Under a Paper Moon di TimeFlies (/viewuser.php?uid=687403)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 01. Scarlett ***
Capitolo 2: *** 02. Adam ***
Capitolo 3: *** 03. Scarlett ***
Capitolo 4: *** 04. Adam ***
Capitolo 5: *** 05. Scarlett ***
Capitolo 6: *** 06. Adam ***
Capitolo 7: *** 07. Scarlett ***
Capitolo 8: *** 08. Adam ***
Capitolo 9: *** 09. Scarlett ***
Capitolo 10: *** 10. Adam ***
Capitolo 11: *** 11. Scarlett ***
Capitolo 12: *** 12. Adam ***
Capitolo 13: *** 13. Scarlett ***
Capitolo 14: *** 14. Adam ***
Capitolo 15: *** 15. Scarlett ***
Capitolo 16: *** 16. Adam ***
Capitolo 17: *** 17. Scarlett ***
Capitolo 18: *** 18. Adam ***
Capitolo 19: *** 19. Scarlett ***
Capitolo 20: *** 20. Adam ***
Capitolo 21: *** 21. Scarlett ***
Capitolo 22: *** 22. Adam ***
Capitolo 23: *** 24. Adam ***
Capitolo 24: *** 23. Scarlett ***
Capitolo 25: *** 25. Scarlett ***
Capitolo 26: *** 26. Adam ***
Capitolo 27: *** 27. Scarlett ***
Capitolo 28: *** 28. Adam ***
Capitolo 29: *** 29. Scarlett ***
Capitolo 30: *** 30. Adam ***
Capitolo 31: *** 31. Scarlett ***
Capitolo 32: *** 32. Adam ***
Capitolo 33: *** 33. Scarlett ***
Capitolo 34: *** 34. Adam ***
Capitolo 35: *** 35. Scarlett ***
Capitolo 36: *** 36. Adam ***
Capitolo 37: *** 37. Scarlett ***
Capitolo 38: *** 38. Adam ***
Capitolo 39: *** 39. Scarlett ***
Capitolo 40: *** 40. Adam ***
Capitolo 41: *** 41. Scarlett ***
Capitolo 1 *** 01. Scarlett ***
Under a Paper Moon- capitolo 1
1. Scarlett
Essere un licantropo, contrariamente a quello che pensa la gente, fa
abbastanza schifo. O meglio, per tre giorni al mese fa schifo, il resto
del tempo non è poi così male. Certo, si deve fare i
conti con una grande suscettibilità, scarso controllo della
rabbia, esasperazione più che facile da raggiungere… Le
solite cose.
Oltre questo però ci sono
anche dei vantaggi, per esempio la vista più acuta,
l’udito più fine, l’olfatto più sviluppato,
poter mangiare quanto ti pare senza ingrassare per via del metabolismo
veloce, visione notturna incorporata e un sacco di altre cose che
è meglio non mostrare in pubblico.
Quindi, in fondo, la licantropia ha
anche dei lati positivi. Più o meno: se non sei abbastanza bravo
da nascondere cosa sei veramente finisci male. Molto male.
Perché l’uomo fugge dal diverso, se si venisse a sapere
che tu puoi farti spuntare zanne e artigli saresti marchiato come un
pericolo, saresti perseguitato e probabilmente ti ucciderebbero. O,
peggio, ti userebbero come cavia per chissà quali esperimenti.
Questi erano gli allegri pensieri
che mi accompagnavano quella mattina. Ora, chiunque può pensare
che un lupo mannaro sia sempre pieno d’energia, pronto ad
affrontare ogni tipo di nemico in ogni momento della giornata. Beh, non
è assolutamente così. Soprattutto alle sette di mattina.
Diciamo che a quell’ora assomigliavo ad uno zombie mannaro.
Sbuffai osservando la massa di nodi
che avevo in testa: com’era possibile che i miei capelli non
riuscissero a rimanere lisci per più di qualche ora? Che gli
avevo fatto di male? Frugai nel cassetto del mobile del bagno alla
ricerca di una pinza. Dopo una decina di spazzole, qualcosa come un
centinaio di elastici e forcine, trovai quella che cercavo: una semplice pinza di plastica nera piuttosto resistente.
Mi raccolsi i capelli, o forse
è meglio dire criniera?, in un chignon disordinato da cui
sfuggivano molte ciocche: non era un granché, ma era meglio di
niente.
Tornai in camera cercando di infilarmi nei jeans strappati senza
cadere. Afferrai la camicia a scacchi nera e bianca e la indossai
mentre cercavo gli anfibi con lo sguardo. Li trovai sotto la scrivania
e, quando mi chinai per prenderli, sbattei la testa contro il legno.
Imprecai trai i denti sperando che mia madre non mi sentisse: odiava le
parolacce tanto quanto odiava le persone false, quindi davvero molto.
«Scarlett! Sbrigati, o farai tardi!» Urlò dal piano di sotto.
Alzai gli occhi al cielo. «Se
tu mi comprassi un’auto potrei dormire come minimo una
mezz’ora in più.»
«Puoi vivere benissimo senza!» Replicò con voce fin troppo allegra per i miei gusti.
Le feci il verso tra me e me mentre
cercavo lo zaino sepolto sotto un cumulo di vestiti. Lo tirai fuori e
diedi un’occhiata veloce ai libri: sembrava ci fossero tutti. Me
lo infilai in spalla e mi precipitai giù dalle scale riuscendo a
non spalmarmi sul pavimento per puro miracolo. Entrai in cucina con la
mia solita grazia e ci trovai mia madre, Natalie, tranquillamente
seduta al tavolo intenta a sorseggiare una tazza di caffellatte.
Indossava un morbido maglione rosso scuro e dei jeans semplici. Aveva
raccolto i suoi lunghi capelli scuri in una coda bassa che lasciava
alcune ciocche libere di incorniciarle il viso. Era una bella donna che
non dimostrava i suoi quarant’anni, aveva gli zigomi morbidi, la
fronte solcata da rughe poco pronunciate e quando sorrideva le si
formavano delle piccole fossette sulle guance.
«Buongiorno tesoro.» Mi
salutò come se lo scambio di urla di poco prima non fosse
successo. A dirla tutta in casa nostra era una cosa da tutti i giorni.
«’Giorno.» Borbottai lasciando lo zaino su una sedia.
Afferrai un paio di biscotti al cioccolato dal piatto che stava al centro del tavolo e li mangiucchiai appoggiata al lavandino.
«Quando riparti?» Chiesi osservandola di sottecchi.
Prese un sorso dalla sua tazza prima di rispondere. «Domani. L’Egitto mi aspetta.»
E mi fece un sorriso materno di
quelli che sembravano voler dire: “ripareremo tutto,
promesso”. Anche se non c’era niente da riparare.
«Ah… Bello.» Commentai.
Mia madre faceva la hostess quindi
viaggiava di continuo e io la vedevo poco o nulla. Inoltre
cercava di guadagnare qualcosa in più accompagando gli uomini
d'affari che volavano con la sua compagnia alle riunioni e facendo loro
da interprete: fin da piccola aveva sempre amato le lingue e ne aveva
studiata più di una per anni. Se la cavava alla grande con il
cinese, il francese, qualcosa di tedesco e di russo.
Mi andava bene che passasse tanto tempo fuori casa, insomma,
c’ero abituata ormai, anche se a volte mi avrebbe
fatto piacere averla con me, magari quando affrontavo un periodo
difficile o che so io. Così, però, rischiavo meno che
scoprisse cos’ero in realtà e questo era decisamente un vantaggio.
«Ti porto un regalo, mmh?
Magari una collana con uno scarabeo: sai, portano fortuna.»
Aggiunse guardandomi, un sorriso entusiasta ad illuminarle il viso.
«Un po’ di fortuna mi farebbe comodo in effetti, sì.» Concordai.
Abbassò gli occhi e sollevò un sopracciglio con aria critica. «Tesoro i tuoi
pantaloni sono strappati… Dovresti buttarli.»
Seguii la direzione del suo sguardo
che si era soffermato sui miei jeans. «Ma no, sono fatti
così. Fin da quando li ho comprati. Sai, vanno di moda.»
In realtà non mi importava
molto delle tendenze in fatto di vestiti, ma i jeans strappati avevano
un fascino particolare, menefreghista e strafottente che mi aveva
conquistata quindi… Avevo ceduto alla tentazione ed ora ero
lì, con quei meravigliosi pantaloni che sembravano essere finiti
tra le grinfie di un gatto particolarmente arrabbiato.
Mia madre, com’era
prevedibile, non sembrava convinta. «Sei sicura, cara? Non
è che non vuoi ammettere di averli rotti per sbaglio?»
Sbuffai. «No mamma, te lo giuro. Sono fatti così e mi piacciono anche.»
Si avvicinò la tazza alle labbra. «Se lo dici tu… Anche se secondo me un sari ti starebbe meglio. Magari blu. O forse è meglio rosso…»
Alzai gli occhi al cielo:
l’ultimo viaggio in India l’aveva condizionata un po’
troppo, era già la terza volta che tirava fuori
l’argomento sari.
«Lo sai che io ho una politica anti-gonna, no? E questo esclude
automaticamente anche gli abiti tipici dell’India.» Mi
strinsi nelle spalle. «Scusa mamma.»
Scosse la testa sorridendo. «Sei incorreggibile Scout.»
Mi irrigidii sentendo quel
soprannome: lo aveva inventato mio padre, o meglio, aveva preso
ispirazione dal suo libro preferito, “Il buio oltre la
siepe”, dove il nomignolo della protagonista era proprio Scout.
Erano passati dieci anni da quando
papà se n’era andato perché non amava più
mamma e, anche se non l’aveva mai ammesso, perché si era
innamorato della direttrice del suo ufficio, una certa Patty che amava
alla follia le gonne inguinali.
«Tesoro devi sbrigarti se
vuoi arrivare a scuola in tempo.» La voce dolce e rassicurante di
mia madre mi strappò via da quei ricordi cupi.
«Sì, ora vado.» Borbottai distrattamente.
Mi stiracchiai e mi lasciai
sfuggire uno sbadiglio: dovevo ricordarmi, per l’ennesima volta,
di andare a dormire prima la sera. Mi infilai lo zaino in spalla, diedi
un bacio sulla guancia a mamma e uscii con lei che mi augurava una
buona giornata urlando dalla cucina.
Dopo quattro ore di scuola
relativamente tranquille, il che poteva quasi essere considerato un
record visto il mio carattere piuttosto spigoloso, era ovvio che almeno
una materia andasse male, no? E quale, se non matematica?
La professoressa Smith camminava su
e giù tra i banchi stretta nel suo tailleur grigio topo
scrutandoci da dietro gli occhiali come se avesse dovuto decidere chi
uccidere. Tutti, me compresa, tenevano lo sguardo fisso sul quaderno
pregando mentalmente di non essere scelti per essere mandati alla
lavagna a correggere gli esercizi per casa. A me non erano riusciti
nonostante ci avessi provato più volte. Più o meno. In realtà non era
completamente vero, ma solo perché le disequazioni di secondo
grado non erano il mio forte.
La prof si fermò dietro alla
cattedra e ci appoggiò sopra le mani sporgendosi un po’ in
avanti come se non riuscisse a vederci bene.
«Dawson.» Abbaiò. «Alla lavagna.»
Mi irrigidii prima di sospirare: mi
sembrava strano che non mi avesse ancora chiamata. Erano passate ben
due lezioni senza che mi mandasse al patibolo, era un record. Presi il
quaderno, ormai rassegnata,
mi alzai e raggiunsi la lavagna. Abbassai lo sguardo sul lavoro che
avevo fatto a casa e mi resi conto che peggio di così non poteva
andare: la pagina era piena di scarabocchi, testi di canzoni, tentativi
di tirare fuori la mia vena artistica troppo nascosta e pochi, troppi
pochi numeri.
Cominciai a scrivere la traccia
dell’esercizio alla lavagna, il gesso che mi macchiava le dita.
Quando venne il momento di svolgerlo mi bloccai sperando in una qualche
illuminazione improvvisa o che so io. Ovviamente, non successe niente
del genere e io rimasi per cinque minuti buoni ferma lì come una
perfetta idiota.
«Vedo che non ha studiato,
signorina Dawson. Come pensa di passare continuando così?»
Mi riprese la professoressa guardandomi con gli occhi socchiusi.
«Recupererò.» Mi affrettai a dire.
«Mmh.» Fu il suo commento decisamente scettico.
Beh, come darle torto? Quella
sarà stata la decima volta che promettevo a me stessa, e a lei,
che sarei riuscita a recuperare, eppure non ero migliorata nemmeno un
pochino.
Elisabeth, la mia migliore amica,
si osservava allo specchio con aria decisamente soddisfatta: aveva
appena dato un “taglio drastico” ai suoi capelli, testuali
parole.
Ora aveva mezza testa rasata e una
cascata di boccoli ramati sull’altro lato. Le stavano bene, devo
ammetterlo, e mettevano il risalto il piercing che aveva sul
sopracciglio sinistro.
Batté le mani saltellando come una bambina. «Sono stupendi!»
Il parrucchiere, Tom,
ghignò. «È un taglio audace e molto, molto di
tendenza.» Mi lanciò un’occhiata. «E tu,
facciamo lo stesso anche per te?»
Era un ragazzo di circa venticinque
anni, magro, alto e un po’ allampanato. Aveva i capelli scuri
pettinati all’indietro con un’abbondante quantità di
gel, portava un dilatatore per orecchio e un piercing anche al
naso. Nel complesso non era brutto, anzi, solo che il suo viso mi
ricordava un po’ una volpe o un gatto piuttosto ambiguo e
scaltro.
Aveva aperto quel locale con la sua
socia, Sophie, ed Elisabeth l'aveva adorato subito definendolo "moderno
e alternativo". In effetti era un po' diverso dal parrucchiere dove
andavo da piccola: era un ambiente molto ampio e reso lumino dalle
grandi finestre che si affacciavano sulla strada. I colori predominanti
erano il bianco e l'argento con tocchi di azzurro e rosa posizionati
con cura un po' ovunque. Il pavimento era di parquet chiaro, cosa che
contribuiva a dare luce a tutta la stanza. Gli specchi posizionati
davanti alle postazioni dove si tagliavano i capelli, costituite da
comode poltrone di pelle nera dallo stile attuale e minimalista, erano
alti da terra fino al soffitto. Era un posto piacevole da
vedere, sempre fresco e profumato, ma dava l'idea di essere un po' freddo.
Saltai subito all’erta. «Uh, no, no. Io sono qui solo per… incoraggiamento.»
Inarcò un sopracciglio, poco
convinto. «Okay… Come vuoi tu. E comunque adoro il colore
dei tuoi capelli.»
Li sfiorai quasi senza rendermene conto. «Oh, grazie.»
Lui mi fece un sorriso parecchio ammiccante prima di tornare a chiacchierare animatamente con Elisabeth.
Distolsi lo sguardo incrociando le
braccia al petto: non amavo quelle cose così… femminili
quali shopping, trucchi, vestiti e simili. Però non ero neanche
un maschiaccio. Semplicemente avevo uno stile mio e lo seguivo in tutto
per tutto: in fondo, l’importante era che piacesse a me.
Guardai distrattamente fuori dalla
finestra sperando che Beth la finisse presto di comportarsi come una
ragazzina esaltata. Con il suo carattere esuberante e pieno di vita non
passava mai inosservata. Come se questo non bastasse, la sua passione
per la moda che la portava a compiere spedizioni infinite nei centri
commerciali contribuiva a renderla molto appariscente. Per esempio,
quel giorno aveva scelto di indossare dei pantaloni di pelle nera molto
aderenti, una canottiera di tessuto morbido e leggero, stivali neri e
una giacca dello stesso colore dal taglio elegante e moderno.
L'eyeliner nero e il rossetto rosa completavano il tutto.
In fondo, dovevo ammettere che il suo stile mi piaceva, era audace ma
sofisticato, e lei sapeva indossare di tutto, però ero sicura
che non sarei mai stata in grado di fare lo stesso. E mi andava bene
così.
Un'altra occhiata distratta alla finestra e mi resi conto che si era già fatto buio: la
luna
spiccava nel cielo scuro, ormai quasi completamente piena, col suo bagliore
soffuso. Mi mordicchiai nervosamente un’unghia fino a sentire il
sapore amaro dello smalto nero in bocca. Mi ci erano volute ore per riuscire a mettermelo senza sbavature.
Mancava davvero poco, troppo
poco, al
plenilunio, un paio di giorni al massimo, e questo mi metteva
addosso
una grande inquietudine perché era più che vero che la
luna piena influenzava i licantropi. Eccome se lo faceva: istinti
omicidi, perdita di lucidità, furia incontrollata erano solo
alcuni degli effetti che scatenava.
Con la perdita del controllo, poi, rischiavo di fare del male a
qualcuno, di uccidere qualcuno.
Se l’avessi fatto me ne sarei dovuta andare il
più lontano possibile rinunciando a tutto quello che mi ero
costruita in diciassette anni. E non potevo assolutamente
permettermelo. Per me e per mia madre: cosa avrebbe potuto pensare di
una sparizione improvvisa? Conoscendola, avrebbe mobilitato tutti gli
agenti di polizia della città, avrebbe contattato il presidente
degli Stati Uniti in persona e avrebbe richiesto un'intera squadra
dell'FBI per indagare. No, non potevo farle una cosa del genere.
In fondo, ero riuscita ad evitare di
combinare casini per anni, ingegnandomi in mille modi diversi,
diventando praticamente un'esperta dei boschi intorno a Seattle,
però, come dice il proverbio,
c’è sempre una prima volta. E io ero terrorizzata
dall’idea che quella prima volta potesse coinvolgere qualcuno a
cui tenevo.
SPAZIO AUTRICE: Penso che ormai sia chiaro che adoro i licantropi.
Credo che siano creature affascinanti, complesse e molto interessanti.
In questa storia, di nuovo nata per caso, voglio dare ai "miei" lupi
mannari delle connotazioni più tradizionali, come si può
già cominciare a capire da questo primo capitolo.
Vi anticipo che ci saranno due punti di vista: un capitolo sarà
narrato dalla protagonista, Scarlett, e un altro dal protagonista,
Adam. L'ho fatto sia perché voglio sperimentare una tecnica
nuova per cercare di capire qual è lo stile più adatto a
me, sia perché mi servirà avere due narratori
più avanti.
Voglio anche avvisarvi che più avanti ci saranno degli accenni
ad una coppia slash, ovvero un ragazzo con un altro ragazzo. Non mi ci
soffermerò molto, ma mi sembrava giusto dirvelo, anche
perché riguarderà un personaggio abbastanza importante.
Spero che questa nuova storia possa piacervi, io mi ci sono già
affezionata, sia alla trama che ai personaggi e spero che sarà
lo stesso anche per voi.
TimeFlies
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Capitolo 2 *** 02. Adam ***
Under a Paper Moon- capitolo 2
2. Adam
Mi
mordicchiai un labbro cercando di ricordarmi quella dannata formula: le
sapevo tutte, anche quelle che non servivano per il compito,
perché non riuscivo a farmi venire in mente proprio quella di
cui avevo bisogno?
Accanto a me Michael, il mio migliore amico fin dall’infanzia,
era messo molto peggio: come al solito si era ridotto all’ultimo
per studiare e non sapeva assolutamente niente. Probabilmente aveva
tirato a caso tutte le domande della verifica affidandosi ad una
fortuna che spesso lasciava a desiderare proprio nel momento del
bisogno.
«Adam, ehi, non è che potresti dirmi la risposta alla
cinque? E alla sei? E alla sette già che ci sei?»
Bisbigliò guardandomi con aria implorante.
«A, B, B.» Risposi in un sussurro.
Ormai era diventato una specie di tacito accordo tra noi: io lo aiutavo
con la scuola e lui si ingegnava in tutti i modi possibili per farci
partecipare a quante più feste possibili. A dirla tutta non
è che mi importasse molto di passare serate su serate in quei
locali dove faceva un caldo pazzesco e dove dovevi pagare dieci dollari
per qualcosa da bere, ma lui continuava a dire che, se volvevamo
lasciare il segno, non avevamo altra scelta. Questa storia non
l’avevo mai capita, ma lo lasciavo fare comunque, un po’
per evitare di passare per un asociale, un po’ perché era
pur sempre il mio migliore amico quindi dove andava lui andavo io.
Più o meno.
«Hai una faccia… Che c’è? Non riesci a fare
l’esercizio facoltativo per il mezzo voto in più?»
Chiese con un sorrisetto divertito sulle labbra.
Fissai il foglio rigirandomi la penna tra le dita. «No, quello
l’ho finito da un pezzo. Non mi viene la formula del
quattro.»
«Uh, allora non posso aiutarti, scusa: quella è roba per
menti superiori.» Replicò. «Comunque se salti un
esercizio non muore mica nessuno.»
Sospirai. «Lo so, lo so. Solo che non riesco proprio a farmela
venire in mente… Ed è strano, le altre me le ricordo
tutte.»
«Già, come al solito. Prima o poi dovrai spiegarmi come
fai.» Commentò.
«Non lo so nemmeno io.» Ammisi. «Solo… Riesco
a ricordarmi quello che mi sembra strano. Non importa che
cos’è in sé, se mi colpisce te lo saprò
ridire anche a mesi di distanza.»
Sollevò le sopracciglia castane. «Vorrei diventare un
chirurgo solo per vedere cosa c’è dentro la tua testa,
sai? Ci potremmo trovare anche la cura al cancro o chissà
cos’altro.»
Scossi la testa sorridendo alla sua ennesima battuta squallida.
«Silenzio!» Tuonò il professor Gessen facendo cessare ogni rumore nell’aula.
Nonostante avessi dei buoni voti la scuola non mi piaceva e, come ogni
studente in ogni parte del mondo, non vedevo l’ora di andarmene.
Ringraziai il cielo quando suonò la campanella che segnava la
fine delle lezioni.
Uscii dalla classe insieme a Michael che sembrava molto esaltato per
una qualche festa che si sarebbe svolta quel sabato. A me non sembrava
un granché: il posto era piccolo e in un quartiere non proprio
tranquillo, e conoscevo abbastanza bene il gruppo che si sarebbe
esibito da poter dire che avrebbero fatto meglio a trovarsi un altro
modo per passare il tempo. Però Michael diceva che ci sarebbero
state un sacco di ragazze, alcune anche parecchio belle. In più,
quando si metteva in testa qualcosa, era difficile farlo demordere.
«Verrai, vero? Perché se non vieni anche tu i miei non mi
lasciando andare.» Disse inclinando leggermente la testa di lato
mentre allungava il passo per starmi dietro.
«Oh grazie, mi fa piacere essere così apprezzato.»
Commentai passandomi una mano tra i capelli.
«Andiamo, lo sai che senza di te non sono nessuno, no?» Si
affrettò ad aggiungere.
Gli lanciai un’occhiata. «Uhm… Più o
meno.»
Quando uscimmo nel parcheggio sul retro della scuola per poco non andai
a sbattere contro una ragazza con mezza testa rasata. Indossava un
maglioncino viola con uno scollo piuttosto profondo, pantaloni neri
molto aderenti, e aveva gli occhi truccati di nero. Mi lanciò
un’occhiata di sufficienza mentre mi passava accanto, ma si
soffermò su Michael per un attimo di più.
«Allora vieni?» Insistette lui, ignaro di tutto.
«Sì, credo proprio di sì.» Risposi
cercando le chiavi dell’auto nelle tasche dei jeans. «Basta
che la smetti di parlarne ogni cinque secondi.»
«Okay, okay, non ti dirò più nulla.» Promise
alzando le mani in segno di resa.
«Bene.» Borbottai. «Ti serve un passaggio?»
«No, oggi esco con Julia.» Ribatté con un
sorrisetto.
Aprii lo sportello sul lato del guidatore. «Sì? È già il... mmh, quarto appuntamento, giusto?»
Un sorrisetto soddisfatto gli incurvò le labbra. «Eh già. A quanto pare ho fatto colpo.»
Sorrisi anch'io scuotendo la testa. «Allora divertiti.»
Mi diede una pacca amichevole sulla spalla. «Puoi
scommetterci.» Alzò lo sguardo e socchiuse gli occhi.
«Ora vado, mi sta già aspettando. A domani.»
«A domani.» Replicai distrattamente.
Lui mi fece un sorriso d’intensa prima di allontanarsi e
raggiungere una ragazza mora sorridente e, devo dire, piuttosto carina.
Socchiusi gli occhi per ripararli dalla luce del sole e salii in auto:
mi aspettava un pomeriggio di studio in vista del compito di storia, il
giorno dopo: tanto per cambiare. Probabilmente i professori si
mettevano d'accordo per concentrare più verifiche possibili
nella stessa settimana.
Quando scesi dalla macchina dopo averla parcheggiata nel vialetto di
casa, qualcosa di peloso e piuttosto pesante mi atterrò tra le
braccia. Un secondo dopo mi resi conto che era un grosso gatto dal pelo
grigio striato di nero che mi guardava con i suoi acquosi occhi verdi.
Miagolò e strofinò la testa sul mio petto.
Lo riconobbi quasi subito: si chiamava Theo ed apparteneva al mio
vicino, Matthew.
Un rumore come di vetri infranti mi fece alzare lo sguardo. Giusto in
tempo per vedere Theresa, la ragazza di Matthew, che spalancava la
porta con un gesto rabbioso e che usciva fuori a grandi falcate con
aria decisamente furiosa. Matthew apparve sulla soglia, disordinato e
stralunato come sempre.
«Andiamo Tessi, non fare così… Possiamo sistemare
tutto.» Cominciò allargando le braccia.
«Sistemare tutto un corno!» Sbottò lei. «Te
l’avrò detto mille volte, ma tu non mi ascolti mai! Sei
impossibile! E immaturo. Dannazione, hai ventisette anni, non
sedici.»
Mi ritrovai a convenire con lei: Matthew sapeva essere parecchio
infantile e probabilmente vivere con lui era come vivere con un bambino
abbastanza bizzarro. Lui era il tipico ragazzo che dopo il liceo non ha
la più pallida idea di cosa fare, finisce per cominciare un
college a casaccio per poi lasciarlo dopo qualche mese per inseguire il
sogno di diventare una rockstar. Era un atto coraggioso, lo riconosco,
ma a ventisette anni è meglio pensare ad un lavoro
più… fattibile e realistico.
Matthew fece un passo avanti. «Ma Tessi stiamo andando bene, la
banca ha detto che forse mi concederanno il prestito entro fine
mese.»
«Sarà la terza volta che lo dici. E alla fine non ottieni
un bel niente. Sono stufa di farti da madre. Tra noi è finita,
rassegnati. E tieniti il tuo stupido gatto.» Esclamò lei.
Come se avesse capito le sue parole, Theo soffiò irritato
inarcando la schiena. Lo guardai prima di riportare lo sguardo su
quella specie di scena da soap opera che avevo davanti.
«Tessi…» La implorò lui. «Theo è
parecchio intelligente invece. E io ti amo ancora.»
«Visto?! L’hai fatto di nuovo! Metti quel dannato gatto
prima di me! Non voglio più vederti!» Ringhiò
Theresa.
Senza aspettare una risposta, si voltò e marciò fino alla
sua auto, una decappottabile rossa, ci salì e chiuse la portiera
con un tonfo così forte che credetti si sarebbe staccata.
Partì superando di parecchio il limite di velocità e
lasciando dietro di sé i segni delle ruote sull’asfalto,
un gatto infastidito e un Matthew decisamente confuso.
Sospirai, chiusi alla meno peggio la portiera della macchina, visto che
avevo un felino indisposto in braccio, e andai dal mio vicino
scapestrato per rendergli il suo animaletto.
«Credo che questo sia tuo.» Dissi allungandogli quella
palla di pelo orgogliosa.
«Theo!» Saltò su lui prendendolo con delicatezza
come se fosse stato prossimo al rompersi in mille pezzi. «Quante
volte devo dirti che non devi disturbare i vicini?» Alzò
lo sguardo su di me. «Scusa, lui odia i litigi…»
«Ho notato… Ma che è successo? Sembrava
furiosa.» Domandai.
Lui prese ad accarezzare il gatto che si mise a fare le fusa
socchiudendo gli occhi. «Beh, vedi, lei crede che io pensi di
più a Theo che a lei e… Non so, credo che mi abbia
lasciato.»
A volte avevo la netta impressione che quel ragazzo non ci stesse tutto
in fatto di testa. O che non facesse un uso responsabile di alcolici e
simili. «Di nuovo? Sarà la… quarta volta.»
«Già. Lei è molto melodrammatica. Ma tornerà
vedrai, lo fa sempre.» Commentò, rivolto più a se
stesso che a me.
Mi passai una mano fra i capelli. «Okay. Ehm… Io vado, ci
vediamo.»
Sollevò la mano in segno di saluto e mi sorrise con
quell’aria trasognata tipica dei bambini, poi si mise a parlare
con il gatto con voce mielosa. Mi affrettai ad andarmene: non potevo
biasimare Theresa per essersene andata. Anzi, la capivo benissimo.
Quando entrai in casa mia, un tornado biondo e piuttosto allegro mi si
attaccò alle gambe rischiando di farmi perdere
l’equilibrio. Riuscii ad identificarlo dalla voce, acuta e
squillante: Lena, la mia nipotina, sembrava parecchio felice di
vedermi.
«Zio!» Esclamò ridacchiando.
Mi lasciai sfuggire un sorriso. «Ciao bionda.» Riuscii, non
senza difficoltà, a staccarmela dai jeans. «Che ci fai
qui?»
«Papà voleva vedere nonna e nonno.» Spiegò sbattendo le lunghe ciglia chiare.
“Da grande avrà un sacco di ragazzi intorno”,
pensai. «Louis è qui?»
«In giaddino. Con mamma,
nonno e nonna.» Rispose. «Vieni zio?» E mi tese la
piccola mano paffuta.
La presi e mi lasciai guidare attraverso il salotto fino alla
portafinestra che dava sul piccolo giardino situato sul retro della
casa. Il tempo di mettere piede sull’erba e Lena mi mollò
la mano per correre da Cora, il cane di famiglia. Era un border collie
dal pelo bianco e nero e gli occhi vivaci ed intelligenti.
Probabilmente era anche il cane più paziente del mondo visto che
riusciva a sopportare una bambina di quattro anni iperattiva e molto,
molto affettuosa.
«Adam.» Una voce profonda ed adulta mi riscosse dai miei
pensieri.
Alzai lo sguardo e vidi mio fratello, Louis, appoggiato al tavolo di
ferro battuto del giardino, che mi sorrideva. Non era cambiato di una
virgola dall’ultima volta che l’avevo visto, nonostante
fosse stata qualche mese fa: i capelli scuri erano tagliati molto
corti, gli occhi chiari erano luminosi come sempre, il viso era
perfettamente rasato, indossava dei pantaloni militari verdi, una
maglietta di una qualche band degli anni Ottanta e degli anfibi marrone
scuro. Teneva le braccia incrociate al petto, gesto che metteva in
risalto i muscoli. Posate accanto a lui c’era un paio di
stampelle.
Sorrisi cercando di mostrarmi il più a mio agio possibile.
«Ehi.»
Odiavo ammetterlo, ma Louis riusciva sempre a mettermi un po’ di
soggezione, forse era la sua aria autoritaria e decisa, forse la massa
di muscoli che si portava dietro. In fondo, era un militare, non poteva
essere altrimenti.
Si era arruolato nell’esercito a diciotto anni rendendo mio padre
parecchio orgoglioso. Ora aveva ventotto anni, una moglie, Hanna, una
figlia e una bella casa sulla costa Ovest, poco più a sud di
Seattle.
«Che piacere vederti!» Esclamò Hanna venendomi vicino e abbracciandomi.
Più che una cognata la consideravo un specie di sorella
maggiore. Aveva lunghi capelli biondi, che aveva passato alla figlia,
occhi di un bel marrone caldo, la pelle abbronzata e quando sorrideva
le si formavano delle fossette sulle guance, altra caratteristica che
aveva anche Lena.
Ricambiai la stretta mentre il suo profumo dolce e speziato mi
avvolgeva: era una sua caratteristica da sempre, fin da quando la
conoscevo si portava dietro quell’odore che ricordava
l’anice. «Sono felice di vederti anch’io.»
Si scostò da me e mi osservò con il sorriso sulle labbra.
Era bella, devo ammetterlo, e lo era nonostante avesse i capelli
scompigliati e indossasse la tipica tenuta da mamma, ovvero jeans,
maglietta e scarpe da tennis
«Stai diventando grande anche tu… Come passa il
tempo.» Commentò riservandomi un’occhiata
affettuosa.
Le sorrisi: con lei mi veniva più naturale, più
spontaneo. Non lo sapevo nemmeno io il perché, forse erano
semplicemente i suoi modi di fare che mettevano chiunque a suo agio.
«Come è andata a scuola tesoro?» Mi chiese mia
madre, Annabeth.
Distolsi lo sguardo da Hanna e lo spostai su di lei: era seduta al
tavolo e stava bevendo una bicchiere di tè freddo. Indossava dei
pantaloni bianchi e una camicetta rossa. Aveva lasciato i capelli
castani liberi sulle spalle fermando solo qualche ciocca che con una
pinza nera. I suoi occhi marroni mi studiavano con la tipica attenzione
materna mirata a scoprire qualunque cosa tu nasconda.
«Bene, bene… Come al solito.» Risposi.
Lei sollevò un sopracciglio e mi studiò per qualche
secondo. «La verifica di chimica?»
Sospirai quasi senza rendermene conto. «Credo sia andata bene.
Non era troppo difficile.»
Louis sorrise, divertito. «Chimica, è stata la mia nemica
per anni al liceo. Tu te la cavi bene da quello che ho capito,
mmh?»
«Beh…» Cominciai.
«Adam se la cava più che bene. Non solo in chimica, in
tutte le materie. Ha preso tutto da me, modestamente.» Intervenne
mio padre lanciandomi uno sguardo d’intensa.
Mi lasciai sfuggire un sorriso e abbassai lo sguardo. «Più
o meno…»
Mio padre, Edward, non faceva mai preferenze tra i suoi figli. Certo,
un figlio militare è motivo di orgoglio molto più di uno
che va bene a scuola, però non me l’aveva mai fatto
pesare. Non potevo lamentarmi di lui, assolutamente, ma avevo qualcosa
da ridire sul suo strano senso dell’umorismo.
Cora sbuffò, si alzò scrollando la pelliccia e mi venne
vicino sfuggendo alle manine di Lena, che, per ripicca, corse dalla
madre e le fece una linguaccia. Dal canto suo, Cora si limitò a
sedersi accanto a me strofinando il naso sul mio palmo alla ricerca di
qualche carezza. Le grattai le orecchie facendola scodinzolare
contenta.
«Come mai siete qui? Non eri in… Iran tu?» Chiesi
guardando Louis.
Inarcò un sopracciglio ricambiando l’occhiata.
«Sì, ma, come vedi», fece un cenno verso le
stampelle, «ho avuto un piccolo incidente e mi hanno congedato
finché non mi rimetterò. Ci vorrà un mese, forse
due, e visto che Lena voleva rivedere i nonni e lo zio… Abbiamo
pensato di fare una visita a sorpresa.»
Lena ridacchiò correndo dal padre e porgendogli una margherita. «Tieni papà.»
Lui cambiò subito espressione diventando dolce di colpo: prese
il fiore dalle mani della figlia e le diede un bacio tra i capelli.
Faceva un po’ strano vederlo così, di solito era sempre
controllato e con la battuta pronta, eppure sembrava che quella piccola
peste bionda riuscisse a scioglierlo senza problemi.
Mi passai una mano tra i capelli, un po’ in imbarazzo.
«Uh… Io devo andare a studiare, domani ho un
compito.»
Tutti gli occhi si puntarono su di me accentuando la sensazione di
disagio: non amavo essere al centro dell’attenzione, per niente.
Al contrario di Louis.
«Buona fortuna. Anche se non credo che ne avrai bisogno.»
Mi disse Hanna con un sorriso quasi complice.
«Grazie.» Risposi accennando un sorriso.
«Zio!» Esclamò Lena correndomi incontro.
Mi inginocchiai e lei mi diede un bacio piuttosto timido sulla guancia.
«Ciao zio.» Mormorò guardandomi da sotto le lunghe
ciglia chiare.
«Ciao bionda. Fa’ la brava, mmh?» Replicai
prendendole una mano.
Ridacchiò e annuì. «Anche tu però!»
Spalancai gli occhi, sorpreso e divertito. Louis scoppiò a
ridere facendo sobbalzare Cora, che, come al suo solito, si era
appisolata sull'erba. Hanna scompigliò la chioma bionda della
figlia rimproverandola dolcemente. La prese in braccio e mi
lanciò un’occhiata di scuse: Lena aveva il vizio di
parlare a sproposito, ma, d’altra parte, era solo una bambina,
non si poteva farle una colpa se diceva la verità sempre e
comunque. E visto che suo padre le aveva ripetuto chissà quante
volte che stare troppo vicino ad un ragazzo era pericoloso, da quando
mi aveva visto baciare la mia ex ragazza mi ripeteva praticamente ogni
volta che ci vedevamo che dovevo “fare il bravo”.
«Le sto insegnando bene, mmh?» Chiese Louis a nostra madre
che scosse la testa cercando di trattenere una risata.
Salutai Hanna e Lena e feci per andarmene, ma mio fratello mi
richiamò: «Comunque, comportati bene sul serio, chiaro?
Non voglio diventare zio prima del tempo.»
Mi sembrava strano che non mi avesse ancora fatto una raccomandazione
delle sue. Quelle che ti fanno venir voglia di sprofondare e scomparire
per sempre. «Ehm… Sì, okay… Credo.»
Lui mi guardò con gli occhi socchiusi. «Lo spero per
te.»
«Louis! Falla finita!» Lo rimbeccò sua moglie
scoccandogli un’occhiata ammonitrice.
Lui alzò le mani in segno di resa. «Ehi, io mi sto solo
comportando da bravo fratello maggiore.»
Hanna scosse la testa alzando gli occhi al cielo. «No, stai
esagerando. Smettila, mmh? Adam è un bravo ragazzo.»
«Prevenire è meglio che curare.» Commentò
Annabeth fissando il suo bicchiere.
Presi seriamente in considerazione l’idea di sbattere la testa
contro il muro: Louis se le preparava a casa quelle battutine o
improvvisava sul momento? Perché non riusciva a comportarsi da
fratello normale?
Sospirai. «Lo terrò a mente, sì. Ora devo andare.
Ci vediamo.»
Detto questo riuscii finalmente a districarmi da quella strana quanto
imbarazzante riunione familiare. Volevo bene alla mia famiglia, un
po’ meno, per usare un eufemismo, ai loro commenti.
«Allora, blu o rosso?» La voce di Michael mi distrasse dal libro di storia.
Avevo studiato anche il giorno prima, o meglio ci avevo provato, ma poi
avevo lasciato perdere qualcosa come una mezz’ora dopo aver
iniziato quindi avevo dovuto ripiegare su un ripasso dell’ultimo
momento il biblioteca qualche minuto prima della verifica.
Alzai gli occhi verso di lui aggrottando la fronte. «Cosa?»
Sospirò e mi guardò con aria quasi esasperata. «La
camicia per sabato sera: rossa o blu?»
Mi strinsi nelle spalle. «E io che ne so… Blu?»
«Sicuro? Ma il blu non mi dona molto…»
Replicò lui.
«Allora rossa?» Chiesi.
«Però il rosso non mi mette in risalto gli occhi…» Commentò lui con aria pensierosa.
«Mettiti una maglietta allora, no?» Gli feci notare.
«No, voglio essere più elegante.» Spiegò.
«Una camicia bianca?» Proposi sperando di poter tornare ad
occuparmi della Seconda Guerra Mondiale e di tutti i cambi di potere
che ne erano seguiti.
«Perché no…» Concordò. «Ma
sì dai, vada per il bianco.»
«Bene.» Borbottai riportando lo sguardo sul libro.
«Che stai facendo?» Domandò Michael allungando il
collo per sbirciare.
«Studio storia per il compito.» Risposi distrattamente.
Impallidì di colpo e spalancò gli occhi.
«C’è un compito oggi?»
«Eh già. E tu non lo sapevi, mmh?» Indovinai.
Scosse la testa guardandomi con aria disperata. «Come diavolo
faccio?!»
«Studio dell’ultimo minuto, funziona quasi sempre.»
Dissi facendo un cenno verso il libro.
Mi mise una mano sulla spalle. «Bene amico, sarai felice di
sapere che devi farmi un riassunto più che veloce di… Uh,
tutto quello che dovevamo studiare, in», lanciò
un’occhiata all’orologio che portava al polso, «due
minuti. Pensi di farcela?»
Gli lanciai un'occhiataccia. «Michael...»
«Ti prego, ti prego, ti prego.» Insistette lui unendo le mani.
Alzai gli occhi al cielo, ma alla fine cedetti: era una mia debolezza,
anche volendo non riuscivo a dire di no alle persone a cui tenevo. E
Michael rientrava tra queste, per mia "sfortuna". Non aiutarlo mi
sapeva quasi di tradimento anche se sapevo che non era poi così
grave: uno spiccato senso della lealtà era una caratteristica
che avevo ripreso da mio padre e che condividevo anche con Louis.
Probabilmente era l'unica cosa che avevamo in comune.
SPAZIO AUTRICE: Come avevo detto nel primo capitolo, ci sarà una
narrazione alternata. Qui, infatti, è Adam a parlare, il
protagonista maschile.
Spero che lui vi piaccia, io mi ci sono affezionata molto, come
mi succede con tutti i miei personaggi. È piuttosto
complesso, riflessivo e controllato fuori, passionale e impulsivo
dentro. Entrambi questi suoi lati verranno fuori nel corso della
storia, esattamente come succederà con Scarlett. Anche lei si
mostrerà sia matura che irresposabile, sia ironica che
affidabile.
Spero tanto che la storia vi piaccia e vi incuriosisca nonostante questi primi capitoli di presentazione.
Voglio dedicare questo capitolo ad Hanna Lewis.
È una ragazza fantastica, incredibilmente talentuosa e che non
smette mai di incoraggiarmi anche se io non vedo, nei miei scritto,
tutta la bellezza che ci vede lei. Non credo che finirò mai di
ringraziarla per questo.
TimeFlies
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Capitolo 3 *** 03. Scarlett ***
Under a Paper Moon- capitolo 3
3. Scarlett
«Quello è carino.» Commentò Elisabeth facendo
un cenno non proprio discreto verso un ragazzo biondo dall’altra
parte del parcheggio.
Lanciai un’occhiata distratta nelle direzione che stava
indicando. «Uhm… Ho visto di meglio.»
Si arrampicò sullo schienale della panchina dove ci eravamo
buttate subito dopo le lezioni sedendocisi sopra come una qualche
specie di sentinella. «Beh, quello è ovvio, ma bisogna
sapersi accontentare.»
Mi lasciai sfuggire una risata: da un paio d’anni Beth era alla
costante ricerca di un ragazzo. Ne aveva trovato qualcuno, ma non
avevano mai superato il traguardo dei cinque o sei mesi insieme. Ora la
stagione di caccia era aperta, e lei non perdeva tempo: aveva
già adocchiato qualcuno anche se per il momento non c’era
niente di certo.
Io invece avevo avuto solo storie brevi ed occasionali, superare i due
mesi per me era un miracolo. E c’ero riuscita solo una volta con
un certo Charlie: due mesi e una settimana. Poi era finito tutto e non
mi era sembrata una tragedia, quindi c’ero passata sopra senza
troppi problemi.
La licantropia, ovviamente, influiva sulle mie relazioni. Dovevo stare
attenta a non correre troppo e ad evitare situazioni troppo "intense"
perché al mio lupo interiore serviva poco per scattare: un
bacio di troppo e potevo ritrovarmi zanne, artigli e compagnia bella. E
avevo ragione di credere che non sarebbe stato facile spiegare ad un
ragazzo perché all'improvviso i miei occhi erano diventati
color oro o perché gli avevo infilzato la schiena. Grazie al
cielo non mi era mai successo, però non abbassavo la guardia:
era meglio limitarsi a qualche storia occasionale e non troppo
lunga decisamente più facile da gestire.
Beth mi diede un colpetto sulla spalla. «Uh, quello, quello!
Guarda.»
Intercettai l’oggetto della sua attenzione: un ragazzo piuttosto
alto, con i capelli castani tirati su da un’abbondante
quantità di gel, che indossava una maglietta dei Nirvana e dei
jeans chiari. Accanto a lui ce n’era un altro con i capelli di un
castano poco più scuro scompigliati che si stava mordendo un
labbro. Socchiusi gli occhi per osservarlo meglio: jeans scoloriti,
maglietta nera con le maniche lunghe tirare su fino al gomito, sorriso
carino. Entrambi non erano per niente male.
«Questi te li faccio passare.» Mormorai continuando ad
osservarli.
«Carini, eh?» Gongolò lei. «In fondo, ho
gusto, non puoi negarlo.»
Ridacchiai. «In questo caso sì, ma di solito sei troppo
frettolosa.»
«Disse quella che ci metteva due secoli a trovarsi un
ragazzo.» Borbottò.
Le rifilai una gomitata nelle costole dopo essermi seduta sullo
schienale accanto a lei. «Io voglio un ragazzo serio, mmh? Non il
primo che passa.» La rimbeccai.
Alzò le mani in segno di resa ridendo sotto i baffi. «Oh,
scusa, non pensavo che fossi così riflessiva.»
«Andiamo a parlarci?» Aggiunse dopo un po’ facendomi
sobbalzare.
«Stai scherzando spero. Ci prenderanno per pazze se
andiamo.» Risposi subito sperando di riuscire a farla demordere.
«Andiamo Scarlett, se non rischi non vivi. E poi quello che piace
a me ieri l’ho visto con un’altra, quindi devo chiarire la
situazione.» Insistette.
«Beh, vai solo tu, no? Io resto qui a farti da… supporto
morale.» Inventai lì per lì.
Mi guardò con un sopracciglio alzato. «O vieni anche tu o non se ne fa nulla.»
«Allora credo proprio che sprecheremo
quest’occasione.» Replicai stringendomi nelle spalle.
«Scusa.»
In tutta risposta lei mi afferrò il braccio e cominciò a
trascinarmi verso i due ragazzi con la grazia di un uragano. Puntai i
piedi cercando di fermarla, ma quando ci si metteva sapeva essere forte
quanto testarda. Anche perché aveva praticato un sacco di sport
fino ad un paio di anni prima: rugby, hockey, football, basket…
E com’era prevedibile usava questo vantaggio fisico a suo favore.
A dirla tutta, avrei potuto batterla facilmente se solo avessi lasciato
che anche un minimo del mio essere lupo si scatenasse. Non lo facevo
per paura di farmi scoprire e perché temevo che potesse prendere
il sopravvento portandomi a combinare guai parecchio grossi.
«Beth ti prego, devo anche lavarmi i capelli… Non puoi
farmi questo.» Mugolai cercando di contrastarla e nello stesso
tempo di tenere a bada il mio lato non umano.
«Andiamo Scarlett, ti sto facendo un favore.»
Ribatté continuando a tirarmi.
Quando arrivammo più o meno a metà strada, si
fermò e socchiuse gli occhi, come un segugio che punta la preda.
Io mi massaggiai il braccio che lei aveva praticamente stritolato con
la sua stretta ferrea guardandola male.
«Okay, ho cambiato idea.» Annunciò. «Io mi
prendo quello con la maglietta nera.»
«E a me toccano i tuoi avanzi, mmh?» Borbottai cercando di
darmi una sistemata.
«Ma se hai detto che non ti interessavano…»
Commentò lei. «Comunque, ora andiamo.»
Questa volta non mi lasciai cogliere impreparata e sgusciai via dalla
sua presa un attimo prima che mi artigliasse di nuovo. «Non
oggi.»
«Scarlett!» Esclamò guardandomi con aria implorante.
«No, mi dispiace Beth, ma non vengo. Sì, insomma, sono
carini solo che… Lo sai che combino solo disastri quando si
tratta di ragazzi.» Ammisi.
Sospirò mettendosi le mani sui fianchi. «Questa è
una cosa che devi superare, sai? E credo che quei due siano adatti a
noi: non è la prima volta che li vedo insieme, credo siano amici
quindi sono perfetti per noi due.»
«Oppure stanno insieme…» Ipotizzai cercando di
evitare il suo sguardo.
«Oh andiamo, non distruggermi così! Sono così
carini… Ne voglio uno.» Esclamò.
Inarcai un sopracciglio. «Guarda che non sono giocattoli: hanno
dei sentimenti e dei bisogni. Se ne prendi uno devi preoccuparti che
non gli manchi nulla. Tutti i giorni, non solo quando piace a
te.»
Era lo stesso discorso che mi aveva fatto mia madre quando le avevo
chiesto un cucciolo. Riadattarlo ad un ragazzo era più semplice
del previsto, cosa che confermava molte delle mie teorie riguardo il
genere maschile.
«Se prometto che lo farò mi accompagni?» La sua voce
era diventata supplicante ed accondiscendente.
La guardai e le mise su l’espressione da cagnolino bastonato: era impossibile dirle di no, per mia sfortuna.
Sospirai lanciandole un’occhiata contrariata. «Okay,
okay… Ma che sia l’ultima volta.»
Batté le mani con lo stesso entusiasmo di una bambina. «Grazie, grazie, grazie!»
Alzai gli occhi al cielo mentre lei mi trascinava di nuovo verso quei
due poveri ragazzi ancora ignari del pericolo. Però, quando
arrivammo sul marciapiede dove si trovavano, erano spariti,
completamente scomparsi. Beth si lasciò sfuggire un mugolio di
delusione. Le lanciai un’occhiata veloce prima di guardarmi
intorno. Individua il ragazzo con la maglietta nera: stava guidando
un’auto grigio scuro dirigendosi verso l’uscita del
parcheggio. Si stava di nuovo mordendo il labbro con aria pensierosa.
«Sono andati via.» Si lamentò Beth aumentando la
stretta sul mio braccio.
Distolsi lo sguardo dal ragazzo e lo riportai su di lei. «Eh
già. Siamo arrivate tardi.»
«Domani sarà mio, poco ma sicuro.» Dichiarò
sfregando le mani insieme come fanno i cattivi nei film.
«Uh… Se fai così lo spaventi però…
Quindi hai deciso quale vuoi?» Chiesi.
Annuì. «Quello con la maglietta nera. Ha un fascino
particolare che mi attira, lo ammetto.»
«Bene, è già qualcosa.» Commentai
distrattamente.
Mi osservò con un sopracciglio inarcato. «Sabato vieni
alla festa?»
«Oh… Certo, sì. Devo trovare qualcosa da mettermi,
ma dovrei esserci.» Risposi.
Sorrise con aria soddisfatta. «Bene. Magari ci saranno anche loro…»
«Già… Magari…» Mormorai.
Il vestito nero di raso le stava a pennello, le fasciava il corpo
mettendo in risalto i punti giusti. Aveva raccolto i capelli in uno
chignon morbido che lasciva alcune ciocche libere di incorniciarle il
viso. Al collo si era messa una catenina d’argento con un piccolo
cristallo come ciondolo che le illuminava la pelle.
Fece una giravolta su se stessa, perfettamente a suo agio sui tacchi.
«Allora? Che ne pensi?»
«Sei una bomba Beth.» Commentai ammirata. «Sul serio,
farai un sacco di conquiste.»
Sorrise appena osservandosi nello specchio. «Lo sapevo che prima
o poi mi sarebbe tornato utile quest’abito.» Si
voltò verso di me con un luccichio malizioso negli occhi.
«Ora tocca te.»
Alzai le mani. «Niente gonne per me, grazie.»
Aggrottò la fronte e si sfiorò il mento. «Uhm… Okay, credo di avere qualcosa.»
Si girò e si tuffò nel suo enorme armadio alla ricerca di
chissà quale capo d’abbigliamento. Mi chiesi come facesse
a stare in piedi con quei tacchi vertiginosi ai piedi.
Mentre aspettava mi guardai intorno: la camera di Beth era un po’
come quelle delle adolescenti nelle commedie romantiche, tutta rosa e
lustrini. Il guardaroba era di legno bianco e occupava praticamente
l’intera parete. In mezzo alla stanza c’era un letto in
ferro battuto coperto da una trapunta viola chiaro. I cuscini invece
erano rosa shocking. Il pavimento ai lati del letto ero ricoperto da un
morbido tappeto fucsia, magliette, jeans e gonne. Appoggiata alla
parete opposta c’era una scrivania di legno chiaro ricolma di
libri, vestiti e sciarpe. La maggior parte della luce proveniva da una
grande finestra che si trovava sul muro di fronte alla porta.
«Ecco qua!» Esclamò voltandosi di nuovo verso di me.
Teneva in mano una canottiera di stoffa morbida e leggera di un bel
viola e un paio di pantaloni stretti di… pelle nera? Pensava
davvero che me li sarei messi? La sua espressione compiaciuta
confermava le mie paure.
Deglutii nervosamente. «Ehm, Beth, mi sembrano pantaloni un po’ esagerati…»
«Guarda che non è pelle vera, è tutto sintetico. E
addosso fatto tutto un altro effetto. Credimi ti staranno da
Dio.» Replicò porgendomi i vestiti.
Li presi titubante. «Non sei obbligata a darmeli, se vuoi posso
usare qualcosa di mio…» “Dimmi di sì, ti
prego, morirò di vergogna con quei cosi addosso”, pensai.
«Andiamo Scarlett, se vuoi un ragazzo devi farti notare.»
Insistette.
Sospirai rassegnata: mancava troppo poco alla festa, appena un giorno,
perché riuscissi a farle cambiare idea quindi ormai era ovvio
che mi sarei dovuta vestire in quel modo. Pelle vera o no, non mi sarei
mai sentita a mio agio con quella sottospecie di pantaloni addosso.
Tornai a casa a piedi, come sempre visto che non avevo un’auto.
Avevo infilato i vestiti di Beth nello zaino e mi sembrava che
l’avessero appesantito di dieci chili come minimo: erano troppo
appariscenti per me, nonostante fossero di colore scuro.
Litigai per cinque minuti buoni con la serratura prima di riuscire ad
entrare. Mollai lo zaino in un angolo e mi lasciai cadere sul divano.
Mamma era già ripartita per un altro viaggio e mi ero
dimenticata di chiederle quando sarebbe tornata, perfetto. Mi
dispiaceva sul serio, le volevo bene, solo che passava più tempo
fuori che in casa.
A volte mi sentivo spaesata e sola, ma poi mi dicevo che dovevo essere
forte: tutto quello che faceva era mirato a farmi avere una vita
dignitosa, non avevo alcun diritto di aggiungere problemi a quelli che
già aveva.
Una vocina nella mia mente mi ricordò che dovevo fare i compiti
. La zittii senza troppi sforzi: l’ultima cosa che volevo fare
era iniziare una guerra con l’algebra. Soprattutto con tutte
quelle dannata lettere infilate a caso in mezzo ai numeri.
Mi sdraiai sulla schiena, lo sguardo fisso sul soffitto, un cuscino
stretto al petto. Una crepa irregolare attraversava l’intonaco
bianco partendo da un angolo della stanza e fermandosi poco più
avanti. C’era sempre stata, fin da quando ero piccola e ormai era
quasi diventata una certezza, una costante. La consideravo rassicurante
da un certo punto di vista proprio perché c’era sempre,
qualunque cosa succedesse fuori. Certo, era strano affezionarsi ad una
crepa, ma visto che passavo buona parte del giorno da sola, tranne
quando uscivo con Beth e con gli altri, non avevo molto altro da fare.
Dopo qualche minuto di riflessioni esistenziali, decisi di provare
almeno a dare un’occhiata ai compiti per il giorno dopo. Mi tirai
su a sedere, allungai un braccio e presi il libro di matematica dallo
zaino. Scorsi velocemente le pagine fino a quella che mi interessava e
feci una smorfia vedendo l’interminabile sfilza di numeri e
lettere che dovevo affrontare.
Mi passai una mano tra i capelli, gesto che mi ricordò che
dovevo lavarli. «Uhm… Come diavolo faccio per il
compito?»
Ci avevo provato più e più volte a farle, mi ero fatta
aiutare da Beth, che era praticamente un genio in matematica, ma alla
fine i risultati non erano cambiati. Probabilmente ero negata per
l’algebra, era inutile girarci intorno, non l’avrei mai
capita.
Mentre fissavo le pagine del libro, qualcosa attirò la mia
attenzione: su un angolo avevo disegnato, in uno dei tanti momenti di
noia, una luna piena che spuntava dalle nuvole. Aggrottai la fronte
osservandola: mi metteva ansia come sempre anche se stavo imparando a
gestirla. Beh, più o meno.
Mi faceva ancora perdere il controllo, ma avevo imparato come fare ad
evitare di mettere in pericolo chi mi stava intorno: bastava che mi
allontanassi il più possibile da tutti e da tutto. Vicino a
Seattle c’erano molti boschi, bastava che andassi lì ed il
gioco era fatto. Nonostante questo però, la furia del lupo che
c’era in me era forte, sempre presente e temevo di poter far male
a qualcuno anche prendendo delle precauzioni. Che poi, in fondo,
lasciavano parecchio a desiderare.
Sospirai mordendomi il labbro. E all’improvviso mi tornò
in mente il ragazzo che piaceva a Beth: era carino, sì, ma non
mi sembrava avesse niente di così spettacolare. C’erano
tanti di ragazzi come lui, piacevoli da guardare, magari anche gentili
o simpatici, ma finiva lì. “O forse no”, commento
una vocina nella parte più remota della mia mente.
L’occhio mi cadde di nuovo sul mio disegno e per poco non mi
venne un infarto: il plenilunio sarebbe stato domenica. Un giorno dopo
la festa. Questo voleva dire che ne avrei sentito gli effetti. Mentre
ero in mezzo ad un sacco di persone. Tra cui ci sarebbe stata anche
Beth.
Non potevo andarci, proprio no, dovevo proteggere la mia migliore amica
e tutti quelli che sarebbero stati presenti. Però mi serviva una
scusa più che inattaccabile per convincere Beth che non ci sarei
stata: era testarda e aveva un grande intuito, avrebbe capito che
c’era qualcosa che non andava.
Mi passai una mano tra i capelli, lo facevo sempre quand’ero
nervosa, e buttai il libro di matematica da una parte. Presi il
cellulare dalla tasca dei jeans e scrissi un messaggio a Beth, sperando
che capisse e non facesse domande: “Sabato
non posso esserci, mi dispiace… Mia mamma non mi lascia venire,
sai, devo recuperare algebra… Divertiti anche per me e fa’
strage di cuori.”
La sua risposta mi arrivò poco dopo e, com’era prevedibile, non mi aveva creduto: “Scarlett
Marie Dawson, che diavolo stai dicendo?! Tua madre non è neanche
in casa adesso. Tu verrai, punto. Andiamo, sarai uno schianto con quei
vestiti, e non posso fare conquiste da sola, lo sai. Se non vieni di
tua spontanea volontà, ti passerò a prendere a casa e
credimi, non sarà piacevole.”
Imprecai tra i denti chiedendomi cosa avevo fatto di male per meritarmi
una cosa del genere. Far cambiare idea a Beth era come convincere mia
madre a lasciar perdere i sari: impossibile. Le scrissi velocemente un
messaggio prima di lanciare il cellulare dall’altra parte del
divano. Lo fissai torva finché la vibrazione non mi
avvertì che avevo ricevuto una risposta da Beth: “Hai solo paura, ma fidati, non hai ne hai bisogno: sarai perfetta. Passo a prenderti io verso le nove e mezzo, okay?”
Ero ancora in tempo per tirarmi indietro, potevo fingermi malata,
potevo farmi mettere in punizione, potevo nascondermi da qualche parte.
Però odiavo comportarmi da codarda quindi… Dovevo
affrontare il mio essere lupo e sfidare la sorte sperando di non
combinare disastri.
“Okay. A sabato.”
SPAZIO AUTRICE: Possiamo dire che in questo capitolo c'è
stato il primo "incontro" molto indiretto tra Scarlett ed Adam. Il vero
primo incontro avverrà nel prossimo capitolo e sarà
piuttosto bizzarro.
In più ho scoperto, diciamo così, che il prestavolto di
Adam, Cody Christian, interpreta un licantropo -piuttosto
ambiguo a dirla tutta- in Teen Wolf: evidentemente era destino che Adam
avesse a che fare con il soprannaturale.
A parte questo, non so davvero come ringraziarvi: quando ho cominciato
a scrivere questa storia non mi aspettavo che potesse piacere a
qualcuno, né di riuscire a creare personaggi interessanti. Fin
dal primo capitolo, invece, mi avete dimosrato molto entusiasmo e
curiosità e questo mi ha reso felicissima.
Grazie mille, sul serio.
TimeFlies
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Capitolo 4 *** 04. Adam ***
Under a Paper Moon- capitolo 4
4. Adam
Se c’era una cosa che odiavo era il traffico alle sette e mezzo
di mattina. Già quella si prospettava come una pessima giornata,
ci mancava solo che arrivassi tardi a scuola e perdessi l’ora di
letteratura. Anzi, a dirla tutta non mi sarebbe dispiaciuto poi
così tanto, solo che il professore aveva un modo tutto suo di
vendicarsi per ritardi o per i compiti non consegnati: quando ti
mandava alla lavagna, e sapevi che sarebbe successo di lì a
poco, ti avrebbe fatto domande impossibili e sarebbe stato
tremendamente restio a darti la sufficienza.
Tamburellai nervosamente sul volante sperando che quel dannato semaforo
diventasse verde. Avrei tanto voluto sapere chi era il genio che aveva
deciso di mettere così tanti semafori di fila in un’unica
strada. Probabilmente qualcuno che guidava poco. Oppure avevano
semplicemente tirato a sorte. Ero più propenso per la seconda
ipotesi.
Quando finalmente l’auto davanti a me decise che la luce del
semaforo era abbastanza verde e ripartì, ero piuttosto sicuro
che sarei arrivato come minimo con mezz’ora di ritardo. Tutto per
colpa della sveglia che non era suonata, di Cora che mi aveva assillato
finché non le avevo dato da mangiare, della scomparsa del libro
di storia, e a mia madre che si raccomandava di non andare troppo
veloce. E poi il giorno dopo sarei dovuto andare a quella stupida festa
con Michael. L’idea non mi entusiasmava, non sapevo neanche io il
perché, solo avrei preferito evitare di andarci. Però gli
avevo promesso che ci sarei stato, non potevo tirarmi indietro
all’ultimo minuto. O forse sì?
Alla fine ero riuscito ad entrare in classe un attimo prima del
suono della campanella, risparmiandomi un brutto voto assicurato. Non
avevo idea di come avevo fatto ad arrivare in orario, probabilmente era
stata tutta fortuna combinata all’infrazione del limite di
velocità. In più dovevo aver evitato qualche segnale di
stop e ignorato qualche semaforo.
Il professore, dopo averci fatto correggere gli esercizi per casa, si
era seduto dietro alla cattedra e ci guardava con quei suoi occhi
grigi. La sua espressione ricordava quella di un avvoltoio che sta per
tuffarsi in picchiata sulla preda.
«Vi ho riportato le verifiche.» Annunciò dopo qualche secondo di tensione.
Nella classe si diffuse un mormorio nervoso: conoscendolo, i voti non
sarebbero stati un granché. Per nessuno.
Sospirai pensando a quanto avrei dovuto studiare se avessi preso
un’insufficienza: non avevo voglia di farlo e non credo
l’avrei mai avuta.
Il prof chiamò uno studente della prima fila, che si
avvicinò titubante alla cattedra. L’insegnate lo
studiò per un attimo prima di mettergli in mano dei fogli.
«Consegnali.» Disse secco prima di infilarsi gli occhiali e
mettersi a leggere un documento.
Il ragazzo sbatté le palpebre per poi cominciare a distribuire i
compiti. Quando si avvicinò al banco di Michael, il mio migliore
amico quasi gli strappò la verifica di mano anche se poi
distolse lo sguardo e la tese verso di me.
«Guarda tu, io non ho il coraggio di farlo.» Disse con fare
esageratamente teatrale.
Alzai un sopracciglio, un po’ interdetto, ma non feci commenti.
Diedi un’occhiata al foglio e annuii appena. «Non è
così male, dai.»
Si ostinava a non guardare. «Dimmi il voto, Meyers.»
«D +.» Risposi.
Si voltò verso di me con un’espressione incredula sul
viso. «Sul serio? È un voto in più rispetto
all’altra volta!»
«Uh, complimenti.» Commentai.
Lui abbassò gli occhi per un attimo e fece una smorfia
contrariata. «Beh, non tutti possono essere dei geni, sai?»
Inclinai appena la testa di lato, confuso, poi seguii la direzione del
suo sguardo: sul mio banco c’era il mio compito, un’A -
campeggiava su un angolo subito sopra la firma del professore.
«Oh…» Mormorai.
Michael incrociò le braccia al petto guardandomi con aria
critica. «Già. Sarà la quarta questo mese: mi
spieghi come diavolo fai?»
«Non lo so, te l’ho già detto un sacco di
volte.» Replicai.
Si appoggiò con la schiena alla sedia. «I tuoi saranno
felici, mmh?»
«Credo di sì. I tuoi invece come l’hanno presa la F
della settimana scorsa?» Chiesi osservandolo.
Arricciò il naso. «Questo è un tasto dolente amico.
Ho dovuto pregarli in ginocchio per farmi dare il permesso per domani.
E vogliono che prenda ripetizioni.»
«Di che materia?» Domandai.
Ci pensò su per un attimo. «Uhm… Tutte più o
meno.»
Spalancai gli occhi. «Come farai a passare? È vero che
è solo il primo semestre, ma… Così tanti debiti
sono praticamente impossibili da recuperare.»
Ghignò divertito. «Tu sottovaluti il mio potere.»
«Oppure sei tu che ti sopravvaluti, ci hai mai pensato?»
Gli feci notare.
Si strinse nelle spalle. «In ogni caso sono migliorato in
letteratura, è un bel traguardo.»
«Non è ancora sufficiente però. Non pienamente
almeno.» Ribattei.
Si sporse verso di me. «Sei pessimista Adam Meyers. Molto, molto
pessimista.»
Non riuscivo a credere che mi avesse convinto ad accompagnarlo da sua
nonna che, per un qualche strano motivo, abitava praticamente in mezzo
ai boschi. E non parlo di una casa in periferia, no, proprio una villa
in stile vittoriano in mezzo ad una foresta.
Suo marito era stato un uomo d’affari molto, molto ricco e un
amante dello sfarzo. Quando era morto, tutti i suoi soldi e i suoi
possedimenti erano passati alla moglie, che aveva deciso di averne
abbastanza dell’aria di città e si era trasferita nel
bosco.
Quando avevo chiesto a Michael perché dovesse andare da lei, si
era limitato a stringersi nelle spalle dicendo che era il compromesso
che aveva raggiunto con i suoi genitori: se avesse passato la serata
con sua nonna sarebbe potuto andare alla festa di sabato.
«Per una festa ti chiudi in una casa in mezzo al niente? Che, per
inciso, è uguale identica a quelle dove nei film muoiono
tutti.» Avevo commentato.
Lui però era stato irremovibile: voleva andare a quella stupida
festa in tutti i modi. Avevo deciso di accontentarlo anche per
rimandare lo studio delle dieci pagine di scienze che mi aspettavano
appena fossi tornato a casa.
La villa di sua nonna era circondata da una siepe scura e fitta e
l’unica entrata al cortile -perché sì, c’era
anche un cortile enorme- era costituita da un grosso cancello in ferro
battuto che sembrava piuttosto minaccioso.
Fermai l’auto lì davanti e osservai la casa.
«Uhm… Allora ci vediamo domani. Se sarai ancora
vivo.»
Mi guardò con aria contrariata. «Ah-ah, molto divertente
sì. E, ripeto, sei pessimista.»
Alzai le mani in segno di resa. «Ehi, dico solo la verità.
Insomma, non sembra un posto molto accogliente. E poi deve costare una
fortuna tra affitto, bollette e simili, no?»
Scrollò le spalle. «E io che ne so? Comunque questa casa
appartiene alla mia famiglia da un sacco. Mia nonna ne ha preso
possesso perché odia la città, ma quando… uh,
quando passerà a miglior vita sai che feste pazzesche ci si
possono fare?»
«Pensi solo a quello tu?» Domandai.
«Beh, sì. Sai, io guardo avanti.» Dichiarò.
«E dovresti farlo anche tu.»
«Lo terrò a mente.» Promisi senza pensarlo
veramente.
«A domani allora. E tieniti pronto, ci saranno un sacco di belle
ragazze.» Aggiunse con un sorrisetto ad increspargli le labbra.
«Immagino… A domani.» Risposi.
Mi fece un cenno d’assenso prima di scendere dalla macchina e
chiudere lo sportello. Gli lanciai un’ultima occhiata prima di
imboccare la strada sterrata che portava alla tangenziale.
Una cosa tipica di Seattle è il clima non proprio favorevole. E
come potrebbe essere altrimenti visto che si trova praticamente
all’estremo nord degli Stati Uniti? Quando si avvicinava
l’inverno faceva buio in fretta e la temperatura calava di
diversi gradi.
Accesi il riscaldamento dell’auto maledicendomi per non aver
preso una felpa quella mattina: a volte mia madre aveva ragione quando
mi diceva di fare qualcosa.
La strada era praticamente deserta ma, d’altra parte, chi
è così pazzo da andare in mezzo ad un bosco alle sette di
sera? Sarebbe stato strano anche in altri orari, però in quel
momento mi sembravo parecchio fuori posto. Mi morsi il labbro
tamburellando distrattamente sul volante. In quel punto non prendeva
neanche la radio, era praticamente sperduto, lontano anni luce dalla
civiltà. O forse stavo esagerando io? A volte avevo il vizio di
divagare un po’ troppo.
Lanciai un’occhiata fuori dal finestrino senza prestare veramente
attenzione a quello che vedevo, anche perché c’erano solo
alberi, abeti e pini, che costeggiavano tutta la strada. Formavano un
fitto muro verde scuro che non sembrava molto ospitale.
Lei sbucò fuori dal nulla cogliendomi completamente di sorpresa.
Non so nemmeno io come feci a non prenderla in pieno. Inchiodai in
qualche modo, il muso dell’auto che con ogni probabilità
le sfiorava le gambe.
Mi ritrovai con il fiato corto, i muscoli in tensione e lo sguardo
puntato sul volante. Sbattei le palpebre e alzai gli occhi incontrando
i suoi che mi studiavano con rabbia più che evidente.
“Perché diavolo è arrabbiata?”, pensai
ritrovando la lucidità. Anzi, più che rabbiosa sembrava
infastidita, come se avessi interrotto qualcosa di importante. Ma cosa
poteva fare di così importante in mezzo ad un bosco?
Scesi dall’auto lasciando lo sportello aperto e feci qualche
passo verso la ragazza che mi stava davanti. Non era minimamente
intimidita, né scossa o qualunque cosa dovrebbe essere qualcuno
che è stato quasi investito. Teneva la testa alta con il mento
sollevato in segno di sfida. Aveva i pungi stretti così tanto
che le nocche le erano diventate bianche. Questo e la mascella serrata
tradivano una certa tensione.
Indossava dei jeans un po’ sbiaditi, una maglietta grigia, un
cardigan rosso scuro di lana piuttosto pesante e degli anfibi neri.
Aveva i capelli molto lunghi, castani e leggermente ondulati, lasciati
sciolti sulle spalle. Alcune ciocche le incorniciavano il viso
ammorbidendo gli zigomi. I suoi occhi erano di un marrone intenso ed
uniforme. Nel complesso il suo viso era carino, dai tratti morbidi
e… dolci, in un certo senso.
«Stai bene?» Riuscii a chiedere.
«Perché non dovrei?» Replicò lanciandomi
un’occhiata sprezzante.
Rimasi interdetto per un attimo, confuso e sorpreso. «Forse
perché ti ho quasi investito? Non mi sembra una cosa da
niente.»
Alzò gli occhi al cielo. «Sì, sto bene.
Contento?»
«Non è una questione di felicità, okay? Ci è
mancato poco perché ti mettessi sotto, sono preoccupato per
te.» Sbottai.
Lei non si scompose minimamente. «Non so se l’hai notato,
ma non ci conosciamo neanche.»
La osservai meglio: c’era qualcosa di lievemente familiare in
lei, come se l’avessi già vista da qualche parte, magari
solo di sfuggita. «Sì, invece. Tu vieni nella mia stessa
scuola, giusto? Terzo anno anche tu.»
Si strinse nelle spalle. «E allora?»
Parlare con lei mi lasciava a bocca aperta: sembrava che non le
importasse di niente né di nessuno, nemmeno di se stessa. E
pareva avercela con il mondo. «Lascia perdere… Sei sicura
di stare bene? Non vuoi, che so, sederti o… bere
qualcosa?» Tirai fuori le prime idee che mi vennero in mente,
anche se lasciavano un po’ a desiderare.
«Sto benissimo. E no, non voglio assolutamente niente. Puoi anche
andartene per quel che m’importa.» Ribatté.
«Quindi dovrei lasciarti in mezzo ad un bosco? Di sera? Da
sola?» Ero incredulo: ma che aveva in testa? Aria?
«Sì, esatto. Non è difficile da capire.»
Confermo inclinando leggermente la testa di lato.
«No, ma… Non ha senso. Che diavolo ci fai qui, in mezzo ad
una foresta?» Domandai studiandola: era tranquilla, magari giusto
un po’ tesa, ma niente di che. Sembrava a proprio agio,
infastidita dalla mia presenza, però comunque sicura di
sé.
«Non sono affari tuoi, chiaro?» Ringhiò facendosi improvvisamente aggressiva.
Era scattata sulla difensiva senza un motivo apparente, come se avessi
toccato un punto scoperto. Stava fuggendo? Aveva fatto qualcosa di
sbagliato o illegale? Era semplicemente una pazza scappata da un
manicomio?
«Okay. Lascia almeno che ti riaccompagni a casa.» Proposi
cercando di usare un tono accondiscendente, calmo.
Un sorrisetto beffardo le incurvò le labbra.
«Perché dovresti?»
«Perché è pericoloso stare in mezzo ad una foresta,
sai? Sì, insomma, ci sono animali feroci, fa freddo… non
è sicuro.» Spiegarlo mi sembrava inutile, però non
volevo darle contro in modo troppo aperto.
«Tecnicamente io sono in mezzo ad una strada che è in
mezzo ad un bosco.» Mi fece notare inarcando le sopracciglia e
inclinando la testa di lato.
«Rimane sempre un posto pericoloso. Senti, non farò
domande, dimmi solo dove devi andare e ti ci porto. Ovviamente se non
devi uscire dalla città.» Replicai.
«Vuoi fare una buona azione, mmh? Beh, mi dispiace, ma no. Sto
benissimo qui dove sono.» Rispose.
«Non voglio fare l’eroe della situazione, ma non me la
sento di lasciarti qui da sola.» Ammisi.
Incrociò le braccia al petto. «Qual è la parte che
non capisci di “vattene, non voglio niente”?»
«Non riesco a trovarci un senso, okay? Perché sei in mezzo
ad un bosco, tanto per cominciare? E per quale motivo vuoi
rimanerci?» Domandai al limite dell’esasperazione.
Serrò la mascella e vidi i suoi occhi farsi più cupi.
«Non sono affari che ti riguardano, te l’ho già
detto. Quindi sparisci.»
Pensai di star sognando. E avevo validi motivi per esserne convito: era
impossibile che una ragazza fosse così determinata a voler
rimanere in una foresta. «Almeno puoi darmi una spiegazione
valida?»
Mi guardò male. «No. Perché dovrei farlo? Quello
che faccio della mia vita non ti riguarda.»
«Vuoi startene da sola in mezzo al nulla? Bene, perfetto. Divertiti.» Sbottai.
«Finalmente l’hai capito…» Borbottò a
mezza voce.
Mi voltai, salii in auto e sbattei lo sportello. Avevo il fiato corto,
di nuovo, e mi tremavano le mani. Sospirai e le chiusi a pugno cercando
di calmarmi: in pochi minuti quella ragazza era riuscita ad esasperarmi
e farmi arrabbiare dicendo sì e no dieci parole, visto che il
concetto era sempre lo stesso.
Afferrai il volante cercando di convincermi che era la cosa non
proprio giusta ma neanche così sbagliata da fare. Purtroppo,
c’era una parte di me che non era sicura e mi impediva di
andarmene.
Abbassai il finestrino e richiamai la ragazza che, nel frattempo, stavo
cominciando ad allontanarsi. «Ehi, senti, sei proprio sicura di
non volere un passaggio?»
Qualcosa mi diceva che se non l’avessi portata da qualche parte
al sicuro non sarei stato in pace con me stesso. Ed era una cosa
estremamente fastidiosa.
Mi lanciò un’occhiata da sopra la spalla. Sembrava
sorpresa e decisamente più rilassata. Era piuttosto lunatica,
cambiava umore ogni cinque secondi. «Che ore sono?»
Rimasi incantato a guardarla per un attimo prima di riscuotermi,
prendere il cellulare dalla tasca dei jeans e controllare
l’orario. «Le sette e un quarto.»
Si lasciò sfuggire una smorfia. «Uh… Forse uno
strappo potrebbe farmi comodo. Forse.»
Mi sentii più tranquillo per un qualche strano motivo. «Beh, io sono disponibile.»
“Non è che abbia molta scelta, sai? Ci sei solo
tu…”, mi fece notare una vocina dentro di me. Socchiuse
appena gli occhi studiandomi.
«D’accordo.» Cedette dopo qualche secondo di
esitazione. Si avvicinò di qualche passo fino a trovarsi a meno
di un metro dall’auto. «Certo che sei insistente,
eh?»
Sorrisi senza neanche rendermene conto. «È nella mia
natura, non posso farci niente.»
Aggrottò la fronte e inclinò appena la testa di lato
prima di fare il giro della macchina. La sentii borbottare qualcosa
riguardo il sarcasmo e i ragazzi mentre apriva lo sportello sul lato
passeggero e si sedeva accanto a me.
«Dove abiti?» Chiesi osservandola: teneva la testa
leggermente china, i capelli le ricadevano ai lati del viso
nascondendolo, si torturava le mani in grembo e aveva le spalle appena
incurvate.
Alzò lo sguardo verso di me. Sembrava essere diventata
improvvisamente tesa, quasi come un animale messo all’angolo. Poi
si rilassò e fece un respiro profondo. Dentro di me la definii
l’incarnazione della parola “lunatico”.
«Pike Street, numero 22.» Sussurrò mordendosi il
labbro.
«Okay. Non è lontano da dove sto io.» Dissi
annuendo.
Mi guardò per un attimo. «Bene.»
Misi in moto l’auto e partii. Cercai di concentrarmi il
più possibile su quello che stavo facendo, nonostante la
presenza della ragazza mi distraesse abbastanza. Nessuno di noi disse
una parola finché rimanemmo in tangenziale. Lei si era messa ad
guardare il paesaggio fuori dal finestrino con aria assorta e sembrava
essersi dimenticata della mia esistenza. Io mi stavo imponendo di
mantenere lo sguardo fisso sulla strada anche se avrei preferito
cercare di capire cosa ci faceva lei in mezzo ad un bosco.
Quando entrammo in autostrada trovai il coraggio di parlare:
«Comunque, io sono Adam.»
Le lanciai un’occhiata veloce e per un secondo incrocia i suoi occhi marroni, sospettosi ma anche interessati.
Si infilò una ciocca di capelli dietro l'orecchio. «Io sono Scarlett.»
SPAZIO AUTRICE: Finalmente
Adam e Scarlett si sono incontrati. In modo un po' strano, ma l'hanno
fatto. Lei si è messa subito sulla difensiva, com'è sua
abitudine fare quando qualcosa non va come previsto. Adam, invece,
è incuriosito da questa ragazza così lunatica e
misteriosa. Entrambi sono rimasti colpiti l'uno dall'altra, e questo
potrebbe complicare le cose.
Volevo avvisarvi che starò via dal 28 luglio al 16 agosto: non
riuscirò ad aggiornare in questi giorni, ma vedrò di
farlo appena torno.
Detto questo, vi ringrazio ancora per l'entusiasmo che dimostrate nel seguire questa storia.
TimeFlies
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Capitolo 5 *** 05. Scarlett ***
Under a Paper Moon- capitolo 5
5. Scarlett
Che diavolo mi era
saltato in mente?! Perché ero stata così scorbutica e
rabbiosa? Dannazione, mi stavo rovinando con le mie stesse mani. E non
potevo assolutamente permettermi di farlo.
L’avevo riconosciuto
subito, appena aveva alzato lo sguardo dopo avermi quasi investita: era
il ragazzo che avevo visto a scuola con Beth proprio quel giorno, lo
stesso ragazzo che la mia migliore amica era determinata a conquistare.
Si era mostrato preoccupato e anche un po’ confuso, ma,
d’altra parte, come dargli torto visto che mi ero comportata come
una psicopatica?
Visto da vicino era ancora più carino: capelli
castani arruffati, probabilmente perché ci passava troppo spesso
le mani, labbra chiare e quasi sempre leggermente schiuse, mascella un
po’ squadrata ma non troppo. E poi c’erano gli occhi, di un
colore indefinito tra il blu e il grigio uguale a quello che ha il
cielo poco prima che si scateni un temporale.
Indossava dei jeans
scuri, una maglietta grigia e una felpa nera. Non sembrava uno di quei
ragazzi fissati con l’aspetto fisico, non era uno di quelli per
cui prima viene l’apparire poi l’essere. E questo era
decisamente un punto a suo favore. Casomai avessi deciso che poteva
interessarmi. Però, anche se avessi preso seriamente in
considerazione l’idea di provarci con lui -possibilità
molto, molto remota-, non avrei potuto farlo: primo perché
piaceva a Beth e quindi non potevo mettermi in mezzo visto che lei era
arrivata prima; secondo mi ero comportata da pazza lunatica e per
questo probabilmente mi aveva fatto perdere un sacco di punti in
partenza. Ero abbastanza certa che lui mi considerasse una schizzata
fuggita da un ospedale psichiatrico. E come dargli torto visto il mio comportamento più che bizzarro?
Quando aveva
accostato davanti a casa mia ero rimasta per un intero minuto a
fissarmi le gambe giocherellando con un buco nella manica del cardigan
come avevo fatto praticamente per tutto il viaggio. Non l’avevo
guardato neanche quando mi aveva chiesto a che numero abitassi, mi ero
limitata a rispondere automaticamente senza nemmeno pensarci. Solo
quando lui si era schiarito la gola mi ero decisa ad alzare lo sguardo
e avevo incrociato i suoi occhi grigio-blu che mi studiavano.
«Siamo arrivati.» Aveva detto prima di mordicchiarsi il
labbro.
Lo faceva spesso, quasi fosse stato un tic nervoso,
un’abitudine, un modo per sfogare la tensione. Involontariamente
mi ero ritrovata a farlo anch’io. Grazie al cielo me n’ero
accorta dopo un secondo e avevo smesso di farlo. Avevo lanciato
un’occhiata fuori dal finestrino e avevo constatato che
sì, in effetti eravamo di fronte alla piccola, o meglio
minuscola, villetta -anche se definirla così mi sembrava
un’esagerazione- dove vivevo.
Mi ero voltata verso di lui ed ero
finita di nuovo per perdermi nel cielo tempestoso che erano le sue
iridi. «Uhm… Sì… G-grazie.»
Aveva
annuito appena e mi aveva fatto un piccolo sorriso incentro.
«Figurati.»
“Ora dovresti scendere, per salvare
almeno le ultime apparenze”, mi aveva suggerito una vocina nella
mia mente. L’avevo assecondata subito, anche se, purtroppo, non
avevo il pieno controllo dei miei movimenti: avevo aperto la portiera
con mani tremanti e non ero riuscita a trattenermi dal lanciargli
un’ultima occhiata di sottecchi prima di scendere.
Inevitabilmente i suoi dannatissimi occhi color tempesta mi avevano
beccata e aveva inibito ancora di più le mie già scarse
facoltà mentali.
Ero riuscita a scendere dall’auto per
puro miracolo reggendomi a stento sulle gambe. Avevo chiuso la portiera
cercando di abbozzare un sorriso e sapevo, nel momento esatto in cui
ordinavo alle labbra di incurvarsi, che sarebbe stato un disastro. Lui
però l’aveva ricambiato lo stesso infondendo qualcosa di
dolce in quel gesto tanto semplice. Una parte di me definì quel
qualcosa pietà, e dovetti ammettere che c’erano buone
possibilità che fosse vero.
Se n’era andato lasciandomi
confusa e piena di dubbi sul marciapiede. “E ora che
faccio?”, avevo pensato scoraggiata. Ero stata ad un passo dal farmi scoprire per ciò
che ero realmente. E con chi, se non con il ragazzo che piaceva alla
mia migliore amica? Cominciavo a chiedermi se ci fosse una qualche
divinità che ce l’aveva con me perché l’avevo
insultata un po’ troppe volte dandole la colpa delle mie piccole,
e molto numerose, disgrazie quotidiane.
Quel pomeriggio avevo deciso di
uscire per cercare un posto dove passare la notte del plenilunio: lo
facevo tutte le volte, provavo a non andare nella stessa zona per
evitare di far nascere sospetti e per cercare di non distruggere troppi
alberi. Perché sì, ogni tanto mi capitava di perdere il
controllo e fare concorrenza ai produttori di segatura. Per questo
dovevo ringraziare i miei bellissimi, quanto difficili da nascondere,
artigli.
Purtroppo mi ero trattenuta un po’ troppo ad osservare
il sole che calava lento sull’orizzonte quindi avevo dovuto
recuperare il tempo perso correndo. E quasi finendo sotto l’auto
di Adam. Da quel momento era andato tutto degenerando: la paura di
essere scoperta mi aveva resa scontrosa e lunatica e le sue continue
insistenze non avevano aiutato. Anche se, tutto ciò che aveva
fatto lui era in buona fede e mirato ad aiutarmi.
In qualche modo ero
riuscita ad aprire la porta, facendo cadere le chiavi come minimo una
decina di volte, ed ora mi ritrovavo in mezzo al salotto con le mani
nei capelli e un senso d’angoscia incredibilmente soffocante nel
petto: c’era mancato un soffio perché Adam capisse
cos’ero. C’era mancato un soffio perché la mia
intera vita venisse irrimediabilmente rovinata. C’era mancato un
soffio perché tutti i miei sforzi venissero annullati.
“Sei irresponsabile”, mi rimproverò una vocina nella
mia mente. Dovetti ammettere che aveva ragione. Molta, troppa ragione.
«Non posso andare alla festa… Non posso
proprio…» Mi dissi.
Guardai il cellulare, che avevo
buttato sul divano, combattuta: non mi andava di dare buca a Beth, ma
non potevo neanche permettermi di rischiare tanto passando la notte
prima della luna piena in mezzo a così tante persone.
Mi
mordicchiai il labbro maledicendomi per la mia poca attenzione e per la
facilità con cui mi facevo distrarre da cose banali come i
tramonti. Non ero neanche una tipa romantica, quindi non mi spiegavo
perché mi ero persa dietro al ciclo del sole. Feci un respiro
profondo e cercai di fare il punto della situazione. E qual è il
modo migliore per farlo? Parlare ad alta voce, ovviamente.
«Se
sabato vado a quella stupida festa rischio di ammazzare qualcuno, se
non ci vado Beth mi uccide, quindi, che diavolo devo fare?»
Chiesi ad un immaginario interlocutore. Da una parte avevo voglia di
uscire e rilassarmi un po’ anche se sapevo che sarebbe stato
pericoloso, dall’altra il mio buon senso mi urlava di non essere
egoista e di pensare a tutte le persone che sarebbero state con me quel
giorno.
«Uh… Ma sì, in fondo non farò male a
nessuno, la paura è tutta nella mia testa. Io a quella dannata
festa ci vado.» Decisi annuendo soddisfatta.
“Pessima
idea”, commentò una parte di me. In fondo sapevo che aveva
ragione, se non completamente quasi, ma non potevo farmi condizionare
così tanto dal mio essere lupo. Suonava un po’
irresponsabile alle mie stesse orecchie, ma, ehi, avevo solo
diciassette anni, non potevo pretendere di essere matura e
giudiziosa… Giusto?
Alla fine i pantaloni di pelle non si erano
rivelati essere così male. Mi mettevano ancora un po’ a
disagio, però avevo deciso di mettere da parte le mie
insicurezze per provare a distrarmi almeno per una sera. E magari per
trovare un ragazzo.
Avevo scelto di indossare gli anfibi sia
perché non avevo scarpe col tacco sia perché non avrei
saputo come camminarci. La canottiera di Beth aggiungeva un tocco
femminile e sofisticato, credo, al tutto e devo ammettere che mi
sentivo abbastanza attraente.
Avevo raccolto i capelli in uno chignon alto e
fermato le ciocche ribelli con una notevole quantità di forcine.
Riguardo al trucco ero stata più in difficoltà: non mi piaceva né mi riusciva
usarlo, però volevo rendermi carina e presentabile quindi dovevo
fare uno sforzo e cercare di non sembrare un panda.
Dopo qualcosa come
un centinaio di tentativi, e altrettanti dischetti di cotone
imbrattati, ero finalmente riuscita a disegnare una linea di eyeliner decente sulla
palpebra. Mi metteva in risalto gli occhi, cosa che non credevo
possibile, a dirla tutta, visto che erano di un comunissimo marrone.
Aggiunsi un po’ di mascara per dare un tocco in più e
coprii qualche imperfezione della pelle con del fondotinta.
«Non
sembro nemmeno io…» Commentai guardandomi allo specchio.
Mi mordicchiai il labbro osservando il mio riflesso: forse non sarebbe
andata così male, insomma, potevo controllarmi e riuscire a
passare una bella serata. Se ci fossi riuscita sarebbe stata la prova
del fatto che potevo vivere la mia vita e gestire il mio essere lupo.
Questo poteva darmi una possibilità di crearmi un futuro degno
di questo nome, magari andare al college, viaggiare… Fare
qualcosa di completamente mio.
Qualcuno suonò il campanello con
un po’ troppa insistenza, quasi gli si fosse incollato il dito al
pulsante. Scossi la testa riconoscendo il modo di fare di Beth. Infilai
il cellulare nella tasca dei pantaloni insieme alle chiavi di casa e
scesi al piano di sotto.
Quando aprii la porta mi ritrovai davanti una
ragazza incredibilmente sorridente: Elisabeth era semplicemente
perfetta nel suo vestito di raso nero e i tacchi le facevano delle
gambe da urlo. Aveva lasciato i capelli sciolti sulle spalle in modo
che le incorniciassero il viso e mettessero in risalto il piercing al
sopracciglio. Il trucco era davvero ben fatto: ombretto blu notte
sfumato sulle palpebre, mascara blu elettrico e rossetto rosa scuro.
Sembrava una modella appena uscita da una sfilata.
«Pronta per
fare festa?» Chiese con uno scintillio malizioso negli occhi.
«Oh sì, puoi contarci.» Mi stupii della mia stessa
sicurezza.
«Sei uno schianto Scarlett.» Commentò
studiandomi.
«Non quanto te, ma grazie.» Replicai
sorridendo.
Ridacchiò. «Beh, sai, la classe non è
acqua.»
Scossi la testa mentre mi chiudevo la porta alle spalle.
«Sei sempre la solita.»
«Se intendi sempre la
migliore ti do ragione.» Ribatté scendendo elegantemente
le scale nonostante quei trampoli che aveva ai piedi.
La sua auto era
parcheggiata davanti a casa mia: era un SUV grigio metallizzato un
po’ vecchio ma comunque più che funzionante. Beth si
sedette al posto di
guida, mentre io presi posto accanto a lei.
Lanciai un’occhiata
perplessa alle sue scarpe paurosamente alte. «Come fai a guidare
con quelle?»
Scrollò le spalle. «Non lo
faccio.» E si sfilò i tacchi per poi farmi
l’occhiolino. «Noi donne dobbiamo saperci adattare.»
Il locale era piuttosto piccolo, buio e molto affollato. C’era un
sacco di gente sia al bar che sulla pista da ballo. Le ragazze
indossavano abiti striminziti al limite dell’accettabile e scarpe
con tacchi concepiti per sfidare la gravità. Per quanto
riguardava i ragazzi c’era chi si era mantenuto sul classico
scegliendo jeans con una maglietta o una camicia, e chi aveva
decisamente esagerato: sembrava impossibile anche a me, ma avevo visto
pantaloni argentati, maglie strappate messe peggio dei miei jeans, e da
qualche parte avevo intravisto qualcosa di rosa.
«Non credevo ci
fossero così tante persone.» Commentai guardandomi
intorno.
«Il gruppo che suona è molto conosciuto. E il
cantante è qualcosa di meraviglioso.» Rispose Beth
studiando un ragazzo dai capelli rossi poco lontano da noi.
«Uhm…» Mormorai distrattamente: ero troppo impegnata
a cercare un’uscita veloce e nascosta. In caso di bisogno, se il
mio essere lupo fosse diventato incontrollabile, me ne sarei dovuta
andare subito quindi era meglio avere un piano di fuga ben congegnato.
«Vado a cercare il ragazzo del parcheggio. Vuoi unirti?» Mi
chiese la mia migliore amica.
«No, credo che andrò a
prendere qualcosa da bere.» Replicai.
«Okay. Sta’
attenta, mmh? Non voglio doverti venir a riprendere in casa di
chissà chi domattina.» Disse guardandomi con le mani sui
fianchi.
Le diedi un colpetto sul braccio. «Beth! Semmai sei tu
che devi stare attenta, io sono una brava ragazza.»
Alzò
un sopracciglio, scettica, ma non commentò. Si limitò a
farmi un sorrisetto malizioso prima di infilarsi tra la massa di corpi
vestiti troppo poco che si agitava sulla pista da ballo.
In qualche
modo riuscii a raggiungere il bar, facendomi spazio a forza di
gomitate, sia ricevute che date. Trovai per miracolo uno sgabello
libero e mi ci arrampicai beccandomi un bel po’ di occhiatacce.
Provai per diversi minuti ad attirare l’attenzione del barista,
inutilmente: va bene che non ero bellissima né formosa, ma
poteva considerarmi anche solo per un attimo, no?
«Posso offrirti
qualcosa?» Sussultai sentendo una voce sconosciuta e parecchio
vicina.
Mi voltai di scatto e accanto a mi trovai davanti un ragazzo
dai capelli neri tirati indietro da un’impressionante
quantità di gel. Aveva gli occhi marroni e allegri. Indossava
una camicia di jeans e dei pantaloni neri. Sbattei le palpebre, quasi
stralunata, mentre analizzavo le sue parole: che voleva quello?
“Vuole provarci con te, genio”, mi rimbeccò una
vocina nella mia mente.
«Oh… Sì, perché no.»
Riuscii a dire.
Sorrise, soddisfatto, prima di richiamare il barista,
che, contrariamente a come aveva fatto con me, gli prestò subito
attenzione. «Due limonate.»
“Accidenti, tu si che sai
come divertirti, eh?”, pensai ironica. Mi sforzai comunque di fargli un
sorriso il più convincente possibile.
«Non ti ho mai vista
qui, è la prima volta che ci vieni?» Domandò
osservandomi ed appoggiandosi con il gomito ed il fianco al bancone.
«Uh… Sì. Di solito vado in una discoteca
dall’altra parte della città, il Subway, non so se lo
conosci.» Spiegai ritrovandomi a gesticolare: lo facevo quasi
sempre quando ero nervosa. O in imbarazzo.
Lui annuì. «Oh,
sì, ci abbiamo suonato un paio di volte.»
Aggrottai la
fronte. «Tu suoni? In un gruppo?»
«Già.»
Si indicò sorridendo mestamente. «Ti presento il
chitarrista di riserva dei Nevermind.»
«Sul serio?
Forte.» Commentai colpita.
«Più o meno:
“riserva” vuol dire che non partecipo mai ai
concerti.» Ammise.
«Questo è un po’ meno
forte…» Mormorai. «Però non è
malissimo.»
Ridacchiò. «Dipende dai punti di
vista…» Mi tese una mano. «Casomai ti interessasse,
io mi chiamo James.»
“Due ragazzi nel giro di due giorni,
mica male”, commentai mentalmente ripensando ad Adam. Gli strinsi
la mano. «Io Scarlett.»
«Sei la prima ragazza che
incontro con questo nome… Però è bello.»
Replicò.
Abbassai lo sguardo. «Grazie…»
Il
barista mollò sul bancone le nostre ordinazioni. «Ecco
qua. Sono sei dollari.»
Spalancai gli occhi: sei dollari? Sul
serio? Erano fatte con limoni d’oro per caso? Cercai nelle tasche
dei pantaloni i soldi e, dopo qualcosa come cinque minuti dopo riuscii
a trovare tre dollari. Quando alzai la testa, però, vidi James
che ne dava sei al barista scorbutico.
«Te li
rendo…» Sussurrai, ma lui mi fece un cenno vago con la
mano.
«Ehi, ho detto che te l’avrei offerta, no? E poi che
figura ci faccio se ti lascio pagare?» Spiegò sorridendo.
«Oh… Allora grazie…» Dissi cercando di
mostrarmi convinta.
«Di niente.» Prese i bicchieri e me ne
porse uno. «Spero sia meglio di quella del Subway.»
Mi
lasciai sfuggire una risata. «Lo spero anch’io: quella
è imbevibile.»
Si mise a ridere con me mostrando delle
adorabili fossette sulle guance. “Se lo vedesse Beth lo vorrebbe
tutto per sé…”, pensai, “ma adesso lei non
c’è…”
James era abbastanza simpatico e
amichevole anche se un po’ timido. Riuscì a distrarmi dal
plenilunio e dalla mia paura di combinare guai. Si rivelò essere
una compagnia piacevole anche se forse era troppo dolce per essere il
mio tipo. Questo non toglieva che potesse diventare un buon amico.
Mi
raccontò la storia della formazione dei Nevermind, il gruppo che
avrebbe suonato quella sera, e scoprii che era il fratello del cantate.
Nonostante questo però aveva solo un ruolo marginale nella band.
Suonava la chitarra da quando aveva sei anni: aveva cominciato con
quella classica per poi innamorarsi, parole sue, di quella elettrica.
Era interessante starlo a sentire: mentre parlava gli brillavano gli
occhi e sembrava davvero molto coinvolto. In più gesticolava
esattamente come facevo io, cosa che mi fece sentire meno sola. Mi fece
ridere più di una volta guadagnando punti extra per la sua
risata tremendamente allegra e contagiosa.
Da una parte, mi sembrava
quasi impossibile che stesse parlando proprio con me, soprattutto
perché c’erano ragazze che avevano il novanta per cento di
pelle scoperta e che sembravano molto più disponibili a
divertirsi di me. Però lui era ancora lì, con le sue
adorabili fossette e il suo carattere esuberante seppur riservato.
Non
so neanche quanto tempo passammo a chiacchierare praticamente di tutto:
era piacevole farlo e mi veniva naturale. In più apprezzavo il
fatto che non mi facesse domande personali di nessun tipo, stava sulle
sue senza sbilanciarsi troppo e già solo per questo si meritava
una possibilità.
Per mia grande sfortuna, il mio lupo non era
d’accordo con tutta quella tranquillità: si
ripresentò con la grazia di un uragano pretendendo di farmi
perdere il controllo di fronte ad un possibile fidanzato.
La prima cosa
che sentii fu un dolore leggero ma pulsante alla testa. Inizialmente lo
presi come una conseguenza della musica martellante e della poca aria
che c’era nel locale. Poi però cominciò a farsi
più insistente e a scendere verso il basso fino a fermarsi
all’altezza dello stomaco.
Lo riconobbi solo in quel momento e
bastò a farmi venire l’ansia. Cominciò a
trasformarsi, passando dall’essere un dolore alla voglia di
ringhiare. Strinsi le labbra sperando che se ne andasse, che mi
bastasse concentrarmi per farlo sparire. Purtroppo, fu inutile, era
ancora lì, pressante e forte.
Lanciai un’occhiata a James
cercando di non farmi vedere: stava parlando di come i Nevermind
scrivevano le loro canzoni e di tutte le volte in cui erano stati i
suoi testi a risolvere i blocchi creativi di Max, suo fratello.
«Devo… devo andare in bagno, scusa.» Riuscii a
balbettare prima di alzarmi ed allontanarmi tentando di non barcollare.
Mi sentivo intontita, a tratti più che lucida e respiravo a
fatica. Avevo lasciato James da solo e non avevo neanche idea di quando
sarei tornata. Anzi, forse non l’avrei mai fatto: era decisamente
più prudente andarmene subito, non aspettare oltre. Neanche un
minuto.
Riuscii a scivolare fra tutti i corpi sudati che si muovevano
sulla pista da ballo e ad avvicinarmi ad una porta che avevo adocchiato
appena ero entrata con Beth. “Giusto, c’è anche
lei…”, pensai mentre mi aggrappavo alla maniglia per non
cadere.
Aprii la porta il minimo indispensabile che mi serviva per
passare e mi infilai in qualunque cosa ci fosse dall’altra parte.
Grazie al cielo non c’era nessuno. In effetti, sarebbe stato
strano il contrario: era un semplice corridoio spoglio con un tavolo
vecchio e traballante addossato al muro di fronte a me e accanto
all’uscita di sicurezza alla cui destra c’era una finestra
piccola e piena di ragnatele.
Tirai un sospiro di sollievo constatando
che potevo andarmene, potevo salvare le apparenze e la mia vita. Ero
stata tremendamente irresponsabile ad andare a quella dannata festa e
ne stavo pagando le conseguenze, ma almeno l’avrei fatto solo io,
gli altri erano salvi.
Feci un passo avanti e portai le mani al viso
cercando di fare respiri profondi. Ero riuscita a calmarmi quasi del
tutto quando una fitta più forte ed improvvisa mi tolse il
fiato. E, nel momento esatto in cui sentii le zanne allungarsi nella
mia bocca, qualcuno aprì la porta alle mie spalle.
SPAZIO AUTRICE: Sono tornata finalmente *-*
In questi quindici giorni (?) non sono riuscita a scrivere, ma visto
che quasi tutti i capitoli della storia sono già stati scritti,
gli aggiornamenti procederanno con regolarità. O almeno
cercherò di fare in modo che sia così.
Finalmente Scarlett è andata a quella famosa festa insieme a
Beth. Nonostante sapesse che il giorno prima del plenilunio è
piuttosto complicato per lei, Scarlett ha comunque deciso di correre il
rischio e si è cacciata nei guai. Resta da capire chi è
lo sconosciuto che ha aperto la porta e cosa succederà dopo.
Spero che il capitolo vi sia piaciuto e vi rigrazio infinitamente per la pazienza con cui l'avete aspettato.
TimeFlies
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Capitolo 6 *** 06. Adam ***
Under a Paper Moon- capitolo 6
6. Adam
Dovevo essermelo sognato.
Sì, non c’era altra spiegazione per quello che avevo
visto. Forse avevo bevuto troppo, o forse c’era una chissà
quale droga nel mio bicchiere. Eppure, anche dopo aver sbattuto le
palpebre più volte, lei era ancora lì, con quelle iridi
dorate accese di luce propria, i canini allungati e l’aria
sconvolta.
I suoi erano capelli scompigliati, la crocchia che aveva prima era
mezza disfatta e molte ciocche le ricadevano in modo scomposto ai lati
del viso e sugli occhi. La canottiera che indossava era sgualcita e
spiegazzata. Il suo respiro era affannoso e spezzato. E mi guardava
come se io fossi stato il cacciatore e lei l’animale in trappola.
«Che… che ci fai qui?» Riuscì a mormore.
«Io… Me ne stavo andando.» Risposi.
Odiavo quel posto tanto quanto odiava il gruppo che suonava. In
più mi ero ritrovato un mal di testa fastidioso spuntato fuori
da chissà dove. Avevo bisogno di prendere aria quindi avevo
pensato di andarmene, anche solo per cinque minuiti, dall’uscita
di sicurezza che si trovava in un corridoio da cui si accedeva
attraverso una porta dal lato opposto rispetto a dove si entrava nel
locale. Di sicuro non mi aspettavo di trovarci la ragazza che avevo
quasi messo sotto il giorno prima con i canini allunganti e le iridi
color oro.
Chiuse gli occhi e quando li riaprì erano tornati al loro solito
colore. Anche quelle che sembravano zanne erano sparite lasciandola
libera di stringere le labbra con aria irritata. «Allora
vattene.»
Mi ritrovai a scuotere la testa senza rendermene conto. «Non
posso.»
«Cosa? Certo che puoi.» Allungò un braccio verso
qualcosa alle sue spalle. «Visto? Quella è la
porta.»
«Non intendevo questo. Tu… tu che farai? Cioè,
voglio dire, quello… I tuoi occhi e…» Mettere
insieme una frase di senso compiuto sembrava impossibile.
«Non è una cosa che ti riguarda, chiaro?»
Ringhiò guardandomi male.
«Certo che mi riguarda!» Sbottai. «Quello che ho
visto… Mi devi una spiegazione. Anche piuttosto dettagliata. Gli
occhi delle persone con cambiano colore così
all’improvviso, sai? E di sicuro avere delle zanne retrattili in
bocca non è normale. In più ieri eri in mezzo ad un
bosco. Di sera. Completamente sola. E ho rischiato di ucciderti. Quindi
ora mi spieghi che diavolo sta succedendo.»
Ci fissammo per chissà quanto, lei con le braccia tese lungo i
fianchi e i pugni stretti così forte da avere le nocche bianche,
io con il respiro spezzato e la mascella serrata. Era incredibile come
riuscisse a sostenere un confronto di sguardi tanto a lungo senza
battere ciglio. I suoi occhi marroni erano accesi dalla rabbia e da una
sfumatura dorata. Ancora non riuscivo a capire cosa fosse e
probabilmente non ci sarei mai arrivato. A meno che non fosse stata lei
a dirmelo.
Il punto era, come convincerla a dire una cosa del genere? Sembrava
più che decisa a tenerla per sé ad ogni costo, neanche
fosse stato un segreto di stato, qualcosa che riguardava la sicurezza
del mondo intero.
«Non dici niente?» Domandai dopo quella che mi era sembrata
un’eternità passata a reggere il suo sguardo infastidito e
intenso.
«Non ho motivo di farlo. E non capisco perché ti interessa
tanto, non puoi semplicemente andartene e lasciarmi vivere la mia
vita?» Sbuffò alzando il mento in segno di sfida.
«No, perché è più che evidente che la tua
vita si intreccia alla mia un po’ troppo spesso.» Replicai
incrociando le braccia al petto.
«Beh, non è colpa mia. Quindi, vattene. E lasciami in pace.» Insistette.
«Senti Scarlett, così non andiamo da nessuna parte. Dimmi
anche solo a grandi linee cosa sta succedendo, dimmi se sono ubriaco io
e se sto sognando… Qualunque cosa. Solo… dì
qualcosa.» Perché mi stavo impuntano su una cosa del
genere? Che senso aveva? C’erano buone probabilità che lei
mi odiasse, quindi per quale motivo ne volevo sapere di più?
«Non lo dirai a nessuno, vero?» Chiese studiandomi.
Voleva parlare quindi? «Certo. Nessuno ne saprà
niente.»
Non riuscivo a credere che fosse davvero sul punto di dirmi la
verità. O comunque qualcosa. Avevo ancora in mente
l’immagine nitida dei suoi occhi dorati, dei suoi canini
allungati e della sua espressione sconvolta.
La guardai e per un attimo mi apparve per ciò che era davvero:
una ragazza confusa ed impaurita da quello che c’era dentro di
lei. Una ragazza alla ricerca di una qualche specie di equilibrio tra
il suo essere interiore e il mondo che c’era fuori. Una ragazza
che si sforzava di essere forte e intoccabile sempre e comunque.
«Se fai uno più uno ci arrivi anche da solo.»
Mormorò fissando il pavimento.
Aggrottai la fronte e cercai di mettere insieme i pezzi: occhi che
brillavano, zanne, carattere piuttosto difficile… L’unica
cosa che mi veniva in mente era una ragazza in “quel periodo del
mese” con una qualche specie di mutazione genetica. Ovviamente,
oltre ad essere una cosa da non dire assolutamente ad alta voce, era
una teoria più che improbabile.
Riportai lo sguardo su di lei e feci per scuotere la testa, ma poi
notai le occhiate ansiose che lanciava alla piccola finestra accanto
all'uscita di sicurezza, la tensione dei suoi muscoli, l’ansia
che si percepiva forte e chiara da ogni suo singolo movimento. Seguii
la direzione del suo sguardo e vidi la luna quasi completamente piena
che rischiarava il cielo notturno.
«Un lupo mannaro.» Sussurrai più a me stesso che a
lei.
Si irrigidì di colpo e strinse i pungi così forte da far
diventare nocche bianche. Di nuovo. Poi annuì tenendo le labbra
serrate in una linea sottile.
«Sei un lupo mannaro.» Ripetei come se quelle quattro
parole insieme non avessero alcun senso. Perché, in effetti, era
così: i licantropi, o lupi mannari o come li si vuole chiamare
non esistono. Sono pura finzione, leggende create per spaventare la
gente e per passare il tempo. Non era assolutamente possibile che lei
fosse... un lupo.
Incrocia i suoi occhi che mi lasciarono spiazzati con la loro
intensità, così brucianti nei miei, come se fossero stati
di fuoco. Un fuoco che mi bruciava prima le iridi e che poi scendeva
lentamente facendosi strada tra i rancori, le parole non dette, le
delusioni, le speranze più nascoste e segrete.
Ero davvero davanti ad un licantropo? La licantropia esisteva sul
serio? Ammesso che fosse il termine giusto da usare… Come
diavolo avevo fatto a finire da solo in un corridoio deserto con un
lupo mannaro?
La cosa che mi lasciò più interdetto, però, fu la
mia stessa reazione: non ero sconvolto come credevo di dover essere,
come sarebbe stato logico essere. Ero abbastanza sorpreso, questo
sì, ma non sentivo l’impulso di correre via a gambe levate
né paura o timore di nessun tipo. Anzi, mi sembrava di essere
attratto da quella creatura così complessa che era quella
ragazza. E non credevo assolutamente che fosse un buon segno.
Trassi un respiro profondo e mi lasciai sfuggire la prima domanda che
mi passò per la testa: «Sei… sei nata
così?»
Mi scoccò un’occhiataccia rabbiosa. E notai che aveva messo su il broncio. «Secondo te?»
Suonava come una domanda retorica ma, ovviamente, io non avevo idea di
come funzionassero quelle cose, quindi mi limitai a guardarla sperando
che mettesse da parte anche solo per un attimo quella sua corazza
apparentemente inattaccabile e mi spiegasse almeno il minimo
indispensabile.
Da una parte me l’aspettavo, però un po’ ci rimasi
male lo stesso quando incrociò le braccia al petto e
sollevò le sopracciglia fissandomi come se fossi stato un
perfetto idiota.
«Senti, è inutile che mi guardi così, okay? Se non
me lo dici tu è impossibile che io ci arrivi. Capisco che vuoi
mantenere l’alone di mistero e tutto il resto, però
è decisamente fastidioso, lasciatelo dire.» Sbottai
esasperato.
Schiuse le labbra, sorpresa. Rimase interdetta per un attimo per poi
ritrovare il controllo di sé. «No, non sono nata
così. Ma non mi va di parlarne.»
«Okay.» Convenni: mi rendevo conto che si stava
sbilanciando parecchio. E che probabilmente non le faceva piacere.
«Quindi… Adesso che si fa?»
Sbatté le palpebre, quasi confusa. «Io e te, insieme,
proprio niente. Tu non dovevi andartene?»
Mi resi conto che aveva ragione, lo sapevo benissimo, ma c'era una
parte di me che non voleva saperne di allontanarsi da lei e da tutti i
misteri che si portava dietro. «Posso aspettare.»
Aggrottò la fronte per un attimo prima di scrollare le spalle.
«Okay, divertiti.»
Si avvicinò a me, o meglio, alla porta, e sollevò un
braccio per aprirla. Senza pensare a quello che stavo facendo, le
afferrai un polso. Si bloccò all’istante, riuscii
praticamente a sentire i suoi muscoli che si irrigidivano. Alzò
di scatto il viso verso di me, i suoi occhi marroni tornarono a
bruciare i miei, allarmati e sospettosi.
Era a meno di due centimetri da me, sentivo il calore del suo corpo
nonostante i vestiti che ci separavano. A dirla tutta non era nelle mie
intenzioni finirle così vicino, anzi, da una parte volevo
prendere le distanze per cercare di reprimere quella strana attrazione
che sentivo verso di lei. Attrazione che non aveva niente a che fare
con il desiderio: riguardava quel suo lato soprannaturale e
all'apparenza oscuro che avevo visto solo di sfuggire. Era così
diversa dentro eppure così comune fuori a far crescere il mio
interesse senza che me ne rendessi veramente conto.
Contrariamente a quello che pensavo, mantenne la calma e non si
infuriò. Forse, sotto sotto, non mi odiava poi così
tanto. O forse sì, ma stava cercando di nasconderlo.
«Che c’è?» Chiese, la voce bassa che tradiva
comunque una nota d'impazienza.
Feci per dire qualcosa per poi rinunciare: perché l’avevo
fermata? Perché mi incuriosiva? Poteva essere un motivo valido?
Se fosse stato davvero per quello, come diavolo sarei riuscito a
spiegarlo a parole? Era una cosa che non capivo fino in fondo nemmeno
io, figuriamoci una persona che sembrava voler scappare il più
lontano possibile da lì.
Mentre io cercavo di fare un minimo di chiarezza, lei mi guardava, in
attesa, aspettando una risposta che forse non sarebbe mai arrivata.
Abbassai lo sguardo e mi morsi il labbro cercando in modo quasi
disperato una motivazione al mio gesto. «Perché eri in
quel bosco ieri?» Quella domanda non convinceva neanche me, non
era quello che volevo sapere. O meglio, sì, volevo che me lo
spiegasse, ma c'erano molti altri misteri che avrei voluto
svelare prima di quello.
«Non voglio parlarne. Né ora né in futuro.» Disse semplicemente con aria risoluta.
In un momento di lucidità mi resi conto di essere più
alto di lei di diversi centimetri, che aveva del trucco sbavato introno
agli occhi e che aveva addosso un profumo appena accennato di cannella,
così leggero che credevo di immaginarlo.
Mosse piano il polso che tenevo ancora tra le dita. «Hai altro da chiedere?»
“Un altro centinaio di domande come minimo”, pensai.
«Io… Sì.»
Annuì e strinse le labbra come se si aspettasse una risposta del
genere. «Immagino. Perciò te lo dico fin da ora: non
voglio parlare mai più di questo. Mai. Ho già detto
troppo oggi, non saprai nient’altro da me.»
Schiusi le labbra, sorpreso. «Cosa…?»
Si strinse nelle spalle. «È la verità, per quanto
mi riguarda io e te abbiamo chiuso qui. Anzi, non abbiamo neanche
iniziato. Io non ti conosco, tu non conosci me, punto. Non
c’è niente di più.»
Liberò senza fatica il braccio dalla mia presa, aprì la
porta ed uscì per poi chiudersela alle spalle senza aggiungere
niente, senza mai voltarsi indietro. Rimasi come incantato a fissare il
muro davanti a me per chissà quanto. Una parte di me era
convinta che mi fossi inventato tutto, che Scarlett fosse solo un
frutto della mia immaginazione, o che magari l’avevo davvero
quasi investita e, dopo essermi ubriacato, l’avevo rivista per un
qualche strano motivo. Oppure stavo impazzendo e tutto quello che mi
stava succedendo era solo una grande, enorme allucinazione.
Non ne avevo idea, non sapevo come spiegare una cosa del genere:
così tante coincidenze erano impossibili, prima quasi la mettevo
sotto in mezzo ad un bosco e poi la incontravo mezza trasformata in
lupo mannaro in un locale? Doveva essere una qualche specie di scherzo.
O magari un sogno.
L’unica cosa che sapevo per certo era che quella ragazza mi
avrebbe perseguitato per tanto, tanto tempo. Che fosse reale o no, me
la sarei ritrovata ovunque, forse non in senso letterale, ma,
nonostante se ne fosse andata da meno di un minuto, avevo già
capito che sarebbe stato molto difficile smettere di pensare a lei e ai
suoi strani misteri.
La mia teoria sulla presenza di droga nel mio bicchiere sembrò
trovare conferma nel mal di testa che mi ritrovai appena aprii gli
occhi la mattina dopo quella dannatissima festa. Non ricordavo neanche
come ci ero tornato a casa. Speravo fosse stato con la mia macchina
perché, in caso contrario, mio padre mi avrebbe ucciso. Con
l’aiuto di mia madre.
Ad essere sincero non sapevo neanche se Michael era a casa oppure
ancora il quel locale. Gli avevo promesso che l’avrei
riaccompagnato io, ma evidentemente qualcosa non era andato secondo i
piani. Oppure sì, ma io non riuscivo a ricordarlo.
Qualcuno, forse proprio io, aveva avuto la brillante idea di chiudere
le persiane della finestra di camera mia così che la luce del
sole riuscisse a filtrare nella stanza solo in modo molto smorzato.
Purtroppo, mi dava fastidio lo stesso: mi bastò socchiudere gli
occhi per rendermene conto. Non era una novità, però:
avendo gli occhi chiari, la luce solare era spesso un disturbo con cui
avevo imparato a convivere, alla fine.
Mi lasciai sfuggire una smorfia prima di girarmi dall’altra parte
sperando di riuscire a dormire ancora un po’. A quanto pareva
però, Cora non era d’accordo: entrò in camera
aprendo la porta con un colpo di muso, si avvicinò al mio letto
e strofinò il naso contro la mia mano come a dire
“sveglia, è l’ora della mia colazione”.
«Cinque minuti.» Riuscii a dire nonostante mi sentissi la
bocca impastata.
Lei non si scompose minimamente, anzi, ne approfittò per
infrangere, per l’ennesima volta, la regola che mia madre aveva
imposto appena lo avevamo fatto entrare in casa per la prima volta da
cucciolo: il cane non deve salire sul letto.
Si stiracchiò tranquillamente e balzò sul materasso
accanto a me. Si acciambellò su se stessa con il muso posato
sulla mia schiena e sbuffò soddisfatta. Sospirai riconoscendo il
suo solito modo di fare. Un secondo dopo sentii un fruscio che
preannunciava un cambio di posizione: Cora si spostò e
infilò la testa sotto il mio braccio stiracchiandosi e
scodinzolando contenta in cerca di attenzioni.
Le accarezzai distrattamente un fianco mentre mi sdraiavo sulla
schiena. Il mio proposito di dormire ancora un po’ era stato
messo da parte per colpa di un cane un po’ troppo affettuoso e
decisamente invadente che aveva deciso, fin dal suo primo giorno in
casa Meyers, che camera mia era il posto perfetto per schiacciare
sonnellini e cercare di ottenere cibo extra.
Lo squillo del mio cellulare mi fece fare un smorfia contrariata. Lo
presi dal comodino e me lo portai all’orecchio senza avere
veramente voglia di parlare con qualcuno e senza neanche controllare il
numero.
«Pronto?» Borbottai.
«Buongiorno. Stavi dormendo?» La voce di Michael mi
sembrò più acuta del solito e anche piuttosto allegra.
«No, figurati. Sono sveglio da un pezzo.» Risposi
passandomi una mano tra i capelli.
«Uhm… Meglio così. Come ti senti?» Chiese in
tono quasi esitante.
«Bene, perché?» Domandai aggrottando la fronte.
«Ieri sera mi sei sembrato un po’… uh, distante,
distaccato.» Spiegò tentennando.
«Ero solo stanco Michael, tutto qui. E poi quel locale non mi piace.» Replicai.
«Secondo me eri solo perso nei tuoi ragionamenti da genio
incompreso.» Commentò lui. «Però non te ne
faccio una colpa: è tipico di quelli con il quoziente
intellettivo alto essere un po’ depressi.»
«Ehi, io non sono depresso. Ieri sera non ero in vena, niente di
che.» “E poi mi sono ritrovato davanti un lupo mannaro, ma
immagino che questo non sia molto importante”, aggiunsi
mentalmente.
«Okay, okay… come vuoi tu. Però devi ammettere che
sei un pochino pessimista.» Insistette.
Sospirai. «Ci vediamo domani, mmh?»
«Cosa? No, aspetta, devi darmi i compiti di letteratura…» Riattaccai prima che potesse finire la frase.
Sapevo per esperienza che non se la sarebbe presa e che sarebbe andato
subito a chiedere aiuto a qualcun altro, quindi non mi preoccupai di
una sua possibile reazione. L’unica cosa che volevo fare era
parlare con Scarlett, farmi spiegare qualcosa in più sulla
licantropia, se esisteva davvero, e provare almeno a capire
cos’era veramente, cosa diavolo si nascondeva sotto
quell’aria scontrosa eppure in qualche modo fragile.
Purtroppo, o per fortuna, le possibilità che la rivedessi erano
praticamente nulle. Soprattutto visto che mi aveva detto chiaro e tondo
che non voleva più parlarmi. Era una realtà con cui
sapevo di non dover fare i conti, solo che non ci riuscivo. Avevo
ancora tante domande che non avrebbero mai trovato una risposta, a
meno che non andassi a cercarla direttamente dall'origine.
“Sì, e dopo che farai? La costringerai a parlare? E
come?”, mi rimbeccò una vocina dentro di me. In effetti,
aveva ragione, mica potevo obbligarla. Anzi, avrei dovuto lasciarla in
pace e cercare di dimenticarla. L’unico problema era trovare un
modo per farlo, un modo per convincere la mia mente a dimenticare il
suo viso dai tratti dolci che quasi strideva con i suoi occhi
penetranti, il suo profumo appena accennato di cannella…
“Smettila”, mi rimproverai. Se volevo davvero lasciarmela
alle spalle dovevo cominciare fin da subito a smettere di pensare a
lei.
Il mio proposito di lasciarmi Scarlett alle spalle sembrava funzionare:
ero riuscito a non pensare a lei per tutta la domenica e sembrava che
anche quel lunedì mattina riuscissi a tenerla lontana dalla mia
mente. Devo ammettere che il continuo chiacchierare di Michael aiutava:
quel ragazzo era incredibile, sembrava non avere neanche bisogno di
respirare.
«Senti, devo passare un attimo in segreteria a prendere un foglio
per mia madre, mi accompagni?» Chiesi interrompendo il flusso
continuo di parole che uscivano dalla sua bocca.
Esitò per un attimo prima di scrollare le spalle.
«Okay.»
Mentre camminavamo lungo il corridoio, riprese la sua infinita tirata:
«Non capisco tutto questo odio per il lunedì, a me sembra
un giorno come un altro. Sì, è vero che viene subito dopo
la domenica, ma mica è colpa sua.»
«Stai davvero difendendo un giorno della settimana?»
Domandai sorpreso e un po' divertito. «Non è che adesso fai
anche una petizione, vero? Del tipo “rispettiamo il
lunedì”.»
Fece un gesto vago con la mano come a voler scacciare quell'idea.
«Ma certo che no, per chi mi hai preso? Semmai creerei un sito
internet in difesa dei lunedì maltrattati.»
«Come farsi odiare da ogni studente del pianeta, in poche
parole.» Borbottai.
«Non è colpa mia se la gente preferisce seguire la
massa.» Dichiarò lui.
Alzai gli occhi al cielo, ma evitai di commentare per non dargli altra
corda: se incoraggiato, Michael poteva parlare dello stesso argomento
anche per ore.
Mi appoggiai al bancone della segreteria in attesa che Susanna, la
segretaria, mi notasse. C’era qualche altro ragazzo prima di me
quindi avrei dovuto aspettare un po’. Nel frattempo Michael
continuava a parlare indisturbato dei diritti dei giorni della
settimana con aria molto concentrata e presa dal suo stesso discorso.
Susanna stava spiegando ad un ragazzo come doveva fare per iscriversi
alla squadra di basket, e qualcosa nella sua espressione mi diceva che
era un tantino esasperata, quando qualcuno mi venne addosso con la
grazia di Michael quando era ubriaco. Mi spostai guardando male la
ragazza che mi era piombata davanti: aveva lunghi capelli castani
legati in una treccia, indossava dei jeans strappati con sotto delle
calze nere, una maglietta rosso scuro con le maniche grigie e degli
anfibi consumati.
«Siamo di fretta, eh?» Commentai a mezza voce.
Lei si irrigidì appena e si voltò verso di me. Spalancai gli occhi quando la riconobbi: Scarlett.
Ero incredulo e molto, molto sorpreso. Era la terza volta che ci
incontravamo per caso, non poteva essere una coincidenza, non di nuovo.
I suoi occhi marroni tornarono a bruciare nei miei esattamente con due
giorni prima in quel locale. Eravamo vicinissimi, premuti dagli altri
studenti che cercavano di attirare l’attenzione di Susanna
neanche fosse stata una questione di vita o di morte. E, in mezzo a
tutto quel casino, c’eravamo io e lei che ci guardavamo negli
occhi tagliando fuori tutto il resto per un qualche strano motivo che
probabilmente mi avrebbe fatto impazzire: cosa c’era di tanto
interessante in lei? Perché mi faceva quell’effetto?
Non avevo mai creduto nelle coincidenze, quindi tutti quegli incontri
all’apparenza casuali dovevano avare un motivo… Doveva
esserci qualcosa dietro. Oppure no?
SPAZIO AUTRICE: Ed eccoci qua con il sesto capitolo. Adam scopre
cos'è Scarlett e la sua reazione non è assolutamente
quella che ci si aspetterebbe: non ha paura, anzi, è attratto da
lei per via della sua natura curiosa.
Alcuni di voi mi hanno fatto notare che Adam ha un modo un po' strano
di rapportarsi con ciò che gli succede attorno e mi sembra
giusto spiegarvi perché: Adam è una persona un po'
particolare, diciamo, gli piace sapere di cosa parla e per questo gli
risulta facile imparare cose nuove, sia a scuola che nella vita di
tutti i giorni.
Ha una buona memoria, soprattutto per ciò che lo colpisce. Ha
un'avversione molto radicata per la violeza, particolare ereditato
dalla madre, e cerca di risolvere qualunque scontro a parole. Ha il
vizio di mordersi il labbro e di perdersi nei suoi pensieri. Ha uno
spiccato senso della lealtà, farebbe di tutto per le persone a
cui tiene anche se a volte non ne capisce o ne disprezza alcune scelte.
Sa comunque essere orgoglioso e testardo, cosa che lo caccierà
nei guai più di una volta.
Queste, però, sono solo alcune caratteristiche di Adam, non
penso di riuscire a spiegarvelo a parole. Spero che riuscirete a
capirlo piano piano andando avanti con la storia, sia attraverso i suoi
occhi sia attraverso quelli di Scarlett.
E niente, penso di essermi dilungata anche troppo, quindi vi saluto. Al prossimo capitolo *-*
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Capitolo 7 *** 07. Scarlett ***
Under a Paper Moon- capitolo 7
7. Scarlett
Ancora lui? Mi stava perseguitando quel ragazzo, me lo ritrovavo
ovunque, neanche a farlo apposta. Se mi ci fossi messa d’impegno
per incrociarlo il più possibile durante il giorno non ci sarei
mai riuscita così bene.
Pensavo di essermelo lasciato alle spalle, di aver chiuso con lui.
Invece eccolo lì, con quei suoi dannatissimi occhi color
tempesta e quell’aria quasi eterea che mi faceva dubitare del
fatto che fosse umano. Almeno finché non mi ricordavo di tornare
con i piedi per terra e mi dicevo che Adam era umano al cento per cento, lo percepivo benissimo.
Ora che lo osservavo meglio, mi sembrava di notare nel suo viso tratti
inglesi, sofisticati e quasi nobili. Aveva la mascella dal taglio
deciso ma non troppo, le labbra chiare e sottili, la pelle chiara che
si sposava bene con i suoi occhi di quel blu tanto particolare.
Non avrei dovuto guardarlo in quel modo, soffermarmi sui dettagli e
rischiare di perdermi nelle sue iridi, ma eravamo praticamente
schiacciati l’uno contro l’altra, probabilmente anche lui
mi stava studiando come stavo facendo io. E tanti saluti alla
discrezione.
Le voci intorno a noi erano un mormorio confuso in sottofondo che quasi
non si sentiva. Non era possibile che lui riuscisse a farmi
quell’effetto, non era proprio possibile. Anzi, non potevo
permettergli di farlo: mi avrebbe soltanto incasinato la vita. Come se
non fosse già stata abbastanza complicata di suo.
Per una frazione di secondo pensai che i suoi occhi fossero davvero belli. Che lui fosse
davvero bello. Poi, per fortuna, tornai in me e mi resi conto che
dovevo assolutamente tenerlo lontano il più possibile. Anche a
costo di sembrare pazza.
Cercai di convincermi a muovermi, ad allontanarmi, a fare un passo
indietro e poi un altro fino a sparire dalla sua vista. Però non
ci riuscivo. Era come se il suo sguardo fosse stato magnetico e mi
impedisse di spostarmi. Ma io dovevo farlo.
«Adam? Ehi, dobbiamo andare, abbiamo due minuti netti per entrare
in classe. A meno che tu non voglia beccarti una punizione.»
Disse una voce non proprio sconosciuta. Era vicina e sembrava essere
riuscita a penetrare quel muro di sussurri ovattati.
Davanti a me, con gli occhi ancora puntati nei miei, Adam annuì
piano, quasi inconsciamente. «Sì… Arrivo.»
Sembrava distratto, assorto da qualcosa che doveva essere davvero
interessante. “Sei tu, genio”, mi rimbeccò una
vocina nella mia mente. Io? Oddio, stava davvero guardando me in quel
modo? Sembrava così preso… Chissà a cosa stava
pensando: a quando mi aveva vista mezza trasformata? A cosa ero in
grado di fare in quanto licantropo? Forse si stava chiedendo se lo
avrei ucciso per assicurarmi che tenesse la bocca chiusa.
Qualcuno gli mise una mano sul braccio. «Terra chiama Adam, ci
sei? Mi stai spaventando amico.» Aggiunse la voce di prima. Ora
sembrava quasi esitante, come se chi aveva parlato non fosse stato
sicuro di cosa doveva fare.
Adam schiuse le labbra e fece un respiro profondo. Sbatté le
palpebre prima di distogliere lo sguardo. «Arrivo Michael,
arrivo.» Il suo tono voleva sembrare esasperato, ma quello che
uscì dalla sua bocca fu un mormorio appena udibile.
Alzò gli occhi ed incrociò subito i miei, quasi fossero
stati attratti da una calamita. Fece un passo indietro senza
interrompere il contatto visivo. Sbatté le palpebre di nuovo e
tornò ad abbassare lo sguardo. Si allontanò dopo avermi
lanciato un’ultima occhiata che, devo ammetterlo, mi confuse
parecchio.
Mentre lo guardavo andarsene, mi concentrai cercando di sentire quello
di cui stava parlando col suo amico: ero un licantropo, avevo
l’udito più acuto, potevo farcela.
«Sei innamorato per caso? O magari ti fai di qualcosa? È
già da un paio di giorni che sembri su un altro pianeta.»
Stava dicendo Michael.
«Non è nulla sul serio. Ho solo… uh, qualche
pensiero per la testa. Niente di che.» Rispose Adam.
Aggrottai la fronte: mi considerava così poco? Cioè,
è vero che gli avevo espressamente detto di starmi alla larga,
però… Qualcosa dovevo pur contare, no? Sapeva quello che
ero quindi magari gli importava un pochino di me. “O magari mente
per… sì, insomma, non vuole dire in giro che conosce un
lupo mannaro. E questo gioca a tuo favore”, commentò la
solita vocina.
Un movimento confuso davanti ai miei occhi mi fece trasalire. «Ci sei Scarlett?»
Mi voltai verso Beth e la trovai che mi guardava con le braccia
incrociate al petto e l’espressione contrariata. Trassi un
respiro profondo e provai a sorridere.
«Sì, scusa, ero solo distratta.» Mormorai.
«Ti ho chiesto un parere sulla mia gonna nuova e tu mi hai
ignorata.» Insistette mettendo su il broncio.
«Mi dispiace Beth… Però adesso ci sono.
Quindi…» Abbassai lo sguardo e studiai la gonna che le
fasciava i fianchi e le gambe fino alle caviglie: era di stoffa
leggera e morbida di un blu notte molto intenso. «Beh, è
decisamente nel tuo stile.»
Sorrise. «Bella, eh? E pensa che l’ho pagata pochissimo,
solo dieci dollari! Ma ti rendi conto!»
«Eh già, un vero affare.» Commentai distrattamente.
Beth si lanciò in un’accurata descrizione del nuovo
negozio che aveva trovato in centro e che sembrava fare offerte davvero
vantaggiose. Era un argomento che poteva anche interessarmi visto che
volevo rinnovare il mio guardaroba, ma gli occhi di Adam continuavano a
tornarmi in mente, così intensi e di un colore così
profondo… “Smettila subito”, mi rimproverai. Dovevo
togliermi Adam dalla testa il prima possibile.
Beth si mise davanti a me con le mani sui fianchi e mi osservò
con espressione critica per qualche secondo. «Cavolo, hai delle
occhiaie da paura.»
Le scoccai un’occhiataccia. «Oh, grazie, davvero. Sei
un’ottima amica.»
Lo sapevo che avrei avuto un’aria stravolta, succedeva sempre
dopo il plenilunio: passare la notte in bianco, in mezzo ad un bosco,
completamente fuori controllo non è un toccasana per la pelle
né per i capelli. Infatti quella mattina, quando mi ero guardata
allo specchio, avevo visto una specie di ragazza bianca come un cencio
con una stramba criniera castana in testa che mi fissava imbronciata.
«Sono stata solo sincera.» Si difese. «Comunque,
vieni, ho qualcosa che potrà darti un’aria
più… sana.»
«Cos…?» Prima che potessi finire la frase, lei mi
aveva afferrata per un braccio e mi aveva trascinata nel bagno delle
ragazze più vicino.
Mi ordinò di sedermi sul lavandino mentre frugava nel suo zaino
alla ricerca di chissà cosa. Si voltò verso di me con un
sorrisetto compiaciuto in faccia e un piccolo barattolino color carne
in mano. Arricciai il naso riconoscendolo: fondotinta, o correttore. In
ogni caso era un intruglio che non volevo su di me.
«Ora sta’ ferma, intesi? Ci vorrà un attimo.»
Aggiunse avvicinandosi pericolosamente a me con quel dannato… coso che, per inciso, aveva un pessimo odore. O forse lo sentivo solo io…
Fondotinta o no, avevo comunque un sonno incredibile. Beh, ero rimasta
sveglia per tutta la notte in preda alla furia del mio lupo quindi mi
sembrava piuttosto plausibile che non riuscissi a tenere gli occhi
aperti. Avrei solo preferito non addormentarmi durante l’ora di
matematica. Anche se non stavo proprio dormendo, stavo solo riposando
gli occhi.
La professoressa la pensava diversamente però, infatti
sbatté una mano sul mio banco facendomi sobbalzare e scatenando
le risate di tutta la classe. Sentii i canini premere contro il labbro
inferiore per colpa dell’istinto di sopravvivenza troppo
sviluppato che mi metteva sull’attenti ogni volta che un
potenziale pericolo si avvicinava. In effetti, dovetti riconoscere che
la prof Smith aveva l’aria da arpia quindi poteva rivelarsi
davvero una minaccia.
«Signorina Dawson, visto che trova tanto interessante la mia
lezione, perché non va fuori?» Gracchiò guardandomi
come se avesse voluto incenerirmi.
Feci rientrare le zanne e deglutii. «No, ma… Non stavo
dormendo. Stavo… pensando a come risolvere
l’equazione.»
Socchiuse gli occhi. «L’abbiamo corretta alla lavagna venti minuti fa.»
La sua risposta fu seguita da risatine e commenti poco carini da parte
dei miei compagni di classe che non potei fare a meno di ringraziare
mentalmente per il supporto.
«Ah.» “Ora sì che sono nei guai”,
pensai.
L’insegnante allungò un braccio verso la porta.
«Fuori. Adesso!»
Balzai in piedi un po’ troppo in fretta, raccolsi i libri e i
quaderni con mani tremanti, li infilai nello zaino rischiando di farli
cadere e schizzai fuori dalla classe a testa bassa. Dentro di me, il
mio lupo voleva saltare alla gola della prof, ma sapevo di non
potermelo permettere. Non ero neanche tanto sicura di avere la forza di
trasformarmi abbastanza da farle dei danni seri.
Appoggiai la schiena al muro accanto alla porta e sospirai chiudendo
gli occhi. Stavo combinando un disastro dopo l’altro e ad una
velocità sorprendente: prima avevo rivelavo ad Adam
cos’ero, poi l’avevo rincontrato e l’avevo fissato
come se fosse stato il primo ragazzo che vedevo e, come se non
bastasse, mi ero fatta sbattere fuori dalla classe dalla professoressa
che dovevo convincere di quanto mi stessi impegnando per migliorare.
Meglio di così non poteva andare.
Aprii gli occhi e mi presi il viso tra le mani: non potevo lasciare che
tutta andasse a rotoli, dovevo rimettere le cose apposto. A cominciare
dal mio voto in matematica. Mi serviva una mano… Da Beth magari.
Oppure potevo cercare qualcuno che dava ripetizioni.
Arricciai il naso: non mi andava tanto a genio l’idea di
condividere con un perfetto sconosciuto i miei innumerevoli punti
deboli in quella materia tutta numeri strani e lettere messe a
casaccio. Odiavo dover ricorrere all’aiuto di qualcuno per una
cosa che avrei potuto benissimo fare da sola se mi fossi impegnata il
minimo indispensabile, però sapevo che a quel punto non avevo
molte altre scelte: al terzo anno di liceo non potevo pretendere di
recuperare il programma di… forse un anno ad essere ottimisti.
Anche se qualcosa mi diceva che era di più.
Stavo per fare un commento acido sullo scarso lavoro che le
entità superiori stavano facendo con la mia vita, quando sentii
delle voci avvicinarsi. Aggrottai la fronte cercando di riconoscerle. E
per poco non mi prese un colpo: Adam. Di nuovo.
Imprecai tra i denti mentre afferravo alla meno peggio lo zaino e, come
in uno di quel film terribilmente scontati, mi infilavo nel ripostiglio
dei bidelli. Trattenni a malapena un ringhio quando sbattei la fronte
contro una mensola decisamente troppo bassa.
Mi assicurai che la porta fosse chiusa e serrai gli occhi per
concentrarmi meglio su quello che quel dannato ragazzo con gli occhi
tempestosi stava dicendo: «Comunque, tanto perché tu lo
sappia, non ti accompagnerò mai più da tua nonna, chiaro?
Mai più.»
«Cosa? Perché no?» Riconobbi anche Michael, il suo
amico dalla parlantina irritante.
«Perché ho usato un sacco di benzina per arrivare fin
lì, e ora sono quasi al verde visto che ho dovuto fare il pieno.
Per colpa tua.» Ribatté Adam con voce dura.
«Esagerato.» Commentò Michael allegro. «E poi
se proprio ti servono soldi chiedili ai tuoi genitori, no?»
«Non mi daranno niente fino al mese prossimo.»
Spiegò Adam.
Sobbalzai rischiando di avere un altro incontro ravvicinato con la
mensola quando mi resi conto di quanto fosse vicino al mio nascondiglio
di fortuna.
«Povero il mio amichetto… Beh, vuol dire che devi trovarti
un lavoretto.» Ribatté Michael senza scomporsi
minimamente. «Io, per esempio, lavoro part time in un negozio di
animali: non è male e mi pagano abbastanza bene. Magari posso
sentire se cercano un cassiere o qualcosa del genere.»
«Non so fino a che punto potrei cavarmela con gli animali. Forse
è meglio se cerco qualcos’altro.» La voce di Adam
era terribilmente vicina, questo voleva dire che anche lui lo era.
Probabilmente si era appoggiato al muro accanto al ripostiglio.
«Visto che sei una specie di genio in… uh, tutte le
materie, perché non dai ripetizioni? Magari a quelli di prima o
seconda. Un sacco di gente cerca un aiuto del genere: faresti un sacco
di soldi. E magari potresti conoscere qualche ragazza carina.»
Propose Michael in tono divertito.
Repressi faticosamente l’impulso di tirargli un pugno in faccia e
trassi un respiro profondo per calmarmi cercando di fare meno rumore
possibile.
Adam rimase in silenzio per un attimo. «Forse… Non so, non
mi ci vedo come insegnante. E poi dovrei essere parecchio
preparato.»
«Lo sei.» Sembrava che Michael stesse spiegando una cosa
più che ovvia a qualcuno duro di comprendonio. «Sai
praticamente tutto, ti ricordi ogni singola cosa del programma degli
anni scorsi quindi perché non sfruttare la tua stramba memoria
per qualcosa di utile?»
“Potresti prendere ripetizioni da lui, così potresti anche
tenerlo d’occhio”, suggerì una vocina dentro di me.
Sì, certo, ottima idea: conoscendomi avrei combinato un casino
enorme. E poi che dovevo dirgli: “ehi, ti ho sentito dire che
cercavi un lavoro mentre ero nascosta nel ripostiglio delle scope, sei
disponibile per qualche lezione di matematica?”. Suonava patetico
e decisamente bizzarro. Niente ripetizioni con Adam, poco ma sicuro.
«Perché non
l'ho mai fatto prima, non ho esperienza.» Rispose Adam. «E
poi, non sono sicuro di esserne capace: non ho tutta questa
pazienza.»
«Smetti di farti questi complessi mentali, okay? Fallo e basta.
Metti un annuncio in bacheca tu o lo farò io. E sai che ne sono
capace.» Dichiarò Michael.
«Voglio vedere chi ti rispiegherà letteratura
dopo…» Commentò Adam a mezza voce e per un attimo
mi immaginai l'occhiata che doveva aver scoccato al suo migliore amico.
“Un aiutino anche a letteratura però mi farebbe
comodo”, pensai distrattamente. No, assolutamente no. Dovevo
togliermelo dalla testa. Adam non era la risposta ai miei problemi
scolastici. Anzi, Adam non era la risposta a niente se non alla domanda
"chi è il ragazzo che ti farà venire un esaurimento
nervoso?".
«Okay, okay, scherzavo.» Si affrettò a dire Michael.
«Niente annuncio.»
Sentii un tonfo leggero che attribuii ad una probabile pacca sulla
spalla da parte di Adam al suo amico. «Ottima scelta.»
Poi sentii le loro voci farsi più fievoli e deboli mentre si
allontanavano accompagnati dal rumore dei loro passi. Tirai un sospiro
di sollievo anche se fu una tregua che durò solo un attimo: la
porta si aprì all’improvviso e rimasi accecata dalla luce
per un secondo.
Quando riuscii a mettere a fuoco quello che avevo davanti mi ritrovai a
fissare uno dei bidelli della scuola, Lucas, che mi guardava come se
avessi avuto i capelli verdi o viola. Rimanemmo a fissarci per un
po’, lui confuso e stranito, io molto, molto in imbarazzo.
«Ehi.» Mormorai sollevando una mano in segno di saluto.
Non ricambiò, cosa che mi fece capire quanto strano doveva
essere trovare una ragazza nel ripostiglio. Una ragazza con delle
occhiaie paurose e una sottospecie di treccia scarmigliata a tenerle
fermi i capelli.
«Serve qualcosa?» Chiesi sperando di alleggerire la tensione.
Lui fece un cenno verso qualcosa alle mie spalle senza staccarmi gli
occhi di dosso. Mi voltai e vidi una scopa appoggiata al muro.
«Oh, sì.» La presi e gliela porsi. «Ecco a
te.»
Lui la afferrò e borbottò un grazie. Si girò e se
ne andò dopo avermi lanciato un’occhiata sospettosa. Beh,
come biasimarlo? Probabilmente sarebbe stata la mia stessa espressione
se avessi visto qualcuno chiuso nel ripostiglio.
Sospirai pesantemente coprendomi il viso con le mani. Stavo combinando
guai uno dopo l’altro e rischiavo seriamente di buttare al vento
anni di pleniluni passati completamente sola nel bosco e di sforzi per
vivere una vita normale nonostante il lupo che si nascondeva dentro di
me.
Stavo ancora imparando a conviverci, dovevo ancora migliorare solo che
farlo da sola era piuttosto impossibile: non c'era nessuno a
consigliarmi, a darmi qualche dritta, o anche solo ad incoraggiarmi
quando tutto quello che avrei voluto era mollare tutto e fregarmene dei
danni che potevo fare.
Anche se ci fosse stato qualcuno con una minima esperienza in fatto di
licantropia, non avrei potuto chiedergli assolutamente niente: doveva
fare da sola. Come sempre.
Sistemai qualche ciocca ribelle dietro le orecchie, drizzai la schiena
e trassi un respiro profondo: magari il mio essere lupo poteva crearmi
problemi, ma mi dava anche una grande forza. Ed io ero più che
decisa a sfruttarla.
SPAZIO AUTRICE: Per prima cosa voglio ringraziare tutti
voi che seguite questa storia e che mi supportare, davvero, grazie
mille, siete dei lettori fantastici *^*
Un ringraziamento speciale va a Shahrazad Lassiter, una ragazza davvero fantastica e dolcissima a cui auguro solo il meglio.
In questo capitolo ho voluto farvi conoscere meglio Scarlett, la mia
piccina combina guai. Nonostante l'apparenza anche lei a volta si sente
scoraggiata e vorrebbe arrendersi, e penso che questo sia uno dei lati
più belli di lei: anche se il suo lupo è forte e
spesso incontrollabile, lei si sforza e lotta con tutta se stessa per
mantenere insieme i pezzi della sua vita e mandarla avanti meglio che
può.
Visto che tra poco, purtroppo, ricomincia la scuola non so se
potrò garantirvi aggiornamenti puntuali. Farò del mio
meglio per far sì che sia così, soprattutto perché
ormai, sul mio computer, Under a Paper Moon è completa. Devo
solo rivedere i capitoli prima di pubblicarli quindi spero di riuscire
a pubblicare con regolarità.
Spero che il capitolo vi sia piaciuto.
TimeFlies
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Capitolo 8 *** 08. Adam ***
Under a Paper Moon- capitolo 8
8. Adam
Non
avevo mai creduto alle coincidenze, però, dopo aver incontrato
un licantropo, avevo dovuto ricredermi su molte cose. Prima fra tutte,
l’intensità degli occhi marroni: fino a quel momento avevo
sempre pensato che fossero comuni e quasi scontati. Poi era arrivata
Scarlett con le sue iridi brucianti e non avevo potuto fare a meno di
sentirmi un po' intimorito di fronte al suo sguardo indagatore e
sospettoso.
E questo era piuttosto irritante: era fastidioso non avere il controllo
della situazione quando incrociavo i suoi occhi ed era strana quella
specie di attrazione che sentivo verso di lei. Non era una cosa
normale, non che potessi aspettarmi normalità da un licantropo,
e non sapevo come gestirla.
Sbagliare, con lei, poteva voler dire rischiare la vita, un semplice,
piccolo errore e potevo dire addio a tutto quello che avevo fatto in
diciassette anni. Da una parte, avrei voluto vedere di cosa era
veramente capace, se tutto quel mistero e quel riguardo erano davvero
fondati sul suo desiderio di proteggere la gente o se erano
semplicemente una copertura per la sua mancanza di conoscenza del suo
potere.
L’avevo incontrata tre volte e nessuna delle tre era stata anche
solo lontanamente produttiva. Volevo rivederla e cercare di convincerla
a parlare come due persone normali. Almeno all’apparenza. Odiavo
ammetterlo, ma stava diventando un’ossessione cercare di capirne
di più su di lei e sulla licantropia. Il problema era solo uno:
come avvicinarla senza farla scattare sulla difensiva? Non sapevo nulla
di lei, quindi anche iniziare un discorso poteva rivelarsi
un’impresa. Anzi, ero piuttosto certo che sarebbe stato
così.
«Parlare con un muro sarebbe più
interessante…» Borbottò una voce che conoscevo
bene.
Sollevai lo sguardo e incontrai gli occhi castani e severi di Michael
che mi studiavano irritati. Mi passai una mano tra i capelli cercando
di sfuggire alle sue occhiate accusatorie.
«Lo so… Scusa. Sono solo un po’
distratto…» Mormorai.
«Distratto?! No, tu sei perso, completamente perso chissà
dove. Hai bevuto stamattina? O ti sei fumato qualcosa? Oppure hai
sbattuto la testa da qualche parte?» Chiese inarcando un
sopracciglio. Sembrava si stesse trattenendo dall’urlare.
«No, niente del genere. Solo…» Cominciai sperando di
riuscire a trovare una scusa credibile.
«Ho capito!» Esclamò facendomi sobbalzare.
«Sei innamorato!»
«Non potevi andarci più lontano…» Commentai a mezza voce.
«Sì, certo. Ma con chi credi di avere a che fare, eh? Lo
so riconoscere quello sguardo vuoto e distante, genio. Allora, chi
è la fortunata?» Domandò.
«Nessuna, okay? Non sono innamorato.» Replicai.
Mi resi conto che mi stavo mettendo sulla difensiva. “Come
Scarlett”, pensai mio malgrado.
«No, no, ma figurati… Perché non vuoi dirmelo? Sono
il tuo migliore amico, queste cose dovrei saperle! Andiamo, io te
l’ho detto che mi piaceva Julia.» Insistette.
«Sì, lo so, ma non posso inventarmi una ragazza solo per
farti contento. Ti ho detto che non c’è nessuna.»
Ribattei.
«E io sono il presidente Obama. Sputa il rospo Meyers.»
Ordinò incrociando le braccia al petto.
«Non chiamarmi per cognome. E poi ti ho già detto che non
sono innamorato.» Sbuffai scoccandogli un’occhiataccia.
«Sicuro? Perché quello sguardo a me sembra proprio quello
da innamorato pazzo che ha tagliato i collegamenti con il
mondo.» Replicò lui studiandomi.
«Non posso neanche pensare in pace senza essere frainteso?»
Borbottai esasperato.
«Giusto, tu sei un genio, devi riflettere su… quelle
questioni esistenziali che riguardano l’universo eccetera
eccetera.» Convenne facendo un cenno vago con la mano.
“Almeno ha smesso di insistere”, pensai. «Più
o meno.»
Proprio in quel momento vidi Scarlett e la sua amica con mezza testa
rasata passarci di fronte dall’altra parte del parcheggio. Senza
volerlo veramente, mi ritrovai con lo sguardo fisso su di lei, come se
anche solo guardarla potesse aiutarmi a conoscerla di più, a
capirla. No, così non andava, mi stavo facendo prendere troppo
da quella strana ragazza e dalla sua… situazione ancora
più complicata. Se avessi continuato così sarei finito
per complicarmi la vita anch’io e, sinceramente, non è che
mi andasse.
«Sembri un segugio che punta la preda.» Commentò
Michael.
Solo in quel momento mi ricordai che era accanto a me. Mi irrigidii e
mi affrettai a distogliere lo sguardo. Strinsi le labbra maledicendomi
per la mia disattenzione: come era possibile che una ragazza
praticamente sconosciuta mi facesse un effetto del genere? Neanche
fosse stata chissà quale bellezza…
“Bugiardo”, sibilò una vocina nella mia mente.
«Quindi… quale delle due?» Domandò Michael
incrociando le braccia al petto e appoggiandosi alla fiancata della mia
auto.
Sbattei le palpebre e riportai la mia attenzione su di lui.
«Cosa?»
Sollevò un sopracciglio. «Stavi guardando quelle due
ragazze come se avessi voluto… uh, mangiarle? Sì, direi
di sì. Le cose sono due: o una ti ha spezzato il cuore e porti
ancora rancore, o vuoi uscire con una di loro. E, tenendo conto del
fatto che sei un adolescente in piena crisi ormonale, sono più
propenso per la seconda.»
Rimasi un po’ sorpreso dal suo strambo discorso e dai suoi
paragoni bizzarri, ma cercai di non farglielo notare. «Non voglio
mangiare nessuno e non voglio uscire con nessuna delle due.»
«Vuoi fare l’asociale.» Tradusse, erratamente, lui.
Alzai gli occhi al cielo, esasperato. «No. E mi farai venire una crisi di nervi se continui così.»
Lui si limitò a socchiudere gli occhi, segno che stava
progettando qualcosa. Qualcosa che non mi sarebbe piaciuto. «Sai,
quella con mezzi capelli è amica di Julia, fanno pallavolo
insieme.» Buttò lì con aria indifferente.
«E quindi?» Chiesi consapevole di star cadendo nella sua
trappola.
«Niente, era così per dire. Sì, insomma, se tu
volessi il nome di quella ragazza potrei farmelo dare da Julia
così... beh, magari potreste uscire insieme. Senza impegno, si
intende.» Continuò lui facendo gesti vaghi con le mani.
Mi ritrovai a prendere seriamente in considerazione la sua proposta,
non tanto perché mi interessava la ragazza con la testa mezza
rasata, ma perché attraverso lei potevo arrivare a Scarlett. In
un modo più civile e accettabile che presentarmi a casa sua come
avevo progettato di fare durante l’ora di economia.
Però usare quella ragazza per parlare con Scarlett mi sembrava
sbagliato, e in effetti lo era: non potevo approfittare una persona per
i miei scopi senza curarmi dei suoi sentimenti, farlo era da
insensibili. Lasciarsi scappare la possibilità di avvicinare
Scarlett era da pazzi. Ma volevo davvero andare contro i miei stessi
ideali per… lei?
Mi passai una mano tra i capelli, combattuto, e sospirai. Com’era
possibile che una perfetta, o quasi, sconosciuta mi portasse tanti
dubbi? Conoscerla quanti guai avrebbe comportato? Le risposte che avrei
potuto ottenere, sarebbero valse il rischio?
«Allora?» Chiese Michael studiandomi con aria fintamente
innocente.
«Non lo so… Non mi sembra giusto.» Ammisi.
In realtà io mi riferivo a Scarlett e all’usare la sua
amica come tramite per arrivare a lei, ma lui interpretò la mia
risposta a modo suo. Per fortuna direi.
«Però lo vuoi, vero?» Insistette il mio migliore
amico.
Trassi un respiro profondo. «Perché no. Sì,
insomma, non credo che tu mi lascerai in pace finché non ti
dirò quello che vuoi sentire.»
Sorrise, soddisfatto. «Bene. Stasera ti manderò un
messaggio con nome e cognome. Oppure non lo farò. Dipende tutto
dalla tua risposta alla mia prossima domanda.»
Lo sapevo che voleva qualcosa in cambio, qualcosa che non sarei stato
molto felice di dargli. «Sei un bastardo, lasciatelo dire.»
Mi diede una pacca sulla spalla. «La vita è dura amico,
bisogna sapersi adattare. Io la considero pura e semplice
sopravvivenza.»
«Okay, senti, finiamola qui: cosa vuoi?» Domandai al limite dell’esasperazione.
Il suo ghigno si allargò. «Voglio un invito al
diciottesimo di tua cugina.»
Mi lasciai sfuggire un sorriso quasi beffardo. «Ti piacerebbe.
Selena neanche sa che esisti.»
«Ma tu lo sai, e puoi informarla di questa grandiosa notizia,
dico bene?» Aggiunse lui.
«Se ti faccio invitare alla festa tu mi dai il nome della
ragazza?» Chiesi studiandolo.
«Certo amico, io sono un uomo di parola.» Mi tese la mano.
«Affare fatto?»
“Come distruggere i propri ideali con due semplici parole”, pensai. «Affare fatto.»
«Dici che sarebbe una buon’idea?» Mi domandò Selena con la sua voce dolce.
«Ma sì, è un bravo ragazzo, lo conosco da
anni…» “E ti sto mentendo spudoratamente solo
perché voglio avvicinare un licantropo”, aggiunsi
mentalmente. «Se proprio non vuoi va bene lo stesso, se ne
farà una ragione.»
Spostai il cellulare all’altro orecchio mentre cercavo la ciotola
di Cora che, come al solito, sembrava essere sparita. Se non fossi
stato al telefono con mia cugina probabilmente mi sarei lasciato
sfuggire un’imprecazione: perché il nostro cane aveva la
pessima abitudine di nascondere qualunque cosa gli capitasse a
tiro?
Cora strofinò il naso sulla mia mano con un mugolio impaziente.
Le scoccai un’occhiata ammonitrice: in fondo era colpa sua se non
poteva mangiare subito.
«Oh, ma per il mio cuginetto farei questo ed altro!»
Esclamò Selena. «Senti, digli che se vuole può
venire: più siamo meglio è.»
«Grazie Sel. E comunque c’è solo un anno di
differenza tra noi, siamo praticamente coetanei.» Risposi.
«Per me rimarrai sempre il mio cuginetto, sappilo. Però
eviterò di dirlo in pubblico.» Replicò lei.
Percepii il sorriso nella sua voce.
«Credo di doverti ringraziare per questo, giusto?» Domandai
individuando, finalmente, la ciotola di Cora.
La sentii ridere. «Direi di sì. Allora ci vediamo tra due
settimane, mmh?»
«Perfetto. Anche se mi sembra incredibile che tu abbia già
programmato tutto con così tanto anticipo.» Commentai
mentre Cora saltellava allegra intuendo che stava per mangiare.
«Beh, diciotto anni si compiono una volta sola, quindi… Ho
voluto fare le cose in grande. Ora devo andare, il mio ragazzo mi
aspetta. Ci vediamo cuginetto.»
Ribatté.
Alzai gli occhi al cielo. «Sì, ci vediamo…»
Si raccomandò di salutare mamma e papà da parte sua e
riattaccò. Infilai il cellulare nella tasca dei jeans e riportai
l’attenzione su Cora: mi guardava con aria implorante
scodinzolando piano.
«Ora ti do da mangiare, sì. Sei parecchio golosa,
eh?» Borbottai riempiendole la ciotola.
Lei si limitò ad infilare il muso nei suoi croccantini
decisamente soddisfatta. Mi appoggiai al tavolo della cucina e mi
passai una mano tra i capelli. In quel momento il mio telefono
vibrò. Lo presi dalla tasca e notai che c’era un messaggio
da Michael: “La ragazza con i capelli strani si chiama Elisabeth Levine. E tu che mi dici? Tua cugina sa della mia meravigliosa esistenza?”.
Senza nemmeno accorgermene mi ritrovai in tensione: era il primo
passo verso Scarlett. Anche se, a dirla tutta, non sapevo che avrei
fatto ora che avevo il nome della sua amica. Proprio non ne avevo idea,
ma mi dissi ci avrei pensato più avanti.
“Perfetto, grazie. E sì,
mia cugina ti ha invitato ufficialmente. Sono sicuro che anche il suo
ragazzo sarà felice di sapere della tua esistenza. Magari
proprio da te.” Scrissi il messaggio senza riuscire a
trattenere un sorriso.
“Sei un bastardo Adam Meyers! Questa me la paghi, sappilo.” La sua risposta mi fece sorridere di più.
Infilai il cellulare nella tasca dei jeans ripensando a quello che
sapevo in quel momento: Elisabeth Levine non sembrava troppo difficile
da avvicinare, aveva l'aria disinvolta e sorrideva spesso, quindi forse
era anche amichevole.
Il punto era cosa fare dopo? Dovevo fingere di provarci con lei o dirle
la verità? Omettendo, ovviamente, la licantropia della sua
amica. E quindi che scusa dovevo usare? Dovevo farle credere che mi
piaceva Scarlett? Avrei anche potuto farlo, non doveva essere troppo
difficile fingere che lei mi interessasse perché, in un certo
senso, lo faceva davvero. Non c’entravano niente il
desiderio, però ero comunque attratto da lei.
“Che situazione complicata”, pensai. Come diavolo avevo fatto a cacciarmi in un guaio del genere?
Avrei dovuto usare Elisabeth in ogni caso, sia che fossi stato sincero,
più o meno, che no, quindi restava solo da scegliere quanto
senza sentimenti dovevo essere: illuderla e poi avvicinare Scarlett o
farle sapere fin da subito che lei non mi interessava e che volevo solo
parlare con la sua amica? A dirla tutta, messe così sembravano
tutte e due opzioni disonorevoli alla pari, il che non mi aiutava a
decidere.
Mia madre entrò in cucina con una grossa borsa della spesa e
l’appoggiò sul tavolo. Indossava dei jeans blu scuro e un
maglione grigio. Aveva raccolto i capelli in una coda alta
perfettamente ordinata, come sempre.
«Oh, ciao tesoro. Tutto bene a scuola?» Chiese
sorridendomi.
Scrollai le spalle. «Come al solito.»
«Hai dato tu da mangiare a Cora?» Domandò tirando fuori le uova dalla borsa.
«Mm-mm.»
“Perché non chiedere un parere a lei? Senza nominare le
parti che possono metterti nei guai, naturalmente”,
suggerì una vocina nella mia mente. «Senti, posso farti
una domanda?»
«Certo tesoro, dimmi pure.» Confermò lei.
«Mettiamo caso che io abbia il nome di una ragazza però in
realtà voglio… uh, avvicinare una sua amica: che dovrei
fare? Sì, insomma, non voglio approfittare di nessuno, ma
neanche illudere questa ragazza.» Spiegai tenendomi il più
possibile sul vago e chiedendomi quanto fosse riuscita a capire da quel
poco che le avevo detto.
Lei incrociò le braccia al petto e aggrottò la fronte.
«La ragazza che vuoi avvicinare ti piace?»
“No, voglio solo sapere di più sulla licantropia”,
pensai. «Ehm… Diciamo di sì.» Suonò
come una domanda persino a me.
Lei si lasciò sfuggire un sorriso. «Perché non
parli direttamente con lei? Evita terzi incomodi e fatti avanti.»
Magari fosse stato così semplice… «Ecco, in
realtà non è così facile: questa ragazza è
parecchio…» “Lunatica, rabbiosa,
imprevedibile… pericolosa.” «Timida. Quindi
avvicinandola così mi sembra di metterla con le spalle al
muro.»
«Hai ragione, non l’avevo considerata sotto questo punto di
vista… Si vede che ci tieni parecchio a lei.»
Commentò mia madre annuendo piano.
“Ah sì?”, mi chiesi. In realtà neanche io
l’avevo vista così quando avevo parlato, semplicemente le
parole erano venute fuori da sole. «Mmh… Sì.
Credo.»
Stavo facendo tutto quel casino solo perché non volevo rischiare
troppo andando direttamente a parlare con Scarlett: poteva reagire
molto, molto male e sarei stato da solo ad affrontare le conseguenze.
Anche perché non potevo certo chiedere aiuto a qualcuno, e
neanche lo volevo. Era qualcosa che doveva risolvere io e lei.
«So che è difficile, però mettere qualcun altro in
mezzo sarebbe solo una complicazione. Devi essere diretto con lei e
dirle cosa provi. Invitala ad uscire magari.» Aggiunse mia mamma
prendendo delle carote dalla borsa.
Invitare Scarlett ad uscire era praticamente un suicidio, non potevo
farlo: mi aveva detto esplicitamente che dovevo tenermi lontano da lei,
quindi proporle una cosa del genere era assolutamente fuori questione.
E poi, se le avessi davvero chiesto di uscire avrebbe pensato che mi
piaceva in quel senso, ed era
un'altra cosa da evitare.
«Ci penserò…» Mormorai distrattamente.
Lei mi mise una mano sul braccio. «Se lei ti piace davvero vedrai
che andrà tutto bene, mmh? Devi solo rilassarti e pensare
meno.»
Sospirai. «Non è così facile…»
«Lo so, tu sei una persona molto razionale, tendi a valutare
tutto. Ma adesso devi lasciarti andare. E vedere come va.»
Replicò mia mamma prima di mettersi a preparare la cena.
“Andrà male, molto male…”, mi dissi.
Avvicinare un licantropo e farlo parlare suonava come un’impresa
impossibile e in effetti lo era: in fondo che diritto avevo io di
interferire con la vita di Scarlett? Nessuno. Eppure volevo farlo lo
stesso, volevo mettermi nei guai con le mie stesse mani solo per
trovare qualche risposta che neanche mi serviva.
Ero ancora in tempo per tornare indietro, lo sapevo, esattamente come
sapevo che, se l’avessi fatto, se avessi fermato tutto prima
ancora di iniziarlo, mi sarei odiato e me ne sarei pentito.
Quindi… avrei sfidato la sorte, e Scarlett, solo per placare
quella strana curiosità che mi provocava quella altrettanto
strana ragazza.
SPAZIO AUTRICE:In questo capitolo Adam dimostra di pensare
ancora molto a Scarlett, cosa che sta facendo anche lei, e di essere
disposto a rischiare pur di avvicinarla. Il perché non è
chiaro neanche a lui, ma non sembra volersi fermare a riflettere. In
realtà, nessuno dei due lo farà: Scarlett è
ossessionata dall'idea che Adam possa rivelare il suo segreto e quindi
vuole tenerlo d'occhio pur sapendo che sarebbe più saggio non
farsi notare; Adam vuole delle prove per capire se la licantropia
esiste davvero e, se sì, che cosa comporta. Questo
porterà entrambi ad agire d'istinto e a cacciarsi in situazioni
che avrebbero dovuto evitare.
Vi anticipo che la festa
di Selena sarà teatro di qualche colpo
di scena che non riguarderà solo i nostri due protagonisti:
anche Michael combinerà qualcosa di cui potrebbe pentirsi.
Detto questo, vi ringrazio di nuovo per l'entusiasmo che dimostrate nel seguire la storia, non me l'aspettavo assolutamente *-*
A presto,
TimeFlies
|
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Capitolo 9 *** 09. Scarlett ***
Under a Paper Moon- capitolo 9
9. Scarlett
Più si avvicinava la fine delle lezioni e più mi
convincevo che il mio piano era terribilmente sbagliato, un concentrato
di stupidità impressionante perfino per me. E mi era bastata una
sola ora di riflessione per decidere cosa fare. In effetti, già
questo avrebbe dovuto farmi capire quanto era idiota la mia idea.
Ad essere sinceri, avevo cominciato a pensarci già il giorno
prima, dopo un’uscita con James, ma avevo cominciato a delineare
i dettagli solo quella mattina. Non era niente di complicato, in poche
parole avevo semplicemente deciso di parlare con Adam e di
chiarire… beh, quello che c’era da chiarire.
Avevo un po’ paura di scoprire come sarebbe andata a finire, ma
non sopportavo l’idea di rimandare ancora quella discussione:
avevo bisogno di capire perché non riuscissi a fare a meno di
guardarlo, di perdermi nel cielo tempestoso delle sue iridi e
soprattutto perché mi attirava in un certo senso. Niente
passione, sia chiaro, però c’era comunque uno strano
interesse che sembrava reciproco. Ed ero piuttosto sicura che
c'entrasse la mia licantropia.
Mi ero cacciata in un bel guaio e sarebbe stato difficile uscirne:
potevo allontanarmi da lui, far finta che il fatto che fosse a
conoscenza del mio segreto non mi preoccupasse, anche se questo avrebbe
significato creare un grande “e se invece…” nella
mia vita. Oppure potevo affrontarlo e capire quali fossero le sue
intenzioni. Soprattutto perché l’avevo visto parlare
più di una volta con Elisabeth e lei aveva lasciato intendere
che avevano persino avuto un appuntamento. Un appuntamento! Quel
dannatissimo ragazzo mi avrebbe fatta impazzire, me lo sentivo.
Solo quando sentii uno strano scricchiolio, un po’ fuori luogo in
un’aula, mi resi conto che stavo stritolando la mia unica matita
buona. La posai sul banco e strinsi i pungi per calmarmi. L’unico
lato positivo che riuscivo a trovare in tutto quel casino era che,
anche se Adam fosse entrato in contatto con mia madre o con Beth, il
mio segreto sarebbe rimasto al sicuro: nessuna delle due sapeva
assolutamente niente della mia licantropia.
“Un punto per me”, mi dissi. Eppure era una magra
consolazione: una parte di me, piuttosto insistente a dir la
verità, continuava a dirmi che dovevo parlare con Adam e cercare
di fare chiarezza. E dovevo ammettere che, se non volevo impazzire
definitivamente, dovevo assolutamente farlo.
L’ultima ora di lezioni fu un’agonia durante la quale quasi
mi mangiai la penna: continuavo a mordicchiarla in preda ai dubbi sulla
mia decisione riguardo il ragazzo con gli occhi tempestosi.
“Oddio gli ho pure trovato un soprannome!”, pensai
stringendo i denti sulla penna e sentendo la plastica scricchiolare.
Quando suonò la campanella che segnava la fine della lezione
trasalii e mi morsi la lingua per sbaglio. Imprecai tra me e me mentre
infilavo poco delicatamente i libri nello zaino. Uscii per ultima non
proprio per caso visto che continuavo ad indugiare e a chiedermi quanto
grave fosse quello che stavo per fare.
Ero sulla porta dell’aula quando la professoressa di inglese, la
signora, o meglio signorina Hataway, mi richiamò:
«Scarlett, puoi aspettare un attimo?»
“No”, avrei voluto dire, ma dalla mia bocca uscì la
risposta contraria: lei era così gentile e sorrideva sempre e io
non riuscivo mai a dirle di no. «Certo.»
Trassi un respiro profondo e mi voltai verso di lei cercando di
mostrarmi a mio agio. Provai anche a sorridere, cosa che divenne molto
difficile quando mi resi conto che il mio pensiero andava
automaticamente ad Adam. Feci qualche passo verso la cattedra mentre la
prof armeggiava con parecchi fogli mormorando tra sé e
sé. Quando si girò verso di me ne teneva in mano uno come
se fosse stata soddisfatta di essere riuscita a scovarlo.
«So di aver detto che vi avrei riportato i compiti la settimana
prossima, ma ieri mi è capitato il tuo tra le mani e… gli
ho dato un’occhiata.» Ammise.
Mi irrigidii pensando subito al peggio. “Ecco, adesso ci si mette
pure l’insufficienza ad inglese… Che cosa ho fatto di
così male per meritarmela?”, mi chiesi mordendomi il
labbro fino a farmi male.
Erano frustranti quelle continue difficoltà a scuola,
soprattutto in quella materia: mi era piaciuta fin dal primo anno e la
prof Hataway era una delle mie preferite quindi non andavo per niente
male. In più, chissà perché, mi ero ripromessa di
non deluderla mai, di prendere sempre buoni voti con lei. Fino a quel
momento ce l’avevo fatta, ma sembrava che quella volta avessi
fallito.
L’insegnante abbassò lo sguardo sul foglio che aveva in
mano. «Sei sempre stata costante nella mia materia, e questa
è una cosa che apprezzo molto Scarlett, davvero,
ma…»
“Ma? Ma non pensavi che esistesse un voto più basso di F e
quindi l’hai inventato sul momento solo per me?”, pensai
sentendo sulla lingua il sapore metallico del sangue: mi ero morsa
troppo forte il labbro, forse usando anche le zanne. Di nuovo.
«Ma questa volta ti sei davvero superata. Sul serio, hai fatto un
ottimo compito. Questa A è meritatissima.» Concluse la
prof alzando gli occhi e sorridendomi.
Spalancai gli occhi, incredula. «Una A?
Dice sul serio?»
«Sì, hai fatto un ottimo lavoro.» Confermò
lei.
«Io… Grazie. Davvero.» Mormorai stentando ancora a
crederci.
«Figurati.» Replicò lei con un sorriso gentile.
«Ma mi raccomando, continua così: il prossimo anno voglio
che tu dia il massimo all’esame, intesi? Ora va, ti ho
trattenuto anche troppo.»
Sorrisi senza neanche rendermene conto. «Grazie ancora.»
Lei si strinse le braccia al petto. «Di nulla. So che puoi fare
grandi cose.»
Per una frazione di secondo avrei voluto abbracciarla, ma mi trattenni:
in fondo, per quanto gentile ed amichevole fosse, lei restava comunque
un'insegnante.
Annuii continuando a sorridere ed uscii dalla classe. I corridoi erano
già vuoti: nessuno aveva voglia di rimanere neanche un minuto
più dello stretto necessario a scuola. “Adam!”, il
suo nome mi tornò in mente di colpo facendomi trasalire: poteva
già essere andato a casa. Se fosse stato così avrei perso
l’occasione per parlargli e chissà quando avrei ritrovato
il coraggio di farlo…
Mi precipitai al parcheggio della scuola sperando che si fosse
trattenuto a chiacchierare con qualcuno, magari con quel suo
amico… Michael, se non mi sbagliavo. Mi sorpresi quando vidi che
la sua auto era ancora al suo posto, dove l’avevo vista quella
mattina. E lui dov’era? In classe? In biblioteca?
“Devo trovarlo, altrimenti diventerò pazza”, pensai
non riuscendo a non chiedermi come diavolo fossi riuscita a cacciarmi
in una situazione del genere.
Lo cercai praticamente in tutta la scuola, ma sembrava completamente
sparito, come dissolto. Imprecai mentalmente ad ogni classe vuota e
tirai anche un calcio al muro, con relativo ringhio di dolore. Poi mi
fermai, interdetta dal mio stesso comportamento: un ragazzo che neanche
conoscevo mi influenzava fino a quel punto? Davvero? Non potevo
lasciarglielo fare. Decisi seduta stante che gli avrei parlato quando
l’avrei rivisto, quando mi sarebbe capitata l’occasione, ma
non sarei stata io a cercarlo.
Fiera della mia scelta, imboccai il corridoio che riportava al
parcheggio: in quel momento volevo solo andare a casa, farmi una
cioccolata calda e chiamare mia madre per dirle della A in inglese.
L’avrei resa felice e orgogliosa di me, quello che cercavo di
fare più o meno da sempre. E magari le avrei fatto dimenticare
la promessa di non prendere insufficienze in matematica che le avevo
fatto all'inizio dell'anno.
Rimasi a bocca aperta quando lo vidi, lì, in piedi, impegnato ad
infilare alcuni libro nell’armadietto. Doveva essere un segno del
destino visto che stavo per rinunciare a parlargli. Feci qualche passo
verso di lui prima di fermarmi ad osservarlo, indecisa e sospettosa:
aveva le labbra appena socchiuse, i capelli un po’ in disordine,
gli occhi di quel blu così particolare che risaltavano sulla sua
pelle chiara. Si sfilò la felpa, rimanendo in maglietta a
maniche corte, e la mise nell’armadietto. Fu a quel punto che
qualcosa in me scattò, ignorando i freni inibitori ed il buon
senso e fregandosene dell’imbarazzo.
«Ti piacciono i Green Day?» Chiesi stupendomi della mia
audacia: parlargli così apertamente era un gesto sconsiderato e
che poteva rivelarsi pericoloso.
Si voltò verso di me con aria sorpresa. Mi guardò per
qualche secondo con quei suoi occhi color tempesta.
«Scarlett.»
«Adam.» Incrociai le braccia al petto. «Non hai
risposto alla mia domanda.»
“Non c’è bisogno di essere così acida”,
commentò una vocina dentro di me. Lui inclinò appena la
testa di lato come se non riuscisse a capire cosa intendevo così,
feci un cenno verso la maglietta che indossava dove campeggiava il logo
del gruppo.
Abbassò per un attimo lo sguardo prima di stringersi nelle
spalle. «Direi di sì.»
Annuii appena. «Come mai sei ancora qui? Le lezioni sono
finite.»
Mi rendevo conto di sembrare decisa a fargli il terzo grado,
però non riuscivo a rilassarmi. Eppure la conversazione
l’avevo iniziata io…
Chiuse l’armadietto. «Avevo un compito e la professoressa
ci ha fatto restare un po’ di più visto che era piuttosto
lungo.» Mi studiò per qualche secondo. «Tu?»
Mi sentii presa in contropiede: io perché ero lì? Non
avevo una vera e propria spiegazione, anzi, un minuto prima avevo
deciso di andarmene a casa e lasciar perdere quello stupido piano. Poi
l’avevo visto per caso e mi ero fermata, per un qualche oscuro
motivo. Era come se le mie gambe avessero deciso da sole di portarmi
lì, davanti a lui.
Deglutii. «Io… Uh, mi ero fermata a studiare in biblioteca
e ho fatto tardi.» Inventai lì per lì.
«Ah…
Okay.» Mormorò. «Ti serve qualcosa?»
«No.» Risposi secca.
“Ma certo, inizi una conversazione e poi fingi di avercela con
lui, che piano geniale”, mi rimproverò la solita vocina.
Aggrottò la fronte per un attimo poi scrollò le spalle.
«D’accordo.»
Si girò e fece per andarsene. E io, senza volerlo veramente,
feci un passo avanti, verso di lui. Verso quello che poteva rivelarsi
un grande guaio.
«In realtà una cosa ci sarebbe.» Ammisi osservando
la sua schiena.
Sì fermò e vidi le sue spalle tendersi. Si voltò e
i suoi occhi tempestosi incontrarono i miei. «Cosa?»
«Credo che tu voglia ancora parlarne. Giusto?» Domandai
evitando di guardarlo: di colpo il pavimento sembrava essere diventato
molto interessante.
Capì subito a cosa mi riferivo. «Sì, è vero.
Ma tu hai detto che è meglio non farlo quindi…»
Fece una piccola pausa. «Non credo sia saggio mettersi contro un
licantropo.»
«Già.» Convenni pensando che non era ingenuo come
credevo. «Però, ecco, immagino che tu qualche altra
domanda ce l’abbia. E visto che questo non è un argomento
comune… Non so, forse un paio di risposte potrei dartele.»
“E fu così che mi cacciai nei guai”, mi dissi.
Lui spalancò gli occhi, sorpreso. «Davvero? Cioè,
lo faresti sul serio?»
A dirla tutta non lo sapevo fino a che punto potevo, e volevo,
spingermi, ma mi rendevo conto che per lui non doveva essere facile
tenere un segreto tanto importante che nemmeno lo riguardava in prima
persona. «Sì. Ovviamente niente di personale, solo
qualcosa di generico.»
«Non pensavo volessi farlo. In quel locale avevi detto che era
finita lì, che non mi avrei più detto nulla.»
Replicò studiandomi.
Abbassai lo sguardo. «Lo so. Però non posso chiederti di
nascondere una cosa così grande. So che non è abbastanza
per ripagarti, ma… Ho pensato che magari darti qualche
informazione in più avrebbe pareggiato, almeno
all’apparenza, i conti.»
«Immagino di doverti ringraziare. Sì, insomma, credo che
per te sia una grande prova di fiducia.» Rispose.
«Mettiamo in chiaro una cosa: io non mi fido di te. Nemmeno ti
conosco, non vedo come potrebbe essere diversamente. Ho deciso di darti
qualche risposta solo per sentirmi in pace con me stessa.»
Dichiarai.
Si strine nelle spalle. «Sempre meglio di niente.»
“Gli interessa davvero tanto…”, pensai sorpresa.
«Credo di sì.»
«Vuoi parlarne qui o preferisci andare da un’altra
parte?» Chiese.
Arricciai il naso. «Odio questo posto.»
Si morse il labbro per nascondere un sorriso. «E un’altra
parte sia allora.» Mi fece cenno di seguirlo.
«Vieni.»
Feci qualche passo incerto fino a trovarmi ad un metro di distanza da
lui. Sollevai lo sguardo ed incrociai i suoi occhi: sembravano sinceri,
anche un po’ incuriositi.
Mi resi conto di essere più bassa di lui di un bel po’ di
centimetri e mi diede quasi fastidio sapere di non poterlo guardare
negli occhi senza sollevare la testa.
Camminammo fianco a fianco fino al parcheggio della scuola.
C’erano rimaste solo le auto dei prof e dei bidelli. Insieme alla
sua. Scura e semplice, non sembrava una macchina costosa come quelle
che sfoggiavano i ragazzi della nostra età per vantarsi e
mostrare quanti soldi avevano. In effetti, da un certo punto di vista,
la sua auto un pochino lo rispecchiava: anche lui era, almeno
all’apparenza, un ragazzo come tanti che quasi passava
inosservato. Però, appena si andava un po’ più a
fondo, veniva fuori una persona complessa e abbastanza fuori dal
comune.
Non era scappato vedendomi mezza trasformata, ne voleva sapere di
più. Questo non lo classificava assolutamente come persona
“normale”. Anzi, tutt’altro.
Tirò fuori le chiavi dalla tasca dei jeans e mi lanciò
un’occhiata di sottecchi prima di fare il giro e sedersi al posto
di guida. Ero già stata in quella macchina, ricordavo di essermi
spiaccicata contro lo sportello per un qualche oscuro motivo, e ora
stavo per tornarci. Tempo pochi minuti e avrei dovuto parlargli di
quello che ero veramente, cosa che non avevo mai fatto in vita mia e
che non pensavo avrei mai fatto. Trassi un respiro profondo e mi
sedetti accanto a lui.
«Nervosa?» Chiese spiazzandomi: si notava così
tanto?
«Ecco… È un argomento delicato…» Balbettai.
Guardava fisso davanti a sé e io non potei fare a meno di
osservare il suo profilo, la linea della mascella, le labbra chiare, i
capelli leggermente arruffati.
«Non sei obbligata a farlo. Posso accompagnarti a casa anche
subito se vuoi.» Aggiunse. Parlava piano, come se avesse avuto a
che fare un animale ferito e terrorizzato.
Deglutii e trassi un respiro profondo. «N-no… Davvero, va
bene così.»
«Sicura?» Domandò con voce quasi accondiscendente.
Annuii tenendo gli occhi chiusi. «Sì. Sul serio.»
«Okay. Non so quanto possa contare, ma lo apprezzo.»
Mormorò.
Non riuscii a fare a meno di lanciargli un’occhiata sorpresa: era
molto diverso da come appariva; se da fuori sembrava uno di quei
ragazzi un po' intellettuali e con la testa tra le nuvole, appena
cominciavi ad andare più a fondo scoprivi una persona attenta e
vogliosa di scoprire il più possibile riguardo a quello che lo
circondava.
Tirai giù le maniche della felpa fino a coprirmi quasi
completamente le mani. Osservai la punta delle mie scarpe, ormai
vecchie e scolorite, chiedendomi perché non avesse paura,
perché fosse così interessato a capire cos’ero,
perché si mostrava così aperto e disponibile.
Cos’avevo di così speciale da attirarlo fino a quel punto?
Qualche minuto dopo, abbastanza perché mi perdessi nei miei
pensieri, mi accorsi che l’auto era ferma. E che avevo il suo
sguardo addosso. Deglutii e gli lanciai un’occhiata di sottecchi.
Incontrai i suoi occhi grigio-blu che mi osservavano con una
curiosità quasi trattenuta, come se avesse temuto che se fosse
stata più esplicita mi sarei spaventata.
«Siamo arrivati.» Disse sempre con voce calma.
Mi voltai e, fuori dal finestrino, vidi un piccolo bar con
l’insegna piccola e un po’ scolorita. Era un locale come
tanti, probabilmente passandoci davanti non l’avrei mai notato.
Un po’ mi sorprendeva che lui lo conoscesse.
«Non ci sono mai stata qui…» Commentai tornando a
guardarlo.
Sembrò rilassarsi. «Sì, beh, lo conoscono in pochi.
È uno di quei locali dove va la gente che vuole stare in pace
per leggere, rilassarsi, parlare…»
“Io ho davvero bisogno di rilassarmi. E tu vuoi
parlare…”, pensai, “forse sarebbe meglio se ci
mettessimo a leggere qualcosa.” «Bene. Andiamo?»
SPAZIO AUTRICE: Ed eccoci qua con il nono capitolo *-*
Negli scorsi capitoli la situazione è stata piuttosto
stazionaria, forse qualche capitolo vi sarà anche risultato
noioso -e in quel caso mi scuso, ma avevo bisogno di introdurre i
personaggi e farveli conoscere- ma da adesso in poi cominceranno,
almeno spero, i colpi di scena. Adam e Scarlett si ritroveranno
più vicini di quanto loro stessi vorrebbero, e non sarà
sempre per colpa loro: qualche altro personaggio potrebbe aiutare
queste "coincidenze".
In questo capitolo Scarlett si è mostrata piuttosto indecisa,
non sa come gestire questa nuova situazione proprio perché
è la prima volta che le capita di avere a che fare con qualcuno
che conosce il suo segreto. Da una parte vorrebbe che non fosse Adam,
sia perché sta uscendo con Elisabeth, sia perché è
un ragazzo che nasconde fin troppi misteri: dietro le apparenze, anche
lui ha qualche scheletro nell'armadio che più avanti
verrà svelato.
Nel prossimo capitolo arriverà qualche risposta, ma anche qualche domanda.
E niente, spero di avervi lasciato almeno un po' con il fiato sospeso dopo i capitoli precedenti un po' più... calmi.
A presto,
TimeFlies
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Capitolo 10 *** 10. Adam ***
Under a Paper Moon- capitolo 10
10. Adam
Non riuscivo a credere che
fosse davvero lì con me, di sua spontanea volontà poi.
Soprattutto, però, non riuscivo a credere che, proprio quando
avevo deciso di lasciarmela alle spalle, di andare avanti con la mia
vita, fosse ricomparsa proponendomi addirittura una chiacchierata sul
suo essere lupo. E io le avevo detto di sì subito, senza neanche
pensarci, dimenticandomi completamente del mio proposito di
dimenticarla: perché?
Sapevo benissimo che continuare
ad insistere sarebbe stato solo dannoso, ma mi era bastato rivederla
per tornare a desiderare di saperne di più, per sentire di nuovo
quella strana attrazione verso di lei. Che aveva di tanto speciale? A
parte la licantropia, ovviamente. Niente, era una ragazza come tante:
occhi marroni, capelli castani, viso carino ma niente di più.
Eppure mi tremavano le mani
quando ero salito in auto, avevo avuto paura che mi si incrinasse la
voce, non ero stato sicuro di quello che dicevo. Che mi stava
succedendo? Era una specie di reazione involontaria? Magari troppa
paura repressa mi stava facendo perdere il controllo a poco a poco.
Qualunque cosa fosse, non mi piaceva: non potevo permettermi di non
avere il controllo della situazione con lei vicino. Non ora che
sembrava decisa a dirmi qualcosa di sé.
«Bene.»
Commentò con il tono di voce di chi deve farsi forza per
affrontare qualcosa di spiacevole ma necessario. «Andiamo?»
Prima che potessi anche solo
valutare se fosse il caso o meno di dirlo, le parole uscirono fuori da
sole: «Non sei obbligata a farlo. Per niente.»
Mi guardò negli occhi
con più naturalezza delle altre volte e senza la sua solita aria
di sfida. «Lo so, me l’hai già detto. Ma…
è giusto così, okay? Facciamolo e non pensiamoci
più.»
Non mi diede neanche il tempo
di ribattere: scese dall’auto e chiuse lo sportello. Rimasi a
fissarla attraverso il finestrino per qualche secondo prima di
decidermi a raggiungerla. Quando le arrivai accanto mi lanciò
un’occhiata veloce e distolse subito lo sguardo. Giocherellava
nervosamente con le maniche della felpa che indossava e che le stava
decisamente grande: nascondeva il suo corpo facendola sembrava ancora
più minuta di quanto non fosse in realtà.
Fece per entrare nel bar, ma la
fermai prendendola per un braccio e facendola girare verso di me. La
distanza tra noi due si ridusse notevolmente. Le sue iridi marroni
trovarono le mie come se fossero state attratte da una calamita. Non
c’era traccia di rabbia nel suo sguardo, solo malcelato
interesse.
«Non voglio che tu ti
senta obbligata…» Cominciai.
«Ancora? Finirai per
farmi venire i sensi di colpa.» Le sue labbra si incurvarono in
un sorriso quasi timido di cui sembrava non essersi accorta. «Non
mi hai obbligata a fare nulla. Sono venuta io da te, è stata una
mia scelta. È una cosa di cui non parlo volentieri, questo
sì, ma è okay, davvero.»
Mi morsi il labbro inferiore,
combattuto: mi stava dando quello che volevo, perché non
riuscivo a smettere di sentirmi in colpa? L’aveva detto anche lei
che aveva scelto di sua spontanea volontà, quindi non avevo
motivo di essere così nervoso.
Trassi un respiro profondo ed annuii cercando di convincere più
che altro me stesso che stava andando tutto bene. «Sì, lo
so… Scusa, non ti sto rendendo le cose facili.»
«Già. È da quando mi hai quasi investita che mi
complichi la vita.» Mormorò.
Le lasciai il braccio tornando a mordermi il labbro. «Immagino di
dovermi scusare anche per questo.»
Sollevò lo sguardo su di me. «Se mi offri una cioccolata
calda ti perdono.»
Per un qualche strano motivo mi rilassai e riuscii ad abbozzare un
sorriso. «Okay, sì, si può fare.»
«Bene.» Commentò con aria determinata: di lei si
potevano dire molte cose, ma non che non sapesse cosa voleva.
Entrammo nel bar e prendemmo posto ad un tavolino piuttosto isolato che
ci avrebbe permesso di parlare tranquillamente. Quel locale era piccolo
ed arredato in modo semplice ma comunque curato: i tavoli e le sedie
erano di legno dipinti di verde chiaro, il pavimento era di parquet
scuro, il bancone era di mogano e marmo bianco; le finestre avevano i
vetri colorati che riempivano la stanza di giochi di luce quando
venivano attraversati dalla luce del sole.
Scarlett appoggiò i gomiti sul tavolo, le mani coperte dalle
maniche della felpa. Si guardò intorno incuriosita e io non
riuscii a fare a meno di osservarla: mi sembrava impossibile che una
creatura forte e potente come un licantropo si nascondesse in lei;
sembrava così… normale,
la classica adolescente che non si piace e che cerca di trovarsi un
posto nel mondo. Invece dentro di lei c’era un lupo, rabbioso e
pronto a venire fuori in qualunque momento. Era una bomba ad
orologeria, sarebbe bastata una parola di troppo, un gesto frainteso e
potevo rimetterci la vita.
Avrei dovuto avere paura di lei, sarebbe stato più che normale,
invece la guardavo affascinato: il modo in cui gestiva se stessa e
ciò che si portava dentro, le sue iridi marroni banali eppure
ardenti in qualche modo, il suo carattere spigoloso… tutto
questo mi mandava in confusione e rendeva inutili sia il buon senso che
l’istinto di sopravvivenza.
«Vuoi passare il pomeriggio a fissarmi? Pensavo fossi ansioso di
parlarmi… Se hai cambiato idea non c’è problema,
solo che è un po’ inquietante sentirsi costantemente
osservati.» Commentò facendomi trasalire.
Incrociai i suoi occhi marroni che mi studiavano cauti: probabilmente
stava cercando di intuire quali sarebbero state le mie mosse, le mie
domande. «No… Scusa, ero sovrappensiero. Vuoi ordinare
prima che… cominciamo?»
Si strinse le braccia al petto appoggiando la schiena alla sedia.
«Sì.»
Annuii e richiamai la cameriera con un cenno. Raggiunse subito il
nostro tavolo, sorridente ed allegra nella sua uniforme blu.
«Volete ordinare?» Domandò con il blocchetto in una
mano la penna nell’altra.
«Una cioccolata calda e un caffè.» Stavo diventando
un po’ troppo dipendente dalla caffeina, ma quello non era il
momento di preoccuparsene.
«Caffè normale o macchiato?» Volle sapere la
cameriera mentre scribacchiava le nostre ordinazioni sul taccuino.
«Macchiato.» Risposi senza curarmi di quello che dicevo:
poteva anche avermi proposto di metterci della vodka per quanto le
avevo prestato attenzione.
«Bene, arrivano subito.» Disse lei infilando la penna nella
tasca del grembiule per poi dileguarsi velocemente tra i tavoli.
Mi passai una mano tra i capelli e cercai di mettere in ordine i miei
pensieri, cosa che si rivelò essere piuttosto complicata.
«Dalla tua espressione sembra che sia tu quello sotto pressione
qui. Per caso ti è sfuggito il fatto che devi solo farmi delle
domande? Tocca a me rispondere.» La voce di Scarlett, venata di
sarcasmo, mi fece alzare lo sguardo su di lei senza che fossi stato io
a deciderlo.
Trassi un respiro profondo. «Okay, okay, ci sono. Hai detto di
non essere nata così, giusto?»
Un muscolo sulla sua guancia si contrasse appena.
«Già.»
«Da quello che ne so, per diventare un licantropo si deve essere
morsi da un altro lupo… tu sei stata morsa?» Faticai io
stesso a sentire le mie parole.
Lei abbassò lo sguardo sul tavolo e notai che aveva le mani
strette a pugno così forte che le nocche erano diventate
bianche. «Sì. Ma avevamo detto niente domande personali,
quindi direi che è meglio se ti tieni più sul
generale.»
«Oh… Sì, scusa.» Mormorai.
Scrollò le spalle. «Non fa niente. Va’
avanti.»
Le lanciai un’occhiata di sottecchi. «Come funziona il
plenilunio? Voglio dire, ogni mese tu… cioè, i licantropi
perdono il controllo?»
«Diciamo che più che altro sentiamo di più
l’istinto primitivo di uccidere. Ognuno lo ha dentro di
sé, anche la persona più pacifica. I lupi mannari lo
percepiscono di più praticamente sempre, è per questo che
abbiamo… qualche problemino con il controllo della rabbia. La
luna piena risveglia la voglia di sangue, sai, quella che hanno tutti i
predatori. Un lupo normale, diciamo, uccide per sfamarsi; una volta
sazio smette. Un licantropo, con il plenilunio, non riesce a
fermarsi.» Mentre parlava sollevava di tanto in tanto lo sguardo,
come se neanche se ne accorgesse.
Annuii cercando di assimilare meglio che potevo le sue parole: istinto primitivo di uccidere…
Era più pericoloso di quanto pensassi. «Mmh… E le
zanne e gli artigli? Voglio dire, sono retrattili come quelli dei
gatti?»
Inarcò un sopracciglio, sorpresa. «Non mi sono mai
paragonata ad un gatto, ma… Sì, credo che più o
meno sia la stessa cosa.»
Non era facile come avevo pensato inizialmente farle domande senza
scendere troppo nei dettagli. «I licantropi possono tirarli fuori
a loro piacimento?»
«Esatto. Ci vuole un po’ d’esercizio per imparare a
farlo, ma sì, possiamo comandarli.» Mi fece cenno di
guardare sotto il tavolo. «Ti faccio vedere.»
Mi sporsi di lato e lei fece lo stesso. Allungò una mano verso
di me mantenendola nascosta e, come per magia, le sue unghie si
allungarono e divennero più spesse: per la forma ed il colore
più scuro sembravano gli artigli di un lupo, affilati e pronti
all’uso. Sollevai lo sguardo su di lei e notai una lieve
sfumatura dorata nei suoi occhi.
Senza pensare a quello che dicevo, mi ritrovai a chiedere: «E
l’oro nelle iridi?»
Indietreggiò di scatto ripristinando la distanza tra noi.
Sbatté le palpebre lasciando che il marrone tornasse a
predominare nei suoi occhi. «Non è niente di che, penso
sia solo un segno del nostro… potere.»
Prima che potessi dire altro, la cameriera ricomparve, ancora
sorridente. Aveva in mano i bicchieri di carta contenenti le nostre
ordinazioni. Le posò sul tavolo insieme a qualche bustina di
zucchero.
«Ecco qua.» Aggiunse. «Volete altro?»
Lanciai un’occhiata a Scarlett: teneva lo sguardo basso, sembrava
ansiosa di andarsene. E la capivo. «No, grazie. Siamo a posto
così.»
«Perfetto.» Concordò la cameriera prima di
avvicinarsi al tavolo accanto al nostro.
«Immagino che tu abbia altre domande, mmh?» Chiese Scarlett
prendendo il suo bicchiere con entrambe le mani e fissandolo cupa.
«Sì.» Ammisi. «Ecco… La storia
dell’argento è vera?»
Mi lanciò un’occhiata di sottecchi e giurerei di averla
vista sorridere. «Più o meno.»
«Che vuol dire? Sì o no?» Insistetti guardandola.
Prese un sorso di cioccolata prima di rispondere. «Non è
molto saggio rivelare informazioni del genere ad uno sconosciuto,
sai?»
Rimasi interdetto: rischiavo di non ricevere nessuna informazione utile
se continuavo a fare domande a caso. “Utile a fare che?”,
chiese una vocina nella mia mente. Non ci avevo pensato, non mi ero mai
chiesto cosa avrei fatto se fossi riuscito ad ottenere delle risposte.
Ero stato troppo preso dal cercare di dare un senso a quella strana
attrazione verso di lei per riflettere in modo concreto. Mi maledissi
da solo: ora che avevo la possibilità di parlarle non riuscivo a
fare una domanda decente?
«In effetti…» Convenni mio malgrado.
«Già. Devi avere un po’ di buon senso quando ti
esponi.» Commentò lei.
«Vero. Allora perché non cambiamo un po’ le cose?
Dimmi quello che vuoi, quello che non ti rende nervosa e che non
posso… uh, usare contro di te, che ne pensi?» Proposi
prendendo il mio bicchiere. «Così evito anche di farmi
ammazzare per la domanda sbagliata.» Aggiunsi a voce più
bassa parlando più per me che per lei.
«Non ti ammazzerei a prescindere. Voglio dire, non ti rivelerei
mai niente di così compromettente.» Replicò lei
appoggiando i gomiti al tavolo e osservandomi.
Schiusi le labbra, sorpreso: come aveva fatto a sentirmi? Avevo usato
un tono molto basso… così basso che una persona normale
non avrebbe dovuto capire quello che avevo detto. A meno che…
«Roba da licantropi. Credevo ti fossi informato. Abbiamo tutti i
sensi più sviluppati: udito, vista, olfatto…
Tutto.» La voce di Scarlett tradiva una nota d’ironia.
«Come… come sai che ho cercato delle informazioni sui
licantropi?» Domandai quasi senza rendermi conto che mi aveva
dato dei dettagli sui lupi mannari.
«In realtà non ne ero sicura, ma sono andata un po’
ad intuito: visto che ti interessava tanto saperne di più ho
pensato che magari avevi fatto qualche ricerca. E poi mi sembri ben
informato.» Spiegò.
Mi sentii quasi messo all’angolo perché sì, in
effetti ogni tanto mi ritrovavo a leggere leggende antiche e strani
articoli sui licantropi e sul soprannaturale in generale. E il fatto
che lei lo avesse capito così facilmente non aiutava a diminuire
la tensione.
«Sei una buona osservatrice, eh?» Commentai sperando di non
sembrare troppo nervoso.
Si strinse nelle spalle. «Lo sono sempre stata. Sai, potresti
definirmi una di quelle ragazze che preferisce osservare piuttosto che
agire.»
Presi un sorso di caffè e per un attimo mi stupii di quanto
fosse amaro. «Davvero? Insomma, con i poteri che hai potresti
fare molto di più.»
«Il punto è che se mi espongo così rischio di
rivelare ciò che sono. È tutto collegato, licantropia,
vita sociale, mia madre… Praticamente tutto nella mia vita
è implicato quindi cerco di tenermi in disparte.» Il suo
sguardo era tornato a soffermarsi sul bicchiere che aveva in mano.
Feci per chiederle come mai non avesse nominato suo padre, ma mi
trattenni: aveva detto che dovevo limitarmi a domande più
generali, e quella non lo era di sicuro. Per essere sicuro di non
lasciarmi sfuggire una parola di troppo, bevvi un altro sorso di
caffè, ormai freddo.
Scarlett appoggiò la schiena alla sedia sorseggiando la sua
cioccolata. «Altro da chiedere?»
«Hai… Avete altri poteri?» Domandai osservando il
mio bicchiere come se di colpo fosse diventato interessante.
«Guariamo più in fretta degli umani, molto più in
fretta.» Rispose. «E il nostro metabolismo è
più veloce. Per esempio, io posso mangiare una torta intera e
sentirmi come se ne avessi mangiato solo una fetta. E posso mangiare
quanto voglio e ingrassare molto, molto lentamente.»
«Questo sembra essere utile… E anche un po’
ingiusto.» Commentai alzando lo sguardo.
Lei si lasciò sfuggire un sorriso divertito. «Beh, almeno
voi umani non dovete preoccuparvi di uccidere qualcuno una volta al
mese perché l’istinto primitivo prende il sopravvento:
è una grossa preoccupazione in meno.»
«Beh, sì, ma…» Esitai quando notai che aveva
una piccola macchia marrone all’angolo della bocca. «Hai un
po’ di cioccolata qui.» Mormorai sfiorandomi la guancia per
farle vedere il punto preciso.
Arrossì di colpo e si portò una mano alla bocca. Mi
sorprese quel suo imbarazzo improvviso, non credevo che bastasse
così poco a metterla a disagio. Cercava in tutti i modi di
evitare di guardarmi, il rossore sulle sue guance che tradiva
ciò che provava.
Avevo a che fare con un licantropo, avrei dovuto prestare attenzione a
quello che facevo, invece non avevo quasi la concezione dei miei
movimenti, sembrava che ci fosse qualcun altro a guidarli. Purtroppo lo
realizzai solo quando sentii la sua pelle sotto le dita: mi ero sporto
in avanti e avevo allungato una mano per pulirle la guancia. E non
ricordavo di aver deciso di fare una cosa del genere in precedenza.
La sentii irrigidirsi al mio tocco, i suoi occhi marroni ed ardenti
erano puntati su di me, il suo sguardo era quello di un predatore sul
punto di balzare alla gola di una preda assolutamente inerme. Quando
allontanai la mano da suo viso, la sentii buttar fuori l’aria che
aveva trattenuto fino a quel momento. Pareva che volesse scappare nel
giro di un secondo, che stesse solo aspettando l’occasione
adatta.
«Uhm… Immagino di doverti ringraziare.» La sua voce
era bassa, un sussurro appena udibile.
«Non importa. Voglio dire, non serve.» Replicai senza
riuscire a trattenermi dal lanciarle un’occhiata: stava
tormentando il suo bicchiere guardandolo male, come se le avesse fatto
un torto.
«Meglio così perché non credo che l’avrei
fatto.» Dichiarò alzando il mento.
Si era sentita punta sul vivo ed era scattata sulla difensiva: era
vero, magari farla parlare era difficile, ma potevo comunque capire
qualcosa di lei soltanto osservando le sue reazioni.
«L’orgoglio è un tratto distintivo dei licantropi o
è una tua particolare caratteristica?» Borbottai.
«Tutti sono un po’ orgogliosi, c’è chi lo
controlla meglio e chi non ci riesce. Io credo solo di voler mantenere
le distanze.» Ribatté.
Una piccola parte di me si sentì quasi ferita da quelle parole:
poteva fidarsi di me, non avrei detto a nessuno cos'era in
realtà. Ma lei che motivo aveva di credermi? Nessuno. Niente di
ciò che avevo fatto o detto avrebbe potuto convincerla che ero
un suo alleato invece che un potenziale nemico. In più avevo
cominciato ad uscire con la sua migliore amica, quindi probabilmente
buona parte di quella tensione era dovuta anche a quello. Forse era
meglio così, però: meno tempo passavamo insieme, meno
danni ci sarebbero stati.
«Anche questo è vero.» Ammisi. «Quindi…
guarite più in fretta, avete artigli e zanne retrattili, perdete
il controllo con la luna piena, i vostri sensi sono più
sviluppati: per ora mi hai detto questo.»
«Eh già. Non so se è rilevante, ma forse ti
interessa sapere che sappiamo riconoscere quando qualcuno mente.»
Nei suoi occhi passò un lampo quasi malizioso.
«Davvero?» Domandai incuriosito.
Una parte di me mi avvertì che la sua poteva essere solo una
strategia per ottenere qualcosa, o per spaventarmi e scoraggiare i miei
tentativi di saperne di più, ma non ci feci caso.
«Sì. Sai, quando menti i battiti cardiaci accelerano e se
un licantropo ti è abbastanza vicino può
percepirlo.» Spiegò. «E fartela pagare se gli hai
detto una bugia.»
«Suona come una minaccia, o un avvertimento.» Commentai.
«Prendila un po’ come vuoi.» Mormorò
mantenendosi sul vago.
Tutto quel mistero mi irritava e mi attirava nello stesso tempo: avrei
voluto che mi dicesse di più, che mettesse via quell’aria
così scontrosa, eppure in qualche modo mi incuriosiva il modo in
cui cercava di nascondersi, di proteggersi. C’erano
un’unica spiegazione logica per quei sentimenti così
contrastanti: stavo diventando pazzo.
«Senti… Io dovrei andare. Immagino che tu voglia chiedermi
altro però non posso fermarmi di più.» Il suo tono
era esitante, eppure solo un minuto prima era stato sfrontato e quasi
minaccioso.
Sollevai lo sguardo su di lei. «Okay, nessun problema. Vuoi che
ti riaccompagni a casa?»
Schiuse appena le labbra prima di serrarle in una linea sottile.
«Oh… Non lo so… Cioè, non ce
n’è bisogno. Tu avrai altro da fare…»
«Non preoccuparti, è questione di cinque minuti in
fondo.» La rassicurai.
I suoi occhi marroni mi studiarono attenti, come se avessero voluto
raccogliere ogni minimo dettaglio e memorizzarlo. O forse stava
semplicemente cercando di capire se c'erano doppi fini nelle mie
parole. «Okay.»
«Perfetto.» Mi alzai posando il bicchiere sul tavolo.
«Vado a pagare e poi andiamo, mmh?»
Sembrava essere tornata come quando eravamo entrati, nervosa,
guardinga, vogliosa di andarsene. Annuì piano.
«D’accordo, ti aspetto qui.»
«Bene.» Commentai.
Feci per andare alla cassa, ma lei mi richiamò:
«Adam…»
Mi voltai a guardarla e mi stupii di quando paresse debole, stretta
nella sua felpa con quei due grandi occhi marroni fissi su di me. Ma
sapevo benissimo che quella era solo apparenza.
«Sì?»
«Grazie.» Lo disse a bassa voce, come se fosse stato un segreto, o qualcosa che la turbava.
Eppure, un attimo dopo, vidi le sue labbra incurvarsi in un piccolo
sorriso. Senza che fossi stato io a deciderlo, le sorrisi di rimando
prima di andare alla cassa.
Grazie al cielo mi ripresi abbastanza da smettere mentre pagavo. Che mi
stava succedendo? Mi era già capitato di innamorarmi, questo
sì, ma ci era voluto qualche giorno perché finissi per
sentirmi in quel modo. Invece adesso sembrava che Scarlett avesse
sconvolto tutto di me semplicemente standomi vicino. Come aveva fatto? Cosa
aveva fatto di preciso? A parte cambiare umore ogni cinque
secondi…
Quando la cameriera mi disse quanto dovevo pagare le sorrisi
distrattamente più per educazione che per altro. Mentre prendeva
le monete per darmi il resto mi passai una mano tra i capelli
sospirando: se c’era una cosa che non sopportavo era non avere il
controllo delle situazione, non sapere cosa sarebbe successo dopo. E in
quel momento non avevo assolutamente la più pallida idea di cosa
ci riservasse il futuro. Era tutto una grande e piuttosto pericolosa
incognita.
Tornai al tavolo, da Scarlett e dai suoi misteri, cercando di
schiarirmi le idee e riordinare le informazioni, sfuggevoli e
disordinate, che ero riuscito ad ottenere.
«Possiamo andare.» Dissi osservandola.
Sollevò lo sguardo su di me e sbatté le palpebre prima di
mormorare un “okay”. Le sorrisi di nuovo, e questa volte ne
fui un pochino più consapevole. Ricambiò il sorriso
distrattamente per poi alzarsi e seguirmi fuori dal bar.
Quando uscimmo sul marciapiede cercai le chiavi dell’auto nella
tasca dei jeans.
«Adam…» La voce di Scarlett era esitante, insicura.
Mi voltai verso di lei, incuriosito mio malgrado. «Dimmi.»
Lei trasse un respiro profondo e mi guardò negli occhi.
«Credo che ora tocchi a te rispondere a qualche domanda.»
SPAZIO AUTRICE: Anche se un po' in ritardo rispetto a quando avrei voluto pubblicare, eccovi il decimo capitolo *-*
Purtroppo in questi giorni ho avuto un po' da fare con la scuola e solo
oggi ho trovato il tempo di mettermi al computer e pubblicare.
In questo capitolo abbiamo un vero e proprio confronto tra Adam e
Scarlett. Nonostante la curiosità, sono entrambi piuttosto
diffidenti l'uno nei confronti dell'altro. Soprattutto Scarlett si
troverà un po' in difficoltà con questa nuova situazione.
Volevo chiarire una cosa: Adam ed Elisabeth escono insieme, e questo
renderà complicate le dinamiche tra lui e Scarlett. In effetti,
questa relazione potrebbe diventare un freno nel rapporto tra Adam e
Scarlett. Ma potrebbe non essere sempre così.
Detto questo spero che il capitolo vi sia piaciuto e che la storia continui a piacervi.
A presto,
TimeFlies
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Capitolo 11 *** 11. Scarlett ***
Under a Paper Moon- Capitolo 11
11. Scarlett
Trassi un respiro profondo sperando che mi aiutasse a schiarirmi le idee. Gli avevo parlato, avevo risposto alle sue domande. E avevo cominciato a conoscerlo.
Quello però era stato un fuori programma, non era nelle mie
intenzioni farlo. Eppure non ero riuscita a fare a meno di prestare
attenzione ai piccoli dettagli, ai suoi modi di fare, alla sua voce, ai
suoi occhi tempestosi… Avevo ammesso, in una piccola parta della
mia mente, che sì, Adam era un bel ragazzo e che sì, un
pochino mi piaceva in quel
senso. Solo che non potevo permettermi di andare oltre, proprio no.
Dovevamo finirla lì, non parlarci più, prendere ognuno la
propria strada e fine.
“Posso farcela”, mi dissi, “in fondo so così
poco di lui, non posso mica esserne attratta fino a quel punto…
Sarà solo una cosa passeggerà, me ne dimenticherò
presto.” Purtroppo però, saltare fuori con quella frase
che non ammetteva repliche, non sembrava una grande idea. Anzi, era una
pessima idea, una delle peggiori che potessero venirmi in mente.
I suoi occhi blu si spalancarono e le sue labbra si schiusero appena
rivelando la sua più che comprensibile sorpresa. «Mi
dispiace deluderti, ma io non ho niente di soprannaturale.» La
sua voce era quasi esitante.
“Non è quello che mi interessa di te”, disse una
vocina nella mia mente. «Sì, lo… lo so. È
solo che non ti comporti come dovresti fare. Adesso dovresti scappare,
avere paura di me, invece sei ancora qui.»
Annuì appena, come se avesse realizzato qualcosa.
«Già, mi sorprendo di me stesso anch’io. Non so,
forse la mia è solo una reazione ritardata alla paura.»
Una minuscola parte di me non poté fare a meno di sentirsi ferita: lui non doveva avere paura di me, non poteva;
avevo vissuto per anni col terrore che qualcuno scoprisse cos’ero
e mi allontanasse, mi trattasse come un mostro. Quando avevo visto che
lui non lo faceva, ma che era come affascinato da me, avevo pensato che
magari c’era una speranza, seppur piccola e flebile, che potessi
vivere normalmente.
«Tu… hai paura di me?» Domandai.
In effetti, avrei dovuto pensarci prima, prima di mostrare gli artigli
da così vicino, prima di raccontare dei sensi più
sviluppati, prima di rivelare che potevo capire se mentiva.
Nei suoi occhi tempestosi passò un lampo. «No.» Lo
disse con decisione, senza tentennare.
«No?» Ripetei incredula. «Voglio dire, se dovessi
trasformarmi qui, davanti a te, non scapperesti?» “Non
tirare troppo la corda”, mi ammonì la stessa vocina di
prima.
Si passò una mano tra i capelli distogliendo lo sguardo.
«Beh… dipende. Sì, insomma, se tu ti trasformassi e
basta credo di no. Se provassi a balzarmi alla gola o qualcosa del
genere allora… Ad essere sinceri non so cosa farei.»
Senza che fossi io a volerlo, i miei occhi si posarono sulla sua gola,
appena sotto la mascella. Mi bastò un attimo di concentrazione
per cogliere il battito del suo cuore in mezzo ai rumori della
città. Era regolare, magari giusto un po’ più
veloce del solito. Non aveva paura.
Osservai la curva del suo collo, la lieve sporgenza delle clavicole che
si intravedeva dal colletto della maglietta, la forma delle
labbra… Poi mi costrinsi a distogliere lo sguardo.
«Uhm… Non è una reazione normale.»
Un angolo della sua bocca si sollevò appena in un sorriso
sghembo. «Te l’ho detto, mi sorprendo di me stesso. Il
fatto è che non riesco a sentirmi intimorito da te.» Prima
che potessi replicare, aggiunse: «Non fraintendermi: con questo
non voglio dire che sei debole o comunque fragile. Voglio dire che la
curiosità supera la paura.»
Fu il mio turno di guardarlo incredula: curiosità? Io lo incuriosivo?
In che senso però? In quanto licantropo? O come ragazza che
cerca disperatamente di mantenere insieme i pezzi della sua vita?
«Oh… Credo che questo spieghi qualcosa…»
Mormorai.
«Per esempio la mia voglia di saperne di più su di te?
Sì, direi di sì.» Replicò.
Dovevo ammettere che il suo comportamento mi confondeva, e non poco:
com’era possibile che trovasse interessante la licantropia?
C’erano leggende su leggende che ritraevano i licantropi come
mostri assetati di sangue, assassini spietati e senza cuore e ora lui
mi veniva a dire che lo incuriosivo. Una parte di me si chiese se fosse
sbagliato il suo atteggiamento, o se fossi io quella che si sorprendeva
per nulla. In fondo, era il primo che mettevo a conoscenza del mio
segreto quindi forse la sua reazione non era poi troppo strana.
«Se… se vuoi continuare a parlare potremmo andare in un
posto più tranquillo…» Il suo fu un mormorio
leggero che quasi si perse nel rumore del traffico. «So che devi
andare, ma… credo bastino pochi minuti. Giusto il tempo per te
di farmi le domande che vuoi e per me di risponderti. Se non puoi, o
non vuoi, va bene lo stesso, ti ho stressata anche troppo.»
In realtà era tutto il contrario: aver parlato con qualcuno di
un segreto che mi portavo dietro da così tanti anni era
liberatorio, in un certo senso. Dopo averlo fatto mi sentivo più
leggera, più sicura di me, per puro paradosso. «Credo che
si possa fare.» Dichiarai.
Sollevò lo sguardo su di me, sorpreso. «Sul serio?»
«Sì. Se devo essere sincera qualunque cosa è meglio
che fare i compiti di biologia…» Ammisi lasciandomi
sfuggire un sorriso incerto.
Sembrò sul punto di dire qualcosa, ma ci rinunciò e
tornò ad abbassare gli occhi. Alla fine di decise ad annuire.
«Okay.» Trasse un respiro profondo. «Che ne dici se
andiamo da qualche altra parte? Parlare in mezzo ad un marciapiede non
è una grande idea.»
«Va bene.» Concordai stringendo le labbra.
Mi rivolse un’occhiata fugace e quasi incredula prima di fare un
cenno verso l’auto. Il suo nervosismo mi sorprese: fino a quel
momento era riuscito a gestirlo bene, ma adesso sembrava essere
diventato insicuro. Forse era la prospettiva di stare da solo con me
che lo metteva così in soggezione. Beh, era una reazione
più che normale, mi sembrava strano che non l’avesse fatto
prima.
Aprii lo sportello del lato passeggero e presi posto accanto a lui.
Dalla sua postura rigida e dalla tensione dei suoi muscoli intuii
subito che era agitato. Avrei voluto calmarlo, rassicurarlo, ma non
avevo idea di come fare: cosa dici ad una persona che ha appena
scoperto i poteri dei licantropi e a cui hai appena imposto
un’altra chiacchierata non proprio piacevole?
Mentre io cercavo un modo per tranquillizzarlo, anche se non ero sicura
che servisse, lui guidava in silenzio, lo sguardo fisso sulla strada,
l’espressione assorta.
«Cosa vuoi sapere?» Mi ci volle un attimo per realizzare
che stava parlando con me.
Mi voltai verso di lui e per una frazione di secondo incrociai i suoi
occhi blu tempesta che mi studiavano. «Uhm… Di preciso non
lo so, però… Ecco, il modo in cui ti comporti con me
è strano, non sembri mai impaurito o anche solo consapevole del
pericolo che corri. Credo solo di volerti capire un po’ di
più.» Solo dopo che ebbi pronunciato l’ultima frase
mi resi conto che poteva essere fraintesa e non di poco.
«Non c’è molto da capire. Voglio dire, il
soprannaturale ha sempre affascinato le persone, no?»
Replicò riportando lo sguardo dalla strada quasi sulla difensiva.
«Tu non mi sembri il tipo che crede alle leggende.»
Commentai.
«Vero.» Ammise. «In effetti non le ho mai sopportate.
Ma credo che ritrovarmi un licantropo davanti possa avermi fatto
cambiare idea almeno per quanto riguarda i lupi mannari.»
«Uhm… Non potevi trovarti una creatura meno pericolosa?
Che so, magari un folletto? O il Coniglio Pasquale?» Tentai.
Sorrise e vidi i suoi muscoli che si rilassavano un po’.
«Sai come si dice? Se vuoi fare qualcosa devi farla per
bene.»
«Appunto, non mi sembra che “morire di morte lenta e
dolorosa” sia implicato nel fare bene qualcosa.» Risposi
incrociando le braccia al petto.
«Se tu dovessi mai decidere di uccidermi credo che sarebbe
piuttosto veloce ed indolore.» Ribatté senza scomporsi
minimamente.
Feci per rispondergli, ma mi bloccai: che potevo dire a uno che non
aveva la minima paura di morire per mano mia e che anzi ci scherzava
sopra? Distolsi lo sguardo cercando di trovare le parole giuste. Alla
fine, però, fu la curiosità a vincere: «Come fai a
prenderla così alla leggera? Insomma, se mi andasse potrei
saltarti alla gola anche adesso.»
«Mmh… C’è sempre questa possibilità.
Ma dopo chi risponderebbe alle tue domande?» Mi fece notare
lanciandomi un’occhiata di sottecchi.
«Non sono così importanti.» Dichiarai alzando il
mento.
«Allora posso portarti a casa.» Il suo tono voleva essere
innocente, ma colsi comunque una nota di ironia.
Aggrottai la fronte scoccandogli un’occhiataccia. «Ti
diverti?»
Si mordicchiò il labbro. «Forse.»
Sospirai chiudendo gli occhi: come avevo fatto a cacciarmi in quella
situazione? Mi ero ripromessa di stare con lui per il minor tempo
possibile ed ora eravamo nella sua macchina, insieme… Eppure
c’era una minuscola parte di me che trovava tutto quello quasi
piacevole in qualche modo.
«Comunque, tanto per sapere, dov’è che stiamo
andando?» Domandai mettendo fino a quello scambio di
provocazioni.
«A casa mia.» Rispose semplicemente.
Devo ammettere che quelle tre parole mi allarmarono un po’.
«Casa tua? Non ricordavo abitassi in mezzo al
bosco…» Commentai lanciando un’occhiata fuori dal
finestrino: la città aveva lasciato il posto alla foresta, verde
e rigogliosa, che in quel momento stava costeggiando la strada.
«In effetti, andiamo nell’altra
casa.» Si corresse.
Sollevai le sopracciglia, sorpresa. «Vuoi dire che hai due
case?»
Le sue labbra si incresparono appena. «Non proprio.»
Alzai gli occhi al cielo, un po’ troppo vicina
all’esasperazione per i miei gusti. «Non puoi essere
più comprensibile? E poi, una casa nel bosco? Potresti essere un
maniaco che vuole uccidermi. In modo anche poco discreto…
Dovresti affinare la tecnica.»
Si mise a ridere e vidi tutta la sua tensione sciogliersi. «Un
maniaco che ti offre una cioccolata calda? Devo essere proprio sadico,
eh?»
«Hai mai sentito parlare di tecniche di adescamento?»
Chiesi osservandolo di sottecchi.
«Sei informata, mmh?» Domandò senza smettere di
sorridere.
«Mi piacciono i telefilm polizieschi.» Ammisi. «A
parte questo, ti dispiacerebbe spiegarmi questa cosa delle due
case?»
«Quella dove stiamo andando ora è dei genitori di mia
madre. Ce l’hanno lasciata perché preferiscono
l’aria di mare e quindi si sono trasferiti sulla costa.»
Spiegò.
«Oh… E non ci abita nessuno?» Domandai.
«A mia madre non piace il bosco, preferisce la città,
quindi no.» Rispose. «Comunque, siamo arrivati.»
Aggiunse fermando l’auto.
Ci trovavamo in una piccola radura in mezzo al bosco; la luce del sole
che filtrava attraverso i rami degli alberi creava chiazze chiare sul
terreno. Davanti a noi c’era una di quelle case che si vedono nei
film: un piccolo cottage con il portico di legno e il comignolo di
pietra. Sembrava appena uscito da una qualche favola.
«Cavolo…» Mormorai. «Pagherei per vivere
qui.» “L’ho davvero detto ad alta voce?”,
pensai.
Accanto a me, Adam sorrise appena. «Mia nonna ha sempre avuto
gusto. E una grande passione per le cose costose.»
«Uhm… Mia madre impazzirebbe se la vedesse: ha sempre
voluto una casa così.» Faticai io stessa a sentire la mia
voce. Mi riscossi dai miei pensieri e gli lanciai un’occhiata.
«Quindi… che si fa ora?»
«Hai detto di volermi fare qualche domanda, giusto?» Chiese
ricambiando lo sguardo.
«Sì. Se… se vuoi.» Risposi.
Annuì e fece un cenno verso la casa. «Vieni.»
Scese, fece il girò dell’auto e mi aprì lo
sportello. Per un attimo rimasi a guardarlo, sorpresa e interdetta:
nessuno era mai stato così… gentile con me. O meglio,
nessun ragazzo. E poi lui non aveva neanche un buon motivo per farlo,
non c’era niente che ci legava, o che poteva spingerlo a fare un
gesto del genere.
Mi morsi il labbro e scesi anch’io. Quando lui chiuse lo
sportello me lo trovai di fronte, con solo qualche centimetro a
separarci. Stranamente non mise in imbarazzo essergli così
vicino, anche se sentii un brivido lungo la schiena quando ripensai
alle sue dita che mi sfioravano la guancia.
Fece un minuscolo cenno verso il portico della casa. Lo seguii
istintivamente e rimasi lievemente sorpresa quando lo vidi sedersi su
uno dei gradini di legno. Esitai per un attimo mentre lui mi guardava
in attesa che lo raggiungessi.
Sospirai chiedendomi per l’ennesima volta com’ero finita in
quella situazione, e mi sedetti accanto a lui con le braccia strette al
petto.
Lui appoggiò i gomiti sulle ginocchia e mi lanciò
un’occhiata veloce. «Allora… da dove vuoi
cominciare?»
«Oh… Beh, non lo so. In effetti, non so cosa
chiederti.» Ammisi.
Si voltò verso di me, gli occhi che tradivano la sua sorpresa.
«No?»
Mi strinsi nelle spalle scuotendo la testa. «No.»
«Forse dovremmo cominciare da qualcosa di più
semplice.» Propose.
Aggrottai la fronte. «Che intendi?»
«Fino ad ora abbiamo parlato solo di soprannaturale e simili,
magari se adesso passiamo alle cose più… comuni
sarà più semplice per tutti e due.» La sua voce era
calma come se avesse avuto di nuovo a che fare con un animale
spaventato.
«Vuoi dire una conversazione normale?» Non riuscii a
trattenere un sorriso: nel mio dizionario, “normale” era
l’obbiettivo di una vita, tutto quello per cui lottavo giorno
dopo giorno. Avere una vita normale, degli amici normali, un lavoro
normale, un ragazzo normale. Senza che la licantropia interferisse.
«Sì, esatto.» Confermò mentre un angolo della
sua bocca si sollevava appena in un accenno di sorriso.
«Mmh… Mi sembra fattibile.» Restava comunque il
fatto che non avevo la minima idea di cosa chiedergli.
«Uhm… Quanti anni hai?»
“Che domanda idiota”, pensai subito dopo aver parlato.
«Diciassette.» Rispose tranquillamente. «Tu?»
«Diciassette anch’io. Poi… colore preferito?»
“Lo sto facendo sul serio?”, mi chiesi quasi faticando a
credere di avergli proposto quella... cosa, perché non me la sentivo di chiamarla conversazione.
Il suo sguardo tradì una certa sorpresa e vidi le sue labbra
arricciarsi appena nel tentativo di trattenere un sorriso. «Blu,
credo.»
«Davvero? Ma è banale.» Esclamai senza riuscire a
fermarmi prima.
Distolse lo sguardo e sorrise. «E il tuo? Sono curioso di sapere
quali colori non sono “banali”.» E tornò a
guardarmi con quei suoi occhi color tempesta.
«Porpora.» Risposi subito ricambiando l’occhiata.
«Porpora.» Ripeté come se stesse assaporando la
parola. «In effetti non è banale.»
«Te l’ho detto.» Per un qualche strano motivo mi
sentii compiaciuta. «Hai fratelli o sorelle?»
«Un fratello maggiore. Tu?» Rispose osservandomi.
«Sono figlia unica.» Replicai. «Allora… Che
vuoi fare dopo il liceo?»
«Ancora non lo so. Mi piacerebbe studiare letteratura o magari
lingue…» Spostò lo sguardo sul bosco di fronte a
noi. «Tu invece?»
«Non ne ho la più pallida idea.» Ammisi mettendo i
gomiti sulle ginocchia e appoggiando il mento sulle mani. «Non so
neanche se voglio andare al college oppure lavorare… Vorrei
viaggiare, a dirla tutta, ma mi mancano… uh, le risorse
economiche per farlo.»
Mi sorprese parecchio la facilità con cui gli parlavo e gli
confessavo sogni e speranze e particolari di me. E lui sembrava
ricambiare, come se non fosse nulla di strano. In effetti, non lo era.
O meglio, avrebbe dovuto esserlo visto che mi ero ripromessa di stargli
lontano. Ma soprattutto avrebbe dovuto esserlo visto che era stata la
mia licantropia a condurci a quella strana conversazione.
«E dove vorresti andare?» I suoi occhi blu mi studiavano
incuriositi.
«Oh… Ehm, in Inghilterra di sicuro, poi Italia, Argentina,
Spagna, Cina, India…» Spiegai.
«Sarebbe parecchio bello in effetti.» Commentò
tornando a guardare l’intreccio degli alberi.
Mi strinsi le braccia al petto. «Già. Però non
credo ci riuscirò mai. Comunque… libro preferito?»
«1984 di George Orwell.» Ribatté prima di fare un respiro profondo. «Il tuo?»
«Non prendermi in giro, ma… Le Cronache di Narnia.»
Gli lanciai un’occhiata veloce per valutare la sua reazione.
Un sorriso leggero gli increspò le labbra. «Perché
dovrei prenderti in giro? Lewis era un grande scrittore.»
«Sì, certo, è solo che… Non so, alcuni lo
considerano un libro da bambini.» Spiegai.
«Non dovrebbero. E comunque è piaciuto anche a me.»
Replicò.
Mi mordicchiai il labbro e distolsi lo sguardo. Era diverso da come
l’avevo immaginato, era… più aperto e anche
più amichevole. Ed interessante. Parlargli risultava facile e
quasi piacevole.
«Posso farti una domanda io?» Chiese, di nuovo con quel
tono calmo.
Annuii subito, senza neanche pensarci. «Sì.»
I suoi occhi color tempesta erano su di me, attenti e anche un
po’ incuriositi. «Come fai a non crollare mai? Voglio dire,
come riesci a reggere la pressione del nascondere il tuo
segreto?»
Trassi un respiro profondo e mi infilai una ciocca di capelli dietro
l’orecchio. «Ecco, non è facile. Per niente. Ma non
ho scelta. L’unica cosa è che, visto che mia madre viaggia
spesso, riesco a tenerle nascosto il mio essere lupo.»
«Vorrei aiutarti… In qualche modo.» Mormorò
così piano che credetti di essermelo immaginato.
Trattenni il fiato: stavamo andando troppo oltre. Decisamente troppo
oltre. «No… Nel senso, non serve. Te l’ho già
detto: io non ti conosco, tu non conosci me e finisce qui.»
«In realtà adesso un po’ ci
conosciamo…» Sussurrò fissando con aria pensierosa
il terreno.
Scossi la testa. «Non abbastanza. Non voglio coinvolgerti in
questo casino perché mi complicherei solamente la vita. E anche
la tua diventerebbe più ingarbugliata.»
Lui si voltò verso di me e mi guardò negli occhi.
«Scarlett…»
«Sul serio Adam, è meglio finirla qui. Non voglio
coinvolgerti. E non lo faccio perché voglio in qualche modo
proteggerti, o meglio non solo, ma anche perché lasciarti
entrare nella mia vita è una pessima idea.» Insistetti.
Strinse le labbra abbassando lo sguardo. «Ne sei sicura? È
vero che non so quasi nulla sulla licantropia, ma potrei aiutarti in
qualche modo.»
«No, decisamente no. Non ci conosciamo, non so praticamente nulla
di te a parte qualche scemenza e non so se posso fidarmi.»
Dichiarai indurendo la voce. «Ti sarò eternamente grata
per non aver rivelato il mio segreto e se continuerai a farlo, ma di
più non posso darti. Proprio no.»
Mi morsi la lingua per evitare di aggiungere uno “scusa”:
non dovevo scusarmi proprio di nulla. Anzi, se comportarmi da ingrata
l’avesse allontanato, allora sarei stata il più sgradevole
possibile.
Si passò una mano tra i capelli sospirando. «Non hai
nessun motivo per fidarti di me, è vero, però non puoi
pretendere che ora io smetta di pensare a te.» Si bloccò
trattenendo il fiato come se avesse appena realizzato qualcosa di
sconvolgente. «Volevo dire, non puoi pretendere che io smetta di
pensare a quello che mi hai detto.» Si corresse in fretta.
«Infatti non avrei dovuto dirti nulla. È solo che ho
pensato che ti sarebbe bastato, che dopo non avresti voluto sapere
più nulla. Ovviamente mi sbagliavo, e lo sapevo anche, ma ormai
il danno è fatto.» Dovevo mantenere la mia posizione a
qualunque costo, non potevo permettermi di cedere.
«Quindi secondo te adesso dovrei semplicemente dimenticare? Fare
finta di nulla?» Nella sua voce colsi una nota di tensione.
«Sarebbe la cosa migliore da fare, sì.» Convenni
annuendo piano.
Vidi che stava per ribattere così aggiunsi: «Lo so che
è difficile farlo, praticamente impossibile, ma è
l’unica soluzione.»
Aggrottò la fronte stringendo le labbra. «Probabilmente
speravi in qualcun altro, mmh?»
Lo guardai, confusa. «Cosa?»
«Speravi che fosse un altro, o un’altra, la persona che ti
avrebbe aiutata, che ti avrebbe dato una speranza.» Aveva
abbassato il tono rendendolo poco più di un sussurro.
«In realtà non ho mai sperato in nessuno… Mi sono
sempre detta che dovevo fare da sola senza contare sugli altri per
evitare di metterli in pericolo, quindi non ho mai creduto che qualcuno
mi avrebbe aiutata.» Ammisi ritrovandomi a parlare lentamente
come aveva fatto lui più di una volta.
«Forse è il momento di cambiare le cose.» Disse, lo
sguardo di nuovo puntato sulla foresta davanti a noi.
Alzai gli occhi al cielo. «Perché insisti tanto? Cosa ci
guadagni ad aiutarmi? Ti complicherebbe solo la vita.»
«Perché non posso rimanerti indifferente dopo quello che
mi hai detto.» Rispose.
Mi morsi il labbro inferiore. Non potevo fare a meno di sentirmi un
po’ innervosita dalle sue continue insistenze. Anche
perché non sapevo come gestirle: che dovevo dirgli per farlo
demordere? Non mi andava di minacciarlo, in fondo mi aveva aiutata non
rivelando il mio segreto, ma rischiavo seriamente di cedere se
continuava così.
«Stai uscendo con Elisabeth e non voglio che lei sia coinvolta,
okay? Se ti dessi la possibilità di aiutarmi prima o poi
finirebbe nel mezzo anche lei e questa è un cosa che non deve
assolutamente succedere.» Spiegai e fui piuttosto sincera: Beth
non era il motivo principale per cui non lo volevo nella mia vita, ma
di sicuro anche lei giocava un ruolo importante nel mio rifiuto.
Si irrigidì appena al nome di Beth e nei suoi occhi blu
passò un’ombra. «Uh… Sì,
Elisabeth…»
Inarcai un sopracciglio, sospettosa. «Uscite insieme, no?»
«Beh, sì. Cioè, non proprio.» Trasse un
respiro profondo evitando di proposito di guardarmi in faccia.
«È complicato.»
«E cosa ci sarebbe di complicato?» Chiesi riuscendo ad incrociare il suo sguardo.
«Ecco… Lei è…» Cominciò in tono
esitante.
«Ascoltami bene, non pensare neanche di far soffrire Elisabeth. Se lo farai, sarò io a far soffrire te,
chiaro?» Ringhiai.
Resse il mio sguardo senza mostrarsi intimidito. O meglio, non quanto
avrebbe dovuto. Poi sorrise e distolse lo sguardo, gesto che mi
spiazzò completamente: che diavolo stava succedendo in quella
sua mente così vivace e complessa? Sarei impazzita cercando di
stargli dietro, poco ma sicuro.
«Non ho intenzione di farla star male, credimi. Solo… beh,
non la conosco ancora e non voglio affrettare le cose, né
forzarle.» Replicò senza perdere quel dannato sorriso. «Non so ancora se mi piace sul serio.»
«E allora perché le hai chiesto di uscire?» Mi stavo
avvicinando pericolosamente al limite dell’esasperazione, lo
sapevo e lo sentivo. Eppure continuavo a dargli corda, sia
perché volevo proteggere Beth, sia perché quella strana
luce nei suoi occhi mi spingeva a continuare quello scambio di
provocazioni.
«Come facevo a sapere se mi sarebbe piaciuta o no prima di
conoscerla almeno un po’?» Mi fece notare in tono ovvio.
«Uhm… Ti ricordo che siamo abbastanza vicini perché
io possa capire se menti.» Ribattei osservandolo con aria
critica.
«Okay, allora dimmi se mento adesso.» Il sorriso provocante
di poco prima era sparito, al suo posto c’era
un’espressione intensa tanto quanto il suo sguardo. «Voglio
capirti di più Scarlett. Fino a dove non lo so neanche io, ma so
per certo che non sarà facile farmi demordere.»
Mi ritrovai a trattenere il fiato, gli occhi incatenati ai suoi.
“Ti stai cacciando in un guai enorme, persino più grosso
di quando hai deciso di parlargli”, commentò una vocina
nella mia mente. Era vero, terribilmente vero. Non opponevo molta
resistenza ai suoi tentativi di farmi cambiare idea, ma, in fondo, era
quella la mia linea di difesa: allontanarlo, per il suo e per il mio
bene. E allora perché era così difficile?
Non solo a livello pratico, ma anche sentimentale. Sapevo che era per
il mio e per il suo bene, però non riuscivo a tradurre queste
convinzioni in pratica. Era lì che mi bloccavo, al momento in
cui avrei dovuto dimostrarmi coerente e fare ciò che dicevo.
Però non sembravo esserne capace, perché?
Forse perché è il momento di cambiare le cose.
SPAZIO AUTRICE: Ehi, eccomi di nuovo :3
Avrei voluto aggiornare domani, ma mi sono resa conto che non avrei
avuto tempo di farlo per via degli impegni con la scuola, quindi eccovi
l'undicesimo capitolo *-*
Il confronto tra Adam e Scarlett iniziato nel capitolo scorso continua,
prima mantenendosi su temi più "normali" per poi finire,
inevitabilmente direi, per toccare il famoso tasto dolente: Adam
è affascinato da Scarlett e dal lupo che si nasconde dentro di
lei, Scarlett vorrebbe allontanarlo, sia per se stessa che per evitare
di ferire Beth, eppure si trova ed essere indecisa a riguardo.
Sono anni che si porta dietro il segreto della licantropia con tutte le
bugie e le verità taciute che questo comporta, adesso che ne ha
parlato con qualcuno si sente alleggerita da questo fardello, anche se
è Adam che le offre questo sollievo, anche se non era
programmato.
Nel prossimo capitolo sia Beth che Selena giocheranno un ruolo
piuttosto importante nell'avicinamento di Adam e Scarlett. O nel loro
allontanamento, chi lo sa.
Spero che la storia continui a piacervi e grazie per l'entusiasmo con cui la seguite *-*
A presto,
TimeFlies
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Capitolo 12 *** 12. Adam ***
Under a Paper Moon- capitolo 12
12. Adam
Avrei voluto farle altre domande, farmi dire qualcosa in più,
anche insistere perché si lasciasse aiutare. E invece costa
stavo facendo? La stavo accompagnando a casa. Dopo averglielo proposto
io stesso. Probabilmente c’era una qualche mancanza di
comunicazione tra la bocca e la mente.
Oppure speravo di spingerla a cercarmi per continuare a parlare.
Come se fosse stata una buon'idea... Non le piacevo neanche, quindi
perché mai avrebbe dovuto tentare di continuare quella dannata
conversazione? Non ne aveva motivo, ero io che continuavo ad illudermi
del contrario.
Scarlett era seduta sul sedile del passeggero accanto a me, le labbra strette in
una linea sottile, la fronte aggrottata, l’espressione
pensierosa.
«Pike Street, giusto?» Chiesi.
In realtà il suo indirizzo lo conoscevo benissimo, avevo
imparato a memoria via e numero civico senza averlo neanche voluto.
Speravo solo di sciogliere la tensione che si era creata tra noi dopo
la mia ultima frase ad effetto. Piuttosto malriuscita a dirla tutta.
Annuì senza perdere quell’aria corrucciata che non
l’aveva abbandonata da quando eravamo saliti in auto. Sospirai
mordendomi il labbro: forse mi ero spinto troppo oltre, forse avevo
detto qualcosa di così sbagliato da spingerla a tagliare ogni
tipo di rapporto con me. Non che prima ne avessimo avuti molti…
Fermai l’auto davanti a casa sua e mi voltai verso di lei: da
quando eravamo partiti non aveva alzato lo sguardo neanche per un
attimo, non aveva detto una parola. Era rimasta zitta ed accigliata per
tutto il tempo.
Trasse un respiro profondo e mise una mano sulla maniglia dello
sportello. Senza pensare a quello che facevo, le afferrai un braccio.
Si girò verso di me e mi studiò con quei suoi occhi
così ardenti.
«Che c’è?» Domandò con voce incolore,
quasi stanca.
«Sei sicura di non volere nessun aiuto? Non pretendo di diventare
parte integrante della tua vita, voglio solo darti una mano ogni
tanto.» Replicai.
«Per prima cosa non capisco questa tua determinazione nel voler
diventare il mio angelo custode. Per seconda cosa, invece, la mia
risposta è e sarà sempre no.» Dichiarò
alzando il mento con aria di sfida. «E sia chiaro, non lo faccio
perché voglio proteggerti, ma perché non voglio
coinvolgere Beth nella mia licantropia.»
Annuii appena. «Lo so… Credimi, me ne rendo conto,
però non posso far finta di nulla. Insomma, tu al mio posto lo
faresti?»
«Se io fossi al tuo posto non mi metterei a discutere con un
licantropo: può essere molto pericoloso.» Borbottò
lei scoccandomi un’occhiataccia.
«A parte questo, se toccasse a te dimenticare quello che ci siamo
detti, riusciresti a farlo?» Una parte di me temeva la sua
risposta, ma, nello stesso tempo, volevo sentire cosa aveva da dire.
Qualunque cosa fosse.
«Guarda che anch’io
cercherò di dimenticare questo casino, sai? Continuare a
ripensarci non fa che complicare le cose a tutti e due.» La sua
voce era diventata quasi dolce. «Dovresti provare a lasciarti
alle spalle tutto quello che ci siamo detti. So che non riuscirai a
farlo visto che volevi quelle risposte, ma dovresti almeno fare un
tentativo.» Mi prese il polso e sfilò il braccio dalla mia
presa senza incontrare nessuna resistenza. «Lo dico per te Adam,
insistere non ti porterà a nulla.»
Prima che potessi avere modo di reagire, scese dall’auto
chiudendosi lo sportello alle spalle. Camminò fino alla porta di
casa sua senza mai voltarsi, decisa e determinata, le spalle dritte, la
testa alta.
Sospirai appoggiando la schiena al sedile: stavo continuando ad
impuntarmi su una cosa che non aveva il minimo senso e non riuscivo a
trovare una ragione per smettere di farlo. Che mi stava succedendo? Mi
rifiutavo anche solo di prendere in considerazione l’idea di
essere innamorato di lei, perché era impossibile che fosse
quello, non ci si innamora così in fretta, ma qualcosa ci doveva
essere. Restava da capire cosa mi rendeva così testardo quando
si trattava di Scarlett. Testardo e irrazionale.
Mi imposi di andare a letto un po’ prima di quanto avevo fatto in
quei giorni per evitare di addormentarmi in classe, possibilità
che, da un po' di tempo a quella parte, era diventata più che
probabile visto che avevo dormito sì e no tre, quattro ore a
notte.
L’atto fisico di mettermi a letto, però, non implicava che
mi addormentassi, anzi: ero piuttosto sicuro che avrei passato buona
parte della notte a guardare il soffitto pensando a Scarlett. E questo
non andava bene. Come aveva detto lei, non faceva bene a nessuno
continuare a rimuginarci su. Lo sapevo benissimo, me l'ero ripetuto
centinaia di volte, eppure ogni volta ci ricadevo.
Cora, acciambellata al fianco del letto, mugolava di tanto in tanto
come a chiedere il permesso per salire sul materasso. Sembrava che il
rimprovero di mia madre di quella mattina non l’avesse neanche
sfiorata. Un po’ mi dispiaceva lasciarla lì sul pavimento,
ma Annabeth era stata categorica: se avesse trovato un solo pelo di
cane sulle lenzuola l’avrebbe rispedita al canile. A quel punto
era meglio se dormiva per terra piuttosto che finire in una gabbia di
cemento.
All’ennesimo guaito, allungai un braccio verso di lei e la
grattai tra le orecchie. In risposta sentii dei tonfi leggeri, segno
che stava scodinzolando. In fondo, era un cane dalle poche pretese, le
bastava poco per essere felice.
Un ronzio insistente mi distrasse dai miei pensieri. Mi lasciai
sfuggire una smorfia quando mi resi conto che era il mio cellulare: non
avevo voglia di parlare con nessuno, tantomeno di fingermi interessato
a qualunque cosa avessero da dirmi.
Lo presi con un sospiro e me lo portai all’orecchio.
«Pronto?»
«Ehi Adam, sono Selena. Ho una novità per il mio
compleanno.» Annunciò la voce squillante di mia cugina.
«Ah sì? Cos’è?» Chiesi constatando che
era una piacevole distrazione parlare con lei.
«Praticamente voglio organizzare la festa come se fosse un ballo,
quindi, ecco, dovresti portare qualcuno con te.» Spiegò.
«Beh, io porto già Michael. Ricordi? Quel mio amico di cui
ti ho parlato qualche giorno fa…» Replicai aggrottando la
fronte.
«In realtà sarebbe più un “lui invita
lei”, ma se tu preferisci invitare un lui allora è
okay.» Ribatté lei dopo un attimo di titubanza.
«Vuoi dire che devo portare una ragazza quindi?» Domandai
pensando involontariamente a Scarlett.
«Beh, sì.» Confermò. «Ma, te l’ho
detto, se vuoi venire con Michael è okay, sono sicura che siete
carini insieme.»
Sospirai. «Io e Michael non stiamo insieme. Lui ha la
ragazza.»
«Oh… Vuoi dire che ti ha rifiutato?» Chiese lei in
tono esitante.
Mi passai una mano tra i capelli. «No, niente del genere Sel.
Anch’io ho una ragazza.» “Stai parlando di Elisabeth
o di Scarlett?”, mi stuzzicò una vocina nella mia mente.
«Davvero? Allora non vedo l’ora di conoscerla! E di' al tuo
amico che può portare la sua fidanzata senza problemi.»
Esclamò.
«Bene, perfetto. Glielo dirò domani.» Convenni.
«Okay. Allora ci vediamo alla festa.» Percepii il sorriso
nella sua voce.
Annuii quasi inconsciamente. «Sì, ci vediamo.»
Riattaccai con un sospiro e appoggiai il telefono sul comodino. Cora,
nel frattempo, si era tirata su a sedere e aveva poggiato il muso
sul bordo del letto. In quel momento mi stava guardando con espressione
implorante e speranzosa. Ricambiai l’occhiata sentendomi quasi in
colpa anche se non ne avevo motivo.
Alla fine mi arresi e le feci cenno di salire sul letto con me.
Capì al volo e balzò sul materasso scodinzolando
soddisfatta. Si acciambellò ai piedi del letto con uno sbuffo
leggero. Le feci un'ultima carezza prima di spegnere la luce e
prepararmi ad una notte di ripensamenti e riflessioni.
«Sul serio tua cugina pensava che noi due stessimo
insieme?» Mi domandò Michael per la terza volta.
Alzai gli occhi al cielo, esasperato. «Sì, te l’ho
già detto. Comunque le ho spiegato che abbiamo entrambi una
ragazza.»
Lui però era già perso nelle sue fantasie. «Secondo
te saremmo una bella coppia? Perché io penso di sì.
Cioè, potrebbe funzionare.»
«Uh… Non saprei. Insomma, non ho mai pensato che potesse
esserci qualcosa del genere tra noi.» Ammisi aggrottando la
fronte.
Sollevò lo sguardo su di me con espressione fintamente
innocente. «Mi trovi attraente Meyers?»
Arricciai le labbra in un sorriso ironico. «Ho visto di meglio.
Scusa.»
«Beh, anche tu non sei chissà quale meraviglia.» Commentò lui incrociando le braccia al petto e appoggiando la schiena alla sedia. «Le uniche cose che ti salvano sono gli occhi azzurri e l’aria da bravo ragazzo.»
Eravamo in biblioteca visto che uno dei nostri professori mancava e
quindi avremmo iniziato le lezioni un’ora dopo rispetto al
solito. Il piano iniziale era quello di ripassare e magari iniziare a
mettere insieme qualche idea per il progetto di fisica, ma eravamo
finiti a parlare di tutt’altro nel giro di qualche minuto.
Scossi la testa sorridendo. «Sei solo invidioso.»
«Sì, come no. Sogna pure amico.» Commentò lui
riprendendo la penna ed abbassando lo sguardo sul libro di fisica.
«Comunque, sapresti dirmi che è questo? Arabo? O magari
una qualche specie di codice segreto che usate voi geni per
comunicare?» Domandò guardando con aria perplessa le
formule che dovevamo imparare a memoria.
«Sono solo simboli Michael, okay? Si usano per indicare i vari
elementi che compongono le formule, non è così
difficile.» Replicai trattenendo a stento un sorriso.
Mi scoccò un’occhiataccia. «No, certo, sono
semplicissimi. Soprattutto quando ne devi imparare un centinaio tutto
insieme.»
«Se avessi cominciato a studiare prima adesso li sapresti
bene.» Gli feci notare.
Mi fece una smorfia prima di mettersi a copiare i vari simboli con il
loro significato sul quaderno. In quel momento sentii dei passi e delle
voci che si avvicinavano. Sollevai lo sguardo e vidi Elisabeth entrare
in biblioteca insieme a Scarlett.
Strinsi le labbra vedendola: la conversazione che avevamo avuto il
giorno prima mi turbava ancora e rivederla non era poi così
piacevole come avevo pensato. Avevo ancora delle domande da farle,
c'erano dei conti in sospeso tra noi e volevo ancora convincerla a
lasciarsi aiutare, solo che il suo comportamento enigmatico e i suoi
continui cambi d’umore non la rendevano facile da avvicinare.
«Torno subito.» Borbottai distrattamente prima di alzarmi.
«Eh?» Chiese Michael sollevando la testa dal libro. Ma
ormai mi ero già allontanato.
Raggiunsi Elisabeth che mi sorrise mentre si sistemava i capelli con
aria quasi maliziosa. Vidi Scarlett irrigidirsi e indurire lo sguardo,
ma quasi non ci feci caso: dovevo smetterla di farmi influenzare da
lei.
Sorrisi. «Ehi.»
Elisabeth inclinò la testa di lato, gli occhi scuri accesi di
interesse. Il piercing che aveva al sopracciglio intercettò le
luci della biblioteca mandando un bagliore. «Ehi.»
«Ho bisogno di parlarti.» Mormorai ricambiando
l’occhiata.
«Sì? D'accordo, ho un momento libero.» Si
voltò verso Scarlett. «Dammi cinque minuti, okay?»
Lei esitò alternando lo sguardo tra me e la sua amica. «Uhm… Okay.»
C’era qualcosa che la infastidiva, si capiva dal suo tono, ma non
sapevo se ero io o il modo in cui Elisabeth mi sorrideva di continuo.
«Perfetto.» Esclamò Elisabeth prendendomi per mano e
trascinandomi lontano dalla sua amica. Non credevo fosse abbastanza
perché lei non ci sentisse, ma non era una grande idea dire alla
sua migliore amica che Scarlett aveva l’udito di un lupo.
«Allora che devi dirmi?» Domandò Elisabeth
guardandomi con aria incuriosita.
«Mia cugina compie diciotto anni il prossimo sabato e da’
una festa in casa sua. Volevo sapere se ti andava di venire con
me.» Risposi sentendo le occhiate di fuoco di Scarlett sulla
schiena.
I suoi occhi si illuminarono. «Sul serio? Oddio! Sì, certo
che vengo.»
Prima che potessi rispondere, mi gettò le braccia al collo.
“Certo che è affettuosa…”, pensai
ricambiando, più o meno, l’abbraccio.
«Non vedo l’ora di andare!» Esclamò contro il
mio collo.
Sorrisi anche se non poteva vedermi: in fondo Elisabeth era una
splendida ragazza con cui stavo abbastanza bene, nonostante alcuni
aspetti del suo carattere non mi andassero proprio a genio, quindi
perché complicarmi la vita andando dietro ad un licantropo
indisposto?
Mi scostai appena da lei senza sciogliere completamente
l’abbraccio. «Mi fa piacere sapere che ti va di
venire.»
Si mordicchiò il labbro, di nuovo con aria maliziosa, prima di
baciarmi. Di lei si poteva dire tutto, tranne che non sapesse come
prendere un ragazzo, devo ammetterlo. Le sue labbra erano un po’
appiccicose, probabilmente per via del rossetto che si era messa: rosso
scuro, non molto diverso dal loro colore naturale.
Si scostò da me e lanciò un’occhiata a qualcosa
dietro di me. «Forse è meglio se vado…»
Capii subito che si riferiva a Scarlett: ero abbastanza certo che ci
stesse fulminando con lo sguardo in quel momento. O meglio, stava
fulminando me.
«Anzi, ti presento Scarlett prima.» Saltò su
Elisabeth con un sorriso entusiasta sulle labbra.
«Cosa?» Sbottai guardandola con gli occhi spalancati.
«Andiamo, non fare il timido. Scarlett ti piacerà,
è una a posto.» Insistette lei mettendo su
un’espressione implorante.
Sul fatto che Scarlett fosse a posto avevo un bel po’ da ridire,
ma mi morsi la lingua e annuii. «Okay. Sì, perché
no.»
«Bene!» Esclamò lei tutta contenta.
Sciolse definitivamente l’abbraccio, mi prese per un polso e mi
riportò davanti a Scarlett. Per un attimo incrociai lo
sguardo di Michael: sembrava divertito da quella sottospecie di
commedia. Gli scoccai un’occhiataccia che non ebbe nessun effetto
sul suo ghigno.
«Scarlett, lui è Adam, il mio ragazzo.»
Esordì Elisabeth quando ci ritrovammo di fronte alla sua
piuttosto irritata amica. «Adam, lei è Scarlett, la mia
migliore amica.»
Le labbra di Scarlett si arricciarono appena in quello che voleva
essere un sorriso. «Piacere di conoscerti.» Ma si vedeva
che pensava tutto il contrario. Probabilmente, se avesse potuto,
avrebbe messo in atto una delle tante minacce che mi aveva
promesso.
Senza pensare a quello che facevo, le tesi la mano. «Il piacere
è mio.»
Per un attimo la sua espressione si fece sorpresa, per poi tornare
dura. Mi strinse la mano guardandomi negli occhi con il mento alzato in
segno di sfida.
Di colpo mi tornarono in mente le parole che mi aveva detto riguardo ad Elisabeth: Ascoltami bene, non pensare neanche di far soffrire Elisabeth. Se lo farai, sarò io a far soffrire te, chiaro?
Le voleva bene, molto bene, e qualcosa nel suo sguardo mi diceva che
tutta quell’improvvisa insofferenza nei miei confronti era dovuta
anche al fatto che fosse coinvolta Elisabeth.
Avrei voluto dirle che non avevo intenzione di fare del male a nessuna
delle due, ma mi trattenni: chi mi diceva che mi avrebbe creduto? E
poi, perché avrebbe dovuto farlo? Non ci conoscevamo abbastanza
da poterci fidare l’uno dell’altra.
Mi lasciò la mano senza staccarmi gli occhi di dosso.
«Elisabeth noi dovremmo studiare se non mi sbaglio.» La sua
voce era ferma ed incolore, sembrava quasi una mamma che rimprovera il
figlio.
«Oh, sì, giusto.» Elisabeth sembrò essere
stata strappata bruscamente dalle sue fantasie. Si voltò verso
di me con aria di scuse. «Ci vediamo domani?»
Sorrisi appena. «Certo.»
Ricambiò il sorriso con un entusiasmo che mi ricordava quello di
un bambino. «Perfetto.» Mi diede un bacio veloce, giusto un
secondo di labbra che si sfiorano. «A domani allora.»
Rimasi ad osservarla per un attimo mentre si allontanava insieme a
Scarlett, che non perse occasione per scoccarmi un’occhiataccia.
Tornai da Michael, sempre con un sorriso inconsapevole sulle labbra.
Lui mi guardava con un sopracciglio sollevato con aria lievemente
divertita.
«Cavolo Meyers… È una cosa seria, mmh?» Domandò visibilmente colpito.
«Con Elisabeth? Uh, non quanto credi tu. Non nego che mi piaccia,
ma non so fino a che punto.» Risposi sedendomi accanto a lui.
«Sicuro? Perché a me sembra di sì. Voglio dire,
quello non era un bacio di quelli che ci si danno così, giusto
per. Insomma, era un bacio con la lingua.»
Sottolineò socchiudendo gli occhi.
«E quindi?» Chiesi ritrovandomi sulla difensiva.
«Beh, non è una cosa da niente. Certo, adesso puoi dirmi
che uscite da troppo poco e simili, ma è lampante che lei
è molto coinvolta.» Replicò.
“Forse troppo coinvolta…”, commentò una
vocina nella mia mente. «Elisabeth sa quello che fa.»
«D’accordo.» Convenne in tono accondiscendente. «Ma tu
sai quello che stai facendo?»
Esitai, interdetto: aveva ragione, io non ero sicuro di quello che
stavo facendo, per niente. Non avevo riflettuto un attimo prima di
chiedere ad Elisabeth di venire con me alla festa di Selena, mi ero
alzato e l’avevo invitata, punto. Neanche me ne ero reso conto
fino in fondo. Era successa la stessa cosa quando avevamo cominciato ad
uscire insieme, da un giorno all'altro era passata dall'essere una
perfetta sconosciuta all'essere la mia ragazza. Tutto per via di
Scarlett e quella strana, e forse insana, attrazione che una parte di
me provava per lei.
Sospirai passandomi una mano tra i capelli. «Più o
meno.»
«Uhm… Senti, non voglio fare il guastafeste, ma cerca di
non farti male, okay? Se vedi che le cose non vanno non forzare la
mano, non ne vale la pena.» Commentò lui.
Annuii fissando il tavolo davanti a me. «Sì… Lo so,
lo so. Grazie per avermelo ricordato, comunque.»
Mi diede una pacca amichevole sulla spalla. «Figurati, in fondo,
se non ci aiutiamo a vicenda come possiamo sopravvivere?»
Sollevai un sopracciglio e lo guardai sentendo un sorriso spuntarmi
sulle labbra. «Beh, in effetti…»
«A proposito di aiuto.» Aggiunse prendendo il libro di
fisica e mettendomelo davanti. «Non è che potresti
spiegarmi questa… uhm, questa formula? Perché per me non
ha assolutamente senso…»
Alzai gli occhi al cielo sospirando. «Quando si dice aiuto
disinteressato, eh?»
Lui ghignò, divertito. «Se non sfrutto io la tua mente geniale chi può farlo?»
“Tanto geniale non è visto che non ho la più
pallida idea di come muovermi con Scarlett”, pensai con una punta
di amarezza.
Sussultai quando il mio telefono cominciò a squillare. Non
ricordavo che il volume della suoneria fosse così alto. Mi
raddrizzai abbassando gli occhi sugli appunti di filosofia su cui mi
ero quasi addormentato e feci scorrere lo sguardo sulla scrivania
cercando il cellulare: a quanto pareva era nascosto sotto fogli,
quaderni e libri. E non avevo idea di come ci fosse finito.
Sapevo di aver combinato un casino mischiando tutti i filosofi, ma la
verifica mi stava mettendo più ansia del previsto. Mancavano
ancora due giorni, però mi ero ripromesso di avvantaggiarmi
almeno un po’ quindi avevo cominciato a studiare in anticipo in
modo da potermi organizzare meglio anche per le altre materie.
Cora mugolò infastidita da quell’improvviso risveglio: si
era appisolata con la testa sulle mie gambe e il corpo su una sedia. Le
piaceva dormire su tutto tranne che nella sua cuccia o su un tappeto
come sarebbe stato normale. Le accarezzai tra le orecchie
sovrappensiero mentre continuavo a cercare il telefono ancora mezzo
addormentato. Spostai qualche foglio chiedendomi distrattamente che ore
fossero: le due? O magari ero fortunato ed era solo mezzanotte?
Riuscii a trovare il cellulare sotto un libro che neanche non ricordavo
di aver usato. Lo presi e me lo portai all’orecchio senza
controllare di chi fosse il numero.
Mi passai una mano tra i capelli. «Pronto?»
«Adam, ciao!» Esordì una voce femminile decisamente
familiare.
«Elisabeth… Ciao.» Mormorai mentre Cora sfregava il
muso contro la mia mano per ricevere qualche carezza.
«Scusa se ti chiamo a quest’ora, davvero, ma il mio
cellulare è… uhm, morto, e quindi ho dovuto aspettare che
mia mamma si addormentasse per prendere il suo…»
Spiegò. La sua voce suonava ovattata, quasi nasale e anche un
po’ stanca.
«Non preoccuparti, è okay.» Sospirai accarezzando la schiena di Cora.
«Che devi dirmi?» «Ecco… Sabato
c’è la festa di tua cugina, giusto?» Il suo tono si
era fatto esitante.
«Sì, dobbiamo andarci insieme. Perché?»
Chiesi.
«Non sai quanto mi dispiace, ma… non potrò
esserci.» Uno starnuto la interruppe. «Vedi, credo di
essermi presa una brutta influenza.» Avrei dovuto sentirmi
dispiaciuto, sia per Elisabeth sia perché non sarei potuto
andare al compleanno di Selena -andarci da solo era fuori questione-,
ma l’unica cosa che provavo in quel momento era una specie di
sollievo. Soprattutto perché non sopportavo le feste piene di
alcolici, gente mezza stralunata e pessima musica.
«Mi dispiace. Sul serio, spero che ti senta meglio presto.»
Replicai sentendomi quasi in colpa visto che ero felice che la mia
ragazza fosse malata.
«È a me che dispiace. Voglio dire, è il compleanno
di tua cugina…» Mormorò lei. «Dovevamo
andarci io e te e invece mi sono presa l’influenza. Mi dispiace
un sacco. Davvero.» Sembrava sul punto di mettersi a piangere.
«Ehi, non è colpa tua. Sta tranquilla. Selena
capirà, e l’importante è che tu guarisca,
mmh?» La rassicurai.
Trasse un respiro profondo. «Okay. Ma comunque ti ho trovato
un’alternativa, diciamo così.»
Aggrottai la fronte. «Una cosa?»
«Puoi andare con Scarlett.» Esclamò lei ritrovando
parte della sua solita allegria nonostante la voce resa roca dalla
tosse.
«Scarlett?» Ripetei incredulo. «Vuoi dire che…
Cioè… Perché lei?»
«Beh, se devo essere sincera non mi va tanto a genio l’idea
di te da solo ad una festa piena di ragazze, quindi lei
potrà… ecco…» Cominciò lei.
“Potrà tenermi d’occhio per conto tuo? Grazie per la
fiducia”, pensai lasciandomi sfuggire una smorfia: la prospettiva
di passare una serata intera con un licantropo indisposto e lunatico
non mi attirava per niente, non ora che avevo finalmente deciso di
smetterla di cercare di parlarle, di farle dire qualcosa in più.
Sembrava che lo facesse apposta: ogni volta che mi decidevo a tagliare
i ponti con lei rispuntava fuori per un motivo o per l’altro.
«A lei lo dirò domani. Lo so che la festa è tra due
giorni… Uno, visto che è già mezzanotte passata,
ma prima volevo sentire te. Cioè, se non vuoi andare non
c’è nessun problema, è solo che… Sì,
insomma, è il compleanno di tua cugina quindi in un certo senso
ci devi andare, no?» Aggiunse Elisabeth.
“Devo davvero?”, mi chiesi. E la risposta era sì,
dovevo andare alla festa di compleanno di mia cugina. Con Scarlett.
SPAZIO AUTRICE: Ehilà :3
Sinceramente, non sono molto soddisfatta di questo capitolo, mi sembra
che gli avvenimenti si susseguano troppo velocemente, ma non volevo
annoiarvi soffermandomi troppo su ciascun evento, se così
possiamo chiamarli.
Verso la fine del capitolo troviamo una notizia decisamente
inaspettata per il nostro Adam, una notizia che probabilmente avrebbe preferito non ricevere. O forse sì.
Si sente in dovere di andare alla
festa, ma nello stesso tempo preferirebbe fare ben altro. In più
è anche molto confuso per quanto riguarda la sua relazione con
Elisabeth: ha agito d'impulso mettendosi con lei, ma è stata la
cosa giusta? Non proprio, perché quella che doveva essere solo
un mezzo per arrivare a Scarlett adesso e la sua ragazza a tutti gli
effetti.
L'ho già detto altre volte, ma, visto che ormai è alle
porte, mi sembra giusto ripeterlo: il compleanno di Selena
porterà un bel po' di cambiamenti nella storia, sia per gli
Adamet, ovvero Scarlett ed Adam, ma anche per Michael. Possiamo dire
che non sarà una serata tranquilla per nessuno dei tre.
Detto questo, spero che il capitolo vi sia piaciuto.
TimeFlies
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Capitolo 13 *** 13. Scarlett ***
Under a Paper Moon- capitolo 13
13. Scarlett
«Uhm… Di
questo che ne dici?» Chiesi prendendo un vestito blu
dall’armadio di Beth. «Secondo me è carino. E poi il
blu ti dona.»
Lei starnutì e allungò una mano alla cieca per prendere
l’ennesimo fazzoletto. «Scarlett devo dirti una cosa
che…» Un altro starnuto le fece lasciare la frase a
metà. «...che devi fare per me.»
«Ti serve un favore quindi?» Domandai rimettendo
l’abito nel guardaroba e prendendone un altro nero.
Beth, sepolta sotto qualcosa come cinque coperte sul suo letto,
tirò su con il naso. «Sì… Tra due giorni
dovevo andare alla festa della cugina di Adam, ricordi?»
«Mm-mm.» Riappesi
il vestito nell’armadio e mi girai verso di lei: aveva raccolto i
suoi lunghi capelli scuri in una crocchia disordinata, non aveva un
filo di trucco sul viso e indossava una felpa larga e pesante. Aveva
l’aria stanca, la pelle pallida e le labbra arricciate in un
broncio appena accennato.
«Ecco… Come puoi ben vedere io non posso andarci. Non in
queste condizioni. Quindi… dovrai andarci tu.» Concluse
prima di soffiarsi il naso.
Spalancai gli occhi e sperai con tutta me stessa di aver capito male. «Cosa?!»
«Beh, vedi, è la cugina di Adam, lui deve andare. E visto
che è una festa in stile “lui invita lei” dovrebbe
avere una ragazza con sé. Io sono impossibilitata quindi speravo
che la mia migliore amica a cui voglio tanto, tanto bene potesse farmi
questo piccolo ed insignificante favore.» Disse tutto d’un
fiato come per paura che uno starnuto la fermasse prima che potesse
finire il discorso e, nello stesso tempo, provando a mettere su
l’espressione da cucciolo bastonato per far leva sui miei sensi
di colpa.
«Ma è il tuo ragazzo! E poi, che c’entro io alla
festa di sua cugina? Voglio dire, come dovrei presentarmi? Come la
sostituta della sua ragazza?» Sbottai.
«Non è questo l’importante.» Dichiarò
lei. «L’importante è tenere le altre ragazze lontane
da lui.»
«Non ti fidi di lui?» Domandai lasciandomi cadere sul bordo del letto.
«Sì, ma non so come si comporta con tanta gente in giro,
quindi ho bisogno di qualcuno che gli impedisca di fare
stupidaggini.» Spiegò.
«E non ti è venuto in mente nessun altro?» Chiesi sull’orlo dell’esasperazione.
«Non c’è nessuno di cui mi fido tanto quanto mi fido
di te Scarlett. E poi so che tu non ci proveresti mai con il mio
ragazzo.» Replicò prendendo un altro fazzoletto.
«Così come io non lo farei con il tuo.»
«Ma non ci ho mai parlato. Cioè, di cosa dovremmo
discutere per tutta la sera? Del tempo?» Insistetti.
«È una pessima idea Beth, non posso andare. Non con
lui.»
«Un argomento lo troverete. E poi non sarà per sempre,
okay? È questione di qualche ora.» Ribatté lei.
Mi presi la testa tra le mani. «Non posso crederci… Mi
stai mandando ad una festa con il tuo ragazzo, Beth. Apprezzo la tua
fiducia, sul serio, ma non me la sento proprio.»
«Scarlett, Adam è piuttosto bello, l’avrai notato
anche tu, quindi non posso mandarlo da solo, non con tante ragazze
intorno. È vero che per avere diciassette anni è
abbastanza maturo e responsabile, ma l’alcol gioca brutti
scherzi.» Replicò prima di tossire. «Ti prego
Scarlett, non voglio fargli perdere il compleanno di sua cugina. Mi
sentirei terribilmente in colpa, non riuscirei a stare con lui senza
pensarci. So che è un grosso favore, ma mi serve che tu lo
faccia. Ne ho bisogno. Io ci tengo a lui, tanto.»
Sollevai lo sguardo sulla mia migliore amica mentre un sospetto
cominciava a prendere forma nella mia mente. «Di solito non ti
comporti così con i ragazzi… C’è qualcosa in
più in lui, dico bene? Sei innamorata sul serio.»
Aveva gli occhi lucidi, ma non avrei saputo dire se erano dovuti alla
febbre o alle lacrime represse. «Sì. Credo proprio di
sì, Scarlett. Forse è presto per dirlo,
però…»
Trassi un respiro profondo. «Okay, okay. Senti, andrò a
quella maledetta festa con lui.»
Il suo sguardo si illuminò. «Davvero?»
«Sì, in fondo è questo che fanno le amiche, no? Si
aiutano a vicenda nei momenti di difficoltà.» Mormorai
scoraggiata.
«Oh, Scarlett!» Si liberò dall’intrico di
coperte e mi abbracciò. «Ti sarò debitrice a
vita!»
Ricambiai la stretta maledicendomi mentalmente per aver accettato di
passare un’intera serata con Adam. «Ehi, per te questo ed
altro.»
Si allontanò appena da me per potermi guardare negli occhi.
«Grazie. Sul serio, lo apprezzo tantissimo.»
Sorrisi debolmente. «Figurati.»
Lei sprizzava felicità da ogni poro e io mi sentii terribilmente
in colpa: mi stava mandando ad una festa con il suo ragazzo
perché si fidava di me. E perché non sapeva che io e lui
già ci conoscevamo, avevamo avuto già delle chiacchierate
non proprio piacevoli e qualcosa che assomigliava ad un litigio. Si
poteva quasi dire che lui mi conosceva meglio di lei, della ragazza che
consideravo la mia migliore amica.
Beth allungò un braccio verso il comodino accanto al letto e
prese un foglietto ed una penna. Scribacchiò velocemente
qualcosa sul pezzo di carta e me lo porse. «Ecco, questo è
il suo numero, così potete mettervi d’accordo per
sabato.»
Lo presi, seppur con riluttanza. «Bene. Perfetto.»
Fissavo il numero di Adam sullo schermo del mio cellulare da qualcosa
come dieci minuti. Dovevo chiamarlo per fissare quando sarebbe passato
a prendermi quel sabato solo che non riuscivo a trovare il coraggio di
farlo. Che dovevo dirgli? “Ehi, la tua ragazza mi ha chiesto di
tenerti d’occhio perché pensa che potresti finire a letto
con la prima che ti capita a tiro”: suonava terribilmente male. E
poi, se gliel’avessi detto davvero, avrebbe lasciato Elisabeth,
cosa che l’avrebbe distrutta. Dovevo inventarmi qualcosa, e
subito anche.
Trassi un respiro profondo e premetti il tasto verde prima di portarmi
il telefono all’orecchio maledicendomi mentalmente per aver
accettato. Rispose al terzo squillo.
«Pronto?» La sua voce tradiva una lieve nota di sospetto.
«Adam, sono Scarlett.» Dissi senza riuscire a nascondere
l'esitazione nella voce.
«Scarlett.» Mormorò. Ci fu un attimo di silenzio,
poi lui aggiunse: «Com’è che hai il mio
numero?»
«Me l’ha dato Elisabeth.» Spiegai un po’
sorpresa dalla sua domanda. «Sai, per sabato… Cioè,
non so se ti ha detto che non può venire e che ha delegato me
come sua…» “Spia personale?”
«…sostituta.»
«Oh, sì. Mi aveva accennato qualcosa. Mmh, come vogliamo
fare? Passo io a prenderti?» Chiese.
Mi mordicchiai il labbro. «Sì, okay. Verso che ora?»
«Le nove e mezzo? Ti va bene?» Propose.
«Sì, perfetto.» Concordai.
Calò il silenzio tra noi, una specie di pausa nervosa ed imbarazzata.
Sorprendentemente, fui io a romperlo: «Non sembri molto
entusiasta di andare a quella festa…»
Esitò per un attimo. «Nemmeno tu, se è per
questo.»
«Già…» Convenni. «In fondo, non ti
conosco quasi per niente.»
«Neanche io conosco te.» Aveva parlato a voce bassa, quasi sussurrando.
Ma vorresti farlo, vorresti conoscermi.
«Lo so, lo so… Se fosse stato per me non sarei mai venuta,
ma Beth ci teneva tanto…»
«Le vuoi parecchio bene allora. Insomma, non so sei io avrei
fatto una cosa del genere al posto tuo.» Ammise.
«Noi ragazze siamo molto leali tra noi.» Borbottai sdraiandomi sul letto.
«L’avevo notato, sì.» Commento lui.
«Resta comunque un favore molto grande.»
«A me non sembra. Voglio dire, è la mia migliore amica,
per lei farei di tutto. E so che è lo stesso per lei.»
Replicai.
«Quindi non ti scoccia tanto sapere che passeremo un’intera
serata insieme, mmh?» Chiese lui con una punta di ironia.
Sospirai. «Certo che mi scoccia. Sto cercando di allontanarmi da
te, ma sembra che una qualche entità superiore ce l’abbia
con me e voglia rendermelo impossibile.»
Rise piano. «Entità superiore? Cos’è, roba da
licantropi?»
«No! Solo… uhm, non sono atea, però non credo molto
in Dio e simili, quindi la risposta sono le entità superiori non
indentificate.» “Davvero stiamo discutendo di
questo?”, pensai coprendomi gli occhi con una mano.
«Okay, sì, può funzionare. Comunque, anch’io
stavo provando a lasciarti perdere, solo che continui a rispuntare
ovunque.» Ribatté.
«Come se fosse colpa mia.» Commentai. «È
Elisabeth che ha queste pessime idee.»
«Tu la assecondi però.» Mi fece notare.
Aggrottai la fronte. «Mi stai facendo la predica?»
«No, è solo che sembri disposta ad accontentarla in tutto.
Andiamo, è evidente che non ti piaccio, soprattutto per quello
che so e per quello che ti ho detto l’altro giorno, quindi non
credo che ti vada tanto a genio l’idea di venire con me a quella
stupida festa.» Spiegò con voce sorprendentemente calma.
«Ti comporti come se dovessi ripagarle un qualche debito, come se
le avessi fatto un torto e volessi rimediare.»
Trattenni il fiato per un attimo: si capiva così bene? Mi
sentivo in colpa a non poterle dire cos’ero veramente, e ogni
tanto le facevo dei favori come se quello potesse bastare per
compensare tutte le bugie e le verità taciute. «Io…
Sì, forse è vero.» Concessi. «Non ti
sentiresti così anche tu se dovessi mentire costantemente alle
persone a cui vuoi bene?»
«Sì, probabilmente sì. Non per questo devi andare
contro i tuoi principi.» Replicò.
«Andare ad una festa con il ragazzo della mia migliore amica non
va contro i miei principi. O meglio, non ho mai avuto una posizione su
questo genere di cose. In effetti, dubito che ci avrei mai pensato se
non mi fossi ritrovata in questa situazione.» Risposi.
«Mmh. D’accordo, voglio crederti.» Mormorò.
«Non hai motivo per non farlo.» Ribattei confusa.
«Sì, lo so, lo so…» Lo sentii sospirare.
«Ci vediamo sabato quindi?»
Quell’improvviso cambio d’argomento mi lasciò un
po’ interdetta, ma forse era meglio così, forse era meglio
smettere di parlare prima che uno di noi due dicesse qualcosa di
compromettente. «Okay. A sabato.»
Mi ero rifiutata categoricamente di mettere una gonna per la festa:
già la sola idea di andarci con Adam mi metteva a disagio,
indossare qualcosa che mi lasciava troppo scoperte le gambe avrebbe
solo complicato ulteriormente le situazione. Avevo deciso di indossare
una canottiera nera con il dietro in pizzo e lo scollo morbido che non
faceva vedere niente di compromettente.
Sotto avevo dei jeans strappati con una piccola catenella appesa al
fianco e i miei adorati anfibi neri. Avevo lasciato i capelli sciolti
sulle spalle fermando solo un paio di ciocche con delle forcine in modo
che non mi andassero sugli occhi.
Visto che il trucco non era mai stato il mio forte mi ero semplicemente
tracciata una linea di eyeliner nero sulle palpebre facendola giusto un
po’ più spessa del solito.
Nonostante cercassi di nasconderlo, soprattutto a me stessa, era un
po’ nervosa: saremmo stati solo io ed Adam, senza nessun altro. O
meglio, nessuno che io conoscevo. Chi mi diceva che non mi avrebbe
fatto domande? Non avevo voglia di rispondere, né di mostrarmi
di nuovo fredda e distaccata. Volevo solo che quelle ore passassero in
fretta, così me ne sarei potuta tornare alla mia vita e lui alla
sua.
Erano già le nove e mezzo quando finii di prepararmi. In
effetti, avevo cominciato un po’ in ritardo visto che la mia
voglia di andare a quella dannata festa era pari a zero. Chiusi gli
occhi e mi presi la testa tra le mani: che mi era passato per la mente
quando avevo accettato? E, soprattutto, che diavolo avrei combinato
quella sera? Perché era ovvio che avrei fatto qualcosa di sbagliato, era una mia caratteristica aggiungere un tocco di caos a qualunque cosa.
Speravo solo di non fare niente con Adam. “Niente” inteso
come non rivelargli nulla sui licantropi, come non ammettere che per un
attimo avevo seriamente perso in considerazione l’idea di
accettare il suo aiuto, come non confessare che mi piacevano i suoi
occhi.
Lanciai un’occhiata fuori dalla finestra del salotto e vidi la
sua auto parcheggiata accanto al marciapiede. Aggrottai appena la
fronte: quand’era arrivato? Non me n’ero accorta…
Per una frazione di secondo pensai di fingere di non averlo visto, di
tornare in camera, rimettermi i pantaloni della tuta e la maglietta dei
Guns N’ Roses e stendermi sul letto a leggere, come se avessi
dimenticato la promessa fatta a Beth. Ma non potevo.
Presi la giacca di pelle nera che avevo buttato sul divano, la indossai
e uscii chiudendomi la porta alle spalle. Attraversai il vialetto
stringendomi le braccia al petto per ripararmi almeno un po’ dal
vento fino a raggiungere la macchina. Lui mi lanciò
un’occhiata e vidi un sorriso quasi di cortesia increspargli le
labbra. Entrai e mi sedetti accanto a lui sul sedile del passeggero
prima di richiudere lo sportello.
«Ciao.» Mormorò con voce lievemente esitante.
«Ciao.» Risposi in un sussurro.
Mi decisi a guardarlo meglio e rimasi piuttosto a corto di parole:
indossava una camicia azzurro chiaro e dei jeans neri e sembrava
tremendamente a suo agio oltre che decisamente… attraente.
Dovetti ammettere che Beth aveva ragione, Adam era piuttosto bello con
quei lineamenti decisi ma non troppo, la linea netta della mascella che
risultava comunque morbida, le labbra chiare e sottili. E quei dannati
occhi blu tempesta.
Un angolo della sua bocca si sollevò in un sorriso sghembo.
«Sembra che tu debba andare ad una qualche specie di sofisticato
concerto rock.»
Mi irrigidii, più per la sorpresa che per altro, e lo guardai
male. «Ah-ah, molto divertente.»
Scrollò le spalle. «Ho solo detto la verità.»
«Uhm…» Appoggiai la schiena al sedile ed incrociai
le braccia al petto. «Cominciamo bene.»
Inclinò appena la testa di lato guardandomi con aria quasi
incuriosita. «Non vuoi andarci.»
Sospirai. «Nemmeno tu.»
Distolse lo sguardo annuendo. «Vero.»
«Non possiamo fare finta di nulla? Cioè, andiamo
ognuno a casa propria e diciamo che abbiamo trovato tanto, troppo
traffico o che so io.» Tentai guardandolo speranzosa. Ed era un
tipo di sguardo che non pensavo gli avrei mai rivolto.
«Potrebbe anche funzionare se non ci fossero i sensi di
colpa.» Commentò.
Esitai per un attimo. «Hai ragione. Purtroppo.»
Si mordicchiò il labbro. «Già… Mmh…
Quindi dobbiamo andare.»
«Non sembri convinto.» Gli feci notare.
«È solo che prima andiamo più tempo resteremo
lì.» La sua voce si era abbassata fino a diventare quasi
inudibile.
«Anche questo è vero.» Borbottai.
«Quindi... uhm, andiamo e speriamo che finisca presto.»
Adam aveva un buon odore. Non ci avevo mai fatto caso prima, forse
perché ero troppo impegnata a fare altro, per esempio a cercare
di gestire le sue domande, i sentimenti contrastanti che mi nascevano
in petto quando stavamo vicini, i dubbi che mi facevano venire le sue
continue insistenze.
Ma ora eravamo soli, io e lui, nella sua macchina e non avevo niente da
fare visto che nessuno di noi due sembrava intenzionato ad iniziare una
conversazione, così ero finita per concentrarmi su piccoli
dettagli all’apparenza senza nessun valore, ma che,
all’improvviso, sembravano essere diventati interessanti.
Adam sapeva di bucato, dopobarba -cosa che mi sorprese visto che non
pensavo lo usasse- e carta, quella dei libri vecchi che trovi negli
scaffali impolverati della biblioteca. Sembrava strano, ma quegli odori
tanto diversi stavano bene insieme.
Una minuscola parte di me avrebbe voluto andargli più vicino per
sentirli meglio e magari capire se ce n’erano altri mischiati
insieme, ma mi costrinsi a rimanere ferma al mio posto e a guardare
fuori dal finestrino.
A dirla tutta non vedevo veramente il paesaggio che mi scorreva
davanti, ero troppo presa dal riflesso del ragazzo seduto accanto a me.
Per poco non sussultai quando incrociai i suoi occhi attraverso il
vetro. Mi ci volle un attimo per capire che sì, mi stava
guardando, ma non vedeva quello che vedevo io sul finestrino.
Mi concessi di osservarlo da lì anche perché ero un
po’ curiosa di capire cosa lo aveva spinto a voltarsi verso di
me: aveva la fronte leggermente aggrottata in un’espressione
pensierosa, le labbra appena strette e gli occhi color tempesta attenti
come sempre.
Tornò a concentrarsi sulla strada dopo pochi secondi lasciandomi
quasi l’amaro in bocca per quella conclusione fin troppo
frettolosa a quello scambio segreto di occhiate. Sospirai e mi
appoggiai meglio contro lo schienale del sedile: non mi sarebbe dovuta
piacere una cosa del genere, anzi, avrei dovuto trovarla irritante.
Invece era tutto il contrario.
Stavo cominciando a capire perché lui aveva detto che lo
incuriosivo: anche io mi sentivo in qualche modo affascinata da lui. E
questo era un grosso problema.
Fermò l’auto in un grande cortile di quelli che si vedono
nei film quando la bellissima donna in abito da sera scende dalla
limousine ed entra nella villa per la cena di beneficenza o per una di
quelle feste sfarzosissime. E, in effetti, la casa che avevamo di
fronte era piuttosto simile ad una di quelle grandi ville con le
scalinate di pietra all’ingresso e enormi finestre che si
aprivano su stanze lussuose arredate con mobili incredibilmente
pregiati. Scesi dalla macchina guardando ad occhi spalancati
l’edificio davanti a me.
Quando Adam mi raggiunse non potei trattenermi dal chiedergli:
«Tua cugina abita qui?»
«No, suo padre ha affittato la casa per stasera. Sai, loro sono
dell’idea che i diciotto anni si compiono una volta sola e allora
si devono fare le cose in grande.» Rispose con un sospiro.
Gli lanciai un’occhiata di sottecchi. «Beh, devo ammettere che hanno gusto.»
«Se ti piace lo stile “vantiamoci di quanti soldi abbiamo e
sbattiamolo in faccia a tutti” allora sì.» Convenne
senza guardarmi.
Mi ritrovai a trattenere il fiato senza un motivo apparente.
«Oh… è un giudizio un po’ severo.»
«Lo so, lo so…» Sospirò e si passò una
mano tra i capelli. «Andiamo?»
Annuii anche se in realtà non ero per niente convinta.
«Andiamo.»
Raggiungemmo fianco a fianco l’ingresso della casa. La porta era
socchiusa, si intravedevano corpi che si muovevano e luci
intermittenti. Adam sollevò la mano per bussare, ma la porta si
spalancò prima che potesse farlo. Sulla soglia apparve una
ragazza dai lunghi capelli scuri ondulati che le ricadevano morbidi
sulla schiena tranne per alcune ciocche fissate sulla nuca da un
fermaglio argentato.
Indossava un lungo abito blu con lo scollo a V che le scivolava sul
corpo seguendone le curve fino a terra. Gli occhi erano truccati con
cura: le palpebre erano colorate d’azzurro sfumato, le ciglia
rese più lunghe e folte dal mascara; il tutto era completato da
una linea sottile di eyeliner argentato. Al collo portava una catenina
con un cristallo che le illuminava la pelle. Ed era davvero bella.
Le sue labbra, colorate di un rosso intenso, si incurvarono in un sorriso. «Adam!»
Gettò le braccia al collo del ragazzo in piedi accanto a me e
lui ricambiò la stretta sorridendo sulla spalla di lei.
«Buon compleanno Sel.» Lo sentii mormorare.
Distolsi lo sguardo sentendomi il terzo incomodo, e rabbrividii appena:
avevo lasciato la giacca in auto sapendo che sarebbe stata solo
d’intralcio, eppure ora cominciavo a ripensarci. Lanciai
un’occhiata di sottecchi ad Adam e dovetti ammettere che aveva un
bel sorriso. E che quella camicia gli stava bene. E che la bellezza
leggera e sofisticata sembrava un tratto di famiglia: di fronte a lui e
a sua cugina mi sembrava di sfigurare.
«Lei deve essere la tua ragazza.» Commentò una voce femminile.
Sollevai gli occhi e mi ritrovai addosso lo sguardo incuriosito della
cugina di Adam. Deglutii nervosamente: la sua ragazza? No,
assolutamente no. Non se ne parlava proprio.
Adam mi lanciò un’occhiata veloce, ma prima che uno di noi
due potesse ribattere, la ragazza in abito da sera riprese la parola:
«Oh, ma che maleducata! Non mi sono nemmeno presentata!» Mi
tese la mano con un sorriso che mi ricordava vagamente quello di Adam.
O forse me lo stavo solo immaginando. «Piacere di conoscerti, io
sono Selena.»
«Io… io sono Scarlett.» Riuscii a dire stringendole
la mano.
Spostò lo sguardo su suo cugino. «Io vado, voi fate pure come se foste a casa vostra, mmh? Divertitevi!»
E si dileguò dopo aver lasciato un bacio sulla guancia di Adam.
Appena Selena scomparve dalla mia visuale mi voltai verso il ragazzo
accanto a me e lo guardai male incrociando le braccia al petto.
«Le hai detto che sono la tua ragazza?»
«Ma se non ho detto niente…» Protestò lui
ricambiando l’occhiata.
«Sei stato zitto infatti! Non sai come si dice? Chi tace
acconsente.» Replicai.
Sospirò alzando gli occhi al cielo. «Oddio Scarlett, ma
che stai dicendo? E poi che ti importa di quello che crede mia cugina?
Probabilmente questa è l’unica volta che la vedrai.»
Prima che potessi anche solo pensare ad una risposta, qualcuno
chiamò Adam, qualcuno che conoscevo. Mi voltai insieme al
ragazzo accanto a me e vidi Michael, il suo migliore amico, che ci
veniva incontro insieme ad una ragazza dai capelli castano chiaro. Con
la coda dell’occhio vidi Adam fare una smorfia. E mi sentii quasi
infastidita quando realizzai che non saremmo stati solo io e lui, ci
sarebbe stato anche Michael e quella che sembrava essere la sua
ragazza.
Osservandola meglio la riconobbi: era una delle compagne di squadra di
Beth, giocavano a pallavolo insieme. Se non mi sbagliavo si chiamava Julia o qualcosa di simile.
Sia Michael sia la ragazza ci sorrisero. Lei indossava un abito al
ginocchio viola con le spalline sottili e dei cristalli come
decorazione sullo scollo; lui una camicia bianca con tanto di cravatta
e un gilet verde scuro. Aveva un sorriso da ragazzino che ha appena
fatto uno scherzo.
«Ehi.» Michael sembrava incredibilmente a suo agio.
Diede una pacca amichevole sulla spalla di Adam, che gli sorrise. Poi
lo sguardò di Michael si posò su di me e vi colsi un
certo interesse. Si voltò verso Adam e gli sussurrò
qualcosa all’orecchio. Socchiusi gli occhi e aggrottai la fronte:
dimostrava parecchia sfacciataggine parlando di me mentre ero lì
davanti a lui.
Julia, se davvero si chiamava così, sembrava della mia stessa
opinione: si schiarì la gola lanciando un’occhiata
eloquente al suo ragazzo. «Michael, non dovresti fare le
presentazioni?»
Qualcosa mi diceva che Adam lo conosceva già, però era
gentile da parte sua mettere fine a quello scambio di commenti
decisamente poco discreto. Michael sembrò essere colto alla
sprovvista.
Si passò una mano tra i capelli evitando di proposito di
guardarmi. «Ehm… Sì. Tu e Adam già vi
conoscete quindi...» Mi
guardò con aria esitante. «E lei… Ecco, lei
è…»
«Scarlett.» Intervenne Adam.
Il suo sguardo si era fatto più intenso e nella sua voce
c’era una nota strana, che riuscii a cogliere nonostante avesse
detto solo una parola.
Julia si voltò verso di me sorridendo. «È un
piacere conoscerti.»
Ricambiai il sorriso. «Il piacere è mio.»
«Scusate se vi interrompo, ma… questa è una festa,
no? Quindi lasciamo da parte i convenevoli ed entriamo.»
Esclamò Michael beccandosi un’occhiataccia da parte di
Julia.
Adam si strinse nelle spalle e le fece cenno di andare. Sembrava che ci
fosse una qualche intesa tra loro, come se fossero stati genitori ormai
abituati e rassegnati alle marachelle del figlio e al fatto che
avrebbero dovuto scusarsi con qualcuno praticamente ogni volta che
uscivano di casa.
Julia gli fece un breve cenno d’intesa prima di afferrare Michael
per il polso e trascinarlo dentro la casa con sé. Rimanemmo io
ed Adam davanti alla porta, come se nessuno di noi due riuscisse a
decidersi ad entrare.
Adam si passò una mano tra i capelli, scompigliandoli.
«Quindi… uhm, andiamo?»
Mi aveva già fatto quella domanda solo pochi minuti prima. Ora
che mi ritrovavo a dover rispondere di nuovo avrei anche potuto
cambiare idea se non fosse stato per il senso di colpa che sembrava
sempre pronto a sbucare dall’ombra ad ogni minimo segno di
ripensamento.
Sollevai lo sguardo sul ragazzo dagli occhi color tempesta e lo trovai
a guardarmi con le labbra appena arricciate in un accenno di broncio di
cui neanche si rendeva conto.
«Ormai siamo qui, no?» Commentai prima di mettere una mano
sulla maniglia della porta decretando l’inizio di quella che
riuscivo a vedere solo come una tortura.
Passammo un’ora buona appoggiati al bancone del bar, che era un
vero e proprio bar con tanto di scaffali per i liquori, vasche del
ghiaccio e tutto quello che si può trovare in un pub:
evidentemente, quando Adam aveva detto che ai genitori di Selena
piaceva fare le cose in grande, intendeva veramente in grande.
Sorprendendomi, Adam aveva ordinato due birre e, quando il barista ce
le aveva portate, me ne aveva allungata una senza dire una parola. Non
avevo potuto fare a meno di guardarlo, interdetta, mentre beveva la sua
come se nulla fosse.
“Pensavi che fosse astemio o qualcosa del genere?
Davvero?”, mi rimbeccò una vocina nella mia mente,
“ha diciassette anni, è ovvio che beva”. In effetti
era vero: perché non avrebbe dovuto farlo? Solo perché ai
miei occhi appariva in qualche modo etereo, quasi troppo controllato
per poter cedere a vizi comuni come l’alcol? Non aveva senso.
Mi portai la bottiglia alle labbra e bevvi un sorso di quel liquido
ambrato dal gusto amarognolo. Se mia madre fosse stata lì, mi
avrebbe concesso di bere solo un bicchiere. Anzi, poco più di
metà bicchiere. Invece c’era Adam con me, e lui non
sembrava curarsi di quanto alcol bevessi.
Posai la birra sul bancone osservando Adam di sottecchi: sembrava
concentrato su un qualche punto nel vuoto, aveva l’espressione
pensierosa, quasi corrucciata.
Mi schiarii la gola. «Quindi, uhm, passeremo la serata
così? A guardare la gente che crede di saper ballare?»
Lui scrollò le spalle senza guardarmi. «Che vorresti fare,
scusa? Non conosci nessuno a parte me.»
«Sì, ma tu qualcuno lo conosci, no? Insomma, è tua
cugina…» Tentai.
«Conosco dieci persone di vista, il resto… per quanto ne
so potrebbe averli trovati nella discoteca più vicina.»
Commentò facendo sparire definitivamente la mia voglia di
conversare.
Il bar si trovava sotto un gazebo nel giardino dietro la villa.
L’erba davanti a noi era praticamente sommersa di adolescenti
accaldati e un po’ troppo esaltati che si strusciavano
l’uno contro l’altro in quello che loro chiamano
“ballare”.
Nonostante questo, era una bella serata: il cielo era limpido e pieno
di stelle, la luna spiccava, pallida, su tutto quel nero. Neanche la
pessima musica commerciale che il DJ si ostinava a mettere rovinava
l’atmosfera tranquilla che si era formata intorno a me ed Adam,
come se fossimo stati racchiusi in una bolla trasparente che teneva
fuori rumori e altri fastidi.
Sospirai riprendendo la mia birra: si prospettava una lunga notte.
Quando, qualche minuto dopo, Adam posò la sua bottiglia sul
bancone e si voltò verso di me -direi quasi finalmente visto che
fino a quel momento aveva concentrato la sua attenzione su un punto
indefinito-, quasi non sentii le sue parole tanto ero distratta a
guardare una ragazza dai lunghi capelli rossi muoversi disinvolta sulla
pista da ballo improvvisata. Non sapevo neanche perché la stessi
osservando, forse solo perché avevo sempre voluto avere i
capelli di quel colore, così intenso e brillante.
Sbattei le palpebre e mi girai verso Adam, confusa. «Cosa?»
Si mordicchiò il labbro. «Ti ho chiesto se ti andava di ballare.»
Ci mancò poco che mi andasse di traverso la birra.
«Eh?!»
Lui alzò gli occhi al cielo. «Sei diventata sorda? Non
avevi detto che i licantropi hanno i sensi più
sviluppati?»
«Questo non c’entra nulla. Sono solo… uh, sorpresa
dalla tua domanda, ecco.» Replicai guardandolo male.
«Perché sorpresa?» Chiese aggrottando appena la
fronte.
«Perché non mi sembri il tipo a cui piace ballare.»
Risposi.
«Vero.» Convenne. «Ma mi sto annoiando e potremmo
distrarci un po’ invece che stare qui a non fare nulla.»
Socchiusi gli occhi, cauta. «Mmh.»
«Allora? Ti va o no?» Insistette.
In effetti stava cominciando a seccarmi tutta
quell’immobilità, quello stare ferma a fissare il vuoto.
Ma ballare con lui… Non si presentava come un qualcosa di saggio
né prudente.
Eppure mi ritrovai a dire: «Okay. Andiamo.»
Un angolo della sua bocca si sollevò in un sorriso sghembo che
non prometteva nulla di buono. Un attimo dopo sentii le sue dita
chiudersi sul mio polso e, prima che potessi anche solo rendermene
conto, mi stava trascinando verso la pista da ballo. O almeno era
quello che pensavo inizialmente, perché poi lui cambiò
direzione infilandosi tra la massa di corpi in movimento. Ricevetti, e
diedi, qualche gomitata prima di riemergere in un angolo libero. E
finire contro il suo petto.
Rimasi immobile per un attimo mentre una parte di me registrava il suo
buon odore, quello che avevo già sentito in auto, il calore del
suo corpo, la consistenza morbida della sua camicia sotto le dita.
Poi feci un passo indietro e, imbarazzata, mi guardai intorno: ci
trovavamo in un fazzoletto d’erba abbastanza lontano dalla pista
da ballo perché quella mandria di adolescenti esaltati non
rischiasse di ucciderci, ma, nello stesso tempo, abbastanza vicino
perché la musica si sentisse comunque, un po’ più
bassa magari, però c’era.
Mi decisi a guardarlo e lo trovai ad osservarmi, attento come sempre,
con quei suoi occhi blu tempesta resi più scuri dalla mancanza
di luce.
In quel momento suonarono le ultime note dell’ennesima canzone
pop, che lasciò il posto ad una specie di lento. Come se fossero
state addestrate a farlo, tutte le persone sulla pista si trovarono un
compagno con cui dondolare in un altro, goffo tentativo di ballare.
Solo allora realizzai che anche io ed Adam avremmo ballato in quel
modo. Questo voleva dire stare stretti l’uno all’altro,
quasi abbracciati. Mi maledissi mentalmente per la centesima volta:
perché avevo accettato di andare con lui a quella stupida festa?
Una parte di me voleva comunque dargli una possibilità
nonostante non ci fosse alcun motivo valido per farlo.
Sospirai teatralmente come a fargli capire che facevo tutto quello solo
per accontentarlo e sollevai il mento. «Il fatto che tu abbia
avuto questa idea proprio prima che suonassero un lento è solo
una coincidenza, immagino.»
Sorrise abbassando lo sguardo. «Sei liberissima di non
crederci.»
«È proprio quello che farò.» Borbottai tra me
e me. «Va bene, facciamolo e non pensiamoci più.»
Feci un passo verso di lui, che mi avvicinò a sé posando
le mani sui miei fianchi. Grazie al cielo, ebbe il buon senso di non
andare troppo in basso, altrimenti non avrei reagito bene. Trassi un
respiro profondo prima di mettere le mani sulle sue spalle.
L’avevo già notato prima, e ora potevo riconfermarlo: la
sua camicia era morbida e piacevole sotto le dita e il suo odore era
piacevolmente delicato. Forse non sarebbe stato così male.
«Come sta Elisabeth?» Chiese con naturalezza.
«Sempre malata. Sai, raffreddore, tosse, anche un po’ di
febbre.» Scrollai appena le spalle. «Si
rimetterà.»
«Mmh, bene.» Commentò.
Annuii appena stando ben attenta a non incrociare i suoi occhi.
«Tu come stai
invece?» La sua domanda mi spiazzò completamente.
Sollevai lo sguardo su di lui, che mi osservava attento. In che senso
come stavo io? Non lo vedeva da solo? Stavo bene, punto. Non
c’era altro da dire.
«Sto bene. Sì, insomma, perché non dovrei?»
Replicai ritrovandomi quasi sulla difensiva.
«Hai detto che non è facile reggere la pressione quindi
pensavo che magari ti sentissi un po’ troppo…
oppressa.» Spiegò con voce esitante.
«E dovrei venirlo a dire a te?» Sbottai scoccandogli
un’occhiataccia senza però allontanarmi da lui.
«Sono l’unico che sa cosa sei, no? In un certo senso si
può dire che ti capisco. Più o meno.»
Ribatté.
Da una parte aveva ragione, ma non l’avrei ammesso. «Questo
non vuol dire che sei diventato importante o che so io. Anzi, dovresti
allontanarti da me per quello che sai.»
«Lo so come la pensi, però non posso farlo. Ci ho provato,
sul serio, ma in qualche modo ci ritroviamo insieme comunque, quindi
è piuttosto inutile.» Rispose addolcendo il tono.
Annuii abbassando lo sguardo. «Sì… hai
ragione.»
«Lascia che ti aiuti Scarlett, per favore.» Aggiunse.
Scossi la testa con decisione. «No. Non ti metterai in pericolo
così. Assolutamente. Puoi scordartelo.»
«Scarlett…» Cominciò.
«C’è anche Beth in mezzo, okay? E questo vuol dire
che non si può e basta. Anche se insisti non cambierà
nulla: finché lei è in qualche modo coinvolta non ti
lascerò avvicinare. Ma neanche dopo, ad essere sinceri.»
Lo interruppi. La mia voce, però, invece di sembrare risoluta e
determinata, suonò incerta e bassa.
«Se stiamo attenti lei non finirà in mezzo. Nessuno che
non deve finirà in mezzo.» Replicò.
Sorrisi amaramente. «Come lo sai? Potrebbe andare tutto storto
nel giro di un secondo.»
«Non è detto. Possiamo gestire la situazione Scarlett,
possiamo farlo sul serio.» Insistette.
Senza rendermene veramente conto, cominciai a tracciare figure astratte
sulla sua spalla con la punta delle dita. «Parli al
plurale.»
«Beh, ti ho offerto il mio aiuto quindi credevo fosse ovvio che
avremmo… uhm, collaborato.» Spiegò.
Strinsi appena le labbra. «Se mai dovessimo farlo, sei
consapevole di quanto sarà pericoloso?»
«Ti ho già detto che non ho paura di te. E comunque
pensavo di fare qualcosa che non avesse a che fare con la
licantropia.» La sua voce era diventata quasi dolce, morbida.
«Ah sì? E cosa?» Chiesi tenendo lo sguardo fisso
sulla sua gola, lì dove il colletto della camicia si apriva un
po’ mostrando la pelle chiara e una parte delle clavicole.
«Elisabeth mi ha detto che hai qualche difficoltà in
matematica e ho pensato che posso darti una mano, se ti va.»
Propose.
«Mmh…» Mormorai poco convinta.
«Il tuo essere lupo non interferirebbe e quindi anche se io
continuassi ad uscire con Elisabeth le possibilità che lei
venisse a sapere cosa sei sono praticamente nulle.» Aggiunse.
«Potremmo fare una prova, giusto per vedere come va e poi
decidere. Non c’è fretta.»
Dovevo ammettere che era un buon piano. Certo, c’era compreso lui
quindi avrei dovuto tenere sempre alte le difese, ma mi avrebbe risolto
qualche problema.
«Sarebbe una preoccupazione in meno, no?» Chiese lui
osservandomi.
Sollevai lo sguardo fino ad incrociare i suoi occhi blu. Attraverso il
pizzo della canottiera sentivo il calore delle sue mani, che, in un
certo senso, era quasi rassicurante. «Beh, sì, però
non vuol dire che accetterò. Posso trovare qualcun altro che mi
dia ripetizioni, sai?»
«Vero.» Convenne. «Ma per ogni persona in più
che coinvolgi aumenta il rischio di essere scoperta.»
Mi morsi il labbro, combattuta: accettare equivaleva ad avere un peso
in meno sulle spalle; dirgli di no avrebbe significato ritrovarmi come
prima, com’ero sempre stata, sola e piena di problemi da gestire.
«Cosa vuoi in cambio?» Domandai indurendo lo sguardo.
La sua espressione si fece sorpresa. «Niente. Perché
dovrei volere qualcosa?»
«Perché sì. Nessuno offre un aiuto del genere senza
volerci guadagnare.» Replicai. «Potrei capirlo se non ci
conoscessimo, ma non è così, quindi è ovvio che ci
sia qualcos’altro.»
Mi guardò negli occhi per qualche secondo prima di abbassare lo
sguardo. «È probabile che tu ti arrabbi, ma… forse
voglio solo sapere qualcosa in più su di te.»
Contrassi la mascella e annuii. «Sai, hai ragione: mi sono
arrabbiata.» Feci un passo indietro lasciando ricadere le braccia
lungo i fianchi e sciogliendo quello strano abbraccio. «E la mia
risposta è no, non voglio il tuo aiuto.»
Nei suoi occhi blu passò un’ombra.
«Scarlett…»
«No. Basta con questa commedia.» Dichiarai prima di
voltargli le spalle ed andarmene.
Probabilmente le persone davanti a me sentivano la mia rabbia visto che
non si facevano problemi a lasciarmi passare. Senza averlo deciso, mi
ritrovai al bancone del bar e non riuscii a fare a meno di osservare
tutti quegli alcolici dai colori brillanti ed intensi allineati sugli
scaffali. Mi sarei odiata, lo sapevo, ma avevo bisogno di non pensare
per un po’.
«Cosa ti porto, bella?» Chiese il barista, un ragazzo moro
sulla ventina, sorridendomi.
“Sei ancora in tempo per evitare di combinare un guaio”, mi
ammonì una vocina nella mia mente. La mia bocca la pensava
diversamente: «Qualcosa di forte.»
Lui fece un cenno d’assenso. «Subito.» Un secondo
dopo mi mise davanti un bicchierino contenente un liquido ambrato.
«Ecco qua.»
Lo presi con un accenno di sorriso sulle labbra e lo sollevai appena. «Alla salute.» E bevvi tutto d’un fiato.
SPAZIO AUTRICE: Come vi aveve già preannunciato, il
compleanno di Selena non è per niente una serata tranquilla:
Scarlett ha i nervi a fior di pelle, vorrebbe scappare e, nello stesso
tempo, vuole anche mantenere la promessa fatta a Beth; Adam insiste
ancora, ma anche lui non sa bene come comportarsi. Finiscono entrambi
per dire, o fare, la cosa sbagliata e questo non fa altro che aumentare
la tensione tra loro.
I guai, però, sono dietro l'angolo: anche il prossimo capitolo
sarà ambientato durante al festa, almeno in parte, e devono
succedere ancora un bel po' di cose che, come vi ho già detto,
coinvolgeranno anche Michael.
Mi è piaciuto scrivere questo capitolo, soprattutto
perché cominciano ad esserci i primi accenni agli Adamett, al
rapporto che verrà a crearsi, molto lentamente, tra loro.
Volevo avvertirvi che nel prossimo capitolo andrò a toccare,
anche se per poco, un tema delicato che riprenderò, sempre solo accennandolo, in seguito e
spero tanto di riuscire a farlo nel modo giusto, senza strafalcioni e
cercando di essere il più giusta possibile.
Spero
che questo capitolo sia piaciuto anche voi e vi ringrazio per
l'entusiamo che dimostrate nel seguire la storia.
TimeFlies
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Capitolo 14 *** 14. Adam ***
Under a Paper Moon- capitolo 14
14. Adam
Farla arrabbiare non era
certo nelle mie intenzioni. Anzi: avrei voluto fare tutto il contrario,
aiutarla, confortarla, darle un buon motivo per cui fidarsi di me. E
invece l’avevo fatta scappare.
Mi passai una mano tra i
capelli sospirando: avevo sempre avuto un brutto presentimento riguardo
a quella stupida festa, ma non pensavo a niente del genere. Non pensavo
di toccare un tasto tanto dolente. E poi Elisabeth mi avrebbe ucciso se
non le avessi riportato la sua migliore amica. Non potevo fare niente
di peggio a quel punto.
Mi guardai intorno
cercando Scarlett, solo che c’era troppa gente e lei era
così minuta… Di colpo mi ritrovai a pensare a quanto
eravamo stati vicini solo un minuto prima, con le sue mani sulle mie
spalle, i suoi occhi nei miei, il suo respiro che mi sfiorava la pelle.
“Smettila”, mi rimproverai: ci mancava solo che mi mettessi
a ripensare a quello che era successo. Per colpa mia, tra
l’altro.
Aggirai la gente che
ballava in pista continuando a cercarla sullo sguardo e sentendomi
quasi colpevole per quella sua arrabbiatura improvvisa. In realtà non ce n’era motivo, io le avevo
offerto un aiuto pressoché gratuito, quindi perché ce
l’aveva con me? Forse solo perché era troppo sospettosa di
natura, oltre che lunatica.
«Adam!» La voce squillante di mia cugina mi riscosse dai miei pensieri.
Me la ritrovai davanti,
splendida nel suo abito blu notte. Sorrideva, la mano stretta in quella
di un ragazzo alto e con le spalle molto larghe.
Mi sforzai di sorridere.
«Ehi Sel.»
«Volevo presentarti
Josh, il mio fidanzato.» Disse lei indicando il ragazzo al suo
fianco, che mi fece un cenno di saluto.
«Oh… Ehm,
piacere di conoscerti.» Mormorai tendendogli la mano.
Lui fece un mezzo sorriso
e me la strinse brevemente prima di lasciarla. «Il piacere
è mio. Sei il cugino di Selena, giusto?»
«Già…»
Confermai.
«Che ne dici di
venire a bere qualcosa con noi?» Propose Selena aggrappandosi al
braccio di Josh.
«Ehm… Non
saprei…» “Devi trovare Scarlett prima che si cacci
nei guai”, mi ricordò una vocina nella mia mente.
«Su, non fare il
difficile. Vieni.» Esclamò mia cugina prendendomi per un
polso. «In fondo, è il mio compleanno, no?»
Ci volle un bel po’
prima che riuscissi a congedarmi da Selena e i suoi amici. Avevo motivo
di credere che alcuni di loro neanche l’avessero notato visto che
erano piuttosto brilli. Meglio così, dovevo trovare Scarlett e
avevo già perso abbastanza tempo.
Ero così preso
dalla mia ricerca che mi scontrai con qualcuno. Feci un passo indietro
e sollevai lo sguardo: davanti a me c’era una Julia piuttosto
preoccupata e ansiosa.
«Julia, che
succede?» Chiesi ritrovando di colpo la concentrazione.
«Adam, ehi. Ho
solo… ecco, perso Michael.» Rispose titubante.
«Aveva detto che andava a prendere da bere, ma poi non è
più tornato.»
«Non ne sono
sicuro, ma credo di averlo visto da qualche parte vicino al DJ.»
Risposi: avrei riconosciuto quello stupido gilet verde ovunque. Gli
avevo detto mille volte di buttarlo, ma lui non mi aveva mai ascoltato.
Julia sembrò
decisamente sollevata. «Grazie, sul serio.»
Le sorrisi appena, poco
convinto. «Figurati.»
Feci per andarmene, ma
lei mi richiamò: «C’è un’altra cosa: ho
visto la tua amica, Scarlett, al bar e non mi sembrava che stesse molto
bene.»
«Vuoi dire che
è ubriaca?» Ci mancava solo quella… Come
l’avrei spiegato ad Elisabeth? O alla madre di Scarlett?
«Probabilmente
sì.» Confermò Julia.
Sospirai. «Okay,
grazie.»
Annuì appena.
«Forse è meglio se andiamo entrambi allora.»
«Già.»
Mormorai.
Mi allontanai da lei
cercando, contemporaneamente, di evitare la massa di persone che
affollava la pista da ballo e di trovare la via più veloce per
il bar. Avevo messo in conto di tutto quando avevo accettato di andare
alla festa con Scarlett, ma di sicuro non il fatto che si sarebbe
ubriacata. Al massimo avevo pensato che sarei stato io a farlo,
però era comunque un’ipotesi abbastanza irrealizzabile
visto che non mi piaceva bere.
Ora invece mi ritrovavo
ad avere a che fare con un licantropo ubriaco e non avevo la più
pallida idea di come aveva reagito all’alcol. Da quelle poche
informazioni che ero riuscito ad estorcerle avevo capitolo che il
metabolismo dei lupi mannari era più efficiente di quello umano,
ma lei non aveva mai accennato agli alcolici. Per quel che ne sapevo
potevano renderla più aggressiva e lunatica di quanto non fosse
già, oppure tutto il contrario. Per quanto mi affascinasse la
sua licantropia, quello era un lato di lei che avrei preferito non
dover mai vedere.
Quando, finalmente,
raggiunsi il bancone del bar, avevo quasi il fiato corto e qualcosa mi
diceva che era più per l’ansia che per l’essermi
dovuto fare strada in mezzo ad un braco di adolescenti esaltati.
E lei era lì,
seduta su una panchina con l’aria imbronciata e una bottiglia in
mano. Accanto a lei ce n’erano altre, non avrei saputo dire
quante, ma di sicuro erano troppe.
Imprecai mentalmente e la
raggiunsi rendendomi conto che di lei mi importava più di quanto
fossi disposto ad ammettere con me stesso.
Senza aver deciso di
farlo, mi ritrovai inginocchiato davanti a lei che cercavo di
incrociare il suo sguardo sfuggevole: neanche l’alcol era
riuscito a farle perdere questa caratteristica. «Scarlett.»
Mi guardò con la
fronte aggrottata. «Che vuoi?» La sua voce suonò
impastata.
Aveva gli occhi un
po’ annebbiati e distanti, ma sembrava piuttosto lucida. O almeno
era quello che mi auguravo.
«Come ti
senti?» Chiesi osservandola preoccupato.
Scrollò le spalle.
«Bene.» E fece per portarsi la bottiglia alle labbra.
Gliela tolsi di mano
guadagnandomi un’occhiataccia e un insulto senza un destinatario
particolare borbottato a mezza voce. «Ehi.»
Protestò. «Questo è un paese libero.»
«Credimi, se non
fosse che domani Elisabeth ti chiederà com’è andata
ti lascerei bere quello che vuoi, ma sappiamo entrambi che ci
ucciderà se saprà che ti ho fatto ubriacare.»
Risposi.
Ridacchiò come se
avessi detto qualcosa di esilarante. «No… Lei non ti
ucciderebbe mai: è cotta di te.»
“Michael aveva
ragione: è parecchio coinvolta”, pensai quasi a disagio.
«Beh, è una buona notizia. Ora che ne dici di andare
casa?»
«Uhm…»
Fece un smorfia. «Non mi va.»
Sospirai. «Ah
no?»
«No.» Confermò allungando una mano verso la bottiglia.
La allontanai di nuovo e
le presi con delicatezza il polso. «Non è una
buon’idea continuare a bere, sai? Sei già ubriaca.»
Mormorai.
Lei aggrottò lo
fronte, come se non riuscisse ad afferrare il concetto. «No, io
non posso ubriacarmi.»
«Non puoi nel senso
che tua madre si arrabbia se lo scopre?» Chiesi cercando di nuovo
di incrociare il suo sguardo.
Scosse la testa. «Non posso nel senso che i licantropi
smaltiscono l’alcol più velocemente degli umani: non
facciamo in tempo a berne abbastanza per ubriacarci che lo abbiamo
già eliminato.»
«Tu però non mi sembri molto sobria.» Commentai prima di mordermi il labbro.
Si strinse nelle spalle. «Tutti hanno un limite, anche i lupi
mannari.»
«D’accordo, approfondiremo il discorso un’altra
volta. Ora è meglio andare, mmh?» Tentai sperando di
riuscire a convincerla. Anche perché altrimenti non avrei mai
saputo cosa fare.
Sorprendendomi, lei annuì. «Ho freddo.»
«Allora adesso andiamo a scaldarci, okay?» Proposi posando
la bottiglia a terra e alzandomi.
Lei fece cenno di sì pur mantenendo lo sguardo fisso a terra:
sembrava concentrata su qualcosa anche se riuscivo a capire cosa. Le
tesi una mano che afferrò per poi tirarsi su. Barcollò in
avanti finendomi praticamente contro. Istintivamente la circondai con
le braccia per sostenerla. Lei appoggiò le mani sul mio petto in
cerca di stabilità. Aveva ancora la stessa espressione quasi
imbronciata, non sembrava che tutta quella vicinanza le desse fastidio.
Mi allontanai appena da lei per poterla guardare in faccia. «Riesci a camminare?»
Un angolo della sua bocca si sollevò appena in un sorriso un
po’ sbilenco. «Certo.»
Invece non è che le riuscisse tanto bene. O meglio, camminare
camminava, ma con passi incerti e traballanti che ci rallentavano. Alla
fine mi decisi a darle una mano: mi avvicinai a lei e le passai un
braccio intorno alla vita. Non sembrò farci molto caso anche se
si aggrappò alla mia camicia stringendosi contro di me.
Raggiungere la macchina non fu facilissimo, però almeno ci
eravamo arrivati e non era un traguardo poi così indifferente.
Non vidi Selena ed incrociai Julia solo per un secondo: stava aiutando
un Michael decisamente ubriaco a camminare fino all’auto mentre
lui borbottava frasi senza senso sui lunedì discriminati e le
formule chimiche. Mi offrii di aiutare Julia, ma lei, dopo
un’occhiata veloce a Scarlett, disse che avevo abbastanza da fare
anch’io.
«Eccoci qua.» Mormorai mentre aiutavo Scarlett a sedersi
sul sedile del passeggero.
Prese subito la sua giacca e se la infilò per poi stringersi le
braccia al petto sussurrando un “grazie” senza un
destinatario preciso.
Mi misi al voltante sentendomi sia sollevato perché ce ne
stavamo finalmente andando, sia in colpa perché avevo lasciato
che Scarlett si ubriacasse e non avevo salutato Selena. Mi dissi che ci
avrei pensato il giorno dopo, in quel momento la priorità era
riportare Scarlett a casa sana e salva.
«Puoi accendere il riscaldamento?» La voce di Scarlett era
bassa e roca.
Le lanciai un’occhiata veloce. «Certo.» Ed azionai
l’aria condizionata.
«Grazie.» Replicò tornando a stringersi nella sua
giacca.
A dirla tutta credevo si fosse addormentata, ma per fortuna non era
così: come avrei fatto a portarla in casa altrimenti? Avrei
dovuto prenderla in braccio? E poi come lo spiegavo a sua madre? Non
potevo mica presentarmi alla porta con Scarlett tra le braccia e dire
che le avevo riportato la figlia.
«Quanto manca?» Chiese la diretta interessata decidendosi a
riemergere dal suo intorpidimento.
Eravamo appena entrati in città e visto che lei abitava poco
lontano dalla periferia non ci avremmo messo molto per arrivare.
«Non tanto, tranquilla.»
«Ho sonno.» Annunciò prima di sbadigliare.
«Già, un effetto collaterale del troppo alcol.»
Commentai.
Aggrottò la fronte. «Tu non hai bevuto.»
«Dovevo guidare, non potevo bere un granché.» Le
feci notare.
«Mmh.» Mormorò lei guardando fuori dal finestrino.
«Il nome Scarlett non mi piace.»
La guardai, sorpreso e anche un po’ incuriosito, mio malgrado. «Perché no?»
«Perché non si può abbreviare. O meglio, lo puoi
fare, ma viene “Scar”, che vuol dire cicatrice e…
è brutto. Una cicatrice non è mai benvoluta.»
Spiegò con voce cupa.
«Non sempre. Sì, insomma, la cicatrice del cesareo per
esempio è il segno che hai dato il via ad una nuova vita, ed
è una bella cosa, no?» Ribattei chiedendomi dove avessi
trovato quell’esempio.
Era un discorso strano, eppure mi interessava lo stesso. Se lei fosse
stata sobria non mi avrebbe mai rivelato una cosa del genere, ma in
quel momento non lo era e i suoi freni inibitori sarebbero stati fuori
uso almeno fino al mattino dopo.
«Sì, però… Di solito non vuoi una cicatrice
visto che ti ricorda un qualcosa di brutto che ti è successo: se
hai una cicatrice vuol dire che hai sofferto, che qualcuno ti ha fatto
del male. Io non voglio essere una cicatrice. Per nessuno.»
Ammise in un sussurro.
Avevo sempre sentito storie di gente che, dopo aver bevuto
quantità indicibili di alcol, si metteva a raccontare di tutto,
ma non ci avevo mai creduto fino in fondo. Adesso invece avevo davanti
la prova che era vero: Scarlett stava aprendo una fessura nella sua
corazza fatta di provocazioni e risposte acide, stava confessando una
parte segreta di se stessa. A me.
«Tu non sarai mai una cicatrice Scarlett, okay? Insomma, non
credo che farai mai una cosa tanto brutta da segnare in modo negativo e
permanente una persona.» Replicai.
Lei sospirò. «Ma è così facile farlo…
Basta stare con qualcuno, farlo stare bene e fare in modo che si fidi
di te, fargli credere che vale qualcosa per te, che è importante.
E poi te ne vai, sparisci, tronchi tutto e lasci un vuoto. È
quel vuoto a diventare una cicatrice, a fare male finché non si
rimargina e a rimanere sempre lì come a ricordarti chi ti ha
ferito.»
Non l’avevo mai vista sotto questa prospettiva, ma aveva
completamente ragione: bastava un unico errore a cancellare anni di
fiducia, bastava un unico abbandono a lasciare una cicatrice.
«Tu pensi che potresti farlo?» Chiesi cauto.
«Chiunque potrebbe farlo. E magari senza neanche
accorgersene.» Sussurrò lei fissando un punto nel vuoto.
«Mio padre l’ha fatto, ha ferito mia mamma e se
n’è andato.»
Trattenni in fiato involontariamente: stavamo entrando in un argomento
troppo delicato che era meglio non affrontare da ubriachi.
Probabilmente mi avrebbe ucciso se avesse scoperto cosa mi aveva detto
mentre era sotto l’effetto dell’alcol.
«Scarlett…» Cominciai.
Lei però sembrava decisa a continuare il suo racconto:
«Avevo sette anni quando, rientrando in casa dopo essere stata da
Beth, trovai mia mamma in lacrime seduta al tavolo della cucina. In
mano aveva una lettera dell’avvocato di papà: aveva
chiesto il divorzio. Lei lo amava tanto…» Si infilò
una ciocca di capelli dietro l’orecchio. «Non credo che lo
odierà mai, anche se le ha fatto del male, anche se l’ha
illusa. Lei è troppo buona per provare odio. Io no
invece.»
Deglutii: dovevo trovare qualcosa da dire, qualcosa che la distraesse
magari, o che la consolasse. L’unico problema era che non avevo
idee. «Tuo… tuo padre ha sbagliato Scarlett, questo
è poco ma sicuro. Però non dovresti continuare a
pensarci, ti fai solo del male così.»
Trasse un respiro profondo e appoggiò la schiena al sedile.
«Non mi faccio male, lo so che è lui quello in torto.
Solo… ogni tanto sento il bisogno di sfogarmi.»
«In questo caso allora fai bene a parlarne.» “Ma
dovresti scegliere qualcun altro con cui farlo”, aggiunsi
mentalmente.
Si voltò verso di me. «I tuoi genitori si amano?»
Rimasi decisamente spiazzato dalla sua domanda. Esitai ritrovandomi di
colpo a corto di parole: che dovevo risponderle? La cosa più
ovvia da fare sarebbe stato dire di sì, ma era davvero la
verità? Me lo auguravo, certo, ma dopo tanti anni di matrimonio
a volte l’amore sfuma in qualcos’altro, affetto nel
migliore dei casi. Indifferenza nel peggiore.
«Siamo arrivati.» Annunciai sollevato riconoscendo casa
sua.
Fermai l’auto accanto al marciapiede pregando che non insistesse.
Lei guardò fuori dal finestrino per un attimo prima di aprire lo
sportello e scendere. Non ero pienamente convinto di doverlo fare,
però mi ritrovai comunque fuori dalla macchina a un paio di
passi di distanza da lei. E da lì fino a davanti alla porta
d’ingresso della casa.
«Hai le chiavi?» Mi sorpresi di quanto fosse gentile la mia
voce, come se avessi avuto a che fare con un bambino o un cucciolo.
Lei annuì, quasi compiaciuta di poter dare la risposta giusta.
«Sì.»
«Bene.» Mormorai.
Si girò verso di me e mi osservò per qualche secondo.
«Non mi piace dormire da sola.»
Esitai: da ubriaca Scarlett era ancora più imprevedibile che da
sobria. «Tua madre non c’è?»
Scosse la testa. «No, è via per lavoro.»
«Ah… Beh, mi… mi dispiace.» Commentai
passandomi una mano tra i capelli.
Lei provò a fare un passo verso di me, ma finì con
l’inciampare nelle sue stesse scarpe e finirmi addosso. La
sorressi e ci ritrovammo nuovamente molto vicini. Forse troppo vicini
considerato che io avevo una ragazza.
Appoggiò le mani sulle mie spalle per trovare l’equilibrio
e io finii con le mie sui suoi fianchi, come poco prima quando aveva
ballato insieme, solo che adesso non c’erano né rabbia
né conversazioni scomode.
Lei mi guardò negli occhi. «Resteresti con me?»
Forse avevo giudicato troppo in fretta la piega che stava prendendo
quel discorso: adesso era piuttosto scomoda. Trattenni il fiato
istintivamente.
La luce della luna creava riflessi argentati nei suoi capelli e mi resi
conto per la prima volta che aveva gli occhi da cerbiatto, grandi e
profondi. E che non sarebbero potuti essere di nessun altro colore se
non di quello strano ed affascinante marrone dorato. Di solito i
dettagli si vedono meglio alla luce, ma in quel momento avevo ragione
di credere che quella fosse la vera Scarlett, con quella bellezza
soffusa che non notavi quasi mai, con quei capelli castani lunghi,
mossi e leggeri, con quegli zigomi morbidi e delicati, con quelle
ciglia lunghe che le disegnavano ombre sulla pelle, con quelle labbra
rosee e lievemente schiuse…
Mi riscossi dai miei pensieri appena in tempo: sentivo già un
“sì” prendere forma, pronto per essere pronunciato.
«Ehm… non credo sia una buon’idea. Insomma, non
posso e tu non lo vuoi veramente.»
Inclinò appena la testa di lato con l’espressione da
cucciolo bastonato in viso. «Sicuro?»
Annuii come per convincermi di quello che dovevo
dire. «Sì, sono sicuro. Scarlett io non ti piaccio, me
l’hai fatto capire in divere occasioni, non c’è
alcun motivo per cui dovresti chiedermi una cosa del genere. A parte
l’alcol, quello è un buon motivo.»
«Non è vero che non mi piaci.» Ammise lei abbassando
lo sguardo. «Cioè, a volte mi metti un po’ a disagio
perché non so come comportarmi con te, però… in
fondo un pochino mi piaci.»
Doveva aver bevuto davvero tanto per arrivare a dire una cosa del
genere. All’improvviso mi tornò in mente un vecchio
proverbio che mi aveva detto mio padre un po’ di tempo prima: due
tipi di persone dico sempre la verità, i bambini e gli ubriachi.
«Scarlett…» Cominciai pur non avendo idea di cosa
dire.
Lei mi interruppe come se non avessi aperto bocca: «È okay
però, se non vuoi rimanere: non sono stata molto gentile con
te.»
Si aggrappò meglio alle mie spalle e si alzò in punta di
piedi. «Buonanotte.» E mi diede un bacio sulla guancia.
Qualcosa di molto simile ad una scarica di adrenalina mi
attraversò il corpo a quel contatto apparentemente innocente. Fu
questione di un secondo, anche meno, eppure non riuscii a fare a meno
di soffermarmi su quanto erano morbide le sue labbra, su quanto era
caldo il suo respiro, pieno d’alcol e parole sia aspre che dolci,
su quanto fossimo vicini e, di conseguenza, sul calore del suo corpo
premuto contro il mio.
Si allontanò da me facendo qualche passo indietro per poi
guardandomi con quei suoi occhi di un marrone bruciante.
Buttai fuori l’aria: non mi ero neanche accorto di star
trattenendo il respiro. «Buonanotte.»
Un sorriso leggero le incurvò le labbra. Provai a ricambiarlo
anche se non venne fuori molto convinto. Lei infilò una mano
nella tasca delle giacca e ne tirò fuori un mazzo di chiavi che
usò per aprire la porta. Entrò chiudendosela alle spalle
lasciandomi lì, solo e piuttosto confuso dalle mie stesse
reazioni.
«Ho un tremendo, disperato bisogno di parlati. Non puoi metterti
a fare il genio incompreso adesso, okay?» Michael
accompagnò il tutto con una decisamente poco delicata gomitata
che, devo ammettere, fu molto utile per riscuotermi dai miei pensieri.
Riguardavano Scarlett, o meglio quello che mi aveva detto sotto
l’effetto dell’alcol: continuavo a chiedermi se lo
ricordava, se era anche solo lontanamente consapevole di quanto si
fosse aperta con me.
Mi massaggiai la parte colpita scoccandogli un’occhiataccia.
«Okay, okay… Stai diventando isterico, lo sai?»
«E ho una buona ragione per farlo.» Replicò lui
prima di afferrarmi per un braccio e trascinarmi dietro l’angolo
del corridoio della scuola.
«Addirittura?» Commentai. «Neanche stessimo
organizzando una missione segreta.»
Il suo sguardo si indurì. «Senti, è una cosa seria.
Molto seria.»
Mi appoggiai al muro con una spalla. «Okay, parla.»
«Alla festa di tua cugina, ecco, tu sai che ero un
po’… brillo, no?» Chiese.
«Sì, giusto un pochino.» Convenni con una punta di
ironia non proprio velata.
Sospirò guardandomi male. «A parte questo, io… credo di aver… uhm, ecco, tradito Julia.»
Spalancai gli occhi. «Cosa?! Tradito quanto? Cioè, in modo
grave o…?»
«E io che ne so? Non è esiste mica una scala di
valutazione.» Mi rimbeccò lui.
«Va bene, diciamo che andiamo dal provarci con qualcuno
all’andare a letto con qualcuno. Ci dovrebbe essere abbastanza
campo di variazione.» Risposi.
Trasse un respiro tremante e solo in quel momento mi accorsi di quanto
fosse ansioso: continuava a tormentare la felpa che aveva in mano,
aveva una ruga di tensione sulla fronte, spostava di continuo lo
sguardo… Sembrava prossimo ad un attacco di cuore.
«Ho baciato un’altra persona.» Ammise.
«Non mia cugina, vero?» Domandai ripensando a quanto fosse
grosso il suo ragazzo, il capitano della squadra di football del suo
liceo.
«No, no. Assolutamente.» Mi rassicurò. «Ecco,
diciamo che non è così semplice.»
«Senti Michael, dimmi la verità e facciamo la finita,
okay?» Sbottai.
«Hobaciunragz.» Borbottò fissando il pavimento.
«Cosa? Hai baciato uno struzzo?» Sapevo che era un tipo un
po’ eccentrico, ma non pensavo fino a quel punto. Ed ero
abbastanza sicuro di non aver visto nessun tipo di animale alla festa.
Mi diede un colpetto sul braccio. «No, idiota. Non uno
struzzo.»
«E allora chi? O cosa?» Insistetti.
Sospirò chiudendo gli occhi. «Ho baciato un ragazzo Adam,
okay? Un ragazzo, come me e come te.»
Feci per dire qualcosa, ma non riuscii a trovare le parole adatte: non
solo aveva tradito Julia, ma l’aveva fatto con un maschio. Se mi
avesse detto che gli piacevano i ragazzi non ci sarebbe stato nessun
problema, assolutamente, ma sarebbe stato meglio se
l’avesse… capito prima di mettersi con Julia. La loro
storia andava avanti da un bel po' di mesi, ma quello... beh, quello
non sarebbe stato facile da spiegare e neanche da affrontare.
«Come hai fatto? Voglio dire, eri già ubriaco
o…?» Chiesi osservandolo preoccupato: di Michael si
potevano dire molte cose, non tutte carine, ma non che fosse senza
sentimenti. Il Michael che conoscevo io non avrebbe mai fatto una cosa
del genere alla sua ragazza. A meno che non fosse stato non proprio nel
pieno delle sue facoltà mentali.
«Beh, ecco, credo di sì. Avevo già bevuto insieme a
Julia poi sono andato al bar per prendere qualcos’altro e
c’era questo gruppo di ragazzi che mi hanno offerto da bere. Hai
presente quelle fiaschettine d’argento che hanno tutti nei
film?» Al mio cenno d’assenso continuò: «Ecco,
me ne hanno data una e io… ho bevuto. Da lì in poi ho
ricordi piuttosto confusi. So solo che ad un certo punto stavo baciando
qualcuno che non era Julia, qualcuno che non era una ragazza.»
Mi passai una mano tra i capelli sospirando. «Non sei in una
bella situazione, lo sai? Voglio dire… Non puoi fare finta di
niente adesso, devi parlarle. A Julia, intendo.»
Si lasciò sfuggire un smorfia. «Devo proprio?»
«Sì Michael, non puoi semplicemente fingere di non aver
fatto quello che hai fatto.» Replicai.
Lui annuì. «Hai ragione, devo parlarle, chiarire. E dovrei
anche baciare un ragazzo da sobrio, sai, giusto per capire se mi piace
o no.»
«Mmh…» Commentai. «Non so a quanto potrebbe
servire però.»
Michael sollevò lo sguardo su di me con entrambe le sopracciglia
inarcata in un espressione speranzosa.
Quando realizzai quello che voleva feci un passo indietro alzando le
mani. «No, no, decisamente no. Cerca qualcun altro.»
Sembrò quasi ferito dalla mia risposta. «Ma sei il mio
migliore amico!»
«Ecco, e ci tengo a rimanere tale. E poi una crisi di… uh,
identità è l’ultima cosa che mi serve
adesso.» Dichiarai.
Mise il broncio. «D’accordo. Vuol dire che dovrò
trovarmi un altro ragazzo da baciare.»
Mi strinsi nelle spalle. «Sembra di sì. E dovresti anche
parlare con Julia.»
Lui distolse lo sguardo con fare evasivo. «Sì…
Magari un’altra volta, eh?»
«No. Adesso. Altrimenti non lo farai mai.» Insistetti. «Andiamo Michael, non fare il codardo.»
Lui trasse un respiro profondo e si portò una mano sul cuore con
aria esageratamente teatrale. «Hai ragione, io sono un uomo
d’onore. E parlerò con la mia donna. Che potrebbe non
essere più mia nel giro di pochi minuti.»
Gli diedi una pacca sulla spalla. «Buona fortuna amico, ne avrai
bisogno.»
La sua espressione si fece rassegnata. «Già…
Comunque vada, sappi che ho apprezzato molto i tuoi aiuti durante le
verifiche.»
«Ma non mi dire.» Borbottai. «Adesso dovresti andare, prima di cambiare idea.»
Lui annuì come a volersi fare forza. «Giusto. È stato un piacere conoscerti.»
Prima che potessi rispondere, lui mi diede le spalle, raddrizzò
la schiena e si allontanò lungo il corridoio. Sospirai
passandomi una mano tra i capelli: si era cacciato in una situazione
decisamente spinosa e non avevo idea di come sarebbe potuta finire, se
non con una brutta rottura tra lui e Julia.
La vibrazione del mio cellulare mi fece distogliere lo sguardo dalla
schiena del mio migliore amico che andava incontro al suo destino.
Presi il telefono dalla tasca e rimasi parecchio interdetto quando
riconobbi il numero: pur non volendolo veramente l'avevo imparato a
memoria e quasi non me n'ero accorto. Non fino a quel momento almeno. Scarlett.
Mi portai il cellulare all’orecchio deglutendo quasi
nervosamente. «Pronto?»
Lei tossicchiò, come se fosse stata a disagio. «Ehi Adam,
sono Scarlett. Senti… uhm, ecco, volevo sapere, sei ancora
disponibile per quelle ripetizioni?»
SPAZIO AUTRICE: Come vi avevo già detto, oltre che per
Scarlett, anche per Michael questa serata non è stata molto
tranquilla: gli ha portato molto dubbi e problemi che dovrà
risolvere al più presto.
Quando si è ubriachi si fanno cose che normalmente non faremmo,
che spesso neanche ci rispecchiano, ma forse per Michael è
diverso: magari per lui quello che è successo è
semplicemente la riprova, la conferma di un dubbio che già
aveva. Vi ricordate quando, nel capitolo 12, ha chiesto ad Adam se
secondo lui sarebbero stati una bella coppia? Già da lì
aveva qualche dubbio riguardo se stesso.
Quando ho "creato" Michael l'ho pensato fin da subito bisessuale,
è un aspetto che è sempre stato parte di lui. Michael
è un ragazzo molto curioso, un po' come Adam, che si annoia
spesso ed è sempre alla ricerca di qualcosa di nuovo; i
cambiamenti non lo spaventano, anzi, lo affascinano.
Scarlett, invece, ha messo a nudo una piccola, ma neanche troppo, parte
di sé. Era sotto l'effetto dell'alcol e non aveva il completo
controllo di se stessa, ma ha avuto comunque un certo effetto su Adam,
che si è ritrovato a corto di parole e, come lui stesso ha
detto, confuso dalle sue stesse reazioni.
Che stia cominciando a provare qualcosa per lei che vado oltre la semplice curiosità?
Penso di aver detto anche troppo, quindi vi ringrazio e ci rivediamo al prossimo capitolo.
TimeFlies
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Capitolo 15 *** 15. Scarlett ***
Under a Paper Moon- capitolo 15
15. Scarlett
Buttai giù l’aspirina -più per precauzione che per
bisogno- con un sorso d’acqua e feci una smorfia: stavo
cominciando a capire perché mia mamma mi diceva sempre di non
bere troppo. I postumi della sbronza erano stati tremendi. Soprattutto
se ci aggiungevo il fatto che mi ero ubriacata mentre ero con Adam.
Il
mal di testa e la voglia immensa di dormire avrei anche potuto
sopportarli, ma quello no. Non ero neanche tanto sicura di ricordare
cosa avevo combinato; speravo solo di non aver fatto niente di troppo
compromettente come baciare il ragazzo della mia migliore amica o
qualcun altro.
Erano passati due giorni da quella stupida festa, ma
ancora non mi andava giù non sapere cosa avevo fatto. E non
potevo neanche chiederlo al diretto interessato: insomma, cosa si
può pensare di una che viene da te e ti dice “ehi,
sapresti dirmi se mi sono messa a ballare su un tavolo sabato
notte?”. Assolutamente niente di buono, poco ma sicuro.
Mi passai una mano tra i capelli sospirando: andare a
scuola era l’ultima cosa che mi andava di fare, ma non potevo
mancare. In effetti, dovevo presentarmi, anche solo per sapere quanto male
era andato il compito di matematica. Proprio quello che ci voleva per
riprendersi da una brutta serata.
Mi alzai dal tavolo della cucina, mi
infilai il giubbotto svogliatamente, presi lo zaino e uscii di casa.
Fuori soffiava un vento leggero ma pungente che mi fece rabbrividire e
chiedere, per l’ennesima volta, cosa avesse mia madre contro le
auto. Lei usava i mezzi pubblici per andare a lavoro e, almeno in
teoria avrei dovuto farlo anch’io, solo che avevo perso
l’abbonamento dell’autobus e non mi andava di dirlo a mamma
quindi… dovevo camminare.
La prof Smith camminava su e
giù tra i banchi come era sua abitudine fare ogni volta che
doveva riportarci una verifica. Metà della classe era
stravaccata sulle sedie con aria assente e annoiata, l’altra
metà mordicchiava penne con fare nervoso o fissava il banco come
se potesse bastare quello a risparmiare loro un brutto voto.
Se devo
essere sincera non so dire a quale categoria appartenevo; probabilmente
ad una tutta mia visto che mi stavo semplicemente rigirando una matita
tra le dita sperando che quella tortura finisse presto.
La
professoressa Smith si fermò dietro la cattedra e raccolse i
compiti. Ci lanciò un’occhiataccia ammonitrice prima di
cominciare a distribuirli. Ogni volta che uno degli studenti riceveva
la sua verifica si sentivano sospiri di sollievo o gemiti di delusione.
In questo caso ero piuttosto sicura che sarei appartenuta alla seconda
categoria quando il mio compito mi sarebbe arrivato.
«Signorina
Dawson.» Gracchiò la prof quando raggiunse il mio banco.
Sollevai lo sguardo su di lei pregando mentalmente che fosse accaduto
un miracolo alla mia verifica, che, all’improvviso, fossi
diventata un genio in matematica. «Sì?»
Lei strinse
le labbra in una linea severa. «Non pensavo che si potesse fare
un compito peggiore di quello che lei ha avuto il coraggio di
consegnarmi la scorsa volta.» Quasi sbatté un foglio sul
mio banco. «Ma, come si dice, non c’è mai fine al
peggio.» E si allontanò tutta impettita nel suo abito
color cartone.
Evidentemente le entità superiori non erano dalla
mia parte quel giorno. Diedi un’occhiata cauta al compito e mi
stupii meno del previsto quando vidi l’ennesima F di un rosso
brillante. Mi morsi il labbro inferiore e imprecai mentalmente: come
potevo anche solo sperare di recuperare una cosa del genere?
Se fosse
stato il primo voto tanto basso avrei anche potuto avere una speranza,
ma in quel caso ero spacciata. A meno che… No, era fuori
discussione. Ero già caduta abbastanza in basso ubriacandomi con
lui, ci mancava solo che gli chiedessi di aiutarmi con la matematica.
“E che altro vorresti fare allora? Sperare in un
miracolo?”, mi stuzzicò una vocina nella mia mente. Beh,
no, non potevo fare affidamento sulle entità superiori: sembrava
che si fossero dimenticate di me da un bel pezzo. L’unica cosa
che mi rimaneva da fare era chiedere a lui sperando di non sembrare
troppo patetica.
Spostai il peso da un piede all’altro, a disagio: perché
Beth non rispondeva? Mezzogiorno era passato da un pezzo, avrebbe
dovuto essere sveglia. O forse era dal medico… Strinsi
così forte il telefono da sentire un lieve scricchiolio: forse
ero davvero un po’ troppo nervosa. In fondo, però, si
trattava di una cosa da poco visto che lei aveva già detto di
fidarsi di me e che aveva un debito nei miei confronti dopo quella
dannata festa. Quindi perché stavo attentando alla vita del mio
cellulare?
Il peggio doveva ancora arrivare: la telefonata a lui ancora
non l’avevo fatta.
Dopo quella che mi sembrò
un’eternità, Beth si decise a rispondere:
«Pronto?»
«Ehi Beth, sono Scarlett.» Dissi
prima di mordermi il labbro: nonostante avesse il mio numero salvato in
rubrica, raramente Elisabeth controllava chi la chiamava. Semplicemente
rispondeva senza degnare di uno sguardo lo schermo del cellulare.
«Oh, ciao!» Esclamò. «Come va?»
«Tutto bene. Cioè, non proprio. Comunque, perché ci
hai messo tanto a rispondere?» Chiesi.
«Stavo guardando la
finale di America’s Next Top Model: mica potevo perdermi la
sfilata finale! Però adesso sono qui, che devi dirmi?
Perché è evidente che non hai chiamato solo per
cortesia.» Ribatté lei senza scomporsi.
Trassi un respiro
profondo. «La Smith ci ha riportato i compito oggi e tu lo sai
che ho una relazione complicata con la matematica. Anzi, si può
dire che è un rapporto a tre se contiamo anche la prof. E si sa
che i triangoli non funzionano…»
«Scarlett.»
Mi interruppe Beth. «Va’ dritta al punto, mmh?»
«Ecco, è un’altra F. Sì, lo so che sono tante
e che avrei dovuto pensarci prima, però… Il punto
è che ho bisogno del tuo ragazzo.» Mi sarei voluta
sotterrare per il modo in cui avevo formulato quell’ultima frase.
«Adam? E a cosa ti servirebbe, scusa?» Domandò lei
ridacchiando.
«Beh, sabato, alla festa, siamo finiti a parlare
della scuola e lui ha detto che la matematica un po’ gli riesce.
E anche tu mi hai detto spesso che è un genio in queste cose
quindi mi chiedevo se… ecco, se io potessi chiedergli un
aiutino… Sai, giusto per rimettermi in carreggiata.»
Spiegai gesticolando.
«Mmh…» Ci fu una breve pausa
durante la quale rischiai qualcosa come tre infarti. «E avevi
bisogno di chiedermi il permesso?» Beth scoppiò a ridere.
«Andiamo Scarlett, lo sai che mi fido di te, no? Certo che puoi
farti dare ripetizioni. Anzi, se avessi saputo che andava così
male te l’avrei proposto io.»
«Sul serio?»
Chiesi cauta.
In realtà sapevo che non c’era bisogno di
tutto quel riguardo, ma avere a che fare con Adam, anche se
indirettamente, mi metteva, mio malgrado, un po’ a disagio.
«Sì,
tranquilla. Il suo numero già lo hai, dico bene? Chiamalo e
mettetevi d’accordo. Oppure parlargli di persona a scuola.
Insomma, fa’ un po’ come vuoi, ma sbrigati: non manca poi
così tanto alla fine dell’anno scolastico.» Si
raccomandò lei.
«Okay, okay… Grazie Beth,
davvero.» Mormorai quasi rassicurata.
«Figurati.»
Riuscii a percepire il sorriso nella sua voce. «Ora vado, scusa:
la pubblicità è finita e devono annunciare la vincitrice!
Ci sentiamo.» Riattaccò senza darmi la possibilità
di rispondere, ma non me la presi: sapevo com’era fatta. E quanto
ammirasse Tyra Banks.
Abbassai lo sguardo sul telefono e
improvvisamente mi sentii quasi nauseata: ma perché dovevo farmi
condizionare tanto da una cosa del genere? In fondo, si trattava solo
di una chiamata, e c’erano buone probabilità che mi
dicesse di no visto come l’avevo trattato due giorni prima.
Se
non fosse stato per Beth, e per mia madre, mi sarei anche potuta risparmiare quello che
si prospettava essere uno strazio: sarebbe stato tutto un esitare e un
darsi risposte brevi, fredde ed imbarazzate. Sospirai concludendo che
le entità superiori, o comunque chiunque abitasse i piani alti,
ce l’avesse con me e scorsi la rubrica fino al suo nome. Oddio,
ma davvero pensavo a lui come se fosse stato chissà cosa?
Dannazione, era solo un ragazzo. Con dei begli occhi, ma pur sempre un
diciassettenne avventato e piuttosto insistente. Non aveva niente di
speciale.
Rispose dopo quattro squilli e la sua voce suonò
esitante: «Pronto?»
«Ehi Adam, sono Scarlett.
Senti… uhm, ecco, volevo sapere, sei ancora disponibile per
quelle ripetizioni?» Dissi tutto d’un fiato, come per
togliermi un peso dalle spalle.
“Ecco, adesso dirà di no e
potremmo tagliare i ponti per sempre. Finalmente”, pensai tirando un silenzioso sospiro di sollievo.
Esitò per qualche secondo. «Oh… Ehm…
Sì, credo di sì.»
Ci mancò poco che mi
strozzassi con la mia stessa saliva. «Cosa?!»
«Non
è quello che volevi? Cioè, mi hai chiamato per quello,
no?» Chiese lui con tono quasi confuso.
Aveva sia ragione sia
torto: sì, mi serviva il suo aiuto, ma no, non lo volevo.
«Ecco, sì. Però non voglio che sia un obbligo.
Insomma, se hai altri impegni posso farne a meno…» Tentai
sperando in un suo rifiuto.
«No, tranquilla. Un pomeriggio a
settimana lo trovo. Se questa organizzazione ti va bene, altrimenti ci
accordiamo su qualcos’altro, mmh? Dimmi tu come ti torna
meglio.» La sua risposta era calma e gentile: sembrava aver
ritrovato il suo solito contengo.
Deglutii cercando contemporaneamente di resistere all'impulso di sbattere la testa contro il muro. «Mi sembra…
perfetto, sì. Uhm, che giorno ti andrebbe meglio?»
«Uno qualunque. Dimmi tu.» Replicò.
Imprecai
mentalmente per l’ennesima volta.
«M-mercoledì?»
«Okay.» Concordò.
«Senti, sei a scuola adesso? Magari possiamo vederci anche solo
per cinque minuti ed accordarci meglio sui dettagli.»
“Oddio, vuole vedermi!”, pensai allarmata.
«Oh… Sì, è… è okay.»
Sembrò un po’ sorpreso. «Bene. Ci vediamo alla
caffetteria tra un paio di minuti, d’accordo?»
Così
presto? No, non ero pronta. «D’accordo.»
Riattaccai
senza dargli il tempo di aggiungere nulla e sospirai: perché
aveva accettato di darmi ripetizioni? Perché non aveva fatto
appello al suo orgoglio mandandomi a quel paese? Perché mi
voleva aiutare? Non riuscivo a trovare un senso a tutto quello, non
riuscivo a capire lui e i suoi modi di fare ed avevo la certezza che
non ci sarei mai riuscita.
Quando arrivai alla caffetteria dietro la scuola lui
c’era già. E, come sempre, aveva un’espressione
pensierosa. Era appoggiato ad uno dei tavolini e sembrava piuttosto
disinvolto. Indossava una maglietta grigia sotto una felpa rosso scuro
e dei jeans semplici. I suoi occhi blu erano persi nel vuoto: forse
stava riflettendo sul perché le entità superiori fossero
così assenti in quell’ultimo periodo. O forse no, visto
che era un ragionamento stupido.
Contai fino a dieci, feci un respiro
profondo, mi ripetei che era per il mio stesso bene e lo raggiunsi.
Sollevò lo sguardo su di me con aria interessata e un angolo
della sua bocca si sollevò in un mezzo sorriso.
«Ehi.» Mormorò.
Mi fermai più bruscamente del
previsto davanti a lui. «Ehi.»
«Come va con i postumi
della sbronza?» Mi fece uno strano effetto sentire una parola
così… rozza pronunciata da lui: fin dalla prima volta che
l’avevo visto l’avevo sempre considerato troppo fine,
troppo etereo per usare un termine simile. Non aveva senso, lo sapevo,
eppure non riuscivo a fare a meno di pensarlo.
«Uh, abbastanza
bene. Sì, insomma, i licantropi reggono bene
l’alcol.» Risposi.
Lui annuì, come se lo sapesse
già. «Sì, me l’avevi detto. Solo che…
sembravi parecchio brilla: devi aver bevuto un sacco se nemmeno il tuo
metabolismo mannaro è riuscito a smaltire l’alcol
abbastanza in fretta da mantenerti sobria.»
Aprii la bocca per
ribattere, ma rinunciai e la richiusi: che diavolo gli avevo detto a
quella stupida festa? E quanto avevo bevuto se ero riuscita ad
ubriacarmi? Quanto mi ero messa nei guai?
«Oh… Ehm,
sì. Giusto. Beh, avevo bisogno di rilassarmi un po’,
ecco.» Balbettai distogliendo lo sguardo.
«La gente che si
vuole rilassare di solito non si beve bottiglie su bottiglie
superalcolici.» Mi fece notare lui inclinando appena la testa di
lato.
«Superalcolici?» La mia voce salì di
un’ottava: cominciando ad intuire quanto in là mi ero
spinta. Dovevo essere passata da una semplice birra a chissà
cosa. E lui aveva dovuto farmi da soccorritore improvvisato. Ero in una
situazione patetica.
«Sono abbastanza sicuro di aver visto
bottiglie di vodka, rum e simili vicino a te. Ed erano tutte
vuote.» Confermò.
Stranamente, non sembrava compiaciuto o
divertito; solo lievemente preoccupato, anche se non aveva motivo per
esserlo. O forse sì, visto che non avevo la più pallida
idea di cosa avevo potuto dire mentre ero sotto l’effetto
dell’alcol: per quanto ne sapevo potevo anche avergli detto che a
quattro anni facevo il bagno al mare senza costume.
Mi passai una mano
tra i capelli nervosamente. «Comunque… Siamo qui per
parlare di altro, giusto?»
I suoi occhi blu tempesta mi
studiavano attenti. «Giusto.» Si sedette al tavolino a cui
era appoggiato invitandomi con un cenno a fare lo stesso.
Aspettò che mi accomodassi di fronte a lui prima di continuare:
«Il mercoledì mi va bene qualunque ora, quindi dimmi quale
preferisci tu.»
“Lo stiamo facendo sul serio!”,
pensai agitata. «Oh, bene. Direi… le quattro?» Tirai
fuori il primo orario che mi venne in mente sperando di sembrare
naturale, spontanea, e non sull’orlo di una crisi di nervi.
Annuì. «Perfetto. E, un’altra cosa, dove
preferiresti fare lezione? Voglio dire, la biblioteca della scuola
chiude alle quattro quindi non possiamo farla lì. Rimangono casa
mia e casa tua.»
Non avevo minimamente pensato a dove avrei
studiato con lui, così mi ritrovai a fissarlo mentre cercavo di
decidere quale delle due opzioni fosse la meno pericolosa e
imbarazzante: portarlo in casa mia significava espormi troppo e dargli
troppa libertà di movimento, però era anche un
ambiente a me familiare dove mi sentivo a mio agio; andare da lui
sarebbe stato come andare per la prima volta in un paese straniero,
ovvero in un posto che non conoscevo assolutamente. E, in più,
ci sarebbe stata la sua famiglia e conoscerla era l’ultima delle
cose che volevo fare nella mia vita.
«Uhm…
Ehm…» “E adesso?”, mi chiesi, “Che
diavolo gli dico?”
«Secondo me casa mia va bene.»
Aggiunse lui studiandomi in attesa di una mia risposta.
Rischiai, per
l’ennesima volta, di strozzarmi a quelle parole: casa sua?! No,
mai e poi mai. Più volentieri avremmo fatto lezione in auto.
«Non so se è una buona idea.» Riuscii a dire.
«Insomma, ci saranno i tuoi e tuo fratello e…»
«Oh, no, tranquilla.» Replicò lui.
Lo guardai
socchiudendo gli occhi, sospettosa e cauta. «Che vuol dire no?
Vivi da solo per caso?»
«No, però io intendevo la
casa nel bosco. Hai presente quale, no? Non ci va mai nessuno e io ho
la chiave quindi ho pensato che potrebbe funzionare.»
Spiegò.
Inconsapevolmente, tirai un sospiro di sollievo.
«Ah. Beh, in questo caso allora sì, potrebbe
andare.»
Mi fece un piccolo sorriso che aveva un qualcosa di
incoraggiante. «Se per te è okay posso passarti a prendere
io mercoledì, mmh?»
«Mi fai addirittura il servizio
di taxi?» Ironizzai incrociano le braccia al petto.
«Immagino che tu non sappia dov’è la casa, dico
bene? Quindi, per evitare spiacevoli inconvenienti come tu che ti perdi
e io che devo venire a cercarti, posso accompagnarti io. Anche se, devo
dire, mi sei sembrata piuttosto a tuo agio nella foresta.»
Ribatté ricambiando l’occhiata con aria di sfida e
appoggiando i gomiti sul tavolo.
Colsi un lampo nei suoi occhi blu e non potei non interpretarlo come un implicito segno di sfida.
«Okay, sì, ammetto di non
averci pensato.» Convenni non volendo dargli corda. «Quindi mercoledì passi
da me verso che ora?»
«Dieci alle quattro?» Propose.
Mi strinsi nelle spalle. «Per me va bene.»
Adesso
però veniva il tasto dolente. «E per quanto riguarda i
soldi? Cioè, quanto prendi a lezione?»
La mia domanda
sembrò spiazzarlo, anche se fu solo per un attimo prima che
riprendesse il suo solito contegno. «Credo che per la prima volta
potremmo limitarci a guardare un po’ a che punto sei e decidere
insieme da dove partire, su cosa concentrarci di più e cosa sai
meglio. Per i soldi ci sarà tempo dopo.»
“Mmh… Professionale il ragazzo”, commentò una
vocina nella mia mente, e dovetti darle ragione. «Sicuro?»
Scrollò le spalle. «Sì, sono sicuro.»
«Okay, bene.» Mormorai.
Lui fece per aggiungere qualcosa,
ma si interruppe e tirò fuori il telefono dalla tasca dei jeans.
Doveva aver messo la vibrazione visto che non l’avevo sentito
squillare.
Adam si portò il cellulare all’orecchio.
«Pronto?»
Aggrottò la fronte mentre ascoltava la
risposta. Riconobbi la voce: Michael, quel suo amico con il sorriso
malizioso. Sembrava piuttosto sconvolto. Adam mi rivolse uno sguardo
che sembrava voler dire “scusa, è importante” prima
di alzarsi recuperando lo zaino.
«Sì, sì, sto
arrivando…» Borbottò prima di guardarmi. «Ci
vediamo mercoledì, mmh?»
Feci appena in tempo ad annuire
prima che lui, dopo un breve sorriso, si dileguasse tra gli altri
studenti. Rimasi a guardarlo per un attimo, interdetta e quasi delusa
dal brusco finale della nostra conversazione.
Mi presi la testa tra le
mani cercando di rimettere insieme le idee: tra due giorni lo avrei
rivisto, avremmo passato del tempo insieme, gli avrei mostrato le mie
debolezze. Ed era una cosa che odiavo fare, in qualunque circostanza.
«Mamma, sono a casa!» Esclamai entrando e chiudendomi la
porta alle spalle.
Ero stata da Beth per buona parte del pomeriggio, un
po’ perché volevo assicurarmi che non lanciasse niente
contro la televisione dopo che la sua modella preferita era stata
eliminata, un po’ perché avevo bisogno di smettere di
pensare ad Adam. Certo, andare dalla sua ragazza non era stata
un’idea brillante, ma non mi era venuto in mente niente di
meglio.
Natalie si affacciò dalla cucina e mi sorrise.
«Tesoro!»
Era tornata quella mattina verso le nove
dall’Egitto e, nonostante avesse affrontato un sacco di ore in
aereo, sembrava allegra e solare come sempre. Lasciai cadere lo zaino a
terra un attimo prima che lei mi stritolasse in uno di quegli abbraccia
da post-viaggio che potevano incrinarti una costola.
Ricambiai la
stretta sentendomi decisamente sollevata: riaverla lì, anche se
sarebbe stato per poco, era molto rassicurante. Un assaggio di
normalità in mezzo a quel gran casino che era la mia vita.
«Come stai, tesoro?» Chiese rimanendo premuta contro la mia
spalla.
Sorrisi. «Tutto okay, mamma. Tu? Bello
l’Egitto?»
Si scostò da me per guardarmi in faccia e
annuì. «Molto bello e molto caldo. Ci tornerei volentieri,
magari con te.»
«Sarebbe fantastico.»
Replicai.
«Mi stavo facendo un tè, ne vuoi?» Chiese
lei con la sua solita aria premurosa.
«D’accordo.»
Mormorai più per farla felice che per altro.
Mi sorrise tutta
contenta prima di avviarsi in cucina. La seguii e mi sedetti al tavolo.
Mi dava le spalle, quindi potevo osservarla con più calma:
indossava dei jeans scoloriti, un maglione arancione -aveva sempre
avuto un grande passione per i colori accesi- e aveva raccolto i
capelli in una crocchia morbida tenuta ferma da… una penna?
Sì, era proprio la penna della compagnia aerea per cui lavorava.
Si voltò verso di me con due tazze fumanti in mano. Me ne mise
una davanti, quella con il disegno di una renna e di un pinguino che
indossava dei cappelli come quello di Babbo Natale. Su quella di mia
madre c’erano una scritta, keep calm and drink coffee, e dei
piccoli chicchi di caffè.
«Allora tesoro, come va a
scuola?» Chiese mia mamma guardandomi con aria entusiasta come un
bambino quando riceve il giocattolo che ha sempre desiderato.
Ringraziai la tazza, forse giusto un po’ troppo natalizia, che mi
nascondeva il viso: perché mia madre riusciva a trovare sempre
l’argomento di cui non volevo parlare? Bevvi un piccolo sorso di
tè scottandomi la lingua, e tossicchiai nervosamente.
«Oh… Ehm, bene.»
«E matematica?»
Insistette lei prendendo la sua tazza con entrambe le mani.
Distolsi lo
sguardo, come se di colpo la credenza fosse diventata interessante.
«Non così male, dai. Cioè…»
“Diglielo”, suggerì una vocina nella mia mente.
«Ho deciso di prendere ripetizioni.»
Sorprendentemente, lei
sembrava contenta. «Mi fa piacere. Voglio dire, fai bene a
chiedere aiuto se ti serve. Dimostri di essere matura.»
Abbassai
gli occhi sul mio tè non potendo fare a meno di sentirmi un
po’ in colpa. «Grazie mamma… Però forse avrei
dovuto pensarci prima.»
Lei allungò una mano e la mise
sulla mia. «Sai come si dice? Meglio tardi che mai. E sono sicura
che riuscirai a recuperare, non importa quanto siano bassi i tuoi voti:
se ti impegni puoi farcela.»
Mi lasciai sfuggire un sorriso: se
c’era una che adoravo di mia madre era proprio questa sua
capacità di dire la cosa giusta al momento giusto e riuscire ad
incoraggiarmi anche quando le prospettive sembravano le peggiori.
«Spero di sì. Voglio arrivare al prossimo anno senza
debiti.»
Sorrise anche lei. «Chi è che ti da
ripetizioni? Elisabeth?»
Ci mancò davvero poco
perché mi strozzassi con il tè. «Uh… In
realtà no. Mi sono messa d’accordo con… con un
ragazzo del mio anno. Mercoledì facciamo la prima
lezione.»
La sua espressione si fece quasi maliziosa.
«Mmh… E lui com’è? Carino?»
“Se
vuoi usare un eufemismo sì”, commentò la vocina di
prima. «Più o meno…»
Lei ridacchiò.
«Qualcuno qui non sta dicendo la verità: sai, noi mamme le
vediamo queste cose. Allora, com’è?»
Sospirai
alzando gli occhi al cielo. In realtà parlare di Adam con
qualcuno completamente estraneo ai fatti mi sembrava decisamente un
sollievo. «Ecco, lui è… abbastanza piacevole da
guardare, diciamo. Ha gli occhi azzurri. E sembra sempre pensieroso. E
ha il vizio di mordersi il labbro, lo fa di continuo. E ha i lineamenti
quasi inglesi, credo. Sì, insomma, sono sofisticati in un certo
senso, ben delineati eppure non troppo decisi. E poi…» Mi
fermai per un attimo: una parte di me mi diceva di finirla lì,
l’altra di continuare perché avevo bisogno di sfogarmi un
po’ riguardo a quel ragazzo così enigmatico.
«E
poi?» Mi esortò mia mamma guardandomi con un lieve sorriso
ad incresparle le labbra.
Sospirai. «E poi è difficile da
gestire. Voglio dire, sembra sempre controllato e non ha paura di dire
quello che pensa, e questo a volte mi disorienta.»
Con lei non
avevo bisogno di fingere, di mostrarmi inattaccabile, non mi serviva
far finta che niente mi toccasse. Per fortuna: se avessi dovuto
recitare una parte anche con la mia stessa madre sarei andata fuori di
testa.
Natalie posò i gomiti sul tavolo e appoggiò il
mento sulle mani intrecciate. «Sembra un tipo interessante. Come
vi siete conosciuti?»
Giocherellai con il manico della mia tazza.
«Ecco, a dirla tutta, lui è il ragazzo di Beth.»
«Oh… Che peccato.» Mormorò mamma stringendo
le labbra. «Cioè, sono felice per lei, ma…»
«Guarda che Adam non mi piace mica.» Protestai intuendo
dove voleva andare a parare. «È carino, ma niente di
più.»
Non sembrava convinta. «Okay… Se ne sei
sicura…»
«Certo che sono sicura: è la mia
migliore amica, non le farei mai una cosa del genere.» Dichiarai.
«Ti credo, tesoro, so quanto vi volete bene.» Convenne
mia mamma con un piccolo sorriso. «A proposito, Elisabeth come
sta?»
«Bene. Ha l’influenza, ma sta abbastanza
bene.» Risposi.
«Spero guarisca presto. Quando la rivedi
puoi salutarmela?» Chiese probabilmente ripensando a tutte le
volte che Beth aveva dormito da noi, a quando l’avevo pregata di
farmi rimanere a cena a casa della mia migliore amica, al giorno in cui
eravamo state male entrambe perché avevamo mangiato un intero
pacchetto di biscotti di nascosto.
Annuii, sollevata da quel cambio
d’argomento. «Sì, certo.»
«Senti, che ne
dici se ordiniamo cinese stasera?» Propose allegra.
«Uh,
sì, volentieri.» Concordai.
Lei si aprì in un
sorriso luminoso, uno di quelli che cancellano rughe, stanchezza e
vecchie ferite, uno di quelli che ti fa credere, per un attimo, che
andrà tutto bene.
Probabilmente avrei consumato il pavimento se non mi fossi fermata.
Eppure non riuscivo a fare a meno di camminare su e giù davanti
alla finestra del soggiorno: avevo parecchio nervosismo da sfogare e
quello era l’unico modo che mi era venuto in mente. A parte fare
a pezzi tutti i cuscini della casa.
“È solo Adam, solo
Adam. Non è niente di importante”, mi dissi. Già,
in fondo era solo il ragazzo che conosceva il mio più grande
segreto e che mi aveva vista ubriaca, niente di che.
Mi diedi
dell’idiota da sola: ero stata io a chiedergli di aiutarmi quindi
adesso era inutile che mi facessi prendere dal panico. Dovevo
affrontare le conseguenze della mia decisione e smettere di
autocommiserarmi. Il cellulare, che avevo abbandonato sul divano,
vibrò un paio di volte segno che mi era arrivato un messaggio.
Mi avvicinai, cauta, e gli lanciai un’occhiata: era di Adam,
ovviamente. Ci sono.
Io non c’ero per niente invece, dovevo
ancora realizzare che stavamo per passare almeno un’ora insieme
solo io e lui. Trassi un respiro profondo, mi sistemai la camicia e
presi zaino e telefono prima di uscire. Mi imposi di mantenere
un’espressione neutrale mentre camminavo verso la sua auto, ma
divenne un proposito difficile da mantenere quando mi ritrovai seduta
accanto a lui, con così poco a separarci che quasi mi sembrava
di sentire il calore del suo corpo, come quando eravamo stati
praticamente abbracciati a quella festa.
Mi accorsi che mi stava
osservando, magari in attesa di un saluto o qualcosa del genere. Beh,
come dargli torto? In fondo, mi stava facendo un favore.
Mi schiarii la
gola. «Ehi.» “Che fantasia”, pensai subito dopo
aver parlato.
Un sorriso lievemente divertito gli increspò le
labbra. «Ehi.»
«Sei di buon’umore.»
Commentai senza riuscire a trattenermi.
«Abbastanza.»
Convenne.
Mi voltai verso di lui e mi trovai a dover fronteggiare i
suoi occhi color tempesta. «Posso sapere il motivo?»
«Sono stato da Elisabeth prima: sta meglio e ci sono buone
probabilità che domani torni a scuola.» Rispose mettendo
in moto l’auto.
Mi morsi l’interno della guancia mentre lui
parlava. Perché mi metteva a disagio sentirlo parlare di Beth?
Era la sua ragazza, era ovvio che stesse bene con lei, no? E poi lui
non mi piaceva, né in quel senso né in altri. Anzi, si
poteva dire che riuscivo a stento a sopportarlo.
«Bene.»
Ribattei. «Solo che… se non mi sbaglio avevi detto che lei
non era esattamente il tuo tipo…»
Annuì appena stringendo le
labbra. «Vero. Ma ho cambiato idea.» Mi lanciò
un’occhiata di sottecchi. «Dovresti essere contenta: non
c’è più il rischio che io la ferisca.»
Sorrisi in modo quasi beffardo. «Non credere che basti
così poco a farmi abbassare la guardia.»
Aggrottò
appena la fronte. «Suona come una minaccia.»
«Un
po’ lo è.» Confermai.
«Riusciremo mai a
parlare senza che tu mi minacci?» Chiese con un sospiro.
Feci
finta di prendere in considerazione l’idea per un attimo.
«No.» Decisi infine.
Lui alzò gli occhi al cielo.
«Sarà una lunga giornata.»
Non lo dissi a voce alta,
ma dentro di me pensai che avesse proprio ragione.
SPAZIO AUTRICE: Eccomi qua con il quindicesimo capitolo :3
Scarlett ha ceduto e ha chiesto aiuto ad Adam,
anche se il suo orgoglio le ha creato qualche problema a riguardo. E
lui? Adam ha accettato, com'era prevedibile, perché spera ancora
di riuscire a convincerla a parlare e, perché no, a fidarsi di
lui. Perché sì, per Adam la fiducia è importante e
la considera fondamentale in qualunque tipo di rapporto. Certo,
stringere amicizia con un licantropo non è un'impresa da poco,
ma lui non vuole arrendersi.
Prima che mi passi di mente, c'è una cosa che voglio dirvi riguardo lo scorso capitolo:
all'inizio avevo pensato di inserire un bacio tra Scarlett ed Adam nel
momento in cui sono davanti a casa di lei. Pensavo ad un bacio a stampo
o comunque a qualcosa di breve, leggero, ma poi ho deciso di non farlo.
Perché? Perché andava contro uno dei principi in cui Adam
crede di più: la lealtà.
È vero, magari Elisabeth non è la sua ragazza ideale,
magari neanche voleva mettersi con lei, ma di sicuro non la
tradirà, non di sua spontanea volontà. Semplicemente,
tradire, in qualunque senso, va contro la sua natura. E poi,
probabilmente Scarlett lo avrebbe strozzato se si fossero baciati, ubriaca o meno.
Nonostante questo, chissà, magari più avanti potrebbe succedere.
Di nuovo, penso di averi detto anche troppo quindi vi ringrazio infinitamente e ci risentiamo al prossimo capitolo.
TimeFlies
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Capitolo 16 *** 16. Adam ***
Under a Paper Moon- capitolo 16
16. Adam
Non avevo mai dato ripetizioni e cominciare con qualcuno con il
carattere estremamente lunatico di Scarlett non mi sembrava il modo
migliore di iniziare a lavorare. C’era da dire che avevo
raggiunto il mio obbiettivo, piuttosto stupido ed inutile, ovvero
starle vicino almeno per un po’. L’unico problema era che a
quel punto non avevo idea di quale sarebbe stata la mia prossima mossa.
Contrariamente a quello che pensavo, la lezione si rivelò
abbastanza… non piacevole, ma calma, senza ringhi o scatti di
rabbia, anche se Scarlett rivolse epiteti tutt'altro che lusinghieri
alla sua prof e alla matematica in generale.
Ci eravamo seduti al tavolo della cucina, l’uno di fronte
all’altra come a voler mantenere le distanze; in mezzo a noi
quaderni, libri e fogli pieni di esercizi, formule e definizioni varie.
Scarlett rimase sempre sulle sue e mi lanciava occhiate sospettose
praticamente ogni volta che credeva fossi concentrato su altro. Fui
tentato di affrontarla a viso aperto e chiederle quale fosse il
problema, ma mi dissi che era meglio non tirare troppo la corda,
avevamo già fatto dei notevoli passi avanti, ci sarebbe stato
tempo dopo per quella mia strana e incomprensibile attrazione.
«La definizione di disequazione?» Chiesi guardandola.
Lei si lasciò sfuggire una smorfia. «Uh… Non credo
di averla scritta.»
«Sì, invece.» Replicai. «È qui, sotto il testo di Fake Your Death.»
Aggiunsi indicandole la pagina del suo quaderno, aperto sul tavolo
davanti a me.
Si bloccò all’improvviso con la penna a mezza strada verso
la bocca e mi guardò con gli occhi spalancati. «Conosci i
My Chemical Romance?»
Mi strinsi nelle spalle. «Sì. Non tutte le canzoni, ma
qualcuna la conosco.»
Lei schiuse le labbra, come se non si fosse trovata di fronte a
chissà quale strano fenomeno. «Non ci credo… Beth
pensava che fossero un profumo… E adesso tu mi dici che ti
piacciono.»
Mi lasciai sfuggire un sorriso. «Davvero Elisabeth credeva che
fossero un profumo?»
«Sì!» Esclamò lei con il tono di chi ha
finalmente trovato qualcuno capace di capirla. «E in più
ha detto che i testi non hanno senso…» Scosse appena la
testa. «C’è da dire che lei ascolta quella roba
commerciale da discoteca quindi…»
Mi mordicchiai il labbro per non sorridere di nuovo. «In effetti
lei mi sembra il tipo che ascolta musica più… moderna e
comune.»
«Ma tu non mi sembravi il tipo che ascolta i My Chemical Romance,
o simili. Credevo ti piacesse roba più…
tranquilla.» Ribatté lei inclinando appena la testa di
lato.
«L’apparenza inganna.» Risposi. «E se stai
pensando alla musica classica ti sbagli di grosso.»
Distolse lo sguardo. «N-non stavo pensando a quella.»
Fu piuttosto difficile non mettermi a ridere di fronte alla sua
espressione colpevole. «No, certo.»
Lei mi scoccò un’occhiataccia e mi tirò un calcio
da sotto il tavolo. «Falla finita.»
Alzai le mani in segno di resa. «Okay, okay… Certo che sei
suscettibile, eh?»
L’oro nelle sue iridi si fece più intenso. Sarebbe potuto
essere un brutto segno, se, nello stesso momento, non avesse sorriso.
«Ricordati con chi hai a che fare.»
La guardai negli occhi sfidandola apertamente. «Non ho paura di
te.»
Lei sbatté le palpebre lasciando che il marrone tornasse a
predominare e abbassò lo sguardo. «Lo so. Dovresti averne
però.»
«Perché?» Chiesi appoggiando la schiena alla sedia.
Sembrò spiazzata dalla mia domanda. «Perché sono un
lupo mannaro.» E dal tono con cui lo disse capii che lo
considerava più che ovvio.
«Avere paura di questo tuo lato sarebbe come generalizzare.
Sì, insomma, sarebbe come dire che ho paura delle leggende sui
licantropi.» Le feci notare.
«Saranno anche esagerate, ma un fondamento di verità
magari c’è.» Ribatté.
«O magari no. La gente ha paura del diverso.» Mormorai.
Chiuse gli occhi per un attimo. «Adam, lo sai come la penso:
avvicinarti a me è pericoloso. E lasciartelo fare è stato
stupido, ma ormai è tardi per tornare indietro.»
«Vero. A questo punto puoi solo darmi una
possibilità.» Una parte di me si aspettava che mi saltasse
alla gola per una frase del genere, soprattutto dopo tutte le storie
che aveva fatto sul mantenere le distanze.
Invece sembrò solo tanto stanca. «Dio, quanto sei
insistente. Ancora devo capire che ci trovi di tanto interessante in
me.»
“Tante cose”, rispose una vocina nella mia mente.
«Non lo so neanche io, ma se mi dai la possibilità di
aiutarti potremmo scoprirlo.»
«Non servirebbe a nulla.» Decise. «Che mi avevi
chiesto prima?»
Non insistetti: in fondo, a che poteva servire? A renderla ancora
più ostile nei miei confronti? No, era meglio tenerla buona
finché potevo. «La definizione di disequazione.»
Si lasciò sfuggire di nuovo una smorfia anche se qualcosa nel
suo sguardo mi fece capire che mi era grata per aver lasciato perdere i
miei tentativi di andare oltre.
Via via che le settimane passavano e che le lezioni continuavano,
Scarlett sembrava cominciare a perdere quella sua aria sospettosa e
cupa. A volte arrivava addirittura a sorridermi. Certo, erano sorrisi
brevi e di circostanza, ma erano un inizio.
Elisabeth si era ripresa dall’influenza ed era tornata, sicura di
sé e allegra come sempre. Anche se inizialmente ne ero rimasto
molto sorpreso, stavo cominciando a stare bene con lei. Era una
compagnia più che piacevole quando non parlava di vestiti, e,
devo ammetterlo, tutta quella sua sicurezza era piuttosto affascinante.
L’unica cosa che non mi piaceva molto di lei era la sua
incredibile voglia di uscire ogni sabato sera per andare ogni volta in
una discoteca diversa e ogni volta con un gruppo di persone diverse.
Non riuscivo ancora a capire come facesse a conoscere tanta gente, ma,
soprattutto, come facesse a ricordarsi tutti i nomi.
«Che ne dici di uscita a quattro sabato?» Propose Elisabeth
sedendosi accanto a me su una panchina nel cortile della scuola e
osservandomi con quei suoi grandi occhi scuri.
«A quattro? E chi ci sarebbe?» Chiesi ricambiando
l’occhiata.
«Io, tu, Scarlett e il suo ragazzo.» Spiegò lei risistemandosi il colletto della camicetta che indossava.
«Scarlett ha un ragazzo?» Non avrei dovuto dirlo, lo
sapevo, ma ormai era tardi.
Lei non sembrò farci troppo caso. «Sì. Si chiama
James se non mi sbaglio. Allora, che ne dici?»
Uscire con Scarlett non mi sembrava poi una grande idea, soprattutto se
ci sarebbe stata anche Elisabeth, ancora all'oscuro di tutto quello che
c'era stato tra me e la sua migliore amica. Ma come potevo rifiutare?
Mi serviva un motivo valido per farlo, però non potevo rivelare
i miei trascorsi con Scarlett, quindi non avevo una scusa.
«Per me va bene. Lei lo sa già?» Domandai sperando
che non intuisse il mio nervosismo.
«No.» Si strinse nelle spalle. «Mi è venuto in
mente stamattina.»
Una piccola parte di me pensò che vivere alla giornata come
faceva lei non rientrasse per niente nelle mie corde. «Ah.
Bene.»
Lei sorrise, soddisfatta, e mi diede un bacio veloce. «Perfetto.
Oh, prima che me ne dimentichi, probabilmente nel locale ci saranno
altri miei amici, ma non è un problema, giusto?»
In effetti, mi sembrava che in un’uscita a quattro ci fossero
troppe poche persone per i suoi soliti standard. «Ehm, no, non
credo.»
Il suo sorriso si fece malizioso. «Ottimo.»
Trovai appena il tempo di ringraziare il cielo per il fatto che
c’erano poche persone nel cortile della scuola quando Elisabeth
mi mise le braccia intorno al collo e mi baciò come se fossimo
stati completamente soli.
«Certo che potevi mettertela una gonna…»
Commentò Elisabeth lanciando un’occhiata critica a
Scarlett.
La diretta interessata alzò gli occhi al cielo.
«Sì, certo, e poi magari anche un corsetto. Col cavolo che
mi metto una gonna.»
A dir la verità, nemmeno io ce la vedevo con un vestito. Mi
sembrava che la vera Scarlett fosse quella che avevo davanti, quella
con indosso una canottiera blu che le lasciava la schiena scoperta e
dei jeans neri molto aderenti. Aveva lasciato i capelli completamente
sciolti, come se non gliene fregasse niente di come appariva. Una linea
di trucco nera le scivolava sulla palpebra attirando l’attenzione
sui suoi occhi marrone dorato. Al collo portava un piccolo ciondolo
argentato a forma di foglia.
Accanto a me, Elisabeth sbuffò spazientita. «Ma hai delle
belle gambe, perché non mostrarle?» Guardò il
ragazzo accanto alla sua migliore amica. «Vero che ha delle belle
gambe?»
James, così mi sembrava si chiamasse, spalancò gli occhi
e balbettò qualcosa. Non mi sembrava un tipo molto di compagnia,
anzi, dava l’impressione di essere piuttosto timido anche se
Elisabeth mi aveva detto che suonava in gruppo.
Scarlett arrossì di colpo e fulminò Elisabeth con
un’occhiataccia. «Perché lo chiedi a lui, scusa? E
poi che c’entra se ho delle belle gambe o no? Odio le gonne in
generale.»
«Perché è il tuo ragazzo, ecco perché
gliel’ho chiesto.» Replicò Elisabeth come se fosse
stata la cosa più ovvia del mondo.
Alcuni ragazzi intenti a fumare vicino all’entrata della
discoteca si girarono a lanciarle un’occhiata: non si poteva dire
che Elisabeth avesse una voce che passava inosservata. Soprattutto
quando faceva quelle esclamazioni improvvise.
Mi chinai su di lei per sussurrarle all’orecchio: «Forse
è meglio se entriamo, mmh?»
Capì subito la mia allusione allo strano spettacolo che lei e
Scarlett stavano imbastendo e annuì con aria decisa.
«Sì, andiamo.»
Al contrario della sua migliore amica, Elisabeth aveva scelto con cura
cosa indossare: l’abito rosso scuro le fasciava il corpo
mettendone in risalto le forme, i tacchi le slanciavano le gambe, i
capelli raccolti le scoprivano la pelle chiara del collo, gli orecchini
di dorati le illuminavano il viso.
Quando entrammo nel locale mi ci volle un po’ per abituarmi alla
mancanza di luce e alla musica martellante. Elisabeth sembrava
perfettamente a suo agio, invece, come non ci fosse stata tutta quella
gente.
«Stammi vicino.» Si raccomandò con un sorrisetto.
Dietro di noi, sentii Scarlett borbottare qualcosa in tono irritato, ma
non riuscii ad afferrare nessuna parola.
«Oh, c’è Cindy!» Esclamò Elisabeth.
«Ti va di conoscerla?» Aggiunse voltandosi verso di me.
«Sì, perché no.» Risposi.
In realtà non morivo dalla voglia di incontrare l’ennesima
amica di Elisabeth, più che altro perché qualcosa mi
diceva che prima o poi avrei confuso il suo nome con quello di qualcun
altro. Elisabeth mi fece un sorriso compiaciuto, poi si girò
verso il centro della discoteca e si sbracciò come per attirare
l’attenzione di qualcuno.
Qualche secondo dopo una ragazza con lunghi capelli biondi visibilmente
tinti e occhi marroni circondati da un’impressionante
quantità di trucco nero ci raggiunse. Le sue labbra, rese lucide
e appariscenti dal rossetto, si incurvarono in un sorriso che mi sapeva
di stucchevole.
«Eli! Ciao!» Esclamò abbracciando Elisabeth.
La nuova arrivata, Cindy, indossava un vestito rosa scuro che le
arrivava a metà coscia e scarpe argentate con un tacco
vertiginoso. Sembrava molto sicura di sé, come quelle ragazze
che, nei film, fanno la parte della cheerleader perfida.
Cindy si staccò da Elisabeth sorridendole tutta contenta.
«Che bello rivederti, tesoro.»
Elisabeth ricambiò il sorriso. «Anche per me,
davvero.»
Sentii Scarlett sbuffare spazientita dietro di me e dovetti darle
ragione: l’atteggiamento di Cindy dava ai nervi anche a me.
Cindy spostò lo sguardo su di me e socchiuse gli occhi, come se
stesse valutando un vestito in una vetrina. «E lui chi
è?»
Elisabeth mi prese per mano e io, quasi senza rendermene conto,
intrecciai le dita alle sue. La finta bionda alzò un
sopracciglio di fronte a quel gesto e lanciò un’occhiata
ad Elisabeth, come a volerla incitare a parlare.
«Cindy, lui è Adam, il mio ragazzo.» Spiegò
Elisabeth.
«Oh, capisco.» Commentò lei. «Beh, è un
piacere conoscerti Adam.»
Non mi tese la mano e mi ritrovai a ringraziare le entità
superiori per questo: aveva le unghie lunghe e di un rosa molto accesso
che le faceva sembrare quasi pericolose. “Aspetta un
attimo”, pensai, “entità superiori?”. Quelle
erano roba di Scarlett, perché ci stavo pensando?
Cindy lanciò un’occhiata a qualcosa alle mie spalle e la
sua espressione si fece infastidita, anche se fu solo per un attimo
prima che quel sorriso stucchevole le tornasse sulle labbra.
«Scarlett, ciao!»
La diretta interessata fece un paio di passi avanti fino a trovarsi
accanto a me. Si era stampata un finto sorriso in faccia, ma si vedeva
comunque che si stava chiedendo cosa aveva fatto di male per finire in
una situazione del genere.
«Cindy… ciao.» Disse e mi sembrò che le
costasse un notevole sforzo di volontà.
La finta bionda faceva di tutto pur di non guardarla negli occhi.
«Oh, ehm… Vedo che anche tu sei in compagnia, dico
bene?»
Scarlett fece per stringersi nelle spalle come se il suo accompagnatore
non avesse avuto importanza, ma si fermò di colpo e
annuì. «Sì. James è il mio ragazzo.»
Lo avevo già sentito dire da Elisabeth, ma averne la conferma da
Scarlett stessa mi fece uno strano effetto, come se Lena fosse venuta
da me a dirmi che si era trovata un fidanzato: non sarebbe
stato… giusto.
“Ma che sto dicendo? Scarlett ha quasi diciotto anni, non posso
paragonarla a una bambina di quattro”, mi dissi. Ed era vero: non
aveva senso mettere a confronto due persone così diverse solo
perché una parte di me aveva una strana reazione quando veniva
nominato James in quanto ragazzo di Scarlett.
Un’ombra attraversò lo sguardo di Cindy. «Non posso
lasciarvi sole neanche per qualche settimana che vi accaparrate tutti i
bei ragazzi di Seattle, eh? Su, andiamo, gli altri ci stanno
aspettando.»
James sembrò compiaciuto di essere stato inserito nella
categoria “bei ragazzi”, io ero troppo distratto dalla
smorfia esasperata di Scarlett per farci caso: evidentemente non andava
pazza per gli amici di Cindy. E come darle torto se erano tutti come la
bionda finta?
Non ci volle molto perché praticamente tutto il gruppo di Cindy
fosse mezzo ubriaco. A dirla tutta, erano già a buon punto
quando ci unimmo a loro, quindi nel giro di un’ora o poco
più erano andati quasi del tutto. Da una parte era meglio
così, perché temevo di non riuscire a ricordarmi i loro
nomi. Non tutti almeno.
Avrei dovuto guidare io per tornare a casa, quindi non bevvi quasi
niente e cercai di evitare che Elisabeth esagerasse: visto quello che
era successo con Scarlett al compleanno di mia cugina non ci tenevo a
ritrovarmi con un’altra ragazza ubriaca desiderosa di raccontarmi
il suo passato o di farmi domande scomode.
«Facciamo il gioco della bottiglia!» Esclamò
qualcuno così forte da superare persino la musica che continuava
a martellare da quando avevamo messo piede in quel locale.
La proposta fu accolta con acclamazioni generali, saltò fuori
una bottiglia vuota di quella che sembrava vodka alla menta, e in
qualche modo mi ritrovai seduto su un divanetto di pelle di fronte ad
un tavolino con Elisabeth alla mia sinistra e Scarlett alla mia destra.
Il resto degli amici di Cindy, lei compresa, si era stretto su un altro
divano e su alcune sedie.
Una ragazza con lunghi capelli scuri si sporse verso il centro del
tavolo e vi posizionò la bottiglia. «Le regole le sapete,
no? La persona che verrà indicata dalla bottiglia dovrà
baciare chi è seduto alla sua sinistra. Senza se e senza ma.
Anche se è vostra sorella o vostro fratello.» E
ridacchiò, come divertita dalla sua stessa battuta.
Attorno a lei si levò un coro di risate e di incitamenti. Un
ragazzo biondo allungò un braccio e fece giare la bottiglia. Mi
appoggiai allo schienale del divano con un sospiro: si prospettava come
una notte fin troppo lunga.
Dopo l’ennesimo bacio e l’ennesimo applauso -di cui ancora
non capivo l’utilità-, la ragazza mora, tra una risatina e
l’altra, afferrò la bottiglia e la fece girare. Lei aveva
già baciato entrambi i ragazzi ai suoi lati, ma sembravano tutti
e tre troppo ubriachi per farci veramente caso.
Per fortuna il mio lato era stato relativamente ignorato ed era molto
meglio così: non mi andava di trovarmi al centro
dell’attenzione, per niente. Incrociai le braccia al petto mentre
guardavo distrattamente il legno del tavolo, perso nei miei pensieri:
continuavo a chiedermi se Michael sarebbe mai riuscito a fare veramente
chiarezza in quello che provava per chi. Dopo che aveva baciato quel
ragazzo alla festa di Selena, ne aveva parlato con Julia, che si era
rivelata più matura di quanto mi aspettassi. Gli aveva detto di
prendersi un po’ di tempo per riflettere, per capire se era
cambiato qualcosa in ciò che lui sentiva per lei.
Solo che, a distanza di settimane, Michael non aveva neanche un accenno
di risposta, e continuava a rimandare il momento in cui avrebbe dovuto
affrontare Julia di nuovo. Non doveva essere facile ritrovarsi un
dubbio del genere così, all’improvviso, per colpa di
qualcosa che avevi fatto quando non eri molto lucido, ma non poteva
continuare a far finta di nulla.
«Cosa?!»
Sbottò una voce che conoscevo forse anche troppo bene.
Sollevai lo sguardo giusto in tempo per vedere una Scarlett decisamente
furiosa che gesticolava protestando contro la bottiglia che la stava
indicando. “Perché fa tutto questo rumore? Deve baciare il
suo ragazzo, dov’è il problema?”, pensai. Poi mi
tornò in mente la voce della ragazza bruna che diceva che la
persona puntata dalla bottiglia doveva baciare quella alla sua
sinistra. E quindi, nel caso di Scarlett, quella persona ero io.
«Non è possibile!» Esclamò Scarlett.
«Andiamo, siamo sicuri che fosse a sinistra e non a
destra?»
«Sicurissimi.» Dichiarò il biondo che aveva dato
inizio al gioco.
«Se volete un po’ di privacy potete andare in bagno.»
Aggiunse qualcuno di cui non ricordavo il nome. Mi sembrava che fosse
qualcosa tipo Mark o Matt.
Scarlett lo fulminò con un’occhiataccia. «Nemmeno
per sogno.»
«Dobbiamo proprio farlo?» Mi sentii chiedere.
La ragazza bruna che aveva spiegato le regole fece per rispondere, ma
venne anticipata da Cindy, seduta accanto ad Elisabeth:
«Sì, dovete. Avete preso parte al gioco e adesso è
tardi per tirarvi indietro.»
Qualcosa nel suo sguardo e nel suo tono di voce quasi canzonatorio mi
fece capire che la mia prima impressione era giusta: non solo ne aveva
l’aspetto, Cindy era una cheerleader cattiva fino all’osso.
Il mio sguardo incrociò quello di Scarlett, frustrato e
rabbioso, ma lei lo distolse subito. Ne rimasi un po’ sorpreso:
non era da lei cedere per prima in un confronto visivo.
Intorno a noi, i ragazzi e le ragazze mezzi ubriachi insistevano a gran
voce perché ci fosse il bacio in modo da far continuare quello
stupido gioco. Scarlett si guardò intorno come un animale messo
all’angolo da un cacciatore prima di sospirare.
«D’accordo.» Disse a denti stretti. «Facciamolo
e basta.»
Spalancai gli occhi, sorpreso: era seria? «Scarlett… non
so se è una buon’idea.»
«Non lo è, infatti. Ma non abbiamo tanta scelta.»
Sembrava che non mettersi a ringhiare le costasse un grande sforzo.
Scivolò sul divano fino ad avvicinarsi a me quel tanto che
bastava perché avessimo il viso alla stessa altezza. Beh,
più o meno visto che ero più alto di lei.
«Facciamolo e basta.» Ripeté lei più a se stessa che a me.
Sembrava ansiosa di togliersi dai riflettori tanto quanto lo era stata
di evitare le mie domande.
Solo in quel momento mi ricordai che, oltre ad Elisabeth, c’era
anche James, seduto proprio accanto a Scarlett. Sollevai lo sguardo e
lo trovai intento ad osservare la sua ragazza sul punto di baciare un
altro con un’espressione da cucciolo bastonato in viso.
Tornai a guardare Scarlett cercando, nello stesso tempo, un modo per
farci uscire da quella situazione più che scomoda. A quel punto,
però, lei era già a pochi centimetri da me. Non eravamo
mai stati così vicini. E, prima che potessi rendermene davvero
conto, la stavo baciando.
SPAZIO AUTRICE: Ehilà :3
Innanzitutto buon Natale, anche se in ritardo, e buone feste! Spero che le stiate passando nel miglior modo possibile <3
Detto questo, beh, immagino di dovervi qualche spiegazione riguardo al
capitolo. Prima, però, volevo dire che non sono per niente
sicura di quali siano le regole del gioco della bottiglia, ho
semplicemente improvvisato e spero che esista una versione simile alla
mia.
Negli scorsi capitoli non ho accennato niente al bacio Adamett, ma solo
perché volevo che fosse completamente inaspettato. Lo è
stato per voi e lo è stato per Adam e Scarlett. Nel prossimo
capitolo capirete meglio perché Scarlett non si è tirata
indietro o non ha interrotto il gioco per non baciare quello che sembra
essere il suo peggior nemico, per adesso dovete accontentarvi di questo
piccolo assaggio. E sì, lo so che non è così che
vi aspettavate il loro primo bacio, ma prima che uno dei due realizzi e
si decida ad ammettere ciò che prova, o inizia a provare, per
l'altro dovrà passare parecchio tempo. Ho voluto semplicemente
sbloccare un po' la situazione.
Spero che questa mia scelta vi piaccia o che comunque non vi sembri troppo fuori luogo.
Un'altra cosa: probabilmente nessuno di voi conoscerà i My
Chemical Romance, ma sono uno dei miei gruppi preferiti e usare la
musica mi è sembrato un buon modo per creare una sorta di
collegamento tra Scarlett e Adam. Vi consiglio di ascoltarli se vi
piace il genere punk/rock.
Penso di aver detto tutto, quindi ancora auguri di buone feste e ci vediamo al prossimo capitolo.
TimeFlies
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Capitolo 17 *** 17. Scarlett ***
Under a Paper Moon- capitolo 17
17. Scarlett
Mi stavo odiando da morire in quel momento. Mi stavo odiando per aver
accettato di andare ad un'uscita a quattro con Elisabeth e Adam. E James.
Mi stavo odiando per essermi seduta accanto a lui.
Mi stavo odiando per non aver protestato di più. Ma,
soprattutto, mi stavo odiando perché una parte di me era ansiosa
di provare com’era baciarlo.
Per questo ci doveva essere una sola spiegazione: ero impazzita.
Completamente impazzita. Da ricovero.
I suoi occhi blu si spostarono su di me e sembravano decisamente
sorpresi. Fece per dire qualcosa, probabilmente un altro tentativo di
fermare quella follia, ma non gli diedi tempo di farlo: mi allungai
verso di lui e premetti le labbra sulle sue stando attenta a mantenerle
ben strette.
Lo sentii sussultare, sorpreso, ma non si ritrasse. Eppure speravo che
almeno lui avesse un briciolo di buon senso che lo portasse a fermare
tutto quello. Invece anche lui sembrava troppo confuso per fare
qualcosa di costruttivo.
Nonostante tutto, stava andando abbastanza bene, per modo di dire: ci
stavamo limitando ad un semplice bacio a stampo, di quelli che non
valgono nulla, quelli che consideri importanti quando hai dieci anni ma
che poi cominci a trovare quasi ridicoli anche se li ricordi comunque
con una certa nostalgia.
Poi uno di noi due ebbe la brillante idea di provare a schiudere le
labbra dell'altro, che non si fece problemi ad assecondarlo.
Così mi ritrovai a baciarlo sul serio, con la sua bocca che si
modellava sulla mia e il suo respiro che era diventato anche mio, che
era diventato nostro. L’idea di condividere qualcosa con lui mi
mandò ancora più in confusione, tanto che per un attimo
gli lasciai prendere il controllo: fino a quel momento avevo fatto di
tutto per mantenermi distaccata, per non farmi coinvolgere e per non
far trasparire nessuna emozione.
Adesso invece mi ritrovai a dover soffocare sia una specie di calore
che mi stava nascendo all’altezza dello stomaco sia il desiderio
di infilargli le dita tra i capelli per tirarlo più vicino a me.
Sembrava che fosse lo stesso anche per lui, però, perché
sentii la sua mano scivolare verso la mia finché le nostre dita
non si sfiorarono. Grazie al cielo si fermò lì,
probabilmente perché si rese conto che ci stavamo cacciando
entrambi in un guaio enorme: c’erano buone possibilità che
Beth ci uccidesse visto che sembravamo, e devo ammettere che lo eravamo
davvero, piuttosto presi da quel dannatissimo bacio che non sarebbe mai
dovuto esistere.
Non ci avevo prestato molta attenzione, ma mi sembrava di ricordare che
i baci che si erano dati gli altri fossero durati molto meno del
nostro. E questo voleva
dire che stavamo combinando un grossissimo guaio proprio di fronte a
Beth e James. In effetti, ci stavamo rovinando con le nostre mani, ma
nessuno di noi due sembrava intenzionato a fare qualcosa per risolvere
quella scomodissima questione.
Quando, dopo quella che mi sembrò un’eternità, mi
allontanai da lui, rimanemmo a guardarci negli occhi per qualche
secondo, come se fossimo stati troppo coinvolti per rompere quel
contatto visivo o anche solo per guardarci intorno e capire quanti
danni avevamo fatto.
Adam aveva le labbra appena arrossate, ed ero certa che anche le mie
fossero così. Un altro segnale del fatto che avevamo esagerato.
Sentii a malapena l’applauso che fecero gli amici mezzi andati di
Cindy, ma sembrò avere un effetto diverso su di lui:
sbatté le palpebre e distolse lo sguardo riportandolo sul tavolo.
Mi affrettai a fare lo stesso sentendomi quasi colpevole. E, in
effetti, un po’ lo ero.
Qualcuno si decise, finalmente, a mettere fine a quello stupido gioco e
andare a ballare. Sinceramente, avrei preferito nascondermi in bagno e
sperare di sprofondare, ma dovetti accantonare quel piano.
Elisabeth
aveva bevuto un bel po’ dopo il mio bacio con Adam, come se
avesse voluto pensare ad altro. Non potevo darle torto, però
continuavo a pensare che avrebbe combinato un casino. Anche Adam aveva
bevuto e questa volta non si era mantenuto molto sul leggero, il che
raddoppiava il rischio che si creassero situazioni di tensione.
Sorprendendomi, James mi prese per mano e abbozzò un piccolo
sorriso. «Ti va di ballare?»
Da qualche parte trovai il
coraggio di guardarlo negli occhi. «Sul serio?»
Si strinse
nelle spalle. «Sì. Insomma, perché no?»
Scossi appena la testa sentendo un sorriso incerto farsi strada sul mio
viso. «Hai ragione. Andiamo.»
Trovammo, per puro miracolo,
un angolo libero sulla pista da ballo. Con una sicurezza che non potei
fare a meno di trovare un pochino strana per lui, James mi tirò
verso di sé e posò le mani sui miei fianchi. Come aveva
fatto Adam. Cercando di non pensare a quello che era successo al compleanno di Selena,
misi le mie sulle sue spalle e provai a fare un sorriso degno di questo
nome.
«Allora… Come va?» Chiese James osservandomi.
«Uh… Bene.» Riposi esitante. «Tu?»
«È okay.» Replicò con voce misurata.
«Senti… Per quello che è successo prima,
ecco… Io non volevo, voglio dire…» Cominciai. Era
più difficile del previsto mettere insieme una frase sensata che non mi facesse passare per la sadica di turno.
«Non dobbiamo parlarne.» Disse lui. «Cioè, non
c’è niente di cui parlare. Sarebbe potuto succedere a me.
In fondo, era solo un gioco.»
“Già… Solo un
gioco…”, pensai poco convinta. «Mi fa piacere che la
pensi così. Credevo di aver combinato un casino.»
«Ma no.» Ribatté con un sorriso. «Insomma, mi
sembra stupido farne una tragedia. Non è niente di così importante, giusto?»
Annuii anche se non ero
sicura che sarebbe stato così facile. Mentre io e James ci
muovevamo lentamente fingendo di seguire la musica, mi guardai intorno
distrattamente cercando di sfuggire da quell'insistente vocina nella
mia mente che sembrava decisa a farmi venire i sensi di colpa.
Dovevo ammettere che quando c’era stato Adam
così vicino a me, non ero riuscita a pensare ad altro, a
distogliere l’attenzione da lui e dalle sue parole. Probabilmente
perché l’istinto mi diceva di tenere alta la guardia, di
non lasciargli prendere il controllo della situazione. Con James era
diverso, con lui non mi serviva stare sempre in tensione perché
lui non aveva idea di cosa fossi davvero, non sapeva che dentro di me
si nascondeva qualcosa di pericoloso.
Rimasi quasi a bocca aperta quando vidi
Adam ed Elisabeth, stretti l’uno all’altra, appena dietro
me e James. Avevano entrambi gli occhi chiusi e si stavano baciando in
un modo decisamente poco discreto. Le mani di lui scivolavano sulla
schiena di Beth seguendo la spina dorsale dall’alto verso il
basso e viceversa; le dita di lei, invece, giocherellavano con il
colletto della sua camicia, gli sfioravano il collo, si infilavano tra
i suoi capelli...
Mi
costrinsi a distogliere lo sguardo mentre risentivo le labbra di Adam
sulle mie, la sensazione di averlo così vicino eppure
così lontano.
«Va tutto bene?» Domandò James
guardandomi con aria preoccupata.
Annuii sperando di essere credibile.
«Sì, c-certo.»
Lui aggrottò le
fronte, poco convinto, e si lanciò un’occhiata alle spalle: evidentemente
aveva notato che c’era qualcosa dietro di lui.
Quando
tornò a voltarsi verso di me, aveva le labbra strette e sembrava
in imbarazzo. «Fanno sul serio, eh?»
Feci cennò di
sì senza guardarlo. «Già. Molto sul serio.»
“Perché non riesco a fare a meno di pensare che
andrà male?”, mi chiesi combattuta: sarei dovuta essere
felice per Beth e per come stava procedendo la sua relazione; invece
continuavo ad avere un brutto presentimento non solo su di lei, ma
anche su di me.
Forse stavo diventando un po’ paranoica con tutto
quello stress dovuto all’insistenza di Adam nel volermi conoscere
e ai brutti voti in matematica. Sì, doveva essere così:
insomma, non ero mica una veggente, come potevo anche solo pensare che
la storia tra Beth ed Adam sarebbe stato un disastro? E poi, loro due
sembravano andare così d'accordo, Beth era innamorata persa e
lui... beh, lui non pareva coinvolto fino a quel punto, però
c'era comunque attrazione. Ma sarebbe bastata a mantenere in piedi una
relazione?
Sembrava che il suo essere quasi etereo fosse scomparso di colpo
lasciando che il suo lato imperfetto e immaturo venisse fuori. Questa
era la visione più filosofica, la realtà era che si era
preso una sbronza con Elisabeth e ora ne stava pagando gli effetti.
Mal
di testa, voglia di dormire per anni, occhiaie… Chi
l’avrebbe mai detto che anche lui, il ragazzo dagli occhi blu e i
lineamenti raffinati, si sarebbe ubriacato e ne avrebbe subito i postumi?
La settimana precedente gli avevo chiesto di spostare la lezione al
lunedì perché James mi aveva chiesto di andare con lui al
cinema mercoledì e, sinceramente, preferivo una commedia
romantica banale ai limiti del sopportabile piuttosto che la matematica.
Adam aveva accettato senza problemi, anche perché non poteva
immaginare che avrebbe esagerato con l’alcol proprio il giorno
prima.
Incrociai le braccia al petto e appoggiai la schiena alla sedia.
«Direi che con questo siamo pari.»
«Eh?» Chiese
in un mugolio smorzato.
Se ne stava praticamente mezzo disteso sul
tavolo della sua casa nel bosco, con il viso sepolto tra le braccia;
sembrava quasi addormentato. Da un certo punto di vista, era strano
vederlo con le difese completamente abbassate, senza più
quell’aria infallibile: ero abituata a un Adam capace di
lasciarmi senza parole, di tenermi testa, adesso, invece, ero io quella
che teneva le redini della situazione.
«Tu mi hai vista ubriaca,
e adesso anch’io ti ho visto ubriaco.» Spiegai.
«Non
sono ubriaco.» Protestò senza tanta convinzione.
«No, ma meno di ventiquattr’ore fa lo eri. E io ero
presente.» Gli feci notare. «In più anche la mia
migliore amica si è presa una bella sbronza. E voi due vi siete
divertiti parecchio dopo il gioco della bottiglia. Sinceramente, non so
dire quante persone vi abbiano suggerito di prendervi una
camera.»
La sua risposta fu un gemito a metà tra il
frustrato e l’esasperato.
A dirla tutta non avrei voluto essere
così acida, né rammentargli i dettagli che sarebbe stato
meglio dimenticare, solo che non riuscivo a non sentirmi un pochino
ferita dal fatto che si fosse ubriacato proprio la sera in cui ci
eravamo baciati, come se avesse voluto cancellare quel ricordo
finché era fresco nella sua mente.
Certo, sapevo che era stato
solo uno stupido gioco senza valore, però ero comunque tentata
di chiedergli spiegazioni riguardo la sua voglia improvvisa di
assaggiare tutti gli alcolici del locale.
«Vuoi
un’aspirina?» Chiesi addolcendo la voce.
Sollevò il
viso e mi guardò con quei suoi occhi color tempesta. «Ce
l’hai?»
Il suo tono era speranzoso, come se gli avessi
offerto dell’acqua dopo che aveva passato settimane nel deserto.
Mi presi un attimo per osservarlo anche se la parte razionale di me
continuava a ripetere che non avrei dovuto farlo: era pallido, aveva
due ombre scure
sotto gli occhi, i capelli arruffati, l’aria di uno che non dorme
da mesi. Nonostante questo, c’era qualcosa in lui che lo rendeva
comunque affascinante, a modo suo.
Annuii ritrovandomi a sperare di
rassicurarlo. «Sì. Sai, il post-plenilunio è molto
simile ai postumi di una sbronza quindi…»
Lasciai la frase
in sospeso mentre mi allungavo verso lo zaino per prendere le
pasticche. Ne feci scivolare una davanti a lui, che la guardò
con aria pensierosa.
«Ti prendo un po’ d’acqua,
mmh?» Aggiunsi.
Senza aspettare una risposta, mi alzai, presi un
bicchiere dalla credenza e lo riempii per metà con l’acqua
del rubinetto prima di posarlo sul tavolo di fronte a lui. Tornai al
mio posto e incrociai di nuovo le braccia al petto.
«Grazie
Scarlett.» Mormorò con voce roca.
Scrollai le spalle.
«Mi hai riportata a casa sana e salva dalla festa di tua cugina,
ti sto solo restituendo il favore.»
Mi lanciò
un’occhiata mentre prendeva il bicchiere. Mi mordicchiai il
labbro e distolsi lo sguardo come a volergli lasciare un po’ di
tranquillità. Me ne resi conto all’improvviso, anche se
probabilmente andava avanti da un bel po’: non mi dava più
fastidio stare sola con lui. Tendevo ancora ad essere piuttosto
sospettosa, ma non tanto quanto i primi tempi.
Lo sentii posare il
bicchiere sul tavolo e sospirare. «Non avrei dovuto farlo.»
Tornai a guardarlo, incuriosita. «Non è stata un grande
idea, in effetti.»
Scosse la testa fissando qualcosa
all’altezza del tavolo. «Non volevo pensare… Ad
essere sincero non lo so perché. Ma ho fatto
un’idiozia.»
Lo capivo benissimo, era esattamente quello
che avevo fatto io alla festa di Selena. Forse non eravamo poi
così diversi, forse un punto d’incontro era possibile.
«Hai diciassette anni, non puoi pretendere di fare tutte le
scelte giuste o di avere tutto sotto controllo. Insomma, tutti gli
adolescenti fanno stupidaggini.» Anche tu che sembri superiore a
tutto questo, aggiunsi mentalmente.
«Lo so, lo so… Ma non
è da me. Neanche mi piace bere.» Replicò passandosi
una mano tra i capelli.
Mi lasciai sfuggire un sorriso amaro.
«Allora il nostro bacio deve proprio averti traumatizzato.»
Spalancò gli occhi e mi guardò, incredulo.
«Cosa?»
Abbassai lo sguardo, di nuovo sulla difensiva.
«Niente. Dimenticalo.»
«È quello che mi chiedi
sempre. Dimenticare.» La sua voce era incredibilmente calma.
«Come se potessi farlo.»
«Se tu lo volessi davvero,
potresti. Potresti lasciarti tutto alle spalle.» Insistetti.
«Scarlett, guardami.» La sua richiesta mi sorprese, ma mi
ritrovai ad accontentarlo.
Il suo sguardo non era severo o arrabbiato
come mi aspettavo, era intenso, quasi… bruciante. «Non
posso e non voglio dimenticare. E no, il nostro bacio non è
stato traumatizzante. Inaspettato sì, ma non orribile quanto
credi tu.»
«E allora com’è stato?» Mi
sentii chiedere. Quasi contemporaneamente mi venne voglia di mordermi
la lingua.
«Odierai qualunque risposta darò, lo sai
anche tu.» Replicò. «È inutile anche solo
provarci.»
Dovetti ammettere che aveva ragione. «Forse. Ma
ho baciato il ragazzo della mia migliore amica e adesso sono da sola
con lui: non è una bella situazione.»
Continuava a
guardarmi con una certa insistenza. «Stai esagerando, non
è niente di così importante.»
«C’erano
la tua ragazza e il mio ragazzo.» Ribattei.
Si strinse nelle
spalle. «È stato solo un bacio.»
“Oh, certo,
solo un bacio. Come se bastasse sminuirlo così per smettere di
pensarci”, mi dissi. Forse ci stavo pensando troppo io o forse lo
stava sottovalutando lui. In entrambi i casi, qualcosa mi diceva che
sarei finita nei guai.
«Sembra che tu voglia evitare di
parlarne.» Commentai ricambiando l’occhiata.
«Non
c’è niente di cui parlare. Ci siamo baciati, è
stato strano, ma ora è finita.» Disse prima di mordersi il
labbro.
«Quindi è così che è stato per te?
Strano?» Domandai cauta.
Distolse lo sguardo. «Andiamo, ho
baciato un licantropo: tanto normale non è.» Esitò
per un attimo, come se stesse scegliendo le parole giuste. «In
fondo, però, non è stato tanto male. Tu che mi dici,
invece? Com’è stato per te?»
Mi infilai una ciocca
di capelli dietro l’orecchio: avevo sperato fino all’ultimo
di evitare quella domanda. Evidentemente, però, non era servito
a nulla. «Uh… Beh, è stato…»
Stranamente piacevole? No, non potevo dirlo. Alzai il mento in segno di
sfida. «Ho provato di meglio.»
Un sorriso sorpreso e
divertito si fece spazio sulle sue labbra. «Qualcosa mi dice che
stai mentendo.»
«Il tuo ego smisurato forse?»
Domandai evitando di incrociare il suo sguardo.
Scosse la testa senza
perdere quell’accenno di sorriso. «Non mi stai guardando
negli occhi: chi mente evita il contatto visivo. Pensavo che
un’appassionata di telefilm polizieschi lo sapesse.»
Quell’aspirina aveva fatto effetto troppo in fretta per i miei
gusti. «Non è sempre vero… E poi dovresti accettare
la dura realtà delle cose invece di cercare scuse.» Mi
decisi a sollevare lo sguardo su di lui. «Rassegnati, non
è stato un bacio memorabile.»
Contrariamente a tutte le
mie aspettative, si mise a ridere. E questo sembrò cancellare
ogni segno di stanchezza dal suo viso. Improvvisamente, capii un
po’ meglio perché Elisabeth era così cotta di lui:
quel bastardo con gli occhi blu era tremendamente carino quando rideva.
«Falla finita.» Borbottai aggrottando la fronte. «Non
c’è niente di divertente.»
«Qualcosa
c’è invece. Insomma, stai facendo di tutto pur di non
rispondermi con sincerità. E posso immaginare
perché.» Rispose osservandomi. «Ma adesso abbiamo
altro da fare, mmh?»
«Intendi matematica?» Chiesi non
del tutto convinta da quel cambio d’argomento così
improvviso.
«Siamo qui per questo, no?» Mi fece notare inarcando un sopracciglio.
Abbassai lo sguardo: non avevo voglia di mettermi a fare calcoli,
equazioni e simili. Per niente. Quasi preferivo continuare a discutere
con Adam riguardo quello stupido bacio. «Se proprio
dobbiamo…»
Lui mi fece un sorriso strano, non divertito o
sarcastico, ma quasi rassicurante, come se avesse voluto dire che era
come me in tutto quel casino di formule e regole, che mi avrebbe
aiutata ad uscirne.
Dovevo ammettere che mi sentii piuttosto
soddisfatta di me quando finii di scrivere l’esercizio alla
lavagna. Soprattutto perché ero abbastanza sicura che fosse
tutto corretto. La professoressa Smith mi aveva mandata a correggere
una disequazione di secondo grado: come al solito, mi aveva scelta come
vittima sacrificale per mostrare alla classe un esempio da non seguire.
Non poteva immaginare che, per una volta, l’avrei contraddetta.
Posai il gesso e feci un passo indietro guardando la prof, come
sfidandola a trovare un errore in ciò che avevo scritto. Lei
aveva gli occhi socchiusi dietro le lenti spesse degli occhiali e
scrutava la lavagna con aria critica.
Non era un esercizio facile,
avevo dovuto rifarlo tre volte, con Adam che mi spiegava ogni passaggio
dimostrando una pazienza incredibile, prima di riuscire a risolverlo
nel modo giusto. Ma ce l’avevo fatta, e l’importare era
questo: finalmente, stavo cominciando a capire come funzionava quello
strano miscuglio di lettere e numeri.
«È corretto.»
Concesse infine l’insegnante arricciando le labbra in un una
smorfia contrariata, come se avesse assaggiato qualcosa di aspro.
«Era ora che tu ti dessi da fare.» Aggiunse lanciandomi
un’occhiata di sufficienza.
Le feci un cenno d’assenso
prima di tornare al mio posto. Non riuscii a trattenere un sorriso
soddisfatto mentre mi sedevo: stavo cominciando a prendermi la mia
rivincita su quella strega mascherata da professoressa che si era
divertita a vedermi sbagliare per anni. Buona parte del merito era di
Adam, non avevo problemi ad ammetterlo, ma c’era anche del mio.
Aver dimostrato alla Smith che mi stavo impegnando sul serio per
recuperare mi aveva messa di buon umore e non era una cosa che capitava
spesso, soprattutto non quando si trattava di matematica.
Quando
finirono le lezioni mi sentivo stranamente felice e quasi desiderosa di
condividere con qualcuno quel mio primo successo. Beth magari, oppure
James. Invece la persona che mi trovai davanti e che mi fece venire
voglia di parlargli fu Adam. Per una volta, però, non mi
sembrò poi tanto strano: in fondo, senza di lui sarei rimasta al
punto di partenza.
Stava camminando lungo il corridoio mentre parlava
al telefono. Aveva l’espressione pensierosa e annuiva di tanto in
tanto. Indossava dei jeans scuri e una camicia a quadri blu e rossi. Mi
soffermai un attimo a guardarlo senza averlo deciso in precedenza:
stavo davvero pensando che quei colori gli stavano bene? Non era da me.
Sospirai, cercando di non pensare a tutte quelle contraddizioni, e mi
avvicinai ad Adam proprio mentre si stava rimettendo il cellulare in
tasca.
Sollevò lo sguardo e, quando mi vide,
un’espressione sorpresa gli attraversò il viso.
«Scarlett.» Mormorò osservandomi incuriosito.
Qualcosa che assomigliava pericolosamente all’imbarazzo
cominciò a farsi strada dentro di me. «Ehi.»
«Come mai sei qui?» Domandò.
«Uh, ecco, volevo
dirti una cosa.» Risposi guardando con finto interesse il
pavimento.
Si passò una mano tra i capelli. «Cosa?»
Mi schiarii la gola. «La prof mi ha mandato alla lavagna oggi,
per fare quell’esercizio… il 312, quello che abbiamo
rifatto tre volte.»
Annuì continuando a guardarmi.
«Sì, mi ricordo quale. Allora, com’è
andata?»
Sentii un sorriso spontaneo nascermi sulle labbra.
«Bene. Sì, insomma, la Smith ha detto solo che era
corretto, però è andata bene.»
Mi sorrise anche
lui, ed era di nuovo rassicurante. «Vuol dire che le lezioni
stanno funzionando.»
Mi infilai una ciocca di capelli dietro
l’orecchio. «Sì, sembra proprio di sì.»
«Mi fa piacere.» Replicò lui inclinando appena la
testa di lato.
Sollevai lo sguardo su di lui e incrociai i suoi occhi
blu ancora tempestosi, ancora profondi ed intensi. L’avevo notato
già prima, ma tornai a meravigliarmi delle pagliuzze dorate
nelle sue iridi che rendevano il blu più brillante. Mi sembrava
quasi impossibile che occhi del genere potessero essere umani.
Improvvisamente mi ritrovai a pensare che avrei potuto passare ore a
guardarli, a studiarne ogni sfumatura.
Tossicchiai, imbarazzata dalla mia stessa mente. «Uhm… Con Beth come va? Voglio
dire, dopo quello che è successo l’altra sera ci sono
stati… problemi?»
Strinse le labbra per un attimo.
«Non saprei. Nel senso, mi sembra più fredda, più
distante, ma forse è solo una mia impressione o è solo
qualcosa di temporaneo, non lo so.»
Per una volta non scattai
subito a difendere Beth: avevo baciato il suo ragazzo proprio sotto i
suoi occhi solo pochi giorni prima, non potevo pretendere che fosse
tutto a posto, che tutto fosse tornato alla normalità.
«Sì, forse sì. Non è una situazione
facile.» Mormorai.
«Già…» Convenne con un sospiro. «Tu con James? Come va?»
«Bene. Non sembra molto turbato da quello che è successo.
A volte è un po’ lunatico, però.» Risposi.
I
suoi occhi si illuminarono quando pronunciai l’ultima frase, e
vidi un accenno di sorriso sfiorargli le labbra. «Ah
sì?»
Intuii che si riferiva al mio vizio di cambiare umore
ogni cinque secondi, ma, per una volta, non mi feci prendere dalla
rabbia. «Un po’. Ma per il resto è tutto
okay.»
«Bene.» Commentò prima di mordicchiarsi
il labbro.
“Vuoi rimanere qui tutto il giorno?”, chiese una
vocina nella mia mente. Distolsi lo sguardo sperando di riuscire a non
combinare niente di imbarazzante. «Io adesso devo
andare…»
Un’espressione sorpresa gli
attraversò il viso, ma fu solo per un attimo, così breve che quasi pensai di essermela immaginata. «Oh,
sì. Anch’io devo andare. Ci vediamo
mercoledì.»
Sentii un sorriso spontaneo nascermi sulle labbra mentre annuivo.
«A mercoledì allora.»
Dopo un attimo di incertezza, mi fece un piccolo sorriso anche lui. E
io mi ritrovai a pensare che forse potevamo mettere da parte le nostre
divergenze, che forse avere qualcuno che conosceva il mio segreto non
era così tragico come avevo pensato fino a quel momento. Forse
potevamo trovare un punto d’incontro.
SPAZIO AUTRICE: Ehilà :3
Per prima cosa, buon anno! (di nuovo in ritardo, ma pazienza)
Innanzitutto, voglio chiarire una cosa riguardo James: lui è il
ragazzo con cui Scarlett parla in discoteca nel capitolo 5, ricordate?
Suo fratello è in una band e lui fa il chitarrista di riserva.
Mi rendo conto che, visto che in nessuno dei capitoli seguenti sia
stato citato, è normale che ci si "dimentichi" di lui.
Nell'editare -si dice così?- i capitoli da
pubblicare, ho eliminato, modificato ed aggiunto alcune parti e a
quanto pare ho eliminato la scena in cui James esce con Scarlett.
E una descrizione degli occhi di Adam che vi riporto qui sotto.
Diciamo che ho un po' trascurato James ultimamente.
Ma passiamo a questo capitolo:
abbiamo il primo bacio Adamett descritto da Scarlett che, nonostante
tutti i suoi buoni propositi, non riesce a rimanere indifferente ad
Adam, ed anche lui si fa coinvolgere da lei. Beth affoga i "dispiaceri"
nell'alcol, seguita dal suo ragazzo e James... beh, lui cerca di far
finta di nulla, ma non è davvero così disinteressato.
Inoltre, Scarlett si apre un po' con Adam, durante le ripetizioni, ma anche dopo, e
arriva addirittura a fargli un favore. Forse questi due stanno
cominciando ad essere un po' meno ostili l'uno nei confronti
dell'altra.
Oddio, ho scritto un papiro, è meglio che la faccia finita qui. Al prossimo capitolo *-*
Dal "vecchio" capitolo 9:
"Lui
(Adam) spostò subito lo sguardo su di me e si mordicchiò
il labbro. Lo faceva di continuo: quando pensava, quando aspettava una
risposta, quando guardava qualcuno… quando mi guardava.
Inevitabilmente
i miei occhi finirono nei suoi, tempestosi come sempre. Non solo
avevano lo stesso colore del cielo poco prima di un temporale, ma
sembrava che ci fossero quasi dei fulmini ad illuminare il grigio-blu
delle iridi: minuscole pagliuzze dorate che rendevano il suo sguardo
tremendamente magnetico.
Una parte di me
si chiese se lui fosse stato scelto per avere gli occhi più
belli del mondo, se tutti i pregi che essi possono avere fossero stati
convogliati nelle sue iridi. Avrei dovuto essere invidiosa di tanta
bellezza racchiusa in uno sguardo che non era il mio, ma ero troppo
impegnata a non sbatterlo contro gli armadietti e fargli dire, con le
cattive ovviamente, cosa voleva fare con Beth per provare qualcosa del
genere."
TimeFlies
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Capitolo 18 *** 18. Adam ***
Under a Paper Moon- capitolo 18
18. Adam
Gli alberi si stagliavano
maestosi contro il cielo lasciando che solo pochi raggi di un sole
morente, sul punto di tramontare, riuscissero a superare il fitto
intrico di rami. Non c’era neanche una nuvola, era una giornata
limpida e fresca.
L’odore della
resina e del muschio era incredibilmente rilassante, tanto che arrivai
a chiedermi perché né mia nonna né mia mamma
volessero vivere nel bosco: che aveva la città in più, a
parte tanto traffico e tanto rumore? La foresta era molto più
tranquilla, aiutava a pensare e riduceva notevolmente i livelli di
stress, cosa di cui avevo piuttosto bisogno.
Quel giorno Michael aveva
quasi avuto una crisi isterica e mi ci era voluta un'ora buona per
calmarlo e convincerlo ad uscire dal bagno in cui si era chiuso. La
causa scatenante era stata Julia: l’aveva lasciato quello mattina
dicendo che aveva aspettato per troppo tempo una risposta che lui
sembrava aver trascurato.
La capivo, soprattutto
perché era vero che Michael aveva fatto di tutto pur di evitare
di parlare di quello che era successo alla festa di Selena.
L’unico problema era che il mio migliore amico sembrava aver dato
completamente di matto ed era toccato a me provare a farlo rinsavire.
Non c’ero riuscito molto bene, ma almeno avevo cominciato e
sembrava che, almeno per il momento, il peggio fosse passato.
A dirla tutta,
però, avrei dovuto studiare chimica per il test, che sarebbe
stato tra un paio di giorni, invece che perdere tempo cercando di
risolvere una situazione così ingarbugliata come quella in cui
si trovava Michael. Ero partito con dei buoni propositi, come andare
nella casa nel bosco per poter ripassare senza nessuno che mi
disturbasse. C’ero già stato il giorno prima con Scarlett
per le ripetizioni e avevo realizzato che era un posto che facilitava
la concentrazione. Il problema era che ero finito per uscire sul
portico a prendere un po’ d’aria e non mi ero ancora deciso
a tornare dentro.
Ormai era praticamente
notte, rimaneva solo qualche ultimo sprazzo di luce nel cielo, e io
sarei dovuto andare a casa. La cena ormai l’avevo persa, ma avevo
avvertito mia madre quel pomeriggio dicendole di non aspettarmi.
Nonostante questo, dovevo smetterla di fissare gli alberi come in cerca
di chissà quale ispirazione, dovevo farlo e basta. Ma la
città, con tutto quel ruomore, non mi era mai sembrata
così poco accogliente.
Sospirai e mi morsi il
labbro: di solito riuscivo ad essere responsabile, però in quel
momento proprio no. Forse non avevo neanche voglia di provarci
seriamente, forse volevo solo prendermi un attimo di respiro e magari
anche provare ad elaborare un piano per aiutare Michael.
Un movimento confuso al
limitare della radura dove si trovava la casa mi distolse dai miei
pensieri. Era come se il vento stesse smuovendo qualche cespuglio. O
magari era un animale. Qualunque cosa fosse, si stava avvicinando e,
nel farlo, spezzava rametti e calpestava il sottobosco senza curarsi di
essere silenziosa.
Rischiai seriamente un
infarto quando vidi una ragazza spuntare dal fitto degli alberi. E
quando la riconobbi fui felice di essere appoggiato alla ringhiera del
portico: Scarlett era appena entrata nello spiazzo vicino al cottage e
sembrava decisamente sconvolta, stralunata.
Non ricordavo di averlo
deciso, ma mi ritrovai comunque a scendere le scale e ad andarle
incontro. Lei si guardò attorno per un attimo prima di notarmi.
I suoi occhi marroni erano accesi da una sfumatura dorata più
intensa del solito; aveva le labbra schiuse e il respiro affannoso
oltre che diversi rametti tra i capelli. Indossava dei jeans scoloriti
che sembravano aver visto tempi migliori, una maglietta grigia e una
vecchia felpa blu.
«Scarlett.»
Mi sentii dire.
Per un secondo, il suo
sguardo fu sorpreso, poi quasi rassicurato, ed infine completamente
sconvolto. «Adam.» Mormorò con un fil di voce. Si
prese la testa tra le mani affondando le dita tra i capelli. «No,
no, no… Oddio, ma perché?»
Feci un passo verso di
lei. «Ehi, va tutto bene? Sembri un po’…
stravolta.»
«Tutto sbagliato,
è tutto sbagliato… Non doveva andare così…
No, no, no…» Borbottò a mezza voce senza dare segno
di avermi sentito.
«Scarlett, ehi, che
c’è che non va?» Tentai di nuovo.
Lei, però,
continuava a bofonchiare parole senza senso mentre camminava su e
giù davanti a me. Dopo qualche secondo, non riuscii a sopportare
oltre: mi misi davanti a lei, costringendola a fermarsi, e
l’afferrai per le braccia. A quel punto, però, non aveva
idea di cosa dire né di cosa fare. Mi guardò con quei
suoi occhi da cerbiatto: sembrava sul punto di mettersi a piangere, non l'avevo mai vista così fragile, disorientata.
«N-non volevo
venire qui…» Sussurrò con un fil di voce.
«Okay, ma
perché sei nel bosco? Di nuovo?» Domandai continuando ad
osservarla.
Abbassò lentamente
lo sguardo. «Perché c’è la luna piena.»
Feci per dire qualcosa,
ma ci rinunciai: quel pomeriggio, al bar, aveva detto che durante il
plenilunio perdeva il controllo, completamente, che in lei si
risvegliavano gli istinti primitivi come quelli dei lupi veri. E queste
non erano notizie rassicuranti. «Intendi stanotte?»
Annuì prima di
stringere le labbra. «Sì. Volevo fare come tutti i mesi,
trovarmi un posto tranquillo e passarci la notte, ma, non so come, mi
sono ritrovata qui.»
Lanciò
un’occhiata nervosa al cielo e la vidi stringere i pugni tanto
che le nocche le diventarono bianche. Seguii la direzione del suo
sguardo prima di tornare a guardarla. «Senti, fa’ un
respiro profondo adesso, mmh?»
Sorprendentemente, fece
come le avevo detto. E non si spostò, rimase lì davanti a
me, come se nulla fosse. «Okay, va un pochino meglio.»
«Bene.»
Commentai. «Che ne dici se entri un attimo e prendi un bicchiere
d’acqua? Magari può aiutare.»
Continuava a fissare
qualcosa all’altezza della mia gola con aria assorta, ma
annuì comunque. «D’accordo.»
Non mi sembrava molto
lucida, quasi fosse stata troppo presa dai suoi pensieri per prestare
veramente attenzione a quello che le succedeva intorno. Forse la luna
piena aveva gli stessi effetti di una droga, creava allucinazioni e
inibiva la razionalità. Mi seguì comunque quando,
dopo averla lasciata, mi incamminai verso la casa. La feci entrare per
prima e chiusi la porta mentre lei si guardava distrattamente intorno
stringendosi le braccia al petto.
«Ti prendo un
po’ d’acqua, okay?» Chiesi passandole davanti e
avvicinandomi alla cucina.
«No.» La freddezza della sua voce mi fece scendere un brivido lungo la schiena.
Mi voltai verso di lei:
aveva di nuovo le mani strette a pungo e le spalle rigide e teneva la
testa china. I capelli le ricadevano sul viso nascondendolo.
Feci un passo verso di
lei, cauto. «Scarlett, qual è il problema?»
Sollevò la testa
di scatto rivelando l’oro che le colorava le iridi. Non era come
le altre volte che l’avevo visto, appena accennato, in quel
momento aveva cancellato completamente il marrone. Mi bloccai cercando
di capire cosa fare, cosa dire, ma mi sembrava di avere la mente vuota,
come se, di colpo, l’istinto di sopravvivenza fosse scomparso
insieme alla logica.
Scarlett continuava a
tenere lo sguardo fisso su di me, il petto che si alzava e si abbassava
velocemente. Oltre questo, però, sembrava avere il controllo di
se stessa, almeno per il momento.
«Devo andarmene. O
ti farò male.» Disse a denti stretti. «Ti ricordi
che ti ho detto riguardo alla luna piena, no?»
Deglutii nervosamente.
«Che risveglia i vostri istinti primitivi e che non riuscite a
fermarli.»
Sembrò che la mia
risposta la rassicurasse almeno un po’. «Esatto. Quindi
adesso io me ne vado. E non provare a fermarmi, chiaro? Non voglio
farti male.» Aggiunse cominciando ad indietreggiare.
Lanciai un’occhiata
alla finestra: anche l’ultimo raggio di sole era sparito, adesso
era notte, buia e fredda. E la luna splendeva, maestosa e inesorabile,
sulla foresta.
«Che… che hai intenzione di fare?» Chiesi notando troppo tardi quanto fosse insicura la mia voce.
«Andrò
nel bosco e farò quello che faccio tutti i pleniluni:
lascerò campo libero al lupo che c’è in me. Non ti
conviene essere nei paraggi quando succederà.»
Spiegò riuscendo a mantenere un tono relativamente calmo.
Dietro tutto l’oro bruciante dei suoi occhi, riuscii a vedere un’ombra, come un qualcosa che la turbava. Paura.
La spaventava essere da sola a fare i conti con qualcosa che faceva
parte di lei ma che, nello stesso tempo, le era estraneo.
Si voltò e mise
una mano sulla maniglia. In quel momento, sentii qualcosa scattare
dento di me, qualcosa che non credevo di avere, e mi ritrovai subito
dietro di lei. Le afferrai il polso facendola girare verso di me. Il
suo sguardo si intrecciò automaticamente al mio. Sembrò
disorientata, sorpresa da quella mossa improvvisa persino per me.
«Adam, che stai
facendo? Lasciami.» Voleva essere determinata, ma suonò
esitante, come se non fosse stata sicura di quali parole usare.
«Non posso.»
Lo ammisi con lei e con me stesso: non potevo lasciarla sola a far
fronte alla luna piena, non potevo e basta.
La sua espressione si
fece sorpresa e quasi implorante. «Non ricominciare, ti prego.
Io… Questo è molto pericoloso, okay? Troppo pericoloso
perché io ti permetta di farmi restare. Devi lasciarmi andare,
adesso.»
Scossi la testa e, senza
ricordare di averlo deciso in precedenza, strinsi le dita intorno
all'altro polso, quello che teneva ancora sulla maniglia. Adesso era di
fronte a me, la schiena contro la porta e lo sguardo bruciante di
frustrazione mista a paura. La distanza tra noi era decisamente troppo
poca considerando che entrambi eravamo impegnati in una relazione, ma
in quel momento l'essere un buon fidanzato era l'ultimo dei miei
problemi.
«Non lo so
controllare, dannazione!» Sbottò Scarlett, la voce che
tradiva una nota di disperazione. «Lasciami se non vuoi morire
per colpa mia.»
«Mi stai chiedendo
di lasciarti ad affrontare tutto questo da sola?» Domandai pur
conoscendo già la risposta.
«Sì!
L’ho fatto milioni di volte, so come funziona. Tu no, e non
voglio fartelo scoprire.» Insistette guardandomi.
Non potei fare a meno di
sentire una stretta al cuore quando mi resi conto di quante altre volte
di era sentita così, privata del controllo del suo stesso corpo,
costretta ad isolarsi per evitare di fare del male a qualcuno. Voleva
proteggere chi le stava intorno, ma chi pensava a proteggere lei?
«Voglio aiutarti,
okay? Lo so che tu non vuoi, ma non mi farai cambiare idea.»
Dichiarai sperando di sembrare sicuro di me.
Lei fece per rispondere,
ma si bloccò all’improvviso. Serrò gli occhi di
colpo e strattonò le mani per liberarle. La lasciai subito,
sorpreso, mentre lei tornava a infilarsi le dita tra i capelli. Si
piegò su se stessa lasciandosi sfuggire un ringhio sommesso che
suonò quasi sofferente, come quello di un animale ferito.
Ansimò cercando di riprendere fiato e sollevò la testa di
scatto. I suoi occhi dorati avevano un fascino pericoloso, tanto
magnetico che mi riusciva difficile distogliere lo sguardo.
Si mosse così
velocemente che riuscii a malapena a seguire il suo scatto. In effetti,
realizzai cosa stava succedendo solo quando il suo corpo urtò il
mio facendoci finire entrambi a terra.
Ci si rende conto di
quanto sia duro il pavimento solo quando ci si sbatte contro. Con un
licantropo in preda agli istinti primitivi addosso. L’impatto mi
tolse il fiato per un attimo, ma dovetti riprendermi in fretta: sopra
di me, Scarlett ringhiava e sembrava piuttosto arrabbiata. Sentii le
sue mani scorrere brusche sulle mie braccia finché non
raggiunsero i polsi, che afferrarono con prepotenza e bloccarono a
terra all’altezza della mia testa. Una vocina nella mia mente mi
disse che me lo meritavo, in fondo ero stato io ad insistere
perché lei restasse.
«Tra tutte le cose
che potevi fare questa è la più stupida.»
Borbottò Scarlett scrutandomi con aria critica.
I suoi capelli mi
sfioravano il viso, le sue ginocchia mi premevano contro i fianchi, la
sua stretta era ferrea, sentivo il calore della sua pelle anche
attraverso i vestiti che ci separavano. In effetti, mi sembrava che
fosse un po’ troppo calda, come se avesse avuto la febbre.
«Sei stata tu a
saltarmi addosso.» Mormorai ricambiando l’occhiata.
«Mi riferivo al tuo
essere così dannatamente insistente.» Replicò lei
aumentando appena la stretta sui miei polsi.
«Deve essere un
difetto di famiglia.» Commentai chiedendomi, nello stesso tempo,
che diavolo stavo facendo.
La sua espressione si
fece sorpresa per un attimo prima di tornare cupa. «Ti rendi
conto del guaio in cui ti sei cacciato? Stavo per ucciderti un secondo
fa. E anche adesso sto prendendo seriamente in considerazione
l’idea di farlo.»
«Lo
immaginavo.» Ammisi. «Solo, dammi una possibilità.
Una sola. Se non dovesse funzionare…»
«Se non dovesse
funzionare? Lo sai cosa vorrebbe dire? Che tu saresti morto.»
Sbottò interrompendomi. «Niente possibilità.»
Per qualche strano
motivo, mi ricordai che avevo sentito parlare della psicologia inversa
non molto tempo prima durante una lezione a scuola.
«D’accordo. Allora perché non te ne vai? Mi hai
fatto capire chi comanda e che sei pericolosa: non proverò a
fermarti.»
Un’espressione
sorpresa le attraversò il viso. Lanciò un’occhiata
fuori dalla finestra come se stesse valutando la mia proposta.
Approfittai di quel secondo di distrazione per ribaltare la situazione
e darmi un po’ di vantaggio: mi liberai dalla sua stretta e, con
una spinta, la feci finire sdraiata sotto di me. Le afferrai i polsi e
li portai all’altezza della sua testa, come lei aveva fatto con
me.
Si lasciò sfuggire
un ringhio rabbioso e mi fulminò con un’occhiataccia.
«Oddio, ma che hai al posto del cervello? Segatura?»
Esclamò con evidente frustrazione. «Mi
sembrava di averti detto che è pericoloso, dannazione!»
Provò a divincolarsi, ma riuscii a tenere duro, in qualche modo.
E avrei continuato a farlo: non mi sarei mai perdonato se
l’avessi lasciata da sola contro qualcosa di così…
imprevedibile e potenzialmente letale. Anche se lei ci aveva già avuto a che fare, anche
se probabilmente voleva uccidermi, anche se non ne avevo motivo.
«Senti, lo so che adesso mi odi, cioè, più di
prima, ma non riesco neanche a pensare di farti affrontare tutto questo
da sola.» Confessai lasciando che i suoi occhi dorati bruciassero
nei miei. «Per favore, Scarlett, lascia che ti aiuti. Magari non
funzionerà, magari faremo solo danni, ma almeno sapremo che non
è la strategia giusta.»
«Non voglio farti del male, chiaro? E questo…» La
sua risposta si interruppe bruscamente quando chiuse gli occhi di
scatto e inarcò la schiena, come in preda ad uno spasmo.
La vidi stringere i denti, insolitamente lunghi e affilati. Una parte
di me avrebbe voluto scappare da tutto quel pericolo, da tutto
quel… soprannaturale: in fondo, mi era così sconosciuto e
sembrava decisamente una pazzia fare quello che avevo in mente di fare.
Ma, nello stesso tempo, la mia determinazione nel voler rimanere con
lei per aiutarla si rafforzò.
Scarlett si lasciò ricadere sul pavimento con un tonfo sordo e
un sospiro che assomigliava di più ad un respiro strozzato.
Mormorò qualcosa a voce così bassa che non riuscii a
capirlo, ma suonò piuttosto simile ad un'imprecazione.
“Fa’ qualcosa”, mi rimproverò una
vocina nella mia mente. In effetti, non potevamo starcene lì
distesi sul pavimento tutta la notte. Cercai di mettere in ordine le
idee mentre Scarlett faceva dei respiri profondi per riprendere aria.
«Mia mamma soffriva di attacchi di panico qualche anno fa.» Dissi evitando di guardarla negli occhi.
Per una qualche strana ragione, il mio sguardo si soffermò sulle
sue labbra, screpolate e rosee.
«Cosa?» Chiese evidentemente confusa.
Ripresi fiato per un attimo prima di continuare: «Il medico le
disse che, quando sentiva che stava per avere una crisi, doveva
concentrarsi su qualcosa, qualunque cosa. Il rumore della pioggia,
della televisione, anche il suo stesso respiro. L’importante era
che la distraesse, così non avrebbe avuto paura di avere paura e
si sarebbe calmata.»
Lei mi guardava, come in attesa che continuassi, e questo mi sorprese:
parlare di qualcosa di così personale era un azzardo che poteva
costarmi parecchio, invece lei sembrava sinceramente interessata. Era
un argomento delicato di cui persino Michael sapeva poco o nulla.
Evitavo di tirarlo fuori quasi senza rendermene conto, eppure adesso lo
stavo raccontando alla migliore amica della mia ragazza, che era un
licantropo indisposto e lunatico che avevo addirittura baciato.
«Ecco, ho pensato che magari poteva funzionare anche con te.
Insomma, il panico è un’emozione forte, no? E credo sia
più o meno come quello che senti tu adesso.» Spiegai prima di mordermi il labbro.
La sfumatura d’oro nei suoi occhi si intensificava e si
indeboliva continuamente, come una fiamma in balia del vento.
«Mmh. Va’ avanti.»
Esitai per un attimo prima di schiarirmi la gola. Le sollevai una mano
e me la portai sul petto, all’altezza del cuore. «Cosa
senti?»
Lei allargò le dita facendo aderire il palmo alla mia maglietta.
«Vuoi la risposta umana o quella animale? Quella umana è
il tuo cuore. E, credimi, non è calmo come pensi tu. Quella
animale è sangue fresco che scorre veloce.»
Premetti la mano sulla sua, più per avere qualcosa da fare che
per necessità: quella storia degli istinti animali non era
un'esagerazione. «Uhm… Concentriamoci su quella umana
per ora.»
«Ottima scelta.» Borbottò.
Trassi un respiro profondo: dovevo calmarmi io per primo se volevo
aiutarla davvero. Avevo bisogno di riprendere il controllo della
situazione. «Okay, ora dovresti concentrarti sul mio battito
cardiaco e cercare di rilassare i muscoli. Quando sarai più
calma sarà tutto più facile.»
Un minuscolo accenno di sorriso le incurvò le labbra.
«D’accordo, posso provare. Ma non ti prometto nulla.»
Annuii piano. «Bene.»
Si sistemò un po’ meglio sul pavimento, per quanto fosse
possibile, e spostò lo sguardo sul soffitto. «Forse dovrei
ringraziarti per… tutto questo. Se non volessi strozzarti per
essere così dannatamente insistente. Comunque… come ti
è
venuta in mente una cosa del genere? Voglio dire, attacchi di panico e
plenilunio sono piuttosto diversi.»
Ad essere sincero avrei preferito evitare di parlarne ancora,
più che altro perché temevo di perdere la calma che ero
riuscito a ripristinare. E a quel punto avrei esaurito le idee.
Mi mordicchiai il labbro, titubante. «Sinceramente non lo so.
Credo di averci pensato perché… uhm, il medico ci fece
imparare un paio di tecniche di rilassamento. Erano più che
altro per mia madre, ma il dottore voleva che le sapessimo anche noi,
sai, per precauzione. Non è stato un bel periodo.»
I suoi occhi da cerbiatto si fecero preoccupati, cosa che strideva un
po’ con la strana situazione in cui ci eravamo cacciati.
«Non devi parlarne se non vuoi. Davvero, non ce n’è
bisogno.»
Scossi appena la testa. «No… Voglio dire, adesso è
okay, è finito. Sono anni che mia mamma non ha crisi.»
Mantenne lo sguardo intrecciato al mio. «Beh, mi fa piacere,
credo.»
«Già, anche a me.» Mormorai rompendo per primo quel contatto visivo.
Avevo detto anche troppo e, se volevo davvero aiutarla a riprendere il
controllo, dovevo essere calmo e razionale. E parlare di mia madre e di
tutto quello che era successo anni prima non mi avrebbe aiutato a
farlo.
L’oro negli occhi di Scarlett sembrava essersi stabilizzato,
almeno per il momento, e decisi di prenderlo come un buon segno: magari
voleva dire che stava cominciando a trovare una qualche specie di
equilibrio. Oppure era solo la quiete prima della tempesta, non ne
avevo idea.
Trassi un respiro profondo e cercai qualcosa da dire, qualcosa che
alleggerisse la tensione e aiutasse entrambi a calmarsi. Invece mi
ritrovai a guardarla, ad osservare i piccoli dettagli che da quella
distata decisamente troppo scarsa era impossibile non notare.
Scarlett aveva un piccolo neo appena sotto la mascella, in un punto che
normalmente rimaneva nascosto, a meno che lei non avesse girato la
testa dalla parte opposta. Le sue labbra non erano né carnose
né sottili, di un rosa chiaro che risaltava poco sulla sua pelle
lievemente colorita. La linea del collo era morbida e ben delineata. Il
ciondolo a forma di foglia che le avevo già visto addosso era
scivolato fino a fermarsi sulla clavicola destra.
Si schiarì la gola facendomi quasi trasalire. «Uhm, senti,
dobbiamo restare sul pavimento tutta la notte? No, perché non
è che sia poi così comodo.»
«Ehm… No. Credo che possiamo… uh, spostarci.»
Esitai per un attimo. «Come ti senti? Intendo, pensi che
potresti…»
«Saltarti alla gola appena mi lasci? No, niente del genere. E
comunque, se avessi avvertito l’istinto omicida tu saresti
già morto.» Fece un cenno col mento verso il mio petto.
«Insomma, mi hai praticamente messo in mano la tua vita, in senso
piuttosto letterale: ti ricordo che non ho solo le zanne.» E,
come a voler supportare la sua affermazione, fece allungare gli artigli
della mano che teneva sul mio cuore.
«Sì, in effetti hai ragione… Avrei dovuto
pensarci.» Ammisi lasciandomi sfuggire una smorfia. «Beh,
mi sembri abbastanza controllata, quindi…»
Le lasciai entrambi i polsi e mi alzai in piedi. Lei si
stiracchiò prima di tendermi una mano. Di fronte alla mia
espressione interrogativa, sbatté le palpebre con aria
innocente. Sospirai e le afferrai la mano per poi aiutarla a tirarsi
su. La sua collana scivolò al suo posto, nell’incavo del
collo.
«Come va?» Chiesi lanciandone un’occhiata di
sottecchi.
Scrollò le spalle. «Non malissimo. Cioè, ho il mal
di testa fisso, però… Potrebbe andare peggio.»
«Mal di testa?» Ripetei osservandola.
«Già.» Borbottò con un sospiro. Guardò
qualcosa alle mie spalle e inclinò appena la testa di lato.
«Possiamo…?»
Seguii la direzione del suo sguardo: sembrava puntare al divano. Sentii
un accenno di sorriso farsi strada sulle mie labbra. «Sì,
certo.»
La sua espressione si fece riconoscente, ed era un qualcosa che non
avrei mai pensato che potesse provare per me. Mi feci da parte per
farla passare e, quando lei si lasciò cadere sul divano, mi
sedetti al suo fianco.
«Come mai il mal di testa?» Domandai incuriosito, mio
malgrado. «Cioè, è legato al plenilunio?»
Si strofinò le mani sui jeans. «Sì. È come
se dentro di me ci fossero due personalità: una è
quella… normale, umana; l’altra è quella animale. E
sono in lotta tra loro, come se una delle due volesse predominare
sull’altra.»
«Bipolare.» Sussurrai, più per me che per lei.
Arricciò il naso. «Quello che è.» Si
sistemò meglio contro lo schienale. «È frustrante
perché non so mai cosa succederà dopo.
Adesso va tutto bene, sono calma, ma è come se fossi sempre sul
punto di trasformarmi e perdere completamente il controllo. Potrebbe
succedere ora, o tra un’ora, o tra un minuto, non lo so. Ed
è questo che rende tutto più difficile.»
Mi resi conto solo in quel momento che eravamo spalla contro spalla, e
nessuno dei due sembrava farci troppo caso. E stavamo parlando sul
serio, senza remore: io le avevo confessato di mia madre, lei mi stava
descrivendo gli effetti della luna piena. «Quindi una parte di te
rimane razionale anche quando l’istinto animale prevale?»
Annuì fissando un punto nel vuoto. «La maggior parte delle
volte sì. Quando succede mi sembra quasi che sia qualcun altro a
muovere il mio corpo: vedo e sento quello che faccio, ma riesco a fare
poco per impedirlo.»
Feci per replicare, ma mi bloccai: che potevo dirle? Che sarebbe finito
tutto in poco tempo? Avrei voluto darle un aiuto più concreto,
però non riuscivo a trovare le parole giuste. Aveva appena
confessato di sentirsi come intrappolata nel proprio corpo,
probabilmente non esisteva niente di rassicurante da dire.
Mi riscossi improvvisamente dai miei pensieri quando la sentii
irrigidirsi. La guardai, preoccupato: aveva serrato gli occhi, la sua
mascella era contratta, tutto il suo corpo esprimeva tensione, teneva i
pugni stretti così forte che le erano diventate le nocche
bianche. E quella piccola macchia rossa risaltava parecchio su quel
pallore.
Per poco non mi prese un colpo quando realizzai che era sangue. Senza
pensare a quello che facevo, le presi le mani tra le mie e provai a
schiuderle le dita. Quando si era ferita? Fino a qualche momento prima
stava bene, che diavolo stava succedendo?
Provò a protestare, ma senza troppa convinzione. Riuscii ad
aprirle i pugni e a rivelare le piccole mezzelune, rese scarlatte dal
sangue, che si era incisa nei palmi. Sembravano un po’ troppo
profonde per essere state fatte da semplici unghie umane.
«Ehi, che stai facendo?» Mormorai con voce più dolce
del previsto.
Continuava a tenere gli occhi chiusi, come se avesse avuto paura di
cosa si sarebbe trovata davanti aprendoli. «Il dolore mi aiuta a
non perdere il controllo.» Spiegò a denti stretti.
«Non devi preoccuparti, so cosa faccio.»
«Ci sono altri modi. Devono esserci.» Replicai osservando
distrattamente i piccoli tagli che guarivano proprio mentre parlavamo.
«Non permetterò che tu ti faccia del male.»
I suoi occhi da cerbiatto finirono nei miei, l’oro che bruciava
come una fiamma. «Ah no?» Nel suo tono c’era una nota
di sfida.
«No.» Dichiarai. «Troveremo un’altra
soluzione.»
«Stai dando il meglio di te stasera, eh?» Commentò.
«Senti, anche se non ti piace questo è un buon modo per
non farmi prendere dall’istinto omicida.»
«Beh, tu non macchierai il divano di mia madre.» Borbottai.
Alzò gli occhi al cielo e fece per dire qualcosa, ma si
bloccò all’improvviso quando le feci scivolare un braccio
intorno alle spalle. Intrecciai le dita di entrambe le mani alle sue e
la tirai un po’ di più verso di me.
Il suo respiro si fece spezzato, tutto i suoi muscoli erano tesi.
«Uhm… Non è così che pensavo di passare la
notte.» La sua voce era incerta e la vidi deglutire nella penombra.
«Neanche io.» Concordai con un sospiro.
Era rigida contro di me, come se fosse stata in attesa di un qualche
tipo di attacco, forse proprio da parte mia. «Non dovremmo stare così vicini, sia in
senso letterale che figurato.»
«Per via di Elisabeth?» Chiesi cauto.
«Sì. Lei è la tua ragazza e…»
Cominciò.
«Questo non vuol dire che devi far riferimento a lei per ogni
cosa.» La interruppi.
Si girò verso di me in modo da guardarmi in faccia. «Cosa?
C-che intendi?»
«Tutte le volte che parliamo salta fuori lei. So che le vuoi
bene, ma la tua vita non dipende da lei. Non posso parlarti
perché c’è Elisabeth. Non puoi accettare il mio
aiuto perché c’è Elisabeth. Non puoi continuare
così, Scarlett. Ti senti in colpa perché non puoi dirle
la verità, ma non per questo devi…»
«Ehi.» Questa volta fu lei ad interrompermi. Si
voltò incastrando la spalla contro la mia. «Lo so che
è sbagliato, che non dovrei e tutto il resto. Ma è la mia
migliore amica e non è che ci sia tanta normalità nella
mia vita. Lei invece lo è, normale intendo: le piacciono i
vestiti e le gonne, si trucca troppo, è sempre a caccia di
ragazzi e quando si innamora lo fa con tutta se stessa, senza
risparmiarsi. È anche orgogliosa e testarda, e le piace avere
ragione. Ma mi vuole bene, e io ne voglio a lei. E… sì,
mi sento in colpa perché devo mentirle quasi ogni giorno. Credo
sia solo un modo per… farmi perdonare, in qualche modo.»
Abbassai lo sguardo. «Io… Scusa, non avrei dovuto essere
così duro… Insomma, non sapevo tutta la storia e anche se
l’avessi fatto non avevo il diritto di giudicarti.»
«È okay, tranquillo.» Mormorò lei.
Strinsi le labbra mentre lei tornava ad appoggiare la schiena per
metà contro il divano e per metà contro di me.
Contrariamente alle mie aspettative, non aveva sfilato le mani dalle
mie, anzi, si era sistemata in modo da far stare comodi entrambi. Mi
resi conto solo in quel momento di quanto fosse piccola e magra:
sentivo il suo corpo ossuto premere contro di me, come se fosse stata
spigolosa. Ed era una cosa che strideva con il lupo che si nascondeva
dentro di lei, una bestia forte, pericolosa, potente.
E io le stavo così vicino… in tutti i sensi. Forse ero
impazzito e non me n’ero neanche accorto. Forse avevo smesso di
provare paura per un qualche strano motivo. Forse non c’era
niente da temere in lei.
Scarlett si inarcò contro di me. «Oddio…»
Aveva chiuso gli occhi e le sue dita stringevano le mie con una forza
che non credevo avesse. Un ringhio soffocato le risalì dalla
gola e lo sentii vibrare nel suo petto.
Quasi inconsapevolmente, aumentai la stretta su di lei, come a volerla
rassicurare. «Ehi, va tutto bene. Cioè…
andrà tutto bene.»
La sua risposta fu un altro ringhio. Sì, in effetti il mio non
era stato un granché come incoraggiamento.
«Ho bisogno di alzarmi.» Disse tra i denti.
La lasciai subito sciogliendo quello strano abbraccio, e lei si mise in
piedi barcollando appena. Si allontanò di un paio di passi dal
divano e si prese la testa tra le mani. Era scossa da tremiti violenti.
Sembrava in preda ad un dolore lancinante. È come se dentro di me ci fossero due personalità. E sono in lotta tra loro.
«Scarlett?» Mormorai cauto.
Lei tese un braccio verso di me, come ad intimarmi di restare
dov’ero. Esitai, combattuto: continuare a darle contro, sfidarla
apertamente ignorando ciò che diceva non mi sembrava una grande
idea. Ma neanche rimanere lì a guardarla combattere contro se
stessa suonava tanto bene.
Crollò improvvisamente a terra ringhiando. Scattai in piedi e mi
inginocchiai di fronte a lei.
«Scarlett. Ehi, guardami.» Tentai mentre cercavo di
incrociare il suo sguardo.
Lei mi ignorò, o forse non mi sentì visto che continuava
a ringhiare sommessamente. Era frustrante non sapere che fare, non
sapere cosa sarebbe successo. Avrei voluto aiutarla, eppure
l’unica cosa che riuscivo a fare era stare lì a guardarla
soffrire.
Piano piano, Scarlett smise di tremare. Abbassò le mani e si
scostò una ciocca di capelli dal viso. L’oro nei suoi
occhi ardeva di nuovo con intensità. Evidentemente quella di
prima era stata davvero solo quiete temporanea.
«Va… va tutto bene.» Balbettò cercando di
riprendere fiato.
«No che non va bene.» Sbottai guardandola preoccupato.
Un debole sorriso le incurvò le labbra. «Sì, hai
ragione. È tutto un casino.»
Era stupido ed inappropriato, eppure mi ritrovai a sorridere con lei mentre l’aiutavo ad alzarsi.
Il resto della notte si trascinò lento in un alternarsi di
ringhi, momenti di crisi e altri di lucidità, occhi ardenti e
conversazioni non proprio sensate. Scarlett faceva del suo meglio per
nascondermi il dolore che provava, ma era impossibile non lasciarlo
trapelare.
Ogni volta che si aggrappava a me per rimettersi in piedi, ogni volta
che le sue dita finivano intorno al mio polso per cercare di ritrovare
un po’ di controllo attraverso il battito del mio cuore -troppo
spesso accelerato-, sentivo quanto era tesa e rigida. E io tornavo a
sentirmi impotente. Che potevo fare contro qualcosa che faceva parte di
lei?
Dopo l’ennesima crisi, Scarlett sembrava tremendamente esausta.
Era di nuovo in ginocchio sul pavimento, la testa china, le braccia
abbandonate lungo i fianchi. Io ero al suo fianco e le tenevo la mano,
esitante. Cercavo di darle un po’ di sostegno con quel piccolo
gesto che però sembrava inutile persino a me.
Si passò le dita tra i capelli e sospirò.
«Dio… Credevo di aver toccato il fondo ore fa. Mi
sbagliavo.»
Abbassai lo sguardo sperando in un’illuminazione che mi dicesse
come aiutarla sul serio. E proprio mentre guardavo il pavimento notai
una cosa che fino a quel momento non c’era stata: le nostre
ombre.
Mi voltai di scatto verso la finestra: gli alberi erano rischiarati da
una luce morbida e soffusa, il cielo che si riusciva a vedere tra
l’intrico dei rami era tinto di rosa, giallo, oro. Era
l’alba.
«È finita.» Mormorai.
Scarlett seguì la direzione del mio sguardo e un sorriso fiacco
le illuminò il viso quando capì a cosa mi riferivo. Per
un attimo sembrò che tutta la stanchezza fosse sparita dal suo
viso, che fosse tornata forte e piena di energia.
Mi alzai e l’aiutai a fare lo stesso. Non ero mai stato
così sollevato nel vedere il sole sorgere. Avevo ancora gli
occhi fissi sulla finestra, così sussultai quando Scarlett mi
abbracciò facendo scivolare le braccia intorno alla mia vita.
Dopo un attimo di titubanza, ricambiai la stretta. Sentii le sue mani
risalirmi la schiena e fermarsi appena sotto le scapole.
«Grazie.» Mormorò contro la mia spalla.
La sua voce era un sussurro appena udibile reso roco da tutte le volte
che aveva ringhiato. Non trovai niente da dire, se non un banale
“di niente”, quindi mi limitai a stringerla un pochino di
più, ed ero così sollevato da non fermarmi a pensare alla
stranezza di quel gesto. Si scostò da me e fece un passo
indietro.
«Sono esausta.» Borbottò prima di scrutarmi con aria
critica. «E anche tu non hai una bella cera.»
«Davvero? Mi sembrava di aver letto da qualche parte che rimanere
svegli tutta la notte in compagnia di un licantropo indisposto rendesse
energici e vitali.» Replicai ricambiando l’occhiata.
Alzò gli occhi al cielo. «Questa potevi anche
risparmiartela, sai?»
Sentii un sorriso sghembo farsi strada sulle mie labbra. «Ti ho
sopportato per tutta la notte, potresti essere più
indulgente.»
Incrociò le braccia al petto. «No. Non con te.»
Sospirai passandomi una mano tra i capelli. «Buono a
sapersi.»
Lei spostò lo sguardo su qualcosa dietro di me. Non avevo
bisogno di voltarmi a controllare cosa fosse: di nuovo il divano.
Probabilmente fatica a reggersi in piedi dopo tutto quello che aveva
passato quella notte.
«Senti, su ci sono due camere da letto.» Dissi guardando il
pavimento.
«Sul serio?» Chiese con voce speranzosa.
«Sì.» Confermai. «E, un’altra cosa,
andare a scuola non mi sembra fattibile, quindi…»
I suoi occhi si illuminarono. «Vuoi dire che mi perderò
cinque ore di meravigliosa cultura? Oh, che peccato.»
Sorrisi scuotendo la testa. «Già, immagino quanto tu sia
dispiaciuta.» Feci un cenno verso le scale. «Andiamo? Sto
morendo di sonno anch’io.»
Mentre mi passava accanto, mi rifilò una gomitata nelle costole.
Mi lasciai sfuggire una smorfia che la fece sorridere.
Ci fermammo l’uno di fronte all’altra davanti alla porta di
una delle camere. Lei mi guardava in attesa, aspettando che le dicessi
cosa fare.
«Se hai bisogno di qualcosa, qualunque cosa, chiamami pure, okay?
E, se ti fa freddo, ci sono altre coperte nell’armadio.»
Spiegai improvvisando sul momento.
L'oro nei suoi occhi si era affievolito, adesso ne rimaneva solo una
lieve sfumatura. «Okay.»
«Allora… Buonanotte.» Mormorai.
«’Notte.» Rispose con un sorriso incerto.
Si voltò, aprì la porta della camera e si infilò
dentro prima di richiudersela alle spalle. Sospirai ed entrai nella
stanza accanto. Solo quando mi sdraiai sul letto, ancora vestito, mi
resi conto di quando fossi dolorante e terribilmente stanco.
Il sole fuori dalla finestra continuava a salire in cielo, rischiarando
il bosco e tingendo tutto di una luce soffusa e dorata. Come gli occhi
di Scarlett.
SPAZIO AUTRICE: Ehilà :3
Il piano originario era quello di aggiornare giovedì, ma domani
dovrò darmi allo studio pazzo -cosa che dovrei fare anche oggi-
quindi eccovi il capitolo con un giorno d'anticipo!
E' un po' più lungo degli altri, dovrebbe essere intorno alle
5400 parole, ma spero vi sia piaciuto lo stesso. Finalmente, infatti,
scopriamo qualcosa in più sul passato di Adam, quello che fino
ad ora era sembrato il più "puro" diciamo, quello con meno
scheletri nell'armadio. Invece anche lui ha delle ombre di cui non
parla volentieri, un po' come Scarlett con il divorzio dei suoi
genitori.
Che pensate che succederà adesso che gli Adamett hanno trascorso
la notte -di luna piena poi- insieme? Sarà cambiato qualcosa tra
loro? O rimarranno ancora diffidenti l'uno nei confronti dell'altra? E
per quanto riguarda Michael, invece? Cosa pensate che farà?
Ah, un'altra cosa, ho aggiunto l'avvertimento Slash nelle note della
storia perché più avanti potrebbe esserci qualche
scena del genere. Ma non vi dico altro.
Spero che il capitolo vi sia piaciuto *-* A me non convince molto, ma mi auguro che sia meglio di come mi appare.
A presto **
TimeFlies
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Capitolo 19 *** 19. Scarlett ***
Under a Paper Moon- capitolo 19
19. Scarlett
Quando mi ero
addormentata, il pensiero di chiudere le tende non mi aveva neanche
sfiorato. Anche perché faticavo a rimanere in piedi, quindi era
già tanto se avevo trovato il letto.
Quando mi svegliai, però, avrei preferito averlo fatto. Magari
avrei potuto dormire un po’ di più: ne avevo un disperato
bisogno, come dopo ogni plenilunio del resto.
Mi girai in modo da dare le spalle alla finestra e mi tirai le coperte
fin sopra la testa lasciandomi sfuggire un gemito scocciato.
Qualcosa non andava però. Lo sentivo, c’era qualcosa di
diverso. Anzi, più di una cosa. La prima era che ero vestita
come il giorno prima, esattamente gli stessi vestiti, con tanto di
rametti che si erano incastrati nel cappuccio della felpa dopo la mia
corsa nel bosco. La seconda era che quella coperta aveva un odore
diverso dalla mia: sapeva di pulito, come se fosse stata appena lavata
con uno di quei saponi che non hanno un profumo specifico, ma che
associ sempre al bucato. E aveva anche un colore diverso: era blu, non
rossa.
La abbassai lentamente studiandola con gli occhi socchiusi. No, non era
decisamente la mia. E quello non era il mio letto… Mi voltai di
scatto e tirai un sospiro di sollievo nel constatare che l’altra
metà del materasso era vuota. Eppure c’era ancora qualcosa
che non tornava.
“L’odore di Adam!”, realizzai di colpo. Dopobarba,
carta di vecchi libri… Sì, era indubbiamene il suo. E io
lo avevo addosso. Certo, si sentiva a malapena, però…
Improvvisamente mi tornò in mente cosa era successo quella
notte, e tutti i pezzi trovarono il loro posto: la mia confusione
quando mi ero ritrovata davanti alla casa di Adam senza aver deciso
prima di andarci, la sua espressione preoccupata, le sue insistenze
continue, il mio corpo premuto contro il suo in più di
un’occasione, le sue mani intrecciate alle mie, il suo respiro
tiepido che mi sfiorava la pelle, le sue parole rassicuranti dette a
bassa voce… Per un qualche strano motivo, più del novanta
per cento dei miei ricordi comprendeva anche lui.
Mi sdraiai sulla schiena e sospirai. In che diavolo di guaio ero andata
a cacciarmi? Il soffitto sopra di me era scuro, fatto di legno
massiccio come la maggior parte della casa, e non molto interessante.
Mi guardai le mani: sui palmi era rimasto un po’ di sangue secco,
ma i tagli che mi ero fatta erano spariti completamente. Beh, tu non macchierai il divano di mia madre,
aveva detto Adam quando li aveva scoperti e aveva presto il controllo
della situazione. Era durato poco, ma, in un certo senso, avevo
ammirato la sua determinazione.
Morivo dalla voglia di farmi una doccia, bermi un caffè e
rilassarmi un po’, però sapevo di non poterlo fare, non
finché fossi rimasta a casa sua. Valutai varie opzioni -senza
troppo impegno a dirla tutta- finché non decisi di uscire a
prendere una boccata d’aria e stabilire a quel punto cosa fare.
Mi tolsi di dosso la coperta -che avevo preso dall’armadio visto
che non mi andava di infilarmi nel letto di qualcuno che non
conoscevo-, la ripiegai e la rimisi al suo posto prima di uscire dalla
stanza. Cercai di non fare rumore: magari Adam stava ancora dormendo e
non stava certo a me svegliarlo dopo tutto quello che aveva fatto per
aiutarmi. Contro la mia volontà, questo sì, ma
l’aveva fatto comunque.
Scesi le scale che, ovviamente, scricchiolarono ad ogni mio passo,
attraversai il salotto e uscii dalla porta principale, lasciandola
socchiusa. Mi ritrovai su un piccolo portico di legno, come quelli dei
film. Non potei fare a meno di pensare che vivere lì sarebbe
stato un sogno.
Feci qualche passo avanti fino ad arrivare abbastanza vicino alla
ringhiera da poterci appoggiare le mani. C’era un vento leggero
che muoveva i rami degli alberi facendoli frusciare piano. Il sole era
già alto nel cielo, che era limpido e pulito. Sembrava che tutto
il caos della notte prima appartenesse ad un altro mondo. Trassi un
respiro profondo per assaporare l’aria umida di rugiada e
muschio. Quel posto era meraviglioso, così calmo e
pacifico… E mi aiutava a distendere i nervi. Chiusi gli occhi
lasciando che il sole mi scaldasse il viso.
«Papà! Papà!
Guarda, una margherita!» Esclamo correndo da lui e tenendo il
piccolo fiore come se fosse chissà quale tesoro.
Miles si volta verso di me sorridendo. «Brava Scout, è
proprio bellissima.»
Mi fermo davanti a lui, gli occhi fissi sulla margherita, bianca e
delicata, che tengo tra le dita. Papà si inginocchia davanti a
me e mi infila una ciocca di capelli sfuggita alla coda dietro
l’orecchio. I suoi occhi azzurri mi osservano da dietro le lenti
sottili degli occhiali.
L’erba mi arriva alle ginocchia, verde e fresca, in alcuni punti
anche bagnata dai residui del recente acquazzone.
«Scarlett, che hai trovato?» Chiede mia madre, seduta sulla
coperta a quadretti.
Alzo lo sguardo e le sorrido prima di sollevare il fiore. «Una margherita!»
Lei ricambia il sorriso, che diventa più luminoso quando
papà si siede vicino a lei e l’abbraccia. I capelli di
mamma brillano al sole, e lei sembra così felice…
«Credevo te ne fossi andata.» Mormorò una voce che
conoscevo forse anche troppo bene.
Mi voltai e Adam era davanti a me, pallido e con i capelli arruffati,
anche lui vestito come il giorno prima: jeans e maglietta a maniche
corte grigia. Sembrava esitante, come se non avesse saputo decidere
quanti rischi comportava avvicinarsi di più a me.
Sospirai e tornai a guardare la foresta dandogli un implicito via
libera. «In effetti, ho preso in considerazione l’idea di
farlo.»
Mi raggiunse e si appoggiò alla ringhiera con gli avambracci.
«Ma sei qui.»
«Già. Ho pensato che avevamo qualcosa di qui
parlare.» Replicai.
Si lasciò sfuggire una smorfia. «Sono nei guai, eh?»
«Tanto per cambiare.» Borbottai aggrottando la fronte.
Lui strinse le labbra. Le ombre violacee che aveva sotto gli occhi
spiccavano sulla sua pelle chiara, ma, per una qualche ingiustizia
divina, aveva uno strano fascino anche così. “Da quando in
qua Adam ha fascino?”, pensai, sorpresa da me stessa.
«Di cosa dobbiamo parlare?» Chiese dopo qualche secondo di
silenzio.
Mi passai una mano tra i capelli resistendo all'impulso di rispondergli
con un acido commento sarcastico. «Di tante cose. Ma credo che
prima sarebbe meglio mangiare qualcosa.»
«Beh, qui non c’è niente da mangiare.» Rispose
lui stringendosi nelle spalle.
«Quindi tu non hai neanche cenato ieri?» Domandai
voltandomi a guardarlo e sentendo la preoccupazione nella mia stessa
voce.
Erano ore che non mangiava niente, e aveva passato tutta la notte di
luna piena con me: rischiava di svenirmi davanti agli occhi da un
momento all’altro.
Sembrò un po’ sorpreso dalla mia reazione.
«Uhm… no.»
Sospirai alzando gli occhi al cielo. «Va bene, vuol dire che
adesso andiamo a mangiare. Tutti e due. E non provare neanche a dire di
no, chiaro?»
Spalancò gli occhi e mi studiò per qualche secondo.
«Okay. Dove vuoi andare?»
“Mi odierò tanto”, mi dissi, “ma devo
farlo”. Raddrizzai la schiena e ricambiai l’occhiata.
«A casa mia.»
Si ricordava ancora l’indirizzo per fortuna: non credevo di
essere in grado di spiegarli come arrivare a casa mia senza strozzarmi
con le mie stesse parole.
Grazie al cielo non aveva fatto domande, né aveva protestato. E
non si era neanche messo a ridere, eventualità che avevo messo
in conto appena avevo aperto bocca. In effetti, la sua unica reazione
visibile era stata un’espressione incredula, subito sostituita da
una più neutrale che mi aveva fatto venire voglia di urlargli in
faccia per farmi dire cosa pensava veramente.
Mi abbandonai contro il sedile del lato passeggero e sospirai
pesantemente: come riuscivo a cacciarmi in situazioni del genere
rimaneva un mistero persino per me.
«Tua madre non c’è?» Chiese Adam dopo un
po’.
Scossi la testa, quasi grata a quella distrazione. «No, è
via per lavoro. Di nuovo.»
«Se posso chiederlo… Che lavoro fa? Sembra che sia via
spesso.» Replicò lui lanciandomi un’occhiata di
sottecchi.
«Fa l’hostess, per questo viaggia spesso. In più
arrotonda facendo da interprete per gli imprenditori o gli uomini
d’affari che volano con la compagnia per cui lavora. Sai, ha
studiato lingue per molti anni quindi se la cava.» Spiegai.
Annuì piano, come se fosse stato sovrappensiero. «Mm-mm.»
Fermò l’auto davanti a casa mia e spense il motore. Trasse
un respiro profondo e si passò una mano tra i capelli.
«Qualunque cosa tu debba dirmi… puoi farlo anche qui. Se
non te la senti, intendo.»
Una parte di me trovò quelle attenzioni rassicuranti, quasi
tenere, e fui tenta di dirgli che sì, portarlo in casa mia mi
rendeva incredibilmente nervosa. Ma non potevo, anche perché
altrimenti rischiava di avere un calo di zuccheri… Drizzai la
schiena, sperando di mostrarmi risoluta. «No. È una cosa
che devo… dobbiamo fare. E poi non voglio che tu svenga mentre
guidi: se succedesse Beth non me lo perdonerebbe mai.»
Inarcò un sopracciglio. «Quindi mi stai invitando a casa
tua per colazione solo per mantenerti buona la tua migliore amica? Beh,
suona parecchio strano. A parte questo, solo perché ho saltato
la cena ieri non vuol dire che avrò una qualche specie di crisi,
okay? Stai esagerando un pochino.»
Alzai gli occhi al cielo e dovetti resistere all’impulso di
dargli una gomitata nelle costole. «Andiamo. Sto morendo di
fame.»
Non protestò, cosa che apprezzai. Si limitò a seguirmi
fino all’ingresso, ad aspettare pazientemente mentre litigavo con
la serratura e a lasciarmi entrare per prima.
Tossicchiai nervosamente, più per fingere di avere altro da fare
che per vera necessità. «Non è un granché,
lo so, ma è casa.»
Lui si guardava intorno in silenzio, in viso un’espressione
neutra che non tradiva la benché minima emozione. Mi sembrava
così fuori posto… Come se la sua presenza in casa mia
fosse stata in qualche modo sbagliata. Beth tornò a farsi
prepotentemente spazio tra i miei pensieri, ma la ricacciai indietro:
su una cosa Adam aveva ragione, non potevo ricollegare tutto a lei,
dovevo essere indipendente e fare le mie scelte. Anche quelle sbagliate
che mettevano a rischio la mia intera vita e che comprendevano il suo
ragazzo dannatamente insistente.
Quando tornai a concentrarmi su Adam, lo trovai che osservava le foto
che mia mamma aveva infilato nella cornice dello specchio posizionato
sopra il cassettone nell’ingresso. In quel momento avrei voluto
sparire, sprofondare sottoterra e rimanerci per sempre: quelle
dannatissime foto risalivano ad anni prima, e non si poteva dire che
fossi presentabile all’epoca.
Ce n’era una in cui abbracciavo il collo di un pony dopo aver
fatto la mia prima lezione di equitazione a sette anni; un’altra
dove una piccola Scarlett di due anni sorrideva tutta contenta in
braccio alla migliore amica di mia mamma, Miranda; in un’altra
ancora si vedeva mia madre che mi teneva tra le braccia pochi giorni
dopo la mia nascita, e sorrideva con una tale gioia che la faceva
sembrare pronta ad affrontare il mondo.
Mio padre, Miles, non compariva in nessuna foto. Anzi, si poteva
benissimo dire che di lui non c’era assolutamente nessuna traccia
in tutta la casa. Meglio così, lui non meritava neanche un
briciolo dell’attenzione di mamma.
Non ci stavo prestando veramente attenzione, ma mi irrigidii lo stesso
quando vidi Adam sorridere mentre continuava a guardare le foto,
probabilmente in attesa che io facessi qualcosa in più oltre che
starmene lì a sperare di fondermi con il muro. La cosa che mi
sorprese di più, però, fu la dolcezza che riuscii a
cogliere in quel breve sorriso che sembrava essere inconsapevole.
“Oh per la miseria, qui sì che si mette male”,
pensai innervosita.
Mi schiarii la gola facendolo voltare di scatto verso di me. Aveva
un’espressione quasi colpevole in viso, come se l’avessi
beccato a rubare o qualcosa del genere.
«Sto ancora morendo di fame, e questo vuol dire che voglio ancora
mangiare. E la cucina non è qui.» Il mio tono acido
sembrò strano persino a me.
Lui distolse lo sguardo, a disagio. «Uhm… Sì,
andiamo…»
Feci un cenno d’assenso piuttosto rigido prima di voltarmi
sperando che mi seguisse senza che dovessi dirglielo io. Lo condussi in
cucina, una stanza piccola resa accogliente e luminosa dalla finestra
che lasciava entrare la luce del sole per la maggior parte del giorno.
«Siediti pure.» Aggiunsi mentre mi allungavo per prendere due tazze dalla credenza.
In condizioni normali mi sarei accontentata di quella con la renna e il pinguino, ma c’era lui
e quindi non era una grande idea. Alla fine presi le due più
sobrie, ovvero quelle a tinta unita: una azzurra e una verde.
Sentii il rumore di una sedia che veniva spostata, segno che si era
seduto. Accesi la macchinetta del caffè per poi voltarmi verso
di lui: sembrava un bambino che aspetta la sfuriata della mamma
arrabbiata per un brutto voto o per una finestra rotta.
Teneva le mani in grembo, la testa china, lo sguardo basso, le spalle
curve… Dovetti mordermi la lingua per non dirgli di rilassarsi e
stare tranquillo.
Gli misi davanti il solito piatto con i biscotti al cioccolato che
costituivano la mia colazione da anni. Lui li osservò, sorpreso,
ma non fece nient’altro. Aspettai qualche secondo, poi scrollai
le spalle e ne presi uno: il modo di dire “avere una fame da
lupi” non è nato per caso.
Preparai il caffè e lo versai nelle tazze prima di porgergliene
una. La prese mormorando un grazie e per un attimo le nostre dita si
sfiorarono. Cercai di non farci caso: in fondo era solo un contatto
innocente.
Posai sul tavolo il barattolo dello zucchero e un paio di cucchiai e mi
sedetti di fronte a lui, che sembrava ancora un po’ nervoso. E
questo mi stupiva un po’: la notte prima non si era fatto
problemi a imporsi e a tenermi testa; adesso sembrava un cucciolo
impaurito.
«Guarda che non ti mangio mica.» Borbottai inzuppando un
biscotto nel mio caffè. «Sarò anche per buona parte
lupo, ma preferisco i dolci.»
Sollevò lo sguardo su di me, sorpreso. «Uh, sì.
Cioè, lo so.»
«Allora smetti di fissare il tavolo.» Sbottai.
Si morse il labbro e prese la tazza con entrambe le mani.
«È complicato, Scar.»
«Scar?» Ripetei spalancando gli occhi.
Si lasciò sfuggire una smorfia. «Niente, dimenticalo.
Comunque, che dovevi dirmi?»
Quel cambio di argomento così repentino non mi convinceva, e
quella specie di nomignolo mi sembrava ancora più strano, ma non
mi andava di approfondire. «Quello che hai visto l’altra
notte… cioè, ieri notte… stanotte… Insomma,
hai capito. Quello che intendevo è che hai visto
l’apoteosi del licantropo, okay? La parte più pericolosa
del nostro essere. E non era una cosa che volevo farti
conoscere.»
I suoi occhi blu erano fissi su di me: sembrava che una tempesta stesse
infuriando in quelle iridi tanto particolari. «L’avevo
intuito, sì. Quindi… che intendi fare?»
Diedi un morso ad un altro biscotto prima di rispondere. «Il mio
primo istinto sarebbe quello di strozzarti e ricoprirti di insulti
visto che ti sei messo in pericolo con le tue stesse mani e hai
approfittato della mia mancanza di controllo.» Sollevai una mano,
intuendo che stava per ribattere. «Ma non lo farò. O
meglio, non ti strozzerò, però niente mi vieta di
insultarti.»
Scosse la testa e mi sembrò di vedere un accenno di sorriso
sulle sue labbra. «Beh, è una buona notizia. Credo. Volevi
dirmi solo questo?»
«No. Volevo anche farti giurare che non proverai mai e poi mai a
rifare una cosa del genere.» Ribattei prima di prendere un sorso
di caffè.
«Allora temo che tu abbia solo sprecato fiato.»
Mormorò lui abbassando lo sguardo.
Ci mancò tanto così che soffocassi e mi rovesciassi
addosso il caffè. «Eh?!»
«Andiamo, credi sul serio che adesso io possa dimenticare?
Già prima era impossibile, ora è semplicemente
improponibile.» Tornò a guardarmi negli occhi. «Non
lo farò, sappilo.»
Tossii e posai la tazza sul tavolo un tantino troppo forte.
«Ascoltami bene: questa cosa non ti riguarda. Proprio per niente.
E solo perché ti sei ritrovato in mezzo ieri notte non vuol dire
che adesso hai l’autorizzazione a prendere parte alla mia vita.
Questa situazione è già complicata di suo, ci manca solo
che tu ci metta del tuo.»
«Allora dovevi pensarci prima di venire da me, sai?»
Replicò sfidandomi apertamente.
Una sensazione di calore che conoscevo fin troppo bene cominciò
a farsi strada nel mio petto: rabbia. «Non sono venuta da te! Mi
ci sono ritrovata. Stavo già perdendo il controllo e non ero
molto lucida, è solo per questo. In condizioni normali non
sarebbe mai successo.»
«Già, dev’essere stata proprio una
coincidenza.» Il suo tono trasudava sarcasmo. «Che ti
piaccia o no, questa cosa coinvolge tutti e due.»
Per un attimo trovai il tempo di considerare il termine “questa
cosa” incredibilmente diminutivo e quasi buffo: quelle due parole
avevano il compito di racchiudere la mia licantropia, la sua
testardaggine e anche tutte le cose che aveva visto e saputo e che
sarebbe stato meglio mantenere segrete.
«No, non mi piace per niente il fatto che tu sia coinvolto. E
sì, che tu ci creda o meno è stata una
coincidenza.» Ringhiai. «E come credi di essere coinvolto,
scusa? Solo perché mi hai visto perdere il controllo non vuol
dire che tu adesso…»
«Perché mi importa di te, dannazione!» Sbottò
e fu come se il blu dei suoi occhi si infiammasse.
Mi bloccai, incapace di formare una pensiero coerente. Aprii la bocca
con l’intenzione di dire qualcosa, ma l’unica cosa che
uscì fu un mugolio strozzato: che diavolo stava succedendo? Gli importava
di me? Ma che senso aveva?
«Cosa?» Riuscii a chiedere dopo diversi minuti di silenzio
passati a reggere il suo sguardo diventato improvvisamente duro.
«Scordati che lo ripeta.» Borbottò. «E poi, hai capito.»
Mi presi la testa tra le mani rischiando di infilare un gomito nel
caffè. «Ma non doveva andare così…»
«E come doveva andare allora? Tu schioccavi le dita e io
magicamente mi dimenticavo di te?» Domandò lui, la rabbia
che traspariva benissimo dalla sua voce. «Non funziona
così.»
Non trovai niente da dire e qualcosa mi diceva che non c’era
nulla che potessi dire che avrebbe funzionato sul serio: aveva ragione
su tutti i fronti, ero io quella che aveva sbagliato permettendogli di
conoscermi fino a quel punto. Mi ero illusa di avere tutto sotto
controllo, di sapergli tenere testa, invece era stato un disastro fin
dall’inizio. Ed era cominciato tutto per colpa mia visto che ero
stata io ad andare da lui per parlargli credendo che bastasse
rispondere ad un paio di domande per porre fine alla questione.
Gli lanciai un’occhiata di sottecchi: aveva la mascella
contratta, le spalle rigide, lo sguardo fisso su qualcosa alla sua
destra. Non aveva neanche toccato il caffè e questo un pochino
mi preoccupava: era passato fin troppo tempo da quando aveva mangiato
l’ultima volta.
Mi schiarii la gola per cercare di dare alla mia voce un tono
accettabile che non facesse trasparire il tumulto di emozioni nel mio
petto. «Dovresti… ecco, dovresti mangiare
qualcosina…»
«Non cambiare discorso.» Ringhiò senza neanche
girarsi a guardarmi.
Sospirai passandomi una mano tra i capelli. «Non sto cambiando
discorso, okay? Sono sinceramente preoccupata per te. Sono ore che non
mangi.»
«Ora capisci cosa intendo? Anch’io
mi preoccupo per te.» Trasse un respiro profondo e mi
sembrò che un po’ della sua tensione si sciogliesse.
«Non possiamo farcene una colpa, non ha senso. Capita che le
persone tengano ad altre persone anche se non dovrebbero, anche se
sanno che ci sono molte probabilità di farsi male.»
Giocherellai con un biscotto mentre assimilavo le sue parole, tanto
vere quanto pericolose. E portatrici di guai. «Adesso che
succede? Voglio dire…»
«C’è Elisabeth nel mezzo, sì, lo so. Quindi
non succede niente. Puoi stare tranquilla.» Si alzò stando
attendo ad evitare di incrociare il mio sguardo. «Ci vediamo la
prossima settimana per le ripetizioni.»
“Cosa?!”, pensai confusa e allarmata, “se ne
va?”. Feci per dire qualcosa, ma non riuscivo a trovare le
parole. E prima che potessi anche solo provare a fermarlo, lui se
n’era già andato.
Sentii la porta dell’ingresso chiudersi con un tonfo carico di
rabbia repressa e frustrazione. Mi ritrovai da sola, disorientata,
sgomenta e con un caffè a metà e uno completamente
intatto.
Non ero mai stata un’amante della solitudine anche se mi illudevo
del contrario visto che per la maggior parte del tempo ero sola. Non ne
facevo una colpa a nessuno, non ne avevo il diritto, ma c’erano
delle situazioni in cui mi avrebbe fatto molto piacere avere un
po’ di compagnia. Qualunque compagnia. In quel momento anche
Cindy la Finta Bionda mi sarebbe andata bene: le sue infinite tiritere
su vestiti e tacchi sarebbero state una piacevole distrazione da quel
casino che era la mia vita.
«Uh, mi sembro un’adolescente depressa.» Borbottai
coprendomi gli occhi con le mani.
Ed era tutta colpa… mia. Avrei voluto poter dire che era stato
Adam a rendere tutto complicato, ma sapevo benissimo che ero stata io a
combinare un guaio dietro l’altro. Certo, lui non aveva
contribuito a facilitarmi le cose. Anzi, tutto il contrario,
però sapevo che era comunque partito tutto da me.
Mi girai sulla pancia e affondai il viso nel cuscino del mio letto con
un gemito frustrato. Com’era possibile che una sola persona
riuscisse a mettersi contro chiunque solo aprendo bocca? Mi illudevo
pure di avere le migliori intenzioni del mondo quando, alla fine, tutto
quello che volevo era starmene nascosta nell'ombra, al sicuro dai
cambiamenti e dalle altre persone.
Il mio cellulare scelse proprio quel momento per mettersi a squillare
insistentemente. Imprecai mentalmente mentre allungavo un braccio alla
cieca per prenderlo. Sbattei contro il comodino, che ricevette un paio
di insulti contro sua madre -casomai ne avesse una-, prima di riuscire
a prendere il telefono.
Premetti il tasto verde e me lo portai all’orecchio. «Pronto?»
Mi ricordai solo dopo aver parlato che il cuscino attutiva la mia voce.
«Scarlett!» La voce squillante di Beth mi fece quasi venire
il mal di testa. «Sei raffreddata per caso? Ti sento
strana.»
“Ma no, ho solo litigato con il tuo ragazzo e adesso ci sto
peggio di quanto non dovrei”, pensai lasciandomi sfuggire una
smorfia. A quel punto, anche un’influenza sarebbe stata gradita:
almeno avrei avuto un motivo per stare male che non mi avrebbe messo
nei guai con la mia migliore amica. Peccato che le miracolose doti di
guarigione fornite dalla licantropia mi impedissero di ammalarmi.
Mi girai sulla schiena prima di rispondere: «No, no, sto
bene.» Mi schiarii la gola. «Allora, come mai mi hai
chiamata?»
«Ho bisogno di un vestito nuovo.» Dichiarò con lo
stesso tono con cui si annunciano cose importanti.
«Un altro? Ma se hai l’armadio pieno!» Esclamai.
«Questa volta è diverso, ho bisogno di qualcosa di
spettacolare e anche un po’ sexy.» Insistette lei.
«Vuoi chiedere ai tuoi di comprarti un’auto?» Tentai
infilandomi una ciocca di capelli dietro l’orecchio.
«No, quella me l’hanno promessa per il diciottesimo. Voglio
stupire Adam.» Replicò tutta contenta.
«Oh… Beh, forte. Ma perché? Pensavo che tra voi
fosse tutto okay. O no?» Domandai sperando che non intuisse
quanto mi mettesse a disagio.
«Ecco, in realtà non proprio. Voglio dire, è come
se ci fossimo un po’ allontanati, lui è più freddo
con me e anche io lo sono. Non so di preciso perché, ma so che
voglio far tornare le cose come prima.» Spiegò. «Ci
tengo sul serio a lui.»
Perché mi importa di te, dannazione!
Trasalii silenziosamente quando quelle parole mi tornarono alla mente.
«Oh, ehm, immagino. E ti serve una consulenza in fatto di
shopping?»
«Sarebbe molto gradita, sì. Allora, ci stai?»
Chiese.
Sembrava così speranzosa, così ben intenzionata…
Come potevo dirle di no e spezzarle il cuore? Ma, nello stesso tempo,
come potevo mentirle riguardo il suo ragazzo proprio mentre lei cercava
di rimettere in sesto la sua relazione con lui?
«Sì, certo, che domande. Solo… mi serve
un’ora per fare una doccia, okay?» Risposi maledicendomi
mentalmente.
«Naturalmente. Ci vediamo tra un’ora al solito
posto.» Ribatté. «E grazie, sul serio. Sei
l’amica migliore che potessi desiderare.»
Chiusi gli occhi sperando di riuscire a non far tremare la voce.
«Figurati. Per te questo ed altro.»
Riattaccai prima di poter compromettere tutto e appoggiai di nuovo il
telefono sul comodino. Mi sentivo malissimo, come se fossi stata una
spia che fa il doppio gioco tra due paesi e non sa a chi essere leale.
Ero divisa tra la mia migliore amica, l'unica persona al mondo che
riusciva a portare un po' di normalità nella mia vita, e il suo
ragazzo, tanto insistente quanto magnetico che sembrava nato per
complicarmi l'esistenza. Mi sentivo una traditrice, una della peggior
specie.
SPAZIO AUTRICE: Ciao :3
Comincio col dire che non sono per niente soddisfatta di questo
capitolo -che novità, eh?- e non so neanche perché, forse
perché mi sembra vuoto. In questo periodo, infatti, non sono
più contenta di ciò che scrivo e sono più
autocritica del solito. Ma vaabbé, speriamo passi presto.
Che ne pensate del confronto tra Adam e Scarlett? Sono, finalmente
direi, stati sinceri l'uno con l'altra e questo ha scatenato in
Scarlett molti sensi di colpa.
Come pensate che andrà tra Adam e Beth? La loro storia
continuerà o si lasceranno? Vi anticipo che nel prossimo
capitolo saprete cosa ha deciso di fare Michael. A proposito, mi fa
tantissimo piacere sapere che vi siete affezionati a lui *-*
Volevo anche ringraziarvi perché continuate a seguire la storia, siete meravigliosi!
A presto,
TimeFlies
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Capitolo 20 *** 20. Adam ***
Under a Paper Moon- capitolo 20
20. Adam
«Sul serio! È così carino!
Io ero tremendamente impacciato, sì, insomma, era la mia prima
uscita con un ragazzo quindi… Ma Caleb è stato davvero
gentile…» Mentre parlava, Michael gesticolava animatamente
e sembrava al settimo cielo.
Non faceva altro che sorridere e guardava il vuoto con
un’espressione quasi da ebete.
«Mm-mm.» Mormorai
distrattamente.
Un po’ mi dispiaceva, ma avevo smesso di ascoltarlo da un bel
pezzo. Ero felice per lui, questo sì, però stava andando
avanti da quella che mi sembrava un’eternità e io
cominciavo a non poterne più.
Subito dopo le lezioni eravamo andati alla caffetteria dietro la scuola
perché lui aveva delle “novità importanti”
che non vedeva l’ora di raccontare. Dopo la rottura con Julia
aveva deciso di buttarsi e provare com’era uscire con un ragazzo.
Il prescelto era un certo Caleb che faceva chimica con noi. Lui e
Michael erano usciti il giorno prima e sembrava fosse andata bene.
Il mio migliore amico mi diede un colpetto al braccio. «E non ti
ho detto la parte migliore!»
Sbattei le palpebre, riscuotendomi dai miei pensieri, e lo guardai.
«E cioè?»
Un sorriso gli illuminò il viso.
«Ci siamo baciati.»
«Davvero? Al primo appuntamento?» Chiesi. «Sono
felice per te, ma… non state correndo un po’ troppo?
È la tua prima storia con un ragazzo.»
Lui fece un gesto vago con la mano. «Ehi, non è questo il
punto. Il punto è che mi è piaciuto, okay? Mi è
piaciuto sul serio.»
Sentii un sorriso incerto farsi strada sul mio viso. «È
un’ottima notizia, davvero. Mi fa piacere che tu ti sia chiarito
le idee.»
«Già… Io credo di essere un pochino innamorato,
sai?» Scosse la testa, come per tornare serio. «E lui si
è anche offerto di aiutarmi con chimica, non è
fantastico? Così tu puoi concentrarti solo su…
com’è che si chiama? Sasha? Sheila? Samantha?»
Distolsi lo sguardo serrando la mascella. «Scarlett.»
«Ah sì, giusto. Come vanno le cose con lei? È una
brava allieva?» Domandò.
Scrollai le spalle sperando che capisse che non volevo parlarne. «Abbastanza.»
Allargò le braccia. «Abbastanza? Tutto qui? Portare avanti
una conversazione con te è un’impresa! La metà del
tempo non mi ascolti, l’altra metà rispondi a monosillabi:
non hai idea di quanto sia frustrante.»
Sospirai passandomi una mano tra i capelli. «Scusa, è solo che… Non mi va di parlare di lei.»
«Perché no? Cioè… sono solo ripetizioni. O
c’è dell’altro?» Chiese socchiudendo gli
occhi.
«No, niente di importante, è solo che… Non è
una persona con cui mi trovo bene.» Risposi prendendo con
entrambe le mani il mio bicchiere di caffè.
«Allora smettila di darle ripetizioni, no?» Mi fece notare
lui stringendosi nelle spalle. «Se devi starci
male…»
«Non ci sto male.» Lo interruppi. «Non mi piace e
basta.»
Alzò le mani in segno di resa. «Okay, okay. Diciamo che
è un argomento tabù.»
Mi lasciai sfuggire un sorriso. «Più o meno, sì.
Grazie per averlo capito.»
«Figurati. Insomma, siamo migliori amici, no?»
Replicò lui con un sorrisetto ammiccante. «Con Elisabeth
invece? Il fuoco della passione brucia ancora?»
«In realtà credo che stia cominciando a spengersi.»
Ammisi.
Fece una smorfia. «Uh, mi dispiace. Ma come mai?»
Mi mordicchiai il labbro. «Lei è bella, esuberante, piena
di risorse, però…»
«Non fa per te, dico bene?» Indovinò lui.
«Non lo so neanche io, Michael, so solo che abbiamo esaurito gli
argomenti in comune in un certo senso. Siamo usciti l’altra sera
e… è stato tutto un silenzio imbarazzante in
pratica.» Replicai.
Mi mise una mano sul braccio. «Ehi, evidentemente era destino che
non durasse. Non disperare perché è finita, gioisci
perché c’è stata.»
Aggrottai la fronte. «Cosa?»
«È una frase che ho sentito da qualche parte.»
Scrollò le spalle. «Mi sembrava adatta alla
situazione.»
«Senti, non è ancora finita. Elisabeth è davvero
fantastica, magari è solo una cosa temporanea.» Ribattei
anche se sapevo benissimo che non aveva senso attaccarsi a quella
relazione tutt’altro che sincera, almeno da parte mia.
Sembrava scettico, ed aveva ottimi motivi per esserlo. «Uhm. Stai
cercando di convincere me o te stesso?»
«Non devo convincere nessuno.» Dichiarai.
Inarcò un sopracciglio. «No, certo. Devi solo capire se ne
vale la pena.»
Mio malgrado, esitai. Il mio lato orgoglioso voleva dire che sì,
ne valeva eccome la pena, perché Elisabeth era bella, attraente
e che no, non avevo preso un abbaglio mettendomi con lei. Ma la parte
razionale sosteneva tutto il contrario: non c’era niente che mi
legasse davvero ad Elisabeth.
«Senti, lo so che è difficile ammettere di aver sbagliato,
ma se non va non va. È inutile forzare la mano.» Aggiunse
Michael in tono cauto. «Insomma, vuoi davvero fingere con
lei?»
«No. Ma non voglio neanche farle male.» Ammisi.
Lui annuì. «Già, immagino… Senti, vedila
come se avessi a che fare con un cerotto, okay? Se lo togli piano piano
e temporeggi farà male più a lungo, ma se dai uno strappo
deciso, il dolore sarà molto più breve.»
Mi morsi il labbro, colpito dalla verità delle sue parole.
«Sai, dovresti tirare fuori questi consigli esistenziali
più spesso.»
Michael sorrise, divertito e compiaciuto. «Lo so, sono un
filosofo mancato. E comunque, tu dovresti ascoltarmi più
spesso.»
«D’accordo, cercherò di ricordarmelo.»
Scherzai.
Lui sollevò il mento. «Bada a come parli, Meyers.»
Alzai gli occhi al cielo sorridendo appena, ma fu una calma molto
breve. Mio malgrado, Elisabeth occupava buona parte dei miei pensieri.
Odiavo anche solo l’idea di farla star male, però
continuare a trascinare una relazione che ormai aveva perso ogni
significato mi sembrava ancora più meschino. Avrei dovuto
seguire il consiglio di Michael, uno strappo deciso e via, tutto si
sarebbe risolto. O almeno era quello che mi auguravo.
Il suo sorriso entusiasta mi rendeva tremendamente codardo. Ed era una
cosa che non sopportavo. Era solo una ragazza, giusto? Una bella
ragazza molto determinata nonché ultimo collegamento che mi era
rimasto con Scarlett, ma pur sempre una ragazza.
Avevo temporeggiato per tutto l’appuntamento anche se il piano
iniziale era quello di farla finita subito. Invece avevamo camminato
per ore sul molo, avevamo parlato e scherzato insieme come se niente
fosse. Ed io stavo cominciando ad odiarmi per quella mancanza di
coraggio.
Sospirai e la guardai di sottecchi: era impegnata ad osservare la
vetrina di un negozio, i lunghi capelli scuri lasciati sciolti sulle
spalle, il cappotto rosso scuro che le calzava a pennello sul corpo
slanciato.
Quando tornò a voltarsi verso di me, non feci in tempo a
cancellare l’espressione combattuta dal mio viso. Elisabeth
corrugò la fronte inclinando la testa di lato.
«Va tutto bene?» Chiese con voce gentile.
Distolsi lo sguardo e mi ritrovai a guardare le nostre mani
intrecciate. «Ecco, in realtà c’è una cosa
che dovrei dirti. Solo che… non è molto piacevole.»
Scrollò delicatamente le spalle. «Okay, dimmi pure.»
Mi morsi il labbro con forza. «Ci ho pensato molto in questi
giorni e… Quello che voglio dire è che ho riflettuto su
di noi e penso che, arrivati a questo punto…»
«Dovremmo lasciarci?» Indovinò lei,
l’espressione di colpo dura e impassibile. Le sue labbra,
colorate di un rosso sfumato di viola, si arricciarono appena in una
smorfia.
Buttai fuori l’aria lentamente. «Sì. Non voglio
mentirti, quindi sì, penso che sia la cosa migliore ora come
ora.»
Elisabeth sfilò la mano dalla mia annuendo appena, la postura
rigida e lo sguardo sfuggevole. «Capisco.» Si
schiarì la gola. «Apprezzo la tua sincerità,
comunque.»
«Mi dispiace che sia andata così, davvero. Tu… non
lo meritavi.» Mormorai sentendomi tremendamente in colpa, come se
le avessi mentito. E, in un certo senso, l’avevo fatto: tutti i
miei trascorsi con Scarlett, tutte le nostre discussioni e quella notte
di luna piena passata insieme… Elisabeth non ne sapeva
assolutamente niente.
«No, va bene. Voglio dire, non va bene,
perché stiamo rompendo, ho avuto relazioni che sono terminate in
modi molto peggiori quindi…» Replicò lei lasciando
la frase in sospeso.
Per un secondo riuscì ad incrociare il suo sguardo. E a notare
che aveva gli occhi lucidi. Maledissi mentalmente me stesso e la mia
codardia, ma soprattutto quella malsana idea che mi era presa di
conoscere Scarlett.
Perché era stato quello a spingermi ad iniziare quella relazione
basata solo ed esclusivamente su un mio interesse personale e su un
po’ d’attrazione fisica. Non c’era stato niente di
più, ma solo adesso mi rendevo conto dell’errore che avevo
commesso.
La mattina dopo convincermi che dovevo
andare a scuola fu una vera impresa. Soprattutto perché sapevo
che avrei sicuramente incrociato Elisabeth dal momento che faceva
lezione nella classe accanto alla mia.
Era stato giusto, almeno in parte, essere sincero con lei e lasciarla,
però questo non toglieva il fatto che l’avevo fatta
soffrire e l’avevo illusa. Di solito non ero così, non
usavo le persone, ma questa volta c’era stato qualcosa di
diverso. Questa volta c’era
stata Scarlett.
Mi bloccai di colpo ritrovandomi a trattenere il fiato quando incrociai
lo sguardo di Elisabeth. Era in corridoio a pochi metri da me, ma, non
appena si accorse della mia presenza, si affrettò a voltarsi e
ad andarsene nella direzione opposta.
Mi passai una mano tra i capelli sospirando pesantemente. Essere onesto
era servito fino ad un certo punto: anche se adesso avevo smesso di
fingere con Elisabeth, l’avevo fatta stare male comunque, e non
riuscivo a perdonarmelo.
«Che è successo?» Chiese una voce familiare.
Mi voltai di scatto e mi trovai accanto Scarlett che mi guardava con i
suoi occhi da cerbiatto, quegli stessi occhi che si erano infiammati
d’oro solo qualche giorno prima. Indossava un maglione rosso
scuro un po’ troppo grande per lei, dei jeans con uno strappo
sulle ginocchia e degli anfibi neri consumati. I capelli le ricadevano
morbidi sulle spalle e sulla schiena e le incorniciavano il viso.
Dovetti resistere all’impulso di spostare una ciocca che le
ricadeva sugli occhi.
«Dovresti chiederlo a lei.» Risposi indurendo la voce.
Sembrò sorpresa. «Ma stava guardando te… Insomma,
lo sai cos’è successo, no?»
«Sì.» Confermai. «Però, da quello che
mi risulta, io e te non dovremmo parlarci.»
Schiuse le labbra, incredula. «È per quello che è
successo l’altro giorno? Non intendevo dire che non possiamo
parlarci, ho solo detto che non volevo che tu fossi coinvolto
in… tu-sai-cosa.»
«In realtà sono abbastanza sicuro che tu me l’abbia
imposto.» Ribattei. «Volevi farmi giurare che non mi sarei
più messo in mezzo.»
«L’ho fatto per te: è pericolo e non volevo che ti
facessi male.» Insistette.
«O forse l’hai fatto per Elisabeth.» Replicai.
Fece per dire qualcosa, ma poi serrò le labbra in una linea
sottile e chinò la testa: a quanto pareva, avevo indovinato.
«Già.» Mormorai. «Come pensavo. Beh, io adesso
devo andare quindi…»
Sollevò lo sguardo su di me e per un secondo mi sembrò un
cucciolo bisognoso d’aiuto. «Io non… Non era
così che…»
«Non era così che doveva andare? Sì, me l’hai
già detto e io ho già espresso la mia opinione a
riguardo.» Risposi.
Si morse il labbro tornando a guardare il pavimento. «Mi
dispiace… So di aver sbagliato e tutto il resto…»
«È tardi per le scuse, non credi?» Domandai.
«La mattina dopo il plenilunio mi hai ringraziato per averti
aiutato, ma poi non ti sei fatta problemi a dirmi che stavo complicando
tutto.»
Si passò una mano tra i capelli e notai che stava tremando.
«È una situazione nuova per me, okay? Non ho mai dovuto
gestire i rapporti con qualcuno che sapeva veramente cosa sono quindi
non so come comportarmi. Vorrei tenerti fuori da tutto questo, ma so
anche che non mi darai retta.»
«Credo di sì, invece. Non voglio più avere niente a
che fare con il soprannaturale.» Dichiarai dandomi mentalmente
del bugiardo.
Spalancò gli occhi, più sorpresa di prima. «Cosa?
Come mai hai cambiato idea così in fretta?»
«Non importa. E poi a te non va meglio così? Adesso hai
una preoccupazione in meno.» Commentai.
«Sì, ma…» Le si incrinò la voce e fu
la prima volta che la vidi veramente in difficoltà. «Tu
hai sempre voluto…»
Lo squillo del suo cellulare la interruppe. Lo prese dalla tasca dei
jeans e se lo portò all’orecchio. «Pronto?»
Ascoltò la risposta e annuì. «Sì,
arrivo.» Chiuse la chiamata e rimise il telefono al suo posto
prima di alzare gli occhi su di me. «Domani… Le
ripetizioni…»
«Passo a prenderti io.» Tagliai corto.
«Okay.» Il suo fu un sussurro appena udibile.
Si voltò e si allontanò velocemente. Rimasi a guardarla
per qualche secondo mentre cercavo di dare un nome all’emozione
che avevo provato rivedendola lì accanto a me, così
piccola eppure forte. Così vicina dopo tanto tempo che aveva
passato lontana.
«…a questo punto devi moltiplicare l’indice del
radicale per l’indice dell’altro e poi razionalizzi il
denominatore…» Spiegai indicando i passaggi sul suo
quaderno.
Scarlett lo guardava con la solita espressione imbronciata che
riservava alla matematica. Non sembrava particolarmente entusiasta di
imparare come risolvere le equazioni di secondo grado con i radicali. E
non potevo biasimarla.
Erano passate tre settimane dalla luna piena e i rapporti tra me e lei
erano ancora tesi. Buona parte era per colpa mia: ero scattato subito
sulla difensiva senza darle il tempo di spiegarsi e così facendo
avevo compromesso anche quel minuscolo barlume di equilibrio che
sembrava essersi creato tra noi.
C’era da dire che anche lei aveva fatto la sua parte chiudendosi
dietro un muro di rabbia testarda e a rispondendo usando solo
monosillabi, cosa che mi fece capire come si sentiva Michael quando ero
io a farlo.
Mi ero comunque imposto di non farci caso e di continuare a spiegarle
gli argomenti di matematica via via che la sua professoressa li
introduceva. Era riuscita a rimettersi in pari col programma anche se
c’erano ancora alcune cose da sistemare, ma eravamo già ad
un buon punto.
Finii di spiegare l’ultimo passaggio dell’equazione prima
di aprire il libro per cercare qualche esercizio da farle fare.
Sussultai quando me lo sfilò da sotto gli occhi e lo chiuse con
un tonfo: fino a quel momento se n’era stata seduta a braccia
incrociate e con aria corrucciata, non mi aspettavo un movimento
così veloce ed improvviso.
La guardai in cerca di spiegazioni e lei mi restituì lo sguardo
alzando il mento in segno di sfida.
«Questa situazione mi ha stancata.» Dichiarò.
«Beh, abbiamo cominciato solo da venti minuti e dobbiamo ancora
ripassare le proprietà…» Cominciai facendo un cenno
verso il quaderno.
«Non intendevo quello!» Mi interruppe. «Mi
riferivo a tutto questo silenzio e al fatto che a scuola neanche ci
salutiamo e a questo essere arrabbiati l’uno con l’altra
come se io ti avessi ammazzato il gatto.»
«Non ho un gatto.» Risposi senza pensare a quello che
dicevo.
«Non importa! Era un modo di dire.» Esclamò.
Mi passai una mano tra i capelli. «D’accordo, allora che
proponi di fare? Io uccido il tuo, di gatto?»
Trasse un respiro profondo. «Facciamo pace.»
Rimasi senza parole per un attimo, stupito. Voleva fare pace?
Sollevai lo sguardo su di lei e incrociai i suoi occhi da cerbiatto che
mi studiavano. Sembravano sinceri ed esprimevano una certa impazienza.
«Sul serio?» Chiesi.
Si strinse le braccia al petto. «Sì. Non mi piace tutta
questa tensione. Mi mette a disagio. E forse non avrei dovuto
prendermela con te dopo il plenilunio.»
«Neanche a me piace questo non parlarsi: è
infantile.» Concordai.
Lei annuì prima di guardarmi con aria critica. «Comunque,
me ne sono accorta che hai smesso di chiedermi i soldi. Per le lezioni,
intendo. Non sei bravo a tenere il muso alla gente.»
Sentii un sorriso spontaneo farsi strada sul mio viso. «È
perché non ci stavo provando seriamente.»
«Oh, sì, certo. Come no.» Scosse la testa. «Lo
sai che non ti credo.» E sorrise.
«Fai bene.» Convenni prima di tenderle la mano.
«Pace?»
«Mi sento come una bambina di cinque anni, ma sì,
pace.» Replicò prima di stringerla.
La sua pelle era calda e morbida. All’indice aveva un piccolo
anello argentato con un minuscolo cristallo incastonato. Lo osservai
prima di sfiorarlo, sovrappensiero.
«E questo? Non te l’avevo mai visto prima…»
Mormorai.
«È di mia madre. L’avevo perso qualche mese fa, ma
poi l’ho ritrovato.» Spiegò. «Me lo diede lei
un anno fa, più o meno, per ricordarmi che ci sarebbe sempre
stata per me, anche se è lontana.»
Sollevai lo sguardo su di lei e incrociai quei suoi occhi da cerbiatto
che, per la loro dolcezza apparente, stridevano con la forza del lupo
che avevo intravisto in lei.
«Ho rotto con Elisabeth.» Aggiunsi a bassa voce.
Lei annuì. «Lo so, me ne ha parlato. Non ce l’ha con
te, non troppo almeno, se è questo che ti preoccupa.»
«Beh, è una buona notizia, credo.» Sussurrai prima
di lasciarle la mano. «Tu stai ancora con James?»
«Per il momento sì. Mi ci trovo bene.» Rispose.
«Bene, mi fa piacere. Almeno uno di noi due ha una relazione
solida.» Replicai passandomi una mano tra i capelli.
Lei rise piano. «Eh già. Ma non so quanto
durerà.»
«Perché? Se state bene insieme non c’è motivo
per cui non dovrebbe funzionare, no?» Domandai.
Si morse il labbro distogliendo lo sguardo. «Beh, no, hai
ragione. Però lui vuole farmi conoscere i suoi amici e non
è che mi vado molto. Insomma… sarà
imbarazzante.»
«Forse un po’ sì. Ma saprai cavartela.» La
rassicurai.
Mi fece un sorriso timido. «Grazie. Per questo e perché
non mi hai mollata in mezzo a questo mare di numeri strani anche se ti
ho fatto arrabbiare.»
«Non lo farei mai: mi sono preso un impegno e voglio portarlo a
termine.» Dichiarai. «E anch’io devo ringraziarti.
Sei stata tu a proporre di fare pace: se fosse dipeso da me ci staremmo
ancora odiando in silenzio.»
«Si sa che le donne sono più mature.»
Commentò inclinando la testa di lato.
«Le donne, non i lupi mannari.» La stuzzicai.
Mi fece una smorfia. «Quanto sei simpatico, mi stupisco che Beth
abbia rinunciato a te.»
«Forse aveva intuito che eri pazzamente innamorata di me e si
è fatta indietro.» Commentai.
«Sì, certo. Credici se aiuta la tua scarsa
autostima.» Mi rimbeccò con un sorrisetto divertito.
«Possiamo smettere di fare questo?» Chiese indicando il
libro di matematica con evidente disgusto.
«Abbiamo appena iniziato.» Le feci notare senza riuscire a
trattenere un sorriso.
Si strinse nelle spalle. «E io mi sono già
stancata.»
«Che vorresti fare allora?» Domandai appoggiando i gomiti sul tavolo.
«Qualcos’altro.» Rispose semplicemente.
«Perché non andiamo fuori? Ho voglia di prendere un
po’ d’aria.»
Mi morsi il labbro mentre valutavo la sua idea: avrei dovuto insistere
perché continuassimo a ripassare le regole che le riuscivano
meno, ma sapevo che non si sarebbe concentrata neanche un po’ se
le avessi detto che dovevamo continuare a fare esercizi. Probabilmente
avrebbe passato il resto dell’ora a sbuffare teatralmente e a
lamentarsi di quanto fossero inutili i radicali.
«D’accordo.» Mi arresi. «Anche perché
altrimenti saremmo tornati all’odio silenzioso di prima.»
Fece un gesto vago con la mano, come ad allontanare la
possibilità che succedesse una cosa simile.
«Macché. Io sono più matura di così.»
Scossi la testa cercando di non sorridere. «Certo…»
Lei si alzò e si voltò facendomi cenno di seguirla.
«Andiamo, su.»
Senza aspettarmi, si incamminò verso la porta e uscì,
perfettamente a suo agio, come se fosse stata a casa sua. La raggiunsi
sul portico, dove si era seduta su uno dei gradini. Presi posto accanto
a lei che mi lanciò un’occhiata di sottecchi. Non ci avevo
fatto molto caso prima visto che ero troppo impegnato a tenerle il
muso, ma stava bene vestita in quel modo: cardigan verde scuro, jeans
neri e una camicia a quadri blu.
«Sono felice che ci siamo riappacificati.» Ammise a bassa
voce. «Ci ho pensato molto in questi giorni e ho capito
perché mi comportavo in modo così… duro con te.
Avevo paura del fatto che mi rassicurasse avere qualcuno che sapeva
cosa sono e che lo aveva accettato. Sì, lo so che sembra un
paradosso, ma è… la verità.»
«Immagino che non sia facile per te. Dopo anni passati a fingere
e a mentire, dev’essere stato un grosso cambiamento per te
ritrovarti a dover affrontare qualcuno che conosceva il tuo
segreto.» Risposi.
«Già… Ma, in fondo, sono felice che quel qualcuno
sia tu. Mi sarebbe potuto capitare uno fissato col soprannaturale che
mi avrebbe riempita di domande, o un isterico che avrebbe dato di
matto.» Commentò lei stringendosi le braccia al petto.
«Beh, è bello sapere che mi preferisci a dei pazzi.»
Replicai strappandole un sorriso.
Mi rifilò una gomitata nelle costole. «Guarda che sono
seria. Insomma, anche se a volte mi fai impazzire, sei razionale quando
serve e riesci a tenermi testa.»
«Non riesco a credere che mi stai facendo un complimento, non
dopo che abbiamo litigato un sacco di volte proprio perché
volevo aiutarti.» Commentai.
«Non è proprio un complimento.» Chiarì lei
aggrottando la fronte. «Più che altro ti sto riconoscendo
un merito.»
Alzai le mani in segno di resa. «Okay, mettiamola come vuoi
tu.»
Sembrò soddisfatta della mia risposta. «Bene. E credo di
doverti ringraziare per quello che hai fatto la notte di plenilunio: se
non ci fossi stato tu mi sarei dovuta togliere un sacco di schegge
dalle mani.»
La guardai, confuso. «Che intendi?»
Spostò lo sguardo sugli alberi davanti a noi. «Ecco,
quando c’è la luna piena io me ne vado nel bosco,
così posso… sfogarmi senza fare male a nessuno. A parte
gli alberi: spesso sono loro le mie malcapitate vittime. Sai, il legno
è morbido e gli artigli ci affondano bene…»
«Come i gatti con i tira-graffi.» Mormorai.
«La smetti di paragonarmi ad un gatto?» Esclamò lei
voltandosi verso di me.
Mi morsi il labbro per nascondere un sorriso. «Scusa, è la
prima cosa che mi è venuta in mente.»
Scosse la testa alzando gli occhi al cielo. «Forse ti ho
giudicato troppo in fretta, forse anche tu sei un po’ fuori di
testa.»
«Beh, ho passato la notte di luna piena con te quindi un
po’ di pazzia devo averla.» Convenni.
«E io te l’ho lasciato fare. Questo ci porta alla
conclusione che siamo pazzi tutti e due.» Aggiunse lei
giocherellando con il bordo del cardigan.
Mi lasciai sfuggire una risata. «Poteva andarci molto peggio,
sai? In tutti i sensi.»
Annuì sorridendo quasi timidamente. «Eh già. In
fondo, forse mi fa davvero piacere che ci sia tu a darmi ripetizioni, a
scherzare sulla licantropia, a incasinarmi la vita.»
La guardai, sorpreso da quella rivelazione. Lei sembrò in
imbarazzo e distolse subito lo sguardo: forse pensava di aver detto
troppo, di essersi esposta e di non poter tornare indietro. Strinsi le
labbra cercando qualcosa da dire, qualcosa che la rassicurasse.
«Ehi.» Mormorai. «Apprezzo quello che hai detto. Non
so quanto possa importare, ma anche a me fa piacere che tu sia…
ehm… il primo lupo mannaro che conosco.»
Rise piano appoggiando i gomiti sulle ginocchia. «Oddio…
Lo sai che non ha senso, vero?»
Mi passai una mano tra i capelli. «Sì. Ma spero tu abbia capito cosa intendevo.»
Si voltò verso di me e i suoi ardenti occhi da cerbiatto
incontrarono i miei. «Ho capito, credo. E ho realizzato che ora
che non stai più con Beth non ti vedo più come una
minaccia, non ti considero più qualcuno da evitare.» Mi
tese la mano, per metà coperta dalla manica del cardigan.
«Ti va di dimenticare tutte le minacce, il mio essere acida e
ipocrita, e provare a ricominciare da capo?»
Sorrisi senza neanche rendermene conto e le strinsi la mano per la
seconda volta quel giorno. «Sì, direi che è una
buon’idea. E spero che tu voglia perdonarmi per tutte le volte
che sono stato troppo duro con te. Mi dispiace sul serio per essermi
comportato da idiota.»
«Sei perdonato.» Decise prima di mordersi il labbro nel
tentativo di nascondere un sorriso.
Forse quel punto di incontro che solo qualche settimana prima sembra
lontanissimo, irraggiungibile, adesso era proprio lì, a portata
di mano. E forse potevamo raggiungerlo e darci una seconda
possibilità.
SPAZIO AUTRICE: Ehilà :3
Sì, non sono morta, non ancora almeno. Questo periodo
però è molto, molto incasinato per me: la scuola mi porta
via molto tempo e sto dedicando molte attenzioni ad un'altra storia
(che ho riscritto per tre volte nel corso di due anni) che
probabilmente pubblicherò più avanti. Ma Under a Paper
Moon è comunque una priorità <3
Detto questo, passiamo al capitolo. Adam ed Elisabeth hanno rotto e lui
si sente in colpa. Ecco, questa è una caratteristica
fondamentale di Adam, che condivide anche Scarlett: odiano far star
male le persone. Se fanno soffrire qualcuno, loro ci stanno male il
doppio.
In più gli Adamett litigano perché Adam si sente ferito
nell'orgoglio da ciò che Scarlett gli ha detto dopo la notte di
plenilunio e un po' ce l'ha con lei anche perché l'ha portato ad
illudere e quindi ferire Elisabeth. Scarlett, invece, non sembra
disposta a rinunciare a quel qualcosa che hanno. Perché? Bella domanda.
E anche se lui, almeno nella prima parte, è sembrato un po'
troppo duro, vi prometto che si rifarà e che ci sarà un
bel po' di Adamett più avanti.
E finalmente sappiamo cosa ha scelto Michael *-* oltre ad essersi
improvvisato mentore, in questo capitolo vi ha anche presentato il
motivo dell'avviso slash
nelle note: i Michaleb (?). Spero vi piacciano, sono la prima
coppia slash di cui scrivo quindi sono un po' inesperta, ma
proverò a fare del mio meglio :3
Un'altra cosa: Under a Paper Moon sarà divisa in due parti, ma
sarà una cosa molto astratta. In pratica, dal capitolo 23
cambierò il banner -un altro mio esprimento- perché
entreremo nella seconda metà della storia. Ci saranno nuovi
personaggi, alcuni simpatici altri meno, e scoprirete qualcosa in
più sulla licantropia di Scarlett.
Ora mi dileguo perché sennò non la finisco più. Quindi niente, spero che il capitolo vi sia piaciuto <3
TimeFlies
|
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Capitolo 21 *** 21. Scarlett ***
Under a Paper Moon- capitolo 21
21. Scarlett
«Sì,
hai completamente ragione, i ragazzi sono solo un peso.» Convenni
sperando con tutta me stessa che James, a pochi metri da me, non mi
sentisse.
Dall’altro capo, Beth si esibì in un sospiro
teatrale. «Esatto! Voglio dire, pretendono che tu sia sempre
carina e truccata e poi a malapena ti guardano.»
Una parte di me
non poté fare a meno di pensare che non tutti erano così,
e di sicuro non il suo ex: Adam guardava con attenzione chiunque gli
stesse davanti, i suoi occhi blu sembravano sempre affamati di
dettagli. Quando qualcosa lo interessava.
Sentii una piccola fitta di
colpevolezza quando mi resi conto che il rancore di Beth era dovuto a
questo, al fatto che Adam non la guardasse come lei voleva essere
guardata.
«Già… Dovrebbero rimettere la testa a
posto.» Mormorai lanciandomi un’occhiata alle spalle e
sorridendo a James come per rassicurarlo.
Elisabeth non poteva
scegliere un momento peggiore per chiamarmi. O forse non poteva
sceglierne uno migliore. Ero uscita con James per fare un giro in
città, niente di impegnativo, ma neanche di troppo interessante.
Solo che stavo perdendo un sacco di tempo dietro alla telefonata di
Beth e probabilmente a lui questo non andava a genio, bastava guardare
la piega infastidita delle sue labbra per capirlo.
«Sai che ti
dico? La vita da single è cento volte meglio. Al diavolo i
ragazzi e tutte le loro pretese.» Dichiarò la mia migliore
amica con enfasi. «Ah, a proposito, sabato ti va di fare un
po’ di shopping?»
«Certo. Conta pure su di me,
Beth.» Confermai, metà sollevata e metà delusa che
quella conversazione stesse giungendo al termine.
«Grazie
Scarlett, sei un tesoro!» Esclamò lei.
«Figurati, lo
faccio volentieri.» Replicai sorridendo.
Riattaccai, trassi un
respiro molto profondo e mi voltai per tornare da James. Mi accolse con
un piccolo sorriso e non potei fare a meno di trovarlo tenero.
«Tutto okay?» Chiese.
Annuii scostandomi una ciocca
di capelli dagli occhi. «Sì, tutto bene…»
In
quel momento il mio cellulare, che avevo ancora in mano, squillò
di nuovo. Imprecai mentalmente, lanciai un’occhiata allo schermo
e tutta l’irritazione sparì: era Adam. «Torno
subito, scusa.» Dissi lanciando un’occhiata di scuse a
James.
Mi allontanai di nuovo, questa volta mettendo più
distanza tra noi, prima di portarmi il telefono all’orecchio.
«Adam, ehi.»
«Ciao Scar.» Rispose lui.
Sentire
il soprannome che mi aveva dato mi fece sorridere, mio malgrado: era la
prima volta che qualcuno mi trovava un nomignolo, anche perché
Scarlett non è facile da abbreviare. E il fatto che qualcuno mi
avesse dato un diminutivo mi faceva sentire lusingata.
«Perché mi hai
chiamata?» Domandai osservando distrattamente la vetrina di un
negozio di vestiti.
«Ecco, ho bisogno di favore. Per le
ripetizioni di oggi, ti dispiacerebbe venire a casa mia?»
Spiegò con una nota esitante nella voce.
«Sì,
certo, non credo ci sia nessun problema.» Confermai. «Come
mai?»
«Mio fratello mi ha lasciato sua figlia per un paio
d’ore.» Rispose e, chissà perché, mi
immaginai di vederlo arricciare appena le labbra.
Mi ritrovai a
sorridere. «Oh, quindi fai il babysitter?»
Lo sentii
sospirare. «Non c’è niente di divertente,
Scar.»
Mi morsi un labbro per non ridere. «No, infatti. Ti
ci vedo proprio, sai?»
«Guarda che Lena mi adora.»
Borbottò eppure sapevo che stava sorridendo anche lui.
«Allora okay, non voglio discutere con una bambina.»
Ribattei. «Mi dai il tuo indirizzo?» Aggiunsi incastrando
il cellulare tra la spalla e l’orecchio mentre cercavo una penna
nella borsa.
«Madison Street, numero 10.» Rispose.
«Comunque grazie.»
«Di nulla.» Mormorai prima
di stappare la penna con i denti e scribacchiarmi il nome della strada
sul palmo della mano. «Allora ci vediamo dopo?»
«A
dopo, Scar.» Replicò.
Trattenni il fiato per un secondo
mentre riattaccavo. Vedere casa sua era una cosa che non avrei mai
pensato di fare, anche perché fino a poco tempo prima non lo
volevo assolutamente nella mia vita. Adesso qualcosa era cambiato, e
buona parte delle mie convinzioni erano state sconvolte. E
chissà cos’altro avrebbe combinato quel ragazzo dagli
occhi blu.
Tornai da James con un sorriso di scuse e
l’espressione più supplicante che riuscii a trovare.
«Mi dispiace, a quanto pare oggi servo a tutti…»
Lui
sorrise appena. «Già, sei molto ricercata, eh?» Mi
prese per mano intrecciando le dita alle mie. «Andiamo a fare una
passeggiata nel parco? È qui vicino.»
Annuii sentendo di
doverli dimostrare un po’ d’entusiasmo per farmi perdonare.
«Sì, volentieri.»
Sembrò rilassarsi e
riacquistare fiducia in sé. Si chinò su di me per
baciarmi, ma, quando le sue labbra trovarono le mie, non sentii nessuna
scintilla.
Era come se qualcuno avesse ucciso le mie famose
“farfalle nello stomaco”. E non potei fare a meno di
sentirmi in colpa per quel mio improvviso disinteresse verso il ragazzo
che dicevo di amare.
James non mi era sembrato molto entusiasta di
dovermi accompagnare a casa di Adam, lo avevo intuito subito. Mentre
guidava, infatti, aveva un’espressione corrucciata e quasi
infastidita.
Gli avevo detto più volte di non preoccuparsi e che
sarei potuta andare a piedi. Si era rifiutato di lasciarmi andare da
sola e devo ammettere che mi aveva fatto piacere sapere che si
preoccupava per me.
«Quindi… Adam ti da
ripetizioni?» Chiese tamburellando sul volante.
«Già. Io e la matematica non andiamo molto
d’accordo, ma a lui riesce bene così… mi da una
mano.» Spiegai.
«Uhm… Se me lo avessi detto avrei
potuto farlo anch’io.» Commentò.
Lo guardai,
sorpresa. «Oh… Beh, ho pensato che visto che avevi
cambiato scuola magari dovevi adattarti al programma.»
Annuì, come sovrappensiero. «Sì, forse.»
«Senti, ho apprezzato il fatto che tu abbia deciso di
accompagnarmi. Davvero.» Mormorai. «È stato molto
gentile da parte tua.»
Mi fece un sorriso un po’ incerto.
«Ehi, tu sei la mia ragazza, okay? Per te questo ed altro.»
Gli sorrisi. «Grazie. Di nuovo.»
Lui fece un piccolo cenno
d’assenso prima di accostare l’auto ad un marciapiede.
«Numero 10, giusto?»
Lanciai un’occhiata fuori dal
finestrino: a quando pareva Adam viveva in una di quelle villette tutte
uguali con un minuscolo giardino davanti. In effetti, devo ammettere
che era così che mi immaginavo casa sua, più o meno.
«Sì, dev’essere questa.» Confermai. Presi la
borsa e mi allungai per baciarlo sperando segretamente che le farfalle
nella mia pancia fossero tornate. «A domani.»
«A
domani.» Rispose scostandosi da me. «E buona lezione.
Credo.»
Sorrisi scuotendo la testa. «Speriamo.»
Scesi
dalla macchina chiudendomi lo sportello alle spalle. James mi fece un
cenno di saluto che ricambiai. Appena si fu allontanato, mi voltai
verso la casa e la raggiunsi.
Indugiai per un attimo al momento di
bussare: e se mi avesse aperto suo fratello? O sua madre? Che avrei
detto? “Ehi, suo figlio mi deve dare ripetizioni, è in
casa?”. Sarei morta dall’imbarazzo.
Non mi aspettavo
minimamente che sarebbe stata una bambina dai lunghi capelli biondi ad
aprirmi la porta. Rimanemmo a guardarci per qualche secondo, senza
sapere cosa fare. Lei aveva grandi occhi di un azzurro più
chiaro rispetto a quelli di Adam. Dimostrava quattro o cinque anni, ma
sembrava piuttosto sveglia e vivace. Aveva le mani macchiate di tempera
di vari colori e non aveva risparmiato neanche la maglietta che
indossava.
Mi schiarii la gola. «Ehm… C’è
Adam?»
«Lo zio?» Chiese osservandomi con
curiosità.
Esitai per un attimo. «Uh, sì,
lui.»
«Scarlett.» La sua voce mi fece alzare gli
occhi quasi senza che me ne rendessi conto.
Adam era in piedi dietro
sua nipote e mi sorrideva. Indossava una maglietta nera a maniche
lunghe e dei jeans semplici. Sentii un sorriso nascermi sulle labbra.
«A quanto pare sei sopravvissuto alla pittura, eh?» Lo
provocai.
Alzò gli occhi al cielo. «Avevi dubbi?»
La
bambina lo tirò per una manica. «È la tua
fidanzata?»
Il sorriso di Adam si fece più ampio quando
abbassò lo sguardo su di lei. «No, bionda, è solo
un’amica.»
Lei mi lanciò un’occhiata per poi
tornare a guardare Adam. «Okay.» Disse scrollando le
piccole spalle.
Si infilò in casa di corsa senza dare a nessuno
il tempo di rispondere. Adam la seguì con lo sguardo per un
attimo prima di riportare l’attenzione su di me.
Si
mordicchiò il labbro. «Prendo il libro e possiamo andare,
mmh?»
«Sì, perfetto.» Concordai.
Mi fece un
piccolo sorriso prima di rientrare lasciando la porta aperta. Mi
strinsi le braccia al petto e trassi un respiro profondo: era andata
meglio di quello che pensavo. E dovevo ammettere che sua nipote era
davvero carina.
Sussultai quando un cane apparve sulla soglia. Era un
border collie, se non mi sbagliavo: muso appuntito, pelo lungo bianco e
nero, orecchie a punta ripiegate, corpo snello. Mi guardava annusando
l’aria.
Non riuscii a fare a meno di inginocchiarmi e allungare
una mano verso di lui. O lei. Il cane sollevò le orecchie e mi
fiutò per un attimo prima di lasciarsi accarezzare. Si mise a
scodinzolare e mugolò piano. Avevo sempre voluto un cane, ma
visto che mia mamma non c’era mai non aveva voluto lasciarmelo
prendere. Questo non aveva impedito ad una piccola Scarlett di sei anni
di fare amicizia con tutti i cani del quartiere.
Qualcuno si
schiarì la gola facendomi trasalire. Sollevai di scatto la testa
proprio mentre il cane si sdraiava sulla schiena. Davanti a me
c’era un uomo giovane, sulla trentina, con capelli scuri tagliati
molto corti e occhi chiari. Era alto e muscoloso e aveva un cipiglio
non proprio rassicurante. Mi rimisi in piedi, imbarazzata, e mi infilai
una ciocca di capelli dietro l’orecchio.
Lui continuava a
studiarmi con aria sospettosa. «Tu sei?»
«Un’amica di Adam.» Mormorai con un fil di voce.
Lui
sollevò un sopracciglio. «Ah, davvero?»
«Sì, davvero.» Confermò Adam apparendo al
fianco dell’uomo. «Non devi fare il terzo grado a tutti
quelli che si presentano alla porta, sai?»
L’altro
sembrò lievemente sorpreso. «Oh… Ehm, non è
quello che stavo facendo.»
«Bene, perché non ce
n’è bisogno.» Commentò Adam prima di voltarsi
verso di me. «Possiamo andare.»
«Dove?»
Intervenne l’uomo.
Adam sospirò e sollevò il libro
di matematica. «Dove vuoi che andiamo, Louis? Le do
ripetizioni.»
Louis si grattò la testa, imbarazzato.
«Uh… Bene. Divertitevi.»
Adam alzò gli occhi
al cielo e mi fece cenno di seguirlo. Si chiuse la porta alle spalle
bloccando così ogni tentativo di Louis di aggiungere altro.
Seguii il ragazzo con gli occhi color tempesta fino alla sua auto e mi
sedetti al posto del passeggero. Lui prese posto al volante e
inserì le chiavi nel quadro.
«Scusa se te lo chiedo, ma
sono un pochino confusa: chi era quello?» Domandai.
Lui trasse un
respiro profondo. «Mio fratello. Ti avevo accennato qualcosa,
no?»
«Sì, mi sembra proprio di sì.»
Risposi. «Quindi è lui il padre della bambina?»
Annuì stringendo le labbra. «Esatto.»
«E a te
non va tanto a genio, mmh?» Indovinai osservandolo.
Un angolo
della sua bocca si sollevò in un sorriso sghembo.
«È così evidente?»
«Basta prestare un
po’ d’attenzione alla postura, ai movimenti, agli
occhi…» Spiegai. «I telefilm polizieschi sono utili
in questo senso.»
«Gli voglio bene, ma… Lui è
sempre così perfetto… E ha già una famiglia.
È stupido, lo so, però a volte mi viene da pensare che
lui sia semplicemente migliore di me.» Mormorò.
Senza
pensarci, gli misi una mano sul braccio. «Non è vero.
Cioè, io non lo conosco, ma so che tu sei…
incredibile.»
Si morse il labbro e mi lanciò
un’occhiata. «Grazie Scar.»
Gli sorrisi, cosa che mi
veniva incredibilmente naturale. «Di nulla.»
Dopo
un’estenuante lotta con i radicali durata poco più di
un’ora, convinsi Adam ad uscire sul portico per prendere un
po’ d’aria. Ci appoggiammo entrambi alla ringhiera,
l’uno accanto all’altro, con le spalle che si sfioravano.
Mi piaceva guardare il bosco, anche se i ricordi che avevo delle notti
passate lì non erano proprio piacevoli. Nonostante tutto,
l’imponenza degli alberi, l’uniformità delle loro
fronde, l’odore umido e corposo del muschio e
dell’erba… si amalgamavano così bene che sembrava
impossibile allontanarsi.
Adam mi prese delicatamente una mano tra le
sue. Gli lanciai un’occhiata di sottecchi, sorpresa: sembrava
perso nei suoi pensieri, teneva lo sguardo basso e si stava mordendo il
labbro inferiore. La sua pelle era lievemente calda e, in un certo
senso, anche rassicurante, piacevole.
In effetti, mi sarebbe piaciuto
farmi abbracciare da lui. L’avevo già fatto una volta, ma
in quel momento non ero stata completamente in me visto che ero reduce
da una notte di plenilunio. Quello era stata un gesto dettato
dall’impulso e dal sollievo di sapere che ero riuscita a
controllarmi, a non fargli male.
Mentre io mi facevo prendere dai
ricordi, Adam aveva cominciato ad accarezzarmi le nocche. Si
soffermò con le dita sull’anello che mi aveva regalato mia
mamma. Il suo tocco era leggero, quasi esitante. Sospirai e appoggiai
la testa alla sua spalla.
Sentii il suo sguardo addosso, probabilmente
un’occhiata sorpresa come quella che gli avevo rivolto io.
Improvvisamente mi resi conto che non avevo mai vissuto momenti del
genere con James: stavamo bene insieme, questo sì, ma non mi ero
mai sentita così rilassata e a mio agio. Questo perché
avevo sempre paura che qualcosa potesse tradirmi, magari le iridi che
cambiavano colore, o le zanne che spuntavano all’improvviso,
rivelando quello che ero realmente.
Con Adam questo rischio non
esisteva, perché lui sapeva tutto e l’aveva accettato. E
questa era una delle cose più strane che mi fosse mai successa:
aveva accettato la mia natura pericolosa e selvaggia, aveva accettato
l’animale che si nascondeva in me, aveva accettato i miei sbalzi
d’umore e le mie reazioni troppo avventate. Aveva accettato tutto
questo, ci aveva fatto i conti, ed era ancora lì.
C’era
voluto del tempo perché me ne rendessi conto, perché
smettessi di vederlo come una minaccia, ma dopo il litigio e la
successiva riappacificazione, io ed Adam ci eravamo avvicinati molto. E
per un po’ neanche me n’ero accorta. Ci avevo fatto caso
solo quando mi ero ritrovata a ridere con lui per una battuta stupida e
piuttosto patetica, solo quando stare seduti vicini durante le
ripetizioni non mi dava più fastidio, solo quando avevo preso
l’abitudine di dargli un bacio sulla guancia ogni volta che mi
riaccompagnava a casa.
«Posso farti una domanda?» Chiesi
osservandolo di sottecchi. «Ma devi essere completamente
sincero.»
«Certo, Scar. Puoi chiedermi qualunque
cosa.» Confermò voltandosi verso di me.
Trassi un respiro
profondo. «Secondo te riuscirò a non prendere
un’altra F nel prossimo compito? No, perché, se ne prendo
davvero un’altra saranno cinque di fila.»
Sorrise prima di
mordicchiarsi il labbro. «No che non prenderai un’altra F.
Sei già migliorata un sacco, qualche altra lezione e sarai
pronta per il compito.»
«Okay,» Mormorai,
«voglio crederti.»
«Non hai ragione per non farlo. Te
lo direi se fossi un caso disperato.» Replicò lui
inarcando le sopracciglia, gli occhi blu attraversati da un lampo
divertito.
Gli scoccai un’occhiataccia che ebbe l’unico
risultato di farlo sorridere. E il suo sorriso visto da vicino era
ancora più bello. Sfilai la mano dalla sua e incrociai le
braccia al petto sforzandomi di non ridere di fronte alla sua
espressione prima ferita e poi offesa.
«Che c’è? Non
sai accettare la verità?» Mi stuzzicò voltandosi a
guardarmi.
Ignorai bellamente la nostra differenza d’altezza,
spesso fonte di irritazione, e sollevai il mento. «Se dovessi
bocciare, sarai tu a pagarne le conseguenze, lo sai, vero?»
«Allora farò in modo che tu non bocci, dovessi darti
ripetizioni tutti i giorni.» Dichiarò.
Feci per replicare,
ma mi bloccai quando notai una piccola macchia di pittura verde sulla
sua guancia. D’istinto, feci un passo avanti e gli presi il viso
tra le mani, lo sguardo concentrato sul colore.
Lui si irrigidì
e trattenne il fiato, gli occhi blu confusi e disorientati che
cercavano i miei. Solo in quel momento mi resi conto di quanto poco
fosse lo spazio che ci separava, era questione di centimetri scarsi.
“Ho un ragazzo”, pensai mordendomi il labbro, eppure una
parte di me notò comunque il calore della sua pelle e la
consistenza dei suoi capelli tra le dita.
Deglutii e mi affrettai a
pulire la macchia di pittura prima di indietreggiare di un paio di
passi. Quasi a dimostrare l’onestà delle mie intenzioni
gli mostrai il polpastrello sporco di verde.
«A quanto pare la
pittura ha colpito.» Mormorai, la voce che tremava appena.
Adam
mi guardava come mi stesse vedendo per la prima volta, il petto che si
alzava e si abbassava seguendo un ritmo discontinuo, gli occhi color
tempesta fissi nei miei.
«Grazie.» Sussurrò, e fu
quasi un sospiro.
La parte più drastica di me pensò che
ci saremmo baciati e che i sensi di colpa mi avrebbero ucciso
definitivamente perché avrei baciato l’ex della mia
migliore amica e tradito il mio ragazzo in una volta sola.
Non
successe, però. Infatti, ci voltammo entrambi verso il bosco
come se continuare a guardarsi fosse stato troppo imbarazzante. E, in
effetti, lo era. Dopo qualche minuto di silenzio carico di tensione, mi
schiarii la gola: non volevo rovinare il mio rapporto con lui per colpa
di un mio gesto impulsivo.
«Quindi… la bambina di prima
è tua nipote… Come si chiama?» Domandai pregando
mentalmente che passasse tutto, che quell’inconveniente venisse
dimenticato.
«Si chiama Lena.» Rispose e mi sembrò
più calmo.
«È un bel nome.» Commentai.
«Vive con voi?»
Scosse la testa. «No, lei e i suoi
genitori vivono a Tacoma, a sud di Seattle. Louis però è
un marine, quindi quando è in congedo vengono dai miei.»
«Oh, forte.» Mormorai.
Annuì distrattamente.
«Si è arruolato a diciotto anni.»
«Accidenti… E la mamma della bambina? Anche lei è
nell’esercito?» Chiesi.
Un sorriso quasi inconsapevole gli
incurvò le labbra. «No, Hanna lavora nella sede di un
giornale. Lei e Louis sono conosciuti grazie ad alcuni amici in
comune.»
«Che cosa carina.» Sussurrai. «Sono
sposati?»
«Sì, da cinque anni.» Rispose.
«Louis ha chiesto ad Hanna di sposarlo quando ha scoperto che era
incinta.»
«È stato un bel gesto da parte sua.
Sposarla intendo. A volte gli uomini non riescono ad essere abbastanza
coraggiosi da prendersi le loro responsabilità.» Commentai
cupa.
I suoi occhi blu si soffermarono sul mio viso. «Ti
riferisci a tuo padre?»
Mi irrigidii, improvvisamente sulla
difensiva. «Come fai a sapere di lui?»
Esitò per un
attimo e distolse lo sguardo. «Ehm… Ho semplicemente
pensato che non parli mai di lui, lo eviti sempre, e che quindi ci
doveva essere un qualche tipo di tensione tra voi.»
Deglutii e mi
morsi il labbro. «Sì, la tensione c’è. Ma,
come hai detto tu, evito sempre questo argomento.»
Lui fece una
smorfia. «Devo essere sincero con te. Sei stata tu a parlarmi di
tuo padre. La notte della festa di Selena, ricordi? Eri ubriaca e
mentre ti riaccompagnavo a casa hai cominciato a raccontarmi di
lui.»
Rimasi sorpresa nel sentirgli dire una cosa del genere: si
era assunto un rischio enorme confessandomi ciò di cui gli avevo
parlato quando non ero lucida. Trassi un respiro profondo e pregai che
la mia voce non tremasse. «Che ti ho detto?»
«Che tuo
padre se n’è andato all’improvviso, quando tu avevi
sette anni. E che chiese subito il divorzio. E che tua mamma lo amava
ancora.» Mormorò. «Hai detto anche che è
facile fare male alle persone: le illudi, magari senza neanche
rendertene conto, che per te sono importanti e poi basta un semplice
gesto per rovinare tutto e lasciare un segno indelebile.»
«Già… Sembra proprio una cosa da me.»
Sussurrai osservando l’intreccio degli alberi davanti a noi.
«Hai detto che il tuo nome non ti piace perché
l’unico modo per abbreviarlo è Scar, che vuol dire
cicatrice e tu non volevi essere niente del genere, per nessuno.»
Aggiunse a bassa voce. «Questa cosa mi è rimasta in mente
ed è da qui che ho preso l’idea per il tuo…
soprannome.»
Non riuscii a fare a meno di sorridere.
«Quando mi ubriaco divento piuttosto filosofica, mmh?»
«Un po’ sì.» Convenne prima di passarsi una
mano tra i capelli. «Senti, mi dispiace non avertelo detto prima.
È solo che… ecco, non è che i nostri rapporti
fossero poi così buoni in quel periodo quindi…»
«Ehi, va tutto bene. Se me l’avessi rivelato qualche
settimana fa probabilmente mi avresti dato il pretesto per mettere in
atto tutte le minacce che ti avevo promesso.» Replicai prima di
allungarmi per dargli un bacio sulla guancia. «E poi, se te
l’ho detto un motivo c’è. Credo. Insomma, neanche
Elisabeth sa tutta la storia.»
Si voltò verso di me,
sorpreso. «No?»
Scossi la testa. «Non me la sono
sentita di dirle… i dettagli, ecco. Le dissi solo che i miei
erano divorziati. Punto. Per me non è facile trovare qualcuno di
cui fidarmi al punto da arrivare a confessare cose del genere. Non
voglio la pietà o la compassione della gente. Sai come fanno,
no? Quando ti vedono sofferente perché i tuoi si sono lasciati
diventano tutti santi e ti offrono aiuto, ma al momento in cui ne hai
veramente bisogno non c’è mai nessuno.»
«È una verità orribile.» Commentò lui
arricciando appena le labbra.
«Già. Ma non potrebbe essere
altrimenti. Insomma, non affrontiamo neanche i nostri di demoni,
figurati se ci mettiamo a fare i conti con quegli degli altri.»
Ribattei portandomi una mano alla collana: era un piccolo ciondolo
argentato a forma di foglia che avevo comprato per pochi dollari ad una
bancarella. Non aveva nessun valore, però era delicata e bella e
aveva attirato subito la mia attenzione.
Lui sospirò.
«Sai, ti sbagliavi: sei filosofica anche da sobria.»
Mi
misi a ridere e gli lanciai un’occhiata. «Più o
meno. Anche se a me sembra di essere più che altro
pessimista.»
Un angolo della sua bocca si
sollevò in un sorriso. «Probabilmente sono la persona meno
indicata, ma voglio farti sapere che se hai bisogno devi solo
chiamarmi. A qualunque ora.»
Per un qualche strano motivo, sentii
le lacrime pizzicarmi gli occhi: era riuscito a commuovermi ed erano
davvero poche le persone che potevano vantare di aver fatto una cosa
del genere.
Sbattei le palpebre per riprendere il controllo e trassi un
respiro profondo. «Grazie Adam, sul serio. Sei fantastico.»
«Figurati Scar. Lo faccio volentieri.» E si voltò
per darmi un bacio sulla guancia.
Quando si allontanò dal mio
viso, rimanemmo a guardarci negli occhi per quella che sembrò
un’eternità carica di parole non dette, rancori,
frustrazione, ma anche alleanze, amicizia e qualcosa in più,
qualcosa a cui non riuscii a dare un nome.
SPAZIO AUTRICE: Cu :3
Prima di tutto, ho una comunicazione di servizio da fare: dal
13 al 19 Marzo sarò in gita con la scuola e quindi non
potrò dedicarmi ad Efp, per questo vi dico fin da ora che
aggiornerò sabato 12 così da non lasciarvi troppo tempo
senza un nuovo capitolo. Anche perché il prossimo è uno
dei più importanti. E sarà molto Adamett.
Detto questo, passiamo al capitolo. Dopo Adam e Beth, anche Scarlett
sembra essere insicura della propria relazione con James: che sia per
via del ragazzo con gli occhi color tempesta? Può darsi.
La scena sul portico è probabilmente una delle mie preferite e
voglio dedicarla -se è possibile dedicare una scena- a quel
dolcetto di Juliet Leben che mi ricorda con pazienza infinita che ciò che scrivo non è da buttare <3
Adam e Scarlett, in questa scena, si mostrano esattamente per come
sono, lei impulsiva e sempre armata di buone intenzioni, lui più
riflessivo e cauto. Sono loro al cento per cento. E poi mi è
piaciuto un sacco scrivere di Scar che gli pulisce la guancia *-* Non
so, è stato un momento dolce e "puro", ecco.
Inoltre, Adam in questo capitolo si è aperto e a confessato a
Scar ciò che lei stessa gli ha detto mentre era ubriaca. E lei
non gli è saltata alla gola come avrebbe fatto prima e come
aveva promesso di fare. In effetti, ve ne sarete accorti da soli, gli
Adamett sono meno diffidenti l'uno nei confronti dell'altra. Stanno
cominciando a fidarsi, finalmente direi.
Il prossimo capitolo sarà molto, molto intenso, questo posso
dirvelo. Da quello dopo ancora, invece, il 23°, entreremo nella
seconda metà della storia! *-*
Penso di avervi detto tutto, quindi colgo l'occasione per ringraziarvi di cuore per il tempo che dedicate a questa storia <3
Ci vediamo il 12 Marzo **
TimeFlies
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Capitolo 22 *** 22. Adam ***
Under a Paper Moon- capitolo 22
22. Adam
Lena scoppiò a ridere, divertita. Accanto a me, Cora la guardava
con la testa inclinata di lato e con aria perplessa. Le accarezzai la
schiena e lei scodinzolò lanciandomi un’occhiata.
Hanna osservava la figlia sorridendo. Indossava dei jeans grigi e una
maglietta bianca; aveva lasciato i capelli sciolti e qualche ciocca le
finiva negli occhi per via del vento. Era bella, e sembrava più
giovane dei suoi ventinove anni.
Louis era tornato in Iran un paio di giorni prima ed era sembrato quasi
impaziente di partire, sia perché amava il suo lavoro, sia
perché Lena era piuttosto vivace e richiedeva un sacco di
attenzioni. Hanna l’aveva riportata dai nonni visto che mia mamma
si lamentava del fatto che non riusciva a vedere la nipotina quanto le
sarebbe piaciuto fare. Il punto era che quasi ogni volta che Lena
veniva da noi, lei aveva qualcosa da fare. Come quel giorno: il suo
gruppo di amiche aveva deciso di uscire proprio quel pomeriggio. E
visto che papà lavorava, a casa c’eravamo solo io e Cora.
«Allora, come va la scuola?» Mi chiese Hanna voltandosi
verso di me.
Mi strinsi nelle spalle. «Tutto bene per ora.»
Lena era diventata di colpo seria, concentrata com’era sulle sue
bambole. Visto che era una bella giornata, avevamo deciso di uscire nel
giardino sul retro e lei aveva accolto molto bene l’idea.
«Louis mi ha detto che dai ripetizioni ad una ragazza.»
Aggiunse lei in tono neutro.
«Sì.» Confermai. «È una del mio anno,
le serviva aiuto per matematica.»
«Anch’io al liceo davo ripetizioni. Di filosofia.» Mi
sorrise. «Per un po’ avrei voluto fare l’insegnante,
ma poi mi sono appassionata al giornalismo.»
«Deve essere bello come lavoro.» Commentai accarezzando
Cora.
Lei annuì. «Sì, molto. Mi piacerebbe scrivere
articoli più importanti, ma per il momento mi accontento di
sbrigare qualche faccenda d’ufficio e rivedere qualche bozza
oltre che scrivere di cronaca locale.»
«Piano piano farai strada. Ho letto un paio dei tuoi articoli e,
anche se non me ne intendo di giornalismo, mi sono piaciuti.»
Risposi voltandomi verso di lei.
Sorrise e vidi i suoi occhi illuminarsi. «Davvero? Grazie. Non
sai quanto significhi per me.»
Ricambiai il sorriso. «Figurati.»
Lei si strinse le braccia al petto sospirando. «Tu potresti fare
l’insegnante, sai? Hai la passione e l’attenzione
necessarie. E mi sembri anche abbastanza paziente.»
Scossi appena la testa. «Non mi ci vedo. Insomma, è un
lavoro impegnativo, devi saper coinvolgere ragazzi che vorrebbero
essere ovunque tranne che lì davanti a te. E parlo per
esperienza, so cosa intendo. Certo, dev’essere interessante,
ma… anche molto, molto complesso.»
«Indubbiamente.» Convenne lei. «Anch’io quando
andavo al liceo non sopportavo i professori che pretendevano attenzione
per tutte e cinque le ore come se noi ragazzi non avessimo niente di
meglio a cui pensare. Però, se sai come porti e come parlare,
puoi fare grandi cose.»
«Già, è qualcosa di molto difficile.»
Mormorai mentre Lena ridacchiava contenta.
«Allora che ti piacerebbe fare dopo il liceo?»
Domandò Hanna.
«Vorrei andare all’università. Cambiare aria per un
po’.» Ammisi passandomi una mano tra i capelli.
«Pensavo a New York o Baltimora. O magari Washington.»
Hanna inarcò appena le sopracciglia. «Beh, è
piuttosto lontano da casa, no?»
Un sorriso amaro mi affiorò alle labbra. «Forse è
per questo che voglio andarci.»
«Non so se lo sai, ma io non sono di Seattle. Prima vivevo a
Shoreline. Mi sono trasferita qui per frequentare il college, dove ho
conosciuto Louis.» Raccontò Hanna. «Credo di capire
cosa intendi: allontanarsi da casa per un po’ a volte è
decisamente un’ottima idea. Arrivi ad un punto in cui ne hai
bisogno. Soprattutto alla tua età.»
Questo non fece altro che accrescere la mia ammirazione per lei: Hanna
mi era sempre sembrata una donna forte e piena di risorse e, negli anni
che avevo passato con lei, avevo avuto la conferma di quella mia prima
impressione.
Accarezzai distrattamente il collo di Cora, un attimo prima che lei
sgattaiolasse da qualche parte. «È esattamente quello che
penso anch’io.»
«E cosa vorresti studiare?» Domandò Hanna mentre si
raccoglieva i capelli in una coda.
«Credo letteratura, o lingue.» Risposi. «A dirla
tutta non lo so ancora.»
«È normale essere confusi quando si deve lasciare il
liceo, ma sono sicura che troverai quello che fa per te.» Mi
rassicurò lei con un sorriso che ricambiai.
Cora abbaiò per richiamare la mia attenzione. Quando mi voltai
verso di lei, la trovai in piedi sulla porta-finestra che dava sul
giardino con il guinzaglio in bocca, le orecchie dritte e la testa
leggermente inclinata di lato.
«Credo di dover andare.» Commentai prima di tornare a
guardare Hanna come per scusarmi.
Lei fece un gesto vago con la mano. «Non preoccuparti, anche noi
dobbiamo andare. Domani Lena ha scuola e io devo preparare la
cena.»
Nel frattempo, Cora mi era venuta vicino e si era seduta, la coda che
sbatteva sul pavimento mentre lei scodinzolava in attesa della sua
solita passeggiata serale. Di solito ci pensava mio padre a portarla
fuori, ma visto che lui non c’era toccava a me.
Hanna si inginocchiò e richiamò la figlia: «Lena,
vieni. Dobbiamo andare.»
La bambina sollevò lo sguardo dalle sue bambole. «Posso
giocare a casa?»
Hanna annuì sorridendole. «Certo, tesoro. Ora vieni a
salutare lo zio che deve portare fuori Cora.»
Sentendosi chiamata in causa, Cora drizzò le orecchie e
lasciò cadere il guinzaglio. Lena si mise a ridere e corse ad
abbracciarla mormorando “bravo cagnolino”: le era sempre
piaciuto il nostro cane, anche quando aveva pochi mesi e Cora la
superava di un bel po’ di centimetri in altezza. Dopo essersi
scostata da Cora, Lena si voltò verso di me, i lunghi capelli
biondi un po’ arruffati che le ricadevano sugli occhi. Mi chinai
per prenderla in braccio e lei ridacchiò divertita.
«Ciao zio.» Disse sorridendo.
«Ciao bionda. Fa’ la brava, okay?» Mi raccomandai
lasciandomi sfuggire un sorriso.
Lei annuì prima di darmi un bacio sulla guancia.
«Okay.»
La rimisi a terra e lei corse a prendere le sue bambole prima di
tornare dalla madre e afferrarle la mano. Hanna mi sorrise prima di
uscire di casa insieme alla figlia. Cora abbaiò di nuovo e
sembrava piuttosto impaziente.
La accarezzai tra le orecchie e recuperai il guinzaglio.
«D’accordo, d’accordo. Andiamo.»
Lei scodinzolò tutta contenta, come se avesse capito di stare per uscire.
Anche se ormai erano le cinque del pomeriggio, c’era ancora molta
luce fuori e l’aria era piacevolmente fresca. Certo, a Seattle di
solito fa abbastanza freddo, ma quel giorno si stava bene. Cora mi
camminava accanto, le orecchie dritte, l’aria attenta, fermandosi
ogni tanto ad annusare l’erba.
Quando ero io a portarla fuori cercavo di non rimanere vicino alle
case, sia perché così potevo lasciarla senza guinzaglio
per un po’, sia perché era un ottimo posto per pensare in
pace. Non ricordavo chi glielo aveva insegnato, ma Cora sapeva di non
doversi allontanare troppo quindi le passeggiate con lei erano molto
tranquille.
Stavamo attraversando un grande parco nella periferia della
città: era un posto silenzioso e molto spesso quasi deserto.
C’era un piccolo stagno con un paio di anatre e una ninfea che
galleggiava leggera sul pelo dell’acqua. Gli alberi erano
rigogliosi ed alti, avevano tronchi sottili e rami lunghi che si
protendevano verso il cielo. L’erba era morbida ed era diventata
piuttosto alta in alcuni punti, esattamente dove Cora amava giocare.
La stavo guardando trotterellare in una di quelle macchie verdi, quando
sentii il cellulare vibrarmi in tasca. Lo presi aggrottando la fronte:
Michael era uscito con Caleb quindi non poteva essere lui, neanche mia
madre visto che sarebbe tornata tra mezz’ora.
Il nome che apparve sullo schermo mi sorprese parecchio: Scarlett.
Non avevamo lezione, era lunedì, e non mi sembrava che lei
avesse altri motivi che potessero spingerla a chiamarmi. Trassi un
respiro profondo e lanciai un’occhiata a Cora per assicurarmi che
non si fosse allontanata troppo prima di premere il tasto verde e
portarmi il telefono all’orecchio. «Pronto?»
«Adam.» La sua voce suonò tremula e insicura.
«Ehi, che succede?» Chiesi sentendo una strana ansia
crescermi nel petto.
Il suo respiro era spezzato, come se stesse cercando di riprendere il
controllo. «Devo parlarti. Cioè, in realtà ho
bisogno di parlare con qualcuno e il primo nome che mi è venuto
in mente è stato il tuo.»
«Okay.» Mormorai. «Parliamo. Mi sembri molto…
scossa.»
«Non al telefono.» Replicò lei. «Ti prego.
È… complicato.»
Mi mordicchiai il labbro. «Va bene, va bene. Dove vuoi che ci
incontriamo?»
«Nella tua casa nel bosco?» Propose prima di tirare su col
naso. «Possiamo vederci direttamente lì, tanto sono
già nei dintorni.»
Il mio primo istinto fu quello di chiederle cosa ci facesse nella
foresta, da sola, ma mi trattenni: non volevo mettermi a discutere su
una cosa del genere, non ora che sembrava così fragile.
«D’accordo. Ci vediamo lì tra dieci minuti,
okay?»
«Sì, va benissimo. E grazie, davvero. Non so
cos’avrei fatto se non ci fossi stato tu.» Sussurrò
con la voce rotta.
Rimasi senza parole per un attimo: era vero che nell’ultimo
periodo ci eravamo avvicinati molto, ma non pensavo che saremmo
arrivati a fidarci tanto l’uno dell’altra. Non fino a quel
punto. «Non preoccuparti Scar, non c’è nessun
problema. A tra poco.»
Trasse un respiro tremante. «A tra poco.» E
riattaccò.
Rimisi il cellulare in tasca e mi passai una mano tra i capelli.
Sembrava che ci fosse qualcosa di grosso in ballo, qualcosa che la
faceva stare molto male. E aveva scelto me per aiutarla.
Credevo che la prima che avrebbe chiamato sarebbe stata Elisabeth:
erano migliori amiche da anni, era la cosa più logica da fare
telefonare a lei. Durante i mesi in cui ero stato con Elisabeth avevo
capito che era una ragazza solare ed esuberante, ma anche molto
comprensiva e sempre pronta ad aiutare chi le stava a cuore.
Io non ero così. Certo, per la mia famiglia e Michael cercavo di
fare in modo di esserci sempre, ma Scarlett… Lei era una cosa a
parte, tutto un altro tipo di relazione. Non avrei saputo definirla,
né lei né il tipo di rapporto che avevamo. In certi
momenti si mostrava acida, inavvicinabile, anche pericolosa, in altri
invece era aperta, disposta a scherzare, incredibilmente piacevole.
Richiamai Cora e le agganciai il guinzaglio al collare. Lei mi
guardò con la testa inclinata di lato come a chiedere cosa
stesse succedendo. “Lo vorrei sapere anch’io”,
pensai. «Andiamo, a quanto pare c’è
un’emergenza.»
Lei drizzò le orecchie e per un attimo pensai che quel che si
diceva dei cani era vero: erano davvero in grado di capirci. O forse
sapevano semplicemente interpretare il linguaggio del corpo.
Spalle rigide, capelli arruffati come se ci avesse passato troppe volte
le mani, labbra serrate in una linea sottile, braccia strette al petto,
fronte corrugata.
Se ci fosse stata Cora con me si sarebbe nascosta con la coda tra le
zampe: Scarlett emanava una rabbia e una frustrazione quasi palpabili,
sembrava un lupo che aveva passato troppo tempo in gabbia e che adesso
era pronto a rivoltarsi contro il suo carceriere.
Avrei dovuto avere paura di lei tante volte, forse troppe, e qualcosa
mi diceva che anche in quel momento mi sarei dovuto sentire intimidito.
Ma, com’era prevedibile, sentivo solo di doverle stare vicino e
aiutarla, in qualche modo.
«Scar.» Mormorai avvicinandomi a lei: stava camminando su e
giù davanti alle scale del portico del cottage nel bosco.
Si muoveva a scatti, atteggiamento che tradiva una grande inquietudine.
Si fermò di colpo e sollevò lo sguardo su di me. Il suo
viso, coperto per buona parte da qualche ciocca ribelle di capelli, fu
attraversato da diverse emozioni: sollievo, timore, tristezza.
«Ehi.» Sussurrò con voce incerta.
Le ero abbastanza vicino da vedere che aveva gli occhi arrossati e
lucidi. «Che succede? Mi stai facendo preoccupare.»
Distolse gli occhi e deglutì. «È successo un
casino.»
Sospirai. «L’avevo notato. Senti, ti va di entrare? Se non
mi sbaglio dentro ci dovrebbe essere ancora del tè, magari
può aiutarti a stare un po’ meglio.»
Si limitò ad annuire. Sembrava che avrei dovuto aspettare ancora
per ottenere delle risposte. Salimmo le scale del portico fianco a
fianco, io aprii la porta e lei la varcò per prima tenendo la
testa china. La seguii mentre rimettevo le chiavi nella tasca dei
jeans.
Si fermò davanti al divano dandomi la schiena. «Lascia
perdere il tè. Credo di doverti spiegare come stanno le cose
prima.»
«Mi sembra una buon’idea.» Convenni avvicinandomi.
Ci sedemmo sul divano, l’uno accanto all’altra, le
ginocchia che si sfioravano. Lei si teneva ancora le braccia strette
contro il petto, come se avesse avuto paura di cadere a pezzi se le
avesse tolte. Non mi piaceva vederla così, ferita e fragile, e
non sapere cosa fare.
Trasse un respiro profondo, di quelli che fai quando devi dare una
brutta notizia. Per un secondo pensai che fosse successo qualcosa ad
Elisabeth: avrebbe spiegato perché non aveva chiamato lei per
parlare e anche quelle che sembravano tracce di lacrime sulle sue
guance.
«James mi ha lasciata stamattina.» Disse
all’improvviso, strappandomi dalle mie congetture.
Non mi aspettavo niente del genere, avevo pensato a tutto,
immaginandomi gli scenari più tragici, ma non avevo
assolutamente preso in considerazione... quello. «Cosa?»
Lei annuì appena, le spalle scosse da un singhiozzo leggero.
«Prima dell’inizio delle lezioni mi ha invitata a prendere
un caffè insieme nella caffetteria dietro la scuola. Ero felice
che avesse avuto un’idea del genere, era da un po’ che non
facevamo una cosa così insieme. Quando sono arrivate le nostre
ordinazioni lui mi ha detto che non vedeva un buon motivo per
continuare a stare insieme. Io avrei voluto rispondere, ma lui mi ha
interrotta dicendo che era tardi per provare a riparare e che se ci
avessi tenuto davvero non saremmo arrivati a quel punto.» Si
asciugò una guancia con un gesto quasi stizzito. «Si
è alzato ed è andato via portando con sé il suo
caffè e lasciando sul tavolo cinque dollari.»
Adesso sì che ero senza parole: non mi sembrava da James fare
una cosa del genere, lasciare Scarlett senza darle una vera e propria
spiegazione e mollarla lì… Era orribile sotto ogni punto
di vista. «Scar… Mi dispiace tantissimo, davvero.»
«Almeno mi ha pagato il cappuccino.» Bisbigliò lei
tentando invano di sorridere.
Strinsi le labbra, incerto. Credevo che sapere cosa la turbava avrebbe
reso le cose più facili e mi avrebbe aiutato a farla star
meglio, invece non avevo la più pallida idea di cosa fare.
«È stato un idiota. Voglio dire, se ci sono dei problemi
in un coppia bisogna risolverli insieme, non scappare. Si è
comportato da codardo.»
Si passò una mano tra i capelli. «Dimmi qualcosa che non
so.»
«Non so se ti farebbe piacere, sia perché dovrei usare
parole poco carine, sia perché non servirebbe a niente.»
Ammisi. «Vorrei darti una mano, sul serio, ma non so proprio cosa
potrebbe aiutarti. Sei la prima ragazza che viene da me in cerca di
consigli su questioni… amorose.»
Lei si prese la testa tra le mani e si mise a ridere, anche se
assomigliava di più a dei singhiozzi strozzati. «Non te la
cavi male. Insomma, non sto piangendo a dirotto.»
«Il piano era non farti piangere per niente, però… no?» Commentai.
Si strinse nelle spalle. «Non ho più un piano.»
«Solo perché quell'idiota ti ha lasciata?» Sbottai
con più enfasi del previsto. «Andiamo, Scar, tu sei molto
meglio di lui. È lui quello che deve piangere perché ti
ha persa.»
Lei si asciugò gli occhi tenendo lo sguardo fisso sul pavimento.
«Non mi sembrava così dispiaciuto quando l’ho visto
abbracciare un’altra.»
«Ah.» Riuscii a dire: stava andando peggio del previsto.
«Beh, ecco… Magari…»
«Ho bisogno di un abbraccio.» Dichiarò lei prima di alzarsi.
Rimasi interdetto e guardai la sua schiena coperta da un maglione blu.
“Intendeva da te”, mi rimbeccò una vocina nella mia
mente. Mi mordicchiai il labbro e mi alzai anch’io, rimanendole
comunque alle spalle. Sinceramente non mi sentivo adatto ad aiutarla,
non credevo di essere in grado di darle il supporto che le serviva.
Non avevo mai avuto a che fare con qualcuno con il cuore spezzato e non
sapevo cosa avrei dovuto dire, cosa l’avrebbe rassicurata.
L'unica persona che avevo aiutato con dei problemi sentimentali era
Micheal, come potevo anche solo pensare di riuscire ad essere utile per
lei?
«Vieni qui.» Mormorai chiedendomi se sarebbe davvero
servito a qualcosa.
Un secondo dopo sentii il suo corpo minuto e spigoloso premuto contro
il mio. Le sue mani mi risalirono la schiena mentre io la circondavo
con le braccia per avvicinarla ancora di più a me. Non aveva
esitato neanche per un attimo, cosa che, per chissà quale
motivo, mi fece piacere: si fidava sul serio.
Nascose il viso nell’incavo del mio collo. Sentire la sua pelle
toccare la mia mi fece scendere un brivido lungo la schiena e non ero
poi così sicuro che fosse normale.
«È in momenti come questi che sento terribilmente la
mancanza di mia mamma.» Sussurrò lei e le sue labbra mi
sfiorarono la gola.
«Immagino… Deve essere difficile non averla sempre con
te.» Replicai a bassa voce.
«Però ci sei tu.» Aggiunse. «E sei
incredibile.»
Fui felice che non potesse vedermi in faccia. «Oh…
Ehm… Grazie. Credo.»
La sentii sorridere. «Probabilmente pensi che io sia
pazza.»
«Ma no.» Mormorai sentendo la tensione sciogliersi.
«Mi fa piacere sapere che ti fidi di me. E semmai sono io quello
pazzo visto che sono amico di un licantropo.»
Le sue braccia mi strinsero di più e tornai a sorprendermi di
quanto fosse magra: sentivo le ossa del bacino e delle spalle premere
contro di me; la vita sottile e snella sembrava fatta per essere
abbracciata. I suoi capelli profumavano fiori e quella che sembrava
mela verde. Mi stava piacendo averla così vicina, sentire il suo
corpo, imparare a conoscerlo.
Dopo tutti gli scontri e i dissapori che avevamo avuto era bello sapere
che eravamo riusciti a trovare un equilibrio tra il suo mondo e il mio.
Si sistemò in modo da avere la testa appoggiata sulla mia
spalla. «Credo di averlo superato.»
«Di già?» Chiesi non tanto convinto.
Annuì contro di me. «Sì. Cioè, sono passata
dalle lacrime al volerlo strozzare: penso sia un passo avanti.»
«Più o meno.» Commentai.
Lei fece scorrere le mani sulla mia schiena e per un attimo provai
l’impulso di chiudere gli occhi. «Prima ero seria,
comunque: sei davvero incredibile. Sei rimasto con me anche quando
sarebbe stato più facile scappare e dimenticarmi.»
«Non posso dimenticarti, Scar, neanche se lo volessi.»
Ammisi.
Lasciammo che il silenzio calasse tra noi. Da una parte era meglio
così: anche se lei sembrava stare meglio c’era sempre il
rischio che dicessi qualcosa di sbagliato, qualcosa che poteva in
qualche modo ferirla. Forse era meglio rimandare le parole ad momento
in cui sarebbero state meno importanti, meno distruttive.
L’aveva detto lei stessa, bastava un solo gesto per mandare in
fumo tutta la fiducia e la stima che qualcuno aveva per te. Non importa
da quanto vi conoscete, cosa avete condiviso, che rapporto avere, si
riduce tutto a quell’unico errore, voluto o meno, che poteva
mandare tutto in pezzi.
Scarlett si mosse, distogliendomi dai miei pensieri. Era ancora stretta
a me, le sue mani ancora sulla mia schiena, però adesso mi stava
guardando con quei suoi occhi di quel marrone dorato tanto particolare.
Non c’era una ragione per farlo, e neanche una per cui non farlo.
I legami che avrebbero potuto impedirlo erano stati rotti, tutti e due.
Ora non eravamo più “il ragazzo di qualcuno” e
“la ragazza di qualcuno”. E quando la sua bocca
incontrò la mia c’era solo Scarlett. Impaurita,
disorientata, determinata, coraggiosa, sarcastica, sospettosa, forte.
Era lei e basta.
Non avrei saputo dire di chi era stata l’idea, ma le mie labbra
si stavano muovendo con le sue in un bacio lento e intenso, di quelli
che ti coinvolgo al punto da lasciarti senza fiato. Non era come a
quella festa, con tutte quelle persone che ci guardavano, con il senso
di colpa perché stavamo tradendo, con l’odore di alcol
nell’aria; era una cosa tutta nuova, con il suo corpo contro il
mio, con le sue mani sulle mie spalle, con le mie braccia intorno a
lei, con il silenzio e il suo profumo di mela verde.
Sapere che non avrebbe fatto stare male nessuno, che non c’era
niente ad impedirci di farlo rendeva tutto più facile e
rilassato. Perché era così che doveva essere.
Si allontanò appena da me mantenendo lo sguardo basso. Sembrava
un po’ sorpresa, quasi pensierosa. Faceva dei respiri profondi,
lenti, come se avesse voluto ritrovare la concentrazione, riprendere il
controllo. Avrei dovuto farlo anch’io: tornare con i piedi per
terra e affrontare le conseguenze di quello che era successo era la
cosa giusta da fare.
“Chi ha detto che ci sono conseguenze?”, chiese una vocina
nella mia mente. Tutto quello che facciamo ha delle conseguenze, anche
le cose più semplici e banali, di questo ero più che
sicuro. Restava da capire che tipo di effetti avrebbe avuto quel bacio
sul nostro rapporto, potevano essere positivi come no.
Una parte di me, però, non aveva voglia di pensare a quei
dettagli così complicati che mi apparivano quasi inutili in quel
momento. Mi chinai su di lei quel tanto che bastava perché la
mia bocca trovasse di nuovo la sua. La sentii sussultare appena, anche
se un attimo dopo mi mise una mano sulla guancia per poi far scivolare
le dita tra i miei capelli. La strinsi di più a me e tornai a
sentire gli spigoli e le morbidezze del suo corpo premuto contro il
mio.
Provai, in modo quasi impacciato, devo ammetterlo, a schiuderle le
labbra: non stavamo insieme, non c’era nessun tipo di legame tra
noi, ma sentivo qualcosa per lei, qualcosa a cui non riuscivo a dare un
nome, ma che mi spingeva a cercarla.
Mi assecondò approfondendo il bacio e alzandosi sulle punte per
compensare la differenza d’altezza. Sorrise contro le mie labbra
prima di mordicchiarmi quello inferiore, gesto che mi provocò
l’ennesimo brivido lungo la schiena. Intrecciò le braccia
intorno al mio collo mentre io ricambiavo il morso.
Sembrava che tutta la tristezza e la rabbia di prima fossero scomparse,
lasciando il posto a quella che pareva spensieratezza, leggerezza. Da
lì il bacio si fece più dolce e lento, come se entrambi
avessimo voluto prenderci tempo per conoscerci, per assaporarci dopo
tutti i conflitti del passato.
Dopo quella che mi era sembrata una strana quanto piacevole
eternità, ci scostammo l’uno dall’altra, il respiro
spezzato, le labbra incurvate in un sorriso inconsapevole.
Scarlett appoggiò la fronte alla mia spalla senza smettere di
sorridere. «Ora l’ho superato. Sul serio questa
volta.»
«Ah sì?» Mormorai accarezzandole piano la schiena.
Annuì, le sue dita che tracciavano figure fantasiose sulle mie
braccia, ancora intorno a lei. «Sì. Insomma, ho trovato
qualcosa di meglio a cui pensare.» Sollevò timidamente il
viso e mi guardò con quei suoi occhi ardenti. «E se
dovessi farti male dimmelo: quando provano emozioni molto forti i
licantropi non sanno controllarsi molto bene e non vorrei ferirti per
sbaglio.»
Emozioni molto forti? Quindi non ero stato l’unico a
sentirsi… parecchio coinvolto. «Correrò il
rischio.»
Rise sottovoce tornando a stringersi a me. Mi chinai appena su di lei e
le diedi un bacio leggero, esitante sulla guancia. La sua risposta fu
un sorriso, cosa che contribuì a farmi rilassare: per certi
versi ero ancora cauto con lei, sentivo di doverlo essere,
perché non la conoscevo abbastanza da sapere cosa poteva
infastidirla e cosa no.
«Non credo di avertelo detto, ma ho apprezzato molto il fatto che
tu non abbia insistito quando ti ho chiesto di lasciarmi passare il
plenilunio da sola.» Sussurrò lei contro il mio collo.
«Lo so che ti è costato parecchio rimanere sulle tue e
lasciarmi fare.»
La settimana prima c’era stata la luna piena e lei, probabilmente
intuendo che stavo per proporle di rifare quello che avevamo combinato
il mese precedente, mi aveva bloccato sul nascere dicendo che non
voleva mettermi in pericolo di nuovo e che era ora di tornare alla
normalità.
Di fronte alla sua espressione che avrebbe voluto essere neutra, ma che
era risultata quasi implorante, non avevo saputo dirle di no e mi ero
ritrovato ad assecondarla senza neanche provare a protestare. A quella
mia reazione, lei si era visibilmente rilassata e mi aveva sorriso
timida. E io mi ero sentito stringere il cuore al pensiero di lei da
sola nel bosco in preda alla furia del suo lupo. Mi ero morso la lingua
per non aggiungere nient’altro.
Mi schiarii la gola. «Figurati. Questa è una cosa tua, in
fondo.»
«Vero.» Mormorò allacciando le braccia intorno alla
mia vita.
«Ti ricordi quando mi hai detto che non sono bravo a tenere il
muso alla gente? Beh, anche tu non sei un granché a mantenere le
promesse: hai minacciato di uccidermi un sacco di volte, eppure sono
ancora qui. Con te.» Aggiunsi senza riuscire a trattenere un
sorriso.
Lei si mise a ridere e, in qualche modo, riuscì a darmi una
gomitata nelle costole. «Che idiota che sei… E, comunque,
non posso uccidere chi mi fa stare così bene. Mi farei del male
da sola.»
Per la seconda volta nel giro poco, fui felice che non potesse vedere
la mia espressione: aveva davvero detto che la facevo stare bene? E
questo quando era successo? Era vero che ci eravamo avvicinati e che le
avevo dato un soprannome e che mi aveva parlato di suo padre, ma farla
stare bene… Sembrava una cosa così importante e delicata.
Scarlett appoggiò la testa sul mio petto e chiuse gli occhi.
«A proposito, grazie per farmi stare bene.»
Sentii un sorriso spontaneo farsi strada sul mio viso. Non ero sicuro
di come sarebbe suonata la mia voce, così mi limitai a
stringerla un po' di più e a lasciarle un bacio tra i capelli.
Eppure, nella mia mente, una risposta aveva già preso forma,
pronta per essere pronunciata: anche tu mi fai stare bene.
SPAZIO AUTRICE: Ehilà :3
Ve l'avevo detto che questo capitolo sarebbe stato molto Adamett, no? Ecco, spero di non aver deluso le vostre aspettative **
E sì, ho aggiornato con un giorno d'anticipo perché...
beh, volevo farvi leggere questo capitolo il prima possibile.
La diffidenza tra Scarlett e Adam sembra completamente scomparsa, ma
lui è comunque insicuro. Anche se non lo ammetterebbe mai,
infatti, Adam non è sicuro di sé quanto vorrebbe essere,
anzi. L'abbiamo visto nello scorso capitolo quando si è
paragonato al fratello, e lo vediamo di nuovo qui. Tiene tanto a
Scarlett, più di quanto lui stesso si renda conto, e la paura di
sbagliare lo frena.
Ma lei sembra non considerarlo un problema. Scar, infatti, l'ha chiamato, ha voluto parlare con lui dopo la rottura improvvisa con James. Solo con lui.
Si fidano l'uno dell'altra, cosa che solo qualche mese prima avrebbero considerato impossibile e pericolosa.
Under a Paper Moon ha
raggiunto le 100 recensioni! E, anche se i numeri non sono poi
così importanti, mi fa moltissimo piacere sapere che apprezzate
questa storia e i suoi personaggi <3
Che pensate che succederà adesso che stiamo per entrare nella
seconda metà della storia? Dopo questo "zucchero" -come l'ha
definito Elissa98
** - vi aspettate un colpo di scena, qualcosa che ribalti completamente
la situazione? Magari l'entrata in scena di un nuovo personaggio?
Scorprirete che piega prenderanno gli eventi nel prossimo capitolo, vedrete *-* Quindi, a presto!
TimeFlies
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Capitolo 23 *** 24. Adam ***
Under a paper moon- capitolo 24
24. Adam
Michael parlava da
chissà quanto, ma avevo smesso di ascoltarlo parecchi minuti
prima. Aveva detto che voleva parlarmi appena finite le lezioni, quindi
mi ero trattenuto nel cortile della scuola con lui, che sembrava
decisamente esaltato: se quello che avevo capito prima di distrarmi era
corretto, stava raccontando il suo ultimo appuntamento con Caleb che
sembrava essersi concluso con un bacio molto appassionato.
Probabilmente era stato quel dettaglio a farmi perdere la
concentrazione: il ricordo di Scarlett e dei nostri baci era tornato
prepotentemente a farsi strada nella mia mente tagliando fuori tutto il
resto. Era stato così improvviso e intenso che ancora faticavo a
rendermi conto che era successo davvero, non me l’ero immaginato.
Lei era così piccola eppure così piena di vita…
Averla tra le mie braccia era stato come un sogno ad occhi aperti che
non avevo realizzato di desiderare: da quando avevo cominciato a
considerarla una bella ragazza e non una scocciatrice lunatica? Da
quando avevo cominciato a notare quanto fosse bella la sua pelle
chiara, la curva morbida del suo collo, le sue labbra rosee, i suoi
occhi da cerbiatto, il modo in cui i capelli le accarezzavano la
schiena?
«Stai ancora pensando a Shirley?» La voce di Michael mi
risvegliò dai miei pensieri.
Sollevai lo sguardo su di lui, confuso. «Chi è
Shirley?»
«Scusa, colpa mia. Intendevo Samantha.» Si corresse per poi
guardarmi in attesa della mia risposta.
«Non conosco nessuna Samantha.» Replicai. «Di chi
stai parlando?»
Sembrò irritato. «Quella a cui fai ripetizioni.»
«Ah… Scarlett.» Dissi annuendo.
Fece un gesto sbrigativo con la mano. «Sì, quella
lì. Allora, stai pensando a lei?»
«No.» Mentii distogliendo lo sguardo. «Perché
dovrei?»
«No, certo. E io sono la moglie del presidente.»
Borbottò lui guardandomi male.
«Beh, congratulazioni.» Mormorai mordicchiandomi il labbro.
Lui mi mollò un calcio. «Parla, Meyers.»
Sospirai e mi strinsi nelle spalle. «Che vuoi che ti dica?»
«La verità.» Ribatté in tono ovvio.
«D’accordo, d’accordo. Sì, stavo pensando a lei.» Ammisi. «Contento?»
«No. Voglio i dettagli. Che è successo tra voi?»
Insistette, lo sguardo improvvisamente malizioso.
«Niente. Abbiamo avuto un momento di tensione, ma poi abbiamo
risolto.» Spiegai. Al suo sguardo scettico aggiunsi:
«Davvero, Michael, è tutto qui.»
«Mmh.» Socchiuse gli occhi. «Non ti credo neanche un
po’. Avanti, a me puoi dirlo.»
Valutai l’idea di mentire di nuovo, ma a che scopo? Mi conosceva
bene e riusciva a capire sempre se c’era qualcosa che non andava.
E poi avevo bisogno di parlare con qualcuno di quello che era successo
con Scarlett. Trassi un respiro profondo sperando che non si esaltasse
troppo. «L’altro giorno… ecco, l’ho
baciata.»
«Ah-ah!» Saltò su lui con aria trionfante. «Lo
sapevo che c’era qualcosa sotto!» Alcuni ragazzi si
girarono a guardarlo, sorpresi dal suo tono fin troppo acuto. Michael
li ignorò bellamente. «Allora? Com’è
successo? Lei come ha reagito? Era una cosa voluta? E dopo che è
successo? Come è stato?»
Alzai gli occhi al cielo. «Ehi, frena. È stato solo una
bacio.»
Non gli avevo parlato di quello che era successo quella sera in quel
locale durante il gioco della bottiglia perché sapevo che
avrebbe dato di matto se l’avessi fatto: Michael aveva un debole
per i pettegolezzi. Per questo e perché non volevo rivelare
troppo, non menzionai il fatto che il realtà io e Scarlett ci
eravamo baciati due volte.
Sollevò un sopracciglio e mi puntò contro un dito.
«I dettagli. Adesso.»
«Mi ha chiamato dicendo che aveva bisogno di parlare con
qualcuno. Ci siamo incontrati e mi ha detto che il suo ragazzo
l’aveva lasciata.» Raccontai cercando di sintetizzare al
massimo. «L’ho consolata, ci siamo abbracciati e… ci
siamo baciati. Fine della storia.»
«Quindi è venuta da te in cerca di supporto? Oh, che cosa
tenera! Si fida di te allora.» Esclamò lui sorridendo.
«E tu l’hai confortata… Se questo non è
amore…»
«Ha appena rotto con il suo ragazzo, non penso sia in cerca di
un’altra storia. Non così presto almeno. E poi, non
c’è amore tra noi, assolutamente.» Protestai.
«Okay, magari amore è una parola grossa, ma qualcosa
c’è. Su, non puoi negarlo.» Insistette lui.
Abbassai lo sguardo. «Non lo so, Michael. Lei è…
complicata, cambia umore ogni cinque secondi, però… ha
qualcosa che mi piace. Nello stesso tempo non voglio sembrare un
approfittatore che va con lei ora che è fragile per via della
rottura col suo ragazzo. Se proprio deve succedere qualcosa vorrei che
fosse perché entrambi lo vogliamo.»
«Senti, secondo me tu e Sheila sareste una bella coppia.»
Commentò lui. «L’ho vista in giro per la scuola e
hai ragione, è carina. Se poi si fida di te al punto da cercarti
in un momento di debolezza vuol dire che ti vede come qualcosa in
più di un semplice amico.»
«Scarlett, si chiama Scarlett. A parte questo, non so se stare
con lei è ciò che voglio. La conosco da poco e non siamo
mai usciti insieme, non ci siamo mai visti come “possibile
ragazzo” e “possibile ragazza”. Siamo sempre stati
Scarlett e Adam, due cose distinte.» Strinsi le labbra.
«Insomma, ci siamo baciati solo una volta.»
«E allora? Hai mai sentito parlare dell’amore a prima
vista? Del colpo di fulmine? Dovreste darvi una possibilità. Se
poi non dovesse funzionare almeno saprete di averci provato.»
Replicò lui studiandomi.
«Forse.» Concessi senza sbilanciarmi troppo.
Sospirò con fare teatrale. «Devi buttarti, Adam, okay?
Lascia stare la razionalità, fregatene dei rischi e dille che
vuoi stare con lei.»
«Devo capire se lo voglio prima.» Risposi aggrottando la
fronte.
Lui sbuffò, esasperato. «Sì, che lo vuoi. È ovvio. E se non glielo dici tu lo farò io.»
Per un attimo mi venne voglia di rinfacciargli la sua codardia quando
aveva dovuto dire a Julia che l’aveva tradita, ma mi trattenni:
non sarebbe servito a niente infliggergli un colpo basso del genere.
«Okay, okay. Le parlerò.»
«Bene.» Commentò lui cercando di fingersi serio. Ma
poi si lasciò sfuggire un sorriso. «Sono contento per te,
comunque. Dopo Elisabeth non sei più uscito con nessuno.»
Scrollai le spalle. «Non c’era nessuno che mi
interessasse.»
«O forse volevi aspettare che una certa Susanne si liberasse,
eh?» Mi provocò con un sorrisetto.
Sorrisi anch’io. «Non credo proprio. E comunque si chiama
Scarlett. Te l’ho detto meno di un minuto fa.»
Si lasciò sfuggire una smorfia. «Non me lo ricordo mai.
Eppure Scarlett Johansson è una delle mie attrici
preferite…» Scosse la testa. «Credo che dovrai farle
indossare una di quelle targhette con il nome, come quelle dei
camerieri, se vogliamo evitare brutte figure.»
«Oppure potresti semplicemente imparare il suo nome.»
Proposi.
«Non mi ricordo neanche cosa ho mangiato ieri, secondo te posso
ricordarmi il nome della tua quasi-ragazza?» Mi fece notare
sollevando le sopracciglia.
«Ci spero.» Confermai. «Io l’ho imparato il
nome del tuo ragazzo.»
Si grattò la testa distogliendo lo sguardo. «Uh…
Beh, in questo caso allora… Forse posso farcela.»
«Sarebbe molto carino da parte tua.» Convenni lasciandomi
sfuggire un sorriso.
Lui trasse un respiro profondo e controllò l’orologio.
«Okay, io devo andare: Caleb ha una partita oggi pomeriggio e mi
ha chiesto di andare a vederlo.»
«E visto che tu sei un grande fan del basket vai di sicuro,
mmh?» Lo stuzzicai.
Lui mi fece una smorfia. «Ah-ah, simpatico. E comunque vado solo
per vederlo in canottiera. Lo farò felice e avrò un bello
spettacolo da vedere: due piccioni con una fava, no?»
Sorrisi di nuovo, divertito. «Oh sì, sembra un ottimo
piano.»
«Vero?» Ricambiò il sorriso e mi diede una pacca
sulla spalla. «Ci vediamo domani.»
«A domani.» Replicai.
Lui mi fece un cenno di saluto prima di allontanarsi, le mani nelle
tasche dei jeans. Lo guardai per un paio di secondi finché non
si dileguò. Il cortile cominciava a svuotarsi e, in effetti,
dovevo andarmene anch’io.
«Adam Meyers?» Domandò una voce sconosciuta alle mie
spalle.
Mi voltai di scatto e mi trovai davanti un ragazzo alto, slanciato, con
i capelli biondo cenere e gli occhi verdi tendenti al grigio. Aveva
un’ombra di barba sulla mascella affilata e l'aria cupa, come se
nascondesse infiniti misteri.
Indossava dei jeans neri, una maglietta rosso scuro e una giacca di
pelle. Sembrava avere poco più di vent’anni. Lo sguardo
era duro, freddo, ma anche profondo, come se nascondesse mille parole
non dette.
Mi schiarii la gola: non potevo negare che un po’ mi intimidiva.
Sembrava così sicuro di sé e forte... E ben informato
anche. «Tu sei?»
Nei suoi occhi passò un lampo. «Conosci Scarlett
Dawson?»
“Che c’entra Scarlett adesso?”, pensai confuso.
«Che ti importa di lei?»
«Sai che cos’è lei?» Aggiunse come se non
avessi aperto bocca.
Esitai: Scarlett non me l’aveva mai chiesto esplicitamente, ma mi
ero preso di mia spontanea volontà l’impegno di mantenere
il suo segreto. E adesso un perfetto sconosciuto che sapeva anche
troppo veniva a chiedermi proprio quello che non avrei mai dovuto dire.
«Una ragazza?» Tentai sperando che non intuisse che stavo
mentendo.
Un sorrisetto gli sfiorò le labbra. «Sì che lo
sai.» Sembrava che ignorasse bellamente tutte le mie risposte,
che in realtà erano domande.
«Senti, che vuoi da me? E da lei?» Replicai senza
togliergli gli occhi di dosso.
Mi osservò per qualche secondo prima di parlare. «Hai mai
sentito parlare di cacciatori di licantropi?»
«No. Ma non capisco cosa c’entri adesso.» Ribattei
sperando che si decidesse ad essere un po’ più chiaro.
Socchiuse appena gli occhi, come se avesse voluto mettere a fuoco
qualcosa. «C’entra, credimi.» Non aggiunse
nient’altro per un po’, tanto che pensai che la nostra
conversazione irritante e incredibilmente confusa fosse finita
lì. Poi, di punto in bianco, disse: «L’hanno
presa.»
Sentii un brivido freddo scendermi lungo la schiena anche se non ero
sicuro di aver capito a cosa si riferiva. «Che intendi? Chi ha
preso chi?»
«I cacciatori hanno preso Scarlett.» La sua voce era
sorprendentemente calma.
La mia prima reazione fu un misto di paura e scetticismo: com’era
possibile che dei cacciatori che non avevo mai sentito nominare fossero
spuntati fuori all’improvviso e avessero catturato Scarlett?
«Preso? No, non è possibile.»
Ci fu un cambiamento minimo nella sua espressione imperturbabile, ma fu
così leggero che quasi pensai di essermelo immaginato.
«Perché no? L’hai vista oggi?»
«Beh, no.» Ammisi. «Ma non abbiamo neanche una
lezione insieme quindi è possibile che non ci siamo mai
incrociati.»
Doveva essere così,
giusto? Insomma, chi si mette a dare la caccia ai licantropi? E poi,
come sapevano cos’era lei? No, doveva essere tutta una
messinscena di quello strano ragazzo spuntato fuori dal nulla. Certo,
però, sapeva un sacco di cose piuttosto compromettenti, questo
dovevo ammetterlo.
«Oppure l’hanno catturata i cacciatori.»
Replicò lui stringendosi appena nelle spalle come se non se
nulla fosse.
Scossi la testa e distolsi lo sguardo. «No, andiamo, non
può essere. Ci deve essere un’altra spiegazione.»
Tornai a guardarlo mentre una strana sensazione di gelo strisciante si
faceva strada in me. «Chi mi dice che questi fantomatici
cacciatori esistono, eh?»
I suoi occhi si incupirono di colpo. «Io te lo dico. E credimi,
lo so per certo.»
«Non è realistica come cosa.» Protestai passandomi
una mano tra i capelli. «Senti, posso chiedere ad una sua amica
se oggi c’era o no.»
“Così mi dirà che ha fatto lezione con lei, che sta
bene, che adesso è casa a guardare quel reality sulle modelle
che le piace tanto”, aggiunsi mentalmente.
Arricciò appena le labbra, come se fosse stato irritato, ma si
ricompose subito. «Okay, fa’ pure.»
«Bene.» Commentai prima di voltarmi e cercare Elisabeth con lo sguardo, sperando che fosse ancora lì.
Quando la trovai mi lasciai sfuggire un silenzioso sospiro di sollievo.
Mi incamminai verso di lei, ma non abbastanza in fretta da non sentire
il ragazzo aggiungere: “tanto di tempo ne abbiamo da
vendere…” con un tono fin troppo sarcastico per i miei
gusti.
Elisabeth stava parlando con una sua amica, una bionda che avevo
già visto con lei, dall’altra parte le cortile. Appena le
fui vicino la richiamai sentendo la tensione nella mia stessa voce.
Elisabeth si voltò e un sorriso sorpreso le incurvò le
labbra.
«Adam, ciao.» Disse sistemandosi una ciocca di capelli dietro l’orecchio.
Era impeccabile come sempre, con quella gonna blu e la camicetta in
tinta.
«Ehi.» Risposi sperando di riuscire a nascondere la
preoccupazione per qualcosa che magari non era neanche successo.
«Senti, hai visto Scarlett oggi? Devo… uhm, restituirle il
libro di matematica. Sai, l’ha dimenticato dopo le
ripetizioni…»
«Oh…» Aggrottò la fronte. «No, non
l’ho vista. In effetti, non c’era a lezione di inglese.
Forse è malata.»
Sentii un brivido gelido scivolarmi lungo la schiena a quelle parole.
Scarlett mi aveva detto che la costituzione dei licantropi, più
forte ed allenata di quella umana, impediva loro di ammalarsi; solo le
malattie particolarmente gravi come il cancro o i tumori potevano fare
breccia nel loro sistema immunitario.
Il biondino aveva ragione allora? C'erano davvero dei cacciatori di
licantropi in giro per la città? E avevano messo le mani su
Scarlett?
Mi schiarii la gola e abbozzai uno dei sorrisi peggio venuti della mia
vita. «Okay, grazie lo stesso.»
Un angolo della sua bocca, con le labbra colorate di rosa scuro, si
sollevò. «Figurati.»
Mi voltai e tornai verso il punto dove avevo lasciato quello strano
ragazzo sperando che se ne fosse andato, che fosse stato tutto uno
stupido scherzo. Invece lui era ancora lì, appoggiato ad un muro
con una spalla, l’espressione ancora indecifrabile.
«Allora?» Chiese appena gli fui di fronte.
Mi si strinse la gola. «Non era a scuola.»
Si allontanò appena dalla parete. «Oh ma guarda, chi
l’avrebbe mai detto?»
«Basta con questi giochetti.» Sbottai. «Cosa vuoi da
me? E che vuol dire che i cacciatori l’hanno presa? La
uccideranno?»
«Ci sono buone probabilità che succeda, sì. Ma
prima vorranno sapere se ha un branco e, se sì, dove sono gli
altri.» Spiegò senza perdere la calma. «Da te voglio
collaborazione, aiuto, chiamalo come vuoi. Anche a me interessa
riportarla a casa sana e salva.»
Non era la domanda più appropriata da fare, non con la vita di
Scarlett in pericolo, ma non riuscii a trattenermi.
«Perché?»
I suoi occhi verde-grigio si accesero per un attimo. «Ho le mie
ragioni.»
Distolsi lo sguardo: il suo atteggiamento tutto sottintesi e parole non
dette mi dava ai nervi. «Che succede adesso?»
«Adesso andiamo a prendere a calci qualche bastardo.» Replicò lui sollevando il mento in segno di sfida.
Dovevo concentrarmi sulla strada lo sapevo, eppure continuavo a pensare
che Scarlett era in pericolo, che poteva essere morta, che non avevo
idea di come salvarla. Ammesso che l’avessero davvero presa i
cacciatori: per quel che ne sapevo poteva anche aver saltato la scuola
perché non aveva voglia di andarci. Sarebbe stato plausibile,
molto più di un gruppo di pazzi che se ne andavano in giro a
cacciare lupi mannari.
Il ragazzo era seduto al posto del passeggero, teneva lo sguardo fisso
davanti a sé e non aveva detto una parola da quando eravamo
saliti in auto. Un po’ mi intimoriva, dovevo ammetterlo,
soprattutto perché sembrava essere a conoscenza di molte cose.
Si appoggiò meglio contro lo schienale del sedile senza
guardarmi. «Io sono Sean, comunque.»
Non riuscii a fare a meno di lanciargli un’occhiata sorpresa.
«Oh… Ehm… Io sono Adam.» Poi mi bloccai
ricordandomi che conosceva il mio nome e anche il mio cognome.
«Ma questo lo sai già.»
Fece un piccolo cenno d’assenso continuando a tenere lo sguardo
fisso sulla strada. Era decisamente poco loquace. Mi aveva detto
l’indirizzo dove voleva che andassi e poi si era chiuso in un
silenzio freddo e impenetrabile. Probabilmente era una delle persone
più strane che avessi mai incontrato.
Certo, il fatto che non fosse lunatico come Scarlett aiutava, ma
restava comunque piuttosto scostante, come se non avesse voluto essere
avvicinato. Qualcosa mi faceva pensare che, se mai qualcuno avesse
osato andargli troppo vicino, lui l'avrebbe ucciso nel giro di un
secondo. E poi gli avrebbe chiesto cosa voleva.
«Hai un piano?» Domandai quando non riuscii più a
reggere la tensione e quello strano silenzio.
«In parte sì.» Rispose semplicemente.
«Solo in parte?» Chiesi senza riuscire a nascondere la
preoccupazione nella voce.
«Non sapevo come avresti reagito quindi mi sono dovuto limitare
nel pianificare qualunque cosa.» Spiegò e probabilmente fu
la frase più lunga che gli avevo sentito pronunciare fino a quel
momento.
Mi costrinsi a guardare la strada. «E quindi che si fa?»
Scrollò lievemente le spalle. «Improvvisiamo.»
“Sì, mi sembra giusto…”, pensai ironico: quel
ragazzo mi avrebbe fatto diventare pazzo, me lo sentivo. Trassi un
respiro profondo e per un qualche strano motivo mi ritrovai a pensare
al sorriso di Scarlett dopo che ci eravamo baciati. Era un ricordo
piacevole, questo sì, ma non mi aiutava a concentrarmi.
«Siamo arrivati.» Annunciò Sean senza cambiare
minimamente il tono della voce.
Ci trovavamo in una zona periferica della città, in un
parcheggio dietro un supermercato completamente vuoto se non per una
vecchia auto blu che avevo già visto anche se non riuscivo a
ricordare dove. Guardai Sean e lui fece un cenno proprio verso quella
macchina così le parcheggiai accanto: a quanto pareva avremmo
avuto compagnia. L’idea non mi piaceva, mi sembrava che stessimo
perdendo tempo prezioso.
Scesi dall’auto subito dopo Sean, che pareva perfettamente
padrone della situazione, come se fosse stata una cosa che faceva tutti
i giorni. Con quella giacca di pelle sembrava uno di quei ragazzi
ribelli dell’ultimo anno di liceo che vedevo a volte a scuola,
quelli che uscivano di nascosto per fumare, eppure nel suo aspetto
c’era anche qualcosa che lo faceva sembrare già vissuto e
con un passato pieno di esperienze non proprio piacevoli.
Quando lo affiancai non mi non mi guardò neanche per un attimo
concentrato com’era sulla macchina blu ferma accanto alla mia.
Teneva le mani nelle tasche dei jeans, la sua espressione era
indecifrabile come sempre, lo sguardo attento e quasi sospettoso.
«Finalmente.» Commentò una voce familiare.
«Pensavo che vi foste persi.»
Matthew, il mio vicino di casa, scese dall’auto blu e ci venne
incontro con un sorriso amichevole in viso. Indossava dei jeans
scoloriti e una camicia a quadri aperta su una maglietta bianca.
Spalancai gli occhi vedendolo: che diavolo ci faceva lì?
Conosceva Sean? Sapeva cos’era veramente?
Matthew sollevò una mano in segno di saluto. «Ciao,
Adam.»
Rimasi a fissarlo, incredulo. Mi sarei aspettato di tutto, ma lui…
Sembrava sempre così disorganizzato e confuso, un adolescente
intrappolato nel corpo di un adulto. Come poteva conoscere uno come
Sean, perennemente all’erta e dall’aria pericolosa?
Mi voltai verso Sean sperando che, per una volta, mi avrebbe dato una
spiegazione degna di questo nome. «Perché è
qui?»
«Per aiutarci.» Rispose semplicemente lui, conciso come al
solito.
“Questo non chiarisce niente”, pensai continuando a
guardarlo. «Ma… Lui non… Insomma, come può
esserci d’aiuto?»
Sean sospirò. «Quasi niente è come sembra,
sai?» E mi lanciò un’occhiata eloquente.
Mi girai verso Matthew, sconvolto. «Non dirmi che anche tu
sei…» Lasciai la frase in sospeso non sapendo fino a dove
potevo spingermi: magari avevo frainteso Sean, magari Matthew era solo
il ragazzo confusionario e allampanato che avevo sempre conosciuto.
«Un licantropo? Sì. Più o meno.»
Confermò Matthew annuendo e abbozzando un sorriso.
«Vuoi dire che ho vissuto per diciassette anni accanto ad un
licantropo senza saperlo? E che vuol dire più o meno?»
Sbottai senza riuscire a togliergli gli occhi di dosso.
«È un Sangue di Lupo. Significa che è in parte
lupo, ma non abbastanza da essere considerato un vero e proprio
licantropo.» Intervenne Sean con aria sbrigativa. «E
dovremmo smetterla di chiacchierare: quei bastardi potrebbero averla
già uccisa.»
Le sue parole mi riportarono bruscamente alla realtà.
«Dobbiamo fare qualcosa.»
«Siamo qui per questo.» Confermò Matthew, diventato
serio di colpo.
«D’accordo…» Mormorai più per me stesso
che per loro. «Il piano qual è?»
Negli occhi verde-grigio di Sean passò una lampo inquietante.
«Andiamo a trovare i cacciatori. Direttamente nella loro
tana.»
SPAZIO AUTRICE: Cu! :3
Siamo già al capitolo 24? Mi sembra impossibile ** E' come se
avessi cominciato a pubblicare ieri e invece, tra un paio di mesi,
sarà già un anno che UAMP è su EFP!
Mi ricordo che, quando cominciai a postare i primi capitoli, non vedevo
l'ora di farvi arrivare qui, a Sean, a Matthew, ai cacciatori, di farvi
vedere oltre Scarlett e Adam. Finalmente ci siamo arrivati e spero
davvero di non deludervi.
In questo capitolo avete conosciuto Sean, il mio personaggio preferito
dell'intera storia. Che dire, lui è molto ambiguo, non si riesce
mai a capire da che parte stia, non fino in fondo. Più avanti
farà cose discutibili che potrebbero farvi cambiare idea su di
lui, e anche il suo passato potrebbe ribaltare la vostra opinione.
Nonostante questo, la sua storia è quella di cui vado più
fiera, insieme a quella di Adam, che scoprirete più avanti.
Perché sì, anche il nostro ragazzo con gli occhi color
tempesta nasconde qualche scheletro nell'armadio. Stessa cosa per Sean.
Entrambi hanno un passato più oscuro di quanto sembri.
Penso di aver detto tutto, quindi vi ringrazio per aver letto UAMP fino
a qui e per continuare ad apprezzarla e ci vediamo al prossimo
capitolo! <3
TimeFlies
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Capitolo 24 *** 23. Scarlett ***
Under a Paper Moon- capitolo 23
23. Scarlett
Mi sfiorai le labbra con le dita e sorrisi. Mi sentivo un po’
idiota a farlo, ma stare con lui mi aveva lasciato uno strano
buon’umore che non provavo da qualche tempo.
Era notte inoltrata
e avrei dovuto dormire, ma in realtà me ne stavo sdraiata sul
letto a fissare il soffitto e a ripensare a quei baci, a
quell’abbraccio, a lui.
Una vocina nella mia mente mi diceva che
avrei dovuto essere triste e arrabbiata per James e il modo il cui mi
aveva lasciata, eppure non riuscivo ad esserlo. E neanche ci provavo.
In fondo, perché avrei dovuto? Se n’era andato senza
neanche darmi una spiegazione degna di questo nome, non meritava niente
da me.
La sensazione delle labbra di Adam sulle mie, poi, era
un’ottima distrazione. Quando ci eravamo baciati per la prima
volta, in quel locale, non ci avevo quasi fatto caso, presa
com’ero dal cercare di tirarmi fuori da quella situazione. Ma
quel pomeriggio… Era stato tutto diverso. Era stato solo io e
lui.
Il primo bacio non sembrava essere stato l’iniziativa di
nessuno, era successo e basta. Ma era stato il secondo a rimanermi
impresso di più, perché era stato lui a volerlo. E io mi
ero fatta prendere dall’entusiasmo, a cui lui aveva risposto
molto bene. Questo mi aveva portato a riconsiderarlo sotto molti punti
di vista e a decidere, alla fine, che era molto meglio di quanto avevo
pensato all’inizio.
Quando mi aveva riaccompagnata a casa, ovvero
quando mi ero decisa a staccarmi da lui e quindi a sciogliere
l’abbraccio abbandonando a malincuore il suo calore rassicurante,
avevo cercato di smettere di sorridere per non sembrare troppo pazza,
ma poi avevo visto che anche lui si stava mordendo il labbro per
evitare di lasciarsi sfuggire un sorriso, quindi mi ero rilassata.
Al
momento di salutarci, avevo esitato, indecisa se baciarlo oppure no:
non sapevo cosa pensava di me, come considerava il nostro rapporto.
Alla fine non avevo fatto niente di diverso dal solito, gli avevo dato
un bacio sulla guancia ed ero scesa dalla macchina. Lui mi aveva fatto
un sorriso un po’ timido ma anche sinceramente felice che mi
aveva fatto venire voglia di riaprire lo sportello, gettargli le
braccia al collo e baciarlo. In qualche modo ero riuscita a trattenermi
e l’avevo guardato allontanarsi.
Quel ragazzo aveva il potere di
incatenarmi con quei suoi occhi blu tempesta e riusciva a farmi stare
bene anche solo sorridendomi. Non sapevo se era una cosa buona o se si
sarebbe rivoltata contro di me con il passare del tempo. L’unica
cosa che sapevo era che Adam era passato dal rappresentare una
scocciatura, una minaccia per la mia già precaria
tranquillità, all’essere una parte importante della mia
vita.
Non avevo idea di come avrei dovuto sentirmi a riguardo: nervosa,
impaurita, oppure solo felice? In fondo, era pur sempre un pericolo in
meno, ed un alleato in più. Un alleato che era riuscito a farsi
strada oltre le mie difese e che si era conquistato con ostinata
determinazione un angolino nel mio cuore. E non riuscivo a sentirmi
irritata o minacciata da questo, mi sembrava così... giusto, come se avesse dovuto accadere, come se fosse già stato scritto.
«Scarlett, sveglia!» La voce
di mia madre riusciva ad essere più fastidiosa di quella della
professoressa di matematica quando si impegnava.
Ogni volta che tornava
da un viaggio di lavoro diventava incredibilmente efficiente in fatto
di sveglia e terzo grado sui ragazzi con cui uscivo. Il punto era che
non riuscivo a prenderla sul serio quando beveva il suo tè ai
lamponi da una tazza rosa con il disegno di un gatto che indossa un
paio di occhiali da sole, e cercava di rimproverarmi per il disordine
della mia stanza nello stesso tempo.
Mi tirai la coperta sopra la testa
e mugolai una risposta: «Ancora cinque minuti… O magari
dieci…»
Qualcuno mi strappò di dosso la trapunta.
«Assolutamente no. Su, in piedi. Sei già in
ritardo.»
Mi coprii il viso con le braccia. «Mamma!»
Mi sorrise. «Sì, tesoro?»
Le scoccai
un’occhiataccia che lei ricambiò senza scomporsi, come al
solito. Si chinò su di me e mi diede un bacio sulla testa.
«Ti aspetto in cucina, mmh?» Aggiunse prima di uscire dalla
mia stanza.
Le feci il verso tra me e me mentre mi giravo sulla schiena
e mi passavo una mano sul viso. Era stressante, a volte, eppure mi
faceva piacere lo stesso averla in casa. Beh, più o meno.
Diciamo che era una buona compagnia dalle nove di mattina in poi.
Mi
tirai su a sedere tenendo gli occhi socchiusi per via della luce che
entrava dalla finestra visto che qualcuno era stato tanto gentile da spalancare le tende.
Mi
concessi un attimo di tregua prima di alzarmi e cercare a tentoni dei
jeans. Ne trovai un paio neri buttati sulla sedia. Me li infilai
distrattamente prima di aprire un cassetto del mobile accanto alla
scrivania e prendere una maglietta verde scuro. Mi tolsi quella che
usavo per dormire, e la cambiai con quella pulita. Mi infilai le scarpe
rischiando di inciampare nelle stringhe e cercando di mettere a fuoco
quello che stavo facendo.
A che ora ero andata a letto la sera prima?
Mi sarebbe piaciuto credere alle undici, come mi ero prefissata, ma
qualcosa mi diceva che era stato più verso l’una o le due.
Però non era colpa mia se una certo George Martin¹ si divertiva a scrivere libri che ti tengono incollato alle
pagine.
Scesi le scale senza quasi vedere dove mettevo i piedi,
ancora mezza addormentata. Dalla cucina proveniva un buon odore di
caffè e tè che mi fece quasi venire voglia di sbrigarmi.
Quasi, in realtà volevo solo tornare a letto.
Mentre stavo per
varcare la soglia, qualcuno suonò il campanello. Lanciai
un’occhiata critica alla porta: chi va a casa della gente alle
sette di mattina? Un venditore porta a porta? Mi lasciai sfuggire una
smorfia di fronte a quella prospettiva.
«Vado io.»
Annunciai senza riferirmi a nessuno in particolare.
Mi ravviai i capelli con una mano nella speranza di sistemarli almeno un po’.
Attraversai il corridoio passando davanti allo specchio con le foto
incastrate nei bordi di fronte al quale si era soffermato anche Adam
quella che sembrava un’eternità fa. Eppure erano passati
solo un paio di mesi, forse meno.
Posai una mano sulla maniglia e
l’abbassai. Quello che mi trovai davanti mi svegliò
completamente e mi fece perdere, nello stesso tempo, dieci anni di
vita. Miles, mio padre, se ne stava sull’ingresso con aria
imbarazzata.
Indossava dei jeans, un maglione grigio e un lungo
cappotto scuro. I capelli castani erano accuratamente pettinati in modo
da sembrare arruffati. Gli occhi verdi mi scrutavano da dietro gli
occhiali dalla montatura sottile. Sembrava in attesa di qualcosa, un
saluto magari. Ma io ero troppo sconvolta anche solo per lasciare la
maniglia della porta.
Avevo la mente completamente vuota, l’unica
cosa a cui riuscivo a pensare era che Miles sembrava molto più
giovane della mamma, come se lui in tutti quegli anni non avesse
lavorato per mantenere se stesso ed un’altra persona. E
probabilmente era così: perché avrebbe dovuto? Lui aveva
Patty, ovvero Miss Minigonna, la finta bionda piena di soldi che aveva
fatto a pezzi la mia famiglia.
«Ciao Scout.» Mormorò
Milese studiandomi cauto.
Il mio primo impulso fu quello di sbattergli
la porta in faccia con tutta la forza che avevo, ma mi trattenni: le
possibilità di riuscire a fargli male erano troppo poche visto
che non era abbastanza vicino. Meglio aspettare una situazione
più propizia.
Di fronte al mio silenzio aggiunse: «Come
sei cresciuta… Sei proprio come tua madre.»
“Come
mamma dici? Ma ti riferisci alla Natalie che hai lasciato anni fa,
innamorata e piena di progetti per un futuro insieme a te, o alla
Natalie di adesso, quella che lavora come una pazza per riuscire a
tirare avanti?”, pensai sentendo la rabbia montarmi dentro: come
si permetteva di ripresentarsi dopo tutto quel tempo così, come
se non fosse successo niente?
«Tesoro, chi… Oh,
Miles.» La voce di mia madre mi arrivò ovattata, quasi
fosse stata lontana chilometri.
Ero consapevole della sua presenza
dietro di me, ma non riuscivo a staccare gli occhi da l’uomo che
le aveva spezzato il cuore.
«Che ci fai qui?» Chiese
Natalie con una calma incredibile.
«Ero a Seattle per lavoro e ho
pensato di venire a salutarvi…» Spiegò lui
infilando le mani nelle tasche del cappotto.
Spalancai gli occhi: ora
pensava di venire a farci visita? Dopo tutti gli anni che aveva passato
a divertirsi con Miss Minigonna? Si era stancato e voleva tornare?
Oppure lei l’aveva mollato e lui non sapeva da chi andare? In
ogni caso l’unica cosa che volevo fare era fargli un occhio nero.
Mamma abbozzò un sorriso di cortesia. «Accomodati.»
E fece un passo indietro per lasciarlo passare.
Mi spostai
anch’io senza pensare a quello che facevo, come se avessi inserito il pilota automatico. Miles entrò
passando davanti a me e Natalie con un po’ troppa naturalezza per
i miei gusti.
Scambiai un’occhiata con mia madre: sembrava
controllata, ma anche nervosa, in ansia. Il suo ex marito che
l’aveva lasciata per una donna più giovane e meno vestita
era appena entrato in casa sua, chiunque al suo posto sarebbe stato a
disagio. Trasse un respiro profondo e mi fece un piccolo cenno di
incoraggiamento.
Automaticamente, mi avviai lungo il corridoio mentre
lei chiudeva la porta e mi raggiungeva. Miles era in cucina e si
guardava intorno come se stesse valutando se comprare o no la casa.
Pensai distrattamente che le tazze con i pinguini in bella mostra sul
tavolo non aiutassero a far sembrare che io e mamma ce la stessimo
cavando bene: a volte la passione di Natalie per le tazze fantasiose e
colorate era terribilmente fuori luogo.
«Stavamo per fare
colazione.» Disse mia madre ostentando un’espressione
cordiale. «Posso offrirti qualcosa? Tè,
caffè…»
«Un caffè, grazie.»
Rispose Miles con atteggiamento fin troppo rilassato.
“Approfittatore!”, scattò una vocina nella mia
mente.
Natalie annuì appena. «Siediti pure.»
Miles
scostò una sedia dal tavolo e ci si lasciò cadere con
quel suo modo di fare da ragazzino: evidentemente non gli andava ancora
giù il fatto che anche lui stesse invecchiando.
Mamma prese la
caraffa del caffè e ne versò un po’ nella vecchia
tazza di papà, quella blu e arancio. Erano anni che non la
rivedevo, chissà dove l’aveva tenuta tutto quel tempo.
«Scarlett tu cosa vuoi?» Mi chiese mia madre guardandomi.
Sbattei le palpebre e mi risvegliai dai miei pensieri non proprio
allegri in cui auguravo a Miles di strozzarsi con il caffè o di
essere fulminato seduta stante. «Ehm… Caffè, per
favore.»
Lei mi fece
un sorriso dolce. «Okay tesoro.»
«Non ti
siedi?» Intervenne Miles studiandomi con un sopracciglio alzato.
La rabbia tornò a farsi sentire, travolgente e improvvisa.
«Non hai nessun diritto di dirmi cosa fare.» Ringhiai
scoccandogli un’occhiataccia.
Sembrò sorpreso dalla mia
reazione. «Cosa? Scarlett, io sono tuo padre…»
«Mio padre?!» Ripetei stringendo i pugni fino a conficcarmi
le unghie nei palmi. «E tu pensi che basti fare un figlio per
potersi considerare un padre? Se vuoi davvero essere un padre dovresti
passare del tempo con tuo figlio, aiutarlo, educarlo, dargli il buon
esempio. Non scappare con la prima finta bionda che ti capita a tiro!
E, per la cronaca, Patty ha dei denti orribili!»
«Scarlett…» Il tono di mia madre era incredulo e
sofferente.
La guardai per un attimo prima di tornare a fissare Miles.
«Non voglio avere niente a che fare con te. Sei solo un codardo
approfittatore.»
Natalie fece una passo verso di me.
«Scarlett, per favore…»
Indietreggiai
istintivamente, il petto che si alzava e si abbassava velocemente.
«No, no. Basta così…»
«Scarlett,
ascoltami. So di aver sbagliato, non devo lasciare te e Natalie, ma non
riuscivo più ad andare avanti in quel modo.» Disse Miles
con voce calma. «Avrei dovuto parlarvene, avremmo dovuto
risolvere insieme questa cosa.»
Se ci sono dei problemi in un
coppia bisogna risolverli insieme, non scappare. Le parole di Adam mi
tornarono in mente all’improvviso facendo accrescere la mia
rabbia: com’era possibile che lui, un ragazzo di diciassette
anni, si rendesse conto che fuggire dalle complicazioni era sbagliato
mentre un uomo di più di quarant’anni come Miles non
riuscisse ad afferrare un concetto del genere?
«E allora
perché non l’hai fatto? Perché ci hai mollate qui
da sole?» Sbottai sentendo il tremito nella mia stessa voce.
Miles sembrò colto alla sprovvista. Tentò di dire
qualcosa, ma ci rinunciò. Chinò la testa e si
passò una mano tra i capelli. «È stato un errore,
lo so…»
«Già, un errore. In fondo, noi siamo
solo giocattoli, no?» Lo provocai. «Quando ti stanchi puoi
cambiarci con qualcos’altro. Magari con meno vestiti addosso,
eh?»
Sollevò di colpo lo sguardo su di me. «No,
niente del genere. E vorrei che la smettessi di insultare Patty: io e
lei stiamo bene insieme e stiamo programmando di sposarci il prossimo
anno quindi…»
«Sposarvi?» Ripeté
flebilmente mamma. Sembrava che qualcuno le avesse portato via tutto il
colore dal viso.
Sentii un sorriso di rabbia amara sfiorarmi le labbra.
«Ah, bene. Sono proprio felice per te. Ma sai cosa? Non sprecare
la carta per farmi un invito: non verrò mai al tuo stupido
matrimonio.»
Lo sguardo di Miles si indurì. «Non
permettersi di parlare così a tuo padre, ragazzina.»
«Ragazzina?» Ripetei incredula. Scossi la testa e mi passai
una mano tra i capelli cercando di fermarne il tremito. «Sai che ti dico? Fa’ quel
cavolo che ti pare, sposa quella sottospecie di
spaventapasseri e fingi di essere felice con lei: ormai non importa
più.»
Mi avviai verso la porta con passo pesante ma
determinato. Sentii mia madre trattenere il fiato per poi rilasciarlo
in un lungo sospiro che assomigliava tremendamente ad un singhiozzo.
«Scarlett…» Mi richiamò debolmente.
«Devo andare a scuola.» Borbottai afferrando lo zaino che
avevo lasciato nel corridoio e raggiungendo la porta. Uscii e me la
sbattei alle spalle usando un po’ troppa forza dovuta alla
rabbia: era uno degli svantaggi dell’essere un licantropo, quando
ti arrabbiavi lo facevi sempre sul serio. Non c’erano vie di
mezzo.
Una parte di me sperò che i cardini della porta
reggessero visto il terribile rumore che avevano fatto; l’altra
parte voleva uccidere qualcuno.
Nonostante fossi quasi del tutto fuori
di me, in qualche modo mi ritrovai a camminare lungo la strada che
facevo tutte le mattine per andare a scuola. In realtà non ero
sicura che fosse una buona idea andare lì, in mezzo a tutta
quella gente: chi mi assicurava che sarei riuscita a mantenere il
controllo per tutte e cinque le ore di lezione? No, dovevo sbollire la
rabbia prima, solo quando mi fossi calmata sarei potuta andare. Magari
potevo entrare alla seconda ora…
Mi lasciai sfuggire un respiro
spezzato: com’era possibile che una sola persona potesse
complicarmi tanto la vita? Per un po’ Miles era stata un buon
padre, sempre sorridente e pronto a passare del tempo con me e con
mamma. Poi qualcosa era cambiato e lui aveva deciso di lasciarci da
sole, con la macchina da pagare, il mutuo e il cuore spezzato.
I
documenti del divorzio erano stati il colpo di grazia: freddi,
distaccati, uguali a quelli già usati molte volte da molte altre coppie. Non
c’era neanche stato bisogno di intraprendere una battaglia per
l’affidamento: aveva lasciato intendere che non mi voleva, che
potevo stare con mia madre.
Quando era successo ero troppo piccola per
capire, ma, una volta cresciuta e dopo aver rimesso insieme i pezzi,
avevo cominciato a provare una rabbia fredda e piena di rancore per
l’uomo che aveva illuso me, ma soprattutto mia madre, per anni.
Sbattei le palpebre per scacciare eventuali lacrime e mi guardai
intorno: non era il quartiere da cui passavo di solito, dovevo aver
mancato una svolta. Imprecai mentalmente e mi lasciai sfuggire uno
sbuffo stizzito. Quella giornata stava andando di male in peggio.
Mi
trovavo in una zona periferica praticamente deserta. Alla mia destra,
dall’altra parte della strada, c’erano delle case, grigi
blocchi di cemento dall’aria triste e squallida; alla mia
sinistra, un parco abbandonato a se stesso con alberi
verdi e rigogliosi che spuntavano dall’erba alta. Non ero mai
stata lì.
Un fruscio mi distolse dai miei pensieri. Mi voltai
verso l’intreccio degli alberi al mio fianco, i sensi
all’erta. Poi mi diedi della stupida da sola: che mi veniva in
mente? Al massimo poteva essere un gatto o un uccello… Di sicuro
niente di pericoloso. Forse ero solo troppo stressata per via di Miles.
Il rumore, però, si ripeté e qualcosa dentro di me,
qualcosa legato al mio lupo, scattò. Diceva pericolo.
Ma che
tipo di pericolo? Sentii il mio cuore aumentare i battiti e il mio
respiro farsi più veloce, eppure non riuscivo ancora a capire
cosa ci fosse che non andava. C’era un altro lupo nei paraggi? O
forse il soprannaturale non c’entrava niente?
Mi presi un attimo
per cercare di concentrarmi sui suoni intorno a me: il rumore del
traffico lontano, il fruscio dei rami degli alberi, il sibilo del
vento, il cinguettio esitante degli uccelli… il respiro di
qualcuno.
Mi voltai di scatto e mi trovai davanti tre uomini.
Indossavano abiti comuni, jeans, magliette, giacche di pelle, ma
avevano in mano armi non proprio rassicuranti: quello più grosso
e muscoloso stringeva nelle dita tozze un coltello incredibilmente
lungo che riluceva sinistro alla luce del sole; un altro, quello con i
capelli biondi e che sembrava il più giovane, impugnava un
fucile nero e lucido; l’ultimo, che sembrava essere il capo, mi
puntava contro una pistola.
Il rumore del mio stesso cuore mi
rimbombava nelle orecchie coprendo tutto il resto, l'aria mi graffiava la gola. Che
volevano da me? Chi erano? Istintivamente feci un passo indietro e due di loro
sogghignarono divertiti.
«Guarda che abbiamo qua.»
Commentò quello che sembrava il leader. «Un lupo
solitario. Non lo sai che è pericoloso per quelli della tua
razza andarsene in giro da soli?»
“Sanno cosa sono”,
pensai trattenendo il fiato. «Cosa?» Il mio fu un bisbiglio
flebile e appena udibile.
Lui sorrise beffardo. «Paura, lupo?
Beh, fai bene. Non siamo qui per chiacchierare.»
Cercai
disperatamente di riprendere il controllo della situazione. «Cosa
volete?»
L’uomo più muscoloso ghignò.
«Secondo te?» Di fronte al mio sguardo perplesso aggiunse:
«Te, ecco cosa vogliamo.»
Fu come se qualcuno mi avesse
tirato un pugno nello stomaco. Spalancai gli occhi e mi sentii mancare
il fiato. «Me? C-che vuol dire?»
Il capo ridacchiò e
nei suoi occhi passò un lampo. «Questo.»
Sollevò la pistola puntandola direttamente contro di me. Ebbi
appena il tempo di provare un terrore cieco e gelato prima di sentire
lo sparo. Da qualche parte nel mio corpo esplose il dolore, forte come
non lo avevo mai provato prima. Fu giusto un attimo, però.
Poi
fu solo buio.
1: George R. R. Martin, scrittore della saga "Il Trono di Spade", da cui è tratta la serie TV "Game of Thrones"
SPAZIO AUTRICE: Cu :3
Ed eccoci nella seconda metà della storia ** Nuovo banner -con i
prestavolto, finalmente!-, nuovi personaggi in arrivo... e nuovi guai.
La situazione negli scorsi capitoli sembrava essersi stabilizzata, gli
Adamett stavano finalmente andando d'accordo e sembravano aver
realizzato di provare qualcosa l'uno per l'altra. E adesso invece
è tutto ribaltato.
Scarlett ha rivisto suo padre, Miles, l'uomo che ha lasciato lei e sua
madre per il suo capo, Patty, o Miss Minigonna, come l'ha rinominata
Scar. E, come se non bastasse, le sparano. Potrebbe essere viva o morta
adesso, per quel che ne sappiamo.
Chi sono questi tizi? Cosa vogliono da lei? E come andrà avanti
la cosa? E, anche se è meno importante, vi immaginavate
così Scar e Adam, come sono mostrati nel banner? Oppure avevate
altre idee?
Vi anticipo che nel prossimo capitolo verrà introdotto uno dei
miei personaggi preferiti, una figura ambigua che amerete o odierete,
è tutto da vedere.
Vi lascio, perché altrimenti vi spoilero tutto. A presto **
TimeFlies
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Capitolo 25 *** 25. Scarlett ***
Under a Paper Moon- capitolo 25
25. Scarlett
Sollevai lentamente le palpebre non senza una certa fatica.
La prima cosa che mi passò per la mente fu il dolore: mi
sembrava che mi fosse passato sopra un autobus. Avevo tutti i muscoli
irrigiditi e contratti per essere stati costretti a lungo nelle stessa
posizione. Restava da capire quale
posizione.
Cercai di tornare completamente lucida nonostante un mal di testa
lancinante che lo rendeva piuttosto difficile. L’ambiente in cui
mi trovavo era buio e umido; la superficie sotto di me era fredda e
dura, sembrava cemento o qualcosa del genere. L’unica fonte di
luce era qualcosa sopra la mia testa, piuttosto in alto, ma non
riuscivo a capire cosa fosse: era tenue, flebile, chiara.
Quando riuscii a recuperare un po’ di senso
dell’orientamento mi resi conto che ero sdraiata su un pavimento
ruvido e sporco, di un colore grigio smorto. Ed ero piuttosto sicura
che non fosse dove dovevo essere.
Posai le mani a terra e provai a fare forza sulle braccia per mettermi
seduta con l’unico risultato di scatenare una fitta di dolore
all’altezza del fianco destro. Mi lasciai sfuggire un gemito
sorpreso: non ricordavo di essermi fatta male, né di essere
caduta. Però non ricordavo neanche di essere mai entrata in
quella stanza così claustrofobica. Che stava succedendo?
Mi portai una mano al fianco apparentemente ferito e trasalii, sia per
il dolore che per la sensazione di avere qualcosa di bagnato e viscido
sulle dita. Abbassai lo sguardo sentendo il mio cuore accelerare. E
vidi rosso, letteralmente: la mia mano era sporca di sangue, lucido e
fresco.
«Oddio…» Mormorai sentendo crescere il panico.
Il mio respiro si fece spezzato, affannoso. Improvvisamente mi
tornò in mente tutto: la vista a sorpresa di Miles, il mio
scatto di rabbia, la mia fuga causata dalla frustrazione, quei tre
ragazzi strani e armati… E il colpo di pistola.
“Mi hanno sparato?”, pensai frastornata
dall’assurdità di quella situazione: che c’entravo
io con quei tre pazzi che si divertivano a girare con un negozio di
armi addosso? Cosa volevano da me? Dov’ero?
Faticosamente riuscii a tirarmi su a sedere appoggiando la schiena al
muro e trasalendo per il dolore al fianco. Davanti a me c’era un
corridoio buio e vuoto. A dirla tutta, e me ne resi conto solo dopo
qualche secondo, prima del corridoio c’erano delle sbarre di
metallo, spesse e dall’aria vissuta. Ero in gabbia.
Un terrore gelido e prepotente si fece strada in me lasciandomi senza
fiato. Deglutii a vuoto sentendo le lacrime pizzicarmi gli occhi. Mi
coprii la bocca con la mano per soffocare un singhiozzo: odiavo
piangere, cercavo di non farlo mai. Qualcosa mi diceva che in quel
momento potevo anche permettermelo, in fondo potevo essere vicina alla
morta, un pianto sarebbe stato liberatorio, persino giustificato.
“No”, mi rimproverai, “niente lagne”.
Dovevo andarmene di lì, non perdere tempo a compiangermi.
Appoggiai i palmi contro il muro alle mie spalle e cercai di nuovo di
fare forza sulle braccia per alzarmi in piedi. Appena mi sollevai da
terra, però, le gambe cedettero e una nuova fitta di dolore mi
attraversò il corpo facendomi boccheggiare. Era normale che un
colpo di pistola facesse tanto male? Insomma, i licantropi guariscono
in fretta, la ferita doveva già essersi rimarginata…
Quanto ero stata priva di conoscenza? Ore? Giorni? O solo minuti? Poi
una verità agghiacciante e terribilmente ovvia si fece strada
nella mia mente: il proiettile poteva ancora essere… dentro
di me. Questo avrebbe spiegato il dolore persistente e il fatto che la
ferita non fosse guarita. Un moto di nausea mi strinse la gola. E
adesso? Non potevo sperare di fuggire con un pezzo di metallo nel mio
corpo. Ma non potevo neanche restare lì, alla mercé di
quei tre pazzi. Chissà dov’erano in quel momento…
«Ti sei svegliata finalmente.» Borbottò una voce
maschile.
Sollevai lo sguardo e il biondino che mi aveva aggredita era
dall’altra parte delle sbarre. Era vestito come l’ultima
volta che l’avevo visto, quindi doveva essere passata solo
qualche ora da quando avevo perso i sensi.
Mi studiava con aria strana, come se fossi stata chissà quale
creatura esotica. C'era anche un'ombra in fondo ai suoi occhi nocciola.
Quella sua espressione incuriosita mi fece venire voglia di mollargli
un calcio.
Fece un passo indietro e richiamò qualcuno con un cenno. Rumore
di passi, grugniti, nuovi respiri e due grossi uomini tarchiati
affiancarono il biondo. Avevano entrambi i capelli scuri tagliati molto
corti e la barba ispida. Indossavano pantaloni militari, vecchie
magliette scolorite e anfibi dall’aria consumata. Senza sapere il
perché, osservai distrattamente i miei jeans, ora sporchi e
strappati, pensando che, per una volta, ero quella vestita meglio.
Il biondino tirò fuori delle chiavi dalla tasca della giacca e
aprì la serratura della mia cella. La mia mente elaborò
velocemente un piano di fuga in stile scatta-colpisci-corri, ma il mio
corpo mandò in frantumi quella possibilità riversandomi
addosso altro dolore, che si propagava dal fianco ferito e risaliva fin
quasi a stordirmi.
Il biondo fece un altro cenno ai due uomini che entrarono nella cella e
mi vennero incontro con aria minacciosa. Istintivamente, mi schiacciai
contro la parete mentre l’istino preparava gli artigli a
spuntare: anche se fisicamente non ero in grado di farlo, non mi sarei
arresta tanto facilmente, avrei lottato con le unghie e con i denti. In
modo piuttosto letterale.
«Più ti ribelli e più sarà difficile.
Più che altro per te, ma anche per noi sarà una
scocciatura.» La voce del biondino suonava atona, come se avesse
imparato le parole a memoria ma non gli importasse di quello che
significavano.
Mentre i due uomini coprivano la poca distanza che ci separava, lui mi studiava di sottecchi. Sembrava essersi incupito.
Quando i suoi amichetti mi furono di fronte, si chinarono e mi
afferrarono ciascuno per un braccio. Mi strattonarono in piedi senza
che potessi fare niente per fermarli: il dolore si riversò
dentro di me come un fiume in piena mozzandomi il fiato e annebbiandomi
la vista.
«Sanguina.» Commentò uno dei due uomini.
“No, ma davvero?”, pensai ironica nonostante fossi mezza
svenuta.
«Capita alle persone a cui sparano.» Replicò il
biondo da un punto imprecisato davanti a me. Il suo tono sembrava
stanco, quasi avesse voluto essere ovunque meno che lì.
L’uomo rispose con un mugugno infastidito e non aggiunse altro.
Insieme all’altro, mi trascinarono in avanti e poi fuori dalla
cella. Non erano per niente delicati, sentivo ogni scossone come
raddoppiato e continuavo ad inciampare nei miei stessi passi. Da una
parte volevo prenderli a pungi, tutti e due, tre contando il biondino,
ma, nello stesso tempo, stavo lottando contro me stessa per non cedere
alla nausea quindi una rissa era fuori questione. I due uomini si
fermarono e per un attimo la terra sembrò aver cominciato a
girare al triplo della velocità normale. Poi si fermò di
colpo e riuscii a mettere a fuoco, più o meno, il ragazzo
davanti a me. O meglio, i suoi stivali.
«Che ne facciamo di lei?» Chiese uno dei gorilla aggrappato
al mio braccio.
«Il capo vuole vederla.» Rispose il biondo.
«Portatela nella stanza numero 3.»
“Non suona bene…”, pensai, “ma neanche
malissimo”. E chi era questo capo? Il ragazzo che mi aveva
sparato? Si era comportato come se fosse stato superiore ai suoi due
compagni quella mattina quindi poteva essere lui. Restava da capire
cosa potesse volere da me.
I due uomini annuirono e ripresero a trascinarmi lungo il corridoio con
la loro solita grazia paragonabile a quella di un elefante zoppo. La
lucidità andava e veniva, così come la vista: uno scontro
era impensabile in queste condizioni. Se ci aggiungiamo il fianco
ferito potevo tranquillamente dire che non avevo la minima
possibilità di difendermi.
Avrei voluto dire qualcosa, chiedere spiegazioni magari, ma respirare
mi costava un sacco di fatica, ogni boccata d’ossigeno era
preziosissima e sprecarne, anche se fosse stato per cose importanti, mi
sembrava da pazzi.
Continuarono a trascinarmi, passo dopo passo, metro dopo metro, fino a
fermarsi davanti ad una porta di legno chiaro con la maniglia
d’acciaio. Un grosso 3 campeggiava sulla superficie liscia. I
miei due accompagnatori spalancarono la porta e, senza tante cerimonie,
mi scaraventarono dentro.
Sbattei contro il pavimento lasciandomi sfuggire un mugolio di dolore
accompagnato da un’imprecazione che avrebbe fatto impallidire
persino la mia prof di matematica. Grazie al cielo ero atterrato sul
fianco buono quindi non fu poi così devastante. Sentii
l’impatto con il pavimento propagarsi in tutto il corpo, ma
riuscii a tenere duro. In effetti, devo ammettere che credevo sarei
svenuta.
«Mmh… Sei parecchio giovane.» Disse una voce
maschile da qualche parte nella stanza.
Tossii alla disperata ricerca d’aria e provai a sollevarmi sulle
braccia mentre il fianco ferito protestava pulsando di dolore. Strinsi
i denti, ma non riuscii comunque ad alzarmi. Dopo qualche altro
tentativo, che mi lasciò ansimante e madida di sudore, decisi
che dovevo optare per qualcosa di più semplice: mi girai sul
fianco buono puntellandomi sul gomito per essere un po’ sollevata
da terra.
Sbattei le palpebre e riuscii a guardarmi intorno: davanti a me
c’era un tavolo di legno scuro con due sedie, una di fronte
all’altra, come nelle sale interrogatori dei telefilm
polizieschi. E, dall’altra parte, le gambe di un uomo fasciate da
jeans scuri. Era stato lui a parlare. Era lui il capo di cui parlava il
biondino?
Si spostò fino a trovarsi davanti a me si inginocchiò per
avere il viso alla stessa altezza del mio. Sussultai sorpresa e
impaurita, mia malgrado. L’uomo aveva i capelli neri tagliati
corti, un accenno di barba sulla mascella, gli occhi grigi e
l’aria severa. Teneva le labbra strette in una linea dura e
impassibile. Era così vicino a me che sentivo il suo respiro
sfiorarmi la pelle. Mi faceva venire i brividi.
Dopo avermi osservata per qualche secondo, sospirò e si
alzò. Si mise a camminarmi davanti con le mani intrecciate
dietro la schiena, come se stesse riflettendo. «Sai perché
sei qui?» Domandò senza degnarmi di uno sguardo.
“Perché siete tutti dei pazzi furiosi?”, pensai
cercando di costringermi a respirare con regolarità. Quando
l’uomo tornò a guardarmi, in attesa di una risposta,
scossi piano la testa, cauta.
Lui aggrottò la fronte e trasse un respiro profondo.
«Vogliamo delle informazioni da te.» Aggiunse continuando a
camminare.
Evidentemente non aveva mai sentito parlare di cose come le
conversazioni o le domande: non doveva mica rapirmi per parlare con me.
«Che genere di informazioni?» La mia voce era roca e
flebile.
«Sul tuo branco.» Disse semplicemente.
«Branco?» Ripetei confusa. «Non ho un branco.»
Si fermò di colpo e mi guardò con gli occhi socchiusi.
«Come no? I lupi sono animali sociali, sentono il bisogno di
stare in branco.»
Cercai una posizione più comoda visto che cominciava a farmi
male il gomito. «Beh, io no.»
Sembrò scettico. Inarcò un sopracciglio e sospirò
di nuovo. «Chi ti ha morsa allora? A meno che tu non sia nata
così.»
Abbassai lo sguardo sul pavimento. «M-mi hanno morsa. Anni
fa.»
Che senso aveva mentire? Se avesse anche solo sospettato che stavo
nascondendo qualcosa mi avrebbe uccisa, il calcio della pistola che
sporgeva dalla sua cintura ne era la prova.
«Chi è stato?» Chiese lui con voce incolore.
Chiusi gli occhi e scossi la testa: rivivere quel momento era
più difficile del previsto. «Non lo so. Era buio…
Non lo so.»
Dall’uomo giunse un accenno di risata soffocata. «E dovrei
crederti?»
Lo guardai, incredula e nervosa. «Sì, è la
verità.» Non riuscii a nascondere una nota di
disperazione.
Lui si fermò e mi osservò con astio malcelato.
«Nessun lupo sopravvive per anni senza un branco o almeno un
altro licantropo con sé. È impossibile. Quindi smetti di
mentire e di’ la verità: coprirli non servirà a
niente.»
«Non sto coprendo nessuno.» Ringhiai: stavo arrivando al
limite, dopo la paura, la frustrazione, la sofferenza, arrivava la
rabbia, prorompente e bruciante.
Con velocità sorprendente, lui attraversò la stanza e mi
afferrò per la maglietta sollevandomi da terra. Una nuova scossa
di dolore mi attraversò il corpo annebbiandomi la vista.
«Voglio i nomi!» Sbottò l’uomo a pochi
centimetri dal mio viso. «Adesso! Altrimenti ti uccido,
chiaro?»
Da qualche parte trovai la forza di guardarlo negli occhi, sfidandolo
apertamente. «Allora credo proprio che dovrai uccidermi: non ho
nessun nome da darti.»
Mi sbatté con forza contro il muro. Gemetti piano, senza fiato,
e sentii le lacrime pizzicarmi gli occhi. Il dolore si era fatto
così forte che mi sembrava di essere sul punto di svenire.
L’uomo fece per dire qualcosa, ma fu interrotto dal rumore della
porta che si apriva. Attraverso le ciocche di capelli che mi erano
ricadute sugli occhi, riuscii ad intravedere chi aveva disturbato
l’ennesimo pazzo furioso della giornata: si trattava di una
ragazza giovane, avrà avuto dodici, tredici anni. Aveva lunghi
capelli neri lasciati sciolti sulle spalle, la pelle chiara e gli occhi
marroni. Indossava una felpa e dei jeans. Non sembrava neanche
lontanamente pericolosa, quindi perché era lì, insieme a
tutti quegli aspiranti psicopatici?
«Papà?» Mormorò esitante.
L’uomo mollò la presa di colpo e io ricaddi a terra.
L’impatto si riverberò dalle ginocchia fino alle spalle e
mi fece sbattere i denti. Ansimai in cerca d’aria e mi
rannicchiai su me stessa come se potessi in qualche modo difendermi.
«Denise, che ci fai qui?» Domandò l’uomo in
tono sorpreso e teso.
La ragazza spostò lo sguardo su di me per un attimo prima di
tornare a guardare il padre. «Io… avevo bisogno di una
mano per i compiti.»
L’uomo sospirò e si passò una mano tra i capelli.
«Non potevi chiedere a Nathan?»
«No.» Denise fece una smorfia. «Non lo sopporto
quando fa il superiore.»
«Tesoro, io ho da fare. Roba di lavoro…» Replicò lui.
“La roba di lavoro te la do io”, pensai scoccandogli
un’occhiataccia dal pavimento. Sì, forse non ero nella
posizione migliore, sia in senso metaforico che letterale, ma potevo
ancora farmi valere. In qualche modo.
Denise mi guardò di nuovo. «Lei è…?»
Suo padre si spostò di lato in modo da nascondermi alla vista
della figlia. «Non è importante. Adesso vai,
cercherò di finire in fretta, mmh? Poi vengo ad aiutarti.»
La ragazza annuì anche se non sembrava convinta.
«Okay…» Indugiò per un attimo sulla soglia
prima di fare un passo indietro e chiudere la porta.
L’uomo aspetto qualche altro secondo, per assicurarsi che se ne
fosse andata, prima di voltarsi verso di me. Il suo sguardo tradiva un
certo disgusto, come se si fosse trovato davanti un insetto ripugnante.
«Non ho finito con te, sappilo. Ma adesso ho altro da
fare.» Ringhiò.
Mi tirai su a sedere ignorando l’ennesima ondata di dolore e
ricambiai la sua occhiata piena d’astio. Per un attimo
sembrò sorpreso dalla mia sfida, ma si ricompose subito.
Attraversò la stanza, aprì la porta e si affacciò.
Parlò a bassa voce con qualcuno prima di scostarsi: i miei due
accompagnatori spuntarono sulla soglia, impassibili come sempre. Un
cenno del capo e mi si avvicinarono.
Mi irrigidii istintivamente, ma sapevo di poter fare ben poco contro
due orsi come loro, soprattutto con il fianco che pulsava e la testa
che doleva. Mi afferrarono di nuovo per le braccia e mi trascinarono
verso la porta. Prima di uscire, però, dovevo fare un favore a
me stessa.
Nel momento in cui stavo attraversando la porta, urlai da sopra la
spalla: «E, per la cronaca, hai la cerniera abbassata!»
I due uomini si affrettarono a trascinarmi fuori mentre il loro capo mi
guardava con gli occhi sgranati e la bocca aperta in
un’espressione incredula. Attraversammo il corridoio nella
metà del tempo che ci avevamo messo per andare. Il biondino era
di nuovo davanti alla porta della mia cella, appoggiato al muro con una
spalla, e sembrava quasi sorpreso. Mi osservò con un
sopracciglio alzato, come se stesse contemplando un qualche animale
esotico. Ma quell'ombra nel suo sguardo c'era ancora.
«È ancora viva, vuol dire che ha parlato?» Chiese
spostando lo sguardo su uno degli uomini.
L’interpellato scosse la testa. «Non credo: ad un certo
punto è arrivata Denise…»
Il biondo si lasciò sfuggire un verso scocciato. «Oddio,
quella ragazzina… Non capisco perché si ostina a tenerla
qui: combina solo guai.»
L’altro uomo scrollò le spalle scuotendo anche me.
«Sua moglie l’ha lasciato, lo sai, Nathan. Stanno cercando
di non farglielo pesare.»
“Quindi è lui il Nathan di prima”, pensai. Il
biondino sbuffò e incrociò le braccia al petto e per un
attimo mi apparve più giovane di quanto non fosse. I suoi occhi
si posarono su di me, esitanti.
Dopo un attimo di tentennamento, sospirò, quasi rassegnato, e
fece un cenno col mento verso la cella. «Rimettetela
dentro.»
Non se lo fecero ripetere due volte: dopo aver aperto la porta, mi
spinsero dentro e richiusero la grata con un tonfo sordo e metallico.
Mugolai piano, senza fiato per quell’ennesima ondata di dolore.
Le voci dei tre uomini fuori dalla cella si fecero confuse, lontane. Mi
sembrava di star fluttuando, come se il mio corpo avesse perso la sua
consistenza e il suo peso.
Nonostante l’idea di perdere i sensi di nuovo mi mettesse nel
panico e mi sembrasse da ingenui, non riuscii a reggere oltre. Feci
appena in tempo a rannicchiarmi su me stessa prima di svenire di nuovo.
SPAZIO AUTRICE: Ehilà!
Prima di tutto volevo dirvi che a Maggio pubblicherò una nuova
storia incentrata su un servizio segreto degli Stati Uniti e con molta
introspezione. Spero possa interessarvi <3
Passando a questo capitolo, è più breve di quelli che
l'anno preceduto, ma ci da una visuale più ampia sui cacciatori
che hanno preso la nostra Scar. Cacciano licantropi perché
è stato insegnato loro a temerli fin da piccoli e voglio
arrivare al branco di Scarlett, anche se lei non ne ha uno. Non ancora
almeno.
Vi consiglio di tenere gli occhi aperti, uno dei personaggi che
appaiono qui potrebbe rivelarsi diverso da come è apparso. E
potrebbe sorprendervi...
Il prossimo capitolo sarà molto più lungo, è sulle
6000 parole circa, in pratica il doppio. Anche se ancora deve passare
l'editing, quindi forse diminuiranno un po'.
E niente, spero che il capitolo vi sia piaciuto! Cosa pensate che
succederà adesso? Scarlett scapperà da sola o
riceverà un aiuto esterno?
A presto,
TimeFlies
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Capitolo 26 *** 26. Adam ***
Under a Paper Moon- capitolo 26
26. Adam
Sinceramente, andare nella
“tana”, come l’aveva definita Sean, dei cacciatori,
mi sembrava un suicidio: tanto valeva buttarsi giù da un ponte.
Che possibilità avevamo di entrare senza farci vedere o anche
solo di avvicinarci abbastanza da provarci?
Sean era di tutt’altro
avviso, ovviamente, visto che era stato lui a proporre, o meglio
imporre l’idea. Seduto sul lato passeggero, di fianco a me,
sembrava incredibilmente rilassato, come se stesse andando a farsi un
giro in città e non a rischiare la vita per qualcuno.
Tamburellava distrattamente sul suo ginocchio, lo sguardo perso fuori
dal finestrino, i capelli biondi lievemente arruffati che gli
ricadevano sulla fronte. Per un attimo mi chiese quanti anni avesse: ne
dimostrava poco più di venti, ma poteva essere più
giovane o più vecchio, difficile stabilirlo vista la sua aria
perennemente accigliata.
Matthew se ne stava seduto sui sedili posteriori, i gomiti sulle
ginocchia, l’espressione impaziente di un bambino che sta andando
al parco giochi. Mi aspettavo che da un momento all’altro
chiedesse “siamo arrivati?”.
«Immagino che sia un licantropo anche tu, giusto?» Domandai
giusto per alleggerire un po’ la tensione.
Sean non si degnò neanche di guardarmi. «Mm-mm.»
Annuii tra me e me, ormai rassegnato al suo silenzio.
«Bene.»
«Non mi sembri molto sorpreso dal fatto che anche io faccio parte
del soprannaturale.» Commentò Matthew in tono fin troppo
tranquillo.
Sospirai. «Non credo che abbiamo tempo per questo. È una
bella novità, questo sì, ma siamo già in
ritardo.»
Lui fece un cenno d’assenso e si appoggiò con un gomito
allo schienale del mio sedile. «Vero.»
Il resto del viaggio fu solo silenzio, interrotto ad intervalli
regolari da Sean che dava indicazioni con voce ferma e neutra, senza
tradire la minima emozione. Arrivai a chiedermi se ogni tanto provasse
qualcosa di diverso dall’irritazione.
Ci stavamo allontanando dalla città, puntavamo a nord, verso la
parte industriale di Seattle, dove c’erano fabbriche, magazzini,
edifici vecchi e anonimi. In effetti, dovevo ammettere che sembrava un
buon posto per mettere su una base segreta per un manipolo di
cacciatori di licantropi.
Sean mi disse, con un’inflessione dura nella voce, di
parcheggiare l’auto dietro un deposito dismesso. Non avevo idea
di cosa avesse in mente, ma feci come voleva: sembrava sicuro di
sé e molto convinto di quello che faceva. Scendemmo tutti e tre
dall’auto per saggiare il territorio. Matthew mi affiancò
mentre Sean si guardava intorno con aria concentrata, lo sguardo che si
spostava rapidamente da una parte all’altra.
«E adesso? Cioè… qual è la prossima parte
del piano?» Domandai osservandolo.
Trasse un respiro profondo. «Non lo so. Quando ho elaborato il
piano mi sono fermato qui.»
“Scarlett potrebbe già essere morta e non abbiamo un
minimo di strategia?”, pensai stringendo le labbra per non dirlo
ad alta voce. Mi costrinsi ad essere razionale e a soffocare la
sensazione di paura che mi stava nascendo dentro. «Okay. Quindi
ci serve un nuovo piano.»
Sean raddrizzò la schiena. «Mi servono cinque minuti per
pensarci.»
«Non credo che abbiamo cinque minuti…»
Mormorò Matthew esitante dando voce anche ai miei pensieri.
Gli occhi verde-grigio di Sean lo fulminarono con un’occhiataccia
che sembrava di ghiaccio tanto era dura. «Preferisci andare allo
sbaraglio? Se sì, va’ pure.»
Matthew chinò la testa come un bambino di fronte ai rimproveri
di un insegnante. Borbottò qualcosa che non riuscii a sentire,
ma che sembrò soddisfare Sean, che distolse lo sguardo e
cominciò a camminare lentamente davanti all’auto. Mi
lasciai sfuggire un sospiro reso tremante dalla frustrazione e mi
passai una mano tra i capelli.
Era snervante starsene lì senza fare nulla sapendo che Scarlett
era in pericolo. C’erano buone possibilità che fosse
ferita, ma per quel che ne sapevo poteva essere già morta. Non
la conoscevo bene, non avevo motivo di essere tanto in ansia per lei,
eppure mi sentivo come se fosse stato un mio dovere proteggerla, o
almeno riportarla a casa.
Sean continuava a misurare il terreno con passi lunghi e lenti, lo
sguardo perso nel vuoto, le mani nelle tasche della giacca. Si prese
ancora un paio di minuti durante i quei avrei voluto scuoterlo, dirgli
di sbrigarsi.
Alla fine si fermò e si voltò verso di noi. «D’accordo, ho qualcosa.»
Il quartier generale dei cacciatori -altra parola del gergo tecnico di
Sean- era una costruzione bassa ed anonima, con le pareti di cemento
grigio smorto imbrattate di graffiti e macchie di umidità.
L’ingresso principale era costituito da due porte di metallo,
come quelle che si vedono in qualche scuola, che una volta erano state
dipinte di rosso, ma che adesso erano scrostate e arrugginite. Davanti
all’edificio c’era un piccolo parcheggio che si immetteva
direttamente su una strada secondaria. Sembrava un posto anonimo, quasi
abbandonato.
«Davvero sono qui?» Sussurrai a Sean, in piedi al mio fianco dietro il muro di un vecchio magazzino.
Com’era nel suo solito, non mi guardò quando rispose:
«Sì. Li ho tenuti d’occhio per un po’ e so che
sono qui. E, a meno che non abbiano cambiato programma, oggi hanno una
riunione che ci darà la possibilità di coglierli di
sorpresa.»
Per una volta il fatto che fosse ben informato mi fece sentire un
po’ più rassicurato. Un piano, in fondo, c’era e
anche se non mi sembrava poi così geniale o collaudato, almeno
non ce ne saremmo stati con le mani in mano.
Sean prese il telefono dalla tasca interna della giacca e compose
velocemente un numero prima di portarselo all’orecchio. Attese un
paio di secondi in silenzio. «Noi siamo pronti, tu? Bene. Allora
noi andiamo.»
Rimise il cellulare al suo posto e si voltò verso di me.
Ricambiai l’occhiata sentendo i livelli d’ansia aumentare.
Sean mi fece un cenno che stava a significare che dovevamo andare, che
stavo per cacciarmi in un guaio enorme, che potevo non uscirne vivo, ma
che dovevo farlo.
Scivolammo silenziosamente fuori dal nostro nascondiglio e ci
accostammo al muro dell’edificio. Stando a quello che aveva detto
Sean, la stanza dove si sarebbe tenuta la riunione dei cacciatori era
dall’atra parte rispetto all’entrata, quindi avremmo avuto
un po’ di vantaggio.
Arrivammo di fianco alla porta e io mi sentii il cuore in gola.
Ricacciai indietro la paura e mi costrinsi a rimanere calmo,
controllato. Scarlett aveva bisogno di me adesso, non potevo mostrarmi
debole.
Sean socchiuse appena la porta e si affacciò per controllare che
non ci fosse nessuno. Dopo qualche secondo si voltò verso di me
e mi fece un cenno d’assenso. «Via libera.»
Una parte di me considerò quel linguaggio da missione militare
un po’ esagerato, ma non commentai: mi limitai ad annuire non
sapendo se la mia voce sarebbe stata ferma o no. Lui mi studiò
per un attimo con quei suoi occhi verde-grigio prima di infilarsi
dentro. Lo seguii pensando che ormai era troppo tardi per tornare
indietro.
Ci ritrovammo in un corridoio poco illuminato su cui si aprivano
diverse porte ad intervalli regolari. Sembrava completamente vuoto. Il
silenzio era quasi assordante. L’unico rumore erano i nostri
respiri.
«Verrò con te adesso: casomai dovessimo incontrare
qualcuno è meglio se almeno uno di noi sa come
difendersi.» Mormorò Sean.
Stavo per chiedergli cosa intendesse visto che non sembrava avere armi
con sé, ma mi rimangiai la domanda quando fece allungare gli
artigli, più affilati e grossi di quelli di Scarlett. Spalancai
gli occhi vedendoli: quel ragazzo era imprevedibile, non sarei mai
riuscito a stargli dietro.
Cominciammo a camminare fianco a fianco cercando di non fare rumore. I
passi di Sean erano sorprendentemente silenziosi, come quelli di un
felino. In effetti, un po’ assomigliava ad un leone con quei
capelli biondi, gli occhi fiammeggianti di un verde tendente al grigio,
il corpo snello e slanciato.
«Che intendi con “per adesso”? Hai intenzione di
andartene?» Chiesi a bassa voce.
«Tu e lei dovete uscire il prima possibile e per farlo vi
servirà un diversivo.» Spiegò lui in un sussurro.
«Ti aiuterò a trovarla, poi starà a te portarla
fuori mentre io li distraggo.»
«È pericoloso. Insomma, loro sono cacciatori di
licantropi: il loro lavoro è cacciare i lupi mannari e sono
piuttosto sicuro che questo includa anche l’ucciderli. Potresti
morire.» Replicai sforzandomi di mantenere il tono basso.
«O potrebbero morire loro.» Rispose senza scomporsi
minimamente.
Dovetti ammettere che aveva ragione: sembrava, ed era, molto sicuro di
sé oltre che incredibilmente preparato a livello di strategia.
Chiunque riuscisse a creare un piano in due minuti doveva essere molto
intuitivo e calcolatore. Poteva cavarsela benissimo.
«Immagino tu sappia dove la tengono… giusto?»
Domandai lanciandogli un’occhiata di sottecchi.
«Più o meno. Non ho mai avuto una piantina
dell’edificio quindi non ne ho una visione completa. Vado ad
istinto. E seguo il suo odore.» Replicò mentre i suoi
occhi guizzavano da una parte all’altra del corridoio.
«È più forte se c’è una ferita aperta.
Sai, per via del sangue…» La sua voce si fermò di
colpo e lui mi osservò per un secondo, come per valutare la mia
reazione.
Evitai il suo sguardo indagatore e trassi un respiro profondo.
«Quindi è ferita.»
«Non conosco bene il suo odore, mi sono dovuto accontentare di
tracce deboli e non sempre precise. Ma sento il sangue ed è
probabile che sia suo.» Spiegò in tono stranamente
accondiscendente.
Annuii continuando a non guardarlo e lasciai cadere la conversazione.
Camminammo attraversando corridoi poco illuminati e deserti.
Sapere che Scarlett era ferita mi metteva addosso un’ansia strana
che andava a toccare parti nascoste di me. La conoscevo solo da pochi
mesi, ma mi sembrava che salvarla, in quel momento, fosse la mia
priorità assoluta: poco importava se per le prime settimane dopo
il nostro primo incontro ci eravamo dati contro a vicenda di continuo,
adesso avevo l’impressione che lei fosse diventata… importante.
«Okay, dovrebbe essere qui vicino…» Mormorò
Sean più a se stesso che a me.
Si fermò di colpo e si voltò verso un corridoio che si
apriva alla mia destra. Il fondo era troppo buio per capire cosa ci
fosse, ma sembrava vuoto come gli altri. L’unica cosa che si
riusciva ad intravedere, sulla parete di sinistra, erano spesse sbarre
scure, come quelle di una prigione…
«La tengono in gabbia?» Chiesi incredulo.
Sean si lasciò sfuggire un sorrisetto amaro. «In fondo,
hanno paura di noi. Dicono di essere gli eroi che libereranno il mondo
dalla minaccia dei licantropi, ma sono i primi a temerci.»
Ignorai il suo discorso filosofico e continuai a guardare con
insistenza le ombre sulle pareti del corridoio di fronte a noi.
«Adesso che succede?»
«Tu vai a prenderla e la porti fuori, io creerò un
po’ di confusione.» Rispose mentre un ghigno divertito gli
si dipingeva sulle labbra.
Annuii e mi mordicchiai il labbro. «Bene.»
Inarcò un sopracciglio studiandomi. «Mmh. Andiamo.»
Dividerci mi sembrava nello stesso tempo una pessima idea e un grande
sollievo: non mi piaceva ammetterlo, ma lui riusciva a mettermi in
soggezione senza neanche guardarmi. Dava l’idea di essere ad un
livello superiore, di avere il controllo su tutto perché lo vede
da una posizione sopraelevata. E questo mi metteva addosso uno strano
nervosismo, come se avessi dovuto dimostrare di essere alla sua
altezza.
Rimasi ad osservarlo per un attimo mentre proseguiva per il corridoio
principale con passo sicuro e silenzioso, quasi fosse stato solo
un’ombra. Si manteneva vicino al muro e teneva le spalle chine,
pronto per passare all’azione vera e propria. Mi imposi di
distogliere lo sguardo e imboccai il corridoio alla mia destra.
Mentre passavo accanto alle celle sentivo il cuore accelerare i
battiti: come si poteva arrivare ad essere tanto crudeli con qualcuno?
Loro cacciavano i licantropi perché li ritenevano una minaccia,
ma questo non voleva dire che erano autorizzati a non avere un minimo
di pietà.
Tutte le prigioni erano vuote, sia quelle sulla sinistra che quelle
sulla destra. Cominciavo a dubitare che Scarlett fosse
lì… Insomma, magari avevano altre celle, o forse era
semplicemente troppo tardi. Mi bloccai di colpo e trattenni
istintivamente il fiato. Poteva essere lei?
Trassi un respiro profondo cercando di prepararmi mentalmente a
qualunque cosa mi si potesse parare davanti, e mi voltai verso la
prigione alla mia sinistra. E lei era lì. Sembrava morta: era
sdraiata su un fianco, aveva gli occhi chiusi, la pelle incredibilmente
pallida, i capelli sparsi intorno alla testa, le gambe strette contro
il petto come a volersi proteggere. Non riuscivo a vedere
granché con tutto quel buio, ma il solo pensiero che qualcuno
potesse averle fatto male mi provocò una strana sensazione di
calore all’altezza del petto. Mi avvicinai alla porta della cella
mentre il mio respiro diventata più veloce, spezzato. Sembrava
quasi addormentata, eppure avevo la netta sensazione che non fosse
così.
«Scar…» Il suo soprannome mi sfuggì dalle labbra senza che riuscissi a fermarlo.
Faceva male vederla così, debole e molto probabilmente
sofferente. Non riuscii a reggere oltre, così distolsi lo
sguardo mordendomi il labbro. Allungai una mano strinsi le dita attorno
ad una delle sbarre della porta. Dovevo tirarla fuori di lì.
«Adam?» Fu un sussurro così lieve che credetti di
essermelo immaginato.
Mi voltai di scatto verso la sagoma scura di Scarlett e mi accorsi che aveva sollevato la testa.
«Scarlett.» Non riuscii ad aggiungere altro.
La sua risposta fu una risatina soffocata che assomigliava ad un colpo
di tosse. «Sto delirando…»
Non riuscii a staccare gli occhi da lei. «No. Sono davvero
qui.»
«Perché?» Chiese in un bisbiglio roco.
«Potrebbero ucciderti.»
«Ti tirerò fuori di qui.» Dichiarai ignorando volutamente le sue ultime parole.
Quando provai ad aprire la porta, però, realizzai qualcosa a cui
avrei dovuto pensare tempo prima: era chiusa a chiave. Mi diedi
dell’idiota da solo mentre cercavo nelle tasche dei jeans
qualcosa che potesse tornarmi utile. Com’era prevedibile, non
trovai niente.
«Scarlett, senti, ho bisogno che tu mi aiuti.» Dissi
tornando a guardarla. «La porta è chiusa a chiave, mi
serve qualcosa per aprirla.»
Rimase in silenzio per un po’, tanto che arrivai a credere che
fosse svenuta. Poi disse: «Ho una forcina.»
Tornai a respirare di colpo: non mi ero accorto di star trattenendo il
fiato. «Davvero? Beh, è un’ottima cosa.»
Da un punto imprecisato dell’edificio giunse l’eco di un
ringhio furioso e selvaggio. Avrebbe dovuto spaventarmi, invece mi fece
sperare che Sean stesse avendo la meglio. Era un pensiero un po’
azzardato considerando che era da solo contro un gruppo di cacciatori,
ma era sembrato così sicuro di sé…
«Okay, Scar, dammi la forcina.» Mormorai.
Lei si portò una mano tra i capelli e ne sfilò qualcosa
di piccolo e sottile. Provò a mettersi a sedere, ma ricadde
giù con un gemito strozzato. Sentii una stretta al cuore e
provai l’impulso di stringerla tra le braccia per rassicurarla,
per dirle che sarebbe andato tutto bene. Sbuffò piano e fece
scivolare la forcina sul pavimento fino alla porta. Le sbarre erano
abbastanza distanziate da permettermi di infilarci una mano e
prenderla.
Quando me la ritrovai tra le dita, però, sorse un altro
problema: come si scassina una porta? Nei film lo facevano sembrare
facile, un gioco da ragazzi, ma qualcosa mi diceva che nella
realtà sarebbe stato un po’ più complicato. Dopo
vari tentativi, accompagnati dalle mie imprecazioni soffocate e dai
ringhi di Sean in lontananza, sentii lo scatto della serratura e vidi
la porta aprirsi sotto il mio sguardo incredulo. Mi concessi solo un
secondo per riprendere fiato prima di infilarmi nella cella e
inginocchiarmi al fianco di Scarlett. Tremava tutta e, quando la
toccai, mi stupii di quanto fosse fredda.
«D’accordo Scar, adesso usciamo di qui, va bene?»
Sussurrai cercando, nello stesso tempo, di capire quanto grave fosse la
situazione.
«Non dovresti essere qui.» Bisbigliò guardandomi da
dietro i capelli che le erano ricaduti sugli occhi.
«Neanche tu se è per questo.» Borbottai
distrattamente.
Feci per passarle un braccio intorno alla vita per aiutarla ad alzarsi,
ma lei sussultò e si strinse contro il muro. Rimasi immobile,
incredulo e spaventato, mio malgrado: che diavolo le avevano fatto?
«Io… Non credo sia una buon’idea.»
Spiegò con voce tremante.
Seguendo la direzione di una sua occhiata quasi inconsapevole, posai lo
sguardo sulla sua mano sinistra, stretta sul fianco. E il mio cuore
perse un battito: c’era del sangue, tanto sangue, sulle sue dita,
sui suoi vestiti, su di lei. Ancora una volta non riuscii a dire niente
se non il suo soprannome. «Scar…»
“Concentrati”, mi ammonì una vocina nella mia mente.
Avevo poco tempo per salvarla, se avessi indugiato ancora sarebbe
potuta morire, forse proprio sotto i miei occhi. Dovevo prendere in
mano la situazione.
«Lo so che fa male Scar, ma adesso dobbiamo andarcene.
Subito.» Dissi cercando di dare alla mia voce un tono deciso.
Lei strinse le labbra e annuì. «Okay.»
Fece forza su un braccio e riuscì a tirarsi su a sedere. Il suo
viso fu finalmente all’altezza del mio e questo non fece altro
che aumentare il disgusto che già provavo verso quei dannati
cacciatori: era pallida da far paura, con delle ombre scure sotto gli
occhi, e l’espressione tremendamente impaurita.
Deglutii a vuoto sentendo un sapore amaro in bocca e cercai di
schiarirmi la mente. Mi sporsi verso di lei e le passai un braccio
intorno alla vita cercando di non toccare la ferita. Tirarla su fu un
po’ più complicato e nonostante tutta la buona
volontà che ci misi, le sue labbra si incresparono comunque in
una smorfia di malcelato dolore. Appena fummo in piedi, lei si
appoggiò completamente a me, come se le gambe non la reggessero
già più. E probabilmente era così visto tutto il
sangue che aveva perso.
La strinsi contro di me per darle più sostegno e le sussurrai un
incoraggiamento. Mi rispose con un grazie appena udibile. Uscimmo dalla
cella non senza una certa difficoltà e lei tirò un
sospiro di sollievo. Un altro ringhio squarciò il silenzio
facendo sussultare entrambi: Sean sembrava essere parecchio arrabbiato.
Ammesso che fosse lui.
«Sai se ci sono altri lupi?» Le chiesi a bassa voce, come
se un tono più alto avesse potuto spaventarla.
Scosse piano la testa. «Non credo. Anche se non ho visto
molto.»
Annuii senza aggiungere altro: mi rendevo conto che parlare le costava
fatica e non volevo farle sprecare fiato. Ci sarebbe stato tempo dopo
per i chiarimenti. Il corridoio principale si avvicinava pian piano,
passo dopo passo. Mi sembrava che si stessimo muovendo con una lentezza
esasperante eppure sapevo di non poterle mettere fretta, non ce
l’avrebbe fatta.
Un ringhio più forte dei precedenti mi fece trasalire: sembrava
vicino, troppo vicino. Perché se c’era Sean c’erano
anche i cacciatori.
Stretta contro di me, Scarlett fu scossa da un tremito. Sentii le sue
dita stringersi sul mio braccio come in cerca di un appiglio.
«Manca poco.» Sussurrai pur sapendo che non era la proprio
la verità.
Annuì piano stringendo le labbra fino a ridurle ad una linea
sottile di tensione e dolore. Intanto eravamo sbucati nel corridoio
principale e riuscii ad intravedere le porte d’ingresso in mezzo
a tutto quel buio. Scarlett sembrò rincuorata quanto me da
quella vista. La sentii raddrizzarsi un po’ facendomi riconoscere
la sua solita testardaggine.
Mi ritrovai a ringraziare il fatto che fosse così minuta:
rendeva più facile trasportarla visto che non sembrava
assolutamente in grado di camminare. All’improvviso sentii un
rumore come di legno che si spezza, uno schianto secco che mi fece
gelare il sangue nelle vene. Avevo sopravvalutato Sean, lo sapevo, come
potevo anche solo pensare che fosse abbastanza forte da tenere testa ad
un intero gruppo di cacciatori?
La nostra unica speranza era quella di riuscire a raggiungere la porta
prima ce ci raggiungessero. Accelerai il passo trascinandola con me
cercando, nello stesso tempo, di non farle male. Mancava poco
all’uscita, potevamo farcela. Magari Sean era ancora vivo e ci
stava coprendo le spalle.
Come a confermare la mia speranza, un ringhio basso e gutturale giunse
da un punto imprecisato dietro di noi. Inconsapevolmente, tirai un
sospiro di sollievo: forse avevamo una possibilità. Finalmente
raggiungemmo la porta. Quando la aprii, la luce costrinse Scarlett a
nascondere il viso nella mia spalla: chissà quanto era rimasta
immersa in quell’oscurità umida ed inquietante. Dovetti
socchiudere gli occhi anch’io, ma in fondo ero più che
felice di tornare all’aperto.
Come da programma, la mia macchina era subito davanti
all’ingresso dell’edificio, con Matthew al volante. Lo vidi
illuminarsi di sollievo quando ci vide uscire. Pochi passi dopo, aprii
la portiera dell’auto e aiutai Scarlett a sedersi sui sedili
posteriori. Scivolò sdraiata su un fianco e si rannicchiò
su se stessa. Quel gesto dettato dalla paura e dalla sofferenza mi
provocò l’ennesima stretta al cuore.
«Ce l’avete fatta!» Esclamò Matthew
sorridendo.
Mi sporsi dentro l’abitacolo appoggiandomi con una mano allo
schienale di un sedile. «Sì, ce l’abbiamo
fatta.»
Lui guardò qualcosa dietro di me prima di riportare lo sguardo sul mio viso. «E Sean?»
Trassi un respiro profondo. «Sinceramente? Non lo so. Credo sia
ancora dentro.»
Lo sguardo di Matthew si incupì per un attimo, poi lui
annuì. Mi morsi il labbro sentendomi in colpa: Sean aveva deciso
di rischiare la sua vita per permettere a me e a Scarlett si metterci
in salvo, se fosse morto nel farlo non me lo sarei mai perdonato.
Scarlett fece scivolare una mano su quella che tenevo lungo il fianco e
mi strinse piano le dita, come a volermi rassicurare. Abbassai lo
sguardo su di lei e ricambiai la stretta accarezzandole le nocche.
«Torno dentro.» Decisi all’improvviso raddrizzandomi.
«Cosa?» La voce di Scarlett fu appena udibile, ma la sentii
aggrapparsi a me con un po’ più forza.
«Adam, non è una buon’idea.» Intervenne Matthew.
I suoi occhi incontrarono i miei e mi comunicò tramite lo
sguardo quello che non disse ad alta voce: “potrebbero
ucciderti”.
«Lo so.» Mormorai. Ma non posso lasciarlo lì.
Strinsi un po’ di più le dita di Scarlett prima di sfilare
delicatamente la mano dalla sua presa. Lei protestò con poca
convinzione, troppo debole per opporre veramente resistenza. Non mi
andava di lasciarla, ma sapere Sean da solo contro tutti quei
cacciatori… No, non potevo starmene lì ad aspettare.
«Se… se dovessero esserci complicazioni, portala via. Per
favore.» Aggiunsi guardando Matthew.
«Stai scherzando, vero? Non vi lascio qui!» Replicò
lui con un po’ troppa enfasi.
«Ti prego, Matthew.» Dovevo fargli venire i sensi di colpa
per convincerlo? Forse. «Mi hai mentito per anni, in un certo
senso sei in debito con me.»
Corrugò la fronte e distolse lo sguardo: si vedeva che non gli
piaceva. «Okay.» Cedette infine. «Cerca solo di
tornare tutto intero. E di portare anche lui.»
Annuii sperando di sembrare convinto, mi voltai e rientrai
nell’edificio. Il buio mi avvolse esattamente come la prima
volta, ma adesso sapevo dove andare. Più o meno.
Cominciai a camminare nel corridoio principale cercando di fare
più attenzione possibile per evitare di farmi cogliere di
sorpresa. Se fosse successo non avrei avuto la minima
possibilità di cavarmela, lo sapevo. Ero arrivato
all’altezza delle celle quando sentii un rumore improvviso e una
sagoma spuntò fuori come per magia da dietro un angolo.
Mi irrigidii istintivamente trattenendo il fiato. Ripensandoci, non era
stata una buon’idea andare da solo. Probabilmente persi troppo
tempo a riflettere, perché lo sconosciuto ebbe tutto il tempo di
raggiungermi. Era Sean, i capelli arruffati e un sorriso da ragazzino
ad incurvargli le labbra, mi si avvicinò con la sua solita
andatura disinvolta e silenziosa. «Adam.» Disse, gli occhi
accesi da un bagliore dorato.
«Sei vivo.» Commentai senza riuscire a nascondere la
sorpresa nella voce.
Il suo sorriso si fece più ampio. «Avevi dubbi?» Poi
affilò lo sguardo socchiudendo le palpebre.
«Dov’è lei?»
«Al sicuro, in auto.» Risposi.
«E tu perché sei qui?» Domandò inarcando un
sopracciglio.
Esitai senza sapere cosa dire: ce l’avevo un motivo, una buona
ragione per cui tornare a cercarlo? «Uhm… Ecco, non ti
vedevamo ritornare quindi…»
Scrollò le spalle. «Ho solo voluto assicurarmi che nessuno
ci desse fastidio.»
Mi passai una mano tra i capelli senza riuscire a non considerare
bizzarra la tranquillità con cui ne parlava. Poi aggrottai la
fronte osservandolo meglio. «Quello è sangue?»
Chiesi indicando la sua maglietta con un cenno.
Abbassò lo sguardo per un attimo e si strinse nelle spalle.
«Sì, ma non è mio.»
«Okay…» Mormorai sperando che non si accorgesse di
quanto strana mi sembrasse la sua noncuranza.
«Andiamo: l’odore del sangue è molto forte, vuol
dire che è ferita in modo piuttosto grave.» Aggiunse con
voce improvvisamente dura e seria.
Senza aspettare una risposta, cominciò a camminare con aria
decisa verso la porta. Lo seguii dopo un attimo di esitazione. Le sue
falcate erano lunghe e veloci, tanto che ci ritrovammo fuori in meno di
un minuto: evidentemente era sicuro di aver messo fuori gioco tutte le
possibili minacce. Quando raggiungemmo l’auto, vidi Matthew
tirare un sospiro di sollievo. Sean si sedette accanto a lui e chiuse
la portiera con un tonfo. Io feci il giro della macchina e, prima di
sedermi, presi Scarlett tra le braccia. Si rannicchiò contro di
me piegando le ginocchia e appoggiando la testa sulla mia spalla. Se
possibile, mi sembrava ancora più pallida.
«Come sta?» Chiese cauto Sean osservandola dallo
specchietto retrovisore.
Abbassai lo sguardo sulla ragazza stretta a me. «Credo abbia
perso molto sangue, ma è sveglia.»
Lui aggrottò appena la fronte. «Mmh.»
Matthew mise in moto e partì imboccando subito la strada appena
fuori dal parcheggio. «Beh, di solito è un buon
segno.»
«Adam?» Mi richiamò debolmente Scarlett, la voce
ridotta ad un sussurro.
«Dimmi.» Mormorai scostandole una ciocca di capelli dagli
occhi.
«Non dovevi venire, è pericoloso.» Bisbigliò.
«Però… grazie.»
Sentii un sorriso fiacco farsi strada sulle mie labbra.
«Figurati, non potevo lasciarti qui.»
Nascose il viso nell’incavo del mio collo. «Forse avresti
dovuto però…»
Non risposi, mi limitai a stringerla un po’ di più
cercando di non farle male. Dovetti ammettere che aveva ragione: che
motivo avevo di rischiare la vita per salvarla? La conoscevo da mesi,
ma non era abbastanza… C’erano state tante cose che ci
avevano diviso: Elisabeth, la sua licantropia, la sua testardaggine, le
mie insistenze… Ma anche altre che ci avevano in qualche modo
unito, come quella notte di luna piena passata insieme.
«Non puoi andare più veloce?» Chiese Sean lanciando
un’occhiata allo specchietto retrovisore.
«Sì, potrei, ma non credo sia una buona idea farci beccare
dalla polizia.» Replicò Matthew.
Sean scosse la testa e tornò a guardare fuori dal finestrino con
aria contrariata, quasi imbronciata.
L'altro si schiarì la gola. «Adesso dove andiamo? Insomma,
ci serve un posto sicuro e tranquillo per… per curarla.»
Sean si rabbuiò per un attimo. «Mmh… Non
saprei… Casa tua è troppo vicina a quella di Adam,
sarebbe da idioti andare lì.»
«E poi Theo non ama gli ospiti.» Commentò Matthew
annuendo.
Sean si voltò lentamente verso di lui, le sopracciglia inarcate
e lo sguardo diffidente. «Theo?»
«È il suo gatto.» Spiegai aiutando Scarlett a
sistemarsi meglio contro di me.
Il licantropo sbuffò e scosse la testa. «È una cosa
seria questa.» «Anche il mio gatto è una cosa
seria.» Protestò Matthew.
Sospirai. «Io ho una casa nel bosco. In realtà è di
mia madre, ma visto che non la usa nessuno…»
Attraverso lo specchietto retrovisore, vidi gli occhi di Sean
accendersi di interesse. «Perfetto.»
«Dov’è?» Chiese Matthew.
Gli spiegai come arrivare al cottage nella foresta mentre lui annuiva
con espressione concentrata. Anche Sean ascoltava con attenzione, gli
occhi socchiusi, le labbra strette.
Scarlett, ancora stretta contro di me, tremava piano. Forse era dovuto
alla perdita di sangue, o alla paura. O magari ad entrambe. Dopo un
sussulto particolarmente violento, decisi di usare la giacca che avevo
lasciato in auto quella mattina per coprirla: gliela misi intorno alle
spalle prima di farla stringere di nuovo contro il mio petto.
Sussurrò un “grazie” con le labbra che mi sfioravano
il collo.
Quando la sentii rilassarsi di colpo, un po’ mi preoccupai. E
avevo ragione di farlo: era diventata ancora più pallida e aveva
gli occhi chiusi. La sua pelle era gelata.
«Ha perso i sensi.» Mi sentii dire mentre la paura tornava,
gelida e infida come prima.
Matthew imprecò tra i denti e lo vidi stringere la presa sul
volante. «Non è un buon segno. Per niente.»
«No, ma davvero?» Borbottò Sean alzando gli occhi al
cielo. «Te l’avevo detto che dovevi accelerare.»
«Meglio tardi che mai.» Commentò Matthew prima di
premere sull’acceleratore. Tutti e quattro fummo sbalzati in
avanti da quell’improvviso cambio di velocità. Matthew si
concentrò sulla strada mentre Sean si appoggiava allo schienale
del sedile con aria vagamente infastidita.
«Scarlett, ehi… Scar, andiamo, svegliati.» Sussurrai
accarezzandole piano la guancia.
Non diede segno di avermi sentito, rimase perfettamente immobile tra le
mie braccia. Il mio respiro si fece spezzato e sentii la gola chiudersi
nella morsa del panico. Strinsi le labbra cercando di recuperare il
controllo: non potevo cedere proprio adesso, dovevo essere forte e
calmo, per lei e per me.
Matthew superava diverse auto alla volta guadagnandosi gestacci e
insulti gridati dai finestrini abbassati che non lo sfioravano nemmeno.
Sean sembrava impaziente e teso: aveva le spalle rigide, la fronte
aggrottata, lo sguardo fisso sulla strada.
Il suo atteggiamento così lunatico un po’ mi insospettiva,
anche perché non ero ancora riuscito a trovare un motivo per cui
avrebbe dovuto salvare Scarlett: era troppo giovane per essere suo
padre e non le assomigliava per niente se tralasciamo il bagliore
dorato degli occhi, in più non sembrava avere assolutamente
nessun legame con lei.
C’era sempre la possibilità che Scarlett mi avesse
nascosto di avere un qualunque rapporto con Sean per non aumentare il
rischio di essere scoperti. Ma restavano tante altre eventualità
da considerare. E se si fossero conosciuti anni fa, prima che lei
venisse morsa? Non sapevo da quanto Scarlett fosse un lupo mannaro,
forse erano pochi mesi… No, doveva essere da un bel po’:
aveva detto che aveva affrontato molte notti di plenilunio quindi
doveva essere passato parecchio tempo.
«È questa?» Chiese Matthew risvegliandomi dalle mie
congetture.
Sbattei le palpebre e sollevai lo sguardo: il cottage nel bosco si
ergeva tra il verde degli alberi, tranquillo e silenzioso come sempre.
«Sì, è… è questo.»
Sean annuì socchiudendo gli occhi. «Mi sembra
perfetto.»
«C’è un posto dove possiamo portare Scarlett?
Sarebbe preferibile un letto o qualcosa del genere.» Aggiunse
Matthew mentre rallentava.
«Al piano di sopra ci sono due camere da letto.» Risposi
stringendo inconsapevolmente la ragazza tra le mie braccia.
Matthew annuì con aria grave. «Bene. Portala
lì.»
Spalancai gli occhi, sorpreso: come pensava che avrei fatto? Dovevo
portare Scarlett in braccio? Era minuta e magra, questo sì, ma
non avevo mai fatto niente del genere.
«Okay.» Mormorai sperando di sembrare convinto.
Matthew fermò l’auto davanti al portico e spense il
motore. Dopo aver fatto un respiro profondo, aprii la portiera, feci
scivolare Scarlett sui sedili, scesi di macchina e la ripresi
passandole un braccio sotto le ginocchia e uno dietro la schiena. La
testa le ricadde inerme contro il mio petto, sulle palpebre chiare
spiccavano vene sottili di un azzurro tenue, le labbra rosee e sottili
erano leggermente schiuse: sembrava quasi un angelo, cosa che strideva
con il suo essere un licantropo.
Di solito i lupi mannari erano considerati creature demoniache mandate
dal Diavolo per uccidere persone innocenti, ma lei… lei era
tutto il contrario.
Cominciai a camminare verso le scale del portico. «Le chiavi sono
nella tasca della giacca.»
Sentii uno sbuffo scocciato e un fruscio. Il tempo di arrivare davanti
alla porta e Sean mi era accanto. Mi lanciò un’occhiata di
sottecchi prima di inserire le chiavi nella serratura.
Appena la porta si aprì, mi infilai dentro e attraversai il
salotto fino alle scale di legno che portavano al piano di sopra.
Raggiunsi la prima camera sentendo una strana calma prendere il posto
dell’ansia. In qualche modo riuscii ad aprire la porta senza
smuovere troppo Scarlett.
La adagiai delicatamente sul letto facendole appoggiare la testa sul
cuscino. Non aveva ancora aperto gli occhi. Feci un passo indietro
cercando di riprendere fiato. Era salva, l’importante era questo.
Non sapevo se era in pericolo di vita o no, ma almeno non era
più in mano ai cacciatori.
Qualcuno apparve al mio fianco facendomi sobbalzare. «Bene.
Adesso fuori, tutti e due.» Ordinò Matthew con aria
autoritaria.
«Cosa?» Mormorai guardandolo: di solito era sempre
trasandato e con la testa tra le nuvole; in quel momento, invece,
sembrava incredibilmente controllato e concentrato.
«Ho detto fuori.» Ripeté lui senza scomporsi
minimante e appoggiando una borsa di pelle marrone vecchia e consunta
sul bordo del letto. Non mi ero accorto che l’avesse con
sé.
Lanciai un’ultima occhiata a Scarlett prima di voltarmi ed
avvicinarmi alla porta. Sean se ne stava in piedi vicino al muro, le
braccia incrociate al petto, l’espressione cupa. Mi seguì
fuori dalla stanza richiudendosi la porta alle spalle.
In quel momento sembrò che tutta l’adrenalina nel mio
corpo fosse sparita così, all’improvviso, lasciandomi
svuotato ed esausto. Appoggiai la schiena al muro e trassi un respiro
profondo. Non mi sembrava vero, niente di quello che era successo nel
giro di quanto, due ore?, mi sembrava vero.
«È in buone mani.» Disse Sean all’improvviso.
Sollevai lo sguardo su di lui, sorpreso. «Che intendi?»
«I Sangue di Lupo hanno un talento innato per le tecniche di
guarigione. Fa parte di loro, lo ereditano attraverso la loro parte
soprannaturale.» Spiegò con voce calma.
Scossi appena la testa tornando a fissare il vuoto. «Non
l’ho mai saputo.»
«Ci sono tante cose che non sai.» Mormorò lui con un
sospiro.
«Com’è possibile che delle persone siano tanto
crudeli da rapire e ferire una ragazza così, a sangue freddo?
Perché sono tanto spaventati da lei, da voi? Non ha
senso…» Le mie parole non avevano un destinatario
particolare, parlavo e basta solo per sfogarmi un po’.
«La violenza non ha mai senso, ma se esiste un motivo
c’è.» Replicò lui, coinciso come sempre.
Mi lasciai sfuggire una smorfia. «No… Non c’è
nessun motivo. La violenza è sbagliata e basta e anche chi la
usa sbaglia. È da codardi accanirsi su chi non può
difendersi. Insomma, avevano davvero paura di Scarlett? Sono dei
pazzi.»
La sua espressione si incupì. «Magari in altre circostanze
ci saresti stato tu al loro posto.»
Mi riscossi di colpo, disgustato alla sola idea di poter far del male a
Scarlett, ma anche solo a qualcuno in generale. «No.
Assolutamente. Odio la violenza gratuita.»
Mi scoccò un’occhiata con quei suoi occhi grigio-verdi
accesi d’oro. «Allora non credo che andremo
d’accordo.»
E se ne andò con il suo solito passo sicuro e silenzioso,
lasciandomi lì, sorpreso, interdetto e solo con l’ansia
che tornava a farsi strada in me.
SPAZIO AUTRICE: Ehi!
Non sono pienamente soddisfatta di questo capitolo, ho l'impressione
che certe cose avrei potuto spiegarle meglio, ma già così
raggiunge quasi le 6000 parole, quindi ho dovuto farei dei tagli.
Detto questo, vi anticipo che nel prossimo capitolo scopriremo come
Scarlett è diventata un licantropo ** E anche qualcosa in
più su Sean. A propostio, che ne pensate di lui? Pensate che
sarà sempre un alleato o che potrebbe rivelarsi un
doppiogiochista? E Matthew?
Forse non dovrei dirlo, ma segretamente io shippo un po' Adam e Sean.
Non so, ci vedo una certa intesa tra di loro, una specie di
connessione. E più avanti vedrete che i toni tra loro due si
accenderanno. Ovviamente, gli Adamett sono LA coppia, ma io sostengo lo
shipping libero.
Spero che il capitolo vi sia piaciuto! Da qui in avanti arriverranno le rivelazioni (e altre domande) **
PS. Il 7 maggio pubblicherò una nuova storia, SIN! (per ora vi
do solo le iniziali, sorry) Sul mio profilo Facebook (il link è
nella bio)
c'è qualche piccolo estratto sia di SIN che dei prossimi
capitoli di UAMP. Se vi va di passare, sapete dove trovarmi :3
A presto!
TimeFlies
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Capitolo 27 *** 27. Scarlett ***
Under a paper moon- capitolo 27
27. Scarlett
È buio, non dovrei essere
fuori a quest’ora. Mamma si arrabbierà di sicuro. Ma ormai
ho dodici anni, sono grande abbastanza per stare fuori da sola.
L’amica di mamma vive in una villa grande e piena di mobili
antichi e dietro c’è un giardino enorme con un sacco di
alberi e di fiori colorati. È bello, e confina con il bosco.
È agosto, fa caldo e questo vuol dire che ci sono le lucciole.
Mamma è seduta sul portico della villa con la sua migliore
amica, Miranda. Stanno bevendo il tè, ne hanno offerto anche a
me, ma non mi piace e poi voglio vedere le lucciole.
Corro sull’erba soffice del giardino, i capelli che mi svolazzano
sulle spalle smossi da una brezza leggera. L’estate a Seattle
è calda ma non afosa, soprattutto per via del vento e della
vicinanza alle montagne. Mi lascio sfuggire una risatina: adoro questo
posto, vorrei viverci.
Arrivo al limite del giardino, lì dove comincia il bosco. E ci
sono le lucciole ad accendere la notte: piccoli puntini luminosi che
fluttuano leggeri nell’aria fresca. Sono così
belle… Sembrano minuscole fate. Mi fermo, non voglio
spaventarle.
Ansimo piano mentre sorrido. Di solito le lucciole si catturano e si
mettono nei barattoli con i tappi bucati per farle respirare, ma a me
piace vederle libere. Mi sembra crudele rinchiuderle.
Riprendo fiato per qualche secondo prima di continuare a camminare. So
che non dovrei andare nel bosco da sola, mamma me l’ha ripetuto
un sacco di volte, ma a me piace tanto e voglio vedere altre lucciole.
Entro nell’abbraccio degli alberi e l’odore di muschio
umido mi avvolge. È così bello il bosco…
silenzioso, tranquillo, sicuro. Chissà perché mamma
è tanto preoccupata. Forse crede che ci siano degli animali
selvatici. Eppure a me piacerebbe vederli… Magari gli scoiattoli
o le lepri. Oppure i cerbiatti.
Qui il vento non si sente, l’aria è ferma. Le lucciole si
vedono di più visto che l’intrico dei rami copre
parzialmente la luna. Giro su me stessa sorridendo: sì, vorrei
decisamente vivere qui. Con mamma. E Beth.
Un rumore come di un rametto che spezza sotto i piedi di qualcuno
interrompe il silenzio ovattato del bosco. Forse sono stata io a farlo.
Mi volto, ma dietro di me non c’è niente.
Il rumore si ripete e io comincio ad aver paura: mi sono fermata, non
posso averlo fatto io. C’è qualcun altro allora? Un
cerbiatto, o forse una volpe.
«C’è qualcuno?» Chiedo e mi sembra di essere
in un film.
Un’ombra scura si muove tra gli alberi davanti a me. È
grossa e alta. Trattengo il fiato. Forse non mi ha visto.
Qualcosa spunta fuori dagli alberi e mi viene incontro. Non faccio
neanche in tempo a muovermi che sento un dolore lancinante esplodermi
nel braccio.
La strana figura si ferma dietro di me e la sento respirare
affannosamente. Stringo la mano sul braccio, appena sopra il gomito, e
lo sento bagnato e appiccicoso. Mi volto lentamente e incontro degli
occhi dorati che mi scrutano; sembra che brillino nel buio della notte.
C’è abbastanza luce perché io riesca a vedere il
viso di chi mi sta davanti: è un ragazzo giovane, con i capelli
arruffati e pieni di foglie, la guancia macchiata di sangue e
l’espressione disperata.
Non riesco a dire nulla, non ne ho il tempo: appena apro bocca lui si
volta e corre via sparendo tra il folto degli alberi. Rimango a
guardare il punto dove è sparito fino a che in dolore non torna
prepotentemente facendomi venire le lacrime agli occhi.
Singhiozzo piano mentre mi sposto per mettere il braccio ferito sotto
la luce della luna che filtra tra i rami. Appena sopra il gomito
c’è una mezzaluna resa scura dal sangue.
Quando la guardo meglio mi rendo conto che è un morso.
Aprii gli occhi di scatto, la gola chiusa da una morsa di paura
repressa e scattai su cercando di riprendere aria. Purtroppo, la mia
mossa non andò a buon fine: la mia fronte si scontrò con
qualcosa di duro che si produsse in un “ahi” quando lo
colpii.
Sobbalzai e indietreggiai anche se solo di poco visto che la mia
schiena incontrò quasi subito una parete liscia e fredda. Il
terrore mi attanagliò quando la sentii: ero ancora in quella
dannata cella. E, a quanto pareva, avevo compagnia.
Eppure c’era qualcosa che non tornava, non ero sdraiata, o meglio
seduta su un pavimento umido, ma su qualcosa di morbido e piacevole al
tatto. E poi c’era molta più luce.
Quando riuscii a mettere a fuoco quello che avevo davanti, ma,
soprattutto, a scostarmi i capelli dagli occhi, mi resi conto di essere
su un letto in una stanza che profumava di legno resa molto luminosa da
una grande finestra alla mia destra che si affacciava su quello che
sembrava un bosco.
Mi voltai lentamente, frastornata e confusa, e sobbalzai di nuovo:
accanto al letto c’era un ragazzo alto e smilzo che mi osservava
con aria impacciata strofinandosi la fronte. Quel gesto mi
ricordò che anche la mia aveva avuto un piccolo incidente,
probabilmente proprio con lui.
Lo sconosciuto indossava dei jeans scoloriti e una vecchia maglietta.
Aveva i capelli castani un po’ troppo lunghi e un accenno di
barba sulla mascella. I suoi occhi marroni sembravano gentili e
sinceri. Non riuscivo ancora a capire come mai fosse lì, con me,
in una stanza che mi sembrava familiare anche se non riuscivo a
ricordare perché.
«Scusa.» Mormorò il ragazzo con un sorrisetto
timido. «Ti stavo controllando la pressione.»
Spalancai gli occhi, ancora più sorpresa: perché avrebbe
dovuto misurarmi la pressione? Lo guardai cercando di capire se stesse
scherzando o se facesse sul serio, e lui ricambiò
l’occhiata senza scomporsi. Trassi un respiro profondo e mi presi
la testa tra le mani. Non avevo assolutamente idea di cosa stesse
succedendo. E il fatto di trovarmi in un letto sconosciuto con addosso
i miei vestiti macchiati del mio sangue non aiutava.
«Ti ricordi cos’è successo?» Chiese il ragazzo
inclinando la testa di lato.
Scossi la testa. «Io… Non lo so… Forse?»
«Sta’ tranquilla, nessuno ti mette fretta. Magari adesso
non ti viene in mente, ma tra un po’ vedrai che ti ricorderai
qualcosa.» Mi rassicurò lui.
Aggrottai la fronte: mi sembrava di essere in uno di quei telefilm dove
qualcuno ha un incidente e perde momentaneamente la memoria. Ma io che
c’entravo con tutto quello? Non avevo nemmeno la patente…
Di fronte al mio silenzio, il ragazzo aggiunse: «Hai sete?»
Solo in quel momento mi resi conto di quanto mi sentissi la gola secca
e la bocca impastata. E avevo anche una fame da lupi, ma mi dissi che
era meglio affrontare un problema per volta. Annuii, cauta, e lui mi
sorrise prima di prendere un bicchiere pieno d’acqua dal comodino
accanto al letto. Non l’avevo notato prima.
Me lo porse. «Ecco qua.»
Lo presi guardandolo con sospetto. «Come faccio a sapere che non
è avvelenato?»
Sembrò sinceramente sorpreso, come non avesse mai preso in
considerazione l’idea di fare una cosa del genere.
«Perché dovrebbe esserlo? Nessuno vuole farti male.»
“Quei tre pazzi sclerati e il loro capo schizzato non mi
sembravano molto d’accordo”, pensai scettica.
«Mmh.»
«Se vuoi la bevo prima io, così sei sicura.» Propose
lui.
La sua espressione volenterosa e la sua offerta placarono i miei dubbi:
era sincero, non avrebbe cercato di uccidermi. Mi portai il bicchiere
alla labbra e prima che me ne rendessi conto avevo finito
l’acqua. Forse avrei dovuto essere un po’ meno impulsiva e
godermela di più.
«Uh… Forse è meglio se te ne prendo ancora un
po’, eh?» Indovinò il ragazzo.
«Oh… Ehm, sì, grazie.» Sussurrai imbarazzata.
Lui mi fece un sorriso gentile e fece per allontanarsi.
«Aspetta.» Lo richiamai.
Si voltò verso di me, in attesa. «Sì?»
Mi infilai una ciocca di capelli dietro l’orecchio e distolsi lo
sguardo. «Non so come ti chiami…» Faticai io stessa
a sentire la mia voce.
«Oh!» Esclamò lui mentre il sorriso gentile tornava
sul suo viso. «Io sono Matthew.»
Annuii piano. «Io sono Scarlett.»
Sembrò quasi divertito. «Lo so.»
Rimasi interdetta a guardarlo mentre usciva lasciando la porta
accostata. Sospirai scuotendo la testa e mi passai una mano tra i
capelli. Non conoscevo nessun Matthew e lui mi sembrava un po’
strambo, ma anche gentile. L’unica cosa che non riuscivo a capire
era come mai si stava improvvisando il mio infermiere personale.
Misi il bicchiere sul comodino, appoggiai la schiena al muro dietro il
letto e raccolsi le ginocchia contro il petto per poi posarci il mento.
Era una situazione assurda, incomprensibile sotto certi punti di vista.
Essendo un licantropo avrei dovuto essere abituata alle stranezze,
invece sembrava che ci fosse ancora qualcosa capace di lasciarmi senza
parole.
La porta si aprì e Matthew apparve con il suo sorriso gentile e
una brocca di vetro colma d’acqua in mano. Balzai subito
sull’attenti vedendola: mi sembrava di non bere da settimane.
Matthew si avvicinò al letto e riempì il bicchiere prima
di posare la brocca sul comodino. Allungai un braccio e pochi secondi
dopo avevo spolverato la mia seconda razione d’acqua. Ne avrei
voluta ancora, ma pensai che fosse meglio fare un po’ di
chiarezza prima.
«Siediti.» Sussurrai indicando il letto: per un qualche
strano motivo, quel ragazzo mi ispirava fiducia.
Matthew sembrò sorpreso per un attimo, ma poi si accomodò
sul bordo del materasso. «Immagino che tu sia un po’
confusa, giusto?»
Annuii. «Un pochino sì.»
Lui sospirò e distolse lo sguardo. «Già. Ricordi
che ti hanno sparato?»
Senza che me ne rendessi conto, la mia mano corse al fianco mentre il
ricordo di un dolore particolarmente forte mi riaffiorava nella mente.
Matthew prese quel gesto con una conferma. «Non preoccuparti.
Della ferita, intendo: l’ho sistemata estraendo il proiettile e
disinfettandola. L'ho anche ricucita per bene. Dopo ho usato un
unguento anestetizzante, sai, per aiutarti con il dolore.»
Spiegò lui guardandomi di sottecchi.
«Oh…» Sembrava che sapesse il fatto suo.
«Grazie.»
Il suo sguardo si fece quasi dolce. «Figurati, Adam e Sean non
hanno fatto tutta quella fatica per poi vederti morire.»
«Adam?» Il suo nome mi sfuggì dalla labbra senza che
riuscissi a fermarlo: e lui che c’entrava adesso? In mezzo a
tutto quel casino spuntava fuori pure lui? Non lo conoscevo molto, ma
sapevo che più che capace di cacciarsi in un guaio del genere
solo per restare fedele alla sua testardaggine.
«Forse dovrei spiegarti tutto dall’inizio.»
Commentò Matthew più per se stesso che per me. Trasse un
respiro profondo e si passò una mano tra i capelli. «Un
paio di giorni fui contattato da una mia vecchia conoscenza, uno che
avevo conosciuto al college. Aveva bisogno di una mano e io accettai di
aiutarlo. Volle incontrarmi subito nonostante fosse mattina presto.
Quando lo rividi mi spiegò cos’era successo e capii di
dover fare qualcosa: mi disse che una lupa di sua conoscenza era stata
catturata dai cacciatori e che aveva bisogno di un aiuto per tirarla
fuori dai guai.»
Alzai una mano. «Aspetta un attimo. Cacciatori?»
«Cacciatori di licantropi.» Confermò. «Ne
parlano molte leggende.»
«Non sono una fan delle leggende…» Borbottai.
«Va’ avanti.»
Incurvò appena le spalle. «Fissammo un incontro, poi lui
sparì. Lo rividi all’ora dell’appuntamento ed era
insieme ad un ragazzo che aveva più o meno la tua età:
alto, capelli castani, occhi azzurri…»
Annuii fissando la trapunta che mi copriva. «Adam.»
«Eh già, proprio lo stesso Adam che abita accanto a me da
anni è coinvolto nel soprannaturale.» Scosse la testa con
un sospiro. «Lui e Sean sono entrati nell’edificio dove ti
tenevano prigioniera e ne sono usciti con te.»
«Che c’entra Adam con tutto questo?» Chiesi tornando a guardarlo.
Mentre pronunciavo quelle parole un ricordo mi invase la mente: le
braccia di Adam intorno a me, la mia testa sul suo petto, la sua voce
morbida e bassa che sussurrava incoraggiamenti, il suo profumo leggero
di carta antica, un “grazie” che mi affiorava alle labbra,
un sorriso sbilenco che incurvava le sue.
«Non lo so, non mi aspettavo che ci fosse anche lui. Te
l’ho detto, per anni l’ho sempre considerato un ragazzo
qualunque. A quanto pare sa più di quanto dimostri.»
Rispose lui con aria lievemente amareggiata.
“E sono stata io a dirgli tutto…”, pensai non
riuscendo a non sentirmi in colpa. Rimasi in silenzio e abbassai lo
sguardo. «Dov’è adesso?»
La mia domanda sembrò sorprenderlo. «Oh…
Ehm… Credo a scuola.»
«Sì, giusto, è ovvio che sia
lì…» Borbottai coprendomi il viso con le mani.
«Tu sai dove sei?» Domandò lui osservandomi.
Mi guardai attorno anche se avevo già un’idea di dove
fossi. «Il cottage nel bosco.»
Annuì, visibilmente rilassato. «Esatto. Ti sei ripresa in
fretta.» Il sorriso gentile di prima gli increspò le
labbra, ma fu sostituito un secondo dopo da un’espressione un
po’ più cupa. «Senti, ti ricordi che ti ho detto
dell’unguento? Ecco, visto che sei un licantropo riesci a
smaltire qualunque sostanza molto in fretta e questo varrà anche
per questo anestetizzante. Posso darti qualcosa per il dolore, ma
dovresti usarlo solo se ne avessi davvero, davvero bisogno. Sai,
rallenta un po’ la cicatrizzazione e sarebbe meglio se la ferita
si chiudesse il prima possibile.»
Mi strinsi le ginocchia al petto. «Okay. Per adesso non fa male, comunque.»
«Bene.» Commentò lui. «Sean ti ha portato dei
vestiti puliti, se ti vuoi cambiare…» E abbassò lo
sguardo sulla maglietta che indossavo, strappata e sporca.
«Oh, sì, decisamente.» Sussurrai imbarazzata
chiedendomi come avesse fatto questo Sean a prendere dei vestiti miei
da casa mia.
«In fondo al corridoio c’è un bagno casomai ti
servisse.» Aggiunse lui alzandosi.
La prospettiva di una doccia non mi era mai sembrata così
invitante. Poi, però, mi ricordai della ferita. Portai la mano
al fianco ferito e sentii qualcosa di leggermente ruvido sotto le dita.
Una benda, che mi cingeva la vita per tenere fermo quello che sembrava
un impacco all’altezza dello squarcio lasciato dal proiettile.
«Non preoccuparti per quella, mmh? Tanto avrei dovuto cambiarle
la fasciatura in ogni caso. La togliamo e vediamo come va, poi ti dai
una sistemata e quando sei a posto vediamo se rimetterla.» Mi
rassicurò Matthew.
«Okay…» Mormorai. «Certo che te ne intendi
di… queste cose.»
Scrollò le spalle. «Mia mamma era una guaritrice di
talento e mi ha passato questo passione. E poi, i Sangue di Lupo non
hanno molte altre possibilità.»
«Sangue di Lupo?» Ripetei sorpresa.
«In noi c’è una parte di lupo, ma non è
abbastanza per definirci veri e propri licantropi.» Lo spiegava
con tranquillità, come se fosse stata una cosa che aveva
ripetuto milioni di volte. «Siamo un po’ i guaritori del
mondo soprannaturale.»
«Oh. Non ne avevo mai sentito parlare.» Ammisi.
Lui aggrottò la fronte. «Di solito ci ignorano
finché non hanno bisogno di noi.» Prima che potessi
rispondere, tornò allegro come prima: «Vado a fare il
tè, ne vuoi?»
Sbattei le palpebre, un po’ confusa da quel cambio
d’argomento così repentino, ma annuii lo stesso.
«Sì, grazie.»
Mi sorrise facendomi un cenno d’intesa e si avvicinò alla
porta. Prima di uscire, però, si voltò verso di me.
«A proposito, Adam dovrebbe tornare subito dopo scuola, casomai
ti interessasse.»
L’attesa fu snervante, nel vero senso della parola. Mi ero fatta
una doccia che aveva contribuito a rilassarmi e a scacciare il senso di
nausea dovuto al sapere che quelli che mi avevano sparato erano
cacciatori di licantropi. Visto che non era casa mia, però, non
mi ero lavata i capelli. Li avevo raccolti in uno chignon morbido che
lasciava libere fin troppe ciocche, ma che almeno mi aiutava a non
pensare che non ero per niente presentabile.
Questo Sean di cui tanto si parlava mi aveva preso un paio di jeans
scuri -quelli che avevo lasciato sulla scrivania per via della
pigrizia-, una maglietta bianca e una vecchia felpa verde. Sapevano di
casa e anche se l’abbinamento non era quello che avrei scelto io,
mi rassicuravano.
Non riuscivo comunque a calmarmi del tutto: il pensiero che di
lì a poco avrei rivisto Adam mi metteva addosso una strana
agitazione, come se fossi stata sul punto di uscire col ragazzo
più figo della scuola. Beh, c’era da dire che Adam era un
ottimo candidato a quel titolo.
Me ne stavo rannicchiata sul divano, posizione da cui potevo tenere
comodamente d’occhio la porta, e lo aspettavo sentendomi un
po’ idiota: insomma, era solo
Adam, niente di speciale. “Già, è solo il ragazzo
che ha rischiato la vita per te per salvarti da dei cacciatori
psicopatici”, mi rimbeccò una vocina nella mia mente. In
effetti aveva ragione, quello che lui aveva fatto non era una cosa da
poco. Chissà se io avrei fatto lo stesso per lui…
Sospirai e mi passai una mano tra i capelli. Mi stavo annoiando e,
stando in quella posizione, mi si stava intorpidendo il ginocchio.
Matthew stava trafficando in cucina cercando di fare un tè: non
sembrava poi così difficile, eppure erano ore che ci provava.
Quando sentii un rumore come di un intero scaffale che si stacca da un
muro e rovina a terra, mi preoccupai.
«Tutto bene?» Chiesi cauta alzando la voce per farmi
sentire.
«Sì!» Esclamò lui. «Sì, tutto
benissimo.»
«Mmh.» Mormorai poco convinta tornando ad accucciarmi.
Mi stavo per appisolare, ma un rumore nuovo mi risvegliò:
un’auto si stava avvicinando. Scattai all’erta e mi
drizzai, gli occhi puntati sulla porta. La macchina si ferma. Uno
sportello aperto e poi chiuso. Passi sul terreno morbido del bosco. Il
cigolio leggero delle scale di legno. Altri passi. Un tintinnio
metallico. Una chiave che viene inserita nella serratura. La maniglia
che si abbassa. La porta che si apre ed eccolo lì.
Jeans neri, maglietta rosso scuro, una giacca marrone. Dannazione, non me lo ricordavo così… carino.
I suoi occhi si sollevarono lentamente, come se non stessero cercando
niente in particolare, ma poi si soffermarono su di me e vidi il blu
tempestoso delle sue iridi illuminarsi.
Non avrei dovuto alzarmi così velocemente, lo sapevo e me
l’aveva detto anche Matthew, però non riuscii a
trattenermi. Rischiai di inciampare per colpa di un improvviso
giramento di testa dovuto alla grande perdita di sangue, ma, in qualche
modo, mi ritrovai tra le sue braccia e allora tutto il resto perse
importanza.
Mi aggrappai alla sua giacca e nascosi il viso nell’incavo del
suo collo, il suo profumo quasi impalpabile di carta antica e bucato
che aiutava a convincermi che c’era davvero. Mi strinse a
sé e lo sentii sorridere tra i miei capelli.
«Scar…» Sussurrò aumentando appena la
stretta.
«Ehi.» Mormorai.
«Sei già in piedi.» Commentò. «È
un buon segno, giusto?»
«Direi di sì.» Risposi lasciandomi sfuggire un
sorriso.
Mi accarezzò piano la schiena. «Il proiettile era
d’argento… Pensavo che non… che non ce
l’avresti fatta…»
“Argento?”, pensai incredula, “e sono ancora viva?
Accidenti…”. Non avrei dovuto sopravvivere,
l’argento è letale per i licantropi, eppure ero ancora
lì. A quanto pareva Matthew sapeva davvero il fatto suo in fatto
di guarigioni e unguenti miracolosi.
«Anche Matthew ha detto che le possibilità che ti
riprendessi non erano tante…» Aggiunse Adam in un sussurro
smorzato dai miei capelli.
«Non ti libererai così facilmente di me.» Scherzai
sentendo quanto era teso: doveva aver davvero creduto che sarei morta,
e, in effetti, aveva avuto tutte le ragioni per farlo.
Sorrise anche lui. «Per fortuna.»
Mi scostai appena da lui per guardarlo in faccia. «Grazie per
essere venuto a salvarmi. È stato stupido e pericoloso,
però anche coraggioso.»
Si morse il labbro. «Ehi, non potevo lasciarti lì con quei pazzi.»
«Beh, forse.» Mormorai. «Insomma, perché
avresti dovuto rischiare la vita per me?»
Si rabbuiò appena e le sue braccia mi strinsero un po’ di
più. «Perché ci tengo a te.»
“Tanto da affrontare dei cacciatori di licantropi?”, mi
chiesi non del tutto convinta. Poi mi resi conto che anch’io
avrei fatto lo stesso per lui. Se fosse stato in pericolo, non mi sarei
data pace finché non l’avessi trovato. Era una certezza
nuova, eppure ero più che sicura che sarebbe stato così.
«Okay.» Sussurrai tornando ad affondare il viso nell’incavo del suo collo.
La sua maglietta aveva un leggero scollo a V che lasciava intravedere
le clavicole. E dovevo ammettere che il rosso gli stava piuttosto bene,
soprattutto perché era in contrasto con la sua pelle chiara.
«Ce l’ho fatta!» A quell’esclamazione feci un
balzo indietro e anche Adam sussultò.
«Ma che…?» Fece per chiedere, ma fu interrotto
dall’entrata trionfale di Matthew in salotto.
Il mio infermiere improvvisato teneva in mano una teiera come se fosse
stata un trofeo e sorrideva con aria soddisfatta. «Visto? Te
l’avevo detto che avrei fatto il tè.»
Adam inarcò un sopracciglio e mi lanciò un’occhiata
che diceva “di che sta parlando?”. Scossi appena la testa
per fargli capire che non era niente di importante. Non sembrava
convinto, ma vidi un accenno di sorriso sollevargli un angolo della
bocca. Matthew sembrò accorgersi solo in quel momento di non
essere solo. Si voltò verso Adam agitando la teiera in segno di
saluto. «Oh, ehi, Adam. Come va?»
«Ciao, Matthew.» Rispose Adam cercando di nascondere un
sorriso. «Tutto bene, tu?»
«Bene. Ho fatto il tè.» Replicò Matthew tutto
contento. «Ne vuoi?»
Adam si mordicchiò il labbro. «No, grazie.»
«Okay.» Matthew scrollò le spalle e si rivolse a me: «Tu?»
«Uh, sì, grazie.» Ribattei.
Sembrò soddisfatto della mia risposta. «Arriva
subito!» E sparì in cucina.
Adam si mise a ridere sottovoce e dovetti impegnarmi parecchio per non farlo anch’io.
«Solo per curiosità, quanti anni ha?» Chiesi.
«Ventisette.» Disse lui scuotendo piano la testa.
Spalancai gli occhi, sorpresa. «Dieci più di noi?»
Si strinse nelle spalle. «Già. Non li dimostra,
vero?»
Era vero: a me sembrava un diciottenne allampanato, non certo uno che
aveva quasi trent’anni. Forse era una caratteristica dei Sangue
di Lupo. Mi lasciai cadere sul divano e lanciai un’occhiata ad
Adam. «Vieni?»
Attraversò il salotto e si sedette accanto a me, più
vicino del solito. «Come ti senti?»
«Bene. Il dolore per ora non c’è visto che Matthew
mi ha dato un qualche unguento speciale, quindi non è poi
così male.» Spiegai incrociando le gambe.
I suoi occhi blu erano molto concentrati. «Mmh. A parte questo?
Intendo, a livello mentale come va?»
«Oh, ehm, è okay. Credo. Sì, insomma, non faccio
incubi spaventosi o roba simile quindi…» Commentai
distogliendo lo sguardo.
Era una bugia bella e buono, l’ultimo sogno che avevo fatto, poco
prima di svegliarmi, era ancora fresco nella mia mente. Il bosco, le
lucciole, quello strambo ragazzo, il morso, il dolore. Era in quel
momento che ero diventata un licantropo. E non avevo potuto fare niente
per impedirlo.
Mia madre aveva dato di matto quando aveva visto la ferita, ma
l’aveva preso come il morso di un cane e visto che la sua amica,
Miranda, le aveva detto che lì vicino viveva una famiglia con un
grosso pastore tedesco, la storia combaciava alla perfezione. Beh,
più o meno.
Adam fece scivolare una mano nella mia e mi accarezzò piano le
nocche. «Mi fa piacere sapere che stai bene, davvero. Per un
attimo ho pensato di essere arrivato troppo tardi.»
«Non darti la colpa di niente, okay?» Replicai. «Hai
fatto anche troppo.»
Un angolo della sua bocca si sollevò in un sorriso sghembo. Non
aggiunse altro, ma sembrò rilassarsi, cosa che
tranquillizzò anche me.
Un rumore di passi leggeri sul sentiero davanti alla casa mi distrasse
da Adam. Mi voltai verso la porta socchiudendo gli occhi: chi altro era
coinvolto in tutto quello?
«C’è qualcuno.» Mormorai tra me e me.
Adam si sporse in avanti e appoggiò i gomiti sulle ginocchia.
«Dev’essere Sean.»
Oh, giusto, Sean. Ecco chi mancava…. Chissà
com’era. Da quel che aveva detto Matthew sembrava un tipo
piuttosto misterioso, uno che scompare e riappare quando gli pare,
anche a distanza di anni. Che era proprio quello che aveva fatto.
«Finalmente conoscerò questo fantomatico Sean che si
diverte ad entrare in casa della gente per rubare i loro
vestiti.» Borbottai aggrottando la fronte.
Adam fece un mezzo sorriso. «Ti ha fatto un favore, avevi bisogno
di un cambio.»
Gli diedi una gomitata nelle costole e gli feci una smorfia prima di
alzarmi e sistemarmi la maglietta: sinceramente, non mi andava di
sembrare troppo scombussolata anche se mi avevano sparato ed ero quasi
morta.
Sean bussò, un unico colpo leggero come se desse per scontato
che qualcuno gli avrebbe aperto. Adam si alzò e, nel passarmi
accanto, mi strinse piano la mano, come ad incoraggiarmi. Raggiunse la
porta e la aprì rivelando un ragazzo alto, dal fisico slanciato.
Aveva i capelli biondo scuro, la pelle poco più scura di quella
di Adam, le labbra chiare, l’aria di uno molto sicuro di
sé. Indossava dei jeans scuri, una maglietta grigia e un
giubbotto di pelle che mi ricordava un po’ quello di un
motociclista.
Quando i suoi occhi incrociarono i miei, però, mi sentii mancare
il fiato: erano verdi, sfumati di grigio e molto, molto intensi. Ma la
cosa che mi sconvolse di più fu la certezza di averli già
visti. Una notte d’estate, un bosco buio e silenzioso, le lucciole, uno strano ragazzo che sembrava in fuga.
Improvvisamente mi sentii le gambe molli, le ginocchia avevano smesso
di reggermi di colpo. Mi lasciai sfuggire un gemito strozzato che gli
fece sollevare un sopracciglio, niente di più. Adam invece mi fu
subito accanto. Mi sorresse cercando di guardarmi negli occhi, ma quasi
non lo sentivo.
«Scarlett, ehi, che succede?» La sua voce suonava ovattata,
lontana. Eppure lui era lì, accanto a me.
Mi aggrappai a lui lottando contro quell’ondata di nausea.
«Lui… lui è…»
Negli occhi di Sean passò un’ombra, ma per il resto rimase
impassibile, come se fosse stato un completo estraneo. Mi voltai verso
Adam e il mio sguardo si intrecciò al suo, confuso e
preoccupato.
In un momento di ritrovata lucidità riuscii a dire: «Lui è il lupo che mi ha trasformata.»
SPAZIO AUTRICE: Ehilà!
Anche se ho appena cominciato a pubblicare una nuova storia, non mi
sono assolutamente dimenticata di UAMP e dei nostri Adamett <3
Passando al capitolo, devo ammettere che ci sto prendendo gusto con
questi finali molto... bruschi e inaspettati. Ma sì, è
proprio il nostro Sean il lupo che ha morso Scarlett trasformandola. Ve
lo aspettavate?
Tra qualche capitolo scoprirete di più anche su di lui,
promesso. Avrete, diciamo, la sua versione della storia, il
perché abbiamo scelto di mordere Scar e come mai adesso è
tornato. Vi avverto che non sarà un racconto particolarmente
piacevole.
Scopriamo anche qualcosa in più su Matthew e sulla ferita di
Scarlett. Le hanno sparato un proiettile d'argento che avrebbe potuto
ucciderla. Questo elemento l'ho ripreso dalla tradizione dei
licantropi, anche perché mi ha sempre affascinanto.
Che pensate che succederà adesso? Che farà Sean? E Scarlett come reagirà?
Spero che il capitolo vi sia piaciuto, a presto :*
TimeFlies
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Capitolo 28 *** 28. Adam ***
Under a Paper Moon- capitolo 28
28. Adam
Perché non mi era venuto in mente? Spiegava tutto, rendeva ogni
suo gesto e ogni sua affermazione perfettamente sensata. Chiariva anche
la sua determinazione nel volerla salvare dai cacciatori.
In effetti, era praticamente ovvio
che fosse stato lui a trasformarla. Era l’unico legame possibile
tra loro due, così diversi eppure accomunati dalla licantropia.
Sollevai di scatto lo sguardo su Sean: se ne stava in piedi sulla
soglia, la testa leggermente inclinata di lato, lo sguardo attento. Per
il resto, non tradiva nessuna emozione. Scarlett, aggrappata a me,
stava facendo dei respiri profondi per cercare di riprendere il
controllo. Sembrava che rivedere il lupo che l’aveva trasformata
l’avesse scossa nel profondo. E, in effetti, doveva essere una
cosa molto sconvolgente.
«Non me l’avevi detto.» La durezza della mia voce
sorprese anche me.
Sean aggrottò appena la fronte. «Non ti serviva
saperlo.»
«Non mi serviva saperlo?»
Ripetei incredulo.
Si strinse nelle spalle. «Esatto.»
Stavo per ribattere, ma mi fermai: non mi andava di litigare davanti a
Scarlett, non ora che sembrava così fragile. Distolsi lo sguardo
e mi concentrai su di lei. Nonostante questo, volevo comunque chiarire
la cosa con Sean.
«Ecco… Oh, ciao Sean.» La voce di Matthew
mitigò almeno in parte la tensione nella stanza.
Gli lanciai un’occhiata: sembrava un po’ intimorito e
teneva in mano una tazza di tè ancora caldo. Spostò lo
sguardo su di me con aria interrogativa, ma neanche io avrei saputo
spiegare cosa stava succedendo. Sean entrò chiudendosi la porta
alle spalle. Fece un cenno di saluto a Matthew senza troppo entusiasmo.
«Ti ho preparato il tè, Scarlett.» Disse Matthew con un sorriso incerto.
Scarlett sembrò riscuotersi: drizzò la testa e
ricambiò il sorriso. «Grazie.»
Lanciò un’occhiata sospettosa a Sean prima di avvicinarsi
a Matthew e prendere la tazza che lui le stava porgendo. Si sedette sul
divano con le gambe piegate sotto di sé, quasi avesse voluto
farsi ancora più piccola di quanto non fosse già. Con un
sospiro annoiato, Sean si lasciò cadere su una vecchia poltrona
di pelle a lato del divano. Distese le gambe fasciate dai jeans davanti
a sé e appoggiò i gomiti sui braccioli. Aveva
un’aria strafottente, da ragazzino ribelle.
«Dobbiamo parlare.» Dissi tra i denti guardandolo.
Arricciò appena le labbra in una smorfia infastidita.
«Magari dopo.»
«No.» Ringhiai. «Adesso.»
I suoi occhi verde-grigio si spostarono su di me ricordandomi lo
sguardo di un leone un attimo prima di attaccare la preda. Rimanemmo a
fissarci per lunghi momenti come se nessuno di noi due avesse voluto
fare la prima mossa.
«Bene.» Decise infine alzandosi con un unico movimento
fluido. «Parliamo.» Era riuscito ad infondere
un’incredibile quantità di disprezzo in un’unica
parola. «Andiamo fuori.» Aggiunse mantenendo il tono duro.
Alzai gli occhi al cielo, ma in fondo ero contento che avesse scelto di
non mettersi a discutere davanti a Scarlett. Mentre lo seguivo fuori,
le lanciai un’occhiata veloce che lei ricambiò stringendo
le labbra.
Era preoccupata. Per me. Ancora faticavo a rendermene conto. In quel
momento, però, avevo altro a cui pensare. Come, per esempio, il
lupo mannaro diffidente e con una grande passione per le rispose a
monosillabi davanti a me.
Mi aspettava di fronte alla casa, aveva sceso le scale del portico
così silenziosamente che neanche me n’ero accorto. Mi
chiusi la porta alle spalle e lo seguii.
Era sulla difensiva, con le braccia incrociate sul petto e lo sguardo
attento. «Di che vuoi parlare?»
Scossi appena la testa: mi riusciva ancora difficile capire il modo in
cui ragionava, ma soprattutto come si poneva davanti ai problemi che
non potevano essere risolti con i suoi soliti metodi. «Come se
avessi bisogno che te lo dica…»
«Sì, ne ho bisogno.» Replicò.
«Perché io non credo ci sia niente di cui dovremmo
discutere.»
Lo guardai negli occhi. «Non mi hai detto che sei stato tu a
morderla, direi che è un buon argomento di conversazione,
mmh?»
Mi soppesò con lo sguardo per un attimo. «No.»
«Cosa?» Sbottai incredulo.
«Saperlo non ti avrebbe cambiato nulla. Avresti agito in modo
diverso se ti avessi detto che sono stato io a trasformarla? No,
avresti fatto esattamente le stesse cose che hai fatto non
sapendolo.» Spiegò, la voce calma che tradiva un accenno
di rabbia.
«Non lo sai.» Ribattei cercando di mantenere il controllo.
«Sì invece. Che te ne frega se sono stato io a morderla o
no? Rimane sempre il fatto che se non fossimo intervenuti sarebbe
morta: è questo che ti ha spinto ad agire, non il sapere chi
l’aveva trasformata.» Insistette.
Dovetti ammettere che aveva ragione, ma mi dava comunque fastidio il
fatto che non si fosse neanche degnato di dirmelo. «Ma non puoi
semplicemente presentarti alla mia scuola dicendo che Scarlett è
il pericolo e aspettarti che ti segua così, senza dire niente.
Mi devi qualche spiegazione.»
Nei suoi occhi passò un bagliore dorato. «Per prima cosa,
è esattamente quello che hai fatto: sei venuto con me senza fare
storie appena hai constatato che avevo ragione. E seconda cosa, non ti
devo proprio niente. Semmai sei tu che devi qualcosa a me visto che ti
ho aiutato a salvare Scarlett senza volere niente in cambio.»
Mi lasciai sfuggire un sorriso amaro. «Oh, ma certo. Adesso dovrei anche pagarti
perché sei venuto da me in cerca di aiuto per portarla via di
lì? Ma fammi il favore…»
«Guarda che è a te che importa di lei.»
Ringhiò lui con aria irritata.
«E tu che scusa hai, eh? Perché sei venuto da me?»
Replicai sentendo la rabbia nella mia stessa voce.
L’oro nelle sue iridi si fece più intenso.
«Perché lei fa parte del mio branco.»
«Per questo credi di avere dei diritti su di lei?» Sbottai.
Un ghigno gli increspò le labbra. «Perché, tu pensi
di averne qualcuno? Se proprio ne vogliamo parlare, qui sono io quello
che potrebbe avere una qualche pretesa: le ho dato il morso rendendola
una creatura forte e potente, è in debito con me.»
Scossi la testa. «Ma ti senti? Quello che è hai fatto
è stato semplicemente complicarle la vita. Pensi che dover
gestire istinti omicidi e notti di plenilunio le faccia piacere?»
«Tu non sai di cosa parli, io le ho dato il potere.»
Dichiarò con aria altezzosa.
«Non mi sembra che lei te lo abbia chiesto.» Gli feci
notare. «Da quel che mi risulta, il tuo prezioso morso non
è una cosa di cui le faccia piacere parlare.»
Strinse i pungi tanto da far sbiancare le nocche. «Tu non sai
tutta la storia che c’è dietro.»
«No.» Concessi. «Ma so abbastanza per capire che ti
sei preso un po’ troppe libertà: chi ti ha dato il diritto
di trasformarla? Non le hai neanche dato la possibilità di
scegliere.»
Una parte della mia mente mi disse che avevo toccato un nervo scoperto
e lo sguardo di Sean, diventato improvvisamente di fuoco, me lo
confermò. Un ringhio basso, minaccioso gli salì dalla
gola. Un attimo dopo me lo ritrovai addosso: si era mosso così
velocemente che avevo faticato a vederlo. Mi spinse indietro
finché non mi scontrai con il muro. Eravamo così vicini
che sentivo il suo respiro sfiorarmi la pelle. Teneva le mani strette
sulla mia giacca, gli occhi accesi d’oro fissi nei miei. Era
furioso.
«Tu non sai di cosa stai parlando.» Ringhiò tra i
denti. «Non ne hai la minima idea.»
Avrei dovuto avere paura di lui e della sua reazione, ma l’unica
cosa che sentivo era una rabbia fredda che non sembrava neanche
appartenermi. Come facevo a non essere spaventato di fronte ad un
licantropo arrabbiato? Sarebbe stato logico esserlo, era la cosa
giusta, invece non mi sentivo assolutamente intimorito da lui. Forse
era perché, in fondo ai suoi occhi, vedono un’ombra, come
un vecchio dolore mai superato.
«Allora perché non me lo spieghi, eh? Tutti questi misteri
mi danno sui nervi.» Replicai sfidandolo apertamente.
Un sorriso amaro gli sfiorò le labbra. «Sei solo un
ragazzino, queste cose non ti riguardano.»
«Certo che mi riguardano!» Sbottai. «Mi hai
trascinato nel covo di pazzi che cacciano licantropi e adesso mi vieni
a dire che non mi serve sapere il motivo?»
«Sì, è così. Rassegnati.»
Confermò lui aumentando la stretta. «E ti conviene
imparare a stare al tuo posto, non ho tutta questa pazienza.»
Sostenni il suo sguardo. «Non ne hai neanche un po’
infatti.»
Ringhiò di nuovo, ma si bloccò un attimo prima di
rispondere. Si irrigidì, di colpo all’erta -non fu
difficile capirlo visto che il suo corpo era premuto contro il mio-, e
si voltò di scatto verso la porta sul portico sopra di noi.
«Sean!» Esclamò una voce che conoscevo bene:
Scarlett.
Scese le scale di corsa e si fermò accanto a Sean per riprendere
fiato: a quanto pareva, la ferita la destabilizzava ancora un
po’. Sembrava sconvolta, incredula. E come darle torto? Sean le
lanciò un’occhiata infastidita prima di tornare a
concentrarsi su di me.
Prima che potesse parlare, però, Scarlett lo interruppe di
nuovo: «Si può sapere che stai facendo? Lascialo.
Adesso.»
«Scar, va tutto bene, davvero.» Provai a dire, ma la voce
di Sean coprì la mia.
«Non sono affari che ti riguardano, ragazzina.»
Ringhiò guardandola male.
«Vi state scannando a vicenda: certo che sono affari miei!»
Ribatté lei incrociando le braccia al petto. «E poi tu mi
hai trasformata quindi direi che quello che fai almeno un po’ mi
coinvolge.»
Sean non accennò ad allentare la presa su di me, sembrava che
fosse semplicemente appoggiato ad un muro. «Mettiamo in chiaro
una cosa, quello che faccio non ti riguarda almeno che non ti coinvolga
in prima persona. E poi, al massimo sono io che scanno lui: mi sembrava
di essere in netto vantaggio, mmh?» E mi lanciò
un’occhiata provocatoria che mi fece alzare gli occhi al cielo.
«Non importa chi scanna chi.» Sbottò Scarlett con
aria impaziente. «Lascialo e parliamo da persone civili.»
«Qui di civile c’è poco.» Borbottai facendo
nascere un ghigno sulle labbra di Sean.
Fece un passo indietro e lasciò la mia giacca. «Hai
più autocontrollo di quanto credessi.»
«Al contrario di te, eh?» Sbuffai scoccandogli
un’occhiataccia.
«Adam!» Mi ammonì Scarlett con sguardo eloquente.
Sean non si scompose, si limitò a sorridere divertito. Sembrava
che la rabbia di poco prima fosse completamente scomparsa. «Io ho
molto autocontrollo, ho solo
scelto di farti capire con chi hai a che fare. Sta a te adesso decidere
come comportarti.»
Scossi la testa. «Sì, certo… Dovresti lavorare
sulle tue minacce, comunque: non sono poi molto efficaci.»
Lo vidi irrigidirsi e serrare la mascella: avevo colpito nel segno, di
nuovo. Prima che potesse ribattere, Scarlett si mise fra me e lui
aprendo le braccia per mettere un po’ di distanza tra noi due.
«Okay, diamoci una calmata adesso. Tutti e due.» Disse
alternando lo sguardo da me a lui.
Non l’avevo notato prima, ma con quei vestiti scuri sembrava
ancora più pallida. E se l’effetto dell’unguento di
Matthew fosse finito? La ferita provocata da un proiettile
d’argento doveva essere molto dolorosa per un licantropo. Non era
il momento di farsi prendere dalla rabbia, ci sarebbe stato tempo dopo
per chiarire.
Sean guardava Scarlett con un sopracciglio inarcato, come se la stesse
studiando. E probabilmente era così: era la prima volta che la
vedeva in piedi sulle sue gambe e chissà quanto era passato
dall’ultima volta che l’aveva vista… Magari era
stato quanto l’aveva morsa.
«Sei cresciuta.» Mormorò Sean all’improvviso
aggrottando la fronte.
Scarlett sembrò sorpresa da quel commento. «Beh, sono
passati cinque anni, sarebbe stato strano il contrario.»
“Cinque anni?”, pensai stupito: questo voleva dire che lei
aveva dodici anni quando lui l’aveva trasformata. Era ancora una
bambina a quell’età… Eppure Sean non si era fatto
problemi a farla diventare un lupo mannaro. Doveva essere stata molto
dura per lei gestire zanne, artigli e pleniluni completamente da sola.
Lo sguardo di Sean si rabbuiò. «Quanti anni hai
adesso?»
Lei strinse le labbra. «Diciassette.» Dopo un attimo di
esitazione, aggiunse: «Tu?»
«Venticinque.» La voce di lui era diventata di colpo bassa
e quasi morbida.
Scarlett si strinse le braccia al petto e abbassò lo sguardo.
Doveva essere strano ritrovarsi davanti la persona che ti aveva
rivoluzionato la vita e che poi era sparita per anni senza una
spiegazione.
«Immagino che ci siano molte cose che non sai su di noi,
vero?» Chiese Sean inclinando appena la testa di lato.
«No, in effetti so molto poco.» Ammise Scarlett.
«Più che altro ho imparato dalle mie esperienze e da
quello che ho potuto vedere su di me, ma le mie conoscenze si limitano
a questo.»
Sean annuì piano, come se avesse avuto la conferma di qualcosa.
Scarlett si strofinò le braccia fissando il terreno con aria
cupa.
«Forse dovremmo rientrare, mmh?» Proposi guardandola.
Sollevò lo sguardo su di me e mi fece un breve sorriso.
«Sì, è una buon’idea.»
Senza dire una parola, Sean indietreggiò ancora lasciandoci
liberi di passare. Sembrava che tutta la sua voglia di discutere fosse
sparita all’improvviso, sostituita da un’aria pensierosa,
quasi tormentata che si accostava bene al suo solito modo di fare
così scontroso e inavvicinabile. Scarlett aspettò che la
affiancassi prima di voltarsi verso le scale e salirle. Aveva lasciato
la porta socchiusa nella fretta di venire a dividere me e Sean. Prima
di entrare, Scarlett di voltò verso Sean, che era rimasto
accanto alle scale.
«Tu non vieni?» Gli chiese con voce gentile.
Lui sollevò lo sguardo su di lei e per un attimo il suo sguardo
mi sembrò più limpido, privo delle ombre che vi avevo
visto tante volte. «Ho bisogno di prendere un po’
d’aria.»
Scarlett abbozzò un sorriso. «Okay.»
Lui fece un breve cenno d’assenso prima di voltarsi dandoci le
spalle. Scarlett lo osservò per un attimo, poi mi lanciò
un’occhiata ed entrò in casa. La seguii chiudendomi la
porta alle spalle. Matthew ci aspettava sul divano con una tazza
fumante in mano. Sembrò sollevato di vederci; ci fece un sorriso
timido e un po’ impacciato.
Scarlett si voltò verso di me e i suoi occhi da cerbiatto
incontrarono i miei. «Posso parlarti? In privato
magari…»
«Sì, certo. Possiamo andare in una delle camere.»
Risposi.
Annuì piano stringendosi le braccia al petto. Salimmo le scale
insieme e, una volta arrivati al secondo piano, la feci entrare nella
prima stanza che si affacciava sul corridoio. Era piuttosto simile a
quell’accanto, il letto di legno scuro era lo stesso, così
come i due comodini azzurro pallido ai lati della testata, la stessa
finestra ampia che si affacciava sul bosco. Le uniche differenze erano
alcuni mobili: nella prima camera c’era un cassettone di legno
chiaro appoggiato alla stessa parete su cui si apriva la porta, nella
seconda, invece, c’era un armadio imponente decorato con alcuni
intagli.
Scarlett si sedette sul letto e incrociò le gambe. Le coperte
erano smosse e il cuscino era un po’ appiattito; sul comodino
c’erano una brocca piena d’acqua per metà e un
bicchiere.
Mi sedetti accanto a lei. «Spero non siano brutte notizie.»
Un sorriso fiacco le incurvò le labbra. «No. O meglio,
solo un pochino.»
Aggrottai la fronte, cauto. «Che intendi?»
«Ti ricordi cosa ti ho detto su mio padre?» Domandò
guardandomi negli occhi.
Annuii: ricordavo le sue parole cariche di disprezzo e una certa
malinconia pronunciate sotto l’effetto dell’alcol. E
ricordavo altrettanto bene i particolari che aveva voluto aggiungere il
pomeriggio in cui le avevo rivelato che mi aveva parlato di suo padre
quando era ubriaca.
Scarlett trasse un respiro profondo. «La mattina in cui mi hanno
sparato… Ecco, quel giorno lui era venuto a casa mia. Non so
perché, sinceramente non gli ho dato il tempo di spiegare il
motivo della sua visita. Ma… erano anni che non lo vedevo, credo
di non aver avuto più sue notizie dal giorno in cui lui e mamma
hanno divorziato ufficialmente. Ritrovarmelo davanti mi ha sconvolto
e… credo di essere stata troppo impulsiva.» Strinse le
labbra fino a ridurle ad una linea sottile. «Se non mi fossi
fatta prendere dalla rabbia non mi sarei allontanata dalla strada che
faccio di solito per andare a scuola e forse i
cacciatori…» Le si spense la voce e la vidi deglutire.
Le presi delicatamente una mano tra le mie. «Ehi, è tutto
okay. È finita, non ti faranno più del male. E tuo
padre… È lui che sbaglia. Tu non hai assolutamente
nessuna colpa, né per quanto riguarda il divorzio, né per
i cacciatori.»
Si morse il labbro. «Lo so. O meglio, so che dovrei saperlo.
Però non… non riesco a togliermi dalla testa che non ti
avrei messo in pericolo se fossi stata più attenta, meno
impulsiva.»
«No, Scar, non dire così. Io sto bene, e anche tu. Non
devi rimproverarti niente, capito? Assolutamente niente.»
Mormorai accarezzandole le nocche.
Scivolò più vicina a me e appoggiò la testa sulla
mia spalla. «Grazie. Sul serio. Dopo tutto quello che ti ho fatto
passare mi sembra incredibile che tu sia ancora qui.»
La strinsi a me e mi lasciai sfuggire un sorriso. «Come ha detto
un licantropo di mia conoscenza, non ti libererai di me così
facilmente.»
Si mise a ridere e sentii i suoi muscoli, rimasti contratti fino a quel
momento, rilassarsi. Si scostò appena da me per guardarmi negli
occhi: tutta la preoccupazione e il tormento di poco prima erano
spariti, rimpiazzati da una determinazione sorprendente.
Quella ragazza mi lasciava sempre senza parole con il suo essere
così risoluta e coraggiosa. E il fatto che mi avesse parlato di
suo padre, di nuovo, confermava la sua fiducia nei miei confronti. A
quanto pareva il punto di incontro l’avevamo trovato ed eravamo
riusciti, in qualche modo, ad approfondire il nostro rapporto reso
complicato dalla sua licantropia e dalla mia testardaggine.
A quel punto, Scarlett decise che era una buona idea sconvolgermi
ancora un po’, come se i cacciatori e il vederla priva di sensi,
ad un passo dalla morte, non fossero stati abbastanza: si
avvicinò ancora un po’, sollevò una mano e, con
estrema naturalezza, la posò sulla mia guancia.
Quello che fece dopo, però, fu ancora più inaspettato: si
sporse verso di me e premette le labbra sulle mie. Sussultai, sorpreso,
ma ebbi appena il tempo di rendermi conto di cosa stesse succedendo
perché un attimo dopo lei si allontanò da me. Si
rannicchiò contro il mio fianco con la testa sulla mia spalla
senza dire una parola.
«Pensi che domani dovrei tornare a scuola?» Chiese dopo
qualche minuto di silenzio.
«Uhm… Non so, dipende da come ti senti.» Risposi
ancora un po’ disorientato da quel bacio a sorpresa.
«Adesso sto bene, ma domattina potrei avere una ricaduta.
Soprattutto se dovrò svegliarmi alle sette…»
Commentò lei e percepii il sorriso nella sua voce.
Sorrisi anch’io. «Prima o poi dovrai tornare comunque a
scuola, sai?»
«Sì, ma non è che muoia dalla voglia di farlo.
Insomma, ho perso due giorni di lezione e questo, vista la mia scarsa
voglia di studiare, potrebbe essere un problema.» Spiegò
lei stringendosi ancora un po’ contro di me.
I suoi capelli mi sfioravano il collo, il profumo leggero di cannella,
che avevo sentito la notte del nostro secondo incontro in quel bar, era
soffuso, leggerissimo.
«Se vuoi posso aiutarti a recuperare, casomai ne avessi
bisogno.» Proposi accarezzandole piano il braccio.
«Lo faresti sul serio?» Domandò lei sorpresa.
«Sì, certo.» Confermai. «Senti, facciamo una
cosa: domani resti a casa così ti rimetti del tutto, e il
pomeriggio studiamo insieme, che ne dici?»
Si raddrizzò e mi diede un bacio sulla guancia. «È
perfetto! Davvero, non so come ringraziarti.»
«Va bene così, Scar.» Sussurrai intrecciando le dita
con le sue.
Sorrise e per la prima volta mi resi conto di quanto fosse non carina,
ma bella. Veramente bella, perché aveva i capelli in disordine,
perché era pallida, perché aveva le occhiaie,
perché era irascibile e lunatica, perché mi aveva fatto
dannare e perché stavo cominciando a considerarla più di
una semplice amica.
SPAZIO AUTRICE: Ehilà!
Siamo già al capitolo 28! Mi sembra ieri che ho iniziato a
pubblicare questa storia, e invece il 15 giugno sarà già
un anno. Vi anticipo che ci sono più o meno altri dieci capitoli
alla fine di UAPM -la storia più lunga che io abbia mai scritto
fino ad ora.
Passando al capitolo, abbiamo avuto il primo vero confronto tra Sean e
Adam. Non sarà l'ultimo, assolutamente, anzi, questo è
stato anche relativamente "tranquillo".
Il rapporto del nostro licantropo brontolone con Scarlett sarà
molto importante nei prossimi capitoli, lo vedrete svilupparsi e
scoprirete qualcosa in più sulla licantropia. Sean è in
parte ispirato a Derek Hale di Teen Wolf, soprattutto per il modo in
cui considera la licantropia, una sorta di dono. Ma saprà
rivelarsi anche comprensivo e protettivo nei confronti della nostra
Scar. Così come si farà prendere dalla rabbia nei
battibecchi con Adam.
Ho detto anche troppo, quindi mi fermo qui. Grazie mille per continuare a leggere UAPM <3
TimeFlies
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Capitolo 29 *** 29. Scarlett ***
Under a Paper Moon- capitolo 29
29. Scarlett
L’incontro con il
ragazzo che mi aveva rivoluzionato la vita trasformandomi in un
licantropo mi aveva scossa, ma non abbastanza da impedirmi di dormire
fino alla dieci passate. Quando mi svegliai, la luce del sole filtrava
morbida e soffusa dalle tende. Mi stiracchiai e mi girai sulla schiena.
Chi l’avrebbe mai detto che il letto di un altro potesse essere
tanto comodo?
Sia Adam che Matthew
avevano insistito perché rimanessi a dormire nel cottage nel
bosco dove sarebbe stato più facile raggiungermi in caso di
bisogno.
Matthew si era
addirittura offerto di rimanere con me per la notte e di dormire nella
stanza accanto, ma non mi era sembrato giusto farlo stare lontano da
casa, quindi gli avevo detto di andare a riposarsi visto tutto quello
che aveva già fatto per me. Come, per esempio, salvarmi la vita.
Alla fine aveva accettato anche se mi aveva lasciato il suo numero di
telefono di casa e anche quello del cellulare. “In caso di
emergenza”, aveva detto aggiungendo che potevo chiamarlo anche se
quello che mi serviva era solo una tisana.
Adam era andato via poco prima dell’ora di cena e mi aveva
salutata con un abbraccio e un bacio sulla fronte che mi aveva fatto
sorridere. Anche lui aveva voluto ricordarmi che potevo rivolgermi a
lui in qualunque momento, che fosse stato per un incubo o semplicemente
per voglia di parlare.
Sean era ricomparso verso le cinque del pomeriggio, cupo e silenzioso.
Mi aveva rivolto un cenno del capo appena accennato, nient’altro.
Ad Adam aveva riservato un’occhiata molto, molto intensa, da cui
lui non si era lasciato intimorire: l’aveva sostenuta a testa
alta e con aria di sfida. Questo suo atteggiamento aveva fatto incupire
Sean ancora di più, tanto che si era buttato sulla poltrona e
non aveva più aperto bocca se non per rifiutare con un secco
“no” l’ennesimo tè di Matthew.
Un’ora dopo Sean se n’era andato quasi senza salutare e
sbattendosi la porta alle spalle. Adam aveva detto che quel suo
comportamento era infantile e la risposta da diretto interessato era
stato un ringhio ammonitore che sembrava significare anche
“aspettate che mi sia allontanato prima di parlare male di
me”.
Nonostante tutto, però, ero molto grata a tutti e tre: mi
avevano salvato la vita rischiando di farsi ammazzare da un gruppo di
cacciatori fuori di testa e non avevano voluto assolutamente niente in
cambio. Non che io avessi molto da dare.
Sospirai, mi passai una mano sul viso e mi versai un bicchiere
d’acqua dalla brocca che Matthew aveva saggiamente lasciato sul
comodino. Dovevo prendere quell’abitudine anche a casa: era
piacevole svegliarsi ed avere qualcosa di fresco con cui rifarsi la
bocca. Altro che madri urlatrici che si divertivano a strapparti di
dosso le coperte.
Mi rabbuiai pensando a mia madre: le avevo lasciato un messaggio nella
segreteria telefonica del cellulare la mattina prima, ma visto che non
sapevo che ore fossero in Francia -la meta del viaggio per cui era
partita il giorno in cui Miles era venuto a farci visita- era un
po’ complicato comunicare.
Posai il bicchiere sul comodino e presi il cellulare. Non c’erano
chiamate perse né messaggi. “Forse dovrei provare a
richiamarla…”, pensai mordicchiandomi il labbro. Cercai il
suo numero in rubrica ed esitai un attimo prima di premere il tasto per
fare la telefonata. Mi portai il cellulare all’orecchio mentre
con l’altro braccio mi strinsi le ginocchia al petto.
Con mia grande sorpresa, mamma rispose al terzo squillo:
«Scarlett! Tesoro, sono così felice di sentirti.»
Sentii un sorriso spontaneo nascermi sulle labbra. «Anch’io
sono felice di sentirti… Ti ho lasciato un messaggio in
segreteria ieri, ma non hai risposto così ho pensato di
riprovare.»
«Oh, lo so, tesoro, mi dispiace.» Rispose. «Ho avuto
molto da fare tra il volo e una riunione con importanti uomini
d’affari… Le
solite cose. Ti avrei richiamata appena avessi avuto un momento libero.
Come stai, tesoro?»
Trassi un respiro profondo preparandomi mentalmente all'idea di
mentirle. «Bene. Sì, è tutto okay. Tu?»
«Sto bene, ma ero così preoccupata per te!
L’altro giorno sei scappata via e sembravi così
arrabbiata… Mi dispiace tantissimo per quello che è
successo…» La sua voce si fece tremula. «Lo so che
per te è difficile con tuo padre, avrei voluto fare di
più, darti di più…»
«Mamma, ehi, è tutto okay. Non è colpa tua se lui
ha l’intelligenza di una nocciolina. Io ti voglio bene e questo
non cambierà mai.» La rassicurai. «Hai fatto
tantissimo per me e non hai idea di quanto io ti sia grata.»
«Oh, tesoro… Ti voglio tantissimo bene anch’io. Sei
fantastica, Scout, diventerai una donna meravigliosa.»
Tirò su col naso, ma sembrava stare meglio. «Scusa,
tesoro, devo andare. Sai, il lavoro… Ma se hai bisogno sono qui,
okay?»
«Okay.» Mormorai sorridendo.
«Ti voglio bene.» Aggiunse lei. «Non dimenticarlo mai.»
«Anch’io ti voglio bene, mamma. Ora vai, o farai
tardi.» Replicai.
Si raccomandò un’ultima volta prima di decidersi a riattaccare.
Nonostante tutto quello che avevamo dovuto affrontare, tra me e mia
mamma c’era un ottimo rapporto fatto di fiducia e stima
reciproca. Io la ammiravo per tutte le ore di lavoro che faceva e lei
era fiera di come riuscissi a cavarmela da sola.
Ovviamente, non sapeva tutta la storia, non aveva idea che fossi un
licantropo, ma mi sosteneva meglio che poteva in qualunque cosa e non
avrei potuto chiedere di più.
Avevo passato la mattina a leggere cercando di non pensare che ero
quasi morta, che stavo mentendo a mia madre da anni, che c'erano dei
cacciatori ancora vivi, per quel che ne sapevo, in giro per Seattle. E
che non si sarebbero limitati a cacciare me, adesso avrebbero voluto
tutto il "branco".
Verso le due e mezzo sentii il rumore di un’auto che si
avvicinava. Mi preoccupai e balzai all’erta: Adam aveva detto che
quella casa era praticamente inutilizzata, ma non era certo che nessuno
ci andasse mai. E se fosse stata sua madre? O suo padre? Che avrei
detto? “Ehi, sono qui in convalescenza dopo che dei pazzi mi
hanno sparato, ma non preoccupatevi, me ne andrò presto”.
Pensai frettolosamente ad un piano, ma l'unica cosa che mi venne in
mente fu improvvisare un nascondiglio da qualche parte, ed era una cosa
che lasciava parecchio a desiderare.
Nel frattempo, chiunque fosse al volante dell’auto, aveva
parcheggiato e stava salendo le scale del portico. Mi morsi il labbro
tanto da farmi male. Stavo per cacciarmi in un guaio enorme, e avrei
trascinato con me anche Adam. Lui mi aveva salvato la vita, non potevo
fargli questo… Non che avessi altra scelta, però.
Sentii il tintinnio di un mazzo di chiavi, la serratura che scattava e
il mio cuore che perdeva fin troppi battiti. Quando la porta si
aprì persi dieci anni di vita. Per poi recuperarli tutti un
attimo dopo: c’era un Meyers sulla soglia, ma non era né
il padre né la madre. Era quel bastardo dagli occhi blu che mi
aveva complicato, e salvato, la vita.
Ed era particolarmente carino con quella maglietta nera, i jeans
scoloriti e la giacca marrone. Adam mi fece un sorriso mentre si
chiudeva la porta alle spalle e io gli lanciai un cuscino.
«Mi hai fatto prendere un colpo, idiota!» Sbottai
incrociando le braccia al petto.
Lui afferrò al volo il mio proiettile tutt’altro che
letale e si mise a ridere. «Scusa, volevo farti una sorpresa. Non
mi aspettavo un’accoglienza del genere.»
«Se fossi stato così gentile da dirmi che tornavi prima
avrei anche potuto essere felice.» Replicai. «Ed evitare di
prenderti a cuscinate.»
Scosse la testa senza smettere di sorridere. «Forse non ti
è chiaro il termine “sorpresa”.»
«Comunque, perché sei qui? La scuola non finisce tra
un’ora?» Domandai sospettosa.
Lui si sfilò la giacca, si avvicinò al divano e ce la
lasciò cadere insieme al cuscino. «Mi mancava un
professore e ci hanno fatto uscire prima.» Si sedette accanto a
me. «Che stavi facendo prima che ti facessi prendere un
colpo?»
«Leggevo.» Risposi guardandolo di sottecchi.
Inarcò un sopracciglio. «Ah sì?»
Alzai gli occhi al cielo sbuffando teatralmente. «Già, Sean mi ha portato altri vestiti ed un libro.»
Annuì distrattamente. «Ho parlato con Elisabeth oggi.»
Mi feci subito attenta. «Che dice?»
«Era un po’ preoccupata perché non ti rivedeva da un
po’ e mi ha chiesto se ne sapevo qualcosa.» Spiegò.
«Le ho detto che hai l’influenza e che abbiamo dovuto
cancellare una lezione per questo.»
«È una buona scusa.» Concessi appoggiando la testa
alla sua spalla. «Forse non te l’ho fatto capire subito, ma
mi è piaciuta questa sorpresa.» Mormorai, un po’
perché era la verità, un po’ perché volevo
metterlo alla prova.
«A meno che tirare cuscini per te non significhi dimostrare
felicità, non me l’hai fatto capire molto bene.»
Scherzò dopo un attimo di esitazione.
Mi sollevai per guardarlo meglio. «Sbaglio o oggi mi sembri di
buon’umore?»
I suoi occhi blu mi studiavano, le pagliuzze dorate accese dalla luce
che entrava dalla finestra. «Sono solo felice che tu sia qui.
Cioè, che tu sia ancora qui.»
«Anch’io sono felice che tu sia qui: stavo cominciando ad
annoiarmi.» Ammisi cercando di nascondere un sorriso.
Inclinò appena la testa di lato. «È bello sapere
che sono utile a qualcosa.»
Rinunciai definitivamente ad ogni tentativo di trattenermi, gli presi
il viso tra le mani e lo baciai. Il giorno prima si era dimostrato
esitante di fronte al mio “assalto” a sorpresa, ma quella
volta non si fece cogliere impreparato. Lo sentii sorridere mentre le
sue braccia mi circondavano accompagnando il mio movimento.
Non mi ricordavo che avesse i capelli così morbidi, o che
l’odore del suo dopobarba -ancora non riuscivo a credere che lo
usasse- fosse così buono.
Era da un po’ che non mi ritrovavo così vicino ad un
ragazzo. Di solito cercavo di non spingermi così in là
per evitare di perdere il controllo: più le emozioni sono forti,
più è difficile per un licantropo non farsi prendere la
mano. Quando ero in compagnia maschile dovevo sempre fare attenzione,
un unico passo falso e tutta la mia copertura sarebbe saltata, cinque
anni di bugie buttati al vento.
Con Adam era diverso, però, non sentivo il bisogno di rimanere
su una zona neutra da cui sarebbe stato facile uscire. In fondo, lui
sapeva cos’ero, non gli sarebbe preso un colpo se mi avesse vista
con gli occhi dorati, le zanne o gli artigli. O almeno, se fosse
successo, se lo sarebbe saputo spiegare.
Anche volendo, sarebbe stato difficile rimane abbastanza concentrata da
allontanarmi quanto le cose si fossero fatte troppo
“intense”: Adam si era sdraiato sulla schiena tirandomi
sopra di sé, e seguiva con le dita la mia spina dorsale
continuando a baciarmi. Non mi sembrava vero averlo lì con me,
senza preoccupazioni, senza problemi, solo lui ed io.
Una vocina nella mia mente mi disse di seguire l’istinto, di
lasciarmi andare, sarebbe andata come doveva andare. Una volta tanto fu
d’aiuto invece che d’intralcio. Gli appoggiai le mani sul
petto e le feci scivolare fino al bordo della sua maglietta. Quando
sfiorai la pelle nuda del suo stomaco lui si allontanò appena da
me. Chiuse gli occhi e socchiuse le labbra dandomi il coraggio che mi
serviva, perché sì, ero piuttosto insicura. Cominciai a
tracciare cerchi immaginari sulla sua pelle mentre lui faceva correre
le dita sulle mie gambe. Ed era semplicemente magnifico.
«Ho parlato con mia madre oggi.» Per un attimo rimasi
sorpresa io stessa dalle mie parole: che mi era venuto in mente? In un
momento del genere parlavo di mia madre?
Aprì gli occhi e intrecciò lo sguardo al mio. «È una cosa buona, giusto?»
Non sembrava né irritato né imbarazzato. Anzi, pareva
sinceramente interessato. Forse solo io volevo sotterrarmi per aver
detto una cosa del genere.
Distolsi lo sguardo. «Beh, sì. Ci siamo chiarite e adesso è tutto risolto.»
Tenevo ancora le mani su di lui, sulla sua pelle calda, come in cerca
di rassicurazione.
Un sorriso gli incurvò le labbra. «Bene, mi fa piacere.
Lei dov’è adesso?»
«In Francia.» Risposi. «Sai, lavoro…»
«Dovresti farti portare un po’ di champagne allora.»
Commentò.
Mi lasciai sfuggire un risata. «Oh, certo, sono sicura che mia
madre, conosciuta anche come Natalie Aboliamo-ogni-consumo-di-alcol
Dawson, sarebbe felicissima di portarmene una scorta.»
I suoi occhi blu si fecero attenti. «Ha mantenuto il cognome di
tuo padre?»
«No. Dawson era il suo cognome da ragazza. Dopo il divorzio se
l’è ripreso e ha voluto cambiarlo anche a me.»
Spiegai tracciando dei cerchi immaginari sul suo petto. «Approvo
la sua scelta, anche perché Scarlett Merrick non suona
bene.»
Inclinò appena la testa di lato. «Vero. Tua madre
dev’essere una donna molto indipendente.»
Mi ritrovai a sorridere. «Sì, decisamente. Le piace fare
di testa sua, sempre e comunque.»
«Come qualcuno di mia conoscenza.» Mormorò lui
facendo risalire le dita dalle mie cosce fino ai fianchi.
Gli alzai ancora un po’ la maglietta. «Tale madre tale
figlia.»
Un angolo della sua bocca si sollevò in un sorriso sghembo.
Quando mi chinai su di lui, mi sfiorò il labbro inferiore con i
denti facendomi scendere un brivido lungo la schiena. Lo baciai mentre
le sue mani mi solleticavano il lembo di pelle appena sopra i jeans.
Chi l’avrebbe mai detto che gesti così piccoli potessero
rivelarsi tanto intensi e piacevoli?
Cominciavo a capire perché Beth era stata tanto innamorata di
lui: Adam era carino, molto carino, con quegli occhi blu, la pelle
chiara, le labbra sottili… Ma era anche bello dentro,
perché era gentile, attento, forte, determinato, anche testardo,
orgoglioso, insistente. E tutto questo era incredibile.
Dopo chissà quanti altri baci, mi scostai da lui sorridendo.
Adam si sollevò appena fino a sfiorarmi il naso con il suo.
«Hai un buon profumo.» Sussurrò con voce roca.
«Anche tu.» Mormorai.
Sorrise. «Non hai idea di quanto mi faccia piacere averti
qui.»
«Beh, anche a me fa piacere averti qui. Ma adesso dovrai
rinunciare a me per… direi una mezz’oretta.» Risposi
allontanandomi da lui.
Aggrottò la fronte e mi guardò con aria confusa.
«Perché?»
Distolsi lo sguardo e gli tirai giù la maglietta.
«Perché direi che è giunto il momento di farmi una
doccia.»
Si rilassò e sorrise di nuovo. «Okay.»
Strofinò il naso contro il mio. «Ma torna presto.»
Qualcosa nel mio petto si sciolse lasciandosi dietro una piacevole
sensazione di calore. «Farò il possibile.»
Mi alzai in piedi e lui si mise a sedere continuando a guardarmi con
quei suoi occhi blu tempesta. Aveva l’aria un po’
scompigliata e questo, insieme a quel sorriso da ragazzino che gli
incurvava le labbra, lo rendeva incredibilmente… bello.
Prima che potessi anche solo pensare di fare qualcosa, lui si
alzò, mi mise la mani sui fianchi e mi tirò verso di
sé. “Accidenti…”, pensai mentre il mio lupo
interiore fremeva.
«Buona doccia… Credo.» Mormorò.
Risi sottovoce. «Grazie, immagino.»
Mi salutò con un bacio leggero prima di lasciarmi andare. E
mentre salivo le scale, mi ritrovai a sorridere come un'adolescente
alle prese con la sua prima, imbarazzante cotta.
Appena finii di asciugarmi i capelli e di cambiarmi, scesi al piano di
sotto con l’idea di farmi un tè. Non mi aspettavo certo di
trovarci un licantropo infuriato e un diciassettenne altrettanto
arrabbiato. E anche un Matthew che cercava di scomparire fondendosi con
il muro. Sean si teneva una mano sul naso, gli occhi accesi d’oro
che sembrava di fuoco, il sangue di un rosso brillante che gli
macchiava le dita. Qualche goccia era finita anche sulla maglietta
grigia che indossava insieme all’inseparabile giacca di pelle.
Ero ancora sulle scale, ma persino da lì riuscivo a sentire i
suoi ringhi, così bassi e cupi da non poter essere percepiti
dagli essere umani. Di fronte a lui c’era Adam, le dita premute
sul viso appena sopra la guancia, lo sguardo duro e intenso, la mano
libera stretta a pugno lungo il fianco. La tensione tra loro due era
più che palpabile. Rimasi come congelata per un attimo,
incredula e molto, molto sorpresa. Poi mi decisi a fare qualcosa.
«Adam! Sean! Ma che diavolo state combinando?!» Sbottai
attraversando il salotto.
«Secondo te?» Replicò Sean ironico senza staccare gli occhi da Adam.
«Scarlett!» Saltò su Matthew con aria terrorizzata e
con voce un po’ troppo acuta. «Meno male che sei
arrivata.»
Mi infilai tra i due litiganti e aprii le braccia per mettere un
po’ di distanza tra di loro. «Okay, calmiamoci. Tutti e
due. E che qualcuno mi spieghi cosa sta succedendo.»
Sean sbuffò sprezzante abbassando la mano. Il sangue tracciava
rivoli scarlatti dal naso alle labbra, qualcuno scivolava giù
fino al mento. «Non vorrei essere ripetitivo, ma secondo
te?» Fece un cenno brusco verso Adam. «Questo qui ha voluto
imporsi di nuovo. Come se un semplice umano potesse avere qualche
pretesa su un licantropo.»
Mi stupii di quanto fosse aspra e rabbiosa la sua voce, ogni parola
sembrava più tagliente di quella che l’aveva preceduta.
Doveva essere stata proprio una brutta litigata. Mi voltai verso Adam e
per un attimo trattenni il fiato: sullo zigomo sinistro c’era un
brutto segno rosso che con ogni probabilità sarebbe diventato un
altrettanto brutto livido. Anzi, già si cominciava a vedere una
sfumatura violacea.
Lui, però, sembrava troppo arrabbiato per curarsene. Aveva la
mascella contratta e quelle stesse labbra che poco prima erano state
sulle mie erano ridotte ad una linea sottile di tensione.
«Abbiamo litigato.» Disse con voce sorprendentemente calma.
La risposta di Sean fu una risatina beffarda che assomigliava ad un
ringhio. «Se vuoi usare un eufemismo allora sì, abbiamo
litigato. Se vuoi dire le cose come stanno, hai rischiato grosso
oggi.»
Adam sostenne il suo sguardo con aria determinata. «Minacciare
riesce a chiunque, ma sono i fatti a definire le persone. E per ora tu
sembri solo un presuntuoso montato.»
“Come farsi uccidere da un licantropo furioso in tre…
due… uno”, pensai preoccupata. Prima che Sean potesse
rispondere, riuscii a mettermi in mezzo: «Non importa cosa vi
siete detti, d’accordo? La violenza non è la soluzione.
Quindi ora vi date calmata e ne parliamo con calma.»
Sean ringhiò piano prima di voltarsi di scatto e uscire a grandi
passi dalla stanza. Chiuse la porta con un tonfo così forte che
per un attimo credetti che si sarebbe staccata dai cardini. Adam
sospirò alzando gli occhi al cielo e borbottò qualcosa
che assomigliava a “esibizionista”. Dovevo ammettere che
aver tenuto testa ad un lupo mannaro rabbioso non era una cosa da tutti
i giorni e che lui aveva dimostrato molto coraggio, ma non mi piaceva
il fatto che avesse usato la violenza.
Mi voltai verso di lui con le braccia incrociate sul petto.
Ricambiò lo sguardo senza fare una piega. La sua espressione si
era un po’ addolcita, ma era ancora in tensione.
Studiai il livido sul suo zigomo per un attimo. «Matthew puoi
prendermi del ghiaccio per favore?»
«Sì, certo.» Rispose lui prima di sparire in cucina.
Adam fece per protestare, ma lo zitti con un’occhiataccia. Gli
misi le mani sulle spalle e lo spinsi giù fino a farlo sedere
sul divano: era più alto di me di qualche centimetro, non
sarebbe stato comodo controllare l’ematoma se fosse rimasto in
piedi.
«Ecco qua.» Disse Matthew venendomi vicino e porgendomi un
sacchetto di ghiaccio.
«Grazie.» Mormorai distrattamente.
Lui annuì appena. «Vado a fare un tè.» E sgattaiolò via senza aspettare una risposta.
Abbassai lo sguardo sul ragazzo seduto di fronte a me. E sì, era
bello anche con quel brutto livido in formazione in faccia. I suoi
occhi blu erano fissi nei miei, intensi e tempestosi come sempre.
Dubitavo che esistesse qualcosa capace di far perdere loro quella
forza.
Gli presi il mento tra le dita e gli feci voltare appena la testa.
«Uhm, te la sei vista brutta, eh?»
Non rispose, si limitò a stringere le labbra. Scossi appena la
testa accarezzandogli la guancia. Questo lo sorprese un po’ visto
che mi lanciò un’occhiata di sottecchi.
«Te l’hanno mai detto che sei troppo testardo? E
orgoglioso?» Chiesi posando delicatamente il ghiaccio
sull’ematoma.
«Fino ad oggi no.» Rispose con voce roca.
«C’è sempre una prima volta.» Commentai.
Mi sedetti accanto a lui che si voltò per permettermi di
continuare a occuparmi del suo livido. Per un qualche strano motivo, mi
tornarono in mente i bei momenti che avevamo passato io e lui su quel
divano poco prima. Era stato così bello da sembrare quasi
surreale.
«Fa male?» Il mio tono dolce sorprese un po’ anche
me.
«No, per ora no.» Replicò lui senza staccare gli
occhi dai miei.
Sollevai appena il ghiaccio per dare un’occhiata. «Vi siete
comportati da bambini, tutti e due. Vi sembra che prendervi a pugni
serva a qualcosa? E poi, chi ha cominciato?»
Si mordicchiò il labbro. «Lui. Stavamo discutendo dei
cacciatori, ci siamo arrabbiati tutti e due e poi… beh, poi puoi
immaginare cosa sia successo.»
«Perché finite sempre per litigare?» Chiesi
inclinando la testa di lato.
Scrollò le spalle. «Perché abbiamo opinioni molto
differenti. Lui pensa che la violenza sia la risposta per tutto, io
no.»
«Però l’hai picchiato anche tu…»
Mormorai prima di stringere le labbra.
«È stata legittima difesa.» Protestò e lo
sentii irrigidirsi. «Che dovevo fare? Subire?»
Abbassai il ghiaccio e gli misi una mano sul braccio. «No, ma ci
sono anche altri modi per risolvere la cosa.»
Distolse lo sguardo e aggrottò la fronte. «Lo so, eccome
se lo so. Odio la violenza. Sul serio, è una cosa che non
sopporto. Non so cosa mi sia preso.» Scosse la testa. «So
benissimo che avrei dovuto reagire in un altro modo, ma non stavo
pensando. Ho agito d’impulso.»
Feci scivolare una mano sulla sua e la strinsi. «È una
situazione stressante per tutti, non è colpa tua se hai commesso
un errore. E non è neanche tanto grave.»
Sollevò lo sguardo su di me: sembrava sollevato, meno in
tensione. Mi fece un sorriso incerto e mi accarezzò piano le
nocche.
«Magari non è grave, però resta sempre il fatto che
ha quasi rotto il naso ad un licantropo.» Commentò Matthew
entrando in salotto con una tazza di tè in mano.
Adam lo guardò, un po’ confuso. «Che intendi?»
Matthew si sedette sulla poltrona e accavallò le gambe.
«Penso che avrete notato che lui sa il fatto suo e quindi non
credo che sia così facile coglierlo impreparato. È vero
che ha cominciato lui e che questo potrebbe averlo distratto, ma pensi
davvero che si sarebbe lasciato colpire? Ha dei riflessi incredibili e,
senza offesa, come puoi anche solo pensare di riuscire ad
eluderli?»
Adam socchiuse gli occhi, mi sembrava quasi di vedere la sua mente
all’opera per dare un senso a quell’improvvisa debolezza di
Sean. «Pensi che me l’abbia lasciato fare?»
Matthew annuì e prese un sorso di tè. «Forse. E
credo anche che ci sia andato leggero con te.»
«Cosa?» Sbottai. «Ma se gli ha quasi rotto uno
zigomo!»
«Vero. Ma se avesse voluto fargli male sul serio adesso lui non
sarebbe in grado di raccontarlo.» Ci fece notare Matthew
sollevando un sopracciglio.
«Si è trattenuto.»
Realizzò Adam.
Matthew sollevò la tazza verso di lui come a congratularsi.
«Esatto.»
Adam scosse la testa, un sorriso incredulo ad incurvargli le labbra.
«Non ha senso… Perché avrebbe dovuto farlo?»
Matthew prese un sorso di tè. «Forse per non perdere
l’appoggio di Scarlett. Insomma, se ti avesse ucciso non credo
che sarebbe stata ben disposta a seguirlo.»
Il pensiero della morte di Adam mi colpì come un pugno nello
stomaco. Non ci avevo mai pensato, perché avrei dovuto farlo?,
ma anche solo sfiorare quell’idea mi metteva i brividi a
prescindere. Lui non poteva, e non doveva morire. Che avrei fatto se l’avessi perso?
Mentre una parte della mia mente mi rimproverava per l’egoismo di
quel pensiero, l’altra si stupì di quanto mi fossi legata
a quel ragazzo di cui sapevo poco eppure tanto nello stesso tempo, quel
ragazzo che mi aveva fatta dannare e che adesso era diventato
importante.
«Quindi sono ancora vivo perché lui vuole Scarlett?»
Domandò Adam, lo sguardo attento e le labbra strette.
Matthew annuì, di colpo serio. «Io credo di sì. Tu
sei quasi il suo collegamento con lei, senza di te non avrebbe
più né Scarlett né un branco, che gli piaccia
oppure no.»
Le loro parole mi giungevano ovattate, quasi prive di significato.
L'unica cosa che riuscivo a pensare era che se fosse successo
qualcosa ad Adam non me lo sarei mai perdonato, e probabilmente avrei
anche faticato da morire a superarlo.
Avevo bisogno di Adam Meyers nella mia vita tanto quanto lui aveva bisogno di starmi lontano per poter vivere tranquillamente.
SPAZIO AUTRICE: Ehilà!
Ve l'avevo detto che gli scontri Adam vs Sean non erano finiti, no?
Ecco, questo è uno dei più intensi, ma nonostante questo
Sean si è comunque trattenuto. Che lo voglia o no, ha bisogno di
Adam per poter avere Scarlett.
In questo capitolo abbiamo avuto anche uno dei miei momenti Adamett
preferiti *-* Quello che preferisco in assoluto arriverà
esattamente tra dieci capitoli <3
L'altra volta vi ho detto che mancavano una decina di capitoli alla
fine, in realtà credo siano un po' di più. Dovrebbero
essere in tutto 42/43, ma nel revisionarli può darsi che faccia
un po' di collage e che quindi il numero diminuisca, chissà.
Uh, nel prossimo capitolo scoprirete che cosa nasconde il nostro lupo
brontolone, ovvero Sean, finalmente saprete che cosa ha passato prima
di arrivare a Seattle **
Qualche ipotesi così, a caldo?
Vi saluto, al prossimo capitolo <3
TimeFlies
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Capitolo 30 *** 30. Adam ***
Under a Paper Moon- capitolo 30
30. Adam
«Quindi… vuoi parlargli di nuovo…» Disse
Scarlett cercando di usare un tono neutro.
Era seduta sul sedile del passeggero accanto a me e mi studiava di
sottecchi convinta che non me ne accorgessi. La conversazione con
Matthew sembrava averla un po’ turbata nonostante stesse cercando
di nasconderlo.
Mi lasciai sfuggire un mezzo sorriso. «Sì,
perché?»
«Ah, no, così, per sapere. Almeno tengo pronta
l’ambulanza.» Commentò sollevando un sopracciglio
con aria critica.
Scossi la testa. «Voglio solo parlare, okay? E questa volta non
ci saranno scontri.»
«Mmh.» Non era convinta. Per niente.
«Andiamo Scar, non ti fidi di me?» Chiesi lanciandole
un’occhiata.
«Sì, certo.» Non esitò neanche per un attimo.
«Ma voglio anche rivederti tutto intero. Secondo me non è
una buon’idea parlare con lui. Non subito almeno.»
«Devo farlo. Ci sono delle cose che voglio chiarire ed è
meglio farlo il prima possibile.» Risposi.
Si strinse le braccia al petto. «D’accordo, sì,
magari ci sono dei dettagli di cui discutere, ma ricordati che ti ha
quasi rotto uno zigomo oggi. Chi ti dice che non lo
rifarà?»
Mi lasciai sfuggire una smorfia ricordando quel momento. «Non ho
intenzione di attaccarlo stavolta. Aggredirlo non è servito,
l’ho imparato a mie spese, quindi cercherò di essere
più gentile.»
«Lo spero per te. E spero anche lui non dia in
escandescenze.» Rimase in silenzio per un attimo, come se stesse
riflettendo, prima di aggiungere: «A proposito, come lo spieghi
ai tuoi? Il livido intendo.»
Scrollai le spalle. «Non so, mi inventerò qualcosa.»
«Puoi dire che sei caduto.» Propose lei con noncuranza.
«Sulla faccia?» Chiesi lasciandomi sfuggire un sorriso.
Lei sollevò le sopracciglia. «La gente riesce a cadere in
modi molto strani.»
«Non penso che i miei ci crederebbero. Insomma, se lo dicessi a
te tu cosa penseresti?» Chiesi lanciandole un’occhiata.
«Che stai mentendo.» Ammise con un sospiro. «Okay,
quindi ti serve una buona scusa.» Mi mise una mano sul braccio e
mi guardò con aria grave. «Buona fortuna.»
Scossi la testa e sorrisi, mio malgrado. «Grazie per l’aiuto, davvero.»
Si appoggiò al sedile. «Ho solo fatto il mio
dovere.»
A parte il suo umorismo discutibile, sembrava essersi rilassata e
questo tranquillizzò anche me. Da quando era quasi morta,
continuavo a ritrovarmi ad osservarla, a tenerla d’occhio, come
se avesse potuto avere una ricaduta da un momento all’altro. Era
impossibile, ovviamente: la ferita si stava cicatrizzando bene, nel suo
corpo non c’era più traccia d’argento e, via via che
i giorni passavano, riacquistava forza ed energia. Stava bene, lo
sapevo, ma quella strana ansia c’era ancora.
Accostai la macchina al marciapiede di fronte casa sua. «Siamo
arrivati.»
«Grazie.» Mormorò. Poi sollevò timidamente lo
sguardo su di me e mi osservò da dietro le lunghe ciglia.
«Ci vediamo domani? A scuola, o dopo.»
«Sì, certo.» Confermai con un sorriso.
I suoi occhi da cerbiatto si illuminarono. «Bene.»
Si sporse verso di me come faceva ogni volta che ci salutavamo. Fece
per darmi un bacio sulla guancia, ma si fermò, esitante. Sentivo
il suo respiro sulla pelle e il suo profumo di cannella. Alla fine,
dopo aver sospirato, Scarlett premette le labbra sulle mie per pochi
secondi. E io mi resi conto che, segretamente, ci avevo sperato.
«A domani.» Sussurrò con un mezzo sorriso che
ricambiai.
Continuai a sorridere anche mentre la guardavo scendere
dall’auto, camminare verso la casa, aprire la porta ed entrare.
“Accidenti”, pensai, “che mi stai facendo
Scar?”.
Mi ero quasi dimenticato del livido quando rientrai a casa, soprattutto
perché non faceva male. E perché il ricordo di Scarlett e
dei suoi baci era un’ottima distrazione.
Mi chiusi la porta alle spalle e salutai Cora con una carezza tra le
orecchie. Lei scodinzolò, soddisfatta da quelle attenzioni.
«Tesoro, sei tornato… Oh mio Dio!»
Sollevai lo sguardo e trovai mia madre che mi fissava con aria
scioccata. Indossava una camicetta bianca sotto un cardigan rosso e dei
pantaloni eleganti neri. Aveva raccolto i capelli in uno chignon, come
al solito. Per un attimo mi chiesi il perché di quella reazione,
ma poi mi ricordai dello scontro con Sean e del segno che mi aveva
lasciato. E io dovevo aver preso da qualcuno la mia avversione per la
violenza.
Annabeth mi si avvicinò e sfiorò il livido. «Che
hai combinato? Oddio…»
«È tutto okay, davvero. Non è niente.» Tentai
pur sapendo che non mi avrebbe ascoltato.
Una ruga di preoccupazione le solcava la fronte. «Niente? Ti
sembra niente? Oh, tesoro… Che è successo?»
Feci per rispondere, ma mio padre, entrato in quel momento in corridoio
dal salotto, mi interruppe: «Ah però. Qualcuno qui ha
fatto a botte, eh?»
Gli lanciai un’occhiata ammonitrice: parlare di risse davanti a
mia mamma era una pessima idea. Infatti, lei divenne ancora più
pallida e spalancò gli occhi.
«A botte?» Ripeté con un fil di voce.
«No, niente botte.» Replicai. «Ho solo… uhm,
avuto una discussione con un altro ragazzo.»
«Che, tradotto, significa che hai partecipato ad una
rissa.» Commentò mio padre incrociando le braccia al petto
e tendendo le cuciture della camicia che indossava.
Mia madre strinse le labbra e trasse un respiro profondo. «Va
bene, va bene. Ne parliamo dopo. Adesso vado a prenderti un po’
di ghiaccio.»
Il suo atteggiamento partico e risoluto era tornato, glielo si leggeva
negli occhi, e la linea severa della bocca lo confermava. Prima che
potessi protestare, si voltò e marciò in cucina. Sospirai
e mi passai una mano nei capelli, esasperato.
«Un piccola rissa quindi, niente di serio.» Disse mio padre
guardandomi con un sopracciglio alzato.
«Non c’è stata nessuna rissa.» Sbottai.
«Abbiamo solo avuto… un diverbio.» Che poi non era
troppo lontano dalla verità. Più o meno.
Socchiuse gli occhi. «Un diverbio. Mmh.»
«Davvero. Solo un malinteso.» Confermai.
Annuì e mi mise una mano sulla spalla. «Beh, spero che tu
gli abbia reso il favore.» E mi strizzò l’occhio
prima di tornare in salotto seguito a ruota da Cora.
Alzai gli occhi al cielo: se io e mia madre eravamo i diplomatici della
famiglia, quelli che preferivano parlare e chiarire a parole, mio padre
e Louis erano i fedeli sostenitori delle maniere forti. In ogni
situazione.
Non mi erano mai piaciuti gli scontri fisici, ancora meno la violenza
in generale, ma visto che dovevo affrontare un argomento molto delicato
con un tipo lunatico ed imprevedibile come Sean, nessuna
possibilità era da escludere.
Ovviamente avrei voluto evitare un altro litigio che poteva concludersi
molto male. In fondo, volevo solo chiarire alcune cose così da
avere una visione più chiara di lui e di come pensava. E poi,
volevo delle risposte.
Prima di lasciarmi partire, dopo le lezioni, Scarlett si era
raccomandata di fare attenzione e di non esagerare, sottintendendo che
non avrebbe gradito un altro livido. E io non ero riuscito a non
sorridere: quando si preoccupava aveva la tendenza ad aggrottare la
fronte e a stringere le labbra tra una frase e l’altra. Erano
piccoli gesti di cui non si accorgeva, ma che io notavo senza neanche
rendermene conto.
Le avevo promesso che non avrei fatto nulla di avventato e lei si era
rilassata appena: finché non mi avesse rivisto non si sarebbe
tranquillizzata del tutto. Mi sarebbe piaciuto baciarla di nuovo, lo
ammetto, ma non sapevo come avrebbe reagito. Le altre volte era stata
lei a prendere l’iniziativa, ma eravamo sempre stati soli in quei
casi; in quel momento, invece, eravamo nel cortile della scuola,
davanti a tutti. Alla fine le avevo dato un semplice bacio sulla fronte
che l'aveva fatta sorridere.
Mi aveva messo di buon’umore, e speravo che questo mi avrebbe
aiutato a mantenere la calma con Sean. Sempre che fossi riuscito a
trovarlo: non avevo idea di dove fosse. Speravo che avesse deciso di
tornare nel cottage nel bosco che ormai era quasi il nostro quartier
generale.
Non aveva le chiavi, ma qualcosa mi diceva che questo non era un
problema per lui. Mi resi conto di sapere poco di lui, davvero poco.
Sapevo che era un licantropo, ma non da quanto. Sapevo che aveva
venticinque anni, ma non cosa aveva fatto fino a quel momento. Sapevo
che, in un certo senso, voleva proteggere Scarlett, ma non avevo
assolutamente idea del perché.
Lui invece sembrava sapere tutto, dava l’impressione di avere
ogni cosa sotto controllo e aveva anche un carattere molto spigoloso.
Sospirai e mi passai una mano tra i capelli. Dovevo rimanere calmo per
riuscire a gestire bene la situazione, e la sua reazione, che poteva
essere positiva come no.
La scuola non era troppo lontana dal cottage, venti minuti di macchina,
quando non c’era traffico, erano più che sufficienti per
raggiungerlo. In quel momento, però, avrei quasi preferito che
il viaggio durasse di più. Invece la casa era lì, a pochi
metri da me, tranquilla e avvolta dal bosco come sempre. Parcheggiai
accanto alle scale del portico, trassi un respiro profondo e scesi
dall’auto chiudendomi lo sportello alle spalle. Salii sul
porticato pensando a come cominciare il discorso: niente toni
aggressivi né domande troppo personali, questi erano i punti
fermi che mi ero posto visto che sembravano le cose che gli davano
più fastidio.
«Cercavi qualcosa?» Chiese una voce familiare.
Trasalii e mi voltai di scatto: Sean era appoggiato al muro con le
braccia conserte e mi guardava con aria sospettosa. Ovviamente, grazie
alla licantropia, dello scontro del giorno prima non era rimasto nessun
segno, neanche un accenno di livido. Si era messo in un punto
all’ombra ed era stato così silenzioso che non mi ero
accorto fosse lì. La giacca di pelle marrone scuro contribuiva a
nasconderlo allo sguardo. Come al solito, indossava dei jeans neri e
una maglietta. Sembrava quasi che volesse fondersi con le ombre.
Sospirai: cominciavamo bene. «Cercavo te.»
Sollevò appena un sopracciglio, ma fu questione di un attimo
prima che tornasse cupo come prima. Senza degnarmi di un altro sguardo,
fece qualche passo avanti fino ad arrivare alla ringhiera, a cui si
appoggiò con gli avambracci.
«Che c’è? Non ti è bastato ieri? Vuoi il
bis?» Domandò con voce piatta.
Alzai gli occhi al cielo felice che non potesse vedere la mia
espressione. «No, voglio solo parlare.»
Vidi le sue spalle tendersi. «Ah sì? L’ultima volta
non è finita bene.»
«Lo so.» Risposi. «Ma adesso non voglio litigare.
Vorrei solo che tu rispondessi a qualche domanda.»
Si lasciò sfuggire una smorfia. «Vuoi farmi il terzo
grado, ragazzino?»
Esitai per un attimo. «Voglio capire. Perché sei qui,
perché hai salvato Scarlett, perché sembri avercela con
in mondo.»
«Ho i miei motivi.» Era tornato ad essere coinciso come
sempre.
Assecondarlo mi sembrò la cosa più logica da fare.
«Sì, lo immagino. Ma… è difficile fidarsi se
non sappiamo niente di te.»
«Parli al plurale, però sei solo tu che hai
difficoltà con questa cosa.» Commentò.
«Beh, Matthew sembra conoscerti e Scarlett… in un certo
senso ti conosce un po’ anche lei. Io no.» Spiegai
distogliendo lo sguardo.
«Mmh.» Fu la sua unica risposta.
Chissà perché la presi come un via libera. «Per
esempio… perché ce l’hai tanto con i
cacciatori?»
Serrò la mascella. «Che domanda idiota… Secondo te? Loro cacciano
quelli della mia specie, come se fossero bestie comuni. Mi sembra un
buon motivo per odiarli.»
«Sì, okay, questo l’avevo capito, ma sembra che per
te sia una cosa personale. Come se ti avessero fatto un torto.»
Gli feci notare studiandolo di sottecchi per valutare la sua reazione.
«Non hai voluto nessun aiuto contro i cacciatori che avevano
preso Scarlett e sembravi… sembrava che ti volessi
vendicare.»
Chiuse gli occhi e trasse un respiro profondo. «Il fatto che
abbiano sterminato la mia famiglia ti sembra una buona ragione per
volere una vendetta? A me sì.»
Rimasi senza parole e lo guardai, incredulo. «Hanno sterminato la tua famiglia?»
«Non è solo per quello, in realtà, ma sì,
l’hanno fatto.» Confermò.
«Gli stessi che hanno preso Scarlett?» Riuscii a chiedere.
«Non quello stesso cacciatore, ma la sua famiglia si è
divertita parecchio a darmi la caccia.» La sua voce era gelida,
non tradiva nessuna emozione. Mi lanciò un’occhiata da
sopra la spalla come se avesse voluto controllare l’effetto delle
sue parole. Prima che potessi anche solo pensare di rispondere,
aggiunse in tono misurato: «È una storia piuttosto lunga,
non so se ti interessa tutta.»
Quella frase mi sorprese ancora di più: era disposto a
raccontarmi il suo passato? Solo il giorno prima mi aveva minacciato e
adesso era arrivato a fidarsi di me al punto da volermi parlare di
quello che sembrava essere il periodo più buio della sua vita.
«Ho tempo.» Dissi semplicemente.
Sollevò di colpo lo sguardo sul bosco davanti a sé e
annuì piano. «Non sono americano. Il mio cognome è
Leblanc, vengo da Toronto. Sono nato licantropo, come i miei genitori e
gran parte della mia famiglia. Quelli come noi sono chiamati licantropi
di nascita e godono di un certo prestigio perché i nostri poteri
sono più forti, un po’ perché abbiamo più
tempo per imparare a padroneggiarli, un po’ perché i geni
della licantropia fanno parte di noi da sempre.
Mio padre, Rick, non sembrava un lupo mannaro. Era… molto
umano: amava l’astronomia e sognava di insegnare in un liceo. Mia
madre, Melanie, era una donna bella e fiera. Amava la sua famiglia e
avrebbe fatto di tutto per proteggerla. Era lei quella con i piedi per
terra. Avevo anche una sorella maggiore, Christine. Lei
era…» Gli si spense la voce per un attimo, e mi
lanciò un’altra occhiata, di nuovo guardingo, prima di
continuare: «Eravamo felici, credo. Mio padre teneva molto
all’istruzione, così, quando finii il liceo, mi
mandò a Washington al college, dove conobbi Matthew.
Poco dopo la mia partenza mia madre mi disse che Christine
aspettava un bambino e ne erano tutti felici anche se il ragazzo di lei
aveva deciso di lasciarla. Mia madre adorava i bambini, quindi fu
felice di riprenderla in casa. Sembrava andare tutto bene, il college
era un ottimo istituto, Christine era felice, i miei anche di
più. Poi mi dissero dell’attacco.
Di solito i cacciatori non colpiscono oltre il confine, si
limitano a cacciare negli Stati Uniti. Sono una cosa di qui, negli
altri paesi se ne trovano molti pochi e quei pochi si limitano a
difendersi, non attaccano mai.» Un sorriso amaro gli
sfiorò le labbra mentre scuoteva piano la testa. «Voi
americani invece dovete sempre prendere l’iniziativa.»
Rimasi in silenzio, completamente a corto di parole.
Lui chinò la testa, il sorriso che si spegneva ogni secondo che
passava. «Non risparmiarono nessuno. Il bambino di mia sorella,
Isaiah, era nato pochi mesi prima, io non avevo ancora avuto occasione
di vederlo. Uccisero anche lui. Non sapevamo neanche se era un
licantropo o no… Il padre era umano…»
Arricciò appena le labbra in una smorfia, ma non avrei saputo
dire se era di dolore o di fastidio. « Non ricordo chi mi disse
cos’era successo, ma quando lo venni a sapere capii che non ci
sarebbe voluto molto prima che trovassero anche me. Fino a quel momento
avevo frequentato solo umani, ma da allora capii di dover sfruttare la
mia licantropia.
Cambiai compagnie e non ci volle molto perché qualcuno
cominciasse ad interessarsi a me: i lupi sono animali sociali, hanno
bisogno di un braco e spesso e volentieri di una guida. Non mi era mai
interessato diventare un capobranco, ma se volevo sopravvivere non
avevo scelta. Visto che ero un licantropo di nascita in qualche modo mi
vedevano forte e potente e io glielo lasciai credere. Nel giro di un
mese avevo sei lupi con me. Erano stati tutti morsi e nessuno di loro
aveva una storia felice, ma sapevano il fatto loro, a me bastava
questo. Per uno giovane come me avere sei lupi al seguito era un grande
traguardo, in fondo, avevo solo diciannove anni.
Ci guadagnammo il rispetto di molti licantropi lì a
Washington. Reggere quel tipo di pressione non è facile, e non
avevo ancora superato la morte dei miei e di Christine, così
finii per diventare quasi apatico, con tutti. L'indifferenza è
un'arte che si impara col tempo, ma non sempre è un bene: a
volte ti rende cieco e sordo a ciò che ti circonda, anche a chi
tiene a te. E io avevo delle persone che tenevano a me, il mio branco
non mi rispettava solo come capo, ma anche come persona. Soprattutto
Olivia. Era una lupa di venticinque, sempre pronta ad aiutare gli
altri. Si era sposata giovane, ma quando il marito aveva scoperto che
era incinta l’aveva lasciata e lei, dopo un incidente
d’auto, aveva perso il bambino. Per certi versi, mi aveva
ricordato Christine, così l’avevo voluta con me.
Gli altri erano Joey e Mark, lupi della mia età che avevo
conosciuto in un locale, Arthur, che aveva poco più di
trent’anni, Felix, una lupa cinese di vent’anni e Amy, una
mia compagna di corso. Eravamo tutti diversi tra noi, ma in qualche
modo funzionava. Rimanemmo tranquilli per un po’ e così
riuscii a stringere qualche alleanza con altri lupi: avere conoscenze
in giro per la città è sempre utile, soprattutto quando
hai dei cacciatori sulle tue tracce.
Infatti, qualche mese dopo, mi giunse voce che dei cacciatori era
arrivato a Washington. Mi informai e venni a sapere che si trattava del
gruppo del figlio del cacciatore che aveva ucciso la mia famiglia.
Odiavo scappare, e lo odio tutt’ora, lo considero un gesto da
codardi, ma non avevo scelta. Io e il mio branco lasciammo Washington
per spostarci lungo il confine con il Canada. I cacciatori ci seguirono
e da lì cominciò una vera e propria caccia.
Continuavamo a spostarci seguendo il confine nella speranza di
far perdere loro le nostre tracce. A volte camminavamo, altre volte
rubavamo auto o furgoni, altre ancora prendevamo autobus o treni.
Cercavamo di mettere più distanza possibile tra noi e loro. Ma i
cacciatori avevano più mezzi di noi, erano avvantaggiati. Joey e
Mark furono i primi ad essere uccisi, erano giovani e sottovalutarono
il pericolo.» A quel punto la sua voce aveva perso ogni
inflessione, era piatta, come se quelle cose non lo riguardassero in
prima persona. Guardava fisso davanti a sé, ma non sembrava
vedere niente. «Amy decise di abbandonare, disse che non ne
valeva la pena. Arthur si arrabbiò molto per questo, credo fosse
innamorato di lei. L’accusò di essere una traditrice e di
essersi unita a noi solo per avere protezione. I cacciatori la
trovarono il giorno dopo che ci aveva lasciato, la uccisero
all’istante.
Eravamo rimasti in quattro ed avevamo quasi raggiunto
l’altra costa del Paese. Ma, in qualche modo, i cacciatori
avevano annullato il distacco. Eravamo in un bosco da qualche parte ad
ovest di Seattle. Non so quanto fosse vicino, evidentemente non
abbastanza. Eravamo a piedi, avevamo dovuto lasciare l’auto
chilometri prima, ed era notte. Non c’era neanche la luna piena
ad aiutarci: se ci fosse stato il plenilunio avremmo avuto una
possibilità di batterli, o almeno di resistere un po’ di
più.
Eravamo in fuga da troppo, erano settimane che non dormivamo su
un letto e… avevamo paura. Pensavamo di essere al sicuro tra gli
alberi, ma, quando Felix fu colpita da una freccia, capimmo che non era
così. In qualche modo continuavamo a correre, Dio solo sa dove
trovavamo la forza di farlo. Credo fosse per via dell’adrenalina,
però ad un certo punto anche quella finì. Ci fermammo e
ci nascondemmo dietro alcuni alberi per riprendere fiato.» La sua
voce tremò appena. «Fu allora che colpirono Arthur.
Un’altra freccia dritta al petto. Non avevo idea di dove fossero.
Per quel che ne sapevamo potevamo essere circondati. Arthur era morto,
eravamo solo io e Olivia. Lei mi rassicurava, diceva che potevamo
farcela, che Seattle era vicina. Poi colpirono anche lei.» Chiuse
gli occhi, le labbra contratte in una smorfia. «Quelle
dannatissime frecce erano d’argento. Non ebbi neanche il tempo di
rendermi conto che lei non c’era più: colpirono anche me,
alla spalla.» Si voltò verso di me e scostò il
colletto della maglietta: appena sotto la clavicola c’era una
piccola cicatrice bianca a forma di stella. «Non so perché
lo feci, forse fu semplicemente la paura, ma mi strappai la freccia
dalla carne e ripresi a correre. Sapevo che forse sarei morto, i
cacciatori potevano essere davanti a me, però non
m’importava. Non più. Non mi fermarono, non sentivo
neanche il loro odore. Raggiunsi la periferia di Seattle senza sapere
dove andare.
Avevo perso tutto, famiglia, branco… Non mi rimaneva
niente. Poi mi imbattei in Scarlett. Era piccola all’epoca,
piccola eppure coraggiosa. Era in un bosco vicino ad una villa e
sembrava perfettamente a suo agio. Per questo e perché il mio
istinto mi disse che poteva reggerlo, che era forte abbastanza, la
morsi.» Mi guardò negli occhi, il verde-grigio dei suoi
acceso da un accenno d’oro. «Questo è perché
odio i cacciatori. Il motivo per cui ho deciso di salvare Scarlett
è il fatto che il capo dei cacciatori che l’hanno presa
era il fratello di quello che inseguì me e il mio branco lungo
il confine. Inoltre, in un certo senso lei è il mio nuovo
branco, è mio compito proteggerla. E se sembro avercela con il
mondo è perché non riesco a perdonarmi tutte le morti che
mi sono lasciato dietro.»
Non mi aspettavo niente del genere. Pensavo che avesse avuto
un’infanzia non proprio felice e che, in quanto licantropo,
avesse avuto qualche complicazione nella vita, come Scarlett, ma quello
che aveva detto superava ogni mia possibile immaginazione. Non riuscivo
a credere che una persona che aveva sofferto tanto fosse riuscita ad
andare avanti. Dove aveva trovato la forza, la motivazione? Cosa lo
spingeva a continuare a vivere?
Mi resi conto che il suo racconto, ovvero quello che avrebbe dovuto
togliermi ogni dubbio, aveva fatto nascere molti altri interrogativi.
Strinsi le labbra e distolsi lo sguardo. Nonostante tutti gli scontri
che avevamo avuto, stavo cominciando a rivalutare Sean: doveva essere
incredibilmente forte se era riuscito reggere per tutto quel tempo.
Forte e determinato.
«Mi… mi dispiace.» Mormorai. «Non immaginavo
che…»
Si voltò di nuovo verso il bosco, dandomi le spalle. «Non
potevi immaginare niente, ragazzino, come avresti potuto? Non ho mai
detto niente di me.» Si bloccò prima di trarre un respiro
profondo. «Non ti ho dato molti motivi per fidarti di me, ma
è perché sono abituato a contare solo su me stesso.
Sempre. Gli altri sono un intralcio.»
Alla fine, era una reazione istintiva. Se non ti leghi a nessuno, se
non permetti a nessuno di avvicinarti, nessuno può ferirti.
«Io e te, però, abbiamo qualcosa in comune.»
Aggiunse come se stesse pensando ad alta voce. I suoi occhi
grigio-verde mi lanciarono un’occhiata vagamente interessata.
Aggrottai la fronte. «Cosa?»
«Entrambi volgiamo proteggere Scarlett: tu la vuoi felice, io la
voglio viva.» Spiegò con un sospiro. «Se lavoriamo
insieme potremmo anche riuscire a realizzare tutti e due i nostri
obbiettivi.»
«Insieme?» Ripetei sorpreso. «È… strano detto da te.»
Trasse un respiro profondo. «Quei bastardi potrebbero tornare a
farsi vedere, e voglio essere preparato. Se saremo in due a tenere
d’occhio Scarlett, ci sono molte più probabilità
che resti viva. E forse anche felice.»
Sembrava che quel giorno fosse molto in vena di parlare, al contrario
del solito. E i suoi ragionamenti dimostravano anche grande
intelligenza e un intuito molto fine. Sembra che stesse sempre
progettando qualcosa, dava l’impressione di avere
sempre una tattica per raggiungere i suoi obbiettivi. Quel ragazzo era
una sorpresa continua.
«Okay, sì, mi sembra un buon piano.» Convenni.
«Ma dobbiamo fidarci l’uno dell’altro per fare in
modo che funzioni.»
Si voltò verso di me con un sopracciglio alzato. «Sai,
forse anch’io ti ho giudicato troppo in fretta: sei piuttosto
sveglio per essere un ragazzino. Ma la fiducia è una cosa
grossa, forse è meglio partire con una semplice
collaborazione.»
Mi trattenni dall’alzare gli occhi al cielo: poteva essere forte
e furbo quanto voleva, però a volte era terribilmente irritante.
Ma sapevo di aver bisogno di lui: Sean poteva essere sia un nemico
terribile, sia un ottimo alleato. E io avevo la netta impressione che
da quel momento sarebbe dipeso quale ruolo avremmo giocato l’uno
nei confronti dell’altro.
SPAZIO AUTRICE: Ehilà!
Come vi avevo anticipato, finalmente anche Sean si è aperto e ha
svelato qualcosa di sé. Ma non è detto che l'abbia fatto
perché si fida di Adam, anzi. Chi dice che non sia tutta una
strategia per convincerlo a collaborare? Il nostro Lupo Brontolone,
infatti, non lascia mai niente al caso.
Io continuo a shipparli questi due, comunque. Certo, gli Adamett sono
LA coppia, ma anche loro due hanno una certa chimica. (O magari lo vedo
solo io...)
Comunque, siamo al capitolo 30! Mi sembra incredibile essere arrivata
fin qui *-* Ne mancano circa 12 alla fine, ma potrei fare, come avevo
già detto, qualche ritaglio e collage. Aspettatevi molti feels
in questa ultima parte di storia.
Oh, quasi dimenticavo, il 15 giugno è stato l'anniversario della pubblicazione del primo capito!
Bien, vi saluto. Ci vediamo al prossimo capitolo <3
TimeFlies
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Capitolo 31 *** 31. Scarlett ***
Under a Paper Moon- capitolo 31
31. Scarlett
«Lo
sapevo!» Scattò Beth quando la modella che le piaceva meno
venne eliminata. «Te l’avevo detto che non avrebbe fatto
strada.» Aggiunse prima di prendere una manciata di popcorn.
Sorrisi e scossi la testa. «Okay, okay, avevi ragione. E non te li mangiare tutti!»
Mi diede una spintarella scherzosa. «Fanno ingrassare, ti sto
facendo un favore.»
Alzai gli occhi al cielo e rubai qualche popcorn dalla ciotola che
aveva in mano. Eravamo l’una accanto all’altra sul divano
di casa sua, nel suo salotto. Era una stanza luminosa, come piaceva a
sua madre, con una grande finestra di fronte alla porta, mobili moderni
dai colori chiari, pareti color crema e quadri dalle tinte vivaci.
Tutta la casa di Beth era piena di luce e aveva uno stile molto
moderno.
Mentre Beth mangiucchiava popcorn commentando la puntata, il mio
cellulare vibrò. Lo presi dalla tasca dei jeans: c’era un
messaggio di Adam. Diceva che aveva parlato con Sean e che era
sopravvissuto. Mi morsi un labbro per nascondere un sorriso:
l’effetto che mi faceva quel ragazzo era incredibile.
«Qualcuno di speciale?» Chiese Beth lanciandomi
un’occhiata ammiccante.
Minimizzai la cosa con un gesto della mano. «No, niente di
che.»
Il suo sguardo si fece eloquente. «Tesoro, hai sorriso e ti si sono illuminati gli occhi: questo non è niente.»
Prima che potessi anche solo pensare ad una risposta che non mi
mettesse troppo nei guai, lei aggiunse: «È un ragazzo,
vero?»
Valutai per un attimo l’idea di mentirle, di dire che era un
Tweet del mi autore preferito che annunciava la pubblicazione di un
nuovo libro, ma ci ripensai: dovevo dirglielo prima o poi, ed ero
piuttosto sicura che, se non avessi sfruttato quell’occasione,
non l’avrei mai fatto. Così annuii preparandomi
mentalmente alle conseguenze di quella decisione.
Elisabeth inarcò entrambe le sopracciglia, un luccichio
malizioso che le attraversava lo sguardo. Posò i popcorn e mi
rivolse la sua completa attenzione. «Voglio i dettagli,
tutti.» Decretò.
“No, non li vuoi, fidati”, pensai tra me e me.
«Ecco… Non è che lo conosca poi così tanto,
però…»
«Però ti piace.» Concluse lei per me. «Come si
chiama?»
Abbassai gli occhi torturandomi le dita. Forse non era stata
un’idea così brillante decidere di dirle la verità.
«Lui… uhm… Adam.» Bisbigliai con voce tanto
bassa che faticai io stessa a sentirmi.
La sentii irrigidirsi e fui quasi in grado di vedere il sorriso
scivolarle via dal viso. «Adam? Adam come?»
Pregai mentalmente che le entità superiori mi venissero in
aiuto, ma nessuno si presentò. Niente fulmini, niente sbalzi di
corrente, assolutamente niente. Ero da sola contro una verità
molto scomoda. Mi riempii d’aria i polmoni e sospirai.
«Meyers. Adam Meyers.»
«Il mio ex.» Quella di Beth era un’affermazione
pronunciata con voce talmente fredda e dura che sentii un brivido lungo
la schiena. «Stai uscendo con il mio ex.»
«No!» Mi affrettai a dire. «Cioè, non
ancora.»
Le sue labbra si piegarono in una smorfia. «Intendi che vuoi farlo?»
«Io… Non lo so, Beth, è… complicato.» Balbettai.
Lei sollevò il mento. «Senti, tra me e lui è
finita, per quel che mi riguarda puoi uscirci, baciarlo, andarci a
letto insieme… fare quello che vuoi. Solo, preferirei che me lo
dicessi in faccia.»
Una parte di me stava morendo d’imbarazzo all’idea di
andare a letto con Adam, ma l’altra era più che
consapevole della delusione negli occhi di Beth. «Mi dispiace
tanto… Avrei dovuto dirtelo, ma avevo paura di peggiorare le
cose. E non sapevo proprio come fare.»
Distolse lo sguardo e la vidi serrare la mascella. Rimase in silenzio
per diverso tempo, tanto che arrivai a pensare che stesse programmando
come uccidermi. Quando tornò a voltarsi verso di me,
però, sembrava piuttosto controllata. «Voglio essere
sincera con te, mi da fastidio il fatto che vi vediate. Molto fastidio
perché solo qualche settimana fa io e lui stavamo insieme, e io
ne ero follemente innamorata, e…» Si bloccò e
chiuse gli occhi per un secondo prima di sospirare pesantemente.
«Senti, non voglio litigare con te per lui, non voglio che rovini
anche la nostra amicizia, ma non posso accettarlo così, di
colpo. Mi serve tempe per… metabolizzare la cosa, ecco.»
Annuii imponendomi di rimanere calma quando in realtà mi sentivo
sull’orlo di un precipizio. Non avrei mai pensato che Adam, il
ragazzo con gli occhi color tempesta che mi faceva dannare e stare bene
nello stesso tempo, potesse in qualche modo intaccare il mio rapporto
con Beth, l’unica cosa nella mia vita che era davvero normale.
«Sì, naturalmente.» Riuscii a mormorare.
«E… mi dispiace non avertelo detto prima.»
Beth teneva lo sguardo fisso davanti a sé, l’espressione
perfettamente controllata. «Dimmi solo una cosa. È
cominciato prima, vero? Quando stavamo ancora insieme.»
Mi morsi il labbro fino a farmi male. «Io… credo di
sì. Ma non ce ne rendevamo conto neanche noi.»
Fece un brusco cenno d’assenso prima di aggiustarsi una ciocca di
capelli. «Già. Avevo intuito che c’era qualcosa, ma
preferivo pensare di essere paranoica.»
«Elisabeth…» Comincia pur senza avere idea di cosa
dirle.
«Preferisco saperlo, anche se in ritardo.» Mi interruppe
per poi trarre un respiro profondo. «Te l’ho detto, mi
serve del tempo.»
Mi sembrò di ricevere un pugno nello stomaco. «Certo,
nessun problema.»
Mi lanciò una breve occhiata e fui certa di vedere una lacrima
solitaria sfumata di nero dal mascara scivolarle sulla guancia.
Ero uscita da casa di Elisabeth sentendo una morsa gelida e spietata
stringermi il cuore. Avevo deluso la mia migliore amica, la ragazza che
consideravo una sorella. E per cosa? Per un mio stupido atto
d’egoismo. Per una dannata cotta.
Mi strinsi nella felpa asciugandomi con un gesto stizzito una guancia.
“E adesso sto andando dal ragazzo per cui potrei aver perso
Beth”, pensai con amarezza. Era come essere divisa in due, da una
parte l’amicizia storica con l’esuberante Elisabeth Levine,
dall’altra un rapporto che non avrei saputo definire con Adam
Meyers, il ragazzo dagli occhi color tempesta.
Calciai un sassolino prima di incamminarmi verso il parco dove io e
Adam avevamo fissato tramite messaggio di incontrarci. In realtà
avrei solo voluto stare da sola, crogiolarmi in quel dolore che in
fondo sapevo di meritare. Ma non potevo.
«Scar.» Mi sentii chiamare. E sapevo che c’era solo
una persona che mi chiamava così.
Mi voltai pregando di non sembrare sull’orlo di una crisi di
nervi. E Adam mi stava guardando con quei suoi occhi che erano un cielo
illuminato dai fulmini. Sean, indecifrabile e cupo come sempre, era
accanto a lui, con la sua inseparabile giacca di pelle. Stonava un
po’ con la camicia blu di Adam, che aveva un qualcosa da bravo
ragazzo.
Per puro paradosso, il peso che avevo sul cuore si alleggerì un
pochino. Quando mi avvicinai, Adam accennò un sorriso, ma sapevo
perfettamente che aveva intuito il tumulto che avevo nel petto.
«Ehi.»
Sean non disse niente, si limitò a studiarmi per un attimo con
quel suo sguardo profondo e indagatore. Neanche a lui era sfuggito il
mio essere così combattuta, e come sarebbe potuto essere
altrimenti? Era un licantropo attento e con l’istinto più
che affinato. Di colpo mi ritrovai a pensare che fosse dannatamente
irritante essere come un libro aperto di fronte a loro due.
«Sei vivo. O meglio, siete vivi tutti e due.» Commentai senza entusiasmo.
Adam però sembrava completamente concentrato su di me.
«Stai bene?»
Distolsi lo sguardo imponendomi di mantenere la voce ferma.
«Sì, perché non dovrei? Non sono io quella che ha
discusso con un licantropo.»
«Sei arrabbiata.» Constatò Sean in tono misurato.
«Arrabbiata e scossa.»
Avrei voluto urlargli in faccia che sì, lo ero eccome visto che
il rapporto con la mia migliore amica era appeso ad un filo
sottilissimo, prossimo al precipitare e distruggersi per colpa mia. Ma
non lo feci.
Sean sembrò sul punto di aggiungere qualcosa, ma si
bloccò all’improvviso. Si voltò di scatto verso il
parco alla mia destra, i muscoli del collo tesi, lo sguardo
concentrato. Un attimo dopo capii cosa aveva attirato la sua
attenzione: c’era qualcuno non lontano da noi, e si stava
avvicinando. Grazie ai sensi acuiti dalla licantropia ne percepivo i
passi nell’ebra. Mi tornò in mente la mattina in cui i
cacciatori mi aveva presa, il rumore dello sparo, il dolore lancinante
ed improvviso… No, non poteva succedere di nuovo. Non
l’avrei sopportato.
La persona che spuntò fuori dai cespugli, però, non
sembrava così minacciosa.
Adam aggrottò lo fronte. «La ragazzina?»
Quasi contemporaneamente mi sentii dire: «Denise?»
La reazione di Sean, invece, fu un ringhio basso e rabbioso che mi
aiutò a tornare con i piedi per terra. Lo guardai e mi sorpresi
di quanta furia esprimessero i suoi occhi grigio-verde. Aveva sollevato
il labbro mettendo in mostra le zanne e sembrava pronto ad attaccare.
Denise, al contrario, era terrorizzata. Indossava dei jeans sgualciti e
macchiati e una vecchia felpa un po’ sformata. I lunghi capelli
scuri erano arruffati e le ricadevano sugli occhi. Mi resi conto che le
avevo dato qualche anno di troppo: poteva averne al massimo tredici, ma
ero più propensa a pensare che ne avesse dodici o undici.
Con un altro ringhio, Sean fece per scattare verso di lei, ma Adam lo
bloccò afferrandolo per le spalle.
«Lasciami! Non possiamo permettere che torni dai suoi a fare la
spia.» Sbottò Sean senza togliere gli occhi da Denise.
Lei, dal canto suo, si rabbuiò. «Io non faccio la
spia.»
Sean scattò subito, gli occhi accesi d’oro. «Come
no! Tutti voi luridi bastardi siete delle…»
Grazie al cielo, Adam lo fermò prima che potesse continuare.
«Falla finita. E datti una calmata.»
Mi voltai verso Denise, cauta. «Perché sei qui?»
Lei indicò Sean con mano tremante. «Lui ha mandato mio
papà all’ospedale.»
La risposta del diretto interessato fu un ghigno trionfale. «Ha
avuto quello che si merita. Lui e tutti gli altri.»
Nonostante stesse parlando delle persone che mi avevano quasi uccisa,
fui colpita dalla durezza delle sue parole. In fondo, erano comunque
umani, avevano dei sentimenti. Non ne avevamo dimostrati molti, ma
sapevo che li avevano.
Un po’ mi dispiaceva per quella ragazzina, però
c’era anche il rancore per quello che mi avevano fatto i
cacciatori. L’idea di mostrarmi scontrosa e piena di rabbia come
Sean, però, non mi sembrava giusta, così cercai di essere
un po’ più gentile, anche perché Denise sembrava
molto impaurita. «Non dovresti essere… a casa?»
Lei abbassò lo sguardo con aria colpevole.
«Sì… Ma mia zia non mi piace molto…»
Sean borbottò qualcosa e Adam gli rispose a bassa voce con
quello che sembrava un ammonimento.
«Beh, non dovresti andartene in giro da sola, però:
è pericoloso.» Dissi cercando di usare un tono calmo e
accondiscendente.
«Lo so.» Replicò Denise stringendo le labbra.
«Ma volevo sapere cos’era successo: tutti gli amici di
papà sono in ospedale e mia zia è molto
arrabbiata.»
Lanciai un’occhiata a Sean: aveva davvero mandato tutti quei
cacciatori all’ospedale? Come diavolo aveva fatto? C’erano
fin troppe cose di lui che ancora non sapevo. «Okay, ma noi non
possiamo aiutarti. Tuo padre… lui si è comportato male
con noi.»
«Si è comportato male?» Sbottò Sean.
«Ti ha quasi fatto ammazzare, Scarlett, quello lì è
un sadico.»
Cercai di ignorarlo: dovevo allontanare quella bambina. E subito. Adam
poteva essere veloce e pronto quanto voleva, ma contro un licantropo
arrabbiato poteva fare poco. «Senti Denise, non dovevi venire da
noi. Non… non è giusto. Tuo padre e i suoi amici sono
persone di cui noi non ci fidiamo e non vogliamo avere contatti con
voi.»
«Mi ucciderete?» Chiese lei guardandomi con gli occhi
spalancati.
«Noi non…» Cominciai.
«Se non ti levi dai piedi subito potrei anche farci un
pensierino.» Commentò Sean coprendo la mia voce.
Denise sollevò il mento in segni di sfida. «Io non voglio
andarmene. Voi avete fatto del male al mio papà! E lui non vi ha
fatto niente.»
Dalla gola di Sean proruppe un ringhio basso e profondo che mi fece
accapponare la pelle. Fece per slanciarsi in avanti, riuscii quasi a
vedere i suoi muscoli che scattavano, ma, in qualche modo, Adam
riuscì ad afferrarlo prima che potesse raggiungere la ragazzina.
Si ritrovarono l’uno addosso all’altro, Sean con gli occhi
dorati e le zanne in bella mostra, Adam con le labbra serrate per lo
sforzo di trattenerlo. Rimasi a guardarli, incredula e confusa. Non
riuscivo a muovermi.
Sean borbottò qualcosa di sconnesso tra i ringhi mentre
continuava a spingere per liberarsi. Adam tenno duro, cosa che mi
sembrava quasi impossibile per un altro licantropo, figuriamoci per un
umano.
«Dannazione, lasciami, ragazzino!» Sbottò Sean.
«Io devo… devo…»
Adam lo spinse indietro quel tanto che bastava per guardarlo negli
occhi. «Isaiah.» Disse semplicemente.
Sean trattenne bruscamente il fiato e si bloccò di colpo. Adam
ne approfittò per prenderlo per le spalle e farlo indietreggiare
di un paio di passi. Tempo un secondo e Sean si riprese del tutto.
Puntò lo sguardo su Adam, la mascella contratta, il respiro
spezzato. «Non è la stessa cosa.»
«Sì invece.» Ribatté Adam. «Anche lei
è innocente, non ha colpa per quello che ha fatto suo
padre.» Poi a voce più bassa aggiunse: «Non essere
come loro, non abbassarti al loro livello.»
La rabbia bruciava ancora negli occhi di Sean, sembrava un fuoco
divampante, ma, con mia grandissima sorpresa, lui distolse lo sguardo e
smise di lottare per liberarsi. Com’era possibile che quel nome
l’avesse colpito tanto? Chi era Isaiah? Scossi la testa per
schiarirmi le idee: le domande senza risposta aumentavano, ma adesso
avevo altro di cui preoccuparmi.
Denise aveva seguito con muto stupore tutta la scena e in quel momento
sembrava impressionata e confusa quanto me.
Trassi un respiro profondo. «Denise, senti, devi andartene, okay?
Andartene e non cercarci più. Questa storia è pericolosa,
molto pericolosa. Potresti farti male anche tu.»
Lei mi guardò da dietro alcune ciocche di capelli che le erano
ricadute sugli occhi. «Perché non possiamo essere amici,
andare d’accordo?» Fece un cenno timido verso Adam e Sean.
«Lui mi piace, perché dobbiamo litigare?»
Rimasi senza parole per un attimo: in effetti, un po’ di ragione
ce l’aveva. Perché c’era questa faida tra cacciatori
e licantropi? Anzi, perché le persone avevano sentito il bisogno
di creare i cacciatori? Poi
mi ricordai che Denise aveva detto che uno dei due ragazzi al mio
fianco le piaceva, e diventai sospettosa di colpo: non avevo nessun
diritto, su nessuno dei due, ma se quella piccoletta aveva messo gli
occhi su Adam…
Denise chinò la testa e calciò un sassolino. «Anche
tu mi piaci e mi dispiace che mio papà ti abbia fatto male. A
volte lo fa, e dice che è perché quelle persone sono
cattive. Ma tu non sembri cattiva.»
“Prova a dire un’altra volta che ti piace Adam e vediamo
quanto sono cattiva”, pensò una parte di me. Grazie al
cielo era piccola, così la ignorai e riuscii a tornare
razionale. «Anche… anche a me dispiace per quello che tuo
padre mi ha fatto. Non avrebbe dovuto. Nessuna delle persone a cui ha
fatto ciò che ha fatto a me è cattiva. Sono solo…
diverse.»
I grandi occhi scuri di Denise si soffermarono su di me e per un attimo
mi ricordarono quelli di Beth. «E non possiamo diventare amici?
Se tu perdoni papà possiamo andare d’accordo,
giusto?»
Mi strinsi le braccia al petto col terribile presentimento che la mia
voce avrebbe tremato. «No, Denise, non possiamo. Tuo
padre… Gli uomini come lui hanno portato troppo dolore e
cattiveria alle persone come noi. Non si può semplicemente
perdonare e andare avanti. Neanche chiedere scusa può servire.
Questa è una cosa troppo grande e troppo dolorosa per
noi.»
Lanciai un’occhiata ai due ragazzi al mio fianco: Sean si era
calmato e anche se Adam lo teneva ancora per le braccia, non sembrava
più così desideroso di saltare alla gola della ragazzina.
Anzi, la guardava con un’espressione impassibile in viso, gli
occhi grigio-verde che sembravano di ghiaccio tanto erano duri e
freddi.
«Ne sei sicura?» Domandò Denise con l’innocenza tipica dei bambini.
Non sapeva cosa aveva fatto suo padre, non conosceva tutto il dolore
che i suoi gesti avevano provocato in me e in tanti altri, non
immaginava neanche la crudeltà degli uomini che considerava
amici di famiglia. E non poteva essere altrimenti. Solo che faceva
male.
Scossi la testa e guardai da un’altra parte sentendo le lacrime
pizzicarmi gli occhi. «Sì Denise, non si può solo
fare pace. C’è troppo dolore e troppa rabbia.»
Sembrò delusa dalla mia risposta. «Okay…»
Trassi un respiro tremante. «Adesso… adesso dovresti
andare. Tua zia sarà preoccupata per te.»
Lei annuì senza un briciolo d’entusiasmo.
«D’accordo. Non possiamo più rivederci, vero?»
«No.» Dissi sorpresa che la mia voce non fosse diventata
flebile e insicura. «Non possiamo. E tu non devi cercarci
più.»
«E sarebbe preferibile se evitassi di dire a tuo padre e ai suoi
amici dove siamo.» Aggiunse Adam osservandola cauto.
Denise lo guardò per un attimo, confusa. «Non devo dire
niente?»
Mi inginocchiai davanti a lei per guardarla negli occhi. «No,
Denise. Non devi dire niente a nessuno. Me lo prometti?»
Lei lanciò un’occhiata ai due ragazzi accanto a me e mi
resi conto che quello che stava guardando era Sean, non Adam.
«Sì, te lo prometto.» Decise infine.
Inconsapevolmente, tirai un sospiro di sollievo. «Bene. Ora vai
però, tua zia sarà in ansia.»
Lei fece un piccolo cenno d’assenso, lanciò un ultimo
sguardo a Sean e corse via nel parco. Chissà come aveva fatto a
trovarci… Forse mi aveva seguita, o aveva seguito Adam e Sean, o
magari era stata solo una coincidenza.
Rimasi a guardare i cespugli in cui era sparita, ancora inginocchiata
sul cemento del marciapiede. Mi sentivo uno strano miscuglio di
emozioni nel petto, tensione, rabbia, dolore, ma anche un po’ di
sollievo. Mi venne quasi voglia di piangere, ma mi trattenni: odiavo
farlo, mi sapeva di debolezza.
Qualcuno mi sfiorò la spalla. «Scar…»
Alzai lo sguardò e incrociai gli occhi blu tempesta di Adam che
mi studiavano preoccupati. Abbozzai un sorriso per tranquillizzarlo e
lasciai che mi aiutasse a rimettermi in piedi.
«Va tutto bene?» Chiese con voce dolce.
Annuii e mi scostai una ciocca di capelli dal viso. «Sì,
tutto okay.»
La mia risposta non l’aveva convinto, lo capii subito.
Lanciò un’occhiata a qualcosa alle sue spalle con aria
pensierosa e quando seguii la direzione del suo sguardo mi resi conto
che stava guardando Sean. Se ne stava in piedi a pochi passi da noi, le
braccia abbandonate lungo i fianchi, l’espressione indecifrabile
come sempre, gli occhi grigio-verde persi nel vuoto.
«Ti riporto a casa?» Domandò Adam riportando tutta
la sua attenzione su di me.
Si stava mordendo il labbro, e nonostante tutto quello che era
successo, era una sua abitudine che adoravo.
«Sì, grazie.» Mormorai prima di fargli un piccolo
sorriso incerto.
Lo ricambiò anche se con una punta di tensione. Poi si
voltò verso Sean. «Senti, noi andiamo… Ti serve un
passaggio?»
Sean aggrottò leggermente la fronte e si girò appena
verso di noi senza guardarci. «No, non ce n’è
bisogno. Io… credo che farò due passi.»
Adam annuì anche se lui non poteva vederlo.
«D’accordo. Allora… ci vediamo.»
Sean non rispose, continuava a fissare gli alberi davanti a sé
con aria distratta. Dopo averlo osservato per un attimo, Adam si decise
a voltarsi e farmi cenno di andare. Ci incamminammo fianco a fianco e
per un attimo pensai che avremmo fatto tutta la strada a piedi. Non era
un problema, la casa di Beth non era troppo lontana dalla mia e quello
era un percorso che avevo fatto molto spesso.
«Ho parcheggiato qui vicino, spero non ti dispiaccia camminare un
po’.» Mormorò Adam guardando il marciapiede.
«No, nessun problema.» Lo rassicurai. Un angolo della sua
bocca si sollevò appena in un sorriso. Mentre camminavamo la sua
mano sfiorava la mia e dovetti reprimere più volte
l’impulso di stringerla.
Non volevo ammetterlo, ma l’incontro con Denise mi aveva lasciato
addosso una strana inquietudine, una sensazione sgradevole che non mi
spiegavo e che, sommata al dolore e al rimorso per quello che era
successo con Beth, mi opprimeva il petto. Solo dopo diversi minuti mi
accorsi di avere lo sguardo di Adam addosso, e che sembrava preoccupato
per me. Quando me ne resi conto, però, era tardi per fingere che
fosse tutto a posto.
«Vieni qui un attimo.» Disse con voce roca prima di
prendermi per mano e trascinarmi in un vicolo che non avevo notato.
Si trovata a lato di un condominio di mattoni rossi e la sua posizione
lo nascondeva agli occhi di molti. Non era il posto migliore per
parlare con qualcuno, ma apprezzai molto quella sua preoccupazione. Mi
ritrovai con la schiena quasi contro il muro e con Adam davanti a me,
così vicino che sentivo il suo respiro sfiorarmi la pelle. E,
per la centesima volta, pensai che era davvero bello. Troppo, per stare
con un disastro ambulante come me.
Nessuno di noi due lo disse ad alta voce, ma quando lui aprì le
braccia non esitai a stringermi contro il suo corpo. Non aveva motivo
di starmi accanto, né di sopportare tutto quel casino
soprannaturale per me, eppure lo faceva comunque. Nascosi il viso
nell’incavo del suo collo sfiorandogli, involontariamente, la
gola con le labbra. Come in risposta, lui aumentò appena la
stretta su di me e sentii le sue mani che mi accarezzavano la schiena
con movimenti lenti e gentili.
«Che c’è che non va, Scar?» Chiese a bassa
voce. «Non stai così solo per Denise, vero?»
Chiusi gli occhi stringendo senza rendermene conto la sua camicia tra
le dita. «Ho litigato con Elisabeth prima di venire qui.» Ho litigato con lei per te.
Si bloccò per un attimo, prima di stringermi a sé.
«Mi dispiace, Scar, davvero.» C’era rimorso vero
nella sua voce, una nota dolorosa che mi sorprese. Doveva aver intuito
qualcosa, non c’era altra spiegazione. «Non voglio che
tu…» La sua voce si spense per un attimo e lo sentii
deglutire. «Non voglio che tu la perda, credimi. Se
c’è qualcosa che posso fare…»
Scossi la testa aprendo gli occhi lentamente. «No, tranquillo.
È una cosa tra me e lei. Si risolverà, spero.» Mi
schiarii la gola. «Che vi siete detti tu e Sean?»
Fece correre le dita tra i miei capelli. «Abbiamo parlato un
po’ e siamo giunti ad una conclusione valida per tutti e due.
Qualcosa che ci mette d’accordo.»
Aggrottai la fronte, sorpresa: davvero avevano trovato qualcosa che
andava bene ad entrambi? Ma, soprattutto, cosa aveva messo fine ai loro
litigi, almeno per il momento? «E quale sarebbe questa
conclusione?»
Si scostò appena da me e mi picchiettò con l'indice sul
naso. «Tu. Sei il nostro territorio neutro, diciamo.»
Mi lasciai sfuggire un sorriso. «Davvero? Perché
io?»
«Perché entrambi vogliamo proteggerti.»
Spiegò. «E discutere di continuo non aiuta a farlo, quindi
abbiamo fatto una specie di tregua.»
«Per me?» Mi sembrava impossibile che qualcuno avesse fatto
una cosa del genere per me.
«Sì, per te. Sei il nostro obbiettivo comune. E sei anche
la mia…» Si interruppe e distolse lo sguardo mordendosi il
labbro.
Rimasi a guardarlo, incredula, anche se in realtà non aveva
detto nulla. Ma era bastata quel “mia” a farmi venire i
brividi. E tanta curiosità. Cosa rappresentavo per lui? Una
specie di sorellina da proteggere? Un’amica? Una fonte di
informazioni sulla licantropia?
«È meglio andare adesso.» Aggiunse lui guardando
tutto tranne me.
Sciolse delicatamente l’abbraccio, ma, prima di allontanarsi
ulteriormente, mi infilò una ciocca di capelli dietro
l’orecchio. Le sue dita indugiarono per un secondo sulla mia
guancia e vidi le sue labbra schiudersi appena, però riprese il
controllo di sé come faceva sempre e fece un passo indietro.
Dentro di me maledissi il suo essere così riflessivo e padrone
di sé, ma cercai di non darlo a vedere.
Abbozzai un sorriso e ricominciammo a camminare fianco a fianco.
Quando, per l’ennesima volta, provai l’impulso di prenderlo
per mano e intrecciare le dita alle sue, realizzai che, in effetti,
volevo davvero che mi considerasse più di una semplice amica.
Sì, volevo essere qualcos’altro per lui. Qualcosa di
più importante.
SPAZIO AUTRICE: Ehilà!
Mi dispiace averci messo tanto ad aggiornare, ma ultimamente sono stata un po' impegnata. Comunque, eccoci qui!
Voglio assolutamente ringraziare Christine23
che mi sta dando una mano con questi ultimi capitoli leggendoli in
anteprima per darmi un parere <3 Dovreste passare dal suo profilo
perché è una scrittrice bravissima *-*
In questo capitolo Scar e Beth hanno avuto un confronto non proprio
piacevole che le ha allontanate. Riusciranno a fare pace? Entrambe
devono fare i conti con dei sentimenti piuttosto importanti adesso.
Abbiamo anche rivisto Denise, che sarà importante a modo suo:
spingerà un certo personaggio a fare una certa cosa. Che
farà arrabbiare un altro personaggio. No, non mi piace mettervi
ansia, assolutamente.
Bien, penso di aver detto tutto. A presto <3
TimeFlies
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Capitolo 32 *** 32. Adam ***
Under a Paper Moon- capitolo 32
32. Adam
La
porta d’ingresso del cottage sbatté facendo sobbalzare sia
me che Scarlett. Ci mancò poco che non sbattessimo la fronte
l’uno contro quella dell’altra. Sean entrò in
salotto come una furia imprecando tra i denti e usando parolacce di cui
neanche conoscevo l’esistenza.
Al contrario del solito,
i suoi jeans non erano neri, ma di un blu talmente scuro che la
differenza si notava appena. La giacca di pelle era presente come
sempre, così come una di quelle magliette a tinta unita di cui
sembrava avere una scorta industriale.
Matthew entrò subito dopo di lui tenendo la testa china e
lanciandogli occhiate di sottecchi come a volersi assicurare di non
essere sulla sua linea di tiro. Indossava una camicia di flanella a
quadri e dei jeans semplici.
«’Fanculo!» Sbottò Sean aggiungendo anche un
ringhio per sottolineare il concetto.
Io e Scarlett ci scambiammo un’occhiata confusa prima di
riportare lo sguardo sul licantropo arrabbiato davanti a noi. Dopo
scuola eravamo andati nel cottage per stare un po’ tranquilli e
perché lei aveva bisogno di una mano per un compito di storia:
ormai mi ero improvvisato insegnante di tutte le materie che voleva
ripassare. E avevo smesso di chiederle soldi da mesi.
Scarlett chiuse il libro che teneva in grembo e lo posò sul
divano accanto a sé. «Qualcuno qui si è svegliato
con la luna storta.»
«Resta da capire perché.» Mormorai continuando ad osservare lo sfogo di Sean.
Per un attimo pensai che avrebbe preso a calci la poltrona, invece si
volto di scatto e mollò un pungo al muro. Ne seguì una
sfilza di imprecazioni piuttosto infervorate di cui alcune in francese.
Beh, lui veniva dal Canada quindi era probabile che ne conoscesse
qualche parola. Che fossero proprio quel
tipo di parole non mi sorprendeva più di tanto.
Sospirai e mi alzai spostandomi, quasi inconsciamente, davanti a
Scarlett, come a volerle fare da scudo. «Ti dispiacerebbe dirmi
che sta succedendo? E magari anche smetterla di cercare di distruggere
la casa?»
Sean si voltò verso di me, gli occhi accesi da una lieve
sfumatura dorata, le labbra strette in una linea sottile. Conoscendolo,
ero quasi certo che avrebbe fatto un commento sarcastico concludendolo
con quello che sembrava essere il nomignolo che mi aveva affibbiato,
“ragazzino”. Invece trasse un respiro profondo e si
passò una mano tra i capelli. «Succede che quel gran
bastardo è uscito dall’ospedale. E che non sono riuscito a
rintracciarlo.»
Non ci voleva molto per capire che il “gran bastardo” era
il capo dei cacciatori che avevano catturato Scarlett. Il fatto che
fosse uscito dall’ospedale non era per niente una buona notizia,
quindi capivo la reazione di Sean: lui e i suoi seguaci avrebbero
potuto ricominciare la caccia al licantropo. Questo significava che
Scarlett era di nuovo in pericolo.
«Non sappiamo in che condizioni è, però. Magari ha
qualche osso rotto o che so io.» Tentai pur sapendo che le
possibilità di un colpo di fortuna del genere erano molto vaghe.
Sean scosse la testa. «Non credo. Quando ce ne siamo andati dalla
loro tana l’ho lasciato svenuto a terra. Al massimo poteva avere
un trauma cranico o roba del genere.»
«Potrebbe aver perso la memoria.» Commentò Scarlett
alternando lo sguardo tra me e lui come in cerca di una conferma.
Le labbra di Sean si arricciarono in una smorfia. «Non credo che
saremo così fortunati.»
Mi morsi il labbro. «Quindi che si fa? Aspettiamo e vediamo che succede o…?»
Sean incrociò il mio sguardo e sembrò capire quello che
non avevo detto: toccava a noi fare la prima mossa? Attaccare? I suoi
occhi si incupirono per un attimo, poi lanciò un’occhiata
fugace a Scarlett. «Adesso dobbiamo elaborare una
strategia.» Borbottò prima di buttarsi sulla poltrona. Si
premette le mani sulle tempie, le labbra increspate e tese. «Se
vi dicessi che dobbiamo tornare nella loro tana?»
«Ti prenderemmo per pazzo.» Commentò Matthew
sedendosi sul bracciolo del divano. «Cos’hai in
mente?»
«Devo capire com’è la situazione, avere almeno un
quadro parziale. E se dobbiamo andare lì per
farlo…» Sean sospirò con aria frustrata. «Non
ho fatto tutta questa fatica per poi riportarla nella loro dannata
tana, ma devo valutare la cosa prima di decidere.»
«Per me va bene.» Dichiarò Scarlett.
Ci voltammo tutti a guardarla, sorpresi: proprio lei era
d’accordo su una cosa del genere? Tornare in quel vecchio
edificio dove era quasi morta doveva essere una prospettiva che le
metteva i brividi, ma anche l’idea che i cacciatori fossero di
nuovo in giro non doveva essere facile da mandar giù.
Negli occhi di Sean passò un lampo di quello che sembrava
orgoglio e un sorriso gli sfiorò le labbra. «Bene. Voi due
invece? Ragazzino, tu che dici?»
Tornai a sedermi accanto a Scarlett e mi passai una mano tra i capelli.
«Se serve a mettere fine a questa caccia una volta per tutte
allora dobbiamo farlo.»
Lui annuì appena, soddisfatto. Si voltò verso Matthew.
«Manchi tu.»
Il diretto interessato stava giocherellando distrattamente con il bordo
della camicia. Alzò lentamente gli occhi quando si accorse di
essere stato chiamato in causa. «Oh, ehm, ecco, non mi piace come
idea, ma immagino che non abbiamo molte alternative, giusto?»
«No, non le abbiamo.» Confermò Sean appoggiando le
mani sui braccioli della poltrona.
Matthew raddrizzò la schiena. «Bene, allora
facciamolo.»
Un angolo della bocca di Sean si sollevò in un ghigno.
«Allora datevi una mossa, sfaticati, si parte adesso.»
Detto questo si alzò con un unico movimento fluido e uscì
a grandi passi dalla casa lasciando la porta aperta. Matthew
borbottò qualcosa con aria rassegnata prima di seguirlo.
Feci per alzarmi anch’io, ma Scarlett mi prese la mano e la
strinse come a volermi trattenere lì. Mi voltai verso di lei:
aveva le labbra strette in una linea sottile che tradiva tutta la sua
tensione e i suoi occhi di solito ardenti erano incupiti dalla
preoccupazione.
«Non devi venire per forza… Voglio dire, hai già
fatto abbastanza.» Sussurrò.
Le accarezzai le nocche. «Non mi tiro indietro proprio adesso,
assolutamente.»
Lei annuì appena anche se non sembrava convinta.
Mi allungai verso di lei e le diedi un bacio sulla fronte che
riuscì a farla sorridere. «Ti riporterò a casa sana
e salva, Scar, è una promessa.»
I suoi occhi da cerbiatto tornarono nei miei e sembravano decisamente
più sicuri, più determinati.
Raggiungemmo Matthew e Sean fuori dal cottage. Li trovammo accanto alla
mia auto. Sean ci guardò arrivare un aria critica, le braccia
incrociate al petto, un sopracciglio inarcato.
«Alla buon’ora.» Borbottò.
«Non pensavo fossi così ansioso di tornare dai
cacciatori.» Commentai guadagnandomi un’occhiataccia.
Sospirai e feci il giro della macchina per sedermi al posto di guida.
Matthew si sedette dietro di me, mentre Sean e Scarlett rimasero a
fissarsi, entrambi con una mano protesa verso la maniglia dello
sportello sul lato del passeggero.
“Oddio”, pensai, “ci mancava solo questa”.
Sembrava che nessuno volesse fare la prima mossa, né lasciare il
posto all’altro. Dopo qualche altro secondo di esitazione,
Scarlett sospirò e fece un passo indietro. Sean inarcò un
sopracciglio, ma non perse altro tempo: aprì lo sportello e si
sedette accanto a me. Scarlett prese posto sul sedile dietro di lui
borbottando qualcosa a voce così bassa che non riuscii a capire
cosa dicesse. Forse non era successo nel migliore dei modi, ma avevamo
appena evitato un litigio tra licantropi. E, almeno secondo me, non era
una cosa da poco.
Quando imboccammo la tangenziale, il silenzio regnava sovrano, nessuno
sembrava avere voglia di parlare. In effetti, stavamo tornando nel
luogo doveva avevamo rischiato tutti e quattro la vita, chi più
chi meno, non era una prospettiva che metteva voglia di chiacchierare.
O almeno la pensavo così finché Scarlett non si sporse
dai sedili posteriori e, senza avere la minima idea del tasto che stava
andando a toccare, chiese: «Comunque, chi è Isaiah?»
Sean si irrigidì di colpo, serrò la mascella e strinse i
pugni tanto da far sbiancare le nocche. Gli lanciai un’occhiata
cauta: ero più che consapevole di quanto fosse profondo e
radicato in lui il dolore legato a quel ricordo. Il tono di Scarlett,
curioso e inconsapevole, non doveva essere facile da sopportare. Lei
non aveva colpa, non poteva saperlo, ma avevo l’impressione che
questo non sarebbe bastato a fermare la rabbia di Sean.
Scarlett attendeva una risposta e alternava impazientemente lo sguardo
tra me e lui. Non mi piaceva l’idea di mentirle o nasconderle
qualcosa, ma rispettavo Sean e il suo dolore: parlare, rivelare un
qualunque dettaglio dipendeva da lui. Visto che rimaneva in silenzio e
continuava a fissare la strada davanti a sé cercando di calmare
il respiro, però, capii di dover intervenire per smorzare una
possibile crisi sul nascere.
«Un innocente ucciso dai cacciatori.» Dissi evitando di
guardare Scarlett.
Sembrò sorpresa, ma, quando fece per commentare, fu interrotta
proprio da Sean: «Era il figlio di mia sorella.»
Non potei fare a meno di lanciargli un’occhiata sorpresa.
Scarlett invece annuì appena e strinse le labbra, comprensiva.
Probabilmente aveva intuito che era un argomento delicato.
Matthew fu meno discreto. «Hai una sorella?» Esclamò
sporgendosi e spingendo da parte Scarlett.
Se possibile, Sean divenne ancora più teso. Quando parlò la sua voce fu di ghiaccio. «Avevo
un sorella.»
Quel suo tono così duro e tagliente mise definitivamente fine ad
ogni conversazione. Sia Matthew che Scarlett tornarono ai loro posti
evitando di incrociare lo sguardo di Sean, che stava guardando fuori
dal finestrino con la mascella contratta e i pugni ancora stretti.
Il quartier generale dei cacciatori era esattamente come lo ricordavo,
spoglio, squallido e grigio. Non era cambiato di una virgola dalla
nostra ultima visita. Seguendo le indicazioni di Sean, parcheggiai
dietro un altro vecchio edificio abbandonato in modo da nascondere
l’auto.
Era ovvio che sarebbe stato lui a guidarci e mi andava bene: tra noi
era quello meglio informato e sempre pronto a reagire, qualunque fosse
la situazione. Camminammo cercando di fare meno rumore possibile fino
all’ingresso da cui eravamo entrati io e Sean la prima volta. Non
sapevamo cosa ci saremmo trovati davanti, ma almeno avevamo
un’idea della struttura dell’edificio.
«Non dovremmo lasciare qualcuno a fare il palo?» Propose
Matthew quando varcammo la soglia.
«No.» Tagliò corto Sean senza perdersi in
spiegazioni.
Si mise in testa al gruppo e ci guidò mantenendosi vicino ai
muri in modo da sfruttarne l’ombra. Anche l’interno
dell’edificio non era cambiato, era sempre buio e tetro.
Chissà se avevano la corrente elettrica lì.
«State all’erta, mi raccomando.» Aggiunse Sean a
bassa voce.
Come se ce ne fosse stato bisogno: Scarlett era in tensione, quasi si
aspettasse un attacco da un momento all’altro, e anche io sentivo
il suo stesso nervosismo. Anche Matthew, che chiudeva la fila, era in
guardia e si lanciava di continuo occhiate alle spalle.
Attraversammo gran parte del corridoio senza che succedesse niente di
strano. L’unico rumore udibile erano i nostri respiri e le ombre
rendevano tutto ancora più sinistro, ma non c’erano vere e
proprie minacce. Quando superammo il corridoio che dava sulle celle
Scarlett tremò appena, però rimase salda e concentrata.
Avrei voluto rassicurarla, ma sapevo che non era il momento.
Continuammo a camminare in silenzio finché non arrivammo
più o meno dove doveva esserci la stanza che i cacciatori
usavano per le riunioni. La tensione era palpabile, eppure eravamo
tutti perfettamente controllati. All’improvviso, come a voler
spezzare quella calma apparente, Sean si irrigidì e un secondo
dopo anche Scarlett entrò in tensione. Mi guardai intorno, ma
non c’era niente di sospetto, nulla che potesse risultare
pericoloso.
«Cercavate qualcosa?» Domandò una voce sconosciuta
dall’ombra.
Fu questione di un attimo: Sean snudò le zanne e fece allungare
gli artigli, Scarlett stese un braccio come a volermi tenere dietro di
sé, Matthew trattenne il fiato. Poi si accese la luce e mi resi
conto che quelli davanti a noi erano cacciatori.
Erano in tre, ma sembravano piuttosto sicuri di se stessi. Indossavano
abiti comuni: jeans, magliette, giacche. Avevano un’aria quasi
inquietante, eppure non davano l’impressione di essere violenti.
Infatti, non sembravano neanche essere armati.
L’uomo nel mezzo era alto, aveva i capelli scuri, un’ombra
di barba sulla mascella e strani occhi grigi dall’aria severa.
Sembrava aver visto tempi migliori, però: era pallido, aveva
ombre scure sotto gli occhi e si appoggiava ad una stampella.
Probabilmente era il risultato dello scontro con Sean. Gli altri due
uomini erano grossi e tarchiati, entrambi con i capelli scuri e la
barba un po’ troppo lunga. Anche loro portavano i segni di una
recente lotta: lividi, graffi e bende coprivano gran parte della pelle
che i vestiti lasciavano scoperta.
«Sto aspettando una risposta.» Aggiunse l’uomo nel
mezzo sollevando un sopracciglio.
«Ho saputo che eri stato dimesso e volevo vedere come
stavi.» Replicò Sean senza togliergli gli occhi di dosso.
«Devo ammettere che ho fatto proprio un bel lavoro.»
A quelle parole gli altri due uomini fecero per attaccarci, ma quello
nel mezzo li bloccò con un cenno della mano. Evidentemente era
il capo. «Stiamo bene, come puoi vedere. Un po’ ammaccati,
ma fa parte del mestiere.» Ribatté osservandoci con
cautela.
Un sorriso amaro incurvò le labbra di Sean. «Ne parli come
se fosse qualcosa di rispettabile.»
«Per le nostre tradizioni lo è.» Commentò
l’uomo senza scomporsi.
Riuscii quasi a vedere tutti i muscoli di Sean che si tendevano.
«Uccidere degli innocenti fa parte delle vostre
tradizioni?» Ringhiò con voce di ghiaccio.
L’uomo non rispose, si limitò a fissarlo con espressione
indecifrabile. Sean ricambiò lo sguardo ed ero pronto a
scommettere che i suoi occhi fossero accesi d’oro.
«Dobbiamo ucciderli?» Chiese uno degli uomini ai lati.
Quello nel mezzo si lasciò sfuggire un sorriso amaro.
«Sì, perché no, attaccateli. Così vi rifate
un giro all’ospedale.»
Spalancai gli occhi, incredulo. «Non ci attaccherete?»
Troppo tardi mi resi conto di aver parlato ad alta voce.
L’uomo sospirò. «No. So che ci battereste senza
problemi. Anche perché il tuo amico lì», fece un
cenno col mento verso Sean, «ci ha praticamente dimezzati.»
Scarlett si voltò di scatto Sean con espressione sconvolta.
«Hai ucciso delle persone?»
Lui fece una smorfia. «Certo che no. Puoi accusarmi di molte
cose, ma non di essere un assassino di persone che non possono
difendersi.»
«Che vuol dire non possono difendersi?» Domandò
Scarlett fissandolo. «Quando mi hanno presa erano armati fino ai
denti.»
Un ghigno senza allegria si fece strada sulle labbra di Sean.
«Già, ma hanno la pessima abitudine di lasciare fuori
tutte le armi durante le riunioni.»
«Il nostro primo errore.» Convenne l’uomo tornando a
guardarlo.
«E allora perché hai detto che siete dimezzati?»
Chiese Scarlett osservando l’uomo con aria sospettosa.
«Dopo il suo attacco molti hanno deciso di lasciare i cacciatori
per stare con le loro famiglie. Pensano che non ne valga la
pena.» Spiegò lui con tono stanco.
«Codardi.» Borbottò uno degli uomini ai suoi lati.
«Comunque, io sono Colin. Il giovanotto alla mia destra è
Samuel, quello alla mia sinistra è Tristan.» Aggiunse
l’uomo ignorando il commento. Vedendo che nessuno di noi diceva
niente, domandò: «Voi siete?»
Sean sollevò una mano come a bloccare ogni possibile nostra
risposta. «Non ti servono i nostri nomi.»
Colin aggrottò la fronte: non sembrava soddisfatto da quella
replica evasiva. «D’accordo. Perché siete
qui?»
«Perché chi tocca il mio branco non la passa
liscia.» La voce di Sean era tornata minacciosa e ironica.
Lo sguardo di Colin si spostò su di noi. «Mi ricordo della
ragazza.»
«Anch’io mi ricordo di lui… Soprattutto di quando mi
ha chiamato “roba di lavoro”.» Borbottò
Scarlett stringendosi le braccia al petto.
Colin la studiò per un attimo prima di riportare la sua
attenzione su Sean. «Quindi che vuoi fare?»
Sean finse di pensarci su. «Mi piacerebbe finire ciò che
ho iniziato.» Un sorrisetto sarcastico gli spuntò sulle
labbra. «Magari cominciando da voi.»
Prima che potessi anche solo valutare l’idea che mi era appena
venuta in mente, mi ritrovai davanti a Sean. Lui mi scoccò
un’occhiataccia che sembrava dire “che diavolo stai
facendo?”. Il punto era che nemmeno io sapevo cosa stavo facendo.
«Ragazzino, torna al tuo posto.» Riuscì a far
suonare minaccioso persino un sussurro.
«Una guerra non porterà vantaggi a nessuno.» Risposi
a bassa voce. «Non combattere.»
Aggrottò la fronte e mi guardò con diffidenza, gli occhi
verde-grigio attenti a cogliere il minimo segno di tradimento.
Perché sì, ero abbastanza sicuro che mi considerasse un
possibile traditore. «Che dovrei fare allora?» Chiese senza
riuscire a nascondere una vena di frustrazione nella voce.
Era stata la ragazzina, Denise, a farmi venire in mente
quell’idea. Non sapevo se potesse funzionare, né se fosse
realistica, ma le sue parole mi avevano colpito ed ero pronto a
rischiare il tutto per tutto. Davanti a me, Sean era in attesa, ancora
diffidente e quasi spazientito. Ero più che consapevole di
quanto strano e sbagliato gli sarebbe sembrato, soprattutto considerato
tutto quello che i cacciatori gli avevano fatto passare, ma non potevo
correre il rischio che Scarlett finisse di nuovo nelle loro mani.
«Facciamo un accordo.» Trassi un respiro profondo. «Con i cacciatori.»
SPAZIO AUTRICE: Ehilà!
Mi dispiace averci
messo tanto ad aggiornare, queste ultime settimane sono state piuttosto
impegnate e non ho trovato il tempo di farlo prima.
Questo capitolo
è più breve degli altri - e non mi convince neanche del
tutto - ma penso abbiate intuito che siamo vicini ad una svolta. Adam
ha in mente qualcosa che, anche se pericoloso e mai tentato prima,
potrebbe ribaltare le sorti del gioco. Se prima Sean non lo strozza
ovviamente.
La meravigliosa unannosenzapioggia
ha creato l'altrettanto meraviglioso banner ad inizio capitolo di cui
mi sono follemente innamorata. Colgo l'occasione per ringraziarla di
nuovo *-*
Un'altra cosa, da
mercoledì 27 fino a domenica 7 agosto sarò al mare e non
so se avrò la Wi-Fi - anche se lo spero vivamente. Volevo
avvisare sia voi che, se ci sono, i lettori di SIN: dovrete aspettare
un po' più del solito per il prossimo capitolo, ma spero che ne
varrà la pena.
Spero che questo capitolo vi sia piaciuto! Ci vediamo col prossimo ^^
TimeFlies
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Capitolo 33 *** 33. Scarlett ***
Under a Paper Moon- capitolo 33
33. Scarlett
Non pensavo esistesse qualcosa capace di sconvolgere Sean, né di
fargli perdere quel suo atteggiamento strafottente. E invece esisteva
eccome qualcosa capace di questo e molto altro. O meglio, qualcuno: Adam Meyers.
Non avevo capito granché di quello che si erano detti, ma
l’espressione di Sean parlava da sé: era sconvolta,
incredula, rabbiosa, quasi ferita e questo tutto nello stesso momento.
Doveva essere una specie di record.
Lui e Adam rimasero a guardarsi negli occhi per un bel po’, come
se di colpo di fossero dimenticati dei cacciatori che se ne stavano
lì a pochi passi da noi e che ci guardavano come se fossimo
pazzi. Sembrava avessero escluso tutto il mondo per concentrarsi solo
sulle iridi dell’altro.
«Ho bisogno di parlarti un attimo.» Disse Sean con voce fin troppo calma.
Senza aspettare una risposta, afferrò Adam per un braccio e lo
trascinò lungo il corridoio verso la porta d’ingresso
finché non furono abbastanza lontani perché nessuno,
nemmeno io con i sensi acuiti dalla licantropia, riuscisse a sentirli.
Sia io che Matthew rimanemmo a guardarli senza avere la minima idea di
cosa stesse succedendo. Cosa poteva aver detto Adam di così
importante da spingere Sean ad abbassare la guardia di fronte ai
cacciatori?
Lanciai un’occhiata di sottecchi a Colin: l’avevo
riconosciuto subito, era il capo di quei pazzi, lo stesso uomo che mi
aveva fatto una specie di interrogatorio dopo che mi avevano sparato.
Anche quei due uomini mi erano familiari: erano i due che mi avevano
gentilmente scortato dal loro capo e poi di nuovo nella cella.
Nonostante adesso sembrassero inoffensivi e avessero ammesso la
superiorità di Sean, ero comunque tesa e nervosa all’idea
di averli così vicino.
Accanto a me, anche Matthew sembrava a disagio. Aveva le mani infilate
nelle tasche dei jeans e stava ben attento a non incrociare lo sguardo
di nessuno.
Il rumore di una porta che si apriva mi fece balzare subito
all’erta. Mi voltai di scatto e vidi una sagoma avvicinarsi.
Bastò che facesse pochi passi perché riuscissi a
riconoscerla: Nathan, il biondino che aveva sorvegliato la mia cella e
aveva contribuito alla mia cattura. Indossava dei jeans neri, una
maglietta verde militare e una giacca di pelle. Aveva i capelli
aggiustati con il gel il modo da sembrare spettinati. Al collo portava
una collana con un ciondolo argentato. Dal colletto della maglia
spuntava un livido violaceo e qualche graffio, probabilmente opera di
Sean.
Affiancò i suoi compagni con aria disinvolta. «Si
può sapere che state combinando? Mi sto annoiando di là
da solo…» Si interruppe quando si accorse di me e Matthew.
Ci studiò per qualche istante con gli occhi socchiusi poi
sorrise. «Guarda chi si rivede. Ti sono mancato?»
Era ovvio che si riferisse a me, ma rimasi interdetta lo stesso. Mi
ripresi abbastanza in fretta da incrociare le braccia al petto e
replicare: «Quanto un proiettile in corpo.»
Il suo sorriso si spense e lui stinse le labbra. Non distolse lo
sguardo, però, rimase a guardarmi mentre un’ombra gli
attraversava gli occhi. Per la prima volta notai che erano di un
marrone caldo e che sembravano sinceri, autentici. Osservandolo meglio
mi resi conto che non poteva essere tanto più grande di me,
doveva avere circa vent’anni.
Lanciò un’occhiata ad Adam e Sean, ancora impegnati con la
loro discussione. «Abbiamo compagnia.» Si voltò
verso Colin. «Che sta succedendo?»
Colin si passò una mano sul viso e improvvisamente mi
sembrò molto stanco. «Non lo so. Niente di buono immagino,
ma non ne sono sicuro.»
Samuel e Tristan si scambiarono un sguardo e scossero la testa.
Evidentemente non erano d’accordo sull’idea di aspettare e
vedere cosa sarebbe successo. Avevo il sospetto che avrebbero preferito
di gran lunga farci fuori e poi domandare cosa volevamo.
«Non vogliamo farvi male.» Mi sentii dire.
Nathan sollevò il viso e mi guardò con aria incuriosita.
«Perché siete qui allora?»
Sospirai: avrei voluto saperlo anch’io. «Beh, per…
controllare.»
Un sorrisetto beffardo comparve sulle labbra di Samuel. «Volevi
essere sicura che ti avessimo lasciato un posto? Sta' tranquilla, la
tua cella è ancora libera.»
Per un attimo fu come ritornare indietro nel tempo, nel momento in cui
mi risbattevano in quella prigione buia e umida dopo l’incontro
con Colin. Mi strinsi le braccia al petto e distolsi lo sguardo
mordendomi il labbro. Era orribile anche solo ripensarci.
«Falla finita.» Mi sorprese parecchio sentire la voce di
Nathan così dura e quasi arrabbiata. Ma la cosa più
strana era il fatto che mi stesse difendendo. Proprio lui che aveva
dato direttive a quei due gorilla perché mi trattassero come una
specie di animale.
Gli lanciai un’occhiata di sottecchi: aveva la mascella
contratta, lo sguardo di ghiaccio, i pugni stretti tanto che le nocche
erano diventate bianche. Un po’ mi ricordava Sean poco prima in
auto, quando avevo chiesto di Isaiah.
«Difendi i parassiti adesso?» Sbottò Tristan.
«Ti sei rammollito tutto insieme?»
Nathan fece per ribattere -qualcosa nella sua espressione mi disse che
non sarebbe stato un bello spettacolo-, ma Colin lo interruppe
sollevando una mano. «State zitti una buona volta. Non mi
interessano i vostri battibecchi.» Guardò qualcosa dietro
di me. «Ma i loro sì.»
Mi voltai e vidi Sean e Adam venirci incontro. Avevano entrambi
un’aria seria e concentrata, ma sembravano anche piuttosto
determinati. A dirla tutta, Sean era un po’ contrariato,
però cercava di non darlo a vedere.
«Alla buon’ora.» Borbottò Colin osservandoli
con un certo interesse.
Sean si lasciò sfuggire una smorfia e incrociò le braccia
al petto. «Non devo rendere conto a nessuno, di certo non a
te.»
Adam rimase in silenzio, ma studiò Nathan con attenzione, come
per cercare di capire il suo ruolo. Come al solito, il suo viso non
lasciava trasparire nessuna emozione. Dovevo ammettere che un po’
mi irritava vedere quanto controllo avesse di sé. Nonostante
questo, ero felice di riaverlo al mio fianco.
«Quindi, qual è la vostra decisione?» Chiese Colin.
Con una certa riluttanza, Sean si costrinse a dire: «Vogliamo
stringere un accordo con voi.»
Spalancai gli occhi, incredula: un accordo? Con… loro? Ma che
gli era saltato in mente? Matthew sembrava pensarla come me, mentre
Adam era calmo e potrei giurare di averlo visto scambiare
un’occhiata d’intesa con Sean. Lo realizzai di colpo e mi
mancò il fiato: era stata una sua idea.
Questo spiegava perché messo in mezzo tra Sean e Colin,
perché la prima reazione di Sean era stata così rabbiosa
e perché tutt’ora non sembrava convinto. Ma per quale
motivo Adam avrebbe dovuto cercare un’alleanza con i cacciatori?
Sapeva di cos’erano capaci, l’aveva visto con i suoi occhi
su di me.
Tristan scoppiò a ridere. «Un accordo? Hai paura di noi,
lupo?»
Gli occhi di Sean si accesero d’oro. «Se non mi ricordo
male eri tu quello che urlava come una ragazzina quando sono entrato
nella sala riunioni.» Alzò il mento in segno di sfida.
«Correggimi se sbaglio, ma di solito ho una buona memoria.»
Nathan soffocò un sorriso mentre il viso di Tristan diventava
così rosso da sembrare sul punto di esplodere.
«Che genere di accordo?» Domandò Colin ignorando
quello scambio di frecciatine.
Sean lanciò un’occhiata ad Adam, quasi a volergli chiedere
aiuto. Lui ricambiò lo sguardo prima di spostare la sua
attenzione sul capo del cacciatori. «Una specie di alleanza che
converrà a tutti e due.» Spiegò con voce calma.
«Certo, perché avete paura di scontrarvi di nuovo con noi,
eh?» Questa volta era stato Samuel ad intervenire, ma ero
piuttosto sicura che il trattamento non sarebbe stato diverso.
Sean ringhiò piano e fece per balzargli alla gola, ma Adam lo
bloccò mettendogli una mano sul petto per trattenerlo.
«Avevamo detto niente violenza.» Sibilò scoccandogli
un’occhiataccia.
«Non ti ho promesso niente.» Borbottò Sean senza distogliere lo sguardo da Samuel.
Se fosse dipeso da lui avrebbe fatto piazza pulita dei cacciatori e la
cosa sarebbe finita lì. Ma sapevo quanto Adam detestasse la
violenza e se poteva fare qualcosa per evitarla l’avrebbe fatto,
anche a costo di andare contro un licantropo.
«Invece sì. Hai preso un impegno.» Replicò
Adam prima di lasciarlo e voltarsi verso Colin. «Possiamo
parlarne in… privato?»
Probabilmente aveva intuito quanto fosse alta la tensione in quel
corridoio: continuare lì la discussione sarebbe stato molto,
molto pericoloso.
Colin annuì. «Sì, certo. Possiamo usare il mio
ufficio.»
«Perfetto.» Convenne Adam. Poi sembrò ricordarsi che
il nostro capo era un altro. «Cioè, sempre se va bene
anche a te.» Aggiunse rivolto a Sean.
«Va bene.» Rispose secco lui senza perdere il suo
atteggiamento scontroso.
«D’accordo.» Mormorò Colin. «Il mio
ufficio è la porta in fondo al corridoio, vogliamo
andare?»
Al cenno d’assenso di Sean, lui si voltò e cominciò
a farci strada. Con mia grande sorpresa, Nathan mi affiancò.
Dall’altro lato, accanto a me, avevo Adam, che sembrava troppo
preso dai suoi pensieri per parlare. Anche Nathan rimase in silenzio.
Si limitava a studiare le facce nuove tenendo le mani nelle tasche dei
jeans; la sua espressione non tradiva niente se non curiosità e
voglia di sapere.
Quando arrivammo di fronte alla porta dell’ufficio, sorse un
nuovo problema: i cacciatori erano in maggioranza e questo non ci
avrebbe garantito una giusta rappresentanza.
Fu Colin a proporre una soluzione. «Facciamo due dei tuoi e due
dei miei?» Chiese guardando Sean.
Per la prima volta mi accorsi che lo trattava come un suo pari, e non
come una creatura che credeva inferiore. Avrei pagato oro per vedere
cos’era successo mentre Adam mi tirava fuori da quella dannata
cella.
Sean annuì. «Sì, mi sembra giusto.»
«Bene.» Commentò Colin prima di aprire la porta.
Sean si voltò verso di noi e il suo sguardo andò subito
ad Adam. Fece un cenno con il mento verso l’ufficio.
«Andiamo.»
Avrei dovuto capirlo prima, ma lo realizzai solo in quel momento.
«Aspetta un attimo.» Esclamai guadagnandomi parecchie
occhiate sorprese. «E noi? Cioè, questa cosa ci coinvolge
tutti.»
«Due licantropi, due cacciatori.» Replicò Sean con
voce dura.
«Ma anche noi vogliamo sapere. Cos’è tutto questo
mistero?» Chiesi guardando Adam: magari lui sarebbe stato
più propenso a darmi qualche risposta. Nello stesso tempo
realizzai che lui non era un licantropo, quindi noi saremmo stati
rappresentati da un lupo e un umano. A quanto pareva, però, Sean
voleva far credere ai cacciatori che avessero davanti quattro lupi
mannari.
«Aspetterete. Non ci vorrà molto.» Dichiarò
Sean con fare sbrigativo. Adam si lasciò sfuggire una smorfia
che mi fece capire che non era d’accordo.
«Voi siete sistemati, quindi tocca noi.» Borbottò
Colin più per sé che per noi. Fece scorrere lo sguardo
sui suoi cacciatori studiandoli. Nathan aveva drizzato le spalle e
aveva un luccichio impaziente negli occhi: si aspettava di essere
scelto come secondo rappresentante dei cacciatori. Samuel e Tristan,
invece, se ne stavano in disparte; avevano espressioni cupe e
contrariate.
Dopo qualche istante, Colin sospirò. «Dovrò
chiamare Brian.»
«Cosa? Perché lui?» Scattò Nathan guardando il suo capo con aria implorante.
Colin sembrò interdetto. «Perché mi serve un altro
cacciatore.»
Nathan si indicò. «Ci sono io.»
Colin strinse le labbra e scosse la testa. «No, Nate.»
Il biondino apparve deluso, ma non disse niente. Fece un paio di passi
indietro e chinò la testa. Dovevano essere abituati ad eseguire
gli ordini di Colin, in fondo, lui era il capo lì dentro. Questo
non significava che lo facessero sempre volentieri. E questo ci rendeva
simili, in un certo senso: anche noi, in quanto branco improvvisato,
dovevamo rispondere a Sean, però non sempre eravamo
d’accordo con lui. Forse non eravamo poi così diversi,
tranne per il fatto che noi non rapivamo o uccidevamo nessuno.
Colin si voltò verso Sean. «Cinque minuti e sarà
qui.»
Sean annuì distrattamente. «Bene. Voglio risolvere in
fretta questa cosa.» E lanciò un’occhiataccia ad
Adam.
Colin fece un breve cenno d’assenso e si allontanò di
qualche passo prendendo un cellulare dalla tasca dei pantaloni. Decisi
di approfittare di quell’attimo di pausa per chiarire la
situazione. Mi voltai verso Adam e cercai di comunicargli con lo
sguardo la mia necessità di parlare. Sembrò capirmi,
infatti mi fece un cenno di seguirlo verso l’uscita poco
più su dell’ufficio. Ci accostammo alla porta, lontano da
sguardi e orecchie indiscrete.
«Che cos’hai in mente?» Chiesi senza mezzi termini.
«Voglio proteggerti, Scar.» Rispose guardandomi negli occhi
con espressione intensa e determinata. «Continuare questa faida
tra lupi e cacciatori è dannoso. Non voglio che tu corra altri
rischi.»
Mi venne voglia di abbracciarlo, ma mi trattenni. «Quindi? Che
vuoi fare?»
Si morse il labbro inferiore. «Stringere un accordo, una qualche
alleanza che ci garantisca una sorta di immunità.Colin ha detto
che Sean li ha dimezzati e che hanno capito quanto siamo pericolosi.
Neanche loro vogliono un’altra guerra. Sto solo sfruttando questo
loro momento di debolezza.»
Rimasi senza parole dalla genialità di quel piano. Non riuscii a
fare a meno di riconsiderarlo, di vederlo sotto una nuova luce: Adam
era molto più scaltro di quanto non sembrasse. «Te
l’hanno mai detto che potresti fare l’avvocato?»
Mormorai ammirata.
«Di solito mi prendono per un futuro professore.»
Replicò con un mezzo sorriso.
Mi avvicinai a lui abbastanza da sentire il suo respiro tiepido
sfiorarmi la pelle. «Allora sbagliano. Hai l’intelligenza
di un grande stratega.»
Scosse la testa e distolse lo sguardo. «Stai esagerando,
Scar.»
«Sto solo dicendo la verità.» Sussurrai ritrovandomi ad osservare le sue labbra.
I suoi occhi blu incontrarono i miei. «Risolveremo questa cosa,
okay? Farò in modo che nessun cacciatore possa più farti
del male.»
Mi ci volle un notevole sforzo di volontà per non lasciarmi
sfuggire qualche lacrima. Gli gettai le braccia al collo e lui
ricambiò la stretta affondando il viso nei miei capelli.
«Grazie.» Mormorai sinceramente riconoscente.
Si allontanò appena da me e mi diede un bacio sulla fronte.
«Di nulla.»
«Adam.» Lo richiamò Sean con voce autoritaria.
Adam si morse il labbro e mi rivolse una sguardo come di scuse. «Devo andare.»
Mi sporsi verso di lui e gli sussurrai all’orecchio: «In
bocca al lupo.»
Riuscii a strappargli un sorriso. Mi diede un bacio all’angolo
della bocca prima di voltarsi e tornare da Sean. Accanto a lui
c’era Colin, impegnato in una discussione con un nuovo arrivato.
Era un uomo alto, con le spalle larghe, i capelli ingrigiti, folte
sopracciglia nere e lo sguardo gentile. Mi risultava difficile credere
che fosse un cacciatore; più che altro sembrava un padre di
famiglia. Indossava una camicia di flanella a quadri e dei pantaloni
scuri. Non riuscivo proprio ad immaginarmelo con un fucile in mano,
sembrava del tutto estraneo a qualunque tipo di violenza.
Mi avvicinai anch’io, titubante eppure curiosa. Matthew mi
guardò riconoscente e sollevato da un’altra presenza
amica, e abbozzò un sorriso. Samuel e Tristan parlottavano tra
loro stando ben attenti a mantenersi a distanza da quello che
evidentemente consideravano un tradimento. Nathan osservava la scena
con quel suo sguardo curioso e l’espressione attenta.
Il nuovo arrivato si voltò verso Sean e gli tese la mano.
«Io sono Brian.»
Sean continuò a tenere le braccia incrociate al petto e lo
studiò con aria di sufficienza. «L’avevo
intuito.»
Brian abbassò la mano, sorpreso. «Oh… D’accordo. Ho sentito che avete una proposta per noi.»
Sean guardò Adam con aria eloquente; sembrava dire
“sì, per colpa sua.” «Già. Possiamo
cominciare o vogliamo fare una riunione di famiglia?»
«Cominciamo.» Borbottò Colin prima di aprire la
porta. «Prego.»
Sean entrò senza esitare guardando dritto di fronte a sé.
Adam lo seguì dopo avermi lanciato un’occhiata. Brian fece
un cenno di saluto a Nathan e varcò la soglia. Colin gli
andò dietro aiutandosi con la stampella e si chiuse la porta
alle spalle.
Distolsi lo sguardo con un sospiro: si prospettava una lunga attesa. E
quel corridoio mi sembrava fin troppo claustrofobico. Per non parlare
di Samuel e Tristan che sembravano complottare contro di noi dal loro
angolino buio.
«Vado a prendere un po’ d’aria.» Annunciai
senza riferirmi a nessuno in particolare.
Tornai alla porta vicino alla quale avevo parlato con Adam e uscii. Mi
ritrovai sul retro dell’edificio con un parcheggio vuoto di
fronte a me. Il cemento del marciapiede era crepato e pieno di erbacce.
Era piuttosto deprimente come posto. E pensare che ci ero quasi
morta…
Mi appoggiai al muro con la schiena e mi strinsi le braccia al petto.
Era una situazione complicata e molto strana: chi l’avrebbe mai
detto che licantropi e cacciatori sarebbero giunti ad un qualche tipo
di accordo? O meglio, che ci avrebbero provato? In fondo, ancora non
c’era niente di deciso. Per come stavano le cose adesso non era
detto che saremmo usciti tutti vivi da quel posto.
«Oh, sei qui.» Disse una voce facendomi sobbalzare. Mi
voltai di scatto, i muscoli in tensione, e mi ritrovai davanti Nathan.
Si stava affacciando dalla porta, ma quando mi vide uscì
chiudendosela alle spalle. Infilò le mani nelle tasche dei jeans
guardandomi di sottecchi.
Ricambiai l’occhiata inarcando un sopracciglio. «Che
vuoi?»
«Uhm, niente.» Rispose dando un calcio ad un sassolino.
«Solo… ecco, volevo chiederti scusa.»
Spalancai gli occhi, sorpresa. «Cosa?»
«Sì, insomma, non abbiamo cominciato col piede
giusto.» Replicò osservando il marciapiede.
«Tu dici?» Chiesi ironica. «Quel pazzo del tuo amico mi ha sparato.»
Chinò la testa. «Beh… In effetti non è stato
carino da parte sua.»
Allargai le braccia, incredula. «Questo è il più
grande eufemismo del secolo.»
Sollevò lo sguardo su di me e quello che lessi nei suoi occhi fu
dolore e rimorso. «Lo so. E anche se non hai motivo di credermi,
ti giuro che… odio quello che ti hanno fatto.»
«Hai partecipato anche tu.» Mormorai.
Chiuse gli occhi per un attimo e si morse il labbro. «Sì.
È solo dopo che ho capito quant’è sbagliato. Non
abbiamo il diritto di fare quello che facciamo. Cavolo, siete umani
come noi. Okay, forse non esattamente come noi, ma di sicuro meno
bestie di come vi descrivevano.»
«È… Non lo so. Credevo che ne fossi convinto anche
tu. Della nostra fantomatica natura diabolica, intendo. Non è
quello che vi insegnano?» Domandai senza riuscire a distogliere
lo sguardo da lui.
Annuì aggrottando la fronte. «È così.
C’è un addestramento, ti fanno credere le peggiori cose
sui licantropi, ti insegnano a temerli. Ma… dopo aver visto te e
il tuo branco ho capito che non siete mostri come vi dipingono,
tutt’altro.»
Non riuscivo a credere a quello che sentivo: un cacciatore mi stava
chiedendo scusa? E ammetteva di essersi sbagliato? «Non ti
capisco. Pensavo che tu fossi… che fosse una certezza per voi
considerarci i cattivi. Che non ci fosse spazio per i
ripensamenti.»
Una smorfia gli arricciò le labbra. «Già…
Beh, l’addestramento inizia fin da piccoli, ti inculcano tutte
quelle cavolate non appena inizi a parlare. Se a te raccontavano la
favola di Cenerentola, a noi facevano resoconti delle missioni.»
Incrociai le braccia al petto. «Un buon modo per conciliare il
sonno parlare di come avevo ucciso dei licantropi, sì.» Lo
vidi incassare il colpo incurvando le spalle e decisi di approfittare
del suo improvviso rimorso per indagare. «Come facevate a sapere
cos’ero? E dove ero?»
«Noah, il ragazzo che ti ha sparato, si occupa delle ricerche.
È una specie di hacker. Seguendo degli indizi base, coincidenze
comuni a tutti i licantropi, restringiamo il campo fino a tirarne fuori
un nome.» Teneva lo sguardo basso e le mani affondate nelle
tasche dei pantaloni. Sembrava un bambino che viene rimproverato dalla
madre.
Ero ancora scettica, mio malgrado: il rimorso nei suoi occhi era
sincero, lo sapevo, eppure non riuscivo a fidarmi. «Quindi una
volta che avete trovato un licantropo organizzate una squadra ed andate
ad ucciderlo?»
«Di solito lo catturiamo prima.» Mormorò.
«Sai, per interrogarlo.»
«Sì… so bene di cosa parli.» Borbottai
stringendomi le braccia al petto. «Quella bambina… Denise,
che ci fa qui?»
Un sorriso inconsapevole gli sfiorò le labbra nel sentirla
nominare. «È la figlia del capo. Non è una
cacciatrice, e non lo sarà mai. Non dopo che la madre ha
scoperto il lavoro del padre.»
«Sono separati, giusto?» Chiesi.
«Sì, lei ha chiesto il divorzio quando è venuto
fuori che Colin è un cacciatore di licantropi. Karen non voleva
che la figlia seguisse le orme del padre così lo ha mollato e
adesso è in corso una battaglia legale per l’affidamento
della figlia.» Rispose stringendosi nelle spalle.
«Oh… Colin voleva fare di lei una cacciatrice?»
Domandai osservandolo.
«Forse, non ha avuto il tempo di pensarci, credo.»
Replicò.
Inclinai la testa di lato, sorpresa. Mi stava dando delle informazioni
di sua spontanea volontà, stava rivelando al nemico dettagli
preziosi. Ma l’unica cosa che sembrava provare erano sensi di
colpa. «A che età comincia l’addestramento di cui
parlavi prima?»
Trasse un respiro profondo. «Dipende. La maggior parte dei
bambini che si uniscono a noi nascono in famiglie di cacciatori quindi
il loro addestramento comincia subito. Sai, vedere tuo padre che
sparisce nelle notti di luna piena e torna il giorno dopo diventa
normale dopo un po’. E quando ti ritengono grande abbastanza
comincia l’allenamento vero e proprio. Nel frattempo continuano a
ripeterti quanto siano pericolosi e malvagi i licantropi e che sono
stati mandati dal diavolo o roba del genere.»
«Ah però, sono parecchio fantasiosi.» Borbottai
spostando lo sguardo sulla strada.
«In realtà, dopo aver visto voi mi sembrano solo
stupidaggini.» Ammise.
Spalancai gli occhi e lo guardai, incredula. «Non vorrei essere
ripetitiva, ma… cosa? Stupidaggini? Solo qualche giorno fa mi
sembravi più che convinto di quello che facevi.»
Si incupì di colpo, ma sembrava che ce l’avesse con se
stesso più che con me. «Hai… hai perfettamente
ragione. Avrei voluto accorgermi prima di quanto fossero infondate le
convinzioni dei cacciatori. Voi non meritare niente di tutto questo.
Non siamo tanto diversi dalle bestie che pensiamo di cacciare se ci
comportiamo così.»
Senza rendermene veramente conto, allungai una mano e gliela posai sul braccio. «Nathan…»
Mi bloccai, sorpresa dal mio stesso gesto. Guardammo entrambi la mia
mano come se fosse stata chissà qualche strana creatura.
Imprecai mentalmente contro quella mia mancanza d’attenzione e
ritirai il braccio, imbarazzata. Che mi era venuto in mente? Lui era un
cacciatore, il nemico… No, non più. O meglio, non lui in
particolare. Magari gli altri cacciatori sì, ma lui sembrava
sinceramente pentito di ciò che aveva fatto.
«Non so come ti chiami.» Sussurrò lui fissando il
marciapiede.
Tornò a sembrarmi un bambino e provai una strana empatia per
lui. «Scarlett. Mi chiamo Scarlett.»
«È… è un bel nome.» Fece per
aggiungere qualcosa, ma ci ripensò. Alla fine, si decise a dire:
«Senti, secondo te possiamo ricominciare da capo? Non voglio che
ci siano rancori.»
Inarcai un sopracciglio. «Scusa se te lo faccio notare, ma tu sei
uno di quelli che mi ha catturata, che mi ha sparato e poi chiuso in
una dannata cella: davvero pensi che basti dire “ricominciamo da
capo” per cancellare tutto questo?»
Lo vidi deglutire con fare nervoso. «Sì, immagino che sia
stato stupido da parte mia pensare che avresti trascurato questi
dettagli, eh?»
Incrociai le braccia al petto guardandolo con fare eloquente. Lui
annuì tra sé e sé prima di sollevare lo sguardo
sul cielo.
Sembrava di colpo più pensieroso e cupo e questo stonava con la
sua aria giovanile. Nonostante questo, adesso che potevo osservarlo
più da vicino, notai che c’erano dei tratti in lui che ne
sottolineavano anche un certo distacco dall’adolescenza: aveva la
linea della mascella affilata, una barba appena accennata di un biondo
dorato sulle guance, lo sguardo attento di un soldato, le spalle ampie
e muscolose. Non era esattamente adulto, ma nemmeno un ragazzino. E
probabilmente quello che aveva vissuto come cacciatore aveva
contribuito a renderlo più maturo e meno avventato.
«Comunque…» Esordì riportandomi
sull’attenti. «Non ci siamo presentati come si deve.»
Una parte di me voleva tirargli un pugno sul naso, l’altra era
curiosa di vedere dove sarebbe andato a parare. «Mmh.»
Mi tese la mano. «Piacere di conoscerti. Sono Nathan
Evans.»
«Quando hai detto ricominciare intendevi proprio dall’inizio, eh?» Borbottai vagamente divertita.
Lui però non rispose, rimase in attesa, gli occhi nocciola che
mi studiavano con una certa impazienza. Dopo qualche secondo, sospirai
e gli strinsi la mano. «Scarlett Dawson.»
«Beh, Scarlett, immagino che questa sia la più grande
stranezza del secolo: un cacciatore che stringe la mano ad un
licantropo. Una follia.» Commentò. Ed era assolutamente
vero.
Avrei dovuto odiarlo, fuggire qualunque tipo di contatto con lui,
eppure ero lì. Quando lasciò la presa tornai a stringermi
le braccia al petto quasi senza rendermene conto, ma non mi sentivo
sporca, impaurita o arrabbiata.
«Ogni tanto i cambiamenti sono necessari, no?» Dissi con un
sorriso appena accennato.
Lui sembrò sorpreso, ma anche felice di vedere che
l’ostilità si stava appianando. «Soprattutto quello
che ci fanno più paura.»
SPAZIO AUTRICE: Ehilà!
Lo so, sono una pessima autrice, ho aggiornato in super ritardo e vi
chiedo scusa. Devo anche rispondere alle recensioni >.>
Btw, ve l'avevo detto di tenere d'occhio uno dei cacciatori
perché vi avrebbe sorpreso, giusto? E infatti eccolo lì,
Nathan Evans, addestrato ad uccidere ma non convinto di ciò che
i cacciatori rappresentano. Che ne pensate di lui?
Abbiamo anche visto che Sean sembra disposto a tentare un accordo con i
cacciatori, ma avrà la pazienza di arrivare fino in fondo o
mollerà la strada più pacifica e farà di testa
sua? Sì, mi piace riempirvi di domande perché sono
curiosa.
Bien, mi scuso ancora per questo ritardo immenso e prometto che la prossima volta sarò puntuale ^^
Un bacio <3
TimeFlies
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Capitolo 34 *** 34. Adam ***
Under a Paper Moon- capitolo 34
34. Adam
Il primo incontro non aveva portato a niente di fatto. Ma non era
andata male. Anzi: avevamo fatto capire a Colin e Brian che non avevamo
intenzione di cedere e che avremmo mantenuto la nostra posizione ad
ogni costo. Tenere Scarlett al sicuro era il mio obbiettivo principale,
ma dovevo ammettere che anche l’idea di aiutare Sean a scendere a
patti con il suo passato mi sembrava qualcosa che dovevo fare.
Brian si era dimostrato molto aperto ad un confronto mentre Colin era
rimasto più sulle sue. D’altra parte, era solo la prima
volta che ne parlavamo e visto che non avevo le idee chiare nemmeno io
ero ovvio che ancora ci fossero dei dubbi, per entrambe le parti. Sean
era stato silenzioso, aveva lasciato parlare me, però non aveva
abbassato la guardia neanche per un attimo.
«Beh, direi che per oggi abbiamo parlato abbastanza.»
Commentò Brian con un sorriso gentile. «Immagino che
abbiate molto di cui discutere, e anche noi, quindi perché non
fissiamo un altro incontro?»
«Sì, mi sembra una buon’idea.» Convenni.
In effetti, avevamo discusso per quelle che mi erano sembrate ore e
avevamo bisogno di fare il punto della situazione anche con gli altri.
In più, l’ufficio di Colin era un po’ soffocante:
era una stanza piuttosto grande a dir la verità, ma le pareti
erano scrostate e macchiate d’umidità, i mobili erano
scoordinati e vecchi, le finestre alte e strette non facevano entrare
molta luce e contribuivano a rendere l’ambiente ancora più
cupo.
Non assomigliava molto ad un ufficio, ad essere sinceri: c’era un
grosso tavolo nel mezzo della stanza con delle sedie tutt’attorno
che scoprimmo venivano usate per le riunioni dei cacciatori, ad una
parete era addossata una libreria un po’ traballante piena per
metà di libri dall’aria antica e raccoglitori. Per il
resto, la stanza era vuota.
Eravamo venuti a sapere
che quel vecchio edificio era stato la sede di una piccola azienda che
poi era fallita e che erano stati i cacciatori ad adibire alcune parti
a prigioni. Quel dettaglio aveva fatto irrigidire me e innervosire
Sean, che però era riuscito a trattenersi. Mi era bastato uno
sguardo per capire che avrebbe voluto ucciderli seduta stante.
«Quando vi andrebbe bene?» Chiese Colin osservandoci con
quei suoi occhi grigi così severi.
Io e Sean ci scambiammo un’occhiata e fu lui a rispondere: «Anche domani. Di pomeriggio.»
Colin annuì. «Bene. Facciamo per le tre?»
«In realtà preferiremmo le quattro.» Intervenni
bloccando Sean che stava per dare il suo consenso.
Mi osservò in cerca di spiegazioni, un'ombra di rabbia che gli
incupi gli occhi verdi: la sua pazienza stava arrivando al limite, me
ne rendevo conto.
«Ho scuola fino alle tre e mezzo.» Mormorai così che
i cacciatori, seduti dall’altra parte del tavolo, non potessero
sentire. «E anche Scarlett.»
Lui trasse un respiro profondo per riprendere la calma.
«D’accordo.» Sibilò prima di voltarsi verso i
cacciatori. «Le quattro vi vanno bene?»
Colin si strinse nelle spalle. «Saremo qui.»
«Bene.» Commentò Sean alzandosi e facendomi cenno di
seguirlo.
Mi affrettai a farlo sapendo quanto odiasse quella situazione. Anche i
cacciatori si alzarono. Brian continuava a sorridere con quella sua
aria cordiale, come se fossimo stati dei semplici amici venuti a cena a
casa sua. Colin era un po’ più restio nei nostri
confronti, ma potevo capirlo. E poi, anche Sean si teneva molto sulle
sue.
Uscimmo in corridoio e quello che mi trovai davanti fu sia
incoraggiante vista la possibile alleanza con i cacciatori, sia strano,
quasi sbagliato: Scarlett era seduta per terra con la schiena
appoggiata al muro di fronte alla porta e accanto a lei c’era
quel cacciatore biondo che avevamo visto prima. Mi sembrava di
ricordare che si chiamasse Nathan. Stavano sorridendo tutti e due e
sembravano piuttosto presi da una conversazione.
Appoggiato alla parete poco più c’era Matthew, immerso
nella lettura di un libro di cui non conoscevo la provenienza. Di
Samuel e Tristan non c’era traccia, ed era meglio così:
quei due erano inquietanti.
Nathan, se si chiamava così, fu il primo ad accorgersi di noi.
Ci guardò con aria incuriosita senza perdere quel mezzo sorriso
che gli aleggiava sulle labbra. Scarlett seguì la direzione del
suo sguardo e, quando ci notò, balzò in piedi.
«Allora?» Chiese con una certa impazienza.
«Per adesso non c’è niente di deciso, ma… sta
andando bene.» Risposi.
Sean sbuffò e alzò gli occhi al cielo, però non mi
contradisse. Sperai che cominciasse a vedere l’utilità di
quell’accordo e quanto ne avessero bisogno entrambi, cacciatori e
licantropi.
Un sorriso illuminò il viso di Scarlett. «È…
fantastico.»
Prima che potessi rispondere, lei mi venne vicino e mi gettò le
braccia al collo. Durò solo un attimo, perché poi lei si
ritrasse e abbassò lo sguardo, imbarazzata, mentre un lieve
rossore le colorava le guance. Si schiarì la gola.
«Quindi… uhm… Per oggi abbiamo finito?»
«Sì.» Confermò secco Sean osservandola con le
braccia incrociate al petto.
Nathan si alzò e si spolverò i jeans. «Beh, siete
tutti vivi: non è andata male.»
Scarlett gli lanciò un’occhiata da sopra la spalla e si
lasciò sfuggire un sorrisetto che lui, con mia sorpresa,
ricambiò. Colin invece sospirò e scosse appena la testa
borbottando qualcosa.
«Direi che possiamo andare.» Mormorai studiando Nathan: non
mi convinceva quel suo atteggiamento così amichevole.
Per una volta, Sean fu d’accordo con me. «Sì,
andiamocene.»
Scarlett annuì e si strinse le braccia al petto. Sean non
aspetto oltre, si voltò e cominciò a camminare con passo
deciso verso la porta da cui eravamo entrati. Se volevamo che
quell’alleanza funzionasse, avremmo dovuto essere un po’
meno ostili tra noi e visto che Sean non sembrava intenzionato a farlo,
toccava a me.
Mi voltai verso Colin e Brian e cercai di sorridere.
«È… è stato un piacere. Sono sicuro che
riusciremo a trovare un accordo che soddisfi entrambi.»
Brian ricambiò il sorriso. «Lo credo anch’io.»
Risposi con un breve cenno di assenso prima di incamminarmi lungo il
corridoio. Scarlett mi raggiunse dopo aver salutato Nathan in modo un
po’ impacciato.
«Matthew!» La voce di Sean risuonò forte e chiara
nel corridoio e fece sobbalzare il diretto interessato.
«Uh, sì, arrivo.» Balbettò chiudendo il libro di scatto e affrettandosi a seguirci.
Stava calando la sera, gli ultimi raggi di un sole morente tingevano di
rosso il cielo striato di nuvole. Era una giornata ancora limpida
nonostante stesse giungendo al termine. Sul sedile del passeggero
accanto a me, Sean studiava il paesaggio con aria assorta. Aveva un
leggero cipiglio, come se non riuscisse a rilassarsi completamente. O
forse era semplicemente la forma delle sue labbra.
Avevo riaccompagnato Scarlett a casa e avrei fatto lo stesso anche con
Matthew visto che abitavamo l’uno accanto all’altro, ma lui
aveva detto di voler fare due passi e insistere non era servito a
fargli cambiare idea. Così eravamo solo io e Sean. Anche se
adesso aveva smesso di intimorirmi, dopo che l’avevo messo sotto
pressione proponendo l’accordo con i cacciatori ero più
cauto con lui e cercavo di non tirare troppo la corda.
Mi aveva detto di portarlo in un quartiere in periferia, ma non avevo
capito se ci viveva o se ci avrebbe solo passato la serata. Ovviamente,
lui non mi aveva dato dettagli e io non li avevo chiesti. Mi sembrava
un po’ strano che non avesse un’auto sua, però
sapevo poco della sua vita nel presente quindi forse aveva le sue
ragioni.
«Sai, ragazzino, a volte penso che tu sia nato per complicarmi la
vita.» Disse all’improvviso riscuotendomi dai miei
pensieri.
Sbattei le palpebre per riprendere la concentrazione. «Ah
sì?»
Un sorriso per metà amaro e per metà inconsapevole gli
incurvò le labbra. «Mi hai praticamente buttato in pasto
ai leoni… Dopo quello che ti ho detto…» Scosse la
testa fissando il vuoto. «Non so cosa hai in mente, ma non mi
piace.»
Trassi un respiro profondo. «Lo so. Ma è necessario. E lo
sto facendo proprio per quello che mi hai raccontato sul tuo passato.
Non voglio che succeda di nuovo.»
«È tardi per salvare me, ragazzino, dovresti averlo
capito.» Replicò lui con voce neutra. «Ma immagino
che tu ti preoccupi per lei, eh?»
Non ci fu bisogno di dirne il nome. «Beh, non voglio che
passi… Cioè, voglio che sia felice.»
«È giusto desiderare la felicità di qualcuno,
però a volte riguarda cose che sfuggono al nostro
controllo.» Si voltò verso di me, metà viso in
ombra, l’altra metà illuminata dai lampioni. «Non
puoi metterti a trattare con tutti i mostri che troverà sulla
sua strada.»
Strinsi le labbra. Aveva ragione: era stato solo per un colpo di
fortuna se Colin aveva accettato di discutere un possibile accordo, non
avevo i mezzi per tenere fuori dalla vita di Scarlett tutti i guai.
Sean si appoggiò allo schienale del sedile contemplando qualcosa
fuori dal parabrezza. «Non ti biasimo se vuoi provarci. In fondo,
sei giovane, hai tante cose da imparare. E perché non farlo
mentre cerchi di proteggere chi ami?»
«Io… io non… non la amo.» Balbettai a
disagio.
«Mmh.» Replicò lui e non riuscii a capire se mi
credeva o no.
Sospirai chiedendomi se prima o poi sarei riuscito a capirlo e a
gestirlo un po’ meglio. Era frustrante non sapere cosa pensava,
non poter intuire la sua prossima mossa. Sean era la personificazione
della parola “sfuggevole”.
Dopo diversi minuti di silenzio, gli lanciai un’occhiata di
sottecchi. «Comunque, non è vero che è troppo tardi
per salvarti. Hai venticinque anni, puoi rifarti una vita. Quando
questa cosa sarà finita…»
«No, tu non capisci.» Mi interruppe senza guardarmi.
«Tu hai qualcuno da cui tornare la sera. Qualcuno per cui valga
la pena tornare. È questa la differenza tra me e te.»
Quelle parole bastarono a darmi una motivazione, almeno parziale, a
ciò che faceva: lui non aveva paura di rischiare, non gli
importava di farlo perché non c’era nessuno che si sarebbe
dispiaciuto se non fosse tornato a casa. Non evitava il pericolo
perché non aveva un vero e proprio motivo per restare vivo. Si
buttava in imprese potenzialmente letali perché anche se fosse
morto non sarebbe stata un tragedia per nessuno. Era una verità
orribile, me ne rendevo conto, però sembrava che lui
l’avesse accettata. Ormai ci aveva fatto i conti, e anche se non
era ciò che aveva programmato per sé, non era ciò
che aveva sperato, ma sapeva che era la sua vita.
«Puoi ancora cambiare le cose.» Replicai.
«Puoi… ricominciare.»
Non rispose, si limitò a fare uno dei suoi mezzi sorrisi senza allegria e a voltarsi verso il finestrino.
Trassi un respiro profondo e cercai di concentrarmi sulla strada:
eravamo praticamente arrivati, mancava solo un isolato. Ci trovavamo in
un quartiere all’apparenza tranquillo, tutto vecchi negozi e
condomini. I lampioni gettavano fasci di luce gialla sulla strada,
erano l’unica fonte d’illuminazione visto che ormai era
calato il sole.
Accostai l’auto al marciapiede lì dove mi aveva detto
Sean. Lui studiò per un attimo la strada, perso nei suoi
pensieri, poi sospirò e si passò una mano tra i capelli.
«Tu, ragazzino, sei l’avvocato dei diavolo, ti hanno
mandato a difendere una causa persa.» Mormorò prima di
scendere dalla macchina chiudendosi la portiera alla spalle.
Cora mugolò cercando di attirare la mia attenzione. Vedendo che
non otteneva risultati, appoggiò il muso sul mio ginocchio
sbattendo la coda sul pavimento. Sollevai lo sguardo dal libro di
scienze e l’accarezzai tra le orecchie. L’avevo portata nel
cottage nel bosco con me, quel pomeriggio, perché aveva paura
dei temporali e non mi andava di lasciarla sola. Le nuvole scure e
gonfie che oscuravano il cielo preannunciavano una tempesta, lei aveva
già cominciato ad innervosirsi e visto che se la prendeva con i
cuscini quando aveva paura, avevo pensato che un po’ di compagnia
l’avrebbe calmata.
La sua presenza, però, non era prevista: ero andato lì
per parlare con Sean. In realtà non ci eravamo messi
d’accordo per incontrarci, ma sapevamo bene entrambi che dovevamo
stabilire i termini dell’alleanza con i cacciatori e che dovevamo
farlo insieme: io non ne sapevo molto dei cacciatori o del mondo
soprannaturale in generale, lui non era un granché con la
diplomazia. Da questo punto di vista ci compensavamo a vicenda.
L’unico problema era che non avevo idea di quando sarebbe venuto,
né se l’avrebbe fatto. Era frustrante, ma sapevo che da
lui non potevo aspettarmi niente di diverso.
Cora drizzò le orecchie all’improvviso puntando la porta
d’ingresso. Un attimo dopo questa si aprì rivelando un
Sean piuttosto bagnato. Come al solito, indossava una giacca di pelle e
dei jeans. La pioggia gli aveva reso i capelli più scuri e
glieli aveva incollati alla pelle.
Chiusi il libro di scienze e mi alzai per andargli incontro. Cora
rimase al mio fianco, ma gli abbaiò in segno di avvertimento.
Sean inarcò un sopracciglio con aria lievemente sorpresa e
inclinò la testa di lato prima di guardarmi in cerca di una
spiegazione.
«Ha paura dei temporali.» Dissi stringendomi nelle spalle.
Lui si passò una mano tra i capelli e chiuse la porta senza
commentare. Attraversò la stanza e si lasciò cadere sulla
poltrona di fianco al divano con un sospiro. Cora seguì
attentamente ogni sua mossa cercando di decidere se rappresentava un
pericolo o no. Ad essere sincero, neanche io avrei saputo dirlo.
Trassi un respiro profondo e mi sedetti sul divano. «Dobbiamo decidere i termini dell’accordo.»
Si guardò le unghie. «Mmh.»
«Insieme.» Aggiunsi nonostante lo considerassi scontato.
I suoi occhi verde-grigio si posarono su di me. «Se dipendesse da
me, li avrei già tolti di mezzo tutti. Questa sottospecie di
messinscena pacifica mi sembra inutile.»
«Ma è necessaria. I tuoi metodi porteranno solo ad un
altro scontro, ad altri morti, ad altri spargimenti di sangue. E non
possiamo permettercelo.» Replicai.
Scosse appena la testa stringendo le labbra. «Non la penso
così, però immagino che sia tardi per tornare
indietro.»
«Già.» Confermai. «Senti, io non ne so molto
di cacciatori, ma tu sì. Ho bisogno di informazioni e ho bisogno
che tu collabori con me.»
Aggrottò la fronte. «Lo so. Non mi piace, ma lo so.
Quindi… vediamo di tirarcene fuori.» Appoggiò i
gomiti sulle ginocchia sporgendosi verso di me. «Che ti serve
sapere?»
Non riuscivo ancora a crederci, ma finalmente io e Sean eravamo
arrivati ad un accordo. Avevamo trovato un modo per lavorare insieme e
lui si era rivelato più disponibile di quanto pensassi. Questo
poteva darci una possibilità concreta di fermare i cacciatori.
Parcheggiai l’auto di fronte al loro quartier generale e scesi
insieme a Sean: ormai non dovevamo più preoccuparci di
nasconderci. O almeno, speravo che fosse così.
L’atteggiamento sicuro e distaccato di Sean mi confermava che non
stavamo andando incontro ad una minaccia, non nell’immediato
comunque.
Appoggiato al muro con aria annoiata c’era Nathan. Indossava dei
pantaloni militari verdi e una maglietta grigia a maniche corte. Quando
ci vide si raddrizzò e si affacciò dentro.
«Sono arrivati.» Lo sentii dire.
«Una sentinella?» Chiesi sottovoce a Sean.
La sua risposta fu una smorfia appena accennata. Sembra che fosse il
suo modo preferito per comunicare. Non era teso, quindi non sospettava
un attacco a sorpresa. Mi sembrava un po’ strano basarmi sul suo
atteggiamento per capire se eravamo in pericolo o no, ma sapevo che era
un metodo molto efficace.
«Non manca qualcuno?» Domandò Nathan quando raggiungemmo la porta.
«No.» Disse secco Sean.
Non riuscii a non alzare gli occhi al cielo a quella sua ennesima
dimostrazione di scarsa fiducia. Ne avevamo già parlato, gli
avevo detto che detto che doveva mostrarsi più disponibile al
dialogo e lui mi aveva risposto con un grugnito irritato.
«Arriveranno più tardi.» Spiegai a Nathan
guadagnandomi un’occhiataccia da Sean.
Nathan annuì e un accenno di sorriso gli sollevò un
angolo della bocca. «Bene.»
Dopo le lezioni Scarlett era uscita con Elisabeth, ma non voleva
comunque rinunciare all’incontro -anche se Sean non la voleva
nell’ufficio di Colin-, così Matthew si era offerto di
accompagnarla al quartier generale dei cacciatori una volta finito il
turno nella farmacia doveva aveva cominciato a lavorare da poco.
Colin e Brian ci aspettavano sulla soglia dell’ufficio, entrambi
con indosso semplici jeans e giacche dall’aria vissuta. Non
c’era traccia né di Tristan né di Samuel. Non ci fu
bisogno di convenevoli, entrammo tutti e quattro chiudendoci la porta
alle spalle. Prendemmo posto come la volta prima: io e Sean ad un capo
del tavolo, i due cacciatori all’altro.
Brian appoggiò i gomiti sul tavolo e unì le mani. «Dove eravamo rimasti?»
«Abbiamo deciso di provare ad evitare ogni forma di
violenza.» Replicai. «E dovevamo discutere
dell’accordo.»
Colin, ancora accompagnato dalla stampella, si appoggiò alla
sedia e incrociò le braccia al petto. «Giusto. Allora,
cosa volete?»
«L’immunità, ovviamente. Il che significa che non
potete… ucciderci né ferirci o catturarci.»
Cominciai includendomi nel fantomatico branco di Sean più per
comodità che per altro. «Nessuno di voi può
farlo.»
«È un impegno importante quello che ci chiedete di
prendere.» Mi fece notare Colin socchiudendo gli occhi.
«Lo so, ma non si può parlare di alleanza o collaborazione
se i tuoi se ne vanno in
giro ad uccidere i nostri.» Mi faceva strano parlare di me come
se fossi stato un licantropo, ma i cacciatori avevano dato per scontato
che lo fossi e Sean mi aveva consigliato di continuare a farglielo
credere.
Brian trasse un respiro profondo. «Ha ragione, ma assecondarvi
vorrebbe dire andare contro le nostre tradizioni che vanno avanti da
molti anni.»
«E che comprendono l’uccisione di innocenti.»
Borbottò Sean a voce sufficientemente alta perché i
cacciatori lo sentissero.
«Il punto è che non possiamo tollerare quelle che per voi
sono… tradizioni.» Mi affrettai a dire. «Non se
uccidono i nostri.»
«Quindi dovremmo lasciarvi fare quelle che volete?»
Domandò Colin con una certa perplessità.
«Non vi abbiamo mai creato problemi. Ci gestiamo bene.»
Ribattei usando il tono più diplomatico che riuscii a trovare.
«Di questo devi dargliene atto, non si sono mai esposti.»
Convenne Brian.
«Sì, ma capisci che lasciarvi fare i vostri comodi non
rientra nel nostro… protocollo.» Commentò Colin.
«E farci ammazzare non rientra nel nostro.» Ringhiò
Sean.
«Perché dobbiamo essere noi a rinunciare alle nostre
abitudini?» Insistette Colin con gli occhi grigi fissi su di noi.
«Perché noi abbiamo molto più da perdere.»
Replicai sentendo la durezza della mia stessa voce.
Colin mi soppesò con lo sguardo per un attimo prima di fare
cenno a Brian di avvicinarsi. Si misero a parlottare tra loro con aria
concentrata.
Sean sospirò e si sporse verso di me. «Colin è
più restio ad accettare… Ci da la colpa
dell’allontanamento della moglie e di conseguenza della
figlia… Brian gli dice che non dovrebbe… e che meritiamo
una possibilità.» Grazie al suo udito da licantropo
riusciva a sentire cosa si stavano dicendo i cacciatori e poteva
riferirmelo.
I suoi occhi verde-grigio incontrarono i miei. Al contrario del solito
erano attenti e più limpidi. «Possiamo sfruttare Brian,
far leva su di lui per raggiungere… qualunque sia il tuo
scopo.»
Annuii. «Okay, sì. Possiamo farlo.»
Era strano per tutti e due ritrovarsi d’accordo su qualcosa, ma
in fondo era ciò che ci serviva, quindi era meglio non farsi
troppe domande e sfruttare quell’intesa molto probabilmente solo
momentanea.
Colin tornò ad appoggiare la schiena alla sedia. «Siamo
disponibili a venirvi incontro, ma anche voi dovete fare qualche
compromesso.»
«Sì, possiamo discuterne.» Concessi. «Ma ci
saranno delle condizioni su cui non siamo disposti a cedere.»
«Dovete tenere in considerazione che questa è una cosa mai
avvenuta prima, dovremmo cominciare da qualcosa di piccolo e poi vedere
se funziona.» Disse Colin.
«Qualcosa di piccolo? Nel senso un solo lupo morto?» Chiesi
prima di scuotere la testa. «No, non se ne parla.»
Sean mi lanciò un’occhiata, e mi sembrò di scorgere
una scintilla d’orgoglio nel suo sguardo. Un accenno di sorriso
gli increspò un angolo della bocca e per un attimo pensai che
forse potevamo lavorare molto bene insieme.
Colin si sporse in avanti. «Non possiamo rivoluzionare
l’intera tradizione dei cacciatori solo per voi. Non avete tutto
questo potere, volendo potremmo uccidervi seduta stante. Ci basta
un’arma.»
«Beh, io posso farlo senza.» Commentò Sean con un
sorriso che metteva in mostra le zanne. C’era una nota per niente
velata di ironia nella sua voce.
L’espressione di Colin si fece turbata: non doveva essere facile
venire a patti con chi ti aveva mandato all’ospedale. Soprattutto
se quella persona aveva ancora il potere di farti del male.
«Dobbiamo raggiungere un compromesso.» Dissi sperando di
sembrare determinato. «E non siamo disposti a permettervi alcuna
libertà per quanto riguarda la nostra vita o la nostra
morte.»
Sean incrociò le braccia al petto. «In poche parole, vi
ascolteremo se ci lascerete vivere. Tutti e quattro.»
«E cosa dovrei dire ai miei cacciatori? Che siamo scesi a patti
con il nemico che ho insegnato loro a temere per anni?»
Sbottò Colin battendo un pungo sul tavolo.
Non riuscii a trattenere un sussulto a quello scatto di rabbia. Sean
invece non ne sembrò assolutamente turbato. Ogni traccia di
sarcasmo sparì dal suo viso lasciandovi solo una maschera di
fredda insofferenza. «Nessuno ti ha obbligato a dare la caccia ai
licantropi, né tantomeno a coinvolgere altre persone.» La
sua voce era di ghiaccio, priva di ogni inflessione. «Se adesso
non sai gestire la situazione è un tuo problema. Ma non
permetterò che tu tocchi il mio branco. Non di nuovo. Non
m’importa cosa dovrò fare, tu non alzerai un dito contro
di loro. E neanche i tuoi compagni.»
Brian spalancò gli occhi e fischiò sottovoce come in
segno di ammirazione. Colin sbiancò di colpo, cosa che mise in
risalto le ombre scure che aveva sotto gli occhi.
«Non sono disposto a sopportare oltre. O risolviamo questo cosa
nel giro di cinque minuti, o ce ne andiamo.» Aggiunse Sean con
quel tono gelido. «Ma voglio farvi una promessa: tornerò
da solo e non sarà piacevole. Esattamente come la prima
volta.» Detto questo, si appoggiò alla sedia. «A voi
la scelta.»
«Questo è un ricatto.» Borbottò Colin
accigliandosi.
«Chiamalo come vuoi.» Ribatté Sean stringendosi
nelle spalle. «Io la considero sopravvivenza.»
«Colin, sai benissimo che non possiamo competere con loro, non
adesso che siamo dimezzati.» Intervenne Brian. «Siamo
appena usciti dall’ospedale: come puoi anche solo pensare che
possiamo tener loro testa?»
Colin aveva lo sguardo perso nel vuoto. «Siamo cacciatori,
è quello che facciamo da anni.»
«Le cose cambiano. Forse è venuto il momento di darci un
taglio.» Insistette Brian con voce calma, come se avesse avuto a
che fare con un animale spaventato. Suonava strano detto da un
cacciatore che probabilmente aveva ucciso chissà quanti
licantropi, eppure c'era qualcosa in lui che mi spingeva a pensare che
volesse farla finita con la caccia, che ormai non ci credesse
più.
Colin strinse le labbra e si voltò verso di lui. «Hanno
ucciso mio padre e molti altri cacciatori.»
«Non loro.» Gli fece notare Brian. «E poi,
l’hanno fatto perché noi li stavamo cacciando. Dovevano
pur difendersi, no?»
Io e Sean assistevamo a quello scambio di battute sapendo di poter solo
aspettare e vedere cosa sarebbe successo. Intervenire poteva peggiorare
la nostra già precaria situazione quindi, nonostante ci fosse la
nostra vita in gioco, dovevamo solo attendere.
«Se il tuo piano non va in porto, sappi che farò a modo
mio. Non lascerò che tocchino ciò che è
mio.» Mi avvertì Sean a bassa voce.
Quelle parole avevano un ulteriore significato: non mi sarei potuto
opporre, avevo avuto la mia occasione di evitare uno scontro e se non
ci fossi riuscito lui avrebbe avuto carta bianca. Era una situazione
che avevo già messo in conto, ma continuava a non piacermi,
esattamente come a lui non piaceva la mia idea pacifica.
Avevo provato sulla mia pelle di cosa era capace e potevo solo
immaginare cosa avrebbe potuto fare trovandosi di fronte le persone che
riteneva colpevoli della morte della sua famiglia e del suo vecchio
branco. L’ombra che si intravedeva in fondo ai suoi occhi
confermava la mia teoria.
«Lo so.» Mormorai mio malgrado.
«Mi serve del tempo per riflettere.» Dichiarò Colin.
«Non possiamo lasciare le cose a metà. Non siamo giunti a
niente oggi.» Protestai.
Lui fece un gesto vago con la mano. «Devo pensare.»
Spostai lo sguardo su Brian in cerca di supporto. Lui sospirò e
mi rivolse un debole sorriso fiaccato dalle rughe e
dall’espressione stanca. «Ci rincontreremo tra un paio di
giorni, vi va bene?»
Lanciai un’occhiata a Sean, che scrollò le spalle con aria
indifferente.
«Basta che non ci mettiate troppo.» Commentò.
«Va bene.» Risposi tornando a guardare Brian. «Come
ci mettiamo d’accordo?»
«Ve lo farò sapere quando avremo deciso. Useremo
un… intermediario.» Spiegò lui.
«Se è armato non tornerà a casa.»
Chiarì Sean alzando il mento in segno di sfida.
«Non lo sarà.» Promise Brian guardandolo negli
occhi.
Sean non mostrò nessuna emozione, rimase impassibile, cosa che
gli riusciva molto bene, e fissò Brian abbastanza a lungo da
indurlo ad abbassare lo sguardo.
«Potete andare.» Intervenne Colin senza guardarci e facendo
un gesto vago con la mano.
Sean scattò in piedi rischiando di rovesciare la sedia. Gli
lanciai un’occhiata sorpresa che lui ricambiò per un
attimo prima di voltarsi verso i cacciatori. Aveva la mascella
contratta, il respiro spezzato e l’aria di essere al limite della
sopportazione. Mi alzai anch’io e per un attimo provai
l’impulso di mettergli una mano sul braccio e tranquillizzarlo,
ma mi bloccai: uno come lui non avrebbe gradito. Anzi, c’erano
buone probabilità che mettesse in atto una delle sue tante
minacce.
Questo, oltre a dimostrare la mia teoria su quanto fosse ancora turbato
dai dolori del passato, creava un ulteriore problema: stavamo cercando
di scendere a patti con i cacciatori, le persone che odiava di
più al mondo, quindi era più che normale che il suo
rancore e la sua rabbia stessero crescendo. Il che significava che
sarebbe stato più suscettibile di quanto non fosse già e
io mi sarei dovuto impegnare il doppio per evitare uno scontro, o
comunque l’uso della violenza, da entrambe le parti.
SPAZIO AUTRICE: Ehilà!
Di nuovo in ritardo, ma ho aggiornato. Giovedì, ovvero il 15
ricomincerò la scuola quindi può darsi che passi
più tempo tra un aggiornamento e l'altro - questo ovviamente
vale anche per SIN - ma vi prometto che arriveranno, sempre e comunque.
In questo capitolo ho voluto farvi dare uno sguardo più interno
a quelle che sono le trattative tra cacciatori e licantropi. E anche al
rapporto che si sta creando piano piano tra Sean e Adam: la fiducia
manca ancora, ma sembra che siano sulla buona strada per trovare
un'intesa.
A proposito, volevo chiedervi: come li vedete Scarlett e Nathan
insieme? Sì, lo so, ora è troppo presto e c'è
Adam, ma in futuro? E invece Adam e Sean?
Messi così sembrano coppie campate per aria, soprattutto visto
che in pratica il rapporto tra gli Adamett è stato la colonna
portante della storia fino ad ora, ma in un possibile sequel in cui
avessero spazio di crescere e approfondirsi?
Sì, l'idea di un sequel ce l'ho già in mente da un po' e
parlandone con quella santa - anche se malvagia e ansiogena - di Christine23 sto cominciando a mettere in fila le idee. Per adesso è ancora molto vaga come cosa, ma mai dire mai.
Vi lascio che sto scrivendo un papiro e spero di ricevere i vostri pareri. A presto!
TimeFlies
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Capitolo 35 *** 35. Scarlett ***
Under a Paper Moon- capitolo 35
35. Scarlett
Molte
delle leggende che avevo letto sui licantropi - perché
sì, l’avevo fatto ed ero rimasta molto sorpresa dalla
fantasia delle gente che le aveva scritte - ci descrivono come creature
mostruose, demoniache, crudeli e incapaci di provare pietà o
rimorso. Perfette macchine per uccidere, bestie feroci assetate di
sangue.
Io però mi sentivo
più un cucciolo spaventato all’idea di incontrare
Elisabeth per parlare della mia… del mio rapporto con Adam.
Rapporto a cui neanche io sapevo dare un nome, tra l’altro.
Avevamo superato la fase dei nemici e anche quella dei conoscenti, ma
non avevo idea di cosa fossimo adesso l’uno per l’altra.
Mi misi a contare i mattoni dell’edificio dall’altra parte
della strada per cercare di calmare la mia mente in tumulto. Le avevo
dato appuntamento nel suo locale preferito, un caffè vintage con
i tavolini in ferro battuto, le tazze da tè in ceramica dipinta
e musica jazz in sottofondo. Sapevo che era solo una strategia per
ingraziarmela, ma ero davvero in ansia all’idea di parlarle di
nuovo di quell’argomento.
Dopo che le avevo detto che io e Adam ci vedevamo ci eravamo a stento
rivolte la parola, io per paura e lei per rabbia.
Avevo contato centododici mattoni quando vidi Elisabeth avvicinarsi. Mi
pietrificai lì sul marciapiede, con lo zaino appeso ad una
spalla e un ciuffo di capelli che continuava a finirmi sugli occhi.
Beth invece era impeccabile, come sempre: jeans attillati, camicetta di
seta, la chioma scura domata in boccoli morbidi che le accarezzavano le
spalle. Anche il viso era perfetto, la pelle resa luminosa dal
fondotinta, le labbra colorate da un rossetto chiaro e le ciglia
sottolineate dal mascara. L’avevo sempre ammirata per la sua
capacità di esaltare la propria bellezza con poche, semplici
mosse.
Mi schiarii la gola tentando di non sembrare nel panico com’ero
in realtà. «Ehi.»
Un angolo della sua bocca si contrasse in una piccola smorfia.
«Ehi.»
Soffiai via una ciocca di capelli che mi cadeva sul viso.
«Vogliamo… vogliamo entrare?»
Mi fece un segno d’assenso breve e composto, degno di una regina,
prima di varcare la soglia del locale facendo tintinnare le campanelle
appese sopra la porta. La seguii a testa bassa sforzandomi di trovare
le parole giuste per chiederle scusa. Prendemmo posto ad un tavolino
piuttosto appartato con un vaso di margherite come centrotavola. Quasi
subito, un cameriere passò a lasciarci i menù. Io ne
presi uno e lo usai per coprirmi il viso mentre facevo respiri
profondi; nel frattempo Beth sfogliava l’altro con aria
distratta.
Quando il cameriere ricomparve, lei ordinò un tè verde
freddo mentre io, colta da un inspiegabile panico, finii per esclamare
la prima cosa che lessi sul menù, ovvero una tisana diuretica al
rosmarino che mi fece guadagnare un’occhiata sorpresa dalla mia
migliore amica.
«Mi dispiace un sacco, Beth, davvero» Dissi di slancio non
appena il cameriere si fu allontanato. «Non avrei mai voluto che
tu lo scoprissi così, per caso. Solo che non avevo la più
pallida idea di come dirtelo.»
Lei sospirò appoggiando le braccia al bordo del tavolo.
«Senti, non sono arrabbiata con te. Lo sono stata, mi sono
sentita tradita, ma… non sopporto l’idea che, anche adesso
che abbiamo rotto, Adam abbia un tale potere sulla mia vita.»
La guardai con gli occhi spalancati, in attesa che continuasse. Non osavo dire niente.
«Non ha funzionato tra me e lui.» Riprese Beth. «Ma
questo non significa che non debba funzionare anche tra me e te. Voglio
dire, ti conosco da tutta la vita, so che non ti metteresti mai con il
mio ragazzo per ferirmi. Andiamo, so anche che da piccola facevi il
bagno al mare senza costume perché non volevi bagnarlo.»
Non riuscii a fare a meno di sorridere. Abbassai lo sguardo
giocherellando con l’anello che portavo al dito.
«Sì, beh, è pur sempre un indumento, no?»
Anche lei si concesse un piccolo sorriso. «Immagino di sì.
Sai, riflettendoci ho capito di essermi presa una cotta non tanto per
Adam, quanto per il suo aspetto. Volevo un ragazzo bello e lui lo era.
Ma a livello di carattere non avevamo molto da condividere.»
«È un tipo complesso.» Convenni pensando che quella
parola fosse fin troppo riduttiva per descrivere Adam. Era sì
complesso, ma era anche mille altre cose.
«Toglimi una curiosità.» Mi disse Beth non appena il
cameriere se ne andò dopo aver posato le nostre ordinazioni sul
tavolo. «Vuoi due state insieme?»
Mi lasciai sfuggire una smorfia, un po’ per la domanda, un
po’ per il nauseante odore di rosmarino della mia tisana.
«Uhm… domanda di riserva?»
Lei sembrò sorpresa. «Ma qualche settimana fa mi avevi
detto…»
«Lo so cosa ti ho detto, solo che… lo trovo davvero carino
e piacevole e interessante, ma…» La mia voce si spense.
«Non c’è stata la scintilla?» Domandò
Beth prendendo un sorso del suo tè.
Io fissavo accigliata il mio mentre la mia mente lavorava frenetica per
rimettere tutti i pezzi al loro posto e dare un senso a quello che mi
si agitava nel petto. «La scintilla c’è stata,
perché non mi era mai successo di trovarmi così a mio
agio con qualcuno, di… mmh, di entrare in sintonia così
tanto con qualcuno. Però non sono sicura che sia quella scintilla.»
«Quindi lui ti piace, ma non sai se ti piace e basta, o ti piace piace?» Riassunse lei.
Annuii, ammirata dalla sua capacità di deduzione: io stessa non
avevo idea di cosa diavolo volessi dire. «Esatto. Non vorrei
mettermi con lui e poi scoprire che non funziona. Ci tengo troppo al
nostro rapporto per vederlo rovinato.»
Beth abbassò lo sguardo scuotendo piano la testa. «E io
che pensavo che ti fossi presa una semplice cotta per lui… Tu ci
tieni sul serio.»
La guardai sbattendo le palpebre. «Sì.» Mormorai
prendendone consapevolezza io stessa. «Assolutamente. Eccome se
ci tengo a lui. Semplicemente non me ne rendevo conto, pensavo che
fosse qualcosa di meno… profondo.»
«Senti, qualunque cosa tu scelga di fare, avrai il mio
appoggio.» Disse lei allungando una mano per stringere la mia.
«Ti voglio troppo bene per tenerti il muso per una cosa
così sciocca. Mi ero arrabbiata perché pensavo che tu mi
stessi rubando il ragazzo, non ho minimamente preso in considerazione
l’idea che lui potesse piacerti in un senso diverso.»
«Pensavi che volessi portarmelo a letto?» Sintetizzai.
Lei inarcò entrambe le sopracciglia annuendo. «Esatto! Ne
ero convintissima. Ti rendi conto? Dovrei sapere che tu non sei
così, ti conosco da una vita.»
«Stavi difendendo il territorio, Beth, non preoccuparti.»
La tranquillizzai ricambiando la stretta. «E poi, era una
situazione molto equivoca considerando il fatto che nemmeno io sapevo
cosa stava succedendo.»
Sospirò pesantemente. «Sai cosa? Sto cominciando a
stancarmi dei ragazzi, delle relazioni… sono troppo complicate.
Dovremmo mollarle completamente.»
«Finché non troviamo un altro bel ragazzo e ci prendiamo
una cotta.» Conclusi io per lei con uno sbuffo amareggiato.
«Nel frattempo possiamo mangiare della cioccolata
però.»
«Qui fanno una torta lamponi e cioccolato meravigliosa.»
Convenne lei prima di richiamare il cameriere con un cenno. Quando lui
raggiunse il nostro tavolo proclamò con aria decisa: «Due
fette di torta al cioccolato con lamponi, per favore.»
Lui annuì e accennò un sorriso nella direzione di Beth.
«Subito.»
Mi appoggiai alla sedia, sollevata, mentre si allontanava. Parlare con
Elisabeth aveva un effetto terapeutico, riusciva a sbrogliare i miei
pensieri intricati e a dar loro un senso. Era un peccato non poterle
raccontare anche di Sean, del branco, dei cacciatori, di Nathan…
Se avessi cominciato a parlare anche del lato soprannaturale della mia
vita non avrei più smesso.
«Oh, Scarlett, tesoro, perché hai preso una tisana al
rosmarino? Tu odi il rosmarino.» Commentò Beth
richiamandomi alla realtà.
Scoccai un’occhiata schifata al contenuto della mia tazza.
«Sì, hai ragione. Ma ero nel panico.»
Elisabeth sorrise scuotendo la testa. «Sei completamente fuori di
testa, lo sai, vero?»
Giocherellai con la collana che portavo stringendomi nelle spalle.
«Beh…»
«Ma ti adoro anche per questo.» Aggiunse lei facendomi
sorridere.
In quel momento il cameriere tornò al nostro tavolo con le due
fette di torta, che ci posò davanti. «Ecco a voi,
signorine. Spero sia di vostro gradimento.»
Elisabeth infilzò un lampone con la forchetta e se lo mise in
bocca ammiccando nella sua direzione. «Ti faremo sapere.»
Essendo un licantropo, avrei dovuto essere abituata alle stranezze, ma
non era assolutamente così. O meglio, non mi prendeva un colpo
se mi vedevo con gli occhi dorati e le zanne, questo no, però
non riuscivo a non rimanere un po’ sorpresa di me stessa quando
mi ritrovavo a ridere e scherzare con un cacciatore.
In realtà Nathan mi aveva chiesto di non pensare a lui come un
cacciatore: voleva lasciarsi alle spalle quella vita, ricominciare.
Mi strinsi le ginocchia al petto e ci posai il mento mentre lui faceva
un gesto vago con la mano per sottolineare un concetto. Sorrisi
inconsapevolmente e lo fece anche lui aggrottando nello stesso tempo la
fronte come a chiedere spiegazioni.
«Niente, è solo… Insomma, è strano che io e
te andiamo d’accordo, no?» Chiesi.
«So essere piuttosto antipatico a volte, questo te lo concedo, ma
che c’è di così strano?» Replicò
osservandomi con aria incuriosita.
«Siamo preda e cacciatore, okay? È come se un leone e una
gazzella uscissero insieme.» Risposi stringendomi nelle spalle.
Si mise a ridere e scosse la testa. «Fammi capire, io sono il
leone e tu la gazzella? Non torna: sei tu quella con zanne e artigli,
non io.»
Alzai gli occhi al cielo. «Non hai mai sentito parlare di
metafore?»
«Forse.» Convenne. «Ma ormai io non sono più
un cacciatore. O meglio, in via ufficiale sì, però
sarà ancora per poco.»
«Quindi sei sicuro di volerlo fare?» Domandai tornando
seria.
Annuì fissando il muro davanti a sé. «Sì.
Voglio lasciarmi alle spalle l’addestramento, le armi, questo
posto inquietante.» Rabbrividì. «Non sopporterei
oltre quello che fanno.»
«Se il piano di Adam funziona non faranno più
niente.» Commentai.
«Lo spero.» Mormorò con un sospiro.
In quel momento la porta dell’ufficio di Colin si aprì
rivelando un Sean rabbioso, tanto per cambiare, e un Adam
dall’aria stanca. Subito dopo di loro vennero Brian e Colin,
quest’ultimo ancora appoggiato alla stampella.
Mi alzai dal pavimento seguita da Nathan. Anche Matthew, appoggiato al
muro poco più giù con un libro in mano, riportò
l’attenzione su quello che stava succedendo.
«Allora?» Chiesi impaziente e anche preoccupata: le loro
facce non promettevano niente di buono.
«Serve un altro incontro. O forse più di uno.»
Spiegò Adam prima di mordersi il labbro inferiore.
Poteva andare peggio. Molto peggio: Colin poteva decidere di cacciarci,
nel senso letterale della parola, e a quel punto sarebbero stati guai
molto seri.
Abbozzai un sorriso. «Bene. Credo.»
Eppure l’espressione cupa di Sean e quella turbata di Adam non
davano l’impressione che le cose stessero andando per il verso
giusto.
L’avevo osservato per tutto il viaggio di ritorno senza
preoccuparmi troppo del fatto che potesse accorgersene. Nel complesso
era rilassato, solo il fatto che continuasse a mordersi il labbro e che
avesse l’aria un po’ assente tradivano la realtà:
c’era qualcosa che lo impensieriva. Avevo escluso Sean a
prescindere perché, nonostante i loro screzi continui, si erano
abituati l’uno all’altro e non si influenzavano più
così tanto. A volte sembravano quasi apprezzare la presenza
dell’altro.
Era più che probabile che fosse per via di Colin e
dell’accordo che fosse tanto assorto. Lo era di suo, non era la
prima volta che lo beccavo distratto, perso nelle sue riflessioni, ma
adesso sembrava che fosse qualcosa di più importante.
«Sei un po’ inquietante, sai?» Disse
all’improvviso facendomi sussultare. «Continui a fissarmi
con quell’espressione indagatrice come se volessi leggermi nel
pensiero.»
Feci un gesto vago con la mano, quasi a voler scacciare un insetto.
«Macché, ti sembro il tipo? Stavo solo… uh,
pensando.»
Mi lanciò un’occhiata di sottecchi, le pagliuzze dorate
nelle sue iridi accese dalla luce del sole. «Ah sì? E a
cosa?»
«Beh… Mi sono chiesta se per caso tu avessi un momento
libero per… passare da me. Così, sai, giusto per.»
Risposi fingendo noncuranza.
In realtà ci speravo, anche perché volevo
tranquillizzarlo un po’ e cercare di scoprire cosa lo turbasse
tanto. Per rinforzare il mio disinteresse riguardo la mia stessa
proposta, mi risistemai i capelli e scrollai le spalle.
Ovviamente, lui non mi credette neanche per un attimo. «Giusto
per?» Ripeté studiandomi per qualche secondo prima di
riportare lo sguardo sulla strada.
«Già.» Confermai e la mia voce suonò un
po’ troppo acuta, così mi schiarii la gola.
«Cioè, se non ti va puoi andare, non mi offendo.»
Tamburellò distrattamente sul volante. «Vengo.»
Sentii un sorriso nascermi sulle labbra. Mi affrettai a stringerle per
nasconderlo. «Bene.»
Sorrise anche lui pur senza guardarmi. «Immagino di sì.»
Ci volle meno di quanto pensassi per arrivare a casa mia e io mi
ritrovai ad essere impaziente di averlo tutto per me dopo tutto quel
tempo che aveva passato diviso tra Sean e i cacciatori.
Camminammo fianco a fianco fino alla porta d’ingresso
chiacchierando un po’ di tutto con leggerezza. Mi ero quasi
dimenticata quanto mi venisse facile parlare con lui, ma soprattutto
quanto mi piacesse. Dopo aver litigato con la serratura per un minuto
buono, riuscii ad aprire la porta. Lui sorrise di fronte alla mia
goffaggine, ma era uno di quei sorrisi teneri, come quelli delle madri
che guardano i propri figli giocare.
Gli feci strada in salotto, probabilmente la stanza più luminosa
e accogliente della casa, e mi sedetti a gambe incrociate sul divano.
Lui si lasciò cadere accanto a me con un sospiro che tradiva una
certa stanchezza. Mossa da un’improvvisa preoccupazione, gli
presi una mano tra le mie osservandolo attentamente.
«Come va?» Chiesi cauta alludendo all’accordo con i
cacciatori.
Chiuse gli occhi e si lasciò sfuggire una smorfia.
«È più complicato del previsto. Sapevo che era una
mossa azzardata, ma non credevo fosse così… impegnativo
mettere tutti d’accordo.»
Abbassai lo sguardo e feci scivolare le dita sulla parte interna del
suo polso, lì dove la pelle chiara lasciava intravedere le vene
sottili di un pallido azzurro. «Te la stai cavando bene,
però. Per ora siete tutti vivi. E poi… è una cosa
molto grande e nuova, è normale che ci siano delle
complicazioni.»
«Già, per ora la tensione non è troppa. E spero che
resti così.» Un mezzo sorriso gli incurvò le
labbra. «Non avrei mai pensato di finire a fare l’avvocato
del diavolo.»
Aggrottai la fronte, confusa. «Avvocato del diavolo? Ti riferisci
a Sean?»
«No.» Rispose sfiorando l’anello argentato che
portavo all’indice. «In realtà è stato lui a
definirmi così. Credo che consideri questo tentativo di alleanza
una causa già persa e che pensi di dover intervenire con i suoi
metodi.»
«Tu che ne pensi invece?» Domandai studiandolo di sottecchi
e continuando, nello stesso tempo, a far correre le dita sulla sua
pelle.
«Penso che abbiamo una possibilità. Piccola, ma
c’è: Brian è più propenso ad ascoltarci
quindi se sfruttiamo lui dovremmo riuscire a convincere anche
Colin.» Spiegò.
Annuii, sollevata. «È una buona notizia.»
Spostò lo sguardo su di me. «Sì, un’ottima
notizia direi. Dobbiamo solo capire come fare.»
«Che cos’hai in mente di preciso? Cioè, in un
accordo ci vogliono dei vantaggi per entrambe le parti, no?»
Chiesi inclinando la testa di lato.
«Beh, sì.» Convenne. «Pensavo di dare
l’immunità ad entrambi: loro non posso uccidere noi e noi,
o meglio, Sean non può uccidere loro.»
«Mi sembra giusto e… uh, conveniente per tutti.»
Commentai. «Perché Colin non cede?»
Sospirò. «Perché ci da la colpa del divorzio da sua
moglie e perché pensa che sia un cambiamento troppo grande da
fare tutto insieme.»
Aggrottai la fronte. «Dovremmo procedere per gradi, secondo
lui?»
«Non saprei dirti cosa vuole. Non credo lo sappia nemmeno lui.
È arrabbiato e frustrato, non vuole darcela vinta, ma sa di non
potere niente contro Sean.» Replicò stringendosi nelle
spalle.
Appoggiai la schiena la divano. «Si arrenderà prima o poi,
non può certo continuare a tirarla per le lunghe così.
Non con Sean.»
«Già. Spero se ne accorga presto.» Mormorò
prima di stringere le labbra.
Pur con una certa esitazione, mi accoccolai contro di lui con la testa
sulla sua spalla e le ginocchia strette al petto. «Lo spero
anch’io.»
Mi sfiorò una guancia con la punta delle dita per poi infilarmi
una ciocca di capelli dietro l’orecchio. Sentii un brivido
scendermi lungo la spina dorsale a quel contatto e sperai che lui non
se ne accorgesse. Mi sollevò con dolcezza il mento per fare in
modo che i nostri sguardi si incrociassero. Le sue iridi, di quel blu
tanto particolare, erano illuminate dai raggi del sole che filtravano
dalla finestra che le rendeva un po’ più chiare del solito
e che ne accentuava le pagliuzze dorate.
Si chinò su di me e mi baciò piano sulla bocca facendomi
trattenere il fiato. Fu un bacio morbido, delicato, un bacio da Adam
che lo rispecchiava per l’attenzione che metteva nel curare i
rapporti con le persone.
Si scostò da me rimanendomi comunque vicino, il suo respiro
tiepido che si mischiava al mio. Appoggiai la fronte alla sua mentre
lui cercava la mia mano per poi intrecciare le dita con le mie.
Ogni volta che ci tornavo aumentava la mia convinzione che avrei voluto
vivere lì. Il cottage nel bosco era una specie di oasi
silenziosa e tranquilla immersa nel verde. Mi faceva sentire rilassata
e in pace con me stessa e con il resto del mondo. Ma non mi aiutava a
concentrarmi sui compiti. In fondo, i miracoli erano quasi impossibili.
Avevo lasciato perdere chimica quasi mezz’ora prima e adesso ero
seduta sui gradini del portico ad ammirare gli alberi intorno a me
cercando di ignorare la vocina nella mia mente che insisteva
perché tornassi a concentrarmi sui libri. Se ci fosse stato Adam
con me probabilmente mi sarei impegnata di più, sia
perché lui non mi avrebbe lasciata uscire, sia perché un
po’ ci tenevo a fare bella figura, ma lui non c’era quindi
potevo prendermela una pausa, no?
Era una bella giornata scaldata da timidi raggi di sole, il cielo era
limpido, di un bell’azzurro carico. Il verde degli alberi era
luminoso, sembrava quasi brillare a quella luce soffusa. L'idea di
chiudermi in casa in mezzo a strambe formule mi sembrava profondamente
sbagliata con un tempo del genere.
Chiusi gli occhi godendomi il calore del sole. Per poi sussultare un
attimo dopo quando sentii un rumore di passi lievi che si avvicinavano.
Si sentivano appena sul terreno morbido, ma grazie al mio udito da lupo
li avevo intercettati subito. Sollevai cauta le palpebre sentendo i
muscoli tendersi. In fondo, l’accordo con i cacciatori non era
concluso: chi mi garantiva che non sarebbero tornati a finire il
lavoro?
Invece vidi Sean che mi veniva incontro con le mani nelle tasche dei
jeans scuri, lo sguardo basso perso in chissà quale pensiero.
Indossava una maglietta blu e la sua solita giacca di pelle. Sospettavo
che fosse parte di lui, una specie di seconda pelle.
Sollevò lo sguardo e, quando mi vide, sembrò lievemente
sorpreso. «Scarlett.»
Alzai una mano in segno di saluto. «Ehi.»
«Che ci fai qui?» Chiese fermandosi all’inizio della
scala.
«Fingo di non dover fare i compiti di chimica.» Risposi.
«Tu?»
«Cercavo Adam. Sai, l’accordo…» Replicò
spostando gli occhi sul terreno.
Annuii. «Già. Mi ha detto che sta andando abbastanza
bene.»
Si strinse nelle spalle. «Dipende dai punti di vista.»
Sapevo che lui avrebbe preferito fare piazza pulita dei cacciatori
così come sapevo che Adam si era opposto fermamente a
quell’idea. Ammiravo quel suo modo di pensare così
categorico e coerente, ma Sean sembrava pensarla diversamente. Si erano
scontrati davvero molto spesso su quella questione, alzando anche la
voce, eppure avevo notato che entrambi rispettavano l’altro senza
eccezioni.
Mi accorsi che Sean mi stava osservando con la sua solita espressione
indecifrabile. Nonostante questo, i suoi occhi sembravano essersi
incupiti. Era una cosa che succedeva quasi ogni volta che si posavano
su di me. Forse rimpiangeva di avermi morso perché si era reso
conto che non ero abbastanza forte, oppure gli facevo pena.
Sospirò e strinse le labbra. «Come stai?»
La sua domanda mi sorprese, ma cercai di non darlo a vedere per non
offenderlo. «Bene. Sono un po’ preoccupata per questa
storia dell’alleanza, ma per il resto è tutto okay.»
Lo studiai di sottecchi. «Tu invece?»
Non si preoccupò di nascondere il suo stupore. «Io…
uhm, sto bene. Sì, insomma, perché non dovrei?»
«Era solo per sapere.» Replicai con voce dolce. «Sai,
per fare conversazione.»
Aggrottò la fronte. «Mmh.»
Mi morsi il labbro stringendomi le braccia al petto. Si vedeva lontano
un miglio che non era abituato ad avere qualcuno che si preoccupava per
lui, ormai la solitudine era parte di lui. «Quindi… vuoi
dargli una possibilità. Ad Adam intendo.»
Sospirò. «Sì. Non mi piace per niente il suo piano,
ma… potrebbe comportare dei vantaggi.»
«Vorresti… cioè, tu avevi altro in mente per i
cacciatori?» Chiesi pur conoscendo già la risposta.
Sollevò lo sguardo su di me. «Sì. Ma ho fatto una
promessa e io mantengo le promesse.»
Aggrottai la fronte. «Che promessa?»
«Adam mi ha fatto giurare che non userò la violenza. A
meno che, ovviamente, uno di noi non sia in pericolo di vita.»
Replicò per poi lasciarsi sfuggire una smorfia. «Gli ho
comunque detto che, se il suo piano fallisce, farò a modo mio. E
lui non potrà intervenire.»
«Beh, è rischioso, ma forse è giusto provare un
altro tipo d’approccio, no?» Gli feci notare.
La sua espressione era indecifrabile. «Non sottovalutarli,
Scarlett.»
«Non lo sto facendo, so di cosa sono capaci. Ma… magari
è giunto il momento di concludere questa faida.» Commentai
sentendomi un po’ in soggezione di fronte al suo sguardo
indagatore.
«Sei così giovane…» Mormorò scuotendo
la testa mentre un accenno di sorriso gli sfiorava le labbra.
Socchiusi gli occhi, sospettosa: non mi piaceva sentirmi dire che ero
troppo piccola per capire qualcosa. «E questo che vorrebbe
dire?»
Mi osservò con quei suoi occhi verde-grigio. «Che devi
ancora fare molte esperienze. O forse sono io quello troppo ancorato al
passato.»
Quelle parole mi fecero tornare in mente qualcosa che avevo quasi
dimenticato. «Mi dispiace per Isaiah.»
La sua espressione non cambiò minimamente, ma nei suoi occhi
scorsi un’ombra. «Appartiene al passato. E
poi…» Si strinse nelle spalle. «Non l’ho mai
conosciuto.»
Annuii appena prima di abbassare lo sguardo. Dannazione, era
incredibile il modo in cui riusciva a dominare le emozioni, a non
lasciar trasparire assolutamente niente. La prima volta che avevo
chiesto di Isaiah aveva avuto una brutta reazione, ma adesso non
sembrava neanche che la sua morte lo toccasse. Riflettendoci meglio,
l’unica persona in grado di scatenare qualcosa in lui, di
scuotere la sua calma glaciale era proprio Adam.
«Ti è rimasta la cicatrice?» Domandò
all’improvviso facendomi alzare gli occhi: si era appoggiato alla
ringhiera delle scale e mi studiava, per una volta senza il suo solito
cipiglio cupo.
Mi ci volle qualche secondo per capire che si riferiva alla ferita
lasciata dal proiettile dei cacciatori. «Sì. Però
è piccola, quasi non si vede: Matthew ha fatto un buon
lavoro.» Risposi ripensando al segno bianco che mi era rimasto
sul fianco.
«Ne ho una anch’io.» Rivelò incrociando le
braccia al petto. «E avrei voluto essere l’unico del mio
branco con uno sfregio del genere.»
«Non è proprio uno sfregio… E poi, sai come si
dice, no? Quel che non ti uccide ti fortifica.» Ribattei.
«Ma che succede se ti lascia una ferita che non sai
guarire?» Chiese con voce bassa, controllata.
Esitai, sorpresa dalla piega che stava prendendo quella conversazione.
«Beh… Cerchi di andare avanti comunque, credo. È
nella nostra natura continuare a lottare.»
Trasse un respiro profondo. «Immagino di sì.»
Chinò la testa aggrottando la fronte. «Mi dispiace essere
sparito così. Io sono nato licantropo quindi non so cosa si
prova, ma essere trasformati senza una spiegazione dev’essere...
pesante.»
«Lo shock iniziale è molto tosto, ma col tempo riesci ad
abituarti, almeno in parte.» Risposi.
Quando tornò a guardarmi c’era di nuovo quell’ombra
nei suoi occhi. «Se c’è qualcosa che posso fare per
te… devi solo chiedere. In fondo, sei una mia
responsabilità.»
Sorrisi spontaneamente, senza quasi accorgermene. «Grazie.
Davvero, è… un bel gesto da parte tua.»
Sembrò sorpreso, ma poi un sorriso timido si affacciò
sulle sue labbra. «Di nulla.»
Abbassai lo sguardo mordicchiandomi un’unghia. «In
realtà una cosa ci sarebbe.»
«Dimmi.» Replicò con una nota più gentile
nella voce.
«Ecco, Adam è l’unico… non soprannaturale di
noi. Quindi è anche quello più… a rischio: non ha
capacità speciali di guarigione o roba del genere.»
Spiegai imponendomi di non gesticolare.
Socchiuse gli occhi. «Lo so.» «Volevo chiederti di
tenerlo d’occhio. Si sta esponendo molto con i cacciatori e non
vorrei che gli succedesse qualcosa.» Lo guardai. «Tu li
metti in soggezione quindi magari puoi evitare che si cacci nei
guai.»
«Non posso proteggere chi non vuole farsi proteggere.»
Commentò lui. «Adam è tra due fuochi adesso: il
soprannaturale e chi vuole distruggerlo. Anche volendo posso fare poco,
soprattutto perché non mi da retta. E poi sembra avere una
capacità innata per infilarsi in situazioni pericolose e
scomode.»
«Lo so, ma puoi almeno provarci?» Insistetti cercando di
assumere un’espressione da cucciolo bastonato come quella che
usava Beth. Non ero molto sicura che potesse funzionare con Sean, ma un
tentativo non mi avrebbe uccisa.
Arricciò appena le labbra in una smorfia. «Sa cavarsela da
solo. Voglio dire, anche se mi fa saltare i nervi ogni volta che
parliamo, è furbo. Non si farà cogliere
impreparato.»
«Può essere bravo con le parole, ma non ha gli artigli o le zanne.» Gli feci notare.
«Contro una pistola possono poco.» Borbottò
incupendosi.
Strinsi le labbra. «Per favore, Sean. Almeno dimmi che lo terrai
d’occhio, solo questo.»
I suoi occhi, freddi eppure intensi, tornarono nei miei.
«D’accordo. Ti prometto che lo farò.»
Il nodo di tensione che avevo nel petto si sciolse appena e sentii un
sorriso farsi strada sul mio viso. «Grazie mille.»
Scosse la testa e sospirò. «Tu e quel ragazzino mi farete
impazzire prima o poi.»
Feci un gesto vago con la mano, come a scacciare quella
possibilità. «Chi, noi? Ma figurati, siamo degli
angioletti.»
Inarcò un sopracciglio, ma non commentò. Si lasciò
sfuggire un mezzo sorriso che rese i suoi occhi un po’ più
limpidi. «C’è una cosa che volevo dirti.»
«Okay, dimmi pure.» Replicai piuttosto incuriosita.
«Il prossimo plenilunio lo passerai con me.» Disse senza
scomporsi.
Rimasi a bocca aperta. «Cosa? P-perché?»
«Perché sì.» Rispose semplicemente.
«Ma… in tutti questi anni ho fatto da sola…»
Balbettai ancora incredula.
«Lo so, però adesso è diverso. Il mio odore
potrebbe destabilizzarti, non sei abituata ad avere altri licantropi
intorno.» Spiegò con voce calma. «E poi, voglio
vedere come te la cavi. In fondo, sono il tuo Alfa.»
Esitai, confusa e spaesata. Sapevo che Sean era il mio capobranco, solo
che non ci avevo mai pensato troppo. Anzi, era una verità che
avevo un po’ trascurato. E adesso mi ritrovavo a doverci fare i
conti: avrei dovuto mostrargli un lato di me che mi spaventava e mi
innervosiva, avrei passato con lui un’intera notte e non una
notte qualunque, bensì quella di luna piena.
Vedendomi in difficoltà, Sean addolcì lo sguardo.
«Non devi preoccuparti, ho qualche anno di esperienza alle
spalle. Posso insegnarti a controllarti, a non rappresentare più
un pericolo per nessuno.»
«Puoi farlo davvero?» Chiesi, sorpresa, ma anche
speranzosa.
«Certo.» Confermò. «Te la caverai bene.»
Mi rabbuiai e mi strinsi le braccia al petto. «Come fai a
dirlo?»
«Un capobranco conosce i suoi lupi.» Replicò alzando
il mento.
«Oh, non cominciare a fare il misterioso.» Sbottai
guardandolo di traverso.
Un sorrisetto gli incurvò le labbra. «Devi solo fidarti di
me, Scarlett. Puoi farlo?»
Trassi un respiro profondo ed espirai lentamente, combattuta. Lo
conoscevo da così poco… E poi era lui quello che mi aveva
sconvolto la vita trasformandomi in un licantropo. Eppure non riuscivo
ad odiarlo, né tanto meno a vederlo come un pericolo.
«Sì, posso farlo.» Le parole mi uscirono di bocca
senza che fossi stata io a deciderlo, ma appena le pronunciai ebbi la
certezza che credevo veramente in quello che stavo dicendo.
«Posso fidarmi di te.»
SPAZIO AUTRICE: Ehilà!
Questo aggiornamento arriva un po', in ritardo purtroppo, avrie voluto
pubblicare prima, ma le ultime settimane sono state abbastanza piene.
Prima di tutto volevo chiarire una cosa: nell'avviso dello scorso
capitolo ho scritto che avevo in mente un sequel dove le coppie della
storia sarebbero cambiare. Non è una scelta fatta senza pensare,
io stessa mi sono affezionata moltissimo agli Adamett e non voglio
assolutamente buttare il percorso che hanno compiuto insieme in questa
storia, ma sono entrambi giovani, e a quest'età è
piuttosto normale essere confusi su cosa si vuole e cambiare idea,
anche sperimentare per cercare di capirsi meglio. Se dovessi scrivere e
pubblicare questo sequel, posso garantirvi che presterei la massima
attenzione nel curare questi cambiamenti. Come ho già detto,
sono due personaggi a cui tengo e anche se mi piace l'idea di far
entrare in gioco in modo più attivo anche Sean e Nathan, non
sarà mai una cosa veloce e superficiale. Spero che abbiate
capito che intendo.
Detto questo, abbiamo finalmente visto Scar e Beth che si
riappacificano e che si chiariscono. E a questo proposito vorrei
chiedervi: secondo voi Scarlett dovrebbe parlare con Elisabeth della
sua licantropia? E dell'idea di Sean di passare il plenilunio con
Scarlett che ne pensate?
Mi sono dilungata abbastanza, ci sentiamo presto <3
TimeFlies
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Capitolo 36 *** 36. Adam ***
Under a paper moon- capitolo 36
36. Adam
Tamburellai distrattamente sul banco mentre osservavo il parcheggio
fuori dalla finestra dell’aula senza vederlo veramente. Ero
troppo impegnato a riflettere sui cacciatori e sul possibile accordo
con loro. Ci eravamo incontrati altre volte e non sempre erano state
riunioni costruttive: alcune erano durate pochi minuti per via della
tensione tra Colin e Sean, altre si erano prolungate per ore
perché Colin si impuntava su piccolezze che non avrebbero
influito in nessun modo sull’alleanza.
C’erano dei momenti
in cui ero piuttosto sicuro che sarei impazzito o che avrei mollato
tutto e detto a Sean di fare quel che voleva. Poi mi ricordavo di
Scarlett e della promessa che le avevo fatto e mi dicevo che dovevo
tener duro.
Nel frattempo, il professore di storia continuava a
spiegare qualcosa sul Medioevo passeggiando su e giù per la
classe.
«Abbiamo girato pagina, signor Meyers.» Sussultai
quando l’insegnante si soffermò accanto al mio banco
guardandomi con un sopracciglio alzato.
«Oh…
Sì.» Balbettai affrettandomi a cercare la pagina giusta.
Il professor Crane fece un breve cenno d’assenso e riprese a
camminare. «Dunque… stavo dicendo che la mentalità
del Medioevo era molto teocentrica…»
Sospirai e mi
mordicchiai il labbro cercando di concentrarmi sul libro che avevo
davanti. Mi stava facendo prendere un po’ troppo dal
soprannaturale ultimamente, dovevo darmi una regolata.
Alla fine delle lezioni ero ancora un po’ distratto, ma meno di
prima. Lo presi come un buon segno.
E avrei potuto continuare a
mantenermi, almeno per un po’, lontano dal soprannaturale se non
ci fosse stato Sean appoggiato alla mia auto.
Come sempre indossava
jeans scuri e la sua inseparabile giacca di pelle. Teneva le braccia
incrociate al petto e gli occhi socchiusi per via della luce del sole.
Qualche studente gli lanciava occhiata incuriosite quando gli passava
vicino, ma la maggior parte si teneva alla larga, come intimorita dalla
sua aura di potere e dalla sua espressione vagamente contrariata.
Alzai
gli occhi al cielo sospirando e mi augurai che qualunque cosa dovessimo
fare finisse in fretta, prima di raggiungerlo. Com’era nel suo
solito, non si degnò di salutarmi, andò semplicemente
dritto al punto. «Dobbiamo parlare.» Disse infatti
guardandomi negli occhi.
«Sono nei guai?» Chiesi cauto.
Scrollò le spalle. «Non più del solito.»
«È già un inizio.» Commentai.
Non diede segno
di aver sentito, o di voler prendere in considerazione le mie parole.
«Possiamo andare in un posto più tranquillo?»
«Così puoi uccidermi senza che nessuno se ne
accorga?» Domandai prima di mordermi il labbro.
Alzò il
mento inarcando un sopracciglio. «Se avessi voluto ucciderti
saresti morto da un pezzo. Ora possiamo andare?»
«Okay.» Convenni. «Hai qualche preferenza?»
Si lasciò
sfuggire una smorfia. «No. Solo… un posto silenzioso.»
Era sotto pressione quanto me, se non di
più, visto che si era preso anche la responsabilità di
insegnare a Scarlett qualcosa in più sui licantropi e su come
controllarsi sia con la luna piena che in situazioni di stress.
Apprezzavo quella sua presa di coscienza, soprattutto perché era
stato lui a rivoluzionarle la vita quindi era compito suo assicurarsi
che vivesse bene la sua licantropia.
Era arrivato con cinque anni di
ritardo in realtà, ma era comunque ammirevole da parte sua
decidere di impegnarsi con lei per renderle la vita un po’
più facile.
Feci il giro dell’auto e presi posto al
volante mentre lui si sedeva sul lato passeggero. Ci volle qualche
minuto per uscire dal parcheggio della scuola, ma alla fine riuscii ad
inserirmi nella strada che portava alla tangenziale.
«Di cosa
vuoi parlare?» Chiesi tenendo lo sguardo fisso davanti a me.
«Dopo.» Rispose secco. Mi lasciai sfuggire un sospiro
scocciato.
Il suo essere costantemente così misterioso, quella
sua abitudine di lasciarti vedere solo piccole parti, selezionate con
cura di sé, quella mancanza di spontaneità rendevano
difficile farsi un’idea chiara di lui. Niente nella sua
espressione, per quanto mi impegnassi per cercare di cogliere un
qualunque tipo di segnale o tic ricorrente, lasciava presagire le sue
prossime mosse.
Sean era un’incognita, pericolosa e volubile.
Rimase chiuso nel suo silenzio testardo fino a che non fermai la
macchina davanti al cottage. Non avevo pensato troppo a dove stavo
andando, solo che nelle ultime settimane avevo fatto quella strada
così tante volte che ormai mi veniva naturale.
Scendemmo
entrambi dall’auto senza dire una parola. Sean si
allontanò di qualche passo e mi diede le spalle. Guardava gli
alberi di fronte a sé, ma non avrei saputo dire cosa provava o
comunque cosa lasciava trasparire: era dannatamente bravo a nascondere
le emozioni, tanto che ormai ero arrivato a credere che lo facesse in
automatico, senza nemmeno pensarci.
«Ho parlato con Scarlett di
recente.» Disse con voce neutra.
«Lo so.» Mormorai
cauto.
Lui annuì e sospirò. «Quello che ha
detto…. mi ha fatto pensare. Al mio ruolo di Alfa, al mio
branco, ai cacciatori. A te.»
Spalancai gli occhi, sorpreso.
«A me? Perché?»
«Perché sei
l’unico umano.» Spiegò. «E sei anche
l’unico che non posso annettere ufficialmente, diciamo, al
branco.»
Anche se avevo un brutto presentimento, ero comunque
curioso. «Okay, questo che vuol dire?»
Chinò la
testa e immaginai di vederlo aggrottare la fronte. «Che non
posso… rischiare con te. Sei troppo imprevedibile.»
«Cosa?» Era quasi ironico il fatto che lui, il maestro nel
dissimulare qualunque indizio potesse dare su se stesso, accusasse me
di essere imprevedibile. Spesso e volentieri avevo la sensazione di
essere un libro aperto di fronte a lui.
«Adam, tu sei fuori dal
mio controllo. Se tu fossi un licantropo potrei prenderti nel mio
branco e usare il mio potere di Alfa per fare in modo che tu mi sia
fedele e leale. Potrei avere una certezza sulla tua lealtà,
sarebbe tutto… più semplice. Ma, per ovvie ragioni, non
posso fare niente del genere. Sei umano, ed è questo che ti
rende impossibile da decifrare: la parte animale dei licantropi
è più lineare, non è complicato interpretarla, ma
con te…» Si interruppe per un attimo, come per riordinare
le idee. «Posso basarmi solo sulla tua parola per essere sicuro
che non ci tradirai e che posso fidarmi di te. E questo non è
abbastanza.»
«Non ti fidi di me?» Sbottai incredulo.
«Sinceramente? Non lo so.» Replicò. «Non ho
modo di assicurarmi che tu sia veramente dalla nostra parte o
meno.»
Rimasi a guardare la sua schiena, troppo sconvolto per
parlare. Il nostro rapporto non era mai stato dei migliori, ci eravamo
scontrati molte volte ed entrambi avevamo delle riserve
sull’altro, ma non pensavo che fosse così sospettoso, non
dopo che mi aveva parlato del suo passato, non dopo che aveva
acconsentito a tentare un’alleanza con i cacciatori.
«Proprio adesso vieni a dirmi che non ti fidi di me?»
Chiesi sforzandomi di mantenere la voce ferma. «Adesso che
dobbiamo sembrare, ed essere, uniti per accordarci con i cacciatori?
Non potevi aspettare?»
In realtà non era quello che mi
interessava, o meglio, non solo. Non riuscivo a non sentirmi ferito da
quella mancanza di fiducia. Certo, si era chiuso a tutto e a tutti anni
prima, ormai contare solo su se stesso, vivere in solitudine era
diventato la normalità per lui, ma per qualche strana ragione mi
ero illuso che, dopo quello che avevamo passato insieme, avesse
superato qui sospetti nei miei confronti.
«No.»
Ribatté ostinandosi a non guardarmi. «Ho già
temporeggiato troppo. Ed era giusto che tu lo sapessi.»
«Ottimo tempismo, davvero. Già prima era difficile
collaborare, adesso sarà impossibile. Ci faranno a pezzi.»
Il mio tono suonò più duro del previsto.
Lui strinse i
pugni lungo i fianchi e si voltò verso di me, l’oro che
gli infiammava le iridi. «La mia priorità è il mio
branco. È un mio dovere proteggerlo e per adesso anche tu
rappresenti un pericolo. Non lascerò che nessuno, né te
né quei dannati cacciatori lo tocchino.»
Un sorriso amaro
mi affiorò alle labbra. «Certo, perché non ho
rischiato la vita per Scarlett, no? Non mi verrebbe mai in mente di
tradirvi, nessuno di voi. Non adesso che so quello che so. Come puoi
anche solo pensarlo?»
«Ho imparato a mie spese che non
è saggio fidarsi, di nessuno. Ho già perso un branco, e
tu lo sai. Non commetterò lo stesso errore.»
Ringhiò.
«Però ti sei fidato quando ho proposto
l’accordo.» Gli feci notare. «Perché hai
cambiato idea?»
Il suo sguardo si fece più cupo.
«Perché ho capito che non ho nessuna certezza quando si
tratta di te. Sei saltato fuori con quest’ipotetica alleanza dopo
aver visto con i tuoi stessi occhi di cosa sono capaci i cacciatori: mi
sembra più che normale avere qualche sospetto, no?»
«Solo perché non condividi il mio modo di pensare non vuol
dire che vi tradirò o che vi farò uccidere.»
Replicai. «Dannazione Sean, come ti viene in mente una cosa del
genere? Non tutto quello che non conosci o che non comprendi è
sbagliato. Può funzionare davvero. E io odio anche la sola idea
di ferire uno di voi.»
«Gli umani reagiscono in modi strani
quando si trovano di fronte il soprannaturale.» Commentò
sollevando appena il mento.
Distolsi lo sguardo mordendomi il labbro:
non riuscivo a credere a quello che stava dicendo. «Non ti
capisco, Sean. Davvero. Ti ho aiutato a salvare Scarlett e ti sto
aiutando anche adesso, non hai nessun motivo per non fidarti di
me.»
Aggrottò la fronte e spostò gli occhi su un
punto nel vuoto. «Sì che ce l’ho. Te l’ho
detto, il branco viene prima di tutto. Qualunque minaccia deve essere
neutralizzata.»
«Quindi io sarei una minaccia?»
Quella parola aveva un suono e un sapore altrettanto sgradevole, amaro
e pungente. Non avevo mai pensato che mi importasse avere la sua
approvazione o il suo supporto, ma adesso mi rendevo conto che senza di
lui ero bloccato. E che eravamo tutti in una pericolosa situazione di
stallo.
«Forse. Non ne sono sicuro. Ma ho preso più
coscienza del mio dovere di Alfa verso Scarlett e Matthew e questo
comporta proteggerli da qualunque tipo di pericolo, che venga
dall’interno o dall’esterno.» Ribatté lui con
aria cupa.
«Non potrei mai fare del male a Scarlett, neanche
involontariamente. Ci tengo troppo a lei.» Ammisi.
«E… lo sai, odio la violenza. Perché non riesci a
fidarti?»
«Non sono abituato a farlo, e non mi piace. La
fiducia è debolezza, è rendersi vulnerabili con le
proprie mani. Mi fido solo di me stesso. E la tua proposta di un
accordo con i cacciatori non ti aiuta.» Rispose fissando gli
alberi davanti a sé.
Mi passai una mano tra i capelli sentendomi
impotente. «Che vuoi fare adesso?»
Spostò lo sguardo
su di me, gli occhi duri come ghiaccio. «Sei tu
l’intermediario con i cacciatori, quindi per adesso resti.
Ma… quando e se questa cosa sarà conclusa, potrei
chiederti di prendere le distanze. Da tutto il branco.»
Quando Sean se n’era andato, silenzioso e cupo come sempre, mi
ero ritrovato a fare qualcosa che non facevo da quando mia madre aveva
gli attacchi di panico: avevo chiamato Michael in cerca di un po’
di compagnia e lui aveva accettato senza esitare.
Avevamo deciso di
incontrarci al solito posto, un vecchio molo quasi sempre inutilizzato
nel porto di Seattle. Non ricordavo neanche come l’avevamo
scoperto, sapevo solo che era tranquillo e lontano dal soprannaturale.
Arrivai per primo e rimasi ad osservare l’oceano, di un blu
intenso, cercando di fare chiarezza tra i miei pensieri. Il cielo era
coperto da leggere nuvole pallide che rendevano soffusi e meno intensi
i raggi del sole. Il cemento grigio e crepato che costituiva il molo
dava all’ambiente un’aria un po’ smunta, scolorita.
Avrei voluto capire meglio cosa aveva spinto Sean ad essere sospettoso,
a smettere, se mai l’avesse fatto, di fidarsi di me, ma sapevo
che lui non mi avrebbe dato altre informazioni. Anzi, si era scucito
anche troppo per oggi, gli avevo sentito pronunciare frasi tanto lunghe
da essere impressionati per i suoi standard. E anche se detestavo
ammetterlo visto era a mie spese, apprezzavo la sua determinazione nel
voler proteggere Scarlett e Matthew.
La cosa che mi turbava di
più, però, era la sua velata minaccia di farmi
allontanare dal branco. Non sarei stato in grado di lasciare Scarlett e
anche lei avrebbe protestato, eppure contro di lui, un Alfa esperto e
dal potenziale micidiale, avremmo potuto fare poco.
D’altra
parte, non c’era niente di certo ancora: magari Sean voleva solo
intimidirmi per fare in modo che smettessi di impormi e di tenergli
testa. O almeno, era questo che mi ripetevo nel tentativo di calmarmi.
«Ehi.» Esclamò una voce che conoscevo bene.
Mi
voltai e vidi Michael venirmi incontro con un sorriso sulle labbra.
Indossava una felpa rosso scuro e dei jeans scoloriti; in mano aveva
quelle che sembravano due lattine. Quando mi raggiuse notai un segno
violaceo sul suo collo, appena sotto la mascella, e non riuscii a
trattenere un sorriso: lui e Caleb erano una coppia molto solida,
più di quanto pensassi.
Abbassai lo sguardo sulle lattine e
alzai un sopracciglio. «E quelle?»
Si strinse nelle spalle.
«Quando mi hai chiamato mi sembravi parecchio… uhm,
scosso, quindi ho pensato di portarti qualcosa da bere. Avrei voluto
qualcosa di più forte, ma ho trovato solo questo in casa.»
«Non dovevi.» Mormorai. «E poi lo sai che non mi
piace bere.»
Si limitò a guardarmi con aria eloquente
inclinando la testa di lato. Alla fine sospirai e scossi la testa: non
avevo voglia di discutere né di difendere i miei ideali. Non in
quel momento almeno.
«Su, andiamo a confessarci come fanno le
dodicenni nei pigiama-party.» Disse Michael prima di farmi cenno
di seguirlo.
Ci sedemmo su un marciapiede con la schiena appoggiata ad
un muro di cemento l’uno accanto all’altro. Lui mi
passò una lattina di quella che si rivelò essere birra e
si aprì l’altra.
Ne bevve un sorso e trasse un respiro
profondo. «Allora, qual è il problema?»
«Le
solite cose.» Mentii guardando l’oceano davanti a noi.
«Mia mamma sparisce per tutto il giorno, mio padre passa
più tempo a lavoro che a casa, Louis è dall’altra
parte del mondo e non sappiamo se tornerà.»
«La vita
è una brutta bestia.» Commentò aggrottando la
fronte.
«Già.» Mormorai giocherellando con la mia
lattina. «Tu invece? Come va?»
«Uh, bene, credo. Mia
mamma continua a collezionare vinili di cantanti sconosciuti, mio padre
continua a riempire casa con i post-it per non dimenticarsi le
cose… Ne ho trovato uno sul vetro della doccia l’altro
giorno.» Raccontò. «Oh, e abbiamo scoperto che il
nostro pesce rosso è una femmina.»
«Quindi non
è più Oscar, giusto?» Chiesi.
«Adesso
è Olivia infatti. E ha cinque pesciolini.»
Confermò. «Chissà chi è il
padre…» Mi lanciò un’occhiata di sottecchi.
«È solo questo che ti preoccupa? Mi sembri molto
turbato.»
«Sì, è questo.» Non
suonò convinto nemmeno a me, così provai a distrarlo.
«Con Caleb come va?»
«Beh, lui è… wow.
Cioè, non ho termini di paragone visto che è il mio primo
ragazzo, ma mi piace un sacco e sto bene con lui.» Rispose con un
sorriso inconsapevole.
«È una bella cosa, davvero. Ti vedo
contento.» Replicai guardandolo.
Appoggiò la testa al
muro, sempre sorridendo. «Cavolo… Chi l’avrebbe mai
detto che mi sarei preso una cotta per un giocatore di basket? Io lo
odio il basket.»
«L’amore è cieco e non credo
che tenga conto di queste cose.» Commentai aprendo la mia
lattina.
«A proposito d’amore. Ancora zero progressi sul
fronte Shirley?» Domandò.
«Scarlett.» Lo
corressi. «E sì, siamo ancora fermi. In realtà non
lo so, ad essere sinceri. Ci siamo baciati altre volte, ma non so a che
punto siamo.»
«Beh, datti una mossa, amico. Non puoi
continuare così.» Mi fece notare prima di prendere un
altro sorso della sua birra.
«Non è così facile.
Lei è…» Esitai per un attimo cercando le parole
giuste. «Odia la matematica, legge libri fantasy, le piacciono i
biscotti al cioccolato e i gruppi punk.»
Lui si voltò
verso di me. «Dov’è la parte complicata? No,
perché io non la vedo. O forse devi ancora arrivarci.»
«È lunatica, ha uno strano senso dell’umorismo, si
diverte a darmi gomitate nelle costole quando la prendo in giro, mette
il broncio quando provo a farle fare più esercizi rispetto a
quelli che le ha assegnato l’insegnate.» Continuai.
«Non vorrei essere ripetitivo, ma… qual è la
complicazione in tutto questo? A me sembra che possiate stare insieme
senza troppi problemi.» Ribatté stringendosi nelle spalle.
«In fondo, anche tu leggi fantasy, ascolti musica punk o simili
e… beh, non metti il broncio e non odi la matematica,
però non sono cose così importanti. In più credo
che ti piacciano i biscotti al cioccolato, no?»
Bevvi un sorso di
birra. «A chi non piacciono?»
«Ecco, appunto. Direi
che non c’è nessun motivo valido per cui non dovreste
mettervi insieme.» Replicò.
“A parte un Alfa
indisposto”, pensai lasciandomi sfuggire una smorfia. Abbassai lo
sguardo sulla lattina senza vederla veramente.
«Con Elisabeth sei
stato tu a prendere l’iniziativa, che c’è di diverso
questa volta?» Domandò Michael studiandomi.
Scrollai le
spalle. «Non lo so. Forse è la ragazza che è
diversa, o forse sono io che non sono sicuro di ciò che
voglio.»
«Oppure ci tieni di più.»
Ipotizzò lui spostando lo sguardo sull’oceano. «Sai,
quando si tiene veramente a qualcosa si è più cauti e
prudenti, ci si presta più attenzione per paura di
rovinarlo.»
«Mmh.» Commentai. «E se a lei non
interessasse?»
«In quel caso dubito che ti avrebbe
baciato.» Mi fece notare inclinando la testa di lato.
Mi rigirai
la lattina tra le dita. «Magari voleva solo divertirsi.»
«Oh, ma sta’ zitto.» Sbottò Michael dandomi
una gomitata sul braccio.
Sorrisi, divertito. «Già,
immagino di essere un po’ pessimista, eh?»
«Te
l’ho detto un milione di volte, voi geni incompresi siete sempre
depressi e sfiduciati.» Borbottò.
«Comunque grazie.
Per essere qui intendo.» Mormorai.
«Figurati, per il mio
migliore amico questo ed altro.» Replicò con un mezzo
sorriso.
Per quanto potesse essere interessante e affascinante, il
soprannaturale aveva molte poche certezze. Era volubile, soggetto a
leggi più grandi e sfuggevoli di quelle che conoscevo. Al
contrario, la normalità poteva risultare fin troppo prevedibile a volte, ma
offriva dei punti di riferimento solidi. In fondo, era tutta una
questione di equilibrio.
Cora premette il naso umido contro la guancia
di Scarlett che si mise a ridere affondandole le dita nella pelliccia
bicolore. Era impressionante quanto andassero d’accordo e quanto
apprezzassero l’una la compagnia dell’altra.
Scarlett, nel
tentativo di rendere meno noioso il nostro pomeriggio di studio, mi
aveva convinto a portare Cora a casa sua. E, conoscendo entrambe, non
avrei dovuto sorprendermi nel vedere i libri abbandonati da una parte.
Per quanto mi facesse piacere che Scarlett sorridesse, non riuscivo a
non pensare continuamente alla discussione avuta con Sean,
all’intensità del suo sguardo quando aveva dichiarato che
avrebbe protetto il suo branco ad ogni costo, alla forza che riusciva ad
imprimere in delle semplici parole. Quando voleva, quando teneva
veramente a qualcosa, tutto in lui sembrava accentuarsi, la sua
determinazione, il suo lato animale, il suo potere di Alfa. Non avrei
mai voluto essere nei panni di un suo nemico dopo aver conosciuto
quella parte di lui, e invece ero molto vicino ad esserlo.
Anche se
avrei preferito non parlarne con Scarlett, almeno non finche non fosse
diventata una cosa più ufficiale o fosse stato sul punto di
accadere, non riuscii ad impedirmi di chiederle: «Hai parlato con
Sean di recente?»
Sollevò lo sguardo da Cora continuando a
grattarla dietro le orecchie. «Sì, quando mi ha detto che
avremmo passato il plenilunio insieme. Perché?»
«Ecco, ieri abbiamo… uhm, discusso.» Risposi
mantenendomi sul vago.
Le dita di lei smisero di muoversi sul pelo del
cane. «Discusso? Riguardo a cosa?»
Mi mordicchiai il labbro
evitando di guardarla. «Mi ha detto che avevate parlato e che
questo l’ha fatto pensare e… siamo finiti a litigare in
pratica.»
La sua espressione si fece sconvolta, ansiosa.
«Gli ho detto quello perché volevo proteggerti, non
pensavo che sareste finiti per discuterne! Ero in buona fede,
davvero!»
Aggrottai la fronte. «Gli hai detto di non
fidarsi di me per proteggermi?»
Scarlett spalancò gli
occhi e schiuse le labbra. «No! Certo che no. Gli ho detto di
tenerti d’occhio durante questo periodo di tensione. Io voglio
che andiate d’accordo.»
«E allora perché se
n’è saltato fuori con quest’improvvisa voglia di
sbattermi fuori dal branco?» Borbottai risentito.
Cora
richiamò l’attenzione di Scarlett strofinandole il naso
contro le mani, ma lei rimase a fissarmi, sbigottita.
«Cos’è che vuole fare?»
Mi complimentai
mentalmente con me stesso per la mia incoerenza: mi ero ripromesso di
tenere Scarlett fuori dai miei contrasti con Sean, e invece adesso ce
la stavo praticamente trascinando dentro. «Ha detto che sono
troppo imprevedibile essendo umano e che quindi potrei rivelarmi una
minaccia. Se dovesse valutarlo necessario, mi allontanerà dal
branco.»
«Io gli ho solo chiesto di evitare che tu finissi
ammazzato da un manipolo di cacciatori fuori di testa, non volevo
assolutamente che perdesse fiducia nei tuoi confronti. Dannazione,
perché è arrivato a pensare questo?» Sbottò
lei prima di alzarsi e mettersi a camminare su e giù davanti al
divano.
Sospirai pesantemente accarezzando Cora, che aveva posato il
muso sul mio ginocchio. «Non ne ho idea. So solo che parlare con
te ha fatto scattare qualcosa in lui portandolo a sospettare di
me.»
Lei gettò le braccia in aria. «Ma tu lo hai
aiutato a salvarmi da quei pazzi sclerati!» Si voltò a
guardarmi, l’espressione confusa e preoccupata. «Non ha
senso pensare che proprio tu potresti essere un pericolo.»
Espirai lentamente, gli occhi brillanti e dorati di Sean ancora
impressi in mente. «Te l’ho detto, non…»
«Devo parlargli.» Mi interruppe lei. «Subito anche.
Che diavolo gli prende? Dubitare di te? Oh no, assolutamente no.»
Detto questo, si diresse a grandi passi verso la porta del soggiorno.
Mi alzai e la raggiunsi appena in tempo per afferrarle il polso prima
che agguantasse il giubbotto e uscisse di casa alla ricerca di Sean per
dirgliene quattro.
Si voltò a guardarmi con espressione
contrariata, come se le avessi impedito di fare la cosa più
giusta del mondo. «Che c’è? Non può trattarti
così, non dopo quello che hai fatto per lui. E per me.»
Scossi la testa. «Scarlett, questa è una cosa tra me e
lui, dobbiamo risolverla noi due. Ha messo in discussione la mia
fiducia, voglio dimostrargli che si sbaglia e devo farlo da
solo.»
«Ma non è giusto, tu non meriti di essere
considerato una minaccia. Hai rischiato la tua vita per me.» La
sua voce si incrinò appena e la vidi deglutire, come se le
parole le fossero rimaste incastrate in gola.
Le lasciai il polso per
spostarle una ciocca di capelli dietro l’orecchio. «Ehi, va
tutto bene. Risolveremo questa cosa, parlerò con Sean e
troveremo una soluzione. In fondo, stiamo trattando con dei cacciatori,
riconquistare la fiducia di un licantropo non può essere poi
così difficile, no?»
Lei abbassò lo sguardo.
«Sean ti considera intelligente, anche se non lo ammetterà
mai. Forse ha paura che tu possa… sfruttarlo, in qualche
modo.»
Venire a sapere che il grande Alfa brontolone aveva detto
qualcosa di vagamente positivo di su di me mi spiazzò.
«L’ha detto sul serio?»
«Che sei intelligente?
Mm-mm.» Confermò tornando a guardarmi negli occhi.
«Non ricordo le parole esatte, ma ha accennato qualcosa al fatto
che sai cavartela da solo e che non ti serve la sua protezione.»
Non riuscivo ad immaginare Sean che si riferiva a me con parole diverse
da “ragazzino”, “irritante” ed
“esasperante”. D’altra parte, io stesso quando
pensavo a lui lo associavo a termini non proprio lusinghieri. Era
così che riuscivamo ad andare più o meno d’accordo,
punzecchiandoci a vicenda per poter collaborare e convivere.
«Non
mi credi, eh?» Mormorò Scarlett rivolgendomi
un’occhiata eloquente.
«Dopo i nostri trascorsi burrascosi
mi resta difficile credere che abbia detto qualcosa del genere.»
Ammisi stringendomi nelle spalle.
Lei inarcò un sopracciglio.
«E invece l’ha fatto. Secondo me, il fatto che ti consideri
una minaccia è, a modo suo, una sorta di riconoscimento di
meriti. Pensa che tu sia abbastanza sveglio da poter risultare un
pericolo per lui, un Alfa. È ovvio che si senta sotto pressione,
no?»
«Oppure ha semplicemente paura che possa dare di matto
dopo aver passato settimane in mezzo al soprannaturale.»
Commentai lasciandomi sfuggire un mezzo sorriso.
Scarlett
ridacchiò. «Penso che ormai tu sia nella zona del
non-ritorno, la tua sanità mentale è bella che
andata.»
Le posai le mani sui fianchi avvicinandola a me.
«Sì, lo penso anche io. Sono già fuori dal
recuperabile.»
«Come se un ragazzo che appena scopre di
avere un licantropo davanti a sé vuole fargli un terzo grado
possa definirsi “recuperabile”.» Mi rimbeccò
lei, le dita che correvano tra i miei capelli.
Le lasciai un bacio
all’angolo della bocca. «Disse il licantropo che prende
ripetizioni di matematica dal suddetto ragazzo.»
Le labbra di
Scarlett sfioravano le mie. «Shh, non c’è bisogno di
ricordare queste cose poco gradevoli.»
Sorrisi insieme a lei
prima di baciarla. Avevo raccontato a Michael che anche lei era, in
parte, causa del mio malumore, ma la verità era che Scarlett era
una delle poche cose a cui tenevo sul serio, una delle poche persone a
cui sentivo di poter dire tutto, senza nascondere dettagli sgradevoli
per paura che si allontanasse.
Spesso, quando l’atmosfera a casa
diventava troppo pesante o troppo pressante, era lei a renderla
più sopportabile, con i suoi sorrisi spontanei, le reazioni
esagerate anche ai piccoli problemi, l’umorismo discutibile e la
sua abitudine di darmi gomitate nelle costole.
Sussultammo entrambi
allontanandoci di scatto quando Cora si intrufolò tra di noi
premendo il naso umido contro ogni centimetro di pelle a disposizione
alla ricerca di coccole. Scarlett rise piano, mi lasciò un
baciò veloce sulle labbra e si chinò a grattare la pancia
del mio cane fin troppo invadente.
SPAZIO AUTRICE: Sono una brutta persona, lo so. Tra problemi con
il PC e impegni sia scolastici che non sono finita a fare questo
ritardo enorme nell'aggiornare questa storia e mi dispiace davvero
tanto. Tra l'altro questo capitolo neanche mi convince molto -
nonostante ci sia un po' di sano angst tra Sean e Adam.
Comunque, finalmente abbiamo un nuovo capitolo! Il nostro Alfa per la
prima volta si mostra dubbioso riguardo al ruolo di Adam nel branco, ma
lo è a modo suo, quindi non mancano minacce neanche troppo
velate. Forse qui non è ancora emerso molto, ma Sean è
letteralmente disposto a morire per il suo branco, farebbe di tutto per loro. Tengo molto a questo personaggio, quindi spero che riesca a farvi provare qualcosa, sia negativo che positivo.
Mi scuso ancora per questo ritardo orribile, spero che il capitolo vi sia piaciuto :3
TimeFlies
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Capitolo 37 *** 37. Scarlett ***
Under a paper moon- capitolo 37
37. Scarlett
Non ritenevo necessaria la presenza di tutto il branco. Anzi, per
quanto mi riguardava anche Sean poteva andarsene a casa: potevo
cavarmela benissimo da sola come avevo già fatto un sacco di
volte. E invece ero stata bellamente ignorata e adesso mi ritrovavo
imbarazzata e a disagio di fronte alle persone che, almeno secondo il
modo di pensare dei lupi, avrei dovuto considerare un allargamento
della famiglia.
Adam era in piedi vicino alla sua auto con le braccia incrociate al
petto e l’espressione pensierosa. Indossava jeans e una maglietta
blu con lo scollo a V che gli stava parecchio bene. Matthew, in camicia
di flanella a quadri, era accanto a lui e cercava di sembrare sicuro di
sé come lui tanto che aveva assunto la stessa posizione. E poi
c’era Sean, altero e imperscrutabile nella sua giacca da aviatore
- una variante di quella di pelle - e nei jeans neri. Dovevo ammettere
che quei tre messi insieme formavano quello che Beth avrebbe definito
il “trio delle meraviglie”. Soprattutto perché
avevano tutti un’aria determinata e impassibile che li rendeva
più affascinanti di quanto non fossero. Per una volta essere
l’unica femmina del branco non mi sembrò poi così
male.
Era quasi buio, il sole morente riempiva il cielo che si riusciva a
scorgere sopra gli alberi di delicate sfumature rosate e arancioni che
mi facevano venire in mente l’aurora boreale.
Mi strinsi nel mio giubbotto e feci scorrere lo sguardo sui tre ragazzi
davanti a me. «Allora… che si fa adesso?»
La fatidica notte di plenilunio che avrei passato con il mio Alfa
recentemente riapparso era giunta, e con lei l’ansia e la voglia
di sprofondare. Sapevo che Sean mi stava offrendo la possibilità
di imparare a gestire la mia licantropia e a non rappresentare
più un pericolo per nessuno, ma non è che mi allettasse
tanto l’idea di perdere il controllo di fronte a lui.
Sean fece qualche passo avanti. «Adesso andiamo così
troviamo un posto tranquillo dove passare la notte.»
“Tranquillo finché non ci arrivo io”, pensai
scoraggiata. «Okay…»
Lui mi fece un breve cenno d’intesa e spostò lo sguardo
sugli alberi. Avevo notato una certa tensione tra lui e Adam,
più intensa del solito, ma non avevo idea di come farla
diminuire. Sapevo che Sean lo aveva minacciato intimandogli che, se
l’avesse ritenuto necessario, avrebbe dovuto lasciare il branco.
Potevo sopportare
rimproveri e richiami di ogni tipo da parte di quel lupo così
scontroso, però non gli avrei lasciato allontanare Adam, avrei
fatto tutto quello che era in mio potere per oppormi.
Mi strinsi le braccia al petto con un sospiro e diedi un calcio
svogliato ad un sasso: perché non potevo essere
un’adolescente qualunque che passa la serata a guardare le
repliche di vecchie sit-com mangiando gelato? L’odore leggero di
dopobarba e carta antica mi fece alzare lo sguardo finché non
incontrai gli occhi blu tempesta di Adam. Erano preoccupati, ma anche
limpidi.
«Andrà tutto bene, Scar.» Mormorò prendendomi
delicatamente una mano.
Un sorriso incerto mi affiorò alle labbra. «Grazie.»
Ci abbracciamo per un attimo e io mi godetti il suo calore, la
sensazione di sicurezza che mi trasmettevano le sue braccia intorno a
me, il rumore regolare del suo cuore. Poi lui si scostò da me e
mi diede un bacio sulla fronte sussurrando un altro incoraggiamento.
Fece un paio di passi indietro e lanciò un’occhiata veloce
a Sean. La sua espressione non tradiva nessuna emozione, ma mi
sembrò di scorgere un’ombra nei suoi occhi quando si
posarono sul mio capobranco.
«Finito?» Chiese Sean in tono beffardo.
Adam serrò la mascella, però mantenne comunque il
controllo, cosa che gli ammiravo. Matthew mi fece un timido sorriso che
si spese molto in fretta. Sean invece sbuffò per attirare la mia
attenzione.
Mi voltai verso di lui e feci un gesto vago con la mano.
«D’accordo, d’accordo… Arrivo. Certo che sei
impaziente, eh?»
Inarcò un sopracciglio, ma non si degnò di rispondermi.
Dopo un’ultima occhiata ad Adam, mi decisi a raggiungere il mio
Alfa.
«Quando hai detto che… che avremmo passato il plenilunio
insieme… non pensavo intendessi… che avremmo
fatto… una scampagnata nel bosco.» Ansimai cercando di
stare dietro alle lunghe falcate di Sean.
Riusciva a muoversi con agilità anche in mezzo agli alberi e i
suoi passi erano quasi impercettibili nonostante i rametti, le foglie e
il muschio che costituivano il sottobosco. Questa sua sicurezza mi
ricordava molto un lupo, di quelli veri, che si muove scaltro e
silenzioso nel cuore della foresta.
Si fermò e si girò verso di me. «Stiamo camminando
solo da venti minuti.»
«Oh, certo. Solo venti
minuti.» Sbottai premendomi una mano dove credevo ci fosse la
milza. «Lo dici come se fossero pochi.»
Un mezzo sorriso gli incurvò le labbra. «Perché lo
sono. Se reagisci così credo che dovrò iniziare ad
allenarti.»
Lo guardai con gli occhi socchiusi, sospettosa, mentre raddrizzavo la
schiena. «Che vuole dire allenare?»
«Fare ginnastica, sport, movimento… chiamalo come
vuoi.» Replicò stringendosi nelle spalle.
«Non intendevo il significato.» Chiarii. «Volevo
sapere cosa significa allenarsi per un licantropo.»
I suoi occhi verde-grigio mi studiavano attenti. «Esattamente
quello che significa per gli umani: rafforzare i propri punti deboli a
livello fisico e, in seguito, mantenere il livello raggiunto e magari
migliorarsi.» Vedendomi confusa, aggiunse: «Per esempio,
puoi allenarti per riuscire a mantenere il controllo con la luna piena,
o per avere più resistenza.»
«Mmh. Io non credo che farò mai trekking o simili quindi
la resistenza non mi serve, giusto?» Domandai incrociando
mentalmente le dita.
Il luccichio nei suoi occhi mandò in fumo tutte le mie speranze.
«In realtà la resistenza è sempre utile, non
importa quello che fai. Se dovessi trovarti in mezzo ad uno scontro con
un altro lupo devi essere in grado di reagire e difenderti e non puoi
farlo se dopo un minuto ansimi così.»
Mi appoggiai ad un albero con la mano scoccandogli un'occhiataccia.
«Ehi, non tutti qui siamo licantropi palestrati.» Mi
schiarii la gola. «Comunque, immagino che vorrai…
allenarmi?»
«Per adesso vediamo come va stanotte, poi decideremo.»
Replicò con voce insolitamente gentile.
«Vedremo? Cioè, io e te?» Chiesi sorpresa.
«Sì. Io sono il tuo capobranco, ma non posso obbligarti a
fare niente. O meglio, volendo potrei eccome, però non mi sembra
giusto.» Spiegò.
Non riuscivo a crederci, e cercai di non darlo a vedere.
«Oh… Okay.»
Fece un breve cenno d’assenso. «Possiamo andare?»
Mi guardai intorno: alberi a destra, alberi a sinistra, alberi davanti
a me, alberi dietro… Non credevo che il paesaggio sarebbe
cambiato di molto se ci fossimo spostati. «Perché, qui non
va bene?»
Un accenno di sorriso gli sfiorò le labbra. «No. Dobbiamo
camminare ancora un po’.»
Mi staccai al malincuore dal tronco a cui mi ero appoggiata e
ricominciai ad arrancare sul terreno morbido e umido del bosco
lasciandomi sfuggire un mugolio mirato a fargli venire i sensi di
colpa. Sean lasciò che lo superassi prima di affiancarmi, e dopo
neanche un secondo, passarmi avanti con quella sua fluidità
silenziosa.
La luna, perfettamente rotonda, di un bianco pallido chiazzato di
grigio, spiccava sul cielo tanto blu da sembrare nero. Lo squarcio che
ne vedevo era incorniciato dalle fronde degli abeti, mosse da un vento
leggero, e aveva un’atmosfera misteriosa, quasi poetica.
Sentivo lo sguardo di Sean addosso, ma cercavo di ignorarlo per
concentrarmi sul mio stesso respiro: inconsapevolmente, stavo seguendo
il consiglio che mi aveva dato Adam, durante il plenilunio che avevamo
passato insieme, di focalizzarmi su qualcosa di costante e regolare.
Il mio lupo interiore cominciava ad agitarsi sotto l’influenza
della luna, lo percepivo pulsante e, nello stesso tempo, impalpabile
che si preparava a prendere il sopravvento. Chiusi gli occhi per un
attimo e strinsi i pugni cercando di fare respiri profondi. “Non
è niente di che, l’hai già fatto altre
volte”, pensai nel tentativo di calmarmi. Quando aprii le mani,
però, gli artigli scuri avevano già sostituito le mie
povere unghie mangiucchiate e coperte dallo smalto nero scheggiato. Mi
lasciai sfuggire un sospiro tremante e deglutii provando a calmarmi.
Avvertii una presenza subito dietro di me, ma non avevo bisogno di
voltarmi a controllare chi fosse. L’odore di Sean era molto
riconoscibile, come quello di Adam. Non avrei potuto confonderlo con
nessun’altro: cuoio, pioggia e qualcosa che mi ricordava
l’aroma dei pini.
«Come ti senti?» Chiese con un tono così basso da
sembrare il fruscio degli alberi.
Strinsi di nuovo i pugni. «Per adesso bene. Ma non credo che
durerà.»
Rimase in silenzio per qualche secondo, il suo respiro regolare in
contrasto con il mio, più veloce e spezzato. Con rumore quasi
impercettibile, si spostò al mio fianco. Sembrava che stesse
attento a non fare movimenti bruschi per non turbarmi.
«Posso?» Chiese facendo un cenno verso la mia mano.
Aggrottai la fronte, confusa da quella sua richiesta, ma scrollai
comunque le spalle dandogli il via libera. Le sue dita scivolarono
leggere intorno al mio polso e mi stupii di quanto riuscisse ad essere
delicato: avevo visto i lividi che aveva lasciato ai cacciatori e anche
ad Adam e non avevo neanche preso in considerazione l’esistenza
di un suo lato gentile.
Studiò attentamente i miei artigli arrivando addirittura a
sfiorarli. Non eravamo mai stati così vicini, in tutti i sensi:
stavamo condividendo un momento piuttosto importante per i licantropi,
il plenilunio, e c’era un ulteriore legame tra noi visto che era
stato lui a trasformarmi.
Sempre con quell’attenzione inaspettata, Sean mi riportò
la mano all’altezza del fianco. Le sue dita scivolarono via dalla
mia pelle lasciandosi dietro una leggera sensazione di freddo.
«Sei piuttosto forte pur non avendo ricevuto nessun
insegnamento.» Commentò.
«Sì?» Domandai chiudendo gli occhi e conficcando gli
artigli di una mano nel tronco dell’albero a cui ero appoggiata.
«Sì, Scarlett. Posso insegnarti molto e credo che
otterremo grandi risultati.» Confermò.
«Sei serio o lo dici solo per non farmi arrabbiare?» Chiesi
con voce leggermente tremula.
«Sono serio.» Rispose. «E so riconoscere del
potenziale quando lo vedo.»
«Mmh.» Commentai senza prestargli troppa attenzione.
«Siamo qui perché io impari, no? Quindi che ne dici di
darmi qualche consiglio da licantropo a licantropo?»
«Non combatterlo, peggiorerai solo le cose.» Replicò
stupendomi. «La licantropia adesso fa parte di te, nonostante ti
sia stata imposta. Per questo devi imparare a conviverci e ad usarla a
tuo favore.»
Strinsi i denti mentre le prime fitte cominciavano a farsi sentire.
«Okay, grazie per la lezione teorica. Che ne dici di qualcosa di
più pratico?»
«Incanala la forza del lupo, falla diventare qualcosa che puoi
sfruttare. Falla diventare tua. Tu e il lupo siete una cosa sola,
ricordalo. La sua forza è anche la tua, sta’ a te decidere
come usarla.» La sua voce era morbida, mi ricordava il fruscio
del vento tra le foglie.
Affondai ancora di più gli artigli nel legno morbido.
«Immagino che adesso tocchi a me, quindi.»
«Esatto.» Convenne.
Spalancai gli occhi di colpo e lo guardai. «Non credo di farcela.
È… è difficile. Non ho mai fatto niente del
genere.»
«Io sono qui per questo, per insegnarti come fare, ma dipende
tutto da te.» Ribatté. «Puoi arrenderti e lasciare
che il tuo lupo ti controlli, oppure puoi essere tu a dettare le
regole.»
Annuii e trassi un respiro profondo. «D’accordo.
Proviamoci.»
Fece un breve ed autorevole cenno d’assenso e indietreggiò
di un paio di passi per lasciarmi un po’ d’aria. Mi
costrinsi a mollare il povero albero che stavo torturando e strinsi i
pugni con forza. Chiusi gli occhi per favorire la concentrazione,
provai a regolarizzare il respiro e lasciai che il mio lupo si
espandesse dentro di me. Era forte, ardente, molto volubile, e si
agitava nel tentativo di prendere il controllo. Mi sembrava di avere
fuoco liquido nelle vene.
La sua presenza rendeva tutto più chiaro e limpido: sentivo ogni
fruscio e mormorio nel bosco, percepivo l’aria frizzante della
notte sulla pelle del viso; se avessi sollevato le palpebre sarei
riuscita a scorgere i dettagli dei rami e del sottobosco. Da una parte
era un bel vantaggio, soprattutto se avessi deciso di darmi alla caccia
a mani nude o qualcosa del genere.
«Quando imparerai a controllarlo sarà tutto più
semplice. Forse arriverai addirittura ad apprezzarlo.»
Commentò Sean studiandomi con attenzione.
Una scossa di dolore mi risalì le braccia quando conficcai gli
artigli nei palmi delle mani per non perdere la lucidità.
«Tu dici?»
«Non ti senti più forte? Improvvisamente consapevole di
tutto?» Chiese con una certa enfasi nella voce. «Se tu
fossi un umano faticheresti a sentire quello che dico, invece adesso
capisci benissimo, vero?»
Dovetti ammettere che aveva ragione. Mi ritrovai ad annuire fissando
gli alberi davanti a me. «Sì, ma mi sembra sempre che la
mia testa sia sul punto di esplodere: è come se ci fossero due
personalità distinte in lotta tra loro.»
«Perché continui ad opporti.» Replicò prima
di sospirare. «Scarlett, non devi aver paura del tuo lato
soprannaturale. La paura ti rende nervosa.»
Strinsi le labbra e, contemporaneamente, i pugni. «Io… non
voglio perdere il controllo. È una cosa che odio perché
vedo e sento quello che faccio, ma non posso fermarmi. Non voglio che
succeda.»
Un leggero fruscio accompagnò il passo che fece verso di me.
«Ti fermerò io se sarà necessario.»
Trassi un respiro tremante. «Puoi farlo davvero?»
«Ho qualche anno d’esperienza, sia con la luna piena sia
con i giovani lupi.» Spiegò e fui quasi certa di aver
percepito una punta d’orgoglio nella sua voce, che poi si
addolcì quando aggiunse: «Davvero Scarlett, io sono qui
per aiutarti. Avrei dovuto esserci fin dall’inizio, me ne rendo
conto, ma adesso sono qui e non ti lascerò affrontare la luna
piena da sola.»
Rimasi sorpresa dalla sue parole, ma soprattutto dal tono con cui le
aveva pronunciate. «Okay.» Sussurrai con un fil di voce.
«Quindi devo lasciarmi andare, abbracciare il mio lato
soprannaturale?»
Annuì un’unica volta. «Esatto.»
Mi riempii i polmoni d’aria fresca e umida e spostai lo sguardo
davanti a me. «Bene, facciamolo.»
Sean si spostò un attimo prima che lo infilzassi. Una piccola
parte della mia mente, quella ancora lucida, si stupì di quanto
fosse veloce. Il mio lupo interiore, invece, reagì irritandosi
ancora di più e facendo nascere un ringhio nella mia gola.
Aveva preso completamente il controllo e io glielo avevo lasciato fare
nella speranza di riuscire a renderlo parte di me più di quanto
non fosse già. Solo che non era per niente semplice
imbrigliarlo. E chi ne faceva le spese era Sean.
Schivava ogni mio goffo tentativo di colpirlo e non contrattaccava, si
limitava a mantenere una distanza di sicurezza tra me e lui. Non aveva
detto una parola, ma avevo visto i suoi occhi lampeggiare d’oro.
Ansimavo mentre mi guardavo intorno cercando quello che al mio lupo
sembrava una minaccia: un altro licantropo rapido e silenzioso che,
almeno secondo lui, stava cercando di uccidermi. Avevo gli artigli
sguainati e le zanne snudate, ero pronta ad un combattimento anche se
non avevo la benché minima esperienza.
Qualcuno, anche se non era difficile immaginare chi visto che eravamo
solo in due, mi afferrò un braccio e me lo portò dietro
la schiena prima di spingermi contro un albero. Mi lasciai sfuggire un
gemito infastidito quando mi ritrovai premuta contro la dura corteccia
di un abete che mi graffiò la guancia. Provai a divincolarmi,
ancora una volta sotto l’influsso del mio lupo, ma la forza di
Sean era molto superiore alla mia.
«Non ci stai provando veramente.» Mi ringhiò
all’orecchio. «Lo vedo. Andiamo Scarlett, puoi fare di
meglio.»
«È troppo forte!» Sbottai esasperata.
Rafforzò la presa, sentivo il suo respiro sul collo. «No,
sei tu che gli permetti di essere troppo forte. Devi essere tu a
guidarlo in modo che vada dove vuoi.»
Strinsi il pungo della mano libera. «Come?»
«Pensa a qualcosa che ti ha fatto sentire impotente, qualcosa che
ti brucia ancora, e convoglia lì la tua forza, sia umana che
animale.» Spiegò. «Una volta insieme puoi prendere
il comando.»
«D’accordo, ma adesso mi serve un attimo di pausa. Per
favore.» Replicai cercando di prendere aria.
Esitò per un attimo, combattuto, poi lo sentii sospirare.
«Va bene. Insistere adesso non serve. Sei controllata?»
Mi trattenni all’ultimo momento dall’annuire per evitare di
graffiarmi di nuovo. In realtà sarei guarita nel giro di un
secondo, ma non mi andava di strofinarmi contro un albero.
«Sì. Finché non torna un’altra fitta
sì.»
Era così che al mio lupo piaceva presentarsi, con improvvise
scosse di dolore, come se avesse voluto cambiarmi il corpo e
trasformarlo in quello di un lupo vero e proprio. Chissà se era
possibile… In fondo, le leggende parlavano di uomini per
metà animali, con tanto di coda e pelliccia, che si muovevano a
quattro zampe. Doveva essere piuttosto scomodo.
Sean allentò lentamente la presa sul mio braccio, attento al
minimo segnale dall’allarme. Quando fu sicuro che non mi sarei
ribellata per saltargli alla gola, mi lasciò definitivamente e
fece qualche passo indietro. Mi voltai e appoggiai la schiena
all’albero con un respiro tremante. Dopo un attimo, riuscii a
metterlo a fuoco anche senza l’intervento poco discreto del mio
lupo: si era tolto la giacca, lasciandola chissà dove, ed era
rimasto in maglietta a maniche corte di un colore scuro che non
riuscivo ad identificare e che si confondeva con il nero dei jeans.
I suoi capelli, di un biondo cenere, sembravano argentati alla luce
soffusa della luna. Il suo viso era tutto un gioco di ombre tracciate
dagli zigomi, dalle ciglia, dai rami degli abeti.
«Non sta andando bene, eh?» Chiesi abbassando lo sguardo.
Mi studiò per un attimo. «Hai ancora paura, e questo ti
blocca. Una volta che l’avrai superato andrà
meglio.»
Una parte di me voleva urlare che era un po’ impossibile non aver
paura di trasformarsi in un mostro assassino, che eravamo in mezzo ad
un bosco nel cuore della notte, che ero ad un passo da un esaurimento
nervoso. L’altra parte, invece, pensò che, quando non
aveva il suo solito cipiglio cupo, Sean era decisamente bello.
«Comunque, è la prima volta quindi non puoi aspettarti
chissà quale risultato.» Aggiunse come se quella pausa non
ci fosse stata.
Annuii fissando un tronco caduto a pochi metri da noi.
«Già.»
Un altro silenzio imbarazzante scese tra di noi. Non era vero e proprio
silenzio, però, perché si sentivano i fruscii del vento e
degli animaletti del bosco, il mio respiro irregolare e quello calmo di
Sean, il battito del mio cuore che mi rimbombava nelle orecchie.
«Ti ho sentito parlare in francese un paio di volte.» Dissi
all’improvviso. «O meglio, imprecare. Com’è
che lo sai?»
Con quei capelli biondi e gli occhi chiari, Sean sembrava più
nordico che del centro Europa. E poi, era piuttosto freddo a livello di
carattere, non aveva niente a che fare con l’atteggiamento
raffinato e un po’ snob che associavo ai francesi.
Sospirò, ma non capii perché. «Sono nato a
Toronto.»
«Davvero?» Domandai ritrovando l’interesse. «E
com’è?»
Aggrottò appena la fronte e spostò lo sguardo su qualcosa
alla sua destra. «Tranquilla, grande ma non troppo
caotica.»
«E il Canada?» Insistetti.
«Verde, piuttosto disabitato a dir la verità. Le
città si concentrano a sud, a nord ci sono solo foreste.»
Replicò.
Annuii e appoggiai meglio la schiena contro l’albero.
«Toronto è una delle cento città che voglio
visitare prima di morire.»
Qualcosa che sembrava l’accenno di un sorriso gli sfiorò
le labbra illuminando per un attimo il suo viso in ombra. «Hai
una lista?»
«Più o meno. Avevo cominciato a scriverla, ma poi
l’ho persa insieme all’abbonamento
dell’autobus.» Confessai stringendomi nelle spalle.
Scosse appena la testa e incrociò le braccia al petto facendo
guizzare i muscoli. Non mi ero mai soffermata ad osservarlo e adesso
che ne avevo l’occasione mi rendevo conto di quanto sembrasse
giovane quando non era impegnato a chiudersi al resto del mondo.
Venticinque anni? No, io gliene davo ventidue, forse venti quando
sorrideva, cosa molto rara.
«Come sei finito a Seattle? È praticamente
dall’altra parte del continente.» Commentai. «Non ti
piaceva il Canada?»
Chinò appena la testa. «Provo sentimenti contrastanti per
il Canada e per Toronto. E anche per Seattle. Ma da qualche parte
dovevo stare.»
Fui sul punto di chiedergli da cosa derivassero, ma mi trattenni quando
mi ricordai di Isaiah, il figlio di sua sorella, e di come era morto. E
poi, l’espressione tormentata che riuscivo a scorgere sul suo
viso mi fece demordere da qualunque indagine. Chissà cosa si
nascondeva nel suo passato… Per essere arrivato a diventare
così imperturbabile, freddo e cupo doveva essergli successo
qualcosa di molto grosso. Anche il suo fisico rispecchiava
quell'impressione: sembrava qualcuno che si aspettava un attacco da un
momento all’altro, era slanciato, con muscoli asciutti e
scattanti, abbastanza forte da neutralizzare un intero gruppo di
cacciatori. In più controllava alla perfezione la sua
licantropia.
Era un guerriero forgiato da un passato oscuro che si era adattato per
riuscire a sopravvivere, anche se questo aveva significato rinunciare a
delle parti di sé.
«Posso farti una domanda io?» Chiese rompendo l’ennesimo silenzio scomodo.
Mi stupii di quel piccolo atto di gentilezza: avrebbe potuto porre la
sua domanda in modo diretto e senza scrupoli, invece si era trattenuto.
Annuii. «Sì, certo.»
Sollevò lo sguardo su di me studiandomi con aria critica.
«Perché ho l’impressione che Adam sappia più
di quanto dovrebbe riguardo la luna piena?»
Mi bloccai, sorpresa. Mi aveva messo all’angolo e non avevo vie
d’uscita, se non la verità. «Perché sei
troppo sospettoso…?»
«Scarlett.» Mi ammonì con un tono che non prometteva
niente di buono.
Chinai la testa e diedi un calcio ad un rametto. «Potrei
avergli… fatto scoprire qualcosa.»
«Immagino che tu non gliel’abbia spiegato, l’ha
proprio visto, dico bene?» Indovinò lui inarcando un
sopracciglio.
«Forse.» Risposi evasiva.
Sospirò. «Sai che vuol dire? Se fossi stata sotto il mio
comando avrei dovuto punirti. Far partecipare un umano al plenilunio
è… pericoloso oltre che deplorevole. È un momento
importante per i licantropi, non devi prenderlo così alla
leggera.»
Mi strinsi le braccia al petto sentendomi come una bambina di fronte ai
rimproveri dei genitori. «Lo so…» Gli lanciai una
timida occhiata. «Mi punirai?»
I suoi occhi verde-grigio erano impassibili. «No. Non ci sono
stato per te e non ti ho insegnato niente quindi non ne ho il
diritto.»
Inconsapevolmente, tirai un sospiro di sollievo. Lui si passò
una mano tra i capelli e sospirò di nuovo, ma mi sembrò
di vedere un po’ della sua tensione sciogliersi.
«Come è successo?» Domandò con voce calma.
«Conosci i rischi del plenilunio, quindi perché
l’hai coinvolto?»
Mi torturai le mani per tenermi impegnata e per sottrarmi al suo
sguardo severo. «Beh… Non era programmato. È
successo e basta. Stavo cercando un posto tranquillo, lui era nel
cottage e… ci siamo incontrati.»
«E tu sei rimasta lì.» Concluse prima di voltarsi
verso qualcosa alla sua destra.
«Già. Lo sai com’è lui, non ha voluto
lasciarmi da sola.» Mormorai.
Sembrò incupirsi appena, ma fu solo per un attimo perché
poi riportò tutta la sua attenzione su di me e mi parve di
scorgere un accenno di sorriso sulle sue labbra. «Sta
funzionando.»
«Cosa?» Chiesi confusa.
«Non te ne sei accorta? I tuoi occhi… brillano.»
Spiegò. «Ma non come quando non hai il controllo del tuo
lupo. Penso che tu l’abbia già fatto in passato,
comandarli a tuo piacimento perché diventassero color oro,
giusto?» Al mio cenno d’assenso aggiunse: «A quanto
pare ho toccato un tasto delicato per te perché ho scatenato la
reazione che volevo raggiungessi da sola. La tua forza umana e quella
animale stanno cominciando a fondersi.»
Spalancai gli occhi, incredula. «Ci sto riuscendo sul
serio?»
Il suo sorriso si fece più ampio. «Sì. Te
l’avevo detto che non era impossibile. Adesso devi solo
continuare a lavorarci.»
Nonostante il suo ottimismo, io ero ancora un po’ scettica.
«Come posso farlo se neanche me ne accorgo quando succede?»
Nelle sue iridi passò un luccichio che definirei malizioso.
«Forse ti serve un piccolo incentivo. Andiamo ragazzina, è
ora di arrabbiarsi sul serio.»
Non so dire quante ore passai in balia del mio lupo. Probabilmente
più di quanto non avessi mai fatto. Era una sensazione strana,
come se di colpo tutte le barriere e i limiti morali fossero crollati
lasciando il posto all’istinto più selvaggio e
primordiale. Non sentivo nemmeno la stanchezza da quanto ero presa da
quella strana frenesia provocata da mio lupo.
Al contrario di prima, anche Sean si era unito a me, ma era più
sobrio: i suoi ringhi erano bassi, cupi e venivano dal profondo della
gola, non come i miei più sguaiati ed esibizionisti. Lui
mostrava di rado le zanne e si spostava sempre in modo da non essere
sulla mia linea di tiro. Anche se cercava di mostrarsi impassibile,
potrei giurare di aver colto l’ombra di un sorriso sfiorargli le
labbra in più di un’occasione.
Mi ricordava continuamente di incanalare la forza del mio lupo insieme
alla mia, di concentrarmi su quello e, nello stesso tempo, di pensare
che se ci fossi riuscita sarei stata più difficile da ferire, da
sopraffare.
Quando le prime luci dell’alba cominciarono a schiarire il cielo
tingendolo di rosa, mi accasciai conto un albero ansimando. Chiusi gli
occhi mentre mi sforzavo di riprendere fiato. Imprecai tra i denti
stringendo e rilasciando i pugni. Dopo qualche secondo, mi decisi a
sollevare le palpebre.
Sean era in piedi davanti a me e si stava infilando la giacca da
aviatore. Mi si avvicinò e mi tese una mano inclinando appena la
testa di lato. La presi e lui mi aiutò ad alzarmi. Il problema
sorse subito dopo, quando sentii le gambe cedermi. Mi immaginavo
già distesa scompostamente sul morbido terreno coperto di
muschio, quando Sean mi afferrò al volo. Ringraziai mentalmente
i suoi riflessi così pronti.
«Come ti senti?» Chiese osservandomi preoccupato.
«Stanca.» Ammisi. «Ma credo di farcela.»
I suoi occhi erano resi più luminosi dai primi raggi del sole.
«Sicura?»
«Sì, certo.» Sorrisi nel tentativo di
sdrammatizzare. «Insomma, ormai sono un tutt’uno con il mio
lupo, non ho bisogno di un cavaliere.»
Inarcò un sopracciglio e scosse appena la testa. «Come
vuoi.»
Sciolse quello strano abbraccio facendo un passo indietro senza
togliermi gli occhi di dosso come per assicurarsi che non avessi un
altro incontro ravvicinato con il sottobosco. Mi strinsi nel giubbotto
reprimendo un brivido e mi stiracchiai, assonata.
«D’accordo ragazzina, andiamo prima che ti
addormenti.» Borbottò con un mezzo sorriso.
Scacciai quella possibilità con un gesto vago della mano anche
se in realtà ero piuttosto sicura che sarebbe potuto succedere.
Ci incamminammo fianco a fianco e, per una volta, lui mantenne il mio
passo.
Durante l’ora che impiegammo per raggiungere il cottage cercai di
scucire a Sean quante più informazioni possibili sul suo passato
tentando di farlo sembrare il meno possibile un terzo grado. Buttavo
lì qualche informazione su di me e poi gli chiedevo se anche lui
aveva avuto esperienze simili. Le uniche risposte che ottenni furono
monosillabi e occhiate sospettose che poi divennero d’ammonimento
quando la sua pazienza si avvicinò al limite.
«È la stanchezza che ti fa parlare a raffica o è
proprio una cosa tua?» Sbottò mentre entravamo nella
radura dove si trovava la casa.
Arricciai le labbra in una smorfia mentre mi sfilavo l’ennesimo
rametto dai capelli. «Sinceramente? Dovresti chiedere ad
Elisabeth, lei…»
Mi interruppi bruscamente quando lui si fermò di botto e tese un
braccio verso di me come a volermi fermare. All’improvviso, tutto
il suo corpo era entrato in tensione, una molla che viene caricata.
Scandagliò il bosco intorno a noi, gli occhi verdi attenti ad
ogni minimo dettaglio.
Non osavo fiatare, soprattutto perché anche il mio lupo si era
agitato, come in risposta a quello del mio Alfa, che se ne stava
lì, appena sotto la superficie, pronto ad emergere se fosse
stato necessario.
«Cacciatori» Sussurrò Sean, la voce bassa, quasi
inudibile, ma comunque tagliente.
Dovetti mordermi la lingua per non emettere un acuto
“cosa?” che con ogni probabilità avrebbe attirato
attenzioni indesiderate. Lui mi fece cenno di seguirlo prima di
muoversi verso il cottage nel più completo silenzio. Gli andai
dietro fiutando l’aria in cerca di quello che l’aveva fatto
scattare sull’attenti: se i cacciatori ci avessero teso un altro
attacco volevo essere in grado di accorgermene. Individuai
l’odore di metallo, polvere e una nota aspra che mi venne
spontaneo associare all’argento.
Quando girammo l’angolo della casa percepii un ringhio basso e
cupo prendere forma nella gola di Sean, il suo lupo che si faceva
ancora più teso. Dovetti allungare il collo oltre le sue spalle
ampie per capire il perché di quella reazione: Nathan se ne
stava in piedi vicino alle scale che portavano al portico, le mani
nelle tasche dei jeans, l’atteggiamento rilassato ma non troppo
di chi sa essere letale e affabile allo stesso tempo.
«Resta dietro di me.» Mi sibilò Sean, la rabbia che
gli venava la voce.
Rimasi perplessa di fronte a quella reazione. Era Nathan, non uno di quei fanatici dal grilletto facile, lui era diverso.
Eppure Sean si comportava come se fosse una minaccia, qualcosa di
micidiale e pericoloso.
Avanzò ancora, i passi silenziosi sul terreno coperto dal
muschio morbido. Lo seguii con i battiti frenetici del mio cuore che mi
rimbombavano nelle orecchie.
«Che ci fai qui, cacciatore?» Ringhiò Sean.
Nathan si voltò di scatto verso di noi, le sopracciglia chiare
inarcate in un’espressione di sorpresa. «Cercavo
voi.» Spostò lo sguardo su di me e mi rivolse un
sorrisetto. «Direi che vi ho trovati.»
Sean raddrizzò le spalle e lo scrutò in silenzio per
qualche secondo. «Sei da solo?»
Il ragazzo allargò le braccia mostrando le mani. «Sono
solo io, sì. E no, non è un’imboscata.»
«Questo lascialo decidere a me.» Borbottò il mio
Alfa senza accennare ad abbassare la guardia.
«Andiamo, pensi davvero che sia qui per uccidervi? Non sono
neanche armato.» Replicò Nathan.
Sean inarcò un sopracciglio. «Sì, lo sei.»
Come per riflesso, lui si portò una mano dietro la schiena prima
di rendersi conto dell’errore. Piegò le labbra in una
smorfia lasciando ricadere le braccia lungo i fianchi. «Okay,
sì, lo sono.»
Il licantropo sollevò il mento. «Cominciare con una bugia
è il modo migliore per farsi ammazzare. E ancora non hai detto
perché sei qui.»
In quel momento un’auto scura sbucò dal bosco e si
fermò poco prima del cottage. L’attenzione di tutti si
spostò sulla macchina e sul suo conducente. Quando lo sportello
sul lato del guidatore si aprì e ne uscì Adam, Sean
sembrò allentare appena la tensione. Era un alleato, non
importava se fino a qualche ora prima a stento si rivolgevano la
parola.
Nel più completo silenzio, Adam attraversò la radura e
affiancò Sean. Anche se era del tutto fuori luogo considerato il
nervosismo che riempiva l’aria, non riuscii a non sentirmi
orgogliosa nel vedere loro due, così diversi eppure uniti nella
stessa battaglia, fronteggiare insieme un pericolo. Che in
realtà non era un pericolo, ma almeno li aveva fatti
riappacificare, almeno per il momento.
Sean non fece domande sull’improvviso arrivo di Adam, né
mostro sorpresa, si comportò come se fosse stato programmato.
«Allora, cacciatore, vuoi dirci perché sei qui o
no?»
Sotto il giubbotto, le spalle di Adam erano tese, ma il suo volto era
perfettamente calmo. Avanzai in silenzio fino ad essere un passo dietro
di lui e mi spostai un po’ di lato per avere una visuale
migliore. Tra tutti, ero quella che tradiva di più
l’agitazione.
Nathan sollevò appena un angolo della bocca annuendo una sola
volta. «Ora che siamo al completo direi che posso anche svelare
il mistero.» Rimase in silenzio per un attimo, forse aspettando
una reazione da parte nostra. L’unica che ottenne fu
un’occhiata spazientita da parte di Sean che lo spinse a
continuare: «Ho un messaggio.» Disse quindi, la voce di
colpo seria, quasi cupa. «Da parte di Colin.»
SPAZIO AUTRICE: Con un ritardo davvero vergognoso, finalmente
riesco ad aggiornare. Mi dispiace avervi fatto aspettare così
tanto, purtroppo ho avuto una sorta di blocco dello scrittore riguardo
a questa storia, ma credo che adesso sia passato.
In questo capitolo ho voluto dare più spazio alla licantropia di
Scarlett e anche al rapporto tra lei e Sean. E' una delle relazioni che
preferisco all'interno di UAPM perché mette insieme ad una
persona chiusa e taciturna come Sean una ragazza curiosa e un po'
confusionaria come Scarlett, mette in luce le loro differenze ma anche
la loro volontà di far funzionare questo branco molto
particolare.
Poi abbiamo Nathan, un cacciatore che sembra essersi convertito, ma
è davvero così? E quale sarà il messaggio di
Colin?
La smetto di farvi venire l'ansia e concludo augurandovi buon anno <3 (anche se un po' in ritardo...)
TimeFlies
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Capitolo 38 *** 38. Adam ***
Under a paper moon- capitolo 38
38. Adam
«Ho un messaggio, da parte di Colin.» Annunciò
Nathan.
Tutta l’ironia era sparita dal suo viso lasciando il posto ad
un’espressione seria che non gli si addiceva. Lo faceva sembrare
più vecchio, quasi sciupato.
Accanto a me, Sean era guardingo, i muscoli del collo in rilievo per la
tensione. «Hai intenzione di riferirlo o no? Non ho tutto il
giorno.» Ringhiò, eppure, nascosta sotto l’apparente
disprezzo, c’era una punta d’ansia.
Un angolo della bocca del cacciatore si arricciò in una smorfia.
«È un ultimatum. Colin vuole qualcosa di concreto entro
una settimana.»
Di colpo, mi sentii la bocca secca come sabbia. Avevo improvvisato
l’accordo fino a quel momento, cercando di prendere tempo per
elaborare una vera e propria strategia, ma non avevo niente, non ancora
almeno. Pensavo che saremmo stati noi a gestire i tempi,
l’annuncio di Nathan ribaltava completamente la situazione.
«Altrimenti?» Riuscii a chiedere prima di deglutire.
Lui lanciò un’occhiata veloce a Scarlett per poi
sospirare. «Altrimenti riaprirà la caccia.»
Al mio fianco, Scarlett trattenne il fiato. Sean serrò la
mascella, un lampo d’oro che gli attraversava le iridi. Era in
momenti come quelli che tutto il suo lato protettivo veniva fuori,
tutte le promesse che aveva fatto sul tenere al sicuro il proprio
branco si convogliavano nel suo sguardo, determinato e fiero come
quello di un lupo.
«Se dovesse farlo, sa che non ci rintaneremo come conigli
spaventati, vero?» Domandò, la voce lenta, misurata.
«Sarà una caccia senza ruoli prestabiliti.»
Nathan si passò una mano tra i capelli, sembrava stanco adesso,
di quella stanchezza che non puoi guarire dormendo, che ti entra nelle
ossa e vi si aggrappa in modo doloroso. «Credo che ne sia
consapevole, che tutti lo siano. Vogliono mettere fine a questa storia
tanto quanto voi.»
«E sono pronti ad uccidere per farlo?» Chiese Scarlett, i
grandi occhi scuri velati di paura.
Il cacciatore evitò di guardarla. «Ecco…»
«Certo che lo sono. Lo fanno da una vita.» Sbottò
Sean coprendo la sua voce. «Se il tuo capo è così
convinto di quello che sta facendo, bene, vuol dire che in una
settimana sapremo chi vivrà. E ti giuro che questa volta nessuno
di voi sarà in grado di andarsene sulle proprie gambe.»
Fu come se le sue parole abbassassero la temperatura in tutta la radura
cristallizzandola. Nel sentire la rabbia gelida e assoluta che dominava
la sua voce ebbi la conferma che Sean Leblanc poteva distruggerti,
annientarti e ridurti all’ombra di te stesso esattamente come
poteva dare la vita per te, lottare per difenderti anche contro tutto
il mondo. Era l’alleato perfetto, ma era anche il nemico peggiore
che potesse capitarti di incontrare.
Nathan schiuse le labbra prima di deglutire.
«Riferirò.» Il suo fu un mormorio appena udibile nel
frusciare degli alberi.
Sean sollevò il mento, l’espressione arrogante e vagamente
annoiata di un principe. «Puoi andare adesso.»
Il cacciatore scoccò un’occhiata di sottecchi a Scarlett
ed esitò, combattuto. Sembrava sul punto di dire qualcosa, le
parole però gli rimanevano impigliate in gola. Dopo qualche
secondo, espirò con fare frustrato e si voltò per
allontanarsi a grandi passi. Solo quando sentimmo il rumore di
un’auto che si allontanava riuscimmo ad allentare un po’ la
tensione.
Sean buttò fuori l’aria in uno sbuffo rabbioso fissando il
punto in cui Nathan era scomparso tra gli alberi. Scarlett sembrava
pietrificata, lo sguardo lontano e reso più scuro da
un’ombra.
«Una settimana…» Sussurrò quasi stesse
pensando ad alta voce. «Possiamo… possiamo fare qualcosa
in una settimana?» Aggiunse poi voltandosi verso di me.
Mi morsi il labbro sentendo un retrogusto amaro in bocca. Il piano era
mio, era ovvio che chiedesse a me, ma io non avevo niente, né
rassicurazioni né strategie. Avevamo soltanto una scadenza
adesso e sembrava pericolosamente vicina.
«Certo che faremo qualcosa.» Dichiarò Sean, il tono
fermo di chi non prende neanche in considerazione altre
possibilità. «Non toccheranno nessuno di voi.»
Allungai una mano e strinsi quella di Scarlett, che mi rivolse un sorriso sbilenco.
Sean osservò quel gesto con imperioso distacco. «Dovresti
dormire un po’ tu.»
Lei si lasciò sfuggire una smorfia. «Sto bene, sul
serio.»
«Ha ragione, Scar.» Intervenni. «Ora come ora non
possiamo fare niente, tanto vale che tu vada a riposarti.»
Scarlett alternò lo sguardo da me a Sean prima di sospirare
passandosi una mano sul viso. «D’accordo, d’accordo.
Ma dovete promettermi che non vi ammazzerete nel frattempo.»
Le sopracciglia di Sean si inarcarono in un’espressione quasi
indignata. «Non ho tempo di uccidere nessuno adesso, tanto meno
lui.»
Lei sembrava ancora dubbiosa. Nonostante questo, non protestò
quando ci incamminammo verso la casa, io accanto a lei e Sean appena
dietro di noi. Si strinse le braccia al petto trattenendo uno sbadiglio
mentre aprivo la porta. Dopo avermi lasciato un bacio sulla guancia,
sgusciò verso le scale: a quanto pareva il sonno aveva vinto
ogni suo scetticismo riguardo il rapporto tra me e il suo Alfa.
Lasciai entrare Sean prima di richiudere la porta. La sua rabbia feroce
si era in parte mitigata, ma c’era ancora tensione nel suo modo
di muoversi.
Si avvicinò al tavolo e ne sfiorò la superficie con le
dita, sovrappensiero. «Pensavi di andare a scuola oggi?»
Mi mordicchiai il labbro. «A questo punto direi di no.»
«Mmh.» Fece lui prima di sfilarsi la giacca da aviatore e
buttarla sul tavolo. Vi si appoggiò con entrambe le mani, le
linee morbide che delineavano i muscoli della schiena che si
indovinavano sotto il tessuto leggero della maglietta che indossava.
«Non hai freddo?» Mi sentii chiedere.
«No.» Borbottò sbrigativo. «Sto bene. Sto dannatamente
bene. Sai perché? Perché avevo ragione.»
Aggrottai la fronte. «Riguardo a cosa?» Si voltò
verso di me, un lampo selvaggio che gli attraversava lo sguardo.
«Colin. Non ha mai voluto l’accordo, sapevo che prima o poi
avrebbe fatto una mossa del genere. Un ultimatum…»
Sputò fuori l’ultima parola come se fosse stata intrisa di
veleno. «Deve solo provarci.»
«Quindi che facciamo? Voglio dire, tu vuoi…» Iniziai
cauto.
«Sì, eccome. Voglio annientarli, ma per ragioni che
conosciamo entrambi non posso farlo.» Replicò scoccandomi
un’occhiata eloquente. «Dovremmo pensare a
qualcos’altro.»
Annuii tra me e me. «Dobbiamo trovare una sorta di merce di
scambio, qualcosa che potrebbe accontentarli ma che nello stesso tempo
non ci danneggi.» Rimasi in silenzio per qualche secondo cercando
di riflettere. «Cosa potrebbero volere?»
«Vederci morti. Ucciderci. Sterminarci.» Elencò Sean
senza scomporsi.
«Okay, qualcosa di meno distruttivo per noi?» Tentai.
Lui inarcò un sopracciglio. «Loro cacciano
i licantropi, secondo te saranno poco distruttivi? Se dovessero
riuscire a mettere le mani su qualcuno di noi… beh, non si
limiterebbero ad un solo proiettile.»
Sentii un brivido gelido corrermi lungo la schiena nel ripensare alla
ferita di Scarlett, al sangue che le aveva macchiato i vestiti, alla
sua espressione terrorizzata e sofferente. Non potevamo lasciare che
una cosa del genere accadesse di nuovo.
«D’accordo, non sarà una lotta pari quindi.»
Commentai passandomi la lingua sul labbro.
«Non lo è mai stata.» Mormorò Sean cupo.
Di colpo mi tornò in mente la sua voce vuota, piatta mentre
raccontava di come i cacciatori avevano sterminato prima la sua
famiglia e poi il suo branco, togliendogli tutto, portandolo ad un
passo dalla morte. C’era qualcosa di spezzato in lui, ma era
troppo orgoglioso per ammetterlo persino con se stesso, così lo
aveva annegato nel potere e nella forza diventando quello che aveva
bisogno di essere per sopravvivere, per essere un gradino sopra chi lo
voleva morto.
«Prima che me lo dimentichi.» Aggiunse, la voce di colpo
più severa. «C’è una cosa che devo
chiederti.»
Per quanto mi ripetessi che Sean non era pericoloso, non per me almeno,
non riuscii a non irrigidirmi a quel cambio di tono. Mi schiarii la
gola nel tentativo di nascondere la tensione. «Cosa?»
«Hai passato una notte di plenilunio con Scarlett.»
L’aveva presentata come una domanda, ma quella che aveva appena
pronunciato era un’affermazione che non ammetteva repliche.
Se ne era così sicuro, mentire era del tutto inutile.
«Sì, l’ho fatto. Qualche mese fa.
Perché?»
«Un umano che partecipa ad un plenilunio… è un
grande affronto, quasi una mancanza di rispetto.» Rispose dopo
aver esitato per un attimo, come se stesse cercando le parole giuste.
«Il fatto che quell’umano fossi proprio tu non mi
sorprende, però. In effetti, avrei dovuto arrivarci
prima.»
«Perché ho l’impressione che questo ti… dia
fastidio?» Chiesi cauto.
Mi inchiodò sul posto con uno sguardo oscuro e rabbioso.
«Perché è così. Com’è possibile
che tu riesca sempre ad infilarti in situazioni pericolose e proibite?
Sei un dannato ragazzino, dovresti pensare a… a tutt’altre
cose, non ai licantropi.»
«È un po’ difficile farlo quando ne conosco uno.
Anzi, due.» Ribattei sostenendo la sua occhiata accusatoria.
Mi si avvicinò a grandi passi, la sua presenza sembrava riempire
l’intera stanza. Solo in quel momento mi accorsi dell’aura
di potere, selvaggio e irrequieto, che emanava. «Non ti rendi
conto di quanto sia preziosa la luna piena per un licantropo, vero? La
consideri una mera leggenda, qualcosa di distante e forse anche
irritante. Stai insultando uno dei valori più importanti per i
lupi, alcuni sarebbero pronti ad ucciderti per questo.»
Quelle accuse bruciavano più del previsto, forse perché
venivano da lui, o forse perché non le capivo. Mi stava
rimproverando per aver cercato di aiutare Scarlett? Serrai i pugni
lungo i fianchi stringendo la mascella. «Ho cercato di fare la
cosa giusta. Scarlett non si è presentata con un manuale su come
essere licantropi. Anzi, sai cosa? Hai un bel coraggio ad accusarmi di
aver sbagliato e aver denigrato la tua preziosa luna piena quando tu
per prima hai lasciato Scarlett da sola ad affrontarla.»
Non era quello che avrei voluto dire, non era quello che avevo
pianificato, eppure non ero riuscito a frenare le parole. Erano uscite
prepotentemente, dure e dirette. Sean mi faceva quell’effetto, mi
spingeva a dire quello che pensavo davvero anche quando sarebbe stato
meglio tacere.
Una scintilla d’oro gli accese le iridi. «Ho fatto quello
che dovevo per sopravvivere. E per quanto riguarda Scarlett, le ho dato
un grande potere che tu non puoi comprendere. L’ho resa
forte.»
«No, le hai solo complicato la vita. E poi sei sparito.»
Sbottai. «Tu non c’eri quando lei aveva bisogno di te, non
c’eri e sei ricomparso solo quando ti faceva comodo. È
questa la verità, anche se lei ti rispetta troppo per
dirtelo.»
«Tu no?» Chiese, la voce tesa come una corda di violino.
Tra tutto quello che avrebbe potuto replicare a una provocazione
così aggressiva, quella era l’unica a cui non avevo
pensato. Che gli importava di quello che pensavo io?
Era un Alfa, poteva fare quello che voleva quando voleva, era potente,
perché si preoccupava dell’opinione di un umano?
«Non… non mi hai mai dato un buona ragione per
farlo.» Mormorai abbassando lo sguardo.
Rimase in silenzio per qualche secondo. «Quindi è questo
quello che pensi di me? Che sono un egoista approfittatore?»
«Penso che avresti potuto farlo in un altro modo, avresti potuto
starle accanto, avresti potuto non morderla.» Mi sentii dire.
«Sai perché i cacciatori non la trovarono la notte in cui
la morsi? Perché non catturarono neanche me? Cinque anni fa
Seattle era sotto il controllo di un altro gruppo di cacciatori,
appartenevano alla famiglia Chandler. Quelli che inseguivano me lo
sapevano, così come sapevano che entrare nel loro territorio
avrebbe portato guai. Ci volle un anno di trattative perché i
Chandler li lasciassero venire a Seattle, due perché Colin Young
prendesse il comando dopo la morte del loro precedente leader.»
Mentre parlava la sua voce era calma, eppure la sua espressione era
guardinga.
«Non ti ho chiesto di giustificare quello che hai fatto,
né il perché. Ormai Scarlett si è trasformata, il
resto della storia lo conosciamo benissimo entrambi.» Replicai.
«Voglio solo che tu sia onesto, con me e con te stesso. Pensi
davvero di avere qualche diritto su Scarlett? Di poterla rimproverare
per come vive la sua licantropia?»
I muscoli del suo collo si tesero di colpo quando serrò la
mascella. «E tu pensi di potermi dire come fare l’Alfa,
ragazzino? Credi di poter comprendere una cosa tanto grande e di
poterla addirittura contestare?» Il disprezzo nel suo sguardo
bruciava come acido, soprattutto perché c’era
qualcos’altro dietro, un’ombra di quello che sembrava
dolore.
Espirai lentamente cercando di mantenere la mente lucida. «Sto
solo cercando di farti notare la differenza tra abbaiare ordini dopo
essere apparso all’improvviso e impegnarti per costruire un
rapporto con Scarlett. Non è facendo il dittatore che otterrai
la sua fiducia.»
Avanzò ancora, l’espressione dura come il marmo.
«Molti altri al posto mio ti avrebbero già ucciso.
Dovresti essermi grato per non averlo fatto.»
Mi lasciai sfuggire un sorrisetto beffardo. «Grazie per avermi
risparmiato allora. Sei stato davvero generoso a lasciar vivere
l’unica persona che abbia mai provato ad aiutare Scarlett.»
Avevo parlato senza pensare, di nuovo. Questa volta avevo la netta
impressione che non me la sarei cavata con una semplice battuta
tagliente, il lampo dorato nelle iridi di Sean me lo confermava.
Coprì in un secondo la distanza che ci separava costringendomi
ad indietreggiare fino a che non mi ritrovai con la schiena al muro.
Era teso, quasi impaziente, un fascio di muscoli e nervi pronti a
scattare alla minima sollecitazione.
«Oh, non preoccuparti, sono ancora in tempo per rimediare a
questa mia mancanza.» Ringhiò, sarcastico e affilato. Mi
afferrò un polso e lo sollevò con un movimento brusco.
«Sai, potrei morderti adesso, trasformati e metterti allo stesso
pari di Scarlett visto quanto ti preme che viva bene la sua
licantropia. Potrei farlo, e a quel punto forse capiresti perché
faccio quello che faccio.» Come a rendere la sua minaccia ancora
più reale, lasciò intravedere le zanne in un sorrisetto
senza allegria. «Se dovessimo fare a modo tuo, seguire le regole
ed essere sempre gentili, saremmo già tutti morti. Ho dovuto
fare delle tante cose per sopravvivere, tu ne condanneresti la maggior
parte, eppure io adesso sono ancora qui, la mia coscienza non mi ha
ucciso. A volte è necessario dimenticarsi della morale o delle
regole.»
«Senza le regole saremmo animali incapaci di vivere insieme in
modo pacifico, senza ammazzarci a vicenda.» Ribattei sostenendo
il suo sguardo, più cupo del solito. «Abbiamo bisogno
delle regole, e abbiamo bisogno di fidarci l’uno
dell’altro. Capisco che non ti piaccia avere a che fare con me,
ma al momento abbiamo altri problemi di cui occuparci.»
Mi studiò in silenzio, le labbra strette in una linea di
tensione. «Su una cosa hai ragione, non mi piace collaborare con
te, però non mi piace neanche darla vinta ai cacciatori. Se
l’unica possibilità che abbiamo contro di loro è
lavorare insieme allora lo faremo. Ma una volta risolto questo, ricorda
cosa ti ho detto riguardo al tuo ruolo nel branco.»
Fu come ricevere un pugno nello stomaco. Boccheggiai sotto il suo
sguardo impietoso cercando di pensare con lucidità. Sean non mi
diede il tempo di rispondere, si allontanò da me e uscì
dal cottage sbattendo la porta con forza.
Diverse mappe e cartine erano ammucchiate sul tavolo, ne occupavano
quasi tutta la superficie. La maggior parte provenivano
dall’appartamento di Sean, che, a quanto pareva, ne aveva
un’intera collezione. Quelle che a detta sua mancavano ce le
eravamo procurate in biblioteca.
In realtà, non mi era del tutto chiaro il motivo per cui Sean
avesse bisogno di così tante mappe, soprattutto perché
alcune rappresentavano l’Europa, l’Asia e il Sud America
oltre agli Stati Uniti e il Canada. Avevamo sei giorni per trovare i
termini per negoziare con i cacciatori e lui se ne veniva fuori con
un’improvvisa voglia di studiare la geografia mondiale.
Dopo il nostro litigio del giorno prima ero quasi certo di aver
rovinato definitivamente il nostro già precario rapporto, invece
me l’ero ritrovato davanti a scuola alla fine delle lezioni,
pensieroso e taciturno, ma meno rabbioso del previsto. La prospettiva
di un’altra guerra contro i cacciatori doveva aver messo a tacere
anche il suo orgoglio prorompente portandolo a riconsiderare la nostra
alleanza. Temevo ancora che sarebbe stata solo una tregua temporanea,
il tempo di risolvere con Colin, poi sarebbe tornato sospettoso e
impietoso nei miei confronti, ma intanto avevo guadagnato un accenno di
possibilità.
Sollevai dubbioso l’angolo di una cartina del nord Europa che
sembrava risalire al secolo scorso. «Non voglio sembrare
scettico, ma…»
«Ma lo sei.» Concluse lui, intento a fissare la porta
d’ingresso del cottage come se questo potesse far arrivare
Scarlett e Matthew prima.
Aveva indetto una riunione di tutto il branco quel pomeriggio, la prima
tra l'altro. Adesso pareva impaziente di cominciare qualunque cosa
avesse in mente.
«Cosa vuoi fare?» Domandai per la terza volta nel giro di
poche ore.
«Ci sono delle cose che devo spiegarvi, cose importanti.»
Mi lanciò un’occhiata da sopra la spalla.
«Aspetteremo gli altri però.»
Annuii tra me e me. «Naturalmente.»
Con i suoi abituali dieci minuti di ritardo, Matthew aprì la
porta del cottage seguito da una Scarlett molto impegnata a non far
cadere il bicchiere di carta e la scatola che aveva in mano.
Ci rivolse un sorriso ampio mentre chiudeva la porta con un calcio.
«Ehilà! Ho portato dei cupcakes.»
Sean inarcò un sopracciglio astenendosi dal commentare. Matthew
si tolse la giacca di jeans lasciandola poi sullo schienale del divano
e si avvicinò al tavolo per osservare con curiosità le
mappe. Anche Scarlett rivolse loro un’occhiata interessata che
poi passò su di me come a chiedere spiegazioni. Mi strinsi nelle
spalle facendo un cenno all’Alpha in piedi a pochi passi da noi.
Lei non si scompose, trovò un angolo libero per posare la sua
scatola e prese un sorso dal bicchiere con la cannuccia nera che
spuntava dal tappo.
«Stiamo cercando la nostra nuova casa?» Domandò
Matthew ancora chino sulle cartine. «Ho sempre voluto visitare la
Tailandia, dite che è un buon posto per nascondersi da dei
cacciatori psicopatici?»
«Non scapperemo da nessuna parte.» Lo rimbeccò Sean
in tono severo. «Di recente ho… uhm, avuto modo di
riflettere sul fatto che tutti avete molte mancanze per quanto riguarda
la licantropia e tutto quello che le ruota attorno.» Mentre
parlava, per un attimo il suo sguardo si posò su di me.
«Ho deciso di rimediare.»
Tutti i rumori nella stanza cessarono di colpo. Matthew smise di
sfogliare le carte, Scarlett smise di bere e io continuai a fare quello
che avevo fatto fino a quel momento: osservare Sean cercando di
interpretare le sue intenzioni, anche se con scarso successo.
«Facciamo lezione di… licantropia?» Chiese Scarlett,
gli occhi che brillavano di curiosità.
Sean annuì. «Una specie. Per essere un braco come si deve
dovete sapere cosa comporta essere un licantropo, ma anche qualcosa
sulla nostra storia.» Accennò al tavolo.
«Sedetevi.»
Matthew e Scarlett si accomodarono subito, evitando la sedia a
capotavola su cui Sean aveva posato la sua giacca. Mi ci volle un
secondo buono per realizzare quello che aveva detto. Scarlett si
schiarì rumorosamente la gola richiamandomi alla realtà e
solo allora mi decisi a prendere posto a mia volta dalla parte opposta
del tavolo.
Sean rimase in piedi, si avvicinò a noi e con delicatezza
estrasse una cartina dal mucchio distendendola poi sopra le altre.
Rappresentava l’Europa odierna, ogni stato era di un colore
diverso, le capitali e le città più importanti erano
scritte in uno stampatello efficiente e preciso.
«Penso che tutti voi sappiate che i licantropi sono originari
della Romania, più precisamente della Transilvania.»
Esordì tracciando con le dita un cerchio leggero intorno alla
zona corrispondente. «Su questo le varie leggende e racconti
dicono il vero, i primi casi di licantropia sono registrati qui. Ancora
oggi, la maggior parte dei lupi vivono nell’Europa
dell’est. Un numero consistente di noi vive anche in
Inghilterra.»
«Come in quel film? Com’era il titolo, Un lupo mannaro americano a Londra?»
Si intromise Matthew guadagnandosi una gomitata da parte di Scarlett.
Sean sospirò. «No. A dir la verità pochi licantropi
vivono a Londra, le comunità maggiori sono nel nord della Gran
Bretagna, in Galles e in Scozia. Ci sono un paio di branchi anche in
Irlanda. Nel resto dell’Europa si conta qualche altra presenza,
c’è un branco piuttosto consistente nel sud della Spagna e
uno in Austria.»
Tra gli strati di mappe trovai una penna; cominciai a rigirarmela tra
le dita mentre riflettevo. «Da come ne parli sembra che ci siano
pochi lupi nel mondo.»
«Esatto.» Confermò lui, la voce calma e neutra.
«I cacciatori sono convinti che i lupi mannari prenderanno il
controllo e soggiogheranno gli umani senza il loro intervento, ma siamo
molti meno di quello che pensano. Quando parlo di branchi mi riferisco
a gruppi di dieci lupi, o comunque poco più grandi. Uno dei
più numerosi si trova a Washington, conta quattordici
membri.»
«Quanti licantropi vivono negli Stati Uniti?» Volle sapere
Scarlett avvolgendo le dita intorno al suo bicchiere.
Sean si appoggiò al bordo del tavolo con entrambe le mani.
«Non conosco il numero preciso, ma molti meno di quelli che ti
aspetteresti. Seattle da sola arriva a malapena a settanta lupi. Per lo
più vivono a nord, nelle zone delle capitale e negli stati
limitrofi.»
Quasi senza pensarci, tirai fuori il quaderno di matematica dallo
zaino, lo capovolsi e cominciai a scrivere sulle ultime pagine.
«È un po’ come se foste una minoranza etnica.»
«Uhm, sì.» La voce di Sean suonò incerta.
«Non è l’esempio che avrei usato, ma sì. Le
persone hanno un’immagine distorta di noi, soprattutto i
cacciatori. Ci credono un’orda di creature demoniache assetate di
sangue.» Le sue labbra di arricciarono appena in una smorfia nel
pronunciare le ultime parole.
«Perché siete… siamo così pochi?»
Intervenne Scarlett. «Voglio dire, se basta mordere una persona
per trasformarla, perché nessuno ha cercato di incrementare il
numero di lupi?»
Lui incrociò le braccia al petto. «Non è
così semplice. Il solo morso non basta, ci sono molti altri
fattori in gioco che portano alla trasformazione. È
un’arma a doppio taglio, può innescare il meccanismo
giusto e creare un nuovo licantropo o può avere… effetti
collaterali.»
Sollevai lo sguardo su di lui, incuriosito. «Effetti
collaterali?»
«Non tutti quelli che vengono morsi si trasformano. A volte il
corpo umano reagisce difendendosi e facendo partire una sorta di
contrattacco. Non è il termine adatto, ma diciamo che una volta
che si viene morsi le cellule umane interessate cominciano a
mutare.» Spiegò Sean dopo aver lanciato un’occhiata
critica al mio quaderno. «A questo punto, è
l’organismo a controbattere cercando di combattere questo
cambiamento e di fermarlo, lo percepisce come un virus,
un’infezione che deve essere debellata.»
«I licantropi sono più forti degli umani, quindi anche le
loro cellule lo sono. Il corpo di una persona non può
semplicemente fermarle… giusto?» Dedussi mordicchiando il
tappo della penna.
Sean fece un cenno d’assenso nella mia direzione. «Esatto.
La risposta delle cellule umane è immediata, ma inutile.
L’unico risultato che ottengono è indebolirsi in modo
molto grave. Chi viene morso e non si trasforma subisce ripercussioni
fisiche di grande portata, al pari di quelle di un cancro o della
leucemia. Il corpo impiega troppe risorse per combattere le cellule che
stanno cambiando, riesce in qualche modo a frenare la trasformazione,
questo sì, per farlo però si sfinisce al punto da
rimanere invalido in modo permanente.»
Scarlett ritrasse le mani dal bicchiere come si fosse scottata,
l’espressione sconvolta. «E come… come funziona
allora? Mordete gente a caso sperando che il loro corpo reagisca
bene?»
C’erano mille altre domande ad affollarle la mente, lo si
percepiva dal suo sguardo tormentato. Non era difficile intuire a cosa
stesse pensando, cosa quelle informazioni avessero risvegliato in lei.
E doveva averlo notato anche Sean, perché i suoi occhi si
incupirono; adesso assomigliavano a due schegge di vetro opaco.
«No, questa è solo una delle tante variabili che entrano
in gioco quando si parla di trasformazione.» Disse addolcendo la
voce. «Si devono considerare anche il sistema immunitario, le
condizioni di salute, persino le allergie possono influire. E il DNA.
Se vieni morso da un lupo qualunque le probabilità che ti
trasformi sono basse, soprattutto se questo lupo è stato morso a
sua volta. Se è un licantropo dalla nascita allora la
situazione… migliora un po’.»
Lei strinse le labbra riducendole ad una linea stringendosi le braccia
al petto con forza. «Mmh. Non hai ancora risposto alla mia
domanda.»
Sean espirò piano. «Gli Alfa sono i lupi più capaci
di trasformare, per ovvie ragioni. Un Alfa che è licantropo di
nascita ha circa l’ottanta per cento di possibilità di
creare un lupo. Siamo in grado di percepire quando una persona
può reggere il morso, non con assoluta certezza, ma
quasi.»
Scarlett annuì dopo aver esitato per un attimo. Un angolo della
sua bocca si contrasse appena, quasi avesse voluto parlare ancora.
«È per questo che hai morso Scarlett?» Mi sentii
chiedere pur senza aver deciso di farlo.
Mi ritrovai al centro dell’attenzione di tutti, tre paia di occhi
mi fissavano con sorpresa. Nessuno, neanche io, si aspettava una
domanda del genere da me. Sean afferrò il bordo del tavolo con
un mano osservandomi senza preoccuparsi di nascondere il suo interesse.
«Sì, è stato puro istinto.» Si strinse nelle
spalle, ma quel gesto non sminuì le sue parole. «Quella
notte è stato qualcosa che va oltre l’umano a portarmi a
morderla. È difficile da spiegare, semplicemente sapevo
che avrebbe reagito bene.» Spostò la sua attenzione su
Scarlett. «E posso dire che è stata una buona
scelta.»
«Lo dici solo perché ho portato la merenda.»
Borbottò lei, eppure si vedeva che quell’ultima frase le
aveva fatto piacere.
Lui si concesse un breve sorriso appena accennato, prima di tornare
serio. «I lupi sono animali sociali, fatti per vivere in branco.
Cercano in modo automatico di unirsi ad un gruppo o di crearne uno. Non
sempre risulta facile convivere e collaborare, soprattutto per creature
dalle tendenze irascibili. È a questo che servono gli
Alfa.»
«Per questo motivo i branchi non sono molto grandi né
molto comuni, giusto?» Intervenne Matthew, che fino a quel
momento si era limitato ad ascoltare.
«Mm-mm. Non è
facile far stare insieme un gruppo di licantropi, spesso si creano
conflitti per questioni stupide o per eccessi d’orgoglio. Diciamo
che siamo anche noi stessi la causa della scarsità di lupi,
spesso e volentieri non siamo in grado di gestirci e attiriamo
l’attenzione dei cacciatori.» Confermò Sean, le dita
che tamburellavano sulla superficie del tavolo. «Ho visto interi
branchi sterminati per questa ragione.»
Rilessi gli appunti che avevo scarabocchiato mentre lui parlava.
«Quindi i lupi vogliono una sorta di comunità, ma hanno
bisogno di una guida, qualcuno che dia loro disciplina e
sicurezza.»
Sean inarcò le sopracciglia. «Sì, ma che diavolo
stai scrivendo?»
Gli lanciai un’occhiata di sottecchi. «Uhm, niente, prendo
qualche appunto, mi aiuta a pensare.»
Lui aggrottò la fronte inclinando la testa di lato ricordandomi
l’espressione che faceva Cora quando voleva mangiare.
«Okay, perché no? A questo punto dobbiamo impiegare ogni
risorsa che abbiamo.»
«È per via dell’ultimatum di Colin che hai
organizzato questa… lezione?» Chiese Scarlett guardandolo
con una certa insistenza.
«Ci servono idee per concludere quest’accordo, ma per
crearne abbiamo bisogno di avere tutte le carte in tavola. Adesso
sapete di più sui licantropi, avete più elementi in mano
per cercare una soluzione.» Spiegò lui. «Essere
disinformati è solo dannoso.»
«È questo il problema con i cacciatori,» Commentai
ripassando la parola “branco” che aveva appuntato al centro
della pagina, «sono disinformati riguardo ai licantropi e al loro
stile di vita. Da quel che ho visto ho l’impressione che neanche
si facciano troppe domande su come vivete o sulla vostra
gerarchia.»
Matthew si passò una mano tra i capelli disordinati. «Non
si sono mai soffermati a pensare ad una cosa del genere, sanno solo che
i lupi sono pericolosi e che devono essere sterminati. Anche io ho
visto fin troppi licantropi morire senza una buona ragione.»
«È per questo che siamo qui, per escogitare una strategia
contro Colin e il suo gruppo.» Convenne Sean e c’era una
nuova luce ad animargli lo sguardo.
Mordicchiai la penna osservando il foglio davanti a me. «Hai
detto che ai lupi serve una guida per tenerli uniti e hai anche detto
che a Seattle non ce ne sono molti.»
«Non stai suggerendo quello che penso io, vero?» Mi
ammonì lui con aria cauta.
«È una città grande, ma tu hai diverse conoscenze,
no? Se riusciamo a coinvolgerle possiamo coprire zone molto più
ampie…» Cominciai cercando una mappa di Seattle tra tutte
quelle sparse sul tavolo.
Sean sbuffò scuotendo la testa. «Sarebbe una follia. Come
pensi di convincerli? Portando loro dei cupcakes?»
«Prima cosa, non sottovalutare i cupcakes. Seconda cosa, si
può sapere di che state parlando?» Sbottò Scarlett
alternando lo sguardo tra me e lui.
«Creare un branco unico che comprenda tutti i lupi di
Seattle.» Rispose il suo Alfa prima di sfilare una cartina da
chissà dove e mettermela davanti. «Ecco di cosa stiamo
parlando.»
Fui meno sorpreso del previsto nel notare che la mappa che aveva
trovato era proprio quella che stavo cercando. «Può
funzionare. Settanta lupi non sono la fine del mondo, in qualche modo
possiamo unirli.»
«I licantropi di Seattle sono piuttosto tranquilli, no? In tutti
gli anni che ho vissuto qui non ho mai sentito parlare di attacchi
durante i pleniluni né di risse.» Si intromise Matthew.
«Sono abbastanza intelligenti da capire che non devono esporsi,
di questo dobbiamo rendergliene atto.» Commentò Sean con
una piccola smorfia. «Ma creare un branco di settanta licantropi
resta un’impresa da pazzi.»
Lo guardai negli occhi, quasi sfidandolo a distogliere lo sguardo.
«Troveremo un modo per farlo funzionare. Se ci riusciamo, i
cacciatori non avranno più ragione di stare qui.»
«Noi licantropi cerchiamo per istinto un gruppo a cui
appartenere, se ne creiamo uno che abbia te come leader accontenteremo
tutti, cacciatori e lupi.» Convenne Scarlett sporgendosi in
avanti. «I licantropi avranno un branco e saranno sotto
controllo, è perfetto.»
«Ho deciso di tornare perché tu
eri in pericolo, non perché volevo una responsabilità del
genere.» La voce di Sean aveva assunto una nota più cupa.
«Questo è troppo. Una cosa è fare un accordo con i
cacciatori per tenere al sicuro voi, un’altra prendersi sulle
spalle un’intera città.»
Mi mordicchiai il labbro sentendo i sensi di colpa pugnolarmi. Sean era
scaltro e cauto, avrebbe trovato un modo per gestire un branco di
quelle dimensioni, ma non potevo chiedergli di farlo contro il suo
volere. Era ricomparso dopo cinque anni per salvare la vita di Scarlett
e aveva deciso di restare solo per lei, era probabile che, una volta
sistemata la questione con i cacciatori ed essersi assicurato che lei
sapesse gestire la propria licantropia sarebbe, scomparso di nuovo.
Perché avrebbe dovuto rimanere? Non aveva legami qui, poteva
andarsene per cercare qualcosa di meglio per se stesso, che motivo
aveva di correre un rischio così grande? Ma era l’unico
modo per battere i cacciatori in modo permanente.
Trassi un respiro profondo prima di parlare. «Pensa se, anni fa,
tu avessi trovato un posto come questo, una città priva di
cacciatori, un branco che poteva accoglierti, anche solo
temporaneamente. Un luogo dove sentirti al sicuro e prendere un
po’ di respiro.»
Sean strinse il tavolo con più forza, fino a far sbiancare le
nocche. «Non usare il mio passato contro di me. Posso sorvolare
su molte cose, ma non su questa.»
«Non è quello che sto facendo, sto cercando di farti
vedere le cose da un altro punto di vista.» Replicai abbassando
appena la voce. «Puoi, possiamo fare grandi cose se lavoriamo
insieme, questo branco può essere un ottimo punto di
partenza.»
«È una buon’idea, risolverebbe tutto e ci metterebbe
in un’ottima posizione, un po’ esposta forse, ma non
saremmo soli.» Disse Matthew lanciando un’occhiata a me e
Scarlett. «È a questo che serve un branco, no?»
«Se dovessi accettare…» Iniziò Sean, la
mascella serrata e i muscoli tesi.
«I grandi imperi non nascono dai “se”.»
Intervenne Scarlett. Rendendosi conto di avere gli occhi di tutti su di
sé, scrollò le spalle. «L’ha detto oggi il
mio professore di storia e credo che abbia ragione. Napoleone non si
è fatto fermare da qualche dubbio, ha perseverato. Certo, alla
fine è stato esiliato ed è morto in solitudine, ma prima
ha fatto grandi cose.»
«Anche Carlo Magno.» Aggiunse Matthew annuendo. «E
Carlo V. Forse dovresti cambiare nome in Carlo…»
Sean si massaggiò le tempie sbuffando piano. «Potete
tornare seri, per favore?»
«Sono seria!» Esclamò Scarlett con enfasi.
«Napoleone e Carlo Magno erano coraggiosi e determinati, hanno
lasciato il segno nella storia. E credo che l’abbia fatto anche
l’altro Carlo, ma non me lo ricordo… Comunque, il punto
è che tu puoi essere come loro, se non migliore. Mi hai salvato
la vita, Sean, sei coraggioso e determinato anche tu. E poi, non sei da
solo.»
«Oh sì, ho un diciassettenne testardo e con poco senso di
autoconservazione ad aiutarmi, come sono fortunato.»
Borbottò Sean incrociando le braccia al petto.
Mi lanciò un’occhiata inarcando un sopracciglio e dal suo
sorrisetto appena accennato intuii che la mia espressione era
più indignata di quanto credessi.
«Pensa a noi che dobbiamo collaborare con un licantropo con
tendenze lunatiche e che risponde a monosillabi.» Replicai
sollevando il mento.
Matthew appoggiò i gomiti sul tavolo. «Va
bene, va bene, abbiamo tutti dei difetti. Torniamo a noi adesso. Se
lavoriamo insieme e ci organizziamo come si deve possiamo farcela,
però dobbiamo essere tutti d’accordo. Proporrei una
votazione, chi è a favore di creare un unico branco per tutta
Seattle?»
Scarlett e io alzammo le mani nello stesso momento, subito seguiti da
Matthew. Ci voltammo a guardare Sean, in attesa: noi da soli eravamo
già la maggioranza, ma senza di lui non avremmo potuto fare
assolutamente nulla.
«Se vogliamo farlo sul serio, abbiamo sei giorni per metterlo a
punto.» Mormorò e per la prima volta da quando
l’avevo conosciuto apparve vulnerabile, esposto.
Annuii ricambiando il suo sguardo. «Diamoci da fare
allora.»
«Prima mangiamo però, sto morendo di fame.» Si
intromise Scarlett riprendendo la sua scatola. «Ho preso i
cupcakes ai mirtilli.» Aggiunse sollevando il coperchio con
espressione soddisfatta.
Matthew si sporse a sbirciare da sopra la sua spalla con aria
interessata. Sean scosse la testa lasciandosi sfuggire un mezzo
sorriso. Posai la penna e trassi un respiro profondo: avevamo ancora
delle questioni in sospeso, questioni che volevo chiarire anche se mi
spaventavano.
«Possiamo parlare un attimo?» Gli chiesi alzandomi.
Mi guardò annuendo appena. Ci spostammo vicino alle scale di
legno che salivano al secondo piano lasciando Scarlett a battibeccare
con Matthew su come dovevano dividersi i dolci; c’era una
distanza vagamente imbarazzata tra noi, come se entrambi stessimo
ripensando alle accuse che ci eravamo rivolti solo il girono prima.
Mi schiarii la gola. «Vuoi ancora buttarmi fuori dal
branco?»
Si passò la lingua sul labbro prendendosi qualche secondo per
rispondere. «Hai messo molto impegno in questo progetto, sei
stato tu a dargli il via, sarebbe egoistico e ipocrita da parte mia
cacciarti senza riconoscerti i tuoi meriti.»
Rimasi in attesa, il cuore che mi batteva frenetico contro le costole.
E lui doveva averlo notato, per forza. Ci tenevo più di quanto
avessi ammesso con me stesso, me ne rendevo conto solo ora.
«Puoi restare.» Mormorò infine Sean. «Ci tieni
a lei, non faresti mai niente per ferirla.»
A dir la verità, la sua affermazione era un po’ riduttiva.
Non avevo proposto l’accordo solo per Scarlett, forse
all’inizio era stato così, ma adesso, dopo aver
imparato di più sui licantropi e soprattutto sulle persone che
costituivano quel nostro branco improvvisato, proteggerlo era
più di un semplice tornaconto personale.
Abbassai lo sguardo mordendomi l’angolo del labbro.
«Già… ma non è solo per lei.»
«So che conosci Matt da molto tempo, però tutto questo
è partito per Scarlett, per salvare lei. Mi è sembrato
ovvio che fosse quella la ragione principale.» Rispose Sean
stringendosi nelle spalle.
«E tu? Non pensi che ci sia qualcuno che si preoccupa per
te?» Le parole sgusciarono fuori prima che potessi fermarle.
Trattenni il fiato d’istinto, mi aspettavo un commento evasivo e
affilato ad una domanda del genere.
Lui rimase calmo, del tutto a suo agio. «Seattle non è la
mia città, non c’è nessuno qui per me. E va bene
così.»
Dovetti mordermi la lingua per non aggiungere nient’altro. La sua
voce aveva una vaga nota di rassegnazione che gli avevo già
sentito usare, non sentiva di meritarsi niente da nessuno; se aveva
bisogno di qualcosa o di qualcuno non avrebbe chiesto aiuto, si sarebbe
arrangiato da solo.
«Avremo molto lavoro da fare, ragazzino, pensi di essere
pronto?» Domandò, gli occhi di una sfumatura di verde
più chiara adesso, meno torbida.
Lanciai un’occhiata a Scarlett: si era seduta sul bordo del
tavolo mentre mangiava con evidente soddisfazione uno dei suoi
cupcakes. Sorrideva, era bella e spontanea e degna di vivere. Ne valeva
la pena, anche solo per vederla sorridere di nuovo in quel modo.
«Sì, penso di sì.» Dissi senza distogliere lo sguardo da lei. «Dobbiamo esserlo.»
SPAZIO AUTRICE: Sono in super ritardo con questo aggiornamento,
lo so, ma questo capitolo è stata una vera e propria impresa da
scrivere: ci avviciniamo alla fine della storia, tra meno di cinque
capitoli sarà conclusa, e voglio fare le cose per bene per
questo probabilmente mi servirà più tempo.
Vi chiedo un po' di pazienza in più, che spero tanto di riuscire a ripagare dandovi un bel finale <3
Nel frattempo, che ne pensate di questo nostro branco un po'
improvvisato? Sean sta facendo un buon lavoro nel suo ruolo di Alfa?
Riusciranno a trovare un accordo con Colin e i suoi cacciatori? Sono
curiosa di sapere che ne pensate **
Grazie per aver letto anche questo capitolo, a presto! (Almeno spero...)
TimeFlies
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Capitolo 39 *** 39. Scarlett ***
Under a paper moon- capitolo 39
39. Scarlett
Dopo un’intensa
mattinata a scuola passata a cercare di convincere la professoressa di
matematica del fatto che mi stessi impegnando per migliorare e a
improvvisare parole in francese per sopperire al mio scarso
vocabolario, tutto quello che volevo era andarmene a casa e mangiare
qualche schifezza fin troppo dolce comodamente sdraiata sul divano.
Qualcosa però mi diceva che Sean e Adam, appostati davanti all’ingresso della scuola, la pensavano diversamente.
Mi avvicinai, cauta, tendendo l’orecchio per captare qualche
frammento della loro conversazione. Non appena mi vide - e mi
notò quasi subito - Sean si interruppe portando anche Adam a
voltarsi. Formavano una strana accoppiata: uno biondo e l’altro
quasi moro, uno in giacca di pelle e l’altro con una semplice
felpa, uno sempre in allerta e l’altro perso nei propri
ragionamenti. Eppure in qualche modo funzionavano, perché la
tensione tra loro era diminuita di molto e anzi, adesso sembravano a
proprio agio insieme.
Li raggiunsi ritrovandomi a sorridere. «Ehi. Cos’è,
un’altra riunione del branco?»
«È più una missione in realtà.»
Commentò Sean incrociando le braccia al petto.
Mi voltai in automatico verso Adam sperando che lui fosse meno
criptico. Ma lui si limitò ad alzare le mani. «Ne so
quanto te, Scar.»
«Quindi niente.» Borbottai scocciata prima di scoccare
un’occhiataccia a Sean. «Non credi sia il caso di essere un
pochino meno misterioso visto che abbiamo sei giorni per trovare un
accordo con i cacciatori?»
La sua unica reazione fu un movimento del sopracciglio. «Oh
sì, hai ragione, dovrei andarmene in giro a dire a tutti che
Seattle è sull’orlo di una guerra tra creature
soprannaturali e cacciatori.»
Rimasi spiazzata da quella che doveva essere solo una battuta. Quanta
verità c’era in quelle parole? Rischiavamo davvero uno
scontro o aveva solo ingigantito la cosa? «Potrebbe succedere
davvero? Potrebbe esserci una guerra?» Chiesi sentendo il tremore
nella mia stessa voce.
Adam abbassò lo sguardo stringendo le labbra e colsi Sean
lanciargli un’occhiata che non riuscii ad interpretare. Avevo la
netta impressione che mi stessero nascondendo qualcosa, magari senza
cattive intenzioni, forse volevano solo proteggermi. Eppure non potevo
fare a meno di sentirmi tradita, almeno un po’. Volevo essere
coinvolta all’interno del branco e nella ricerca di una
soluzione, avevo il diritto e il dovere di esserlo.
«Sì.» La voce del mio Alfa era chiara, limpida.
«Potrebbe succedere. Anzi, sono abbastanza sicuro che sarà
così se non interveniamo. Per questo oggi andremo da delle mie
vecchie conoscenze: se giochiamo bene le nostre carte abbiamo una
possibilità.»
«Dobbiamo almeno tentare.» Aggiunse Adam, quasi a dargli
manforte.
Annuii con forza. «Okay, facciamolo. Ma prima, devo mangiare
qualcosa.»
Due sguardi, uno azzurro e l’altro verde, si spostarono su di me,
perplessi. Da parte mia, io sollevai il mento mettendo in chiaro che
quello era un punto su cui non volevo cedere: potevo affrontare tutto,
o quasi, per proteggere la mia città e le persone a cui tenevo,
però sarei stata in grado di farlo solo a stomaco pieno.
«Io ho una mela, se ti va.» Tentò Adam.
Mi lasciai sfuggire una smorfia. «Uhm, senza offesa, ma avevo in
mente qualcosa di più dolce e calorico.»
Sean sbuffò. «Va bene, ti compreremo del gelato mentre
andiamo. Contenta?»
Sorrisi compiaciuta. «Sì, decisamente.»
L’auto di Sean - come disse lui stesso - era una Chevrolet Camaro
del 2009 nera e lucida. Da come la guardava, sembrava esserne molto
fiero e anche un po’ geloso. Sfiorò la carrozzeria senza
pensarci, quasi la stesse accarezzando, e rivolse a me e Adam uno
sguardo d’avvertimento che racchiudeva un avviso implicito:
rovinatela e vi uccido.
Dovevo ammettere che era una bella macchina, aveva le linee sinuose ma
non troppo eleganti che le davano un tocco più aggressivo che si
addiceva al proprietario. O almeno, era quello che riuscivo ad
interpretare data la mia scarsa conoscenza di auto.
Sean prese posto al volante con movimenti spontanei e sicuri, quasi non
avesse fatto altro in tutta la vita. Adam si sedette accanto a lui
sotto il suo sguardo vigile e gli passò la mela che l’Alfa
aveva deciso di reclamare mentre camminavamo verso la macchina.
Io mi appostai sui sedili posteriori e scivolai al centro per avere una
visuale pulita della strada. «Niente Matthew?»
Adam scosse la testa incrociando il mio sguardo nello specchietto
retrovisore. «Il suo gatto si è sentito male, è dal
veterinario adesso.»
«Oh...» Mormorai prima di stringere le labbra. «Mi dispiace. Spero si... rimetta presto.»
Sean diede un morso alla mela prima di mettere in moto l'auto. Il
motore prese vita con un ruggito soffuso. «Se la caverà,
quel gatto ha letteralmente nove vite.»
«Comunque, puoi almeno dirci in che zona di Seattle andiamo o
deve rimanere un mistero anche quello?» Domandò Adam con
una punta di irritazione. Non sapere qualcosa doveva essere piuttosto
frustrante per lui, abituato com’era ad avere sempre tutti gli
elementi in mano per poter riflettere e farsi una sua idea. Essere
tenuto all’oscuro era una tortura per lui.
Sean ingranò la marcia. «Andiamo
ad incontrare delle mie vecchie conoscenze, lupi che ho conosciuto
quando arrivai a Seattle.»
Quelle parole catturarono la mia attenzione facendomi dimenticare
persino del gelato che mi era stato promesso. «Incontreremo altri
licantropi?»
Sean mi lanciò un'occhiata mentre usciva dal parcheggio della scuola. «Mm-mm.
Loro possono aiutarci a mettere insieme un unico branco che comprenda
tutta la città.»
Al suo fianco, Adam si irrigidì e sentii il suo battito cardiaco
accelerare. Doveva averlo notato anche Sean, perché lo
scrutò per un attimo senza darlo a vedere.
«Sono brave persone.» Disse con voce più dolce.
«Aiutano chi è in fuga dai cacciatori, chi ha bisogno di
un posto dove riprendere fiato. Fino a cinque anni fa gestivano un
locale che era un po’ un punto di riferimento per i lupi di
Seattle.»
«Quindi tu non li vedi da cinque anni?» Chiese Adam tenendo
gli occhi fissi sulla strada.
Un angolo della bocca dell’Alfa si contrasse appena.
«Beh… sì. In realtà qualche volta ho avuto
occasione di vederli e scambiarci due parole, ma niente di che.»
«E adesso stiamo andando da loro per creare un branco di settanta
lupi.» Mormorò il ragazzo prima di espirare.
Sean strinse appena di più il volante. «Funzionerà.
A meno che non siano privi di intelligenza capiranno quanto è
importante unirci per battere i cacciatori.» Staccò un
altro morso alla mela. «E poi, il piano è tuo, ragazzino,
dovresti essere il primo a crederci.»
Adam si mordicchiò il labbro. «Lo so, lo so. Solo che non
mi aspettavo che succedesse così… in fretta. Pensavo che
avremmo avuto più tempo per organizzarci.»
«Magari questo è l’impulso che ci serve, ci
aiuterà a risolvere la questione una volta per tutte.»
Intervenni cercando di riportare un po’ di ottimismo.
Sean annuì, sorprendendomi. «Sì, ha ragione. Adesso
non abbiamo scelta, se non farlo funzionare. Ed è esattamente
quello che faremo.»
Il resto del viaggio fu più piacevole del previsto. Sean sapeva
gestire con grande naturalezza una macchina grande e potente come la
Camaro, anche nelle manovre più azzardate che gli facevano
guadagnare occhiatacce da parte di Adam.
Quest’ultimo aveva tentato in tutti i modi di scucire più
informazioni riguardo gli altri lupi che avremmo incontrato al nostro
Alfa, senza tanto successo però. Mentre loro due battibeccavano
sui limiti di velocità e la mancanza di dettagli riguardo la
nostra missione, io passai il tempo a fantasticare su come sarebbe
stato incontrare altri licantropi, entrare in contatto con
l’altra parte di me e scoprirne di più.
Avevo avuto a che fare solo con Sean fino a quel momento che, pur
essendo un ottimo insegnate, era piuttosto taciturno e restio a parlare
della sua licantropia. E io morivo dalla voglia di sentire altri
racconti ed esperienze, di confrontarmi con persone che erano come me.
Prima di allora non ci avevo mai pensato, ma adesso mi rendevo conto di
quanto avrebbe potuto essermi utile.
Dopo una ventina di minuti, Sean parcheggiò l’auto davanti
ad un edificio di mattoni rossi ad un solo piano che si ergeva in uno
dei quartieri nord di Seattle, vicino alla costa. C’erano altri
palazzi lì intorno, condomini e qualche attività
commerciale più un parco dall’aria un po’
trascurata.
Sean lanciò un’occhiata ad Adam e scese dall’auto.
Noi due lo seguimmo subito, ansiosi di scoprire cosa ci attendeva.
Sopra la porta dell’edificio c’era un’insegna bianca
sbiadita che recitava “Luna di carta”
in un corsivo tutto riccioli. Sentii un brivido di eccitazione
sfiorarmi la schiena e contagiare anche il mio lupo: quel posto poteva
essere la chiave per capire meglio chi ero e accettarlo fino in fondo,
diventarne più consapevole. Poteva darmi tutte le risposte che
cercavo.
Sean ci fece cenno di seguirlo prima di avviarsi verso l’ingresso
affondando le mani nelle tasche della giacca. Adam, il battito del
cuore ancora in subbuglio, mi affiancò mentre camminavamo dietro
all’Alfa. Raggiunse per primo la porta e ci aspettò prima
di aprirla per farci entrare.
La prima cosa che mi colpì fu l’odore che riempiva
l’aria, un mix di legno e spezie con una nota dolciastra che si
sentiva appena. Subito dopo il rumore mi riempì le orecchie:
una moltitudine di voci, alcune più basse e pacate, altre alte e
rimbombanti, risuonava nell’ampia sala davanti a noi insieme al
tintinnio dei bicchieri, allo strusciare delle sedie sul pavimento,
alle risate secche o prolungate.
La stanza era piena di tavoli di legno di varie forme e dimensioni che,
nonostante le differenze, si abbinavano bene tra loro, un connubio
eclettico come quello delle persone che li occupavano: c’erano
ragazzi e uomini di mezz’età, giovani donne e signore,
gente solitaria e gruppi numerosi, accenti del nord, del sud e di altri
paesi. Avevano tutti un’unica cosa in comune: erano licantropi,
dal primo all’ultimo.
Rimasi disorientata per un attimo, la mente in tumulto che straripava
di informazioni. Percepivo così tanti lupi intorno a me da
faticare a respirare, li sentivo prima uno ad uno, poi tutti insieme,
muoversi, fremere, agitarsi e vivere sotto la pelle di quelle persone
all’apparenza così normali.
Mi sembrava di essere un cucciolo eccitato adesso, ma non riuscivo a
frenare l’entusiasmo. Per anni avevo creduto di essere una specie
di scherzo della natura, un mostro a volte, e ora… ora ero
circondata da altri come me, uomini e donne, ragazzi e ragazze che
potevano capirmi e che condividevano i miei stessi problemi e poteri.
«Rimanetemi vicino.» La voce bassa ma autoritaria di Sean
interruppe il flusso frenetico dei miei pensieri riportandomi alla
realtà.
Mi accorsi solo in quel momento che le voci si erano ridotte ad un
brusio dai toni concitati e che molti ci fissavano con sospetto.
Deglutii ricambiando qualche occhiata, il calore fin troppo familiare
dell’imbarazzo che mi saliva alle guance. E tanti saluti al
proposito di fare una buona impressione.
«Andiamo.» Aggiunse Sean, questa volta con una punta di
urgenza. Lo seguimmo attraverso la stanza, scansando tavoli e sedie e
cercando di ignorare le occhiate diffidenti che sentivamo sulla
schiena. Passammo accanto ad un bancone di legno lucido davanti al
quale erano allineati degli sgabelli in metallo; dall’altra
parte, un ragazzo giovane dai capelli neri tagliati corti stava
passando uno straccio sulla superficie lignea, ma la sua mano si
fermò quando gli fummo vicini. Indossava una camicia bianca con
le maniche arrotolate e un gilet nero gessato. I suoi occhi scuri ci
studiavano cauti, anche se meno guardinghi degli altri.
Distolsi lo sguardo da lui giusto in tempo per vedere una donna alta e
longilinea che ci veniva incontro. La sua pelle era olivastra, di una
calda sfumatura dorata che faceva risaltare le iridi castane. Una massa
di riccioli scuri le sfiorava le spalle sottili coperte da una camicia
larga lasciata aperta su una canottiera. Una piccola cicatrice bianca
le attraversava il sopracciglio rendendo più interessanti i
lineamenti eleganti del suo viso.
Le labbra carnose si schiusero in un sorriso radioso. «Sean
Leblanc. Bentornato.» Esordì aprendo le braccia.
«Non pensavamo di vederti di nuovo da queste parti.»
Contro ogni mia aspettativa, Sean ricambiò il sorriso.
Ovviamente a modo suo, ovvero sollevando solo un angolo della bocca.
«Dawn Johnson. Non è cambiato niente qui, mmh?»
«Perché dovremmo cambiare qualcosa che funziona
così bene?» Replicò lei, un lampo che le
attraversava lo sguardo. Come tutti gli altri, era una lupa. Dalla
sicurezza che trasmetteva pareva che quel locale fosse il suo regno e
lei l’unica ed indiscussa regina. «Come mai qui,
Leblanc?» Chiese osservandoci con discreta curiosità.
«Devo parlarti.» Disse secco lui perdendo ogni traccia di
sorriso.
Dawn inarcò un sopracciglio. «Dritto al punto, come
sempre. Non mi presenti i tuoi accompagnatori prima?» Aggiunse
poi rivolgendo un sorriso gentile a me e Adam.
Sean le comunicò i nostri nomi con fare sbrigativo.
«Possiamo parlare adesso? È piuttosto importante.»
«Naturalmente, andiamo nel mio ufficio. Loro vengono?»
Volle sapere lei in tono gentile.
«Sì.» La risposta di Sean fu immediata, non lasciava
spazio a dubbi.
La donna annuì e ci fece cenno di seguirla fino ad una porta che
si apriva sul muro opposto rispetto all’ingresso. La
spalancò e si infilò dentro, attese che fossimo entrati
tutti prima di richiuderla e riprendere il comando del gruppo. Ci
guidò attraverso un corridoio in penombra con le pareti
ricoperte fino a metà di pannelli di legno. Aprì una
seconda porta alla nostra destra e ci invitò con un cenno del
capo ad entrare. Quando le passai accanto, l’odore agrumato della
sua pelle mi riempì le narici per un attimo, il mio lupo
fremette nel ritrovarsi così vicino al suo, sconosciuto e
misterioso.
Ci ritrovammo in un piccolo ufficio illuminato da una grande finestra
incorniciata da tende azzurre. Davanti a questa c’era una vecchia
scrivania di legno scuro segnato da graffi e ammaccature e la cui
superfice ospitava un quaderno, qualche penna, un raccoglitore da cui
spuntavano dei fogli e una cornice che racchiudeva una foto di qualche
anno prima di Dawn in compagnia di un uomo alto e massiccio con i
capelli castani e un braccio ricoperto di tatuaggi; i due sorridevano e
dietro di loro campeggiava l’insegna, allora nuova e candida, del
Luna di Carta. Accanto alla
porta c’era un divano verde bottiglia con i cuscini schiacciati e
la stoffa sui braccioli lisa dall’usura.
Era una stanza piena di vita e ricordi, avevo l’impressione di
essermi affacciata nella memoria di Dawn e aver carpito qualche
immagine fugace del suo passato.
«Accomodatevi.» Ci invitò mentre girava intorno alla
scrivania per sedersi sulla sedia di pelle dietro di essa.
I suoi movimenti avevano la stessa grazia misurata e precisa che avevo
visto anche in Sean, era attenta a tutto e a tutti, come se fosse in
grado di percepire l’esatta posizione di qualunque essere vivente
intorno a sé. Ero piuttosto sicura di non avere altrettanta
eleganza, di solito inciampavo dappertutto e sbattevo contro ogni
mobile o spigolo, mentre lei… pareva che il mondo si muovesse
per farle spazio.
Sean spostò una sedia che non avevo notato perché era
dietro di noi e la posizionò davanti a me, accanto alle altre
due che già c’erano. Incrociai il suo per un secondo e lui
mi rivolse un breve cenno d’incoraggiamento. Prendemmo posto
tutti e tre davanti alla scrivania su cui Dawn aveva posato i gomiti.
Le maniche della camicia le erano scese lungo le braccia svelando un
intreccio di bracciali di pelle e stoffa colorata che le coprivano i
polsi.
«Allora Leblanc, dritti al punto come piace a te: cosa stai
cercando? Cosa ti ha spinto qui?» Domandò guardando
l’Alfa davanti a sé con interesse.
Sean si appoggiò meglio allo schienale della sedia.
«Voglio mettere su un branco.»
Dawn sollevò entrambe le sopracciglia. «Devo essere
sincera, mi aspettavo che prima o poi avresti deciso di farlo. Ma hai
scelto un momento molto particolare.»
«Che intendi?» Chiese lui, cauto.
La donna sospirò congiungendo le mani e intrecciando le dita. Mi
presi un attimo per osservarla, cogliere la profonda serietà del
suo sguardo in contrasto con la freschezza del viso ancora giovane.
Doveva essere poco più grande di Sean, probabilmente aveva
intorno ai trent’anni. «Non so quanto tu sia aggiornato, ma
negli ultimi due, tre anni l’attività dei cacciatori
è stata molto intensa. Hanno catturato e probabilmente ucciso,
anche se non ne abbiamo le conferme, almeno quindici lupi, se non di
più.» Cominciò, la voce più tesa. «Un
branco di cinque lupi invece ha lasciato Seattle il mese scorso, sono
scesi giù lungo la costa in cerca di un posto sicuro dove
stabilirsi.»
Adam si fece subito più attento a quelle parole. Sean invece
strinse le labbra in una smorfia. Un brivido gelido mi scivolò
lungo la schiena nel sentire quante vittime il gruppo di Colin era
stato in grado di fare. Io stessa sarei potuta rientrare tra quelle
quindici, o portare il numero ad aumentare. Mi strinsi le braccia al
petto affondando le dita nelle maniche del maglione cercando di
scacciare il gelo che sentivo addosso.
«Sì, ho… abbiamo avuto a che fare con i cacciatori
anche noi non molto tempo fa.» Fece Sean. «Non pensavo che
i numeri fossero tanto alti però.»
Dawn sospirò. «Sono stati parecchio attivi
nell’ultimo periodo, ci hanno reso la vita piuttosto complicata.
Ma siamo ancora qui, resistiamo. Non sanno ancora di questo posto, per
fortuna, quando le cose si mettono male possiamo sempre venire
qui.»
«Aspetta.» Mi intromisi sporgendomi in avanti. «Non
reagite? Non… combattete?»
Lei mi guardò piegando appena la testa di lato, perplessa. Nel
suo sguardo color cioccolato colsi un accenno di quella che
assomigliava fin troppo alla pietà. «Combattere? E come?
Loro sono armati fino ai denti, preparati e determinati. Tutto quello
che possiamo fare è cercare di sopravvivere e non attirare
l’attenzione.» Spostò gli occhi su Sean per un
attimo. «Pensavo che te lo avesse insegnato.»
«Non insegno cose in cui non credo.» Replicò il
diretto interessato, la voce neutra, quasi distante.
Dawn strinse le labbra riducendole ad una linea. «Lo sai che
è questa la nostra politica, sono stata chiara fin da subito a
riguardo.»
«Sì, anche io sono stato chiaro riguardo a cosa ne
pensavo.» Disse Sean guardandola dritta in viso. «Ma non
siamo qui per appianare vecchie divergenze di opinione. Abbiamo un
problema in comune, i cacciatori.»
«Pensavo tu fossi venuto qui per reclutare lupi per il tuo
branco.» Rispose lei aggrottando le sopracciglia sottili.
Sean annuì una volta sola. «È tutto connesso, il
mio branco, i cacciatori… è una cosa più grande di
quello che pensi.»
Dawn tirò indietro le spalle, di colpo sospettosa. «Cosa
hai fatto?»
«Ho… abbiamo
cominciato qualcosa che potrebbe risolvere tutti i nostri problemi con
il gruppo di Colin Young.» La voce di Sean era pacata, eppure
riusciva comunque a monopolizzare l’attenzione. «Ti
sembrerà folle e pericoloso, ma è un rischio che dobbiamo
correre.»
Lei si portò una mano al viso e si massaggiò la radice
del naso sospirando. «Okay, Leblanc, mi hai tenuta abbastanza
sulle spine, sputa il rospo.»
L’Alfa spostò per una frazione di secondo lo sguardo su
Adam prima di parlare: «Siamo in contatto con i cacciatori,
stiamo cercando di condurre una trattativa con loro.»
Fui quasi in grado di vedere il lupo di Dawn che si ritraeva mostrando
le zanne di fronte a quelle parole. Lei spalancò gli occhi
trattenendo il respiro, le dita che stringevano il bordo della
scrivania. «Voi cosa? Sei fuori di testa, Sean? Trattare con i
cacciatori? Questo è… è pazzo, un suicidio bello e
buono. Cosa stai cercando di dimostrare così, eh?»
«Sto solo facendo quello che posso per proteggere il mio branco e
questa città.» Tuonò Sean, gli occhi verdi che
brillavano. «Colin riaprirà la caccia tra sei giorni se
non troviamo un accordo, ecco perché sono qui. So che avete
scelto di nascondervi e vivere nell’ombra pur di non attirarli,
però questa strategia non funziona più. Dobbiamo muoverci
adesso e dobbiamo farlo insieme se vogliamo riprenderci questa
città e le nostre vite.»
Dawn scosse la testa portandosi le dita lunghe e affusolate alla
tempia. «Questa è pura follia… Non lascerò
che tu vada a morire così, neanche per sogno. Cinque anni fa ti
ho accolto e ti ho aiutato a rimetterti in piedi, mi rifiuto di stare a
guardare mentre ti fai ammazzare. Un accordo con i cacciatori…
Come se fossero persone con cui si può ragionare. No, tu non
avrai altri contatti con loro, dimenticatelo.»
«Stai cercando di fermarmi?»
Chiese Sean, il tono venato di disprezzo rabbioso. «Pensi davvero
di poterlo fare, Dawn? Porterò a termine questa trattativa, che
tu lo voglia o no. Quello che ne pensi tu è l’ultimo dei
miei problemi.»
Lei sbatté il pugno sul tavolo facendo sussultare me e il mio
lupo. «Sto cercando di proteggerti! E di proteggere loro. Voglio
evitarvi una morte orribile e dolorosa. Fino ad ora hai avuto fortuna,
ma la prossima volta che ti avvicini ai cacciatori potrebbero piantarti
una pallottola in testa senza che tu abbia il tempo di reagire.»
Lui sollevò il mento. «So gestire quella banda di fanatici
dal grilletto facile.»
«E vuoi mettere in mezzo anche loro?» Sbottò Dawn
guardando prima me e poi Adam. «Un conto è rischiare la
tua vita, un altro coinvolgere il tuo branco in un pericolo del tutto
inutile. Se davvero tieni a loro, se vuoi essere un buon
Alfa…»
Un lampo dorato attraversò lo sguardo di Sean. «Non dirmi
come fare l’Alfa, Dawn. Quello che stiamo correndo è un
rischio ponderato, ci abbiamo pensato su a lungo. E in ogni caso,
ancora neanche sai di cosa si tratta.»
Lei buttò fuori l’aria in un sospiro tremante. Di colpo
apparve stanca, provata. Appoggiò un gomito alla scrivania
scrollando le spalle. «D’accordo allora, parla, dimmi qual
è questo grande piano.»
«Vogliamo riunire tutti i lupi di Seattle in un unico branco
guidato da un unico Alfa. Prima di dirmi che sono fuori di testa,
ascolta. Pensi davvero che i cacciatori si metterebbero contro
cinquanta lupi ben organizzati? Siamo più forti di loro, siamo
più numerosi e abbiamo un obbiettivo molto più
importante: vivere.» La voce di Sean era leggermente roca e
appassionata come non l’avevo mai sentita. «Quello che fai
qui è davvero importante, accogliere lupi feriti e spaventati,
aiutarli a tornare in piedi… è ammirevole, davvero. Io
stesso ti sarò sempre grato per ciò che hai fatto per me.
Ma se potessimo eliminare la causa di tutto questo? Se ci fosse la
possibilità di vivere senza doversi preoccupare ogni dannato
giorno di ritrovarsi i cacciatori davanti? Non sarebbe meglio?»
Gli occhi di Dawn erano velati adesso, pareva che fosse lontana anni
luce in quel momento. Le labbra erano schiuse in un’espressione
speranzosa e sofferente al tempo stesso, come se anche la sola idea di
una città senza l’ombra dei cacciatori fosse allettante
eppure troppo assurda per essere davvero presa in considerazione. Si
riscosse quasi subito però, cancellò quel momento di
insicurezza passandosi una mano sul viso. Quando la riabbassò,
era tornata composta e determinata.
Il rumore della porta che si apriva interruppe la sua risposta prima
ancora che potesse cominciare. Ci voltammo tutti verso quel suono, di
nuovo all’erta. Sulla soglia era comparso l’uomo della
fotografia che Dawn teneva sulla scrivania, riconobbi i folti capelli
scuri, il taglio squadrato della mascella e l’intricato intreccio
di tatuaggi che gli riempiva il braccio lasciato scoperto dalla
maglietta a maniche corte. Aveva le spalle tanto ampie da occupare
quasi tutto il vano della porta. Il suo lupo lo rispecchiava, era
guardingo ma non nervoso, sicuro in quel luogo tanto familiare.
«Scusa D. Non pensavo avessi ospiti.» Disse con un sorriso
imbarazzato il nuovo arrivato riempiendo la stanza con la sua voce
profonda. Le sue sopracciglia si sollevarono nel posare gli occhi su
Sean. «Il lupo canadese… Era da un po’ che non
tornavi da queste parti, mmh?»
Lui si limitò a ricambiare l’occhiata. «Non ne ho
avuto l’occasione.»
Dawn si era appoggiata allo schienale della sedia con fare stanco. Fece
un gesto vago nella mia direzione. «Toby, questi sono Scarlett e
Adam, sono con Sean. Ragazzi, lui è Toby, il mio socio e
comproprietario del Luna di Carta.»
L’uomo ci rivolse un sorriso allegro. «È un piacere
avervi qui. Come mai hai deciso di tornare, Sean? Sentivi la nostra
mancanza?»
Dawn non gli diede il tempo di rispondere: «Sono venuti per
discutere di una questione, ma abbiamo finito.» Fece guardando
l’Alfa con una certa insistenza, quasi sfidandolo a contraddirla.
E fu proprio quello che successe, anche se non fu Sean a parlare.
«No.» Sbottò Adam, la voce carica d’urgenza,
il cuore di nuovo in subbuglio. «Non abbiamo finito
niente.»
A quel punto fu Sean a lanciare un’occhiata di sfida a Dawn, ma
non per provocarla: il suo sembrava più un avvertimento, un modo
silenzioso e discreto per dirle di ponderare bene le proprie mosse
future.
Toby studiò quello scambio di taglienti segnali non verbali con
le sopracciglia inarcate in un’espressione cauta e perplessa.
«Okay, sembra ci siano dei disaccordi qui. Se posso, di che
stavate parlando?»
Sean si appoggiò allo schienale della sedia incrociando le
braccia al petto con aria volutamente strafottente. «Dawn, vuoi
dirglielo tu?»
Lei lo fulminò con un’occhiataccia prima di rivolgersi
all’uomo in piedi dietro di noi. «A quanto pare, Sean e i
suoi sono in contatto diretto con i cacciatori di Young. E hanno un
piano per fermarli.» I muscoli del suo viso erano contratti, le
labbra arricciate, come se anche solo pronunciare quelle parole le
provocasse un senso di ribrezzo.
Il mio Alfa alzò gli occhi al cielo. «Puoi dirlo anche con
una faccia meno schifata.»
Toby era rimasto letteralmente a bocca aperta di fronte a quella
rivelazione. Ed era quasi comico vedere un uomo della sua stazza
fissare qualcuno come se gli fossero spuntate le ali. «Tu
sei… in contatto con i cacciatori? Com’è che non ti
hanno ancora ucciso?»
«Me lo sto chiedendo anche io.» Borbottò Dawn con un
sospiro.
«Noi canadesi abbiamo qualche asso nella manica.»
Replicò Sean ed era la prima volta che lo sentivo parlare con
orgoglio del suo Paese natale.
Toby si spostò dietro alla scrivania per sedersi sul bracciolo
della sedia della sua socia. «Voglio saperne di più,
sembra interessante. Folle, ma interessante.»
Come se parlare di accordi con i cacciatori e branchi che comprendevano
un’intera città non fosse abbastanza sconvolgente, Sean si
voltò verso Adam per chiedergli, con tutta la naturalezza del
mondo: «Perché non ne parli tu? In fondo, l’idea
è tua.»
Lui spalancò gli occhi schiudendo le labbra. «Vuoi davvero
che sia io a farlo?»
L’Alfa annuì. «Magari sentirlo da te li
convincerà.»
Lo sguardo di Adam, ancora del tutto spiazzato, incontrò il mio.
Gli feci un piccolo sorriso d’incoraggiamento che sembrò
dargli un po’ di sicurezza in più. Si voltò verso
Dawn e Toby, verso lo scetticismo di lei e la curiosità di lui,
verso dei possibili alleati o dei futuri nemici. E cominciò a
raccontare di come lui, Sean e Matthew avevano lavorato insieme per
salvarmi, di come all’inizio quel branco improvvisato fosse
strano e nessuno si sentisse a proprio agio, delle tensioni che si
erano create e dei litigi, dei momenti in cui avevamo fatto squadra e
tutte le differenze erano passate in secondo piano.
Di come, a poco a poco, ci eravamo avvicinati, tutti e quattro.
Parlò dei primi incontri con Colin e Brian, della diffidenza e
della paura, della determinazione e voglia di concludere quella
faccenda in modo definitivo. Descrisse la propria strategia facendola
passare per una cosa che avevamo ideato tutti insieme, qualcosa in cui
tutti credevamo fino in fondo.
Quando terminò di parlare, sia Dawn che Toby rimasero nel
più completo silenzio. Entrambi erano rimasti affascinati e
incuriositi dalle parole di Adam, precise ed efficaci come durante le
nostre ripetizioni. Avevano il potere di catturare l’attenzione e
non lasciarla andare fino all’ultimo secondo. Persino
l’aspro scetticismo di Dawn pareva essere scemato di fronte
all’emozione che traspariva dalla voce di Adam.
Toby si passò una mano tra i folti capelli scuri scuotendo piano
la testa. «Molti vi direbbero che siete pazzi…»
«L’hanno già fatto.» Commentò Sean con
un’occhiata esplicita in direzione di Dawn.
«Ho l’impressione che potrebbe funzionare
però.» Riprese l’uomo come se nessuno avesse
parlato. «Siamo tutti stanchi di nasconderci e vivere
costantemente nella paura, sono sicuro che molti ti seguirebbero
volentieri. Anche se probabilmente qualcuno metterebbe in discussione
il tuo ruolo…»
Scorsi un’ombra negli occhi di Sean, ma il suo tono era comunque
deciso. «Me ne occuperò a tempo debito.»
Dawn sospirò piano. «È una cosa davvero grande,
Sean, sei sicuro di volerlo fare? Si tratta di una città
intera.»
«Non voglio che nessun’altro muoia per mano dei
cacciatori.» Fu la risposta di Sean e dal suo tono si capiva che
non avrebbe ammesso altri dubbi sulla propria determinazione.
«Dovresti parlarne con gli altri allora, presentare la strategia
e vedere come la prendono.» Commentò Toby grattandosi la
tempia. «In fondo, sono loro la chiave di tutto.»
L’Alfa annuì tamburellando con le dita sul proprio
ginocchio. «Possiamo farlo ora?»
«Credo di sì.» Dawn appoggiò un gomito sulla
scrivania. «A quest’ora dovrebbero esserci quasi tutti e ho
l’impressione che una notizia del genere si spargerà in
fretta.»
«Bene, allora facciamolo.» Dichiarò Sean sollevando il mento con aria risoluta.
Il locale era ancora pieno e rumoroso, proprio come l’avevamo
lasciato. Il ragazzo dietro al bancone serviva birre, analcolici e
altre bevande scherzando e sorridendo ai clienti. Erano tutti a loro
agio, si respirava un’atmosfera accogliente e tranquilla.
“Ancora per poco”, pensai stringendo le labbra mentre
camminavo dietro Dawn e Toby, intenti a discutere in tono concitato.
Accanto a me, Adam osservava pensieroso la schiena di Sean, un passo
davanti a noi. Era riuscito a convincere Dawn a darci una
possibilità, eppure non ne pareva contento. C’era qualcosa
che occupava i suoi pensieri, qualcosa che lo preoccupava. Gli sfiorai
la mano trattenendomi all’ultimo dallo stringerla, un po’
per un attacco di timidezza, un po’ perché non mi sembrava
il luogo giusto. Lui si voltò a guardarmi, gli occhi blu in
piena tempesta.
«Sei stato bravo, prima.» Mormorai con un piccolo sorriso.
Scrollò le spalle quasi a voler minimizzare. «Ho solo
raccontato la verità.»
«Ci vuole fegato per farlo.» Replicai lanciando
un’occhiata al resto della stanza. «In realtà, ci
vuole fegato per fare tutto quello che hai fatto da quando ci siamo
incontrati. Discutere non con uno, ma con due licantropi, partecipare
ad una missione di salvataggio nel covo di un clan di cacciatori,
proporre di creare un branco di settanta lupi… è
impressionante.»
«In senso buono o preoccupante?» Chiese mordendosi il
labbro.
Ci pensai per un attimo. «Direi entrambi. Sai, c’è
una buona dose di coraggio, ma anche di follia, quindi…»
Un angolo della sua bocca si sollevò. «Quindi tu sei
quella razionale?»
«Dopo mangiato di solito sì. Prima no, a stomaco vuoto non
ragiono con lucidità.» Ammisi. «Ma non dirlo in
giro, è una debolezza che potrebbero sfruttare contro di
me.»
Adam sorrise scuotendo la testa. «Puoi fidarti di me, il tuo
segreto è al sicuro.»
Il nostro scambio di battute dal dubbio senso dell’umorismo fu
interrotto dalla voce di Dawn: «Dammi un attimo e ti lascio il
palco. Letteralmente.»
Allungai il collo per cercare di capire a cosa si stesse riferendo e
notai un piccolo palco realizzato con delle vecchie assi di legno
addossato al muro. Non era molto alto, starci sopra era come salire due
gradini delle scale della scuola; dovevi avere una personalità
piuttosto forte ed essere in grado di catturare l’attenzione per
riuscire a farti ascoltare da lì.
Sean studiò il palco senza dire nulla, gli angoli della bocca
appena contratti. Io e Adam ci scambiammo un’occhiata: ormai
avevamo imparato a decifrare i minuscoli segnali del nostro
imperturbabile Alfa e quell’impercettibile smorfia non era
esattamente sinonimo di soddisfazione.
«Ti stai impegnando a rendermi le cose difficili, mmh?»
Commentò infatti inclinando la testa di lato.
Dawn gli rivolse un sorrisetto adorabile. «Oh, sei piuttosto
bravo a farlo con le tue stesse mani. E poi, mi sembra che non ti
dispiacciano le sfide, o mi sbaglio?»
Sean raddrizzò le spalle, un lampo che gli attraversava lo sguardo. Un ghigno
sarcastico si dipinse sulle sue labbra mentre accennava un inchino. «Madame,
quando vuoi.»
Lei inarcò un sopracciglio pur sforzandosi di nascondere quanto
fosse colpita in realtà. «Come vuoi, Leblanc.»
Salì sul palco con un unico passo e ne occupò il centro.
Batté le mani un paio di volte facendo calare il più
completo silenzio nell’intero locale; adesso, tutta
l’attenzione era su di lei.
«Vorrei chiedervi un minuto del vostro tempo.»
Esordì, la voce chiara e limpida. «C’è qui
una persona, che forse alcuni di voi già conoscono, che vuole
parlarvi di una cosa.» Si voltò verso di noi, bella e
fiera come una regina di fronte al suo popolo. «Diamo il
bentornato a Sean Leblanc.»
Qualche mormorio si sparse nella stanza nel sentire quel nome, ci
furono scambi di sguardi ed espressioni sorprese, scettiche e confuse.
Sean esitò per un attimo, i suoi occhi si spostarono su me e
Adam, quasi stesse cercando dei volti familiari. Io annuii con enfasi e
sollevai entrambi i pollici per incoraggiarlo; Adam invece si
lasciò sfuggire un piccolo sorriso, uno di quelli gentili,
sinceri e con la straordinaria capacità di spingerti a sorridere
a tua volta.
Sean si concesse un altro secondo prima di salire sul palco accanto a
Dawn, che si spostò di lato per fargli spazio. Di fronte alla
sua apparizione, i sussurri si fecero più intensi, anche se non
abbastanza da intimorirlo, almeno all’esterno. Dawn gli
sussurrò un “buona fortuna” per poi tornare da noi.
Toby le mise una mano sulla spalla, un piccolo gesto di sostegno che
esprimeva molto di più di quanto le parole potessero fare.
«Molti di voi non mi conoscono, qualcuno forse si ricorda di me
anche se ormai sono passati cinque anni da quando sono arrivato a
Seattle.» Iniziò Sean mascherando ogni tipo di nervosismo
dietro una facciata sicura e a suo modo affascinante. «Sono
tornato oggi per cercare il vostro appoggio per qualcosa che potrebbe
sembrarvi assurdo, ma che in realtà potrebbe salvarvi la
vita.» Si fermò dando modo ai lupi in ascolto di
assimilare le sue parole. Nonostante la scarsa altezza del palco,
riusciva ad avere tutti gli occhi su di sé ed era del tutto in
grado di gestirli.
«Quanti di voi hanno perso qualcuno per mano dei cacciatori di
Colin Young?» Domandò, la voce che pareva rimbombare sulle
pareti rivestite di legno.
Fu come se un brivido percorresse tutti i presenti, me compresa:
c’era una nota di dolore nascosta in quella domanda, un dolore
personale e condiviso al tempo stesso, una sofferenza che tante, troppe
persone in quella stanza conoscevano.
Sean annuì davanti a quella risposta silenziosa. «E quanti
di voi sono stanchi di vivere nella paura? Di nascondersi e passare
ogni dannato giorno a sperare che non tocchi a voi? Perché io lo
sono e oggi voglio darvi la possibilità di cambiare le
cose.»
«Ehi ragazzino, la mia pazienza si esaurisce in fretta.»
Borbottò un uomo da uno dei tavoli più lontani. Aveva una
folta barba brizzolata e una cicatrice che gli attraversava la guancia
dall’angolo della bocca allo zigomo. «Che sei venuto a fare
qui?»
«Voglio mettere insieme un branco che comprenda tutti i lupi di
Seattle.» Dichiarò Sean. «E voglio fermare i
cacciatori una volta per tutte.»
L’uomo con la cicatrice scoppiò in una risata aspra.
«Ah! In tutta la mia vita ne ho sentite di idee stupide e folli,
ma questa va oltre ogni limite. Voglio farti una domanda, ragazzo,
perché dovremmo seguire proprio te? Perché dovremmo
esporci tanto?»
Si levarono dei mormorii d’assenso che mi fecero venire voglia di
prendere a pugni il tizio che continuava ad interrompere Sean.
Incrociai le braccia al petto e mi strinsi con forza i gomiti cercando
di tenere a freno la lingua.
«Anche io voglio farti una domanda, tu cosa hai fatto per
combattere i cacciatori?» Ribatté Sean senza scomporsi.
«Non credo che ti resti molto da vivere, vecchio,
ma pensa a tutti quelli che invece hanno ancora anni, decenni davanti,
pensa ai bambini e ai ragazzi che nascono in questa città e che
dovranno vivere nell’ombra con il terrore costante di essere
scoperti e uccisi a sangue freddo.»
A quel punto, il respiro di Sean si era fatto più spezzato e
veloce, percepivo il battito affannato del suo cuore rimbombare contro
le costole. Ma per gli altri lupi presenti, troppo lontani per
coglierli, quei segnali non esistevano. Ai loro occhi Sean era ancora
controllato e forte, un Alfa potente pronto a tenere testa a chiunque.
L’uomo fece per scattare in piedi, ma il licantropo seduto
accanto a lui lo trattenne prendendolo per il braccio. Lo sentii
sussurrare: «Ha ragione, pensaci.»
«Se ci uniamo, creiamo un unico branco, non potranno nulla contro
di noi. Riflettete: hanno davvero il coraggio di affrontare cinquanta
lupi ben organizzati? Potranno anche avere le armi più
sofisticate e tutto l’argento che vogliono, ma in guerra i numeri
contano.» Riprese Sean nascondendo le proprie emozioni dietro un
tono sicuro e affabile. «Siamo più forti di loro e abbiamo
una ragione molto più importante per lottare: difendere la
nostra vita e quella di chi verrà dopo di noi.» Si
soffermò per un attimo scrutando le persone davanti a sé
prima di aggiungere: «Non credete di avere il diritto di
sopravvivere? Di vivere?»
Mormorii d’assenso si sollevarono, il brusio crebbe di
intensità fino a coinvolgere tutti i presenti, dal primo
all’ultimo. Anche i più scettici, quelli che avevano
lanciato occhiate sospettose a Sean e a noi e che avevano bisbigliato
tra di loro, adesso parevano interessanti se non altro ad ascoltare
cosa aveva da dire quel giovane Alfa.
«Sapevo che avrebbe fatto qualcosa un giorno, fin dal nostro
primo incontro. Non mi aspettavo questo però.»
Commentò Dawn tenendo lo sguardo fisso su Sean, fiero e
imperturbabile di fronte a tutta quell’attenzione.
La donna si teneva le braccia strette al petto, c’era
dell’affetto nei suoi occhi, ma anche una punta di orgoglio.
Sospirò piano lasciandosi sfuggire un mezzo sorriso dal sapore
nostalgico. «Quando arrivò qui era ferito, sanguinante e
del tutto perso. Hai presente lo sguardo di puro terrore che hanno i
bambini quando si perdono in un posto pieno di gente? Sembra che di
colpo siano precipitati in un mondo estraneo e alieno, sconosciuto.
Ecco, anche lui era così, spaesato e confuso. Rimase solo per
cinque giorni, il tempo che la ferita cominciasse a rimarginarsi, poi
scomparve. Per mesi abbiamo pensato che i cacciatori l’avessero
trovato e ucciso, e invece lui se la cavava ogni volta.»
La guardai in cerca di altri dettagli su com’era stato Sean
Leblanc, su cosa gli era successo nei cinque anni che ci avevano
divisi. Avevo un bisogno spasmodico, seppur incomprensibile persino a
me stessa, di conoscerlo meglio e capirlo soprattutto. Non era sempre
stato così cupo e taciturno, ne ero certa. La perdita della sua
famiglia l’aveva segnato, aveva spezzato qualcosa in lui,
l’aveva portato al punto in cui essere forte era l’unica
possibilità, l’unica cosa da fare per non essere
annientati. Ma c'era stato un prima, per forza.
«Non parla molto del suo passato, vero?» Mi chiese Dawn
voltandosi a guardarmi con quei suoi profondi occhi scuri.
Scossi piano la testa. «No, non lo nomina neanche. Quel poco che
so… è venuto fuori per caso.»
«È poco salutare tenersi tutto dentro, ma non si
può pretendere che si apra con chiunque.» Era tornata ad
osservarlo, un’ombra che le scuriva il viso. «Sta dedicando
tutto se stesso alla lotta contro i cacciatori pur di non aver
affrontare il suo passato.»
Il mio primo istinto fu quello di portarmi sulla difensiva, dirle che
si sbagliava, che Sean aveva superato le perdite che aveva subito e che
era andato oltre, però c’era qualcosa che mi bloccava.
Stavo parlando di lui, o di me stessa? Volevo nascondere le sue o le
mie questioni irrisolte?
Perché anche se mi illudevo del contrario, l’essere stata
trasformata senza una spiegazione, né tantomeno senza che io
l’avessi voluto, mi aveva segnata molto più di quanto
volessi ammettere. A modo suo, era stata una violazione del mio corpo e
della mia stessa anima. Certo, alla fine era stato proprio grazie a
quel morso se avevo conosciuto Adam e avevo trovato il coraggio di
affrontare la paura di ciò che ero diventata, ma quella ferita
non era ancora del tutto rimarginata, a volte la sentivo ancora
bruciare. E non avevo idea di come farla guarire.
«Non pretendo che vi fidiate di me così, su due
piedi.» Stava dicendo Sean in quel momento. La sua voce decisa si
insinuò nei miei pensieri dai toni cupi e mi riportò alla
realtà, giusto in tempo per rendermi conto che Adam mi stava
guardando, gli occhi resi più scuri dalla preoccupazione.
Distolsi lo sguardo per riportarlo sul nostro Alfa sperando con forza
sorprendente persino per me stessa che non avrebbe cercato di chiedermi
niente più tardi.
«Colin Young ci ha dato un ultimatum, abbiamo cinque giorni per
dargli una risposta o riaprirà la caccia. In questo tempo,
sarò qui per rispondere a tutte le domande che avete, per
discutere della strategia e accettare suggerimenti.»
Continuò Sean facendo un passo avanti. Nonostante la scarsa
altezza del palco, la sua presenza dominava l’intero locale.
«Qualunque sia la vostra decisione, io continuerò a
combattere i cacciatori, anche se dovrò farlo da solo. Ci hanno
tolto abbastanza, adesso sta a noi reagire.»
«Io ci sto.» Esclamò una ragazza alzandosi in piedi.
Doveva avere un paio d’anni più di me, portava i lunghi
capelli castani sciolti, due trecce sottili le scendevano dai lati
della testa fino a sparire dietro le spalle. «Ho perso tutto per
colpa loro, sono stanca di nascondermi. Combatterò, se
sarà necessario. E morirò, se servirà a darci una
possibilità.»
Sean assomigliava ad un leone, aveva perso ogni traccia di debolezza.
Sollevò il mento, gli occhi verdi fissi sulla ragazza.
«Non morirai. Non lo permetterò. Se vi unirete a me, vi
prometto che farò tutto il possibile per tenervi al sicuro.
Tutto.»
La giovane annuì una sola volta prima di guardarsi attorno con
espressione critica. «Non ditemi che avete paura. Anzi, sapete
cosa? La paura è l’unica emozione che siamo capaci di
provare ora come ora. È il momento di cambiare le cose.»
Mi guardò dritta in viso. «Lei combatte al suo fianco
eppure ha molta meno esperienza di molti di voi. Ha il coraggio e la
forza che sembra manchino qui, però.»
Un intero tavolo di licantropi si alzò insieme alle loro voci
che dicevano: “ci stiamo anche noi”. Dopo di loro, altre
sedie si scostarono, altri confermarono la loro partecipazione. Le
persone che rimanevano sedute erano sempre meno, molti si facevano
convincere dagli sguardi insistenti degli amici e dai loro
incoraggiamenti sussurrati all’orecchio.
Per ogni lupo che si univa a noi vedevo i muscoli di Sean rilassarsi un
po’ di più e l’espressione di Adam farsi via via
più speranzosa. Si ritrovarono entrambi con un piccolo sorriso
incredulo sulle labbra quando anche gli ultimi licantropi si alzarono
dichiarando che ci avrebbero seguiti.
In realtà, solo uno di loro era ancora comodamente stravaccato
sulla sedia: l’uomo con la cicatrice che aveva interrotto Sean.
Adesso lo stava guardando con gli occhi ridotti a due fessure, gli
angoli della bocca piegati in una smorfia scettica. Accanto a me, Dawn
bisbigliò qualcosa a Toby, che annuì con aria grave.
Avevo la netta impressione che quel lupo non fosse proprio un tipo
tranquillo e pacifico.
«Tu ci farai uccidere tutti, biondino.» La voce
dell’uomo era graffiante, venata di un’ironia beffarda.
Sean schiuse le labbra di fronte a quell’accusa, fui quasi in
grado di vedere una risposta pungente prendere forma nella sua mente
mentre il suo lupo ringhiava piano.
L’altro, però, sollevò pigramente una mano.
«Oppure no. Dipende tutto da come ti vuoi giocare questo…
branco. Ho visto diversi giovani lupi mettere su piccoli eserciti
scombinati dichiarando di essere i nostri salvatori. E poi li ho visti
cadere, uno ad uno. Ci sono due strade davanti a te adesso, una finisce
con un proiettile d’argento, l’altra con una
responsabilità capace di uccidere un uomo e la tanto agognata
libertà. Chissà dove andrai.»
«Eviterei molto volentieri il proiettile.» Ammise Sean
aggrottando la fronte.
Un brusio vivace riempiva la stanza. Alcuni lupi scommettevano su come
sarebbe finita quella discussione, altri commentavano l’audacia
di Sean e la sua sicurezza, qualcuno si chiedeva se davvero il nostro
piano avrebbe funzionato.
L’uomo si lisciò la barba con studiata lentezza.
«Spero che tu lo faccia, biondino. Sono curioso di vedere le tue
prossime mosse.»
L’Alfa inarcò un sopracciglio. «Sei dei nostri,
quindi?»
«Sì, ragazzo.» Borbottò lui. «Ma non mi
alzerò. Non ho più le ginocchia di un tempo.»
La tensione che irrigidiva i muscoli delle spalle di Sean si sciolse
lasciando il posto a un sorrisetto compiaciuto. Scese dal palco con un
agile balzo e ci raggiunse. Non avevo idea di come fosse stato prima
che i cacciatori uccidessero la sua famiglia, ma in quello sguardo
deciso e in quell’espressione fiera fui quasi certa di cogliere
un assaggio del vecchio Sean.
«Sei stato bravo.» Commentò Dawn, un angolo della
bocca sollevato. «Magari riesci a farlo funzionare
davvero.»
Negli occhi di lui passò un lampo. «Questa era la parte
difficile, il resto sarà una passeggiata.»
Toby scosse la testa. «Apprezzo la tua confidenza, ma fossi in te
non mi rilasserei troppo. Colin Young e i suoi sanno essere
spietati.»
Lo sguardo di Sean si soffermò su di me per un attimo. «Lo
so, fidati. L’ho visto da vicino, più di una volta.»
«Fa’ attenzione allora.» Mormorò Dawn, il viso
scurito da un’espressione che non riuscivo a decifrare.
«Non siamo pronti a perdere il nostro Alfa.»
Passammo altre due ore a parlare con tutti i lupi che volevano chiedere
qualcosa a Sean o avere qualche informazione in più. Io, lui e
Adam avevamo preso posto ad un tavolo e chiunque avesse avuto voglia di
parlare poteva semplicemente avvicinarsi per essere accolto da un trio
piuttosto bizzarro, ma che funzionava.
Sean tirò fuori il suo lato più cordiale e rassicurante,
regalò sorrisi gentili, ascoltò le preoccupazioni di
tutti e seppe mostrarsi sicuro di sé e della propria strategia
senza apparire arrogante. Adam gli dava manforte con quei suoi modi di
fare sempre educati che riuscirono a convincere anche quelli che
venivano da noi per il solo scopo di lamentarsi e puntare il dito
contro fantomatiche falle nel piano.
Nonostante fosse umano, nessuno fu diffidente nei suoi confronti, gli
parlavano come avrebbero fatto con me o qualunque altro lupo. Il suo
essere diverso da noi, i diversi per eccellenza, non era visto come una
cosa negativa. Quando, in un momento di pausa, ne chiesi il motivo a
Sean, lui mi rispose che non era così raro vedere umani
coinvolti negli affari dei licantropi o addirittura nei branchi. Alcuni
speravano di essere morsi e trasformati, altri avevano semplicemente
trovato una compagnia piacevole, un gruppo che li aveva accolti, non
c’erano secondi fini né pretese.
Per tutto il tempo che passammo lì, rimasi un po’ in
disparte ad osservare loro due che lavoravano insieme, fianco a fianco,
come se non avessero fatto altro in tutta la vita, a esplorare le
sensazioni sconosciute ed elettrizzanti che l’avere tutti quei
lupi intorno mi scatenava dentro. Era una scossa di energia
inspiegabile, come quella che provocano le prime giornate di sole e
aria frizzante dopo il freddo assoluto dell’inverno, la voglia di
fare, vedere, conoscere, vivere anche l’altra parte di me.
«Okay, per oggi è abbastanza.» La voce di Sean,
stanca ma soddisfatta, mi richiamò alla realtà.
Sbattei le palpebre tornando a guardare lui e Adam trovandoli intenti a
scambiarsi un’occhiata d’intesa. Quel gesto dovette
sorprendere entrambi, perché subito dopo si affrettarono a
guardare altrove facendo finta di niente.
Dawn si avvicinò al nostro tavolo con un sorriso affabile.
«I nostri tre eroi. Siete ancora tutti interi?»
Sean appoggiò un gomito sulla superficie di legno. «Certo.
Avevi dubbi?»
«Pensavo che la diplomazia non fosse il tuo forte.» Ammise
lei. «Ho chiesto a Toby di prepararvi del caffè e qualcosa
da mangiare, dovete essere affamati.»
Mi ritrovai ad annuire con enfasi. «Sì, molto
affamati.»
«Tu hai sempre fame.» Borbottò Sean aggrottando le
sopracciglia.
Dawn mi strizzò l’occhio. «Scommetto che voi due
invece il più delle volte saltate interi pasti.»
«Qualche volta.» Confessò Adam mentre Sean sbuffava
con fare irritato.
«Dawn, posso farti una domanda?» Chiesi mordicchiandomi il
labbro. «Cioè, è rivolta a tutti, ma credo che tu
sia più… aggiornata a riguardo.»
Lei prese una sedia da un altro tavolo e l’accosto al nostro
accomodandosi di fronte a noi. «Certo, dimmi tutto.»
«È una cosa positiva per noi, utile direi, visto che ci ha
evitato molti problemi, ma… perché nessun Alfa si
è opposto alla presa di potere di Sean? Certo, ha dovuto
convincerli della forza della sua strategia, però nessun
capobranco ha tentato di rivendicare il suo ruolo in questo branco.
Perché?» Domandai guardandola dritta in viso.
Dawn annuì piano. «È la prima volta che incontri
altri lupi all’infuori di Sean, vero? Ti sei mai soffermata a
pensare al motivo di queste poche presenze?»
Sean si sfiorò le labbra con le dita, lo sguardo perso, lontano.
«Cacciatori.»
«Già. Hanno ucciso molti più licantropi di quanti
non vogliamo ammettere. Ci hanno decimati, non solo negli ultimi anni.
Qualcuno ha tentato di ribellarsi, soprattutto gli Alfa.»
Raccontò lei dandomi la sua totale attenzione. «Lo
imparerai col tempo, ma credo sia giusto anticipartelo per aiutarti a
comprendere. Per un Alfa il branco è
la cosa più importante al mondo, persino più della sua
stessa vita. Un capobranco sviluppa un legame molto profondo con i lupi
che si uniscono al suo gruppo, è… una cosa antica,
affonda le sue radici molto indietro nel tempo. È il connubio
tra l’istinto di creare una comunità e proteggersi a
vicenda che hanno i lupi intensi come animali e quella forza enorme che
l’uomo è in grado di infondere ai propri
sentimenti.»
«Se il branco è in pericolo, l’Alfa è pronto
ad annullarsi per loro, a dare la vita senza esitazioni.» Sean
strinse il pugno fino a sbiancare le nocche continuando a guardare un
punto indefinito sopra le spalle di Dawn. «Non riuscire a tenere
al sicuro il branco è…. orribile. Perdendo un lupo,
l’Alfa perde una parte di sé e quel dolore lo
accompagnerà per tutta la vita.»
«È per questo che hanno reagito, per proteggere i propri
branchi.» Disse Adam, la voce bassa, le iridi velate da
un’ombra. Lanciò un’occhiata a Sean e lo vidi
stringere le labbra, quasi a volersi trattenere dall’aggiungere
altro.
Dawn intrecciò le dita sul tavolo. «Qualcuno qui è
molto intuitivo, mmh? E sì, la ragione è questa. Non
potevano permettere che i loro lupi fossero minacciati, dovevano
difenderli, per questo molti Alfa hanno cercato di ribellarsi. Come ha
detto Xavier, l’uomo con la cicatrice, non sono stati fortunati.
I pochi rimasti pensano che anche il vostro piano finirà male,
come quelli che vi hanno preceduto. Oppure semplicemente non hanno
interesse a contrastare una presa di potere che credono
temporanea.»
«Xavier era un Alfa, vero?» Intervenne Adam, lo sguardo
acceso di curiosità.
Dawn apparve colpita dalla sua intuizione. Si voltò a guardarlo
con interesse, un lieve sorriso ad incresparle le labbra. «Il suo
branco era piuttosto forte, molto unito e leale. Ma anche lui
tentò di contrattaccare. La cicatrice che ha sul viso è
la prova del suo tentativo.»
Mi sporsi verso di lei. «E come è andata? Voglio dire, lui
è vivo quindi…» Mi bloccai nel vedere la sua
espressione farsi dispiaciuta. «Non… non è
riuscito…?»
«Tutto il suo branco si unì a lui, quella notte. Erano in
dieci. Lui è l’unico sopravvissuto.» Dawn
pronunciò quelle parole con cura infinita, quasi stesse cercando
di ferirmi il meno possibile. «Molti l’hanno preso come un
segno del fatto che, per quanto ci proviamo, non possiamo cambiare la
situazione. Per questo fino ad oggi abbiamo preferito
nasconderci.»
«Le cose cambieranno adesso.» Dichiarò Adam, la voce
resa roca dalla passione che gli si agitava nel petto. «Noi
le cambieremo.»
Avrei voluto essere determinata e sicura come lui, avere una fiducia
incrollabile in quel nostro folle progetto, ma la verità era che
avevo paura. Temevo di veder morire quell’illusione di un futuro
migliore, temevo di ritrovarmi di nuovo intrappolata, di perdere anche
l’ultimo frammento di speranza. Allo stesso tempo, però,
avevo un bisogno spasmodico di credere che avrebbe funzionato, che
finalmente sarei potuta tornare a respirare senza sentirmi oppressa dal
terrore.
Così guardai Adam in quegli occhi elettrici come una tempesta e
annuii con forza. «Sì. Lo faremo, insieme.»
SPAZIO AUTRICE: Ehilà!
Probabilmente qualcuno - molti - di voi avevano perso le speranze
riguardo l'aggiornamento di questa storia e vi capisco, anzi, mi scuso
per averci messo quasi due mesi a postare questo capitolo. Adesso che
ci avviciniamo alla fine della storia, comincio a sentire la pressione:
voglio scrivere un finale degno, bello e che "degno" del resto di Under
a Paper Moon, quindi ci metto di più a ideare le scene e
soprattutto a riportarle per iscritto visto che ho un'avversione
cronica per i miei stessi scritti.
Ammetto che questo capitolo mi convince, anche perché ho notato
una crescita, mia e dei personaggi, rispetto ai primi capitoli. Adesso
hanno più spessore e profondità e penso che anche lo
stile sia migliorato (almeno spero sia così).
Dunque, che ne pensate di questo branco in formazione? Sean sarà
in grado di reggere la pressione? E Scarlett riuscirà a superare
le sue paure e le questioni irrisolte del suo passato?
Dawn e Toby sono un'altra novità di questo capitolo. Che ve ne pare di loro?
Scusatemi ancora tantissimo per il ritardo, spero che sia valsa la pena di aspettare così tanto <3
A presto,
TimeFlies
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Capitolo 40 *** 40. Adam ***
Under a paper moon- capitolo 40
40. Adam
Osservare
è il miglior modo per imparare oltre a essere il più
affascinante. Per quattro giorni ebbi la possibilità di vedere
da vicino le abitudini e i modi di vivere di una comunità di
licantropi impegnata a organizzarsi per fronteggiare i loro più
grandi nemici, i cacciatori. Imparai a riconoscere le dinamiche
all’interno di quel nostro branco improvvisato, a intuire chi era
più scettico e chi credeva con tutto se stesso in ciò che
stavamo facendo, a capire come i lupi mannari mostravano rispetto senza
abbassare lo sguardo con fare impaurito.
Mi picchiettai il tappo della penna sulle labbra, sovrappensiero.
Davanti a me, almeno una ventina di lupi chiacchierava, discuteva e
rideva sorseggiando caffè e cioccolata calda per far fronte
all’umidità che quel pomeriggio piovoso si era portato
dietro. Riempivano il Luna di Carta
con le loro voci così diverse tra loro, erano un incontro di
differenze e punti in comune chiassoso ma unito.
Occupavo un tavolo in un angolo, proprio accanto a una riproduzione
molto fedele di un quadro di Monet. Srotolata sul legno c’era una
mappa di Seattle su cui stavo segnando le zone in cui si concentravano
i licantropi. Era un lavoro noioso e di precisione, ma mi teneva la
mente occupata abbastanza da non farmi pensare che l’ultimatum di
Colin sarebbe scaduto tra due giorni.
Dawn Johnson, la comproprietaria del locale, si avvicinò al mio
tavolo con il suo passo sicuro ed elegante. Posò davanti a me
una tazza fumante che sprigionava un delizioso odore di cioccolata e
zucchero caramellato. Sollevai lo sguardo su di lei, che mi rivolse un
sorriso gentile.
«Che ne dici di una pausa?» propose studiandomi con quei
suoi occhi scuri eppure allo stesso tempo pieni di luce.
«Non credo di avere tempo» ammisi mordicchiandomi il
labbro.
«Non puoi avere il
tempo, nessuno lo possiede» replicò lei ravviandosi i
ricci castani. «Puoi sfruttarlo, perderlo, investirlo, ma non
possederlo. E poi, un po’ di cioccolata non ha mai ucciso
nessuno.»
«Ah, mi erano mancate le tue perle filosofiche, D»
commentò Sean avvicinandosi a noi, un angolo della bocca
sollevato, le mani affondate nelle tasche della giacca da aviatore. Le
punte dei suoi capelli erano arricciate dall’umidità della
pioggia; lui ci passò le dita fermandosi all’altro capo
del tavolo.
Dawn inarcò un sopracciglio. «Il nostro Alfa è
arrivato, benvenuto. Qualche novità?»
«Non ancora, ma ci siamo quasi» rispose lui, criptico come
sempre.
«Bene, fammi sapere allora» fece lei annuendo.
Nell’allontanarsi, gli sfiorò il braccio in un gesto che
racchiudeva un certo affetto, come quello che una sorella maggiore
potrebbe provare per un fratello, l’affetto per qualcuno a cui
tieni ma che non è così facile da amare. Sean rimase a
guardarla muoversi con grazia tra gli altri tavoli, un sorriso cortese
che le incurvava le labbra ogni volta che si rivolgeva a un cliente.
Poi l’Alfa sospirò e spostò la sua attenzione su di
me. E sulla tazza che mi aveva portato Dawn. «La bevi?»
domandò indicandola con un cenno del mento.
La spinsi verso di lui. «È tutta tua. Comunque, di cosa
stavate parlando? Novità su cosa?»
Sean prese la sua cioccolata e si sedette sulla sedia accanto alla mia,
gli occhi che scandagliavano il locale. Assomigliava a un leone che
controlla il proprio regno, fiero e impassibile. «Ho deciso di
andare domani dai cacciatori» rivelò accigliandosi appena.
«Non voglio far credere a Colin che abbiamo paura, se non
aspettiamo l’ultimo minuto sarà costretto ad ascoltarci,
non potrà accusarci di essere in ritardo.»
Mi rigirai la penna tra le dita. «Sì, me ne avevi parlato.
Però sembrava che Dawn si riferisse ad altro.»
«Sai che alcuni lupi del branco verranno con noi, no? Per
sicurezza. Lei ha insistito per esserci.» Scrollò le
spalle prendendo un sorso di cioccolata. «Tutto qui. Voleva i
dettagli sull’ora e il luogo.»
Abbassai lo sguardo sulla mappa per fuggire un possibile contatto
visivo. «Okay. E come funzionerà quest’incontro?
Cosa diremo a Colin?»
Sean tamburellò sul lato della tazza con fare distratto.
«Gli diremo che adesso c’è un intero branco pronto a
reagire. Credo sia abbastanza sveglio da capire che non può fare
niente contro cinquanta lupi.»
Rimasi in silenzio mentre nella mia mente si susseguivano gli scenari
più disastrosi. Mancava pochissimo alla realizzazione del nostro
piano, eravamo a un passo dal cacciare Colin e il suo gruppo da
Seattle, eppure tutto quello a cui riuscivo a pensare era che eravamo
anche a un passo dall’esporci e rivelare il nostro unico asso
nella manica.
«Andrà bene» disse Sean guardandomi. «La
superiorità numerica non è il nostro unico vantaggio: ho
una strategia molto solida.»
«Posso chiederti una cosa?» domandai ricambiando il suo
sguardo. Io stesso sentii l’urgenza nella mia voce.
Lui annuì un’unica volta, l’espressione controllata, le iridi attraversate da un lampo.
Trassi un respiro profondo, per poi espirare piano. «Qualunque
cosa succeda domani, qualunque sia la prossima mossa di Colin…
promettimi che la proteggerai. Per favore.»
«Proteggerò tutti voi» mormorò Sean e la
determinazione nella sua voce era puro acciaio. «Ho già
perso un branco, non succederà di nuovo. Scarlett sarà
salva, così come lo saranno tutti. È una promessa.»
Mi aggrappai alle sue parole ripetendole dentro di me nel tentativo di
calmare il battito affannato del mio cuore. Sean era sopravvissuto a
una caccia spietata lungo tutto il confine tra gli Stati Uniti e il
Canada, era astuto e previdente, conosceva sia i cacciatori che i
licantropi, non avrebbe mai fatto una mossa tanto azzardata se non
fosse stato sicuro di saperla gestire.
E questa volta non era solo, aveva un interno branco a guardargli le
spalle.
Il cielo sopra Seattle era una coltre plumbea di nuvole cariche di
pioggia. Quella notte un temporale si era scatenato sulla città,
adesso le strade erano piene dell’odore di asfalto bagnato,
l’aria era fresca e umida. Seattle ricordava un campo di
battaglia il giorno dopo uno scontro, era silenziosa e calma, quasi
cristallizzata.
Sean, cupo e fiero dietro il volante della sua Camaro, sembrava la
personificazione di quella tempesta appena passata. Teneva lo sguardo
fisso sulla strada, le mani ferme sul volante. Se anche fosse stato
agitato, non lo dava a vedere in nessun modo. Sui sedili posteriori,
Scarlett scrutava il paesaggio fuori dal finestrino mentre piluccava un
pezzo di torta di mele preparata da Dawn. Indossava un maglione verde
scuro di un paio di taglie più grandi e aveva raccolto i capelli
in una treccia morbida che le scendeva sulla spalla. Era pensierosa, ma
non impaurita.
Accanto a lei, Matthew aveva già divorato la sua fetta di dolce,
probabilmente per colpa della fame nervosa. Tormentava con le dita un
lembo della sua camicia di flanella spostando di continuo lo sguardo da
un finestrino all’altro. Dietro di noi c’era un pick-up
azzurro guidato da Toby. Dawn era seduta al suo fianco con lo stesso
portamento elegante di una regina.
«Spero che torneremo a casa presto» commentò
Scarlett quasi tra sé e sé. «Ho ancora i compiti di
francese da finire.»
Sean le lanciò un’occhiata dallo specchietto retrovisore.
«Sarai a casa prima di cena.»
Lei annuì staccando un pezzo di torta per offrirlo a Matthew.
«Bene.»
«Sembra impossibile pensare che fino ad un paio di mesi fa i
cacciatori dominavano Seattle» commentò lui accettando con
gratitudine il dolce.
«I regni finiscono, i re cadono» mormorò Sean.
«È semplicemente arrivato il loro momento.»
Spostai lo sguardo su di lui pur senza aver deciso di farlo. Per un
attimo i suoi occhi, schegge di vetro verde, incrociarono i miei e
quello che vi lessi mi stupì: speranza, in quelle iridi di
solito così torbide e cupe c’era una speranza limpida e
forte. Non l’avevo mai visto speranzoso, eppure in quel momento
sembrò giusto che lo fosse, che lo fossimo tutti.
Sean spostò la sua attenzione sullo specchietto retrovisore.
«Vediamo se quel vecchio catorcio ha ancora un po’ di
vita» commentò con un sorrisetto.
Premette sull’acceleratore e il motore prese vita con un ringhio
soffuso. L’auto scattò in avanti continuando poi ad
aumentare la velocità, ma il modo in cui Sean teneva il volante,
il suo atteggiamento rilassato, la facevano sembrare una cosa del tutto
naturale. Prendemmo distanza dal pick-up sorpassando un paio di auto e
guadagnandoci occhiate sorprese dai loro conducenti.
L’espressione di Sean aveva un che di selvaggio ed euforico, si
stava divertendo un mondo in quel momento. Vidi anche Scarlett
sorridere, gli occhi castani che brillavano. Matthew invece si era
aggrappato al sedile con aria terrorizzata ricordandomi molto il suo
gatto.
Le sopracciglia di Sean si inarcarono quando il pick-up ricomparve
dietro di noi. Lo sentii mormorare qualcosa tra sé e sé
per poi sollevare un angolo della bocca. Non riuscì a riprendere
distanza per tutto il resto del viaggio, Toby e Dawn rimasero vicini
alla Camaro con determinazione impressionante. Ero davvero felice di
averli come alleati, si dimostravano ogni giorno sempre più
pieni di risorse e coraggio.
Sean fermò l’auto nello spiazzo vicino al quartier
generale dei cacciatori. Toby accostò a pochi metri da noi
mentre altre auto comparivano e parcheggiavano lì vicino. Tra i
loro passeggeri riconobbi diversi lupi che avevo già visto al Luna di Carta.
Non mi aspettavo che decidessero di partecipare all’incontro con
i cacciatori, non visto lo scetticismo che avevano dimostrato nei
confronti di Sean e del piano, eppure erano lì, con noi, uniti
per la stessa causa.
Scarlett scese dalla Camaro per andare a salutare Dawn, Matthew si
allontanò di qualche passo portandosi il cellulare
all’orecchio con espressione seria. Feci per raggiungerli, ma mi
fermai quasi subito quando Sean allungò un braccio davanti a me.
Non mi stava guardando, la sua attenzione era tutta dedicata
all’edificio dove si riunivano i cacciatori. Sul suo viso era
calata un’ombra che aveva cancellato ogni traccia di
divertimento.
Aprì il vano portaoggetti di fronte a me e le sue dita di
chiusero sul calcio di una pistola nera. Spalancai gli occhi
trattenendo il fiato d’istinto. Avevo sempre avuto una sorta di
repulsione per le armi e tutta la violenza che le circondava, cercavo
di evitarle, di tenermene alla larga il più possibile.
Ritrovarmene una così vicino mi mise i brividi.
Cercai lo sguardi di Sean, confuso e preoccupato. Avevo proposto
l’accordo con Colin proprio per evitare scontri e morti, ma
adesso era saltata fuori una pistola: le mie intenzioni pacifiche
parevano avere le ore contate. Paura e rabbia mi serrarono la gola,
tutto quello a cui riuscivo a pensare era che con un singolo gesto Sean
avrebbe potuto distruggere il lavoro di mesi, spazzare via tutto
l’impegno e la fatica che ci aveva portati a creare un branco e a
riunire tutti i lupi di Seattle contro un nemico comune.
Lui mi lanciò una breve occhiata sfuggevole prima di scendere
dall’auto infilandosi la pistola nella cintura dei jeans dietro
la schiena e coprirla con la giacca. Aprii lo sportello per poi
sbattermelo alle spalle e lo raggiunsi a grandi passi. Avevo il fiato
corto, mi sembrava di avere il petto stretto in una morsa.
«Che diavolo stai facendo?» sibilai guardandolo dritto in
faccia.
Sean ricambiò il mio sguardo senza fare una piega, le labbra
strette in un’espressione di pacato distacco. «Non abbiamo
tempo per questo.»
Prima che potessi replicare, mi voltò le spalle e si
allontanò in direzione degli altri lupi. Mormorai
un’imprecazione a mezza voce affrettandomi ad andargli dietro.
Gli altri licantropi si erano riuniti vicino al pick-up e guardavano il
loro Alfa nel più completo silenzio, in attesa di ricevere
ordini.
«Ricordate tutti le vostre posizioni?» domandò Sean
scrutandoli. Al loro cenno d’assenso, continuò:
«Bene, allora andate. Colin e i suoi saranno qui tra poco.»
Mentre loro eseguivano, si voltò verso me, Scarlett e Matthew.
«Questa è la parte più pericolosa, se non volete
partecipare lo capisco. Potete rimanere nelle retrovie con Dawn e gli
altri.»
«Non ti lasceremo ad affrontarli da solo» dichiarò
Scarlett con fierezza. «Abbiamo cominciato quest’impresa
insieme, e la porteremo a termine così… giusto?»
aggiunse cercando il nostro assenso.
L’unica cosa che volevo fare in quel momento era farmi dire la
verità da Sean, costringerlo a rivelare il suo piano, quello che
aveva ben pensato di tenermi nascosto fino a che non era stato troppo
tardi per impedirgli di metterlo in atto. Eppure annuii comunque,
perché il branco era più importante dell’ennesimo
litigio tra me e lui.
«D’accordo allora» fece Sean e c’era una punta
d’orgoglio nella sua voce. «Andiamo.»
Dawn, rimasta in silenzio fino a quel momento, fece un passo avanti. «State attenti.»
Indossava una giacca verde militare che ricordava quelle
dell’esercito, il suo viso era velato da un’ombra che la
faceva sembrare una regina pronta ad affrontare la battaglia imminente.
Appena dietro di lei, Toby ci rivolse un piccolo sorriso
d’incoraggiamento. «Facciamogli vedere di cosa siamo
capaci.»
Sean sollevò il mento raddrizzando le spalle, un principe
ribelle immerso nel suo elemento naturale: la guerra. Senza dire una
parola, si avviò con passo sicuro verso il quartier generale dei
cacciatori con me, Scarlett e Matthew al proprio fianco. Gli altri lupi
erano già allineati a qualche metro dall’edificio, un
fronte composto da uomini e donne, giovani e adulti, tutti pronti a
combattere per la loro città.
Noi raggiungemmo il centro, lì dove ci avevano lasciato un
po’ di spazio. Sean era il fulcro di tutto, sembrava disposto ad
affrontare l’intero clan di cacciatori da solo. I mormorii che
percorrevano il nostro schieramento si zittirono di colpo quando la
porta dell’edifico davanti a noi si aprì. Colin Young
uscì per primo, seguito da Brian, Nathan e altri uomini, tutti
vestiti di scuro.
Nel momento in cui si resero conto di quanti eravamo, le loro mani
corsero alle pistole che tenevano dietro la schiena. Adesso avevamo
dieci armi puntate contro di noi e altrettanti cacciatori che ci
fissavano con sospetto e rabbia. Se Colin avesse dato l’ordine,
ci avrebbero ucciso tutti senza esitare.
«Ah, sapevo di non potermi fidare di te, lupo»
ringhiò Colin con soddisfazione beffarda.
Avanzò seguito dai suoi cacciatori, la pistola puntata dritta al
petto di Sean. Che però non mosse un muscolo, rimase impassibile
a guardarlo. Solo i suoi occhi lasciavano intravedere la sua
impazienza, erano frammenti di vetro colpiti in pieno dalla luce.
Colsi Scarlett mordersi il labbro con forza quando Nathan si
fermò a un paio di metri da lei, l’arma ferma in mano.
Eppure la sua espressione era tutt’altro che calma: era
combattuto, quasi disperato. Tutto il contrario degli altri cacciatori,
tutti più che pronti a premere il grilletto. Adesso sapere che
anche Sean era armato mi sembrava molto meno sbagliato.
«Ti facevo più furbo, Sean, saresti ancora potuto
scappare, ma non l’hai fatto» disse ancora Colin,
sprezzante. «Sei qui per morire? O vuoi darmi i tuoi preziosi
lupetti come pegno per la tua libertà? Vedo che ne hai raccolti
degli altri…»
Sean inclinò appena la testa di lato. «Abbiamo ancora un
accordo in sospeso, Young.»
«E cosa potrai mai offrirmi tu? Sono io a dettare le regole
adesso. Potremmo uccidervi tutti in meno di un secondo e tu pensi
ancora di avere qualche potere su di me?» replicò
l’uomo inarcando un sopracciglio.
«In realtà sì, molto più di quanto
credi» rispose Sean con voce calma.
Colin abbassò appena l’arma, confuso e divertito al tempo
stesso. «Ho sempre pensato che avessi molto fegato per averci
proposto un accordo, ma adesso credo solo di averlo scambiato per
incoscienza. Sei stato coraggioso, questo te lo riconosco, però
i giochi finiscono qui.»
L’Alfa annuì piano. «Oh, non potrei essere
più d’accordo.»
Successe tutto in una frazione di secondo, troppo velocemente
perché potessi vederlo accadere. Un attimo prima eravamo
vulnerabili ed esposti, quello dopo tra le mani dei lupi erano comparse
delle pistole che puntavano dritte ai cacciatori, una fra tutte, quella
con cui Sean mirava al cuore di Colin Young.
Uno scatto metallico riempì per un breve istante il silenzio
glaciale che si era creato. Mi lanciai un’occhiata alle spalle e
quello che vidi mi lasciò a bocca aperta: Dawn, appostata sul
retro del pick-up, imbracciava un fucile da caccia dall’aria
molto pericolosa. A terra, accanto al veicolo, Toby impugnava un
revolver argentato e sembrava impaziente di usarlo. Altri lupi
posizionati dietro le auto parcheggiate erano armati e pronti a
sparare. Eravamo passati dall’essere i bersagli a stare
dall’altra parte del grilletto nel giro di un secondo. E
dall’espressione compiaciuta di Sean intuii che era esattamente
quello il suo piano.
Colin spalancò gli occhi impallidendo. Sembrava aver perso la
capacità di fare qualunque altra cosa se non fissarci. Gli altri
cacciatori spostavano di continuo le pistole cercando di mantenere
tutti i lupi sotto tiro, ma si stavano rendendo conto di essere in
schiacciante inferiorità. Per la prima volta in vita mia ero
felice che qualcuno avesse agito alle mie spalle.
Sean Leblanc aveva dimostrato ancora una volta il perché era
riuscito a sopravvivere così a lungo senza nessun tipo di aiuto.
E questa volta aveva fatto le cose molto in grande.
«Vediamo di rimettere a posto le cose» esordì, gli
occhi verdi che brillavano. «Abbassate le armi, tutti
quanti.»
«Brutto figlio di…» borbottò Colin tra i
denti, le dita che si muovevano nervose sul calcio della pistola.
«Fa strano trovarsi dall’altra parte, mmh? Non è
esattamente piacevole» commentò l’Alfa. «Armi
a terra, ho detto. Adesso.»
Nathan posò la propria pistola sull’asfalto e la spinse
indietro con il tacco dello stivale. C’era un accenno di speranza
a illuminargli il viso, qualcosa che non mi aspettavo di vedere sul
volto di qualcuno che aveva ucciso chissà quanti lupi.
Il capo dei cacciatori e qualcuno dei suoi uomini, pur con grande
riluttanza, eseguirono l’ordine di Sean, altri però si
rifiutarono. Lui indurì la mascella e puntò l’arma
contro l’uomo massiccio davanti a me. Solo in quel momento mi
resi veramente conto di avere una pistola puntata contro,
all’altezza del cuore. La sua bocca nera assomigliava a un buco
nero, oscuro e senza fine.
Di colpo avevo un vuoto al posto dello stomaco, una sensazione di
panico gelido e strisciante che mi risaliva nel petto. Non ero mai
stato così vicino al pericolo, al rischio di morire. Mio
fratello era un marine, conviveva con la morte giorno dopo giorno, ma
per me era un concetto astratto, lontano, qualcosa che accadeva agli
altri. Ora invece ce l’avevo di fronte in tutta la sua spaventosa
e immensa presenza.
Il mondo intorno a me divenne silenzioso e immobile, l’unica cosa
che sentivo era il mio stesso cuore che mi rimbombava nelle orecchie.
«Ehi ragazzone, stavo parlando anche con te.» La voce bassa
e velata di minaccia di Sean si fece largo nel terrore cieco che mi
stringeva. «Pistola a terra, ora. Non mi piace ripetermi e non mi
piace sparare alle persone, ma lo farò se mi costringi.»
Il cacciatore, un metro e novanta di muscoli e cicatrici, lasciò
passare degli interminabili secondi prima di decidersi a posare
l’arma sull’asfalto con un grugnito.
«Bene» riprese Sean annuendo. I muscoli del suo collo erano
appena in rilievo, l’unico segno che tradiva la sua tensione.
«Vedo che riusciamo a ragionare.»
Buttai fuori l’aria in un respiro tremante stringendo i pungi per
nascondere il tremore delle mani. Non riuscivo a capire come lui
riuscisse a rimanere così composto e concentrato mentre era
sotto tiro, la sua calma aveva un che di innaturale e al tempo stesso
pericoloso.
«Non finché sarò in vita» ringhiò
Tristan, uno dei cacciatori che avevano catturato Scarlett quella che
sembrava un’eternità fa.
Puntò la pistola contro Sean, una furia dirompente a
incendiargli lo sguardo, il dito già pronto sul grilletto.
Probabilmente non aveva tenuto conto dei riflessi micidiali dei
licantropi quando aveva deciso di sparare, perché prima ancora
che potesse finire di parlare già cinque armi miravano al suo
petto.
Ma non fu necessario nessun colpo. Nathan scattò in avanti e
spinse Tristan da parte gettando la sua pistola a terra. Lui gli
scoccò un’occhiata di fuoco prima di afferrarlo per il
colletto della maglietta con rabbia e tirarlo a sé. Torreggiava
su Nathan, che adesso sembrava persino più giovane di quanto non
fosse, giovane e vulnerabile.
Scarlett fece per avvicinarsi, ma si bloccò all’ultimo
secondo, i pugni serrati lungo i fianchi che tremavano appena.
L’arma di Sean rimaneva puntata su Colin anche se il suo sguardo
saettava su di lei, come per assicurarsi che non facesse niente di
stupido.
«Non sei mai stato dalla nostra parte, vero, piccolo traditore
che non sei altro?» sibilò Tristan a pochi centimetri dal
viso di Nathan. «Ti sei fatto fregare dal fascino malato di
questi mostri molto più in fretta di quanto pensassi.»
«Ehi! Piano con le parole» protestò Matthew in tono
indignato.
Nathan trasse un respiro spezzato. «Non sono mostri, non lo sono
mai stati! Siamo noi ad averli etichettati così.»
Una risata aspra sfuggì dalle labbra dell’altro.
«Oh, vuoi dirmi che non hanno mai ucciso nessuno? Che non sono
per più di metà animali senza controllo? Apri gli occhi,
Evans, guarda in faccia la realtà.» Lanciò uno
sguardo sprezzante a Sean. «Se li lasciamo fare, conquisteranno
l’intera città e ammazzeranno chissà quanti
innocenti.»
«Lascialo, Tristan» ordinò con voce bassa Colin,
tutto il corpo in tensione.
«Non c’è bisogno di complicare le cose»
convenne Sean. «Lascialo ed evitiamo di ricorrere a mezzi che non
piacciono a nessuno.»
Sul volto di Tristan si dipinse un ghigno senza allegria. «Se
fosse per me, sareste tutti morti adesso, tutti.» Si voltò
a guardare Scarlett dritto negli occhi senza allentare la presa su
Nathan. «A cominciare da lei.»
Matthew scivolò davanti a Scarlett come a farle da scudo. Sean
fece scattare la sicura della pistola, uno click metallico secco e
gelido. Adesso stava mirando esattamente al centro della fronte di
Tristan.
«Cos’è che hai detto?» ringhiò e
persino io fui in grado di scorgere il suo lupo che mostrava le zanne.
Nathan approfittò di quell’attimo per sferrare un pugno
sulla mascella spigolosa di Tristan e sottrarsi così alla sua
presa. Lui barcollò all’indietro di un paio di passi,
più sorpreso che sofferente. Alcuni cacciatori mormorarono
commenti sprezzanti che fecero incurvare le sue spalle come se avesse
dovuto sostenere un peso enorme.
«Nessuno deve morire oggi» dissi a voce abbastanza alta
perché tutti mi sentissero. «E nessuno deve farsi male.
Tutto quello che vogliamo è vivere, avere una possibilità
di dimostrarvi che non… che non siamo mostri assassini.»
Scarlett incrociò il mio sguardo per un attimo: c’era una
fiamma dorata ad animarle le iridi, intensa come non l’avevo mai
vista. «Farci la guerra a vicenda non è la soluzione,
porterà solo altri morti. Perché se decidete di riaprire
la caccia, questa volta non saremo solo prede.»
Contro ogni logica apparente, Sean abbassò la pistola e la
rinfilò nella cintura dei jeans voltandosi a guardare Colin.
«Qualunque sia la tua decisione, Scarlett ha ragione: da oggi le
cose cambiano. Potete andarvene e sopravvivere o potete restare e
scontrarvi con noi. A te la scelta.»
«Vuoi che ce ne andiamo?
Che lasciamo la città in mano a voi?» sbottò Colin
sprezzante. «Ho dedicato la mia intera vita a questa causa, ho
perso tutto per proteggere persone che neanche sanno della vostra
esistenza, non abbandonerò tutto per te e il tuo gruppo di
lupi.»
«Pensa a Denise, Colin» intervenne Nathan. «Dovresti
stare con lei, aiutarla a crescere, essere un padre presente. Non
combattere una guerra priva di scopo.»
A quel nome, qualcosa nel petto dell’uomo si spezzò, una
profonda tristezza gli invase le iridi velate dalla furia che pareva
consumarlo. Dovetti sforzarmi per non guardare altrove, per sopportare
tutto il dolore che traspariva dal suo viso stanco. In un moto di
rabbia disperata, si abbassò per afferrare la pistola e la
sollevò stringendola con entrambe le mani, la bocca
all’altezza del cuore di Sean. «È colpa tua, tua e
di tutti quelli come te. Siete solo capaci di distruggere.»
Il panico tornò a serrarmi il cuore, ma questa volta non era per
me stesso che mi stavo preoccupando. L’urgenza di muovermi, di
fare qualunque cosa mi bruciava nel petto, quasi fosse stata acido.
Sean avanzò di un passo, poi un altro, finché la pistola
non era premuta contro il suo sterno. Nonostante la sua calma assurda,
per la prima volta da quando lo conoscevo apparve esposto, indifeso. E,
realizzai, era esattamente ciò che voleva, era stato lui stesso
ad abbassare le proprie difese e mostrarsi così vulnerabile.
Sembrava che lo stesse invitando a premere il grilletto.
I lupi del nostro schieramento di scambiarono occhiate confuse e
allarmate, nessuno aveva idea di cosa avesse in mente, né di
cosa fare. Dovevamo aspettare e basta pregando che Colin non decidesse
di farla finita?
Scarlett cercò il mio sguardo con urgenza, il petto che si
alzava e si abbassava a un ritmo forsennato dettato dalla paura.
Dovetti mordermi il labbro fino a sentire il sapore del sangue in bocca
per impedirmi di fare qualunque cosa se non rimanere immobile ad
aspettare. Un intervento, da parte di chiunque, avrebbe potuto far
degenerare quella situazione già abbastanza tesa.
«Può finire tutto adesso» cominciò Sean, la
voce bassa come il fruscio del vento tra gli alberi. «Tutto il
dolore, la fatica, la rabbia… tutto quanto. L’unica cosa
che vi chiedo è di lasciare Seattle.»
Le mani di Colin erano scosse da tremiti, una reazione più che
umana, ma che stonava con l’immagine del cacciatore spietato che
mi ero fatto di lui: c’era un’anima ferita ed esausta
nascosta sotto tutto quell’odio. Per alcuni lunghissimi istanti
la pistola rimase premuta contro il petto di Sean, fin troppo vicina al
suo cuore.
Poi le labbra di Colin si contrassero in una smorfia di dolore, tutta
la sua forza venne meno in un secondo. Lasciò ricadere le
braccia lungo i fianchi, l’arma abbandonata in una mano. Il suo
sguardo era distante, lontano anni luce da quel parcheggio.
Sean espirò piano rilassando i muscoli delle spalle. «Hai
fatto la scelta giusta.»
«Non ho scelto niente, lupo, non sono più in grado di
farlo» mormorò l’uomo, la voce stanca e svuotata.
Un’ombra attraversò le iridi dell’Alfa, ma fu troppo
veloce perché potessi capirne il significato. Annuì una
volta sola, di nuovo padrone della situazione. «Dovreste
andarvene entro domani.»
«Non riesco a credere che stia succedendo davvero»
esclamò Tristan, la voce grondante di disprezzo.
Colin tornò a guardare Sean ignorando il commento. «Solo
una cosa. Non possiamo lasciare Seattle completamente priva di
cacciatori. Se la voce di questo accordo e delle sue conseguenze
dovesse spargersi, vi ritrovereste assediati. E verrebbero a cercare
anche noi accusandoci di tradimento.»
Tristan fece un passo avanti rompendo la formazione compatta dei
cacciatori e fissò l’uomo dritto in faccia con rabbia.
«Non ti permetterò di distruggere quello per cui abbiamo
lavorato tanto» sbottò per poi raccogliere la pistola.
«Se voi non avete il coraggio di fermare questa follia, lo
farò io.»
Avanzò ancora e, prima che avessimo il tempo di realizzarlo,
afferrò Scarlett per un braccio e la trasse a sé. Sentii
il mio cuore fermarsi quando le premette la canna della pistola contro
la gola tenendola stretta contro il suo corpo per impedirle di
divincolarsi. Mossi un passo in avanti, evitando di barcollare per puro
miracolo.
Premuta contro quei vestiti scuri e anonimi, Scarlett sembrava
più piccola di quanto non fosse, temevo di vederla scomparire da
un momento all’altro. Era impallidita di colpo sgranando gli
occhi e artigliando il braccio del cacciatore quasi per impedirsi di
affogare.
Tra tutti, ero quello che poteva fare meno per aiutarla, non avevo
né l’addestramento dei cacciatori né la forza e i
riflessi dei licantropi, ma la sola idea di saperla di nuovo tra le
mani di uno dei suoi assalitori mi rendeva abbastanza avventato da
provare comunque a fare qualcosa.
Feci per muovermi ancora, ma Sean mi fermò sollevando una mano.
Non aveva ancora preso la propria arma, ma dalla tensione dei suoi
muscoli si intuiva che era pronto a scattare. Per la prima volta,
l’idea di usare la violenza non mi sembrava più
così sbagliata, adesso era necessaria.
«Possiamo essere noi a vincere, non dobbiamo per forza lasciare
che siano loro a farlo» iniziò Tristan cercando con lo
sguardo l’appoggio degli altri cacciatori. «Siamo soldati,
combattiamo perché questa città sia sicura, per dare un
futuro migliore a chi verrà dopo di noi. Davvero avete paura di
contrattaccare?»
I cacciatori esitarono, Colin imprecò sottovoce, Nathan
serrò i pugni lungo i fianchi. Nessuno osava dire niente,
né per appoggiarlo né per dargli contro. Avevo la netta
impressione che quell’incontro, la solida strategia di Sean,
stesse degenerando, era a un soffio dallo sfuggirci di mano. E noi
potevamo poco o nulla per impedirlo.
Con la coda dell’occhio colsi Sean annuire piano, un movimento
quasi impercettibile della testa. Quasi nello stesso momento,
l’espressione di Scarlett si indurì cancellando ogni
traccia di paura, le sue iridi si accesero d’oro. Aggrappandosi
con forza al braccio di Tristan, sollevò una gamba e usò
il tallone dell’anfibio di pesante pelle nera per colpirlo sul
ginocchio. Lui lanciò un grido di dolore lasciandola andare.
Scarlett si girò su se stessa, un ringhio basso che le vibrava
in gola. Mollò un pugnò direttamente sul naso di Tristan
spedendolo lungo disteso a terra. Matthew fischiò in segno
d’approvazione attirando su di qualche occhiataccia da entrambi
gli schieramenti. Il mio sollievo fu tanto che sentii le ginocchia
cedermi, rimasi in piedi per pura forza di volontà.
Un angolo della bocca di Sean si sollevò appena in un
sorrisetto. «Vi ho detto che i ruoli erano cambiati, no? Non
siamo più solo prede.»
Nel frattempo, Nathan aveva raccolto la pistola di Tristan, che si
stava rimettendo in piedi tra imprecazioni e gemiti. Rivoli di sangue
scuro gli colavano dal naso dando l’impressione che indossasse
una maschera spettrale. Fissò con astio Scarlett pulendosi il
viso con la manica della giacca.
Lei, che aveva ripreso la sua posizione accanto a Matthew,
ricambiò l’occhiata con altrettanta ferocia. Il tempo di
avere paura era finito.
Sean si rivolse a Colin, il mento sollevato in un’espressione di
superiorità. «Dovrei farvi ammazzare tutti per questo, lo
sai? È stato un affronto ai limiti del tollerabile, un insulto
direi. Ma abbiamo deciso di stringere un accordo e odio lasciare le
cose a metà, quindi finiamo questa trattativa una volta per
tutte.»
L’uomo sospirò a fondo passandosi una mano sul volto
stanco. «Stavo dicendo che sarebbe più prudente lasciare
qui qualcuno di noi, almeno due o tre persone per essere sicuri che
nessun’altro cacciatore cerchi di entrare in città e
riaprire la caccia.»
L’Alfa ponderò la proposta socchiudendo gli occhi, del
tutto consapevole di avere il coltello dalla parte del manico e con
tutta l’intenzione di usare quel suo vantaggio. «Credo si
possa fare. Due cacciatori possono restare, ma devono essere disarmati
e ben disposti. Non accetterò un altro episodio come quello che
è appena successo.»
«Può rimanere Nathan.» Subito dopo aver parlato,
Scarlett si coprì la bocca con la mano. Le sue guance si tinsero
di rosso mentre abbassava lo sguardo.
Tristan alzò gli occhi al cielo. «Non è neanche un
vero cacciatore.»
«Nate è giovane e ha molto da imparare, ma è
indubbiamente il più disponibile a cercare un dialogo con
voi» commentò Colin. «Dovremmo affiancargli qualcuno
con più esperienza però.»
Brian fece un passo avanti, il viso segnato dalle rughe calmo e
dall’espressione gentile. Non l’avevo neanche notato, fino
a quel momento era rimasto in silenzio a osservare e ascoltare. Ancora
una volta, mi apparve più come un padre di famiglia piuttosto
che come un assassino, non riuscivo a immaginarlo armato, né
tantomeno capace di odiare qualcuno.
«Posso rimanere io, se per voi va bene» propose, la voce
calma e pacata. «Sono uno dei più anziani e ne ho viste di
cose in questi anni. Io e Nate potremmo lavorare bene insieme, che ne
dici, ragazzo?»
Nathan sbatté le palpebre, sorpreso. «Io…
sì, va bene.»
Colin fece un breve cenno d’assenso col mento. «Manca la
tua approvazione…» Si interruppe in modo brusco
nascondendo quell’esitazione con un colpo di tosse. Stava per
chiamare di nuovo Sean “lupo”, ma doveva essersi reso conto
che non sarebbe stata una mossa molto furba.
Un angolo della bocca di Sean si contrasse in una piccola smorfia.
«D’accordo, può andare. Voi altri dovete lasciare la
città entro mezzogiorno di domani, o l’accordo salta e vi
ritrovate cinquanta lupi che vi danno… la caccia.»
Un mormorio percorse la fila di cacciatori, ma nessuno osò
protestare. Persino Tristan sembrava essersi calmato, nonostante la sua
espressione fosse ancora cupa e rabbiosa.
«Seattle è una vostra responsabilità adesso»
disse Colin e c’era una nota di tristezza nella sua voce.
«Spero ve ne prenderete cura.»
Sean annuì, fiero. «Lo faremo.»
L’uomo avanzò di un passo sollevando una mano. «Buon
lavoro allora.»
L’Alfa lo scrutò per un attimo, prima di stringerla con
fare solenne. «Grazie.»
Colin fece cenno ai suoi di raccogliere le armi poi, dopo essersi
scambiato un’ultima occhiata con Sean, si voltò dandoci le
spalle. Lui fece lo stesso, si girò invitandoci a seguirlo.
Faticavo a credere che l’accordo avesse funzionato davvero, che
fossimo riusciti a portare a termine quell’impresa così
grande e pericolosa. Era partito tutto per salvare un’unica
ragazza, adesso avevamo tra le mani un’intera città. La
mia mente si riempì di tutti gli scenari terribili che potevano
succedere, tutte le cose che potevano andare storte, ma le spinsi in un
angolo per concentrarmi su quello che invece avevamo ottenuto lavorando insieme come un vero e proprio branco.
Al mio fianco, Sean guardava dritto davanti a sé, un sorrisetto
leggero a incurvargli le labbra, quasi come se neanche lui si rendesse
contro fino in fondo che ce l’avevamo fatta. Scarlett mi rivolse
un sorriso luminoso quando incrociai il suo sguardo, i suoi occhi
ambrati sembravano brillare in quella giornata così cupa e
grigia sfidando il temporale in arrivo.
Mentre un lampo squarciava il cielo sopra Seattle, il rumore di uno sparo riempì l’aria.
SPAZIO AUTRICE: Ehi! No, non sono dispersa, sono solo molto impegnata e un po' bloccata da un'ispirazione che va a singhiozzo.
Se i miei calcoli sono corretti e tutto va bene, il prossimo dovrebbe
essere l'ultimo capitolo prima dell'epilogo. O meglio, a dir la
verità non so ancora se scriverò anche un epilogo, ma
l'idea c'è, devo vedere come sarà la situazione quando
avrò finito il 41° capitolo
Quindi sì, ormai siamo quasi alla fine di UAPM, ma non per
questo le sorprese sono finite, anzi. Chi credete che abbia sparato? E
chi è stato colpito? E dopo cosa succederà, quali saranno
le conseguenze?
Spero che il capitolo vi sia piaciuto e che il finale sia stato sconvolgente come speravo!
A presto <3
TimeFlies
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Capitolo 41 *** 41. Scarlett ***
Under a paper moon- capitolo 41
41. Scarlett
Non mi ero mai resa conto di quanto fosse forte l’odore del
sangue prima di allora. O meglio, avevo sentito quello del mio quando i
cacciatori mi avevano sparato, ma quello di un’altra persona era
del tutto diverso, era caldo, pungente, vagamente amaro.
L’aria era elettrica per via del temporale che stava per
scoppiare, il sentore dell’asfalto umido aleggiava intorno a noi.
Per un attimo, il tempo si era fermato dopo lo sparo.
Mi ci era voluto un po’ per capire cosa fosse successo,
l’avevo scambiato per un tuono piuttosto forte, per una porta che
veniva sbattuta, per tutto tranne che per quello che era realmente.
Perché quella possibilità era così spaventosa da
non essermi neanche venuta in mente.
Tornai in modo brusco alla realtà quando sentii il ringhio basso
e sofferente di un lupo. No, non di un lupo qualsiasi. Del mio Alfa.
Sbattei le palpebre e vidi Sean stringersi il braccio, le dita
macchiate di un rosso così vivo da sembrare innaturale.
C’era qualcosa di strano nella posizione del suo corpo, era teso,
ma allo stesso tempo piegato dal dolore, una lotta tra orgoglio e
sofferenza. E poi c’era Adam, furioso e protettivo insieme, con
un braccio intorno alla schiena dell’Alfa, le spalle dritte e lo
sguardo di fuoco puntato su qualcosa di lontano. Me ne resi conto solo
in quel momento: Sean era aggrappato a lui con la forza testarda di chi
non vuole lasciarsi andare al dolore, le sue iridi baluginavano
d’oro mentre il suo lupo lottava per limitare i danni.
Sollevando ancora di più gli occhi vidi Tristan, davanti al
quartier generale dei cacciatori, la pistola ancora stretta in mano e
puntata su di lui. La sua espressione era calma in modo spaventoso, del
tutto vuota, gelida. I cacciatori dietro e intorno a lui lo fissavano,
sconvolti quanto me.
Nathan gli si avvicinò a grandi passi, ma prima che potesse fare
qualunque cosa, lui gli puntò l’arma contro. Aveva
dimostrato di non aver paura di premere il grilletto, però
c’era una bella differenza tra lo sparare a quello che credevi
essere un mostro e sparare a chi era stato un compagno, un amico.
Senza pensarci, mi spostai per fare da scudo a Sean insieme ad Adam. Il
mio lupo scoprì le zanne con fare minaccioso facendomi nascere
una rabbia bollente nel petto. Non gli avrei permesso di portarmi via
nessuno, né il mio Alfa né chiunque altro del branco. Non
sarei stata di nuovo una vittima.
Un ringhio rabbioso e cupo nacque da qualche parte dietro di noi. Un
attimo dopo, Dawn marciò verso i cacciatori con una forza tale
che avrebbe potuto demolire un muro, forse addirittura un intero
edificio. Aveva gli occhi accesi d’oro, le zanne in mostra in un
sorriso sinistro e tagliente. Aveva abbandonato il fucile per
assecondare il proprio istinto rivelando la sua vera natura. Toby si
affrettò a raggiungerla e l’afferrò per un polso
prima che potesse raggiungere il suo scopo. Dawn scattò come un
serpente, tirando indietro la testa per guardarlo con aria di sfida, le
iridi velate di rabbia.
Nello stesso momento, Nathan aveva cercato di disarmare Tristan
dimostrando un coraggio che non credevo avesse. Lui però aveva
perso ogni briciolo di umanità e non esitò a reagire: lo
colpì con violenza al viso con il calcio della pistola facendolo
cadere in ginocchio. Prima che potesse andare oltre, Brian gli comparve
alle spalle e, veloce e silenzioso, gli passò un braccio intorno
alla gola. Tristan tentò di dimenarsi, ma la stretta
dell’uomo era ferrea.
Lo costrinse ad accasciarsi lentamente a terra, la pistola che gli
scivolava di mano, le dita che si muovevano frenetiche mentre
annaspava. Alla fine, smise di muoversi e si abbandonò come un
burattino a cui hanno tagliato i fili. Con gesti che denotavano una
certa esperienza, Brian lo fece sdraiare a terra senza troppe
cerimonie.
Nessun’altro aveva osato muoversi o fiatare, era stato tutto
troppo sconvolgente, troppo inaspettato per essere assimilato, per
poter scatenare una reazione. Nel giro di un minuto erano successe
tante cose che avevano bisogno di tempo per trovare il loro posto e
incastrarsi tra loro per ricreare una sorta di sequenza logica, dare un
senso a quegli ultimi sessanta secondi. La minaccia rappresentata da
Tristan era stata eliminata, adesso tutta la mia attenzione si
concentrava su Sean.
Mi voltai verso di lui, che nonostante la ferita si reggeva in piedi e
sembrava più che determinato a continuare a farlo. Aveva il
volto pallido e contratto, l’unico segno di sofferenza che si era
concesso era il sorreggersi contro Adam. Con un ringhio soffocato, si
staccò da lui raddrizzandosi.
Si liberò del giubbotto per poi lanciarlo a terra, lo sguardo
fisso sui cacciatori. Colsi sorpresa e timore serpeggiare tra le loro
fila. Nathan, che nel frattempo si era rialzato, si teneva una mano sul
viso, lì dove Tristan l’aveva colpito. I suoi occhi
incontrarono i miei, erano spaesati, ma non spaventati come credevo.
Sean avanzò, i passi sicuri che sembravano far tremare la terra.
Rivoli scarlatti gli scendevano lungo il braccio dandogli un’aria
più letale che sofferente. Come per un ordine implicito, noi
lupi lo seguimmo sfoderando le zanne. Percepivo il dolore del mio Alfa
propagarsi in ondate gelide dal suo corpo. I ricordi di quando io
stessa ero stata colpita da un proiettile d’argento mi invasero
la mente soffocando la lucidità.
Mi ritrovai in balia del mio lupo, smaniosa di combattere e agire.
Quella stessa energia selvaggia crepitava in tutto il branco e il suo
centro era Sean. L’Alfa si fermò a qualche metro dai
cacciatori, i muscoli della schiena in tensione, contratti, per
mascherare la sofferenza. Gocce di sangue scuro cadevano dalle sue dita
e si infrangevano contro l’asfalto, potevo quasi sentirne il
suono.
«Noi… Mi dispiace, non…» balbettò
Colin, la voce rotta dalla paura.
Me ne resi conto solo in quel momento, Sean aveva rivelato la sua
natura più primordiale: il suo lupo affiorava alla superficie
con le zanne scoperte e una furia devastante a incupirgli le iridi;
quelle dell’Alfa, invece, erano di un oro così puro e
intenso da pietrificare chiunque lo guardasse negli occhi. Gli artigli
scuri apparivano affilati come rasoi, quasi impazienti di affondare
nella carne.
Sean Leblanc era un fulmine, pura energia dalla portata micidiale
concentrata in un’unica persona, in un unico lupo. Le nuvole cupe
sopra di noi erano il suo palcoscenico. Rabbia, rancore e dolore si
trasformarono in un cocente desiderio di vendetta. L’aria
crepitava di elettricità, quasi si vedevano scintille brillare
nel vento freddo.
«Silenzio» tuonò Sean e fu un ringhio e un ruggito
insieme. «Avete fino a mezzanotte per andarvene, o giuro che
verrò a cercarvi uno a uno e non avrò nessuna
pietà.» Un sorriso sinistro, minaccioso gli incurvò
le labbra. «Vi farò pentire di non aver avuto una mira
migliore.»
Colin era sbiancato, aveva gli occhi spalancati in un’espressione
di puro terrore. Gli altri cacciatori sussultarono tremando come
foglie. Non avevo mai pensato a quanto potesse effettivamente far paura
un licantropo, né tantomeno un Alfa seguito dal suo branco.
Adesso avevo la risposta davanti ai miei occhi e dovevo ammettere che
non avrei mai voluto essere dall’altra parte.
Senza quella strana forza indomita che sentivo scorrermi nelle vene,
senza Sean e il resto dei lupi a guardarmi le spalle, mi sarei sentita
annientata dalla paura, come un cerbiatto messo all’angolo da un
predatore.
«Abbiamo capito» riuscì a dire Colin. «Domani
a Seattle saranno rimasti solo Brian e Nathan.»
«Oh, lo spero davvero» commentò Sean in tono
vagamente divertito. «Non vorrei dover venire a stanarvi.»
Colin deglutì annuendo con enfasi. Era così strano vedere
un cacciatore di licantropi che, solo poche settimane prima, mi aveva
minacciata e rinchiusa in una cella tremare di fronte a quelle che
erano state le sue prede, tremare di fronte a me. Quella consapevolezza
mi inebriava come alcol, mi faceva sentire forte e potente, pericolosa.
Erano sentimenti oscuri emersi dalle profondità più
recondite del mio animo, desideri che neanche credevo di avere. Io non
ero così, però.
Una piccola parte di me lo sapeva e lo stava urlando perché le
prestassi attenzione: Scarlett Dawson non era un mostro violento, non
lo era mai stata. Così, mentre i cacciatori si affrettavano a
sparire di nuovo dentro l’edificio che usavano come quartier
generale, portando con loro anche il corpo svenuto di Tristan, ripresi
il controllo di me stessa e del mio lupo. Fu come lavarsi il viso con
acqua gelida, all’improvviso ero del tutto sveglia e consapevole
di quello che succedeva intorno a me, non avevo più la mente
annebbiata da quella furia cupa e malata.
D’istinto, mi lanciai un’occhiata alle spalle: Adam era
rimasto qualche passo dietro di noi, l’espressione preoccupata e
le labbra piegate in una linea severa. Anche se non era un licantropo,
doveva aver percepito quel turbinio di emozioni oscure e malvagie, non
in modo assoluto e inebriante come me, ma non poteva averle ignorate.
Con un sospiro, avanzò verso Sean, potevo quasi vedere le parole
prendere forma nella sua mente, pronte per essere pronunciate in quel
tono appena saccente che in realtà nascondeva la sua
apprensione. L’Alfa si voltò verso di lui, l’oro che
ancora gli baluginava nelle iridi, e di colpo apparve esausto,
completamente stremato.
Adam dovette accorgersene, perché si sbrigò a
raggiungerlo giusto in tempo per afferrarlo e impedirgli di cadere in
ginocchio. Il sangue sul braccio del lupo sembrava essersi scurito,
adesso era nero e denso come catrame. Grazie all’udito più
sviluppato dalla licantropia, fui in grado di ascoltare Adam che
borbottava insulti contro l’irresponsabilità di Sean.
Riuscii a cogliere una nota di sincera preoccupazione nella sua voce.
«Matt!» chiamai avvertendo un’ondata di dolore
più intensa delle precedenti propagarsi dal mio Alfa.
Matthew comparve al mio fianco ansimando piano. «Ah, non va bene,
non va per niente bene» mormorò stringendo le labbra.
Gli altri lupi si raccolsero dietro Sean e Adam con fare protettivo,
lanciavano di
continuo occhiate sospettose all’edificio dove si erano rintanati
i cacciatori.
Matthew e io ci affrettammo a raggiungere l’Alfa. Di colpo, la
consapevolezza che fosse ferito mi piombò addosso stringendomi
il petto in una morsa d’ansia. Si era mostrato così forte
e invincibile davanti ai cacciatori che non avevo dato troppo peso al
sangue che gli macchiava la pelle chiara, adesso però era
l’unica cosa che riuscivo a vedere. Raccolsi la sua giacca da
terra mentre mi avvicinavo.
Matthew si sfilò la camicia, rimanendo con indosso solo una
maglietta, e ne strappò una lunga striscia. Quando si trattava
di curare qualcuno diventava preciso ed efficiente come un vero e
proprio chirurgo, perdeva tutta la sua goffaggine come per magia. Senza
dire una parola, passò la striscia di stoffa dietro il braccio
di Sean, sopra il foro d’entrata del proiettile, e la legò
come avrebbe fatto con un laccio emostatico. Il lupo si lasciò
sfuggire un ringhio soffocato, Adam aumentò la stretta su di lui
quasi senza rendersene conto.
«Devo estrarre la pallottola in fretta, o l’argento
arriverà al cuore» disse Matthew con fare sbrigativo.
«Ho i miei strumenti nella Camaro, posso farlo qui e
adesso.»
Infilai una mano in una delle tasche della giacca di Sean, quella che
sentivo più pesante, e ne trassi le chiavi dell’auto. Le
passai a Matthew che corse verso la macchina senza fiatare.
«Puoi camminare?» mormorò Adam cercando di
incrociare lo sguardo di Sean. «Se no, possiamo…»
L’Alfa sollevò il mento con orgoglio testardo.
«Posso camminare.»
Gli occhi di Adam incontrarono i miei e c’era una domanda muta in quelle iridi: stai bene? Annuii e lo vidi rilassarsi appena.
Insieme, raggiungemmo la Camaro e lui fece sedere Sean su uno dei
sedili prestando attenzione a non fargli male. Adam non si
allontanò di lì, mentre Matthew frugava nella sua borsa
di pelle cercando gli strumenti che gli servivano, rimase accanto a
Sean, fiero nonostante l’apprensione che pesava sulle sue spalle
così come sulle mie. Avevo quasi l’impressione di essere
fuori posto lì, stringevo la giacca come se avesse potuto darmi
conforto, rassicurarmi.
Sentivo Dawn parlare in tono concitato con Toby poco dietro di noi; la
presenza degli altri lupi, preoccupati per il loro Alfa, era un filo di
energia che ci circondava, sottile, ma innegabile.
Matthew ripulì la pelle intorno alla ferita sul braccio di Sean
e gli lanciò un’occhiata. «Farà male, molto.
Purtroppo non ho antidolorifici qui, ma…»
«Fallo e basta» sbottò Sean, il petto che si alzava
e si abbassava secondo il ritmo frenetico e discontinuo dettato dal
dolore.
Matthew annuì, l’espressione cupa. Si rivolse ad Adam, la
voce ferma, controllata: «Ho bisogno che tu lo tenga fermo, pensi
di poterlo fare?»
Lui annuì senza esitare, le sue mani scivolarono sulle spalle
dell’Alfa e le strinsero con decisione. Percepivo il battito
accelerato del suo cuore, eppure al di fuori non mostrava neanche un
briciolo di quel tumulto di emozioni.
Sean mi guardò e la sua espressione si addolcì.
«Non devi rimanere se non vuoi. Non sarà un bello
spettacolo, non sarebbe da codardi non guardare.»
Mi ritrovai a scuotere la testa affondando le dita nella pelle morbida
della sua giacca. «Resto. Siamo un branco, no? Dobbiamo
sostenerci a vicenda.»
Un angolo della sua bocca si sollevò appena.
«D’accordo, solo, non vomitare sulla mia macchina.»
Mi lasciai sfuggire una risata nervosa e allo stesso tempo liberatoria.
«Farò del mio meglio.»
«Okay, fallo, Matt» fece Sean prima di trarre un respiro
profondo. «In fretta.»
Un bagliore argenteo nella mano di Matthew rivelò un paio di
pinze lunghe e sottili. Nonostante i miei buoni propositi di essere
coraggiosa, serrai gli occhi quasi subito mordendomi con forza il
labbro. Il mio lupo uggiolò piano nel sentire quello di Sean
soffrire in quel modo.
Qualcuno dietro di me emise un verso molto simile a un conato, qualcun
altro lo rassicurò invitandolo a voltarsi. Socchiusi appena le
palpebre per sbirciare nel momento in cui Matthew estraeva con
espressione vittoriosa il proiettile dall’avambraccio
dell’Alfa. L’argento mandava bagliori sfumati di rosso,
quasi minacciosi. Sean imprecò tra i denti e si accasciò
contro il sedile, e di conseguenza contro Adam, mentre cercava di
calmare il proprio respiro.
Il sollievo mi rese deboli le ginocchia, dovetti aggrapparmi alla
carrozzeria della Camaro per non rovinare a terra.
Adam mi rivolse un’occhiata preoccupata. «Stai bene,
Scar?»
Annuii facendomi cadere alcune ciocche castane davanti al viso.
«Sì, sì sto bene. Sono solo…
sollevata.» Mi scostai i capelli dal viso accennando un sorriso.
«Siamo tutti interi, è una bella notizia.»
In quel momento, Dawn ci raggiunse e sembrava decisamente meno contenta
di me riguardo l’esito della nostra missione. «Ti avevo
detto che sarebbe stato pericoloso» sbottò fissando Sean
con aria accusatoria. «Te l’avevo detto più di una
volta e tu non hai voluto ascoltarmi.»
Sean si raddrizzò appena e la guardò dritto in viso. Era
ancora pallido, ma il suo sguardo era tornato determinato come prima.
«Ho fatto quello che dovevo. Abbiamo vinto, se ne andranno.
Questo,» accennò al proprio braccio macchiato di sangue,
«è solo un piccolo prezzo da pagare.»
Matthew si intromise tra loro per posare della garza imbevuta in un
liquido violaceo dall’odore dolciastro sulla ferita
dell’Alfa. «Tieni premuto… Sì, così,
perfetto. Aiuterà a ripulire il tuo organismo
dall’argento.»
Dawn afferrò con rabbia il proiettile sporco di rosso che Matt
aveva lasciato da parte e lo tenne sollevato tra due dita. «Un
piccolo prezzo? Saresti potuto morire. Sei stato fortunato, quel
cacciatore biondo deve avere un debole per noi perché senza di
lui adesso avresti una pallottola nel cervello, caro il mio
Alfa.»
Mi scostai dall’auto. «Intendi Nathan?»
Lei mi lanciò un’occhiata veloce. «Sì, lui.
Ha deviato il colpo spingendo l’altro cacciatore. È
probabilmente l’unica ragione per cui sei ancora in vita.»
Sean si lasciò sfuggire una smorfia d’irritazione. Aveva
ancora le mani di Adam sulle spalle, ma non sembrava farci caso.
«Beh, a quanto pare era così che doveva andare. Il fatto
che io sia stato graziato dalla sorte non vuol dire che ciò che
abbiamo fatto non abbia significato. Abbiamo vinto comunque.»
Dawn strinse il proiettile nel pugno fissandolo negli occhi. Ora
più che mai appariva come una regina guerriera sul punto di
decidere le sorti di un prigioniero. Quando riaprì la mano, la
pallottola era ridotta a una pallina informe. La pelle del suo palmo
era arrossata per essere stata a contatto con l’argento,
però lei non lo notò neanche. «Adesso hai un branco
che conta su di te, Sean, non puoi dare così poco valore alla
tua vita» disse con voce dura, gli occhi scuri e profondi.
Gettò ciò che rimaneva del proiettile a terra e si
allontanò a grandi passi. Sollevando lo sguardo, notai come gli
altri lupi si fossero allontanati di qualche metro per darci spazio, ma
anche come seguirono i movimenti della lupa mentre raggiungeva il
pick-up.
«Ha ragione» mormorò Adam dopo un po’.
«Le sorti di questo branco dipendono da te, se muori sarà
tutto inutile.»
Sean si irrigidì contraendo la mascella. «Quello che ho
fatto…»
«Abbiamo vinto però, ed è questo che conta»
concluse Adam, un angolo della bocca appena sollevato. Mi rivolse
un’occhiata e c’erano fulmini nella tempesta delle sue
iridi. «Seattle è nostra.»
1 settimana dopo
Il sole tiepido del primo pomeriggio mi accarezzava la pelle mentre me
ne stavo seduta sullo schienale di una delle panchine dietro la scuola.
Era stato strano rientrare in un’aula, seguire le lezioni,
prendere appunti e rivedere Elisabeth, chiacchierare con lei come se
niente fosse successo. Invece erano successe moltissime cose, e molte
altre sarebbero accadute di lì a breve senza che nessun umano se
ne rendesse conto.
Accanto a me, Nathan osservava con aria pensierosa il parcheggio che si
svuotava, il colletto della giacca militare sollevato che gli sfiorava
la mascella. La sua Jeep, di un rosso scolorito, passava inosservata,
ferma nel suo angolo sotto l’ombra proiettata dalla palestra. Sul
viso aveva ancora l’ombra del livido che il calcio della pistola
di Tristan gli aveva lasciato, un alone violaceo che si allargava sul
suo zigomo.
La prima volta che l’avevo visto era stato il giorno dopo lo
scontro con i cacciatori, allora era ancora rosso e gonfio, mi aveva
fatto salire la nausea mischiata ai sensi di colpa. Lui però
aveva minimizzato con un alzata di spalle dichiarando che le ferite di
guerra andavano portate con onore.
«È tutto così tranquillo ora» mormorò
quasi sovrappensiero.
Mi voltai a guardarlo, incuriosita. «Che intendi?»
I suoi occhi castani incrociarono i miei. «Senza Colin e gli
altri, senza la caccia… non abbiamo molto da fare. Non che sia
una cosa negativa però, anzi. Insomma, adesso io e Brian
possiamo concentrarci su quello che ci piace sul serio.»
«Per esempio? Che cosa vorrebbe fare Nathan Evans nella
vita?» gli chiesi accennando un sorriso.
«Adoro i motori e le auto, settimana prossima farò una
prova in un’officina: se andrà bene, mi assumeranno come
aiutante» rivelò con una scintilla nuova nello sguardo.
«Se ci fosse stato ancora il clan dei cacciatori non avrei potuto
farlo.»
Mi scostai una ciocca di capelli dal viso. «Beh, wow. Non hai
perso tempo.»
Lui lanciò un’occhiata alla Jeep. «Era da un
po’ che volevo farlo, ho colto l’occasione al volo.»
Mi mordicchiai il labbro. «Cosa pensi che faranno gli altri? Ora
che non possono più cacciare, intendo.»
Nathan scrollò le spalle scuotendo piano la testa. «Non lo
so, i più giovani forse andranno al college, gli altri
troveranno lavoro… Colin sarà impegnato con le pratiche
per l’affidamento di Denise, probabilmente.»
«E Tristan?» mormorai sentendo un retrogusto amaro
pizzicarmi la lingua nel pronunciare quel nome. Avevo ancora ben
impresso in mente il dolore devastante che aveva provato Sean quando
gli aveva sparato, i rivoli di sangue scuro che sembravano crepe sulla
sua pelle chiara.
«Non so davvero cosa potrebbe fare lui» commentò
Nathan prima di sospirare. «Ha così tanta rabbia dentro di
sé… È imprevedibile, come un animale
ferito.»
Corrugai la fronte. «Perché ce l’ha tanto con i
licantropi? Cioè, so che tutti i cacciatori ci considerano
mostri, ma per lui sembra una questione molto più…»
«Personale?» indovinò Nathan. «Lo è.
Tristan è convinto che i lupi gli abbiano portato via
tutto.»
«Non capisco, perché pensa una cosa del genere? Cosa gli
abbiamo fatto?» domandai cercando di incrociare il suo sguardo.
Lui si passò una mano tra i capelli, l’espressione che si
incupiva. «Devi sapere che Tristan aveva un fratello maggiore,
Gabriel. Era stato lui a istruirlo alla caccia, ad addestrarlo e
renderlo il soldato che è. Erano molto legati. Quando cercavano
e attaccavano licantropi insieme erano micidiali. Fino a che, due anni
fa, non accadde un incidente.»
Mi accorsi solo in quel momento che mi ero sporta verso di lui, quasi
temessi di perdermi qualche parola. Mi schiarii la gola ritraendomi.
«Che successe?»
«Era la settimana prima del plenilunio, erano usciti con altri
del gruppo per rintracciare un lupo che si era spinto nei boschi a nord
della città per sfuggirci» continuò Nathan, la voce
grave. «Si erano divisi per coprire un’area più
vasta e… fu una pessima idea. Il lupo era ferito, esausto,
disperato. Non appena vide Gabriel da solo non esitò ad
attaccare. Tristan era lì vicino, così intervenne, ma era
troppo tardi: il licantropo aveva morso suo fratello.»
Richiamai alla mente la lezione di Sean sui morsi e le trasformazioni e
un brivido mi scese lungo la schiena quando mi ricordai che solo un
piccolo numero di persone che venivano morse riuscivano a sopravvivere
senza riportare danni irreparabili. Rimasi in silenzio, aspettando che
fosse Nate a scegliere di continuare.
Trasse un respiro profondo prima di riprendere a parlare:
«Tristan e gli altri riportarono Gabriel nel quartier generale
lasciando perdere il lupo. Le regole dei cacciatori sono molto severe,
soprattutto quando uno di noi viene morso. Le applicarono anche quella
volta, senza esitazioni. Gabriel fu chiuso in una cella, gli venne dato
un pugnale d’argento e gli dissero di togliersi la vita per
evitare che al mondo ci fosse un altro di quei mostri.»
Un moto di nausea mi strinse la gola. «Non è possibile… Gli hanno detto di uccidersi?»
Nathan chinò la testa torturandosi le mani in grembo. «Non
potevano lasciarlo a piede libero, ed era suo dovere in quanto
cacciatore eliminare quella minaccia. Sarebbe morto con onore
piantandosi con le sue stesse mani un coltello nel cuore.»
«E l’ha fatto? O si è rifiutato?» chiesi con
impazienza. L’urgenza di sapere era l’unica cosa che mi
occupava la mente.
«Lo fece» mormorò Nate. «La mattina dopo lo
trovarono riverso in una pozza del suo stesso sangue. Aveva mantenuto
fede alla sua promessa di ripulire il mondo dai licantropi, fino alla
fine. Da quel momento, Tristan non fu più lo stesso.»
Schiusi le labbra, incredula, prima di stringerle con rabbia. «E
perché Tristan da la colpa ai lupi? Non siamo stati noi a
mettere un coltello in mano a suo fratello e a dirgli di
suicidarsi!»
«Quel licantropo l’aveva morso, però. Sia Tristan
che Gabriel erano troppo coinvolti, troppo ossessionati dalla missione
dei cacciatori per fermarsi a pensare se fosse giusto, sbagliato o
anche solo sensato» commentò lui tirando fuori le chiavi
della Jeep e rigirandosi l’anello del portachiavi attorno al
dito. «Il clan era tutto quello che avevano. Dopo la morte dei
loro genitori, Colin li aveva accolti e aveva dato loro un riparo. Sono
l’unica famiglia che è rimasta a Tristan.»
Mi venne spontaneo pensare a Sean, Adam, Matthew e Dawn, ai clienti del Luna di Carta…
Loro erano una sorta di famiglia per me, insieme a mia madre. Erano
tutti diversi, ognuno con le sue complessità e i suoi difetti,
eppure in qualche modo funzionava. Ci guardavamo le spalle a vicenda,
cercavamo di rispettarci e di sostenerci il più possibile sotto
lo sguardo vigile di Sean. Forse, adesso che io stessa avevo provato
cosa significava avere una famiglia allargata che ti protegge, potevo
capire la rabbia esplosiva di Tristan. Lo capivo, ma non lo perdonavo,
non potevo farlo.
«È orribile» sussurrai fissando il parcheggio senza
vederlo veramente. «Come si può chiedere a un ragazzo di
uccidersi per via di una vecchia leggenda?»
«Sai, agli umani serve qualcosa in cui credere, uno scopo…
il famoso “bene maggiore”. Per Gabriel e Tristan è
stato unirsi alla caccia, credevano di fare la cosa giusta» fece
Nathan. «Nessuno ha mai raccontato loro l’altra parte di
verità. Io sono stato fortunato, ho avuto la possibilità
di fare altro oltre a cacciare, di conoscere altre realtà e
costruirmi una mia idea del mondo, lui no.»
Riuscii solo a scuotere la testa, avevo la lingua secca,
inutilizzabile. Non c’era pietà
nei clan di cacciatori, c’erano solo credenze cieche e assolute
che non ammettevano dubbi o ripensamenti. O eri con loro, o eri contro
di loro.
«Non sto cercando di giustificarlo, comunque» aggiunse
Nate. «Quello che ha fatto è orribile e imperdonabile. Ci
ha portati sull’orlo di una guerra… più di quanto
non fossimo già. Se Sean non fosse stato clemente, saremmo tutti
morti.»
Ricordavo la rabbia selvaggia che mi aveva scosso il petto quando Sean,
ferito e sanguinante, aveva affrontato di petto i cacciatori. Il branco
era stato al suo fianco, ma ero certa che lui l’avrebbe fatto
anche da solo. Molti non avevano condiviso la sua scelta di risparmiare
Colin e il suo gruppo, avrebbero voluto vederli morti una volta per
tutte, ma lui era stato irremovibile. E quando l’aveva ribadito
per l’ennesima volta di fronte a tutto il branco, riunito davanti
a lui al Luna di Carta, avevo
scorto una scintilla d’orgoglio nello sguardo di Adam.
«Lo so» mormorai. «So che non condividi il suo gesto.
Non saresti rimasto altrimenti.»
I suoi occhi castani, sempre vivaci e affamati, indugiarono su di me
per qualche secondo, prima di scivolare via. «Già.»
Rimase in silenzio per un po’, come se stesse riflettendo sul
senso della vita. «Credi… credi che potremmo rivederci
ogni tanto? So che Sean non vede di buon’occhio me e Brian
nonostante l’accordo, ma…»
«Sì, possiamo» mi sentii dire pur senza ricordare di
aver deciso di farlo. «Insomma, sarebbe utile anche per il branco
instaurare una buona relazione con te. E Brian.»
La tensione che gli irrigidiva le spalle si sciolse e sulle sue labbra
si aprì un sorriso. «Vero, la diplomazia è
fondamentale quando si mette in atto un accordo.» Lanciò
le chiavi in aria e le riprese al volo scoccandomi un’occhiata
divertita.
Adesso appariva così giovane… pareva avere a malapena
diciotto anni, tutta l’oscurità del suo passato era
scomparsa, almeno per un po’. Nonostante avesse rinnegato i loro
principi e si fosse allontanato da loro, Nathan aveva trascorso gran
parte della sua vita con i cacciatori e questo l’aveva
influenzato, l’aveva segnato: uccidere qualcuno, licantropo o
meno, a sangue freddo era un’esperienza che ti rimaneva addosso,
come una cicatrice.
Non eravamo poi così diversi alla fine, anche io portavo un
segno fisico e tangibile del mio passato. Anzi, più di uno,
perché alla luce della luna piena il segno del morso che mi
aveva trasformato affiorava sulla mia pelle, traslucido e impalpabile.
Nathan infilò una mano nella tasca della giacca e ne trasse il
cellulare. Diede uno sguardo allo schermo aggrottando la fronte prima
di rimetterlo via. «Devo andare» mormorò
rivolgendomi un sorriso di scuse. «Ci vediamo presto, mmh?»
aggiunse poi, una scintilla di speranza nelle iridi castane.
Ricambiai il sorriso annuendo. «Sì, certo. Quando vuoi.»
Lui si mordicchiò il labbro, esitando per una manciata di
secondi. Poi si alzò per incamminarsi verso la Jeep. A
metà strada, si voltò continuando a camminare
all’indietro e mi rivolse un saluto militare che mi
strappò una risata. Rimasi a guardarlo mentre si allontanava,
una piacevole sensazione di calore che mi nasceva nel petto. Era stato
un cacciatore e questo era innegabile, ma Nathan Evans si stava
impegnando sul serio per cambiare e questo gli andava riconosciuto.
«Scarlett.»
Trasalii rischiando di finire poco elegantemente a terra quando sentii
una voce chiamarmi da dietro. Mi aggrappai alla panchina conficcando
gli artigli mezzi allungati nel legno e mi voltai, il cuore in gola.
Sean era a pochi passi da me, un sopracciglio biondo inarcato in
un’espressione perplessa.
Indossava la stessa giacca di pelle che aveva durante lo scontro con i
cacciatori, anche se aveva dovuto lavarla per togliere il sangue e Dawn
aveva cucito una toppa a forma di impronta di lupo sul foro lasciato
dal proiettile.
«Volevi uccidermi?» sbottai.
Lui si schiarì la gola, con ogni probabilità per
nascondere una risata. «No. E poi, avresti dovuto sentirmi, non
mi sono avvicinato di soppiatto.»
Scesi dalla panchina non reputandola più un luogo sicuro, e
incrociai le braccia al petto guardandolo dritto in viso. «Sai, a
volte le persone si perdono nei propri pensieri, quando lo fanno non
sono del tutto consapevoli di cosa accade intorno a loro. Sarebbe
carino non arrivare alle spalle o almeno annunciarsi.»
«Excusez-moi»
replicò lui senza scomporsi, la voce addolcita da un accento che
ricordava un po’ quello francese. «Comunque, sta’
attenta con quel cacciatore.»
Deglutii, all’improvviso nervosa. «Tu… hai
sentito…?»
Scosse piano la testa. «No, grazie al cielo sono arrivato poco
prima che se ne andasse e non ho sentito niente: non sopporto i drammi
adolescenziali.»
«Sei stato un adolescente anche tu!» protestai. «E
neanche tanto tempo fa.»
Alzò gli occhi al cielo. «Non me ne andavo in giro a
incontrare gente che non dovrei però.»
Strinsi le labbra. «È il nostro tramite con i cacciatori,
il loro rappresentante, dobbiamo comunicare con lui.»
Nei suoi occhi verdi passò un lampo. «Oh, quindi tu
l’hai incontrato qui dopo scuola per puro altruismo verso il
branco?»
«Sì» risposi senza esitare sollevando il mento.
«So che non mi crederai, ma è proprio così.»
«Okay» fece lui, sorprendendomi. «Voglio stare il
più lontano possibile da qualunque cosa coinvolga adolescenti e
ormoni quindi non insisterò. E adesso andiamo, gli altri ci
aspettano.»
Inarcai le sopracciglia, incuriosita. «Gli altri?»
«Abbiamo un incontro con il branco. Se hai altri progetti
però…» cominciò Sean.
«No, vengo volentieri. Insomma, sei pure venuto a prendermi, un
po’ come un autista privato» scherzai avviandomi verso il
davanti della scuola.
Lui mi seguì corrugando la fronte. «Non farci
l’abitudine però.»
All’ombra di un albero, la Camaro di Sean riposava come una
pantera dopo la caccia. Appoggiati alla carrozzeria c’erano
Matthew e Adam, intenti a chiacchierare. Erano del tutto rilassati, a
loro agio, vederli così mi scaldava il cuore: avevo temuto per
entrambi quando avevamo deciso di affrontare i cacciatori, in alcuni
momenti ero stata addirittura certa che avrei perso uno dei due, ma
alla fine avevamo vinto ed era anche per merito loro.
«Ehi Scar» mi salutò Adam rivolgendomi un sorriso,
lo sguardo tempestoso e luminoso al tempo stesso.
Sollevai un angolo della bocca. «Ehilà.»
Accanto a me, Sean stava studiando il ragazzo con una strana
espressione negli occhi, era come se si fosse trovato davanti a un
rompicapo che lo affascinava, ma che non riusciva a risolvere.
Matthew mi fece un allegro cenno di saluto con la mano, che ricambiai.
A volte era davvero difficile credere che avesse quasi
trent’anni.
«Andiamo, non voglio arrivare in ritardo» borbottò
Sean facendo il giro dell’auto. Prendemmo tutti posto, Adam di
fianco all’Alfa, io e Matt sui sedili posteriori. Il motore della
Camaro prese vita con un ruggito morbido, sentirlo rispondere
così docilmente faceva venire voglia di mettersi al volante
persino a me che neanche avevo la patente.
Quando ci immettemmo nella strada principale, Adam abbassò il
finestrino e l’aria fresca del pomeriggio gli scompigliò i
capelli. «Come stanno andando le cose secondo il tuo parere di
Alfa?» chiese lanciando un’occhiata a Sean.
Lui rispose senza distogliere lo sguardo dalla striscia d’asfalto
davanti a sé. «Per ora è tutto incerto, si sta
stabilizzando però, il che è un buon segno. Ancora
è presto per dire se il branco funzionerà.»
Adam aggrottò la fronte. «Li abbiamo salvati dai
cacciatori, ancora non si fidano?»
«Quando sei stato cacciato per tutta la tua vita, non riesci a
fidarti delle persone, non così facilmente. Vogliono mettere
alla prova me e voi, capire con chi hanno a che fare» disse Sean
con voce grave. «Abbiamo guadagnato punti e abbiamo Dawn e Toby
dalla nostra, però ci vorrà ancora un po’ di tempo
perché anche gli altri accettino tutte queste
novità.»
«Anche io ci misi un sacco prima di fidarmi di te»
mormorai, quasi sovrappensiero. E solo dopo aver parlato mi resi conto
che quella frase si applicava sia ad Adam che a Sean.
«Ed è giusto così, la fiducia è una
questione delicata, non deve e non può essere presa alla
leggera» commentò Sean. «Ma funzionerà, noi
lo faremo funzionare.»
Nello specchietto retrovisore incrociai lo sguardo di Adam, le tempesta delle sue iridi illuminata dalle pagliuzze dorate.
Non era facile convivere con un lupo dentro di sé, riuscire a
condurre una vita normale e nello stesso tempo tenerlo nascosto a tutti
sopportando pleniluni e sbalzi d’umore, eppure adesso sentivo di
avere la schiena coperta, ma soprattutto di aver trovato il mio posto
nel mondo.
Mentre la Camaro sfrecciava decisamente sopra il limite di
velocità sulle strade di una Seattle spazzata da un vento
fresco, mi ritrovai a pensare che essere un licantropo, alla fine, non
era poi così male.
SPAZIO AUTRICE: Ehilà!
Siamo arrivati alla fine di Under a Paper Moon! Questo è
l'ultimo capitolo della storia e sì, stento a crederci anche io.
Ho cominciato a pubblicare UAPM ormai due anni fa, due anni in cui sono
cresciuta e maturata e in cui mi sono resa conto che questa storia ha
bisogno di una pesante revisione. Ho voluto concluderla prima,
perché è giusto così: dovevo dare un finale al
nostro nuovo branco e anche a voi che leggete.
Non solo del tutto convinta di questo ultimo capitolo (e quando mai lo
sono stata? XD), ma eccolo qui. Spero che a voi piaccia più che
a me!
UAPM mi ha fatta crescere come "scrittrice", mi ha fatto imparare tante
cose e anche se non è assolutamente perfetta è una storia
a cui sono molto affezionata, soprattutto ai suoi personaggi. Ognuno di
loro ha dato il suo contributo alla storia, è anche grazie a
loro se Under a Paper Moon funziona.
E un grazie molto sentito va anche a voi che avete letto le avventure
di questo branco improvvisato, vi ringrazio dal profondo del cuore
<3
Spero di avervi lasciato qualcosa con questa storia!
PS. Non escludo l'idea di un sequel, che, in ogni caso, comincerei tra
diverso tempo. Adesso voglio dedicarmi ad altro, ma mai dire mai!
Un bacio,
TimeFlies
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