Sospesi nell'impossibile

di ComeWhatKlaine__
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


“Dottore, io credo di amarlo!”
Nulla di male in una frase del genere. O almeno, quasi nulla, sembrerebbe.
Ecco, ‘sembrerebbe’. Perché ciò che dissi quel venerdì pomeriggio, nello studio in periferia del mio analista, era effettivamente la pura verità, ma era anche abbastanza per farmi rinchiudere in manicomio per il resto dei miei giorni.
E no, questa non vuole essere una quelle trite e ritrite metafore sul “sono pazzo d’amore” o roba del genere.
Ero innamorato ed ero pazzo.
O magari era la situazione ad essere folle e io non lo ero.
Chi, o forse meglio cosa, fosse la causa scatenante di questi miei tumulti interiori è una lunga storia e magari è meglio iniziare dal principio.
Mi presento: mi chiamo Blaine Anderson, ho 27 anni e la storia fuori di testa che sto per raccontare non è altro che la mia vita.
Il principio fu abbastanza normale, a dir la verità: sono nato a Westerville, nell’Ohio centrale, una cittadina di provincia in cui probabilmente la cosa più emozionante dell’anno era il concerto di beneficenza organizzato dalla Parrocchia, il giorno dell’equinozio di primavera.
La mia era la solita famiglia di Americani Medi: mia madre, Pam, regina indiscussa dei biscotti con le gocce di cioccolato ed amante dei musical anni ‘60 quasi quanto me; mio padre, Devon, che può definirsi come passione sfrenata per le auto da corsa tra un viaggio d’affari e l’altro e che da quando ha divorziato da mia madre sento solo per il mio compleanno e per gli auguri di Natale; e, infine, Cooper, mio fratello maggiore, che mi ricorda costantemente quanto praticamente tutta la mia esistenza sia stata un fallimento.
Stava andando tutto bene: bei voti a scuola, ero portato per gli sport di squadra ed ero il leader del Glee Club della mia scuola.
Esibirmi era tutta la mia vita: adoravo cantare, interpretare brani. Scriverne persino.
Poi tutto era andato in frantumi: una brutta infezione, l’intervento alle corde vocali, l’addio alle gare.
Un addio alla musica per me, perché ad essere andato in frantumi ero io nella mia interezza.
Lo scrivere però no, quello non si è spezzato: è stato un’ancora nel buio ed è ciò che mi tiene a galla ancora oggi, quando sento di poter ricascare nell’oblio mentre passo davanti ai teatri o canto sotto la doccia e mi sembra che la voce non ci sia.
Ed il mio piccolo, grande momento di gloria la scrittura me lo ha donato: ho letto il mio nome su ogni tipo di giornale e dentro centinaia di recensioni.
“La rivelazione dell’anno”: questo dicevano del mio romanzo.
Ero stato invitato a diversi talk show ed avevo partecipato a numerose conferenze, venendo così catapultato sotto un altro tipo di riflettori.
Avevo riversato in quelle pagine una buona dose di sarcasmo e tutte le emozioni che fino a quel momento ero riuscito ad esprimere solo attraverso quella musica a cui ancora non potevo che arrendemi.
Ma forse, in fondo, avrei potuto essere felice anche così.
Poi, ancora una volta, il buio.
Dicono sia normale “avere il blocco dello scrittore”, prima o poi.
Non so se fosse per il fatto che non mi ritenessi affatto uno scrittore o perché rifiutassi di credere di stare fallendo di nuovo: in ogni caso sentivo di aver perso il mio orientamento, e non sarebbe bastato gettarmi alle spalle sassolini bianchi per ritrovarlo.
E così iniziamo a mettere insieme i pezzi del puzzle: avevo bisogno di aiuto.
Avevo bisogno di una guida per la retta via e fu così che finii in quello studio in periferia, a parlare al dottor Schuester dei miei passi che si erano persi in un labirinto di sogni infranti.
Fu così che, proprio in quello studio di periferia, sdraiato sui cuscini asettici del lettino, ammisi ad alta voce di essere innamorato. E di essere pazzo.
Perché insisto tanto su questa storia della pazzia?
Due parole: Kurt Hummel.

 

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


La prima volta che incontrai Kurt Hummel fu nel mio letto, un piovoso mercoledì di fine agosto.
Ero intento a fissare il vuoto, ancora una volta, con il foglio tra le mani e la penna dimenticata chissà dove in mezzo al casino che infestava le lenzuola azzurre e tutti i miei giorni.
Un’idea. Deve venirmi un’idea. Deve esserci un’idea.
Poi qualcosa accadde. Accadde e basta,  e fu all’improvviso, come quei fulmini che colpiscono quelli che sono destinati ad uscire dal grigiore della massa e a diventare supereroi: che sia una questione di destino o meno, non cambia il fatto che il fulmine arriva e ti colpisce e tu non te lo aspetti.
Non so se stessi effettivamente iniziando ad avere delle allucinazioni da stress o se avessi talmente tanto sonno arretrato da stare concretamente sognando, eppure: eccolo là.
Beh, eccoli là: erano grandi, azzurri, iridescenti come cristalli, e mi fissavano, immersi nella calda luce pomeridiana del parco.
Non ricordavo quando avesse smesso di piovere, né cosa diavolo ci facessi nel bel mezzo di Bryant Park, con il mio taccuino sulle ginocchia e l’erba che mi solleticava le caviglie scoperte.
Quegli occhi mi stavano fissando, ma non mi ero mai sentito tanto a mio agio prima di quel momento.
Mi sentivo meravigliosamente a casa, con quelle iridi familiarmente estranee che continuavano a studiarmi: era come sentire ancora il profumo di cannella e di fuliggine nel salotto, con una coperta calda sulle spalle e il pianoforte a corteggiarmi dal lato opposto della stanza.
Era nuovo. Ed era magico.
“Scusami, posso farti una domanda? Sono nuovo qui.”
“Piacere, mi chiamo Blaine.”
“Kurt.”
E poi il pianoforte aveva iniziato a suonare, ed erano i tasti ad accarezzare me.

Fu il mio primo incontro con Kurt Hummel e fu il primo passo verso un uragano emozionale.
Restai a parlare con lui per circa venti minuti, che forse furono ore, che forse arrivarono fino a sera inoltrata.
La sua domanda si perse in altre mille e le mie risate divennero le nostre.
Mi parlava ed io parlavo con lui: può sembrare il discorso più scontato del mondo, ma avere qualcuno con cui poter parlare per ore senza stancarsi è una rara gemma. O almeno, io prima questo qualcuno non lo avevo mai incontrato.
E parlavamo di tutto, sull’erba del parco. E la penna correva rapida sul foglio.
Kurt Hummel era nato e cresciuto a Lima, e la cosa mi aveva fatto sorridere perché c’era davvero una possibilità su un milione che due emigrati da un’isola dei giocattoli rotti del genere potessero trovarsi faccia a faccia un mercoledì pomeriggio, in una delle più grandi città del mondo, con i rami degli alberi del parco che intrecciavano ricami sulle nostre spalle.
Kurt era l’unico figlio di Burt ed Elizabeth Hummel e due persone tanto straordinarie non potevano che dar vita alla più straordinaria tra le persone.
Burt possiede un’officina meccanica dove, sotto lo sguardo inorridito di suo figlio, si sporca le mani di olio e lubrificante, mentre la voce graffiante di John Mellencamp fa da colonna sonora al tutto.
Burt è il mondo per suo figlio e Kurt è il mondo per suo padre: sono stati l’uno la mano tesa per l’altro nel buio lasciato dalla morte improvvisa di Elizabeth.
E si tengono ancora stretti per mano. E si commuovono insieme ogni qual volta Elizabeth rivive nella voce di Kurt che canta con voce tremante.
Kurt ama la musica, e questa è stata l’ennesima cosa a farmi sorridere, perché ho pensato a quanto due occhi del genere debbano brillare mentre cantano.
A Kurt piacciono le corse in bicicletta e le mani che si sfiorano tra le canzoni.
A Kurt piacciono i ragazzi ed è solo una delle tante cose che abbiamo in comune, così come le spinte contro gli armadietti freddi e le lacrime lungo le guance quando l’ennesima canzone veniva a salvarci.
Kurt sogna in grande perché non deve accontentarsi.
Kurt è ambizioso, meteoropatico quanto basta e continua a commuoversi per Christian e Satine, anche alla centesima volta.
Kurt è quella coperta calda che ho sentito sulle spalle incrociando il suo sguardo per la prima volta.

Kurt Hummel è  tutto questo: e lo avevo inventato tutto da me, quel piovoso mercoledì di fine agosto, senza spostarmi di un millimetro dal mio letto incasinato, ma lasciando un pezzo di me stesso sull'erba di Bryant Park.

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