La materia dei sogni

di Ghevurah
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** I. Scavare ***
Capitolo 3: *** II. Perdere ***
Capitolo 4: *** III. Esternare ***
Capitolo 5: *** IV. Inspirare ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Questa storia è stata scritta senza scopo di lucro; personaggi, luoghi ed eventi appartengono a J. R. R. Tolkien e a chi ne abbia acquisito o ne eserciti i diritti, nessuna violazione di copyright è pertanto intesa.



Antefatto alla storia: Nell’anno 455 della Prima Era, Morgoth rompe l’Assedio ad Angband, scatenando un’eruzione vulcanica. Le fiamme bruciano la piana di Ard-galen e giungono fino alle creste degli Ered Wethrin e del Dorthonion. Con il fuoco si mostra anche Glaurung, Padre dei Draghi, seguito da eserciti di Orchi e Balrog.
Elfi e Uomini subiscono gravissime perdite e il conflitto viene ricordato come Dagor Bragollach (Battaglia della Fiamma Improvvisa).
Il Dorthonion, retto dai fratelli Angrod e Aegnor, cade e i due rimangono uccisi.
Finrod Felagund giunge da Nargothrond per prestare soccorso ai propri fratelli, ma viene bloccato dagli eserciti di Morgoth presso le Paludi di Serech. A prestargli soccorso sono gli uomini di Barahir, Signore della Casa di Bëor, che permettono alle schiere del re di mettersi in salvo. Come segno di gratitudine, Finrod dona l’anello della propria Casata a Barahir, giurando di prestare aiuto a lui e ai suoi discendenti in qualunque momento di bisogno.
Più a est, gli eserciti di Morgoth riescono a forzare anche il passo di Aglon, tenuto da Celegorm e Curufin, e a invadere lo Himlad. I due fratelli, assieme con Celebrimbor, ripiegano verso sud, rifugiandosi in Nargothrond.


Nomi Quenya con corrispondenze Sindarin (ordine di nomina nel testo):
Findaráto - Finrod
Turkafinwë (Turko) Tyelkormo (Tyelko) - Celegorm
Russandol - Maedhros
Ñolofinwë - Fingolfin
Moringotto - Morgoth
Curufinwë - Curufin
Arafinwë - Finarfin
Fëanáro - Fëanor
Aikanáro - Aegnor
Angaráto - Angrod
Artanis - Galadriel
Makalaurë - Maglor
Ambarussa - Amras
Carnistir - Caranthir
Artaher - Orodreth/Arothir
Tyelperinquar - Celebrimbor













La materia dei sogni








È delle città come dei sogni: tutto l'immaginabile può essere sognato, ma anche il sogno più inatteso è un rebus che nasconde un desiderio oppure il suo rovescio, una paura. Le città come i sogni sono costruite di desideri e di paure.

Italo Calvino, Le città invisibili










Prologo






Solleva il capo e annusa un’aria stucchevole – incensi dolciastri e una nota di muffa –, la stessa da settimane. Persino Huan ha perduto quel suo odore acre, d’istinto fattosi carne.
Tyelkormo sospira, rigirandosi tra i cuscini del divano.
Sono giorni cupi, lunghissimi, come le ombre tese a sfida delle fiaccole; ombre da cui suo fratello osserva quella città tumulata.
E lui aspetta il momento in cui l’analisi si trasformerà in macchinazione, nella trama di un qualcosa, qualsiasi cosa, da cui venir assorbito.
Le ore senza tempo annegano nel vino che loro cugino dispensa in alternativa alla bevanda amara e schiumosa di cui i Naucondi gli hanno fatto dono.
“Birra,” aveva sillabato Findaráto, dorato come il liquido che offriva, ma Tyelkormo l’aveva già assaggiato nel Thargelion e non era intenzionato a ripetere l’esperienza.
Con un sospiro volge lo sguardo sopra di sé, verso le arcate e gli stucchi e i mosaici che vestono la carne di roccia. Pareti contratte, intente a fagocitare ciò che si muove al loro interno, a spingerlo in intestini sempre più bui. Giù e ancora giù, verso baratri in cui l’aria – quella vera – è solo un ricordo.
Socchiude le palpebre, controllando il proprio respiro.
Huan, accucciato sui tappati, solleva il muso e lo ruota verso di lui, rivolgendogli uno sguardo giallo e selvatico in cui balena una preoccupazione fraterna.
“Ho solo nostalgia del mondo,” mormora Tyelkormo scrollando le spalle.
Ed è così. Vorrebbe uscire, infischiandosene dell’Ombra che dilaga nel Beleriand, smaniosa di trovare pertugi in cui strisciare per insidiare un’illusione di salvezza. Vorrebbe uscire e prendersi la propria rivincita, sanando ferite dell’orgoglio.
Ricorda ancora il fetore sulfureo trasportato dal vento dell’Himlad; spirava sempre da nord e il suo mugghio echeggiava lungo il valico dandogli voce.
Così la gola di Aglon aveva potuto raccontare loro delle fiamme, improvvise quanto il destino di morte che si compie in Endórë.




Gli Orqui non arrivarono a drappelli – manciate d’unità sfuggite alle maglie della cavalleria di Russandol o a quella di Ñolofinwë –, giunsero in massa. Un’orda che alle proprie spalle aveva solo la desolazione della cenere.
Si riversarono nel passo come l’ondata d’una piena, infrangendosi sulle pareti rocciose, sbattendo e arrancando e mordendo. E Tyelkormo abbracciò la consapevolezza d’essere l’ultimo argine all’avanzata di Moringotto nelle terre libere del Beleriand.
Avvertì il sangue ribollire, quasi stesse attendendo a una grande caccia nel Valinor e si scagliò sui nemici con foga.
Alcuni consideravano gli Orqui come mostruose emanazioni dell’Avversario, ma per lui erano mera carne e sangue; materia viva che s’apriva alla lama della sua spada, alla punta delle sue frecce. Annusava il loro fetore – sudore acido, zolfo ed escrementi di lupo –, così come annusava l’odore della loro paura, si sfamava di essa, calando fendenti nella moltitudine di corpi.
Ben presto la sua razionalità affogò in un istinto che aveva colori diversi, più corposi e ammorbanti, di quello in cui aveva imparato ad annullarsi nel Valinor, al suono erratico del Valaróma. E lui non udì richiami; non vide la sconfitta.
Solo la presa gelida di Curufinwë che si chiudeva sul suo polso lo richiamò alla realtà.
Aveva il volto pallido, suo fratello. Le labbra erano livide e gli occhi mercurici accesi di trepidazione. Tyelkormo non lo vedeva così da anni, ma gli ci volle il tempo del distacco per rendersene conto.
“Che cosa stai facendo?” Chiese Curufinwë – una domanda che fendette l’istinto, raggiungendo il cuore della ragione. “Dobbiamo andarcene. Subito. Il passo è preso.”
Tyelkormo guardò prima le proprie mani bagnate di sangue, poi l’orizzonte di cadaveri e rocce che vomitava altri nemici.
“Vuoi fuggire?” Domandò come se fosse la più surreale delle ipotesi.
Suo fratello gli strinse il polso. Una presa che Tyelkormo, ancora preda degli echi dello scontro, non avrebbe neppure notato se non fosse appartenuta a Curufinwe.
Alzò lo sguardo per trovare il viso di suo fratello a una spanna dal proprio. Il respiro di Curufinwe era intriso d’una rabbia gelida e si mischiava al suo, bollente e ferino.
“Non dimenticare il Giuramento,” soffiò suo fratello con voce ben più tagliente della spada brandita da qualsiasi Urco.
Tyelkormo corrugò la fronte, infastidito da un simile monito. Ma quando fece per ribattere un cavaliere li superò al galoppo, travolgendo l’avanzata di un Nauro.
Era Nármaitë, a capo delle schiere di Curufinwë, e proveniva dalla retroguardia.
“Quel’è il responso?” Chiese, tornando verso di loro.
Tyelkormo sentì le dita di Curufinwë liberargli il polso – rispetto al suo tocco l’aria del nord sembrò fuoco.
“Ce ne andiamo,” rispose suo fratello, indirizzando un’occhiata seccata ai fianchi montani, ormai brulicanti di nemici.
Nármaitë gli tese una mano, Curufinwë l’afferrò e montò dietro di lei. Poi si voltarono entrambi verso Tyelkormo.
Lui guardò il passo. La notte possedeva la materialità dei cadaveri e lungo il valico le rocce ghiacciate brillavano, sinistre, assieme alle corazze dei morti. La neve posatasi sul sentiero era un impasto di fango e sangue rimestato dagli Orqui che ancora avanzavano, quasi nudi rispetto ai guerrieri Ñoldor, ma animati da una volontà oscura che trascendeva la ragione e si faceva rabbioso istinto. E c’era qualcosa di terribilmente affascinante in tutto quello, un appello all’indole ferale che abitava l’animo di Tyelkormo.
“Turko.”
La voce di Curufinwë raggelò ogni suo pensiero.
Con un impeto di stizza piantò la propria spada nel cranio del Nauro travolto da Nármaitë. Un grido di frustrazione gli lasciò le labbra, vibrando lungo il passo del tutto simile all’ululato di un animale.
In lontananza, alcuni Orqui alzarono il capo, allarmati. Poi Huan emerse dalla notte – uno spettro evocato da quel clamore –, e con il muso nero di sangue raggiunse il proprio compagno.
“Andiamocene,” ringhiò Tyelkormo.




Sospira di nuovo. Le volte del soffitto sembrano sempre più incombenti, l’odore di umido e muffa, mescolato a quello degli incensi dolciastri, sempre più nauseante.
Da oltre le pareti di roccia proviene un brusio: il vociare secco, duro dei Sindar e di quei Ñoldor che hanno saputo sottostare con tanto zelo all’ordine di un re straniero.
Lui afferra un calice con un gesto stizzito, ma appena avverte l’aroma mielato del vino storce il naso e sbatte il bicchiere sul tavolo.
Il vino ondeggia, i fogli sparpagliati lì attorno vengono bagnati da alcune gocce. Tyelkormo le guarda espandersi, divorare la carta, e pensa alla macchia dell’Ombra dilagata su Endórë.
Nessuna voce è giunta da nord, nessuna dai suoi fratelli. Findaráto e il suo consiglio sostengono che per ora sia troppo incauto inviare ricognitori nelle Marche, esponendo il passaggio segreto che conduce a Nargothrond. Meglio crogiolarsi in una serenità fallace, pagando il prezzo dell’ignoranza.
Tyelkormo stringe le mani a pugno. La melodia di un’arpa attraversa le aule di pietra e oro; una risata risuona da qualche parte, tra le arcate.
La pelle pizzica, un sentore di fastidio permea il suo corpo ed esplode nella mente sotto forma d’immagini, di visioni.
Una piena del Narog che sfonda i propri argini, irrompendo nelle gallerie di Nargothrond. Acqua e fango a spazzare l’arroganza dell’oro. O forse un terremoto: corridoi e sale collassati in una tomba di roccia.
Tyelkormo serra gli occhi. Devo uscire, scoprire cosa sta accedendo fuori. Respirare aria, aria vera.


_______



Lascia correre l’indice sulla superficie del tavolo, sopra le venature del legno lucido di vernice. Gli anelli che indossa riflettono le luci corpose delle fiaccole, sistemate a ogni angolo della sala e sorrette da lumiere decorate con motivi floreali. Alcune gemme brillano tra le corolle scolpite, e lui riconosce facilmente la lavorazione dei Casári degli Ered Luin – linee nette e particolari minuziosi – abbinata a soggetti tipicamente eldarin.
Poi la sua attenzione si rivolge a quelle torce caduche, preferite ai cristalli delle Lampade: un’altra beffa all’ingegno dei Ñoldor, alla memoria di suo padre.
Muove qualche passo nella sala, le suole degli stivali a rintoccare sul pavimento mosaicato.
Gli altorilievi che sporgono dalle pareti dialogano con la roccia smaltata d’oro e calano la sala in un’atmosfera opprimente. Raffigurano intrecci di serpi a memoria dello stemma di Arafinwë, e sopra di loro un’euritmia di volte prende forma nella pietra, culminando in cimase scultoree.
I Sindar dicono che Nargothrond sia una novella Menegroth, una sua suggestione; Curufinwë non ha mai visto la città delle mille caverne, ma è certo che Findaráto abbia preso spunto dalla sua ampollosità per poi arricchirla con il proprio, pacchianissimo, gusto. Un retaggio vanyarin, forse, che di certo esula dall’estetica ñoldorin. Perché non sembra esserci misura in Nargothrond, così come non sembra essercene nelle apparenze del suo sovrano.
Ed eccolo, l’ennesimo sfavillo d’oro e gemme. L’ennesimo eccesso.
Edrahil, il consigliere, è un’ombra alle sue spalle. In mano tiene alcuni fogli arrotolati: progetti della città che Curufinwë stesso ha richiesto. Ed è forse sapendo questo che il consigliere gli rivolge uno sguardo indagatore a cui lui non si sottrae: lascia che si rifletta nella trasparenza gelida dei suoi occhi e torni ad abbassarsi.
“Curufin,” lo saluta Findaráto con un sorriso; ma quel nome consonantico, pungente, è un oltraggio al più prezioso regalo di suo padre.
“Finrod,” si costringe a ribattere Curufinwë. Sillabe atone, prive di qualunque inclinazione: così suona e sempre suonerà il Sindarin sulle sue labbra.
Con la coda dell’occhio scorge il viso di Edrahil irrigidirsi: forse non è ancora abituato alle omissioni dei Fëanárioni riguardo al titolo di Findaráto. Ha uno sguardo circospetto, tipico dei Moriquendi privi di aspirazione che non sia la mera sopravvivenza. Lo sguardo d’un cerbiatto nato in territorio di caccia.
E quando Findaráto lo richiama a sé, Curufinwë sa che lo sta facendo per tutelarlo.
“Puoi andare, amico mio.”
Una gentilezza affettata echeggia nella sua voce – fresca, quasi giovanile – e impregna persino la sua gestualità: i movimenti con cui prende i progetti portigli da Edrahil paiono artefatti come quelli di un danzatore, come Nargothrond stessa.
Quando Edrahil lascia la sala, il sorriso di Findaráto si fa incoraggiante, quasi complice. Un sorriso che riaccende l’irritazione di Curufinwë, perché loro, cugini per un quarto di sangue, hanno ben poco da spartire.
Findaráto veste il verde della propria Casata e al collo porta memorie del Valinor ingabbiate nell’oro di Endórë. La Nauglamír con le sue maglie pesanti, intricate, è un ricamo pretenzioso sulla sua pelle, eppure lo bagna di quella luce ineluttabile che Fëanáro stesso evocava nelle sue fucine. Ed è come se fosse lui, ora, a custodire l’eredità d’un simile splendore. Lui che ignora il nome, il taglio, la lavorazione delle gemme che indossa.
Findaráto appoggia i progetti ancora arrotolati sul tavolo e l’aggira con passo leggero – svolazzo di velluto e oro – per sedersi su una delle sedie sistemate lì attorno.
“Curufinwë,” chiama, e il suo è uno scoprire le carte e al tempo stesso dare il via a un nuovo gioco. “Sono profondamente onorato dal tuo interessamento nella costruzione di Nargothrond.”
La rotondità della loro lingua è respiro di casa, ma viene trattenuta in un sussurro, in un bisbiglio segreto, quando potrebbe levarsi a scuotere le fondamenta di quello stesso regno. Curufinwë sa che si tratta di un’arma, una carta vincente che suo cugino ha giocato contro di lui.
Inarca un sopracciglio, senza rispondere al sorriso di Findaráto. Conosce la sua strategia: assecondare il prossimo, vezzeggiandolo con complimenti ben poco velati. Complimenti che, nel suo caso, non hanno presa facile. Per questo l’accortezza della lingua, il tentativo di calarlo in un’atmosfera conciliante. Ma Curufinwë è ben lungi dal lasciarsi giocare.
“È il tuo architetto che dovrebbe essere onorato dal mio interessamento.”
“Immagino lo sarebbe,” mormora Findaráto, la voce colorata da un divertimento sottile. “Ti avviso, però, che i Casári sanno essere anche più scostanti di certi Ñoldor.”
Curufinwë sciocca la lingua, riducendo le propria risposta a un sibilo sommesso: “E chiacchierano meno di certi altri.”
Non guarda Findaráto: il suo mezzo cugino ha già ricevuto troppe attenzioni, e lo sbuffo basso, compiacente, che sente provenire dalla sua direzione gliene dà la certezza.
Srotola i progetti abbandonati sul tavolo. Tra i disegni meticolosi dei Casari, dalle linee spesse e dai particolari finemente illustrati, ne emergono alcuni leggerissimi, simili a schizzi, in cui il segno si perde nel biancore della carta. Spazi e colonne abbozzati, accenni di decorazioni che troppo lasciano all’immaginazione. Una pretesa d’astrazione imposta a costruttori e stuccatori.
“Questi disegni sono tuoi,” osserva, lasciando correre le dita sui fogli dispiegati.
Findaráto, dall’altra parte del tavolo, sospira e – lui lo sente, lo sente senza bisogno di vederlo – riprende a sorridere. “Solo alcuni,” dice. “Ma non posso credere che siano le mie velleità di progettista a interessarti.”
Curufinwë avverte gli occhi di Findaráto sulla pelle, insistenti come un tocco, ma continua ad ignorarli. “Ci sono svariate cose, di me, che non crederesti.”
“È così. Non avrei mai creduto che saresti stato disposto a contribuire al tesoro di Nargothrond con il tuo lavoro.”
Sono quelle parole a far sollevare il capo a Curufinwë, a indurlo a cercare lo sguardo di Findaráto. E forse lo guarderebbe, lo vedrebbe veramente, se la Nauglamír non calamitasse la sua attenzione, splendendo d’un retaggio che non può accettare.
I suoi pensieri divengono un’incrinatura in quel gioco di tattiche e menzogne. Cos’hai dato in pegno ai Casári per avere quel gioiello? Cos’hai portato da Tirion, ignorando gli ordini di mio padre?
Ma non importa. Non fintanto che il livore rimane controllato – una spina a raschiare la gola – e i quei pensieri muti.
“Questa resta pur sempre una città ñoldorin,” dice, pronunciando quell’ultimo aggettivo con finta casualità.
Findaráto non concorda né obietta. Lo guarda, come ha fatto prima, quasi stesse cercando d’avere dal suo corpo quei segreti che le parole non svelano.
Infine sospira la peggiore delle risposte: “Ma io non avrei mai creduto d’averti qui.”


_______



È un gelo arido, vitreo, quello intrappolato nello sguardo di Curufinwë. E Findaráto riscopre i brividi di notti infinite, scandite dallo stridore dei ghiacci.
“Sono state le più sfavorevoli circostanze a portarmi in questa città,” sibila suo cugino.
E lui sa di essere inciampato sulle sue stesse parole: la caduta dell’Aglon, la costretta ritirata a Nargothrond, sono una ferita ancora aperta nell’animo Curufinwë.
Decide di non ribattere; rimane a guardarlo studiare i progetti della città, a cercare qualcosa che – n’è certo – diventerà politica, arma diplomatica.
Le mani di Curufinwë sembrano assaporare il contatto con la carta, ne carezzano la superficie e s’inabissano tra le sue pieghe.
Veste solo di nero, la stella a otto punte – memento trapuntato sul cuore – è l’unica nota di colore. Il suo viso è di un pallore affilato, accentuato dai capelli, lisci e scuri come ali di corvo. E a volte, quando le ombre ne incidono gli zigomi e incupiscono lo sguardo, è difficile ricordare che si tratta di lui, di lui e non di Fëanáro.
Findaráto non sa se sia sempre stato così, non ricorda com’era alle luci degli Alberi: il ricordo appartiene a suo padre, a sua madre. Ad Amarië. Ciononostante sa che al di là del Mare tutto sarebbe stato più facile, perché i malintesi, i dissidi, persino le liti erano argomenti di politica quanto di famiglia. E c’era chi lo ricordava loro anche quando avrebbero voluto che fosse altrimenti.
Ha pensato a lungo al modo in cui guardare Curufinwë ora – un cugino, un rivale, un’opportunità –, ma tutte le opzioni si sovrappongono e annullano nel presente immobile. Nell’incertezza che l'attanaglia.
Fuori da Nargothrond, Yrch e Gaurhoth irrompono dalle trincee del nord, e mentre i suoi ospiti vorrebbero informazioni, i suoi sudditi necessitano protezione.
Le perdite alle Paludi di Serech sono una responsabilità che mai smetterà di tormentarlo: accecato dal desiderio di prestare soccorso alle Marche del Nord, ai suoi fratelli, aveva dimenticato ogni accortezza tattica, dando in pasto le proprie genti alle orde del Nemico.
Immaginava di spingersi a est, verso le pendici delle montagne, e di trovare ancora dispiegate le forze del Dorthonion. Immaginava di arrivare prima del fuoco, delle mostruosità rigettate dagli intestini di Angband. Ma quando gli strepiti degli Yrch sovrastavano lo scrosciare del Sirion, e l’odore di putridume e sangue giungeva a lui, si rendeva conto di essere ancora a piedi di distanza, l’acqua stagnante delle Paludi ad ancorarlo alla realtà: Aikanáro e Angaráto erano perduti. Non aveva potuto fare nulla per loro, nonostante ciò che aveva promesso ai loro genitori, ad Artanis. A se stesso.
Un frusciare di carte lo distoglie da quei pensieri. Curufinwë sta ancora osservando i progetti e Findaráto, per un attimo, si rivede in lui: si è lasciato il passo dell’Aglon – violato – alle spalle, le corone montane del nord arse dalle fiamme. Non ha notizie dei fratelli che presidiavano quelle regioni; Findaráto stesso non ha permesso a di lasciare il Nargothrond per raccogliere informazioni.
Ed ecco il punto di contatto che credeva perduto: la tragedia tesa sul loro destino. La sofferenza, la privazione che tutti loro hanno provato.
“Mi dispiace di avervi impedito di avere notizie da nord,” mormora sondando le reazioni di Curufinwë: il minimo irrigidimento della mascella, lo schiarirsi dello sguardo. Unici e preziosi indicatori dei suoi sentimenti.
“Avrò notizie quando gli Orqui verranno a bussare alle porte di Nargothrond.”
La risposta di suo cugino è come il morso d’un animale a cui si stava mostrando fiducia, ma Findaráto condivide con lui l’ostinazione ñoldorin, e quando Curufinwë si volta per raccogliere i progetti, allunga una mano sul suo braccio.
Il tessuto della casacca che suo cugino indossa è morbido, tiepido, ma sotto di esso il suo corpo irradia una sensazione di gelo e s’irrigidisce al suo tocco.
Findaráto cerca i suoi occhi – cristalli di fumo –, concentrando nella proprie parole quel sentimento che sente unirli. “Spero stiano bene. Lo spero davvero.”
Pensa a Russandol, Findaráto, a Makalaurë, ad Ambarussa; persino a Carnistir. Curufinwë deve intuirne la sincerità, sentirla vibrare in quelle parole, eppure il suo volto non muta espressione. Oltre il ghiaccio del suo sguardo sembra attizzare una fiamma corrosiva.
“Non sarebbero i primi fratelli che perdo,” dice e nella sua voce non c’è alcuna inflessione.


Curufinwë lascia la sala, portando con sé i progetti della città, e Findaráto s’abbandona sulla sedia.
Una mano corre a massaggiare il collo. Le dita indugiano sul reticolo d’oro e gemme che indossa: una morsa improvvisamente soffocante. Ma la Nauglamír, per quanto finemente lavorata, non ha peso. È tutto il resto ad averlo.
A volte gli sembra di trovarsi sulle spiagge frastagliate di Falas, o forse su quelle bianchissime di Alqualondë, e stringere un pugno di sabbia. Eccola nel mio pugno, si dice. Ma alcuni grani scivolano tra le dita, lentamente. E ognuno di essi è prezioso perché, assieme agli altri, forma la stessa manciata di sabbia.
Un lungo sospiro gli lascia le labbra.
Alza lo sguardo, soffermandolo sull’altorilievo della sua Casata: i serpenti che mutano pelle, pur rimanendo fedeli alla propria indole.
Ricorda la voce bassa e musicale di suo padre, le sue labbra premute tra i capelli: “Findo, diceva, “il serpente non ti morderà mai se saprai prenderlo nel modo giusto.”
L’eco del ricordo si perde tra le volte, e lui le guarda schiudersi, protettive, sopra il proprio capo. I costoloni sono venature di foglie, le colonne steli che sbocciano nelle corolle degli intradossi: una fantasia arborea scolpita nella roccia.
Eremo nostalgico, così Angaráto chiamava Nargothrond, preferendogli ogni volta l’asprezza del Dorthonion.
“Vorrei stare il più vicino possibile ad Artaher,” si giustificava. Ma Findaráto sapeva che a richiamarlo erano anche le vette oscure degli Ered Engrin, un dovere che raccontava di vendetta e orgoglio.
“Tu non vedi le nubi che avvolgono il Thangorodrim,” diceva Aikanáro. “Non senti il ribollire della terra.” Il pensiero sempre rivolto al Nemico per non incespicare nel ricordo d’un amore doloroso.
Parla di morte, l’ultima lettera che si sono scambiati. E Findaráto ricorda ancora le frasi conclusive di Aikanáro, vergate con quella sua calligrafia nervosa: Non so se esserti grato o odiarti per avermelo rivelato. Non so se sentirmi sollevato o disperato. Non so se l’agonia finirà ora o ne inizierà una nuova, peggiore. Quel che so è che mai, la mia vita, m'è apparsa più vuota.
Lui non aveva avuto il tempo di rispondergli, di scrivergli quanto avrebbe voluto abbracciarlo, asciugare le sue lacrime. E raccontargli di lei, se l’avesse permesso, ancora e ancora.
È rimasto solo prima di rendersene conto. Ha perduto Aikanáro e Angaráto, non ha alcuna notizia di Artaher e dei suoi figli, mentre Artanis è lontana giorni di viaggio.
Artanis, l’unica con cui avesse condiviso il presagio che languisce nei suoi pensieri: la percezione di stare vivendo un’esistenza instabile, dai respiri contanti, com’è la vita mortale. Ma quando era stato certo di averla raggiunta, quella fine che non avrebbe dovuto appartenergli, proprio un Atan l’aveva sottratto a essa.
Barahir aveva il riflesso di Balan nello sguardo, il suo sangue – lo stesso di Andreth – in corpo. “Signore,” gli aveva detto, “non sei nato per morire in queste paludi.”
Eppure.
Eppure il presentimento è ancora lì. E grani delle sua vita sembrano scivolargli fra le dita, uno a uno, come quella manciata di sabbia.


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S’è convinto di poter chiamare casa lo spazio fra la forgia e l’incudine, per quanto le coordinate di questo luogo cambino in continuazione. L’ha ritrovato tra le tende d’un accampamento, sulle rive ventose del Mithrim; in una fortezza austera affacciata all’Aglon. E ora qui, nelle caverne di Nargothrond.
Le fucine sono state scavate nella parte più meridionale della città, affinché le canne fumarie che attraversano piedi e piedi di roccia sbuchino a sud del Narog, tra le colline di Taur en Faroth. Un sistema di intricate tubature opera dei Casári, abituati a lavorare sottoterra. Sono stati loro a modellare l’intera città, e lui ha notato che alcuni infissi e travi di Nargothrond riportano, a modo di contrassegno, caratteri della loro lingua segreta.
Da anni, Tyelperinquar, studia i grafemi di quella lingua – gli stessi che percorrono come un nastro di fitti arabeschi la lama di Angrist. È riuscito a decodificare una cinquantina di parole, quasi la metà di quelle che suo padre ha individuato in un unico contatto con i Casári, nel Thargelion.
Il Thargelion.
Le sponde dell’Ascar fanno capolino nella sua mente, e con loro il bacino dell’Helevorn. Un lago oscuro, come dicono sia colui che lì ha dimora.
Una memoria prende forma fra i suoi pensieri. Ricorda Carnistir, sempre torvo e diffidente, alla luce fioca di un camino. Suo zio sta discutendo con qualcuno – forse Curufinwë, forse Tyelkormo –, e la sua voce è il fragore di un tuono. È furioso, ma ad un tratto solleva lo sguardo e vede Tyelperinquar.
Gli occhi di Carnistir, quasi neri, si sgranano, schiarendosi appena. Tace, ora, e il volto arrossato s’abbassa in un gesto che può ricordare una richiesta di perdono.
Quando torna a parlare lo fa con un borbottio sommesso, trattenendosi dall’alzare la voce.
Tyelperinquar ricorda la risata vellutata di sua zia Aralótë risuonare al proprio orecchio: “Pensavo di essere l’unica in grado di contenerlo!”
E il sorriso di lei, sempre così bella e regale, quasi che le crudezze di Endórë le fossero passate attraverso come un rifratto, è una stilettata in pieno petto.
Le memorie si accavallano all’incertezza del presente: lui è in salvo, nelle caverne di Nargothrond, ma nulla sa dei propri zii.
Ha sentito l’odore di zolfo, ha visto il fumo sollevarsi da nord e insozzare la neve. Ha immaginato le pianure verdi dell’Ard-galen ridotte a un deserto di cenere, cenere che prima era vita. E la speranza è divenuta il filo sottile d'una ragnatela: appare e scompare in un gioco di luci.
Un brivido lo percorre, il martello che tiene in mano cade sull’incudine e poi a terra, producendo un rumore stridente. Per evitarlo, Tyelperinquar indietreggia all’improvviso, allentando la presa che ha sulla tenaglia.
Le ganasce si allargano, il metallo incandescente che trattenevano sfugge alla loro morsa e a lui sembra già di avvertirlo, bruciante, sul proprio piede, quando una mano inguantata l'afferra.
Solleva il capo giusto in tempo per vedere Nármaitë gettare il pezzo di metallo nella tinozza d’acqua e sfilarsi in fretta il guanto che indossa.
Lo sfrigolio prodotto dal brusco raffreddamento, riporta Tyelperinquar alla realtà.
“Stai bene?” Domanda frastornato.
Il capitano, la fronte increspata e lo sguardo rivolto alla tinozza, immerge anche la propria mano nell’acqua. “Dovrei essere io a chiederlo a te, condo.”
Lui scuote il capo. “Mi sono distratto,” mormora. Un sospiro e subito aggiunge: “Ma sto bene. Io sto bene.”
Nármaitë gli lancia un’occhiata in tralice. Una di quelle occhiate che Tyelperinquar non sa bene come interpretare, perché non è mai certo che siano rivolte a lui o a un punto casuale, sospeso nello spazio. Oltre lo specchio dell’acqua, però, può vedere la pelle di lei arrossarsi.
“Perdonami,” bisbiglia allora.
Lo sguardo di Nármaitë si assottiglia per poi rivolgersi alla propria mano. “Dovresti scusarti meno e pretendere di più.”
Tyelperinquar sospira di nuovo, rimanendo in silenzio. Ascolta i rumori che provengono dai corridoi, larghi e affollati come strade; dalle fucine scavate accanto a quella in cui loro si trovano. Gli sbuffi dei mantici, i tramestii dei martelli e il ribollire dei crogioli, lo stridore del metallo piegato sui corni. Suoni famigliari, distensivi.
Focalizzati su questo presente, si dice Tyelperinquar. Ma il calore sprigionato dal forno riaccende il ricordo delle folate bollenti che s’alzavano da nord, spirando attraverso la gola di Aglon. L’odore delle braci si fa più mordace, soffocante, come quello dei fumi che avevano velato il cielo.




Il profilo spoglio della fortezza beccheggiava tra i vapori sospinti sin lì dal vento. Dinnanzi a Tyelperinquar i lancieri erano disposti in una fila compatta, una muraglia d’acciaio erta all’imbocco del valico.
Sotto i loro piedi la neve era divenuta fango e quella posatasi sulle rocce, sulle piastre delle armature, era stata annerita dai fumi.
Nell’aria, ora, volteggiavano fiocchi di cenere leggeri e sfagliati. E che speranze poteva mai conservare un mondo in cui il cielo piange cenere?
Lui strinse le briglie, lo sguardo puntato oltre lo schieramento di guerrieri, a vagliare le sagome che affioravano dal passo invaso dalla foschia.
“Vado a cercarli.”
La voce improvvisa di Ilwaráto lo fece trasalire. Si voltò e lo vide al proprio fianco, il viso irrigidito da un livore che illuminava lo sguardo di screziature smeraldine.
“Ha detto di attendere qui,” mormorò Tyelperinquar ed entrambi seppero a chi si stava riferendo.
Il capitano serrò i denti con tanta forza che lui poté udirne l’attrito. Le sue labbra si tesero in uno sfregio, mentre l’accenno d’una risata gli risaliva – roca – il fondo della gola.
“Vuole ritirarsi, lo so. Ma fintanto che sarà in vita io seguirò gli ordini di tuo zio.”
Tyelperinquar prese un respiro profondo – aria come fuoco nei polmoni. Guardò un frammento di cenere posarsi sugli spallacci di Ilwaráto per poi lasciarvi un alone grigiastro, e le sue speranze divennero parola: “Potrebbe volersi ritirare anche lui.”
Il volto di Ilwaráto sembrò pietrificarsi e Tyelperinquar temette di averlo provocato, ma quel suo sorriso ferino tornò ben presto a increspargli le labbra.
“Andrò ad accertarmene, allora.”
Prima che Tyelperinquar potesse obiettare alcunché, il capitano strattonò le briglie della propria cavalcatura e lo superò.
Lui pensò che avrebbe dovuto fermarlo, che suo padre non sarebbe stato affatto felice di quell’insubordinazione, ma non si mosse. Non avrebbe saputo cosa fare, cosa dire: lui non era suo padre né suo zio. E il valico dell’Aglon stava cadendo sotto i passi ferrati degli Orqui e le zampe mostruose dei Nauror; stava cadendo sotto la cenere e l’incubo infuocato di cui era testimonianza.
A un tratto il suono d’un corno si levò oltre il fragore del vento.
Ilwaráto non era ancora scomparso tra i fumi emessi dal valico, quando alcuni guerrieri vi affiorarono. Tra questi, Nármaitë cavalcava assieme con Curufinwë.
Tyelperinquar ne incontrò lo sguardo affilato – un vaglio gelido nell’anima – e non ci fu bisognò d’altro. Lo vide spostare la propria attenzione su Ilwaráto e poi chinare il capo per sussurrare qualcosa all’orecchio di Nármaitë.
Lei fece un cenno e spronò il loro cavallo affinché si opponesse all’avanzata dell’altro capitano. Le bestie, improvvisamente una dinnanzi all’altra, nitrirono e s’agitarono, ma i cavalieri che le montavano rimasero in silenzio.
Tyelperinquar li guardò fronteggiarsi, mentre attorno a loro i guerrieri andavano e venivano, trasportando armi e feriti e volute di fumo trapelavano dalla gola.
Poi un ululato echeggiò assieme al lamento del vento.
Huan emerse dalla foschia, seguito da Tyelkormo in una veste di sangue.
“Tyelko,” lo chiamò Ilwaráto, come Tyelperinquar sapeva che faceva quand’erano soli.
Lui alzò il capo e piantò il proprio sguardo buio, furente – lo sguardo d’un animale costretto alla catena – prima sul capitano e poi su Curufinwë. Sputò a terra e scosse il capo, riprendendo a camminare. L’Aglon alle spalle: un’agonia di fumo e cadaveri.
Fu in quel momento che Tyelperinquar ne ebbe la certezza: il passo era preso.













Note:

In lingua Quenya:
I termini Naucondi e Casári, indicano il popolo dei Nani. Il primo ha valenza dispregiativa e tradotto letteralmente significa “(popolo dei) rachitici”.
Orqui è il corrispettivo di Orchi, plurale di Urco (o Orco), mentre il termine Nauro significa Mannaro (sua forma plurale non attestata è Nauror).
Endórë è la Terra di Mezzo.
I Moriquendi sono gli Elfi Oscuri, coloro che non videro la luce dei due Alberi.
Condonya è traducibile come “mio principe/signore” ed è composto dal termine condo e dal suffisso pronominale –nya.

In lingua Sindarin:
I termini Yrch e Gaurhoth, indicano rispettivamente gli Orchi e i Mannari.

Il Valaróma è il corno da caccia del Vala Oromë.
Le Lampade a cui accenno sono le Lampade Fëanoriane o Lampade dei Ñoldor. Sono costituite da un cristallo al cui interno è imprigionata una fiamma in grado di emettere una luce blu.
Balan è il vero nome di Bëor il Vecchio.
Angrist è il nome del pugnale di Curufin (successivamente di Beren), forgiato dal Nano Telchar.

Nel pov dedicato a Finrod ho utilizzato una commistione di varie lingue perché ritengo il personaggio particolarmente propenso all'assimilazione di influssi linguistici, anche in considerazione delle sua vicinanza con altri popoli.

Il nome Quenya Nármaitë è composto dai termini nárë “fuoco” e maitë “mani”, “pratico”/“abile”. Ilwaráto, invece, è composto dai termini llwë “cielo” e arata “alto/nobile/altero” (più il suffisso maschile –o).
Aralótë, zia acquisita di Celebrimbor e moglie di Caranthir, è un personaggio originale. Il suo nome (sempre Quenya) significa “nobile fiore”.


Questo prologo è inusualmente lungo, ma mi è servito per introdurre le “voci” che struttureranno la storia, fornendone una chiava interpretativa. Da qui in avanti ogni capitolo tratterà il punto di vista di uno dei quattro personaggi qui presentati, e le loro introspezioni, assieme, faranno procedere l’intero racconto.


So che sarebbe buona norma scrivere i ringraziamenti alla fine della storia, ma mi sento in dovere di rivolgerli subito alle persone che, in questi mesi, mi hanno sostenuta.
Pertanto grazie a melianar e tyelemmaiwe con le quali ho intavolato infinite speculazioni e ragionamenti sul Nargothrond: è per merito loro che questo primo capitolo è stato pubblicato.
Grazie a Losiliel che si è prestata a svariati confronti e mi ha supportata con costanza.
E un altro, sentitissimo, grazie a melianar che mi ha aiutata a trovare il titolo della storia: si può dire che lei e Italo Calvino siano stati i miei punti di riferimento per il suddetto.

Infine un grazie a voi che avete letto.



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Capitolo 2
*** I. Scavare ***




Sperando di non apparire presuntuosa, dedico questo capitolo a melianar.
Grazie per avermi ascoltata, consigliata e appoggiata durante la sua stesura e la sua (travagliata) revisione. Grazie per la tua disponibilità, per esserti prestata a interessanti confronti e – semplicemente – per “esserci” sempre.














I. Scavare






Le fucine di Nargothrond sono un dedalo di stanze, un coacervo di suoni e persone che sfilano tra i vapori, alternandosi alle incudini. Mantici lasciati al loro continuo sbuffare, fornaci e crogioli perennemente incandescenti. Un luogo del tutto scevro di quell’intimità che Curufinwë è abituato ad associargli.
Nelle caverne più ampie, affacciate a un lungo corridoio, sono stati costruiti i forni. Qui la roccia a vista delle pareti è annerita dai fumi, ricoperta di ganci e mensole su cui sono disposti centinaia di attrezzi di svariate fatture.
Lui attraversa l’androne, quasi inosservato in quell’andirivieni di fabbri. Porta con sé i progetti di Nargothrond e nessuno lo ferma o intercetta il suo sguardo mentre supera le sale principali, raggiungendone una più piccola e isolata.
Qui Nármaitë siede sola a un tavolo da lavoro. Il viso accostato a una lente d’ingrandimento, sovrapposte alla quale ne scorrono due più piccole.
Sta incidendo una lamina d’argento. La mano fermissima, un’espressione concentrata e al contempo rilassata, come se quel tipo d’attenzione fosse un’attitudine naturale, per nulla forzata.
Curufinwë, osservandola, rammenta un’aspirazione lontana, il desiderio infantile di raggiungere una simile pacificazione durante il lavoro, dimenticandosi dello sguardo attento di suo padre, travalicando il pensiero che – sempre – correva a lui.
Scaccia quelle riflessioni, chiudendo la porta della stanza.
I cardini gemono, le ante si serrano con un tonfo sordo, di legno vecchio e pesante, e Nármaitë scosta le lenti d’ingrandimento per rivolgergli la propria attenzione. Nello sguardo una nota seccata che Curufinwë ignora.
Le si avvicina e srotola i progetti di Nargothrond sul tavolo, incurante d’invadere il suo spazio di lavoro.
“Cosa vedi?”
La fronte di Nármaitë s’increspa appena, chiarificando un disappunto che rimane muto. Lancia un’occhiata a Curufinwë, poi ai progetti dispiegati sul tavolo.
Lui segue il suo sguardo, ritornando alla scoperta che ha fatto poco prima, nel salotto di Findaráto. Le planimetrie del primo livello di gallerie, le più vicine al corso del Narog, raffigurano anche aree non dettagliate, situate nell’estremo versante orientale.
“Questa parte di caverne,” mormora Nármaitë, indicando proprio le aree in questione, “sono state lasciate al loro stato naturale per via della vicinanza al fiume. L’umidità elevata favorisce crolli.”
Curufinwë picchietta le dita sui disegni. Certo, questa è la ragione che s’evince dai progetti, ma lui ha udito storie lungo la Via dei Casári, storie antiche e oscure che potrebbero tramutarsi in una carta politica.
“Le visiteremo,” dice e Nármaitë solleva il capo, rivolgendogli uno sguardo interrogativo che lui accoglie con indifferenza.
“Capirai quando saremo là.”
“Stavo lavorando.”
“Stai lavorando anche ora.”
Nármaitë fa aderire la schiena alla spalliera della sedia e inspira. Curufinwë sa che non dirà nulla, seguirà il suo volere con quell’espressione scettica, terribilmente irritante, affinché lui abbia ben chiaro che non condivide le sue scelte, i suoi modi.
È in parte grato che sia così: può contare sul suo pensiero critico, sulla sua iniziativa personale, ma queste qualità trovano un limite nella sua fedeltà. La sua fedeltà al retaggio di Fëanáro.
“Porta degli scalpelli con te,” le dice mentre riavvolge i fogli dei progetti.
Poi il suo sguardo abbraccia l’ambiente circostante, la fornace da cui scaturisce una fiamma contenuta, uno sgabello su cui è stato abbandonato un grembiule – indizi di un’assenza che si lascia cogliere con discrezione.
È l’istinto, così, a porre al capitano l’ultima domanda: “Mio figlio?”
Lei pare tentennare per qualche istante.
“Era stanco,” risponde infine. “È tornato nelle sue stanze.”
Curufinwë la studia di sottecchi, e mentre Nármaitë ripone i bulini, nota una scottatura sul palmo della sua mano destra. Non le chiede niente: i silenzi, tra loro, hanno sempre dato più risposte delle parole.
Lascia i progetti sul tavolo da lavoro per avvicinarsi all’incudine su cui è rimasta appoggiata una tenaglia.
Poco più in là, sul bordo della tinozza per il raffreddamento del foggiato, trova un massello. L’osserva, scorgendo l’impronta del martello che aveva iniziato ad appiattirlo.
Allunga una mano per sfiorare il pezzo di metallo informe, ancora tiepido. Andrebbe fuso nuovamente: la lega con cui è stato realizzato è ottima e Curufinwë non tollera gli sprechi.
Così i suoi pensieri corrono alla mano che reggeva il martello, la tenaglia. A quel fabbro che non ha completato la forgiatura.
“Sono comprensibili le preoccupazioni,” dice istintivamente, “tuttavia non possiamo lasciare che esse inficino il nostro lavoro, che annebbino la nostra razionalità.”
S’accorge d’aver dato voce ai propri pensieri, solo quando sono già suono nello spazio angusto della forgia. Solo quando Nármaitë, alle sue spalle, gli risponde.
“Dovresti dirglielo. L’aiuterebbe.”
Curufinwë s’irrigidisce, combattuto fra il disagio che una conversazione così personale gli suscita e il desiderio di approfondirla: in fondo Nármaitë sa, ha sempre saputo.
Ma quella parte di lui che preferisce chiudere gli occhi, pretendere che non vi sia nulla da dire, da chiedere, è la più facile da assecondare.
“Sbrigati,” intima al capitano, raccogliendo i progetti dal tavolo.


I loro passi rintoccano come un monito lungo i corridoi, le guardie che pattugliano l’ala d’ingresso li studiano con l’esitazione tipica di chi è abituato a seguire ordini, sopprimendo l’iniziativa personale.
A Curufinwë ricordano il manipolo di cacciatori che Tyelkormo si è portato appresso da Aman.
Non ha mai creduto che i cacciatori avessero intrapreso il viaggio verso Endórë solo per via di loro padre; la loro lealtà è quella dei lupi: seguono l’odore che condividono, l’ululato che potrebbero emettere, ma non hanno la forza di lanciare. E la fortuna è stata che Tyelkormo si sia emancipato dalle dinamiche assoggettanti del branco, imponendosi come un nuovo capo.
Prosegue lungo il corridoio, accantonando quelle riflessioni ormai inutili.
Tiene una Lampada in mano, nascosta dal mantello che gli ricade sul lato sinistro del corpo. Nei corridoi illuminati dalle fiaccole apparirebbe come un oggetto inutile, inutile e dunque sospetto.
Nármaitë cammina dietro di lui, mentre continua a studiare la pianta di quel primo livello di gallerie. Sulle spalle porta una bisaccia con gli scalpelli che le ha ordinato di prender con sé.
L’ingresso di Nargothrond – un portale all’interno, poco più d’una fenditura all’esterno – sorge a qualche passo da loro, e una delle quattro sentinelle che lo presidiano li avvicina con inedita decisione.
L’alabarda in pugno, gli occhi accesi di un guizzo grigio e determinato puntato su Curufinwë; ma il mistero di tanta risolutezza si svela proprio nello sguardo. Lo sguardo d’un ñoldo.
“Signore,” lo chiama, e nella sua pronuncia non c’è traccia d’alcuna rotondità lascito del Quenya: il suo Sindarin suona tanto aspro quanto naturale, quasi sia davvero la sua lingua madre. “Signore, non si possono lasciare le aule di Nargothrond. È un ordine del Re.”
Curufinwë inarca un sopracciglio, pronto a ribattere, quando Nármaitë lo anticipa.
“Non stiamo lasciando le aule, le stiamo visitando. È forse vietato anche questo?”
La sentinella maschera il proprio stupore con un cipiglio severo. Non ribatte, rimane ferma al proprio posto e li osserva svoltare a destra, costeggiando il portale.
Curufinwë sorride: può quasi udire l’eco delle domande che le vorticano in testa.
Il manipolo di guardie scompare oltre la curva del corridoio, dove le ombre acquisiscono nuova profondità. Loro avanzano ancora e ben presto gli intarsi sulle pareti vengono sostituiti da un livellamento approssimativo, le colonne perdono i loro profili eleganti per tramutarsi in pilastri spogli. Persino le torce appese alla pareti si fanno più rade, tanto che Nármaitë rinuncia a studiare i progetti.
Curufinwë la sente sbuffare piano, sente il frusciare della carta ripiegata e i passi di lei divenire rapidi e costanti, segno che ha smesso di essere distratta da altro.
Forse potrebbero parlare. Potrebbero continuare quel discorso che Curufinwë ha interrotto nella forgia, o affrontarne uno meno personale – per lui. Magari potrebbe chiederle di Liltelenio.
Il pensiero l’accarezza appena, per poi spegnersi nell’oscurità che, superata l’ultima torcia, prende il sopravvento. Di lì in avanti le grotte sono un intestino amorfo, divorato dal buio.
Lui scosta il mantello dal fianco sinistro. Solleva la Lampada che tiene in mano, togliendole la sua copertura.
La luce azzurra rischiara i cunicoli, si riverbera sulle rocce e le bagna di rifratti freddi e al contempo preziosi, trasformandole in migliaia di gemme.
La pavimentazione s’interrompe poco oltre al punto in cui lui e Nármaitë si sono fermati. Dopo di esso, un sentiero accidentato serpeggia fra le pareti aggettanti, prive del sostegno di qualsiasi trave.
“Proseguiamo,” ordina Curufinwë.
S’inoltrano tra le caverne, e quando un suono amniotico risuona tra i cunicoli, capiscono di essere prossimi al corso sotterraneo del Narog.
La luce della Lampada scivola lungo le pareti umide, tempestate di cristalli cerulei. Su una pietra sporgente, all’altezza della loro cintola, un’incisione emerge dal buio: un grafema della lingua dei Casári.
Curufinwë s’inginocchia per toccarlo in punta di dita.
Nulukkizdîn,” mormora. Una parola che persino su labbra abituate alla morbidezza del Quenya suona profonda come gli intestini delle grotte e poi spietata come il buio e la solitudine che lì s’annidano. Una parola perfetta per quel luogo. “Nulukkizdîn, così i Casári chiamano Nargothrond. Hanno vissuto in queste caverne molto prima che i Sindar le scoprissero.”
Nármaitë si china al suo fianco per osservare l’incisione, l’indignazione a indurirne i lineamenti. “E tuo cugino a mezzo nel sangue li ha pagati con i tesori di Tirion affinché le lasciassero?”
“No, non ve n’erano già più quando Elwë Singollo gli indicò queste caverne. I Casári che ha pagato sono venuti apposta dagli Ered Luin per modellarle secondo il gusto degli Eldar.”
“Dunque che n’è stato di quelli che vivevano qui?”
Curufinwë lascia che la domanda di Nármaitë radichi nello spazio contratto delle grotte, nell’oscurità umida attorno a loro, poi s’alza in piedi.
“Questo lo sanno i Sindar, lo sanno e fingono di essersene dimenticati. Noi glielo rammenteremo.”
Un riflesso blu guizza lungo i cunicoli. Il suono liquido e remoto del fiume sembra tramutarsi in un lamento.
Curufinwë abbassa il proprio sguardo verso Nármaitë. “Ma per farlo ci occorreranno quegli scalpelli che hai portato con te.”


Quando torna dalle caverne dell’ala orientale, Tyelkormo è nel soggiorno che le loro camere condividono: una prigione di arazzi e stucchi dorati.
Huan dorme sui tappeti, accanto a un paio di stivali dimenticati. Il tavolo circolare al centro della sala è una congerie di mappe e fogli e coppe semi vuote: l’espressione di un’insofferenza corposa quanto l’odore di vino che permea la stanza.
Suo fratello è abbandonato su una poltrona, il capo riverso contro la spalliera, il corpo piegato in una ricerca di spazio e comodità che non sembra aver trovato.
Vedendolo entrare, sbatte le palpebre e il suo sguardo opacizzato dalla noia s’accende. La sua risata, poi, suona primordiale e graffiante come Curufinwë immagina sarebbe quella d’una belva.
“Hai deciso di rivalutare quelle azzuffate nella polvere che hai sempre disdegnato da bambino?” Gli domanda in un scintillare di denti bianchissimi.
E lui, improvvisamente, non si sente più in grado di ignorare lo stato in cui versa: residui di terra e polvere sugli abiti e sulle mani, ripuliti troppo in fretta.
“Non si nota nulla,” gli aveva mentito Nármaitë.
Suo fratello si stiracchia, i muscoli a tendere la camicia che indossa. È sottile come un velo, uno straccio in confronto agli abiti sfoggiati in Nargothrond, e ai movimenti di Tyelkormo s’arriccia scoprendo la pelle ambrata, ricordo d’un sole che non vede da settimane e – Curufinwë lo sa – gli manca tanto quanto l’odore di pioggia e la frescura dell’aria.
“Mi chiedo solo dove tu abbia trovato un luogo così sporco in tutto questo… splendore.”
Curufinwë incrocia le braccia al petto e indurisce il proprio sguardo. “Devo parlarti.”
La poltrona emette un cigolio sofferente, suo fratello puntella i piedi scalzi sui tappeti e la spinge all’indietro con il proprio peso, sollevandola sulle gambe posteriori. Reclina la testa oltre il bordo dello schienale.
Lui reprime l’impulso di farlo sbilanciare: è sempre stato superiore agli atteggiamenti infantili di Tyelkormo.
“Devi anche trovare una buona scusa per non avermi invitato a venire con te,” bofonchia questi e in un lampo si solleva dalla poltrona che ondeggia pericolosamente.
“Non ti sarebbe piaciuto.”
Tyelkormo si avvicina a Curufinwë, troneggiando su di lui. Con un movimento lento, ostentato, fa scivolare un dito sulla manica della sua casacca per catturare un residuo di terra. Lo studia un istante e si sporge in avanti, tanto che Curufinwë può sentire il suo sorriso – quel sorriso ferino, umido di vino – aprirsi fra i propri capelli.
“Ne dubito,” ridacchia Tyelkormo al suo orecchio e all’improvviso si retrae, passandogli sulla guancia il dito sporco di terra. Un contatto ruvido, a metà fra una carezza e un buffetto.
Curufinwë corruga la fronte e schiocca la lingua, cercando di ripulirsi il viso.
“Se hai finito con il tuo motteggio, gradirei passare alle cose serie.”
In risposta ha il tintinnare della brocca che Tyelkormo soppesa, prima di versarsi da bere.
Allora scavalca gli stivali abbandonati, aggirando l’enorme mole di Huan. Lo vede aprire un occhio e nel suo sguardo assonnato rintraccia quell’ombra di sospetto che ha imparato a ignorare – e odiare. Non sarà un cane, per quanto valarin, ad allontanarlo da suo fratello.
Il tavolo è a pochi passi da lui, quando torna a parlare: “Sono salito con Nármaitë alle aule d’ingresso e ho percorso le caverne più orientali della città, lasciate al loro stato naturale.”
Tyelkormo ferma a mezz’aria la coppa che si stava portando alle labbra. “E lì vi siete azzuffati?” Chiede, un nuovo sorriso a lambire il bordo del bicchiere.
“E lì abbiamo scavato.”
“Spero che questa tua improvvisa voglia di scavare porterà in qualche modo noie al nostro caro mezzo cugino.”
Curufinwë inarca un sopracciglio e allunga una mano per sfilare la coppa di vino dalle dita di suo fratello, Tyelkormo però irrigidisce la presa. L’occhieggia dall’alto al basso con quello sguardo che pare acciaio fuso, ribollito in un crogiolo, quasi lo stesse sfidando a vincere la sua stretta.
Ma Curufinwë conosce l’insofferenza di suo fratello, sa a cosa porta, e per questo ha imparato a contenerla.
S’inumidisce le labbra e ammorbidisce il proprio tocco: una lusinga su dita serrate.
“Farà molto più che portare qualche noia. Ci farà avere informazioni dalle Marche. Ti farà uscire da Nargothrond, se lo vorrai.”
Il sorriso di Tyelkormo torna a tendersi, vino – come sangue – sulle labbra e biancore affilato di denti. E lui lo rivede nella gola di Aglon, ubriaco d’un istinto esiziale.
“Prevedo che lo farà in un modo parecchio contorto.”
Curufinwë irrigidisce appena le spalle. La trepidazione di Tyelkormo è come quella morsa sulla coppa: insostenibile e feroce, condensata nel suo respiro bollente. Un brivido che potrebbe stordire persino lui.
“Ricordi quelle storie che io e Moryo abbiamo udito lungo la Via dei Casári?” Domanda, mentre le dita di Tyelkormo, sotto le sue, tamburellano sulla coppa.


Scorgere la figura di Edrahil in quello che è divenuto il suo studio gli provoca un fastidio necessario.
Il consigliere è un’appendice di Findaráto, un ninnolo di carne e sangue che gli permette di affermare il proprio potere – un potere così inappropriato per il figlio d’un ultimogenito. Ma è anche la voce dei Sindar all’interno del consiglio di Nargothrond, ed è questo il motivo per cui Curufinwë l’ha convocato.
Ora l’osserva indugiare sulla soglia del proprio studio, e non può che pensare a quei segreti che – occhi bassi e riverenze – ha taciuto per anni.
D’altronde i Sindar sono abili nel fuggire, dalle proprie colpe come dalle Ombre che sempre hanno assediato Endórë. Una vigliaccheria che li ha portati a rintanarsi persino sotto terra.
E saranno forse quelle gocce di sangue che Findaráto condivide con loro ad averlo indotto a comportarsi allo stesso modo, edificando il Nargothrond.
“Signore,” lo chiama Edrahil a un tratto, “mi è stato detto che volevi vedermi.”
La sua voce è apparentemente calma, ma Curufinwë avverte l’esitazione che guizza fra le parole. Ed è come trovare il fianco scoperto del nemico.
Lo sguardo di Edrahil corre sulla scrivania; scivola sui fogli sparsi un po’ ovunque, sui libri e gli attrezzi da disegno nell’affannata ricerca di qualcosa a cui non sa dar nome.
Nel notarlo, Curufinwë non può che sorridere.
“Da quanto tempo conosci mio cugino a mezzo nel sangue?”
“Dapprima che lo chiamassero Felagund,” è la risposta decisa solo in apparenza, perché i Sindar lo sanno: le apparenze sono tutto. Le fondamenta d’una città possono ergersi su di un’ecatombe, basta che oro e intarsi celino il sangue. Ed è facile, poi, chiamare assassini coloro che non rifuggono le proprie azioni.
“Lui si fida del tuo consiglio?” Domanda Curufinwë, giocherellando distrattamente con un calamo asciutto.
Sente lo sguardo di Edrahil su di sé, ne assapora il nervosismo che sembra acuirsi al suo tamburellare l’oggetto sul tavolo con un ritmo regolare e continuo. Tac, tac.
“Mi pare ovvio.”
Tac, tac.
“E fosti tu ad accompagnarlo a visitare queste caverne, quando Elu Thingol gliene parlò?”
Tac, tac.
“Fui io, sì.”
Curufinwë ferma il picchiettare del calamo, voltandosi verso Edrahil. Il suo sorriso si accentua quando ne scorge l’espressione: la fronte aggrottata, le labbra serrate. I suoi sentimenti sono tutti lì – pennellate nette sul viso – pronti a essere usati contro di lui.
“Ho sempre reputato curioso che un principe Ódhellim qual’egli è fosse così affezionato a un Thinnedhel conosciuto qui in Ennor.”
Lo sguardo di Edrahil s’incupisce, i suoi tratti s’irrigidiscono: è chiaro lo sforzo che sta compiendo per controllare la propria rabbia.
“Tuo cugino non è un semplice principe quale tu sei. Egli è re, re di Nargothrond. E ci sono sempre stati buoni rapporti fra me, fra noi Edhil, e la sua Casata.”
Curufinwë indugia per un attimo su quella prima frase, l’orgoglio punto da una verità fastidiosa. Ma nella sua vita ha incassato stoccate ben più taglienti, restituendole con calcolata precisione.
“Chissà se Elu Thingol la pensa allo stesso modo.”
“Re Finrod non condivide le vostre colpe.”
“Certo,” sorride Curufinwë, “ed è perché pensi questo che non sei tornato nel Doriath dopo il Bando. Non ha alcuna rilevanza il fatto che qui rivesti il ruolo di consigliere, mentre là…” Corruga appena la fronte, il calamo appoggiato alle labbra – una recita dichiarata: “Cos’eri là? Un rifugiato?”
È allora che Edrahil cade nelle sue mani, infrangendo ogni parvenza diplomatica.
“Non permetto a nessun Fëanorion di mettere in dubbio la mia lealtà nei confronti del Re! Gli sono sempre stato accanto, ho esplorato per lui queste caverne, ho sovrainteso alla costruzione della città e sempre, sempre egli ha potuto fare affidamento su di me!”
Curufinwë assottiglia il proprio sguardo. “Dunque conosci bene queste caverne. Conosci la loro storia meglio di quanto lui stesso la conosca.”
Non sono domande, le sue, ma constatazioni che trasfigurano la rabbia di Edrahil nella consapevolezza d’aver commesso un passo falso.
Tuttavia, se aveva immaginato di trarre soddisfazione da questa piccola vittoria, si deve ricredere: nel suo animo serpeggia solo un’irritazione sottile – inappropriata – all’idea che Findaráto si circondi di consiglieri così facilmente raggirabili.
Non aspetta la risposta di Edrahil, non ne ha bisogno: ciò che deve sapere è scritto sul suo viso.
“Tyelko,” chiama, e il suono pieno e famigliare di quelle sillabe diviene l’ostentazione d’una vittoria altrimenti insipida.
La porta incassata nella parete destra si apre. Suo fratello ne varca la soglia con le movenze d’un predatore. Gli occhi puntati su Edrahil, accesi dal suo sgomento.
Quando il consigliere sussulta all’appropinquarsi di Tyelkormo, Curufinwë può finalmente assaporare una sensazione di vero compiacimento.
Suo fratello si ferma alle spalle del consigliere, sovrastandolo: una belva che alita sul collo della propria preda. E così – vicinissimo – l’osserva, facendogli sentire tutto il peso del proprio sguardo, tutta l’impotenza della sua condizione.
Tyelkormo allunga un braccio verso la scrivania in un gesto che sembra avvolgere Edrahil nella promessa d’una stretta, mentre il suo intero corpo incombe su quello più minuto del consigliere.
Curufinwë sorride apertamente, allora. E suo fratello appoggia un fagotto proprio dinnanzi a lui e allo stesso Edrahil.
“Cos’è?” Domanda questi, la voce stentata come dopo una lunga apnea.
“Prove di quei segreti che hai taciuto al tuo Re,” risponde Tyelkormo, e quando le sue dita aprono il fagotto lembo dopo lembo, Edrahil impallidisce.
“Segreti che il saggio Finrod, amico di Edain e Naugrim, sarebbe meglio non scoprisse.”
La parole di Tyelkormo sono un mormorio roco, perso fra i capelli del consigliere. Quando glieli scosta dalle spalle, trattenendoli in un unico pugno, Edrahil non riesce a reprimere un tremito.
“Dico bene?” L’incalza Tyelkormo, mentre un’autorità inappellabile ne indurisce il tono.
E Curufinwë non può che pensare a quanto la sua voce, così modulata, ricordi quella di loro padre.
Ma simili pensieri vengono accantonati in favore della reazione di Edrahil.
Il consigliere risponde a Tyelkormo con un cenno rigido del capo, un’espressione furente e al contempo intimorita a tendergli i lineamenti. “Cosa volete?”
Tyelkormo ruota il viso, cerca il suo sguardo, lisciandogli i capelli con la mano destra.
“Vogliamo un accordo ragionevole. Tu ci sosterrai nel consiglio e noi non riveleremo al nostro caro mezzo cugino cosa, o meglio chi, il tuo popolo si divertiva a cacciare in queste caverne.”
Curufinwë guarda Edrahil agitarsi nella presa di suo fratello: un piccolo animale fra gli artigli d’un predatore, divertito dalla sua vana resistenza.
Il consigliere contrae la mascella e abbassa i propri occhi su quelli di lui, al di là della scrivania. “So che volete far inviare drappelli di ricognizione nel Beleriand, ma io sono solo uno e un Edhil come me che si schiera a favore di voi Fëanoryn non potrebbe che destare sospetti: sarà ovvio a tutti che io sia sotto ricatto e nessun altro, nel consiglio, ci appoggerà.”
Curufinwë sostiene il suo sguardo con impassibilità. Dopo aver assaggiato la sconfitta, accettando la pietà d’un mezzo cugino a cui sarebbe dovuto essere superiore; dopo aver passato giorni a maledirsi per non aver previsto, controllato, calcolato. Dopo tutto questo, farà ogni cosa in suo potere per abbracciare il più completo successo.
“Non temere,” dice. “Ho pensato a come rendere il tuo appoggio credibile… Se non al nostro mezzo cugino, almeno agli altri consiglieri.”
Poi allunga una mano per ripiegare il fagotto di stoffa. Un istante e il riflesso delle fiaccole s’insinua tra le pieghe, incontrando il profilo perlaceo di alcune ossa. Ossa troppo piccole per appartenere a Quendi o Atani.













Note:

In lingua Sindarin:

Ódhellim è uno dei termini impiegati per indicare il popolo dei Ñoldor, il suo singolare è Ódhel che in realtà identifica semplicemente un Elfo che ha lasciato Aman.
La traduzione letterale di Ñoldor sarebbe Golodhrim, ma come ci viene detto da Tolkien, il termine aveva assunto una valenza negativa. Tuttavia la parola in sé e per sé non sembra avere nulla d'irrispettoso, e questo mi ha portata a credere che fosse il suo utilizzo da parte dei Sindar, utilizzo che io immagino essere sarcastico (“popolo dei sapienti” è un nome abbastanza ambizioso con cui identificarsi), a offendere i Ñoldor.
Dunque il termine che quest’ultimi prediligevano era Gódhel, ovvero un’evoluzione di Ódhel a cui era stata aggiunta la “g”, contrazione di gûl (“conoscenza”), corrispettivo dell’emblematico ñolmë (o ñólë), a sua volta radice del termine Ñoldor e quindi identificativo del popolo.
È mia personalissima credenza che alcuni tra i Fëanoriani – come ci si aspetta dai figli di un linguista puntiglioso – avessero un altrettanto personale problema con il suono di quella “g”, gutturale e lontana dai suoni morbidi del Quenya. Inoltre, riconoscendo la radice gûl presente anche in Golodh, associavano il termine Gódhel al primo e a tutte le sue sopracitate implicazioni. Quest’è la ragione per cui ho preferito far utilizzare a Curufin il più generico Ódhellim.
Thinnedhel è la traduzione letterale di Sindar.
Ennor, indica la Terra di Mezzo.
Edhil letteralmente “Elfi” (quindi – in realtà – traduzione del più generico Eldar), è il termine che i Sindar utilizzavano per indicare loro stessi in quanto popolo. Ho pertanto ritenuto opportuno che Edrahil lo preferisse al sopracitato Thinnedhel, che a mio avviso potrebbe essere una sindarizzazione a opera degli stessi Ñoldor.
Edain, il “secondo popolo”, ovvero gli Uomini, più precisamente gli Uomini del Beleriand e i loro discendenti.
Naugrim, termine essenzialmente dispregiativo usato per indicare i Nani. Il suo significato è “(popolo dei) rachitici/sottosviluppati dorati”.
Fëanoryn, figli di Fëanor. La desinenza –yn è il plurale di –ion, “figlio”.


In lingua Quenya:

Moryo, abbreviazione di Morifinwë, nome paterno di Caranthir.
Elwë Singollo, traduzione di Elu Thingol.
Atani, corrispettivo di Edain
Quendi, lett. “coloro che parlano con voci/i parlatori”, il nome che gli Elfi si erano dati in Cuiviénen. A differenza di Eldar (gli Elfi dell’Ovest che iniziarono il Grande Viaggio verso Aman) indica tutto il popolo elfico.


Il capitolo e il piano politico di Curufin ruotano – come spero si sia compreso – attorno alle cacce perpetrate dai Sindar nei confronti dei Nanerottoli, originari abitanti delle caverne del Narog.
Da come Mîm racconta l’accaduto a Túrin, ho evinto che questo fatto non fosse a conoscenza di tutti, ma che anzi venisse generalmente taciuto. Ho pertanto ipotizzato che fosse stato taciuto anche allo stesso Finrod (i Sindar avevano buoni motivi di credere che non avrebbe accettato la cosa a cuor leggero).
L’idea che i Nani degli Ered Luin non si siano sentiti indignati a lavorare nel futuro Nargothrond, pur sapendo – si suppone – delle sopracitate cacce, deriva dal fatto che i Nanerottoli erano stati esiliati dai regni nanici e che – di conseguenza – non dovevano godere di buona fama tra gli stessi Nani.


Grazie per aver letto.



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Capitolo 3
*** II. Perdere ***




Per una migliore comprensione del testo, suggerisco di guardare a questo particolare della mappa del Beleriand, mappa tratta da L’Atlante della Terra di Mezzo di Karen Wynn Fonstad (che certo non è la perfezione, ma nel caso specifico è attendibile).














II. Perdere






Voci diverse, accenti diversi che si declinano in un contrappunto caldo, incredibilmente famigliare. A Findaráto tornano in mente incontri in terre lontanissime. La gioia data dal trovarsi oltre le diversità, a quel tempo labili come la distanza tra due corpi che s’accostano per un abbraccio. E lui – lo ricorda sempre – è per due volte figlio di quegli incontri.
Ma in Ennor le differenze sono confini dolorosi, marchiati nel sangue. Nello scorrere del tempo.
Findaráto ha imparato ad accettarli, ha visto il momento in cui discrepanze apparentemente arginabili divengono un limite imprescindibile e si è tirato indietro, cosciente che il passo successivo l’avrebbe portato a smarrire se stesso.
Tuttavia, quando né tempo né sangue sono un discrimine, le barriere di Ennor si mostrano per il pretesto che sono. Per questo lui ha costruito una città che non ne contenesse.
Un tripudio di volte s’innalza sopra il suo capo, motivi architettonici ispirati alla natura, tipici dell’arte doriathrin, uniti al maniera dei Khazâd e all’astrazione ñoldorin: la sala che ha scelto per le riunioni del concilio incarna l’essenza di Nargothrond, ricettacolo di culture differenti.
“Sire.”
Il saluto di Edrahil lo riscuote da quei pensieri. I loro occhi s’incontrano e Findaráto sorride come sempre ha fatto, ma a differenza del solito non viene ricambiato.
Un’ombra corre sul viso del consigliere che s’affretta ad abbassare lo sguardo, improvvisamente interessato alle intarsiature del tavolo a cui sta sedendo.
Findaráto rimane a osservarlo, interdetto.
Il comportamento di Edrahil non è che una goccia di pioggia nel mare, un particolare così infinitesimale da non poter neppur veicolare lo spettro d’un presagio; tuttavia resta un elemento che sfugge alla sua sfera di controllo. Uno dei tanti, minuscoli, granelli che continuano a scivolargli tra le dita.
Nuovi passi rintoccano lungo i corridoi. Guilin entra nella sala, supera la seduta di Edrahil e rivolge a entrambi un saluto posato. Il viso stanco, lo sguardo ostaggio di un dolore conosciuto: il solito Guilin – dopo le Paludi di Serech.
Ma il singulto di quella goccia è un eco distorto nella mente di Findaráto.
Si porta una mano al collo, senza trovarvi gli intrecci d’oro e gemme della Nauglamír: quel giorno non l’ha indossata.
Altri consiglieri lo salutano, intrattenendosi con lui. E quando l’inizio della riunione si fa imminente, anche i Fëanárioni varcano la soglia della sala.
Curufinwë, nella solita divisa nera, è una presenza di fumo e ombre, concretizzata solo in quel suo viso affilato. Tyelkormo è il suo esatto opposto: emana una fisicità vigorosa, splendente, tanto che il suo corpo sembra scolpito nello spazio della sala.
È quest’ultimo a cercare lo sguardo di Findaráto. Lo fa con un sorriso accennato ma ferocissimo, e quello spettro di presagio comincia a prender forma.
“Possiamo iniziare, Sire?” Sta chiedendo qualcuno.
Lui acconsente: dà la parola a Guilin e prende tempo per sé.
I suoi pensieri ripercorrono le conversazioni avute con i cugini, una corsa a ritroso nelle memorie più prossime, scandendone ogni particolare.
Guilin parla delle riserve di grano, dell’autosufficienza di Nargothrond. Findaráto finge di seguire il discorso, mentre si sforza d’individuare ciò che – senza dubbio – gli è sfuggito.
Curufinwë gli siede di fronte. Le mani giunte, gli occhi puntati dinnanzi a sé, così tersi e gelidi da riflettere qualsiasi cosa.
È sempre e solo Tyelkormo a guardare Findaráto, e lo fa in modo sfrontato, eccessivo. Tanto che lui si trova quasi a rimpiangere i sotterfugi di Curufinwë, il camminare sul filo di una lama che ondeggia e ondeggia, e potrebbe non tagliarti mai come farlo improvvisamente, di continuo. Tyelkormo, invece, è la palla borchiata che s’agita a intervalli concentrici e regolari, prevedibili; ma quando colpisce frantuma.
Eppure, pensa Findaráto, io non sono ancora stato colpito. Ha negato una sola cosa ai propri cugini: uscire all’esterno per avere notizie dalle Marche, e l’unico che come loro potrebbe essere tentato di mettere in pericolo Nargothrond per avere simili notizie è Findaráto stesso.
O forse questa è solo un’ingannevole convinzione in cui vogliono si crogioli.
Evita lo sguardo di Tyelkormo, spostando la propria attenzione su Edrahil. Allora se ne accorge: gli occhi del consigliere sono puntati sui Fëanárioni, su Tyelkormo che gli siede perfettamente dinnanzi. E Findaráto non è più certo che lo sguardo ferino di suo cugino fosse rivolto a lui.
Le mani di Edrahil, abbandonate sulle carte che tiene di fronte a sé, tremano appena. Si tortura il labbro inferiore, poi si alza in piedi. “Vorrei porre all’attenzione del consiglio un argomento che ritengo essere di fondamentale importanza.”
I suoi occhi si aprono nel vuoto, quasi non stesse rivolgendo quel desiderio a Findaráto, ma a un’entità priva di forma, sospesa oltre le spalle dei Fëanárioni.
Lui osserva il corpo rigido del consigliere, le mani posate – aggrappate – al bordo del tavolo, divenuto il suo unico sostegno.
“Prego,” mormora senza distogliere lo sguardo: sa quanto sia difficile per Edrahil – in quel momento – sentirlo addosso. E coltiva l’ingenua speranza che tanto basti per farlo desistere, per farlo tacere. Ma sta ingannando se stesso; le successive parole di Edrahil gliene danno conferma.
“Credo che occorra rivalutare la nostra posizione in merito all’invio di drappelli di ricognizione nel Beleriand.”
Ecco la goccia che diviene tempesta. Ecco il colpo senz’appelli: la volontà dei Fëanárioni divenuta parola sulle labbra del suo più fidato consigliere.
Findaráto non presta attenzione al brusio che si alza nella sala, né sposta la propria attenzione sui cugini al di là dal tavolo: non vuole incontrare i loro occhi, riconoscervi l’eredità d’un altro fuoco.
Guilin freme al suo fianco. “Questa proposta era già stata discussa e accantonata,” dice.
Findaráto inclina il capo in avanti, lasciandosi sfuggire un sospiro. Un Ñoldo che si oppone alla proposta indiretta di altri Ñoldor, un Sinda che la sostiene: quest’è il Nargothrond privo di barriere.
Lo sguardo di Edrahil è ancora vacuo, perso in una dimensione ineffabile. Le sue mani si stringono al bordo del tavolo – relitto d’un naufrago.
“Sono passate settimane da allora,” mormora rivolgendosi a Guilin. “Dobbiamo scoprire cosa ci circonda, quali sono state le conseguenze della guerra. Non possiamo rimanere asserragliati in Nargothrond per sempre.”
Guilin scuote la testa. “Come ho detto le riserve di grano basteranno a sfamare il popolo ancora per settimane e…”
Findaráto scorge Tyelkormo sollevare una mano. Un gesto brusco, che ricorda più il calar d’una lama che una richiesta di parola – o un’imposizione di silenzio.
“Il nostro arrivo ha aumentato il numero di abitanti. Sei certo che le riserve che tanto decanti possano bastare così a lungo?”
Dopo settimane, il viso di Guilin viene irrigidito da un sentimento che non è dolore. “Lo sono in relativa misura,” ammette piccato.
Allora una voce si alza dalla parte opposta del tavolo, una voce che potrebbe appartenere a chiunque; la voce di una coscienza collettiva che evoca i timori di tutti: “Ma che futuro avrebbe, Nargothrond, se aprendone il passaggio per permettere a drappelli di ricognizione di risalire il Beleriand ne svelassimo l’accesso?”
Findaráto lascia che la domanda fermenti nel silenzio della sala. Persino a Edrahil sfuggono le battute del proprio copione.
È Tyelkormo, infine, a riprendere parola: “I se portano a un eterno immobilismo. Inoltre noi non siamo solo bocche in più da sfamare, nel peggiore dei casi potrete far affidamento su un maggior numero di guerrieri.”
La sua dialettica non possiede la morbidezza e l’insidiosità propria di Curufinwë: è costruita su un assunto d’autorità che sembra precludere possibili contestazioni. Ma Findaráto, in quella sala, ha sempre esercitato un potere più sottile, che prende vita dal consenso – per quanto indirizzato sia. E così ha intenzione di fare ancora.
Quando torna a rivolgere la propria attenzione al resto del tavolo, ad accoglierlo è lo sguardo di Curufinwë, chiarissimo e affilato.
Findaráto avverte come una vibrazione elettrica che s’irradia da Curufinwë a lui, dalle sue mani affusolate – troppo per appartenere a un fabbro – alle proprie, e attraversa il corpo in un brivido. Allora sa che non può né vuole più aspettare.
“Capisco il bisogno di sapere cosa sta accendendo all’esterno,” dice, attirando su di sé l’attenzione dei presenti. “Ma il nostro primo pensiero dev’essere la salvaguardia di Nargothrond e dei suoi abitanti.”
Lascia scorrere il proprio sguardo sui consiglieri seduti attorno al tavolo. Il costrutto del suo discorso esclude i Fëanárioni a priori: non è loro che deve convincere ma la sua stessa gente.
“Per ora è più prudente farci bastare la certezza ricavabile dai rapporti delle sentinelle su Amon Ethir: il Nemico non ci ha ancora circondati.”
Le sua frase viene accolta dallo sbuffo sarcastico di Tyelkormo, mentre Curufinwë continua a mantenere il ruolo di silenzioso osservatore.
Cugino,” soffia Tyelkormo – una vocazione pronunciata come un insulto. “Arrivi alle conclusioni un po’ troppo in fretta.”
Si allunga in avanti con movenze felpate, eppure pregne di un’aggressività che trasuda dal tendersi dei muscoli sotto la casacca, dal gonfiarsi delle vene sulle mani.
“Dopo la tua ripiegata, la Talath Dirnen è sorvegliata solo di nome: quel misero drappello asserragliato su Amon Ethir non può certo vagliarla tutta. Dunque chi ci assicura che le orde di Morgoth non siano dispiegate attorno a noi, lungo il corso settentrionale del Narog e nella Talath Dirnen stessa, magari persino appostate sull’Andram?”
Un nuovo rumorio riempie la sala. Alcuni consiglieri scuotono il capo, altri si scambiano opinioni fugaci.
A Findaráto basta un gesto della mano, un gesto più gentile e leggero di quello fatto da Tyelkormo, perché torni il silenzio.
“Se fosse come tu dici, cugino, se le orde del Nemico fossero attorno a noi, in attesa, perché mai dovrei aprire le porte di Nargothrond, inviando drappelli di esploratori nel Beleriand?”
Guilin fa un cenno d’approvazione, altri consiglieri lo imitano. Ma Tyelkormo continua a sorridere come se la sua preda si fosse ormai tradita, e lui stesse assaporando quell’istante che precede il tiro d’un dardo decisivo.
“Per combatterle,” replica. “Per rioccupare tutti i fortini della Taleth Dirnen con i tuoi arcieri.”
“Lo faremo a tempo debito.”
“E quando sarà questo tempo?” L’incalza Tyelkormo, la voce gonfiata da un ardore terribilmente simile a quello che smosse coscienze nella piazza di Tirion, sulle rive di Araman. “Quando l’ultimo rapporto da Amon Ethir sarà databile mesi?”
Findaráto s’inumidisce le labbra. Le cose sono diverse da quei giorni al di là del Mare, le persone che siedono al concilio di Nargothrond sono diverse. E lui sa come far leva nei loro animi: gentilmente, spegnendo fiamme con calma e razionalità.
“Per assediare Nargothrond occorre occupare una zona sicura e muovere da essa. Amon Ethir, forse, ma come tu stesso hai esplicitato, l’ultimo rapporto che ci viene dal drappello lì stanziato non è ancora databile mesi, anzi risale giusto a qualche giorno fa.”
Tyelkormo si sporge in avanti, quasi volesse ribattere o aggredirlo o forse fare entrambe le cose. È Curufinwë a trattenerlo – una mano ad artigliare l’incavo del suo braccio – probabilmente cosciente del limite raggiunto.
È vero, pensa Findaráto. Loro sono due, due Fëanárioni dalla mente acuta e dallo spirito ardente, mossi da un terribile Giuramento. Ma quella è la sua casa, il suo Regno e forse... Forse.
Findaráto dischiude le labbra per concludere il proprio discorso, quando Edrahil l’anticipa.
“Il forte di Bar Erib, al di là dell’Andram.”
Una manciata di parole che snuda l’illusione d’una vittoria impossibile.
“Bar Erib sarebbe una postazione ideale per muovere un assedio a Nargothrond, inoltre era occupato da un gruppo di Edhil. Dalla nostra gente.”
Ed è in quel momento, prim’ancora che Tyelkormo prospetti le terribili conseguenze d’un attacco mosso dal forte, prima che altri esprimano la loro apprensione per la possibile sorte di quel gruppo di Sindar, prima che i consiglieri – tutti a esclusione di Guilin – votino a favore della spedizione; è in quel momento che Findaráto ha la percezione d’essere un estraneo nella propria casa. Nel proprio regno.
Poi c’è lo sguardo di Curufinwë, ancora limpido come cristallo ma non più lontano: ora è una lama che lo attraversa da parte a parte e rimane lì, conficcata nel suo orgoglio.
Findaráto stringe i denti, lascia che l’aria scivoli nelle narici e sgusci dalle labbra. Infine sorride, mesto, stanco, ma sorride come sa che lui non s’aspetta. Come sa che lui detesta.
Si guardano fintanto che Curufinwë non lascia il proprio posto con un movimento essenziale ed elegante, senza abbassare gli occhi.
Un battito di palpebre e la sala torna a riempirsi di quel vociare eterogeneo. Cigolii di sedie che vengono scostate dal tavolo. Rintocchi di passi.
Ma Findaráto, ora, osserva il vuoto lasciato da Curufinwë, forse quella stessa porzione di spazio da cui gli occhi di Edrahil erano calamitati. Una piega di nulla in cui convergono pensieri oscuri.
Poi una mano si posa sul suo braccio, richiamandolo alla realtà. Edrahil si è dileguato, eppure Guilin è ancora al suo fianco.
“Mio Re,” lo chiama piano, gli occhi velati da un nervosismo che ha diradato parte del suo dolore. “Mio Re, sono certo sia opera dei tuoi cugini. Devono aver… fatto qualcosa.”
Findaráto fa un cenno d’assenso col capo. < br> “Edrahil non avrebbe mai preso una posizione diversa dalla tua in condizioni normali.”
“Lo so.”
Guilin s’inumidisce le labbra e gli si accosta di più. Una delle conterie che ornano le sue trecce cattura il riverbero delle fiaccole.
“Mio figlio… Gwindor,” precisa – l’abitudine a imporsi sulla consapevolezza della perdita. “Gwindor mi ha rivelato d’aver fermato il principe Curufin presso il portale d’ingresso. Era con Normaed, il capitano dei suoi guerrieri. Hanno detto di voler visitare le caverne di quell’ala e hanno proseguito lungo il corridoio destro, verso il corso del Narog.”
Findaráto pensa ai progetti della città richiesti da Curufinwë, e un quadro di cui fatica ancora ad afferrare i contorni inizia a comporsi nella sua mente.
“Sire,” continua Guilin, “non sono subito accorso a dirtelo perché non amo i pregiudizi, ancor meno nei confronti di principi Ñoldor.”
Lui sbatte le palpebre. Pregiudizi. Vorrebbe ridere dell’ingenuità di Guilin, della propria. Perché i Fëanárioni scardinano pregiudizi o li trasformano in realtà con la volubilità del mare.
E quella cicatrice che corre fra le sue memorie torna a bruciare. Il sangue, scurissimo sulle banchise un tempo candide come neve, come latte, come la pelle di Amarië. Il sangue della sua gente. Infine il gelo, l’interminabile notte di stenti. Il dolore folle, viscerale di Turukáno.
Anche Guilin vi ha assistito, solo che differenza di Findaráto non si è mai divertito a omettere quel dogmatico a mezzo nel sangue che segue la parola cugino; a coltivare l’illusione di essere un’unica famiglia – come il nonno voleva. Un’illusione che alla luce di certi sorrisi sembrava persino potersi fare realtà.
Ma Findaráto ha deciso tempo addietro: non incespicherà su certi ricordi, le sue memorie felici appartengono ad altri.
E se è solo ai Fëanárioni di oggi che deve pensare, il pregiudizio – per quanto terribile – è uno strumento di sopravvivenza.
“Guilin,” chiama, “nel caso Gwindor o chiunque altro ti riportasse informazioni sui miei cugini, vieni a comunicarmele.”


Quando il consigliere lascia la sala ormai vuota, Findaráto rimane ancorato alla propria sedia. Colonne e volte a troneggiare su di lui come l’eco d’una maledizione.
Ma non può essere così: quello è il Nargothrond, la sua casa. Il suo sogno.
Un lamento di cardini si leva nel silenzio. Lui si volta, pronto ad aggrapparsi a qualunque cosa la realtà abbia da offrirgli pur di sfuggire ai propri pensieri. Sulla soglia della sala, però, compare la figura di Edrahil.
Sembra lo spettro di se stesso, il viso contratto in un’espressione di dolore stagnante, tanto che Findaráto non sa se cacciarlo o andargli incontro.
Alla fine è Edrahil ad avanzare di qualche passo malfermo, lo sguardo incapace di rimane legato a quello di Findaráto.
Prima di arrivare al tavolo si ferma, china il capo e s’inginocchia. Come se stesse giurando ancora fedeltà. Come se stesse attendendo una condanna.
“Perdonami,” dice, e ogni sillaba è una vertigine. “Perdonami.”
Findaráto spinge la sedia all’indietro e cammina verso di lui.
“Mi dirai mai cos’è accaduto?”
Il suo tono è comprensivo, delicato, quasi stesse allungando le mani verso un cucciolo terrorizzato. Ma in verità pensa alla fedeltà di Edrahil vinta dai sotterfugi di Curufinwë, dalle pressioni di Tyelkormo. Ne valeva la pena, vorrebbe chiedergli. Voltare le spalle a me per collezionare le loro menzogne, ne valeva la pena?
Nella gola di Edrahil ballano un singhiozzo e una manciata di parole: “Vorrei potertelo dire, mio Re.”
Findaráto chiude gli occhi, può quasi sentire la propria voce dire no, non chiamarmi così. Non ora.
Poi ricorda lo sguardo luminoso di Edrahil la prima volta che scesero nelle profondità delle caverne. La polvere sul suo viso, tra i suoi capelli, mentre gli mostrava cunicoli che s’inabissavano nella terra, immaginando con lui volte e tortili e stucchi a modellarli. I suoi sentimenti erano così trasparenti, quasi che non avesse altro desiderio se non quello di condividerli.
Findaráto dischiude le palpebre, tornando a scrutare Edrahil ancora a capo chino.
“Prenditi il tempo che ti occorre,” sospira. “Affinché il tuo volere e le tue possibilità tornino a convergere.”
Allunga una mano in avanti, facendo scivolare le dita sotto il suo viso. Gli solleva il mento. I loro occhi s’incontrano e lo sconforto di Edrahil è un tremito liquido nello sguardo.
“Frattanto io continuerò a riporre la mia fiducia in te.”
Una bugia che veste i panni di un’affermazione sacrale, eroica. Ciò che gli occorre perché Edrahil torni da lui, ciò che occorre a Edrahil per dissipare la propria angoscia.
Un nobile pretesto per giustificare una volgare fandonia, sibila la voce di Curufinwë nella sua mente, ma a scacciarla sono le parole dello stesso Edrahil.
“Non lo merito. Non lo merito, Sire.”
Si alza in piedi, una lacrima scivola dalle sue ciglia.
Findaráto gli si avvicina tanto da posargli una mano sulla spalla. Le dita ad arricciare il tessuto della blusa che indossa. “Lascialo decidere a me.”
Edrahil rabbrividisce, scuote il capo. Una mano corre a trattenere un singulto. Poi fa un passo indietro, un breve inchino.
“Perdonami,” è il suo commiato.
Findaráto l’osserva allontanarsi, le parole che sfuggono come fumo nel vento, mentre Edrahil sguscia nello spiraglio aperto fra le ante della porta. Così se ne va, collettore di menzogne. E lui rimane solo con il peso delle proprie.


Fuori dalla sala, le ombre del corridoio sembrano tendersi più lunghe e inquiete: una sconfitta per le luci delle fiaccole. Gli affreschi sulle pareti sfumano in un amalgama cupo, solo i profili netti e dorati delle decorazioni che corrono sotto di essi, riescono a emergere dal buio.
“L’oscurità ti spaventa?”
Gli ci vuole un istante per rendersi conto che quella voce è reale, non l’ennesimo scherzo della sua mente.
Si volta verso il fondo del corridoio e Curufinwë è lì, ammantato delle ombre in cui attende. La schiena appoggiata al muro, il viso bianchissimo; lo sguardo rivolto dinnanzi a sé.
Non ora, pensa Findaráto. E vorrebbe abbracciare il silenzio, dargli le spalle come Edrahil ha fatto con lui. Ma il profilo di Curufinwë sembra scolpito da quella stessa oscurità di cui parla; quella che ha richiamato su di sé, pronunciando il Giuramento della propria Casata.
Findaráto, così, sente la propria risposta farsi suono ancor prima di rendersene conto: “Non più di quanto dovrebbe spaventare te, Curufin.”
Sindarin a esorcizzare la loro lingua, perché per quanto suo cugino creda il contrario, lui sa quanto sia fastidioso un simile scongiuro.
Curufinwë corruga la fronte, ma non sposta il proprio sguardo dalla parete che ha dinnanzi. “Per quale ragione credi che sia qui?”
“Per godere dei frutti della tue macchinazioni, suppongo.”
Suo cugino si volta, premiandolo con un sorriso tanto insinuante da riscuoterlo: non è questo il modo in cui può affrontarlo.
Allora Findaráto rilassa il viso, svuota la mente e sospira. Il Quenya ad ammorbidire le sue parole, mentre torna quello di sempre.
“Forse la mia preoccupazione è infondata. Forse l’esplorazione dei drappelli che verranno inviati darà i suoi frutti. E le informazioni che ne ricaveremo potranno essere usate per difendere Nargothrond al meglio.”
Il volto di Curufinwë s’irrigidisce improvvisamente. Lo sguardo che gli rivolge, poi, è accesso d’una fiamma mercurica, uno scintillio spettrale tra le ombre del corridoio.
“Dimmi, cugino, persino il tuo respiro riesce a essere un tale concentrato di falsità?”
Findaráto sbatte le palpebre. Non sa che via scegliere: allargare il proprio sorriso, lasciandosi scivolare addosso simili parole, o tornare ad attaccarlo direttamente, inutilmente. Genuinamente.
È Curufinwë a toglierlo da un simile impiccio: si scosta dal muro con un movimento fluido e avanza verso di lui. Passi cadenzati nel silenzio del corridoio.
Quando gli è abbastanza vicino, si sporge in avanti. Il viso affilato dalle luci delle fiaccole, i capelli parte dell’oscurità. “Provo quasi pietà per il tuo consigliere,” sibila.
Allora Findaráto serra le labbra, stringe i denti. E dall’espressione soddisfatta di Curufinwë, sa che la propria rabbia ha fatto breccia in quella maschera di compostezza che ha indossato per lui.
Poi Curufinwë allunga una mano verso la sua. Lo tocca come si toccherebbe uno strumento: in modo anonimo, essenziale. E le sue dita sono gelide, irruvidite dalla forgia, eppure sottili, eleganti, mentre si chiudono sul suo polso. Il pollice a premere sopra una vena pulsante.
Lo sguardo di Curufinwë è uno spiraglio argenteo, appena velato dalla ciglia scure. A lui sembra coglierlo indugiare sul suo collo, privo della Nauglamír, ma infine lo vede abbassarsi.
Un istante e Curufinwë gli volta la mano, aprendola dito per dito.
Findaráto non oppone resistenza; osserva i bagliori emanati dagli anelli di Curufinwë, le sue unghie corte e perlacee. E quando suo cugino gli preme qualcosa sul palmo, sussulta.
Le sue dita si chiudono attorno a un involucro di tessuto nel quale avverte una sagoma solida, allungata, di poco più piccola della propria mano.
Curufinwë cerca i suoi occhi ancora una volta.
“Io vedo attraverso le tue ipocrisie,” dice e le sue parole sono come le ombre: un castigo e un sollievo assieme.




“Perché, mio Signore?”
La voce incespicante di Balan si perdeva nell’immensità dei soffitti che li sovrastavano. Lo sguardo offuscato dalla febbre, le labbra aride.
“Perché ti costringi a quest’espressione?”
Findaráto guardava l’intarsio di rughe che era il suo viso e si sentiva perduto, perduto in un modo differente da che aveva avvertito il peso della propria maledizione.
Discorsi vuoti sulla volontà di Eru vorticavano nella sua mente e si erano persino fatti parola. “Andrà bene,” diceva, pensava, pregava. Mentiva. Un sorriso paternalistico a tremare sulle labbra.
Balan aveva tossito, ancor e ancora. Le membra che sussultavano a ogni colpo, quasi che un terremoto stesse aprendo faglie nel suo corpo, portandolo al collasso.
Findaráto temeva di toccarlo: ogni cosa in lui pareva troppo fragile, prossima a disfarsi come una foglia secca nel vento.
Era una tortura strana, quella. Una tortura che si era scelto volontariamente. E nei momenti in cui cercava il viso di Balan e vi trovava quello di un estraneo, di un vecchio su cui il tempo aveva scolpito una storia parallela alla propria, avrebbe voluto tornare indietro. Non sedersi in quella radura, non intonare quel canto.
Ma poi qualcosa s’accendeva nello sguardo di Balan: il residuo d’una vivacità antica, un fiamma che guizzava nei recessi dei suoi occhi e che Findaráto tratteneva per sé, aggrappandovisi.
Vorresti davvero che Elfi e Uomini non si fossero mai incontrati? La luce della fiamma, che altrimenti mai avresti visto, non ti è di alcun conforto neppure ora?
Alla fine Balan aveva allungato una mano, increspata e tremante, verso di lui. Gli aveva carezzato il viso, sorridendo con una saggezza profonda, conquistata in una vita che era stata una scintilla, uno sbattere di ciglia.
Così la maschera di compostezza di Findaráto si era sgretolata, il sorriso spento. Una lacrima gli aveva bagnato il viso, infrangendosi sulle dita dell’uomo.
“Ecco,” aveva sospirato Balan.
E Findaráto era stato se stesso, piangendo come si piange dinnanzi a un’ingiustizia.













Note:

- Talath Dirnen (Piana Sorvegliata), è la piana che si estende a nord di Nargothrond sino ad Amon Ethir (Colle della Spia), un colle artificiale eretto da Finrod a protezione del suo stesso regno.
Quando Beren si appropinqua a Nargothrond, percorre proprio la Talath Dirnen e in quest’occasione ci viene detto di come nella piana fossero stati costruiti fortini controllati da arcieri. Io però ho creduto plausibile che nel momento storico in cui questo capitolo si svolge la sorveglianza non fosse stata ancora ripristinata a causa delle ingenti perdite della guerra.

- Bar Erib (Dimora di coloro che sono soli/dei solitari) viene menzionato ne I Figli di Húrin, dove si fa riferimento a esso per indicare gli estremi del perimetro controllato dagli alleati di Túrin e Beleg.
Dal testo sembra plausibile che il fortino fosse una preesistenza. Nella zona in cui è situato non vi sono noti insediamenti di Uomini, ma è assodato che nelle vicinanze di quello che sarebbe divenuto Nargothrond vivessero gruppi di Sindar, per cui ho ipotizzato che il fortino fosse controllato proprio da quest’ultimi.


Normaed è la sindarizzazione che ho ipotizzato per il nome Nármaitë, è composta dai termini naur- “fuoco” e maed “abile”/“pratico”.


Precisazioni:

Guilin è un personaggio di cui si sa ben poco. Ne The Lay of Children of Húrin è scritto che possiede una coppa proveniente da Valinor, dunque io ho immaginato che fosse vissuto in Aman e avesse compiuto la traversata dei ghiacci fra le schiere di Finrod e Fingolfin.
Nel racconto si esprime in Sindarin pur parlando con Finrod, perché credo preferisse la suddetta lingua al Quenya (di cui utilizza comunque qualche vocabolo stigmatizzante). Quest’idea deriva dal fatto che del suo nome e di quello dei suoi due figli si conoscono solo le versioni Sindarin e io ritengo plausibile che Gwindor e Gelmir (nel mio immaginario nati entrambi in Terra di Mezzo) non abbiano ulteriori nomi in lingua Quenya.

Le frasi Vorresti davvero che Elfi e Uomini non si fossero mai incontrati? La luce della fiamma, che altrimenti mai avresti visto, non ti è di alcun conforto neppure ora? sono citazioni di due domande poste dallo stesso Finrod ad Andreth ne Athrabeth Finrod ah Andreth.


Inutile dire che sono letteralmente terrorizzata dalla mia resa di Finrod, ma spero che, per quanto esplorato sotto una luce nuova, possa risultare tendenzialmente in linea con il personaggio canonico.


Grazie per aver letto.



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Capitolo 4
*** III. Esternare ***






III. Esternare






Le notti di Nargothrond non sono mai silenziose: voci e musiche e canti risuonano lungo le gallerie. La città è sempre sveglia, quasi volesse testimoniare la propria perseveranza: le ombre potranno anche aver colonizzato il mondo, ma lì, nelle profondità della terra, si continua a vivere.
Tyelperinquar rimane in ascolto di quella vita tenace, e il suo lontano rumoreggiare si tramuta nel lamento del vento. Allora ricorda di una fortezza austera, affacciata ai dirupi. Pavimenti di pietra grezza, pareti spoglie, focolari incapaci di mitigare un freddo pungente. Ricorda il passo di Aglon, ghiacciato, snodarsi fra i fianchi montani come una lingua lucente. E non sa se ciò che prova sia proprio nostalgia per quel luogo così rigido; forse si tratta più dell’estraniante consapevolezza di aver perso tutto, di nuovo.
Sbatte le palpebre. Su di lui non incombono travi divorate dall’umidità ma un soffitto voltato, modellato nella roccia: ora c’è il Nargothrond con le sue aule sempre vigili, e notti insonni a cercare di riappropriarsi di coordinate perdute – seppellite dalla cenere.
Lascia le sue stanze occhieggiando gli arazzi che coprono le pareti: fondali blu e ricami malinconici di stelle. Troppo per lui quella sera.
Attraversa i corridoi, silenzioso. Una luce azzurra beccheggia nel salotto che le stanze di suo padre e suo zio condividono. Un frusciare di carta si aggiunge al rumorio della città, oltre le pareti di roccia.
Tyelperinquar si allontana con una certa impellenza. Il cuore che aumenta i battiti come quando, da bambino, si nascondeva ai suoi zii per un capriccio infantile. All’epoca Tyelkormo lo trovava subito, ma se ora è nel salotto – sul divano, capelli sparsi fra i cuscini, una gamba a penzolare oltre il bracciolo – è sicuramente troppo intento a osservare Curufinwë per accorgersi di lui.
Tyelperinquar li ha visti spesso, quegli sguardi. Ha avvertito l’intimità che implicano e arginato l’amarezza di sentirsene escluso.
Prosegue lungo la curva dell’androne; l’istinto lo porterebbe alle fucine, a ricercare un tracciato famigliare in quel susseguirsi di scale e corridoi e sale magnifiche, tuttavia ora non desidera vedere estranei. O forse sentirsi estraneo in un luogo – la forgia – che ha sempre chiamato casa.
Così muove altri passi nella penombra, mentre gli stucchi dorati sulle pareti mutano in una livellatura della pietre e un profumo d’erbe gli arriva alle narici.
Le cucine dei loro appartamenti emanano un calore diverso da quello delle altre stanze: non hanno decori preziosi, tuttavia le mensole e le stoviglie appese sui muri evocano un ricordo nostalgico. Cucine di cui fatica a definire i contorni – forse quelle, lontanissime, di Tirion. Le braccia accoglienti di suo nonno, l’ombra di un raro sorriso sulle labbra.
“Assaggia.”
Un sapore troppo speziato, una smorfia.
E poi la risata di Fëanáro che vibrava bassa, ruvidissima. L’accenno di un bacio sul capo.
“Hai gusti molto delicati, hinya.”
Chissà se qualcuno crederebbe che Curufinwë Fëanáro è stato anche questo.
Tyelperinquar allontana quel pensiero, varcando la soglia delle cucine. Sul tavolo posto al centro della sala Andúien sta catalogando alcune erbe, di fronte a lei Ilwaráto affetta una focaccia.
Condo?” Lo chiama quest’ultimo, appena sorpreso dalla sua presenza.
Tyelperinquar fa un breve cenno del capo, poi solleva lo sguardo per abbracciare l’intera stanza. In fondo al tavolo siede Liltelenio. Ha un libro fra le mani e un abbozzo del solito, mesto, sorriso sulle labbra.
“Qualcun’altro che non riesce a prender sonno?” Domanda Andúien, richiamando l’attenzione di Tyelperinquar, e nella sua voce balena una nota ironica e comprensiva assieme.
Lui fa un cenno d’assenso. In passato si è sentito a disagio per la propria trasparenza; ora si è reso conto di come un simile disagio non sia altro che un riflesso dato dal confronto con suo padre, dalla consapevolezza di esserne l’opposto.
Senza smettere il proprio lavorio, Andúien alza lo sguardo verso Liltelenio. “Cosa gli consiglieresti?”
Lui sbatte le palpebre, inclinando appena il capo. “Melissa?”
“In questo caso saresti tu a dover fornire un dosaggio adeguato ogni volta… Sai del suo effetto paradosso.”
“Un infuso a base d’iperico, dunque?”
La guaritrice sorride, soddisfatta, e Tyelperinquar la vede sfilare un’ampolla dal contenitore che ha al fianco.
“Avanti,” sbuffa Ilwaráto dinnanzi a lei, “questi sono rimedi noti anche a me!”
Gli occhi del capitano cercano quelli di Liltelenio, appena incupiti dalla sua osservazione, e una smorfia divertita increspa il suo viso. “Non volermene, danzatore. Dico solo che non sei tagliato per alleviare le pene altrui.”
Liltelenio scrolla le spalle, distogliendo lo sguardo da Ilwaráto. “Né sono tagliato per infliggerle di mio pugno, se è questo.”
Tyelperinquar sposta la propria attenzione dall’uno all’altro, indeciso se intervenire. I modi di Ilwaráto sono noti a tutti, ma Liltelenio, così diverso da lui – da tutti loro –, lo induce a inasprirsi.
Alla fine è Andúien a intromettersi: con un gesto annoiato scaccia le loro parole e si rivolge Tyelperinquar. “Siedi, condonya.”
Lui acconsente, prendendo posto tra la guaritrice e il capitano di suo zio. Andúien gli porge l’ampolla che teneva fra le mani, Ilwaráto si alza dalla sedia e si stiracchia.
Tyelperinqur lo sente trafficare alla sue spalle per poi tornare al tavolo con una tazza d’acqua calda. Gliela porge, ammiccando. “Prova pure l’infuso, condo. Ma sappi che in certi momenti il vino è l’unico rimedio all’insonnia.”
“Se per questo,” ribatte Andúien inarcando un sopracciglio, “anche un colpo in testa può essere utile.”
Il capitano ridacchia e fa un cenno d’assenso. Tyelperinquar lo sente sfiorargli una spalla con la propria, mentre addenta un pezzo di focaccia.
Andúien è poco distante, intenta a disporre le ampolle nei loro contenitori. Liltelenio, in fondo al tavolo, è tornato a leggere.
Tyelperinquar si sente avvolto da un abbraccio di calore, una percezione che stempera quelle sensazioni d’esclusione e solitudine che lo hanno portato lì.
Prepara l’infuso, l’aroma dell’iperico si fa più intenso, sovrastando quello delle altre erbe e fiori.
Ilwaráto gli lancia uno sguardo curioso ma stranamente rilassato, e lui si volta in sua direzione, la tazza calda fra le mani. “Sembri di buon umore,” dice.
Il capitano sorride, i denti che si chiudono sulla pasta morbida delle focaccia. “E chi non lo sarebbe?”
Tyelperinquar corruga la fronte. Non sa di nuove positive, ma è anche vero che, conoscendo Ilwaráto, quella potrebbe essere dubbia ironia.
Rimane in silenzio, sperando d’indurre il capitano a continuare il discorso, tuttavia è Andúien a riprenderlo per lui: “Capisco che tu voglia notizie di Mahalcarinië, ma io non sarei così tranquilla a partire per il nord. Di fiamme ne ho avuto abbastanza almeno per qualche anno!”
Tyelperinquar sussulta, le dita si stringono attorno alla tazza, mentre una realizzazione scava nel profondo: non ha la minima idea di cosa stiano parlando.
Ilwaráto scrolla le spalle, ribatte, ma tutto sembra scivolare troppo lontano da lui.
Si alza in piedi con quanta più fermezza riesce a raccogliere, il pensiero che corre a suo padre e suo zio, in quel salotto, a pianificare progetti che l’escludono completamente.
Lascia le cucine con una scusa debole, gli sguardi dubbiosi di Ilwaráto e Andúien alle spalle.
Quando ripercorre l’androne che collega le cucine alle sale principali, le torce appese alle pareti sembrano bruciare più debolmente, consumate dalla stessa luce che irradiano.
Tyelperinquar si stropiccia le mani. I suoi palmi hanno conservano il calore della tazza, ma quella solitudine che l’attanagliava è divenuta ancora più gelida.
“Aspetta,” la voce di Liltelenio echeggia nel corridoio, facendolo irrigidire.
“Aspetta,” ripete il danzatore, e il suo tono è così gentile da indurre Tyelperinquar a voltarsi.
Liltelenio ha con sé la tazza dell’infuso e gliela porge con uno sguardo preoccupato. “Stai bene?”
E per un istante Tyelperinquar accarezza il pensiero di lasciarsi andare. Di raccontargli della propria solitudine e frustrazione, di un padre distante, dell’angoscia per la sorte dei propri zii. Ma infine gli sorride, prendendo la tazza dalle sue mani. “Non preoccuparti”.
Liltelenio cerca i suoi occhi, sulle labbra parole che non riescono a prendere suono.
Poi Tyelperinquar abbassa il capo.
“Buonanotte,” si sente mormorare prima di dirigersi verso le sue stanze.


La mattina dopo suo padre e suo zio la passano nel salotto, dove forse hanno trascorso anche l’intera nottata. Quando Tyelperinquar li chiama per il pranzo lo fa rimanendo sulla soglia della sala, come se, varcandola, possa profanare l’intimità di quel luogo.
Il suo sguardo indugia sul tavolo circolare, dove le mappe di Endórë hanno preso il sopravvento sui calcoli e i progetti di Curufinwë. E il legame tra questo particolare e le parole di Andúien diventa incalzante.
“Il pranzo è pronto,” annuncia lui, sforzandosi di mantenere un tono di voce neutro.
Tyelkormo soffia un lamento frustrato, senza scostarsi dal tavolo – dalle mappe – su cui è allungato.
Curufinwë lancia un’occhiata obliqua al fratello e ai fogli sparsi tutt’attorno. “Fallo servire qui,” dice a Tyelperinquar, “non abbiamo molto tempo.”
Lui annuisce, ma quando si volta per lasciare il salotto, suo padre lo ferma: “Pranza con noi.”
Il pensiero delle mappe sparse sul tavolo fa esitare Tyelperinquar. Come potrebbe fingerle d’ignorarle una volta seduto lì?
Quando ritorna nel salotto assieme a due servitori, però, nota che le mappe sono state riavvolte e accatastate in una metà del tavolo.
Suo zio appare più rilassato, ruba un pezzo di pane da un vassoio e scompare oltre la soglia della sala per riemergervi con Huan al seguito.
Viene apparecchiata solo la metà libera del tavolo, le sedie sistemate di sbieco, e tutto possiede quella precarietà tipica dei pasti che Tyelperinquar era solito consumare con suo padre – un boccone e un calcolo matematico.
Tyelkormo si inseriva in un simile contesto come una variabile libera: una presenza che andava e veniva, a volte infastidito dalla loro frugalità, altre – quando si limitava a spiluccare dal piatto di Curufinwë – più che ben disposto verso di essa.
Ora suo zio sembra trovarsi perfettamente a proprio agio a quella tavolata provvisoria. Siede dinnanzi a Curufinwë, una mano al proprio piatto, l’altra ad accarezzare il capo di Huan, accovacciato accanto al tavolo.
Tyelperinquar conosce lo svolgersi di quel copione: le occhiate infastidite di suo padre infrante contro la pretestuosa e divertita indifferenza di Tyelkormo.
“Tyelko.”
“Dimmi.”
“Lo sai.”
“So cosa?”
Tyelkormo si porta un frammento di carne alle labbra, lo spezza con i denti e ne da una parte a Huan. Gli strofina le orecchie e afferra un altro boccone con le dita, per poi rivolge uno sguardo estraneo a Curufinwë.
Un tempo Tyelperinquar trovava divertenti quegli scambi; ora tutto è offuscato dalla sensazione di trovarsi fuori luogo. Uno spettatore esterno, abbandonato alla propria solitudine.
E all’improvviso si fa strada in lui il desiderio di rivendicare uno spazio, un ruolo; d’imporre la propria presenza.
Guidato dall’istinto lascia tintinnare le posate contro il bordo del piatto. Suo padre ferma a mezz’aria il bicchiere che si stava portando alle labbra per lanciargli un’occhiata gelida e lui avverte parte della propria determinazione sbiadire nella nitidezza delle sue iridi.
Tyelkormo finge di non accorgersi di nulla, continuando ad affettare la carne nel proprio piatto.
Tyelperinquar punta lo sguardo sulla brocca di vino che ha dinnanzi, raccogliendo un coraggio che ha il sapore della frustrazione.
“Non mi avete dette nulla di ciò che è accaduto durante il concilio,” dice, la voce increspata dal nervosismo. E tutto il peso del silenzio che segue cala su di lui.
Con la coda dell’occhio scorge suo padre distoglie lo sguardo, ruotare il polso, lasciando ondeggiare il vino nella coppa. I suoi movimenti lenti, morbidi, sembrano dilatare il tempo, ma a un tratto il ritmo cambia.
“Che cosa ti è stato detto?” Chiede bruscamente.
E Tyelperinquar non sa bene come accada – forse a causa di quel senso d’abbandono che sente scavargli l’animo –, ma trova il coraggio necessario a lasciar emergere tutta la propria amarezza. “Ciò che avreste dovuto dirmi voi?”
Curufinwe ha un sussulto quasi impercettibile. Lui teme che stia per metterlo a tacere con una di quelle osservazioni che sanno restituirgli la netta percezione della sua inconsistenza; invece suo padre sbatte le palpebre, s’inumidisce le labbra.
È Tyelkormo a parlare.
“Hai ragione,” dice scrollando le spalle, mentre addenta un brandello di carne. “Hai ragione… è che siamo stati particolarmente impegnati.”
C’è così tanta noncuranza nel tono di suo zio che Tyelperinquar non sa se sentirsi irritato o imbarazzato per aver dato un simile peso a un fatto che – stando alle parole di Tyelkormo – è dovuto a una mera casualità.
Curufinwë si bagna le labbra con un sorso di vino, e il ritmo di quel discorso torna a farsi incalzante. “Con chi hai parlato?”
Lui s’irrigidisce. Pensa a Ilwaráto e Andúien, nelle cucine, e vede il sospetto schiarire gli occhi di suo padre.
“Un po’ con tutti,” mente.
Curufinwë tace, ma il suo sguardo sembra poter evocare i pensieri di Tyelperinquar, leggerne proiezioni che s’iscrivono sulla pelle. Poi è Tyelkormo – ancora – a spezzare il silenzio.
“Andrò all’esterno,” dice, “ mi unirò ai drappelli di ricognizione che si spingeranno a nord-est.”
Un sospetto che sulle sue labbra diviene una prospettiva concreta. Ed è forse perché le coordinate s’ingarbugliano ancora, confondendolo, che Tyelperinquar pronuncia la domanda successiva.
“Cose ne pensa il Re?”
La mascella di suo zio si contrae, i denti si chiudono sul pezzo di carne che ha in bocca. Deglutisce, tenendo il proprio sguardo d’acciaio puntato su Tyelperinquar. La risposta, però, viene da Curufinwë.
“Il concilio è d’accordo e Findaráto lo è di conseguenza.”
Tyelperinquar abbassa lo sguardo sul proprio piatto. Pensa di chiedere loro come hanno convinto il concilio, ma le parole s’incastrano in gola, troppo scomode per divenire suono: forse non vuole sapere, non davvero.
Tyelkormo prende un sorso di vino, poi fa un cenno in sua direzione. “Andrò con alcuni dei miei cacciatori. E il Nargothrond ci sarò grato per aver messo a disposizione i nostri guerrieri.”
Lui abbassa lo sguardo. Pensa alle piccole cose: agli arazzi della sua stanza, alle cucine, alla forgia; all’ospitalità che è stata riservata loro. E gli pare di perdere l’equilibrio, d’inciampare in un rimorso a cui non riesce a dare forma concreta.
“Avremo notizie dalla Marche,” scandisce a un tratto Curufinwë. La sua voce è distante, incolore, eppure è l’appiglio di cui Tyelperinquar ha bisogno.
“Sapremo cos’è accaduto ai nostri fratelli. Ai tuoi zii,” rincara Tyelkormo.
“Credi… credete che stiano bene?”
Suo zio sorride, la luce ferale del suo sguardo viene mitigata da una più gentile: il riflesso di una speranza dalle radici profonde.
“Sarebbe inutile fare prognostici,” ribatte Curufinwë, mentre le sue dita sfiorano il bordo della coppa.
Tyelkormo però non perde il proprio sorriso e Tyelperinquar decide di affidarsi alla sua speranza – al suo intuito –, ricacciando il ricordo di Losgar in qualche antro della mente.
La solitudine, quell’amara sensazione di esclusione, aleggia sui suoi pensieri come uno strato di nebbia; gli da respiro, ora, ma è sempre pronta a calare.


Lungo l’immensa galleria sfilano consiglieri e soldati, alcuni accompagnati dai loro cavalli, e il rintocco degli zoccoli sul lastricato si mischia a un vociare indistinto.
Il portale d’ingresso domina l’orizzonte, incorniciato da un protiro scultoreo. Quando Tyelperinquar era giunto in città non gli aveva prestato particolare attenzione, distratto dalle grotte voltate che si stagliavano dinnanzi a lui, ma ora ne nota tutta l’imponenza.
Lascia scorrere lo sguardo sui piedritti, cercando un meccanismo d’apertura, e infine individua due argani a ruota addossati alle pareti.
Davanti agli argani, alcuni guerrieri di Nargothrond che partiranno come esploratori sono raccolti attorno al loro Re. Lui può scorgere il suo profilo delicato, il lieve gesticolare delle sue mani.
Poco più in là, anche Tyelkormo sta impartendo ordini ai propri cacciatori. Ilwaráto, già in sella al proprio cavallo, coglie il suo sguardo e lo saluta con un cenno.
Tyelperinquar ricambia per poi lanciare un’occhiata alla propria destra, lì dove Curufinwë osserva un punto imprecisato nella folla, ignorando sia il Re che il suo stesso fratello. Ma lui sa che arrivati a questo punto i pensieri di suo padre e suo zio sono un’armonia univoca.
Li sta ancora osservando, quando una lieve pressione alla schiena lo induce a voltarsi. È Huan, muso proteso in avanti e sguardo puntato su di lui.
Tyelperinquar gli sorride, affondando le dita nel suo pelo.
“Fai attenzione là fuori,” mormora piano, affinché suo padre non possa sentirlo. Poi solleva lo sguardo verso Tyelkormo e aggiunge: “Fai attenzione anche a lui.”
Come evocato dalle sue parole, suo zio si lascia il drappello di cacciatori alle spalle per avvicinarsi loro.
Indossa un’armatura forgiata con una lega particolarmente leggera, opera di Curufinwë, le cui giunture sono state realizzate in cuoio. Mostra una soddisfazione disarmante, i capelli raccolti dietro la nuca e uno sguardo luminoso.
“Vieni qui,” intima a Tyelperinquar, allungando entrambe le braccia in avanti.
Lui ubbidisce e Tyelkormo gli prende il viso fra le mani – i polpastrelli ruvidi a carezzare le guance –, infine preme un bacio tiepido sulla sua fronte.
Tyelperinquar respira un eco di quel profumo di muschio e terra che sempre ha annusato sulla pelle di Tyelkormo. Gli cinge la vita, pregando Eru di poterlo stringere ancora.
Quando si separano, Tyelkormo si volta verso il proprio fratello per un saluto che s’esaurisce in uno sguardo: se ci sono stati abbracci, fra loro, hanno preteso l’intimità della solitudine.
“A presto,” mormora Tyelkormo. Curufinwë fa un cenno a cui lui risponde con un nuovo sorriso, prima d’allontanarsi verso il proprio cavallo.
È allora che Tyelperinquar avanza d’un passo.
“Torna,” gli dice a mezza voce, un ordine e una preghiera assieme.
Suo zio si volta. Inclina il capo, li scruta, prima lui e poi Curufinwë, e dai suoi occhi trabocca un affetto genuino, assoluto. Un sentimento che richiama tempi lontani.
“Agli ordini.”
Lo guardano dare loro le spalle e montare sul cavallo, Huan al seguito. Poi un rumore sordo si leva nella galleria: quattro soldati stanno azionano gli argani e il portale ha iniziato a schiudersi.
La luce del mondo esterno dilaga nelle caverne, inghiottendo il drappello di esploratori. È un bagliore pallido e timido eppure autentico, nulla a che vedere con quelli lambiccati di fiaccole e Lampade.
Tyelperinquar vede suo padre assottigliare lo sguardo, puntato sulla schiena di Tyelkormo. Per una attimo il viso di Curufinwë sembra adombrato da un senso d’abbandono: una fragilità intima, quasi infantile. E lui non può far altro che accostarglisi maggiormente, sfiorando il suo braccio con il proprio.
Lo sente irrigidirsi appena, forse sorpreso da quel contatto, e quando Curufinwë si volta in sua direzione, Tyelperinquar ne elude lo sguardo, fissando la luce dinnanzi a sé. Entrambi tacciono, ma nessuno dei due si allontana dall’altro.






Sotto l’amalgama di neve e fango, la terra fu attraversata da un tremito, l’aria s’appesantì e le montagne divennero scogli in una mareggiata di fiamme. Calò così, da nord-est, una promessa mantenuta.
I profili dei monti avvamparono in una penombra che non apparteneva né al giorno né alla notte. Tyelperinquar strinse le redini convulsamente; pensò che avrebbe visto le rocce sciogliersi e il mondo contorcersi e crepitare come le navi-cigno a Losgar.
Osservò i guerrieri attorno a lui: volti anneriti dai fumi su cui guizzavano bagliori rosseggianti, negli sguardi attoniti l’incrinarsi di un’illusione – vinceremo.
Curufinwë, in sella al suo cavallo, era poco distante; i suoi occhi scrutavano oltre le montagne. E Tyelperinquar realizzò che dove lui guardava svettava l’Himring e sotto di esso, al di là delle vette illuminate dal fuoco, vi era la Breccia di Makalaurë e poi il Lothlann tenuto dalle sue cavallerie.
Non riuscì a dare voce al panico che lo colse, perché un boato echeggiò fra cielo e terra, soverchiando tutti gli altri suoni. E mentre quel rombo assordante sembrava crescere d’intensità, lui scorse Tyelkormo piegarsi sulle ginocchia. Lo sguardo rivolto ai monti e un urlo muto sulle labbra.
Vide il suo viso venir scavato da una rabbia primordiale, la sua bocca spalancarsi, i denti affilarsi di riflessi sanguigni. Un ricamo di vene pulsò lungo il collo incrostato di fango e sangue scurissimo.
Ilwaráto gli era accanto, gli sfiorò le spalle con una mano che lui scacciò, salvo poi riafferrarla bruscamente. Gliela strinse e risalì lungo l’avambraccio; le unghie conficcate fra le piastre dell’armatura, a incidere la pelle. Ma Ilwaráto non si sottrasse.
Tyelperinquar deglutì a vuoto, l’odore di zolfo che tornava a graffiare la gola, le gambe instabili sopra quella terra claudicante.
Il fragore si spense poco a poco, lasciandoli storditi. Lui distolse lo sguardo da suo zio e incappò in quello di suo padre: lo stava fissando. I suoi occhi erano come nuvole cariche di neve, il viso pallidissimo, tanto che le luci delle fiamme sembravano attraversalo. Dischiuse le labbra, ma le parole che ne uscirono si persero nel suono d’un corno: un segnale di Mahalcarinië, parte dei cacciatori ancora appostati sulle montagne.
Un tremito nuovo, meno profondo ma vicinissimo, scosse il passo e l’intera vallata. Alcune pietre ruzzolarono lungo i crinali e le sagome degli Orqui emersero dai vapori, riversandosi al di fuori della gola di Aglon.
Quando l’orda travolse i lancieri schierati all’imbocco del valico, dai versanti attorno al vallo provenne una pioggia di frecce: i cacciatori sulle montagne stavano ripiegando verso l’Himlad, assalendo gli Orqui alle spalle.
Ma gli schiavi di Moringotto sembravano mossi da una furia disperata. Chi era sfuggito alla frecce, arrancava verso il grosso dell’esercito. Negli occhi esiziali, arrossati dai fumi, la fame di una vittoria palpabile.
Tyelperinquar capì che sarebbe stati su di loro a momenti.
Suo padre gli strattonò un braccio: “Non distrarti, ora. Dobbiamo andarcene!”
Tyelkormo, montato su un cavallo, si schierò dinnanzi a loro, Ilwaráto al fianco. Altri guerrieri li accostarono e Nármaitë, da qualche parte – Tyelperinquar udiva la sua voce –, chiese indicazioni a Curufinwë per poi gridarle all’avanguardia.
Huan, poco distante, azzannò un Nauro.
“Via,” ordinò Curufinwë, ma gli Orqui erano lì: Tyelperinquar poteva contare le cicatrici slabbrate sui loro volti.
Un Urco si gettò verso di loro e prima che Ilwaráto riuscisse ad anticiparlo, Tyelkormo spronò il proprio cavallo per andargli in contro – le protesta di Curufinwë ignorate come il vento sulla pelle.
Ilwaráto e alcuni dei cacciatori rimasti con la retroguardia lo raggiunsero, forse con la vana speranza di farlo retrocedere.
Tyelperinquar vide suo zio mozzare la testa dell’Urco e incrociare lo sguardo piretico d’un Nauro che, più in là, affondava le zanne nei resti di un soldato. Con un verso gutturale, Tyelkormo lanciò la propria spada verso la bestia, trapassandole il cranio.
Ilwaráto stava affrontando due nemici, uno – lesto – sgusciò tra le gambe del suo cavallo, strappando un’ascia dalle carni di un cadavere a terra. Alzò il capo, affilando lo sguardo, e Tyelperinquar capì che stava puntando suo zio, poco distante da lui.
Anche Tyelkormo notò la creatura, ma invece di sottrarsi alle sue mire, cavalcò verso di lei, disarmato.
Quando l’Urco brandì l’ascia, gli si scagliò addosso a mani nude, impedendogli di calare la lama sul cavallo che montava.
Tyelperinquar trattenne il respiro e qualcosa lo portò a voltarsi verso il proprio padre. Guardò i suoi occhi sgranarsi, liquidi e cupi come non li aveva mai visti: il suo terrore era tutto lì, lì e nel nome sulle sue labbra: “Tyelko!”
Lui lo vide strattonare le briglie con una foga che stentò a credere gli appartenesse, e seppe che anche Curufinwë si sarebbe lanciato sugli Orqui senza alcuna cognizione.
Ma Tyelkormo spinse l'avversario a terra, sotto di sé, colpendolo con un impeto terribile. Il viso distorto da una smorfia di soddisfazione.
Si sollevò solo quando il corpo della creatura rimase immobile nella fanghiglia: i pugni intrisi di sangue fresco, uno schizzo sullo zigomo destro. Alzò lo sguardo per cercare quello di Curufinwë. Con un sorriso gli indicò il cadavere dell’Urco, quasi che quella dimostrazione di forza – di follia – fosse interamente dedicata a lui.
E in quel momento Tyelperinquar si chiese come sarebbe stato avere un fratello; sentirsi unito a qualcuno nel modo in cui lo erano suo padre e suo zio.






Le biblioteche di Nargothrond sono un intrico di scansie modellate in archi ogivali che risalgono i soffitti seguendo i profili delle volte. Dagli scaffali traboccano liberi e pergamene, molti sono copie provenienti da Aman, volumi di Rúmil e altri Lambeñgolmor; altri sono scritti in Sindarin, e altri ancora in una lingua – forse Nandorin – di cui Tyelperinquar riconosce solo alcune parole.
Ha raggiunto quel luogo per sfuggire ai propri pensieri. Curufinwë è alle forge, e lui non riesce a lavorare al suo fianco quando è avvinto dall’angoscia: nulla più che una distrazione colpevole agli occhi di suo padre.
Ma Tyelkormo è là fuori, in un mondo preda di ombre e fiamme, e Tyelperinquar ha perduto troppi legami per non lasciarsi travolgere dal terrore di dover vivere un’esistenza che escluda anche suo zio.
Scuote il capo, cercando di affossare quei pensieri e concentrarsi sulla biblioteca.
Motivi dorati di conchiglie sono intagliati nelle lesene che dividono gli scaffali. La luce proviene da lanterne inserite nei loculi di pilastri scanalati, posti lungo il perimetro della sala. Uno stucco smeraldino si solleva dal soffitto, forse un’onda che increspa il mare e si curva verso il basso, dando l’impressione di poter sommergere chi cammina sotto di essa. A Tyelperinquar ricorda le sculture di sua nonna: immagini sconnesse di corpi e volute, forme morbidissime scolpite nella durezza della pietra.
E sta ancora osservando il soffitto, interrogandosi sulla ragione di simili richiami al mare, quando avverte una presenza accanto a sé.
“Buongiorno.”
Quando Tyelperinquar si volta, il Re a pochi passi da lui, le mani lungo i fianchi, il viso disteso.
Parla Quenya e la sua voce possiede una musicalità che ricorda quella di zio Makalaurë: sillabe come note, parole come accordi.
“Buongiorno,” risponde lui, senza poter evitare di mostrarsi sorpreso.
Ha sempre avuto memorie confuse di Findaráto Arafiwion: un saluto sfuggente sulle rive del Mithrim, un sorriso stemperato nella luce degli Alberi. E ora, in aule scavate nella terra, lo vede brillare di quella stessa luce. Non si tratta solamente dei suoi colori o dei gioielli che indossa, è qualcosa di molto più intimo, puro: un fulgore interiore che trasuda dal corpo.
Lo guarda incurvare le labbra piene in un sorriso, facendosi un po’ più vicino.
“Tyelpo,” mormora per poi interrompersi subito, titubante, quasi gli abbia fatto un torto. “Perdonami... Posso chiamarti così?”
Tyelperinquar sbatte le palpebre, affrettandosi ad acconsentire.
“Cosa ne pensi, Tyelpo?” Gli chiede allora il Re, indicando la biblioteca attorno a loro. “Suppongo che agli occhi della nostra gente possa apparire un po’ eccessivo.”
Tyelperinquar tira le labbra in una piega incerta. Le considerazioni sprezzanti di suo padre riguardo l’architettura di Nargothrond echeggiano nella sua mente, tuttavia lui ha sempre visto un che di affascinante in quell’osare con forme e materiali.
“Trovo sia insolito, ma non per questo eccessivo.”
Il Re fa un cenno col capo – onde d’oro a scivolare lungo le spalle -, mentre un sorriso soddisfatto scivola sulle sue labbra.
E Tyelperinquar si sente in dovere di aggiungere altro, di non lasciar cadere nel silenzio quella conversazione appena abbozzata.
“Se posso,” mormora, “mi chiedevo il perché dei motivi marini. Di quell’onda.”
L'espressione del Re s’ingentilisce ancora di più, come se un ricordo prezioso stia affiorando alla sua memoria.
“Ho sempre creduto che il mare mi avrebbe portato conoscenza… e così è stato. Dunque, quale luogo migliore delle biblioteche per motivi che lo richiamassero?”
Tyelperinquar pensa alle storie che ha udito sulla fondazione di Nargothrond, storie che assieme a simili parole stridono incredibilmente con ciò che il Mare – spietato – ha significato per lui.
Ma il Re non gli permette di perdersi fra i suoi pensieri e riprende il discorso con uno sbuffo divertito: “Quanto allo stucco di quell’onda… ammetto che si basa su un mio alquanto approssimativo disegno.”
S’inumidisce le labbra, lo sguardo velato dall’oro delle ciglia – pennellate d’un vago imbarazzo.
“Credo d’essere stato ispirato da ciò che rammentavo dei lavori di tua nonna.”
Tyelperinquar sgrana gli occhi, impreparato al calore che sente irradiarsi nel petto. Quel veto che suo padre e i suoi zii hanno imposto sul ricordo di Nerdanel cade, e lui si sente un fanciullo aggrappato con entusiasmo a una memoria che credeva di non poter più condividere.
“Hai sorriso,” nota il Re compiaciuto.
Lui abbassa il capo, mentre il suo sorriso viene sfumato da un inutile pudore. Crede di non sapere cosa ribattere, ma quando prende fiato le parole sono già suono sulle sue labbra.
“Credi che l’esplorazione andrà a buon fine?”
Il pentimento arriva subito dopo: la domanda ha in sé galassie di risvolti politici.
“Scusami,” sussurra lui, scuotendo il capo. “È inopportuno confidarlo a te, mio signore, ma temo per mio zio e…”
“Non credo affatto sia inopportuno.”
La voce limpida del Re lo porta a sollevare lo sguardo. Sul suo viso non c’è alcun’ombra, solo l’impronta della comprensione.
“Fra me e Tyelkormo possono esserci tensioni politiche, ma questo non m’impedisce di temere per la sua incolumità. Dopotutto siamo una grande famiglia.”
Tyelperinquar rimane attonito, mentre il Re tende le labbra in un sorriso morbido.
“Inoltre mi farebbe immensamente piacere se mi chiamassi Findaráto.”
Il suo tono è pregno di un’affetto autentico, e Tyelperinquar si ricrede: in Findaráto Arafinwion non rivede la luce sfolgorante e perduta dei Due Alberi, ma un bagliore più delicato, più prossimo; il chiarore del mondo esterno trapelato dal portale. Una speranza fragile eppure attuale. Preziosissima.













Note:

In lingua Quenya:
Hinya ovvero “bambino mio”.
Lambeñgolmor (approssimativamente traducibile con “sapienti delle lingue”) era il nome degli appartenenti a una scuola di linguistica fondata da Fëanor. In realtà Rúmil non rientrerebbe proprio in questo gruppo di eruditi, essendo il suo lavoro antecedente a quello di Fëanor, tuttavia ritengo plausibile che con il trascorrere del tempo il termine in questione abbia finito con l’identificare tutti quegli studiosi che si erano occupati di linguistica anche prima e al di fuori della scuola Fëanoriana.


Il nome Liltelenio è composto da lilta “danza” o anche “danzare”, dal plurale eleni “stelle” e dal suffisso maschile -o.

Il nome Andúien è composto dal termine andúnë “tramonto”, “ovest”, “sera” e dal suffisso -ien ovvero “figlia”.



Ritorno a voi con un capitolo che nella sua forma originale era alquanto lungo. Ho provato, per quanto possibile, a snellirlo e spero che nonostante il mio lavoro di limatura, lavoro abbastanza invasivo anche se non del tutto efficace (il capitolo resta corposo), sia comunque apprezzabile.

Grazie per aver letto.



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Capitolo 5
*** IV. Inspirare ***






IV. Inspirare






Gli occhi di Curufinwë erano nei suoi, mentre le montagne bruciavano e l’Aglon rigettava fumo e altri nemici.
Tyelkormo gli sorrise, mostrando il cadavere dell’Urco su cui si era gettato. Stava assaporando un orgoglio diverso da quello che gli riempiva il petto quando Oromë assisteva a una sua caccia fruttuosa, un orgoglio diverso e forse più intenso.
Curufinwë non aveva creduto nelle sue possibilità – l’aveva udito chiamarlo, con la voce e con la mente –, e il timore di suo fratello, misto all’irritazione per ciò che egli giudicava impulsività, egocentrismo, era scorso in lui come un brivido. Guardami, aveva pensato allora. Guardami mentre smentisco le tue previsioni.
Abbandonò gli occhi di Curufinwë per osservare la proprie mani bagnate di sangue. Sorrise di nuovo, pulendosi nella casacca logora dell’Urco che giaceva sotto di lui.
Il corno di Mahalcarinië echeggiò una seconda volta: tre suoni lunghi e cupi. Un allarme.
Lui sollevò lo sguardo verso il passo. Un gruppo di cavalieri era alle pendici delle montagne, si trattava del drappello appostato lungo i crinali che dopo l’ordine di ritirata stava raggiungendo la valle. Mahalcarinië doveva essere fra loro.
Oltre alle rocce, solo coltri di vapore dividevano il gruppo di guerrieri dalla piana, ma proprio fra quei vapori potevano celarsi i nemici che avessero già violato l’Aglon.
Tyelkormo pensò di richiamare la propria cavalcatura e ricongiungersi al drappello, quando una folata gonfiò i nugoli di fumo, spingendoli nella piana.
Tutto, attorno a lui, sfumò in un grigiore denso. I rumori vennero surclassati dall’ululato del vento e un miasma di zolfo saturò l’aria, coprendo persino il tanfo dei cadaveri.
I suoi sensi erano completamente fuorviati.
Portò una mano alla cintola, ma non trovò la propria spada: l’aveva scagliata contro un Nauro prima di gettarsi sull’Urco che lo aveva attaccato.
Allora scrutò la foschia, cercando d’individuare la sagoma di Ilwaráto. Si erano allontanati assieme dal grosso delle truppe, dunque non dovevano essere troppo distanti l’uno dall’altro. Ben presto, però, si rese conto che i vapori si erano condensati tanto da impedirgli di scorgere distintamente persino le sue stesse mani, perciò gli sarebbe stato impossibile trovare il suo capitano.
Era disarmato, indifeso, calato in una realtà caliginosa: un assaggio delle Aule di Mandos.
Ma il richiamo di Curufinwë lo raggiunse ancora, balenando nella sua mente come una folgore. Tyelko! Tyelko, stai bene?
L'apprensione che percepì in quel pensiero riuscì a scaldarlo: la consapevolezza di essere così prezioso era un balsamo in cui faticava a non crogiolarsi.
Curvo, rispose prima che la sua attenzione venisse calamitata da un odore pungente. Un lezzo di marciume e sangue che emerse dall’esalazione di zolfo.
Solo dopo udì il ringhio.
Quando si voltò, le fauci del Nauro erano già spalancate, avide d’una fame bulimica e rabbiosa.
Lui pensò al Giuramento, ma molto prima pensò a Curufinwë. A Tyelperinquar. E forse avrebbe persino pregato – Eru, fa che il fumo impedisca loro di vedere – se non gli fosse sembrato troppo ipocrita.
Poi avvertì uno spostamento d’aria; qualcosa calò sulla bestia, squarciandone carne e muscoli e ossa.
Huan, si disse Tyelkormo, ma uno scalpiccìo di zoccoli lo contraddisse.
Mahalcarinië, a cavallo, fendette lo strato di fumo, comparendo dinnanzi a lui. I capelli corti e sudici incollati alle guance, il corno appeso alla cintola; nella mano destra un’ascia intrisa di sangue. E nonostante la foschia, lui notò un'ombra di delusione correre sul suo viso.
Per raggiungerlo in così poco tempo doveva aver disceso gli ultimi piedi di roccia a galoppo e aver attraversato la nube di fumo a una velocità sorprendente, una prestazione degna dello stesso Curufinwë. Ma data la sua espressione, era probabile che la cacciatrice stesse cercando Ilwaráto e si fosse imbattuta in lui per puro caso.
A quel pensiero Tyelkormo scosse il capo, increspando le labbra in un sorriso. “Troviamo tuo padre,” disse, “dovrebbe essere qui vicino.”
Il cenno d’assenso che Mahalcarinië gli rivolse fu sin troppo enfatico.
Lui colpì con un calcio i resti del Nauro e prima di addentrasi fra i vapori, si voltò verso sud.
I nembi che avvolgevano la parte meridionale della piana avevano iniziato a diradare, tanto da permettergli di scorgere Curufinwë in sella al proprio cavallo, al fianco di Tyelperinquar.
Il viso di suo fratello mostrava un coacervo di angoscia e rabbia, cristallizzato in uno sguardo limpidissimo.
Curvo, lo chiamò Tyelkormo aprendo la menta alla sua, ma non ebbe risposta.






Il tonfo del vambrace che scaglia a terra viene attutito dai tappeti. Lui li calpesta senza riguardo, ignorando il fango di cui sono intrisi i suoi stivali. Biascicando un’invettiva, strattona le giunture dell'armatura.
I passi di suo fratello rintoccano rapidi lungo l’androne, nel salotto. Ma Tyelkormo lo ignora come ha ignorato il caos di voci e presenza che l’ha travolto, quando le porte di Nargothrond si sono richiuse alle sue spalle e la città è tornata a ingoiarlo.
“Spiega,” l’incalza Curufinwë con tono autoritario.
Un ringhio risale la gola di Tyelkormo, vibrando di un’irritazione mal trattenuta.
Suo fratello, indifferente, lo sprona ancora: “Abbiamo poco tempo, Findaráto ti vuole parlare subito.”
Tyelkormo smette di lottare con le cinghie dell’armatura. Stringe i denti. Le caverne si serrano attorno a lui, ladre d’ossigeno e libertà.
“Turko,” lo chiama suo fratello, cercando di esternare un’ascendenza che la sua presunzione gli fa credere di poter evocare.
Ma Tyelkormo, ora, non può sopportarlo.
La frustrazione accumulata in quei giorni ferve sotto pelle, tanto da fargli carezzare il pensiero di sfogarla lì, su Curufinwë che si è arrogato il diritto, l’autorità, di richiamarlo a un ordine a cui non vuole tornare.
Sepolto e castrato e ammansito: è così che suo fratello lo vuole. È così che vuole chiunque. E ciò che è accaduto durante la ritirata dall’Aglon ne è un chiaro esempio. Un esempio che si è riverberato sulla sua missione all’esterno.
Si volta. Pugni chiusi lungo i fianchi, unghie a incidere i palmi e vene gonfie di un’ira selvaggia.
Curufinwë non si scompone: affronta il suo sguardo con un’espressione seccata, e Tyelkormo pensa di infilare una mano sotto la cascata nera dei suoi capelli, di trovare il collo – bianchissimo – e stringervi le dita fino a sentire quel sangue che li unisce pulsare disperatamente.
Immagina il viso di Curufinwë irrigidirsi, arrossarsi; le labbra schiudersi alla disperata ricerca di un’aria rubata – allora sì che capirebbe.
Ma poi chiude gli occhi, inspira. Richiama il ricordo del vento sulla pelle, il sapore della pioggia sulla punta della lingua.
“È sorto un problema,” riesce a mugugnare infine, allontanandosi il più possibile da suo fratello.
Curufinwë inarca un sopracciglio. Questa volta, però, non ignora la sua reazione e rispetta la distanza impostagli.
“Che genere di problema?”
Nella domanda striscia un biasimo che Tyelkormo accoglie con un altro ringhio. “Non usare quel tono. Non dopo aver avuto la folle idea di consegnare a Findaráto l’oggetto del nostro ricatto!”
La fronte di Curufinwë s’increspa appena, ma null’altro sembra mutare nella sua espressione. “Di questo abbiamo già parlato prima che tu partissi. Ora dimmi cos’è accaduto là fuori.”
Tyelkormo scaccia il ricordo della loro discussione. Si gratta il capo e le sue dita incontrano frammenti di foglie rimasti impigliati ai capelli.
“Sono voluti tornare perché abbiamo trovato un messaggero in fin di vita,” dice così, a brucia pelo.
E non ha bisogno di guardare Curufinwë per sapere che il suo viso, ora, si è contratto. Una tensione accennata, un guizzo della mandibola che i più neppure noterebbero, ma che lui sa riconoscere e interpretare.






Oltre le caverne, oltre la gola in cui s’apriva l’ingresso della città, il Narog scrosciava fra le rocce, e l’odore d’incenso che ancora impregnava la pelle si perse nell’aria gelida e frizzantina del fiume.
Tyelkormo la respirò a occhi socchiusi, le labbra arcuate in un sorriso che i guerrieri di Nargothrond non potevano comprendere.
Nell’acqua galleggiavano sottili frammenti di ghiaccio, venivano sospinti dal vento che sferzava le rapide, sollevando una pioggia finissima. Oltre di essa si scorgevano sponde trapuntate di alberi: abeti imperlati di brina, faggi spogli e lugubri. I morsi dell’inverno si stavano allentando, ma la terra non aveva ancora iniziato il proprio risveglio.
Il drappello risalì verso nord-ovest, costeggiando le anse del fiume e i fianchi ripidi degli Andram.
Tra le ombre delle montagne trapelavano lame di una luce troppo pallida per scaldare, ma Tyelkormo le guardava come la più splendente delle rivelazioni.
Dopo aver guardato le acque ghiacciate del Ringwil, proseguirono verso ovest, sino a uscire da Taur en Faroth.
La piana che correva dalla foresta ai Boschi di Núath era nuda, chiazzata di nevischio che andava sciogliendosi sotto i raggi timidi del sole.
E dinnanzi a quello spazio aperto, vastissimo, Tyelkormo si sentì del tutto libero. La tentazione di spronare il cavallo per galoppare via – il vento sul viso, il corpo teso in uno sforzo accolto come un sollievo –, pizzicava le corde del suo istinto.
Ma infine il suo sguardo si rivolse a nord-ovest e tutto cambiò.
Delle corone montane che avevano dominato gli orizzonti del Beleriand non si scorgeva nulla, al loro posto strati di nubi oscuravano cielo e terra, e sembrava impossibile sperare che sotto di essi vi fosse ancora vita.
Una rabbia conosciuta invase l’animo di Tyelkormo. Non si era mai sentito piccolo o terrorizzato davanti al potere di Moringotto, solo furente. Come un cane affamato, legato a un traliccio, al quale si getta cibo che non può raggiungere.
Si voltò verso Ilwaráto e lo vide guardare là, dove si sarebbe dovuto avvistare l’Himring. Nei suoi occhi Tyelkormo aveva sempre scorto il riflesso dei loro giorni da cacciatori, nel Valinor; ma in quel momento non riuscì a vedervi nulla: erano vacui come quelli d’un morto.
Gli si avvicinò in silenzio, sino a sfiorare una sua gamba con la propria. I loro cavalli che si annusavano. Avrebbe voluto dire qualcosa, ma sapeva di non averne il diritto.
Proseguirono, attraversando il Narog nel punto in cui il Ginglith vi confluiva e l’acqua scorreva cheta e meno profonda.
I guerrieri di Nargothrond procedevano tesi, sempre in allarme per la possibile presenza di nemici. Tyelkormo fiutava la loro angoscia; vedeva la loro gestualità nervosa, sentiva il loro bisbigliare inquieto.
I Moriquendi gli avevano sempre ricordato prede terrorizzate, incapaci di fare altro se non fuggire o nascondersi, ma tra quei guerrieri vi erano anche Ñoldor, e certo un simile atteggiamento non era un tratto distintivo della loro natura.
Forse quel comportamento dipendeva dall’aver vissuto in una realtà protetta come il Nargothrond. Lontana dalla minaccia di Moringotto, la città aveva alimentato un’illusione di pace, un’illusione brutalmente incrinata dall’esperienza alle Paludi di Serech. E il trauma subito allora continuava a segnarli.
Il secondo giorno la Taleth Dirnen si dispiegò dinnanzi a loro: erba rada, ancora gelata, e alture che intramezzavano l’orizzonte. Più a sud la catena degli Andram tornò a mostrarsi e un suono simile al richiamo d’una beccaccia echeggiò nella piana: era il segnale di via libera delle spie appostate su Amon Ethir.
Fu quando sfilarono nei pressi del colle, che Tyelkormo mandò Huan a nord, in ricognizione.
Prima di lasciare Nargothrond aveva concordato con i propri cacciatori un modo per distaccarsi dai guerrieri di Findaráto e oltrepassare il Sirion, dirigendosi quanto più possibile verso le Marche.
Arrivati a Bar Erib, mentre gli esploratori di Nargothrond prendevano contatto con gli abitanti del fortino, alcuni cacciatori avrebbero finto di avvistare un possibile pericolo. Tyelkormo, Ilwaráto e pochi altri si sarebbero allontanati con il pretesto di una perlustrazione per poi ricongiungersi a Huan che, nel frattempo, avrebbe dovuto trovare la strada più breve e sicura per raggiungere l’Est Beleriand.
Ma quando il fortino di Bar Erib si stagliò all’orizzonte, velato da una nebbia serica, Huan tornò da nord.
Aveva il muso sporco di sangue fresco, gli occhi accessi dalla violenza d’uno scontro.
Tyelkormo gli domandò cosa fosse accaduto e i suoi pensieri fluirono in lui. Terra e nevischio sotto le zampe. Lo scroscio di un grande fiume più a est. Alberi radi e alcune alture. Poi l’odore: zolfo e morte.
Nauror,” mormorò lui, incurante di usare una lingua proibita, e tutti, compresi i guerrieri Sindar, capirono. Le creature di Moringotto si erano spinte troppo a sud; era probabile che le Marche fossero cadute completamente.
Tyelkormo rivolse lo sguardo all’orizzonte assediato dalle nubi, mentre una rabbia atavica tornava a ribollirgli dentro.
Al suo fianco Ilwaráto era specchio di simili sentimenti, e lui cercò d’ignorare la consapevolezza che quella sua furia non fosse rivolta al solo Moringotto.
Strinse le briglie, lasciandosi sprofondare in un istinto di rivalsa: “Huan, portaci da quegli abomini.”
I guerrieri di Nargothrond accolsero le sue parole con incertezza; alcuni di loro cercarono di opporsi, di richiamarlo, ma ben presto le loro voci si persero nell’ululato del vento.
La piana scorse sotto gli zoccoli dei cavalli, intervallata da colline rigogliose, forse quelle su cui sorgevano i presidi di Nargothrond abbandonati dopo la caduta del Dorthonion. E quando da est provenne lo scrosciare del Sirion, Huan annusò l’aria e cambiò direzione.
Tyelkormo lo seguì con prontezza. Vedeva le sue orecchie tendersi come quando erano a caccia e qualcosa di nuovo attirava la sua attenzione. Istintivamente portò una mano all’elsa della spada, mentre Ilwaráto, dietro di lui, impugnava l’arco per coprirlo.
Poi Huan emise un brontolio basso, appena accennato, e subito dopo Tyelkormo avvertì un odore di sangue.
Senza frenare il proprio destriero, lanciò uno sguardo d’intensa a Ilwaráto, infine sollevò una mano per far segno a coloro che li avevano seguiti sin lì di fermarsi.
Lui e il suo capitano proseguirono più lentamente, attenti a produrre il minor rumore possibile.
Gli abeti che impuntivano la piana iniziarono a infittirsi, ma l’odore della loro resina non riusciva a mitigare quello metallico del sangue. Dal suolo s’alzavano spettri di foschia e a un tratto, velato da essi, scorsero una sagoma distesa sul terreno.
Era un Elda. Il volto emaciato, sporco di terra e sangue ormai secco; le labbra dischiuse in un rantolo.
Tyelkormo lasciò scivolare lo sguardo sul suo corpo. Aveva l’addome squarciato, dai lembi aperti della ferita affioravano viscere irrorate di sangue. Nulla che non avesse già visto.
L’Elda indossava un’armatura leggera, tuttavia gli abiti che si scorgevano sotto di essa parevano foderati, adatti a un clima rigido: poteva provenire da nord.
Tyelkormo smontò da cavallo e gli si avvicinò, scacciando le mosche che già ronzavano nell’aria.
“Da dove vieni?” Gli domandò in Sindarin e poi in Quenya, sperando di avere una reazione.
Lo sconosciuto non rispose; rimase a fissare il vuoto, mentre il suo respiro agonizzante riempiva il silenzio.
“Parli con chi è già in Mandos!” Grugnì Ilwaráto, frustrato, ma Tyelkormo l’azzittì sollevando una mano.
“Passami l’acqua, Ilwo.”
Il capitano gli porse la propria borraccia con gesti bruschi. Tyelkormo si bagnò due dita e inumidì le labbra livide dell’Elda.
“Da dove vieni?” Gli domandò di nuovo e questa volta scorse un guizzo di vita nei suoi occhi.
Il respiro accelerò, una voce roca e sconnessa, simile al lamento d’un fëa già sottoposto al giudizio di Námo, raggiunse le orecchie di Tyelkormo.
“Siamo… siamo assediati,” ansimò lo sconosciuto in un Quenya perfetto.
Tyelkormo si ritrovò a stringere le labbra, il pensiero che quell’Elda provenisse dalle Marche si fece pressante. Con una certa impellenza provò a ricordare i guerrieri dei suo fratelli – una carrellata di volti lontani, sfumati.
I suoi pensieri vennero interrotti da Ilwaráto che lo affiancò all’improvviso, chinandosi sullo sconosciuto. “Chi è assediato? Dove?" Domandò, afferrandolo per le spalle.
Le palpebre dell’Elda fremettero, i suoi occhi scivolarono all’indietro, e Tyelkormo allontanò il proprio capitano con una spinta.
L’imprecazione di Ilwaráto si perse nel respiro crepitante dell' Elda. Tyelkormo gli bagnò ancora il viso. Polvere e sangue colarono sotto le sue dita umide.
Lo sconosciuto gli rivolse uno sguardo sofferente, lontanissimo, ma infine strinse le labbra e sollevò un braccio. Indicò il proprio fianco, coperto dalla giubba foderata che indossava.
Tyelkormo sollevò la stoffa. Sopra a una cinta di cuoio era legata una fusciacca, su di essa era ricamato lo stemma verde e oro di Arafinwë.
Lui prese un lembo della fascia fra le dita, strofinando il tessuto decorato. A esclusione di Findaráto e Artanis, che le voci dicevano in Lestanorë, solo un membro della casata di Arafinwë era ancora in vita.
“Artaher?” Tentò dubbioso.
Lo sconosciuto annuì con fatica. Poi le sue labbra si schiusero alla ricerca di un’aria che non sembrarono trovare. Gli occhi tornarono a offuscarsi, il respiro affannato cessò.
Tyelkormo guardò le sue pupille assottigliarsi, perdendosi nella fatuità d’un corpo ormai vuoto.
“Un messaggero da Minas Tirith,” sospirò infine.
Ilwaráto fece schioccare la lingua, muovendo qualche passo nell’erba. “Che facciamo, ora?”
Tyelkormo si stropicciò il viso per poi scacciare con un gesto stizzito le mosche che avevano ripreso a ronzare, affamate, attorno alla ferita esposta del cadavere.
Huan rivolse il muso a sud e spostò lo sguardo su di lui. Uggiolò – scalpitio di zoccoli, odore di Quendi e cavalli –: il resto del drappello li stava raggiungendo.
Un'imprecazione sgusciò tra i denti serrati di Tyelkormo: ormai era tardi per nascondere il corpo del messaggero, ma fortunatamente solo lui e Ilwaráto erano venuti conoscenza dell’assedio di Minas Tirith. Un'informazione da maneggiare con cura.
Scostò la giubba del cadavere, slacciandogli la cintura di stoffa che portava in vita. La piegò, allentò le giunture del proprio pettorale e nascose la fusciacca fra l’armatura e la casacca che indossava.
Quando si alzò, vide Ilwaráto scrutare l’orizzonte da cui stavano emergendo gli esploratori. Lo sguardo acceso di rabbia.
“Ora non possiamo evitare di tornare,” disse Tyelkormo, e come nelle settimane trascorse in Nargothrond tacque quelle scuse che avrebbe voluto rivolgergli.
“Tu mantieni il silenzio su ciò che il messaggero ci ha rivelato.”
Ilwaráto scrollò le spalle, stizzito. “Credi ci sia bisogno di dirmelo, condo?”






Slaccia le cinghie del pettorale e la fusciacca è lì, pressata contro il suo petto, inumidita dal suo sudore.
La sfila, soppesandola. Dita incrostate di terra ad arricciare lo stemma di Arafinwë.
Sa che anche Curufinwë sta osservando la lingua di stoffa, il ricamo dorato su cui le sue dita indugiano.
“Agli altri esploratori,” dice Tyelkormo senza sollevare il capo, “abbiamo detto di aver trovato il messaggero morto.”
In risposta ha solo l’irritante eco di voci e musiche, al di là delle pareti di pietra. Allora stringe la fusciacca in pugno, alza lo sguardo. “Non credo dovremmo rivelare a Findaráto dell’assedio a Minas Tirith.”
Gli occhi di Curufinwë sono specchi oltre i quali s’addensa una nebbia fosca. Tira le labbra in una piega sottile, le morde appena. Sta riflettendo.
“Se gli rivelassimo dell’assedio cosa credi farebbe?”
Tyelkormo scrolla le spalle e allenta la stretta della propria mano, per poi lasciar cadere la fusciacca sul divano.
“Ignorerebbe quelle sciocchezze riguardo la sicurezza di Nargothrond per mandare rinforzi a Minas Tirith. E le Marche passerebbero in secondo, se non in terzo piano.”
L’aria si fa più pesante; le rocce celate dagli arazzi, guarnite dagli stucchi, sembrano avere coscienza, una volontà a lui ostile. L’impulso di correre via, fuori, verso il nord e la propria vendetta, torna a farsi pressante.
“Findaráto non è un Moriquende, per quanto a volte sembri gli piacerebbe esserlo. Non lascerà che Moringotto gli strappi anche suo nipote.”
Curufinwë cammina sino al tavolo posto al centro della sala e vi si appoggia con un'espressione assorta. “Sì,” dice infine, “non basterà l’esperienza alle Paludi di Serech a frenare i propositi di Findaráto. Forse sarà più prudente, ma non rinuncerà a inviare soccorso a Minas Tirith.”
“Dunque evitiamo di parlargli dell’assedio e bruciamo la cintura.”
Questa volta Curufinwë solleva il capo, le labbra arcuate in un sorriso che Tyelkormo conosce bene. “Perché tacerglielo? Quando Findaráto verrà a sapere dell’assedio vorrà mandare rinforzi, ma difficilmente il consiglio accetterà di sacrificare ancora una volta la gente di Nargothrond per tentare il salvataggio di un membro della Casata di Arafinwë.”
Tyelkormo pensa agli esploratori che hanno insistito per ritornare in città e riportare al loro sovrano i dettagli dell’esplorazione fallita. Pensa all’ammirazione che il nome di Findaráto richiamava.
“I sudditi di Nargothrond gli sono fedeli,” chiosa, ma il sorriso di suo fratello s’affila.
“Credi che la fedeltà basterà a sedere la memoria delle Paludi di Serech?”
Tyelkormo sbuffa, inarcando un sopracciglio, e Curufinwë continua: “Lasceremo che Findaráto si condanni da sé. Diremo all’intera Nargothrond dell’assedio e quando il suo re deciderà di inviare rinforzi, ci opporremo alla scelta per garantire la sicurezza della città, dei suoi sudditi. A quel punto il consiglio propenderà per noi.”
“Noi che premevamo affinché s’inviassero esploratori a nord?”
“L’abbiamo fatto per assicurare una prospettiva alla città, per avere informazioni sui pericoli che la circondano. Vogliamo la salvaguardia di Nargothrond che ora protegge anche noi, i nostri guerrieri. La nostra famiglia.”
Tyelkormo si massaggia il collo per poi raggiungere le giunture dello spallaccio. Le parole di suo fratello sono un debole eco fra desideri di libertà e vendetta. Fra riverberi d’angosce – l’incubo di un altro Losgar, di un altro Thangorodrim. Pensieri che escludono la gabbia d’oro in cui Curufinwë sembra voler piantare radici politiche.
Le sue dita si stringono attorno a una delle fibbie. La slaccia con un movimento brusco, improvviso. “Stai perdendo di vista il nostro obbiettivo principale: ritornare a nord.”
Curufinwë socchiude gli occhi – due cristalli di fumo velati da ciglia scure. Lo sta studiando, evocando particolari di lui che neppure Tyelkormo conosce: ognuno di loro possiede la chiave che manca all’altro per decifrare i segreti del proprio animo.
Poi suo fratello gli si avvicina piano, sul viso un’espressione comprensiva che ne ammorbidisce i tratti, facendolo apparire il ragazzo d’un tempo. “Affatto,” mormora, la voce più bassa e insinuante.
Tyelkormo sa cosa sta cercando di fare, per questo si concentra sulle cinghie che ancora fissano lo spallaccio.
Ma Curufinwë scivola dietro di lui, ignorando l’odore acre del suo sudore. Con tocchi leggerissimi gli scosta i capelli dalle spalle, lasciandoglieli ricadere sul petto.
“Se il consiglio sarà dalla nostra parte,” dice, mentre le sue dita – così abili – iniziano a slacciare le ultime fibbie, “ci sarà più facile organizzare delle spedizioni a nord.”
Tyelkormo sbatte le palpebre, combattuto tra l’istinto di abbandonarsi al suo tocco e quello di rimanere all’erta, focalizzato sul discorso.
“Ci basterà concedere ai consiglieri il tempo di assimilare questa nuova prospettiva,” continua Curufinwë. Ma lui trova la forza di isolare la sua voce, il tocco delle sue dita che lo stanno liberando dalla fastidiosa costrizione dell’armatura.
E allora le avverte, le grotte opulenti di Nargothrond che strappano fiato e libertà, così come hanno fatto le nubi accalcate a nord.
Si volta all’improvviso, intrappolando le mani di Curufinwë nelle proprie.
“Non abbiamo tempo,” scandisce. “Io voglio sapere se nelle Marche ho ancora dei fratelli in vita. Voglio saperlo il più presto possibile.”
Sente suo fratello irrigidirsi, eppure lo trattiene lì, contro di sé, mentre il suo sguardo torna a farsi freddo e distante.
Tyelkormo è cosciente del fatto che condividono lo stesso desiderio di vendetta, le stesse paure, ma ormai non gli è più sufficiente sapere: vuole sentirglielo dire, ne ha bisogno.
Curufinwë, però, non concede nulla. Volge il viso di lato, così da riuscire a sfuggire almeno ai suoi occhi.
E dinnanzi a quel rifiuto Tyelkormo non può far altro che recriminare: “Sai quanto mi sia costato dire a Ilwaráto che saremmo tornati così, senza nessuna nuova dalle Marche?”
Suo fratello sussulta nella sua presa. Non torna a guardarlo, ma lui scorge comunque il sorriso sprezzante che gli increspa le labbra. “Allora è questo,” dice con amarezza, “è sempre stata questo.”
Tyelkormo stringe i denti.
Da quando si sono lasciati inghiottire dal Nargothrond è la prima volta che affrontano un simile argomento. Per settimane l’ha sentito aleggiare fra loro come uno spettro, ma forse ha deciso di dargli corpo nel momento meno opportuno: le Marche potrebbero essere cenere sotto un cielo di piombo; Findaráto lo attende, agguerrito, nella sala del trono e i suoi consiglieri sono banderuole pronte a volgersi verso una o l’altra parte.
O magari il problema sono solo le sue debolezze, la memoria del tocco di Curufinwë che persiste sulla pelle, fra i capelli, in un eco troppo suadente.
Con un grugnito libera le mani di suo fratello, mettendo nuova distanza fra loro.
Curufinwë gli rivolge uno sguardo insondabile, e lui riprende a slacciare le cinghie della propria armatura in silenzio.
Si era illuso di essere tornato a respirare, ma in verità sta compiendo solo metà dell’azione: i suoi polmoni si riempiono d’aria senza rilasciare nulla all’esterno. Inspira, trattenendo ogni cosa dentro di sé.
“Dirò a Findaráto dell’assedio,” mormora alla fine, prima di lasciar cadere lo spallaccio sul divano e raccogliere la fusciacca lì abbandonata.






“È probabile che l’Himring sia bruciato,” disse Curufinwë, la voce chiara e ferma nonostante il galoppo. “Ma se c’è una possibilità che questo non sia avvenuto, dobbiamo far sapere a Russandol della caduta dell’Aglon.”
Tyelkormo corrugò la fronte: quella prospettiva era sale su ferite aperte.
Alle spalle dell’esercito in movimento, volute di fumo avevano divorato le montagne, e nonostante piane imbiancate si stagliassero dinnanzi a loro, l’aria invernale si era fatta troppo calda e pesante.
Tyelkormo incrociò lo sguardo di Ilwaráto che guizzava da lui a Curufinwë per poi posarsi su Mahalcarinië, poco distante. E nel notare quel particolare i suoi pensieri volarono a Tyelperinquar: sapere che si trovava nell’avanguardia, il più distante possibile dalle nubi accalcate a nord, lo rassicurava.
Strinse le briglie e tornò a rivolgere la propria attenzione a Curufinwë.
“Dobbiamo inviare un messaggero,” sentenziò questi senza distogliere lo sguardo dall’orizzonte.
Tyelkormo corrugò la fronte. Le vette dell’Aglon erano un profilo scuro fra i vapori; l’Himring, più a est, dove le fiamme s’erano abbattute come flutti d’un mare in tempesta, sembrava un mero ricordo. Ordinare a un messaggero di raggiungerlo equivaleva a condannarlo a morte.
“Il nostro miglior cavaliere,” aggiunse suo fratello, la presa salda sulle briglie della propria cavalcatura, il viso immobile, animato solo dalle ciocche di capelli che gli sferzavano le guance.
Tyelkormo scollò il capo con scetticismo e Ilwaráto si fece loro più vicino. “Data la situazione,” disse rivolto a Curufinwë, “persino tu, condo, o Oromë in sella a Nahar sareste un regalo alle Aule di Mandos!”
Curufinwë non lo degnò d’uno sguardo, ma le sue parole furono la stoccata gelida che mancava a quell’inverno di fuoco: “Non c’è bisogno di scomodare me o un Vala, tua figlia è un cavaliere altrettanto capace: andrà benissimo per questo compito.”
Allora Tyelkormo ricordò il suo sguardo oltre il fumo dell’Aglon, la rabbia e l’angoscia che vi si erano condensate.
Strattonò le redini, portando il proprio cavallo ad accostarsi a quello di Curufinwë. “Curvo,” lo chiamò con urgenza, “Mahalië mi ha salvato la vita!”
Le labbra di Curufinwë si tesero in un sorriso. Una lama spietata, beffarda, che s’apri e scosse l’animo di Tyelkormo come una faglia.
“Ha messo in pericolo la tua vita e poi l’ha salvata per un mero caso, non credere che non me ne sia accorto. Il segnale del suo corno è giunto in ritardo, quando ormai l’avanguardia nemica si era celata nella nube di fumo.”
Tyelkormo strinse i denti. Accanto a lui Ilwaráto taceva, le mascelle contratte, lo sguardo incupito da una rabbia bruciante.
Ma la frustrazione data dalla ritirata, da quel momento di debolezza che l’aveva esposto all’aggressione del Nauro, accesero in Tyelkormo un sentimento altrettanto caustico.
Ilwaráto prima e Mahalcarinië poi gli avevano giurato fedeltà; erano i suoi guerrieri, i suoi cacciatori strappati alle Foreste del Valinor: gli appartenevano come sarebbero appartenuti allo stesso Oromë.
Con un movimento improvviso si spinse verso suo fratello, quasi avesse intenzione di disarcionarlo – e una parte di lui l’aveva davvero.
Le piastre del suo vambrace cozzarono contro lo spallaccio di Curufinwë, emettendo un clangore fastidioso. “Non permetterò a nessuno di strapparmi uno dei miei guerrieri. Neppure a te.”
Vide il profilo di Curufinwë fremere; lo vide stringere le labbra, forse sofferente per il colpo che gli aveva assestato. Ma quando si voltò per fronteggiarlo, una fiamma acida bruciava nei recessi del suo sguardo.
Per un attimo a Tyelkormo mancò il fiato. Curvo, pensò, Atarinkë, sforzandosi di non lasciarsi ingannare da una somiglianza viscerale.
“Se alcuni dei nostri fratelli sono vivi,” soffiò Curufinwë, “è fondamentale avvisarli, questo dovresti comprenderlo anche tu. Ma mandare uno dei miei uomini sarebbe come non mandare nessuno. I tuoi cacciatori sono scaltri, veloci e possiedono una maggiore resistenza: hanno certamente più speranze di raggiungere le Marche. E alcuni fra loro ne hanno più di altri.”
Lui s’udì ringhiare di frustrazione. Non poteva accantonare la speranza che i loro fratelli fossero ancora in vita, e Curufinwë aveva ragione: per dare e avere notizie di loro era indispensabile inviare qualcuno a nord. Qualcuno che avesse possibilità di arrivarci.
“Se questo è il problema, andrò io.”
Tyelkormo si voltò. Ilwaráto lo fronteggiava con determinazione, la collera convogliata nei pugni – nocche bianche e vene in rilievo – stretti attorno alle redini.
Curufinwë sorrise alla sua proposta come si sorride all’utopia d’un bambino: “Sappiamo entrambi che tua figlia cavalca meglio di te.”
Ilwaráto increspò la fronte. Un istante e arrestò il proprio cavallo dinnanzi a quello di Curufinwë, bloccandogli la strada.
Tyelkormo si fermò a sua volta, facendo correre lo sguardo dall’uno all’altro, guardingo.
Suo fratello voleva punire Mahalcarinië, Ilwaráto. Lui. Voleva cauterizzare strappi d’orgoglio con la fiamma della propria presunzione. Allo stesso tempo, però, intendeva fare la cosa giusta: avvisare le Marche della caduta dell’Aglon.
Forse era un caso che simili propositi combaciassero; forse era stata l’abilità d’oratore di Curufinwë a fargli credere che fosse così. Ma lui, ora, non vedeva alternative.
“Ilwo,” chiamò, e prima che potesse aggiungere alcunché un nitrito nervoso si alzò nell’aria.
Mahalcarinië li raggiunse, affiancandosi al proprio padre.
“Andrò,” disse, “andrò io.” Una mano a strattonare il braccio di Ilwaráto, troppo vicino a Curufinwë.
Lei gli gettò un’occhiata che trasudava chiaro disprezzo, ma le sue parole, poi, suonarono pacate.
“Ha ragione,” ammise, rivolgendosi al proprio padre, “tu avresti meno possibilità di raggiungere le Marche.”
E in quel momento Tyelkormo capì che non sarebbe riuscito a ordinarle di restare.
Ilwaráto artigliò le spalle di Mahalcarinië, mentre la sua maschera di compostezza s’incrinava del tutto. “Non lascerò che tu lo faccia!”
Sua figlia scosse il capo, senza sottrarsi alla sua presa. “Se non andrò io, faranno andare te.”
Tyelkormo abbassò lo sguardo: lei aveva capito. Il Giuramento, i loro fratelli, erano più importanti di qualsiasi altro legame, di qualsiasi orgoglio di condottiero o controverso senso di possesso.
Ilwaráto cercò di ribattere, ma Mahalcarinië gli afferrò le braccia che aveva allungato verso di lei.
“Sei tutto ciò che ho,” disse, ignorando la presenza dei loro signori, delle nubi e delle fiamme. “Se tu morissi, io morirei a mia volta, dunque quale differenza ci sarebbe?”
Ilwaráto annaspò. Si allungò in avanti, appoggiando la fronte contro quella di lei. Parole a tremare sulle labbra: “Cosa credi abbia, io?”
“Hai i ricordi di Valinor,” sussurrò Mahalcarinië, “di mia madre.”
Tyelkormo sperò che non aggiungesse altro, ma lei continuò: “Hai lui,” disse indicandolo con un cenno fugace.
Allora Ilwaráto alzò il capo e lo guardò con occhi colmi di disperazione. La stessa che gli aveva mostrato sulla nave-cigno, dopo che il mare aizzato dal Fratricidio si era preso la sua sposa.
E una parte di Tyelkormo si domandò se un vero capobranco – se Oromë – avrebbe chiesto ai propri seguaci simili sacrifici.
Quando Ilwaráto abbracciò Mahalcarinië, tornò a distogliere lo sguardo, ma l’avvertì comunque chiamarla bambina, baciarle il capo; scongiurala di tornare.
A differenza sua, Curufinwë era impassibile: non mostrava disagio né soddisfazione per aver ottenuto ciò che desiderava.
Mahalcarinië si scostò dal proprio padre e si voltò verso di loro.
“Porterò notizie alle Marche,” sentenziò, “e se saranno polvere quando arriverò a nord, tornerò sui miei passi, tornerò da mio padre.”
Tyelkormo cercò nei suoi occhi i riflessi che animavano quelli di Ilwaráto, le screziature smeraldine della Foresta di Oromë, ma lo fece inutilmente: nello sguardo di Mahalcarinië albergava solo l’impietosa oscurità di Endórë, quella che tutti loro avevano scelto.













Note:

Nonostante la ritirata, le truppe dei Fëanoriani non sono mostrate in totale balia degli eserciti di Melkor, perché ne Il Silmarillion è esplicitato che quest’ultimi presero il passo di Aglon “a costo di gravi perdite”.

I riferimenti a Curufin in quanto abilissimo cavaliere non derivano da un mio headcanon, ma si rifanno a passi de Il Silmarillion. Anche la geografia delle terre attorno al Nargothrond è per la maggior parte canonica.

Il nome Quenya Mahalcarinië è composto da mahtar “guerriero”, alcarin “glorioso”/“brillante” e da nië “lacrima”.
Mi rendo conto che sia un nome alquanto curioso per un personaggio femminile, ma nel mio immaginario si tratta di un ataressë tardivo, dato da Ilwaráto alla figlia ancora bambina dopo la morte della madre e la partenza da Aman.
A scarso di equivoci vorrei anche specificare che Mahalië è nata in Aman, ma era molto piccola quando i Ñoldor lo lasciarono, dunque non ne conserva memorie.



Al solito mi scuso per il ritardo cronico: di questo capitolo, che considero uno dei più “difficili” di tutto il racconto, e della storia da qui in avanti ho elaborato due versioni parallele, il problema è stato scegliere la più adatta (che potrebbe anche NON essere questa).

Vi ringrazio per la pazienza e per aver letto.



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