa per combattere si fanno strada fino al corpo del Re dei Mari. Insidiosi come serpenti stringono le spire attorno alle gambe e le braccia della divinità superiore.
«Sei solo un inutile cadavere rianimato da mio fratello minore» risponde Poseidone, alzando il braccio destro con un movimento brusco. In questo modo svincola dal Dominio Cosmico di mio fratello e, dopo avergli rivolto la punta del tridente, rilascia un potente fascio di Cosmo che investe Minosse in pieno.
Quando la luce accecante del colpo si dirada, mio fratello è ancora in piedi, anche se la sua armatura è lesionata in più punti: le ali del Grifone sono spezzate, i coprispalle polverizzati come parte dei bracciali. Solo i gambali e il pettorale hanno resistito. Non ha quasi più difese. Il potere di questa creatura è di una superiorità che mi atterrisce, ancor più di quello di Ade.
«Nessuno può prendersi gioco di me, Poseidone, specialmente tu, Minosse di Creta. Sei un infimo umano che ha avuto la fortuna di regnare su una ricca isola. Inginocchiati adesso.»
Minosse scuote il capo e piuttosto che inginocchiarsi si impettisce, fiero. Anche a costo di farsi ridurre in briciole continua a sfidarlo; tanto smisurato è il suo orgoglio.
«Non ho niente per cui riverirti, Poseidone. L'unica cosa che posso offrirti è la mia vendetta!» continua a tenergli testa, nonostante le ferite.
«Vendetta, dici? Per che cosa, dunque?»
«Quello che hai fatto al mio onore è imperdonabile, Dio dei Mari.»
«Ti riferisci a ciò che accadde con la tua sposa? Bizzarro e divertente, lo sottolineerei. Ricorda che voi umani siete nati appositamente per far divertire gli dei e credimi: questo divertimento va inteso in senso lato.»
Dopo un grido disperato, Minosse tenta di catturare di nuovo le membra di Poseidone, che a essi si oppone con la sola forza del Cosmo.
«Vuoi che ti schiacci come un verme? Anche se rinato a nuova vita con poteri superiori, non sei che un misero essere umano.»
Il dio torna a sollevare il tridente, ma la voce di Eaco blocca i suoi gesti e quelli di Minosse.
«Sommo Poseidone, Dio delle acque, perdonate l'irriverenza dei miei fratelli. Non volevamo offendere, poiché il nostro scopo è quello di portarvi un importante messaggio.»
A passo lento, il re dei Mari arriva a poco più di un metro da noi. Ci guarda dall'alto al basso come se stesse osservando degli scarafaggi.
«È proprio per questo che ho deciso di salire in superficie. Sono curioso di ascoltare i vostri deliri.»
«Deliri, dite?» fa eco Eaco, con le labbra leggermente curve in un sorriso, accennando un breve inchino, dannatamente grottesco. Lo sta elegantemente prendendo in giro.
«Accettare la nostra offerta è determinante per il vostro regno sottomarino, Poseidone» continua.
Le dita del dio dei mari si stringono con più forza sull'asta del tridente. È pronto a colpirci di nuovo.
«Né voi né mio fratello potrete mai essere determinanti al mio regno. Io comando i mari e le acque rifiutano voi spergiuri.»
Gli occhi di Poseidone si spalancano, mentre Eaco distende un braccio verso il male calmo.
«Eppure la morte raggiunge ogni lido, anche il più paradisiaco.»
Anche io mi volto verso l'acqua che, sotto la luce argentea della luna, perde della sua cristallina trasparenza e si tramuta in gorgogliante liquido nero. Pesci e altri animali marini risalgono fino in superficie e rimangono a galla esanimi, trasportati dall'acqua sporca fino a riva, a pochi passi dai nostri piedi. Tanto io che Minosse osserviamo stupiti ciò che avviene sotto preciso ordine di Eaco e non so chi altro.
«Ferma subito questo scempio, Spectre!» intima Poseidone a Eaco, rivolgendogli contro il tridente che si carica di splendente energia cosmica. Il Re dei Mari prova a compiere lo stesso attacco che ha rivolto a Minosse, ma stavolta esso si infrange contro uno scudo invisibile agli occhi
 Eaco tira un profondo sospiro di sollievo che contrasta contro la sicurezza che avrebbe dovuto trasmettere il tenue sorriso. Probabilmente non era sicuro di ciò che stava facendo.
«Pensavo che vi foste dimenticati di noi» afferma ironico.
Il cielo notturno divora velocemente le stelle, quasi oscura anche la luna. La tenebra si fa liquida e si fonde con la stessa oscurità che ha avvelenato l'acqua in un mesto incantesimo che dà origine a due altissime creature antropomorfe. Camminano sulle acque come se esse fossero di robusta pietra, mentre i raggi della luna fendono il velo oscuro. La luce argentea illumina la superficie delle arzigogolate corazze che coprono i colpi longilinei di due uomini altissimi dai lunghi capelli color dell'oro e dell'argento. I loro visi sono tranquilli e le labbra curve in un tenue sorriso.
«Hypnos e Thanatos? Siete voi i veri responsabili di questo gesto abietto, non è così?» grida Poseidone, indignato.
Hypnos e Thanatos: Pandora mi ha parlato di loro come ottimi alleati, dei sostenitori del Sommo Ade, figli della notte, parti di essa. Mi ha detto che il loro volere è strettamente collegato a lei. Mi chiedo se davvero Pandora domini su due creature di quel tipo.
«Ti vedo piuttosto spaventato, Poseidone. Ci aspettavamo che non fossi molto felice di vederci, per questo ti abbiamo portato un regalo» ridacchia il dio dai capelli d'argento. «Ma a giudicare dalla tua faccia, non hai apprezzato granché. Pensa che invece a me non dispiace per niente. La morte e la decomposizione sono uno spettacolo crudo ma così reale.»
Senza rispondere a voce, il Re dei Mari scaglia il suo tridente verso il suo ironico interlocutore, il quale con un gesto veloce schiva l'arma che finisce per conficcarsi a terra. L'impatto crea un fondo crepaccio che subito si riempie di acqua sporca di tenebra e morte.
«Siete dèi minori e non mi preoccupa la vostra misera potenza. Potrete anche aver evitato un colpo, ma il prossimo...»
Le labbra del dio rimangono schiuse su una parola che non riesce a fuoriuscire dalla gola.
Avverto la presenza familiare di Pandora alle mie spalle e di colpo mi volto. La vedo avvicinarsi con passo solenne, affiancata da una donna vestita da un'armatura verde come le acque del mare accarezzate dal sole. I lunghi capelli neri scendono mossi fino alla vita. Le labbra carnose sono schiuse e gli occhi verdi persi verso chissà quale direzione. Cosa stanno guardando?
«Anfitrite! Che cosa le avete fatto?» chiede Poseidone. Non conosco questa donna, il suo nome non mi dice nulla.
«Ancora niente. Per il momento è soltanto preda del un sonno della coscienza. Un mio incantesimo indebolito» risponde il dio dai capelli dorati.
«Ma dalla morte al sonno è un piccolo passo. La regina dei Sette Mari sottostà a questa norma, esattamente come qualsiasi altro Dio minore. Solo gli olimpici non possono essere colpiti  dal mio potere.»
«Per questo motivo» prende parola Pandora, accarezzando delicatamente una mano di Anfitrite. «La sua vita è nelle vostre mani, Sommo Poseidone. Avete due scelte. Potreste provare a ucciderci e scommetto che è quello che preferite, visto che ne siete in grado. In questo caso non dovreste firmare alcun patto con Ade, sarete libero di regnare sul vostro impero marino in decomposizione, ma privo della vostra preziosa sposa. Con Hypnos morto nessuno potrebbe risvegliarla; inizierebbe a deperire e morirebbe di stenti di fronte ai vostri occhi. In alternativa, potreste scegliere di aiutare il vostro nobile e magnanimo fratello e la morte risparmierà i mari, assieme alla vita di Anfitrite.»
«Nessun essere inferiore minaccia un dio e sopravvive abbastanza da poterlo raccontare. Lasciate andare Anfitrite! Ve lo impongo!» tuona Poseidone, allungando un braccio verso il tridente che dalla terra si distanzia e raggiunge la sua mano. La terra trema sotto i nostri piedi con una ferocia che non dà scampo a niente. Le costruzioni in lontananza crollano come castelli di sabbia. Le grida degli uomini spaventati si innalzano nel vento. Thanatos scoppia a ridere fragorosamente, mentre il fratello alza gli occhi al cielo, per nulla impressionato dall'ira del Dio dei Mari e dei Terremoti.
«Non è così che si negozia con noi» ghigna Pandora, mentre sposta tutte e due le mani sul collo di Anfitrite che non si oppone. Poseidone non aggiunge altro e senza esitare cerca di raggiungerla. Fa il mero errore di lasciarsi alle spalle tanto Hypnos quanto Thanatos, il quale approfitta della sua distrazione per colpirlo. Infausta Provvidenza si chiama il suo attacco che uccide i mortali e ferisce gli dei. Una fama in parte immeritata, poiché non scalfisce nemmeno l'armatura del dio dei Mari che si volta e, soltanto allungando un'ampia mano verso di lui, lo respinge con un imponente potere telecinetico. Hypnos invece non muove un dito. Osserva stoico la lotta, come se a lui non appartenesse. Si limita a osservare dall'alto verso il basso la sfrontatezza dei suoi simili.
«Fermati!» grido io, quando vedo Poseidone troppo vicino a Pandora. Sono uno sciocco, poiché è normale che non mi ascolti. L'unica cosa che posso fare è fermarlo di persona, contando solo sulle mie forze. Probabilmente è un tentativo vano, ma devo farlo. Devo? Perché? Non ho tempo di trovare una risposta poiché il metallo prezioso del tridente è difficile da trattenere nella presa delle mani. La mia armatura produce un rumore stridulo, fastidioso a contatto con la forza e la velocità dell'affondo che riesco a trattenere per miracolo. I miei occhi sono a pochi centimetri da quelli del dio maggiore. Ora posso vedere la sua disperazione, la paura. Un dio teme esattamente come un essere umano di perdere ciò che conta. Solo in quel momento capisco che io e lui siamo molto più simili di quanto abbia mai pensato.
«Lasciami andare, nipote!» sibila a denti stretti, mentre cerca di liberare l'arma dalla mia presa. Nonostante la sua forza metta a dura prova le mie braccia, non cedo e lo affronto, affermando un sofferto «mai.»
«Bravo, Radamante» mi gratifica Pandora con tono sprezzante. Volgo appena il capo verso di lei e la osservo con la coda dell'occhio. È intenta a strangolare la regina dei Sette Mari, resa fragile dal potere degli dei gemelli della morte e del sonno.
«Sbrigatevi, nobile Pandora... Non riuscirò a trattenerlo in eterno...» ammetto, mentre le lame del tridente si avvicinano al pettorale dell'armatura che indosso. Il tremore della terra concorre a minare la mia stabilità. Se dovessi cedere, morirei col cuore trafitto. La forza di Poseidone inavvertitamente si smorza. Lo sento gridare il nome della sua sposa, prima che il potente fascio d'energia prodotto da una nuova Infausta Provvidenza di Thanatos ci investa in pieno.
Questa volta veniamo entrambi spazzati via. Io accuso il colpo maggior mente e vengo sbalzato fino alle acque putride del mare. Lo scroscio dell'acqua contro la mia Surplice mi assorda per qualche istante. Tutto è confuso mentre sprofondo di metri e metri. Quaggiù l'acqua è ancora pulita e illuminata da una poderosa luce simile a quella del sole. È il Cosmo di Poseidone ad avvolgere ciò che si trova a queste immense profondità. Che sia questa la capitale del suo regno?
 Le mie labbra si schiudono, liberando l'aria consumata che tenevo stretta. Non ho forze per nuotare in superficie, poiché l'acqua purificatrice e fonte di vita abbatte il potere degli Spectre. I sensi lentamente mi abbandonano, assieme agli ultimi pensieri. Affondo in un mare di silenzio. Il boato del terremoto fa da eco alla battaglia. La mia memoria giunge a lei che mi ha portato via dalla distesa di cadaveri tra cui mi stavo spegnendo, mi ha fatto rinascere dalla morte e ha giudato i miei passi.
Pandora, forse la mia è solo riconoscenza? Che sia senso del dovere? Se così fosse non posso arrendermi. Voi siete in pericolo e io ho giurato di proteggervi in quanto sorella del Sommo Ade. Il Cosmo freddo e violaceo che mi caratterizza fa risplendere la Viverna di una luce rinnovata, combatte contro l'abbraccio dell'acqua, si espande e mi aiuta a risalire con una velocità pari a quella di una stella cadente. Riesco a ottenere l'accelerazione giusta per emergere e balzare fuori dall'acqua. Le mani di Pandora si sono allontanate da Anfitrite che adesso giace distesa tra le braccia del potente Dio del Mare. Eaco e Minosse fanno fronte compatto al fianco di Pandora, mentre gli dei osservano distanti lo spettacolo di disperazione e tristezza che ha Poseidone e come attore protagonista.
Un dio in ginocchio, che piange e recita parole d'amore alla sposa perduta. Ella è morta, è lui ad ammetterlo, eppure la stringe e la bacia come se potesse sentirlo. Arriccio il naso e contorco le labbra, mentre senza pensarci, allungo un braccio verso i decaduti signori dei mari.
«Patetico e vergognoso che nel mio cuore scorra sangue simile al tuo» lo schernisco, schifato dalla sua debolezza.
«Castigo Inferna...» non riesco a scagliare il colpo poiché la terra trema e si sgretola sotto i nostri piedi in seguito a un prolungato grido del dio dei Mari. Siamo costretti a arretrare di diversi metri, perciò stringo la vita di Pandora e la traggo in salvo, per quanto possibile. I flutti del mare si sollevano in titaniche onde che presto si abbatteranno sulla terraferma. La terra intera sembra volersi chiudere su di noi. Gli dei gemelli sono scomparsi, tornati a far parte della loro madre, la notte.
«Arretriamo fino al passaggio, Radamante!» grida Minosse. «Seguimi!»
 Ricordo perfettamente dove si trova il punto di accesso agli inferi, per questo vorrei rispondergli, ma non lo faccio. Il terremoto ha completamente cancellato il villaggio a ridosso della costa. Sarebbe un problema trovare il tempio che celava il passaggio tra inferi e mondo dei vivi senza l'aiuto di mio fratello. La sua memoria fa parte delle sue caratteristiche leggendarie.
«Io vi maledico» tuona la voce do Poseidone da ogni angolo dell'isola. «Al vostro passaggio il cielo collasserà sulla terra e vi schiaccerà. Tutti e tre nascerete e morirete assieme alle putride ambizioni di mio fratello. Che siate maledetti, tutti!»
 La sua voce si spegne nei tuoni sempre più insistenti e frequenti, mentre percorriamo le strade dissestate del villaggio completamente raso al suolo. Il lastricato, ormai distrutto, è tappezzato di cadaveri compressi dalle pietre e dalla paura.
«Come voleva lui...» afferma Pandora sognante, stringendo più forte la presa sul mio busto.
«Legherò un nastro su questo mondo e glielo regalerò» mormora, prima di chiudere gli occhi. Non dice più altro, nemmeno quando la trascino con me attraverso il passaggio che ci riporta negli inferi.
 Mai siamo usciti più martoriati da una missione da quando combattiamo per Ade. Dire che il nostro piano è andato in fumo è parlare per eufemismi. È questo che ci spiega il nostro Signore senza mezzi termini. La responsabilità del fallimento non è da imputare a nessun altro che a Minosse. Il suo rancore personale ha prevalso sullo spirito della missione. Mentre Pandora voleva solo mettere alle strette Poseidone, minacciandolo, Minosse non ha esitato a spezzare la vita di Anfitrite, rompendole l'osso del collo davanti agli occhi del marito. Se non fosse stato per l'intervento di Persefone, mio fratello sarebbe stato privato del suo ruolo e scagliato nell'oltretomba come un’anima corrotta qualsiasi.
Continuo a non credere alla pietà di Persefone, e più il tempo passa, più mi sento parte di un gioco, un disegno perverso, tracciato dalla regina degli inferi e da Pandora in persona. Il Sommo Ade è conteso tra entrambe.  Cercano in tutti i modi di accattivarsi i suoi pensieri, giocando con la nostra esistenza che, a quanto ho capito, non vale nulla. Non siamo che cadaveri rianimati, pupazzi dati in mano a marionettisti crudeli. Il mondo è sempre stato così. Gli dei combattono per noia, si cercano per ossessione e distruggono per divertimento. Avrei dovuto tenere in conto questa considerazione prima di dover sopportare il veleno che mi scava dentro, che porta con sé il colore dei suoi occhi e il profumo della sua pelle. Lei che ha diffuso i mali nel mondo, lei con l'anima nera come la pece mi ha rubato il cuore.
Per quanto provi a scacciarla dai pensieri, rimane sempre lì, come spina nel cuore.
So che questo gioco folle finirà per uccidermi o per rendermi patetico come Poseidone, ma non posso fare a meno di desiderarlo, almeno un decimo di quanto voglio lei.

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