As you wish

di sparewheel
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1. ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2. ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3. ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5. ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6. ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7. ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8. ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9. ***
Capitolo 10: *** Capitolo 10. ***
Capitolo 11: *** Capitolo 11. ***
Capitolo 12: *** Capitolo 12. ***
Capitolo 13: *** Capitolo 13. ***
Capitolo 14: *** Capitolo 14. ***
Capitolo 15: *** Capitolo 15. ***
Capitolo 16: *** Capitolo 16 ***
Capitolo 17: *** Capitolo 17 ***
Capitolo 18: *** Capitolo 18 ***
Capitolo 19: *** Capitolo 19 ***
Capitolo 20: *** Capitolo 20. ***
Capitolo 21: *** Capitolo 21. ***
Capitolo 22: *** Capitolo 22. ***
Capitolo 23: *** Capitolo 23. ***
Capitolo 24: *** Capitolo 24. ***
Capitolo 25: *** Capitolo 25 ***
Capitolo 26: *** Capitolo 26 ***
Capitolo 27: *** Capitolo 27 - Epilogo ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1. ***


As you wish

"La sorte appaga i nostri desideri, ma a modo suo, per poterci dare qualcosa al di là dei desideri stessi."
(Johann Wolfgang von Goethe)
Capitolo 1.

Sullo schermo scorrevano rapidi i titoli di coda, segnando la fine del film e anche di quella che era stata una tranquilla serata in famiglia al 108 di Mifflin Street.
Facendo attenzione a non rovesciare la ciotola di popcorn che si era poggiata addosso qualche tempo prima, Emma portò la mano destra ad intercettare uno sbadiglio, mentre di fronte a lei Henry si stava stiracchiando, cercando la forza di abbandonare la poltrona sulla quale si trovava ormai da quasi due ore.
“Avevi ragione ragazzino, era proprio un film interessante. Non è vero Regina?” chiese Emma, voltandosi in direzione del divano sul quale si trovava l’altra madre di suo figlio.
Ma, semisdraiata sul fianco destro e con le braccia strette al corpo all’altezza del petto, Regina dormiva profondamente. Le sue labbra erano dischiuse appena e una ciocca di capelli le copriva parzialmente il viso, che appariva comunque disteso, sereno, come ben poche altre volte Emma aveva avuto modo di vederlo.
Le faceva tenerezza.
Ed era incantevole.
“Di solito non si addormenta mai mentre guardiamo la tv, doveva essere davvero stanca” constatò Henry, accarezzando sua madre con lo sguardo. “La svegliamo, così si mette a letto?”
“Se la svegliassimo adesso dubito che si metterebbe a letto” mormorò Emma, facendo vagare lo sguardo nella stanza. Pacchi di patatine e popcorn giacevano abbandonati in vari angoli del pavimento, una ciotola semivuota si trovava in equilibrio precario sul bracciolo della poltrona e ben due tazze campeggiavano sul basso tavolino di fronte al televisore, ignorando bellamente i sottobicchieri che erano stati loro assegnati all’inizio di quella serata… se Regina si fosse svegliata e avesse visto quel casino l’avrebbe uccisa, Emma ne era certa.
“Hai ragione, doveva essere davvero stanca. Lasciamola dormire ancora un po’ e mettiamo a posto noi” suggerì quindi, speranzosa.
“Io ho già apparecchiato la tavola per la cena, ho fatto i compiti e ho scelto il film da guardare. Adesso tocca a te ma’ ” bisbigliò prontamente Henry, posando un bacio sulla guancia di sua madre, per poi dirigersi verso la porta della stanza. “E non fare troppo rumore mentre metti a posto, la mamma ha il sonno leggero!” ghignò tra un sorriso e uno sbadiglio, imboccando le scale che lo avrebbero portato al piano di sopra e dritto tra le braccia di Morfeo.
Emma sorrise sconsolata, ma per nulla sorpresa di essere stata incastrata in così breve tempo e con così poca difficoltà. Suo figlio era sempre stato bravo con le argomentazioni e, soprattutto, era davvero un asso nel farle fare ciò che voleva lui. Se l’aveva portata a credere nelle favole e nell’esistenza del lieto fine dopo anni di radicato scetticismo e totale assenza di legami, di certo Henry avrebbe potuto anche farle smuovere i pianeti.
O un satellite. Cosa che in effetti aveva già fatto, assieme a Regina.
La stessa Regina che l’avrebbe uccisa se non avesse messo tutto a posto, ricordò.
Sospirando, Emma si mise all’opera e in breve tempo riuscì a completare il tanto noioso quanto necessario compito. Ormai muoversi tra quelle stanze e svolgere quel tipo di azioni le era familiare, anche se non le era mai capitato di farlo da sola, circondata da silenzio e luci soffuse.
Una situazione insolita, certo, ma che non la metteva per nulla a disagio.
Era bello avere più di un posto in cui potersi sentire a casa.
D’improvviso, degli strani rumori la distolsero da quei pensieri rassicuranti. Parole farfugliate, forse lamenti. Emma non riusciva a definirli.
“Regina?” chiamò, lasciando rapidamente la cucina per tornare in salotto.
Non ebbe risposta, ma trovò l’altra donna ancora stesa sul divano, il volto teso e gli arti in continuo movimento mentre continuava a farfugliare parole che, nemmeno quando fu vicina, Emma riuscì ad interpretare.
Un incubo, Regina stava avendo un incubo.
D’intinto, si accovacciò accanto al divano e le strinse una mano, ma quando fece per accarezzarle i capelli si bloccò con le dita a mezz’aria.
Poteva toccarla?
Doveva svegliarla?
Aveva letto da qualche parte che svegliare le persone durante un incubo poteva essere pericoloso. O non svegliarle poteva essere pericoloso?
Dannazione, non lo ricordava.
E nessuno le si era mai nemmeno avvicinato quando per anni si era svegliata nel cuore della notte tremante ed in preda alle lacrime, quindi l’esperienza non poteva certo darle una mano.
Paralizzata, ma coi pensieri che correvano follemente alla ricerca di una soluzione, Emma sentì l’ansia crescere di pari passo al desiderio di aiutare Regina.
Vederla sofferente ed in preda a chissà quali orrori riportava a galla sensazioni che ormai da settimane stava cercando di sopprimere. Diverse immagini si sovrapposero alla visione attuale, il volto sofferente di Regina una costante. E lei si sentiva impotente.
E inadatta.
E spaventata.
E… inspirando in modo quasi animalesco, Regina si sollevò bruscamente dal divano, gli occhi spalancati e il corpo tremante.
Emma si riscosse e in un istante la strinse a sé.
“Va tutto bene, sei a casa. Era solo un brutto sogno, solo un brutto sogno”.
Continuò a ripeterlo come un mantra, per Regina e per sé stessa.
Andava tutto bene, tutto bene.
“Emma…” sussurrò la mora, abbandonandosi a quell’abbraccio. Chiuse gli occhi e cercò di regolarizzare il respiro, il cuore che le batteva all’impazzata.
Gli incubi erano tornati a tormentarla, ma non erano reali. Il suo morbido e comodo divano era reale, la sicurezza della sua calda casa era reale, l’aver preparato la cena con Henry qualche ora prima era reale.
L’abbraccio forte di Emma era reale.
Dopo aver preso un grosso respiro, Regina aprì gli occhi e si mosse, riposizionandosi sul divano. “Scusami” disse, schiarendosi la voce. “Adesso va meglio”.
Emma sciolse l’abbraccio e si allontanò leggermente, combattuta tra la necessità di guardare il viso di Regina, per leggerle negli occhi la verità di quelle ultime parole, e l’esigenza di toccarla, di saperla vicina, al sicuro.
“Hai avuto un incubo” fu tutto quello che riuscì a dire.
“Complimenti per l’acume sceriffo” scherzò Regina, cercando di sdrammatizzare e di porre fine a quella situazione imbarazzante.
Ma il volto di Emma rimase serio, la bocca tirata, a voler trattenere la domanda che sapeva le sarebbe scappata inesorabilmente.
“Eri di nuovo in quella foresta?”
“Emma…”
“Lo prendo come un si”. E la frase le uscì più secca e sofferente di quello che voleva.
“Era solo un brutto sogno Emma. Capita… capita a tutti” le sorrise, Regina.
“Capita? È successo altre volte?”. L’ansia stava tornando, assieme al senso di colpa e alla paura e agli altri mille sentimenti confusi che le si agitavano dentro, sormontati dalla voglia di sapere.
Perché, dopo tutte quelle settimane, Emma ancora non sapeva bene cos’era successo in quella dannata foresta. E non poteva rimproverare che se stessa.
“Tutti facciamo brutti sogni, lo sai. Ciò che conta veramente è svegliarsi in una realtà che non sia peggio dell’incubo. È così che ci si può lasciare tutto alle spalle”. Il sorriso di Regina adesso era solo accennato, ma nelle sue parole si percepiva tutta la dolcezza di una madre che rassicura il proprio bambino. E ancora una volta Emma ebbe la sensazione che quelle rassicurazioni fossero per entrambe.
“Ok” le rispose rassegnata, alzandosi in piedi.
Chiuso l’argomento, Regina ebbe finalmente modo di prendere coscienza dello spazio che la circondava e del tempo che doveva aver passato addormentata visto che il televisore era spento e il suo salotto era pulito e ordinato come quando ci era entrata.
“Henry non…”
“No, no. È a letto da un po’ ” si affrettò a risponderle Emma. “In effetti si è fatto tardi. Che ne dici di offrirmi una tisana della buona notte prima che torni a casa?”
Regina la guardò divertita e ben poco sorpresa da quella richiesta. “Sidro?” e il ghigno di Emma fu la risposta che si aspettava.
Fece per alzarsi, quando la bionda la bloccò. “Ci penso io”.
E pochi minuti dopo avevano entrambe vuotato il secondo bicchiere, l’aria era più leggera ed era davvero arrivato il momento di andare a letto.
Regina si alzò dal divano con la testa che le girava leggermente. Accompagnare Emma alla porta e prepararsi per la notte avevano richiesto più forze del solito, ma ce l’aveva fatta. Sistemò meglio la testa contro il cuscino e chiuse gli occhi, pregando per un sonno privo di incubi. E mentre il pensiero cosciente pian piano si allontanava, la mano sinistra si poggiava sul collo, ad accarezzare una ferita ormai scomparsa, ma ancora fin troppo presente.


Correva, correva senza sosta. Gli alberi e gli arbusti erano fitti, il sole vi penetrava appena. E lei non sapeva dove stava andando, ma sapeva che doveva allontanarsi, che doveva scappare. Anche se le mancava l’aria e il fisico le urlava di fermarsi. Anche se la vista era sempre più annebbiata e il cuore le batteva all’impazzata, incapace di accettare quello che stava succedendo.
Erano troppo vicini, era spacciata.
Ma almeno lei sarebbe stata salva.
“REGINA!” urlò una voce fin troppo cara e familiare.
E Regina sentì un dolore lancinante al collo mentre una nuvola di fumo la avvolgeva, rendendo ancora più sfocato e scuro il paesaggio circostante.

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Capitolo 2
*** Capitolo 2. ***


Capitolo 2.

Cominciare la giornata col fastidioso suono della sveglia che rimbomba nelle orecchie doveva essere una di quelle cose che tutti indistintamente odiano, in qualsiasi universo e dimensione, Henry ne era certo. Per sua fortuna però, ogni volta che si risvegliava nella casa di Mifflin Street, l’acuto trillo era accompagnato da un invitante profumino proveniente dalla cucina.
Era così da che ne aveva memoria: sua madre gli aveva sempre fatto trovare la colazione pronta. Anche nel periodo in cui, infantile e orgoglioso, lui scendeva al piano di sotto non degnandola di uno sguardo, snobbava il cibo ed aspettava solo il momento più opportuno per lanciare accuse piene d’odio e scappare fuori dalla porta, tra le braccia di Emma.
Erano passati diversi anni e all’epoca era solo un bambino, ma era comunque difficile non sentirsi ancora un po’ in colpa.
Lasciando andare un sospiro in uno sbadiglio, Henry si sollevò a sedere sul letto, cercando istintivamente il buon odore che gli avrebbe dato la forza di iniziare un’altra giornata. E quando le sue narici furono raggiunte da quella che sembrava essere puzza di bruciato, si stropicciò gli occhi, credendo per qualche istante di essersi risvegliato nel loft dei nonni, ai tempi in cui un’impacciata Emma aveva cercato di imitare le doti culinarie dell’altra sua madre, fallendo miseramente.
Fortuna che nell’anno passato a New York le cose erano enormemente migliorate.
Perplesso, Henry scese rapidamente le scale, fiondandosi in cucina. Fu lì che trovò una padella abbandonata su un fornello ancora acceso, farina sparsa ovunque e sua madre stesa a terra, priva di sensi.
“Mamma!” urlò, correndo a spegnere il fornello, per poi chinarsi accanto a Regina e sollevarle la testa, posandosela sulle gambe. Con le mani tremanti, prese il cellulare e compose a memoria il numero di Emma, che si materializzò accanto a lui pochi istanti dopo.
“Cos’è successo?” chiese, la voce ancora impastata dal sonno.
“Non lo so! Mi sono svegliato e c’era puzza di bruciato e l’ho trovata qui a terra e…”
Ma l'attenzione di Emma era già sull'altra donna.
“Regina? Regina, mi senti?” la chiamò.
Prese un po’ d’acqua fresca e le bagnò il viso, il collo, i polsi, di nuovo il viso. E a quei tocchi Regina iniziò a destarsi, tornando pian piano cosciente.
“Emma? Che succede?”
“Mamma…” la strinse forte Henry.
E non la lasciò andare un attimo, fino a che Regina non fu seduta sul divano, il volto pallido che cominciava a riprendere colore.
"Hey, come ti senti?" le chiese Emma, porgendole un bicchiere di succo di frutta.
"Sto bene, sono… solo un po' stordita. Cos’è successo?"
Lo sguardo confuso di Regina si spostò da Emma ad Henry, fino a che quest’ultimo non prese la parola.
"Sono entrato in cucina e ti ho trovata svenuta sul pavimento. C’era ancora la padella sul fuoco e farina ovunque ed eri così bianca…sei stata male mamma?"
La voce di Henry tremava ancora, Regina lo notò subito. Gli prese una mano e gli accarezzò il viso.
"Oh Henry, mi dispiace di averti spaventato. Sto bene, stavo solo preparando la colazione..."
"E qual è l'ultima cosa che ricordi?" chiese Emma, cercando di capirci qualcosa in più.
"Io...ho messo la padella col burro sul fuoco e mi sono spostata per mescolare ancora un po' l'impasto dei pancake” rispose Regina, lo sguardo concentrato mentre richiamava alla mente quanti più dettagli possibili. “Volevo aggiungere dell'altra farina, ma l'avevo già messa via, quindi l'ho richiamata a me con la magia e poi...non lo so. É a quel punto che devo essere svenuta."
"Quindi è perché hai usato la magia?" Chiese Henry.
"Non saprei. Ero un po’ stanca e raffreddata, ma richiamare un pacchetto di farina è davvero una banalità, non può avermi messa ko! É più probabile che io abbia preso un qualche virus per colpa di quelle schifezze che tua madre ci ha fatto mangiare ieri sera..."
"Hey, non erano schifezze!” rispose prontamente Emma in propria difesa. “Il cibo cinese del Rabbit Hole è ottimo. E lo abbiamo mangiato anche noi e stiamo benissimo."
"Ma’ ha ragione. E poi noi abbiamo mangiato anche le patatine e i popcorn e i biscotti e la cioccolata e il gelato e non stiamo male" aggiunse Henry, come se fosse la cosa più ovvia e normale del mondo.
"Avete mangiato cosa?! Emma!"
"Che c'è? Era la serata film, non è lo stesso senza qualche snack." si difese Emma, cercando di assumere l'espressione più innocente e angelica di cui era capace.
A Regina venne voglia di strozzarla e posò istintivamente lo sguardo sul collo della bionda. Solo allora si accorse di come Emma era vestita. Anzi, di come Emma NON era vestita. Perché una canotta aderente e un paio di shorts non si potevano di certo definire vestiti.
Regina si sentì avvampare e distolse lo sguardo, sperando che il pallore dovuto allo svenimento smorzasse l'effetto che l'altra donna stava avendo su di lei.
Non doveva guardare Emma e non doveva pensare ad Emma. Dannazione!
Sentì gli occhi degli altri su di sé e capì di essere rimasta in silenzio per troppo tempo.
"Mamma, stai bene?" Le chiese infatti Henry, ancora preoccupato.
"Si tesoro, sto bene. Torniamo in cucina, così puoi fare colazione e prepararti per la scuola mentre Emma va a mettersi qualcosa addosso e magari la smette di darti il cattivo esempio anche su questo" disse, ricomponendosi e sollevandosi con cautela dal divano. Le braccia di suo figlio furono subito pronte a sostenerla ed accompagnarla fuori dalla stanza.
"Ma…hey! Stavo dormendo quando Henry mi ha chiamata!” replicò Emma, piccata. “Scusi tanto maestà se non mi sono presa il tempo di agghindarmi degnamente."
Ma gli altri due erano già usciti dalla stanza. E a lei non restò che roteare gli occhi e cambiare magicamente il suo abbigliamento, prima di seguirli.

Dopo una rapida colazione e l’aver sentito sua madre ripetere per la centesima volta che stava meglio e che non avrebbe mai più mangiato cibo preparato, acquistato o anche solo consigliato da Emma Swan, Henry si convinse ad andare a scuola.
Ad Emma toccò invece rimettere a posto la cucina, punizione per aver tentato di avvelenarli.
La bionda si finse offesa e difese strenuamente le proprie argomentazioni, fino a che non sentì la porta di casa chiudersi.
“Ok, adesso puoi smetterla di fingere. Come ti senti?”
Regina sospirò. Non aveva mentito a suo figlio, stava davvero meglio. Ma era anche consapevole che in lei qualcosa non andava.
“Non sto fingendo, sto meglio.”
“Però…?”
“Però mi sento stremata e credo che la mia magia ne risenta. È come se non riuscissi a ricaricarmi del tutto.”
“Ed è questo che ti spaventa?”
Lo sguardo di Regina fu subito su quello di Emma e un sorriso amaro prese forma sulle sue labbra. Nonostante tutto quello che avevano passato e condiviso, ancora la stupiva quanto bene Emma sapesse leggerla.
“Fino ad oggi non avevo dato molto peso alla cosa. Periodi di stanchezza capitano, no? Però… cosa sarebbe successo se al posto della farina avessi spostato un oggetto pesante o pericoloso e ci fosse stato Henry vicino? Ho di nuovo la mia parte malvagia dentro e non oso immaginare cosa potrebbe succedere se perdessi il controllo… potrei fare del male alle persone anche con il gesto più innocuo.” E far male alle persone, specie a quelle che amava, era davvero l’ultima cosa al mondo che Regina voleva. Avrebbe fatto qualunque cosa per tenere i propri cari al sicuro. Poteva isolarsi nel mausoleo per un po’, creare barriere contenitive con delle pozioni, consultare qualche libro. E nel frattempo Henry sarebbe stato con Emma e avrebbe continuato gli studi in tranquillità, senza dover pensare a madri svenute sul pavimento.
“Hey, Regina! Non mi stai ascoltando e sento il rumore degli ingranaggi del tuo cervello che girano: stai correndo troppo” intervenne Emma, bloccando il flusso di pensieri che la stava invadendo. “Henry sta bene, è a te che dobbiamo pensare adesso. E tu non hai una parte malvagia e una buona, sei…semplicemente tu. Credevo che ormai lo avessi capito.” E le sorrise. Emma sapeva essere molto dolce nella sua semplicità.
“Sono certa che non è niente, ma che ne dici di prenderti qualche giorno di vacanza ed evitare l’uso della magia fino a che non capiamo se c’è qualcosa che non va?” suggerì.
“Non ho bisogno di una vacanza Emma. Devo andare al mio mausoleo e consultare i miei libri, sono certa che lì troverò risposte.”
“Per ora direi che non vai da nessuna parte. Posso prendere io i tuoi libri. O potremmo chiedere un parere a tua sorella. Intanto, perché non mangi qualcosa? Sarebbe un’ottima prima mossa per riprendere le forze.”
“E vorresti cucinare tu? Guarda che non stavo scherzando, ho davvero la nausea per colpa del tuo cibo.” Le disse, alzando un sopracciglio.
“Ancora?! Possono esserci mille altre spiegazioni per la nausea. Che ne so, potrebbe essere un’influenza intestinale. O, vista la tua innata gentilezza, potrebbe averti avvelenata l’ultimo cameriere a cui hai risposto male. O potresti anche essere incinta, non si sa mai.”
A quelle parole, gli occhi di Regina si spalancarono istantaneamente. Ed Emma non si rese conto di quello che aveva detto finché non vide lo stupore e la sofferenza sul suo volto.
Subito dopo, un altro pensiero invase la sua mente e decise di non frenarlo.
“Non guardarmi così, non ho detto nulla di assurdo. In fondo non mi hai mai raccontato cosa è successo quando mi hai lasciata sulla spiaggia per andare via con Robin.” E il tono fu più accusatorio di quello che avrebbe voluto, ma non riuscì a trattenersi né a nascondere quanto ancora fosse ferita per quella decisione così stupida.
“Emma non…” Regina chiuse per un attimo gli occhi e prese un respiro profondo, cercando di contenere i sentimenti e lasciar uscire le parole giuste. “Non è successo niente del genere tra me e il finto Robin nel mondo del tuo desiderio. Come puoi… diamine, come puoi anche solo averlo pensato?”
Emma distolse lo sguardo. “Forse il problema è proprio che non so cosa pensare.” Lo disse in un sussurro, più a se stessa che all’altra donna. E dopo minuti di silenzio insostenibile, a passi lenti si incamminò verso la porta della cucina.
“Io non posso avere figli.”
Le parole di Regina la freddarono prima che potesse uscire dalla stanza. E si voltò nuovamente a guardarla.
“Mia madre voleva un erede col proprio sangue, da poter controllare e plasmare a proprio piacimento visto che io ero una continua delusione.
Con una pozione mi sono assicurata che non lo avesse mai.
E io stessa mi sono tolta la possibilità di avere quello che desideravo più di ogni altra cosa.”
“Regina…mi dispiace. Sono un’idiota, io non…”
“E invece è arrivato Henry.
E si, sei un’idiota, ma è anche grazie a te se adesso ho quello che ho sempre desiderato più di ogni altra cosa.”
La voce tremante, gli occhi lucidi e Regina sorrise appena. Ma era il sorriso di una madre le cui sofferenze immense si annullano nell’amore per il figlio. Ed Emma pensò di essere davanti alla cosa più bella e preziosa esistente al mondo.
 

“Ecco il tuo anticipo.” E gli lanciò addosso il sacchetto contenente le monete. “Completa il lavoro e vedrai più oro di quanto la tua sudicia testolina abbia mai potuto immaginare. Ma se fallisci dopo averci fatto perdere questa occasione, giuro che non ci sarà più angolo di foresta in cui potrai nasconderti.”
“Abbassa la voce, ho tutto sotto controllo. Tu prepara il compenso e tieni pronti gli uomini, al resto ci penso io.”
Mise le monete nella borsa e, con un ghigno sul volto, si mosse per tornare al vicino accampamento improvvisato. In tasca, la mano destra stringeva l’arma che gli avrebbe finalmente cambiato la vita.

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Capitolo 3
*** Capitolo 3. ***


Capitolo 3.

Fare lo stesso lavoro, nello stesso posto, per più di trent’anni aveva di certo i suoi vantaggi: ormai Regina avrebbe potuto guidare Storybrooke anche ad occhi chiusi o a testa in giù.
Non c’era cifra dei bilanci o virgola dei resoconti di cui il sindaco non conoscesse il posto. E, anche se negli ultimi anni le cose si erano evolute, il suo incarico non aveva subito grosse mutazioni, perciò non era difficile svolgere l’essenziale da casa, senza essere nel pieno delle forze e avere grande concentrazione.
Se avesse chiesto alla sua segretaria di riorganizzare le riunioni e gli appuntamenti avrebbe potuto persino prendersi quel periodo di vacanza di cui aveva parlato Emma.
Emma… che purtroppo aveva parlato anche di ben altro.
Non le era affatto sfuggito che lo sceriffo stava tentando in ogni modo di estorcerle informazioni su quello che era successo nel mondo dei desideri. E le dispiaceva vederla così in pena, ma…non era pronta.
Parlarne avrebbe tirato in ballo troppe altre cose.
E avrebbe portato domande più che risposte.
Era troppo presto, troppo presto per tutto.
Persa nei suoi pensieri, Regina sussultò quando sentì la porta di casa aprirsi.
Era ancora presto perché Henry fosse rientrato da scuola e solo un’altra persona oltre a loro aveva una copia delle chiavi di casa…erano davvero arrivate al punto che le bastava pensarla perché la bionda le comparisse davanti?!
Fissando la porta dello studio, rimase in attesa di veder spuntare l’onnipresente giubbotto rosso, ma quella che entrò non era affatto la donna che si aspettava.
“Zelena?”
“Ciao anche a te sorellina. Ti prego, non essere così felice di veder-”
"Non ti avvicinare!" La bloccò Regina, occhi spalancati, non appena notò un grosso oggetto nero che stava magicamente levitando accanto a sua sorella.
"Non ho il pieno controllo della mia magia, Robin non può stare vicino a me. È meglio che ve ne andiate."
"Rilassati Regina, non ho portato Robin. Un uccellino mi ha detto che non stai bene, quindi ho lasciato mia figlia in quella specie di ritrovo per neonati..."
"L'asilo?"
"Si, quello. All'inizio non mi convinceva: tutti quei colori, quelle canzoni, quei figli di principesse che cresceranno spocchiosi e viziati come i loro genitori..."
La smorfia di disgusto che seguì fu talmente sentita da strappare un sorriso a Regina. Gli sproloqui di sua sorella avevano sempre un che di esilarante, soprattutto quando riguardavano gli aspetti della vita “moderna” a cui stava ancora cercando di abituarsi.
"Ti assicuro che le maestre dell'asilo di Storybrooke sono molto competenti: le ho formate io." Sottolineò con un ghigno.
E Zelena la guardò male.
"Certo, certo. Stavo dicendo… sono qui per i problemi con la magia. E ho portato i tuoi libri" disse, mentre il grosso baule nero, che le era stato accanto per tutto quel tempo, si andava a poggiare lentamente sul pavimento, vicino alla scrivania.
"E come facevi a -“ ma Regina si bloccò da sola prima di completare la domanda.
Era ovvio.
“Ti ha mandata Emma.”
"Esatto. La cara salvatrice mi ha chiamata qualche ora fa e mi ha spiegato la situazione. O almeno, ci ha provato. Farfugliava e il suo racconto non aveva molto senso, ma sono riuscita a carpire svenimento, problemi di magia e prendere libri dal mausoleo. Mi spieghi tu?"
Regina sospirò. Ovviamente Emma aveva chiamato rinforzi non appena uscita.
Avrebbe dovuto aspettarselo.
“Non c'è molto da dire, se non che attualmente non ho il pieno controllo della magia. É come se non riuscissi a richiamarla nel modo giusto. Anche se mi concentro, non riesco a disporne appieno come al solito.”
"Uhm...come se tu volessi concentrarla in un punto e si disperdesse verso un altro?"
Regina ci pensò per un attimo e poi annuì.
A quel cenno di conferma, Zelena spalancò gli occhi e istintivamente fece un passo indietro, cercando di allontanarsi.
"Non è influenza magica, vero?!"
Ricordava più che bene quando una giovane e ancora più insulsa Dorothy gliel'aveva passata a Oz. Era stata male per giorni, vagando debole e nauseabonda per la casa.
Ad ogni starnuto o colpo di tosse, la sua magia si attivava, facendo danni e materializzando oggetti. Piante e fiori, utensili, decine di secchi pieni di acqua di pozzo…e non era nemmeno stata quella la cosa più strana!
Quando aveva provato ad utilizzare la magia per curarsi e trovare un po’ di sollievo gli effetti erano stati alquanto...pittoreschi.
Col senno di poi avrebbe voluto essere verde già allora, così probabilmente non avrebbe notato le chiazze in colori pastello che le si erano formate sul corpo e quelle strane escrescenze che...disgustoso, assolutamente disgustoso.
"No, ho escluso l’influenza magica. E anche un paio di altre possibilità grazie ai libri che avevo qui in casa.” La riscosse e tranquillizzò la voce di Regina.
“Bene. Bene.” Ripeté Zelena, più per se stessa che per la sorella. “Allora diamoci da fare e cerchiamo di capire cos’è” disse, andando a sedere sul divano e facendo cenno a Regina di imitarla.
“Ok, dammi le mani e partiamo dalle cose semplici. Vediamo se riesci a trasmettermi un po’ di magia”.
Regina fece come richiesto. Strinse le mani di sua sorella e concentrò su di esse la propria attenzione e il proprio flusso magico.
Qualche secondo ed un lieve scintillio viola fece la sua comparsa, per poi sparire improvvisamente pochi istanti dopo.
Lo sguardo di Regina divenne ancora più serio e una nuova, flebile ondata di magia si fece viva tra le mani delle due, per poi dissolversi come la precedente.
“Ma che diavolo…non sono stata io ad interrompere il flusso!”
Ritrasse le mani e le strinse a pugno, cercando di contenere la propria frustrazione.
Ma che diavolo le stava succedendo?!
“Si, questo era ovvio.” disse Zelena con tono scherzoso. Ma lo sguardo cupo e minaccioso che ricevette in risposta la dissuase dal continuare su quella strada.
“Ok, proviamo a fare al contrario.” Prese nuovamente le mani della sorella tra le proprie e si concentrò, rilasciando un po’ di magia.
Una luce verde, intensa e definita, si formò tra di loro.
“Bene, adesso prova ad assorbire la mia magia e a- ehy!“
Il flusso di magia crebbe improvvisamente e continuò a spostarsi rapidamente verso Regina fino a quando Zelena non ritrasse di scatto le mani, interrompendo il contatto e l’emissione.
“Ho detto assorbire, non risucchiare ferocemente!”
Regina spalancò gli occhi e dischiuse la bocca, ma non vi uscirono parole.
Quell’intenso flusso di energia era stato come un’improvvisa scossa di adrenalina che però l’aveva lasciata momentaneamente interdetta.
Perché non riusciva a controllarsi?
Era chiaro che qualcosa stava interferendo con la sua magia, non c’era più alcun dubbio.
Ma doveva capire cosa e riprendere il controllo al più presto, prima che la situazione degenerasse.
Fu Zelena a dare voce a quei pensieri, sottolineando che la mancanza di controllo era evidente e chiedendole se di recente era stata esposta a qualche incantesimo.
Solo allora Regina ripensò all’oggetto che da settimane teneva chiuso nel cassetto della sua scrivania.
Si alzò dal divano e andò a prenderlo, per poi mostrarlo a sua sorella. "Non ci ho trovato nulla di diverso dal solito. E fortunatamente l’ho indossato per poco tempo, però potrebbe aver fatto qualcosa alla mia magia."
Zelena prese tra le mani il bracciale. Era di pelle nera, come quello che le avevano messo al polso per bloccarle i poteri e chiuderla in cella quando erano tornati da New York.
Chiuse gli occhi e la porta a quel tipo di pensieri.
Quello era il passato.
Si concentrò.
Anche la magia che il bracciale emanava era la stessa, non c'erano dubbi. Difficilmente poteva aver avuto effetti diversi.
"Spiega." Disse semplicemente, aspettando di avere qualche informazione in più.
Regina tornò a sedersi e prese fiato, prima di cominciare a dar voce al ricordo che per molto tempo aveva evitato.
"Quando ero intrappolata nel desiderio ho incontrato Robin."
 
 
Il dolore lancinante che attraversò istantaneamente il suo corpo gli fece vedere le stelle e lo lasciò interdetto per diversi istanti.
Quella dannata cagna…come aveva osato?!
Ma l’avrebbe pagata, eccome se l’avrebbe pagata!
Si riscosse e cominciò a correre, a rincorrerla. Aveva bloccato la sua magia con quel bracciale e lei non conosceva di certo quella foresta bene quanto lui, non poteva sfuggirgli per molto.
E infatti ben presto la vide: senza rendersene conto, quella folle stava correndo proprio in direzione dei soldati da cui per tutto il giorno aveva cercato di scappare.
Ma non poteva lasciarla a loro. Era la sua occasione.
Senza alcuna difficoltà, Robin si arrampicò su un albero, raggiungendo un ramo che gli garantì campo aperto e visibilità sulle mosse della sua preda.
Toccando il piumaggio delle frecce nella sua faretra, trovò quella che stava cercando e si preparò a scoccare.
“REGINA!” urlò con tutto il fiato che aveva in corpo.
E fece partire quel colpo magico che, come sempre, non avrebbe mancato il bersaglio.

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Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***


Capitolo 4.

Essere immersa in libri di magia e formulare teorie erano attività che solitamente non le dispiacevano. Ma nei casi in cui le ricerche risultavano improduttive e le ipotesi si rivelavano puntualmente sbagliate, non c’erano piacere o soddisfazioni, solo un’immensa frustrazione.
E Regina non aveva mai avuto molta pazienza.
Non che fosse impulsiva, non lo era quasi mai, ma… era più una da tutto e subito.
A ripensarci, non capiva come avesse fatto ad aspettare tanto per perfezionare il sortilegio oscuro.
Probabilmente il dolore e la vendetta erano stati un valido incentivo.
Nel presente però non c'erano minacce all'orizzonte né nemici da punire. E, per quanto preoccupante, il suo problema magico era...beh, solo suo, perciò meno rilevante.
Anche perché, nel caso fosse peggiorato, avrebbe sempre potuto mettersi al polso quel bracciale e bloccare la propria magia. Avrebbe guadagnato tempo e sarebbe stata sotto controllo, poteva essere davvero un ottimo piano di riserva.
Peccato che, quando ne aveva parlato a sua sorella, lei si era fortemente opposta a quell’opzione.
Per lei il bracciale non era la causa, ma nemmeno la soluzione al problema.
Probabilmente il periodo di prigionia dopo New York l’aveva segnata più di quanto non mostrasse. O forse Zelena non concepiva il poter vivere senza magia, mentre lei aveva avuto 28 anni da sindaco per abituarsi.
E 14 anni da mamma per capire che ci sono legami ben più importanti di quello con la magia.
Se fosse servito a proteggere Henry, avrebbe rinunciato al suo potere senza battere ciglio.
Ma fortunatamente non era ancora a quel punto. C’erano altri libri da consultare, altre ipotesi da vagliare, altre domande a cui rispondere.
E tempo.
Finalmente c’era tempo per pensare al futuro.
Spostando lo sguardo dal libro che stava fissando ormai da diversi minuti, senza però davvero leggerne il contenuto, Regina vide sua sorella immersa nella lettura.
Seria, concentrata, …si stava impegnando per lei.
Ed era strano, a volte ancora non riusciva a credere di aver lasciato nel passato gli anni di solitudine e sofferenza. Ma era così, il presente era davvero diverso.
Ed era davvero bello.
“Trovato qualcosa?” le chiese Zelena, sentendosi osservata.
“No, ancora nulla. Tu?”
Ma prima che sua sorella potesse rispondere, un’allegra musichetta invase la stanza. Zelena prese in mano il proprio cellulare e, leggendo il nome sullo schermo, sospirò.
“Si, credo di aver trovato una nuova stalker.”
Si portò il cellulare all’orecchio e: “Lei è viva e sta bene. E tu sei pesante” disse, concludendo la chiamata subito dopo, senza preoccuparsi del suo interlocutore.
Regina la fissò con sguardo interrogativo.
“Era la cara salvatrice. Sicuramente voleva avere tue notizie.” Puntualizzò, come se fosse la cosa più ovvia del mondo.
“E perché mai Emma avrebbe chiamato te per avere notizie su di me?”
“Ah questo non lo so. Non ho ancora ben capito come funzionate voi due.”
E mi sa che non lo avete capito nemmeno voi pensò, ma si trattenne dal dirlo.
Zelena si alzò dal divano su cui aveva passato le ultime ore e decise che era arrivato il momento di tornare da sua figlia. Regina stava bene e una pausa dalle ricerche avrebbe giovato ad entrambe.
Anche perché era certa che al momento sua sorella fosse più concentrata sulla telefonata di Emma che non sui suoi problemi magici.
E infatti, dall’altra parte della stanza, Regina aveva appena preso in mano il proprio cellulare e stava imprecando sottovoce per l’assenza di suoneria.
“Sembra che tu stia meglio, quindi direi di fare una pausa. E ci sono dei libri che voglio consultare a casa mia… ci aggiorniamo più tardi?” propose Zelena.
Regina annuì e, dopo averla ringraziata, salutò sua sorella e tornò ad esaminare lo schermo del proprio cellulare.
Oltre alle varie chiamate perse da parte di Emma, c’erano diversi messaggi.
Sedici messaggi da due mittenti, per la precisione.

Come stai mamma?

Ho detto alla nonna che sei stata male. Si è agitata e mi ha fatto mille domande. Probabilmente dopo scuola verrà a trovarti…scusami.

Mamma, perché non mi rispondi? Ti sto scrivendo tra una lezione e l’altra, non mi distrai dalla scuola!
 
Nel leggere i messaggi di Henry, le si strinse il cuore e allo stesso tempo un piccolo sorriso le si formò sulle labbra. Le dispiaceva moltissimo averlo spaventato quella mattina, non sarebbe più dovuto accadere.
Ma era comunque davvero fortunata ad avere un figlio così dolce e premuroso.
Doveva rassicurarlo immediatamente, dirgli che adesso stava bene, che non doveva preoccuparsi.
E, soprattutto, doveva reimpostare il volume della suoneria, in modo da non perdere mai più un messaggio del suo piccolo principe.
Solo dopo aver assolto quei compiti, Regina si occupò della seconda conversazione.
 
Regina! Henry ha detto che sei svenuta, che succede?

Stai male?

Hai preso un virus?

Anche Neal ha preso un virus la scorsa settimana, è stato terribile

Ti consiglio di stare a riposo e mangiare sano

Non sei andata a lavoro, vero?

Dopo scuola passo a trovarti

Anzi, prima vado a casa e ti preparo un brodo caldo

Ah no, posso prenderlo da Granny e venire subito dopo!

Si, vado da Granny

Ci vediamo tra poco

Intanto non ti abbattere, vedrai che passerà presto e starai bene

A dopo!
 
C’era poco da fare, Snow era sempre…Snow. Ed averla attorno in modalità crocerossina era un qualcosa che al momento Regina non era in grado di sopportare.
Le attenzioni erano piacevoli, l’affetto e il supporto potevano essere il migliore rimedio contro ogni male, ma l’ossessione e la pesantezza…no, non poteva farcela.
Perciò doveva rassicurarla e dirle che stava bene.
O poteva terrorizzarla tirando in ballo il contagio ed una ricaduta per il piccolo Neal.
Qualsiasi cosa pur di impedirle di varcare la soglia di quella casa.
Sistemata anche Snow, fu la volta di Emma.
Regina compose il numero e lo sceriffo le rispose al primo squillo, come se stesse aspettando la chiamata col cellulare in mano.
“Ehy, Regina.”
La voce di Emma le parve strana, tesa.
L’aveva fatta preoccupare?
No, certo che no. Probabilmente fino a quel momento Emma era stata intenta a giocare ad uno di quei suoi stupidi giochini sul cellulare e aveva risposto per sbaglio.
“Emma. Ho visto adesso le tue chiamate. È successo qualcosa?”
“No, no. Volevo sapere come stai. Va meglio?”
“Molto meglio, grazie. Ma te l’aveva già detto il tuo emissario, no?” la punzecchiò Regina, tornando a sedere sul divano.
“Si, in modo molto sintetico e sgarbato, ma non posso lamentarmi.” Rispose prontamente Emma, la voce più leggera ed uno strano eco a disturbare leggermente la chiamata. “Avete scoperto qualcosa riguardo il tuo problema magico?” le chiese.
“Non molto. Zelena pensa ad un incantesimo prosciugante o ad un qualche veleno. Le ho raccontato della freccia, ma i sintomi sono strani e i tempi di azione non coincidono. Dobbiamo continuare a cercare.” Concluse il sindaco.
Ed Emma rimase in silenzio.
Probabilmente il sentir nominare la freccia le aveva riportato alla mente brutti ricordi. E Regina sentì il bisogno di alleggerire la conversazione.
“Hey, lo sai che so badare a me stessa e non c’era alcun bisogno di chiamare mia sorella, vero?”
“Certo che lo so. Ma sappiamo entrambe che avevi già programmato di andare nel tuo mausoleo una volta finito di leggere i libri che hai li, quindi ho pensato di farti recapitare tutto a casa e risparmiarti la fatica.”
Regina sorrise. Emma aveva letto alla perfezione le sue intenzioni.
“Non sapevo ti occupassi di consegne a domicilio. Devo anche andare a fare la spesa e a ritirare i vestiti in lavanderia, ci pensi tu?” scherzò.
“Beh, se mi lasci una bella mancia perché no? Sai, il mio capo non mi paga abbastanza e devo arrotondare come posso.”
“Per quello che fai durante l’orario di lavoro, direi che il tuo capo ti paga anche troppo.”
“Forse, ma tu non dirglielo o a rimetterci sarà la paghetta di nostro figlio.” E la frase fu seguita dal tonfo di uno sportello che veniva chiuso con non troppa delicatezza.
“Comunque” continuò lo sceriffo, “tornando alle consegne a domicilio, che ne dici di venire ad aprirmi la porta?”
Regina sospirò e chiuse la chiamata, dirigendosi verso l’ingresso.
Aprendo la porta si trovò d’avanti Emma con un familiare contenitore tra le mani e il cellulare malamente incastrato tra la spalla e l’orecchio.
“Brodo di pollo di Granny” disse Emma, sollevando leggermente il recipiente. “Ero alla tavola calda quando mia madre mi ha chiamata e mi ha ordinato di lasciartelo all’entrata e scappare. Le hai detto che sei contagiosa, vero?” chiese, superando il sindaco ed entrando in casa, direzione cucina.
“Esatto. E l’ho fatto per non avere scocciature, non per avere di nuovo te alle calcagna.” rispose Regina, falsamente seccata, prima di seguirla.
“Che posso dire? Mi piace tormentarti.”
“Ecco scoperto perché sei sempre qui” ribatté istintivamente Regina con tono scherzoso. Ma subito si rese conto a quali pensieri quella battuta avrebbe potuto portare e si fermò a guardare Emma.
Per fortuna, lo sceriffo stava continuando ad armeggiare tranquilla tra i vari cassetti della cucina e non sembrava aver dato peso alle sue parole.
Regina tirò un sospiro di sollievo.
Da quando la storia col pirata era finita, Emma passava meno tempo possibile in quella che sarebbe dovuta essere la loro casa.
Non ne avevano mai parlato esplicitamente, ma Regina lo aveva notato. Per questo i pranzi insieme erano tornati ad essere una costante, gli inviti a cena a Mifflin Street erano aumentati notevolmente e le chiacchierate serali non erano eventi poi così rari.
Meno discorsi seri possibile, buon cibo, tanto Henry e la giusta dose di alcol.
Era quella la loro ricetta segreta per andare avanti.
Il tempo avrebbe fatto il resto.
“Mangiamo prima che si freddi?” suggerì quindi Regina. Ed Emma le sorrise, porgendole un piatto di zuppa ancora fumante, con quell’affetto e quella dolcezza che sempre le scaldavano il cuore.
Erano quelli i piccoli momenti che le davano la forza di lottare contro qualunque cosa. Perché per quelle persone... con quelle persone... Regina ne era certa, sarebbe andato tutto bene.
 
 
Era andato tutto storto, tutto.
E lei non sapeva che diavolo fare per rimettere le cose a posto e tornare indietro.
Solo qualche ora prima, il portale era stato aperto, pronto a riportarle a Storybrooke.
E, con i pensieri fissi su casa e la mano in quella di Regina, anche Emma era stata pronta a tornare.
Ma poi era comparso Robin.
Con un tempismo dannatamente perfetto, proprio come quando Regina lo aveva incontrato nella foresta incantata, mentre lei era bloccata a New York, in una vita tanto felice quanto falsa.
E anche questo Robin era falso, ma con quello sguardo serio e penetrante, quella smorfia che faceva sempre con la bocca, quell'inconfondibile fastidio che la colpiva allo stomaco ogni volta che lo vedeva...
Era talmente Robin che non c'era da stupirsi che Regina avesse voluto seguirlo.
E adesso quell'incosciente era con lui nella foresta, da ore, a fare chissà cosa...e chi se ne frega se Henry stava aspettando con ansia il loro ritorno? Chi dà peso alle minacce della guardia reale o alla condanna a morte pendente sulla testa della Regina Cattiva e pronta da decenni per essere eseguita???
Nessuno!
Perché l'importante è mollare tutto per una brutta copia della propria anima gemella e non guardarsi indietro e… no, no.
No.
Pensare queste cose non è giusto.
Ok, respira Swan, respira.
Regina è forte, sa fare le proprie scelte, sa difendersi.
Ma era tutto sbagliato, Emma lo sentiva.
Sentiva che doveva trovarla, doveva vederla, doveva saperla al sicuro.
Concentrandosi, richiamò la propria magia e cominciò a ripetere incessantemente il nome di Regina, a ripensare alla sensazione della sua mano stretta nella propria, a disegnare con la mente quegli inconfondibili occhi sempre così colmi di emozioni.
A riempire il proprio cuore con la folle speranza che tutto quello sarebbe stato abbastanza per ricongiungerle.
E quando una nuvola di fumo bianco le apparve davanti, Regina che finiva in ginocchio e il sangue che le sgorgava copioso dal collo, Emma pregò con tutta se stessa di non essere arrivata troppo tardi.

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Capitolo 5
*** Capitolo 5. ***


Capitolo 5.

L’atmosfera del mausoleo era ben diversa da quella calda e accogliente della casa di Mifflin Street. L’essere sotto terra, la sola luce artificiale ad illuminare le fredde pareti di pietra, gli scaffali pieni di libri, flaconi e contenitori di ogni genere, …rendevano tutto più formale e serio, più solenne.
Ma fornivano anche la concentrazione necessaria a prepararsi per un incantesimo, impegnativo o semplice che fosse.
Peccato che, in quel momento, nel mausoleo ci fosse qualcuno capace di minare quella stessa concentrazione con la sua sola presenza.
“Pensi che funzionerà?” chiese Regina, allungando più possibile il collo per sbirciare all’interno del calderone col quale stava armeggiando sua sorella.
Era stata relegata in un angolo della stanza, seduta lontana da ogni oggetto magico o possibilmente pericoloso. L’unica cosa che le era concesso fare era aspettare.
E le stava riuscendo dannatamente difficile.
“Se non lo pensassi non starei qui a perdere tempo.” Le rispose Zelena, continuando a dosare gli ingredienti con meticolosa attenzione.
“Ne sei sicura? Perché io ho fatto questo stesso incantesimo varie volte e non ho mai usato la coda di lucertola.”
“Ti assicuro che la coda di lucertola serve.”
“Ma se magari vuoi ricontrollare gli ingredienti, il libr- “
“REGINA!” sbottò Zelena, mollando tutto e fulminando sua sorella con lo sguardo.
Se Regina era poco paziente lei lo era ancora meno.
“Cosa? Cerco di dare una mano!”
“Non stai dando una mano, mi stai solo irritando. E parecchio.
Se non vuoi che diventi io il tuo problema magico stai al tuo posto.”
“Va bene, va bene!
È che non mi piace non fare niente.”
E dipendere dagli altri.
E non sapere come controllarmi.
E stare in disparte perché potrei essere pericolosa.
Non diede voce a nulla di tutto ciò, ma sua sorella sembrò comprendere comunque il suo stato d’animo, perché fece un grosso respiro e le disse: “La coda di lucertola serve ad espandere il raggio d’azione.
Questo è un incantesimo di localizzazione e ultimamente tu sei stata in diversi mondi…se vogliamo identificare la causa del tuo problema dobbiamo pensare in grande.”
Il tono di voce era quello di una saputella seccata dal dover dare spiegazioni ovvie, ma lo sguardo di Zelena era comprensivo, quasi dolce. E Regina non poté fare a meno di placarsi e annuire.
L’incantesimo avrebbe trovato la causa del suo scompenso magico, oggetto o persona che fosse. E sarebbero potute partire da lì per risolvere il problema. Erano sulla buona strada, lo sentiva. Anche per questo doveva fidarsi di sua sorella e pazientare.
Tornò a sedere composta e provò a concentrarsi sul proprio vestito, sistemandone pieghe inesistenti. Poi fu la volta dei bracciali, che si erano caoticamente incastrati tra loro. E della collana, il cui gancio doveva tornare al proprio posto, nascosto tra la nuca e i capelli. Infine toccò agli orecchini. Regina ne stava sistemando la chiusura quando un odore nauseabondo raggiunse le sue narici.
“Ugh, è terribile! Qualcosa deve aver reagito con la coda di lucertola!” Disse, cercando di salvaguardare il proprio olfatto coprendo naso e bocca con le mani.
Zelena non si scompose e la ignorò, continuando a dosare l’ultimo ingrediente.
Ruotando delicatamente la mano, lo lasciò cadere nel calderone, osservandolo posarsi lentamente sul fondo, mentre un familiare fumo verde faceva la sua comparsa, cominciando ad avvolgere le varie sostanze.
“E con questo ho finito.” Esclamò, soddisfatta.
A quelle parole il sindaco scattò in piedi per raggiungere sua sorella e poter osservare bene il calderone. In poco tempo l’incantesimo si sarebbe attivato e avrebbero finalmente avuto delle risposte.
Ma Regina non ebbe modo di fare più due passi che la testa cominciò a girarle, spingendola a cercare istintivamente sostegno in un vicino scaffale. Immediatamente, anche lo stomacò la tradì, cominciando a contorcersi, mentre un familiare senso di nausea la invase e le orecchie cominciarono a fischiare, annebbiandole ancora di più i sensi.
Chiuse gli occhi, cercando di controllare il proprio corpo e riguadagnare un po’ di equilibrio, ma quando sentì che anche le energie cominciavano a venire meno capì che non avrebbe potuto resistere ancora per molto.
“Zelena” sussurrò.
E quando Zelena portò lo sguardo su di lei vide il suo viso sbiancare e diventare verdognolo nello stesso momento.
Subito le fu accanto e teletrasportò entrambe nel bagno di casa propria, appena in tempo perché Regina potesse riversare nel water tutto ciò che aveva stoicamente trattenuto fino a qualche istante prima.
Non fu un bello spettacolo, ma Zelena rimase vicino alla sorella per tutto il tempo. In silenzio, per evitare di creare più disagio di quanto già non ce ne fosse. E a distanza, lasciandole un po’ di spazio per… evitare di vomitare insieme a lei. Perché erano sorelle, certo, ma non avevano mai condiviso molto più di qualche opinione, battaglia o ragazzo. E probabilmente tutta questa intimità in una volta era un po’ troppo.
Passarono diversi minuti e fu solo quando Regina riprese un po’ di colore che Zelena parlò.
“Sensibilità agli odori, capogiri, nausea, …ho sperimentato anch’io tutti questi sintomi. Quando ero incinta.”
“Ti prego non ti ci mettere anche tu…” bisbigliò Regina, seduta sul pavimento, le gambe distese e la testa poggiata alle fredde piastrelle del bagno, ancora visibilmente provata.
“Perché? Devi ammettere che le cose quadrano… sei ancora giovane, con Robin è possibile che-”
“No, NO CHE NON È POSSIBILE!” sputò fuori Regina, drizzando immediatamente la testa.
“Lo avrei voluto, ok? Più di ogni altra cosa al mondo.
Ma sono stata una folle, una stupida.
Mi sono lasciata condizionare da nostra madre anche in questo!
E per sabotare i suoi piani ho distrutto me stessa…
L’ho odiata per anni, dio quanto l’ho odiata!
E ancora di più ho odiato me.
Ma da quando c’è Henry…c’è questa stramba famiglia…a poco a poco ho smesso di pensarci.
Le cose sono cambiate, sono migliorate.
Non voglio più pensarci.”
La voce era affannata, il corpo leggermente tremante, il cuore le batteva all’impazzata, gli occhi erano ancora fissi in quelli di sua sorella.
E, complice la debolezza, Regina si sentì completamente svuotata.
Zelena invece si sentì sommersa. E le risultò difficile trovare le parole giuste per gestire una tale confessione.
Si: tutta quella intimità in una volta era certamente troppo.
“Io non…è che…una gravidanza magica avrebbe spiegato molte cose, ma…ok.
L’incantesimo è pronto, ci darà risposte” offrì, con un sorriso sghembo.
E non seppe interpretare la strana espressione che istantaneamente si formò sul viso di sua sorella.
Occhi spalancati, bocca socchiusa, respiro mozzato, ...stava male di nuovo?
“Regina…se devi rimettere ancora-“
“Magica” sussurrò Regina, così debolmente che Zelena dubitò di averlo realmente sentito.
“Cosa?”
“Gravidanza magica” ripeté il sindaco. Ma il suo sguardo era fisso nel vuoto e la mente persa in chissà quali ragionamenti.
Fu allora che Zelena capì.
A piccoli passi, la raggiunse e si accovacciò accanto a lei.
Con un rapido movimento del polso, fece comparire un test di gravidanza e lo poggiò sul pavimento, fuori dal raggio d’azione dello sguardo di sua sorella, ma abbastanza vicino perché lei potesse afferrarlo senza doversi spostare.
Poi le toccò il braccio e aspettò che incrociasse il suo sguardo, per essere certa che avrebbe sentito le sue successive parole.
“Vuoi che chiami Emma?
O Snow?” le chiese a voce bassa, temendo che persino un tono più alto del necessario avrebbe potuto gravare su una situazione già così delicata.
Regina scosse la testa e strinse le ginocchia al petto, poggiandovi sopra la fronte.
“Ok. Sono di là se hai bisogno.”
E Zelena lasciò la stanza, chiudendosi la porta alle spalle.
Non molto lontano da lì, nel calderone fumante e ancora fortemente permeato di magia, brillava la risposta a molte domande.
 
 
Alberi, cespugli, piante… non si vedeva altro che verde tutto intorno.
Ansimava per la fatica della corsa, le gambe le urlavano di fermarsi e il fianco le doleva come se la stessero ripetutamente pugnalando, ma Regina non aveva alcuna intenzione di fermarsi, perché era Robin quello che la stava trascinando per la mano.
Era Robin, Robin era vivo!
E avrebbe potuto teletrasportarsi e sfuggire facilmente ai soldati o fermarsi ad affrontarli, perché certamente qualche sfera di fuoco sarebbe bastata a spaventarli.
Ma…no, non poteva rischiare di lasciare quella mano per nessun motivo.
Aveva lasciato quella di Emma, perdendo il portale, ma in quel momento lo stupore era stato incontenibile e le aveva tolto ogni tipo di lucidità.
E poco dopo Robin l’aveva trascinata via e lei l’aveva seguito, così come avevano fatto i soldati.
Cercavano lei, la Regina Cattiva, quindi Emma non correva alcun pericolo, poteva lasciarla per qualche momento.
E poteva, doveva, sfruttare questa occasione irripetibile.
“Da questa parte, presto!” le disse Robin, deviando improvvisamente a sinistra, verso un avvallamento circondato da fitti alberi.
“Per un po’ qui saremo al sicuro.”
Si sedettero a riprendere fiato e, quando Robin le lasciò la mano, la paura tornò ad attanagliarla.
Non poteva perderlo ancora, non prima di avergli parlato.
Il tempo stringeva, doveva farlo subito e togliersi finalmente quell’immenso rimpianto.
“Mi dispiace” disse. E l’attenzione di Robin fu subito su di lei.
“Per cosa?”
“Per tutto quello che hai passato a causa mia, mi dispiace, mi dispiace.”
Le lacrime cominciarono a scendere senza controllo, silenziose ed insidiose. E Robin la guardò confuso, ma non poteva fermarsi, era la sua ultima occasione.
Gli toccò il braccio, il bisogno di saperlo reale forte più che mai.
“Ti ho fatto combattere battaglie che non erano tue, soffrire pene che non meritavi.
Ti ho letteralmente trascinato all’inferno!”
“Inferno quei quattro soldat-“
“Hai perso la tua famiglia, i tuoi amici, persino la tua vita per me.
E non me lo perdonerò mai Robin, mai, devi credermi.
Qui sei…quello che avresti dovuto essere se non mi avessi incontrata.
Un ladro che ruba ai ricchi per dare ai poveri, un uomo da leggenda.”
“Cosa?! Io non-“
“Avresti avuto una vita migliore senza di me. Avresti ancora una vita…
Ma voglio che tu sappia che per me sei stato davvero importante. E ti ringrazio per aver lottato per me, ti ringrazio per avermi salvata, ti ringrazio per-”
Le labbra di Robin furono sulle sue senza darle il tempo di reagire. E in quel momento tutto sembrò come fermarsi.
Niente più urla di soldati all’inseguimento, niente più fruscio del vento tra gli alberi, niente più rumore del fiume che scorreva impetuoso lì vicino.
Niente.
Regina si staccò e fece un passo indietro.
Aveva baciato Robin e non aveva provato niente

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Capitolo 6
*** Capitolo 6. ***


Capitolo 6.

In casa regnava ancora quel fastidioso silenzio che Zelena aveva cercato in ogni modo di non violare.
Anche il vento e i rumori tipici della campagna sembravano essersi quietati rispetto al solito.
O forse erano i troppi pensieri a far sì che li si percepisse meno.
Quando si era chiusa la porta del bagno alle spalle, il primo istinto di Zelena era stato quello di teletrasportarsi da sua figlia, stringerla forte e non lasciarla andare mai più, ma… non poteva abbandonare sua sorella.
Decise quindi di tenersi impegnata con qualche faccenda domestica e cominciare dalla cameretta di Robin le sembrò un ottimo compromesso tra il dovere e il piacere.
Messi a posto i giocattoli, fu la volta del bucato. Poi toccò alle stoviglie del giorno prima e, quando anche la cucina fu in ordine, non le rimase che mettere a riscaldare l’acqua per il tè.
Ed aspettare.
Erano passate quasi due ore e sarebbe andata a controllare la situazione già da un pezzo se solo ad un certo punto non avesse sentito lo scarico del bagno azionarsi.
Quanto meno Regina era viva.
E se il problema magico era davvero quello allora sua sorella stava solo… elaborando, probabilmente.
Lei lo ricordava nitidamente il momento in cui aveva scoperto di essere incinta.
Di certo non era stato un evento normale visto che a quei tempi aveva le sembianze di un’altra persona, viveva la vita di un’altra persona e aveva architettato tutto solo per invidia, per far soffrire proprio la sorella per cui adesso era preoccupata.
Però… la gioia immensa che aveva provato era stata più che autentica e solo sua.
Era stata la cosa migliore che le sarebbe potuta accadere.
E in cuor suo sperava che anche Regina potesse avere la fortuna di vivere questa esperienza.
L’inconfondibile rumore di tacchi che calcavano il pavimento la riscosse da quel meraviglioso ricordo e Zelena si voltò, aspettando di veder comparire sua sorella.
Qualche istante dopo, Regina si fermò sulla soglia della cucina, poggiandosi allo stipite della porta. Il viso aveva ripreso un po’ di colore e gli occhi erano ancora umidi e rossi per l’evidente pianto. Tra le mani, teneva stretto il test di gravidanza.
“È impossibile.
Io non…Zelena, è impossibile.”
Furono le uniche cose che riuscì a dire prima che le lacrime riprendessero silenziose a solcarle il viso.
Piangeva Regina, ma… stava anche sorridendo.
E, sorridendo di rimando, Zelena le fece cenno di sedersi vicino a lei.
“Congratulazioni sorellina” le disse, stringendole una mano con la propria.
Regina posò il test sul vicino tavolo e ricambiò la stretta. “Grazie. Di tutto.”
Si guardarono per alcuni momenti, fino a che Regina non fece un grosso respiro e cercò di ricomporsi, asciugando le lacrime.
“Ok… tu cosa sai delle gravidanze magiche?” chiese.
Zelena la guardò perplessa. “So quello che c’è da sapere. La magia aiuta due persone a concepire anche quando naturalmente non sarebbe possibile.”
“Si ma…credevo che anche nelle gravidanze magiche ci fosse bisogno di… beh, fare quello.”
“Perché, tu e Robin non avete fatto sesso?”
“Zelena, no!
Ma mi stavi ascoltando quando ti ho raccontato quello che è successo nel mondo del desiderio?!”
“Si, certo che ti stavo ascoltando. Ma credevo avessi omesso i dettagli piccanti per questione di pudore.” Le rispose con un’alzata di spalle, quasi delusa.
Regina le lanciò un’occhiataccia.
“Non dirmi che si tratta di Gold…” suggerì quindi Zelena, non preoccupandosi di nascondere il disgusto nato insieme a quel pensiero.
Sua sorella la fulminò con lo sguardo, sembrando altrettanto disturbata da quella opzione.
“Oh, chi allora? Emma?!”
“Nessuno!
È per questo che non capisco…la magia può aver contrastato la mia pozione dell’infertilità, ma serve ben altro per concepire un bambino!”
La frustrazione era tornata a far da padrone.
Tutta quella situazione era davvero assurda!
Regina si sarebbe aspettata incantesimi, maledizioni, veleni, ma una gravidanza…era davvero l’ultima cosa a cui avrebbe potuto pensare.
Abbassò lo sguardo e solo allora si accorse che la sua mano sinistra era posata sul suo ventre. Realizzò di averla poggiata li sin da quando si era seduta, istintivamente.
Un bambino…
Gli occhi le si riempirono nuovamente di lacrime, attirando l’attenzione di sua sorella, che le si avvicinò e le strinse il braccio.
“Regina-“
“Hey, c’è nessuno?” chiamò un’inconfondibile voce dalla porta d’ingresso. E pochi istanti dopo Emma entrò in cucina.
“Non dovevate essere nel mausoleo?” chiese lo sceriffo, notando solo in seguito la vicinanza e le facce delle due sorelle.
Regina sembrava sconvolta, spaventata.
Il cuore cominciò a batterle all’impazzata.
“Che succede? Cosa avete scoperto?”
Zelena guardò sua sorella, che annuì.
“Vado a chiamare l’asilo, per controllare Robin.” Disse Zelena, prima di lasciare rapidamente la stanza.
Emma la guardò uscire e tornò a concentrare la propria attenzione sul sindaco.
“Regina ti prego dimmi cosa sta succedendo.”
“Ti dirò tutto, ma siediti per favore.”
Emma annuì.
Si avvicinò alla sedia che fino a poco tempo prima era stata occupata da Zelena e solo allora notò il test di gravidanza poggiato sul tavolo.
Si bloccò, gli occhi spalancati.
“Sei…”
Regina seguì lo sguardo dello sceriffo.
Non aveva ancora avuto il tempo di pensare a come dirlo ad altri, a come dirlo ad Emma…ma di certo non avrebbe voluto che lo scoprisse così.
“Si” sussurrò.
E lo sguardo che ricevette da Emma fu pieno di stupore e di…dolore?
“Avevi detto che era impossibile…”
“E lo è! O, almeno, ero convinta che lo fosse.
Emma, davvero non so come sia potuto succedere.”
“Oh, andiamo Regina, ti prego. Non c’è molto da sapere su come possono succedere queste cose.” Sputò Emma con un sorrisetto amaro.
Fece un passo indietro.
E Regina istintivamente scattò in piedi.
“No Emma, no! Non è come pensi.
È… una gravidanza magica.
Quando Zelena l’ha proposto non volevo crederci, ma…lo sento.
So che è così.
E forse è per un sortilegio o una pozione o per-“
“Un sortilegio? Pensi ti abbiano maledetta?” la bloccò Emma, nuovamente invasa dalla preoccupazione.
“Non lo so. Potrebbe essere qualsiasi cosa, ma…non mi importa.” E Regina sorrise.
“Per me…per me è solo un sogno che si avvera.”
Le lacrime cominciarono nuovamente a brillarle negli occhi ed Emma realizzò che in quel momento in Regina tutto risplendeva.
La paura che aveva visto poco prima nel suo volto c’era ancora, ma era…
Gioia.
Quella era gioia.
Fu come una doccia fredda che la riscosse ed Emma capì ancora una volta quanto sapesse essere idiota ed egoista.
Ma poteva rimediare.
In un istante, annullò la distanza che c’era tra loro e strinse Regina tra le sue braccia, sperando che quel gesto sapesse esprimere quello che con troppe parole avrebbe certamente rovinato.
“Sarai di nuovo una mamma fantastica” le disse semplicemente.
E Regina si aggrappò a quella frase, a quell’abbraccio e ad Emma con tutta se stessa.
Rimasero in quella posizione per diversi istanti, in silenzio, fino a che il benessere non si tramutò in disagio ed Emma sentì il bisogno di spezzare quel momento prima che diventasse troppo…
…troppo.
Lentamente, sciolse l’abbraccio e fece un piccolo passo indietro.
“Quindi…una maledizione? È questo che vi ha rivelato l’incantesimo che avete fatto?”
“In realtà non abbiamo avuto il tempo di controllare l’esito dell’incantesimo perché…”
“Perché sua maestà è dovuta scappare via di corsa.” Disse Zelena, rientrando nella stanza e guadagnandosi un’occhiataccia da parte di sua sorella.
Emma le guardò perplessa.
“Poi ti spiego.” Le disse Regina, tagliando corto. Al momento c’erano cose più urgenti da fare.
“L’incantesimo era completo, dovremmo tornare al mausoleo a controllare.” suggerì quindi.
“Ok. Possiamo prendere la mia auto.” offrì Emma.
Ma non ebbe il tempo di mettere la mano in tasca per afferrare le chiavi che una nuvola verde le avvolse e si ritrovarono tutte e tre nel mausoleo.
“Arrivate.” Disse Zelena, dirigendosi verso il calderone su cui aveva lavorato fino a poche ore prima.
Ne fissò il contenuto e un sorriso le si parò sul volto.
“Oh oh, ma guarda un po’ cosa abbiamo qui!” disse, divertita, mentre le altre due la raggiungevano.
Zelena guardò Regina, poi guardò Emma.
Le due donne avevano la stessa identica espressione sconvolta.
Sorrise di nuovo, prima di tornare a guardare il calderone.
“Beh, è evidente che c’è qualcosa che non mi avete raccontato.”
 
 
La nuvola di fumo bianco stava iniziando a dissolversi quando Regina crollò in ginocchio, stremata ed incapace di proseguire.
La testa le girava più che mai e i suoi occhi non riuscivano a mettere a fuoco l'ambiente circostante.
Istintivamente, portò una mano al collo per cercare di lenire quel dolore atroce e le dita annegarono in un fiume di sangue, incapaci di chiudere la ferita.
Provò a richiamare le proprie energie, la propria magia, ma le forze la stavano abbandonando e quel maledetto bracciale al polso non aiutava di certo.
Improvvisamente, una mano morbida e rassicurante le toccò una guancia mentre un'altra mano, forte e salda, raggiunse la sua sul collo, aiutandola a restare a galla.
Sentì un calore immenso pervaderla mentre il suo nome veniva ripetuto come un mantra, ancora e ancora.
Chiuse gli occhi e si lasciò trasportare da quel calore, da quella stretta, da quella voce così rassicurante.
“Emma” sussurrò.
“Sono qui.
Sono qui Regina.
È tutto passato.
Resta con me. Andiamo Regina resta con me.”
In breve tempo il flusso di sangue si arrestò e la ferita sparì.
Non sparirono i ricordi degli eventi appena accaduti.
Non sparirono le chiazze di terra e sangue sui suoi vestiti e sulla sua pelle.
Non sparirono le mani di Emma sul suo viso, fino a che Regina non riaprì gli occhi.
E, una volta messo a fuoco l’ambiente circostante, fu istintivo guardarsi spasmodicamente attorno alla ricerca di armature, cavalli o di una familiare casacca verde.
Emma le strinse una mano.
“Siamo al sicuro” le disse.
Ma le loro mani tremavano entrambe.
"Cosa è successo?
Chi ti ha ferita?
Perché non ti sei curata?
Dov'è Robin?"
Emma era agitata.
Le aveva lasciato la mano e camminava avanti e indietro, lanciandole addosso decine di domande e non capendo che la risposta a tutte quante era la sua idiozia.
Era stata una folle ad andarsene, a scappare via con uno sconosciuto solo perché aveva il viso di Robin.
E la sua voce, le sue movenze, i suoi atteggiamenti.
Ma non era lui, lo aveva saputo bene sin dall'inizio. Eppure lo aveva seguito, alla ricerca di chiarimenti, di una chiusura migliore di quella che il suo amore aveva avuto.
Finendo con lo sporcare quello stesso amore con una brutta copia.
Ed Emma...Emma ora stava urlando?
"Incosciente!
Potevi morire!
Egoista!"
Si, era stata egoista. E l'aveva abbandonata nel posto da cui era andata a salvarla.
L'aveva fatta stare in ansia, l’aveva spaventata.
Aveva tradito anche lei.
Dio, aveva sbagliato tutto!
Se ad Emma fosse successo qualcosa...
E se non fosse riuscita a tornare...se non l'avesse mai più rivista?
Quelle mani...quel viso...quegli occhi...
Emma adesso era vicinissima.
Aveva il fiatone, poteva sentirlo sulla propria pelle.
Non parlava più, non con la voce. Ma quegli occhi...così cristallini, così... pieni di tutto.
Erano fissi sui suoi, recitavano una preghiera.

Regina le accarezzò una guancia.
Emma poggiò la fronte sulla sua.
Insieme chiusero gli occhi e il mondo si fermò.
 
Si fermarono anche loro, si nutrirono di quel momento.
E poi si allontanarono, lentamente.
Mente e cuore troppo carichi per avere la forza di rompere un così comodo equilibrio

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Capitolo 7
*** Capitolo 7. ***


Capitolo 7.

“Beh, è evidente che c’è qualcosa che non mi avete raccontato” aveva detto Zelena. Ma in quel momento nessuno la stava ascoltando.
Emma fissava l’esito dell’incantesimo senza capire.
In pochi minuti era stata investita da varie informazioni e diverse, troppo diverse emozioni.
Sentirsi confusa probabilmente era il minimo.
Eppure quello che adesso aveva davanti era chiaro e difficilmente mal interpretabile: nitida e brillante, all’interno del calderone c’era una sua immagine, con tanto di rossetto rosso, elaborata treccia poggiata sulla spalla e principesca pelliccia bianca.
Quel desiderio mal espresso sembrava volerli perseguitare in ogni modo!
E già era strano anche solo vedersi in quelle vesti raffinate e così poco da “Emma Swan”, pensare poi a tutto il resto…
Bisognava fare chiarezza o sarebbe certamente impazzita.
Emma si voltò a guardare Regina cercando risposte, ma il sindaco sembrava quasi più stupita di lei. Il suo sguardo era fisso sull’immagine e rimase tale anche quando Emma la chiamò, provando ad attirare la sua attenzione.
Lo sguardo dello sceriffo tornò quindi sul calderone, prima di spostarsi sull’altra persona in quella stanza che magari poteva fornirle se non risposte, almeno qualche informazione.
“Che cosa vuol dire?” chiese quindi a Zelena.
E Zelena si lasciò scappare una risata. “Cioè, c’è la tua faccia lì dentro e chiedi a me cosa vuol dire?!”
“Certo che chiedo a te, l’hai fatto tu questo!” si difese Emma.
Al momento l’area attorno al calderone era permeata della magia di Zelena, poteva avvertirlo chiaramente nonostante la sua poca esperienza con gli incantesimi.
E se Zelena aveva sbagliato qualcosa o si stava prendendo gioco di loro…
“Eh no, il mio incantesimo ha funzionato come doveva. Il punto qui è quello che hai fatto tu, principessa.”
“Ma io non ho fatto niente!” le rispose Emma, palesemente imbarazzata.
Tante, troppe volte aveva immaginato di fare cose con Regina… ma niente di tutto quello era mai accaduto al di fuori delle sue fantasie.
Un bambino poi…
“Devo ammettere che nelle vesti principesche sei davvero affascinante, ma non credo che quelle guanciotte e quelle lunghe ciglia da sole possano bastare a concepire un bambino” la punzecchiò Zelena. Era più che divertita e non cercava nemmeno di nasconderlo. La situazione aveva preso una piega davvero stramba e c’erano ancora tante domande a cui dare risposta, ma rispetto a veleni e maledizioni…era un sollievo poter anche solo scherzare.
Emma però doveva pensarla diversamente visto che le stava lanciando un’occhiataccia minacciosa.
“Smettila di scherzare e spiegami cosa diavolo hai messo in quel calderone.”
“Hey, vedi di calmarti. L’incantesimo serviva ad identificare il problema magico di Regina. E chiaramente il suo problema sei tu” puntualizzò Zelena.
“Quindi non è detto che il problema magico e la gravidanza siano collegati…”
“Emma, è una gravidanza magica. Quadra tutto.”
“Tutto tranne il fatto che io non ho fatto niente!
Già non capisco come potrei aver creato problemi alla magia di Regina, figuriamoci averla…ecco…e poi siamo due donne!” buttò fuori Emma.
Ecco, quella era un’argomentazione più che valida!
Eppure a lei stessa era venuta in mente solo in quel momento, perché l’idea di avere un bambino con Regina…
Maledetti irrazionali sentimenti!
Ma doveva essere per Henry, certo.
Lei e Regina avevano già un figlio insieme, per questo l’idea non le era sembrata assurda sin da subito.
E invece era proprio tutto assurdo.
“Cosa c’entra che siete due donne?!
MA – GI – CA, gravidanza magica! Avresti dovuto tenere a freno la tua magia.”
“Avrei dovuto cosa?!”
Zelena alzò teatralmente gli occhi al cielo e sospirò, seccata. “Ha ragione mia sorella a dire che voi Charming avete il gene dell’idiozia predominante...”
“Ehy, attenta a non offendere” la avvisò Emma, facendo un passo nella sua direzione.
“Altrimenti?” ribatté Zelena, avanzando a sua volta, con aria di sfida.
Nella stanza cominciarono a comparire vere e proprie scintille, verdi e bianche, alimentate dal nervosismo dilagante.
La situazione stava degenerando.
Ma proprio in quel momento quello che sembrava essere un lamento, un singhiozzo strozzato, interruppe l’inutile discussione che le due donne stavano portando avanti. Entrambe si voltarono immediatamente verso la fonte di quello strano suono.
E con gli occhi spalancati, la bocca socchiusa ed entrambe le mani sul ventre, Regina sembrava più sconvolta che mai.
“Che succede? Stai male?” le chiese Emma, avvicinandosi preoccupata.
“Emma…l'ho sentita” disse Regina, la voce certa in un sussurro.
“Ho sentito la tua magia.”
Emma non disse nulla e rimase immobile, non sapendo che pensare, cosa fare.
La sua magia? Durante la discussione con Zelena?
Ma si era agitata appena, e non-
Regina le prese una mano.
Fissò gli occhi in quelli di Emma, come a voler chiedere il permesso, e delicatamente, lentamente, portò quella mano sul proprio ventre, il palmo aperto poggiato sulla camicetta leggera.
“È debole e sembra molto lontana, ma è chiaramente la tua magia. Insieme alla mia.”
E Regina le sorrise. Con un sorriso abbozzato appena, dolce e timido, ma così pieno da lasciarla senza fiato.
Emma lo fissò finché non si spense. E solo allora chiuse gli occhi e si concentrò.
Si concentrò sulla mano di Regina ancora stretta sulla propria.
Su quel ventre che tante volte aveva immaginato di poter toccare.
Su una vita che chissà come stava crescendo in Regina, in cui c’era una parte di Regina.
E in cui c’era chiaramente anche parte di lei.
Era tutto vero.
A quella scoperta Emma spalancò gli occhi e si sentì come se un tornado l'avesse investita in pieno.
Allontanò di scatto la mano da Regina e rimase impietrita, la mente piena, ma incapace di formulare pensieri coerenti.
Simultaneamente, Regina fece un passo indietro, presa alla sprovvista da quel brusco movimento. E subito con entrambe le braccia andò a circondare il proprio ventre.
Nessuna delle due donne disse niente, entrambe incapaci di iniziare quella che al momento sarebbe stata una conversazione troppo impegnativa.
Il silenzio divenne presto assordante e toccò a Zelena fare una mossa per sbloccare la situazione.
“Direi che qui abbiamo finito.
Metto a posto io, tu dovresti riposare” disse con dolcezza, rivolgendosi a sua sorella.
“Emma, la riporti tu a casa?”
Emma si riscosse ed annuì.
Guardò Regina chiedendo conferma, prima di teletrasportare entrambe nel salotto del 108 di Mifflin Street.
Regina si sedette sul divano ed Emma la imitò, scegliendo l’angolo opposto al suo.
Il silenzio continuò ad avvolgerle per diversi istanti e, mentre Emma stava ancora cercando di capire da dove cominciare, fu Regina a parlare.
Le sue mani giocavano nervosamente tra loro e la voce era ancora incerta, ma le parole uscirono lente, pesate.
“So che hai mille domande, ce le ho anch’io.
Credimi, sono sorpresa e confusa quanto te.
E so che ci eravamo prese del tempo per…capire, per fare chiarezza.
Però Emma…su una cosa io non ho dubbi: voglio portare avanti questa gravidanza a prescindere da tutto.
Ma tu non devi sentirti in obbligo, assolutamente. Puoi prenderti il tempo che ti serve per-“
Realizzando quello che Regina le stava dicendo, la via d’uscita che le stava offrendo, Emma non la lasciò finire.
Le si avvicinò e le prese le mani tra le proprie. “No, Regina, fermati. Non ho bisogno di tempo.
Sono confusa, certo.
E non so niente di gravidanze magiche e incantesimi e…dio, non so niente nemmeno di bambini!
Ho bisogno di risposte, ma non voglio una via di fuga. Voglio…trovare queste risposte insieme a te.
Io ci sono.
E questo bambino…. è già più importante di tutto il resto.”
Gli occhi di Regina si riempirono di lacrime e sorrise, stringendo le mani di Emma che stavano ancora avvolgendo le proprie.
Anche Emma sorrise. E sperò che quel sorriso, quelle parole, bastassero a far capire a Regina che le sarebbe stata accanto, anche e soprattutto in una situazione così folle.
Sperò con tutto il cuore che tutto quello bastasse perché al momento non era davvero in grado di tirare fuori di più.
Dio che giornata!
Si sentiva stordita e travolta e sovraccarica di informazioni ed emozioni e, come se non bastasse, le successive parole di Regina diedero il colpo di grazia alla sua lucidità.
“Bambina. Sarà una bambina.
Siamo due donne, non c’è nessun cromosoma Y.“
Le spiegò Regina, con semplicità.
Emma la guardò ed inspirò profondamente, cercando di assimilare quell’ulteriore, magnifico dettaglio.
“Una bambina…”
Regina annuì, il sorriso ancora fermo sulle labbra.
“Wow…ok” disse Emma, passandosi una mano sul viso, poi tra i capelli.
Inspirò ancora e buttò fuori quanta più aria e incertezza possibile, cercando di tornare in sé.
“Ok…e che altro sai su queste gravidanze magiche?
Cioè, è davvero possibile che noi…senza…ecco…come è successo?”
“Non lo so.
Non mentivo prima, a casa di Zelena, quando ho detto di non sapere come sia successo.
So che con la magia anche due donne possono concepire un figlio. Nella Foresta Incantata non era poi così raro che coppie si rivolgessero a persone con poteri magici per questo scopo. Ma ci sono degli incantesimi particolari, dei tempi, delle condizioni da rispettare. E…si, il sesso è una di quelle” precisò, capendo che per Emma, come era stato per lei, era quella la cosa più strana ed inspiegabile.
“Uhm…quindi cosa, è successo ma è stata un’esperienza talmente terribile che l’abbiamo rimossa entrambe?” buttò lì Emma, con una risatina nervosa.
La sua voleva essere una battuta, una stupida idiota battuta.
Ma Regina non stava affatto ridendo.
“Credi sia come quando ci hai tolto i ricordi con gli acchiappasogni?” le chiese, pensierosa.
“Ehy, no, scherzavo!” precisò subito Emma.
Se davvero fosse successa una cosa del genere tra lei e Regina era assolutamente impossibile che l’avesse dimenticato.
Non poteva esistere una magia tanto potente, ne era certa.
Impossibile.
Anche perché… ogni istante passato con Regina nel regno del desiderio, ogni sentimento provato, ogni… occasione persa… era tutto impresso, indelebile e vivo, nella sua mente.
Ed Emma sapeva che anche solo chiudendo gli occhi avrebbe potuto rivivere ogni singolo momento.
 
 
La nuvola di fumo bianco stava iniziando a dissolversi quando vide Regina crollare in ginocchio a pochi metri da lei, il sangue che le sgorgava copioso dal collo.
Emma pregò con tutta se stessa di non essere arrivata troppo tardi, di non averla persa.
Fu accanto a Regina in pochi secondi, cercando di sostenerla con le proprie mani, di curarla con la propria magia, di rassicurarla con la propria voce.
“Regina.
Apri gli occhi Regina, forza.
Va tutto bene.
Regina…”
“Emma” sussurrò l’altra, dimostrandosi cosciente.
“Sono qui.
Sono qui Regina.
È tutto passato.
Resta con me. Andiamo Regina resta con me.”
In breve tempo il flusso di sangue si arrestò, la ferita sparì.
Ed Emma poté riprendere a respirare.
Le sue mani non lasciarono il viso di Regina finché lei non riaprì gli occhi.
Sembrava spaesata, impaurita.
Emma le strinse una mano.
“Siamo al sicuro” le disse.
Ma le loro mani tremavano entrambe.
Perché si, al momento erano al sicuro, ma chissà per quanto ancora lo sarebbero state. E chissà cosa diavolo era successo a Regina per ridurla in quello stato, per…
Non poteva stare lì ferma, doveva proteggerla. E doveva trovare un modo per tornare a Storybrooke al più presto.
Camminare avanti e indietro in quell’angolo di foresta non serviva a nulla… aveva bisogno di risposte!
Ma Regina sembrava persa, non rispondeva a nessuna delle sue domande.
Dannazione!
E se avesse altre ferite, se la sua magia non fosse stata abbastanza per guarirla, se le avessero fatto qualcosa di irreparabile…
Non avrebbe dovuto andarsene con Robin, quella… “Incosciente! Potevi morire!”
Le urlò contro.
Perché non sapeva più cos’altro fare.
La paura la stava divorando.
Ma non era giusto…non era quello il modo.
Dio, se l’avesse persa…
Come poteva anche solo pensare di sopravvivere in un mondo senza Regina?!
Il bisogno di sentirla vicina fu incontenibile.
La raggiunse in pochi passi e cercò di controllare il proprio respiro.
Doveva calmarsi, si sarebbe sistemato tutto.
Gli occhi di Regina, profondi, vivi, sarebbero stati la sua àncora.
Si affidò a loro, li supplicò di non lasciarla.
Regina si mosse, le accarezzò una guancia.
Emma poggiò la fronte sulla sua.
Insieme chiusero gli occhi e il mondo si fermò.
 
Si fermarono anche loro, si nutrirono di quel momento.
E poi si allontanarono, lentamente.
Mente e cuore troppo carichi per avere la forza di rompere un così comodo equilibrio.
Non poteva succedere così, non in quel momento.
Non sarebbe stato… giusto, per nessuno.
“Emma…mi dispiace” le disse Regina.
E finalmente la sua voce, i suoi modi, i suoi mille sentimenti dietro ad ogni parola.
“Hey, è tutto a posto” rispose Emma.
Non era vero, lo sapevano entrambe.
Ma in quel momento avevano entrambe enormemente bisogno di crederci.
Decisero di riposare, di raccogliere le energie ed i pensieri.
Si sdraiarono a terra, lontane, ma ad un passo l’una dall’altra.
Regina si mise su un fianco, chiudendo gli occhi. Ed Emma rimase a guardarla per ore, il cuore che le batteva ancora feroce, non riuscendo a desiderare altro che essere a casa con lei e loro figlio.
Chiuse gli occhi senza accorgersene e si abbandonò a voci, pensieri, ricordi, mentre il sorriso di Henry le dava ancora una volta il benvenuto a Storybrooke

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Capitolo 8
*** Capitolo 8. ***


Capitolo 8.

Quella notte la luna era piena ed alta nel cielo.
Con la sua luce, intensa ma delicata, attraversava i rami degli alberi e si faceva largo fino ad arrivare a Regina, accarezzandole il viso.
Il silenzio avvolgeva cautamente un ambiente non particolarmente freddo, in cui l’abbraccio delle coperte attorno al corpo ed il sostegno di un comodo materasso rendevano l’imminente risveglio dolce e amaro allo stesso tempo, tanta era la perfezione del momento e la voglia inconscia che durasse quanto più possibile.
Ma, più il sonno si allontanava da lei, più per Regina diventava difficile non porsi coscientemente una domanda: come diavolo ci era arrivata nel proprio letto?
Con non poca fatica, aprì gli occhi e riconobbe le sagome della propria camera, mentre tutti gli eventi dei giorni appena trascorsi le invadevano la mente.
I problemi con la magia, la frustrazione, l’incantesimo, la gravidanza…
Si portò le mani al ventre e chiuse gli occhi, per concentrarsi e sentire di nuovo la piccola vita che stava davvero crescendo dentro di lei.
Ma, prima che avesse il tempo di percepire quella flebile magia, un inconsueto brontolio ruppe il silenzio che regnava nella stanza… la sveglia sul comodino segnava l’una e trentasette e Regina si rese conto di aver saltato la cena.
Ricordava il discorso con Emma sul divano del salotto, l’improvviso rientro di Henry, il proprio panico riflesso nel volto dello sceriffo e la decisione di non rivelare nulla presa con uno scambio di sguardi. Emma si era quindi occupata della cena mentre Henry aveva iniziato a raccontarle la sua giornata e… più nulla.
Doveva essersi addormentata sul divano.
Lo stomaco brontolò di nuovo, determinato ad avere attenzioni, e Regina sbuffò, per nulla intenzionata a lasciare la comodità del proprio letto per prepararsi qualcosa da mangiare.
Allungandosi a memoria verso il comodino, prese in mano il cellulare, sperando che l’avrebbe aiutata a distrarsi fino a che il sonno non fosse tornato ad avvolgerla.
Le capitava spesso di ricorrere al web quando si svegliava nel cuore della notte, con il cuore che batteva all’impazzata e i pensieri che le martellavano la mente. Recentemente aveva infatti scoperto che la luce dello schermo del cellulare le dava già di per sé un qualche sollievo, allontanando pian piano le ombre, reali e metaforiche, e fornendo un’ottima alternativa all’accensione di tutte le luci di casa e al suo fidato sidro di mele.
Attivando lo schermo, Regina fu sorpresa di vedere la faccia sorridente di Henry coperta dalle notifiche di due audio messaggi da parte di Emma.
Sistemandosi su un fianco, curiosa, fece partire il primo audio.

“Hey, Regina.
Sono… appena uscita da casa tua e sto andando da tua sorella a riprendere la mia auto.
Avrei potuto teletrasportarmi, ma ho pensato che un po’ d’aria fresca mi avrebbe fatto bene.
Che giornata, eh?”
 
Seguì qualche istante di silenzio e dopo un po’ Regina guardò lo schermo del cellulare, pensando che la registrazione si fosse interrotta.
Ma, dopo un grosso sospiro, Emma ricominciò a parlare.
 
“Comunque, volevo dirti che ho tolto la suoneria al tuo cellulare, per lasciarti riposare.
Henry ha detto che sei crollata sul divano mentre ti stava parlando, dovevi essere davvero esausta.
Noi abbiamo cenato e messo tutto a posto aspettando che ti svegliassi, ma hai continuato a dormire profondamente, quindi alla fine ti abbiamo messa a letto.
Cioè, io ti ho portata a letto. Ma forse questo te lo ricordi perché mentre salivamo le scale mi hai detto di stare attenta a non farti cadere e mi hai dato della maldestra.
Sei polemica anche mentre dormi, incredibile.”
 
Il tono di voce era scherzoso e Regina si ritrovò a sorridere. Non ricordava affatto di aver detto quelle parole, ma era certamente plausibile che lo avesse fatto.
 
“Oh, e immagino sia scomodo dormire con la gonna” continuò Emma, “ma né io né Henry abbiamo voluto cambiarti, per non…ehm…disturbare il tuo sonno, si.”
 
Seguirono altri brevi istanti di silenzio, istanti in cui Regina provò lo stesso imbarazzo che aveva chiaramente percepito nella voce di Emma.
Dormire con una gonna stretta non era di certo comodo, ma era stata la scelta migliore.
Il solo pensiero di Emma che le sfilava la gonna o le sbottonava la camicia…
 
“Spero tu riesca a riposare bene lo stesso” riprese la voce di Emma, il tono più basso, più dolce.
“D’ora in poi devi riguardarti, ok?
E…niente.
Ricorda di riattivare la suoneria quando ti svegli.
Buonanotte Regina.”
 
L’audio si interruppe e Regina sospirò.
C’era ancora tanto da definire, tante cose di cui parlare.
Ma sapere che Emma era al suo fianco in quella situazione così folle era…rassicurante.
Perché il loro rapporto poteva essere complicato e incasinato, pieno di incertezze e variabili, però per la loro famiglia, per i loro figli…avrebbero fatto funzionare ogni cosa, ne era certa.
Distrattamente, fece partire il secondo audio, la mente che inseguiva immagini di un futuro incerto.
 
“Ah, dimenticavo: ti ho lasciato la cena in frig-”
 
A quelle parole, ogni pensiero svanì e Regina balzò fuori dal letto.
Si infilò rapidamente la vestaglia e le pantofole, puntando alla porta della propria camera.
La voce di Emma si stava ancora diffondendo attraverso il cellulare abbandonato in una tasca, dicendo chissà cosa, mentre la mora imboccava le scale per raggiungere la cucina e il tanto bramato cibo.
Il primo, paradisiaco boccone fu seguito da molti altri e solo dopo diversi minuti Regina si rese conto della stranezza di quel suo atteggiamento.
In passato era rimasta senza cibo né acqua per molto più che qualche ora e saltare un pasto non era mai stato un problema per lei. Mentre adesso…la gravidanza stava davvero iniziando a cambiare ogni cosa.
Ed Emma aveva ragione, doveva riguardarsi.
Ripensando alle parole dello sceriffo, a Regina tornò in mente anche il proprio cellulare.
Decise di fare una foto al proprio piatto semivuoto e mandarla ad Emma, per ringraziarla di averle lasciato la cena.
E “Mia salvatrice!”  le sembrò il commento più adatto da aggiungere ad una tale foto.
Al suo risveglio Emma si sarebbe certamente fatta due risate.
Regina però non ebbe il tempo di poggiare il cellulare sul ripiano della cucina che quello cominciò a suonare, la faccia ghignante di Emma a riempirne lo schermo.
“Se hai fame mi dispiace, ma non ho nessuna intenzione di condividere” rispose quindi prontamente, interrompendo il propagarsi della propria suoneria prima che questa potesse disturbare il sonno di Henry.
“Oh lo sai che io ho sempre fame, ma non voglio il tuo cibo.
Voglio solo sapere…com’è che in pochi giorni sono passata da quella che ha tentato di avvelenarti col cibo a quella che ti ha salvata col cibo?” la punzecchiò lo sceriffo.
Regina sorrise. “Beh, sai, le cose possono cambiare all’improvviso.”
“Si, ma quello era quasi un complimento Regina… sei sicura di stare bene?”
“Che posso dire? Probabilmente ho battuto la testa mentre una certa maldestra mi accompagnava a letto…” ribatté il sindaco, sempre più divertita.
Il gesto di Emma, il suo cibo, la sua telefonata, …l’avevano davvero messa di buon umore. Ed era bello poter conversare così, con leggerezza e semplicità.
“Non ti ho accompagnata a letto, ti ci ho letteralmente portata in braccio.
E ti assicuro che non hai sbattuto proprio niente” replicò prontamente Emma.
Regina rimase per qualche secondo in silenzio, improvvisamente travolta dal ricordo del proprio viso poggiato vicino al collo di Emma e dell’inconfondibile profumo di vaniglia che l’aveva invasa mentre forti braccia la circondavano e sostenevano, guidandola su per le scale...
…era indubbiamente il caso di cambiare argomento.
Regina si schiarì la voce e “che ci fai ancora sveglia?” le chiese.
“Non riesco a prendere sonno, troppi pensieri” le rispose semplicemente Emma.
E Regina pensò di essere passata dalla padella alla brace.
“Oh… capisco.”
“No Regina, è che… prima abbiamo dovuto interrompere il discorso e ci sono tante cose di cui parlare, così tante domande che voglio farti!
Il mio cervello non riesce a spegnersi” le spiegò Emma.
In effetti, rifletté Regina, Emma era stata invasa da quelle nuove e sconvolgenti informazioni tutte in una volta, nel giro di pochi minuti. E quando era arrivato il momento delle spiegazioni, del confronto, il loro discorso era stato bruscamente interrotto dall’arrivo di Henry.
Probabilmente Emma aveva sperato che avrebbero potuto riprendere a parlare non appena loro figlio fosse andato a letto. E invece lei si era addormentata senza nemmeno accorgersene, lasciando lo sceriffo in preda a dubbi e confusione.
Non lo aveva fatto di proposito, ma Regina si sentiva un po’ in colpa. E adesso doveva quanto meno ascoltare Emma e condividere con lei i pensieri che le stavano togliendo il sonno.
“Possiamo parlare adesso se ti va. Cosa vorresti chiedermi?” le propose quindi.
“Ma no, è tardi e devi riposare. Possiamo rimandare a domani.
Tanto sto prendendo appunti, così non rischio di dimenticare nulla” le comunicò Emma.
“Stai… prendendo appunti?” chiese Regina, non riuscendo a contenere lo stupore.
“Si…sai, in una nota, col cellulare.”
“Tu, Emma Swan, stai prendendo appunti?
Appunti nel senso di fare dei ragionamenti e scrivere le cose?”
“Dai, Regina! È una cosa seria, non-”
“Fammi vedere.”
“Cosa?”
“La nota, mandamela.”
“Ma no, davvero, sono giusto due cose, ne parliamo domani.”
“Emma…”
Seguì un forte sospiro di palese rassegnazione e poco dopo il file raggiunse il cellulare di Regina, che lo aprì curiosa.
 
-   Quando è successo??? E come??????
 
-   Checkup medico completo prima di subito (Whale? Trovare dottore vero)
 
-   Convincere Regina a riposare (e toglierla dai contatti per le emergenze alla stazione dello sceriffo)
 
-   Problemi con la magia (perché? sono normali? soluzioni???)
 
-   Riparare mattonella del vialetto in cui sono inciampata prima (di notte non si vede, è pericolosa)
 
-   Come dirlo ad Henry
 
-   Essere più presente
 
“È arrivato?” chiese nervosamente Emma alcuni istanti dopo.
Ma in risposta ebbe solo silenzio.
“Hey Regina, ci sei ancora?
Regi-”
“Grazie” le disse Regina in un sussurro.
Perché non poteva dire ad alta voce quanto quelle semplici frasi le avevano scaldato il cuore, quanto ogni piccola attenzione la faceva sentire importante, quanto quegli appunti erano semplicemente perfetti, quanto quella stramba lista era Emma Swan allo stato puro, quanto lei la…
“Grazie Emma” ripeté quindi, perché non era il momento di dire altro.
Ma in quel momento Regina promise a se stessa che un giorno avrebbe dato giusta voce ad ogni suo sentimento.
 
 
Quella notte la luna era piena ed alta nel cielo.
Con la sua luce, intensa ma delicata, attraversava i rami degli alberi e si faceva largo fino ad arrivare a Regina, accarezzandole il viso.
Il silenzio avvolgeva cautamente un ambiente non particolarmente freddo, in cui l’abbraccio delle coperte attorno al corpo ed il sostegno di un comodo materasso rendevano l’imminente risveglio dolce e amaro allo stesso tempo, tanta era la perfezione del momento e la voglia inconscia che durasse quanto più possibile.
Ma, più il sonno si allontanava da lei, più per Regina diventava difficile non porsi coscientemente una domanda: come diavolo ci era arrivata nel proprio letto?
Con non poca fatica, aprì gli occhi e riconobbe le sagome della propria camera, mentre tutti gli eventi dei giorni appena trascorsi le invadevano la mente.
Il mondo dei desideri, Robin, la fuga, Emma…
Possibile che fosse stato tutto un sogno?
Ma non ebbe tempo di indugiare su quell’opzione perché l’odore di terra e sangue che ancora le impregnavano la pelle le diede la risposta che cercava.
Era successo davvero, tutte quelle cose orribili in quel mondo finto erano accadute davvero.
E, assurdamente, quello che adesso la terrorizzava fino al midollo non erano i ricordi dolorosi e terribili dei momenti appena passati, ma il braccio forte e delicato che in quel momento le stava stringendo la vita, protettivo, mentre morbidi ricci biondi le facevano capolino sulla spalla ed un caldo respiro le sfiorava la pelle appena sotto l’orecchio.
Regina rimase immobile, impietrita, cercando di capire cosa fare.
Perché, contro ogni più assurda previsione, si era svegliata a Storybrooke, nel suo letto, abbracciata ad Emma Swan.

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Capitolo 9
*** Capitolo 9. ***


Capitolo 9.

Succedeva raramente, ma succedeva.
A volte a causa del lavoro o dei nemici di turno, altre volte per i pensieri che la attanagliavano, altre volte ancora per l’eccitazione di quello che avrebbe dovuto fare durante la giornata, …ma era già capitato che Emma fosse in piedi ed attiva ben prima che la sveglia suonasse.
Quella notte aveva dormito davvero poco e, se all’inizio il sonno le era stato tolto da pensieri, ragionamenti e dubbi, dopo aver parlato con Regina erano subentrati la curiosità, l’eccitazione e l’ossessione di sapere.
Perché durante la chiacchierata notturna avevano deciso di comune accordo che la visita medica andava messa in cima alla lista delle priorità e quindi quella mattina sarebbero andate in ospedale, insieme.
E avrebbero saputo.
Non che le servissero conferme dell’esistenza della bambina, l’aveva…sentita chiaramente. Ma poterne avere la certezza medica, poter sapere se lei e Regina stavano bene, poter avere dei tempi, delle nuove informazioni e indicazioni, ...erano cose di cui Emma aveva un disperato bisogno.
Perciò Henry doveva muoversi ad uscire, così lei sarebbe potuta entrare nella casa che stava osservando da lontano ormai da più di un’ora, preda dell’impazienza e ben nascosta sul suo fidato maggiolino.
Per fortuna (anzi, grazie a Regina) Henry era sempre puntuale. E infatti Emma lo vide uscire di casa e svoltare l’angolo, diretto a scuola in perfetto orario.
Senza perdere tempo, Emma portò il maggiolino di fronte al vialetto del 108 di Mifflin Street, evitò agilmente la mattonella rotta e aprì il portone di casa col suo mazzo di chiavi.
“Regina! Sei pronta?” urlò ben poco delicatamente, annunciando il suo ingresso.
“Emma? Sono in cucina” le comunicò Regina.
E fu lì che Emma la trovò, avvolta in un’elegante vestaglia ed intenta a lavare le stoviglie della colazione.
Cosa molto strana visto che al mattino Regina usciva insieme ad Henry, quindi solitamente a quell’ora sia lei che la cucina erano pronte ed in ordine.
“Cosa ci fai qui?” le chiese Regina, passandole una tazza, palese invito a servirsi da sola dalla caffettiera fumante.
Emma prese la tazza in automatico e poi rimase immobile. “Ma… in che senso cosa ci faccio qui? Non vuoi più che ti accompagni in ospedale?”
Sorpresa dal tono di voce incerto, Regina si voltò a guardarla, scorgendo un viso che stava diventando bianco quasi quanto lo era il suo. E, da quello che ne sapeva, Emma non aveva le nausee mattutine.
“Intendevo cosa ci fai qui a quest’ora. Sei in anticipo” sottolineò semplicemente.
“Oh… beh, ero pronta e ho deciso di incamminarmi. In ospedale c’è sempre caos e ho pensato che prima arriviamo meglio è, no?”
Regina continuò a fissarla, un sopracciglio alzato e l’espressione dubbiosa. “Sei…ansiosa di andare?” le chiese.
“Un pochino” ammise Emma, scrollando le spalle. “Tu no?”
Regina annuì e tornò a concentrarsi sulle stoviglie nel lavandino, come se fossero importanti tanto quanto la conversazione che stavano avendo.
Emma la osservò per alcuni istanti, poi si diresse verso la macchinetta del caffè, intenzionata a fare buon uso della tazza che aveva in mano.
“Allora, questa dottoressa Wilson è brava? Possiamo fidarci?” chiese quindi a Regina, cercando di carpire nuove informazioni sulla fantomatica ginecologa che avrebbe dovuto seguire la gravidanza. Durante la telefonata notturna, il sindaco le aveva detto giusto il cognome e che la conosceva da anni, ma nulla di più.
“Credi che andrei da lei se non fosse brava?” rispose acida Regina. “Puoi stare tranquilla: certamente di bambini ne sa molto di più del nano che ha fatto nascere te.”
Abituata a quegli scatti e a quel tipo di battute, Emma ignorò la mora e continuò con le sue domande. “Quindi…viene dal tuo mondo? Non sarebbe meglio parlare con un dottore vero, con una laurea vera?”
Regina si voltò di scatto e la fulminò con lo sguardo. “Emma le gravidanze c’erano anche nella Foresta Incantata, non sono certo un miracolo della medicina moderna.
Miranda era la levatrice più importante del nostro regno e aveva fatto nascere decine di bambini già ben prima che io diventassi regina. La conosco da anni e non c’è nessun dottore vero di cui io mi fidi di più.”
“Hey, ok! Stavo solo chiedendo.”
“E io stavo solo rispondendo.
Vado a prepararmi” disse quindi, abbandonando la spugna nel lavandino non ancora vuoto e imboccando la porta.
Emma rimase basita per qualche secondo, non riuscendo a capire cosa fosse appena successo.
Vedendo Regina uscire dalla cucina si riscosse e rapidamente la seguì fuori dalla stanza.
“Regina, aspetta!”
Regina si fermò in cima alle scale, la mano stretta sulla balaustra.
“Mi fido anch’io” disse Emma tutto d’un fiato.
E a quelle parole Regina si voltò a guardarla.
“Non volevo mettere in dubbio il tuo giudizio, volevo solo… sapere.
Se tu ti fidi mi fido anch’io.”
E sorrise Emma.
Con quel suo stupido sorriso timido e abbozzato che a Regina faceva sempre sciogliere il cuore.
“Ok” le disse solo, accennando un sorriso anche lei.
Emma annuì e la guardò allontanarsi, prima di tornare in cucina.
E finalmente poté rilasciare un grosso sospiro.
Che Regina era nervosa era evidente.
E che lei doveva stare molto più attenta del solito era essenziale… se questi erano gli effetti della gravidanza sulla mora, come diavolo avrebbe fatto a non darle sui nervi nei prossimi mesi?!
Cioè, infastidire Regina era insito nella sua natura!
Non lo faceva apposta, le bastava essere Emma Swan perché accadesse. E la maggior parte delle volte non si rendeva conto di aver detto o fatto qualcosa di sbagliato fino a che Regina non la fulminava con lo sguardo…
Emma sospirò di nuovo, rassegnata, dirigendosi verso il lavandino.
Non sarebbe stato affatto facile.
Ma ne sarebbe valsa la pena.
“Andiamo?” la chiamò Regina poco dopo, passando davanti alla porta della cucina senza fermarsi.
Ed Emma non ebbe il tempo di registrare la sua sfuggente presenza che la mora era già in macchina.
Sulla sua Mercedes.
Al posto di guida.
“Ma…credevo che ti avrei accompagnata io, col maggiolino!”
“Sali o ti lascio qui?” tagliò corto Regina, mettendo in moto.
E ad Emma non rimase che salire in macchina, sempre più confusa.
“Va tutto bene?” provò a chiedere qualche minuto dopo, cercando di interrompere il fastidioso e pesante silenzio che aveva preso possesso dell’auto.
Ma un grugnito fu tutto quello che ottenne da Regina, mentre poteva vedere la sua mascella continuare a serrarsi e le sue nocche strette al volante farsi sempre più bianche.
C’era certamente qualcosa che non andava.
Ed Emma non riusciva a capire cosa diavolo fosse.
Sapeva degli sbalzi d’umore tipici della gravidanza e non si poteva negare che Regina non fosse abbastanza lunatica già di suo, ma quel nervosismo e quell’aggressività le parevano strani comunque. Soprattutto se paragonati alla gioia che aveva visto in Regina in ogni istante sin da quando aveva saputo della gravidanza.
Fortuna che l’ospedale era vicino, così a breve si sarebbero dovute concentrare solo sulla bambina, lasciando fuori tutto il resto.
Una volta arrivate però fu chiesto loro di aspettare. In quel momento la dottoressa Wilson era in sala operatoria e anche al sindaco toccava mettersi in coda d’avanti ad esigenze mediche più urgenti delle proprie.
Una giovane infermiera le scortò fino alla sala d’attesa.
Regina entrò per prima e si accomodò subito su una sedia, schiena dritta e volto serio. Emma invece procedette lentamente, guardandosi attorno.
La stanza era oggettivamente pulita, ordinata e anche molto luminosa grazie alle varie finestre che affacciavano sul piccolo parco dell’ospedale. Ad Emma però sembrò comunque cupa e opprimente, probabilmente perché il silenzio e la tensione che avevano caratterizzato il viaggio verso l’ospedale le avevano seguite anche lì, diventando ancora più fastidiosi.
Almeno in macchina il paesaggio cambiava di continuo e le sagome delle case si avvicendavano, evidenziando anche lo scorrere del tempo. In quella piccola stanza invece era tutto fermo e soffocante, tutto talmente immobile che Emma sentì l’impellente bisogno di muoversi lei, sperando che il suo andare avanti e indietro avrebbe in qualche modo accelerato i tempi.
Quando si rese conto di quello che stava facendo e di come il suo passeggiare avrebbe certamente potuto infastidire l’altro occupante della stanza, Emma guardò Regina, aspettandosi un rimprovero, un commento acido o un insulto qualsiasi alla sua incapacità di controllarsi.
Invece il sindaco era ancora ferma e immobile come quando si era seduta, lo sguardo perso e le mani strette sul manico della borsa.
Per questo Emma sussultò e spalancò gli occhi quando Regina si alzò di scatto, prendendola alla sprovvista.
“Andiamo via” disse la mora, senza nemmeno guardarla.
“C- come?” balbettò Emma, cadendo dalle nuvole.
"Non posso farlo. Andiamo."
"Cosa...Regina che stai dicendo?"
In un secondo mille scenari si pararono davanti agli occhi dello sceriffo.
 
Non posso affrontare questa gravidanza con te
 
Non posso avervi nella mia vita
 
Non posso avere questa bambina, la tua bambina
 
Emma rimase impietrita, immobile. Solo le lacrime che sentiva rapidamente accalcarsi agli angoli degli occhi erano in movimento.
"Non posso fare questa visita Emma" le rispose Regina, sollevando finalmente il viso e mostrando il palese terrore che lo aveva invaso.
"Perché?" riuscì a chiedere Emma in un sussurro.
"Perché...andrà male, va sempre male per me.
Sono stata una stupida a lasciarmi travolgere dalla gioia, ad illudermi.
Io…non posso affrontarlo di nuovo."
Gli occhi adesso erano lucidi, ma ancora distanti, certamente persi dentro ricordi che Regina credeva di avere sepolto ormai da anni.
 
È un falso allarme
 
Sei una moglie inutile
 
Dovrete riprovarci
 
Il bambino non ce l’ha fatta
 
Ogni volta una frase diversa, ma sempre lo stesso significato.
Sempre le stesse aspettative distrutte, sempre lo stesso atroce dolore.
Poi la magia… l’oscurità... e quella pozione che le aveva finalmente tolto le speranze e dato una certezza, che le aveva dato sollievo.
E aveva definitivamente distrutto la ragazza che era stata.
"Emma i medici diranno che va male, che c'è qualche problema o diranno che lei non... non…"
Le braccia andarono a circondare il proprio ventre e Regina si piegò su se stessa diventando piccola, fragile, come Emma non l'aveva mai vista prima.
E quindi la strinse forte, le strinse forte entrambe.
Giurando a se stessa che le avrebbe protette con ogni mezzo.
Col palmo della mano destra, Emma cominciò a disegnare dei cerchi sulla schiena di Regina, mentre col braccio sinistro continuava a tenerla stretta.
Pian piano sentì il respiro di Regina regolarizzarsi, ma non fermò i movimenti né sciolse l’abbraccio, aspettando che fosse la mora a lasciarla una volta pronta.
Qualche istante dopo, Regina si allontanò.
Guardò Emma imbarazzata, e grata, e invasa da emozioni tanto diverse quanto intense.
Cercò le parole giuste per quel momento, ma non le trovò in tempo: i passi riecheggianti nel vicino corridoio annunciarono che non sarebbero rimaste da sole ancora per molto. Emma e Regina si scambiarono un intenso sguardo e si ricomposero, pronte all’arrivo della dottoressa e a ciò che il suo ingresso in quella stanza avrebbe comportato.
“Regina, perdonami per averti fatta aspettare” disse la dottoressa Wilson, spalancando la porta della sala d’attesa.
Emma la osservò per la prima volta.
Era una donna sulla sessantina, di colore, bassa e non molto in forma. I capelli neri erano corti e con la loro frangetta andavano ad incorniciare un viso paffutello che a primo impatto trasmetteva saggezza e dolcezza allo stesso tempo.
Ma quando gli occhi scuri della dottoressa registrarono la presenza di Emma, squadrandola da capo a piedi, lo sceriffo sentì un brivido attraversarle la schiena.
“Cominciamo bene…”  pensò, prima di seguire le altre che nel frattempo si erano spostate nella stanza adiacente, in quello che doveva essere lo studio della dottoressa.
Emma si fermò sulla soglia della porta.
La Wilson invece si mosse rapida verso la scrivania, attivando il proprio computer ed iniziando a preparare degli strumenti, mentre Regina prendeva posto su una apposita poltrona e sollevava la manica della camicia, consentendo all’infermiera, pronta col kit in mano, di prelevarle una provetta di sangue.
Senza bisogno di parole, si erano mosse tutte in sincrono, come se quella fosse una routine.
Erano passati appena trenta secondi ed Emma si sentiva già di troppo.
“Quindi tesoro, una gravidanza magica?” chiese la Wilson non appena l’infermiera fu uscita dalla stanza.
“Assurdo, vero?
Eppure i test erano positivi e io… l’ho sentita Miranda” spiegò Regina, cercando lo sguardo della dottoressa.
Miranda le sorrise. “Beh, allora adesso cerchiamo di vederla. Cominciamo con una ecografia, ok?” suggerì quindi, indicando il lettino.
Regina si sdraiò e cominciò a sollevare la camicia.
In quel momento Emma sentì di non avere il diritto di stare in quella stanza.
Forse era stato un errore esserci a questa prima visita, probabilmente stava invadendo la privacy di Regina e la mora era troppo educata per dirglielo e-
“Sceriffo da lì non si vede niente.
Smetta di farsela addosso e si avvicini” la punzecchiò la Wilson, senza togliere lo sguardo dal monitor con cui stava armeggiando.
“Hey! Io non me la sto facendo addosso!” si difese Emma, attraversando la stanza a grandi falcate, fino ad arrivare accanto al lettino.
Regina scosse leggermente la testa e abbozzò un sorriso.
Poi il freddo del gel sul proprio addome richiamò la sua attenzione, costringendola a fare un bel respiro.
E a trattenere il fiato.
Perché il momento era arrivato.
Perché non era preparata, ma allo stesso tempo non era mai stata più pronta.
Perché negli anni aveva sentito i rumori di decine e decine di cuori, palpiti sinonimo di controllo, di potere.
Ma sentendo per la prima volta il battito del cuore della sua bambina, Regina capì finalmente che suono aveva la vita.

 
Tu-tum
Tu-tum
Tu-tum
Il cuore le batteva all’impazzata e Regina poteva sentire chiaramente il panico invaderla.
Ad Emma, era a letto abbracciata ad Emma!
Doveva fare piano, muoversi con cautela, alzarsi da quel letto senza svegliarla.
Forse se avesse ruotato il bacino ed estratto piano il braccio…
Ma in un attimo non ci fu più bisogno di fare nulla, perché Emma si era svegliata ed era balzata fuori dal letto.
E sembrava sconvolta quanto lei.
Si fissarono per lunghi istanti, preda dello shock e di mille domande.
Fino a che il cervello di Regina non registrò il rosso di un cappotto e i capelli biondi raccolti in una caotica coda di cavallo.
L’elegante principessa era svanita ed Emma era vestita come prima di scomparire nel desiderio.
Emma era vestita.
Erano vestite!
Regina rilasciò un sospiro di sollievo e mille paure.
Abbassando lo sguardo, notò sul letto il bracciale blocca poteri che le era stato messo al polso.
Si accigliò, ma prima che potesse formulare una domanda…
“Te l’ho tolto io, nella foresta” disse Emma.
“L’ho notato poco dopo che ti sei addormentata e l’ho tolto subito.
È per quello che non ti sei difesa, non ti sei curata…
Cosa ti è successo Regina?
È stato Robin, vero?”
Robin…
E l’imboscata, e la fuga, e la paura, e il dolore, e le mani di Emma, gli occhi di Emma, la fronte di Emma…
Dio, che diavolo aveva fatto in poche ore?!
Aveva tradito tutti, aveva deluso tutti, stava per rovinare tutto!
“Dobbiamo sbrigarci, i nostri nemici sono ancora a piede libero” buttò lì Regina, alzandosi definitivamente dal letto e cominciando a sistemarlo.
“Si, ma quello che ti è successo… quello che stava per succedere tra noi… dobbiamo parlare e-“
“A quest’ora la mia metà malvagia saprà che siamo tornate, non c’è molto tempo.”
“Ok Regina, ma fermati un attim-“
“Non abbiamo un attimo, la tua famiglia sarà preoccupata. Devi tornare da loro.
Devi tornare da Hook”.
Emma si bloccò, finalmente invasa dalla consapevolezza. E dal rimorso.
Killian…
“E questo sangue…io devo cambiarmi, lavarmi. Henry non può vedermi così.”
Henry…
…Henry!
“Sono stata io” esclamò Emma, riuscendo ad attirare l’attenzione di Regina, che si fermò a guardarla.
“Siamo tornate per un mio desiderio!”

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Capitolo 10
*** Capitolo 10. ***


Capitolo 10.

Non erano ancora uscite dal reparto, ma Emma già lo sapeva, già lo sapeva che fuori avrebbe trovato il sole splendente e gli uccellini cinguettanti e il profumo di fiori e un mare di colori accesi.
Già lo sapeva che sarebbe stato tutto più bello.
Perché aveva sentito il cuore della loro bambina battere. E aveva visto Regina tornare a sorridere.
Quindi poco importava se c’erano ancora tante domande a cui dare risposta e tanti discorsi da affrontare… quella sarebbe stata una bellissima giornata, punto.
“Smettila” le disse Regina, che le stava camminando accanto mentre si dirigevano al parcheggio.
“Di fare cosa?” chiese la bionda con fare innocente.
“Di sorridere e gongolare come un’idiota” le spiegò, cercando di essere seria e minacciosa.
“Non fa effetto se me lo dici mentre stai sorridendo anche tu” ribatté Emma, ghignando ancora di più.
“Io non sto sorridendo. E nemmeno saltellando e ondeggiando le braccia e-”
“E toccando il cielo con un dito? Certo, certo” le rispose prontamente Emma, prendendole una mano e facendo dondolare insieme le loro braccia, avanti e indietro, sempre più in alto.
Regina non riuscì a non ridere, ma tirò via la mano, fermandosi poco dopo aver svoltato l’angolo. “Sei incorreggibile”.
“Sono felice” le disse Emma con semplicità, fermandosi a sua volta poco più avanti e voltandosi per poterla guardare.
Ma la sua risposta non doveva aver avuto un bell’effetto perché in un attimo la risata spontanea e cristallina che aveva udito era svanita, lasciando il viso di Regina serio, cupo.
Preoccupato.
"Emma...non sappiamo come andrà.
Ora va bene, ma le cose potrebbero peggiorare, potrebbero esserci mille problemi. Ci sono così tante incognite e io...non voglio che tu ti illuda".
E non voglio illudere me stessa pensò Regina, non avendo però il coraggio di dirlo.
Miranda aveva detto che la bambina stava bene e che la gravidanza procedeva ottimamente, però Regina aveva imparato da tempo a non cullarsi sulle buone notizie.
I periodi felici non duravano mai, perché… problemi, disastri, minacce, sofferenze, …erano queste le costanti della sua vita.
E purtroppo anche di quella di Emma.
Perciò non potevano aspettarsi che le cose sarebbero andate bene.
"Hey" la riscosse la voce di Emma, che tornò indietro di qualche passo, per esserle più vicina.
"In tutto quello che ci succede non sappiamo mai come andrà, ma combattiamo lo stesso. Anzi, pensaci: noi combattiamo soprattutto quando crediamo che finirà male!
E tu pensi che gli attimi di tranquillità non dureranno e forse hai ragione, però… se c'è una cosa che ho imparato dalla mia fiabesca e invadente famiglia è che quando le cose vanno bene non bisogna perdere l’occasione di essere smielatamente felici”.
Emma fece un altro passo e le prese una mano, abbozzando un sorriso. “Pensiamo all'oggi, ok?
Perché oggi la bambina sta bene.
Tu stai bene.
E io sono felice".
Il sorriso sul volto di Emma si allargò e Regina non riuscì a non fissarlo mentre sentiva i propri occhi inumidirsi.
Le strinse forte la mano, annuendo leggermente col capo e abbassando lo sguardo.
Come quell’idiota sapesse trovare ogni volta le parole giuste era al di fuori della sua comprensione.
Non era capace di compilare decentemente un rapporto ufficiale né di fare un discorso sensato alle assemblee cittadine, ma quando si trattava di parlare al suo cuore…
Dannazione!
Dovevano smetterla di avere così tante conversazioni impegnative e profonde, altrimenti Emma avrebbe finito per distruggere le sue barriere assieme alle sue paure.
E di rimanere indifesa davanti ad Emma Swan… no, Regina non poteva assolutamente permetterselo.
Perciò bisognava cambiare discorso, minimizzare, sdrammatizzare.
E rimandare, si, rimandare.
Perché il parcheggio dell’ospedale non era il luogo adatto per affrontare quel tipo di conversazioni, ecco.
E poi i loro figli avevano la priorità, quindi bisognava innanzitutto decidere come dire ad Henry della gravidanza.
Ma quella era un’altra conversazione che Regina avrebbe evitato più che volentieri…cosa avrebbero potuto dirgli se nemmeno loro sapevano bene cosa era successo?
Regina sospirò profondamente, prima di risollevare lo sguardo.
Emma aveva ancora quello stupido sorriso sghembo sul volto e in qualche modo questo riuscì ad infastidirla e sollevarla allo stesso tempo.
“Oh, smettila coi gongolamenti e i discorsi sulla speranza!
Sto tornando a casa per parlare ad un adolescente di una bimba che sta per nascere supportata da una trentenne che si comporta come se avesse cinque anni…che bella giornata!” disse Regina fintamente seccata, lasciando la mano di Emma e riprendendo a camminare verso il parcheggio.
“La migliore!” sentì rispondere Emma, prima di vederla comparire al suo fianco.
Sentiva ancora i propri occhi pieni, ma le lacrime non erano cadute.
Forse per una volta poteva concedersi di pensarla come Emma, poteva godersi l’oggi.
E quello che le aspettava poco più avanti era...
Henry.
Henry le stava aspettando poco più avanti, appoggiato alla Mercedes, nel parcheggio dell’ospedale.
“Eccovi finalmente!”
Emma e Regina affrettarono il passo, mentre loro figlio andava loro incontro, raggiungendole a metà strada.
Le mani di Regina gli presero subito il volto, mentre insieme ad Emma cominciò a bombardarlo con una raffica di domande tipicamente da madri che in quel momento Henry non riusciva proprio a sopportare.
Che ci fai qui?
Perché non sei a scuola?
È successo qualcosa?
Sei ferito?
Dannazione, era lui a dover fare le domande!
Bruscamente, Henry si liberò dal tocco di Regina e fece un passo indietro per poter guardare bene il viso di entrambe le sue madri.
Gli occhi di Regina luccicavano palesemente e il volto di Emma era serio e preoccupato.
E stavano uscendo dall’ospedale e non sapeva nemmeno da quale reparto visto che le aveva perse una volta dentro.
Perché aveva notato il loro strano atteggiamento già dal giorno prima, quando era rientrato da scuola e le aveva trovate in salotto.
Entrambe esauste, entrambe palesemente agitate, entrambe avevano in ogni modo evitato di dirgli come era andata con le ricerche magiche e l’incantesimo.
E poi quella mattina aveva visto sua madre stanca, triste, pensierosa. Mentre l’altra sua madre era rimasta appostata fuori casa sul maggiolino per chissà quanto tempo prima che lui uscisse per andare a scuola.
Perciò non ci aveva pensato due volte e le aveva seguite.
Ma una volta entrate nell’ospedale le aveva perse e non gli era rimasta altra scelta che aspettare nel parcheggio, camminando avanti e indietro, cercando di non pensare al peggio mentre ogni sorta di scenario apocalittico gli invadeva la mente.
E quando le aveva viste parlare poco prima, la mano di Emma che stringeva quella di Regina come a volerle dare coraggio…ogni flebile speranza era crollata.
Non c’erano più dubbi: sua madre stava male.
E non glielo aveva detto, lo aveva escluso, trattandolo come uno stupido moccioso!
“Henry, perché non rispondi? Cosa-“
“Perché non me l’hai detto!” urlò Henry, la voce carica di rabbia.
“Mi tagliate sempre fuori, come se fossi un’idiota e non capissi che c’è qualcosa che mi state nascondendo!
E mi mentite, mi mentite di continuo!
Credevo l’avessimo superata, credevo fossimo sinceri tra noi.
E credevo che vi fidaste di me come io mi fidavo di voi!”
“Ragazzino calmati, non ti abbiamo mentito” provò a spiegargli Emma, toccandogli un braccio.
Ma Henry si liberò di quel tocco e guardò Emma con aria di sfida.
“Ah no? Non mi avete evitato e nascosto le cose?!
Quindi non eri tu quella sul maggiolino in fondo alla strada questa mattina o quella che ieri a cena non ha risposto a nessuna delle mie domande o quella che ha portato la mamma in ospedale senza-”
“HENRY DANIEL MILLS ADESSO BASTA!” gli urlò Regina, freddandolo.
Henry la guardò, incredulo.
Aveva anche il coraggio di sgridarlo!
Non capivano, non capivano niente, non avevano mai capito niente.
Henry sentì le lacrime formarsi, pronte a tradirlo, ma strinse i pugni, serrò la mascella con tutta la forza possibile, e riuscì a trattenerle.
Non era più un bambino, non avrebbe pianto davanti alle sue mamme.
Ma non poteva resistere ancora per molto.
Di scatto, si voltò e cominciò a correre, non riuscendo più a reggere quella situazione.
“Emma!” supplicò Regina, ed Emma agì senza bisogno che aggiungesse altro.
Con un rapido movimento della mano, rilasciò la sua magia e in un istante si ritrovarono tutti e tre nel salotto di casa Mills.
Regina non perse tempo e abbracciò forte il suo bambino, non permettendogli di liberarsi dalla presa mentre le lacrime scorrevano incontrollate sui loro volti.
“Mi dispiace mio piccolo principe, mi dispiace di averti spaventato.
Va tutto bene, va tutto bene.
Non sono malata Henry, sto bene.
Non preoccuparti, va tutto bene.”
Emma li guardava poco distante, incantata.
Perché la rabbia e le accuse di Henry nascondevano paura e Regina lo aveva capito.
Per questo lo aveva lasciato sfogare e adesso lo stava stringendo forte, creando col suo corpo, col suo cuore, un rifugio sempre perfetto per il loro bambino ormai grande.
Era una mamma fantastica.
“Ti prego mamma, dimmi cosa ti succede” sussurrò Henry.
Regina sospirò e si fece coraggio.
Niente ragionamenti o discorsi preparati, non c’era più tempo. Perciò lo sputò fuori.
“Sono incinta.”
“Sei cosa?!” chiese Henry, sciogliendo l’abbraccio.
Regina lo lasciò andare e si sedette sul divano, cominciando a giocare nervosamente con le dita delle proprie mani.
“Sono incinta” ripeté. “Di nove settimane. La dottoressa Wilson lo ha confermato nella visita di questa mattina, siamo andate in ospedale per questo.
I problemi che ho avuto ultimamente sono dovuti alla gravidanza, ma sto bene.
Stiamo bene” disse Regina, guardando Emma e non riuscendo a trattenere un piccolo sorriso.
“Aspetti un bambino?” chiese Henry ad ulteriore conferma, non riuscendo a capacitarsi di quello che aveva appena sentito.
Il suo volto cominciò a divenire fucsia per l’imbarazzo.
Aveva immaginato ogni maledizione e malattia possibile, ma mai avrebbe pensato…cioè… non era affatto quello che si era aspettato di sentire quando aveva preteso delle risposte!
“Una bambina, aspettiamo una bambina” precisò Regina, voltandosi a guardare Emma, invitandola chiaramente ad intervenire nella conversazione.
E fu il turno di Emma di diventare fucsia.
“Ehm…si…è una bambina, aspettiamo una bambina noi.
Perché siamo entrambe femmine e quindi può essere solo una femmina, perché sai, la magia…
E anche per i cromosomi, si!
Sono i cromosomi, è una bambina per i nostri cromosomi” concluse Emma, non proprio sicura di aver fatto un discorso sensato.
E la faccia di suo figlio le confermò che non doveva essersi espressa al meglio.
Henry la guardò perplessa, guardò Regina e spalancò gli occhi prima di tornare a guardare Emma.
“Cioè…voi state insieme???”
“NO!” risposero istintivamente, in coro, sia Emma che Regina.
E non ebbero il tempo di pentirsi della risposta affrettata che il loro cervello registrò il chiaro “no” dell’altra…
Si guardarono intensamente.
E…giusto, quel no era stata la risposta giusta, pensarono entrambe.
Perché Robin, e Hook, e il passato, e i tempi, e le persone coinvolte, …
E loro non stavano insieme, era vero.
Erano amiche, co-genitori, compagne di battaglie, ecco cos’erano.
Non stavano insieme.
“E allora cosa…come…chi mamma?” provò a chiedere Henry, ancora sconvolto.
E Regina si riscosse, tentando di spiegare ciò che lei stessa faticava a comprendere.
“Non ne sappiamo molto Henry, per questo non te ne abbiamo parlato subito.
Sappiamo che è una gravidanza magica e che Emma è l’altro genitore, ma non sappiamo come sia stato possibile.
Però…ciò che è certo è che tra qualche mese avrai una sorellina.
Per te…per te va bene Henry?”
Per Regina fare quell’ultima domanda fu come autoinfliggersi una pugnalata al petto. Perché se Henry non avesse accettato questa bambina…come avrebbe fatto? Come avrebbe mai potuto gestire una tale situazione?
Amava il suo piccolo principe con tutta se stessa, niente e nessuno era mai stato e mai sarebbe stato più importante di lui.
Ma questa bambina…non avrebbe potuto rinunciarvi, la amava già allo stesso modo.
Henry non le diede modo di indugiare oltre in quei terribili pensieri, perché la raggiunse e la strinse forte come solo poco prima lei aveva fatto con lui.
“Sono contento che stai bene mamma” le sussurrò all’orecchio.
“E certo che mi va bene, sarà fantastico!
Finalmente avrò qualcuno dalla mia parte contro di voi, non vedo l’ora!” ghignando, Henry guardò Emma e, allungando un braccio, l’afferrò e la trascinò sul divano insieme a loro, includendola in quello che era diventato un abbraccio strambo e scomodo.
Ma era un abbraccio di famiglia.
Ed era perfetto.
 
 
Essere avvolta in un abbraccio di famiglia le era mancato.
Stretta ad Henry e ai suoi genitori, con le luci esterne del Granny’s ad illuminare quella fredda notte, Emma sentiva finalmente di essere tornata a casa.
E pochi passi più avanti, Killian la guardava con occhi colmi di gioia e amore, le sue forti braccia in attesa di poterla stringere di nuovo.
Emma gli andò incontro, si lasciò avvolgere in quell’ulteriore abbraccio, travolgere da quell’ulteriore amore, e pensò che doveva essere perfetto.
Che poteva essere perfetto.
Ma sentì che non lo era.
Non più.

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Capitolo 11
*** Capitolo 11. ***


Capitolo 11.

La riunione era iniziata da nemmeno mezz’ora e già faticava a prestare attenzione.
Dall’altro lato del tavolo, Archie stava parlando di qualcosa a proposito del supporto psicologico negli ospedali. O forse chiedeva per sé parte dei fondi destinati all’ospedale, non le era ben chiaro.
Quello che invece Emma sapeva per certo era che quei discorsi la stavano annoiando a morte.
E purtroppo avevano appena iniziato…non ne sarebbe uscita viva.
O sveglia.
Erano sempre tutte uguali quelle riunioni del consiglio cittadino: problemi di gestione, richieste di fondi, resoconti mensili, …e probabilmente l’unica che prestava veramente attenzione a quelle chiacchiere era Regina.
La stessa Regina che era appena rientrata nella stanza…
Ma quando era uscita? Emma non se n’era proprio accorta.
Che stranezza.
Regina non si perdeva mai nemmeno un secondo di quegli incontri. E richiamava, stizzita, chiunque si distraesse anche solo per un minuto o due.
Ok, l’ultima volta erano stati al massimo dieci e aveva solo chiuso leggermente gli occhi, ma cosa poteva davvero essersi persa?!
 
“Sono resoconti fondamentali Emma”
 
“Stiamo consolidando le fondamenta di Storybrooke Emma”
 
“Sei lo sceriffo, devi prestare attenzione Emma”
 
Cazzate!
Il suo dovere di sceriffo non erano riunioni e scartoffie, ma proteggere la città e le persone che amava.
E… si, per le persone che amava avrebbe affrontato qualunque cosa, persino ore di inutili monologhi e chiacchiere. Ecco perché si era rassegnata ad essere in quella stanza ogni mese, a combattere una durissima battaglia contro la noia e la staticità prolungata.
Sbuffando e continuando a fissare Regina, il paragone venne spontaneo: al contrario di lei, il sindaco appariva del tutto a proprio agio in quelle situazioni formali. Concentrata e seria, perfettamente composta, ma pronta all’azione, con l’aria interessata di chi capisce ed è pronto a rivelare le soluzioni a tutti i problemi del mondo, ...
Regina era sempre…Regina.
Ed era rassicurante sapere che certe cose rimanevano le stesse anche quando tutto stava cambiando.
A quel pensiero Emma abbassò istintivamente lo sguardo, fissando il bordo del tavolo davanti al sindaco. La pancia non lo mostrava ancora, ma la loro piccola era lì, era già reale.
Stavano per avere una bambina.
E negli ultimi giorni non avevano fatto progressi nello scoprire come ciò fosse possibile, ma Regina e la bambina stavano bene, quindi non c’era motivo per non riprendere in qualche modo la solita vita, prestando attenzione anche al lavoro e ai problemi quotidiani.
La scenata di Henry nel parcheggio dell’ospedale però non era passata inosservata ai cittadini di Storybrooke, che avevano già iniziato a far circolare teorie assurde. Perciò quella mattina Regina le aveva fatto notare che era arrivato il momento di dirlo anche ai suoi genitori, perché era giusto che lo sapessero da loro e prima di altri, perché erano importanti, perché erano tutti una famiglia.
E con quegli inaspettati discorsi l’aveva imbambolata e convinta che l’occasione migliore si sarebbe presentata proprio dopo quella riunione del consiglio cittadino.
Così, per la prima volta in vita sua, Emma si trovò a desiderare che quella soporifera assemblea non finisse mai.
Non era per niente pronta ad affrontare quei discorsi con i propri genitori.
E non era assolutamente pronta a pensare al fatto che Regina aveva definito tutti loro una famiglia.
Ma non c’era più tempo per prepararsi, perché un’altra ora era passata, Regina aveva dichiarato chiusa la riunione e in quel momento stava uscendo dalla stanza alla velocità della luce, ignorando quei consiglieri che, come al solito, le si stavano avvicinando per lamentarsi e criticare.
C’era certamente qualcosa che non andava.
Possibile che Regina avesse cambiato idea e non se la sentisse di parlare assieme a lei coi suoi genitori?
Possibile che la stesse abbandonando?
O forse stava poco bene e… la bambina!
Emma balzò in piedi e corse fuori dalla stanza, svoltando l’angolo del lungo corridoio appena in tempo per scorgere Regina entrare nel bagno più vicino.
“Regina! Regina, dove sei?
Che succede?
È per la bambina?
Rispondimi, ti prego!” farfugliò, bussando ripetutamente ad ognuna delle tre porte dei servizi che componevano il bagno delle donne di quell’ala del municipio.
“Emma?” chiese Regina, confusa.
“Regina! Stai bene?”
“Si” rispose il sindaco, sospirando.
“Non mentirmi Regina. Con te il mio superpotere funziona anche attraverso questa porta.
E l’ho capito che qualcosa non va.
Sei uscita durante l’assemblea e tu non esci mai durante le assemblee, nemmeno respiri durante le assemblee! Non ti perdi un momento, sei sempre pronta a zittire chi disturba e a rimettere tutti al proprio posto. E invece stavolta hai evitato tutti e sei corsa via senza una parola. Dimmi cosa sta succedendo perch-”
“Sta succedendo che sono incinta e devo fare pipì di continuo!” tuonò Regina, esasperata. “Non riesco a concentrarmi né a stare seduta troppo a lungo, ho sempre fame, tutto mi dà la nausea e non riesco a stare lontana dal bagno nemmeno per il brevissimo tempo di un’assemblea cittadina!
È frustrante, umiliante, inaccettabile!”
Dopo un attimo di smarrimento, Emma si trovò a rilasciare un lungo sospiro che non si era resa conto di stare trattenendo. Poggiò la fronte alla porta del bagno in cui Regina si era rinchiusa e sorrise.
“Regina, è normale esser-”
“Cosa è normale?” chiese Snow, facendo il suo ingresso e facendo sobbalzare Emma.
“Cosa sta succedendo? Siete scappate entrambe di corsa… Regina è lì dentro? Sta male?
Stai male Regina? È ancora l’influenza?”
“Dannazione, dovevo solo andare in bagno!” urlò Regina aprendo di colpo la porta e fulminando le altre due con lo sguardo.
Poi chiuse gli occhi e inspirò profondamente.
Li riaprì, rilasciando l’aria trattenuta e cercando di controllarsi.
“Ok... credo che dovremmo parlare.
Magari nel mio ufficio, avremo più privacy che nel bagno delle donne” aggiunse guardando Emma, che annuì.
“Mamma per favore, vai a chiamare papà e raggiungeteci nell’ufficio di Regina. Dobbiamo dirvi una cosa”.
“Ok” disse Snow, confusa.
Diede un ultimo sguardo interrogativo alle due donne e uscì dal bagno, impaziente di trovare suo marito e sapere cosa diavolo stava succedendo.
“Mi dispiace per aver urlato” disse Regina, fissando l’acqua del lavandino scorrere.
“Non preoccuparti, sono gli ormoni. E poi mia madre è davvero irritante” scherzò nervosamente Emma, sentendo il peso della paura abbandonare le sue spalle, mentre l’ansia per l’imminente confronto con i suoi genitori si impadroniva nuovamente di lei.
“Si, lo è. Ma anche tu stavolta non sei stata da meno” sottolineò Regina.
“Si…scusa. È che ti ho vista andare via di fretta e, dopo aver affrontato draghi e orchi e demoni, ho immaginato gli scenari peggiori.
Ho reagito in modo eccessivo, lo so, ma…”
“Hai avuto paura” concluse per lei Regina, addolcendo la voce.
Emma alzò il viso di scatto, portando i suoi occhi dentro quelli del sindaco.
“Non volevo spaventarti.
E…ho paura anch’io. Costantemente” confessò Regina in un sospiro.
In un istante, Emma ripensò agli incubi, a quanto successo in ospedale, a tutte le volte che aveva visto dolore in quegli occhi scuri...
E si sentì un’idiota ad avere paura per una cosa così stupida come una chiacchierata con i suoi.
In qualche modo, quei pensieri le diedero la spinta che le mancava.
Sorrise a Regina e drizzò la schiena, cercando di assumere una posa sicura e solenne. “Ok, allora andiamo a togliere di mezzo la discussione con una delle persone che più ci terrorizza in questo e negli altri mondi: mia madre” disse, con un tono tanto serio quanto ridicolo.
Regina la guardò perplessa e divertita.
“Non ho paura di tua madre, io” le rispose, calcando su quell’ultima parola, un ghigno sul volto.
“Bene, allora vai avanti tu, prego” disse Emma, tenendo aperta la porta del bagno ed invitandola ad uscire con un eloquente gesto del braccio.
Regina roteò gli occhi e imboccò il corridoio. “Andiamo coniglietto” la schernì, continuando a camminare.
 
Quando varcarono la porta dell’ufficio più importante del municipio, Snow e David le stavano già aspettando all’interno.
“Allora, cosa succede?” chiese Snow, impaziente, non appena le vide arrivare.
“Mettiamoci comodi” suggerì Regina, ignorando momentaneamente la domanda e raggiungendo i divani vicino al camino.
Snow e David la seguirono, accomodandosi di fronte a lei, mentre Emma si appoggiò al bracciolo del divano su cui era seduto il sindaco.
Regina cercò lo sguardo di Emma, per accertarsi che fossero ancora d’accordo sul modo di procedere. Avevano deciso che sarebbe stata lei a parlare per prima, ma Snow e David erano i genitori di Emma ed era giusto che fosse lei a decidere come gestire la situazione.
Quando lo sceriffo annuì, Regina capì che era arrivato il momento di andare al dunque.
E, sperando con tutta se stessa che la conversazione andasse bene, portò lo sguardo sulla sua ex nemica mortale ed esordì.
“Snow, nei giorni passati non ho avuto l’influenza né un virus intestinale, come inizialmente avevo pensato. Il mio malessere ha che fare con la magia.”
“La magia?
In che senso? E perché non me lo hai detto?” chiese Snow, non capendo e sentendo l’ansia crescere.
“Non te l’ho detto per non allarmarti, perché non conoscevo la natura della situazione.
Adesso invece…la conosco.
Più o meno” disse Regina sospirando e guardando Emma, che le sorrise leggermente.
“Ok, cosa stai cercando di dirci? Hai un problema con la magia? Stai male?” chiese direttamente Snow, non riuscendo più ad aspettare.
Regina era strana, Emma era strana, tutta quella situazione era strana!
E se avevano a che fare con l’ennesima maledizione era meglio arrivare al dunque e non perdersi in chiacchiere e-
“Sono incinta” confessò Regina.
“Cosa?!”
Snow spalancò gli occhi, incapace di contenere lo stupore.
“Che bella notizia, congratulazioni Regina” le disse David, alzandosi dal divano per raggiungerla ed avvolgerla in un imbarazzante abbraccio, il sorriso stampato sul volto.
“Grazie David.
Però non ho finito, c’è dell’altro.”
“Ma ne sei sicura?” chiese Snow, ancora sbalordita. “Io credevo che tu non potessi…”
“Ed è così.
O, almeno lo era. Per questo è stata una sorpresa sconcertante anche per me.
Ma si, ne sono sicura.
Sono incinta di dieci settimane, la dottoressa Wilson l’ha confermato qualche giorno fa.
Ed è una gravidanza magica, è per questo che è stato possibile” precisò Regina, cercando di dare tutte le informazioni necessarie a capire la situazione.
E infine non rimaneva che tirare fuori la cosa per cui non avevano spiegazioni né teorie: il ruolo di Emma.
Regina si voltò a cercarne lo sguardo, ma la sua attenzione fu catturata dal volto di Snow.
In lacrime.
“Oh mio dio, Regina!” esclamò Snow, raggiungendo il sindaco sul divano e prendendole le mani.
“Questo è un miracolo, un regalo inestimabile!
Non posso nemmeno immaginare il dolore che stai provando, ma è una cosa bella, stupenda! E noi ti staremo vicino” le disse, sorridendo tra le lacrime e stringendole ancora di più le mani.
Regina la guardò perplessa. “Dolore?”
“Si, per la perdita di Robin.
Capisco perché mi avevi raccontato solo una parte di quello che è successo tra voi nel mondo del desiderio, ma quello che ne è derivato… questo bambino è una cosa meravigliosa Regina!”
“È una bambina!” tuonò Emma, alzandosi in piedi di scatto.
“È una bambina, la mia bambina, Robin non c’entra proprio niente” precisò con rabbia, avendo afferrato perfettamente la conclusione a cui era giunta sua madre.
E non le era sfuggita nemmeno la parte su come Regina le avesse raccontato quello che era successo nel mondo del desiderio…
Ne aveva parlato con sua madre, una persona che fino a poco tempo fa odiava profondamente, ma non aveva voluto parlarne con lei!
Era tutto assurdo!
Snow lasciò le mani di Regina, allibita.
“Emma, che stai dicendo?”
“Sto dicendo che sono io l’altro genitore e che questa è la nostra bambina, mia e di Regina e di nessun altro.”
“È vero” disse Regina, intervenendo non tanto per confermare, quanto per evitare che la situazione degenerasse.
L’incontro con la sua anima gemella, la gravidanza magica, i dieci mesi, …era ovvio che Snow avesse pensato subito a Robin.
Un po’ meno ovvia era stata la reazione di Emma, ma su questo avrebbe indagato dopo. In quel momento era essenziale mettere le cose in chiaro.
“Emma è l’altro genitore” continuò Regina.
“Lo ha confermato un incantesimo e l’ho sentito, lo abbiamo sentito. C’è chiaramente la magia di Emma insieme alla mia in questa bambina” spiegò.
“Quindi cosa, voi state insieme da mesi?!” chiese Snow, sconvolta e ferita, allontanandosi da Regina.
“E se anche fosse?!” le rispose aggressivamente Emma, facendo un passo verso sua madre.
“Emma…” la richiamò Regina con dolcezza, toccandole l’avambraccio, per frenarla e tranquillizzarla.
“Snow, è complicato” disse poi, voltandosi in direzione di Snow.
Doveva trovare le parole per descrivere cose che non capiva nemmeno lei e non era affatto semplice.
“Non sappiamo ancora come-”
“È per questo che hai lasciato Hook?” chiese David bruscamente a sua figlia.
Fino ad allora era stato in silenzio, un mero spettatore, forse anche per questo la sua domanda arrivò addosso ai presenti come una sferzata di acqua gelida.
“Oh Emma, che cosa hai fatto…” aggiunse Snow, le lacrime che riprendevano a rigarle il volto.
E in quel momento Emma li percepì chiaramente, stampati sui volti e incisi nelle voci dei propri genitori.
La delusione, il giudizio, il dolore, la sua inadeguatezza.
E quando lesse le stesse cose negli occhi spalancati di Regina fu troppo, troppo.
Emma si voltò e cominciò a correre, unica meta il lasciarsi alle spalle quegli sguardi.
Ma quando certi occhi ce li hai impressi nel cuore, purtroppo scappare diventa impossibile.
 
 
“Emma, fermati!”
E lei si fermò, ma solo perché le gambe le dolevano e cuore e polmoni stavano per esplodere dalla fatica.
Killian la raggiunse poco dopo, col fiato corto anche lui.
“Torniamo a casa” le chiese non appena riuscì a formulare la frase.
“Non posso… devo… trovarla” fu la risposta di lei, ancora boccheggiante.
“Tesoro sono settimane che la insegui, è chiaro che con queste apparizioni la Regina Cattiva sta solo cercando di farti impazzire.
Torniamo a casa, ci meritiamo del tempo per noi” le disse, abbracciandola.
E lei si irrigidì, perché non era il momento, perché non poteva fermarsi, perché doveva difendere i suoi cari e quella città, era quello il suo ruolo.
Era quello che voleva.
“Non posso, ci ha minacciati! E dobbiamo fermarla prima che ci faccia del male.”
“Non puoi o non vuoi Emma?
Quella strega è in giro da settimane, non succede nulla se ogni tanto pensiamo anche a noi!
Lascia che se ne occupi Regina, in fondo è solo lei che è stata minacciata.
Te lo sto chiedendo da secoli, sono stanco di aspettare.
Non capisci che ne va della nostra felicità amore?”
Killian la stringeva e parlava di felicità.
Della loro felicità.
Ed Emma voleva solo continuare a correre.
Si poteva davvero parlare di una loro felicità quando erano entrambi chiaramente infelici?

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Capitolo 12
*** Capitolo 12. ***


Capitolo 12.

Il sole era ormai vicino al tramonto e l’aria della sera stava diventando sempre più fredda.
Regina si sistemò meglio il foulard attorno al collo e sollevò il colletto della giacca per ripararsi dalla corrente. La zona del molo era sempre abbastanza ventosa e passeggiare lì durante la sera poteva essere fastidioso, per questo non ci andavano in molti.
E per questo Regina sapeva che era proprio lì che avrebbe trovato Emma.
Infatti, poco più avanti, la vide. Avvolta nella sua giacca rossa e seduta sulla solita panchina a fissare il mare, senza in realtà guardarlo davvero.
Il rumore dei suoi pensieri si percepiva già a distanza.
“Mi posso sedere?” le chiese, avvicinandosi.
Emma non distolse lo sguardo dalla superficie dell’acqua, ma Regina sapeva benissimo che aveva sentito la sua domanda, così come sapeva che l’aveva sentita arrivare già da un bel pezzo.
“Ho bisogno di stare un po’ da sola” le ripose infatti, poco tempo dopo.
“Sei stata da sola anche troppo.”
Per due ore, per ventotto lunghi anni…
“Ma adesso ci siamo qui noi” le disse, con ferma dolcezza.
E probabilmente parlare al plurale era stato un colpo basso, ma Regina sapeva di doversi fare strada in qualche modo affinché la bionda decidesse di aprirsi con lei. E la loro bambina sarebbe stata certamente felice di contribuire.
Il solo nominarla implicitamente bastò infatti ad ottenere una reazione da parte di Emma, che si voltò a guardarla, stupita da quelle frasi.
Il suo sguardo si posò sul viso di Regina, poi sulla sua pancia, e infine tornò al mare, accompagnato da un sospiro.
“Posso sedermi?” le chiese di nuovo.
“Prego” le rispose Emma, spostandosi leggermente verso il bordo della panchina.
Regina si accomodò all’estremità opposta, lasciando ad Emma lo spazio che le serviva, ma facendole comunque percepire la sua vicinanza.
“Ti va di spiegarmi cosa è successo nel mio ufficio?” provò a chiedere.
“Regina, ti prego…”
“Ok, vorrà dire che parlerò io.”
Regina chiuse gli occhi e inspirò profondamente, cercando di inalare il coraggio che le serviva per quel racconto che in ogni modo aveva cercato di posticipare.
Ma, da come aveva reagito qualche ora prima ed agito negli ultimi mesi, era ovvio che Emma ne soffriva, ne soffriva quanto lei.
Ed era ora di lenire un po’ quel dolore, fugando ogni dubbio.
Riaprendo gli occhi e fissando anche lei il mare, Regina cominciò a raccontare.
“Quando ho visto Robin su quella spiaggia sono rimasta sconvolta.”
E in un secondo gli occhi di Emma furono su di lei.
“Non credevo che avrei mai più rivisto il suo viso, incrociato il suo sguardo, sentito la sua voce. E, nonostante lo shock, sapevo per certo di non poter perdere quella occasione, per questo mi sono allontanata con lui.”
“Regina, non devi parlarmene per forza…” la interruppe Emma.
“Non lo faccio per forza, ma perché lo voglio” le spiegò, voltandosi a guardarla.
E riprese a parlare.
“Siamo scappati nella foresta per un bel po’, i soldati ci inseguivano. Ma, non appena al sicuro, non ho perso tempo e gli ho parlato.
Avevo delle scuse da fargli, dei grazie da dirgli, c’erano cose che meritava di sentire.
E lo so, lo sapevo che non era davvero Robin, ma avevo comunque bisogno di chiudere le cose rimaste in sospeso.
Ecco cosa è stato, una chiusura.
Ne avevo davvero bisogno Emma.
Parlargli è stato un bene, per me. Non me ne pento.
E quello che è successo dopo...”
Regina distolse lo sguardo ed Emma capì di doversi preparare a ricevere un colpo.
Ma non era quello il tipo di colpo che si sarebbe aspettata.
“Robin mi ha baciata.
E quando siamo tornate l’ho raccontato a tua madre perché stavo impazzendo. In quel periodo il sollievo e la gioia per le parole che avevo potuto dirgli si sono mischiati al nulla che ho provato toccando le sue labbra.
Ero… confusa.
E non potevo parlarne con te per via di quello che… che siamo, per quello che è successo tra noi, perché...
...quel nostro quasi bacio mi ha confusa ancora di più Emma.”
A quelle parole, fu la volta di Emma di distogliere lo sguardo, sentendosi colpevole.
“Mi dispiace” le sussurrò.
“Non devi dispiacerti” le disse Regina, prendendole una mano e abbozzando un sorriso.
“Ma non siamo qui per parlare di questo. Devo…arrivare fino in fondo, così che tu sappia.”
Emma annuì e ricambiò la stretta, incitandola così a continuare.
“Dopo il bacio, mi sono allontanata bruscamente da Robin e lui sembrava aver capito la situazione. È stato dolce, comprensivo. Mi ha detto che sarebbe andato a controllare i dintorni, per assicurarsi che fossimo ancora al sicuro.
E io… pensavo a te, al portale che avevo fatto chiudere, all’averti lasciata da sola su quella spiaggia. E volevo tornare indietro, ma… dovevo quanto meno salutarlo per l’ultima volta.
Ho aspettato che tornasse e probabilmente è stato quello il mio errore più grande...”
Gli occhi di Regina erano di nuovo sul mare, persi, come se stesse cercando di dissociarsi dal suo stesso racconto.
Ed Emma sentì di doverle stringere ancora di più quella mano adesso agitata, per ancorarla al presente, per tenerla lontana da quell’orribile momento.
“Quando è ricomparso poco dopo, era come se… come se fosse tornata un’altra persona.
Ha iniziato ad invadere il mio spazio, a lanciare frecciatine sulla mia malvagità, a denigrare quella debolezza che io stessa poco prima gli avevo mostrato.
Ha sfruttato la mia vulnerabilità, i miei sentimenti, per avvicinarsi e mettermi al polso il bracciale.
E… è stato tutto molto veloce.
Mi ha sbattuta contro un albero, poi a terra, poi di nuovo contro un albero.
Mi teneva ferma con un braccio sul collo, sfruttando il suo peso.
Era più forte di me, io non… non riuscivo a muovermi.
Ha iniziato ad insultarmi, a dire che meritavo le pene dell’inferno per non so bene quali peccati.
E una parte di me pensava che avesse ragione, pensava di meritare tutto quello, che era finalmente arrivata l’ora di pagare per tutto.”
Un sorriso amaro si formò sulle labbra di Regina al pronunciare quelle parole. E delle lacrime cominciarono a solcarle il viso, silenziose.
Per Emma fu una pugnalata.
“No, no Regina! Non aveva ragione, tu non-“
“Ma un’altra parte di me sapeva di non essere più quella persona, credeva di essersi liberata della malvagità. E sapeva di… di doverti riportare a casa, di dover tornare da Henry con te.
Per questo… per questo ho lottato.
Ho reagito alla sua stretta, ci ho provato con tutta me stessa e non so come sono riuscita a colpirlo all’inguine e a scappare nella foresta.
Lui mi ha inseguita, mi ha colpita con una freccia e... il resto lo sai.”
Si… il terrore, il sangue, il viso di Regina che perdeva colore ad ogni secondo… Emma lo conosceva bene il resto, ce lo aveva impresso indelebile nella mente.
E, adesso che conosceva anche i dettagli di quello che era successo prima, la rabbia e il senso di impotenza erano incontenibili.
Avrebbe voluto ucciderlo, quel Robin.
E a nulla serviva stringere i pugni e digrignare i denti, così come a nulla era servita lei per evitare a Regina quell’ulteriore trauma.
“Se non ti ho raccontato prima tutto questo è perché mi vergogno” confessò Regina in un sussurro, riportando l’attenzione di Emma su di sé.
“Mi vergogno della mia debolezza, dei miei errori.
Ho sporcato la memoria di Robin confondendolo con quella... viscida copia.
E ti ho lasciata indietro, da sola, quando il mio scopo era proteggerti e riportarti a casa.
Sono stata egoista e stupida.
Ti chiedo scusa Emma.
Ti chiedo scusa anche per non avertene parlato, lasciando che ti prendessi da sola chissà quali colpe.
E ti chiedo scusa per aver evitato di parlare di… di noi, rovinando il tuo rapporto con Hook.
Se avessimo messo in chiaro le cose forse sarebbe andato tutto diversamente tra voi, forse-”
“Hey, no, va bene, va tutto bene” le disse Emma, circondandole le spalle con un braccio.
Regina sospirò pesantemente e si lasciò guidare da quel tocco. Chiuse gli occhi, poggiando la testa sulla spalla di Emma.
A quel contatto, Emma notò che i movimenti che prima aveva percepito dalla mano stretta nella propria non erano dovuti solo all’enfasi del discorso.
Regina stava palesemente tremando.
Con dolcezza, Emma scostò leggermente Regina da sé e si tolse la giacca, posandola sulle spalle della mora, prima di stringerla nuovamente a sé.
Stranamente, Regina non si oppose né disse nulla, accettando quel gesto, quel caldo conforto. E lasciando che il silenzio avvolgesse entrambe per un lungo e necessario momento.
Che fu Emma ad interrompere.
“Non devi scusarti e non c’è niente di cui dobbiamo discutere con urgenza. Parleremo quando saremo pronte, pronte entrambe.
Intanto…quello che abbiamo qui è più che sufficiente.”
Lo disse sorridendo, Emma. E Regina si sollevò in tempo per vedere quel sorriso, trovando in esso la forza per asciugare le proprie lacrime.
“E non ho lasciato Killian per colpa tua, se è quello che pensi anche tu” continuò lo sceriffo.
“Io… l’ho lasciato per me, per quello che provavo, per come stare con lui mi faceva sentire.
Aveva questa idea perfetta ed irreale di me e della nostra relazione… parlava sempre della sua Emma, di quanto fosse pura e coraggiosa, di come lei lo rendesse migliore e sapesse risolvere ogni problema, del loro rapporto perfetto e felice, di una casa in cui rinchiudere il loro mondo mentre tutto il resto andava messo in secondo piano, a fare da mero sfondo alla loro perfetta felicità…
Dio, odiavo quella Emma!” esclamò con foga, come se stesse aspettando da secoli di poterlo dire ad alta voce.
“La odiavo perché era perfetta e perché non esisteva.
Se fosse esistita sarebbe stato tutto più semplice.
Se io fossi stata lei sarebbe stato tutto più semplice.
Ma non lo ero, non lo sono mai stata.
Non sono mai stata alla sua altezza” disse, sorridendo con sarcasmo.
“E Killian non perdeva occasione per farmelo notare, per sottolineare come la sua Emma non avrebbe mai fatto questo o dimenticato quello, mentre invece io stavo distruggendo la nostra felicità ogni volta che dicevo la cosa sbagliata o passavo con Henry più tempo del previsto o rincorrevo troppo a lungo un qualche nemico o lo riportavo indietro dalla morte permeandolo di potere oscuro!”
“Non te lo ha mai perdonato…” dedusse Regina, capendo più che bene ciò che Emma le stava dicendo.
“Già” confermò lo sceriffo.
“E in fondo ha ragione, ho sbagliato. Per tanto tempo, in tante cose.
Anzi, sembra che sbagliare e deludere tutti sia la cosa che faccio meglio…
Ed è divertente, non trovi?
La Salvatrice, quella che doveva riportare il lieto fine a tutti, non fa altro che rendere tutti infelici.”
“Emma…”
“No Regina, è vero!
I miei genitori… Henry… gli abitanti di Storybrooke… si aspettano tutti che io sia perfetta, impavida, pura. Probabilmente la loro idea di me è molto simile a quella che aveva Killian.
Ma non appena la vera Emma viene fuori cercano di… strapparle la parte malvagia o di correggerla o di… di cambiarla.
A volte… mi chiedo se il loro amore sia rivolto a me o a quella Emma ideale.”
Fu un sussurro, quell’ultima frase.
Un sussurro che devastò il cuore di Regina.
“Oh Emma, ma certo che il loro amore è per te!”
E le prese le mani, cercando di catturare anche la sua attenzione.
Emma le rivolse un sorriso amaro.
“I tuoi genitori ti adorano da sempre, con quella loro stupida bontà e quell’amore incondizionato e speciale che si prova solo per i propri figli.
Tu non credi che amerai Henry e questa piccola a prescindere da qualunque scelta facciano e da chiunque diventino?” cercò di spiegarle Regina.
“Certo, certo che lo farò. Ma i miei genitori vedono la Salvatrice e lo sceriffo… non conoscono la vera me, quindi come… come possono amarmi?” ribatté Emma, gli occhi pieni di lacrime, la voce tremante.
Regina le sorrise con dolcezza, felice di poterla smentire. “Oh si che la conoscono. Mary Margaret e David hanno conosciuto Emma Swan prima che diventasse anche la Salvatrice e lo sceriffo. Ed era quella Emma Swan odiosa, saccente e con la faccia da schiaffi che si aggirava per la città col suo orribile maggiolino giallo e rovinava i miei piani nonostante io cercasi con ogni mezzo di cacciarla via a pedate.
É lei che hanno accettato ed amato inizialmente, tutto il resto è venuto dopo.”
Emma la guardò interdetta, inondata dalla verità di quelle parole.
Una verità che riuscì a trascinare fuori quelle lacrime, quelle insicurezze e quel dolore che per troppo tempo si era tenuta dentro.
Regina la strinse forte a sé, lasciandola sfogare.
E solo quando i singhiozzi cominciarono a quietarsi, riprese a parlare.
“E vogliamo davvero parlare dell’amore di Henry per te?
Sei la persona che preferisce in tutti i mondi!
A parte forse Violet e quell’attore che interpreta Iron Man nei film… ma direi che sei in ottima posizione” scherzò, riuscendo a farla ridere.
Le asciugò le lacrime con le proprie mani, carezzandole le guance.
Emma sospirò, sentendosi più leggera. E si abbandonò a quel tocco gentile.
“Sai, so già che sarai la preferita anche di questo scricciolo.
Perché la vizierai, la coccolerai, giocherai con lei e le farai combinare tutti i disastri che vorrà, mentre a me toccherà come sempre essere la mamma cattiva ed esigente.”
“Beh, tu sei un po’ esigente” scherzò Emma.
“Si, è vero” ammise Regina, sollevando leggermente le spalle.
“Ma cattiva...no. Non più.”
Lo disse sorridendo, Emma. Ma con una serietà negli occhi che non ammetteva repliche.
Regina li fissò a lungo quegli occhi verdi, che a loro volta fissarono i suoi, tessendo discorsi silenziosi, ma profondi e importanti tanto quanto quelli appena affrontati.
Dopo lunghi istanti, Emma sospirò e ruppe il contatto visivo, non abbandonando il sorriso.
“Hai difeso i miei genitori...”
“E se lo dici in giro sei morta” replicò Regina, cercando di essere più minacciosa possibile.
“Certo, certo” rise Emma, divertita, sentendo l’aria farsi più leggera.
E sospirò di nuovo.
“Devo andare a parlargli, vero?”
“Quando sarai pronta, si.
Loro volevano venire a cercarti subito, ma li ho convinti a lasciarti del tempo.”
“Grazie.”
“E gliel’ho spiegato che non è stata l’avventura di una notte né la mia disperazione per la perdita di Robin né una tua crisi per tutto quello che ti stava succedendo con le visioni e i nemici. Gliel’ho spiegato che questa bambina è un miracolo, non il frutto di un tradimento.
Il resto... dovrai spiegarglielo tu.”
Ed Emma sentì il terrore invaderla nuovamente per quello che avrebbe dovuto dire ai suoi genitori. Per la possibilità di non riuscire a spiegare, di non essere accettata, ma giudicata.
Regina sembrò capirlo e le strinse la mano ancora una volta, prima di alzarsi della panchina.
“È ora di cena, Henry si starà chiedendo che fine abbiamo fatto.
Vieni con me?” le propose.
“No, credo di dover andare dai miei prima che…”
“Che tu perda il coraggio e torni ad essere un coniglietto” la schernì Regina, finendo per lei la frase.
Fece per togliersi la giacca di pelle dalle spalle, ma Emma la bloccò.
“Tienila.
A me non serve: sto per teletrasportarmi dritta all’inferno” scherzò.
E Regina la guardò male.
“In bocca al lupo… coniglietto” le disse, prima di cominciare a camminare verso la propria auto.
Emma la guardò allontanarsi, il cuore pieno di gratitudine e nuova forza.
E non seppe trattenersi.
“Regina!” la chiamò, facendola voltare.
Avrebbe voluto dirle così tante cose… ma improvvisamente le sembrarono tutte superflue.
“Stai bene con la mia giacca rossa addosso” le urlò solamente, sorridendo.
Regina sentì le proprie guance avvampare.
“È vero. Con la tua giacca rossa addosso, sto bene.”
 
 
Una giacca rossa.
E una giacca nera.
Si stringevano l’un l’altra in mezzo alla strada deserta, con la luce della luna ad illuminarne i contorni, rendendo quell’abbraccio il protagonista di un perfetto quadro da favola.
A guardarli da qualche metro di distanza, ecco cosa le sembravano in quel momento Emma e il pirata: una coppia da favola, che attende di sconfiggere i malvagi nemici per poter arrivare al tanto agognato lieto fine.
 
“La Regina Cattiva sta solo cercando di farti impazzire”
 
“Lascia che se ne occupi Regina”
 
“Non capisci che ne va della nostra felicità amore?”
 
Le frasi del pirata lo confermavano: il malvagio nemico di quella favola adesso era lei, una parte di lei.
E doveva occuparsene al più presto, prima di privare Emma di altri momenti felici.
Si meritava il meglio, Emma.
E per poterle dare quel meglio, Regina era pronta a rimuovere dal quadro ogni parte di sé.

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Capitolo 13
*** Capitolo 13. ***


Capitolo 13.

Semmai qualcuno si fosse preoccupato di chiederle cosa fosse secondo lei una famiglia, da piccola Emma avrebbe risposto senza esitazione: una famiglia è stare in una casa al caldo e con l’aria che profuma di buono, con un papà che gioca con la sua bambina e una mamma che prepara da mangiare.
E tutti sorridono.
Il sogno di essere lei quella bambina, per Emma era svanito in pochi anni, la dura realtà della vita in affidamento a prenderne il posto. Ma nel tempo la sua idea di famiglia non era cambiata poi molto.
E sentire suo padre fare degli strani versi per far mangiare il piccolo Neal mentre sua madre rideva tenendolo in braccio, le scaldava il cuore come poche altre cose al mondo. E le causava anche una profonda tristezza.
Non poteva negare di invidiare il suo fratellino tanto quanto lo amava. Ma era anche onestamente felice di sapere che lui avrebbe avuto tutto ciò di cui un bambino ha bisogno.
A parte forse una sorella maggiore un po’ strana.
Attenta a non fare rumore, Emma si allontanò dalla porta di ingresso del loft, felice di non aver bussato. Non c’era bisogno di interrompere quel momento felice, il confronto coi suoi genitori poteva aspettare.
E probabilmente, se avesse fatto in fretta avrebbe ancora potuto cenare con Henry e Regina, in una cucina accogliente, col profumo del cibo e le risate percepibili già dall’ingresso.
Una frase inaspettata però la immobilizzò sul pianerottolo.
“Emma sta bene, vero?” chiese Snow con un tono di voce basso e timoroso, come se non volesse davvero una risposta a quella domanda.
Suo marito sospirò. “Sperò di sì.”
“Abbiamo sbagliato ad ascoltare Regina, dovremmo andare a cercarla!
David, è passato un sacco di tempo e potrebbe pensare che siamo arrabbiati con lei o che… che non ci importa!
E se decidesse di andarsene?
E se non ci parlasse più?!”
La voce di Snow adesso era permeata dal terrore e per Emma era palese anche attraverso quella porta.
Poteva immaginare chiaramente l’espressione tirata sul viso di sua madre, coi suoi soliti occhi lucidi, e lo sguardo basso di suo padre mentre cercavano di capire che cosa fare.
Le si stringeva il cuore a pensare di essere lei la causa di quella situazione.
Però… era davvero possibile che… i suoi genitori temevano davvero che li avrebbe abbandonati?!
La necessità di smentire un tale pensiero fu la motivazione che le servì per tornare sui suoi passi.
Perché nessuno dovrebbe vivere nel timore di essere improvvisamente abbandonato.
Nessuno dovrebbe pensare di essere così poco importante per le persone che ama, soprattutto quando invece è fondamentale, è il sogno di tutta una vita, è una parte pulsante di cuore.
Emma si rese conto che ai suoi genitori quelle cose non le aveva mai dette. E sentì l’impellente bisogno di non far passare un altro secondo senza che le sapessero.
Senza ulteriore esitazione, spalancò la porta del loft, trovandosi davanti proprio la scena che poco prima aveva visualizzato nella mente.
Ma non ebbe il tempo di dire nulla che, urlando il suo nome, sua madre le fu addosso in pochi secondi, stritolandola in un abbraccio di cui fu vittima anche il piccolo Neal, ancora tra le sue braccia. David li raggiunse subito dopo, un sorriso speranzoso sul volto e mille richieste di perdono che gli uscivano a raffica dalla bocca.
Emma si sentì inondata di parole, sopraffatta dal calore.
E fu certa che mai al mondo avrebbe potuto rinunciare a tutto quello.
Ma era anche certa di non voler rinunciare a se stessa, a quella che era davvero.
Per questo doveva parlare ai propri genitori. E sperare che loro l’avrebbero accettata.
“Mi dispiace di avervi deluso” disse Emma, sciogliendo l’abbraccio.
“Oh Emma, non ci hai deluso!” si affrettò a precisare Snow, non lasciandola andare oltre.
“È che… non capiamo” aggiunse David. “Cioè, io credevo che tu amassi Uncino, ma l’hai lasciato di punto in bianco… e questa cosa con Regina, e un figlio…”
“Una figlia” lo corresse Snow con un sorriso, ricordando l’impetuosa precisazione di Emma nell’ufficio del sindaco, qualche ora prima.
Strinse forte a sé il piccolo Neal e gli diede un bacio sulla fronte, prima di adagiarlo nella culla e poi tornare a guardare Emma.
“Siamo un po’ confusi da tutta questa situazione, un po’ molto confusi” continuò Snow.
“E ci dispiace che tu non ti sia sentita libera di poterci parlare…
Probabilmente siamo noi ad averti deluso Emma, ma siamo i tuoi genitori, spero tu sappia che ci importa di te più di ogni altra cosa!
E se queste sono le tue scelte a noi stanno bene, non devi… scappare da noi” le disse, sorridendole e stringendole le mani, gli occhi pieni di lacrime.
Per Emma fu un colpo al cuore.
Lei non voleva affatto fuggire, non più.
E, finalmente, lo disse.
“Non voglio affatto scappare da voi.
Dopo avervi incontrati, avervi finalmente conosciuti… non ho nessuna intenzione di rinunciare alla nostra famiglia.
Ma credevo che… che voi sareste scappati da me.
Perché vi siete resi conto che non sono la figlia per cui tanto avete lottato, non sono il… il degno frutto del vero amore.
E so che tenevate a Killian e alla nostra storia, ma io non potevo più stare con lui…
Ci ho provato, ho aspettato, credendo di poter cambiare, di poter… ricambiare il suo amore, col tempo.
Ma non provavo quello che avrei dovuto, ora ne sono certa.
Io non… io non ero felice.”
E, riuscendo finalmente ad ammetterlo, Emma sentì un enorme peso abbandonare le sue spalle e il suo stanco cuore.
“Oh Emma” le sussurrò Snow prima di stringerla tra le braccia.
Ed Emma chiuse gli occhi e si lasciò cullare, cercando di assaporare più possibile la sensazione delle braccia di sua madre attorno al proprio corpo. Una sensazione che per la maggior parte della vita aveva solo potuto immaginare e di cui ora si nutriva come fosse ossigeno.
Solitamente però le braccia di suo padre non tardavano mai molto ad unirsi a quel groviglio perfetto, per questo Emma fu sorpresa di vederlo a qualche metro di distanza, fermo e con lo sguardo accigliato, impegnato a mormorare parole incomprensibili.
“Papà?” lo chiamò, cercando di attirare la sua attenzione.
Ma ebbe scarsi risultati e cominciò a preoccuparsi. Cercò lo sguardo di sua madre, chiedendo silenziosamente spiegazioni, ma Snow sembrava perplessa quanto lei.
“David? Che succede?” provò a chiedere sua moglie.
“Io davvero non capisco” sussurrò David, prima di voltarsi di scatto verso sua figlia. “Ma se quel pirata non ti rendeva felice perché hai sprecato tutto questo tempo e non l’hai mollato subito?!”
Emma rimase interdetta.
Quando si era convinta a parlare nuovamente coi suoi genitori si era preparata ad un interrogatorio con accuse, urla, rimproveri e pianti, ma una tale, semplice domanda… una legittima e fondamentale domanda!
Che probabilmente lei stessa avrebbe dovuto porsi molto, molto tempo prima. E per la quale non aveva pronta una risposta.
“Io…”
“Oh, ma al diavolo Uncino!
Vieni qui.”
In un secondo suo padre la strinse tra le braccia.
Sua madre si unì a loro ed Emma lo sentì, sentì che ogni cosa era tornata al proprio posto.
Finalmente poteva rilasciare un sospiro di sollievo.
Finalmente potevano lasciarsi quel passato alle spalle e andare avanti.
Finalmente…
“E Regina?” le sussurrò sua madre, la bocca troppo vicina al suo orecchio e il tono di voce troppo basso e quel singolo nome troppo… troppo per i suoi fragili nervi.
Emma scattò all’indietro, liberandosi dall’abbraccio e spalancando gli occhi, mentre le guance le si coloravano di rosso.
“Mamma!”
“Cosa?” chiese Snow, innocente.
“Mi sembra normale chiederti di lei vista la situazione.
Lei stessa ci ha già raccontato delle circostanze inusuali e di tutti i dubbi che avete a riguardo, ma se state per affrontare questa gravidanza insieme è ovvio che le cose cambieranno. Come vi siete organizzate?”
“Organizzate? In che senso?” chiese Emma, perplessa.
“Noi abbiamo già Henry, siamo già organizzate.”
Snow e David la fissarono divertiti, prima di scambiarsi uno sguardo complice e cominciare a ridere senza alcun contegno.
Emma li guardò allibita.
Un attimo prima erano tutti seri e preoccupati e adesso stavano quasi piangendo dal ridere.
Tutti quei discorsi dovevano averli fatti impazzire, non c’era altra spiegazione.
“Emma, tesoro, una gravidanza non ha niente a che fare con la condivisione di un figlio adolescente!” le disse sua madre, col tono di chi sta affermando l’ovvio.
“Esatto” confermò suo padre, cingendole le spalle con un braccio. “Fattelo dire da chi ci è già passato due volte… avrai a che fare con una donna nevrotica e incontentabile, che ti comanderà a bacchetta e si lamenterà per ogni cosa.
E tu, tu per i prossimi mesi sarai la sua povera vittima e burattino. Sei sicura di voler affrontare tutto questo?”
“Papà!”
“David!”
Lo rimproverarono prontamente entrambe le donne, anche se per motivi diversi.
David rise di nuovo, stringendo ancora di più a sé sua figlia.
Snow scosse la testa e punzecchiò il braccio del marito, fingendosi piccata, ma non riuscendo a trattenere le risa.
E anche Emma alla fine si lasciò trasportare, sorridendo insieme a loro. E realizzando forse per la prima volta che, nonostante Henry, questa gravidanza sarebbe stata un’esperienza totalmente nuova, sia per lei che per Regina.
Non erano ancora organizzate, forse non erano preparate. Ma sentiva che insieme se la sarebbero cavata, come sempre.
Per questo il sorriso continuò a crescere sulle sue labbra.
“Sei felice?” le chiese David, notando l’espressione di sua figlia cambiare.
Ed Emma non dovette pensarci nemmeno un secondo prima di rispondere si.
Perché si trovava in una situazione assurda e complicata, ma per qualche strano motivo era felice come non le capitava da tempo.
E fu con quella nuova consapevolezza nel cuore che, qualche ora più tardi, poté lasciare l’appartamento dei suoi genitori per tornare a casa.
“Dovremo prepararci a grossi cambiamenti, non è vero?” chiese Snow in un sospiro, poggiando il volto sul petto di suo marito mentre guardavano la loro primogenita scendere le scale e dirigersi verso l’uscita del palazzo.
“Uhm, non lo so se è un cambiamento” le rispose David.
“Forse stiamo solo cominciando a vedere quello che per anni abbiamo avuto sotto il naso.
Tutti noi.”
Snow replicò con una risatina isterica.
Suo marito aveva ragione, i discorsi di quell’intensa giornata lo confermavano chiaramente.
E le sembrava tutto abbastanza assurdo, ma doveva prepararsi eccome!
Perché ormai poteva essere questione di ore, giorni, mesi… ma era inevitabile.
Quelle due avrebbero presto aperto i loro occhi.
E subito dopo sarebbe toccato ai loro cuori.
 
 
Gli occhi di Emma erano più che aperti e il cuore le batteva furioso mentre continuava a rigirarsi nel letto.
Era appena primo pomeriggio, ma la sua camera da letto era avvolta dall’oscurità più totale, Killian che le dormiva accanto.
Come sempre, lui aveva serrato le tende e ricreato l’atmosfera della sua adorata cabina sulla Jolly Roger, dove i raggi del sole non erano mai entrati a disturbarlo. E nella quale, come troppo spesso gli aveva sentito ripetere, lui aveva avuto le migliori ore di sonno e le migliori ore da sveglio della sua vita.
Sempre in ottima compagnia.
Emma odiava quel tipo di aneddoti, ma non glielo aveva mai detto.
E odiava anche il buio totale, ma non gli aveva mai detto nemmeno quello.
Negli ultimi mesi si era abituata a serrare le palpebre, sforzandosi di immaginare scenari felici e luminosi per poter dormire.
A volte ci volevano delle ore e il sonno arrivava. Altre volte invece no.
E in quel momento era chiaramente in una volta no.
Era esausta, devastata, dolorante, ma come poteva riposare mentre Regina era andata ad affrontare la sua metà malvagia da sola?!
Era la sua battaglia personale aveva detto.
Doveva proteggere tutti loro aveva detto.
Avrebbe risolto la cosa una volta per tutte aveva detto.
E lei le aveva dato ascolto e si era lasciata trascinare a casa da Killian.
Si era lasciata convincere da Killian, si era lasciata stringere da Killian.
Ma le braccia che molte volte le avevano dato calore e conforto adesso le sembravano delle fredde catene.
E non riusciva a trovare pace.
Perché le avevano chiesto di starne fuori, ma lei ci era già dentro fino al collo.
Lei voleva continuare a starci dentro fino al collo.
E in quel momento, immersa nel silenzio e nell’oscurità, Emma riuscì finalmente a sentire la propria voce indicarle chiaramente la strada che voleva percorrere. 

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Capitolo 14
*** Capitolo 14. ***


Capitolo 14.

Per ogni studente, l’avvicinarsi del weekend è quasi sempre sinonimo di immensa gioia e smisurato relax. Dopo intere giornate passate a disperare sui libri di testo e ad ascoltare gli interminabili monologhi dei professori, poter staccare la spina e dedicarsi ad attività diverse è certamente un sogno che si avvera.
Per Henry, quella settimana il sogno si stava avverando eccezionalmente di venerdì mattina presto e aveva la forma di una valigia, l’odore dell’asfalto e il suono della voce delle sue mamme che battibeccavano per chi dovesse iniziare a guidare la Mercedes nel tragitto che li avrebbe portati a visitare New York.
Non era stato facile convincere sua madre a fargli perdere un giorno di scuola.
Un altro giorno di scuola aveva sottolineato Regina, rimproverandolo di nuovo implicitamente per le lezioni che aveva saltato quando aveva deciso di pedinarle fino all’ospedale.
Ma Henry aveva saputo giocare le sue carte, parlando di musei, di monumenti, di biblioteche e di spettacoli teatrali. Tutte cose ben più importanti di lezioni o libri e che ogni adolescente (nonché scrittore in erba) dovrebbe vedere prima possibile, per arricchire il proprio bagaglio culturale e completare la propria formazione in vista di un brillante e luminoso futuro.
Tutte quelle cose sarebbero state solo una parte della loro gita, ma non doveva precisarlo da subito, no?
E poi anche Emma non vedeva l’ora di partire e lo aveva aiutato ad organizzare il tutto. Si era persino impegnata a convincere Regina, elogiando le bellezze della città e facendo leva sul periodo che loro due avevano trascorso a New York per sfuggire al sortilegio di Peter Pan: Regina doveva assolutamente conoscere meglio i luoghi in cui il suo adorato figlio aveva vissuto per ben un anno, non si poteva più rimandare!
E Regina aveva sbuffato e lanciato ogni sorta di obiezione prima di accettare, ma in realtà avrebbe voluto dire di sì sin da subito.
L’idea di passare un weekend fuori porta con Henry ed Emma non le dispiaceva affatto e sapeva di dover approfittare di quelle settimane, prima che l’avanzare della gravidanza e la successiva nascita della bambina rendessero complicato e pesante viaggiare.
Inoltre, Henry si meritava di vivere quel tipo di esperienze. E se visitare New York era ciò che il suo piccolo principe voleva, visitare New York era ciò che il suo piccolo principe avrebbe avuto.
Cedere il posto di guida della sua adorata Mercedes ad Emma era forse l’unica cosa che le pesava davvero, ma il sindaco aveva dovuto ammettere che la bionda conosceva quelle strade meglio di lei. Perciò alla fine si era rassegnata e le aveva consegnato le chiavi, dando così il via a quel loro primo viaggio fuori porta.
La prima avventura programmata per divertimento e non legata a nemici o sortilegi.
La loro prima gita di famiglia.
“Ok, allacciate le cinture, si parteeeee!” urlò entusiasta Emma, mettendo in moto e lasciando il vialetto del 108 di Mifflin Street.
“Vedrete mamme, sarà fantastico!” esclamò Henry con altrettanto entusiasmo. “Ho programmato tutto nei minimi dettagli, sarà il weekend più bello di sempre!”
“Puoi dirlo forte!” lo appoggiò Emma.
E a Regina bastò vederli felici ed elettrizzati per sorridere.
Dopo le paure, i dubbi e le tensioni degli ultimi giorni, tutti loro si meritavano un po’ di tranquillità.
“Siamo quasi al confine della città, pronto ragazzino?” chiese Emma.
“Certo!
L’operazione bruco comincia… adesso!” decretò Henry, in un misto tra solennità ed eccitazione.
“Operazione bruco?” chiese Regina, perplessa.
“Esatto!” esclamarono in coro Henry ed Emma.
“Ci immergeremo nella Grande Mela e ti mostreremo com’è fatta una vera città” le spiegò lo sceriffo. “Così magari con la prossima maledizione ci costruirai uno stadio e un parco divertimenti come si deve…” scherzò, ricevendo prontamente un’occhiataccia da Regina.
“Non credo che avrò modo di essere ispirata su impianti sportivi e luna-park visto che visiteremo solo luoghi di interesse culturale” le rispose il sindaco. “Ma alla prossima fiera cittadina mi assicurerò che la sedia sospesa sulla piscina sia tua.
Sarà come stare su una giostra. E quando colpirò il bersaglio per farti cadere in acqua potrai fare tutto lo sport che vuoi per risalire a galla.”
“Certo, come se riusciresti a colpire il bersaglio con quella mira che ti ritrovi…”
“Come scusa?!
Signorina Swan, la mia mira è cento volte migliore della tua. Devo ricordarti che alle prime lezioni di magia non riuscivi a colpire un albero nemmeno da un metro di distanza?!”
“Regina, quelli erano secoli fa! Adesso-”
“Adesso ci concentriamo sul viaggio e la smettiamo di litigare per cose inutili” le interruppe Henry, sporgendosi tra i due sedili anteriori dell’auto e interponendosi tra le sue mamme prima che la situazione degenerasse.
Lui era un adolescente e la sua sorellina non era ancora nata, ma al momento non erano loro i più bambini su quella macchina…
Bisognava rimediare.
E cosa c’è di meglio di un gioco per distrarre due bambine un po’ troppo cresciute e cocciute?
“Un viaggio in auto non è davvero tale senza qualche gioco che tenga attiva la mente e faccia passare più velocemente il tempo. Perciò… che ne dite di giocare?” propose Henry.
“Chi vince sceglie cosa si mangia per pranzo e chi perde paga il conto” le sfidò, cercando di concentrare l’attenzione delle sue mamme su qualcosa di divertente anche per lui.
“Io ci sto ragazzino! Sono un asso nei giochi, quindi preparate i portafogli” rispose Emma, ghignando.
“Se il tuo acume è pari alla tua mira puoi cominciare ad assaporare l’insalata che ti farò mangiare” replicò Regina. E, prima che Emma potesse rispondere alla sua frecciatina, si voltò verso Henry e chiese: “che giochi hai scelto tesoro?”
“Oh, i giochi vi piaceranno! Ne ho preparati tantissimi.
Potremmo cominciare con un gioco karaoke.
O possiamo scegliere un tema e dire a turno una parola che sia legata ad esso.
Oppure possiamo iniziare con la catena di parole, in cui bisogna dire una parola che cominci con l’ultima sillaba della parola detta dalla persona prima, come ad esempio casa, sapone, neve, …” spiegò Henry.
“Per me vanno bene tutti. Tu con quale vorresti iniziare ragazzino?” gli chiese Emma.
“Mi piacerebbe giocare con le targhe delle altre macchine o sfruttando il paesaggio, ma ci vorrà un po’ prima di lasciare le isolate stradine attorno a Storybrooke, quindi quei giochi li lasceremo per dopo.
Intanto direi che possiamo cominciare con le parole a tema.”
“Oppure possiamo accelerare e raggiungere prima la civiltà” disse Emma, poggiando maggiormente il piede sull’acceleratore ed aumentando bruscamente la velocità dell’auto.
“Emma fermati!” le intimò Regina, il tono di voce fin troppo serio.
“Hey, stavo solo scherzando! Non ho alcuna intensione di correre” la rassicurò Emma, avendo già riportato la velocità dell’auto largamente entro i limiti consentiti.
“No Emma, devi fermarti! C’è… qualcosa non va.”
A quelle parole, due paia di occhi si puntarono su Regina, prendendo coscienza dell’espressione sofferente sul suo volto.
La mora aveva la testa china in avanti, gli occhi chiusi, la mano destra a stringere la maniglia dello sportello e il braccio sinistro a circondare il proprio ventre.
Ad Emma non servì altro per accostare immediatamente l’auto e spegnere il motore. “Regina, stai male?”
“Mamma, che succede?” chiese anche Henry, sporgendosi verso di lei.
“Non lo so, io... fa male e-”
Le parole le morirono in gola, strozzate dai dolori lancinanti che le stavano trafiggendo il ventre.
Regina strinse i denti e serrò ancora di più gli occhi e la presa sulla maniglia.
Avrebbe voluto urlare, per il dolore e per la paura, ma Henry era un passo da lei e doveva proteggerlo.
E la bambina… doveva proteggere anche la bambina, la sua bambina doveva stare bene!
Come se le avesse letto la mente, Emma le poggiò una mano sulla gamba per cercare di rassicurarla e: “vedrai che non è niente, ma adesso torniamo indietro e ti porto in ospedale” le disse, occhi già sulla strada e pronti all’inversione di marcia.
“Stai tranquilla, ok?
Andrà tutto bene.”
Andrà tutto bene, tutto bene continuò a ripetersi Emma nella mente, mentre il piede destro premeva con insistenza sull’acceleratore e le mani serravano il volante, cercando di dare quanta più stabilità possibile all’auto in corsa.
“Siamo vicinissimi mamma, resisti!”
“Mi... mi gira la testa. Non...”
“MAMMA!” urlò Henry, vedendo sua madre perdere conoscenza e crollare in avanti, sorretta solo dalla cintura di sicurezza.
Sporgendosi sul sedile, Henry la afferrò e la sostenne da dietro, evitandole di sbattere la testa contro lo sportello e tenendola ferma, protetta tra le sue braccia.
“Dannazione!
Regina, Regina mi senti?” provò a chiamarla Emma, senza ottenere alcun risultato.
“Henry non lasciarla, il confine della città è vicino. Ci siamo quasi.”
E, non appena varcata la linea rossa che separava Storybrooke dal resto del mondo, Emma fermò l’auto sul ciglio della strada e scese immediatamente, correndo ad aprire la portiera di Regina, ancora sostenuta da Henry.
Emma le prese il viso tra le mani, continuando a chiamare il suo nome.
Poi andò subito a sentirle il polso, in un gesto tanto meccanico quanto essenziale.
Sospirò, portando gli occhi in quelli terrorizzati di suo figlio. “È svenuta, come a casa.
Andrà tutto bene, ma devo portarla in ospedale adesso.
Tu chiama i nonni, ok?"
Henry annuì ed allentò la presa sul corpo di sua madre, lasciando che Emma la liberasse dalla cintura di sicurezza e la prendesse tra le braccia.
“Andrà tutto bene” gli ripeté Emma, guardandolo dritto negli occhi, prima di sparire in una nuvola di fumo bianco assieme a Regina.
Henry si lasciò cadere sul sedile posteriore, svuotato e pesante, con gli occhi annebbiati e pieni di lacrime.
Li chiuse, sperando di riuscire a non piangere.
Ma serrare le palpebre non gli impedì di vedere il sogno di quei giorni felici andare in mille pezzi.
 
 
Pezzi di specchio ai suoi piedi, pezzi del proprio riflesso a circondarla senza scampo.
Ma adesso ci vedeva dentro un’altra persona, un’altra Regina.
“IO TI ODIO!” le urlò dritto in faccia la Regina Cattiva, con uno sguardo che trasudava rabbia e disperazione molto più che odio.
“Ma io no…
non ti odio più” le disse Regina.
Capendo finalmente che ogni frammento, ogni sfaccettatura, ogni ombra e ogni raggio di luce erano una parte importante di sé, una parte senza la quale non sarebbe mai più stata completa, non sarebbe mai più stata se stessa.
Perché ogni risata riecheggiante, ogni lacrima versata, ogni ferita, pensiero, parola, decisione, ogni sentimento provato… avevano fatto di lei la donna che è adesso.
Avevano fatto di lei una donna che finalmente stimava e a cui non voleva rinunciare.
“Che cosa vuoi fare?” le chiese incredula la Regina Cattiva, fissando il proprio cuore oscuro nelle mani di Regina e non riuscendo a capire cosa aspettarsi.
“Quello che non siamo mai riuscite a fare: sarò coraggiosa per entrambe e sceglierò l’amore anziché l’odio” le disse Regina, con una calma che non credeva di possedere, strappandosi quindi il cuore dal petto.
E mentre amore e oscurità si mischiavano, mentre i due cuori si toccavano, tornando ad essere uno solo, Regina strinse forte a sé la sua metà, abbracciando se stessa.
Accettando se stessa come mai aveva fatto prima.
La Regina Cattiva scomparve tra le sue braccia e Regina sentì un’immensa ondata di magia invadere il proprio corpo.
Magia accompagnata finalmente da una sconosciuta quanto calorosa sensazione di pace

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Capitolo 15
*** Capitolo 15. ***


Capitolo 15.

Era come si vedeva nei film. Ma anche esattamente l’opposto.
Perché appena comparse in ospedale tutti i medici erano immediatamente accorsi attorno a Regina, muovendosi in sincrono e azionando vari macchinari a una velocità che sembrava quella della luce. Mentre Emma aveva balbettato di malori e svenimenti e poi era rimasta immobile, lì in mezzo al corridoio dove l’avevano lasciata, incapace di fare, di parlare, di pensare.
Attorno a lei tutto andava veloce, ma lei lo percepiva a rallentatore.
Un secondo prima Regina era stretta tra le sue braccia, il secondo dopo poteva vederla sdraiata su un lettino, attraverso lo spiraglio della porta di una stanza in cui le avevano proibito di entrare.
E forse erano passati minuti, forse ore, ma niente era cambiato. Regina era ancora incosciente e nessuno le diceva niente.
La dottoressa Wilson era stata chiamata non appena un’infermiera le aveva viste nella hall dell’ospedale. Era la stessa ragazza che era stata presente alla visita qualche settimana prima. Emma ricordava che quel giorno era stata gentile e rassicurante, mentre adesso aveva in viso un’espressione seria, concentrata, che la faceva sembrare più grande della sua età.
La dottoressa Wilson invece le era sembrata molto più giovane da come poco prima le era sfrecciata accanto.
Senza degnarla di una parola, si era fiondata nella stanza di Regina, aveva chiesto cos’era successo e poi aveva iniziato ad impartire ordini agli altri colleghi presenti.
Da fuori, Emma aveva potuto sentirla perché aveva urlato.
Adesso invece non sentiva più nulla da diverso tempo.
E non riusciva a capire se per il suo cuore erano più devastanti le urla o quell’agghiacciante silenzio.
I medici intanto continuavano ad essere indaffarati e a fare cose attorno a Regina. Cose che Emma non capiva, ma che sperava sarebbero servite a farle riaprire gli occhi al più presto.
Quegli occhi color nocciola che avrebbe riconosciuto ovunque, che emanavano luce nonostante nascondessero mille ombre. Che la schernivano, la rimproveravano, le scaldavano il cuore ogni giorno. E che Emma non riusciva ad immaginare chiusi e spenti per così tanto tempo.
Cercando di ottenere risposte, Emma spostò lo sguardo sulla dottoressa Wilson.
In quel momento la donna era intenta ad azionare l’ecografo e scoprire il ventre di Regina, proprio come aveva fatto qualche settimana prima, quando avevano provato una gioia immensa nel sentire il suono del cuore della loro bambina per la prima volta.
Mentre adesso l’unico battito che Emma riusciva a sentire era il proprio, che le pulsava feroce nelle orecchie e le faceva scoppiare il petto.
Non di gioia. Non di emozione.
Solo di rabbia, di ansia, di terrore.
E non poteva più resistere, non poteva più aspettare.
Incurante dei divieti e delle obiezioni dei medici, Emma entrò nella stanza.
“Il battito…
Perché non si sente il battito? Stanno bene?” chiese, in preda alla disperazione.
“Sceriffo, non può stare qui” provò a dirle quello che doveva essere un infermiere, toccandole il braccio.
Emma se ne liberò spingendolo di lato e fece un passo avanti.
“Ho chiesto se stanno bene!” ribadì, quasi ringhiando.
Solo allora la dottoressa Wilson si voltò nella sua direzione, in viso un’espressione che Emma non seppe interpretare.
Fece cenno ai suoi collaboratori di uscire e tornò ad armeggiare con l’ecografo, fino a che il suono di un piccolo cuore pulsante non le diede il segnale di fermarsi in quella posizione.
Emma sentì le ginocchia tremare e l’impellente necessità di correre da Regina ed abbracciarla, di stringere forte lei e la loro bambina.
“Il battito c’è, ma è molto debole. E le cose non accennano a migliorare” spiegò la dottoressa. “Non riusciamo a far riprendere conoscenza a Regina né ad aiutare la piccola.
A questo punto non c’è molto che possiamo fare.”
“Cosa… no, io posso guarirla!” esclamò Emma, il viso tirato in un misto di speranza e terrore. “Ho la magia di luce, l’ho già curata altre volte. Se… se mi spiega meglio qual è il problema, dove devo indirizzare la mia magia... io posso guarirla!”
La dottoressa Wilson mise giù l’ecografo e abbassò leggermente il capo, lo sguardo perso in un punto indefinito, come a voler cercare lì le parole per spiegarsi.
Si prese un secondo, poi guardò Emma negli occhi.
“Non c’è una ferita da rimarginare o un virus da debellare.
In realtà non c’è alcun apparente problema fisico, è più una predisposizione biologica. È come se… il corpo di Regina non riuscisse a nutrire adeguatamente la bambina e questo crea problemi a Regina stessa.
Non si sa perché succede, ma succede.
Ed è già sorprendente che questa volta lei abbia raggiunto le 12 settimane.
Tu non puoi guarirla, nessuno può.
Possiamo solo... aspettare che la natura faccia il suo corso.”
La Wilson concluse la frase in un sussurro, scossa dalle sue stesse parole.
Si avvicinò a Regina e le accarezzò il viso, in un gesto dolcemente materno.
Emma invece rimase immobile, assimilando tutte quelle informazioni e sentendosi schiacciata dal peso del mondo che le stava crollando addosso.
Non era vero.
Non stava succedendo realmente.
Non era possibile.
All’ultimo controllo medico Regina e la bambina stavano bene. Fino a qualche ora prima Regina e la bambina stavano bene!
Erano tutti felici, dovevano passare dei giorni tranquilli, non... non...
“Ci deve essere qualcosa che possiamo fare!” urlò Emma, invasa dalla rabbia e dalla disperazione.
“Ha detto che non c’è nessun problema fisico, quindi deve essere la magia. È con la magia che Regina aveva problemi!
E la gravidanza è magica e la magia ha sempre un prezzo e se c’è un prezzo da pagare io... io…
Dobbiamo chiamare Zelena!
E Gold.
Loro… loro sapranno cosa fare.”
Prese il cellulare dalla tasca, cercando di inoltrare la chiamata nonostante le mani tremanti.
Tutto tremava in Emma, persino la terra sotto i suoi piedi e le lacrime ai bordi dei suoi occhi.
La Wilson sentì una morsa al cuore vedendola in quello stato. E cominciò a riflettere sulle parole dello sceriffo, cercando di conciliare nella propria mente presente e passato, scienza e magia.
“Ok... raccontami di nuovo cos’è successo prima che perdesse conoscenza” chiese la dottoressa, tornando accanto a Regina e provando ad osservarla come se quel giorno la stesse vedendo per la prima volta.
“Non c’è tempo per ripetere le cose, dobbiamo chiedere aiuto!”
“Non stiamo perdendo tempo, è importante.
Cosa è successo prima che Regina svenisse? Dove eravate?” le chiese nuovamente la dottoressa, il tono di voce adesso più autoritario.
“In macchina, eravamo in macchina! Henry stava parlando e improvvisamente Regina ha detto di avere dolori e poi-“
“Eravate in macchina fuori da Storybrooke?
Sceriffo, avete attraversato il confine?”
A quella domanda Emma spalancò gli occhi e le braccia le caddero lungo i fianchi, facendo finire il cellulare rovinosamente sul pavimento.
Ma certo...
Una gravidanza magica... e lei aveva portato Regina in un mondo senza magia!
“Sceriffo!” la richiamò la voce della dottoressa Wilson.
Ma, più che la voce della dottoressa, ciò che riscosse Emma fu la familiare nuvola verde che apparve improvvisamente di fronte a loro.
Zelena diede una rapida occhiata alla stanza e lasciò il passeggino in un angolo, Robin che vi dormiva dentro beatamente. Poi si precipitò accanto a sua sorella e le strinse una mano tra le proprie, cominciando a trasferirle parte della propria magia.
“Esatto!” esclamò la dottoressa, tornando ad armeggiare con gli strumenti collegati a Regina, alla ricerca dei segnali di miglioramento che adesso si aspettava. Perché quella gravidanza era incomprensibile per la scienza, ma chissà come la magia l’aveva resa possibile e doveva essere la magia a continuare ad alimentarla!
Come aveva fatto a non pensarci prima?!
Rilasciando un sospiro di sollievo, la Wilson guardò la sorella di Regina, che a sua volta stava fissando lo sceriffo con uno sguardo omicida in volto.
“Dannazione Emma, ma che diavolo avevi in testa?!
Avresti dovuto chiamarmi subito! O avresti potuto fare qualcosa tu invece di stare lì imbambolata come un’idiota!” la rimproverò Zelena, senza usare mezzi termini.
Ed Emma non seppe cosa risponderle.
Perché era colpa sua, tutta quella situazione era colpa sua.
E Regina e la bambina stavano… potevano…
“Emma?” la chiamò Zelena, notando solo in quel momento lo stato pietoso in cui si trovava. Era palesemente terrorizzata e il senso di colpa ce lo aveva stampato in faccia…
Zelena sospirò. Forse aveva esagerato ad urlarle contro.
“Hey, quel che è fatto è fatto. Mi hai chiamata in tempo e Regina si sta riprendendo, quindi è tutto ok.”
“Si… si sta riprendendo?” le chiese Emma, pregando ogni divinità di ogni mondo di non aver capito male.
“Si, non lo senti?
La sua magia sta tornando” le disse Zelena, cercando di rassicurarla.
Emma fissò i propri occhi colmi di speranza sul viso della maggiore delle sorelle Mills e cercò di fare attenzione.
Concentrandosi, riuscì a percepire l’entità magica di Regina che, da debole e pacata, cominciava pian piano a farsi più forte e definita.
Prima non lo aveva notato, non ci aveva nemmeno pensato, ma adesso…
“Stanno tornando” sussurrò Emma.
“Si” le confermò Zelena, con la stessa dolcezza che le aveva sentito usare ormai diverse volte rivolgendosi alla piccola Robin. “E adesso devi venire qui e prendere il mio posto.”
“Testa rossa qui ha ragione” si intromise la Wilson, guadagnandosi un’occhiataccia da parte di Zelena.
“La bambina è anche tua, quindi per lei la tua magia sarà come un nutrimento naturale. Sarà molto più efficace.”
Emma non se lo fece ripetere oltre.
Prese delicatamente la mano di Regina tra le proprie e, facendo attenzione a non danneggiare la flebo che vi era collegata, comincio a trasferirle quanta più magia possibile.
“Hey, vacci piano!” la richiamo Zelena.
Emma si concentrò, cercando di imitare quanto fatto da Zelena e di regolare il flusso magico.
Non era semplice controllare la propria magia con tutto quello che le si stava agitando dentro, ma doveva farcela.
Nella stanza calò il silenzio mentre gli sguardi di tutti i presenti erano fissi sulla flebile luce bianca che stava facendo riprendere colore alle guance di Regina.
Poco dopo, la dottoressa Wilson prese in mano l’ecografo e lo passò sul ventre del sindaco, facendo diffondere per tutta la stanza il suono forte e definito del battito di un piccolo cuore.
E in quel momento, mentre Zelena sorrideva felice, un sospiro di sollievo lasciava le labbra della dottoressa ed Emma trovava conforto in quel piccolo grande suono, gli occhi di Regina finalmente si aprirono.
 
 
Quando Regina apri gli occhi la sua metà malvagia era sparita, ma non era comunque da sola nella stanza.
Sulla porta, ansimante e con gli occhi spalancati, Emma la stava fissando mentre cercava di riprendere fiato.
La lunga corsa non le era servita: era arrivata in tempo solo per vedere una luce accecante inondare l’ufficio e tutto sembrava essere già finito.
Ma per fortuna da quella calda luce era riemersa Regina.
“Regina cosa... ce l’hai fatta? L’hai sconfitta?”
Sconfitta?
Si… quella rabbia, quell’odio, quel profondo disprezzo per sé e per la vita… Regina l’aveva sconfitta la vecchia se stessa. L’aveva sconfitta accettandola.
E, adesso che la Regina Cattiva era dentro di sé, tutti i suoi ricordi delle ultime settimane… tutta quella sofferenza e quella solitudine… tutti quei sentimenti repressi… la stavano invadendo e devastando come un’onda in piena che sfugge al fiume e raggiunge impetuosa i campi.
Le aveva provate altre volte quelle emozioni. E le avrebbe assorbite e controllate, col tempo.
Ma in quel momento l’odio riflesso nel suo stesso sguardo…
La paura di Henry che sfugge al tocco della sua mano…
Il tradimento di Zelena…
Il rifiuto di Tremotino…
Il giudizio negli occhi dei Charmings…
Il disprezzo sul volto di Emma…
E l’amore che dentro di lei non si era spento nonostante tutto…
Faceva male.
Immensamente male.
Ma il dolore sarebbe passato.
E l’amore…
“Si Emma. Ce l’ho fatta”.

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Capitolo 16
*** Capitolo 16 ***


Capitolo 16.

Risvegliarsi in un letto d’ospedale ed essere costretta a rimanerci fino a nuovo ordine non era per niente piacevole.
Adesso Regina capiva perché Henry si era dimostrato così indolente quando lo aveva fatto ricoverare per quel brutto virus intestinale.
Però all’epoca suo figlio aveva cinque anni e stava male davvero, mentre in quel momento lei si sentiva in perfetta forma, bene come non le capitava ormai da mesi. E sperava vivamente che le analisi lo avrebbero confermato, così Miranda sarebbe potuta entrare nella stanza sventolando un bel foglio di dimissioni e quell’insostenibile situazione avrebbe avuto fine.
Le avevano assicurato che la bambina stava bene, era stata la prima cosa che aveva chiesto appena sveglia. E se la bambina stava bene non c’era davvero alcun motivo per continuare a stare seduta in quel letto, alcun motivo per continuare a sopportare i racconti di Snow su tutti i malori avuti durante le sue due gravidanze, le occhiate tristi e compassionevoli di David, gli sproloqui e le mille domande di Henry e il silenzio colpevole di Emma.
Ecco, certamente quell’ultimo era ciò che Regina sopportava di meno.
E non vedeva l’ora di poter parlare con lo sceriffo e sapere chiaramente cosa diavolo le stava passando per la testa.
La richiesta di perdono che le aveva farfugliato appena aveva aperto gli occhi non le era piaciuta affatto.
Emma si prendeva sempre le colpe, si sentiva sempre responsabile per tutto e tutti. Ma se c’era qualcuno da biasimare per non aver pensato che un mondo senza magia avrebbe potuto danneggiare la bambina quella era lei stessa e nessun altro.
In realtà, da quel che Regina ne sapeva, non era mai successa una cosa del genere. Le gravidanze magiche erano tali solo nel concepimento, poi procedevano come tutte le altre.
Ma i suoi problemi con la magia e quel primo svenimento in cucina avrebbero dovuto essere un campanello d’allarme per lei, avrebbe potuto capirlo.
Lei era un’esperta di arti magiche, conosceva la propria magia da decenni.
Avrebbe potuto individuare il problema non appena varcato il confine della città.
E invece non si era accorta di nulla. Aveva percepito lo scompenso magico e le era sembrato normale, come ogni volta che lasciava Storybrooke.
Mentre nella realtà dei fatti continuava ad essere tutto strano ed anormale. Ed era ora di capire perché, in modo da sapere come proteggere la loro bambina.
Quindi Miranda doveva muoversi a dimetterla, anche perché la situazione stava già degenerando.
Poteva praticamente vederlo il muro che Emma si stava costruendo attorno un minuto dopo l’altro. Le bastava guardare poco oltre Henry, seduto accanto a lei sul lettino e impegnato in un discorso che Regina aveva smesso ormai da tempo di seguire, per vedere lo sceriffo in piedi, immobile vicino alla fine del letto, una mano stretta a pugno lungo il fianco e l’altra poggiata sul materasso a un soffio dai suoi piedi.
Pronta ad afferrarla se ce ne fosse stato bisogno.
Erano così ormai da tempo lei ed Emma, ad un passo l’una dall’altra.
E in mille e più occasioni Regina avrebbe voluto fare quel passo e raggiungere Emma e…
“…hai capito mamma?! Non volevano farci passare!”
La voce di Henry riscosse Regina, che si voltò leggermente, mettendo nuovamente a fuoco il volto di suo figlio.
“Non volevano farci passare e nessuno sapeva dirci come stavi, ma la nonna si è messa a urlare e ha minacciato un infermiere.
Gli ha detto che lo avrebbe appeso a testa in giù proprio lì all’ingresso dell’ospedale se non ci avesse detto almeno dov’eri!
Avresti dovuto vederla ma’!”
Henry si voltò verso l’altra sua madre per renderla partecipe del suo racconto.
Ed Emma gli sorrise, in un gesto quasi meccanico. “Immagino che scena ragazzino. Sarai stato fiero e imbarazzato allo stesso tempo.”
“Quell’idiota continuava a dirmi che solo i familiari possono entrare!” si intromise Snow. “Come se non lo sapessero anche i sassi del Troll Bridge che siamo una famiglia e che Regina è la madre dei miei nipoti.”
A quelle parole, gli occhi di Emma e di Regina si puntarono su Snow mentre due identiche lame si puntavano nei loro cuori.
Non a ferirli, ma a liberarli di un po’ di quella protezione di ghiaccio che li circondava.
Perché in quelle semplici parole c’era affetto, c’era accettazione.
E soprattutto, c’era la verità.
Erano una famiglia, tutti loro.
“Quanta folla in questa stanza!” esclamò la dottoressa Wilson facendo il suo ingresso seguita da Zelena, ma purtroppo senza alcun foglio in mano, notò Regina.
“L’orario di visita è terminato, quindi vi pregherei di lasciare l’ospedale prima che si sparga la voce che facciamo favoritismi.
Non vogliamo certo far scoppiare una guerra tra casate nobiliari per un motivo tanto stupido, giusto vostra altezza?” disse poi la dottoressa, rivolgendosi a Snow.
“Certo Miranda, ma prima…”
“Ma prima vi aggiorno, si” la interruppe la Wilson, anticipandola.
“Sia Regina che la piccola stanno meglio, tutti i valori stanno rientrando nella norma.
Ciò nonostante ho deciso di non dimetterla, in modo da monitorare entrambe per le prossime ore ed essere certa che le condizioni restino almeno buone così come sono.
E… non la dimetterò anche perché abbiamo una teoria che vogliamo confermare” disse quindi, voltandosi verso Zelena ed invitandola a proseguire con un gesto del capo.
Zelena annuì e fece un passo avanti, avvicinandosi al letto di sua sorella.
“Considerando quello che ti è successo, io e la dottoressa Wilson siamo arrivate alla stessa conclusione: i tuoi problemi, Regina, sono legati al fatto che non hai abbastanza magia.
Sembra che la bambina si nutra anche della tua energia magica oltre che di tutte le altre cose biologiche che assorbe da te attraverso il sangue o il cordone ombelicale o qualunque siano gli altri sistemi con cui i bambini mangiano quando sono nella pancia…
Comunque, diciamo che la tua magia è cibo per la bambina, ma il tuo corpo non riesce a ricaricarla abbastanza in fretta in modo che basti sia per te che per lei, quindi-“
“Quindi se uso la mia magia o la blocco è come se smettessi di nutrire la bambina? State dicendo questo?” chiese Regina, mentre tutto quello che le era successo cominciava a trovare un senso nella sua mente.
In passato, utilizzare una quantità eccessiva di magia l’aveva debilitata e portata allo stremo moltissime volte, alcune delle quali le era anche capitato di perdere i sensi per il troppo sforzo, non era affatto strano. E se la bambina assorbiva davvero la sua magia allora era più che plausibile che i suoi svenimenti fossero dovuti a quello.
Perciò…
“Se Regina non usa la magia finché la bambina non nasce staranno bene?” chiese Emma, rubandole quasi le parole di bocca.
“Per adesso si” le rispose la dottoressa Wilson. “Ma penso che col passare del tempo la bambina avrà bisogno di sempre più energia magica per crescere.
E se spostare degli oggetti di pochi metri ti mette k.o. già ora” disse quindi, rivolgendosi a Regina, “non credo che il tuo corpo potrà cavarsela da solo ancora per molto.”
Gli sguardi dei presenti si incupirono e Regina si sentì morire.
Voleva dire che presto la sua magia non sarebbe più stata abbastanza e la bambina…
“Ma abbiamo la soluzione!” si affrettò a dire Zelena, spingendo Emma in avanti.
Lo sceriffo provò a protestare, ma Zelena la ignorò e riprese a parlare.
“Ti nutrirai regolarmente di magia dall’esterno, proprio come si fa col cibo.
Tu assorbirai la magia da Emma e la bambina assorbirà la magia da te, così tutto dovrebbe procedere nel migliore dei modi fino alla fine della gravidanza”.
“Da me?! Ma io-”
“Te l’ho già detto!” la zittì Zelena, sbuffando. “Emma, tu sei la persona più adatta perché la tua magia è già parte della bambina.
Se dovesse servire, qualche volta potrei farlo anch’io o chiunque altro abbia della magia, ma certamente sei tu la più indicata”.
“Ed è per questo che stanotte terremo qui anche te sceriffo” aggiunse la dottoressa Wilson.
“Dovrai passare la tua magia a Regina a intervalli regolari e se i risultati degli esami miglioreranno ulteriormente vorrà dire che abbiamo ragione e potrete andare.
Tutto chiaro?”
Emma guardò la dottoressa Wilson, non sapendo bene cosa rispondere.
Aveva capito il principio e quello che doveva fare, certo, ma avrebbe davvero funzionato? Sarebbe stato abbastanza?
Istintivamente, cercò lo sguardo di Regina, chiedendo conferme.
Regina però sembrava persa nei suoi pensieri, il viso corrucciato.
“Regina?” la chiamò.
E il sindaco si voltò verso di lei, lo sguardo serio e fermo. “Ha senso. Ci… vogliamo provarci?” le chiese.
Emma le sorrise ed annuì. Poi si voltò verso la dottoressa Wilson.
“Ok, tutto chiaro”.
“Bene, allora direi di lasciare da sole le nostre ospiti.
Tornerò tra qualche ora a controllarti” disse la dottoressa Wilson, rivolgendosi con dolcezza a Regina. “Mi raccomando sceriffo, la lascio nelle sue mani” aggiunse poi, punzecchiando Emma, prima di lasciare la stanza.
A Zelena spettò il compito di spiegare gli ultimi dettagli relativi al trasferimento di magia, per poi scortare Henry e i Charming fuori dalla camera.
Fu solo quando la porta si chiuse alle loro spalle che Regina lasciò andare un grosso sospiro, rilassando le spalle e facendo cadere la testa all’indietro, contro il muro, concedendosi di chiudere gli occhi per qualche secondo.
Emma la guardò e si sentì ancora più colpevole.
“Regina mi dis-“
“Non devi scusarti. Niente di quello che è successo è colpa tua” la bloccò Regina, riaprendo gli occhi.
“Anzi, ti ringrazio. Ci hai salvate” le disse, abbozzando un sorriso.
“Sono state Zelena e la dottoressa Wilson, non io.
Io sono quella che ti ha portata oltre il confine della città” replicò Emma, colpevole.
“Tu sei quella che mi ha portata in ospedale e che ha chiamato mia sorella.”
“Se non mi avesse detto lei cosa fare…” sussurrò Emma, ripensando per la millesima volta a quanto aveva rischiato di perdere solo poche ore prima.
Se Zelena fosse comparsa qualche minuto più tardi o non avesse capito…
“Emma, nemmeno io ci sono arrivata” le disse Regina, prendendole la mano nella sua.
“Eppure avrei dovuto sentire cosa stava succedendo alla mia magia, avrei dovuto capirlo.
Se qualcuno ha colpe quella sono io.
Ma… stiamo bene. E adesso sappiamo cosa succede e cosa dobbiamo fare.
Pensiamo a questo, ok?”
Emma guardò Regina e i suoi occhi così colmi di colpa e terrore e speranza.
Decise di concentrarsi su quella, sulla speranza.
E sul calore che, dalle loro mani strette, le saliva dritto fino al cuore.
“Cominciamo?” disse quindi a Regina scuotendo le loro mani, un sorriso timido sul volto.
In risposta, Regina si spostò verso il bordo del letto, sistemando meglio il cuscino e facendole spazio.
Senza però lasciarle la mano nemmeno per un secondo.
 
 
“Cominciamo?” chiese Emma, correndo sul posto fuori dalla porta del 108 di Mifflin Street.
Aveva appena finito la sua maratona mattutina, ma si sentiva ancora piena di energia ed era il momento giusto per riprendere con le lezioni di magia, ne era certa.
“Mi dispiace ma adesso non posso, ho una riunione in municipio e non voglio arrivare in ritardo” rispose secca Regina, chiudendosi la porta alle spalle e superando Emma.
Era tardi.
E lei doveva muoversi, andare avanti.
“Oh andiamo Regina, è sabato!
Non dovresti essere in cucina a preparare, che ne so, un buon caffè e dei pancake magari?”
“E tu non dovresti essere col tuo fidanzato?” replicò Regina, salendo in macchina e lasciando il vialetto.
 
“Hey, vi va di andare al cinema stasera? C’è la maratona dei film di Harry Potter e non possiamo perdercela!” esclamò una Emma entusiasta, scuotendo la spalla di Henry e guardando Regina.
E Regina dovette farsi una violenza per non accettare. Perché guardare Harry Potter in tv era stata una delle prime cose che avevano fatto loro tre insieme, un venerdì sera dopo l’altro, nel salotto di casa Mills.
Ma era ormai tanto tempo fa.
Adesso Henry usciva con Violet il venerdì sera.
Ed Emma…
“Mi dispiace, sono davvero stanca.
Ma tu vai pure tesoro” disse Regina ad Henry, posandogli un bacio sulla guancia.
“Buona serata Emma” le disse quindi, allontanandosi senza nemmeno guardarla in faccia.
 
Ma quella faccia era difficile da non guardare se le si presentava d’avanti mentre prendeva un caffè al Granny’s o parlava col commesso del negozio di alimentari o sistemava i gerani in giardino o le faceva le smorfie durante le assemblee cittadine senza alcun pudore.
Regina si stava abituando a vederla di nuovo, con occhi diversi.
Perché era diverso adesso.
E doveva rimanere così, si ripeteva. Dovevano guardarsi a distanza.
 
“Ma’?” esclamò Henry in tono sorpreso, aprendo la porta d’ingresso.
Regina lo sentì parlare chiaramente anche dalla cucina.
“Ciao ragazzino!” lo salutò Emma, sicuramente superandolo e dirigendosi in salotto.
Dall’altra stanza Regina non poteva vederla, ma sapeva per certo che nel giro di pochi secondi Emma si sarebbe tolta la giacca e l’avrebbe lanciata sulla poltrona di destra, per poi lasciarsi cadere sul divano e prendere in mano il telecomando.
Istintivamente, avrebbe sollevato i piedi per poggiarli sul tavolino ma, memore della sfuriata subita qualche giorno prima, li avrebbe riportati a terra.
Lo sbuffo che Regina sentì mentre mescolava la zuppa ne fu la conferma.
Anche a distanza, lei Emma poteva vederla.
“Che ci fai qui mamma?” chiese quindi Henry.
“Sono venuta a distruggerti!” gli rispose Emma, riferendosi certamente ad uno dei loro violenti e sanguinosi videogiochi.
“Ma non dovevi uscire con Hook stasera?”
Regina raggiunse la porta del salotto giusto in tempo per vedere Henry sedersi accanto a sua madre e per sentire chiaramente la risposta di Emma.
“No, io e Hook ci siamo lasciati”.
Una semplice frase e tutto ciò che venne dopo arrivò muto alle orecchie di Regina.
Vuote erano le successive parole di Henry, vuoti i suoni provenienti dal televisore ormai acceso.
L’unica cosa che Regina riusciva a sentire era il battito accelerato e tormentato del cuore di Emma.
E lei non sapeva ancora come, ma avrebbe fatto di tutto per restituirgli almeno un po’ della serenità che meritava.
“Hey voi due, la cena è pronta” disse facendo un passo avanti per entrare nella stanza.
Il suo sguardo adesso era fisso su quello di Emma.
“Forza, andate a lavarvi le mani e raggiungetemi a tavola, così…
cominciamo.”





Ciao a tutti.
Volevo scusarmi per il ritardo con cui arriva questo aggiornamento. La mia vita è totalmente cambiata nell'ultimo periodo e ho faticato a tenere il passo. Adesso però il tempo da dedicare alla scrittura sta tornando e io spero di poter tornare ad aggiornare con regolarità.
Comunque, vi ringrazio per aver seguito questa storia fin qui, dedicandole il vostro tempo e le vostre parole. Vuol dire davvero molto per me, quindi ancora grazie.
Alla prossima,
Sparewheel

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Capitolo 17
*** Capitolo 17 ***


Capitolo 17.
 
 
Il sole caldo e il cielo azzurro erano un ottimo rimedio per il senso di oppressione dovuto ad un lungo periodo di reclusione forzata.
Regina aveva avuto modo di constatarlo sin da piccola, quando fuggiva in mezzo alla natura dopo i giorni di punizione imposti da sua madre o quando passava ore e ore a cavalcare nel giorno in cui la neve iniziava a sciogliersi e i profumi della primavera cominciavano a riempire nuovamente l’aria dopo il freddo inverno.
Regina adorava sentire il calore del sole sulla pelle e le carezze del vento tra i capelli. Per tale motivo quella mattina aveva scelto di andare a lavoro a piedi, godendosi finalmente un po’ di libertà e di ritrovata normalità.
Certo, era un po’ strana in quel periodo la sua normalità.
Così come era strano pensare che, dopo settimane di drammi e terrore, la soluzione a tutti i suoi problemi era arrivata sotto forma di una calda mano da stringere dopo colazione e dopo cena.
Non erano certo di quel genere le soluzioni con cui aveva avuto a che fare per tutta la vita, ma ricevere energia da Emma per qualche decina di minuti due volte al giorno era certamente la migliore tra le stranezze possibili.
Anche perché, superato l’imbarazzo delle prime volte, quei momenti con Emma stavano rapidamente diventando tra i preferiti delle sue giornate.
Era stato bello quella mattina parlare dei programmi per il fine settimana. Ed era stato bello la sera prima, quando Henry aveva mostrato loro il suo progetto di scienze, o la sera prima ancora, quando avevano solo guardato la tv sul divano, condividendo una coperta.
Semplicemente avere Emma attorno al mattino e alla sera era bello.
“Buongiorno signor Sindaco!” la salutò la signora Stinson che, come ogni mattina a quell’ora, era davanti alla porta di casa propria a raccogliere il giornale.
Regina ricambiò il saluto e le dedicò un sorriso cordiale.
Sorriso che si spense non appena la signora le urlò “Congratulazioni!”, ghignando in un modo alquanto inquietante.
Regina la ringraziò perplessa ed affrettò il passo, evitando che dei cortesi saluti potessero evolversi in una sgradita conversazione.
Il figlio della signora lavorava come ortopedico in ospedale, certamente doveva aver saputo da lui della gravidanza.
Con tutto quello che era successo era normale che lo staff medico ne avesse parlato tra i reparti, ma parlarne anche con i propri familiari… era alquanto scorretto ed irrispettoso.
Da buon sindaco, al prossimo consiglio avrebbe dovuto ricordare ai propri concittadini l’importanza del rispetto della privacy altrui. Lo avrebbe segnato in agenda una volta raggiunto l’ufficio, ma nel frattempo voleva pensare solo a godersi il resto della sua passeggiata.
Svoltato l’angolo, le venne incontro il Dottor Hopper che, in perfetto orario, come ogni mattina stava portando a passeggio Pongo prima di aprire lo studio.
Era buffo pensare che certe cose non erano cambiate nonostante la prima maledizione fosse stata spezzata ormai da molti anni.
“Buongiorno Regina, congratulazioni!
Dopo tutto quello che hai passato meriti questa immensa gioia. E so che avrai mille dubbi e paure, per questo voglio ricordarti che la mia porta è sempre aperta. In qualsiasi momento puoi- ”
“Grazie Dottor Hopper” rispose Regina, interrompendo il suo già troppo prolisso monologo.
“Dico davvero, se hai bisogno di qualcosa-”
“Ho bisogno di andare a lavoro” tagliò corto il sindaco, sempre più infastidita.  
“Se non le dispiace... buona giornata Dottor Hopper.”
“No no, ok” le sorrise Archie. “Buona giornata anche a te Regina.  
E ancora auguri!” le urlò, anche se la mora gli aveva già voltato le spalle e si era allontanata, pregando di non incrociare nessun altro dei suoi concittadini pettegoli.
Le rimaneva giusto un tratto di strada da percorrere e voleva farlo in santa pace, prima di entrare nel municipio e doversi concentrare sulla mole di lavoro arretrato che la stava attendendo ormai da giorni.
Inspirò profondamente e chiuse gli occhi, ma quando li riaprì la sagoma del municipio la colpì, facendole capire che purtroppo la sua passeggiata era ormai giunta alla fine, assieme al tempo per il relax.
La rabbia verso chi aveva rovinato i suoi piani fece per assalirla, quando un oggetto solitamente altrettanto irritante catturò la sua attenzione.
Lungo la strada, dal lato opposto all’ingresso del municipio, c’era parcheggiato il malmesso maggiolino giallo di Emma.
Ed appoggiata alla fiancata ed intenta ad armeggiare col cellulare e a mangiare quella che sembrava essere una ciambella, c’era proprio Emma. La stessa Emma che aveva lasciato casa sua di corsa poco più di un’ora prima, dicendo di essere in ritardo per il turno alla centrale.
Quindi… che ci faceva lo sceriffo lì a quell’ora?
Che fosse successo qualcosa all’interno dell’edificio?
Regina affrettò il passo e chiamò Emma che, sentendo pronunciare il proprio nome, sollevò lo sguardo e sorrise.
Allontanandosi dalla macchina e provvedendo ad eliminare l’ultimo pezzo di ciambella ingurgitandolo, lo sceriffo si affrettò ad indossare uno strano cappello che fino a poco prima aveva tenuto bloccato sotto il braccio e che solo in quel momento Regina aveva notato. Così come solo in quel momento Regina stava notando che, rispetto a quando l’aveva vista quella mattina a casa propria, Emma aveva cambiato abbigliamento.
Lo sceriffo adesso aveva addosso una camicia bianca sotto un completo scuro giacca-pantalone in cui la giacca era decisamente troppo grande per lei e certamente pensata per un uomo.
E con quel cappello in testa sembrava proprio...
“Buongiorno Madame” la salutò Emma, sollevando il cappello e facendo un mezzo inchino.
“Mi chiamo Emma e sarò il suo chauffeur per la giornata. Pronta a partire?” le sorrise, porgendole il braccio.
“Emma ma che stai blaterando?
E come ti sei vestita?” chiese Regina, non capendoci nulla.
“Andiamo, sta al gioco!” la pregò Emma, porgendole nuovamente il braccio.
Regina continuò a guardarla male anche se decise di assecondarla, intrecciando le loro braccia.
“Ok, ma io sono già arrivata, lavoro proprio qui” replicò poi, indicando il municipio. “Sono il sindaco, lo sa signor chauffeur?”
“Oh lo so, eccome se lo so!
Quando ci siamo conosciute non perdeva occasione per ripeterlo e sottolinearlo, Madame” le rispose Emma in tono seccato mentre si dirigevano verso le strisce pedonali per poter attraversare la strada.
In risposta si beccò una gomitata tra le costole e un tipico sguardo di rimprovero Mills con tanto di labbra serrate.
Emma adorava scatenare quell’espressione.
“Ahia!” esclamò, esagerando palesemente.
E Regina la guardò male.
“Non perda tempo a lamentarsi o dovrò trovare un sostituto più resistente e silenzioso” la punzecchiò, trascinandola verso la strada quando un’auto si fermò per farle passare.
Ed erano appena a metà percorso sulle strisce quando il gentile guidatore in attesa, abbassato il finestrino, fece loro le sue congratulazioni prima di proseguire.
Emma dovette trattenere Regina che, voltatasi di scatto, sembrava pronta a scagliare una palla di fuoco per incenerirlo.
“Dannazione, ma lo sanno già tutti?!” sbuffò il sindaco.
“Dopo la nostra entrata drammatica in ospedale e le scenate di mia madre che ti aspettavi?!
Tutta la città lo avrà saputo in un battito di ciglia” le fece notare Emma.
Regina sbuffò di nuovo e capì di doversi rassegnare.
Ma se qualcuno dei suoi concittadini avesse anche solo provato ad impicciarsi troppo o a darle consigli sulla gravidanza...
Scosse la testa, cercando di non pensarci.
Nel frattempo avevano raggiunto il marciapiede opposto ed Emma le aveva lasciato il braccio, precipitandosi ad aprire la porta d’ingresso del municipio.
Regina però non ebbe il tempo di varcarla che ne uscì Henry, sorprendendola.
“Benvenuta Madame!” le disse, palesemente euforico.
“Henry che ci fai qui? Dovresti essere a scuola!
È successo qualcosa?” chiese allarmata, esaminando con lo sguardo ogni centimetro del corpo di suo figlio.
Non vi trovò alcuna traccia di ferite o traumi, ma notò uno strano cartellino appuntato alla tasca della sua camicia.
“La scuola è chiusa per disinfestazione” le rispose Henry, catturando la sua attenzione.
“Ieri c’è stata una piccola fuga magica dal laboratorio di chimica e se ne stanno occupando le fate.”
“Cosa?! E perché io non ne so niente?
Emma, tu lo sapevi?” chiese Regina, preoccupata.
“È tutto sotto controllo, stai tranquilla.
Noi siamo qui per occuparci di un altro progetto” le spiegò Henry, prima di schiarirsi la voce e drizzare la schiena.
“Buongiorno, io sono Henry e sarò la sua guida per la giornata!
Benvenuta a New York Madame” le disse, prendendole la mano e trascinandola all’interno del municipio.
Quello che Regina si trovò davanti la lasciò senza fiato.
Con l’aiuto di modellini e poster, il corridoio d’ingresso era stato trasformato in una strada piena di auto e nelle pareti campeggiavano diversi quadri raffiguranti grattacieli e palazzi altissimi. Poco più avanti, la hall dell’edificio era diventata quella che Regina riconosceva essere la famosa Times Square, con le sue pubblicità multicolore tra cartelloni e schermi. E in cima alle scale si intravedeva la base di quella che era chiaramente la Statua della Libertà, facendo intendere che il piccolo allestimento continuava anche ai piani superiori.
“Cosa avete architettato voi due?” chiese in un bisbiglio, cercando di non farsi sopraffare dall’emozione.
Emma ed Henry ghignarono, scambiandosi uno sguardo complice.
“È il nostro viaggio mamma.
Come promesso, ti portiamo a vedere New York” le disse Henry, un enorme sorriso stampato in volto.
Gli occhi di Regina si riempirono di lacrime.
Guardò suo figlio, poi Emma e pensò a quanto era immensamente fortunata.
Fece un bel respiro e sorrise.
“Ok, allora... guida, chauffeur, andiamo.
Non vedo l’ora di scoprire ogni angolo della Grande Mela”.
 
E Regina scoprì che Emma ed Henry avevano preparato proprio ogni angolo, facendola passare da Manhattan a Broadway, fino all’Empire State Building nel giro di pochi passi.
E forse era strano ma, tra tutti quei meravigliosi allestimenti, fino a quel momento il suo posto preferito era stato la caffetteria del municipio, stanza che per quel giorno si era trasformata nell’appartamento in cui Emma ed Henry avevano vissuto nel loro anno da soli a New York.
Erano bastati dei fumetti, qualche decina di foto di quel periodo e i racconti dei due sulle loro avventure a rendere quello spazio unico e speciale.
Una volta capito cosa rappresentava quella stanza, Regina era stata certa che il picco emotivo della giornata sarebbe stato quello.
Temeva che i racconti di quei mesi l’avrebbero ferita, ricordandole ciò che si era persa e quanto aveva sofferto nella Foresta Incantata lontano da Henry e da Emma.
E invece il loro entusiasmo e i loro tentativi di coinvolgerla e metterla al corrente su tutto non avevano fatto altro che riempirle ulteriormente il cuore, rendendola ancora più fiera e felice.
Avevano superato anche quello scoglio, insieme.
Il dolore si era trasformato in sorrisi.
E adesso non rimaneva loro che rilassarsi e godersi il resto della giornata.
Per la fine di quello strambo tour, c’era in programma un perfetto pic nic all’aperto nel giardino fuori dal municipio, che per quella giornata si era trasformato nel loro personale ed esclusivo Central Park in miniatura.
Anche in questo caso Emma ed Henry sembravano aver pensato a tutto.
Ad attenderli, già pronta sul prato ed illuminata dal sole, c’era una enorme coperta a scacchi viola e bianchi, sulla quale spiccavano vari contenitori di cibo e diversi cuscini. Poco distante, c’era persino una comoda sedia a sdraio.
“È per te mamma, nel caso in cui ti stancassi a stare seduta per terra” le aveva detto Henry, prima di chiederle di mettersi in posa insieme ad Emma per l’ennesima foto.
Regina lo aveva accontentato volentieri, raggiungendo lo sceriffo sulla coperta e tentando di trasferire tutta la sua gioia nel sorriso rivolto alla fotocamera.
Era stato tutto perfetto.
Quando loro erano insieme era tutto perfetto.
E Regina sperava, anzi, sapeva, che quello non era che l’inizio.
“Vuoi dell’altra insalata?” le chiese Emma, porgendole intanto un po’ d’acqua.
“No, ti ringrazio” le rispose Regina, continuando a guardare Henry che si stava allontanando per raggiungere Violet ed altri amici, impaziente di avere notizie sull’esito della disinfestazione magica.
“È stata una sua idea il tour in municipio” le spiegò Emma, guardando anche lei Henry.
“Qualche giorno fa mi ha chiamata e mi ha detto che se tu non potevi andare a New York allora dovevamo fare in modo di portare New York da te” disse, scuotendo leggermente la testa nel ricordare quanto era stato insistente suo figlio. E quanto l’aveva tormentata per fare in modo che ogni dettaglio dell’allestimento fosse perfetto.
“Avevamo programmato tutto per questo sabato, dovevamo solo trovare una scusa per farti venire in ufficio”.
“Con tutto il lavoro che ho in arretrato non avreste dovuto insistere molto” le disse Regina, realizzando inoltre che i documenti sulla sua scrivania si erano accumulati anche per quella giornata.
Ma ci avrebbe pensato l’indomani. Tanto quei documenti non sarebbero andati da nessuna parte, purtroppo.
“Non avremmo dovuto insistere, ma saresti stata certamente più sospettosa” le fece notare Emma.
“Oggi invece è stato tutto così normale che non ti sei accorta di niente. E la tua faccia quando hai varcato la porta di ingresso… impagabile.
Avresti dovuto vederti!” esclamò lo sceriffo, allargando le braccia sopra la testa e buttandosi poco delicatamente all’indietro per stendersi sulla coperta.
Regina aspettò che Henry fosse arrivato sano e salvo dai suoi amici prima di imitarla, ma in modo più aggraziato.
Si sistemò il cuscino sotto la testa e puntò lo sguardo sul cielo azzurro.
“Grazie” sussurrò. “È stata una gita magnifica”.
“Te l’ho detto, è stata tutta opera di Henry.
Ma sono contenta che il tour sia stato di suo gradimento, Madame” scherzò Emma, che aveva ancora indosso la sua divisa da chauffeur salvo il cappello, dimenticato in qualcuna delle stanze visitate.
“Si, è stato assolutamente di mio gradimento, la ringrazio.
Ma, per quanto mi pesi dover dire addio alla bellissima New York, gradirei anche che gli uffici del municipio tornassero al loro aspetto originario prima delle nove di domattina” la punzecchiò Regina in tono autoritario, un sorrisetto divertito sul volto.
“Non si preoccupi signor sindaco, la nostra squadra è già al lavoro”.
“Squadra?
Perché, quante persone avete coinvolto?” chiese Regina, voltandosi di scatto a guardare Emma.
Lo sceriffo ghignò e si mise su un fianco, poggiando la testa su un braccio in modo da poter vedere meglio le finestre del municipio alle spalle della mora.
“Beh, guarda tu stessa” le rispose, invitandola a voltarsi e cominciando ad indicare i punti in cui Regina avrebbe dovuto concentrare la propria attenzione.
All’ingresso c’erano Leroy e David che stavano portando fuori pezzi della Statua della Libertà e da una finestra al primo piano si intravedeva Snow che stava staccando dal muro alcuni quadri e cartelloni, aiutata da Ruby. Lì accanto, i collaboratori del sindaco stavano provvedendo a ripristinare i documenti sulle varie scrivanie e persino Henry e i suoi amici si erano spostati all’interno dell’edificio per dare una mano.
Emma li aveva appena indicati con sorpresa, ma Regina non aveva visto nulla di tutto quello.
Perché Regina non si era mossa di un millimetro da quando Emma si era voltata.
Il viso dello sceriffo era così vicino al proprio che le si era mozzato il respiro, paralizzandola.
E il suo sguardo si era perso ad ammirare ogni dettaglio di quel volto. Perso nelle piccole rughe che si formavano attorno agli occhi ogni qual volta Emma li stringeva per vedere meglio. Perso nell’increspatura delle sue labbra, che si arricciavano leggermente poco prima di un sorriso. Perso nel calore del respiro di Emma, che arrivava dritto a solleticarle il naso ad ogni parola, raggiungendo poi ogni fibra del suo corpo.
Regina si era persa.
Si era persa fin troppo negli ultimi anni.
E non voleva perdersi più niente.
Senza pensarci, sollevò una mano per sfiorare il viso di Emma.
Lo sceriffo smise di parlare e si voltò a guardarla, notando solo in quel momento la vicinanza dei loro volti.
Spalancò gli occhi e fece per allontanarsi, ma la mano di Regina, gentile e timorosa, le si posò sulla guancia, mentre il suo sguardo altrettanto incerto non le lasciava gli occhi.
“Emma…”
Fu poco più di un sussurro, ma fu tutto ciò che servì ad Emma per annullare la distanza e poggiare le proprie labbra su quelle di Regina.
E non ci furono colori e luci e magici incantesimi a far tremare la terra. Solo tocchi gentili, poi avidi, poi di nuovo gentili ed increduli, tra le labbra di due donne che non riuscivano a capacitarsi della semplice grandezza di ciò che stava finalmente accadendo tra loro.
Col rimbombo del cuore nelle orecchie e l’aria che cercava di riempire nuovamente i polmoni, si allontanarono l’una dall’altra giusto quel poco che serviva loro per potersi guardare meglio negli occhi.
“Ciao” sussurrò Emma sulle labbra di Regina, mentre un enorme sorriso le conquistava senza fatica il volto.
“Ce ne hai messo di tempo Miss Swan” le rispose Regina, lasciandosi andare ad un sorriso altrettanto enorme e carico di promesse. 

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Capitolo 18
*** Capitolo 18 ***


Capitolo 18.

Sette e mezzo.
Come l’orario in cui suona la sveglia al mattino o come quel semplice gioco di carte che le avevano insegnato da bambina o anche come le persone che c’erano in quel momento da Granny, se si contava Leroy come mezzo.
Sette e mezzo erano le volte in cui Emma aveva baciato Regina.
E quel mezzo, proprio quel mezzo la disturbava incredibilmente perché no, certe cose non dovrebbero essere lasciate a metà dannazione ad Henry e ai suoi libri dimenticati in cucina.
Emma sbuffò e diede un altro morso alla sua ciambella.
Regina le doveva mezzo bacio e lei era intenzionata a riscuoterlo prima di quella sera, quando si sarebbero viste per il consueto trasferimento di energia.
Magari poteva passare in ufficio a portarle il pranzo. O, meglio ancora, potevano pranzare insieme nel parco del municipio, proprio lì dove si erano date il primo di quei baci solo qualche giorno prima.
Emma sorrise al ricordo di loro due stese su quella coperta, imbarazzate e felici come due adolescenti.
Non avrebbe mai più dimenticato quel momento.
Quel tocco di labbra che, ne era certa, sarebbe stato il più dolce degli inizi.
“Ma che sorriso splendente, e che occhi sognanti che hai!” la schernì Ruby, poggiandosi al bancone proprio vicino al suo sgabello. “Se la maternità fa questo effetto, io e Dorothy dobbiamo davvero cominciare a darci da fare…”
“La maternità è una cosa meravigliosa, ma questo lo so già da un po’ di anni. Così come so che tu troveresti qualsiasi scusa pur di darti da fare con Dorothy…” ribatté Emma, punzecchiandola.
“Che posso dire, mi piace avere una vita di coppia movimentata.
E a te?” le chiese Ruby, un’espressione maliziosa e curiosa stampata sul volto.
“A me piacerebbe avere una cioccolata calda e un’altra ciambella” tagliò corto lo sceriffo, cercando di tirarsi fuori da quella che stava per diventare una conversazione certamente imbarazzante.
“Oh, andiamo Emma, siamo amiche!
Non mi merito forse qualche dettaglio?
Cioè, nella Foresta Incantata c’erano certe storie sulla Regina Cattiva che…”
“RUBY!” la bloccò Emma, alzandosi bruscamente dallo sgabello e lanciandole un’occhiata che, Ruby ne era certa, se fosse durata qualche secondo in più avrebbe potuto letteralmente fulminarla.
“Ok, ok, ho capito.
Ciambella e cioccolata in arrivo per lo sceriffo!” disse sconsolata, allontanandosi.
Emma si lasciò cadere sullo sgabello, rossa in volto.
Non le servivano certo altri motivi per pensare a Regina in quel modo…
Dannazione a Ruby e alle sue insinuazioni!
“Ho sentito bene, ciambella e cioccolata?” le chiese proprio Regina, che doveva essere appena entrata nel locale. “Ma se hai fatto colazione a casa mia meno di due ore fa…”
“Ecco, Regina, spiegaglielo che non è lei quella che ora deve mangiare per due!” urlò Ruby da dietro il bancone.
“Hey! Devo mantenermi in forze, non giudicatemi!” provò a difendersi Emma.
“In forze, eh?” la punzecchiò Ruby, poggiandole davanti ciambella e cioccolata calda, prima di fuggire dall’altra parte del locale per non essere uccisa.
Emma arrossì ancora di più e Regina la guardò perplessa.
“È per… per il trasferimento di energia, ho sempre fame dopo” spiegò Emma, cercando di cambiare argomento e non pensare a cose poco opportune e molto imbarazzanti.
Dannata, dannata Ruby.
“Oh… capisco.
Ma avresti potuto dirmelo, ti avrei preparato qualcosa da mangiare prima di andare a lavoro” le disse Regina, un’espressione colpevole in volto.
Emma le prese una mano.
“Hey, no, non serve.
Tu fai già tutto il lavoro con la bambina, facendola crescere e sopportando i fastidi della gravidanza.
A me invece tocca solo stringerti la mano e mangiare più ciambelle…
Direi che sono sacrifici che posso sopportare più che volentieri” le disse, sorridendo.
Regina le sorrise di rimando.
Rimasero a guardarsi occhi negli occhi mentre i loro volti cominciarono lentamente ad avvicinarsi, fino a che entrambe non si resero conto di dove si trovavano e si allontanarono bruscamente.
Emma si schiarì la voce e lasciò la mano di Regina, fiondandosi sulla cioccolata calda per cercare di tenersi occupata.
“Ehm, tu che ci fai qui a quest’ora?” le chiese quindi, cambiando discorso.
Regina le raccontò della riunione appena conclusa e di come aveva deciso di concedersi una piccola passeggiata per prendere un po’ d’aria ed ordinare il pranzo.
Durante tutto il suo discorso, Emma notò, gli occhi del sindaco non avevano lasciato le sue labbra nemmeno per un secondo.
E l’intensità di quello sguardo stava rendendo dannatamente difficile sopprimere l’istinto di baciarla.
Emma poggiò la cioccolata calda sul bancone: era arrivato il momento di riscuotere il mezzo bacio che Regina le doveva. E magari aggiungerne qualcun altro al conto, giusto per sicurezza.
Fece per chiedere a Regina di lasciare il locale insieme a lei, quando si accorse che lo sguardo della mora si era spostato, seguendo non le sue labbra, ma… la sua cioccolata?
“Ne vuoi un po’?” le chiese Emma d’istinto, porgendole la tazza.
Regina avvampò improvvisamente. “Cosa? No no, certo che no!
Perché mai dovrei volere un po’ della tua ipercalorica cioccolata?” le rispose in fretta, voltandosi di scatto.
“Signorina Lucas, gradirei avere il mio solito pranzo in ufficio tra un’ora” disse, rivolgendosi a Ruby ed afferrando la propria borsa.
“Devo tornare in ufficio, mi stanno aspettando.
A stasera Emma” le disse quindi, dandole un rapido bacio a fior di labbra prima di imboccare la porta d’uscita.
Emma rimase basita e la guardò andare via senza avere il tempo di reagire.
Quello era anche meno di mezzo bacio, ma… Regina l’aveva appena baciata in pubblico.
Wow.
La gravidanza poteva avere degli effetti davvero strani.
Sospirò, tornando a sorseggiare la propria cioccolata.
E poi sorrise.
“Hey, Ruby! Me ne prepari un’altra?”
 
Quando Regina raggiunse il proprio ufficio, si stupì di trovare un sacchetto del Granny’s ad aspettarla sulla scrivania.
Guardò l’orologio d’istinto, pur sapendo che di certo non era passata un’ora.
E la signorina Lucas avrebbe dovuto trasformarsi in lupo e correre per riuscire a precederla vista la velocità con cui lei aveva lasciato il locale, fuggendo verso il municipio.
Era tutta colpa di Emma, quell’idiota riusciva sempre a metterla in situazioni imbarazzanti.
Regina sospirò e si avvicinò alla scrivania, aprendo il sacchetto.
Dentro, un bicchiere bollente sosteneva un pezzo di carta scarabocchiato con una grafia che Regina avrebbe riconosciuto tra mille.
 
“Ho visto come la guardavi…
E sono gelosa, ma non è giusto negare alle labbra ciò che gli occhi bramano con una tale intensità”.
 
Regina non riuscì a non sorridere.
Stupida, stupida Emma che sapeva sempre leggerla fin troppo bene.
Poggiò il biglietto sulla scrivania, con cura. E poi si fiondò sul bicchiere, togliendo rapidamente il coperchio e portandoselo alla bocca, certa di ciò che avrebbe assaporato.
Il suono soddisfatto che le scappò dalle labbra fece sorridere Emma, che si era goduta tutta la scena poggiata alla soglia della porta.
“Non dovresti vergognarti se hai delle voglie” le disse con dolcezza, facendola comunque sobbalzare.
“EMMA!
Non… non ho le voglie” la smentì Regina, mettendo giù il bicchiere, come se quel gesto potesse cancellare ciò che aveva appena fatto.
“Hey, davvero, non c’è niente di male.
E, in qualità di altro genitore, è mio compito soddisfare ogni vostra voglia…” le disse Emma, avvicinandosi.
Regina non le diede il tempo di raggiungerla.
Scattò in avanti e le loro labbra si incontrarono a metà strada, divorandosi e stuzzicandosi con un identico sapore di cioccolata e cannella.
“Nove” mormorò Emma, non appena ebbe bisogno di riprendere fiato.
“Presto ti farò perdere il conto, lo sai, vero?” le sussurrò Regina all’orecchio, scatenando un brivido che andò a infiammare ogni cellula del corpo dello sceriffo.
“Non vedo l’ora che succeda” le disse Emma, baciandole il collo e risalendo senza fretta fino al mento, con una scia di piccoli baci che la riportò proprio su quelle labbra che l’avevano incantata.
Le baciò ancora una volta.
“So che presto perderò il conto.
Ma ogni singolo bacio dato a te conterà per sempre”.
Regina sorrise, stupita.
Emma se ne usciva con certe frasi che… come diavolo faceva a farle battere così forte il cuore?!
Le accarezzò una guancia e poi le colpì il naso con l’indice.
“Non ci provare… è solo colpa tua se ho voglia di cibo spazzatura.
Tua figlia non è ancora nata e già la stai influenzando negativamente” le disse, falsamente seccata, tornando verso la scrivania e riprendendo in mano il bicchiere con la cioccolata.
Emma la guardò con un ghigno e le si avvicinò, portando il proprio viso all’altezza del ventre dell’altra.
Lo accarezzò con una mano e poggiò la propria testa a Regina, la cui mano raggiunse subito i suoi capelli.
“Sentito piccolina?” sussurrò Emma.
“Ogni volta che farai qualcosa che non va sarai mia figlia.
Ma non devi ascoltare la mamma, non c’è niente di male a concedersi un po’ di cibo spazzatura una volta ogni tanto.
E se ti piace la cioccolata calda con panna e cannella, allora sei proprio un’intenditrice”.
Regina non riuscì a non sorridere a quello strambo discorso.
E si sentì scoppiare il cuore.
Nella sua lunga vita aveva avuto decine di amanti, assaporato decine di labbra, toccato con mano decine di cuori, ma quello… quello era certamente il momento più intimo che avesse mai condiviso con qualcuno.
La vita con Emma prometteva davvero di essere dolce, intensa e speciale come quella cioccolata con panna e cannella.
Regina si portò nuovamente il bicchiere alle labbra, assaporando quanto più possibile quel momento.
Emma la guardò e non trattenne un ghigno divertito.
“Cosa?” le chiese Regina, incuriosita.
“Hai della panna qui” le spiegò Emma, toccando le proprie labbra nel punto corrispondente. “Ma ci penso io” le disse, baciandole la fossetta sotto il naso, la cicatrice e poi le labbra, lentamente, prendendosi tutto il tempo del mondo.
Perché davanti avevano tutto il tempo del mondo.
“Fatto” le disse, sorridendo.
“E adesso finalmente so che sapore hanno le nuvole”.
 
                                                                                                                      
“Sette e mezzo!” esclamò David, un ghigno soddisfatto stampato in volto.
“Hey, non vale! Hai barato!” lo accusò Emma, gettando le carte sul tavolo.
“Non ho barato, sono solo molto più bravo di te”.
“Ma se ti ho insegnato io a giocare e a bluffare...” ribatté Emma, lanciandogli un’occhiataccia.
“Quindi dovresti solo essere fiera del frutto dei tuoi insegnamenti” le rispose prontamente l’uomo, alzando a mezz’aria la sua bottiglia di birra.
Emma fece per imitarlo, quando i nuovi clienti appena entrati al Granny’s catturarono la sua attenzione.
Erano un uomo e una donna. E tenevano per le mani una bambina con occhi verdi e lunghi capelli neri che saltellava felice, blaterando qualcosa a proposito di un gelato.
Emma sorrise appena e si portò la bottiglia alle labbra, svuotandone quasi il contenuto tutto d’un fiato.
David la guardò perplesso ed Emma usò il collo della bottiglia per indicargli la famigliola felice che l’aveva distratta.
“Ripensavo a quando io e Regina aspettavamo una bambina” gli disse, scuotendo il capo e mandando giù un altro sorso di birra.
“E invece ora sono qui, con te.
A bere birra alle tre del pomeriggio”.
David le sorrise e le strinse una mano.
Emma lo fissò, prima di lasciarsi andare ad una grossa, incontenibile risata.
“Una risata isterica, davvero?!” le chiese retoricamente David, guardandola male.
Emma cercò di contenersi e sollevò le spalle, sospirando. “Non puoi pensare di essere l’unico nervoso oggi”.
“No, certo. Ma non posso nemmeno pensare di essere l’unico felice”.
“Non lo sei” sorrise Emma, stringendogli la mano a sua volta.
“Tranquillo, non lo sei”.

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Capitolo 19
*** Capitolo 19 ***


Capitolo 19.

Gambe allungate in avanti e braccia incrociate sul ventre.
No, non andava.
Allora forse poteva provare a sollevare le gambe sul divano, piegandole alla sua sinistra, e a ruotare leggermente il bacino verso destra.
Ma no, nemmeno quella posizione sembrava funzionare.
Forse raccogliendo le ginocchia davanti a sé e poggiandovi sopra il mento poteva continuare a guardare il film e stare più comoda. O forse le serviva un cuscino e…
“Hey!” urlò Emma quando proprio un cuscino la colpì dritta in faccia.
“Ci stai disturbando” le disse Henry dalla sua poltrona, il braccio ancora a mezz’aria e il viso rivolto alla tv.
“Non è colpa mia se non trovo la posizione giusta!” si giustificò Emma, mentre suo figlio tornò ad ignorarla completamente.
“Non trovo la posizione giusta…” ripeté imbronciata, questa volta rivolgendosi a Regina, che era seduta all’estremità opposta del divano.
Le loro mani erano state strette l’una nell’altra fino a qualche minuto prima, quando avevano completato il trasferimento di energia. Ma, ultimato quel compito, Emma aveva dovuto allontanarsi da Regina e non era più riuscita a concentrarsi sul film né a trovare una posizione che le consentisse di godersi quel momento di tranquillità in casa Mills.
Da quando quel divano era diventato così scomodo e lei così esigente?!
“Shh, ci siamo” la richiamò Regina con un’occhiataccia, invitandola con un gesto del capo a guardare la televisione.
A quanto pareva il film era arrivato ad un momento cruciale e questo per madre e figlio sembrava essere più importante dei suoi disagi.
Che crudeli!
Emma sospirò e decise di rassegnarsi.
Prese il cuscino che Henry le aveva gentilmente fornito e lo strinse al petto, tornando a fissare lo schermo.
Pochi secondi e sospirò di nuovo.
Col cuscino addosso faceva troppo caldo, e non certo perché si stava muovendo di continuo, ma perché era normale che le sere di giugno fossero… troppo calde, appunto.
Mise il cuscino da parte e fece per sollevare di nuovo le gambe quando, senza alcun preavviso, Regina la prese per un braccio e la trascinò verso di sé, facendola finire stesa sul divano e con la testa poggiata sulle sue gambe.
Emma cercò di chiedere spiegazioni, ma Regina le tappò la bocca con una mano.
“Qualcuno sta per essere ucciso Emma” sibilò il sindaco a denti stretti, calcando sul suo nome.
Ed Emma non riuscì a capire se Regina si stesse riferendo al film o se le avesse appena lanciato una non troppo velata minaccia di morte.
Fece per chiederglielo, quando la mano che le bloccava la bocca si spostò, posandosi sui suoi capelli ed iniziando ad accarezzarli.
Lentamente.
Emma si immobilizzò, non aspettandosi un tale trattamento.
Le dita di Regina continuavano a scorrere tra i suoi ricci, arrivando a sfiorarle con delicatezza le spalle e tornando indietro, senza fretta, per posarsi sulla sua testa o per tracciare il profilo del suo volto.
Ancora e ancora.
Emma rimase come ipnotizzata da quei tocchi e pian piano si sciolse, abbandonandosi a quel meraviglioso contatto.
Senza rendersene conto, chiuse gli occhi e si lasciò cullare da ogni carezza. Fino a che il sonno non arrivò ad abbracciarla.
Fu così che Henry trovò le sue madri quando il film finì: una addormentata e col volto rilassato, l’altra che le accarezzava i capelli e la guardava, gli angoli della bocca tirati verso l’alto in un dolce sorriso.
Henry ghignò, prima di afferrare il cellulare ed immortalare quel momento.
Il flash della fotocamera illuminò la stanza e richiamò l’attenzione di Regina.
Sollevando lo sguardo, il sindaco si rese conto di quello che Henry aveva appena fatto e, soprattutto, di quello che Henry aveva appena visto…
Di scatto, tolse la mano dai capelli di Emma.
“Henry, io…”
Henry mise via il cellulare e la guardò serio.
“Tu, mamma?”
“Io non… Emma… noi non…”
Paralizzata e con gli occhi spalancati, sua madre era palesemente nel panico.
E quel suo balbettare nervoso gli ricordò talmente tanto l’altra sua madre che Henry dovette trattenersi per non scoppiare a ridere.
“Tranquilla mamma, con voi ho visto di peggio” le disse, cercando di rassicurarla.
Ma il viso di Regina si accese di rosso in un modo quasi allarmante.
“I-in che senso?” chiese, se possibile ancora più sconvolta di prima.
Henry sospirò, ripensando alle decine di sguardi intensi, di tocchi fugaci e di manifestazioni d’affetto camuffate da insulti a cui aveva dovuto assistere negli ultimi anni.
Per non parlare del fatto che le aveva praticamente beccate a baciarsi in cucina giusto qualche giorno prima… e ancora tentavano di nascondere la loro relazione?!
O forse quelle due non si erano nemmeno accorte di avere una relazione… con la loro perspicacia in fatto di sentimenti era più che possibile, erano una più imbranata dell’altra!
Henry sorrise e scosse la testa, rassegnandosi a quel dato di fatto.
Si alzò dalla poltrona e si avvicinò a sua madre.
“Nel senso che ci sono cose ben peggiori del vedere le tue madri tranquille e felici” le disse, mostrandole la foto che aveva scattato poco prima.
Regina fissò lo schermo, potendo vedere completamente il viso di Emma e il proprio.
Henry aveva ragione, sembravano tranquille. E felici.
Suo figlio le ghignò accanto.
“L’ho già inviata sia a te che ad Emma.
Buonanotte mamma” le disse, ritraendo il cellulare e piantandole un bacio sulla guancia.
“Buonanotte tesoro” lo salutò Regina, guardandolo lasciare la stanza.
E, non appena Henry fu uscito, Regina rilassò le spalle e si lasciò andare contro lo schienale del divano, fissando il soffitto.
La sua mano tornò sui capelli di Emma mentre la sua mente realizzava quello che era appena successo.
“Tuo figlio ci ha scoperte” disse, sorridendo incredula.
Ma in risposta ottenne solo silenzio.
Emma dormiva ancora beata e Regina capì che, se non voleva parlare da sola, quella conversazione doveva essere rimandata al giorno dopo.
Guardò l’orologio e decise che il momento di andare a dormire era arrivato anche per lei.
“Emma…” la chiamò Regina con dolcezza.
“Uhm…”
“È ora di andare a letto, coraggio” le sussurrò, continuando ad accarezzarle i capelli.
“Si… ora vado” le rispose, senza nemmeno aprire gli occhi e sistemandosi meglio sul divano.
“Non mi sembra tu ti stia alzando, anzi” le fece notare il sindaco, senza però fare nulla per smuovere Emma da quella posizione.
Le piaceva averla così vicina.
Poterla guardare indisturbata, vederla rilassata, dedicarle attenzioni e carezze.
E tenerla al sicuro tra le sue braccia.
“Uhm… ma sto comoda.
E se continui a toccarmi i capelli così non mi dispiacerebbe rimanere qui per sempre” mugugnò Emma, posandole un bacio sulla gamba, ma non accennando minimamente ad alzarsi.
Regina sorrise e, seppur controvoglia, allontanò la propria mano dai suoi capelli.
Erano in quella posizione ormai da ore e la sua schiena cominciava a risentirne. Ed anche Emma avrebbe pagato una notte passata sul divano.
Non erano più delle ragazzine ed era davvero arrivato il momento di mettersi entrambe più comode.
“Forza bella addormentata, devi alzarti.
Non puoi passare la notte qui”.
A quelle parole, Emma spalancò gli occhi e scattò seduta, allontanandosi leggermente da Regina.
“Hai ragione, scusami.
Si è fatto davvero tardi, è meglio che vada” disse, pur non avendo la minima idea di che ora fosse o di quanto tempo avesse passato a dormire su quel divano.
Si alzò in piedi e scansionò la stanza con lo sguardo alla ricerca della propria giacca.
Regina la guardò perplessa, prima di capire come l’altra doveva aver interpretato le sue parole.
Nelle ultime settimane, Emma aveva dormito in quella casa diverse volte, soprattutto quando il lavoro serale alla centrale le costringeva a ritardare i trasferimenti di energia.
Ormai era diventata quasi una prassi che lo sceriffo passasse la notte nella stanza degli ospiti del 108 di Mifflin Street nelle giornate in cui i suoi turni finivano molto tardi o cominciavano molto presto.
Era più logico, più comodo e meno stressante per tutti.
Eppure, a volte sembrava che Emma si sentisse ancora di troppo. Come se non avesse il diritto di stare in quella casa, con quella famiglia, come se si aspettasse di essere mandata via da un momento all’altro.
Regina odiava vederla così insicura. Perché Emma non poteva non sapere quanto era importante, fondamentale, speciale.
E lei avrebbe passato ogni singolo giorno a cercare di farglielo capire, ci fosse voluta anche tutta la vita.
Con un po’ di fatica, Regina si mise in piedi, cercando di riattivare le proprie gambe dopo la prolungata stasi.
E raggiunse Emma.
“Intendevo che non puoi dormire qui sul divano…
Ti sveglieresti con la schiena a pezzi e non ce n’è motivo visto che di sopra hai una stanza a tua disposizione” le spiegò, sorridendo ed accarezzandole la schiena, come a voler lenire anche quel dolore non ancora presente.
“Oh… ok” disse Emma, lasciando che quel tocco gentile mandasse via tutta la tensione che in pochi secondi l’aveva invasa.
“Gli asciugamani puliti sono già sul tuo letto” le disse Regina poco dopo, catturando la sua attenzione.
“Sapevi che sarei rimasta anche stasera?” le chiese Emma, incuriosita.
“Non lo sapevo, no.
Ma lo speravo.
Sai, mi piace ricevere il bacio della buona notte proprio prima di andare a dormire…” le confessò il sindaco con voce bassa, guardandola dritta negli occhi.
Lentamente, poggiò entrambe le mani sul viso di Emma, accarezzandone i contorni. E in un attimo le sue labbra furono su quelle dello sceriffo, impazienti e possessive.
Regina assaporò ogni millimetro di quelle labbra a contatto con le sue, fino a che non fu più abbastanza, fino a che non sentì il bisogno di morderle, di leccarle, e di approfondire quel bacio che le stava spegnendo i pensieri ed infiammando ogni cellula del corpo.
E forse sarebbe stato meglio fermarlo, fermarsi, prima di prendere fuoco.
“Buonanotte Emma” le sussurrò Regina sulle labbra, per poi allontanarsi.
Il sorriso malizioso che il sindaco aveva stampato sul volto fu l’unica cosa su cui Emma riuscì a concentrarsi mentre l’altra si dirigeva verso le scale, prima di scomparire completamente dal suo campo visivo.
Emma si ritrovò a sorridere al vuoto, immobile al centro del salotto.
“Si, buonanotte… come se si potesse dormire dopo un bacio del genere!” mormorò, lasciandosi cadere pesantemente sul divano.
Quella donna sarebbe stata la sua fine, ne era certa.
Una fine dolce e diabolica.
E intrigante e sensuale e tanto pericolosa quanto irrinunciabile.
Ma, Emma decise, la fine non doveva certo arrivare in quel momento… perché lei e Regina per quella sera non avevano di certo finito, no.
Aveva diritto anche lei alla sua buonanotte!
Risoluta, lasciò il divano e marciò a grandi falcate verso il piano di sopra.
Il buio corridoio della zona notte era parzialmente illuminato proprio dalla luce proveniente dalla camera di Regina, che di certo non aveva ancora avuto il tempo di mettersi a letto e stranamente non si era chiusa del tutto la porta alle spalle.
Emma lo considerò come un invito ad entrare e raggiunse la soglia con un ghigno ben piantato sul volto.
Ma quel ghigno scomparve immediatamente non appena la vide.
Ogni cosa e persona e pensiero coerente scomparvero completamente non appena la vide.
Rimasero solo i battiti del suo cuore e Regina.
Regina con il volto serio e concentrato.
Con i denti che mordicchiavano leggermente il labbro inferiore.
Gli occhi grandi che brillavano di paura e adorazione, guardando in avanti.
Il viso parzialmente nascosto dai capelli, che aiutavano il lampadario a creare giochi di luci e ombre sulla sua pelle olivastra.
A piedi scalzi e con i pantaloni sbottonati appena.
In piedi, davanti al lungo specchio che ne rifletteva per intero il profilo.
Mentre con una mano teneva sollevata la leggera camicetta che aveva ancora indosso e con l’altra accarezzava insicura il proprio ventre, ormai palesemente rigonfio.
Emma sentì le proprie gambe tremare al ritmo impazzito del suo stesso cuore.
Un cuore che le bruciava forte nel petto e le stringeva lo stomaco in una morsa e le annebbiava la mente, urlando forte che era quello, era quello il momento!
Era il momento, Emma lo sentì, lo capì.
E pregò ogni dio esistente di dargli la lucidità necessaria a registrarne ogni dettaglio, ogni sfumatura, ogni magnifico particolare.
Perché voleva ricordarlo per tutta la vita.
Anzi, no.
Voleva viverlo per tutta la vita.
Lentamente, raggiunse Regina nella stanza.
Vedendola arrivare, la mora farfugliò qualcosa a proposito della privacy e si voltò di scatto, dandole le spalle per cercare di ricomporsi.
Ma Emma non le diede il tempo di farlo.
La abbracciò con dolcezza da dietro e riportò entrambe davanti allo specchio.
Prese le mani di Regina tra le proprie e le guidò nuovamente a stringere la loro bambina.
“È la scena più bella che io abbia mai visto” le sussurrò all’orecchio, poggiando il mento sulla sua spalla e guardandola negli occhi attraverso lo specchio.
“E tu sei la persona più bella che io abbia mai visto” aggiunse, gli occhi che le luccicavano intensamente.
Regina si sentì rabbrividire.
Guardò meglio verso lo specchio, dritto negli occhi di Emma.
E l’amore che vi lesse dentro la investì come un fiume in piena.
Sorrise, abbandonandosi alla corrente di quei sentimenti che la conducevano lì dove finalmente era, stretta tra le braccia di Emma.
E “vieni a vivere qui” le disse. Certa che non avrebbero dovuto perdersi nessun altro momento.
 
 
“Allora è qui che vi nascondete!
Che mi sono perso?” chiese Henry, facendo il suo ingresso da Granny.
“Birra, chiacchiere e una bionda non più naturale che si lamenta. Il solito insomma” rispose David con un sorriso, facendogli spazio.
E guadagnandosi un’occhiataccia da parte di Emma.
Occhiataccia che si spostò su Henry non appena lui le rubò la birra da davanti, bevendone un sorso.
Dopo tanti anni era assurdo, ma le sembrava ancora strano vedere Henry bere alcolici.
Eppure era stata lei a fargli assaggiare la sua prima birra, ormai un secolo prima. All’insaputa di Regina.
Il litigio che ne era seguito era durato per giorni, tra rimproveri, punizioni e dormite sul divano.
Solo per lei ovviamente.
Henry se l’era cavata con un abbraccio preoccupato e l’estorsione della promessa di aspettare la maggiore età prima di farlo di nuovo.
Ma adesso Emma si ritrovava a rimpiangere persino quei momenti di tensioni e battibecchi.
Perché tutto era meglio di quell’assordante silenzio.
Sospirò, facendo cenno al cameriere di portarle un’altra birra.
“Hey, credevo che dovessimo festeggiare!
Che è quella faccia ma’? è il grande giorno!” esclamò Henry entusiasta, circondando le spalle di David con un braccio.
David gli rispose con un ghigno, annuendo.
Emma li guardò entrambi e non riuscì a non sorridere.
Era immensamente fortunata ad avere quei due accanto.
Erano loro che, con quegli strambi sorrisi, riuscivano ad illuminarle la vita anche quando era senza speranza.

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Capitolo 20
*** Capitolo 20. ***


Ciao a tutti :D
Qualche giorno fa ho scritto e pubblicato una os che si intitola “Caro diario, oggi ho salvato il mondo!”. Ecco, quella shot potrebbe tranquillamente essere inserita tra il capitolo 19 e il capitolo 20 di questa storia. Diciamo che è una sorta di capitolo 19.5 quindi, se non l’avete già fatto e vi va, vi invito a leggerla prima di leggere il capitolo 20.
Comunque, lì non c’è nulla di fondamentale per la trama di As you wish, quindi se deciderete di proseguire con il capitolo 20 non perderete nulla di rilevante.
Scusate per lo sproloquio e… buona lettura :)
 
 
 
Capitolo 20

Quante chiavi ci sono al mondo?
Probabilmente milioni di milioni, miliardi di milioni!
Devono essere così tante che è impossibile che siano tutte diverse tra loro.
Magari la chiave di un cassetto in Danimarca è uguale alla chiave di una porta in Messico, “ma nessuno se n’è accorto e mai se accorgerà” pensò Emma, avvicinandosi al portone bianco del 108 di Mifflin Street.
Gli si fermò davanti e rilasciò un lungo sospiro.
Anche la chiave che lei aveva in mano in quel momento era diversa.
Ce l’aveva da mesi, l’aveva usata un sacco di volte, eppure adesso era diversa. Perché da chiave di scorta, per le emergenze, stava per trasformarsi in chiave di casa.
E prima non ci aveva pensato molto, ma adesso che era ad un passo dall’ingresso… la mano un po’ le tremava.
Era davvero la cosa giusta, il momento giusto?
Quando Regina le aveva chiesto di trasferirsi non aveva avuto dubbi e non aveva provato altro che gioia.
L’aveva stretta a sé più forte e aveva baciato e baciato e baciato ancora il timido sorriso che l’altra aveva sul volto, fino a farlo esplodere in una risata.
La paura e i ricordi erano arrivati solo dopo.
Ma Regina le aveva detto di rifletterci con tutta calma. La voleva lì, ma voleva rispettare i suoi tempi, voleva che si sentisse pronta.
Sapeva che valore avesse per lei un tale passo, lo capiva.
E con dolcezza le aveva fatto notare come lì ci fosse già una camera praticamente sua. E una sua tazza nella dispensa e un suo spazzolino nel bagno e un suo posto a tavola e uno sul divano.
“Però cerca di decidere prima che arrivi la bambina” le aveva detto scherzando, ma neanche troppo.
Non per metterle fretta, ma per non farle perdere niente.
Perché vivere certe cose insieme era diventata un’esigenza, un dono a cui non volevano rinunciare.
Così avevano chiesto un parere ad Henry, perché la sua opinione contava certamente più della loro.
E ad Emma era andata di traverso la cena e si era quasi strozzata quando lui le aveva risposto “perché, non vivi già qui?
Sei qui quando vado a dormire, qui quando mi sveglio la mattina... mangi le mie merendine, mi hai rubato una tazza e un cuscino del divano ha la forma della tua faccia!”
Col sopracciglio sollevato e l’aria saccente stampata sul volto, in quel momento Henry le era sembrato una fotocopia di Regina.
La stessa Regina che invece aveva cercato di camuffare una risata senza riuscirci, mentre le versava dell’acqua e le massaggiava la schiena, cercando di evitarle lo strozzamento.
Ed Emma aveva provato a difendersi tra un colpo di tosse e l’altro, perché il ragazzino aveva palesemente mentito: era impossibile che Regina le avesse lasciato deformare uno dei suoi cuscini!
Ma lo sceriffo aveva perso miseramente e alla fine si era arresa.
Si era arresa al tocco gentile di Regina e alla faccia da schiaffi di suo figlio perché, anche in situazioni di morte imminente, se Emma era con loro era felice.
E quella sera aveva pure fatto in tempo a mangiare una porzione e mezza di lasagna, quindi non avrebbe potuto sperare in una quasi morte migliore.
O in una vita migliore.
Sorrise a quel ricordo, ritrovandosi ad avere voglia di lasagna.
Poi guardò di nuovo la chiave stretta nella sua mano e la indirizzò verso il portone bianco, spalancandolo.
“Siamo a casa!” urlò felice, varcando finalmente quella soglia.
“Ben arrivati” le rispose Regina, andandole incontro.
Le sorrise prima di baciarla ed Emma sentì che non poteva esserci accoglienza migliore.
Questo avrebbe trovato rientrando da lavoro. Questo avrebbe avuto al mattino e prima di andare a dormire.
Era come un sogno, ma… era semplicemente casa.
”Ugh, mamme!
Se non riuscite a darvi un contegno potreste almeno spostarvi dall’ingresso? Questa scatola è pesante!” le richiamò Henry, fintamente imbarazzato.
“Non è per niente pesante se la afferri bene” gli disse Emma, togliendogli la scatola dalle braccia.
“Ma se invece la tieni lontano dal corpo solo per non stropicciarti la camicia per il tuo appuntamento è normale che la senti pesare una tonnellata…” lo punzecchiò.
E il volto di Henry si colorò di fucsia.
“Appuntamento? Che appuntamento?” chiese Regina.
“Nessun appuntamento, devo solo passare da Violet per il progetto di scienze.
Tornerò in tempo per la cena, promesso!” le disse Henry, baciandole una guancia e lanciando un’occhiataccia ad Emma, che ancora se la rideva sotto i baffi.
Il ragazzo imboccò rapidamente il vialetto e, solo quando ne raggiunse la fine, si voltò verso le sue madri, rivelando lo stesso ghigno perfido che lo sceriffo aveva avuto sul volto fino a pochi istanti prima. “Ah, mamma, ho dimenticato di dirti che Emma non ha imballato le cose prima di metterle in quello scatolone!” urlò trionfante, riprendendo ad allontanarsi.
“Emma!”
“Traditore!”
Esclamarono contemporaneamente le due donne.
“Ehm...  ripensandoci, questa scatola è davvero pesante, la porto su” balbettò Emma, fiondandosi verso le scale.
Regina le lanciò un’occhiataccia che la bionda non vide, ma che certamente percepì tramite il terrificante brivido che le attraversò la schiena.
“Non osare aprire gli scatoloni senza di me Swan!” la minacciò in tono sin troppo serio.
Ma il rumore dei suoi passi non si stava intensificando, quindi, rifletté Emma, probabilmente il sindaco era ancora al piano di sotto a fare chissà cosa… e questo voleva dire che lei aveva il tempo di sistemare gli oggetti dello scatolone incriminato prima che Regina li vedesse!
Affrettando il passo, Emma raggiunse la sua camera e ne spalancò la porta, decisa a sfruttare quell’occasione.
Ma lo scenario che si trovò davanti la pietrificò, facendole dimenticare qualsiasi intento.
La stanza in cui aveva dormito decine di volte, che l’aveva accolta e ospitata e di cui aveva avuto modo di memorizzare ogni dettaglio adesso era… vuota.
Non c’era più il magnifico quadro raffigurante una scogliera col mare azzurro e nemmeno quello inquietante in cui si incastravano decine di strisce blu e grigie. Spariti erano i libri organizzati per altezza, il morbido tappeto ai piedi del letto, il costoso vaso bianco e gli stupidi soprammobili a forma di conchiglia.
Persino la fastidiosa sveglia, il cui ticchettio aveva molte volte disturbato il suo sonno, e l’orribile abatjour, che prima occupava mezzo comodino, erano scomparse.
Restavano a malapena i mobili e le tende.
E gli asciugamani poggiati sul letto, proprio lì dove Regina glieli faceva trovare sempre con amorevole cura.
Ma adesso le ricordavano solo l’atmosfera di una grigia ed impersonale camera d’albergo.
Emma sentì una stretta al cuore, rivivendo improvvisamente ogni trasferimento in una casa nuova, ogni stanza fredda, ogni scenario simile.
Scosse la testa, perché questa volta era diverso, lei sapeva che era diverso.
E doveva esserci una spiegazione, perché Henry e Regina la volevano lì e lei voleva essere lì e non era di passaggio, non era possibile che…
In uno scatto, Emma lasciò cadere a terra la scatola che ancora teneva tra le braccia e raggiunse il letto, afferrando uno degli asciugamani.
Chiuse gli occhi e lo strinse forte tra le dita, cercando di catturarne il profumo e la consistenza.
Perché era casa, era a casa.
Lì dove la volevano e dove voleva stare.
Inspirò profondamente e riaprì gli occhi, lasciando andare l’aria.
Fu allora che vide il pacchetto che era stato nascosto sotto l’asciugamano.
Era rettangolare, non molto grande e confezionato alla perfezione con una carta dalle sfumature tra il verde e l’azzurro.
Lì accanto, su un pezzo di carta bianco, spiccava l’elegante calligrafia di Regina.
 
Ho svuotato la stanza perché tu possa riempirla di te nello stesso modo in cui hai riempito la nostra vita.
Lascio solo questa, per ricordarti cosa sei per noi.
Benvenuta a casa Emma.
 
Con la mano tremante, Emma strappò via la carta, trovandosi davanti tre sorrisi incorniciati dal sole e da quattro delicati pezzi di legno.
Era una foto di lei, Henry e Regina il giorno della gita alla finta New York, durante il picnic nel parco del Municipio.
Henry era sulla destra, il braccio teso in avanti per poter scattare la foto col proprio cellulare. Lei era nel mezzo, la testa stretta tra quella di suo figlio e quella di Regina e due dita alzate in segno di vittoria. La mano di Regina invece era sul proprio ventre, ad abbracciare la loro piccola e a ricordarle che in quella foto in realtà erano in quattro.
Emma non riuscì a trattenere le lacrime, travolta da una gioia ed un calore così forti che le scossero ogni fibra dell’anima.
“Swan, cos’era quel rumore? Che hai combinato?!” le chiese Regina facendo il suo ingresso nella stanza, attirata dal tonfo che lo scatolone aveva prodotto poco prima cadendo a terra.
Era pronta a rimproverare Emma per la sua goffaggine e superficialità e mancanza di attenzione, ma il suo atteggiamento cambiò completamente non appena vide le lacrime sul volto della donna.
“Emma che succede? Stai b-”
Le labbra di Emma furono sulle sue e le mangiarono le parole e l’aria e i pensieri.
Le sue mani le strinsero il volto, si spostarono sul collo, sulla schiena, sui fianchi, in un moto confuso e frenetico, come quello delle loro avide bocche.
Regina serrò gli occhi, per chiudere fuori qualsiasi cosa non fosse Emma e lasciarsi invadere da tutte quelle magnifiche sensazioni.
Ancorò le proprie dita alla maglietta e ai capelli di Emma e la strinse a sé, annullando più possibile la distanza tra i loro corpi.
Ma non era abbastanza, non era ancora abbastanza.
Ne ebbe conferma dal lamento che scappò dalle labbra di Emma non appena una sua gamba si insinuò tra le sue, sfiorando zone più che sensibili e bramose di attenzione.
Regina staccò le proprie labbra da quelle dello sceriffo per cercarne lo sguardo, alla ricerca di conferme e risposte per cui non servivano parole.
Seppe di averle trovate quando realizzò che gli occhi di Emma luccicavano ancora, ma non più per le sole lacrime. Dentro c’erano desiderio e impazienza e decine di sentimenti che fremevano per uscire, incontenibili.
E che meritavano di essere accontentati.
Lentamente, un passo dopo l’altro, Regina guidò Emma all’indietro senza lasciarla andare né con le mani né con lo sguardo.
E quando Emma invertì le loro posizioni e l’aiutò a sdraiarsi, cominciando a sbottonarle la camicia in una scia di baci, Regina seppe di aver fatto più che bene a non togliere dalla stanza anche il letto.
 
 
Il letto di quella stanza cigolava se ci si muoveva troppo sopra, Regina lo sapeva più che bene.
Ma in passato né a lei né ad Emma era mai importato, impegnate com’erano a concentrarsi su… beh, altro.
In quel momento però quel cigolio non prometteva nulla di buono visto che l’unico occupante della stanza aveva quattro anni e una passione smisurata per i salti sul materasso ed i guai.
Regina sospirò mentre una foto di Henry bambino la guardava dal muro del corridoio. Aveva anche lui gli occhi vispi e luminosi, ma non era mai stato così… iperattivo.
O forse era semplicemente lei a non essere più abituata dopo tanti anni.
Sorrise a suo figlio e ai ricordi e avanzò verso la porta, certa che la mancanza di allenamento non le avrebbe di certo impedito di ristabilire l’ordine.
“Sonoooooo
Unaaaaa
Principessaaaaaaa!” esclamava tra un salto e l’altro il peperino che comparve davanti a Regina non appena aprì la porta.
E il cui entusiasmo si bloccò immediatamente quando si rese conto di essere stata colta sul fatto.
“Ehm… scusa?” disse la bambina, scendendo dal letto e sfoggiando un’espressione tanto angelica quanto falsa.
Regina ormai la conosceva più che bene e aveva imparato a non farsi manipolare.
Riusciva a resisterle sempre.
O quasi.
“Cosa abbiamo detto riguardo al saltare sui letti?” le chiese, cercando di rimanere più seria possibile.
“Che è pericoloso e non devo mai farlo da sola” le rispose la bambina, ripetendo a memoria le parole che aveva sentito e ignorato centinaia di volte.
“Ma io non ho paura, perché le principesse sono forti e coraggiose e fanno quello che vogliono e io sono una principessa!” le spiegò, mostrandole il suo vestito bianco ed elegante come a voler sottolineare la propria affermazione.
“Ah si? E chi te lo ha detto?” le chiese Regina, accovacciandosi per poter essere alla sua altezza.
“Me lo ha detto il mio papà!
Ha detto che io sono una principessa perché tu sei una regina!” esclamò con gioia ed entusiasmo.
Regina si sentì travolgere il cuore.
Le sorrise e la strinse a sé, godendosi quel piccolo istante felice.
Magari le avrebbe dato la forza per affrontare tutto quello che la aspettava fuori da quella stanza.
“Certo che sei una principessa tesoro.
Ma le principesse non sempre possono fare quello che vogliono. E nemmeno le regine” le disse, sistemandole con dolcezza i capelli arruffati.
“Nemmeno tu puoi?” le chiese dubbiosa la bambina.
“No, purtroppo nemmeno io” sussurrò Regina, mentre la sua mente cercava di portarla verso altri pensieri.
La bloccò subito e si rimise in piedi.
“Coraggio, andiamo a far vedere a tutti che meravigliosa principessa sei” le disse, porgendole la mano.
La bambina la strinse immediatamente e si lasciò guidare fuori dalla stanza, verso il piano inferiore. Ma quando stavano per raggiungere gli ultimi gradini la bloccò.
“Aspetta!
Facciamo come quando le principesse arrivano al ballo?”
Regina le sorrise e non esitò ad accontentarla.
“Ma certo tesoro. Sei pronta?”
La bambina annuì vigorosamente e si sistemò la gonna, pronta alla sua entrata.
Regina si schiarì la voce e colpì il pavimento col tacco della scarpa per tre volte, prima di annunciare:
“Sua altezza reale, la principessa Jennifer Marie Mills”

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Capitolo 21
*** Capitolo 21. ***


Capitolo 21.

Un fiume in piena, acqua che scorre impetuosa, pioggia scrosciante che cade dal cielo.
Era bagnata fradicia e il fango e i fitti arbusti continuavano ad ostacolare crudelmente i suoi movimenti mentre il buio denso le impediva di vedere in che direzione stava andando. Sangue vivo sgorgava copioso dalle sue ferite, ogni fibra del suo corpo era in preda al dolore, ma lei continuava ad avanzare senza sosta.
La disperazione la sua forza.
Un lamento il suo unico conforto.
La foresta le stava urlando contro tutta la propria ira, ovattandole i sensi. Ma il pianto della sua bambina le rimbombava forte e chiaro nelle orecchie, nel cuore.
E doveva trovarla.
Doveva salvarla.
Doveva vederla.
Perché l’avevano portata via e non era riuscita nemmeno a scorgere il suo piccolo volto.
Non aveva potuto stringerla, non aveva saputo difenderla.
Non riusciva a raggiungerla.
Le sue gambe cedettero all’improvviso e crollò in avanti, precipitando sull’enorme letto a baldacchino che per anni era stato teatro delle sue sofferenze.
Non poteva muoversi. Non sentiva più alcun suono o alcun dolore.
Gli arazzi alle pareti sanguinavano e le fredde mura del castello le si stringevano attorno, togliendole l’aria.
Ai piedi del letto, Leopold se la rideva sguaiatamente mentre la Regina Cattiva stringeva a sé un fagottino vuoto e la fissava con occhi altrettanto vuoti e scuri.
Specchio del suo dolore.
Emblema delle sue colpe.
 
Fu col proprio volto stampato nella mente che Regina si svegliò di soprassalto, il cuore che le batteva all’impazzata.
Spalancò gli occhi quanto più possibile e mosse la mano tremante verso il comodino, in un gesto tanto istintivo quanto usuale, alla ricerca dell’interruttore dell’abatjour, alla ricerca di luce.
Ma stranamente la luce era già accesa e dei disordinati ricci biondi stavano facendo capolino alla periferia del suo campo visivo mentre una calda voce ripeteva il suo nome, cercando di ancorarla alla realtà.
“Emma” sussurrò Regina, voltandosi.
“Sono qui.
Va tutto bene, era solo un brutto sogno. Sono qui” le ripeté lo sceriffo, stringendola a sé.
Regina si rifugiò in quell’abbraccio, cercando di tornare al proprio mondo. Serrò il pugno attorno alla canottiera di Emma e lasciò cadere la propria testa sul suo petto, riempiendosi del suo profumo, lasciandosi confortare dal suo calore e dai battiti del suo cuore.
L’altra sua mano andò come sempre a posarsi sul proprio ventre, cercando la bambina, la sua essenza, la sua presenza.
Perché quella era la prova che l’incubo era finito e che il presente era diverso. Che inspirando ed espirando tutto sarebbe tornato a posto, che la bellezza della realtà avrebbe allontanato le paure.
Che sarebbe andato tutto bene.
Ma in quella notte la luce sembrava non bastare, la realtà sembrava sfuggirle mentre la regina continuava a fissarla.
E le mura del castello e il sangue e quel fagottino vuoto…
“La perderemo Emma…” si lasciò sfuggire in un lamento, dando voce al proprio terrore.
Ed Emma si sentì trafiggere il cuore.
Aveva creduto che gli incubi fossero passati, che il riposo di Regina fosse tranquillo tanto quanto il suo da quando stavano insieme.
E invece…
Senza allontanarsi troppo, Emma si riposizionò sul materasso in modo da poter vedere il viso di Regina.
E fu una pugnalata avere la conferma che quei pensieri, quel terrore che le aveva visto negli occhi settimane prima, nella sala d’attesa dell’ospedale, erano ancora lì a tormentarla.
Le accarezzò il volto con una mano, le loro gambe ancora intrecciate.
“Hey, Regina, guardami” le chiese con dolcezza, cercando di strappare la sua attenzione ai demoni che aveva dentro.
Portò la propria mano su quella di Regina, vicina alla loro bambina. E, quando fu certa che anche i loro sguardi si stavano toccando, continuò. “La nostra bambina è qui, non la perderemo.
Adesso è uno scricciolo, ma è già forte, diventa forte ogni giorno di più.
E tra poche ore andremo in ospedale e potremo vederla di nuovo, sentiremo di nuovo il suo cuore che batte” le disse, sorridendo. E i suoi occhi verdi non poterono che brillare.
Regina abbassò lo sguardo mentre il pensiero di quell’evento le fece sollevare leggermente gli angoli della bocca.
Emma aveva ragione.
Ma non sapeva tutto.
Non sapeva del suo passato e delle sue colpe e della sua idiozia e-
“Che cosa ti spaventa?” le chiese Emma, in un sussurro che la scosse.
“Regina… cosa vedi quando chiudi gli occhi?”
Regina riportò lo sguardo su quello di Emma, lasciandole scorgere per un momento i demoni che vi danzavano dentro.
Poi chiuse gli occhi e nascose la testa nell’incavo del collo dello sceriffo, che tornò a stringerla forte.
E, protetta in quell’abbraccio, Regina si prese un momento per ricordare.
Non il dolore del passato, che era adesso vivido e nitido più che mai. Ma per ricordare il presente, con quelle sue nuove sensazioni di benessere, e quei sentimenti disarmanti, e le risate e gli “a domani” colmi di promesse.
Si prese un momento per ricordare quanto era andata avanti, quanto era forte adesso che non era più da sola.
Poi prese fiato e, piano, diede per la prima volta voce a certe parole.
“Desidero dei bambini attorno da che ne ho memoria.
Da piccola giocavo con le bambole e fingevo che fossero le mie figlie. Le pettinavo, le vestivo, le facevo giocare e facevo mangiare loro tutti i dolci che volevano” confessò, strappando un sorriso ad Emma, che prese ad accarezzarle i capelli.
Regina la imitò, intrappolando una ciocca bionda tra le dita e cominciando a giocarci.
“Erano sempre almeno in due, perché nessuna doveva sentirsi sola come mi sentivo io.
Fino a che non è arrivato Daniel. E le bambole hanno lasciato il posto ad immagini di bambini con i suoi occhi e il suo sorriso.
Li immaginavo a correre attorno alla nostra piccola casa in mezzo al bosco, o a cavalcare, lontano dai problemi, dalle aspettative, dalle classi sociali, da mia madre…”
Regina sentì Emma irrigidirsi e si fermò per qualche istante.
Ma lo sceriffo non disse nulla, limitandosi a posarle un bacio tra i capelli e a stringerla più forte.
“Credevo… di aver perso tutto quel giorno con Daniel” continuò.
“Non volevo più una casa, una famiglia o un futuro se non potevo averli con lui.
Ma il re ovviamente aveva altri piani.
Voleva una moglie e un… un erede, e io…
…io lo odiavo con ogni fibra del mio essere, lui e quella vita, eppure… la prima volta sono stata felice.
Quando Miranda mi ha detto che aspettavo un bambino ero terrorizzata, ma ero anche tanto felice.
Era mio figlio e volevo amarlo e proteggerlo e dargli tutto quello che io non avevo avuto.
E invece non… non sono stata nemmeno in grado di farlo crescere dentro di me” confessò in un sussurro, lasciando andare anche le lacrime.
Col cuore stretto in una morsa, Emma sentì una rabbia immensa invaderla. E si sentì inutile, sapendo che stringere Regina era tutto quello che poteva fare.
Sapendo che non c’erano parole né cure per lenire un tale dolore, nemmeno dopo tutti quegli anni. Nemmeno dopo Henry o con la loro piccola.
E quello che Regina aveva detto poco prima non le era sfuggito.
La prima volta sono stata felice
La prima volta… quindi ce n’erano state delle altre.
E Regina aveva dovuto affrontarle da sola, intrappolata in un castello che non voleva, in una vita che odiava.
“Ho… perso due bambini” disse Regina, confermando i suoi pensieri.
“E se il mio corpo fosse ancora incapace o la pozione riprendesse a fare effetto o la nostra magia non bastasse più…
Come faremo Emma?” le chiese quasi in una supplica, guardandola negli occhi.
Ed Emma non seppe cosa risponderle.
Perché quella domanda era più grande di lei, tutta quella situazione era più grande di lei.
E di magia, di bambini, di amore… Emma ne sapeva ben poco.
Sapeva solo quello che aveva imparato negli anni lì a Storybrooke. Con Henry, e i suoi genitori e il piccolo Neal. E con Regina.
Loro le avevano insegnato a combattere per chi si ama. Le avevano insegnato a proteggere, le avevano insegnato che nulla è impossibile.
E forse era proprio quella la risposta.
Forse…
“Lo affronteremo insieme” le disse, con una sicurezza che fino a pochi istanti prima non sapeva nemmeno di possedere.
“Qualsiasi cosa succederà la affronteremo e risolveremo insieme, come abbiamo sempre fatto.
È questa la nostra realtà.
E non importa se non sappiamo ancora com’è stato possibile dare vita alla nostra bambina. Ciò che conta è che è nostra e che la proteggeremo in ogni modo.
Non le accadrà niente, perché non permetteremo che le accada niente” dichiarò, sorridendo ed asciugando meticolosamente le lacrime che rigavano il viso di Regina.
“Pensiamo al presente, ok?
Anche perché ce la siamo cavata bene con Henry in questi anni e per gran parte del tempo ci siamo combattute e odiate… pensa a cosa siamo in grado di fare insieme adesso che-”
Rendendosi conto di cosa stava per dire, Emma si bloccò e vide gli occhi di Regina spalancarsi in sincrono con i suoi.
“Non… non volevo insinuare che tu… cioè, parlavo di me, e di noi, che però no-”
Regina non le permise di balbettare oltre.
Prese possesso delle sue labbra e vi baciò sopra decine di ringraziamenti, di promesse, di parole non dette. E poi le lasciò andare, per poter pronunciare quelle parole che invece voleva disperatamente dirle.
“Ti amo” le confessò, lasciandosi inondare dalla grandezza di quella frase così semplice.
“Davvero?” le chiese Emma, incredula e con gli occhi più spalancati di prima.
Regina roteò gli occhi.
Solo Emma avrebbe potuto risponderle in quel modo, con quella faccia, ad una tale dichiarazione.
Era così tenera e disarmante con quelle sue stupide insicurezze.
“Si Emma, davvero.
Ti amo” le ripeté, promettendo a se stessa che lo avrebbe fatto all’infinito.
Ed il volto di Emma si accese di gioia.
Si trascinò Regina addosso e la baciò con passione e impazienza, dando sfogo a tutto ciò che il suo cuore le stava urlando con ogni battito, lasciandosi avvolgere da quel calore nuovo ma per niente sconosciuto.
Perché era lì, tra loro, da un sacco di tempo.
E per un sacco di tempo ancora lo avrebbero custodito ed alimentato.
“Ti amo anch’io” disse Emma in un sospiro, gli occhi verdi puntati su quelli nocciola.
“Davvero?” le fece eco Regina, un sorrisetto di scherno stampato sul volto.
Emma lo baciò via, e ogni dolore, ogni paura, ogni incognita dovette lasciare il posto alla certezza dei loro sentimenti, al calore dei loro corpi affannati che non volevano saperne di separarsi.
E che non lo fecero per tutta la notte.
 
“Siete in ritardo” le rimproverò la dottoressa Wilson non appena le due donne varcarono la porta del suo studio.
“Scusaci Miranda, è stata una lunga notte” le spiegò Regina, affrettandosi a raggiungere il lettino.
“Non lunga abbastanza” aggiunse Emma, guadagnandosi un’occhiata omicida da parte del sindaco.
La dottoressa Wilson invece decise di ignorarla e si concentrò sull’accensione dell’ecografo, che in pochi istanti fu in funzione e cominciò a diffondere il forte battito di un cuore.
Emma strinse la mano di Regina e le tre donne si concentrarono sul piccolo monitor, che mostrò loro quella che era chiaramente una piccola testa.
E due piccole braccia, e due piccole gambe.
Le immagini si succedevano rapidamente man mano che la dottoressa Wilson cambiava angolazione allo strumento per poter svolgere i vari controlli e misurazioni.
Lo schermo risultò spesso scuro e incomprensibile per entrambe, ma Emma e Regina non smisero di sorridere nemmeno un secondo, cercando di cogliere ogni lineamento della loro bambina.
Che era lì con loro ed era cresciuta tantissimo.
Che amavano già immensamente e non vedevano l’ora di poter abbracciare.
“Sceriffo, potrebbe uscire un momento?” disse improvvisamente la dottoressa Wilson, distruggendo la loro bolla felice.
“Cosa? Perché?” chiese Emma, sconvolta.
“Che succede?” le fece eco Regina, terrorizzata, aumentando la stretta sulla mano di Emma.
“Niente di brutto tesoro, non preoccuparti.
Vorrei solo parlarti in privato” cercò di rassicurarla Miranda.
“Emma non va da nessuna parte, dicci immediatamente che succede” le ordinò Regina, lo sguardo che non lasciava il monitor per paura che tutto svanisse.
La dottoressa Wilson sospirò e diede un’ultima occhiata allo schermo.
“Regina… aspetti un maschietto”.
 
 
“Sua altezza reale, la principessa Jennifer Marie Mills”
E Regina non ebbe il tempo di pronunciare l’intera frase che Jennifer si fiondò in salotto, sfoggiando un’entrata ben poco principesca, ma assolutamente adorabile.
Fermandosi davanti al divano, Jen si esibì in un goffo inchino. E “Mamma guarda: sono una principessa!” esclamò felice, mettendo in mostra il suo ampio vestito.
Violet la strinse tra le braccia per quanto possibile e le stampò un bacio sulla guancia. “Sei una principessa bellissima tesoro”.
“Nonna Regina mi ha messo il vestito e mi ha fatto i capelli!” le comunicò fiera Jennifer.
“E tu sei stata brava e l’hai ringraziata per averti aiutata?” le domandò Violet.
Jennifer annuì e corse tra le braccia di Regina, che la sollevò prontamente. “Grazie nonna” le disse, gettandole le braccia al collo e stringendola forte.
Regina si sciolse istantaneamente, cosa che le succedeva ogni volta che Jen era nei paraggi.
Probabilmente era il potere di quegli splendidi occhi verdi, identici a quelli di Henry.
E identici a quelli di Emma.
“Prego mia piccola principessa” le rispose, nutrendosi di quell’abbraccio.
“Posso andare a giocare?” chiese quindi Jen, tornando a terra.
E, non appena Violet le diede il permesso, lasciò la stanza saltellando alla ricerca di Robin, una delle sue complici preferite.
“Grazie per averla preparata” disse Violet a Regina, riposizionandosi sul divano.
“Di nulla, è stata brava davvero.
Però ha ancora la brutta abitudine di saltare sui letti non appena rimane da sola…” le comunicò, mettendosi a sedere accanto a lei.
Violet sospirò.
“Quando Henry non c’è io non riesco a starle dietro.
Essere una balena non è l’ideale se si ha una figlia piccola e iperattiva” disse sconsolata, fissando il suo pancione.
“Sai che puoi portarla qui quando vuoi” le sorrise Regina.
“Lo so, grazie.
Credo che d’ora in poi accetterò spesso la tua offerta visto ch- hey! Piccola, vacci piano!
La mamma non è il tuo pungiball personale” esclamò Violet, massaggiandosi il pancione nel punto in cui sua figlia l’aveva appena colpita.
Regina la guardò con tenerezza, sentendosi già invasa dall’amore per l’altra piccola che di lì a poco sarebbe arrivata a riempire le loro vite.
“Scalcia molto?” le chiese.
“Scalcia di continuo!
E se ne sta seduta sulla mia vescica come se fosse il suo trono, costringendomi a passare metà della mia giornata in bagno… il nono mese è terribile, vorrei poterlo saltare!” esclamò Violet, sfogandosi.
Solo dopo si rese conto di quello che aveva detto. E, soprattutto, a chi lo aveva detto.
Spalancò la bocca come a volersi rimangiare le parole, ma ormai il danno era fatto.
“Regina, mi dispiace…
Non volevo, so che per te sono ricordi dolorosi” si scusò.
Regina si toccò istintivamente il ventre, come le succedeva ogni volta che ripensava alla sua ultima gravidanza.
Il suo bambino…
Avrebbe voluto che le cose fossero andate diversamente, lo avrebbe voluto con tutto il cuore.
Ma, Regina lo sapeva bene, nella sua vita non c’era mai stato posto per alcun rimpianto.

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Capitolo 22
*** Capitolo 22. ***


Capitolo 22.

Quella di déjà-vu era una sensazione che Emma aveva già sperimentato diverse volte, come probabilmente accade a quasi tutte le persone nel corso della loro vita.
Un evento, un suono, un’immagine, …e la mente ti porta a rivivere delle scene, a volte non reali, ma sempre stranamente familiari.
In quell’occasione erano bastate delle pareti bianche, un letto d’ospedale e le parole della dottoressa Wilson per farla tornare indietro di quindici anni, all’istante in cui le avevano rivelato che suo figlio era un maschietto e in cui lei aveva ufficialmente perso la possibilità di vederlo crescere.
Era stato devastante.
E a ben poco erano serviti i falsi ricordi o l’aver ritrovato Henry anni dopo: quello rimaneva uno dei momenti più dolorosi della sua vita.
Ma Emma non poteva pentirsi della propria scelta.
Aveva dato a suo figlio un’occasione migliore. Lo aveva allontanato perché potesse avere la vita che lei non avrebbe potuto dargli.
Adesso però… era diverso, era completamente diverso.
E quel bambino… maschio o femmina che fosse, Emma non voleva lasciarlo andare.
Così come non voleva lasciar andare la mano di Regina, e la loro casa, e la vita che avevano appena iniziato a costruire insieme, nonostante la realtà le avesse appena sbattuto in faccia che quello non era il suo posto.
Perché Regina aspettava un maschietto.
Un maschietto che, Emma lo sapeva, non poteva essere anche suo.
“Il bambino sta bene e cresce come dovrebbe, ma è certamente un maschio” ripeté la dottoressa Wilson, come a voler essere sicura che avessero capito.
Emma la vide spegnere gli strumenti lentamente, cercando di non fare troppo rumore. Poi strinse il braccio di Regina, con delicatezza, e poggiò un foglietto di carta sul lettino.
“Potete rimanere qui a parlare per tutto il tempo che volete, nessuno vi disturberà” disse quindi, prima di lasciare la stanza e chiudersi la porta alle spalle.
E a quel punto ad Emma venne quasi da ridere…
Di cosa dovevano mai parlare quando era tutto così chiaro ed evidente?!
Non servivano altre parole, era stato già tutto distrutto con una frase, tutto distrutto.
E lei era entrata in quella stanza per sentire il battito del cuore della sua bambina, non voleva ascoltare altro.
Voleva guardare il profilo della sua bambina, non gli occhi di Regina, che le avevano raccontato solo menzogne.
Ma non voleva, non poteva nemmeno lasciarle la mano.
Perché tutto quello che aveva sempre desiderato era ancora lì, così intenso, così reale.
Solo che… non era per lei, non più.
“Emma, non-”
“Non può essere mio figlio, vero?” sputò fuori Emma, sorprendendo persino se stessa per aver rotto quel fragile ed illusorio equilibrio.
Ma doveva sapere.
E forse… forse non era stato tutto una bugia, forse Regina poteva far svanire le sue paure, forse c’era una magica spiegazione a tutte quelle assurdità.
Ma Regina non le rispose, Regina non disse nulla.
E il pesante silenzio che calò nella stanza riuscì ad insinuarsi nelle orecchie di Emma, nel suo cervello, nel suo cuore, fomentando rabbia e dolore, fino a non farle sentire altro.
Fino a darle il coraggio di sollevare il capo e guardare Regina negli occhi, pretendendo la verità.
“È di Robin?”
A quella domanda, gli occhi di Regina si spalancarono, dilatati da incredulità e dolore, mentre il suo viso cominciò rapidamente a perdere colore.
Ma Emma non si accorse di nulla, scossa dalla mano che aveva bruscamente lasciato la sua, facendole definitivamente perdere ogni equilibrio.
Fece qualche passo indietro, cercando di non precipitare.
E la distanza che si creò tra lei e Regina sembrò improvvisamente incolmabile.
“Emma che stai dicendo?” le chiese Regina, sbalordita.
Scese dal lettino con cautela, continuando a guardare il volto di Emma mentre cercava di processare quelle nuove informazioni, di trovare loro un senso.
E di trovare un senso alla domanda di Emma.
“Aspetti un figlio da Robin?” ripeté Emma, questa volta con un vero e proprio tono di accusa.
Il suo volto era teso, i pugni stretti in una morsa.
Avrebbe voluto stringere ben altro Emma.
Avrebbe voluto prendere a pugni Robin e il mondo e il destino e chiunque aveva contribuito a toglierle tutto.
Ma rimase ferma, i piedi ben piantati a terra, cercando di controllarsi mentre la magia le si agitava dentro avvinghiata alle sue emozioni.
“Come puoi…
…dopo quello che abbiamo passato in quella foresta, dopo quello che abbiamo vissuto insieme nelle ultime settimane…
Come puoi pensare che io ti abbia mentito?” le chiese Regina, la voce tremante.
Era assurdo, era tutto assurdo.
Perché Emma la conosceva, Emma la capiva. E nelle ultime settimane lei le si era mostrata come mai aveva fatto prima.
Si era fidata completamente di Emma.
Ed Emma l’aveva ascoltata, l’aveva stretta, l’aveva vista davvero…
Che ne era proprio adesso di quel suo stramaledetto superpotere?
Che ne era della fiducia nei suoi confronti?!
“E cosa dovrei pensare invece?!” le domandò Emma, con una foga che ben poco si adattava alla sua stasi.
“Dimmelo, Regina, dimmelo, perché io non capisco!
Ho sentito la mia magia, era in te, nella nostra…
…era nel bambino” si corresse, ricordando che non c’era più una loro bambina.
Ed infliggendosi da sola l’ennesima pugnalata.
“Io so solo che hai incontrato quel Robin e che quando ti ho trovata eri confusa, e ferita, e ti ho curata con la mia magia, con tanta magia!
Forse eri già incinta e tutta quella magia si è legata al bambino, e mi hai mentito perché temevi che ti avrei giudicata o abbandonata o, non lo so, forse non ero abbastanza importante per sapere cosa è davvero successo o-”
“Emma, smettila…” le ordinò Regina in un sibilo, serrando i pugni.
“Smetterla?
Di fare cosa, di dire la verità?!
O vuoi negare di essere corsa dietro a Robin in quella foresta, di aver provato a riprenderti il tuo vero amore…
È un peccato che il falso Robin si sia rivelato un bastardo, no?
Altrimenti te lo saresti portato a casa e adesso ci sarebbe lui qui accanto a te, e questo sarebbe un momento di gioia e festeggiamenti. E invece hai dovuto accontentarti di un rimpiazzo, perché è questo che sono per te, non è vero Regina?
Io ti ho scelta, ma tu no, tu non avresti mai scelto me se avessi potuto avere lui, tu non-”
“ADESSO BASTA!” urlò Regina, mentre un’onda di magia sfuggì al suo controllo, invadendo l’ambiente.
Emma la sentì sulla propria pelle, sentì la magia intrisa di disperazione e di angoscia, mentre oggetti vari le volavano accanto, finendo contro le pareti ed inondando la stanza di vetri infranti e metallo stridente.
Pochi secondi di caos, poi solo silenzio.
E terrore.
Terrore sul volto di Regina, che strinse le braccia attorno al proprio ventre e scivolò lentamente a terra mentre lacrime veloci cominciarono a rigarle il viso.
Terrore nel cuore di Emma, che batté all’impazzata vedendo il proprio mondo crollare definitivamente.
Crollare perché lei, lei soltanto lo aveva distrutto.
Ma il bambino… e Regina, non dovevano essere loro a pagare per il suo egoismo.
E la sua magia poteva aiutarli, doveva aiutarli.
Per questo, per loro Emma si mosse, scattando in avanti, la magia che già le illuminava la mano.
Ma “non ti avvicinare” le disse Regina, freddandola sul posto.
“Regina, ti prego-”
“Vattene” le ordinò con la voce rotta, senza nemmeno guardarla.
Regina aveva gli occhi serrati, il corpo tremante.
Ed Emma si sentì morire.
Avrebbe voluto abbracciarla, rassicurarla, scusarsi, ma non poteva, non poteva lenire il dolore che lei stessa aveva causato.
Ma Zelena, e la dottoressa Wilson, loro potevano assicurarsi che Regina e il bambino stessero bene.
Doveva chiamarle, doveva proteggerli.
E per farlo doveva… andare via.
Emma si voltò e cominciò a camminare verso la porta, incurante dei vetri che le si stavano conficcando nelle scarpe e degli altri oggetti distrutti che le riempivano il campo visivo.
Nulla aveva valore.
Nulla poteva essere più dilaniato di ciò che si stava lasciando alle spalle.
Aveva la mano ad un soffio dalla porta, quando un pezzetto di carta sul pavimento attirò inspiegabilmente la sua attenzione in tutto quel caos.
Era lo stesso pezzetto di carta che la dottoressa Wilson aveva poggiato sul lettino, poco prima che tutto crollasse.
Era una stampa dell’ecografia, una foto del bambino.
Emma la raccolse e la guardò, ipnotizzata.
La piccola testa e quelle braccia così esili...
Spiccavano sullo sfondo nero, erano nitide, reali.
Emma ne tracciò il profilo con un dito tremante, sfiorando appena l’immagine.
E non seppe contenere l’immenso calore che la invase.
“Non mi importa da dove viene” sussurrò.
“O che aspetto avrà, o se i suoi cromosomi sono x o y o altre lettere.
So che se anche dovesse avere la stessa faccia del fottuto Robin Hood, non riuscirei ad amarlo di meno.
Dio, vi amo così tanto…
E se tu vuoi... se tu mi vuoi ancora Regina, io vorrei solo tornare a casa con te e nostro figlio” le disse, trovando finalmente il coraggio di voltarsi.
E quelle parole... quel semplice desiderio le tolse il fiato, facendole finalmente aprire gli occhi.
“Regina-”
 
 
“Regina-” disse Emma, prima di bloccarsi e sospirare pesantemente, accasciandosi sul tavolino del Granny’s, la bottiglia di birra ormai vuota.
Henry la guardò, sperando che formulasse una qualche frase di senso compiuto, ma ben presto capì di doversi rassegnare.
Forse sua madre aveva bevuto più di quanto gli era sembrato e adesso l’alcool cominciava a farle effetto.
“Dovete parlare ma’, si sistemerà tutto” provò ad incoraggiarla.
Emma sollevò la testa e lo guardò dritto negli occhi. “Regina mi odia, parlare non servirà a niente”.
“Ma’, lo sai che non ti odia…” tentò Henry, voltandosi poi verso David per chiedergli aiuto con lo sguardo.
“È vero, lo sai che non ti odia.
Al massimo potrebbe odiare me per tutto quello che le ho fatto passare…” le disse David, il volto serio ed innocente.
Emma ed Henry lo guardarono con un’identica espressione di dissenso e fu più forte di loro: scoppiarono a ridere senza alcun contegno.
“Hey! È vero!” provò a protestare David, ma fu inutile: madre e figlio non lo stavano nemmeno ascoltando, troppo impegnati a prendersi sguaiatamente gioco di lui.
E… erano lacrime quelle che brillavano sul volto di Emma?
David scosse la testa e sorrise, felice di aver alleggerito la situazione, anche se involontariamente.
“Finalmente vi ho trovati! Avrei dovuto capirlo subito che eravate qui…” li rimproverò Snow non appena li scorse.
A passi svelti, si avvicinò al loro tavolo e le risate di Emma ed Henry si spensero istantaneamente.
Snow sembrava arrabbiata, il che non faceva presagire nulla di buono.
“Mamma-” provò a parlarle Emma, ma Snow la ignorò, rivolgendosi ad Henry.
“Tu dovevi venire a prenderli, non assecondarli ed unirti a loro…
E tu” disse quindi, afferrando David per un braccio, “vieni subito con me, non c’è altro tempo da perdere” sentenziò, prima di trascinarlo fuori dal locale senza dargli modo di ribattere.
Emma ed Henry li guardarono uscire, ben consapevoli che il tempo delle risate era finito.
Era ora di tornare alla vita vera, di affrontare la realtà.
Emma sospirò di nuovo ed Henry le sorrise con dolcezza.
“Coraggio ma’, andiamo a casa”.
 

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Capitolo 23
*** Capitolo 23. ***


Note e richieste di perdono sono a fine capitolo, per non farvi aspettare nemmeno un secondo di più. Buona lettura!
 
Capitolo 23.

Erano state ore, giorni, forse mesi.
Emma non sapeva quantificarlo con esattezza, ma il tempo che nella sua vita aveva passato a fissare delle porte chiuse non era di certo poco.
Da bambina, si era abituata a sorvegliare la porta della camera in cui doveva passare la notte fino a che non riusciva ad addormentarsi.
La guardava, sperando fino all’ultimo istante di coscienza che quella non si aprisse, che nessuno vi entrasse, che nulla cambiasse fino al mattino seguente.
Perché una familiare porta chiusa era l’avere un posto in cui stare.
Era una difesa, un rifugio, una certezza. Uno strumento con cui definire e proteggere i propri spazi, il proprio mondo, se stessa.
Persino le odiate porte della prigione ad un certo punto erano diventate per lei un conforto, un limite che le consentiva di rimandare l’incontro con un futuro incerto, doloroso, vuoto.
C’erano state tante e tante porte chiuse d’avanti agli occhi di Emma. E con loro, la certezza che non ci sarebbe mai stato nulla di positivo e bello per lei al di là di esse.
Ma in quel momento, il mondo di Emma non era attorno a sé. Il mondo di Emma era ancora una volta oltre una porta che la separava da Regina, quella porta che poco prima aveva dovuto chiudersi alle spalle.
Perché il mondo di Emma era Regina.
E la loro famiglia, e il loro futuro insieme.
Un futuro ancora una volta incerto, ma a cui certamente Emma non voleva rinunciare, per cui sapeva di voler lottare con ogni mezzo.
Anche se Regina non avesse più voluto farlo insieme a lei.
Anche se significava ricostruire da zero tutto quello che era appena andato in mille pezzi.
Ricordando il caos che poco prima era scoppiato dentro quella piccola stanza d’ospedale, Emma sospirò e distolse finalmente lo sguardo dalla porta bianca chiusa a qualche metro da lei. Porta dalla quale Regina non era ancora uscita.
Zelena e la dottoressa Wilson l’avevano raggiunta già da un po’ e certamente si erano ormai assicurate che lo sfogo magico non avesse avuto conseguenze per il bambino né avesse debilitato troppo Regina.
Emma sapeva che la sua presenza e la sua magia non erano indispensabili, c’erano altre persone su cui Regina e il bambino potevano contare.
Potevano stare bene anche senza di lei.
Probabilmente sarebbero stati meglio senza di lei.
E lei meritava tutto il disprezzo e il dolore che le parole di Regina le avevano buttato addosso, meritava di essere allontanata.
Ma nonostante ciò non riusciva ad andarsene.
Non poteva lasciare quell’ospedale, non prima di aver visto con i propri occhi che Regina stava bene, non prima di essersi assicurata che al bambino non mancasse davvero nulla.
Emma portò lo sguardo sulla stampa dell’ecografia che stringeva ancora tra le mani, che non riusciva a lasciare andare.
Si concentrò e provò, per l’ennesima volta nell’ultima mezz’ora, a richiamare a sé quei ricordi.
Lo sapeva, lo sapeva che la sua era una teoria praticamente assurda. Ma da quando le era venuta in mente non riusciva a smettere di pensarci.
E nelle loro vite era sempre l’assurdo quello che si rivelava reale, no?
Quindi doveva parlarne con Regina, doveva farlo prima possibile.
Perché forse era quella la chiave di tutto, la risposta alle loro domande.
E poi, era stato proprio il non parlare a portarle a quel punto, ed Emma non voleva continuare a commettere gli stessi errori.
Se avesse espresso prima i suoi dubbi… se avesse condiviso le sue paure con Regina… se le avesse parlato davvero a cuore aperto forse non le sarebbe esploso tutto davanti agli occhi.
Era ora di smetterla di aspettare che fossero gli altri a spalancare le sue porte chiuse. Era ora che fosse lei ad aprirsi, a lottare per costruire qualcosa di bello e positivo per il proprio mondo.
Con queste nuove intenzioni a darle forza, Emma fece i pochi passi che la separavano dalla porta della stanza in cui aveva lasciato Regina e la spalancò senza nemmeno bussare.
Non poteva aspettare altri consensi o l’insicurezza l’avrebbe travolta di nuovo.
Doveva entrare e farsi ascoltare.
Ma, una volta dentro, Emma ebbe a malapena il tempo di scorgere Regina, seduta accanto alla dottoressa Wilson in una stanza nuovamente in ordine, che si ritrovò sbalzata all’indietro, spalle al muro, capelli rossi ondeggianti a coprirle la visuale e occhi verdi furenti a scrutarla con rabbia.
“Che diavolo ci fai ancora qui?!” le ringhiò in faccia Zelena, tenendola bloccata con la sua magia.
“Lasciami passare, devo parlare con Regina!” le intimò Emma, cercando di divincolarsi e di sfuggire a quella morsa magica.
Ma Zelena ignorò la sua richiesta e face un ulteriore minaccioso passo nella sua direzione.
“Ho appena finito di sistemare i danni fatti dal tuo ultimo discorso, non ti lascerò avvicinare a mia sorella” le disse, gli occhi scintillanti di magia, pronta ad agire.
“Zelena…” la richiamò Regina, per nulla intenzionata ad assistere ad un inutile scontro tra le due.
La sua voce era calda, forte, definita come sempre.
Ma era stanca Regina, Emma lo capì dal tono di quella singola parola.
E si sentì ancora più in colpa.
Sospirò, stanca anche lei di tutta quella situazione, prima di riprendere a parlare. “No, va bene… resterò ferma qui. Ma dovete ascoltarmi, penso sia importante.”
Zelena sollevò un sopracciglio e la guardò perplessa, ma non disse nulla, così come le altre occupanti della stanza. E per Emma quel silenzio fu il cenno che serviva per continuare.
Sospirò di nuovo e abbassò lo sguardo.
“Mi dispiace per quello che ho causato prima.
Ferirti e poi doverti dare le spalle e andare via per farti stare meglio… è l’ultima cosa che avrei voluto Regina, credimi.
Camminavo tra quei cocci di vetro e macchinari distrutti e sapevo di aver rovinato tutto, sentivo che era la fine.
Ma poi ho visto la stampa dell’ecografia, questa piccola foto del bambino…”
Emma la strinse ancora, poggiandovi sopra lo sguardo.
“Regina, penso davvero tutto quello che ti ho detto in quel momento. Vi amo tantissimo.
E con quella distruzione attorno, con quelle colpe, con quella sofferenza che avevo dentro, ho desiderato solo di poter andare oltre tutto, di poter tornare a casa con te e nostro figlio.
Ed è stato come un flash: mi sono ricordata che è esattamente quello che avevo desiderato nel mondo del mio desiderio, mentre ti guardavo dormire in quella foresta, a pochi passi da me*. Io volevo solo che tu fossi al sicuro, che stessi bene, che il dolore e le sofferenze lasciassero finalmente il posto a un po’ di serenità. Quel tipo di serenità spensierata che abbiamo condiviso molte volte durante un pasto o guardando un film o litigando per i miei eterni ritardi con i documenti a lavoro...”
Nel fare quell’elenco, Emma sorrise lievemente, concedendosi qualche secondo per indugiare sui ricordi delle serate al 108 di Mifflin Street e sul familiare rumore di tacchi che calcavano il pavimento della stazione, preannunciando l’ennesimo rimprovero alla sua costante e volontaria incompetenza.
“Volevo che stessimo bene e anche quella volta ho desiderato di essere a casa con te e nostro figlio.
E ovviamente stavo pensando ad Henry, ma… se fossi stata presa alla lettera?
Regina, se fosse stato quel mio desiderio a creare il bambino?”
Nel porre quella domanda, Emma sollevò la testa alla ricerca di Regina, ma i suoi occhi trovarono solo quelli spalancati di Zelena.
“È possibile?” chiese, in un sussurro, alla maggiore delle sorelle Mills.
E a Zelena quella domanda arrivò come fosse una supplica, come se Emma la stesse implorando di darle ragione, di darle speranza, di darle indietro la sua famiglia.
Tutte cose che però non stava a lei restituire.
Zelena annullò il blocco magico ancora agente sullo sceriffo e si fece da parte, cessando di essere un ostacolo.
Emma però non si mosse se non con lo sguardo, che fu subito su Regina.
Regina che appariva palesemente sconvolta.
Perché, un desiderio…
Uno dei tanti a cui si era ben presto rassegnata a dover rinunciare, uno dei tanti impossibili.
Uno dei tanti che invece Emma aveva realizzato per lei.
Ed era possibile, certo che era possibile! Perché Emma era… era semplicemente Emma, e con lei anche l’impossibile poteva accadere.
Emma aveva dimostrato più volte l’immenso potere che aveva.
Emma aveva dimostrato più volte l’immenso potere che aveva nella vita di Regina.
E se servivano altre prove…
“Dopo che Robin mi ha ferita con la freccia… come hai fatto a trovarmi?” domandò Regina, ricordando ancora nitidamente la familiare nube bianca che l’aveva portata in salvo.
“Non lo so, con… con la magia?” chiese a sua volta Emma, cercando di ricordare il più possibile di quel frangente.
“Non sapevo dove fossi e ho provato a percepire la tua magia, ma non ci riuscivo, ed ero frustrata e preoccupata e pensavo a te e… poi mi sei comparsa davanti.
Pensi sia stato anche quello un desiderio esaudito?”
Regina annuì.
“La tua magia è molto forte. Può aver interagito con quella della lampada, permettendoti istintivamente di controllare il desiderio.
In fondo, in quel mondo tutto era come lo desideravi, no?”
Emma la guardò incerta.
“Beh, in modo un po’ distorto ed estremizzato, ma si, lo era. Il regno era in pace, io avevo da sempre una famiglia, i miei genitori erano felici, Henry stava diventando l’eroe che vorrebbe essere, tu…” si bloccò, Emma. E le guance le si colorarono di rosso.
“Io non c’ero” concluse per lei Regina, un lampo di dolore ad illuminarle gli occhi.
Ma Emma non distolse lo sguardo.
Le sorrise. Continuò.
“Tu non avevi un doppione, il desiderio non ha dovuto creare, mostrare o cambiare niente.
Sei arrivata a salvarmi direttamente da questo mondo così come sei, perché non c’è niente da cambiare, non c’è nessun’altra versione di te che io desideri.”
E fu un colpo dritto al cuore.
Gli occhi di Regina si spalancarono e quelli di Emma continuarono ad urlarle il suo amore in silenzio.
Per lunghi ed essenziali istanti.
Come già tante altre volte avevano fatto.
“Oddio, è uno di quei vostri momenti…” commentò Zelena, una smorfia di disgusto a pervaderle il volto.
Sollevò le mani e una nube verde cominciò ad avvolgerla.
E la smorfia di disgusto si trasformò in un sorrisetto sollevato ben prima che il teletrasporto fosse completo e le consentisse di lasciare la stanza.
“Bene, non badate a me, vado via anch’io” disse la dottoressa Wilson, dirigendosi invece verso la porta.
Ed effettivamente nessuno le badò fino a che non raggiunse Emma e le diede un colpo sulla spalla, facendole fare un balzo in avanti.
“Bravo sceriffo!” le disse Miranda, compiaciuta, prima di uscire.
“Hey!” replicò Emma, lanciandole un’occhiataccia e massaggiandosi la spalla.
Il colpo non era stato poi così forte, ma l’aveva colta alla sprovvista.
E, soprattutto, aveva interrotto quel… loro momento.
Dannata dottoressa Wilson.
“Stai bene?” chiese Regina, avvicinandosi.
Emma annuì. I pensieri tornarono al bambino, a quella situazione, e il suo volto si fece nuovamente serio.
Regina lo notò.
“Vieni, sediamoci” le disse, prendendole la mano e guidandola verso le sedie.
Regina riprese il suo posto mentre Emma andò ad occupare quello che fino a qualche istante prima era stato di Miranda. Le loro mani rimasero intrecciate, strette l’un l’altra sui braccioli tra le due sedie.
“Stai pensando al prezzo della magia e agli inganni che i desideri nascondono sempre” affermò Regina, certa di aver letto negli occhi di Emma le stesse preoccupazioni che tormentavano il proprio cuore.
“C’è sempre una fregatura che ci aspetta dietro l’angolo, no?” confermò Emma. “Ma questa volta dobbiamo trovare il modo di evitarla, dobbiamo proteggere questo bambino ad ogni costo.”
“E lo faremo, certo che lo faremo. Ma penso che la magia sia già di per sé la fregatura.
Il fatto che io non possa usarla, e che tu debba alimentarmi costantemente… credo sia questo il prezzo.
Lo stiamo già pagando Emma.
E come hai detto ieri, non possiamo sapere cosa ci riserverà il futuro, ma possiamo affrontarlo insieme” le disse Regina, aumentando la stretta sulla sua mano.
Emma rispose istintivamente alla stretta, aumentandola a sua volta.
Guardò quelle loro mani unite, poi il volto stanco e speranzoso di Regina. E capì che non tutto era perso, che in qualche modo loro ce l’avrebbero sempre fatta. Perché il loro legame era forte, sincero. E questo le diede il coraggio di dire quello che sapeva di dover dire, a costo di perderla. Le diede il coraggio di dare a Regina quello che ben poche altre volte la vita le aveva dato: una scelta.
“Certo, lo affronteremo insieme, per i nostri figli.
Ma, Regina… forse noi due abbiamo corso troppo, forse ti sei fatta prendere la mano dalla gravidanza e non ci hai pensato, ma… non sei costretta a stare con me per il bambino o per qualsiasi altro motivo.
Possiamo fare come con Henry, so che sapremo sempre mettere loro al primo posto.”
“Ma… che stai dicendo? Io non mi sento costretta a fare nulla, non-”
“Si, magari ora la pensi così” la interruppe Emma. “Ma… che succederà se un giorno ti sveglierai e ti renderai conto che hai commesso un errore? Che non ti importa davvero di me, che quello che abbiamo avuto è stato solo un passatempo, un modo per colmare un vuoto?
Io penso…” e la voce le tremò, scossa da ciò che stava per dire.
Regina lo percepì.
E capì che Emma si stava sforzando enormemente per tirare fuori quelle cose. Capì che, per quante assurdità avrebbe sentito, doveva lasciarla finire.
“…ho il terrore che ti stancherai di me. Che comincerai a trattarmi con freddezza, ad ignorarmi, che arriverai a non riuscire più a sopportare la mia presenza.
Penso che ad un certo punto mi lascerai.
Perché tu sei… guardati Regina: sei un sogno.
E io… io lo so che non avresti mai scelto me se avessi avuto delle alternative. Per questo ti chiedo di rifletterci, di rifletterci davvero. E se è così va bene, dimmelo, e potremo costruire il nostro rapporto in modo diverso.
Senza… arrivare a ferirci ancora.”
Lasciando andare quelle ultime, pesanti parole, Emma si sentì finalmente più leggera.
Cercò lo sguardo di Regina, pronta ad affrontare la sua reazione.
Il sindaco la stava guardando in silenzio, con le labbra serrate e l’espressione indecifrabile.
Emma aspettò, dandole modo di assorbire il suo discorso e di pensare ad una risposta.
Ma forse a Regina serviva più tempo o forse lei non si era spiegata bene e Regina stava ancora cercando di capire cosa diavolo le aveva detto o forse Regina non aveva il coraggio di dirle la verità e stava cercando un modo per uscire da quella situazione o…
Assalita da un improvviso nervosismo, Emma ebbe l’impellente necessità di muoversi, di fuggire lei stessa da quella situazione.
Cercò di sfilare la propria mano da quella del sindaco, per potersi alzare, ma Regina aumentò ancora una volta la presa e la fulminò con lo sguardo.
“Tu mi irriti Emma Swan” le disse Regina, più che seria, cogliendola alla sprovvista.
“Ti… irrito?” chiese lo sceriffo, basito.
Tra tutte le reazioni che poteva aspettarsi, quella era certamente la più… bizzarra.
“Si, mi irriti.
Molto spesso la tua sola presenza è un continuo punzecchiare la mia pazienza, quindi non riesco davvero ad immaginarlo il giorno in cui potrai essermi indifferente.
Tu sai far scattare dei tasti dentro di me che… non è mai stato così con nessun altro. Non ho mai reagito così con nessun altro, ed è come se una parte di me fosse nata quando ci siamo incontrate.
E non ho certezze sul futuro, ma so che non devi vivere col costante pensiero che io ti abbandoni, perché nemmeno questa è una cosa che potrei immaginare. La mia vita senza di te… non ricordo nemmeno com’era quando non ti avevo a darmi il tormento! E le nostre vite sono talmente intrecciate, talmente tanto legate l’una all’altra che sarebbe impossibile scinderle, non senza distruggere una parte di noi stesse.
Non ho speranza di liberarmi di te. E ne ho ancora meno di liberarmi di quello che provo per te… ma va bene, perché questo legame così intenso è esattamente quello che voglio.
Tu Emma Swan, tu sei esattamente quello che voglio.
E se non ti ho scelta prima è perché… non credevo di averla una scelta. Non credevo di poter avere te al mio fianco.
Ma ora che lo so non voglio perdere altro tempo. Voglio stare con te Emma.
E tu vuoi… vuoi tornare a casa con me e nostro figlio?”
Emma la guardò per qualche istante, incredula.
E poi baciò, baciò e baciò ancora le labbra di Regina.
Ogni bacio una stessa risposta a quella domanda, una continua conferma di quel suo piccolo grande desiderio.
Perché non c’era alcun dubbio: finché Regina e i suoi figli sarebbero stati lì ad aspettarla, Emma non avrebbe smesso di voler tornare a casa.
 
 
“Siamo a casa!” urlò entusiasta Henry, varcando la soglia del 108 di Mifflin Street.
Dietro di lui, Emma varcò quella stessa soglia, ma per nulla entusiasta.
Tristezza, rimorso, sofferenza, terrore… erano quelli gli unici sentimenti che riusciva a provare in quel momento.
Un sorriso però non poté non comparirle sul volto non appena sentì dei familiari e più che rumorosi passi venire nella sua direzione.
“Dov’è la mia nipote preferita?” esclamò, abbassandosi e spalancando le braccia per prendere al volo la piccola Jennifer, che le si era letteralmente lanciata addosso.
“Proprio qui, insieme alla tua ex nipote preferita” le rispose Robin, raggiungendole nell’atrio dopo aver palesemente dovuto rincorrere la più piccola di casa Mills.
“Vedrai, quando nascerà la tua sorellina verrai spodestata anche tu” Robin sussurrò all’orecchio di Jenny, facendole il solletico.
“Hey, non dirle queste cose!
Siete tutte le mie preferite, è questa la verità!” replicò Emma, tenendo Jennifer con un solo braccio e stringendo a sé Robin con l’altro.
“Certo, certo… in realtà lo sappiamo tutti chi è la tua Mills preferita…” la punzecchiò Robin.
“Sono io, sono io!” esclamò Jenny, abbracciando a sua volta le due donne.
Emma strinse le sue nipoti e si lasciò cullare da quel meraviglioso abbraccio, cercando in esso il coraggio che le serviva per affrontare l’imminente incontro con quella che era da sempre e sempre sarebbe stata la sua Mills preferita.
 
 
 
* La scena cui si fa riferimento è quella del flashback del capitolo 7. È in quel momento che Emma ha involontariamente espresso il desiderio che ha dato origine a tutto. E… così il mistero sul “concepimento” del bambino è stato svelato. Spero che la spiegazione sia soddisfacente ^^
E… chiedo immensamente scusa e umilmente perdono per il ritardo con cui questo capitolo è arrivato, mi dispiace davvero. Non è mia intenzione lasciare la storia incompiuta e so cosa deve succedere e come si arriverà alla fine, solo che… scrivere questo capitolo è stato abbastanza complicato, molto più di quanto non mi aspettassi. Non riuscivo a rendere giustizia alle paure di Emma e, soprattutto, non ero certa di quali dovessero essere le reazioni di Regina in dei contesti così carichi di emozioni, scoperte, timori. Spero di essere riuscita a non renderle OOC, ma se avete appunti o indicazioni a riguardo è tutto ben accetto.
Inoltre, voglio ringraziare Alex, Earwen82 e _Trixie_ che, in modo diverso, mi hanno aiutata a completare questo lungo capitolo. E ringrazio anche tutti voi che avete seguito e continuate a seguire questa storia, soprattutto chi, in questi mesi di silenzio, le ha mostrato interesse e affetto. Grazie davvero.
Non prometto nulla sul prossimo capitolo, se non che certamente ci sarà.
Grazie per aver letto fin qui.
A presto,
Sparewheel

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Capitolo 24
*** Capitolo 24. ***


Capitolo 24.

Emma odiava il turno di notte.
Passare ore ed ore da sola nel suo ufficio o a pattugliare le strade deserte, ben sapendo che la cosa più pericolosa in cui poteva imbattersi a Storybrooke in tempo di pace era un qualche gatto randagio alla ricerca di cibo, non era più un modo come un altro per trascorrere le sue nottate.
Non era più un favore che non le pesava fare a suo padre per lasciargli passare più tempo a casa, e non era più nemmeno un pretesto perfetto per avere un po’ di tranquillità, lontana dalle fastidiose attenzioni di Killian.
No, non era più una cosa piacevole, non da quando lo sceriffo le sue nottate si era abituata a passarle con Regina.
E si era abituata ad addormentarsi con Regina, e a stringere Regina, e a lasciar cullare i propri sogni dal profumo e dal calore di Regina, e a svegliarsi con accanto Regina.
Quindi il turno di notte Emma non poteva che odiarlo e basta.
E aveva deciso di parlarne con suo padre e con la stessa Regina, perché servivano assolutamente delle nuove leve alla stazione dello sceriffo. Nuove leve che avrebbero coperto lo stupidissimo turno di notte e le avrebbero consentito di passare più tempo con la sua famiglia una volta nato il bambino.
Per questo Emma aveva speso le ultime ore di quella sua inutilissima guardia a pensare ad una serie di motivi da propinare a Regina per farle capire quanto stranecessaria e super urgente fosse la sua richiesta.
E aveva anche raccolto quei motivi in una lista, inizialmente stilata sul proprio cellulare e poi accuratamente ricopiata su un foglio, perché a Regina piacevano le cose ordinate e così avrebbe certamente apprezzato il suo impegno.
Sicura della buona riuscita del suo piano, Emma varcò la porta di casa alle prime luci dell’alba, una ciambella del Granny’s in bocca e la preziosa lista ben custodita nella tasca posteriore dei jeans.
L’avrebbe sottoposta a Regina subito dopo la colazione, momento in cui il sindaco era felice, riposata e quindi probabilmente più propensa ad assecondarla.
Perciò ad Emma non restava che preparare quel pasto per Regina e portarglielo a letto, come già molte altre volte aveva fatto in quelle settimane di convivenza.
Era un compito non troppo complicato, che Regina le aveva descritto in ogni minimo dettaglio in una delle loro chiacchierate durante un trasferimento d’energia e che Emma aveva ormai imparato ad eseguire alla perfezione. Bastava preparare una premuta d’arancia senza zucchero, uno yogurt magro da accompagnare con dei cereali integrali, un bicchiere di macedonia di frutta fresca, due cucchiaini ed un fazzolettino, il tutto ordinatamente disposto sul vassoio rettangolare con la stampa di un cesto di mele che Henry aveva regalato a sua madre per Natale una manciata di anni prima.
Eliminati il caffè e le ben poco salutari uova strapazzate, la colazione estiva di Regina era un pasto che anche Emma poteva mettere insieme senza troppa fatica o disastri.
Però, la prima volta che aveva preparato quella colazione, Emma aveva voluto aggiungerle un tocco personale. Per questo, nell’angolo in alto a destra del vassoio, lo sceriffo aveva posizionato un piccolo vaso in vetro con dentro una bellissima e profumatissima rosa rossa, fatta arrivare direttamente dal negozio del signor French con un semplice e rapido movimento della mano.
Peccato però che nessuno le avesse detto che le donne incinta sono particolarmente sensibili all’odore dei fiori… il forte profumo aveva subito infastidito Regina che, portandosi istintivamente le mani a coprire il proprio naso, aveva inavvertitamente colpito il fianco di Emma che, perso l’equilibrio, si era rovesciata addosso l’intera colazione.
Lo sceriffo si era quindi trovata costretta a rispedire indietro quella bellissima e profumatissima rosa rossa con uno stesso rapido movimento della mano, per poi dover ripulire il disastro causato mentre Regina la rimproverava per non aver saputo seguire le sue più che semplici, dettagliate e motivate istruzioni.
Per fortuna però la ramanzina non era durata poi molto: ben presto Regina le aveva sorriso e l’aveva ringraziata con un bacio per il dolce pensiero.
E così ad Emma era venuto in mente un modo diverso per poter concretizzare quel suo dolce pensiero: sostituire il fiore vero con uno di cioccolato, rigorosamente fondente.
Non era stato difficile trovarne, visto che sul web si poteva ormai acquistare davvero di tutto. E quell’acquisto era stato certamente una scelta azzeccata perché, alla colazione a letto successiva, Regina era rimasta più che colpita, aveva divorato il cioccolatino e le aveva sorriso di nuovo, ringraziandola con un bacio al sapore di cioccolato fondente.
Emma sorrise al ricordo dei tanti baci al sapor di cioccolato che Regina le aveva dato.
Poggiò il cioccolatino a forma di fiore al suo posto sul vassoio, insieme alla colazione appena preparata, e imboccò le scale, pronta a ricreare per l’ennesima volta quel loro piccolo rito.
Diverse volte, entrando nella loro camera da letto, Emma aveva trovato Regina sveglia ad aspettarla e pronta a sottolineare, con arguti e sarcastici commenti, la sua più totale mancanza di delicatezza nel muoversi all’interno della casa.
Questa volta però Regina stava ancora dormendo.
Era adagiata su un fianco, le labbra lievemente socchiuse ed in viso un’espressione serena, incorniciata dai capelli spettinati. Le braccia erano raccolte d’avanti al petto e la camicia da notte di seta blu era sollevata appena, lasciando così scoperte le gambe leggermente abbronzate.
Emma si fermò ad ammirarla per qualche momento, il respiro sospeso e gli occhi brillanti.
Regina era di una bellezza senza pari, era una meraviglia che non mancava di mozzarle il fiato già solo esistendo.
E poterla guardare… poterla stringere, poterla vivere, poterla amare… era certamente quanto di più bello Emma avesse ricevuto dalla vita.
Era il dono più prezioso, il desiderio che non aveva mai nemmeno osato esprimere.
Eppure adesso era la sua realtà, il suo presente.
E forse anche il turno di notte non era poi così male se al suo rientro a casa c’era una tale fortuna ad aspettarla.
Riscuotendosi, Emma entrò nella stanza, attenta a non fare rumore anche in quegli ultimi istanti che la separavano dal sindaco.
Lasciò il vassoio sul proprio comodino e si sdraiò cautamente sul letto, raggiungendo Regina, ancora profondamente addormentata.
Emma ghignò, felice di poter svegliare l’altra donna nel modo che più preferiva: riempiendola di baci e attenzioni.
Cominciò così a posare le proprie labbra sulla pelle olivastra del sindaco, accarezzandola con tocchi leggeri sui fianchi, sulle braccia, sulle spalle, sul collo, fino ad arrivare alla guancia, alla fronte, al piccolo naso e alla cicatrice che tanto amava.
Regina cominciò a muoversi leggermente, gli occhi ancora chiusi, e un sorriso le si stampò sulle labbra non appena il sonno la lasciò divenire cosciente delle attenzioni di Emma.
Lo sceriffo se ne accorse ed andò a baciarle quello stesso meraviglioso sorriso.
Una volta e poi una seconda.
“Buongiorno signor sindaco, la colazione è pronta” annunciò Emma, rimanendo ad un soffio dalle sue labbra.
Regina le sorrise, gli occhi adesso aperti e luminosi.
“Allora è meglio che la mangi subito sceriffo Swan, prima che si freddi” le rispose, circondandole il collo con le braccia, per averla più vicina, e cominciando a divorarle le labbra con passione.
Emma fu ben felice di assecondarla e si lasciò andare a quel bacio colmo di gioia e desiderio.
“Non c’è nulla di caldo in quel vassoio, ma se fai così io non mi raffreddo di certo…” le disse, guardandola negli occhi, un sorriso malizioso in volto.
Regina sostenne lo sguardo dello sceriffo e si mosse lentamente, fino a portare le proprie labbra vicino al suo orecchio. “Non stavo affatto parlando del contenuto del vassoio…” le sussurrò. “Ma adesso che mi ci fai pensare… ho davvero voglia della mia macedonia” le disse, allontanandosi bruscamente da lei e mettendosi seduta.
“Hey, questo è crudele!” si lamentò Emma, sollevandosi sui gomiti e guardandola con un’espressione frustrata così adorabile che Regina non riuscì a non sorridere.
Forse un pochino era crudele, si, ma adorava punzecchiare Emma a quel modo. Le reazioni che lo sceriffo sapeva regalarle erano impagabili.
Divertita, le sistemò una ciocca di capelli dietro l’orecchio e le toccò la punta del naso. “Sii gentile signorina Swan, e passami il vassoio con la colazione”.
Emma le rispose mettendo il broncio. E decise di concentrare la propria attenzione sull’altra persona presente nella stanza e che il broncio glielo fece subito sparire.
“Buongiorno pulce” sussurrò, posizionandosi a pancia in giù ed in modo da avere il viso all’altezza del ventre di Regina, sul quale posò un bacio.
“Tua madre è crudele, lo sai?
Ma non preoccuparti: questo tipo di dimostrazioni d’affetto sono riservate solo a me.
E ogni tanto anche ai miei genitori. E a qualche altra manciata di decine di persone di Storybrooke o degli altri regni, ma nulla di che”.
Per tutta risposta, Regina le colpì la testa bionda con la mano e la guardò male.
“Il vassoio, Emma” ripeté.
Ma Emma la ignorò, per nulla sorpresa da quella reazione. Doveva rimanere concentrata sul proprio discorso e sfruttare quell’occasione.
“Però, cucciolino mio, tua mamma è anche tanto gentile e premurosa.
È sempre protettiva con la nostra famiglia e con i nostri concittadini, infatti è un gran bravo sindaco.
Sa sempre ciò che è meglio per la città e per i suoi abitanti e da molti anni fa in modo che tutto funzioni alla perfezione, anche quando a me capita di consegnare i documenti in ritardo…”
“Ossia ogni mese” puntualizzò Regina.
“…o quando mi succede di non compilare un qualche verbale, o di non rispondere a delle telefonate, o di perdere degli oggetti dell’ufficio, o di cancellare inavvertitamente delle mail di lavoro…”
“Ossia almeno una volta al giorno” precisò nuovamente il sindaco, cominciando a giocare con una ciocca dei capelli di Emma.
Aveva notato il pezzo di carta scarabocchiato che fuoriusciva dalla tasca posteriore dei jeans dello sceriffo non appena Emma si era messa in quella nuova posizione e, se nuovi scagnozzi e no turno di notte erano degli indizi, era certa di aver capito dove quel discorso stava andando a parare…
Più che divertita, lasciò che Emma continuasse.
“Vedi rospetto, a Storybrooke serve protezione, servono regole, servono occhi vigili e attenti, servono dei punti di riferimento. E non dovrebbe dover pensare a tutto tua madre. Infatti, ad esempio, la stazione dello sceriffo potrebbe darle una grande mano nella gestione della città. Basterebbe, che ne so, assumere due o al massimo tre nuovi agenti. Verrebbero addestrati e formati correttamente, imparando a gestire come si deve i documenti, che così sarebbero sempre completi e puntuali. E questi quattro agenti lavorerebbero su turni, garantendo forze fresche e attente in ogni momento della giornata, sempre pronte a rispondere alle esigenze dei cittadini o ad attivarsi in caso di crisi. 
Inoltre, si creerebbero dei nuovi posti di lavoro e sarebbe un’occasione di crescita per la città e l’intera comunità, permettendo ai ragazzi di trovare una loro strada o a qualche adulto di cominciare un nuovo ed entusiasmante capitolo della propria vita.
I pesi sulle spalle delle tue mamme diminuirebbero e allo stesso tempo tutti i cittadini si sentirebbero più sicuri!
Ecco quanti vantaggi e quanto bene potrebbe portare la semplice e immediata assunzione di cinque nuovi agenti, capisci mostriciattolo?!”
“Emma!” la richiamò Regina, tirandole la ciocca di capelli che aveva tra le mani. “Vuoi smetterla di chiamare nostro figlio con questi soprannomi orribili e offensivi?!”
“Non sono orribili e offensivi, sono teneri e carini!” si difese lo sceriffo.
“Si, per un bambino in un film horror…” replicò Regina, portando entrambe le mani sul proprio ventre, come a voler schermare le orecchie del piccolo.
“Hey, non è vero!
E se non posso usare questi bellissimi nomignoli, come dovrei chiamare nostro figlio, sentiamo?!” le rispose Emma, piccata.
A quella domanda Regina si bloccò.
Come chiamarlo…
Già, come chiamarlo?
Tutti quei mesi e non ne avevano mai parlato!
Perché prima era troppo presto, e poi doveva essere una bambina, e dopo ancora i problemi, i litigi, le paure, …
Ma tutto quello era passato, lo avevano superato.
Lei ed Emma erano andate oltre ed erano lì, nel loro letto, in quella calda e luminosa mattina d’agosto, con Henry che dormiva tranquillo nella propria camera e il loro secondogenito che dormiva altrettanto tranquillo dentro il suo ventre.
Al sicuro, in salute, vivo e reale al punto da avere ormai bisogno di un nome.
“Dovresti dirmelo tu” sussurrò Regina, gli occhi improvvisamente umidi.
“Che fai adesso, mi prendi in giro?”
“No… sto dicendo che il suo nome dovresti sceglierlo tu.
Io ho scelto quello di Henry, ed è giusto che anche tu abbia questa opportunità” le disse Regina, sorridendo dolcemente.
“Stai… cioè… dici davvero?” le chiese lo sceriffo, incredula.
Regina annuì, il sorriso ancora sulle sue labbra. E fu il turno degli occhi di Emma di inumidirsi improvvisamente.
Gli angoli della bocca le si sollevarono irrimediabilmente verso l’alto e il suo viso tornò a posarsi sul ventre di Regina.
“Hai sentito mostriciattolo? Sceglierò io il tuo nome!” esclamò entusiasta Emma, il cuore colpito in pieno da quella immensa felicità che portava la firma di Regina e Regina soltanto.
E proprio in quel momento anche la guancia di Emma venne colpita.
Con un calcio, una testata, o forse un pugno, ma il bambino l’aveva certamente colpita.
“Hey, e questo adesso cosa vorrebbe dire?!” provò a chiedere Emma, scostandosi leggermente dal ventre di Regina, per poterlo guardare meglio.
“Era un calcio di gioia, vero?
È perché sei contento, vero batuffolino?” chiese lo sceriffo, speranzosa.
Per tutta risposta, il bambino le diede un altro calcio, stravolta sulla mano a contatto col ventre, e Regina scoppiò irrimediabilmente a ridere.
“Regina!” la rimproverò Emma. “Perché mi ha colpita?” le chiese quindi, mettendo di nuovo il broncio, come fosse lei stessa una bambina.
Regina ignorò la sua domanda e la trascinò verso di sé, per poterle baciare via proprio quel broncio.
Bastò un solo bacio per farlo sparire.
Ma Regina gliene diede un altro, un altro e poi un altro ancora, facendo sparire anche l’aria dai loro polmoni.
“Sai, se prestassi attenzione alle riunioni e leggessi le mail che ti mando, sapresti che è già stato stanziato un importo extra per la formazione e la successiva assunzione di due nuove reclute più un consulente magico” le rivelò il sindaco a fior di labbra, un sorrisetto tra il divertito e il rassegnato impresso sul volto.
Perché Regina lo aveva già messo in conto da un po’ che le cose sarebbero cambiate. E lei ed Emma dovevano poter dedicare il giusto tempo alla loro famiglia, senza però rischiare di danneggiare la città e i suoi abitanti. A Storybrooke servivano un municipio e un dipartimento dello sceriffo operativi a tempo pieno e, se da una parte il suo staff era ormai ben organizzato e funzionante anche senza le sue continue direttive, lo stesso non si poteva dire dell’ufficio dello sceriffo, che in quel momento era… beh, esattamente come il proprio sceriffo.
Regina sospirò, comunque grata per quell’imprevedibile uragano che era la sua Emma.
Pasticciona, ritardataria, disordinata, incorreggibile in centinaia di cose, ma non l’avrebbe cambiata per nulla al mondo.
La sua Emma.
Le sorrise.
“Coraggio mostriciattolo biondo: porta qui quel vassoio. È davvero ora di fare colazione”.
 
 
“Papaaaaà!” urlò Jennifer non appena vide suo padre entrando nella stanza.
Gli corse incontro ed Henry si abbassò leggermente e spalancò le braccia, pronto a sollevarla e a stringerla forte.
La piccola gli gettò le braccia attorno al collo, ricambiando la stretta e riempiendogli il cuore.
“Hey, principeste! Hai fatto la brava?” le chiese Henry, posandole un bacio sui capelli.
“Si papà!
Ho giocato con Robin e con zia Zelena e con nonna Regina e mi sono messa il vestito da principessa e nonna Regina mi ha fatto i capelli e poi ho fatto un disegno e poi nonna Emma ha detto che sono la sua preferita e poi Robin mi ha fatto il solletico e poi io sono scappata!”
Henry le sorrise, travolto da un tale entusiasmo. “Wow, deve essere stata una bella giornata!”
“Siiii!
Possiamo stare ancora qui papà? Eh, possiamo???” gli chiese Jenny, supplicandolo con quei suoi occhioni verdi e quel suo viso apparentemente angelico che già così bene aveva imparato a sfruttare.
Henry la guardò orgoglioso e terrorizzato. A breve sarebbe arrivata anche l’altra piccola e lui non avrebbe più avuto alcuno scampo.
“Henry!” esclamò la voce più che familiare che per prima aveva conquistato e monopolizzato la sua vita e il suo cuore.
“Ti sembra questa l’ora di rientrare?!” lo rimproverò Violet. “Il matrimonio è tra meno di due ore e tu sei ancora in quelle condizioni!”
“Tu invece sei già pronta e sei bellissima” le disse lui, sorridendole estasiato e ben felice di poter sviare l’attenzione da sé.
Violet riconobbe il palese tentativo di cambiare soggetto, ma anche la sincerità di quel suo complimento e non poté non arrossire. “Smettila, sono una balena...”
“Forse, ma sei la più bellissima delle balene” le rispose Henry, ghignando.
Con ancora Jenny in braccio, le si avvicinò per poterla baciare. E poi si abbassò leggermente, per poter baciare anche l’altro suo piccolo pezzo di cuore.
“Ciao mostriciattolo” disse, salutando la sua secondogenita.
“Henry, smetti di usare questi nomignoli orribili per la bambina” lo rimproverò Regina, entrando nella stanza.
“E se qualcuno si decidesse a scegliere un nome non saremmo nemmeno più costretti ad usare dei nomignoli... io con Jennifer non ci ho messo tutto questo tempo” continuò, infastidita.
Henry sospirò, rassegnato.
“Beh, pare che quel qualcuno abbia già scelto un nome da un sacco di tempo, ma non possa svelarlo nemmeno a me e a Violet perché prima deve comunicarlo ad un certo altro qualcuno che però non le parla...”
Gli occhi di Regina si spalancarono, colta alla sprovvista.
Quelli di Violet invece si ridussero a due fessure. “In che senso Emma ha già scelto il nome da un sacco di tempo?!”
“Ehm... dai tesoro, vieni ad aiutarmi col vestito, siamo in ritardo” le disse Henry, prendendole la mano e trascinandola delicatamente fuori dalla stanza.
Prima di uscire però, Henry si fermò a baciare la guancia di sua madre. “È di sopra.
Parlatevi mamma, si risolverà tutto”.
Regina sorrise e sistemò i capelli arruffati del suo piccolo principe, così come aveva già fatto molte e molte altre volte.
Poi Henry uscì e il pensiero di Regina andò ad Emma e a quell’inevitabile confronto che le attendeva.
Si diresse verso le scale che l’avrebbero portata al piano di sopra. Nel cuore, la speranza che sarebbero riuscite a ritrovarsi, così come avevano già fatto molte e molte altre volte.
 
 
 
Buonasera e grazie per aver letto fin qui :)
Questo capitolo è dedicato alle persone che portano la colazione a letto, una delle cose più belle e dolci di questo mondo.
Un grazie particolare a dadona84, che mi ha suggerito il termine “principeste”, perfetto per la piccola Jenny e che non vedevo l’ora di usare, grazie!
E di nuovo grazie per aver letto.
Al prossimo capitolo!

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Capitolo 25
*** Capitolo 25 ***


Capitolo 25.

L’ormai familiare e tenue bagliore si spense, annunciando il completamento del trasferimento di energia. Ma, come sempre, Regina aspettò qualche istante prima di lasciar andare la mano di Emma.
Le piaceva stringerla, intrecciare le proprie dita alle sue mentre chiacchieravano o, come quella mattina, rimanevano sdraiate e abbracciate in silenzio.
Il capo di Emma era poggiato sulla sua spalla, con quelle sue onde bionde che ricadevano ovunque, disordinate, permettendole di giocarci mentre lo sceriffo accarezzava dolcemente il loro bambino.
D’istinto, Regina avrebbe detto che quelli erano i quarti d’ora più belli delle sue giornate, ma la verità era che ormai praticamente ogni istante delle sue giornate era bello. Perché in ogni istante si sentiva amata. E in ogni istante sentiva di poter amare, senza più nascondersi, trattenersi, sacrificarsi.
Emma aveva portato la luce nella sua vita, una luce che le permetteva di guardare ogni cosa con occhi nuovi. E che era concreta e fondamentale tanto quanto quell’ormai familiare e tenue bagliore tra le loro mani.
Mancava davvero poco.
Solo poco più di un mese e quei quarti d’ora di pace ed intimità non sarebbero più stati necessari.
E probabilmente lei ed Emma avrebbero anche dovuto dire addio ad ogni altro tipo di pace ed intimità per un bel po’, pensò Regina sospirando, ma ne sarebbe certamente valsa la pena.
“Come mai questo sospiro?” le chiese Emma, ruotando leggermente la testa per poterla guardare in faccia.
Regina le sorrise e le solleticò il viso con i suoi stessi capelli. “Stavo pensando a quanto è faticoso amarti” le rispose.
“Hey!
Io sono facilissima da amare!” ribatté Emma, piccata, scostandosi un po’ da Regina e mettendo il broncio.
Regina non riuscì a trattenersi e scoppiò a ridere, mentre l’amore per quel mostriciattolo biondo le scoppiava disarmante nel petto.
“Regina!
Sono facilissima da amare!” ripeté lo sceriffo, cercando di difendersi.
Regina si concentrò sui suoi occhi verdi, fissandovi dentro i propri mentre la risata si addomesticava in sorriso.
Lasciò andare i capelli e accarezzò una guancia di Emma.
“Accettare di amarti, signorina Swan, è stata probabilmente la cosa più difficile che io abbia mai fatto in tutta la mia vita.
Ma da quel momento… sì, ogni cosa è diventata facilissima”.
Emma la guardò e arrossì, spiazzata da quelle parole.
Regina non era solita lasciarsi andare a frasi dolci o romantiche. E la prendeva spesso in giro, certo, ma persino scherzando sapeva come farla sentire amata.
Emma le tornò vicino e fece per baciarla, ma improvvisamente le sfuggì uno sbadiglio incontrollabile, proprio ad un millimetro dal viso del sindaco…
Richiuse la bocca, spalancò gli occhi ed arrossì nuovamente, questa volta per la vergogna.
“Ehm… scusa” farfugliò, le guance in fiamme.
Regina le lanciò un’occhiataccia.
“Ai tempi del mio regno nella Foresta Incantata ti avrei condannata a morte per molto meno” le disse, scostandosi da lei e lasciando il letto.
Emma deglutì, seguendola con lo sguardo.
“E invece tu mi ami e, qui a Storybrooke, nella nostra bellissima casa, mi preparerai la colazione perché sai che sono stremata per il trasferimento di magia?” azzardò, cercando di mostrare l’espressione più angelica possibile.
Regina non si voltò nemmeno a guardarla.
“Hai cinque minuti per lasciare quel letto. E la colazione te la prepari da sola” le comunicò, chiudendosi alle spalle la porta del bagno.
Emma sbuffò e strinse a sé il cuscino di Regina, chiudendo gli occhi.
I trasferimenti di magia ormai la stremavano davvero visto che il loro piccolo, crescendo, sembrava avere bisogno di sempre più energia. Ma le sarebbe bastato chiudere gli occhi per qualche altro istante e poi mangiare una o due ciambelle per tornare in forma. Quindi avrebbe sfruttato appieno quei cinque minuti e poi sarebbe passata da Granny prima di andare a lavoro. La deviazione avrebbe richiesto poco tempo, e sarebbe comunque arrivata in ritardo alla stazione dello sceriffo, cosa che sia i suoi collaboratori che il suo capo sapevano ormai più che bene, perciò-
“Emma…” la chiamò Regina.
“Avevi detto cinque minuti!” si lamentò lo sceriffo, frustrata.
“Ne sono passati trenta e non è il momento di poltrire”.
Emma alzò a fatica le palpebre, cercando di individuare la sveglia sul comodino per poter dare della bugiarda a Regina.
Aveva appena chiuso gli occhi, non era possibile che il tempo fosse volato!
Notò però che il sindaco era in piedi davanti al lungo specchio che avevano in camera, già praticamente vestita e quasi pronta per uscire. E Regina non poteva più prepararsi con uno schiocco di dita, usando la magia, il che voleva dire che…
Dannazione, la vita a volte era davvero crudele con lei!
“Mi licenzio!” comunicò, sbuffando e coprendosi la testa col lenzuolo.
“Bene, così potrò finalmente assumere uno sceriffo competente ed efficiente” le rispose prontamente il sindaco, senza scomporsi.
Emma si scoprì la testa e la guardò male, ma Regina non le diede attenzione, impegnata com’era a tentare di tirare su la cerniera posteriore del proprio abito.
Era il vestito amaranto che avevano comprato insieme la settimana precedente, notò lo sceriffo.
Quello prémaman, che aveva il taglio sotto il seno e poi scendeva largo, e che Regina inizialmente non voleva acquistare, fermamente contraria all’idea di dover indossare un qualcosa di così, a suo dire, orribile e sproporzionato.
Poi Emma le aveva fatto notare che quell’abito era esattamente dello stesso colore della camicia che il sindaco aveva indosso a Neverland, sotto quella bellissima giacca blu che sembrava esserle stata cucita addosso e sopra quella canotta nera col bordo in pizzo di cui lo sceriffo aveva giurato di poter riprodurre ogni singolo ricamo, tanto a lungo e attentamente l’aveva osservata durante la loro permanenza su quella folle isola volante...
Emma sorrise al ricordo di come fosse bastata quella semplice e onesta confessione per convincere Regina a comprare quel vestito.
Ed anche una nuova scorta di canotte nere in pizzo.
Improvvisamente sveglia, Emma lasciò il letto e raggiunse Regina, sollevando con un semplice gesto la cerniera del suo abito.
Poggiò la testa sulla spalla dell’altra donna e la abbracciò da dietro, guardandola in viso grazie al riflesso nello specchio.
“Sei bellissima” le sussurrò.
“E sai bene che non troverai mai nessuno più competente ed efficiente di me. Nessuno più diligente, più divertente, più intelligente, più seducente, più attraente, e…”
“Che mi irriti più costantemente?” le suggerì Regina, sollevando un sopracciglio e trattenendo un sorriso.
“Magnificente!” esclamò lo sceriffo. “Non troverai mai nessuno più magnificente di me, ecco.
Beh, almeno fino a quando eviterai di guardarti allo specchio…” concluse, un ghigno sul volto.
“Ruffiana” le rispose il sindaco, abbandonandosi ancora di più in quell’abbraccio.
Emma continuò a sorridere e le posò un bacio sulla guancia. “Ti raggiungo per pranzo?”
“Se riuscirai ad uscire di casa in tempo…
Altrimenti vedrò di trovare un nuovo magnificente sceriffo già per mezzogiorno” la minacciò Regina, senza troppa convinzione.
“Bene, così lui andrà a lavorare e io potrò rimanere per tutto il tempo con voi. Ce la spasseremo insieme, vero trottolino?” ribatté prontamente Emma, portandosi al livello del ventre di Regina e posandovi sopra un bacio.
Regina sospirò, ormai rassegnata agli strani appellativi con cui Emma si rivolgeva al loro bambino.
“Riuscirai a scegliere un nome prima che nasca o sarai in ritardo anche con questo?” la punzecchiò, portando automaticamente le proprie dita tra i suoi capelli, come ormai le accadeva meccanicamente ogni volta che aveva quelle onde bionde a portata di mano.
Emma la lasciò giocare un po’, godendosi quegli ultimi istanti insieme.
“Non preoccuparti, ci sto lavorando” le disse quindi, prima di baciarla ed augurarle buon lavoro, chiudendosi finalmente alle spalle la porta del bagno.
Regina lasciò invece la loro camera e si diresse verso la cucina.
Nonostante avesse detto il contrario, aveva già pensato di far trovare ad Emma la colazione pronta, ben consapevole che i trasferimenti di magia la stremavano davvero.
Mise in funzione la macchinetta per il caffè e vi posò accanto una fetta della torta di mele che aveva preparato il giorno prima. In questo modo avrebbe evitato ad Emma di passare da Granny (cosa che certamente lo sceriffo aveva in programma di fare), risparmiandole un ulteriore perdita di tempo e, soprattutto, un ulteriore carico di zuccheri.
Regina guardò poi l’orologio della cucina e scosse la testa.
Anche senza la sosta da Granny, Emma sarebbe arrivata a lavoro puntualmente in ritardo.
Fortuna che i nuovi assunti tra le forze dell’ordine di Storybrooke sembravano non avere questo enorme difetto in comune con il loro capo. Mulan Fa era la persona più seria, puntuale ed affidabile con cui avesse mai interagito nella propria vita, mentre Dorothy Gale era sì uno spirito libero, ma con un grande istinto e molto portata per l’azione. E adesso che Belle aveva cominciato a gestire anche la documentazione della stazione dello sceriffo, tutto funzionava estremamente meglio, nonostante l’imprevedibile contributo di Zelena, nuovo consulente magico designato.
Era tutto già organizzato. E sia lei che Emma avevano cominciato a delegare ad altri parte del proprio lavoro, così che, con la nascita del bambino, avrebbero potuto entrambe dedicare del tempo alla loro famiglia.
Da quando aveva creato Storybrooke, Regina non era mai stata volontariamente lontana dal proprio ufficio per più di qualche giorno. E adesso invece non vedeva l’ora che quel periodo di ferie forzate arrivasse a sconvolgerle la vita.
Il futuro imminente però non la sollevava dalle responsabilità del presente, per questo Regina non esitò ad immergersi nella sua routine lavorativa non appena raggiunto l’ufficio.
Controllò le nuove mail, visionò la bozza del programma per la festa del minatore e si preparò a rileggere la documentazione per la successiva riunione delle undici, felice che la sua giornata in ufficio si prospettasse tra le più leggere e ordinarie.
E leggera e ordinaria lo fu, ma solo fino a quando la sua segretaria non piombò nel suo ufficio di corsa e col viso stravolto.
“Signor sindaco!
Un incendio, è scoppiato un altro incendio nella scuola!”
E Regina scattò in piedi fulminea, afferrando d’istinto il cellulare per comporre il numero di Emma mentre si dirigeva verso l’uscita del Municipio, alla propria auto, con la segretaria che le correva dietro, cercando di fornirle ulteriori dettagli.
“Hanno chiamato dalla stazione dello sceriffo, loro sono tutti già sul posto. Pare sia un po’ più grave dell’ultima volta, ma sono certa che risolveranno tutto in breve tempo.
E, signor sindaco, forse lei dovrebbe rimanere qui, ci aggiorneranno sicuramente” provò a proporle.
Ma Regina la ignorò e “chi ha chiamato?” le chiese invece, non avendo ricevuto alcuna risposta da Emma.
Compose quindi il numero di Henry, pregando che il suo piccolo principe stesse bene, mentre la sua segretaria le confermava che, come si aspettava, era stata Belle a chiamare.
Emma e gli altri dovevano essersi teletrasportati sul posto. Lei invece poteva solo sperare nella sua Mercedes per arrivare il prima possibile.
Mise in moto l’auto e lanciò il proprio cellulare sul sedile del passeggero, dopo che nemmeno la telefonata al numero di sua sorella era andata a buon fine.
Ma la scuola era a pochi minuti dal Municipio, avrebbe fatto presto.
Ed Emma e Zelena erano certamente già lì, e avevano la loro magia e sicuramente avevano già risolto tutto con uno schiocco di dita e lei si stava preoccupando per niente.
Quel fumo nero che si vedeva all’orizzonte era solo il segno dell’incendio domato. A breve si sarebbe diradato e il cielo sarebbe tornato azzurro e luminoso come poco prima, proprio come dopo il primo stupido incendio, che era stato spento in pochi minuti e non aveva adombrato nulla, consentendogli di fare quel meraviglioso pic nic nel parco del Municipio, dove Henry aveva sorriso e scattato foto per tutto il tempo e dove lei ed Emma si erano scambiate il loro primo bacio.
Ma ora Henry ed Emma non le rispondevano al telefono e quel maledetto fumo nero sembrava farsi più esteso e denso ad ogni metro percorso.
Ora Regina poteva vedere la sagoma della scuola. E le macchine ferme e il caos di gente tutto attorno all’edificio.
Molti dei suoi concittadini dovevano essere accorsi sul posto, pronti a dare una mano. E dei gruppi di bambini erano già al sicuro nel parco adiacente, assieme ai loro insegnanti e ad alcuni genitori.
Regina abbandonò l’auto non appena il traffico non le permise più di procedere oltre e colmò a piedi, a passo quanto più svelto possibile, le decine di metri che la separavano dalla sua meta.
Da così vicino, dietro al fumo si potevano distintamente vedere le fiamme, che avevano già conquistato una parte dell’edificio e sembravano in continuo avanzare, per nulla domate ed estinte come aveva sperato.
Regina sentì le proprie gambe cominciare a cedere per la fatica e l’orrore.
Il suo pensiero ad Henry ed Emma, il suo sguardo alla ricerca di volti cari tra la folla.
Ma non ne trovò Regina, e si fermò all’estremità del cortile, per poter scrutare meglio ogni viso.
Individuò per prima l’agente Fa, impegnata a scortare in fretta l’ennesima classe fuori dal fabbricato, assieme a delle maestre che cercavano di tranquillizzare dei bambini piccoli e terrorizzati.
E poi il respiro le si mozzò non appena riconobbe i fratelli Zimmer, compagni di classe di Henry, che sembravano essere illesi e si stavano allontanando dall’edificio, camminando a passi svelti verso il parco.
“Nicholas! Ava!
Dov’è Henry?” urlò loro Regina, catturandone l’attenzione prima di raggiungerli.
“Henry… credo sia con gli insegnanti” le rispose Ava.
“Stava bene, e i ragazzi più grandi stanno aiutando con l’evacuazione, ci sono ancora tante persone dentro la scuola e dovremmo aiutare anche noi, ma mio fratello non sta bene e-“
“Mi dispiace” bisbigliò improvvisamente Nick, attirando su di sé l’attenzione di Regina.
“Cosa?” domandò il sindaco.
“Mi dispiace” ripeté il ragazzo. “Io volevo solo saltare la scuola come l’altra volta, non volevo questo, io non...”
“Nicholas, che cosa hai fatto?” chiese Regina, rabbrividendo.
“Io non volevo, davvero, non volevo!”
“Nicholas... NICK, GUARDAMI!” gli urlò in faccia Regina, afferrandolo per le braccia e costringendolo a guardarla.
“Che cosa hai fatto?”
“Ho solo mescolato qualche provetta nel laboratorio, per fare come l’ultima volta! E ho rubato della polvere alle fate, così sarebbe durato di più...
Volevo solo saltare la scuola, non volevo fare male a nessuno!”
Regina lo lasciò andare, terrorizzata.
Prese di nuovo in mano il cellulare, mentre con la mente ripercorreva le piantine della scuola che, come quelle del resto della città che aveva creato, erano ancora ben impresse nella sua testa.
I laboratori di scienze erano al secondo piano, sul lato est dell’edificio.
E la polvere di fata… quello era un incendio magico, ecco perché dall’esterno Zelena e gli altri non riuscivano ad estinguerlo!
Ma né sua sorella né Emma risposero alle sue ulteriori chiamate e intanto le fiamme crescevano e il fumo diventava sempre più denso e scuro e…
Regina portò le mani sul proprio ventre e strinse forte gli occhi, non riuscendo comunque a trattenere le prime lacrime.
Si prese un secondo.
Respirò a fondo.
Poi riaprì gli occhi, ora bagnati, ma roventi di determinazione.
E mentre il suo cellulare provava a contattare Emma per l’ennesima volta in quella maledetta mattina, Regina si mosse.
Procedendo verso l’unica direzione in cui sapeva per certo di dover andare.
 
 
“Henry dice che hai finalmente scelto il nome” affermò Regina, facendo improvvisamente il suo ingresso nella loro camera da letto e facendola sobbalzare.
Emma poté vederla attraverso il riflesso nel lungo specchio davanti al quale stava finendo di prepararsi.
Indossava un abito amaranto Regina, un abito che Emma non aveva mai visto prima, ma che certamente la fasciava alla perfezione, mettendo in risalto le sue curve e sposandosi magnificamente con la sua pelle scura.
Era bellissima, come sempre.
E le si avvicinò a passi lenti Regina, con l’eleganza che l’aveva contraddistinta sin dal primo giorno in cui Emma l’aveva vista. Le scostò i lunghi capelli biondi dal collo e, con un semplice e rapido gesto, sollevò la cerniera posteriore del suo abito, facendola riscuotere e rabbrividire con quel contatto che tra loro mancava da quella che ad Emma sembrava ormai un’eternità.
“Lana” riuscì a sussurrare Emma, prima di voltarsi. “Vorrei che il suo nome fosse Lana, perché, sai, significa “luce”. E poi Maria come secondo nome, per legarlo a quello che tu hai scelto per Jenny”.
“Lana Maria Mills” disse quindi Regina, assaporando quelle tre parole e ascoltando attentamente il loro suono.
Rimase in silenzio per qualche secondo, come a volerle valutare, ma ad Emma non servì altro che sentirle pronunciate da lei per avere la certezza di aver fatto la scelta giusta.
“È molto bello” disse il sindaco subito dopo, abbozzando un sorriso, lo sguardo perso certamente nell’immaginare la loro nipotina.
E gli occhi di Emma si illuminarono, dimenticando per un istante ogni tensione e sofferenza, persi nella curva perfetta che era il sorriso sul volto di Regina.
Nell’incontrarsi, i loro sguardi persi ritrovarono i ricordi di quell’ultimo periodo. E non poterono che tornare seri.
Regina fece un passo indietro, mentre Emma ne fece uno avanti. “Regina, mi dispiace…”
“Oggi non c’è spazio per i mi dispiace, oggi i nostri problemi vanno messi da parte” le rispose perentoria il sindaco.
“Lo so, ma se solo tu mi ascoltassi… se mi facessi spiegare, capiresti che non ho avuto scelta. Io-“
“C’è sempre una scelta Emma” tagliò corto Regina, la sofferenza a riempirle lo sguardo severo.
“Ma non è il momento di parlarne, adesso conta solo la felicità della nostra famiglia.
Sbrigati per favore, ti aspetto di sotto”.
E, senza darle modo di replicare oltre, Regina lasciò la stanza a passo svelto, chiudendosi la porta alle spalle.
Emma fece un profondo respiro, maledicendosi per il ruolo avuto in quell’assurda situazione.
Doveva essere uno dei giorni più felici della loro vita. E invece, come sempre, aveva in qualche modo rovinato tutto.



 
Ciao a tutti :)
Grazie mille per aver letto fino a qui nonostante il lungo capitolo e grazie per la pazienza che state avendo con me e questa storia.
A tal proposito, chiedo scusa per l'ennesimo ritardo, probabilmente Emma mi sta influenzando anche in questo.
E chiedo scusa anche per quello che sta succedendo, ma... doveva succedere ^^
Un grazie in particolare a Earwen82 per i consigli e il supporto con questo capitolo :)
Alla prossima!

Sparewheel

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Capitolo 26
*** Capitolo 26 ***


Salve ^^
Chiedo immensamente scusa per il ritardo e spero che la lunghezza di questo capitolo possa in qualche modo compensare la lunga attesa.
Visti i mesi passati e visto che gli eventi continuano esattamente da dove li avevamo lasciati, consiglierei di rileggere il capitolo 25 prima di passare a questo, per meglio comprendere il filo logico della storia sia nel presente che nel flash forward.
Ma se non doveste averne voglia… beh, era scoppiato un secondo incendio nella scuola di Henry, Emma non si trova e Regina, saputo che l’incendio ha la magia ad alimentarlo, capisce che bisogna domarlo dall’interno, alla fonte, e sta prendendo una qualche decisione in merito al da farsi. Riguardo al futuro invece, Emma e Regina si parlano brevemente, ma la tensione tra loro non si dissipa e Regina lascia la loro stanza, rimandando la discussione per via di una qualche cerimonia familiare imminente.
Grazie per la pazienza e buona lettura :)

 
 
Capitolo 26.

C’era stato un tempo in cui il fuoco le aveva trasmesso forza e sicurezza. Un tempo in cui le fiamme erano state la manifestazione del suo potere, del suo controllo sulla vita e sul mondo, della sua stessa essenza magica.
Un lieve movimento della mano e il rogo divampava. I suoi nemici erano in fuga, la strada veniva spianata e le urla di dolore diventavano dolce musica che accompagnava il suo trionfo.
C’era stato un tempo in cui la distruzione era stata la sua unica consolazione.
Ma in quel momento, mentre camminava cauta e svelta tra i corridoi della scuola in fiamme, Regina provava solo un agghiacciante terrore.
Faceva caldo lì dentro. Di quel caldo che ti soffoca la gola e la mente, che ti fa lacrimare gli occhi e pizzicare le narici.
E il fumo, il fumo prendeva sempre più consistenza passo dopo passo, sfocando i contorni di ogni oggetto e sostituendo il suo grigiore a quella che fino a qualche ora prima era stata la realtà colorata e vivace di un ambiente per bambini e ragazzi.
Ma erano i rumori la cosa peggiore: le grida, i rimbombi, gli scoppi. Un caos di voci e suoni che riempiva l’aria e faceva tremare il cuore, scuotendolo assieme alla voce nella testa di Regina, quella che, come un mantra, le ripeteva di andare avanti, le assicurava che quella era la cosa giusta da fare.
Perché c’erano ancora troppe persone intrappolate e l’edificio non avrebbe resistito a lungo. Perché i bambini non dovevano sopportare quell’orrore un istante di più, e lei poteva e doveva salvarli.
E doveva credere che, come sempre, Emma sarebbe arrivata in tempo a risolvere tutto, sarebbe arrivata in tempo per salvare il loro bambino.
L’unico bambino di Storybrooke che in quel momento Regina stava mettendo in pericolo.
Ma non poteva pensarci, non poteva lasciarsi fermare da quella devastante morsa al cuore.
Svoltò a destra Regina, percorrendo l’ennesimo corridoio e dirigendosi poi verso le scale che l’avrebbero portata al piano superiore.
Erano sempre di più i calcinacci e le macerie sul suo percorso, sempre di più i contorni conquistati dalle fiamme, ora vive e ardenti davanti ai suoi occhi ed intente a danzare spavalde e fiere del loro operato, proprio come un tempo avrebbe fatto lei.
Il destino le stava ridendo in faccia per l’ennesima volta, ricordandole la vera essenza della sua vita.
Non carezze e sussurri in un comodo letto, non risate attorno ad una tavola imbandita, non battibecchi sul divano e passeggiate nel parco, non sfide e soddisfazioni a lavoro, non profumo di casa e calore di famiglia.
Quei tesori non potevano essere destinati a lei.
Però gli sguardi, gli abbracci, l’amore vero… lei li aveva avuti.
Era stata immensamente fortunata a provare la vera felicità, ad assaporare la conquista più grande tra tutte.
E ne voleva ancora Regina, bramava con tutto il cuore altri mesi come quelli appena trascorsi, insieme a nuove notti scandite da pianti e ninne nanne, con la casa in disordine e l’odore di pannolini sporchi, le braccia doloranti e le borse sotto gli occhi, il farsi piccola piccola in un letto con quattro persone, in un futuro in cui la vita è una testolina poggiata sul tuo petto mentre due paia di occhi verdi brillano per lo stesso amore e la stessa gioia che ti senti danzare dentro.
Sarebbe stato incredibilmente bello un domani così.
E stava andando avanti per quello Regina, per dare alla sua famiglia e a tutta Storybrooke quel grande e prezioso futuro, anche a costo di non esserci a viverlo.
Poteva renderlo possibile per gli altri, poteva superare quelle fiamme e raggiungere la meta: i laboratori di scienze erano ormai vicini.
Era quasi arrivata.
Era quasi finita.
Ma ciò che contava no, non sarebbe finito.
“REGINA!” sentì urlare, prima che una mano salda le stringesse il braccio, fermando il suo avanzare.
“È pericoloso stare qui, devi uscire subito!” le disse David, evidenziando l’ovvio mentre s’interponeva tra lei ed il vicino corridoio in fiamme.
Era alto David, notò Regina. Era parecchio più alto di lei.
Aveva un fisico possente, uno sguardo premuroso, e quell’ingenuità e quell’eccessivo modo di proteggere che erano tipici anche di Emma e che lei fingeva soltanto di trovare irritanti.
Perché erano fastidiosi pregi che in realtà amava.
E che, circondata da fumo e fiamme, si chiedeva se sarebbero stati ereditati anche dal suo bambino una volta adulto.
Non lo aveva ancora mai immaginato da grande.
E probabilmente non avrebbe mai potuto vederlo nemmeno da piccolo.
Strinse gli occhi e la mano che David teneva ancora sul suo braccio.
“C’è un incendio magico nel laboratorio in fondo a quel corridoio. Bisogna estinguerlo alla fonte, con la magia.
Devi trovare Emma, portala qui” gli chiese Regina, una supplica nello sguardo.
Scostò la mano di David dal proprio braccio e si allontanò veloce, avanzando per paura della troppa voglia che aveva di tornare indietro.
Ma David la raggiunse in pochi secondi, poggiandole la giacca della sua enorme uniforme attorno alle spalle.
“Andiamo” le disse semplicemente.
“No, David!” lo bloccò Regina. “Devi andare a cercare Emma, serve la sua magia per alimentare il bambino!”
“Ma tu non aspetterai qui ferma il nostro arrivo, vero?” le domandò retoricamente David, il volto serio e deciso.
Regina distolse lo sguardo per un secondo e David ebbe la conferma di ciò che pensava.
“Siamo a poche decine di metri dalla fonte dell’incendio e tu hai già deciso di usare la tua magia, quindi tra un minuto sarà tutto finito. Solo allora usciremo da qui, insieme. Ed insieme andremo a cercare Emma.
Non devi farlo da sola Regina.
Andiamo” le ripeté, sorridendo.
Regina lo guardò sorpresa e sentì le lacrime invaderle i bordi degli occhi.
Annuì, senza riuscire a dire nulla, e riprese ad avanzare, David al suo fianco.
Percorsero in silenzio e a passi lenti l’ultimo tratto ancora libero dalle fiamme, avvolti da una nube di fumo denso e scuro che quasi non permetteva loro di vedere.
Ma pochi istanti dopo, nel bel mezzo dell’inferno, Regina scorse finalmente un bagliore blu che spiccava anomalo nel fuoco.
Era certamente quella la fonte delle fiamme, erano arrivati. Ed era certamente arrivato il momento di agire.
“Il bambino ha la priorità” disse, catturando l’attenzione di David.
“Regina-”
“No, ascoltami.
Neutralizzerò gli effetti della polvere di fata e farò sparire le fiamme, ma penso che dopo perderò conoscenza, quindi ti chiedo di proteggere mio figlio fino all’arrivo di Emma.
Il bambino ha la priorità David” ripeté Regina, in volto uno sguardo che non ammetteva repliche.
David capì.
E vi si arrese.
“Proteggerò anche te, e vi porterò da Emma” la rassicurò.
“Grazie…
E ringrazierai anche Snow e mia sorella e i vostri bambini.
E dirai… dirai ad Emma ed Henry che li amo tanto” concluse Regina, facendo un passo in avanti e rilasciando con determinazione la propria magia.
Un lampo di luce viola dissipò istantaneamente il fumo, colpendo ed annientando il bagliore blu, che scomparve insieme alle fiamme.
Pochi istanti di silenzio, poi un boato invase l’ambiente, assieme all’onda d’urto generata da quell’immensa concentrazione di magia.
Regina vide ogni cosa schizzare contro le pareti, compreso David, che fu scaraventato a terra a diversi metri di distanza. A lei stessa mancò la terra sotto i piedi, fino a che di schiena non impattò sul muro retrostante, finendo stesa sul pavimento.
Un fischio fortissimo le invase le orecchie mentre la vista sfocata le rimandava immagini di acqua e sangue.
“Inizierò ad odiare il dannato colore rosso” pensò, smettendo improvvisamente di provare dolore.
Ma le venne in mente la giacca rossa di Emma, e i suoi capelli biondi, e i suoi meravigliosi occhi verdi.
I colori della sua vita.
Regina si concentrò su quelli mentre le palpebre cominciarono a chiudersi e i pensieri a farsi confusi.
Lottò, ma non poté che abbandonarsi al buio.
“Emma…”
 
 
“Mi dici spesso che non sono molto sveglia e che, come agli appuntamenti, anche alle cose ci arrivo sempre dopo.
Negherò di averlo ammesso, ma... cavolo quanto hai ragione.
L’ho capito quella sera di giugno. Sai, quella in cui ti ho vista in piedi davanti allo specchio della nostra camera.
Eri lì e guardavi il tuo riflesso insicura, timorosa, e con il viso più dolce e tenero che io abbia mai visto.
Sei la cosa più bella che io abbia mai visto.
E sì, sei dolce e tenera. E a volte anche insicura e timorosa, ma va bene.
Puoi esserlo, con me.
Puoi essere tutto ciò che vuoi, puoi permetterti di sentire tutto ciò che ti esplode nel cuore.
Quel cuore grande, immenso che hai.
Ci ho messo un po’, ma l’ho capito Regina.
E no, non il fatto che hai un cuore, non guardarmi male, ok?
Ma il fatto che lì c’è... posto anche per me.
E sono un’idiota, perché tu crei posti anche per le persone che odi, figuriamoci per quelle a cui tieni…
Per quelle a cui tieni fai di più.
Per noi hai fatto tutto, tutto.
E l’ho capito.
Sai cosa sei tu?
Tu sei casa, e non credo ci sia nulla di più prezioso.
Lo sei stata per Henry neonato non appena lo hai stretto tra le tue braccia.
Lo sei stata per il nostro piccolo, con il tuo ventre e tutta te stessa.
E per me... per me sono bastati tre sorrisi in una cornice ed è cambiato tutto.
Ho trovato il mio posto.
Anzi, tu hai trovato il mio posto e me lo hai indicato, con pazienza ed un sorriso.
E hai lasciato a me la possibilità di scegliere se e quando prenderlo.
Mi hai lasciato appartenere ed essere libera allo stesso tempo.
E a me non è rimasto che stupirmi, ogni giorno.
E guardarti incantata, ogni volta che posso.
E capire.
E l’ho capito, sai?
Quella sera di giugno l’ho capito.
Anche se sono una vigliacca e te lo sto dicendo solo adesso che non puoi sentirmi.
Io… ti voglio al mio fianco per sempre.
Io che sono sempre stata sola, che ho sempre fatto tutto da sola, ora non so più nemmeno immaginarla una vita in cui tu non ci sei.
Ti voglio al mio fianco per sempre.
Perché senza di te tutto è vuoto, insignificante, insensato.
E da due settimane i giorni sono tutti uguali, ci hai gettato in una maledizione certamente peggiore del tuo sortilegio originario.
Ci sei riuscita, ti sei davvero superata Regina, ok?
Ma adesso basta, adesso devi svegliarti e far ripartire le nostre vite.
Perché manchi a tutta la nostra famiglia, e senza di te io ed Henry siamo un disastro.
E anche perché… il nostro piccolo è una meraviglia che non puoi perderti, e vuole conoscere la sua mamma”.
 
Con un tempismo pressoché perfetto, un pianto acuto e squillante invase la stanza, costringendo Emma a lasciare la mano di Regina, interrompendo il trasferimento di magia.
“Eccomi mostriciattolo, sono qui!” disse Emma al suo secondogenito, raggiungendone la culla e prendendolo in braccio.
Due enormi occhi color nocciola si puntarono sui suoi ed istantaneamente una manina paffuta andò ad afferrarle i capelli, cominciando a giocarci.
Proprio come faceva sempre Regina.
“Quando la smetterai di usare questi orribili soprannomi?” si sentì rimproverare Emma. E il respiro le si mozzò in gola.
“Regina!” provò ad urlare, raggiungendo in un istante il lettino in cui la donna si stava mettendo seduta.
E gli occhi di Regina furono subito sul loro piccolo. “Lui è… sta bene?” chiese, la voce tremante.
Emma le mise il bambino tra le braccia per la prima volta, sedendosi accanto a lei ed abbracciandola come da secoli aspettava di fare.
“Sta benissimo, grazie a te. Tua sorella e la dottoressa Wilson hanno detto che hai concentrato su di lui tutta la tua magia in una volta, per questo sei entrata in coma. Dannazione Regina, sei stata un’incosciente!” la rimproverò Emma, senza però smettere di sorridere e di stringerla.
“Non potevo aspettare, e tu come al solito eri in ritardo…”
“Ero svenuta” le spiegò Emma, imbarazzata. E solo a quelle parole lo sguardo di Regina lasciò il bambino.
“Stai bene? Ed Henry?” le chiese, preoccupata.
“Henry sta bene, non si è fatto neanche un graffio e ora è da qualche parte in giro per l’ospedale a cercarmi un caffè. E io adesso sto benissimo. Ma il giorno dell’incendio non avevo avuto il tempo di riprendermi dal trasferimento di energia e l’uso della magia per contenere le fiamme mi ha messa ko per un po’.
Per fortuna c’era mio padre con te, ti ha portata fuori dalla scuola dopo che sei svenuta e ti si sono rotte le acque.
E c’è stata tua sorella per il bambino e la magia che serviva durante il parto.
Io invece mi sono svegliata due ore dopo… ce lo siamo perso entrambe” le spiegò, mentre l’attenzione tornava al loro piccolo, che stava ancora stringendo i capelli di Emma e con lo sguardo attento e curioso cercava Regina.
Regina sospirò, ammaliata da quegli occhi così simili ai propri, ma che le ricordavano così tanto Emma.
Aveva mille domande ed era ancora abbastanza confusa, ma… c’era tempo. E c’erano certamente delle priorità.
“Dovrai raccontarmi tutto, ma adesso dimmi… hai finalmente scelto un nome?”
Emma ghignò e le posò un bacio sulla tempia.
“Certo! Penso di aver scelto il nome perfetto…”
 
 
“David Zell Mills, adesso sei davvero pronto!” esclamò David entusiasta, finendo di sistemare il papillon di suo nipote mentre un sorriso gli si allargava sulle labbra.
“Grazie nonno” gli rispose Dave, con un ghigno pressoché identico.
Regina approfittò della loro distrazione per fermarsi sulla porta della stanza e guardare suo figlio risplendere di gioia.
Con quei suoi occhi scuri e profondi, quella chioma bionda sempre arruffata, quel suo perenne buonumore contagioso e quella sua faccia da schiaffi così simile a quella di Emma… il suo bambino era stupendo.
Ma non era più un bambino, Regina lo sapeva bene.
Ed era solo lei a non essere davvero pronta, ma il momento era arrivato comunque.
E lei doveva accettarlo.
Sospirò e fece il suo ingresso nella stanza, catturando l’attenzione dei due occupanti. “Posso?” chiese quindi a David, che annuì e le lasciò il posto di fronte a suo figlio.
Regina gli lisciò la giacca nera e gli sistemò i capelli, in quella che fu più una carezza materna che non un gesto efficace per quelle onde ribelli.
Un ciuffo però sembrò trovare il suo posto.
“Ecco, così sei perfetto” sussurrò Regina, poggiando la mano sulla guancia di suo figlio mentre gli occhi le brillavano di amore e lacrime.
“Mamma… non è ancora il momento di piangere, la cerimonia non è nemmeno iniziata!” la richiamò Dave, sorridendole.
Regina distolse lo sguardo e si schiarì la voce.
“Non sto affatto piangendo” dichiarò, facendo un passo indietro.
“Ma ce l’hai ancora con me?” le chiese Dave, la voce colpevole.
Regina tornò subito a guardarlo.
“No tesoro, certo che no!
Hai fatto una cosa stupida scappando, ma è una cosa stupida che sono certa non farai mai più” disse, calcando su quelle ultime parole.
Dave deglutì ed annuì, cogliendo perfettamente il tono di sua madre e il ben poco spazio che lasciava a delle repliche.
“Come sai, non capisco perché hai pensato che per sposarvi vi servisse scappare” continuò Regina. “E avrei voluto che tu sentissi di poterne parlare con me, perché anche a me puoi dire tutto Dave…”
“Mamma… non l’ho detto nemmeno ad Emma, lei l’ha scoperto per caso! E sai che l’ho supplicata io di non dirti niente, non è stata una sua scelta” provò a spiegare Dave per la millesima volta.
La tensione tra le sue mamme era tutta colpa sua e non riusciva a capire come Regina potesse aver perdonato lui così facilmente e allo stesso tempo potesse accusare Emma con un tale risentimento.
Il modo in cui funzionavano quelle due sarebbe sempre stato un mistero per lui.
“Non provare a difenderla… certo che è stata una sua scelta! Una scelta idiota ed incosciente come lei” ribatté Regina.
“Sì, e sai che mi dispiace di averti mentito, ma potresti anche ammettere che non è stata una scelta semplice” precisò Emma, facendo il suo ingresso nella stanza, seguita da Henry.
“E avresti scelto anche tu di supportare nostro figlio se fossi stata al mio posto…” continuò lo sceriffo.
“Certo che avrei supportato nostro figlio! Ma parlandogli e provando a farlo ragionare, e spingendolo a confidarsi e a lasciarsi consigliare dalla sua famiglia, non assecondando la sua fuga segreta fino alla squallida Las Vegas…”
“Ma non ho assecondato la fuga, io sono andata a riprenderli e li ho convinti a sposarsi qui!”
“Si, e mentre andavi lì a me hai detto che sareste andati in campeggio!”
“Certo, perché la verità ti avrebbe distrutta!
E credi che non abbia provato a parlargli?! Ma è tuo figlio dannazione! È testardo ed incapace di ascoltare proprio come te!” sputò fuori Emma, frustrata.
Gli occhi di Regina si spalancarono, per poi ridursi istantaneamente a due fessure.
“…come, prego?!”
Emma deglutì, mentre un brivido freddo le attraversò la schiena.
Dave ed Henry si guardarono, stramaledicendosi in silenzio per non averle fermate prima.
Le loro madri erano entrambe cocciute ed orgogliose e quelle loro stupide liti potevano andare avanti anche per settimane.
Negli anni però i due fratelli Mills avevano imparato che c’era un modo per calmarle o quanto meno zittirle momentaneamente…
Henry guardò Dave, che capì ed annuì al fratello, prima di esclamare…
“Abbraccio di famiglia!”
E i due fratelli Mills allargarono le braccia e spinsero le loro madri l’una verso l’altra, stringendole in una morsa d’affetto come avevano già fatto decine e decine di volte sin da quando Dave era solo un bambino.
Emma e Regina si ritrovarono circondate dai loro figli e schiacciate l’una sull’altra.
In quella stramba posizione riuscivano a malapena a respirare e i loro abiti eleganti erano ormai certamente sgualciti, ma era uno dei loro riti di famiglia… ed era in momenti come quello che Emma e Regina sentivano i loro cuori battere davvero.
Cedendo, entrambe sollevarono le braccia andando ad avvolgere l’altra, abbandonandosi così a quel contatto che per troppo tempo si erano negate.
I due fratelli Mills se ne accorsero e si scambiarono uno sguardo complice.
“Grazie per essermi accanto in questo giorno” sussurrò Dave, stringendo ancora di più a sé la propria famiglia.
“Ok, ma adesso andiamo: non si può cominciare senza di noi!” gli ricordò Henry, sciogliendo l’abbraccio. “Andiamo uomo del giorno” disse quindi, trascinando con sé il suo fratellino.
Emma e Regina li guardarono uscire, un identico sorriso sulle labbra.
“Non è vero che non sai ascoltare… e amo il tuo essere testarda” disse Emma, poggiando la propria fronte su quella di sua moglie.
Regina sospirò, sentendo un grosso peso abbandonarle il petto. “E io amo il tuo voler sempre difendere la nostra famiglia, anche se lo fai in modo stupido e avventato” precisò, mettendole le braccia attorno al collo.
“Ma ami anche questo di me, vero?” ghignò Emma.
Regina le baciò via quella smorfia. “Purtroppo amo tutto di te Miss Swan”.
“Ed è questa la mia più grande fortuna” le sorrise Emma, gli occhi luccicanti di felicità.
“Quindi… madame, vorrebbe farmi di nuovo l’onore di camminare al mio fianco lungo una navata?” le chiese Emma, facendo un passo indietro e tendendole il braccio.
Regina le sorrise, ben consapevole che a quella domanda avrebbe risposto sempre e solo in un unico modo.
“Sì, certo.
Come lei desidera”.
 
 
 
 
As you wish”
Fine.
 
 
 
Ok… finalmente ecco a voi tutte le risposte. So che visti i miei immensi tempi di pubblicazione avrete più volte perso il filo e vi chiedo scusa per avervi fatto aspettare tanto, ma ogni cosa adesso dovrebbe avere il suo senso. Per dirne una, il David che compare nel primo flashforward, nel capitolo 18, non è Charming, ma il secondogenito di Emma e Regina, ecco il perché dei loro discorsi.
E la sera di giugno di cui parla Emma in questo capitolo è quella del capitolo 19.
Ho disseminato cose del genere un po’ in tutta la storia, cose che acquistano il loro significato solo più avanti, e mi sono divertita molto a farlo. Spero che per voi sia stato piacevole leggere questo mio piccolo esperimento :)
E… dopo tutto il tempo passato in compagnia di questa storia, non credevo che questo momento sarebbe arrivato davvero, invece ho appena scritto la parola fine, e devo ammettere che fa uno strano effetto...
Earwen82, adesso capisci perché non poteva starmi bene la tua proposta sugli incentivi per la pubblicazione dei capitoli? :p grazie per il tuo supporto e la tua pazienza :)
Non credo di essere pronta a lasciar andare una storia che mi ha dato così tanto e in cui ho messo così tanto di me… ma sono certamente pronta a dire i grazie che devo.
Prima di tutto, grazie a Sophia per avermi prestato i suoi fantastici abbracci di famiglia.
E un enorme GRAZIE a tutti voi che avete letto, perché sapere di aver condiviso questa storia con voi è stato un po’ come aver vissuto insieme parte di questi anni, legati dall’amore per Emma e Regina e la perfezione che sono insieme. E legati dalla voglia di regalare loro qualcosa di bello, perché se lo meritano tutto un lieto fine, un felice inizio o una seconda possibilità che dir si voglia.
Grazie mille a chi oltre ad aver letto ha anche recensito, dedicando del tempo a questa storia e lasciando commenti, apprezzamenti e scambiando opinioni con me, rendendo così i pensieri e i sentimenti un po’ più reali. Leggere le vostre impressioni, le vostre reazioni, le emozioni belle e brutte che questo racconto vi ha suscitato è stato un regalo immenso per me, e vi ringrazio di cuore per quello che mi avete dato.
Quindi…
Alice_91, AndreaG, anjiel, BeaS, BlueHeart, Brit, Celian1987, dadona84, Earwen82, eepfanfictionfan, EleonoraParker, jessy black 93, Kei_chan, lalaPasta, lonspace, matley79, Natascia75, oncers01, ouat99, RebeccaLP, Revil96, Swanqueen79, Trixie, viny1090, GRAZIE!
Spero di non aver saltato nessuno di voi recensori, ma davvero grazie.
E Trixie… tanto di quello che c’è tra queste righe è merito tuo. Non potrò mai smettere di ringraziarti per quello che mi hai dato.
Grazie infinite alle persone che, attraverso questa storia, hanno superato lo schermo e sono entrate nella mia vita reale. È stato certamente questo il dono più bello.
Grazie Emma e Regina. Grazie perché avete preso i miei pensieri e li avete fatti diventare più belli, avete preso dei sentimenti e li avete fatti sfogare e vivere, avete preso una parte della mia vita e l’avete arricchita immensamente.
Infine, grazie As you wish per avermi cambiato in meglio la vita. E, come dicevo, non sono ancora pronta a lasciarti, quindi credo che scriverò un piccolo epilogo prima di considerarti conclusa…
A presto,
Sparewheel

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Capitolo 27
*** Capitolo 27 - Epilogo ***


Capitolo 27 - Epilogo.

“Uuuno
Duuue
Teee
Quaaatto…”
La conta di Dave le arrivava chiara e squillante alle orecchie e, anche se in quel momento non poteva vederlo, Regina riusciva comunque ad immaginarlo a giocare in giardino.
Stava in piedi davanti all’albero di mele, con il viso rivolto al tronco imponente, le manine a coprirsi gli occhi e i piedini ben saldi a terra, ma impazientemente pronti a scattare non appena raggiunto il diesci.
Regina sorrise al pensiero di quei buffi vocaboli che erano ormai diventati parte integrante della sua quotidianità.
Il suo piccolo non riusciva ancora a pronunciare bene tutte le parole, ma era più che normale ad appena tre anni. O, forse, quella particolare pronuncia sarebbe stata una delle tante peculiarità che lo avrebbero accompagnato per tutta la vita… una delle tante peculiarità che Regina avrebbe certamente continuato ad amare perché parte di ciò che rendeva unico e speciale il suo bambino.
“Diesciiii!” sentì urlare. E decise che la preparazione della cena poteva di certo essere messa in pausa per qualche minuto.
Si asciugò le mani e raggiunse la finestra della cucina, giusto in tempo per vedere Emma, stanata dal suo nascondiglio, correre insieme a Dave verso l’albero di mele come se da quella corsa dipendessero le loro vite.
Regina sospirò nel vedere Emma superare loro figlio ed accingersi a batterlo. Ma non ebbe il tempo di formulare un qualche incantesimo per ostacolarla che Dave si teletrasportò davanti all’albero, colpendo il tronco con le sue manine e battendo entrambe le sue mamme sul tempo.
“Hey, non vale, avevamo detto niente magia!” si lamentò Emma, raggiungendo il suo secondogenito.
“Piccolo mostriciattolo imbroglione, per punizione stasera mangerò anche la tua fetta di torta!” gli disse, stringendolo a sé con un braccio e cominciando a fargli il solletico.
“Noooo la totta è miaaaa!” protestò Dave, dimenandosi e ridendo incontrollabilmente.
Emma si lasciò inondare da quella risata e strinse Dave ancora più forte, smettendo di torturarlo col solletico per potergli poggiare un bacio sulla testa.
Ma non ebbe il tempo di farlo che Dave si teletrasportò di nuovo, sfuggendo alla sua presa e cominciando a correre per tutto il giardino.
A correre… con indosso i vestiti che gli avevano comprato appena due giorni prima… in un giardino fatto di terra ed erba e fiori e piante e chissà quante altre cose con cui avrebbe potuto sporcarsi prima della cena…
Regina mi ucciderà” fu l’unica cosa che Emma riuscì a pensare mentre si apprestava a rincorrere quella peste di suo figlio.
Lo vide svoltare l’angolo e raggiungere il vialetto, puntando dritto all’ingresso di casa.
“Non cadere
Non cadere
Non cadere”
pregò.
Prima di cadere lei, inciampando nei suoi stessi piedi e finendo rovinosamente per terra.
“Merda” borbottò dolorante.
Alzò lentamente il viso, cercando la forza per rialzarsi, e la sua attenzione fu catturata da due ben note decolleté nere che si erano fermate ad un soffio dalla sua faccia e che sostenevano le meravigliose gambe dietro le quali Dave si era prontamente rifugiato.
Le meravigliose gambe che tante volte aveva ammirato ed accarezzato e baciato… Emma sorrise e pensò che la pelle olivastra di Regina non era affatto male come ultima cosa da vedere prima di morire.
Abbassò nuovamente lo sguardo, pronta a ricevere una qualche pungente frecciatina, e solo in quel momento notò dove precisamente si trovava: la sua faccia era a pochi centimetri dalla mattonella in cui era inciampata la sera che aveva saputo della gravidanza di Regina.
Aveva prontamente riparato lei stessa quella mattonella qualche giorno dopo, quindi le era facile distinguerla in mezzo alle altre. Era leggermente diversa, era in qualche modo speciale.
Ed era speciale anche perché, a pensarci bene, quella mattonella era il punto in cui lei e Regina si erano parlate per la prima volta, la sera in cui Henry l’aveva costretta a riportarlo a Storybrooke esattamente 9 anni prima.
La sua storia con Regina era iniziata lì.
Da quel “tu sei la madre biologica di Henry?” e quella voce, quello sguardo e quella bellezza mozzafiato che l’avevano lasciata a bocca aperta come un’idiota, in una fredda sera di ottobre che all’improvviso non era stata più così fredda.
Proprio lì la sua vita era inciampata, vedendo crollare le proprie certezze. E poi si era risollevata, si era innalzata.
Non in un istante, ma in una serie di momenti, in un enorme mix di emozioni.
Un solo punto e quanti passi!
E quanti ancora ne avrebbero fatti lei e Regina, insieme fino al loro per sempre…
Emma sperava che sarebbero stati tanti e tanti e tanti. Perché poter camminare a fianco a Regina era la sua realtà da sogno.
E sarebbe stato così semplice cogliere l’attimo e fare un altro passo… così semplice mettersi in ginocchio proprio lì, in quel posto speciale, e ripetere a Regina quanto speciale è lei, e poi chiederle di camminare a passi lenti lungo una navata.
Il pensiero di Regina che le andava incontro vestita di un sorriso e di bianco… era un quadro che nemmeno le sue fantasticherie di bambina avevano mai saputo dipingere nella propria mente, era un’idea che le faceva scoppiare il cuore.
Ma Emma conosceva il passato di Regina, conosceva le sue motivazioni, conosceva le sue paure. Le conosceva talmente bene che le sembrava di poterle scorgere negli occhi di Regina anche in quel momento.
Per questo negli ultimi anni non aveva mai osato chiedere. Per questo non avrebbe chiesto nulla nemmeno questa volta.
E, in fondo, a loro non servivano riti e cerimonie, non servivano abiti sfarzosi, non servivano contratti e gioielli.
Il loro legame era già molto di più, avevano tutto.
Alzandosi in piedi, Emma si rese conto che scegliere il desiderio da esprimere in quel giorno sarebbe stato estremamente semplice per lei.
E quando, qualche ora più tardi, le luci si spensero e decine di candeline le brillarono davanti, illuminando fiocamente i volti di tutti i suoi cari, Emma non esitò nemmeno un istante e soffiò fuori la richiesta di cristallizzare quella felicità, affinché ogni cosa rimanesse esattamente com’era.
Perché aveva già tutto quanto avesse mai potuto desiderare, davvero non le serviva altro.
Beh… a parte forse che le luci si riaccendessero e che gli altri cominciassero ad intonare la classica “tanti auguri a te”?
“Hey… che succede?
Regina?” chiamò, facendo magicamente riaccendere le luci con un rapido cenno della mano.
“Henry? Dav- ommioddio, vi ho congelati!” esclamò, terrorizzata, nel vedere tutti i suoi cari immobili come delle statue.
Si bloccò anche lei e il panico cominciò ad invaderla, quando un pesante sospiro raggiunse le sue orecchie e le luci si spensero nuovamente.
Una familiare aura violacea cominciò a diffondersi per tutto l’ambiente, illuminandolo leggermente e contribuendo a rendere Emma sempre più confusa.
“Ma che diavolo-”
“Non li hai congelati, Miss Swan.
Sono stata io” la informò Regina, sospirando di nuovo.
Emma si concentrò su di lei e si accorse che nella mano sinistra Regina stava sorreggendo un cupcake.
Un cupcake piccolo, ricoperto di crema bianca e al cui centro spiccava una candelina azzurra a forma di stella, proprio come…
“Regina, che succede?”
“Nulla, solo… volevo un po’ di privacy” le disse semplicemente.
Emma fece per raggiungerla, ma Regina la bloccò con un cenno della mano.
Poi quella stessa mano si mosse e l’aura violacea cominciò a brillare.
Lentamente e con contorni un po’ sfocati, nella stanza cominciò ad apparire la sagoma del 108 di Mifflin Street, col suo vialetto e il maggiolino sulla strada e lei e Regina che entravano in casa a bere il sidro di mele più buono del mondo.
E poi il taglio dei rami dell’albero di mele, il crollo delle miniere, l’incendio nel Municipio, lo scontro nello stanzino dell’ospedale, le chiacchierate al molo, Neverland, Camelot, l’Inferno, il regno del suo desiderio, le cene di famiglia, le notti passate in quattro nel lettone e quelle strette l’una all’altra sul divano…
Emma rimase incantata ad ammirare quei preziosi frammenti della propria vita proiettati uno dopo l’altro per tutta la stanza.
Il suo sguardo non riusciva a decidere dove posarsi, catturato dall’una e dall’altra scena, in quello che si stava rivelando essere un rapido e meraviglioso tuffo nel loro recente passato.
E Regina, occhi attenti e sorriso sul volto, sembrava esserne conquistata tanto quanto lei.
Fin quando i loro sguardi si incontrarono.
E Regina riprese a parlare.
“Vedi? Mi hai esasperata sin dal primo istante in cui ti ho vista” le disse, indicando la scena che riproduceva il loro primo incontro.
“Da quando ti conosco, mi hai esasperata ed irritata a livelli che non credevo umanamente possibili e che nemmeno i tuoi sgradevolissimi genitori avevano saputo raggiungere…
Sei arrivata nella mia città con quel tuo catorcio giallo, quella tua orribile giacca di pelle rossa, quei tuoi luccicanti occhi verdi… e hai mandato all’aria tutti i miei piani.
E non importa quanto ci ho provato, quanto strenuamente ho tentato di cacciarti, di cancellarti, di ignorarti… me lo hai reso difficile sin da subito.
Ben presto mi è risultato addirittura impossibile.
Perché ti sei insinuata nella mia vita, nei miei pensieri e, non so come hai fatto, hai raggiunto anche il mio cuore.
Lo hai inondato di fiducia, di protezione, di amore.
Gli hai regalato esperienze felici, lo hai fatto battere di nuovo.
E mi hai fatto scoprire la grandezza delle piccole cose, il calore di una vera famiglia, quanto belle ed estremamente preziose sono la complicità e la condivisione.
Emma… tu mi hai ascoltata, mi hai vista per quella che sono in tutte le mie sfaccettature, mi hai fatto capire che posso avere tutto con te. Che posso essere tutto, che posso vivere tutto.
Ed è semplicemente questo ciò che voglio per te, per noi: vivere tutto, insieme.
E mi hai terrorizzata tutte le volte che sei stata sul punto di offrirmelo tu il sigillo su una vita insieme…
Sapevo delle tue intenzioni, ma non ero pronta. E tu lo hai capito, lo hai rispettato.
Ti ringrazio per averlo fatto.
Ma, Emma… è anche perché ho sempre immaginato di chiedertelo io... e non ti lascerò mandare all’aria anche questo mio piano”.
Regina sorrise, gli occhi lucidi, ma lo sguardo determinato.
Le immagini sparirono, le luci si riaccesero e gli altri occupanti della stanza vennero sbloccati proprio mentre la candelina sul cupcake vedeva nascere una tenue fiammella e nella mano destra di Regina appariva un’elegante e per nulla misteriosa scatolina nera.
“Non mi metterò in ginocchio, ma… Emma, vuoi realizzare anche questo mio desiderio e diventare mia moglie?”
E i mormorii, le urla di gioia, i commenti dei suoi cari… Emma non li percepì minimamente, troppo occupata a sentire il proprio cuore farle risuonare dentro le parole di Regina ancora e ancora e ancora.
Scattò in avanti, tolse il cupcake di mano a Regina e affidò il suo sì ad un bacio, solo gesto capace di esprimere tutto ciò che quelle due semplici lettere racchiudevano per lei in quel momento.
“Basta ma’, basta, basta!” protestò Dave, strattonando una gamba di Emma per tentare di separarla da Regina.
Emma interruppe il bacio, ma per tutta risposta strinse a sé Regina ancora più forte. “Niente da fare mostriciattolo, adesso la mamma è mia per sempre!” dichiarò, un enorme sorriso sulle labbra.
“La mamma è solo dei suoi due piccoli principi” la corresse Regina, sciogliendo l’abbraccio e stringendo Dave, prontamente sollevato da terra da suo fratello.
Dave gettò le braccia al collo di Regina, vittorioso, mentre Henry le cinse le spalle, facendole posare la testa sul proprio petto.
“Mi dispiace ma’, la mamma è nostra” sottolineò Henry, divertito. “Ma… sei nostra anche tu” precisò, allargando l’altro braccio ed invitando Emma ad unirsi a loro.
Emma non se lo fece ripetere due volte e raggiunse la sua famiglia.
Facendo per stringerli, ricordò il cupcake nella propria mano, la stellina azzurra ormai quasi del tutto sciolta, ma la fiammella ancora viva e ardente.
Emma sorrise pensando ai tanti e tanti desideri che aveva espresso nel corso della propria vita.
Era stato incredibile, a tratti assurdo, ma molti di quei desideri si erano effettivamente avverati, anche se a modo loro. E le avevano regalato una realtà che andava davvero ben oltre ogni più fantastica aspettativa.
Emma fece un bel respiro, guardò la fiamma e poi soffiò forte.
“Grazie”.
 
 
"La sorte appaga i nostri desideri, ma a modo suo,
per poterci dare qualcosa al di là dei desideri stessi."
(Johann Wolfgang von Goethe)
 
 
 
Come Emma, alla fine faccio un bel respiro e spengo la luce su questa storia.
E non mi resta che dire per l’ennesima volta un enorme GRAZIE.

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