Like Rain At Midnight

di Maledetta
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1~Robot Boy ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2~Faint ***
Capitolo 4: *** Capitolo 3~One Step Closer ***
Capitolo 5: *** 4~Given Up ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


La gente dice che gli addii definitivi sono quelli più dolorosi: tutti credono che l'idea di lasciare un posto o una persona con la consapevolezza che non li si rivedrà più sia peggio che farlo con la speranza di poterli un giorno riavere indietro.

Nessuno come te in questo momento si è mai reso conto del fatto che mai una cazzata più grande è uscita da una bocca umana, non è vero Mike?

Forse dipende anche dal fatto che tu in questa città maledetta non ci volevi tornare, ma entrarci fa comunque un male maledetto.

Le ruote della tua Ford scassata slittano appena sull'asfalto umido, mentre le prime case della periferia Sud cominciano ad apparire ai lati della strada, facendoti sentire uno strano senso di vuoto.

Assomiglia un po' a quello che si prova a volte durante le serate d'estate, quando si guarda il sole tramontare e ci si fa travolgere dalla nostalgia, anche se non si sa di cosa si abbia nostalgia. 
Ci assomiglia un po', solo che fa male. Fa un male maledetto.

Sembra passato un secolo da quando hai percorso questa strada per la prima volta, ma non è cambiato nulla, non trovi?
È quasi inquietante: è come se il tempo qui si fosse bloccato e non fosse mai successo niente.

Ti ricordi quella prima volta? 

Era il 20 Settembre di dodici anni fa, tu avevi sedici anni ed era tutto esattamente uguale a come lo vedi adesso: case a due piani bagnate fradice ai lati della strada, a nord i condomini del centro si stagliavano contro il cielo plumbeo e tutto era maledettamente grigio.

Pioveva.

Piove sempre in questa città del cavolo.
Anche adesso piove: è sera, siamo in Giugno, e piove.

Non c'é un'anima per strada, esattamente come non c'era quel giorno.

Per un attimo ti chiedi se anche i tuoi genitori si siano sentiti così quella volta, mentre tuo padre guidava su questo stesso asfalto bagnato e tua madre guardava dritta davanti a sé cercando di non vomitare a causa del mal d'auto. 

Ti annoiavi e allo stesso tempo strepitavi, ricordi?

Jason dormiva accanto a te sul sedile posteriore della station wagon di vostro padre e tu non potevi fare altro che guardare fuori dal finestrino chiedendoti come sarebbe stata casa vostra, se saresti riuscito a fare amicizia o almeno a non sembrare un completo sfigato.
Ti chiedevi come facesse tuo fratello a dormire in un momento del genere: Gesù, quella era la vostra nuova città, la vostra nuova vita. 

Per un attimo ti chiedi se anche i tuoi genitori si siano sentiti come se stessero andando incontro a una condanna a morte... ma poi ti rendi conto di quanto sia stupido come pensiero: loro non avevano passato l'ultima decade a cercare di scappare da questo posto come invece hai fatto tu.
È praticamente impossibile che dodici anni fa, su questa stessa strada, si siano sentiti come se volessero essere ovunque tranne che qui.

-Papà?- senti mugolare dal sedile posteriore.

Guardando nello specchietto retrovisore vedi gli occhioni scuri e assonnati di Jamie aprirsi.

-Ciao Jamie.- le dici con un mezzo sorriso -Hai dormito bene tesoro?-.

Lei si toglie una ciocca di capelli castani dal viso e sbadiglia.

È una bella bambina, non è vero Mike?

-Sì papà. Siamo arrivati?-

-Quasi. Altri dieci minuti e poi ci siamo.-

Chissà se è normale questa sensazione che hai allo stomaco. 

Cerchi di sorridere per Jamie, ma in realtà ti viene da vomitare: di nuovo nella casa in cui hai vissuto per un anno quando eri adolescente, per tutta l'estate. 

Gesù, cosa puoi aver fatto per meritare una cosa del genere?

-Non vedo l'ora di vedere la mamma!- esclama tua figlia ricordandoti perché siete di nuovo in questa maledetta città.

Jamie ha una mamma: si chiama Elka e vive ancora qui. Quella povera bambina ha il diritto di vedere sua madre ogni tanto, no?

-Probabilmente ci starà aspettando a casa.- le dici mentre svolti verso il centro della città e finalmente un po' di vita comincia a mostrarsi timidamente attorno alla vostra macchina.

È stato qui intorno che hai visto Brad la prima volta, giusto?

Ti fece ciao con la mano mentre camminava accanto alla macchina di tuo padre ferma a un semaforo. Fu la prima persona di questa città a darti il benvenuto.

-Papà, ma com'é casa nostra?-.

Jamie ormai è completamente sveglia e si guarda attorno curiosa.
È nata qui, ma poi tu e la tua famiglia vi siete trasferiti di nuovo e lei è venuta via con te. 
È la prima volta che tornate, perché di solito è Elka a venire da voi in estate, e quando ve ne siete andati lei era troppo piccola per ricordarsi questo posto, perciò ora studia ogni cosa come se la vedesse la prima volta.

-Bella e abbastanza grande. C'é un garage enorme: prima che arrivassi tu avevo una band e... facevamo le prove lì.-

Un'immagine preme nella tua testa, ma tu fai di tutto per scacciarla: devi restare concentrato sul volante, ci sarà tempo più tardi per deprimersi.

Ormai siete quasi arrivati: il leggero via vai del centro sta sparendo e le case si fanno meno fitte, lasciando il posto alla periferia Nord. 

Lincoln Street non è cambiata: ci sono ancora le stesse buche sulla strada e le stesse case che c'erano quando tu avevi sedici anni, eppure qui c'è qualcosa di irrimediabilmente diverso: tu.
Sul resto della città non contava, perché in fondo non la conoscevi poi così bene (Gesù Cristo, ci hai vissuto meno di un anno), ma Lincoln Street è diversa. 
Questa strada è stata casa tua per un po': ti ha visto cambiare e innamorarti. 
Ti ha visto soffrire come un cane.

Ti era sembrata quasi bella, quel 20 Settembre di dodici anni fa. Adesso ti sembra solo vuota.
Eri una persona diversa all'epoca, ma Lincoln street è sempre uguale, e fa male.

Casa tua è ancora esattamente a metà strada, con la sua porta verde e il suo giardino con l'erba troppo alta. Persino l'albero di Dio solo sa cosa è ancora là nel suo angolino, sotto la finestra della tua stanza, anche se era già mezzo morto dodici anni fa.
La casa degli Hahn è ancora di fronte alla tua, anche se gli Hahn ormai non ci abitano più da anni. 
Le mura di cemento armato del Linkoln Park spiccano ancora contro il cielo, nell'angolo dell'isolato.
Casa Bennington è ancora al suo posto in fondo alla strada, anche se è mezza diroccata e sembra sul punto di crollare.

Casa Bennington... non ci pensare Mike. Non ci pensare.

Non è cambiato niente, persino le nuvole sembrano essere ancora nel posto dove le hai lasciate undici anni fa, quando tu e la tua famiglia avete levato le tende e ve ne siete tornati a Los Angeles.

La Toyota blu di Elka è parcheggiata nel vialetto di casa tua e lei è in piedi sulla soglia, con il cellulare in mano e l'impermeabile nero aperto su una camicia bianca un po' trasparente e un paio di eleganti pantaloni scuri. L'espressione preoccupata la fa sembrare più vecchia dei suoi trent'anni.

Vedendola, Jamie comincia ad agitarsi sul sedile e tu non fai nemmeno a tempo a parcheggiare e a spegnere il motore prima che schizzi fuori dalla macchina e si lanci fra le braccia di sua madre.

È normale che a undici anni sia così agitata?

Tu prendi un respiro profondo prima di scendere. Ti senti come un soldato che sta per andare in guerra ed è una sensazione odiosa.

Eccoti qui, di nuovo al 3702 di Lincoln Street.

Ti avvicini a Elka lentamente, mentre lei sembra sul punto di soffocare sotto l'abbraccio di Jamie.
Non vi conoscevate nemmeno prima che lei nascesse, o meglio: vi conoscevate di fama, ma ora siete diventati abbastanza amici. È una brava ragazza.

Lei si scosta un po' da vostra figlia e ti abbraccia stretto.
Ha un buon profumo e il suo sorriso ti rassicura un pochino. Giusto un po'.

-Jamie, perché non vai di sopra a cercarti una stanza mentre io e papà parliamo un po'? Ti chiamiamo quando la cena è pronta, va bene?- 

Elka apre la porta e la fa entrare, mentre tu e lei la seguite a ruota, appena in tempo per vederla correre su per le scale.

Voi due entrate in cucina e ti rendi conto che deve aver fatto un po' di pulizie, perché i teli anti polvere che tu e tuo padre avete messo prima di partire per tornarvene a Los Angeles sono spariti e i mobili splendono. 
Non dice quasi niente, ti chiede soltanto come stai e ti rivolge un sorriso triste quando tu scrolli le spalle ed eviti di guardarla.

Perché non riesci a guardarla Mike? È la madre di tua figlia, è una bella ragazza e siete amici: cosa diavolo c'é che non va?

Sprofondi in una sedia e ti guardi attorno spaesato, incapace di renderti conto veramente di dove sei, mentre Elka si affaccenda per preparare una cena a base di hamburger e patatine fritte.

Sei di nuovo al 3702 di Lincoln Street. 
Sei di nuovo in uno dei pochi posti che hai veramente chiamato casa in vita tua e tutta questa situazione risveglia un mucchio di ricordi che fanno un male del diavolo anche solo a sfiorarli.

Sei di nuovo a casa, e fa male. 
Fa male come se ti stessero asportando dal corpo un organo dopo l'altro senza anestesia.

Chiudi gli occhi, cercando di chiudere fuori dalla tua testa tutti questi brutti pensieri, ma è abbastanza inutile: sono lì, e non se ne andranno. 
Lo sai che non se ne andranno. 
Pretendono il loro posto in quello che sei e vogliono essere rivissuti.

Ti ricordi ad esempio di quella volta che tu e Ches...

-Mickey?- 
Elka ti chiama appena in tempo, soltanto per farti venire una fitta allo stomaco: sono anni che nessuno ti chiama più Mickey. Non hai più voluto dopo... dopo quello.

Resti a guardarla ancora mezzo assorto mentre ti chiede di andare a chiamare Jamie per la cena e poi ti alzi come un automa, sussurrandole un grazie quando le passi vicino per andare verso la porta.
Esci dalla cucina senza sapere neanche dove metti i piedi. 
Come farai a vivere qui dentro per tre mesi se ci hai messo piede da meno di mezz'ora e già vorresti andare a buttarti dal cavalcavia che si vede dal cortile posteriore? 

Ti avvii verso le scale poco illuminate. Avevi l'abitudine di farle di corsa quando vivevi qui, e non si possono contare le volte che hai rischiato di spaccarti la testa mentre schizzavi in garage per aspettare i ragazzi della band, il sabato pomeriggio.

Il garage... chissà se riuscirai a trovare la forza di tornarci prima o poi... in fondo sono passati dodici anni. Dovresti farcela.

Mentre sali prometti a te stesso di provare almeno ad entrarci, dopo aver messo a nanna Jamie. 

Elka ha pulito anche al piano di sopra e quasi ti dispiace di non esserti tolto le scarpe, mentre cammini sulla moquette rossa e ti chiedi dove possa essere tua figlia.
Vedi una lama di luce uscire da sotto la porta della tua vecchia camera e cerchi di imbastire un sorriso, mentre posi la mano sulla maniglia.
Prendi un respiro profondo e preghi di non sembrare troppo sull'orlo di un collasso emotivo, poi finalmente apri ed entri nella stanza. 

Nemmeno lei è cambiata molto: ci sono ancora le tue iniziali incise sull'intelaiatura di legno della finestra e una penna a china vecchissima se ne sta ancora nell'angolo della scrivania sgombra appoggiata contro il muro a sinistra. L'anta dell'armadio a fianco alla scrivania continua a non chiudere bene e la luce del lampadario a forma di sistema solare che pende dal soffitto trema ogni tanto, proprio come faceva dodici anni fa.

Il primo cassetto del comodino è aperto e Jamie è stessa sul letto, sopra le lenzuola pulite, in mezzo a un mare di fogli.

Riconosci alcune foto e qualcuno dei tuoi disegni e per un attimo ci resti di sasso: ecco dove li avevi lasciati. 
Ti piaceva disegnare, prima di... quello, ma poi hai smesso. Non è neanche che volessi veramente smettere, ma disegnavi sempre la stessa cosa, e faceva male. 

Molti di quei fogli hanno un valore affettivo: ti è addirittura dispiaciuto di averli persi, quando sei tornato a Los Angeles e ti sei accorto che non erano negli scatoloni del trasloco.
Sono sempre stati qui: forse era destino che tu tornassi in questa casa, in fondo.

Alcuni ti saltano all'occhio: un ritratto a carboncino di te e i ragazzi della band, un disegno dell'albero mezzo morto del giardino, una foto della scuola a cui andavate tutti quanti, un poster degli Artic Monkeys piegato in quattro, un soldato con le ali di libellula...

-Papà- comincia Jamie vedendoti. Tiene in mano un foglio a righe ingiallito dagli anni e lo guarda con una concentrazione particolare, come se riconoscesse qualcuno.
-Papà, chi sono questi due?-

Gira verso di te il foglio e senti il cuore che ti si ferma.

Te lo ricordi quel disegno. Anche troppo.

Il tempo ha sbiadito i tratti a biro e c'é una piega che li cancella quasi del tutto proprio nel centro, ma quell'abbraccio disperato immortalato sulle righe si riconosce ancora.

Chest... Gesù, non riesci nemmeno a pensarlo quel nome. 

Comunque lui odiava i fogli a righe.

-Nessuno...- borbotti cercando disperatamente di impedire alla tua voce di tremare -Nessuno. Dai, vieni giù: la mamma ha preparato la cena.-.

Da quando sorridere per finta è diventato così difficile? Hai passato gli ultimi undici anni a sorridere a tua figlia anche se ogni singola volta che la guardi negli occhi ci vedi qualcosa che non vorresti vedere: quand'é che è diventato tutto così impossibile?

-Va bene papà...-

Jamie raccoglie i fogli sparpagliati sul letto e li rimette nel cassetto, poi insieme scendete in cucina.

-Allora amore, hai scelto la tua nuova stanza?- le chiede Elka mentre apparecchia la tavola.

-Sì mamma.- risponde Jamie sorridendo -Mi piace quella di papà.-

[...]

Ti svegli nel cuore della notte con un urlo che ti muore in gola e la spina dorsale attraversata da un brivido. 

Hai fatto di nuovo quel sogno, lo stesso che fai da dodici maledettissimi anni... l'hai visto di nuovo. 
Lui non se va mai via. 
Lui non se ne andrà mai via.

Tiri un sospiro frustrato e ti alzi dal letto. 
Hai preso la camera di tuo fratello, perché la tua l'ha assediata Jamie e da quella dei tuoi genitori hai preferito stare lontano, ma questo materasso ti è sembrato strano fin dall'inizio e ora che sei sveglio non hai nessuna intenzione di restare qui a soffrire l'insonnia.

La sveglia segna le due e cinquantasette, come sempre.

Più silenziosamente possibile apri la porta e percorri il corridoio fino alle scale. 
Ti fermi sull'ultimo gradino, a guardare sconsolato la porta che si apre sul garage chiusa a chiave alla tua destra. 

Alla fine non sei riuscito a entrarci.

Ti giri verso la cucina, la cui porta è proprio di fronte a quella del garage, sul muro a sinistra, e vai a prepararti una camomilla.
Non sei mai andato matto per la camomilla e non ti rilassa per niente, ma in questo momento hai davvero bisogno di qualcosa di caldo e c'è soltanto quella nella dispensa.

Nel giro di un quarto d'ora ti ritrovi con una tazza in mano e ti chiedi cosa devi fare adesso.

Questa è un'ottima domanda, Mike, cosa devi fare adesso?

Non lo sai. Nessuno lo saprebbe, in una situazione come la tua. 

Bevi un paio di sorsi di camomilla e poi abbandoni la tazza sull'isola della cucina.

Ti è passata la voglia, vero?

Cominci a girare in tondo per la stanza, cercando in tutti i modi di non pensare a lui, di non pensare a...

Cominci a girare in tondo per la stanza, cercando in tutti i modi di non pensare a lui: a Chester.

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Capitolo 2
*** Capitolo 1~Robot Boy ***


[Chester]

Pioveva. 

Pioveva forte da così tanto tempo...
Pareva che il cielo non avesse mai fatto altro che piovere.

Da giorni.
Da mesi.
Da anni.

Pareva che il cielo non avesse mai fatto altro che piovere.

Pioveva.

Probabilmente non avrebbe smesso.

La pioggia cadeva lenta.
Monotona.

Chester la guardava da dietro il finestrino dell'autobus.

Non c'era nient'altro di interessante.
Il paesaggio era tutto uguale.

Strade.
Case.
Alberi.
Case.
Di nuovo alberi.
Sempre fottutamente uguale. 
Metro dopo metro. 
Chilometro dopo chilometro. 
Sempre fottutamente uguale.
Che palle.


Chester quindi fissava la pioggia. 
I suoi occhi quasi neri si muovevano quasi convulsamente dietro le lenti spesse degli occhiali. 

Lui adorava la pioggia. 

Con quel suo modo di picchiare gelida e impietosa su quel mondo monotono e fottutamente noioso.
Con quel suo venire giù fregandosene della schifosa gabbia di matti che bagnava.

Lui adorava la pioggia.

Ma non quel giorno. 
Quel giorno voleva solo che quel fottuto ticchettio contro quel dannato vetro la smettesse.
Che la smettesse di fargli scoppiare la testa.
Che la smettesse di smontargli ogni singolo cazzo di neurone mezzo fumato che gli rimaneva con quella lentezza da agonia. 

Niente più sbornie la Domenica.

Una semplice promessa del cazzo.
La solita promessa del cazzo del Lunedì mattina.

La solita pioggia.
Il solito autobus.

Niente di nuovo sul fronte occidentale.

Non per Chester Bennington.

Non per il perdente più perdente degli Stati Uniti D'America, che a diciassette anni contava la bellezza di tre amici:
Alcool, droga e sesso occasionale, 

Non necessariamente in quest'ordine.

e una scopamica con un nome russo.

Ma non doveva pensarci.

Chiuse gli occhi.

Cercando di cancellare il nulla che c'era fuori dal fottuto finestrino su cui si stava appoggiando.
Cercando di non pensare a alberi e case che si rincorrevano in un loop infinito dietro quel vetro sporco.

Era come guardare un portale dimensionale.

O come fissare una registrazione a ciclo continuo su uno schermo.

Dall'altra parte c'era il loop.
Dalla sua un autobus pieno di adolescenti del cazzo che andava verso una scuola del cazzo.

Seriamente, un giorno troverò quel bastardo che ha inventato il Lunedì e lo ucciderò in un modo atroce. 
Giuro. 
Ma oggi no. 
Oggi ho un mal di testa fottuto.
Mai più sbornie la Domenica.


Era la promessa del cazzo del Lunedì.
La promessa del cazzo che non manteneva mai.

Ma era inutile pensarci in quel momento.
Anche perchè aveva troppo mal di testa per pensare.

Cercò invece di trovare una posizione comoda. 
Non servì a niente.
Il solito aubus scomodissimo.

Autobus del cazzo.

Provò a chiudere gli occhi.
Magari poteva sonnecchiare cinque minuti...

Cinque minuti.
Soltanto cinque minuti.


Ma non poteva dormire.
Forse non si sarebbe svegliato.

Se si fosse addormentato avrebbe potuto morirci su quel fottuto sedile.
Magari di combustione spontanea.
Magari si sarebbe sciolto in una cazzo di pozzangera.
Una cazzo di pozzanghera puzzolente di fumo e di alcool.

Aprì gli occhi.
Doveva rimanere concentrato. 
Non doveva prendere sonno.

Perché cazzo non la smetto di passare la notte a far casino e non dormo un po'?

Doveva rimanere concentrato.
Non doveva prendere sonno.

Per distrarsi cominciò a guardarsi attorno.

Non era facile capire qualcosa in quel marasma.
Qualunque tipo di idiota esistesse, in quel cazzo di autobus c'era.

Idioti che urlavano.
Idioti che giocavano a tirarsi cose addosso.
Idioti che si baciavano.
Idioti che ripassavano.

Tanti idioti che a diciassette fottutissimi anni si comportavano come fottutissimi bambini.

Tutto quel maledetto rumore...

Dio, aveva una voglia matta di urlare.

Ogni secondo in quell'autobus infernale era un urlo in più che gli pesava sul petto.

Dio, aveva una voglia matta di urlare.

Quei bastardi figli di papà sembravano felici, cazzo.

Felici.

Erano felici, porca puttana. 

Lui invece no.

Dio, aveva una voglia matta di urlare, ma non urlava.

Non urlava, perché loro l'avrebbero sentito.

Non devono sentirmi.
Non voglio la loro pietà.


La pietà era una colpa.
Era una colpa per chi la provava e per chi la subiva.

Loro non devono vedere.
Non devono sapere.


Non dovevano vedere che stava male. 
Dovevano vedere una macchina.

Avrebbe voluto poter essere una maledettissima macchina, davvero.

Le macchine non sentono dolore. 

Chester nei suoi diciassette anni dolore ne aveva sentito anche troppo.

Le macchine non pensano. 

Era stato ferito per così tanto tempo...

Non soffrono. 

Sembrava che non avesse mai fatto altro che farsi ferire.

Per giorni.
Per mesi.
Per anni.

Non aveva più niente da perdere.

Le macchine vanno avanti e basta, e chi se ne frega.

Era stato ferito in un modo che nessuno avrebbe mai potuto capire.
O immaginare.

Non devono vedere.
Non capirebbero.


Chester però non poteva essere una macchina.
Ovviamente.
Non poteva diventare di metallo e spegnere il suo fottuto cervello fumato.

Gli sarebbe andato bene anche essere la pioggia.

Scendere fregandosene di tutto.
Morire su quelle stramaledette strade.
Sugli alberi che si ricorrevano sempre maledettamente uguali dietro quel cazzo di finestrino.

Però non poteva nemmeno essere la pioggia.

Cazzo, non poteva svegliarsi la mattina e decidere di diventare acqua.

Morire.
Gli sarebbe bastato anche morire.

In fondo non aveva più niente da perdere.

Tecnicamente quello poteva farlo.

La fregatura era che non esisteva un modo decente di farla finita. 

Tutto così banale.
Tutto così patetico.
Non c'era un modo decente per andarsene. 

Non c'era un modo degno di mettere fine alla sua vita patetica fatta di urla mai urlate e di vuoti mai riempiti.

Pesavano, le urla e i vuoti.

Pesavano e non lo lasciava andare.
Con la vita di merda che aveva avuto non poteva morire in un modo idiota.

Quindi combatteva.

Combatteva, anche se continuava a ripetersi che non lo avrebbe fatto.
Combatteva, anche se nessuno avrebbe combattuto per lui.
Combatteva come un soldato ferito che si ostinava a non cadere.

Che senso aveva andare avanti?
Più o meno lo stesso che aveva non farlo.

Quindi andava avanti.

Ogni minuto di ogni ora.
Ogni ora di ogni giorno.
Sempre uguale.

Da giorni.
Da mesi.
Da anni.
Da sempre.

Andava avanti.
Con il peso delle urla mai urlate che premeva nel petto.
Che si faceva sempre più pesante. 

Era come avere addosso il peso del mondo e sapere di non potersene liberare.

Aveva una voglia matta di urlare, ma non urlava.

Sempre uguale.
Da giorni.
Da mesi.
Da anni.
Da sempre.

Ma era inutile pensarci.

Si guardò attorno, per distrarsi.
C'era poco da vedere.

Cretini felici.
Nient'altro.

C'era l'autobus.

Sembrava inchiodato all'asfalto di quella dannatissima strada bagnata.

Era lento.
Era fottutamente lento.

Tutto era fottutamente lento.

Le persone.
Gli oggetti che gli altri ragazzi si lanciavano.
Le lancette degli orologi.
Tutto.

Tutto era fottutamente lento.

Come se il mondo fosse stato immerso nella melassa.

La sua testa pulsava. 
Era l'unica cosa a non essere fottutamente lenta.

Per un attimo, Chester pensò che gli si fosse formato un secondo cuore dove una volta c'era il cervello.

Maledetto mal di testa...
Davvero, niente più sbornie la Domenica.


Era la promessa del cazzo del Lunedì.
La promessa del cazzo che non manteneva mai.

Quel viaggio durò una vita.

Comunque, alla fine nessuno lo dice mai, ma le torture hanno un lato positivo.

Finiscono.

La gente tende a vedere il lato negativo delle cose.

Lui per primo tendeva a vedere il lato negativo delle cose.

Sempre.
Sempre e comunque.
Non sono sicuro che mi faccia fottutamente bene.


Ma le torture hanno un lato positivo.
Finiscono. 

Prima o poi ti liberano.
Oppure crepi.

Quale delle due è una cazzata secondaria.
Dipende dal tempo che passa.

Comunque finiscono.

Quindi anche quel viaggio in quell'autobus del cazzo verso la maledetta scuola finí. 

Come tutte le torture.

L'autobus parcheggiò alla fermata vicino al cancello.

Gli altri cominciarono a raccogliere le loro cose.
Chester non si mosse.

È se restassi su questo cazzo di autobus?
Non è uno di quelli della scuola.
Posso arrivare al capolinea, e poi decidere cosa fare.
In fondo, se sparisco e non torno più, probabilmente non se ne accorgerà nessuno.
Nessuno piangerà.


Si concesse venti secondi per accarezzate quell'idea idiota.

Peccato solo che non ho soldi.

Si alzò dal sedile.
Scese dall'autobus sbuffando. Trascinandosi dietro la cartella.

Si alzò il cappuccio per non bagnarsi i capelli.
Si avviò verso il cancello della scuola.
Imprecò quando si accorse che ne vedeva due.

Sono messo peggio di quello che credevo.

Cercò di mettere a fuoco ciò che vedeva.

Da quando in qua ci sono due fottuti cancelli invece che uno?

Probabilmente fu lo Spirito Santo a portarlo in classe. 
Lui a malapena ricordava il suo cazzo di nome.
Figurarsi se si ricordava che cazzo di lezioni avesse.

Non che in effetti lo Spirito Santo potesse fare granché.
Non per uno che non ci credeva.

Probabilmente fu lo Spirito Santo che lo aiutò a sopravvivere a tutta la giornata.
A malapena era sopravvissuto al viaggio in autobus.
Figurarsi se poteva sopravvivere a ore su ore di cazzate inutili e noiose.

Se ne stava lì. 
Seduto in un banco in fondo a scarabocchiare.

Di ora in ora cambiavano solo le aule.
Di ora in ora cambiavano solo i professori.

Probabilmente fu lo Spirito Santo che lo tirò su di peso e lo parcheggiò alla fermata dell'autobus a fine giornata.
A malapena si reggeva sulle sue gambe.
Figurarsi se poteva fare i cento metri che separavano quella fottutissima fermata dalla fottutissima scuola.

Se ne stava lì.
Appoggiato a un palo.
Le cuffie nelle orecchie.
Una canzone dei Foreigner.
Gli occhi chiusi.

Ecco fatto.
Lunedì finito.
Problema risolto.


-Fai la nanna, Bennington?-

Problema risolto un cazzo.

Una voce.
Una cazzo di voce idiota di un ragazzo idiota.

Una voce idiota di un ragazzo idiota con un vocabolario da idiota.

Gli attraversò la testa.
Come una fucilata.

Niente più sbornie la Domenica.

Era la promessa del cazzo del Lunedì.
La promessa del cazzo che non manteneva mai.

-Cos'é? Quella troia di tua madre t'ha fatto senza lingua? Strano, pensavo che la usassi parecchio. Ma magari la usi per altro.-

Sono una dannatissima macchina.

Mille risatine idiote gli perforarono il cervello.

Cristo, quanti cazzo ce ne sono?
Devo ignorarli.
Se li ignoro si stancheranno.
Spero.


Chester non riusciva a capire chi cazzo avesse davanti.
Si ostinava a tenere gli occhi chiusi.

La luce era tremenda.
Aveva un mal di testa fottuto.

-Avanti puttanella, non fare così.-

Non mi chiamare putt... no. 
Sta calmo Chester, stai fottutamente calmo. 
Calmo.


Ma non riusciva a stare calmo.

La rabbia lo bruciava.
Era il suo difetto fatale.
Era incazzato.
Incazzato con il mondo.

Rimase immobile.
Non emise un fiato.
Gli occhi serrati.
Gli occhiali un po' bassi sul naso.
Il cappuccio alzato.

Le dita della mano sinistra che si chiudevano attorno all'acciaio freddo del tirapugni che teneva sempre nella tasca dei jeans.

Chiunque fosse andava sistematicamente ignorato.

Dei passi si avvicinarono a lui.
Passi lunghi.

Chiunque sia l'idiota, è un idiota bello grosso.

Fiato caldo e puzzolente di fumo gli investì il viso.

Sentì uno spostamento d'aria. 
Leggero come una carezza.
Mani grosse e dannatamente ruvide gli abbassarono il cappuccio.

Strizzò gli occhi.
Aveva un mal di testa fottuto.

-Buongiorno Principessa.- 

Qualche schizzo di saliva gli arrivò in faccia, mentre il deficiente che aveva davanti tentava di non ridere.

Non devo. 
Saltargli. 
Addosso. 
Non devo. 
Saltargli. 
Addosso. 
Non devo.


Un vero e proprio sputo lo centrò in pieno viso.

Vaffanculo.

Chester non si rese nemmeno conto di essersi mosso.

Tre secondi dopo il naso di quell'idiota si stava rompendo sotto il suo pugno ricoperto dell'acciaio del tirapugni.

Altri tre secondi dopo Chester era a terra.
Con altri tre idioti che sembravano avere tutta l'intenzione di farlo a pezzi.

Era caduto subito.
Era bastato che uno di loro lo spintonasse appena. 

L'equilibrio l'aveva tradito.

Merda.

Erano grossi.
Incazzati. 
Avevano una voglia matta di spaccargli la faccia.

Lui aveva una voglia matta di urlare, ma non urlava.

Io e il mio strafottutissimo tirapugni...

Si chiuse a riccio.
Sentì le ossa scricchiolare sotto i calci.

Si morse il labbro a sangue.
Non avrebbe dato loro la soddisfazione di sentirlo urlare.
Non avrebbe dato loro la soddisfazione di vederlo piangere.

Loro non devono vedere.
Non voglio la pietà di nessuno.


Sembrarono passare anni.
Quel maledetto pestaggio sembrò durare una vita.

Ma le torture hanno un lato positivo.
Finiscono.

Lo stridio di freni dell'autobus invase l'aria grigia. 
Sparirono tutti quanti. 

Lo mollarono lì. 
Tutto rotto.
Come una bambola di pezza. 

Tutto rotto.

Bastardi.
Niente più sbornie la Domenica.
Lo giuro.


Era la promessa del cazzo del Lunedì.
La promessa del cazzo che non manteneva mai.

Restò lì. 
Fermo. 
Gridando in silenzio dentro la sua testa.

Sembrarono passare anni.

Probabilmente fu lo Spirito Santo a rimetterlo in piedi.
Non era più nemmeno sicuro di avere le gambe.
Figurarsi se avrebbe potuto rimettersi in piedi.

Respirò a fondo per quelle che gli sembrarono delle ore.

Si sentiva un fottutissimo frappé al posto delle costole.
Il mal di testa era peggiorato.
Non ci vedeva più.

Gli occhiali.
Cazzo.
Li ho persi.
Cazzo.
Almeno non mi hanno rotto niente.


Respirò.
Le costole erano un maledetto Inferno.

Si guardò attorno. 
Scorse una macchia nera e sfocata sul marciapiede bagnato.

Si alzò a fatica.

Da quando camminare è così fottutamente difficile?

Si avvicinò barcollando ai suoi occhiali. 
Tentò inutilmente di non finire per terra un'altra volta mentre si abbassava per recuperarli.

Lo Spirito Santo lo rimise di nuovo in piedi.
Forse avrebbe dovuto cominciare a crederci, dopotutto.

Non si sa mai che non serva a qualcosa.

Si rimise gli occhiali.

Il mondo smise di essere sfocato e diventò crepato.

La lente sinistra è rotta.
Meraviglioso.
Vaffanculo.


Quando due ore dopo arrivò barcollando a casa sua, non c'era un cazzo di nessuno in giro.

Era solo.

Come sempre.

Salì in camera sua.
Si buttò sul letto così com'era. 

Bagnato. 
Distrutto.

Aveva dolori ovunque.
Dappertutto.

Cazzo...

Chiuse gli occhi.

Niente più sbornie la Domenica.
Giuro, cazzo.


Era la promessa del cazzo del Lunedì.
La promessa del cazzo che non manteneva mai.




ANGOLINO NERO PER UN'ANIMA NERA
*Si affaccia dal suo angolino* salve... 
Spero che il primo capitolo vi sia piaciuto, anche se è un pelo anticonvenzionale.
La prima versione di questa... cosa... è stata scritta qualcosa come un anno e mezzo fa durante un attacco di noia, ma da allora non c'é praticamente una sola parola che sia rimasta uguale: l'ho ripreso in mano e modificato talmente tante volte che ieri, rileggendo l'originale, avevo il dubbio di non averlo scritto io.
È un po' corto e un po'... strano... ma presto vi accorgerete che l'incasinamento è una costante nella testa di Chester.
Ok, immagino che vi stiate annoiando, perciò la smetto di scrivere puttanate.
Grazie a tutte(i?) quelle(?) che recensiranno, noi ci leggiamo il la settimana prossima con il secondo capitolo, nel frattempo fatemi sapere cosa ne pensate.
Con affetto

Maledetta

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Capitolo 3
*** Capitolo 2~Faint ***


[Chester]

Chester aprì gli occhi quel tanto che bastava per farsi accecare.
Accecato dalla penombra lieve che regnava nella sua stanza.

Cristo, sto uno schifo.
Che cazzo di ora è? 
Quanto cazzo ho dormito?


Girò la testa sul cuscino.

Faceva male.
Tutto quanto.
Non c'era una sola cellula in tutto il suo fottuto corpo che non lo stesse uccidendo.

Le tempie pulsavano.

I muscoli si lamentavano.

Il petto chiedeva vendetta.
Bestemmiando come un vecchio italiano incazzato.

Merda.

La sveglia sul comodino segnava le tre di notte.

Fantastico.

Provò a tirarsi addosso le coperte.
Faceva un freddo fottuto in quella stanza maledetta.

O forse era lui a sentire un freddo fottuto.

Si era addormentato bagnato fino al midollo.
Con gli occhiali ancora addosso.
I vestiti ancora sporchi di fango.

Forse era lui a sentire un freddo fottuto.

Devo farmi una cazzo di doccia.
Calda.
Mi verrà una cazzo di polmonite.

Si tolse le coperte di dosso.
Scalciandole via in un moto di rabbia.
Contro quel tipo di freddo erano fottutamente inutili.

Sbuffò.
Si alzò a fatica. 
Una scarica di dolori lo attraversò dalla testa ai piedi.

Uscì a fatica dalla sua stanza.

Sono messo peggio di quello che credevo...
Possibile che non mi sia rimasto un solo fottuto muscolo tutto intero?


Si appoggiò al muro.
Cercando di riprendere fiato.

La porta del bagno.
Devo arrivare alla porta del bagno. 
Posso farcela.

Si trascinò fino al bagno.
Restando appoggiato al muro per non cadere.
Imprecando ogni due passi.
Mordendosi il labbro per non urlare.

Faceva male.
Tutto quanto.

Porca puttana.
Sono a pezzi.

Dalla sua camera al bagno erano tre metri.
Tre metri dalla sua camera.
Quei tre metri sembrarono durare una vita.
Quando arrivò si sentiva morire.

Possibile che sia messo così male?

Entrò nella stanza. 
Cominciò a spogliarsi.
Imprecando ogni volta che toccava uno dei punti in cui faceva male.
Stava per entrare in doccia quando guardò lo specchio.

Non doveva guardarlo.
Era una delle sue fottute maledette regole fondamentali.

Merda.

Su quel maledetto specchio gli sembrava di vedere un fottutissimo cadavere.

Chester non era alto, ma neppure basso.
Era magro.
Troppo magro.
Le ossa sporgevano da sotto la sua cazzo di pelle cadaverica.

Era un cimitero di lividi e cicatrici con un tatuaggio sulla spalla.

Cicatrici che non si potevano nascondere.
Che tutti vedevano.
Quello che tutti volevano vedere.
Vedere cosa cazzo ci fosse sotto non rientrava nelle priorità della gente.
Troppa fatica cercare di capire.

Non sarebbe bastato un giorno per contarle, quelle cicatrici del cazzo.
Il tempo non le avrebbe mai fatte guarire.

Non avrebbe mai potuto convincere tutti gli altri che quello che lui voleva mostrare (e quindi di sicuro non quei cazzo di segni sulla sua pelle) fosse la realtà.
Per questo lasciava perdere.
Li lasciava voltargli le spalle.
Lasciava che lo ignorassero.

Come sempre.

Smise di guardarsi le cicatrici.
Si guardò la faccia.
Aveva le occhiaie.
Gli occhi arrossati.
Sembrava un cazzo di drogato.

Sono un cazzo di drogato.

Rimase a guardarsi.

Non doveva guardarsi. 
Era una delle sue fottute maledette regole fondamentali.

Su quel maledetto specchio gli sembrava di vedere un fottutissimo idiota disperato.

Un po' di solitudine.
Un po' di indifferenza.
Urla che sarebbero rimaste dentro.
Forse era un po' insicuro.
Un  po' diffidente.
Perché la gente non capiva che lui faceva quello che poteva per non cadere.
Ma non riusciva a essere chiaro quando parlava,
Quando cercava di farsi capire.
Diceva quello che nessuno avrebbe voluto sentire.
Non che cambiasse qualcosa, comunque.
Non importava cosa cazzo facesse.
Non avrebbe mai potuto convincere qualcuno ad ascoltarlo almeno una dannatissima volta.
A sentire quello che aveva da dire.
Non che avesse qualcosa da dire, comunque.
Per questo lasciava perdere.
Guardava la gente voltargli le spalle.
Guardava la gente fingere che lui non esistesse.
Lasciava che lo ignorassero.
Anche se non voleva essere ignorato.
Anche se faceva male.

Come sempre.

Distolse lo sguardo imprecando.
Entrò nella doccia.
Si lasciò scivolare lungo la parete.

Rimase lì.
Rimase lì e basta.

Gli piacevano le docce. 
Gli ricordavano la pioggia.
In doccia non riusciva a pensare.
Proprio come quando pioveva.

L'acqua calda lo fece sentire un po' meglio.

Quasi quasi questa notte dormo qui.



[Mike]

-Mike? Mike ci sei?- 
Mike aprì di poco gli occhi senza la minima voglia di farlo, sentendo qualcuno urlare per strada. Chi cazzo era che urlava per strada a quell'ora?
-Hey! C'è nessuno in casa? Terra chiama Mike Shinoda, Mike Shinoda rispondi!- 
Si rigirò nel letto ficcando la testa sotto il cuscino. Non aveva decisamente voglia di alzarsi.
Il cellulare sul comodino prese a squillare facendolo sobbalzare fra le coperte. 
–Merda...- biascicò mettendosi seduto e prendendo fra le mani il telefono -Pronto?-
-Mike, si può sapere cosa diavolo stai aspettando a uscire?- 
Joe? Perché Joe lo chiamava nel cuore della notte? Cosa cavolo voleva? E soprattutto perché diavolo stava urlando come un cretino nel bel mezzo della strada? Perché era lui l'idiota che stava urlando in strada, sicuro come era sicuro che lui si chiamava Michael.
-Sono le sette e mezza: praticamente siamo nel cuore della notte. Perché dovrei uscire?- chiese con voce impastata -Che cosa diavolo vuoi da me? -
Mike era ancora mezzo addormentato e avrebbe pagato oro e diamanti per poter restare a letto. Non che fosse un tipo pigro, anzi, ma prima delle otto non si alzava praticamente mai, malgrado il piú delle volte, eccetto quella mattina, si svegliasse intorno alle sei: non si sentiva psicologicamente pronto ad affrontare la giornata, prima delle otto.
-Dobbiamo andare a scuola deficiente!- 
Allontanò un po' il telefono dall'orecchio, infastidito dall'urlare di Joe.
-Scuola?- chiese confuso.
-Sì Mike, a scuola. Hai presente quel posto orribilmente simile a un campo di concentramento che gli adulti usano per rovinare le menti di noi poveri ragazzi indifesi? Ecco, quello.-
Mike si stropicciò gli occhi.
-Scuola.- ripeté cercando di metabolizzare la cosa. 
Poi fece il collegamento.
-Gesù Cristo, la scuola!- esclamò sobbalzando -Non ti muovere da lì, sto arrivando.- raccomandò saltando giù dal letto e catapultandosi in bagno. 
Perché diavolo la sveglia non l'aveva svegliato? Mentre si lavava i denti decise che quell'ammasso immondo di chip e plastica gliel'avrebbe pagata, primo o poi.
Mentre saltellava in corridoio cercando di infilarsi le scarpe e chiedendosi dove si fosse cacciato il suo zaino passò davanti alla stanza di suo fratello Jason, che russava beatamente ignaro del fatto che per Mike fosse il primo giorno. Jason si era misteriosamente ritrovato con una febbre vertiginosa proprio la sera prima, quindi sarebbe rimasto lì a dormire. 
Piccolo bastardo... gli venne una voglia assurda di fare irruzione urlando come un idiota, ma poi si ricordò di essere in ritardo e ricominciò a rimbalzare da un piede all'altro verso la cucina alla disperata ricerca del suo maledetto zaino. 
Che senso aveva cercare lo zaino in cucina? Non lo sapeva nemmeno lui, ma aveva un ritardo mostruoso, la sua cartella era sparita e c'era un coreano che lo aspettava sotto casa pronto a sgozzarlo per il suddetto ritardo mostruoso: era disperato.
-Mike!- urlò Joe fuori dalla porta.
-Arrivo... merda...-
Era inciampato nello zaino. Nel bel mezzo del corridoio. Cosa cavolo ci faceva il suo zaino nel bel mezzo del corridoio? 
Scosse la testa e lo raccolse, cominciano a scavalcare gli scatoloni del trasloco ammucchiati davanti all'ingresso per uscire.
-Finalmente! Cominciavo a darti per morto.- 
Joe lo aspettava in fondo al vialetto con uno zaino ricoperto di graffiti colorati appoggiato vicino a lui sul marciapiede e una faccia che era praticamente una minaccia di morte sottintesa. Nemmeno troppo sottintesa, a dire il vero.
-Scusami Joe, non avevo sentito la sveglia.-
Mike odiava le sveglie: erano oggetti semplicemente immondi. Non si sarebbe stupito se gli avessero detto che era stato Satana in persona a inventarle.
-Sì, sì, certo. Ora muoviti scimmione o perderemo l'autobus.-
Mike si ritrovò ad osservare Joe che gli camminava davanti con aria sicura: lo conosceva da due settimane, cioè dal giorno stesso in cui era arrivato in quella città dopo il trasloco. Abitava nella casa di fronte alla sua, vedersi e fare amicizia era stato inevitabile.
Quando arrivarono alla fermata, lo scuolabus non era ancora arrivato.
Perché gli autobus dovevano sempre essere in ritardo? Colpa delle sveglie, probabilmente. Mike ci avrebbe scommeso, anche se per una volta il fatto che fosse in ritardo non era una brutta cosa: insomma, era meglio arrivare tardi per colpa dell'autobus che per aver dormito troppo...
Dovettero aspettare quasi un quarto d'ora, prima di riuscire a salire.
-Hey Joe! Ti ho tenuto il posto!- urlò un ragazzo con i capelli ricci e scuri da una delle ultime file. 
Mike si rese conto di conoscerlo: quel tipo lo aveva salutato con una mano mentre entravano in città, il giorno del trasloco.
-Grazie Brad, ma per oggi passo. Ho promesso a sua madre che avrei badato a lui.- disse Joe indicando Mike.
-Cosa scusa?- 
-Stavo solo scherzando, Mike. Vieni con me.-
Joe cominciò a farsi largo nella calca di adolescenti fuori controllo verso il fondo, dove per miracolo erano rimasti due posti liberi.
-Il posto vicino al finestrino è mio.-  avvisò lanciando lo zaino sul sedile prima di andare a sedersi.
Mike si accomodò al suo fianco e prese a guardarsi attorno. 
Gli piacevano gli autobus: si sentiva a suo agio in mezzo a quel marasma di suoi coetanei che ridevano, si lanciavano di tutto e di più o facevano finta di studiare. Più o meno tutti davano il proprio contributo a quel casino generale: chi ripetendo a voce alta, chi sparando battute senza senso a raffica, chi prendendo a cartellate il proprio vicino... eppure... c'era qualcosa che non andava.
Mike avrebbe giurato che ci fosse una specie di nota che stonava, in quella sinfonia di ormoni, noia e scaga per l'imminente compito in classe. Qualcosa che andava contro tutto quell'incredibile macello, ma cosa? Non riusciva a capire. 
Insomma, cosa o chi poteva mai essere? E come faceva qualcosa stonare in mezzo a un'apocalisse acustica simile?
Continuò a vagare con lo sguardo in giro per lo scuolabus, cercando quel qualcosa che stonava.
Passò un minuto, ne passarono due, poi cinque, ma non riusciva a vedere niente di strano. Sembrava tutto perfettamente normale e incasinato, come ogni scuolabus di questo mondo dovrebbe essere. C'era solo...
-Joe, quello chi è?- chiese indicando un ragazzo seduto un paio di file davanti a loro dalla parte opposta dell'autobus.
Era mingherlino, infilato in vestiti troppo grandi e troppo scuri, con un paio di occhiali con la montatura nera sul naso e un berretto di lana che gli copriva i capelli. Sedeva da solo, ascoltava la musica con le cuffie e aveva l'aria di uno a cui fosse appena crollato addosso il mondo.
-Quello è Chester Bennington.- disse Joe con un gesto noncurante -È...  diciamo che è un po' lo strambo del quartiere.-
-Lo strambo del quartiere?-
-Sì, sai: beve, si droga come un cavallo da corsa, famiglia distrutta, vita sociale zero, perennemente perso da qualche parte nel suo mondo...- 
Joe ne parlava come se niente fosse, come se fosse normale che un ragazzo che poteva avere al massimo diciassette anni avesse una vita del genere.
-Vive qui da una decina d'anni, ma non so praticamente niente di lui se non che deve avere un fratello e un paio di sorelle maggiori, ma non li ho nemmeno mai visti. Sta con il padre in fondo alla nostra strada, se vuoi più tardi ti faccio vedere la casa.-
Mike distolse lo sguardo, domandandosi perché avesse un'aria così distrutta: ok, il divorzio dei propri genitori non doveva essere proprio una passeggiata in un campo di fiori, ma non vedeva il motivo per cui uno avrebbe dovuto deprimersi a tal punto da sembrare un cadavere.
-Ma non ha proprio neanche un amico?-
-Non credo... ho sentito dire che ne aveva uno che si è suicidato, una volta, o qualcosa del genere, ma penso siano solo voci.-
Mike tornò a guardare quel ragazzo, Chester. Quel nome lo faceva pensare ai vecchietti isterici che nei film urlavano sempre ai ragazzini di stare lontani dal loro prato. Sorrise a quel pensiero, anche se non capì il perché.
-E perché?-
-Perché cosa?-
-Perché non ha amici?- 
Era sempre stato curioso, non poteva farci niente. 
-Ma dai, lo hai visto?-
-Sì, perché? Cos'ha che non va?-
Era sempre stato anche il tipo che non riusciva a vedere nulla di strano nelle persone. Per lui erano tutti normali: i gay come gli etero, i neri come i bianchi, le donne come gli uomini, i malati come i sani.
-Bo', niente credo, ma... andiamo, è uno sfigato! E poi te l'ho detto: è strano.- sbuffò Joe mettendosi a guardare fuori dal finestrino.
Mike non capiva. Cos'era che rendeva quel ragazzo strano? Cos'era che lo rendeva uno sfigato?
Non parlò per tutto il resto del viaggio: se ne stava buono buono a cercare di capire cos'avesse quel Chester di diverso da tutti gli altri a parte il nome insolito e l'espressione depressa. Che fosse proprio quella? Si chiese se lo avrebbe mai capito. E poi si chiese se magari Chester avrebbe potuto essere suo amico. 
Mike era fatto così: gli piacevano le persone, gli piaceva avere gente attorno, avere qualcuno di cui potersi fidare e poi era bravo a rapportarsi con gli altri, era bravo a capire e a piacere alla gente.
No, lui non gli avrebbe voltato le spalle. Lui non lo avrebbe ignorato.


[...]

Fu un primo giorno parecchio noioso. Era inizio ottobre, il 6 per la precisione, il che significava amicizie già strette e gruppi già formati.
Probabilità di successo nell'inserimento: 3%. Per fortuna che  aveva un talento per le relazioni umane.
Quando arrivò assieme a Joe alla fermata dello scuolabus, Mike era reduce da tre ore di letteratura inglese, una di matematica, una di educazione fisica e due di disegno tecnico. Aveva conosciuto un po' di gente, fra cui Brad Delson, ovvero il ragazzo riccio che l'aveva salutato il giorno in cui era arrivato in città, Rob Bourdon e Dave Farrel, soprannominato Phoenix. Joe li aveva definiti come tre dei suoi migliori amici.
Dopo che era sceso dall'autobus, quella mattina, non aveva più visto Chester fino a pranzo. Anche in mensa era da solo, completamente perso da qualche parte nella sua testa e perfettamente indifferente al vassoio di cibo posato sul tavolo davanti a lui, ma Mike non ci aveva badato molto, preso com'era dai suoi tentativi di socializzazione. 
Lì davanti alla fermata, però, non poté fare a meno di notarlo: se ne stava con la schiena appoggiata a un palo, la testa abbandonata all'indietro e gli occhi chiusi. Sarebbe quasi parso che dormisse, se non fosse stato per le dita che battevano il tempo della musica che ascoltava con le cuffie.
Mike si accorse di starlo fissando e distolse lo sguardo, cercando qualcos'altro su cui concentrarsi, eppure... quasi gli dispiaceva essere l'ennesima persona che lo ignorava, perché Chester aveva bisogno che qualcuno non lo ignorasse. Se lo sentiva.
Si era accorto che era quello che facevano tutti gli altri: per l'appunto lo ignoravano, facevano finta che non ci fosse.
In autobus, in mensa e ora persino lì alla fermata: la gente gli voltava le spalle, fingeva di non vederlo. Qualcuno ogni tanto lo urtava, ma mai una parola di scusa o una lamentela da parte sua. 
Chester da parte sua canto sembrava... vuoto. Mike l'avrebbe preso per una statua se non fosse stato per quell'aspetto stanco. 
Non riusciva bene a capire che impressione gli facesse: gli sembrava uno di quei ragazzi perfettamente chiusi in se stessi, indistruttibili e intoccabili, ma c'era qualcos'altro sotto. Era come se quello fosse solo ciò che lui si era abituato a mostrare. Come se si fosse abituato al fatto che la gente non cercasse mai di vedere oltre quella maschera imperturbabile e si fosse rassegnato a lasciare in vista solo quella, nascondendo alla meglio la persona che era in realtà. Mike si rese conto che gli sarebbe piaciuto conoscerla, quella persona.
Stava quasi per decidersi ad andare a parlargli, quando qualcosa spezzò la linea dei suoi pensieri.
-Hey Bennington, hai una sigaretta?- 
Il tipo che aveva parlato sembrava apparso dal nulla e si era andato a piantare proprio davanti a Chester. Ma diavolo, non si era accorto che aveva le cuffie? 
Mike si ritrovò a studiare il volto dell'altro ragazzo, cercando qualsiasi segnale che potesse indicare che si era accorto del nuovo arrivato, ma non c'era niente. Niente di niente: o non l'aveva notato, o aveva un ottimo autocontrollo.
-Sto parlando con te, coglione!- ringhiò il tizio dandogli uno spintone. Non era eccessivamente grosso, ma Chester era magro come uno stecco e quasi finì per terra.
Senza fare una piega si rimise al suo posto e riprese a ignorare l'altro, perfettamente immobile se non per le dita che continuavano a tamburellare sui jeans. Se continuava così le avrebbe prese entro tre minuti. Poco, ma sicuro.
-Porca miseria, hai questa fottuta sigaretta sì o no?- 
Per tutta risposta Chester si limitò a smettere di muovere le dita per mettere la mani in tasca. Quei jeans dovevano essere almeno due taglie più grandi...
-E che cazzo!-.
L'altro praticamente gli si buttò addosso. Chester aprì gli occhi di scatto e schivò la carica, mandando l'altro a sbattere contro il palo per poi fermarsi a una decina di passi da lui per togliersi le cuffie.
-Vieni qui brutto figlio di una troia!-.
Mike rimase a fissare incredulo Chester che si avvicinava all'altro, in piedi davanti al palo, e gli mostrava il medio con fare strafottente.
Ma cos'era, masochista?
L'altro si lanciò ancora in avanti con i pugni alzati, ma questa volta Chester non era preparato. In un nano secondo erano entrambi terra e il tizio lo stava riempendo di cazzotti mentre lui tentava inutilmente di difendersi menando colpi alla cieca.
Mike non si accorse nemmeno di essersi mosso, non si accorse di Joe che tentava di trattenerlo. Non gli erano mai piaciute le persone violente. 
Tirò per il colletto della giacca l'altro ragazzo finché non riuscì a staccarlo da Chester, poi lo spinse con tutto il proprio peso contro il palo, immobilizzandolo prima che potesse reagire.
-Cosa cavolo combini? Vuoi ammazzarlo?-
-Ma che cazzo vuoi tu? Stanne fuori.- sibilò l'altro. 
Mike si chiese cosa fare. Se lo mollava, quello si girava e lo conciava per le feste, sicuro come la morte. Non poteva nemmeno stare lì per sempre, però. 
A salvarlo fu l'arrivo dell'autobus. Se rischiava di perdere l'autobus, quel coglione non poteva pestarlo. Quando la maggior parte degli altri furono saliti, lo lasciò andare.
-Fanculo stronzo.- gli sentì dire mentre se ne andava.
Lo scuolabus ripartì sbuffando, lasciandolo lì assieme a Chester, che stava cercando di tirarsi su da terra.
-Tutto bene?- gli chiese avvicinandosi un po'.
Il ragazzo annuì sistemandosi gli occhiali sul naso. Aveva gli occhi dello stesso colore del caffè. Mike si avvicinò ancora, deciso ad aiutarlo ad alzarsi. L'altro accettò la sua mano e si tirò su borbottando un grazie.
-Forse è meglio se fai un salto in infermeria.-
-No, sto bene.-
-A me non sembra.- ribatté Mike accennando al modo in cui Chester si teneva lo stomaco.
-Sei un cazzo di medico?-
-No... volevo solo essere gentile. Mi chiamo Mike comunque, Mike Shinoda.-
-Be', Mike Shinoda... lascia stare.- disse Chester raddrizzando la schiena e cominciando a camminare barcollando un pochino -Con me non ne vale la pena.- aggiunse poco prima di sparire al di là della prima curva della strada.
Mike era rimasto a fissarlo basito. Cosa diavolo significava che non ne valeva la pena?
No. Lui non lo avrebbe ignorato.
Quando si decise a tornare a casa, per poco non pestò qualcosa che luccicava sul marciapiede. Un cellulare? Che cavolo ci faceva un cellulare lì? Se lo mise in tasca, deciso a portarlo in segreteria il giorno dopo. Probabilmente era o di Chester o dell'altro ragazzo, uno dei due doveva averlo perso durante la zuffa. Guardò il cielo sperando che non piovesse, poi fischiettando si incamminò verso casa.



ANGOLINO NERO PER UN'ANIMA NERA
*si affaccia timidamente* buon giorno... Ebbene sì, ce l'ho fatta a pubblicare anche il secondo capitolo. La canzone è piuttosto famosa (piuttosto tanto famosa), a differenza di Robot Boy, e spero di essere riuscita a inserirla al meglio. 
Spero vi sia piaciuto il POV di Mike. Io adoro scrivere le cose dal suo punto di vista perché è semplicemente troppo puccioso. Che ve ne pare della differenziazione tra i POV? 
Fatemi sapere cosa ne pensate!
Ci leggiamo la settimana prossima (se Dio vuole), nel frattempo...
Buon Mercoledì a tutti,

Cursed_Soldier

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Capitolo 4
*** Capitolo 3~One Step Closer ***


[Mike]

Perché i professori di letteratura inglese dovevano sempre dilungarsi in inutili sproloqui sulla vita dei poeti? Mike non l'aveva mai capito e probabilmente avrebbe continuato a non capirlo per il resto della sua vita. 
Avrebbero dovuto scriverci un libro: Il mistero dei misteri dell'universo: perché i professori perdono sempre tempo in cazzate che non interessano a nessuno? Sarebbe stato un successo senza precedenti e sarebbe diventato un cult tipo Hitchhiker's Guide To The Galaxy . Lui lo avrebbe comprato, poco ma sicuro.
Quel giorno, ad esempio: se ne stava seduto in quell'aula di letteratura da quasi un'ora, con la testa fra le nuvole e una matita in bocca che continuava a masticare anche se aveva un sapore orrendo. 
Gesù, perché si ostinava a masticare matite quando sapeva benissimo quanto facevano schifo? Altra domanda senza risposta. Forse era la prova definitiva che era stupido. Però forse era meglio smetterla di farsi domande idiote e pensare alle cose importanti.
Be', importanti per modo di dire, ma quello era soltanto un dettaglio.
Abbassò sconsolato lo sguardo sul foglio davanti a lui.
Appunto: era una cosa importante per modo di dire, però gli sfuggiva qualcosa, qualcosa di assolutamente fondamentale che avrebbe dovuto esserci eppure non c'era, ed era decisamente, incredibilmente irritante.
Nemmeno si ricordava perché l'avessero fatta, quella stupida scommessa.
Insomma, era una cosa profondamente idiota, persino per lui e Joe.
Ok, sì: il prof di letteratura era talmente bravo a catturare l'attenzione dei propri studenti che avrebbe potuto far addormentare un sasso con l'insogna nel giro di tre secondi, ma quello... andiamo, un duello di disegno? Era decisamente troppo idiota, persino per lui e Joe.
La cosa divertente, o forse inquietante, era che all'inizio gli era sembrata persino una bella idea. Gli era sembrata un'ottima scusa per sopravvivere alla morte per narcolessia indotta alla quale sembravano destinati ad andare incontro se continuavano ad ascoltare quel maledetto d'un professore, ma più rimaneva a non fissare quel dettaglio che mancava più gli salivano i nervi e più pensava che in realtà fosse stata un'idea imbecille.
Un duello di disegno... Gesù, esisteva qualcosa di più dannatamente infantile di quello? Mike non ci avrebbe scommesso l'anima, e neppure due dollari, a dire il vero. Era anche vero però che ormai c'era dentro fino al collo e che non era il tipo che si arrendeva, quindi doveva solo capire cosa mancasse a quel maledetto soldato e farla finita. 
Aveva, per l'appunto, la fastidiosa sensazione che ci fosse qualcosa di sbagliato, e cominciava veramente a dargli sui nervi, soprattutto perché a prima vista quel dannato coso gli sembrava perfetto.
Era una specie di soldato, tipo graffito, che correva verso l'osservatore con uno stendardo fra le mani e diavolo, era venuto bene: le linee erano ben definite, la texture a china era fatta con cura e poteva decisamente dirsi soddisfatto di come era venuto il chiaroscuro, ma restava il fatto che ci mancava qualcosa e che questo lo irritava non poco.
Alzò gli occhi dal foglio, soffocando la voglia di sbattere la penna a china sul banco e di mandare tutto a quel paese e si guardò attorno, sforzandosi di farsi venire in mente qualcosa: un dettaglio, un colore... qualsiasi cosa che potesse aver dimenticato o che potesse in qualche modo dare un aspetto meno incompleto a quel cavolo di disegno ed evitargli così un aneurisma.
Niente. Non gli veniva in mente un maledetto cavolo di niente.
Provò vagamente a riportare alla mente la scena a cui aveva assistito un paio di giorni prima alla fermata dell'autobus e di proiettare nella propria testa il viso di Chester Bennington, lo sfigato. 
Non sapeva esattamente perché, e a dire il vero quasi si vergognava a quel pensiero che suonava decisamente da stalker e anche un po' inquietante, ma si era ispirato a lui per quel disegno: forse a lui poteva essere ispirata anche la risposta.
Lo rivide a cercare di restituire i pugni che gli si infrangevano addosso. Lo rivide rifiutarsi di cedere. Era stato quello a colpirlo più di tutto: Chester non le aveva prese e basta. Aveva combattuto, per quanto inutilmente, e si era rifiutato di lasciarsi spaccare la faccia e basta anche se non sembrava stupido e probabilmente sapeva perfettamente che così ne avrebbe soltanto prese di più. Era caduto a terra, ma solo fisicamente. Era stato come se il suo spirito fosse rimasto in piedi a prendere l'altro a cazzotti.
-Shinoda, vorresti per favore esporre alla classe il tema centrale di Fiori e insetti, qualche uccello e un paio di ragni ?- 
Mike ci mise un attimo a rendersi conto che il professore ce l'aveva con lui. Che diavolo... Fiori e insetti che? Ma Gesù, quella sottospecie di coso non aveva fatto altro che parlare a vanvera per gli ultimi quarantasette minuti, proprio in quel momento doveva decidere di mettersi a rompere le scatole? Non lo vedeva che era impegnato? 
Tra parentesi: che cavolo era Fiori e insetti, qualche uccello e un paio di ragni? Doveva essere tipo un libro di poesie, o giù di lì... insomma, doveva essere per forza qualcosa del genere, dato che si parlava di letteratura, no? 
-Shinoda, sto aspettando.-
Diamine... di cosa diavolo parlava quel maledetto libro? Non se lo ricordava proprio. Tra l'altro: era veramente un libro? Per quanto ne sapeva poteva benissimo essere una poema di Shakespeare... no, era un titolo troppo idiota per Shakespeare, doveva essere di qualcun'altro. Magari c'era qualcuno che lo sapeva...
Si girò verso i propri compagni, nella speranzosa ricerca disperata di un qualunque tipo d'aiuto, ma fu inutile: gli altri guardavano per aria fingendo di non aver sentito... forse perché effettivamente la maggior parte di loro era persa da qualche parte nella propria testa, come lo era stato lui fino a un attimo prima e non aveva veramente sentito.
Cominciò ad andare in panico. Di cosa diavolo stava parlando quel tre volte dannato professore? 
Mike si ritrovò a lottare contro il proprio cervello per cercare di ricordare qualcosa. Vuoto. Completamente vuoto, a parte una cosa come un milione di testi di canzoni attualmente piuttosto inutili che gli si affollavano nel retro della mente, come succedeva sempre quando era agitato. In parole povere stava combattendo contro l'impulso di mettersi a canticchiare Old Yellow Bricks
-Mike, le libellule... c'erano le libellule.- gli suggerì Joe. 
A malapena un sussurro confuso che veniva dall'altra parte del banco. Libellule... continuava a non avere la più pallida idea di cose fosse quel qualunque cosa fosse con quel titolo lungo chilometri, ma era già qualcosa. Avrebbe dovuto ringraziare Joe, più tardi. E magari ucciderlo per non averglielo detto prima.
-Be'...- cominciò -Mi ricordo che c'erano le libellule...- 
Libellule. Perché aveva l'impressione che significassero qualcosa? 
Libellule... libellule... e poi? Il suo sguardo vagò sul banco, alla ricerca di un qualunque dannato dettaglio che potesse aiutarlo: un libro aperto casualmente alla pagina giusta, come se la fortuna potesse girare dalla sua parte per una volta tanto... figuriamoci... davvero, gli sarebbe andato bene qualunque cosa, anche un appunto... poi vide il disegno ed ebbe un'illuminazione: ecco cosa mancava. Aveva un senso un po' contorto, per non dire che non ne aveva proprio, ma poteva funzionare. Più o meno. Forse.
-Le ali di libellula...- borbottò fra sé e sé -Le ali di libellula! Prof lei è un maledettissimo genio!-
A onor del vero, va detto che in realtà Mike si pentì praticamente subito della pessima scelta di parole, ma non poté fare a meno di fregarsene, perché aveva praticamente la vittoria in tasca. Un soldato con le ali di libellula. Perché combatteva, ma non cadeva mai davvero. Era geniale: a volte per non cadere bisogna essere capaci di volare e per volare... be', a meno di essere su Dragon Ball o su qualche altro anime strano in linea di massima per volare bisogna avere le ali. Il fatto poi che fossero proprio ali di libellula dava un tocco surreale e toglieva un po' della violenza e della rabbia che il soldato in sé trasmetteva. 
Se quel disegno fosse stato musica, sarebbe stato qualcosa di rabbioso e urlato, ma anche strano, probabilmente abbastanza triste e, in qualche modo assurdo al quale non voleva nemmeno pensare, melodico. 
E poi, per quanto continuasse a sembrargli una cosa da stalker, riusciva a vedere in Chester un che della libellula. Non aveva idea di cosa, ma era abbastanza sicuro che ce l'avesse: forse la profondità dello sguardo, o il fatto che fosse magro come un chiodo o... qualcosa del genere.
-Di cosa stai parlando Shinoda?- 
Mike era decisamente troppo gasato per pensare davvero a come rispondere. Quando disse Non sono affari suoi nemmeno se ne accorse.
In parole povere nel giro di quattro secondi e tre decimi si ritrovò a chiedersi perché lo stessero fissando tutti come un lebbroso. Non poteva mica averlo detto ad alta voce, no? Per circa un attimo si rannicchiò in quella convinzione che hanno i bambini di poter cambiare la realtà solo credendoci, ma l'espressione stranita e offesa del professore gli ricordarono che quel metodo idiota non funzionava nemmeno quando aveva tre anni, figurarsi se poteva funzionare a sedici...
-Fuori dalla mia classe Shinoda. Ora.- 
Il tono del prof era gelido.
Per poco a Mike non venne un brivido.
Senza una parola radunò le sue cose e uscì dalla stanza, cercando di ignorare la lama dello sguardo di quella sottospecie di balena in completo di tweed che si sentiva piantata nella schiena. Sua madre non gli aveva insegnato che fissare la gente non era educato? 
Si ritrovò in corridoio senza la più pallida idea di dove dovesse, potesse o volesse andare: che diavolo, era in quella scuola soltanto da pochi giorni, mica si poteva pretendere che la conoscesse già.
A dirla tutta, aveva a malapena una vaga idea di dove si trovasse: non era nemmeno troppo immensa, come scuola, ma lui non era mai stato noto per il suo senso dell'orientamento... più che altro il suo senso dell'orientamento faceva notoriamente schifo. 
In parole povere senza Joe a fargli da guida di sentiva perso come un pulcino mollato in mezzo ad un maledetto deserto. Però forse, molto forse, poteva farcela: era quasi sicuro di potercela fare. 
Ad esempio: dov'era la biblioteca? Gli sembrava di ricordare che fosse da qualche parte vicino alla mensa, e alla mensa ci sapeva arrivare... figurarsi: sarebbe morto di fame altrimenti. Visto? Era facile. 
Poteva provare ad arrivare alla mensa, tanto per cominciare. Al resto ci avrebbe pensato poi, sempre che ci fosse arrivato vivo.
Evidentemente però il suo senso dell'orientamento schifoso faceva ancora piú schifo di quello che credeva, perché nel giro di cinque minuti anche quella vaga idea che aveva a proposito della propria posizione se n'era andata a farsi benedire.
Dopo quello, girò completamente a vuoto: sbagliò quella che credeva essere la strada per la mensa almeno un centinaio di volte prima di arrendersi, e alla fine fu costretto a fermarsi per fare mente locale. Si sentiva come se qualcuno l'avesse messo in un frullatore e poi lo avesse frullato senza pietà per una decina di minuti: gira a destra, poi a sinistra, poi torna indietro, poi gira a sinistra di nuovo... non ci capiva più niente. 
Senza avere la più pallida idea né del come né tantomeno del perché, fini per ritrovarsi vicino al cortile. 
In effetti non ci sarebbe stato male prendere un po' d'aria.
Non dovette nemmeno deciderlo che già le sue gambe si stavano muovendo verso la porta a vetri che dava sull'esterno. 
Non era nemmeno sicuro che si potesse uscire durante le ore di lezione, ma probabilmente andare in giro allegramente per la scuola completamente allo sbaraglio quando in teoria sarebbe dovuto essere in classe ad annoiarsi andava già contro un paio di regole: se proprio doveva mettersi nei guai tanto valeva farlo bene. 
Appena l'aria autunnale gli sfiorò il viso gli venne voglia di girarsi e mandare a quel paese quella sottospecie di Inferno di cemento che la gente chiamava scuola.
Faceva un po' freddino per i suoi gusti e l'aria era densa di umidità, ma qualunque cosa era meglio dell'atmosfera che c'era dentro: non ricordava di essere mai stato in una scuola più calda. Non che avesse molta esperienza: non ne aveva cambiate poi così tante, ma quella restava comunque la più maledettamente calda. Un altro po' e nei corridoi sarebbero spuntati i cactus e avrebbero cominciato a vedersi balle di erba secca aggirarsi nelle classi sospinte dal vento del deserto. Forse dipendeva dal fatto che da quelle parti pioveva sempre.
Fece un respiro profondo e chiuse gli occhi, godendosi per un attimo la luce sul viso. Non c'era il sole, anzi: minacciava pioggia, tanto per cambiare, ma era pur sempre meglio di niente.
Riaprì gli occhi e si guardò attorno: quel cortile era di una tristezza madornale, cementato dall'inizio alla fine, senza nemmeno mezza pianta a ravvivare un po' l'ambiente.
L'idiota che aveva progettato quella scuola sarebbe stato da impiccare.

[Chester]

Chester alzò il volume della musica.
Era po' come la morfina, in ospedale.
Bastava premere un pulsante.
Ti ritrovavi con una bella dose di oppiacei sparati dritti in vena.

Bastava chiudere gli occhi.
Bastava non pensare.

Finiva sempre per ritrovarsi da qualche parte dentro la sua testa, quando succedeva.

Un posto dove andava tutto fottutamente bene.
Un posto dove i suoi stavano ancora insieme.
Un posto dove lui non era un drogato di merda.

Bastava premere un pulsante.
Con la musica era uguale.

Bastava premere un pulsante.
Alzare il volume.
Aumentare la dose.

Bastava chiudere gli occhi.
Dimenticare tutto lo schifo che c'era fuori.

La musica è meglio della droga, a volte.

Chester chiuse gli occhi.
Abbandono la testa contro il muro del cortile a cui era appoggiato.
Non si accorgeva di star canticchiando una canzone finché non finiva.
Quella roba era troppo vecchia per lui.
D'altronde era l'mp3 preistorico di suo padre, quello che aveva fottuto.
Non si poteva pretendere granché.
Non con il cellulare disperso.

Quella roba era troppo vecchia per lui.
Ma in fondo andava fottutamente bene.
Bastava che gli impedisse di pensare a qualcosa di sensato.
Non si poteva pretendere granché.
Non con il suo cellulare disperso.

Doveva averlo perso un paio di giorni prima
Quando quel ragazzo

Mike

lo aveva aiutato.

Non devo pensare a lui. 
Dovrei essere ad algebra.
Dovrei pensare all'algebra.


Ma non era ad algebra. 
Era in cortile a fumarsi una dannata sigaretta.
Era in cortile a prendere un po' d'aria.
Era in cortile a fare qualunque fottutissima cosa gli impedisse di avere rapporti umani.

Non era psicologicamente in grado.
Non quel giorno.
E nemmeno quello prima.

Mike l'aveva aiutato.
Perché cazzo Mike l'aveva aiutato?
Non si conoscevano.
Lo aveva visto in autobus.
Non si conoscevano.
Perché cazzo Mike l'aveva aiutato?

È assurdo.
Per tutta la mia vita se ne sono sempre fregati tutti di me.
Adesso arriva questo e così dal nulla mette a cuccia uno dei miei Habitué.
È assurdo.


Perché cazzo Mike lo aveva aiutato?

Cosa cazzo dovrei fare adesso?
È strano (bello?) che a qualcuno freghi qualcosa di me.
Non voglio la sua pietà.
La pietà non è mai gratis.
Oppure non è pietà.
Divertente.


Era divertente.
La pietà tendeva ad avere come scopo praticamente qualunque cosa.
Tranne, ovviamente, il bene del prossimo.

La pietà è una colpa.
Perché chi la mostra è quasi sempre un ipocrita.
Perché chi la riceve ne approfitta.
Io non la voglio la sua pietà.


Si tolse una cuffia.

I rumori della realtà si fusero con la musica.

Batteria e chitarra mischiati con il cinguettare frastornante degli uccelli che migravano a sud.
Voce del cantante mischiata con un'altra.

Perché ce n'era un'altra?
Era sbagliato.
Non doveva essercene un'altra.

Era solo.
Sempre.

Non doveva essercene un'altra.

-Hey, mi senti?-

La voce però se ne fotteva altamente, del fatto di non doverci essere.
E parlava.

-Che c'è?-

Chester sbuffò.
Riaprì gli occhi.
Si ritrovò davanti una sagoma scura proprio davanti al sole.

Da quando c'é il sole?
Chi diavolo è questo tipo?
Conosco questa voce?
Conosco questa voce.


Non vedeva un maledetto cazzo di niente.
Una sagoma scura.
Con una crepa al centro.
Proprio davanti al sole.

Sole in fronte.
Occhiali rotti.
Pessima combinazione.

Strizzò gli occhi per vederci meglio.

Due possibilità:
1)    Non sta accadendo davvero.
2)    É matto.
Fottutamente matto.


Era Mike.
Quel maledetto, stranissimo Mike.
Che lo aiutava senza conoscerlo.

Non può ignorarmi e basta? 
Lo fanno tutti.


-Niente. Ho solo pensato che potessi rivolere questo.- 

Chester riuscì a vederlo sorridere.
Porgeva qualcosa di piccolo e nero.

Il suo fottuto cellulare.

-Ma che...- 

Lo prese in mano stupito.

Lo schermo era più graffiato di prima.
Fino a prima non lo avrebbe creduto possibile.
Sembrava a posto.

Non la voglio la sua pietà.

-L'ho trovato l'altro giorno dopo che te ne sei andato. Ho pensato di rincorrerti, ma sono nuovo e non ho un gran senso dell'orientamento...-

Assurdo...

Quel cretino tentava di fare conversazione.
Con lui.

Assurdo.

-Non sei molto socievole, eh?-

Si vede proprio che è nuovo...

-Non te l'ha ancora detto nessuno?-

Chester prese a guardarlo fisso.

Mike prese a sorridere.
Imbarazzato.

Chester piegò la testa di lato.

Perché è imbarazzato?

-Detto cosa?-

Nessuno gli ha ancora spiegato come funziona...
Che cazzo.
Mai una volta che l'umanità si renda utile.
Devo sempre fare tutto da solo.
Che cazzo.


-Di stare lontano da me, che sono uno stronzo... eccetera,eccetera, eccetera.-

-Ah, quello. A dire il vero me lo avevano accennato.-

Due possibilità:
1)    È stupido.
2)    Ha battuto la testa da piccolo.


-Senti... Michael.-

Chester strizzò gli occhi.

Cristo, non vedo un cazzo.
Togliti dal sole, figlio di puttana.


-Mike.-

Cazzo.
Seriamente?


-Ok. Mike. Se sei uno di quelli a cui non piace odiare senza motivo, o se hai fatto una scommessa, o se semplicemente ti faccio pena, puoi anche lasciar perdere. Ok? Ti assicuro che hanno tutti i loro motivi per non sopportarmi e per dire che sono strano. Quindi se ne serve uno anche a te puoi già cominciare ad andartene a fanculo.-

Mike lo guardò.
Sorrise.
Si sedette acconto a lui.

Ho cominciato a parlare arabo e non me ne sono accorto?

-Ok.- 

Mike sorrise.

-Ma perché?-

-Non credo proprio che siano fottuti affari tuoi.- 

Che cazzo di problemi ha? 
Non può ignorarmi e basta?
Lo fanno tutti.


-Ok.- 

Sa dire soltanto ok?

-C'è niente che possa dire per farti decidere che forse valgo la pena di un minimo di socializzazione?-

-Non credo pro...-

-E dai, ci dev'essere qualcosa.-

Chester lo guardò fisso.
La crepa nel bel mezzo della lente sinistra cadeva giusta giusta sull'occhio destro di Mike.

-No, non c'è, e sta zitto quando parlo con te.- 

Aveva una voglia matta di urlare, ma non urlava.

Quel ragazzo.
Quel cretino.

Gli faceva venire voglia di mandare a fanculo tutto quanto.
Gli faceva venire voglia di buttare fuori tutto quanto.
Gli faceva venire voglia di liberarsi i polmoni da quel peso insopportabile che li schiacciava da sempre.

Aveva una voglia matta di urlare, ma non urlava.

-Non c'è niente che tu possa dire. Niente che non sia già stato provato da qualcun'altro. Dite sempre tutti le stesse cose e io non riesco più a sopportarlo. Parole senza senso. Sto per crollare e mi portano sempre più vicino al limite. Un passo alla volta. Sto per impazzire. Vorrei solo poter respirare. O poter scomparire. Voi non ve ne accorgete mai. Non vi accorgete mai di niente. Parlate, parlate, parlate. Andate avanti a raffica quando cerco di rifugiarmi nel silenzio. Quando cerco risposte però, è sempre tutto un fottuto casino. Dite solo cose che non hanno un cazzo di senso, ma di quello che dite niente sembra mai andare via. Quindi, ancora una volta, Mike Shinoda, o come cazzo ti chiami: no, non c'è niente che tu possa dire. E sta zitto quando parlo con te.-

Chester respirò a fondo.
Era senza fiato.

Aveva urlato.
Perché aveva urlato?
Non voleva urlare.
Non doveva urlare.

Perché aveva urlato?

Non aveva potuto fare un bel cazzo di niente.
Non era riuscito a tenere tutto dentro.
Non come sempre.
Era quasi inquietante.

Mike lo guardava.
Smarrito.
Forse si era spaventato anche lui.

Chester sorrise.
Senza sapere perché.

-Ok- 

Mike ricambiò il sorriso.

-Vorrà dire che ora me ne resterò qui, tu parlerai, e io me starò zitto.-

Questo non capisce proprio un cazzo.

-Oh, ma vaffanculo.- 

Chester si alzò.
Si rimise le cuffie.
Se ne andò.

Non sapeva nemmeno dove.
Ovunque.
Bastava che quel dannato ragazzino non ci fosse.




ANGOLINO NERO PER UN'ANIMA NERA
Eccoci qua con la pubblicazione del terzo capitolo, dedicato a One Step Closer. Questa volta si tratta di una delle mie canzoni preferite, che ha per me un valore sentimentale per un motivo assolutamente idiota: quando ho cominciato ad ascoltare i Linkin Park mi terrorizzava. Non la sopportavo perché ero ancora abbastanza piccola e Chester che screammava senza pietà mi spaventava. Se ci ripenso mi viene ancora da ridere, soprattutto perché adesso ascoltarla mi tranquillizza.
In questo caso ho inserito il testo in un dialogo, e spero che non risulti troppo forzato. 
Questo capitolo è un po' più di passaggio rispetto a quelli prima e quando è nato faceva abbastanza schifo, ma ha recentemente subito un bel restauro e adesso riesce quasi a piacermi, pur non essendo uno dei miei preferiti. Ok, credo sia tutto: statemi bene, ci leggiamo... Quando riuscirò a pubblicare il prossimo capitolo.

Baci,
Maledetta

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Capitolo 5
*** 4~Given Up ***


[Chester]

 

Chester si portò alle labbra l'ennesimo drink.

Non sapeva nemmeno di che cazzo di colore fosse.

 

D'altronde non era mica facile.

 

Luci da crisi epilettica.

Fumo artificiale.

Niente occhiali.

 

Capire di che colore fosse un fottuto drink dentro una maledetta discoteca non era mica facile.

 

Sono leggermente andato.

Solo un pochino.

 

Andato quel tanto che bastava da non avere la più pallida idea di che cazzo stesse bevendo.

Andato quel tanto che bastava da non sapere praticamente nemmeno che ora fosse.

O che giorno fosse.

Andato quel tanto che bastava da ricordarsi a mala pena il nome di quella maledetta discoteca.

 

Minutes to...

Minutes to Midnight?

Qualcosa del genere.

 

Un posto relativamente tranquillo.

Più o meno.

Persino la Domenica sera.

 

Notte.

Domenica notte.

É Dominica notte, Chester.

Non sera.

Forse è addirittura Lunedì.

Quasi sicuramente è Lunedì.

Odio i Lunedì.

 

Comunque era un posto relativamente tranquillo.

 

Ragazze che te la davano come se niente fosse.

Come in qualunque discoteca.

 

Spacciatori in ogni angolo buio.

Come in qualunque discoteca.

 

Niente risse.

Un po' meno comune.

 

Suonava un gruppo.

Un po' meno comune.

 

Non sembravano male.

Non che lui avesse sentito granché di quello che avevano suonato.

 

D'altronde non era mica facile.

 

Casino assurdo di adolescenti.

Idioti che ascoltavano musica house da casse portatili.

Alcool a fiumi e due canne nel sangue.

 

Ascoltare un gruppo che si esibiva in una maledetta discoteca non era mica facile.

 

30...

30 Seconds to...

To...

To Venus?

Era qualcosa con la s in fondo.

Cristo, un nome più idiota no, vero?

 

Il concerto era finito da circa dieci minuti.

I tre ragazzi che si erano esibiti erano spariti.

La gente che affolava il Minutes li aveva già dimenticati.

Probabilmente.

 

Lui non sapeva di che cazzo di colore fosse il suo drink.

Gli stava venendo un mal di testa dannato.

Uno di quelli di dimensioni storiche.

 

Meglio di così non può andare.

 

Sbatté il bicchiere sul tavolo.

Non aveva idea di che cazzo stesse bevendo.

Non gli piaceva.

 

-Hey bellissimo, posso offrirti qualcosa?-

 

Qualcuno rise e gli si sedette a fianco.

Un qualcuno magro.

Un qualcuno con i capelli lunghi.

Un qualcuno con una voce abbastanza alta

 

Non troppo alta.

A dire il vero.

 

che gli sembrava di conoscere.

Un qualcuno che non lui riusciva a vedere.

 

I suoi cazzo di occhiali erano rimasti a casa.

Dove era improbabile che si rompessero più di quanto non fossero già rotti.

 

Qualcuno rise di nuovo.

Un qualcuno che lui non riusciva a vedere.

 

Si rifiutava di portare delle fottutissime lenti a contatto.

Gli davano fastidio.

 

Forse quel qualcuno era una ragazza.

Forse no.

 

Chester si strofinò gli occhi.

Cercò con tutto sé stesso di farsi un'idea di chi diavolo avesse davanti.

 

Forse quel qualcuno non era una ragazza.

 

Aveva i capelli lunghi.

Una voce abbastanza acuta.

Non troppo.

Aveva una figura piuttosto sottile.

 

Probabilmente era una ragazza.

 

Tanto vale divertirsi almeno un po'.

 

-Di certo non sarò io a impedirtelo, dolcezza.-

 

Cercò di sorriderle.

Cercò di non pensare alla possibilità che potesse non essere una ragazza.

 

Tanto valeva divertirsi almeno un po'.

 

[...]

 

Una stanza.

Vuota. 

Squallida.

 

Le pareti ricoperte di muffa.

Un materasso macchiato abbandonato per terra.

Un vecchio orologio bloccato sulle due e venti di chissà quando.

Non esattamente la fottuta immagine della pulizia.

 

La ragazza si chiuse la porta alle spalle.

 

Chester sorrise.

 

Tanto vale divertirsi almeno un po'.

 

La ragazza praticamente gli saltò addosso.

Praticamente gli ficcò la lingua in gola.

 

Non perde tempo...

 

Chester passò le dita sui suoi capelli lunghi e morbidi.

Le sfiorò i fianchi stranamente stretti.

Afferrò l'orlo della sua maglietta.

Fece per sfilargliela, ma cambiò idea.

Ci infilò sotto le mani.

Esplorando il suo addome duro e caldo.

 

Qui c'é qualcosa che non va.

 

Chester ignorò quel pensiero.

Continuò a baciarla.

 

Magari è solo molto magra.

Tanto vale divertirsi almeno un po'.

 

Baciare qualcuno era decisamente più divertente che pensare.

 

Fece scorrere i polpastrelli lungo gli addominali della ragazza.

Parecchio scolpiti.

 

Magari va in palestra.

 

Risalì con le dita fino al petto di lei.

Piatto.

Completamente piatto.

 

Fermi tutti.

Cazzo.

Qui manca qualcosa.

Qualcosa di fottutamente importante.

E la cosa non mi piace nemmeno un pochino.

 

Chester si staccò appena da lei.

Cercò di riprendere fiato.

Strizzò gli occhi per vederla meglio.

 

Perché così da vicino sembra che abbia la barba?

Cazzo, non ha la barba, vero?

Calma, Chester, calma.

Se avesse la barba l'avresti sentita.

Ora che ci penso però...

 

-Che c'è? Tutto bene, bellissimo?-

 

Perché adesso la sua voce sembra così tanto poco da femmina?

 

Chester prese un respiro profondo.

 

Andiamo.

Ha un timbro di voce alto.

Non può essere un fottutissimo ragazzo.

 

Chiuse gli occhi.

Cercò di riordinare i pensieri.

 

La sua voce...

Anche tu hai la voce alta, coglione.

 

-Come hai detto che ti chiami?-

 

La ragazza ridacchiò.

La sua risata sembrava dannatamente poco femminile adesso.

 

-Jared. Jared Leto.-

 

Chester sbuffò.

 

No, Cristo.

Non di nuovo.

 

Si tirò un pugno su una gamba.

Frustrato.

 

Fantastico.

Decisamente non è una cazzo di ragazza.

 

-Cazzo.-

 

Sbuffò di nuovo.

Si buttò a sedere sul materasso.

Si coprì la faccia con le mani.

 

Avrebbe potuto sembrare che tutta quella situazione gli facesse schifo.

O che se ne vergognasse.

In realtà era soltanto fottutamente frustrato.

Forse anche un po' incazzato.

 

Non aveva niente contro i gay.

Ma, Cristo, non potevano capitare sempre a lui.

Era maledettamente colpa sua, certo.

 

Vaffanculo.

Sempre a me.

Cazzo.

Karma di merda.

 

Incolpare l'universo era decisamente più comodo.

 

Devo smetterla di bere.

 

Jared lo guardò.

Poi guardò il cavallo dei propri pantaloni.

All'improvviso Chester si accorse che sembrava decisamente troppo stretto.

 

-Già. Cazzo.-

 

Si sedette accanto a lui.

Sospirò.

Si spostò una ciocca di capelli dal viso.

 

Chester si tolse una mano dalla faccia.

 

-Potevi anche dirmelo sai?-

 

Si sfregò gli occhi.

 

Porca puttana.

 

-Scusa. Te l'avrei detto, ma pensavo che giocassi nella mia squadra.-

 

-Mi stai dicendo che ho la faccia da frocio?-

 

-Onestamente?-

 

Jared rise.

Tirò fuori un pacchetto di sigarette consumato dalla tasca posteriore dei pantaloni.

Se ne mise in bocca una.

 

-Sì.-

 

-Vaffanculo.-

 

Perfetto. 

L'ultima possibilità di divertimento della serata è andata a farsi fottere.

Più o meno.

Cristo. 

Gioco di parole di merda.

Almeno però sembra sincero...

 

-Peccato però: mi piacevi. Hai dei bei capelli.-

 

Che cazzo c'entrano ora i capelli?

 

-Seriamente?-

 

Jared gli offrì una sigaretta.

 

Sorrideva.

Per quello che Chester riusciva a vedere.

 

Rifiutò.

Non aveva voglia nemmeno voglia di fumare.

 

-Non fare così: sto solo cercando di fare conversazione. Tanto non credo che riuscirò a portarti a letto stanotte, o no?-

 

Era strano.

Nessuno faceva conversazione in una situazione del genere.

 

Cazzo: erano due maschi.

Erano quasi finiti a letto insieme.

Nessuno faceva conversazione in una situazione del genere.

Nemmeno se uno dei due era gay.

 

Era strano.

 

Assurdo.

Più che altro.

 

-Be', grazie...-

 

Non era poi così tardi.

 

Poteva tornare in discoteca a cercare una distrazione.

Magari una distrazione con un bel paio di tette.

Non ne aveva voglia.

Gli era passato il fottutissimo stimolo.

 

-Allora, hai un nome?-

 

Jared aveva una bella voce.

 

-Chester Bennington.-

 

-Uhm... fa molto vecchio inglese isterico.-

 

Jared ridacchiò.

 

Che ha da ridere? 

Non fa ridere.

 

-E non ti ho detto il secondo...- 

 

Quello sì che fa maledettamente troppo "vecchio inglese isterico".

 

-Perché? Qual è il tuo secondo nome?-

 

-Non te lo dirò mai-

 

-Ok. E cosa fai per vivere Chaz?-

 

Non Chaz.

Per pietà di Dio.

 

-Studio. O meglio faccio finta di studiare.- 

 

Tanto valeva essere sincero.

Tanto non lo avrebbe più rivisto.

Tanto valeva essere sincero.

 

-Ah... e quanti anni hai?- 

 

Jared borbottava.

 

Chester era mezzo andato.

A mala pena riusciva a capirlo.

 

-Diciassette.-

 

Sbuffò.

Odiava il suono di quella parola.

 

Diaciassette.

Di-cias-set-te.

Età di merda.

 

-Wow, sei piccolo... ti facevo più grande. Pensavo avessi circa la mia età.-

 

Cazzo.

 

-Perché, tu quanti ne hai?-

 

-A Dicembre ventidue.- 

 

Chester era cieco come una talpa, in quel momento.

Chester non era mai stato bravo a dare un'età alle persone.

Chester a quel Jared non avrebbe mai dato più di diciannove anni.

 

-Ok... e tu cosa fai nella vita?- 

 

-Canto. Non mi hai sentito prima?-

 

Ah.

Ecco perché mi piaceva la sua voce.

 

-Già. Giusto, i 30 Seconds to... Venus. No?-

 

-30 Second to Mars. Comunque sì, quelli.-

 

Jared suonava dannatamente orgoglioso.

Doveva essere dannatamente bello.

 

Avere un gruppo decente.

Suonare con i propri amici.

Avere degli amici.

 

Doveva essere dannatamente bello.

 

-Posso farti una critica?-

 

-Assolutamente no.-

 

Gli venne da ridere.

In fondo Jared non era male.

Forse era semplicemente troppo fottutamente ubriaco.

 

-Ho bevuto parecchio. Le orecchie mi tradiscono. Quindi non so effettivamente quanto siate bravi, ma mi piacicchiate. Tu hai una bella voce, ma non sai proprio screammare. E il vostro nome fa schifo.- 

 

Borbottava anche lui, Cristo Santo.

 

Chester era mezzo andato.

A mala pena riusciva a capirsi...

 

-E tu invece sai screammare Chaz?-

 

-Circa.-

 

Chester sorrise fra sé e sé.

 

Nessuno lo sapeva.

Soltanto lui.

Soltanto suo fratello.

 

Gli piaceva cantare.

 

La musica è meglio della droga, a volte.

Lo sfogo perfetto quando la marijuana finisce.

 

-Ma davvero? E mi faresti anche sentire?-

 

Jared non ci credeva.

Chester non riusciva a credere di averlo detto.

 

-Non adesso. Sono ubriaco.- 

 

-Ma va, sono sicuro che sarai comunque bravissimo.-

 

Jared era sarcastico.

Chester cercava una scusa.

 

Trovò una canzone.

 

-Wake in a sweat again: another day's been laid to waste in my desgrace.-

 

Perché stava cantando?

 

Mai fatto in pubblico.

Mai lo avrebbe fatto.

 

Ma stava cantando.

Stava cantando una canzone che non cantava da una vita.

Stava cantando una canzone che aveva scritto con suo fratello.

Poco prima che lui se ne andasse.

Come facevano sempre tutti.

 

Stava cantando una canzone che si chiamava Given Up.

 

Perché stava cantando?

 

-Stuck in my head again, feel like I'll never leave this place: there's no escape!- 

 

Chester non ricordava quando cazzo l'avessero scritta.

Ricordava che era inverno.

Epoche prima.

 

-I'm my own worst enemy! I given up! I'm sick feeling... is there nothing you can say?- 

 

Chester si ricordava che stava male quel giorno.

 

Suo fratello era in città per lavoro.

Suo fratello aveva tentato di consolarlo.

Suo fratello aveva preso la chitarra e aveva cominciato a suonare.

 

Chester si ricordava che stava male quel giorno.

 

-Take this all away! I'm suffocating. Tell me what the fuck is wrong with me!- 

 

Non avevano scritto molto assieme, Chester e Brian.

Più che altro strimpellavano.

 

A Chester piaceva scrivere.

Anche se non era in grado.

Più che altro metteva parole a cazzo una dietro l'altra.

 

-I don't know what to take... thought I was focused but I'm scared: I'm not prepared!- 

 

Chester aveva voluto bene a suo fratello.

 

Suo fratello era stato l'unico della famiglia che gli avesse voluto bene.

Suo fratello era stato l'unico della famiglia a cui fosse mai piaciuto.

 

Chester aveva voluto bene a suo fratello.

 

Suo fratello gli aveva insegnato che la musica era meglio della droga, a volte.

Suo fratello gli aveva anche messo in mano la prima canna.

E poi...

Dettagli.

 

-I hyperventilate, looking for help somehow somewhere and no one cares!- 

 

Chester aveva voluto bene a suo fratello.

 

Ma poi suo fratello se n'era andato.

Aveva seguito la sua strada.

Lo aveva abbandonato quando aveva bisogno di lui.

Lo aveva abbandonato quando cercava aiuto da qualcuno, chiunque.

Se n'era fregato.

 

Come tutti gli altri.

 

Chester aveva voluto bene a suo fratello.

Ma poi suo fratello se n'era andato.

 

-I'm my own worst enemy! I've given up, I'm sick of feeling Is there nothing you can say?- 

 

Aveva sofferto come un cane quando suo fratello se n'era andato. 

 

Era già da un po' che si faceva.

Aveva cominciato quando aveva circa undici anni.

 

In quel periodo era peggiorato. 

 

Non riusciva a tenersi lontano dai guai.

Finiva in una rissa dietro l'altra.

Si faceva come un disperato.

 

Era disperato.

 

Chester aveva voluto bene a suo fratello.

Ma poi suo fratello se n'era andato.

 

-Take this all away! I'm suffocating. Tell me what the fuck is wrong with me!- 

 

Chester si era incazzato da morire.

Cosa cazzo c'era di così fottutamente sbagliato in lui?

 

Perché tutti se ne andavano via da lui? 

 

Sua madre.

Suo padre era come se non fosse...

Le sue sorelle.

Suo fratello.

 

Perché? 

 

Cosa aveva fatto di così male?

Cosa cazzo c'era di così fottutamente sbagliato in lui?

 

-God!- 

 

Stava cantando una canzone che non cantava da una vita.

Non la cantava da una vita perché cantarla faceva male.

 

La rabbia tornava.

Il dolore tornava.

La voglia di urlare e di spaccare tutto tornava.

Brian che se ne andava tornava.

 

Chester aveva voluto bene a suo fratello.

Ma poi suo fratello se n'era andato.

 

-Put me out of my misery!Put me out of my misery! Put me out of my...! Put me out of my fucking misery!- 

 

Si fermò a riprendere fiato.

Avrebbe dovuto ripetere il ritornello.

 

I polmoni bruciavano.

Fumava fottutamente troppo.

 

Si fotta il ritornello.

 

Fumava fottutamente troppo.

 

-Cazzo... sì, direi che sai screammare.- 

 

Jared sorrideva.

Stupito.

 

Potrei offendermi.

 

-Perché, avevi dubbi?- 

 

Chester si buttò all'indietro sul materasso.

Respirò a pieni polmoni.

 

Fumava fottutamente troppo.

 

È stato Brian a darmi la prima sigaretta...

E la prima canna.

E poi...

Dettagli.

 

Chester aveva voluto bene a suo fratello.

Ma poi suo fratello se n'era andato.

 

-Caro, hai davanti il miglior screamer dell'Arizona.- 

 

-Sì, e anche il più modesto a quanto pare, eh ragazzino?-

 

Jared rise.

Gli sfiorò il braccio con le dita.

In un modo che non aveva niente di...

 

Romantico?

 

Niente di qualunque cosa fosse.

 

-Comunque qui non siamo in Arizona, bellissimo.-

 

-Lo so. Ma io ci sono nato. In Arizona. Mi sembra giusto riferirmi alla mia dannatissima patria. No?- 

 

Era una vita che non si apriva così tanto con qualcuno.

 

Non in quel senso.

 

Una vita, cazzo.

Davvero.

Tanto quel ragazzo con i capelli alla Gesù Cristo non lo avrebbe più rivisto.

 

Tanto valeva essere sincero.

 

Tanto quel ragazzo con i capelli alla Gesù Cristo non lo avrebbe più rivisto.

 

[Joe]

 

-secondo me ha più occhiaie del solito stamattina, a te non sembra?-

 

joe represse il desiderio di spaccare la testa di mike contro il finestrino per la quinta volta nel giro di undici minuti. voleva bene a quello stupido giappo-americano-qualunque-altra-cosa-fosse, ma nell'ultima settimana aveva decisamente rotto le palle.

 

-no, però mi sembra che tu stia diventando leggermente ossessionato da quel ragazzo. non è che sei dell'altra sponda e non me l'hai detto, vero?- 

 

cercò di non pensare al fatto che doveva stare seduto su quel maledetto autobus scassato a sentire mike che fantasticava su quello sfigato di chester bennington per almeno altri venti minuti. non capiva perché mike se lo fosse preso tanto a cuore.

 

-e poi scusa, come fai a vedergli le occhiaie, se è seduto più avanti di noi?-

 

-gli ho dato un'occhiata quando è salito... comunque no: non sono gay, sono solo empatico da far schifo.-

 

joe evitò accuratamente di badare a quanto quella cosa sembrasse da stalker. in effetti, aveva notato che in mike l'innata capacità di capire lo stato emotivo degli altri, oltre a quella di fracassargli irrimediabilmente le scatole: era arrivato in città da esattamente un mese e conosceva già praticamente tutti... senza contare che in meno di due settimane di scuola era riuscito a diventare pappa e ciccia con metà corpo studentesco, perché sembrava sapere sempre esattamente come si sentiva la persona davanti a lui e aveva sempre la parola giusta da dire a tutti. era riuscito a ingraziarsi subito persino dave... 

 

"phoenix. joe, cristo, sai benissimo quanto farrel sia attaccato al suo nome d'arte."

 

...insomma, piaceva persino a dave, quel cretino del suo amico ossessionato dai bassi, e a dave non piaceva mai nessuno. non al primo colpo. 

 

lui ci aveva messo mesi, all'epoca del primo anno, per riuscire a farsi rivolgere la parola da quel rosso irritabile. mesi. dannatissimi, lunghissimi mesi. mike ci aveva messo meno di un'ora.

 

era un tipo davvero espansivo: si capiva che gli piacevano le persone. a volte era fastidioso e dio: era decisamente iperattivo, o qualcosa del genere, ma ci si abituava.

 

spesso aveva delle gran belle idee: quando aveva tirato fuori la storia della band, ad esempio, a joe era venuta voglia di fargli una statua da qualche parte. 

 

se solo a qualcuno fosse venuta in mente anche un'idea geniale per il cantante che non avevano...

 

-che vuoi che ti dica: è lunedì. da quanto ne so fa spesso casino la domenica sera. magari ieri si è solo dato da fare più del solito... ma cristo, mike: stiamo parlando di chester bennington. ci hai parlato solo una volta e ti ha pure mandato a fanculo: mi spieghi che diavolo te ne frega?- 

 

non riusciva proprio a spiegarsi il perché di tutto... quello. mike era un bravo ragazzo: che gliene fregava di uno come quello là?

 

chester bennington era il peggio del peggio, e in un buco di città come la loro arrivare ad essere definiti tali era praticamente un'impresa, dato che non c'erano banche da rapinare, attori o politici da ammazzare e che c'erano soltanto due discoteche ufficiali.

 

-niente, credo, ma... non lo so: ogni volta che lo guardo ho come l'impressione che abbia bisogno di qualcuno che non lo ignori.-

 

mike guardava fisso la nuca ossigenata del tizio.

 

-però quando hai provato a non ignorarlo non ha reagito poi così bene, no mickey?- 

 

-magari ha solo bisogno di prendersi un po' di confidenza e...-

 

-sì, sì ho capito.-

 

joe si affrettò a interromperlo

 

-povero il mio piccolo ingenuo mickey shinoda. qualcuno qui si sta innamorando di quello sfigato di bennington, eh?- 

 

gli venne da ridere mentre gli metteva un braccio attorno alle spalle.

 

-ma non dire cazzate.- 

 

mike cercò di liberarsi.

 

-sono solo un bravo ragazzo che si preoccupa per gli altri.-

 

-un bravo ragazzo preoccupato che arriva a notare le occhiaie. se proprio non sei innamorato, come minimo sei ossessionato.- 

 

-la smetti di prendermi in giro?- 

 

mike lo guardava male, ma a joe veniva soltanto da ridere: quel ragazzo era buffo (e a volte dolce, ma joe non lo avrebbe mai detto ad alta voce) oltre il limite della decenza.

 

-fammici pensare... no, non credo. non finché non confessi.-

 

[Mike]

 

-Io non confesso proprio un bel niente, falla finita.- ripeté Mike per l'ennesima volta.

-Cos'é che dovrebbe confessare il nostro Mickey?- si intromise Brad dal

sedile dietro.

-Niente.- soffiò Mike esasperato.

-Il suo profondo amore per Chester Bennington.- disse Joe contemporaneamente.

-Joe, se non la fai finita giuro che ti do fuoco all'album da disegno.- 

Mike a volte si chiedeva davvero per quale diavolo di motivo se cercava di aiutare un'altra persona tutti dovevano pensare male. Insomma, cos'era? Un modo per non annoiarsi in autobus?

-Dai, Joe: lascialo stare. Sono affari suoi in fondo, vero Mikey?- 

Mike ebbe per un attimo la seria tentazione di cambiare religione e abbracciare il Delsonesimo. 

O quanto meno di proporre Brad per la santificazione.

-Ma dai Brad: oggi ha notato che lo sfigato ha più occhiaie del solito. Le occhiaie, ti rendi conto? Questo è amore!-

-No: questo è spirito di osservazione. E in ogni caso Mike ha il diritto di amare chi vuole, quindi se anche gli piacesse Chester tu dovresti smetterla di fare il bambino e lasciarlo in pace. Hai  sedici anni Joe, smettila di comportarti come se ne avessi due.-

Fanculo a Bennington: era Bradford Delson l'unico uomo che  avrebbe mai potuto volere. Mike adorava quel ragazzo, punto.

-Comunque non si pone il problema, perché io sono etero. Capito Joe? Devo farti lo spelling?- sbuffò abbandonando la schiena al sedile.

Forse voleva un briciolo di bene anche a Joe. Forse. Però era decisamente un cretino. O quanto meno faceva parecchio il cretino...

-Sì, grazie. Sai, tanto per essere sicuro che tu sappia almeno come si scrive...-

...ma forse, in fondo, cretino lo era per davvero.

Brad dietro sbuffò sconsolato.

 

 

 

ANGOLINO NERO PER UN'ANIMA NERA

Ehm... Hi guys? Are you there? Are you still alive? Wait... Why do I am talking in this strage sort of pseudo English? Oh God... The trasducer matrix is gone again... *noise of a sonic screwdriver* どのようにあなたは今、それは動作しますか ?無... (Dono yō ni anata wa ima, soreha dōsa shimasu ka? Mu...) *ソニックドライバーの新しいサウンド  (Sonikkudoraibā no atarashī saundo)* ОК теперь должны... прекратить все: русский? но что, черт возьми ... (OK teper' dolzhny... prekratit' vse: russkiy? no chto, chert voz'mi ...) *даже отвертка (dazhe otvertka)* ci siamo? Sto parlando nella lingua giusta? Niente giapponese, russo o cose strane? Ok, mi confermano dalla console che sto parlando in italiano. Scusate: la matrice di traduzione del TARDIS ogni tanto parte per conto suo (sapete com'é: è un modello 40, dovrebbe stare in un museo...). Comunque, torniamo a noi: eccoci qui, puntuali e precisi con una nuova copertina e con il capitolo quattro. Stavolta la canzone è Given Up, che per la prima volta appare proprio come canzone. Abbiamo tra l'altro anche la prima, e forse anche l'unica, scena vagamente rossa della fanfiction... e sì: so che potevo sprecarmi anche un po' di più, ma sono una brava ragazza e non sono abituata a scrivere queste cose, ok?😉🙃 Il punto è che mi sono divertita talmente tanto a scrivere di Chester che scambiava Jared per una ragazza (cosa ci trovassi di divertente quando l'ho scritto la prima volta ancora non l'ho capito, ma continua a sembrarmi divertente per motivi non meglio specificati) che ho badato veramente poco al punto di vista rosso della cosa. Tutte le volte che ho risistemato il capitolo ho provato ad aggiungere qualcosa, ma il grosso è stato anche tolto perché mi sembrava che stonasse.

Personalmente io credo che i capitoli migliori inizino dal prossimo, anche perché di qui in poi le dinamiche fra i nostri due ragazzi si faranno più interessanti, ma spero che anche questo non sia poi così male, dato tutto l'impegno che ci ho messo per sistemarlo (l'ho anche allungato di quasi mille parole e mi sento potente!).

Vorrei chiarire che non penso né che Jared Leto non sappia screammare (anche se a dire il vero ascolto poco i 30 Seconds to Mars e non sono nemmeno così sicura che usino più di tanto lo scream... o magari lo usano un sacco? So soltanto che in una canzone che ho ascoltato c'era...) né che il nome della band faccia schifo, ma ho voluto scrivere il capitolo così per rispecchiare Chester ubriaco fradicio e un Jared sicuramente più giovane e inesperto nel canto. Come ho scritto sopra, non sono una fan dei 30 Seconds: ho implicato Jared nella storia per motivi di trama, quindi mi scuso per eventuali puttanate scritte sul suo conto.

Dopo questo Angolino nero che più che altro è un angolo giro, io mi dileguo.

Buona notte,

 

Cursed_Soldier

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